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ON DEMAND Copyright 1999 F. Argenti Copyright 1999 by Guaraldi/Gu.Fo Edizioni s.r.l.

per il service editoriale e l'immagine di copertina Via Covignano 302, 47900 Rimini www.fastbook.net ISBN 88-8049-158-X

F. Argenti

VEDERCI CHIARO

per provare a capirci qualcosa per non stare nella vita come estranei per sapere se pu esserci un senso per cercare un punto fermo e forse trovarlo

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L'autore di questo libro si interessato di molte cose. Ha lavorato a lungo in ed itoria, dopo essersi mantenuto in vita esercitando vari mestieri anche manuali ( all'occorrenza ancora un passabile meccanico, un decente elettricista e un onest o idraulico, sempre disponibile per gli amici). Alle soglie della terza et si con cesso lo sghiribizzo di prendere una laurea in psicologia, rifiutandosi peraltro di entrare nell'ordine degli strizzacervelli: non gli interessa esercitare una cos pericolosa professione. Pensa che la sua vita gli consenta di prendere in pre stito le parole di un poeta: "confesso che ho vissuto". convinto che il meglio c he pu fare restituire - con lo strumento che gli pi congeniale, la parola - quanto la vita gli ha dato in termini di comprensione e di chiarezza. In questo spirit o ha sempre cercato di fare il suo lavoro, che preferisce intenso e ben organizz ato, da sbrigare senza perdere tempo per potersi dedicare alla sua vera e pi prof onda vocazione: l'ozio, da riempire con moltissime cose tra cui la lettura, il c olloquio, l'amore, la musica, la compagnia di gatti o di bambini, qualche raro b uon film e raffiche di insulti ai rompiscatole.

il viandante che canta nell'oscurit smentisce la sua paura, ma non perci vede pi chiaro Sigmund Freud Forse sei entrato in questo sito per dare un'occhiata e ti capitato di scorrere qualche pagina - cos per curiosit. Se leggi questa e la seguente, per, puoi risparm iare tempo (e scatti del telefono) scoprendo che questo libro non fa per te. Non devi leggerlo per forza: non ho voglia di impegnarti in una lettura che non ti interessa. Ed ecco quello che ho da dire a chi, invece, ha deciso in partenza di voler legg ere questo libro. Anche se non hai dato una scorsa al testo che segue, il titolo l'hai visto certamente, ed anche probabile che tu abbia letto le poche righe co n le quali ti viene presentato l'autore. Se, dopo di ci, hai deciso che questo li bro ti interessa, penso di poterne trarre almeno le due conclusioni che ti espon go qui di seguito. 1. Hai qualche problema con te stesso (o te stessa): e questa una condizione nel la quale si trova un mucchio di gente, praticamente tutte le persone che si usa definire normali. Tu per appartieni a una categoria gi pi ristretta: quella di colo ro che si rendono conto di averli, i problemi. All'interno di questa categoria, poi, stai in una sottocategoria che comprende un numero ancora minore di esseri umani. Non solo ti rendi conto di avere dei problemi, ma pensi anche di poter pr ovare - e magari di dover provare - a farci qualcosa. Forse non sai bene cosa: m a non ti va di star l senza reagire alla depressione, alla scontentezza, all'indi stinto fastidio di sentirti disarmato. Tutto questo lo deduco - non ci vuole un grande acume, del resto - dal fatto che hai letto il titolo e le frasi riportate in copertina ma non ti sei detto: "Mac ch, quel che mi ci vuole qualcosa per passare il tempo, non ho voglia di mettermi a pensare a cose serie. Sai che pizza dev'essere, 'sto libro". 2. Non ti importa granch del fatto che l'autore praticamente uno sconosciuto. Ci p u significare che tieni a una certa indipendenza di giudizio. Sei stato attirato dall'argomento, non dalla fama di chi ne parla: non sei di quelli che si affidan o a uno dei tanti tuttologhi alla moda per sentirsi dire che cosa bisogna fare o pensare, e dove sta la Verit con la V maiuscola. Tu vuoi sentire cosa dice quest o tizio che ha scritto un libro intitolato Vederci chiaro eccetera, e poi decide re di testa tua se sono i soliti bla-bla oppure idee e suggerimenti che ti potra nno esser utili, almeno come motivo di riflessione. quanto spero. E ora facciamo una piccolissima sosta per consentire a chi ha letto fin qui, dec idendo poi che non gliene importa niente, di chiudere il collegamento.

N.B. Mi rivolgo al lettore dandogli del tu perch parlo in prima persona: lo trovo onesto e cordiale, stabilisce un rapporto che desidero sia vissuto come paritar io ed evita equivoci. Non tutti, purtroppo: ce n' uno necessariamente legato all' uso linguistico italiano, in cui ci si rivolge a una seconda persona singolare n on specificata attribuendole, convenzionalmente, il genere maschile. Qualche vol ta ho cercato, ripetendo un termine anche al femminile, di riparare a questa ing iustizia del linguaggio: ma farlo sempre avrebbe finito con l'appesantire troppo il discorso. Spero di avere la comprensione di coloro che sostengono l'altra me t del cielo, e alle quali non posso non riferirmi quando parlo in generale di ess eri umani.

I Molti libri cominciano con uno speciale capitolo intitolato "Introduzione". E an che quando l'introduzione non c', nel primo capitolo si usa presentare l'argoment o al lettore - di solito citando dei dati e qualche volta delle cifre. Qualcuno

presenta anche se stesso, oppure si fa presentare da un personaggio famoso, come per dire: vedi che me ne intendo, quindi puoi fidarti di quello che dir nelle pa gine che seguono. Io ti dico: non ti fidare. Te lo dico proprio se sei il tipo d'uomo, o di donna, di cui ho appena parlato nella conclusione n. 2. Spesso chi crede (anche in pie na buona fede, s'intende) di pensare con la propria testa, in realt applica una s erie di schemi. Sono comodi. Fanno risparmiare tempo e fatica, e forniscono risp oste nette: vero o falso, buono o cattivo, giusto o sbagliato, obbligatorio o pr oibito. Cerca di lasciare da parte schemi di questo genere, anche se ti sembra d i non averne. Affidati al buon senso e alla logica di cui sei capace - e ne sei capace, se proprio non hai una spugna a posto del cervello. Non ti fidare di me, anzitutto. Non mi va di perdere tempo, n di fartelo perdere: quindi, a volte potr dire qualcosa in modo piuttosto deciso. Questa potr sembrart i una dimostrazione di sicurezza, e potrai essere tentato di pensare: "beh, se l o afferma cos decisamente, sar vero". E invece no. Controlla quello che dico. Se u n dato o una cifra, fai presto: basta consultare un libro o un annuario o un'enc iclopedia che parlino dell'argomento cui mi riferisco. Se non si tratta di un da to esatto ma di un'opinione, di un'ipotesi: bene, allora controlla ancora pi accu ratamente. Ti chiedo solo una cosa: di non controllarla confrontandola con quel che dice un qualche esperto o sapiente o guru. Se di loro che ti fidi, non stare a lambicca rti il cervello e rivolgiti a loro. No, ti chiedo di giudicare tu quel che legge rai, senza irrigidirti anche se le mie parole sconvolgeranno completamente qualc osa in cui hai sempre creduto. Ma quante sono, poi, le cose in cui credi, di cui puoi dirti assolutamente certo ? Mica tante, anzi - a guardar bene - piuttosto poche e magari nessuna. Perch que sto il punto, altrimenti (vedi la conclusione n. 1) non saresti qui a leggere. Hai certo sentito parlare della cosiddetta crisi dei valori nel mondo contempora neo. "Crisi dei valori" vuol dire che un numero molto grande e crescente di esse ri umani non pi sicuro di niente, e ci sembra essere all'origine di gran parte dei suoi guai - se non di tutti. Credere in qualcosa diventato difficile. Pare tutt avia che sia difficile anche fare a meno di credere in qualcosa. Cos almeno soste neva, gi molti anni fa, il sociologo Alberoni (molto popolare perch scrive in modo comprensibile; per ci che riguarda le sue opinioni, penso che spesso potrebbe ri sparmiarcele). Ti cito un passaggio di quel suo vecchio articolo: Per la stragrande maggioranza delle persone la fede importante come il mangiare, il bere o il dormire. Per una minoranza, ancora di pi. Essi non possono accettar e lo stato di continua vigilanza, di continua critica richiesto dalla scienza mo derna. Hanno bisogno di qualcosa che non deve essere dimostrato, che non pu esser e smentito. La fede non una spiegazione del mondo. un modo di pensare, e il mond o l'illustrazione di ci che si sa gi. L'umanit ha vissuto migliaia di anni in quest o modo, e ne ha ancora una fame disperata. Per questo la gente va nelle comunit, e ascolta le parole di un capo infallibile. Non importa cosa dice. L'importante che produca certezza, in cui non vi sono pi dubbi, in cui non c' pi quell'incredibi le sforzo intellettuale ed emotivo che ci perseguita... Per evitare questo sforzo, concludeva, la gente si rifugia nelle fedi, oggi come ieri. Questa, secondo Alberoni, era la situazione: e, con l'atteggiamento tipic o di chi fa il suo mestiere, non esprimeva giudizi. Non diceva se un male o un b ene che la gente si rifugi nella fede, in qualsiasi fede. Non se lo chiedeva nep pure, almeno apparentemente. Io non faccio il sociologo di professione, e un giudizio voglio permettermelo: a nche se non un giudizio calato gi con l'accetta, come quelli dati - per l'appunto - da chi si ritiene illuminato da una fede. In materia di cose umane, penso che a qualsiasi domanda la prima risposta da dare sia sempre la stessa, e cio: "Beh, dipende". Nel caso in questione, alla domanda se credere sia o no una buona cos a, trovo opportuno rispondere che dipende dagli obbiettivi e dai risultati. Pensi che la vita serva a qualcosa, e trovi che la tua fede ti sappia indicare q uesto qualcosa? In questo caso non vedo proprio come potrei dirti che fai male a

credere. Se anche te lo dicessi, tanto, non mi daresti retta. Se poi sei anche sereno; se riesci ad affrontare e magari a risolvere le tue difficolt; se quelli che hanno un qualsiasi rapporto con te dimostrano con il loro comportamento di a ccettarti e di benvolerti: allora, perch diavolo dovrei perdere tempo a dirti che per me sbagli? Continua cos che tutto va bene. In realt le persone di questo genere sono molto rare. La maggior parte della gent e (forse te ne sei gi accorto) non ha pi punti fermi, e si guarda intorno sconcert ata o impaurita o furiosa o amareggiata - spesso, tutte queste cose insieme. E c he fa, nella maggior parte dei casi? Fa quello che diceva Alberoni: persa una fe de ne cerca un'altra. Qualche volta la trova e per un po' se ne appaga: ma prest o ricomincia daccapo. E i risultati sono sempre pi deludenti. Il punto sul quale vorrei chiederti di riflettere un momento il seguente. Se tut te le fedi pi o meno si equivalgono; se, perdutane una, quelle che la rimpiazzano fanno - quasi senza eccezione - fallimento anche loro; se a ogni fede perduta c i si ritrova sempre pi disillusi, sfiduciati e depressi: allora, non mi sembra de l tutto campata in aria l'idea di impostare il problema in modo diverso. il modo che vorrei proporti, chiedendoti: invece di dare per scontato che una fede sia comunque necessaria, perch non provi a vedere se possibile vivere senza fede? Non mica un'idea nuova, sai. Ci sono sempre stati uomini che hanno preferito l'i ncertezza della ricerca alle tranquillizzanti certezze delle fedi. Non per caso, uno dei miti pi antichi della nostra civilt quello di Ulisse. Quando ero bambino questo personaggio mi piaceva molto, ma pi che altro vedevo in lui l'uomo avventu roso, abile a cavarsela in ogni occasione grazie alla sua famosa astuzia. Come a ccade spesso da ragazzi, mi sfuggiva completamente il significato pi profondo del la sua figura. Dovevano passare molti anni prima che mi accorgessi di ci che vera mente significava il mito di Ulisse. Una buona occasione la ebbi al liceo, quando Ulisse mi venne incontro dai folgor anti versi di Dante, nel ventiseiesimo canto dell'Inferno. Penso che anche tu co nosca la famosissima esortazione da lui rivolta ai compagni, prima di affrontare l'ultimo viaggio al di l delle colonne d'Ercole: ...considerate la vostra semenza Fatti non foste a viver come bruti Ma per seguir virtute e conoscenza Ma avevo un professore che ci infliggeva Dante in modo tale da farcelo odiare: e a proposito di questi versi, non seppe far altro che rifilarci un predicozzo re torico. Per poter seguire virtute e conoscenza, secondo il brav'uomo cui erano a ffidate le nostre giovani menti, avremmo dovuto far tesoro delle sue parole e mo strargli in tutto rispettosa obbedienza, invece di distrarci colpevolmente pensa ndo alle ragazze e alle motociclette (il che ci equiparava a dei "bruti"). Come ovvio, il predicozzo venne immediatamente dimenticato, come pure i versi di Dante su Ulisse: e cos persi la buona occasione che mi si era presentata per rif lettere su ci che davvero poteva significare questo antichissimo, splendido mito. Non voglio commettere lo stesso sbaglio del mio vecchio professore. Quindi, per invogliarti a prendere in considerazione l'ipotesi che ti ho proposto - se si po ssa provare a vivere senza una fede - non ti far una predica. Non ti dir di lascia r perdere da un giorno all'altro le tue incertezze, i tuoi dubbi e le tue paure per diventare come per incanto un essere umano completamente nuovo, intrepido e lucido come il leggendario eroe di Itaca. Non serve a niente proporre (o propors i) soluzioni rapide, radicali e definitive. Molti dei cosiddetti maestri di vita che fanno di solito queste proposte mirabolanti - sapienti, guru, uomini politi ci - per convincerti ad abbracciare le loro fedi usano sostanzialmente due tecni che opposte. Alcuni dicono: "Vieni con noi! Guarda, facile, basta fare cos o cos e tutto risolto". E poich un gran numero di persone si lascia attrarre dall'idea d i ottenere il massimo risultato col minimo sforzo, raccolgono facilmente dei seg uaci. Questi per fanno presto ad accorgersi che, se vero che lo sforzo richiesto minimo, anche i risultati sono irrimediabilmente deludenti. La tecnica opposta pi sottile. I predicatori di una nuova fede (ma ci sono fedi d

avvero nuove?) ti dicono: "Se vieni con noi, sar dura. Il nostro obbiettivo nobil e, meraviglioso: pace giustizia e felicit per tutti. Ma siccome il mondo crudele e stupido, non sar facile far trionfare la vera fede. Ti aspettano lotte e sacrif ici a non finire". Questa tecnica ha un po' meno successo rispetto all'altra, ma funziona bene lo stesso. Moltissima gente si sente lusingata dall'idea di far p arte di un gruppo di eletti, accomunati dal sacrificio per un Nobile Ideale. Poi per - per fortuna - molti si perdono per strada, perch un ideale pu essere nobile quanto ti pare ma starsene l a penare senza mai veder sorgere l'Alba Radiosa del Mondo Nuovo francamente una bella rottura di scatole. A me sono sempre piaciute le vie di mezzo (mi conforta molto l'idea che fosse di questa opinione anche il filosofo Aristotele, che proprio non mi pare fosse uno sciocco). Quindi non ti dir che provare a vivere senza fede sia una cosa facilis sima: ma neppure te lo additer come un sublime, eroico traguardo riservato a poch issimi eletti dotati di straordinarie capacit. Le concezioni eroiche dell'esistenza hanno questo brutto difetto: che se decidi di adottarle poi ti tocca, per l'appunto, di fare l'eroe, e spesso ci risulta tre mendamente scomodo - senza contare che sono davvero rari i casi in cui assolutam ente indispensabile. Gli eroi non sono neanche tanto simpatici. La gente li guar da mentre portano a compimento le loro imprese e, anche se li applaude, spesso p ensa tra s: "E sfido io che ce la fa! Bella forza: un eroe, lui. Io, invece...". Paradossalmente, cos, le concezioni eroiche dell'esistenza ottengono spesso l'eff etto contrario a quello che apparentemente si propongono. Visto che fare l'eroe difficilissimo, e presume doti che quasi nessuno possiede, la maggior parte dell a gente pensa: "Macch, non ce la farei mai e poi mai" e finisce per non fare nepp ure quel che potrebbe permettersi a prezzo di uno sforzo ragionevole. Salvo rest are intimamente convinta che dovrebbe comportarsi eroicamente come gli hanno det to e ridetto: col risultato di avere una profonda disistima di se stessa perch no n ci riesce. Per questo ti ho parlato di Ulisse. Mi pare un buon modello al qual e ispirarsi. Certo, come tutti i personaggi dei miti piuttosto fuori del comune: ma non un semidio, come Achille che poteva battere tutti e si sapeva destinato alla gloria, o quell'ammazzasette di Ercole che era capace soltanto di ridurre g li avversari a un tappetino con la sua clava. Ulisse il pi umano di tutti i grand i personaggi mitologici: non mai noioso e - ci che mi sembra notevole - la sua av venturosa esistenza ha anche momenti piacevoli. Quando non ne pu fare a meno, aff ronta anche prove molto dure: ma se una come la maga Circe gli si butta tra le b raccia, lui mica la lascia l per inseguire il Nobile Ideale della virtute e conos cenza: non subito, almeno. Anche perch la via per arrivare a virtute e conoscenza pu benissimo passare per il letto di Circe. Nessun guru mai riuscito a dimostrar e il contrario. II In un altro personaggio - della letteratura moderna, stavolta - ho trovato espre ssa molto efficacemente l'idea di provare a vivere senza fede. uno dei personagg i principali di un grande, grandissimo libro, che ti consiglio di leggere se non l'hai gi letto - e di rileggere se lo conosci gi. La peste, di Albert Camus. Per chi non conosce questo libro, accenno qui il tema di La peste, che un romanz o di un genere particolare: il conte philosophique, cio una storia nella quale co ntano pi le idee che i fatti. Ogni personaggio porta nella vicenda il suo modo di vedere il mondo: e in questa galleria di figure tragiche o divertenti, complica te o rozze, facile riconoscere un'allegoria dell'umanit. Ti accorgerai certamente che uno di questi personaggi ti rassomiglia pi degli altri, e nello stesso tempo sar difficile che tu non trovi qualcosa che ti accomuna a ognuno di loro. La storia quella di una citt dove si scatena una terribile epidemia. Viene dichia rato l'isolamento, nessuno pu entrare n uscire, e gli abitanti reagiscono a questa drammatica situazione in modi diversi. Tra i molti, l'autore ne segue in partic olare due: Bernard Rieux, un medico, e Jean Tarrou, un forestiero arrivato da po co. Tutti e due si ritrovano a battersi contro il flagello: Rieux con quel po' c he la medicina pu fare; Tarrou con le sue capacit organizzative, che gli permetton o di coordinare al meglio gli sforzi di gruppi di volenterosi. Lavorano strenuam ente, e da questa unit d'intenti nasce una profonda e pudica amicizia.

Una sera, sfiniti, Rieux e Tarrou decidono di prendersi un attimo di respiro. Pa sseggiano lungo il mare, poi siedono sulla riva a parlare di se stessi, del mond o, della vita. Tarrou conclude il suo discorso dicendo: Insomma, quel che mi interessa sapere come si diventa un santo. Rieux resta un po' stupito di queste parole, visto ci che Tarrou gli ha appena co nfidato di s, e obietta: Ma lei mi ha appena detto di non credere in Dio. Appunto - ribatte quietamente Tarrou - se si possa essere un santo senza Dio, il solo problema concreto che conosco.. Queste parole continuavano a risuonarmi nella mente anche dopo che ebbi finito i l libro. Una, in particolare: concreto. Il solo problema concreto. Tarrou non dice " il pi nobile scopo che un uomo si pos sa prefiggere" e neppure " cos perch lo posso dimostrare scientificamente"; tanto m eno dice " il fine che ci stato indicato dal tale o dal talaltro profeta". No: Ta rrou - l'organizzatore, il pratico, che non concede niente alla retorica dei buo ni sentimenti - dice semplicemente che provare a essere un santo senza Dio il so lo problema concreto. Penso che non sia difficile capire cosa vuol dire Tarrou (cio Camus che parla att raverso questo suo personaggio: e per parte mia anch'io, che ho speso pi di una p agina per la citazione). Puoi capirlo, credo, se i momenti nei quali vivere ti p i difficile non sono soltanto temporali passeggeri ma burrasche che ti squassano l'anima e lasciano dietro di s un gelo che non si attenua mai del tutto. La maggior parte della gente chiama "concreti" problemi come quello di fare sold i, di avere un fisico agile e scattante, di procurarsi il massimo della notoriet o di portarsi qualcuno/a a letto. Infatti, hanno un enorme successo tutti i manu ali il cui titolo comincia con la parola "Come..." e che insegnano, appunto (o d iciamo che pretendono di insegnare), i vari sistemi possibili per sbrigare quest e faccende. Non dico affatto che siano cose futili e sciocche. Anzi, si tratta di problemi c he non si possono ignorare: risolverli d soddisfazione, non risolverli pu invece p rovocare frustrazione e amarezza. Ma sia la soddisfazione sia l'amarezza passano , prima o poi. Invece non passa mai del tutto quella pena, segreta o palese, che provi quando ti accorgi che non ti riesce pi di credere davvero a qualcosa. Ti p rende un'acuta nostalgia di quando tutto era chiaro perch c'era un punto fermo al quale fare riferimento; e insieme la rabbia angosciosa di non poter pi tornare a lle confortanti illusioni di un tempo. Ti piacerebbe, magari: ma proprio non ti riesce. Sarebbe come tornare a credere nella Befana. Sono questi i momenti nei quali ti accorgi di quanto sia concreto il problema ch e Tarrou definisce "essere un santo senza Dio": cio un giusto, uno che in pari co n se stesso e con gli altri. Dove in pari - sia chiaro - non vuol dire necessari amente d'accordo, n tantomeno soddisfatto e gratificato. In pari vuol dire che ha i la chiara coscienza di ci che ti sta intorno e del posto che tu occupi nel mond o: in modo di poter scegliere la direzione nella quale muoverti e di poter valut are, anche, le probabili conseguenze di ci che intendi fare. Tra queste, la prima il prezzo che ti toccher pagare - o far pagare a qualcun altro - per ottenere ci che desideri: posto che tu riesca a ottenerlo, il che non affatto certo. Tutt'al tro. Con una fede, tutto risulta molto semplificato. Il depositario della fede - cio i l capo, il santone, l'esperto autorizzato (da se stesso, di solito) - ti dice ch i sei. Ti dice com' fatto il mondo. Ti dice chi sono i buoni e i cattivi. Ti asse gna un ruolo e stabilisce il premio che avrai se lo adempirai scrupolosamente, o la punizione che meriterai se ti permetterai di sgarrare. Tutto con assoluta ce rtezza. Ma non ci sono pi certezze, questo lo sai gi. Perch? Forse possibile capirlo se ci riflettiamo un po': cominciando, magari, col chiederci che cosa intendiamo quand o usiamo, appunto, la parola "certezza". In italiano, essa significa due cose. D

ice il vocabolario: certezza, sostantivo femminile. 1: condizione di ci che certo, sicuro, assodato ( es.: la certezza di un fatto); 2: stato mentale di chi sicuro di essere nel vero affermando o negando qualcosa. In effetti, una delle due definizioni rimanda all'altra: si entra nello "stato m entale" di certezza quando si considera "certo, sicuro, assodato" un fatto. Asso dato da chi? evidente che per acquisire certezza c' bisogno di qualcuno che garan tisca, che legittimi ci che si afferma. Questo processo molto evidente, per esempio, in un bambino. Se gli chiedi come m ai cos sicuro di una cosa che dice (poniamo, che i giocattoli sotto l'albero di N atale li porta il Bambin Ges), lui ti risponder: "Lo ha detto la mamma (o il pap, o il nonno)". Lo metti in crisi se insisti, chiedendogli: "E la mamma come lo sa? ". Per il bambino, la mamma lo sa e basta: la depositaria del sapere. la sua fon te di certezza, la base della sua fede. Non c' bisogno di altre spiegazioni. Se il bambino pi grandicello e ha gi sviluppata una certa capacit critica, ti risponder invece: "La mamma lo sa perch glielo ha det to il Bambin Ges in persona", oppure "perch lo ha letto in un libro". In questo ca so, la certezza del bambino solo mediata dalla mamma, ma comunque basata su una fonte: il Bambin Ges o il libro (che ovviamente non possono mentire: non si pone neppure il problema). Comunque sia, ogni certezza rimanda sempre a un'altra cert ezza, in una specie di catena di S. Antonio che prima o poi finisce in un punto. Anche le certezze della scienza sono fondate cos: almeno, le certezze di un cert o tipo di scienza (ne parler pi avanti). Chiedi a un ricercatore perch sicuro di un a sua affermazione, e lui ti rimander a uno o pi libri o articoli pubblicati da al tri ricercatori. Questi a loro volta si riferiranno agli esperimenti di qualcuno (o magari a quelli compiuti da loro stessi), basati su determinati presupposti. E cos via, finch si arriva a uno dei cosiddetti princpi (che non a caso si chiaman o cos). Per quante mediazioni, per quanti passaggi ci possano essere, si arriva sempre a un punto fermo: vicino (come la mamma) per la mente semplice di un bambino; lon tano per chi si sia posto una serie di perch. Questo punto fermo, vicino o lontan o, la fonte di ogni fede. Dio, o qualcosa che gli somiglia, comunque lo si vogli a chiamare (molti che si proclamano atei sono in realt dei credenti. Il loro dio ha solo un altro nome). Non ci sono pi certezze perch non c' pi Dio. Non c' pi il garante finale, quello che p one fine alla catena di S. Antonio delle certezze. Quello che una volta garantiv a, per dirne una, il diritto dei re a imporre la propria volont su una nazione o su un impero (in tempi ancora pi remoti, i re si dicevano addirittura imparentati con la divinit per legittimare il proprio potere di fronte ai sudditi e agli alt ri re). Bada bene, non ho detto "Dio non c'". Lascio questa affermazione agli atei tradiz ionali, i quali spesso si affannano a "dimostrare" (cos dicono) il loro assunto. In realt non spostano il problema di un millimetro, perch cos facendo esprimono una certezza, cio una fede. Ho detto "Dio non c' pi". Ma c'era, eccome. Prova a sentire il corale di Bach Sign ore, in te la mia gioia: come fai a dire che Dio non c'era? Oppure guarda l'imme nsa stanchezza del Cristo morto nella Piet di Palestrina, al Museo dell'Opera del Duomo di Firenze, e accanto al suo volto quello di Giuseppe d'Arimatea - nel qu ale si dice che Michelangelo abbia voluto ritrarre se stesso. In quella pietra c ' scavata un'immagine del dolore umano che nessuna mente d'artista avrebbe potuto concepire se non l'avesse illuminata l'idea di Dio. Non possibile dare un senso a niente di ci che facciamo, che diciamo o che pensia mo se non si ha un punto di riferimento. Non possibile dare un senso all'esisten za - non parliamo poi di darle uno scopo - se non c' un'idea-guida, un'idea-faro. Per una lunghissima stagione della storia umana, stato Dio questa idea-guida: e d stato un'idea enorme, fondamentale, che ha fatto da chiave di volta a una conc ezione del mondo coerente, solida e profonda. Tutte le idee-guida che l'avevano preceduta sono apparse, al confronto, ingenue,

infantili, limitate: bastavano appena a illuminare il piccolo universo di un'um anit circoscritta alla trib, o alla citt-stato, o magari a un impero grande quanto si vuole ma sempre limitato da un confine. Solo l'idea di Dio riuscita a illumin are uno spazio che andava al di l di ogni confine umano, un tempo che aveva in lu i l'inizio e la fine. E in questo universo assoluto - ogni punto del quale facev a riferimento a lui - tutto acquistava un senso, ogni creatura aveva un ruolo, o gni azione era valutabile. Il brillare di un diamante, il lavoro instancabile di un'ape, l'opera di un povero scalpellino che sbozzava un capitello o quella di Mozart che scriveva il suo Requiem, tutto faceva capo a lui: Coeli enarrant glor iam Dei. Adesso il cielo buio e muto, e non canta pi al cuore e alla mente dell'uomo la gl oria di Dio, perch Dio morto. morto per ogni uomo che si sia accorto di come la c atena delle certezze non ha fine quando ha visto che, arrivati a quel punto dato cos a lungo per fermo e assoluto, si pu ancora andare avanti. Per ogni uomo che n e abbia sentito il diritto, e anche il dovere. Per ogni uomo che si sia accorto di esser stato lui stesso a porre quel punto fermo, a stabilire che la catena de lle certezze finisse l. Non pu smentire se stesso, la sua ansia di ricerca, quella sete di sapere che gli merita, appunto, il nome d'uomo, se non va oltre. E per illuminare il suo cammino, per avere un faro, non pu cercare un altro Dio pi grand e di quello che non c' pi. La prima ragione per cui non pu sta proprio nel fatto di essersi accorto di quel che ho appena detto: che Dio era un'idea, frutto della sua mente. Dio una creatu ra dell'uomo. L'altra ragione che non possibile pensare un Dio pi grande di quell o che l'uomo, superando via via i piccoli di della sua infanzia, riuscito a conce pire: il Dio di Agostino, di Pascal, di Spinoza, di Kant, di Kierkegaard. Un Dio per la morte del quale non pu valere la frase rituale che viene pronunciata alla scomparsa di ogni sovrano: " morto il re, viva il re!". La morte di Dio - per de finizione - una svolta che ci pone di fronte a un problema per affrontare il qua le nessun altro dio pu aiutarci. III chiaro che parlando della morte di Dio (guarda che non un'espressione blasfema: la usano senza scandalo anche alcuni teologi) ho semplicemente fatto una metafor a. Mi sembrato utile ricorrere a essa, per, per dare un'immagine del problema cui ci troviamo di fronte: la fine delle certezze. L'ho scelta perch un'immagine dra mmatica, come drammatica - a mio avviso - la condizione in cui tanti si trovano. Tanti, ma non certo tutti: non pretendo affatto di parlare di un generico Uomo con la U maiuscola, che una pura astrazione retorica. C' moltissima gente per la quale il problema non neppure da prendere in considera zione: non ne afferrano i termini. Se la vita abbia un senso, ed eventualmente q uale; se esista un metro di giudizio per le azioni umane; quale immagine si poss a avere del mondo e quale sia il nostro posto in esso: sono tutte domande che no n si pongono neppure. Quindi, per loro non esiste neppure il problema di puntare o no su una fede, cio di avere un dio comunque definito; n tantomeno possono preo ccuparsi della sua morte e delle conseguenze che essa comporta. Tirano a campare , e spesso ci riescono anche bene. Se gli parli di queste faccende ti dicono "bo h", con la stessa aria che potrebbe avere un aborigeno australiano se gli chiede ssi quale champagne preferisce. Ma il problema resta. Resta per tutti gli altri che un dio lo hanno avuto e cerc ano di capire se si possa averlo ancora, o almeno comportarsi - senza illudersi - come se ci fosse ancora. Quel che cerca di fare Tarrou in La peste. Per cercar e di dirti come vedo la situazione, user di nuovo un linguaggio metaforico e ti r acconter una parabola. Forse potrei farne a meno: ma ne verrebbe fuori un discors o lungo e complicato, di quelli che fanno i filosofi di professione. Raramente m i piacciono. Sono spesso oscuri e tortuosi, per cui bisogna interpretarli - dand o origine a nuovi discorsi oscuri per mettere d'accordo, se mai si pu, le varie i nterpretazioni. Presto ci si trova trasportati in un'atmosfera lontanissima dall a realt, quella di tutti i giorni con la quale ti ritrovi a dover fare i conti pe r le scelte e le decisioni che ti chiede - e a volte ti impone. per questo che t ra la gente comune i filosofi si sono guadagnati la fama di persone con la testa

nelle nuvole; e alla filosofia hanno procurato quella, assolutamente ingiusta, di gioco verbale astratto e inutile. Invece non c' niente di pi concreto del filosofare, cio del riflettere sulle questi oni di fondo dell'esistenza. Sempre che tu non ci impieghi tutto il tuo tempo, m a solo quanto basta per avere qualche indicazione: per poi ributtarti nella vita , che penser lei a darti conferme o smentite e ti fornir abbondante materiale su c ui tornare a riflettere. Penso che una parabola aiuti a riflettere su problemi veri, concreti, molto megl io di tante sottili disquisizioni. Anche a questo proposito c' un esempio che mi conforta. Duemila anni fa, un povero falegname di Galilea ricorse spesso a parab ole per dire quel che gli premeva: e sono ancora un ottimo argomento di riflessi one. Cerco di non farmi sopraffare dalla paura di misurarmi con un modello cos ec cezionale e provo anch'io a raccontarti la mia parabola. Eccola. C'era un padre con molti figli, maschi e femmine, di tutte le et. Li guidava con mano ferma; non c'era problema di cui non si interessasse, e il suo parere era l egge. Il suo rigore era per temperato dal sincero amore per tutti i figli, anche per quelli che gli davano pi pensiero. Invecchiando, poi, era diventato sempre pi comprensivo: era convinto di averli lui stesso educati a una consapevole libert. Ogni tanto, stanco per le fatiche della sua lunga vita, incaricava uno di essi d i fare le sue veci. Spesso capitava che l'incaricato ne approfittasse per fare q ualche angheria verso i fratelli pi deboli o pi sprovveduti: questi sapevano, per, che il padre avrebbe dato loro consolazione e conforto. Continuava a essere molt o rigido, invece, verso quelli pigri o fatui, che sbuffavano quando c'era da ris pettare un suo ordine o un suo divieto. Tutta la grande famiglia viveva su un va sto territorio, di cui nessun figlio aveva mai varcato il confine. Cos aveva stab ilito il patriarca. Un giorno uno dei figli - quello che pi lo amava - and dal vec chio e gli disse che voleva partire. Il figlio maggiore, che si considerava l'er ede di diritto al ruolo paterno, si esib in una scena di indignazione: "Come osi? Non sai che nostro padre l'ha proibito?". L'altro non raccolse neppure l'intima zione e guard invece il vecchio. Ma il vecchio non disse niente, non scagli anatem i; sent solo la sua infinita stanchezza e il peso della solitudine in cui lo lasc iava la partenza del figlio che pi lo amava. Poco tempo dopo la partenza del figlio, il patriarca mor. Lo trovarono freddo, un a mattina, seduto sul grande scranno dove di solito passava la notte. Il Primoge nito, che se l'aspettava da tempo, non batt ciglio; degli altri a cui comunic la n otizia, taciuta solo ai pi giovani, ognuno reag in modo diverso. Erano cos abituati , da sempre, alla presenza vigile del vegliardo, che l'evento li sconvolse. La Primogenita era sempre vissuta in adorazione di quel padre, pronta in ogni mo mento al suo minimo cenno: e la mente di lei, semplicemente, rifiut l'idea che lu i fosse morto. "Nostro padre morto? Ma che dici!" obiett. Sedette in terra accant o allo scranno del vecchio, prese tra le sue mani quella ormai rigida di lui e g li parl a lungo, dolcemente: "Non vero, padre?" concluse alla fine, guardandolo n egli occhi spenti, poi tutta contenta annunci: "Vedi? Mi ha detto di s! Lui morto? impossibile: lui non ci lascer mai, non pu morire. Basta solo chiedergli le cose nel modo giusto, come io - io sola - so fare: e il suo s o il suo no continuerann o a guidarci, sempre". Il Secondogenito, tra tutti, era il pi debole. Non era capace di decidere niente da solo: aveva sempre fatto ci che gli dicevano essere la volont del vecchio, rifa cendosi a lui per intraprendere qualsiasi azione, anche la pi banale. Appena sepp e che il padre era morto, cadde in uno stato di totale prostrazione. "Come farem o, adesso?" piagnucol. "Chi ci dir cosa seminare? Chi decider se e quando il moment o di mietere, di cogliere la frutta, di tagliare il fieno? Siamo perduti, tutto andr in malora e moriremo di fame". Si rifugi in uno stato di completa apatia, dal quale non sarebbe pi uscito. La Secondogenita era bella, indolente e presuntuosa. Era sempre stata convinta d i non essere fatta per lavorare la terra, e che un giorno o l'altro qualcuno sar ebbe arrivato da fuori e l'avrebbe portata via, per farla vivere come una vera s ignora. "Non mi far pi le sue insopportabili prediche" pens. Adatt i suoi vestiti pe rch mettessero nel massimo risalto le sue forme vistose e se ne and senza dire add

io a nessuno. Marci con sprezzante sicurezza in una direzione presa a caso, e per un certo tempo se la cav piuttosto bene concedendosi ai vari mercanti di passagg io - in attesa del pi ricco. C'era sempre uno pi ricco da aspettare: cos lei fin per fare pi o meno tranquillamente la puttana, sempre per sostenendo - dato che i sol di non le mancavano - di essere una vera signora. Il Terzogenito era un tipo freddo, efficiente. La sola cosa che gli interessava era il potere, che lo compensasse delle sue terribili insicurezze segrete. Guard bene negli occhi il Primogenito e gli disse: "Sar meglio non dir niente ai nostri fratelli pi giovani: spiegheremo loro che nostro padre molto occupato. Fortunata mente c' quella stupida" e accenn alla sorella visionaria. "Lasceremo che se la sb righi lei con i pi piccoli, per spiegare come mai lui non parla e non si muove pi. Baster che lo imbalsamiamo sul suo seggiolone e penser io a fare in modo che ness uno faccia tanto il curioso. Tu continuerai a essere il portavoce ufficiale: ti lascio volentieri l'incarico. Ma sia chiaro che gli ordini li do io, d'accordo? Senn ti rompo le ossa". Dopo qualche tempo, il figlio che se n'era andato torn. Era notte, e lui si dires se verso la stanza del padre. Sentiva un immenso bisogno di parlargli. Voleva di rgli di non averlo tradito, anche se era andato via, e chiedere il suo consiglio per affrontare le difficolt del mondo in cui si era avventurato. Non gli ci voll e molto per capire, di fronte al cadavere malamente imbellettato, che cosa era a ccaduto. Stette a lungo davanti a esso, senza lacrime ma sentendosi sperduto e i ndifeso. All'alba si ritir in un angolo riparato, e vide come andavano le cose. S ulle prime, gli prese una rabbia sorda per ci che avevano fatto i fratelli maggio ri, e una grande pena per i pi piccoli: d'impulso pens di uscire fuori e di gridar e a tutti che cosa era davvero successo. Poi cap che non sarebbe servito a niente : i pi grandi lo avrebbero pestato a morte, i pi piccoli non erano in condizione d i capire. Decise allora di ripartire, cercando di affrontare il mondo con le sue sole forze e con la determinazione di tornare, un giorno, per testimoniare agli altri che si poteva sopravvivere anche da orfani - se gli fosse riuscito. Prima di andarsene, per un momento gli venne il desiderio di rivedere ancora il padre che tanto aveva amato: poi cap che sarebbe stato inutile, controproducente, e forse insultante per la memoria di chi gli aveva dato la vita e gli aveva ins egnato a tenere gli occhi aperti. Si tolse dalla mente l'immagine del cadavere i mbellettato; prefer portarsi dentro quella che lo aveva accompagnato nel suo viag gio e che - ne era certo - non lo avrebbe lasciato mai pi. L'immagine di un padre che non era perfetto come per tanto tempo gli era sembrato: ma che era stato gi usto, grande, saggio e bellissimo. Risent la sua voce ferma, quella che per tanto tempo aveva cancellato tutti i suoi dubbi: i dubbi che ora l'avrebbero accompag nato per sempre. Non sapeva se sarebbe riuscito a convivere con essi: ma valeva la pena di tentare, proprio per fare onore alla memoria di chi glieli aveva semp re risolti, s, ma gli aveva anche insegnato a non averne n paura n vergogna. Vedi, tu che leggi lo puoi constatare facilmente: il povero falegname era molto, molto pi bravo di me a raccontare parabole. La mia venuta tanto pi lunga delle su e, cos semplici e pregnanti. Chiss se sono riuscito a dirti quel che intendevo dir e: ma d'altra parte, se aspettavo di risolvere questo dubbio non avrei neppure c ominciato a scrivere. Ho avuto molta fede nel mio dio, finch l'ho sentito vivo, e sono ben contento di aver creduto in lui. Sono convinto che nella storia di ogni uomo la fede sia una tappa non solo utile, ma necessaria. Indispensabile, anzi. Non ce l'ho con quel li che non riescono ad andare oltre: credere non una colpa, come non un merito a ndare oltre la fede, o almeno provarci. Ho molto rispetto e mi sento molto vicin o a tutti quelli - forse ci sei anche tu tra loro - che si trovano nel mezzo: su quella soglia dolorosa d'angoscia che c' tra Dio e il dopo-Dio. Proprio perch ho rispetto per questa difficile condizione - paragonabile a quella di chi appena diventato orfano di un grande padre - non me la sento per di ingan narli dicendo loro che no, non morto ma solo addormentato o che partito per un p o' ma poi torna. quello che si dice ai bambini piccoli in questo genere di dolor osa circostanza; e in fondo giusto, sarebbe scioccamente e inutilmente brutale d ir loro la verit. Ma se sei abbastanza grande da essere arrivato a capire che cos

a significa la morte di Dio, mi pare ovvio che ti offenderei se cercassi di racc ontarti balle con la scusa di farlo - come ci siamo sentiti raccontare troppe vo lte - per il tuo bene. Io non so quale pu essere il tuo bene, ma so che provare a vederci chiaro non pu f arti male. Dal momento che gli occhi li hai, tanto vale provare a tenerli aperti , non ti sembra? Anche se c' cos poca luce intorno: e non sappiamo se solo l'alba o gi il tramonto. IV Se non c' una fede che ci basti o che ci convinca, dobbiamo dunque vivere da orfa ni. Ma vivere, dobbiamo proprio? L'uomo che scopre di non avere pi un garante finale, un dio su cui fondare le sue certezze ultime, si trova ad affrontare per prima questa domanda. Sono certo ch e te la sei posta almeno una volta. Chiedersi il perch della vita, se non pura re torica, equivale a chiedersi: voglio vivere o no? E chi si ritrova privo di una fede non ha niente e nessuno che gli imponga di rispondere affermativamente. Vivere non obbligatorio. Sono state dette e scritte milioni di parole contro il suicidio: banali o profonde, fanno tutte riferimento a un dovere di vivere, per se stessi ("non abbatterti, ce la farai") o per gli altri ("pensa ai tuoi figli, a me che ti amo, alle tue responsabilit di imprenditore, al partito che ha bisog no di te"). Qualche volta queste raccomandazioni hanno effetto: ed , mi sembra, l a migliore dimostrazione che l'aspirante suicida non aveva veramente l'intenzion e di andarsene. Aveva solo bisogno di un po' di sostegno, di incoraggiamento. Pe r contro, vi sono innumerevoli casi di persone che hanno lasciato volontariament e la vita a dispetto di ci che gli era stato detto da amici, da amanti pronti a t utto, da consiglieri spirituali muniti dei pi potenti artifici dell'eloquenza. Le religioni basate su una fede condannano il suicidio, il che perfettamente log ico: perch, se credi in un dio che sia davvero un Dio, la vita sua e non tua. A p arte la pena eterna nell'al di l, ti viene spesso fatto presente anche il deterre nt dell'esclusione dalle esequie normalmente riservate ai fedeli. prevista solo la scappatoia della cosiddetta incapacit di intendere e di volere, ovverosia che tu ti uccida perch ti ha dato di volta il cervello. C' una singolare incongruenza in questa minaccia di sanzioni per un credente che abbia coscientemente deciso di uccidersi: se lo fa, mi pare evidente che arrivat o a questa decisione perch niente - neppure la sua fede, quindi - lo convinceva c he vale la pena di vivere. Pi realista la legge di molti stati, che punisce il te ntativo di suicidio. Ma se uno ci riesce, lo lasciano ovviamente in pace: ormai fatta, lo stato ha perso un cittadino, e gli toccher anche spendere un po' di sol di per gli accertamenti d'uso. Una volta appurato che si sia suicidato davvero e che non sia stato, come suol dirsi, suicidato da qualcun altro - la partita c hiusa. Non c' nessun decreto d'infamia: se lo scomparso era persona illustre o be nefica, gli dedicano ugualmente una via o piazza o lapide sul luogo ove visse e oper. Oltre che per lo stato, uccidersi mi sembra perfettamente legittimo anche per la ragione. Se ci rifletti un po', ti accorgerai che si tratta della sola azione u mana alla quale si deve riconoscere una totale coerenza. In ci differisce dal sac rificio determinato della propria vita, compiuto da chi s'immola per una causa q ualsiasi. Si pu ammirare, giustamente, chi d volontariamente la propria vita per s alvare qualcuno - come accadde varie volte nel corso dell'ultima guerra mondiale , quando gruppi di ostaggi furono risparmiati perch ci fu chi si offr al loro post o. Ma nessuno pu rimproverare quelli che non hanno avuto il coraggio di compiere un atto cos eroico. Visto che non affatto facile essere eroi (se mai possibile), non proprio il caso di farne obbligo a nessuno. Anche nei casi in cui uno si sacrifica coscientemente non per qualcun altro ma p er un'idea, l'ammirazione comprensibile: ma la sua coerenza non assoluta. Se muo ri per affermare un'idea, ti si pu sempre obiettare che potevi provare a vivere p er essa. Si vedr dopo, magari, se ti sei davvero preservato per continuare a dedi carti alla causa o perch, invece, all'idea di morire te la facevi addosso: il che del resto abbastanza scusabile. Lasciamo dunque i casi particolari, e torniamo al suicida-suicida: quello del qu

ale ho detto che il suo gesto mi sembra perfettamente legittimo per la ragione, in quanto di coerenza totale. Ti spiego perch la penso cos. Il suicida, a mio pare re, uno che emette la pi inoppugnabile delle sentenze. Si uccide, infatti, perch implicitamente o esplicitamente - si ritiene incapace (o indegno) di vivere. Se lo era - nessuno lo pu sapere meglio di lui, e comunque nessuno ha pi diritto di lui a pronunciarsi in materia - allora non c' da stupirsi se ha pensato di toglie rsi di mezzo. So che il discorso appena fatto ti pu sembrare cinico, ma non lo . Probabilmente, se ti capitato di perdere in questo modo qualcuno che ti era caro, mi hai lancia to in cuor tuo una raffica d'insulti, perch ti sei sentito offeso nel tuo dolore. un dolore che ho conosciuto anch'io: e proprio per questo mi sono permesso di d irti quel che ti ho detto. Quando perdi qualcuno che amavi, la sua scomparsa ti lascia nell'animo un vuoto che niente e nessuno pu colmare, perch ogni essere umano unico e irripetibile. Nep pure il tempo, gran medico di ogni pena, riesce sempre a chiudere completamente la piaga, e comunque rimane una cicatrice. Se ti sei trovato in queste condizion i, sai che la ferita pi profonda e dolorosa quando colui o colei che ti ha lascia to ha scelto volontariamente la propria morte. Ma questo il tuo dolore, e affrontarlo un tuo problema. Chi se n' andato di sua v olont, ci avr certo pensato; a meno di un crollo, di un attacco di follia improvvi so e improbabile, non l'ha deciso in un istante. Forse il tuo volto stato il pri mo di quelli che ha passato mentalmente in rassegna prima di mettere in atto il suo proposito. O l'ultimo. Ci nonostante, ha preso la sua decisione. "Ma come, non valevo abbastanza per lui?" puoi dirti, o anche: "Non si figurato il dolore che mi dava?". S, molto probabilmente ci ha pensato: ha messo anche que sto su un piatto della bilancia, mentre sull'altro pesavano la sua paura o il su o disgusto per la vita, il suo senso di impotenza, la sua disperazione. La decis ione stata sua. Rispettala. Semmai puoi tentare di far in modo che il suo gesto non sia stato del tutto inutile, e il solo modo che hai rifletterci. Se ha decis o che non ti doveva niente, o almeno non abbastanza, allora puoi interrogare te stesso e mettere un po' d'ordine nella tua partita del dare e dell'avere. Servir a te, e forse anche a qualche altro. All'idea che vivere non sia obbligatorio ci puoi arrivare anche partendo da un'a ltra riflessione: che venire al mondo non dipende da un atto di volont. Nessuno h a detto ai propri genitori: "Voglio esserci anche io", e si ha sempre il diritto di rifiutare ci che non abbiamo voluto. Lo sanno benissimo tutti quelli che, con pi o meno cortese fermezza, respingono l'offerta di chi gli ha fatto pervenire u n oggetto qualsiasi accompagnandolo con l'abituale formula "lo provi con comodo, passer il nostro incaricato a riscuotere l'importo". Nessuno pu rimproverarti per il tuo rifiuto, se quel che ti hanno offerto ti semb ra troppo caro, o inutile, o pericoloso. diverso se invece ti comporti come fann o molti, che secondo i casi si regolano cos: - vogliono tenersi l'oggetto offerto ma senza pagarlo; - firmano il contratto ma poi pagano una volta s e una no, o addirittura una volta no e una no; - si tengono l'oggetto, fanno il bel gesto di regalarlo a qualcuno, poi vogliono farlo pagare a lui pur continuando a ripetergli quanto sono stati generosi; - accettano per pigrizia l'offerta, per guastano ripetutamente l'oggetto perch non sanno usarlo, chiedendo continue riparazioni (che pretendono del tutto gratuite ); - non capiscono le istruzioni per l'uso e scocciano chi gli capita a tiro perch m anovri l'oggetto al loro posto e quando fa loro comodo; - una volta in possesso di ci che hanno acquistato lo mettono in bella mostra e l o lucidano con cura, ma non lo usano mai; - maltrattano l'oggetto in ogni modo, e quando si guasta lo rabberciano alla meg lio con lo spago poi si lamentano della sua pessima qualit e resistenza; e cos via, senza dimenticare quelli che - a qualsiasi categoria appartengano - a un certo punto buttano via l'oggetto senza pensare a ci che vale n a quanto lo han no pagato (o fatto pagare da altri). Mi sembra sensato osservare che nessuno di questi comportamenti merita di essere apprezzato; quelli che si comportano in uno dei modi suddetti potrebbero evitar

e di fare la figura dello stupido o del disonesto o del rompiscatole se soltanto si limitassero, come del resto loro diritto, a declinare l'offerta. Con la vita lo stesso. Se alla fine del periodo di prova - che di solito non bre ve, e per il quale si possono ottenere abbastanza facilmente delle proroghe - no n sai che fartene, non c' modo di obbligarti ad accettarla. Io non ci provo neppu re. Non ti dir, come fanno gli imbonitori da fiera, che si tratta di una favolosa offerta speciale, assolutamente da non perdere. Per dirtelo, dovrei esser certo di poterle dare questo eccezionale valore, con un giudizio inoppugnabile. In ba se a che cosa? Mi ci vorrebbe un criterio di certezza: ma non ci sono pi certezze , come si visto. Per la stessa ragione, tuttavia, non posso neppure farti un discorso da pessimis ta assoluto: non ho niente in mano per affermare con totale certezza che la vita uno schifo, una truffa, una cosa senza senso. Sai, quelle cose che dicono i dep ressi quando entrano in una crisi particolarmente acuta. Forse le hai pensate an che tu, almeno per un momento, quando ti capitato un periodo difficile. Mi meraviglierei, anzi, se non ti fosse mai successo. Chi non ha mai conosciuto la pena del vivere un uomo a met. Il suo pi efficace ritratto costituito dalle tre famose scimmiette che si vendono ancora nei negozi di cianfrusaglie: una non ve de, una non sente, una non parla. Dovrebbero costituire, nell'intenzione di chi le ha concepite, un'allegoria della formula perfetta per non avere guai e vivere tranquilli. Mi sembrano, piuttosto, il simbolo di come dovremmo essere tutti pe r far contenti i mafiosi di ogni genere: un gregge beota che va disciplinatament e dove i potenti lo spingono. Se non ti senti rappresentato dalle tre scimmiette, se non sei un essere umano d imezzato, sai dunque che cos' la pena del vivere. Ma sai anche di non poter affer mare con certezza assoluta che la vita sempre e soltanto pena, tristezza, fallim ento, vuoto e noia. Se tu avessi raggiunto questa conclusione non saresti qui a leggere: avresti fatto gi da tempo quella scelta che, ripeto, la ragione non pu co ndannare perch vivere non , in nessun caso, obbligatorio. Chi vuole andarsene se ne va, e nessuno ha il diritto di dirgli "no, non devi". Si pu, semmai, osservare il contrario: e cio che di una quantit di persone non si c apisce proprio come mai non si siano ancora decise a compiere il cosiddetto gran passo. Se tutti coloro che ho paragonato a cattivi utenti di un prodotto si dec idessero una buona volta a fare un chiaro bilancio della loro esistenza e ne tra essero le dovute conclusioni, il problema della sovrappopolazione ne risulterebb e risolto per un pezzo. Non scherzo affatto, sai. Nell'esempio che ho fatto a pagina 38, ho compilato un a lista di comportamenti umani piuttosto lunga: e credo siano moltissimi coloro che almeno una volta si sono meritati di esservi inclusi. Io non mi sento propri o di fare eccezione; e probabilmente anche tu - se torni indietro e rileggi atte ntamente la lista - ti accorgerai di esserti comportato qualche volta in uno dei modi che ho sommariamente descritto. Che diamine, pu capitare; non il caso di sc andalizzarsi n, tantomeno, di pronunciare condanne se ogni tanto qualcuno si comp orta - diciamo cos - da cattivo utente della vita. Se per ti accorgessi di esser stato sempre un cattivo utente della vita, e hai la ferma convinzione di non riuscire mai, proprio mai a fare altrimenti, allora un altro paio di maniche. Pensaci un po' su. Anzi, guarda, ti faccio una proposta. Smetti di leggere e rifletti bene su quest o argomento: non per cinque minuti, ma almeno per un giorno intero. Se domani un giorno feriale, telefona che hai il mal di testa e non andare al lavoro: non be llo ricorrere a questo trucco per una sciocchezza, ma per un problema cos importa nte penso che ti puoi permettere anche una lieve scorrettezza lavorativa. Fai lo stesso anche se domani festa e avevi preso accordi con qualcuno per andare a fa re una gita. Inventa una scusa per non offenderlo, vai da solo a fare una lunga passeggiata e rumina su questa faccenda. Potresti arrivare alla conclusione - e nessuno potrebbe contestartela - che non vale la pena di andare avanti. Che megl io chiudere il libro e col libro la tua partita. Senza fedi n certezze non ci son o neppure obblighi: e il primo al quale hai il diritto di rifiutarti quello di v ivere.

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V Vedo che sei ancora qui. E siamo almeno in due perch ci sono anch'io. Ti toccher s opportarmi per un altro bel po' di pagine, posto che tu ne abbia voglia - come h ai voglia, a quanto sembra, di non anticipare il momento in cui darai il tuo add io a questa "bella d'erbe famiglia e d'animali", come la defin in un felicissimo verso Ugo Foscolo. Lo stesso poeta - e non credo proprio che sia un caso - seppe descrivere in modo splendido, nel romanzo Jacopo Ortis, l'itinerario di un giov ane verso il suicidio. Era uno che di vita se ne intendeva, evidentemente. Certo, pu darsi che siano passati solo pochi secondi da quando hai finito il capi tolo precedente, e che tu non abbia ritenuto opportuno accettare la mia proposta . Pu averti spaventato, o sconcertato; forse l'hai ritenuta balzana; magari, semp licemente, non hai pensato che facessi sul serio. Sono fatti tuoi. Una cosa cert a: che sei qui, se mi stai leggendo. Ecco, vedi, ho detto "una cosa certa". Ho espresso una certezza, e pu darsi che t i sia venuto da pensare: "L'ho beccato in castagna, questo qui. Prima dice che n on ci sono pi certezze e poi ne enuncia una". Ma non cos. Forse non sono stato abb astanza chiaro, quindi torno a spiegarmi meglio: perch se uno scrive qualcosa ha il dovere - non il diritto - di farsi capire. Ma mi sembrava di aver esposto con sufficiente chiarezza il concetto che non esistono certezze finali, ultime, def initive, come sono quelle garantite dalla fede in un dio o in qualcosa che lo eq uivalga. Possono invece esistere certezze iniziali, limitate: sulle quali ci si pu forse basare per andare avanti. Torna un momento, per favore, alla definizione di certezza che ho preso dal voca bolario. Non a caso, l'esempio cui si ricorre per illustrare la prima definizion e ("condizione di ci che certo, sicuro, assodato") "la certezza di un fatto". E c he tu sia vivo, per l'appunto, proprio un fatto. Se poi ti riferisci alla second a definizione di certezza, e al collegamento con la prima (che ho messo in evide nza nel paragrafo seguente), ti accorgerai che non hai bisogno di nessun garante per entrare nello "stato mentale" di certezza a proposito dell'esser vivo. Il p rimo garante della certezza di esser vivo sei tu, e solo tu. Vedi, ora, perch forse non era tanto balzana la mia proposta di meditare sull'opp ortunit di continuare a vivere - dopo aver messo in chiaro che non ne hai alcun o bbligo? Se ci hai riflettuto seriamente, senza cercare di prenderti in giro, e c i nonostante sei qui che mi leggi, allora possiamo aggiungere qualcosa alla tua p rima, basilare certezza di esser vivo. Possiamo dire che sei vivo perch ti va di esserlo - o almeno, senza strafare con l'ottimismo, perch c' qualcosa che ti imped isce di prendere la decisione di rifiutare la vita. Che cos' questo qualcosa? Pu e ssere, semplicemente, la paura di morire. Chi ha una concezione eroica dell'esis tenza considera con disprezzo questa paura: ma poich, come ho gi detto, neppure es sere eroi obbligatorio, nessuno pu essere accusato di aver paura di morire. Invec e di darne un giudizio moralistico preferisco cercare di analizzarla, di capirci qualcosa. Ti va di provare a seguirmi con un po' d'attenzione? Se tutto ti appa re nero, se la vita non ha per te alcuna attrattiva, se davvero la sola - ripeto : la sola - ragione per cui non ti uccidi la paura, non credo che ci sia da scan dalizzarsene. Non sentire questa paura come un'ulteriore colpa, che ti aggrava a ncor pi il peso della vita. Chiunque - medico, prete, psicoterapeuta, o semplicem ente un amico pronto a offrire comprensione - raccolga le confidenze di una pers ona depressa, sa che molto spesso salta fuori questo discorso. "Ecco, vedi" dice l'afflitto, "non ho neppure il coraggio di farla finita. Mi faccio schifo, guar da, proprio schifo". Da cui, nuovo motivo di depressione e nuova gatta da pelare per il consolatore. chiaro che escludo il caso - voglio proprio sperare che non sia il tuo - in cui questo discorso sia fatto con palese autocompiacimento e con lo scopo evidente d i appioppare al confidente il peso delle proprie pene. In circostanze del genere (mi capitato, qualche volta) la cosa migliore da fare mollare di colpo il sogge

tto in questione, dicendogli: "Mi dispiace per te. Ti auguro di avere il coraggi o di farlo, perch anche a me sembra proprio che non ci sia altra scelta". Se per n on sei un piagnone professionista, se - come ho ipotizzato fin dalla prima pagin a - sei uno che cerca di fare qualcosa di fronte ai problemi che la vita gli pon e, allora si pu continuare il discorso. Se proprio sei vivo solo perch non hai il coraggio di farla finita, ti ripeto che non il caso di vivere questa paura come una colpa o un disonore. In base a che cosa puoi emettere un giudizio negativo? Qual il criterio? L'argomento cos grosso - il pi grosso che ci sia, quello fondamentale - che per emettere un giudizio ti ci vorrebbe, ora s, una bella certezza assoluta. Ma non ne abbiamo pi. Non ti dico, per, che purtroppo non ne abbiamo pi. Questo invece uno dei casi in c ui puoi cominciare ad accorgerti che non avere pi certezze assolute una condizion e non necessariamente negativa. Ti consente infatti, se non altro, di stare di f ronte a ogni elemento di realt - in questo caso, la tua paura di morire - senza l e pastoie di pregiudizi di alcun genere. Allora ti propongo di vedere le cose da un'altra angolazione. un procedimento va lido in molti casi, e in modo particolare tutte le volte che si verifica una cos iddetta impasse cio una situazione di stallo, di blocco. Nel linguaggio comune, c ambiare angolazione viene spesso definito "voltare la frittata", e in genere l'e spressione ha un significato dispregiativo, peggiorativo. Ti sar capitato di dire , o di sentir dire: "Inutile voltare la frittata, tanto il problema sempre quell o". Certo che sempre quello, ma se sei tu a muoverti rispetto a esso, forse puoi scoprire - dal nuovo punto di vista - che c' un modo diverso di affrontarlo. Nel caso della paura di morire, invece di puntare la tua attenzione su un elemen to - la paura, appunto - che solo una convenzione socialmente accettata ci ha ab ituati a considerare negativo, prova un po' a vedere cosa succede a voltare la f rittata. Se hai paura di morire, vuol dire che c' in te qualcosa che ti spinge a vivere: u na constatazione abbastanza elementare. Non preoccuparti, per ora, di definire p i precisamente questo qualcosa: ma c'. Si tratta - anche stavolta - di un fatto, d el quale puoi esser certo senza garanti. Accettalo. Sei qui e sei vivo, cio ti tr ovi in una condizione definibile in mille modi diversi (sono secoli che pensator i, scienziati e poeti ci si arrabattano) ma che comunque inequivocabile - almeno in prima approssimazione. In tempi recenti il dibattito su ci che si debba intendere col termine "vita" sta to seguto anche dal grande pubblico, in conseguenza dei progressi della medicina nelle tecniche di rianimazione. Se uno ha l'encefalogramma piatto ma gli batte a ncora il cuore, vivo? Chi ha il diritto di staccare la spina dei complicati appa recchi che lo mantengono nello stato attuale? Quando si pu definire irreversibile l'arresto di una funzione vitale, e quali funzioni sono in assoluto vitali? tutto molto interessante, ma in questo momento non penso che ci riguardi. Il lim ite di approssimazione col quale puoi affermare di esser vivo piuttosto largo, s e mi stai leggendo. Forse hai qualche difficolt fisica, magari anche grave: come esser chiuso in un polmone artificiale, o aver bisogno della dialisi, o stare im mobile in un letto per una causa qualsiasi. Forse non sei tu a leggere queste pa role ma qualcuno legge per te, perch non puoi vedere. Se sei in un guaio di quest o genere, voglio vedere chi ha il coraggio di accusarti di non essere un eroe ch e soffre in nobile silenzio. Un accidente. Per sei vivo, e non ti va di rinunciar e a questa condizione. un fatto, ed certo. Bella scoperta, mi dirai. Hai ragione: ma non sottovalutare una considerazione s olo perch ti sembra ovvia. Viviamo in una societ che da molto tempo ha fatto della novit un valore, anzi uno dei suoi valori base: quel che viene presentato come " nuovo" assume per ci stesso un carattere positivo - si tratti di un detersivo per piatti, di una dottrina per il raggiungimento della cosiddetta felicit o di un p rogetto politico. Paradossalmente, presentato come una novit - una eccitante novi t - anche il ritorno all'antico: artificio col quale si recupera al culto nella n ovit una gran parte di coloro che del nuovo a tutti i costi cominciavano ad avere le scatole piene. Questa corsa affannosa al sempre pi nuovo ha fatto s che si consideri con sufficie nza e quasi con commiserazione tutto quel che nuovo non . Uno dei termini pi usati

per definire ci che non appare abbastanza nuovo per esser degno di considerazion e appunto la parola "ovvio". Ma tu prova a voltare anche la frittata dell'ovviet. Prova a riflettere anche su cose date per ovvie: a volte, capita di arrivare a risultati interessanti. A delle vere novit. Newton, si dice, cominci a ruminare sul fatto che gli era caduta in testa una mel a: fin coll'enunciare la legge della gravitazione universale. Eppure, che le mele non restino perennemente attaccate ai rami dei meli una cosa ovvia, superovvia. Lo si era sempre saputo. Oppure, eccoti un altro esempio, che non ha a che fare con la scienza ma con i sentimenti umani. Diciamo che tu ami ma non sei riamato . Ne soffri, ovvio. Ma l'ovviet del tuo dolore non lo diminuisce; n l'astenerti da l riflettere su questa tua pena per il solo fatto che ovvia ti fa capire qualcos a di pi su te stesso, su lui (o su lei), sull'amore. Sempre che t'interessi, cert o. Ora, ti interessa capire qualcosa della tua vita? Di chi sei, di che cosa ci stai a fare in questo caos in cui cos difficile orizzontarsi? Allora mi permetto di darti proprio questo suggerimento: di riflettere sulle cose che sembrano pi ov vie. In questo libro non troverai nessuna ricetta nuova; non l'ho intitolato "Co me scoprire tutto della vita" o roba del genere. Mi accontento di suggerirti di voltare qualche vecchia frittata, di invitarti a riflettere su qualche ovviet com e il fatto - peraltro assodato, come si visto - che ti trovi in questa avventura chiamata vita e non ti va di uscirne. Almeno, non per ora. un fatto che il sangue ti scorra nelle vene; che ti volti di colpo se senti un r umore improvviso; che provi quel certo effetto quando vedi una bella figliola o un bel figliolo, secondo i casi (e i gusti); che provi rabbia, noia o paura - o che scoppi in una risata anche se non ne avevi voglia, eccetera. Cos come va adesso, questo fatto del vivere magari non ti va - o almeno ti va poc o; per lo constati e, si visto, non lo rifiuti. Rifiuti invece, irresistibilmente , il suo contrario: altrimenti non saresti qui. Ecco, vedi, forse si pu azzardare un'altra affermazione; stabilire un'altra - piccola, ma netta - certezza. Sei u na creatura che dice di no. A che cosa? E perch? VI Penso di avere una risposta alle domande con le quali si chiude il capitolo prec edente. Naturalmente ti ricordo che sono le mie risposte, e che fai bene - come ti ho detto fin dall'inizio - a non fidarti. Non te le propongo dicendoti che so no LE risposte: non sono del tutto certo che lo siano neppure per me. O meglio, sono dell'opinione che adesso queste risposte, come altre, siano complessivament e soddisfacenti: ma non escludo, in futuro, di poterne trovare altre migliori o anche, cosa molto importante, di trovare altre domande. La sola cosa di cui posso dirmi certo - moderatamente, almeno - che non cambier i l metodo di cui mi servo per trovare risposte alle domande che via via mi vado p onendo. Non un metodo che abbia senso enunciare in una formuletta, quindi te la risparmio. molto pi semplice che lo applichi praticamente, man mano che vado avan ti nel discorso che ti propongo. La riflessione su se stessi e sulle cose - in u na parola, la filosofia - non pu portare a dimostrazioni inoppugnabili, obbligant i, come sono quelle della scienza. Io ti posso dimostrare il teorema di Pitagora , o l'origine batterica della tubercolosi, in modo tale da obbligarti a condivid ere le mie conclusioni (cio, in parole povere, in modo tale che puoi considerarti ufficialmente stupido se non hai capito). Ma non ho modo di costringerti ad acc ettare le risposte che do a certe domande - neppure a quelle che penso di condiv idere con te. Posso solo dirti come vedo le cose, poi fare appello alla tua capa cit di entrare in sintonia con me. Questo un argomento che considero molto import ante, e credo che valga la pena aprire una parentesi per parlarne un po'. Propri o puntando su ci che ho appena chiamato sintonia ho deciso di scrivere questo lib ro. Vedi, io sono arrivato ad avere una mia visione del mondo, della vita, e con seguentemente a dare risposte che considero sensate - o almeno, pi sensate di que lle standard - ad alcune domande fondamentali. So di essere stato molto fortunat o ad avere il tempo da dedicare a queste riflessioni, e di appartenere a una cat egoria privilegiata per il solo fatto di aver ricevuto dalla vita alcuni degli s trumenti culturali necessari, i pi indispensabili. Ma non sono un marziano, n un genio, n mi considero illuminato da un ipotetico Spi

rito Superiore. Sono uno come tanti. Quindi, le cose che sono venute in testa a me devono esser venute in testa anche a molti altri, compreso tu che mi leggi: o almeno, penso ti possa esser venuto il sospetto che riflettendo su certi argome nti si possa arrivare a qualche conclusione. Ecco, io spero che leggendo tu ritrovi, in quello che ti dico, qualcosa che anch e a te capitato di pensare, o di intuire pi o meno chiaramente. Non siamo in tant i, sai: sempre stato caratteristico di una minoranza l'interesse ai grandi temi di fondo, alle grandi domande dell'esistenza. E oggi, a questa situazione di sem pre si aggiunto un fatto nuovo e grave. Viviamo in un mondo dissennato, allucina to, schizoide, in cui la gente ha soprattutto paura di pensare; e questa paura p reme sul cuore degli esseri umani che la morte di Dio ha lasciato soli. facile, allora, il gioco di tutti coloro che ti dicono: "Ma cosa stai a pensare a questi problemi! Tanto non ne verresti mai a capo. Vai sul pratico, piuttosto: guarda, ecco qui un metodo garantito per ottenere questo e quello. E comunque, non perd ere tempo con le farfalle filosofiche se vuoi cavartela in questo casino". Tu lo sai che non cos. La pressione esercitata su di te dall'ambiente talmente fo rte, il baccano della massa cos assordante, che puoi esser preso dal sospetto di avere le traveggole. Ma nel frastuono della folla che si prende a spintoni, grid a, tiene al massimo le radioline e corre dove la indirizzano gli altoparlanti de l potere, ti accade sempre pi spesso di sentir echeggiare nell'orecchio una casca ta di suoni. Un motivo semplice ma pieno, profondo. E non sei il solo a udirlo: nel mezzo della folla ce ne sono altri che lo odono, e qualcuno che se ne reso c onto comincia anche a canterellarlo tra s. C' persino qualche matto che tira fuori uno strumento qualsiasi e ce lo suona, o se non altro prova a suonarlo - magari con qualche stecca. Io sono semplicemente uno di questi. Suono la mia ocarina - non ho avuto modo di imparare uno strumento pi nobile - per due ragioni. La prima che questa musica m i piace: ho capito che non un'allucinazione, e che in qualche modo tradirei me s tesso se non la suonassi. L'altra ragione che so che mi ascolti: e mi piace l'id ea che tu scopra qualche assonanza tra il motivo della mia ocarina e quello che ti risuona nella testa. Non ho niente da insegnarti, non voglio che tu impari il mio motivo e lo ripeta a pappagallo - anche se il mio e mi piace, finch non decider di cambiarlo. Quel ch e vorrei che tu non scacciassi il tuo dalla tua mente; e che tu imparassi a suon arlo, a modo tuo e con lo strumento che hai a disposizione. Se poi risulter che i due motivi si assomigliano e si armonizzano, sar bello sentirsi parte di uno ste sso concerto - alla faccia dello strido che ci bombarda da tutt'intorno. stata un a parentesi piuttosto lunga, questa sulla sintonia - o simpatia, come vuoi. Cred o che ci torner su, andando avanti, perch secondo me una cosa molto importante. Se ora smetto solo per riprendere il discorso: il quale, da parte sua, aveva forse bisogno di essere interrotto per un po', altrimenti correva il rischio di diven tare troppo duro. Proprio perch parlare delle cose che contano impegnativo, ogni tanto bisogna concedersi una sosta: in caso contrario pu succedere che si finisca col perdere il senso delle proporzioni - che il modo migliore per finire aggrap pati a una bella Certezza. Stavo parlando di rifiuto della morte: quel rifiuto che sta al fondo dell'esser vivi anche quando la vita ci costa pena, angoscia, rabbia. Abbiamo gi visto che c hiamare questo rifiuto "paura" non serve a niente. Non aggiunge nulla a quel che gi sai, e cio che non ti va di morire. Vediamo allora se c' il modo di andare un p o' pi a fondo, di dare una spiegazione di questo rifiuto - cio di costruire uno sc hema mentale un po' pi ampio nel quale inserirlo. Io penso che un modo ci sia, se invece di riflettere sulla morte come fatto rifl etti su quello che pu essere il suo significato. Mi spiego con un esempio. Ti rif iuti al fatto che domani sorger il sole, come sorto ieri e oggi? Penso di no: se non altro per l'elementare constatazione che sarebbe inutile, il sole non terreb be in alcun conto il tuo rifiuto. Eppure, pu darsi benissimo - soprattutto in particolari occasioni - che tu avvert a una prepotente avversione per l'avvento di un nuovo giorno. facile accorgersi, in casi del genere, che non il sorgere del sole in s - come fatto, appunto - a s uscitare il tuo rifiuto. piuttosto ci che esso significa - ad esempio che devi in

contrare una persona sgradita, o semplicemente che devi continuare a fare un lav oro dal quale ricavi poca o nessuna soddisfazione. Nessuna persona di buon senso , insomma, rifiuta un fatto in quanto tale, dal momento che - per definizione, e ssendo un fatto - inoppugnabile. Quel che rifiutiamo semmai il significato di un fatto: dove la parola "significato" va semplicemente intesa come "il segno di". Nell'esempio del paragrafo precedente, la luce che comincia a filtrare dalla fi nestra il segno dell'approssimarsi di un momento sgradito. Per questo le mandi q ualche accidente, non perch la luce in s ti possa essere sgradita. C'. Anche la morte c'. Sai che un giorno dovr arrivare, quindi del tutto inutile darsi pena per qualcosa che appare inevitabile. sostanzialmente a questo ragionamento che ricorrevano alcuni antichi filosofi - come Seneca, che non si limit a scrive re grandi pagine su questo argomento ma dette prova di molta serenit nell'affront are la propria fine. Altri filosofi cercavano di dimostrare che non si deve aver paura della morte, e per infondere coraggio ricorrevano anche a un altro argome nto. Dicevano che la morte in realt non esiste: come un confine, al di qua del qu ale non sai cosa ti aspetta e quindi non hai motivo di averne paura - e una volt a passati di l, non sei pi in grado di aver paura di nient'altro. Lo so che non ti torna, e hai ragione. Se argomentazioni di questo genere non ti bastano, e ti appaiono poco pi che abili giochi di parole, prova allora a voltar e la frittata. Io ci ho provato e sono arrivato a fare qualche considerazione, c he qui ti espongo. Rifiutiamo la morte perch essa rappresenta una totale dismisur a. Non commensurabile con niente: uno dei paragoni pi usati sempre stato quello c ol sonno, ma patetico nella sua inadeguatezza. Altro che sonno, visto che non c' risveglio. per questo che non si riesce a spiegare la morte ai bambini, che nell a loro sublime concretezza non afferrano l'idea. Se un bambino ti chiede che cos ' il sole, gli puoi dire che come una grande lampada; se ti chiede - senza averla mai vista - che cos' la neve, gli puoi dire che una specie di farina fredda. Un giorno arriver a capire cosa sono davvero, e sorrider dei paragoni: ma non ti dir " mi hai ingannato". Anzi, dovr riconoscere che quei paragoni lo hanno indirizzato bene, avvicinandolo a concetti-base sostanzialmente appropriati (luce, calore, b ianchezza, freddo). Ma non puoi spiegare la morte a un bambino con un'immagine che ne colga l'essenz a, l'aspetto sostanziale: neppure in parte, come nel caso del sole-lampada o del la neve-farina. Se gli dici che come il sonno, quando arriver a scoprire la morte e a rifletterci sopra vedr che il paragone non reggeva. E sar lo stesso se gli pa rli di un lungo viaggio. La morte non pu essere paragonata che a se stessa: la sua dismisura totale - come del resto totale anche la sua certezza, la sola che possiamo davvero proclamare come assoluta. Ecco, io credo che sia questo significato della morte, ci che rif iutiamo. La sua assoluta certezza, la sua totale dismisura danno luogo a una sit uazione che ben merita il nome di assurdo. Ci troviamo, infatti, di fronte alla sola cosa che possiamo dare per certa, e nello stesso tempo gli opponiamo il nos tro no fin dalla fibra pi segreta di ci che siamo: creature vive e che sanno di es serlo. per reagire a questa situazione assurda che gli uomini hanno cercato - e cercano tuttora - conforto nella fede. Perch proprio la fede, ci si pu chiedere: e la ris posta, penso, sta nel fatto che solo nella fede, come nella morte, ci sono insie me certezza e dismisura. Credo quia absurdum (credo perch assurdo) proclam Tertull iano, uno dei grandi teologi che furono detti Padri della Chiesa. In un certo qual modo, aveva perfettamente ragione. Ma non ha molto senso contra pporre assurdo ad assurdo, non si annulleranno mai a vicenda - e anzi, l'uno ric hiama l'altro in una tensione che pu anche raggiungere vette esaltanti ma dilania l'uomo, stravolge la prospettiva in cui egli finisce per vedere la vita. Cos, no n mi sembra un caso inspiegabile che tanto e tante volte, nella storia, in nome di una fede la vita di innumerevoli esseri umani sia stata offesa, spenta, svili ta. Diversamente dalla morte, la vita incertezza e misura. Non assurda proprio perch non ha niente di assoluto. un evento altamente improbabile, una trascurabile irr egolarit nell'ordine immobile dell'universo che conosciamo, anche se - come molti hanno ipotizzato - ci fossero altre migliaia di pianeti con una qualche forma d

i vita. Se i luoghi della vita fossero anche milioni, o se al contrario da nessu na parte esistesse una qualsiasi forma di vita, costellazioni e nebulose continu erebbero a procedere nel tempo e nello spazio senza tenerne alcun conto. Sulla Terra, l'humus - lo strato fertile in cui possibile la vita della "bella d 'erbe famiglia e di animali" - una minima, appena percettibile frazione dello sp essore del pianeta. Gli stessi oceani nei quali si formata la vita terrestre, e che ci appaiono cos profondi, sono poco pi che chiazze di umidit: lievi macchie d'a cqua sul volto della Terra. Pensa a un grosso pompelmo, su due terzi del quale s i sia depositato un velo di rugiada che non arriva a un decimo di millimetro: fa tte le proporzioni, eccola l la cosiddetta culla della vita, della nostra vita. Stesa come un sottilissimo velo sul volto impassibile del nostro pianeta, la vit a anche estremamente labile: basta una piccola variazione ed costretta a cedere. Un essere umano resta in vita finch la sua temperatura si mantiene stabile in un intervallo di pochi gradi. Lo stesso per quanto riguarda la pressione. Non parl iamo, poi, di quanto poco basta per porre fine - con quantit infinitesimali di al cuni semplici prodotti chimici - alle migliaia e migliaia di reazioni che in ogn i istante ci mantengono vivi e coscienti di vivere. Eppure, questo fragile evento cos tenace; e fra tutte le creature che ne sono par tecipi, l'uomo forse la pi tenace. Siamo la sola specie - a parte, credo, i batte ri - che sia stata capace di adattarsi a tutte le condizioni ambientali della Te rra, dai deserti ai poli. Affrontando ogni volta una nuova incertezza, spingendo ogni volta pi in l la nostra misura. VII Nel 1927 un giovanissimo scienziato tedesco, il fisico Werner Heisenberg, enunci un principio oggi considerato fondamentale: il principio di indeterminazione. No n possiedo abbastanza scienza fisica per spiegartelo esaurientemente, per credo d i essere riuscito a rendermi conto di che cosa significa e penso che costituisca un buon argomento di riflessione. Se ne sai gi qualcosa, non te la prendere: cer cher di essere breve. Comunque, ti sar utile confrontare quel che dico con quel ch e sai gi, sempre in base al criterio per cui fidarsi alla cieca di qualcuno non s erve a farsi delle idee chiare. Il principio di indeterminazione di Heisenberg dice, in sostanza, che c' un limit e invalicabile alla precisione con cui si possono misurare tutti gli aspetti di un fenomeno, cio averne una conoscenza completa. Se riesci a misurare alcune gran dezze con la precisione che desideri, non puoi raggiungere la stessa precisione nel misurarne altre. Heisenberg arriv a questo principio partendo da un esperimento che aveva una cara tteristica molto particolare: non aveva bisogno di utilizzare alcun apparato, al cun strumento, fatta eccezione per un po' di carta e una matita (oltre, naturalm ente, alla materia grigia del giovane Werner). Era uno di quelli che si chiamano "esperimenti pensati", e che non sono rari nella storia della fisica. Heisenber g se ne serv per dimostrare che non possibile conoscere contemporaneamente la pos izione e la velocit di un elettrone: qualunque radiazione si usi per renderlo vis ibile in un certo istante , per cos dire, troppo grossa. Un po' come se uno cercas se di colpire al cuore una mosca con una pistola calibro 38: essendo la pallotto la pi grande di tutta la mosca, anche chi centra l'insetto non sapr mai se lo ha c olpito proprio al cuore. La conclusione valida per il caso dell'elettrone si dimostr valida anche in gener ale: sempre, naturalmente, quando sono in gioco questioni di fisica delle partic elle, cio faccende che si verificano sull'infinitesimale scala di grandezze usata in questi casi. Se il problema invece, come si usa dire, su scala macroscopica - se, per esempio, si deve misurare contemporaneamente posizione e velocit di un oggetto abbastanza grande, come un sasso scagliato in aria - non ci sono diffico lt. Fine della spiegazione alla buona. Potevo dirti che il principio di indeterminaz ione una verit della scienza, dimostrata matematicamente, anche se non ho idea di come (dovrei sapere di matematica molto, anzi moltissimo pi del poco che so). Ma non volevo proporti di accettare questo principio senza critica, facendone un a rticolo di fede.

Il problema da cui siamo partiti proprio quello di non ricorrere a nessuna fede, neppure travestita da scienza. Quel che voglio proporti, pi limitatamente, di te ner presente il principio enunciato da Heisenberg, facendone l'uso che bene fare di ogni principio: servirsene per capire qualcosa, abbandonandolo non appena ve di che non ti fa fare passi avanti nella comprensione di ci che ti interessa. un argomento, questo dei princpi, che merita molta attenzione, e te ne parler anco ra: ma non basta una parentesi, neppure lunga. Quindi torniamo all'indeterminazi one, e vediamo se questo principio pu esserci utile anche in occasioni diverse da ll'indagine fisica. Se pu servirci per capire di pi sulla nostra vita e fornirci u n'indicazione su come viverla. Io penso di s, ed proprio a questo problema che mi riferivo quando ti ho detto, all'inizio, che a mio parere la prima risposta opp ortuna a qualsiasi domanda "beh, dipende". Qualsiasi problema umano un problema di misura, e per misura intendo due cose. A nzitutto l'atto del misurare, cio del confrontare con un termine di paragone. Se dico che un sacco pesa 48 chili, ci significa semplicemente che confronto il sacc o con un oggetto al quale stato dato convenzionalmente il valore di un chilo in termini di peso, e il rapporto tra il sacco e l'oggetto risulta essere 48:1. Se il sacco in questione pieno di sabbia, per la pesatura sar sufficiente una bilanc ia abbastanza grossolana, in quanto non fa gran differenza se i chilogrammi sara nno 48 piuttosto che 47 o 49; le cose invece cambiano se il contenuto costituito da qualcosa di maggior valore, nel qual caso sar richiesta una bilancia pi esatta . Ma la parola "misura" ha anche un altro significato. quello che le attribuiamo, per esempio, quando diciamo "comprtati con misura" o protestiamo contro un'ingius tizia dicendo "ora basta, si passata la misura". Con questo termine, cio, indichi amo un valore, qualcosa di cui non possiamo non tener conto se vogliamo mantener e il rispetto di noi stessi. Di questa affermazione di valore c' una traccia anch e nella saggezza spicciola di alcuni modi di dire: "il troppo stroppia", e anche "il meglio nemico del bene". Nella loro semplice immediatezza, queste sentenze popolari sono in fondo una specie di edizione divulgativa del principio di indet erminazione. Invitano a tener presente quel valore fondamentale che la Misura (1 ): il valore che a mio parere, come ho cercato di dire nel capitolo precedente, intrinsecamente legato all'evento chiamato vita, mentre totalmente assente nella morte. Per questo ho detto che esser vivi significa, anzitutto, rifiutare l'assurda dis misura della morte: e poco importa se questo rifiuto si esprime tramite un senti mento, la paura, che le convenzioni sociali ci hanno abituati a considerare nega tivo. Non tutti, per fortuna, sono di questo parere: Elogio della fuga si intito lava, provocatoriamente, il bel libro scritto da Henry Laborit - lo scienziato f rancese che, oltre a essere un famoso ricercatore, stato anche un appassionato d ivulgatore; e ventisette secoli fa Archiloco, il delicato e ironico poeta greco, vantava scanzonatamente la sua gioia di esser vivo grazie al fatto di aver moll ato il suo pesante scudo in battaglia per fuggire pi velocemente. Un eroe morto i n meno e un grande poeta vivo in pi: non ci ha guadagnato solo Archiloco, ci abbi amo guadagnato tutti. Ora, vedi, non penso sia un caso che il termine "misura" a bbia i due significati cui ho accennato. C' un evidente legame: nel senso che si applica coerentemente la Misura (intesa come valore) scegliendo volta per volta la misura (intesa come strumento e come tecnica della valutazione) pi adatta alle circostanze. Questa scelta il problema che la vita ti mette davanti ogni giorno . Intrisa com' di incertezza, richiede Misura: e tanto pi la richiede, proprio per ch nessuna misura pu esser considerata esatta in assoluto. Come suggerisce il prin cipio di indeterminazione. Per questo, penso, arriva il momento in cui un essere umano rifiuta le certezze delle fedi. Se ti riuscito di crescere, di spingere avanti la tua consapevolezza di te stesso e del mondo, la vita ti appare troppo complessa per poter operare le tue scelte quotidiane in base a princpi assoluti. I comandamenti delle fedi, c on la loro netta separazione di giusto e ingiusto, sono tragicamente inadeguati. "Onora il padre e la madre", tanto per fare un esempio: davvero? Anche se tua m adre gestisce una casa di appuntamenti? Anche se scopri che il tuo caro pap traff ica in droga o in armi?

I comandamenti delle fedi giustificavano la loro assolutezza con quella che ho c hiamato la catena di S. Antonio delle certezze, la quale finiva in un dio o in u n equivalente principio assoluto. C' sempre stato qualcuno che li ha contestati, per, perch c' sempre stato qualcuno che ha riflettuto pi degli altri e si accorto ch e si pu risalire la catena all'infinito. Non solo la ragione, tuttavia, che oppone il suo "no" a ogni pretesa di assoluto , in quanto assurdo. Anche il sentimento, il cuore, la passione gridano contro o gni pretesa di stabilire con assoluta sicurezza il giusto e l'ingiusto. Pensa ad Antigone, la meravigliosa eroina di Sofocle: il personaggio in cui forse si esp rime al suo punto pi alto il senso della Misura. (Nella civilt occidentale, allo s pirito greco che dobbiamo la prima affermazione di questo valore; i greci avevan o persino una da, Nemesi, alla quale era affidato il compito di punire inesorabil mente chi violasse la sacra regola della Misura). Quando il tiranno Creonte proi bisce ad Antigone la sepoltura del fratello Polinice perch si reso colpevole di a ver trasgredito la legge, Antigone non oppone un ragionamento a questa crudele s entenza. Non tenta neppure di dimostrare che Polinice sia innocente, come farebb e un avvocato: la sua non un'arringa. la rivendicazione di un diritto che Antigo ne vuol veder riconosciuto al fratello come persona umana, anche se era colpevol e. Vedi dunque che la ragione e il cuore, la riflessione logica e la passione umana - cos spesso contrapposte e considerate fatalmente antagoniste - hanno qualcosa che le unisce. C' un valore comune al quale fanno riferimento, ed appunto la Misu ra: lo stesso valore che permea di s la vita, lo stesso che assente invece nella morte e - non mi pare un caso, sai - anche nelle fedi di vario genere. La certez za sa di morte, ed per questo che da uomo vivo respingo le fedi. Sto nella Misur a che mi stata data insieme alla vita, e che insieme a essa avr termine quando si spegneranno senza risposta anche i dubbi che, spero, mi accompagneranno fino al l'ultimo. Ho parlato di questi argomenti con uomini di fede, e qualche volta mi sono senti to fare un'obiezione. "Non devi - mi stato detto - dire che la fede d certezza. C hi crede spesso colto dal dubbio, anzi non vera fede quella che sempre priva di dubbi". un'obiezione non priva di un certo fascino, ma la respingo perch gioca su un equivoco. Certo che una fede non pu esser priva di dubbi: se per caso lo fosse, sarebbe sol o un'ottusa idolatria. Ma colui che crede teme il dubbio, questo il punto: per l ui il dubbio come una malattia della sua fede - un passeggero raffreddore o un v iolento accesso febbrile, secondo i casi e gli uomini. E il credente finisce sem pre con l'uscirne usando la sua stessa fede come medicina. "Signore, aiutami a c redere in te" pregava un grande santo: il che pu essere anche molto bello, anzi l o , ma prova chiaramente che l'ultima istanza del credente appunto la sua stessa fede. Solo nella certezza che essa gli d pu trovare conforto: ed convinto che non possa esistere altra via d'uscita. La certezza della fede fa da antidoto alla certezza della morte: esse appaiono c os indissolubilmente unite nella stessa dismisura, che toglie ogni sapore e ogni senso alla vita. Ambrogio, il santo vescovo di Milano, arriva in una sua omelia a definire bella la morte: e ti confesso che, proprio perch pronunciata da lui, m i sembra un'enorme bestemmia. In qualche modo, tuttavia, questo binomio di dismisure uguali e opposte funziona : nei secoli, per milioni e milioni di uomini la fede stata e ancora resta una f orza che ha aiutato a sopravvivere - che molto meno di vivere ma infine non poco . E finch funziona, solo chi fuori della fede riesce a rendersi conto che il cred ente stretto nella morsa di due dismisure. Pu provare nei suoi confronti, allora, una specie di disappunto, lo stesso sentimento che si prova di fronte a uno sfo rzo vano - come quando vedi uno perso in un labirinto e da fuori non puoi far ni ente per indicargli l'uscita. Altre volte si meno benevoli, quando il credente sente il bisogno di puntellare la sua fede imponendola anche agli altri - spesso con sistemi non esattamente pa cifici. successo e succeder ancora: il prezzo che deve pagare chi sta fuori della dismisura, e non poi pi alto di quello che paga (senza saperlo) il credente. A l ui va bene cos, e finch crede non hai alcun modo per dimostrarglielo.

Finch funziona, per. Perch quando qualcosa si incrina, quando - pi che il dubbio - s ono la noia e il disgusto a spegnere la fede, allora succede qualcosa di molto g rave e triste. Paradossalmente, questo il momento in cui la fede miete il maggio r numero di vittime: quando finisce. Drogato di certezze, abituato a trascurare la Misura della vita, chi ha perso la fede ne cerca disperatamente un'altra, e u n'altra ancora: ma difficile che la trovi, come ho gi notato nel capitolo I. Cess a, allora, anche quel precario equilibrio che in qualche modo poteva dare al cre dente quiete e pace: abbandonato da un assoluto, chi ha perso la fede scivola precipita, a volte - verso l'opposto. Lo coglie un'angoscia che non gli lascia i l tempo di pensare alla vita: quando non la fugge, la spreca e l'avvilisce in s e negli altri. Ancora, lo inghiotte la dismisura. Il tempo che oggi viviamo vede il trionfo di questa dismisura. Si corre, sempre pi velocemente, quella che stata chiamata rat race, la corsa del topo - in una ga bbia rotonda che, pi velocemente corri, pi velocemente ti obbliga a correre. Gli o biettivi, i traguardi di questa corsa sono cos privi di senso che uno vale l'altr o, e infatti c' un'ampia scelta: hanno il coraggio di chiamarla libert. Libert di c orrere al fatturato sempre pi alto, al record sempre pi esasperato, al televisore con sempre pi canali, al film con la luce sempre pi rossa e alle stragi sempre pi d i massa. Questo un tempo di morte, perch un tempo di dismisura: e infatti alla mo rte ci abbiamo fatto l'abitudine. Riesce ancora scuoterci un po' solo se a color i e in diretta via satellite. Dico che questo un tempo di morte perch alla fine dell'assurda corsa del topo non pu esserci che lo schianto. Non escluso, paradossalmente (e anzi credo cpiti spes so), che il topo sappia gi anche lui come andr a finire: e tuttavia, drogato di ce rtezza com', pazzo di dismisura, continua ad accelerare. gi morto prima di morire. Ma tu non sei un topo, sei un essere umano, e sei vivo, e non ti va imissioni. Allora non ti resta che provare a rallentare e a cercare la tua Misura. Da qualche parte deve essere, perch sta nella vita. almente, la certezza di trovarla - niente certezze, ricordi? - per cercarla. di dare le d una misura, Non hai, natur puoi provare a

(1) Trovo insopportabile (se non ironico, come ho gi fatto e far ancora) l'uso del la maiuscola per enfatizzare un concetto: un artificio al quale si ricorre quand o non si hanno argomenti validi per sostenerlo. Qui per metto la maiuscola alla p arola "Misura" per una semplice esigenza di leggibilit, per distinguere i due sig nificati.

VIII Cercare qualcosa non vuol dire semplicemente aspettarsela, n andare a tentoni spe rando in un colpo di fortuna. Certo, se un po' di fortuna ti assiste sar una buon a cosa: la fortuna, per esempio, di incontrare una persona che ti dia delle indi cazioni e magari accetti di dividere con te la fatica della ricerca. Ma non puoi contarci in partenza. Aspettare qualcuno che ti tiri fuori dai guai molto peric oloso, perch puoi correre due diversi tipi di rischio. Il primo che corri, se l'attesa si prolunga per un po' - e succede quasi sempre - quello di sentir crescere in te la sensazione di aver diritto a ci che desideri . Il fatto che l'attesa in se stessa una fatica: e dopo un po' che aspetti compr ensibile che tu ti chieda: "Ma come, ho aspettato tutto questo tempo per niente? Deve arrivare qualcuno, altrimenti la mia fatica di aspettare risulterebbe inut ile". Cos, pi aspetti e pi l'attesa si fa snervante, venata d'angoscia e dalla rabb ia di esser stato in qualche modo tradito: tradito da colui che doveva venire e non mai arrivato. L'altro rischio quello di vedere in qualcuno quello che ti tirer certamente fuori dai guai; anzi, di credere che lui non chieda altro che risolvere il tuo proble ma, dedicandosi completamente a te. il grande equivoco dal quale ho cercato di l

iberare il campo fin dalle prime pagine, ricordandoti che bene non fidarsi e rip etendotelo spesso. l'equivoco in cui cadono tanti che incontrano, pi o meno casua lmente, un guru qualsiasi - che pu essere il pretino-moderno-tanto-alla-mano, o l o psicoanalista-selvaggio-che-chiarisce-tutto-in-due-sedute, oppure il rivoluzio nario-che-ti-d-una-coscienza-politica. Ci cadono, anche, tutti quelli che - sui banchi di scuola, o in una discoteca de l sabato, o alla festa di compleanno di un amico - sono convinti di aver incontr ato il Grande Amore di Tutta la Vita. Se la delusione arriva in qualche settiman a o in qualche mese, non un gran male: ma spesso passano gli anni prima che ci s i accorga di aver preso un abbaglio. O meglio: il sospetto di essersi sbagliati arriva, di solito, abbastanza presto - se uno non proprio stupido; ma si continu a a insistere perch non si pu ammettere di aver sbagliato. per questo che sono cos carichi di acredine tanti addii, o uscite dal partito, o dimissioni da un qualun que gruppo: "Io credevo, e invece...". Se cerchi la tua misura, devi contare sul le tue forze. L'unico che non ti abbandoner mai sei tu stesso - se non ti va di d are le dimissioni. I soli ad avere diritto di essere aiutati, sostenuti, indiriz zati e confortati senza dover dare niente sono i bambini: e non per ragioni sent imentali. Spesso, queste celano soltanto il nostro senso di colpa nei loro confr onti (siamo noi adulti a fargli il bello scherzo di farli capitare in questo mon do, che abbiamo fatto di tutto per ridurre come sappiamo). Un bambino ha diritto al nostro aiuto, totale e incondizionato, perch non un uomo ma un progetto d'uomo: ed nostro interesse, oltretutto, che questo progetto si realizzi nel modo migliore possibile. Altrimenti ce lo troveremo sempre tra i pi edi, anche quando avr la barba con qualche pelo grigio o le forme piene e mature di una donna adulta. Se il mondo pieno di tanta gente cos, che non mai cresciuta, penso che lo dobbiamo in gran parte al modo distorto in cui vengono allevati i piccoli dell'uomo. Ora, io non penso minimamente di dirti, col vocione serio di circostanza: "Smett i di fare il bambino, e comportati da adulto!". Queste sono sciocchezze retorich e da caserma. Soprattutto in un mondo in costante e accelerato mutamento, un mon do di crescente complessit come il nostro, l'idea di un essere umano definitivame nte formato, completo, senza pi niente da scoprire in se stesso e fuori - quest'i dea non sta in piedi. In questo senso, restiamo tutti e sempre un po' bambini (e menomale). Il punto n on restarlo troppo: tanto per cambiare, una questione di Misura. Incidentalmente , noter che un altro effetto negativo delle fedi il fatto di mantenere l'uomo che crede in una perenne condizione di sdoppiamento. Da una parte resta infatti com pletamente bambino, dipendente in tutto e per tutto dal suo dio (e da chi lo rap presenta); dall'altra, ha la pretesa di avere in mano la verit, tutta la verit, e quindi di non aver pi nulla da imparare - come se fosse al culmine della maturit. Tutto per lui sta gi scritto nei sacri libri - si tratti della Bibbia, del Capita le, di Mein Kampf di Hitler, degli Ayurveda o di che altro ti pare. Davanti alla stupefacente complessit del reale, il credente consulta i suoi testi sacri come i tre Paperini consultavano il benemerito Manuale delle Giovani Marmotte, certo che vi trover le soluzioni di tutti i problemi possibili. Si sente grande, adulto , e commisera quelli che non hanno le risposte pronte: senza per chiedersi se, ne l frattempo, non siano per caso aumentate le domande. Dicendoti di contare sulle tue forze, intendo proprio invitarti a star lontano dai due estremi. La morte d i Dio ci ha lasciati orfani, ma non in fasce - anche se tutt'altro che definitiv amente cresciuti. Un bambino - o una bambina - non lo sei pi: non saresti qui, al trimenti, a farti domande e a cercare risposte. Allora, fermo restando che ti pu capitare un aiuto, magari insperato, da parte di qualcuno, non puoi contarci in partenza. Oltretutto, se pensi di farcela soltanto grazie a qualcun altro, sareb be lui a risolvere i tuoi problemi - posto che ci riesca: e non si vede come una soluzione esterna potrebbe andar bene per problemi che sei tu a portarti addoss o. Sono i tuoi, non hai altri su cui scaricarli: oppure, magari ti riesce di appiop parli a qualcuno, ma poi non vedo come potresti lamentarti se ti venisse present ato improvvisamente il conto. quello che successo a tanti uomini, che un bel gio rno si sono trovati di fronte a mogli e compagne stufe di sopportare ancora il p

eso della loro eterna infanzia - aggravato dal machismo dei loro atteggiamenti. Al riposo del guerriero hanno diritto i guerrieri - quelli veri, se ce ne sono. Ma per avere il diritto di dire "Fa' quel che dico e stai zitta tu, che sei solo una bambina" bisogna essere - come minimo - un po' meno bambini. Dunque, su te stesso che devi contare. Ma questo, sia chiaro, non significa affatto che devi f arcela da solo. Un simile obiettivo se lo pu porre soltanto un eroe. Ma ce ne son o, di eroi, fuori dai miti e dalle leggende? Non so quanti ne puoi aver conosciu ti, il cui eroismo non dipendesse - almeno in parte - dal fatto che qualcuno gli faceva trovare la minestra calda tutte le sere. O che non avessero un punto deb ole accuratamente celato (e anche nascondersi ha un costo: che prima o poi finis ce col ricadere su altri, e spesso su chi non c'entra). Capisco che quanto ho detto pu apparirti contraddittorio: uno deve cavarsela con le sue sole forze, e per non deve pensare di farcela da solo. Ma puoi trovarlo me no contraddittorio, se ti prendi la briga di rovesciare anche questa frittata e presti un po' di attenzione alla riflessione che ti propongo. Mettiamo che la tua situazione sia complessivamente descrivibile nei termini che ho usato all'inizio del libro: disorientamento, sconcerto, disagio di fronte al la vita. Una fede non ti basta, ma non sai dove andare a parare: e nello stesso tempo ti rifiuti di lasciarti andare - e meno che mai di dare le dimissioni. Ora , sei tu che hai preso coscienza di questa situazione. Ci sono milioni, miliardi anzi, di esseri umani che sono esattamente nelle stesse pste, ma se gli chiedi d i parlare di s ti diranno al massimo che boh, si sentono un po' gi ma solo perch un brutto momento, poi passer. Oppure si diranno vittime di qualcuno; di una congiu ra familiare; dell'influsso di chiss quale pianeta; dei malanni provocati da tutt e queste diavolerie moderne o dai comunisti o dai biechi capitalisti. E via dice ndo: non c' limite alla capacit umana di scaricare fuori di s il peso della propria esistenza. Qualche volta si resta persino ammirati dall'ingegnosit di certi alib i. Non che questi alibi siano sempre e comunque campati completamente per aria, anz i (solo i masochisti a livello clinico pensano di essere persone tutte sbagliate in un mondo tutto giusto). Quindi, se hai i tuoi guai, certo una parte di essi derivano dal comportamento altrui. Ma non tutti, e lo sai. Sai che dentro di te la radice di quello che stato chiamato, dal titolo omonimo di un famoso libro, i l cosiddetto male oscuro (ma questa espressione, come capita a tutte quelle di m oda, usata pi spesso a sproposito che a proposito). Se hai avvertito dentro di te questo disagio, con le tue forze che ci sei arrivato: prendere coscienza un fat to squisitamente individuale, nessuno pu dartela se non ci arrivi da solo. Se esistesse un sistema per obbligare la gente ad avere coscienza di s e del mond o, dopo millenni in cui si sono succeduti saggi, profeti, grandi spiriti di tutt e le culture, non dovrebbe esserci un solo individuo alienato. Vivremmo gi da un pezzo, serenamente, in un mondo senza violenti, senza farabutti, senza puttane e cc. Ma non risulta che la situazione sia esattamente questa. Per cui, se sei arr ivato a prendere coscienza di te e di quel che ti sta capitando, lo hai fatto co n le tue forze e con quelle soltanto. Forse c' stato un evento, o un discorso sen tito da qualcuno oppure letto in un libro, che ha funzionato come innesco del pr ocesso: ma sei stato tu a portarlo avanti. Ora devi solo cercare di continuare. Pu capitare che tu dica: "S, a questo punto ci sono arrivato; ma ad andare avanti non ce la faccio, ho bisogno d'aiuto". E che male c'? Mi sembra la cosa pi normale di questo mondo, ho appena detto che a farcela tutto-da-soli ci riescono solo g li eroi - ma non credo agli eroi, non ne ho mai visti. Se mi capita qualcuno che dice "Non ho bisogno di nessuno, io", posso soltanto commiserarlo - e aspettare che sbatta le corna da qualche parte. Non succede sempre (purtroppo), ma succed e. La prima cosa di cui bene liberarsi, penso, proprio la convinzione - pi diffusa d i quanto sembri - che cercare aiuto sia qualcosa di cui bisogna sostanzialmente vergognarsi. Ma chi l'ha detto? Ho il sospetto che si tratti di una regola di co modo, enunciata da chi vuole sottrarsi a un impegno che appare, invece, connatur ato all'esistenza umana. L'uomo un animale sociale: tutto ci che siamo il risulta to di un processo di relazione con gli altri. Con qualcosa in pi: quel qualcosa, appunto, che ti permette di considerarti sociale e non semplicemente gregario. Q

uesto qualcosa in pi la tua capacit di individuarti come un Io, un'entit legata s a tutte le altre e a tutto ci che ti circonda ma anche unica, irripetibile - e irri nunciabile. Forse c' proprio un malinteso senso dell'Io alla base dell'idea che n on farcela tutto-da-soli sia degno di biasimo o di disprezzo. un'idea che, parad ossalmente, troviamo alla base di comportamenti apparentemente contrastanti. C', come ho detto, quello che si vanta di non aver bisogno di nessuno (non vero, ma lui ci crede); oppure c' quello che sa di aver bisogno di aiuto, ma non lo chiede perch - come il primo - crede che sia disdicevole. Secondo me, la stessa convinz ione ispira anche il comportamento di quelli che, con atteggiamento apparentemen te opposto, pensano di avere il diritto di essere aiutati. Credo che si inventin o questo diritto solo per coprire la vergogna che provano nel capire che hanno b isogno di aiuto. Perch qui sta il punto: che l'aiuto, per averlo, lo devi chiedere. Ed questo che devi fare con le tue forze: chiederlo, senza vergognartene e senza presupporre, al contrario, che ti sia dovuto. Qui si concilia l'apparente contraddizione sull a quale ti ho chiesto di riflettere. alle tue forze e solo a quelle che devi ric orrere per avere l'aiuto necessario a uscire dai tuoi guai, quali che siano. Da solo non ce la faresti mai. Per ottenere l'aiuto di qualcuno, devi pagare un pre zzo: non possibile vivere soli, e quindi non possibile neppure vivere gratis. Qu alcuno ci riesce, certo: ma questi ladri di vita sono meno di quel che pu sembrar e. Sono pi numerosi, piuttosto, quelli che si illudono di vivere gratis, o che si consumano nel tentativo di riuscirci: anzi, raggiungere questo obiettivo divent ata la pi comune filosofia di vita. Per questo hanno tanto successo le lotterie sia quelle propriamente dette sia quella particolare lotteria che la corsa al c osiddetto successo. Ci puoi provare anche tu, certo. Per sar bene calcolare, anche a spanne, le probab ilit che hai di fare il cosiddetto grande colpo. La concorrenza fortissima - senz a contare che le regole del gioco non sei tu a dettarle e cambiano spesso senza preavviso. Il solo fatto di partecipare alla competizione - l'acquisto del bigli etto, diciamo, o se vuoi la tassa di iscrizione - non costa poco: e forse non il caso di investirci le tue riserve, soprattutto se sono scarse. D'altra parte, non sei neppure del tutto sprovveduto: ad aver coscienza della tu a situazione ci sei arrivato con le tue forze, come si visto, e ti resta ancora qualcosa da spendere - altrimenti avresti gi dato forfait. Un buon investimento d i quello che hai - di quel che c' di vivo dentro di te, della tua capacit di rifiu to alla resa - penso che sia, appunto, di spenderlo nello sforzo di chiedere aiu to, di cercare un punto di appoggio. A chi, e dove, e come, cercher di suggerirte lo in uno dei prossimi capitoli - sempre tenendo conto, naturalmente, che la mia un'opinione. Non cerco di gabellartela per una Rivelazione Assoluta, che ti gar antisce il risultato, come fanno molti profeti dai nomi orientali (ma hanno cont i in banca fatti di occidentalissimi dollari). Non ti dico neppure, come fanno m olti altri, convinti di aver trovato il metodo giusto per vivere bene: "Fai come me, io ci sono riuscito". Non te lo dico, anzitutto, perch non vero. Ho i miei g uai, ho fatto e faccio una quantit di errori, e sarebbe piuttosto stupido oltre c he disonesto se inducessi qualcun altro a ripeterli pari pari. Ma a parte questo , c' un'altra ragione importantissima per cui non posso dirti: "Fai come me", ed il fatto che tu non sei me. Ogni uomo ha la sua storia, di cui insieme il prodot to e l'artefice, e non sta scritto da nessuna parte che tutti si debbano comport are allo stesso modo. Soprattutto nel tipo di societ in cui viviamo, l'estrema va riabilit delle condizioni e delle situazioni sociali fa s che le esperienze indivi duali differiscano moltissimo. Persino tra i gemelli c' qualche differenza. Mi rendo conto che questa affermazione ti pu sembrare abbastanza azzardata. Ma co me, puoi pensare, non siamo in una societ di massa? Non consumiamo prodotti fatti in serie, non viviamo in casermoni tutti allineati come alveari, non facciamo l avori ripetitivi, non ci vediamo imporre abiti, letture, passatempi (e divi, e u omini politici) unificati? Ti suggerisco, ancora, di provare a voltare la fritta ta. Ti dico che basta andare a studiare un po' di storia - non quella dei re e d elle battaglie, ma quella della vita quotidiana del passato, e ci sono un mucchi o di libri bellissimi in proposito - per accorgersi che gli uomini, fino a non m olto tempo fa, vivevano in maniera molto pi livellata di ora.

Se oggi il cosiddetto sistema ci sembra tanto oppressivo e pianificato, perch abb iamo una molto pi accentuata coscienza individuale. Tendiamo a essere pi individui - il che, secondo me, costituisce un dato da considerare con estrema attenzione . per questo che sentiamo di pi la costrizione dell'ambiente. Solo che essere ind ividui non semplice: e la nostra eredit tribale ha ancora molto peso nel nostro c omportamento. Siamo ancora molto gregari: brutta parola, visto che ha la stessa radice di "gregge". C' un modo di uscire dal gregge (senza diventare lupo n cane da pastore)? La rispo sta definitiva, se c', va cercata. Quella immediata la sai gi: dipende. Cerchiamo di capire da cosa, e da chi. IX I due problemi ai quali ho accennato nel capitolo precedente - quello di trovare chi pu darti una mano perch non sei un eroe che sa cavarsela tutto-da-solo, e que llo di uscire dal gregge - sono legati tra loro. Lo sono nel senso che costituis cono, se sei coinvolto in entrambi, una contraddizione. Un'altra, tanto per camb iare: e non sar certo l'ultima sulla quale vorrei invitarti a riflettere. una del le tante di fronte alle quali ci ha lasciato la morte di Dio. L'uomo una creatura che ha bisogno di complicit. C' chi si accontenta delle piccol e complicit quotidiane, le mille varie alleanze stipulabili volta per volta, tant o per sopravvivere: il ritrovarsi insieme per far denaro, per scambiarsi dei ser vizi pi o meno intimi, per coltivare un hobby, per arraffare un po' di potere o p er gridare slogan contro chi ce l'ha. Non sono che il patetico tentativo di far rivivere quel che accadeva quando Dio c'era - quando era lui ad assicurarci la s ua complicit e quindi a permettere, di riflesso, che anche tra gli uomini si stab ilisse un patto. La grande alleanza di tutti nel suo nome - se mai c' stata. Da solo/nel gregge: come accade per tutte le contraddizioni, ci sono vari modi p er farvi fronte - a parte quello di ignorarla, forse il pi comune, e quello di ri solverla con una fede. Di questi non sto a parlarti, sai gi come la penso in prop osito. Gli altri atteggiamenti che si possono assumere davanti alla contraddizio ne tra autonomia e gregariet hanno un tratto in comune: la convinzione che essa s ia irrisolvibile. Ci pu portare - secondo le scelte che uno fa - a situazioni molt o diverse. Cominciamo dalla scelta pi drastica: quella di colui che si convince di essere ir rimediabilmente destinato a restare solo. In effetti, ogni tanto qualcuno - ma l e statistiche sociali ci avvertono che il numero in costante aumento, e l'et medi a sempre pi bassa - sceglie l'eremitaggio oppure diventa un clochard, un "barbone ". I risultati non sembrano un granch. La maggior parte di queste creature perse finisce per condurre un'esistenza piuttosto allucinata, e non raro il caso che v engano associate - con pi o meno autorevole fermezza - a pie istituzioni: cos, la stessa societ da cui volevano sganciarsi li prende in tutela e li tiene in pugno per un piatto di minestra. Un numero crescente di persone evita invece l'esperienza eremitica e fa in modo - comportandosi secondo schemi giudicati socialmente inopportuni - di essere dir ettamente associata ad altre istituzioni, di solito un po' meno caritatevoli. la scelta del crimine, della follia, della droga: surrogati del suicidio, del qual e condividono la disperazione e l'inutilit, ma non la coerenza che questo atto me rita di vedersi riconosciuta. All'opposto, c' chi nega l'altro polo della contraddizione e fa di tutto per non essere mai solo - o per illudersi di non esserlo. la scelta di coloro che, lette ralmente, si rovesciano sugli altri: l'insopportabile gena dei genitori incombent i, dei coniugi onnipresenti e premurosi, degli allegroni che animano le gite azi endali, degli infaticabili segretari di associazioni di ogni tipo, degli angeli del dolore per i quali una manna che tu ti sia sfracellato una gamba, cos ti poss ono curare. Avendo orrore della propria solitudine, ti negano il diritto alla tu a: il peggior sgarbo che gli puoi fare di avere la faccia di uno a cui girano le scatole, e ci nonostante rifiutare le loro profferte d'aiuto. Si sentono mancare il terreno sotto i piedi: non possono pi esibirsi nel loro numero preferito, il "guarda come sono buono, guarda come mi do da fare per te". Qualche volta, invece, la storia finisce in modo molto pi penoso: come accade qua

ndo una di queste anime buone si butta ( un caso frequente) su un delinquente o u n drogato "per salvarlo con l'amore". Tre mesi dopo sono in giro a fare scippi p er tirare avanti o a prostituirsi per pagarsi il "buco". I balordi ora sono due: quello che doveva essere salvato e quello che doveva salvare. Che posso dirti? Potrei cavarmela consigliandoti di sfuggire questi irriducibili salvatori come la peste: ma, a parte che non sempre possibile, non sarebbe semp re giusto. Alla base dell'estroversione esagerata c', qualche volta, una situazio ne drammatica: se la intuisci, prova a far riflettere l'altruista a oltranza sul perch del suo atteggiamento. Non facile, ma pu darsi che tu riesca a fargli il fa vore di metterlo in crisi: e pu rivelarsi un crisi benefica, sia per lui sia per te - che forse avrai trovato un amico. Chi considera irrisolvibile la contraddizione tra autonomia e gregariet ha, infin e, una terza via di comportamento da seguire. Parlo di coloro - e sono tanti, co s tanti che li si considera ormai la norma - il cui Io pi profondo appare impenetr abile, avviluppato in un bozzolo dal quale escono unicamente messaggi utilitari ("passami il sale", "mi dia quella pratica", "per il televisore ci vorr una setti mana"). Oppure sono considerazioni mestamente futili, di pura evasione: dalle os servazioni sul tempo al borbottio sull'economia allo sfascio, dal commento su un a partita alla descrizione di un oggetto appena acquistato. Se vivi vicino a una di queste anime grigie non hai una sorte molto lieta. Spess o, dopo un periodo pi o meno lungo di tentativi rivolti a comunicare, ci si rinun cia. Ma pu capitare che vi sia un legame di affetto o di amicizia - o semplicemen te di abitudine - e in tal caso il partner di buon carattere o il collega toller ante ti dicono: "che vuoi farci, un tipo chiuso, fatto cos". Gi, ma che vuol dire "un tipo chiuso"? E dietro quella chiusura, che c'? Molte volte, semplicemente, non c' niente: l'affettuoso partner si illude che ci sia qualcosa, di solito perch si fatto quest'idea - aveva bisogno di farsela - e non gli riesce di rinunciarci. Pu essere triste constatarlo, ma cos: un gran numer o di esseri umani nasconde, dietro il guscio della propria impenetrabilit, un vuo to interiore pressoch assoluto. Certo, se ti fa piacere puoi anche ricorrere a patetiche menzogne, come quella t ipica delle mamme che nel colloquio con gli insegnanti si arrabattano a spiegare : "Ma no, professore, le idee il mio ragazzo ce l'ha. Solo che non le sa esprime re...". Ma un controsenso. Chi ha idee ha anche le parole per esprimerle, perch l e idee sono parole. C'era scritto persino su Selezione dal Reader's Digest: "Pi p arole, pi idee". E non solo uno slogan. Il filosofo tedesco Max Horkheimer, l'aut ore del bellissimo Eclisse della ragione (e che non mi risulta leggesse Selezion e), ha scritto: "La filosofia lo sforzo consapevole di fondere tutto ci che sappi amo per esperienza o per intuizione in una struttura linguistica in cui tutte le cose saranno chiamate con il loro giusto nome". Chi non fa questo sforzo consapevole resta prigioniero di una rete di sensazioni e di emozioni, delle quali si rende pi o meno confusamente conto, soffrendone o godendone secondo i casi: ma non pu dire di avere idee, non pu dire di pensare. Se nza parola non c' pensiero. O meglio: senza la parola giusta, come dice Horkheime r, non c' pensiero degno di questo nome. E trovare queste parole, te lo dico subi to, non facile; la maggior parte dei guai nascono, credo, proprio dal fatto che molta gente si illude di avere le parole per esprimersi e invece usa termini tra gicamente vaghi. Dico "tragicamente" perch davvero una tragedia voler dire qualcosa a qualcuno e f argli invece intendere una cosa completamente diversa. Pensa, tanto per fare un esempio, a quante volte si parla d'amore e poi ci si accorge che la persona per la quale si spendeva questa parola aveva capito fischi per fiaschi. L'equivoco p u non esser grave, se il rapporto in cui eri coinvolto era preso in partenza un p o' alla leggera. Ma se quella che cercavi non era una piccola complicit - se era una grande alleanza, alla quale chiedevi di riempire il vuoto lasciato dalla fin e delle illusioni - allora fa male. probabile che tu ne sappia gi qualcosa, se no n sei vissuto sempre da eremita. Se le piccole alleanze non ti bastano, per trovare qualcuno che ti dia davvero u na mano devi quindi trovare con chi parlare: qualcuno che tu voglia ascoltare e che a sua volta sia in grado di ascoltarti. Ci porta in primo piano il problema d

el linguaggio: nel senso che devi poter capire la lingua dell'altro (se ne ha un a) e far capire la tua - e questo presuppone che tu ne abbia una chiara, per pri mo, a te stesso. Con la parola "lingua", naturalmente, non intendo riferirmi solo al complesso de lle parole parlate o scritte. Si comunica in molti modi: il famoso detto "dimmi come... e ti dir chi sei" valido per quasi ogni verbo che puoi mettere a posto de i puntini. Dimmi come guardi, come mangi, come fai all'amore, come cammini, come guidi la macchina eccetera: tutto il nostro comportamento un linguaggio. Le sin gole nostre azioni ne costituiscono, per cos dire, le frasi, mentre gli atteggiam enti sono in qualche modo paragonabili ai toni con i quali queste "frasi" vengon o pronunciate. E il tono un elemento molto importante per attribuire significato a ci che diciamo: le stesse parole possono voler dire qualcosa di completamente diverso. Anche per questa specie di linguaggio vale quanto ho osservato nel paragrafo pre cedente: e cio che farai bene a imparare a capire quello degli altri, e a far cap ire il tuo - visto che il tuo e quindi ne sei responsabile. Il discorso sul comp ortamento inteso come linguaggio, per, ora lo lascio temporaneamente da parte, pe r mantenere la tua attenzione sulla parola propriamente intesa - parlata o scrit ta che sia. Finch sei solo con te stesso, puoi anche abbandonarti alle sensazioni pi vaghe, al flusso indistinto di immagini che ti attraversano la mente: e forse, in questo completo abbandono puoi anche raggiungere un senso di pienezza completa - la con ferma che ci sei, e che fai parte di un tutto col quale ti senti in armonia. Cpit a di rado, ma cpita: e sono momenti che valgono la vita. Altrettanto la valgono, penso, anche quelli nei quali il flusso di sensazioni che ti invade non altretta nto positivo, piacevole: i momenti (un po' meno rari) nei quali senti sdegno, ra bbia, ripulsa per tutto ci che turba l'armonia delle cose. Degli uni e degli altri, si usa spesso dire che "non si possono esprimere": ed , penso, vero e falso contemporaneamente. Falso perch, se davvero fossero momenti i nesprimibili, non ci sarebbe l'arte - la poesia, in tutte le sue innumerevoli fo rme. Pensa ai famosi versi di Salvatore Quasimodo: Ognuno sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole. Ed subito sera. oppure a questo, dell'altro grande poeta italiano Eugenio Montale: Il peggio dell'orrore il suo ridicolo La mia personale opinione che versi come questi valgono qualche tonnellata di po nderosi saggi scritti da chi presume di parlare scientificamente di tutto. E non c' bisogno, volendo, neppure di citare nomi famosi come quelli dei poeti che ora ho ricordato. In un libro ho letto un verso di un poeta assolutamente sconosciu to (Lucio Pisani: so della sua esistenza solo grazie a questa citazione colta al volo), che dice: La risorsa del vivere nel come Se questi poeti fossero stati convinti che certe profonde intuizioni, certe gran di idee sulla vita "non si possono esprimere", non avremmo parole come queste su cui riflettere, e sa il cielo se ci sono utili. D'altra parte, pur vero che io te li ho citati perch mi piacciono, mi dicono qualcosa, li "sento", come si usa d ire: ma non sono assolutamente certo che volessero dire esattamente quello che h o inteso. Quindi, non posso neppure obbligare te a condividere il mio aprezzamen to se per caso non sei della mia opinione (il che per mi dispiacerebbe). Il linguaggio della poesia, e di ogni espressione artistica in generale, pu esser e definito ad alto rischio: nel senso che esistono forti probabilit di non essere compresi, e anche (peggio) di essere fraintesi. La poesia, cos, presuppone una s

pecie di coraggio: il poeta un eroe della parola (quando poeta davvero: molte vo lte solo uno sconsiderato e un presuntuoso). All'opposto della poesia c' il lingu aggio della tecnica, che pu essere definito a rischio zero. Ne un esempio il ling uaggio dei libretti di istruzione di un qualsiasi meccanismo (quando sono fatti secondo le regole, il che a dire il vero non capita troppo spesso). interessante , e anche divertente, notare la reazione di molti quando - fatto ci che previsto da un buon libretto di istruzioni - vedono entrare in azione senza intoppi il ma rchingegno cui esso si riferisce (una lavatrice superautomatica, per esempio): " Guarda, funziona davvero!". Questo accade, penso, perch una grande quantit di persone talmente abituata a un l inguaggio approssimato e incerto (spesso, anche, deliberatamente menzognero) da scartare in partenza l'idea che sia possibile esprimersi chiaramente e lealmente . Al contrario, molti si fidano ciecamente di qualunque linguaggio che abbia anc he solo l'apparenza di scientifico o tecnico, perch per loro scienza e tecnica so no sinonimo di certezza assoluta. una sciocchezza, e pericolosa: un modo di guar dare alle cose che ha molto in comune con le credenze magiche di un tempo, con l e quali si cercava di esorcizzare la propria incertezza e paura. Ci si dimentica che le tecniche collaudate, davvero sicure, sono ancora piuttosto poche: e tutt e riguardano ciascuna il suo ambito ristretto. L'essere umano nella sua interezz a e complessit, con tutti i problemi che ha, non pu essere definito in termini pur amente tecnici. Il punto proprio questo: il bisogno di comunicare - di trovare i n un altro essere umano, e magari in pi di uno, quella che ho chiamato complicit non pu essere soddisfatto sezionandosi in tanti spicchi, e conferendo volta per volta con degli specialisti (veri o presunti) delle varie tecniche. La specializzazione un elemento fondamentale per l'ampliamento e l'approfondimen to delle conoscenze umane: su questo credo che non ci possano essere molti dubbi , con buona pace di coloro che sognano il ritorno a una cosiddetta vita semplice . Ma il culto esasperato, ottuso della specializzazione ha portato a una situazi one in cui la maggior parte degli esperti o presunti tali sono, come stato osser vato, persone che sanno quasi tutto su quasi niente. I loro linguaggi tecnici so no sempre pi sofisticati e quasi incomprensibili per la maggior parte di noi, e p ochissimi di loro fanno il minimo sforzo per spiegarci qualcosa: anzi, non raro che ci facciano sentire il peso della nostra ignoranza per aumentare il proprio prestigio (e quindi far salire le cifre dei loro onorari). Se non ti senti in grado di affrontare l'alto rischio della poesia, e se i limit ati e limitanti linguaggi specialistici non ti possono bastare, ci non significa tuttavia che devi rinunciare a comunicare. Puoi scegliere il rischio ragionevole che connesso naturalmente all'uso del linguaggio comune, e semmai sforzarti di ridurre progressivamente questo rischio: risultato che si ottiene tenendo presen te la definizione di filosofia data da Horkheimer e che ti ho citato sopra. O an che, pi modestamente, dedicandosi con un po' di buona volont alla ricerca indicata dal titolo della rubrica di Selezione, cio cercando di farsi un bagaglio di "pi p arole" e quindi "pi idee". A chi ha una concezione elitaria, snobistica della cultura sembrer certo irrivere nte questo accostamento del grande pensatore della Scuola di Francoforte e di un a rivista popolare, piuttosto perbenista e conservatrice. Proprio non mi sembra che ci sia da scandalizzarsi. Qual il problema, in sostanza? Quello di acquisire un linguaggio mediante il quale comunicare l'immagine che hai di te stesso e de l mondo. Secondo il tuo livello di istruzione, di cultura, di abitudine al collo quio interiore, il tuo linguaggio attuale pu essere pi o meno ricco, pi o meno appr opriato. E non c' niente di male che tu parta anche dal pi semplice dei testi divu lgativi per arricchire il tuo vocabolario, per rendere le tue parole sempre pi gi uste (nel senso indicato da Horkheimer). Moltissima gente di mediocre istruzione e di nessuna cultura usa, per darsi un tono, termini presi a prestito da autori alla moda, e si illude di trovarsi d'accordo con chi ha lo stesso vezzo; poi si scopre che sotto i loro bla-bla non c' niente. Forse facevano meglio a leggere m eno "maestri" e pi Selezione. Arricchire il proprio vocabolario, affinare e approfondire l'uso della parola, n on soltanto un esercizio piacevole - un hobby come un altro. Se cos fosse non te lo consiglierei pi di quanto posso consigliarti di giocare a tennis o di collezio

nare conchiglie. Se lo faccio, perch credo che ci sia una ragione molto pi profond a. Il linguaggio la fondamentale esperienza umana: attraverso di esso che l'uomo si identifica come tale, si riconosce, trova se stesso e il suo simile. Tutte l e creature viventi comunicano - e infatti si pu ben condividere l'opinione di chi considera la vita, sostanzialmente, nei termini di un processo di comunicazione ; ma per l'uomo la parola qualcosa di pi che uno strumento per lo scambio di info rmazioni. Tutte le creature hanno un linguaggio: per l'uomo, forse non azzardato dire che non si limita ad avere la parola ma che la parola. Con la parola, l'uomo rompe il chiuso mutismo del mondo: fa domande e cerca risp oste. Finch c' stato un Dio, era Lui a rispondere, da Lui veniva - per definizione , su questo che si basava la fede - LA risposta, quella definitiva. Sai, non cre do sia un caso se il vangelo di Giovanni ha l'inizio che ha: "In principio, era la Parola", e se in tutte le fedi si d tanta importanza al verbo rivelato dai var i profeti (a parte, poi, le risse sull'interpretazione corretta di ci che la divi nit avrebbe detto). Le risposte, ora, dobbiamo cercarle da soli, e lo strumento di cui disponiamo ap punto la parola. Per questo penso che sia importante, e le ho dedicato un certo spazio. Parlare di parole, per, pu finire col rivelarsi un esercizio molto simile a quello di un serpente che si morde la coda: un vizio umano che dev'essere molt o antico, se gi pi di quaranta secoli fa l'immagine del serpente circolare era com une nelle decorazioni dei templi mesopotamici. un vizio dal quale deve guardarsi, in particolare, chi sulle parole in qualche m odo ci vive, come chi fa questo mio mestiere: in caso contrario finisce, come si usa dire, col parlarsi addosso. Quindi cercher di emendarmene, proponendoti qual che cautela a proposito dell'uso della parola. Ce n' sempre bisogno. Sulle parole - e sulle idee - bisognerebbe poter attaccare un cartellino come quello che la legge impone di incollare su strumenti e materiali pericolosi, corrosivi o esplo sivi: Attenzione! Maneggiare con cura. X Maneggiare con cura le parole significa, anzitutto, ci che suggerisce il semplice buonsenso: e cio usarle con parsimonia e nel modo pi appropriato possibile. Anche un certo rispetto della grammatica e della sintassi non sar male, a dispetto di quanto succede sempre pi frequentemente. Penso che per la cosa pi importante da ten ere a mente, a proposito della parola, questa: che non dobbiamo attribuirle pote ri illimitati. La parola umana, e come l'uomo non pu aspirare all'assoluto senza contraddirsi. Ricordi l'inizio della Bibbia, quando Dio crea le cose col semplic e nominarle (disse: "Sia fatta la luce", e la luce fu)? Lui poteva permetterselo ma noi, noi non siamo di: siamo soltanto uomini. Credersi di, capaci di creare con la parola, un errore infantile molto comune. Ti sar capitato di sentire un bambino affermare la presenza di qualcuno o di qualco sa solo perch lui dice che c'. Sorridiamo, e talvolta ci inteneriamo, a queste man ifestazioni della fantasia infantile. "Verr il momento" ci diciamo, guardando il piccolo, "che queste fantasie gli passeranno, e capir di aver a che fare col mond o reale". Ma a molti le fantasie non passano, e ad altri passano troppo. Un gran numero di esseri umani continua a vivere in un mondo fatto di parole, un mondo magico di segni nel quale sono stati introdotti con l'abitudine, l'inganno, la l usinga o la forza. Altri - e sono tanti, tantissimi anche loro - si arrendono in vece alla banalit del quotidiano senza neppure cercare di scalfirne la superficie , senza usare le parole (cio le idee) per andare pi a fondo. Si tratta, ancora una volta, di saper rifiutare l'affermazione - o la negazione - assoluta. Si tratta di accettare la parola in ci che essa ha di vivo e umano: i ncertezza e misura. Per spiegare meglio quel che intendo dire, vorrei chiederti di riprendere in esame il concetto di cui ti ho parlato nel capitolo VII, cio il principio di indeterminazione. L'esempio che ti ho fatto - quello della pallotto la e della mosca che si vuol colpire al cuore - pu esserci ancora utile. Quando c erchiamo di definire le cose e gli eventi di cui fatto il mondo, e per far ci ci serviamo della parola, credo si possa dire che si verifica qualcosa del genere. La parola giusta, cio ben indirizzata, quella che coglie nel segno: ma non puoi m ai esser sicuro che abbia, per cos dire, colto al cuore la cosa o l'evento o la f

orma che volevi definire servendoti di essa. C' sempre un margine di incertezza, con la sola eccezione del linguaggio tecnico di cui ti ho gi parlato come linguag gio a rischio zero (anch'esso quando usato secondo le regole, si capisce). Se va i in un magazzino e chiedi al commesso: "Mi dia le guarnizioni X del motore Y, s erie Z", ti d quelle e solo quelle; se per caso si sbaglia, tu puoi controllare, e quando esci non credi di avere con te le guarnizioni giuste. Lo sai, con assol uta certezza. Non puoi avere certezze altrettanto assolute su te stesso, sulla vita, sugli alt ri, sul mondo e sul posto che tu vi occupi. Per quanto ti sforzi di definire tut to ci, di analizzarlo, di scomporlo, non potrai mai coglierne l'essenza ultima. E d'altra parte, accettare l'incertezza della parola - la qualit che la rende uman a - non comporta necessariamente che ti rassegni al silenzio. C', si pu dire, una specie di sfida da raccogliere: ed la stessa che hai accettato nel momento in cu i hai deciso di non dire di no alla vita. Quanto saranno giuste le tue parole, l e tue idee? Quanto riusciranno a darti un'immagine centrata, cio chiara e coerent e, di quel che ti sta di fronte? Tanto per cambiare, dipende. Dipende da quanto continuerai ad accettare la sfida, perennemente rinnovata, tra la parola e la re alt. Ti si pone davanti, a questo punto, un problema che - per definizione - quel lo fondamentale di ogni filosofia: e non a caso il pi antico. Che cos' la realt? E si pu dire, anzitutto, con sicurezza che c'? Non ti spaventare: anche i pi grossi p roblemi possono essere affrontati, magari con un certo spirito, come fecero per esempio Fruttero e Lucentini, la famosa coppia di scrittori di successo. Anni fa , infatti, scrissero una pice teatrale che si intitolava, nientemeno, La cosa in s, dove questo antichissimo problema filosofico era esposto con un'intelligenza p ari al divertimento provocato dalle situazioni e dalle battute di cui il lavoro era costellato. Penso - come sembrava volessero suggerirci gli spiritosi F&L - c he sia sostanzialmente vacuo accapigliarsi senza fine su questo problema: propri o perch esso non ha fine. la vita stessa che si incarica, volta per volta, di por ti di fronte a situazioni nelle quali - non sempre facilmente, certo - possibile rendersi conto dei limiti entro i quali ci concesso esercitare il nostro senso della Misura. Torno a citarti l'esempio di pag. 59: se devi pesare un sacco di sabbia, non fa differenza che sia qualche etto in pi o in meno. E se dici al venditore della sab bia che prima di comprarla vuoi essere certo del suo peso fino all'ultimo atomo del silicio di cui costituita, non lamentarti se lui ti dice cose scortesi su te e sulle signore della tua famiglia. Ma se dici a qualcuno che l'ami, e ti senti chiedere: "Che vuol dire, per te, amarmi?", allora farai bene a non cercare di cavartela con qualche banalit o con quella che si chiama tautologia, cio il vecchi o trucco di definire la zuppa "pane bagnato" e viceversa ("Cosa vuol dire che ti amo? Ma tesoro mio, vuol dire che ti voglio tanto bene": sai che bella scoperta ). In un antico testo cinese, il Ta-Hio, si legge un'esaltazione della saggezza deg li avi: "Gli antichi... desiderando coltivare la loro persona, prima di tutto correggeva no il loro cuore; desiderando correggere il loro cuore, cercavano la sincerit nei loro pensieri; desiderando la sincerit dei loro pensieri, cominciavano con l'app licarsi alla scienza perfetta; questa scienza perfetta consiste nell'acquistare il senso delle cose reali". Come vedi, si finisce sempre l. Con questa importante differenza, che mi sembra r enda notevole l'insegnamento dell'antico testo cinese: il quale non dice che la scienza perfetta consiste nel conoscere fino in fondo la realt, nel raggiungerla al cuore pronunciando parole definitive, che ci spieghino una volta per sempre l a natura ultima del Tutto. Dice che consiste nell'acquistare il senso delle cose reali. Che vuol dire? Spiegare una parola consiste nel dire altre parole, e cos via: una spirale che a prima vista pu apparire senza costrutto, fine a se stessa. Ma fors e un modo per venirne a capo c'. Avere il senso delle cose reali pu voler dire, se mplicemente, che a un certo punto ti rendi conto di come i termini "reale" e "re

alt" indichino qualcosa che sta al di l della parola. Segnano, per cos dire, il con fine oltre il quale la tua mente rimane muta, la tua misura colma, la tua indagi ne si ferma. Si ferma di fronte a qualcosa - per ora, e finch non ti riesce di an dare pi avanti. Cos accaduto a Ulisse, che si fermato nel letto di Circe finch non ha capito che p oteva e quindi doveva andare avanti. Lo aspettava, da qualche parte, qualcosa ch e lui ancora non conosceva, ma che c'era e lo sfidava a conoscerlo, a dargli un nome. Il suo rapporto con Circe - un fatto molto reale, concreto - gli aveva dat o una misura di s: la misura di un uomo carnale, sanguigno, capace di abbandonars i in piena serenit al fascino della bellissima maga. Ma questa misura era ormai c olma, e ci che la rendeva colma era appunto il senso di quel qualcosa che lo aspe ttava - altrettanto reale di Circe, anche se non aveva ancora un nome. Senso della realt e senso della Misura, come vedi, sono dunque indissolubilmente legati. Anzi, forse sono la stessa cosa. La parola e la realt - puoi anche dire l 'uomo e la realt - si inseguono senza fine: non in un circolo chiuso, come sugger iva l'ingenua immagine del serpente che si morde la coda, ma in una specie di sp irale che si sviluppa in una sua direzione. L'importante, credo, rendersi conto di questo meccanismo. La realt finale, definitiva, quella che sta al di l dell'ult ima parola che sei riuscito a dire - in attesa di una nuova parola, che si arres ter di fronte a una nuova realt. Se qualcuno ti dice: "Alt! Qui finisce la corsa", ti illude o si illude - e non per niente escluso che cerchi semplicemente di fr egarti. Se tutto quel che ti ho detto non ti sembra assurdo e incomprensibile, forse ti pu essere di qualche utilit per affrontare il problema a proposito del quale ti av evo promesso qualche suggerimento: il problema di trovare qualcuno con cui stabi lire un'alleanza perch non sei un dio e neppure un eroe ma soltanto un essere uma no che non pu farcela tutto-da-solo. Cos, dopo aver svolazzato nei cieli della met afisica, torniamo a toccare il terreno, la concreta superficie sulla quale dobbi amo camminare ogni giorno della nostra vita. Parto naturalmente dal presupposto che tu non abbia chiaramente individuato una o pi esigenze precise, bisogni speci fici che per essere soddisfatti richiedano un qualsiasi tipo di conoscenza tecni ca. Se sei sicuro che tutti i tuoi guai, per fare un esempio, nascono dal mal di fegato - come sembrava suggerire la pubblicit di un famoso intruglio - non hai c he da ricorrere a questo toccasana. Vedrai che dopo pochi giorni avrai la stessa faccia soddisfatta di quelli che ti sorridono dal teleschermo perch se lo sono a llegramente trangugiato nelle dosi prescritte. Oppure tutto dipende dal fatto ch e hai messo su qualche chilo di troppo: e allora ti baster ordinare a un banditor e televisivo il suo magico attrezzo anticellulite, e la vita "torner a sorriderti ", come lui si sgola a dire. Scherzo, naturalmente. So benissimo che il problema proprio quello di trovare qualcuno al quale aprirti nella tua interezza di esse re umano - e quindi, necessariamente, senza un problema preciso da proporgli, an che se poi il discorso potr prendere un indirizzo pi ristretto. Si pu parlare di tu tto, ma non del Tutto - al quale si addice piuttosto il silenzio, se non complet amente campato in aria quel che ti ho detto sulla realt e la parola. Fin dall'inizio ti ho suggerito di guardarti dai cosiddetti tuttologhi, in parti colare da quelli alla moda: quindi ti potr sembrare strano che ti parli, ora, del l'opportunit di cercare qualcuno col quale fare un discorso completamente aperto, anzi basato in partenza su tutto. Lascia che mi spieghi. Il fatto che viviamo i n un mondo maledettamente complicato e noi stessi siamo complicati, molto pi di u na volta: ne prova il fatto che avverti la contemporanea presenza di tanti probl emi (il che rende comprensibile il tuo disagio). Nessuno in grado di sapere tutt o, n del mondo n di te. Per puoi chiedergli di prendere atto di questo stato di cos e: puoi chiedergli, cio, di avere il senso della realt - e della tua realt. Perch tu sei reale, qui e ora: non stai vivendo un sogno, n sei un turista di passaggio i n attesa del volo verso la prossima reincarnazione o verso un regno dei cieli dove non c' pi un dio ad aspettarti. Affrontare globalmente un discorso sulla realt impossibile, come si visto, perch n on a misura della parola umana. Entrare in rapporto con qualcuno su questo piano comporterebbe, a rigore, solo un "infinito silenzio" (se mi lasci prendere a pr estito la splendida espressione leopardiana). Ed un silenzio solitario, proprio

perch infinito. Se vuoi che qualcuno lo avverta, e colga il senso della realt che in esso si esprime, devi renderlo finito. Devi romperlo. "Siamo uomini" dice Mon taigne, "e legati gli uni agli altri solo per mezzo della parola" (il corsivo mi o). Certo, entriamo in contatto gli uni con gli altri anche mediante il comportament o: usiamo spesso - sempre, forse - anche quello che si chiama linguaggio gestual e, di cui ti ho gi fatto cenno e sul quale ha scritto tanto e cos bene Desmond Mor ris, l'etologo inglese (i suoi libri, come I gesti dell'uomo e La trib del calcio , sono anche molto divertenti oltre che istruttivi). Ma il linguaggio dei gesti molto pi limitato di quello della parola; ed per lo pi inconscio, la qual cosa lo fa sincero per chi lo recepisce ma rende difficile il servirsene volontariamente . Dovresti essere un grande attore o una grande attrice per servirti del linguaggi o dei gesti senza correre il rischio di essere goffo o retorico o di provocare e quivoci maggiori di quelli legati all'uso della parola. Pensa, ad esempio, come bello - ed eloquente - guardarsi a lungo in silenzio: lo sanno bene quelli che s i amano. Ma se guardi a lungo e silenziosamente una persona con cui non sei gi in intimit, possono succedere cose davvero strane. Un altro equivoco - pericoloso - al quale ti espone l'uso del linguaggio gestual e che pu darti una falsa impressione di alleanza, e persino di fratellanza, con c oloro che compiono lo stesso gesto. Ne sono un esempio i gesti rituali, come l'i nchino dei sudditi a un re o l'adozione dello stesso abito da parte di un gruppo o l'applauso tributato tutti insieme allo stesso cantante. Ma l'essere - moment aneamente - tutti uniti in una folla che applaude non impedisce ai fedeli suddit i, ai componenti della stessa tifoseria o agli ammiratori di un grande tenore di avere ottimi motivi per detestarsi cordialmente l'un l'altro. Infine c' il fatto, basilare, che un gesto pu esprimere s un sentimento, un'emozion e, uno stato d'animo: ma non un concetto, un'idea - a meno che tu sia un grande mimo o un grande ballerino. Solo con la parola puoi dare una struttura (come dic e il ricordato Horkheimer) al tuo modo di vedere il mondo e arricchire sempre pi - se accetti quella sfida continuamente rinnovata di cui ti ho parlato - il tuo senso delle cose reali. Come ogni sfida, comporta un rischio: ma puoi limitarlo in modo ragionevole e accettabile. Basta non voler dire tutto subito, e dare all 'altro il modo e il tempo di risponderti. Comincer cos - se hai anche un po' di fo rtuna - una specie di partita in cui ognuno rilancia all'altro una risposta che sia insieme anche una domanda: perch LA risposta, quella definitiva, come abbiamo visto nessuno pu presumere di averla. Se il tuo interlocutore pretende di averla, a meno che sia una risposta tecnica e quindi controllabile su un problema particolare, avrai un buon motivo per porr e fine al tuo tentativo di colloquio. Se invece il discorso va avanti, si svilup pa, si allarga, dopo un certo tempo potrai forse dire a te stesso che ce l'hai f atta a trovare qualcuno insieme al quale intraprendere il cammino verso la scien za perfetta di cui parla il Ta-Hio. Sar col silenzio che ve lo direte: un silenzi o riempito da uno sguardo, magari, o soltanto da un piccolo gesto. Sintonia. O, se vuoi, simpatia. XI Devo confessarti una mezza bugia. Alla fine del capitolo precedente ti ho detto che puoi trovare qualcuno con cui aprire un dialogo davvero aperto e utile, e pe r inciso ti ho avvertito "se hai un po' di fortuna". Non esatto. Avrai bisogno d i molta fortuna, e di una fatica inversamente proporzionale alle probabilit che h ai cio una fatica lunga, a volte spossante, che talvolta pu risultare inutile (o d artene l'impressione: in realt, questa fatica non mai del tutto sprecata). Non ti prometto di svelarti il sistema per annullare questa fatica e neppure per minim izzarla: per due ragioni. La prima che non lo conosco, anzi sono convinto che in effetti non esista, e chi dice di conoscerlo un illuso o un farabutto. La secon da che, se questo sistema esistesse e io ne fossi a conoscenza, non ti farei il pessimo scherzo di insegnartelo. Se non sei un essere umano dimezzato o addiritt ura ridotto a una frazione pi piccola - un uomo a una sola dimensione, come si di ce - devi fare fatica a vivere, anche senza esagerare (in base alle considerazio

ni fatte a proposito di concezioni eroiche). Ognuno di noi vale, del resto, quel che gli costa vivere: e un po' di fatica va fatta. La mia profonda avversione per molti guru di vario genere basata, a parte la val utazione di ci che dicono, sul disprezzo per un atteggiamento che in questa categ oria assai diffuso. Non poche volte mi capitato, conversando con qualche "guida spirituale", di contestare l'inconsistenza di ci che andava predicando, e mi stat o risposto: "S, certo, questo un discorso che puoi fare a un certo livello... Ma vedi, la gente ha bisogno di illusioni: dandogliele, in fondo, gli fai del bene" . Non esito a dirti che trovo questo atteggiamento, letteralmente, nazista: propri o nel senso che lo trovo identico a quello dei cupi figuri che hanno sterminato milioni di esseri umani perch li consideravano untermensch, sotto-uomini, mentre loro naturalmente erano superiori. Cos superiori da marciare compatti agli ordini di un imbianchino paranoico che si affidava all'astrologia per governare il pro ssimo, e da scrivere sui loro vessilli "il nostro onore si chiama fedelt" - un mo tto pi adatto a un doberman che a un essere umano. Bene: chi pensa che hai diritto, poverino, all'illusione di cavartela senza fati ca, ti considera un sotto-uomo perch ti nega il riconoscimento di una fondamental e capacit umana - la capacit di cambiare, di crescere, di pagare un prezzo per sme tterla di essere una frazione d'uomo e diventare un uomo intero, o almeno provar ci. Che questa capacit umana sia fondamentale non significa, tuttavia, che tutti ne s iano dotati. Il mondo pieno di gente monca, che invecchia senza crescere: e non ci riesce soprattutto perch non sa di poterlo. Questa incapacit merito, si fa per dire, proprio di chi li considera dei poverini da proteggere dai pericoli della crescita, o da consolare. Ci sar mai un mondo di uomini interi, che crescono, che sanno crescere? Non ti dico di s - come mi piacerebbe - e neppure di no - com e sono tentato di rispondere. Penso solo che, come traguardo, non impossibile: a nche se le probabilit sono in effetti piuttosto scarse. Comunque, se l'idea di crescere ti va, questo aspetto della questione marginale. Non puoi dire: "Aspetto che lo facciano tutti". Proprio perch si ricorre cos spes so a questa litania giustificatoria, un numero sempre maggiore di persone non ri esce a crescere. Conseguentemente, queste persone non possono neppure capire com e mai tu voglia avviarti in questa direzione: ecco perch ti ho detto che avrai bi sogno di molta fortuna e di molta fatica, per trovare qualcuno con cui stringere un'alleanza a questo fine. Una persona con la quale condividere il senso della vastit e complessit del reale, qualcuno con cui parlare di tutto, non necessariamente uno che sappia tutto. An zi. Intanto, perch una persona di questo genere non c'. Il sapere umano, dividendo si nei vari campi e scoprendone via via dei nuovi, poi approfondendosi sempre pi in ognuno di essi, diventato enorme - c' chi pensa che sia cresciuto anche troppo , e in un certo senso non gli si pu dare del tutto torto. Per ci sono persone che non si limitano solo a una ristretta competenza in un determinato settore del sa pere. verso costoro che ti conviene indirizzarti. Non parlo, bada, di quelli che sanno come suol dirsi un po' di tutto: frequente il caso in cui questo po' di tutto si rivela abborracciato, approssimato, sgangh erato - e magari il soggetto di questa scienza sparpagliata e cialtrona convinto di essere Leonardo da Vinci. Parlo, piuttosto, di quelli che sanno approfittare dell'occasione costituita dall'aver raggiunto una buona competenza in un campo qualsiasi, e traggono da questa esperienza un'utile lezione sul metodo. Chi ha u na mente aperta e viva, quando acquisisce un sapere qualsiasi, si rende anche co nto di due cose molto importanti. La prima la piccolezza del suo sapere: e ne de duce non solo che il sapere umano nella sua totalit ha un'estensione enorme, ma c he tutto legato a tutto, come si dice, e cio che tutte le nostre conoscenze sono interconnesse. La presa di coscienza di questo fatto ha indotto universit, centri di ricerca, istituti e fondazioni a occuparsi sempre pi di quella che si chiama interdisciplinarit, ovvero la necessit di collegare tra loro i vari tipi di sapere - facendo incontrare fra loro gli uomini che li perseguono separatamente (biolo gi e ingegneri, per esempio, oppure informatici e urbanisti ).

Un bell'esempio di questo spirito di interdipendenza - e anche di lodevole umilt scientifica - lo offr un volume uscito un bel po' di anni fa negli Stati Uniti: E ncyclopaedia of ignorance, dove numerosi scienziati di grande prestigio esponeva no con franchezza le limitazioni del loro pur grande sapere e indicavano le fron tiere ancora da esplorare. Sono immense: senza contare, naturalmente, quelle che ora non siamo neppure in grado di supporre. La seconda cosa - collegata alla prima - di cui si rende conto chi sa imparare, che tutte le conoscenze, pur sviluppando ciascuna le sue particolari tecniche di ricerca, sono basate su un metodo comune. Sapere, cio trovare le parole giuste, richiede un modo di procedere che sostanzialmente lo stesso qualunque sia la cos a che vuoi sapere. Non parlo soltanto di metodo di ricerca nel senso stretto del termine, cio di regole da tener presenti e di procedimenti operativi da seguire. Parlo anche, e soprattutto, di qualit umane che sono indispensabili se si vuole davvero acquisire una maggiore conoscenza, e non soltanto costruire bei castelli in aria o pavoneggiarsi con un titolo accademico. Senti cosa disse a questo pro posito sir Francis Crick, Nobel per la medicina 1962 (fu lui, insieme a Watson, a scoprire la famosa struttura "a elica" del DNA): "La gentilezza il veleno della collaborazione nel campo della ricerca. L'anima d ella collaborazione la perfetta franchezza: anche la villana, se necessario... Pe r un buon scienziato, la critica ha un valore quasi maggiore dell'amicizia. No, mi correggo: la critica rappresenta la misura e l'espressione massima dell'amici zia. Chi collabora con te ti fa notare le banalit, con giustificata impazienza. D ice basta alle sciocchezze". Sir Francis parlava di rapporti tra colleghi scienziati; per le sue parole vanno bene, anzi benissimo, per definire ogni rapporto umano centrato sulla ricerca ne l senso pi vasto del termine. Te le ho citate perch non saprei come meglio spiegar ti ci che ritengo essenziale in quella che ho chiamato alleanza: ed proprio ci che rende difficile trovare con chi poterla stringere realmente, senza illudersi a vicenda. Meno difficile, forse, capire le cause di questo fatto, perch ci stanno sotto gli occhi tutti i giorni. Nella stragrande maggioranza, oggi i rapporti umani hanno un carattere utilitario immediato. Tendiamo a preferire coloro che soddisfano i nostri impulsi pi superficiali ("preferisco Carlo a Piero, pi divertente") o che ci fanno sperare in un utile sul piano pratico ("sar meglio farsi vedere pi spesso dai **, lui pu aiutarmi a trovare un posto migliore"). Automaticamente, selezion iamo i nostri rapporti con le varie persone secondo il loro ruolo, dato che impr obabile trovare chi sia contemporaneamente in grado di soddisfare tutte le nostr e esigenze. Nasce cos la catena dei rapporti cosiddetti alienati, contro i quali del resto in utile protestare moralisticamente se non si riflette un po' sul perch si sono tan to moltiplicati nella nostra societ. Il fatto che i rapporti alienati sono, fino a un certo punto, molto efficienti: ti danno quello che chiedi e ti coinvolgono - cio ti costano - poco. Sono infatti scambi di servizi specializzati. Se il forn itore di uno di questi servizi peggiora la qualit o alza il prezzo, puoi cambiare solo lui e mantenere i tuoi rapporti con tutti gli altri. Questo fenomeno ben n oto in campo economico. La specializzazione stata alla base della rivoluzione in dustriale; e, diventando sempre pi spinta, ha portato a un aumento dei prodotti e insieme a un calo del loro costo unitario. quella che si chiama economia di sca la e che ha costituito un reale, grande progresso. Per, spinto al parossismo, que sto processo ha anche comportato una quantit di problemi che costituiscono una gr ossa fonte di grattacapi per economisti, categorie produttive e uomini politici. Nel campo dei rapporti umani successo qualcosa del genere. A un certo punto molt i hanno cominciato a capire che l'efficienza settoriale, una volta portata all'e sasperazione, non era pi efficienza: quando un rapporto, comodo magari quanto ti pare, ti coinvolge sempre meno, non pu pi essere definito conveniente perch quello che desideri proprio esserci coinvolto, metterci un po' di te stesso, anche se r isulta faticoso. Non a caso c' gente che si impegna a fondo nel volontariato (par

lo di quelli che lo fanno sul serio: non di quelli, e sono tanti, che si iscrivo no a un'associazione qualsiasi "cos per fare qualcosa". Tant' che si iscrivano a u na bocciofila, allora). Ecco, un rapporto in cui l'altro ti critica con la franc hezza e magari la "villana" di cui parla Francis Crick certo pi scomodo. Non come il rapporto che hai con chi ti vende la sua merce e poi si complimenta con te pe r l'ottima intelligente scelta (sfido io, la sua roba che ti ha appioppato). Per, se qualcuno ti critica e invece di spazientirti lo stai ad ascoltare con calma, ti pu capitare di ricavarne un vantaggio: anzi, un doppio vantaggio. Anzitutto, pu darsi che abbia ragione lui e che i suoi suggerimenti, anche se un po' bruschi , ti evitino di commettere una sciocchezza; ma c' un'altra cosa, e penso che sia ancora pi importante. Se qualcuno ti critica, capisci che tiene a qualcosa che va al di l del suo utile immediato. Affronta il rischio di una tua reazione perch pu nta a uno scopo che considera superiore a quello di intrattenere con te un rappo rto strumentale. E forse il tuo stesso scopo. Ho detto "forse": perch sempre possibile che vi sia un equivoco. Per non sei del t utto privo di mezzi per accertartene. Hai la parola: l'insicura, ambigua, perico losa parola - senza contare l'altro linguaggio, quello del comportamento, anch'e sso con le sue incertezze d'interpretazione ma molto efficace. Sono secoli che l a semplice saggezza popolare ti avverte di diffidare di chi, come suol dirsi, pr edica bene e razzola male. Ma se c' consonanza, se c' accordo tra questi due lingu aggi, allora il margine di rischio d'equivoco si abbassa molto - sia pure senza scomparire del tutto. Di nuovo, si tratta di parlare. Solo parlando (e ascoltando) puoi giocare quella partita di domande-risposte-domande di cui ti auguro di non udire mai il fischi o finale. A ogni fase del gioco, saranno gli elementi della realt - le cose, gli eventi, le forme - a dirti se hai perso il tempo in un bla-bla sterile e illusor io, o se quelle parole erano giuste. Se erano idee con le quali confrontare le t ue, il tuo modo di vedere il mondo. E se una di esse ti pu servire come guida, co me faro nel viaggio attraverso la vita: magari soltanto per un tratto, perch non c' pi l'Idea in grado di illuminare tutto e per sempre. XII Io non so se, come e quando riuscirai a trovare qualcuno che voglia e sappia par lare con te, e le cui parole reggano la prova delle cose - mentre lui (o lei) si occuper di fare altrettanto con le tue. Non aspettarti di trovarlo domattina, n d i stringere una buona alleanza dopo una chiacchieratina al bar. Queste sono cose che ti promettono i club per cuori solitari. Pu darsi invece che tu abbia gi qual cuno con cui parlare, qualcuno che ti ritieni fortunato d'aver incontrato. Quale che sia il tuo caso, c' qualche considerazione che vorrei proporti sull'incontro con una persona con cui parlare. Ogni essere umano unico e irripetibile, certo; ma non penso che tu sia cos partic olare da ritenerti autorizzato a concludere che riuscirai a farti capire solo da una persona altrettanto particolare. (Voglio sperare che tu non sia di quelli c he dicono: "A me, nessuno mi capisce". Se sei sicuro di questo, perch continui a leggermi? Smetti: non mi va di essere la tua bambola gonfiabile). Non siamo tutt i uguali ma siamo simili, pi o meno, e le persone speciali sono poche - anche se molti credono di esserlo. A parte la scarsit, anche se conosci una persona che ritieni veramente speciale n on ti rivolgere a lei - o almeno, soprattutto non ti rivolgere soltanto a lei. C i sono due possibili esiti per un rapporto in esclusiva di questo genere. Il pri mo si ha quando i due partners alla pari si sentono ugualmente speciali tutti e due. Se (o sembra) cos, il problema del disagio, dello sgomento, dell'estraneit si ripresenter tale e quale, semplicemente raddoppiato: con la sola differenza che ad aggirarsi ansiosamente nella cupa foresta di un mondo ostile non sar pi una Cap puccetto Rosso, saranno le Due Orfanelle. Se il rapporto invece non alla pari, molto probabile che uno dei due finisca con l'appoggiarsi all'altro - che sente in qualche modo pi preparato, pi solido, pi fo rte. Ma allora non un'alleanza, un andare al traino: ed piuttosto probabile che a un certo punto quello che tira la carretta si rompa le scatole. Se non lo fa, significa che ha fatto i suoi conti e ha concluso che gli conviene sopportare l'

altro per ci che ne riceve in cambio: torniamo allora al rapporto utilitario cio s ettoriale, alienato, un po' ricattatorio: puoi chiamarlo, se vuoi, mercantile. Tra parentesi, mi sembra chiaro che in un rapporto del genere non c' niente di di sdicevole in s: il commercio una lodevolissima e utile attivit. Solo che un'altra cosa, mi sembra, da quell'alleanza di cui ti ho parlato: anche se qualche volta meglio un buon rapporto mercantile, franco e leale, piuttosto che un'alleanza in ficiata da opportunismo e da calcoli nascosti. E non voglio neppur prendere in c onsiderazione il genere di rapporto che si ha (ed purtroppo frequentissimo) quan do due persone si sopportano a vicenda, perch ognuno dei due ha bisogno dell'altr o per qualcosa: il rapporto definito dall'espressione "essere come le due met di una mela". Nella maggior parte dei casi, ogni met della mela sopporta l'altra perch ha il ter rore di dover fare i conti con la propria incompletezza, dalla quale non vuole u scire perch ci comporterebbe un certo sforzo. Cos, in pratica ognuno dei due dice a ll'altro: "Ti sopporto come sei, purch tu non mi secchi con le tue critiche". Det to senza perifrasi, un ricatto reciproco. Non mi sembra un granch, a dire il vero . Il qualcuno con cui cercare l'alleanza, dunque, non una persona: questo non un m anuale sulla ricerca dell'anima gemella. Le persone con cui parlare, gli esseri umani con i quali stringere un'alleanza, non sono mai abbastanza: proprio perch, come ti dicevo, nessuno sa tutto - e se cerchi una risposta a interrogativi che ti portano necessariamente in qualsiasi direzione, non puoi rivolgerti a una per sona sola. Insomma, per tirare un po' le fila del discorso che ho cercato di far ti: c' bisogno dell'aiuto di tanta gente, se si vuol vedere un po' pi chiaro in no i stessi e nel complicato mondo che ci sta intorno. "Senti questo" puoi pensare. "Gi difficile trovare uno che non ti consideri un nu mero o un oggetto o un fornitore di servizi - e ora mi sento dire che devo trova rne tanti, disposti a stringere con me un'alleanza in cui ognuno riconosce e ris petta l'integrit dell'altro. Ma no, questo qui ha la testa nella luna". Pu essere che sia proprio cos: io stesso non sono mai venuto completamente a capo di questo sospetto, e chiss se ci riuscir mai. In effetti, a guardarsi un po' into rno il panorama non consolante, e non ho nessuna intenzione di inventare belle f avole per convincermi - e convincerti - del contrario. Altro che "Viva la gente! " - come proclamava il titolo di un mielosissimo spettacolo musicale che per mol ti anni fece periodicamente il giro del mondo. Sono pi disposto a essere d'accord o con quel che diceva Charlie Brown, in una famosa striscia. Alla terribile Lucy , che lo rimproverava di "non amare l'umanit", il simpatico personaggio dei Peanu ts rispondeva: "Non vero. Io amo l'umanit. la gente che non sopporto". Rifacendom i a Charlie Brown, non so disapprovarti se scuoti la testa nel guardare la gente , in mezzo alla quale cos difficile trovare qualcuno con cui stringere una buona alleanza. Ma c' sempre l'umanit, che non fatta soltanto di chi ti sta davanti qui e ora. Io e te, e tutti quelli che come noi si fanno domande e cercano risposte, siamo il risultato di un processo lunghissimo, che ha coinvolto e continua a coinvolgere un grande numero di esseri umani. Non tutti, certo, anzi una minoran za: in ogni epoca, una gran parte dell'umanit ha solo, per cos dire, assistito all a vita - quando non l'ha dovuta semplicemente subire. Questo processo non stato - e probabilmente non sar mai - lineare: una pericolosa illusione l'idea di un progresso, di un supposto cammino diritto e ascendente d ell'umanit verso un sempre pi luminoso avvenire. E tuttavia, nonostante le pause, i ritorni all'indietro e i numerosi passaggi su terreni gi esplorati, questo viag gio degli uomini attraverso il mondo e il tempo - la storia - non stato del tutt o vano. Ha qualcosa da insegnarci: per meglio dire, ha prodotto qualcosa da cui possiamo imparare, su cui vale la pena di riflettere (se ne riconosciamo la nece ssit e l'utilit). Che cosa? Parole, cio idee. L'uomo soggetto di storia nato con la parola-idea, ci o quando si impadronito e impratichito dello strumento col quale interpretare il mondo e progettare le proprie azioni, per poi tornare a interpretare il mondo mo dificato dalle azioni stesse - che non sono sempre buone azioni, come si sa. Un giorno dopo l'altro, un secolo dopo l'altro, l'uomo si posto domande e dato risp oste: appropriate o no, valide in un ambito ristretto o entro i pi ampi confini d

ella vita, impetuose o meditate, suggerite o imposte, gridate o sussurrate. Molte, moltissime di queste parole sono durate il tempo che ci voluto a pronunci arle o anche solo a pensarle. Ha scritto Peter Berger, il brillante sociologo am ericano: "Forse l'evento decisivo della storia umana ebbe luogo in un caldo pomeriggio del 2045 a.C., quando un ignoto sacerdote egizio svegliandosi dalla siesta trov di colpo la risposta definitiva all'enigma dell'esistenza umana - e mor subito dopo senza comunicarla a nessuno". S, tante parole sono finite nel vento. Ma tante sono rimaste: scritte su papiri o registrate nelle memorie dei computer; parole di difficili trattati o parole di canzoni; parole trovate per caso o dopo una lunga faticosa ricerca. Per non con tare i messaggi affidati al pennello dei pittori, allo scalpello degli scultori, alla musica, all'architettura - e anche alle semplici forme con le quali ignoti artigiani hanno modellato modesti oggetti di uso comune. Tutto questo - ed ci ch e chiamiamo cultura - ti parla della lunga fatica umana per capire il mondo. Se ti ci accosti, puoi quasi sentire il respiro di chi ha portato il suo contributo - la sua pagliuzza o la sua trave - per costruire questo edificio. un labirinto nel quale ti puoi anche perdere, ma non puoi fare a meno di entrarci se non vuo i restare tagliato fuori: allora s che saresti solo - solo come un cane, anche se hai trovato l'anima gemella che ti fa le coccole o una compagnia con la quale a ndare a cena fuori porta e divertirti da matti, o ti sei piazzato in un bel post o dove guadagni tanti quattrini per comprarti tutte le cose che ti propongono gl i spot. Sicure istruzioni sull'uso del labirinto culturale non sono in grado di dartele: ne conosco solo una piccola parte. Per qualche vecchio trucco, con la pratica, s i finisce per impararlo. Cos, per prima cosa ti direi di disegnare una mappa, anc he non particolareggiata: e non ti ci vorr molto a capire che risulta molto simile al disegno di un grande albero. Prima regola che ne consegue: fa' un giro nelle fondamenta del labirinto, nelle radici dell'albero della cultura - ovvero, per intenderci fuori di metafora: se vuoi capire qualcosa del mondo, piuttosto che collezionare autori alla moda o vi ncitori dell'ultimo premio letterario rivolgiti alle grandi voci del passato. Le ggiti, o rileggiti, i cosiddetti classici. come parlare con dei vecchi saggi: a volte sono un po' noiosi, si servono di termini che non usano pi, e il mondo che conoscevano era pi piccolo e quindi pi semplice del nostro. Cos, qualche volta ti d icono cose che (giustamente) non ti tornano; ma le dicono cos bene, e da loro puo i imparare a esprimerti. Altre volte, ti dicono cose che ti sembrano scontate: ma anche questa un'utile l ezione. Scopri infatti un legame tra te e loro; e anche quanta fatica, quanto in gegno sono stati necessari per lasciarti idee, cio strumenti di conoscenza, di cu i ora non sapresti fare a meno (ed per questo che ti appaiono scontate). Attento a chi trovi agli ingressi dei grandi corridoi principali del labirinto. La cult ura anche una merce: e non solo nel senso che esistono gli editori e i librai, g li impresari di spettacoli e di concerti, i produttori di film o di programmi te levisivi, le istituzioni che gestiscono i musei eccetera. Tutta questa gente, qu ando fa bene il suo mestiere, indispensabile alla diffusione della cultura - ne un fedele servitore - e se guadagna dei bei soldi se li merita. Ma la cultura un a merce anche nel senso che molti, tra coloro che sanno qualcosa, tengono ad aff ibbiarti il loro sapere e solo quello per guadagnarci sopra: in prestigio, in au to-compiacimento - spesso in potere o, pi terra-terra, in denaro. Come tutti i br avi mercanti sono affabili, suadenti, fanno di tutto perch tu ti senta a tuo agio e non faccia nessuno sforzo, pur di strapparti alla concorrenza. Ricordati di s ir Francis Crick, allora, e cambia corridoio. Ti puoi trovare anche nella situazione opposta. Cerchi di entrare in qualche sal a riservata (cio di interessarti a qualche materia un po' speciale, che ti incuri

osisce pi delle altre) e ci trovi qualcuno che - con aria pi o meno affabile di su periorit - ti dice che no, non posto per te. possibile, naturalmente: soprattutto se sei agli inizi del tuo giro di esplorazione, sai poco di qualcosa e niente d i tutto il resto. Ma se non ti spiegano - se non ti sanno spiegare, e sono cavol i loro - almeno di che cosa si sta parlando in quell'augusto tempio del sapere, vuol dire che per loro sei un poverino. L'odore che senti in giro, allora, pu ave re solo due spiegazioni: o fumo di chiacchiere inutili o sentore di nazismo inte llettuale. Hai pi motivo di fiducia quando ti trovi di fronte a un bravo onesto divulgatore: uno che sa introdurti con un po' di cordialit nelle stanze del suo sapere, non l e definisce "tempio", non si d arie e non ti chiede di piegarti a nessun rituale ma solo di pagare il biglietto e di non fare casino. Se ti dice qualcosa che non capisci, non ti d dello stupido (non subito, perlomeno) e riprova a spiegarsi: m a sempre chiedendoti un po' di sforzo e dicendo "basta alle sciocchezze". Ma il dato pi importante del suo comportamento un altro. Se vuole davvero essere tuo al leato, non cercher mai di tenerti troppo a lungo nelle sue stanze. Non ti dir che tutto si spiega con la sua scienza e solo con quella. Sar lui stesso a invitarti a tentare altri percorsi. Se anche ti riuscir di arrivare alle stanze pi lontane e segrete del suo settore, ti dir che in quegli ambienti rarefatti e molto, molto silenziosi c' solo una parte del sapere: e non sar mai l'ultima, perch il labirinto si estende continuamente - il grande albero della cultura non smette mai di cre scere. Un'altra cosa, che puoi capire anche senza entrare nel labirinto - basta guardare la mappa - che ci sono molte interconnessioni. Puoi imboccare un corrid oio, andare avanti per un bel tratto e trovarti in una stanza dove si pu arrivare anche da un'altra direzione. Parli con un teologo, e a un certo punto arrivi a un concetto che gi saltato fuori parlando con un poeta o con un biologo; oppure s tai leggendo un romanzo con la radio accesa e ti accorgi che in due lingue diver se ti stanno dicendo cose molto simili (prova a leggere Moby Dick ascoltando una sonata di Beethoven, o magari un "giallo" di quelli classici alla Marlowe con u n sottofondo di jazz tradizionale). Secondo alcuni, questo fatto dell'interconne ssione tra i vari rami del sapere significa che da qualche parte del labirinto c ' una stanza alla quale si arriva da qualunque parte si provenga: e ne traggono l a conclusione che sia superfluo percorrere tutti i corridoi e consigliabile, inv ece, perseguire tenacemente la ricerca in una sola direzione. la concezione dei mistici, i quali sono convinti che si possa raggiungere l'Assoluta Perfezione ri petendo all'infinito un certo esercizio o una certa giaculatoria, o contemplando si perennemente l'ombelico, o fissando senza soste una santa immagine. Qualcuno sostiene che lo scopo si pu raggiungere anche applicandosi senza riserve a un'att ivit fisica: e fra tutte tenuta in gran conto l'assidua fornicazione. Sar. Non sono molto propenso a seguire questa teoria per due ragioni: che quella famosa stanza finale alla quale simili pratiche dovrebbero condurre - il Sancta Sanctorum, dove inebriarsi dell'Illuminazione Assoluta - o non l'ultima, e allor a il discorso non sta in piedi; oppure lo , e allora una tomba. Come quella alla quale ti porta qualsiasi overdose, e che spesso - le cronache ne sono piene - so lo la latrina di un bar di periferia. La lista dei consigli che mi sono permesso di suggerirti a proposito del labirin to culturale abbastanza lunga, come vedi, ma non sarebbe completa senza quella c he a mio avviso la regola principale. Entra e esci spesso dal labirinto della cu ltura. In caso contrario, ti capiter di trovarti a dover pronunciare le parole di un grande letterato italiano, che spiritosamente ha confessato di s: "Non ho vis suto la mia vita, l'ho letta". XIII Chi si limita a leggere la propria vita, come il letterato che ho citato, finisc e col vivere in contemplazione di un arabesco di parole: uno splendido arabesco, a volte, ma assolutamente astratto. Come se vivesse in un cruciverba: con tutte le parole ben concatenate e i quadratini neri accuratamente disposti. Il bello vedere con quanta cura gli appassionati di questo tipo di esercizio si applicano alla loro fatica, e con quale soddisfazione ti presentano il compitino finito. Per esempio:

1. orizzontale: sconfisse gli Spartani a Leuttra. Eh, mica facile saperlo; ma il signor-so-tutto ha studiato storia antica e scriv e sicuro: Epaminonda. 2. verticale: scorre nel cilindro. Hmm... ma s, l'ho sentito alla scuola guida: pistone. 4. verticale: si d la destra per salutare. Ah, questa elementare: mano. 9. verticale: ci abitano i domesi. Anche questa qui non da poco; ma chi stato in Piemonte scrive sicuro: Domodossol a. Non c' dubbio: ci vuole una certa abilit, applicazione, memoria, nozioni. Ma tu, l 'hai mai visto Epaminonda con un pistone in mano a Domodossola? Scherzi a parte, quel che voglio dire che un numero enorme di persone vive, come suol dirsi, in un universo di linguaggio pi o meno dotato di coerenza interna - come accade, per l'appunto, a uno schema di parole crociate - ma privo di relazioni con la realt che non siano casuali o gratuite. E non parlo solo dei letterati, tra i quali come si visto - c' almeno qualcuno con la capacit di riconoscere spiritosamente ch e s, loro la vita la leggono e non la vivono. Molte persone convinte di essere assolutamente realiste hanno, del mondo, un'imm agine completamente campata per aria: e poich giudicano se stessi e gli altri, e decidono le loro azioni, sulla base di quell'immagine, puoi capire che le conseg uenze non sono molto liete. Senza il riscontro della realt, la cultura - l'insieme delle parole di cui ci ser viamo per dare un nome alle cose, agli eventi, alle forme - non ha senso. E se v uoi il riscontro con la realt, a questa che ti devi rivolgere: non ad altre parol e, per quanto ben concatenate tra loro. Questa verifica, come aveva capito Heise nberg, non pu mai essere effettuata fino in fondo: non puoi mai entrare in contat to diretto con la realt ultima, cio farne esperienza cosciente. Ma se rinunci, con un po' di senso della Misura, al perseguimento di questo traguardo definitivo, la vita ti fornisce ogni giorno un enorme numero di occasioni per entrare in con tatto con gli elementi della realt - verificando se gli avevi dato o no il giusto nome. Noi entriamo in contatto diretto con la realt attraverso i sensi: i quali, come n oto, sono fortemente limitati e spesso ingannevoli. Pu essere squisito il fungo c he ti manda al cimitero; e il bastone immerso nell'acqua appare spezzato. Ma lo sappiamo, e possiamo premunirci abbastanza agevolmente per non cadere in errore; e poi, seppure ingannevoli, i nostri sensi funzionano piuttosto bene in molte c ircostanze. Ti faccio un esempio. Sei in macchina, e corri a 100 all'ora. La tua percezione della velocit, soprattutto se non sei allenato, abbastanza imprecisa: se non guar di il tachimetro (che si suppone ben regolato), non sapresti dire se vai a 90 o a 110. A un certo punto, per, gli organi dell'equilibrio che hai nell'orecchio in terno ti avvertono che la macchina sta rapidamente decelerando, finch si arresta del tutto. Se, contemporaneamente, vedi del fumo scuro, annusi odor di bruciato e il tuo udito avverte un complesso di vibrazioni sonore comunemente definito "r umore di barattoli e di campanacci", allora, i sensi saranno ingannevoli finch vu oi ma hai fuso. Si verificato un evento che ha cambiato una cosa (un motore funz ionante) in un'altra cosa che ha lo stesso peso, volume, eccetera ma tutta un'al tra forma (un mucchio di ferrivecchi) e soprattutto non ha pi la funzione origina le. A questo punto, assolutamente consentito che tu pronunci parole concitate e anch e per niente signorili: una tua reazione e ne hai diritto. Per sai bene che non o tterrai niente se ti rivolgerai alla macchina spiegandole che deve rimettersi su bito in moto perch tu stai correndo dal tuo grande amore, o a lottare per la clas

se operaia o a riscuotere un assegno da un miliardo. Perch la macchina riprenda a funzionare necessario che qualcuno entri in contatto diretto e cosciente con gl i elementi di quella cosa reale che il motore fuso e li modifichi, li cambi, res tituendo loro la forma originale. Ci, a sua volta, avverr solo se il personaggio in questione avr una immagine esatta del motore, cio se sapr dare a ogni sua parte il giusto nome. Ti affideresti, se fossi in questo pasticcio, a uno che non conosce la differenza tra un motore buo no e uno fuso? Penso proprio di no. E non ti affideresti, penso, neppure a uno c he dicesse: "Non preoccuparti. Ora gli parlo io, al motore, e per maggior sicure zza faccio anche una novena a S. Cristoforo patrono degli automobilisti". Non si pu parlare con la realt. Puoi - devi, anzi - parlare o almeno sforzarti di parlare pi correttamente possibile della realt, cio dare alle cose e agli eventi e alle forme il giusto nome; ma la resa dei conti sulla realt, nel diretto contatto con essa. possibile? Con la realt ultima, finale, pare proprio di no - come si v isto. E se qualche volta successo, come nel caso dell'ipotetico sacerdote egizio di cui parlava Peter Berger, non ne sappiamo niente. Ma proprio il fatto che la realt ultima non raggiungibile, che non oggetto di esperienza ma solo di parola, comporta che prima di arrivare a quell'estremo limite tu abbia incontrato una s erie di cose e di eventi e di forme che sono insieme reali e conoscibili. Se adesso ti trovi in una situazione in cui non sai come orizzontarti; se stai f acendo esperienza di quell'evento (realissimo, eccome) che il disagio, lo sconce rto, e anche la paura di vivere, la causa molto probabilmente alle tue spalle. N el tuo viaggio attraverso la vita, via via che hai fatto le tue esperienze, fors e hai dato ai vari elementi un nome che non era quello giusto; magari, qualche v olta o anche molte volte, non hai neppure provato a dargli un nome qualsiasi. Il che non ha impedito che le cose, gli eventi e le forme da te ignorati restasser o testardamente reali, e avessero un influsso reale sulla tua vita. Come questo si sia verificato, non poi cos difficile da capire. Ti sei trovato di fronte a qualcosa, e invece di cercare e trovare il suo vero nome gli hai attri buito quello che un altro ti ha fornito (per risparmiarti lo sforzo: che carino) . Qualcun altro aveva fatto la stessa cosa con lui, e cos via: siamo, di nuovo, a lla solita catena di S. Antonio. Cos, invece di dare tu un nome agli elementi della realt, magari riflettendoci pri ma un po', ti sei limitato ad apporre su ciascuno di essi un cartellino prefabbr icato, dove il nome era accompagnato da un giudizio categorico - garantito dall' autorit di chi ti aveva fatto il favore di istruirti in modo cos completo e sicuro . Qualche volta, probabilmente, ti sono venuti dei dubbi, perch il nome e il cons eguente giudizio non ti sembravano tanto giusti: perlomeno, non in modo cos categ orico. In qualche modo, per - col bastone o con la carota, o con un'accorta mistu ra di entrambi - ti hanno convinto che eri tu ad avere torto; anche perch la prim a, primissima lezione ti aveva ficcato bene in testa l'uguaglianza "dubbio = pec cato, delitto" (con relativa pena). Rivedere il tuo vocabolario ti coster tempo e fatica, mi sembra appena il caso di fartelo notare: e certamente troverai qualche esempio di parole-idee che portan o a equivoci molto pesanti (come quelle alle quali ho accennato a pag. 90). Ora voglio dirti un'altra cosa, che considero molto importante. Poco sopra ti ho fat to un esempio molto banale di rapporto diretto con elementi della realt - un esem pio volutamente banale. Penso infatti che il recupero del rapporto perduto con l a realt debba cominciare proprio dalla base, dal rapporto con le piccole cose e i piccoli eventi, quelli disprezzati da chi fa mostra di occuparsi soltanto di co se elevatissime. Ci sar, non temere, tempo e modo di sottoporre a verifica il rapporto con cose pi difficili da capire e con eventi pi complessi - quelli che non coinvolgono oggett i inanimati come una macchina ma la tua mente: la ragione, i princpi, i valori. M a non si pu imparare a correre se prima non si imparato a camminare: e tanti, tro ppi oggi vivono senza neppure conoscere il sapore del rapporto fisico, concreto con le cose materiali, con gli oggetti della vita quotidiana. Fermati a guardare la folla che passa in una grande citt: vedrai sguardi persi chiss dove, dietro i quali puoi indovinare menti che perseguono con ostinazione quasi maniacale il ra ggiungimento di un fine. Se chiedi a queste macchinette alienate che cosa cercan

o, che cosa chiedono alla vita, ti rispondono enumerando una serie di feticci: i l successo, il potere, la prevalenza, oppure obiettivi identificati da parole mi tologiche, altisonanti e paurosamente generiche: "Cerco la felicit", "Vorrei star bene"; oppure, con l'aria di chi ha capito tutto e punta a un fine spiritualmen te molto elevato: "Voglio realizzarmi", "Voglio essere riconosciuto come persona ". Se per gli chiedi cosa intendono per successo, felicit, realizzazione, persona, non sanno dirtelo oppure non escono dalla pi piatta banalit - condita di "cio, ins omma...". Persi dietro il miraggio di queste Vette Sublimi (ma vaghe), non hanno occhio pe r il variopinto, concreto, realissimo mondo di cose, di eventi e di forme che st a loro intorno. Salvo accorgersi, quando vanno a sbattere contro qualcosa che co lpisce brutalmente i loro interessi immediati, che le cose e gli eventi e le for me di questo mondo non sono aggirabili con un elegante gioco di parole. Allora t utto un echeggiare di lamentazioni, recriminazioni e soprattutto accuse - perch c ' sempre qualcuno, dai pulpiti delle fedi, pronto a sostenere che se siamo nei gu ai sempre per colpa di quelli l. Questa la situazione e lo sai benissimo, come sai che n io n te n qualsiasi gruppo autodefinitosi degli eletti pu cambiare il mondo. Perlomeno, non da qui a domatti na. Ma se ci dobbiamo (perch ci vogliamo) vivere, prima di ogni altra cosa bisogn a conoscerlo: e la conoscenza comincia dal qui e ora, dalle cose quotidiane e da gli eventi e dalle forme cui esse partecipano. Apri un libro che ami, che ti abb ia dato idee ed emozioni. Scegli una pagina a caso, toccala, guarda da vicino le fibre della carta su cui sono allineate le lettere con le quali l'autore ti dic e ci che pensa. Senza qualcuno che fa quella carta, e gli inchiostri; senza chi i mpagina e chi cura la fotocomposizione; senza chi pilota la rotativa e chi imbal la, confeziona, spedisce; e senza l'esercito di coloro che stanno alle spalle di chi ho nominato (con molte dimenticanze, di cui mi scuso); be', senza tutta que sta gente e senza le cose che essi maneggiano e gli eventi di cui sono attori e le forme che hanno nella mente, l'autore potrebbe aver avuto le pi belle idee di questo mondo ma farebbe la fine del sacerdote egizio di Berger. Oppure potrebbe raccontarle a se stesso, al massimo a qualche anima pia col tempo e la voglia di stare ad ascoltarlo. Il mondo fatto anzitutto di cose. Una volta erano poche: e lo sono ancora, in qu elle residue parti della Terra dove vivono gli uomini che chiamiamo primitivi. N on uno solo di essi ignora le cose in mezzo alle quali vive. Pu dar loro il giust o nome (l'antropologo Franz Boas not che gli Eschimesi hanno moltissime parole di verse per definire ogni possibile tipo di neve) perch vive di esse e con esse. I pali della sua capanna. La corda del suo arco. Il suo stesso corpo - la mano fat ta per accarezzare o per colpire, la pelle fatta per sentire il caldo e il fredd o o per toccare il corpo dell'altro nella lotta come nell'amplesso. Io e te non viviamo in un mondo cos semplice. Viviamo in un mondo estremamente co mplesso, che l'uomo ha riempito di cose nuove e mai viste. Una gran parte di ess e inutile o addirittura nociva; qualcuna francamente immonda. Ma ci sono, e non te la cavi ignorandole: soprattutto, se le ignori non riuscirai mai a dar loro i l giusto nome e a distinguere, tra tutte, quelle che vale la pena di conservare e utilizzare. Dobbiamo reimparare a stare nel mondo, accettando la sua complessi t - che non vuol dire subirla. Imparare da chi? Non c' bisogno di fare un pellegri naggio al santuario di qualche guru esotico, magari lasciandosi abbindolare da c hi ci propone illusorie, fuggevoli evasioni ("Torna a te stesso! Soggiorno di me ditazione in India, 7 milioni tutto compreso - extra e bevande a parte"). Basta guardare i bambini - i pi piccoli soprattutto, quelli su cui non si ancora infier ito troppo facendone delle scimmiette infiocchettate, angosciose caricature degl i adulti nevrotici che stanno loro intorno. Guardano, toccano, frugano, smontano tutto ci in cui si imbattono, senza alcuna p revenzione - finch qualcuno non gli impone proibizioni e obblighi che tendono sol o a riprodurre strutture stereotipe di comportamento. Poi gli regaliamo giocatto li complicati, di cui non possono capire il funzionamento: cos imparano a identif icare gli oggetti con la loro funzione - mentre il meccanismo rimane avvolto in un'atmosfera magica. Il risultato che si abituano a vivere in un mondo di oggetti che sentono come es

tranei e potenzialmente ostili: gli oggetti, infatti, spesso si rompono e i bamb ini si sentono traditi da questo fatto perch non vanno pi in l della constatazione che il giocattolo non soddisfa pi i loro desideri. Il passo successivo che questo rapporto utilitario-edonistico con le cose si estende rapidamente agli esseri u mani: e dieci o quindici (ma purtroppo anche trenta o quaranta) anni dopo li sen ti definire "fascista e oppressivo" chiunque gli chieda un po' di sforzo, un po' d'impegno, e di non volere tutto subito e gratis. Guarda la determinazione, la concentrazione assoluta con cui un bambino cerca di usare le mani per afferrare qualcosa - ad esempio la prima mollichina di pane d i cui ha deciso di impossessarsi, e di cui far un minuzioso esame tattile-olfatti vo-gustatorio. Questa capacit di sforzo per conoscere le cose, per entrare in con tatto con esse, una delle fondamentali capacit umane. il coraggio e la costanza d i Ulisse, che non si limita a volere l'avventura per l'avventura ma si fa nocchi ero e fabbro e costruttore - homo faber, appunto - perch il suo viaggio non si ri duca soltanto a una gitarella velleitaria, destinata a finire su uno scoglio qua lsiasi al primo accenno di burrasca. Conoscere il mondo, naturalmente, non vuol dire esplorarlo personalmente per entrare in contatto con ogni elemento della re alt e scoprirne da noi il nome giusto. gi stato fatto tanto lavoro in questo campo : e la cultura - le parole-idee affidate alle opere - appunto il complesso degli strumenti che ti permettono di non perdere tempo a inventare di nuovo la bicicl etta o l'acqua calda. Col termine "opere", sta' attento, non voglio solo riferirmi ai grandi, poderosi classici come la Repubblica di Platone, ma anche ai modesti libretti che ti spi egano come funzionano un rubinetto, il tuo fegato o le stelle di neutroni. E tut ti e due i generi di opere vanno lette nello stesso modo: confrontando quello ch e dicono con le cose di cui hai fatto esperienza diretta. Il che comporta che tu la faccia - non limitandoti a identificare le cose con un nome che hai imparato a pappagallo, o interessandoti soltanto dell'utile immediato che ne puoi ricava re. Oltre a cercare alleanza con le persone la devi cercare anche con le cose - che tra l'altro offrono il vantaggio di non ingannarti mai, se non sei stato prima t u a ingannarti su di esse. Se gli hai dato il giusto nome, e le hai esplorate se nza preconcetti. Altrimenti, potrai anche essere vincitore di telequiz o preside nte di accademia: ma la tua sar una vita letta e non vissuta. Continuerai ad aggi rati tra i quadratini neri di un cruciverba e a domandarti, povero Epaminonda, c he ci stai facendo con quel pistone in mano a Domodossola. XIV Un rude proverbio toscano ammonisce: "Pe' bischeri 'un c' paradiso" - per gli sci occhi, cio, non ci sono speranze di salvezza. Forse con meno cattiveria, sentenze di questo genere credo siano diffuse un po' dappertutto. Non c' una lingua, non c' una cultura umana in cui la parola "stupido" sia un complimento. Tutt'al pi, qu ando si vuole addolcire la pillola si dice "povero stupido", sottintendendo che non colpa sua se cos. Infatti, essere stupidi non una colpa, come non un merito e ssere intelligenti: il che tuttavia non sposta di un millimetro il fatto che ess ere stupidi un bel pasticcio - la pi solenne fregatura che possa capitare. Credo che il proverbio citato ponga bene in risalto la natura di questa fregatur a. Non dice che per gli stupidi non c' speranza di successo, o di potere, o di fe licit. Dice che non c' paradiso: usa cio il termine che tradizionalmente viene usat o per indicare il premio riservato ai giusti. Un giusto non pu mai essere uno stu pido, e viceversa. Sta' attento: questo non significa che per essere un giusto sia necessario esser e un genio. In quest'affermazione contenuta una trappola molto pericolosa, quell a che viene tesa a un mucchio di gente approfittando dello stato di cose di cui ti ho gi parlato: la grande complessit del mondo di oggi, l'intrico - apparentemen te inestricabile - di problemi che ci troviamo a dover fronteggiare giorno per g iorno. comprensibile - anzi, sarebbe assurdo se fosse altrimenti - che davanti a questo intrico tu provi sgomento, paura, incertezza. Avere senso della Misura signific a avere anche il senso dei propri limiti, della nostra incapacit di capire tutto.

Puoi essere allora tentato di dirti: "Non ce la far mai, e quindi...". Eccola la trappola: sta in quel quindi, al quale si attaccano tutti i possessori di un qu alsiasi sapere - vero o presunto che sia - per incastrarti. Pi il loro sapere presunto, pi ci si attaccano, incoraggiandoti a credere nella fa vola che sia necessario essere dei geni per capire il mondo. Che ci voglia, come dicono a Napoli, "'na capa tanta", un cervello da Einstein: per cui tu, con le limitate capacit che ti riconosci, al massimo puoi diventare un esperto in qualch e piccolissimo settore - la buona conduzione di un mnage familiare, per esempio, se sei solo una donna; ma niente di pi. Cercare di andare pi avanti, ti dicono, sa rebbe un lambiccarsi inutilmente il cervello. Ma proprio vero? Devi essere cos terribilmente intelligente per capire il mondo? Sar monotono, ma ti rispondo ancora: dipende. Dipende da ci che intendi per intell igenza. Vediamo di mettere un po' in chiaro questa faccenda, a proposito della q uale c' una certa confusione: e non solo per i molti pareri discordi. Al contrari o, il nodo del problema mi sembra essere proprio in ci che hanno in comune le var ie definizioni di intelligenza, e quindi i metodi con i quali si cerca di valuta rla. Tra questi, come sai, ci sono i cosiddetti test del Q.I. (quoziente di intellige nza) - alcuni dei quali sono arrivati fino al grande pubblico grazie alla diffus ione di manuali che applicano, anche in questo campo, il sistema fai-da-te. Per i test hanno anche i loro fieri avversari, i quali di solito li rifiutano perch di cono che sono limitativi, meccanici e soprattutto tendenziosi: nel senso che pot rebbero essere congegnati in modo da far apparire intelligente solo chi va a gen io al preparatore dei test stessi. I difensori dei test, con una certa dose di m alignit, replicano che ai loro avversari non va gi, semplicemente, il fatto di ave re dei punteggi pi bassi di quelli che si aspetterebbero. In parole povere, danno loro del deficiente. Io mi sento abbastanza equanime in materia, perch alcuni test mi classificano in modo piuttosto lusinghiero, mentre altri sono abbastanza severi. In alcune prove basate sulle serie, per esempio (dati X elementi posti in successione, indovina re il meccanismo della successione e indicare l'elemento seguente) non sono molt o bravo. Ma quel che mi sembra di poter dire a proposito delle valutazioni dell' intelligenza - siano o no basate sui test - non c'entra con i miei risultati, e prende in esame un altro aspetto del problema. Queste valutazioni hanno un mecca nismo tipico. Prima si definisce intelligente qualcuno; poi si nota che in grado di superare certe prove o di mostrare certe caratteristiche (ad esempio, onde c erebrali di un dato tipo); infine si organizza per un certo numero di soggetti l a ripetizione standardizzata delle prove e in base ai risultati si stabilisce un a graduatoria. Questa, per, mi sembra solo un'elegante e ingegnosa applicazione d i quel trucco di cui ti ho parlato a pag. 90, cio la tautologia. Assomiglia insom ma - se mi passi il paragone irriverente - al meccanismo dei criteri di giudizio delle mostre canine. Qualcuno stabilisce, auto-legittimandosi, che un certo tip o di cane perfetto: dopo di che assegna il titolo di campione all'animale che so miglia di pi a questo archetipo - anche se non lo prenderesti mai a posto del tuo caro vecchio Fido, che capisce quando sei triste. C' poi un altro fatto, che non mi pare trascurabile. Tutte le valutazioni dell'in telligenza secondo questi metodi si basano su gruppi di prove: per cui, pu veders i assegnare un buon Q.I. anche uno che risulti molto scarso in certe prove ma mo struosamente bravo in altre. Se sei uno col bernoccolo della meccanica, ma non a fferri la differenza che passa tra una polonaise di Chopin e un ululato dei Lift iba, il tuo Q.I. pu raggiungere ugualmente un discreto valore. Questo tipo di cri terio ignora, insomma, la possibilit di considerare un essere umano nella sua int erezza, e mi sembra pericolosamente ispirato a un'idea settoriale, utilitaristic a. Premia l'uomo a una dimensione: quel tipo di essere umano, cio, che insieme ca usa ed effetto dell'estraneit di tanti al mondo e ai propri simili. Un fattore fo ndamentale anche il tempo: le prove di cui composta una batteria di test devono, spesso, essere portate a termine in un certo numero di minuti o di secondi. Ci s ottolinea l'aspetto efficientistico: pi bravo chi pi veloce - il che va bene per u n robot, un po' meno per un essere umano. Naturalmente, non penso affatto che i test siano inutili, e che le loro indicazioni non debbano esser tenute presenti.

Per credo che siano parziali - pericolosamente parziali: e contesto l'uso del te rmine "intelligenza" per definire la qualit umana che pretendono di misurare. Ci sono termini pi adatti, in tutte le lingue: in italiano, potrebbe andare "prontez za" (soprattutto in riferimento all'elemento tempo). Un amico mi informa gentilm ente che in cinese la questione risulta pi chiara, perch vi sono vari termini per indicare ci che comunemente chiamiamo intelligenza. Tra questi ce n' uno che suona nao jien, dove nao vuol dire cervello e jien esprime l'idea di forza, di potenz a. Un altro termine invece gao ming, dove gao significa "ampio, aperto" e ming c orrisponde invece al nostro "veggenza" o "chiarezza" (e spesso tradotto anche co me "illuminazione"). Questo mi sembra pi vicino a quel che voglio dirti. Pi che una somma di abilit parziali, penso che la parola "intelligenza" sia adatta a definire una qualit, che considero tipica dell'essere umano nella sua interezz a. Me lo suggerisce l'timo, cio l'origine di questa parola. (L'etimologia non solo divertente e interessante, ma - spiegandoti come e perch nata una parola - ti ai uta a comprenderne meglio il significato. Ci ti pu essere di grande aiuto se stai cercando la parola giusta per definire un concetto o un sentimento). Ora, "intel ligenza" una parola che deriva dal latino, ed formata dall'unione di inter (che significa "tra") e un derivato della radice lego (la stessa del verbo legere, ci o "leggere"). Questa parola nata, insomma, per definire la capacit che abbiamo di leggere tra: ovvero di cogliere il nesso, il legame tra le cose. Mi sembra appen a il caso di farti notare come il suo significato assomigli molto a quello della scienza perfetta di cui parlava l'antico testo cinese citato nel cap. X. Guarda un po' chi si rivede: il senso delle cose reali - o, se vuoi, della Misura. Gir a gira, se nel grande labirinto del mondo si procede con un po' di calma si fini sce - anche se non lo si esplorato tutto - col capire che i suoi interminabili c orridoi non sono disposti a casaccio. C', come dire?, una geometria nel disegno d ella pianta. Fantasiosa, variabile geometria, che si esprime in mille e mille ca si di cui possiamo via via ricostruire le singole formule - legate forse, a loro volta, in una formula generale. Nessuno l'ha ancora trovata (a parte personaggi ipotetici come il sacerdote egizio di P. Berger); ma le formule dei singoli cas i appaiono legate da troppe somiglianze - o da troppe contraddizioni - perch poss iamo concludere che non vale la pena di andarne in cerca. Ci vorr un po' di pazie nza, ma se non ci mettiamo a piagnucolare alla prima difficolt pu darsi che arrivi amo a non sentirci pi cos smarriti. Ecco: intelligenza, a mio avviso, la capacit di afferrare il senso - e il gusto, anche - di questa ricerca. Naturalmente, non guaster essere in possesso anche di una certa dose della qualit misurata dal Q.I. - e chiamiamola definitivamente pro ntezza, per non generare equivoci. S, una certa prontezza ci vuole: esserne del t utto privi proprio un guaio. Per penso che questa mesta sorte sia riservata, in p artenza, solo a un numero piuttosto ristretto di individui: quelli per i quali g iustificato il caritatevole termine "poverino", e che difficilmente avranno mai intelligenza del mondo. Le due qualit, insomma, sono legate l'una all'altra: ed proprio a questo che mi s ono riferito quando, nel capitolo XIII, ti ho detto che capire il mondo comincia dal basso, dal capire - almeno a grandi linee - come funzionano le tante cose d a cui siamo circondati. La qualit necessaria a questo scopo appunto una certa pro ntezza - che non ha niente a che fare con la brillantezza, lo scatto, il cosidde tto colpo d'intuizione. semplicemente il contrario della pigrizia. Perci diffido molto della presunta intelligenza di cui si dicono dotati quelli che sanno solta nto giocare con le parole: e che per, se gli chiedi di spiegarti come funziona un rubinetto o una rete di computer o un consiglio di amministrazione, si schermis cono con aria distratta. A volte, anzi - un vizietto che hanno tanti intellettua li, o per meglio dire tanti che si ritengono intellettuali - si vantano di non s aperlo, come per sottolineare il loro sublime distacco dalle faccende volgari. L e lasciano volentieri ai vili meccanici, al basso personale che viene utilizzato per occuparsi di sciocchezzuole per cui loro "non hanno tempo". Intelligenza e prontezza sono legate anche sotto un altro aspetto. Mentre la seconda strumental e, la prima fine a se stessa. Avere intelligenza del mondo non serve a niente: c hiederselo equivale a chiedersi a che cosa serve la vita - la domanda pi assurda, pi inconsistente che ci sia. Non ha uno scopo, la vita, perch lo scopo: se ce ne

fosse un altro, sarebbe fuori della sua incertezza e della sua Misura. Puoi chie derti, semmai, che senso abbia, cio in quale direzione si pu presumere che ti port i finch ne fai parte. E una risposta possibile che, appunto, la vita ha il senso di avere intelligenza della vita. C', come per le varie forme di prontezza misurate dai test di Q.I., una misura an che per questa qualit? Nel senso tecnico del termine, no, e penso che non sia dif ficile rendersi conto del perch. Essendo la prontezza una qualit strumentale, puoi misurarla esattamente perch, definito il suo scopo, basta vedere in che percentu ale un individuo riesce a raggiungerlo. Se per esempio devi tornire 200 pezzi l' ora, o raggiungere un totale di vendite di 300 milioni al mese, semplice: basta metterti alla prova e, scaduto il tempo, contare i pezzi o i quattrini. Il compi to che ti richiesto si identifica con una domanda, e la tua capacit nella rispost a che sai dare. Con l'intelligenza un altro paio di maniche perch l'intelligenza, nel senso che h o detto, si misura dalle domande che ti sai fare. Se a un certo punto trovi una risposta che ti accontenta, finiscono le tue domande: e se finiscono presto, non c' da stare tanto allegri. Sei una creatura che ha il diritto di identificarsi n ell'appagamento che ti danno le risposte - quelle che sai trovare da solo e quel le che riesci a ottenere dalle parole altrui o dalle cose. Ti bastano le rispost e dei guru, dei politici, dei manualetti di astrologia, degli spot che assicuran o la felicit grazie al possesso e all'uso di un'automobile, di una pelliccia o di un lassativo? Be', allora la tua intelligenza del mondo finisce l. Spero proprio che non finisca l, naturalmente. L'avvertenza di cui alla prima pag ina di questo libro serviva, appunto, a garantirmi dalla sciagura di avere a che fare con questo tipo di lettore. Perch un libro - come qualunque forma di comuni cazione che non sia un bla-bla versato con l'imbuto nelle teste dei fruitori - h a un senso solo in quanto esprime un rapporto, e vorrei dire un'alleanza. Certo, sono io che l'ho scritto: ma tu, leggendolo, fai qualcosa di altrettanto import ante, anzi indispensabile perch esso abbia senso. Mi sono saputo trovare il lettore giusto? La risposta s se questo libro non ti so ddisfer completamente: se sar servito a dire basta a qualche sciocchezza sulla qua le puoi aver inciampato, ma ti lascer con nuove domande alle quali cercare rispos ta. Se vuoi essere un giusto, devi far di tutto perch sia riconosciuto il tuo dir itto a far domande: diritto che anche, come sempre, un dovere, perch sei tu il pr imo che deve riconoscerlo a se stesso - il che lo estende anche agli altri. Semp re che lo vogliano, naturalmente. Nel Discorso della Montagna, Ges di Nazareth - un grande seminatore di dubbi, con trariamente a quel che troppi pensano - chiam beati "coloro che hanno fame e sete di giustizia, perch di essi il regno dei cieli". Non credo di essere troppo irri spettoso se accosto questa sentenza allo spiccio detto popolare che ti ho citato all'inizio del capitolo: in fondo, fanno riferimento allo stesso valore. S, beat i coloro che hanno fame e sete di giustizia (e quindi di sapere, di chiarezza, s enza la quale non c' giustizia). Per gli altri, davvero, "'un c' paradiso". XV Siamo all'ultimo capitolo, dove di solito si tirano delle conclusioni. Solo che qui non ce ne sono, altrimenti contraddirei pesantemente tutto quello che ho cer cato di dirti. Posso soltanto provarmi a tirare qualche filo, a suggerirti alcun e considerazioni che integrino e in qualche modo riassumano il mio discorso. Un libro come questo vuole solo essere - uso ancora una metafora - una cassetta di strumenti, e certo non pu presumere di essere una cassetta completa. Spero solo c he ti sia utile, soprattutto nel senso di spingerti ad acquisire altri strumenti : non da tenere allineati in bell'ordine, ma da usare nella vita. Ce ne vogliono tanti, e non bastano mai. Nelle prime pagine ho accennato a quella che si chiama la crisi - di valori, e q uindi generale - che ci troviamo a fronteggiare: e ho dato per scontato che tu n e fossi coinvolto, come capita del resto a qualsiasi persona normale (anche se l e persone normali, a mio avviso, sono rimaste poche). Ma parlare di crisi genera le pu essere pericoloso, come era scritto in un vecchio articolo di Beniamino Pla cido. Sosteneva, con chiarezza e (alleluia!) con spirito, che si parla troppo di

crisi, intendendo con questo termine che oggi il mondo stia attraversando un pe riodo particolarmente difficile "in generale". Anche andando indietro di secoli o di decenni, aggiungeva, non si trova un periodo in cui non ci sia stato qualcu no che gridava alla crisi generale. E osservava: Non c' dubbio che una crisi ci sia. Anzi, ci sono molte crisi. Diverse tra loro, e diversissime da quelle che gi imperversavano negli anni Trenta o Venti o ai tem pi di Platone e di Eraclito. Abbiamo bisogno di qualcuno che non ci canti la can zone genericamente affascinante della permanente crisi e dell'imminente catastro fe, ma ci dia qualche indicazione specifica sulle crisi specifiche che oggi ci a ffliggono. vero, uno dei guai peggiori dei periodi di crisi per l'appunto la presenza dei p iagnoni a 360 gradi, quelli che si compiacciono palesemente delle loro "canzoni affascinanti". Tuttavia... Ma no, non voglio dire "tuttavia", come si fa di soli to per minimizzare le ragioni di qualcuno con cui si in disaccordo. Quel che mi sembra di poter dire si aggiunge, pi che opporsi, a quel che diceva Placido. Dico che, oltre a dare indicazioni sulle crisi specifiche, come lui chiedeva, mi sem bra molto pratico cercare il filo che lega l'una all'altra queste crisi - che no n a caso capitano insieme. Insomma, se vieni colpito da pi malattie contemporanea mente, che fai? Chiami solo i relativi specialisti, oppure - prima di ascoltarli - ti consulti con un bravo medico generico (per quanto oggi sia piuttosto diffi cile trovarlo)? Non pu essere che lui, con la sua esperienza, sia capace di intui re la possibile causa comune dei tuoi malanni, e magari consigliarti una sensata strategia di cura? I vari specialisti invece, lo sappiamo bene, potrebbero al m assimo guarirti dalla singola malattia su cui sanno tutto: ma con la possibilit d i aggravare le altre. Lo so benissimo che strapparsi i capelli sulla generale disgregazione inutile, e avvalora anche il sospetto di un certo compiacimento: senza contare che la conc lusione di molti catastrofisti quella di non far niente, dal momento che tutto v a male - il che rende il loro contributo del tutto inutile. Tant' che stiano zitt i, allora. Ma proprio per arrivare a capire se e che cosa c' da fare - o da prova rsi a fare - confermo l'utilit pratica della ricerca di un nodo centrale. Idealis tico? Pu essere, anzi lo . Ma mi piace ricordare l'opinione di chi ha detto: "nell a storia come nella vita, la soluzione idealista quella che alla fine si rivela la pi realista". Non sono del tutto certo di chi sia stato: mi sembra che fosse R alph Waldo Emerson, il pensatore americano della fine '800, gi conscio dell'ingan no di una cultura esasperatamente puntata sul cosiddetto progresso. Tornando ai fili da tirare: c' un'ultima considerazione che voglio sottoporti e, ancora una volta, lo spunto etimologico. Ti ho parlato di intelligenza, notando l'origine di questa parola: e mentre ci riflettevo su mi ha colpito la parentela linguistica di "intelligenza" con "religione". Anche quest'ultima derivata da u na parola latina (religio), che significa "ci che lega le cose". Gli studiosi non concordano, a quanto pare, se la radice sia la stessa di ligare (che vuol dire appunto "legare") o non piuttosto la stessa di legere cio "leggere". Va tuttavia notato che, nei due casi, il significato di base lo stesso: leggere, infatti, vu ol proprio dire "legare insieme". Quando si legge, si legano le parole, e le fra si, in un discorso che ha un senso proprio in quanto unitario. Torno alla crisi: anzi, alle crisi, che - Placido aveva ragione - ci sono sempre state, e che sono state via via superate ricorrendo ai mezzi di cui le societ, l e culture umane disponevano. Per i problemi pratici ci sono state le varie tecni che, con la loro evoluzione; per quelli teorici le idee politiche, scientifiche, economiche, filosofiche - anch'esse con la loro evoluzione, per quanto non sia mai stata altrettanto lineare. Tra queste ultime, un ruolo fondamentale - anche questo te l'ho gi detto - l'ha avuto l'idea di Dio. La fede in Dio stata l'asse p ortante di quasi tutte le grandi religioni, con pochissime eccezioni la pi import ante delle quali il buddismo. Nel bene e nel male, la fede in un Dio ha sostenut o per secoli e secoli lo sforzo incessante, la lunga pena dell'uomo sotto il sol e. Vivo nella mente e nel cuore degli uomini, Dio stato il punto fermo, il faro, l'idea-guida alla quale fare riferimento per ogni problema posto dall'esistenza

umana. Ora, questa fede per molti uomini non ha pi senso: il concetto che ti ho esposto con l'immagine metaforica della "morte di Dio". Io sono tra quelli che considera no la perdita della fede un passo avanti: un doloroso, faticoso passo avanti, da l quale non ha senso voler tornare indietro. Noto per che stato accompagnato da u n errore fondamentale - un errore di Misura, come sempre. Insieme alla fede, abb iamo perso anche la religione: quel modo di vedere il mondo, cio, che cerca di le gare tra loro gli elementi molteplici della realt. E senza un approccio religioso ci viene a mancare - ecco perch ho trovato interessante la parentela linguistica tra "intelligenza" e "religione" - anche un'intelligenza del mondo, e persino l a speranza di essa. Il mondo ci esploso sotto gli occhi, e non sappiamo pi ricomp orre la sua unit. Non ci proviamo neppure. Ma questa ancora la parte minore dell'errore, e in qualche modo penso che ci si possa porre riparo. Ci che pi grave - e non vedo come ci si possa fare qualcosa - che un numero paurosamente elevato di esseri umani ha conservato una fede perden do invece ogni traccia di spirito religioso. Ha buttato via il bambino e ha tenu to l'acqua sporca. Te ne puoi rendere conto facilmente dalla giustificazione utilitaria che tanti, troppi danno quando gli chiedi perch credono. Ti dicono che cos si sentono pi sicur i, pi consolati, pi confortati, pi capaci di sopportare, meno soli: e del resto, qu esti sono gli argomenti principali con i quali gli apostoli delle varie fedi cer cano di fare proseliti. Decisamente, l'idea che Dio possa servire a qualcosa mi appare assurda - paradossalmente blasfema. C' persino chi lo invoca nelle pene d' amore: come se Dio - con tutto quel che avrebbe da fare, figuriamoci - potesse a vere il tempo e la voglia di star l a convincere la tua anima gemella o presunta tale a venire a letto con te. Dico tutto questo con foga perch, come ti ho detto, l'ho molto amato finch ho avut o fede in lui. Quando mi spiegavano, da bambino, che era infinitamente buono, gi usto, sapiente eccetera, non potevo fare a meno di pensarlo, anche, infinitament e solo. E questo era, per la mia mente giovane, il senso della vita: andarlo a t rovare, andare io verso di lui. Non mi passava per la testa che potesse servire a qualcosa, se non nel senso in cui l'aveva detto il povero falegname di Galilea : "...e tutto il resto vi verr dato in sovrappi". Mi identificavo nell'Adamo della Cappella Sistina - in casa ne avevamo una riproduzione a colori - e pensavo che sarebbe valsa la pena di fare uno sforzo per arrivare a toccare col mio ditino il dito di lui. Ora mi fa pena - abbastanza schifo, anche - vedere il suo simulacro trascinato n ei rituali di adunate che assomigliano sempre pi a concerti pop: e infatti, si ag giungono ogni volta nuovi ingredienti per assicurarsi un concorso di folla. Il s uccesso c', eccome: ne sono piene le cronache, che riferiscono sul grande revival delle fedi. Poco importa se, finito il rituale, i cuccioli infreddoliti che si sono stretti l'un l'altro per scaldarsi tornano a quel vuoto che li spaventa tan to e che tenteranno di colmare aggregandosi, di nuovo, intorno a qualsiasi cosa. Siamo soli. E la morte di Dio - chiss, forse prematura, ma la morte di un padre l o sempre - oltre che soli ci ha lasciati adolescenti. Non dar retta a quelli che ti dicono: "Siamo grandi, ormai. Abbiamo la scienza, la tecnica, l'organizzazio ne, possiamo sistemare tutto. Lascia fare agli esperti". Costoro non capiscono n iente della scienza, delle sue poche certezze e delle sue molte, grandi incertez ze. Dico "grandi" non solo perch l'ignoto ancora immenso intorno (e dentro) a noi , ma perch sono proprio le incertezze a fare grande e umana la scienza. In realt, poche cose sono assurde quanto il cercare di mettere riparo al proprio infantile terrore dell'incertezza con la fede nella scienza. Fede e scienza: che connubio inutile, distorto e ottuso. Gli preferisco, allora, la fede tout court , che almeno in molti casi ha l'attenuante dell'ingenuit, della mancanza totale d i strumenti. La fede dei bambini, che ti disarma con la poesia. A epigrafe del s uo libro La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Jean Piaget mise uno scamb io di battute colte al volo tra bambini: "A che servono le montagne?" "Perch la l una possa tramontare". Ora non siamo pi bambini, e ci siamo resi conto che il problema non di dare una p

oeticissima risposta alla domanda sullo scopo cui possono servire le montagne. S appiamo che ci sono, sappiamo abbastanza bene come sono fatte, sappiamo sfruttar e le acque che scendono dai loro fianchi per fare elettricit e sollevarci cos dall a fatica bestiale dei nostri antenati. Questo pu lasciarci il tempo per imparare a crescere, per imparare a essere pi uomini. Ecco, per me la parola religione esp rime compiutamente il senso di questa crescita. Crescere vuol dire legare l'uno all'altro i tanti pezzi di quel puzzle che il mondo. O almeno cercare di farlo, per restituire alla sua immagine lo stesso carattere di unit che ci dato di intui re in tutto ci che reale. Non c' bisogno che tu ti sforzi di cucire insieme tutti i pezzi, perch questo un c ompito superiore alle forze di chiunque. Per puoi interpretare l'ordine in cui so no disposti i tasselli maggiori, e poi magari passare a far lo stesso lavoro all 'interno di ciascuno di essi (il mondo un puzzle fatto di puzzles fatti di puzzl es e cos via, e qualcuno dice che cos all'infinito: ma non certo). Siamo solo degli adolescenti, e non cosa da poco esplorare questo Eden devastato di cui ci ha lasciato eredi la morte di Dio. Insieme a questa "d'erbe famiglia e di animali" (che certo solo gli ingenui possono ostinarsi a definire "bella", visto come siamo stati capaci di ridurla), ci ha lasciato un unico strumento: la parola. Non pi la Parola con la P maiuscola del primo versetto del vangelo di Gi ovanni: la piccola, minuscola, povera, insicura e ambigua parola dell'uomo, ma l a sola che possiamo usare per fare chiarezza. Finora ha dato pochi risultati, ma forse perch l'abbiamo usata soprattutto per altri scopi. Ne abbiamo fatto uno st rumento per azzeccagarbugli, per tribuni, per tromboni che hanno mandato la gent e al macello, per venditori di falsi tappeti. Abbi rispetto per essa, fanne l'us o migliore (il che non significa affatto destinarla esclusivamente a discorsi se ri e profondi: anche le overdose di filosofia sono pericolose, ogni tanto fa ben e rinfrancarsi con una buona risata). Umberto Eco ha scritto: "Nessuno desidera essere l'unica persona con le idee chi are in un mondo di menti confuse. Troppa solitudine". Strano che l'abbia detto u n grande semantico, uno che sa tutto sulla comunicazione. Ma forse anche i grand i semantici hanno momenti di sconforto, menomale. A me sembra che, se hai le ide e chiare, difficile che tu resti completamente solo. Non avrai una gran compagni a ma, proprio grazie a un po' di chiarezza, aumenter la probabilit che tu trovi qu alcuno con cui intenderti davvero. Mai fino in fondo, naturalmente, fino alla su a realt ultima: non puoi essere gli altri. Per puoi ascoltarli, e provarti a inter pretare le loro parole. C' ancora qualcuno che non le adopera soltanto per imbast ire comizi o per fare pubblicit agli amari. Ti lascio, appunto - sar bene, hai gi avuto abbastanza pazienza - proponendo alla tua riflessione due brevi testi. Come accaduto per ogni autore che ho citato, no n ti riporto le loro parole perch tu le prenda per oro colato. Lo faccio solo per ch le hanno dette prima di me, e tanto meglio di me. I due autori che ti cito sono - e non per niente un caso, sai - uno scienziato e un poeta. Sono famosi tutti e due, ma questo conta poco. Se il successo fosse u n criterio valido per giudicare le parole di qualcuno, dovrei citarti le parole di altri personaggi: per esempio un cantante o un centrattacco, ai quali di soli to i giornali dedicano molto pi spazio di quello riservato ai due che ti cito. Il primo Henry Laborit, che ho gi nominato di sfuggita. stato un grande biologo, ha scoperto sostanze che hanno salvato dalla morte o dall'angoscia un gran numer o di esseri umani, e per molti anni si dedicato allo studio dei comportamenti (i n particolare dell'aggressivit). Mi piace per quel che diceva e anche, molto, per come lo diceva: era uno che si esponeva, non un accademico spocchioso chiuso ne l suo Tempio del Sapere. Senti cosa dice sulla cultura: ...ogni uomo insegna, trasmette agli altri ci che ha imparato. (...) Possiamo esi gere che non ci obblighino a imparare a memoria un messaggio da trasmettere pari pari, senza cambiarne una parola. Se fosse stato cos per tutti, dall'alba dell'u manit, staremmo ancora a lavorare la selce all'ingresso di buie caverne. Le conos cenze umane si sono arricchite nei secoli proprio perch il messaggio diventato se mpre pi complesso dalle origini in poi. (...) La sola eredit che conta non l'eredi t familiare di beni materiali o di tradizioni o di valori discutibili e mutevoli,

ma l'eredit umana della conoscenza... quella piccola particella di novit incorrut tibile che ogni contributo originale alla conoscenza umana. (...) L'uomo aggiunge informazione alla materia... La vera famiglia dell'uomo so no le sue idee. Il secondo alle cui parole affido il mio saluto Jorge Luis Borges, narratore, sa ggista e poeta. Considero una fortuna aver trascorso alcune ore accanto a lui. E ra un affascinante vecchio signore, come perso in una sua dolorosa lontananza. D ava questa impressione, a vederlo, anche perch i suoi occhi erano aperti su un or izzonte soltanto suo: da molti anni era cieco. Ma come vorrei avere la met della met della chiarezza con cui capiva il mondo quel grande solitario veggente: Un uomo che coltiva il suo giardino, come voleva Voltaire. Chi contento che sulla terra esista la musica. Chi scopre con piacere un'etimologia. Due impiegati che in un caff del Sud giocano in silenzio agli scacchi. Il ceramista che intuisce un colore e una forma. Il tipografo che compone bene questa pagina che forse non gli piace. Un uomo e una donna che leggono le terzine finali di un certo canto. Chi accarezza un animale addormentato. Chi giustifica o vuole giustificare un male che gli hanno fatto. Chi contento che sulla terra ci sia Stevenson. Chi preferisce che abbiano ragione gli altri. Tali persone, che si ignorano, stanno salvando il mondo. * * *

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