C' invidia e invidia, questo il punto. Anche una "passione triste", un
sentimento condannato da moralisti e senso comune, pu avere, in determinate circostanze e a certe condizioni, un esito utile, anzi necessario, per la societ e per la crescita personale. Ma procediamo con ordine. Etimologicamente invidia significa guardare contro, di traverso. E la stessa iconografia classica mostra, in genere, l'uomo invidioso con l'occhio storto e non sincero e il viso corroso dalla bile. L'invidia perci un sentimento sociale, intersoggettivo, che concerne il nostro vivere in relazione con gli altri. Non a caso Heidegger, in Essere e tempo, definisce il rapporto fra gli umani come caratterizzato da "contrapposizione commisurante", cio da un continuo giudicare se stessi in rapporto agli altri. Siano essi da noi avvertiti come inferiori, in genere o per qualche aspetto, e quindi da dominare, o superiori, e quindi da emulare. E in effetti, l'invidia, di cui Heidegger non fa esplicita menzione, pu essere sia quella che hanno i capi nei confronti dei successi dei loro sottoposti, che lasciano intravedere, seppur in lontananza, una messa in discussione della loro leadership, o che comunque rappresentano per il loro ego una diminutio; sia, al contrario, quella dei secondi rispetto ai successi gi acquisiti e al fascino che emana dal potere dei primi. In generale, questo secondo tipo di invidia, che chiamiamo ascensionale, pu assumere un aspetto negativo o positivo a seconda che sia fatta propria da spiriti volgari o aristocratici. Nel primo caso, ci troviamo infatti di fronte all'invidia sociale apostrofata da Nietzsche e generatrice di rancore e risentimento. Essa propria dei perdenti, degli sconfitti della storia o nella vita, dei deboli, degli inetti: di tutti coloro che sono incapaci di raggiungere gli altri, per impossibilit oggettiva o perch presi da paralisi della volont. Solo che, a un certo punto, e Nietzsche pensa alle grandi forze ideali del suo secolo ma pi anche al cristianesimo pauperistico, costoro si sono coalizzati, fatti persino forza politica. Ed hanno per questa via cercato di imporre a tutti la loro morale da schiavi, la "morale del gregge". Se tu hai dieci ed io cinque, voglio che anche tu scenda a cinque o ti strapper il resto. Meglio che tutti siano eguali nella povert piuttosto che ci siano ricchezza e abbondanza ma diseguaglianze sociali. Da qui l'egualitarismo, il conformismo, il livellamento, il democraticismo, il socialismo, tutti i miti e i movimenti della societ moderna che a Nietzsche stanno invisi e contro cui combatte. chiaro che, laddove non pu realizzare i suoi scopi, l'invidia plebea comporta, sul piano personale, dissolvimento, macerazione, al limite autodistruzione. Ma pu l'uomo aristocratico convertire l'invidia in un valore, in un fattore positivo di crescita per s e la societ? In questo caso, occorre cambiare scenario. Puntare dritto sulla tradizione liberale.
Sulle virt positive dell'antagonismo e della competizione ha
insistito soprattutto Kant, il quale ha parlato della "socievole insociovelezza" degli esseri umani: del loro tendere verso gli altri ma anche del loro volersene differenziare e distinguere. Una identit personale non pu infatti darsi se non riconosciuta, ma, per esserlo, necessario che ognuno tenda ad essere diverso. In concreto, essendo l'uomo un essere egoistico e volto principalmente all'interesse personale, ognuno vuole raggiungere e superare gli altri in onore, gloria, ricchezze, realizzazioni. Ecco, perch li invidiamo. Kant non solo non condanna moralisticamente questo nostro egoismo, ma tesse un elogio di esso e dell'invidia. Si tratta di una disposizione instillata in noi dalla "natura" per farci vincere la pigrizia e procedere sulla via del progresso umano. "Senza la condizione, in s certo non desiderabile, della insociovelezza, tutti i talenti rimarrebbero in eterno chiusi nei loro germi in una vita pastorale di arcadica armonia, frugalit, amore reciproco: gli uomini, buoni come le pecore che essi menano al pascolo, non darebbero alla loro esistenza un valore maggiore di quello che ha questo loro animale domestico. Siano allora rese grazie alla natura per la intrattabilit che genera, per la invidiosa emulazione della vanit, per la cupidigia mai soddisfatta di averi e anche di dominio!" In questa lotta contro gli altri, l'uomo, senza accorgersene, mette a disposizione della societ, e quindi di tutti, beni, conoscenze, tecniche. senza dubbio questo il tema dell' "eterogenesi dei fini", che,gi presente in Giambattista Vico, ha qui un'accentuazione di quell'aspetto utilitaristico che alla base delle conquiste della nuova civilt. Esso, pertanto, viene letto per la prima volta, in epoca illuministica, in senso positivo. In opposizione alla morale classica del "sacrificio", della parsimonia e del buonismo solidaristico. Il riferimento principale , in questo senso, La favola delle api di Bernard De Mandeville,che, pubblicata a Londra nel 1705, divenne in poco un tempo un bestseller. In essa, come noto, si mostra, sotto forma di parodia, la conversione dei "vizi privati", e quindi di lusso, sperpero, invidia, in "pubbliche virt". Quando ad un certo momento nell'alveare, chiara metafora della societ umana, ci sar la rivoluzione dei probi e saranno adottate politiche virtuistiche, in men che non si dica l'antica prosperit scomparir e presto i nemici lo conquisteranno. La morale della favola , per Mandeville, che "il vizio tanto necessario in uno stato fiorente quanto la fame necessaria per obbligarci a mangiare. impossibile che la virt da sola renda mai una nazione celebre e gloriosa". All'invidia, in particolare, ai suoi effetti benefici, il pensatore inglese dedica molte pagine, alcune gustose come quando ad esempio parla della naturale invidia che sorge fra le donne belle per chi lo di pi. Le idee di Mandeville vennero poi elaborate teoricamente dagli illuministi scozzesi (David Hume, Adam Ferguson, Adam Smith), in concomitanza con l'imponente affermarsi della societ capitalistica da una parte e della scienza che ne studiava le dinamiche, l'economia politica, dall'altra. Troveranno poi ulteriori e pi raffinati sviluppi, fra Otto e Novecento, nelle teorie della "scuola austriaca", soprattutto nel pensiero di Friedrich von Hayek. Il quale, fra l'altro, ci offre un'analisi di un altro aspetto dell'invidia, quello che distingue il leader da chi non lo . il primo, egli dice, che, percorrendo per la prima volta un tratto in campagna, crea un solco che, ulteriormente praticato da chi lo segue per invidia imitativa, finisce per creare sentieri ben solidi. Cioeun ordine spontaneo entro cui si svolge la vita comune (norme, consuetudini, regole). Quindi, persino l'invidia plebea, ha un compito importantissimo nelleconomia del reale. Quante volte ci capitato di vedere chi, incapace di essere innovativo e crearsi nuove vie per soddisfare la sua voglia di emulazione, imita semplicemente chi ne ha gi creata una propria? comunque strano, o significativo dei nostri tempi, che una concezione moralistica e adialettica dell'invidia abbia ripreso auge negli ultimi tempi in Italia, anche fra gli studiosi, in primo luogo quelli della cosiddetta "etica applicata". Si pensi, ad esempio, a Elena Pulcini che, in un documentato volume dedicato al tema (Invidia, Il Mulino, 2011), relega, secondo il sentire comune, l'invidia quasi a un livello sottoumano proponendo di contrastarla coltivando altre e pi umane passioni (non accorgendosi che "un mondo senza invidia" semplicemente non sarebbe). Le passioni che Pulcini ha in mente sono, come ella dice, quelle "che incrinino alla radice quella logica individualistica e utilitaristica dalla quale la stessa invidia trae il suo principale alimento". Che affermazione che chiarisce molto. I nemici dell'invidia sono oggi i nemici dell'individuo: tutti coloro che, incapaci di volare da soli, sognano comunit pi o meno organiche e improntate alla sobriet. Da qui la loro irrazionale avversione per il profitto, il capitalismo, la modernit. Nonch il loro amore per il pensiero precotto, ove ogni cosa in ordine, del politically correct. Chiaramente, in un siffatto mondo ovattato spazio non c' per quella passione "umana, troppo umana" che risponde al nome di invidia e che, se da un lato distrugge, dall'altro fa crescere e avanzare.