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Samantha Visentin

UMANIZZARE IL BRAND
Strategie in ottica human

per comunicare con successo


ISBN: 978.88.916.4275.2

Impaginazione elettronica: Fabio Gialain – Milano

Immagine di copertina: "iStock.com/zayatssv"

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Prefazione

di Roberto Zarriello

Passato, presente e futuro

Se dovessi tracciare una linea tra passato e presente del mio lavoro di
imprenditore e professionista del marketing e della comunicazione, a guardia
del confine posizionerei il concetto di “società liquida” del filosofo polacco
Zygmunt Bauman. Per me (ma credo per molti) è stato fonte di ispirazione,
anche per il mio lavoro di giornalista.
La faccio breve: nella società moderna, “l’unica certezza è non avere certezza”. O
meglio, come disse proprio Bauman in uno dei suoi numerosi interventi, in
noi deve essere chiaro che “il cambiamento è l’unica cosa permanente e che
l’incertezza è l’unica certezza”.
Sta tutto qui il codice per decifrare la mappa del vivere moderno. Un codice che
può essere esteso ad ogni disciplina: dalla politica all’economia, dal mondo
dell’educazione all’istruzione, dalla comunicazione al marketing. E così via. Il
volume che avete tra le mani si concentra proprio su temi come la
comunicazione e il marketing contemporaneo, riuscendo ottimamente a
svelare il codice di questo cambiamento.
Senza dimenticare un’altra regola che può sembrare contraddittoria alla luce di
quanto detto prima, ma che, in effetti, non lo è: se tutto è fluido, anche il
codice di lettura della nostra società moderna è soggetto a continui
cambiamenti e contaminazioni. E così, i concetti di digitale, brand, social,
macchina e umano possono unirsi, fondersi, scomparire o evolversi a seconda
degli scenari, delle mode o degli avvenimenti (anche causali) che ogni giorno
contribuiscono a scrivere la nostra storia su questo pianeta.
Oggi il mondo cambia in fretta. Nella comunicazione e nel marketing si è
passati dalla fase di orientamento al prodotto a quella di orientamento al mercato.
E si parla sempre di più di orientamento al consumatore. Se volete comprendere,
con semplicità e con efficacia, come sono avvenuti questi cambiamenti e come
funzionano i nuovi parametri, dovete leggere questo libro.
Una lettura che troverete molto utile anche per comprendere come si è evoluto
negli anni il concetto di brand e quello di consumatore. Un volume che traccia
una strada anche per capire gli scenari futuri del settore della comunicazione e
del marketing. Uno fra tutti: l’incidenza del “fattore umano”. Può sembrare
una contraddizione rispetto ad una società che “abusa” del concetto di digitale
per descrivere ogni azione umana. Invece il concetto di umanizzazione (come è
stato dimostrato in questo libro) è sempre forte. Anzi, più forte che mai. A
patto che l’essere umano sappia adattarsi alla “fluidità” della società moderna
(con le soft skills?).
E i brand si stanno adattando ai cambiamenti dei consumatori? Si stanno
umanizzando? E come sta cambiando il loro uso dei social? Le risposte le
troverete qui. Un ottimo punto di partenza (o di arrivo, se volete) per riflettere
su quello che sta accadendo o che accadrà in futuro nel mondo della
comunicazione e del marketing.
Buona lettura!
Introduzione

di Barbara Cattani

Quando Samantha mi ha chiesto di scrivere l’introduzione per il suo libro che


tratta argomenti di marketing, e ancora prima di leggerlo, mi sono sentita
onorata, ma mi sono domandata perché lo avesse chiesto proprio a me. Mi
occupo di attività di marketing da anni, a volte “ci prendo di più”, a volte “non
ci prendo” per nulla. Non mi reputo esperta in questa disciplina, oggi così
poliedrica e sfaccettata.
Poi ho letto il libro. E ho capito che non era un caso. Sono trascorsi 23 anni da
quando ho discusso la mia tesi di laurea in Ergonomia Cognitiva1 sull’efficacia
delle allora nascenti piattaforme di home banking nel guidare l’utente
inesperto nella gestione dei propri flussi e interessi bancari. In Italia eravamo
agli albori dell’era di Internet. Molte aziende e molti imprenditori non
utilizzavano ancora l’e-mail. La mia tesi dimostrava che, seppur una corretta
progettazione ergonomica potesse favorire di gran lunga l’interazione
dell’utente e, conseguentemente, la sua capacità di gestire con successo i propri
rapporti operativi con l’istituto bancario, sarebbe stato necessario “arricchire” la
progettazione dell’interfaccia con il preciso obiettivo di “umanizzare” la
percezione del brand e l’interazione stessa, allo scopo di superare un’altra
barriera che nulla aveva a che vedere con l’aspetto tecnologico: conquistare la
fiducia del cliente online (si era, e alcuni sono ancora, abituati al rapporto
umano con lo sportellista o con il direttore della propria filiale di riferimento).
Da allora, Internet ha profondamente cambiato le nostre vite e le nostre
abitudini e oggi ci sono addirittura i cosiddetti ‘nativi digitali’, alcuni dei quali,
probabilmente, non sono mai entrati e non entreranno in una filiale bancaria
vera e propria. Sono cambiate le abitudini d’acquisto, sono cambiate le
modalità attraverso le quali veniamo influenzati, sono cambiati i canali e gli
strumenti di comunicazione e marketing che utilizzano i brand.
Ma come allora, rimangono centrali i temi dell’umanizzazione del brand,
dell’importanza e della valorizzazione dei rapporti umani e delle relazioni
interpersonali, dell’insostituibile qualità umana che ci consente di comprendere
gli altri. Oggi più che mai, il consumatore vuole sperimentare efficienza, a
questo può e deve servire la tecnologia, e una buona accoglienza e capacità di
gestione umana. Anche se “umanizzare” il brand ha un significato metaforico e
non implica necessariamente lavorare con le persone, è importante cogliere che
il concetto ha a che vedere con aspetti ben più profondi della scelta dei toni o
dei contenuti di comunicazione da utilizzare o delle interfacce tecnologiche da
progettare. Ha a che vedere con i valori stessi del brand, quindi con le persone
che gli danno vita.
Nel suo libro, Samantha Visentin riscopre, e ci fa riscoprire, l’importanza del
“lato umano”, della visione, nonché della conseguente strategia operativa, che
conduce un brand al successo oggi. Tenendo conto dei nuovi canali di
fruizione, delle loro logiche e del loro potenziale, nonché della continua
mutevolezza e trasformazione di quegli stessi canali e strumenti, Samantha ci
accompagna a “rileggere” o a stendere ex-novo i piani di azione e di
posizionamento stesso del brand considerando, e non sottovalutando, la
crescente necessità del pubblico di interazioni umane di qualità che siano
sinonimo di affidabilità, performance, fiducia, amore per i propri clienti. Una
volta definito che la strategia deve tener conto di questo aspetto, possiamo
trovare in questo testo tutte le informazioni operative per applicarlo nella realtà
dei propri piani marketing e di comunicazione. Partendo dalle premesse
bibliografiche a sostegno dell’approccio che l’autrice sposa e fa proprio nella
quotidianità del suo stesso lavoro, il libro consente anche ai ‘non addetti ai
lavori’ di comprendere come poter fare la differenza con il proprio brand e
avere successo sul mercato.
Ad uno studio multidisciplinare dell’argomento, Samantha ha saputo abbinare
un approccio pragmatico che le deriva dalla sua stessa pratica quotidiana e ci
mette a disposizione informazioni e best practice preziose per portare il nostro
brand, indipendentemente dalle dimensioni o dalla popolarità già acquisita
dello stesso, ad eccellere nel panorama della continua e progressiva digital
tansformation. Non parliamo solo di brand aziendale, ma anche di brand
personale. La logica di una visione che tenga in debito conto il valore di saper
gestire bene le relazioni deve appartenere, a maggiore ragione, a ciascuno di
noi. D’altra parte, già adesso e in futuro ancora di più, per moltissime
professioni, non si può più ignorare la necessità di creare, gestire e curare la
propria immagine in rete.
In un mercato dove la competizione aumenta e i costi pubblicitari,
inevitabilmente, crescono, diventa vitale affinare le tecniche e individuare le
strategie operative per ottimizzare gli investimenti e ottenere un ROI (ritorno
sugli investimenti) positivo. La capacità di ‘umanizzare’ il brand e garantire al
cliente alte performance prima, durante e dopo la sua esperienza con esso è alla
base delle aziende che riescono a vincere oggi o, in alcuni casi, che riescono a
indebolire brand storici nel giro di pochi anni dalla loro nascita. Molto spesso,
non è solo il progresso tecnologico ad avergli consentito di rendere quasi
‘obsoleti’ i propri competitor, ma proprio la maggiore flessibilità mentale di
mettere veramente al centro dei propri processi e dei propri sogni una migliore
esperienza per il cliente, sotto tutti i punti di vista.
Samantha ha saputo comunicare in modo efficace e rapido i concetti legati
all’umanizzazione del brand e ha fornito spunti e indicazioni utili su come si
dovrebbero applicare nella gestione dei propri Social e, più in generale, dei
mezzi digitali di comunicazione.
Un utilissimo testo che si divora velocemente e si presta ad una consultazione
pratica frequente per mettere a punto i cambiamenti necessari al proprio
specifico caso e verificare l’andamento delle proprie prestazioni dopo aver
iniziato ad applicare quanto appreso.
Buona lettura!

1 L’ergonomia è la scienza che si occupa di studiare l’interazione fra l’essere umano e la tecnologia.
L’ergonomia cognitiva, in particolare, è la branca dell’ergonomia che si occupa dell’interazione tra
l’uomo e gli strumenti per l’elaborazione dell’informazione studiando i processi cognitivi coinvolti e
suggerendo soluzioni per migliorare tali strumenti.
CAPITOLO 1

Il concetto di umanizzazione
Il concetto di umanizzazione

Oltre 50 anni fa l’uomo è atterrato sulla luna, un evento che ha cambiato


radicalmente la storia di ciascuno di noi, abbattendo le barriere non solo fisiche
ma anche cognitive. Da allora, la potenza e le capacità umane hanno acquisito
nuovo vigore e ci si è sentiti capaci di arrivare ovunque si volesse. A riprova di
questo, oggi viviamo l’era della digitalizzazione, una realtà che fino a qualche
decennio fa sarebbe stata pura fantascienza: l’urbanizzazione, la diffusione della
connessione internet (e poi della fibra) e la pervasione capillare di dispositivi
elettronici hanno comportato una vera e propria rivoluzione comunicativa.
Se fino a qualche anno fa era impensabile che un robot potesse creare
autonomamente disegni, oggi è una realtà: l’intelligenza artificiale e il machine
learning stanno portando le aziende (soprattutto quelle B2B) ad una
rivalutazione dei propri asset aziendali e ad una complessiva rivalutazione delle
strategie comunicative.
Del resto, posizionare un brand sul mercato in modo che le vendite ne siano
favorite, non è più solo una questione di qualità del prodotto, ma è da mettere
in relazione ad una complessa serie di fattori, il più importante dei quali è la
percezione che i consumatori hanno di esso.
Sembra, infatti, che in un momento storico in cui il progresso della scienza e
della tecnologia profilano all’orizzonte la possibilità di macchine che ci
sostituiscono, i consumatori continuino a premiare i brand che dimostrano di
avere uno human touch.
Proprio per questo, il paradigma comunicativo che le aziende più competitive a
livello mondiale stanno attuando potrebbe essere riassunto nella rivisitazione
della frase di Steve Jobs:
Stay hungry, stay human.

1.1 Che cosa significa umanizzare un brand?

Per mettere a fuoco il concetto di umanizzazione del brand, cominciamo dalla


definizione che viene fornita dai principali dizionari di lingua inglese dei
termini brand e human.
Brand: “Name, term, design, symbol, or any other feature that identifies one seller’s good or

1
service as distinct from those of other sellers.”

(Trad.: Nome, termine, design, simbolo o qualsiasi altra caratteristica che identifica il bene o il

servizio di un venditore come distinto da quelli di altri venditori.)

Da questa prima definizione è importante ricordare come un consumatore


possa individuare un brand non solo in base al nome, ma anche da “qualsiasi
altra caratteristica” che lo contraddistingue quale, ad esempio, il tono
comunicazionale o i volti (amdassador e influencer) dell’azienda individuati
dalla strategia di marketing.

“The set of expectations, memories, stories, and relationships that, taken together, account

2
for a consumer’s decision to choose one product or service over another.”

(Trad.: L’insieme di aspettative, ricordi, storie e relazioni che, considerati insieme, rappresentano

la decisione di un consumatore di scegliere un prodotto o un servizio piuttosto che un altro.)

A differenza della precedente, la seconda definizione si concentra su una serie


di termini fondamentali nella realizzazione di una strategia human di un
brand: storie e decisione. Più avanti vedremo come questi due concetti non
solo siano strettamente connessi tra loro, ma anche come contribuiscano al
successo e alle vendite di un brand.
Passando poi alla definizione di umanizzazione, i dizionari di lingua inglese ci
vengono in aiuto con importanti definizioni per il lemma humanize:

3
“To make someone or something kinder, gentler, or more agreeable.”

(Trad.: Rendere qualcuno o qualcosa più benevolo, gentile e gradevole.)

4
“To make (something) more humane or civilized”.

(Trad.: Rendere qualcosa più umano e civilizzato.)

5
To portray or endow with human characteristics or attributes.

(Trad.: Ritrarre o dotarsi di caratteristiche o attributi umani)

Delle tre definizioni proposte, quella che si avvicina maggiormente al concetto


di umanizzazione di un brand è la terza: infatti, associare al brand
caratteristiche umane è il primo vero passo per renderlo vicino al proprio
pubblico, eliminando le barriere spazio-temporali.
Nei dizionari di lingua italiana, a differenza di quelli inglesi, il lemma
umanizzazione e umano riportano tutti definizioni che rimandano a contesti
religiosi (es: umanizzazione di Cristo) e alla contrapposizione uomo-animale.
Per questo è fondamentale chiarire fin da subito che quando si decide di
applicare il concetto di umanizzazione ad un brand questo include non solo le
caratteristiche antropomorfiche che possono essere individuate nel logo, ad
esempio, ma soprattutto l’insieme di elementi che fanno dire all’utente “sento
vicino a me questo brand”.
Per fare un esempio pratico: umanizzare un brand non significa solo animare
le caramelle della M&M’s facendole muovere e parlare, ma implica lo studio di
strategie di comunicazione per renderlo un partner del consumatore stesso.
Ad ulteriore conferma della recente acquisizione di questi termini nel
linguaggio comune, basta pensare che prima del 2006 i termini
“umanizzazione” e “brand” non erano mai stati usati insieme, nemmeno nel
contesto anglofono che – da questo punto di vista – ha un vantaggio di circa
una decina di anni sul nostro Paese.
Infatti, il primo autore ad impiegarlo è stato Matthew Thomson che nel 2006
ha usato, all’interno del Journal of Marketing, il termine human brands nel
titolo del proprio pezzo. Nel suo articolo6 Thomson sottolineava, per altro,
come la sensazione di relazionalità instaurata tra il consumatore e il brand
stesso fosse una premessa fondamentale nello sviluppo di una solida relazione
tra le parti, caratterizzata da sentimenti ed emozioni.
Allo stesso tempo, poneva l’attenzione su come non bastasse per il brand
suscitare un rapporto empatico, ma che questo dovesse essere positivo7.
Da questo punto di vista, Thomson dimostra di aver colto un aspetto
importante dell’umanizzazione del brand, ma al tempo stesso bisogna ricordare
come sia praticamente impossibile suscitare emozioni positive in ogni
consumatore, appartenente a qualsiasi segmento di mercato: anzi, è opportuno
farlo solo per le proprie personas in target.
Dopo l’intuizione pioneristica di Matthew Thomson, bisogna aspettare fino al
2013 quando Marina Puzakova, Hyokjin Kwark e Joseph F. Rocereto8
utilizzeranno i termini “humanizing brand” all’interno del titolo del proprio
articolo giornalistico nel quale invitavano i marketer ad umanizzare i brand
attraverso caratteristiche visive tali che rendessero il proprio prodotto
somigliante agli esseri umani.

1.2 Come la digitalizzazione ha cambiato il rapporto tra brand e

consumatori

La rivoluzione digitale ha cambiato radicalmente la vita quotidiana di ciascuno


di noi, modificando abitudini e aspettative nei confronti del brand.
Tuttavia, è opportuno fare una premessa: il termine digitale è estremamente
fuorviante, soprattutto se utilizzato in questo contesto. Bisogna infatti pensare
al termine digital sotto due punti di vista:
• Digitale come mezzo: in questo senso, la rivoluzione digitale ha portato ad
un cambiamento dello strumento tramite il quale i consumatori entrano in
contatto con il brand. Se prima la radio e la televisione erano le regine
indiscusse, oggi devono fare i conti con siti internet, applicazioni, e social
network come Facebook e Instagram.
• Digitale come contenuto: il punto non è solo che i consumatori vogliono
ricevere notizie e aggiornamenti tramite i social, ma che desiderano testi e
contenuti che si prestino a questa pubblicazione. Facciamo un esempio: un
articolo adatto alla pubblicazione cartacea, non è idoneo alla pubblicazione
online e viceversa.
A partire dagli anni ’90 del secolo scorso, la pervasione della connessione a
internet e la diffusione di smartphone e computer, nonché l’avvento di una
generazione che è nata con il digitale, sta spingendo le aziende a modificare
radicalmente non solo il proprio modo di comunicare, ma anche a stabilire
nuovi e diversi obiettivi aziendali.
Senza lasciarsi andare ad allarmismi, guardiamo i numeri: nel mondo ci sono
circa 7,676 miliardi di persone, di cui 4,3888 miliardi navigano regolarmente
su internet (circa il 57%). Di questi, 3,484 miliardi sono attivi sui principali
social media. Questi numeri sono destinati a crescere se consideriamo che
rispetto al 2018, il numero degli internauti è aumentato del 9,1% e quello dei
connessi a piattaforme social del 9% (stiamo parlando, in questo secondo caso,
di oltre 288 milioni di persone).
Cosa significa tutto questo? Che gli utenti, compreso tu che stai leggendo,
hanno modificato le proprie aspettative nei confronti dei brand con cui
interagiscono. Si tende a dare per scontato che ogni marchio non solo abbia un
sito internet, ma anche una pagina Facebook e spesso Instagram e – se opera in
settori come quello della ristorazione o food and beverage – che ci sia un
servizio di customer care attivo 24 ore su 24.
Ne consegue che è cambiato profondamente il rapporto tra marketing e
comunicazione, basato oggi su un’intrinseca mutazione di entrambe queste
discipline.
Da una parte, è nato il marketing digitale ossia l’insieme delle attività
strategiche che si prefiggono come obiettivo l’utilizzo di canali web per creare
un network commerciale per vendere un determinato prodotto ma anche per
analizzare i trend di mercato, di conseguenza, adattare l’offerta in base al
proprio target.
Fin da questa prima definizione, appare evidente come ci siano delle differenze
macroscopiche rispetto al marketing tradizionale che – cercando di
semplificare – era basato sulla regola delle 4P (product, prize, place e promotion):
anche se questo asset è stato in parte confermato, il rapporto con il cliente è
cambiato in maniera radicale. Infatti, se nel marketing tradizionale il centro
dell’intera strategia era il prodotto (a discapito del potenziale consumatore che
era messo in secondo piano), oggi è proprio l’acquirente (cioè la buyer
personas) ad essere portato sotto le luci della ribalta.
Il risultato è che non solo è cambiato il modo di concepire il destinatario della
comunicazione, ma sono mutati anche gli strumenti per raggiungerlo e
instaurare una comunicazione proficua con lui, tanto che si parla di marketing
relazionale.
Se il marketing aziendale ha subito una profonda mutazione, altrettanto è
accaduto anche alla comunicazione che è diventata comunicazione digitale
bidirezionale. Con questo termine si intende quel continuo scambio che si
instaura tra brand e azienda, in maniera attiva e reciprocamente rispettosa,
attraverso i numerosi canali attraverso i quali un brand è attivo. Idealmente,
nel perfetto equilibrio tra comunicazione e marketing, la prima contribuisce al
raggiungimento degli obiettivi che vengono prefissati dal punto di vista
aziendale; insomma, utilizzando una metafora, si potrebbe dire che la
comunicazione è la benzina che permette al brand di raggiungere gli obiettivi
condivisi con il marketing.
Alla luce di questi fatti, gli utenti sempre più connessi hanno aspettative
differenti nei confronti del brand di riferimento, in particolare per quanto
riguarda i luoghi di interazione, i principali dei quali sono:
• sito internet: il primo momento di contatto tra il brand e il consumatore,
nella maggior parte dei casi, è proprio il sito internet. Per questo risulta
essenziale non solo essere ben posizionati nei risultati di ricerca di Google, ma
anche comunicare in maniera efficace i propri punti di forza;
• live chat: è fondamentale avere una live chat o un chat bot che permetta agli
utenti di poter comunicare direttamente con il tuo brand. A riguardo,
soprattutto se lavori nel settore della ristorazione o se ti occupi di erogare
servizi, dovrai formare in maniera adeguata il servizio di costumer care;
• canali social media: Facebook, Instagram e LinkedIn sono le principali
piattaforme social delle quali un’azienda o un libero professionista devono
disporre per poter comunicare con il proprio consumatore. Soprattutto se sei
una realtà B2B, devi non solo avere un profilo aziendale, ma devi anche
gestirlo in maniera organizzata e strategica.
A questo proposito è importante sottolineare fin da subito come comunicare
sui social media attraverso un profilo aziendale comporti delle responsabilità
concrete, non solo dal punto di vista legale, ma anche nella percezione che gli
utenti hanno del brand stesso. Infatti, un recente studio – divulgato da Statista
Infographics – ha individuato i modi con cui i social media, nel 2018 negli
Stati Uniti, hanno inciso positivamente sull’idea che i consumatori avevano del
brand stesso.
Dal grafico di Figura 1.1 emerge chiaramente come il 75% degli utenti
coinvolti nello studio abbia indicato che la democratizzazione dei social media
stia portando i propri frutti: infatti, per le aziende disporre di uno strumento
che consenta di conferire lo scettro del potere agli utenti sembra essere
particolarmente produttivo e stimolante.
Figura 1.1: Modi in cui gli utenti degli Stati Uniti ritengono che i social media abbiano aumentato

la responsabilità del brand.

Una volta accennati i principali luoghi virtuali in cui può avvenire l’incontro
con l’utente, è evidente come sia cambiato in maniera rivoluzionaria il
parametro comunicativo da seguire; l’utente non deve essere visto come una
“macchina da soldi”, ma come un partner con il quale intraprendere una
duratura relazione lavorativa. Per questo la parola d’ordine non deve essere
vendita, ma informazione e sensibilizzazione… umana.

1.3 Rapporto tra umanizzazione e brand

La domanda alla quale voglio rispondere in questo paragrafo è: alla luce del
nuovo parametro comunicativo suggerito dalle nuove necessità degli utenti, qual è il
ruolo dell’umanizzazione del brand?
Il ruolo dell’umanizzazione per ogni brand è fondamentale. Infatti, i
consumatori sono alla ricerca di aziende che parlino direttamente a loro, nel
loro linguaggio e siano pronte ad interagire nel luogo e nel momento in cui lo
desiderano di più. Tuttavia, lo human touch non deve intervenire solo nella fase
di interazione, ma deve essere un asset portante che compare in maniera
strutturale fin dalla fase di realizzazione della strategia comunicativa, e permea
l’intero processo di interazione tra consumatore e brand.

1.3.1 L’interazione tra consumatore e brand

Per comprendere a fondo l’importanza dell’umanizzazione del brand, bisogna


partire dal nuovo paradigma di acquisto, lanciato nel 2005 da Procter and
Gamble, che sottolinea una svolta epocale nelle dinamiche di selezione del
brand da parte del consumatore.
Prima dell’avvento del web l’esperienza di acquisto si basava su tre fasi:
• stimolo: in questo primo momento di interazione, il consumatore veniva a
conoscenza del brand attraverso uno dei numerosi canali di comunicazione
attivati dal marchio stesso;
• scaffale: noto anche come First Moment of Truth (FMOT), identificava il
momento nel quale il consumatore selezionava il prodotto desiderato in mezzo
a quelli presenti sul mercato;
• esperienza del prodotto: a conclusione del paradigma di acquisto pre-
tecnologie web based, il consumatore fruiva del prodotto acquistato.
Con la digitalizzazione questo paradigma è stato arricchito dal cosiddetto Zero
Moment of Truth (ZMOT) che si colloca tra la fase dello stimolo e quella
dello scaffale: con questo concetto si intende il momento nel quale il potenziale
cliente costruisce le proprie convinzioni intorno al prodotto segnando l’inizio
del processo d’acquisto.

Figura 1.2: Cambiamento del parametro comunicativo

La caratteristica distintiva dello ZMOT è che avviene principalmente sul web


in tempo reale e attraverso un processo di tipo emozionale. Appare quindi
evidente come riuscire a conferire al brand un tocco human, possa contribuire
a far volgere a favore del marchio stesso la scelta dell’utente, rafforzando la
propria brand equity.
Con questo termine si indica la forza di un marchio nel proprio mercato di
riferimento: può essere definito sia dal punto di vista finanziario (indicandone
l’importanza come asset all’interno del patrimonio aziendale) sia da quello del
marketing (in questo secondo caso di può fare riferimento all’immagine che un
brand è riuscito a costruire nel tempo).
Strettamente connesso al concetto di brand equity – e fondamentale per
comprendere l’importanza dell’umanizzazione – è quello di customer based
brand equity con cui si stima il valore di un brand nella prospettiva del
consumatore stesso.
Questo si basa su cinque componenti strettamente correlate tra loro:
1. fidelizzazione (brand loyalty): ossia la tendenza del consumatore ad
acquistare nuovamente il prodotto;
2. notorietà (brand awareness): ovvero il grado di diffusione della conoscenza
del brand da parte del grande pubblico;
3. qualità: intesa come la percezione del consumatore riguardo la qualità
globale del prodotto rispetto all’utilizzo che ne viene fatto.
4. associazione di marca: come l’insieme dei riferimenti diretti e indiretti che
vengono associati al brand nella mente del consumatore;
5. proprietà intellettuale: ossia l’insieme dei beni immateriali di cui il brand è
proprietario (marchi registrati, brevetti…).

1.3.2 Tipologie di interazione del consumatore con il brand

Una volta comprese le fasi attraverso le quali il consumatore entra in relazione


con il brand, si può approfondire il modo in cui egli interagisce con un
marchio con caratteristiche human. Facendo riferimento al concetto di
marketing esperienziale9 possono essere individuate le seguenti tipologie di
interazione:
• cognitiva: coinvolge non solo la creatività, ma anche il pensiero logico e la
capacità di problem solving del consumatore che è impegnato in un’esperienza a
360° nei confronti del brand;
• emotiva: finalizzata alla nascita di un rapporto fiduciario e di affezione nel
cliente nei confronti del marchio;
• comportamentale: più efficace è la strategia di customer engagement, più
pervasiva – e quasi invasiva – sarà la presenza del brand nella vita del
consumatore stesso.
Appare quindi evidente, a questo punto, come riuscire ad includere all’interno
della propria strategia multicanale una componente human possa non solo
costituire un vantaggio competitivo, ma costituisca un tassello fondamentale
nella user experience dell’utente stesso.
1.3.3 Fattori che favoriscono l’umanizzazione del brand nell’utente

Il processo di umanizzazione del brand è stato a lungo studiato da antropologi


e neuro scienziati tanto che è stato coniato un termine per indicare l’insieme di
caratteristiche umane associate al brand: brand personality.
A questo proposito, una pietra miliare nello studio della personalità del brand è
stata condotta da Jennifer Aaker che ha elaborato un grafico che consente – in
maniera abbastanza precisa – di comprendere quali caratteristiche potranno
portare al successo un marchio in quanto maggiormente apprezzate dai
consumatori.
Come si evince dalla Figura 1.3, sono state individuate cinque caratteristiche
principali (sincerità, emozione, competenza/preparazione, raffinatezza e
mancanza di flessibilità), ciascuna delle quali si suddivide in sette ulteriori
sfaccettature.

Figura 1.3: Grafico ad albero sulle cinque caratteristiche

più apprezzate dai consumatori. (Fonte: Jennifer Aaker)

Ad integrazione di quanto detto fino ad ora, è interessante riportare i risultati


di uno studio10 che non solo conferma che le caratteristiche di un brand
human corrispondono ad alcuni tratti caratteriali degli esseri umani, ma che
quelli apprezzati maggiormente sono due, ossia la coscienziosità e la
gradevolezza.
In ogni caso, la definizione utilizzata di brand personality, consente di
comprendere da subito come non ci si debba limitare a una caratteristica unica,
ma come sia fondamentale riuscire ad inglobare un insieme di elementi che –
nel complesso – creeranno l’effetto human nel consumatore.
In particolare, esistono alcuni fattori che favoriscono il processo di
umanizzazione del brand nella mente degli utenti: si tratta di elementi di varia
natura che – se utilizzati in maniera sapiente – possono costituire l’ossatura
della strategia di umanizzazione.
a. Caratteristiche umane: questi aspetti possono essere il nome, il genere o
caratteristiche anatomiche umane come il volto o addirittura la voce. Un
esempio efficace è proprio Alexa di Amazon che – a differenza di Google Home
– non solo ha un nome, ma parla anche con voce di donna; analogo
ragionamento vale per Siri di Apple.
b. Elementi visivi: alcuni brand hanno portato avanti la propria strategia di
umanizzazione inserendo elementi tali da essere riconosciuti al primo impatto,
come ad esempio la presenza di un volto, del corpo o la stilizzazione attraverso
un avatar. Infatti, la rappresentazione del brand in atteggiamenti o mansioni
tipicamente umani, stimola nel consumatore la sua antropomorfizzazione e ne
aumenta la percezione di affidabilità. Un esempio è quello di acqua Lete che ha
realizzato la propria campagna pubblicitaria sulla base di una famiglia di
bottiglie d’acqua dal basso contenuto di sodio.

Figura 1.4: Pubblicità Lete

c. Dispositivi verbali: una vasta gamma di tattiche verbali sembra indurre nel
consumatore l’attivazione del processo di antropomorfizzazione. Tra queste
dare al prodotto un nome umano, descriverlo in prima persona ed etichettarlo
in termini di genere non fanno altro che incrementare la percezione degli
utenti ad avvertirlo come umano. Proprio per questo spopolano sul web siti
internet all’interno dei quali ci sono avatar che parlano e seguono convenzioni
prettamente umane. Ad aumentare questa tendenza c’è la rappresentazione
sociale del brand attraverso slogan come “X è il tuo principale alleato” oppure
“con X contro le macchie più ostinate” (creando, in questo secondo caso, una
sorta di divisione tra buoni e cattivi).
d. Figure retoriche: l’utilizzo delle figure retoriche è una tecnica che,
storicamente, ha sempre portato i propri frutti. L’impiego di metafore o
similitudini che rimandano sia alla sfera visiva che acustica, innescano nei
consumatori la tendenza a riconoscere nel brand caratteristiche umane. Uno
degli strumenti più efficaci è proprio la personificazione attraverso la quale è
possibile raffigurare il brand con una forma o con una fisionomia simile a
quella degli esseri umani.
Un’ulteriore modalità è la rappresentazione del marchio attraverso un
personaggio (umano o idealizzato) che lo rappresenta; in questo contesto
risultano particolarmente efficaci figure archetipiche come l’eroe, il mago, il
fuorilegge perché favoriscono la creazione di una vera e propria storia intorno
al brand stesso.

Figura 1.5: Pubblicità M&M’s

Infatti, per un’azienda disporre di uno strumento narrativo forte che consenta
di rimarcare in maniera immediata e iconica i propri valori e il posizionamento
sul mercato, favorisce nei consumatori la tendenza a percepire il brand con dei
tratti umani.
Più avanti approfondiremo il concetto di storytelling, ma per adesso è
importante cominciare a collocarlo all’interno di una strategia di
umanizzazione, comprendendone il ruolo.
e. Altri elementi: senza dover entrare nel dettaglio, è interessante sottolineare
come alcuni studiosi11 abbiano dimostrato che i consumatori delle culture
collettiviste (Cina e India) abbiano una spiccata tendenza alla umanizzazione
dei brand per questioni culturali e religiose rispetto agli abitanti degli Stati
Uniti che sono esposti al contrario con maggiore frequenza ad oggetti
tecnologici.

È
È opportuno evidenziare come anche elementi di tipo sociale possono incidere
in maniera rilevante in questo processo: alcuni di questi possono essere la
tendenza alla socialità dell’utente, uno stile di vita solitario, oppure elementi
puramente circostanziali e situazionali o stili culturali (individualismo o
collettivismo).

1.3.4 Caratteristiche umane che vengono riconosciute nel brand

Una volta che il consumatore è entrato in contatto con il brand che possiede
caratteristiche human è naturalmente predisposto ad interagire e a riconoscergli
tali caratteristiche “umane”. In particolare, quelle che vengono assegnate con
maggiore frequenza e che hanno una connotazione più positiva sono:
• affidabilità: se gli utenti giudicano un brand come umano, sono più inclini a
conferire al marchio una maggiore affidabilità. Questo implica non solo che,
agli occhi dell’utente, il brand sia in grado di comprendere le necessità
intrinseche del consumatore, ma che agisca in maniera eticamente corretta per
appagarle. Un esempio emblematico di questo aspetto è riscontrabile nel
settore dell’automotive: è stato recentemente confermato come la fiducia dei
passeggeri verso un’automobile che presenta caratteristiche umane (sensori di
parcheggio, parcheggio autonomo oppure “pilota automatico” o sensori di
rilevamento della stanchezza) sia superiore rispetto a quelle che non le avevano.
Il discrimine per le ditte automobilistiche non consiste nel numero di
accessori, ma nell’abilità di trasmettere sicurezza e affidabilità, caratteristiche
che notoriamente appartengono agli esseri umani e non alle automobili.
Ovviamente, in questo caso particolare rientrano numerosi fattori quali – ad
esempio – l’affidabilità che il consumatore attribuisce agli esseri umani in
generale, la modalità con cui elaborano e interpretano il messaggio
pubblicitario e la pietra di paragone utilizzata;
• attribuzione di correttezza: gli utenti che riconoscono al brand delle
caratteristiche umane, sono inclini ad attribuirgli correttezza e onestà nelle
azioni che compie. Questo sentimento diventa particolarmente importante
riguardo le politiche commerciali: infatti, qualora un brand abbia lavorato
correttamente nella direzione human, il consumatore sarà più incline a
giustificare anche attività come l’aumento dei prezzi purché supportate da un
aumento della qualità del prodotto stesso;
• attribuzione di meriti o di colpe: la percezione di un brand come umano
comporta delle ripercussioni anche nel meccanismo di attribuzione delle colpe
e dei meriti al brand stesso. Ad esempio, il consumatore sarà meno incline a
dare un giudizio negativo sul sapore di un biscotto che presenta delle
sembianze antropomorfe rispetto ad uno che non le mostra.
A questo proposito, una ricerca condotta utilizzando le tecniche di imaging
FMRI (risonanza magnetica funzionale) suggerisce che i tratti human di un
brand attivano particolari aree del cervello associate al ragionamento implicito
e immaginario, nonché quelle relative alla rielaborazione affettiva. Queste
specifiche aree cognitive si attivano non appena il consumatore entra in
contatto con un brand con dei tratti caratteristici human, tanto che è stato
possibile anticipare – con una buona approssimazione – quali fossero i marchi
ai quali stavano pensando i consumatori proprio in base alle aree del cervello
attivate.

1 American Marketing Association.


2 Godlin, 2019.
3 Cambridge Dictionary.
4 Oxford Dictionary.
5 American Heritage.
6 Thomson, M. (2006). Human brands: Investigating antecedents to consumers’ strong attachments to
celebrities. Journal of Marketing, 70(July), 104-119.
7 “Is unlikely to develop if the starting point of the relationship is characterized by intense negative
feelings or thoughts” Thomson, 2006.
8 When Humanizing Brands Goes Wrong: The Detrimental Effect of Brand Anthropomorphization
amid Product Wrongdoings.
9 Ferraresi M., Schmitt B.H., Marketing Esperienziale. Come sviluppare l’esperienza di consumo, Franco
Angeli, Milano, 2018.
10 Digman, J. M., Personality structure: Emergence of the five-factor model, Annual Review of
Psychology, 41, 1990, 417–440.
11 Ghuman, M. K., Huang, L. Madden, T. J., Roth, M. S. (2015), “Anthropomorphization and
consumer-brand relationships: A cross-cultural analysis”. In S. Fournier, M. Breazeale, & J. Avery
(Eds.), Strong brands, strong relationships (pp. 135-148). New York, NY: Routledge.
CAPITOLO 2

L’umanizzazione al tempo

della digital transformation


L’umanizzazione al tempo della digital

transformation

Recentemente è stata divulgata la notizia di Libra, la moneta virtuale voluta da


Mark Zuckerberg: questa ennesima innovazione nel mondo di Facebook
sarebbe stata impensabile anche solo qualche anno fa. Eppure, è proprio questo
l’elemento di forza di un social network così dinamico.
Chi, come me, lavora in questo settore è abituato a continui aggiornamenti di
algoritmo e a costanti innovazioni che hanno portato, nel giro di pochi anni, a
una vera e propria rivoluzione digitale. Prima di passare alle conseguenze e alle
contraddizioni di questo fenomeno, vorrei partire dalla situazione attuale.
Secondo un recente studio che prende in analisi la diffusione della
digitalizzazione a livello globale, il 2018 è stato un anno di grande crescita,
quasi esponenziale in certi settori: sono stati registrati, infatti, oltre un milione
di nuovi utenti al giorno.

Figura 2.1: Digital Report 2019

(Fonte: Hootsuite)

In particolare – su una popolazione totale di 7,676 miliardi di persone, 5,112


miliardi sono utenti unici mobile, cioè che navigano principalmente su
internet attraverso il proprio smartphone. Inoltre, sono 3,484 gli utenti attivi
sui social media – circa il 45% del totale.
Che cosa significa questo? Quasi un essere umano su due vive connesso con il
resto del mondo attraverso una piattaforma social e, nonostante siano
disponibili differenti alternative, alcune svolgono un ruolo di primaria
importanza:
• Facebook: 2,271 milioni di utenti attivi/mese;
• YouTube: 1,900 milioni di utenti attivi /mese;
• WhatsApp: 1,500 milioni di utenti attivi/mese;
• Facebook Messenger: 1,300 utenti attivi/mese;
• WeChat: 1,083 utenti attivi/mese;
• Instagram: 1,000 utenti attivi/mese.
Per avere un quadro ancora più completo, è opportuno sottolineare il profilo
dell’audience dei social media:
Fascia d’età Donne Uomini

13-17 anni 3% 4%

18-24 anni 11% 16%

25-34 anni 13% 19%

35-44 anni 7% 9%

45-54 anni 5% 5%

55-65 anni 3% 3%

65+ anni 2% 3%

Tutto questo si traduce in nuove abitudini degli utenti che hanno


progressivamente trovato spazio, durante le proprie giornate, per l’utilizzo dei
social media: è stato stimato, infatti che in media ciascuno passi circa 6 ore su
internet e quasi 2 ore sui social network (attraverso qualsiasi dispositivo).
In Italia poi lo scenario è ancora differente se si considera che gli utenti totali
sui social sono 35 milioni.

2.1 Perché si usano i social

Numerosi studiosi, tra cui quello di Luciano Floridi, docente a Oxford, hanno
rivelato quali siano le ripercussioni pratiche di questo gigantesco fenomeno che
è il digitale, tanto da essere chiamato “la quarta rivoluzione”.1
“La prima rivoluzione è stata quella di Copernico che, con la sua teoria eliocentrica, ha tolto

la Terra – e quindi l’essere umano – dal centro dell’universo. Poi Darwin ci ha dimostrato

che l’uomo non era nemmeno al centro del regno animale. A quel punto speravamo di

essere al centro dello spazio mentale, ma Freud ha smentito questa tesi scoprendo
l’inconscio. Sono state tre rivoluzioni di autoconsapevolezza. Ora sta avvenendo una quarta

rivoluzione: finora ci eravamo messi istintivamente al centro dello spazio dell’informazione.

Pensavamo: ‘Quando si tratta di gestire l’informazione siamo i più bravi del mondo:

giochiamo a scacchi, guidiamo l’automobile, ecc. ecc.’. Invece ci sono robot che giocano a

scacchi, guidano l’auto per noi, fanno financial trade online molto meglio di noi. Il digitale ci

ha tolto per la quarta volta dal centro del mondo dove ci eravamo collocati.”

Per quanto questa affermazione possa sembrare catastrofistica, in realtà


sottende una nuova visione del modo su cui impostare la comunicazione
aziendale. Infatti, nel momento in cui il digital ci ha tolto dal centro del nostro
universo, ci ha collocato invece il prossimo tanto da portare all’allocentrismo.
Questo parametro non riguarda solamente i singoli individui, ma soprattutto le
aziende: oggi le realtà che si mettono al centro del proprio universo sono
destinate a essere perdenti.

Figura 2.2: Infografica

Quello che bisognerebbe fare è porre come fulcro delle proprie riflessioni e
strategie il consumatore: ecco la matrice del business customer centred.
Queste riflessioni hanno subito un’ulteriore evoluzione negli ultimi anni che ha
portato ad un ulteriore passo avanti: infatti, oggi, al centro dell’universo
azienda non c’è tanto (e solo) il consumatore, ma la relazione con esso.
A conferma di questo si colloca il cambiamento del ruolo del digitale nel
sistema salute e nell’ambito sanitario nella direzione del connected care. A
questo proposito, per esempio, nel 2018 sono stati investiti circa 50 milioni
per il processo di digitalizzazione della cartella clinica e sono stati aperti
numerosi canali di comunicazione alternativi con il paziente (il 57% dei
medici specializzati utilizza WhatsApp per comunicare con il proprio paziente).
Analogamente nel caso di relazioni tra le aziende, il fulcro è diventato il
rapporto instaurato tra esse. Infatti, stanno nascendo interessanti sinergie tra
aziende che possono e vogliono condividere i propri dati.

2.2 Passare da un approccio B2B o B2B ad uno H2H

L’insieme di questi fattori ha portato ad una progressiva spersonalizzazione


delle interazioni e ad una sostituzione delle interazioni face-to-face con quelle
virtuali. Non si tratta di allarmismo, ma è un dato di fatto che – ciascuno di
noi – mandi un messaggio WhatsApp anche da una stanza all’altra del
medesimo appartamento.

Figura 2.3: Bryan Kramer, Human To Human, 2017

Insomma, se fino a qualche anno fa l’aggettivo “digitale” poteva costituire un


rifugio sicuro per i più introversi, oggi sta cambiando qualcosa in diversi settori
del business online. Il nuovo parametro comunicativo che si sta facendo spazio
insegna alle aziende e ai privati a metterci la faccia e a rivedere radicalmente il
proprio rapporto con il consumatore.
La rinnovata necessità, soprattutto da parte degli utenti, di parlare con un
referente in carne ed ossa porta numerose realtà a rivalutare l’apporto umano
che viene dato alla propria comunicazione.
Se “in principio fu il B2B e il B2C” oggi c’è l’H2H: non si tratta di un banale
gioco di lettere e di sigle, ma di una rivoluzione che sta cambiando in maniera
profonda e radicale non solo il modo di fare marketing nelle aziende, ma anche
il mercato di riferimento. Senza entrare nel dettaglio delle singole differenze
che contraddistinguono le aziende B2B da quelle B2C bisogna focalizzarsi su
come questa divisione presupponesse una spartizione anche di modelli di
business e target di riferimento sottesi.
A differenza di questi l’approccio H2H è del tutto trasversale ad entrambi i
modelli perché basa la propria efficacia sull’interazione tra esseri umani, un
prerequisito comune a qualsiasi azienda che desideri avere successo.

2.3 Human nell’e-commerce

Il problema della trasformazione delle abitudini dei consumatori si è ripercosso


in maniera più evidente per coloro che basavano il proprio modello di business
sulle conversioni online grazie ad un e-commerce.
Infatti, anche se in Italia l’e-commerce è entrato in ritardo rispetto al resto
degli Stati europei, il valore di questo mercato è cresciuto del 18% nel solo
2018, superando la quota di 40 milioni di euro. L’incremento così sensibile del
fatturato da parte di queste realtà porta inevitabilmente a interrogarsi sul
futuro di queste aziende, destinate al continuo confronto con il cambiamento.
Del resto, anche se la crescita non è stata registrata in maniera uniforme, un
elemento comune a tutte è l’importanza del marketing online. A fronte della
riconosciuta importanza di questo settore, il 55% delle aziende riscontra
ancora delle difficoltà nella strutturazione di una strategia promozionale online
soprattutto a causa della mancanza di una figura interna atta a coordinare le
singole attività.

Figura 2.4: Global Digital Report 2019

(Fonte: Hootsuite)

In ogni caso tra i settori prediletti dagli imprenditori che hanno compreso
l’importanza della comunicazione online ci sono i social media; passando ai
numeri, le aziende che curano i propri profili social e soprattutto attraverso essi
si preoccupano di interagire con i propri clienti / consumatori, hanno
registrato un aumento del fatturato pari al 30%.
Tra le piattaforme più efficaci rimane Facebook (utilizzata dall’81% degli
utenti), seguita da Instagram, considerata efficace dal 53% delle aziende a
fronte del 71% della propria “sorella maggiore” dall’icona blu.
Il numero totale di utenti attivi su Facebook mensilmente è di 31 milioni –
48% utenti femminili e 52% utenti maschili: dal punto di vista aziendale,
questo significa che ogni giorno possono essere raggiunti 31 milioni di
potenziali clienti interessati al proprio servizio.
Particolarmente interessanti sono i dati sull’engagement degli utenti su questa
piattaforma, ossia il grado di coinvolgimento – anche emotivo – e di
interazione.

Figura 2.5: Global Digital Report 2019

(Fonte: Hootsuite)

Oltre ai dati incoraggianti che riguardano Facebook è importante ricordare


come – per poter sfruttare al massimo le potenzialità di questo canale – si
debba strutturare una strategia comunicazionale omnicanale. Anche da questo
punto di vista le abitudini dei consumatori sono cambiate notevolmente negli
ultimi anni, costringendo le aziende a rivedere radicalmente i propri paradigmi
comunicazionali.
Per comprenderne a fondo le implicazioni possiamo prima riassumere i canali
di vendita a disposizione dell’azienda:
• strategia monocanale (single-channel): propria dei sistemi di vendita
tradizionali “porta a porta” (offline) basa la propria efficacia su un unico canale
di vendita che è spesso il negozio. Attenzione: questo genere di strategia si
riscontra anche nei business online che eleggono a canale unico di vendita l’e-
market;
• strategia multicanale (multichannel): chi si avvale di questo genere di
approccio mette il proprio cliente di acquistare i prodotti attraverso almeno
due canali in maniera parallela e non esclusiva;
• strategia crosschanel: a differenza delle precedenti, fonde diversi canali di
vendita. Ad esempio, il cliente può acquistare un prodotto online e andare a
ritirarlo direttamente nel negozio.
Nel momento in cui viene attuato un coordinamento di sistemi tra i differenti
canali di vendita, ecco attuata una strategia omnicanale: in questa ottica quindi
il cliente completa il proprio percorso di acquisto sia attraverso canali di
vendita tradizionali che digitali che vivono in stretta relazione tra loro.
Come è accaduto per altre tipologie di asset commerciali, anche la strategia
omnicanale presenta alcuni vantaggi indiscussi e altri piccoli svantaggi:
• targettizzazione: il profilo dell’utente viene definito in maniera precisa e
quasi chirurgica in termini non solo demografici, ma anche comportamentali
grazie alla grande quantità di dati a disposizione (con tutte le difficoltà e i rischi
che comporta la possibilità di disporre di queste informazioni);
• meno barriere spazio-temporali: i consumatori hanno la possibilità di
effettuare acquisti in ogni luogo e in qualsiasi momento della giornata;
• nascita di un rapporto profondo con il cliente: grazie alla possibilità di
conoscere nel dettaglio il proprio cliente, è possibile instaurare un rapporto che
massimizzi la possibilità di vendita e di upselling.
A fronte di questi vantaggi, ci sono alcuni apparenti svantaggi, i più importanti
dei quali sono le necessità degli utenti, che sono diventati sempre più esigenti.
L’aumento delle attese dei prospect li porta inevitabilmente ad aspettarsi il
medesimo trattamento – di alto livello – attraverso tutti i canali che l’azienda
ha attivato. Oltre ad una questione qualitativa, il cliente si aspetta anche
coerenza nella gestione dei canali, frutto di una visione aziendale centrale
condivisa e coerente che rispecchi i valori aziendali.
Qualora la realtà di riferimento non sia in grado di fare fronte a queste
richieste, viene intaccata non solo la sua credibilità, ma innesca un meccanismo
vizioso negli utenti fatto di cattive raccomandazioni e recensioni poco
lusinghiere.
Un esempio emblematico del servizio che gli utenti oggi si aspettano è il food-
delivery: senza voler entrare nel dettaglio nelle singole strategie di marketing
sottese, il consumatore può, da mobile, scegliere il piatto che preferisce e
vederlo consegnato quando vuole nel luogo che preferisce.
Vuoi un cliente senza autostima?
di Luigi de Seneen
Da molto tempo e in molti modi quando si parla di marketing si sente la necessità di umanizzare
questa funzione aziendale. Sembra quasi un paradosso considerando il fatto che, insieme alle risorse
umane, sono le due aree di impresa al cui centro c’è l’uomo.
In realtà, se ci riflettiamo bene, entrambe le aree tendono a perdere il focus sull’elemento umano per
effetto delle categorie funzionali.
Da uomo a dipendente, operaio, collaboratore, cliente, compratore, target, responsabile acquisti ecc.
Ogni volta che racchiudiamo le persone in categorie, inevitabilmente ci limitiamo nella visione e
nelle dinamiche di interazione. Il cliente è una persona da cui poter ottenere il permesso a
relazionarsi. Punto.
Il rischio che subito si palesa è quello di una deriva romantica nel ragionamento poco funzionale al
business. Sgombriamo subito questa nebbia teorica dicendo che l’obiettivo non è quello di
rinunciare ai profitti in nome della umanizzazione dei rapporti, bensì comprendere, invece, come il
business non abbia ancora espresso il massimo della sua potenzialità e come alle volte sia gravosa la
sua realizzazione proprio a causa “dell’inscatolamento” delle persone in ruoli e funzioni da
diagramma di mercato.
Perché ad un certo punto siamo caduti nella tendenza a costruire modelli umani disegnati solo in
funzione della stretta relazione commerciale? Perché si è estinta l’analisi di ampio respiro e la
pianificazione strategica.
Faccio una precisazione necessaria: la pianificazione strategica non è solo e semplicemente un
elenco di azioni di marketing possibili e il relativo timing, ma è uno strumento complesso in cui i
presupposti per la pianificazione delle azioni (le analisi) si nutrono dei feedback e generano
adeguamenti continui nelle azioni. Aderiscono, dunque, al lato più umano del mercato.
Nessuno vuole sentirsi una generica buyer personas incanalata in un funnel. Nessuno vuole stare
con una folla di simili sgomitanti in un imbuto che gli permette di scorrere solo se accetta
determinate condizioni. A meno che voi non desideriate clienti con un basso livello di autostima. È
proprio questo tipo di cliente la persona con la quale speriamo di esprimere tutta la nostra capacità
di business? E che cosa c’entra l’autostima?
Intendo, ovviamente, la forma di autostima relativa alla dimensione di consumatore o meglio, di
selezionatore.
Un cliente dalle basse pretese, un cliente che risponde a stimoli di marketing basici e meccanici, un
cliente che misura tutto sul prezzo, che non è interessato ad approfondire alcun aspetto di chi
produce il prodotto o servizio che sta selezionando, un cliente che non si cura della gestione del
post-vendita. Un cliente che è poco coinvolto, che non sarà stimolato a parlare della propria
esperienza di acquisto o di utilizzo. Sarà difficile ottenere da lui un feedback. Probabilmente sarà
per lui una esperienza occasionale poiché poco incline a fidelizzarsi. La sua è una logica di rapida e
superficiale soddisfazione.
Rinunciare al cliente privo di autostima significa arrivare ad intercettare la complessità delle persone
e delle sfere relazionali giungendo a creare relazioni di business più profonde e più ampie.
Cosa potrai vendere ad un cliente senza autostima? Probabilmente poco e per poche volte. La
qualità del tuo business è fatta dalla qualità dei tuoi clienti, dalla loro capacità di apprezzare i tuoi
prodotti cogliendone il valore differenziante, le evoluzioni, gli accessori, i servizi, ecc.
“I mercati sono conversazioni” e se questo è divenuto sempre più una consapevolezza perché
scarseggiamo nell’assumere la consapevolezza di dover umanizzare sempre di più la nostra idea di
marketing? La qualità delle conversazioni dipende dalla qualità degli interlocutori. Pensare alla
qualità del nostro potenziale cliente è dunque quanto di più saggio si possa fare.
Quella che viviamo è un’epoca economica in cui la domanda di mercato non è più solo una
semplice rilevazione statistica, ma un vero è proprio fatto. È esattamente una voce che esprime
desideri ed attese. Una voce competente e competitiva. Una voce che non si accontenta di una
risposta ma vuole essere partecipe di un dialogo costruttivo. Non accetta un prodotto come risposta,
non un prodotto generico, non un prodotto che non porti con sé dei valori in cui identificarsi, non
un prodotto sfornito di una struttura di supporto per tutto il tempo di utilizzo e non un prodotto di
cui non conosce le facce che ci sono dietro. Quella attività che era genericamente racchiusa sotto il
nome di offerta deve necessariamente trasformarsi in ascolto.
Per essere originali si potrebbe esordire sul mercato dicendo: offro ascolto.
“Domanda, ascolto, offerta/proposta, ascolto del feedback e nuova offerta/proposta.”

In questo ampliamento del rapporto tra domanda ed offerta, l’umanizzazione del marketing gioca
un ruolo strategicamente centrale.
Riportare le persone, e le relazioni con esse, al centro del piano di marketing significa creare un
ufficio conversazioni con i clienti. Ecco dunque perché è così importante evitare tutte le forme di
standardizzazione, evitare di affidare esclusivamente a fornitori esterni tutte le attività di
comunicazione senza avere un referente interno in grado di coordinare un dialogo con il mercato e i
fornitori di servizi marketing.
Lasciate pure il mercato fatto di conversazioni di bassa qualità ai vostri competitor, lasciate che
navighino in una classica situazione di oceano rosso, lasciate che credano questa condizione
normale. Voi, invece, aspirate ad un altro livello di mercato. Un livello oggi finalmente possibile. Un
nuovo livello di mercato dove la qualità delle relazioni commerciali non fa bene solo al cliente, ma
in uno splendido gioco virtuoso apporta benefici a tutti gli attori.
Come spesso ripeto, il mercato è il luogo in cui viviamo, e un tocco di ecologia anche a questo
ecosistema non guasterebbe affatto. Elevare la qualità del nostro ambiente di lavoro attraverso
l’umanizzazione è una forma di egoismo altruistico! Lo affermo per tutti quegli imprenditori che
confondono l’attenzione alla persona con una sorta di morbidezza nel business, abituati ad una
cultura domanda/offerta push. Chiaro è che il passaggio da un atteggiamento all’altro prevede un
tempo di latenza, di adattamento. Questo getta sempre nel panico l’imprenditore dal carattere
azione/reazione. Bisogna concedersi il tempo della riorganizzazione. Una rigidità, in questo senso,
si trasforma in una forma di immobilismo dell’impresa. Genera una discordanza con le dinamiche
del nuovo livello di mercato. È inevitabile.
Il cliente va dove trova ascolto e soprattutto dove vede comprese appieno le sue istanze e le sue
attese. È veloce poiché surfa leggero nel web, nelle chat. Raccoglie feedback, pareri, impressioni in
modo rapido. Alterna freneticamente online e offline in un dialogo continuo e in una
rappresentazione continua di sé stesso in relazione a prodotti e servizi.
Una co-narrazione costante, molto istintiva. Direi sempre più di pancia, legato a meccanismi
empatici ed un po’ entropici.
Insomma, tutt’altro che un automa diligentemente incanalato seppur illusoriamente cosciente.
Libertà di espressione come cliente, lui non acquista. Lui vive esperienze, sceglie dei percorsi fatti
di prodotti e servizi. Il cliente che poi si rappresenta nel proprio tessuto sociale co-narrando in un
primo livello (tra sé e le marche), poi confrontandosi tra sé ed il proprio sistema sociale di
riferimento che aggiunge elementi influenzanti sul percepito della esperienza.
Quanta narrazione del suo percorso con i vostri prodotti e servizi, della sua esperienza in prima
persona ed in riferimento al proprio ambiente siete attrezzati ad ascoltare?
Possiamo concludere dicendo che nella affannosa ricerca di differenziazione dai competitor, prima
di tentare di lavorare sul prodotto o sul prezzo o sulla distribuzione, lavoriamo sulle persone con le
quali ci vogliamo relazionare.
L’umanizzazione non si può improvvisare, è un percorso. Partire in anticipo ora, garantisce un
vantaggio competitivo reale.

2.4 Caratteristiche della comunicazione H2H

La comunicazione human non deve essere complicata, ma semplice e


genuina. Il cambiamento di prospettiva del marketing, da outbound ad
inbound ha creato uno spostamento delle prospettive di osservazione: mentre le
tecniche tradizionali ponevano al centro l’azienda e il prodotto – e quello che si
richiedeva era collocare sul mercato ciò che mancava di valore percepito – ora il
focus dell’attenzione è rivolto ai consumatori e ai loro desideri, agli stati
emozionali e alle loro aspirazioni.
Il punto focale della comunicazione sono le persone – o personas – come
meglio le vogliamo definire, i corrispettivi virtuali delle persone reali che ne
mantengono immutate caratteristiche e fabbisogni.
Non si sta facendo riferimento ad un particolare tipo di azienda che colloca il
proprio brand e sta cercando un messaggio che la posizioni al pari dei leader
del mercato – o meglio questi non sono i punti sui cui dovrebbe puntare
maggiormente una comunicazione H2H. Dove il vantaggio competitivo non
può più essere raggiunto dal digitale si insinuano le persone e le loro capacità
individuali.
Interagire a livello aziendale non sempre risulta semplice: capire chi vuoi essere
a livello di brand è ancora più difficile di comprendere a quale pubblico ti stai
rivolgendo. Non perdere di vista il fatto che sei prima di tutto una persona che
si sta rivolgendo ad altre persone, quindi il tuo tono di comunicazione e i
messaggi che invii dovranno essere chiari, non dediti a fraintendimenti o
incomprensioni.
Il concetto che sempre dovrai ricomprendere nelle tue comunicazioni è
coinvolgimento (engagement). A questo proposito, possono essere utili i dati
forniti da Statista che mostrano come, negli Stati Uniti, l’app che attesta una
percentuale più elevata di coinvolgimento da parte degli utenti sia ancora
Facebook (Figura 2.6).
Appare quindi evidente come ascoltare e imparare a percepire quello che gli
altri dicono di te e quello che si aspettano tu faccia possa permetterti di
maturare un vantaggio competitivo non indifferente. Il tuo brand dice molto
della tua azienda, quindi mantenere coerenza e un certo livello di controllo si
rivelerà un riscontro utile.
Se monitorare quello che gli altri dicono di te è difficile, l’arma su cui puntare
per creare il differenziale è rendere ogni esperienza un momento positivo e
quanto più possibile indimenticabile; ciò è possibile utilizzando una
comunicazione:

Figura 2.6: Le applicazioni di social network per smartphone

più utilizzate negli USA a marzo 2019


• trasparente e onesta; una cosa non può non prescindere l’altra, gli utenti a
cui ti stai rivolgendo pretendono fiducia e il ruolo di un passaparola negativo
ha effetti ben più vasti di quelli che varrebbe un commento positivo riguardo
l’esperienza vissuta;
• umile e comprensiva; porsi sullo stesso piano delle persone a cui ti stai
rivolgendo e dimostrarti desideroso di riuscire a comprendere al meglio le loro
richieste;
• conversazionale: il tone of voice (avremo modo di approfondirlo nel capitolo
successivo) è decisivo per riuscire a comunicare toccando gli aspetti più
rilevanti.
Che tu stia agendo come business o che tu sia il ricettore del messaggio finale,
non sottovalutare il fatto che spesso gli stati d’animo si trovano in contrasto
anche in una comunicazione one2one. Non stiamo proprio parlando di Dr.
Jekyll e Mr. Hyde, ma ora che avrai capito che la comunicazione di business ha
un lato umano – ed è quello su cui si deve puntare per creare un valore
differenziale – e avrai anche chiaro che l’applicazione nella realtà dell’essere
genuini e semplici si traduce nel saper percepire le diverse multi-dimensioni
degli individui.

2.4.1 Come capire i bisogni umani?

Figura 2.7: Fotogramma dal film 2001: Odissea nello spazio,

regia di Stanley Kubrik, 1968.

Perché ho deciso di iniziare questo paragrafo con un fotogramma tratto dal


film 2001: Odissea nello Spazio? In primo luogo, perché quando è uscito questo
film, la scena che segue allo scontro tra due scimmie sembrava fantascienza, e
invece abbiamo superato ogni più fervida prospettiva immaginifica.
Analogamente il digital ha portato una rivoluzione che, difficilmente, sarebbe
stata anche solo immaginabile fino a qualche anno fa.
In secondo luogo, perché il significato dell’immagine della scimmia vuole
richiamare l’attenzione sulla nostra vera natura, sulle nostre origini di animali
sociali prima che digitali.
Forse vi può sembrare scontato ricordarlo ancora una volta, ma le persone sono
creature sociali e come tali la comunicazione deve permeare i sensi per
dimostrarsi quanto più comprensiva e trasparente.
L’ascolto è il fondamento della conversazione di successo. I business al giorno
d’oggi spesso sottovalutano gli effetti positivi dell’instaurare una relazione
attiva. Quando volutamente ci si dimostra contrari ad accogliere le richieste dei
clienti per paura di dover poi dimostrarsi continuamente pronti ad assecondare
o spiegare le ragioni della propria scelta, si sta praticando quello che è definito
silenzio radio. Sappiate che non c’è nulla di peggio che lasciare che i commenti
negativi trovino risposta da membri ancora più insoddisfatti.
Mentre starete pianificando la vostra strategia di marketing, ricordatevi di
coinvolgere un set di strumenti che permetteranno alla vostra audience di
sentirsi ancora più parte attiva:
• connessione: le persone hanno estremo bisogno di sentirsi continuamente
coinvolte in qualcosa di più grande che abbia uno scopo e che permetta loro di
approcciare realtà diverse ma con modi di pensare simili. Per questo le
community invitano e accolgono membri da parti diverse del globo a discutere
su un determinato argomento, quello che è il ruolo della famiglia e delle
persone a noi più vicine nella realtà non virtuale i gruppi online lo svolgono
digitalmente;
• significato: vogliamo tutti sentirci parte di un lavoro ben svolto e del
riconoscimento che ne consegue;
• varietà e incertezza: apprezziamo l’organizzazione per la caratteristica
stabilità che ne consegue ma amiamo anche l’avventura per il lato inaspettato e
imprevedibile. Sappiate stupire ed evitate di cadere nella banalità;
• crescita: non sentitevi mai affermati, aspirate ad una crescita continua e ad
uno scopo maggiore continuamente. Non si smette mai di imparare anche da
sentieri già percorsi;
• contributo: specialmente nel lavoro, le persone riservano importanza
all’apporto che hanno avuto nel successo di un progetto. Puntate su questo
aspetto per coinvolgerle attivamente.
2.4.2 Il contesto sociale

Le parole sono parole, di per sé hanno il significato socialmente accettato, ma


cosa cambia quando sono inserite in un contesto?
Non è il messaggio che si sta cercando di veicolare ad attirare maggiormente
l’attenzione, o meglio non quando non si è scelta una strategia inusuale che
vuole attirare l’attenzione per l’irriverenza o i significati sottesi alle parole. Per
questo è bene ricordare che le persone vivono in contesti sociali diversi e il
modo in cui vengono percepite le parole, l’ambiente in cui sono diffuse e le
tecnologie (PC, tablet o smartphone?) con le quali il messaggio è letto possono
cambiare radicalmente il significato che avevate programmato di trasmettere.
Ricercare il giusto contesto è un compito sicuramente non facile ma è
importante per iniziare a costruire il terreno dell’esperienza con la vostra
audience. Quando i vostri utenti percepiranno il vostro messaggio, creeranno
una relazione con un’esperienza che hanno vissuto nella loro vita, questo è il
collegamento che dovete cercare. Fate in modo che il momento a cui
rimanderebbe il vostro messaggio sia relativo ad un contesto positivo, che
evochi sensazioni piacevoli e che spinga l’ascoltatore a volerlo rivivere più e più
volte.
Ancora prima di decidere cosa condividere e come condividerlo, vediamo cosa
è importante considerare per ottenere il miglior risultato in seguito:
• think it through: non esiste una traduzione che renda giustizia all’esatto
significato di queste parole. Una giusta pianificazione, un insieme di riflessioni,
considerazioni e caratteristiche che l’interlocutore deve possedere: empatia,
capacità di ascolto e percezione sono essenziali. È necessario riflettere per
supportare gli obiettivi che ti sei preposto in modo da comunicare l’identità
aziendale nel modo più appropriato e coerente possibile;
• processo inverso: stabiliti punto iniziale di partenza e traguardo da
raggiungere, crea un percorso partendo dal punto finale di arrivo. Ti potrà
sembrare strano ma svilupperai un sentiero che già dimostri di conoscere e sul
quale condurrai gli utenti in maniera sicura;
• rallenta: abbiamo imparato a convivere con il mondo frenetico che ci
circonda ma non sempre agire velocemente significa ottenere risultati migliori.
Rallenta (pianifica) e rifletti su quello che stai creando, in modo da diffondere
il messaggio efficacemente e ottenere il coinvolgimento voluto;
• esci dagli schemi: chiedi opinioni e agisci in maniera inaspettata, tutto
questo ricordandoti di restare coerente al contesto del messaggio.
La chiave del messaggio non risiede nelle parole ma nel contesto: crea
l’esperienza e la connessione con l’audience da raggiungere.
Le persone hanno solo bisogno di essere ascoltate. In cerca di esperienze
straordinarie, di storie da condividere, di emozioni da provare e far conoscere
ad amici e parenti che non sono con noi ma che avremmo voluto tanto avere
accanto, da sempre la capacità di ascolto – laddove manca – andiamo a cercarla
nella partecipazione.
Non puoi accontentarti di ricevere feedback e raccogliere opinioni sperando
che rimangano solo all’interno del tuo business: oggi i commenti degli utenti
sono sempre più trasparenti – nel bene e nel male – e non ammettono filtri.
Vorremmo tanto poter affermare che un “grazie” risuoni con così tanta facilità
come lo farebbe una lamentela per fallimento: in realtà un demerito, così come
nelle relazioni che intratteniamo con le persone, riscontra molta più difficoltà
nell’essere dimenticato.
In ogni momento non dimentichiamo che quando stiamo recependo un
messaggio, chi ha scelto di diffonderlo sta cercando di ottenere – non
guadagnare – qualcosa da un’altra persona, che si tratti di rapporti di fiducia, di
relazioni stabili, di lealtà e fedeltà alla marca.
Ma come poter dimostrare che le relazioni che stiamo cercando di instaurare
sono singole e non sono volte solo a finire nella collettività? Come possiamo
riuscire a comunicare che non abbiamo dimenticato che gli utenti sono prima
di tutto persone?
Permettere alle persone di interagire richiede capacità di gestione non proprio
elementari, non si può pensare che i social siano una piattaforma in cui
convogliare pensieri, critiche e lamentele in maniera casuale: ogni domanda
deve trovare risposta solo dalle persone in grado di fornire indicazioni corrette.
Costruire un’impresa alimentata dal sociale oggi non è per nulla facile, poche
aziende stanno ottenendo i risultati auspicati e sono quelle che hanno creato il
loro “way to do”: alimentare il proprio business sulle richieste dei clienti
richiede una capacità di ascolto innovativa e grande immaginazione. Significa
prima di tutto stare al passo con quello che la community richiede e – grazie
all’esperienza – imparare ad anticipare la mancanza di un bisogno che ancora i
tuoi utenti non ti hanno comunicato.
Non si tratta di una sovversione di ruoli ma il potere, per come siamo abituati
ad averne concezione, non è più un passaggio dall’alto verso il basso di
compiti. Quando ti stai rapportando ad un’impresa social sii consapevole che
lo schema rigido di comunicazione richiede interazione e ascolto da tutti i
livelli in egual modo. Gestendo la community, sarà poi compito tuo scegliere
chi ascoltare e quale idee hanno le potenzialità per essere tenute in
considerazione.

2.5 Perché è importante l’approccio human nel customer service?

L’approccio H2H assume una rilevanza cruciale non solo (e non tanto) nella
comunicazione generica attraverso i canonici canali digitali, ma soprattutto
quando si tratta di customer service.
Tradizionalmente è un settore che ha permesso a molte aziende di fare la
differenza, soprattutto in positivo: questa tendenza si è accentuata ancora di
più nell’era della digitalizzazione nella quale l’utente connesso “pretende” che
l’azienda – a prescindere dal reparto con cui sta parlando – sia perfettamente
informata sulla sua situazione.
La ragione di questa mutata necessità risiede nel cambiamento radicale del
parametro comunicativo che viene attuato dal consumatore medio: infatti,
soprattutto negli ultimi anni, si è passati da un approccio multicanale ad uno
omnicanale.

Figura 2.8: Architettura dei touchpoint di un’azienda


Che cosa è cambiato? Cercando di semplificare, oggi i consumatori si aspettano
non solo che il brand sia presente in tutti i canali di comunicazione disponibili
(dal sito, alla applicazione per smartphone ai social media) ma che le
informazioni fornite su uno di questi siano condivise anche in un altro.
Facciamo un esempio: immaginiamo di essere un turista che ha bisogno di
informazioni circa la possibilità di anticipare il check-in in albergo. Per
ottenerle ha prima mandato un messaggio su Facebook attraverso Messenger
alla pagina ufficiale, alla quale la struttura ha risposto dicendo di rivolgersi al
call center.
A questo punto, dopo che l’utente ha trovato il numero di telefono online, si
aspetta che chi risponde al telefono abbia ben presente le sue necessità in
quanto è stato precedentemente informato da chi gestisce la pagina Facebook.
Appare quindi evidente quanto possa essere importante non solo avere sempre
un approccio empatico con il proprio cliente, ma anche nel caso in cui la
tecnologia – nell’esempio specifico un CRM (customer relationship
management) – non sia ancora al passo con lo sviluppo complessivo
dell’azienda.
Proprio per rispondere alle mutevoli necessità degli utenti, il settore della
tecnologia, e in particolare quello dell’intelligenza artificiale, sta compiendo
passi da gigante nella direzione di acquisire le competenze fondamentali
affinché almeno una parte del servizio di customer service possa essere portato
avanti in questa forma. Sicuramente ci sono grandi aspettative sull’argomento:
infatti la fantomatica infallibilità delle macchine potrà – in un futuro non
troppo lontano – essere applicata ad uno dei settori più delicati delle aziende
B2C.
Un aspetto importante da sottolineare sullo sviluppo della tecnologia (frutto
della economia dell’esperienza) è come i ricercatori si stiano concentrando non
tanto sulla replicabilità delle skill tecniche, ma su quelle che vengono definite
soft skill. Tra queste rientra proprio l’empatia, un aspetto che – ad oggi – è stato
difficilmente replicabile da parte di un robot per quanto “avanzato” possa
essere.
Accanto a questa considerazione di natura puramente tecnica, voglio
richiamare la tua attenzione su un altro elemento: come è emerso da numerosi
seminari, ciò che i ricercatori cercano di far imparare ai robot e – in generale –
ai dispositivi che possono ospitare l’intelligenza artificiale non sono solo la
grammatica e la sintassi, ma le soft skill.

2.5.1 La centralità delle soft skill

Che cosa sono le soft skill? Sono state date tante definizioni di questo concetto
a seconda del punto di vista da cui veniva analizzato. In questo contesto credo
che una buona definizione di soft skill sia l’insieme di abilità che rendono gli
esseri umani capaci di adattarsi all’ambiente. Si tratta di competenze trasversali
che difficilmente possono essere ricondotte a “sa utilizzare i congiuntivi” e,
forse proprio per questo, sono complesse da inserire all’interno di un
algoritmo. Esempi di soft skill sono la creatività, l’equilibrio e la tolleranza,
elementi che all’interno del customer care possono rivelarsi di un’importanza
cruciale.
Oltre a queste prime tre soft skill credo che difficilmente la tecnologia potrà
sostituire alcune tra le principali inclinazioni dell’individuo, legate alle
caratteristiche della sua personalità, alle sue qualità, agli atteggiamenti e alle
abilità socio-comunicative che possiede.
Una capacità molto importante per le figure che si occupano del cosiddetto
customer service di un’azienda è quella del farsi comprendere, sia a voce che
per iscritto: questa skill, soprattutto per la parte legata all’oralità, è difficile da
trasmettere ad un algoritmo o ad una componente robotica che sostituisca la
parte human.
Ulteriore skill, fondamentale per apportare un approccio maggiormente
human ad un customer service, è l’adattabilità: in questo caso bisogna
riconoscere che la tecnologia potrebbe avere la meglio su un classico customer
service gestito da impiegati. Infatti, è in generale molto apprezzato un brand se
mette a disposizione dei consumatori un servizio di assistenza con la massima
flessibilità oraria, nella migliore delle ipotesi addirittura 24 ore su 24.
Nonostante questo aspetto – ed il fatto che le tecnologie, come l’intelligenza
artificiale, si stanno sempre più sviluppando – in futuro si parlerà sempre di
più di business H2H, ovvero human to human.

2.6 Caratteristiche di una comunicazione H2H


Quando ci si riferisce a questo approccio si intende un modo di intendere il
marketing e la comunicazione in generale rivolgendosi alle persone prese
singolarmente e cercando di comprendere a fondo le loro necessità, fornendo
una soluzione ad ogni singolo bisogno o necessità. Ogni decisione è presa in
funzione del target di riferimento a cui si rivolge il brand, ovvero al gruppo di
consumatori interessati al prodotto o al servizio offerto, che possono quindi
tramutarsi in clienti.
Un approccio efficace, sotto questo punto di vista, per una comunicazione
sempre più human deve rispettare alcune linee guida, che sono ben viste agli
occhi dei consumatori:
• non utilizzare frasi fatte: sii sincero ed originale, elimina l’aziendalese,
ovvero espressioni gergali e termini tecnici, che in generale non vengono ben
visti dai consumatori. L’obiettivo della comunicazione che sia scritta in un
testo, in una pubblicità o attraverso immagini, è quello di accattivarsi i
consumatori e persuaderli. Per fare ciò serve intercettare i bisogni specifici delle
personas a cui ti riferisci e quindi, di conseguenza, conoscerle attentamente;
• definire le personas nel dettaglio: come dicevo nel primo punto, definire le
personas è fondamentale per poter conoscere i loro bisogni. Chiediti il loro
genere, l’età, la professione che svolgono, i luoghi che frequentano, se hanno
figli… Più definisci nel dettaglio le tue personas più esse prendono vita e più
facile sarà per te trovare il giusto approccio comunicativo per parlare
direttamente ad ognuno di loro;
• dare del tu: una strategia vincente in ogni comunicazione di tipo H2H è
quella di eliminare la forma del “voi”. Dai del tu alle tue personas e parla
direttamente con loro: anche se ti stai rivolgendo a dei professionisti non
preoccuparti, questo tipo di approccio vale per ogni tipo di target, sia che tu ti
stia riferendo alle casalinghe di Milano, sia che le tue personas siano dei
dirigenti di banca;
• puntare su emozioni e tempestività: punta sul lato emotivo delle tue
personas, intercetta una necessità o un bisogno specifico – anche solo
momentaneo – comune al tuo target e trova il modo di risolverlo. Un esempio?
Se la tua attività è un ristorante che effettua anche il servizio di take away passa
il tuo annuncio verso l’ora di pranzo o di cena;
• sfruttare i social network: ad esempio, Facebook e Google mettono a
disposizione degli utenti strumenti come il target e il remarketing, utilissimi per
creare annunci sempre più personalizzati e mirati che ti permetteranno di
raggiungere in modo efficace il tuo target di riferimento;
• monitorare le personas: non smettere mai di effettuare ricerche sulle tue
personas: leggi i commenti che i tuoi utenti di riferimento lasciano sui social
network e metti a punti sondaggi e questionari mirati. In questo modo potrai
avere un feedback del tuo lavoro e capire se la direzione che hai preso è quella
giusta o se è necessario ricalibrare il tiro.
Uno dei metodi che puoi utilizzare per ascoltare i consumatori e comprendere
se si sentono soddisfatti dai prodotti o dai servizi erogati dal tuo brand è quello
del social listening.
In un’ottica H2H è fondamentale saper ascoltare i consumatori per capire le
loro esigenze, recepire i feedback e capire in che modo migliorare il servizio.
Immaginiamo un consumatore non soddisfatto del servizio ricevuto da un
brand. Immediatamente andrà a scriverlo sui social, condividendo la delusione
con i suoi contatti. Per gestire una situazione di questo genere, le aziende
hanno bisogno di una strategia di social listening.

Figura 2.9: Social Listening – infografica

Occorre innanzitutto definire che cos’è il social listening: consiste nel


monitorare e tracciare le conversazioni che sono avvenute online attorno ad un
determinato brand in base a specifiche keyword o frasi relative ai competitor
diretti e al settore di riferimento.
È evidente come questa strategia sia il cuore di una comunicazione relazionale
con il cliente: grazie al social listening, è possibile perfezionare le campagne
marketing e scoprire nuovi modi di ingaggiare i consumatori, ascoltando
tempestivamente le loro richieste.
I consumatori utilizzano sempre più i social media per richiedere assistenza,
facendo domande e dando suggerimenti tramite Facebook o Twitter oppure
attraverso una telefonata. Il social listening è dunque un elemento
fondamentale nei processi di customer service che permetterà al brand di
individuare nuove opportunità di business: monitorando parole chiave e frasi
potrà usare lo stesso linguaggio del consumatore, acquisire visibilità e far
crescere la brand loyalty.
Il social listening è parte integrante di un approccio human touch, fondato sulla
relazione con il cliente. Uno studio di Twitter sostiene che il 60% dei
consumatori che utilizzano Twitter si aspetta di ricevere una risposta dai brand
entro un’ora e che un servizio clienti presente e amichevole può arrivare a
spingere il 76% dei consumatori a valutare positivamente la propria esperienza
e a consigliare il brand. Risulta evidente come le aziende possano sfruttare
strategicamente le opportunità offerte dal social listening e, ascoltando i propri
clienti, personalizzare sempre di più la comunicazione e la customer
experience.
Gran parte delle decisioni di acquisto e di consumo non sono frutto di una
valutazione consapevole, razionale o logica. Ogni volta che siamo coinvolti in
un processo decisionale, come la scelta se acquistare o meno un prodotto o
servizio, entrano in scena tutta una serie di emozioni, sia positive che negative,
che influenzano in maniera determinante l’esito della scelta.
Il neuromarketing è una disciplina che fonde il marketing tradizionale con
neurologia e scienze comportamentali. Si tratta di una branca del marketing
che si fonda sull’applicazione delle conoscenze e delle pratiche
neuroscientifiche al marketing al fine di analizzare i processi che si attivano in
maniera inconsapevole nella mente del consumatore. Questi processi
condizionano fortemente le decisioni di acquisto e la relazione che si instaura
con il brand.

2.7 Neuromarketing: l’importanza delle emozioni

La componente umana ed emozionale ha un ruolo chiave nei nostri


comportamenti. L’etimo della parola ‘emozione’ deriva dal latino emovère,
letteralmente portare fuori, agitare: l’emozione è qualcosa che ti scuote dentro
e ti spinge per questo ad agire in un determinato modo.
Uno dei primi esperimenti realizzati in ambito di neuromarketing è stato il
Pepsi Challenge Test (1975), condotto dal neuroscienziato Read Montague. Si
tratta di un blind test nel quale il consumatore doveva scegliere tra due tazze
bianche contenenti ciascuna una Pepsi e una Coca-Cola.
I risultati hanno mostrato che, non sapendo quale bevanda avessero assaggiato,
le persone coinvolte preferivano la Pepsi; dopo aver visto la confezione del
prodotto, però, la maggior parte sceglieva invece la Coca-Cola.
La vista del packaging Coca-cola ha provocato l’attivazione della corteccia
prefrontale mediana da cui dipende il meccanismo di valutazione e di giudizio.
Questi processi cognitivi prevalgono sul gusto e sulla sensazione di piacere
maggiore generata dalla Pepsi: nella mente del consumatore, infatti, la Coca-
Cola è associata ad un intero immaginario, comprendente valori e simboli,
costruito nel tempo che fa sì che non sia condizionata solo la scelta, ma anche
la percezione del prodotto stesso.
Questo esperimento ha dato il via a tutta una serie di importanti studi
riguardanti l’impatto del coinvolgimento emotivo e dell’approccio human
del consumatore sul processo di decision making.
È possibile suddividere le emozioni in primarie o di base e secondarie o
complesse.
Da un lato le emozioni primarie, innate e comuni a tutti gli esseri umani,
hanno una forte determinazione biologica (come la paura o la rabbia);
dall’altro le emozioni secondarie derivano sia da una mescolanza tra le
emozioni primarie sia dal diverso peso che hanno le esperienze passate, il
contesto educativo, storico e culturale (si pensi, ad esempio, a un’emozione
come la colpa o la vergogna).
Secondo Gerald Zaltman, professore alla Harvard Business School, il 95%
delle decisioni di consumo viene influenzato da processi che coinvolgono
l’inconscio: ogni giorno siamo esposti ai più diversi input sensoriali – annunci,
spot, cartelloni pubblicitari – che vengono inconsapevolmente tenuti in
memoria dal nostro cervello che collega questi nuovi ricordi ad acquisti
effettuati in precedenza.
Molto interessanti, per quanto riguarda l’importanza dell’aspetto human
nella psicologia dei consumi, sono gli studi di Antonio Damasio, uno dei più
noti neuroscienziati contemporanei, il quale propone una visione nuova
dell’essere umano che prende una decisione.

Ribaltando la tradizionale concezione delle emozioni come elementi


perturbanti la serenità della ragione, lo studioso le definisce al contrario come
elementi di base del buon funzionamento della mente. Le emozioni non sono,
quindi, un elemento disturbante del processo decisionale, ma ne
rappresenterebbero al contrario la parte essenziale.
Damasio, inoltre, ha condotto uno studio su alcuni pazienti con un danno ad
un’area cerebrale deputata alle capacità emozionali, scoprendo che questa
lesione rendeva le persone incapaci di prendere decisioni ragionevoli. In questo
modo ha dimostrato quanto le emozioni giochino un ruolo centrale nei
processi decisionali e di consumo.
Questo perché, a differenza delle macchine o dei robot, il corpo e la mente
costituiscono un organismo unico e inseparabile: la ragione non potrebbe
funzionare correttamente senza le emozioni. Il nostro cervello, infatti, elabora
le informazioni attraverso due sistemi: il sistema razionale, controllato e
conscio e il sistema emotivo, automatico e inconscio. Quest’ultimo è il più
veloce ed è sempre allerta, tanto che, nella maggior parte dei casi, è lui a
prendere la decisione mentre il secondo sistema razionalizza a posteriori la
scelta fatta.

2.7.1 Marketing emozionale ed esperienziale

Attraverso le emozioni e le esperienze è possibile creare una forte connessione


con le persone e con i clienti. Molto spesso è più importante l’esperienza del
consumo del prodotto in sé.
Come nella vita reale, anche nel mondo dei consumi un’esperienza è unica e
memorabile quando riesce a suscitare le giuste emozioni nel cliente e rimanere
nella sua memoria il più a lungo possibile, associandola a ricordi e sentimenti
positivi.
Più un’esperienza di questo tipo si ripete, più si va a creare un legame forte e
personale tra brand e cliente.
Secondo B.H. Schmitt, professore alla Columbia Business School, le esperienze
possono essere catalogate in 5 gruppi o Strategic Esperiential Modules:
1. sense experience. Le esperienze che chiamano in causa la percezione
sensoriale, fanno appello alla vista, all’olfatto, all’udito e al tatto. È un tipo di
esperienza che può essere utilizzato per rendere riconoscibili determinati
prodotti: ne è un esempio la “Contour Bottle” della Coca-Cola, uno dei
packaging più iconici della storia del design, unico al tatto e alla vista;
2. feel experience. Si tratta delle esperienze che coinvolgono sentimenti ed
emozioni, strettamente legate al marketing emozionale. Ne fanno ampio uso le
campagne create per entrare in sintonia con il consumatore, collegando
determinate esperienze o stati d’animo ad un prodotto;
3. think experience. Il marketing cognitivo cerca di attirare l’attenzione del
cliente, cercando di farli interagire in modo creativo con il band e con il
prodotto. È una tipologia di marketing più complessa e sofisticata che, se ben
fatta, può creare stimoli maggiormente duraturi rispetto agli altri;
4. act experience. Questo tipo di esperienze coinvolge tutta la sfera di
emozioni correlata alla fisicità e all’azione. Sono messaggi motivazionali che
spingono ad agire in maniera nuova e diversa. Un esempio tipico è lo slogan
“Just Do It” della Nike che, tramite la presenza di atleti famosi, trasforma
l’esercizio fisico in una sfida con se stessi e con i propri limiti;
5. relate experience. Le esperienze che mettono in relazione un soggetto con
una community sono tipiche del marketing relazionale che ha l’obiettivo di
creare un legame tra il singolo consumatore e il contesto socioculturale in cui
vive.
Quale strategia scegliere? Non c’è una risposta, molto dipende dal brand e dal
prodotto pubblicizzato. L’elemento fondamentale è far sentire il cliente in
connessione con il brand, lavorando in particolare sul lato emotivo e umano.
Nonostante non ci sia una formula adatta a tutti, il primo elemento che non
può mancare è una storia. Tutti amano le storie poiché suscitano pensieri e
ricordi: il consiglio è di non descrivere in maniera impersonale il prodotto, ma
di raccontare la storia e il lavoro che c’è dietro, dando un volto e una voce al
brand.
Un secondo potente strumento è il linguaggio. Proprio come gli inneschi
emotivi, esistono parole trigger, cioè leve che fanno scattare determinate
emozioni a chi sta leggendo. Prova ad usare un linguaggio inaspettato che
faccia soffermare il consumatore sul messaggio e che lo aiuti a ricordare in un
altro momento ciò che ha letto.
Infine, l’ultimo elemento chiave è la componente visuale. Il nostro cervello,
infatti, elabora molto in fretta le immagini che possono essere molto utili per
creare legami emotivi e rendere il messaggio del brand indelebile.
Che cosa significa e perché “umanizzare” il tuo sito web
di Andrea Saletti
Ogni giorno ci sono persone che visitano il tuo sito. Alcuni arrivano accidentalmente, altri stanno
cercando un prodotto o un servizio simile al tuo, alcuni hanno visto il tuo annuncio e sono stati
abbastanza incuriositi da cliccarci sopra. Altri ancora hanno sentito parlare dei tuoi servizi da un
conoscente o da un amico.
Esistono molti tipi diversi di visitatori. Alcuni vagano, scorrendo tra le pagine. Alcuni si
concentrano su funzionalità e prezzi o testimonianze, mentre altri si dirigono subito al modulo di
iscrizione per creare un account e provare il tuo servizio, testare il tuo software o acquistare i tuoi
prodotti. Il tuo compito è di prenderti cura di tutti loro.
Nessuno dovrebbe smarrirsi o sentirsi confuso. Gli utenti devono essere incoraggiati a rimanere sul
tuo sito e familiarizzare con il tuo brand. Dopotutto, il successo del tuo business online dipende
proprio dal fatto che tu riesca ad influenzare i tuoi visitatori ad intraprendere le azioni specifiche
che avete come obiettivo comune.
Naturalmente, non esiste una ricetta magica, una formula o un rimedio che possa essere applicato
una volta, così da trasformare automaticamente i visitatori passivi in clienti attivi. Si tratta di
testare, apprendere e migliorare l’esperienza dell’utente. Non è mai uno step singolo. È un processo
continuo.
Ciò che ho imparato in 10 anni di studio delle neuroscienze e test applicati al web è che rendere il
tuo sito più “umano” può fare la differenza sull’aumentare la motivazione delle persone ad
approfondire ciò che stai loro offrendo.
Pensaci su, in un periodo storico in cui la fiducia dei consumatori verso i brand è ridotta ai minimi
termini, è necessario fare un passo indietro, verso un approccio digitale che ci riporti il più possibile
ai meccanismi ancestrali di relazione umana.
Le persone comprano dalle persone. Ricordalo.
E l’umanizzazione della comunicazione digitale è la strada per tornare alle nostre origini relazionali
più profonde.
Ma come si può rendere un sito web più “umano”? Neuromarketing e psicologia cognitiva hanno
molto da insegnarci a riguardo, ecco 10 interventi che puoi subito applicare ai tuoi contenuti online
per renderli emotivamente più coinvolgenti.
1. Inserisci volti umani nel tuo design
Sembra banale, ma credimi, questo è l’approccio più potente che hai a disposizione per generare
empatia. Esistono aree del nostro cervello interamente dedicate al riconoscimento dei volti umani.
Nasciamo con un ossessivo bisogno di individuare il viso di nostra madre e di distinguerlo da quello
delle tante persone con cui interagiamo, un’abilità che può influire sulla nostra sopravvivenza.
L’impegno cognitivo è doppio: un primo livello è dedicato all’attenzione e quindi all’essere
maggiormente ricettivi nei confronti dei volti rispetto a tutti gli altri elementi circostanti, un
secondo livello è rivolto al riconoscimento dei tratti somatici e all’interpretazione delle espressioni
facciali.
Alcuni esempi:
• utilizza una hero image che mostri l’alter ego del tuo cliente tipo, immerso nel cambiamento che il
tuo prodotto/servizio ha originato;
• mostra i volti delle persone che lavorano nella tua azienda, dedica loro descrizioni che sappiano
rappresentarne la personalità;
• mostra i volti dei clienti che hanno lasciato testimonianze e recensioni;
• associa ai mezzi di contatto (form, chat, numeri di telefono, pagine assistenza) i volti reali delle
persone che comunicheranno con il tuo cliente;
• dedica interviste a collaboratori/fornitori;
• mostra foto del dietro le quinte del processo produttivo, comprese le persone impegnate nel loro
lavoro;
• e così via…
2. Smetti di usare foto d’archivio
Consiglio indirettamente correlato al precedente. Il modo più veloce per generare distacco empatico
è mostrare qualcosa di artificiale e poco riconducibile alla realtà quotidiana del tuo cliente tipo.
Diversi studi hanno dimostrato quanto un’immagine amatoriale, ma maggiormente realistica, risulti
emotivamente più coinvolgente rispetto ad una controparte patinata, ma assente da qualsiasi
situazione esperienziale concreta.
Se hai poco budget armati di macchina fotografica e trasformati in fotografo, il risultato potrebbe
comunque risultare più efficace di un’immagine acquistata da un archivio online.
3. Trasforma la tua comunicazione da business-centrica a utente-centrica
Immagina che ti venga chiesto di rispondere a solo 1 tra 2 domande e ti venga detto che verrai
pagato un po’ di più per rispondere alla seconda domanda rispetto alla prima. Quale sceglieresti?
Domanda 1: “Cosa ti piace fare nel tempo libero?”
Domanda 2: “Vero o falso: Leonardo Da Vinci ha dipinto la Monna Lisa?”
Pensa che in un esperimento svolto ad Harvard nel 2012 i partecipanti hanno sacrificato in media il
17% dei loro massimi guadagni per rispondere a più domande su se stessi!
Questo sottolinea ancora una volta quanto ognuno di noi abbia un approccio egoistico alla
comunicazione: prestiamo più attenzione e attribuiamo maggior importanza a ciò che ci fa sentire
protagonisti di una situazione.
Questa regola dovrebbe avere una grande influenza sul modo in cui scriviamo i testi sui nostri siti
web e a volte basta davvero poco per modificare una comunicazione da business-centrica a utente-
centrica. Ad esempio:
Frase business-centrica:
Un modo migliore per imparare a cucinare
Frase utente-centrica:
Diventa cuoco in 40 giorni
oppure
Frase business-centrica:
Lo strumento più semplice sul mercato per organizzare il tuo lavoro
Frase utente-centrica:
Organizza il tuo lavoro con lo strumento più semplice sul mercato
“Scopri di più” diventa “Esplora”
“Contattaci” diventa “Parliamo”
“Crea un account” diventa “Unisciti alla community”
4. Adotta una voce umana
Grazie alle recensioni dei clienti, alle testimonianze, ai social media e all’ascesa di influencer, fino a
due terzi del tuo marketing avviene al di fuori del tuo controllo. Ciò significa che, per essere efficaci
sul mercato, le aziende devono unirsi alle conversazioni che i loro clienti stanno portando avanti.
Studia parole e frame con cui si esprimono i tuoi clienti tipo nel web e utilizza le stesse formule nei
tuoi contenuti testuali.
Uno dei metodi più veloci è quello di cercare i tuoi prodotti sui marketplace più famosi e leggere i
commenti lasciati da chi li ha comprati, lì troverai davvero un mare di inestimabili informazioni.
A proposito di parole più o meno importanti, pensa che nel 2015 la Confartigianato di Varese
chiese al laboratorio di Neuroscienze Applicate della Fondazione GTechnology di verificare su un
campione dei suoi associati l’efficacia cognitivo-emozionale di 50 concetti utilizzati di solito nella
comunicazione istituzionale e commerciale.
Ad ogni partecipante al test vennero mostrate una dopo l’altra, per pochi secondi a video, le parole
da esaminare, su sfondo grigio, registrando le reazioni biologiche con eyetracking ed EEG
(elettroencefalogramma).
Questo consentì di identificare tre livelli di efficacia dei concetti, in funzione della loro capacità di:
• agganciare immediatamente la mente del lettore;
• essere visti con interesse di routine;
• respingere.
Ecco quale fu il risultato finale:
Efficacia molto alta (engagement)
Continuità, Curiosità, Sfida, Cambiamento, Movimento, Sperimentazione, Evoluzione, Passato,
Futuro.
Efficacia di routine (lettura abitudinaria)
Divertimento, Collettività, Base, Usanze, Solidità, Fluidità, Passione, Cultura, Storia, Costumi,
Coinvolgimento, Caos creativo, Salto, Effimero, Consumismo, Modo di fare, Diversità di culture,
Valore, Mentalità, Tecnologia, Freno, Procedure, Lento.
Efficacia molto bassa (distacco)
Conservazione, Cambio di marcia, Invecchiamento, Apertura, Positività, Leggerezza, Stimolo,
Ascolto, Rapporti impersonali, confusione, Nuovo, Interconnessione, Miglioramento, Genialità,
Staticità, Valore della tradizione, Rompere gli schemi, Qualità
Ecco, esatto, metti da parte la parola “qualità” per un po’… so di certo che l’hai usata nelle
ultime 24 ore!
5. Fai sentire le persone parte del processo
Non c’è nulla di più umanamente gratificante di sentirsi coinvolti nella creazione di un prodotto o
servizio che amiamo.
Essere ascoltati, percepire che il brand voglia sentire proprio la nostra specifica opinione, avere una
parte di libertà nel comporre in maniera personalizzata un prodotto, e così via.
Questi aspetti possono essere attivati in diversi modi, i più comuni sono:
• personalizzazione della navigazione tramite marketing automation. Ogni utente vedrà il tuo sito web
scalato sulle sue specifiche caratteristiche comportamentali (prodotti suggeriti, micro copy,
immagini e banner);
• sondaggi e quiz con ricompense. Periodicamente puoi inviare sondaggi di gradimento o quiz ludici in
cambio di ricompense esclusive (questo permette anche di capire ancora meglio bisogni e necessità
di ogni singola persona che hai come contatto). Rispondi successivamente ringraziando uno ad uno
e facendo riferimento ai cambiamenti che sono stati apportati grazie ai loro preziosi consigli.
• sfrutta l’“effetto IKEA”. Nome usato da Michael Norton in una ricerca pubblicata sull’Harvard
Business Review nel 2009 per riferirsi alla soddisfazione provata dai clienti del famoso brand
internazionale dopo aver montato personalmente i mobili acquistati. In realtà il compito si riassume
nell’avvitare una manciata di viti, seguendo uno schema procedurale preparato da qualcun altro.
Non è certo un capolavoro di ingegno. Eppure, terminato l’assemblaggio, il risultato è una
sensazione di forte paternità e legame nei confronti della propria creazione. Lo stesso meccanismo è
riproducibile anche online grazie a quelli che vengono chiamati in gergo configuratori; specialmente
in ambito e-commerce, la possibilità di personalizzare il prodotto modificandone i particolari per
renderlo unico e adatto alle proprie esigenze permette di ricreare dal punto di vista psicologico il
fenomeno IKEA;
• includi raccolte di contenuti da social network tramite hashtag. Immagina di vendere un prodotto
particolarmente condiviso online. Promuovendo un particolare hashtag ad esso associato e
mostrando nella scheda prodotto del tuo sito una galleria dinamica contenente tutte le immagini
che i tuoi clienti hanno pubblicato online con il prodotto contestualizzato nella loro vita
dimostrerai di avere a cuore la loro identità.
6. Mostra la tua vulnerabilità
Non aver paura di mostrare i tuoi limiti, ti sembrerà incredibile, ma il fatto stesso di comunicarli
nella più totale trasparenza ti dà due vantaggi: apparire onesto e degno di fiducia, evitare che ci
possano essere malintesi futuri (se il cliente è ben consapevole dei pro e contro difficilmente potrà
lamentarsi dopo averti scelto).
Se vendi prodotti usati online, oltre a parlare delle caratteristiche positive, rendi chiari i difetti o i
limiti dei singoli articoli, specialmente se corrispondono alle principali discriminanti di scelta del
tuo utente.
Cosa ci guadagni?
• Più fiducia percepita verso il tuo brand.
• Meno recensioni negative di chi si è sentito manipolato.
• Maggiore memorizzazione e ritorno di potenziali clienti.
7. Smetti di fare cose che la gente odia
Questo è l’aspetto che più mi sta a cuore. Le nuove tecnologie hanno fornito a chi fa marketing
tantissimi modi creativi per disturbare o annoiare i visitatori di un sito web. Mi riferisco in generale
a pop up, interruzioni, contenuti blindati da un form di richiesta e-mail.
Concentrati sul tuo messaggio ed abbi fiducia nel fatto che quando le persone si imbattono in
qualcosa di davvero importante per loro, trovano comunque il modo di salvarlo o memorizzarlo.
Ancora meglio se non percepiscono il fiato sul collo di chi vuole a tutti i costi entrare in relazione
con loro, proprio nel primo momento di tacito e timido studio iniziale. Se stai davvero
umanizzando la tua identità digitale allora prendi in considerazione l’opportunità di lasciare il tuo
utente tranquillo e non pressarlo a fare nulla.
Perché in fondo essere “più umani” significa proprio questo: lasciare liberi gli altri di vivere le
proprie esperienze come desiderano.

1. L. Floridi, La quarta rivoluzione. Come l’infosfera sta trasformando il mondo, Cortina, 2017.
CAPITOLO 3

Come umanizzare

il tuo brand
Come umanizzare il tuo brand

Sin dai tempi della scuola ci è stato insegnato che fare gruppo avesse
necessariamente una connotazione negativa, che volesse dire necessariamente
mantenere una stretta sfera di persone e che fosse un modo limitato di vedere
le proprie idee, dato che la condivisione era limitata alla scelta di persone che
avevamo già fatto in partenza con interessi in comune.
È chiaro che l’evoluzione del concetto di gruppo era ancora molto lontana
dall’idea che ne abbiamo oggi, noi sempre alla ricerca di un riscontro, che non
perdiamo occasione di chiedere pareri – sia che stiamo affrontando una scelta
importante sia che vogliamo un’opinione sul quale sia il migliore caffè da
Starbucks.
Ci suona così tanto assurdo il fatto che il marketing ci parli di un
fondamentale processo percettivo definibile come distorsione selettiva? Quello
che ci porta ad una naturale affermazione di teorie, comportamenti e
preferenze che in realtà già abbiamo inconsciamente sostenuto nella nostra
mente?
Dove non c’è più distinzione tra l’online e l’offline, è lì che pone le sue radici il
concetto di community: il gruppo che originariamente racchiudeva le proprie
idee è oggi una comunità aperta, una sharing economy propriamente detta.
Che siate un’azienda che vede nei propri clienti – attuali o futuri – una
sorgente potenziale di nuove idee o che siate un imprenditore mosso all’ascolto
dei gap di bisogni da soddisfare per poter creare efficacemente la start up del
futuro, il fatto di utilizzare Facebook in maniera creativa è forse la chiave del
successo del social network.
Il luogo di incontro prima era un parco dove giocare a pallone, ora è un irreale
punto di appuntamento dove gli amici materializzati si chiamano membri e le
squadre rossa e blu sono diventate community.
Non si tratta più di una partita sul campo, ma di una sfida nello stesso mondo
virtuale di persone che potenzialmente potrebbero soggiornare in emisferi
diversi, pienamente consapevoli che sul tavolo, mentre si trovano davanti al
caffè con cornetto della mattina, oltre quel computer ci potrebbe un tè da
sorseggiare in Cina prima di andare a dormire.
Non è un caso che Mark Zuckerberg, creando il social network che ha
cambiato la storia, abbia detto:
“Tutto ciò che ha fatto Facebook è stato di dare a tutte le persone in tutto il mondo
il potere di connettersi”
Quello che forse troppo spesso dimentichiamo è che alla base del successo del
digitale ci sono sempre persone.

3.1 La piramide del riconoscimento sociale e il diagramma del successo

La piramide del riconoscimento sociale definisce le capacità in ambito


professionale e si distingue in:
• professionista generico: colui che possiede competenze sufficienti per
risolvere problemi generici semplici. Proprio per questo motivo ad un
professionista di questo tipo viene riconosciuto socialmente un basso valore;
• specialista: colui che ha competenze in un determinato settore, ma non
riesce ad emergere e differenziarsi da ogni altro specialista perché non possiede,
o non ancora, un proprio elemento distintivo all’interno del settore in cui si
muove. Il suo riconoscimento sociale è medio;
• autorità: è un professionista più preparato rispetto alla media, per cui
socialmente ha rilevanza maggiore sia rispetto al professionista generico, sia
rispetto allo specialista;
• celebrità: se pensi ad un determinato settore sicuramente ti verranno in
mente 3 o 4 nomi di professionisti in quel campo: a queste persone, chiamate
anche celebrità, viene riconosciuto un alto valore professionale sociale;
• punto di riferimento: il punto di riferimento è il primo nome che ti viene in
mente pensando ad un determinato settore. Salvatore Aranzulla, ad esempio, è
il punto di riferimento per il campo del problem solving informatico. Inutile
dire che, tra queste cinque diverse figure professionali, il punto di riferimento è
colui che ha il massimo valore aggiunto possibile.
Figura 3.1: La piramide del riconoscimento sociale

Appare evidente come in questo sistema di valori l’opinione che ciascun


individuo ha di sé stesso svolga un ruolo marginale. Per questo è importante
effettuare delle ricerche e fare in modo di capire come gli altri ti giudicano,
come sei considerato rispetto al tuo campo di azione in ambito lavorativo, a
quale gradino della piramide del riconoscimento sociale sei posizionato per il
resto del mondo.
In questo modo eviterai di sottovalutarti, peccando di modestia ed umiltà, o di
sopravvalutarti, anche se in modo non intenzionale, e potrai comprendere a
fondo i punti di forza e di debolezza della tua immagine professionale o di
quella del tuo brand.
C’è un abisso tra l’essere valutati come specialisti o come punti di riferimento
soprattutto in quest’epoca, che dominata dai social e dalla possibilità di
esprimere la propria opinione – che sia incondizionata o meno – riguardo
qualsiasi cosa, dal nuovo paio di scarpe lanciato sul mercato alla qualità di un
determinato servizio erogato da un certo professionista.
Parti dalla tua posizione reale, quella che ti viene associata socialmente, per poi
costruire piano piano l’immagine che desideri, scalando gradino per gradino la
piramide del riconoscimento sociale in ambito professionale fino ad arrivare
alla posizione più strategica.
Non è detto che tutti mirino ad essere punti di riferimento. A seconda delle
proprie aspettative future, delle proprie capacità, e delle proprie risorse ci si
potrebbe “accontentare” anche del titolo di specialista o autorità.
Sta a te decidere fino a che gradino puntare e, presa questa decisione, mettere
in atto ogni strategia possibile per raggiungere il tuo obiettivo.
Ora che conosci le caratteristiche di queste diverse figure professionali è
fondamentale, per te, per il tuo business e per il tuo futuro, definire chi sei tu
ora e chi – eventualmente – vuoi diventare.
In questo senso ci viene in aiuto il diagramma del successo. Ogni progetto
che intenda avere successo richiede pianificazione e organizzazione, quello della
community è chiaramente uno studio approfondito volto soprattutto
potremmo dire a posizionare le antenne giuste nei luoghi virtuali più adatti in
modo da non creare incompatibilità e incomprensione sul proprio
posizionamento di immagine.
Anche se da piccoli ci è sempre stato insegnato che l’opinione degli altri non
conta, dopo anni di esperienza nel settore e una buona dose di buon senso,
posso assicurarti che in ambito lavorativo l’immagine conta eccome.

Figura 3.2: Diagramma del successo

3.2 Definisci chi sei – Identità del brand: posizionamento unico e di

valore

Ora che hai capito che il valore distintivo lo può apportare solo la qualità
professionale, l’esperienza e il vissuto della singola persona, e che disponi del
potenziale necessario per creare il tuo business, devi saper mettere in chiaro chi
sei tu.

3.2.1 Personal branding o corporate communication?

Quando bisogna realizzare una strategia digitale che evidenzi e valorizzi il


posizionamento unico e di valore, bisogna prima di tutto chiedersi: ho bisogno
di una strategia di personal branding o di una di corporate communication?
Vediamo quali sono le differenze.
Che cosa significa fare personal branding?
Era il 2012 quando la nota rivista americana Forbes, citando una ricerca
divulgata dal presidente della MBO Parners, affermava come – entro il 2020 –
la metà dei lavoratori sarebbe stata indipendente. Oggi effettivamente ci sono
molti liberi professionisti che portano avanti la propria attività in differenti
settori, mettono a disposizione di aziende e brand competenze ed esperienza.
Nel loro caso, promuovere sé stessi equivale a promuovere la propria azienda, il
proprio brand e di conseguenza il proprio business.
Ecco quindi che la definizione di personal branding emerge in maniera chiara: si
tratta di una strategia che punta a ottimizzare il posizionamento unico e di
valore di un singolo individuo. Questa affermazione diventa ancora più chiara
se paragoniamo questo concetto a quello di branding aziendale, termine con
cui si identifica l’insieme di strategie volte a promuovere un’intera impresa.
È importante ricordare fin da subito che il personal branding è uno strumento
non uno scopo, un procedimento attraverso il quale è possibile prima
identificare e poi comunicare in maniera efficace il proprio posizionamento
unico e di valore. Questo vale per qualsiasi tipo di professione che tu svolga e
senza distinzioni di età e genere. Fare personal branding significa importare
una strategia che punti sul tuo asset principale, te stesso.
Una volta appurata quale sia la differenza tra personal branding e corporate
communication è importante soffermarsi su un aspetto: chi stabilisce la forza e
la notorietà di un brand? È possibile, attraverso un’adeguata strategia
comunicativa, far passare un libero professionista dal sostanziale anonimato ad
essere un punto di riferimento nel settore?
Per rispondere a tutte queste domande, cominciamo proprio dalle
classificazioni che gli studiosi hanno fatto per cercare di quantificare il successo
di un individuo, a partire dalla nota piramide del riconoscimento sociale.

3.3 Cosa vuoi comunicare e dove l’umanizzazione può intervenire

Ora che sai chi sei, o chi vuoi diventare, devi indagare sulle ragioni più
profonde che ti spingono a voler creare – o ad aver già creato – una
community. Sapere esattamente che cosa e come comunicare, approcciando in
maniera adeguata ed efficace nei confronti dei propri utenti di riferimento, è
una delle più importanti abilità di ogni brand.
Infatti, soprattutto se la tua idea è quella di migliorare l’immagine o di
accrescere la fama del brand attraverso i suoi profili social, devi avere due
concetti ben chiari:
• scopo: può sembrare banale, ma il punto di partenza potrebbe essere proprio
la domanda “perché vuoi creare la tua community? Quali vantaggi pensi che gli
utenti possano apportare all’immagine del tuo brand o alla tua persona?
• argomento: è bene promuoversi sempre e comunque, parlando solo di se
stessi o è preferibile spaziare su diversi argomenti di interesse per la
community?
Sicuramente, prima di creare una community, dovrai chiarire subito le risposte
ad alcune domande: A cosa mi serve questa community? Quali argomenti
intendo trattare? A chi mi rivolgerò?
In risposta alla prima domanda, riguardante lo scopo di una community,
posso affermare – sulla base della mia esperienza – che creare una community
solida per un brand è importante per diversi motivi.
Innanzitutto, tramite il tuo gruppo di utenti di riferimento, puoi promuovere
il tuo personal brand o il tuo brand aziendale. In secondo luogo, le community
sono utilissime per la gestione dei clienti e la promozione di eventi e prodotti,
nonché di un network marketing.
Qualsiasi sia la tua motivazione ed il tuo obiettivo finale, ricorda che tutte le
community che hanno uno scopo ben preciso e che sono efficaci – ovvero ben
gestite – richiedono tempo ed impegno: del resto, lo scopo e l’argomento
devono essere in linea con l’immagine che si vuole dare – di sé o del proprio
brand – ed inoltre devono essere chiari fin da subito!
Non incorrere nell’errore comune di partire creando una community e solo
successivamente stabilire queste caratteristiche: in questo modo rischi di
prendere in giro i membri che fanno parte della community e di generare un
effetto controproducente.
Se intendi fare customer care, diffondere i tuoi contenuti, raccogliere
recensioni o umanizzare il tuo brand, la creazione di una community è
esattamente ciò che fa per te.
Infatti, attraverso questo gruppo virtuale di utenti target – ad esempio sul
famosissimo social network Facebook – potrai non solo offrire assistenza
tecnica ai clienti, membri del gruppo, ma anche conoscerli meglio e raccogliere
recensioni in modo gratuito, senza dover ricorrere a costose e lunghissime
indagini di mercato.
Il fatto stesso di disporre di un profilo aziendale sui principali social media e di
gestirlo, rispondendo ad eventuali domande poste dai clienti-utenti della
community in nome del brand, è un fattore di grande appeal: è proprio questo
uno degli strumenti che permettono di umanizzare un brand, rendendolo agli
occhi dei clienti più concreto, sicuro e vicino alla vita e alle esigenze dei
consumatori.
Sicuramente, il fatto di ricevere recensioni pubbliche all’interno di una
community di consumatori potrebbe apparire come un’attività molto rischiosa
nonché un’arma a doppio taglio. In effetti, non puoi sapere se le recensioni
positive saranno maggiori alle critiche.
Eppure, se lavori bene e sei consapevole di punti forti e limiti del tuo brand,
non dovrai preoccuparti di questa eventualità: anche nel caso in cui ricevessi
pareri negativi, denigratori ed ingiustificati, oltre a difenderti in prima persona
potrai contare sugli altri utenti della community, che faranno valere le tue
qualità e non esiteranno a dire la loro, controbattendo le argomentazioni di chi
ha lasciato quel commento negativo.
In questo modo anche gli utenti esterni alla community, che seguono la
discussione per curiosità o perché intenzionati a diventare clienti del brand,
vedranno il forte legame che lega la tua marca al suo seguito. D’altronde, (più
umanizzazione di così?) in queste situazioni, anche se con radici in una critica,
chi ci guadagna è il brand stesso, che verificherà facilmente il grado di fedeltà
dei suoi clienti e guadagnerà in credibilità e fiducia agli occhi di potenziali
nuove personas.
Tornando invece all’importanza dell’argomento ciò che ti suggerisco è di
parlare di te o del tuo brand, ma non in maniera esagerata ed esclusiva: evita in
ogni caso l’autocelebrazione, è una strategia nella maggior parte dei casi
controproducente e che non genera consensi da parte degli utenti, nemmeno
dei più appassionati e fedeli.
Parla di qualcosa che conosci, non diffondere bufale e non inventare nulla:
informati a fondo, preparati un piano editoriale con gli argomenti da trattare e
prediligi ciò che ti riguarda – direttamente o indirettamente – ciò che conosci e
ciò che interessa ai membri della tua community.
3.4 A chi ti rivolgi

L’importanza del passaggio dal target alle personas (non si parla più a semplici
consumatori pensati come macchine produci soldi, ma come persone in carne
ed ossa alle quali fornire un valore aggiunto attraverso i propri servizi).
L’ultima delle domande preliminari da porsi prima di creare una community –
oltre alla prima riguardante lo scopo e alla seconda in tema argomentazione –
concerne la scelta del target di riferimento a cui rivolgersi.
Se ti intendi di marketing, o hai effettuato delle ricerche a riguardo, avrai
sentito spesso tre parole: segmentazione, target e buyer personas. Questi
termini racchiudono in sé tre differenti concetti, che sarà bene che tu
comprenda in modo chiaro prima di dedicarti alla creazione di una
community, per evitare di investire tempo e fatica in uno strumento poco
efficace.
La segmentazione consiste nell’identificazione, suddivisione e
raggruppamento dei propri utenti in piccoli gruppi di persone con
caratteristiche simili, come sesso, età, zona, professione ecc. I criteri per la
segmentazione più utilizzati sono quello geografico, sociodemografico,
psicografico e comportamentale.
Grazie a questa pratica, la tua comunicazione potrà essere più mirata ed i
contenuti più dinamici, personalizzati, in linea con interessi, necessità e gusti
dei clienti del brand in questione.
Soprattutto in quest’epoca in cui il mercato è estremamente competitivo, la
segmentazione risulta di fondamentale importanza per i brand: infatti, il
marketing si è sempre più evoluto, arrivando a considerare molto più
importanti le persone e le esperienze rispetto ai prodotti e ai servizi stessi. Di
riflesso gli utenti sono diventati sempre più esigenti nei confronti dei brand,
che per accontentarli devono umanizzarsi e creare comunicazioni e prodotti
sempre più personalizzati.
Per target invece si intende il mercato al quale si decide di rivolgersi, tra tutti
quelli individuati tramite segmentazione. Il proprio target di riferimento può
essere formato da persone che hanno interessi simili e che possono diventare
potenziali clienti del tuo brand per le affinità.
Per sviluppare una corretta ed efficace strategia di marketing è necessario
stabilire con certezza e precisione il proprio target: infatti, ad esempio, un certo
tipo di comunicazione può essere accattivante ed attraente per i più giovani e
totalmente indifferente per gli adulti, e viceversa. Oppure, nella scelta del social
da utilizzare per la creazione della propria community contano le
caratteristiche delle persone che fanno parte del proprio target, per scegliere
quale tra i diversi social network possa avere più appeal.
Infine, con il termine buyer personas si indicano i clienti immaginari, risultato
di uno studio di dati e di statistiche molto preciso e dettagliato. Esse sono
rappresentazioni fittizie, e alquanto generalizzate, del cliente ideale, delle
persone che puoi definire come i migliori consumatori che vorresti avere dalla
tua parte e a cui vorresti vendere il tuo prodotto o servizio.
Trovare le proprie personas non è un compito facile e, addirittura, c’è una
domanda che dovrai porti prima di intraprendere qualsiasi azione di
marketing: di cosa hanno bisogno le mie buyer personas?
Solo quando troverai una categoria di persone che concepisce il tuo prodotto o
il tuo servizio come risposta ad una determinata necessità o esigenza potrai dire
di aver idealizzato le tue personas. A quel punto potrai concentrare le tue
strategie di marketing, il tuo budget e le tue energie su un target ben definito
di persone, stabilito in seguito ad una precisa ed accurata segmentazione.
Le tue buyer personas devono necessariamente essere interessate a ciò che
promuovi: aggiungere gente a caso nella tua community non ti servirà a
crescere anzi, sarà un’azione del tutto controproducente, che ti servirà ad
accrescere il numero in termini di massa, ma non ti aiuterà sicuramente ad
accrescere l’interesse nei confronti del tuo brand. Non rischiare di ritrovarti
con milioni di membri fittizi e zero engagement: meglio una community
composta da pochi utenti ma con un alto tasso di fedeltà nei confronti della
marca e che generano un notevole numero di interazioni.

Come diventare un brand empatico


di Leonardo Prati
Il concetto di successo nel marketing, come lo abbiamo sempre conosciuto, è stato basato su un’idea
legata alla sua fama, al prestigio e ad una comunicazione impostata principalmente sul rapporto
qualità-prezzo del bene o del servizio proposto. In passato, inoltre, la pubblicità era forgiata
sull’ironia e sulla necessità di fare colpo sul potenziale cliente, in qualunque modo fosse possibile.
Oggi le cose sono cambiate, gli esperti infatti hanno capito che ciò che colpisce le persone, anche
nel marketing, è ciò che le tocca e che vogliono nella vita di tutti i giorni, ovvero di essere coinvolte
emozionalmente. I brand hanno compreso che ciò che attira gli acquirenti è una sorta di legame che
si crea tra questi ultimi e il brand, in maniera profonda e coinvolgente.
Cos’è l’empatia?
Pubblicizzare un prodotto come buono e sotto una chiave che comunica onestà in merito a esso, nel
marketing, è sempre stato un elemento base del messaggio che veniva inviato alle persone. Con il
tempo, si è compreso però che questo non bastava affinché i compratori lo preferissero ad altri che
possedevano caratteristiche simili: perché ciò avvenga, è indispensabile che il bene sia
emotivamente percepito come qualcosa che essi desiderano fortemente. Questo è uno dei motivi
per cui nel marketing vengono create delle storie fatte di personaggi che piacciono ai clienti e che
sono studiate per essere in grado di colpire, in modo mirato, un target piuttosto che un altro.
Facendo un’analisi dal punto di vista del mercato, per prima cosa, l’umanizzazione del brand
richiede la sua identificazione con il cliente tipo (buyer personas). Occorre poi mettere in atto una
scelta che sia indirizzata a registri comunicativi totalmente in linea con il target di riferimento, la
quale abbia l’obbiettivo di aumentare la possibilità di interazioni, risposte, condivisioni e
conversioni.
È lecito domandarsi, a questo punto, quale possa essere il ruolo dell’empatia nel marketing e cosa la
renda strategicamente così efficace.
Il ruolo dell’intelligenza emotiva sul brand
Chiunque abbia a che fare con dei clienti, sa bene quanto sia importante costruire con essi delle
relazioni buone e che, per farlo, occorre saper gestire le emozioni. Per questo motivo l’intelligenza
emotiva, che non consiste solamente nell’essere gentile, ma anche nell’essere consapevoli delle
proprie emozioni e di quelle altrui sapendole gestire, influisce sulle strategie di brand marketing.
Gli acquirenti decidono se e cosa comprare in base alle proprie emozioni e più precisamente,
vogliono farlo da aziende che gli somiglino e con le quali si identifichino: lo scopo del marketing, in
questo caso, è quello di rendere piacevole la relazione tra il cliente e il brand e di trasformare questo
concetto in realtà.
Il successo di un brand nasce sia quando esso sa negoziare, condurre e comunicare con i clienti e sia
quando dimostra di avere competenze in campo psicologico.
Lo psicologo Daniel Goleman illustra l’intelligenza emotiva scomponendola in 5 elementi
principali, che sono: autocoscienza, autoregolazione, motivazione, empatia e abilità sociali. Chi è
emotivamente intelligente, capisce cosa prova e lo sa comunicare, permettendo di vivere relazioni
sane con le altre persone; è questo che un brand deve saper fare con i suoi clienti, creando empatia e
distinguendosi dai competitor.
Essere intelligentemente emotivi favorisce la cooperazione e la comunicazione aperta e trasparente,
dando meno spazio ad atteggiamenti egocentrici: se le persone lavoreranno per uno scopo superiore
e per il bene del marchio, il successo sarà assicurato.
I brand che comprendono le leve dell’intelligenza emotiva e capiscono come si deve fare per
diventare empatici, sono quelli che ottengono un miglior ritorno degli investimenti (ROI).
Controllare il proprio target di interesse, identificandosi con i suoi problemi o desideri, creando
campagne mirate che coinvolgano i clienti, sono tutte azioni che producono risultati vincenti. Le
aziende di successo non si limitano a imporre il loro prodotto: esse conversano con i loro
compratori creando una forte empatia e per questo motivo vengono apprezzate. Usare dei feedback
come i sondaggi o l’interazione tramite social media, sono tecniche formidabili per sapere cosa
pensano le persone, cosa stanno cercando e per comprendere se si sta attuando una strategia che sia
giusta e soddisfacente per loro: se così non fosse, potranno intervenire in tempo e impostare un
cambiamento della rotta.
Essere a conoscenza delle emozioni dei clienti permette di creare campagne di marketing mirate e
coinvolgenti, facendoli sentire parte dal brand e aumentando la loro lealtà verso di esso. Maggiore
empatia verrà creata tra brand e cliente, più grandi saranno l’umanizzazione e il tasso di
fidelizzazione (retention rate).
Capire il cliente non consiste, tuttavia, solamente nel dargli ciò che desidera oggi, ma ascoltare e
comprendere cosa potrebbe volere domani, per essere certi di alimentare e nutrire una relazione che
sia in grado di durare nel tempo. Capire le emozioni dei clienti significa anche saperli portare nella
direzione desiderata dal brand: una volta fatto questo, esso avrà raggiunto l’obiettivo che tutti i
marketer cercano di raggiungere da sempre.
Perché è importante essere un brand empatico
Può capitare di avere a che fare con dei clienti e di rendersi conto di non essere capiti: molti
venditori o marketer, in questa situazione, reagiscono parlando ancora di più, mentre ciò che è
indispensabile fare in quel momento, è solamente ascoltare. La sola cosa da fare per capire se si è
sulla stessa lunghezza d’onda, è quella di ascoltare l’interlocutore e, se si colgono eventuali
incomprensioni, intervenire per dirottarlo verso il brand. Molti marchi commettono l’errore di
essere troppo presi dal messaggio che vogliono inviare, dal prodotto o bene che vogliono vendere,
finendo per dimenticarsi completamente che ciò che conta davvero sono i clienti. Mettersi nello
stesso piano del consumatore, entrare nella sua testa e vedere le cose dal suo punto di vista, invece
significa creare empatia, umanizzando il brand.
Creare un contenuto che rifletta il marchio e che soddisfi gli obiettivi di mercato è abbastanza
schematico e facile da realizzare, infatti esistono delle ottime strategie, ma questo non basta.
Quando si decide di rivolgersi al cliente non solo come soggetto passivo del messaggio, ma come
elemento attivo da ascoltare, le cose si complicano.
Nel momento in cui il problema è quello di comprendere cosa pensa il cliente, esistono degli
interventi di marketing tradizionale e digitale che possono rivelarsi utili per riuscire a capirlo. Ad
esempio:
• è possibile chiedere la collaborazione di eventuali influencer interni al brand, che potrebbero
essere i commessi, i camerieri, i networker, i quali hanno la possibilità di interagire direttamente
con le persone, facendo loro delle domande in modo più rilassato e confidenziale rispetto alle
indagini di marketing ufficiali;
• una volta che si è compreso cosa vogliono i clienti, occorre farlo diventare il centro della campagna
di marketing. L’era dei modelli famosi che sponsorizzano un brand è superata: oggi le persone
chiedono di immedesimarsi con l’amore, il successo, la felicità ed è a questi bisogni che si deve
essere pronti a dare una risposta;
• le campagne di mera vendita sono rischiose. I clienti sono tempestati da annunci e proposte,
pertanto, affinché concedano con piacere il loro tempo e la loro attenzione, è fondamentale fargli
capire che stanno scoprendo qualcosa di valore che i competitor non hanno.
È importante comprendere che creare empatia nel marketing ha un potere immenso. Ascoltare,
mettendosi sullo stesso piano del cliente, significa trasformare un brand freddo in uno empatico.
Secondo lo psicologo israeliano e premio Nobel Daniel Kahneman occorre suddividere il processo
decisionale del consumatore in due ambiti: uno è quello del “Pensiero veloce”, che è di natura
intuitiva, inconsapevole e si rivolge alle decisioni prese d’istinto, e l’altro è il “Pensiero lento”, il
quale è razionale e richiede concentrazione.
La tecnologia che avanza e si sviluppa così velocemente attraverso l’utilizzo dei dispositivi mobili, i
quali hanno assunto un ruolo centrale nella vita delle persone, rende il cliente un “consum-attore”.
Il suo ruolo non è più quello di una mera comparsa, ma di un soggetto attivo, il quale, grazie al
potere concesso dai social media e dal web, quando acquista lo fa informandosi nei minimi dettagli,
condividendo le sue sensazioni e azioni. Questo cambiamento non può essere ignorato, perché
significherebbe di non voler stare al passo con i tempi e di non sapersi adeguare alle novità che
giungono sempre più impetuose.
Il “consum-attore” prima acquista e prova il prodotto e successivamente recensisce il brand, in
modo che altri potenziali compratori possano sfruttare le informazioni al momento dell’acquisto. Il
marketer che mira a vendere il suo prodotto o servizio del suo brand, deve puntare alla prima fase
esposta da Kahneman, a quella intuitiva, ascoltando e cercando di fare colpo sulle emozioni del
potenziale cliente, in modo empatico.
L’empatia si connette al marketing attraverso tre passi fondamentali:
• è impossibile dare qualcosa a qualcuno senza ascoltarlo mentre dice cosa vuole. Calarsi nei panni
della buyer personas per ragionare come lei e capire il suo punto di vista, è il segreto per creare un
brand di valore che sia la risposta ai suoi desideri e sarà ciò che decreterà il successo del brand;
• sarà possibile farlo, ad esempio, tenendo sotto controllo critiche, suggerimenti, recensioni e
commenti soprattutto sui social media, i quali oggi sono una fonte inesauribile di informazioni;
• tempo fa, la comunicazione con il cliente era unidirezionale, in quanto considerato un soggetto
passivo: egli riceveva i messaggi e la pubblicità inerenti i brand. Oggi il consumatore è divenuto un
soggetto protagonista che si informa ed esprime pareri, sa già tutto del brand e quando è informato,
è probabile sia a conoscenza di ogni dettaglio; per questo motivo è interesse del marketer
predisporre ogni cosa in modo che il cliente possa accedere alle notizie che cerca. Ogni azione che
viene compiuta non deve essere finalizzata alla vendita, per quanto si ambisca ad essa, ma al
benessere della persona e alla sua approvazione;
• nel momento in cui si è imparato ad ascoltare il cliente, occorre calibrare bene le strategie di
marketing con l’empatia stessa, poiché sarà il momento in cui le preziose informazioni ottenute
dovranno essere rese efficaci e vantaggiose, attraverso le azioni. Alcune operazioni consistono nel
rispondere tempestivamente a commenti e richieste sui social media; altre, sempre nei social,
prevedono di non promuovere il prodotto in modo asettico, bensì proponendo dei contenuti
accattivanti e interessanti che le persone devono avere voglia di seguire. I potenziali clienti,
rendendosi conto che dietro il marchio ci sono persone vere, che capiscono i loro bisogni e possono
dargli ciò che desiderano, si sentiranno capite e allo stesso tempo, decreteranno il successo del
brand.
Per ottenere risultati attraverso i siti web, i blog, i social, gli e-commerce e le campagne, è
indispensabile attivare delle leve, sfruttando le tecniche di persuasione.
La persuasione e la comunicazione empatica
Per capire cosa vuole il cliente, per entrare in empatia con lui e dare risposta ai suoi desideri, occorre
creare un profilo del consumatore tipo. È possibile fare questo analizzando il mercato di interesse
per comprenderne i bisogni e in modo da immedesimarsi e mettersi nei suoi panni.
Attraverso le tecniche di copywriting è possibile far sapere al proprio target di persone ideali che si
offre un’occasione oppure che si ha la soluzione per un loro problema. Per creare empatia con
l’interlocutore, si procede creando una domanda retorica ben contestualizzata, in modo che egli
senta come sua la situazione reale e successivamente, gli si offre la soluzione al quesito.
Sfruttare lo strumento del copywriting persuasivo non va confuso con il manipolare le persone;
esistono dei valori morali ed etici ai quali è obbligatorio attenersi. Nel caso in cui le peculiarità del
brand venissero alterate per renderlo migliore di ciò che è o semplicemente diverso, questo
nuocerebbe prima di tutto al consumatore che si è fidato e si rivelerebbe poi un danno per lo stesso
brand. Il marchio va esaltato per ciò che realmente è e per rendere note le sue reali utilità e capacità
di risolvere il problema.
Usare il copywriting restando fedele alla promessa di migliorare la vita attraverso il brand per poi
riuscire a soddisfare il cliente, significa che le leve della persuasione sono state usate in modo
efficace.
È possibile comunicare strategicamente con il consumatore usando i valori nei quali le persone
comunemente si riconoscono, ma anche stimolando la simulazione di espressioni facciali o dei
movimenti nei quali, attraverso i neuroni-specchio, esse si identificano.
Le emozioni si suscitano quando è possibile immedesimarsi e questo prescinde dal fatto che il
brand sia realmente collegato ad esse; per questo motivo, per farlo si adoperano diverse tecniche di
persuasione. In tale senso, è sempre più usata la tecnica dello storytelling; questo modo di narrare in
musica e immagini provoca infatti un enorme impatto emotivo sulle persone.
Come l’empatia può rendere vincente un brand
Ancora molti marketer pensano che l’importante sia arrivare alla vendita e concettualmente può
essere corretto, ma non bisogna dimenticare un aspetto importante: se ci si cala nei panni del freddo
venditore che mira esclusivamente a far acquistare un prodotto, non si va avanti a lungo.
La verità è che le persone non comprano un bene o un servizio, ma un’emozione.
Durante l’ascolto nasce l’empatia, che è una qualità fantastica per migliorare i rapporti con i clienti
e le persone in generale, ma anche per dare valore al brand. Entrare in sinergia con gli altri fino a
capirli e a percepire i loro stati d’animo, generando uno scambio emozionale che rafforzi la stima e
il feeling, è il frutto dell’empatia. Comprendere gli altri, essere meno freddi e mostrarsi più sensibili
in un’epoca in cui frenesia e tecnologia rendono distratti verso il prossimo, umanizza le persone e lo
stesso brand.
Qualunque sia la strategia di marketing che viene posta in essere, essa deve mirare a soddisfare i
bisogni del target di riferimento del brand; occorre ribadire che il soddisfacimento può essere
raggiunto solamente comprendendo profondamente le emozioni altrui e valutando cosa davvero
vogliano le persone.
In pratica, l’incremento delle vendite nasce dall’unione tra una strategia di marketing efficace e
l’empatia: studiare l’impatto che un brand avrà sul proprio target di riferimento, fatto di persone
con sentimenti che occorre comprendere, è l’unico modo per dedurre se esso avrà successo o meno.
Come umanizzare posizionando il brand nella testa delle persone
Attraverso l’umanizzazione, ovvero la capacità di entrare in connessione con le persone fino a
sentirne gli stati d’animo e le emozioni come fossero i propri, si genera l’empatia. Mettersi nei
panni dell’interlocutore che vive una determinata situazione o ha un preciso desiderio, equivale a
comprenderlo e pertanto ad essere in grado di soddisfare il bisogno che accomuna tutti gli esseri
viventi: quello di essere considerati e ascoltati. Questa necessità tocca la sfera personale, ma anche
quella lavorativa e del marketing.
L’umanizzazione crea una relazione che si fonda sulla sincerità ed avviene non su regole universali,
bensì su un principio molto importante, che si basa sull’identificazione. L’identificazione o
imitazione, è una delle tecniche più potenti per riuscire ad avere ottimi risultati a livello relazionale.
L’empatia si basa sull’idea che “gli altri facciano ciò che noi facciamo” e viceversa; questo non
consiste nel copiare il pensiero altrui o i discorsi delle altre persone in modo passivo, ma
corrisponde a riproporre pensieri, parole e gesti che mettono a proprio agio l’interlocutore.
Esistono alcune azioni specifiche utili per posizionare il brand nella testa delle persone.
Il primo gesto è quello di gratificare le persone; questo semplice aspetto induce l’interlocutore a
sentirsi rilassato e a provare emozioni positive. Complimentarsi con le persone è alla base di
qualsiasi relazione sociale e aiuta a interagire con facilità; se ci sono pareri positivi sulle persone è
necessario dirli, poiché le predisporrà verso le persone che stanno dietro il brand, portando a
stupefacenti risultati.
Il rapporto da creare con il consumatore deve essere denso di energia positiva, per questo è giusto
creare empatia esprimendosi positivamente; la gratificazione sincera porterà a una sorta di
riconoscimento che convertirà in una fidelizzazione duratura nel tempo. Se ci si domanda quando
sia il momento giusto per gratificare un interlocutore, la risposta è che occorre essere tempestivi,
spontanei e rispettosi.
La seconda azione è quella di porsi sempre con umiltà, che è un concetto del tutto diverso
dall’essere modesti. Non è umile chi si sminuisce agli occhi altrui, chi appare insicuro e pavido verso
il raggiungimento dell’obbiettivo: è umile la persona che sfrutta le esperienze per giungere alla meta
e lo fa con curiosità, vedendo nell’interlocutore un riferimento dal quale è possibile imparare
qualcosa di nuovo. Ascoltare consiste anche in questo: essere rispettosi, anche se può sembrare di
non avere nulla da imparare dalla persona con la quale ci si confronta, perché in realtà potrebbe
sorprendere in maniera positiva. A volte i pareri discordanti, se ci si predispone con la mente aperta
e dagli ampi orizzonti, possono essere un filo conduttore tra le proprie idee e quelle della
controparte. Si è umili quando si comprende il proprio valore e allo stesso tempo si afferma quello
altrui, riconoscendo inoltre i limiti reciproci, con saggezza.
Occorre tenere presente, in terzo luogo, che le persone che non sanno ascoltare gli altri,
difficilmente verranno ascoltate. Tutte le relazioni necessitano di un notevole impegno reciproco, di
tempo da dedicare e di capacità di ascolto. Non ha alcun senso, ad esempio, trovarsi di fronte a un
potenziale cliente e inondarlo di spiegazioni sul brand, senza fermarsi pazientemente per sentire
cosa serve a lui. Questo atteggiamento è sbagliato in qualsiasi relazione umana e porterà
l’interlocutore a chiudersi, rischiando di risultare maleducati e fastidiosi: tutto questo è molto
distante dal concetto di empatia. La persona che si ha di fronte necessita di considerazione e ha
bisogno di raccontarsi in tanti modi, per questo la predisposizione all’ascolto è fondamentale, a
prescindere dalle tematiche trattate, perché è il modo essenziale per far breccia nel cuore. Ascoltare
con empatia è chiaramente difficile e necessita di continuo allenamento, tuttavia è il tipo di
comunicazione più efficace, crea una sorta di filo che condurrà la persona a confidarsi e a fidarsi.
Un altro aspetto dell’umanizzazione consiste nel conoscere la storia delle persone con le quali si
interloquisce; si tratta di somme di periodi felici e di altri dolorosi, che non è facile apprendere a
fondo, ma di certo vale la pena ascoltarle. Quando si entra in empatia con un essere umano, avviene
in modo spontaneo e naturale, partendo da argomenti generici, dalla visione del mondo, fino a
giungere a uno step successivo, nel quale si verifica un’apertura reciproca. Occorre farlo senza essere
invadenti e impazienti; nel creare un rapporto così fiduciario e confidenziale per avere informazioni,
è importante dar vita a uno scambio equilibrato e reciproco.
Il processo di umanizzazione del brand comprende un quinto punto molto importante, che consiste
nel rendere felici gli altri. La gratificazione verso se stessi è importante perché deriva
automaticamente dal rendere felice gli altri; rispondere alle domande di un cliente, trovare una
soluzione, dargli ciò che vuole equivale a dirgli quanto lui è importante per il brand, così come lo
faranno la disponibilità e la premura che si sapranno dimostrare nei suoi confronti. Anche un
piccolo gesto può essere gratificante, far capire alla persona che il marchio non si è dimenticato di
lei, non la farà sentire un mero numero, ma coccolata. Rende felici sapere di essere supportati
quando ci sono dubbi o difficoltà: non sentirsi abbandonati e sapere che si può contare su qualcuno,
sarà rassicurante.
Un ultimo gesto di grande spessore consiste nel saper mostrare solidarietà all’interlocutore.
Mostrare appoggio equivale a dare una mano alla persona che si ha di fronte, sia umanamente che
materialmente, manifestando comprensione e creando, quindi, un legame empatico. Accogliere la
persona con sentimenti positivi, aiutandola a raggiungere il suo obbiettivo, indurrà
automaticamente il brand a conseguire il proprio risultato.
L’empatia è quell’elemento che umanizza e rende migliori, che aiuta a provare rispetto verso le
emozioni altrui, che rende più propensi alla comprensione e più aperti verso l’ascolto.
Conclusioni

Il 5 gennaio 2020 c’erano più di 4 miliardi di utenti internet connessi in tutto


il mondo, circa 3,5 volte la popolazione di tutta la Cina. Gli internauti sono
cresciuti in maniera strabiliante dal 2016, quando erano appena 3,4 miliardi, e
insieme a loro è cresciuto e cambiato anche il web, dimostrando una grande
capacità di adattamento alle loro necessità.
Con il crescere degli utenti connessi online sono cambiate anche le strategie di
comunicazione digitale che i brand (sia quelli più grandi che quelli più piccoli,
e a prescindere dal settore) hanno messo in atto per rispondere sempre meglio
ai bisogni dei propri consumatori. A complicare e integrare il quadro la
rivoluzione digitale ha sdoganato canali di comunicazione che non erano
neanche immaginabili: Facebook, LinkedIn e Instagram hanno portato un
cambiamento radicale nell’approccio con il cliente, aumentando i touchpoint
attraverso i quali il consumatore si aspetta di poter interagire con il brand
stesso.
Oltre agli aspetti tecnici, al proliferare dei social media e all’aumento smisurato
di utenti connessi ad internet è importante sottolineare un cambiamento
culturale: le persone non apprezzano più i brand che si pongono al centro della
propria strategia comunicativa, ma al contrario premiano quelle aziende che
parlano di persone alle persone. In questo modo si è consumato il passaggio da
paradigma comunicativo Business-To-Business o Business-To-Consumer ad
uno Human-To-Human: è un nuovo modo di parlare al proprio pubblico con
un tono più caldo, empatico e genuino che contribuisce in maniera positiva
alla creazione di strategie di personal branding o di business branding in cui il
consumatore con le sue esigenze diventa il fulcro dell’intero sistema solare
comunicativo.
Le sfide che verranno portate avanti in questo settore sono imprevedibili
quanto entusiasmanti e, proprio per questo, sta diventando sempre più
importante per i liberi professionisti e le aziende poter fare affidamento su un
team qualificato che si occupi di comunicazione digitale, dandole un approccio
human.
Arrivati alla fine di questo percorso insieme potresti ancora sentirti insicuro su
che cosa significhi umanizzare un brand, quali siano gli accorgimenti pratici da
poter utilizzare all’interno di una strategia di personal branding o di business
branding. Desidero quindi condividere con te che sei giunto fino a qui la mia
esperienza e cosa significhi per me costruire ogni giorno strategie di digital
human branding.
Mi occupo di strategie digitali da sempre e, altrettanto da sempre, mi sono
accorta come il concetto di web, di digitale e di internet fosse percepito come
un mezzo freddo, astratto e poco empatico. Le persone trattavano il proprio
sito internet come una vetrina, anzi, come un armadio dove riporre l’argenteria
e dimenticarla fino all’anno successivo. Non esiste niente di più sbagliato! Non
utilizzare gli strumenti digitali significa precludersi un’occasione o non dare alla
tua società la possibilità di crescere in modo adeguato.
Durante la mia attività ho quindi sempre cercato di trasmettere non solo
l’importanza di comunicare con il mondo esterno attraverso il web i propri
valori e di farsi conoscere così come si è, ma anche di non lasciarsi intimorire
dagli strumenti digitali. Ecco quindi che è nata l’etichetta di digital human
strategist, una portavoce di un modo di comunicare online, empatico, caldo e
che porta a parlare la lingua del proprio utente. I risultati non tarderanno ad
arrivare!
Ringraziamenti

Questo libro è nato così come recita il suo titolo: in modo molto human.
Affonda le proprie radici nell’esperienza che ho avuto il privilegio di vivere con
le persone, dai risultati che ho ottenuto insieme ai miei clienti applicando le
nozioni che hai letto in questo manuale di digital human marketing.
È un libro che parla di come comunicare alle persone, di umanizzazione, e
come poteva essere scritto da una persona sola? Tutte le riflessioni custodite in
queste pagine sono il frutto di intensi dialoghi tra amici, colleghi e contributi
di persone di cui ho la massima stima e che hanno permesso la mia crescita
professionale dal punto di vista tecnico.
Grazie Angelica Eruli per aver preso e migliorato notevolmente il libro con il
tuo lavoro di editor, sei una grande professionista.
Grazie a Barbara Cattani per la bellissima persona che sei e che non hai saputo
nascondere nella tua magnifica introduzione.
Grazie a Roberto Zarriello per i preziosi consigli e per aver scritto la prefazione:
non avrei voluto la scrivesse nessun altro!
Grazie per il lavoro prezioso e ricco di spunti importantissimi che hanno dato
un valore aggiunto profondo al libro: Leonardo Prati, Andrea Saletti, Luigi de
Seneen: vi ammiro molto!
Grazie Alessio Visentin: presenza costante e fondamentale per la mia vita e il
mio lavoro!
Grazie a Gaetano Romeo, amico e mentore che mi ha dato la possibilità di
pubblicare con questa super casa editrice.
E infine la mia dedica speciale va a te Emanuele: sei un figlio straordinario e mi
riempi di idee e di spunti incredibili senza i quali non sarei quella che sono!
L’autrice

Samantha Visentin

Consulente di Web e Digital Human Stategist, CEO di One Strategy.


Appassionata di cultura digitale non ha mai smesso di muoversi e di imparare:
il contatto con le persone, l’ascolto e il dialogo con loro è il file rouge della sua
intera attività. Nata come Social Media Manager, in questi anni è specializzata
sulle strategie digitali e – interpretando i tempi moderni – ne ha evidenziato da
subito l’importanza di interpretarle in chiave human.
Docente di numerosi corsi, collabora con imprenditori e manager d’azienda e
oggi è un’esperta di cultura digitale e mentore in numerosi contesti aziendali.
Ogni nuovo progetto è una sfida avvincente, un’occasione si scambio culturale
e accrescimento personale in cui accompagna capi d’azienda e liberi
professionisti a creare la propria strategia di business branding o personal
branding.
Le voci

Barbara Cattani

Professionista del marketing che affianca Paolo Ruggeri nei progetti


speciali firmati OSM International.
La sua passione per il marketing si può paragonare ad una vera e propria storia
d’amore, costantemente in crescita, intensissima e duratura. Ha sempre
utilizzato un approccio orientato a prendere in considerazione la voce del
cliente finale.
Oggi, dopo oltre 16 anni di esperienza, l’opinione e il punto di vista del cliente
sono imprescindibili dal suo lavoro, per gli innumerevoli spunti e argomenti
che possono offrire.
Negli anni ’90 è iniziato il suo vero e proprio debutto nel mondo del
marketing in quanto il suo ruolo era quello di Business Unit Manager in una
grande società del gruppo SEAT. Nel 2001 conosce OSM e lì il suo ruolo si è
trasformato in una vera e propria vocazione.
Luigi de Seneen

Studia giurisprudenza, scopre la passione per lo sport, diventa


personal trainer e collabora con psicologi e psicoterapeuti su casi di depressione
abbinando allenamento fisico e mentale. Consegue un master in marketing, un
master in PNL e la crescita personale entra nella sua vita. Attualmente è un
Business Developer, specializzato in marketing, ottimo sviluppatore di
opportunità e dotato di capacità creative di mediazione e intesa tra le aziende.
Sviluppa percorsi formativi manageriali, è consulente in marketing strategico
ed operativo, esperto in networking con aziende, imprese ed enti pubblici.
Oltre ad essere TedX Speaker, ha organizzato il Philip Kotler Marketing
Forum Milano 2015, Networking Day San Patrignano, Condivide Et
Impera 2019. È contributor per i testi Fai di te stesso un brand e Promuovi te
stesso di Riccardo Scandellari.

Leonardo Prati

Inbound marketer, gestore della propria community #AskLeo,


progetta e gestisce strategie di comunicazione integrata per aziende in vari
settori. Certificato in Inbound Marketing presso HubSpot e ACE ADOBE
(Photoshop, InDesign, Illustrator), affianca le aziende nelle scelte e nelle
strategie da adottare per migliorare la loro visibilità online. Ha partecipato
come relatore ai più importanti eventi dedicati al Web Marketing su tutto il
territorio italiano ed europeo ed è docente presso le scuole di formazioni più
prestigiose. È docente di Web Marketing Strategy presso Business
International, Talent Garden, Campus Internazionale Alberghiero e collabora
con l’agenzia di comunicazione Netrising come Digital Strategy Manager.
Collabora da oltre 5 anni con Marco Montemagno nella realizzazione di start-
up come SuperSummit e la community Slashers.

Andrea Saletti
Web marketing manager di Pronesis srl. Consulente e formatore di
neuromarketing e scienza della persuasione applicate al web in ambito
universitario e aziendale. Autore del libro “Neuromarketing e scienze cognitive
per vendere di più sul web”. Coordinatore di dipartimento in AINEM
(Associazione Italiana Neuromarketing). Speaker ai principali eventi formativi
dedicati agli specialisti del web sul tema della psicologia digitale.

Roberto Zarriello

Imprenditore digitale, saggista e giornalista, è considerato il maggior


esperto italiano di Brand Journalism. Conduce numerosi progetti digitali di
successo: ha fondato startup come Digital Media e InstaGo, ha creato e dirige
la prima Digital Academy del Sud (main partner Conad, Tiscali, Resto al Sud)
sul talento digitale, lanciato il primo think tank sul giornalismo e la
comunicazione digitale (Comunicatori Digitali Associati in collaborazione con
GSA). Docente di Comunicazione Digitale e Social Media all’Università
Telematica “Pegaso” e in vari master universitari (Roma, Ferrara, Foggia,
Unimol, Milano). Scrive di comunicazione, web e nuove tecnologie su
HuffingtonPost.it e coordina il social media team di Tiscali.it come consulente.
Dal 2003 collabora con il gruppo Espresso, con cui ha creato il progetto “Città
2.0” su Repubblica. Nel 2015 ha ricevuto il premio Giornalistico Nazionale
Maria Grazia Cutuli per la categoria “Web, Editoria digitale”.
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