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Giuseppe Berta

LE IDEE
AL POTERE
via jervis/1
Edizioni di Comunit

Indice

Premessa

Capitolo primo
Unesperienza politica tra centrismo e centro-sinistra
1|Industria e riforme negli anni Cinquanta
2|La Comunit di Fabbrica tra Taylor e Friedmann
3|La forma politica del piano
4|Lavoro intellettuale e politica della cultura
5|La crisi di unutopia?

Capitolo secondo
Politica aziendale e politica sindacale alla Olivetti
negli anni Cinquanta
1|Una premessa di metodo
2|Dal taylorismo alla crisi delle relazioni umane
3|Il Consiglio di gestione
4|Il sindacato, istituzione della politica aziendale
5|Le riforme aziendali e il comportamento operaio
6|Paternalismo, aziendalismo, neocapitalismo

Capitolo terzo
Il piano e la Comunit
1|Per una ricostruzione pianificata
2|La pianificazione regionale
3|Il nuovo meridionalismo comunitario
4|Un esempio di gestione pianificata del territorio:
lI-Rur

Capitolo quarto
Modelli culturali e modelli ideologici
1|Razionalismo e antistoricismo
2|I fondamenti di unideologia

3|La cultura del capitalismo sociale
4|Un epilogo: lindustria culturale

Note

In memoria di Sergio Ristuccia,


che volle questo libro e ne
sostenne la realizzazione

Premessa

Non ho pi riletto Le idee al potere dalla data della sua


pubblicazione, nellaprile1980. Mi successo, beninteso, di rivederne pagine e passaggi particolari, ma una
rilettura integrale non mi sono sentito di affrontarla, tali
e tanti mi paiono i limiti di un lavoro giovanile cui occorrerebbe una riscrittura totale, sia per adeguarlo allo
stato odierno delle conoscenze sia per fare in modo che
il testo rispecchi il punto di vista che ho maturato con
il tempo. Per entrambi questi motivi, tuttavia, si tratterebbe piuttosto di unoperazione che condurrebbe non
a una riedizione delle Idee al potere, ma alla composizione di un libro completamente diverso da quello che .
Alla fin fine, mi sembra che sia meglio lasciare le cose
come stanno, limitandomi a questa breve premessa, utile a specificare il contesto di allora della mia ricerca e
i limiti del libro che ne ne avevo tratto. Questo saggio
pu oggi essere letto soltanto come una testimonianza
del percorso che ha riportato lattenzione su Adriano
Olivetti, di cui il mio libro ha costituito una tappa significativa perch stato pubblicato a ventanni dalla
sua scomparsa, per iniziativa della Fondazione che reca
il nome di Olivetti, intenzionata a sottrarre la sua figura
e il suo ambiente alla patina di oblio che stava calando
su di essa.

Diversamente dagli anni recenti, contraddistinti da una


sorta di riscoperta di Adriano Olivetti, a quellepoca
pareva davvero che la sua esperienza rischiasse di essere dimenticata, consegnata per lo pi alla memoria
di coloro che gli erano stati accanto, in azienda e nelle
sue iniziative politiche e culturali. Alla met del 1977,
quando la Fondazione, attraverso il suo segretario generale in carica, Sergio Ristuccia, mi invit a formulare
un progetto di ricerca che sfociasse poi in un libro, la
galassia olivettiana era ancora, per tanti versi, un universo indistinto. Io stesso sapevo poco o nulla di Adriano Olivetti, delle sue idee e del movimento che aveva
fondato. Conoscevo, come tutti, quel termine cos evocativo, ma indistinto anchesso, di Comunit, che ne
rappresentava la pietra angolare. Ma a quella parola se
ne giustapponevano poi subito altre, magari abusate e
logore, ma ancora largamente in uso, come paternalismo, aziendalismo, neocapitalismo. Oltre, naturalmente, a utopismo, in fondo la taccia pi negativa che
gravava sul ricordo politico di Adriano e che dava una
coloratura un po sprezzante ai giudizi espressi su di lui.
Inizi con simili premesse, fra lestate e lautunno del
1977, un viaggio allinterno del mondo olivettiano che
forse non ancora concluso. Un viaggio intrapreso fra
mille diffidenze. Diffidenze, vorrei aggiungere, quanto
meno per provare a spiegarle, largamente ascrivibili al
clima culturale di una stagione che non si era ancora riconciliata con Adriano Olivetti e la sua memoria.
Erano ancora da venire i tempi in cui le forze politiche avrebbero cercato di inscrivere Adriano Olivetti, le
sue opere e il suo movimento, al loro patrimonio, fino

quasi al punto di rivendicare impossibili discendenze.


Predominava invece, a sinistra, una visione del passato olivettiano come un tentativo, al pi e nel migliore dei casi, di capitalismo illuminato, ma contaminato
anchesso dagli stessi fenomeni degenerativi del resto
del capitalismo italiano e settentrionale; al di fuori della
sinistra, prevaleva il senso dellimpoliticit di Olivetti,
declinato spesso con una punta di sufficienza che ne
rendeva, s, buone le intenzioni e importanti le realizzazioni, ma puerili le mosse politiche, dettate da unassenza pressoch totale di realismo.
Era persino pi difficile cercare di identificare quanto
Adriano e il movimento olivettiano avessero depositato
nel vivo della loro societ locale di riferimento. Per redigere il mio progetto di ricerca, andai a Ivrea, che non
vedevo da anni e che non avevo ancora considerato con
locchio dello studioso. L, la traccia olivettiana era vibrante, perch impressa nelle cose; ma nessuno si rifaceva esplicitamente al suo lascito, anche soltanto culturale.
Ricordo via Jervis, in cui era a fianco degli altri servizi sociali dimpresa la biblioteca aziendale, dove avrei
trascorso molte ore, attraversata da un flusso di operai e
impiegati che sciamavano alle ore canoniche della vita
di fabbrica, determinando quelle rapide concentrazioni
di folla che distinguevano i ritmi della vita dellindustria
dallora. Era completamente differente dalle grandi vie
attorno a Mirafiori, che per i giovani studiosi della mia
generazione costituiva la pietra di paragone, la grande
fabbrica per eccellenza. A Ivrea vigevano le scansioni
della vita di provincia, con i suoi movimenti pi rallentati e fluidi. Ma si intravedeva anche limprinting di una

progettazione degli spazi e degli ambienti di lavoro che


badava a preservare una socialit meno rigida e densa,
pi a misura duomo e meno imposta dallalto.
A Ivrea stavano quelli che chiamerei gli olivettiani dimpresa, connotati da uno stile aziendale che li
rendeva dissimili dagli olivettiani che avrei incontrato
a Roma. Erano coloro che erano entrati in azienda assunti direttamente da Adriano e che avevano continuato a lavorarvi anche dopo la sua morte e dopo lo smantellamento delle istituzioni comunitarie, in unimpresa
che via via era diventata un po meno diversa dalle altre.
Cera in loro levidente volont di salvare, insieme con
la memoria del passato, anche il presente, il loro presente, con le funzioni e le responsabilit che ricoprivano: Nessuno, naturalmente, era pronto ad assimilare o,
peggio, a omologare il presente al passato: gli anni Cinquanta a Ivrea e alla Olivetti rimanevano una stagione
eccezionale, irripetibile. Ma facevano capire che, subentrata la normalit al periodo dominato dalla personalit
di Adriano, non erano affatto venute meno le ragioni
delladesione al mondo dellindustria, enfatizzata soprattutto per il principio di razionalit che ai loro occhi vi
prevaleva. Nella descrizione degli olivettiani dimpresa,
Adriano era un grande riformatore, insieme delleconomia e del territorio, che aveva introdotto una lezione
tuttaltro che isterilita o disattesa dopo di lui. Anzi, proprio nella storia della Olivetti fino agli anni recenti,
pur nella loro opacit economica e imprenditoriale
era la prova della vitalit dellapproccio di Adriano.
Peccato che la sua lezione non fosse stata accolta n
compresa pi in generale. Quando per domandavo chi

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non avesse saputo intendere le idee e i progetti di Adriano, ricevevo risposte piuttosto vaghe. Mi si replicava che
a non aver capito erano la politica e i partiti, pi o meno
tutti, fatta eccezione per quelli caratterizzati da un tratto
elitario e di minoranza intellettuale (come i repubblicani, gli unici in fondo che si presentavano come gli
eredi, almeno a livello locale, di Adriano). O altrimenti mi si indicavano i sindacati, apparentemente allapice
della loro egemonia sociale, i quali alimentavano una
conflittualit che, se a Ivrea non aveva lasprezza delle
punte torinesi (perch non vi si allungava la minaccia
del terrorismo), era comunque elevata, prima della svolta dellEur (1978). Quanto alla sinistra, essa si era sempre
rifiutata di prestar ascolto alle proposte di Adriano, chiusa nella sua armatura di classismo ideologico.
Confesso che non mi persuadevano le posizioni degli
olivettiani di fedelt aziendale. Non mi convinceva n la
loro rappresentazione di una sostanziale, sebbene delusa
e ingrigita, continuit fra la missione aziendale di una
volta e quella attuale, n la loro rievocazione di unera
felice, che tuttavia non riusciva a rivivere nelloperare
quotidiano della Olivetti anni Settanta, gruppo industriale in crisi, condannata impietosamente come decotta da Carlo De Benedetti, che gi ci aveva messo gli
occhi sopra (lavrebbe rilevata allinizio del 1978 per 40
miliardi di lire). Stonava quella distanza fra la commemorazione di un microcosmo intensamente innovativo
e una pratica routinaria del presente senza troppa qualit
n virt, in attesa di una soluzione finale per la Olivetti
che la togliesse dal limbo nel quale ristagnava da anni e
anni. La saggezza degli olivettiani della Olivetti (mi si

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passi questo modo di dire) risultava alla fin fine un po


irritante, perch si limitava a celebrare le glorie passate e
la storia che sarebbe potuta essere e invece non era stata,
mentre era ripiegata in un declino che imputava largamente alle circostanze esterne. Non rimaneva quindi
che trovare rifugio negli aneddoti della giovinezza, in
quel che Adriano aveva dato e trasmesso a ognuno e di
cui ognuno serbava un ricordo riconoscente e orgogliosamente individuale, specifico. In realt, era chiaro
che lolivettismo era una fase conclusa, priva di lasciti
influenti sul vissuto aziendale.
A distanza di tanti anni, mi pare che gli olivettiani di
Ivrea avessero poco da dirmi, in parte perch mi comunicavano unimpressione del tutto statica di quel
passato a cui pure erano cos attaccati e in parte perch,
al pi, finivano per fare della Comunit olivettiana una
sorta di gloria locale, rinserrandola nella storia di Ivrea
e del suo territorio e perci contribuendo di fatto a
depotenziarla.
Fra i seguaci diretti di Olivetti, nellimpresa da lui condotta al successo e nella terra che gli era pi cara, non
trovai dunque testimonianze che mi aiutassero a riscattare lesperienza comunitaria dagli stereotipi in cui
era congelata. Mi aiutarono, piuttosto, gli antichi collaboratori di Adriano che non lavevano voluto seguire
nelle vicissitudini del Movimento Comunit. Uomini
come Franco Momigliano il marxista dottor M., che
Ottiero Ottieri ritrae cos bene nella sua Linea gotica
che, s, i conti con Adriano li aveva fatti fino in fondo,
con equilibrio ma anche con generosit, tanto da passar sopra alle lacerazioni dolorose degli anni Cinquanta

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