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Francesco Lamendola

A me par desser morto da secoli: invito alla lettura di Mihail Eminescu


Mihail Eminescu (Botosani, Bucovina - 1850 - Bucarest, 1889) considerato il pi grande poeta romeno di tutti i tempi, ma il grosso pubblico italiano lo conosce ben poco; cos come, del resto, ben poco conosce gli altri scrittori e poeti romeni e, in genere, quelli dellEuropa centro-orientale: ungheresi, polacchi, ucraini. I nostri professori universitari, in genere, non sono disposti a perdere troppo tempo con gli autori che scrivono in lingue parlate solo da alcuni milioni di persone; succubi anchessi del regno della quantit (come direbbe Gunon), concentrano tutto il loro interesse sulle grandi letterature, linglese, la francese, la tedesca, langlo-americana, tuttal pi la russa: come se, in queste cose, la vera grandezza avesse a che fare con le cifre. Da parte nostra, saremmo contenti se anche un solo lettore si sentisse invogliato a cercare le poesie di Mihail Eminescu per scoprire, in esse, quei tesori di liricit, dimmaginazione, di sogno potente e malinconico che le pervadono e che rapiscono il lettore in una dimensione altra, fatta di pura bellezza e di contemplazione. Bisogna sfatare, comunque, il luogo comune secondo cui la poesia di Eminescu sarebbe tutta romanticamente triste e schopenhauerianamente pessimista; anche il paragone con Leopardi, consueto e perfino abusato, rende solo una parte dellanimo del grande artista romeno, il quale, bench nutrito di severi studi filosofici a Vienna e a Berlino, sa essere anche incantato come quello dun fanciullo davanti alla bellezza della natura, dei monti, della foresta, delle acque, del cielo stellato; e che, inoltre, non perde mai la sua profonda fede nella missione del popolo, dei pastori, dei contadini, di quegli umili eroi che, lottando per secoli, hanno saputo conservare la propria lingua e le proprie tradizioni contro mille invasioni e contro mille dominazioni. Il poeta romeno della foresta e della polla, lo chiama un insigne studioso italiano e traduttore delle sue poesie, Ramiro Ortiz; non senza averne rilevato anche lelemento non romeno, ma piuttosto slavo (il suo vero cognome era Eminovici), derivatogli forse dalle ascendenze paterne e materne e che si concreta in quella diffusa malinconia che pervade in sottofondo tutta la sua produzione, e che lo avvicina a talune atmosfere del Pukin. Il tragico destino di Eminescu - che impazz nel 1883 e mor in manicomio, sei anni dopo, con il cranio sfracellato a colpi di pietra da un altro ricoverato, dopo una vita errabonda e infelice, pur riscaldata dalla calda amicizia di persone di valore, come il politico conservatore Titu Maiorescu, lo scrittore Ion Creanga e la confidente e ammiratrice Veronica Micle - getta una luce sanguigna sulla sua figura, ma si presta ad una inconscia operazione anacronistica, vale a dire leggere le sue poesie con le lenti deformanti di quel tremendo finale. una operazione illegittima, perch proietta sul passato il riflesso di un evento futuro o addirittura, come pure si tentato di fare per Friedrich Nietzsche, suggerisce una interpretazione di tipo psicopatologico che far la delizia dei freudiani e, in generale, di tutti gli psicanalisti, ma non aiuta per niente la comprensione di questo grandissimo artista e non sposta di una virgola la sola cosa che conta per leggere una poesia: lasciarsi interrogare, con semplicit e con stupore, dalla suggestione inesprimibile dei suoi versi. Il tempo della critica, per quanto doveroso, viene dopo (a meno di voler fare come tanti cattivi critici, saccenti e presuntuosi, che non sanno ascoltare, ma solo sentenziare ad ogni pie sospinto); e quello della critica psichiatrica, bene sarebbe che non venisse mai. 1

Con ci, non vogliamo certo negare che un profondo malessere esistenziale albergasse da sempre nellanimo del poeta, e che sia uno dei motivi ispiratori delle sue liriche: quel suo vagabondare inspiegabile per i campi, fin da bambino; quel tenersi lontano dai giochi dei coetanei; lo sprofondarsi inumano nel lavoro giornalistico (ma per ragioni di sopravvivenza economica) che, da ultimo, port al tracollo il suo fragile equilibrio, sono spie di un tormento che getta come unombra anche sui momenti pi felici della sua vita e che sgorgher infine dalla sua mente ormai devastata in quel sospiro straziante, che tanto avrebbe colpito il poeta Vlahutza, recatosi a trovarlo in manicomio: Oh Dio! Oh Dio!. Per, esattamente come per Leopardi, tentare di leggere la poesia di Eminescu alla luce della sua malattia (fisica per litaliano, mentale per il romeno) significherebbe commettere una forzatura vera e propria, tale da sminuire la portata universale di quelle voci poetiche, riducendole entro gli angusti schemi di una ragione innalzata arbitrariamente a norma suprema. Per accostare lopera in versi di Eminescu (quella in prosa meriterebbe altro discorso, che questa non la sede per fare), suggeriamo il lettore italiano non specialista di partire da una poesia scelta apposta tra le meno famose e importanti (come Venere e Madonna, Lastro e Lucifero), ma altrettanto fresca dispirazione e altrettanto rappresentativa del mondo dolcemente sognante del suo Autore, come questa Malinconia, che riportiamo nella bella traduzione del gi citato Ramiro Ortiz, cui si deve anche una preziosa introduzione al volume dedicato al poeta romeno (Mihail Eminescu, Poesie, Firenze, Sansoni, 1927): MALINCONIA Sembrava che nelle nubi si fosse aperta una porta, per cui passava la bianca regina della notte morta. Oh dormi, dormi in pace tra mille fiaccole, e nella tomba azzurra, tra le bende dargento, nel tuo mausoleo splendido sotto la cupola del Cielo, tu, adorata e dolce regina delle notti! Solennemente vasto dorme il mondo sotto la neve Co suoi villaggi e campi, che un lucido velo ricopre. Il sereno sfavilla, e, quasi spalmati di calce, brillano i muri e i ruderi nel pian solitario. Il cimitero veglia colle sue croci sghembe E su una di esse sta una civetta grigia; scricchiola il campanile di legno, il vento sbatte contro i pilastri della taca (1), e il diafano demonio, quando per laria passa, lieve tocca il metallo con lala sua di pipistrello, s che dalla taca odi partire un luttoso lamento. La chiesa in rovina Sta pia, triste colle sue mura scalcinate E il vento soffia attraverso gli usci e le rotte finestre 2

E par che faccia incantesimi e tu ne ascolti le parole. Dentro la chiesa, sulle colonne, le icone e il paliotto Appaiono a mala pena, scolorite come ombre; unico prete un grillo fila un canto fine e oscuro, unico sagrestano il tarlo suona la taca sotto il muro in rovina. .. La fede sola dipinge nelle chiese le icone E nel mio spirito faceva fiorir fole meravigliose; ma della vita i flutti, ma lurlo delle tempeste a mala pena tristi contorni e ombre ci han lasciato; invano cerco il mio mondo nel cervello stanco, poi che rauco un grillo vi fa melanconici sortilegi; sul mio cuore inaridito invano poso la mano: lento esso batte come il tarlo in una bara. E quando penso alla mia vita, mi par che essa scorra narrata lentamente da una bocca estranea, come se non fosse la mia vita, come se io non fossi mai stato. Chi mai quegli che me ne ripete a memoria il racconto, se tendo a lui lorecchio e rido di quanto ascolto come di dolori altrui? A me par desser morto da secoli. (1) La taca una semplice tavola di legno con un martello, in uso nelle chiese e nei monasteri greco-ortodossi per chiamare a raccolta [nota nostra]. Due sono i momenti poetici pi intensi di questa composizione: il paesaggio notturno del cimitero abbandonato e della vecchia chiesa in rovina, che richiama pi il tono pensosamente malinconico di un Thomas Grey che quello cupamente gotico alla Caspar David Friedrich; e quello della scoperta finale da parte del poeta di non essere pi vivo, ma morto, e morto da un tempo infinito, che sembra riecheggiare la famosissima fiaba popolare romena Giovinezza senza vecchiaia e vita senza morte (riportata in: Fiabe romene di magia, a cura di Marin Mincu, Milano, Bompiani, 1989), ma in cui si colgono anche toni quasi pirandelliani ante litteram. In particolare, i versi E quando penso alla mia vita, mi par che essa scorra / narrata lentamente da una bocca estranea, / come se non fosse la mia vita, come se io non fossi mai stato, sembrano anticipare il noto aforisma di Pirandello (e che avrebbe sottoscritto anche Svevo): La vita, o la si vive o la si scrive; intendendo che lo scrittore, e specialmente il poeta, colui che si aliena dalla vita vera per ripiegare in un mondo illusorio ed evanescente, dal quale si osserva intensamente, ma, proprio nellatto di osservarsi, si separa irrimediabilmente da se stesso e si rende conto di essere divenuto estraneo al proprio io. Forse, la radice ultima del dramma umano di Eminescu, nonch della diffusa, insopprimibile malinconia che pervade i suoi versi (bench, come si detto, non sarebbe giusto farne quasi lunico elemento ispiratore) risiede proprio in questa contraddizione: da un lato, la tendenza insopprimibile 3

alla contemplazione ed al sogno; dallaltro, la disposizione a vedere in tali stati dellessere non un salto qualitativo verso i livelli superiori dellesistenza, ma solo una copia, pallida ed elusiva, della realt vera, vale a dire della vita quotidiana colta nella sua immediatezza. Da ci nascono la frustrazione, il disinganno, la disperazione; e, in questo senso, possiamo vedere nella poesia di Eminescu una anticipazione di temi tipicamente novecenteschi, come il disagio per la condizione del poeta, caratteristico dei Crepuscolari (ma che ha il suo padre nobile ne Lalbatro di Baudelaire); e, pi in generale, limpossibilit di conciliare la dimensione estetica della vita con quella pratica e quotidiana, come nel Tonio Krger di Thomas Mann (a sua volta anticipato dal Niels Lyhne) di Jens Peter Jacobsen. Il male, dunque, sempre lo stesso: vedere nello straniamento del poeta ed, in genere, della persona spiritualmente ricca e dotat - ma diversa, proprio per questo, dalluomo comune - non qualche cosa di pi, ma qualche cosa di meno di una condizione esistenziale pienamente realizzata; il tutto, ovviamente, in un contesto sociale che non sa cosa farsene dei poeti o, quanto meno, che sembra non sapere pi che farsene. il senso di vuoto, di abbandono, di inutilit che caratterizza la condizione dellartista nella societ della tecnica; la condizione del poeta, uomo della memoria, nella societ della fretta, del rapido consumo e dellaltrettanto rapido oblio di tutte le cose. Ecco allora che quel desolato lamento, a me par desser morto da secoli, acquista, fuori di ogni enfasi romantica, il suo vero significato: quello di un grido dallarme per un mondo che cambia troppo in fretta, mentre il mondo interiore della singola persona, con tutta la sua immensa ma delicata ricchezza, rischia di venire continuamente cancellato, come lo un nome tracciato sulla sabbia dalle onde del mare.

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