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Il mito dellAurora
bombe, ma anche in coni da passeggio o morbidissime brioche, da una finestra che dava sul corso. Da l, gruppi di amici
o famiglie intere schierate in formazione dassalto facevano
avanti e indietro per il corso leccando il gelato. Le granite invece erano di due soli gusti, limone e caff.
Il limone freschissimo e profumato, colto
la mattina stessa nei giardini del paese, e il
caff dal gusto intenso, mai annacquato,
proveniente direttamente dalla macchina,
coronato da un generoso ricciolo di panna
montata. La domenica, per non dire nelle
feste comandate, il bar pasticceria gelateria Aurora brulicava di gente pi che la Madrice alla messa di mezzogiorno.
E dopo la messa si passava a ritirare le monumentali guantiere
di dolci ordinati gi dal giorno prima, o ad assistere alla riempitura espressa dei cannoli, che non tollerano attesa, pena la
perdita, sia pure infinitesimale, di fragranza della scorza fritta
per troppo lunga contiguit con lumida crema.
Ma poi accadde linconcepibile: lAurora chiuse.
Nuova concorrenza, malattie, cattiva gestione. Non si seppe mai. La notizia fu ricevuta come una catastrofe storica.
E lo era. Per quanti arrivavano in paese e scoprivano che il
bar non esisteva pi, era come se nella prospettiva della piazza fosse crollato il campanile. E per lintera popolazione dei
baarioti fu anche peggio, fu vissuto come un lutto familiare.
Ci furono da parte degli eredi tentativi di effimere resurrezioni. Niente da fare: era finita. Da quel momento nacque
e continu a crescere la leggenda, il mito dellAurora. Alcuni dei baristi e dei lavoranti si misero in proprio. Qualcuno
giurava che in quei nuovi bar si poteva ritrovare il paradiso
perduto. Si andava a provare, ma le verifiche finivano sempre
in amare delusioni. S, forse ogni tanto il caff non male,
s, forse quel pasticcino, ma la cassata, ma i cannoli In un
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A prova e a taglio
potessero compararsi con quelle pescate dalle barche di Porticello, che pure dista appena tre chilometri e le cui barche
magari pescano nelle stesse acque. Niente da fare: le sardine di Aspra erano le migliori, dolci come lo zucchero. Cos
come i meloni gialli di Ficuzza o le fragoline di Ribera, anche
a mio parere inarrivabili. Le angurie si vendevano a prova e
a taglio, ovvero si potevano assaggiare prima di comprarle.
E poi cerano le cicorie, i cavuliceddi, le sinape e tutte le verdure
di collina, che, raccolte allalba, arrivavano freschissime. Non
parliamo poi dei gelsi neri: A stura tarrifriscano! Oltre che
buonissimi anche miracolosi se consumati di prima mattina,
a digiuno, per il loro potere rinfrescante. O i carciofini selvatici, bizzarramente chiamati domestiche, di indimenticabile
bont. Questi, come certe verdure, venivano venduti anche
cotti, dentro pentoloni fumanti. Le grida avevano cadenze di
canto, spesso di nenie arabe. Ricordo la mia sorpresa quando,
attratto in mezzo alle stradine della casbah di Tunisi da un
grido identico a quello sentito da bambino per le strade del
mio paese, scoprii che la mercanzia in vendita era la stessa.
Ogni prodotto veniva offerto con un grido speciale e ogni
grido aveva la sua speciale musica. Le banniate si incrociavano
e si sovrapponevano componendo la sinfonia di promesse
dei migliori prodotti della terra. Lacquolina in bocca arrivava attraverso le orecchie. Le donne si affacciavano ai balconi,
calavano il paniere e compravano; oppure, specialmente nel
caso dei pesci, andavano alluscio per verificare la freschezza
e dare inizio a lunghe contrattazioni.
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Noi cercavamo invano di scoprirlo, il favoloso ramo torto, tra quelli che ci sembravano avere forme pi singolari e
inconsuete. Raccoglievamo i limoni cresciuti su quel ramo,
ma quelli dolci non li trovavamo mai. Qualche volta, raramente, mio padre ne portava a casa qualcuno e lo aprivamo, annusavamo e succhiavamo davvero come un regalo giunto
da un mondo sconosciuto, pi dolce, pi
benevolo. Una volta ne port quattro e li
trovai nel mezzo della tavola come una
promessa di delizia alla fine del pasto.
Uno, soprattutto, era bellissimo, grosso e turgido come non
ne avevo mai visti. Non potevo staccare lo sguardo. Mangiai
velocissimo e alla fine agguantai quel meraviglioso limone
prima degli altri.
Ce ne toccava uno a testa. Lo tagliai e lo portai alla bocca.
Ma non era dolce, anzi, per lo sconcerto mi sembr pi aspro
di quelli asperrimi cui pure ero abituato. Alzai gli occhi delusi verso mio padre, che mi guardava sornione. Hai visto, mi
disse, cosa ti successo a prendere il pi grosso senza pensare
agli altri?
Fu la mia prima e non dimenticata lezione sullegoismo e
lavidit.
ad accartocciarsi, a perdere colore, come se mandassero invocazioni di soccorso. Questo patimento lo si prolunga sotto trepidante sorveglianza fino al limite del rischio per la loro stessa
sopravvivenza. Poi, nel giro di un paio di settimane, il giardino
cos con arabo splendore si chiamano le piantagioni di agrumi viene inondato dacqua, due, tre volte, con abbondanza e
generosit. Lacqua in quei giorni fatidici si prende quando te la
danno, a qualunque ora, di giorno o di notte. Ricordo notti di
abbeverate alla luce di lumi a petrolio, interminabili e faticose,
anche se nel ricordo sono diventate romantiche.
Non avere lacqua al momento giusto pu compromettere
un giardino. Controllare lacqua in una zona di endemica scarsezza conferisce un grande potere. I mafiosi la controllavano.
Le piante di limoni impazziscono per questo agognato
balsamo dacqua, cedono allinganno di una falsa primavera.
Sembrano resuscitare, letteralmente rifioriscono. La campagna olezza di un profumo di zagare denso, quasi morboso nel
caldo compatto di agosto. la forzatura, che inventa una seconda produzione, quella dei verdelli i bastardoni, appunto.
Un ramo di una pianta grande del limoneto, mio padre
laveva innestato a lumie. Dava limoni indistinguibili dagli
altri per forma e colore ma dal sapore dolcissimo, un poco
sfuggente, vagamente orientale, misterioso e quasi stucchevole per chi come noi bambini era abituato a quello aspro di cui
pure eravamo ghiottissimi.
Zu Rosario, il contadino, ce ne parlava ammantandone la
natura e lorigine di un alone di favola. In qualche pianta di limoni, ci diceva, c un ramo torto, ma torto in un certo modo
tutto suo, difficilissimo da riconoscere. Di tanto in tanto su
questo ramo torto nascono questi limoni dolcissimi, che sono
come un regalo della pianta, un messaggio.
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Lo sfincione
Nessuna famiglia
poteva rinunciare allo
sfincione
per la festa della Madonna
e per Natale.
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un tribunale. Solo pochissimi affidavano le cuonze al fornaio perch condisse lui. Nessuno si fidava. Tutti raccontavano
indignati di quella volta che, per essersi fidati, si erano poi
ritrovati con sfincioni scarsi dolio e di condimenti, dei quali
si era appropriato qualche garzone di mano lesta.
Le donne, i propri condimenti li portavano in capienti tegami al forno e l, aspettando per ore il turno per linfornata,
preparavano personalmente il loro sfincione, marcandolo con
un segno particolare: un po di origano, un giro di olive, a
volte uniniziale scavata nella mollica insomma, qualcosa
che scongiurasse la paventatissima eventualit che alluscita
del forno il loro sfincione fosse scambiato, magari con proditoria premeditazione, con quello di altri. Ancora rovente, sulla dorata pietanza si colava un giro dolio crudo. Questultima
benedizione da molti era considerata imprescindibile. Un mio
zio diceva che quel nonnulla dolio crudo allo sfincione gli tira
fuori lanima. Olio, olio e ancora olio.
Appena sfornate, le sospirate delizie venivano impilate in
ceste foderate da coperte di lana per tenerle in caldo, oppure messe in fila su tavoloni. Abilissimi ragazzi le portavano
poi correndo nelle case dei clienti. Il paese intero olezzava di
cipolle fritte, di sarde salate, di pane fresco. Le famiglie, lo
sfincione lo pregustavano da giorni.
Lo sfincione si mangia a gigantesche fettone, ancora caldo ma non troppo. Abbastanza perch affondando i denti nel
pane lievitato, che devessere sofficissimo, si senta il morbido
formaggio fresco fondersi con le cipolle e le sarde salate, inondandosi beati bocca, mento e naso di olio fritto e forti profumi.
Ci sono poi i fanatici dello sfincione mangiato la mattina
dopo, freddo e un poco irrigidito. Magari con il caffelatte.
Autentici fondamentalisti. Di tempra forte, anche. Perch, se
non si possiede uno stomaco gagliardo, lo sfincione di Natale
facile che lo si digerisca a Pasqua.
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Pane
Colpevolizzato,
criminalizzato,
il pane
va scomparendo,
mi sembra,
dalle nostre
ricche tavole
ipercaloriche.
Di certo, il pane ha perduto centralit nelle abitudini alimentari dei paesi ricchi, anche di quelli nei quali, davvero non tanto tempo fa, era essenziale. Lo dimostra il fatto che il pane,
persino nelle panetterie di paese, diventato un oggetto di
consumo ludico, con una molteplicit di forme, consistenze,
grani e sapori che dovrebbe invogliare allacquisto. E non soltanto dalle diete mi sembra che vada scomparendo, ma anche
dalla lingua e dal nostro immaginario culturale, dai proverbi
e dai modi di dire.
Tutto quello che non era pane era companatico, ci che
accompagna il pane. Questa certezza cominciava a vacillare
gi quando ero bambino se il mio ricordo dei pranzi familiari
non separabile da continui, ossessivi richiami, che diventavano intimazioni severe, a mangiare con il pane ogni tipo di
alimento.
Mio nonno mangiava persino la pasta e la frutta con il pane.
Queste reprimende erano spesso accompagnate da confronti tra il nostro privilegio e quello delle famiglie in cui
mancava il pane. E non era un modo di dire. Noi sapevamo
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piangeva il cuore che il figlio partisse proprio quel giorno senza nemmeno godersi i cannoli. Ne prese uno, lo avvolse nella
carta oleata e glielo diede per il viaggio.
La sera dopo, al ritorno, gli chiese come gli era sembrato
il cannolo. Una bont, rispose Silvestre. Mezzo me lo sono
mangiato col pane sempre quello da tre chili e laltro mezzo, aggiunse raggiante, lho mangiato schittu. Cio da solo.
Stando cos le cose, non sorprender che io non riesca a
mangiare nulla senza pane, anche se la mia stazza mi consiglierebbe di farne a meno. Non sono riuscito nemmeno a
risparmiare alle mie figlie lamentele e rancorose intimazioni
quando le vedo sacrilegamente mangiare senza pane. Tutte,
naturalmente, conoscono le epopee a base di pane dello zio
Silvestre e quando fanno le schizzinose, o non si contentano
delle pure fin troppo variate pietanze che vengono loro offerte, non rinuncio al piacere sadico di raccontare la storia della
pasta con le fave, che regolarmente mi veniva inflitta quando
mi si rimproverava di essere troppo viziato.
Questa storia riguarda un altro zio che da bambino detestava la pasta con le fave. Anchio da bambino la detestavo,
mentre adesso la adoro. Dunque cera pasta con le fave, quella
con le fave secche, verdina e un po melmosa. Lo zio si rifiut
di mangiarla, proprio non ci fu verso di persuaderlo. Va bene,
disse il padre, come vuoi tu, ma non avrai altro. Il suo piatto
fu messo nel vano della finestra che dava sulla strada, protetta
da una rete metallica antimosche. (Non cerano ancora i frigoriferi.) La sera appresso, lo zio si ritrov davanti il suo piatto
di pasta con le fave. E di nuovo lo rifiut. E di nuovo and
a letto digiuno. Lo stesso la terza sera e quella dopo ancora,
con rifiuti sempre pi cupi e intestarditi. La pasta, intanto, si
andava asciugando e calcinando, e sulla superficie cominciavano a formarsi crepe, come nei terreni secchi, ma anche una
leggera patina di muffa. La sesta sera, per fame, ma anche per
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Lastratto
Finch c sucu,
c Sicilia.
E perch ci sia sucu,
occorre preparare
lestratto di pomodoro.
Lo si prepara in piena estate,
quando il pomodoro
pi saporito,
polposo e
a buon mercato.
In tutta la Sicilia, specialmente nei paesi, ma beninteso in maniera differente da paese a paese, da provincia a provincia,
ogni famiglia oggi, soprattutto quelle che poi lo commercializzano prepara lastratto.
Si spremono tonnellate di pomodori, la cui polpa vermiglia
viene posta ad asciugare su larghe tavole di legno: le maidde.
Su queste tavole, infaticabilmente, famiglie intere soprattutto le donne, ma anche i bambini , per favorire lasciugatura
della polpa, che dovr completarsi nella giornata, la rimestano
tracciando con le dita ghirigori degni di Hartung o dellaction painting americana. Non per niente si chiama astratto.
Le tavole vengono orientate verso il sole inclinandole sempre
pi a mano a mano che questo va calando. A fine giornata
si sar ottenuta una crema densa e un poco bruna, dal profumo forte, intenso. Una quintessenza di estate. Conservata
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pelle color tabacco, ispido di barba, con una coppola sempre tirata allindietro. Di pochissime parole, e quelle sornione, sfottenti, ma che ti facevano sentire lamicizia. Amici un
poco credo lo fossimo diventati, con Ciccio Mosca. Potevano
passare due anni senza vederci e mi accoglieva sempre come
se ci fossimo lasciati qualche ora prima. Che et aveva Ciccio
Mosca? E chi lo sa. Lui certo non me lo ha mai detto. Dare
gli anni a un marinaio difficile, con quella pelle conciata dal
sole, dal salmastro e dal vento, che fa credere vecchi uomini che stanno appena uscendo dalla pi vigorosa giovinezza.
Esperienze, certo, ne aveva vissute molte e a pezzi e bocconi
qualcuna me laveva raccontata.
Pantelleria, paradiso per chi ci andava in vacanza, era spesso in quegli anni durissima da vivere per gli abitanti e molti di
loro erano costretti a emigrare, per bisogno o per speranza.
Anche Ciccio era partito, in alta Italia, in Germania. Per cercare lavoro, ma soprattutto, mi diceva, per vedere se il mondo
assomigliava davvero alle favole che raccontavano quelli che
erano partiti e che di tanto in tanto tornavano. Lui, per, un
sospetto ce laveva su quei racconti. Le parole erano spavalde,
mi disse, ma gli occhi tristi.
Dopo un paio danni di verifiche, Ciccio decise che avevano ragione gli occhi, quelli degli altri e i suoi, che con tutto
quel grigio del cielo del Nord si stavano affumicando anche
loro. E se ne torn a Pantelleria, alla sua barca, al suo mare,
alla sua vita. Non ho nessuno, mi diceva, di che cosa ho bisogno? Tra cielo e mare, da dormire e da mangiare certo non
mi manca. Credo che vivesse in casa con una sorella e quando
non dormiva nella barca, le rare volte, era l che allungava le
ossa in un letto. Quanto a mangiare, un piatto di pasta per lui
cera sempre.
Ma era un buongustaio Ciccio, non si limitava certo alla
pasta, e anche su quella aveva fisime e idee precise. Che fosse
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Il passato immobile
Cerco sempre,
specialmente a primavera,
soprattutto se le mie riserve
cominciano a scarseggiare,
di fare un salto in Sicilia,
a Bagheria,
per procurarmi il tenero, profumatissimo,
saporito finocchietto di montagna.
Montagne che sono poi le brevi colline
che racchiudono
la cosiddetta Conca doro,
oggi piuttosto conca di cemento.
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arabo, la pi forte tra le scatenanti madeleine della mia memoria. Il suo profumo, il suo sapore, ma soprattutto il suo ruolo
di indispensabile ingrediente per certi piatti.
Ecco, il finocchietto selvatico a Milano proprio non lo
trovo, n lo trovavo a Parigi, o rarissimamente, e deludente,
quasi inodore e di scarsissimo gusto, quando per finocchietto
non cercano di gabellarmi lassai diverso aneto.
Si trova, di rado, il finocchio tenero, molto meno profumato, con il quale si possono preparare ottime minestre, che
mio padre detestava la chiamava pasta con i peli , come
detestava la pasta con i tenerumi, le foglie della pianta di zucchine lunghe, di cui io invece andavo matto e che ancora mi
incanta, mentre per lui era pasta con le pezze di lana, mangiare per vacche.
Il mio finocchietto mi arriva quindi dalla Sicilia, anzi dalle
colline che circondano il mio paese, e se invece sono a Bagheria mi piace comprarlo dai soliti vecchietti che si alzano allalba per raccoglierlo e poi lo vendono vicino alla posta, a mazzetti, avvolto in teli di juta bagnata. Lo ripulisco e una volta
a Milano lo metto in freezer, riserva preziosa, diviso in dosi
sufficienti per un abbondante sugo per la pasta con le sarde.
Refrigerato perde certo qualcosa della sua fragranza, ma non
tanto da non confermare limpossibilit di farne a meno.
Senza finocchietto, infatti, niente pasta con le sarde. Semmai, se non hai trovato o non hai potuto comprare le sarde,
senza sarde si pu preparare una pasta pi povera, buona anche quella, che porta il nome sarcastico di pasta con le sarde
a mare. Ma se uno ogni tanto non si prepara una buona pasta
con le sarde, che campa a fare?
E non sto parlando soltanto di piacere o di nostalgia dei
sapori. In genere detesto la nostalgia. che ci sono piatti che
alcuni individui, originari dello stesso territorio geografico e
culturale, e da questo lontani, ogni tanto devono mangiare,
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a New York, prima che Little Italy fosse ingoiata da Chinatown, che mi hanno dato la sensazione di assaggiare mummie
impagliate di quello che era, che ancora in certe pasticcerie della provincia di Palermo, il cannolo siciliano. Oppure i
churros, monumento nazionale della cucina popolare iberica,
che si ritrovano in Messico, Argentina, Brasile, ma anche nel
quartiere ispanico di New York, unti, secchi, inutilmente ripieni, imbolsiti, irriconoscibili. Reperti archeologici, fossili di
uno strazio culturale che continuato per generazioni.
Martin Scorsese ha magnificamente e ossessivamente raccontato nei suoi film di ambiente italoamericano il ruolo fondamentale del cibo in questa sindrome da paura di perdita
dellidentit. A Charles e Catherine, i suoi genitori, ha affidato
con frequenza piccoli ruoli nei suoi film, quasi sempre legati
al cibo. Catherine spesso la mamma che cucina per i bravi
figli assassini e Charles, in Quei bravi ragazzi, luomo che in
prigione affetta laglio sottilissimo con una lametta da barba
per preparare il sugo di pomodoro. Mi aveva molto impressionato, quando lo vidi in un cinemino di Saint-Germain, a
Parigi, il suo documentario Italianamerican, composto di due
lunghe interviste.
La prima proprio con i suoi genitori, seduti nel loro tinello piccolo-borghese, dai quali Scorsese si fa raccontare lodissea vissuta dai nonni, arrivati a New York nei primi anni del
Novecento, in fuga dalla miseria dei due paesi della provincia
di Palermo, Ciminna e Polizzi Generosa, da cui provenivano,
e il loro venire su bambini nel passato immobile di Elizabeth
Street, nel cuore di Little Italy, dove poi si erano conosciuti e
sposati e da dove si erano allontanati soltanto quando Martin,
raggiunto il successo e diventato ricco, li aveva trasferiti in
un appartamento dei quartieri midtown, allinizio di Madison
Avenue. La pi ciarliera era Catherine, naturalmente, gran carattere. Raccontavano dei nonni di Martin che in trentanni
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di nuovi punti di vista. Trovo formidabile, per esempio, il tonno farcito di aglio, pepe e menta, cotto nellestratto di pomodoro e mangiato con una buona polenta. Forse mi fa capire
meglio di tante analisi storico-sociologiche il mio percorso di
terrone milanese.
In un romanzo del mio indimenticabile amico Manuel
Vzquez Montalbn, Gli uccelli di Bangkok, Pepe Carvalho, collage di investigatori e come il suo inventore appassionato di
cucina, si ritrova in Thailandia alle prese con una complicata vicenda di cui non riesce a venire a capo. Per occupare il
tempo, mentre costretto a nascondersi, decide di prepararsi
una specialit valenciana, ma naturalmente non dispone degli ingredienti necessari. Allora tenta di arrangiarsi con quelli
che trova.
E dopo aver preparato quella pietanza, sorprendendosi
per il sapore che ne venuto fuori, eco delloriginale eppure
coerente, ha unilluminazione: se finora non riuscito a risolvere lintrigo, perch lo ha affrontato con una logica spagnola anzich thailandese. Quellesperimento gastronomico
gli rivela che, come per quel piatto, era necessario tradurre il
ragionamento nella logica del luogo in cui si trovava. E allimprovviso capisce.
Mi capitato di fotografare
distruzioni di massa
di frutta.
In Emilia,
le pere.
In Sicilia,
a Patern, a Palagonia,
le arance.
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Chiss, forse persino per rimuovere un oscuro senso di colpa sociale. Mentre seguivo quei camion di rosseggianti arance
verso i luoghi della macellazione, non potevo fare a meno di
ricordare la trepidazione con cui mio padre proteggeva le piante del suo limoneto dai rischi cui la natura le esponeva. Malsecco, cocciniglie, il pidocchio a virgola, la siccit, la pioggia al
momento sbagliato, la grandine, il vento che sbattendo i frutti
sui rami provocava una cicatrice che deturpava la bellezza e
uniformit della buccia, leccesso di vegetazione che diminuiva
la produzione dei frutti.
Bisognava calcolare la concimazione esatta, lacqua da
dare al momento giusto. Bisognava zapparle le piante, irrorarle, rimondarle. Proteggerle e aiutarle in ogni modo. Conosceva le sue piante una per una, mio padre. Ricordo, dopo
lirrigazione, le sue solitarie e accurate esplorazioni con il
terreno non ancora completamente asciutto per controllare
che ci fosse abbastanza zagara e che quella zagara non fosse
vuota di frutti.
Una sapienza acquisita nel tempo, un amore che aveva un
unico scopo, economico certo, ma che soprattutto sanciva un
risultato meticolosamente cercato. Una ricca produzione di
frutti belli e sani.
Mi chiedevo quale devastazione avrebbe provocato nel suo
orgoglio contadino vedere i suoi limoni, le sue arance, caricati
alla rinfusa su dei camion per andare al macello.
A Palagonia ho seguito i camion fino a una discarica. Rovesciavano le tonnellate di arance, gi contaminate dalla bava
verdognola dei veleni, su un terreno in pendenza. Le ruspe
le spingevano e schiacciavano senza sosta. Su quel pendio si
formava una colata che si muoveva verso valle lentamente.
Emanava un odore acre e gi infetto. Assomigliava davvero
a una colata di lava del vicino Etna. Ma senza loscura forza
vitale che la lava, a volte devastatrice, comunica.
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Il capretto di Kami
Accompagnavo un medico
di Cooperazione internazionale
nel suo giro per i microvillaggi
intorno allaccampamento di minatori
che stavo fotografando in Bolivia.
Ci condussero in una capanna
dove viveva una famiglia
di poverissimi pastori.
Il latte di zu Bastiano
In uno spot televisivo
che ho visto molte volte,
per sottolineare la speciale
genuinit di un certo latte
e rafforzare la fedelt a quel marchio,
viene mostrato un bambino
che assaggiandolo
esclama rapito che s,
proprio
il latte della Lola,
quella mucca speciale,
la sua mucca.
Non si sarebbe mai messa a fare il turno per il latte, n andava, come molte altre donne, a prendere lacqua col secchio
alla fontana, allo stesso angolo di strada dove quotidianamente si montava la piccola latteria.
Noi, famiglia di piccolissimo proprietario di limoneto,
lacqua lavevamo in casa, come poche altre famiglie nella
strada. Un vero privilegio consisteva nellottenere lultimo
latte della mungitura, il pi denso, il pi ricco di grasso, il
pi saporito. A me piaceva berlo cos, subito, ancora caldo,
con nel naso il sentore di stalla che le due mucche facevano
entrare in casa. Anche se mia madre debolmente opponeva
che bisognava prima bollirlo il latte, che a lei quellodore di
stalla e la dubbia pulizia dei due vaccari non la incantavano
per niente.
Oltre ai vaccari ne arrivava praticamente uno in ogni
strada per il paese passavano quotidianamente anche i caprai. Molti infatti preferivano il latte di capra, considerato
pi gustoso e leggero. Ai neonati che non potevano essere
allattati dalla madre veniva dato latte dasina o di capra diluito. Frigoriferi non ce nerano. Il latte, quindi, come tutto
ci che poteva guastarsi rapidamente, veniva comprato ogni
giorno. Soprattutto in estate. Dinverno, nei brevi periodi in
cui faceva molto freddo, se ne comprava di pi. Quello che
restava, mia madre lo metteva nel vano di una finestrina che
dava sulla strada, con una fitta rete metallica a proteggerla
dagli insetti. Se il latte era bello denso, la mattina dopo trovavamo sulla superficie una crema prelibatissima che veniva
accuratamente raccolta, spalmata sul pane e spolverata di
zucchero. Un autentico premio.
Soltanto molti anni dopo, al Nord, ho ritrovato nel buon
mascarpone, raro, quel non dimenticato sapore.
A Kuala Lumpur,
con la zuppa di rospo
non ce lho fatta.
Nelle stradine della citt vecchia
i piccoli ristoranti
si susseguono colorati
e sulluscio di ognuno campeggia
una vetrina dove puoi scegliere
il tuo rospo,
vivo, naturalmente,
col quale preparano una zuppa
famosa da quelle parti
per la sua prelibatezza.
Sapevo che la mia disponibilit curiosa per i cibi sconosciuti
avrebbe prima o poi trovato il suo invalicabile muro culturale.
Approfittando di un mestiere che mi ha fatto molto viaggiare, ho mangiato ogni sorta di cibi in giro per il mondo. Per
curiosit, per mettermi in bocca lo stesso sapore che aveva la
gente che fotografavo e cercavo di capire. Con una predilezione per i cibi di strada.
Spesso ho mandato gi intrugli cucinati nei luoghi pi sospetti senza nemmeno immaginare con che cosa grassi, spezie, erba o animale fossero stati preparati. Non sempre quei
cibi mi hanno entusiasmato, ma non ho mai avuto problemi.
Ho sempre pensato che i tab alimentari siano soltanto
culturali. Miei conterranei che come me hanno succhiato per
anni, dopo averne forato il guscio con abilissimo colpo di
canino, pentolate di lumachine, i babbaluci, cucinate con aglio,
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olio e peperoncino, si fanno pericolosamente pallidi e cercano con inquietudine il bagno pi vicino se gli racconti quanto
sono deliziosi i piccoli grilli fritti del ristorante La Coronilla a
Oaxaca, o certi piatti di serpente di Hong Kong. Languilla, il
gronco, la murena, ai ferri o in brodo, i gamberetti,
lantidiluviana coda di rospo, linquietante granseola, nostrane delizie da leccarsi i baffi. Il serpente,
che schifo!
Il maiale, in salsiccia, in ciccioli, gli speziati fegatini avvolti dentro la rete di grasso, monumenti
della nostra cucina nazionale. Il cane, la zebra, roba
da selvaggi.
Ma il rifiuto schifato non investe soltanto lesotico sconosciuto, il sapore che non hai praticato
fin dallinfanzia e non fa parte della tua cultura alimentare. Moltissimi sono orripilati dalle interiora, dalle trippe, o detestano i polpi, le seppie, ogni viscido animale, e cos
via. Per non parlare di certi vegetariani, che il pesce per lo
mangiano.
Molti scrittori hanno problemi perfino con le parole che
designano i cibi, e non solo con quelle. Leonardo Sciascia non
mangiava le ostriche, per esempio, n alcun mollusco vivo.
Ma le grasse e di forte sapore stigghiole, budella di capretto o
anche di castrato, arrotolate con spezie e arrostite sul carbone,
gli piacevano molto, come ogni genere di interiora.
Jorge Luis Borges, al quale chiesi come mai al ristorante
chiedesse cos spesso prosciutto, mi rispose che trovava la parola molto nutriente e saporita.
Non c da stupirsi di queste idiosincrasie e passioni. Lidentit culturale un cerchio pi o meno netto di gusti, rifiuti, credenze, ripulse, gerarchie di valori che fortemente ci
definiscono e la cui fondamentalista inflessibilit cos tanti
guai produce in altri campi.
Sono contento, comunque, che il caso e la curiosit mi abbiano fatto sperimentare la grigliata di coccodrillo a Leticia
de las Tres Fronteras, in Colombia, e la succosa, clandestina bistecca di tartaruga a Bali. E che tanto mi piacciano le
andouillettes di ogni tipo, le salsicce francesi di interiora, come
i loro omologhi insaccati grigliati marocchini e ogni sorta di
trippe, con predilezione per le preparazioni toscane, madrilene e catalane.
A Kuala Lumpur, tuttavia, davanti al bel rospo vivo da
fare in brodo, proprio non ce lho fatta.
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Un pugno di riso
Ci aspettava una folla di affamati ai quali venivano letteralmente versati, nelle mani aperte a coppa, un pugno di riso, una
razione di farina. Agli uomini era chiesto di firmare con la loro
impronta digitale, su assurdi registri, la ricevuta per questo misero aiuto.
Ho ascoltato storie che sembravano favole nere. Come quella delluomo che il giorno prima dellonda aveva visto i cani
arrampicarsi sulle palme. Si era spaventato e si era arrampicato
su una palma anche lui, con il suo bambino. Arriv londata
immane, pieg la palma e a un certo punto il bambino gli sfugg dalle braccia, poi anche lui, assieme alla palma, fu strappato
via dalla violenza dellurto. Perse i sensi. Si svegli, miracolosamente vivo, non avrebbe saputo dire quanto tempo dopo. Non
riconosceva nulla del paesaggio devastato che lo circondava.
Soltanto dopo scopr che si trovava a quattordici chilometri
dalla sua casa.
Un pugno di riso. Questa espressione metaforica, drammaticamente concreta, lho ritrovata a Macall, in Etiopia, dove in
un campoerano ammassati i fuggiaschi da una delle ricorrenti
siccit che devastano quel paese. Morivano cinquanta persone
al giorno. Per paradossale iperbole visiva, accanto al campo, che
era stato un macello a cielo aperto, si ammucchiavano migliaia
di ossa e crani bianchi di animali che sembravano un monito
minaccioso per i vivi. Dal campo, specialmente la notte, saliva
un suono spaventoso, come se quelle migliaia di persone fossero diventate un solo corpo dal quale esalava straziante un unico
lamento. Anche l piccole mani nere aperte per pochi grammi
di grano, per un salvifico pugno di bianca farina.
Lafflizione che davano a Benares le lunghe file di mendicanti accoccolati davanti ai loro piatti di foglie intrecciate in
attesa della povera sbobba dei pellegrini dei templi, era diversa.
Lo spavento della fame si poteva leggere nei loro occhi, non
lorrore della morte.
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Mosche
Le granite di Acireale
Ero ad Acireale
per un lavoro sullEtna.
Alloggiavo in un piccolo albergo
vicino alla piazza, magnifica.
La mattina
mi piaceva fare colazione
leggendo i giornali a un tavolino
del pi rinomato caff
del paese,
davanti alla stupenda
chiesa barocca di
San Sebastiano.
Granita con panna, accompagnata naturalmente da una calda, sofficissima brioche. La prima colazione con la granita
una delle glorie della Sicilia orientale. Al banco e ai tavolini il viavai delle persone si faceva folla. Dal bar partivano
squadre di ragazzini con vassoi pieni di granite e brioche che
raggiungevano le case, i saloni dei barbieri, i circoli. Ascoltavo
la sincopata jam session delle ordinazioni. Mezza granita di
mandorla con panna. Granita di caff e brioche fredda. Caff
con panna. Mezza di mandorla e mezza di caff, senza panna.
Limone e fragoline. Fragola con panna. Mandorla tostata e
panna con due brioche caldissime. Gelsi neri con panna. Gelsi neri con una punta di mandorla. Gelsi e limone.
Una variazione infinita sul tema del piacere, araba e barocca. Ero impressionato. Sembrava che ciascuno avesse il
suo personale segreto della esatta ricetta per raggiungere la
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Il decottaio
perfezione del gusto. Quando si tratta di sapori, bisogna riconoscere che i siciliani ci danno dentro con i sensi.
Ho detto arabo e barocco. In effetti nella mia immaginazione, soprattutto per i gelati, il sogno arabo che c in me che
viene fuori. Paolo Conte lo promette a una donna sotto forma di tiepidezze da hammam. Per me sogno arabo il gelato,
soprattutto le granite. Con pertinenza penso, visto che sono
stati gli arabi a regalarcelo. Il gelato un refrigerio inventato
da un popolo che conosce il deserto, la vampa calda del sole.
Nel brulicante suk di Damasco ho assaggiato un meraviglioso
sorbetto di crema preparato a vista da nerboruti giovanotti che
senza tregua pestavano in profondi pozzetti ghiaccio tritato,
latte, zucchero, e un po di cannella, come si faceva una volta,
fino a ridurre il tutto a una setosa delizia. Mi sono ricordato
delle fotografie siciliane di fine Ottocento in cui si vedono
lunghe file di donne che trasportano cesti di neve da interrare
per la preparazione, in estate, di sorbetti e granite.
Sogno barocco, anche. E non soltanto per larricciolata variazione di combinazioni che consentono le granite. Ma anche, se non soprattutto, perch, come ad Acireale, io associo
i piaceri del gelato alla suggestione di alcune tra le pi belle
piazze del mondo. Ma quante piazze tra le pi belle del mondo
ci sono in Sicilia, in Italia? Sorbire una granita di mandorla
tostata, o di gelsi neri la mia preferita, ma forse la mia granita preferita quella che in quel momento mi sto godendo ,
davanti allincredibile, sublime architettura di panna baciata
dallultimo sole del duomo di Siracusa unesperienza in cui la
fusione dei piaceri del palato e della vista produce estasi estetiche da sindrome di Stendhal.
Una volta, a Ispica, in un piccolo bar, mi hanno fatto provare una granita di carruba. Sorprendente e straordinaria. Non
lho pi ritrovata.
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moglie, cominci unopera di convincimento. Sei ancora giovane, devi pensare al domani, a rifarti una vita; insomma, ti
devi rimaritare. La prima volta Pietro accolse la proposta con
una risata. Rimaritarsi? E con chi? Come se fosse possibile
anche solo pensare di sostituire quella pietra di paragone di
ogni perfezione che era stata la buonanima. Ma il fratello non
mollava la presa. Moltiplicava le mirabolanti descrizioni di
partiti eccezionali. Senza risultato alcuno. Finch un giorno
arriv con la proposta giusta: Agatina.
La storia di Agatina era simmetrica a quella di Pietro. Ancora troppo giovane per rassegnarsi alla vedovanza, di specchiata reputazione, con una situazione economica agiata, e
bella poi, del tipo florido, che non guasta. Non furono per
tutte queste doti a smuovere le coriacee resistenze di Pietro.
che lui la conosceva Agatina. Non direttamente, ma attraverso i racconti affettuosi della buonanima. Pi giovane
di lei di un paio danni, era stata, quando erano ragazze, la
sua migliore amica: Ci spartivamo il sonno, soleva ripetere; e
anche dopo, negli anni, era rimasta praticamente la sola che
continuava a frequentare e con la quale condivideva attivit
di parrocchia, problemi di uncinetto e ricette di cucina.
Gran cuoca, Agatina, ripeteva la buonanima.
E forse fu questo a far vacillare le resistenze di Pietro. A
poco a poco gli era venuto il dubbio che quello che pi gli
mancava della buonanima fosse il profumo delle pietanze di
cui trovava piena la casa al suo ritorno, anticipo della beatitudine dei sapori che avrebbero deliziato il suo palato. Ah, la
pasta e fagioli della buonanima! Ah, il rag della buonanima!
Inarrivabili, impareggiabili. Al confronto, le pietanze che gli
portava ogni tanto la cognata mangiare per asini gli sembravano, pastone per le galline.
La buonanima diceva spesso che certi segreti di cucina era
stata proprio Agatina a insegnarglieli. Come cuoca la mia
maestra, ripeteva. Pietro si mise a fantasticare. Se la buonanima, cuoca meravigliosa, lapprezzava tanto, chiss che delizie!
Si stordiva alla sola idea. Le sue resistenze infine crollarono.
Presso Agatina di resistenze non se ne trovarono molte; anche lei aveva avuto decantate dalla buonanima le straordinarie
virt di Pietro e la solitudine della vedovanza le pesava assai.
Si sposarono.
Agatina si impadron rapidamente di Pietro e della casa,
che riempi di serenit, pulizia, luce, persino di allegria. Pietro era contento e ricominci a fare una vita normale, aveva
ripreso a occuparsi con passione degli affari, trascorreva di
nuovo ore al circolo con gli amici e nella conversazione gli era
tornata una certa vena sarcastica che lo faceva apprezzare e
un poco anche temere.
Ma: cera un ma. Quando la sera rientrava a casa la trovava certo accogliente, densa di buoni profumi delle pietanze
cucinate, e onestamente non si poteva lamentare. Buoni, quei
piatti erano buoni. Pietro non lo negava. E tuttavia rimaneva
insoddisfatto. Si era ben lontani dai fasti della cucina della
buonanima che tanto gli erano mancati e che aveva sperato di
ritrovare. Agatina se ne accorgeva e ci soffriva. Andava cos
bene sotto ogni altro aspetto, anche i pi intimi, e proprio sul
terreno sul quale si sentiva pi sicura, sul quale in vita la stessa
buonanima che a parere di Agatina gran cuciniera non era
aveva tante volte riconosciuto la sua superiorit, non riusciva a non farla rimpiangere. Quando erano a tavola lallegria
scemava un poco. Tra lei e Pietro i sapori della buonanima
si ergevano come un muro. Agatina moltiplicava gli sforzi,
variava le ricette, si sbizzarriva. Ma, con sua grande delusione,
era proprio quando maggiore era lo sforzo per compiacere
che minore era leffetto.
Il fatto che in una lunga convivenza anche la cucina, forse soprattutto la cucina, finisce a poco a poco con lassestarsi
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Il fidanzamento ad Arcanghelos
Fu in quel preciso momento che la disperazione si trasform in ribellione. Tanto, torn a ripetersi, non serve a niente.
Qualunque cosa io gli metta davanti, lui la ingoia mentre sulla
faccia gli si disegna sempre, dietro un falso sorriso, la stessa identica espressione di leggero disgusto che platealmente
significa una cosa sola: Eh no!, niente a che spartire con il
sapore della buonanima.
In preda a una furia silenziosa si avvicin al tavolo e quasi
con violenza scodell nel piatto di Pietro una grossa mestolata di quella schifezza. Lui fece una faccia strana. Come di
sorpresa e curiosit. Per forza!, pens Agatina, ha sentito lodore e pregusta la mia ennesima e pi cocente sconfitta. Gli si
sedette di fronte guardandolo con aria di sfida, pronta a una
catartica sfuriata. Pietro port alla bocca una cucchiaiata; si
ferm, come se fosse stato colpito da una scarica elettrica. La
ingoi, poi ne prese unaltra. Alz lentamente il volto dal piatto, rivolse ad Agatina uno sguardo acquoso, colmo di lacrime
che stavano per traboccare: Agatina!, esclam. Grazie, grazie
Agatina. Finalmente, il sapore della buonanima!
Ad Archangelos,
piccolo paese dellinterno
nellisola di Rodi,
mi sono casualmente
trovato nel mezzo di uno
straordinario
rito collettivo.
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Il cuscus di Marsala
Tra Marsala
e Capo San Vito,
in Sicilia,
la presenza araba
antica
e ancora molto forte.
I paesi della costa
sono il regno del cuscus
con il pesce.
La vicinanza della Sicilia alla costa maghrebina ha prodotto
molti scambi e incroci culturali. Compresi gli odierni sbarchi di profughi e clandestini che sono, e temo per molti anni
saranno, alla ribalta della cronaca. A Mazara del Vallo c un
quartiere, la casbah si chiama, dove per la struttura urbanistica e la presenza di molti arabi sembra quasi di essere a Tunisi
o a Casablanca. Non sorprende che uno dei piatti pi prelibati, in molti ristoranti ma anche nelle famiglie, sia il cuscus. Soprattutto il cuscus con il pesce. A mio parere, anzi, nemmeno
sulle coste di Tunisia e Marocco se ne trova di altrettanto
ricco e buono.
Giovanna la moglie del mio amico Nino De Vita, prezioso e apprezzato poeta che scrive in lingua siciliana e vive in
contrada Cutuso a Marsala.
Giovanna per me il Rubens del cuscus. Per come lo prepara. Ma il suo talento per il cuscus anche letterario. Perch
lei la preparazione del cuscus con il pesce prima la racconta.
E il suo racconto, che non la banale descrizione della ricetta,
ha formidabile valore estetico ed evocativo. Si ha limpressione
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che per complessit, sapienza di assonanze e di rime di parole, di sapori , finezze lessicali, improvvise rotture e riprese,
quella preparazione arrivi alle orecchie come se fosse composta in esametri classici. Non prover nemmeno a competere
nella mimesi della recitazione. Tanto per cominciare, Giovanna il cuscus non lo compra in scatola, come noi poveri mortali
privi del dono dellarte.
Che orrore!, il cuscus confezionato.
Giovanna, assieme alla madre, con molto anticipo il cuscus lo ncoccia. Cio parte dalla semola di grano duro e a
forza di dosatissime umidificazioni e sfregamenti tra le palme delle mani crea le preziose palline, ovviamente mai tutte
uguali come quelle prodotte da macchine senzanima. E gi
questa una differenza fondamentale. Poi, naturalmente, bisogna trovare il pesce adatto. Sembra facile. Ma qui non si
tratta di una banale zuppa. Il brodo per il cuscus necessita
di quei certi pesci e non di altri, di quella pezzatura e non di
unaltra. E poi ci vuole il granchio arancio. Che sarebbe la
granseola. Se al mercato non trovi un bel granchio arancio
vivo proprio inutile, dice Giovanna, pensare di mettersi a
preparare il cuscus con il pesce.
Infine la preparazione del brodo, con inserimento dei vari
pesci scandito da necessit imperscrutabili, prima alcuni e
poi altri, guai a variare la sequenza, alcuni da togliere prima
di mettere gli altri, altri no. E poi le spezie, una precisa variet e fragranza, alcune fresche, altre essiccate. E poi, con
ritorno tonale da tormentone poetico, a questo punto, dice
Giovanna, bisogna rinnovare il sapore. Con altre spezie, immagino. E bisogna rinnovarlo almeno due, tre volte. Prima
di mettervi in infusione il cuscus per il tempo necessario, e
poi di nuovo prima di servirlo, come va riportato a calore il
pesce armonicamente disposto per forma e colore in piatto
acconcio, e che va servito a parte.
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La prima volta
che ho incontrato
Leonardo Sciascia
stato nella casa persa
in mezzo ai mandorleti
della contrada Noce di Racalmuto,
senza acqua n elettricit,
dove per anni,
prima di costruirne una nuova
accanto alla vecchia,
andava in estate a scrivere i suoi libri
sottili e acuminati
come lame.
Guardammo insieme le sue zie affaccendate di fronte al piccolo forno davanti alla casa. Ci prepararono anche un buonissimo pollo alle erbe, di quelli che vivevano liberi nel campo.
Mio nonno, che mi accompagnava, non lo volle nemmeno
assaggiare. Era di venerd.
Leonardo fu molto divertito da questo rigoroso rispetto
dei precetti religiosi, e le zie, ammirate, prepararono in fretta
e furia una sostitutiva frittata.
Era un vero buongustaio Leonardo, e cuoco sopraffino.
Ricordo ancora il suo magistrale baccal con le olive. Potrei
ricostruire la nostra trentennale amicizia anche soltanto attraverso le comuni esplorazioni di un condiviso paesaggio
gastronomico.
Aveva i suoi rifiuti netti, tuttavia. Il crudo lo accettava solo
per la frutta e le verdure. Certo non per le carni e i pesci. Di cui
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Le nostre guide erano livide di vergogna e paura. Roberto allegramente le rassicurava con argomenti che a loro sembravano anche peggiori della catastrofe tecnologica. Grazie al
cielo, affermava, nel mondo socialista non cera ancora la dittatura delle macchine sugli uomini, costretti a diventare anche
loro macchine alienate. Lumanit del lavoro era ancora salva.
Non sembravano affatto persuasi e intanto ci spingevano
verso la cantina dei distillati. Era immensa, impressionante,
e ai visitatori venivano offerti con grande gentilezza assaggi
multipli della varie specialit.
Io cominciai a fare fotografie e ogni tanto Roberto mi raggiungeva. Hai assaggiato, mi diceva, questa meraviglia? una
specie di calvados, ma con delle sfaccettature inaspettate e magnifiche. Me ne sono fatto mettere via una piccola damigiana.
E questaltro?, mi veniva a raccontare, una grappa davvero favolosa. Secchissima, ma che sa di torba, di terre vergini, profumata e severa. Ne voglio prendere un po da portare via.
I suoi entusiasmi si facevano sempre pi frequenti e allegri,
e i suoi occhi sempre pi lucidi. Non era ancora mezzogiorno
e io mi divertivo come un matto in previsione di quello che
sarebbe accaduto.
E infatti, quando ci trasferirono in un lussuoso albergo per
il pranzo ufficiale, sentivo Roberto sempre pi incontrollabilmente facondo. Nel grande salone dove un tavolo per venti
era illuminato da sfarzosi lampadari, venne il momento dei
brindisi. Roberto si alz in piedi e, coppa in mano e gesto
largo, cominci a raccontare: Una volta, disse, mi capitato
di andare a mangiare al ristorante Il Cappello doro, a Bergamo. Sapevo che quel rinomato ristorante era particolarmente
famoso per la sua lepre in salm con polenta.
Naturalmente la volli provare. Arriv questo piatto che mi
suscit un entusiasmo al di sopra di ogni aspettativa. Era davvero perfetto, direi ancora di pi, era sublime. Chiamai il ca-
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La panela
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I dolci siciliani
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Da cinque, dieci e venti lire. Quelle da venti erano belle grosse. Si potevano comprare a numero, oppure, con dieci lire, si
poteva sfidare la sorte. Il venditore ti dava una forchetta con
due denti soltanto, raddrizzati per giunta, e tu avevi il diritto
di lanciarla nel mucchio delle focaccelle. Tutte quelle che riuscivi a tirare su, con la forchetta rigorosamente in verticale,
erano tue. La forchetta, era molto leggera e unta, le focaccelle
erano scivolose: tirandole su, tendevano a cadere. Lerrore
era puntare avidamente sul mucchio delle grosse. Quelle raramente rimanevano infilzate fino alluscita dal tegamone.
Troppo pesanti. Il segreto era fare dei tiri un po sbiechi,
magari cercando di infilzare una focaccella grossa insieme a
una piccola, sotto, che la tenesse. Cerano dei veri virtuosi del
lancio della forchetta sdentata.
Le iris erano fritte o al forno. A me piacevano quelle fritte.
Morbida pasta ripiena di crema di ricotta con pezzetti di cioccolato. Si rotolano nel pan grattato e si friggono. Belle calde
e gonfie, sono meravigliose. Certo, per digerirle consigliabile lo stomaco dei diciassette anni. Ma rarissimo, quando
ritorno al mio paese, che io rinunci a mangiarne almeno una
bella grossa.
Al liceo avevamo diritto, alle undici, a un quarto dora di
intervallo. Siccome le ragazze non potevano uscire dalla classe, noi ragazzi raccoglievamo le loro ordinazioni e correvamo
al chiosco di don Gino, proprio accanto al liceo. Le iris erano
le pi richieste. Ne trovavamo una bella montagna appena
fritte. Una in mano, a mangiarla correndo, un paio in un cartoccio per le compagne che le tiravano su dalla finestra con
un panierino.
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Jerom Ferrante
del Libbiru guvernu di Sicilia in esilio a Marsiglia. Un meraviglioso delirio che non poteva non farmi venire il desiderio di
incontrare il pirotecnico Jerom. Andai a Marsiglia.
Arrivai la mattina presto. La monumentale e coloniale
scalinata della stazione Saint-Charles cominciava a popolarsi delleterogenea umanit di questa molto mediterranea citt
di mare. L di fronte, al 14 di boulevard Voltaire, dalla bianca terrazza di un piccolo ristorante sentii zampillare le note
scintillanti dellinno dei Puritani di Vincenzo Bellini: Suoni la
tromba, e intrepido
Un uomo corpulento, sui sessantanni, dal volto mite, la
barba di tre giorni, con laiuto di un bastone issava su un ferro
una colorata bandiera che subito si mise a sventolare nellaria
del mattino. la bandiera blu verde e bianca con al centro le
tre gambe della Trinacria, il sole e la testa del leone. Luomo
scatta sullattenti e saluta la bandiera con le tre dita della mano
destra aperte: Viva la Sicilia libbira e indipindenti!
Jerom Ferrante rientra per togliere dal grammofono il disco rigato dai troppi passaggi. La sede del Libbiru Statu di
Sicilia in esilio e il ristorante Etna Mungibeddu che la ospita
sono aperti.
Uninsegna e uno stemma indicano la doppia funzione
delledificio, cos che a Marsiglia si trova lunica sede diplomatica dEuropa dove possibile ordinare un piatto di pasta con
le sarde o le melanzane ripiene.
Questa surreale cerimonia dellalzabandiera si ripeteva tutte le mattine ormai da molti anni, da quando Jerom si era
persuaso che il Consiglio dEuropa lo aveva autorizzato, con
il protocollo numero 6507/64 del dicembre 1974, ad aprire
una rappresentanza di quel libero governo siciliano di cui lui
si era nominato portavoce. Il ristorante era vuoto. In un angolo, seduto davanti a un lercio tavolino, Jerom Ferrante. Dietro di lui un accatastamento di oggetti da rigattiere siciliano,
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E il programma rivoluzionario? Meriterebbe unapprofondita relazione. Ma mi parve che si basasse molto sui traumi
giovanili di Jerom.
Fuori gli italici, ovviamente; prigioni non solo abolite, ma
rase al suolo. Niente tasse fino a un guadagno di sessantamila dollari, proprio
cos, espresso in dollari; abolizione degli
esami di riparazione nelle scuole, ch i
ragazzi, con quel sole meraviglioso, si
devono godere lestate. Giustizia: occhio
per occhio, dente per dente. Rubi un asino?, devi rifondere lasino. Ammazzi qualcuno?, niente pena
di morte, per carit, ma giudizio di Dio: lassassino viene condotto in nave a met strada tra la Sicilia e lAfrica e gettato a
mare. Se si salva, meglio per lui.
Le peripezie che portarono lo zio a farsi una nuova vita a
Marsiglia devono essere state complicate e dolorose. Finch non
aprirono il ristorante Etna Mungibeddu, aiutati da una mezza
parente, naturalmente siciliana, che si improvvis cuoca.
Il rancore e la nostalgia di cui era avvelenato lo zio un
sentimento della Sicilia come terra di latte e di miele, di fuoco e di ricchezza rubata, di uomini umiliati e spogliati della
dignit finirono per invadere la coscienza e limmaginario
del ragazzo Jerom, che forse era sempre stato un po strambo
e fragile di cervello, e per questo lo zio se lera portato dietro. Morto lo zio, Jerom decise di fondare il Libbiru guvernu,
avamposto in esilio dellinevitabile riconquista, della certissima liberazione.
Governo riconosciuto da tutte le grandi istituzioni internazionali e da almeno venti governi, che godeva della benevolenza di Chirac, mi conferm Ferrante, mostrandomi come
prove orgogliose le ricevute di ritorno delle raccomandate che
da anni spediva a chiunque gli passasse per la testa governi,
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banche, persone di cui leggeva il nome sui giornali o che sentiva nominare alla televisione. Tutti solidali, come inconfutabilmente provavano quelle ricevute di ritorno.
Torna questa sera, mi disse, ti invito a cena e ti presento
alcuni dei tanti amici con i quali stiamo preparando lesercito
di liberazione della Sicilia. Tornai. Cerano molti avventori.
Altri ne entravano e tutti salutavano trinacriamente. A un
tavolo abbastanza grande, un gruppo di persone di diverse et alle quali fui presentato. Da quel tavolo sorgeva una
conversazione in una lingua dolce, intricata e zoppicante,
misteriosa. Vi si parlava di unisola bella, benedetta dal cielo, circondata da un mare pi azzurro, illuminata da un sole
pi caldo, ridente di giardini, ricca di petrolio, zampillante di
pure acque e di ogni ben di Dio.
Eldorado perduto, irraggiungibile terra promessa.
Che si mangia? Qui abbiamo solo specialit della nostra
terra: sarde a beccafico, melanzane ammuttunate, pasta coi
broccoli arriminati, pasta con le sarde, naturalmente, panelle, rascature e tutto quello che di siciliano si pu immaginare.
A mano a mano che le pietanze arrivavano fiorivano i commenti, secondo un rito che conosco benissimo. C meglio
degli ziti col sucu fatto con le cotenne e la salsiccia con i semi
di finocchio? Buone queste sarde. In questa stagione sono
buone per i beccafico; per la pasta, invece, sono un po troppo grasse. Buona sta ricotta, chi te la porta? C un pecoraro siciliano che ha la mandria vicino a Marsiglia e me la fa
portare dal figlio. La parola Sicilia ritornava continuamente,
come un talismano o un tormentone da blues.
Il cibo dava corpo alla nostalgia e al viaggio dentro una
favola struggente.
Ma chi erano quei personaggi? Cominciai a interrogarli.
E rimasi stupefatto. La maggior parte erano figli di siciliani
emigrati in Egitto, Tunisia, Algeria le cui famiglie, cacciate via
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Jerom mise sul piatto del giradischi il vecchio settantotto giri da cui si levarono, gracchianti e commoventi, le note
dellinno dei Puritani.
Tutti sullattenti a salutare col braccio teso e le tre dita
aperte, tre, come le gambe della Trinacria, mentre Jerom ammainava la bandiera del Libbiru guvernu.
Alzo le tre dita e saluto anchio: Viva il libbiru guvernu di
Sicilia!
Da bambino, al paese,
gli animali facevano parte
della vita di ogni giorno.
Cerano forse
pi animali che persone.
Aiutavano gli uomini nel
loro lavoro,
quando non
erano essi stessi il lavoro.
I vaccari, i pecorai, gli allevatori di conigli, maiali, tacchini, galline. I cavalli dei carrettieri, i muli e gli asini dei contadini e
degli artigiani, per andare in campagna, tirare gli aratri, fare i
trasporti in paese.
Cerano anche animali in casa, ma, a parte gli uccellini nelle
gabbie, che offrivano danze colorate, musica e leggiadria, gli
altri animali erano tutti funzionali alla vita. Le galline per la
loro carne e le uova, i cani e i furetti per la caccia e la guardiania, i gatti per i topi di casa e di strada, che erano numerosi e
pericolosi per i neonati e per le malattie che portavano, gli asini,
i muli e i cavalli per tirare i carretti e trasportare uomini e cose.
Lavoravano anche loro.
Lasino del mio vicino bracciante viveva nella stessa stanza
in cui lui viveva con la moglie e i figli. Si pensava al proprio cibo
come si pensava a quello per gli animali di casa e di bottega.
Si preparava il pastone per le galline e si andava a comprare la
paglia e il fieno fresco, di stagione, per gli asini e i cavalli.
Mi ricordo che arrivava nella stalla di mio nonno ancora
ricco di fiori rossi.
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Bocuse
I cani e i gatti mangiavano i resti della cucina della famiglia. La quantit di pasta da mettere in pentola mia madre la
calcolava tenendo conto del gatto e del cane, se non cerano
ossa o resche di pesce che la sostituissero: tre quarti di chilo
con tutto il gatto.
Non esistevano certo i cibi speciali e costosi per animali
che oggi andiamo a comprare nei supermercati. A mio nonno
di certo sarebbe sembrato uno spreco, una perdita di sobria
frugalit del mondo, e se ne sarebbe scandalizzato.
Io, invece, non posso impedirmi di pensare che questo
consumismo segno di finto rispetto, di finto affetto. in
effetti una facilit, un fare a meno di occuparsi davvero dei
nostri animali. Far mangiare a loro il nostro stesso cibo, quello era il vero segno di condivisione della nostra vita con gli
animali di casa.
Giscard dEstaing
aveva affidato a Paul Bocuse
la preparazione
del pranzo di gala
per la sua elezione a
presidente della Repubblica
francese.
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Lyon e di parecchi altri prestigiosi ristoranti. Tutti insieme intorno a un lungo tavolo. Battute, risate, scambi di informazioni.
Dalla cucina arriv un monumentale pot-au-feu. Mettendo da
parte raffinatezze e teorie rivoluzionarie, tutti si gettarono con
entusiasmo su quel classico, tradizionalissimo bollito.
In serata giro al ristorante, il cui matre era italiano, e visita
alla impressionante collezione di macchine da musica meccaniche che Bocuse raccoglie da anni.
Naturalmente fui invitato a cena. Un vero regalo. Il menu
prevedeva alcuni dei piatti serviti alla cena presidenziale, compresa la celebre truite en crote.
A una certa ora Bocuse, in divisa e con il cappello bianco dordinanza, fece un giro tra i tavoli, salut tutti, con tutti
scambiando una battuta, raccolse complimenti, insomma, fece
la passerella.
Lindomani mattina, intervista. Brillante, facondo, simpatico. Alla fine mi chiese se avevo apprezzato la cena. Naturalmente mi profusi in entusiastici complimenti. Ah, quella trota
en crote. Ah, quella splendida soupe di fagiolini aux truffes.
E fu a questo punto che feci la gaffe.
Mi chiedevo, osai dire, come sarebbe quella soupe con i tartufi bianchi invece che con i neri. Non lavessi mai detto! La
truffe blanche, comment gelido Bocuse, une patate.
Mi parve eccessivo, e siccome non era pensabile che non
conoscesse i tartufi bianchi, commentai che mi sembrava una
dichiarazione piuttosto sciovinista.
Les italiens, concluse sarcastico e pi sciovinista che mai il
grande cuoco: grandi gelatai.
Raccontai questo battibecco nella mia intervista pubblicata sullEuropeo e qualche mese dopo, inattesa, mi arriv
una grande soddisfazione. Mario Soldati and anche lui, per
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Tre mazzi
I gelsi neri
cameriere. Assistiamo dal vivo a unimpressionante operazione di altissima classe gastronomica, degna, per precisione e
sicurezza, dellintervento di un grande chirurgo che si addentra con raffinatissimi bisturi nei meandri di un cervello umano. Distribuite le porzioni ai commensali, dellanimale non
rimane che la carcassa intera, perfettamente scarnificata. Sono
tentato di tributare un applauso scrosciante. Al cameriere, il
matre non lascia che lumile compito di trasferire quello scheletro nella acconcia macchina che lo schiaccia fino a distillarne i meravigliosi succhi, destinati ad arricchire le delicate,
profumate carni del pregiato gallinaceo.
Bella esperienza e gratificante ricordo.
E per non pi gratificante, nella mia memoria, di uno
splendido pesce del Mar Rosso mangiato in Yemen in una
stamberga con griglia per arrostire. Il pane, preparato allistante attaccando la pasta sulla parete di un forno a pozzetto dal quale veniva staccato al formarsi delle prime bolle di
cottura. Siccome ero straniero, sul nudo legno del tavolone al
quale mi ero seduto fu steso in funzione di ecologico piatto
uno stropicciato foglio di giornale.
Niente posate, naturalmente, ma il pesce e il pane erano
memorabili.
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Il cibo votivo
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Assai simili sono le offerte preparate per il grande pellegrinaggio primaverile nellisola di Bali. Anche l grano pallido,
frutti, cibi portati sulla sommit del capo da donne vestite a
festa, in fila indiana sulle impervie scalinate dei templi.
A Racalmuto, per la festa della Madonna del Monte gli
uomini salgono di corsa, in groppa a muli o cavalli, la ripida
scala fin dentro la chiesa, dove offrono sacchetti di grano
alla Madonna. Le donne, a piedi, i candidi sacchi sui quali
cucita unimmagine sacra, li portano, come a Bali, in equilibrio sulla testa, in pellegrinaggio alla Vergine madre.
Nella processione del Venerd santo di Collesano ognuno degli incappucciati confratelli porta un simbolo, il sole,
la luna, i tre chiodi della croce, la scala, la borsa dei trenta
denari di Giuda, tutti facilmente decifrabili. Ma ce n uno,
particolarmente suggestivo, di cui ignoro il significato: unarancia, trafitta da un coltello.
In casa, per Pasqua, si preparano i pupi con luovo. Pasta
dolce farcita di uova intere complete di guscio. Si abbozzano
canestri, cuori, che poi si scambiano con i fidanzati, floride
fanciulle che sempre suscitano risate maliziose a causa delle
uova che le dotano di iperboliche tette. Tutto decorato di
barocchi fili dargento, di glassa bianca, di palline colorate.
Ma soprattutto, le pasticcerie si riempiono di agnelli di
pasta di mandorle. Tutte le famiglie, ma proprio tutte, per
il pranzo pasquale ne mettono a tavola uno. Ce ne sono di
piccolissimi e poverissimi, ma anche di sontuosi e monumentali. Si pu dire che ciascuna provincia, ciascun paese, lo faccia in modo diverso lagnello pasquale. Soprattutto cambiano le farciture, dove prevalgono la marmellata di
cedro, la pasta di pistacchio e la zuccata, ma anche vari tipi
di confettura, cannella, pezzetti di cioccolato, secondo la
fantasia e la tradizione del luogo e del singolo pasticciere.
Molto diverse sono anche le forme: innanzitutto ce n di
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A Palermo c una friggitoria dove preparano degli arancini da almeno mezzo chilo che costituiscono, io penso, larma risolutiva per sconfiggere ogni eventuale carestia e fame
presente e da venire.
Per anni, tornando in Sicilia in treno, durante la traversata in traghetto, il rito di riappropriazione identitaria era andare sul ponte, comprare un arancino al bar e mangiarselo,
ancora assonnati, appoggiati al parapetto, mentre la Sicilia
si andava avvicinando, favolosamente avvolta nelle dorate
luci dellalba.
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(La propaganda fascista negli anni della breve avventura coloniale pretendeva che una banana avesse la sostanza di due
uova.) Penso a cibi mitici e lontani come il salmone, il tartufo, il caviale, il foie gras, che non solo non avevamo mai visto
n assaggiato, ma che nella fantasia collettiva erano soltanto
suoni letterari che accompagnavano scene di sontuosi ricevimenti in scintillanti palazzi dove danzavano donne bellissime
in abiti lunghi e spalle nude e si brindava a champagne, anche
quello mai visto n assaggiato. Ricchezza e peccato, insomma,
inaccessibili.
Penso anche a oggi trivialissimi condimenti: la maionese,
per esempio, chi laveva mai vista? Non altrettanto mitica del
caviale da Vedova allegra, certo, ma che a me evocava immagini
di borghesia agiata, dai costumi e gusti anche quelli, se non altrettanto soffusi di leggenda, comunque altrettanto sconosciuti.
Me lo ricordo, il mio primo incontro con la maionese.
In prima media, tra i miei compagni cera anche uno dei
rampolli di un piccolo industriale della pasta di Santa Flavia,
un paese vicino dove ogni mese andavo a comprare la pasta
nei bei pacchi da cinque chili di carta blu insieme a mio nonno, con lasino e il carretto. Quel bambino e io diventammo
amici. Una volta mi invit a pranzo a casa sua e andai con lui,
nella macchina con autista che tutti i giorni lo portava a scuola e tornava a riprenderlo. Casa impressionante, con stanze
grandi, piene di quegli oggetti bellissimi e inutili che per me
erano il segno della ricchezza.
Ci sedemmo a tavola, grande, ovale, il padre a capotavola, stoviglie di porcellana antica decorate con fiori bellissimi.
Ci serviva un cameriere col gilet di rigatino. Io ero terrorizzato allidea di usare le posate sbagliate e di come le impugnavo
e appoggiavo sul piatto. Una volta gi, qualche anno prima,
ospiti del padrone del magazzino di tessuti dove lavorava mio
padre, un altro cameriere mi aveva portato via da sotto il naso
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Quelle bruciature ne avvilivano il prezzo, ma io lho comprato proprio perch quelle bruciature mi avevano attratto.
Il tagliere di quella signora romagnola non mai arrivato a
casa mia. Si perso per strada. Forse era piaciuto anche al trasportatore. Non so. Forse non aveva voluto essere museificato
in casa daltri e aveva deciso di raggiungere la sua padrona.
Ma il mio interesse era scattato soprattutto a causa del fatto
che una spianatoia simile, sulla quale impastavano mia madre
e mia nonna, io me la ricordo. Si chiamava scanaturi, ma non
aveva affatto un uso quotidiano. Lo aveva avuto, mi raccontava mia madre, negli anni difficili della guerra, durante i quali ogni giorno vi si impastava la farina difficilmente macinata
dal grano ancora pi difficilmente trovato al mercato nero. Su
quello scanaturi si erano impresse memorie di fatica e stenti che
non appena la situazione lo permise lo fecero accantonare senza rimpianti. Mia madre aveva finito con il detestare la pasta
fresca. Lo scanaturi veniva tirato fuori di tanto in tanto, e solo
in occasioni di feste e di grandi riunioni conviviali nelle quali
il rito centrale era una gran mangiata di tagliarini, tagliatelle di
grano duro, alte, carnose. Se ne impastavano quantit gargantuesche. Si cuocevano in grandi pentoloni di rame stagnato e
dovevano bollire in acqua abbondante e a ritmo dinferno col
fuoco a legna della fornacella. Appena pronte venivano scolate
e versate direttamente sullo scanaturi dove erano state impastate,
oppure, se i commensali erano molto numerosi, sulle enormi
maidde, i tavoloni che erano serviti per seccare al sole il sugo
di pomodoro da ridurre in estratto per linverno. Inondate di
sugo, basilico, formaggio pecorino, i mangiatori vocianti, seduti attorno a questa rossa piramide egizia di pasta, ne tiravano
grandi quantit dalla loro parte, senza posate, con le mani, costruendosi davanti piste di tagliatelle che poi venivano risucchiate con la bocca, il naso, la faccia e inviate, dritte comerano,
senza praticamente masticare, direttamente nello stomaco.
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La granita di gelsomino
Da giugno a settembre
andavamo in villeggiatura.
Andare in villeggiatura
significava che la famiglia
si spostava dalla casa in paese
a un ampio casotto
che normalmente serviva
per riporre gli attrezzi di lavoro
per il limoneto.
Il piccolo limoneto si trovava alla periferia di Bagheria, a poche centinaia di metri dalla vecchia e scomoda casa in paese.
Ma comunque andavamo in villeggiatura, ed era un grande
privilegio. Mio nonno caricava sul carretto quattro materassi,
sei sedie e qualche pentola e ci trasferivamo in campagna.
Allinizio ci accampavamo alla meno peggio nel piccolo spazio che di fatto serviva solo per dormire, dato che le attivit
e soprattutto i frenetici ozi della giornata si svolgevano tutti
allaperto, comprese le necessit igieniche. Non cera la corrente elettrica. Illuminavamo con lumi a petrolio, poi a gas:
avevano come bruciatore una calzina bianca, che bisognava
cambiare spesso. Negli anni, a poco a poco, a quel casotto
si sono aggiunte altre stanze fino a trasformarlo in una casa
spartana ma piuttosto confortevole. Di quei mesi di villeggiatura mi rimangono molti ricordi felici, marcati dagli odori
della zagara e del gelsomino.
Abbarbicata attorno alla tettoia cera infatti una gigantesca
pianta di gelsomino. Mai ne ho trovata una altrettanto grande,
ricca, rigogliosa, generosa di una inimmaginabile quantit di
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Comprare il cibo
in un paese
agricolo siciliano
come quello nel quale sono
vissuto da ragazzo
pu essere
una faccenda
topograficamente
e culturalmente complicata.
Non che uno va dal verduraio o dal panettiere, o dal macellaio e compra quello che gli serve. Eh, no! Se uno ha esigenze da
gourmet per comporre i suoi menu e tutti, da quelle parti, si
atteggiano a puntigliosi buongustai , o anche soltanto per fare
la spesa scegliendo la variet migliore e il prodotto pi fresco
e saporito, la competenza, frutto di radicata e continuamente
aggiornata esperienza, devessere vasta e puntuale.
Il pane, per esempio. C forno e forno, c pane e pane, c
panettiere e panettiere. E ci sono anche le mode. Un certo pane
paesano, denso, fatto con farine rimacinate o integrali, cotto a
legna con sarmenti dulivo o di limone, per un po di anni non
era stato di moda. Il gusto, che si voleva aggiornare verso sapori
pi cittadini, si era mosso verso pani pi bianchi, pi morbidi,
anche se magari diventano elastici e immangiabili dopo poche
ore. E aveva fatto preferire pi anodine cotture elettriche, complici anche i deliri pseudo-igienici della Commissione europea
che per anni ha fatto la guerra ai forni a legna e al buon pane.
Oggi la tendenza si radicalmente invertita. Davanti ai forni
tradizionali si trovano di nuovo code di clienti che aspettano
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lultima sfornata, beandosi dei meravigliosi profumi che sprigionano dal pane caldo. Pani rotondi, mafalde, morbidissimi
muffuletti il pane arabo, ideale per le panelle (lideale sempre
mobile) o, caldissimo, ripieno di ricotta, sugna, sale, pepe e pecorino , filoncini ricoperti di sesamo, dalla crosta duretta e
croccante, e altre forme, le pi diverse, per soddisfare ciascun
gusto o ghiribizzo.
Ma il panettiere non fa solo pane. Fa anche gli sfincioni, e
non affatto detto che il fornaio di cui ti piace molto quel filoncino integrale con il sesamo sia anche quello che fa lo sfincione
migliore, o i migliori muffuletti. Dunque, per il pane si va da un
certo fornaio, per gli sfincioni da un altro, e per i biscotti regina, coperti di giuggiulena, da un altro ancora. Non importa se i
forni si trovano in strade lontanissime tra loro. Vale il viaggio,
dicono le guide gastronomiche. Il fatto che la stessa molteplicit geografica si ritrova anche per le verdure. I cavolfiori,
per esempio. I cavolfiori, dice mia sorella, vanno comprati dal
contadino di via Milazzo.
In paese, molti contadini che hanno piccoli appezzamenti
coltivati a orto vendono direttamente i prodotti che coltivano.
Mettono fuori dalla porta di casa una sedia con sopra la verdura
raccolta la mattina, oppure parcheggiano davanti alla porta un
Ape o un furgoncino con la merce in vendita, in modo che la
gente sappia che c roba fresca da comprare. Il contadino di
via Milazzo specialista in cavolfiori e finocchi. Sar la terra,
sar la sua particolare perizia nel coltivarli, fatto sta che sono
speciali, turgidi e al tempo stesso morbidi, che basta un bollore
per ritrovarseli da sciogliersi in bocca, profumatissimi, saporitissimi, ottimi conditi con un filo dolio buono come per le
eccellenti minestre o le pi sofisticate ricette. Come imbattibili
sono i carciofi di un altro contadino, quello di via SantAntonino, coltivati in collina, pieni, tenerissimi, senza unombra
di barba, dolcissimi da mangiare semplicemente bolliti, oppure
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Sale
Intanto, c il sale marino e c quello di miniera, il salgemma. In Sicilia ci sono entrambi, ed entrambi li ho esplorati.
Per insaporire i cibi preferisco il sale di mare, cos ricco dello
iodio di cui tanto mi piace riempirmi anche i polmoni.
Il sale di mare si coltiva, con antica sapienza. Queste grandi coltivazioni sono suddivise in vasche dove, a mano a mano
che lacqua di mare si asciuga, si formano paesaggi lagunari
fantastici, ricchi di colori e riflessi, al cui centro stanno spesso arcaici e pittoreschi mulini a vento. Lavoro duro che si
conclude con la raccolta del prezioso minerale una volta
con carriole, ora con nastri trasportatori , che si accumula in
bianche piramidi, poi ricoperte di coppi di terracotta gialloverdastri per proteggerlo dalle intemperie.
A Marsala, a Trapani. Poi ritrovate, le saline, affascinanti
e arcaiche, a Cervia e a Cabo de Gata, nellaltra piccola patria
eletta nel Sud dellAndalusia.
La salina pi bella di Marsala si chiama Imperatore, si trova di fronte allisola di Mozia e mi piaceva particolarmente
andarci anche per conversare con il suo custode-poeta.
Spettacolari sono le miniere di salgemma di Petralia, che
non appaiono cupe come quelle di zolfo o di carbone, o quelle boliviane di tungsteno, ma assomigliano a vaste cattedrali
barocche dove le luci dellacetilene moltiplicano gli scintillii e
sottolineano le fantasiose curvature scavate dalle frese.
Adesso un lavoro di macchine quello delle miniere, ma
in passato i salinari, di cui Leonardo Sciascia ha raccontato
la fatica fisica e morale, vi scontavano una vita durissima, di
sfruttato lavoro.
In Bolivia, allaltro capo del mondo, ho scoperto limmenso
salar di Uyuni. Un lago secco, grande come lUmbria, che lo
choc dei continenti ha sollevato, non so quante centinaia di
migliaia di anni fa, ai quattromila metri di altitudine della cordigliera delle Ande, nel Sud del pese, quasi ai confini con il Cile.
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Ragnatele di fame
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disse, e part verso la fontana. Io entrai e misi ferro e catenaccio. Buttai dentro la pasta e cominciai a fare vento alla fornacella. Il fuoco pi grande, per, ce lavevo dentro la testa.
A mano a mano che la pasta si andava cuocendo, io me la andavo mangiando. Direttamente dal pentolone me la mangiavo.
Come il fuoco bruciava. Ma io non smettevo. Col cucchiaione
grande di legno me la mangiavo. Dopo un poco mia madre
torn con mia sorella grande, poi arriv anche la sorella piccola, picchiavano alla porta e urlavano: Lar, apri Lar, disgraziato! Poi arriv anche mio fratello Peppino, tutti picchiavano
alla porta, tutti urlavano.
Quello che urlava di pi era zu Tommasino, che per quanto vecchio e magro pareva un leone. La porta voleva abbattere. Per come vero Dio, urlava, appena entro ti ammazzo, grandissimo cornuto! Io di lui soprattutto avevo paura.
Ma non perch mi poteva ammazzare. Quello non solo urlava
come un leone, come un leone pure mangiava. Lo sapevamo
tutti. Mia madre e le mie sorelle piangevano. Adesso mi urlavano anche i vicini di casa. Anima dannata, mi dicevano: apri
a tua madre! Io manco li sentivo. Mangiavo, mangiavo. Poi la
pasta e i fagioli si misero a non andare pi direttamente nella
testa, cominciai a sentire che andavano nella pancia. Lo sentii
perch non ce ne entravano pi. Ero disperato, con tutta la
fame che ancora sapevo di avere, in quella stupida pancia non
ce ne entravano pi. Mi dovetti fermare.
Si era fatta notte. Io guardavo nel buio con gli occhi di
fuori. Pure sugli occhi premevano la pasta e i fagioli. Si gonfiavano da dentro. Respiravo a sorsi piccoli. Non cera spazio
per laria nei polmoni. Ogni respiro un rantolo. Avevo paura
che mi si crepasse la pancia. Nel letto non ci potevo stare.
Mi allungai per terra. Alla porta non picchiavano pi. Mio zio
e Peppino se nerano dovuti andare a mare. Le mie sorelle da
una zia nostra che stava alla marina. Io mi trascinai ad aprire
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El molino de chocolate
Oaxaca,
difficile non soccombere
alla sua seduzione.
Ci sono stato due volte
e vorrei tornarci ancora,
anche se degli amici
mi dicono che anche l
fanno di tutto per
distruggere lincanto.
Una luce e unaria impareggiabili, un contesto artigianale
straordinario per ricchezza e fantasia, i colori delle case, dei
vestiti delle donne, dei mercati, la musica che sembra venire
fuori dalla terra stessa.
Uscivamo dal ristorante La Coronilla, luogo di delizie
per il suo saporito guacamole, le croccanti chapulines, le cavallette fritte, il mole di pollo, e per finire un mezcal col gusano,
il vermetto che viene introdotto nelle bottiglie pi pregiate
a renderne perfetto laroma. A passeggio dopo un pranzo
ragguardevole, eravamo stati raggiunti da una tiepida brezza profumata di cioccolato. Molto profumata, irresistibile.
Usando il naso come bussola ci eravamo addentrati nelle
viuzze del centro per capire da dove sprigionasse un tale
intenso profumo, sempre pi intenso quanto pi ci avvicinavamo alla fonte.
Fu cos che scoprimmo el molino de chocolate.
Una grande stanza che aveva in effetti laria di un mulino.
Sacchi di baccelli di cacao, zucchero di canna, cannella,
stecche di vaniglia, zenzero, peperoncini vari, altre spezie.
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Mangiare, parlare
Donne e bambini con in mano pentolini, sacchetti di plastica, secchi di zinco, aspettavano il proprio turno. Quando
arrivava il momento davano la loro ricetta, ognuna diversa,
con piccole variazioni, nelle quantit di zucchero, cannella,
spezie, cacao. Il tutto veniva pesato, mescolato e introdotto
attraverso un imbuto dentro una specie di macina dove, una
volta che il composto era diventato una spessa farina, veniva
aggiunta dellacqua: mescolata energicamente, questa produceva una fluida crema che i clienti raccoglievano in basso da
un bocchettone duscita nel proprio recipiente.
A casa, una volta freddo, se ne scalpellano dei pezzi da
mangiare direttamente o da sciogliere per farne bevanda.
Sapore meraviglioso e granuloso, che con mia grande sorpresa ho riconosciuto come familiare. Levocazione stata
immediata: la cioccolata preparata a freddo dalla pasticceria
Bonajuto di Modica che tanto piaceva a Leonardo Sciascia.
I Bonajuto dicono che la ricetta, tramandata di padre in
figlio, risalirebbe nientemeno che ai primi anni successivi alla
scoperta dellAmerica, quando il cacao arriv in Europa e si
impose come bevanda prediletta dalle signore della nobilt.
Da Oaxaca a Modica, una ricetta e un sapore che hanno
attraversato indenni secoli e oceani.
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In Sicilia,
il sucu,
piatto invernale essenziale,
su cui ha scritto pagine
fini e spassose
Luisa Adorno
nel suo Lultima provincia,
si prepara con lestratto della salsa
di pomodoro fatta asciugare
sui tavoloni di legno che in
agosto invadono le strade del paese.
In certe famiglie, la domenica, la pasta con il sugo pietanza
fissa, rituale come lobbligo di andare a messa. La preparazione faccenda complessa. Oltre al classico soffritto, occorrono
carni varie, di manzo, di maiale, cotenne, puntine, salsicce
con i semi di finocchio, profumi di terra, in quantit e proporzioni decise insindacabilmente dalla cuoca di casa, secondo
regole tramandate di madre in figlia e solo raramente suscettibili di minime e discusse variazioni. Con la giusta quantit di
estratto, naturalmente, sciolto a fare spessa la salsa.
La cottura, a fuoco bassissimo, lunga e lenta.
Solo cos si otterr quel sapore speciale, unico, che per
sempre, per tutti i componenti della famiglia, diventer inamovibile pietra di paragone per giudicare il vero e autentico
sucu, anche se diverso da come viene preparato da una zia o da
una vicina. Nel tempo, e nella diaspora, quel sapore si trasformer in mito. Piatto ricco, come si vede, per la sua dovizia di
carni, e per questo, negli anni della mia infanzia, raramente
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Ferran Adri
Ho letto
che il ristorante
El Bulli,
per anni
forse il pi famoso
del mondo,
lo chiudono.
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con prenotazioni spesso da un anno allaltro, venivano a consumare. Magari arrivando con voli charter dal Giappone o
dal Brasile.
Da uno di quei due tavoli di proscenio ho assistito al rito
spettacolare. Rito di precisione militare, eleganza e velocit.
Un balletto, in effetti, che invece che dalla musica veniva ritmato dagli ordini esatti del direttore di cucina, vorrei dire
dorchestra.
Adri si mostrava, filosofeggiava, si faceva fotografare.
Poi, magari a un certo punto gli veniva fame, afferrava una
banalissima pera e se la divorava a morsi.
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Da sempre,
e a dire il vero
ancora adesso,
quando sento invocare
la provvidenza
inevitabilmente
penso alla pasta.
So benissimo perch.
Cibi totem,
alberi paesaggio,
sapori memoria,
della mia memoria
di siciliano e di quanti altri
uomini e donne
hanno vissuto e vivono
in luoghi del sud
del Mediterraneo.
Quando si concludeva la raccolta dei limoni, mio padre faceva
una festa con la famiglia e i raccoglitori. La festa consisteva
soprattutto in una grande mangiata di sarde. Aveva fatto costruire apposta dal fabbro una graticola enorme. Ci si potevano allineare cinque chili di sarde. Occorrevano due uomini
per collocarla e ritirarla dalla carbonella ardente, e molta arte
per girare le sardine e andarle bagnando durante la cottura
con il salmoriglio preparato con olio, aglio, limone sparso sui
pesci con uno scopettone di origano fresco. Quel fumo oleoso di legna di limone e sarmenti di vite e di ulivo spandeva un
aroma appetitoso che sembrava avere virt esilaranti, tanto
suscitava allegria.
Zu Rosario, decano dei contadini, che negli ultimi anni
della sua vita camminava ad angolo retto a forza di fare andare la zappa corta sotto gli alberi di limone bassi, era il maestro
di cerimonie di queste sardinate. Con la sua roncola lucente
staccava dalla siepe che saliva alta contro il muro di cinta del
campo alcune grosse pale di fico dIndia, le foglie pi larghe
e carnose, scegliendo quelle un po concave, le liberava dalle
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spine, le sciacquava, ed ecco pronto un verde servizio di piatti. Con il coltello arcuato da innesto, tagliava in alto alcuni
grossi limoni, li svuotava del succo e della polpa che andava
ad arricchire il salmoriglio, tagliando il cocuzzolo in modo
che stessero in piedi, ed ecco pronto un servizio di profumati
bicchieri. Con mezze cannette aperte a met e dentellate in
cima faceva eleganti ed efficacissime forchette.
Mangiare le sardine roventi e linsalata di pomodori e cipolle fresche nel piatto di fico dIndia, infilzarle con le forchette di canna, bere lacqua, o quel tremendo vino di casa a
diciotto gradi, nel bicchiere di limone, che a tutto aggiungeva
dolcezza e profumo speciali. Ecco una memoria di giubilo
personale e collettivo che mai mi ha abbandonato negli anni.
Ma certe memorie sono anche una bussola dellesperienza.
Le sardinadas le ho ritrovate, riti fondamentali, nellAndalusia, dove oggi sto scrivendo queste pagine e dove ho trovato
un mio altrove della memoria, che tanti cerchiamo e qualche
rara volta troviamo nelle molte false fughe della vita. Non
c romera che si rispetti, in Andalusia, senza la sua omerica
sardinata. Non c chiringuito, nelle spiagge del Palo di Malaga,
senza la graticola per le sardine da cui si alza il profumo penetrante della mia infanzia.
Anche di fronte alla casetta andalusa dove vado in vacanza
c una siepe di fico dIndia. In estate vi raccolgo gli squisiti
chumbos, non senza averne prima staccato i fiori secchi, di un
giallo cos vivo in primavera, con i quali preparo infusioni
nelle cui virt diuretiche, come mio padre, nutro fede assoluta. Dolcissimo, singolare sapore di deserto, quello dei fichi
dIndia. Pi esotico di tanti esotici frutti. Gusto forte e discriminante e per questo fonte di nostalgie, anche se adesso,
al seguito degli emigranti, i fichi dIndia si trovano ovunque,
anche nei mercati di Milano o di Parigi. Chi non li conosce,
al primo assaggio non solo dal sapore rimane sorpreso, ma
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In viaggio
in Marocco
con Roberto Leydi.
Non ricordo pi per quale storia
o pretesto di quelli che Roberto
sapeva inventarsi
per andare dietro
alle sue curiosit
etnologiche e musicali
e dalle quali sapeva
comunque cavare
affascinanti articoli.
Per me giorni felici.
In viaggio con il mio amico maestro, in un paese meraviglioso, con gli occhi anche pi aperti dalle parole e dagli
insegnamenti di Roberto.
Arriviamo la sera a Tinherir, vasta oasi, piantagione di
palme, incastonata in un paesaggio bruno e rossastro, antico
come un racconto orientale.
Ci sistemiamo nel piccolo ostello. Ci giungono ondate di
musica e canti. Leydi scatta come una molla. Prende il suo
registratore Uher, io le macchine fotografiche, e seguiamo il
sentiero della musica. in corso una festa di matrimonio.
In realt le feste sono due, una per gli uomini e una per le
donne. Quella degli uomini si svolge in una stanza al primo
piano di una costruzione di fango.
Una piccola stanza, umida e fumosa, appena illuminata
da due lampade a petrolio, stipata di gente che suona, canta,
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Cibi di strada
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Uccidere, mangiare
Vedranno mai
gli uomini
il giorno
in cui non uccideranno pi
per mangiare?
Chiss, forse quel giorno coincider con il tempo, in unisola-che-non-c, in cui non uccideranno pi per paura, per
desiderio di potenza, di ricchezza, di dominio, per orgoglio
ferito, per pura arroganza per amore persino, dicono.
Diventeremo tutti vegetariani?
Hitler era vegetariano.
E se scoprissimo, come gi sappiamo fingendo di non
saperlo, che anche le piante, esseri viventi, hanno sensibilit,
provano dolore?
Ci sono animali vegetariani. Per motivi di coscienza?
Si sente spesso ripetere, e qualche volta vorrei crederlo,
che a differenza degli uomini gli animali uccidono solo per
necessit di sopravvivenza, e che non si conoscono animali
che abbiano progettato e realizzato eccidi di massa. Forse
perch il futuro degli animali non va oltre il tempo di un
istante, di un giorno o di una stagione la fame della tigre. Persino gli animali sociali, api, formiche, castori, hanno
un futuro che, bench socialmente organizzato, ci appare
chiuso. Ma quella scienza di politica pura che la zoologia,
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Il figlio del macellaio vicino a casa nostra era un mio compagno di giochi. Spesso lo accompagnavo al macello da dove
tornava con pesanti secchi colmi di vischioso sangue. Gli piaceva. Lo beveva caldo, direttamente dal secchio, inginocchiato, con gusto. Cercava in tutti i modi di persuadermi a berne anchio.
buono, diceva, pare latte, provalo! Non ce lho
mai fatta. Ma mi fa pi orrore oggi il ricordo della
sua bocca sanguinolenta di quanto non mi impressionasse allora la sua proposta.
Il sanguinaccio, del resto, che suo padre preparava con quel sangue e vendeva la sera, davanti
alla macelleria che dava sulla piazzetta delle Anime Sante, fumante e odoroso su un tavolone, mi
piaceva molto e moltissimo ancora mi piace, specialmente sotto forma di squisita morcilla spagnola.
Una delle esperienze gastronomiche pi straordinarie che
ho vissuto risale a non molti anni fa a Mamoiada, in Sardegna, per la festa di SantAntonio, con fuochi, Mamuthones
e tutto, comprese grandi bevute e grandi mangiate di specialit locali. In un sordido garage, dentro un ex bidone di
benzina, fu messo a bollire uno stomaco di pecora intero,
pieno di sangue, spezie e vari condimenti e poi accuratamente ricucito. Lunga cottura, a intervalli regolari interrotta per
manipolazioni ed esperti schiacciamenti dellimpressionante
e fumante recipiente, per evitare che il sangue che conteneva
si raggrumasse. Una volta pronto e squarciato quel primitivo
contenitore, ne veniva estratto e distribuito in scodelle uno
spesso, profumato, saporito, misterioso, indimenticabile budino. Altro che rito arcaico e truculento. Sofisticatissima e
raffinata operazione gastronomica, che a parer mio in quella
occasione sfior, forse raggiunse, le vette dellarte.
questa cosa qui, la gastronomia: una grande metafora
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spine e lasciano in bocca un sapore di fiume, denso e limaccioso come il grande Rio. Poi mi port in un villaggio dove mi disse che avremmo forse potuto incontrare dei cacciatori di frodo
di coccodrilli. Li trovammo che ne stavano arrostendo uno a
pezzi su un largo letto di braci. Conoscevano il mio accompagnatore, e cos fummo invitati a pranzo. Un ragazzo aveva
svuotato una zampa e la indossava orgoglioso come un guanto
unghiato e inquietante. Mi fecero vedere il cranio, gi perfettamente ripulito dalla carne. Non era un animale enorme, ma
furono necessari due giovani per aprirgli la bocca e mostrarmi
i denti micidiali. La bistecca era eccellente, aveva un sapore che
mi sembrato una via di mezzo tra il pesce e il pollo.
Ma la Colombia molte altre cose.
Bogot, vivissima e molto pericolosa, non si stancavano
di mettermi in guardia, soprattutto la notte e in certi quartieri,
dove dopo il tramonto non si avventura nemmeno la polizia.
Cartagena de Indias, dove si ritrova intatto il fascino dei
tempi dei Conquistadores.
Sono Las Islas del Rosario, molte delle quali microscopiche,
che ospitano una sola casa o una capanna, disseminate in un
arcipelago che uno stereotipo tropicale, paradiso di mare blu
e spiagge di un bianco accecante.
Sono i siti archeologici precolombiani, come San Agustn,
immacolati, non ancora paesaggisticamente e culturalmente distrutti dalle orde del turismo di massa.
Ci accompagnava Alberto, un autista innamorato del suo
paese e appassionatissimo della sua frutta. Lungo le strade, ci
fece scoprire, ci sono posadas esclusivamente dedicate alla frutta, dove i viaggiatori si fermano per riposarsi consumando
succhi e frullati che mescolano una variet di frutti dai sapori
fiabeschi. Durante quel viaggio, grazie alla competenza e alla
passione di Alberto, credo di avere assaggiato per la prima volta
almeno una dozzina di frutti che solo da poco cominciano ad
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si arrostivano in inverno le castagne nella cenere. Poi cerano i semi di zucca e di melone tostati e ricoperti di sale la
simenza , arachidi, mandorle. Lo scacciu era una mescolanza
variamente composta di questi elementi, comunque con prevalenza di simenza e calia. Se ne compravano grossi cartocci.
Ognuno aveva il suo, oppure ce nera uno enorme per tutta
la famiglia, e tutti vestiti a festa la sera si faceva cento volte
lo struscio avanti e indietro per il corso, in mezzo a una folla
inestricabile, aspettando lora tarda dei fuochi dartificio. Era
unoccasione importante per le ragazze delle famiglie contadine, che raramente uscivano di casa, per mostrarsi ai giovani del paese nella speranza che da brevi ma intense occhiate
assassine nascessero amori, o richieste di fidanzamento. Tutti
quanti ruminavano la calia e rompevano i semi con un abile
colpo di denti per poi sputarne le buccine salate. Allalba, sul
corso ce nera un compatto tappeto.
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Cucinare
Allinizio, quando adolescente cominciai a giocare-sperimentare in cucina, la spinta era provare cose diverse, in cui
gli ingredienti erano assemblati e trattati in maniera diversa,
trasgressiva, rispetto a quella, canonica, con cui mia madre
preparava le sue pietanze. Nella maggior parte dei casi, i catastrofici risultati erano frutto di cervellotiche sperimentazioni.
Mia madre commentava disgustata che combinavo dei pasticci. Ma anche quando difendevo i miei pasticci, il gusto mi
faceva capire che ogni sovvertimento dei canoni e delle regole
deve avere come scopo la costruzione di nuovi canoni e nuove regole, non basta sovvertirli. Al tempo stesso, scoprivo che
le regole rimanevano astratte se prive di sapienza interpretativa. Ogni volta che ho cercato di farmi trasferire da mia madre
la ricetta esatta per preparare una pietanza mi sono reso conto
di quanto limpresa fosse difficile, se non impossibile. Quanto
aglio, quanta cipolla? Quella che occorre, di solito la risposta di mia madre. Quanto a lungo bisogna friggere una fetta
di melanzana? Finch vedi che pronta. Gi. Ma poi dipende
dallaglio: fresco o conservato?, e la melanzana, fritta dopo
averla messa a bagno in acqua e sale? Di stagione, o prodotta in serra? E il basilico? Dipende dal profumo, dal tipo, da
quando stato colto. Il finocchietto, stato raccolto fresco
in collina la mattina? Mio padre sosteneva che le minestre
cambiavano completamente sapore se le verdure erano state
colte la mattina stessa o il giorno prima. Renato Guttuso mi
aveva raccontato che suo padre era contrarissimo a cuocere la
pasta con la fiamma del gas, sosteneva che il sapore cambiava
radicalmente se la si cuoceva nella fornacella a fuoco di legna,
e se cercavano di coglierlo in castagna non sbagliava mai.
Fanatismi? Forse.
Non ho mai sacrificato a certi fondamentalismi. Ma ne rispetto il senso culturale. E ho capito che molto pi difficile
ottenere una pasta con le sarde rigorosamente eseguita, che
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