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Harley Laroux

PERDENTI
- Parte I -
È soloun gioco?
Vol. II
VIRGIBOOKS
OceanofPDF.com
© Harley Laroux
© 2023 Virginia Creative Studios Ltd.
www.virginiacreativestudios.co.uk
Per altre informazioni visita
www.virgibooks.com
Published with arrangements of Virginia Creative Studios Ltd.
This book is a work of fiction. References to real people, events,
establishments, organizations, or locales are intended only to provide a
sense of authenticity, and are used fictitiously. All other characters, and
incidents and dialogue, are drawn from the author’s imagination and are
not to be construed as real.

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AVVERTENZE
Alcuni contenuti all’interno di questo libro potrebbero essere
disturbanti per alcuni lettori. Si raccomanda la discrezione del lettore.
Gli argomenti trattati includono: malattia mentale, trauma, abuso
infantile (fisico e mentale), body shaming (da parte di un genitore nei
confronti del figlio maggiorenne), rifiuto parentale, bullismo, esempi di
omofobia/bifobia e riflessioni sul suicidio. Questo libro contiene altresì
scene di sesso descritte nel dettaglio, sessioni intense di BDSM, violenza
esplicita e linguaggio forte.
Tutti i personaggi descritti nelle scene sessuali hanno almeno
diciott’anni.
Questo libro non dovrebbe essere usato come guida per delle pratiche
sicure di BDSM. Alcune attività narrate al suo interno comportano un
rischio significativo di lesioni e danni fisici. Per quanto tutte le scene
sessuali descritte siano fra individui consenzienti, alcune scene presentano
un CNC (consensual non-consent) come gioco di ruolo. Altri kink
includono: umiliazione e degradazione erotica, bondage,
elettrostimolazione, punizioni disciplinari (anche detta disciplina
domestica nel mondo BDSM), impact play (percosse), knife play (giochi
coi coltelli), fluidi corporei (incluso sangue), public play (giochi erotici in
pubblico), pain play (giochi erotici incentrati sul dolore fisico),
voyeurismo e pet play..
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NOTA DELL’AUTRICE
Mia cara lettrice e mio caro lettore,
presumo che, se siete arrivati fino a questo punto, abbiate già esaminato
le avvertenze nella pagina precedente. Se non l’avete fatto e avete dubbi
sui contenuti che potrebbero essere potenzialmente disturbanti, vi
consiglio vivamente di prendervi un momento per tornare indietro e
leggerle.
«Perdenti» è stata una storia magnifica da scrivere, ma mi ha anche
richiesto di riversare molto dolore, trauma e rabbia su queste pagine.
Argomenti come l’omofobia/bifobia, l’abuso e il rifiuto familiare sono
incredibilmente complessi da scrivere per me e capisco quanto possano
essere difficili anche da leggere, specialmente per coloro che hanno
vissuto queste esperienze in prima persona. Anche se ho fatto del mio
meglio per essere scrupolosa nelle mie avvertenze, dato che sono anche io
una persona a cui taluni argomenti danno fastidio, non può essere tutto
racchiuso in un elenco. Se avete domande su un trigger specifico, vi invito
a contattarmi (nota dell’editore: avete la stessa disponibilità da parte
nostra, come sempre, quindi siete sempre le/i benvenut* e, se avete
bisogno di delucidazioni, contattateci pure sul nostro profilo Instagram
:)).
Un’ultima cosa prima di andare avanti. Se questo libro vi ispira a
esplorare il mondo del BDSM e dello scambio di potere, non posso
sottolineare abbastanza l’importanza di fare delle ricerche in ambito
educativo e di saggistica per saperne di più. Molte delle attività kinky
descritte in questo libro comportano un rischio significativo di lesioni
personali, e per quanto tutti noi amiamo la sporcizia nella fiction spicy
(voglio dire… è per questo che state leggendo questo libro, no?), quello
che NON amiamo è che le persone si facciano del male addentrandosi nel
BDSM senza prendersi il tempo per imparare. Quindi siate consapevoli
del rischio, siate responsabile e fate le dovute ricerche per voi stessi e il
vostro o i vostri partner.
E ora… la parte divertente!
Buona lettura!
Harley
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Ai perdenti, i pazzi e gli emarginati.
Continuate a inseguire il sorgere del sole.
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PERDENTI
- Parte I -
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1
Jessica
Liceo – ultimo anno
«Lasciate che metta in chiaro una cosa. L’unico modo in cui Manson
Reed lascerà questa scuola domani è su una barella, intesi?»
Ci furono dei cenni d’assenso da parte dei ragazzi radunati attorno alla
Ford Raptor rossa di Kyle. Il parcheggio era quasi vuoto. Anche la
Mercedes del preside era sparita. Se fosse stato un qualsiasi altro gruppo
di cinque ragazzi a indugiare nel parcheggio dopo l’orario scolastico, la
guardia di sicurezza li avrebbe già mandati via. Ma si trattava del
quarterback, Kyle Baggins, e dei suoi compagni di squadra, e loro non
potevano fare nulla di sbagliato.
Solo che in realtà potevano, lo facevano e lo avrebbero fatto di nuovo.
E quella volta era stata tutta colpa mia.
«È stato solo un bacio, Kyle,» borbottai, sporgendomi dal finestrino del
passeggero. Indossavo la mia divisa da cheerleader e, anche nella frizzante
aria autunnale, avevo la pelle appiccicosa di sudore per l’allenamento.
Avevamo già litigato prima e lui mi aveva fatto così arrabbiare che avevo
sparato l’unica cosa che sapevo gli avrebbe fatto del male.
Avevo baciato Manson Reed, l’emarginato della scuola, il pazzo, il
ragazzo che tutti amavano odiare.
«Stronzate.» Kyle scosse la testa con decisione, le mani aggrappate al
pianale del pick-up come se volessero squarciare il metallo. Aveva la
mascella serrata, le larghe spalle rigide per la tensione. «A meno che tu
non stia cercando di dirmi che ti è piaciuto, Jessica.»
Sbuffai e mi appoggiai allo schienale con le braccia conserte, guardando
dritto davanti a me. Non c’era verso di ragionare con Kyle quando faceva
così. Non osai dirgli la verità.
Mi era piaciuto. L’avevo voluto. Manson non avrebbe mai alzato un dito
su di me se avesse pensato che io fossi contraria. Non mi avrebbe mai
baciata se non l’avessi baciato per prima io.
Ma ammettere quello che avevo fatto – quello che avevamo fatto – era
un suicidio sociale. Mi era sfuggito con Kyle perché ero furiosa per il fatto
che mi aveva mollata per Veronica Mills, solo per tornare un mese dopo.
Quale modo migliore per ferirlo che dirgli che avevo baciato il ragazzo
che non aveva mai smesso di bullizzare sin dal primo anno?
Gli amici di Kyle se ne andarono e lui salì sul pick-up e mise in moto. Il
motore rombava mentre sfrecciavamo lungo la strada, sollevando una
raffica di foglie dietro di noi mentre mi riportava a casa. Stringevo il mio
cellulare così forte che mi facevano male le dita e mi si erano sbiancate le
nocche.
Kyle era la stella della Wickeston High School sul campo di football, il
ragazzo dei sogni, bello e popolare. Mia madre lo adorava e i suoi genitori
pensavano che fossimo destinati a sposarci subito dopo la laurea. L’idea
mi riempiva di terrore. Dietro i suoi occhi azzurri e il sorriso affascinante,
Kyle era capriccioso, geloso e incline ad attacchi di rabbia che ci facevano
urlare uno in faccia all’altra per ore.
Era anche un dannato infedele.
«Gesù Cristo, vuoi smetterla di tenere il broncio?» sbottò, torcendo il
volante con la mano come se volesse strangolarlo. O come se stesse
immaginando di strangolare qualcun altro.
«Non puoi continuare a fare così,» gli feci presente. «Hai diciotto anni.
Hai delle borse di studio. Se finisci con delle accuse di aggressione,
rovinerai tutto quanto.»
«Anche Reed ha diciotto anni, vero?»
Era vero. Era stato il suo compleanno solo un mese prima, l’undici
ottobre. Ma non avevo intenzione di far incazzare ancora di più Kyle
facendogli capire che sapevo quand’era il compleanno di Manson.
Sogghignò davanti al mio silenzio. «Fra l’altro, pensi davvero che
sporgeranno denuncia per lui? Chi lo farà, Jessica? Pensi che la vecchia
signora che ospita quel mostro rimarrebbe mai sobria abbastanza a lungo
da preoccuparsi se è morto in un fosso da qualche parte?» Ridacchiò,
come se fosse la migliore battuta che avesse mai sentito. «Se non dovesse
dare alloggio al proprio figlio bastardo, allora avrebbe più soldi per l’alcol.
A me sembrerebbe una vittoria per lei.»
Il mio stomaco sembrava essere pigiato tra due pugni. Tenni le braccia
conserte in modo che Kyle non le vedesse tremare. Quando allungò la
mano e mi ghermì la gamba, non avrei voluto fare altro che caricare il
pugno e sbatterglielo in faccia.
«Sto cercando di proteggere il tuo onore, Jess,» affermò. «Quel
maniaco pelle e ossa non se la passerà liscia.»
Come se lui sapesse una dannata cosa sull’onore.
***
La mamma era in cucina quando tornai a casa. Il profumo di
parmigiano e aglio aleggiava per la casa. Mi disse qualcosa mentre correvo
su per le scale, ma non avevo il tempo di rispondere. Il tempo stringeva.
Dovevo avvertire Manson.
Non mi presi la briga di fare la doccia: mi limitai a sostituire la mia
divisa nera e argento con un paio di jeans e una felpa col cappuccio. Papà
fece capolino dalla sala da pranzo mentre mi precipitavo giù per le scale,
con la borsa che mi rimbalzava sulla spalla mentre mi dirigevo verso la
porta.
«Perché tanta fretta, raggio di sole?» mi chiese con la fronte corrugata
dalla preoccupazione. «Tua madre ha appena finito di preparare la cena.
Non vuoi unirti a noi?»
«Non posso stasera. Scusa, papà!» gridai sgusciando fuori dalla porta.
«Ho promesso ad Ashley che l’avrei aiutata con un progetto.»
Non ero sicura che avesse avvertito la tensione nella mia voce. Papà non
era mai stato un genitore molto perspicace. Il suo cervello funzionava
meglio con i numeri e dei fogli di calcolo ordinati, laddove tutto aveva un
senso e seguiva una sequenza logica.
La mia BMW aveva ancora quell’odore di macchina nuova, il motore
faceva le fusa mentre volavo lungo le buie strade di campagna. Era stato
un regalo di compleanno dei miei genitori, datomi poco prima dell’inizio
del semestre. Carrozzeria bianca, sedili in pelle rossa. L’auto dei miei
sogni. Un altro status symbol per tenere la testa un po’ più alta quando
attraversavo i corridoi della Wickeston High.
Kyle e io possedevamo quella scuola. Il quarterback stellare e la
capitana delle cheerleader, una coppia formata nel paradiso del
romanticismo. L’invidia e il desiderio ci seguivano come una nuvola. I
detrattori e gli emulatori non riuscivano a tenere i nostri nomi fuori dalle
loro bocche. Ogni giorno c’era un’ennesima ondata di drammi, una
frenesia che alimentava il nostro ego mentre i ragazzi che avevano tutto
spadroneggiavano su coloro che non avevano niente.
Non era che io non ne fossi consapevole. Potevo guardarmi allo
specchio e sottolineare ogni elemento di tossicità che mi portavo dietro,
riderci sopra e andare avanti. Perché preoccuparmi? Perché cambiare?
Avevo tutto ciò che avrei dovuto desiderare.
Ma la nostra storia d’amore celestiale poteva precipitare in un
battibaleno all’inferno. Quando il re e la regina litigavano, dei pedoni
venivano sacrificati.
Non questa volta. Questa volta doveva andare diversamente.
Per prima cosa feci un lento giro di ricognizione davanti alla casa dei
genitori di Manson e diedi una sbirciata al cortile ricoperto di spazzatura
in cerca della sua Bronco con le sospensioni rialzate. Fui contenta di non
trovarcela. Se avvertirlo significava avvicinarsi a quella grande casa
fatiscente e vedere uno dei suoi genitori, non pensavo che sarei stata in
grado di farlo. Suo padre mi faceva venire i brividi.
Speravo che la mia prossima destinazione si sarebbe rivelata quella
giusta. Le mie gomme scricchiolavano tra le erbacce quando accostai
accanto al lotto di terreno vuoto, situato alla fine di una strada sterrata
nascosta dagli alberi. La casa che un tempo occupava il terreno era stata
rasa al suolo da un incendio anni prima, lasciando dietro di sé solo una
struttura carbonizzata e delle fondamenta di cemento. La speranza si
mescolò all’ansia nel mio petto quando adocchiai due veicoli parcheggiati
lì: una Ford Bronco grigio sporco con pneumatici massicci e una El
Camino nera come la notte.
Feci un respiro lungo e lento. La Bronco significava che Manson era lì,
il che era un sollievo. Ma la El Camino comportava che Lucas era con lui,
il che probabilmente voleva dire che c’erano anche Vincent e Jason.
Un’intera banda di pazzi – e io. La ragazza che fino a quel momento li
aveva tormentati di proposito per tutti gli anni di scuola superiore.
Frugai nella borsetta finché non trovai un bastoncino di gomma da
masticare e mi misi a rosicchiarlo ferocemente. Magari mi avrebbe aiutata
a tenere a freno la lingua una volta salita lassù. Non ero in buoni rapporti
con nessuno di quei ragazzi. Era semplice: loro mi odiavano e io li
disprezzavo. Quella era la gerarchia. Sì, avevo pomiciato con Manson e
avevo avuto degli incontri molto ravvicinati con gli altri. Ma quello non
significava che andassimo d’accordo.
D’altro canto, non significava nemmeno che volessi che Manson cadesse
dritto nell’imboscata che gli avrebbero teso l’indomani.
Sbattei la portiera della macchina e infilai le mani nelle tasche della
felpa mentre arrancavo attraverso lo spiazzo ricoperto di vegetazione
verso il retro della struttura bruciata della casa. L’aria notturna sapeva di
fumo di falò e marijuana acida. Mi giunse alle orecchie il clangore degli
skateboard che picchiavano contro il cemento quando girai intorno alla
casa e posai gli occhi sulla piscina vuota in cui i ragazzi amavano pattinare.
I bordi di cemento erano tappezzati di graffiti, e l’area era illuminata solo
dai falò appiccati dentro due grandi bidoni di metallo.
Vincent Volkov fu il primo a scorgermi. Appollaiato sui mattoni grigi di
un vecchio muro, aveva le lunghe gambe incrociate sotto di sé. La canna
che aveva in bocca si abbassò quando mi vide. Non disse nulla mentre il
fumo si arricciava lentamente risalendo dalle sue labbra, avvolgendogli il
viso e i capelli lunghi e disordinati.
Fu Jason Roth a rendere noto il mio arrivo. Era sempre stato quello
tranquillo, il bravo ragazzo. Ma la sua vita era implosa durante l’estate,
quando si era sparsa la voce che lui e Vincent si stessero frequentando.
Non avrebbe dovuto importare a nessuno, ma purtroppo a Wickeston
c’erano un sacco di persone con un bastone nel culo che si indignavano al
solo pensiero che due uomini stessero insieme. Compresa la stessa
famiglia di Jason.
Alcuni sostenevano che i suoi genitori lo avessero cacciato di casa, altri
dicevano che era stato lui a emanciparsi da loro. Indipendentemente da
ciò che era vero, Jason si era presentato all’ultimo anno con i capelli
arruffati e tinti di un azzurro brillante e i lobi delle orecchie dilatati da due
grandi cerchi neri. Il nuovo look sembrava tanto un gigantesco dito medio
alzato a tutti quelli che avevano cercato di farlo vergognare.
«Oh, cazzo!» Gli occhi azzurri di Jason si posarono su di me con un
odio così gelido che non osai fare un altro passo verso la piscina. Aveva il
suo laptop aperto, stava ascoltando ‘Awful Things’ di Lil Peep dagli
altoparlanti che gracchiavano. Ma chiuse la patta di scatto, interrompendo
così la musica. Ci fu uno stridio di ruote in poliuretano e Manson saltò
fuori dalla piscina, con Lucas al seguito.
«Cosa diavolo ci fai qui, Jess?» La voce di Manson era cavernosa: un
brutale baritono, oscuro quanto la fascia nera tatuata intorno alla parte
superiore del suo braccio. Di solito si acconciava i capelli in una cresta per
andare a scuola, ma quella sera i riccioli scuri che teneva sempre in una
lunga striscia in cima alla testa erano sciolti.
«Ti stavo cercando,» spiegai, come se non fosse già ovvio.
Non volevo trattenermi al buio con loro più del necessario. Avevo
potere alla luce del giorno, nelle sale fluorescenti della Wickeston High,
dove il mio status e il sostegno di Kyle davano peso alle mie parole.
Ma quello era il loro territorio. Non ero così sciocca da pensare di
essere a parità di condizioni lì. Specialmente non con Lucas che mi fissava
come se i suoi occhi scuri potessero da soli farmi prendere
spontaneamente fuoco. L’unico sorriso che indossasse mai era lo smile
felice tatuato sotto l’occhio destro. I suoi pugni erano serrati, le mani
segnate dalle risse che lo avevano portato a continue sospensioni e alla fine
all’espulsione dalla scuola.
«Kyle è assetato di sangue, Manson,» sbottai. La sua espressione non
cambiò: aveva un aspetto spettrale alla luce tremolante del fuoco, le
fiamme rendevano le sue guance più scavate e la mascella più tagliente.
«L’ha scoperto.»
«L’ha scoperto o glielo hai detto tu?» Solo il cambiamento nel respiro di
Manson mostrò il suo timore. Sapevo che faccia faceva quando era
spaventato, nervoso, arrabbiato. Il suo armadietto era proprio accanto al
mio e avevo passato abbastanza tempo a provocarlo per sapere come
apparisse su di lui ogni singola emozione.
«Non importa come l’ha scoperto.» Incrociai le braccia, masticando la
gomma più in fretta man mano che il mio nervosismo aumentava. Vincent
saltò giù dal muro, si calò il berretto nero sulla testa e si avvicinò a Jason.
«Domani non venire a scuola. Dagli il tempo di calmarsi.»
Manson fece una risata amara. «No. Non asseconderemo più i capricci
del tuo ragazzo.»
Alzai le mani esasperata. «Stai cadendo in una trappola mortale,
Manson! Vuole farti del male!»
«C’è qualcosa in serbo anche per Kyle,» annunciò Lucas, e la sua voce
mi fece correre un brivido lungo la schiena. «Se pensa di poter toccare il
mio ragazzo…» Scosse lentamente la testa. «Non succederà più.»
«Tu sei letteralmente bandito dal territorio della scuola,» feci notare.
«Cosa pensi di fare?»
Non mi rispose, ma mi rivolse piuttosto uno sguardo che avrebbe
potuto far cagliare il latte. Manson era ossessionante e inquietante coi suoi
modi pacati, ma Lucas era mostruoso. Tutto in lui era stato costruito per
la violenza: il suo corpo asciutto affinato da anni di lotta contro suo padre
e chiunque altro osasse contrastarlo.
Manson ti avrebbe aspettato al buio e non lo avresti mai visto arrivare;
mentre Lucas arrivava in pieno giorno, spaccava le finestre e dava fuoco a
casa tua.
«Bene,» scattai. «Vedetevela per fatti vostri.»
Mi girai per andarmene, lanciandomi i capelli biondi sopra la spalla. Ma
le dita di qualcuno si chiusero attorno al mio braccio e mi tirarono
indietro.
Manson mi attirò contro il suo petto, il suo corpo caldo nella fredda
notte. Puzzava di sigarette e qualcosa di profondo e cupo, un enigma di
ormoni e rabbia. L’ardore schizzò dalla bocca del mio stomaco fino alle
mie guance.
Quando lo avevo baciato, avevo avvertito il sapore di gomma da
masticare alla menta e tabacco. Mi aveva trasmesso una sensazione di
corruzione, come un peccato. Mi aveva messo una mano intorno alla gola
e me l’aveva stretta durante il bacio, e da allora non ero più riuscita a
scrollarmi di dosso quella percezione delle sue dita che mi affondavano
nella carne.
Volevo provarla di nuovo, provarla con più veemenza. Volevo
strappargli via la sua cattiveria e assorbirla tutta io. Volevo cavalcare
quell’uomo come se fosse un dannato ottovolante e poi portare anche i
suoi amici a fare un giro.
Ma una ragazza come me non doveva stare con ragazzi come loro.
«Cosa gli hai detto?» mormorò Manson. Non c’era rabbia nella sua
voce, ma la sua domanda era appesa a un filo pericolosamente sottile.
Strinsi le labbra. Avevo fatto promettere a lui di non parlarne, ma ero
stata io a tradire il nostro segreto. Tutto per un ridicolo litigio con Kyle.
Scossi la testa. «Non ho mentito.»
«Sei sicura di questo?» Abbassò ancora di più la voce, un sussurro che
lasciò proprio nel mio orecchio quando le sue labbra lo sfiorarono. «Lo
volevi quanto me. Non dire delle cazzo di bugie su di me.»
Mi lasciò andare, e visto che non mi scostai immediatamente, fu lui ad
aumentare lo spazio tra di noi. Il gelo improvviso mi fece rabbrividire e,
senza aggiungere altro, tornai alla macchina. Mi si rizzarono i peli sulla
nuca mentre loro mi guardavano andare via.
Avevo fatto tutto il possibile. L’avevo avvertito, e questo era più di
quanto avrebbe fatto la maggior parte delle persone. Quello che sarebbe
successo d’ora in avanti non sarebbe stato affar mio. Se Manson fosse
stato alla larga come gli avevo detto io, Kyle prima o poi si sarebbe
calmato e si sarebbe lasciato quella storia alle spalle.
Avviai il motore e aumentai il riscaldamento, cercando di scacciare il
freddo alle mani. Potevo ancora sentire il calore di Manson sul mio petto.
Quel pazzo. Quel mostro. Perché riusciva a vivere a scrocco nella mia
testa in quel modo? Tutti loro avrebbero dovuto essere sotto di me, più in
basso della suola sulla mia scarpa. Invece, mi sentivo ossessionata, come se
non riuscissi a fermarmi. Non riuscivo a smettere di guardarli, di
schernirli, di cercarli.
Non riuscivo a smettere di volerli.
«Datti una regolata, Jessica,» bofonchiai, allacciandomi la cintura di
sicurezza. Girai lo sguardo per controllare lo specchietto laterale prima di
innestare la marcia…
E feci uno strillo acuto alla vista di Lucas che incombeva fuori dal mio
finestrino.
«Che diavolo stai facendo?» Abbassai il finestrino, ma capii subito che
era stato un errore. Afferrò l’apertura e fletté le nocche contro l’interno
della mia portiera. «Spostati, Lucas, sul serio.»
«Non dirmi cosa fare.»
La sua voce era più tagliente della lama di un coltello. La mia bocca era
spalancata per lo shock, ma la collera sul suo viso era soffocante.
«Sai di avere esagerato questa volta, Jessica. Sai di averlo fatto, cazzo.»
Si chinò e tutto il mio corpo si intirizzì mentre lo fissavo. «Pensavi di
dover avvertire Manson? Che ne dici piuttosto di avvertire quel figlio di
puttana per cui apri le cosce? Avvertilo che la pagherà cara se proverà di
nuovo a fare lo stronzo con uno dei miei ragazzi.» Il suo viso era a un
soffio dal mio, ma non mi stava toccando. Lucas non mi toccava mai. I
suoi occhi da soli erano sufficienti per il modo in cui si trascinavano sulla
mia pelle, duri come denti e unghie. «Se fai lo stronzo con uno di noi, fai
lo stronzo con tutti noi.»
Poi, con un gesto così fulmineo che quasi non mi resi conto di cosa
stesse succedendo, mi tolse la gomma da masticare dalla bocca aperta,
sfiorandomi le labbra con le dita come una scossa elettrica. Se la infilò
nella propria guancia e, con il primo ghigno malvagio che avessi mai visto
sul suo volto terrificante, mi salutò con due dita e si scostò di un passo
dall’auto.
Masticò e fece una bolla che scoppiò con uno schiocco sonoro, prima di
dire: «Vattene, Jessica.»
***
Il terrore mi stava soffocando quando arrivai a scuola la mattina dopo.
Manson non mi rivolse nemmeno un’occhiata mentre infilava i libri nel
suo armadietto, nonostante avessi tentato in tutti i modi di attirare la sua
attenzione.
Alla fine, sibilai: «Manson, vai a casa. Per favore.»
«Risparmiatelo, Jess.» Sbatté l’anta dell’armadietto e si caricò in spalla
lo zaino logoro. La sua cresta era appuntita, una spina dorsale rigida in
cima alla sua testa rasata. Indossava gli stessi jeans strappati che portava
tutti i giorni, gli stessi stivali di pelle con i lacci e lo stesso giubbetto di
jeans. «Non cominciare a comportarti come se ti importasse qualcosa. La
parte della stronza ti si addice meglio.»
Mi voltò le spalle e si avviò lungo il corridoio. Di solito teneva la testa
bassa, le spalle curve: era come un bersaglio più piccolo. Ma c’era
qualcosa di diverso quel giorno. Aveva il mento alzato e le sue lunghe
falcate avevano un che di aggressivo.
Cercare di combattere Kyle avrebbe solo peggiorato le cose.
Tentennai davanti al mio armadietto, il senso di colpa mi rodeva lo
stomaco quando Manson entrò nel bagno degli uomini. Non fa niente, mi
dissi, chiudendo il mio armadietto.
«Ehi, sei un po’ tesa oggi, eh?» La mia migliore amica e collega
cheerleader, Ashley Garcia, si intrufolò fra la folla per venirsi a mettere
accanto a me. «Hai già visto Kyle?»
«No.» Avevo la bocca secca e non sapevo cosa fare con le mani. Dio,
tutto quello stress mi avrebbe fatto scoppiare. «Hai la tua borraccia con
te?»
«Certo, ragazza.» Infilò la mano nella sua borsa e tirò fuori la sua
«borraccia,» una bottiglia d’acqua piena di vodka e soda trasparente. Ne
bevvi un generoso sorso, sperando che mi calmasse i nervi.
Gliela restituii nello stesso momento in cui vidi Kyle avvicinarsi,
affiancato da tre dei suoi amici. Alex, Nate e Matthew facevano tutti parte
del gruppo di atleti e seguivano Kyle come dei cani fedeli. Lo salutai con il
miglior sorriso che potessi sfoderare – il che non era nulla di che. Me lo
sentivo freddo e plastico sul viso. Ma invece di venire con me in classe,
Kyle e due dei suoi ragazzi si diressero in bagno. Nate, un linebacker delle
dimensioni di un orso grizzly, si piazzò fuori con le braccia conserte. Il
messaggio era chiaro.
Vietato l’accesso. Kyle aveva bisogno della sua privacy.
Il cuore mi precipitò nelle scarpe. Dovevo fare qualcosa, dirlo a
qualcuno. Rimediare il preside, un insegnante, la guardia giurata,
chiunque.
E invece rimasi lì.
Qualcuno mi sfiorò il braccio, e Ashley e io ci voltammo per trovare
Vincent in piedi accanto a me. Stiracchiò le braccia sopra la testa con un
gemito pigro prima di infilare le mani nelle tasche anteriori della sua felpa.
«Ah.» Ashley distolse lo sguardo, le labbra arricciate per il disgusto.
«Volkov.»
«Garcia,» rispose lui a tono.
«Uccidi più degli animaletti ultimamente?» lo schernì lei.
«Solo lo scoiattolo di cui ho bevuto il sangue ieri sera a cena.»
«Dio, ma chiudi quella bocca.» Mi girai verso di lui e puntai il braccio
verso il bagno. «Non vai a dargli una mano? O sei troppo fatto per
preoccuparti che il tuo migliore amico tornerà a casa in una bara?»
Vincent ridacchiò. «Pensi che Manson non sappia cavarsela da solo?»
«Penso che sono tre contro uno, imbecille!» Gli diedi uno spintone
contro il braccio, le mie unghie finte rosa gli scavarono nella pelle. «Kyle
non ha mai avuto problemi a batterlo in un faccia a faccia, figuriamoci
insieme ai suoi amici!»
«Come se ti fosse mai importato.» Il sorriso di Vincent non era più così
pigro. Era amaro, congelato sulla sua faccia. «Non credo che questo ti
riguardi più, Jess.»
Qualcuno urlò dall’interno del bagno, seguito da un botto così forte che
mi chiesi se Kyle avesse divelto dai cardini una delle porte di metallo dei
bagni. Gli studenti si guardarono intorno confusi, alcuni si avvicinarono al
bagno, pur tenendosi a distanza da Nate. I cellulari erano sguainati, tutti
ansiosi di registrare l’ultimo dramma.
A nessuno interessava abbastanza da intervenire. Era puro
intrattenimento, solo un’altra opportunità per caricare un bel video di una
rissa e raccogliere visualizzazioni. Se qualcuno si fosse fatto male, ancora
meglio. Delle lesioni avrebbero potuto far diventare un video virale più in
fretta di qualsiasi altra cosa.
La porta del bagno si aprì sbattendo e Nate quasi si tuffò in avanti tra la
calca quando Kyle uscì barcollando. Aveva gli occhi spalancati. La gente si
affrettò a lasciargli il posto mentre ansimava, con un dito puntato con fare
accusatorio verso il bagno, mentre Alex e Matthew gli si accodarono senza
indugio.
«Coltello!» gridò Kyle. «Reed ha un coltello!»
Fu un pandemonio immediato. All’improvviso apparvero gli insegnanti
e cominciarono a urlare agli studenti di andarsene. Si presentarono due
guardie di sicurezza, trafelate e paonazzi in volto, mentre Kyle continuava
a balbettare: «Ha cercato di pugnalarmi! Ha provato a pugnalarmi,
cazzo!»
Mi coprii la bocca per lo shock mentre la folla impetuosa spingeva me,
Vincent e Ashley addosso agli armadietti.
Ashley era senza fiato per l’incredulità. «Santo cielo.»
«Non si sarebbe dovuti arrivare a questo,» commentò Vincent, col volto
cupo e la voce appena percettibile nel caos.
Il mio senso di colpa era come una bestia che stava cercando di
arrampicarsi su per il mio esofago, dimenandosi e rosicchiando. Lo
schiacciai sotto l’orgoglio e la cieca sicurezza di me.
Le guardie di sicurezza emersero dal bagno con Manson in mezzo a
loro. Ognuno di loro lo teneva per un braccio in una morsa ferrea, e lo
guidarono tra la folla mentre gli studenti cercavano di riprenderlo con i
loro telefoni. Manson non stava opponendo alcuna resistenza e non era
ferito, a parte un livido viola sulla guancia e una goccia di sangue che gli
colava dal labbro spaccato. Lo condussero verso l’ufficio del preside,
passando proprio davanti a me.
Manson fece un cenno a Vincent per primo, fra loro passarono delle
parole silenziose. Poi i suoi occhi caddero su di me e le sue labbra si
schiusero per regalarmi un ampio sorriso insanguinato.
Era ferale: il ghigno di una bestia. Selvaggio, spericolato e, infine,
vittorioso.
OceanofPDF.com
2
Jessica
La mattina dopo la sfida…
Cambia tutto dopo il liceo. Tutto.
Ormai sei un’adulta – o almeno così dice la gente. È ora di farti un’idea
chiara su tutto. La vita, l’amore, la carriera. Ci si aspetta che tu abbia un
progetto. Il resto della tua vita ti sta aspettando.
E invece tu annaspi, sopraffatta e impreparata, nelle acque sempre più
mosse dell’età adulta, mentre il tempo scorre via. Come diavolo avrei
potuto pianificare il resto della mia vita se era appena iniziata? Stavo
dubitando della persona che credevo di essere, mettevo in discussione
tutte le decisioni e i sogni che avevo fatto in precedenza.
Ero cambiata. Non mi conoscevo così come pensavo.
Fissavo il mio riflesso nello specchio graffiato del bagno della tavola
calda, usando una salvietta per il trucco presa dalla mia borsa per pulire il
mascara sbavato. Ma non riuscii a cancellare il succhiotto rosso intenso sul
mio collo. Non fui in grado di togliermi l’odore del sesso dai capelli.
Non avrei mai potuto dimenticare la notte precedente. E non lo volevo
nemmeno.
Mi raddrizzai la coda di cavallo e feci un passo indietro per guardarmi
meglio prima di lasciare il bagno. Avrei dovuto portare un cambio di
vestiti o quantomeno un paio di pantaloni alla festa di Halloween della
sera prima, perché il mio costume da angelo, alla fin fine, non era altro che
lingerie. Almeno la felpa che indossavo era abbastanza lunga da coprirmi
la minigonna.
La felpa odorava di lui, di Manson. Mi ricordava le foglie autunnali, le
giornate nuvolose e i falò.
Che diavolo stavo combinando? Cosa avevo fatto?
Raggiunsi Ashley al nostro tavolo nella sala e fui felice di scoprire che il
nostro cibo era già arrivato. Lei stava mugugnando davanti al suo piatto di
pancake, con la fronte appoggiata su un palmo.
«Non berrò mai più,» annunciò penosamente. Sorrisi e allungai la mano
dall’altra parte del tavolo per accarezzarle la testa e mostrarle il mio
solidale disaccordo. Era la sbornia a parlare. Si sarebbe ubriacata di
nuovo il prossimo fine settimana.
Era strano non condividere i postumi di una sbornia con lei. Ma bere
poco o niente era la cosa meno insolita fra quelle accadute alla festa della
sera prima. E la parte più curiosa non era nemmeno stato vedere Manson
presente alla festa, un anno e diversi mesi dopo che era stato espulso.
Come non era stato così strambo rivedere perfino Jason, Lucas e Vincent
rispetto a quello che era successo dopo.
Quello che avevo fatto – quello che mi ero finalmente concessa di fare –
era così bizzarro che non osavo parlarne.
Forse avevo combinato un casino e la notte precedente era stato un
errore madornale. La gente lo avrebbe scoperto. Non mi avrebbe mai più
guardata allo stesso modo. I video di me che giocavo a quella partita di
obbligo o bevi con Manson avrebbero fatto il giro dei social media. Ma
quello che mi spaventava sul serio era ciò che era successo dopo la partita,
ciò che era successo nell’oscurità.
Mi ero persa nella lussuria che non aveva fatto che crescere da quando
quegli uomini erano entrati nella mia vita per la prima volta.
Non mi sentivo la stessa persona del giorno precedente. Mi sentivo
fasulla, come se fossi stata lasciata cadere nel corpo di un manichino e
avessi dimenticato quale posa dover tenere.
Non sapevo più cosa diavolo volevo.
A parte il grande piatto di biscotti e salsa davanti a me. Quello lo volevo
all’istante nel mio stomaco.
«Ragazza, cos’è successo anche ieri sera?» Ashley mi occhieggiava
leggermente accigliata. «Hai accettato quella strana sfida di Manson e poi
sei scomparsa. Avete, ehm…» Schiuse le labbra con un sorrisetto.
Nemmeno i postumi di una sbornia l’avrebbero fermata dal farsi
raccontare l’intera storia. «Finalmente avete scopato?»
«Finalmente?» La mia voce squittì. «In che senso finalmente?»
Alzò gli occhi al cielo. «Oh, andiamo. Ci arrivo pure io, okay?
Quell’uomo è strano e pericoloso. Ha tutta quell’aria da cattivo ragazzo,
non trovi? È piuttosto divertente.» Infilzò un boccone di pancake con la
forchetta e lo passò sullo sciroppo nel piatto. «A proposito, ho incontrato
Jennifer alla festa. Ha detto che Vincent e Jason, e… ehm…» Schioccò le
dita come se stesse cercando di ricordare.
«Lucas,» suggerii con un filo di voce, e lei batté le mani.
«Esatto! Lucas Bent. Mi ha riferito di averli visti tutti quanti ieri sera.
Erano tutti vestiti da clown, quegli strambi del cazzo. Io non li ho visti.
Non riesco a credere che siano stati invitati.» Il suo pezzetto di pancake
era totalmente imbevuto a quel punto. Mi riempii la bocca di biscotti e
salsa country alla besciamella in un ultimo tentativo disperato di
guadagnare tempo. «In compenso, mi ha detto di averti vista con loro.»
Il biscotto sembrava colla nella mia bocca. Lo ingoiai lentamente. «Già,
ehm…» Feci un’altra pausa. Bevvi un sorso di spremuta d’arancia. «Sono
amici di Manson.» Informazione inutile. Lo sapeva già.
«Esaaaatto.» I suoi occhi erano inchiodati su di me. Lo sciroppo prese a
gocciolare dal suo pancake e a finire sulla tovaglia da quattro soldi della
tavola calda. «Amici intimi, da quello che ho sentito.»
«Molto intimi,» mormorai e me ne pentii all’istante, non appena lei
inspirò bruscamente. «Ascolta, cambiamo argomento, okay?»
«Oh, Jess, andiamo! Voglio sapere! È stata solo un’avventura di una
notte, giusto? Non è che…» Sghignazzò, come se quello che stava per dire
fosse totalmente ridicolo. «Non è che vi frequenterete, dico bene? Ma te lo
immagini? Penso che a tua mamma verrebbe letteralmente un infarto.»
Scoppiò a ridere, e io cercai di unirmi a lei.
Mi vibrò il cellulare, e il mio cuore si lanciò in picchiata verso le mie
scarpe quando lessi il suo nome spuntare sullo schermo. Manson Reed.
Ashley picchiettò più volte con la forchetta sul piatto e io raccattai al
volo il telefono.
Manson: Che ne dici di una colazione sabato prossimo? C’era scritto sul
messaggio. Possiamo anche stare da soli noi due, ma penso che ai ragazzi
non dispiacerebbe un’occasione di conoscerti meglio in un contesto più
appropriato. Possiamo fare due chiacchiere su tutte quelle follie.
Deglutii con fatica. Mi pulsava la testa, e non per i postumi di una
sbornia. Ashley mi stava puntando come un falco.
«Allooooora,» disse con tono strascinato, quando io cliccai il pulsante
per spegnere il mio schermo e misi via il cellulare. «Era lui? Ti ha già
mandato un messaggio così in fretta? È passato quanto… un’ora da
quando ce ne siamo andate da quella casa?» Ridacchiò. «Il ragazzo col
coltello sembra un tantino ossessionato.»
«Non era lui,» mi affrettai a rispondere. «Era mia madre. Dubito che lo
risentirò di nuovo.» Staccai un altro boccone di biscotto, e poi continuai a
sbriciolarlo. Pezzo dopo pezzo, decimando il biscotto e facendolo
annegare nella salsa. «È stata una cosa di una notte. Solo per divertirci un
po’. Non è che dovremo mai funzionare come coppia.»
Lei annuì, le mie parole sdegnose finalmente smorzarono il suo
interesse. Lo status quo rimaneva inalterato. Manson, Lucas, Vincent e
Jason esistevano nel loro mondo, e io restavo nel mio.
Non avrebbe mai funzionato. Non avrebbe mai potuto funzionare. Mia
mamma avrebbe dato di matto. Mio padre non avrebbe mai capito. I miei
amici si sarebbero convinti che avevo perso il senno.
Non c’era altro che lussuria lì, e quello che era successo alla festa era
proprio il risultato di quello.
Non importava che non mi fossi mai sentita così libera, così
sfrenatamente viva come la notte precedente. Affidare me stessa a quei
ragazzi alla ricerca del piacere aveva destato una parte di me che non
avevo nemmeno idea esistesse.
Dio, mi ero lasciata perfino scivolare dalla lingua la parola «padrone»
quando avevo salutato Manson.
Pensare a loro mi faceva battere all’impazzata il cuore e sudare i palmi
delle mani, come se ogni centimetro di me sentisse la nostalgia della loro
presenza, del più soave dei tocchi, dell’esperienza mozzafiato di essere
circondata da quattro uomini al buio, con tutta la loro attenzione rivolta
su nient’altro che me.
Ero stata sfidata a fare un mucchio di cose la notte precedente, ma
quella mattina la mia audacia era svanita. Avevo anni di college davanti a
me e una reputazione da mantenere.
Quello che era successo nelle tenebre lì sarebbe dovuto rimanere.
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3
Manson
Presente – 2 anni, 8 mesi dopo
Mi svegliai con addosso la sensazione come se il mondo mi stesse
crollando addosso.
Mi stava martellando il cuore, l’adrenalina mi pompava nelle vene.
Avevo i polpastrelli gelidi e formicolanti, ma tutti quei sintomi mi erano
familiari. Forse un’asse del pavimento aveva scricchiolato e aveva
scatenato un vecchio ricordo, o forse uno dei ragazzi aveva alzato la voce e
il mio cervello si era aggrappato al potenziale pericolo. Qualunque cosa
fosse stata, l’ansia mi aveva strappato dal sonno.
Stavo sognando, e anche se raramente ricordavo i miei sogni, quello era
fresco nella mia mente. Era davvero un ricordo, dissotterrato dai recessi
del mio cervello e riprodotto come un nastro VHS di un’infanzia di
merda.
Avevo sognato di stare seduto contro il muro di fondo della Wickeston
High, tra i cassonetti. Riuscivo a sentire l’odore del cibo marcio e c’era
qualcosa di appiccicoso sotto la mia mano, schiacciata contro il cemento.
Mi faceva male la pancia, il mio diaframma si muoveva a spasmi, mi
tenevo un braccio intorno allo stomaco mentre trattenevo la voglia di
vomitare. Essere preso a pugni nello stomaco era sempre una brutta
esperienza, ma Kyle era in grado di dare delle botte particolarmente forti,
anche nei sogni.
Ma lui e i suoi amici erano passati in secondo piano; la loro presenza
non aveva alcuna rilevanza per me. Non mi curavo di loro, né del dolore
che mi causavano. Mi importava solo di lei.
Jessica era in piedi sopra di me, con le braccia conserte e le gambe che
sembravano lunghe un milione di chilometri con i tacchi e una gonna
scozzese attillata. I suoi capelli biondi erano così lunghi che le sfioravano
la vita, e immaginai di avvolgerli intorno alla mia mano per tirarle indietro
la testa e sentirla gemere.
Pensava che Kyle fosse straordinario perché poteva prendermi in giro?
Questo la eccitava? La emozionava? Avrei voluto sapere cosa stava
succedendo dietro quegli occhi verde brillante.
Nel mio sogno, stava sopra di me con la mano appoggiata al muro sopra
la mia testa. Sussurrò: «Non lasciare che un perdente dimentichi il
proprio posto.»
Già. Il mio posto era lì, per terra, a fissare la donna che non potevo
avere. Era così fottutamente bella. Spietatamente perfetta. Lo scherzo più
crudele che la vita mi avesse mai giocato.
Avrei preferito non svegliarmi. Avrei voluto indugiare in quella fantasia.
Tutto quello che mi restava di quella donna erano ricordi strazianti e sogni
sfrenati.
Con un sospiro pesante, mi misi a sedere sul letto e mi passai una mano
sulla faccia. Il sole non era che un bagliore nebbioso che filtrava dalle
persiane di metallo che coprivano la mia finestra. Presi il telefono e
gemetti quando lessi l’ora. Era perfino più tardi di quanto pensassi.
Tolsi dal comodino i fazzoletti usati della notte precedente e presi il
flacone di lozione per portarlo in bagno. Ma la mia vera vergogna era il
tessuto sgualcito accanto ai fazzoletti: un perizoma di pizzo indurito dallo
sperma perché lo avevo usato per masturbarmi, di nuovo.
Era di Jessica. L’avrei lavato nel lavandino più tardi: non lo avrei mai
messo nei panni sporchi normali, rischiando che uno dei ragazzi lo
trovasse. Non lo avrei mai riavuto indietro.
Faceva già troppo caldo, l’aria era appiccicosa per l’umidità mentre
arrancavo verso il bagno. Mi spruzzai dell’acqua fredda sul viso e mi
scostai i capelli meglio che potevo. Stavano diventando troppo lunghi:
avevo bisogno di un taglio. Il mondo fu un po’ più chiaro una volta che
misi le lenti a contatto, abbastanza nitido da permettermi di afferrare la
mia boccetta di pillole dallo scaffale e ingoiarne due.
Dopo più o meno tre quarti d’ora, forse un’ora, la sensazione di
oppressione al petto si sarebbe addolcita come burro sciolto. Avrei potuto
riprendere a respirare. Avrei riavuto il controllo.
Riempii il mio diffusore e lo accesi prima di uscire. Camomilla, lavanda
e limone si diffusero nell’aria in una lieve foschia, coprendo il vecchio
odore stantio delle sigarette che era rimasto attaccato alle pareti. Kathryn
Peters, la mia ex assistente sociale, mi aveva suggerito di provare
l’aromaterapia nel periodo in cui avevo convissuto con la sua famiglia, e
quell’abitudine mi era rimasta. Senza Kathy, sarei finito per strada.
L’ennesimo ragazzo in libertà vigilata che avrebbe finito per perdersi.
Invece, mi diede un posto sicuro dove stare finché non ebbi una casa tutta
mia.
La chiamavo ancora spesso per chiacchierare, e mi ero affezionato
anche al loro figlio Daniel. Ma Daniel era andato a vivere all’estero,
quindi, quando mi ero trasferito, Kathy e suo marito James avevano
venduto la loro casa a Wickeston e avevano iniziato a viaggiare. L’ultima
volta che mi aveva telefonato era in crociera, diretta verso la costa
dell’Alaska.
Mi appuntai mentalmente di mandarle un messaggio quel giorno stesso.
Non erano molte le persone al di fuori della mia famiglia a cui mi
consideravo legato, ma Kathy mi aveva salvato la vita. Non lo avrei mai
dimenticato.
La stanza più vicina alla mia era quella di Lucas, ma la porta era aperta
e il suo letto in disordine era vuoto. Probabilmente era in officina a
lavorare ed era già incazzato che io fossi rimasto a dormire. La stanza di
Vincent era in soffitta e quella di Jason più in fondo al corridoio, anche se
comunque passava la maggior parte delle notti nella stanza di Vince. La
casa era abbastanza grande per tutti noi e c’era perfino una camera da
letto in avanzo, ma quella stanza extra rimaneva sempre chiusa a chiave.
Oramai era usata come un deposito, niente di più. Nessun ricordo, nessun
fantasma fra i muri. Solo una stanza.
Se me lo fossi ripetuto abbastanza, alla fine sarebbe diventato vero.
Fui accolto dall’aroma di cibo fritto e di erba mentre scendevo le scale
verso la cucina. Jason era ai fornelli, stava friggendo delle polpette di
salsiccia mentre la mia pitbull, Jojo, spingeva pretenziosa il suo muso
grigio e umido contro la sua gamba. La doccia in fondo al corridoio era in
funzione, e Vincent stava cantando a squarciagola dall’interno.
«Accidenti, ce ne hai messo di tempo per trascinare il tuo culo
quaggiù.» Jason mi lanciò un’occhiata quando entrai, aveva i capelli
azzurri umidi e arruffati e un asciugamano attorno alle spalle. «Hai fame?
Non lasciarti ingannare da quell’accattona. Le ho già dato da mangiare.»
«Qualcosa sotto i denti la metterei.» Mi lasciai cadere su una delle sedie
spaiate attorno al tavolo mentre Jason tirava fuori le salsicce dalla padella.
Jojo decise che ero un bersaglio migliore per implorare e mi venne
incontro scodinzolando con tanta di quella foga che si frustava i fianchi a
ogni colpo. Le presi la grossa testa tra le mani e la scossi avanti e indietro
in una piccola danza che la fece uggiolare eccitata mentre cercava di
leccarmi la faccia. Non avevo fame, per niente, ma se non avessi mangiato,
mi sarebbero venuti quei dannati tremori nel giro di poche ore.
«Anche pane tostato e uova?» chiese Jason con la mano sospesa accanto
alla porta del frigorifero.
«Per favore.»
Si fermò lo scroscio della doccia e Vincent uscì cantando a un volume
fastidiosamente alto, e completamente nudo. I suoi capelli lunghi
sgocciolavano sul pavimento, sgraffignò una salsiccia dal piatto e ne diede
un morso prima di salire le scale gridando: «Dio, Manson, mettiti una
maglietta! Non puoi andartene in giro mezzo nudo!»
«Lucas ti ha già scritto?» domandò Jason. Mi fece scivolare un piatto di
cibo davanti e si accomodò dall’altra parte del tavolo. Scossi la testa,
annaffiando le mie uova di salsa piccante prima di avventarmici sopra.
«Stamattina se la passava particolarmente male. È incazzato come non
mai.»
«Ci parlo io,» dichiarai. Jojo spinse il muso contro il mio fianco,
accompagnandolo a un guaito ingordo, e le feci scivolare un pezzo di
salsiccia sotto il tavolo. «Siamo rimasti in piedi fino a tardi all’officina.
Quella Ford era molto peggio di quanto pensassimo. C’era della poltiglia
nel motore densa come della cazzo di melassa.»
Jason fece una faccia disgustata. Lui lavorava come programmatore, ma
trascorreva abbastanza tempo libero nell’autofficina per sapere come
muoversi, e dava una mano quando Lucas e io eravamo troppo sommersi
dalle riparazioni.
«Ancora pochi mesi e la musica cambierà,» commentò. «Niente più
macchine di merda una volta che avrete allestito la prossima officina.»
Annuii in segno d’accordo. Mancavano solo pochi mesi per poter
mettere in vendita questa vecchia casa e andarcene da Wickeston. Una
volta trasferiti, Lucas e io avevamo in progetto di mettere su il nostro
prossimo negozio come una vera e propria officina di tuning. Ero molto
orgoglioso del mio lavoro e non potevo accontentarmi di fare
semplicemente l’ennesimo meccanico di zona. Basta perdere tempo con la
trasmissione della macchina di nonna che slitta o con il motore ingolfato
dello zio Pete. Volevamo farci conoscere per ciò che amavamo: costruire
auto veloci che potessero annientare la concorrenza a colpo sicuro.
Per quanto difficile fosse mangiare, il cibo mi placò lo stomaco.
Sparecchiai quando Vincent tornò al piano di sotto, finalmente vestito da
capo a piedi. Si sedette accanto a Jason con un ghigno sulla faccia.
«Stamattina ti manca qualcosa, J?» gli chiese.
Jason gli rivolse una lunga occhiata. «Probabilmente.»
«Qualcosa tipo il tuo accendino, magari?»
Jason scosse la testa con un sospiro. «Lasciami indovinare… è dietro il
mio orecchio?»
Vincent aprì la bocca con uno shock esagerato, compiendo il suo trucco
di magia preferito e tirando fuori l’accendino dall’orecchio di Jason.
«Dannazione, J, perché ti tieni l’accendino dentro l’orecchio?» Jason
mugugnò, e io nascosi il mio sorriso dietro l’ultimo boccone di pane
tostato.
Mentre stavo poggiando il piatto nel lavandino, la porta d’ingresso si
aprì con un cigolio e Lucas fece capolino. «Manson. Devo parlarti.»
«Ehi, almeno fai un po’ di colazione!» esclamò Jason, ma Lucas si ritirò
con la stessa velocità con cui era spuntato. Lanciai un’occhiata a Vincent,
che scosse la testa.
«È in grandissima forma oggi,» commentò.
«Lo calmo io,» assicurai. «Vado a vedere che succede.»
Uscii di casa e strizzai gli occhi per la luce accecante del sole. La
proprietà era spaziosa, per la maggior parte coperta di alberi ed erbacce.
Avevamo ripulito il cortile frontale quando ci eravamo trasferiti, avevamo
caricato e portato via tutta la spazzatura e aggiustato il grosso garage di
metallo costruito su un lato della proprietà. Il garage fungeva ora da
nostra officina. Le pareti esterne erano state tutte dipinte da Vincent. I
miei avevano lasciato andare questo posto in rovina finché ne erano stati
loro i proprietari, ma io lo avevo ereditato poco più di un anno prima e
avevo già fatto più lavori di ristrutturazione in quel posto di quanti ne
avesse fatti mio padre in tutti gli anni in cui ci aveva vissuto.
Non avevo idea di dove fosse mio padre al momento. Quando mamma
era morta, l’anno precedente, lui si era fatto vivo solo per fare una scenata
riguardo il testamento e poi era sparito di nuovo nel nulla. Per quanto ne
sapevo io, era morto anche mio padre, e tanti saluti.
Lucas stava camminando avanti e indietro per il cortile e stava
fumando, con un profondo cipiglio impresso sul volto. Aveva le mani
sporche per aver lavorato all’officina, screziate di olio e sudiciume.
L’officina era gestita da noi due, e ci lavoravamo sette giorni su sette, a
volte ventiquattr’ore al giorno, quando eravamo molto impegnati.
L’altro nostro cane, un piccolo meticcio dal naso camuso che Vincent
aveva chiamato Haribo, era sdraiato lì vicino con la testa appoggiata tra le
zampe. Quando scesi dal portico, il cane mi lanciò un’occhiata che diceva
chiaramente: questo tizio mi sta stressando.
O quantomeno fu chiaro a me che era quello che intendeva Haribo.
Lucas probabilmente non sarebbe stato d’accordo con la mia
interpretazione.
«Sapevi che Alex McAllister andrà a quella festa la prossima
settimana?» La voce di Lucas era bassa… Ogni muscolo della sua gola era
teso per lo sforzo di controllarne il volume.
Il mio cervello impiegò un secondo per raccapezzarsi su quello che
Lucas aveva appena detto. «Intendi al falò? Quello che ci sarà il quattro?»
«Sì, al fottuto falò.» Tirò una lunga boccata dalla sua sigaretta, il suo
corpo era una massa rigida di energia nervosa.
Lo conoscevo da anni, ed era sempre stato così. Veloce ad adirarsi,
lento a perdonare, lunatico come non mai. O era abbastanza eccitato da
scopare giorno e notte, oppure era così chiuso in sé stesso che non voleva
nemmeno farsi toccare.
Ma noi due ci capivamo in un modo in cui nessun altro avrebbe potuto.
Ci eravamo legati mediante il trauma, ci eravamo aggrappati l’uno all’altro
quando sembrava che lo sconforto della nostra adolescenza non avrebbe
mai avuto fine. Era un legame che non si sarebbe mai spezzato.
Noi quattro avevamo scelto di costruire le nostre vite insieme, e questo
significava avere a che fare l’uno con l’altro anche nei momenti peggiori.
«Non ho chiesto di Alex,» commentai, ricordando il cazzone che mi
aveva dato un pugno in faccia poco prima che minacciassi di tagliargli la
gola da un orecchio all’altro. Non c’era niente di paragonabile a essere
vittima di bullismo fino a quando non eri pronto a uccidere qualcuno. Ma
non avrei mai dimenticato la velocità con cui l’espressione di quel pezzo di
merda era passata da compiaciuta a terrorizzata quando si era reso conto
che avrei reagito. «Ho immaginato che sarebbe venuto, però.
Considerando che è un giorno di festa, dubitavo che se ne sarebbe rimasto
a casa. Accidenti, per quanto ne so potrebbe presentarsi pure Kyle.»
«E non ti darebbe fastidio?» Lucas spense la sigaretta sotto lo stivale.
«Non ti seccherebbe vedere la faccia di quello stronzo, dopo che ti ha
fatto questo…» Mi picchiettò la mascella con le nocche, proprio dove era
rimasta una cicatrice. «… e questo?» Un altro colpetto, un’altra cicatrice,
e il suo atteggiamento stava cominciando a farmi alzare la pressione
sanguigna.
Se qualche anno prima mi avesse toccato la faccia in quel modo, l’avrei
picchiato senza pensarci. Era già successo in passato, perché Lucas non
aveva il controllo dei propri impulsi quando era in quello stato, e io non
avevo il controllo su quei picchi che portano le persone a reagire con la
lotta o la fuga – e che nel mio caso tendevano immancabilmente alla lotta.
Ero migliorato, mi ero imposto di correggermi. Pillole, meditazione,
terapia, qualunque cosa servisse. Non ero disposto a continuare il ciclo in
cui mio padre mi aveva tirato dentro.
«Lucas, devi calmarti.» Mi infilai le mani in tasca per tenerle a freno.
«Sei a un livello dieci in questo momento, amico. Devi abbassarlo.
Altrimenti non posso parlarti.»
Sbuffò un soffio d’aria furioso, continuando a camminare avanti e
indietro, poi si passò la mano sui capelli arruffati. Dopo un momento, si
fermò e fece un altro respiro profondo.
«Giusto, giusto, scusa,» mormorò. «Mi dispiace, Manson, sai, io… sai
che mi dispiace.»
Rimase in silenzio, concedendosi qualche istante per rimettere in ordine
i propri pensieri. Haribo venne a sedersi accanto al mio piede, e io mi
chinai per grattargli le orecchie.
«C’è un sacco di gente in questa città che neanche a me fa piacere
vedere,» affermai. «Ma ci andremo tutti. Chi verrà a fare lo stronzo con
tutti noi insieme?»
«Qualche stronzo che non sa cos’è meglio per lui, probabilmente.»
Scosse la testa, ma la tensione era svanita dal suo viso.
«Allora, verrai lo stesso?» gli chiesi. Mi rivolse un’occhiata incerta e
fece una smorfia. «Dai, so che non ti va di restare a casa a tenere il muso.»
Mi diede una spallata con una risata. «Va bene, va bene. Ci vengo. Ma
non garantisco che mi comporterò bene. Pensi di portare il tuo culo a
lavorare a breve o che?»
«Sì, sì, sto arrivando. Vado un attimo a recuperare la posta di ieri.
Qualche testa di cazzo ce l’ha rubata di nuovo.» Si limitò a salutarmi
agitando un braccio da sopra la spalla, già di ritorno al garage.
Davanti alla nostra casa passava una stradina sterrata ombreggiata da
alberi di noce. La percorsi fino alla strada principale, la Route 15,
asciugandomi il sudore dalla fronte. Non vedevo l’ora che finisse l’estate:
non ero fatto per quel caldo. Non aspettavo altro che arrivassero le
giornate autunnali, più fresche e asciutte.
«Maledizione,» bofonchiai quando trovai la cassetta della posta
rovesciata su un fianco, il palo di legno scheggiato a metà, la scatola di
metallo maciullata. Sembrava che qualcuno ci si fosse schiantato contro
con un camion, probabilmente apposta.
«Figli di puttana.» Raccolsi la cassetta delle lettere dalle erbacce e
l’appoggiai su ciò che restava del suo palo. L’ennesima cosa che avremmo
dovuto trovare il tempo di aggiustare. Spalancai la porticina, spaccandola
nel processo, e la gettai via. Anche la posta era sparita. Fantastico.
Un’altra bella giornata nella splendida e accogliente Wickeston.
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4
Jessica
Fare ritorno nella mia città natale era strano, specialmente
considerando che non avrei mai pensato di tornare a viverci. Wickeston si
era autoproclamata «un angolino affascinante del Tennessee occidentale,»
ma ora che stavo guidando nel centro città, facevo davvero fatica a
cogliere questo fascino. Qualche grazioso edifico storico e dei bar ispirati
agli anni ‘50 non cambiavano il fatto che quel posto era una noia mortale.
Avevamo alcuni grandi magazzini e catene di ristoranti, ma niente
rispetto alla pletora di opzioni che avevo avuto durante la mia permanenza
a Nashville negli ultimi due anni. La maggior parte della gente lì era così
dannatamente annoiata che si divertiva a ficcare il naso negli affari di tutti
gli altri.
Come mia madre, per esempio. Ero in città solo da una settimana e lei
aveva concentrato tutta la sua attenzione sulla mia vita amorosa, con un
solo cruccio in mente: perché diavolo ero ancora single? Non importavano
il lavoro, disfare le valigie, non dovevo nemmeno pensarci a prendere fiato
dopo aver attraversato metà dello stato. Dovevo categoricamente tornare
là fuori e conoscere un potenziale marito, a prescindere da tutti gli eventi
di volontariato che mia madre mi avrebbe dovuto imporre per riuscirci.
Era come essere tornata al liceo. Mamma aveva ricominciato a dettare i
ritmi di tutta la mia vita sulla base del suo programma perfettamente
scandito e, stando a sentire lei, ero in ritardo. Avevo sprecato tutto il mio
tempo a ricevere un’istruzione quando avrei dovuto perseguire la mia vera
vocazione di diventare una moglie trofeo e produttrice di nipoti il più
rapidamente possibile.
Non che potessi dire di no a mamma. Sua la casa, sue le regole.
Era una giornata afosa e umida quando entrai nel parcheggio della sua
chiesa. Non partecipavo a una funzione da quasi dodici anni, ma per lei
era irrilevante. Il suo gruppo religioso aveva organizzato una raccolta
fondi mediante il lavaggio delle automobili per l’imminente Festival del 4
luglio, e quando arrivai si stava già formando una fila di macchine.
Dio, quello mi avrebbe lasciato addosso gli orribili segni
dell’abbronzatura. La mamma aveva insistito perché indossassi un
abbigliamento «pudico» – nello specifico, «niente top troppo scollati e
pantaloncini da sgualdrina.»
Beh, era esattamente quello che avevo addosso. Un top scollato e
deliziosi pantaloncini di jeans sfilacciati. A essere sinceri, erano gli shorts
più lunghi che avessi, e mi coprivano tutto il culo. Per un pelo.
Onestamente, mamma doveva essere grata che avessi messo una maglietta
bianca invece di indossare solo il pezzo di sopra del bikini che avevo sotto.
Purtroppo, sembrò tutt’altro che grata quando le andai incontro sotto il
baldacchino che proteggeva i volontari dal sole.
«Dovrei rispedirti a casa,» borbottò, tirando l’orlo dei miei
pantaloncini. I suoi lunghi capelli erano raccolti in un grande mucchio di
ciocche bionde ondulate, perfette come sempre nonostante l’umido. Del
resto, si spruzzava tanta di quella lacca per capelli da resistere a un
tornado. «E sei in ritardo. Ti avevo detto di essere qui alle dieci.»
«Stavo lavorando, mamma.» Sospirai, tirai fuori una bottiglietta
d’acqua dal frigorifero e me la passai sul collo. Fece un gesto sprezzante
con la mano.
«Quel misero tirocinio sta occupando così tanto del tuo tempo,»
commentò. «E a stento ti pagano. Stai diventando così pallida stando al
chiuso tutto il giorno.»
Resistetti all’impulso di coprirmi il viso con le mani e urlare. Il mio
«misero tirocinio» era presso lo studio di progettazione architettonica
Smith-Davies, uno dei migliori della costa orientale. Passavo le mie
mattinate in palestra prima di tornare a casa e mettermi al lavoro, che
consisteva nel compilare fogli di calcolo e rispondere alle e-mail del mio
capo. Era tutto lavoro a distanza e non fruttava molto, ma quantomeno mi
stava permettendo di entrare nella società, seppure dal basso. Se fossi
riuscita a superare l’esame di valutazione alla fine del semestre, avevo
buone possibilità di trasformare quello stage part-time in un lavoro a
tempo pieno.
Dovevo fare qualcosa per tirarmi di nuovo fuori da Wickeston. L’ufficio
principale della Smith-Davies era a New York City e, se fossi stata assunta
a tempo pieno, mi sarei trasferita lì in un batter d’occhio.
Avevo cercato di spiegarlo alla mamma, ma le era entrato da un
orecchio e le era uscito dall’altro. Scorse qualcuno dall’altra parte del
parcheggio e lo salutò, prima di sporgersi verso di me per dire a voce
troppo alta: «Oh, ma guarda! Quello è il figlio maggiore di Julie. Te lo
ricordi, vero? Robert.»
«Non lo vedo letteralmente dalla prima elementare,» replicai, fissando il
ragazzo alto e vagamente familiare che stava aiutando a dirigere i ragazzi
più giovani alle prese con la fila dell’autolavaggio. «Ha vomitato alla mia
festa di compleanno perché ha mangiato la torta troppo in fretta.»
Mamma fece una faccia disgustata. «Mm, è vero. Me l’ero scordato.
Beh, ha un fratello minore. Joshua, penso. Ah, c’è Julie. Lei e suo marito
stanno parlando di nuovo di divorziare, che Dio la benedica. Ciao, Julie!
Tesoro, ma che piacere vederti! Come va la famiglia?» E, con quello,
mamma si allontanò e andò a fare il gioco delle coppie, mentre io mi misi
a lavare le macchine in modo molto seducente.
Non potevo spiegarle il vero motivo per cui ero così poco interessata
alle relazioni amorose. La mia asticella era stata fissata nel peggior modo
possibile, e oramai non mi soddisfacevo con nulla di meno.
Se un ragazzo non era in grado di giocare con il mio masochismo con lo
stesso entusiasmo con cui giocava con il mio piacere, allora non lo volevo.
Il punto era che non c’era un buon modo per dire a mia madre che volevo
un ragazzo che fosse capace di sculacciarmi tanto quanto lo era di
scopare. Un uomo che fosse a proprio agio con fruste e catene come lo era
con le cene a lume di candela. Qualcuno che non avesse paura di
assumere il controllo, ma che non avrebbe fatto sembrare la relazione una
gabbia.
Stavo chiedendo troppo? Probabilmente. Ma avevo preteso troppo per
tutta la mia vita e non avevo intenzione di fermarmi proprio ora.
Il problema era che avevo già trovato delle persone che rispondevano a
quelle qualifiche. Quattro, a dire il vero, ed erano ancora tutte lì a
Wickeston.
Se già spiegare i miei kink a mia madre era un’impresa, affrontare la
questione di quei quattro uomini probabilmente mi avrebbe fatta
diseredare. Dei ragazzi tatuati con una pessima reputazione e dei lievi
precedenti penali non sarebbero mai stati buoni per la sua bambina.
Non importava, comunque. Non avevo parlato di loro con nessuno dal
giorno dopo quella festa di Halloween.
Rivolsi di nuovo lo sguardo a quella tettoia sotto cui mamma stava
cicalando al cellulare, che teneva incastrato fra l’orecchio e la spalla, con
una lista in una mano e un caffelatte freddo nell’altra.
«Ho già detto ad Annamae che il tema rosso, bianco e mirtilli è stato
quello di due anni fa!» esclamò. «Che Dio abbia in gloria il suo cuoricino
privo di fantasia, ma non possiamo ripetere lo stesso tema.»
Mi ero già abbrustolita a sufficienza sotto il sole. Mi tolsi la maglietta e
la lanciai su una delle sedie pieghevoli di plastica nei paraggi. Tutte quelle
belle signore di chiesa avrebbero dovuto convivere con un paio di tette se
volevano che continuassi a strofinare automobili. Feci una pausa per bere
un po’ d’acqua, tracannai mezza bottiglietta gelata e mi versai il resto su
braccia e spalle.
Si fermò un’altra macchina, una Subaru WRX blu con un grosso
alettone sul retro. Il motore rombò, e i finestrini erano talmente oscurati
che riuscii a stento a vedere dentro l’abitacolo.
Era un’auto che non mi era nuova, ma non riuscii a rendermi conto del
perché fino a che non battei le nocche sul finestrino dal lato del guidatore
per farmi dare i soldi.
Il finestrino si abbassò e io mi paralizzai. Mi si bloccò il respiro nei
polmoni e il mio cuore prese a martellare, mentre una sensazione di
clausura mi si gonfiò nel petto sino a tapparmi ermeticamente la gola.
Al posto di guida era seduto Vincent, con una banconota da dieci
dollari piegata fra le dita. Sembrava sorpreso quanto me, i suoi occhi
verde scuro mi fissavano spalancati.
«Jessica?» Jason mi scrutava dal sedile del passeggero, coi capelli
azzurri e arruffati che gli si arricciavano in morbide onde attorno al viso.
Aveva gli occhi del medesimo colore, di una brillantezza ultraterrena.
La mia bocca si spalancò e si richiuse, e solo dopo riuscii a mormorare
strozzata: «Ciao.»
Ciao. E basta: era tutto ciò di cui ero capace. Dannazione, bella figura,
Jessica.
Ma il mio saluto ottenne un sorriso da Vincent. I suoi lunghi capelli
castani erano legati in un bun disordinato, le sue braccia scoperte piene di
tatuaggi. Profumava d’estate: di cedro, erba e decisioni molto sbagliate.
Mi resi all’istante conto di ogni lembo di carne che avevo in mostra per
loro e la mia pelle si infiammò ancora di più.
L’ultima volta che li avevo visti, ero stata in ginocchio a fare i pompini
più terribilmente erotici della mia vita. Imbarazzante non riusciva
nemmeno lontanamente a descrivere la sensazione che mi stava vorticando
dentro, che era per metà panico e per metà eccitazione. Anche se mi
sfuggiva il motivo per cui fossi eccitata.
«Sei tornata in città per una visita?» chiese Vincent. Stava ancora
tenendo la banconota protesa verso di me, ma io non l’avevo presa.
«Sì. Cioè, no. Sono qui per un breve periodo di tempo.» I due si
scambiarono un’occhiata mentre io continuavo a farfugliare. «Non sono
qui per una visita. Mi sono ritrasferita a casa. Ma è una cosa temporanea.»
Dirlo ad alta voce equivaleva ad ammettere la sconfitta. Avevo sognato
di trovare lavoro subito dopo la fine del college, di cominciare la vita in
qualche posto nuovo. Ero tornata al punto di partenza.
«Dannazione, di nuovo a casa con mamma e papà,» commentò Jason,
scuotendo la testa. «Dev’essere strano per te.»
«Strano è un eufemismo,» risposi con un filo di voce. Detestavo
sentirmi come se fossi stata colta alla sprovvista. I miei nervi andavano in
sovraccarico, e quando ero nervosa, diventavo perfida. Spesso era una
vera e propria impresa tenere a freno la mia lingua.
«Ehm, signorina Martin?» mi chiamò uno dei ragazzi del gruppo,
lanciando un’occhiata malcerta alla macchina. «Dobbiamo cominciare a
lavare o…?»
Non avevo ancora preso i soldi di Vincent. Mi allungai per afferrarli, ma
lui li tirò leggermente indietro e mormorò a bassa voce: «Sai, sono un po’
particolare con la mia macchina. Perché non lasci fare ai ragazzi la
prossima e ti occupi personalmente tu di noi?»
Jason sogghignò, fingendo di essere concentrato sul proprio telefono.
Non aveva nemmeno un’app aperta: stava solo cliccando dei pulsanti a
caso sullo schermo. Strappai la banconota di mano a Vincent e me la
infilai nel pezzo di sopra del costume.
«Spegni il motore,» dissi. «E tirate su i finestrini, a meno che non vi
vogliate bagnare.»
«Non mi dispiacerebbe bagnarmi.»
Lo ignorai, raccattai il secchio con l’acqua saponata e la versai sull’auto.
Lui riuscì comunque a tirare su i finestrini in tempo, ma lo vidi lanciarmi
un sorrisetto da dietro il parabrezza. Jason non stava più facendo finta di
guardare il proprio cellulare quando mi chinai sul cofano e mi misi a
strofinare la vernice azzurra accesa con una spugna.
«Voi fate la prossima,» ordinai, mandando via i ragazzi. Avrebbero
potuto prendersi cura del minivan in fila subito dopo.
La WRX era mia.
Jason e Vincent rimasero a fissare quando mi sporsi più in alto che
potevo sul cofano, schiacciando il seno contro il metallo bagnato. Ero una
minuziosa, ma cercai di muovermi in fretta, perché l’ultima cosa che
volevo era che mia madre attaccasse il telefono e cominciasse a sgridarmi
perché non avevo una maglietta addosso. Quando mi spostai dal lato del
passeggero, Jason abbassò il finestrino di un po’ e mi fece presente: «Non
dimenticarti degli pneumatici. Sono parecchio sporchi.»
Strinsi i denti e mi inginocchiai per sfregare i cerchioni neri. Una volta
che ebbi finito, mi sollevai in punta di piedi per arrivare al tettuccio.
Questo mi mise dritta davanti al finestrino di Jason, e sapevo che stava
guardando, ma non mi feci problemi a mettere su un piccolo spettacolo.
Premuta com’ero contro il vetro, sbirciai Vincent allungare una mano,
poggiarla sull’evidente rigonfiamento di Jason e stringerlo.
C’era un caldo insopportabile e stavo sudando come una peccatrice in
chiesa. Era un’allegoria fastidiosamente calzante, considerate le mie
circostanze attuali.
Proprio quando stavo per finire, colsi lo sguardo furioso di mia madre.
Oh, era incazzata e pronta a diventare meschina, specialmente dato che
avevo fatto una scena in perfetto stile Paris Hilton – l’unica cosa che mi
mancava era il panino che sgocciolava. Mi sbrigai a risciacquare l’auto e
bussai al finestrino quando ebbi concluso.
Vincent aveva un ghigno sulla faccia quando lo abbassò.
«Servizio di prima classe,» annunciò, allungandomi un’altra banconota
da dieci dollari. «Di solito evito di dare i soldi alla chiesa, ma tu potresti
farmi diventare un credente.»
«Che ci crediate o no, non sono qui per la chiesa,» ammisi, sistemando
la sua offerta davvero generosa nel mio bikini, accanto all’altra banconota.
Jason spalancò gli occhi in un finto shock. «No? Davvero? Non lo avrei
mai detto.»
Quel rigonfiamento nei suoi pantaloni rappresentava una distrazione
catastrofica.
Feci un passo indietro e Vincent mise in moto: il motore prese vita con
un tale rombo che diverse delle donne sotto la tettoia si lagnarono. Il
modo in cui mi osservò Vincent, soffermandosi con lo sguardo in tutti i
punti giusti, mi fece sentire come se mi stesse togliendo i vestiti di dosso
senza nemmeno toccarmi.
«Ci vediamo in giro, Jess,» mi salutò, e il tono della sua voce fece fare
una ridicola capriola al mio stomaco. Il suo motore scoppiettò nel
momento in cui svoltò sulla strada, e uscì una fugace fiammata dal tubo di
scappamento quando sfrecciò via.
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5
Vincent
L’ultima volta che avevo visto Jessica, era in ginocchio a implorare di
succhiarmi il cazzo. Era un ricordo particolarmente inebriante, il genere
di cose che richiamavo troppo spesso alla memoria come il mio materiale
preferito per farmi le seghe.
Quella festa di Halloween c’era stata quasi tre anni prima. L’universo
tendeva a dare e prendere a proprio piacimento, quindi quando Jess era
scomparsa dopo quella notte, l’avevo preso come un segno.
Semplicemente non doveva essere. Al di là della storia, del desiderio o di
qualunque altra cosa esistesse tra me, i miei amici e lei, il destino aveva
operato nei suoi modi imperscrutabili e ci aveva trascinati in direzioni
opposte.
Di solito me ne facevo una ragione. Quando l’universo scorre, tu fluisci
con esso. Lasci che il destino prenda la propria strada.
Ma dannazione, a volte l’universo mi sorprendeva. A volte i suoi segnali
erano subdoli, a volte ingenti, lampanti e innegabili.
Quel giorno si era presentato uno di quei segni innegabili; me lo
sentivo.
Jess era sempre stata composta, traboccante di fiducia. Il tipo di donna
che poteva metterti in soggezione con un solo sguardo. Ma quel giorno
l’avevo vista irrequieta, incerta, turbata.
Non potevo fare a meno di chiedermi se avesse pensato anche lei a
quella notte come avevamo fatto noi. La perseguitava, in agguato nei
corridoi della sua mente? Usciva fuori quando faceva buio? Lei si toccava
a quel ricordo?
Perché noi lo facevamo. Lo avevamo fatto tutti. Jason avrebbe deriso
l’idea, Lucas l’avrebbe negata con veemenza e Manson avrebbe affermato
che non gli era nemmeno passato per la testa. Ma erano tutti dei bugiardi.
Manson aveva ancora il perizoma di Jessica, anche se era convinto che non
se ne fosse accorto nessuno. Avevo sorpreso Lucas a cercarla sui social
diverse volte.
Il profondo cipiglio sul viso di Jason per il resto della giornata fu la
riprova che non era riuscito a togliersela dalla testa. Diventava tutto
musone e meditabondo quando si trovava di fronte a un problema che
non era in grado di risolvere, e Jess era esattamente questo.
Un dannato problema di cui nessuno di noi riusciva a trovare la quadra.
«Dubito che si tratterrà qui a lungo,» rifletté Manson. Quando gli avevo
raccontato che l’avevamo vista, aveva fatto una faccia come se l’avessi
preso a schiaffi, ma poi aveva sepolto in fretta e furia quell’espressione.
«Se ne andrà di nuovo prima della fine dell’estate.»
Lucas sembrava incazzato, come al solito. «E tanti saluti a lei. Questa
maledetta città non ha bisogno di altre rogne.»
Da che pulpito veniva la predica. Lucas aveva più problemi della rivista
di Playboy.
Ero certo che si sbagliassero. Della roba come quella non accadeva
banalmente per caso: era un segno. C’era un cambiamento nell’aria, un po’
più di calore nella fitta brezza estiva. Le Parche stavano tessendo un
nuovo schema nelle nostre vite, ogni filo ci aggrovigliava e ci tirava un po’
più vicini all’ineluttabile destino.
O forse ci stavo solo rimuginando troppo e mi stavo facendo dei film
nella testa. Ero solo contento di provare un pizzico di eccitazione nel bel
mezzo della depressione estiva. Guardare Jess abbarbicata a tutta la mia
macchina con quei pantaloncini sexy e il pezzo di sopra del costume quasi
non pervenuto mi aveva mandato in pappa il cervello.
A prescindere dal fatto che Jess fosse qui per restare, avevo bisogno di
sfogare un po’ di frustrazione.
Beccai Jason mentre stava uscendo dalla doccia e lo inchiodai contro il
muro in corridoio, con un asciugamano intorno alla vita e i capelli ancora
gocciolanti.
«Oh, cazzo.» Gli si mozzò il respiro quando gli afferrai il cazzo da sopra
l’asciugamano e gli sfiorai il collo coi denti. Presi il suo orecchio tra i
denti, mordendolo piano all’inizio, ma poi più forte, prima di spostare la
bocca sulla sua gola. Le sue braccia si attorcigliarono intorno al mio collo
e mi aggrovigliò le mani tra i capelli, tirandoli quando gli morsi con vigore
la spalla.
«Ho bisogno di te di sopra,» annunciai.
«Un attimo, io…»
Il mio braccio si alzò di scatto e gli afferrai la gola. Premetti la fronte
contro la sua in modo che non potesse evitare il mio sguardo e ringhiai:
«No, adesso.»
Quello gli fece sfoderare un ghigno.
Lo buttai sul letto nell’istante in cui lo feci entrare in soffitta. Gli
montai sopra, e lui mi spinse le mani contro il petto, tentando di opporre
resistenza per mettersi sopra di me. Io ero più alto, ma lui era
indubbiamente più forte di me. Il tempo che passava in palestra gli aveva
assicurato dei muscoli perfetti.
Era perfetto ai miei occhi, ma probabilmente lui si sarebbe ribellato a
quella definizione.
Ma per quanto fosse forzuto, mi permise di inchiodarlo sotto di me.
Aveva bisogno di essere sopraffatto: lo bramava. Voleva essere tenuto giù,
usato e dominato, e che gli venisse risparmiato lo sforzo di essere in una
posizione di supremazia.
Non molto diversamente da Jess. Quei due erano più simili di quanto
lui volesse ammettere.
«Sono ore che tieni il muso,» gli feci presente, lasciando quelle parole
fra dei morsi e dei baci sul suo petto, mentre gli tenevo i polsi bloccati
lungo i fianchi. Fece un respiro brusco quando spostai la bocca più in
basso sul suo addome, tracciando un percorso con la lingua al di sotto del
suo ombelico e poi mordendolo di nuovo. I suoi muscoli erano contratti,
le vene gonfie. Quando tirai via l’asciugamano e lo gettai da parte, il suo
cazzo era già duro. Lungo e venato, con un vistoso rossore quando era
eretto. Mi fece venire l’acquolina in bocca per la voglia di assaggiarlo.
«Non sto tenendo il muso,» borbottò, ma le parole gli morirono sulla
lingua quando lo presi in bocca.
Lo preferivo quando era un po’ sporco, ma anche appena uscito dalla
doccia non era male. I suoi fianchi scattarono quando lo presi in
profondità nella mia gola, crogiolandomi nello sforzo di divorare tutta la
sua lunghezza. Arricciai la lingua lungo la sua erezione, lo tirai fuori dalla
mia bocca e dissi: «Non mi inganni. È tutto il giorno che hai Jess in
mente.»
Si irrigidì, spalancò gli occhi e scosse veemente la testa. «No, non è
vero. Non mi interessa cosa lei… cosa… lei… cazzo…»
Mi sollevai, mi allungai su di lui e gli strinsi con vigore le dita intorno
alla gola, e lui mi artigliò il braccio. Aveva lo smalto nero sull’unghia del
pollice scheggiato per l’ossessività con cui se l’era mangiucchiato. Mi
premetti in mezzo alle sue gambe, costringendolo ad allargarle, e scrutai la
tempesta che stava infuriando in quegli occhi azzurri.
«Non c’è bisogno che me lo tenga nascosto,» affermai nel momento in
cui lui deglutì, facendo oscillare la gola, e il suo cuore martellava sotto il
mio palmo. Gliel’avevo detto una marea di volte e, senza dubbio, glielo
avrei ripetuto molte altre. «Hai avuto pensieri sporchi, peccaminosi e
perversi su di lei, non è così? Ammettilo.»
Fece un cenno scattoso d’assenso col capo e io gli strinsi i lati della gola,
ringhiando in segno di avvertimento: «Non muoverti finché non te lo dico
io.»
Recuperai un rotolo di corda da uno dei miei ganci sul muro. La soffitta
era sia la mia camera da letto che il mio studio. Sia che facessi delle opere
d’arte con delle tempere e una tela o con la carne e il sangue, avevo molto
spazio per lavorare. Presi anche una benda, una bandana rossa che fissai
sopra gli occhi di Jason prima di prendermi tutto il tempo che mi
occorreva per legarlo.
Si rilassò mentre lo spostavo, legandogli le corde attorno alle braccia e
al petto per assicurargli i polsi dietro la schiena. Era una legatura intricata,
ma non avevo fretta. A ogni nodo, le mie fantasie scavavano un po’ più a
fondo.
Cosa non avrei dato per legare Jason e Jess allo stesso tempo, per
annodarli finché non avessero potuto fare altro che dimenarsi, e poi
appenderli alle travi e lasciarli a soffrire per me.
«Anche tu non hai fatto che pensare a lei.» La voce di Jason era attutita
dalle coperte, dato che era a faccia in giù mentre stavo stringendo un
ultimo nodo. Provò a vedere se le corde tenessero contraendo i muscoli,
ed emise un lieve grugnito mentre si sforzava contro la corda.
«Hai ragione.» Gli strizzai il sedere prima di dargli una sculacciata, e
sorrisi al rossore che sbocciò sulla sua pelle pallida. «Vuoi sentire a cosa
ho pensato?» Annuì di nuovo e io gli afferrai i capelli per sollevargli la
testa dal letto. «Parole, ragazzo, usa le tue parole. Rispondimi.»
«Sissignore, voglio sentire a cosa stavi pensando.»
Suonava un po’ troppo stizzoso per i miei gusti. Afferrai uno dei cuscini
e glielo sistemai sotto i fianchi. Cominciò a lottare di nuovo, ma un’altra
sculacciata lo immobilizzò, quindi gli abbrancai il sedere e glielo allargai.
Gli si mozzò il respiro quando affondai il viso tra le sue natiche.
Accarezzai il suo ano con la lingua, tracciandone il bordo finché le sue
cosce non si serrarono e lui cominciò a spingere inavvertitamente il bacino
contro il cuscino sotto di lui.
«Ti senti un po’ più arrendevole?» chiesi.
«Sì, signore.» Le sue dita si arricciavano e si flettevano con un’energia
irrequieta. «Voglio sentire a cosa stavi pensando. Per favore.»
Adoravo udire quella disperazione nella sua voce. Presi il lubrificante
nel cassetto del comodino, me lo spalmai sul dito e poi ne sparsi una
generosa quantità su di lui.
«Stavo pensando a quanto sarebbe divertente avere te e Jess legati
fianco a fianco,» spiegai, facendo roteare il dito sul suo ano prima di
spingerlo dentro. Gemette, schiacciando di nuovo la bocca contro la
coperta. «Potrei infilare le mie dita dentro entrambi contemporaneamente
e vedere chi di voi inizia a tremare per primo.» Lui stava già tremando e si
irrigidì per un momento nel tentativo di fermarsi. «Vi dilaterei tutt’e due,
fino a far entrare dentro di voi tutto il mio pugno. Non mi dispiacerebbe
affatto avere due viziati come voi impalati su entrambe le mie mani.»
«Non succederà,» mormorò, le parole tremanti. «Sai che non succederà
mai.»
«È quello che ti dicevi anche a proposito di me, non è vero?» Mi
piaceva costringerlo a continuare a parlare quando riusciva a malapena a
pronunciare due frasi. Lo sondai, pompando con il dito dentro e fuori
mentre aggiungevo un altro po’ di lubrificante. «E guarda come è andata a
finire.»
«Lei è sparita.» Il suo bisbiglio si dissolse in un gemito quando aggiunsi
lentamente un secondo dito. «Lei non… cazzo… non ci vuole…»
«Sì che ci vuole.» Il modo in cui il suo culo si stringeva intorno alle mie
dita mi stava facendo impazzire. Volevo sprofondare dentro di lui, sentirlo
gridare il mio nome mentre toccavo il fondo. «Lo vuole, Jason. Vuole te.
Vuole noi. Pensi davvero che quella ragazza non sia rimasta ossessionata
da quella notte, da quando è successo? Alla luce del modo in cui si è
comportata oggi?» Arricciai le dita dentro di lui, premendo contro la
piccola e solida protuberanza della sua prostata. «Ti ricordi quanto era
sexy in ginocchio per noi? Come ti faceva godere la sua bocca attorno al
tuo cazzo?»
Le sue dita si strinsero a formare due pugni, dei suoni disperati
punteggiavano i suoi respiri ansimanti. Spinse di nuovo il bacino contro il
cuscino, non potendosi masturbare, con le mani legate. Continuai a
fotterlo col dito, a massaggiare quella sporgenza delle dimensioni di una
noce.
«Vi legherei entrambi,» proseguii, con la voce sempre più roca man
mano che mi eccitavo. «Vi piegherei a novanta uno accanto all’altra e vi
costringerei a guardarvi in faccia mentre vi porto al limite dell’orgasmo.»
Gli diedi un altro schiaffo sul culo, ridacchiando per come si contorceva.
«Smettila di dimenarti così tanto. Non ti porterà da nessuna parte.»
Aggiunsi altro lubrificante e un terzo dito. Premette la bocca contro le
coperte e cacciò un urlo che scatenò un piacevole brivido in tutto il mio
corpo. Mi sporsi sulla sua schiena, affondando le dita dentro di lui mentre
gli abbrancai i capelli con l’altra mano.
«Dimmi a cosa hai pensato tu tutto il giorno,» ordinai con voce tesa.
Stava diventando sempre più difficile aspettare. Il mio cazzo era teso
contro i miei jeans. «Dimmelo, non importa quanto sia imbarazzante, non
importa quanto ti faccia agitare. Non ti alzerai finché non me l’avrai
confessato.»
«Maledizione, ti prego…» Inarcò la schiena, spingendo contro le mie
dita. Non era mai molto esplicito in camera da letto, rabbrividiva per
l’umiliazione ogni volta che lo costringevo a parlare di quello che gli
passava per la testa. «Ci stava provocando a quell’autolavaggio, signore.
Avrei voluto…»
«Continua,» lo incalzai. «Cosa avresti voluto?»
«Dio, avrei voluto tirarle giù quei pantaloncini attillati e scoparla
proprio lì, sopra il cofano. Sotto gli occhi di tutta la dannata chiesa.»
Eccolo lì. Era quello che volevo sentire. Allargai le dita dentro di lui
finché non piagnucolò e commentai: «Mm, esatto. Ti saresti scopato
quella bella fica finché non ti avesse squirtato addosso.»
«Cazzo, sì,» ansimò. «L’avrei piegata in avanti e le avrei fatto fare un
pompino a te mentre me la scopavo. L’avrei sbattuta fino a farle tremare le
gambe…»
Si interruppe con un grido quando tirai fuori le mie dita da lui. Non ce
la facevo più ad aspettare. Mi cosparsi il cazzo di lubrificante prima di
premere contro la sua entrata. Il buco ruvido opponeva ancora resistenza.
Andai piano per riuscire a far entrare la prima manciata di centimetri
dentro di lui.
«Fammi male,» supplicò, con la voce brutale per il bisogno mentre
inarcava la schiena. Fui felice di accontentarlo.
Mi spinsi fino in fondo, e lui gridò di nuovo, con le dita dei piedi
arricciate, mentre lottava contro le corde che lo costringevano a uno stato
di impotenza.
«Ah, sì? La scoperesti fino a farle tremare le gambe?» Gli tirai i capelli,
serrandoli nella mia presa mentre lui si contraeva intorno a me. «Sai che le
piace il sesso violento.»
«Era così fottutamente bagnata quando era in ginocchio per noi,»
mormorò, e le sue parole riportarono a galla dei ricordi vividi. Lasciai
andare i capelli di Jason, lo presi per i fianchi e glieli tirai su in modo da
avere un’angolazione migliore. Mi allungai attorno al suo bacino e mi misi
a masturbarlo, fottendolo all’unisono con la mia mano. Ero troppo su di
giri. Non sarei durato a lungo per quanto mi stava facendo godere.
«Voglio scoparla mentre tu scopi me,» dichiarò, le sue parole erano
sforzate, le cosce serrate. Ogni colpo della mia mano gli scatenava un
brivido. «Dio, voglio sentirla venire sul mio cazzo. Voglio vederla
sorridere come ha fatto dopo che si è succhiata i suoi stessi succhi dalle
dita, signore.» Trasse un respiro profondo. «Cazzo, stai per farmi venire.»
L’immagine di Jess che mi succhiava il dito mi spinse fino al punto di
non ritorno. Aumentai il ritmo e Jason gridò il mio nome con voce
spezzata, il suo cazzo pulsò nella mia mano e degli schizzi di sperma si
riversarono sulle coperte sotto di lui. L’estasi che prese il sopravvento su
di me fu come una sorta di blackout. Non rimase altro che i nostri corpi
che palpitavano all’unisono finché non fui stremato e crollai accanto a lui
con il cazzo ancora dentro.
Gli tolsi la benda e strofinai il viso contro il suo collo. Forse aveva
ragione. Forse Jessica non era destinata a noi, e quella lussuria – quella
nostalgia – non significava assolutamente nulla. Ma non potevo lasciarla
andare. Odiavo il pensiero di poter provare così tanto, di avere una voglia
così disperata e ridicola di averla, anche se non avrebbe portato a nulla.
«Ti amo.» La voce di Jason era roca per lo sfinimento e aveva un sorriso
ebbro sul volto mentre fluttuava nei postumi del suo orgasmo.
«Ti amo anch’io.» Lo attirai a me e lo tenni stretto contro il mio petto
per alcuni istanti per riprendere fiato, prima di mettermi all’opera per
slegarlo.
Non mi piaceva sentirmi dire che qualcosa era impossibile. Niente era
impossibile.
Il nostro intero universo era un caos a malapena organizzato, lo
strascico eternamente riecheggiante di un’esplosione all’inizio dei tempi.
Eppure, Jessica continuava a essere riportata nelle nostre vite. In qualche
modo, tra tutte le strade del destino da cui avrebbe potuto essere attratta,
era lì che era finita ancora una volta. Si era spinta via, ma era stata tirata
indietro.
Quindi, forse Jason aveva ragione. Forse aver rivisto Jess quel giorno
non aveva significato niente. O forse significava che le Parche non avevano
finito di giocare ai loro piccoli giochi sconclusionati.
Quella non sarebbe stata l’ultima volta che l’avremmo vista. Quello era
poco ma sicuro.
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6
Jessica
Non riuscii a chiudere occhio quella notte.
Non mi ero ancora riabituata al mio vecchio letto, ma non era solo
quello. Mi ero girata e rigirata, entrando e uscendo da intervalli di sonno
leggeri e agitati, prima di svegliarmi di scatto quando dei sogni strani si
erano insinuati nella mia mente. All’una del mattino stavo semplicemente
fissando il soffitto, con uno dei miei cuscini premuti contro il petto,
mentre mi ripetevo che quei sogni non significavano nulla.
Erano stati loro. Jason e Vincent. Il fatto di averli rivisti, di averci
banalmente scambiato due parole, mi aveva completamente sconvolta.
Erano passati quasi tre anni dall’ultima volta che ci eravamo parlati, ma
quello non significava che non avessero occupato di continuo la mia
mente. La mia ossessione nei loro confronti aveva assunto i connotati di
una malattia, di una dipendenza da cui non riuscivo a uscire. Ero
diventata una voyeur, lì a osservare le loro vite da lontano senza mai fare
una mossa verso di loro.
Li avevo perseguitati sui social come se fossi un investigatore privato,
avevo scavato in tutti i dettagli possibili e immaginabili. Sarebbe stato più
semplice se avessero condiviso di più, ma erano tipi riservati e non
postavano spesso.
Lucas e Manson possedevano insieme un’autofficina, e di tanto in tanto
postavano delle foto di loro al lavoro nel loro garage su dei motori
scintillanti. C’era una foto in particolare – Dio, era così imbarazzante –
che avevo trovato talmente eccitante da averla salvata sul mio cellulare.
Erano tutt’e due a torso nudo, con le mani annerite dallo sporco e indosso
solo jeans e stivali. Mi ero masturbata diverse volte davanti a quella foto.
Con tutto il porno che avrei potuto guardare, erano le loro semplici
fotografie da cui tornavo sempre.
L’account di Jason era privato, ma Vincent pubblicava spesso delle foto.
Era ovvio che tutti i ragazzi fossero votati l’uno all’altro, ma fra Jason e
Vincent scorreva un romanticismo che mi faceva star male. Non era
invidia. Era… nostalgia? Se li guardavi da fuori, il loro amore sembrava
esattamente il tipo di rapporto che avrei voluto avere io, ma che non
riuscivo nemmeno a esprimere a parole: una libertà abbinata alla
devozione.
Ma mi era stato insegnato che era impossibile, e le mie relazioni fino a
quel momento me ne avevano dato la conferma.
Un rapporto era una gabbia piena di restrizioni e di incomprensioni, di
frustrazioni e gelosie. Mettersi con qualcuno portava con sé come
requisito essenziale il dover spegnere il proprio desiderio nei confronti di
chiunque altro, ma io mi ritrovavo spesso a domandarmi se fosse possibile
per me.
Ero rotta? La sessualità non era nulla di cui vergognarsi, ma era difficile
accettarlo quando gli amici e la famiglia che mi circondavano non
facevano che dirmi il contrario.
Strinsi forte gli occhi e fantasticai su di loro in piedi sopra di me – Jason
e Vincent, e anche Manson e Lucas. Attorno a me, a farmi sentire piccola.
Un brivido mi percorse la pelle quando mi sforzai di ricordare
esattamente la sensazione delle loro mani, di come mi avevano sfiorato le
gambe e si erano infilate in mezzo alle mie cosce.
Non sarei mai riuscita a dormire di quel passo. Una sensazione
fastidiosamente calda e irrequieta prese a pulsarmi nel basso ventre.
Ero troppo stanca per allungami sotto il letto a prendere il mio
vibratore. Feci scivolare la mano nelle mie mutande, risoluta a chiuderla
alla svelta. Non avevo bisogno di fantasticare, giusto? Ma quando il tocco
delle mie dita alimentò l’ardore dentro di me, sino a farlo diventare un
incendio, non riuscii a impedire ai miei pensieri di vagare.
Manson mi aveva detto una volta che a Vincent piaceva legare. Quindi,
quando vagheggiai il tocco di Vincent, pensai a delle manette – al metallo
freddo che si aggrappava ai miei polsi e alle mie caviglie. Immaginai
Vincent che rideva di me, che mi prendeva in giro, che sorrideva della mia
degradazione.
Ebbi un brivido.
Avrei potuto pensare letteralmente a chiunque altro. A una persona
famosa. Magari a quella ragazza sexy che avevo visto al bar qualche giorno
prima, o al ragazzo con cui avevo cazzeggiato in un locale l’anno
precedente. A chiunque altro al di là di loro. Ma quale che fosse la persona
che mi figuravo, il suo viso si trasformava, la voce cambiava e le azioni e i
comportamenti diventavano inconfondibili.
Il mio cervello si rifiutò di soffermarsi su chiunque altro, mentre il mio
piacere si fece più profondo e i miei respiri più concitati.
Immaginai Vincent che mi incatenava al letto mentre Jason mi
camminava intorno. Lo sguardo di Jason sembrava capace di farmi a
pezzi, come se fosse in grado di vedere troppo. Come se conoscesse i miei
punti deboli e potesse estrapolarli a uno a uno con abile precisione.
Indossava sempre degli anelli. Degli spessi anelli di argento, e le unghie
smaltate di nero. Fantasticai su quelle unghie che scomparivano dentro di
me mentre mi spingeva dentro le dita. Mi tornò in mente il sapore del suo
cazzo e la vista di lui in piedi sopra di me.
Strinsi le lenzuola fra le dita.
A Manson era piaciuto un sacco guardarli. Era saltato all’occhio che lo
eccitava il voyeurismo. Nella mia fantasia, stava ancora guardando.
Girando intorno. Appena visibile nell’ombra attorno al mio letto.
‘Più opponi resistenza, peggio è.’
Le parole mi serpeggiarono attorno allo stomaco. Opporre resistenza
era comunque inutile: non c’era modo di sopraffarli. Vincent mi aveva
legata troppo stretta per permettermi di scappare.
Ma io volevo di più. Più piacere, più stimolazioni… più paura. Volevo
provare il brivido di essere legata e impotente. Volevo perdere
completamente il controllo.
‘Alla piccola puttana piace, eh?’ Supposi che fosse la voce di Lucas,
profonda e roca, a pronunciare quelle parole. Era sempre stato così
dannatamente imprevedibile. Rabbioso, senza cuore – mi odiava con tutte
le sue forze, eppure quello lo rendeva ancora meglio.
Mossi le mie dita più velocemente, tentando di resistere col fiato
sospeso. Immaginai Manson in piedi sopra di me con quel sorrisetto
obliquo sulla faccia. Dio, quanto gli piaceva guardarmi mentre gli altri mi
usavano e io mi dimenavo. Ero un giocattolo da usare, dei semplici buchi
da riempire. Il pensiero mi faceva formicolare da capo a piedi.
Nella mia fantasia, Manson mi afferrò per la gola e sussurrò: ‘Starò a
guardare mentre ti distruggono, angelo.’
Distruggermi. Rovinarmi. Costringermi a una corruzione che bramavo.
Volevo sentirmi come se mi stessero punendo. Come se stessi ricevendo
un castigo per averli trattati di merda al liceo e per non essere stata meno
antipatica quando li avevo rivisti in seguito. Un castigo per aver preso
delle decisioni di cui mi pentivo, ma che non potevo cambiare.
Mi premetti la mano sulla bocca prima che potesse sfuggirmi un
gemito. Ma feci finta che fosse la mano di Vincent piuttosto, che mi stava
rimproverando con quella sua voce scherzosamente sarcastica.
‘Sss, non fare troppo rumore. Non vorrai mica che mammina e papino ti
sentano, no?’
Mi si arricciarono le dita dei piedi. Un calore liquido mi inondò le vene,
ustionandomi da dentro. Per qualche istante la mia mente si svuotò del
tutto, riempita solo di quella perfetta esplosione di estasi. Rimasi stordita
per tutti i postumi dell’orgasmo, la mia tensione si stava lentamente
sciogliendo e i miei muscoli erano flosci.
Forse ora sarei finalmente riuscita a prendere sonno.
Tirai su le coperte, ma le fantasie non mi lasciarono con la stessa facilità
della mia lussuria appagata. Erano ancora lì, in agguato nei miei sogni.
Avevo evitato quei ragazzi in tutti i modi, eppure ero io quella che si
sentiva ossessionata.
***
I giorni seguenti furono convulsi. La mattina del quattro luglio, la
squadra di volontari di mia mamma aveva completamente rivoluzionato il
prato vuoto accanto alla chiesa. C’erano stand coi giochi, case gonfiabili e
spazi per truccare i bambini. L’aroma ricco e grasso di hamburger e hot
dog permeava l’aria, il fumo delle griglie si diffondeva tra la folla.
Lavorai al gioco del lancio degli anelli per la maggior parte della
mattinata e cercare di domare i ragazzini divenne rapidamente estenuante.
Non ero mai stata particolarmente brava con i bambini, e non ero
nemmeno una molto paziente. Mia madre mi rimproverava di continuo su
questo.
Per fortuna, una voce familiare attirò la mia attenzione nel pieno della
mia noia. «Ti hanno incastrato con il servizio di volontariato, eh?»
Mi alzai dopo aver raccolto gli anelli di plastica sparsi sull’erba e scorsi
una delle mie vecchie compagne di classe, Danielle, che mi stava
sorridendo dalla parte anteriore dello stand.
«Ehi, ragazza! È un sacco di tempo che non ci si vede!» Danielle e io
avevamo fatto parte della squadra di cheerleader insieme al liceo e da
allora ci eravamo mantenute in contatto di tanto in tanto. Sapeva essere
una stronza spietata, ma eravamo sempre andate d’accordo.
Eravamo entrambe a conoscenza di troppi segreti scomodi l’una
sull’altra per rischiare di non andare d’accordo.
«Mia madre ha generosamente offerto il mio tempo,» commentai,
alzando gli occhi al cielo. «Almeno non sono rimasta incastrata con lo
stand sul face-painting.»
«Staresti cavando gli occhi ai bambini con quegli artigli,» puntualizzò,
lanciando un’occhiata alle mie immancabili unghie finte. «Insomma, sei
tornata a casa dai tuoi, eh? Cazzo, è tosta. Non riesco a immaginare di
tornare a casa della mia famiglia ora che Nate e io viviamo insieme. Mia
madre e io probabilmente ci uccideremmo a vicenda.»
Danielle e Nate si erano fidanzati l’anno precedente. Erano fidanzati già
dai tempi del liceo, quindi non potevo dire che fosse una sorpresa. L’unica
vera sorpresa era che Danielle stesse mettendo la testa a posto.
«Oh, sì, vedo che hai capito,» dissi. «Se finirò in carcere… saprai
perché. Devo uscire di nuovo da quella casa, il prima possibile.»
«Stasera vieni al falò, vero?» mi chiese, facendosi da parte e lanciando
un’occhiata torva al ragazzino che stava allungando la mano entusiasta per
il suo turno di lancio degli anelli.
«Falò?» domandai. «Non ne sapevo nulla.»
«Oh, ma devi venire!» Tirò fuori il cellulare. «Il tuo numero è sempre
lo stesso, vero? Ti mando i dettagli. Dovremmo avere anche una buona
visuale dei fuochi d’artificio. Ci saranno tutti. Sarà come ai vecchi tempi.
Inoltre, Nate e io abitiamo molto vicini, quindi sei assolutamente la
benvenuta a fermarti a dormire da noi dopo.» Le squillò il telefono e lesse
il messaggio con un sospiro. «Ops, devo andare. Nate vuole un’altra
dannata confezione da ventiquattro di Coors.» Alzò gli occhi al cielo.
«Proprio quello che volevo fare: andare a comprare birra il quattro
luglio.»
«Ci vediamo dopo, ragazza.» La salutai con la mano mentre se ne
andava. Una serata fuori era esattamente ciò di cui avevo bisogno. Avrei
potuto bere qualche drink, rivedere tutti e guardare i fuochi d’artificio.
Sarebbe stata una bella opportunità per distrarmi… da altro.
Riuscii a sgattaiolare via dalla fiera qualche ora dopo, quando uno degli
altri volontari prese il mio posto. Ebbi appena il tempo di farmi una
doccia e cambiarmi prima del falò. Non mi aspettavo che facesse molto
freddo quella notte, quindi sarebbe bastata una giacchetta leggera sopra il
top corto e i jeans. La maggior parte dei miei vestiti era ancora imballata e
non avevo la minima voglia di rovistare tra gli scatoloni, benché avessi solo
poca scelta nel mio armadio.
La mia mano tastò una morbida felpa nera e la tolsi dalla sua gruccia.
Era troppo grande per me, ma non era mia. La parte posteriore era
decorata con una pecora nera che indossava un cappuccio a forma di testa
di lupo. Lanciai un’occhiata alla mia porta chiusa, come se fossi tornata
adolescente e stessi facendo qualcosa di sbagliato, e poi mi portai la felpa
al naso e annusai a fondo.
Forse era solo la mia immaginazione, ma anche dopo tutti quegli anni,
sarei stata pronta a giurare che odorava ancora di lui.
Manson Reed. Me l’aveva messa addosso la mattina dopo la festa di
Halloween, la mattina dopo…
Non potevo pensarci troppo. Me la infilai, presi le chiavi e la borsa e
spensi la luce prima di lasciare la stanza.
***
Il sole era tramontato e i fuochi d’artificio illuminavano il cielo, mentre
ero in macchina, diretta all’indirizzo che mi aveva mandato Danielle.
Svoltai su una stradina sterrata che si insinuava in un qualche boschetto.
Non fui stupita di vedere già molti veicoli parcheggiati lì.
Alcuni di essi avevano delle sospensioni molto basse, automobili
d’importazione con marmitte enormi e lunghi alettoni. Altri erano dei
classici americani, rumorosi e con una carrozzeria elegante e ricoperta di
una cromatura brillante. E poi c’erano i pick-up rialzati da terra, coi loro
diesel roboanti e degli pneumatici massicci.
Se c’era qualcosa che poteva reggere degnamente il confronto con
l’amore di Wickeston per il football, era l’amore per le macchine. L’ideale
erano sempre stati i classici bestioni all’americana, ma sembrava che le
auto d’importazione stessero guadagnando un grosso seguito, a giudicare
da quante ne vedevo. Non sapevo quasi nulla di motori, ma apprezzavo
l’estetica di un’automobile elegante.
E apprezzavo la velocità.
Alcuni dei pick-up erano stati parcheggiati a semicerchio attorno
all’imponente falò, coi portelloni posteriori aperti per mettere a
disposizione ghiacciaie piene di birre. La gente era seduta attorno al fuoco
su sedioline pieghevoli oppure se ne stava divisa in gruppetti, a bere birra
e fumare sigarette elettroniche o quelle normali. La musica stava
esplodendo dall’impianto stereo di qualcuno, e sentii il mio entusiasmo
aumentare quando il frastuono delle risate e delle chiacchiere invase il mio
abitacolo.
Avevo sempre prosperato davanti a una folla. Far sì che la gente mi
amasse – o mi temesse – era come un gioco che non potevo permettermi
di perdere. Conoscevo già alcune delle persone che sarebbero venute a
questa festa, ma era più che probabile che tutti gli altri conoscessero già
me.
Era questo il lato divertente dell’essere la «vecchia ragazza popolare.»
Eri meno una persona e più un feticcio, come quell’ultimo reality in TV.
Alle persone piacevi allo stesso modo in cui gli piaceva la loro star
preferita.
Era l’idea che si erano fatti di te quella che contava. La reputazione era
tutto.
Parcheggiai e abbassai lo specchietto per controllarmi al volo la faccia.
Forse avrei dovuto dare un’altra passata di correttore: mia madre mi aveva
già avvisata che le mie occhiaie stavano peggiorando.
Vabbè.
L’aria della sera era frizzantina, pregna dell’odore di legna bruciata. Le
fiamme proiettavano delle ombre danzanti sugli alberi di quercia, il fumo
si levava verso il cielo in volute sinuose. Gli schiocchi e i crepitii dei fuochi
d’artificio in lontananza ispiravano dei gridi di esultanza da parte di coloro
che stavano riuscendo ad assistere all’esplosione dal limitare degli alberi.
Scorsi Danielle dall’altro lato del falò e mi diressi da lei.
«Siiiii, sono così contenta che tu sia venuta, tesoro!» Si alzò dalla sua
sedia pieghevole per darmi un abbraccio e mi mise una soda gelata in
mano. «Vediamo di metterti un po’ di alcol in corpo. È ora della vera
festa.»
Nate era seduto accanto a lei, e mi salutò con un cenno amichevole del
capo ma non disse nulla. Non era l’unico dei miei vecchi amici presenti a
quella festa. C’erano anche Alex McAllister e Matthew Fink.
«Bentornata nella cara, vecchia Wickeston, Jess,» fece Alex,
stringendomi in uno dei suoi abbracci troppo calorosi. Alex, Matthew e
Nate avevano fatto tutti parte della squadra di football insieme a Kyle, e
avevano formato un gruppo che andava quasi ovunque insieme.
Li conoscevo bene, probabilmente troppo bene. Nate era il figlio di un
agente di polizia di zona e l’aveva fatta franca per molte più porcate
illegali di chiunque altro di mia conoscenza. Matthew aveva l’abitudine di
ubriacarsi fino a svenire prima di ogni partita perché sosteneva che lo
facesse «giocare meglio.» E Alex? Era sempre stato il miglior amico di
Kyle, il suo braccio destro.
Poi ci aveva provato con me quando Kyle e io ci eravamo lasciati. Lo
avevo rifiutato e non avevo mai più tirato fuori il discorso, ma a giudicare
dal suo abbraccio molto amichevole, il suo interesse non si era affievolito.
Ashley lo aveva sempre definito un «viscido,» e fu quella la prima
parola che mi venne in mente quando le sue braccia finalmente si
allentarono da attorno a me.
«La vita di città non faceva per te?» mi chiese lui.
«Fidati, preferirei stare ancora in città,» risposi. «Ma preferirei stare
ancora sborsando le cifre che si pagano in città? Col diavolo.»
Non potevo permettermi un appartamento a Nashville, il cibo e le
bollette col misero stipendio di una tirocinante – su quello non ci pioveva.
New York sembrava ancora di più fuori portata, ma col giusto salario ce
l’avrei fatta. Dovevo solo convincere il mio capo del mio valore.
«Sembra che tu abbia bisogno di fare un po’ di soldi extra,» commentò,
sporgendosi verso una ghiacciaia nei paraggi per prendere un’altra lattina
fredda. «Ho sentito che stanno facendo le selezioni su OnlyFans. Io sarei
il tuo primo utente.»
Il suo sguardo esplicito vagò su tutto il mio corpo, e io alzai gli occhi al
cielo. «Ah, ah, ah. Molto divertente. Continua a sognare.»
Alex fece spallucce, ma il modo in cui stava occhieggiando era tutt’altro
che disinvolto. Alex era carino, su quello non c’era dubbio. Ed era
esattamente il tipo di cui di solito andavo alla ricerca io: spalle larghe, una
bella faccia, spavaldo e con un ego smisurato. Ma stavo cominciando a
stufarmi di frequentare sempre lo stesso tipo e di ottenere sempre gli stessi
dannati risultati.
Fra l’altro, era il migliore amico del mio ex ragazzo. La sola idea di
uscire con lui mi dava di subdolo.
Danielle e io avevamo molto di cui chiacchierare, e in un attimo lei si
lanciò nel farmi il resoconto di tutti i pettegolezzi che conosceva sui nostri
vecchi compagni di classe. Chi si era sposato, chi era incinta e chi era
finito in prigione. Alex era irrequieto, in compenso, e continuava ad alzare
gli occhi ogni volta che arrivava una nuova macchina.
«Aspetti qualcuno?» gli chiese Matthew, schiacciando la sua lattina
vuota sotto la scarpa.
«Probabilmente sta di nuovo contemplando la sua bambina,» lo prese in
giro Danielle, alzando gli occhi al cielo prima di spiegarmi: «Alex ha fatto
qualche nuova modifica figa alla sua macchina e non riesce a smettere di
parlarne.»
«Qual è la tua?» domandai io, e Alex indicò una Dodge Challenger
rossa dall’altra parte del fuoco.
«È una Hellcat,» annunciò fiero. «Le ho dedicato perfino una nuova
canzone. Quella bambina sfreccia che è una meraviglia.»
Una marmitta scoppiettò come lo sparo di una pistola, e tutti noi
girammo all’unisono le teste verso la strada. Chiunque fosse appena
arrivato stava facendo un sacco di rumore: ero riuscita a sentire il motore
molto prima di vedere l’auto. Dei fari lampeggiarono quando l’auto svoltò
in mezzo agli alberi, e Alex si alzò lentamente in piedi con le braccia
conserte.
«Bene, bene, bene,» mormorò. «I perdenti hanno deciso di farsi
vedere.»
Stavano arrivando due macchine, coi vetri così oscurati che era
impossibile vedere l’interno. Mi si bloccò il respiro nei polmoni quando
colsi l’elegante Mustang viola davanti, con tanto di neon dello stesso
colore che emanavano un bagliore da sotto la carrozzeria, e il motore che
rombava aggressivo. Non l’avrei riconosciuta se non fossi stata una tale
stalker dei social, ma seppi fin da subito a chi apparteneva.
Manson. Aveva fatto un bel salto di qualità rispetto alla vecchia Bronco
che aveva guidato un tempo.
Lo seguiva una Nissan350Z, che stava praticamente planando sul
terreno, con lo stereo che pompava dei bassi a tutto volume. Quella era la
macchina di Jason, e se dovevo basarmi sui video che aveva postato
Vincent, era una vera forza da non sottovalutare nel mondo del drifting
amatoriale.
Mi si aggrovigliò lo stomaco, e la mia lattina si increspò appena nella
mia mano. Se due di loro erano qui, allora c’erano tutti quanti. Ma quella
volta non potevo scomparire.
I miei spettri erano tornati a tormentarmi.
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7
Jason
Racchiuso nei vetri oscurati, con il motore che rombava sotto di me e i
bassi che risuonavano attraverso i miei altoparlanti, mi sentivo intoccabile.
La mia mente era calma, concentrata, stabilita nella lucidità meditativa. I
miei pensieri costantemente in corsa e le mie dita tremanti erano placati
dal ronzio costante del motore.
Da quello, e dalle labbra di Vincent avvolte attorno al mio cazzo,
mentre faceva scivolare la lingua lungo la mia erezione.
Infilai le dita tra i suoi capelli e li abbrancai, torcendo le lunghe ciocche
castane nel mio pugno. Mi preferiva con le mani legate, ben strette dietro
la schiena o sollevate sopra la testa, mentre io ero teso in punta di piedi.
Ma ora toccava a me essere al comando.
Avevo bisogno di avere le mani libere per spingerle la testa verso il
basso, per fotterlo fino in fondo alla gola al punto da farlo soffocare.
Non volevo venire, non ancora. Vederlo prendermi più giù possibile e
sentire la sua gola contrarsi per poco non mi scagliò oltre il limite, in
estasi. Ma mi costrinsi ad aspettare, pericolosamente in bilico sul
precipizio della beatitudine.
Boccheggiai, tutta la mia schiena si irrigidì mentre Vincent mugugnava
e la sua gola si stringeva intorno a me.
«Oh, cazzo…» La mia mente si svuotò per una preziosa frazione di
secondo. Un momento di puro piacere, così intenso da intorpidirmi il
cervello, ma riemersi, annaspando in cerca di fiato.
«Porca puttana…» Mi accasciai contro il sedile quando Vincent alzò
lentamente la testa, rivolgendomi un ampio ghigno che ricordava quello
dello Stregatto.
«Ti è piaciuto?» La sua voce era roca, e allungò una mano sul sedile per
cingermi il viso.
«Mi ha fatto impazzire, cazzo,» risposi, ridacchiando mentre tornavo
con i piedi per terra. Voltò la mia testa verso di lui per un bacio, e il mio
corpo stanco reagì comunque a quella sua lingua vergognosamente
esperta.
Ero ben contento di avere i vetri oscurati e della privacy che ci
fornivano. La folla mi rendeva nervoso: non si poteva mai sapere chi tra
loro ti si sarebbe rivoltato contro in un battibaleno. Sarebbe bastato dire
la cosa sbagliata, guardare dalla parte sbagliata o baciare la persona
sbagliata e saresti stato fottuto.
Quando le persone vedevano qualcosa che andava contro ciò che
ritenevano buono e giusto, la situazione poteva prendere in un attimo una
piega violenta. Mia madre non mi aveva mai picchiato finché non le avevo
detto che non ero credente. Mio padre non aveva mai nemmeno alzato la
voce fino a quando un «vicino preoccupato» non era andato da lui a fare
la spia su di me, con la prova schiacciante di aver visto me e Vincent
cazzeggiare nella sua Subaru. Parole come «bisessuale» non significavano
nulla quando un padre era convinto che suo figlio stesse conducendo una
vita di peccato.
Ma fanculo tutto quello. Avrei accolto il peccato a braccia aperte e mi
sarei lanciato dritto all’inferno, se ciò avesse significato non dover vivere
sotto le regole arbitrarie imposte da qualcun altro per la mia vita. Mi
rimisi a posto il pene e riaggiustai i pantaloni della tuta.
Sì, i pantaloni della tuta a una festa. Non riuscivo davvero a
preoccuparmi di far colpo sulle persone con il mio aspetto. Ero alto un
metro e settantaquattro, con una massa disordinata di capelli azzurri che
nascondeva a malapena delle orecchie che mi era stato detto per tutta la
mia vita che erano troppo grandi. Quella merda mi rodeva dentro, perché
sapevo che non sarei mai stato uno di quei ragazzi scolpiti di un metro e
ottanta con una quantità perfetta di peli sul viso e di massa corporea.
Avevo smesso di curarmene.
Spensi il motore, le risate e i saluti urlati dall’esterno minacciavano di
intromettersi nel mio mondo isolato. Lanciai un’occhiata a Vincent e mi
accorsi che mi stava osservando, con un sorrisetto che gli curvava ancora
la bocca.
«Pronto?» mi chiese.
Annuii. «Pronto.»
Manson e Lucas erano appoggiati alla Mustang e si stavano passando
una sigaretta quando li raggiungemmo. Lucas aveva una faccia così seriosa
che era più probabile pensare che fosse lì per un funerale piuttosto che
per una festa.
«Dannazione, ragazzi, toglietevi quei sorrisi dalla faccia,» sfotté
Vincent. Anche da sobrio, Vincent era un tipo rilassato. Una conseguenza
di tanta esperienza accumulata nel trovarsi nel posto sbagliato al momento
sbagliato. Mi mise un braccio intorno alle spalle e sollevò il suo
vaporizzatore di THC, offrendomi un tiro. Inalai lentamente, trattenni il
vapore per un momento e poi lo soffiai fuori, nel cielo notturno.
«Avete la birra?» chiese Lucas.
«Sissignore.» Mi diressi verso il retro della macchina e aprii il
portabagagli. La mia macchina era una delizia, con le sospensioni basse e
larga come non mai con quel kit di Rocket Bunny che avevo finito di
installare lo scorso fine settimana. Avevo ancora qualche settimana davanti
prima della mia prossima competizione, motivo per cui non avevo saputo
resistere alla tentazione di mostrarlo stasera.
Inoltre, era una buona pubblicità per Manson e Lucas, considerando
che avevano contribuito a costruire il motore. Qualsiasi affare fossimo
riusciti a far andare in porto sarebbe stato un bene per tutti noi.
«Allora cominciamo, ragazzi,» annunciò Manson, sollevando una
confezione di dodici IPA dal suo portabagagli. Il pacco di birra
economica che avevo portato io era da condividere, ma Manson aveva la
roba buona.
«Perché veniamo a queste puttanate?» borbottò Lucas, fumando la
sigaretta mentre scrutava i volti sparsi tra gli alberi. «Odio metà delle
persone qui.»
«E l’altra metà?» chiese Manson, lanciandomi una birra prima di
aprirne una per sé.
Lucas scosse la testa. «Non mi sta simpatica nemmeno quella.»
Manson sbuffò col naso. «Certo. Rimpinziamoti di un po’ di alcol
prima che cominci a sparare stronzate.»
«Io non sparo stronzate,» si lagnò Lucas. Stava per aprire la propria
lattina, quando all’improvviso, mentre scrutava il falò, gli rimase a
malapena appesa la sigaretta in mezzo alle labbra. «Porco cazzo. Ho
appena visto un fantasma.»
Ci voltammo tutti insieme – Vincent un filino troppo veloce, perché
probabilmente si aspettava di assistere per davvero a un fenomeno
paranormale. Ma c’era un solo fantasma che avrebbe potuto far apparire
Lucas furioso e al contempo sgomento. Sapevo chi era prima ancora di
vederla.
Jessica era seduta dall’altro lato del falò, con una felpa troppo grande
slacciata e una maglietta corta e stretta che aderiva al suo seno. I suoi
lunghi capelli biondi erano gettati su una sola spalla, le gambe accavallate,
seduta sulla sua sediolina pieghevole con tutta la sicurezza di una regina.
La mia impeccabile calma mentale iniziò a frantumarsi all’istante.
Avevo cercato di tenerla fuori dalla mia testa, di dimenticare le fantasie
che Vincent godeva tanto nel tirarmi fuori di forza. A volte mi disgustava
il solo fatto di pensare a lei. Alla donna che aveva preteso che facessi i
compiti per lei, che aveva copiato i miei compiti in classe e mi aveva preso
in giro su tutto, dai miei vestiti alla mia voce debole e alle mie orecchie.
Non avrebbe dovuto nemmeno avvicinarsi alle mie fantasie.
Ma Dio, ci si avvicinava eccome. Spuntava di continuo nei miei sogni
perversi a occhi aperti.
Jessica non era mai stata il tipo da tirarsi indietro davanti a una sfida, né
da mostrare a chicchessia che aveva paura. Mentre la guardavamo, i suoi
occhi guizzarono verso di noi.
L’espressione di assoluto terrore sulla sua faccia quando realizzò che la
stavamo fissando fu impagabile. Sembrava non meno turbata di come lo
era stata quando Vincent e io ci eravamo imbattuti in lei all’autolavaggio.
«Te l’ho detto che era tornata in città,» commentò Vincent. Stava
trattenendo un ghigno, e sapevo già che stava leggendo fin troppo in
quella situazione. Quella era la seconda volta che vedevamo Jess nel giro
di un mese, il che di sicuro significava che c’era dietro un qualche destino,
fato o chissà quale altro grande, misterioso potere.
«Quali cazzo erano le probabilità che lei fosse qui?» rifletté Lucas.
«Considerando che non c’è un cazzo da fare a Wickeston al di là di
questo, piuttosto alte, in effetti,» feci notare io. Mi misi l’unghia del
pollice in mezzo ai denti e la morsi. Se avessi dovuto passare tutta la
dannata serata a guardarla, sarei rimasto senza più nemmeno un’unghia.
«A quanto vi risulta Jess si è mai lasciata scappare una festa?»
Manson poggiò la sua birra sul tettuccio della Mustang, con gli occhi
fissi sulla bionda, come un cane che aveva appena occhieggiato un taglio
fresco di carne. «Dovremmo andare a salutarla,» dichiarò.
Vincent annuì in un baleno. «Dovremmo.»
Lucas scosse la testa. «Dovremmo smetterla di cercare di acchiappare
un fantasma.» Ma le sue parole non nascosero il suo interesse. Stava
continuando a sbirciarla.
Il mio buonsenso voleva schierarsi dalla parte di Lucas. Ma il lato
ossessivo del mio cervello non voleva proprio starsene per fatti suoi. Non
avevo ancora ben compreso cosa ci fosse in lei che aveva sempre
ammaliato a quel punto la mia mente. Quella donna era un puzzle gigante
di cui non riuscivo a venire a capo, una domanda senza risposta, un
enigma senza soluzione.
Era una sfida, e Dio, io adoravo le sfide.
«Fa dei bei pompini per essere un fantasma,» commentai io, e Vincent
annuì di nuovo in segno d’assenso. Il ricordo di Jess che implorava di
assaggiare il mio cazzo non l’avrei mai dimenticato. Era quel genere di
momenti surreali che un ragazzo come me poteva solo sognare, la ragazza
più intoccabile della scuola che voleva prendermelo in bocca.
«Sii gentile, J,» mi rimproverò Manson, con quel suo tono di voce che
mi fece correre un piccolo brivido lungo la schiena. Manson aveva le sue
pillole, la sua terapia, la sua meditazione e tutta quella merda, ma c’era
ancora qualcosa di oscuro in lui che non se ne sarebbe mai andato del
tutto. Qualcosa di innato perché così doveva essere, e di vivo e vegeto
perché niente l’avrebbe mai potuto uccidere.
Quella cosa – quel mostro dentro di lui – aveva avuto un assaggio di
Jess e nient’altro avrebbe potuto saziarlo.
Io non ero stato così ingenuo, ma penso che Manson si fosse davvero
persuaso che da quella nottata della festa di Halloween sarebbe uscito
qualcosa. Qualcosa in più di una semplice scopata. Forse credeva che Jess
sarebbe cambiata, che si sarebbe resa conto all’improvviso che ci voleva
disperatamente. Forse Manson pensava che lei avrebbe continuato a
frequentarci, che si sarebbe integrata nella nostra famiglia sgangherata
come se non avesse già una vita familiare piena di agi.
Ma figuriamoci.
«Credo che non ci sia nulla di male nel fare un po’ di conversazione,»
chiosò infine Lucas. L’angolo delle sue labbra si incurvò in qualcosa di
simile a un mezzo sorriso, e io ebbi un brutto presentimento. Lucas che
sorrideva non era una buona cosa: non lo era perché stava avendo dei
pensieri felici.
No, quello non era un sorriso dettato da pensieri felici. Quello era un
sorriso della serie: adesso vado e combino un bel casino.
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8
Jessica
«Ah, Dio, non ci posso credere che si sono presentati qui,» borbottò
Danielle, con la sua voce bassa per il disgusto mentre lanciava un’occhiata
fugace ai quattro uomini che erano appena arrivati. «Ti ricordi quando
avevano paura di prendere parte alle stesse nostre feste?» Alzò gli occhi al
cielo. «Da quando la signora Peters ha accolto Manson come il suo
piccolo caso umano, lui e i suoi amici si fanno vedere ovunque.»
Annuii per tutto il tempo che continuò a lagnarsi. Il fuoco era fin
troppo caldo e la mia gamba non la voleva smettere di saltellare. Cercai di
focalizzarmi su quello che stava dicendo lei, ma avevo lo stomaco pieno di
farfalle ed era impossibile concentrarsi.
Che diavolo c’era che non andava in me?
Continuai a lanciar loro delle occhiate, a quei quattro uomini vestiti di
nero con delle espressioni guardinghe sul viso. Sapevano che ero qui e mi
stavano guardando a loro volta, scrutandomi con la medesima diffidenza
con cui li osservavo io.
Danielle aveva ragione. C’era stato un momento in cui non avrebbero
mai messo piede alla stessa festa a cui ero io o chiunque altro del gruppo
famoso. Ma quello era il passato, e ora che eravamo tutti cresciuti, il
confine fra «noi» e «loro» si era sfocato. I ragazzi popolari e i reietti non
avevano più un muro così alto a dividerli, ma il mescolarsi dei gruppi
portava inevitabilmente a dei conflitti.
Non tutto poteva essere perdonato e dimenticato, a prescindere da
quanto tempo fosse passato.
Io ero seduta in quel momento con tre degli uomini che avevano
cercato di picchiare Manson a sangue per aver pomiciato con me.
Onestamente, era stato così soddisfacente vederli scendere tutti di un paio
di gradini quando Manson li aveva spaventati a morte con quel coltello.
Ma Alex, Nate e Matthew non sembravano affatto spaventati al
momento. Sembravano incazzati, tesi. Era ovvio che, in assenza di Kyle,
Alex avesse preso il suo posto in veste di una specie di tacito leader. Avevo
assistito a sufficienti risse nella mia vita per sapere che quella tensione
latente sarebbe verosimilmente sfociata nel lancio di qualche pugno.
Mi scusai, mi sbrigai ad alzarmi dalla mia sedia e mi allontanai dal falò
per rovistare in una delle ghiacciaie in cerca di un altro drink.
Mi risalì un brivido lungo la nuca mentre stavo frugando nel ghiaccio,
ma non fu per il freddo.
«Jessica fottuta Martin.»
La voce dietro di me era un sussurro aspro, roco per l’acredine. Capii
immediatamente chi fosse.
Mi girai con una bottiglia in mano e un sorriso sarcastico sulla mia
faccia. «Lucas fottuto Bent. È così che ci si saluta adesso?»
C’era un peso negli occhi infossati di Lucas che era soffocante, e non
fece che aumentare quando parlai. Mi stava guardando come se avesse
voglia di scuoiarmi e vedere le ossa che c’erano sotto. Indossava una
canottiera tagliata nera e dei jeans logori, le sue braccia conserte erano
ricoperte dalle linee spesse di numerosi tatuaggi.
Lo smile felice tatuato sulla sua guancia mi scherniva. Era così
dannatamente entusiasta, a dispetto del cipiglio sulla faccia di Lucas.
«È da tanto che non ci si vede,» commentò Jason quando si venne a
mettere accanto a Lucas, facendo vagare gli occhi gelidi su ogni
centimetro della mia pelle esposta.
Eravamo dietro il pick-up di Nate, e l’abitacolo ci nascondeva alla vista
della gente attorno al fuoco. Ma i nervi mi intorbidirono comunque la
pancia quando vidi Vincent, che mi stava perscrutando con gli occhi
stretti in due sottili fessure da dietro Lucas.
Non avrei dovuto indulgere in quelle fantasie su di loro. Come diavolo
avrei potuto comportarmi in maniera normale con degli uomini che avevo
sognato scoparmi fino a farmi urlare, intenti a legarmi e farmi strisciare
come un’obbediente, piccola puttana?
Erano solo fantasie, ma se ne avessero avuto l’occasione, questi uomini
l’avrebbero potuta trasformare in realtà. Mi passai la lingua sul labbro
inferiore, quindi me lo risucchiai in bocca e vi affondai i denti sino a
rischiare di farmi uscire il sangue. Avevo un bisogno disperato di quel
drink.
«Il falò è troppo caldo per te?» C’era un che di canzonatorio nel tono
di Vincent. «O c’è qualcos’altro che ti rende troppo… accaldata?» Si
allungò e diede una gomitata a Jason, e i due ridacchiarono come se fosse
una specie di battuta che capivano solo loro.
Era come se sapessero. Come se gli occhi azzurri e brillanti di Jason
riuscissero a vedere dritti nella mia anima.
Arricciai il labbro davanti ai loro sorrisetti di scherno. «Oh, ma per
favore. Non vi lusingate troppo. Levatevi dai piedi.» Agitai la mano come
a volermeli togliere da davanti. Dubitavo di essere l’unica che stava
reprimendo dei pensieri sporchi – non che l’avrei mai ammesso.
Lucas non si mosse. Rimase in piedi di fronte a me come una barricata,
sfidandomi con la sua espressione severa a passargli accanto.
«Noi prendiamo tre birre, prima che tu vada,» disse lui, con una voce
intrisa di una gelida sfida.
Risi davanti alla sua ridicola richiesta. Voleva che prendessi delle birre
per loro?
«Ah, no, vi potete prendere le birre da soli.» Stavo cercando di stappare
la mia bottiglia, ma continuava a scivolarmi la mano. Ma non erano di
quelle svitabili? Perché diavolo no?
Lucas mi strappò la bottiglia dalle mani, se la sistemò in mezzo ai
molari e fece saltare il tappo coi denti prima di porgermela di nuovo.
Qualcosa di rovente mi esplose dentro nel guardare le due dita strette
attorno al vetro freddo.
Non avrebbe dovuto essere eccitante, ma… cazzo.
«Pensi che io la voglia, ora che ci è stata sopra la tua bocca?»
domandai, incapace di tirar fuori il mio solito veleno. Era imbarazzante
constatare quanto la mia voce fosse suonata incerta.
Quando Lucas fece una risata, non era piacevole. Non era carina. Era di
quel genere di risate che senti prima che qualcuno muoia in un film
horror.
«Penso che ti piacerebbe la mia bocca su qualcosa in più di questa
bottiglia,» rispose. Vincent e Jason si scambiarono un’altra occhiata
divertita, ed ebbi la chiara percezione che stessero ridendo di me.
«Ehi, ehi, giochiamo pulito, ragazzi,» subentrò Vincent. «Perché non
fai la brava ragazza, Jess? La ghiacciaia è proprio lì.» Guardò alle mie
spalle, sgranando deliberatamente gli occhi. «Le birre, per favore.»
Brava ragazza. Aveva osato davvero chiamarmi così. Quella frase aveva
un modo tutto suo di insinuarsi nel mio cervello e attaccarcisi, il suo
morso velenoso mi faceva tremare le ginocchia e sudare i palmi delle mani.
Una vocina infida dentro di me voleva che obbedissi. Voleva provare la
soddisfazione di cedere.
Con un sospiro furioso, sbattei in mano una birra a ciascuno di loro,
con l’espressione più acida che riuscissi a sfoggiare. Solo perché stavo
obbedendo non significava che avrei fatto la parte di quella che lo faceva
con gioia. Lucas prese la bottiglia dalle mie mani con un’espressione
terribilmente compiaciuta sul viso.
Non gli avrei dato la soddisfazione di un’altra reazione. Evitai il suo
sguardo e lo superai urtandolo e cercando di non inalare troppo a fondo il
suo profumo, anche se mi arrivò lo stesso una zaffata.
Oscuro come il pepe nero, ma c’era una nota di qualcosa di delicato,
come di gelsomino. Mi fece esitare per un momento, e mi si mozzò
appena il respiro quando abbassò lo sguardo su di me.
Dio, perché doveva guardarmi in quel modo? Come se fosse furioso e
affascinato allo stesso tempo. O come se stesse nascondendo qualcosa…
Gli voltai le spalle, solo per trovarmi inaspettatamente faccia a faccia
con un altro problema. Un problema alto, pallido, con gli occhi scuri e un
ghigno che mi fece correre un dito ghiacciato lungo la spina dorsale.
«Gliel’ho detto di essere gentili,» affermò Manson. Ero già rimasta col
fiato sospeso: trovarmi così vicina a lui mi fece dimenticare direttamente
di respirare.
Le sue braccia erano scoperte e, proprio come Lucas, era coperto di
molto più inchiostro rispetto all’ultima volta che l’avevo visto. Il corpo
sinuoso di un serpente era tatuato attorno alle sue spalle, se ne scorgevano
appena le linee da sopra lo scollo della maglietta. Prese la birra dalle mani
di Vincent – che fece un sussulto esagerato per l’offesa – quindi aprì il
tappo e me la porse. «Niente saliva su questa, giuro. Punirò questi clown
più tardi per le loro cattive maniere.»
«Oh, no, papà Manson è arrabbiato!» Vincent scoppiò a ridere. Jason si
portò una mano sul cuore, rivolgendo a Manson un’espressione di
spregevole orrore.
«Ti prego, perdonaci, Jess,» disse lui, con le mani giunte in modo
teatrale. «Di’ a Manson che ci concedi il tuo perdono.»
«No,» sancii con voce piatta, alzando gli occhi al cielo davanti alla loro
pagliacciata, benché mi stessero tremando le budella per il fatto di averli
tutti così vicini a me. Questi uomini avevano calpestato tutto il mio
orgoglio l’ultima volta che li avevo visti, eppure nessuna persona con cui
ero uscita da quel momento in poi era riuscito a replicare, nemmeno alla
lontana, l’esperienza che avevo avuto con loro – una sottomissione
completa e totale, anche se solo per una notte.
E Manson…
Manson mi aveva aperto gli occhi su un mondo di cui non avevo mai
saputo che avrei desiderato così ardentemente fare parte.
Non riuscivo a guardare le sue labbra senza pensare al loro sapore. I
suoi occhi erano intensi. Non pesanti come quelli di Lucas o taglienti
come quelli di Jason. Erano inquietanti, come una silhouette indefinita
nelle tenebre, un sussurro in una casa vuota.
«Mi stai davanti ai piedi,» mormorai con un filo di voce. Gli premetti
due affilate unghie finte sul petto, dandogli una leggera spinta. «Spostati.»
Lo avevo chiamato padrone quella notte, l’ultima volta che l’avevo visto.
Riuscivo ancora a ricordare la sensazione nel farmi scivolare quella parola
sulla lingua. Così dolcemente naturale, così deliziosamente giusto.
Ma non era giusto. Io e lui, io e loro… non avremmo mai potuto essere
giusti.
Manson non si mosse. Allargò le braccia, scrollò le spalle e disse: «Mi
pare che ci sia parecchio spazio per passarmi attorno.»
Certo, avrei potuto tranquillamente passargli attorno, ma ormai era
diventata una questione di principio. Doveva spostarsi perché l’avevo detto
io – e non l’avrebbe fatto per la stessa identica ragione.
Era chiaro che saremmo rimasti in piedi lì a guardarci in cagnesco fino
alla fine dei nostri giorni.
Manson scrutava il mio viso, mentre io gli restituivo uno sguardo
ostinato, e un piccolo sorriso giocherellò su un angolo della sua bocca. «È
davvero così difficile cedere di un centimetro, Jess?»
«Già, Jess.» Jason mi serpeggiò accanto, sorseggiando la sua birra.
«Non riesci a cedere nemmeno un centimetro quando Manson te ne ha
concessi venti?»
Manson sbuffò col naso, fallendo miseramente nel suo tentativo di
trattenere una risata quando la mia faccia si contrasse per l’imbarazzo.
«Allora ci pensi.»
«Scusami?» farfugliai. «Io non penso a un bel niente. Io…» Mi fermai di
schianto davanti ad altre risate di Vincent e Jason, realizzando quello che
avevo appena detto. Stavo andando davvero alla grande nel mio tentativo
di apparire calma e controllata «Io non ci penso, Manson. Perché dovrei
stare ancora lì a rimuginare su una cosa che è successa anni fa?»
Manson sembrava così pieno di sé. Credeva di essere tanto intelligente,
vero? Come se avesse capito tutto, come se avesse capito me.
«Non preoccuparti, Jess, non sei la sola.» Vincent lanciò a Manson
un’occhiata maliziosa. «Anche Manson ci pensa. Ha ancora le tue
mutande nel comodino.»
Ora fu il mio turno di scoppiare a ridere. La soddisfazione di vedere la
faccia di Manson Reed assumere la più lieve sfumatura di rosa mi migliorò
subito l’umore. Lanciò un’occhiata a Vincent e lo informò in tono piatto:
«Dopo ti rompo davvero il culo.»
Okay, era ora di tornare in me.
«Bene, per quanto sia stato divertente, continui a starmi in mezzo ai
piedi,» commentai con un sospiro. «Congratulazioni, sì, avete tutti avuto
la vostra parte. Uuuuh, ho succhiato i vostri cazzi!» Simulai una sventolata
di pompon da cheerleader con le mani. «A quanto vedo, per tutti voi è
stata davvero un’esperienza memorabile. Mi dispiace per la mancanza di
azione nella vostra vita, ma…» Feci spallucce. «Un cazzo è un cazzo, e voi
siete solo quattro sulla lista.»
Saltai quando Lucas mi ringhiò all’orecchio: «E allora dimmi quanti dei
cazzi sulla tua lista avevano un piercing.»
Figuriamoci se non doveva tirarlo fuori. Già non riuscivo a guardarlo in
faccia senza che il mio cervello diventasse un’immensa insegna
lampeggiante con su scritto: Cazzo col piercing. Solo una notte. Fate il
pieno di un bel cazzo di prima qualità con tanto di piercing!
Lucas annuì come se il mio silenzio gli avesse dato ragione. «Già, come
immaginavo. Quello non si dimentica tanto facilmente, eh?»
Avevo bisogno che si allontanassero tutti quanti da me prima di
cacciarmi in un’altra orgia. Battibeccare con loro non mi stava solo
innervosendo – mi stava eccitando. Ogni parola mordace che usciva dalle
loro bocche mi mandava un po’ più su di giri.
Quanto li avrei potuti provocare? Quanto avrebbero potuto provocare
me? Mi piacevano le sfide, ma quegli uomini riuscivano a minare le
fondamenta stesse della sicurezza in me stessa. Non avere la certezza di
vincere, poi, lo rendeva ancora più elettrizzante.
«C’è qualche problema qui?»
Tutti i ragazzi si voltarono. Alex era alle spalle di Manson, con Nate e
Matthew dietro di lui. Le loro espressioni erano truci, le loro posture tese.
Questa festa stava per avere dei problemi molto più seri di qualche futile
sfottò.
Dire che quegli uomini avevano un problema gli uni con gli altri era un
eufemismo. Alex, Nate e Matthew avevano tutti dato manforte al mio ex,
quando era andato a prendersela con Manson, ma Alex e Lucas avevano
già dei trascorsi per conto loro.
Al terzo anno, Lucas aveva spaccato una bottiglia di vetro in testa ad
Alex e lo aveva lasciato privo di sensi nel bel mezzo della mensa. Cinque
punti e una breve degenza in ospedale dopo, Alex era tornato con una
cicatrice, e Lucas non era più rientrato. Espulso.
Riuscivo ancora a vedere la cicatrice sulla fronte di Alex, parzialmente
coperta dai suoi capelli. La gente diceva che Lucas avesse provato a
ucciderlo, ma in tutta onestà io non ci ho mai creduto.
Se Lucas avesse provato a ucciderlo, Alex sarebbe morto.
Avrei fatto meglio a darmela a gambe davanti a quella situazione
incasinata. Ma il mio primo istinto fu quello di mettermi in mezzo fra Alex
e Manson, sfoderare un sorriso dolce e dire: «Nessun problema. È tutto a
posto.»
Alex mi guardò come se l’avessi appena preso a schiaffi. La furia si
impossessò del suo viso, strinse la mascella al punto che gli si gonfiò una
vena bluastra accanto alla tempia. Era fuori strada se pensava di poter
piombare qui e trarmi in salvo come se fossi una donzella in difficoltà.
Quella era la mia resa dei conti. Non mi serviva che mettesse in mezzo
pure i suoi rancori personali.
«Stavamo solo facendo due chiacchiere,» aggiunse Manson. Ero così
vicina a lui che quando si spostò mi urtò contro la schiena. «Tu che mi
racconti, Alex?»
Non capivo come facesse a stare così calmo nel parlare allo stesso uomo
che aveva usato violenza contro di lui in più di un’occasione. Ma quella
non era la prima volta che rimanevo stupita dall’autocontrollo di Manson.
«Non mi lamento,» rispose Alex. «Vi ho visti tutti arrivare. Ho notato
che non avete portato El Camino stasera.» Fece un sorriso, ma non
coinvolse anche i suoi occhi. «Peccato che qualcuno l’abbia graffiata con
una chiave.»
«Sei ancora in debito con me per quello,» gli fece presente Lucas in
tono cupo. Si era avvicinato, perciò adesso era proprio al fianco di
Manson, con un odio gelido dipinto su tutta la faccia.
«Rilassati, Bent,» fece Alex. «Non sono stato io a toccare la tua dannata
macchina. Ma anche se l’avessi fatto, sarebbe stato equo. Tu mi hai
sfregiato la testa, io ti sfregio la macchina.» Fece spallucce. «Saremmo
quasi pari.»
Ci fu un movimento e Manson mi venne a sbattere addosso. Lanciai
un’occhiata dietro di me per vedere che Manson aveva tirato fuori il
braccio per impedire a Lucas di scagliarsi in avanti. Teneva Lucas fermo
per il petto, mentre la mano di Vincent era aggrappata alla spalla di Lucas
e Jason, da dietro di lui, mormorò a bassa voce: «Lascia perdere, fratello.»
Ma Lucas sembrava ben lungi dal lasciar perdere. Matthew aveva i
pugni serrati e Nate fece scrocchiare le nocche, con una tensione sempre
più densa a ogni schiocco rumoroso.
«La volete piantare tutti quanti?» sbottai. «Gesù Cristo, che cosa siamo,
dei sedicenni?»
«Non sapevo che fossi una simile pacifista, Jess,» commentò Alex.
Almeno aveva finalmente staccato gli occhi da Lucas. «All’improvviso
credi che loro siano dei bravi ragazzi, ora che ti sei scopata uno di loro?»
Deglutii a fatica, incrociando le braccia sul petto. Non avevo detto a
nessuno, a parte alla mia migliore amica Ashley, di essere andata con
Manson. Ma a quanto pareva la voce si era diffusa lo stesso.
Alzai il mento, sapendo che la sicurezza personale valeva di più di
qualsiasi altro insulto meschino. «Oh, mio Dio, Alex, fattene una ragione.
Dico sul serio, smettila di fare il coglione. Vuoi davvero finire con
qualcuno che chiama la polizia e la festa che viene smantellata prima del
previsto?»
«È una minaccia?» Alex fece un passo verso di me, e io rimasi stupita
per la velocità con cui aveva dirottato la sua rabbia su di me.
Si udì un suono flebile, del metallo che tintinnava contro altro metallo.
Alex si contrasse e alzò lo sguardo dalla mia faccia.
«Io ti suggerirei di farti indietro,» mormorò Jason a voce bassa. Si era
fatto avanti per venirsi a mettere alla mia sinistra, e Manson si fece più
vicino alla mia schiena. Vincent arrivò alla mia destra, continuando a
tenere la spalla di Lucas stretta in una morsa.
«Rilassati, McAllister,» disse Vincent, il suo tono solitamente gioviale
ora era di diversi toni più profondo. «C’è abbastanza spazio per tutti noi
qui, non credi?»
A giudicare dall’espressione di Alex, l’intera città non era abbastanza
spaziosa per tutti loro. Si passò la lingua sui denti e scosse la testa.
«Lo sapevo che eravate tutti dei codardi,» sancì. La sua bocca si
contorse per il disgusto, i suoi occhi erano puntati dritti su Lucas. «È una
fortuna che tu abbia i tuoi amici con te ad assicurarsi che non ti imbarchi
in risse che non puoi vincere.»
Lucas si scagliò in avanti, e stavolta nemmeno Manson e Vincent
riuscirono a trattenerlo. Si parò davanti a me, proprio davanti alla faccia
di Alex, e i due rimasero a fissarsi coi pugni serrati.
«Mettimi alla prova, pezzo di merda,» sibilò Lucas. «Avanti. Mettimi
alla cazzo di prova.»
Alex allargò le braccia. «Sono proprio qui! Hai troppa paura per tirare
un pugno?»
Ero sicura che a breve avrei assistito a uno spargimento di sangue. Ma
Manson si sporse, abbrancò la spalla di Lucas e lo strattonò indietro. Per
un momento, Lucas sembrava così livido che credetti che la sua rabbia
avrebbe trovato un nuovo bersaglio, ma Manson non vacillò.
«Se avete un conto da regolare, fatelo dietro un volante,» propose,
spostando gli occhi fra Lucas e Alex. «Questa è una stronzata.»
«Ditemi solo dove e quando,» fece Alex.
«Venerdì prossimo,» dichiarò Lucas conciso. «Ci vediamo al ponte di
Ellis Street, alle dieci di sera.»
Alex sogghignò. «Molto bene, ci sarò. Meglio che ti porti dietro i tuoi
amici.» Mi rivolse uno sguardo, i suoi occhi indugiarono abbastanza a
lungo da scatenarmi una sensazione di disagio nello stomaco. «È davvero
buio su quelle vecchie strade. Non è sicuro vagare da quelle parti da soli.»
Stava parlando con Lucas, ma sembrava più un avvertimento a me. «Ci
vediamo.»
Alex sputò per terra prima di voltarsi e andarsene, e i suoi amici si
mossero con lui. Tornarono da Danielle, che mi stava fissando con gli
occhi spalancati come se non riuscisse a dare un senso a quello che stava
accadendo. Rimasi con il cuore in gola e l’energia nervosa che mi rivoltava
lo stomaco.
Poi colsi il lampo di una lama che veniva riposta nella tasca di Manson.
«Che diavolo c’è che non va in te?» Trasalii. Lo sguardo di Manson era
ancora fisso su Alex, le sue dita affondate nella spalla di Lucas. «Non
cominciare con certe cazzate. Il coltello? Veramente?»
«Non cominciare con certe cazzate, dice lei.» Lucas scosse la testa e si
liberò dalla presa di Manson, passandosi rudemente una mano sui capelli
rasati. Sollevò la birra, scolò tutta la bottiglia e bofonchiò: «Ho bisogno di
un altro fottuto drink.»
Le persone ci stavano guardando e parlottavano fra di loro. Ma non mi
sentii vulnerabile fino a quando i ragazzi non si allontanarono da me,
facendo finalmente quello che gli avevo chiesto fin dall’inizio e togliendosi
di mezzo. Una volta che ebbero fatto un passo indietro, il coraggio che
avevo provato quando mi ero messa tra Manson e Alex svanì.
Manson mi stava osservando in modo strano, con un’espressione
illeggibile. Lanciai un’occhiata a Danielle, che mimò con le labbra: Che
stai facendo?
Un’ottima domanda, a cui non avrei nemmeno saputo rispondere.
Feci un sospiro pesante e voltai le spalle a Manson e agli altri. Mi si
stavano congelando le dita per quanto stavo stritolando la mia birra, ed
ero pronta per tornare a passare una bella, normale serata fuori.
Avevo bisogno che quella sensazione dentro di me si spegnesse. Quel
bizzarro, vergognoso anelito. Quella percezione di essere stata io a fare
qualcosa di sbagliato.
«Pensi di poter continuare a fingere che non sia successo?»
Mi voltai. Manson mi stava sogghignando, con le mani infilate nelle
tasche dei jeans. L’espressione che prima avevo trovato illeggibile ora era
inconfondibile. Era rabbia. Ce l’aveva con me.
Tornai da lui. «Cosa diavolo significa?»
Il suo sorrisetto si allargò ora che mi trovavo faccia a faccia con lui. «Le
tue guance sono diventate tutte rosse non appena ci hai visti. Tu fantastichi
su quello che è successo.» Aprii la bocca per protestare, ma lui mi
interruppe. «Non era una domanda. È ovvio. Tutte le volte che ti metti in
ginocchio per qualche bel bamboccio senza cervello, pensi che sarebbe
molto più divertente se ti ordinasse di farlo, dico bene? Magari senti
perfino la mia voce nella tua testa, che ti dice di inginocchiarti come una
brava ragazza, e ti bagni abbastanza da riuscire a godere con quel cazzo
scadente con cui ti sei presa in giro negli ultimi anni.»
La furia ribollì dentro di me, traboccò e mi ustionò ogni singolo arto.
«Come osi dirmi questo…»
«Perché? È la verità. Te lo leggo negli occhi, Jess, lo vedo.» I ragazzi
stavano guardando, ma Manson tenne la voce bassa. «So che faccia hai
quando menti. Volevi che quella notte fosse solo un piccolo esperimento
divertente. Tutti sono sfrenati al college, giusto? Niente di grave.»
Abbassò ancora di più la voce e avvicinò la bocca al mio orecchio. «Ma
cosa succede quando l’esperimento è troppo bello? Che si scopre che sei
pervertita quanto i reietti, ma questo non si adatta ai grandi progetti di
vita di Jessica Martin, non è così?» Il veleno sgocciolava dalla sua voce,
era così incredibilmente adirato che trattenni il respiro. «Vai a caccia di
cazzi e ti rendi conto che nessuno di quelli va ugualmente bene. Non è la
stessa cosa. Quindi chiudi gli occhi e immagini che, al suo posto, ci sia
uno di noi.»
Lo guardavo con assoluta incredulità. Ero così furibonda che mi fidavo
a malapena di parlare. «Sei disgustoso.»
Annuì lentamente, come se si fosse aspettato questa reazione fin
dall’inizio. «Buona serata, Jess.»
Feci uno sbuffo derisorio. «Che fai, mi liquidi così?»
«Hai passato gli ultimi cinque minuti a dirmi di togliermi di mezzo,» mi
fece notare, voltandosi per prendere una birra anche lui. «Mi sono tolto di
mezzo. Hai ragione. Non dovrei cominciare con certe cazzate. Ho
commesso quell’errore l’ultima volta.»
Errore. Quindi ero stata solo un errore per lui.
Tutte le parole furenti che avrebbero voluto uscirmi di bocca non
vennero fuori. Mi faceva male il petto e mi tremavano le mani. Aveva
ragione, ma non avrei mai potuto ammetterglielo.
Me ne andai prima che mi uscissero altre parole sciocche. Ero stata io a
non farmi più viva con loro. Io. Era stata una mia scelta, e non me la sarei
rimangiata di certo adesso.
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9
Jessica
«Va bene, accidenti, che diavolo è successo?» Danielle mi stava ancora
scrutando quando mi sedetti accanto a lei, con un’espressione a metà tra
l’orrore e l’incredulità. «Ti stavano molestando, Jess? Sembrava una scena
così inquietante che ho dovuto dire ai ragazzi di venire a controllare come
stessi.»
«Sto bene,» risposi in tono secco. Ero dolorosamente consapevole di
tutti gli occhi che avevo addosso. Alex mi stava fissando apertamente
dall’altra parte del falò, Nate e Matthew mi stavano sbirciando di
sottecchi.
Ma al di là delle fiamme, dal capo opposto della radura tra gli alberi, mi
stavano guardando anche Manson, Lucas, Vincent e Jason.
Lasciammo cadere quell’argomento, ma il mio cervello non riuscì a
lasciarlo andare, nemmeno dopo che ebbi finito il mio drink e ne ebbi
preso un altro. Il mio sguardo era continuamente attirato da quei quattro
uomini in piedi nella mia visione periferica. Sembrava che non gliene
fregasse più niente che fossi qui, ma questo serviva solo a irritarmi ancora
di più.
Continuavo a cogliere dei brevi spezzoni delle loro conversazioni anche
da lontano, le loro voci per me spiccavano rispetto alle altre. Volevo
disperatamente sapere cosa si stessero dicendo.
Stavano parlando di me? Dio, quant’ero patetica anche solo a
domandarmelo?
Mi alzai dalla sedia, interrompendo Danielle nel bel mezzo della sua
frase. «Devo andare a fare pipì. Torno subito.»
Mi allontanai dal falò, mi diressi verso la mia macchina parcheggiata e
poi oltre, cercando un po’ di privacy tra gli alberi. Almeno qui fuori era
più tranquillo, a parte il fragore dei fuochi d’artificio in cielo. Mi dava la
possibilità di pensare.
Cosa diavolo aveva voluto dire Manson, definendo quello che avevamo
fatto un «errore»? Non avrebbe dovuto importarmi, ma quello che mi
aveva detto mi stava entrando sottopelle. Mi portava rancore perché la
storia non era andata avanti, ma me lo portavano anche tutti gli altri
ragazzi che avevo rifiutato. Perché mi importava?
Mi sbrigai a fare i miei bisogni e mi pulii. Non mi sentivo pronta per
tornare al falò e sfoggiare un finto sorriso strafottente. Non ce la facevo.
Appoggiai la schiena al tronco di uno degli alberi e feci un respiro
profondo.
Quello era solo un dramma a termine. Sarei rimasta a Wickeston
soltanto per qualche altro mese. Una volta che la Smith-Davies mi avesse
passato al tempo pieno, sarei stata fuori da quella città.
Ma questo non mi fece sentire meglio. Non mi sembrava di risolvere il
problema, soltanto di scappare da esso.
Inclinai la testa all’indietro per la frustrazione, le braccia incrociate sul
petto. Quella era una stronzata. Da quando avevo paura di affrontare
qualcuno e dirgli la verità in faccia?
Probabilmente da quando Manson mi aveva fatto capire che la mia
verità era spaventosa e sconcertante.
Ci fu un enorme boato in alto e delle scintille colorate illuminarono il
cielo. Alla festa si stavano alzando i toni: la gente urlava e si sentiva il
rumore di vetri infranti. Una parte di me voleva sgattaiolare via e
tornarsene a casa.
Sbirciai dietro l’albero, puntando lo sguardo nell’oscurità, quando dei
passi si avvicinarono rapidamente. Era Manson, ma non mi aveva ancora
vista. Si fermò a una decina di metri da me, dandomi le spalle. Si passò le
dita tra i capelli e fece un sospiro pesante quando li avvinghiò.
Sembrava frustrato. Quasi ansioso. Apparentemente, non ero l’unica
infastidita da tutto questo.
Tirò fuori il coltello dalla tasca posteriore dei pantaloni e se ne rimase lì,
ad aprirlo e chiuderlo pigramente. Era un’arma insolita, o almeno così
pensavo. Era un coltello a serramanico, quindi la lama si infilava dentro il
manico e doveva essere aperta. Ma Manson lo faceva sembrare facile,
come se fosse una seconda natura per lui.
Ci giocherellò per un po’ senza concentrarcisi troppo, fissando gli
alberi. Ma doveva aver commesso un errore, perché quando girò di nuovo
il coltello, la lama gli prese il dito e lo tagliò.
Manson sibilò, e io trasalii, e lui si voltò all’istante. Si chinò lentamente
e raccolse il coltello dal punto in cui gli era caduto. Il sangue gli colava
lungo il dito mentre mi guardava con un’espressione guardinga.
«Che ci fai qui fuori?» chiese.
Scrollai le spalle. «La stessa cosa che fai tu, immagino. Solo che io non
mi sono tagliata.»
Fece un suono che avrebbe potuto essere una risata, ma non stava
sorridendo. Si passò il polpastrello del pollice sul dito sanguinante,
meditabondo. «È quello che succede quando si gioca con i coltelli. Prima
o poi ci si taglia.»
«Forse non dovresti giocarci, allora.»
Annuì. Come per assicurarsi di esserne in grado, fece scattare di nuovo
il coltello. Le sue dita erano rapide e leggere quando la lama si aprì. Il
metallo sembrava incredibilmente fluido mentre lo manipolava nell’aria e
lo afferrava con la mano opposta.
All’improvviso, sentii molto più caldo.
«Sono un po’ masochista, suppongo,» commentò a bassa voce, come se
stesse parlando più a sé stesso che a me. «Se non si corre alcun rischio,
che divertimento c’è? È stata colpa mia. Non l’ho gestito nella maniera
corretta. Il coltello ha fatto il suo dovere.»
Uscii da dietro l’albero e mi avvicinai a lui senza nemmeno realizzare
quello che stavo facendo. Stava scrutando incuriosito il suo dito
sanguinante, con la fronte aggrottata.
«Forse dovresti smussare la lama,» proposi, e lui si fece beffe.
«Sapevo in cosa mi stavo cacciando quando l’ho comprato, Jess,»
spiegò. «È fatto apposta per essere tagliente, per essere pericoloso. Posso
allenarmi quanto voglio, ma se perdo la concentrazione, allora mi taglio.»
Perché avevo il sentore che non stesse più parlando del coltello?
Non sapevo cosa dire. Conoscevo un milione di cose che avrei dovuto
dire, ma non sapevo da dove cominciare.
La sua faccia era parzialmente nascosta dalle ombre. «Hai paura di
me?»
Avrei dovuto averne. Lui lì con un coltello in mano e il sangue sulle
dita… Probabilmente avrei dovuto esserne terrorizzata.
Ma non lo ero. Scossi la testa.
Venne verso di me finché non mi fu proprio davanti. Puntai gli occhi
sulla sua gola, la vidi oscillare quando deglutì, quindi seguii con lo
sguardo la pelle d’oca sul suo corpo e l’inchiostro impresso nella sua
carne.
«Jess.»
Alzai gli occhi. I suoi erano quasi neri nella notte.
«Che ci fai qui fuori?» Ripeté la domanda, ma era diversa stavolta.
Sottintendeva qualcosa di diverso.
Che ci facevo lì fuori?
«Sto giocando con delle cose con cui non dovrei,» ammisi con un filo di
voce.
Si avventò su di me a una tale velocità che non ebbi il tempo di
emettere un suono. Mi spinse indietro contro l’albero e piantò la lama del
coltello dritta nel tronco sopra la mia testa, il braccio teso per aggrapparsi
al manico. Il tonfo del momento in cui trafisse il legno mi fece martellare il
cuore, il brivido del pericolo mi scatenò dei brividi in tutto il corpo.
Sollevò la mano insanguinata e me la accostò alla guancia, ma non
abbastanza vicino da toccarmi.
«Potresti tagliarti con dei giochi del genere.» La sua voce era brutale, e
il mio stomaco fu scosso da un fremito. Le sensazioni erano così diverse al
buio.
Alzai una mano, con cautela, verso il punto in cui si trovava la sua,
accanto al mio viso. Mi sentii come se due magneti si fossero uniti quando
misi le dita attorno al suo polso. «Non ho paura di un po’ di sangue.»
Mi cinse la guancia con la mano e le sue labbra si schiantarono sulle
mie. Fui completamente sopraffatta nel giro di mezzo secondo, tutta l’aria
mi venne risucchiata dai polmoni e il mio cervello andò in cortocircuito e
finì nel caos. Mi baciò come se stesse cercando di dimostrare qualcosa,
come se mi stesse punendo. Ci staccammo, e le sue dita scorsero sulla mia
bocca…
Mi leccai il labbro e sentii il sapore del ferro. Lui rabbrividì e qualcosa
di ferale guizzò sulla sua espressione.
«Dannazione, Jessica.» La sua voce era intrisa di un dolore disperato.
Manson era così pesante addosso a me, e a me piaceva fin troppo. Mi
piaceva il suo sapore, come il suo sangue risultasse metallico e dolce sulla
mia lingua.
C’era qualcosa che non andava in me. La gente normale non faceva
quella roba, giusto? Ma nessuno poteva vederci. Nessuno doveva sapere…
Il suo bacio seguente fu languido. Tutto il suo corpo si mosse assieme a
esso. Si levava sopra di me, mi soverchiava, mi riempiva il cervello con
quello spazio ampio e vuoto pieno solo di sensazioni.
Era bello come lo ricordavo. Anche meglio. Avevo cercato di
convincermi di aver condito il tutto di romanticismo nella mia mente, ma
no. Manson era tutto ciò che ricordavo. Il suo sapore, il suo odore, il suo
corpo.
Staccò il coltello dal tronco e mi prese la mano. Tenne il mio palmo
sollevato in mezzo a noi e mi accarezzò lentamente le dita col pollice.
«Non hai paura?» Mi scrutava con attenzione. Avrebbe capito se avessi
mentito.
Scossi la testa. «No.»
Premette con delicatezza la punta acuminata della lama sul polpastrello
del mio dito medio. Avvertii una lieve puntura quando la mia pelle si
fendette e risalì il sangue in superficie. Tracciò lentamente col coltello
delle lineette e io rimasi ipnotizzata dalla vista.
Quello che lasciò impresso sul mio dito fu un piccolo cuore. Il dolore
non era nemmeno fastidioso come quando ci si taglia con la carta, allora
perché mi sentivo come se mi avesse incisa chissà quanto in profondità?
Si infilò il mio dito in bocca e lo pulì con la lingua. Riuscivo a malapena
a respirare. Non riuscivo a udire altro che il battito del mio cuore che mi
martellava nelle orecchie. La sensazione della sua bocca che mi
avviluppava era così dannatamente erotica che mi venne voglia di
prenderlo, scavare dentro di lui, strappargli quella maglietta dal corpo e…
«Indossi la mia felpa,» dichiarò. Era un’accusa, come se l’avessi fatto
apposta.
Non avevo fatto apposta nulla di tutto quello. Era successo e basta, e a
quel punto non sapevo cosa fare.
Mi guardai il dito e permisi al sangue di affiorare di nuovo prima di
premerlo contro il colletto della sua maglietta. Parve confuso finché non
dissi: «Ora anche tu mi indossi.»
«Ehm… Jess? Che sta succedendo?»
Ci voltammo entrambi. Danielle era in piedi a una certa distanza e ci
stava fissando nella confusione più totale, mentre eravamo illuminati dalla
sua torcia elettrica. Manson si sbrigò a mettere via il coltello, e io nascosi il
mio dito sanguinante dietro la schiena.
«Io, ehm… stavo tornando,» affermai.
Alzai gli occhi su Manson. La sua espressione era di nuovo sbarrata, la
disperazione che avevo colto sul suo viso completamente celata. Non
avevo idea di cosa dire. Qualunque cosa fosse appena successa – quel
momento di caos, quei brevi minuti in cui avevamo perso il controllo –
sembravano quasi come fossero stati solo un sogno.
Ma quel sogno aveva lasciato il proprio segno sotto forma di sangue.
Mi voltò le spalle, senza fare alcun cenno a nessuna delle due prima di
andarsene via, con le mani infilate nelle tasche. Lo guardai allontanarsi
finché non scomparve dietro le macchine parcheggiate.
Danielle accorse da me. «Stai bene? Che è successo?»
Mi infilai la mano nella tasca posteriore, premendo il taglio contro il
denim. Non sapevo quanto avesse visto Danielle, e il solo pensiero mi fece
contrarre lo stomaco per la preoccupazione. «Sto bene. Non era… non
era nulla.»
«Ragazza, quello era tutt’altro che nulla. Che cosa stavate…» Si bloccò
all’improvviso. «Oh, mio Dio, aspetta. Tu sei andata a letto con lui qualche
anno fa, non è vero? Porca merda. Pensavo fosse stata solo una diceria.»
«Lasciamola tale,» replicai con voce tirata.
Per fortuna annuì senza indugio.
«Oh, certo, ovviamente non lo racconterei mai a nessuno! Quello,
beh… creerebbe davvero una spaccatura nel gruppo.» Abbassò la voce.
«Di sicuro non lo facciamo scoprire ad Alex. Sai che ha un debole per te.»
Quasi gemetti. «Già. Ci ero arrivata.»
«Ma io non glielo dirò.» Mi rivolse un sorriso dolce e si mise a
braccetto con me. «È il nostro piccolo segreto, tesoro.»
***
Quella notte andai a dormire a casa di Danielle e Nate. Il mattino
seguente mi accompagnò a riprendere la mia macchina, lagnandosi del
fatto che sarebbe dovuta andare in ufficio con i postumi di una sbornia.
Ribadì per l’ennesima volta che non avrebbe detto a nessuno di aver
visto me e Manson in mezzo agli alberi. Ma anziché essere rassicurata, mi
sentivo più come se lo stesse usando contro di me.
«Ci vediamo alla corsa di venerdì!» esclamò, salutandomi con la mano
dal finestrino mentre si allontanava.
Stavo cercando di evitare il melodramma, di non tuffarmici a capofitto.
La gara scaturita dal rancore fra Lucas e Alex era destinata a finire male, a
prescindere dal vincitore. Ma non potevo negare di essere molto curiosa.
Tutte le volte che mi guardavo la mano e vedevo la crosta a forma di
cuore intagliata nel mio dito, ero pervasa da uno strano senso di colpa e di
rabbia. Avrebbe lasciato una cicatrice? Quel momento nel bosco avrebbe
fatto parte di me per sempre, l’ennesimo legame a degli uomini che non
avrei dovuto desiderare?
Un altro segno della mia indecisione?
Giovedì, Danielle mi fece una telefonata per chiedermi se volessimo
cenare insieme prima della gara, insistendo sul fatto che era un evento da
non perdere.
«Alex vincerà a mani basse,» commentò. «E sai che impazzirebbe se tu
fossi presente.»
Non mi piaceva il tono subdolo nelle sue parole. Le avevo detto che
non ero interessata ad Alex, ma lei sembrava risoluta a perseverare
comunque su quella strada. Prima mia mamma, e ora pure Danielle? Per
quale diavolo di motivo la gente non ce la faceva a tenere il naso fuori
dalla mia vita amorosa?
«Tu, io e Candace possiamo metterci comode, rilassarci e ubriacarci
mentre i ragazzi possono fare la loro gara a chi ce l’ha più grosso,» disse.
Non mi veniva davvero in mente nessuna ragione valida per dire di no a
una serata fuori passata a ubriacarmi, quindi confermai che ci sarei stata.
Candace era un’altra amica dai tempi del liceo che non vedevo da un
po’. Era un tantino svampita, ma le piaceva divertirsi.
Ed era quello di cui io avevo bisogno, una serata di svago per provare a
me stessa che ero in grado di stare in presenza di Manson e i suoi amici
senza trasformarmi in una scema turbata.
La sera del venerdì, mi incontrai con Danielle e Candace per cena
prima di dirigerci insieme a Ellis Street. Si trovava proprio al confine della
città, un lungo rettilineo completamente privo di lampioni e circondato da
ambo i lati dalla campagna aperta. Si erano dati tutti appuntamento al
ponte, e c’erano già non meno di una dozzina di persone quando svoltai
dietro Danielle e parcheggiai sul terreno.
Lo scroscio del torrente e il frinire dei grilli riempiva l’aria mentre
camminavamo insieme verso il punto in cui Alex, Nate e Matthew stavano
aspettando, a fianco all’Hellcat.
«Accidenti, allora alla fine hai deciso di venire,» mormorò Alex
abbracciandomi. Si era messo tanta di quell’acqua di colonia che, quando
mi allontanai, ero pronta a giurare che mi sarebbe comunque rimasta
appiccicata addosso.
«Ma certo che sono venuta,» replicai, come se fosse scontato. «Non mi
sarei persa per nulla al mondo l’occasione di vedere cosa è in grado di fare
la tua bambina, no?»
Mi rivolse un’occhiata strana, che non riuscii del tutto a decifrare. Il suo
concorrente non era ancora arrivato, quindi non c’era molto altro da fare
che bere e aspettare. Danielle aveva portato per noi dei contenitori termici
per il vino, e noi tre ci sistemammo su un guardrail accanto al ponte e ci
mettemmo a bere.
«Ho spinto più e più volte Nate a dare una piccola imbeccata a suo
padre e informarlo che Lucas sarà qui stasera,» fece Danielle, ridendo nel
guardare il suo fidanzato lanciare la propria bottiglia di vino dal ponte per
mandarla a schiantarsi sulle rocce sottostanti. «La polizia farebbe i salti di
gioia davanti all’occasione di arrestarlo.»
«Per cosa?» chiesi, tamburellando furiosamente con le dita sul mio
drink. «Per una gara d’accelerazione? Sarebbe fottuto anche Alex.»
Danielle fece un sospiro. «Già, penso sia per quello che Nate non mi ha
dato retta.»
«Un ragazzo come Lucas tanto finirà comunque in prigione prima o
poi,» subentrò Candace. «Vizio di famiglia.»
Stavo per chiederle cosa intendesse, quando un rombo distante catturò
la mia attenzione. Man mano che il rumore si faceva più vicino, sulla folla
cadde il silenzio, e si voltarono tutti a guardare il ponte in trepidante
attesa. Alex era appoggiato alla sua macchina e stava sorseggiando una
birra, con lo sguardo puntato sui nuovi arrivati.
La El Camino di Lucas era ben piantata a terra, ricoperta di una
cromatura scintillante e di una vernice nera come la pece. Il motore
produceva un rombo piuttosto chiassoso mentre Lucas percorreva la
strada per andarsi a fermare accanto ad Alex, ma quando premette il
piede sul pedale del gas, il ruggito raggiunse dei decibel assordanti. La
familiare Subaru blu alle sue spalle parcheggiò dall’altro lato della strada,
e da essa scesero Vincent, Jason e Manson.
«Non pensate che sia strano che quelli stanno sempre insieme?»
domandò Candace. «Voglio dire, vanno tutti insieme anche agli
appuntamenti con le ragazze?» Scoppiò a ridere, e lo stesso fece Danielle,
ma io non riuscii a racimolare alcun entusiasmo.
Era una scelta saggia la loro di restare uniti. Venire da soli avrebbe
significato andare in cerca di guai – del resto lo era in generale presentarsi
qui.
Suppongo che non avessero timore di finire nei guai. Manson me lo
aveva detto apertamente del resto, no? Se non si correva un rischio, che
gusto c’era?
Lucas scese dal lato del passeggero e spense una sigaretta sull’asfalto.
Gli bastò far vagare gli occhi solo per pochi secondi prima di fermarli su
di me. Avevo sempre pensato di essere in grado di lanciare delle occhiate
crudeli e sprezzanti, ma Lucas dimostrò di essere un avversario di tutto
rispetto in quel campo. Mi sbirciò al volo da capo a piedi e poi si voltò
come se non fossi nemmeno lì.
Menomale che non dovevo scaldarmi. Fui piccata all’istante.
«Oddio, arriva Miss Dramma,» borbottò Danielle. Non avevo notato
nessun altro arrivare, troppo distratta a guardare i ragazzi che si erano
radunati attorno al lato più lontano della El Camino. Ma girai la testa
all’annuncio di Danielle e gemetti quando mi accorsi di chi si stava
avvicinando, circondata dal proprio branco di amichette.
Veronica Mills. La ragazza con cui mi aveva tradita il mio ex. Lunghi
capelli neri, curve da urlo, sorrisetto spavaldo. Aveva tutte le carte della
ragazza sexy con un ego che non era affatto da meno, e dal modo in cui si
stava pavoneggiando mentre si faceva strada dalla folla, compresi che non
era cambiato molto dall’ultima volta che l’avevo vista.
«Non la sopporto,» si lagnò Candace.
«Se lei e il diavolo stessero affogando e io ne potessi salvare solo uno,
girerei i tacchi e me ne andrei,» aggiunsi io.
«È venuta qui solo per arruffianarsi i suoi nuovi bad boy preferiti,» mi
informò Danielle, guardandomi e strizzandomi l’occhiolino.
Un attimo… era qui per fare cosa?
Fu allora che mi resi conto di dove era diretta Veronica. Di certo non
dal nostro lato della strada, non verso Alex.
Era qui per Lucas.
Oh, no. Ma col cazzo.
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10
Lucas
Mi ero presentato alla gara quella sera per una ragione e una soltanto:
vincere. Non mi interessava di regalare a questi sfigati una serata di
spasso. Non ci pensavo proprio a mettere in scena un grande spettacolo
melodrammatico. Era quello che questa gente sperava. Volevano vedere
Lucas Bent, il ragazzo che non riusciva a controllare il proprio
caratteraccio, perdere di nuovo il controllo.
Ma come aveva detto Manson, avremmo sistemato la questione al
volante.
Correvo in auto solo per la scarica di adrenalina che mi dava. Era uno
dei modi meno distruttivi che avevo trovato per scaricare la mia energia
repressa, una valvola di sfogo per l’elettricità ansiosa che mi faceva
tremare le membra e annebbiare la mente. O facevo quello o combattevo,
o così o la droga, e gli altri ragazzi avevano fatto del loro meglio per
tenermi lontano da entrambi. Benedetti i loro cuori teneri.
La velocità e la potenza delle corse erano impareggiabili. L’adrenalina,
le decisioni prese in una frazione di secondo, in bilico sull’orlo della
completa distruzione: bramavo ardentemente tutto quello.
Alex cominciò a guardarmi in cagnesco nell’istante in cui scesi
dall’auto, e il suo viso si incupì ancora di più quando gli feci un semplice
cenno del capo e nient’altro. Aveva invitato tutta quella gente lì per
assistere alla sua stessa umiliazione – solo che non se n’era ancora reso
conto. Aveva persino invitato…
Cazzo. Jessica era lì.
Mi avvidi troppo tardi di evitare di guardarla. Era stata una maledetta
tentazione sin dalla prima volta che l’avevo incontrata e non era cambiato
nulla negli anni successivi. Il suo vestitino corto le lasciava le gambe
scoperte, le tette seducenti erano incorniciate dal corpetto. Era troppo
bella, dannazione, e non era giusto.
Una rapida occhiata, e l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era sbatterla
sul retro della mia macchina e scoparla fino a farle urlare il mio nome.
Dimostrare a tutti gli stronzi qui, una volta per tutte, qual era il posto che
le spettava esattamente.
A chi apparteneva esattamente.
Fai lo stronzo con uno di noi, fai lo stronzo con tutti noi. O sei con noi
o sei contro di noi. Forse agli altri non davano problemi i giochetti di Jess,
ma per quanto mi riguardava mi faceva sentire sul punto di perdere la
testa. Camminava sul filo del rasoio della mia pazienza, un filo che era
diventato così tremendamente sottile che ero scioccato che riuscisse a
restarci in equilibrio sopra.
I fari illuminavano il suo sguardo – i suoi occhi dello stesso verde scuro
delle foglie di una quercia in piena estate. Sembravano sempre scaltri,
come se si scrutasse attorno, concentrata, come se avesse un milione di
cose che turbinavano dietro quegli occhi. E la sua bocca – la sua dannata
bocca. Era un peccato per una donna avere delle labbra così.
Ricordavo alla perfezione le sensazioni che mi avevano dato, calde e
morbide intorno alla mia erezione, mentre quegli occhi mi avevano
sbirciato dal pavimento. Quell’immagine di lei mi era rimasta impressa nel
cervello: quanto era sembrata sbigottita quando il mio cazzo col piercing
le aveva colpito la parte posteriore della gola, come i suoi occhi si erano
riempiti di lacrime mentre si era sforzata per prendermi fino in fondo.
La tensione che si era accumulata dentro di me per tutta la settimana
andò peggiorando. Se Jess voleva guardare Alex correre, allora lo avrebbe
visto perdere. Non avevo idea del perché cazzo considerasse quel bastardo
suo amico. D’altro canto, si era sempre circondata di individui della
peggior specie, come uno scudo di teste di cazzo intorno alla sua stessa
insicurezza.
Probabilmente Alex era ancora convinto di avere una chance con lei.
Ricordavo ancora quello che gli era uscito di bocca su di lei, le cose che
aveva detto quando lei e il suo ex non lo sentivano.
Era così che era cominciata tutta quella dannata faida. Quando avevo
spaccato una bottiglia in testa ad Alex, non l’avevo fatto solo perché ero
alle prese con dei problemi nella gestione della rabbia. Era stato causato
dalle cose che aveva detto su di lei, vantandosi di aver visto delle foto di
Jess nuda sul cellulare di Kyle. Che fosse vero o meno, non aveva
importanza. Avrei voluto ucciderlo, cazzo, e lui era stato fortunato che
non l’avessi fatto.
Jess era una stronza, ma Alex era peggio. Se c’era qualcuno che poteva
prendersi gioco di lei, quelli eravamo io o i miei ragazzi.
Mi unii a Manson, Jason e Vincent dall’altra parte della strada. Jason
non sembrava contento della quantità di persone presenti, passava al
setaccio la folla con il cappuccio del giubbetto calato sulla fronte. Avevo
detto loro che non era necessario che si presentassero tutti, ma non ne
avevano voluto sentir parlare.
Ora che eravamo qui, ero felice di non essere solo. Tutte le persone che
erano venute ad assistere erano amiche di Alex. Eravamo ai margini della
città, senza nessun altro in giro. Un luogo ideale per una gara di velocità,
ma anche per un’imboscata.
«Sembrano venuti tutti a vedere il sangue,» commentò secco Jason, le
spalle sempre più curve quando si infilò le mani nelle tasche. «C’è
qualcosa che mi puzza in questa situazione.»
«State vicini gli uni agli altri,» disse Manson. «Non permettete a
nessuno di stuzzicarvi.»
Avrei tanto voluto che qualcuno mi stuzzicasse. Avevo voglia di
picchiare qualcosa, soprattutto quando Alex accese all’improvviso il
motore e urlò dal finestrino del passeggero: «Forza, Bent! Andiamo,
cazzo!»
Jason e Vincent rimasero vicino alla WRX mentre Manson mi
accompagnò verso la macchina. Mi sistemai al posto di guida mentre Alex
stava bruciando gli pneumatici, il fumo che si riversava sull’asfalto.
«Ce l’hai in pugno,» mi mormorò Manson a voce bassa, appoggiato al
mio finestrino abbassato. «Ricorda cosa vuole veramente lui da tutto
questo. Cercherà una scusa per attaccare briga.»
«Allora non perderò la calma,» risposi, annuendo lentamente. «Una
delle mie migliori qualità.»
Potevo vedere Jess da qui, seduta vicino al guardrail accanto al ponte.
Mi stava guardando – ci stava guardando. Aveva gli occhi spalancati, il
fumo delle gomme di Alex le si arricciava attorno ai piedi. Per quale
diavolo di motivo era lì, a farsi coinvolgere in una situazione del genere?
Aveva bisogno di qualcuno che la proteggesse da tutte queste meschinità,
dai serpenti in mezzo ai suoi amici.
Ero uno scemo anche solo a permettere che un simile pensiero mi
attraversasse la mente.
«Non permetterle di distrarti,» mi ammonì Manson. Non occorreva che
gli dessi una spiegazione della mia repentina frustrazione. Già sapeva.
«Tieni gli occhi sulla strada.»
«Perché si è presentata qui?» borbottai.
Era stato per via di Alex? Era venuta a vedere lui? Quel ragazzo era il
suo tipo, ma dannazione, lei era troppo per lui. Il solo pensiero mi fece
incazzare e le mie dita si strinsero attorno al volante.
Concentrarmi. Non avevo bisogno di fare altro. Chiudere fuori tutte le
stronzate e vedere solo quel lungo rettilineo di asfalto nero di fronte a me.
Mi lasciai uscire un lungo sospiro, e feci ruotare le spalle per sciogliere la
tensione. Immaginai la forza d’accelerazione che mi schiacciava contro il
sedile, il rombo del motore, l’odore di fumo. Dio, era meglio di qualunque
altro sballo. Niente ci si poteva avvicinare, a parte…
Le lanciai un’altra occhiata. Solo una.
Ci stava guardando a sua volta.
«Oh, porco cazzo.» La voce di Manson riportò di scatto indietro la mia
attenzione. Stava puntando uno sguardo torvo da un lato, con una smorfia
sulla faccia. «La tua fan devota è qui.»
«La mia fottuta cosa?» Mi drizzai sul sedile e mi voltai. Una donna con
dei lunghi capelli scuri stava venendo dritta verso di noi. Avrei dovuto
aspettarmelo, considerando che era una sua abitudine presentarsi alle gare
di velocità. Dal ciglio della strada, Vincent e Jason stavano facendo delle
movenze esagerate, come se fossero disgustati o in punto di morte, mentre
Veronica si avvicinava impettita alla macchina.
«In bocca al lupo per la corsa, Lucas,» disse lei. «Oggi vi do io il via.» A
quanto pareva sarebbe stata lei a segnalare la partenza. Le dava una scusa
per restare nei paraggi. Le sue tette erano talmente sollevate che stavano
quasi per tracimare dalla sua maglietta – non che mi stessi lamentando. Mi
piacevano le tette. Non pensavo ci fosse nulla di male a mostrare le tette.
Solo che non mi piaceva a chi appartenessero quelle tette.
«Dagli tregua, Veronica,» si lagnò Manson. Pensavo che Veronica stesse
per indietreggiare, quando invece mise il broncio e gli sfiorò il collo con la
mano.
«Oh, non essere geloso, Manson.» Veronica stava tracciando la linea del
serpente tatuato attorno al collo di Manson, le sue unghie lunghe stavano
lasciando una scia rosa sulla pelle pallida di lui. «Posso appartarmi con te
finché non torna Lucas.»
«Non aspettarmi,» dissi. Non le piacevo, non le piaceva nessuno di noi.
Ma questo non le impediva di provare a convincermi a scoparla.
«Un bacio portafortuna?» Veronica si chinò sul finestrino, riuscendo a
sbattere il culo contro Manson allo stesso tempo. Okay, basta con quelle
cazzate. Mi girai sul sedile, pronto a dirle di andare a farsi fottere,
quando…
La portiera del passeggero si aprì.
«Ehi, Veronica, tesoro!» La voce di Jessica grondava tanta di quella
dolcezza fasulla che era praticamente sciroppo. Si sporse sopra di me dal
sedile del passeggero e sventolò la mano verso Veronica, prima di dare
una breve stretta al polso di Manson.
Non sapevo cosa stesse facendo di preciso, ma aveva rivendicato i suoi
diritti come una vera professionista. Non permettevo a nessuno, tranne i
ragazzi, di sedersi in questa macchina, ma cazzo, potevo fare un’eccezione.
Jess poteva appoggiare il culo sulla mia dannata faccia, se voleva.
Il labbro di Veronica si arricciò, e fece un passetto indietro. «Ohi, Jess,
che piacere vederti! Non sapevo fossi tornata in città.» Il suo sorriso era
diventato un ghigno sardonico. Se fosse stata un gatto, avrebbe soffiato.
«Penso che l’ultima volta che ti ho vista sia stata…» Fece una pausa, con
una piccola risatina. «In realtà era in un video. Di una qualche festa di
Halloween, mi pare. Stavi… beh…» Lasciò la frase a metà. Lanciai
un’occhiata a Jess, ma non stava nemmeno arrossendo. Non mostrava il
minimo accenno di turbamento.
Dannazione. Quella fiducia in sé stessa mi fece diventare i jeans stretti.
«Muovi il culo, Veronica,» fece Manson. «A meno che tu non voglia che
il tuo piede venga schiacciato.»
Veronica ebbe un tic all’occhio, ma poi si forzò di nuovo un sorriso sul
viso e si voltò dall’altra parte, gettandosi i suoi lunghi capelli sopra la
spalla. «Bene. Cominciamo, che ne dite?» Avanzò saltellando, poi si fermò
e si voltò verso di noi una volta che si trovò a filo con i musi delle nostre
auto. Non sembrava entusiasta quando alzò le braccia e gridò: «Siamo
pronti?»
Si levarono applausi e grida dalla folla. Alex fece rombare il motore e io
aggiustai le mani sul volante, lanciando un’occhiata a Jessica che si stava
allacciando la cintura di sicurezza.
«Hai intenzione di muovere il culo anche tu?» chiesi. Premetti play sul
mio cellulare e alzai il volume della musica, lasciando che il ritmo pesante
riempisse l’abitacolo.
«No.» Si sistemò un po’ più comodamente sul sedile. «Sono pronta per
la corsa.»
Scossi la testa incredulo. In cosa diavolo si era trasformata quella
serata? «Sentito, Manson? È pronta per la corsa.»
«Meglio farle fare un bel giro, allora,» commentò. «Accendi l’aria
condizionata. Penso che si senta accaldata.»
«Non so di cosa tu stia parlando, Manson. Sto fottutamente… bene.»
Le venne il singhiozzo a metà frase. La povera ragazza era brilla.
«Certo che sì,» confermò Manson, facendomi l’occhiolino. «A breve
dobbiamo fare una chiacchierata a proposito delle tue abitudini nel bere,
Jess.»
«Le mie abitudini nel bere?» farfugliò. «Che diavolo… Ehi!» Ma
Manson fece un passo indietro, salutandola con un sorrisetto mentre si
univa a Jason e Vincent sul ciglio della strada.
Jess stava per fare la corsa della sua vita.
«Sembri un po’ gelosa, Jess,» commentai, afferrando il cambio.
Lei fece una risata forzata. «Ti piacerebbe. Come se me ne fregasse
qualcosa di dove è stato il tuo cazzo. E questo vale per tutti voi.»
«Ne sei sicura?» Rilasciai lentamente la frizione mentre facevo girare il
motore, il freno a mano mi teneva fermo mentre le mie gomme posteriori
giravano. La mia pelle era in fiamme, il mio cuore batteva a mille
chilometri al minuto. Quel tratto aperto di strada mi chiamava, il motore
rombava in ogni mia terminazione nervosa. Veronica iniziò il conto alla
rovescia. Cinque… quattro… tre… «Sono pronto a scommettere che ti
frega se questo cazzo finirà di nuovo nella tua bocca.»
«Oh, ma sta’ zitto, Lucas, tu…»
Non ebbi modo di scoprire quale nome speciale avesse inventato per
me. Veronica sventolò le braccia e io diedi gas, il motore ruggì e la
potenza dell’El Camino venne finalmente scatenata.
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11
Jessica
«Oh, merda!»
Mi aggrappai a un appiglio qualunque quando Lucas schiacciò il pedale
dell’acceleratore. El Camino schizzò a una tale velocità che mi ritrovai
schiacciata contro il sedile mentre lui cambiava marcia in un battibaleno.
Le vene nelle sue braccia erano gonfie per la tensione, i suoi occhi fissi
davanti a sé. Il motore faceva tanto di quel baccano che non riuscivo più a
sentire la musica. Ne sentivo le vibrazioni fin dentro gli arti.
Era come stare su delle montagne russe, il mio corpo era soverchiato
dal potere sconfinato dell’auto su cui ero seduta.
L’Hellcat si profilava proprio ai margini della mia visione periferica,
quasi perfettamente allineata alla El Camino, mentre volavamo lungo la
strada. Poi, all’improvviso, con uno scioccante schiocco metallico, svanì.
Lucas scoppiò a ridere – un suono che, in tutta sincerità, non avrei mai
pensato di sentire.
«Hai scalato la marcia, coglione!» gridò Lucas, lanciando un’occhiata
nello specchietto retrovisore.
I fari di Alex oscillarono in modo irregolare nello specchietto laterale e
divennero sempre più lontani, mentre Lucas conquistava la vittoria.
L’adrenalina mi stava pompando nelle vene, il mio cuore batteva
all’impazzata. Presa dalla foga, esultai prima ancora di rendermi conto di
cosa stessi facendo.
La potenza di quella macchina era scioccante, ma vedere Lucas gestirla
così bene – cazzo, era eccitante.
Lucas continuò a guidare, i campi che sfrecciavano su entrambi i lati.
Quando finalmente iniziò a rallentare, non riuscivo nemmeno più a vedere
la linea di partenza dietro di noi.
Si allontanò dalla strada, le gomme che scricchiolavano sul terriccio
quando imboccò uno stretto sentiero che portava in un campo di alti
stocchi di mais. Tirò il freno a mano, mise la macchina in folle e lasciò
suonare la canzone mentre rimanemmo fermi lì nel campo.
Cercai di tenere lo sguardo dritto davanti a me, fisso sui raggi dei fari.
Ma l’abitacolo sembrava così angusto, e non resistetti alla tentazione di
lanciare un’occhiata all’uomo accanto a me. Le sue dita erano rilassate sul
volante ed era stravaccato sul sedile, con la testa reclinata all’indietro.
La prima volta che l’avevo conosciuto era stato al primo anno di liceo.
Mi ricordavo ancora quando attaccava briga con quelli dell’ultimo anno,
quanto fosse scortese tutte le volte che apriva bocca, come sembrasse
tentare di tenere sempre tutti a distanza. Lo evitava perfino Kyle.
Era stato un soggetto pericoloso e lo sapevano tutti, me compresa.
Eppure, questo non mi aveva tenuta lontana. Il suo atteggiamento da duro
mi aveva solo resa più determinata a dimostrare che non avevo paura di
lui. Tutti gli altri potevano pure esserne intimiditi, ma io? Lucas non mi
faceva paura.
Quando mi voltai verso di lui, anche lui si girò verso di me. Dovevo
chiederglielo. Sarei diventata pazza se non l’avessi fatto.
«Te la sei scopata?» domandò con una voce più nitida e disinteressata
possibile.
Prese un pacchetto di sigarette dal cruscotto. La gioia che avevo
intravisto così fugacemente sul suo viso ora era di nuovo rimpiazzata dal
gelo. Accese una sigaretta e ne prese una lunga boccata prima di lasciarla
appesa fuori dal finestrino aperto e ribattere: «Ha importanza?»
Incrociai le braccia e tornai a guardare davanti a me, irrigidendomi sul
sedile. Ovviamente non aveva importanza. A me non cambiava nulla. Il
sedile di pelle cigolò quando Lucas spostò il proprio peso e si sporse verso
di me, facendo un altro tiro. Il suo volto era illeggibile, celato dalle ombre.
«Ebbene? Ha importanza, Jess?»
Scossi la testa. Ridacchiò quando mi girai di nuovo verso di lui,
riducendo ulteriormente lo spazio tra di noi.
«Non mi interessa,» dichiarai. «Ma hai dei gusti atroci.»
«Mm, dici?» Appoggiò un braccio sullo schienale del sedile, il fumo
della sua sigaretta fluttuò fuori dal finestrino in un filo sottile. Lucas
odorava di tabacco e di gomma da masticare alla cannella, pericoloso e
insopportabilmente sensuale. «Forse hai ragione. Mi scoperei quasi
chiunque purché riesca a farlo urlare.»
Faceva troppo caldo lì dentro. Come diavolo ci eravamo avvicinati così
tanto? Il mio stomaco si rivoltò per la rabbia, ma le mie cosce si strinsero
mentre guardavo le sue labbra chiudersi di nuovo intorno alla sigaretta.
«È una brutta abitudine,» lo informai, e lui sollevò un sopracciglio.
Aprì la bocca, mantenendo i suoi occhi scuri su di me per tutto il tempo, e
si spense la sigaretta sulla lingua. Non sussultò nemmeno, la sua
espressione subì il minimo cambiamento.
«Penso che anche tu abbia dei gusti atroci,» sentenziò, e non so a cosa
diavolo stessi pensando, ma eravamo così vicini che riuscivo a distinguere
i capillari nella sclera dei suoi occhi e la vena che gli pulsava sulla gola.
Gli afferrai la maglietta, me la annodai tra le mani e lo tirai verso di me,
ma lui si stava già lanciando in avanti e mi inchiodò contro lo sportello per
baciarmi.
Sentivo il sapore della cenere nella sua bocca, amara e oscura, ma mi
sembrava così azzeccato. Il bacio di Lucas Bent era fatto per ferire, era
fatto per grondare veleno, e così fu. La sua mano si arricciò attorno alla
mia gola, il suo corpo premette tra le mie gambe e le allargò. Il mio petto
ansimava in cerca di aria, ma non riuscivo a fermarmi – non volevo
fermarmi. Il mio cuore stava battendo all’impazzata ed ero così furiosa,
così disgustata, così ferocemente eccitata. La sua mano vagò sul mio
corpo, ruvida e dura, quando mi sollevò il vestito e si premette contro di
me.
«Gusti atroci,» mormorò di nuovo. «Perché te la fai con la feccia, eh?
Una cosuccia così graziosa come te.» La sua mano scivolò sopra i miei slip
e mi cinse il sesso prima di sfregarlo con il palmo. Mi tolse il respiro e mi
fece sfuggire un gemito. «Ma, per tua informazione, non mi sono scopato
Veronica.»
Mi vergognavo del sollievo che provai. Feci scattare i fianchi contro la
sua mano quando le sue dita compirono un cerchio stimolante sul mio
clitoride. Ci avevo fantasticato tante di quelle volte. Avevo passato così
tanti mesi a immaginarmi con lui. Solo la più piccola quantità di
autocontrollo si era frapposta tra me e questo.
Volevo le sue dita dentro di me. Volevo spingerlo indietro e cavalcare il
suo cazzo fino all’orgasmo.
Mi teneva inchiodata contro la portiera e mi costrinse con le sue dita
ruvide a emettere un altro rantolo.
«Non è un classico?» mormorò. «Cambi tono non appena abbiamo un
po’ di privacy.»
«Un classico…» Riuscivo a malapena a prendere fiato. «Che… che
diavolo significa?»
Tolse la mano, lasciandomi ad affannare e in preda alla confusione
contro la portiera della macchina, prima di dire: «Significa che sei una
dannata ipocrita.»
Di punto in bianco, come se fosse stato premuto un interruttore, la mia
rabbia si accese. Ma le mie cosce erano oscenamente avvolte attorno a lui,
le mie mutande zuppe di tutta l’eccitazione che mi aveva scatenato Lucas.
Fui travolta da un’ondata feroce di umiliazione.
«Scusami?» Mi tremava la voce per l’adrenalina. «Che cazzo stai
facendo? Non puoi prendere e… non puoi…»
«Non posso cosa?» sibilò. «Non posso fermarmi? L’ho già fatto. Un
assaggio della tua stessa medicina, piccolo fantasma.»
Gli diedi uno spintone vigoroso sul petto e lui, scostandosi, fece una
risata. «Vaffanculo,» borbottai. «Dico sul serio, vaffanculo, Lucas. Io
torno indietro a piedi. Questa è una stronzata…»
Mi sporsi verso la maniglia della portiera, ma lui mi afferrò per il
braccio e mi tirò indietro. «Scusa, tesoro, ma questa la devi stare a sentire.
Non fare la sconvolta ora che ti dico sinceramente quello che penso. Che
cazzo di problemi hai? Continui a uscire con gli stessi coglioni che hanno
cercato di rendere la nostra vita un inferno, ma poi ti metti a fare la scema
con noi nell’istante in cui ci becchi da soli.»
Avrebbe potuto anche darmi uno schiaffo in faccia. Sbattei rapidamente
le palpebre, le mie emozioni confliggenti stavano soffocando le mie parole.
«Hai una vaga idea di quanto abbia devastato Manson quando sei
sparita?» domandò. «Era così spaventato di aver fatto una cazzata e di
averti ferita, perché tu non sei stata in grado nemmeno di gestire una
comunicazione di base.» Scosse la testa, il disgusto evidente sulla sua
faccia. «Credo che ce ne siamo convinti tutti. Di averti spinta troppo
oltre.»
«Non l’avete fatto.» Le parole esplosero così repentine che non riflettei
nemmeno su quello che stavo dicendo finché non mi fu già uscito di
bocca. Ero ben consapevole che sparire fosse stata una mossa di merda,
ma in tutta sincerità non avevo pensato che potesse essere motivo di
preoccupazione per loro. «Nessuno di voi mi ha ferita. Quella notte è
stata strana… e stupenda… e…» Feci spallucce, impotente. «Non sapevo
che fare, okay? Il mattino dopo, io… Non lo so. Non era pensata per
essere una cosa sul lungo termine.»
Annuì lentamente nel recepire le mie parole, fissando la mia mano
poggiata sul sedile.
La mano col cuoricino inciso sul mio dito.
La strinsi a pugno e la tirai bruscamente indietro, ma era troppo tardi.
Lucas sbuffò derisorio, scostò indietro la testa e mi guardò in faccia.
«Quei ragazzi sono tutto per me,» mi annunciò. «Sono quanto di più
dannatamente vicino io abbia a una famiglia. Ma semmai pensassi che uno
di loro ti ha fatto del male, li prenderei a calci in culo io stesso.» La sua
espressione non mi lasciava margine di incredulità. Stava parlando con
una sincerità quasi feroce. «Ma so cosa stai facendo. Vuoi prendere tutto il
possibile senza dare nulla indietro. Ci volevi. E ci vuoi ancora.»
Ne avevo già dato la dimostrazione, fra l’altro. Non avevo più una
gamba su cui sorreggermi, solo la rabbia e il mio orgoglio martoriato.
«E allora, Lucas?» sbottai. «Cosa dovrei fare io di preciso? Cominciare
a uscire con tutti voi? Frequentare solo uno di voi? Dovrei mettermi un
collare e sottomettermi?»
Nei meandri più profondi e oscuri della mia mente, avevo fantasticato
su come sarebbe stato. Niente più giochi, niente più avventure di una
notte. Cosa sarebbe stato della mia vita se avessi accolto a braccia aperte
quello che sentivo così giusto, senza mai voltarmi indietro?
Avevo lasciato che Manson mi fottesse con il coltello con cui aveva
minacciato il mio ex. Avevo permesso loro di ammanettarmi e scoparmi la
faccia, uno dopo l’altro. Avevo strisciato, pianto, sopportato, ed ero
risbucata dall’altra parte indebolita. Era stato diverso da qualunque altra
esperienza avessi mai vissuto. Aveva soddisfatto un bisogno che non avevo
nemmeno idea esistesse.
Come potevano aspettarsi che una cosa del genere potesse funzionare?
Perché mai volevano che funzionasse? La mia famiglia non avrebbe mai
capito, la maggior parte dei miei amici mi avrebbe letteralmente
abbandonata.
«È questo che vuoi,» affermò Lucas. «Vorresti poter fare questo, ma sei
così ossessionata da quello che pensano tutti gli altri che continui a fingere
di essere una persona che non sei. È davvero così che hai intenzione di
vivere?»
Scossi la testa. «Tu non capisci. Non è così semplice. Non so perché tu
la faccia semplice.»
«Oh, ma è davvero semplice, Jess.» Il suo accento strascinato si sentiva
sempre di più man mano che diventava più irritato. «Tu ci vuoi, e non
pensi che dovresti. È per questo che ti comporti così. È per questo che sei
seduta di fronte a me in questo momento. Hai passato tutti gli anni del
liceo a sfotterci in modo da poterci stare vicino. Così da avere una scusa
per flirtare con quello che sai che non avresti dovuto avere.» Era ancora
decisamente nel mio spazio personale, lo stava invadendo pur senza
toccarmi. «Non siamo più al liceo. Questa non è una delle feste dei tuoi
amichetti. Non siamo più bambini. È un concetto che capisci? O tutto o
niente. Quei ragazzi sono i miei fratelli. Sono la mia famiglia. Vengono
prima di qualsiasi altra cosa. Non hai il diritto di manipolarci per avere un
po’ di attenzione.»
Restammo seduti lì in silenzio per un momento, con gli occhi inchiodati
gli uni negli altri.
Aveva ragione. Il senso di colpa mi risalì dentro malgrado il mio
orgoglio stesse cercando di buttarlo giù. I giochi, le prese in giro e il
costante botta e risposta non potevano andare avanti per sempre.
Qualcuno doveva mollare.
I miei occhi guizzarono sulla sua bocca. Quella bocca dura e sgradevole
che non aveva mai avuto paura di far presente i miei errori.
«Sai di cosa hai bisogno, signorina Martin?» mi chiese, il suo tono
gutturale conteneva una promessa che mi fece correre dei brividi lungo la
schiena. «Hai bisogno di qualcuno che ti prenda in carico e ti rimetta al
tuo cazzo di posto. Hai bisogno di qualcuno che assuma il controllo,
qualcuno che non ti permetta di calpestarlo.»
Se avesse continuato a parlare in quel modo, sarei finita di nuovo con le
gambe divaricate e avvolte attorno a lui per la disperazione. Mi stavo
agitando sul sedere, cercando di non pensare alla miriade di modi in cui
lui avrebbe potuto prendere il controllo proprio in quel momento.
Qualcosa di simile a un sorriso gli incurvò le labbra, pericoloso e
crudele. «Hai bisogno di qualcuno che ti punisca come si deve, che ti
scopi bene e che tenga a te abbastanza da non permetterti di andare in
giro con degli amici che ti pugnaleranno alla schiena alla prima occasione
buona.»
Ero spezzata in due. Da un lato, non avevo bisogno di quello né da loro
né da nessun altro. Stavo a meraviglia. Avevo la mia vita sotto controllo.
Sapevo cosa volevo.
Dall’altro lato quel controllo lo volevo perdere. Volevo sentirmi amata e
custodita. Volevo qualcuno che prendesse il comando e non avesse paura
di tenerlo. Qualcuno in cui potermi smarrire, lasciarmi andare e con cui
essere vulnerabile.
«Lucas…»
Ma lui non voleva sentire altre scuse.
«Non siamo le tue pedine,» mi fece presente. «E faremo tutto quello
che ci pare, incluso scopare chi vogliamo.»
Ingranò la retromarcia e agganciò il braccio dietro il sedile per uscire
dal campo. Alzò il volume della radio abbastanza forte perché fosse chiaro
che non aveva alcuna voglia di sentire una sola parola in più da me.
Digrignai i denti. Mi sentivo come se nello stomaco ci fosse un oceano
in tempesta, che turbinava e si schiantava mentre rimuginavo sulle sue
parole. Aveva osato accusarmi di non volere altro che la loro attenzione,
come se fossi una specie di bambina viziata?
Lo odiavo con tutte le mie forze.
Si era radunata una folla attorno all’Hellcat quando ci avvicinammo alla
linea di partenza. Alex era al telefono, stava camminando avanti e indietro
e urlando, con la faccia rubiconda per la furia. Una contorta sensazione di
trepidazione mi serpeggiò dentro quando colsi l’espressione sulla sua
faccia: piena di odio, di furia, quasi letale.
Lucas parcheggiò, e nel momento in cui scese dall’auto, Manson era lì,
a gettargli entusiasta le braccia attorno. Jason accorse per strofinargli la

È
testa con un grosso ghigno sulla faccia e commentò: «Sì, cazzo, amico. È
stato pazzesco!»
Dannazione, non avrei mai dovuto salire su quell’auto. Avevo gli slip
umidi e mi pulsava il clitoride – ero l’esempio vivente di una donna
eccitata. Ero così frustrata, così furiosa.
E il tutto era terribilmente peggiorato dal fatto che Lucas aveva ragione.
Saltai quando si aprì lo sportello del passeggero e Vincent si sporse, con
un sorrisetto stampato in faccia. «Spero che Lucas non sia stato troppo
burbero con te.»
«Oh, ma sta’ zitto.» Mi alzai e gli passai accanto. «Dio, siete tutti
insopportabili.»
«Sì, fa’ un capriccio un po’ più chiassoso, Jess!» urlò Lucas. «Mettiti a
frignare per l’attenzione che non hai ottenuto!»
Volevo ucciderlo. Non sapevo cosa mi sarebbe uscito di bocca, ma mi
stava risalendo un vomito verbale e sarebbe stato un gran casino. Ma
quando mi voltai, mi resi conto che c’era qualcun altro che voleva
ucciderlo molto più di me.
Nessuno era preparato alla velocità con cui Alex accorse. Prima che
chiunque potesse reagire, caricò il pugno all’indietro e scagliò le nocche
sulla faccia di Lucas.
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12
Vincent
Il pugno di Alex mandò a sbattere Lucas contro la El Camino e tutto
rallentò. A Lucas ruotarono gli occhi dietro la testa e delle urla si levarono
attorno a me. Jason acchiappò Lucas per evitare che andasse giù…
Poi accadde tutto di nuovo a velocità normale.
Manson era a un palmo dalla faccia di Alex, il quale lo stava afferrando
per il colletto, annodandosi la maglietta fra le dita, e gli urlava contro.
Mentre Lucas si accasciava privo di forze e stordito contro il tettuccio,
Jason diede uno spintone veemente alla spalla di Alex, lo allontanò da
Manson e si frappose a loro, coi pugni chiusi e la voce più stentorea.
Io non ero uno che faceva a botte. Mai stato. Mi tiravo fuori dalla
maggior parte delle situazioni con le parole e non vedevo la ragione di
passare alle mani. Si trattava solo di parole, ragazzi. Tanto non ero
comunque costruito fisicamente per fare a botte: ero solo un tossico pelle
e ossa con un uovo fritto al posto del cervello.
Ma avevo cominciato a spacciare pillole e pozioni fin dal primo anno di
liceo, quindi essere in grado di abbassare i toni in una situazione di
tensione per me era un salvavita. Sfortunatamente, non era sempre
possibile abbassare i toni. A volte le cose prendevano comunque una
piega di merda.
Jason portò indietro il proprio pugno, che si schiantò con una tale
violenza da spaccare il labbro di Alex e da fargli colare il sangue lungo il
mento. Nate si precipitò verso di loro, ma Manson lo stava guardando
avvicinarsi con un’espressione che mi fece gelare il sangue.
Eravamo tornati al liceo. Noi contro loro.
Alex prese una bottiglia di birra da terra, ne schiantò il fondo
sull’asfalto e puntò il vetro acuminato e tagliente alla faccia di Jason.
«Picchiami di nuovo, pezzo di…»
Stavo già mettendo la mano sotto la giacca prima ancora che la frase gli
uscisse completamente di bocca. Tastai il calcio della pistola infilata nei
jeans, una fredda determinazione mi fece mantenere una presa salda
quando le mie dita lo avvolsero.
«Basta! Fermatevi!» Jessica accorse e si intromise fra Alex e Jason, una
mossa terribilmente stupida da parte sua. Ad Alex non importava chi si
mettesse sulla sua strada: lei era solo l’ennesimo ostacolo da eliminare. La
mano di lui schizzò all’infuori e la afferrò per la gola prima di stringerla,
con la bottiglia di vetro ancora sollevata.
Nel momento in cui le mise una mano addosso, fu come se un’ombra
fredda e oscura si fosse depositata sulla mia mente.
«Ehi. Non ti azzardare a toccarla, cazzo.»
Non fu la mia voce a far fermare tutti quanti. Fu il clic che la
accompagnò, quel suono ben udibile di un proiettile pronto per essere
sparato. Si voltarono tutti a guardarmi, immobili e con gli occhi
spalancati.
Alex aveva l’affanno, il vetro era a pochi centimetri dalla faccia di
Jessica. Avevo la pistola puntata al suo cranio, e Manson aveva allungato il
braccio attorno alla spalla di Jessica per premere il proprio coltello contro
la gola di Alex. Jason era proprio dietro di lui e Lucas si accostò dall’altro
lato, col sangue che gli colava dal naso e gli imbrattava i denti scoperti.
«Vuoi andare, stronzo?» fece Lucas, sputando sangue in direzione di
Alex. «Avanti. Andiamo, cazzo. Ma lascia la tua mano addosso a lei un
dannato secondo in più e ti spezzo le dita a una a una, prima che Vincent
ti pianti una pallottola nel cervello.»
Gli occhi di Alex guizzarono verso di me e si sgranarono appena. I suoi
amici grandi e grossi non potevano fare un cazzo contro una pistola, ma
dovevamo comunque andarcene da lì prima che la situazione prendesse
una piega peggiore. Eravamo nel bel mezzo del nulla, e io di certo non ero
l’unico in grado di fare a botte.
Con tutto che la mano di Alex le stava attanagliando la gola, Jess non
desistette. Non sembrava nemmeno spaventata. Lo stava fissando con gli
occhi stretti in due fessure e i pugni chiusi lungo i fianchi, come se fosse
pronta a picchiarlo personalmente.
Con tutta la mano di Alex che le stringeva la gola, Jess non si tirò
indietro. Non sembrava nemmeno spaventata. Lo fissava, con gli occhi
minacciosi e i pugni stretti lungo i fianchi, come se volesse battersi con lui.
Avrei pagato per vederla dargli un pugno in faccia, ma dovevo tenerla
lontana dal pericolo. Quando la mano di Alex si allentò, lei sorrise e alzò
un po’ il mento.
«Spostati, Jess,» la spronò Manson, con voce bassa ma facilmente
udibile nel silenzio scioccato.
«Dovete fermarvi,» ribatté lei. Si girò verso di lui con gli occhi
spalancati, determinati ma disperati. «Tutti voi. Per favore.»
Quando il suo sguardo si spostò su di me, fu subito evidente che non
aveva ancora notato la pistola. Il volto le si indurì per lo sgomento, la sua
bocca si aprì e si chiuse più volte senza proferire parola.
Abbassai l’arma da fuoco e la riposi sotto la maglietta. Ma lei stava
continuando a fissarmi.
«Che diavolo ti passa per la testa, Vincent?» Le parole non erano che
un sussurro quando cacciò fuori l’aria.
«Sì, è vero,» si intromise Alex, come se lo sconcerto di lei dimostrasse la
sua tesi. Fece un passo indietro, più vicino a Nate e ai suoi amiconi.
Probabilmente il codardo si sentiva più al sicuro con quei corpi massicci
intorno a lui. «Pensi ancora che siano dei bravi ragazzi, Jess? Solo i veri
gentiluomini si portano pistole e coltelli a una gara, non trovi?»
Un mormorio si levò tra la folla. Era il nostro segnale di fuga: prima ce
ne fossimo andati, meglio sarebbe stato. Feci un cenno con la testa a
Manson, che mise via la lama con un rapido lampo metallico. Lucas sputò
altro sangue dalla bocca, ma per fortuna ebbe la buona creanza di girarsi
dall’altra parte. Nessuno di noi si mosse finché non salì di nuovo sulla El
Camino e accese il motore.
«Andiamo.» Mi fermai accanto a Jason, che era di guardia vicino a
Jessica. Sembrava frastornata, come se avesse finalmente compreso il reale
pericolo della situazione. Mi fece correre lo sguardo lungo il corpo, come
se mi stesse vedendo per la prima volta, e sobbalzò quando le dita di Jason
le sfiorarono la spalla.
«Vieni con noi,» la invitò dolcemente. «Ti portiamo via da qui.»
«Jessica!» Una delle sue amiche chiamò furiosamente il suo nome e lei
si voltò. Ansimò, e il suo respiro divenne leggermente più corto. Il suo
corpo vibrava praticamente di nervosismo.
Per un attimo pensai che avrebbe detto di sì.
Ma poi si allontanò e scosse la testa. «No. Sto… sto bene. Io…»
Guardò di nuovo le sue amiche, che la fissavano come se fosse uscita di
senno. Quando parlò, cercò di sembrare sicura di sé: «Non ho bisogno di
essere salvata.»
Ma non suonava affatto sicura di sé.
Si ritirò per unirsi alla folla sul lato opposto della strada. Jason la stava
seguendo con lo sguardo, la mascella serrata e le narici dilatate dalla
frustrazione. Gli battei una mano sulla spalla. «Andiamo. Dobbiamo
filarcela.»
Annuì. Le sue spalle erano ingobbite dalla tensione mentre montava
sulla Subaru. Manson si infilò nei sedili posteriori e io mi misi al posto di
guida e avviai il motore. La gente fissava, scuoteva la testa, mormorava. Mi
chiedevo come sarebbe stata ricostruita la serata, come avrebbero rigirato
la storia per assicurarsi che passassimo noi per i cattivi.
Abbassai il finestrino e lanciai un’occhiata a Jess mentre ci
allontanavamo. Probabilmente Lucas aveva detto qualcosa che l’aveva
fatta imbestialire, e lei stava cercando di salvare le apparenze, ma era una
stupida a rimanere lì. A quella gente non importava nulla di lei, e le sue
amichette, che al momento la stavano squadrando con aria interrogativa,
l’avrebbero tradita in un batter d’occhio, se si fosse presentata l’occasione.
Ma cosa diavolo potevo farci io?
«Fate i bravi,» dissi, facendo un sorrisetto amichevole alla folla che mi
guardava in cagnesco.
«Avete fatto una cazzata!» urlò Alex. «Non è finita qui!»
No. Non finiva mai.
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13
Jessica
Mentre l’El Camino si allontanava e il rombo del motore svaniva nella
notte, mi sentivo completamente sola.
Era successo tutto così in fretta. Quando mi ero precipitata tra Alex e
Jason, era stato un gesto impulsivo, istintivo. Non mi ero nemmeno
accorta che Alex mi avesse messo le mani addosso. Ero troppo carica di
adrenalina per considerare davvero le conseguenze delle mie azioni.
Ma ora che era tutto finito, la realtà mi investì duramente. Mi avevano
puntato un vetro rotto in faccia e riuscivo ancora a sentire la stretta delle
dita di Alex sulla mia gola. Aveva osato mettermi le mani addosso,
minacciarmi!
E le persone che erano intervenute per difendermi non erano nemmeno
quelle che chiamavo amici. I miei «amici» erano rimasti a guardare.
Ma Vincent e Manson, Jason… persino Lucas… mi avevano difesa.
All’istante, senza esitazione, tutti quanti.
Sarei dovuta andare con loro.
Poi mi sovvennero le parole di Lucas e la mia rabbia tornò a farsi
sentire. Mi aveva fatto infuriare così tanto dandomi dell’ipocrita,
sostenendo che fossi solo alla ricerca di attenzioni. E aveva fatto tutto
quello dimostrando quanto fossi disperata, quanto velocemente fossi
pronta a cedere nel momento in cui nessuno mi guardava.
Era stato umiliante e, come se non bastasse, si era mostrato
incredibilmente compiaciuto di tutto ciò. Come se mi avesse già
inquadrata, come se mi conoscesse meglio di quanto io conoscessi me
stessa.
Aveva detto che avevo bisogno di qualcuno che mi punisse come si
doveva, come se fossi una bambina mocciosa. Che faccia tosta. Non avevo
bisogno di ricevere alcuna punizione da lui. Né da nessuno di loro. Né in
generale avevo bisogno di punizioni. Non avevo bisogno che nessuno si
occupasse di me.
Ero perfettamente in grado di badare a me stessa, e questo cominciò
con il voltarmi di scatto e marciare a passo di carica verso Alex, come una
furia.
«Come cazzo ti permetti di mettermi le mani addosso!» sbraitai,
dandogli uno spintone più forte possibile contro il petto. Lui fece un
passo indietro, barcollando, i suoi occhi si assottigliarono in uno sguardo
pericoloso che avrebbe fatto indietreggiare una qualsiasi persona con un
po’ più di sale in zucca.
Ma io non lo feci. Tutta quella collera aveva bisogno di un posto in cui
andare, e più pensavo a quello che era appena successo, più lo percepivo
come totalmente inaccettabile.
«È colpa tua,» ribatté Alex. «Come diavolo ti è venuto in mente? La
prossima volta, stai alla larga da me.» Fece un passo verso di me, ma io
non indietreggiai. Se voleva passare alle maniere forti, l’avrei fatto
volentieri. Il suo ridicolo atteggiamento da macho non mi faceva paura.
Ma mi girava la testa, tutto l’alcol che avevo nelle vene mi rammentava che
a parlare era soprattutto la tracotanza dettata dall’alcol. O la stupidità
dettata dall’alcol.
Le persone intorno a noi erano chiaramente a disagio, ma nessuno fiatò.
Stavano cercando di guardarci di sottecchi, come se pensassero che,
evitando di guardare direttamente il nostro scontro, non avrebbero avuto
l’onere di intromettersi.
«Jessica!» Danielle mi chiamò con decisione. Per quanto detestassi
lasciare Alex nella convinzione di essere il vincitore, mi allontanai da lui e
tornai verso le ragazze. Alex poteva fare tutti i capricci che voleva, ma
quella non gliel’avrei perdonata. Ubriaco o no, non aveva scuse.
«Ragazza, che succede?» chiese Danielle quando raggiunsi lei e
Candace. «Perché ti sei messa in mezzo? Alex è incazzato.»
«Avresti dovuto lasciarli litigare per fatti loro.» Candace scosse la testa e
bevve un lungo sorso per finire il suo bicchiere di vino.
Danielle aveva le labbra contratte e mi stava scrutando. Potevo vedere
gli ingranaggi della sua mente girare, e la cosa non mi piaceva per niente.
«Perché sei andata in macchina con lui?» indagò con un tono di accusa
che le trapelò dalla voce.
Sorseggiando il mio drink, mi limitai a scrollare le spalle. Okay, non fu
un vero e proprio sorso: lo trangugiai con avidità, con disperazione.
«Sembrava divertente. C’è qualche problema?»
La sgradevolezza della sua espressione aumentò man mano che la
fissavo. Gli occhi di Candace si spostavano tra di noi, anche se non osava
dire una parola. Per un attimo credetti che Danielle avrebbe lasciato
correre.
Ma poi le sue labbra si contorsero in qualcosa di simile a un sorriso e
commentò: «Trovo buffo che l’ultima volta ti sia divertita un po’ con
Manson, e questa volta con Lucas. Qual è il prossimo, Jess?»
Con la coda dell’occhio vedevo che la gente mi occhieggiava. Alex stava
camminando avanti e indietro in attesa dell’arrivo del carro attrezzi,
giurando che «gliel’avrebbe fatta pagare.» C’era una pozza d’olio che si
stava lentamente espandendo intorno alla Hellcat, e sentii qualcuno
sussurrare che aveva ingranato la terza quando in realtà sarebbe dovuto
passare alla quinta, mandando così in fumo la trasmissione.
Era colpa sua, ma era ancora determinato ad affibbiarla a qualcun altro.
«Stai zitta, Danielle,» sbottai. «Lascia perdere, cazzo.»
La gente se ne stava andando ora che la gara era finita. Ma Veronica era
ancora qui e stava parlando con Alex. Il suo sguardo continuava a
dardeggiare verso di me, come se stesse aspettando di vedere la mia
prossima mossa. Faceva dei cenni solidali con la testa davanti alla sfuriata
di Alex, cingendogli il braccio in una presa eccessivamente amichevole.
Aveva già trovato il suo prossimo bersaglio.
Arrossii in viso, mi sentivo la pelle rovente. Era così che Lucas mi
vedeva? Come una che saltellava da una persona all’altra alla disperata
ricerca di attenzioni? Feci un respiro profondo e cercai di smaltire la
sbornia per poter tornare a casa. Ma avevo il capogiro e non mi sentivo
ancora sicura di mettermi al volante.
Danielle e Candace stavano chiacchierando tra loro e, per una volta, fui
felice di non riuscire a udire quello che si dicevano.
Tanto me lo sentivo addosso da tutte le parti, mi pungeva la pelle come
unghie affilate. Giudizio. Disapprovazione. Sospetto.
Ero tagliata fuori.
Tutto d’un tratto, Alex scagliò la sua bottiglia di vetro vuota contro un
albero, il tintinnio del vetro in frantumi mi fece sobbalzare.
«Che Dio li maledica!» tuonò, con una voce che raggiunse quel volume
stridente di pura e semplice furia. «Un tempo non era così, accidenti.
Quei figli di puttana sapevano stare al proprio posto.»
Nate e Matthew annuirono in segno d’assenso, con i volti duri come la
pietra.
«Non abbiamo mai avuto problemi del genere finché non hanno
iniziato a farsi vedere in giro,» rincarò Danielle. Guardò Candace e
commentò con un sussulto: «Chi è che tira fuori una pistola come
quella?»
«È quello che succede quando la gente inizia a provare compassione
per loro,» statuì Veronica, come se il vero problema non fosse altro che
l’empatia mal riposta. «Sono sempre stati dei rifiuti. Kathryn Peters ha
pagato di tasca sua la terapia di Manson, sapete. Non è servita a niente. Si
porta ancora dietro quel coltello come se aspettasse sempre l’occasione
buona per accoltellare qualcuno.»
«Non ha mai accoltellato nessuno,» feci notare io.
Alex si girò di colpo e mi puntò il dito contro. «Che diavolo ci fai
ancora qui? Perché non te la sei svignata con i tuoi fidanzatini?» Il suo
labbro si arricciò per il disgusto. «O non ti volevano nemmeno loro?»
Strinsi i pugni, fissandolo torva dalla mia sedia.
«Devi imparare a controllarti, Alex, cazzo,» borbottai. «Sei stato tu a
fare questo!» Indicai la sua macchina, alzando la voce. «È colpa tua! La
gente avrebbe potuto farsi seriamente del male. Ma tu non sei riuscito a
sopportare la sconfitta e quindi ti metti a fare i capricci come un
bambino!»
«Da che pulpito viene la predica,» mi schernì. «Non riesci proprio a
resistere alla tentazione di metterti al centro dell’attenzione, eh? Sei
sempre così smaniosa di buttarti in mezzo a cose che non ti riguardano
nemmeno.»
Stava cercando una mia reazione, e mi risalirono in gola altre parole
furenti. Quanto mi avrebbe fatto bene sfogarmi su di lui, urlare e inveire
per quello che aveva fatto. Ma non avevo un passaggio sicuro per tornare
a casa, ero incastrata lì con loro.
Quando avevo detto a Jason che non avevo bisogno di essere salvata, mi
ero sbagliata di grosso.
Ma, con mia grande sorpresa, Danielle intervenne.
«Calmati, Alex,» affermò con tono annoiato. «Jess si stava solo
divertendo un po’ con loro. Non sta con loro.» Mi lanciò un’occhiata, che
però aveva un che di strano. «È dalla nostra parte.»
Non sapevo se mi stesse rassicurando o mettendo in guardia.
«Ho bisogno di acqua,» mormorai, lasciando il mio posto per tornare
alla macchina. Il carro attrezzi stava arrivando e tenne momentaneamente
Alex distratto dalla sua rabbia, mentre la Hellcat veniva caricata sul
rimorchio. Recuperai una delle mie bottiglie d’acqua dal sedile posteriore
e la trangugiai, ma non bastò a placare il mio stomaco in subbuglio.
Ero ancora bloccata sulle parole di Lucas. Forse dovevo loro delle
scuse. Per aver sbottato, per essere stata così scortese, per… Dio, per
tante cose. Ma dopo quella sera, c’erano buone probabilità che non li
avrei mai più rivisti.
Forse era meglio così. Eravamo troppo esplosivi insieme, le emozioni
raggiungevano picchi troppo alti. Mi facevano sentire come se non avessi
idea di cosa dire o come comportarmi. Con loro tutto era così confuso, e
probabilmente era colpa mia.
Dopotutto, ero io che non riuscivo a comunicare, che li avevo piantati
in asso senza preavviso.
A quanto pareva, erano stati fatti dei programmi mentre io ero rimasta
assorta nei miei pensieri. Quando tornai dall’auto trovai tutti a guardarmi
con aria interrogativa.
«E tu, Jess?» fece Alex. «Vieni anche tu o cosa?»
«Dipende da dove andate,» risposi, a braccia conserte.
Candace si strinse nelle spalle. «Qualsiasi posto è meglio che stare sul
ciglio della strada tutta la notte, no?»
A quel punto, non ero sicura che fosse vero. Starmene lì da sola, al
buio, rischiava di essere un’idea migliore che andare con loro.
«Dai, Jess, ci divertiremo,» mi spronò Danielle. «So che questa serata è
stata un po’ uno schifo, ma la notte è giovane, no? Possiamo risollevare la
situazione.»
Veronica mi guardava con occhi stretti in due fessure e un sorrisetto sul
viso. Che ci trovava di tanto divertente? Probabilmente si aspettava che
rifiutassi, ed ero pronta a scommettere che avrebbe gongolato. Sarebbe
stata una vittoria per lei se mi fossi sentita così a disagio da declinare
l’invito. Ormai avrei fatto un dispetto a tutti loro.
«Certo, come volete,» accettai. «Andiamo, allora.»
«Vedi, Alex?» affermò Danielle. «Te l’ho detto, Jess è sempre pronta a
divertirsi.»
La trepidazione mi percorse la schiena, anche se non ero del tutto
sicura del perché. Mi sembrava tutto sbagliato. Ma che io fossi dannata se
mi sarei lasciata intimidire da loro.
«Okay.» Alex annuì. «Andiamo a divertirci.»
***
L’aria che mi sferzava i capelli era gelida, e non ci volle molto prima che
cominciassi a rabbrividire. Non avevo idea di dove stessimo andando, ma
stavamo percorrendo una strada buia a mezzanotte, rannicchiati nel
pianale del pick-up di Nate. Danielle e Alex erano nell’abitacolo con
Nate, mentre Veronica, Candace e Matthew erano seduti dietro con me.
Nate stava sparando la radio a tutto volume, ma per il resto eravamo in
silenzio, con la tensione che ci avvolgeva come una nube velenosa.
Quando Nate prese qualche altra svolta, il mio nervosismo aumentò.
Riconobbi questa strada sterrata, piena di buche e larga a malapena
quanto bastava per far passare il suo veicolo. I rami bassi dei massicci
alberi di noce nero sferzavano la cabina del pick-up mentre rallentavamo,
con le sospensioni che scricchiolavano a ogni dosso e a ogni avvallamento.
Sapevo dove stavamo andando.
La residenza dei Reed era distante dalla strada e aveva un ampio cortile
sterrato. La recinzione a maglie di catena era vecchia e ammaccata in
alcuni punti, ma un cancello nuovo di zecca presidiava il vialetto,
assicurato con una catena e un lucchetto. Grandi alberi fiancheggiavano la
casa, che era una mastodontica costruzione in legno scuro con un portico
che le girava intorno. Sarebbe stata una bella casa se fosse stata curata, ma
i genitori di Manson non erano mai stati in grado o disposti a farlo.
«La madre di Manson non vive qui da sola?» chiesi, con la voce che era
appena un sussurro. A quanto ne sapevo, Manson viveva con la famiglia
della sua assistente sociale, i Peters, mentre sua madre viveva qui e suo
padre era di nuovo irreperibile. Nate spense la radio e guidò lentamente
lungo la strada, oltrepassando il cancello d’ingresso verso il lato opposto
della proprietà.
«È morta,» spiegò Matthew, e quella notizia mi fece stringere il cuore.
Non avevo mai conosciuto quella donna, sapevo solo che generalmente
era alticcia e che usciva raramente di casa. «Ha lasciato questo posto a
Manson, e quel pazzoide non ci ha fatto un cazzo. L’intero posto
dovrebbe essere raso al suolo.»
Sul lato opposto della proprietà c’era un grande garage con le pareti di
metallo, illuminato da fari che ne circoscrivevano l’esterno. Sul muro che
dava sulla strada era stato realizzato un murales che raffigurava le quattro
auto dei ragazzi attorniate da volute di colori al neon. Di certo non era
qualcosa che potevano aver realizzato i genitori di Manson. Allora chi
l’aveva dipinto? Uno dei ragazzi?
Nate fermò il furgone e spense il motore. Sbattei rapidamente le
palpebre per la confusione, mentre tutti cominciarono a scendere dal
pick-up. «Ehm, cosa stiamo facendo?»
«Ci divertiamo,» rispose Danielle, abbarbicata a Nate, con l’aria di una
a cui, alla fine, l’alcol aveva dato alla testa. Nate aveva con sé un enorme
paio di tronchesi e Alex un martello, oltre a un sorriso sgradevole.
«Hanno iniziato a chiamare questo posto il Garage dei Perdenti,»
commentò Matthew, sghignazzando tra sé. «Come se ne andassero fieri,
cazzo.»
Il panico mi investì con un’ondata di gelo quando Nate si servì delle
tronchesi per tagliare la recinzione. Non si trattava di un semplice scherzo,
ma di una vera e propria effrazione.
«Non hanno cani?» sussurrò Matthew, mentre si intrufolava nella
recinzione davanti a me.
«Cani?» chiesi. «Ci sono cani qui?» Indietreggiai, ma Candace mi
afferrò il braccio prima di acquattarsi per passare attraverso la recinzione
e mi trascinò con sé.
«Chiudi quella cazzo di bocca,» sibilò Alex. «Non me ne frega un cazzo
nemmeno se nella proprietà ci sono degli elefanti ammaestrati.»
Ci infilammo all’interno della recinzione, restando tutti rasoterra. Era
una cosa veramente folle. Non dovevamo essere lì, per nessun motivo al
mondo.
Avrei dovuto tornare indietro. Ma era come guardare da fuori la mia
stessa catastrofe, come se una parte di me avesse già accettato che stava
per accadere qualcosa di terribile.
Raggiungemmo il lato del garage. Sulla porta era puntata una
telecamera, illuminata da una luce sopraelevata, e Nate seguì la sua scia di
cavi fino a una scatoletta grigia. All’interno c’erano altri fili aggrovigliati e
interruttori automatici e Danielle domandò: «Sai quali tagliare?»
«No,» ammise Nate, prima di brandire le tronchesi come una mazza da
baseball e sfasciare gli interruttori. Le luci di emergenza sfarfallarono e si
spensero, facendoci piombare in un’oscurità quasi totale. Nate continuò a
recidere i cavi con sconsiderata determinazione.
«Ragazzi, questo è davvero…»
Alex mi diede un colpetto sul braccio, mettendomi a tacere, mentre
indicava con un dito una pala appoggiata al garage. «Prendi quella,» mi
spronò, e io la sollevai con cautela. «Se qualcosa ti viene incontro,
colpiscilo.»
Non avevo intenzione di colpire un cane, neanche per sogno. Avrei
preferito che mi mordesse piuttosto che tentare di fargli del male, ma
forse il manico di legno sarebbe servito almeno come barriera, se fossi
stata attaccata.
Se fossi stata attaccata. Dio, che casino stavamo combinando. Era
proprio una cazzata.
Nate sbatté il suo piede massiccio contro la porta, spaccandola. Un
allarme stridette e le luci si accesero, nonostante gli sforzi di Nate di
staccare la corrente. Io rimasi impalata sulla soglia, con la pala in mano,
mentre gli altri si fiondarono all’interno. Era un ambiente spazioso, con
una scala alla mia destra che portava a un piano superiore, ma a loro
interessavano solo le auto. La Mustang, la El Camino, la Nissan, la Subaru
blu e, contro la parete di fondo, una familiare Ford Bronco su pneumatici
enormi.
Mi giunse alle orecchie il fragore di un vetro in frantumi quando
Matthew lanciò un mattone contro il parabrezza anteriore della Mustang.
Alex si mise a strillare eccitato mentre abbatteva il suo martello sul cofano
della El Camino, e Veronica brandì un palo di metallo che aveva trovato
da qualche parte per sfondare il finestrino del passeggero. Nate stava
spaccando i vetri della Subaru con le sue tronchesi e Danielle se la rideva,
mentre trascinava le chiavi sulla fiancata della 350Z.
Che diavolo ci facevo io qui? Cosa stavo facendo?
In lontananza, sentii dei cani abbaiare. L’allarme era così dolorosamente
acuto che non riuscivo a pensare.
Veronica si sporse verso il finestrino rotto della El Camino e sputò sul
sedile, sorridendo nel frattempo a me. «Non è la prima volta che mi capita
di sbavare su questi sedili.»
La sirena era un ruggito nelle mie orecchie. Non volevo pensarci. Non
volevo immaginare Veronica seduta nel posto in cui mi ero seduta io, con
la bocca su Lucas. Non volevo pensare alle cose che mi aveva detto. Non
volevo percepire la disapprovazione e l’incertezza degli sguardi che tutti
mi rivolgevano scappando tra i vetri rotti, mentre io ero appena riuscita a
infilarmi dentro.
«Dobbiamo filarcela!» Nate scattò verso la porta con Danielle e
Veronica al seguito. Alex sferrò un altro colpo di chiave inglese alla El
Camino, mentre Matthew conficcò una lametta nelle gomme.
«Muovi il culo, Jess! Pensavo fossi in vena di divertimenti!»
Ma se così non fosse stato? Cosa sarebbe successo? Rifiuto.
Ostracizzazione. Non sapevo nemmeno chi l’avesse gridato, ma oramai
non aveva importanza. Avrebbe potuto essere gridato dall’universo stesso.
Tutte le dita che avevo puntato, tutti i commenti crudeli che avevo fatto
avrebbero potuto essere rivolti contro di me con estrema facilità. E lo
sarebbero stati.
Ma tutto questo era sbagliato per una miriade di motivi, e io non sarei
mai dovuta venire qui. Il cuore mi martellava, il panico mi fiaccava.
Inspirai e mi preparai a voltarmi e ad affrontarli, per dire loro che avrei
abbandonato quello scempio. Ma quando mi girai, mi resi conto che se
n’erano andati. Tutti quanti. Il garage era vuoto e il rombo del motore del
pick-up mi rivelò che mi avevano mollata qui.
Mi avevano scaricata, e i cani che abbaiavano si stavano avvicinando.
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14
Lucas
«La smetti di contorcerti? Devo legarti?»
Sbuffai col naso al suggerimento di Manson e mi costrinsi a rimanere
immobile sul bordo della sua vasca. L’adrenalina della rissa era scemata, e
mi sentivo finalmente in grado di riposare un po’. Ma Manson non
smetteva di preoccuparsi del mio labbro spaccato e del mio naso gonfio.
Non era niente di che. Dubitavo che il mio naso fosse rotto, e pure se lo
fosse stato? Non sarebbe stata la prima volta.
Ma per Manson era una faccenda seria, e questo era il suo modo di
scusarsi senza dirlo. Se si fosse scusato ad alta voce, l’avrei ignorato,
perché non aveva nulla di cui scusarsi. Non spettava di certo a lui
proteggermi.
«È meglio che tu non ti senta in colpa,» gli feci presente, e il mio
spostamento lo indusse a lanciarmi un’altra occhiataccia prima di tornare
a disinfettarmi il labbro. Servivano dei punti, ma non riuscivo a
preoccuparmene. Le ferite si rimarginano. Forse, alla fine, sarebbero
rimaste delle brutte cicatrici, ma a me non importava. «Niente di quello
che è successo stasera è colpa tua, quindi non stare lì a rimuginarci
troppo.»
I suoi occhi si assottigliarono ancora di più. «Sì, se non fosse che avevo
il sentore che le cose sarebbero andate male. Avrei dovuto…»
Gli afferrai il polso, allontanando la sua mano dal mio viso. «Smettila.
Smettila di tormentarti per questo, cazzo. Ricevere un pugno in faccia non
è una novità per me. A conti fatti, questa è stata una serata decisamente
positiva.»
Non sembrava convinto. «Come fai a dirlo?»
«Non hanno sparato a nessuno,» precisai. «Nessuno è stato accoltellato.
Non sono in ospedale.» Scrollai le spalle. «A me sembra una serata
piuttosto riuscita.»
Lui scosse la testa, strappando il polso dalla mia presa. Jojo e Haribo
stavano abbaiando al piano di sotto, probabilmente avevano bisogno di
uscire di nuovo. Manson iniziò a tamponarmi la faccia con qualcosa che
aveva un odore sgradevole, e io feci del mio meglio per restare fermo per
lui.
«Hai ancora del sangue sui denti,» affermò.
«Ti piace. È sexy, vero?»
Finalmente riuscii a strappargli un piccolo sorriso. Forse non ero
ancora pronto per dormire. Forse avevo bisogno di sfogare prima un po’
di energia repressa, soprattutto considerando che le cose si erano fatte
piccanti e pesanti con Jess prima che la interrompessi bruscamente.
«Faresti meglio a prestare attenzione a come mi guardi,» mi ammonì
Manson. Aveva una mano sul lato della mia mascella per tenermi ferma la
testa e la sua presa si era fatta un po’ più stretta. «A meno che un solo
pugno in faccia non sia stato abbastanza doloroso per te.»
Non era abbastanza. Non era mai abbastanza. Quello era parte del
motivo per cui lui e io andavamo così d’accordo, parte del motivo per cui
eravamo in sintonia sia al lavoro che in camera da letto. Sondare i limiti di
ciò che ero in grado di sopportare era una cosa su cui mi fidavo di lui, ma
solo di lui.
Mi feci scorrere la lingua sui denti e abbassai lo sguardo sul suo
evidente rigonfiamento. Cazzo, Manson era così bello che avevo voglia di
affondare i denti nella sua pelle, di morderlo fino a fargli uscire il sangue e
di lasciare che lui mi ferisse a sua volta. Mi sarei lasciato dominare da lui
perché era l’unico modo in cui potevo lasciarmi andare - lasciarmi andare
davvero. Per quanto fosse terrificante fare una cosa del genere, era uno
sfogo di cui avevo un disperato bisogno.
Accidenti, quei cani stavano facendo davvero rumore. Troppo rumore.
Ci fermammo sia Manson che io. Si sentiva uno strano suono, lo
percepivo debolmente al di sopra della musica che suonava nella sua
camera da letto. Uno stridio ripetitivo. Ci scambiammo uno sguardo, il
suo cipiglio si fece più profondo quando esordì: «È…»
Prima che potesse esprimere il suo pensiero, Vincent irruppe nella sua
camera da letto. Si stava infilando una maglietta da sopra la testa per
nascondere la pistola sistemata nei jeans.
«Garage,» fu tutto ciò che ebbe bisogno di dire prima di precipitarsi
nel corridoio, e noi due balzammo in piedi.
Era il nostro allarme. C’era qualcuno nel garage.
Scendemmo di corsa al piano di sotto, dove i cani erano accalcati
davanti alla porta d’ingresso e stavano abbaiando frenetici. Afferrai la
mazza da baseball nell’angolo, un’arma che tenevamo sempre a portata di
mano nel caso in cui fosse successa una cosa del genere. Anche Jason
aveva una mazza, probabilmente quella che tenevamo vicino alla porta sul
retro. Dopo la notte che avevamo passato, non volevamo correre il rischio
di essere colti disarmati.
I cani schizzarono fuori non appena Manson aprì la porta. Una nuvola
di polvere attraversò il cortile mentre un pick-up si stava allontanando a
tutta velocità lungo la strada, ma i cani non erano interessati al veicolo. Si
diressero verso gli alberi sul retro della proprietà, ringhiando e abbaiando
indiavolati al punto che capimmo che non stavano solo inseguendo delle
ombre.
Quegli stronzi avevano dimenticato uno dei loro. Qualcuno stava
scappando là dietro, e io avevo tutte le intenzioni di riservargli un
trattamento esemplare.
Corremmo dietro ai cani, seguendoli tra gli alberi. Fummo costretti a
rallentare quando ci sparpagliammo, arrancando tra le erbacce incolte. Si
udì un clic e si accese un fascio di luce dalla torcia in mano a Vincent che
illuminava la nostra strada.
«Non c’è via d’uscita qui dietro!» esclamai, alzando la voce in modo
che riecheggiasse tra gli alberi. «Non puoi correre per sempre, figlio di
puttana!»
Feci roteare la mazza in mano, con un’energia che vibrava dentro di me.
Era giunto il momento. Il dado era tratto. Non avevo ancora visto
l’interno del garage, ma avevano strafatto non appena avevano messo
piede nella nostra proprietà. Quelli erano anni di molestie che stavano
arrivando al culmine. Era ora che qualcuno si prendesse le proprie
responsabilità, bisognava impartire una lezione.
Avrebbero potuto dirsi fortunati se avessero riavuto il loro amico
indietro tutto intero.
Alla mia sinistra, a pochi metri di distanza, Manson stava brandendo il
suo coltello tra le mani. Quando lo aprì, catturò la luce della luna,
lampeggiò e poi scomparve rapidamente.
«Non c’è nessun altro posto dove scappare!» esclamò Vincent. Le sue
parole furono punteggiate da una risata maniacale quando aggiunse:
«Vieni fuori, amico! È solo una piccola rissa.»
Davanti a noi si sentivano degli strani rumori: grugniti e sbuffi, poi un
urlo. Dio, speravo che fosse Alex. Non vedevo l’ora di mettere le mani su
quello stronzetto. Probabilmente il vigliacco pensava di poter trovare una
via d’uscita qui dietro, ma la recinzione era sormontata da filo spinato e
non c’era altro posto in cui fuggire.
Jojo e Haribo erano alla base di uno dei nostri alberi più grossi, con una
linea di peli dritta e rigida sulla schiena, ad abbaiare verso i rami sopra di
noi. Haribo continuava a tentare di saltare in alto, ma con quelle zampe
tozze non riusciva a sollevarsi più di un metro da terra. Mi appoggiai la
mazza sulle spalle e strinsi gli occhi. Riuscii a malapena a scorgere una
sagoma aggrappata all’albero, incastrata tra i rami.
Mi accigliai. L’intruso sembrava più minuto di quanto avessi previsto.
«Ti ritroverai a ingoiare i tuoi stessi denti, imbecille,» bofonchiò Jason,
con una voce talmente bassa che dubitavo l’intruso avesse sentito. Era una
promessa fatta più a sé stesso che a chiunque altro.
Ma c’era qualcosa che non quadrava. C’era qualcosa di familiare nei
sospiri ansimanti e disperati del ficcanaso e nei piccoli mugolii di paura
che li accompagnavano.
Anche Vincent se ne accorse e puntò la sua luce verso i rami. «Che
diavolo è?»
Due grandi occhi verdi ci fissarono. Jessica aveva le braccia strette
intorno al ramo su cui era appollaiata, in equilibrio precario nella stretta
biforcazione tra due rami. I suoi capelli biondi erano tutti arruffati e le sue
guance rosse, il suo viso era pietrificato in un’espressione in parte
terrorizzata e in parte sollevata.
«Jessica?» La voce di Manson era trafelata, gravida di incredulità. «Ehi,
Jojo! Bo! Giù!» Schioccò le dita e i cani si chetarono all’istante. Gli occhi
di Jess si posarono su di noi e guizzarono tra le nostre espressioni
scioccate e le mazze nelle nostre mani.
«Perché avete quella roba?» chiese infine, e credo che nel mio cervello
scattò qualcosa.
«Queste?» specificai, con la voce sempre più acuta poiché stavo per
scoppiare a ridere. Alzai la mazza e mi avvicinai alla base dell’albero per
mettermi a fianco a Manson. «Secondo te, perché? A cosa diavolo pensi
che possano servire?»
Lei digrignò i denti, da quella piccola mocciosa impudente qual era. La
sua paura stava scemando, sostituita da qualcosa di molto più ridicolo.
«Non lo fareste mai,» affermò a bassa voce. I miei denti erano così
serrati fra loro che non feci fatica a immaginare che si sarebbero
scheggiati. Guardai Manson, ma la sua espressione era cupa, impassibile
mentre la fissava. Chiuse il coltello e se lo rimise in tasca.
«Scendi da là,» ingiunse. La sua voce era molto più pacata di quanto io
fossi in grado di tenere la mia in quel momento, ma c’era una sfumatura
che non poteva non essere colta. «Immediatamente.»
Jess scosse rapidamente la testa. «No, credo di essere più al sicuro
quassù.»
«Sei perfettamente al sicuro,» la rassicurò Jason, battendo
ripetutamente la mazza a terra. «Scendi.»
«Voi rientrate in casa,» disse lei. «Portatevi pure i cani. Poi me ne
andrò.»
«Te ne andrai?» subentrò Vincent. «No, no, no, Jess, tu non te ne vai.
Dobbiamo fare una bella chiacchierata.»
«No, grazie. Non credo che… Ah, merda!» Aveva cercato di riassestare
la sua posizione, ma la sua scarpa si incastrò tra i rami e lei scivolò,
ruzzolando dai rami a faccia in giù. Per sua fortuna, Manson era lì per
prenderla. Riuscì ad afferrarla al volo, prima che toccasse terra, inciampò
leggermente all’indietro, ma rimase in piedi. Lei iniziò subito a dimenarsi,
ma Manson non ne voleva sapere. Se la caricò sulle spalle, bloccandole le
gambe sotto un braccio.
«Lasciami andare!» strillò lei, fra calci e spintoni, agitandosi come un
pesce fuor d’acqua. Ma lui continuò ad avanzare, marciando verso il
garage con tutti noi al seguito. I cani gli stavano alle calcagna e cercavano
di annusare il viso di Jessica. «Mettimi giù! Maledizione!» Gli diede una
sculacciata sonora in un ultimo tentativo di fuga, ma Manson si limitò a
ridacchiare.
Per quanto Jessica mi facesse sentire come se stessi uscendo di senno, la
capivo anche molto meglio di quanto lei pensasse. Era troppo simile a me,
nel peggiore dei modi. Impulsiva. Orgogliosa. Così dannatamente
testarda. Ma poiché comprendevo quelle parti di lei, capivo anche di cosa
aveva bisogno.
Attenzione. Un’attenzione di qualità, mirata, quattro contro uno. E ora
l’avrebbe avuta.
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Jessica
Manson mi stava riportando al garage, buttata sulle sue spalle. La mia
testa rimbalzava su e giù, lasciandomi solo intravedere i volti degli altri
uomini. L’espressione di Lucas era feroce, così fervida che non mi sarei
stupita se avesse iniziato a sparare scintille dai bulbi oculari. Quella di
Jason era tesa e controllata, come se stesse per partecipare al funerale di
qualcuno che odiava. Vincent sorrideva, con un’espressione inquietante
punteggiata da occasionali scuotimenti della testa.
«Vediamo cosa hai combinato, Jessica,» grugnì Manson, risistemandomi
sulla sua spalla quando raggiungemmo l’ingresso del garage.
«No, no, lasciamo perdere,» replicai in fretta. Mi stava salendo tutto il
sangue alla testa e gemetti, con lo stomaco in subbuglio per il terrore.
Come avevo potuto essere così abissalmente sciocca? Quando avrebbero
visto cosa c’era in quel garage, il mio culo sarebbe stato spacciato.
Vincent si accovacciò accanto a noi e si servì di una piccola chiave per
aprire la serranda metallica. Afferrò la maniglia e tirò, e ogni cigolio del
metallo suonava come un altro chiodo piantato nella mia bara.
I sussulti collettivi di sgomento all’apertura del garage mi fecero pentire
di non essermi fatta sbranare dai cani là fuori, tra gli alberi.
«Lucas, vai a mettere i cani in casa,» ordinò Manson con voce incolore.
«Qui dentro si taglieranno le zampe.»
Il pavimento era tappezzato di schegge di vetro, che scintillavano nella
luce fluorescente. Scricchiolarono sotto gli stivali di Manson mentre mi
portava dentro. Le auto erano ammaccate, i finestrini rotti, gli pneumatici
bucati. Gli attrezzi erano stati staccati dalle pareti e gettati a terra, i
cassetti erano stati aperti e il loro contenuto rovesciato.
«Porca puttana,» commentò Vincent. «Porca puttana maledetta.»
Manson mi rimise in piedi, e per un breve momento non fui più
prigioniera. Manson era lì accanto a me, a contemplare la devastazione
con un’espressione distaccata, come se non riuscisse a credere a ciò che
stava vedendo. Per quasi un minuto rimasero semplicemente a fissare, con
delle facce impietrite dall’incredulità.
Tutto d’un tratto, delle braccia mi afferrarono da dietro e mi
strattonarono contro un petto ampio e massiccio.
«Faremo una lunga chiacchierata su questo, signorina Martin.» Lucas
era tornato, e la sua voce era così glaciale che mi fece venire i brividi.
Manson e Vincent camminavano tra i rottami, Manson scuoteva la testa
con una mano tra i capelli. Jason stava scrivendo rapidamente sul suo
telefono, alzando lo sguardo solo di tanto in tanto, come se stesse
prendendo appunti sui danni.
«Migliaia di dollari,» annunciò. «Migliaia di dollari di danni, cazzo.» Si
girò di scatto e mi fulminò con lo sguardo. «Tu. Tu…» Tutti gli insulti che
gli vennero in mente evidentemente non erano abbastanza. Si girò e uscì
dalla porta laterale aperta, che dondolava, mezza divelta dai cardini.
L’allarme finalmente smise di suonare e Jason tornò pochi secondi dopo.
«Hanno tagliato i fili delle telecamere,» informò. Bestemmiò sottovoce,
guardandomi con ribrezzo. «Sembra che abbiano cercato di disattivare
completamente il sistema di sicurezza, ma è entrata in funzione la batteria
di riserva.» Appoggiò le mani al bagagliaio della sua Nissan bianca, con la
testa china sul metallo graffiato e malconcio. «Cazzo! Maledizione!»
«Ci sei riuscita adesso, Jess,» mormorò Vincent con una risata amara.
«Cazzo!»
«Non sono stata io!» gridai. Mi dibattei contro la presa di Lucas su di
me, cercando, senza riuscirci, di divincolarmi. Non sapevo nemmeno cosa
avrei fatto, ammesso che fossi riuscita a scrollarmelo di dosso. Sarei corsa
fino a casa al buio? Me ne sarei andata da Wickeston e avrei fatto finta che
quella notte non fosse mai accaduta? Non avrei più messo il naso fuori di
casa e avrei sperato che non venissero a bussare alla mia porta?
Avevo fatto una cazzata colossale.
«Continua a opporti e la situazione diventerà molto peggiore per te,»
sibilò Lucas. «Non sfuggirai a questa situazione.»
«Non sono stata io a distruggere le vostre auto!» insistetti. «Sono stati
loro. Non sono stata io!»
«Oh, certo, naturalmente,» si intromise Vincent. «Come al solito, non
può essere colpa tua.»
«No, io… Vi prego, non chiamate la polizia,» frignai, incespicando sulle
parole. E se fossi finita in prigione? Come diavolo l’avrei messa ai miei
genitori? Come l’avrei spiegato al mio capo? «Non sono stata io. Lo giuro,
cazzo.»
Le parole mi morirono sulla lingua quando Manson si girò, fissandomi
torvo da sopra il tettuccio della sua Mustang sfasciata.
«Non chiamate la polizia?» domandò con voce pericolosamente bassa
mentre mi veniva incontro. «Nessuna conseguenza per Jess, giusto?
Nessuna fottuta responsabilità per le tue azioni?» Ora era proprio davanti
a me, a pochi centimetri di distanza. Dietro di lui, Vincent era appoggiato
a una grossa cassetta degli attrezzi con le braccia conserte.
Manson si frugò in tasca e tirò fuori un cellulare, vecchio di diversi
modelli e con lo schermo incrinato. Lo sbloccò e me lo puntò in faccia.
«Chiamali tu. Chiama la polizia. Credimi, preferirai che siano loro a
occuparsi di te piuttosto che io.»
Lucas mi lasciò andare e io presi il cellulare con mani tremanti. Gli
sguardi che ricevevo da tutti e quattro avrebbero potuto fondere delle
travi d’acciaio, mentre aprivo il tastierino numerico, con il pollice sospeso
sul 9.
Scossi la testa e gli diedi il telefono indietro.
«No.» Non riuscivo a guardarlo negli occhi, così tenni gli occhi fissi sul
pavimento ricoperto di vetri, mordicchiandomi l’interno della guancia.
«Non mi va di coinvolgere la polizia. Preferirei…» Boccheggiai. Che
diavolo stavo facendo? La sensazione di scompiglio che mi attanagliava lo
stomaco non era paura. Era qualcos’altro, qualcosa di strano. «Voglio che
rimanga tra noi.»
Gli occhi di Manson si spalancarono, le sopracciglia scomparvero sotto
i capelli che gli ricadevano sulla fronte. Jason si passò le mani sul viso con
un gemito, dicendo: «Non posso crederci. Non riesco a credere a questa
merda.»
Vincent stava facendo una risatina bassa che sembrava davvero
maniacale. «Quindi, Jess vuole che rimanga tra noi. Vieni qui, ci spacchi le
nostre cose…»
«Oh, ma tu hai frainteso, Vince,» intervenne Jason, con la testa ancora
china sulla sua auto distrutta. «È venuta qui innocentemente e non ha
fatto nulla di male. Non è colpa sua, come al solito.»
Il senso di colpa che mi invadeva era gravoso, troppo intenso da
sopportare. Anche se non avevo rotto nulla, ero pur sempre venuta. Avevo
seguito Alex e gli altri, mi ero intrufolata di soppiatto, avevo preso parte a
tutto quello.
Lucas aveva detto bene. Dovevo essere punita. Lo sapevo, e lo temevo
tanto quanto lo desideravo disperatamente. Qualsiasi cosa, pur di far
scomparire quel senso di colpa e di rimpianto che mi opprimeva.
«Ho fatto una cazzata. Io… so che è una cosa brutta.» Ansimai. Quello
che stavo per chiedere per me era arduo quanto squarciarmi le budella
con degli ami da pesca, ma dovevo farlo. «Ho capito, siete in collera con
me. Siete arrabbiati e…»
«Arrabbiato è un fottuto eufemismo,» sibilò Lucas, facendo schioccare
i denti vicino al mio orecchio. Il mio cuore palpitava come quello di un
coniglio davanti a un branco di lupi - un coniglio molto sciocco che era
entrato nella loro tana e si era intrattenuto abbastanza da essere catturato.
Anche se cercai di ostentare sicurezza, dubito che ci riuscii. Feci un
respiro profondo e annunciai: «Posso affrontare le conseguenze.»
Manson storse la bocca e puntò su di me gli occhi stretti in due fessure.
«Puoi affrontare le conseguenze? Cosa pensi di stare affrontando
esattamente, in questo momento? Siamo terribilmente calmi,
considerando quello che abbiamo di fronte, Jess. Se ti mostrassimo
davvero la nostra rabbia, cambieresti atteggiamento.»
«Allora mostratemela» dichiarai. «Datemi una punizione, se è quello
che volete. Me la prenderò. Me la merito.»
Vincent rise di nuovo, ma questa volta anche Lucas si unì a lui. La cosa
mi allarmò abbastanza da farmi voltare a guardarlo, in piedi nell’ombra
dietro di me, con la lampadina sopra la sua testa che tremolava
leggermente. Stava… cazzo…
Lucas stava sorridendo.
«Punirti?» domandò. «È questo che vuoi? Ti sembra un giochino
divertente? Perché questo…» Si guardò intorno, con un sorriso
pericolosamente tirato, «non ha l’aria di un gioco. Sembra che tu ti sia
meritata delle conseguenze decisamente serie.»
«Bene,» concordai. Stavo sbruffando ogni parola. «Mi ricordo la mia
parola d’ordine. Potete solo…»
Manson si mosse verso di me come una vipera, con il corpo magro
attorcigliato dalla furia. I suoi occhi scuri sembravano quasi neri mentre
mi guardava.
«Ho capito quello che stai facendo.» La sua voce era un sibilo
minaccioso. «Pensi che, siccome hai una parola di sicurezza, non ti
puniremo adeguatamente? O hai dimenticato cosa significa essere sulle
mie ginocchia?»
Non l’avevo certo dimenticato. Trovarmi piegata sulle sue ginocchia nel
bel mezzo di una festa era stato uno dei momenti più salienti della mia
vita, per quanto bizzarro fosse. Avevo accettato la sua sfida a servirlo, ma
non mi sarei mai aspettata che mi avrebbe offerto una parola d’ordine,
dandomi una rete di sicurezza nel caso in cui la situazione fosse diventata
troppo pesante.
Quella parola mi dava la libertà di scalciare e piangere sulle sue
ginocchia con totale abbandono, sapendo che avrei avuto una via d’uscita
in caso di bisogno. Non mi avrebbero fatto del male, ma non me lo
avrebbero nemmeno reso una passeggiata.
Non meritavo di passarla liscia. Volevo cancellare la mia vergogna,
liberarmene il prima possibile. L’unico modo che conoscevo per farlo era
accettare le conseguenze che volevano farmi subire.
Manson mi stava guardando in faccia, con gli occhi ancora socchiusi.
Era uno sguardo acuto e accusatorio, alla ricerca di una qualsiasi crepa
nella mia determinazione.
«Non hai idea di quello che cazzo stai chiedendo,» mi fece presente lui.
Mi scostò una ciocca di capelli dalla faccia, e quel breve contatto delle sue
dita con la mia guancia fu elettrico. «Ti faremo urlare. Ti faremo soffrire.»
Dietro di lui, Jason mi scrutava con occhi gelidi. «E ci godremo ogni
maledetto secondo.»
Oh, cazzo. Il mio senso di colpa fu improvvisamente sopraffatto da
un’ondata di intenso desiderio.
«Allora fate in modo che mi faccia male,» risposi. «Vi sto dicendo che
accetto le conseguenze.»
Manson e Lucas si scambiarono un’occhiata. Poi Manson si raddrizzò e
si fece scrocchiare i polsi. Il movimento mi provocò un fremito in tutto il
corpo. Feci un passo indietro, solo per trasalire quando mi scontrai con
Lucas e mi resi conto di quanto fosse rimasto vicino per tutto il tempo.
«Come farà questa piccola puttana a farsi perdonare?» chiese. Il suo
respiro mi solleticava il collo, caldo e minacciosamente vicino. Tenni gli
occhi su Manson, ma riuscivo a scorgere Lucas nella mia visione
periferica, appoggiato alla mia spalla mentre osservava il mio viso. «Penso
che non mi dispiacerebbe vederla implorare. Voi che ne pensate, ragazzi?»
Dio, il fatto che questo mi provocasse tanta eccitazione quanta
vergogna era sconcertante. Probabilmente là fuori c’era uno studente di
psicologia che avrebbe potuto scrivere un’intera tesi studiando il mio
cervello arrapato.
Manson annuì all’idea di Lucas mentre avanzava verso di me, e mi mise
una mano sulla nuca per avvicinarmi a lui. Era a torso nudo, ogni muscolo
asciutto era definito da una leggera patina di sudore.
«Non dispiacerebbe neanche a me,» concordò, scavando con le dita nel
mio collo. «Credo che mi piacerebbe vederla implorare pietà.»
«Le darò un minuto prima che si metta a guaire come una bambina,»
scommise Jason. Era ancora appoggiato alla sua auto, con il volto
ombreggiato dal cofano. Alzò il braccio e mi chiamò arricciando il dito.
«Vieni qui.»
Oh, cazzo. Istintivamente, feci un passo indietro, ma andai a sbattere
contro Lucas. Mi sibilò nell’orecchio: «Dove credi di andare? Ti ha detto
di andare da lui, quindi porta il tuo culo lì.»
Manson mi spinse in avanti, usando la sua mano sulla mia nuca per
spronarmi. Inciampai appena e Jason mi afferrò per il braccio, facendomi
piegare sul retro della Z. Il metallo era freddissimo e io squittii, facendo
pressione contro la sua mano, ma era come lottare contro un muro di
mattoni.
«Dovrei riempirti il culo di lividi,» mi disse, e le sue parole mi fecero
scorrere nelle vene un calore liquido.
«Oh, una bella sculacciata la riceverà,» assicurò Manson. «Perché non
cominci tu?»
Jason stava sogghignando quando girai il viso verso di lui. Merda, ci
stavo.
Avevo un debole per le sculacciate, era innegabile. Ma se comunicavo ai
miei partner che mi piaceva essere sculacciata, di solito il risultato era
qualche schiaffetto leggero durante il sesso e niente di più. Era difficile
trovare le parole per spiegare che non volevo un buffetto: volevo una
sculacciata in piena regola, piegata a novanta gradi, con le gambe che
scalciavano, in dubbio sulla mia stessa resistenza.
Beh, congratulazioni, Jessica Martin, hai esaudito il tuo desiderio nel
peggior modo possibile. Quella sculacciata non era per divertimento, bensì
per punizione. Avevano intenzione di farmi pentire di quello che avevo
fatto, e avevano il potere di farlo.
Vincent appoggiò le mani sul bagagliaio accanto a me. Avevo Jason alla
mia destra e lui alla mia sinistra.
«Tira su il vestito,» ordinò Vincent. Esitai, ma lui si chinò e aggiunse in
tono dolce: «Tiralo su o ti toglierai tutto.»
Mi morsi il labbro, i denti scavarono dolorosamente nella mia carne.
Quella fitta mi diede qualcosa su cui concentrarmi, oltre all’imbarazzo,
mentre allungavo la mano per sollevare l’orlo del vestito. Un rossore mi si
diffuse sul viso, bollente e dannoso. I miei slip erano striminziti, la
quantità di materiale era appena superiore a quella di un perizoma.
Manson e Lucas si avvicinarono, ma fu Jason quello su cui tenni gli
occhi. Passò la mazza da baseball a Manson, che si mise a farla oscillare
oziosamente in mano.
«Guardate che bel culetto,» osservò Jason. «Così vivace. Scommetto
che rimbalza quando lo colpisci.»
Ero così agitata che temevo che sarei scoppiata. Il terrore mi avrebbe
ucciso. «Sculacciami e basta!» sbottai. «Non ho bisogno di sentire i tuoi
monologhi eccitati. Io…»
Paf!
La forza della sua sculacciata scioccò il mio orgoglio e fece scattare un
allarme rosso, e venne immediatamente seguita da altre. Ogni schiaffo era
tagliente e mordace, accendeva un fuoco impetuoso sul mio sedere mentre
lui passava da una natica all’altra, per assicurarsi che ambedue ricevessero
un’introduzione pungente dal palmo della sua mano. Strinsi i denti, i
pugni, le cosce - tutto. Ma contrarmi non rendeva le cose più facili. Il
ritmo di Jason non subì il minimo arresto.
«Cazzo,» ringhiai, sollevando il braccio e piegandolo sotto il mio viso
per potervi premere la bocca contro. Ma Vincent mi mise una mano sotto
il mento e mi strinse le guance, tenendomi la testa sollevata.
«Non ti nascondere, Jess,» mi ammonì. «Volevi delle conseguenze,
ebbene, eccole qui. Ti piace, non è vero?»
«Fantastico.» Stavo sbuffando, trattenevo i miei mugolii con la sola
forza di volontà. Il mio ventre si stava rapidamente surriscaldando, la mia
fica si stringeva nonostante il dolore - non solo nonostante, ma proprio
grazie a esso. Erano passati alcuni anni, ma dannazione, avevo dimenticato
quanto fosse impossibile mantenere una dignità durante una sessione di
sculacciate.
«Ahi!» Il guaito mi uscì di getto e le mani volarono all’indietro in uno
sciocco tentativo di coprirmi. Vincent catturò prontamente le mie mani.
Mi tenne i polsi ben saldi contro la parte bassa della schiena, lasciandomi
senza nemmeno un attimo di tregua.
«Non. Fare. La stronza. Con. Le mie. Cose.» Ogni parola di Jason era
sottolineata da uno schiaffo.
Nell’istante in cui Jason si fermò, Vincent mi tirò in piedi. Mi fece
girare e mi diresse verso la sua Subaru malridotta. Tutti i suoi finestrini
erano stati spaccati, i vetri luccicavano intorno al veicolo come una triste
spolverata di brillantini. Mi guidò con una mano sulla nuca mentre
Manson apriva la portiera del passeggero.
«Credo che si debba trarre il meglio da una brutta situazione,»
sentenziò Vincent, stuzzicandomi l’orecchio con le sue labbra, mentre
Manson stava usando uno straccio per spazzolare via i frammenti di vetro
rimasti dal telaio del finestrino. «Preferirei portarti nella mia soffitta e
appenderti al soffitto? Assolutamente sì. Ma credo che questo dovrà
aspettare fino alla prossima volta che farai i tuoi dannati capricci.»
Manson mi sorrise attraverso il finestrino aperto, mentre batteva a terra
la mazza da baseball che teneva in mano. Se ci fosse stato Alex o uno degli
altri ragazzi rimasti, quelle mazze sarebbero state usate. Avrebbero dato
loro una lezione, un chiaro avvertimento che non dovevano essere fregati.
Invece, c’ero solo io a prendermi la colpa.
Il mio cervello era in subbuglio, inondato di ormoni contrastanti, ma
non c’era bisogno che fosse così crudele da farmi immaginare quanto
sarebbero stati eccitanti tutt’e quattro con le mazze in mano. I pestaggi
sanguinolenti non avrebbero dovuto essere eccitanti.
Vincent mi piegò in avanti sul finestrino aperto. I miei piedi toccavano
appena il suolo e il bordo del finestrino mi scavava nello stomaco. Il mio
viso era all’altezza dei fianchi di Manson, del suo…
Dio. Ce l’aveva duro. La mia bocca si aprì e si chiuse senza parole
quando se lo strinse da sopra i jeans.
«Che vogliamo fare, angelo?» mi chiese. Vincent mi alzò il vestito e
strinse la mia carne irritata prima di trascinare le sue unghie su di me,
lasciando dietro di sé delle scie scottanti. «Hai intenzione di mostrarmi
che sei desolata, o ti devo costringere io?»
Mi sentivo come se fossi stata ridotta a una dimensione minuscola.
Lucas passò accanto alla Subaru, con la mazza in mano, e si mise dietro la
spalla di Manson. I due che mi guardavano dall’alto in basso - armati,
pericolosi e furiosi - erano un carburante in più per la mia tremante
umiliazione.
Feci un brusco respiro quando Vincent mi colpì il sedere. Lo schiaffo
ustionava quanto quello di Jason, ma Vincent fece una pausa prima di
quello successivo, lasciando che il bruciore sbocciasse e si placasse prima
di scatenarlo di nuovo.
«Rispondi a papà Manson, Jess.» La provocazione era palese nella sua
voce.
L’espressione sul mio volto mentre lottavo per tenere la bocca chiusa
doveva essere davvero comica, perché sia Manson che Lucas risero di me.
Le ottave delle loro voci all’unisono fecero fare un salto mortale al mio
stomaco, mentre Lucas allungò da dietro le mani attorno alla vita di
Manson e gli slacciò la cintura. Avvicinò il viso al collo di Manson. Il suo
naso tracciò la carne fino a che non raggiunse l’orecchio di Manson e lo
morse, e i suoi denti lampeggiarono a quel gesto improvviso e spontaneo.
Manson mi rivolse un sorriso beffardo mentre Lucas faceva scivolare
via la cintura. I due si scambiarono una breve occhiata, fra loro passò
qualcosa di tacito, prima che Lucas mi avvolgesse la cintura intorno alla
gola. La strinse, non abbastanza da mozzarmi il respiro, ma più che
sufficiente per tenermi bloccata in quella posizione.
«Sembra che ti dovremo costringere, allora,» disse Lucas. Diede uno
strattone alla cintura e mi tenne la testa sollevata, mentre Manson si
sbottonava i jeans. Se la prese comoda, senza fretta. Era troppo tranquillo,
troppo padrone della situazione, mentre io stavo rapidamente perdendo
ogni parvenza di calma.
La sculacciata di Vincent mi costrinse a emettere un grido, e sbattei i
piedi per terra, con uno sbuffo disperato.
«Fa male, cazzo!» Tirai fuori quelle parole strozzate, tremanti, come se
fossi sull’orlo delle lacrime. Dio, piangere mi avrebbe fatto bene. Era così
difficile trattenersi. Per quanto facesse male la sculacciata in sé, anche il
tentativo di sforzarmi di essere calma e coraggiosa era uno strazio. Ero
avvinta dalla costante sensazione di star combattendo una battaglia persa,
di star scivolando verso il completo deperimento senza che potessi fare
nulla per fermarlo.
«Ah, fa male?» Vincent mi artigliò di nuovo le natiche con le unghie
mentre Lucas tirò la cintura, tenendomi in posizione. «Strano, perché a
me sembra che tu abbia una macchia bagnata sulle mutande, Jess. Non
riesco a credere che faccia così male.»
Richiusi di scatto le gambe, ma era troppo tardi. L’avevano già vista, e la
vergogna mi avviluppò e mi bruciò il viso. Non era certo un segreto che il
dolore mi eccitava, lo sapevano già. Ma questo non rendeva più facile
vedermi sottolineata la mia reazione.
Manson si abbassò i boxer e il suo cazzo si liberò, rimbalzando davanti
alla mia faccia. Maledizione, anche ora che mi trovavo in una delle
peggiori posizioni della mia vita, era dannatamente bello. La punta era
turgida, la lunghezza solcata da vene bluastre che si stagliavano contro la
sua pelle pallida.
Si chinò e, per un breve momento, la sua voce si addolcì. «Vuoi ancora
le conseguenze, Jess?»
Mi si rivoltò lo stomaco, ma feci un cenno deciso con la testa. «Sì.»
«Apri la bocca per lui,» intimò Lucas in modo rude. Alzai lo sguardo, i
miei occhi si posarono su quelli di Manson, che si stava raddrizzando, ma
non fui abbastanza rapida a obbedire. Lucas mi agguantò il viso e mi
strinse la mascella, costringendomi ad aprire la bocca. Allo stesso tempo,
Vincent mi diede un altro schiaffo e a me uscì un urlo scioccante per
quanto era acuto e riecheggiò per tutto il garage.
«È questo che voglio sentire,» affermò Manson. «Voglio sentirti provare
a urlare così con il mio cazzo in gola.»
Ero certa che l’avrei fatto. Manson avrebbe reclamato ogni urlo, ogni
pianto, ogni lacrima possibile.
«Faresti meglio a dargli quello che vuole, ragazza, chiaro?» ringhiò
Lucas. «Voglio vedere le lacrime.» Annuii, anche se era difficile da fare,
bloccata com’ero. Manson penetrò nella mia bocca mentre Lucas mi
teneva ferma e fece scorrere la sua erezione sulla mia lingua. La spinse
sino in fondo alla mia gola, premendo fino a quando dovetti lottare per
non avere conati di vomito. Sulla sua faccia traspariva una beatitudine
tenuta a freno, mentre io lo esploravo con la lingua.
«Se hai bisogno di fermarti, tre colpi sullo sportello,» mi istruì.
«Intesi?»
Nessuno di loro si mosse finché non annuii. Poi Manson si spinse con
forza nella mia bocca, scopandomi la gola con una spietatezza che divenne
ben presto travolgente. Vincent mi diede un’altra sculacciata decisa e il
cazzo di Manson ovattò il mio grido, mentre mi soffocava a ogni spinta.
«È questo che succede alle ragazze cattive,» annunciò, col fiato sempre
più corto mentre io cercavo di usare la lingua seguendo il ritmo delle sue
spinte. Se fossi riuscita a farlo godere, forse…
Forse avrei comunque ricevuto la punizione che meritavo.
«Strozzatici,» ordinò Lucas, e un lieve scossone alla cintura garantì il
risultato. Le lacrime che avevo negli occhi traboccarono e mi scesero
lungo le guance. Ogni parvenza di compostezza era completamente
annientata.
Manson ansimò, con le labbra arricciate per il piacere, mentre la mia
gola si stringeva intorno a lui. Vincent e Lucas si scambiarono di posto e
Vincent impugnò la cintura intorno al mio collo. Si accovacciò, catturò
una lacrima che mi stava colando sulla guancia e la leccò dal polpastrello.
«Povera, piccola Jess,» mormorò. «Ti fa bagnare la fica, vero?»
Manson si immerse a fondo nella mia gola, con il respiro affannoso.
Dio, aveva un buon sapore. Sudore e pelle, con un inebriante muschio
naturale ora che il mio naso era sepolto nei peli scuri intorno alla base del
suo pene. Lucas, con le sue grandi mani callose, mi afferrò il sedere e me
lo strinse con forza. Dietro di me, Jason commentò: «Cazzo, diventa
proprio rossa, non è vero?»
«E sta gocciolando,» aggiunse Lucas. Mi allargò i piedi, facendomi
perdere l’equilibrio, e dovetti allungare le dita dei piedi per tenerle a terra.
I miei slip furono tirati di lato, l’aria fresca baciò la mia pelle. «Metti la
faccia lì dentro, J. Vediamo come si agita.»
Il mio grido di sorpresa vibrò intorno al cazzo di Manson nel momento
in cui una lingua scivolò su di me, vorticando sul mio clitoride e
immergendosi nella mia fica. Lucas mi diede una sculacciata nello stesso
momento, il suo palmo si schiantò con uno schiaffo così pesante da
lasciarmi scioccata. Mi bruciava il sedere, la mia sopportazione si stava
incrinando a ogni ulteriore sculacciata. Ma la lingua di Jason si concentrò
sul mio clitoride, lambendolo fino a quando i muscoli delle mie cosce non
presero a contrarsi e io gemetti. Il cazzo di Manson sussultò nella mia
bocca, il suo liquido pre-eiaculatorio era sapido e leggermente amaro sulla
mia lingua.
«Ti piace il sapore di quel cazzo?» domandò Vincent a voce bassa, con
quei suoi occhi verdi brillanti. «Jason è in ginocchio tra le tue gambe con
la faccia seppellita nella tua fica. È un peccato che non ti sarà dato di
venire.»
«Oddio, no.» Le parole cercarono di uscire dalla mia bocca, ma si
confusero intorno al grosso cazzo di Manson.
«Cazzo…» imprecò Manson, con la mascella serrata. Stava dando delle
spinte più forti, più veloci. Sapevo che stava per venire, mentre
continuavo a passare la lingua su di lui, desiderosa di dimostrargli che ero
mortificata.
Ma lui mi afferrò i capelli e si tirò fuori dalla mia bocca. Rimasi a
boccheggiare, poi a cacciare dei guaiti disperati mentre Lucas mi
sculacciava e le labbra di Jason si chiudevano sul mio clitoride,
succhiando fino a quando non vidi le stelle. Il cazzo di Manson era
proprio davanti alla mia faccia, ma non potevo raggiungerlo, il liquido
pre-eiaculatorio colava lentamente dalla sua fessura mentre si masturbava.
«Lucas.» Pronunciò il nome dell’uomo a denti stretti. Lucas mi lasciò
con un ultimo schiaffo cocente e si inginocchiò davanti a Manson, proprio
di fronte a me. Prese il cazzo di Manson in mano, con una fame sfrenata
sul viso, mentre sbirciava l’uomo in piedi sopra di lui e si leccava le labbra.
Lucas aprì la bocca e si infilò il cazzo di Manson fino in gola. Manson
esalò bruscamente, sollevò le braccia e le riunì dietro la testa. Vincent
strinse la cintura intorno alla mia gola, avvertendomi: «Guardalo. Magari
puoi imparare un paio di cose su come compiacere i tuoi padroni.»
Il mio clitoride sembrava dotato di un proprio battito cardiaco, pulsava
sotto la lingua di Jason e si arroventò nell’istante in cui Lucas inchiodò i
miei occhi coi suoi. La vista delle sue labbra carnose che si muovevano
lungo il pene di Manson era erotica a livelli quasi insopportabili. Manson
emise un gemito lungo e sonoro e venne, accompagnandosi a delle spinte
brutali e rapide che lo mantennero in profondità nella gola di Lucas.
Ma Lucas non ingoiò. Si girò verso di me e mi cinse di nuovo il viso.
Vincent tirò su la cintura e ordinò: «Apri la bocca. Prendilo.»
Obbedii con un mugolio. Lucas si avvicinò e mi sputò in bocca lo
sperma di Manson. Mi colò sul mento, era troppo perché potessi
prenderlo tutto insieme. Era disgustoso - Dio, era così eccitante. Era
veramente ripugnante - mi fece rabbrividire dall’estasi. Riuscii a deglutire
sotto lo sguardo di Lucas, che aveva la bocca piegata dal crudele
divertimento in un ghigno di scherno.
«Prendi la tua medicina,» aggiunse Lucas, usando le dita per
raccogliere le gocce che mi erano colate sul mento. Mi spinse le dita in
bocca, costringendomi a leccarle. «Fino all’ultima goccia». Mi spinse le
dita così a fondo nella bocca che ebbi un conato di vomito e il mio petto
sussultò. Il mio momento di debolezza gli diede nuova linfa. Continuò a
tenere le dita lì, agganciate in profondità nella mia bocca, premute sul
retro della mia lingua. «Non vomitarmi addosso ora, ragazza.»
«Controllati, Jessica,» ordinò Manson, rimettendo il suo cazzo nei
pantaloni. Ogni muscolo della mia gola mi spingeva ad avere un altro
conato di vomito, avevo le convulsioni. Tremavo da capo a piedi, quando
Vincent si avvicinò al finestrino aperto, mi diede uno schiaffo sul sedere e
poi affondò le dita dentro di me.
Spingeva dentro di me a un ritmo veloce e costante, con le dita bagnate
dalla mia stessa eccitazione, mentre Jason continuava a darmi piacere con
la lingua. Ma la stimolazione durò troppo poco. Vincent ritrasse la mano e
infilò le sue dita nella mia bocca, accanto a quelle di Lucas.
«Ti piace, vero?» chiese Vincent, mentre la saliva mi colava dalle
labbra. «Ti piace sentire quanto sei bagnata?» Jason gemette contro di me
e per poco non mi si rovesciarono gli occhi all’indietro.
«Brava ragazza, manda giù,» mi spronò Manson.
Alla fine la mia bocca venne liberata e fui lasciata in uno stato
scompigliato e tremante, mentre Lucas intanto si alzò in piedi e Vincent
tornò a farmi un ditalino.
«Cazzo, ti prego…» gemetti. Il suono umido delle sue dita che
spingevano dentro di me era così distinto da risultare umiliante, così come
i miei respiri affannosi. Mi volevo rannicchiare ai loro piedi. Volevo
mettermi a piangere, a urlare e a scalciare in preda all’abbandono. «Per
favore, per favore, per favore, mi dispiace, farò la brava!»
«Questa l’ho già sentita,» disse Manson, con il fantasma di un sorriso
che gli tirava le labbra.
«No, no, vi prego, dico sul serio, dico sul serio, vi prego!» Ero certa che
non mi sarei riuscita a sedere per il resto della settimana, ma avevo così
tanto bisogno di quell’orgasmo che singhiozzai. «Dio, Jason, ti prego, non
fermarti, ti prego…»
Manson mi prese il viso fra le mani. «Quando invochi il tuo Dio, è
meglio che lo guardi in faccia,» affermò. Rabbrividii, il calore del mio
addome divenne un fuoco pulsante quando capii cosa intendeva dire.
C’era un solo Dio davanti a me, ed era Manson in persona.
«Dio, ti prego.» La mia voce era flebile, implorante. Ero proprio al
limite. «Ti prego, ti prego, ti prego, fammi venire, ti prego!»
Ma l’espressione di Manson era spietata. Vincent stava ridacchiando
alle mie suppliche - una risata assolutamente sadica che mi fece inzuppare
di nuovo dalla vergogna. Dignità? Quale dignità? Era fuori dalla finestra,
scomparsa da tempo, una specie estinta. Il mio cervello era focalizzato su
una cosa e una soltanto: riuscire in qualche modo a raggiungere l’orgasmo
prima che Manson mi fermasse.
Ma ero una sciocca a pensare di poter vincere. Questo era il loro parco
giochi e io ero il loro giocattolo, una disperata eccitata che dimenava i
fianchi contro la bocca di Jason per raggiungere più velocemente il picco
del piacere. Manson aveva sulla faccia un sorriso che si allargava a ogni
mio respiro disperato.
«Non farlo,» implorai, con la voce che mi tremava. La mia fica pulsava
per quella sensazione meravigliosa e familiare. «Non fermarlo. Ti prego,
Dio, non farlo smettere, ti prego.»
Manson scosse la testa, come se fossi solo una stolta. «Le ragazze cattive
non vengono premiate, Jess. E tu sei stata una ragazza molto cattiva.»
Non ebbe nemmeno bisogno di dare un ordine. Jason si fermò, la
mancanza di contatto mi fece gridare in segno di protesta. Fece schioccare
le labbra come se avesse appena consumato un pasto e, al posto del
piacere, ricevetti un altro schiaffo del suo palmo sul mio sedere, che
infiammò di nuovo la mia pelle con una rapidità sbalorditiva.
«È questo che succede,» specificò Lucas mentre imploravo con inutile
rassegnazione. «Questo è ciò che ti sei guadagnata.»
Scossi freneticamente la testa, annaspando tra le lacrime per il dolore
pungente. La mia parola di sicurezza traballava sulla punta della mia
lingua, ma non le diedi voce. Avevo dichiarato che ero in grado di
sopportarlo, e l’avrei fatto. Sapevo cosa mi meritavo, di cosa avevo
bisogno. E avevo bisogno di soffrire.
Solo quando cominciai a piagnucolare e a lanciare delle suppliche del
tutto incomprensibili, le sculacciate si fermarono.
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16
Manson
Jess fece una smorfia quando sollevò le mutande sul sedere arrossato. Tirò
su col naso, rabbiosa, spostando lo sguardo tra noi quattro con le labbra
imbronciate e gli occhi acquosi.
Come se non se la fosse letteralmente cercata.
«Non guardarmi così,» disse Vincent nel momento in cui lo sguardo di
Jess si posò su di lui. «Ti metterò di nuovo a novanta così in fretta da farti
venire le vertigini.»
Per una volta, Jess ebbe il buon senso di rimanere in silenzio. Dio,
quella donna mi faceva diventare matto. Ogni volta che guardavo troppo a
lungo la Mustang - pneumatici squarciati, finestrini rotti, vernice rigata,
ammaccature su ogni pannello - mi veniva voglia di sculacciarla daccapo.
Volevo che imparasse la lezione. Mi sarei sentito meglio se avessi pensato
che le avrebbe fatto bene sul lungo termine, ma le lezioni non si imparano
in un giorno solo.
Perché diavolo aveva chiesto questo? E ancora di più: perché glielo
avevo concesso? Ero fuori di me, sì, ma di solito evitavo di imbarcarmi in
cose del genere quando ero così arrabbiato. Mi sentivo un po’ troppo a
rischio di perdere il controllo.
Ma era stata lei a chiedere una punizione, e chi ero io per negargliela?
Aveva deliberatamente scelto di affrontare la nostra ira piuttosto che
scappare. Era una tacita dimostrazione di fiducia che non mi sarei
aspettato, ma che mi aveva lasciato più che altro spaesato.
Perché doveva provocarmi? Sapeva esattamente come farmi infuriare.
Conosceva tutte le parole giuste per suscitare la mia rabbia. Con lei era
sempre stato un continuo braccio di ferro tra odio e desiderio. Era
egoista, viziata e totalmente egocentrica, ma era anche una che fingeva di
continuo. Simulava la sicurezza in sé stessa, i sorrisi, fingeva di essere una
brava ragazza a modo.
Le brave ragazze non si bagnavano quando venivano punite. Dietro
quegli angelici capelli biondi e quegli innocenti occhi verdi si nascondeva
una masochista che bramava innegabilmente il dolore. Lo sapevo già,
eppure mi sembrava ancora incredibile.
Era questo che continuava ad attirarmi, era questo che aveva intrigato
tutti noi. Jessica viveva con una maschera indosso, ma dietro quella
maschera c’era una donna selvaggia e perversa, che stava cercando una via
d’uscita. Lo nascondeva, e poi prendeva decisioni insensate pur di non
ammettere ciò che voleva davvero.
Non potevo farmelo diventare un problema personale. Avevo già
commesso quell’errore.
«Devo tornare alla mia macchina,» biascicò Jess, passandosi le mani sul
viso. Aveva le guance rosate, gli occhi leggermente arrossati e gonfi. Se
fosse stato per me, se fosse stata davvero mia, quello sarebbe stato solo
l’inizio della sua punizione. Se fosse stata mia, sarebbe rimasta seduta in
un angolo, col sedere scoperto, in attesa della prossima sculacciata.
Voleva questo: conseguenze, ordine, controllo, qualcuno che la tirasse
fuori dai suoi atteggiamenti e la facesse tornare alla realtà. Ma a meno che
non fosse stata lei a sceglierlo, a meno che non fosse stata lei a scegliere
noi, cos’altro avrei dovuto fare?
«Dove sono le tue chiavi?» le chiesi. Scavò nelle tasche anteriori del
vestito e alla fine tirò fuori un piccolo mazzo di chiavi con un cordino
rosa. Gliele strappai di mano.
«Ehi! Non puoi…»
«Sento odore di alcol nel tuo alito,» dissi. «Non guiderai da nessuna
parte. Dov’è la tua macchina?»
Incrociò le braccia e guardò di lato, come se questo migliorasse la sua
postura di sfida. «Al ponte,» annunciò.
Feci un sospiro pesante, pizzicandomi il ponte del naso quando lanciai
un’altra occhiata alle auto. Gomme sgonfie. Niente finestrini. Almeno si
erano spaventati e se n’erano andati prima che potessero iniziare a fare
danni sotto i cofani. C’era anche la macchina di un cliente, ma per fortuna
quella era stata graziata.
«Sono troppo stanco per questo,» annunciai. «Non ho intenzione di
occuparmene stasera. Puoi dormire qui. Ti riporteremo alla tua auto
domattina.»
«Cosa?» Sia Jess che Lucas mi guardarono all’unisono a bocca aperta.
Lucas stava cercando di tenere a freno la rabbia, ma una vena del suo
collo pulsava di una furia sotterranea quando chiese: «Vuoi che stia nella
nostra cazzo di casa?»
«Voglio riposare un po’, cazzo,» sbottai, e la sua bocca si chiuse. «Non
andrò da nessuna parte in macchina stasera, e di sicuro non
accompagnerò il suo culo a casa.»
Lucas brontolò, mi diede le spalle e si diresse verso l’altro lato del
garage. Non lo biasimavo per il fatto di non volerla qui, ma eravamo tutti
sfiniti. Probabilmente la situazione non sarebbe migliorata l’indomani
mattina, ma almeno avrei avuto le energie per affrontarla.
Jason, che era seduto accanto a Vincent sul paraurti posteriore della
Mustang, disse: «Può dormire in camera mia. Tanto io sarò in soffitta.» Si
alzò in piedi, tirò una boccata dalla sigaretta elettronica di Vince e la
nuvola di vapore gli si arricciò attorno alle labbra, mentre allertava Jess
con tono minaccioso: «Se tocchi una sola cosa in quella stanza al di fuori
del letto, ti prendo un’altra volta a sculacciate.»
Il rossore sulle guance di Jess si accentuò. Quello attirò la mia
attenzione sulle lentiggini del suo naso e distolsi lo sguardo da lei,
cercando di non fissarla. Come aveva potuto farmi arrabbiare così tanto e
poi… poi farmi sentire così? Com’era possibile guardare una persona e
provare al tempo stesso rabbia e attrazione?
«Non toccherò nulla,» promise.
«Andiamo, allora.» Feci un cenno con la testa verso la casa. «Ti
accompagno di sopra.»
Mi seguì in silenzio, con la testa bassa e le braccia conserte. Schioccai le
dita quando aprii la porta, ordinando ai cani di allontanarsi. Jojo stava già
scodinzolando, desiderosa di fare amicizia, ma Haribo guardava Jess con
diffidenza, emettendo dei flebili latrati incerti nella sua direzione.
«Non mordono,» dissi, dato che Jess si stava accalcando nervosamente
dietro di me sull’uscio. «A meno che non glielo dica io.»
«Non è molto rassicurante,» commentò. I cani rimasero all’ingresso
mentre noi salimmo le scale. Sentivo i suoi passi leggiadri dietro di me.
Quando mi voltai a guardarla, i suoi occhi stavano vagando in giro,
osservando tutto ciò che poteva. Mi sarei vergognato terribilmente se
avesse visto questo posto appena ci eravamo trasferiti. Era lurido, quasi
inagibile. Ora sembrava un luogo in cui valeva la pena di vivere.
Distolsi subito lo sguardo da lei, rimproverandomi fra me e me.
Sigmund Freud avrebbe potuto formulare un intero complesso nuovo
sulla mia ossessione nei confronti di una persona così irraggiungibile. Poi
avrebbe potuto elaborarne un altro ancora sul fatto che non volevo Jessica
solo per me - la volevo per noi.
Portare la donna che volevo nella famiglia che avevamo costruito,
intrecciare le nostre vite e coltivare una relazione insieme mi sembrava un
passaggio naturale. Ma per la maggior parte delle persone non era così. La
società voleva che le cose fossero etichettate, che si inserissero in scatole
ordinate e pulite. Il sesso doveva essere esclusivo, romantico e
ineccepibile. Gli amici erano solo amici e mai amanti, nulla poteva
crescere o evolversi. Chi eri in precedenza non poteva essere scisso da chi
diventavi.
Era un concetto che odiavo, che ripudiavo. Non volevo avere nulla a
che fare con quella visione, con quella impostazione morale. Mi ci ero
scontrato, come tutti gli altri. Il mondo si assicurava di ricordarmi sempre
che io non rientravo in nessuna categoria. Se mi mettevo con una ragazza,
ero etero, ma se uscivo con un ragazzo, ero gay. Se volevo che il sesso fosse
spinto, ero un violento. Se volevo scegliere la mia famiglia e costruire delle
relazioni a modo mio, ero un pervertito. Se volevo difendermi, oppormi a
coloro che mi avrebbero fatto del male, ero un soggetto pericoloso.
Rifiutate le scatole che vi vengono proposte e la gente continuerà a
cercare di ficcarvici dentro. Ti affibbiano le loro etichette e ti chiedono di
attenerti a esse, e se poi non lo fai, diventa colpa tua se la vita è dura.
Era su quel punto che Jess e io eravamo diversi. Io avevo rinunciato a
cercare di integrarmi molto tempo fa, mentre lei era ancora ancorata al
sogno di farsi accettare dalla società.
La stanza di Jason era in fondo al corridoio. Aprii la porta e le feci
cenno di accomodarsi, guardandola mentre entrava e si guardava intorno.
Il letto di Jason era piccolo, ma lui ci dormiva di rado, ed era sistemato
nell’angolo a destra. La scrivania e il computer occupavano il resto dello
spazio, con tre monitor di grandi dimensioni che si estendevano da un lato
all’altro della scrivania. La finestra era oscurata da una tenda pesante.
Strisce di LED blu agli angoli e lungo il soffitto illuminavano la stanza di
un bagliore al neon.
Jess si girò verso di me, con le labbra serrate. Il neon faceva apparire i
suoi capelli quasi bianchi, di una brillantezza eterea.
«Il bagno è proprio qui accanto,» spiegai. «I cani non ti daranno
fastidio. Stanno al piano di sotto.»
Annuì in segno di comprensione e deglutì a fatica. Non potevo
biasimarla per essersi defilata, o per aver abbassato la guardia con me per
una notte e poi essersi ritirata nel momento in cui era sorto il sole. Le
scatole erano sicure, e facili. Se si lascia il riparo della scatola, il mondo
diventa molto meno amichevole.
Probabilmente era stato saggio da parte sua cercare di adattarsi. Stava
seguendo le regole che il mondo le aveva impartito, per quanto facessero
schifo.
Chiusi la distanza tra di noi. Lì per lì distolse lo sguardo, ma poi lo alzò
lentamente per incontrare il mio. Le accarezzai la guancia con le dita e le
sistemai dietro la spalla una ciocca di capelli biondi. Una parte di me era
ancora fuori dai gangheri, la furia mi pulsava nel petto. Ma era impossibile
guardarla senza che il mio cuore si intenerisse. Mi sentivo debole nei
confronti di quella donna. Avrebbe potuto pugnalarmi al cuore e
probabilmente l’avrei perdonata lo stesso.
«Allora… tu e Lucas?» chiese, con la curiosità nel suo sguardo insicuro.
«Sei sorpresa?» Capivo la sua gelosia nei confronti di Veronica: aveva
un rancore verso quella donna che risaliva ad anni prima. Era un
argomento spinoso. Ma non ero sicuro di come avrebbe reagito a questo.
Se si fosse ingelosita anche per l’intimità tra me e Lucas, quello era un
campanello d’allarme che non avrei potuto ignorare.
Ma un piccolo sorriso le si affacciò sul viso. Lo nascose rapidamente,
costringendo la sua espressione a tornare seria. «No, non sono affatto
sorpresa. Ha senso.»
«Davvero? E perché?»
«Siete migliori amici da anni,» fece presente. «Tu sei calmo e lui… no…
ma credo che tu lo aiuti a esserlo. Ti guarda come se ti volesse dare
ascolto, e io pensavo che Lucas non volesse dare ascolto a nessuno,
quindi… sì, ha senso.»
L’espressione del suo viso quando Lucas me lo aveva preso in bocca era
stata così dannatamente sensuale che ero quasi venuto sul momento. Era
sembrata estasiata, combattuta tra il desiderio e il fascino.
Il silenzio si protrasse tra noi. Si voltò quasi dall’altra parte, ma poi
esitò, come se ci fosse qualcos’altro che voleva dire.
«Perché l’hai fatto, Jess?» indagai io. «Perché sei venuta con loro?» Le
avevo creduto quando aveva detto di non essere stata lei a causare tutto
quel disastro. Ma si era comunque intrufolata, era stata lì con loro per
tutto il tempo.
I suoi occhi si allontanarono, il rimpianto le fece serrare le labbra.
«Non lo so. Stavano andando tutti gli altri. Non mi hanno detto a far
cosa, di preciso…» Scosse la testa, troncando le sue scuse.
Avrei voluto scuoterla. Volevo implorarla di ragionare, di smetterla di
sforzarsi di compiacere tutti gli altri così tanto da ignorare la propria
mente.
Ma non potevo far diventare nemmeno quello un mio problema. Non
di nuovo. Lo sapevo bene.
Mi chinai e le baciai la fronte. Lei si appoggiò a me, con gli occhi chiusi
e un sospiro sommesso che le sfuggì dalle labbra. Mi auguravo che
sentisse ancora la tensione dell’orgasmo interrotto. Speravo che l’avrebbe
tenuta sveglia, che il desiderio disperato di toccarsi avrebbe avuto la
meglio su ogni altro pensiero, fino a quando non avrebbe potuto fare altro
che fantasticare e raggiungere il picco del piacere.
«Non ti è permesso toccarti stasera,» annunciai, e lei si irrigidì. «Le
ragazze cattive non possono venire.»
La sua espressione era di sfida. Per un momento, anche se ero esausto,
accolsi quasi con entusiasmo l’opportunità di piegarla di nuovo a novanta
gradi. Ma poi tirò su col naso e si strofinò delicatamente il sedere prima di
dire: «Va bene.»
«Mi aspetto una risposta migliore di questa.»
Se lei doveva provocare me, allora anch’io avrei provocato lei. La sua
espressione si contrasse mentre lottava con sé stessa, senza dubbio
soppesando i rischi e i benefici di un’eventuale risposta acida.
Alla fine, riuscì a borbottare a denti stretti: «Sì, signore.»
***
Gli altri erano sul portico quando tornai fuori. Jason e Vincent erano
seduti sulla panchina sotto la finestra, con i volti tirati. Lucas era sul
gradino d’ingresso, con una sigaretta tra le dita, intento a fissare il garage.
Mi sedetti accanto a lui, spingendomi contro il suo fianco. L’aria
notturna era piacevole e mi rinfrescò in poco tempo. Ma la frustrazione
continuava a gravare sul mio petto come un peso di piombo.
Nessuno di noi parlò per alcuni lunghi minuti. Avevamo affrontato
situazioni di merda come quella per quasi tutta la vita, in un modo o
nell’altro. Ci eravamo abituati. Ma a volte diventava tutto troppo
estenuante. Quell’energia pura e vendicativa che mi aveva fatto andare
avanti da adolescente stava svanendo, lasciandomi amareggiato e
spazientito.
Volevo vivere, cazzo. Perché era chiedere troppo?
«Ho una competizione tra due settimane,» disse Jason, con la voce
impastata. «Due fottute settimane, amico…»
«Sarai pronto,» lo rassicurai, voltandomi a guardarlo da sopra la spalla.
«Sistemeremo la Z in tempo. Te lo prometto.»
«Dobbiamo farla pagare ad Alex,» intervenne Lucas. Mi porse la
sigaretta e io la presi, crogiolandomi nel bruciore quando aspirai.
«Dobbiamo reagire, e picchiare duro.»
«Certo che dobbiamo,» concordò Jason. «Dovrei spezzare tutte le dita
a quel figlio di puttana per questo.»
Non avevamo bisogno di iniziare a correre pericoli quando eravamo
così vicini a lasciare quella città. Ma non reagire era un rischio maggiore
che non fare nulla. Ad Alex non occorrevano delle ritorsioni per
continuare a darci addosso. Sarebbe tornato comunque, e avrebbe
continuato ad alzare il tiro se si fosse convinto che tanto l’avrebbe passata
liscia.
Dovevamo fargli capire che non poteva. Che l’avrebbe pagata cara e
amara.
Vincent sospirò, e la panchina scricchiolò quando si alzò in piedi. «Va
bene. Penso che me ne andrò a letto a fare dei veri incubi, invece di questa
merda. Svegliatemi presto. Vi aiuterò a ripulire il garage.»
Ma io scossi la testa. «Vai pure a dormire. Jess può darsi da fare
domattina per guadagnarsi un passaggio fino alla macchina. Cerca di
riposare un po’.»
I passi di lui e di Jason si affievolirono quando entrarono e salirono le
scale. Mi chiesi se Jess si fosse già addormentata, o se stesse ancora sveglia
a letto, a disobbedirmi…
Oppure, in caso fosse ancora sveglia, se stesse rispettando i miei ordini
e stesse soffrendo per questo. Era un pensiero piacevole.
«Ci stiamo davvero impelagando di nuovo in questa storia?» sbottò
Lucas. Scrutava il cortile con le spalle ingobbite. Gli passai la sigaretta e
gli misi un braccio attorno alla schiena.
Dopo un attimo, dissi: «No. Non ci stiamo impelagando in niente.»
Si incurvò ancora di più. «Sì? E allora perché lei sta dormendo a casa
nostra?»
«Perché non la mando a piedi a casa da sola, al buio, Lucas. Neanche tu
lo faresti.»
Lui brontolò qualcosa, gettò il mozzicone della sigaretta nel terriccio e
lo spense.
«Senti, a Jessica piace far finta che la sua non sarà la classica vita da
sogno che le hanno già predisposto i suoi genitori, scialba e in una villetta
di periferia,» commentai. «In quel modo fa arrabbiare la gente, ottiene la
reazione che vuole e poi se la può svignare. È così che va. È sempre andata
così.»
«Potrebbe andare diversamente se noi fossimo un po’ più audaci.»
Lo osservai sorpreso, sebbene avessi avuto lo stesso pensiero. Nessuno
di noi aveva mai cercato attivamente Jessica: eravamo semplicemente finiti
insieme, ci eravamo scontrati come palle da biliardo lanciate a casaccio su
un tavolo. Non era per mancanza di desiderio, ma per semplice realismo.
Lei non era destinata a noi. Non esisteva nel nostro mondo. Lo visitava, vi
gettava un’occhiata come una turista appariscente e se ne andava nel
momento in cui diventava troppo reale per lei.
Era la ragazza che non avremmo mai potuto avere, quantunque si fosse
avvicinata. A prescindere dai giochi che avevamo fatto, la decisione finale
spettava a lei. Era una sua scelta.
E lei non aveva mai scelto noi. Non potevamo essere noi.
«Non c’è nulla su cui essere audaci,» risposi, come se fosse davvero così
semplice.
«Lei se ne andrà da Wickeston e perseguirà obiettivi più grandi e
migliori. Troverà un coglione di bell’aspetto che corrisponde al suo
canone estetico, si sposerà con una cerimonia sfarzosa e passerà i prossimi
vent’anni a fare del sesso banale e ad avere il suo vibratore come migliore
amico, prima di divorziare da lui in preda a una crisi di mezza età. Sarà
quella donna che si trasferisce a Las Vegas per ricominciare da zero e che
non farà altro che raccontare a tutti chi era al liceo. Tutto qui. Non c’è
nessun noi.»
Il suo petto rimbombò leggermente, e quando mi voltai verso di lui,
stava ridacchiando. «Ti è presa proprio male. Hai congetturato un’intera
vita di fantasia per questa donna e non riesci a inserire nemmeno un
pizzico di te? Non riesci ad aggiungere nemmeno qualche ‘e se’?»
Ero troppo provato per quella conversazione. «Mi pareva di aver capito
che non volessi farti coinvolgere, e allora perché ti interessa?»
«Perché non riesco a sopportare di vederti così combattuto per
questo,» ammise. «Non riesci a rassegnarti. Sono passati anni e ancora
non riesci a mollare.»
Nell’illuminazione della luce del portico, scorsi qualcosa sul suo collo
che prima non avevo notato: dei graffi. Lunghi graffi rossi, senza dubbio
causati dalle lunghe unghie rosa di qualcuno.
Ne tracciai uno con il dito. «Hai litigato con un gatto oggi?» gli chiesi, e
lui fece una smorfia.
«Non cominciare.»
«Ehi, io non ho cominciato un bel niente. Sei tu che l’hai portata via
con la tua macchina e ti sei messo a cazzeggiare.»
«Non abbiamo cazzeggiato. Molto.» Aggiunse l’ultima parola
lanciandomi un’occhiata sardonica. «Almeno non le ho inciso un dannato
cuore sul dito.»
Gli diedi uno scappellotto mentre mi alzavo in piedi. «Io vado a letto
prima di incidere anche te. Non stare qui fuori tutta la notte.»
«Non lo farò.» Mi liquidò con un gesto, e avevo la mano sulla porta
quando all’improvviso mi chiamò: «Ehi, Manson?»
«Sì?»
«E se lei volesse?»
Mi voltai indietro, con la mano ancora sulla maniglia. «Se volesse
cosa?»
«Se volesse… sai…» Si stava sforzando di sembrare disinvolto. «Se
volesse avere una relazione? Con noi?»
Feci un respiro profondo.
«E se volesse avere una relazione con noi…» Ripetei le parole
lentamente, rimuginandoci sopra come avevo fatto tante volte. Troppe
volte. «E se ammettesse di essersi sempre sbagliata e volesse fare un
tentativo? Se mi dicesse che ha tenuto nascosti i suoi veri sentimenti
perché aveva paura del rifiuto, ma che è pronta a gettare via tutto? E se
domani si svegliasse e stravolgesse la sua vita per stare con noi? Al diavolo
sua madre, al diavolo i suoi amici, al diavolo i suoi progetti. E se?» Scossi
la testa, spalancando la porta. «Sono troppi ‘e se’ per quanto mi riguarda.»
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17
Jessica
Ero convinta che non sarei riuscita a prendere sonno quella notte. La
stanza sconosciuta era piena di forme e odori strani, la casa scricchiolava e
si assestava intorno a me. Avevo evitato di avvicinarmi a quella casa per
tanti anni e ora mi ci trovavo dentro.
Con il sedere dolorante, il clitoride pulsante e tanta di quella vergogna
che non sapevo cosa farmene.
La porta era chiusa, quindi, a meno che Jason non avesse delle
telecamere sotto le coperte, non c’era assolutamente nulla che mi
impedisse di disobbedire agli ordini di Manson e di masturbarmi. Ma non
lo feci. Non sapevo nemmeno perché, solo che c’era qualcosa che mi
fermava ogni volta che avvicinavo la mano. Rimasi sdraiata, a contorcermi
a disagio, ripercorrendo quello che mi avevano fatto ancora e ancora, fino
a quando non diventò un lurido ma delizioso loop nella mia testa. Lucas
che mi sputava in bocca lo sperma di Manson, il calore della lingua di
Jason, lo schiaffo pungente della mano di Vincent…
Chiusi brevemente gli occhi doloranti per farli riposare. Non so quanto
dopo, la pesante tenda della finestra era incorniciata dalla luce e sentivo il
canto degli uccelli provenire dall’esterno.
Era mattina.
Mi misi a sedere, stiracchiai le braccia e rilassai le spalle. Avevo dormito
meglio di quanto non mi capitasse da tempo, ma il sedere mi bruciava
ogni volta che mi muovevo, come se avessi una brutta scottatura su
entrambe le natiche. Non avendo fatto la doccia la sera prima, avevo
sicuramente un aspetto disastroso. Afferrai il telefono dal comodino e mi
sorpresi che avesse ancora un po’ di batteria.
C’era un messaggio di Danielle. Ehi, ragazza! Stai bene? Mi dispiace
per la fuga, tesoro, ti prego dimmi che non sei in prigione o qualcosa del
genere!
Lo aveva concluso con un’emoji che rideva. Le mie dita si strinsero
intorno al telefono fino a farlo tremare nella mia mano e lo feci cadere sul
letto per non scagliarlo dall’altra parte della stanza. Lei aveva saputo cosa
stavano facendo fin dall’inizio e non mi aveva detto un bel niente.
Avevano pianificato di lasciarmi qui? Di lasciare che mi prendessi io la
colpa di tutto quello?
Dubito che si aspettassero che «prendersi la colpa» significasse
proprio… quello.
Scesi dal letto e lo rifeci, cercando di lasciare i cuscini e le coperte
esattamente come li avevo trovati. Tutto qui dentro odorava di Jason, ogni
superficie era impregnata del suo profumo. Il suo enorme computer
occupava più spazio del letto, e sotto la scrivania aveva pile di libri.
Fondamenti di Software Architecture, Domain-Driven Design, Observability
Engineering… e poi cataste e cataste di manga e fumetti di supereroi.
Mi aveva detto di non toccare nulla qui dentro, ma non riuscii a
trattenere la mia curiosità quando aprii l’armadio e diedi un’occhiata
all’interno. Ecco dov’era il disordine: pile di scatole di componenti
elettroniche, cavi sciolti e vestiti erano stipati all’interno in un mucchio in
equilibrio precario. Decisi che era meglio richiudere l’anta piuttosto che
rischiare che cadesse tutto.
Sembrava che nessun altro in casa fosse ancora sveglio, o se lo era, di
certo non stava facendo rumore. Mi misi le scarpe e aprii la porta della
camera da letto, ma quasi la sbattei di nuovo quando trovai la loro enorme
pitbull grigia seduta nel corridoio, ad aspettarmi.
La fissai, e lei mi fissò. La sera prima era sembrato che volesse staccarmi
le caviglie a morsi, ma quella mattina mi lanciò una lunga occhiata con i
suoi grandi occhi marroni e poi la sua coda cominciò a sbattere sul
pavimento.
«Ah, non sei così feroce, vero?» le chiesi, accucciandomi per grattarle il
mento. Era decisamente una che amava le coccole e si avvicinò all’istante,
facendomi quasi cadere sul sedere. «Oh, tesoro, non sei un cagnolino, ma
sei così carina.»
Guardando in fondo al corridoio mentre le facevo le coccole sulla
pancia, notai l’altro cane in cima alle scale. Mi occhieggiava con sospetto e
mi fece un abbaio timido prima di tornare al piano di sotto.
Oh, bene. Almeno una di loro voleva essere mia amica - probabilmente
una delle poche amiche che mi erano rimaste dopo la notte scorsa.
Mi infilai in bagno, mi guardai allo specchio e sospirai. Mi lavai
accuratamente il viso con l’acqua calda e mi districai i capelli con le dita.
Sembravo ancora un gremlin strisciato fuori dal bosco, ma non importava.
Prima di uscire dal bagno, mi tirai su il vestito per guardarmi il sedere
allo specchio. Non mi dava solo le stesse sensazioni di una brutta
scottatura, lo sembrava anche. La mia pelle era di un rosso vivo e le mie
dita lasciavano delle impronte pallide ogni volta che le premevo sui glutei.
Accidenti, che bruciore. Mi tornò in mente la sensazione precisa di
quando mi ero ritrovata piegata sul finestrino con la bocca piena e il
sedere preso a schiaffi, e mi corse un brivido per tutto il corpo.
Non smaniavo all’idea di subire di nuovo una sculacciata come quella.
Ma le altre parti, quelle che mi avevano fatta ansimare per il piacere…
quelle le avrei sperimentate volentieri di nuovo.
Feci un respiro profondo ed espirai lentamente. Dovevo trovare
Manson per poter tornare alla mia auto. La pitbull - si chiamava Jojo? - mi
stava ancora aspettando in corridoio quando uscii, e mi seguì mentre mi
dirigevo verso le scale. C’erano altre due stanze, una delle quali era
proprio accanto al bagno.
La porta era spalancata, la stanza all’interno aveva un arredamento
freddo ed essenziale. C’erano un letto, una cassettiera e un cesto per i
vestiti in un angolo, ma nient’altro. Forse era una camera per gli ospiti?
C’erano alcuni oggetti sopra il comò, ma per quanto fosse allettante, forse
era meglio non sfidare la sorte mettendomi a curiosare.
Anche la stanza successiva, la più vicina alle scale, aveva la porta
socchiusa. Attraverso la fessura riuscii a scorgere solo un frammento di un
armadio aperto, ma niente di più.
Rimasi fuori dalla porta, con le orecchie drizzate. Non c’erano voci né
passi: o i ragazzi erano fuori, o stavano ancora dormendo. Abbassai lo
sguardo su Jojo e la trovai che mi stava guardando, leccandosi con
entusiasmo i baffi.
«Non equivale a ficcanasare se apri tu la porta,» sussurrai, indicando la
breccia. «Vuoi entrare, ragazza?»
Con mia enorme sorpresa, lei si avvicinò con il muso alla porta e
trotterellò dentro senza esitazione, saltando sul letto. Con un solo sguardo
capii che la stanza doveva essere quella di Manson. Riconobbi il teschio di
toro appeso alla parete sopra il letto, dipinto di nero con un intricato
disegno dorato. Era tutto meticolosamente pulito, dalle mensole accanto
all’armadio ricoperte di dischi in vinile, alla scrivania nell’angolo che
accoglieva un computer portatile e un diffusore d’olio. Era acceso, e stava
riempiendo la stanza di un profumo floreale e agrumato.
Alla faccia del non ficcanasare.
Su un tavolo sotto gli scaffali era appoggiato un giradischi, e socchiusi
gli occhi per leggere il disco che vi era alloggiato. Bauhaus. Non li avevo
mai sentiti nominare, ma probabilmente perché l’album era uscito nel
1980.
«Non ti è bastato curiosare nella nostra roba ieri sera?»
Mi girai di scatto e mi portai la mano sul cuore prima che potesse
schizzarmi fuori dal petto. Manson era appoggiato al telaio della porta, a
braccia conserte, e mi stava guardando. Oh, Dio, perché doveva avere
quell’aspetto? Tutto imbronciato e irritato, mi guardava con occhi
assottigliati mentre cercava di intuire cosa stessi combinando. Quella
mattina indossava una maglietta, ma il tessuto nero che gli aderiva al
corpo non rendeva più facile evitare di fissarlo.
«Io, ehm… il cane, lei… stavo cercando di prenderla…» Agitai
vagamente la mano in direzione di Jojo, che scodinzolava allegramente,
accoccolata sul letto di Manson.
«Certo,» disse Manson. «È stata Jojo. Immagino che abbiate deciso di
andare d’accordo.»
«Sono solo contenta che non mi abbia sbranata,» ammisi.
All’improvviso ero fin troppo consapevole del fatto che il tessuto del mio
vestito lambiva il mio sedere fresco di sculacciate. Mi fece pizzicare la
pelle.
«Il suo latrato è molto peggiore dei suoi morsi,» commentò, facendo un
cenno con la testa verso il corridoio per indicarmi di seguirlo. «Non credo
che Jojo sia in grado di mordere qualcuno. È da Haribo che bisogna
guardarsi.»
Seguendolo per le scale, oltre la cucina alla mia destra e il soggiorno alla
mia sinistra, raggiungemmo il portico d’ingresso. La giornata era calda e
umida, ma mi sentivo come se qualcuno mi avesse tirato un sasso nello
stomaco quando Manson saltò giù dal portico e attraversò il cortile in
direzione del garage.
«Ehm, devo andare a prendere le mie cose…» farfugliai mentre
Manson entrava, coi vetri che scricchiolavano sotto le sue suole. Dio, alla
luce del giorno lo spettacolo era ancora peggiore. Le ammaccature, i vetri
rotti, la vernice sbrecciata… Dovevo avere un’aria nauseata, perché
quando si girò per rispondermi, per un attimo sembrò allarmato.
«Stai bene?» domandò, e io annuii, indicando lo sfascio intorno a noi.
«È solo che… ha un aspetto davvero… scioccante. Alla luce del
giorno.»
Fece una smorfia e annuì. «Sì, è brutto. Ecco perché non hai ancora
bisogno della tua roba.» Prese una scopa da un angolo e me la porse.
«Ora ti metti al lavoro per pulire tutti questi vetri. Poi ti accompagnerò a
riprendere la tua auto.»
Impugnai il manico di plastica liscia della scopa e sospirai. Almeno non
era un’altra dose di sculacciate. Mi misi al lavoro, spazzando con cura i
vetri intorno alle auto e sotto di esse. Manson rimase a osservarmi per un
po’, con quel suo sguardo intenso che mi turbava. Fu più facile quando
finalmente si allontanò, imboccando le scale che portavano al piano
superiore. Il garage era spazioso e l’area sul retro sembrava essere quella
in cui si svolgeva la maggior parte del lavoro. C’erano macchinari di ogni
tipo di cui non conoscevo lo scopo, cassette degli attrezzi, cataste di
pneumatici e una fossa su cui era parcheggiata una vecchia auto. Lucas era
sdraiato in quella buca, con la fronte aggrottata per la concentrazione
mentre si dava da fare.
Non mi aveva degnato nemmeno di uno sguardo.
Manson era al telefono al piano di sopra e stava camminando avanti e
indietro mentre parlava. Riuscii a cogliere solo pochi frammenti della
conversazione, abbastanza per capire che stava parlando con la sua
compagnia di assicurazioni. Abbassai la testa e spazzai un po’ più veloce.
Quando ebbi finito, stavo sudando sotto i vestiti e la testa mi pulsava
per il bisogno di un caffè. Lucas continuava a ignorarmi, ma una volta che
Manson ebbe riagganciato, scese al piano di sotto per controllare il mio
operato.
«Non male,» disse, ispezionando l’area intorno alle auto. «Hai passato
anche sotto?»
Annuii, asciugandomi il sudore dalla fronte. Mi guardò mentre lo
facevo, con le labbra socchiuse come se avesse ancora qualcosa da dire ma
l’avesse completamente dimenticato. Diedi un’occhiata alle sue spalle e
incrociai lo sguardo di Lucas per una frazione di secondo, prima che mi
voltasse di nuovo le spalle.
«Va bene,» dichiarò Manson. «Vai a prendere le tue cose, ti
accompagno alla macchina.»
***
La Bronco sballottava particolarmente mentre Manson percorreva la
strada, con i massicci pneumatici che rumoreggiavano su ogni
avvallamento e buca. Aveva la radio al massimo e l’aria condizionata a
palla, ma teneva il finestrino abbassato in modo da poter tenere il braccio
fuori, al vento.
Non ce la facevo a stare lì seduta in silenzio per tutto il tempo. Più
stavo seduta, più pensavo a tutte le cose perverse che avrebbe potuto
farmi ora che eravamo soli, e le mie cosce si strinsero. Nel lungo bagno
che avevo intenzione di fare nella vasca una volta tornata a casa avrei
dovuto coinvolgere anche il mio vibratore.
Di sicuro, il suo divieto di toccarmi non valeva quel giorno. Ero stata
una brava ragazza, per lui.
Chiusi gli occhi, rimproverandomi mentalmente. Non era lui a potermi
dire cosa fare. Nessuno di loro poteva.
Lo guardai con la coda dell’occhio. Era diverso da com’era stato al
liceo. Ora era molto più sicuro di sé, i suoi discorsi misurati e i suoi
movimenti attenti mostravano un controllo ossessivo su come si
presentava.
«Allora… quando ti è presa la passione per la meccanica?» chiesi,
quando non riuscii più a sopportare il silenzio. Si mise a sedere un po’ più
dritto, come se fosse stato assorto nei suoi pensieri e io l’avessi distolto.
«La passione per la meccanica.» Ridacchiò. «Siamo un’officina di tuning
per le auto, innanzitutto. Realizziamo auto per le competizioni, la velocità
e la potenza. Possiamo montare pezzi di ricambio, sostituire un motore,
fabbricare componenti personalizzate e consigliare i clienti su come
ottenere le migliori prestazioni dal loro veicolo. Quando avremo uno
spazio più grande e i fondi necessari, speriamo di aggiungere al negozio
anche un dinamometro.»
Non avevo idea di cosa fosse, quindi sorrisi e annuii.
Continuò: «Ma… non era proprio un sogno d’infanzia. Credo di esserci
approdato naturalmente, però. Quando ho avuto questa bestia…»
Accarezzò il volante con affetto. «Ha rappresentato la mia via d’uscita. La
libertà. Potevo salire su un veicolo tutto mio e andarmene da quella cazzo
di casa. Ma come sicuramente ricorderai, la bestia era una vera merda
all’epoca.»
Risi quando i ricordi mi riaffiorarono alla mente. «Oh, fidati, me lo
ricordo. Come quella volta che stavi cercando di ripararla nel parcheggio
della scuola sotto la pioggia battente?»
«Sì, quella roba capitava anche troppo spesso. Ma siccome non avevo i
soldi per pagare qualcuno per ripararla, ho dovuto arrangiarmi da solo.
Così ho imparato.»
«E l’hai portata avanti per tutto questo tempo?» Annuì, e io scossi la
testa per la sorpresa. «È davvero impressionante.»
Le sue labbra si incurvarono in un sorriso, che cercò di nascondere
dietro la mano. «Onestamente, non saremmo mai riusciti ad avviare
l’officina senza i soldi che mi ha lasciato mia madre. Non immaginavo che
le fosse rimasto qualcosa, ma credo che sia riuscita a tenere nascosti i soldi
a mio padre anche quando era…» Si interruppe. «Comunque, abbiamo
aperto l’officina quando ci siamo trasferiti a casa, quindi non siamo qui da
molto tempo. Le prime auto che abbiamo costruito erano le nostre, perciò
più gareggiavamo e potevamo mostrare quello che sapevamo fare, più
clienti rimediavamo. Siamo solo agli inizi.» Annuì tra sé e sé e rallentò
quando ci avvicinammo a Ellis Road e al ponte. «Una volta lasciata
Wickeston, continueremo a ingrandirci e a migliorare.»
Lo affermò con determinazione, come se stesse ordinando all’universo
di dargli quello che voleva, invece di limitarsi a sperarlo.
Per fortuna la mia auto era ancora lì, ferma dove l’avevo lasciata sul
ciglio della strada. Dubitavo che l’avessero rimossa durante la notte, ma
dopo la nottata che avevo passato, non ero incline a dare per scontato
nulla.
Manson si fermò nello spiazzo accanto alla macchina e parcheggiò.
«Beh, Jess, non posso dire che sia stato divertente, ma è stato… qualcosa.»
Ci guardammo.
Lui si riaggiustò più volte sul sedile, come se non riuscisse a trovare una
posizione comoda, prima di dire: «Credo che questa potrebbe essere
l’ultima volta che ci vedremo, quindi… ti auguro una buona vita, e stai
alla larga dal mio garage.»
L’ultima volta. Oh, non mi piaceva come suonava. Neanche un po’.
«Sì.» Annuii, con la mano sospesa sulla maniglia dello sportello. «Okay,
ehm… ciao.»
Dio, avrei potuto soffocare per quanto mi sentivo in imbarazzo. Quello
era un addio terribile, era… Merda, non importava. Non potevo
permettere che importasse.
Scesi in fretta dalla Bronco, frugai nella borsa per cercare le chiavi e
aprii l’auto, cercando di non voltarmi a guardarlo. Il clima era diventato
disgustosamente afoso, e salire in macchina fu come infilarsi in un
barattolo di latta bollente. Avviai il motore, aggrottando la fronte quando
scoppiettò. Accesi l’aria condizionata al massimo e appoggiai la testa
all’indietro, aspettando che l’aria fresca riempisse l’abitacolo.
Ma mentre ero seduta lì, i miei occhi presero a vagare. Manson non se
n’era ancora andato. Anzi, mi stava fissando, con la mano leggermente
alzata come per attirare la mia attenzione.
Abbassai il finestrino.
«Che cos’ha la tua macchina?» chiese. Pareva che la risposta lo avesse
già esasperato, e non gliel’avevo ancora nemmeno data.
«Niente,» risposi. Era un po’ più chiassosa del solito, ma era normale.
Forse. Erano mesi che faceva quel rumore, quindi, qualsiasi cosa fosse,
probabilmente non era grave.
Sospirò così forte che riuscii a sentirlo con tutto il rumore. «Il tuo
motore è andato.»
Scossi la testa. «No, non lo è, è perfettamente…»
Si accese la spia del motore. Lo sferragliamento sotto il cofano divenne
sempre più forte, accompagnato da un borbottio persistente che
peggiorava man mano che lasciavo l’auto in folle. Sembrava che qualcuno
stesse sbattendo ripetutamente un martello contro un tubo d’acciaio.
Manson mi guardava con la bocca stretta in una linea sottile.
«Okay, non va bene,» ammisi, quando il numero di giri cominciò a
oscillare a intermittenza, nonostante il mio piede non fosse
sull’acceleratore. Il volume dei battiti divenne allarmante. «Va bene,
facciamo…»
Ci fu un forte botto e il motore si spense di colpo. Tutte le spie sul
cruscotto si accesero e io rimasi a guardarle scioccata, mentre cercavo di
capire cosa fosse successo. Aprii la portiera, i fumi dell’olio bruciato mi
fecero tossire mentre Manson spinse il suo sportello e scese.
«Dio, oggi non ci voleva proprio.» Gemetti, fissando la scia di fumo che
fuoriusciva da sotto il mio cofano. Senza dire una parola, Manson aprì il
cofano e lo sollevò, dando un’occhiata in giro prima di inginocchiarsi
all’improvviso e guardare sotto la macchina.
Quando si alzò in piedi, scosse la testa come se il pianale dell’auto lo
avesse personalmente insultato. Teneva in mano un qualche rottame
lacero e ricoperto d’olio, e mi guardava come se dovessi sapere cosa fosse.
Non lo sapevo.
«È… brutto?» chiesi.
La sua bocca si contrasse. «È una parte del blocco motore, Jess. Fidati,
è brutto.»
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18
Jason
Avevo deciso di lavorare sul divano per tutto il giorno, ero ancora in
pigiama e con le gambe appoggiate sul tavolino, a fissare infinite righe di
codici che si ingarbugliavano davanti ai miei occhi stanchi. Haribo era
spiaccicato contro il mio fianco e stava sbuffando nel sonno, ma si svegliò
di scatto quando mi squillò il telefono.
Era Manson.
«Che succede?» Misi la chiamata in vivavoce e lo appoggiai sul
bracciolo accanto a me. Di solito mi prendevo i fine settimana liberi, ma
dopo la notte precedente avevo troppe energie inquiete in corpo, e
dovevo impiegarle in qualcosa di concreto. Fare qualsiasi riparazione sulle
auto era inutile, finché non avessimo avuto notizie dall’assicurazione,
quindi il mio obiettivo per la giornata era portare a termine il lavoro sul
sito web di questo cliente.
«La macchina di Jess si è rotta,» annunciò. La sua voce era bassa e
riuscivo a percepirne la tensione. «Il suo fottuto motore è esploso nel
momento in cui ha acceso quel dannato affare.»
Non potei fare a meno di ridere. «Mi piace vedere il karma all’opera.
L’hai lasciata lì a sbrigarsela da sola?»
Alla mia domanda seguì un lungo silenzio.
«Merda, Manson.» Mi appoggiai sul divano, ora completamente
concentrato su di lui, e ripresi il telefono in mano. «Che diavolo stai
facendo?»
«Aspetto con lei che arrivi Ted,» spiegò. Ted era conosciuto anche
come il signor Teddy Tow, proprietario e gestore della ditta di carro
attrezzi di Wickeston. La maggior parte dei nostri clienti arrivava sul retro
del suo camion. «Trasporteremo il suo bestione in officina e…»
«E cosa?»
Mi girai, guardando verso il corridoio. Lucas era in piedi lì e si stava
pulendo le mani unte su uno straccio. Aveva un’espressione così
corrucciata che il cipiglio sembrava inciso in modo permanente sul suo
volto.
«Perché diavolo la volete trainare fin qui?» chiese, parlando ad alta
voce in modo da farsi sentire da Manson.
«Non mi rompere le palle su questo,» borbottò Manson. «Sai che
faresti la stessa identica cosa se fossi al mio posto.»
«Col cazzo che lo farei,» ribatté Lucas. «Me la riderei per una giustizia
ben meritata e la manderei affanculo mentre me ne vado. Allora, perché
diavolo non stai facendo questo?»
«Devo dire che questa volta sono d’accordo con Lucas,» ammisi. «Non
che sarei io a lavorare comunque sulla sua macchina, ma… merda, amico,
dopo ieri sera? Sono ancora orientato più a delle fantasie di vendetta che a
essere il suo fottuto principe azzurro.»
«Chi ha delle fantasie di vendetta?» Vincent entrò nella stanza e passò
davanti a Lucas con un’aria esausta. Si accasciò sul divano accanto a me,
scansando Haribo, e lasciò cadere la testa assonnata sulla mia spalla.
«Io,» risposi. «Ma non si avvereranno, perché a quanto pare Manson
pensa che Jess sia una donzella in difficoltà. Le si è rotta la macchina.»
Vincent ridacchiò, dicendo a Manson: «Non preoccuparti, amico, ho
capito. Jess è in panne, bloccata sul ciglio della strada, ha un disperato
bisogno di aiuto, arrivi tu in soccorso, bing, bang, boom - orgia. Mi
sembra un buon piano.»
Lucas grugnì. «Mi condurrete tutti a una morte prematura.»
«Credo che Jess lo farà per prima,» puntualizzò Manson, e
probabilmente aveva ragione.
Per quanto mi riguardava, Jessica poteva andare a farsi fottere. Le
avevo dato la metà delle sculacciate che si meritava, e rivederla mi avrebbe
solo fatto venire voglia di ricominciare. Certo, avevo una fottuta sbandata
per lei fin dal secondo anno di liceo, e quei sentimenti non erano
scomparsi, ma erano diventati molto più complicati. Com’era possibile
detestare una persona eppure desiderarla a tal punto?
L’assicurazione avrebbe probabilmente coperto i danni ai veicoli, ma
era comunque una bella seccatura. Quello che sarebbe stato molto più
difficile, se non impossibile, era sporgere denuncia contro i colpevoli. Le
nostre telecamere avevano ripreso solo un breve filmato di Alex e degli
altri prima di essere scollegate e, considerando che uno dei colpevoli era il
figlio di un agente di polizia locale, era probabile che cercare giustizia
avrebbe arrecato più problemi che vantaggi.
Ma Lucas e io avevamo già iniziato a confrontarci sui nostri metodi per
vendicarci di quegli stronzi. Se volevi che qualcosa fosse fatto per bene,
dovevi fartelo da solo.
Probabilmente anche Manson la pensava così. Ma non riuscivo a capire
se fosse più interessato a riparare la macchina o a riparare lei.
Qualcosa mi faceva propendere per la seconda.
«Sentite, abbiate un po’ di pazienza, okay?» fece Manson, e io e Lucas
ci scambiammo un’occhiata. «Non credo che possa permettersi questo
tipo di riparazione.»
«Un motivo in più per mollarla lì e andartene,» precisò Lucas.
«Pensavo che i suoi genitori fossero piuttosto benestanti,» riflettei io.
«Non credo che lei sia proprio al verde.»
«Sai che non è sempre così facile.» Si capiva che Manson stava
cercando di tenere un tono di voce basso, come se non volesse farsi
sentire. «Credo che non voglia chiedere soldi ai suoi genitori.»
«Oh, poverina,» replicò sarcastico Lucas. «Ma sai una cosa? Chi la fa,
l’aspetti. Jess può vedersela da sola.»
«Oh, andiamo,» subentrò Vincent, stiracchiandosi comodamente.
«Sono sicuro che troverà un modo per pagarci.»
Qualcosa scattò nella mia testa. Un’idea, un ricordo, qualcosa che mi
scorreva dentro come l’adrenalina e che accendeva dentro di me delle
scintille di energia.
«Ci inventeremo qualcosa con lei,» proposi, e Lucas alzò le mani.
«Io ci rinuncio, cazzo. Siete tutti senza speranza. Fottuti… arrapati…
disperati…» Continuò a brontolare per tutto il corridoio e su per le scale.
Una porta sbatté e le vecchie tubature brontolarono quando la doccia
venne azionata.
Manson sospirò. «È incazzato, vero?»
«Voglio dire… sì. È incazzato,» confermai. «Ma se Jess ha bisogno di
un modo per pagare, credo di avere un’idea.»
***
Quando arrivarono il carro attrezzi, Manson e Jess, Vincent si era di
nuovo addormentato. Feci una corsetta con Haribo alle calcagna fino al
cancello, per sbloccarlo per Ted e permettere al grosso autocarro di
entrare nel cortile, con Manson e Jess nella Bronco dietro di lui.
Jess rimase nel cortile, mentre Manson e io aiutammo Ted a scaricare la
BMW nel garage. Continuavo a lanciare delle occhiate per vedere come
avrebbe reagito a Haribo che le stava annusando le scarpe. Lentamente, si
accovacciò e offrì la mano al cagnolino, grattandogli il mento dopo che
finalmente le ebbe dato una leccata amichevole.
Era raro che i cani portassero rancore, anche se si trattava di una
creatura scontrosa come Bo. Mi sentii quasi tradito dal fatto che non
avesse cercato di staccarle le dita a morsi.
«Grazie, Ted.» Manson e l’autista si salutarono sbattendo i pugni uno
contro l’altro, e Ted si preparò ad andarsene. «Ti devo un favore.»
«Alla prossima!» esclamai, salutando Teddy mentre saliva di nuovo sul
camion. Era un tipo brizzolato, butterato e con i capelli grigi, ma aveva un
cuore enorme. Lui e Vincent potevano andare avanti a parlare per ore
senza mai restare a corto di aneddoti e di battute imbarazzanti da
scambiarsi.
Ted ci fece un cenno di saluto e un sorriso a cui mancava qualche dente.
«Ci vediamo, signor Reed! Passo e chiudo, Zero Cool.» Il motore rombò
mentre si allontanava, la polvere sollevata dai suoi pneumatici si propagò
nel cortile e Manson andò a chiudere il cancello dietro di lui.
«Come ti ha chiamato? Zero Cool?»
Mi girai. Jess stava tenendo Haribo in braccio come un bambino. Il
bastardino tronfio se ne stava lì con la lingua di fuori, felice come una
Pasqua. Piccolo traditore.
«È tratto da un film,» spiegai, tornando nel garage. «C’è un film che si
chiama Hackers, è uscito negli anni Novanta. Zero Cool è lo pseudonimo
di uno dei personaggi. Ted ama i suoi film quasi quanto ama raccontare
vecchie storie che ricorda solo in parte.»
«È stato molto loquace,» commentò lei, facendo un commento
sorprendentemente gentile. Fece schioccare le labbra, ondeggiando
leggermente in attesa che Manson tornasse. Le sue labbra erano rosa,
scintillanti, dall’aspetto succoso, probabilmente appiccicose a causa del
gloss. Ero pronto a scommettere che avevano un sapore dolce come una
caramella, quasi come la sua fica.
Cazzo. Non avevo bisogno di pensarci proprio ora, a pochi metri da
dove era successo. Avevo avuto la mia bocca tra le sue gambe, avevo
ascoltato ogni suo piccolo grido di piacere e di dolore, avevo assaporato il
tremito che avevo provocato io stesso in lei. Mi mandava fuori di testa la
consapevolezza di quanto mi fosse piaciuto, di come la vista del suo culo
perfetto piegato sulla mia macchina me lo facesse ancora diventare duro al
solo pensiero.
Evidentemente passava ancora del tempo in palestra, a giudicare dai
suoi muscoli tonici. Mi chiesi in quale palestra andasse, perché di certo
non era la mia. Con buona probabilità era quella bella vicino al nuovo
cinema, la palestra con la sauna e il lettino abbronzante. Avevo in mente di
andare a vedere quel posto. Non per via di lei, ovviamente; lei non
c’entrava nulla.
«Che cosa hai fatto alla tua macchina?» le chiesi, e lei emise un gemito.
«Non ne ho idea,» rispose, mettendo giù Haribo. «È da un po’ che fa
dei rumori strani. Come se qualcuno sbattesse dei pezzi di metallo nel mio
motore. Ma marciava ancora bene, quindi pensavo che non fosse nulla di
grave.»
Scoppiai a ridere. «È da un po’ che fa rumori strani? In che senso da un
po’, Jess?»
Scrollò le spalle. «Non saprei. Un anno, forse?»
Aprii la portiera del guidatore e sollevai il cofano. Magari non ero un
meccanico, ma sapevo dove mettere le mani su un veicolo. Jess si avvicinò
per scrutare il motore accanto a me, con gli occhi socchiusi.
«Vedi questo?» dissi, togliendo il tappo dell’olio per farle dare una
buona occhiata alla sporcizia nera raccolta all’interno. «L’olio del motore
non dovrebbe essere una poltiglia. Se l’olio non riesce a passare nel
motore, questo si surriscalda e si rompe. Quando è stato cambiato l’olio
l’ultima volta?»
«Sei mesi dopo averla acquistata, credo»
La fissai incredulo. «Sei mesi dopo… vuoi dire al liceo? Non cambi
l’olio da più di quattro anni?»
Manson tornò appena in tempo per sentire il mio sfogo. Si fermò per
un attimo, con l’aria esterrefatta come se avessi appena detto che Jess
alimentava quel dannato aggeggio con la lacca per capelli.
«Avevo da fare, okay?» sbottò lei. «All’università non guidavo molto, a
meno che non dovessi tornare a casa.»
«Giusto, sì, certo,» ribattei. «Hai copiato anche lì in tutti i corsi?»
Era un colpo basso, ma Jess aveva sparato frecciatine fin da quando
l’avevo conosciuta, ed evidentemente non era cambiata. Tuttavia, stavo
cercando lo scontro, lo ammetto. Vedere la sua faccia accanto alla mia Z
distrutta non mi faceva certo stare tranquillo.
«Okay, okay, cerchiamo di fare i bravi,» intervenne Manson, mettendosi
fra di noi. Alzai innocentemente le mani e feci un passo indietro,
lasciandogli fare il suo lavoro. Era la sua officina, quindi se voleva Jess
come cliente, che se la prendesse pure, cazzo.
Ma averla come cliente significava comunque avere a che fare con lei.
Da qui la brillante idea del pagamento che avevo esposto prima a Manson.
Se Jess doveva venire qui come nostra cliente, dovevamo fare in modo che
ne valesse la pena. E se non aveva contanti, allora ci voleva qualcos’altro.
Alla fine, Lucas ci raggiunse ed entrò nel garage con l’aria di voler
uccidere qualcosa. Indossava una camicia a maniche corte e i suoi jeans
buoni, quelli che non erano pieni di buchi e chiazze di grasso. Quando
diavolo era stata l’ultima volta che aveva indossato qualcosa con dei
bottoni?
Annusai quando si avvicinò a me, con le braccia ben incrociate sul
petto.
«Ti sei messo il profumo,» rimarcai.
La sua espressione non cambiò. «Forse dovresti prendere in
considerazione di fare la stessa cosa. Si sente la tua puzza da qui.»
Lanciai un’occhiataccia al suo profilo, ma mi diedi comunque una
rapida annusata quando si allontanò. Lucas raggiunse Jess e la incastrò tra
lui e Manson davanti all’auto.
«Voi siete in grado di aggiustare questa cosa, vero?» chiese lei con un
tono impaziente, spostando lo sguardo tra i due. Alzai gli occhi al cielo e
mi appollaiai su uno sgabello per assistere allo spettacolo. Sapevo già cosa
le avrebbero detto, e lei non avrebbe fatto salti di gioia.
«Ti servirà un nuovo motore,» spiegò Lucas, con la faccia contorta dal
ribrezzo quando sbirciò all’interno del serbatoio dell’olio. «E ci sarà da
pagare la manodopera.» Tirò fuori dalla tasca un fazzoletto di stoffa e lo
sventolò ripetutamente in aria mentre la fissava. «C’è molto lavoro da
fare.»
Lei fece un sospiro pesante. «Okay. Bene… Quanto costerà?»
Il portatile che tenevamo in garage era un po’ malandato dalla notte
dell’irruzione, ma almeno funzionava ancora. Manson tirò fuori il foglio di
calcolo che avevo impostato per semplificare la fissazione dei prezzi per
l’officina e inserì le cifre e le ore di lavoro stimate. Feci caso che inserì
molte più ore di manodopera di quelle che probabilmente sarebbero state
necessarie, ma non fiatai.
Stampò il preventivo e io presi il foglio, presentandolo a Jess con un
gesto plateale. Lei inspirò bruscamente.
«Mi state prendendo in giro? Ma dai! Non è possibile.» I suoi occhi
sfrecciavano sul foglio e si sgranavano a ogni riga. «Perché la manodopera
è così costosa?»
«C’è un sovrapprezzo,» annunciò Manson. «Per avere a che fare con
te.»
Sghignazzai per l’espressione atterrita del volto di lei. Era ancora più
divertente di quanto avessi pensato. Lei farfugliò qualcosa, e sembrava che
le stessero per schizzare gli occhi fuori dalle orbite.
«Non è giusto,» si lagnò. «Deve essere una violazione di una legge o
qualcosa del genere. Non si può far pagare di più una sola persona!»
Lucas agitò di nuovo il fazzoletto. «Vuoi davvero intavolare una
discussione sulla violazione delle leggi? Perché possiamo parlarne, ma non
credo che ti piacerà.»
Jess chiuse gli occhi per un momento, facendo diversi respiri lunghi e
profondi. Quando li riaprì, era evidente che si stava sforzando di rimanere
calma. «Sentite, non posso permettermelo.»
«Rivolgiti a un’altra officina, allora,» disse Manson con semplicità. «C’è
Autosphere in centro. Lavoro economico e ricambi economici. Di solito
sono al completo per qualche settimana, ma è sempre meglio che avere a
che fare con noi, no?»
«O chiedere aiuto a mamma e papà,» subentrai io. «Sono sicuro che
sborseranno loro i soldi.»
Ricordavo bene quando si era presentata all’ultimo anno con questa
macchina, ancora lucida e nuova di zecca, un regalo di compleanno dei
suoi genitori. Anche i miei genitori mi avevano comprato una macchina.
Ma una volta scoperto che la usavo per «sodomizzare degli sconosciuti»
sul sedile posteriore, l’avevano venduta insieme a quasi tutti gli altri regali
che mi avevano fatto.
Tuttavia, non aveva avuto l’effetto sperato su di me. La sodomia non
richiedeva un’auto.
Mi fulminò con lo sguardo. «Non sono una bambina, Jason. I miei
genitori non pagano tutto.»
«Oh, beh, scusami,» replicai. Mi appoggiai allo schienale e tirai fuori il
telefono, come se l’intera faccenda non mi interessasse più. «Non hai mai
avuto problemi a capire come pagare qualcosa, Jess. Sono sicuro che ti
verrà in mente qualche soluzione.»
Aveva scoperto il modo di pagarmi anni prima, quando finalmente
avevo iniziato a pretendere un compenso per averle fatto copiare i miei
compiti in classe e per avermi tormentato perché le scrivessi io i temi.
Avevo ancora le foto che mi aveva mandato sul mio portatile, salvate in
una cartella criptata.
Era disdicevole il numero di volte che mi ero masturbato con quelle
foto.
«Quanto tempo ci vorrà per riparare la macchina?» domandò.
Sembrava che stesse cercando di mostrarsi ragionevole.
Lucas si strinse nelle spalle. «Quanto ci metterai a pagarci?»
«Non ho…» La sua voce si era fatta di nuovo più stentorea. Si fermò,
fece una pausa e riabbassò i toni. «Non ho i soldi per pagarvi in questo
momento.»
«Accettiamo anche metodi di pagamento alternativi,» chiarì Manson, e
un sorriso si allargò sul mio viso.
«Metodi di pagamento alternativi?» gli fece eco lei, aggrottando le
sopracciglia per la confusione. «Cosa, tipo Bitcoin?»
«Se non vuoi pagare in contanti, magari hai qualcos’altro di valore,»
insinuai.
Jess sembrava completamente smarrita. «Stai cercando di farmi vendere
i miei organi o qualcosa del genere?»
Anche Lucas, che era stato sotto la doccia quando avevo illustrato la
mia idea a Manson, aveva un’aria spaesata - solo che la sua espressione era
molto più omicida.
«Un momento, signorina Martin,» disse bruscamente. «Dobbiamo fare
una piccola riunione con il nostro contabile.»
Ci radunammo sul lato opposto del garage e io glielo spiegai. Ne
discutemmo sottovoce, Manson e io facemmo squadra per portare Lucas
dalla nostra parte. Mi aspettavo che Lucas opponesse più resistenza, ma
una volta che gliel’ebbi esposto per filo e per segno - e dopo un lungo
minuto in cui brontolò qualcosa del tipo: «sarà meglio che ne valga la
pena» - acconsentì abbastanza in fretta.
Ci girammo all’unisono per affrontare di nuovo Jess, cogliendola di
sorpresa.
«Allora, chi compra il mio rene?» chiese lei, con un sorriso decisamente
agitato sul viso. Non aveva idea di quanto fosse vicina alla verità. Ma non
erano degli organi a caso che ci interessavano.
Era l’intero pacchetto.
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19
Jessica
«Siete seri? Volete che vi paghi facendo… cosa… sesso con voi?»
Le espressioni del tutto serie che ricevetti in risposta mi dissero che
avevo colto nel segno. Eravamo seduti nella loro cucina, a un tavolo
rotondo di legno che aveva sedie spaiate. Tra di noi c’erano dei bicchieri
d’acqua fredda. Avevano lasciato le porte sul retro e all’ingresso aperte,
per consentire ai cani di entrare e uscire in libertà, mentre intanto una
brezza beatamente fresca attraversava la casa.
Vincent si era unito a noi, o meglio, ci eravamo uniti noi a lui. Era già a
tavola quando eravamo entrati, intento a consumare con aria assonnata
una ciotola di cereali Fruity Pebbles.
Sembrava decisamente più sveglio quando formulai la mia domanda.
«Non si tratta solo di sesso,» rettificò Manson. Mi guardava con
un’attenzione indistinta, come se non esistesse nessun altro nella stanza.
«Si tratta di sottomissione. Basta scappare, basta provocare, basta con le
stronzate. Tu ci dai quello che vogliamo, noi ti diamo quello di cui hai
bisogno. Sei nostra finché il tuo debito non sarà saldato. Semplice.»
Scossi la testa incredula. «Sono vostra? Ma per favore. Sembra la trama
di un porno di cattivo gusto. Chi di voi interpreta il mio fratellastro, e
dov’è una lavatrice che posso utilizzare?»
«Puoi chiamarmi fratellone,» precisò Vincent facendomi l’occhiolino,
mentre Jason alzava gli occhi al cielo. Jason era seduto più vicino a me e,
con la coda dell’occhio, mi accorgevo che mi stava perscrutando, con gli
occhi azzurri inquietantemente puntati su di me.
Cosa cercava quando mi fissava in quel modo? Debolezza, paura,
eccitazione? Era troppo perspicace, e mi faceva sentire come se fossi sotto
un microscopio.
«Non siamo fatti di soldi, signorina Martin,» fece presente Lucas. Era
stravaccato sulla sedia, con un braccio appoggiato allo schienale. Il suo
linguaggio del corpo indicava «noia,» ma la sua espressione era troppo
rigida perché fosse vero. «Francamente, è un’offerta molto generosa da
parte nostra. Con questi tuoi fondi speciali non puoi pagarci l’affitto.»
«Ovviamente, ci saranno dei limiti.» Manson non era in vena di
scherzare. Era completamente concentrato sugli affari, chino verso di me
con i gomiti sul tavolo e la mia scandalosa fattura davanti a sé. Ma c’era un
luccichio nei suoi occhi, una tensione nella sua postura. Se la stava
godendo fino in fondo. «La tua parola di sicurezza mette fine a tutto e a
tutti. Se accetti l’accordo, possiamo iniziare a lavorare sull’auto.
Dobbiamo aspettare che arrivino i pezzi, la spedizione di un motore
richiede tempo. Direi che sarà riparata in cinque, forse sei settimane. Nel
frattempo, tu salderai il tuo debito.»
«Facendo cosa, di preciso?» chiesi. «Facendo il vostro sex toy
personale?»
«Se è così che preferisci vederla.» Manson non stava cedendo di un
millimetro, e io lo odiavo. Questo suo lato pacato e perfettamente
controllato mi frustrava a un livello irrazionale.
«Farai tutto quello che ci passerà per le nostre teste malate,» aggiunse
Jason. «Non possiamo darti un programma in anticipo, principessa. Siamo
impegnati, sai. Ma se stai passeggiando per la città e uno di noi passa e ti
acchiappa, sarà meglio che tu ti faccia trovare pronta.»
«Uso gratuito,» sottolineò Lucas. «Quando e dove ci pare.»
Le mie viscere si contrassero, come se ci fosse una cintura nel mio basso
ventre che me le stritolava. Era uno scenario che suonava bene nella
fantasia - anzi, benone. Ma metterlo in pratica davvero? Sottomettermi a
loro, usare il sesso come mezzo di pagamento? Lasciare che mi scopassero
quando e dove volevano? Non era proprio una cosa che passava
inosservata. Non era facile da nascondere.
Se avevo ritenuto sfrenata una notte come schiava di Manson, non
potevo nemmeno immaginare cosa avrebbe significato per me una cosa
del genere.
Mi sudavano i palmi delle mani. Avevo la bocca troppo secca, e feci una
pausa per bere un lungo sorso d’acqua. Mi scorse una scia fredda lungo la
gola e rabbrividii nel posare il bicchiere.
«È una tua scelta, Jess,» affermò Manson. «Hai delle opzioni.»
Già. Continuava a ricordarmelo, a sbattermelo in faccia come se
sperasse che scegliessi qualcos’altro. Ma io lo avevo capito. Manson voleva
che accettassi come tutti gli altri, ma voleva che lo facessi per scelta. Non
voleva che cedessi per disperazione.
Voleva che prendessi atto del fatto che lo volevo anch’io, anche se non
ne comprendevo appieno il motivo.
Sarei potuta andare da un’altra parte. In un’altra officina, da un altro
meccanico.
Avrei potuto chiedere i soldi ai miei, e loro me li avrebbero dati - ma,
allo stesso tempo, non volevo ritrovarmi con mia madre che me li avrebbe
fatti pesare, e sapevo per certo che l’avrebbe fatto.
Tempo qualche mese, e avevo in cantiere di lasciare Wickeston. Avevo
intenzione di fare carriera, di trasferirmi in un posto migliore di questo.
Un posto dove nessuno mi conoscesse, dove non ci fossero aspettative né
rancori passati. Un posto dove avrei potuto ricominciare da zero.
Fino ad allora, magari… magari potevo concedermi qualcosa.
«Va bene,» annunciai. Incrociai le braccia e sorrisi compiaciuta quando
mi guardarono tutti sgomenti. «Che c’è? Pensavate che mi sarei tirata
indietro?»
«Io lo sapevo che avresti accettato,» disse Jason. «Non ti sei mai tirata
indietro davanti a una sfida.»
«Puoi scommetterci,» replicai con orgoglio, spingendomi via dal tavolo.
«Allora, quando…»
«Rimettiti seduta.» Il tono di Manson non ammetteva repliche. Le sue
parole mi fecero avvertire come una sorta di forza fisica che mi tirava
indietro, e mi misi immediatamente a sedere sulla sedia. «Non abbiamo
ancora finito. Dobbiamo passare al vaglio i tuoi limiti.»
Sbattei rapidamente le palpebre mentre lo fissavo. Avevo trascorso
abbastanza tempo a guardare porno di stampo BDSM e a leggere libri di
erotica kinky da conoscere il concetto di «hard limits» - i limiti
invalicabili, ovvero fino a che punto si è disposti a fare qualcosa in una
determinata situazione. C’erano anche dei «soft limits» - dei limiti meno
vincolanti, cose che uno poteva tentare con cautela, ma che era disposto a
fare nelle giuste circostanze.
Ma pensavo che il mio unico e autentico incontro con tutto questo si
fosse già concluso. Il gioco di una notte aveva portato alla definizione di
una parola di sicurezza, ma oltre a quello non c’erano state altre
pattuizioni.
Il fatto che ora ne stessimo discutendo gli conferiva un’aria stranamente
seria.
Sembrava una cosa intima. Troppo intima.
«È davvero necessario?» Cercai, senza riuscirci, di non contorcermi
sulla sedia. «Lasciamoci un margine di definizione in corso d’opera.»
«C’è sempre un margine di definizione,» rispose Manson. Era seduto
proprio di fronte a me e mi era impossibile distogliere lo sguardo da lui,
nonostante la scomoda intensità del suo sguardo. «Ma se uno di noi vuole
buttarti in un bagagliaio o tapparti la bocca con il nastro adesivo,
dobbiamo sapere in anticipo se è una cosa che sei disposta a sopportare.»
«Ha qualche problema di salute? O problemi di circolazione del
sangue?» indagò Vincent.
«E allergie?» aggiunse Jason. «Problemi con il silicone? Il vinile? Il
lattice?»
«Prendi degli anticoncezionali?» chiese Manson, e i suoi occhi mi
scrutavano come se potesse cavare la risposta dalla mia anima.
«Io… ehm…» Non avrebbe dovuto essere complicato, ma incespicavo
su ogni parola che cercavo di far uscire. Ero una ragazza adulta. Non c’era
niente di male in quello che mi piaceva. Allora perché diavolo mi
sembrava che ci fosse? «Non sono… contraria… alla cosa del bagagliaio.»
Le labbra di Lucas si contrassero. Vincent mormorò qualcosa che
suonava molto come: «Grazie, Satana, finalmente sono stato benedetto.»
«Non ho allergie e non ho nemmeno altri problemi di salute. E,
ovviamente, prendo degli anticoncezionali. Ho una spirale,» conclusi.
Manson annuì.
«Okay, queste sono le cose di base,» chiosò. «Ora abbiamo bisogno di
limiti.»
Tutto ciò che mi passò lì per lì per la testa mi sembrava una buona idea,
ma cercai di frenare la mia eccitazione. «Esiste il concetto di assenza di
limiti?»
«No.» La risposta di Vincent fu categorica. «Non è una cosa che fa per
noi. Ognuno di noi ha dei limiti, e sapere quali sono ci tiene tutti al
sicuro.»
«Evita a Lucas di beccarsi un’accusa di omicidio.» Jason sghignazzò,
nonostante l’occhiataccia di Lucas.
Annuii, ma non sapevo ancora cosa dire. Da dove potevo cominciare?
«Voglio dire, io… non voglio arti rotti. Nel caso in cui non fosse già
ovvio.»
Vincent sbuffò. «Accidenti, quella era proprio la mia idea di scena di
tortura. Sto scherzando!» Rise ancora più di gusto quando vide la mia
espressione. «Non siamo così spinti, Jess, rilassati.»
«So che all’inizio può incutere timore,» intervenne Manson. Sembrava
sorprendentemente comprensivo, empatico, persino. Si alzò dalla sedia.
«Aspetta, ho qualcosa che può aiutarti.»
Uscì dalla stanza e salì le scale. Noi quattro restammo seduti in silenzio,
a fissarci come se stessimo negoziando a malincuore la fine di una guerra.
Lucas non mi guardava in faccia, teneva gli occhi puntati sul tavolo di
fronte a sé, come se sulla sua superficie consumata ci fossero le risposte
che cercava.
«Di chi è stata l’idea?» chiesi, guardando tra loro tre. Jason alzò la
mano con un ghigno spavaldo.
«Mia,» replicò. «Ammetto di essere un osso duro quando si tratta di
farmi pagare per il mio lavoro, e tu ci hai sicuramente procurato molto
lavoro. Mi sembra un equo compenso.»
«Essere il vostro giocattolo è un equo compenso?» Tentai invano di
sembrare scettica. Invece, mi impappinai e il sorriso di Jason si fece
crudele.
«Davvero, Jess? Ieri sera non è stato sufficiente.» Si sporse verso il mio
posto, con un palmo appoggiato sul tavolo accanto a sé. Guardai le sue
unghie dipinte di nero e i suoi anelli massicci e immaginai quella mano
che mi avvolgeva la gola. Nonostante la vivacità del suo sorriso, la sua
voce era cupa. «Ho dei progetti per te, aspetta e vedrai.»
«Abbiamo,» chiarì Vincent. «Abbiamo dei progetti per te. E abbiamo
avuto molto tempo per elaborarli.»
Avevano avuto anni di tempo. Anni di litigi, prepotenze, lussuria,
incontri ravvicinati… un sacco di carburante per alimentare qualsiasi
fantasia sadica avessero su di me.
Quando Manson tornò, aveva in mano diversi fogli di carta, che fece
scivolare sul tavolo verso di me.
«Questo dovrebbe darti un po’ di chiarezza,» disse. Una rapida
occhiata mi rivelò che si trattava di un elenco di feticismi, ciascuno con
una serie di domande accanto: il mio livello di interesse su una scala da 1 a
5, se l’avevo già fatto o meno, e se si trattava di un limite ‘soft’ o ‘hard.’ Le
domande erano espresse da due punti di vista, sia per quanto riguardava il
mio interesse a sperimentare l’attività in prima persona, sia a infliggerla a
qualcun altro.
Bende per gli occhi… vergate… fisting… controllo dell’orgasmo…
oooh, cielo, dovevo tenere a freno i miei pensieri. Leggere quell’elenco
mentre erano tutti seduti di fronte a me era una ricetta sicura per
l’imbarazzo.
Piegai il foglio e lo infilai nella borsa. «Gli darò un’occhiata. Ma non
posso garantire che l’avrò letto tutto per domani.»
«Se non puoi finirlo in tempo, allora devi darci un calendario di quando
lo farai,» disse Vincent. «È tutta una questione di comunicazione. Dammi
il tuo telefono.»
Gli consegnai il mio cellulare. Mi metteva in agitazione che Vincent
stesse frugando nel mio telefono, soprattutto perché Lucas era chino in
avanti e stava evidentemente guardando lo schermo.
«C’è qualcosa qui dentro che non vuole che veda, signorina Martin?»
Lucas mi stava occhieggiando come se fosse in grado di leggermi nel
pensiero. «Dovremmo controllare la sua galleria fotografica?»
«O che ne dici della sua cronologia di ricerca?» suggerì Jason.
«No!» mi affrettai a rispondere. «Quello è un hard limit. Non si può
sfogliare la mia cronologia di ricerca.»
«Va bene.» Vincent alzò le mani con aria innocente. «Non vado a
curiosare, lo prometto.»
L’ultima cosa di cui avevo bisogno era che si accorgessero che gli
account che consultavo più spesso erano i loro.
«Ti ho aggiunto a una chat di gruppo con noi quattro,» disse Vincent
mentre mi restituiva il telefono. «Hai tutti i nostri numeri salvati, così, se
uno di noi ti contatta, saprai chi è.»
«Ha modificato il nome del mio contatto per te,» aggiunse Jason con
tono impassibile, e le mie guance avvamparono. Il suo nome nel mio
cellulare era ancora salvato come ‘Dispensatore di compiti,’ un retaggio di
uno dei miei momenti più infamanti delle superiori. Avrei fatto volentieri
a meno che lo scoprisse, soprattutto alla luce del modo in cui stava
scrocchiando le nocche. Qualcosa mi diceva che il mio culo l’avrebbe
pagata più tardi per quello.
«C’è un’altra cosa,» intervenne Manson, appoggiandosi allo schienale.
«Dobbiamo ripassare le regole.»
Strinsi gli occhi in due fessure. «Quali regole?»
«Se ti devi sottomettere a noi, allora devi seguire le nostre regole,»
annunciò Vincent. «Non preoccuparti, non sono difficili.»
«Ma le conseguenze della disobbedienza lo saranno.» Lucas sembrava
fin troppo eccitato per la parte relativa alle conseguenze, e io mi spostai a
disagio sulla dura sedia di legno. Ogni volta che parlavano di punizioni,
provavo lo stesso strano miscuglio di terrore ed eccitazione, come se stessi
per saltare da un aereo e paracadutarmi a terra. Lo desideravo e allo stesso
tempo lo paventavo.
«Okay,» dissi. «E le regole sono?»
«Se vuoi avere un orgasmo, devi avere il nostro permesso,» spiegò
Manson, sorridendo come se sapesse quanto sarebbe stato frustrante per
me. «Non puoi toccarti, non puoi usare giocattoli e non puoi permettere a
nessun altro di farti eccitare, a meno che uno di noi non ti dia
esplicitamente il permesso.»
Strinsi i denti. Era del tutto escluso che sarebbero riusciti a farmi
rispettare quella regola. Non potevano sorvegliarmi ventiquattro ore al
giorno. Ma io lo avrei saputo se avessi disobbedito, e il pensiero di sfidarli
apertamente non era molto allettante, anche se non avessero mai scoperto
che l’avevo fatto.
«Jessica.» Il tono inflessibile di Manson mi distolse dai miei pensieri.
«Hai capito la regola?»
Feci un respiro profondo. «Sì, ho capito.»
«Questo ci porta alla regola numero due,» enunciò. «Riguarda il modo
in cui ti devi rivolgere a noi. In questa casa, quando rispondi, dici ‘sì,

È
signore’ e ‘no, signore.’ È chiaro?»
«Sì,» confermai, poi mi bloccai e aggiunsi rapidamente: «Sì, signore.»
Maledizione, il mio orgoglio stava subendo un duro colpo. Stavo
lottando contro di esso, cercando di tenere la testa alta e di umiliarmi allo
stesso tempo. Forse sarebbe stato più difficile di quanto pensassi. Non ero
mai stata brava con le regole: fingere di seguirle era molto più facile che
farlo davvero.
Ma qui non potevo fingere. Non potevo fingere di obbedire a loro.
«E la regola finale…» Le dita di Manson picchiettarono sullo schienale
della sedia. «Comunicherai sempre con noi in modo aperto, onesto e
rispettoso. Su qualsiasi argomento. Se ti diciamo di fare qualcosa e tu non
pensi di poterlo fare, diccelo. Se qualcosa ti spaventa o ti fa male, faccelo
sapere. Se non vuoi continuare…»
«Parla,» conclusi al posto suo. «Niente fughe.» Tutti annuirono. «Okay,
posso farcela.»
Non avevo idea se ci sarei riuscita davvero. Come potevo essere
completamente sincera se non ero nemmeno sicura della mia verità?
Lucas mi stava squadrando in modo strano, e mi chiesi se l’incertezza
fosse evidente sul mio volto. Cercai di mantenere un’espressione neutra.
«Bene, dunque. Compila il questionario,» affermò Manson. «Poi ci
metteremo in contatto.»
Lo faceva sembrare come se si trattasse di un affare losco che avevamo
concordato in un vicolo buio, invece che in pieno giorno seduti nella loro
cucina. Mi tremavano le mani mentre mi infilavo il telefono in tasca.
«Cosa succede dopo che la mia auto è stata riparata?» domandai. «E
poi?»
«Torni a far finta che non esistiamo,» commentò Vincent, fissando il
soffitto quasi con malinconia. Poi, con una scrollata di spalle, aggiunse:
«Oppure continui a giocare.»
Volevo dirgli che non avremmo potuto giocare per sempre, ma era una
dichiarazione troppo spaventosa da fare. Una parte di me voleva lanciarsi
a capofitto e dimenticare tutti i ‘dovrei’ e i ‘non dovrei’ ai quali ero rimasta
ancorata per tanto tempo. Una parte di me voleva aggrapparsi a questo,
tenersi stretto questo piccolo, sporco segreto.
Un’altra parte di me voleva scappare di nuovo, perché scappare era più
facile che guardarsi dentro. Era più facile che prendere atto che forse
avevo passato anni a costruire e a aderire alle mie stesse bugie su di me e
su chi ero.
«Okay,» dissi alla fine. «Pagherò il mio debito. Starò al gioco. Finché la
macchina non sarà riparata, sarò vostra.»
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20
Jason
Liceo – ultimo anno
Jessica Martin era un’imbrogliona sporca e corrotta.
La principessa del liceo di Wickeston non si sedeva accanto a me a ogni
lezione perché le piacevo, anche se all’inizio ero stato abbastanza sciocco
da convincermi di quello. Ero lì, a quindici anni, impacciato come non
mai, seduto accanto alla ragazza più carina della scuola. La quale, fra
l’altro, non riusciva a togliermi gli occhi di dosso. Ogni volta che alzavo lo
sguardo, lei mi stava fissando con quei grandi occhi verdi dalle lunghe
ciglia che mi ipnotizzavano.
Ma poi venne fuori che non stava affatto guardando me, bensì i miei
compiti. Tutti quanti.
Avevo capito l’antifona quando un giorno Kyle mi aveva messo alle
strette nel corridoio e mi aveva «convinto» a iniziare a scrivere i temi al
posto suo. Jessica era rimasta per tutto il tempo a braccetto con lui,
sorridendo come se trovasse divertente che quel cavernicolo del suo
fidanzato mi prendesse a spintoni. Ero appena uscito da una piccola
scuola privata cristiana, ero abituato alla divisa, ai programmi serrati e a
una politica disciplinare rigorosamente spietata. La Wickeston non era
così. Per un ragazzo timido e taciturno come me, quel posto era il Far
West.
Kyle era di circa quindici centimetri più alto di me e aveva dei pugni
grandi come mattoni, così passai dall’essere il ragazzo silenzioso che
seguiva tutti i corsi avanzati al dispensatore personale di compiti per gli
studenti più popolari. Cercai di giocarci sopra, convincendomi che,
facendo i compiti al posto loro, avrei studiato di più.
Quando ci ripensavo, mi venivano i brividi. Dio, quanto ero stato
ingenuo.
Poi avevo conosciuto Vincent, Manson e Lucas. Eravamo tutti un
gruppo di emarginati, ma insieme eravamo più forti, ci accettavamo a
vicenda. Quello mi aveva dato una maggiore forza di reagire, di allargare i
miei orizzonti, di esplorare.
Mi aveva fatto anche innamorare di questo buffo clown che parlava di
concetti come amore libero e accettazione sessuale. Era stato lui a
insegnarmi le parole per descrivere quello che provavo. Non si era
minimamente scomposto quando gli avevo confidato che ero terribilmente
confuso perché mi piacevano le ragazze, ma cazzo, non mi dispiacevano
nemmeno i ragazzi. Vincent Volkov aveva stravolto il mio mondo.
Quando arrivò l’ultimo anno, tutto cambiò.
I miei genitori mi cacciarono di casa durante l’estate e la famiglia di
Vincent mi accolse. L’età adulta mi investì come una tonnellata di mattoni,
e all’improvviso fui libero. Libero di agire, parlare e vestirmi come mi
pareva. Libero di amare chi volevo, libero di fare sesso come volevo.
Ero libero di farmi valere.
Dovevo essere furbo. Dovevo sfruttare i miei punti di forza. Non
potevo battere fisicamente questi stronzi, perlomeno non la maggior parte
di loro. Ma il ricatto divenne il mio passatempo preferito. Imparai ad
accedere agli account dei social media, a raccogliere informazioni private
come se fosse uno sport. Tornava utile che Vincent spacciasse la droga per
le feste alla maggior parte degli atleti che mi bullizzavano. Lui aveva i suoi
soldi, e io le informazioni potenzialmente devastanti che avrei potuto
usare contro di loro.
Ma c’era una persona di cui non vedevo l’ora di vendicarmi: Jessica
Martin.
Probabilmente ci stavo prendendo un po’ troppo gusto a pianificare la
sua fine, ma in realtà non c’era molto da pianificare. Presi in
considerazione di procurarmi le password dei suoi account; una rapida e-
mail di phishing da un indirizzo contraffatto avrebbe funzionato.
Immaginai di frugare nei suoi messaggi di testo, di trovare le foto di nudo
che aveva mandato al suo ragazzo e di minacciare di diffonderle. Ipotizzai
tutto quello… ma non lo feci. Non potevo. Mi sembrava una cosa troppo
personale - una ritorsione che non mi sarei mai perdonato. Volevo
vendicarmi di lei, ma non potevo fare qualcosa che avrebbe potuto
rovinarla.
Non potevo spingermi al punto di farle del male.
Perciò, decisi di non farla troppo complicata. Se voleva usarmi per
imbrogliare durante i compiti in classe, in un modo o nell’altro avrei
ottenuto un compenso.
Aspettai fino alla fine dell’allenamento delle cheerleader. Fu l’ultima a
entrare nelle docce, dopo che quasi tutte le altre se ne erano andate a casa.
Dovevo rendergliene merito: lavorava sodo quando voleva. Non era
diventata la capitana delle cheerleader per caso. Si allenava per ore, anche
molto dopo che tutte le altre avevano finito. Faceva freddo, ma lei era
tutta rossa in viso e sudata quando, alla fine, si avviò verso le docce.
La seguii.
«Non prendere la doccia in fondo, quella è mia!» esclamò. La porta si
chiuse alle mie spalle, una fila di armadietti mi separava dalle docce
dall’altra parte. Il mio cuore martellava a ogni passo. Lo spogliatoio delle
ragazze aveva un odore diverso da quello dei ragazzi. Non
necessariamente migliore, ma diverso.
Si bloccò quando mi avvicinai agli armadietti. Era china sul suo borsone
da palestra, con la sua uniforme e un cambio di vestiti stretto nel braccio.
«Ehm, pronto?» Si raddrizzò, fissandomi. «Non puoi stare qui dentro.»
«Non vedo nessun altro in giro che si potrebbe offendere,» le feci
notare. «Ho pensato che volessi che la nostra conversazione rimanesse
privata.»
Lei incrociò le braccia. «La nostra conversazione? Mm, sì, no, non
ricordo di aver messo in programma di perdere tempo a conversare con uno
sfigato a caso oggi,» mi schernì, passandomi accanto per andare verso gli
specchi. Guardai il suo volto nel riflesso, mantenendomi a distanza.
«Hai usato le mie risposte per il tuo esame,» dissi. Jessica si picchiettò il
labbro inferiore con un dito, come per ritoccare il rossetto, ma il gesto
sembrava artificioso. Era agitata. Stava cercando di sembrare
disinteressata. «Mi aspetto di essere ricompensato.»
«Ricompensato?» Fece una risata e mi lanciò un’occhiata da sopra la
spalla. «Ricompensato per cosa? Per il fatto che mi siedo accanto a te?
Molte persone pagherebbero me per questo privilegio.»
Non avevo dubbi che l’avrebbero fatto. Ma, per mia fortuna, io avevo
qualcosa che lei voleva, qualcosa di cui aveva bisogno.
Provare tutta quella sicurezza in me stesso era una tale scarica di
adrenalina. Volevo solo vederla a disagio. «Mi dispiace dirtelo, Jess. Da
ora le cose funzioneranno in modo un po’ diverso. Se devo fare io il
lavoro, vengo pagato. E questo vale anche per il tuo ragazzo.»
Avevo dei progetti anche per Kyle. La quantità di informazioni che
avevo su di lui e con cui potevo ricattarlo avrebbe probabilmente fatto
finire quel bastardo in prigione, ma mi consideravo un tipo piuttosto
magnanimo. Non sarebbe successo nulla finché fosse stato al posto suo.
«Questo rientra tutto nel tuo nuovo personaggio?» domandò lei,
fissandomi attraverso lo specchio con gli occhi stretti in due fessure. «I
vestiti scuri, i capelli tinti, i piercing. Non dovresti lasciare che Manson e
Lucas ti influenzino in questo modo, è meglio che tu rimanga un nerd.»
Avevo cambiato look, era vero. Dopo una vita passata a indossare la
divisa a scuola, polo e pantaloncini beige erano tutto ciò che conoscevo.
Ma senza i miei genitori che mi stavano addosso, mi ero lasciato andare.
Lucas mi aveva aiutato a tagliarmi i capelli corti e a tingerli. Manson mi
aveva fatto i buchi alle orecchie e io li stavo facendo dilatare. Invidiavo i
tatuaggi di Lucas, ma quelli con le linee troppo semplici non erano il mio
stile, quindi io e Vincent stavamo mettendo da parte i soldi per farcene
fare di più complessi.
Forse a Jess sembrava che stessi esagerando, ma questo non le impedì di
continuare a fissarmi.
Quell’anno aveva cominciato a guardarmi in modo diverso. Era come se
fosse sorpresa da qualcosa ogni volta che mi vedeva. Non mi sarei illuso
che fosse un’attrazione, ma era comunque qualcosa.
Era una crepa nella sua armatura.
«Non sto scherzando.» Mi avvicinai finché il mio riflesso non riempì lo
specchio dietro di lei. Aveva un profumo così buono. Fragola e vaniglia,
panna e zucchero. Non sapevo se fosse il suo shampoo, il profumo o quel
gloss che metteva sulle labbra, ma mi faceva praticamente venire
l’acquolina in bocca. «O inizi a pagare ogni volta che mi usi per barare, o
lo vado a dire al preside.»
Ecco, semplice e chiaro. Nessun ricatto vero e proprio, se non la
semplice minaccia che avrei spifferato a qualcuno per filo e per segno
quello che aveva fatto.
Le venne un tic all’occhio. «Fottuto spione.»
Sorrisi mentre le giravo intorno, prima di appoggiare le mani sui bordi
del lavandino e di ingabbiarla. Non ero mai stato così vicino a lei, tanto da
poter scorgere le lentiggini sulle sue spalle e una piccola cicatrice sul
braccio. Il rosa cangiante del suo lucidalabbra luccicava sulla sua bocca e
mi faceva venire voglia di darle un morso. Volevo prenderle il labbro tra i
denti e sentire il suo gemito, il suo fremito. Ma mi bastò vedere il modo in
cui mi guardava quando avvicinai le labbra al suo orecchio.
C’era incertezza, sì. Ma c’era anche eccitazione, una luce inaspettata nei
suoi occhi. Mi colse di sorpresa, e abbassai il tono di voce.
«Cento dollari,» sussurrai. «Ogni volta.»
«Caspita… ti stai un po’ sopravvalutando, non trovi?» La sua voce si
era addolcita, ma il suo sguardo no. «Credo che il preside sarà un po’ più
turbato dal fatto che tu mi segua nello spogliatoio femminile piuttosto che
io dia una sbirciatina al tuo compito in classe.»
«Proviamo,» proposi. «Andiamo a parlargli insieme.»
I suoi occhi lasciarono il mio viso e scesero lungo il braccio accanto a
lei. Sembrò contemplare a lungo la mia mano, concentrandosi sulle
nocche strette intorno al bordo del lavandino.
«Bene. Allontanati, così posso prendere il mio borsone. Oh, aspetta…»
Si girò. Petto contro petto, piedi contro piedi. Le sue tette erano proprio
lì, e non riuscii a trattenermi dal dare una sbirciatina. Sembravano così
soffici, la sua pelle così liscia. Quando riportai gli occhi sul suo viso, stava
sogghignando. «Oggi non ho contanti. Ops! Peccato.»
Ma non ero l’unico a cui vagò lo sguardo. Mi scrutò il collo, e un guizzo
di confusione le attraversò il viso quando si concentrò sul succhiotto che
la mia maglietta non copriva. Di solito ero davvero paranoico riguardo a
quei segni, e a buona ragione. A conti fatti, era stata una parte di ciò che
aveva messo in allarme i miei genitori, che li aveva spinti a fare domande.
Ma ora che non avevo più loro a preoccuparsi, adoravo i miei lividi. Mi
piaceva guardarli al mattino e ricordare come si erano formati. Tipo la
sera prima, quando i denti e le mani di Vincent mi avevano lasciato dei
segni dappertutto, e lui mi aveva fatto parlare di Jess. Mi ha fatto
confessare ad alta voce tutti i modi in cui sognavo di scoparla: da solo, con
lui, con Manson e Lucas, ovunque e dovunque.
Dovevo rimanere concentrato. Mi allontanai da lei, scrollando le spalle
come se niente fosse. «È un peccato. Allora, vieni a prendere parte a
questa chiacchierata o che?»
Mi voltai e mi incamminai, aggirai gli armadietti e mi avviai alla porta,
ma a passo lento, dandole l’opportunità di cambiare idea.
«Aspetta!»
Mi fermai e mi concessi un sorriso di autocompiacimento. Era un bene
che non potesse vedermi, perché quello che disse dopo mi fece quasi
strozzare con la mia stessa saliva.
«E se ti dessi una foto di nudo?»
Feci capolino da dietro gli armadietti così in fretta che per poco non mi
venne un colpo di frusta. «Una foto di nudo? Di te?» Grazie a Dio, a
Satana e a qualsiasi altra divinità là fuori, la mia voce non si incrinò.
Dovevo mantenere il sangue freddo. «Ti stai un po’ sopravvalutando, non
trovi?»
Non sembrava affatto contenta che le avessi risbattuto in faccia le sue
stesse parole. «Francamente, mandarti un mio nudo è un compenso anche
eccessivo,» ribatté, sventolando la mano. «Ma non importa. Dammi il tuo
numero.»
«Ehi, aspetta un attimo. Accetterò il tuo nudo come pagamento, Jess,
ma ho delle condizioni.» Mi lanciò un’occhiataccia, ma visto che era stata
lei a suggerirlo, avrei sfruttato la situazione fino in fondo. «Non voglio una
vecchia foto su cui Kyle si è masturbato. Voglio che tu ne faccia una
nuova, solo per me.»
Jess alzò gli occhi al cielo. «Sì, certo, va bene.»
Porca puttana, porca puttana, porca puttana. Era seria. Lo avrebbe fatto
davvero. «Scattane una e mandala, ora,» affermai. «Non più tardi.»
Si mise una mano sul cuore, con un’espressione di finta offesa sul viso.
«Jason, non ti fidi di me? Penso che dovresti mostrare un po’ più di
riconoscenza. Non è che io mandi nudi in giro a chiunque.»
«Non mi frega un cazzo di quante persone ti hanno vista nuda.» Mi
appoggiai agli armadietti, cercando di trovare un modo per mantenere la
calma. «Mi interessa solo che questa foto sia destinata solo a me.»
Si spostò leggermente sul posto. Eccola di nuovo, quella scintilla di
eccitazione nei suoi occhi. Come se tutto questo fosse eccitante per lei.
Come se fosse un gioco.
«Bene, sarà un nudo nuovo di zecca solo per te,» annunciò. «Ciao,
vattene. Vorrei farmi una doccia prima che chiudano il campus.»
Tutto il mio corpo formicolava. «Fai pure. Fai quello che devi fare.»
«Stai scherzando?» ringhiò con frustrazione. «Almeno girati dall’altra
parte. Se ti volti, ti cavo quegli occhi del cazzo con le unghie.»
«Calmati, gattina.» Mi girai e incrociai le braccia sul petto. Non avevo
bisogno di vederla nuda dal vivo, e non avevo intenzione di esagerare. Ma
non volevo nemmeno che si esimesse dal pagarmi. Avevo fatto il lavoro,
mi meritavo qualcosa in cambio. Se questo era ciò che voleva dare, cazzo,
poteva pagarmi con dei nudi tutte le volte che voleva. «Non sono qui per
fare il maniaco, ma solo per assicurarmi di essere retribuito.»
«Sì, certo, non c’è niente di maniacale in tutto questo.» Udii uno
scalpiccio, poi il fruscio soave della stoffa che cadeva a terra. Il mio cazzo
sobbalzò. Stava diventando sempre meno convincente in questa sua recita
nella parte della ragazza «annoiata e irritata.» C’era tensione nella sua
voce, ma non era rabbia.
Rischiai e parlai in tutta sincerità. «Personalmente, Jess, credo che ti
piaccia quando vieni ripagata con la stessa moneta.»
«E questo cosa vorrebbe dire?»
«Significa che ti piace quando qualcuno ti tratta da stronzo.»
Ci fu una lunga pausa, e sapevo di aver ragione perfino quando alla fine
disse: «Farò finta che tu non l’abbia detto.»
La sua fotocamera fece più volte clic, con una pausa tra uno scatto e
l’altro. Accidenti, stava facendo un intero servizio fotografico lì dietro?
«Cosa preferisci?» indagò. «Tette o culo?»
Cristo. ‘Entrambi’ era una buona risposta? Perché era entrambi.
«Sorprendimi.»
«Qualcosa mi dice che sei un tipo da culo,» disse lei con disinvoltura.
«Cosa te lo fa pensare?»
«Vincent ha un bel culo.»
Mi irrigidii, i miei muscoli scattarono in allarme in un istante.
Indipendentemente dai passi avanti fatti dal resto del paese in termini di
uguaglianza e accettazione, Wickeston rimaneva tremendamente
omofobica. Vincent e io cercavamo di non dare troppo nell’occhio, ma
non era proprio un segreto. Così, mi ero preparato. Mi ero preparato a un
commento sprezzante, a una frecciatina sulla mia mascolinità, forse
peggio.
«Non dirgli che ho detto questo,» si affrettò ad aggiungere. «O
ritratterò tutti i futuri pagamenti con le mie foto.»
Quello… non me lo sarei aspettato.
«Non dirò una sola parola,» mormorai con la voce resa roca
dall’agitazione. «Tanto a Vince non serve un’altra iniezione di autostima.»
Glielo avrei detto senz’altro. Senza alcun dubbio, avrei di sicuro
spifferato tutto non appena ne avessi avuto l’occasione. Avrebbe perso
completamente la testa. Non ero l’unico a fare pensieri sconci su quella
ragazza.
Dopo un altro minuto passato a scattare foto, finalmente disse: «Va
bene. Dammi il tuo numero di telefono.»
Glielo dettai, con il battito cardiaco alle stelle. Aspettai con le spalle
ancora rivolte a lei finché il mio schermo si illuminò con l’arrivo del suo
messaggio. Aprii gli allegati, continuando a fare dei respiri regolari. Il mio
cazzo era così duro che era impossibile nasconderlo, il rigonfiamento dei
miei pantaloni era quasi da cartone animato.
Ma Dio, Jessica era… perfetta.
«Cristo santo.» Le parole mi sfuggirono in un sussurro riverente e
incredulo. Mi sbrigai a mettere via il cellulare. Lei era ancora nuda dietro
di me, quindi non mi voltai indietro, per quanto la tentazione ci fosse, e
mi limitai a salutarla con un cenno della mano. «Ci vediamo. È stato un
piacere fare affari con te.»
«Le farai vedere a qualcuno?»
La sua domanda repentina mi fece fermare. Non sembrava
preoccupata. Sembrava piuttosto… curiosa? Intrigata?
Osavo pensare che sembrasse speranzosa?
«Vuoi che le mostri a qualcuno?» La domanda rimase sospesa nell’aria,
una lunga pausa senza risposta. Ma il suo silenzio era già di per sé una
risposta.
La tentai. «A chi pensi che dovrei mostrarle per primo? A Vincent?
Sarà terribilmente invidioso di sapere che ce l’ho io. O che ne dici di
Manson? Ogni volta che si troverà accanto al tuo armadietto, ci penserà.
E Lucas?»
Il suo sussulto fu udibile. La sua voce non trasmetteva la sua solita
sfacciataggine quando borbottò: «Molto divertente, Jason. Ora, vuoi
toglierti dai piedi?»
Quel giorno lasciai lo spogliatoio delle ragazze con molto di più di una
rivincita per tutto il lavoro che avevo svolto senza retribuzione. In quella
ragazza c’era più di quanto pensassi. Sotto quell’apparenza perfetta si
nascondeva una piccola creatura masochista che bramava qualcuno che
prendesse il controllo. Era un lato di lei che potevo capire, a cui potevo
rapportarmi.
Qualcosa con cui potevo giocare.
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21
Jessica
Inventai una storia da raccontare ai miei genitori una volta tornata a casa.
Mamma pensava che avessi passato di nuovo la notte da Danielle e non la
corressi, ma cercare di spiegare il guasto alla macchina e la conseguente
contrattazione fu molto più difficile.
Alla fine, mi accontentai di dire che ero andata in un’officina locale e
che conoscevo i meccanici dai tempi del liceo, per cui mi avrebbero fatto
uno sconto. Papà voleva sapere le cifre reali per essere sicuro di non poter
ottenere un prezzo migliore altrove, ma riuscii a sviare concentrandomi
sulle domande di mamma.
«Chi hai detto che sono questi ragazzi?» mi chiese, stringendo gli occhi
in due fessure dall’altro lato del tavolo. Eravamo seduti a cena, il primo
pasto completo della mia giornata.
«Lucas e Manson,» risposi, cercando di tenere quanto più possibile la
bocca piena di cibo per procrastinare le domande. Ma la mamma si sporse
e mi diede uno schiaffo sulla mano quando presi un altro involtino.
«Smettila di rimpinzarti in quel modo, Jessica Marie, vacci piano.» Fece
un pesante sospiro di disgusto. Dall’altro capo del tavolo, la mia sorella
minore, Steph, ridacchiò, lieta di vedere che qualcun altro veniva
rimproverato. «Lucas e… Manson, hai detto? Sarà meglio che non siano
gli stessi ragazzi che sono stati espulsi per aver aggredito altri studenti.»
Dannazione, figuriamoci se se lo ricordava. In entrambe le occasioni, la
scuola aveva inviato ai genitori delle lettere in cui si spiegavano la
situazione e i provvedimenti presi. La mamma aveva dato di matto
entrambe le volte, convinta che Wickeston stesse andando a rotoli e che il
mio liceo stesse diventando ogni giorno più pericoloso.
«Beh, insomma… sì.» Trasalii, e mamma alzò le mani in segno di
esasperazione, lanciando un’occhiata a mio padre come se fosse tutta
colpa sua.
«Roger, davvero non hai intenzione di dire nulla al riguardo?» chiese.
«Sul fatto che nostra figlia si rivolge a un’officina gestita da criminali?»
Mio padre rispose con la sua solita voce lenta e misurata: «Dai,
Charlene, calmati. Non credo che ci sia un granché di cui preoccuparsi…»
«Non c’è da preoccuparsi? Non c’è da preoccuparsi?» La voce della
mamma aveva raggiunto quel tono che di solito mi faceva correre fuori
dalla porta. «Vuoi che abbia a che fare con questi uomini? Chi sa cosa
potrebbero fare? Potrebbero essere dei trafficanti, Roger!»
«Mamma, non sono trafficanti…»
«Non si sa mai, Jessica. È questo il punto, non si sa mai.» Mi puntò il
dito contro in segno di avvertimento. «Proprio l’altro giorno, la figlia di
Jeanie ha detto che una coppia la stava seguendo al Walmart,
probabilmente cercando di derubarla. Ne hanno parlato tutti su
Facebook.»
«Ah, già, Facebook, l’epicentro delle notizie dell’ultima ora,»
bofonchiai, e la forchetta della mamma sbatté sul piatto. «Senti, mamma,
ti giuro che sono persone a posto. Non sono pericolosi.»
Non era del tutto vero. Quegli uomini erano estremamente pericolosi,
ma non nel modo in cui pensava lei. Erano un pericolo per il mio
orgoglio, la mia reputazione e le mie mutande.
«Uno di loro ha minacciato il tuo ragazzo con un coltello,» sbottò la
mamma. «Lo giuro, come diavolo ho fatto a crescere una figlia senza un
briciolo di buon senso?»
Lasciai cadere l’argomento perché non aveva davvero senso discutere
con lei, e il resto della cena passò in un silenzio teso.
Ma le sue parole continuarono a infastidirmi anche dopo che mi fui
ritirata al piano di sopra. Conosceva solo pochissimi dettagli su quegli
uomini, ma questo non le aveva impedito di fare delle illazioni azzardate
su di loro. Proprio come la maggior parte delle persone con cui ero andata
al liceo, mamma era più interessata ai pettegolezzi che alla reale verità.
Feci una pausa per bere un altro sorso di caffè. Avevo scorso quasi tutto
l’elenco che Manson mi aveva dato, e le domande erano diventate
piuttosto ostiche. Dovetti cercare su Google la definizione di
«katoptronofilia,» solo per realizzare che significava eccitarsi facendo sesso
davanti a uno specchio.
Per me era un cinque su cinque nella scala di interesse, insieme a decine
di altri feticismi che non mi erano mai nemmeno passati per la testa.
Bondage estremo. Giochi incentrati sulle percosse. Fruste, catene,
disciplina domestica, marchiatura, scarificazione, degradazione - e l’elenco
continuava. Per qualche strana ragione, era rassicurante vedere cose che
mi interessavano in un elenco come questo. Era una rassicurazione che
qualcun altro là fuori - più di qualcuno - avesse i miei stessi desideri. Ma
mi faceva anche sentire come se stessi andando a cacciarmi in una
situazione oltre la mia portata.
Le sculacciate e le manette mi sembravano delle perversioni accettabili,
persino un tantino alla moda. Ma c’erano feticci per lo stalking, il
rapimento e la prigionia che mi facevano praticamente fremere di
desiderio. Rientravano nella categoria del «consensual non-consent» - il
non consenso volontario - che prevedeva che la persona sottomessa
facesse finta di non essere consenziente. A tutto questo diedi un cinque su
cinque.
All’una di notte avevo completato l’intero foglio e mi stavo torcendo
sulla sedia per le fantasie che mi aveva ispirato. Almeno avevo finito e
potevo concedermi un piccolo appuntamento con il mio vibratore prima
di andare a letto. Se non fosse che…
Dannazione. Le loro stupide regole. Non dovevo masturbarmi senza
permesso, e mi sovvenne nuovamente la domanda: come avrebbero fatto a
saperlo?
Scattai delle foto alle pagine col cellulare e le allegai alla chat di gruppo
che Vincent aveva creato, insieme al messaggio: Se questa lista finisce sotto
gli occhi di qualcun altro oltre a voi quattro, VI UCCIDO.
Lasciai il telefono sulla scrivania, chiusi la porta a chiave e cercai sotto il
letto la scatola in cui tenevo nascosti i miei sex toys. Non era una
collezione particolarmente ampia, ma era ben utilizzata. Di solito non
provavo un tale brivido quando aprivo la scatola, ma sapere che lo stavo
facendo contro i loro ordini lo faceva sembrare particolarmente sporco.
Il mio sedere era ancora dolorante per l’ultima sculacciata che avevo
ricevuto, eppure ero già pronta a infrangere una regola. Avrei dovuto
avvertirli che io e le regole non andavamo d’accordo.
Il mio telefono squillò di nuovo, e io feci un sospiro. Avrei dovuto
immaginare che almeno uno dei ragazzi sarebbe stato sveglio. Presi il mio
vibratore dalla scatola e lo gettai sul letto, sdraiandomi tra i cuscini prima
di controllare il messaggio. Era di Manson.
Le informazioni riservate dei nostri clienti sono di estrema importanza
per noi. Il tuo piccolo sporco segreto è al sicuro.
Fissando lo schermo, lo immaginai mentre esaminava l’elenco. Ero stata
brutalmente onesta, anche sulle perversioni che non avrei mai pensato di
ammettere che mi piacessero. Mi ero sentita incredibilmente coraggiosa
mentre compilavo il questionario, ma ora che era fuori dalle mie mani ero
nervosa.
Io: Quando potrò vedere le vostre liste? Mi sembra giusto che anch’io
abbia del materiale con cui ricattarvi.
Arrivò un messaggio di Lucas. Non vale come ricatto se non abbiamo
paura a diffonderlo. Se il pubblico vuole sapere come scopo, non mi dà
nessun problema.
Scossi la testa e sorrisi mio malgrado. Era facile immaginare Lucas che
dichiarava a gran voce, a chiunque volesse ascoltarlo, esattamente ciò che
gli piaceva.
Con mia sorpresa, Manson rispose con un allegato. Poi Lucas, poi
Jason. Poi ancora Jason, in aggiunta al messaggio: Questo è di Vince. È al
lavoro.
Mi pareva di ricordare che Vincent lavorasse come barista, ma non ero
sicura di dove. Aprii per primo l’allegato di Manson, non sapendo
resistere a sfogliare l’elenco. Le mie cosce si strinsero un po’ di più mentre
i miei occhi si allargarono, e mi ritrovai a pizzicarmi il labbro inferiore
mentre leggevo. Ogni volta che scoprivo che i nostri interessi erano simili,
sentivo un piccolo palpito nel petto, come se il mio cuore avesse avuto un
sussulto di eccitazione.
Leggere le sue risposte era molto più eccitante di quanto mi aspettassi.
Presi il mio vibratore, lo accesi e lo passai lentamente sull’interno delle
cosce. Aveva dato alla scarificazione un punteggio di cinque nella sua scala
di interesse, e pensai subito al piccolo cuore inciso sul mio dito. C’era
qualcosa di così insopportabilmente erotico nel fatto che lui tagliasse la
mia carne, che guardasse il mio sangue sgorgare e lo consumasse proprio
davanti a me.
Come sarebbe stato permettergli di incidermi tanto profondamente da
lasciarmi una cicatrice? Implorarlo di non farmi male e vederlo sorridere
in risposta, sapendo che non si sarebbe fermato…
Stai per masturbarti, Jessica?
Per poco non mi scivolò il telefono dalle dita. Il messaggio era di Lucas.
Gli risposi frettolosamente. Mi avete detto che non potevo farlo senza
permesso.
Manson: Quindi le regole te le ricordi. Perché le stai già infrangendo,
ragazzina viziata? Stai già cercando di farti sculacciare di nuovo?
Lucas: Metti giù il vibratore e comincia a implorare il permesso,
piuttosto.
Merda, avevo già fatto una cazzata. Ma come facevano a saperlo? Cosa
stava succedendo?
Mi accigliai, spensi il vibratore e lo misi da parte. Le tende erano aperte
e mi sporsi verso la finestra, scrutando il cortile. Là fuori c’era solo il buio,
ma…
Presi di nuovo il telefono. Dove sei? Come fai a sapere che stavo usando
un vibratore?
Il messaggio successivo di Lucas non tardò ad arrivare. Non importa
dove sono. Ma se prendi di nuovo quel giocattolo e inizi a usarlo senza
permesso, lo saprò.
Il messaggio di Lucas aveva una foto allegata e dovetti aspettare che si
caricasse. Ma una volta caricata, mi fece mancare il respiro.
Era una foto della finestra della mia camera da letto. Le tende erano
aperte e la luce era accesa. L’angolazione era ripresa da un punto in basso.
Mi avvicinai di nuovo al vetro e diedi un’occhiata molto più approfondita
al cortile. I cespugli, gli alberi, la staccionata di legno, dietro i bidoni della
spazzatura… niente.
Ti fa paura? Sapere che ti sto osservando?
Fissai il suo messaggio e poi tornai nel buio. Non mi spaventava, non
esattamente. Era una sensazione diversa.
Io: Da quanto tempo mi stai osservando?
Lucas: Non importa. Considerati privilegiata che io sia disposto a darti
il permesso di raggiungere l’orgasmo.
Vincent rispose per la prima volta, ma si trattava solo di un emoji che
rideva e di quello in cui esplodevano dei coriandoli. Quel fottuto clown.
Le mie dita volarono sui tasti.
Cosa devo fare?
Tamburellavo rapidamente sul materasso con le dita, in attesa della sua
risposta. Continuavo a lanciare occhiate alla finestra. Anche se ero al
secondo piano, avevo l’irrazionale paura di affacciarmi e vedere fuori
Lucas, che mi fissava dalle tenebre.
Lucas: Inginocchiati sul letto davanti alla finestra e dammi un bello
spettacolo.
Fissai a lungo il messaggio, mordicchiandomi il labbro inferiore. Potevo
rifiutare e andare a dormire, ma ero già eccitata e a disagio. Il sonno non
sarebbe arrivato facilmente se non avessi trovato un modo per scaricare la
tensione.
Era notte fonda e tutte le altre case della nostra strada erano buie. Ma
se qualcuno mi avesse vista?
Lucas: Sì o no. Prima che mi annoi.
Con il cuore che batteva all’impazzata, strisciai sul letto per mettermi in
ginocchio davanti alla finestra. Da qualche parte là fuori, Lucas mi stava
osservando. Il calore che mi bruciava nel ventre divampò come una furia.
Tirai giù la cintura dei pantaloni del pigiama fino a calarli intorno alle
ginocchia e mi leccai nervosamente le labbra mentre guardavo fuori nel
buio. Ma se non avvicinavo il viso al vetro, l’unica cosa che riuscivo a
vedere era la mia stessa espressione che mi fissava di rimando.
Lucas: Ecco una brava ragazza. Dammi qualcosa di sexy da mostrare ai
ragazzi quando torno a casa. Faccio un video.
Presi il vibratore e lo accesi, facendo un respiro profondo. All’inizio
partii lentamente, toccandomi leggermente l’addome e accarezzando il
pube. Mi avrebbero visto tutti. Lucas sarebbe andato a casa, avrebbe
mostrato loro questo video…
Si sarebbero fatti una sega guardando il video? Si sarebbero masturbati
alla mia vista, avrebbero spruzzato il loro sperma quando non ero
nemmeno lì a poterlo assaggiare? Il pensiero mi mozzò il fiato.
Avevo messo da parte il telefono, ma riuscivo comunque a vedere lo
schermo.
Lucas: Sarà meglio che imposti quell’aggeggio al massimo della
potenza.
Feci una pausa per spostare il pulsante del mio giocattolo nell’altra
direzione. Le vibrazioni si fecero più forti, riverberandosi nella mia mano.
Usavo raramente questa impostazione: mi portava da zero a cento così
velocemente che mi faceva quasi male. Lo spostai tra le gambe e mi
abituai un attimo alla sua potenza prima di sfiorare il clitoride.
Lucas: Non fare la femminuccia. Voglio vederti tremare.
Almeno non poteva sentirmi mugolare mentre premevo il vibratore sul
clitoride.
«Oooh, merda,» sussurrai, espirando pesantemente quando mossi di
nuovo il vibratore. Non era il tipo di velocità che mi avrebbe portato pian
piano al culmine del piacere. Mi avrebbe strappato l’orgasmo e lo avrebbe
usato per distruggermi.
Lucas: Se continui a spostare quel vibratore, vengo su, ti lego al letto e
ti faccio stare lì con quel vibratore tra le gambe per tutta la notte. Hai
voluto infrangere le fottute regole? Ecco quello che succede.
Gemetti e rimisi in posizione il vibratore con la mano che mi tremava.
Lottai per rimanere dritta davanti alla finestra, le gambe cominciarono
ben presto a farmi male. Il mio clitoride voleva ritirarsi dalle vibrazioni
violente, ma il mio corpo continuava a rispondere. La tensione stava
aumentando brutalmente.
Lucas: Come ti senti, giocattolino? È un po’ troppo per te?
Annuii distrattamente, dondolando i fianchi contro le vibrazioni. C’era
qualcosa di deliziosamente degradante nell’essere definito nient’altro che
un giocattolo.
Ogni centimetro di me era in tensione, in ascesa così rapida verso
l’orgasmo che non riuscivo a rilassare un solo muscolo. Trattenni il respiro
nel tentativo di non emettere alcun suono, ma anche quel fragile
autocontrollo stava per cedere.
Lucas: Non fermarti. Procurati l’orgasmo per me. Tieni il vibratore lì
finché non ti darò il permesso di fermarti.
«Cazzo…» Mi si incrinò la voce. Le mie dita dei piedi si arricciarono.
Mi accasciai in avanti quando venni, mettendomi la mano libera sulla
bocca per soffocare il gemito che ne derivò.
Cristo, era troppo. Faceva male - era meraviglioso, ma faceva male.
Lucas: Tirati su. Non ti azzardare a nascondermi il viso.
Ci riuscii a malapena. Scossi la testa, sussurrando «per favore» più e più
volte, come se potesse sentirmi. Come se a Lucas importasse qualcosa
della misericordia.
Lucas: Sembra che stia per piangere, ragazzi. Devo lasciarla smettere?
Arrivò un altro emoji coi coriandoli da Vincent. Mi sarei infuriata se
non avessi sentito che il mio clitoride stava per esplodere.
Lasciala piangere. Maledizione, Manson.
Falla andare avanti per un altro minuto. Sessanta secondi. L’idea di
Jason almeno prevedeva una fine. Appoggiai la mano sulla finestra, il
riflesso del mio stesso volto era troppo da sopportare. Avevo i capelli
scarmigliati, le guance rosee e la bocca aperta perché avevo un forte
affanno. Dio, avevo il clitoride così sensibile che persino una piuma mi
avrebbe fatta trasalire. Ma questa… Questa era una tortura. Non ero
pronta a raggiungere un altro orgasmo: stavo ancora indugiando nei
postumi dell’ultimo. Intrappolata, sospesa in un limbo di piacere.
Lucas: Sono passati sessanta secondi. Fermati.
Quasi singhiozzai di sollievo. Spensi il vibratore e lo gettai a terra,
crollando sul letto mentre cercavo di riprendere fiato. Le mie gambe erano
scosse dai tremori, mi sembrava come se mi fossi attaccata degli elettrodi
al clitoride. Non mi avevano nemmeno toccata e mi avevano ridotta in
questo stato. Il mio telefono continuava a ronzare, e io fissavo lo schermo
con gli occhi assonnati.
Lucas: Credo di averla uccisa, ragazzi.
Riposa in pace, angelo.
Vincent questa volta fece un salto di qualità e mandò dei fuochi
d’artificio.
Ero troppo stanca per trascinarmi fuori dal letto e andare sotto la
doccia. Ero troppo stanca anche solo per inviare una risposta piccata. Mi
infilai sotto le coperte e il mio corpo esausto si sciolse nel sonno in pochi
minuti.
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22
Lucas
Da bambino sono sempre stato un arrampicatore. Mi arrampicavo sui
rami delle enormi querce che crescevano intorno alla mia casa d’infanzia,
arrivando il più in alto possibile. A volte lo facevo per nascondermi dai
miei genitori, visto che allora mi mettevo sempre nei guai, ma soprattutto
mi piaceva la sensazione di guardare il mondo dall’alto.
Da quella altezza, tutto ciò che mi spaventava era molto lontano. Lassù
ero intoccabile, i miei piedi scalzi e callosi mi tenevano in equilibrio tra il
fitto fogliame. Potevo restare nascosto per ore, a volte addirittura mi
addormentavo. Anche se mio fratello odiava quando lo facevo, perché
temeva che durante un pisolino sarei caduto dal mio trespolo e mi sarei
spezzato l’osso del collo.
Era passato molto tempo dall’ultima volta che mi ero arrampicato su un
albero, ma mi sembrò naturale come sempre quando mi issai sui rami del
grande pioppo fuori dalla finestra di Jessica. Era pieno di foglie che mi
proteggevano dalla sua vista, ma mi davano una visuale perfetta di lei.
Teneva le tende aperte, era seduta alla scrivania per compilare il
questionario che Manson le aveva dato. Il suo letto era proprio accanto
alla finestra, coperto da numerosi cuscini e da un paio di soffici animali di
peluche.
Le piacevano giocattoli del genere? Peluche con gli occhioni, progettati
apposta per essere il più dolorosamente teneri possibile? Non mi era mai
sembrata una ragazza tenera, ma che ne potevo sapere io? Nella sua stanza
c’era molto rosa, tenui colori pastello e delicate statuette di vetro. Aveva
diversi scaffali pieni di trofei e medaglie, provenienti da concorsi di
cheerleader, probabilmente.
Riusciva ancora a fare la spaccata come all’epoca? Avevo sempre evitato
le partite di football e tutto ciò che mi poneva anche solo nei paraggi degli
atleti, ma l’avevo vista molte volte durante gli allenamenti. L’avevo sempre
osservata in segreto, ma avevo dei nascondigli disseminati in giro per tutto
il campus. Di solito salivo di soppiatto sul tetto della palestra, fumavo
qualche sigaretta e la guardavo girare per il campo, gridando indicazioni
alle altre ragazze della sua squadra.
Non eravamo andati d’accordo nemmeno a quel tempo. Mi ero
trasferito al liceo di Wickeston al mio secondo tentativo di superare il
primo anno di scuola superiore, e lei aveva subito storto il naso. Ma ci ero
abituato. La mia scuola precedente non era stata migliore. Almeno a
Wickeston la gente non sapeva nulla di me. Non sapevano di mio fratello:
non avevano letto il nome di Benji Bent su tutti i notiziari locali.
Non sapevo bene perché mi trovassi lì davanti alla sua finestra, ma lo
imputai alla semplice curiosità. Cosa spingeva questa donna a stringere un
accordo del genere con noi? Che cosa la spingeva a prendersi la briga di
farlo, quando aveva una dozzina di scelte alternative?
Per lei era un gioco, un’ennesima sfida a cui non sapeva rifiutare. Ma se
pensava di poter giocare meglio di noi - meglio di me - si sbagliava di
grosso.
Anche se mi colpì la serietà con cui sembrò prendere la compilazione
dei suoi limiti. Teneva il portatile aperto, digitando di tanto in tanto
qualcosa e scorrendo i risultati della ricerca. Rimase concentrata per ore,
finché non finì e inviò il risultato finale alla chat di gruppo.
Aprii l’elenco e lo scorsi rapidamente. Avrei dovuto prendermi il tempo
di studiarlo per bene, ma non qui, non quando Jess aveva appena tirato
fuori il suo vibratore e aveva chiaramente intenzione di usarlo.
Che ragazza impertinente, pensava di poterci nascondere il suo piacere.
Avrei pagato profumatamente per sentire i rumori che fece quando
venne, con una mano premuta contro il vetro della finestra, mentre
obbediva alle mie istruzioni. Il modo in cui le sue labbra non smettevano
di aprirsi, boccheggiando in cerca d’aria, il suo intero corpo che tremava
per l’intensità… ebbi il cazzo duro come una roccia per tutto il tempo.
Avrei voluto sentirla tremare in quel modo. Avrei voluto inchiodarla in
quella graziosa camera da letto rosa, tapparle la bocca cosicché i suoi
genitori non la sentissero gemere il mio nome e sbatterla contro il
materasso.
Quella sera era l’antipasto. Ora morivo dalla voglia di assaggiare la
portata principale.
***
Di solito iniziavo la mia giornata molto prima del resto della casa, ma
avevamo tutti orari leggermente diversi. Vincent faceva i turni di notte il
giovedì, il venerdì e i fine settimana, quindi di solito dormiva durante le
ore diurne. Il sonno di Jason era sempre travagliato, quindi non si sapeva
mai a che ora si sarebbe svegliato, e Manson avrebbe dormito volentieri
fino a mezzogiorno se glielo avessimo permesso. Ma io mi svegliavo alle
prime luci del mattino, il che mi dava abbastanza tempo per starmene
seduto in veranda con una sigaretta e una tazza di caffè nero.
Mi piacevano quelle ore prima dell’alba, quando il cielo orientale si
rischiarava lentamente e la nebbia si stendeva in una soffice coltre bianca
sul terreno. I suoni erano ovattati, l’aria ancora frizzante e leggermente
fresca. Il mondo sembrava addormentato, lasciandomi solo con i miei
pensieri.
Tuttavia, quella mattina non fui l’unico a svegliarsi presto. La porta del
garage era già aperta e intravidi i capelli azzurri di Jason che si aggirava tra
le auto. Probabilmente era stato sveglio tutta la notte.
Gli ultimi giorni erano volati via più rapidamente di un battito di ciglia,
ma era una cosa frequente quando si lavorava dall’alba al tramonto. Dato
che Manson era occupato a trattare con l’assicurazione per far riparare le
auto, io lo avevo sostituito in officina, e anche Vincent aveva approfittato
dei suoi giorni liberi per dare una mano. Eravamo tutti nervosi, ma non
solo perché i problemi quotidiani si erano accumulati.
Avevamo un nuovo giocattolo con cui non vedevamo l’ora di giocare,
ma le responsabilità ci stavano ostacolando. Jessica occupava i miei
pensieri fin troppo spesso, intromettendosi quando avrei dovuto
concentrarmi su compiti più rilevanti. Ma non ero l’unico.
Manson mi aveva scopato così forte la sera prima che quella mattina
camminavo tutto irrigidito. Mi piaceva il sesso più violento possibile,
quindi non mi lamentavo, ma lui era particolarmente feroce quando era
irrequieto - e Jess lo rendeva irrequieto come non mai. Era troppo
imprevedibile, troppo dannatamente confusa, e tutta quella tensione si era
accumulata in Manson fino a farlo praticamente scoppiare.
Era stato un sollievo concludere una lunga giornata lasciando riposare
la mia mente esausta e cedendo a Manson il controllo. Ma Manson non
era passivo, e a me piaceva fare a cambio. Mentre lui mi aveva scopato,
allo stesso tempo io avevo pensato di scoparmi Jess.
Ora era nostra e potevamo giocare con lei, ma visto che crollavamo a
letto dopo la mezzanotte e ci alzavamo presto, non aveva molto senso
andarla a svegliare nel cuore della notte. Non eravamo più al liceo:
avevamo un lavoro e delle responsabilità di cui prenderci carico. In
compenso, Manson la faceva eccitare al mattino e registrava l’atto, per poi
inviare alla chat di gruppo i video di lei che ansimava sull’orlo
dell’orgasmo. Probabilmente per noi non era una tortura come lo era per
lei, ma di certo non rendeva più facile l’autocontrollo.
Guardando un video in cui brandiva un vibratore con una mano
tremante, mentre con l’altra si copriva la bocca piagnucolante per essere
sicura che i suoi genitori non la sentissero, iniziavo ogni giorno con
un’erezione che non voleva saperne di placarsi.
Ci mancava solo l’occasione giusta per inaugurare il nostro nuovo
giocattolo, un’occasione per averla tutta per noi.
Mi alzai dal portico e mi stiracchiai la schiena dolorante prima di
gettare il mozzicone della sigaretta. Portai con me il caffè e attraversai il
cortile per raggiungere Jason in garage.
«Ti sei svegliato presto o non hai dormito affatto?» chiesi, trovando
Jason con l’aspirapolvere in mano e tutte le porte della sua Z spalancate.
Stava aspirando i pezzi di vetro rimasti sui sedili e sul pavimento,
scavando con attenzione in ogni angolo e fessura. Haribo era sdraiato
vicino a lui e mi guardò di traverso non appena entrai. Quel cagnolino
aveva il peggior carattere che avessi mai visto. Tecnicamente apparteneva
a Vincent, ma seguiva sempre Jason, come se avesse bisogno di
protezione.
Non diversamente da Vincent stesso.
«Non ho dormito,» rispose, spegnendo l’aspirapolvere. «Oggi Vince e
io andiamo in carrozzeria, quindi ho pensato di dare una pulita. Nel fine
settimana staremo da Dante, così Vincent non dovrà fare avanti e indietro
per andare al lavoro.»
Dante era un nostro caro amico ed era stato uno dei nostri primi clienti:
avevamo trasformato la sua T-Bird in una bestia che in pista toccava i
centosessanta chilometri orari in meno di dieci secondi. Viveva molto più
vicino al luogo di lavoro di Vincent rispetto a noi, così, invece di fare la
spola con il locale quattro giorni alla settimana, Vince a volte si fermava a
dormire da Dante.
Sorseggiai il mio caffè, guardando Jason sbattere le portiere. Era
positivo che andasse con Vincent: Jason si trasformava in uno stronzo
scorbutico quando non dormiva, ma era capace di restare sveglio per
giorni interi, e la situazione non faceva che peggiorare se veniva
abbandonato a sé stesso. Si fissava su un progetto e, una volta che il suo
cervello si metteva in moto, non si fermava finché non crollava o finché
Vincent non lo costringeva a farlo.
«Pensavo che saresti passato oggi pomeriggio,» dissi. «Sono le sei e un
quarto del mattino.»
Sospirò e si fermò per chinarsi e prendere in braccio Haribo. «Sì, beh,
come ho detto, non sono riuscito a dormire. Ho passato quarantotto ore
sveglio, quindi tanto vale provare a farne settantadue.»
«Vince sa che lo stai facendo? Si incazzerà.»
Jason grugnì di nuovo in risposta. Dovevo convincere Vincent a
piazzargli dei sonniferi nei cereali o qualcosa del genere. Si accasciò su
uno sgabello e si mise a massaggiare la pancia del cagnolino.
«Hai già dato un’occhiata alla lista di Jess?» mi chiese. Era facile intuire
che era lei l’attuale fissazione che lo rendeva così irritabile.
«Sì.» L’avevo studiata a fondo, per più notti di fila. A volte rivedevo le
mie sezioni preferite, solo per confermarmi che il suo interesse nell’essere
‘pedinata’ e ‘rapita’ fosse davvero un cinque su cinque. «E tu?»
Annuì. «Non credo che sappia cosa significhino alcune di quelle voci,
amico. A quella ragazza non può piacere che le si pisci addosso. Non ci
credo.»
«Immagino che dovrai provare e scoprirlo,» risposi, e lui rise e scosse la
testa. «Sappiamo tutti che è una svitata. Sta cercando di salvare le
apparenze e di compiacere i suoi genitori.»
Alzò gli occhi al cielo. «Che perdita di tempo.» Rimase zitto per un po’,
il canto degli uccelli riempiva il silenzio mentre pian piano i raggi del sole
facevano capolino tra gli alberi. «A proposito… oggi i suoi genitori vanno
fuori città.»
Questo attirò la mia attenzione. «Ah, sì? E come l’hai scoperto?»
«Su Facebook,» spiegò. «Vanno a Cabo per il loro anniversario, e
staranno via per una settimana. La sorellina di lei va a dormire da
un’amica.»
«Hai già rimediato le password della sua famiglia?»
«No, niente di losco in ballo,» rispose lui. «Sua madre pubblica
informazioni personali come se stesse scrivendo le sue memorie in tempo
reale. Non ho nemmeno dovuto sforzarmi.»
«Chi sta facendo qualcosa di losco?»
Manson entrò nel garage, stiracchiandosi le braccia.
«Bene, bene, guarda chi si è trascinato fuori dal letto alle prime luci
dell’alba,» affermai. Gli lasciai prendere la mia tazza di caffè, e lui la
trangugiò come se ne andasse della sua vita. «Sembri uno zombie. Inoltre,
oggi i genitori di Jessica vanno fuori città. Sarà tutta sola in quella casa, in
attesa di compagnia.»
Questo lo svegliò di colpo. «Accidenti, sembra che stasera ci sia uno
spazio libero nella mia agenda. Dovremmo farle una visita a sorpresa. Non
vorrei che si sentisse sola.»
«C’è un piccolo problema, però,» feci notare. «La sua casa ha un
sistema di sicurezza.»
Jason stava scuotendo la testa. «Immagino che non ci sarebbe alcun
divertimento a bussare semplicemente alla porta.»
«Bussare semplicemente?» gli fece eco Manson. «E che sorpresa
sarebbe, allora. Dov’è finita la tua immaginazione?»
«Non dargli retta,» feci io. «È nervoso perché non dorme da tre
giorni.»
«Gesù, amico, ancora non dormi?» La fronte di Manson si aggrottò per
la preoccupazione. «Finirai per impazzire.»
«Okay, okay, ho capito, ho bisogno di dormire.» Mise giù Haribo e
sventolò la mano come per liquidare la questione. «Ma se volete
organizzare un’irruzione a casa di Jessica, avrete bisogno di aiuto.»
Allargò le braccia con un piccolo sorriso. «E io sono proprio il genio che
fa per voi.»
Manson brontolò: «Genio, eh?»
«Tieni a freno gli insulti finché non avrò risolto il vostro problema del
sistema di sicurezza,» dichiarò. «Dopotutto, lo faccio solo per bontà
d’animo. Non posso nemmeno partecipare al vostro gioco, dato che devo
andare a sistemare questo casino.» Fece un cenno con il pollice verso la Z.

È
Manson alzò innocentemente le mani. «Oh, certo, certo. È chiaro che
sei tu il genio che fa per noi.»
«Il più intelligente della casa,» aggiunsi. «Cosa faremmo senza di te?»
«Così va meglio. A che ora volevate entrare a casa di Jess?»
Guardai Manson. «Al tramonto?»
Annuì. «Al tramonto.»
«Che roba da maniaci,» osservò Jason. «Farò una piccola magia prima
che io e Vincent dobbiamo partire. Sono sicuro che Jess adorerà che vi
stiate tutti sperticando per il vostro primo appuntamento.»
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23
Jessica
Non ricordavo l’ultima volta che avevo avuto una casa tutta per me.
Quando avevo alloggiato nei dormitori dell’università, avevo avuto altre
tre coinquiline, quindi c’era sempre qualcun altro. Ma quella mattina i
miei genitori erano partiti presto per prendere il loro volo per Cabo, dopo
aver lasciato Stephanie la sera prima a casa di un’amica. Ero
completamente libera di fare tutto quello che mi pareva in casa.
Qualche anno prima avrei approfittato dell’occasione per organizzare la
festa più clamorosa e scandalosa possibile. Nel corso degli anni ero
riuscita a organizzare una manciata di feste veramente scatenate a casa dei
miei genitori, i quali non ne erano ancora al corrente.
Ma ora tutto quello che volevo era una giornata di relax, soprattutto
dopo una mattinata difficile al lavoro. Il mio capo mi aveva assegnato uno
dei suoi clienti più esigenti e facoltosi, lasciando a me l’onere di
rispondere alle sue lunghe e sconclusionate e-mail quotidiane.
Quell’uomo aveva così tante domande che spesso mi sembrava di
ripetermi, ma ero entusiasta che il mio capo volesse coinvolgermi
personalmente con uno dei suoi clienti più importanti.
Appena finito di lavorare, mi tolsi di dosso i miei abiti presentabili e
misi una maglietta extralarge - sotto cui non c’era bisogno di mettere i
pantaloni. Sgranocchiai qualcosa sul divano e misi la musica a tutto
volume. Negli ultimi giorni avevo saltato la palestra, e mi ero ripromessa
che quello sarebbe stato il mio ultimo giorno di pigrizia, quindi dovevo
approfittarne. Dopodiché, dovevo tornare alla mia routine.
Anche se la mia routine sarebbe stata diversa ora che avevo quattro
uomini a darmi ordini.
Tutte le mattine di quella settimana mi ero svegliata con un messaggio
di Manson che mi aveva intimato di stimolarmi fino all’orlo dell’orgasmo.
Era una tortura stare sdraiata lì di prima mattina con il vibratore tra le
gambe, con il solo permesso di portarmi al limite dell’orgasmo prima di
dovermi fermare.
Avevo cercato di evitare di consultare gli elenchi di kink che mi avevano
inviato, solo perché sapevo che mi avrebbero fatta eccitare e che non avrei
potuto farci nulla. Ma quella sera non riuscii a resistere. Mi accomodai sul
divano e sfogliai lentamente i loro elenchi, con il labbro inferiore stretto
tra i denti.
Non fui affatto sorpresa di vedere che il controllo dell’orgasmo era un
cinque su cinque per Manson. Ero già dolorosamente consapevole di
quanto gli piacesse. Tutti loro si dichiaravano interessati al ‘consensual
non-consent,’ con Lucas e Jason che non solo gli davano il massimo dei
voti all’attivo, ma anche al passivo.
Avevo sempre avuto la sensazione che scopassero fra di loro, che
avessero un cameratismo che andava oltre l’amicizia. Vincent e Jason si
frequentavano non tanto segretamente da anni, e sapevo che Manson era
bisessuale. Lucas era sempre stato un mistero, ma lo era molto meno ora
che avevo visto lui e Manson insieme nel garage.
Non erano monogami, questo era chiaro.
Quello era un territorio inesplorato per me. Ero abituata a vivere
relazioni in cui la monogamia era una regola inviolabile. Anche solo
guardare un’altra persona troppo a lungo mi aveva portato a litigare con i
partner precedenti. Mi sentivo di dover essere gelosa e possessiva, ma
francamente non aveva senso in quella circostanza.
Mi ero infuriata all’idea che Veronica potesse andare con loro, ma il
solo pensiero che potessero passare del tempo con una stronza
manipolatrice, subdola e malvagia come lei mi sconvolgeva. Avevo troppi
trascorsi con Veronica per non incazzarmi.
Mi sentivo ancora un po’ sciocca a preoccuparmene; come se la
prendessi troppo sul serio. Ma oramai ero nel vivo della situazione. Avevo
accettato di fare sesso con loro, di sottomettermi a loro, di essere il loro
giocattolo, di cui avrebbero potuto fare quello che volevano. Credo che
fosse un impegno abbastanza grande da permettermi di preoccuparmi di
chi altro andasse a letto con loro.
Inoltre, erano troppo buoni per Veronica. Si meritavano di meglio.
Continuai a leggere, sorseggiando il tè freddo mentre me ne stavo
sdraiata sul divano. Vincent aveva dato i massimi voti in quasi tutti gli
aspetti del bondage, il che non mi sorprendeva. Qualsiasi tipo di
costrizione era un cinque su cinque per lui, così come la maggior parte dei
tipi di percosse: frustate, sculacciate, schiaffi. Jason aveva tutti quei kink
strani di cui avevo dovuto cercare le definizioni su Google, ma almeno
avevo ampliato il mio vocabolario. Non avevo la benché minima idea di
cosa fosse «omorashi» fino a che non avevo compilato la mia lista.
Ora che lo sapevo, ero ancora più inorridita da me stessa. Perché
diavolo dovevano piacermi quelle cose strane?
Mi stavo agitando troppo. Continuare a sfogliare quegli elenchi ancora
per un po’ si sarebbe rivelata una vera e propria tortura sessuale,
soprattutto se non avevo alcuna speranza di sfogarmi. Manson sembrava
determinato a punirmi più a lungo possibile continuando a privarmi
dell’orgasmo sul più bello.
Perciò, presi il mio blocco da disegno e le mie matite e mi misi a
disegnare. Magari non ero ancora stata assunta come designer, ma dovevo
comunque esercitarmi e assicurarmi di sviluppare le mie capacità. Mi
aiutava a canalizzare le mie energie, a concentrarmi su ogni tratto accurato
di grafite sulla carta. Non mi ero mai considerata un’artista, ma progettare
una struttura richiedeva più di una semplice visione artistica. Le
dimensioni dovevano essere adeguate, la forma e la disposizione dovevano
attirare l’occhio e i sensi.
Sulle prime non ero del tutto sicura di dove stessi andando a parare, ma
in breve tempo la casa di Manson cominciò a prendere forma sul mio
foglio. La disegnai con un nuovo portico anteriore, concentrandomi sui
piccoli dettagli del legno e sul telaio intorno alle finestre.
Non era fedele alla realtà, ma era proprio questo il punto. Una parte
importante del mio lavoro consisteva nel riuscire a immaginare ciò che
avrebbe potuto essere, il potenziale di un edificio o di un terreno. Quella
possibilità doveva essere captata, messa su carta e perfezionata prima di
essere concretizzata.
Prima di rendermene conto, il tempo mi era sfuggito di mano. Quando
sollevai la testa dal mio album da disegno, stiracchiandomi il collo
indolenzito, fuori era già buio. Misi da parte il disegno e presi il telefono,
dove trovai un altro messaggio di Danielle.
Ehi, ragazza! Ti va di andare da Billy? È la serata del karaoke!
Sospirai, gettando il telefono sul divano. No, non mi andava per niente
di passare la notte in una bettola con Danielle, Nate e chiunque altro si
fossero portati dietro. Sapevo esattamente a che gioco stava giocando
anche Danielle. Pensava che mi avessero dato una lezione, che avessero
inferto un colpo alla mia autostima in modo da farmi tenere la testa bassa
e rientrare nei ranghi.
Avevamo fatto la stessa cosa con le nuove ragazze della squadra. Se in
squadra si presentava qualcuna un po’ troppo presuntuosa, trovavamo il
modo di abbatterla e poi ce la tenevamo stretta, facendola rientrare nelle
nostre grazie.
Era un atteggiamento del cazzo. C’era un motivo per cui la squadra di
cheerleader della Wickeston era considerata così perfida - e io avevo
contribuito a far sì che rimanesse tale.
E poi, perché andare in una bettola quando finalmente avevo la
possibilità di guardare tutti i documentari che volevo senza mia madre o
mia sorella a lagnarsi perché erano noiosi? Misi un sacchetto di popcorn
nel microonde e mi sedetti sull’isola della cucina in attesa che si
cuocessero, scorrendo soprappensiero il mio telefono.
Clic.
Mi bloccai. Sembrava a tutti gli effetti il chiavistello del ripostiglio sotto
le scale. Non poteva essere, ovviamente. Ma allora… che cosa era stato quel
suono?
Scivolai giù dall’isola e sbirciai nel corridoio. La porta del ripostiglio era
chiusa. L’unico suono era quello dell’orologio decorativo di legno sulla
mensola accanto alle scale, che ticchettava lentamente verso l’ora
successiva. La casa era così silenziosa che avrei potuto sentire uno spillo
cadere.
Il primo chicco di popcorn scoppiettò, e quello scricchiolio mi fece
sobbalzare al punto che scoppiai a ridere. Era passato così tanto tempo
dall’ultima volta che ero stata a casa da sola che mi stavo davvero
spaventando. Tornai in cucina e, dopo aver sfogliato la collezione di vini
di mia madre, mi versai un bicchiere di Moscato. Mi avrebbe aiutata a
rilassarmi.
Tornai in salotto con i popcorn e il vino, ma ora sentivo troppo freddo
per continuare a girare senza pantaloni. Stavo andando verso le scale per
prendere i pantaloni della tuta quando, entrando di nuovo nell’ingresso,
mi resi conto che qualcosa era cambiato.
Lo schermo e il tastierino del circuito di sicurezza lampeggiavano come
se fossero stati resettati. Digitai il codice per attivare l’allarme, ma il
tastierino emise un bip e sullo schermo lampeggiò ERRORE.
Feci un sospiro pesante, ma non valeva la pena di continuare a
trafficarci. Il nostro quartiere non era affatto pericoloso. Fintanto che il
catenaccio era serrato, allora…
La porta d’ingresso era socchiusa.
Rimasi immobile a fissarla, con il più lieve alito di vento che entrava
dalla fessura. Non ricordavo di essere uscita di casa nemmeno una volta
quel giorno. I miei genitori si erano dimenticati di chiudere a chiave al
mattino? Sarei stata pronta a giurare che fosse chiusa solo pochi minuti
prima.
Chiusi la porta, girai la serratura e misi a posto il catenaccio. Mi venne
la pelle d’oca sulle braccia e aspettai, con le orecchie dritte. Sapevo che
prima la porta era stata chiusa. Quel giorno avevo attraversato il corridoio
più volte e non avevo mai notato un’anomalia nel sistema di sicurezza.
Un tonfo mi fece voltare verso le scale con il cuore in gola. Un passo?
Mi avviai verso le scale, ma mi fermai di schianto. Quello non era un film
dell’orrore, e non avevo di certo voglia di diventare la prima a morire
correndo a indagare su un rumore misterioso. Tornai di corsa in soggiorno
e presi il cellulare.
Un messaggio di Lucas mi stava aspettando. La tua porta è chiusa a
chiave, giocattolino?
Una fredda consapevolezza si fece strada dentro di me e imprecai,
allentando la tensione spaventosa che avevo nel petto. Avrei dovuto
immaginare che c’entravano qualcosa loro.
Risposi al messaggio. Sì, la mia porta è chiusa a chiave. Perché non
dovrebbe?
Trovavano divertente fare irruzione e spaventarmi? Oh, gli avrei
mostrato io qualcosa di divertente.
Presi una delle riviste di mia madre dal tavolino e la arrotolai. Con il
telefono in mano, strisciai in corridoio, con tutti i sensi in allerta. Chi di
loro era? O erano tutti quanti? Avevo lo stomaco in subbuglio per
l’eccitazione, come se stessi giocando a un nascondino perverso.
Poi comparve un messaggio di Vincent. Se un kit di grimaldelli da
quattro soldi preso al negozio di giocattoli riesce a forzare il tuo
catenaccio, non mi fiderei che sia ancora chiusa, Jess.
Subito dopo arrivò il messaggio di Jason. Di’ ai tuoi genitori di
sostituire l’impianto di sicurezza. L’azienda non ha nemmeno aggiornato
una falla nella sicurezza risalente a tre anni fa. Non sono in grado di
tenervi al sicuro.
Dal secondo piano giunse un altro suono sommesso quando mi avviai
su per le scale. Misi via il telefono e agguantai meglio la rivista arrotolata.
«So che siete quassù!» urlai, ma la mia voce squillante faceva uno
strano effetto nella casa vuota. C’era così tanto silenzio.
La mia trepidazione aumentò soltanto quando raggiunsi il pianerottolo
e il mio sguardo guizzò verso le porte davanti a me. Tutte le altre stanze
erano chiuse, ma il bagno e la mia camera erano aperti.
«Avanti, ragazzi.» Mio malgrado, mi tremava la voce. «Smettetela di
nascondervi! Fate quello per cui siete venuti qui e…» Mi ammutolii
mentre scrutavo la mia stanza. Sullo specchio della mia toletta era stato
scritto qualcosa con il rossetto rosso, ma non riuscii a leggere le parole
fino a quando non mi avvicinai.
È ora di pagare.
Feci una risatina nervosa. «Okay, davvero inquietante! Sarà meglio che
non sia il mio dannato rossetto Mac.» Controllai sotto la scrivania, poi mi
accovacciai e setacciai sotto il letto.
L’unico posto rimasto era l’armadio. Fissai l’anta chiusa, con il cuore
che mi rimbombava nelle orecchie. Era un gioco, un semplice gioco di
ruolo. Ma esitai lo stesso quando mi avvicinai all’anta e cercai di sbirciare
nell’oscurità tra le stecche orizzontali.
Pian piano, mi abbassai a terra. Premetti la guancia contro il tappeto,
scrutando attraverso la piccola fessura sotto il portone. Era buio pesto.
Tirai fuori il cellulare, accesi la torcia e la puntai sotto.
Dall’altra parte c’erano due paia di stivali.
Mi rialzai adagio, muovendomi come se avessi un orso grizzly di fronte
a me. L’anta si aprì e sbatté leggermente contro il muro. Manson e Lucas
erano uno accanto all’altro, il minuscolo armadio li faceva apparire più
grandi del normale. Manson indossava dei jeans scuri attillati e una
maglietta nera, e mi guardava a braccia conserte. Il petto tatuato di Lucas
era scoperto sotto il giubbotto di jeans, i suoi muscoli asciutti si
contrassero quando fece un passo avanti.
Manson gli afferrò il braccio, scavandogli con le dita nel bicipite. I miei
occhi si spostarono tra i due mentre sul volto di Manson si allargava un
ghigno.
«Hai tre secondi prima che lasci libero Lucas,» annunciò. «Quanta
distanza riesci a coprire in tre secondi?»
Gli occhi di Lucas si strinsero in due fessure e si fissarono su di me.
Aveva il fiato corto, la postura impaziente.
«Uno.» Manson iniziò il conto alla rovescia.
Quanto lontano potevo andare in tre secondi? Non abbastanza.
«Due.»
Nonostante la mia sfrontatezza con la rivista, il mio istinto di lotta o di
fuga entrò in azione. Il mio cervello mi suggerì di scappare, e quindi
scappai, scattando verso la porta di casa. Avevo il cuore a mille e i pensieri
concentrati su un solo obiettivo: la fuga. Ma sentii comunque le parole di
Manson.
«Tre. Prendila.»
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24
Jessica
Mi precipitai nel corridoio, mentre i loro passi rimbombavano dietro di
me. Una mano mi sfiorò la schiena mentre correvo giù per le scale, ma io
ero troppo veloce. Abbrancai la ringhiera in fondo e la usai per oscillare
verso il soggiorno, ma i miei piedi scivolarono sul pavimento di legno e
quel solo secondo di esitazione diede a Lucas l’opportunità di cui aveva
bisogno.
Mi afferrò da dietro, con un braccio intorno alla vita e l’altro che mi
stringeva la gola mentre cacciai un urlo.
«Mm, sei una piccola combattente, non è vero?» La sua voce era un
sussurro roco, grondante di desiderio. Le sue labbra mi sfiorarono
l’orecchio, il suo petto duro premette contro la mia schiena. «Sapevo che
lo saresti stata.»
Lanciai il gomito all’indietro, colpendo il suo fianco abbastanza forte da
allentare la sua presa. Ma il mio tentativo di fuga non mi portò lontano.
Manson era proprio lì per afferrarmi il braccio, e io mi contorsi,
strattonando con tale vigore che scivolai e ci feci cadere entrambi a terra.
Manson atterrò sopra di me. Si mise a cavalcioni sopra di me e mi mise
una mano intorno alla mascella, bloccandomi la testa mentre si chinava su
di me e rideva. Il suono mi fece correre un brivido lungo la schiena, e nel
frattempo Lucas entrò nel mio campo visivo, posizionandosi dietro la
spalla di Manson.
«Non è stato molto carino,» mi rimproverò Manson. «Piccola
esuberante.»
«Questa volta non scappi,» aggiunse Lucas. Nella sua voce c’era
un’energia che non avevo mai sentito prima: più acuta e accelerata del suo
solito tono, carica di avidità.
Con le sue dita che mi scavavano nel viso, graffiai le braccia di Manson,
lasciando dei rivoli di sangue sulla sua pelle mentre si prendeva gioco di
me.
«Dovresti stare più attenta a chiudere le tende, Jess,» mi ammonì
Manson. «Andare in giro con il culo di fuori, con le finestre aperte…»
Lucas si accovacciò accanto a lui e si chinò su di me, avvicinando il suo
viso al mio. «È un po’ come se te la fossi cercata. Qualsiasi maniaco di
strada avrebbe potuto entrare qui dentro.»
«Povero giocattolino,» mormorò Lucas.
Feci scattare i fianchi all’insù, facendo perdere per un attimo
l’equilibrio a Manson, e per poco non schiantai il braccio sulla faccia di
Lucas. Mi girai a pancia in giù e cominciai a strisciare, ma uno di loro mi
afferrò le caviglie e mi trascinò indietro, e io cacciai un urlo.
«Dove stai andando, tesoro?» Lucas mi teneva ormai in pugno, e il suo
corpo premeva pesantemente contro la mia schiena. «Accidenti, sembri
così arrabbiata. Lo sai quanto cazzo mi fa eccitare? Mi chiedo per quanto
tempo ancora riuscirai a guardarmi così mentre ti sfonderò quella piccola
fica stretta.»
«Io… ti odio,» ringhiai. Ogni parola era breve e tagliente, scagliata
contro di lui come dei meri sassolini contro un orso. Manson fece il giro
attorno a me mentre ero inchiodata a terra, poi sollevò il piede e mi
schiacciò il cranio con lo stivale. Lucas si stava strusciando contro il mio
sedere, il suo peso mi toglieva il respiro.
«Cazzo, sì, continua a contorcerti,» mi mormorò con voce dura. «È
proprio una piccola provocatrice, vero Manson?»
«Lo è sempre stata,» concordò lui, aumentando la pressione sulla mia
testa. «Lo sarà sempre.»
Il cazzo duro di Lucas premeva contro di me attraverso i jeans. Il fuoco
liquido mi scorreva nelle vene, infiammando ogni nervo, ero pervasa dalla
paura e dall’eccitazione. Scalciavo e mi dimenavo come se la mia vita
dipendesse da questo, come se sperassi davvero in una via di fuga.
Ma non c’era scampo. Mi ero cacciata in quella situazione con le mie
stesse mani.
Le brave ragazze non venivano sbattute sul pavimento della cucina
mentre intanto gridavano tutto il loro odio per gli uomini che le stavano
scopando, e invece eccomi lì.
«Bastardi malati!» Dio, era bello urlare, ma ero già a corto di fiato.
Erano più forti di me, mi controllavano come se non fossi nulla. Lucas
strattonò la mia maglietta ampia, le dita ruvide mi sfiorarono la nuca
prima che il tessuto si lacerasse. Mi strappò la maglietta a mani nude, poi
tracciò la mia spina dorsale con le dita prima di slacciarmi il reggiseno.
«Fermati!» Davo calci, mi aggrappavo con le mani al pavimento.
«Levati di dosso, cazzo!»
Ma sapevo che non l’avrebbe fatto. Né volevo che lo facesse.
Gettò via i miei vestiti, lasciandomi solo le mutandine, poi mi strizzò
con decisione il sedere, affondando con le unghie nella pelle.
«Tagliale,» propose Manson. Si udì un suono familiare, un clic
metallico. Feci un respiro brusco e mi irrigidii quando qualcosa di freddo
e duro si posò sulla mia gamba. Lucas infilò il coltello sotto il lato dei miei
slip e tirò, tagliando senza sforzo la mia biancheria intima. Fece la stessa
cosa dall’altro lato e mi tolse il tessuto lacero, lasciandomi completamente
nuda.
Per un momento che sembrava sospeso in un’altra realtà, Lucas mi
bisbigliò all’orecchio: «Ci stai, Jess? Pensi ancora di essere pronta a
giocare?»
Lasciai rilassare i miei muscoli per quei brevi secondi e confermai: «Ci
sto. Non fermarti, cazzo.»
Poi quel momento si ruppe, e Lucas fece una risatina bassa e cupa nel
mio orecchio. Manson tolse il piede dalla mia testa, ma abbinò quel gesto
a un comando. «Falla alzare.»
Lucas mi sollevò in piedi e le sue dita mi strinsero i capelli. Manson tirò
fuori una sedia da sotto il tavolo, facendola strisciare malamente sul
pavimento, e Lucas mi ci spinse sopra.
Nel momento in cui il mio sedere toccò la sedia, Manson mi afferrò per
la gola. Gli ghermii il polso e io conficcai le unghie nei graffi che gli avevo
procurato. Ma la mia presa si allentò quando Lucas gli restituì il coltello e
Manson avvicinò l’arma al mio viso.
«Posso graffiare anch’io, angelo,» mi avvisò. «Ma i miei graffi faranno
molto più male dei tuoi.»
Fece scorrere la punta della lama sulla mia guancia e io non osai
muovermi. Rimasi completamente rigida, ad ansimare contro la sua mano.
Lucas si spogliò del giubbotto, le numerose spille che vi erano fissate
tintinnarono quando lo gettò sul tavolo. Si sfilò la cintura dai jeans, che gli
calarono sui fianchi, mettendo in mostra la V di muscoli che scendeva dai
suoi addominali. Si avvicinò, arrotolò la cintura e poi la fece schioccare.
«Abbassa le braccia,» disse Manson con la voce bassa in segno di
avvertimento. «O ti faccio sanguinare.»
Abbassai le braccia lungo i fianchi. Il cuore mi pulsava contro le costole
e sentivo lo stomaco vuoto mentre Lucas mi avvolgeva la cintura intorno
alla vita e alle braccia, prima di fissarla dietro la sedia, bloccandomi i
gomiti ai fianchi. Solo allora Manson mi liberò la gola e fece un passo
indietro, guardandomi meditabondo.
Il coltello a serramanico si apriva e si chiudeva tra le sue dita, l’arma
ruotava come un giocattolo. Lucas era dietro di me, in agguato, appena
fuori dalla mia vista. Sentivo i suoi stivali camminare lentamente sul
pavimento di legno.
«Non pensare di dover smettere di lottare,» precisò, tirandomi
improvvisamente la testa all’indietro per i capelli, in modo da costringermi
a guardare in alto verso di lui. Mi diede qualche piccolo schiaffo acuto e
pungente sulla guancia prima di rilasciarmi. «Mi piace che i miei giocattoli

È
siano interattivi. È molto più divertente quando urlano.»
«Fai delle urla bellissime,» aggiunse Manson, con una voce
spaventosamente dolce. Si avvicinò, e mi scappò un mugolio allarmato
quando passò la lama sul mio seno e ne batté la punta su uno dei miei
capezzoli con il piercing.
«Sono sensibili, vero?» Allontanò il coltello e pizzicò il capezzolo duro
tra il pollice e l’indice, costringendomi a emettere un rantolo scioccato
dalla bocca. «Fa male?»
«No.» Strinsi i denti, inspirando bruscamente. «Non sono sensibili…
non… non mi interessa…»
Il distributore di ghiaccio del frigorifero entrò in funzione dietro di me,
seguito dal tintinnio familiare dei cubetti che cadevano nel bicchiere.
Sobbalzai quando le dita di Lucas mi sfiorarono la nuca, così gelide da
scioccarmi, mentre mi spostava i capelli di lato.
«Questo non è un corteggiamento in stile signor Darcy, tesoro.» Lucas
si sporse da sopra la mia spalla, con un cubetto di ghiaccio tra le dita,
mentre Manson indietreggiava di un passo. Lo passò sulla mia pelle,
facendo gocciolare l’acqua fredda sulle mie cosce. «Questa è una
vendetta.»
Fece roteare il ghiaccio intorno al mio capezzolo e nello stesso
momento le sue labbra si posarono sul mio collo. Sobbalzai, il freddo
intenso mi sconvolse quasi quanto la delicatezza della sua bocca. Labbra e
lingua esploravano il mio collo, calde ma anche dolorose quando mi
mordeva.
Poi la tenerezza iniziale svanì. Mi azzannò con veemenza, attirò la mia
carne nella sua bocca e vi scavò dentro con i denti. Cacciai un urlo di
sgomento, ma Manson fu rapido e mi premette la mano sulla bocca per
soffocare il grido. Lucas succhiò la pelle livida mentre faceva roteare il
ghiaccio sui miei capezzoli, prima su uno e poi sull’altro.
«Hai ancora intenzione di mentirci?» sibilò Lucas. «O sei pronta ad
ammettere quanto sono sensibili?»
Manson mi tolse la mano dalla bocca, ma mantenne la presa sul mio
viso. Soffocai i suoni disperati e bisognosi che cercavano di sfuggirmi dalle
labbra quando lui mi incalzò: «Allora? Cosa hai da dire adesso?»
«No!» sbottai, anche se la parola quasi si spezzò quando Lucas usò una
mano per arrotolare il mio capezzolo tra le dita, tirando appena la barra di
metallo che lo attraversava.
«No,» ripeté Lucas lentamente. Fece schioccare la lingua in segno di
disapprovazione. «Tu che ne pensi, Manson? Lei dice di no.»
«Le brave ragazze non dicono di no,» replicò Manson, sorridendo
come se gli facessi pena.
«Vaffanculo.» Riuscii a far uscire la parola senza mugugnare, ma il mio
autocontrollo fu di breve durata.
La mano di Lucas scese verso il basso e l’acqua fredda mi colò sul
ventre man mano che il ghiaccio si scioglieva. Trattenni il mio urlo a denti
stretti quando mi premette il cubetto sul clitoride. Era così gelido da
sbatacchiare i miei nervi con la stessa grazia di un’auto che va a sbattere
contro un muro di mattoni. Vi fece ruotare il cubetto intorno, poi sopra le
mie labbra e poi giù…
Lo premette dentro di me. Fu una sensazione diversa da qualsiasi altra
cosa avessi mai provato, così inaspettata che per un attimo la mia mente si
svuotò del tutto. Tirai contro la cintura, le mie cosce schiacciarono la sua
mano e mi uscì un gemito acuto e disperato.
Lucas ritrasse le dita e con esse il ghiaccio. Rimasi a tremare, a
boccheggiare, con il capo chino. Faceva male, ma Dio, era meraviglioso.
La mia fica bramava qualcosa di caldo, e i miei occhi caddero sul
rigonfiamento dei jeans di Manson.
«Cosa c’è che non va, ragazza?» chiese Lucas, facendo tintinnare il
ghiaccio nel prendere un altro cubetto.
«Ti prego, non di nuovo, cazzo, ti prego!»
Lucas mi passò un braccio intorno al collo e i suoi muscoli si flessero, il
bicipite e l’avambraccio mi strinsero la gola.
«Agitata?» domandò Manson. Appoggiò i palmi delle mani sulle mie
ginocchia e fu incredibilmente facile per lui forzare le mie gambe e
spalancarle. «Una piccola puttana sensibile come te fa bene a essere
agitata.»
«Ti prego, ti prego, ti prego, oh, mio Dio!» Le parole mi esplosero
mentre mi sforzavo contro la loro presa.
Il ghiaccio mi colava sul petto mentre Lucas mi teneva un altro cubetto
davanti al viso. «No? Non lo vuoi?» Scossi la testa, implorando ancora,
continuando a far scorrere le stesse parole. «Oh, ma io credo che tu lo
voglia»
Mi dimenai e strillai: «Lucas, ti prego! No, no, no…»
«Beh, perché ti agiti adesso?» mormorò, facendo scivolare il ghiaccio
sulle mie cosce e lasciando la pelle d’oca sulla sua scia. Manson seguì la
traccia del ghiaccio con la lingua, la sensazione del ghiaccio freddo e della
bocca calda mandò in tilt le mie terminazioni nervose. «Hai detto che non
sei sensibile. Ma a giudicare da quell’urlo, so che non è vero.»
Urlare? Ma io non avevo…
Lucas premette il ghiaccio sul mio clitoride e ottenne esattamente il
suono che voleva da me. Dio, i vicini mi avevano sentita? Pensavano che
mi stessero uccidendo?
«Ho mentito, okay? Ho mentito!» balbettai con voce tremante, mentre
lui faceva girare senza pietà il ghiaccio su di me. Manson appoggiò la sua
guancia contro la mia coscia, ridacchiando dolcemente ogni volta che mi
usciva un mugolio sofferto. «Sono sensibile, sì, avevi ragione, avevi
proprio ragione, mi dispiace di aver mentito, mi dispiace!»
Lucas appoggiò il mento sulla mia spalla. «Adesso ti dispiace? Pensi
che dovrei togliere questo cubetto e riempirti con qualcosa di meglio?»
«Oh, Dio, sì.» Suonavo patetica, ma non mi importava. Li avrei
implorati in ginocchio se me ne avessero dato facoltà.
«All’improvviso così impaziente,» commentò Manson, scrutandomi con
i suoi occhi scuri. «Un cazzo grosso ti sembra meglio del ghiaccio?»
Annuii, continuando a mormorare le mie suppliche.
«Peccato che mi piaccia il modo in cui ti contrai quando questo è
dentro di te,» disse Lucas. «Il modo in cui squittisci.» Spinse di nuovo il
ghiaccio all’interno, pompandolo appena dentro e fuori di me. «Musica
per le nostre orecchie, non è vero?»
Manson tenne le mie gambe tremanti divaricate, facendosi beffe dei
miei rantoli disperati, prima di dire: «Il suono più dolce del mondo.»
«Ecco la tua scelta, Jess,» spiegò Lucas, con un tono dannatamente
colloquiale, mentre io ero un relitto ansimante. «Un buco prende i nostri
cazzi, l’altro prende il ghiaccio. Cosa scegli?»
Oddio, no. Come avrei potuto gestire quella situazione? Sarei stata un
disastro di urla e tremori. Sarei stata… sarei stata esattamente come
volevano loro. A disfarmi nelle loro mani, mentre loro intanto mi
avrebbero usato come un giocattolo.
«Tutti e due? Allo stesso tempo?» Guardai Manson mentre parlavo,
con gli occhi spalancati, immaginando le dimensioni dei loro cazzi uno
accanto all’altro. Non sarei sopravvissuta - questo era poco ma sicuro. La
morte per distruzione della fica era imminente.
«Non credo che tu sia pronta per questo,» ringhiò Lucas con
frustrazione, come se la mia inabilità fosse un insulto personale. «Prima
dobbiamo rodarti.»
Manson annuì in accordo. «Per quanto sarebbe divertente sfondare
quella fica e farti sanguinare, non ti faremo questo. Per ora.»
L’aspettativa in quelle parole mi fece battere il cuore dolorosamente.
Per ora? Per ora?
Lucas mi afferrò i capelli e li tirò. «Allora? Scegli a quale buco tocca.»
Gli sussurrai la mia risposta, il più silenziosamente possibile.
«Che cos’hai detto? Parla più forte, ragazza.»
«Il mio culo,» dissi, ancora con un filo di voce. «Voglio che mi scopiate
la fica e che mi mettiate il ghiaccio nel culo.»
Se fosse stato possibile morire per l’imbarazzo, sarei morta solo per aver
pronunciato quella frase ad alta voce.
Lucas allentò la cintura e Manson mi tirò in piedi e tolse di mezzo la
sedia. Con una mano intorno alla mia gola, mi fece indietreggiare finché il
mio sedere non toccò il tavolo della cucina, mentre il suo corpo si chinava
sul mio.
«Sei pronta a fare la brava ragazza per noi?» chiese, e Lucas gli avvolse
le braccia intorno al petto. Appoggiò il mento sulla spalla di Manson,
baciandogli teneramente il collo. Tirò lo scollo della maglietta di Manson,
scostandolo per poterlo mordere. Manson non trasalì per il dolore, anzi
sorrise.
Annuii in fretta, rabbrividendo al contatto della mia pelle nuda con la
superficie fredda del tavolo di legno. «Farò la brava. Prometto che farò la
brava.»
Sogghignò, fissandomi mentre le unghie di Lucas strisciavano sul suo
petto. «Dovrei lasciare che Lucas ti scopi?»
L’altro uomo si irrigidì al suono del suo nome ed emise un ringhio
sommesso, mentre apriva il bottone dei jeans di Manson. Era come se non
riuscisse a smettere di toccarlo, come se bramasse così tanto il contatto da
essere sul punto di strappare i vestiti a Manson.
Guardarli mi faceva contrarre le viscere dal bisogno. «Ti prego,»
mormorai. «Sì, ti prego, lascia che mi scopi.»
Lucas infilò la mano nei jeans di Manson per accarezzarlo. Manson
chiuse gli occhi per qualche secondo, il suo respiro si fece più profondo
mentre si godeva il tocco di Lucas. Tutto il mio desiderio, che si era
tormentosamente accumulato fin dal mattino, raggiunse l’apice. Li volevo,
entrambi, in qualsiasi modo volessero prendermi. Osai allungare la mano
sul rigonfiamento dei jeans di Manson, in modo che la mia mano si
muovesse all’unisono con quella di Lucas.
Manson mormorò con tono basso e oscuro: «Lucas, vuoi scopartela?»
Gli occhi dell’altro uomo erano neri come la notte quando li posò su di
me. «Sì. Voglio farla urlare.»
«Chiedilo con gentilezza.»
Lucas sfoderò i denti per un attimo e seppellì la bocca nel collo di
Manson come per trattenere le parole dentro di sé.
«Ti prego, fammela scopare.» Lo proferì come se fosse una
maledizione. Sembrava disperato, come se gli facesse fisicamente male
supplicarlo, come se il desiderio fosse insopportabile.
Il bisogno nella sua voce era una delle cose più sexy che avessi mai
sentito.
Le dita di Manson mi scavarono nella gola mentre mi diede un bacio.
Fu un bacio profondo, possessivo, che consumò il respiro dei miei
polmoni. Ero così tesa che tremavo, il caldo e il freddo si scontravano
dentro di me, creando una tempesta a cui non ero in grado di sfuggire.
Quando Manson si allontanò, i miei occhi si aprirono e vidi che stava
spingendo Lucas verso di me. Lucas mi afferrò, le mani mi ghermirono i
fianchi mentre Manson mi teneva per la gola. Poi mi diede un bacio
famelico che mi fece fiaccare le gambe.
Lucas voleva farmi del male. Lo sentivo dal modo in cui si premeva
contro di me, duro e pesante. Quando i suoi denti afferrarono il mio
labbro e lo mordicchiarono, ricambiai la sua cattiveria, graffiandogli la
schiena con le unghie. Era una guerra a chi fosse più violento, a chi
avrebbe avuto il fiato corto per primo.
Poi entrambe le loro bocche si posarono su di me allo stesso tempo, le
nostre lingue si intrecciarono. Era un bacio disordinato, avido, i loro
sapori si mescolavano in mezzo ai miei gemiti.
«Per favore, scopatemi,» dissi. Volevo che si togliessero i vestiti, e
strattonai l’orlo della maglietta di Manson. Lui se la tolse in fretta e la
gettò a terra. Lucas mi sollevò, mettendomi a sedere sul tavolo della
cucina. Mi spinse all’indietro fino a farmi sdraiare e Manson lo aiutò,
tirandomi su le gambe verso il petto.
«Tieni su le gambe,» ordinò Manson. «Afferrati le cosce e tienile
aperte.» Obbedii, tenendo le gambe e allargandole finché non fui
completamente esposta. Manson si mise alla mia sinistra e Lucas tra le mie
gambe divaricate. Si mise a tracciare con le mani l’interno delle mie cosce,
e io rabbrividii.
«Dio, ho aspettato così tanto di averti così,» ammise Lucas. Allungò la
mano dietro di sé, prese il bicchiere bagnato di ghiaccio dall’isola e lo
posò sul tavolo. Si slacciò in fretta i jeans prima di afferrare il mio culo,
aprendomi ancora di più.
«Che giocattolino sexy che sei,» sussurrò Lucas. Mi accarezzava il
clitoride, il mio corpo si contraeva per il piacere che mi procurava.
Continuò a strofinarmi e poi la sua bocca fu su di me, per leccarmi il buco
del culo. Sussultavo e annaspavo quando Manson si chinò su di me.
La sua bocca sostituì le dita di Lucas sul mio clitoride e io vidi le stelle.
«Oh, ti piace, vero?» ringhiò Lucas. Fece una pausa per prendere uno
dei cubetti di ghiaccio e infilarselo in bocca, poi tornò tra le mie natiche.
Tremai quando la sua lingua sondò il mio sedere, circondando il mio ano
con la sua bocca fredda. Spinse il ghiaccio in avanti, premendolo contro di
me prima di risucchiarlo. Nel frattempo, la lingua di Manson mi sfregava
sul clitoride con spietata concentrazione.
«Dio, che bella sensazione,» ansimai. «Vi prego… vi prego, non
fermatevi.»
Il tavolo scricchiolava sotto di me, i miei muscoli erano scossi da fremiti
brutali. La mia testa si svuotò di tutti i pensieri mentre tremavo di piacere.
«Cazzo, Manson! Lucas, ti prego!» Gridai i loro nomi inarcando la
schiena, convulsa per l’estasi del mio orgasmo. Non si fermarono finché
non fui sfinita, finché le mie grida non divennero frenetiche per la troppa
stimolazione.
Sollevai la testa in tempo per vederli baciarsi, con Lucas che leccava la
mia eccitazione dal mento di Manson.
«Le scoperò la gola,» annunciò Manson, con voce trafelata, tremante.
«E tu falla urlare.» Lucas annuì precipitosamente, il petto ansante. Si
spogliò e Manson si mise al mio fianco e avvicinò il mio busto al bordo del
tavolo.
Si tirò giù gli slip abbastanza da permettere al suo cazzo di liberarsi, a
pochi centimetri dalle mie labbra. Il liquido pre-eiaculatorio luccicava
sulla sua punta, e io aprii la bocca con impazienza, smaniosa di
assaggiarlo.
Lui si afferrò l’erezione e si mise a masturbarsi lentamente.
«Lo vuoi?» chiese, avvicinandosi con fare provocatorio. «Vuoi che ti
scopi la gola?»
«Sì, signore.» Annuii, stringendomi ancora di più le gambe mentre il
dito di Lucas cominciava a stuzzicarmi il sedere.
Manson mi afferrò la nuca e premette sulla mia bocca aperta. Si fermò
quando raggiunse la mia gola, dandomi un momento per adattarmi prima
di scoparmi sul serio, con foga e velocità. Ogni scatto dei suoi fianchi
colpiva fino in fondo, attivando il mio riflesso faringeo con una facilità
imbarazzante. Nonostante il rumore dei miei rantoli soffocati, con il corpo
ancora in fiamme per i postumi dell’orgasmo, sentii Lucas sputare e il suo
dito spalmare la saliva attorno al mio ano.
Poi il ghiaccio premette di nuovo contro di me.
«Ahh, cazzo!» Le mie parole erano indistinte, confuse, mentre Lucas
spingeva il cubetto all’interno. Non era molto grande e si era ben sciolto,
ma non erano le dimensioni a renderlo ostico. Squittii per la fitta
scioccante, e poi per il freddo insopportabile che si depositò dentro di me.
«Dio, che bella sensazione,» gemette Manson. Diede ancora qualche
spinta decisa nella mia bocca prima di uscire da me, trasalendo come se ne
fosse addolorato. La sua punta era arrossata e gonfia, le sue palle erano
tirate su e contratte. Si stava avvicinando all’orgasmo, si stava trattenendo.
Mi strinse i capelli in una presa salda e chinò la testa per un momento,
respirando profondamente per controllarsi.
Lucas era in piedi tra le mie gambe, a fissarmi con le pupille dilatate e a
masturbarsi. Il suo corpo nudo era coperto di tatuaggi, dalle spalle alle
cosce. Una barra metallica ricurva gli attraversava il cazzo, una sfera
d’argento era posizionata in basso sulla sua fessura e l’altra si annidava
dietro la punta.
«Voglio che tu guardi Lucas mentre ti scopa,» comandò Manson,
guardandomi dall’alto in basso. «Imploralo, avanti, fatti sentire.»
Lo feci, farfugliando le mie suppliche. Il cazzo di Lucas sobbalzò
quando la mia voce si incrinò per la trepidazione, e un ringhio primordiale
gli uscì dalla bocca.
«Cazzo sì, urla per me,» disse, e mi penetrò. La mia fica gonfia lo
accolse avidamente, fradicia mentre lui entrava in profondità. La sfera
liscia del suo piercing mi accarezzava, insolita ed estranea, ma così
dannatamente piacevole. Era caldo, bollente dentro di me rispetto al
freddo del cubetto di ghiaccio nel mio sedere.
Mi sbatteva, gli schiaffi della nostra pelle risuonavano nella cucina.
Manson mi osservava rapito, incoraggiandomi: «Così, angelo, prendi il
suo cazzo. Prendilo tutto.»
«Lucas!» Il suo nome mi uscì dalle labbra, scandito da un singhiozzo. Il
tavolo gemette al suo ritmo, stridendo sulle piastrelle. Mi avvinghiò le
gambe, mettendo le sue mani sulle mie mentre mi strattonava verso di lui
a ogni spinta.
«È quello di cui avevi bisogno, eh?» mormorò. «Una bella scopata
violenta per insegnarti a stare al tuo posto, per ricordarti di chi è questa
fica.» Gemetti, serrandomi attorno a lui. «Non mi interessa quanti cazzi ti
sei presa. Non me ne frega un cazzo di quanti corpi hai avuto. Questa fica
è nostra ed è sempre stata nostra.»
Il piacere si addensò nel mio basso ventre, pulsando, riverberandosi
nelle mie membra. «Fa… fa un male… meraviglioso…»
«Dillo,» ordinò Manson, mantenendo la presa sui miei capelli mentre
Lucas mi scopava. «Di chi è questa fica, Jessica?»
«La vostra!» gridai mentre il ritmo brutale di Lucas mi strappava suoni
animaleschi. Le mie gambe si contraevano, ogni affondo mi portava
sempre più vicina all’estasi fino a quando non riuscii più a pensare.
«Proprio così», ringhiò Lucas. «È proprio così, cazzo. E distruggeremo
questa fica per chiunque altro, mi hai sentito?»
Annuii distrattamente. Lucas mi fotteva come se mi odiasse, le mie
grida lo spronarono fino a farlo pulsare dentro di me. Strinse i denti
mentre rallentava, spingendosi così a fondo da farmi male.
La voce di Manson tagliò la coltre di piacere che mi ottenebrava il
cervello. «Penso che dovremmo lasciarle un promemoria di chi la
possiede, cucciolo.»
«Ci puoi giurare.» La voce di Lucas era roca mentre era chinato su di
me, il suo volto sospeso davanti ai miei occhi pieni di lacrime. «Ti metterai
in ginocchio e ti beccherai la nostra sborra in faccia, piccolo giocattolino.»
Trasalii quando si tirò fuori da me. Fui trascinata giù dal tavolo, stordita
e barcollante, e Manson mi spinse in ginocchio. Entrambi incombevano
sopra di me, spalla a spalla. Lucas si masturbò a pochi centimetri dal mio
viso, con un’espressione a metà tra l’agonia e l’estasi mentre gemeva. Era
rude con sé stesso, il corpo contratto come una molla. Manson si pompava
a un ritmo incalzante, con il respiro affannoso e i denti scoperti.
«Vi prego,» mugugnai. «Vi prego, venitemi in faccia.»
«Cristo…» Il cazzo di Lucas sussultò quando venne, lo sperma caldo
schizzò sulla mia pelle. Manson lo seguì quasi subito dopo, con dei respiri
affannosi e stentati che accompagnavano ogni pulsazione del suo cazzo. Il
loro seme colava sulle mie guance, sulle mie labbra, sul mio mento. Mi
avevano marchiata, reclamata.
Consolidando ciò che già sapevo: mi possedevano.
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25
Lucas
Mi portai di nuovo la sigaretta alle labbra, assaporando un lento tiro. Il
mentolo e il tabacco mi colpirono la gola con un piacevole bruciore,
mentre la nicotina placò il tremore delle mie mani. Stavo osservando il
giardino dei Martin, perfetto come un quadro. L’erba era tagliata e i
cespugli erano ben curati. Era tutto pulito e in ordine. Custodito.
Controllato.
La tensione mi si annodò nel collo e nelle spalle quando la porta a vetri
dietro di me si aprì. Ma c’era solo Manson. I suoi capelli erano ancora
spettinati e una patina di sudore gli imperlava il petto nudo. Jess gli aveva
lasciato dei lunghi graffi sulle braccia, e la vista mi fece fremere di nuovo il
cazzo, ma ero troppo stanco per il secondo round.
«Come sta?» chiesi.
«Credo che le abbiamo estirpato il sarcasmo, per ora,» rispose con un
ghigno e la mano alzata. Gli passai la sigaretta, leggendo con facilità quello
che voleva. «Si sta pulendo in bagno, si sta mettendo addosso qualcosa di
comodo.»
«Posso tornare a casa a piedi. Tu prendi pure la macchina quando sei
pronto.»
«Andiamo, amico.» Mi lanciò un’occhiata prima di portarsi la sigaretta
alla bocca e aspirare. «Sei nel calo. Non dovresti stare da solo.»
Stava parlando del «calo dominante.» Quell’intenso senso di colpa e di
spossatezza che poteva colpirti dopo un incontro intenso come quello che
avevamo avuto. Ma non era solo la dopamina che stava improvvisamente
abbandonando il mio organismo a farmi venire voglia di andarmene.
Non mi trattenevo mai dopo una scopata. Mai. La mia politica era:
colpire e andarmene. Non ero un tipo gentile, quindi stare seduto a
chiacchierare, a «decomprimere» e tutte quelle stronzate tenere non
facevano per me. Mettere spazio tra me e Jess era la cosa migliore.
Avevamo il nostro accordo, e il suo debito nei nostri confronti non
prevedeva che provassimo sentimenti di calore e di amicizia l’uno per
l’altra.
«Sai come funziona,» gli rammentai, riprendendo la sigaretta quando
me la offrì. «Non sono la persona migliore da avere intorno quando tutti
si sentono vulnerabili. Puoi prenderti cura tu di lei.»
Manson fece un verso di disapprovazione, ma io ero sincero. Che
diavolo ne sapevo io di quella roba? La cosa più vicina a una relazione
sentimentale normale l’avevo avuta con lui, e anche in quella sapevo di non
essere un granché. Potevo passare da caldo a freddo e viceversa nel giro di
una settimana, ma lui mi conosceva troppo bene per risentirsene.
O almeno, io pensavo che non gli desse fastidio. Non ne aveva mai fatto
parola. Quando avevo bisogno di spazio, me lo concedeva volentieri.
Quando avevo bisogno di cedere il controllo, mi fidavo di darlo a lui.
Ma non avevo bisogno di smancerie. Non avevo bisogno di momenti
intimi e sereni.
Questo era ciò che dicevo a me stesso, in ogni caso.
Mio padre era stato un tipo molto burbero, di quelli che preferivano
picchiare i figli per renderli dei duri piuttosto che offrire un briciolo di
compassione, e mia madre non era stata molto migliore. La gentilezza non
era solo un concetto estraneo per me: era fottutamente spiacevole, come
cercare di avere una conversazione in una lingua di cui avevo solo una
conoscenza elementare.
Ma Manson mi aveva detto, ancora prima che arrivassimo qui, che sarei
dovuto rimanere. Per lei. Per badare a lei. Per accudirla. Per fare tutte
quelle cose gentili, comprensive e dolci che avrei dovuto essere in grado di
fare, ma che proprio non mi riuscivano.
«Senti, sto bene,» assicurai, spegnendo la sigaretta sotto la suola della
scarpa e guardandomi intorno inutilmente alla ricerca di un posacenere. A
quanto pareva, in questa casa non fumava nessuno.
Manson mi strappò la sigaretta dalle dita, facendo un cenno con la testa
verso la casa. «Vieni. Voglio mostrarti qualcosa.»
Era una trappola per farmi tornare dentro, ma non importava. Se voleva
che me ne stessi seduto come un babbuino con il pollice nel culo, nessun
problema, sarei rimasto.
Jess stava facendo la doccia, lo scroscio dell’acqua corrente filtrava da
dietro la porta chiusa del bagno. Il nostro sperma le era finito sul viso, sul
petto, sui capelli. Poteva lavarlo via, ma speravo che le sarebbe rimasto
addosso il nostro odore. Volevo lasciarle qualcosa di tangibile, qualcosa
che non avrebbe potuto dimenticare facilmente e che gli altri non
avrebbero potuto confutare.
Cazzo, se fossi stato un cane, probabilmente le avrei pisciato addosso
per rivendicare il mio diritto. Forse l’avrei fatto davvero, alla fine, se fosse
rimasta con noi abbastanza a lungo.
Manson era seduto sul bordo del divano quando arrivai al suo fianco,
stava fissando un pezzo di carta che teneva in mano. Era uno schizzo
abbozzato che mostrava la facciata di una casa con un portico a giro. Sulle
prime non compresi cosa stessi guardando, finché non mi resi conto di
quanto la casa mi risultasse familiare.
«È la nostra casa?» chiesi.
«Mi pare proprio di sì. Si è presa delle libertà estetiche.» Tracciò
delicatamente con il dito gli intricati disegni del legno che lei aveva
tratteggiato lungo le finestre.
«Tu lo sapevi che fosse brava a disegnare?» domandai mentre lui ripose
con cura il foglio sul tavolino. L’acqua in bagno si era chiusa, e questo mi
fece accelerare un po’ il cuore.
«Non fino ad ora,» ammise. «Deve aver fatto tutto questo disegno a
memoria.»
Aveva persino realizzato dei fiori e dei cespugli lungo il portico
d’ingresso. Le aggiunte erano minime, ma l’effetto era drastico. Facevano
sembrare l’edificio più simile a una vera e propria casa, come se qualcuno
ci avesse speso cure e amore.
«Dovremmo piantare dei fiori?» sbottai. Il cortile sterrato era così
dannatamente arido.
«Ci stanno bene… credo che potremmo farlo.» Non sembrava del tutto
entusiasta dell’idea, ma non potevo biasimarlo. Vivere in quella casa era
una sfida per lui, pur con tutti i cambiamenti che avevamo apportato.
Avevamo fatto molti lavori da quando ci eravamo trasferiti, ma sempre
con un unico obiettivo. Dovevamo preparare la casa per venderla. Per
quanto fossimo stati fortunati a ottenere quella villa dopo la morte della
madre di Manson, la sua casa d’infanzia portava con sé troppi ricordi per
lui.
Era più coraggioso di me. Io non ero più tornato a casa a trovare
mamma nemmeno una volta da quando papà e io ce ne eravamo andati.
Anche adesso, a distanza di anni, non pensavo che avrei avuto il fegato di
entrare nella casa in cui avevo trascorso i primi quattordici anni della mia
vita.
Jess entrò nel soggiorno, strizzandosi i capelli umidi con un
asciugamano. Ci guardò entrambi, stringendo gli occhi in due fessure per
capire cosa avessimo combinato. Poi abbassò lo sguardo e notò il disegno
sul tavolino.
«Giuro che non mi sono messa a disegnare casa vostra per
divertimento,» si affrettò a dire, come se fosse una cosa terribile. «È per
lavoro. Devo presentare un progetto al mio capo in occasione della
revisione semestrale e la vostra casa ha un sacco di…» Strinse le labbra
mentre rifletteva. Il modo in cui il suo viso si contorse mi fece sentire…
diavolo, mi fece sentire qualcosa. Come un bisogno aggressivo di strizzarle
le guance. «Ha molto potenziale. Ha un grande carattere.»
«Perché disegni una casa per lavoro?» chiesi, facendo una smorfia
quando mi accorsi che la mia voce era stata molto più burbera di quanto
intendessi. Jess aveva indosso una maglietta larga e dei leggings, il mascara
sbavato era stato lavato via. Aveva tante lentiggini sulle guance che non
avevo mai notato prima, e le sue ciglia erano chiare quasi quanto i suoi
capelli.
«Lavoro nel campo della progettazione architettonica,» mi spiegò. «Sto
facendo uno stage in una grande azienda di New York. Se mi dimostro
all’altezza, il capo dice che mi assumerà a tempo pieno. Allora me ne
andrò da Wickeston per sempre.» Sorrise, stendendo l’asciugamano sullo
schienale di una delle sedie della cucina prima di dirigersi verso il
frigorifero. «Abbiamo del vino, se ne volete un po’. Mamma non tiene
birra in casa, però.»
Accidenti, con quella scopata le avevamo davvero strappato via il
sarcasmo. Le bastava questo? Una dura lotta, seguita da una scopata
ancora più violenta, e all’improvviso sembrava molto più degna del
nomignolo che Manson le aveva affibbiato. Manson, neanche a dirlo, fece
un cenno verso la cucina per indurmi a seguirla. Deglutii il mio gemito,
ma lo assecondai. Diamine, già che ero lì, potevo almeno provarci.
Inoltre, forse aveva ragione in merito al calo. Più passava il tempo, più
la avvertivo: una morsa al petto, fastidiosa e incerta, che mi faceva fremere
come fossi ansioso, ma che al contempo mi faceva ciondolare per la
stanchezza. Avevo voglia di rilassarmi in un posto tranquillo.
Jess era nel ripostiglio, in punta di piedi per cercare di raggiungere una
scatola di biscotti delle Girl Scout sullo scaffale più in alto. La sua
maglietta era abbastanza sollevata da darmi una vista dannatamente
piacevole del suo culo avvolto in quei leggings attillati, e mi soffermai per
un momento ad ammirarla.
Ero convinto che sarei venuto non appena fossi sprofondato dentro di
lei. Anni di fantasie su di lei erano quasi culminati in una sola, maledetta
spinta. Il fatto che mi avesse succhiato il cazzo tanti anni prima non aveva
nulla a che vedere con lo stare dentro di lei, sentirla, vederla crollare. Era
la scopata piena di odio di cui avevo bisogno da anni, ed era stata anche
meglio delle mie fantasie. Non c’era da stupirsi che Manson fosse così
irrimediabilmente preso da lei.
Per quanto la ritenessi viziata, orgogliosa ed egoista… ero fottuto
anch’io. Lo eravamo tutti, in realtà - solo che si manifestava in modi
diversi.
Mi allungai sopra la sua testa, presi agevolmente i biscotti dallo scaffale
e glieli porsi. Lei si affrettò a scavare nella scatola e a infilarsene uno in
bocca, gemendo come se stesse avendo un orgasmo.
«Dio, questi sono i miei preferiti,» confessò, sospirando soddisfatta
prima di tendermi la scatola. «Ne vuoi uno?»
«Thin Mints? Cazzo, sì.» Non ne volevo solo uno: ne presi una bustina
intera, prima che lei tornasse alla ricerca di altri snack. Una delle sorelle di
Vincent era una Girl Scout, e ogni volta che organizzavano una vendita,
facevamo incetta di tutti i biscotti che potevamo permetterci. Frozen Thin
Mints e caffè erano ormai in pratica la mia colazione dei campioni da un
po’.
Mi infilai due biscotti in bocca nel momento in cui Jess si voltò.
Ridacchiò quando feci un colpo di tosse, perché il boccone non era
andato giù così rapidamente o facilmente come speravo. Mi porse di
nuovo la scatola, dicendo: «To’, mangiateli tu e Manson. Io non dovrei
mangiarne altri.»
«Non dovresti?» La fissai incredulo. Aveva mangiato un solo biscotto.
«E chi lo dice?» Scrollò le spalle, borbottando qualcosa sullo zucchero e
sui carboidrati, ma io le spinsi di nuovo la scatola contro il petto.
«Ragazza, siamo entrati in casa tua, ti abbiamo infilato del ghiaccio nel
culo e ti abbiamo scopato sul tavolo della cucina di tua madre. Mangia dei
dannati biscotti.»
«Uff, va bene,» gemette lei, ma il suo tono era provocatorio mentre
riprendeva i biscotti.
Provocatorio o no, mi fiondai comunque su di lei, spingendola
all’indietro finché non fu schiacciata contro gli scaffali stracolmi.
«Stai dimenticando le regole?» le domandai a bassa voce. Mi fissava con
gli occhi spalancati nella penombra, e le si gonfiò il petto nel prendere una
bella boccata d’aria. Appoggiò la mano sul mio petto, sfiorando con
interesse il lembo di pelle che il giubbotto di jeans lasciava scoperto.
Il suo tocco mi fece venire la pelle d’oca.
«L’ho dimenticato, signore,» sibilò con un filo di voce. Si avvicinò un
po’ di più. «Mi dispiace. Avrei dovuto rispondere ‘va bene, signore’.»
Il sorriso che mi rivolse era malvagio e dolce allo stesso tempo, mi
sfidava e mi ammansiva. La maggior parte delle persone non avrebbe mai
osato. Quasi tutti sarebbero scappati via spaventati.
Lei no. Perché diavolo non aveva paura di me?
O meglio, perché non volevo che ne avesse?
Sospirai, raddrizzandomi e facendo un passo indietro. «Stai attenta,
giocattolino. Manson si incazzerà molto se ti prendo a sculacciate in
questo momento.»
«Beh, non vogliamo che succeda, no?» Il tono della sua voce indicava
che non voleva altro, quella mocciosa. Sgattaiolò fuori dalla dispensa,
arraffando una scatola di cracker mentre se ne andava, e io rivolsi la mia
attenzione alle bottiglie di vino sul suo bancone. Alla fine, scelsi qualcosa
di scuro con un’etichetta interessante: non ero un tipo da vino, ma a
Manson piacevano i rossi.
«I calici sono nell’armadietto alla tua destra,» mi comunicò. Non capivo
perché fosse rimasta a guardarmi trafficare col vino, quando avrebbe
potuto starsene comodamente accoccolata con Manson sul divano. Presi
un paio di tazze da caffè, dato che erano le prime cose che vidi
nell’armadietto, le riempii fino all’orlo e bevvi un sorso abbondante dalla
mia.
Quando abbassai la tazza, sembrava che Jess stesse trattenendo le risate.
«Che c’è?» sbottai senza volerlo, ma la cosa non le fece alcun effetto.
«Non sei abituato a questo, vero?» domandò, e il mio orgoglio si
infiammò.
«Ho già fatto sesso, Jess,» le feci presente. «Un sacco di volte.»
«Non mi riferisco al sesso.» Si mise a ridere. «Intendo questo. Tipo…
stare con qualcuno.»
Oh. Giusto. Immagino che fosse piuttosto lampante. Non c’entravo
niente in quel posto, in quella bella casa, circondata dalle foto della
famiglia di Jessica e dalla composizione decorativa «Live Laugh Love» di
sua madre.
In realtà, non mi ero sentito così quando avevo fatto irruzione in casa
sua. Far disattivare a Jason il sistema di sicurezza, prendere in prestito il
kit per il grimaldello di Vincent, aggirarmi di soppiatto per la casa con
Manson e mandargli qualche messaggio inquietante faceva tutto parte del
gioco. Ma avevo concluso il mio round, e il fatto che stessi ancora in quel
luogo mi sembrava molto più intrusivo dell’essermi intrufolato in casa.
«Non sono uno che si perde in chiacchiere. Di solito non resto
incastrato con qualcuno per così tanto tempo.» Si pietrificò per un attimo,
e io trasalii. «Non intendevo dire questo. Non sono incastrato. Siamo stati
noi a fare irruzione nella tua cazzo di casa.» Sospirai pesantemente,
passandomi una mano sulla testa. «Vuoi che me ne vada?»
Io, non noi. Ero io quello strano, qui, con i miei capricci del cazzo.
Inoltre, a Jess non ero mai stato simpatico. Le era sempre piaciuta l’idea di
me, certo, quello era evidente. Ma io? Come persona? Era ridicolo.
Ma lei scosse la testa, guardandomi come se avessi proposto qualcosa di
assurdo.
«Che ne dici di versare un altro po’ di vino in quella tazza e di venire
sul divano?» propose. Mi posò una mano sul braccio, stringendomi
leggermente il bicipite, prima di tornare in salotto. Okay, va bene, mi
aveva convinto. Mi sarei sottoposto a quel momento di cure dopo il sesso
anche a costo di morire.
Tornai in salotto, dove Manson era stravaccato sul divano. Jess si era
sdraiata accanto a lui e stava sgranocchiando i suoi biscotti. Porsi a
Manson il suo vino e occupai il lato libero del divano, sedendomi
rigidamente sui cuscini bianchi e immacolati. Come si poteva vivere con
tutti quei mobili bianchi? Io li avrei sporcati solo a guardarli.
«Quanto valeva oggi?» chiese Jess, bevendo un sorso dal suo bicchiere
e lanciando un’occhiata a entrambi. «È stata una scopata da almeno
millecinquecento dollari, giusto?»
La mia lucidità doveva essersi guastata dopo il sesso, perché stavo quasi
per dirle che era valsa il costo delle nostre auto e anche di più. Dovetti
tracannare un altro po’ di vino per affogare quelle parole prima di dire
qualcosa di cui mi sarei pentito.
«Tu che ne pensi, Lucas?» chiese Manson. «Forse quattro o cinque?»
Scrollai le spalle. «Direi cinque. Mi sento generoso.»
«Cinquecento?» disse eccitata.
«Cinque dollari,» risposi io, poi allontanai rapidamente il mio vino
quando lei si lanciò sul divano per darmi una manata in testa. Le afferrai i
polsi e li tirai giù, trascinandola sulle mie ginocchia. «Ehi, ehi, attenta!
Stavo scherzando, ragazza.»
«Mi hai quasi fatto rovesciare il vino sul tuo divano,» borbottò Manson,
fissando i cuscini candidi sotto di sé con un’espressione inorridita. «Ho il
presentimento che, se macchio qualcosa qui dentro, sarò maledetto.»
«Oh, lo sarai,» confermò lei. «Mia madre è in grado di rilevare una
briciola sepolta nella moquette a dieci metri di distanza. L’ho vista coi miei
occhi.» Sorseggiò il vino, muovendo leggermente i piedi. Era una piccola
palla di tensione sulle mie ginocchia e, ora che era lì, non ero sicuro di
cosa fare con lei.
«Tua madre è in grado di rilevare anche lo sperma sul tavolo della
cucina?» domandai, e Jess mi diede un colpetto sul petto.
«Per questo vi beccherete entrambi una maledizione a vita,» sentenziò.
Con mia grande sorpresa, si sporse sul divano per prendere i biscotti e il
telecomando della televisione, poi tornò prontamente a sedersi sulle mie
ginocchia. «Spero che vi piacciano le cattedrali gotiche del XV secolo,
perché è quello che stiamo per guardare.»
Avrebbe potuto dirmi che stavamo per guardare un documentario sulla
peristalsi degli elefanti e io non avrei battuto ciglio. Manson si avvicinò dal
lato opposto del divano e Jess allungò le gambe per metterle in grembo a
lui. La sua schiena era appoggiata al mio braccio e alla mia spalla, mentre
sgranocchiava i biscotti e guardava la TV. Con il passare dei minuti, però,
le sue spalle si afflosciarono, e così i biscotti. Poi la sua testa crollò e si
adagiò contro la mia spalla, accompagnata da un lieve sospiro che fece
fondere il suo corpo con il mio.
Guardai Manson in cerca di aiuto, ma dannazione, si era addormentato
anche lui. Io non ero riuscito a rilassare un solo muscolo, ma quando il
respiro di Jess si stabilizzò, mi azzardai a cingerla con un braccio.
Si adattava a me alla perfezione. Come la tessera di un puzzle sistemata
contro il mio fianco, soffice e calda. I suoi capelli avevano un profumo
dolce e leggermente fruttato, tipo di fragole.
Ma c’era anche il mio odore.
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26
Jessica
Il mattino mi accolse con il sole che scaldava le mie gambe nude e il
cinguettio degli uccelli. Rimasi sdraiata per un po’ a guardarli svolazzare
sull’albero fuori dalla finestra, con gli occhi socchiusi per un piacevole
torpore, al calduccio e assonnata sotto le coperte.
Avevo un vago ricordo di essere stata portata a letto la sera prima.
Lucas mi aveva portata in braccio su per le scale, con la mano di Manson
a cingermi la nuca per evitare che sbattessi la testa contro il muro del
nostro stretto corridoio. Non avrei saputo dire con certezza che ora fosse.
Avevo cercato di rimanere sveglia, ma non appena mi ero sistemata in
grembo a Lucas, i miei occhi erano diventati così pesanti che nessuna
forza di volontà avrebbe potuto tenerli aperti.
Nella mia vita avevo avuto più partner sessuali di quanti ne potessi
contare, ma non avevo mai avuto due uomini contemporaneamente. Di
tutti quei partner, nessuno era mai riuscito a scoparmi nel modo giusto.
Alcuni ci erano andati vicino, certo. Ma le mie scappatelle occasionali e le
avventure di una notte mi lasciavano comunque con un prurito
insoddisfatto. Un bisogno di qualcosa di più intenso.
Ma Manson e Lucas giocavano con la mia mente quanto con il mio
corpo. Mi facevano agitare, costruivano la tensione, si prendevano tutto il
tempo necessario per allestire lo scenario. Erano entrati in casa mia,
avevano violato il sistema di sicurezza, si erano nascosti nel mio
armadio… come Lucas aveva implorato il permesso di Manson di
scoparmi, guardandomi come se volesse farmi a pezzi…
Dio, perché era così eccitante? Il modo in cui Manson esercitava il
controllo faceva sì che sottomettersi a lui sembrasse la cosa più naturale
del mondo… naturale, se non fosse che tutti quelli che conoscevo mi
avrebbero condannata per questo, qualora l’avessero scoperto.
Le persone normali non facevano così.
Forse le persone normali erano noiose.
Ma mentre mi alzavo a letto, sospirando felice per la giornata di sole
fuori dalla finestra, la mia soddisfazione subì uno scossone. Avevo già
provato quel perfetto senso di appagamento, dopo quella festa di
Halloween di quasi tre anni prima. Ma avevo buttato via tutto. Avevo
deciso che non valeva la pena di rischiare.
Ora era diverso? L’unico motivo per cui avevo accettato di farlo era per
far riparare la mia auto, o almeno questa era stata la scusa più facile da
trovare. Ed era quello di cui avevo bisogno, una scusa, qualcosa su cui
poter puntare il dito e addossare la colpa. Qualcosa da poter sbandierare
di fronte a chi non la pensava come me, dicendo: «Vedete? Non c’è niente
di sbagliato in me! L’ho fatto solo perché…
Spinsi via le coperte e mi alzai. Non avevo intenzione di rovinare una
giornata splendida con una crisi esistenziale per una bella scopata. Mi
stavo dirigendo verso il bagno quando notai che il messaggio minaccioso
scritto con il rossetto era stato ripulito dallo specchio, e al suo posto era
stato lasciato un Post-it.
Ti comprerò un nuovo rossetto.
La calligrafia di Manson era nitida e precisa, ma quel biglietto era
scritto in modo molto più piccolo e disordinato. Doveva essere di Lucas.
Piegai il biglietto e lo posai accanto al suddetto tubetto di rossetto. La
sera precedente avevo visto un lato di Lucas di cui non conoscevo
l’esistenza, un lato di lui che si manifestava dopo che la cattiveria si era
dissipata. Era sembrato così fuori posto, nervoso e incerto. Come se stare
in una normale casa di periferia fosse troppo.
Forse lo era. Nessuno aveva mai saputo molto della vita familiare di
Lucas, se non vaghi spezzoni. Si era trasferito a Wickeston con il padre -
un energumeno con lo stesso cipiglio permanente del figlio - dopo la
separazione dei genitori. Avevano vissuto nel parcheggio delle roulotte sul
lato ovest della città, senza dare mai nell’occhio, fino a quando non erano
stati protagonisti di un’esplosiva baruffa pubblica in una tavola calda
locale.
Non credevo che Lucas avesse più vissuto con suo padre dopo
quell’episodio, ma non ne ero sicura. Potevo solo immaginare che, quando
si arrivava al punto di fare a botte con il proprio padre, probabilmente la
situazione a casa non era rose e fiori.
Entrai nella doccia, prendendomi il tempo necessario per lavarmi i
capelli, fare uno scrub e radermi. Quando uscii e asciugai il vapore dallo
specchio, non potei fare a meno di fissare i segni su tutto il corpo.
Passando le dita sul collo, premevo la pelle qua e là per avvertire il lieve
indolenzimento dei lividi che mi avevano procurato.
Mi piaceva come mi stavano addosso, mi sembravano sporchi e deliziosi
allo stesso tempo.
Quando uscii dal bagno, avevo solo dieci minuti prima di dover fare
una videochiamata per lavoro. Mi vestii in fretta e furia e mi misi davanti
al computer appena in tempo, per poi rendermi conto di essere andata
così di fretta da non aver fatto nulla per coprire i succhiotti sul collo.
Trascorsi l’intera riunione con le spalle rattrappite come una tartaruga,
nella speranza che i segni non fossero evidenti. Ammesso che qualcuno se
ne fosse accorto, almeno non commentò. Grazie a Dio era quasi venerdì.
Speravo che entro il fine settimana sarebbero svaniti.
Quando finalmente chiusi il portatile, mi aspettava un messaggio di
Lucas. Mandaci una foto. Voglio vedere il nostro lavoro.
Mi spogliai per scattare una buona foto per loro. Non mi vergognavo
del fatto che mi piaceva essere una provocatrice: chi non avrebbe voluto
sentirsi desiderata, sfruttare il proprio potere di seduzione? Inviai la foto
scattata alla chat di gruppo e non fui delusa dalla loro risposta.
Manson: Cazzo, sei sexy ricoperta di lividi.
Vincent: Dannazione, un secondo, mi è appena cascata la mandibola
per terra. Merda, lo sapevo che avrei dovuto prendere un permesso al
lavoro e venire con voi stronzi.
Poi arrivò il messaggio di Jason. Dio, Jess, come faccio a lavorare con
un’erezione?
Io: Spero che sappiate che farò sostituire le serrature e il sistema di
sicurezza. Dovevo fare qualcosa in merito, a meno che non volessi fingere
di non sapere, davanti ai miei genitori, come mai il sistema avesse smesso
di funzionare. Quindi, in bocca al lupo per la vostra prossima caccia.
Corro molto più velocemente su un terreno aperto.
Manson: Ah, sì? Dovremo verificarlo.
Lucas non andò tanto per il sottile. Un maledetto lucchetto non mi
fermerà, giocattolino. Ti avrò tutte le volte che voglio.
Forse dovremmo lasciarla correre, fu il suggerimento di Jason. Penso
che sarebbe divertente andare a caccia. Potremmo usare le nostre pistole
da paintball e procurarci un giocattolino.
Grazie a Dio non potevano vedere la mia faccia. Ero rossa come
l’inferno mentre immaginavo di essere cacciata come un animale,
abbattuta e sventrata. Cosa diavolo avevo che non andava? Quella era una
perversione bella e buona.
Non smisero di punzecchiarsi nella chat di gruppo, ma quando arrivò
un altro messaggio da parte di Lucas, non era in quella chat.
Ho un compito per te. Qual è il tuo orario di lavoro durante la
settimana?
Mi sdraiai sul letto e sollevai i piedi mentre rispondevo. Un compito?
Che cosa eccitante. Meglio che le istruzioni siano chiare, così non posso
fare cazzate.
Non riuscivo a resistere a provocarli - era troppo divertente vederli in
agitazione. Gli comunicai il mio orario: lavoravo solo fino a mezzogiorno
durante la settimana, tranne il lunedì, quando facevo l’orario lungo.
Lucas: Se fai qualche cazzata, il tuo culo ne pagherà le conseguenze.
Anche se ti farò scortare per assicurarmi che tu non ne faccia. La serata di
ieri non sarebbe stata possibile se Jason non avesse disabilitato il vostro
impianto di sicurezza. Siamo in debito con lui, e ovviamente lo sei anche
tu.
Quindi era stato Jason a eludere il sistema di sicurezza. Non ero
sorpresa: era sempre stato incredibilmente intelligente.
Lucas continuò. Vincent passerà a prenderti martedì dopo il lavoro.
Farai meglio a comportarti bene, a meno che tu non voglia che si porti
dietro un frustino.
Eviterò il frustino, grazie, replicai, anche se il solo pensiero mi fece
venire di nuovo quella sensazione di torsione allo stomaco. Mi comporterò
in maniera impeccabile, quindi digli di portare qualcosa con cui
premiarmi.
Oh, lo farà. Di questo non ti preoccupare, giocattolino.
***
Trascorsi i giorni successivi cercando di riprendere la mia routine. Mi
svegliavo presto e andavo in palestra con l’auto di mia madre - per
fortuna, non le dispiaceva che la prendessi in prestito quando lei e papà
non c’erano. Facevo un po’ di riscaldamento sul tapis roulant prima di
passare ai pesi e, quando finivo, ero un bagno di sudore. Il bruciore era
piacevole. C’era qualcosa nel dolore che mi faceva sentire viva.
Sfortunatamente, mentre ero nel bel mezzo del mio allenamento
domenica mattina, un volto familiare mi si avvicinò quand’ero a metà di
una serie.
«Oh… ciao, Alex.» Mi tolsi gli auricolari quando si mise accanto a me e
gli rivolsi un’occhiata cauta. Che diavolo voleva? Non l’avevo mai visto in
questa palestra, ma poteva darsi che di solito venisse a un’ora diversa. Era
a torso nudo e sfoggiava dei muscoli cesellati alla perfezione, degni di un
dio greco.
Ma quei muscoli non mi facevano il minimo effetto, attaccati alla sua
faccia da traditore com’erano.
«Ci sei mancata da Billy l’altra sera,» esordì, quasi con troppa
disinvoltura. «Volevo controllare come stessi. Assicurarmi che fra noi è
tutto a posto.»
«Tutto a posto?» Lo fissai sbigottita, poi abbassai la voce e mormorai:
«Hai fatto irruzione in un garage privato e mi hai mollata lì, cazzo. Perché
diavolo dovrebbe essere tutto a posto fra di noi, Alex?»
«Le cose mi sono un po’ sfuggite di mano, lo ammetto. Pensavo che
stessi mirando a quei perdenti, Jess. Lo stesso che mi ha spaccato la
testa…» L’espressione con cui mi fissava non mi lasciò margine di dubbio:
era un avvertimento. «Dico solo che non vorrei che te la facessi con le
persone sbagliate.»
Feci un sorriso tirato. «Grazie per l’interessamento. Ora, se non ti
dispiace…» Mi rimisi gli auricolari e lo congedai senza aggiungere altro.
Mi rivolse un sorrisetto forzato prima di andarsene, e sentii i suoi occhi su
di me finché non uscii dalla porta mezz’ora dopo.
Non avevo idea se il rapporto con i miei vecchi amici fosse recuperabile
- e francamente non volevo che lo fosse. Forse era meglio restare da soli.
Avevo i nervi a fior di pelle quando arrivò il martedì, e mi misi a
lavorare svogliatamente, sapendo che Vincent si sarebbe fatto vivo presto.
Ancora non sapevo in cosa consistesse questo «compito,» ma ero sicura
che Vince avesse qualche asso nella manica inaspettato.
Era appena passato mezzogiorno quando la sua WRX blu si fermò
davanti a casa mia. Non avevo fatto altro che camminare avanti e indietro,
cercando di convincermi che non fossi nervosa: perché diavolo avrei
dovuto esserlo? Quello era Vincent Volkov, il ragazzo che era sempre stato
il pagliaccio della classe, che era sempre stato invitato alle feste dei ragazzi
popolari perché sapevano che avrebbe avuto della droga da spacciare.
Non aveva la stessa aura oscura e malvagia degli altri, ma c’era qualcosa in
lui che mi lasciava completamente spiazzata. La sua natura canzonatoria
faceva sì che la gente di solito lo prendesse sottogamba, me compresa.
Ora avevo un’idea più precisa di ciò di cui era capace, ma non sapevo
comunque cosa aspettarmi. Mentre lo guardavo scendere dall’auto
attraverso la finestra della cucina, il mio cuore accelerò e mi strofinai i
palmi sudati sui jeans.
Dio, era sexy. Molto più sexy di quanto avesse il diritto di essere. Si
avvicinò alla porta d’ingresso con i Ray-Ban, i lunghi capelli sciolti e
ondulati intorno al viso, un paio di jeans stretti e scoloriti e una maglietta
ampia con un teschio in fiamme e una stampa tie-dye. I colori cozzavano
fra di loro, ma su di lui funzionavano stranamente bene.
Tutto ciò che era strano funzionava con Vincent.
Stavo già andando alla porta prima che suonasse il campanello. Quando
aprii, si stava accendendo uno spinello che gli penzolava dalle labbra.
Era impazzito? Stava fumando lì, in pieno giorno, in quel quartiere?
«Stai davvero fumando erba sul mio portico?» chiesi, completamente
esterrefatta.
Si tolse lo spinello dalle labbra e soffiò il fumo oltre la spalla. «Certo
che sì, baby. Vuoi un tiro?»
Non avevo intenzione di soffermarmi troppo sulla sensazione che mi
dava il fatto che mi chiamasse baby. Avrei ignorato a piè pari il fatto che il
mio cuore si era fermato con un balbettio prima di ripartire al galoppo.
Scossi la testa alla sua offerta e staccai la borsa dal gancio, prima di
uscire e chiudermi la porta alle spalle. «No, grazie, ma non voglio passare
il resto della giornata in paranoia.»
«In paranoia?» Emise una forte pernacchia e mi cinse la vita con un
braccio dopo che ebbi chiuso a chiave la porta d’ingresso. «Di cosa devi
essere paranoica? Ci sono io con te. Mi assicurerò che tu non ti metta a
correre nuda nel bosco.» Dimenò le sopracciglia con fare allusivo.
«Almeno, non senza di me.»
Scoppiai a ridere, mio malgrado, mentre percorrevamo il vialetto. «Non
ho paura di un risveglio spirituale, Vincent. Più che altro vado in paranoia
perché è illegale.»
Si fermò sul lato opposto della WRX, fissando lo spinello stretto tra le
dita. «È curioso che un po’ di erba arrotolata possa farti finire dietro le
sbarre,» rifletté. «La legalità non è che un branco di vecchi decrepiti che ti
dicono cosa devi fare.»
Scossi la testa mentre scivolavo in macchina, sbuffando per la sorpresa
quando affondai nel sedile del passeggero, stranamente concavo. Anche la
cintura di sicurezza era strana: un’imbracatura con tre attacchi in cui
dovevo infilare le braccia prima di agganciarli tra le gambe.
«Mi sorprende che tu non abbia anche un paio di manette qui dentro,»
commentai, contorcendomi per regolare l’imbracatura.
«Proprio lì.» Mi indicò un punto e io guardai in alto, trovando una
gabbia di sbarre metalliche installate lungo tutto l’abitacolo. Mi ricordava
le dune buggies su cui ero salita quando ero andata in Nevada per un
addio al nubilato. Dalla barra sopra la mia testa pendevano un paio di
manette di cuoio.
«Perfette per i polsi o le caviglie,» spiegò, e il suo ghigno si allargò. «Ma
credo che l’imbracatura sarà sufficiente a tenere il tuo culo sul sedile per
ora. A volte con me le cose prendono una piega un tantino turbolenta.»
Non avevo dubbi che avesse ragione, in più di un senso. La WRX
sussultò quando la mise in moto; il rombo del suo motore non era
profondo come quello della Mustang di Manson o della El Camino.
Faceva delle fusa basse e costanti, e Vincent alzò il volume della musica
mentre ci allontanavamo dal marciapiede. Si mise a canticchiare una
canzone che parlava di soffocamento e sodomia mentre prendevamo
velocità, sorvolando le case dei miei vicini. Ci guadagnammo più di
qualche occhiata ambigua da parte della gente che era fuori a innaffiare il
prato e a potare i cespugli di rose.
«Cosa stiamo ascoltando?» gridai, pregando nel frattempo che nessuno
dicesse a mia madre di avermi vista allontanarmi in un’auto assordante
con un tossico coi capelli lunghi.
«Non hai mai sentito i System of a Down?» Mi guardò praticamente a
bocca aperta. «Oh, dobbiamo farti allargare i tuoi orizzonti musicali, Jess.
Cosa ascolti di solito?»
Non ci volle molto per capire che le conoscenze musicali di Vincent
erano molto più approfondite delle mie. Ma non si limitava a un solo
genere. La sua playlist cambiava in continuazione durante il viaggio,
passando dal metal aggressivo all’elettronica melodica e alla musica
classica.
«Ti preparo io una playlist,» insistette alla fine. «Inizieremo con roba
più orecchiabile, e poi andremo più a fondo.»
Da quando conoscevo Vincent, era sempre riuscito a mettere gli altri a
proprio agio, e ora non era diverso. Attraversammo la città con i finestrini
abbassati e io lasciai penzolare il braccio nella brezza.
Lo conoscevo da più tempo degli altri ragazzi. L’avevo incontrato in
prima elementare, se vogliamo definire come «incontro» il tirarmi la terra
addosso. Con l’età, era diventato più taciturno, passando dal buffone
rumoroso della classe alle elementari a un ragazzo estremamente
introverso alle medie.
Ma alle superiori era diventato noto come il ragazzo che aveva sempre
della droga da vendere. Marijuana, farmaci da prescrizione, Molly: a meno
che la gente non stesse cercando roba davvero pesante, si rivolgeva a
Vincent. Anche se pensavano tutti che fosse uno svitato, un satanista o
qualsiasi altra cosa la gente sussurrasse alle sue spalle, era comunque
difficile provare odio per lui.
«La tua macchina sembra… migliorata,» commentai, toccando con
cautela l’argomento.
«Jason e io ci abbiamo lavorato su durante il fine settimana. Abbiamo
sostituito i vetri e riparato le ammaccature. Dobbiamo ancora intervenire
sulla vernice, ma potrei rimandare il ritocco.» Fece una piccola risata.
«Per come guido io, la vernice non rimane in buono stato a lungo.»
«È il tuo modo di dirmi che sei il peggior guidatore della casa?» lo presi
in giro. «Dovrei stringere un po’ di più le cinture?»
«Ho detto che la mia guida è turbolenta, non cattiva.» Mi rivolse un
sorriso sornione e si sporse per far scivolare la mano lungo la mia gamba e
poi stringermi saldamente la coscia. Il tocco delle sue dita era come un
fiammifero acceso sul cherosene. «Prima di riportarti a casa oggi, te ne
darò una dimostrazione. Prenderemo la strada lunga per il ritorno.»
«Strade sterrate? Con questa macchina?» Lo sbirciai scettica.
«Vedrai,» disse. «Non tutte le auto veloci sono costruite per stare
sull’asfalto.»
«Comunque, cosa facciamo oggi?» indagai, cercando di non lasciare
che la mia eccitazione ardente alterasse la mia voce. L’effetto che quegli
uomini avevano su di me era davvero ingiusto. «E perché Lucas ti ha
mandato a farmi da accompagnatore?»
«Perché sono l’unico uomo adatto per questo lavoro, ovviamente,»
replicò. «Mister Faccia Scontrosa vuole ringraziare Jason per il suo aiuto,
e si dà il caso che io sappia esattamente cosa piace a Jason.»
Scoppiai a ridere. «Mister Faccia Scontrosa? Oh, mio Dio, lo chiamerò
così la prossima volta che lo vedo.»
«Ti prego, e io starò lì a guardarlo mentre ti sculaccia per questo.»
Ci fermammo in un parcheggio, apparentemente giunti a destinazione.
Mentre Vincent parcheggiava, io puntai l’attenzione sugli edifici vicini,
cercando di capire dove fossimo diretti.
«Aspetta un attimo… quello è il Satin Novelties? C’è un sexy shop a
Wickeston adesso?» Fissai il negozio senza credere ai miei occhi. Le
vetrine erano tappezzate di carta nera, e sulla porta c’era un grande
cartello rosso con su scritto: Vietato l’ingresso ai minori di 18 anni.
«Sì, hanno sostituito il vecchio gommista quando è fallito,» spiegò,
staccando le chiavi dall’accensione mentre apriva lo sportello.
«Scommetto che ci sono state diverse proteste quando hanno aperto il
locale. Da queste parti c’è stato un vero e proprio putiferio.»
Ci incontrammo davanti al retro dell’auto. Non avremmo potuto
sembrare più opposti: lui con la sua maglietta tie-dye e i suoi capelli
lunghi, e io con la mia coda di cavallo accuratamente legata, i tacchi e la
camicetta bianca. Ero stata decisa su cosa indossare, ma la mia regola era
sempre quella di vestirmi più elegante, per ogni evenienza.
A giudicare dal modo in cui il suo sguardo vagò su di me, gli piaceva
quello che avevo scelto. Non riuscivo a vedere bene i suoi occhi sotto gli
occhiali da sole, ma me ne accorsi quando si leccò le labbra e si aggiustò
discretamente i pantaloni.
Tese la mano, facendo un cenno verso il negozio. «Vogliamo andare,
giocattolino?»
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27
Vincent
Satin Novelties mi faceva sentire come un bambino in un negozio di
caramelle. Certo, ormai si trovava tutto online e potevo facilmente
ordinare tutti gli articoli che volevo e farmeli consegnare a casa, ma c’era
qualcosa di tremendamente piacevole nel girovagare tra gli scaffali veri,
imbattersi in un articolo inaspettato e far correre l’immaginazione.
Soprattutto quando avevo la fonte di tanta ispirazione proprio davanti a
me e la sua mano nella mia.
Condussi Jess all’interno, facendo trillare il campanello della porta
quando entrammo. Quasi subito, si alzò una mano dalla parte anteriore
del negozio, vicino alla cassa.
«Benvenuti!» declamò una voce allegra. «Mi chiamo Julia. Se avete
bisogno di aiuto, chiedete pure!»
«Accidenti, che entusiasmo,» commentò Jess a bassa voce, e io sorrisi
tra me e me mentre ci muovevamo tra gli scaffali di lubrificanti e romanzi
erotici verso il bancone. Una giovane donna dai lunghi capelli rosso vivo
era seduta su uno sgabello dietro la cassa, con un sorriso smagliante che le
si allargò sul volto quando ci si trovò di fronte.
«Chi ha fatto entrare questo clown?» chiese. Scese dallo sgabello e
appoggiò i gomiti sul bancone. «Oooh, ma ti sei portato dietro un bel
tipetto! Ti ha rapita? Sbatti le palpebre due volte se hai bisogno di aiuto.»
«Insomma, non è stato proprio un rapimento,» rispose Jess, lanciandomi
un’occhiata maliziosa mentre stava al gioco. «Sono salita in macchina di
mia spontanea volontà.»
«Beh, considerando che questo pazzoide non ti ha ancora legata, sei in
una posizione migliore rispetto alla maggior parte delle vittime che
finiscono in quella trappola mortale della sua auto.» Tese la mano e Jess la
strinse con un sorriso. «A proposito, io sono Julia. Tu devi essere Jessica.
Lucas mi ha accennato che sareste passati.»
«La mia macchina non è una trappola mortale,» precisai. «Il fatto che
tu abbia paura di come guido non la rende mortale.»
«Mm, no, penso che sia piuttosto letale.» Strinse le labbra e mi fece
cenno di andarmene. «Perché non vai a fare un po’ di shopping o roba del
genere? Dai a me e a Jess la possibilità di conoscerci meglio.»
Alzai innocentemente le mani e mi allontanai. Se c’era una cosa a cui
Julia non sapeva resistere, era una ragazza sexy. Mentre io mi aggiravo tra
gli scaffali, continuò a chiacchierare, spiegando come ci conoscessimo
tutti. Lei e Lucas avevano lavorato insieme quando questo posto vendeva
ancora pneumatici; Julia era l’unica collega che Lucas non odiasse del
tutto. Era stata una studentessa della Wickeston High, ma di un anno
superiore a tutti noi, anche se aveva sempre frequentato alcuni dei nostri
stessi ambienti. Di conseguenza, eravamo finiti a molte feste insieme,
incluso il locale dove lavoravo come barista.
«Mi ricordo di te dalla squadra delle cheerleader!» esclamò Julia,
praticamente strillando per l’eccitazione. «Ti vedevo sempre alle partite di
football. Ragazza, eri fantastica. Porca miseria, io non riuscirei mai a essere
così flessibile.»
Passando di lì, diedi una rapida occhiata al viso di Jess e fui felice di
vederla sorridere. La maggior parte dei nostri amici non era gente che Jess
conosceva a fondo, ma erano tutte persone di cui si poteva fidare.
Aveva bisogno di persone così. Persone che non l’avrebbero demolita
alle sue spalle, che non facevano dell’adesione a uno stampo rigido uno
dei requisiti dell’amicizia. Per quanto mi avesse fatto incazzare, trovare
Jess abbandonata nel nostro garage dai suoi cosiddetti amici mi aveva
rattristato più di ogni altra cosa. Si attaccava a quelle persone perché le
erano familiari, non perché facessero davvero qualcosa per la sua vita.
Un tempo avevo cercato di stringere amicizia con tutti quelli che
incontravo, a prescindere da chi fossero o da come mi avessero trattato.
Mi ero persuaso che una buona dose di gentilezza potesse cambiare le
cose, ma non tutti erano - o meritavano di essere - amici. Imparare quella
lezione non era stato facile, ma dolorosamente necessario.
Sorrisi quando presi un paio di pinze per capezzoli e le infilai sotto il
braccio. Jason non sapeva di preciso come Lucas avesse intenzione di
ringraziarlo, e io ero ben contento che Julia stesse tenendo Jess occupata.
Avevo programmato di farla arrivare a casa nostra insieme a un’intera
scatola di oggetti, come una bambola accessoriata. Mi solleticava lo spirito
immaginare non solo Jason che veniva sorpreso da Jess, ma anche Jess che
veniva sorpresa da ciò in cui si sarebbe imbattuta.
Jason aveva certe perversioni che non riusciva spesso ad assecondare, e
io ero ansioso di dargliene l’opportunità. Ma presi qualche oggetto anche
per me: non volevo perdermi l’occasione di giocare anch’io, una volta che
finalmente avrei avuto Jess tutta per me.
«Penso che sia tutto,» dichiarai, posando il cestino sul bancone perché
Julia scannerizzasse gli articoli. Mi ci misi davanti prima che Jess potesse
vederlo. «Non sbirciare ora. Rovinerebbe la sorpresa.»
Jess mi lanciò un’occhiataccia, storcendo la bocca per protestare, ma
Julia ululò eccitata: «Oh, sì, ragazza, mantieni la sorpresa!» Si sporse da
dietro di me, alzando le sopracciglia con un’aria perversa che la faceva
sembrare un cartone animato. «Fidati, ti divertirai.»
«Mm, vedremo,» disse Jess, anche se lo scetticismo nel suo tono cedette
il posto a uno scherzoso. Julia ci fece il conto, e mi stava restituendo la
carta di credito quando il tintinnio del campanello attirò la sua attenzione.
«Scusate, ragazzi. Il dovere chiama.» Alzò la mano e salutò con lo stesso
entusiasmo la coppia che era appena entrata, poi abbassò la voce e disse:
«Oh, credo di avere dei novellini. O si terrorizzeranno e se la daranno a
gambe o compreranno l’intero negozio. È ora di fare un po’ di magia! Ci
vediamo!»
***
Quando uscimmo dal negozio lo stomaco di Jess stava brontolando,
anche se lei cercava di negarlo. Ma dall’altra parte della strada c’era un
fast-food e l’odore di cipolle grigliate e hamburger unti mi attirava.
Prendemmo un tavolo all’aperto per mangiare, con tanto di ombrellone a
strisce che ci riparava dal sole.
Jess divorò il suo hamburger prima che io ne avessi mangiato anche
solo metà.
«Stamattina mi sono allenata duramente,» commentò quando si accorse
che stavo scrutando il suo vassoio vuoto. «E ho fatto una piccola
colazione…»
«Rilassati, ragazza.» Ridacchiai, allungandole una manciata di patatine.
«Chi diavolo ti ha insegnato che devi giustificarti per quello che mangi?»
Mi fissò per un attimo, prima di balbettare: «Ehm, mia madre, credo. È
sempre stata esigente in materia di cibo.»
«Questo non è essere esigenti, è essere invadenti. Non sono affari di
nessuno quello che mangi, basta che mangi.» Sorrise, allungò la mano sul
tavolo e afferrò alcune delle mie patatine. «Tieni. Ruba quanto vuoi.»
Il suo sorriso si allargò e tirò su le gambe per incrociarle sulla sediolina
di plastica rossa. C’era una tale differenza tra il modo in cui sorrideva in
pubblico - alle feste, con i suoi amici, con i suoi coetanei - e quello in cui
sorrideva qui, con me. Questo sorriso era molto più aperto. Era sincero,
piuttosto che un’espressione formulata ad arte. Mi piaceva. Volevo
vederlo di più.
Volevo vedere ogni sua espressione, la più autentica possibile.
Da dove ero seduto avevo una vista sul parcheggio, quindi notai la
vecchia Chevrolet rossa non appena si fermò. Era rumorosa, borbottava
come se avesse una perdita di gas di scarico e i miei occhi la seguirono,
anche se non le diedi molta importanza. Parcheggiò di traverso e il motore
si spense, ma io stavo già guardando di nuovo Jess quando l’autista scese.
Lo vidi chiaramente solo quando passò davanti al nostro tavolo. Allora
alzai lo sguardo e per poco non mi strozzai con un boccone di hamburger.
«Ehi, tutto bene?» Jess allungò la mano dall’altra parte del tavolo
mentre tossivo, ma riuscii in qualche modo a ingoiare il cibo fra uno
sbuffo e l’altro. Feci una pausa per riprendere fiato. Jess mi guardava con
gli occhi sgranati. Ma poi il suo sguardo si spostò verso l’alto, sopra la mia
spalla, e fece un sorriso imbarazzato dicendo a qualcuno: «Sta bene.»
Merda. Porca merda.
Guardai indietro in tempo per stabilire un breve contatto visivo con
l’uomo che era sceso dal veicolo. Era vecchio, con un fisico longilineo e
magro e una barbetta grigia sulle guance. I capelli erano unti e cresciuti
fino alle spalle, ma malgrado il suo aspetto trasandato c’era una
sorprendente familiarità che mi fece inacidire il cibo nello stomaco.
La sua bocca si contrasse in un sorriso sghembo, prima di voltarsi e
continuare a camminare. Mi aveva riconosciuto, glielo avevo letto negli
occhi.
Raccolsi in fretta ciò che rimaneva del mio cibo e misi il mio vassoio
sopra quello vuoto di Jess. «Forza. Dobbiamo andare.»
Jess sbatté le palpebre per la sorpresa, ma mi seguì mentre gettavo via la
nostra spazzatura. Le presi la mano prima di correre dall’altra parte della
strada, guardandomi alle spalle in preda alla paranoia.
Non sarebbe dovuto tornare. Cazzo, non doveva nemmeno essere vivo.
«Okay, che diavolo sta succedendo?» chiese Jess non appena fummo di
nuovo in macchina. Mi sentivo meglio con l’aria condizionata a palla e
tutte le portiere chiuse, i vetri oscurati che ci nascondevano dal mondo.
Forse mi ero sbagliato. Forse non era lui.
Ma quel pick-up… era lo stesso che aveva guidato per così tanto tempo.
E il modo in cui aveva sorriso, i tratti spigolosi del viso, gli occhi scuri…
assomigliavano in tutto e per tutto a quelli di suo figlio.
«Hai visto quel vecchio?» domandai, infilando il portafogli nel
bracciolo centrale. Lei annuì. «Era il padre di Manson. Reagan Reed.»
I suoi occhi si allargarono e si girò sul sedile, guardando dall’altra parte
della strada. «Merda. Deduco che non fosse in città da un po’.»
«Dal funerale,» risposi, uscendo dal parcheggio e tornando sulla strada.
«Pensavamo fosse morto. Speravamo che fosse morto, credo. Non parlarne
con Manson, okay? Glielo dirò io, ma tu non tirare fuori l’argomento.»
«Non lo farò.» Mentre guidavo i suoi occhi erano puntati su di me, mi
studiavano. Una ragazza sveglia. Mi avrebbe capito se avesse continuato a
provarci. «Spaventa anche te, non è vero?»
Sospirai, le mie dita si arricciarono attorno al volante. Lei non aveva
mai saputo tutti i retroscena: le erano giunte solo delle notizie superficiali
su ciò di cui Reagan era capace, sufficienti per capire che tipo di uomo
fosse, ma niente di più. Non era una storia che spettava a me raccontare e,
inoltre, non volevo spaventarla.
Manson aveva portato raramente qualcuno a casa dei suoi genitori ai
tempi del liceo, ma io ci ero andato due volte. Entrambe le volte avevo
smaniato per andarmene. La presenza di Reagan in casa era come un
veleno nell’aria. Avevo visto la moglie e il figlio rabbrividire in sua
presenza: teste chine, occhi bassi, voci sempre caute.
Non era affatto come a casa mia. Le mie sorelle e io non avevamo mai
avuto paura dei nostri genitori. Li rispettavamo, certo. In qualità di figlio
maggiore, ci si aspettava che fossi io a dare l’esempio, a prendermi cura
delle mie sorelline e a contribuire al sostentamento della famiglia. Ma ero
felice di fare queste cose per amore, non per paura.
Sarei stato perso senza mio padre, e mia madre era una delle persone
più gentili e sagge che conoscessi. Aveva accolto i miei ragazzi quando
nessun altro l’avrebbe fatto, li aveva nutriti e amati. Avevano accettato
Jason sotto il loro tetto senza un secondo di esitazione quando la sua
stessa famiglia lo aveva cacciato. Se Manson e Lucas non si fossero
vergognati così tanto di accettare un aiuto, i miei genitori avrebbero
accolto anche loro in casa.
«Reagan mi fa cagare sotto,» risposi onestamente, ma alla fine sorrisi
per cercare di rassicurarla. «Ma non preoccuparti. Probabilmente se ne
andrà di nuovo dalla città tra qualche giorno: non si trattiene mai a
lungo.»
Jess si risistemò al proprio posto, ma sulla fronte le rimase una ruga di
preoccupazione, che le fece aggrottare le sopracciglia. Reagan non era più
tornato a Wickeston da quando era morta la moglie che aveva
abbandonato. Non aveva presenziato al funerale, ma di sicuro era
incazzato nero per il testamento. A quanto pareva, la madre di Manson
era stata benestante all’epoca del matrimonio con Reagan, e aveva anche
ereditato la casa dei propri genitori. Ma anni di matrimonio violento e di
dipendenza dall’alcol le avevano tolto tutto - quasi tutto.
Ogni centesimo che le era rimasto lo aveva dato a Manson. Non era una
fortuna, ma l’eredità e la casa avevano cambiato completamente le sorti
delle nostre vite. Ci aveva dato un posto dove vivere, un rifugio in cui
stare insieme. Ci aveva permesso di sognare in grande, in meglio.
Che io fossi dannato se Reagan avesse cercato di rovinare tutto questo
adesso.
Ma non mi andava di pensare a quel vecchio o ai problemi che avrebbe
potuto causare. Era una bella giornata e sul sedile del passeggero sedeva
una donna ancora più bella, che probabilmente si stava chiedendo se
l’avrei riaccompagnata a casa o se l’avrei portata via per i miei piani
malvagi.
Era decisamente la seconda.
Invece di prendere la Route 15 per tornare a casa sua, svoltai e mi
inoltrai in strette stradine secondarie, aguzzando la vista per individuare
eventuali poliziotti in agguato. Continuai a guidare finché l’asfalto non
finì. La strada davanti a me si snodava tra terreni agricoli, campi di grano
da un lato e alberi incolti dall’altro.
Jess mi lanciò un’occhiata. «Perché ti sei fermato?»
Strinsi la presa sul cambio. Conoscevo questa strada come le mie
tasche. Probabilmente avrei potuto guidarla a occhi chiusi. Ma lei non lo
sapeva. «Ti sto solo dando la possibilità di prepararti,» risposi.
I suoi occhi si spalancarono, guizzando tra me e la strada davanti a noi.
«Aspetta, prepararmi per cosa…»
Ingranai la prima e schiacciai il pedale dell’acceleratore. Lei fece un
sospiro quando l’auto schizzò in avanti, con le marmitte che
scoppiettavano come spari mentre i miei pneumatici prendevano aderenza
e scavavano nella terra. Ci lanciammo oltre il primo dosso della strada,
con la polvere che si sollevò dietro di noi in una nuvola.
Era grata per quell’imbracatura adesso: vi si stava aggrappando con
tutte le sue forze.
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28
Jessica
Vincent stava sfrecciando su strade strette e ricche di curve, con le gomme
che slittavano sul terriccio, saltando su dossi e cunette senza la minima
preoccupazione. Avrei potuto giurare che l’auto avesse volato su un dosso
particolarmente grande e che tutte e quattro le gomme si fossero staccate
da terra, mentre il motore ronzava come un’ape fuori misura. Tenevo la
maniglia sopra la portiera stretta in una morsa mortale, mentre con l’altra
mano stritolavo la coscia di Vincent.
Ma era chiaro che sapeva cosa stava facendo. Con un solo sguardo, vidi
la gioia sul suo volto, l’eccitazione e la concentrazione. Le curve erano
strette, le variazioni del fondo stradale gli imponevano di regolare
costantemente la velocità. Ogni buca mi dava la breve sensazione di
volare, con lo stomaco che si alzava e si abbassava insieme alla strada.
Era come stare sulle montagne russe. Strillai quando imboccò una curva
stretta a tutta velocità e la parte posteriore dell’auto slittò, prima che ci
lanciassimo di nuovo in avanti. Feci prima una risatina, poi una risata,
incapace di impedirmi di sorridere.
«Porca puttana, è divertente!» gridai mentre volavamo sull’ennesimo
dosso, passando accanto a una mandria di mucche che fuggirono
sorprese.
«Benvenuta nelle gare di rally, Jess!» Alzò la voce per sovrastare il
motore, ridendo insieme a me. «Spaventata?»
«No!» Il mio cuore batteva all’impazzata, le mie membra
formicolavano, ero strafatta di adrenalina. «È fantastico!»
Uscimmo da un lungo tratto di alberi e trovammo campi aperti su
entrambi i lati. C’erano altre mucche al pascolo in lontananza e sul lato
opposto della strada c’era un vecchio fienile, con il tetto di legno scuro
leggermente pendente da un lato. Vincent rallentò e sterzò per entrare nel
campo non recintato e dirigersi verso il fienile.
Ora che aveva rallentato e potevo riprendere fiato, dissi: «Quindi
Manson e Lucas fanno gare di accelerazione… e tu fai questo? Rally?»
«Esatto. Il rally è piuttosto vario come sport motoristico, ma la
differenza principale è che se gareggio, non corro direttamente contro
altri concorrenti sullo stesso circuito. Si tratta sempre di raggiungere una
destinazione il più velocemente possibile, ma c’è qualcosa di più della
classica gara di accelerazione. Come andare fuori strada.» Sorrise,
togliendosi gli occhiali da sole mentre ci avvicinavamo al fienile. «È il mio
preferito. Ricordami di mostrarti la gara di rally che si tiene all’Isola di
Man. Ti lascerà a bocca aperta.»
Le porte del fienile erano spalancate, consentendogli di condurre la
WRX all’interno. La luce del sole filtrava in pallidi fasci attraverso le
vecchie assi, i granelli di polvere vorticavano nella luce quando Vincent
spense il motore ma lasciò che la musica continuasse a suonare.
Si sistemò sul sedile, guardandomi con un sorriso che raccontava cose
malvagie. «Pensavo che te la saresti fatta addosso da come urlavi là fuori,»
mi schernì, e io gli diedi uno spintone sulla spalla.
«Non avevo paura,» replicai con sicurezza. «Sono più coraggiosa di
quanto pensi.»
Mi afferrò il polso e lo strinse, avvicinandomi a lui. «Mi hai fregato.
Avrei dovuto capire che eri coraggiosa con quei tuoi piercing ai capezzoli.
Nemmeno Lucas è abbastanza temerario da farseli fare.»
«Considerando che Lucas si è infilato un ago nel cazzo, dubito che
avrebbe avuto problemi a farsi fare un piercing ai capezzoli,» riflettei.
Vincent si chinò verso di me. La sua bocca sorridente si avvicinò
pericolosamente alla mia mentre teneva imprigionato il mio polso.
«Non ne sarei così sicuro,» mormorò. Il suo pollice strofinava lenti
cerchi sul dorso della mia mano. «Non l’hai visto quando si è fatto fare il
piercing. In realtà è terrorizzato dagli aghi.»
«Ha dato di matto?» Scoppiai a ridere. «Dai, mi stai prendendo in
giro.»
Ma lui scosse la testa. «No, non sto nemmeno esagerando. È stato un
disastro, e io ho ripreso tutto.»
Oh. Avevo bisogno di quel video.
«Devi farmelo vedere.» Mi avvicinai e lasciai che il mio respiro lambisse
le sue labbra. L’eccitazione era attorcigliata nel mio addome come un
serpente al sole. Stretta, calda, pronta a colpire.
«Oh, posso farlo,» mi rassicurò. Le sue dita sfiorarono il mio braccio e i
suoi occhi verdi si fissarono sulle mie labbra. «Al giusto prezzo.»
«Prezzo…» Gli feci eco. Gli scostai i capelli all’indietro, mantenendo
intenzionalmente il tocco delle mie unghie il più leggero possibile sulla sua
pelle. Rabbrividì, e questo mi fece sorridere. «Mi pare di essere già
parecchio in debito con voi…»
«Stai cercando di fare la dolce con me adesso, eh?» Mi afferrò il mento,
dando una piccola scrollata al mio viso. «Dovrai sforzarti di più, baby.
Anche Jason è un viziato. So come funzionate.»
Inarcai un sopracciglio per la sorpresa, irritata dal fatto che mi avesse
smascherata così facilmente. «Jason? Un viziato? Il signor Massimo dei
Voti con una bella educazione cristiana? Ne dubito.»
«Quando ti ha leccato la fica in garage, ti è sembrato che l’abbia fatto
come lo avrebbe fatto un bravo ragazzo?» chiese. Il modo in cui le sue
labbra si incurvarono intorno a quelle parole non avrebbe dovuto essere
così erotico. Pensare a Jason che mi divorava mentre gli altri mi
sculacciavano e mi scopavano la bocca mi fece pulsare - la mia fica stava
diventando troppo avida.
Ogni sua parola mi eccitava, e il suo odore era così buono. Volevo
premere il naso contro di lui e inalarlo nei miei polmoni, far scorrere la
lingua sulla sua pelle, assaggiare il sudore e il sale…
Dannazione, che mi prendeva? Per difendere il mio orgoglio, dovevo
opporre almeno un po’ di resistenza, ma quando lui mi guardava in quel
modo…
Cosa diavolo c’era da resistere?
Rise di nuovo mentre appoggiò la sua mano sulla mia guancia.
L’umorismo gli veniva spontaneo, e mi piaceva il modo in cui rideva:
sembrava innocente e malvagio allo stesso tempo.
«Vieni», disse. «Voglio farti vedere una cosa.»
Scese dall’auto e percepii la distanza tra noi come uno sforzo crudele di
ricordarmi chi comandava. Dannazione, la maggior parte delle persone
avrebbe approfittato subito e al massimo di quella situazione. Lo stavo
praticamente scopando con gli occhi, eppure lui continuava a farmi
aspettare.
Lo raggiunsi davanti alla macchina. Il fienile scricchiolava dolcemente
intorno a noi; il fruscio della brezza attraverso l’erba e il dolce canto degli
uccelli creavano un ambiente rilassante. Ma non appena mi sistemai
accanto a lui, appoggiandomi al caldo cofano dell’auto, notai qualcosa di
parzialmente nascosto nell’ombra.
Un enorme dipinto ricopriva la parete interna del fienile. Strinsi gli
occhi in due fessure e mi avvicinai, sorpresa di trovare un murales di un
clown cupo e sorridente. Gli occhi del personaggio sporgevano dalla testa,
la bocca si allungava in un ampio ghigno dai denti aguzzi, mentre mi
fissava con un occhio azzurro gelido e uno verde brillante.
«Wow…» Mi avvicinai ancora di più, sfiorando con le dita le assi ruvide
e logorate dalle intemperie. Da vicino, potevo vedere le varie sfumature di
vernice usate per creare profondità, lucentezza e ombra. Era
incredibilmente dettagliato. Guardai di nuovo verso Vincent. «L’hai
dipinto tu?»
Lui annuì, mettendosi accanto a me. «L’ho iniziato quando avevo
diciassette anni. Quando ho trovato questo vecchio fienile. È
abbandonato da anni. La famiglia che possiede la proprietà non vive
nemmeno nello Stato, quindi nessuno si preoccupa di venire a dare
un’occhiata. Venivo qui in macchina quando avevo bisogno di stare un po’
da solo.»
«Perché un clown?» chiesi. La pittura del viso era quasi identica a
quella che aveva indossato lui quella sera alla festa di Halloween: contorni
scuri attorno agli occhi e labbra dipinte di nero.
«Mi è sempre piaciuto il motivo del clown,» ammise. «I clown sono
degli artisti, destinati a far divertire. Ma c’è chi li trova terrificanti e chi li
trova divertenti. Alcuni pensano che siano sexy.» Mi guardò dimenando le
sopracciglia e io risi, scuotendo la testa. «Non mentire. Anche tu soffri un
po’ di coulrofilia.» Al mio sguardo scettico, spiegò: «Ti eccitano i clown.»
«Non credo,» replicai. Mi abbracciò da dietro e il suo mento si
appoggiò rilassato sulla mia testa. «Forse solo se quei clown siete tu,
Lucas e Jason.»
«Ah, allora lo ammetti: ti piacciono gli uomini truccati.» La sua presa si
strinse, stuzzicando quell’eccitazione ardente dentro di me. Mi resi conto
di quanto fossero bagnati i miei slip. «Un clown è solo un essere umano
con la faccia dipinta e dei vestiti strani. È una questione di percezione. Se
sono considerati divertenti, spaventosi, sexy, tutto dipende da chi li
guarda. È il pubblico a definire ciò che vede. È tutto un grande
spettacolo.»
Era un concetto che capivo. Ci sono volte in cui, indipendentemente da
quello che fai, non puoi cambiare la percezione che le persone hanno di
te.
«Non sapevo che ti piacesse dipingere,» commentai. Mi sentivo così
piccola, infilata sotto il suo mento in quel modo. Non ero particolarmente
bassa, ma lui era così alto e slanciato che io sembravo comunque
minuscola in confronto.
«La mia famiglia ha una vena artistica. Una delle mie sorelle minori,
Mary, è una pittrice molto più brava di me. Dovrebbe finire in una galleria
d’arte, e ha solo quattordici anni. Ma tutti noi abbiamo il pallino di
realizzare qualcosa. I miei genitori ci hanno sempre incoraggiati a
esprimerci. Ho scatole piene di braccialetti di perline delle due gemelle. E
la più piccola, Kristina, ama disegnare.»
«Che famiglia numerosa. Immagino che questo renda più facile vivere
con gli altri ragazzi. Sei già abituato a una casa affollata.»
«È un vero e proprio circo,» spiegò. «In entrambi i casi. Ma mi piace. È
una bella sensazione avere vicino un gruppo di persone che ami. Ti fa
sentire al sicuro, come se non fossi mai solo.»
La nostalgia mi squarciò il petto. Non avevo idea di come ci si sentisse a
essere circondati da persone con le quali non avevo bisogno di recitare. Se
ero sola, almeno non potevo essere giudicata.
«La tua famiglia lo sa?» chiesi. «Voglio dire, gli hai raccontato di…»
«Del fatto che sono un bisessuale poliamoroso che crede nella libertà
sessuale? Assolutamente sì.» Sorrise. «Aiuta che i miei genitori siano dei
veri e propri hippy, e che i ragazzi non abbiano gli stessi tabù che hanno
gli adulti. Le mie sorelle sanno che il loro fratellone ha molto amore da
dare, e l’amore è una cosa meravigliosa.»
«Quindi tu sei quello romantico,» ragionai. «Avrei dovuto saperlo.»
«Sono quello che ha fatto più pratica. Jason ha un debole per le
romanticherie, anche se lo nega.»
Lo guardai da sopra la spalla. «Sei proprio innamorato di lui, eh?»
«Assolutamente sì. Amo tutti quei bastardi, ovviamente, ma l’amore è
un po’ diverso a seconda della persona con cui lo si condivide. A volte è
passionale e romantico, oppure profondo e platonico, o qualsiasi
combinazione intermedia. Molte persone non lo capiscono, ma io non ho
bisogno della comprensione di nessuno. L’ho accettato molto tempo fa.»
Per metà del tempo, provavo anch’io la stessa cosa. Non avevo bisogno
di far capire me o le mie ragioni a nessuno. Non dovevo giustificarmi. Ma
per l’altra metà del tempo, l’insicurezza si faceva avanti e mi ricordava
che, quando ci si allontanava troppo da ciò che la società comprendeva, ci
si ritrovava rapidamente rifiutati.
«Hai qualche altro talento nascosto?» domandai, voltandomi verso di
lui. Mi abbracciava, come se ci fossimo toccati per anni invece di evitarci.
Era questo il punto con Vincent: mi faceva sentire a mio agio. Avvertivo
un’intimità senza il minimo sforzo.
Mi fece un altro di quei suoi sorrisi malvagi, prima di alzare un dito
come per indicarmi di aspettare. Tornò alla macchina e aprì il bagagliaio,
dove aveva riposto la misteriosa scatola di giocattoli che aveva comprato
nel sexy shop. L’avevo solo intravista - c’era qualcosa che assomigliava a
un dildo alieno blu - ma vederlo rovistare mi fece correre un brivido di
eccitazione lungo la schiena.
Quando si raddrizzò di nuovo, aveva in mano una corda nera
intrecciata e arrotolata.
«Oh, fammi indovinare,» dissi. «Eri uno scout molto convinto?»
«Molto.» Si mise di fronte a me, facendo scorrere lentamente la corda
tra le dita. «Ho sempre avuto una passione per i nodi. Volevo saperne di
più e volevo essere il più veloce a farli. Facevamo un gioco… un gioco da
bambini stupidi, sai? Alcuni di noi facevano i pirati e altri i marinai, e la
mia parte preferita era catturare quanti più marinai possibile e legarli.»
Aveva l’aspetto di un pirata. Capelli lunghi, malizioso, pericoloso. «Non
sembra un gioco che i bambini dovrebbero fare.»
Scosse la testa. «Assolutamente no. Per fortuna, crescendo, non ho
perso il mio amore per i giochi. Mi piace ancora catturare le mie vittime e
legarle, solo che ora so cosa fare con loro una volta che le ho legate.»
Stavo praticamente sprizzando bisogno da tutti i pori. Tesi i polsi,
mantenendo un’espressione cautamente scettica, mentre dentro di me
urlavo dalla voglia di essere toccata da lui.
«Cosa pensi di fare esattamente con me, pirata?» domandai. Il suo
sorriso era controllato, così come il tocco delle sue dita sulla mia gola.
«Sii paziente,» mormorò. «E fai come ti dico, a meno che tu non voglia
farti male.» La mia gola sussultò contro la sua mano quando deglutii, e lui
ordinò: «Spogliati. Togliti tutto.»
Pensai di ribellarmi, di opporre resistenza per scoprire cosa poteva fare
questo pirata con la sua vittima impertinente. Ma mi piaceva il modo in
cui mi guardava quando lo provocavo, così, mentre mi toglievo la
maglietta, dissi: «La prego, non mi faccia del male, signore. Farò tutto
quello che mi dirà.»
Lui sogghignò, facendo oscillare un’estremità della corda in un rapido
cerchio mentre mi toglievo le scarpe, prima di sbottonare i jeans e calare
anche quelli. Quando sollevai la testa dopo averli gettati da parte, la sua
espressione accuratamente preparata era sparita, lasciando al suo posto
qualcosa che assomigliava allo stupore.
«Che c’è?» indagai, odiando come la mia voce sembrasse più
vulnerabile ora che la maggior parte dei miei vestiti era stata tolta. Era
inevitabile, credo. Sicurezza e insicurezza correvano mano nella mano
dentro di me.
«È buffo come va la vita,» commentò, con gli occhi che mi
perscrutavano come se stesse cercando di memorizzare ogni mia curva.
«Qualche anno fa, pensavo che il massimo a cui mi sarei mai spinto con te
fosse quando abbiamo ballato insieme al ballo di fine anno.»
«Il ballo…» Era da tanto che non pensavo a quella sera. Era stata una
giornata di merda, ma c’era stato quel momento fuori, sotto la pioggia
battente. «Già. È strano come vanno a finire le cose.»
Folle, insensato, caotico. Non ero sicura che ci fosse ancora qualcosa
che avesse senso, ma forse non doveva averne.
«Ci ho pensato a lungo, Jess,» ammise. Le sue dita tracciarono il bordo
del mio reggiseno, sfiorando leggermente il tessuto di raso celeste pallido.
«Cosa stai aspettando? Ti ho detto di toglierti tutto.»
L’autorità nella sua voce era diversa da quella degli altri ragazzi. Era al
limite del giocoso, ma sotto la superficie c’era un avvertimento acuto.
Avevo la sensazione che potesse passare dall’allegria alla serietà in una
frazione di secondo, quindi obbedii.
L’aria era calda e leggermente umida mentre stavo lì, nuda, con i vestiti
buttati da parte in un mucchio. I raggi di sole cadevano sul viso di
Vincent, che sorrideva.
«Sei troppo bella, cazzo,» mi disse, avvolgendo la corda intorno al mio
polso. «Sai cosa mi piace fare con le cose belle?» Mi tirò più vicino e mi
prese per la gola, manovrandomi finché la parte posteriore delle mie
gambe non fu premuta contro la griglia della sua auto. «Mi piace
romperle. Mi piace vederle andare in pezzi mentre le distruggo.»
«Non…» La mia protesta era sommessa, e lui la interruppe con una
rapida stretta della sua mano. Mantenne quella pressione ai lati della mia
gola giusto il tempo necessario perché mi venisse un leggero capogiro.
«Stai zitta.» Di nuovo, lo disse come se fosse una battuta, ma la battuta
aveva un peso sinistro. «È esattamente quello che succederà, baby. Ti
romperò, e tu piangerai e mi implorerai di smettere anche se ti piace. Poi,
tra un paio di giorni, Jason avrà il suo turno e farà la stessa dannata cosa.
Ti romperemo ancora, e ancora, e ancora. Tutte le volte che sarà
necessario.»
Avevo il cuore a mille, mentre lui mi spingeva all’indietro fino a farmi
sdraiare contro il cofano dell’auto. Toccavo a malapena a terra con le dita
dei piedi e il cofano era ancora lievemente caldo. Mi legò l’altro polso e
poi li strinse, fissando la corda alle sbarre all’interno dell’auto. Ogni suo
movimento era così accurato ed esperto da far pensare che legasse la gente
al cofano dell’auto di continuo.
Forse lo faceva.
Ben presto entrambe le mie braccia furono legate e divaricate. Ero
abbastanza distesa da non avvertire troppa tensione nelle spalle, ma di
certo non potevo muovermi più di tanto.
«Sei un ornamento sexy per il cofano,» commentò, a braccia conserte,
in piedi davanti a me. «Sarebbe divertente portarti in giro per Wickeston
in questo modo. Potrei riempirti il culo con un giocattolo vibrante e farti
sgocciolare per tutto il tempo.»
«Non osare,» lo ammonii, combattuta tra l’eccitazione all’idea e
l’orrore, mentre strattonavo la corda. Non si mosse, nemmeno un po’.
«No. Non riuscirei a passarla liscia. Se la gente vede una povera donna
legata al cofano di una macchina, si preoccupa. Non si può pretendere
che il pubblico sappia che a una ragazzina mocciosa come te piace essere
trattata come se fossi nient’altro che un giocattolo. Oltretutto, la mia
macchina scotta.» Accarezzò affettuosamente il cofano. «Non vorrei che ti
si ustionasse il culo.»
Allungò le dita tra le mie gambe. Trattenni il respiro, così carica di
tensione nell’attesa che entrasse in contatto con me. Si udì un flebile
stridio, il suono delle sue dita che strisciavano sul cofano. Non mi toccò
affatto, ma sollevò la mano in modo che potessi vedere la lucentezza sui
suoi polpastrelli. «Vedi, lurida ragazza? Questa è tutta opera tua. Stai già
gocciolando sul cofano a cui sei stata legata.» Portò il dito alla mia bocca,
picchiettando leggermente sul mio labbro inferiore. «Apri.»
Strinsi forte le labbra, scuotendo la testa.
«Beh, Jess,» disse con un tono fintamente deluso. «Se vuoi insistere a
tenere la bocca chiusa, tanto vale che te ne dia una buona ragione.»
Scomparve dal mio fianco e tornò al bagagliaio. Dopo un breve
momento, riemerse con in mano una candela bianca e alta. Era sottile, e
assomigliava al tipo di oggetto che mia madre amava mettere in giro per
casa a Natale.
«A cosa serve?» domandai.
In risposta mi spinse la base della candela contro il clitoride, sfregando
la cera su di me per alcuni istanti prima di premerla all’interno. Mi morsi
la lingua, sforzandomi di rimanere in silenzio mentre lui pompava la
candela dentro e fuori.
Quando usò la mano opposta per strofinarmi il clitoride, mi ruppi quasi
all’istante. Ansimai, le mie labbra si aprirono e la sua mano scattò per
afferrare la mia mascella, con le dita agganciate alla mia bocca. Non
potevo chiuderla senza morderlo, cosa che avrei fatto volentieri.
Era come se mi avesse letto nel pensiero, perché si avvicinò al mio viso
e sibilò: «Se mi dai un morso, te ne do uno anch’io.» La perfidia del suo
tono era un chiaro monito, così diverso dal suo solito atteggiamento
scherzoso. Mi sfilò la candela da dentro e me la mise tra i denti prima di
ritrarre il dito dalla mia bocca. Tirò fuori dalla tasca un accendino e accese
la candela, tenendola in posizione.
«Meglio non farla cadere,» mi avvertì. La tenevo stretta tra i denti e la
bocca, ma se avessi osato aprire la bocca, avrei fatto cadere la candela
accesa sul mio petto nudo. Sentii il mio stesso sapore sulla cera e gemetti,
dimenandomi in segno di protesta. «Visto che hai la bocca occupata, batti
tre volte la mano sul cappuccio se hai bisogno che io mi fermi. Ma non
credo che mi fermerai.»
I miei occhi si spalancarono quando mi resi conto che la candela stava
già cominciando a gocciolare, la cera colava lungo il lato mentre un’altra
perlina si formava rapidamente sulla punta. Vincent fece vagare le mani
sul mio interno coscia, facendomi il solletico. Ma quel brivido mi tradì. La
goccia di cera tremolò e cadde, atterrando proprio tra i miei seni.
Non era la prima volta che la cera mi colava addosso, ma non fu meno
scioccante. La frazione di secondo di dolore, il sussurro di una bruciatura
che svanì rapidamente… Volevo gridare, disperatamente, ma riuscii in
qualche modo a tenere i denti stretti.
Un’altra goccia cadde mentre mi agitavo. Strillai intorno alla candela,
esercitando tutto l’autocontrollo che avevo per non contorcermi di nuovo.
«In che spiacevole situazione ti sei cacciata,» sussurrò Vincent mentre
affondava due dita nella mia fica, strappandomi un altro gemito disperato.
«Che tu ti dimeni o no, gocciolerà comunque. Che divertente. Oh, ma…»
Alzò un dito, cercando qualcosa nella tasca posteriore. Quello che tirò
fuori era una bacchetta con una punta rossa, che supposi fosse un qualche
tipo di attrezzo. «Ho qualcosa che lo renderà ancora più divertente.»
Poi la abbassò e la batté contro la mia coscia.
Mi sconvolse, l’elettricità esplose in ogni terminazione nervosa. Tutto il
mio corpo si tese, e strattonai le corde. Non potevo sottrarmi al fatto che
lui la abbattesse di nuovo, colpendo l’altra coscia e scatenando lo stesso
effetto. Urlai, con i denti ancora stretti, mentre altra cera mi sgocciolava
sul petto in piccoli, perfidi morsi di calore.
Vincent rise, facendosi girare la bacchetta in mano. «Oh, fa male? Era
un urlo della serie ‘mi sto divertendo tanto’ o ‘sono in agonia’? Non sono
riuscito a capirlo, sentiamolo di nuovo.» Un altro colpetto, un’altra scossa,
un altro urlo. Non riuscii a trattenerlo. «Beh, chi può dirlo! Sembrano
entrambe le cose, Jess.» Portò la bacchetta più in alto, proprio sopra uno
dei miei capezzoli duri. «Sembra che tu stia godendo per il dolore. Buon
per te.»
Abbassò la bacchetta. Cercai di scuotere la testa, ma ciò fece cadere
solo qualche altra goccia di cera. Fece un sorrisetto appena prima di
colpirmi, e la mia schiena si inarcò mentre urlavo per lo shock.
Ma non aveva ancora finito con me e spostò la bacchetta tra le mie
gambe. Stavo mugolando ancor prima che mi toccasse, prevedendo il
dolore, lasciandolo montare nella mia testa fino a farlo diventare un
mostro che aleggiava su di me. Vincent si fermò con la bacchetta così
dolorosamente vicina, osservando il mio viso.
«Mi piace vederti agitata,» disse. Premette il pulsante della bacchetta,
facendo scoccare una scintilla di elettricità sulla punta, accompagnata da
un crepitio. Il solo suono mi fece sobbalzare e altra cera mi chiazzò la
pelle.
Come aveva fatto Jason a sopravvivere a lui per tutti questi anni? Forse
si equilibravano a vicenda in qualche modo, sadico contro sadico,
nutrendosi della beatitudine di torturarsi a vicenda.
Meglio ancora, come potevano quattro sadici vivere in una casa e non
distruggersi completamente l’un l’altro con i loro giochi malati? Come
avrei potuto io sopravvivere a loro, quando la mia mente e il mio corpo mi
tradivano a ogni passo, facendomi bramare la loro crudeltà? Tutte le mie
finte lotte non cambiavano la realtà: volevo quello, lo agognavo.
«Sss, sss, Jess.» Teneva la bacchetta terribilmente vicina al mio clitoride
mentre si chinava in avanti, sostenendosi sul cofano con una mano
accanto a me. «Te lo meriti, sai. Per essere stata una cattiva ragazza. Le
ragazze cattive vanno punite, no?» Annuì nel dirlo, e io riuscii a
ricambiare con un piccolo cenno del capo. La mia lingua continuava a
formare la parola «per favore,» più e più volte, ma non mi usciva bene con
la bocca piena. «Conterò fino a tre e poi lo farò. Sei pronta?» Scossi la
testa e lui rise. «Penso che tu lo sia. Più pronta di così non si può. Uno…»
Battei quasi la mano sul cofano. Quasi. Ma ero curiosa. Volevo
spingermi oltre. Volevo di più. Mi tremavano le gambe, e frignai quando
altre due gocce di cera caddero su di me.
«Due.»
Tutto il mio corpo si contrasse. Non sapevo se distogliere lo sguardo od
osservarlo mentre lo faceva.
«Tre.»
Premette la bacchetta sul mio clitoride. Feci un urlo che si dissolse in
singhiozzi, mentre lottavo per tenere la candela al suo posto. Un cocktail
di adrenalina e dopamina mi attraversò in risposta al dolore - lo sballo
perfetto.
«Brava ragazza.» Si chinò a baciarmi la fronte e io mi sciolsi del tutto.
Lo volevo dentro di me, volevo il suo corpo sul mio.
Perché il dolore mi faceva sentire così viva? Era lo stesso tipo di brivido
che avevo provato legata al sedile del passeggero mentre lui sfrecciava
lungo la strada, rasentando il limite del pericolo. I miei fianchi si
sollevarono impazienti, per conto proprio. Furono accolti di nuovo dalla
bacchetta.
Vincent mi diede un piccolo schiaffo sul viso mentre piagnucolavo per
il bruciore. «Che puttana, a muovere i fianchi in quel modo. Vuoi solo
essere scopata, eh?» Mi guardò con un broncio sardonico mentre facevo
del mio meglio per rimanere immobile. Per non dimenarmi, per non
lottare, per non muovere freneticamente i fianchi in cerca di stimoli per il
mio clitoride gonfio, che già mi bruciava.
Tenne gli occhi fissi su di me mentre si raddrizzava, facendo roteare la
bacchetta nella mano. «Ti dico una cosa. Ti scoperò. Ti toglierò anche la
candela dalla bocca. Ma userò comunque la bacchetta per tutto il tempo.»
Mi sfiorò la gamba con la bacchetta, ma non premette il pulsante.
Rabbrividii sotto il suo tocco metallico, aspettandomi una scossa da un
momento all’altro. «Allora, hai intenzione di stare zitta o di urlare a
squarciagola per tutto il tempo?»
Scossi la testa. Lentamente, con rammarico. Ma non potevo farlo. Non
sarei riuscita a stare zitta. Ero troppo sopraffatta, troppo su di giri. Avevo
bisogno di urlare e, inevitabilmente, avrei fallito e disobbedito se mi
avesse ordinato di fare silenzio.
«No? Almeno sei onesta.» Ciononostante, afferrò la candela e la
allontanò dai miei denti.
«Non riuscirò… non riuscirò… a stare zitta,» riuscii a dire. La mia pelle
era bollente, e stavo vibrando di energia. «Non ce la faccio, Vincent, ti
prego…»
«Ti prego? Ti prego cosa?»
Mi contorsi sul cofano. «Ti prego, scopami. Ti prego. Cercherò di fare
silenzio. Ci proverò, davvero.»
«Ci proverai.» Tenne la candela sopra di me, muovendola lentamente,
tenendola inclinata in modo che delle gocce di cera mi schizzassero sulle
cosce. Mi morsi le labbra, ma non riuscii a trattenere i lamenti. «Sei una
piccola cosa rumorosa, vero? Non sei mai riuscita a chiudere quella cazzo
di bocca. La prossima volta, chiederò a uno dei ragazzi di tenerti la bocca
occupata. Ma per tua fortuna, mi piace il modo in cui urli.»
Si slacciò la cintura e si sbottonò i jeans per liberare il cazzo. Si sputò
nella mano e vi accarezzò l’erezione, prima di poggiare la sua punta gonfia
contro di me. Cercai di spingermi verso di lui, impaziente di sentirlo, ma
lui scosse la testa e picchiettò con la bacchetta contro il mio clitoride
ancora - e ancora - ed entrambe le scosse mi strapparono urla straziate.
Mentre gridavo, il suo cazzo sussultò, e lui afferrò una delle mie gambe e
la spinse in alto, aprendomi per lui.
«Sei così bagnata,» mormorò, guardandomi mentre affannavo.
Con un gemito sommesso, si spinse dentro di me. Non partì
lentamente, non si prese il suo tempo. Mi scopò con forza e rapidità,
spingendo dentro di me con una brutalità che era già di per sé una
punizione.
«Lurida, piccola troia,» sibilò e poi posò la bacchetta sul mio fianco.
«Cazzo, ti contrai così tanto ogni volta che ti do una scossa. Mi fa godere
da morire.» Rabbrividì insieme a me quando mi elettrizzò di nuovo,
mugugnando di piacere come se le mie urla fossero musica per le sue
orecchie. «Urla quanto vuoi. Nessuno può sentirti qui.»
Su che base mi ero convinta che Vincent sarebbe stato il più gentile tra i
quattro? Stava assaporando ogni grido, con gli occhi sbarrati
dall’eccitazione, gemendo di piacere ogni volta che mi irrigidivo per il
dolore scioccante. Dio, e che belle sensazioni mi stava dando.
L’angolazione del suo cazzo che mi penetrava colpiva quel punto dolce
che mi faceva arricciare le dita dei piedi.
Stavo per venire, e il dolore mi stava solo facendo avvicinare di più al
picco del piacere. Più strillavo e mi dimenavo inutilmente, più piacere
provavo. Ero incredibilmente consapevole di ogni bacio della brezza sulla
mia pelle, della pelle d’oca sul mio petto, del crepitio pungente
dell’elettricità, della profondità dolorosa di Vincent che mi scopava.
Quelle sensazioni fisiche erano l’unica cosa rimasta nella mia mente.
Nient’altro aveva importanza in quel momento.
«Vuoi venire?» Tenne di nuovo sospesa la bacchetta sul mio clitoride.
«Ti costerà.»
«Ti prego!» Mi sforzai contro le corde, con gli occhi spalancati, mentre
la bacchetta si avvicinava. «Ti prego, Vincent, no, no, no, no, no.»
«So che sei già parecchio in debito con noi,» disse lui, prendendosi gioco
delle mie parole precedenti. «Ma sono sicuro che non ti dispiace pagare
quando ti fa godere così tanto.»
«Oh, Dio… cazzo… ti prego…» Sapevo che il prezzo era il dolore, e
che il piacere che avrei ricevuto in cambio ne sarebbe valsa la pena, ma la
previsione di esso avrebbe potuto uccidermi.
«La paura ti eccita,» affermò. «Sento il modo in cui ti stringi intorno a
me quando mi implori. Succederà, Jess.»
«Dio, Vincent, ti prego, non farlo. Non ce la faccio… non ce la
faccio…»
Aspettò che smettessi di rantolare. La sua espressione era diventata
seria, e le sue parole erano sincere: «Ricorda la tua parola di sicurezza,
baby. Non dimenticare dove sei.»
Annuii. Mi stavo smarrendo nella fantasia, ma questo non significava
che la mia percezione della realtà mi avesse abbandonato. Ero ancora con
i piedi per terra, ancora consapevole di quali fossero i miei confini.
«Me la ricordo,» lo rassicurai. «Sto bene.»
L’elettricità crepitò, scintillando sul mio clitoride e formicolando nelle
mie terminazioni nervose. Lui rise alle mie urla, e fu proprio quella risata
il mio punto di rottura. Mi contrassi intorno al suo cazzo e venni,
gridando disperatamente il suo nome. La mia testa si accasciò contro il
cofano e puntai lo sguardo sulle vecchie travi sopra di me, completamente
stordita. Vincent gemeva, scopandomi con una nuova urgenza che faceva
scattare i suoi fianchi in maniera irregolare.
«Cazzo, Jess,» ringhiò. «Hai idea di quante volte ci ho pensato? Di
quanto ho desiderato farti urlare?» Mi afferrò il viso, costringendomi a
guardarlo. «Tu hai mai fantasticato su questo? Di’ la verità, adesso, cazzo.
Dimmi se hai mai pensato che questo potesse accadere.»
«Sì!» La mia voce suonava così spezzata, densa di piacere, cieca per il
dolore. «Ci ho pensato… ho fantasticato… su di te… su tutti voi…»
«Che ragazza cattiva che sei, eh?» ringhiò. Il suo cazzo si stava
gonfiando, si agitava man mano che si avvicinava all’orgasmo. «Non
dovresti farlo, giusto, baby? Non dovresti pensare a come quegli sporchi
pazzi ti fanno bagnare la fica. Ma non puoi farci niente, vero?»
Mente e corpo si piegarono alla volontà di Vincent e io scossi la testa.
Non potevo fare a meno di pensare a loro, di volerli, di anelare a cose che
non avrei dovuto desiderare.
Si spinse fino in fondo, digrignando i denti con un’imprecazione
gutturale, e venne dentro di me.
OceanofPDF.com
29
Jessica
Liceo – ultimo anno
Non provai alcuna gioia quando mi misero la corona in testa. Mi si
aggrovigliava tra i capelli e mi graffiava il cuoio capelluto. Le luci erano
troppo forti ora che erano puntate su di me, gli applausi esaltati dei miei
compagni nascosti nella massa d’ombra al di là delle luci mi rintronavano.
Applausi senza volto per coprire gli sghignazzi e i mormorii.
«Bene, fate dei bei sorrisi!» Una delle addette all’annuario, di cui non
ricordavo il nome, ci si parò davanti con la macchina fotografica pronta.
Dopo l’annuncio del re e della regina del ballo, la musica si alzò di nuovo
al massimo e tornò a martellare insieme al mio cuore. Mi voltai verso Kyle,
gli posai una mano sul petto e mi stampai un sorriso in faccia. Mi assicurai
di inclinare il bacino nella giusta angolazione e di allungare la gamba in
avanti, con i tacchi a spillo bianchi che mi tenevano in equilibrio precario
sul pavimento di legno lucido della palestra.
«Faresti meglio a sorridere, Kyle,» mormorai a denti stretti,
continuando a sorridere. «Non rovinare queste cazzo di foto.»
La sua mano mi cinse la vita, provocandomi un senso di disgusto. «Hai
sempre un sorriso falso pronto, vero, Jessica?» Le parole furono restituite
attraverso il suo stesso sorriso artificiale. «È per questo che non piaci a
nessuno. Sei falsa come nessun altro.»
Sorrisi. Sorrisi e basta. La macchina fotografica lampeggiò. Se dovevo
guardare queste foto appese con orgoglio alla parete di mia madre per i
prossimi chissà quanti anni, dovevo assicurarmi di venire bene. Non
importava chi avessi accanto. Non aveva mai avuto importanza.
Non importava se tutti mi odiavano. Non importava che poco prima
della proclamazione Kyle si fosse lasciato sfuggire che voleva lasciarmi di
nuovo. Non importava che avesse spifferato a tutti che mi stava
scaricando. Di nuovo.
Non importava. Dio, non importava. Sorrisi e basta.
La gente chiedeva a gran voce un ballo. A ogni passo che facevo per
scendere dal palco, fissavo sempre di più quel sorriso sul mio viso. Tenevo
la mano di Kyle, umida e appiccicosa intorno alla mia. Stava sudando
attraverso il suo smoking, con gli occhi che vagavano tra la folla. Sempre
altrove. Non importavano il mio aspetto, come mi vestissi o cosa facessi a
letto. Non importava.
Non era mai abbastanza.
Ballammo. La macchina fotografica lampeggiò ancora. Fai finta di
divertirti.
Ma nel momento in cui la canzone finì, la pausa musicale e il calo di
attenzione della folla mi permisero di scivolare via. Mi appoggiai al muro
vicino al fondo della palestra, nascondendomi sotto le stelle filanti e i
nastri metallici, scappando dalle conversazioni indesiderate e dalle
congratulazioni ipocrite.
Nessuno era sorpreso che avessi vinto. Era così che doveva andare. Era
quello il mondo che si adattava alla perfezione alla solita routine.
La capitana delle cheerleader e il quarterback. Che carini. Che cosa
opportuna. Che fottuto cliché.
Spinsi con forza contro la prima porta che trovai e finalmente scivolai
all’esterno.
In piedi sui gradini di cemento dietro la palestra, guardai i cassonetti
traboccanti. Una sola luce illuminava le scale e la pioggia scrosciava
intorno a me, fredda, e mi inzuppava senza pietà. Gli strati di raso rosa del
mio vestito si fradiciarono rapidamente, troppo stretti e pesanti ora che li
avevo appiccicati addosso.
La pioggia mi sciupò il trucco abbastanza in fretta. Non sarebbe
cambiato nulla se avessi pianto.
Cercai di trattenere le lacrime. Mi sedetti sul gradino, soffocando i
singhiozzi nel petto.
Non piaci a nessuno. Sei falsa come nessun altro.
Sentivo caldo e freddo allo stesso tempo. Avevo lo stomaco sottosopra
per l’alcol che avevo bevuto di nascosto per tutta la serata. Non mi curavo
del parere di Kyle. Era comunque uno stronzo, e io meritavo di meglio.
Mi misi le mani attorno alle braccia nude, coperte di pelle d’oca per il
freddo. Io ero una stronza tanto quanto Kyle. Era l’unico motivo per cui
avessimo mai funzionato davvero insieme. Ci meritavamo a vicenda.
Due persone orribili si meritavano a vicenda.
Al suono di un passo alzai la testa di scatto. Vincent era in piedi sulla
destra delle scale, con un giubbotto di pelle, una camicia nera e dei
pantaloni, asciutto al riparo di un ombrello.
Feci un sospiro pesante, distogliendo lo sguardo da lui. «Oh, Dio, sei
tu.»
«Accidenti, di solito la gente è molto più entusiasta di vedermi alle
feste.» Salì i gradini e si sedette accanto a me, spostando l’ombrello in
modo da coprire anche me. Ero abituata a vederlo indossare magliette
scherzose e jeans attillati. Vederlo in abiti scuri ed eleganti era…
piacevole. Era davvero piacevole.
«Beh, io non sono in cerca di droghe,» dissi, cercando di pulirmi con
discrezione il naso che mi colava col dorso della mano. «A meno che tu
non abbia dello Xanax.»
«Potrei. Ho tutto quello che serve alla gente.» Sentivo i suoi occhi su di
me, che mi sondavano come le dita di un medico in cerca di una ferita.
«Non hai mai voluto un tranquillante prima d’ora.»
«Non voglio provare nulla,» ammisi. Fissai davanti a me i sacchi di
spazzatura inzuppati. «Niente di niente.»
«Di solito non commento il modo in cui la gente si sballa, Jess. Ma
qualcosa mi dice che non dovrei venderti dei calmanti. Non così.»
Scossi la testa con amarezza. «Oh, fantastico. Uno spacciatore con una
coscienza. Non vuoi nemmeno approfittare di una donzella in difficoltà?»
Sghignazzò. «Non sei una donzella in difficoltà. Sei un’ape regina molto
pericolosa.» Sembrò soddisfatto quando quella battuta mi strappò una
piccola risata. Rimanemmo in silenzio per qualche istante, prima che lui
dicesse: «Allora… sei stata eletta la reginetta del ballo.»
«Già.» Alzai una mano e sfiorai leggermente con le dita la corona di
plastica impigliata nei miei capelli bagnati. «Probabilmente sentirai mia
madre urlare dall’altra parte della città quando glielo dirò.»
«E il… il re è assente?»
Deglutii a fatica. Non piangere di nuovo. Non piangere. Non essere
debole per colpa di un ragazzo.
«Il re ha trovato le sue conquiste in un altro regno,» replicai, cercando
di sembrare il più altezzosa e distaccata possibile. Come se si trattasse di
un giochetto divertente che non poteva far male.
Vincent non disse nulla, ma il suo silenzio fu meglio di vuote parole di
conforto. Avrei comunque capito che stava mentendo. Con Kyle si
tolleravano solo perché gli spacciava l’Adderall a un prezzo di favore. Ma
poi mi posò il giubbotto sulle spalle, tenendo l’ombrello tra le ginocchia.
«Ti starai congelando con quel vestito.»
Mi stavo congelando. Tutto il mio corpo era ricoperto di pelle d’oca e
ce l’avevo messa tutta per non farmi vedere rabbrividire da lui. Il calore
del giubbotto mi fece rilassare le spalle e allentare la tensione.
«Questa giacca puzza di erba,» gli feci notare.
Lui annuì. «Probabilmente perché c’è dell’erba dentro.»
«Se un poliziotto mi trova con questa addosso, mi arresteranno?»
Fece un sorrisetto malizioso. «Solo se ti perquisisce.»
Rimanemmo in silenzio ancora per qualche istante, circondati dal
ticchettio della pioggia e dalla pimpante musica dance che rimbombava
dalla porta. Poi la musica cambiò, la melodia rallentò fino ad assumere le
note di ‘Holy’ di Justin Bieber.
«La gente si chiederà dove sono,» sussurrai.
«Che si fottano.»
Lo guardai sorpresa e lui fece spallucce. «Che si fottano, Jess. Non
hanno bisogno di altri intrattenimenti da parte tua. A Cenerentola
importava che qualcuno si chiedesse dove fosse quando è scappata dal
ballo?»
Scossi la testa incredula. «Hai visto Cenerentola?»
«Ho quattro sorelle minori,» spiegò. «Certo che l’ho vista: quel film
d’animazione è un classico! Quando la scarpetta di cristallo si è
frantumata…» Si mise una mano sul petto con un gesto drammatico. «Il
mio cuore si è frantumato con lei.»
Ridacchiai, nonostante il dolore lancinante che ancora mi attanagliava il
petto. «Chi l’avrebbe mai detto che eri così romantico?»
Si alzò di colpo in piedi, sistemando l’ombrello contro la spalla prima di
tendermi la mano. Fissai il suo palmo aperto, sbattendo rapidamente le
palpebre per la confusione. «Che c’è?»
«Non mi sembra giusto che la reginetta del ballo non abbia il suo
lento,» annunciò, con l’accenno di un sorriso sulle labbra.
«Vuoi che balli?» chiesi. «Qui fuori? Con te? Sotto la pioggia?»
Scrollò le spalle. « Sì. Perché no?»
Mille ragioni, mille scuse mi pungolavano la lingua. Ma presi la sua
mano e lasciai che mi tirasse su dal gradino. Lasciai che mi cingesse la vita
con un braccio, sotto il suo giubbotto di pelle, ancora caldo intorno alle
mie spalle.
«Ti farò bagnare tutto,» commentai premendo il mio vestito zuppo
contro di lui. Lo fulminai con lo sguardo quando si mise a ridere. «Non ti
azzardare a fare una battuta sconcia su questo.»
«Non mi passerebbe nemmeno per la testa,» rispose lui. «Non mi
dispiace se mi bagni un po’, Jess.» Fece l’occhiolino e io alzai gli occhi al
cielo. Ma mentre ondeggiavamo sotto la pioggia al suono sommesso della
musica, il dolore nel mio petto allentò la sua presa. La paurosa morsa
dell’insicurezza intorno ai miei polmoni smise di rinsaldarsi e feci un lento
respiro prima di osare appoggiare la testa sul suo petto.
«Sei molto alto,» affermai, perché non sapevo cos’altro dire.
«È per questo che le signore mi chiamano Papà Gambalunga,» rispose,
e io gli diedi uno schiaffo sul petto, anche se la battuta mi fece ridere.
«Kyle ti ucciderà se ci vede qui fuori,» dissi. Dietro di noi, il lieve
abbassamento della maniglia mi fece tendere, e la mano di Vincent si
strinse sulla mia vita. Ma non uscì nessuno.
«E perderebbe così il suo fornitore?» domandò. «Ne dubito.» Si fermò
per un attimo, ondeggiando insieme a me. «In ogni caso, non mi interessa.
Queste dovrebbero essere le notti più belle della nostra vita, no?»
«Lo sono?» Era strano provare quei sentimenti. Malinconia e tristezza,
confusione e rabbia, ma… c’era qualcos’altro che si stava facendo strada
in tutta la melma delle mie emozioni. Qualcosa di caldo, tenero e sottile.
Desiderio. Anelito. L’auspicio che tutto fosse diverso.
«Sai che non ho mai voluto che Manson si facesse male,» dissi a voce
così bassa da risultare quasi impercettibile sotto la pioggia.
«Lo so. La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni, giusto?»
«Giusto.» Chiusi gli occhi. L’ultimo anno stava per finire e io avevo
rovinato tutto. La mia strada era davvero ben lastricata, di intenzioni sia
buone che cattive. Ero così sicura che fosse la strada che volevo, ma ora
davanti a me vedevo solo un vicolo cieco.
Le cose sarebbero cambiate dopo il liceo. Dovevano cambiare.
La canzone finì e io mi staccai per prima. Mi schiarii la gola e raddrizzai
le spalle, tirando su col naso per ricacciare l’ultimo strascico di tristezza.
Ero migliore di così. Dovevo tornare lì dentro. Mi tolsi il giubbotto e
glielo porsi.
Ma Vincent mi stava fissando con uno sguardo che non riuscivo a
capire bene. «Cosa?» chiesi, quando finalmente prese la giacca.
Scosse la testa, lentamente, con un sospiro che sembrava così pesante.
«Dannazione. Hai fregato anche me.»
Stavo per chiedere cosa diavolo intendesse, quando la porta dietro di
noi si aprì e qualcuno esclamò a voce alta: «Oh, grazie a Dio! Jess, che
diavolo stai facendo?»
Ashley si precipitò verso di me, con in mano un ombrello col quale mi
riparò prontamente. Vincent fece un passo indietro mentre lei si affannava
per me. «Valeva la pena di infradiciarsi per un po’ d’erba? Oh, mio Dio, ti
si stanno staccando le ciglia. Vieni, ti porto in bagno.» Lanciò a Vincent
un’occhiata di disapprovazione. «Magari la prossima volta fai i tuoi affari
in un posto un po’ meno losco, che ne dici?»
«Ma dove altro posso trovare dei cassonetti opportunamente
posizionati in cui gettare i cadaveri dei miei clienti?» domandò Vincent
poco prima che tornassimo al chiuso, e Ashley emise un gemito di
disgusto.
«È proprio un maniaco,» borbottò. «Portami con te la prossima volta,
ragazza! Non fidarti di quello svitato. Sai, Mark Ringwald mi ha detto che
Sarah Everdeen gli ha riferito che sua cugina ha scoperto che Vincent è
coinvolto in giri davvero brutti. È un seguace del diavolo o qualcosa del
genere.»
«Credo che i seguaci del diavolo sacrifichino solo le vergini, quindi
sono abbastanza sicura di essere al sicuro.» Stavo scherzando, ma Ashley
fece un cenno d’assenso e la sua bocca formò una «O,» come se le avessi
appena dato un’informazione estremamente preziosa.
Mi aiutò a risistemare il trucco, poi Ashley chiamò un’amica che aveva
un cambio di vestiti d’emergenza. Ora potevo tornare in pista a ballare
con i miei amici, bere di nascosto altra vodka dalla fiaschetta di Ashley e
fingere di aver passato la serata più bella della mia vita.
E forse, quella sera, qualcosa di bello c’era stato. Qualcosa di piccolo e
incerto, ma caldo a dispetto della pioggia. Forse non lo sapevo ancora.
Forse non l’avrei saputo per anni. Ma quella piccola cosa rimase lì, anche
se non coltivata, in attesa della sua opportunità di crescere.
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30
Jessica
Stavo ancora camminando in modo buffo quando Vincent mi riportò a
casa. Mi accompagnò persino alla porta, tornando a essere un gentiluomo
ora che aveva finito di torturarmi fino a farmi urlare.
Ci fermammo davanti alla porta e lui si chinò su di me e mi prese il viso
tra le mani, stringendomi le guance per costringermi a guardarlo. «Farai la
brava fino a venerdì, vero?»
Venerdì sarei andata a casa loro per completare il mio compito per
Lucas. Mi sarei presentata come un giocattolo accessoriato con cui Jason
avrebbe potuto giocare a suo piacimento. Non sapevo ancora cosa avesse
esattamente Vincent in quella scatola, ma venerdì ero sicura che ne avrei
fatto la conoscenza più intima.
«Potrebbe essere più facile fare la brava se mi mandassi quel video di
cui mi hai parlato,» dissi, sfidando la sorte.
«Video? Del piercing di Lucas?» Vincent rise. «Se voglio rischiare che
mi uccida per farti fare una risata, dovrai fare qualcosa di più che
prendere qualche piccola scossa.» Lo guardai offesa, sul punto di
contestare la sua interpretazione di ciò che mi aveva fatto come qualche
piccola scossa, ma mi interruppe prima che potessi farlo. «Fai divertire
Jason, e prenderò in considerazione più seriamente la cosa.»
Gemetti, ma tanto non si sarebbe smosso. Tuttavia, ero disposta a
cercare di comportarmi bene se questo significava vedere Lucas nel suo
momento di massima vulnerabilità. Una parte di me non credeva
nemmeno che un uomo come lui avesse delle paure.
Vincent mi lasciò con un bacio famelico, spingendomi contro la porta
mentre la sua lingua si infilava tra le mie labbra.
«Ci vediamo presto,» mi salutò. Mi aveva promesso di venirmi a
prendere venerdì, anche se gli avevo detto che avrei potuto andare io da
loro con l’auto di mia madre. «Ah, e un’altra cosa…»
Andò verso l’auto e tornò con qualcosa in una busta di plastica nera.
«Porterò il resto dei tuoi nuovi giocattoli a casa, ma dovrai indossare
questo quando passerò a prenderti.»
«Che cos’è?» chiesi circospetta.
«Come sei sospettosa.» Mi accarezzò la guancia come se fossi una
sciocca che fa domande sciocche. «Non preoccuparti. Sarai sexy. Jason
impazzirà.»
Il fatto che non mi avesse semplicemente detto che si trattava di lingerie
mi mise in allarme. Quasi come se… non fosse… lingerie. Nel momento
in cui si voltò, diedi una sbirciata nella busta, ma tutto ciò che riuscii a
vedere fu un tessuto di pizzo nero. Forse non era così terribile, dopotutto.
***
Era terribile. Dio, era terribile a livelli imbarazzanti.
Il mio riflesso mi fissava dallo specchio della mia camera da letto, il mio
sguardo furioso mi rendeva ancora più ridicola. Ero appena uscita dal
lavoro e Vincent sarebbe venuto a prendermi a breve, così avevo indossato
la «divisa» che mi aveva dato. Dopo aver combattuto per diversi minuti
per riuscire a farlo passare sul mio sedere, ora avevo addosso un costume
nero da cameriera a balze.
Il vestito mi copriva a malapena. Bastava che mi piegassi appena e mi si
vedevano le mutande. Le mie tette erano strizzate nel corpetto. Ma non
era solo un vestitino sexy, oh, no. Non sarebbe stato abbastanza perfido.
C’era anche un collare con un campanellino d’argento. Ogni volta che
mi muovevo, emetteva un piccolo tintinnio.
E non era tutto, però. No.
C’erano anche delle orecchie. Soffici orecchie bianche e nere attaccate a
un cerchietto. Quando le indossai, annidate tra i capelli, mi fecero
sembrare una specie di gatta.
Presi il telefono dal comodino e inviai un messaggio ai bastardi
responsabili di tutto quello. Che diavolo di problemi avete?
Apparvero quasi istantaneamente tre puntini intermittenti.
Lucas: Troppi da contare. O ti riferivi a qualcosa in particolare?
Io: Sai benissimo di cosa sto parlando. Mi rifiuto di indossare le
orecchie da gatto.
Mentre aspettavo una risposta, mi guardai di nuovo allo specchio. Il
vestito era bello da dietro, dovevo ammetterlo. Avevo un aspetto ridicolo,
ma stranamente grazioso? Forse persino sexy?
Manson: Credo che ci serva un riferimento visivo.
Sì, Miss Kitty. Lessi il testo immaginando la voce di Vincent pregna di
umorismo. Vediamo come ti sta.
Sbuffando per la frustrazione, risposi: Ridicola. Sono completamente
ridicola.
Aprii la fotocamera e mi guardai. Okay, un po’ sexy lo ero. Il vestito era
sciocco, ma lusinghiero. Comparve un altro messaggio di Lucas proprio
quando il mio dito era in bilico sul pulsante per scattare la foto.
Lucas: Non farci venire lì, ragazza. Foto. Ora.
Il mio stomaco compì quell’assurda torsione. Scattai una foto, poi ne
scattai altre per essere sicura di averne una buona.
Mandai la foto e Lucas rispose: Cazzo, sono tentato di fare un altro giro
con te.
Manson: Ti serve un guinzaglio da abbinare a quel collare.
Vincent: E qualche lavoretto che ti tenga a quattro zampe.
Io: Oh, peccato per te. Oggi servirò solo Jason.
Era ora di togliermi questo vestito e mettermi qualcosa di normale
prima che arrivasse Vincent. Non avrei mai rischiato che qualcuno mi
vedesse in pubblico con quell’abito, anche se si trattava solo di un breve
tratto di strada tra casa mia e la loro.
Il vestito era un po’ troppo piccolo per me, mi stringeva in tutti i punti
giusti. Quello significava che far uscire le braccia dalle maniche era quasi
impossibile senza strappare il vestito.
Dopo alcuni minuti di lotta sempre più disperata, presi il cellulare e
inviai un messaggio furibondo. SONO INCASTRATA NEL VESTITO,
COSA DEVO FARE? Poi aggiunsi rapidamente: Se ridete di me, non vi
rivolgerò mai più la parola.
Vincent: Allora è meglio che tu tenga la bocca chiusa, perché questa
roba è esilarante. Maledetto lui, maledetti tutti loro! Credo che tu abbia
ucciso Manson. Non riesce a smettere di ridere.
Gemetti. Almeno potevo togliere le orecchie e il collare. Il vestito di per
sé non era male. Un po’ troppo per un venerdì qualunque, ma non
importava. La mia reputazione da quelle parti era già tutt’altro che
immacolata. Considerando che c’erano video online di me che strisciavo
sulle mani e sulle ginocchia vestita come un angelo sexy, dubitavo che
farmi vedere così da qualcuno avrebbe fatto molti danni.
Vincent: Sono sicuro che Jason ti aiuterà a togliere il vestito. Sarò lì tra
un quarto d’ora.
Erano anni che non mi trovavo ad aspettare così nervosamente un
appuntamento. Non che questo fosse un appuntamento galante,
esattamente. Non sapevo come diavolo definire quegli incontri, perché di
certo noi cinque non stavamo insieme, ma allora cosa diavolo stavo
facendo? Era strano aspettare che un uomo mi passasse a prendere con
l’intenzione di consegnarmi al suo ragazzo per dei favori sessuali, per
conto degli altri suoi amici che mi stavano a loro volta scopando…
Se non ero stata una puttana prima, lo ero di sicuro adesso.
Vincent arrivò, con il suo basso abbastanza forte da penetrare in casa.
Uscii prima ancora che lui scendesse dall’auto e mi affrettai a chiudere a
chiave la porta d’ingresso. Non avevo ancora pensato a una buona storia
da raccontare ai miei genitori sull’impianto di sicurezza. Forse ci
sarebbero cascati se avessi fatto finta di non saperne nulla.
Vincent abbassò il finestrino del passeggero mentre attraversavo il prato
verso di lui, gridando: «Accidenti, baby, ma guardati! Woooooow!» Ululò
così forte che la nostra vicina di casa, Carol, alzò la testa dai suoi cespugli
di rose.
Ci scambiammo un’occhiata molto imbarazzante e io salutai con la
mano. «Salve, signora Fischer. Bella giornata.»
«Oh, sì. Splendida.» Cercò di sorridere, ma non riuscì a fingere mentre
mi occhieggiava. «Immagino che ti stia… godendo il sole?»
Feci un sorriso dolorosamente imbarazzato prima di fuggire con la coda
fra le gambe. Affondai sul sedile del passeggero e mi accucciai dopo aver
allacciato l’imbracatura, per evitare di essere notata da altri vicini.
«Ho venduto erba a quella signora in passato,» mi raccontò Vincent.
«Mi davo appuntamento con lei e suo marito dopo la messa della
domenica per la consegna dell’ordine. Una volta hanno cercato di
coinvolgermi in una cosa a tre.»
Gli occhi mi schizzarono praticamente fuori dalle orbite. «I signori
Fischer hanno cercato di… cosa? Non è possibile, cazzo.»
«Ci sono molti più pazzi là fuori di quanto pensi, Jess,» affermò mentre
usciva dal mio quartiere. «La gente si comporta in modo altezzoso in
pubblico, ma a porte chiuse? Ognuno ha le sue stranezze.»
«E immagino che questa sia la stranezza di Jason,» riflettei, tirando
fuori dalla borsa le orecchie da gatta. «Anche se non ho trovato nulla del
genere nella sua lista. Il pet play aveva totalizzato solo un due nella scala
dei suoi interessi! E non era più quotato nella mia. Se si aspetta che inizi a
miagolare come un gatto…»
«Prima di tutto, sei sexy da morire, quindi rilassati.» Si avvicinò e mi
diede un piccolo buffetto al mento con le nocche. «Secondo, ti darò un
consiglio su Jason da parte di qualcuno che lo conosce ancora meglio di
quanto lui conosca sé stesso.»
Lo fissai con uno sguardo mite, ma le labbra contratte in una linea
sottile. «Quindi è un consiglio tuo, giusto? Considerando che…»
«Considerando che sono l’unico che gli fa perdere la testa dal terzo
anno di liceo?» Mi rivolse un ampio sorriso. «Considerando che l’ho fatto
uscire dal suo guscio e ho contribuito a fargli conoscere un intero mondo
di perversioni peccaminose? È proprio il mio consiglio a cui dovresti dare
ascolto.»
«Va bene, allora,» lo spronai, incrociando le braccia e accavallando le
gambe. «Mi insegni pure quello che sa, signor Volkov.»
Lui espirò lentamente, scuotendo la testa. «Oh, scusa, mi hai fatto
pensare a quanto sarebbe divertente un gioco di ruolo con un’insegnante
sporca…»
«Forza, concentrati, drogato! Dimmi!»
Premette il freno così bruscamente che sussultai. Per fortuna non c’era
nessun altro sulla lunga strada di campagna davanti a noi quando Vincent
si sporse sul mio sedile e le sue dita affusolate mi afferrarono la mascella.
«Credo che tu stia dimenticando alcune regole,» dichiarò, con un tono
così diverso dal suo solito gioviale che la paura mi formicolò nello
stomaco. «È tutto molto divertente, Jess, ma non costringermi a ricordarti
di mostrare il giusto rispetto per me. Se pensi che, solo perché mi faccio le
canne, te la farò passare liscia con quelle stronzate da saputella, ti aspetta
un risveglio molto spiacevole. A meno che tu non voglia passare un po’ di
tempo appesa per le caviglie e fare conoscenza con una frusta, ti
suggerisco di cambiare tono.»
«Ooooh, merda.» Non mi ero resa conto di averlo detto ad alta voce
finché lui non fece un sorrisetto. «Sissignore, cambierò tono.»
«Così va meglio.» Mi diede un bacio sulla bocca prima di lasciarmi
andare, riprendendo a guidare come se non fosse successo nulla. Solo che
ora il mio cuore era accelerato e stavo sudando ancora di più, con le cosce
nude goffamente serrate.
«Il punto è questo, Jess,» enunciò. «Non si tratta delle orecchie. Non si
tratta nemmeno del costume. Si tratta di sottomissione.»
«Sottomissione? Nel senso che vuole che io lo serva? Che sia la sua
schiava? Mi suona familiare.» Mi fermai prima di dire qualcosa di
sarcastico. Avevo un disperato bisogno di tenere a freno la mia lingua.
«Fidati di me su questo, perché so che non è una cosa che ti riesce
bene.» Mi lanciò un’occhiata sorniona mentre imboccava la strada sterrata
verso casa sua. «Sii una brava ragazza per lui. Okay?»
«Tutto qui?» chiesi. «Devo solo fare la brava? Nel senso di non fare la
mocciosa?» Lui annuì, e io feci un sospiro sommesso. «Hai ragione. Non
sono brava in questo.»
«Gli piaceresti comunque anche se facessi la solita impertinente,»
ammise. Il cancello di casa loro era già aperto, così poté entrare
direttamente nel cortile. «Ma te lo dico per il tuo bene. Jason ha un
paddle nella sua stanza con il quale non sono sicuro che tu voglia avere un
incontro intimo, mentre sono sicuro che lui vi farebbe fare volentieri
conoscenza.»
«Pensavo avessi detto che Jason era un viziato,» puntualizzai,
sfilandomi dall’imbracatura mentre Vincent fermava l’auto nel garage. La
Z bianca era parcheggiata proprio accanto a noi, e il danno che le era stato
fatto era ormai riparato. La Mustang e la El Camino, invece, presentavano
ancora delle grosse ammaccature, ma i finestrini e le gomme erano stati
sostituiti. «Sinceramente, chi usa di più quel paddle: tu o lui?»
«Io, ma questo significa che lui non vede l’ora di fare un turno dall’altra
parte,» disse Vincent. «Assicurati di indossare le orecchie e il collare
prima di entrare. Si aspetteranno che tu sia vestita di tutto punto.»
Feci come mi aveva detto. Il collare tintinnava a ogni passo che facevo
nel cortile. Quando entrammo in casa fui accolta da una ventata di aria
benedettamente fresca e da due cani molto eccitati. Mi aspettavo che
Manson e Lucas fossero in garage, ma Manson mi chiamò dal soggiorno
mentre ero in ginocchio a dare un po’ di amore a Jojo e Haribo.
«Vediamo quel vestitino che hai addosso, Jess!»
Strinsi le labbra per il suo tono divertito. Entrai nel soggiorno con
Vincent alle spalle e trovai Manson e Lucas stravaccati sul divano
componibile. Lucas aveva una gamba appoggiata su quella di Manson e
avevano entrambi dei controller in mano. La TV mostrava il menu di un
gioco che coinvolgeva personaggi luminosi e grosse pistole.
«Beh, dannazione…» Manson si alzò in piedi e mi girò lentamente
intorno. «Prima non coglievo il fascino delle orecchie, ma ora credo di
averlo capito.»
«Ho sbloccato un nuovo kink, Manson?» chiesi. Oggi era vestito in
modo casual, con dei joggers neri e una maglietta intima bianca a coste,
ma nemmeno il suo abbigliamento rilassato mi frenava dal fissarlo.
Agganciò il dito nel mio collare e mi attirò a sé.
«Ne hai sbloccato uno nuovo… forse,» ammise. «Di sicuro ne hai
soddisfatto uno vecchio. Mi piace questo collare su di te. Dovrei metterti
il collare più spesso.»
Lucas non si era ancora alzato dal divano, ma si sporse in avanti e disse:
«Fai una giravolta, vediamo il retro.»
Obbedii, e non riuscii a trattenere un sorrisetto insolente quando mi
girai e mi piegai leggermente in avanti, dandogli una visuale migliore del
mio sedere sotto la gonna striminzita. Esalò un respiro aggressivo, come
un toro che sbuffa prima di caricare.
«Qualcuno dovrà strapparti quella cosa di dosso,» ringhiò, e il suo tono
profondo mi disse che avrebbe preferito essere lui a farlo.
«E quel qualcuno è proprio al piano di sopra,» gli ricordò Vincent.
«Jason non riuscirà mai a prenderla tutta intera se voi pervertiti
continuate a sbavare.» Mi guidò fuori dalla stanza e tornò nel corridoio
mentre Lucas alzava le mani in segno di protesta.
«Sono io che deciderò quando avrò finito di sbavare, stronzo!» sbraitò,
ma Vincent non gli diede retta. Aprì una porta nel corridoio e rovistò nel
ripostiglio, prima di tirare fuori una grossa borsa. «Ecco i giocattoli di
Satin. Ti ricordi dov’è la sua stanza, vero?»
Annuii mentre prendevo il borsone. Il nervosismo mi faceva sentire lo
stomaco come una lattina di soda agitata… ma che avevo da essere
nervosa? Era solo Jason… Jason dallo sguardo acuto e distaccato, che mi
guardava come se potesse vedere sotto la mia pelle, che me l’aveva leccata
fino a farmi tremare le gambe. Che era davvero, davvero ben dotato…
Già. Non c’era nulla di cui essere nervosi.
Marciai su per le scale, consapevole degli occhi di Vincent sulla mia
schiena per tutto il tempo. Non mi guardai indietro, ma lo sentii
commentare a Manson e Lucas: «Sbrigatevi a entrare sul Discord. Jason
avrà le cuffie addosso.»
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31
Jason
Mancavano solo trenta secondi, e io avevo appena piazzato la bomba.
Io e DumpTruckKiller eravamo gli ultimi due vivi, e la squadra nemica
si stava avvicinando. Mi accovacciai dietro un muro mentre la bomba
ticchettava, e trasalii quando DumpTruck imprecò rumorosamente
attraverso le cuffie e disse: «Merda, sono a terra.» A quel punto, ero solo
io. Uno contro cinque. Il tempo scorreva.
Dieci… nove… otto…
In un vicolo spuntò un elmetto e io sparai, uccidendolo all’istante. Se
uno era qui, gli altri non dovevano essere lontani.
Sei… cinque… quattro…
Altri due. Feci fuori un altro nemico con un colpo alla testa, ma il
secondo mi schivò acquattandosi dietro le barriere, mentre si avvicinava
alla mia posizione. Alle mie spalle si udirono dei passi e lo schermo si
colorò di rosso quando esplosero dei colpi di arma da fuoco, e intanto la
barra della mia salute calava rapidamente, a soli due secondi dalla fine.
Il gioco si concluse, e sullo schermo apparve la scritta VICTORY. Dalle
cuffie sentii diversi applausi, mi appoggiai all’indietro e allungai le braccia
sullo schienale della poltrona. «È così che si fa, ragazzi. Bella partita.»
Riecheggiarono le stesse parole in risposta, accompagnate dalle urla
acute di un ragazzino insopportabile dell’altra squadra, che misi subito a
tacere. Anche in chat qualcuno si stava scatenando, digitando
furiosamente: CampBloodCouncilor sta hackerando. Che cos’era quel
colpo alla testa? Segnalato. Mi misi a ridere, mettendo da parte le cuffie
per un momento. Potevano segnalare quanto volevano, ma io non avevo
barato.
«Accidenti, è stato piuttosto eccitante.»
Sbattei il ginocchio sulla scrivania per la velocità con cui mi girai.
Jessica era in piedi sulla mia porta aperta, con una busta di plastica nera in
mano. Indossava - porca miseria - un costume striminzito da cameriera, un
collare con un campanello e delle orecchie da gatta.
Per un attimo rimasi a bocca aperta. Ero svenuto? Stavo sognando?
Vincent aveva di nuovo messo dei funghi magici nella mia colazione?
«Mi stai prendendo in giro?» esclamai. «Come sei entrata qui dentro?»
Doveva esserci Vince dietro tutto questo. Era l’unico che aveva scoperto
delle «ragazze gatto» nella mia cronologia di ricerca, e da allora non mi
aveva più dato tregua.
Tanto per la cronaca, le avevo cercate solo per scherzo. In parte. Potevi
anche eccitarti per qualcosa e considerarlo comunque uno scherzo.
«Gli altri volevano farti una sorpresa,» esordì lei, entrando nella stanza
e gettando con disinvoltura la busta sul pavimento. «Hanno pensato che
questo costume fosse divertente.»
Grazie a Dio avevo dato una pulita qui dentro. Non ero una persona
disordinata, ero disorganizzato. Avevo avuto la camera da letto più piccola
della casa, ma tanto la usavo solo per lavorare e fare un pisolino, o se
faceva troppo caldo e non ce la facevo a dormire accanto a Vincent.
Perlopiù, questa stanza era solo un posto dove tenere il mio computer,
visto che occupava un sacco di spazio.
Avevo rimandato il lavaggio delle lenzuola da quando lei aveva dormito
nel mio letto, e avevo finito per buttarle in lavatrice solo il giorno prima.
Di solito ero abbastanza solerte, ma quando avevo sentito il suo profumo
sulle lenzuola, l’ultima cosa che avevo voluto fare era cancellarlo.
I suoi capelli biondo chiaro brillarono alla luce dei miei LED blu
quando si sedette sul bordo del letto. La facevano sembrare psichedelica,
come se fosse uscita da un sogno delirante e perverso. Il vestitino le si
arricciava attorno alle cosce, e io stavo già salivando.
«Allora, sei tu il responsabile della manomissione dell’impianto di
sicurezza?» chiese.
«Non l’ho manomesso. Ho trovato e utilizzato un exploit che mi ha
permesso di controllarlo.»
Annuì lentamente. «Cioè…?»
«L’ho hackerato. Non è stato nemmeno così difficile. I tuoi genitori
devono davvero sostituire quella roba. Lo installerò io stesso, se
necessario.»
Jess mugugnò e annuì di nuovo con il capo. Se non l’avessi conosciuta
bene, avrei detto che sembrava impressionata. «Le voci al liceo erano vere,
eh? La gente si lamentava del fatto che tu ottenessi le loro password e che
trafficassi con i loro account, ma io sinceramente non ci credevo. Eri
sempre così sulle tue.»
«È così che l’ho sempre fatta franca,» ammisi. «La gente non sospetta
delle persone schive.»
Essere sottovalutato mi permetteva di sfuggire ai radar. Mi guardò a
lungo, come se stesse cercando di carpire qualche segreto. Lavoravo da
casa, quindi non ero di certo vestito in ghingheri. Non indossavo
nemmeno la maglietta, e i pantaloni della tuta fungevano da pigiama. Ma i
suoi occhi indugiavano man mano che si abbassavano, probabilmente
perché quei pantaloni sottili non nascondevano un cazzo.
Nemmeno quel vestito corto che indossava lei lasciava un granché
all’immaginazione.
Ero stato io a concepire tutta quell’idea del sesso come mezzo di
pagamento. Ero rimasto seduto a guardarla mentre accettava l’accordo,
ma questo non significava che ci credessi davvero. Pensavo che si fosse già
tirata indietro da un pezzo. Pensavo che avrebbe iniziato a ignorare i
nostri messaggi dal giorno dopo che Manson e Lucas si erano divertiti con
lei. Perciò avevo mantenuto le distanze, perché… per quale motivo avrei
dovuto sperare in qualcosa che non si sarebbe mai avverato?
Ma vederla seduta lì, vestita in quel modo…
«Ehm… Jason?» Schioccò le dita e io scossi la testa, sbattendo
rapidamente le palpebre. Avevo la tendenza a perdermi nei miei pensieri,
ma dovevo averla fissata nel vuoto per tutto il tempo. Merda.
«Scusa, scusa, io…» Mi leccai le labbra, non sapendo che dire. «Perché
sei… cioè… okay, fanculo, lo dico e basta. Perché sei qui?»
«Per servirti,» rispose lei, con un sospiro provocatorio. «Lucas e
Manson hanno detto che sono in debito con te, quindi a quanto pare io
sono il tuo regalo interattivo di ringraziamento. Credo che ti stiano
cercando, in realtà.» Fissò accigliata la mia scrivania.
Delle voci chiamavano il mio nome dalle cuffie e io le ripresi e me le
appoggiai su un orecchio. I ragazzi, alla fine, si erano uniti al gruppo sul
Discord, ed era quello il modo in cui comunicavamo durante le partite
multigiocatore senza urlare per tutta la casa.
«Perché ci hai messo tanto, J?» chiese Lucas. Vincent e Manson stavano
entrambi ridacchiando. «Tutto pronto per il prossimo turno?»
«Scusa se ti abbiamo fatto aspettare, amico,» rispose Manson.
«Avevamo un paio di cose da sbrigare prima.»
«Mi sono un po’ distratto,» risposi secco, e Vincent miagolò prima di
sbellicarsi ancora di più.
«Ti piacciono gli accessori con cui è arrivata?» indagò Lucas, e mi
sovvenne all’improvviso la busta con cui Jess era arrivata.
«Hai portato con te qualche chicca, eh?» mormorai, rimettendo giù le
cuffie.
«Non ho nemmeno dato una sbirciata,» ammise lei, alzando
innocentemente le mani. «Vincent era davvero determinato a fare una
sorpresa anche a me, a parte questo vestito. In cui fra l’altro sono rimasta
incastrata.»
Rimasi un attimo interdetto. «Aspetta un attimo… non riesci a toglierti
il vestito?»
«No.» Fece schioccare le labbra e sospirò di nuovo, accavallando le
gambe. «Immagino che dovrai darmi una mano tu.»
Oh, l’avrei aiutata senza ombra di dubbio. Di quel vestito non
sarebbero rimasti che dei brandelli alla fine.
Mi accovacciai e diedi un’occhiata nella busta. Il piede di Jess batteva
nervosamente sul tappeto quando estrassi il primo giocattolo, ancora
sigillato nella plastica. Lo sollevai in modo da farglielo vedere bene. «Sai
cos’è questo?»
«Non lo so. Una rosa con una coda?» I suoi occhi si spalancarono e si
chinò in avanti per guardarla meglio. «Non dirmi che va dentro di me.»
«La coda sì,» risposi, indicando la coda bulbosa attaccata alla parte più
grande del sex toy. «La parte superiore dovrebbe simulare la stimolazione
orale». La sua bocca si aprì in una «O» silenziosa, mentre io mi dedicavo
al giocattolo successivo, con il cervello in fermento davanti alle varie
opzioni.
Non capivo perché alcune persone si sentissero in soggezione nell’usare
dei sex toys in camera da letto. Perché non si dovrebbe voler usare ogni
oggetto a disposizione per far perdere la testa al proprio partner? Se, alla
fine, Jess non fosse stata ridotta a un ammasso tremante, vuoto e ubriaco
di orgasmi, allora voleva dire che non avevo fatto il mio lavoro.
Avevo fantasticato su questo, su di lei, per troppo tempo. La bellissima,
intoccabile ragazza. La donna che doveva essere off-limits. Non mi sarei
accontentato di niente di meno che di farle perdere la testa.
I suoi occhi mi seguirono mentre mi alzavo. «Ti va di fare un gioco?»
chiesi, indicando la mia poltrona.
Si infilò il labbro tra i denti, incerta. «È passato molto tempo dall’ultima
volta che ho giocato a un videogioco,» rifletté. «È competitivo?»
«Molto. È semplice, te lo assicuro. Ci sono solo pochi tasti da
imparare.»
Si sedette un po’ più dritta. «Okay. Insegnami.»
Accidenti, c’era qualcosa nel sentire quelle parole uscire dalla sua bocca
che mi fece venire i brividi dappertutto. Si alzò dal letto, si lisciò la gonna
e il suo campanello tintinnò. Immaginai il rumore che avrebbe fatto
mentre la scopavo e mi chiesi se fosse possibile addestrarla a eccitarsi al
suono di un campanello.
Credo che lo avrei scoperto.
Alzai la mano prima che potesse sedersi alla scrivania. «Aspetta, prima
di tutto. Togliti gli slip.»
Jess strinse le labbra e si girò verso di me. I suoi occhi verdi apparivano
eterei nel bagliore azzurro, come gioielli intagliati che scintillavano nella
luce. Mi guardò mentre infilava la mano sotto la gonna e si tirava giù le
mutandine, un semplice paio nero con l’orlo di pizzo. Distesi la mano e lei
me le porse, appoggiandomele sul palmo un po’ più bruscamente del
necessario.
«Finalmente ho il mio trofeo,» annunciai. Mi portai la stoffa al naso e
inspirai sotto il suo scrutinio. Le sue labbra si schiusero lievemente
quando commentai: «Cristo, hai un buon profumo.»
Arrossì in viso e mosse i piedi. Tirai fuori due degli altri giocattoli che
avevo trovato nella busta: un plug anale e un paio di morsetti metallici per
capezzoli. Si erano anche ricordati di includere una boccetta nuova di
lubrificante. «So quanto ti piacciono le sfide, principessa. Quindi oggi
imparerai a giocare in modalità hard.»
«È così che giochi tu?» chiese lei. Era un evidente tentativo di
provocarmi, ma se pensava di poter fare la mocciosa con me, si sarebbe
presto ricreduta.
«A volte,» risposi, e la sua espressione vacillò. «Dipende dal mio
umore. Quello che non dipende dal mio umore è che, se ti metti a
rispondermi male, ne pagherai le conseguenze.»
Indicai alle sue spalle e lei si voltò. Al lato della mia scrivania era
poggiato un sottile paddle di legno, con la superficie tutta bucherellata per
migliorare l’aerodinamica.
La afferrai per il collare e la tirai verso di me. Il suo petto premette
contro il mio, i suoi occhi si spalancarono quando tirai il collare verso
l’alto e la costrinsi a mettersi in punta di piedi. «Se metti un atteggiamento
sbagliato, se disobbedisci, ti farò piegare a novanta e ti farò ringraziare per
ogni sculacciata che ti darò fino a quando non avrai il culo pieno di lividi.
Intesi?»
Lei annuì rapidamente, con la voce leggermente stridula per la
pressione del collare. «Io… sì, signore.» Forzò la mascella, come se le
parole fossero dense e scomode da far uscire.
«Ora piegati in avanti. I ragazzi stanno aspettando e ho bisogno che tu
abbia un plug prima di metterti a giocare.»
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32
Jessica
Non persi d’occhio il paddle nemmeno un momento mentre mi chinavo.
Appoggiai le mani sulla scrivania di Jason, col labbro inferiore fra i denti,
cercando di non farmi prendere dall’ansia quando mi tornò in mente
l’avvertimento di Vincent.
Pensai a come sarebbe stato piegarmi per farmi sculacciare con un
paddle, sentire il fruscio dell’aria prima del brusco contatto. Dover restare
ferma e ringraziarlo mentre sopportavo una punizione come quella… ebbi
un brivido.
«Eccitata, principessa? Sei già bagnata.»
Feci un respiro profondo e mi voltai a guardarlo. Non era giusto che
indossasse quei pantaloni sottili da jogging e nient’altro. Riuscivo a vedere
chiaramente la sagoma del suo cazzo sotto di essi. Il suo petto nudo era
coperto di tatuaggi colorati, una tela al neon da cui non riuscivo a staccare
gli occhi.
«Sissignore,» risposi.
Posò i morsetti metallici per i capezzoli e il plug anale sul sedile della
sua poltrona. Sentii il calore delle sue dita mentre mi sondava tra le
gambe, spingendo e allargandomi. Lentamente, esplorando, seppellì un
dito nella mia fica. Il metallo freddo del suo anello che spingeva all’interno
mi fece mancare il respiro e gemetti, incapace di formulare parole quando
un secondo dito si unì al primo. Li arricciò all’interno e cominciò a
pomparli con calma dentro e fuori.
«È così piacevole,» mormorai. Poi aggiunsi rapidamente: «Signore.»
«Allora sei in grado di imparare. Brava ragazza.»
Brava ragazza. Oooh, cazzo, quello mi fece sciogliere. Mi si contrassero
le viscere e le sue dita si fermarono, prima di ritrarsi completamente.
Passò un momento di insopportabile attesa, poi avvertii il tocco di
qualcosa di solido, con una consistenza strana.
«Continua a essere obbediente con me e ti farò godere così tanto che
non riuscirai più a ragionare.»
Era il dildo alieno quello che stava strofinando su di me, ricoprendo il
silicone della mia eccitazione prima di spingerlo all’interno. Era stretto in
punta, ma si allargava rapidamente, e la sua forma ricurva mi diede una
sensazione del tutto inedita. Un lato era liscio, ma sull’altro c’erano delle
piccole protuberanze in rilievo, simili alle ventose di un tentacolo.
Strisciava sui miei nervi, e quella sensazione anomala mi fece contorcere,
mentre lui lo spingeva più a fondo.
«Che sensazioni ti dà? Hai mai usato un dildo come questo?»
«È una sensazione strana. È una sensazione… ah…» Feci un respiro
affannoso quando lui cominciò a spingerlo dentro e fuori, senza fretta,
facendomi sentire ogni innaturale centimetro di quell’oggetto. «È una
bella sensazione, signore… le protuberanze…»
«Ti ci masturberai durante la partita,» annunciò. Ancora qualche spinta
profonda e lo sfilò, lasciandomi a muovermi avanti e indietro per il
bisogno di averne ancora. Udii un lieve clic, poi una goccia di qualcosa di
viscido e freddo finì tra le mie natiche.
«Avrai anche questo plug nel culo,» mi informò, afferrando il giocattolo
anale sulla poltrona. Spalmò altro lubrificante intorno a esso, usando il
dito per rivestirne la superficie. «Non preoccuparti, ci andrò piano. Ma ho
bisogno che tu faccia la brava e ti apra per me. Puoi inginocchiarti e
piegarti in avanti sul letto, se ti risulta più facile.»
Più facile, diceva lui. Sì, di certo sarebbe stato più facile morire di
umiliazione in quella posizione. Ma cercai di essere obbediente, e non era
che non mi avesse mai visto nuda prima…
Ma non così.
Mi inginocchiai per poter gattonare fino al bordo del suo letto e
piegarmi su di esso. Le sue coperte profumavano di fresco, come se
fossero appena uscite dalla lavanderia. Ma c’era anche il suo odore - dolce,
tenue e muschiato. Non mi ero resa conto che mi fosse mancato
quell’odore, finché non mi pervase di nuovo il naso.
«Tieni il culo aperto per me.»
Avevo il viso in fiamme quando allungai le mani dietro e allargai le
natiche. Seppellii la faccia nelle lenzuola, vergognandomi dentro di me per
quanto mi sentivo esposta. Ma Jason si avvicinò e mi diede un altro
strattone al collare. «Tieni la faccia sollevata. Non nasconderti. So che è
difficile, ma puoi farlo per me, vero?»
I miei piedi scalciarono appena in segno di protesta, poi riuscii a
sussurrare: «Posso farlo, signore.»
Il suo dito girò attorno al mio ano, spalmando il lubrificante prima di
entrare dentro. Resistetti all’impulso di attutire il mio gemito tra le
coperte, stringendo forte le labbra. Ma quando il suo dito continuò a
sondarmi, i suoni uscirono: mugolii e rantoli a malapena trattenuti.
«Così. Sciogliti per me.» La sua voce era dolce e pacata, e mi calmava
mentre il suo dito veniva sostituito da un metallo liscio. Si prese il suo
tempo, la pienezza aumentava a poco a poco, il mio corpo si dilatava per
accogliere l’intrusione. «Eccola, la mia brava ragazza. Ci siamo quasi.»
Il plug si posizionò saldamente dentro di me e io emisi un gemito, i miei
muscoli si strinsero intorno a esso per tenerlo al proprio posto. Jason
scostò le mie mani e mi abbrancò lui stesso il sedere per ispezionare il suo
lavoro.
«Dio, è così sexy,» rifletté. «Come ti senti?»
«Decisamente piena,» sussurrai. «Non credo di poter far entrare anche
il dildo dentro di me.»
«Certo che puoi», mi rimproverò dolcemente. «Dovrai comunque
abituarti ad avere entrambi i buchi pieni, Jess. Non ci prenderai sempre
uno alla volta.» Il letto scricchiolò quando lui vi si appoggiò. Non appena
mi tirò il collare per girare il mio viso verso di lui, i suoi occhi azzurri mi
fissarono con uno sguardo gelido. «Uno di questi giorni, Vincent e io ti
prenderemo insieme. Consideralo un allenamento.»
I miei occhi dovevano essersi spalancati a dismisura a quel
suggerimento, perché la sua bocca si allargò in un ghigno. «Ah, ti piace
l’idea, vero? Mi chiedo quante volte verresti con entrambi i nostri cazzi
che ti fottono, che allargano questi piccoli buchi. E a proposito di
orgasmi…» Mi tirò in piedi, mi tenne stretta contro il suo petto e il mio
campanello tintinnò. «Chissà quanti ce ne vogliono per farti piangere.
Credo che dovrò scoprirlo da solo.» La sua mano tracciò la scollatura del
mio vestito, sfiorando il mio décolleté. «Sei rimasta incastrata in questo?»
Annuii, poi sussultai per lo shock quando afferrò il corpetto a balze e lo
strappò. La stoffa era sottile e si stracciò facilmente, lasciando il mio seno
scoperto. Non indossavo il reggiseno e lui strattonò leggermente i miei
piercing ai capezzoli prima di iniziare a rimuoverli con cura.
«Jason… Jason, ti prego…» Mi dimenai contro di lui mentre mise da
parte i piercing e riprese quelle malefiche pinze metalliche per i capezzoli.
Non sapevo di cosa stessi implorando di preciso, solo che desideravo
disperatamente farlo. «Farò la brava. Prometto che farò la brava…»
«Lo so,» rispose lui, allargando i morsetti. «Ma ti piacciono le sfide,
vero? Ti siederai alla mia scrivania, con le pinze ai capezzoli, un plug nel
culo e quella tua fica avida che cavalca un dildo, e farai del tuo meglio per
vincere. Non lascerai che questo ti distragga, vero?» Scossi la testa e mi
sfuggì un mugolio quando attaccò la prima pinza.
Il pizzicore fu intenso, fortemente doloroso, e fece avvampare una scia
di nervi che sembrava collegare direttamente i capezzoli al mio clitoride.
«Non mi farò distrarre, signore,» assicurai, facendo dei respiri lenti e
profondi per adattarmi alla nuova stimolazione.
«Brava.» Mi sfiorò il collo con le labbra, proprio sotto l’orecchio, e io
andai incontro al suo tocco. Le sue labbra erano morbide, ma le sue mani
ruvide, e quelle sensazioni contrastanti mi fecero rabbrividire mentre
agganciava il secondo morsetto.
«Cazzo, Jason… fa male, cazzo se fa male.» Mi irrigidii nella sua presa,
facendo dei rapidi respiri nel tentativo di controllarmi. Avevo già il
cervello sottosopra. Ero venuta qui pensando che avrei fatto fatica a essere
obbediente, mentre ora era l’unica cosa che volevo fare: essere una brava
ragazza, compiacerlo, renderlo orgoglioso per poter sentire altre parole
dolci.
Mi lasciò in ginocchio lì, a lottare per non staccare le pinze e liberarmi
dal dolore. Appoggiò la base piatta del dildo sulla sua poltrona e mi
chiamò arricciando un dito. «Vieni qui. È ora di giocare.»
Jason mi sistemò il sedile, ma la lunghezza e la circonferenza del dildo
me lo fecero fissare con occhi sgranati. Dovevo in qualche modo farlo
entrare tutto dentro di me?
«Andremo piano,» mormorò Jason, con la voce densa di sadica
eccitazione. Mi tenne le braccia per non farmi perdere l’equilibrio mentre
mi abbassavo e il dildo mi riempiva, centimetro dopo centimetro. Una
volta inserito completamente dentro di me, stavo già tremando. Mi sentivo
le gambe deboli. Avvertivo un dolore da qualche parte nel profondo, e la
sensazione era tanto di piacere quanto di sofferenza.
Dio, ero così piena.
«Vediamo cosa sai fare, principessa». Si mise dietro di me e si chinò,
accarezzando le mie braccia con le dita. Posò le mani sulle mie e sistemò la
mia mano sinistra sulla tastiera e la destra sul mouse. «I tasti W, A, S e D ti
fanno muovere.» Premette le mie dita sui tasti, con la sua mano che
avviluppava completamente la mia. «Guardati intorno con il mouse. Il
tasto destro del mouse spara, il tasto R ricarica.» Ebbi un fremito quando
le sue labbra mi sfiorarono l’orecchio e il suo respiro caldo mi soffiava sul
collo. «Il resto lo capirai strada facendo. Oh, e un’altra cosa…»
Prese le cuffie e me le mise, regolando la fascia superiore affinché mi
stessero entrambe comode. Lasciò un orecchio scoperto in modo che
potessi sentire lui, ma attraverso l’altro udii: «Jason deve sbrigarsi, cazzo,
o inizierò il round senza di lui.»
Le mie cosce si strinsero. Era Lucas, e la risata di Vincent seguì subito
dopo. «Gli hai dato tutti quei gadget e ti aspetti che si sbrighi?»
«Stiamo parlando di Jason, dai. Sappiamo tutti che se la prende
comoda,» aggiunse Manson.
C’era un microfono davanti alla mia bocca, attaccato alle cuffie. Jason
rimase accovacciato alle mie spalle, abbastanza vicino da poter sentire la
loro conversazione attraverso gli altoparlanti e sghignazzare.
«Scusate l’attesa, ragazzi,» affermò. «Ho dovuto preparare Jess per
giocare.»
«E io giocherò per vincere,» annunciai, ottenendo uno sbuffo e una
risatina dagli uomini che erano in ascolto. Cercare di parlare senza
permettere alla disperazione di contaminare la mia voce era quasi
impossibile, ma ci provai.
«Spero che il giocattolino sia in grado di dare un degno apporto alla
squadra,» disse Lucas.
«Certo che sì,» subentrò Vincent. «Ti piace vincere, vero, Jess?»
«Ci puoi giurare.» Sullo schermo apparve una notifica e io cliccai sul
pulsante per «unirmi alla partita.» Mentre fissavo la schermata di
caricamento, mi dondolai leggermente sulla poltrona, spingendo il dildo
un po’ più a fondo. Mi sentivo a mio agio ora che cominciavo ad
abituarmi alle dimensioni massicce e alla durezza.
«Così, insegui il piacere,» sussurrò Jason. La partita iniziò, e il mio
personaggio si ritrovò catapultato nel bel mezzo di una città futuristica. Il
mio obiettivo apparve in cima allo schermo: distruggere la base nemica.
Rabbrividii quando le dita di Jason risalirono lungo le mie braccia. «Non
perdere la concentrazione.»
Non giocavo ai videogiochi dai tempi delle medie, ma Manson, Lucas e
Vincent erano chiaramente esperti. Si davano istruzioni attraverso le
cuffie, avvisandosi l’un l’altro dei nemici, facendo esplodere i colpi di
arma da fuoco. Subito dopo che incrociai la squadra nemica, in pochi
secondi ero già morta. Sbuffai, ringhiando irritata in attesa che il mio
personaggio rientrasse in gioco.
«Ti stai già incazzando?» Jason rise.
«Beh, non mi ha nemmeno dato modo di prendere la mira,» borbottai.
Era così difficile concentrarmi. Mi spostai di nuovo, e il dildo e il plug si
mossero entrambi dentro di me. All’improvviso, proprio prima che
tornassi in partita, Jason si inginocchiò accanto alla mia poltrona e mi
cinse la vita.
«Allarga le gambe,» ordinò. Obbedii, e abbassai lo sguardo per vedere
cosa stesse facendo. Aveva il giocattolo a forma di rosa tra le mani, e la
coda bulbosa vibrava. Premette il bulbo contro il mio clitoride e io emisi
un gemito istantaneo e tutto il mio corpo si contorse per l’improvvisa
stimolazione.
«Occhi sul gioco,» sibilò Jason.
«Tutto bene, Jess?» Sentivo il ghigno nella voce di Manson. «Dimmi
cosa ti sta facendo.»
«Te lo dirò quando avremo vinto,» replicai, espirando bruscamente
quando Jason compì un piccolo cerchio con il vibratore su di me.
«Se vinciamo, verrò a verificare di persona cosa sta facendo,» mormorò
Manson con un tono sempre più cupo.
Nonostante mi stessi sforzando di fare del mio meglio, ero una frana in
quel gioco. Jason mi prendeva in giro ogni volta che morivo. «Oh,
ancora?» diceva. «Dai, puoi fare di meglio.» Più mi stizzivo, più lui mi
stimolava con il vibratore. Stavo cercando di non fare rumori troppo forti,
ma non riuscii a trattenere un altro mugolio.
«Accidenti, gemi come una piccola puttana disperata, eh?» chiese
Lucas.
Risposi con un ringhio: «Stai zitto.»
All’istante, Jason mi diede uno schiaffo sull’interno coscia. Sobbalzai,
troppo scioccata per gridare, e incrociai il suo sguardo. Ma lui mi colpì di
nuovo, aggiungendo: «Guarda la partita. Ricordati le tue cazzo di buone
maniere.»
Dannazione, le regole. Mi mordicchiai il labbro inferiore,
contorcendomi, con la pelle che mi pizzicava. «Chiedo scusa, signore.»
«Davvero?» chiese Manson. «Allora forse vuoi provare di nuovo. Lucas
ha detto che stai gemendo come una…?»
«Come una piccola puttana disperata,» risposi, spillando le parole il più
in fretta possibile. La mia fica si contrasse, e fu un bene che la partita
stesse per finire, perché non sarei stata in grado di giocare oltre. Non
riuscivo nemmeno a stare seduta, con il corpo che si irrigidiva e le
familiari ondate di estasi che aumentavano… aumentavano…
«Cazzo, Jason,» sibilai col fiato corto. Stavo per raggiungere l’orgasmo,
e il modo in cui continuava a muovere il vibratore non mi lasciava altra
scelta. Venni, con gli occhi chiusi, il corpo stretto nella morsa del piacere.
Jason mi costrinse a tenere le gambe divaricate, il vibratore premuto sul
mio clitoride, i suoi occhi sul mio viso.
«Di’ loro quanto stai godendo,» mi ingiunse.
Metà delle parole che farfugliai non avevano nemmeno senso. «Sto
godendo da morire, cazzo… oh, mio Dio, sono così piena, ti prego…»
Dalle cuffie giunse un’imprecazione, seguita da un’espirazione pesante.
«Oh, Dio, ti prego, ti prego, ti prego, è troppo!»
Proprio quando pensavo di essere in procinto di bruciare, Jason mi tirò
su. Ansimai per l’improvvisa perdita di pienezza dentro di me, il mio viso
avvampò quando notai la chiazza di bagnato che avevo lasciato sulla sua
sedia. Mi tolse le cuffie e le mise da parte, la sua mano sparì sotto il mio
vestitino e venni spinta di nuovo contro la scrivania.
«Dio, sei così bagnata,» commentò. Si portò le dita alla bocca, leccando
la mia eccitazione mentre mi fissava. «Voglio assaggiarti. Tutta quanta.»
Mi sollevò il mento e avvicinò le sue labbra alle mie. All’inizio fu tenero,
lasciò una dozzina di baci soavi sulla mia bocca prima di spingersi
all’interno, separando le labbra ed esplorando con la lingua. Finalmente
ebbi la mia occasione di far scorrere le mie unghie sul suo collo, sul suo
petto, di agguantargli le braccia per tirarlo più vicino a me. Il suo cazzo
duro premette contro il mio ventre e io allungai la mano e lo afferrai da
sopra la stoffa sottile.
Sorrise contro la mia bocca. «Che stai cercando di farmi, eh? Vuoi di
più?» Allargò le dita sulla mia gola e io annuii, muovendomi avidamente
contro di lui. «Avrai di più. Te lo prenderai tutto, principessa, anche
quando mi implorerai di fermarmi.»
Mi fece indietreggiare e sdraiare sul letto. Mi divaricò gli arti e li
ammanettò, legandomi i polsi e le caviglie con dei fermi fissati ai quattro
montanti del letto. Nel frattempo, mi dava dei baci, a volte rapidi, a volte
lenti e profondi. Si mise a cavalcioni sul mio bacino, riempiendomi di
complimenti mentre toglieva le pinze dai miei seni, mentre lasciò il plug
nel mio sedere, e si prese tutto il tempo per strofinare e succhiare i miei
capezzoli doloranti tra un bacio e l’altro.
«Toccami, ti prego,» lo implorai, inarcando i fianchi verso di lui. Un
solo orgasmo non era sufficiente, non quando lui continuava a stuzzicarmi
in questo modo.
Scese dal letto e andò a prendere il giocattolo a forma di rosa e le cuffie.
Appoggiò le cuffie accanto a me e chiese: «Sì? Vuoi che ti faccia venire di
nuovo?» Annuii con un gemito. «Ti farò venire così tante volte che non
rimarrà un solo pensiero nella tua bella testolina.»
Non ero del tutto sicura di chi fosse l’imprecazione che provenne dalle
cuffie, ma mi pareva di Manson. Mi agitai al pensiero degli altri tre uomini
che stavano ascoltando tutto questo, che sentivano ogni sussulto, ogni
respiro, ogni supplica.
Jason fece scivolare la coda bulbosa del giocattolo dentro di me.
Premette un pulsante e il giocattolo riprese vita, la coda iniziò a vibrare
dentro di me e dalla rosa stessa proveniva un flebile ronzio.
«Dio, sei bellissima,» mormorò, dilatandomi con le dita. Abbassò la
testa, la bocca si chiuse sul mio clitoride e la lingua mi lambì.
Mi uscì un piccolo grido dalla bocca. Mi dimenai contro le manette, ma
riuscii a malapena a muovermi. Riuscii solo a sussurrare: «Oh, mio Dio,
Jason, sto godendo così tanto!»
La sua bocca mi lasciò, ma venne rapidamente sostituita dal giocattolo.
Questa volta usò la parte più grande della rosa e io trasalii al suo tocco, il
risucchio sul mio clitoride sensibile era quasi troppo da sopportare.
«Abbiamo appena cominciato, Jess,» disse, sorridendomi perfidamente
mentre ansimavo. «Non ci fermeremo finché quel tuo piccolo cervello da
troia non sarà completamente vuoto. L’unica cosa a cui voglio che tu pensi
è la ricerca del prossimo orgasmo.»
Se il mio corpo avesse avuto un misuratore di pressione del vapore, il
mio sarebbe stato sul rosso. Mi contorcevo sotto di lui, sia cercando di
allontanarmi che di ottenere di più. Stavo per venire di nuovo, lo sentivo
già. Ma questo orgasmo non crebbe gradualmente. Mi si schiantò
addosso, mi spaccò il cervello e mi strappò un grido tremante.
«Jason, ti prego.» Mi si spezzò la voce. «Ti prego, sto per venire…»
«Continuerai a venire finché non sarò io a stabilire che ne hai avuto
abbastanza,» mi informò. «Fai la brava ragazza e non cercare di fare
silenzio, capito? Credo che i ragazzi meritino di poterti sentire.»
Oh, se mi sentirono. Era impossibile non sentirmi. Urlai mentre venivo,
con i muscoli così rigidi che mi facevano male. Ero scossa dai tremori, poi
i muscoli presero a pulsarmi disperatamente dato che la stimolazione non
si fermava. Quando spostava il giocattolo, usava al suo posto la bocca,
alternando le sensazioni. Volevo sporgermi verso di lui, intrecciare le dita
nei suoi capelli azzurri e attanagliare la sua testa tra le mie cosce. Volevo
una tregua dal piacere, ma non volevo nemmeno che si fermasse.
«Hai un sapore così buono, cazzo,» ringhiò, sollevando la testa.
Premette di nuovo la rosa contro di me, compiendo un lento movimento
oscillatorio mentre spingeva e muoveva il bulbo vibrante dentro di me.
Non riuscivo nemmeno a capire se il mio ultimo orgasmo fosse davvero
terminato, o se l’avesse tirato così a lungo che stavo raggiungendo di
nuovo l’apice. Ma la sensazione era così straordinaria che mi si
arricciarono le dita dei piedi e le mie cosce cercarono invano di stringersi.
«Urla per lui, Jess.»
«Che brava ragazza.»
«Così, nessuna cazzo di pietà, J.»
Le voci che provenivano dalle cuffie mi distrussero quasi quanto la
sovrastimolazione. Mi si annebbiò la vista, il mio corpo era in preda alle
convulsioni. «Cazzo, Jason, ti prego!»
Il calore zampillò tra le mie gambe, la mia fica si contrasse con un tale
vigore da cacciar fuori il bulbo. Si inzupparono le lenzuola sotto le mie
cosce tremanti, e quando riuscii ad abbassare lo sguardo, Jason mi stava
fissando con occhi spalancati di stupore e sgomento. Il suo viso era tutto
umido, i succhi gli colavano lungo le guance.
«Porco cazzo, hai appena squirtato per me?» chiese. Annuii esausta,
quasi singhiozzando per l’impeto dell’estasi. Lui seppellì di nuovo
famelicamente la testa tra le mie gambe, infilò di nuovo il bulbo dentro di
me e lo tenne lì. Potevo solo boccheggiare mentre la sua lingua lambiva
avida il mio clitoride troppo stimolato e sondava il mio ingresso.
Quando sollevò di nuovo la testa, aveva un che di selvaggio in viso. Si
tolse precipitoso i pantaloni e il suo grosso cazzo si liberò e si mise
rigidamente sull’attenti. Volevo toccarlo, artigliarlo, mordere, lottare e
gridare la mia euforia.
«Anche a me piacciono le vibrazioni,» spiegò lui, sfiorando la mia
apertura fradicia con la coda della rosa ancora dentro di me. «Penso che
terrò questo dentro mentre ti scopo.»
«Ce l’hai già così grosso, Jason,» ribattei. «Come… come…»
Lui ridacchiò, poi si fermò e prese le cuffie. «Sentito, ragazzi? Jess
pensa che non ci entrerò.»
«Non tutti siamo benedetti da cazzi da cavallo, J.» Riconobbi la voce
provocatoria di Vincent, per quanto debole.
«Oh, c’entrerà,» mormorò Lucas in tono sommesso. «Magari urlerà, ma
c’entrerà.»
«Diteglielo voi stessi.»
Jason mi sistemò di nuovo la cuffia. Cercai di mantenere la calma, ma
era inutile. Non c’era modo di mantenere il mio orgoglio intatto in questa
situazione.
«Stai facendo la brava?» Mi giunse la voce bassa di Manson
nell’orecchio e io mugolai all’istante. Volevo sapere se avesse il suo cazzo
in mano, se si stesse godendo i miei suoni, se si stesse eccitando per
questo.
«Sto facendo la brava,» risposi, poi sussultai quando Jason fece di
nuovo pressione contro il mio ingresso. Spinse un dito dentro, poi un
secondo, facendomi abituare alla dilatazione. «Oh, mio Dio, è così
stretto… cazzo…».
«È tutto a posto, sss, ecco la mia ragazza coraggiosa,» affermò
dolcemente. «So che hai paura, principessa, lo so. Farà male, ma tu vuoi
fare la brava, vero?» Annuii, le sue parole mi tranquillizzavano e le sue
dita pompavano dentro di me. Volevo davvero comportarmi bene. Volevo
compiacerlo. Volevo vedere il piacere sul suo volto quando avrebbe
seppellito il suo cazzo dentro di me. Mi baciò la bocca una, due volte e
poi ancora prima di estrarre le dita da me. «Che brava ragazza. Sapevo
che potevi farcela. Fai dei respiri profondi, ora, e andrà tutto bene.»
Riconobbi nelle cuffie il suono scivoloso di uno di loro che si stava
masturbando. Jason mi penetrò, prendendosi il suo tempo, aprendomi
lentamente. Scattò dentro di me quando incontrò il vibratore, inspirò
profondamente e poi lasciò uscire l’aria con un gemito.
«Ti prego, aah…» Strattonai le manette mentre lui si spingeva fino in
fondo. Riavvicinò la rosa, la premette contro il mio clitoride e nel
contempo prese a sbattermi, e il mio cervello andò completamente in
frantumi. I rumori che emettevo, gemendo come un animale, servivano
solo a rendere più eccitati gli uomini che erano in ascolto.
«Così, prendilo, Jess.» La voce di Vincent era concitata e tesa. Avrei
voluto che fosse qui, nella stanza con noi, a spingere il suo cazzo nella mia
bocca, cosicché avessi qualcosa per attutire i miei suoni.
«Fammi sentire quelle belle urla.» La voce di Manson mi fece tremare,
era talmente carica di piacere mentre mi ascoltava che mugolai il suo
nome.
«Mm, ti piace quando Manson ti parla?» chiese Jason. Mi svincolò le
caviglie e mi spinse le gambe verso l’alto per orientare il suo cazzo ancora
più a fondo dentro di me. Ogni spinta mi faceva gridare, e alla sua
domanda feci un cenno scomposto d’assenso. «Ti piace che lui si stia
masturbando per i suoni disperati che stai facendo in questo momento?
Digli come ti senti, Jess.»
«È così stretto,» piagnucolai. «Mi fa male, e così bene e… e… cazzo…
Jason, ti prego…»
Lucas ordinò con voce severa: «Vieni per noi, ragazza.»
Jason gemette quando mi serrai intorno a lui e allungò una mano per
afferrarmi la gola. I suoi fianchi sussultarono con spinte brevi e rapide,
schiaffeggiando la mia pelle.
La mia voce era debole mentre la sua mano stringeva, più forte mi
scopava, più digrignava i denti. «Ti prego, non ce la faccio a venire di
nuovo…»
«Mi dispiace, principessa, ma devi prenderlo,» grugnì con la mascella
serrata. «Vieni di nuovo per me. Piangi se ne hai bisogno. Voglio vederti
crollare.»
L’espressione di puro piacere possessivo sul suo volto mi fece superare
un altro limite esplosivo. La sua presa sulla mia gola si strinse, tanto da
darmi un leggero capogiro mentre singhiozzavo per la mia liberazione.
Dalle cuffie provennero le lodi, le parole fluivano insieme e io le bevevo
come l’ambrosia di un dio.
Ancora intontita, capii a malapena quando Jason si avvicinò alle cuffie e
disse: «Venite su prima che svenga, cazzo.»
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33
Manson
La richiesta di Jason arrivò appena in tempo, perché ero già sul punto di
perdere il controllo. Mi piaceva condividere. Mi piaceva guardare. Ma
ascoltare senza vedere, sentire senza toccare era fottutamente
insopportabile. Volevo vedere il suo viso, toccare la sua pelle morbida.
Volevo che aprisse la bocca per il mio sperma e lo prendesse tutto.
Jessica sarebbe stata nostra finché non avesse saldato il suo debito.
Nostra. Volevo assaporare ogni secondo prima che mi venisse portato
tutto via di nuovo.
Noi tre inciampammo praticamente l’uno sull’altro per salire al piano di
sopra. Vincent arrivò per primo alla porta e la spalancò, gemendo di
piacere nell’osservare la scena. Lucas era proprio dietro di me e imprecò,
schiacciandosi contro la mia schiena quando mi fermai sull’uscio.
Jess era a cavalcioni di Jason sul letto, con la schiena contro il petto di
lui, le gambe agganciate alle sue cosce e spalancate. L’aveva slegata e aveva
tolto il plug e il vibratore da dentro di lei. La testa di Jess era floscia
contro la spalla di Jason, mi guardava con gli occhi vitrei e le sue labbra si
mossero per formare silenziosamente il mio nome. Era impalata sul cazzo
di Jason, e il mio sguardo si fissò sul ritmo ipnotico dell’erezione di lui che
entrava e usciva da Jess.
Vincent si inginocchiò in mezzo alle gambe di lei, le afferrò le cosce e le
allargò. Le stuzzicò il clitoride con la lingua e tutto il corpo di lei si
contorse. Jason si appoggiò all’indietro, il petto ansante, mentre Vincent
gli afferrava le palle e le accarezzava, con la bocca sepolta proprio nel
punto in cui Jason e Jess si univano.
Io ero già al limite, troppo eccitato per tirare le cose per le lunghe. Mi
ero già tolto i pantaloni, dato che Lucas aveva accarezzato il mio cazzo e il
suo mentre ascoltavamo al piano di sotto, e sarei venuto nella sua mano se
Jason non ci avesse chiamati. Jess allungò un braccio tremante verso di me
mentre mi avvicinavo e mi tirò giù gli slip per potermi toccare. Si sporse
verso Lucas dall’altra parte e ci masturbò entrambi all’unisono.
«Dio… cazzo…» gemette Jason, con le dita che scavavano con foga nei
fianchi di Jess mentre veniva. Pompava dentro di lei con spinte brevi e
incisive. Vedere gli occhi di Jason ruotargli dietro la testa e sentire i
mugolii di Jess mentre la riempiva mi spinse al picco del piacere. Lo
sperma le schizzò sulla mano, sul viso, sui seni. Seguì Lucas, che si
abbassò per agguantarle ferocemente i capelli mentre le veniva in faccia.
Ma Vincent non aveva chiuso. Nel momento in cui Lucas finì, Vincent
spinse indietro Jess, facendo sdraiare lei e Jason sul materasso. Nessuno
dei due sembrava avere più energie: Jess giaceva completamente priva di
forze ed ebbra di sperma, mentre Jason scivolava fuori da lei con gli occhi
socchiusi. Con lo sperma che colava fuori da lei, Vincent le sollevò una
gamba e la penetrò.
A quella vista rimasi senza fiato. Vincent le teneva la coscia con una
mano, l’altra era impigliata nei capelli di Jason per tenerlo fermo mentre
Vincent la scopava sopra di lui. Le gambe non mi ressero più e crollai
pesantemente sul letto, appoggiandomi al muro per guardare. Lucas
strisciò sul materasso accanto a me e lasciò cadere la testa contro il mio
petto mentre riprendeva fiato.
Jess era flaccida come una bambola, con il viso arrossato e ricoperto del
nostro seme. Vincent la usava con forza, il campanello del collare
tintinnava a ogni spinta, le grida sommesse di Jess erano quasi troppo
dolci da sopportare. Dio, quanto mi piaceva guardarli con lei. Come la
facevano godere, la consumavano, si prendevano cura di lei. C’era
qualcosa di meraviglioso nel fidarsi così tanto di loro da poter condividere
tutto questo. Le nostre vite erano intrecciate, nel bene e nel male, e
nonostante tutte le stronzate, non avrei mai voluto che fosse diversamente.
Vincent le venne dentro, premuto a fondo dentro di lei, che aveva la
gonna spiegazzata e arricciata intorno ai fianchi e gli occhi chiusi. Vincent
si chinò e baciò lei e subito dopo Jason, che era disteso sul letto come un
uomo mezzo morto.
Lucas si mise a sedere e io mi sporsi in avanti quando Vince uscì da lei.
Jess era grondante della nostra essenza, e quando Vincent premette un
dito dentro di lei, si contorse debolmente, riuscendo a malapena a tenere
gli occhi aperti.
«Cazzo, è uno spettacolo bellissimo,» mormorai, spingendo il mio dito
dentro di lei insieme a quello di Vincent e sentendo il calore e la densa
umidità. Lei stava tremando, e Jason la abbracciò e appoggiò il viso sulla
sua guancia tutta sporca. Leccò il mio sperma dalla sua pelle e sul suo viso
esausto spuntò un sorriso.
«Ti piace il suo sapore su di me?» gli chiese con voce flebile Jess, e io
quasi persi la testa. Scostai Vincent per poter posare la bocca su di lei, il
contatto con me fece sussultare tutto il suo corpo stanco. Implorò non
appena la mia lingua fu su di lei, contorcendosi a ogni leccata.
«Ah, Manson! Ti prego, sono così sensibile, ti prego!» Ma io me la
presi comoda, sondando con la lingua dentro di lei, gustando il sapore di
Jess. Di noi.
Ma Jess era stremata. Aveva raggiunto il suo limite e aveva bisogno di
riposo. La lasciai con dei baci sulle cosce prima di staccarla da Jason e
adagiarle la testa sui cuscini. Aveva ancora il vestito addosso, anche se era
strappato. Jason si arrampicò e si accasciò accanto a lei, mormorando
dolcemente mentre le baciava la guancia: «Ci prenderemo noi cura di te,
principessa, tu pensa solo a rilassarti. Sei stata così brava. Sono così
orgoglioso di te, cazzo.»
Sogghignai nel raggiungere il cassetto del comodino di Jason e il
coltellino che vi si trovava all’interno. Lo aprii e usai la lama per tagliare
gli ultimi lembi di tessuto che le erano rimasti appiccicati addosso. Lei mi
guardò con gli occhi socchiusi, senza nemmeno battere ciglio quando
avvicinai il coltello alla sua pelle.
Che onore ricevere una fiducia del genere. Mi fece quasi paura mentre
la guardavo, il suo viso sereno che mi sorrideva con un’espressione
spossata che poteva essere descritta solo come ubriaca di sperma. Mi
spaventò la sensazione che mi fece provare, come mi si strinse all’istante
tutto il petto.
Sapevo bene che non dovevo affezionarmi a cose che non potevo avere.
Situazioni, oggetti, persone: dovevo tenermi a distanza. Ma la guardai e
capii che ero fottuto. Il modo in cui Jason la scrutava, dopo aver trascorso
tutta la settimana chiuso in sé stesso e a fingere disinteresse, mi diceva che
anche lui provava lo stesso sentimento.
Stavamo già affondando troppo in profondità, e io per primo sapevo di
non potermi fermare.
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34
Jason
Ora che finalmente sentivo di poter dormire, non ne avevo alcuna
voglia.
Il letto non era abbastanza grande per tutti noi. Jess giaceva nuda sulla
schiena con il mio braccio intorno a lei, i nostri respiri profondi
all’unisono. Era così calda, la sua pelle appiccicosa di sudore, i suoi
muscoli ancora tremanti. Vincent si era infilato nell’angolo del letto dietro
di me, mi grattava pigramente la schiena e canticchiava qualche motivetto.
Lucas era seduto all’estremità del materasso, appoggiato alla parete con le
gambe distese davanti a sé, e Manson era proprio accanto a lui, con le
ginocchia tirate su e le braccia appoggiate su di esse.
Non riuscivo a chiudere gli occhi. Mi piaceva troppo quella vista:
questa bellissima donna distesa accanto a me e tutte le persone che amavo
di più intorno a me. Se avessi chiuso gli occhi, se mi fossi addormentato,
avrei temuto che tutto sarebbe finito per non essere altro che un sogno.
Mi capitava di avere incubi terribili come quello, di immaginare di
essere tornato indietro nel tempo e che la famiglia che avevo trovato non
ci fosse più, che Vincent non esistesse più, che tutta la mia libertà… fosse
sparita. Mi svegliavo nel cuore della notte, in preda a rantoli e tremori,
con le parole dei miei genitori che mi riecheggiavano nella testa.
Non permetterò che mio figlio viva nel peccato, non sotto il mio tetto!
Feci un respiro profondo. Non volevo pensarci in questo momento. Ero
al sicuro. Gli incubi erano ricordi, non previsioni del futuro.
Il materasso cigolò e Lucas grugnì: «Vado di sotto a prendere da bere».
Scese dal letto e allungò le braccia sopra la testa. Vincent sospirò e,
quando si spostò, mi sporsi e gli afferrai il polso.
«Scusa, tesoro,» disse sottovoce. Si chinò e mi baciò la testa,
stringendomi la spalla. «Devo davvero andare a prepararmi per il lavoro,
però.»
Scese dal letto e io brontolai mettendomi a sedere, prima di passarmi le
dita tra i capelli scompigliati. Jess aveva aperto gli occhi e mi stava
contemplando, con il trucco impiastricciato, il viso e il petto ancora
sporchi del nostro sperma. Le scostai i capelli, ridacchiando
sommessamente per lo stato in cui si trovava.
«Sono un disastro, vero?» commentò con un piccolo sorriso sul viso.
Annuii. Le orecchie da gatto le erano cadute e giacevano sul pavimento;
l’unica cosa che indossava ancora era il collare.
Era solo un accessorio banale, ma non mi andava di toglierglielo.
Si mise a sedere e mi mise le braccia intorno al collo. Appoggiò la testa
sulla mia spalla e allungò il braccio verso Manson. Lui si avvicinò e le
prese la mano, intrecciando le dita con le sue.
«Mi sento le gambe così deboli,» mormorò. «Mi hai scopata al punto
che non riesco nemmeno a camminare.»
«Missione compiuta,» replicai. Era motivo di orgoglio per me vederla
così stordita e pienamente appagata. La sentivo come una vittoria a lungo
attesa.
Avevo pensato che, alla fine, fare sesso con Jessica mi avrebbe lasciato
addosso un’amara rivincita, e invece non provai alcuna acredine. Mi
sentivo come se avessi finalmente preso una boccata d’aria dopo essere
rimasto in apnea per troppo tempo, come se tutta la tensione fosse svanita
da dentro di me.
«Andiamo,» proposi. «Diamoti una ripulita. Sembri un Toaster
Strudel.»
Scoppiò a ridere così di gusto che sbuffò col naso, e quella fu forse una
delle cose più carine che avessi mai sentito. La aiutai a scendere dal letto
sulle sue gambe traballanti, lasciando Manson a distendersi sul materasso
con un sorrisetto soddisfatto sul volto.
Vincent uscì dal bagno proprio mentre ci stavo accompagnando Jess,
con i capelli spazzolati e legati all’indietro. Le prese il viso mentre ci
passava accanto e le diede un lungo bacio.
«Alla prossima, baby,» mormorò, facendole l’occhiolino prima di
andare in soffitta a vestirsi. Di solito dormivo molto peggio quando lui era
via per lavoro, ma forse quella notte sarei riuscito a dormire sei ore
abbondanti.
Lei andò per prima in bagno per usare la toilette e io la raggiunsi una
volta che ebbe finito e riaperto la porta. Rimase seduta sul bordo della
vasca mentre io aprivo l’acqua calda nel lavandino. Presi un panno dal
mobile e lo inumidii prima di sedermi accanto a lei. «Rilassati, penso io a
te.»
Chiuse gli occhi mentre le pulivo il viso, prendendomi tutto il tempo
necessario per eliminare il trucco sbavato dalle guance.
«Come ti senti?» Le asciugai il collo, facendo attenzione a essere
delicato. Pulii intorno al collare, ritardando il più possibile il momento in
cui avrei dovuto toglierglielo.
Lei emise un pesante sospiro, la sua bocca si contrasse appena e disse:
«Credo di avere un debole per le cameriere vestite da gatta, adesso.
Grazie per questo, Jason.»
«Ci sono altri nuovi kink da cui è scaturito quello,» affermai. «Aspetta e
vedrai. Saranno sempre più strani.»
«Oh, lo so. La tua lista mi ha dato un sacco di parole nuove da
imparare,» sussurrò. Quando riprese a parlare, il suo tono ammiccante era
sparito. «Mi sento davvero bene. Rilassata… stanca.» Aprì gli occhi e le
sue iridi verdi mi fissarono. «Mi sento felice.»
Il mio cuore ebbe un sussulto. Essere qui con noi, partecipare a tutto
questo… la rendeva felice? Mi prese l’asciugamano dalle mani e si alzò dal
bordo della vasca.
«Tocca a te,» annunciò, prendendo un panno pulito dal mobile e
lasciando quello usato accanto al lavandino. Lo bagnò mentre io
ammiravo il suo corpo nudo. Quando tornò a sedersi, mi scostò i capelli
dal viso con una mano e con l’altra mi passò il panno sulla pelle.
«E tu come ti senti?» mi chiese. Di quel passo mi avrebbe fatto
addormentare. Il contatto con l’asciugamano soffice era così distensivo.
Chiusi gli occhi, assaporando il momento. «Mi sento come se tutto
questo fosse surreale. Come se Vincent e io ti avessimo visto
all’autolavaggio e fossimo caduti in una sorta di delirio.»
«Conosco la sensazione,» confessò. «Quasi come se tutto questo non
dovesse accadere. Come se avessimo infranto le regole.»
Le afferrai il polso mentre mi passava il panno sulla gola e la avvicinai
un po’ di più a me. «Noi infrangiamo sempre le regole, Jess.»
Trovai le sue labbra arrendevoli quando la baciai. Era troppo bello
tenerla stretta a me, cingerle il viso e accarezzarle la guancia con il pollice.
E quando il suo respiro si fece affannoso e leggermente tremante quando
inspirò, quella sensazione di tenerezza nel mio petto divenne ancora più
dolce, cazzo.
«Dimmi la verità,» chiesi, staccandomi appena da lei per parlare. «Da
quanto tempo desideravi questo?»
Quando sollevò gli occhi verso i miei, sembravano incerti, quasi
spaventati, come se qualcuno stesse bussando alla porta che proteggeva il
suo segreto più intimo.
Prese un respiro e poi sussurrò: «Da sempre.»
Qualcuno bussò delicatamente alla porta, facendoci sobbalzare
entrambi. «È aperta,» dissi, e Manson aprì la porta per appoggiarsi allo
stipite. Aveva i capelli scarmigliati, andavano tutti in direzioni strane, e
indossava solo gli slip.
«Lo devo ammettere, sono rimasto ad ascoltare un po’ qui fuori per
vedere se voi due steste scopando di nuovo.» Ci venne incontro, afferrò il
mento di Jess e le sollevò il viso per darle un bacio. «Come stai, angelo?»
«Benissimo,» rispose. Fece una pausa, nascondendo uno sbadiglio
dietro la mano. «Esausta, onestamente.»
«Posso accompagnarti a casa,» propose Manson, e mi puntò il dito in
segno di avvertimento prima che potessi offrirmi volontario. «Tu devi
restare qui a riposare. Basta scuse. Rischi di fare un incidente guidando
così provato, J.»
Sospirai, ma non avevo le forze per discutere. Aveva ragione: ero sfinito,
e la mancanza di sonno mi stava colpendo duramente. Guidare, quando
riuscivo a malapena a tenere gli occhi aperti, non era la migliore delle idee.
Non mi andava per niente di portarla a casa. Volevo riportarla a letto e
addormentarmi di nuovo in mezzo a lei e Vincent.
«Per quanto mi piaccia vederti nuda, dobbiamo anche vestirti,»
puntualizzò Manson mentre Jess si alzava in piedi e si stiracchiava. Non
potei fare a meno di ghermirle i fianchi per tirarla verso di me e baciarle il
ventre prima di lasciarla andare.
«Puoi prendere in prestito alcuni dei miei vestiti,» assicurai. Ero solo
qualche centimetro più alto di lei, a differenza degli altri giganti della casa,
quindi speravo che potesse trovare qualcosa che non le stesse troppo
grande.
Manson andò a recuperare i propri vestiti, mentre Jess e io tornammo
in corridoio verso la camera da letto. Tirai fuori dall’armadio alcune cose
per lei, mentre lei rimetteva a posto i piercing ai capezzoli.
«I tuoi genitori tornano dopodomani, giusto?» Lei annuì, e io
continuai: «Domani passerò a casa tua e vedrò cosa posso fare per il
sistema di sicurezza. Continuano a dover sostituire quel dannato aggeggio,
ma almeno nel frattempo ti serve qualcosa che funzioni.»
Mi rivolse un’occhiata furba attraverso gli occhi stretti in due fessure.
«Hai deciso che ho bisogno di sicurezza solo dopo avermi scopata?»
Le portai dei vestiti e li buttai sul letto prima di agguantarle il culo e
attirarla a me. «Quella fica ha categoricamente bisogno della sua
sorveglianza. Ma non posso seguirti ventiquattrore su ventiquattro,
quindi…»
Il suo sguardo sollevato verso di me portò il suo viso vicino al mio e
tutto il suo corpo premuto contro di me. «Attento, Jason. Se continui a
parlare del fatto di proteggermi, potrei finire per pensare che tieni a me.»
Mi scappò un suono sprezzante. «Sì, sì, sto solo proteggendo la mia
proprietà. Non leggerci troppo dietro.»
«Non me lo sognerei mai,» replicò. Sembrava uno sfottò, ma c’era del
vero? Voleva che ci importasse di lei? O sapeva già che ci tenevamo e
pensava che fossimo degli sciocchi per questo?
Si vestì, sbadigliando di nuovo quando si infilò la mia maglietta da
sopra la testa. Mi fece un certo effetto vederla lì in piedi con i miei vestiti.
I pantaloni della tuta le si ammucchiavano un po’ intorno alle caviglie e la
maglietta era troppo larga, ma mentre se la stava passando davanti alla
faccia avrei giurato di averla vista fermarsi per un momento per annusarla.
Non si era ancora tolta il collare, che tintinnava ogni volta che si
muoveva, quindi non poteva essersene dimenticata.
Manson fece capolino nella stanza. «Pronta?»
Jess annuì prima di voltarsi verso di me. «Grazie per i vestiti. E per
questo momento davvero divertente.» Mi baciò, il contatto con le sue
labbra fu troppo rapido. «Ci vediamo domani.»
Stavo quasi per chiederle di restare. Stavo per trascinarla indietro e farle
sapere che sarebbe venuta a letto con me.
Ma poi se ne andò. Manson le mise un braccio intorno alle spalle e la
accompagnò nel corridoio.
Crollai sul letto e mi passai le mani sul viso prima di fissare il soffitto.
Era esattamente ciò che non sarebbe dovuto accadere. Quella sensazione,
quella… nostalgia. Il risveglio di una cotta liceale che in qualche modo si
era intensificata a dispetto del tempo e della distanza.
Quando mi ero trasferito alla Wickeston High, Jess e Vincent erano
state le mie prime vere tentazioni di peccato. Una seduttrice e un buffone,
che sfidavano i miei pensieri accuratamente controllati. Ero abituato a
essere circondato da regole, a vivere con il senso di colpa di essere un
peccatore che doveva pentirsi, pentirsi, pentirsi. Non cedere alla
tentazione. Venerare. Pregare. Implorare il perdono.
Ma poi si aprirono le cateratte. Jess era intoccabile, bellissima, superba.
Vincent era allettante, seducente, troppo affascinante per resistergli.
Allora la realtà di ciò che stavo affrontando mi colpì duramente. Non
potevo scegliere l’uno o l’altro. Non potevo accontentarmi.
Non potevo vivere come nulla di meno che me stesso al cento per
cento, a meno che non volessi restare in un ciclo infinito di preghiere per
il perdono della mia stessa natura.
La Jessica che avevo conosciuto allora si era circondata di tutte le
persone giuste. Si era presentata come perfetta. Era così che si faceva
quando si fingeva, quando si cercava di dimostrare di far parte della
società. Le persone «giuste» erano la sua armatura e la vita «perfetta» era
la sua grande rappresentazione. I suoi coetanei erano il suo pubblico.
Ora il sipario era calato e i costumi erano spariti. Jessica era solo Jess,
una donna che cercava di capire chi diavolo fosse, come tutti noi.
Non sapevo cosa avrebbe comportato, né per lei né per noi. Il tempo e
la distanza non ci avevano impedito di tornare insieme, ma per cosa?
Questa era la donna che non eravamo destinati ad avere, i cui progetti di
vita l’avrebbero portata di nuovo lontana da noi.
Vincent sosteneva che la sua ricomparsa era un «segno,» ma un segno
di cosa… non ne avevo la minima idea.
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35
Jessica
L’interno della Mustang era immacolato quando scivolai sul sedile in pelle
del passeggero. Dentro c’era l’odore di Manson, quel profumo di
cioccolato fondente e speziato che avevo imparato a riconoscere come il
suo.
«Qualche preferenza sulla musica?» mi chiese. Accese il motore e la
Mustang prese vita. L’intera auto tremò prima di assestarsi. Quasi tutto
all’interno sembrava originale, tranne gli altoparlanti, la radio e le spesse
sbarre viola che si estendevano intorno all’abitacolo come una gabbia. Mi
parvero simili a quelle dell’auto di Vincent e mi chiesi se anche Manson
avesse delle manette appese alle sue.
«Sorprendimi,» dissi, osservandolo mentre sfogliava una playlist sul suo
telefono, col motore nel frattempo in folle. Scelse una canzone e regolò il
volume, facendo uscire dagli altoparlanti una voce ammaliante ed eterea.
«Devo far scaldare la macchina prima di partire,» mi informò. «Ci vorrà
qualche minuto.»
Rimanemmo in silenzio, con il motore che si placava a poco a poco
mentre aspettavamo. Ero così stanca; avevo i muscoli indeboliti dalla
fiacchezza. Ma i vestiti che Jason mi aveva messo addosso erano caldi e
accoglienti, mi avvolgevano con il suo profumo.
Una parte di me non voleva andare via. Nella camera di Jason, ero stata
tentata di crollare di nuovo nel letto, di tirare Jason e Manson vicino a me
e di chiedere a Lucas di accoccolarsi anche lui. Stare lì con loro mi era
sembrato così piacevole, così normale. Come se quello fosse proprio il mio
posto.
Mi schiarii la gola, non riuscendo più a sopportare il silenzio. «Quando
hai preso la Mustang?»
«Circa un anno fa,» spiegò. «Era ferma da anni nella proprietà di una
persona e aveva bisogno di molti lavori.» Mi lanciò un’occhiata. «Ma ne è
valsa la pena.»
«È bellissima,» confermai. Abbassò lo sguardo e lo distolse, ma non
abbastanza velocemente da nascondere il suo sorriso. Non sapevo un
cazzo di macchine, ma sapevo riconoscere una bella macchina quando la
vedevo. «Ha un nome?»
«Nome?» Per un attimo aggrottò le sopracciglia. «No, io… non ho mai
amato dare un nome agli oggetti inanimati. Non è bene affezionarsi alle
cose che si possiedono.»
Ingranò la marcia e lasciò il garage. Uscì dal cortile e si immise sulla
strada sterrata, fermandosi per un attimo per chiudere e bloccare il
cancello. Procedemmo lentamente lungo lo sterrato finché non
imboccammo la Route 15, con il motore che ringhiava aggressivo mentre
Manson prendeva velocità.
I lampioni balenavano sopra le nostre teste mentre io lo sbirciavo con la
coda dell’occhio, cercando di non darlo a vedere. I muscoli del suo
braccio erano tesi, la mano sul cambio, gli occhi puntati sulla strada.
«Vuoi vedere quanto può andare veloce?» chiese con un’espressione
maliziosa.
Strinsi la cintura di sicurezza e mi tenni forte. «Oh, certo che sì.»
Diede gas, e la forza dell’accelerazione mi spinse all’indietro sul sedile.
Il motore rombava così forte da soffocare le mie risate mentre Manson
sfrecciava sulla strada. Il vento sferzava i finestrini aperti e superammo la
curva per casa mia in un batter d’occhio. La nostra velocità raggiunse i
centoquaranta… i centosessanta… i centottanta. Appoggiai le mani sulle
sbarre metalliche che circondavano l’abitacolo con il cuore in gola, mentre
volavamo lungo la strada libera.
«Porca puttana, Manson!» gridai quando lui scalò le marce. Sterzò e le
gomme stridettero. La parte posteriore dell’auto slittò in un semicerchio
finché lui non la raddrizzò e la nostra velocità tornò ad aumentare. Prese
la strada stretta e tortuosa che portava sulle colline, dietro la comunità
residenziale di Wickeston Heights.
Aveva un ampio sorriso sulla faccia mentre imboccava le curve della
strada a tutta velocità. Non era un caso che si fosse innamorato di quel
mezzo: la velocità, la potenza, la libertà. Ci portò sulla cresta della collina
e si fermò a lato della strada, con le gomme che scricchiolavano sullo
sterrato. Lì c’era un belvedere con vista su tutta la città, e lui parcheggiò
proprio accanto ai grandi massi che costeggiavano il bordo della collina.
«Sai, venire al belvedere con qualcuno di solito significa che stai
cercando di fare colpo,» affermai. Da anni la gente andava lassù con
l’unico intento di fare sesso, di farsi le canne, di bere o, in generale, di
compiere atti da degenerati.
«Penso che averti nella mia macchina sia già un bel colpo di fortuna,»
ammise. La sincerità delle sue parole mi colse di sorpresa e mi spostai sul
sedile, fissando le luci lontane. Questa sensazione era quasi mesta, ma
troppo piena di desiderio per essere malinconica.
Ero solo stanca e stavo vagando troppo con il pensiero? Il modo in cui
mi guardava mi faceva sentire come se non riuscissi a immettere
abbastanza aria, nonostante i finestrini aperti. Non dovevo sentirmi così.
Tutta quella debole vulnerabilità. Quell’anelito che non aveva nulla a che
fare con il sesso. Doveva trattarsi solo di sesso, niente di più.
Perché mi sembrava che ci fosse dell’altro?
Parlò prima che potessi farlo io. «Andiamo a vedere il panorama.»
Scendemmo e ci affiancammo davanti all’auto. Lui si appoggiò al
cofano, con le mani nelle tasche della felpa, mentre guardava le luci
scintillanti sottostanti. Io mi accostai a lui e sentii il metallo caldo
attraverso i pantaloni troppo grandi di Jason. Wickeston sembrava molto
più bella da lassù: tutte le luci scintillanti si diffondevano nell’oscurità. La
brezza si era alzata, e mi fece rabbrividire un po’. Poi gli diedi un’occhiata
quando Manson si aprì la cerniera della giacca.
«Tieni, devi avere freddo,» mormorò, facendomi avvicinare. Mi attirò al
suo petto e io mi appoggiai al cofano tra le sue gambe, mentre lui
stringeva la giacca intorno a noi. Il suo mento si posò sulla mia spalla e le
sue mani trovarono le mie sotto il giubbotto.
Premette leggermente sul polpastrello del mio dito medio e io dissi: «Il
cuore è guarito. Nessuna cicatrice.»
«Sembri delusa,» rifletté.
«Credo di aver sperato che lasciasse una cicatrice,» confessai. «Mi
piaceva vederla. Mi faceva sentire come… non so.» Scrollai le spalle
imbarazzata. «Mi faceva sentire come se forse fossi stata perdonata.
Almeno prima che combinassi un altro casino.»
Non era facile ammetterlo: odiavo dire di aver sbagliato. La gente se ne
sarebbe approfittata. Se gli concedevi anche solo un centimetro, un
singolo momento di debolezza, avrebbero trovato un modo per usarlo
contro di te. L’orgoglio mi teneva al sicuro. Era una barriera che pensavo
nessuno potesse superare.
Oh, quanto mi ero sbagliata.
«So che probabilmente sembra molto ipocrita da parte mia,» continuai,
dato che lui restò in silenzio. Avevo bisogno che dicesse qualcosa, qualsiasi
cosa. Mi sembrava così sciocco ammettere che un taglietto sul dito mi
avesse fatto provare così tanto. Se avessi provato a dirlo a chiunque altro
nella mia vita, avrebbe riso o sarebbe rimasto disgustato, inorridito, forse
anche preoccupato.
«Penso che siamo tutti ipocriti, in un modo o nell’altro,» commentò,
stringendomi tra le braccia. «Quando cresciamo e capiamo chi siamo, a
volte i nostri pensieri cambiano prima del nostro comportamento. Non è
bello e può essere un casino, ma non siamo perfetti. È capitato a tutti.»
«Sì?» La mia voce suonava molto più timida di quanto volessi. «Anche
tu l’hai sperimentato?»
«Io… beh, cazzo…» Si schiarì la gola, a disagio. «Una volta ho
incontrato una ragazza e ho pensato che fosse la donna più bella che
avessi mai visto. Ma non ero abbastanza per lei, sai… ero un disastro e
non sapevo parlare con nessuno. Ero sempre assorto nei miei pensieri e
cercavo solo di sopravvivere a un’altra giornata.»
Deglutii a fatica, ringraziando il tepore della giacca. Conoscevo quella
storia e non era facile ascoltarla, ma ne avevo bisogno.
«Penso che avrei dovuto odiare quella ragazza,» affermò, ma non
sembrava affatto ostile. «Perché stava sempre con le stesse persone che mi
avevano ferito, e incarnava tutto ciò che io non rappresentavo. Perfezione,
popolarità, bellezza… Faceva parte del sistema che mi rifiutava. Lei era
ciò che tutti noi dovevamo aspirare a essere o ad avere.» Girò la testa, in
modo che la sua guancia poggiasse sulla mia spalla e fosse rivolta verso di
me. «Ma non la odiavo, Jess. Mai. Neanche una volta. Non credo che
avrei potuto, anche se ci avessi provato, anche se lo avessi voluto.»
C’erano parti di me che esistevano solo perché le persone le volevano,
parti di me progettate interamente per compiacere gente a cui alla fine
non importava nulla. Avevo pensato che sarebbe stato più facile così, ma
non mi sembrava affatto semplice. Mi sentivo come se mi fossi tagliata in
due pezzi e non riuscissi a far combaciare nessuno dei bordi.
«Probabilmente dovresti odiarla,» feci io. «Perché sembra che se lo
meriti.»
«No, non è vero.» Mi baciò il collo, facendomi sorridere mio malgrado.
«Non sono bravo a odiare le persone, Jess. L’odio è troppo pesante… è
troppo. Preferisco trovare il buono nelle persone, quando posso.
Preferisco concedere un po’ di grazia agli altri che stanno cercando di
farsi chiarezza, perché anch’io sto cercando di fare la stessa cosa.»
«Hai mai la sensazione di non avere più tempo a disposizione? So che
siamo giovani, ma a volte mi sembra che la vita mi scorra davanti così
velocemente che non riesco a starle dietro. Come se mi fossi persa una
lezione che tutti gli altri hanno già capito, o come se dovessi ricominciare
da capo…»
«Lo capisco.» Sollevò la testa dalla mia spalla e mi scostò i capelli dal
viso, anche se la brezza me li fece tornare di nuovo in faccia. «Vederti di
nuovo a Wickeston è stato come vederti risorgere dalla morte. Pensavo
che avessi chiuso con questo posto.»
«Lo pensavo anch’io,» risposi. «Le cose non sono andate esattamente
secondo i piani. Ho commesso l’errore di pensare che avrei fatto una
grande carriera subito dopo il college, che i soldi, la casa e il lavoro mi
sarebbero piovuti addosso.» Alzai gli occhi al cielo per la mia ingenuità.
«Ora mia madre mi sbatte in faccia che il college è stata una scelta
terribile.» Inscenai la mia migliore imitazione del tono di disapprovazione
di mia madre e aggiunsi: «Avrei dovuto cercare un marito per tutto questo
tempo. Come farà a vedere dei nipotini se io sarò troppo occupata a
cercare un lavoro?»
Manson scosse la testa. «Non ho mai conosciuto tua madre, ma ho la
sensazione di sapere da chi hai preso la tua testardaggine.»
Lo guardai da sopra la spalla, con gli occhi stretti in due fessure. «Oh,
non ne hai idea. Quella donna potrebbe discutere con un muro di mattoni
e vincere.»
Entrambi ridemmo e poi passammo un momento in un confortevole
silenzio.
«Stai cercando di andare a New York?» chiese infine Manson. «Vuoi
vivere lì?»
«Penso che sarebbe eccitante vivere in quel posto,» ammisi. «Una volta
pensavo che tutto quello che volevo era un appartamentino grazioso a
Manhattan. Ma… forse no. Forse sarebbe bello vivere fuori città.
Abbastanza vicino da poterla visitare quando mi pare, ma abbastanza
lontano da avere un po’ di pace e tranquillità.» Sospirai. «Sono ancora
indecisa su tante cose. So solo che voglio andarmene da questa città e
andare dove nessuno conosce il mio nome.»
«Vuoi fuggire da chi eri,» osservò lui.
«Ho fatto un sacco di cazzate. Ho allontanato delle persone. Sono stata
egoista.» Per fortuna gli stavo dando le spalle, perché non pensavo che
sarei stata in grado di incontrare il suo sguardo. «Sono stata pessima con
voi. Vi ho trattato tutti di merda.»
«Perché l’hai fatto?» La sua voce era soave, gentile. Con mia sorpresa,
cominciarono a bruciarmi gli occhi, e mi affrettai a tossire per far sparire
le lacrime.
Mi ero posta quella stessa domanda molte volte e ancora non sentivo di
avere una buona risposta.
«Non riuscivo a staccarmi da voi,» confessai alla fine. «Sembrava che
non vi importasse di quello che pensavano gli altri e questo… mi irritava.
Mi faceva arrabbiare il fatto di non provare la stessa cosa, di
preoccuparmi troppo. Non sopportavo di avere tutto ciò che avrei dovuto
desiderare, eppure…»
«Eppure?» mi incitò. Mi girai verso di lui e Manson spostò le braccia
per accogliermi.
«Eppure, non ero felice,» risposi. «Tutti continuavano a dirmi che avrei
dovuto esserlo, così ho continuato a fingere di esserlo. Pensavo che alla
fine sarebbe scattato, che mi sarei sentita bene. Ma più cercavo di fingere,
più mi sentivo male. Odiavo quello che ero, ma non sapevo come essere
qualcun altro. Pensavo che qualche anno di college avrebbe cambiato le
cose. Mi sono fatta tanti amici, ho bevuto troppo. Ho detto di sì a tutti
perché pensavo che forse mi avrebbe resa una persona migliore, ma… non
ha funzionato.» Sospirai, sentendomi un grosso peso sulle spalle. «Tutti
quegli amici… non mi cercano. Non gliene frega niente. Proprio come gli
amici che avevo qui, mi vogliono solo se sono Jess la festaiola, o Jess la
stronza impenitente. Ancora adesso… non so chi dovrei essere.»
Questa era la verità, per quanto incasinata, brutta e ipocrita. Cercai di
non incrociare il suo sguardo mentre lo dicevo, per paura di quello che
avrei trovato lì dentro. Mi faceva sentire patetica, e non in quel modo
divertente e sexy come quando li imploravo di darmi di più. Ma in un
modo disgustoso, debole e vergognoso.
«Mi dispiace,» sussurrai. «Non mi aspetto che mi perdoniate. Nessuno
di voi. Ma so di aver fatto un gran casino, tante volte.»
Schioccò la lingua e tirò su il mio mento finché non incontrai i suoi
occhi. Mi preparai al giudizio, ma non lo trovai sul suo volto.
«Non posso perdonare a nome di nessun altro,» affermò. «Ma ti ho
perdonata allora. Ti ho perdonata ogni giorno da allora. Ti perdonerò
sempre. E se parlerai ai ragazzi come hai appena fatto con me, so che
anche loro ti perdoneranno.»
Mi venne da piangere. Mi trattenni, deglutendo a fatica e inspirando
bruscamente. Ero certa di non meritare un perdono del genere. Anche per
questo volevo disperatamente andarmene. Avevo bruciato troppi ponti,
ferito troppe persone.
Ma forse non avevo distrutto tutto. Forse c’era ancora qualcosa di
buono da trovare lì.
«Perché stai sorridendo?» chiesi con un tremito nella voce mentre lo
guardavo.
Non rispose con le parole. La sua risposta furono le sue labbra premute
contro le mie.
Mi mise una mano intorno alla nuca, tenendomi stretta. La sua lingua
sondò le mie labbra, che si schiusero facilmente per lui. I nostri respiri si
mescolarono mentre annodavo le mani nella sua maglietta. Volevo tirarlo
più vicino, stringerlo a un punto impossibile. Come se potessi vivere
questo momento, questa sensazione, per sempre.
***
Quando ci fermammo davanti a casa mia, sapevo di non voler passare la
notte da sola. Manson mi accompagnò alla porta, ma mentre la aprivo mi
girai verso di lui e gli chiesi: «Vuoi restare?»
Il suo volto era in ombra, ma vidi comunque i suoi occhi allargarsi.
Esitò mentre io me ne stavo lì, con la porta mezza aperta e l’aria fresca che
filtrava dall’interno.
«Vuoi che…» mormorò. «Che dorma qui?»
«Sì, lo voglio.» Non ero abituata a essere io a chiedere, ad aprirmi al
rifiuto. Non lo avrei biasimato se avesse detto di no. Avrebbe fatto bene a
mantenere le distanze.
Ma mi prese la mano. «Sì. Certo che rimango.»
Mi sembrò di essere di nuovo un’adolescente, che si intrufolava in casa
con un ragazzo quando i miei genitori non c’erano. Non volevo
immaginare quanto si sarebbe incazzata mia madre se avesse scoperto
tutto questo, ma non l’avrebbe fatto. Ciò che non sapeva non poteva farla
arrabbiare.
Si lasciò guidare fino al piano di sopra, in silenzio, mentre si guardava
intorno. Quando raggiungemmo il corridoio del secondo piano, si fermò a
osservare la parete. Le numerose foto incorniciate di mia madre ci
sorridevano, raccontando la mia vita dall’infanzia a oggi. La maggior parte
delle foto proveniva da concorsi di bellezza, compresi scatti affascinanti
che abbracciavano i primi dodici anni della mia vita.
«Sì, ero una di quelle bambine,» dichiarai mentre le ispezionava. Le foto
avevano un che di ridicolo: in alcuni di quei concorsi avevo appena due
anni, vestita di lustrini e brillantini e truccata di tutto punto. Capsule finte
perfettamente dritte nascondevano i vuoti lasciati dalla caduta dei dentini
da latte, e parrucche a caschetto coprivano i miei capelli morbidi e radi.
Ero stata una bambina, con orecchini pendenti e rossetto, con un sorriso
grande e luminoso.
Manson guardò le foto una per una e avrei voluto poter vedere nel suo
cervello. Volevo sapere cosa stesse pensando quando si soffermava sui
ritratti di famiglia o seguiva il contorno delle cornici con un dito.
«Ti piaceva?» chiese, cogliendomi di sorpresa. «Partecipare ai
concorsi?»
Nessuno, nemmeno mia madre, me lo aveva mai chiesto. Non sapevo
nemmeno come rispondere.
«Rendeva felice mia madre,» affermai alla fine. «Pensava che mi servisse
per socializzare, e aveva ragione. Non ho mai avuto paura di stare davanti
a una folla, anche quando ero molto piccola.»
Avevo imparato ad affogare i miei nervi con inondazioni di falsa
sicurezza, a guardare ogni altra bambina che incontravo come una sfida.
Avevo imparato a sforzarmi di essere sempre la migliore, a indurire le mie
emozioni, a vedere il mondo come il mio palcoscenico. Avevo anche
un’istruttrice. Ricordo ancora che lei e mia madre mi facevano camminare
avanti e indietro mentre eseguivo tutte le «mosse» così come avrei dovuto
farle in gara.
«Piedi belli, Jessica, ricordi? Piedi belli!»
«Fai un bel sorriso, avanti, un bel sorriso!»
«Non stringere le dita in quel modo. Lascia che i giudici vedano delle
belle mani!»
Sii bella per vincere. Sii bella per piacere a loro.
«Non è quello che ti ho chiesto io.»
Il tono di Manson non era pretenzioso, ma il mio primo istinto fu
quello di mentire. Certo che mi piaceva! Perché non avrebbe dovuto
piacermi vestirmi bene, ricevere attenzioni, sentirmi la bambina più bella
del mondo? Cos’altro avrei potuto desiderare se non rendere orgogliosa
mia madre, far sì che gli altri mi guardassero con invidia, sentirmi la
migliore?
«Quando ho vinto, mi è piaciuto» dissi. «Ma c’era solo una vincitrice. E
a volte… molte volte… non ero io.»
Qualcun’altra era più bella, più intelligente, più aggraziata, più abile.
Mi faceva male perdere, ma mi spingeva anche a vincere. A impegnarmi di
più, a fare meglio. A prescindere da ciò che serviva, da quante volte mi
fossi aggiudicata il primo posto, non era mai abbastanza. La competizione
non finiva una volta tolti i lustrini e lavati via i brillantini.
Manson si avvicinò. Prima ancora che mi rendessi conto di ciò che stava
accadendo, mi aveva già presa in braccio e i miei piedi si erano staccati da
terra, con lui che mi trasportava senza sforzo per il resto del corridoio.
«Cosa stai facendo?» chiesi, mentre lui spingeva la porta della mia
camera da letto con il piede.
«Ti tolgo quell’aria triste dalla faccia,» dichiarò, e mi rivolse un
sorrisetto sghembo prima di fermarsi accanto al mio letto. Mi lanciò sul
materasso ma mi seguì subito dopo, strisciando addosso a me. Seppellì il
viso nel mio collo, la combinazione della sua bocca e del suo respiro caldo
sulla mia pelle mi fece scoppiare in una risata.
«Cazzo, no, no, no, soffro troppo il solletico lì!» Ma lui conosceva già la
mia debolezza e si fiondò proprio su quel punto sensibile dietro
l’orecchio. Gridai e mi dimenai, mentre lui mi teneva ferma senza
problemi, ridendo dei miei movimenti impotenti.
«Così va meglio,» dichiarò, buttandosi sui cuscini, e io ebbi finalmente
la possibilità di riprendere fiato. Rimanemmo lì, fianco a fianco, a fissare il
soffitto mentre il nostro affanno si placava. Quando sospirai, ancora
tremante per le risate rimaste, girai il viso verso di lui.
Manson mi stava già fissando a sua volta.
«Sei bellissima,» mi disse. «È una cosa che non potrà mai cambiare a
seconda del modo in cui ti guardano gli altri.»
Sorrisi e tornai a guardare il soffitto, come se questo potesse nascondere
il profondo rossore sulle mie guance. Molte persone mi avevano definita
‘bella,’ ma era diverso quando lo diceva lui.
Ci spogliammo fino a quando io non rimasi con solo le mutandine e la
maglietta di Jason, e lui con solo degli slip neri. Lo trascinai sul letto e le
mie mani vagarono lentamente su di lui, esplorandolo in un modo che non
mi ero mai permessa di fare prima. Seguii i tratti dei suoi tatuaggi,
scovando cicatrici e lentiggini alla luce della luna che filtrava dalla finestra.
Mi lasciò fare, rimanendo sdraiato con le braccia infilate sotto la testa
mentre lo toccavo.
Ci girammo e alla fine ci sistemammo con lui che mi tirò vicino a sé e io
con la schiena appoggiata al suo petto. Mi mise il braccio intorno alla vita,
pesante ma non opprimente, come una coperta che mi rilassò all’istante.
«Stai comoda?» mi chiese. La sua bocca era così vicina al mio collo, ed
era così calda.
«Sì. Comodissima.»
Il suo respiro tranquillo mi cullò in un sonno senza sogni nel giro di
pochi minuti.
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36
Manson
Quando mi svegliai e vidi i lunghi capelli biondi distesi sul mio petto,
pensai di stare ancora sognando.
Jess era rannicchiata sotto il mio braccio, con la schiena contro il mio
fianco e la mano appoggiata sul mio bicipite. Indossava la maglietta di
Jason, le sue gambe nude erano leggermente piegate e i suoi piedi erano
premuti contro il mio polpaccio. Il sole era appena sorto, con un bagliore
arancione rossastro che faceva capolino attraverso le tende.
Di solito non mi svegliavo così presto - ma di solito non dormivo
nemmeno fuori casa. La familiare fitta dell’ansia mi sbocciò nel petto,
crescendo come una massa che premeva sui polmoni.
Avevo commesso un errore. Non avrei dovuto dormire qui.
L’ultima volta che avevo dormito al suo fianco, eravamo stati nella mia
vecchia camera da letto nella casa di famiglia dei Peters. Quella notte ero
rimasto sveglio per ore a guardarla, a studiare quanto fosse soave il suo
viso mentre dormiva, come le sue labbra si contraevano e il suo naso si
arricciava mentre sognava. Una semplice sfida l’aveva portata tra le mie
braccia e mi era sembrato troppo bello per essere vero.
Perché lo era. Se n’era andata al mattino con uno degli addii più dolci
che avessi mai sentito e poi… niente. Sparita. Dissolta nel nulla.
Mi ero sentito come se avessi commesso il più grande errore della mia
vita, e non avevo avuto idea di come rimediare se non lasciandola andare.
Era stata una sua scelta, e io dovevo rispettarla.
Ma ora, se avesse preso di nuovo quella decisione… quando lo avrebbe
fatto…
Non sapevo se sarei riuscito a rispettarla questa volta.
Riuscii a vedere meglio la sua stanza alla luce del giorno. Non vi avevo
prestato molta attenzione quando Lucas e io eravamo entrati qui, troppo
distratti dal gioco per preoccuparmi di analizzare ciò che mi circondava.
Le pareti erano dipinte di bianco e c’erano ancora alcune scatole di
cartone accatastate in un angolo, chiuse con lo scotch ed etichettate con
un pennarello. Non aveva ancora finito di disfare le valigie: forse non
aveva intenzione di farlo, soprattutto se aveva in programma di trasferirsi
comunque nel giro di qualche mese.
Le sue lenzuola avevano una stampa di girasoli. Su uno degli scaffali
erano allineate statuette di vetro che catturavano la luce e la rifrangevano
in prismi sulla parete. Le tre mensole sottostanti erano ricoperte di trofei,
medaglie e corone scintillanti.
Sulla sua scrivania c’era una pila di libri, quaderni aperti e appunti
sparsi sulla sua superficie disordinata. Inclinai la testa per poter sbirciare i
dorsi, ma avevo gli occhi troppo secchi perché avevo dormito con le lenti
a contatto. Un libro intitolato ‘Form, Space, and Order’ aveva numerose
linguette multicolori che spuntavano dalle pagine, e la maggior parte degli
altri titoli sembrava di saggistica simile. Aveva barattoli pieni di matite e
penne e una piccola pianta in vaso che sembrava stesse lottando per
sopravvivere.
Sospirò dolcemente e si mise in una posizione più comoda che la spinse
più vicino a me. Mi accoccolai intorno a lei, appoggiando il viso sulla sua
nuca. Lei si spostò insieme a me e il suo corpo si intrecciò con il mio.
Allungò le gambe, e il suo sedere si spostò indietro e mi premette contro.
Il mio cazzo, come era prevedibile, si contrasse e si gonfiò mentre lei si
stiracchiava e sbatteva lentamente le palpebre.
«Buongiorno,» sussurrò con la voce roca per il sonno. Suonava così
sexy.
Le baciai il collo e poi vagai lentamente lungo la sua pelle. Emise dei
piccoli suoni, dei mugolii e dei sospiri, e il suo corpo si afflosciò del tutto
quando la girai sulla schiena e mi infilai sotto le coperte.
Mi spostai tra le sue cosce e le feci scivolare giù gli slip, prima di sfilarli
da sotto le coperte e gettarli via. Fece una risatina sonnolenta quando
volarono per la stanza, ma poi sussultò quando le diedi dei baci sulla
coscia.
Mi piacevano il suo odore, il calore, la morbidezza della sua pelle nel
momento in cui posai la bocca su di lei. Le sue cosce si tesero,
stringendomi la testa quando le succhiai il clitoride. Me la presi comoda,
assaporandola, accarezzando con la lingua ogni sua piega. Il mio cazzo era
dolorosamente duro e sapevo che Jess era indolenzita, ma sapevo anche
che le piaceva il dolore.
«Ah, Manson…» Agguantò le lenzuola e rabbrividì mentre mi
concentravo sul suo clitoride. Spinsi due dita dentro di lei, mugugnando
in segno di apprezzamento quando gridò. Arricciai le dita, i suoi muscoli
si contrassero intorno a me, pulsando man mano che i suoi suoni si
facevano più disperati.
Quando venne, emise un gemito che mi fece formicolare tutto il corpo.
Allontanai la testa da lei e spinsi indietro le lenzuola per mettermi in
ginocchio sopra di lei.
Le sue pupille erano dilatate, gli occhi socchiusi. Mi sporsi e afferrai il
suo bel viso tra le mani, gustando la sua morbidezza. Ero abituato a
vederla ribellarsi, a resistere con fervore, a crogiolarsi nel piacere di essere
sopraffatta. Ma averla così - dolce e sottomessa, tranquilla e
accondiscendente - fu un’immediata scarica di emozioni.
«Sei indolenzita?» le domandai, chinandomi su di lei per avvicinare la
mia bocca a una distanza seducente. Le sue labbra erano aperte e non
riuscii a trattenermi: passai le dita sul suo labbro inferiore, poi gliene
infilai due in bocca. Lei si aprì per me, le sue labbra e la sua lingua erano
così morbide mentre la esploravo.
Quando ritirai le dita e le massaggiai il clitoride, staccò la schiena dal
materasso.
«Sono dolorante,» ansimò. «Ma non mi importa.» Mi agguantò i fianchi
e strattonò l’elastico dei miei slip. «Scopami. Ti prego.»
Quelle parole mi stordirono per un attimo. Maledizione, ero spacciato.
Se avesse tentato di nuovo di sparire e comportarsi come un fantasma, ero
certo che lo sarei diventato anch’io. Mi sfilai in fretta e furia le mutande, le
gettai sul pavimento e mi accostai alla sua bocca con il bacino.
«Bagnamelo,» le ordinai. Il mio cazzo era rigido quando lei aprì la
bocca, guardandomi mentre la sua lingua mi accarezzava. Le spinsi il
cazzo in gola, con una mano annodata tra i suoi capelli per tenerla ferma
fino a quando non ebbe un conato di vomito e le si riempirono gli occhi di
lacrime.
«Cazzo, così. Strozzatici.» Non si tirò indietro, nonostante stesse
lottando per tenermi così in profondità nella sua gola. Le liberai la testa
dopo alcuni lunghi secondi, le pulsazioni tese della sua gola mi davano
troppo piacere. Ma mi riposizionai tra le sue cosce, sapendo che la sua fica
mi avrebbe fatto godere ancora di più. «Sei sicura di volerlo, angelo?
Immagino che tu sia indolenzita.»
Jason era stato spietato, e mi piaceva il pensiero di affondare in quella
fica dolorante, di scoparla fino a farla venire di nuovo malgrado il dolore.
Ma avevo bisogno che lei lo volesse. Avevo bisogno che desiderasse
soffrire per me tanto quanto io a mia volta desideravo lei.
Sollevò i fianchi, premendo verso di me mentre sussurrava: «Scopami
come se mi odiassi, Manson. Fa’ in modo che mi faccia male.»
Dovetti fermarmi un attimo, chiudere gli occhi e inspirare lentamente.
Quando li riaprii, lei mi stava guardando come se fosse sul punto di
implorare, continuava a spingere contro di me, con gli occhi spalancati e
supplichevoli.
«Dimmelo di nuovo, angelo,» ringhiai. «Dimmi cosa vuoi.»
«Scopami.» Dio, mi stava pregando, la sua voce era gravida di bisogno.
«Ti prego, Manson. Scopami forte. Voglio soffrire per prenderlo.»
«Sì?» Il mio cervello si sarebbe spezzato se avesse continuato a
guardarmi in quel modo, ad attrarmi con gli occhi. Si allungò verso la mia
erezione, intrecciò le dita intorno a me e mi masturbò.
«Ti prego,» mormorò, come se la sola attesa fosse un supplizio.
«Scopami, signore, ti prego, ti prego, ti prego…»
La penetrai con impeto, afferrandole le cosce e spingendole verso l’alto
in modo da ottenere un’angolazione più profonda. I suoi occhi si
sbarrarono, mi artigliò le braccia e gridò. Le sue unghie si conficcarono
nella mia pelle - adoravo quelle unghie lunghe e affilate - e io sogghignai
per il bruciore, incurvandomi su di lei mentre la scopavo.
«È questo che vuoi? Mm? Vuoi che ti faccia male?» Annuì senza
indugio, la sua sonnolenza ora era sostituita da una feroce resilienza. Era
impossibile guardarla in faccia senza che mi si stringessero le palle,
avvertendomi che la mia resistenza sarebbe durata poco.
«Cazzo sì, fammi male…» Le si spezzò la voce su quelle parole, e per
poco non lo feci anch’io. «Più forte… lo voglio più forte…»
La mia mente era completamente inghiottita da lei, dalle sensazioni che
mi dava, dai suoi suoni. La sua voce era contorta tra il piacere e il dolore,
e urlava a ogni spinta punitiva.
«Accetterai tutto quello che ti darò?» Annuì di nuovo, mugolando.
«Allora apri la bocca»
Obbedì immediatamente, senza nemmeno un attimo di esitazione, da
viziata che era. Sputai, la mia saliva colpì la sua lingua protesa e lei
inghiottì con un sorriso. Le strofinai il clitoride, sapendo che sarei stato
fortunato se avessi resistito altri sessanta secondi, ma volevo vedere
quell’estasi perfetta sul suo viso ancora una volta. Col fiato corto, si
contorse sotto di me mentre la sbattevo contro il materasso.
«Così, angelo. Vieni per me. Adesso.»
«Ah, cazzo… Manson. Ti prego…»
Imprecai, il mio corpo sussultò e si contrasse mentre lei pulsava intorno
al mio cazzo. Venni, pompando fino all’ultima goccia dentro di lei, mentre
lei chiuse gli occhi e si lasciò andare.
Riuscivo a malapena a tenermi su, ma non volevo ancora tirarmi fuori.
Mi piaceva la sensazione del mio cazzo che la riempiva, che tratteneva il
mio sperma dentro di lei. Con la sua fica stretta intorno a me e quel
sorriso sul suo volto, l’unica cosa a cui riuscivo a pensare era che non
potevo lasciarla andare.
Mai.
Non ce la facevo a guardarla allontanarsi di nuovo. Non potevo vederla
sparire in un futuro che non ci vedeva coinvolti. Non potevo sopportare
che scegliesse di lasciarsi alle spalle ciò che evidentemente bramava.
Cercai di riprendere fiato, rimproverandomi mentalmente per quei
pensieri del tutto ridicoli. Dovevo riuscire a convivere con questo, solo
con questo. Lei era una presenza temporanea nella mia vita, e dovevo
accettarlo. Alla fine, avrei dovuto lasciarla andare. Avremmo dovuto dirci
addio.
No. Fanculo. Non potevo convivere con questo, e non l’avrei fatto,
dannazione.
Mi avvicinai al suo comodino e presi dei fazzoletti per lei prima di
tirarmi fuori, per non farla sgocciolare sul letto. Emise un sibilo sommesso
mentre scivolavo fuori da lei, poi si contorse soddisfatta, premendosi i
fazzoletti tra le gambe.
«Mm, questo sì che è un buongiorno,» mormorò. Mi guardò mentre mi
sedevo sul bordo del letto, passandomi stancamente le dita tra i capelli.
«Grazie, signore.» Ridacchiò appena dopo averlo detto. «O dovrei dire
padrone?»
«Faresti meglio a stare attenta a usare quel titolo,» le feci presente,
senza riuscire a frenare il sorriso sul mio volto. «Altrimenti finirò per non
lasciarti più andare.»
Quello che non dissi era che quel titolo mi rendeva dannatamente
ferale. Nel senso che me la sarei gettata sulle spalle, l’avrei rapita e l’avrei
tenuta segregata solo per noi.
«Forse non mi dispiacerebbe,» sussurrò, e il mio cuore ebbe un sussulto
per un momento.
«Penso che ti dispiacerebbe.» Le misi un braccio intorno e la attirai a
me per baciarle il collo. «Penso che ti dispiacerebbe se ti rapissimo e ti
tenessimo come il nostro giocattolino per sempre. Se ti scopassimo come
vuoi tu, se ti punissimo come ti occorre e se ti portassimo nel nostro letto
ogni volta che ci pare e piace.»
Jess abbassò timidamente lo sguardo. «Voglio dire, è un po’ la mia
fantasia suprema.»
«Aspetta… davvero?» Doveva stare scherzando. Era uno dei miei
desideri più reconditi quello di esercitare un controllo completo e totale
su una sottomessa consenziente, anche se mantenere uno stile di vita di
dominazione e sottomissione ventiquattrore su ventiquattro non era
ancora una cosa per cui ero pronto. Avevo solo ventidue anni, e una cosa
del genere non era uno scherzo: richiedeva responsabilità, pazienza e
molto più tempo di quello che ero in grado di dedicargli al momento.
Per ora, l’idea di una fuga di un fine settimana in cui io e i ragazzi
avremmo «rapito» il nostro giocattolo per spassarcela con lei era una
prospettiva decisamente allettante.
«Racconta,» la spronai, sdraiandomi di nuovo accanto a lei. «Voglio i
dettagli.»
«Oddio,» gemette Jess, coprendosi il viso con le mani. «Vorrei che voi
mi portaste via, Manson. Che mi prendeste, mi rapiste, mi portaste da
qualche parte e mi usaste. Che mi metteste in ginocchio, che mi
costringeste a servirvi. A farmi obbedire.» Sospirò nell’abbassare le mani,
ma la scintilla nei suoi occhi era piena di luce e di desiderio. «Rendetemi
di nuovo la vostra schiava per qualche notte. Non voglio pensare, non
voglio preoccuparmi, voglio solo lasciarmi andare.»
Aveva idea di cosa mi facessero quelle parole? Di quanto mi spingessero
a fare in modo che tutto ciò accadesse? Mi chinai e le diedi un bacio casto
sulla bocca prima di sussurrare: «Non ti dirò quando o come, ma lo
faremo. Soddisferemo la tua fantasia, angelo.»
***
Entrò nella doccia mentre me ne stavo andando, lamentandosi del fatto
che i suoi genitori sarebbero tornati il giorno dopo.
«Conoscendo mia madre, probabilmente fiuterà che ho avuto dei
ragazzi in casa,» si lagnò, con le braccia intorno al mio collo dopo avermi
dato un bacio di saluto. «Forse, così, finalmente la smetterà di
tormentarmi perché mi trovi un fidanzato.»
Un fidanzato. Mi chiesi cosa sarebbe servito perché chiamasse uno di
noi con quella parola, ammesso che fosse una possibilità. O forse ero
davvero solo uno stupido.
Mentre scendevo al piano di sotto, tirai fuori il telefono e vidi un
messaggio di Jason che mi chiedeva se potessi lasciare aperta la porta
d’ingresso di Jess andando via.
Oggi ho un po’ di tempo libero, quindi farò quello che posso per
l’impianto di sicurezza, mi scrisse. I suoi genitori si incazzeranno se
torneranno e sarà ancora rotto.
Lasciai la porta aperta come mi aveva chiesto. Fuori il clima stava già
diventando caldo e appiccicoso, ma per una volta non mi dispiacque. Mi
sentivo bene, come non mi capitava da tempo. Misi in moto la Mustang e
rimasi seduto per un momento mentre si riscaldava il motore, sorridendo
al nulla e canticchiando una canzone.
Dannazione. Che diavolo mi aveva combinato quella donna?
Uscii dal suo quartiere con i finestrini abbassati, ascoltando Siouxsie
and the Banshees a tutto volume mentre tornavo a casa. Forse mi sarei
preso il giorno libero, e avrei insistito affinché lo facesse anche Lucas.
Avevamo lavorato troppo nelle ultime settimane.
Poi, poco più avanti sul ciglio della strada, notai un vecchio pick-up
Chevrolet rosso.
Passandoci davanti, rimasi a fissarlo. I finestrini erano abbassati,
l’abitacolo era vuoto… Lo sorpassai troppo in fretta e feci scattare la testa
all’indietro, sbandando sulla strada nel tentativo di vedere meglio.
Cazzo, non era… non poteva essere…
Girai il volante. Le gomme stridettero nel fare un’inversione a U.
Abbassai la musica mentre mi accostavo al camioncino e scrutai la targa
con una sensazione di nausea nello stomaco.
Riconobbi la targa. L’ammaccatura nel paraurti posteriore arrugginito.
La crepa nel vetro del parabrezza posteriore.
Scesi dall’auto, ma lasciai il motore acceso. Le mie mani divennero
improvvisamente fredde, benché mi stesse colando il sudore lungo la
schiena. Ogni passo mi sembrava lento e robotico mentre mi dirigevo
verso la portiera del lato di guida della Chevrolet. Mi risuonava nelle
orecchie un ruggito simile a un oceano lontano, che pulsava al ritmo del
mio cuore mentre sbirciavo dentro, attraverso il finestrino abbassato.
Sedili laceri, cenere su tutto il cruscotto e un distinto odore di sigarette
al mentolo. Deglutii la nausea crescente quando mi resi conto che lo
sportello era solo parzialmente chiuso, quindi lo aprii. Non c’erano le
chiavi attaccate, ma vidi dei sacchi di plastica neri sul sedile del
passeggero e nel cassone del pick-up, oltre a indumenti e spazzatura sul
pavimento.
E lì, appena visibile sotto il sedile anteriore, c’era un fucile da caccia
con le iniziali R.R. incise sul calcio di legno.
Reagan Reed. Mio padre era tornato.
***
Quando Jason si fermò davanti alla casa di Jess, avevo già fumato
l’ultimo pacchetto di sigarette. Avevo parcheggiato un po’ più avanti, per
evitare che lei mi vedesse dalla finestra e venisse a chiedermi cosa stessi
facendo.
Jason mi aveva già notato quando era sceso dalla Z, e si avvicinò per
bussare incuriosito al mio finestrino.
«Che succede?» chiese mentre abbassavo il vetro. «Pensavo che saresti
tornato a casa. Hai deciso di fare il secondo round?»
Il suo sorriso gioviale si spense quando annunciai: «Mio padre è tornato
in città. Ho visto il suo cazzo di pick-up.»
Non sembrava così sorpreso come avrebbe dovuto. Bestemmiò
sottovoce, passandosi goffamente le dita tra i capelli, prima di chiedermi:
«Dove l’hai visto?»
«La Chevrolet era parcheggiata lungo la Route 15,» spiegai, prendendo
in automatico il mio pacchetto di sigarette. Sbuffai disgustato quando mi
ricordai che era vuoto, e accartocciai il pacchetto in mano prima di
gettarlo a terra. «Non era in macchina, come non c’era traccia delle sue
chiavi. Ma dentro c’era tutta la sua roba. Perché diavolo mi stai
guardando così?»
«Vincent avrebbe dovuto dirtelo,» confessò. «Ma pensava che tu avresti
potuto…»
«Pensava che io avrei potuto cosa?» sbottai senza volerlo, e Jason si
aggrappò al finestrino abbassato e si chinò per guardarmi in faccia.
«Stava cercando di non metterti addosso troppo stress, okay?» replicò.
«Ha incrociato tuo padre quando lui e Jess sono andati al Satin…»
«Mio padre ha visto Vincent con Jess?»
Spalancai lo sportello e Jason fece un passo indietro. Stavo cercando di
fare del mio meglio per mantenere la calma, ma cazzo, Vince lo sapeva da
giorni e non aveva detto nulla? Jason cercò di ricominciare, ma io parlavo
troppo velocemente mentre camminavo avanti e indietro.
«Quindi, l’uomo che ha minacciato di uccidermi, che ha giurato di
mettermi sottoterra per avergli portato via tutto, ha visto Vincent con Jess
in pubblico e Vince ha deciso di non dirmi un cazzo?» Abbassai la voce,
l’ansia mi attanagliava al punto che facevo fatica a respirare. «Pensava che
Reagan non lo avrebbe riconosciuto? Dopo che Vince è venuto con me a
organizzare i funerali, dopo che era stato proprio lì, in tribunale, con me?
Sa esattamente chi è Vincent!»
Mio padre aveva impugnato il testamento di mamma prima ancora che
fosse sotterrata. Non si era preoccupato di venire al funerale o di aiutare
nell’organizzazione. No, quello era spettato tutto a me. Vincent era venuto
a ogni incontro imbarazzante, sia con l’impresario funebre che con
l’avvocato che si occupava delle controversie sul testamento. Era stata la
presenza calma e ottimista di cui avevo avuto bisogno in un momento di
così grande turbamento.
Papà non aveva i fondi per impugnare il testamento in tribunale. Si era
presentato a un’udienza e poi era sparito di nuovo, ma non prima di
avermi detto a chiare lettere che, se non poteva ottenere ciò che voleva per
vie legali, era disposto a tentare altri metodi.
In particolare, piantarmi una pallottola nel cranio.
«Manson.» Jason mi afferrò le spalle e il vigore della sua stretta mi fece
finalmente fermare. «Respira profondamente, amico. Va tutto bene. Tu sei
a posto. Vincent te lo avrebbe detto, lo so. Stava solo cercando di trovare
il modo giusto per farlo. Poi, tra il lavoro, Jess e tutto il resto… deve
essergli passato di mente. So che si sentirà una merda per il fatto che tu
l’abbia scoperto in questo modo.»
Alla fine, feci un respiro profondo. Dovevo ragionare in maniera logica.
«Jess non significherà nulla per lui,» provò Jason, con un tono
assolutamente piatto. Ragionevole. Calmo. Almeno uno di noi lo era. «Ai
suoi occhi, è solo una ragazza qualsiasi. Non si curerà di lei.»
«Non possiamo saperlo,» risposi, fissando casa di lei. La sua porta
d’ingresso non chiusa a chiave, il suo impianto di sicurezza scassato…
Come se mi avesse letto nel pensiero, Jason si affrettò ad aggiungere:
«Vado a riparare l’allarme. Tu faresti meglio a tornare a casa. Prenditi la
giornata libera, rilassati…» Gli lanciai un’occhiataccia, e lui alzò gli occhi
al cielo. «Sì, sì, lo so, tu non ti rilassi. Ma provaci. Vai a frugare nella scorta
di Vincent. Avrà qualcosa per calmarti.»
Annuii, stringendogli il braccio per un attimo in segno di
ringraziamento. Non avevo intenzione di arrabbiarmi in quel modo, ma
era difficile pensare con chiarezza quando si trattava di mio padre. Non
avevo più avuto sue notizie né avevo visto alcun segno di lui dopo il
funerale di mamma, e avrei preferito che le cose rimanessero così.
Speravo che non si sarebbe fermato per molto. A Wickeston non c’era
più niente per lui e, se gli era rimasto un po’ di buonsenso in quella testa
marcia, sarebbe ripartito al più presto.
Il suo pick-up non c’era più quando passai di nuovo di lì davanti, ma
questo non mi fece sentire meglio.
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37
Jessica
Quella mattina feci una doccia lunghissima, assaporando ogni goccia di
acqua calda sul mio corpo dolorante. Probabilmente avrei camminato a
fatica per giorni, ma il disagio era stranamente soddisfacente.
Di solito mi faceva strano che qualcuno dormisse al mio fianco. Non
avevo più avuto una relazione ‘stabile’ dal secondo anno di college, e
anche quella era durata solo tre mesi. Preferivo farla breve e concisa. Più a
lungo stavo con qualcuno, più diventava fastidioso.
Ma questa volta era diverso. Dormire accanto a Manson non mi era
sembrato strano. Era stato come tornare a casa alla fine di una lunga
giornata e sprofondare nel mio cuscino preferito, come una coperta calda
in una notte fredda. Dormii come un sasso, e quando mi svegliai e vidi i
suoi capelli scompigliati, il suo viso rilassato per il sonno… Dio, come
potevo resistergli?
Non aveva senso che un uomo così diverso da me mi facesse sentire così
ascoltata. Così considerata. Il lato complicato e incerto di me che lui faceva
emergere sembrava più simile alla vera me stessa che a qualsiasi altra cosa.
Era il lato di me che desiderava cose spaventose, insolite e vulnerabili.
Cose che sembravano troppo vicine per essere rassicuranti, troppo reali,
troppo crude.
Questo nostro piccolo gioco era molto più difficile da fare quando il
mio cuore era determinato a non seguire le mie regole.
La regola numero uno era quella di non affezionarmi. Nel momento in
cui fosse successo, sarei stata nei guai. Lo sentivo già, e i piccoli modi in
cui mi ritrovavo a cercare di passare più tempo con loro cominciavano a
spaventarmi. Anche quando non adempivo ai miei ‘doveri’ di giocattolo,
sentivo comunque questa attrazione verso di loro.
Dovevo stare attenta. Avevo i miei progetti e non potevo permettere che
venissero rovinati proprio ora.
Jason non mi aveva detto a che ora sarebbe arrivato, ma quando uscii
dal bagno sentii qualcuno al piano di sotto. La porta della mia camera da
letto era spalancata e mi affacciai per sbirciare oltre la ringhiera
dell’ingresso.
«Non vi piace proprio bussare, vero?»
Jason mi guardò. Era seduto sull’uscio aperto con un portatile sulle
gambe distese, i capelli azzurri arruffati e nascosti sotto un cappellino da
baseball nero.
«Bussare è come chiedere il permesso,» dichiarò. «E io non avevo
intenzione di chiederlo.»
Sgranai gli occhi e mi voltai prima che potesse vedermi sorridere. Dopo
essermi vestita in fretta, scesi al piano di sotto e lo trovai ancora seduto
allo stesso posto, con la fronte aggrottata dalla concentrazione mentre
fissava lunghe righe di testo sullo schermo.
«Vuoi un caffè?» gli chiesi, scrutandolo dalla porta che dava sulla
cucina.
«Sono a posto,» rispose lui, con in mano una lattina di energy drink
verde e nera.
«Ah, capisco, preferisci alimentarti con l’acido delle batterie.» La
macchina del caffè si lagnò e quel delizioso succo di chicchi amari
cominciò a gocciolare. Aggiunsi un po’ di panna dolce alla mia tazza e poi
tornai all’ingresso e mi sedetti accanto a lui. Era così concentrato sul suo
schermo che solo quando gli urtai la spalla trasalì per la sorpresa e mi
guardò.
«Pensavo che il tuo schermo assomigliasse a Matrix o qualcosa del
genere,» scherzai.
Lui ridacchiò, scuotendo la testa. «Ci sono molti meno simboli
fluttuanti al neon e molta più matematica.»
Trascorse un minuto di silenzio nel quale lo guardai, sorseggiando il
mio caffè. La matematica era una delle mie materie migliori - ma qualsiasi
cosa stesse facendo non sembrava la matematica a cui ero abituata io. In
quelle lunghe righe di codici si parlava una lingua completamente diversa.
«Ho quasi finito. Devo solo fare un altro test…»
Premette il tasto ‘Invio’ e guardò il pannello di controllo dell’allarme.
Lo schermo lampeggiò e il messaggio passò da ERRORE a PRONTO
ALL’ATTIVAZIONE.
«Accidenti, sei stato veloce,» notai. «Che cosa hai fatto?»
Si schiarì la gola goffamente, alzandosi in piedi. «Forse ho esagerato un
po’ con l’ingegneria.»
«Cioè…?»
«Ho fatto qualche modifica,» ammise. «Ho reso le cose un po’ più
difficili per chiunque altro volesse provare a entrare qui.» Chiuse la porta
d’ingresso, andò alla tastiera e digitò il nostro codice. Il sistema suonò e
sullo schermo comparve ATTIVATO.
«E come fai a conoscere il nostro pin?» chiesi. «Anche se credo che non
dovrei essere sorpresa.»
«Puoi cambiarlo una volta che me ne sarò andato,» ribatté, voltandosi a
guardarmi. «Oppure no.»
«Lo cambierò,» annunciai, alzandomi in piedi. «Non voglio renderti le
cose troppo facili.»
«Mocciosa.» Fece una smorfia mentre disattivava di nuovo il sistema e
scollegava il portatile. «I tuoi genitori non dovrebbero accorgersi di nulla,
anche se forse dovrai far loro ricollegare gli eventuali portachiavi che
avevano. A proposito, è così che ho fatto io. Col tuo portachiavi.»
«Hai rubato il mio portachiavi?»
«No, ho intercettato il segnale radio che inviava al sistema di sicurezza,»
spiegò. «La maggior parte di questi sistemi non codifica nulla, quindi tutti
i dati che mi servono sono lì. Facile.»
«La maggior parte delle persone non pensa che sia così facile.»
«Io non sono la maggior parte delle persone.» Ero in piedi al suo fianco
e, quando si girò verso di me, mi passò le dita sul collo, sulla sottile linea
rossa che il collare aveva lasciato sulla mia pelle. «I tuoi genitori tornano
domani, vero?»
«Purtroppo.» Il tocco delle sue dita mi fece venire la pelle d’oca sulle
braccia, e le strofinai in fretta. «Sono sicura che mia madre troverà
qualcosa di cui lamentarsi non appena varcherà la porta.»
«Sarà appena tornata dalle vacanze,» commentò incredulo. «Di cosa
potrebbe lamentarsi?»
«Di tutto e di più.» Mi seguì in cucina, appoggiandosi all’isola mentre
io presi posto su uno degli sgabelli. «Vediamo. Si lamenterà che ci sono
dei piatti nel lavandino, che ho mangiato tutti i biscotti della dispensa, che
le mie unghie hanno bisogno di una manicure…»
Sbuffò. «A tua madre frega qualcosa delle tue unghie?» Poi fece una
pausa, puntando lontano lo sguardo. «D’altra parte, mia madre mi
rimproverava sempre per le grinze delle mie magliette.»
Avevo visto sua madre qualche volta quando lo aveva accompagnato a
scuola. Mentre mia madre aveva sempre fatto di tutto per essere al centro
dell’attenzione, la signora Roth aveva dato l’idea di una che stava
cercando di integrarsi nella comunità di pensionati locale. Era sempre
stata una bacchettona, e questo atteggiamento si era sempre riflesso su suo
figlio - o almeno così era accaduto all’inizio.
‘Bacchettone’ era molto lontano da come avrei descritto Jason al
momento. ‘Intenso’ era una parola molto più accurata.
«Ho il sentore che faresti meglio a uscire di casa domani,» rifletté,
finendo la sua bevanda energetica e gettando la lattina nella spazzatura.
«Ho una corsa al Fairgrounds Speedway. Dovresti venire.»
«Una corsa? Tipo una gara di accelerazione?»
«Drifting,» precisò, gironzolando per la cucina mentre parlava.
«Probabilmente avrai visto alcuni video postati da Vincent.»
Sorseggiai in fretta il caffè per non fargli vedere la mia faccia colpevole.
Non poteva certo sapere quanto mi impegnassi a seguire i loro social
media, vero? Ma lui mi sogghignò mentre abbassavo la tazza, e gli chiesi:
«È un invito o un ordine?»
«Diciamo… un invito che non puoi rifiutare,» rispose. «Verremo a
prenderti domattina.»
Volevo davvero uscire di casa. Ma porca miseria, lasciarli venire qui a
prendermi significava farli vedere a mia madre. Ammesso che non avesse
già molti motivi di lamentela, li avrebbe trovati di sicuro.
Ma non potevo sempre adattare la mia vita a mia madre.
«Va bene,» dichiarai, appoggiando i gomiti sull’isola e sporgendomi
avanti verso di lui. «Purché non debba vestirmi di nuovo da gatta.»
***
Nonostante le mie perplessità, mia madre era di buon umore quando lei
e mio padre tornarono la mattina dopo. Era rossa come un’aragosta, ma
questo non faceva che renderla più gioviale, mentre si vantava di quanto
fosse abbronzata.
Ma naturalmente tutta quella allegria svanì non appena vide chi mi era
passato a prendere.
Avevo avvertito i miei genitori che avrei trascorso la giornata con degli
amici, ma non avevo specificato quali.
«Jessica!» La mamma sibilò il mio nome entrando in camera mia. Ero
davanti allo specchio e stavo sfumando l’ombretto quando lei si avvicinò a
me e si piantò una mano sul fianco. «Chi hai invitato qui?»
«È solo per un passaggio,» risposi, mettendo via la palette e i pennelli.
Da fuori proveniva una musica ad alto volume e mi chiesi di chi fosse
l’auto, con lo stomaco gonfio di eccitazione. Non sapevo cosa aspettarmi
da quel giorno, ma non vedevo l’ora di sperimentare qualcosa di nuovo.
Ma soprattutto non vedevo l’ora di trascorrere l’intera giornata con i
quattro ragazzi che da un paio di settimane mi stavano facendo impazzire.
Il Fairgrounds era a circa un’ora di macchina, il che significava che non
dovevo nemmeno preoccuparmi di incontrare qualcuno che mi
conoscesse.
Sarebbe stata la prima volta che uscivo in pubblico con tutti e quattro.
L’idea era tanto intimidatoria quanto eccitante.
Prima, però, dovevo affrontare il giudizio di mamma, che non era
affatto contenta.
«No, nella maniera più categorica.» Mamma scosse la testa, con le
labbra serrate, girando sui tacchi. I suoi piedi pestarono il pavimento del
corridoio mentre mi urlava: «Non sono nata ieri, Jessica!»
Il campanello suonò e io mi affrettai a prendere la borsa e a scendere i
gradini due alla volta. «Vado io!»
«No, no, credo che debba andare tuo padre,» replicò brusca la mamma.
Era in piedi nell’ingresso, tra me e la porta, e guardava in cucina dove mio
padre era seduto al tavolo con il suo e-reader e un caffè. «Roger. Roger!»
Schioccò le dita e mio padre girò la testa e abbassò gli occhiali per
guardarla. «C’è un tipo strano alla porta. Rispondi tu!»
«Oh, mio Dio, non è un tipo strano,» risposi. «Va tutto bene, papà.
Non c’è bisogno che apra tu la porta.»
«Lo immaginavo,» liquidò lui, tornando al suo libro con un sospiro
esausto. Mamma sembrava assolutamente esasperata. Mi diressi verso la
porta, ma proprio quando mi stavo avvicinando alla maniglia, lei mi
precedette e la aprì.
Se Lucas era sorpreso di vedere mia madre, di certo non lo diede a
vedere. Era in piedi, lontano dalla porta, con le mani infilate in tasca,
mentre la mamma lo fissava in cagnesco. Indossava dei jeans laceri e degli
stivali allacciati fino alle ginocchia, mentre le braccia coperte di tatuaggi
erano nude. Era la cosa più lontana dal tipico ragazzo che piace ai
genitori.
Era stranamente soddisfacente sapere che la mamma era inorridita e
che non poteva farci nulla.
«Posso aiutarti?» chiese mamma con quel tono gelido che di solito fa
scappare la gente a gambe levate. Cercai di scusarmi con Lucas da sopra la
spalla di mamma, ma non credo che comprese il mio labiale. La Bronco, la
El Camino e la Z erano tutte parcheggiate lungo il marciapiede, formando
un bel gruppo per essere semplicemente considerate un ‘passaggio.’
Mamma non se l’era bevuta, glielo si leggeva in faccia.
«Buongiorno, signora. Non credo che ci siamo mai presentati. Sono
Lucas Bent, un amico di Jessica.»
Rimasi a bocca aperta. Accidenti, che versione di Lucas era questa?
Sembrava educato. Se non fosse stato per gli enormi stivali e i tatuaggi, la
mamma avrebbe potuto davvero pensare che il suo lieve accento del sud
fosse affascinante. A quanto pareva, dopotutto Lucas sapeva ripulire
quella sua bocca sporca.
Ma la mamma lo guardava come se fosse un sacco di merda di cane
fumante buttato sulla soglia di casa. «So chi sei. Quali sono esattamente le
tue intenzioni con mia figlia?»
Okay, era il momento di intervenire. Le afferrai delicatamente il
braccio, allontanandola dalla porta così da poterla oltrepassare.
«Mamma, basta così, davvero, ora ci penso io,» affermai. Se non si fosse
preoccupata così tanto di come l’avrebbero presa i vicini, probabilmente
mi avrebbe sgridata proprio lì sul portico. Rimasi scioccata che non stesse
sparando fiamme dagli occhi mentre sgattaiolavo fuori dalla porta. La
salutai dicendo: «Starò bene. Ti mando un messaggio mentre torno a
casa.»
La sua bocca era premuta in una sottile linea di rabbia. «Non abbiamo
ancora finito di discutere,» mi ammonì puntandomi il dito contro, mentre
io afferrai il polso di Lucas e lo trascinai lungo il marciapiede.
«Piacere di averla conosciuta,» la salutò lui, e la porta sbatté
bruscamente.
«Mi dispiace,» feci poi, facendo una smorfia nella sua direzione. «È
una… protettiva.»
«Non la biasimo,» rispose lui, con la voce che era già tornata burbera
come al solito. Mi strattonò a sé, evidentemente non contento che fossi io
a trascinarlo, e mi mise un braccio intorno alla vita per tenermi vicina.
«Ha un buon istinto per riconoscere i guai.»
La Bronco era parcheggiata davanti alla El Camino lungo il
marciapiede, con Vincent al posto di guida e Jason accanto a lui. Un
rimorchio a pianale era agganciato alla Bronco con la Z fissata sopra, le
ruote bloccate in posizione. All’interno della macchina la musica suonava
a tutto volume, e Jason abbassò il finestrino e mi fischiò.
«Accidenti, guardate che gambe!» esclamò, sbirciando fuori dal
finestrino i miei minuscoli pantaloncini di jeans. Manson era appoggiato al
paraurti posteriore della El Camino e spense la sigaretta, mentre io e
Lucas scendevamo dal vialetto.
«Ehi, Jess.» Il suo sorriso mi fece vibrare lo stomaco quando venne a
salutarmi. Mi aspettavo un bacio e fui colta di sorpresa quando mi
abbracciò e nulla più. Ma lui aveva le idee più chiare di me. Mia madre ci
stava sicuramente osservando da una delle finestre e, se avesse visto un
bacio, non avremmo mai chiuso la discussione.
Ma non mi piaceva che si sentisse in dovere di trattenersi dal baciarmi.
Non mi piaceva affatto.
«Hai mai visto questo ragazzo sforzarsi così tanto per essere educato?»
chiesi, dando a Lucas una gomitata scherzosa mentre Manson e io ci
separavamo. «Non avevo idea che ci fosse un così bravo ragazzo nascosto
lì dentro.»
Manson rise e, con mia grande sorpresa, Lucas mi fermò prima che
potessi aprire la portiera del passeggero. Fece una smorfia e l’aprì lui
stesso, aspettando con trepidazione mentre lo fissavo.
«Allora? Siediti,» mi spronò, dato che io non mi muovevo. Non
pensavo di certo che avesse aperto la portiera per me. Sbattei rapidamente
le palpebre per la sorpresa e mi accomodai sul sedile del passeggero,
lanciandogli un’occhiata circospetta.
«Stai… stai arrossendo, Lucas?» Non potevo crederci. Doveva essere
uno scherzo dovuto alla luce o qualcosa del genere, perché non era
possibile che il suo viso fosse rosso in quel momento. Aggrottò la fronte,
aspettando che Manson si sedesse a sua volta sul sedile del passeggero.
Quindi sbatté lo sportello e si diresse verso il lato del guidatore.
«Stava arrossendo, vero?» sussurrai alla svelta. «Non dirmi che me lo
sono immaginato.»
Manson rise di nuovo. «Attenta, Jess. Far arrossire Lucas è un affare
rischioso.»
«Non so nemmeno cosa abbia fatto per agitarlo!» commentai, ma ormai
era troppo tardi per discuterne, perché Lucas aprì la portiera e si mise al
posto di guida.
Mise in moto l’auto e scosse la testa mentre io continuavo a fissarlo. «È
una giornata afosa, giocattolino, quindi puoi anche smetterla di guardare
la mia faccia un po’ accaldata. Tieni.» Mi passò il cavo ausiliario collegato
alla sua radio. «Scegli tu la musica.»
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38
Lucas
Maledetti meccanismi biologici che mi tradivano. Avrei preferito morire
dissanguato piuttosto che avere il viso arrossato, ma ero lì, tutto in
fermento, mentre l’intelligente cervellino di Jess cercava di capire cosa
avesse fatto per provocare tutto ciò.
Che fossi dannato se l’avesse capito. E anche Manson lo sarebbe stato,
perché era tutta colpa sua.
Ci aspettava circa un’ora di guida e, dato che stavamo trainando la Z,
non potevamo andare a tutto gas per arrivare a destinazione. Tuttavia, non
potei fare a meno di forzare un po’ la El Camino. Mi misi a correre
davanti alla Bronco, aggirando le auto più lente che mi capitavano a tiro.
Ogni volta che prendevo velocità, il sorriso di Jess si allargava. Avevo un
rilevatore radar sul cruscotto, quindi non mi preoccupai dei poliziotti, e
aumentai ancora di più la mia velocità per vedere cosa avrebbe fatto lei.
L’accelerazione improvvisa la colse di sorpresa e allungò la mano per
stringermi la coscia. Le sue unghie appuntite avevano un nuovo colore, lo
stesso viola intenso della Mustang di Manson. Mi chiesi se l’avesse fatto
apposta.
Rallentai, e Jess sospirò dolcemente mentre si sistemava sul sedile,
fissando i campi aperti fuori dal finestrino. Allontanò la mano da me, ma
io la avvicinai e la riportai indietro, lasciando la mia mano sopra la sua,
appoggiata sulla mia gamba.
«Non sei ancora scappata da noi,» feci notare, lanciandole un’occhiata
per cercare di valutare la reazione del suo viso. «Ti stai divertendo un po’
troppo?»
«Ovvio che non sono scappata. Ho ancora bisogno del mio mezzo di
trasporto,» replicò, come se fosse l’unica ragione al mondo. «Forse dovrei
chiedere a voi ragazzi di fare qualche piccola modifica in termini di
velocità.»
«La vedo difficile,» disse Manson. «Dobbiamo insegnarti a cambiare
l’olio in tempo prima di passare a darti un’accelerazione extra.»
«Uff, che noia,» si lagnò lei. «Anch’io voglio un’auto veloce.»
Feci una risata amara. «Stai già cercando di aggiungere altri debiti?
Costerebbe decisamente più di quanto tu possa permetterti.»
Le sue dita si strinsero leggermente intorno alla mia coscia. «Ne sei
sicuro?»
Se questa megera non fosse stata attenta, non saremmo mai arrivati a
quel dannato autodromo, perché mi sarei fermato in qualche strada
secondaria a scoparla di brutto. Guardai Manson, ma era troppo
impegnato a fissare il culo di Jess appoggiato al suo fianco per prestare
attenzione.
«A cosa ti serve più velocità?» chiesi, mentre il mio cazzo si ingrossava,
fin troppo entusiasta a quell’eventualità. «Hai intenzione di metterti a fare
le corse anche tu?»
«No. Mi piace solo andare veloce,» ammise. «Anche se non mi
dispiacerebbe arrivare a batterti in una gara.»
«Non hai alcuna possibilità. Non con quella BMW, non se ne parla
proprio.»
Mi rivolse un sorriso malizioso. «A me sembra solo che tu abbia paura
che io vinca. A te non sembra che abbia paura, Manson?»
Questa volta, Manson catturò la mia attenzione. Il nostro giocattolino si
sentiva esuberante quel giorno, e potevo vedere dalla faccia di Manson
quanto gli piacesse. Si avvicinò a lei, avvertendola: «A me sembra che lui
sia sul punto di sculacciarti, se non cominci a comportarti bene.»
«Dovresti tenere occupata quella tua bocca da bambina viziata, prima
che ti metta nei guai,» la informai.
La sua mano si strinse su di me e poi l’altra si unì a essa. Spinse in alto
l’orlo della mia maglietta, tracciando con un dito la fibbia della mia
cintura.
«Come potrei occuparla, signore?» disse. Non mi ingannò con quel suo
tono dolce e soave. Non ebbi bisogno di guardare di nuovo Manson per
sapere che era eccitato, desideroso che dessimo spettacolo. Ero felice di
dargli un po’ di divertimento.
Mi sistemai meglio e aprii la cintura con una sola mano, mentre dicevo:
«Sai cosa fare, ragazza.»
Per poco non mi strozzai con quelle parole, perché, dannazione, sapeva
davvero cosa fare. Dopo venti secondi con il mio cazzo in bocca, mi stavo
seriamente pentendo di dover guardare la strada invece che lei. Manson
era il fortunato, e si appoggiò alla portiera con una gamba sul sedile
mentre la osservava, sorridendo nel frattempo.
«Registrala,» dissi, e mi dovetti controllare per un attimo quando lei
gemette col mio cazzo in gola. Manson tirò fuori il telefono, dando una
strizzata al culo di Jess mentre la registrava. «Lo riguarderò più tardi, Jess.
Voglio vedere quanto sei sexy mentre ti strozzi col mio cazzo.»
Lei usava bocca e mano insieme, prendendosi tutto il tempo che voleva
mentre faceva dondolare la testa su di me. Mi seppellì nella sua gola, poi
se lo tirò fuori di bocca commentando: «Il piercing mi fa uno strano
effetto in gola. Mi piace.»
Si abbassò di nuovo e io strinsi il volante fino a farmi male alle dita. Il
fatto che Manson stesse a guardare rendeva tutto ancora più bello, e
sapere che gli era venuto duro mi faceva salivare dalla voglia di
assaggiarlo.
Jess mi sondò il piercing con la lingua, facendo muovere la barra curva
avanti e indietro. Mi ci volle un notevole sforzo per non gemere mentre lo
faceva, ma dovette accorgersi di qualcosa, perché la volta successiva che
sollevò la testa disse: «Ti piace quando ci gioco?»
«Sì.» La voce mi uscì come un ringhio trattenuto a fatica. «È una bella
sensazione quando lo muovi. E quando è in gola…» Le spinsi la testa
all’indietro, appoggiandole la mano sulla nuca.
«Che brava ragazza, Jess» commentò Manson, con la mano che le
strofinava tra le gambe. «Fallo godere.» Lei gemette di nuovo su di me e il
mio piede scattò sull’acceleratore. Mi occorse ogni briciolo di
autocontrollo per rimanere concentrato nonostante quello che stava
facendo.
La strada era offuscata, ma le cose che lei stava facendo con la bocca, la
mano e la lingua erano perfettamente vivide. Fu scioccante che fossimo
arrivati interi all’autodromo, perché non sarei riuscito a ricordare il resto
del viaggio neanche se ne fosse andato della mia vita.
Nel momento in cui parcheggiai nel grande piazzale fuori dal
Fairgrounds Speedway, strinsi le mani intorno allo schienale del sedile e
chiusi gli occhi, con la testa inclinata all’indietro mentre lei terminava il
lavoro. Manson la stava elogiando e lei si strusciava sulla sua mano per
provare piacere. Il suono che mi uscì mentre le venivo in bocca fu più
animale che umano, e per un attimo giurai di aver sentito la mia anima
abbandonare il mio corpo.
«Porca puttana…» Espirai lentamente e aprii gli occhi, giusto in tempo
per vederla deglutire.
Voleva una macchina veloce? Le avrei dato una cazzo di macchina
veloce. Cos’altro voleva? Trucchi? Gioielli? Vestiti? Un dannato gattino?
Le avrei dato anche quelli.
Manson mi distolse dai miei stupidi pensieri. Continuando a registrare
con una mano, la fece girare con l’altra. La testa di Jess era ora nel mio
grembo, proprio accanto al mio cazzo, con gli occhi spalancati e
leggermente storditi mentre Manson si muoveva su di lei.
«Abbassale i pantaloncini,» mi ordinò, e io lo aiutai a farlo, aprendoli in
modo che potesse toglierglieli. Stavo ancora cercando di riprendere fiato
quando lui la penetrò, il suo cazzo le allargò la fica in un modo che potrei
solo descrivere come incredibilmente sexy. Lei gemette, con gli occhi
rivolti all’indietro, mentre lui la scopava. Le tenni le gambe sollevate per
lui, mantenendole ben aperte.
«Cazzo, mi farà venire…» Jess ansimò. Non riuscivo a decidere chi dei
due volessi guardare di più, mentre il viso di Jess si ammorbidiva per il
piacere e quello di Manson diventava più contratto.
Entrambi sapevano come entrarmi sottopelle, come squarciarmi
dall’interno e darmi piacere. Da Manson me lo aspettavo, ma da lei?
Come diavolo faceva a leggermi così bene? Come faceva a capire le
piccole cose che mi facevano impazzire? Sentivo sempre che mi osservava
quando era vicina, ma era come se riuscisse ad entrare nella mia anima, a
dare una sbirciata accidentale e a capire esattamente cosa mi facesse uscire
di senno.
Mi faceva sentire come se stessi per perdere la testa, ancora più del
solito.
Gli occhi le si chiusero mentre veniva, e io fui lì a cogliere ogni
espressione mentre andava in pezzi. Manson appoggiò la mano contro il
finestrino accanto alla mia testa, scopandola finché non ebbe un sussulto e
venne dentro di lei con un gemito. Ci eravamo già guardati scopare, ma
Dio, c’era qualcosa di incredibile nel vederlo con lei.
C’era qualcosa nel modo in cui lei lo guardava e nel modo in cui era
maniacalmente rapito da lei. Era così che si sentiva lui quando ci
guardava? Non avevo mai compreso appieno il concetto di voyeur, ma
non avevo il suo livello di autocontrollo. Non potevo sopportare di
guardare senza partecipare, mentre lui si eccitava proprio per questo.
Si staccò da lei, riprendendo fiato per un attimo, prima di appoggiarsi
all’indietro e portarla con sé. La girò, in modo che la sua schiena fosse
contro il suo petto e le sue gambe fossero aperte sul sedile, di fronte a me.
«Divorala,» disse Manson con voce ancora roca.
Anche se avevo appena avuto un orgasmo, quelle parole mi fecero
eccitare di nuovo. Mi chinai in avanti, fregandomene di chiunque altro si
trovasse nel parcheggio intorno a noi. Potevano benissimo guardare
altrove, se non gli piaceva. Jess aveva un sapore incredibile con lo sperma
di Manson che le colava di fuori. Ogni volta che passavo la lingua sul suo
clitoride, lei si sollevava verso la mia bocca.
«Raccontagli cosa stai provando,» le ordinò Manson, mentre i suoi
bellissimi occhi verdi mi fissavano tra le sue gambe. Volevo sentirla venire
di nuovo. Volevo che le sue cosce si stringessero intorno alla mia testa,
mentre il suo corpo si contorceva di piacere.
«La tua lingua è uno spettacolo,» mormorò lei, dimenandosi contro di
me e strusciandosi sulla mia bocca. La mano di Manson premeva sulla mia
nuca, incoraggiandomi a continuare. «Oh Dio, Lucas, sì…»
Spinsi la mia lingua dentro di lei, sentendo il sapore di Manson dentro
di lei e le sue piccole grida disperate. Rabbrividì, le cosce le si strinsero.
Le serrò intorno alla mia testa e io mi persi nel momento. Chi poteva
preoccuparsi dell’ossigeno, quando la sua fica aveva un sapore così
fottutamente magnifico e lei emetteva quei suoni, così dolci e indifesi e
pieni di desiderio?
Sollevai appena la testa, leccandomi il sapore di lei dalle labbra.
Manson mi guardava, con gli occhi stretti da un’allegria sadica, mentre le
mormorava: «Digli che è un bravo ragazzo.»
Lui mi sorrise, come se sapesse quanto fosse perfido farle dire una cosa
del genere. Sadico del cazzo. Ma rabbrividii ancora quando le labbra
soffici di Jess formarono le parole: «Mm, che bravo ragazzo.»
Le mie dita si conficcarono nelle sue cosce, con i denti nudi mentre
incombevo su di lei. Schiacciata tra me e Manson, sembrava vulnerabile
ma anche troppo astuta. Sapeva esattamente come ottenere ciò che voleva
e noi sapevamo esattamente come eseguirlo.
«Faresti meglio a stare molto attenta a usare quelle parole con me,» la
ammonii, e lei annuì rapidamente, con le pupille sempre più dilatate.
«Farò attenzione, signore,» mi assicurò, ma nei suoi occhi c’era malizia.
Mi misi a sedere e raccolsi le mie cose, infilandomi in tasca il
portafoglio e le chiavi. Non avevo idea di quale espressione fosse fissata
sul mio volto, ma Jess ridacchiò in un modo che tradiva sia la paura che
l’eccitazione, prima di uscire dall’auto dopo Manson e mettersi la borsa in
spalla.
Non sapevo se volessi sculacciarla o baciarla di nuovo, cazzo.
Probabilmente entrambe le cose.
Sicuramente entrambe le cose.
Jess ci precedette mentre ci dirigevamo al banco di accettazione. Il
Fairgrounds Speedway era circondato da alberi su tutti i lati, con un
edificio per convegni all’inizio della proprietà che ospitava stand per il
merchandising e i concessionari. Oltre a questo, la pista occupava il resto
della proprietà, con gradinate che la sovrastavano. Vincent e Jason
avevano guidato la Bronco fino ai box, una distesa curva di asfalto proprio
accanto alla pista, dove tutti i piloti e i loro equipaggi erano riuniti per
prepararsi alla gara del giorno.
L’aria calda si tingeva dell’odore di gomma bruciata e di sigarette, e io
feci un respiro profondo. Non mi sentivo a mio agio in molti posti, ma lì
mi sentivo a casa. Era la mia casa lontano da casa, ma non eravamo lì solo
per il supporto morale: Jason aveva bisogno di meccanici che garantissero
alla Z di superare la giornata. Le derapate erano dure per un’auto e, senza
manutenzione, la Z non avrebbe superato le qualifiche. Avevamo il nostro
armamentario nel retro della Bronco: attrezzi e tutto il necessario per le
riparazioni. Se qualcosa fosse andato storto in pista, avremmo dovuto
ripararlo rapidamente o rinunciare alla gara.
«È incredibile che tu riesca a tenere il muso dopo un pompino del
genere,» commentò Manson, camminando accanto a me. Jess era
abbastanza avanti da non sentire, o almeno così sembrava. Ma avrei
giurato di averle visto girare leggermente la testa verso di noi, cercando di
ascoltare.
Era troppo intelligente. Troppo attenta.
Manson mi passò un braccio intorno alle spalle, mi tirò verso di sé e mi
baciò. Era di buon umore quel giorno; in effetti, era di ottimo umore da
quando aveva passato la notte a casa di lei.
«Credo che sappia giocare troppo bene,» mormorai quando si tirò
indietro, ma lasciò il suo braccio intorno a me. «Ti ci stai già affezionando
troppo.»
Il suo sorriso vacillò, ma solo per un attimo. «Lei saprà anche giocare,
ma le regole le abbiamo fatte noi. Per divertirci con lei. Lei gioca per
vincere, lo sai. Più la sfidi, più lei reagisce.»
Maledizione, ma era proprio questo che temevo. Nemmeno io riuscivo
a resistere alla competizione, così, quando Jess si opponeva, io spingevo di
più. Era un ciclo che non vedevo finire se non con un’esplosione.
E forse era proprio così che era destinata a concludersi l’intera
faccenda. Una competizione feroce fino a un finale incandescente. Solo
che non sapevo quanti di noi sarebbero stati distrutti lungo il percorso.
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39
Jessica
Appena entrata nella piazzola, rimasi sorpresa dalla quantità di rumore e
di trambusto che mi circondava. Alcuni gruppi stavano montando delle
tettoie per coprire la loro area di lavoro, mentre altri stavano
semplicemente sistemando gli attrezzi e le forniture davanti ai loro
rimorchi. C’era una pletora di auto, alcuni modelli che riconoscevo e altri
che sembravano troppo strani per essere di un produttore che conoscevo.
Erano leggere e basse rispetto al suolo, con gli interni sventrati fino al
metallo nudo. Manson spiegò che questo rendeva l’auto più leggera, più
veloce e più facile da manovrare.
Come la Z di Jason, quelle auto non erano costruite per il comfort, ma
per le prestazioni.
L’atmosfera era estremamente positiva. Molte persone salutarono i
ragazzi mentre camminavano, alcuni automobilisti si fermarono a
chiacchierare. Io mi tenni in disparte, appollaiandomi sul sedile anteriore
della Bronco con la portiera aperta e i piedi appoggiati al finestrino
abbassato. Avrei potuto assistere da lì, sgranocchiando un corn dog che
Vincent mi aveva comprato.
L’eccitazione nell’aria mi ricordava l’energia di un raduno pre-gara in
vista di una grossa competizione. Solo che non vedevo alcuna animosità
da parte dei vari piloti, nonostante stessero tutti per gareggiare l’uno
contro l’altro. Vidi molte persone che sorridevano e ridevano, ascoltando
musica con altoparlanti Bluetooth portatili. Alcuni piloti avevano persino
portato le loro famiglie.
Jason apparve nella portiera aperta della Bronco, si appoggiò al telaio e
mi sorrise. Indossava una tuta nera, il cui stile mi ricordava una certa festa
di Halloween e il costume che aveva indossato quella sera. Ricordavo che
l’aveva abbassata mentre ero in ginocchio, rivelando il suo petto
brillantemente tatuato per sfregare il suo grosso cazzo davanti a me.
Oooh, non avevo bisogno di pensare al suo cazzo in quel momento. Le
mie mutande erano già abbastanza bagnate.
Ero ancora così fastidiosamente eccitata da quel pompino. Non sapevo
perché Lucas si sforzasse così tanto di fingere che non gli piacesse nulla.
Mi faceva venire voglia di squarciare quell’apparenza da duro e di entrare
nella sua testa. Forse la mia scoperta del suo piccolo kink mi avrebbe
permesso di farlo.
Chi avrebbe mai pensato che il cattivo Lucas volesse essere chiamato
‘bravo ragazzo’? Il pensiero mi riempì di perfida allegria.
«Alcuni ragazzi stanno per fare qualche prova,» mi informò Jason,
afferrando la mia gamba tesa. Indossavo pantaloncini di jeans quel giorno,
quindi la mia pelle era nuda, e lui girò la testa per baciarmi la caviglia,
tenendo i suoi vispi occhi azzurri su di me mentre lo faceva. «Vuoi
guardare?»
Incuriosita da ciò che mi aspettava, annuii. Mi accompagnò fino alla
parte anteriore della Bronco e mi aiutò a salire, sedendosi accanto a me sul
cofano con i piedi appoggiati sul paraurti. Una recinzione di rete e un
basso terrapieno separavano la zona dei box dalla pista. Si trattava di
un’ampia distesa d’asfalto di forma vagamente ovale, contrassegnata da
vernice bianca e coni stradali arancioni. Sul lato più vicino a noi, una
strada curva usciva dai box e si immetteva sulla pista, dirigendosi verso la
linea di partenza. Un palo con una serie di luci gialle, verdi e rosse era
fissato al suolo proprio accanto alla linea.
Una vecchia BMW grigio scuro si accostò alla linea di partenza e Jason
si avvicinò a me per spiegarmi: «I piloti saranno giudicati in base a tre
elementi: linea, angolazione e stile. La linea ha a che fare con il
posizionamento dell’auto. Vedi quei quadrati e quelle linee diagonali sulla
pista? Si tratta di punti interni e di zone di riempimento. Dobbiamo
inserire i nostri paraurti anteriori o posteriori in quelle zone mentre ci
muoviamo sulla pista.»
Li indicò, quadrati e linee bianche posizionati all’interno delle curve
strette o ai bordi di quelle larghe. All’improvviso, con un enorme ruggito
che mi fece mettere le mani sulle orecchie, la vecchia BMW schizzò dalla
linea di partenza verso il tracciato. Nuvole di fumo bianco e denso
fuoriuscivano dai suoi pneumatici mentre scivolava nella prima curva, con
il paraurti posteriore che scorreva attraverso la zona verniciata che
curvava lungo il primo muro.
«Siamo giudicati anche in base all’angolazione!» gridò Jason sopra il
rombo del motore. «Vedi quando gira, come sembra tutto fluido? La sua
auto non sbanda, non corregge eccessivamente lo sterzo. L’ultimo è lo
stile. I giudici guarderanno il modo in cui si imbocca la prima curva e il
modo in cui si attraversa il percorso.»
Il pilota sfrecciò lungo tutto il percorso in pochi secondi, lasciando
nell’aria nubi di fumo e l’odore di gomma bruciata. Il rumore e la velocità
erano sbalorditivi e io studiavo con attenzione mentre altri piloti si
allineavano per fare pratica.
«Vanno così veloci,» commentai. «È incredibile che non si schiantino.»
«Ci vuole molta pratica,» disse Jason, facendomi un sorriso a denti
stretti. «Farò qualche giro anch’io prima dell’inizio della gara.» Si avvicinò
e i suoi occhi si posarono sulle mie labbra. «Farai il tifo per me?»
Arricciai la bocca, riflettendo, come se si trattasse di una domanda.
«Non lo so… Quel pilota laggiù nella Corvette è piuttosto carino…» I
suoi occhi lampeggiarono pericolosamente e io risi, baciandolo. «Certo
che farò il tifo per te. Faresti meglio a vincere.»
«Non ho intenzione di perdere contro una cazzo di Corvette, questo è
certo,» annunciò, con l’eccitazione nella voce, prima di smontare dalla
Bronco e di dirigersi verso la sua auto. Ma prima di salire sul sedile del
guidatore mi fece un ultimo occhiolino da sopra la spalla. «Vincerò solo
per te, principessa.»
***
Gli spalti si erano riempiti e la folla si era radunata lungo la recinzione
per avere una visione migliore dell’azione, mentre iniziava il primo
segmento della gara. Lucas e Manson erano venuti equipaggiati con
attrezzi, pezzi di ricambio e persino pneumatici di scorta. La nostra area
dei box era allestita come una versione in miniatura del loro garage.
«Sei eccitata?» disse Vincent, raggiungendomi sul mio trespolo in cima
alla Bronco. Era il punto perfetto per osservare l’azione ed era
parzialmente riparato dal sole dalla tettoia che gli uomini avevano
montato per lavorare.
«Molto,» dissi. Jason stava per iniziare la sua prima corsa ufficiale sul
tracciato e l’agitazione mi faceva sudare le mani. Non riuscivo a ricordare
l’ultima volta che mi ero sentita così ansiosa per conto di qualcun altro.
Ero stata davvero sincera quando avevo detto che volevo che vincesse
oggi. «Non sapevo bene cosa aspettarmi, ma tutti questi piloti sembrano
così bravi.»
«Che tu ci creda o no, questa non è nemmeno una gara di livello
professionale,» spiegò Vincent. «Tutti questi piloti sono considerati
dilettanti.»
«Cosa?» Lo guardai incredula. «Porca puttana, non riesco a
immaginare come siano i professionisti, allora!»
«Le loro auto sono molto più rumorose, per esempio,» disse,
mettendosi una mano in tasca. «A proposito, dovevo darti questi.» Gli
porsi la mano e lui ci fece cadere dentro un paio di tappi di plastica.
«Sono tappi per le orecchie. Bloccano il fracasso peggiore, ma potrai
comunque sentire le conversazioni da vicino. Provali se vuoi. Il rumore
può essere piuttosto forte.»
Il frastuono era comunque eccitante, quindi per il momento lasciai
perdere i tappi per le orecchie. Quando Jason si avvicinò alla linea di
partenza e accese il motore, consumando le gomme e sputando nuvole di
fumo, mi piacque sentire il rombo del motore attraverso le mie membra e
come questo suono intenso si riverberasse nel mio petto.
Quando scattò in avanti dalla linea di partenza, non riuscii a distogliere
lo sguardo. Trattenni il fiato mentre entrava nella prima curva. La sua auto
scivolò di lato e i suoi pneumatici posteriori rimasero perfettamente
all’interno della zona delimitata lungo il muro. La curva successiva gli
impose di girare la ruota nella direzione opposta, cambiando l’angolo
della sua derapata. Quando entrò nell’ultima curva, riuscii a malapena a
scorgerlo attraverso il fumo, così mi misi in equilibrio sul paraurti
anteriore della Bronco, cercando di vedere.
Uscì al volo dalla nube, sbandando all’ultima curva. Il pubblico
applaudì, mentre la voce metallica dell’annunciatore definì la corsa
‘impressionante’.
Impressionante non era una parola sufficiente per descriverla. Fu
incredibile, da cardiopalma. Controllare un veicolo che procede a quelle
velocità attraverso curve come quella era stupefacente.
Jason fece un’altra prova e questa volta la sua guida fu ancora più
veloce e precisa. Ero troppo presa dall’eccitazione di tutto ciò per
rendermi conto che aveva raggiunto tutti i traguardi che gli erano stati
richiesti, finché Vincent non batté il pugno in segno di vittoria.
«Oggi ci sa fare,» commentò Manson, sorridendo con orgoglio mentre
Jason guidava lentamente la Z sul lato posteriore della pista e tornava
verso i box.
«Sta puntando al primo posto, baby, lo sento!» esclamò Vincent
entusiasta, battendo le mani mentre Jason portava la Z sotto la tettoia.
«Entrerai sicuramente nella Top 32,» affermò Lucas, offrendo a Jason la
mano per tirarsi fuori dall’auto. Si tolse il casco, sorridendo ampiamente
mentre si scrollava i capelli dal viso. Lucas e Manson si misero subito al
lavoro, aprendo il cofano e iniziando a sostituire le gomme.
«Come sta andando là fuori?» chiese Manson, infilandosi i guanti.
«Forse è un po’ troppo carica. Dopo il primo giro, il motore girava al
minimo,» spiegò Jason, slacciandosi la tuta ora che si trovava all’ombra. Si
versò mezza bottiglia d’acqua in testa e il liquido gli colò sul petto. Usai
un opuscolo che avevo trovato come un ventaglio, agitandolo per aiutarlo
a rinfrescarsi. Quel giorno c’era il sole a picco; probabilmente stava
sudando come un matto con quella tuta.
L’annunciatore diede il punteggio finale di Jason e Vincent esultò di
nuovo. «Novantatré!» esclamò, scuotendo le spalle di Jason nella sua
eccitazione, mentre quello più piccolo rideva. «Sapevo che avevi spaccato
là fuori»
Con la parte superiore della tuta legata intorno alla vita, Jason si
avvicinò per riposare accanto a me all’ombra. All’interno vendevano birre
e Vincent ne aveva presa una per me, anche se nessuno dei ragazzi stava
bevendo. Ma io mi stavo divertendo un mondo, lì a sorseggiare birra
ghiacciata e guardare la gara.
«Me la strofini sulla schiena, per favore?» chiese Jason, appoggiandosi
al cofano mentre gli passavo la lattina di alluminio fredda sulle spalle.
Rabbrividì soddisfatto e sospirò chiudendo gli occhi. «Fa un caldo del
cazzo in quella macchina.»
«È stato fantastico guardarti là fuori,» ammisi, con il fiato sospeso per
un attimo, quando lui aprì gli occhi. Non pensavo che mi sarei mai
abituata a quanto fossero azzurri. «E adesso che succede?»
«Mi sono qualificato per la fase successiva della competizione,» spiegò,
mormorando con gratitudine quando gli feci scivolare la lattina lungo la
schiena. «La prossima è la derapata in tandem.»
«Tandem? Che cos’è?»
«Lo vedrai. Non vorrei rovinarti la sorpresa.» Si raddrizzò, mentre noi
due guardavamo Lucas e Manson lavorare. Vincent aveva portato con sé
un piccolo altoparlante e Manson vi aveva collegato il suo telefono,
riproducendo ‘Hunting Season’ degli Ice Nine Kills. Era la prima volta
che vedevo lui e Lucas lavorare insieme, ed era chiaro quanto fossero
esperti. Era come se riuscissero a leggere nella mente dell’altro, e a
prendere gli strumenti per l’altro prima che una sola parola venisse
pronunciata.
A un certo punto, mentre entrambi armeggiavano con qualcosa sotto il
cofano, Manson si avvicinò e sussurrò all’orecchio di Lucas. Lucas lo
guardò con occhi spalancati, bloccandosi per un attimo, prima di scuotere
la testa e di ridere, arrossendo in viso. Non avevo idea di cosa si fossero
detti, ma mi fece comunque sorridere.
«Perché ridi?» chiese Jason, posando un braccio sulle mie cosce.
«Sto solo guardando voi ragazzi» dissi, appoggiandomi sulle mani. «Mi
fa sentire felice quando Manson e Lucas flirtano tra loro, o tu e Vincent…
non so, è bello da vedere. Non so se riesco a spiegarlo.»
«Sembra compersione,» precisò. «È quando ti senti felice per la felicità
di qualcun altro. Ad esempio, quando Vincent flirta con te, so che si sta
divertendo e che gli piace la tua compagnia. Quindi mi rende felice.»
«Non sapevo che esistesse una parola per questo» dissi. «È come il
contrario della gelosia.»
«Sì, è così. Trovare gioia nella gioia altrui. Anche per questo noi quattro
andiamo così d’accordo. Vogliamo davvero vederci felici.»
Era una cosa che non avevo mai provato prima. Avere un partner che
flirtava con qualcun altro oltre a me era sempre stata una minaccia, non
qualcosa di cui essere felici. Ma questo era diverso. Mi rendeva davvero
felice vedere la loro vicinanza reciproca, o quanto Vincent fosse eccitato
mentre Jason si preparava all’inizio della fase successiva della gara.
«Ce la puoi fare, piccolo. Tranquillo,» lo esortò, abbracciando Jason.
Jason richiuse la tuta e indossò i guanti, flettendo le dita. Ma prima di
indossare il casco, si avvicinò di nuovo a me e mi prese il viso tra le mani,
lasciandomi un bacio lungo e lento che mi fece tremare le ginocchia.
«Buona fortuna,» dissi.
«Ti ho detto che avrei vinto per te,» mi ricordò. «Ho ancora intenzione
di farlo.»
I piloti si schierarono per la fase successiva della gara, ma questa volta
erano accoppiati. Due piloti si avvicinarono contemporaneamente alla
linea e io mi accigliai confusa.
«Stanno gareggiando?» chiesi, e Lucas scosse la testa. «Allora cosa…»
Le luci lampeggiarono e le auto schizzarono in avanti, una precedendo
l’altra alla prima curva. Con mio grande sgomento, le due auto percorsero
la curva fianco a fianco. Le gomme stridevano, i motori rombavano, i due
veicoli sbandavano a pochi centimetri l’uno dall’altro prima di cambiare
angolo e volare nella curva successiva.
«Non è possibile, cazzo…» commentai, spalancando gli occhi mentre
mi sporgevo in avanti sul cofano, fissando incredula. «Sono in squadra
insieme? Come diavolo fanno a non schiantarsi l’uno contro l’altro?»
«Allo stesso modo in cui non si schiantano contro i muri,» mi fece
notare Lucas. «Si staccheranno per la manche successiva e l’altra auto sarà
in testa.»
«Mi stai dicendo che non si sono allenati l’uno con l’altro? Tipo… quei
due piloti non hanno mai lavorato insieme?» Era difficile credere che una
corsa così impeccabile, terribilmente fluida, potesse essere fatta senza ore
di esercitazioni insieme per ottenere il giusto risultato.
«Forse hanno già gareggiato insieme,» affermò Lucas. «Ma i piloti
vengono accoppiati in base ai punteggi ottenuti nelle prove di
qualificazione, quindi non potevano sapere in anticipo con chi sarebbero
stati abbinati.» Mi lanciò un’occhiata, con la sigaretta che gli penzolava
dalle labbra. «Sono bravissimi. Può capitare di vedere qualche pilota che
si tocca o che si schianta, ma sono qui per un motivo. Sono molto abili, e
Jason è uno dei migliori.»
Sembrava orgoglioso, le parole non lasciavano nemmeno l’ombra del
dubbio che Jason avrebbe vinto. Ma il mio cuore batteva ancora forte
mentre la Z bianca si avvicinava alla linea di partenza. Mi alzai di nuovo
sul paraurti per cercare di vedere meglio, ma questa volta Vincent se ne
accorse e venne verso di me, accovacciandosi davanti a me.
«Sali sulle mie spalle,» propose. «Andremo al recinto.»
Mi arrampicai, vacillando per un attimo quando si alzò in piedi. Porca
miseria, era alto. Si avvicinò con me alla recinzione, offrendomi una
visuale perfetta della gara. Manson e Lucas si affiancarono a noi e insieme
guardammo le luci lampeggiare, facendo il conto alla rovescia per la
partenza.
Jason e l’altro pilota si lanciarono dalla linea di partenza. Esultai mentre
sfrecciavano tra le curve, con Jason che inseguiva l’auto in testa. Era così
vicino che non riuscivo a capire come non si scontrassero quando i veicoli
cambiavano angolazione e i loro pneumatici stridevano, lasciando lunghe
strisce di gomma nera sulla pista.
«Cazzo, sì, è stato fantastico,» fece Vincent, avvicinandosi alla
recinzione. L’unica cosa a cui potevo aggrapparmi lassù era la sua testa,
quindi le mie dita erano impigliate nei suoi lunghi capelli. Ma a lui non
sembrava dispiacere affatto. «È stata una corsa davvero buona.»
Le due auto ripresero, con Jason in testa questa volta. Ma il suo
avversario vacillò, faticando a tenere il passo della velocità di Jason e
assicurandogli la vittoria.
La competizione si ridusse da trentadue piloti a sedici, poi a otto e
infine a soli quattro piloti. Manson e Lucas lavorarono velocemente tra
una gara e l’altra, cambiando gli pneumatici e facendo rifornimento
mentre Jason si rinfrescava all’ombra. Non aveva mangiato nulla per tutto
il giorno, ma quando gli offrii delle patatine fritte, si mise a saltellare,
scuotendo la testa.
«Non posso mangiare, sono troppo eccitato,» spiegò. Era entusiasta,
tutto sorridente mentre si preparava per la manche successiva.
Jason rimase solidamente stabile in ogni gara, anche quando il pilota di
testa della sua ultima manche perse il controllo e andò in testacoda,
sbandando sull’asfalto davanti a lui. Dovette spostarsi rapidamente per
evitarlo, e il cuore mi rimase in gola mentre finì il resto del percorso da
solo. Il suo avversario era stato eliminato e la gara si era ridotta agli ultimi
due piloti.
Jason e il pilota della vecchia BMW grigia che avevo visto allenarsi
quando eravamo arrivati.
Un’energia ansiosa vibrava in me, che ero ancora seduta sulle spalle di
Vincent, aspettando che iniziassero. Lucas camminava lungo la recinzione
e Manson teneva il braccio appoggiato al filo, battendo rapidamente il
piede mentre guardava.
Iniziò il primo giro, con Jason che inseguiva l’altro pilota. L’auto del suo
avversario era chiaramente potente e all’inizio lo superò. Ma lui lo
raggiunse e colmò il divario. Le due auto erano incredibilmente
sincronizzate, come se fossero controllate dalla stessa persona mentre
volavano attraverso il percorso. Avevo la gola secca per il tifo così intenso,
ma non riuscii a contenere la mia frenesia quando finirono e si allinearono
per la corsa finale.
«Stai cercando di strapparmi i capelli, Jess?» chiese Vincent, e io
allentai in fretta la mia presa frenetica sui suoi capelli.
«Scusa, sono molto emozionata,» ammisi, e lui rise, stringendomi la
gamba che penzolava dalla sua spalla.
«Puoi tirare quanto vuoi,» mi assicurò. «Non mi dispiace.»
Fu un bene che non gli dispiacesse, perché non appena le gomme di
Jason toccarono di nuovo la linea di partenza, tornai a ghermirgli i capelli.
Quando la Z si proiettò in avanti, urlai a squarciagola.
Non ero assolutamente un’esperta, ma dal mio punto di vista Jason era
riuscito a superare il percorso senza alcun problema. La folla esplose in un
applauso; il presentatore affermò che la corsa era incredibilmente testa a
testa. Manson aveva un ampio sorriso, diede il cinque a Lucas e gli strinse
la mano. Vincent mi afferrò le gambe. L’eccitazione di tutti era palpabile
nell’aria, mentre Jason rientrava nel box per raggiungerci.
Vincent mi lasciò cadere dalle sue spalle e nel momento in cui Jason
scese dal posto di guida, gli gettai le braccia al collo. Mi sollevò da terra,
tenendomi con un braccio solo mentre con l’altro si toglieva il casco.
«È stato fantastico!» esclamai senza fiato, prima di baciarlo. Mi rimise
in piedi, ma tenne il suo braccio attorno alla mia vita mentre Vincent lo
baciava.
«Hai fatto centro,» disse Vincent con un sorriso smagliante. «È stata
una corsa da primo posto, non c’è dubbio.»
«Non lo sappiamo ancora,» rispose Jason, ma potevo vedere la speranza
sul suo volto. Sapeva di aver fatto bene, ma si riservava di festeggiare
finché tutti non si fossero riuniti sul podio di fronte alle tribune. La
giornata era volata e il sole era ormai tramontato, le enormi luci della pista
illuminavano il podio mentre il presentatore introduceva il terzo
classificato prima di rivolgere la sua attenzione agli ultimi due piloti.
«Oggi abbiamo avuto una gara molto combattuta tra i nostri due
migliori piloti. So che per i nostri giudici si è trattato di dettagli.» Mentre
il tifo della folla per entrambi i piloti si placava, mi collocai tra Vincent e
Manson, aspettando con il fiato sospeso. «Ma ci può essere solo un
vincitore, e ho qui i punteggi finali dei giudici. Il primo posto è…»
Stavo praticamente stritolando la mano di Manson nell’attesa.
«Jason Roth!»
La folla esplose, ma riuscii a malapena a sentirla sopra il mio stesso
grido di esultanza e le urla eccitate dei ragazzi, mentre Jason accettava il
trofeo dall’annunciatore. Lo circondammo appena scese dal podio, gli
altri piloti si avvicinarono per congratularsi e stringergli la mano.
Era la prima volta che li vedevo tutti veramente, spudoratamente felici.
Questo era il loro mondo, questo era il luogo in cui trovavano la felicità. E
mi avevano invitato a farne parte, mi avevano portata a condividere la loro
gioia.
Come risultò poi, le cose che amavano rendevano felice anche me.
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40
Jessica
Tutto sembrò perfetto… almeno, lo fu fino al giorno successivo.
Rimanemmo fuori fino a tardi quella sera, fermandoci tutti e cinque a
cena in un bar vicino per festeggiare la vittoria di Jason. Vincent gli offrì
un bicchierino, poi lo feci io, e continuammo fino a quando non
riuscimmo a far sbronzare completamente Jason.
Anch’io ero un po’ brilla quando ce ne andammo, ma ricordo che Jason
mi afferrò prima di salire sulla Bronco, biascicando leggermente quando
disse: «Sai, sei bellissima… così fottutamente bella… la donna più bella
che abbia mai visto. Sono così felice che tu sia venuta.»
Quelle parole rimasero con me per molto tempo dopo che mi ebbero
lasciata a casa, come una piccola sfera di luce dentro di me. Il giorno
prima era cambiato qualcosa, qualcosa di importante. Non ero sicura di
cosa significasse, ma mi faceva sentire più speranzosa di quanto non fossi
da tempo.
Solo che ora dovevo fare i conti con mia madre.
«Questo è inaccettabile, Jessica, mi hai sentita? Inaccettabile!»
Aveva iniziato con me di prima mattina. Ero riuscita a tenerla a bada
durante il lavoro, ma ora che avevo finito, si era lanciata di nuovo nella sua
filippica. Dirle che i ragazzi erano ‘solo degli amici’ non aveva fatto altro
che farla iniziare a lamentarsi dei miei pessimi gusti in fatto di relazioni e
di come i miei ‘standard’ fossero caduti così in basso.
«Tu hai degli amici,» insistette. «Amici che non sono criminali, che non
cercano di approfittarsi di una bella ragazza.»
Mia sorella era già fuggita dalla scena e anche mio padre si era
allontanato silenziosamente, probabilmente per rintanarsi nel suo ufficio.
Vigliacchi. Perché ci si aspettava che fossi sempre io la persona più
matura, ad affrontare la situazione da sola?
«Che ne è stato di Danielle?» indagò la mamma, spalancando gli occhi
mentre mi scrutava dalla sua grande e comoda poltrona in salotto. «O di
Candace, o di Vanessa?»
«Vanessa si è trasferita in Kentucky,» la ragguagliai, evitando di
proposito di parlare delle altre due ragazze che aveva menzionato. «Senti,
so che non ti piacciono, e non è detto che ti debbano piacere. Ma non
sono pericolosi. Non comportarti come se fossi una ragazzina ingenua.»
«Oh, tesoro, è esattamente quello che stai facendo.» Aveva il calice di
vino stretto tra le dita, e ne bevve un sorso abbondante prima di dire: «Sai
bene che non è così. Mi dicevi sempre che quei ragazzi erano dei
mascalzoni, che si mettevano sempre nei guai. Santo cielo, Jessica, le
aggressioni che commettevano non ti sono bastate? Che fine ha fatto il tuo
buonsenso?»
«Mamma, mi stanno semplicemente riparando la macchina,» risposi.
«Non posso evitarli. Non cercherò di evitarli.»
«Evitarli…» Lei ridacchiò. «Ti sei seduta senza esitare un secondo
nell’auto di quel tipo. Sei ben oltre il fatto che sono solo i tuoi meccanici.»
I suoi occhi si restrinsero. «Santo cielo, ti prego, non dirmi che vai a letto
con uno di loro.»
La mamma non era mai stata così, ma le cose erano cambiate con
l’avanzare dell’età. Da piccola, ero sempre stata la sua perfetta ‘Jessie
Splendore,’ una bambola che poteva vestire con abiti scintillanti e grandi
fiocchi. Ero un’esuberante cronica che non poteva non renderla
orgogliosa, e quando accadeva era devastante.
Ma un’adolescente non era una bambola carina con cui giocare e
vestire. Quando avevo iniziato a diventare indipendente e a prendere le
mie decisioni, mamma aveva perduto il suo giocattolo perfetto e aveva
dovuto escogitare altri modi per mantenere il controllo. Vergogna, senso
di colpa, assillo implacabile…
Gli anni che avevo trascorso al college non le avevano fatto allentare la
morsa. Si era solo stretta di più, come se sapesse quanto fosse fragile il suo
controllo.
Mi aveva insegnato a non accettare nulla di meno della perfezione, a
essere audace a prescindere da tutto. Perché si sorprendeva quando usavo
quelle stesse caratteristiche per prendere le mie decisioni?
«Mamma, devi smetterla.» Cercai di mantenere la voce il più possibile
ragionevole. Le litigate furiose che avevamo avuto quando ero adolescente
erano state esagerate, e non volevo arrivare di nuovo a quel punto. Ma
sembrava che più mi calmavo io, più si arrabbiava lei. Come se non stesse
ottenendo la reazione che voleva.
«Oh, capisco.» Il sarcasmo colava denso dalle sue parole. «Adesso sono
io la cattiva. Sono la perfida per essermi preoccupata della sicurezza di
mia figlia. Beh, ti dirò una cosa, Jessica Marie Martin.» Si piegò in avanti
sulla poltrona, con le unghie curate che si distesero sul tavolo. «Non
permetterò che vengano a casa mia. Se si presentano di nuovo qui, chiamo
la polizia.»
Sgranai gli occhi per l’esasperazione. «No, non lo farai. Non chiamerai
la polizia solo perché si sono presentati su una strada pubblica. È
ridicolo.»
«Scusami? Che cosa hai detto?»
Mi alzai bruscamente dal divano. Questa discussione non sarebbe mai
finita se non me ne fossi andata. «Non chiamerai la polizia e non deciderai
con chi devo passare il mio tempo. Ho chiuso con questa storia.»
«Beh, io non ho finito, Jessica. Non andartene!»
Ma non riuscì a fermarmi. Afferrai il mio telefono, sbattendo la porta
d’ingresso e mettendo fine alle sue discussioni. Dio, certi giorni non la
sopportavo. Mi faceva a pezzi, perché per tanto tempo avevo fatto tutto
con lei. Mi ero aggrappata a ogni sua parola. Avevo pensato che fosse così
bella e fiera. Una persona forte e capace.
Poi però avevo capito che non era forza quella che vedevo, ma la
capacità di far sentire gli altri deboli per poterli comandare a bacchetta.
Poteva mettere sotto scacco chiunque per settimane e mesi,
distruggendolo finché non si fosse piegato alla sua volontà.
Ma non me. Non più. Avevo chiuso con questo posto. Riuscivo a vedere
lo skyline di New York City ogni volta che chiudevo gli occhi, in attesa di
arrivarci.
Solo che… c’erano alcune cose qui con cui non avevo chiuso. Neanche
un po’.
Misi gli auricolari e infilai il telefono nella tasca stretta della fascia da
braccio. Anche se era atroce non avere un’auto, il mio bar preferito non
era molto lontano da qui. Non ero riuscita a finire la colazione perché la
mamma non la voleva piantare di assillarmi, ed evitarla significava non
scendere nemmeno per il pranzo.
Il mio stomaco brontolava per la fame mentre correvo nel parco del
quartiere. I sentieri erano belli, con grandi alberi che fornivano un po’
d’ombra. Ma quel giorno il cielo era pieno di spesse nuvole grigie, anche
se il caldo non era meno afoso. L’aria era così corposa che in pochi minuti
mi ritrovai inzuppata di sudore.
Se solo mamma avesse saputo la verità, se solo l’avesse accettata senza
perdere completamente le staffe. Non avevo più amici di cui parlare, ma
in gran parte per mia scelta. Nessuno di quelli che avevo conosciuto da
bambina mi era ancora vicino. Nessuna delle persone che un tempo avevo
chiamato ‘amici’ era affidabile.
Nessuno, tranne…
Rallentai la mia corsa quando mi avvicinai al bar, sorridendo mentre
tiravo fuori il telefono. Ashley Garcia era mia amica da più tempo di
chiunque altro. Ci eravamo conosciute in quarta elementare e da allora
eravamo state inseparabili, almeno fino a quando non aveva trovato il
lavoro dei suoi sogni e si era trasferita a New York senza di me. Eravamo
sempre state molto simili e, sebbene fosse una regina del gossip, non mi
aveva mai fatto sentire che avrei messo a rischio la nostra amicizia facendo
di testa mia.
Le telefonai e fu così bello sentire la sua voce che quasi mi sentii
soffocare. Stava vivendo la sua splendida vita da single, dandosi alla pazza
gioia nei weekend e lavorando sodo durante la settimana. Aveva trovato
un lavoro come consulente pubblicitario e lo amava quasi quanto amava
provare un nuovo cocktail bar ogni sera.
«C’è qualcosa di nuovo a Wickeston?» chiese dopo aver raccontato
tutte le sue avventure del fine settimana. «Fammi indovinare, è ancora
noioso, noioso, noioso.»
«Più o meno.» Risi. Quella mattina il bar era pieno di gente e, mentre
aspettavo il mio piatto, tenevo gli occhi aperti per trovare un posto libero.
«È sempre la stessa solfa. Stronze che pugnalano alle spalle e teste di
cazzo ovunque. Non vedo l’ora di andarmene da qui.»
Forse udì l’accenno di una bugia nella mia voce, perché commentò con
tono scaltro: «Già, non vedo l’ora anch’io. Non c’è molto di esaltante a
Wickeston, a parte… beh, sai.»
Sospirai. «Che cosa so, Ash?»
«Lo sai,» insistette lei. «I tuoi giocattoli preferiti sono ancora lì, vero?»
Siccome non dissi nulla, mi spiegò: «Manson Reed? Vincent? I loro amici
strambi?»
«Oh, mio Dio, ragazza, no.» La smentita arrivò all’istante, ma nel
momento stesso in cui la dissi, una fitta di rammarico mi strinse il petto.
Di che cosa avevo paura? Stavo parlando con Ashley. Non mi avrebbe
giudicata! O almeno, se lo avesse fatto, non mi avrebbe fatta sentire in
colpa. Ma continuavo a vedere Danielle negli occhi della mia mente, che
mi sorrideva dicendo con finta dolcezza: «È il nostro piccolo segreto,
tesoro.»
Non credevo che Ashley mi avrebbe tradita così. Odiavo anche solo
pensarci.
Era chiaro che non si fosse bevuta il mio diniego. «Certo, come no…»
Sorseggiai il caffè, come se la caffeina potesse in qualche modo aiutarmi
a rilassarmi. «Ma cosa te lo fa pensare?»
«Innanzitutto, perché hai una voce davvero felice. L’ultima volta che ti
ricordo così allegra è stato dopo una certa festa di Halloween di qualche
anno fa.» Ridacchiò. «Inoltre, non sei stata molto discreta nell’affermare
quanto li hai perseguitati durante il college. Ti giuro che ogni volta che
guardavo il tuo telefono, avevi uno dei loro social selezionato. Ma, okay.
Ti credo. Sicuramente non li hai visti, vero?»
«Vero,» risposi rapidamente, ma il suo lungo silenzio mi sciolse. «Okay,
va bene, li ho visti a una festa.»
Il suo urlo mi fece quasi scoppiare i timpani. Dovetti tenere il telefono
lontano dall’orecchio, guadagnandomi qualche sguardo curioso dalle
persone sedute intorno a me, tanto il grido acuto usciva dai miei
altoparlanti.
«Oh, mio Dio, lo sapevo, lo sapevo!» esclamò. «Devi dirmi tutto…
Merda. Lascia perdere. Il mio capo mi sta chiamando. Ci sentiamo più
tardi?»
«Certo, ragazza. Ti voglio bene.»
«Ti voglio bene, stronza, ciao.»
Il mio ordine era pronto e non avevo ancora trovato un posto libero.
Andai nel patio, che era ombreggiato da alberi e circondato da tralicci
ricoperti di viti. Stavo scrutando i tavoli quando una testa dai capelli rosso
vivo attirò la mia attenzione.
Julia, la ragazza del Satin Novelties, mi vide nello stesso momento in cui
la notai io.
«Jessica! Ehi!» Mi fece cenno di avvicinarmi, con un grande sorriso sul
volto. Al suo tavolo c’era una sedia vuota e mi indicò di accomodarmi.
«Vuoi sederti? Ti prometto che non parlerò troppo. Non riesco a credere
a quanto sia affollato qui oggi.»
Accettai con gratitudine, prendendo la sedia di fronte a lei. Era già a
metà di un panino e di un caffè, con un libro di testo aperto davanti a sé e
un quaderno sotto la mano destra.
A quel punto ero titubante a riallacciare i rapporti con qualcuno del
liceo. Ma Julia e io avevamo frequentato classi diverse e ambienti
completamente differenti. Al negozio mi era sembrata abbastanza gentile,
quindi forse potevo rischiare di conoscerla meglio.
«Cosa stai studiando?» chiesi, cercando di leggere il suo enorme libro al
contrario. C’erano dei diagrammi complicati che sembravano organi.
«Fisiologia umana,» spiegò lei, sospirando pesantemente. «Sono una
studentessa di scienze infermieristiche. Per quanto mi piaccia vendere
porno e dildo, la paga non è sufficiente per vivere. Ti sei già laureata tu?»
Parlava a voce alta, senza curarsi di chi potesse sentirla. Alcune persone
sedute accanto a noi le lanciarono un’occhiataccia, ma lei si scostò i capelli
sulle spalle e non ci fece caso.
«Sì, mi sono laureata a giugno,» risposi. «Progettazione architettonica.»
«Oooh, quindi sei una tipa artistica e matematica,» mi disse.
«Progetterai grattacieli? Costruirai il prossimo Burj Khalifa?»
Risi. «Accidenti, non sarebbe un sogno? In realtà, sono più interessata a
progettare case. Soprattutto a restaurare case antiche.»
«Allora ti deve piacere quello che Lucas e i ragazzi hanno fatto con la
loro vecchia casa,» rifletté lei, sporgendosi in avanti sulla sedia. «L’ho vista
solo un paio di volte, ma cavolo, mi ricordo com’era prima.» Fece una
smorfia. «Sono quasi certa che fosse quasi inagibile quando l’hanno
presa.»
«Ci credo,» dissi. «Penso che quel vecchio edificio potrebbe essere
davvero bellissimo. Sembra che stiano facendo un sacco di lavori.»
«Allora, come state tu e Vincent?» mi chiese. «O tu e… i ragazzi…
tutti.» Fece una risata goffa. «Non so mai come chiederlo. Scusa.»
Alzai le sopracciglia per la sorpresa. «Aspetta, tu sai tutto? Del fatto che
si condividono tra loro?»
«Oh, sì.» Agitò la mano come se fosse una notizia vecchia. «Hanno
sempre avuto una loro unità, da quando li conosco. Lucas è sempre stato
aperto al riguardo, essendo poliamoroso e tutto il resto. Penso che sia
meraviglioso. L’amore dovrebbe essere libero ed etico, secondo me.»
«Frequentano spesso altre persone insieme? Voglio dire, li hai mai visti
provare a portare in casa qualcun altro?» Era una domanda che
probabilmente avrei potuto fare direttamente a loro, ma mi sembrava di
pretendere informazioni che non avevo il diritto di avere. Dopotutto, non
stavamo insieme… tecnicamente.
Quel tecnicismo era appeso a un filo sempre più sottile.
Julia si guardò intorno pensierosa. «Non proprio. C’era una ragazza
l’anno scorso, ma non è rimasta a lungo. E c’era un ragazzo l’anno prima,
ma è andata allo stesso modo. Non è rimasto a lungo. Se ne stanno per
conto loro, ma non li biasimo. La gente qui non ha una mentalità molto
aperta.» Si avvicinò ancora di più, abbassando la voce. «Quando Satin
Novelties ha aperto, la gente si è letteralmente piazzata fuori con i cartelli.
Come se pensassero che stessimo corrompendo la città o qualcosa del
genere.»
Era piacevole parlare con lei, e aveva la risata facile. A prescindere
dall’argomento trattato, non perdeva un colpo e non sentivo mai una
parola negativa dalla sua bocca. Quando finimmo di mangiare, ci sembrò
che non fosse passato quasi il tempo.
«Prendi il mio numero,» disse, porgendomi un biglietto adesivo
piegato. «Se vuoi uscire o fare colazione, mandami un messaggio. Non mi
piace molto fare jogging, ma adoro le escursioni. Dovremmo andare
insieme qualche volta.»
Sorridevo ancora mentre riportai dentro il mio piatto e la mia tazza,
lasciandoli al bancone prima di uscire. Julia sembrava una persona
genuinamente gentile, non una che stava semplicemente recitando o
cercando di entrare nelle mie grazie. Quando faceva domande, si
comportava in modo sinceramente interessato. Non riuscivo ancora a
credere che il motivo per cui conosceva i ragazzi era perché era riuscita ad
andare simpatica a Lucas.
Non mi ero nemmeno resa conto di quanto disperatamente ne avessi
bisogno. Solo un po’ di tempo per decomprimere e delle conversazioni
genuine con ragazze che non fossero ansiose di pugnalarmi alle spalle non
appena ne avessero avuta l’occasione.
Ero appena uscita dalla porta per tornare a casa quando mi imbattei in
qualcuno che veniva nella direzione opposta.
«Oh! Mi scusi, mi dispiace…» Mi affrettai a scusarmi con l’uomo che
avevo urtato, spostandomi sul marciapiede. Ma poi alzai gli occhi,
guardandolo per la prima volta, e un’ondata di paura gelida mi attraversò
le vene.
Aveva almeno cinquant’anni. Alto e magro, con una maglietta a
brandelli e dei jeans lenti e appesi alla sua corporatura. I suoi capelli erano
folti, striati di grigio e lucidi di grasso. Gli zigomi incavati e gli occhi scuri
mi erano fin troppo familiari.
Era Reagan Reed. Il padre di Manson.
Balbettai per un attimo, con la bocca spalancata, prima di cercare di
allontanarmi in fretta. Ma lui mi afferrò il braccio, tirandomi indietro
verso di lui con una forza tale da farmi sussultare. La sua presa era come
una morsa e potevo sentire l’odore di alcol e sigarette nel suo alito.
Ma con la stessa rapidità con cui mi aveva agguantata, mi lasciò andare.
«Mi scusi, signora. L’ho scambiata per qualcun altro.» Sembrava che
avesse fatto i gargarismi con le pietre. «La prego di perdonare un vecchio
per la sua vista carente.»
«Oh, sì… certo,» mormorai, strofinandomi il braccio nel punto in cui
mi aveva acchiappata. Dovevo scappare? Restare? Chiedere aiuto? Avevo
bisogno di aiuto? Vincent aveva detto che Reagan lo aveva ‘spaventato,’ e
sapevo che era stato violento con la moglie e il figlio, ma ormai era un
uomo anziano, macilento e dall’aspetto fragile.
La sua presa, però, non era stata affatto gracile.
«Lei è Jessica Martin, vero?» L’uso del mio nome completo richiamò la
mia attenzione. Annuii, prima di rendermi conto che non avrei dovuto
dargliene conferma. «Lo immaginavo. Ti ricordo dalla chiesa. Ci andavi
con tua madre.»
L’ultima volta che avevo partecipato a una funzione religiosa era stata
almeno dieci anni prima, nonostante mia madre avesse fatto di tutto per
convincermi ad andare. «Non vado in chiesa da molto tempo, signore.»
Sorrise. I suoi denti erano marroni, le gengive rosse. «Nemmeno io.» I
suoi occhi vagavano su di me, dandomi una sensazione di disagio, come se
il suo sguardo mi stesse ricoprendo di melma. «Sei diventata una
bellissima ragazza. Quei capelli biondi…» Allungò la mano, la confusione
e la sorpresa mi tennero ancorata al mio posto, mentre prendeva una
ciocca di capelli tra le sue lunghe dita. «Come un angelo.»
Allontanandomi frettolosamente, dissi: «Devo andare,» quindi filai via
senza dire altro.
Tirai subito fuori le chiavi dalla borsa e ne infilai una tra le dita come
un’arma, ringraziando per tutti i negozi e le persone che si trovavano nelle
vicinanze. Reagan non mi seguì, ma sentii quello che mi disse dietro.
«Buona giornata. Fa’ attenzione là fuori!»
***
La sensazione di disagio rimase per tutta la camminata verso casa.
Continuavo a guardarmi alle spalle, aspettandomi di rivedere il vecchio
ogni volta che giravo la testa. Per fortuna, la macchina di mia madre non
c’era più quando mi avvicinai a casa. Solo una volta che la porta fu chiusa
e bloccata dietro di me, e dopo che ebbi controllato due volte che il
sistema di sicurezza fosse attivo, mi sentii meglio.
Perché il padre di Manson era ancora in giro? Suo figlio non voleva
avere niente a che fare con lui e, per quanto ne sapevo, non aveva una casa
qui. Cosa voleva da me? Perché e come faceva a sapere chi ero?
Tirai fuori il cellulare e fissai il mio riflesso sullo schermo. Non mi
piaceva andare a chiedere aiuto a qualcuno, ma avevo la terribile
sensazione che qualcosa non andasse. Chi diavolo afferrava un’estranea in
quel modo? Il modo in cui aveva detto di ricordarsi di me, il modo in cui
mi aveva toccato i capelli…
Rabbrividii, poi cercai il numero di Vincent e lo composi.
Rispose dopo un paio di squilli.
«Ehi, piccola.» Sembrava assonnato nonostante fosse metà pomeriggio.
La dolcezza del suo tono fu immediatamente seducente. «Che c’è?»
«Niente di che,» risposi, aggirandomi per casa con il telefono
all’orecchio. Diedi una rapida occhiata allo studio di mio padre, ma la
porta era chiusa e potevo sentire il telegiornale dall’interno. Non volevo
dire a Vincent che l’avevo chiamato perché avevo paura, ma non sapevo
nemmeno cos’altro dire. «Ho solo… chiamato per sapere cosa stai
facendo, credo.»
«Oh, sai com’è… Dormo fino a tardi, mi sballo, mangio schifezze a
letto. Penso al tuo culo sexy. Cose degenerate.» Ridacchiò. «Oggi ho
iniziato un nuovo quadro. Te lo faccio vedere la prossima volta che passi
da me.»
Era notevole la rapidità con cui riusciva a mettermi a mio agio, come se
lo stress si stesse sciogliendo dai miei muscoli. Presi una bottiglia d’acqua
dal frigorifero e andai di sopra, buttandomi sul letto.
«Perché mi hai chiamato, Jess?» chiese Vincent, con voce gentile. «Non
mentire.»
Sospirai, sentendomi in colpa per il fatto che non mi avesse creduta
riguardo alla telefonata fatta tanto per chiacchierare, e poi sentendomi
ancora più in colpa per il fatto che aveva ragione. «Oggi ho visto di nuovo
il padre di Manson.»
La sua voce fu immediatamente più attenta. «Dove?»
«Al bar. Era il Toasted Bean, tra Fair Street e Westlake. Non so cosa gli
sia successo. L’ho incontrato mentre uscivo e mi ha afferrata…»
«Ha fatto cosa, cazzo?» Ci fu un tonfo, come se si fosse
improvvisamente spostato o se avesse fatto cadere qualcosa. «Dove sei?
Stai bene? Sei in un posto sicuro?»
«Sì, sì, sto bene. Sono a casa.» Mi sorprese il tono di allarme della sua
voce. «Ma mi ha spaventata e non sapevo chi altro chiamare.»
Fece un sospiro pesante. «Sono felice che tu l’abbia fatto. Manson sa
che è tornato in città e non ne è felice. In realtà… ho fatto una cazzata,
Jess. Ho dimenticato di dirglielo e lui l’ha scoperto perché ha visto il pick-
up di suo padre parcheggiato vicino casa tua.»
I miei occhi si spalancarono e mi misi a sedere. «Vicino casa mia?»
«Non ti preoccupare, non ti preoccupare, sono sicuro che non… non
credo che significasse qualcosa. Credo che volesse solo spaventare
Manson, capisci?»
«Sì, beh, questo vecchio comincia a spaventare anche me,» ammisi,
scostando la tenda e fissando la strada. «Sapeva il mio nome, Vincent.
Sapeva esattamente chi ero.»
«Porca puttana.» Vincent fece un respiro profondo, come se fosse
l’ultima cosa che avrebbe voluto udire. «Senti, Jess, devi stare attenta,
okay? Reagan non è sicuro. Non so quanto Manson ti abbia detto, ma
quel tipo è un fottuto sacco di merda. Non escluderei che possa tramare
qualcosa, se sa che hai passato del tempo con noi.»
Il terrore si rimestava dentro di me mentre rivivevo l’incidente nella mia
mente. Il modo in cui Reagan mi aveva guardata, la forza con cui mi aveva
stretta: sì, non era una persona sicura. E quel giorno mi aveva vista con
Vincent, quindi era probabile che avesse fatto un’associazione tra me e
loro.
Vincent continuò: «Se devi andare da qualche parte, chiamaci e uno di
noi ti accompagnerà. Davvero.»
«Dovrei chiamare quasi tutte le mattine,» riflettei, scuotendo la testa.
«Starò attenta.»
«No.» La sua voce era ferma. «Non basta che tu ti guardi alle spalle
ogni volta che cammini per strada. Non voglio rischiare che quel tizio ti
becchi da sola. È per lui che ho una pistola in casa, Jess. Ho bisogno che
tu lo capisca.»
Era ancora peggio di quanto pensassi. Le mie dita si strinsero su uno
dei cuscini e scavai con le unghie nella superficie soffice.
«Non ha senso che voi mi portiate avanti e indietro dalla palestra alle
sette del mattino ogni due giorni,» risposi. «È troppo.»
«Ne parlerò con gli altri. Per ora, se vai da qualche altra parte oltre alla
palestra, dimmelo. Luogo e indirizzo. So che sembra una cosa esagerata,
ma sono serio. Fallo per me, per favore.»
Sembrava sinceramente preoccupato, persino impaurito. Il fatto che
fosse così protettivo nei miei confronti, quando non avrei dovuto
significare nulla per lui, fece diminuire un po’ la mia crescente paura.
Almeno non dovevo affrontare tutto questo da sola. «Va bene. Okay, lo
farò.»
«Promettimelo.»
«Lo prometto, signore.»
Finalmente sentii un sorriso nella sua voce. «Brava ragazza. Va bene, ci
sentiamo presto.» S’interruppe bruscamente e si schiarì la gola, come se
fosse inciampato su una parola. «A dopo.»
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41
Vincent
Se mai ci fosse stato qualcosa di serio, l’avremmo affrontato insieme.
Avevo fatto una cazzata quando non avevo detto subito a Manson di suo
padre - era stata una mia colpa. Ma non avrei commesso di nuovo
quell’errore, non ora.
Non quando le cose erano già degenerate.
Dopo cena eravamo tutti riuniti in salotto, stanchi dopo un’altra lunga
giornata. Jojo si era incastrata tra Manson e Lucas sul divano, a dormire
con la bocca aperta. Il piccolo Bo era rannicchiato sulle ginocchia di
Jason, come al solito. E io?
Avevo un grosso sacchetto di erba.
«Trovo preoccupante che tu convochi una riunione e poi inizi subito a
rollare spinelli,» disse Manson, guardandomi con le braccia conserte. Non
fumava spesso, ma Dio, stasera ne avrebbe avuto bisogno. Parlare di suo
padre non era mai stato un argomento facile per lui, ma avevo la
sensazione che questo sarebbe stato peggio.
Quando si trattava di Jess, Manson non riusciva a mantenere la calma
come in altre situazioni. Era come se lei lo avesse disarmato, facendo
vacillare l’attento controllo che aveva sulle sue emozioni.
«Tutto è più bello con un sacchetto di erba, no?» commentai,
distribuendo gli spinelli. Jason sapeva già perché volevo parlare, ma Lucas
e Manson ne erano all’oscuro.
Jason era rimasto sconvolto quanto me quando gli avevo detto di
Reagan. «Chi cazzo si crede di essere, che se la prende con la nostra
ragazza?» era stata la prima cosa che aveva esclamato, senza nemmeno
rendersi conto di quello che aveva detto fino a quando non gli era uscito
di bocca. Ma aveva ragione, nel bene e nel male: Jess era la nostra ragazza.
Anche se si trattava di un gioco, anche se non stavamo giocando per la
vittoria, cosa di cui dubitavo sempre di più, Jess era sotto la nostra
protezione e noi ci saremmo occupati della sua sicurezza.
Tutti accesero gli spinelli, l’odore acre e terroso dell’erba si diffuse nella
stanza. Le finestre aperte lasciavano filtrare l’aria fresca della notte e
aspettai che tutti sembrassero un po’ più rilassati prima di dire: «Oggi
Jessica ha incontrato Reagan. Le ha parlato. Lui sapeva il suo nome. Sono
quasi certo che sappia che sta passando del tempo con tutti noi.»
Il volto di Lucas si oscurò per la rabbia e scosse la testa mentre faceva
un altro tiro. A Manson sembrava che avessi appena comunicato di aver
visto degli zombie nel giardino di casa.
«Le ha parlato?» chiese, con il disgusto nella voce.
«Sì. L’ha afferrata, a quanto pare. Sembrava aggressivo, ed era su una
strada pubblica.» Espirai, il fumo mi annebbiava il viso. «Sta peggiorando
le cose, e ovviamente non vuole andarsene.»
«Dobbiamo decidere cosa fare,» affermò Jason.
«Teniamo la testa bassa e facciamoci gli affari nostri,» rispose Lucas.
«Se vuole qualcosa, può venire a bussare alla porta.»
«Non è così semplice.» La voce di Manson era carica di tensione.
«Dobbiamo capire come tenerlo lontano da Jess.»
Il cipiglio di Lucas si inasprì e distolse lo sguardo, fissando fuori dalla
finestra. Ultimamente il suo umore era ancora più imprevedibile del solito:
rimuginava sui suoi pensieri tutto il giorno, ma non diceva quasi mai una
parola.
«Ho detto a Jess di avvisarci quando esce di casa,» spiegai. «E di
mandarci l’indirizzo di qualsiasi posto in cui andrà.»
«Come se potesse essere d’accordo,» disse Lucas. «Probabilmente ti ha
riso in faccia.»
Scossi la testa. «Era d’accordo. Era impaurita, amico. Questa cosa la sta
spaventando.»
«Un motivo in più per interrompere la sua piccola vacanza nella vita dei
perdenti,» rifletté Lucas. «Cento dollari che entro domani farà venire qui
un carro attrezzi per portare via quella dannata BMW e farla riparare da
qualche altra parte, dopo che abbiamo già comprato quel cazzo di
motore…»
«Ehi.» Manson batté il dorso della mano sul petto di Lucas. «Smettila.
Non se ne va. Avrebbe potuto abbandonare il gioco in qualsiasi momento,
ma non l’ha fatto.»
«Beh, ora è il momento perfetto, no?» scattò lui. «Le cose si stanno
facendo serie; non si tratta più solo di giochi perversi.» Rise amaramente.
«Credi che vorrà restare da queste parti ora che è coinvolto il caro
paparino? Cazzo, no.»
Manson lo squadrava con un’espressione così dura che mi aspettavo
quasi che avrebbe alzato la voce, ma non lo fece.
«Ti sbagli.» Il suo tono era perfettamente uniforme, arrabbiato a un
livello che raramente avevo sentito da lui. «E anche se non fosse così,
abbiamo contribuito a tirarla dentro. È coinvolta, che le piaccia o no, che
sparisca di nuovo o meno. A mio padre non interessano i dettagli. Se
pensa di potermi fare del male arrivando a lei, lo farà.»
«Non dovrebbe essere sola,» affermò Jason. «Va in palestra tutte le
mattine, vero?»
«Ogni due giorni,» risposi. «O qualcosa del genere.»
«Passerò alla sua palestra e comincerò ad andare ad allenarmi lì,» stabilì
Jason. «Così almeno avrà qualcuno con lei al mattino.»
Lucas rovesciò la testa all’indietro, roteando gli occhi incredulo. «Hai
intenzione di iniziare a svegliarti presto per andare in palestra con lei?
Davvero? Riesci a malapena ad alzarti dal letto alle dieci del mattino!»
«Metterò la sveglia,» ribatté Jason senza problemi. «Devo comunque
incrementare la mia attività fisica.»
«Posso darle un passaggio io nei miei giorni liberi,» mi offrii. «Lavora
durante la settimana, quindi non credo che vada in giro per molti posti.»
Manson annuiva, con gli occhi bassi e la mente in subbuglio. «Ci
inventeremo qualcosa. Tra noi quattro, almeno uno riuscirà a trovare il
tempo per andare con lei.»
«Siete tutti fottutamente ridicoli,» commentò Lucas. «Abbiamo un
sacco di cose da fare, abbiamo del lavoro da sbrigare! Jessica sta bene.
Reagan l’ha spaventata un po’, che problema c’è? Che cosa può fare?»
«Non chiedere cosa cazzo può fare,» sentenziò Manson. Il suo tono era
tagliente come una lama, ma questo non servì a intimidire Lucas. «Lo sai
cosa può fare.»
«Lei non resterà nemmeno da queste cazzo di parti,» brontolò Lucas.
«Ti stai comportando come se questa ragazza fosse la nostra fidanzata.
Non lo è. Non esce con noi. Non la definirei un’amante. Abbiamo un
accordo di reciproco beneficio e questo è tutto. Non appena riceverà
l’offerta di lavoro che sta aspettando, se ne andrà.»
«Allora la proteggeremo finché non se ne sarà andata,» controbatté
Manson ferocemente. Si alzò dal divano, destando bruscamente Jojo dal
suo sonno. «Non è in discussione, è quello che faremo. È chiaro a tutti?»
Sia io che Jason annuimmo, ma Lucas rimase dov’era, a fissare Manson.
Infine, senza dire una parola, abbassò gli occhi e si alzò, uscendo dal
soggiorno. La porta d’ingresso sbatté un attimo dopo.
Manson sospirò, sgonfiando le spalle mentre tornava a sedersi. Non
capitava spesso che i due litigassero, ma odiavo vederli quando lo
facevano. Spegnendo la mia canna nel posacenere, lasciai lui e Jason in
salotto e andai in veranda.
Lucas camminava in cortile, evidentemente troppo incazzato per
sostenere una conversazione normale.
«Ehi, allora…»
«Non cominciare con queste stronzate.» Mi interruppe, fermandosi a
fare una lunga tirata dallo spinello. «Sai già che più tardi me lo dirà
Manson. Che devo abbassare la guardia e risolvere i miei problemi.»
Sbuffò. «Stronzate da terapista del cazzo.»
Lo lasciai camminare per un po’, per smaltire un pizzico di energia
nervosa prima di dire: «Stavo per suggerirti di fumare più erba, ma sì,
anche queste altre cose sarebbero una buona idea.»
Ringhiò con frustrazione, buttandosi a sedere sul portico e passandosi
una mano sulla testa. «Non capisco, amico. Non mi fido di lei. Perché
dovrei? Dopo tutto questo tempo, improvvisamente si sente così
amichevole? Esce in pubblico con noi? Festeggia con noi? Si comporta
come una specie di fidanzatina? Non me la bevo. Jess sta solo ottenendo
ciò che vuole, quindi perché diavolo dovrei affezionarmi?»
Ah, ecco, era così. Ecco perché era stato così dannatamente lunatico
quella settimana.
Dopo essermi seduto accanto a lui, tirai fuori dalla tasca un’altra canna,
dato che aveva fumato la sua fino al filtro. L’avevo già pronta e gliela porsi
nel momento in cui ebbe gettato via quella vecchia.
«Accidenti, sei proprio fissato,» bofonchiò, prendendo l’accendino
quando glielo offrii. Mi passò lo spinello dopo aver fatto un tiro e
rimanemmo così per un po’ in silenzio.
«Ti sei affezionato a lei,» conclusi, quando ritenni che avesse fumato
una quantità sufficiente per ascoltarmi. «Ti stai innamorando di lei.»
Fece una smorfia, brontolando qualcosa sottovoce.
«Lo capisco,» dissi. «È difficile quando c’è così tanta storia tra tutti noi.
Ma le persone possono cambiare. Tu, io… tutti noi siamo cambiati dal
liceo.»
«Non Jess,» disse deciso. «Lei è sempre la stessa, cazzo.»
Scoppiai a ridere, anche se cercai di essere delicato. «Sai che non è vero.
Questa volta è diversa. È differente. Credo che ci stia provando.»
«Provando cosa?» Mi guardò e potei vedere la disperazione sul suo
volto. La confusione. «Cosa diavolo vuole davvero?»
«Chiediglielo,» dissi semplicemente. «Parlale, Lucas. Se hai bisogno di
sentire qualcosa da lei che ti aiuti a sentirti meglio in tutta questa storia,
allora chiediglielo.»
«Non ho bisogno di un cazzo,» rispose lui, ma non sembrava molto
convinto. «Io non… cazzo…» Fissò il suolo, la bocca si strinse in una
sottile linea dura. «Quello che ho bisogno di sapere… tutto quello che ho
bisogno di sapere, cazzo… è se lei sceglierebbe noi al posto loro. Al posto
di quegli stronzi che pensa siano suoi amici.»
Capivo la sensazione, l’ansia di un tradimento imminente. Cercavo di
non soffermarmi su pensieri del genere, ma c’erano cose che Lucas
affrontava e io no - mentalmente ed emotivamente. Non potevo
aspettarmi che lui avesse il mio stesso approccio disinvolto: doveva trovare
la sua strada.
«Credo che si dimostrerà all’altezza,» risposi. «Se gliene darai la
possibilità.»
«E come dovrei fare esattamente?» chiese. «Mettere Alex da un lato del
cortile mentre io sto dall’altro e vedere verso quale dei due corre per
prima?»
Ridacchiai. «Almeno hai ancora il tuo fantastico senso dell’umorismo.
Non lo so, amico, sono sicuro che ti verrà in mente qualcosa. Diavolo, tu e
Jason avete architettato tutto quel piano per vendicarvi dell’allegra banda
di stronzi di Alex, perché non invitare Jess a partecipare? Vediamo cosa
farà.»
Rimase in silenzio, a rimuginarci un attimo su. «Potrebbe essere una
buona idea… potremmo portarla con noi nella missione vendicativa e
metterla davvero alla prova. Per vedere a chi è fedele.»
Gli diedi una pacca sulla spalla. «Ecco fatto. Un metodo di
comunicazione molto sano, del tutto normale.» Si stizzì per la mia presa in
giro, ma diamine, ero stato io a suggerirlo. Nulla delle nostre vite era del
tutto normale: eravamo dei cazzoni strani in tutto e per tutto.
E anche se Lucas aveva dei dubbi, sapevo che Jess non ci avrebbe
delusi. Chiamatela una sensazione, un’intuizione, come vi pare. Ma questa
volta…
Questa volta era diverso.
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42
Jason
Non so che tipi di psicopatici si alzino volentieri dal letto prima che sorga
il sole, ma a quanto pare ora ero uno di loro. Mi sentivo mezzo morto
quando la sveglia suonò e arrivai a pochi centimetri dal lanciare il telefono
in soffitta, prima che Vincent mi ricordasse assonnato: «È per Jess,
ricordati che è per Jess.»
Fu sufficiente per spingermi finalmente ad alzarmi dal letto.
Capivo perché Lucas fosse così irritato per tutta la faccenda. Era
ferocemente leale, ma solo una volta che avevi ottenuto la sua fiducia, e
quella era estremamente difficile da guadagnare. Jess lo confondeva,
probabilmente nello stesso modo in cui confondeva me. Ogni volta che mi
aspettavo che lei si tirasse indietro, che ricadesse nelle sue vecchie
abitudini di disprezzo per tutto ciò che facevamo, riusciva a sorprendermi.
Vedere Jess fare il tifo per me durante la gara mi aveva fatto volare così
in alto da non avere il minimo dubbio che avrei vinto. Non era necessario
che lo facesse. Il nostro accordo non aveva nulla a che fare con l’uscire
insieme o con il sostenerci nelle nostre imprese… ma lei lo faceva
comunque. Era ancora sinceramente entusiasta di vedermi fare bene e io
faticavo a capire perché.
L’unica ragione che mi veniva in mente, quella che continuava a
frullarmi in testa, era che si stava innamorando di noi quanto noi di lei.
Nemmeno in senso sessuale. La lussuria c’era già; l’avevamo
riconosciuta tutti molto tempo prima. Non si trattava di questo. Era
diverso. Era come se si stesse innamorando di noi, di ciò che eravamo e di
ciò che portavamo nella sua vita.
Vedevo il modo in cui ci guardava e il modo in cui gli altri la
guardavano. Nemmeno Lucas ne era esente. Avevo visto gli sguardi furiosi
e struggenti che le lanciava.
Era pericoloso sentirsi così bene. Di solito il pessimismo era più sicuro,
soprattutto in momenti come quello.
Un brutto presentimento mi diceva che stava per arrivare qualcos’altro.
Non sapevo se si trattasse di Reagan o di altri casini con Alex McAllister e
il suo gruppo, ma qualcosa mi stava mettendo in allarme e non mi piaceva.
Arrivai in palestra in anticipo ed entrai proprio in apertura. Era un
posto enorme, ancora così nuovo che puzzava tutto di plastica e
disinfettante. Mi sarebbe costata il doppio della tariffa mensile della mia
vecchia palestra, ma non aveva importanza. Mi avevano appena
consegnato la nuova tessera quando una voce incredula disse da dietro di
me: «Jason? Che ci fai qui?» Mi voltai di scatto.
Jessica aveva il borsone da ginnastica rosa sulle spalle e i lunghi capelli
raccolti in una coda di cavallo. Indossava leggings e reggiseno sportivo, il
viso era privo di trucco. Era facile dimenticare quante lentiggini avesse
quando di solito erano coperte. Niente mascara, niente ciglia finte, niente
sulle labbra…
Dio, era bellissima.
«Io frequento questa palestra,» dichiarai, mostrando il mio tesserino.
Lei lo fissò scombussolata, come se sospettasse un qualche tipo di
stratagemma. «Ehm… da quando?»
«Da adesso.» Presi la borsa accanto al banco delle iscrizioni e tornai
indietro per trovare un posto dove iniziare a fare stretching. Jess mi seguì
a ruota.
«Pensavo che andassi nella palestra più vicina a casa,» commentò.
Sorrisi, anche se non poteva vederlo da dietro le mie spalle. «Avevo
bisogno di cambiare ambiente. Questo posto è bello. Piscina, sauna, sala
yoga… avrei dovuto fare l’upgrade tempo fa.»
C’era un sorriso nelle sue parole quando chiese: «È stato Vincent a
spingerti a fare questo, vero?»
Mi girai verso di lei. «Vincent? No, a lui non può fregare di meno della
palestra.»
Spinse il fianco all’infuori e incrociò le braccia. «Quindi è una
coincidenza che tu sia qui a sorvegliarmi il giorno dopo che mi sono
imbattuta nel viscido padre di Manson?»
Scrollai le spalle. «Non può far male avere qualcuno che ti tenga
d’occhio. Non preoccuparti, non interromperò il tuo ritmo. Ho la mia
routine. Non ho intenzione di seguirti ovunque.»
Il suo volto si oscurò così drasticamente che pensai di averla offesa. Ma
non stava guardando me, stava guardando sopra la mia spalla.
«Buongiorno, Jess. Hai bisogno di qualcuno che ti segua oggi?»
Oh, cazzo.
Il volto di Alex si irrigidì quando mi voltai. Ero quasi certo di essere
l’unico ragazzo con i capelli azzurri in quella maledetta città, ma mi scrutò
comunque come se fosse stupito di vedermi.
Gli feci un rapido segno di pace. «Buongiorno, amico. Lei è a posto. La
seguo io oggi.»
Per un attimo pensai che mi avrebbe dato un pugno in faccia. Le sue
mani si strinsero a pugno, il labbro si arricciò per il ribrezzo, mentre mi
squadrava dall’alto in basso. Era più alto di me di diversi centimetri, ma
l’altezza non era tutto. Non avevo dubbi che avrei potuto prendere a calci
in culo, se fosse stato necessario.
Ma non volevo farmi cacciare dalla mia nuova palestra di lusso il primo
giorno.
«A dopo.» Gli feci un cenno di saluto e me ne andai, lasciandolo lì a
rimuginare. Jess mi seguì subito dopo, ma una pungente sensazione di
irritazione mi stava salendo dentro. Non avevo idea che anche Alex
venisse lì. Si allenava con lei? A Jess non piaceva nemmeno quel ragazzo!
Stavo esagerando. Ma perché diavolo Alex aveva dato per scontato che
l’avrebbe seguita lui? Che cazzo di stronzate erano quelle?
Trovai uno spazio per distendermi e buttai la borsa in un angolo.
C’erano degli armadietti da qualche parte, ma mi ero distratto e non
volevo andare a cercarli in giro.
Era meschino, ma chiesi: «Sto interrompendo un momento di intimità
con il buon vecchio Alex?»
«Io non ho intimità con lui, Jason,» ribatté lei, piegandosi in vita per
raggiungere le dita dei piedi. Il suo sedere stava bene in quei leggings.
Succoso da morire. «Cerco di evitarlo. Credimi, anch’io vorrei che non
venisse qui.»
Allungai i quadricipiti, alternando con le gambe. Le credevo. Non
pensavo che avesse interesse per Alex - non era lei il problema.
«Ho capito, ho capito,» replicai, poi mi resi conto che mi stava ancora
fissando in attesa di una risposta. «Mi ha fatto incazzare, credo, che abbia
dato per scontato che tu volessi farti seguire da lui.»
Il suo viso si addolcì e sorrise. «Non dirmi che sei geloso.»
«No,» dissi rapidamente. «Non si tratta di gelosia.» Mi guardò con un
sopracciglio inarcato per lo scetticismo, e io chiarii: «È la consapevolezza
che sei troppo per lui, e il fatto che rubi anche solo un secondo del tuo
tempo mi fa incazzare.»
Quel piccolo sorriso rimase sul suo volto. «Beh… grazie. Per averlo
detto e per essere venuto qui. Non volevo che vi sentiste in difficoltà per
me.»
«Non è un problema.» Bugie. «Non mi dispiace affatto farlo.» Quella
mattina era stata un inferno. «È bello cambiare la mia routine.» No, era
stato atroce.
Ma ne era valsa la pena. Svegliarsi presto, andare in una palestra
diversa, avere a che fare con Alex. Ne valeva la pena se questo significava
tenerla al sicuro.
Sinceramente, ne valeva la pena perché significava passare del tempo
con lei.
Tuttavia, non volevo starle tra i piedi. Sapevo che l’inserimento di
qualcuno nella mia routine senza alcun preavviso sarebbe stato stridente e
dannatamente irritante. Dopo aver fatto stretching, mi tenni a distanza,
posizionandomi in modo da poter tenere d’occhio sia lei che Alex. Ma
ovviamente li stavo distraendo entrambi. Alex sembrava sospettoso, e
aveva tutte le ragioni per esserlo.
Lucas e io avevamo discusso a lungo su come vendicarci di lui.
Avevamo stabilito un piano d’attacco, ma dovevamo risolvere alcuni
aspetti logistici. Dopo quello che Alex e i suoi amici avevano fatto, era
logico che si aspettasse una reazione da noi, e l’avrebbe avuta.
Fino ad allora, mi godevo il pensiero di lui che si crogiolava nella sua
stessa attesa.
Ma quel figlio di puttana non sapeva quando smettere. Ero sulla panca,
abbassando la sbarra verso il petto, quando apparve sopra di me. Dovevo
completare la ripetizione prima di poter toccare gli auricolari e disattivarli,
permettendomi di sentire quello che aveva da dire.
«Che cazzo vuoi?» Non mi alzai dalla panca; non mi sarei mosso di un
millimetro. Si appoggiò alla sbarra sopra di me. La puzza del suo sudore
era davvero ripugnante.
«Voi strambi non riuscite proprio a starle lontani, vero?» domandò,
facendo un cenno con la testa verso l’altro lato della palestra, dove Jess era
alla leg press. «È inquietante, amico. Perché la stai pedinando?»
Scoppiai a ridere, un suono reso roco dallo sforzo. «Penso che sia
ancora più inquietante che tu l’abbia scaricata personalmente sulla nostra
proprietà. E penso che dovresti farti i cazzi tuoi.»
«Credete di avere una possibilità con lei? Davvero?» Lui scosse la testa
e fece un passo indietro, sbattendo l’asciugamano sudato contro il lato
della panca. «Ti scopa perché si annoia. E quando avrà finito, troverà un
vero uomo che si prenda cura di lei.»
Fanculo a lui e alle sue provocazioni del cazzo. Questo era il motivo per
cui Alex era una tale rovina per Lucas, perché Lucas non riusciva a
controllare il suo temperamento di fronte a battute del genere. Ma io ero
pronto. Ero zen. Annuendo e sorridendo, toccai gli auricolari e lo tagliai
di nuovo fuori. Poteva parlare quanto voleva, ma non c’era nulla che
potesse dire che non avessi già sentito.
Invece di farmi arrabbiare, mi eccitava. Ma che originalità cercare di
attaccare il fatto che potevo prendere il cazzo così come potevo darlo. La
preoccupazione di Alex per la mia sessualità diceva molto di più su di lui
che su di me - ma diamine, se era così curioso, ero disposto a fugare il suo
‘timore’ che Jess non si stesse prendendo cura di me nel modo giusto.
Circa quarantacinque minuti dopo, lei e io ci dirigemmo
contemporaneamente verso le docce. Aveva la fronte imperlata di sudore e
i suoi muscoli tremavano leggermente mentre camminavamo fianco a
fianco.
«Hai una routine intensa,» le dissi, e lei sorrise per l’ammirazione nella
mia voce.
«Mi piace spingermi oltre,» ammise. «Se alla fine non tremo, allora non
è stato abbastanza duro.» Mi lanciò una rapida occhiata, con un sorriso
vagamente malizioso.
Il mio cazzo si gonfiò, il che era un fottuto problema visto che stavo per
spogliarmi in una doccia pubblica. «Attenta, Jess. Non posso proprio
nascondere l’erezione in questo momento.»
«Che cosa ho fatto?» disse innocentemente, fermandosi fuori dal bagno
delle donne e sbattendomi gli occhi. Okay, ora lo stava chiedendo
apertamente. Mi avvicinai a lei, la strinsi e la spinsi con la schiena contro il
muro. I suoi occhi erano scintillanti, il profumo del suo sudore era
davvero inebriante. Volevo prenderla così, assaggiare il sale sulla sua
pelle…
«Se hai intenzione di provare a eccitarmi, allora è meglio che tu sia
pronta a fare qualcosa al riguardo,» la informai. Lei si tese per l’attesa,
trattenendo il respiro per un attimo… ma io mi allontanai e mi diressi
verso le docce.
Giusto in tempo per vedere Alex che entrava in uno dei box.
Aspettai che avesse girato la serratura su ‘occupato’ prima di
spogliarmi. Il mio cazzo era a mezz’asta, e nel momento in cui mi permisi
di pensare a Jess che stava facendo la doccia dall’altra parte del muro, mi
divenne duro come una roccia.
Avvertii un fruscio leggero mentre infilavo le mie cose in un armadietto,
per custodirle durante la doccia. Guardai verso la porta e mi fermai
quando capii che era entrata Jess. Non aveva più il borsone e si guardava
intorno con curiosità. Poi il suo sguardo cadde su di me, completamente
nudo e in piena erezione.
Sorrise. «Wow. Non scherzavi quando dicevi di essere eccitato.»
All’improvviso si rese conto che non eravamo soli, lo sguardo le volò
verso l’unico box doccia occupato e mi chiese: «Chi c’è lì dentro?»
Alex, le mimai con le labbra. Lei si addentrò nello spogliatoio,
prendendosi tutto il tempo necessario per arrivare a me.
«Cosa stai facendo?» sussurrai.
Si fermò davanti a me e allungò la mano, tracciando con lentezza i
contorni dei tatuaggi sul mio petto.
«Hai detto che avrei dovuto essere pronta a fare qualcosa a proposito
della tua eccitazione,» rispose, e la finta innocenza nella sua voce mi fece
impazzire. «Quindi, eccomi qui. Pronta a fare qualcosa al riguardo.»
Oh, cazzo, sì. Mi guardai intorno e notai un cartello con su scritto
‘pavimento bagnato’ appoggiato al muro lì vicino.
«Mettilo fuori dalla porta e chiudila,» ordinai. Lei eseguì, spostandosi
velocemente per mettere il cartello proprio fuori dallo spogliatoio. Non
avremmo avuto molto tempo, ma potevo agire in fretta.
Mi servivano solo pochi minuti.
Quando tornò, stavo incastrando un fermaporta di gomma che avevo
trovato sotto la porta di Alex. Non sapevo quanto l’avrebbe tenuto lì
dentro, ma pensavo che ci avrebbe fatto guadagnare abbastanza tempo
prima che riuscisse a evadere con la sola forza bruta.
Jess sussultò quando la afferrai, sbattendola contro la porta della doccia
e baciandola. Le sue labbra si dischiusero, mentre mi afferrava con le
mani e la sua lingua scivolava avidamente nella mia bocca. Le strinsi la
gola con una mano e feci scivolare l’altra in mezzo alle sue gambe,
ringhiando quando lei gemette di piacere. La doccia era ancora in
funzione all’interno del box, ma quando girai rudemente Jess e la spinsi di
nuovo con vigore contro la porta, capii che era solo questione di tempo.
Le strappai i leggings e le mutandine, lo spandex attillato che le aderiva
alle gambe. Tenendola contro la porta per la nuca, usai la mano libera per
afferrarle il fianco, ma lei stava già inarcando la schiena per me. Spinsi il
mio cazzo contro il suo ingresso, gemendo dolcemente quando la trovai
bagnata.
«Cazzo, hai pensato a questo per tutto il tempo?» chiesi,
appoggiandomi a lei e spingendo lentamente contro le sue labbra umide.
Mi sistemai, tirai indietro i suoi fianchi un po’ di più e mi spinsi dentro di
lei. Il suo gemito fu rumoroso, e spostai immediatamente la mano dal suo
collo per tapparle la bocca. «Mi piace come lo prendi per me,» mugugnai,
scopandola con affondi duri e punitivi. I suoi suoni erano attutiti dalla mia
mano, ma non certo silenziosi.
La doccia si spense all’improvviso. «Ehi, è occupato qui dentro!»
Gli occhi di Jess si allargarono, ma non mi fermai. Lo schiaffo dei miei
fianchi che sbattevano contro il suo culo mentre la martellavo era
sicuramente abbastanza forte perché Alex lo sentisse. Tirò indietro il
catenaccio e la porta sobbalzò leggermente quando cercò di aprirla, ma il
fermaporta fece il suo lavoro.
«Ma che cazzo!» Batté i pugni contro la porta e io cambiai ritmo,
penetrandola con colpi lunghi e lenti. Aveva gli occhi chiusi, la sua fica si
stringeva a me come se cercasse di tenermi dentro.
«Ti piace, principessa?» mormorai, e lei gemette in risposta, annuendo
con la testa mentre le tenevo la bocca coperta. Lasciai la presa sul suo
fianco, avvolgendo il braccio intorno a lei per strofinarle il clitoride. Si
inarcò contro di me, desiderosa di ricevere quelle spinte più profonde, e le
sue cosce si strinsero intorno alla mia mano.
«Aprite questa cazzo di porta! Ehi!» La voce di Alex era sempre più
stentorea, e ora stava davvero cercando di farsi aprire la porta. Per quanto
mi fossi già allenato al punto di sudare, avevo più energia che mai mentre
la sbattevo. Le mie palle si strinsero e la schiena cominciò a formicolarmi.
Mi sarei riversato nella sua fica deliziosa e Alex avrebbe ascoltato ogni
momento.
«Vieni per me…» Le ringhiai quel comando all’orecchio e i suoi
muscoli si contrassero avidi intorno a me. Le sue gambe tremavano, il suo
respiro era spezzato da rantoli disperati mentre le sfregavo il clitoride.
Sentivo che era sul punto di venire, era calda e umida, e pulsava di
piacere.
Sprofondai dentro di lei, pompando il mio sperma in profondità. Le
infilai le dita in bocca e lei la aprì, e il suo grido straziato di beatitudine fu
la ciliegina sulla torta del mio piacere. Alex imprecava e sembrava che
stesse per buttare giù la porta.
Jess sussultò quando mi tirai fuori da lei e mi affrettai a tirarle su i
leggings. La baciai rapidamente e raccattai il mio borsone dall’armadietto,
prima di prenderle la mano.
«A quanto pare non ti farai la doccia,» le annunciai. «Perché è meglio
non farci trovare qui quando aprirà la porta.»
Jess odorava di sudore e del mio sperma, e questo mi faceva sentire
come se fossi in cima al mondo. Era una stronzata da regno animale
primordiale, ma scoparla mentre Alex non aveva potuto fare altro che
ascoltare era stata forse la più grande spinta all’ego che mi fossi mai dato.
Forse quella nuova palestra mi sarebbe piaciuta.
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43
Jessica
Gli allenamenti mattutini con Jason divennero presto una routine. Mi
raggiungeva fuori casa, per fortuna prima che mia madre si svegliasse, e
insieme facevamo una corsetta nel parco fino alla palestra. Era chiaro che
non era abituato a quell’ora del mattino, e alcuni giorni si presentava
ancora mezzo addormentato. Ma ogni mattina era lì, con gli occhi spenti,
finché la corsa non lo svegliava.
Pensavo che un confronto con Alex fosse inevitabile dopo quello che
era successo. Ma per il resto della settimana non venne affatto in palestra.
O ci andava a un orario diverso o aveva smesso del tutto di venire. In ogni
caso, non mi lamentavo. Ero felice di non sentire più la pesantezza del suo
sguardo che mi seguiva.
Era bello avere un compagno di palestra dedicato. Jason si impegnava
molto e chiaramente sapeva il fatto suo. Averlo lì, che assecondava il mio
entusiasmo e mi sfidava con un po’ di amichevole competizione, mi faceva
sentire impaziente di alzarmi dal letto al mattino.
Era facile dimenticare che era lì per proteggermi. L’idea di aver bisogno
di protezione era bizzarra. I ragazzi sapevano meglio di me di che cosa era
capace Reagan, ma mi faceva comunque rabbrividire l’idea di chiedere
loro un passaggio in città quando avrei potuto semplicemente andare a
piedi. Di solito potevo prendere in prestito l’auto di mia madre per le mie
scappate a prendere un caffè a metà mattinata, ma giovedì era andata a
trovare un’amica.
Ero convinta che non sarei riuscita ad affrontare il resto della giornata
senza il mio espresso. Una tazza di caffè americano fatto nella nostra
cucina non sarebbe bastata. Ma mi sentii comunque in colpa quando tirai
fuori il telefono, cercando di decidere a chi chiedere.
Ero sempre stata una persona indipendente. Avevo preso la patente non
appena mi era stato permesso, e prima di avere la BMW avevo guidato la
vecchia Jetta di mia madre. Non dover più dipendere dai miei genitori o
dal mio ragazzo per un passaggio era stato un sollievo. Non dovevo mai
chiedere il permesso o aspettare qualcun altro.
Per questo, mandare un messaggio alla chat di gruppo con su scritto:
Ehi, mi date un passaggio veloce in caffetteria? mi sembrava un po’ un
ritorno indietro nel tempo. Detestavo chiedere. Tra l’altro, doveva essere
sicuramente una seccatura per loro. Dovevo essere io a pagare loro, non a
farmi scarrozzare in giro come se avessi un autista.
Ma era stata una loro idea.
Io posso. Manson fu il primo a rispondermi. Dammi un quarto d’ora e
arrivo.
Mi precipitai subito in bagno per ritoccare il trucco. Ci vollero diversi
minuti di preparazione ossessiva prima di riconoscere che la sensazione di
agitazione nel mio stomaco era eccitazione nervosa, come quella
sensazione di ansia prima di un primo appuntamento. Ma Manson era
venuto a prendermi solo per un caffè. Non era niente di serio, niente per
cui agitarsi.
Mi tolsi il mascara, fissando la mia immagine riflessa. Avevo un aspetto
diverso da quello di qualche settimana prima, ma non ero sicura di come e
perché. Era come se il mio viso si fosse disteso, come se prima avessi
tenuto la tensione lì senza accorgermene.
Era rilassante essere finalmente scopati nel modo giusto, questo era
certo. Nessun altro con cui ero stata mi aveva mai soddisfatto come questi
uomini. Era qualcosa di più del loro dominio disinvolto, delle loro parole
sconce.
Rendevano la mia vita eccitante. Non sapevo mai cosa aspettarmi. Non
sapevo più se avrei affrontato una giornata normale o se uno di loro mi
avrebbe chiamata, mandato un messaggio o sarebbe passato a prendermi
per un’avventura dissoluta. Mi distoglieva dal lavoro e seppelliva tutti i
futili stress quotidiani.
Mi piaceva passare il tempo con loro molto più di quanto avessi mai
pensato. Mi piaceva stare in loro compagnia, chiacchierare con loro,
imparare da loro. E sembrava che anche loro si divertissero sinceramente
a starmi vicino - tranne forse Lucas, ma lui era impossibile da inquadrare.
Mi suonò il cellulare e lo sollevai, aggrottando le sopracciglia quando
vidi una notifica di Danielle. Era un invito su Facebook a una festa a casa
sua per il fine settimana, con quasi cento persone nella lista degli invitati.
Qualche settimana prima avrei accettato senza esitazioni. Ero sempre
stata una festaiola, amavo uscire. Mi piacevano le risate e le buffonate di
un grande gruppo di persone, tutte in vena di divertirsi. Anche adesso,
mentre infilavo il telefono nella borsa senza rispondere all’invito, temevo
che mi sarei persa qualcosa di importante.
Ma non ero sicura che ci fosse ancora un posto per me in feste come
quella. Se dovevo andare lì e mentire per farmi accettare, perché
prendermi il disturbo?
Mentre scendevo le scale, incrociai mia sorella che mi disse: «Ehi, il tuo
ragazzo è fuori. O meglio…» Arricciò il naso. «Uno di loro.»
Manson mi aveva scritto che sarebbe arrivato presto, ma io rimasi
impietrita sulle scale a fissare Steph. «Perché pensi che sia il mio
ragazzo?»
Lei spinse all’infuori il fianco e fece una smorfia - Dio, avrei potuto
giurare che facevo la stessa identica mossa. Era così strano vedere la
propria sorella trasformarsi in una versione in miniatura di te stessa.
«Vediamo… torni sempre a casa con i succhiotti, quindi è ovvio che ti
vedi con qualcuno. Inoltre, Mary Volkov mi ha detto che esci con suo
fratello, quindi…» Scrollò le spalle. «Non so come abbia fatto la mamma
a bersi tutta la storia: ‘Sono solo i miei meccanici.’ Stai perdendo colpi,
sorellina. Devi essere più astuta.»
Si allontanò, scostando i lunghi capelli biondi dalle spalle. Lei di certo
sapeva tutto sull’essere astuti: io avevo fatto tutto di nascosto da
adolescente. All’epoca mi era sembrato divertente, rischioso, come rubare
una libertà che non avrei dovuto avere.
Ma doversi muovere di nascosto a ventidue anni era stancante.
Incontrai Manson sul marciapiede, mi accomodai sul sedile anteriore
della sua Mustang e gli diedi un bacio sulla guancia. Mi sembrò naturale
farlo: l’avevo fatto senza rifletterci. Ma lui mi guardò comunque con
sorpresa mentre metteva in moto l’auto.
«Perché quella faccia?» chiesi, prendendo lo specchietto dalla borsa e
sistemandomi meglio il trucco nel tentativo di nascondere il rossore che
mi tingeva le guance.
«Oggi sei di buonumore,» commentò con una risatina mentre uscivamo
dal mio quartiere.
«Dovresti vedermi dopo che ho assunto la mia dose di caffeina,» gli feci
notare, alzando il volume della sua musica. «Allora sarò veramente di
ottimo umore.»
Riconobbi la canzone che aveva messo la sera in cui eravamo andati al
belvedere e mi ritrovai a canticchiarla mentre eravamo in macchina.
Parcheggiò fuori dalla caffetteria invece di passare dal drive-in, spiegando:
«Il motore fa troppo rumore e non riescono mai a sentirmi quando ordino
dall’altoparlante.»
Ordinammo e prendemmo i nostri caffè a portar via: un caffellatte
bianco per me, un caffellatte normale per lui e sei dosi di espresso con
ghiaccio.
«Per Lucas,» spiegò. «Nero come il suo cuore.»
Prese la strada più lunga per tornare a casa, guidandoci attraverso le
strade secondarie che si snodavano tra fattorie e campi. Tuttavia, a
differenza di Vincent, evitò le strade sterrate. Del resto, credevo proprio
che la Mustang non se la sarebbe cavata molto bene con lo sterrato.
«Ti ho sottratto al tuo lavoro?» domandai, mentre viaggiavamo a
velocità ridotta. Lui teneva una mano sul volante e l’altra penzoloni fuori
dal finestrino, rilassato, con gli occhi fissi sulla strada. Quel giorno era
previsto un altro temporale estivo, con dense nubi grigie che bloccavano il
sole, ma non la sua calura. C’era elettricità nell’aria, e i fulmini
lampeggiavano tra le nuvole lontane.
«Avevo comunque bisogno di una pausa,» rispose. «Il tuo nuovo
motore dovrebbe arrivare presto. Alla fine della prossima settimana, o
forse quella successiva. A quel punto Lucas e io dovremo solo montarlo.»
Saltellai sul sedile. «Sì! Oh, mio Dio, finalmente la mia bambina è quasi
a casa.» Non dissi nulla della sensazione di incertezza che quella notizia
suscitava in me. Riavere la mia auto era lo scopo di tutto questo, no?
Manson svoltò, imboccando una stradina sinuosa che si inoltrava tra gli
alberi. Notai un cartello che diceva che la strada era chiusa, e le erbacce
crescevano attraverso le crepe dell’asfalto.
«Siamo vicini al vecchio ponte, vero?» indagai. Subito dopo, attraverso
gli alberi, individuai il ponte. Era costruito interamente in legno - un
vecchio ponte coperto che attraversava il Wickeston Creek. Era angusto,
abbastanza largo da permettere a un’auto sola alla volta di passarci sopra,
ma di certo non era più così affidabile per il transito con le autovetture. Il
ponte era chiuso da una catena con un cartello con su scritto ‘Attenzione
– Vietato l’ingresso,’ che ci dissuadeva dall’andare oltre.
«Dicono che sia infestato,» raccontò Manson, facendo un cenno verso il
ponte mentre parcheggiava e spegneva il motore. Gli uccelli cinguettavano
tra gli alberi, la brezza faceva frusciare le foglie, e noi ce ne stavamo
all’ombra.
«Ho sentito questa voce,» confermai, bevendo un sorso di caffè. «Un
Halloween Ashley e io siamo venute qui con una tavola Ouija e abbiamo
cercato di stabilire un contatto. Non è successo nulla, ma sconsiglio
caldamente di venire qui dopo il tramonto. È inquietante.»
Sorrise. «Davvero? Sei piena di sorprese, Jess.»
Aveva aperto la portiera per far entrare la brezza nell’abitacolo e se ne
stava appoggiato al sedile a sorseggiare il suo caffè. Aveva le mani e le
braccia annerite dalle macchie di grasso del lavoro e odorava di olio di
motore e gomma. Indossava una tuta nera, ma la parte superiore era
slacciata e abbassata, perciò aveva solo la canottiera a coprirgli il petto.
Era così bello che in pratica avevo l’acquolina in bocca.
«Dunque, la mia macchina è quasi finita,» affermai. «E il mio conto?»
I suoi occhi si illuminarono, e un sorrisetto sbilenco incurvò un angolo
della sua bocca. «Hai fatto buoni progressi con i pagamenti. Ma hai
ancora molta strada da fare.»
Quel sorriso mi eccitò ancora di più. «Davvero? Mannaggia, allora
credo di dover cominciare a impegnarmi di più.»
Il cuoio cigolò quando mi sporsi verso di lui. Le sue labbra si schiusero
leggermente, i suoi occhi accarezzarono il mio corpo come se il suo
sguardo fosse in grado da solo di togliermi i vestiti.
«L’altro giorno stavo riguardando la tua lista,» dissi. Feci scorrere le
dita lungo il suo braccio e notai una scia di pelle d’oca. Adoravo sapere
quando avevo un effetto sulle persone. Questi uomini, per quanto
dominanti e travolgenti, avevano delle piccole debolezze che stavo
lentamente iniziando a scoprire.
A Manson piacevano le sfide, ma io sapevo cosa gli piaceva ancora di
più.
«L’adorazione,» mormorai sottovoce, le mie labbra lasciarono uscire le
parole come una carezza vicino al suo orecchio. «Ti piace, vero? Avere
qualcuno in ginocchio per te, che ti venera, che ti dà piacere, che ti
assapora…» Le mie dita erano scese fino alla sua mano, e lui mi afferrò il
polso e lo usò per strattonarmi ancora più vicina.
«Mi piace,» ammise, la sua voce si era incupita fino a diventare un
ringhio che mi fece provare un brivido alla spina dorsale. «Un angelo
dovrebbe adorare il suo Dio.»
«Dimmi come adorarti,» chiesi, così vicina che avrei potuto baciarlo,
ma non osai. Aspettavo il permesso, le istruzioni, ignorando la mia voce
interiore che voleva ardentemente mantenere il controllo.
Mise da parte il caffè e mi sfiorò il viso con la mano. «Spogliati per me.
Voglio vedere quel bellissimo corpo.»
Scesa dall’auto, osservai il suo volto mentre camminavo verso la parte
anteriore del veicolo. Mi misi di fronte a lui, con il ponte di legno alle
spalle, e mi tirai la maglietta sopra la testa. Ogni movimento era lento,
sensuale, e rivelai ogni centimetro di pelle come se fosse un regalo da
scartare. Mi guardava attraverso il parabrezza, con il pugno appoggiato
alla bocca e lo sguardo pesante. I miei capezzoli si indurirono quando mi
tolsi il reggiseno e fui accarezzata dalla brezza. Mi sfilai le scarpe, poi
allungai la mano sotto la gonna per abbassare gli slip e farli penzolare da
un dito.
Scese dall’auto, con la tensione che si respirava a ogni passo che faceva
verso di me. Come se stesse cercando di trattenersi, come se una parte di
lui volesse avventarsi su di me e acchiapparmi.
«Piegati sul cofano,» ordinò. «E tira su la gonna.»
Obbedii, tenendo gli occhi fissi su di lui mentre mi tiravo su la gonna
sopra il sedere e mi chinavo sul cofano. Il metallo era ancora caldo
quando vi appoggiai il seno nudo. Lui si mise dietro di me e mi afferrò il
sedere con entrambe le mani.
«Adorare significa permettermi di usarti a mio piacimento,» mi
informò. Un momento il suo tocco era delicato, l’attimo dopo era deciso e
ruvido. «Se voglio che tu soffra per me, soffrirai. Se voglio che tu sopporti
il dolore, lo sopporterai. Se voglio che tu mi dia piacere, che mi tocchi,
che offra il tuo corpo per me… allora lo farai.»
«Sì, padrone.» Il titolo mi suonava strano sulla lingua, spaventoso e
snervante, ma in qualche modo così giusto. Fece una pausa, il suo respiro
si fermò per un momento. Poi fece una risata sommessa, un suono che mi
fece venire la pelle d’oca sulla schiena.
«Ti farò del male,» annunciò, chinandosi sulla mia schiena mentre mi
parlava, con il palmo della mano che mi sfregava il sedere. «E tu mi
ringrazierai. Hai capito?»
«Sì, padrone.» Oh, mi faceva fremere ogni volta. Ansimai e poi cambiai
posizione in modo da allargare un po’ di più le gambe.
«Stai imparando a essere una brava ragazza,» mormorò. La sua mano
mi accarezzò la coscia, poi si ritrasse e il suo palmo colpì il mio sedere con
una forza tale da farmi sussultare.
«Grazie, padrone…» Allontanò di nuovo la mano e mi diede un’altra
sculacciata decisa sulla natica. Gemetti, ma riuscii a dire: «Grazie.»
Continuò a sculacciarmi finché la mia pelle non divenne bollente e mi
bruciava. Tenevo le gambe aperte e la gonna tirata su, ma in poco tempo
cominciai a tremare. Ogni schiaffo pungente alimentava ancora di più la
mia eccitazione, e dopo una dozzina di sculacciate la mia fica era già
fradicia. Continuò, fermandosi solo per dire: «È magnifico quando soffri
per me. Quando sopporti perché sai che mi fa piacere. Ti stai
comportando bene, angelo.»
L’elogio mi incoraggiò ancora. La successiva dozzina di sculacciate mi
fece gridare e mugolare in attesa dello schiaffo successivo. Era umiliante
proprio come desideravo io, mi faceva sentire piccola e beatamente
dominata.
«Ti fa male?» domandò con un filo di voce, strofinando la mia pelle
irritata con la mano. Il suo palmo era così caldo, persino di più della mia
stessa carne in fiamme.
«Fa male… ma mi piace il dolore che mi dà.» Inarcai la schiena,
spingendo il mio sedere contro la sua mano. Emisi un gemito disperato
con quel gesto, già anticipando il bruciore, eppur desiderandolo
ardentemente. «Per favore… posso averne un’altra, padrone?»
Fece una risata, e la trovai così fottutamente sexy che mi contorsi. Mi
sculacciò di nuovo, proprio sulla curva tra la natica e la coscia, e il mio
grido di dolore si dissolse rapidamente in un gemito di piacere.
«Dio, sei così sexy,» sussurrò, trascinando le unghie sulla mia pelle e
lasciandomi dei graffi roventi. «Sei proprio una brava, piccola puttana per
me. Così bagnata per le tue sculacciate…» Due dita scivolarono nella mia
fica e io chinai la testa per la sensazione stupenda.
Pompò con le dita dentro di me, continuando a sculacciarmi con la
mano libera. Il mio piacere cresceva, il mio sesso si surriscaldava
rapidamente e il mio respiro si faceva sempre più corto. «Oooh, così
verrò… ti prego… ti prego, fammi venire…»
«Ti porterò proprio al limite,» mi dichiarò con un tono che non lasciava
alcun margine di discussione. «Poi mi fermerò, e tu ti metterai in
ginocchio. Non ti è ancora permesso di venire.»
Lo bramavo così tanto che avrei potuto piangere.
«Non fermarti…» La mia voce era carica di bisogno. «Ti prego… ti
prego…»
Estrasse le dita e le portò alle mie labbra. «Apri,» comandò. «Usa la
lingua e puliscimi, sporca ragazza.»
Feci come mi aveva ordinato, pulendo la mia eccitazione dalle sue dita
mentre la mia fica pulsava per il desiderio di averne ancora. Avvolse i miei
lunghi capelli intorno al suo pugno e mi tirò su, stringendoli per farmi
mettere in ginocchio. «Sai che mi piace che tu sia disperata… in attesa…
che tu abbia bisogno di più. Che tu abbia bisogno di me.»
«Ho bisogno di te,» sussurrai guardandolo e strofinando il viso contro il
suo inguine. Sentii la sua erezione dura attraverso la stoffa e chiusi la
bocca sul rigonfiamento come se potessi strappare il tessuto per arrivare a
lui. «Lasciami adorare il tuo cazzo, padrone. Ti prego.»
Si abbassò ulteriormente la zip della tuta, appoggiandosi alla griglia
della Mustang mentre io lo massaggiavo con la mano, da sopra il tessuto
nero dei suoi slip che ci divideva. Li abbassò e io mi avvicinai, quindi lo
presi in mano e sputai sulla punta del suo cazzo. Usai la mia saliva per
rendere la mia mano più scivolosa e lo accarezzai lentamente, osservando
il suo volto contorcersi dal piacere.
«Stringi ancora un po’,» mormorò con voce roca. «Così, proprio
così…»
Tenni il viso vicino, inspirando il suo profumo muschiato prima di
prenderlo in bocca. Feci oscillare la testa su di lui, assaporandolo,
mugugnando mentre il suo sapore mi riempiva la testa. Ero così eccitata
che ogni alito di vento sulla mia pelle mi sembrava quasi una stimolazione
eccessiva, ogni mio nervo era troppo sensibile. Manson mi teneva ancora i
capelli, guidando la mia testa, e la sua presa si fece più forte quando
gemette.
«Cazzo, Jess… la tua bocca è così spettacolare, cazzo.»
Mi piaceva osservare il piacere sul suo volto. I suoi occhi socchiusi, la
mascella che si stringeva e poi si rilassava mentre reclinava la testa
all’indietro. Incorniciato dalle cromature lucide e dalla vernice brillante
della Mustang, aveva un aspetto insopportabilmente sexy, troppo bello
per poter tenere le mani lontane da lui. Mentre la mia bocca compiaceva il
suo cazzo, le mie mani si muovevano sulle sue cosce, le mie unghie
lasciavano graffi provocanti sulla sua pelle.
Dopo alcuni minuti, emise un sibilo sommesso e strinse la presa,
staccando la mia bocca da sé. Mi protesi verso di lui, agognando il suo
sapore in bocca, ma lui mi diede una piccola scrollata di testa e mi disse:
«A quattro zampe, adesso. Appoggia la faccia a terra.»
Obbedii e mi misi in posizione. Appoggiai la guancia sul vecchio asfalto
ruvido, tenendo il sedere in alto e le ginocchia leggermente divaricate. Mi
sentivo così esposta lì fuori, con i suoni della natura intorno a me. Di tanto
in tanto sentivo passare una macchina sulla strada e trattenevo il respiro,
certa che da un momento all’altro avrei sentito qualcuno gridare perché ci
stava vedendo. Ma il timore di essere scoperti faceva parte del brivido.
«Così bella,» sussurrò Manson, spingendo via la mia gonna. Seppellì il
viso su di me, leccando la mia eccitazione grondante, e la sua lingua sondò
la mia fica, il mio culo. Ansimai per la stimolazione, gemendo mentre
spingevo all’indietro verso di lui. Ero così vicina all’orgasmo che stavo
tremando, ma lui si fermò prima che potessi precipitare oltre il limite.
«Muori dalla voglia di essere posseduta, vero?» domandò con un filo di
voce. Non riuscivo a capire se stesse davvero cercando una risposta o se
stesse semplicemente parlando a sé stesso. «Vuoi che qualcuno prenda il
controllo, ne hai bisogno. Non vuoi più scelte frustranti, non vuoi pensare
di essere giudicata o rifiutata. Vuoi solo essere un bel giocattolo che
usiamo a nostro piacimento.»
Ci fu un clic, e io girai leggermente la testa per poterlo guardare. Aveva
aperto il suo coltello, la lama lucente era incastrata in esso. Mi sovvenne la
sensazione di quando mi aveva squarciato la pelle, quanto mi avesse
eccitato vedere il mio stesso sangue sgorgare.
Mi sentivo ebbra della scena che stava preparando per me: il dolore, il
piacere che si faceva strada, la certezza che in quel momento ero
completamente alla sua mercé. Avrebbe potuto farmi tutto ciò che voleva,
e io assaporavo la sensazione di essere semplicemente lì per servire.
Sapeva cosa volevo, le voglie che temevo.
La lama tracciò delicatamente la rotondità del mio sedere,
provocandomi.
«Vuoi che ti marchi, angelo?» domandò, con un desiderio famelico
nelle sue parole. «Vuoi sanguinare per me?»
Non c’era dubbio nella mia mente che non solo lo volevo, ma che mi
fidavo di lui. «Sì, padrone. Marchiami, ti prego.»
Emise un suono che era a metà tra un gemito e un ringhio. La lama
picchiettò sul mio sedere e lui mi attanagliò il fianco per tenermi in
posizione. Con lentezza e attenzione, incise la mia pelle. Le sue pupille
erano dilatate, la sua espressione era completamente assorta mentre io
mugolavo flebilmente per il bruciore.
Gli stavo cedendo tutto il controllo, eppure lui sembrava avere una
certa soggezione nei miei confronti. Come se fossi qualcosa da venerare,
come se la mia sopportazione fosse da ammirare, come se il mio servigio
fosse da apprezzare.
Non c’erano sensazioni paragonabili a quelle.
«Meraviglioso.» La sua lingua accarezzò il taglio prima di baciare la mia
pelle, e sussurrò le sue lodi: «Che brava ragazza, sei così fottutamente
sexy…» Cominciò a massaggiarmi il clitoride e io quasi singhiozzai per
l’estasi. Volevo di più. Lo desideravo dentro di me.
Come se lo avesse percepito, la punta del suo cazzo premette sulla mia
fica, ricoprendosi della mia eccitazione. Affondò dentro di me,
imponendo subito un ritmo serrato mentre tirava indietro i miei fianchi,
facendomi sobbalzare contro di lui a ogni spinta. I suoi fianchi che
sbattevano contro la mia pelle riaccesero il bruciore delle sculacciate e io
lo assaporai, gemendo con abbandono.
Mi si stava stringendo un nodo dentro, stimolato da ogni spinta brutale
del suo cazzo. Gemetti, le parole mi tremavano. «Per favore, posso venire,
padrone? Ti prego, lasciami venire… ti prego…»
Sarei riuscita a fermarmi se avesse detto di no? Avrei saputo
trattenermi? Il solo pensiero di doverci provare era troppo forte, ma per
fortuna non dovetti farlo.
«Vieni per me, angelo,» disse, con il suo cazzo che mi puniva,
spingendomi inesorabilmente verso il mio apice. «Vieni sul mio cazzo.»
Le sue parole mi ridussero in pezzi. Non riuscivo a pensare, non
riuscivo a respirare. Riuscivo a malapena a muovermi. Il piacere mi investì
in un’onda soffocante, e quando finalmente risalii in superficie dall’altra
parte, stavo boccheggiando.
«Dio, mi dai delle sensazioni paradisiache.» La voce di Manson era tesa,
affannosa. «Non voglio che passi un solo fottuto giorno senza che uno di
noi ti riempia. Dovresti sentirci sempre dentro di te, che ti coliamo lungo
le cosce, con ogni buco che ti fa male…»
«Servo solo per il vostro piacere,» balbettai, gustandomi il modo in cui
il suo fiato si faceva sempre più veloce. «Usatemi quando volete. Fate sì
che sia sempre indolenzita, ti prego. Non voglio dimenticare cosa si prova,
mai, mai, ah…»
Le sue dita scavarono dentro di me, i suoi fianchi diedero un’ultima
spinta prima che seppellisse il suo viso nel mio collo mentre veniva dentro
di me. Mi tenne così stretta, così vicina. Anche dopo avermi riempita,
continuò a tenere il suo cazzo dentro di me, spostandosi all’indietro in
modo da farmi riposare contro di lui, sostenendomi nonostante perfino il
suo corpo stesse tremando.
«Sei fottutamente perfetta, angelo. Così perfetta che mi farai perdere la
testa.»
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44
Jessica
Dopo una scopata come quella, non ero pronta a tornare a casa. Avevo
finito di lavorare per la giornata, e ora che ero completamente soddisfatta
e sfinita, volevo rilassarmi.
«Ti riporto a casa nostra,» propose Manson, dopo aver usato una
salvietta disinfettante dal suo portaoggetti per pulire il taglio fresco sulla
mia natica. «Puoi rilassarti lì quanto vuoi. Lucas e io finiremo di lavorare.»
Riuscii a guardare il taglio per la prima volta nello specchietto laterale
della Mustang e trovai il nome di Manson inciso sulla mia pelle. Mi
aspettavo di provare eccitazione ed esaltazione alla sua vista. Quello che
certamente non mi aspettavo era una travolgente ondata di emozioni, una
sensazione di dolorosa felicità.
«Non ti preoccupare, non resteranno cicatrici,» mi assicurò. «Il taglio è
poco profondo.»
Forse volevo che cicatrizzasse. Forse volevo il suo nome sulla mia pelle
per sempre, ma non lo dissi. Il sedere mi bruciava quando mi accomodai
sul sedile del passeggero, ed ero contenta di aver scelto una gonna quel
giorno invece dei jeans.
Arrivati a casa loro, trovammo il cancello aperto, Manson entrò nel
cortile e parcheggiò davanti al garage. Mentre seguivo Manson in casa,
notai le gambe di Lucas sotto un veicolo e tirai un sospiro di sollievo
quando l’aria fresca dell’interno mi colpì. Mentre Manson metteva
l’espresso di Lucas nel frigorifero, mi sedetti sulle scale per salutare i cani
che annusavano eccitati intorno ai miei piedi.
Ma un improvviso e forte scoppio di grida proveniente dal piano di
sopra attirò la mia attenzione. La voce era ovattata, ma qualcuno di sopra
stava cantando a squarciagola.
Manson rise. «Immagino che Vincent sia sveglio.»
«La sua stanza è in soffitta, vero?» chiesi, senza riuscire a trattenermi
dal ridacchiare.
Manson annuì. «Puoi salire se ti vai. Io devo tornare al lavoro, quindi
mettiti comoda.»
Mentre Manson rientrava nel garage, io salii al piano superiore. C’era
un’altra stretta scala alla fine del corridoio del secondo piano, e la porta in
cima era aperta, con la musica a tutto volume che Vincent stava cantando
a perdifiato.
Salii le scale e mi fermai sulla soglia. La mansarda era spaziosa, anche se
il soffitto ad angolo ne limitava l’altezza ai bordi. Un grande letto era
addossato a una parete, con un’eclettica selezione di coperte a fantasia e
trapunte a maglia sgualcite. Un paio di appendiabiti sorreggevano
magliette, jeans e giacche, anch’essi in una grande varietà di modelli e
colori. Una finestra rotonda all’altra estremità della stanza lasciava entrare
la luce del mattino, ed era davanti a questa finestra che Vincent era
seduto, a gambe incrociate sul pavimento, con una tela davanti a sé e i
colori sparsi intorno.
Quando ricominciò il ritornello della canzone, inclinò la testa
all’indietro, gettando il pennello di lato e spargendo vernice blu sul
pavimento mentre intonava le parole.
Non appena aprì gli occhi mi notò lì e un ampio sorriso gli si allargò sul
viso. «Oh, merda. Ehi, piccola.» Si alzò in piedi, srotolò le sue lunghe
membra e mi abbracciò. Quando mi lasciò andare, intravidi una
collezione di bombolette di vernice spray nell’angolo, annidate sul
pavimento dietro una grande tela su un cavalletto.
«È questo il tuo nuovo quadro?» chiesi, accovacciandomi per vedere
meglio. La tela era schizzata di vari colori e raffigurava un cielo
psichedelico su un campo di erba alta e verde. La vaga sagoma di una
figura camminava nel campo, dando le spalle all’osservatore e con il volto
leggermente girato, come se stesse per guardarsi alle spalle.
«Sì, l’ho iniziato per capriccio,» ammise. «La settimana scorsa ho
assunto della roba e ho fatto un sogno molto vivido… dovevo provare a
riversarlo su tela.»
«È splendido,» dissi. Il modo in cui i colori si mescolavano mi ricordava
l’iridescenza di una pozza d’olio, e la vastità del campo mi faceva sentire
come se ci fosse un mondo intero ad aspettarmi al di là degli alberi lungo
il suo orizzonte.
Quando mi alzai e diedi un’altra occhiata alla stanza, feci caso ad alcuni
ganci sulla parete accanto al suo letto. C’erano corde ordinatamente
arrotolate, di vari colori e materiali, insieme a una vasta gamma di giochi
erotici: paddle grandi e piccoli, cinghie di cuoio, persino una sottile verga
di legno. Sul pavimento, sotto i ganci, c’era una cassapanca nera, e mi
morsi il labbro con curiosità.
Vincent notò che la stavo osservando.
«Quella è la scatola dei giocattoli,» spiegò, facendo un cenno verso la
cassapanca con un sorriso sornione. «Ho un sacco di cose divertenti lì
dentro.»
Non avevo dubbi che le avesse, ma un boato fulmineo proveniente
dall’esterno attirò la mia attenzione. Mi misi in punta di piedi alla finestra
per sbirciare giù e vidi Jason in piedi lungo il lato del garage. Alzò una
pistola a tracolla e premette il grilletto, il fragore risuonò di nuovo e degli
schizzi di vernice gialla brillante colpirono la portiera arrugginita di
un’auto appoggiata al lato del garage.
«Paintball?» domandai. «Sembra divertente.»
«Sarà divertente,» specificò Vincent, mettendosi accanto a me. «Sono
settimane che lui e Lucas si mettono d’accordo, cercando di capire come
vendicarci di Alex e degli altri.»
Mi girai, guardandolo con occhi spalancati. «Quindi è una specie di una
missione vendicativa?»
«Oh, sì. Bisogna dare una lezione a quegli stronzi. Dovresti andare a
parlargli. Ho la sensazione che abbiano un ruolo molto importante per
te.»
Mi fece un occhiolino e la curiosità ebbe la meglio su di me.
Lasciandolo alle sue opere d’arte, tornai di sotto e in cortile, girando
intorno al lato del garage.
Jason mi vide arrivare e mise in pausa il suo tiro al bersaglio, ma nello
stesso momento Lucas uscì dalla porta laterale del garage con un’altra
pistola da paintball in mano. Non riuscii a leggere la sua espressione
mentre mi guardava, solo che sembrava sofferente.
Qual era il suo problema? Era sempre stato un tipo distaccato, ma mi
guardava come se fossi una granata che potesse esplodere da un momento
all’altro. Come se non sapesse quanto fosse sicuro avermi vicina.
Non importava. Non gli avrei permesso di rovinarmi l’umore.
«A cosa serve tutto questo?» chiesi, guardando in giro i vari oggetti che
avevano sistemato nel cortile. Oltre alla portiera arrugginita, c’erano
anche diverse lattine su blocchi di cemento e un altro pannello di metallo
appoggiato a uno degli alberi.
«Tiro al bersaglio,» enunciò Jason, appoggiandosi la pistola alla spalla.
Lucas aveva già distolto lo sguardo da me, concentrando la sua attenzione
mentre prendeva la mira. Sparò, le palline di vernice sfrecciarono nel
cortile e abbatterono tre lattine.
«Il prossimo obiettivo è la Hellcat di Alex,» dichiarò Lucas, premendo
di nuovo il grilletto. Un’altra pallina colpì il vetro dello sportello
arrugginito, ma questa non schizzò. Colpì il vetro con un suono acuto e
delle crepe si propagarono dal punto d’impatto.
«Wow…» Gli occhi mi si sgranarono appena. «Posso provare?»
Lucas mi consegnò la pistola. Avevo sparato con la pistola a pallini di
mio nonno quando ero piccola, ma per il resto non avevo molta
esperienza. Non pensavo che una pistola da paintball sarebbe stata troppo
diversa e presi la mira verso la portiera, sparando diversi colpi.
Fui felice di vedere che tutti i proiettili, tranne due, avevano centrato il
bersaglio.
«Bel colpo,» disse Jason, all’apparenza impressionato.
Lucas grugnì, con gli occhi stretti come se non potesse credere che ci
fossi riuscita. «Non male,» commentò, riprendendo la pistola. «Sembra
che tu sia già pronta per questo sabato, allora.»
«Sabato?» feci. «È quando c’è la missione vendicativa?»
Jason rise. «La missione, giusto. Vedo che ne hai già parlato con
Vincent.»
«Non scaldarti troppo, giocattolino,» disse Lucas. «Quello che faremo è
tutt’altro che legale, ma tu non hai mai avuto problemi al riguardo, vero?»
«Non quando è per una buona causa,» risposi senza problemi, facendo
sì che Jason sorridesse di nuovo e Lucas sembrasse ancora più scontroso.
«Qual è il piano?»
I due si scambiarono uno sguardo che non parlava d’altro che di guai.
Lucas si avvicinò a me, con la tracolla della sua pistola da paintball sulla
spalla. Mi guardò come se mi stesse soppesando, e io automaticamente
raddrizzai le spalle e mi misi un po’ più dritta.
Lui se ne accorse e gli si allargarono le narici.
«Tutti quegli stronzi saranno a una festa in casa questo sabato,» spiegò.
«È a casa di Nate e Danielle, a Heights. Visto che hanno pensato che fosse
divertente venire a sfondare la nostra roba, siamo convinti che sarebbe
dannatamente divertente ricambiare il favore.»
Certo, la stessa festa a cui ero stata invitata quella mattina. Ma c’era un
problema che forse non avevano considerato.
«Come farete a entrare?» chiesi. L’intera proprietà di Wickeston
Heights era recintata e, per poter entrare, era necessario presentare il
proprio nome alla guardiola.
«Beh, tu hai ricevuto un invito alla festa, no?» chiese Jason. Una porta
si chiuse con uno scatto e io guardai indietro, per vedere che Manson era
uscito dal garage e si stava dirigendo verso di noi.
«Sì, sono stata invitata,» confermai. «Fammi indovinare: vuoi che io
risponda all’invito, che inserisca il mio nome e che poi vi porti tutti
dentro?»
«Esattamente,» concordò Jason, parlando in maniera concitata per
l’eccitazione. «Ho delle palline di vernice in una borsa frigo con ghiaccio
secco e tutti gli attrezzi che ci servono sono nel retro della Bronco.
L’ultima cosa che ci occorre è un diversivo.»
«Sono bravissima a distrarre,» annunciai, e Manson ridacchiò. Nel mio
cervello stavano già frullando diverse idee, ma Lucas mi stava ancora
fissando in cagnesco.
«Ti offri volontaria per venire a rovinare la serata dei tuoi amici?»
chiese. «Davvero?»
«Non sono miei amici,» risposi senza indugio, e Lucas sgranò gli occhi.
«Dico sul serio, non lo sono! Hanno distrutto le vostre auto e mi hanno
lasciata qui a prendermi la colpa. Alex è un completo coglione, e Danielle
è una stronza che pugnala alle spalle.» Incrociai le braccia. «Quindi no,
non sono miei amici, Lucas.»
Lui alzò le mani. «Ehi, come vuoi. Ma sembri sulle difensive. Forse un
po’ colpevole… forse un po’ insicura…»
«Lucas… dai, amico.» Jason scosse la testa. «Lei vuole venire.»
«Non ho mai detto che non possa farlo,» ribatté Lucas. Mi venne di
nuovo incontro, con una sfida evidente nella sua postura. «Sto solo
dicendo che non credo che sarà all’altezza dell’occasione. Non credo che
sia pronta.»
«Io penso di sì,» lo contraddisse Manson. «A te piacciono le sfide, vero,
Jess? Perché questa sarà una sfida importante.»
«Sono pronta,» assicurai. «Vedrete. Non siete gli unici a volersi
vendicare.»
Lucas non sembrava ancora credermi. Ma Jason parve su di giri quando
disse: «Perfetto. Abbiamo tutto sotto controllo.» Sparò un colpo,
colpendo il finestrino proprio dove era incrinato e mandando in frantumi
il vetro. «Sabato ci sarà da divertirsi.»
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45
Jessica
Quel sabato, mi ritrovai a fare la fila per entrare all’Heights al volante
dell’enorme Bronco rombante di Manson.
Guidare quel veicolo bestiale era molto più divertente di quanto mi
aspettassi. Nel percorrere la strada, i grandi pneumatici e le sospensioni
rialzate facevano tremare e sobbalzare l’intera auto, oltreché sballottare
noi sui nostri sedili. Manson era seduto davanti con me, mentre Lucas,
Jason e Vincent erano dietro, con la testa abbassata per non farsi vedere
dalla guardia che controllava i miei documenti.
Era la stessa vecchia guardia che lavorava a quel cancello da anni, anche
se era molto più difficile per lui guardarmi quando ero in un enorme SUV
invece che in una minuscola auto.
«Bentornato, signor Reed,» disse, salutando Manson, prima di aprire il
cancello e lasciarci entrare. Non mi sorprese che si ricordasse di Manson,
che aveva vissuto in questo quartiere con la sua ex assistente sociale
Kathryn e la sua famiglia.
Una volta entrati, tirai un sospiro di sollievo. I ragazzi si raddrizzarono
mentre guidavo attraverso le strade tortuose dell’Heights. Alcune
abitazioni lì erano davvero enormi, vere e proprie magioni a ogni angolo.
La casa di Danielle e Nate non era così maestosa, ma era comunque
grande. Si trovava su un terreno di un acro, una casa colonica a schiera
circondata da alberi. L’unico motivo per cui potevano permettersela era
che avevano Matthew e la sua ragazza come coinquilini.
Mi assicurai di non passare davanti alla casa, ma parcheggiai lungo la
strada in modo che Manson e io potessimo uscire. Avevamo discusso su
come organizzare al meglio il diversivo: volevamo dare agli altri tutto il
tempo necessario per fare tutto quello che dovevano, ma dovevamo anche
fare un sopralluogo prima che potessero entrare.
Ero stata io a ideare il piano su cui alla fine ci eravamo accordati, il
modo perfetto per attirare e mantenere l’attenzione di tutti alla festa.
Dovevamo solo fare qualcosa che non si sarebbero mai aspettati.
Per questo Manson intrecciò le sue dita con le mie mentre
percorrevamo il vialetto verso la casa. Avevo lo stomaco in subbuglio e i
palmi delle mani sudati per il nervosismo. Di solito mi vestivo di tutto
punto per una festa, ma quel giorno non potevo farmi rallentare da tacchi
e vestiti stretti.
«Non posso credere di aver messo le scarpe basse a una festa,» sussurrai
mentre ci avvicinavamo alla porta d’ingresso. Nel cortile erano
parcheggiati dei veicoli, ma i miei occhi si concentrarono sulla Hellcat di
Alex, posteggiata davanti al garage. Il truck di Nate era lì accanto e c’era
anche la piccola e graziosa Lexus di Danielle.
Manson mi strinse la mano. «Sei nervosa?»
«Un po’,» ammisi. Quella sera avrebbe potuto andare storta qualsiasi
cosa, ma avevo già deciso che valeva la pena di rischiare. Cercammo
eventuali telecamere all’esterno della casa e, non trovandone nessuna,
Manson mandò un messaggio al gruppo per avvisarli.
«Pronta?» chiese. Stava per entrare in una festa dove metà delle
persone lo maltrattavano senza sosta, eppure non sembrava minimamente
preoccupato. Considerando che io ero un fascio di nervi, mi stupii che
fosse così calmo.
Noi due saremmo entrati lì dentro e avremmo mandato in frantumi
l’intera atmosfera. Nonostante il nervosismo, non vedevo l’ora di vedere
l’espressione di Danielle quando l’avremmo fatto.
«Pronta,» confermai, e mi avvicinai per suonare il campanello.
La musica si fece ancora più forte quando Candace aprì la porta. Il
sorriso sul suo volto si bloccò immediatamente quando ci vide.
«Oh, Jessica, wow, ciao!» esclamò, simulando male il suo entusiasmo.
Aveva un bicchiere di plastica rosso in una mano e sembrava alticcia,
nonostante l’ora. Erano solo le quattro del pomeriggio, la festa era appena
iniziata. Ma non era mai stata in grado di gestire bene l’alcol. «Non sapevo
che saresti venuta. Io…» Guardò Manson, con gli occhi che vagavano su e
giù per il suo corpo in una lenta valutazione. «Hai portato un
accompagnatore… fico…»
Manson aveva esagerato il suo abbigliamento di proposito. Era più
simile a com’era andato in giro ai tempi del liceo, quando aveva la cresta e
tutto ciò che indossava sembrava appena uscito da un cataclisma. I suoi
jeans stretti e slavati erano coperti di toppe e buchi, la sua maglietta dei
Black Flag era altrettanto rovinata. Ma la mia parte preferita dell’ensemble
erano, ovviamente, gli stivali.
Erano grandi e allacciati fino alle ginocchia, con una suola spessa che
rendeva la sua già alta statura più vicina a quella di Vincent. Mi facevano
sembrare particolarmente piccola accanto a lui, vestita con il mio top
corto rosa e i miei jeans.
«Sì, è stata una decisione improvvisa,» dissi con un sorriso, tirandomi
dietro Manson per entrare in casa. Candace ci sbirciava come se avessi
permesso a un cane estremamente sudicio di entrare. «Avevo proprio
bisogno di una serata fuori. Il lavoro mi sta uccidendo. Sai com’è.»
Mi allontanai da lei con un piccolo cenno di saluto. L’impianto audio
trasmetteva canzoni della Top 40 e le persone erano riunite in ogni stanza
e si urlavano l’un l’altra al di sopra della musica. La cucina era affollata,
con bottiglie di liquore e cartoni di pizza aperti e sparsi sul piano di
lavoro.
La gente ci guardava due volte quando passavamo, e quando entrammo
in cucina per prendere da bere, un gruppo di ragazzi che sembravano già
ubriachi ci notò.
«Porca puttana, Manson. Che mi dici, amico?» Uno dei ragazzi afferrò
la mano di Manson e lo strinse in un abbraccio. Gli altri gli batterono le
mani sulla schiena, chiedendogli come stesse e avviando rapidamente una
conversazione.
Quando alla fine si allontanarono, distratti dall’invito gridato da
qualcuno ad aprire un fusto di birra, guardai Manson con sorpresa. «Era
Rob Davis, vero? Pensavo che…»
«Che mi avesse ficcato la testa in un gabinetto al primo anno?» Manson
finì per me, versando uno shot di vodka in un bicchiere di plastica. «Sì,
era lui. Alcuni di quei ragazzi erano lì durante l’incidente nel bagno.» Aprì
una lattina di Sprite e la svuotò nel bicchiere. «Bei tempi.»
«Dio, sono così falsi,» sibilai, versando la sangria nel mio bicchiere. La
sorseggiai e commentai: «Non so come tu faccia a sopportarli.»
«Li vedo raramente, quindi riesco a mantenere l’educazione,» rispose.
«Inoltre, le persone cambiano. Finché non creano problemi a me o alla
mia famiglia, non ho problemi con loro. Tutti abbiamo fatto delle cazzate
quando eravamo giovani e stupidi. Tu le hai fatte. Io sicuramente sì.»
«Che cosa hai fatto di male tu?» chiesi, sinceramente curiosa. Ricordo
che si era messo nei guai per aver fumato, perché era stato un ritardatario,
per aver fatto skateboard nel campus e, ovviamente, per l’episodio del
coltello. Ma per il resto, era sempre sembrato uno che teneva la testa
bassa.
«Omicidio e casino,» replicò, mettendomi un braccio intorno alla vita
mentre uscivamo dalla cucina. Avevamo una missione da compiere, ma
dovevamo anche mimetizzarci almeno per un po’, in modo che nessuno si
insospettisse. «Sai, le stereotipate stronzate da teppista punk.»
«Omicidio?» I miei occhi si allargarono. «Non è possibile…»
«Sto scherzando. Dai, Jess.» Mi fece quel sorrisetto storto che mi faceva
battere il cuore. «Ti sembro davvero uno che ucciderebbe qualcuno?»
«Beh…» Mi chinai verso di lui e mormorai a bassa voce: «Sembra che
tu possa uccidere questa fica qui davanti a te, quindi sì, sembri proprio un
assassino.»
Fece un sorriso a stento trattenuto mentre scuoteva la testa. «Accidenti,
hai bevuto a malapena un drink. Stai già flirtando con me?»
«Non ho bisogno di alcol per flirtare con te.» Eravamo entrati nel
soggiorno, dove la grande porta scorrevole in vetro era aperta e conduceva
al patio posteriore. La folla era radunata intorno al tavolo da beer pong
all’esterno, e io individuai Danielle e Nate e li indicai con discrezione a
Manson. Lui tirò fuori di nuovo il telefono per far sapere agli altri che li
stavamo tenendo d’occhio.
Ora dovevamo trovare Alex. Dovevamo sapere dove erano tutti, prima
che i ragazzi facessero la loro mossa.
«Divertente, vero?» commentò Manson mentre guardavamo la folla
eccitata. «L’ultima volta che siamo stati insieme a una festa, ho dovuto
sfidarti ad avvicinarti a me.» Rise sommessamente. «Questa volta…»
«Sono qui perché lo voglio,» conclusi io, abbozzando un sorriso prima
di sporgermi verso di lui e baciarlo. Si irrigidì per un attimo per la
sorpresa, prima di abbandonarsi al bacio. Mi prese il viso con la mano e
sorrise contro la mia bocca. Sentivo gli occhi puntati su di noi e persino
qualche mormorio. Ma non mi importava.
Speravo che quel gesto avrebbe fatto incazzare tutte le persone che si
stavano prendendo la briga di far caso a noi. Sarebbero potuti morire tutti
di rabbia, se pensavano di poter decidere chi avrei baciato o chi sarebbe
stato al mio fianco.
Ma lentamente la sensazione di essere osservata mi fece correre un
brivido lungo la nuca. Mi staccai lentamente dal bacio, voltandomi a
guardare il nostro pubblico. Danielle era tornata dentro e mi stava
fissando - ci stava fissando. Candace era dietro di lei e, nel patio, Nate
aveva gli occhi stretti in direzione di noi.
Perfetto. Ora stavamo attirando la loro attenzione.
Sorrisi dolcemente, tenendo una mano sul petto di Manson mentre
esclamai: «Ehi, ragazza! Sembra che siano passati secoli! Grazie mille per
l’invito.»
Dall’espressione di Danielle, ora si stava sinceramente pentendo
dell’invito.
«Certo,» sibilò a denti stretti. Lei e Candace andarono in cucina, ma
continuarono a guardarci. Mi bruciavano le orecchie per la voglia di
ascoltare la loro conversazione.
«… pensi che stia facendo? Non posso credere…»
«Così strano, cazzo. E cosa succede con…»
«… ad ogni modo. Tieni d’occhio…»
Smisi di ascoltarle. Questo era ciò che si provava a stare dall’altra parte,
credo, ma non stava uccidendo la mia sicurezza come avevo pensato.
Anzi, essere qui in opposizione a loro mi faceva sentire meglio che mai. Il
loro odio e il loro disgusto mi alimentavano.
Perché mai avevo avuto paura del loro rifiuto? Non avevo bisogno di
loro, non avevo bisogno di queste feste. Lucas non pensava che sarei stata
in grado di farlo, ma io ero determinata a dimostrare che si sbagliava.
Ero cambiata, e in meglio. Non ero più la stessa Jessica che
conoscevano. Non ero la versione di me stessa che ero stata al liceo.
Questa era la mia occasione per abbandonare tutto questo, per lavarmene
le mani una volta per tutte.
Dovevamo ancora trovare Alex, ma non era né nel patio né in salotto.
Solo dopo aver fatto un lento giro per la casa ed essere tornati in cucina,
lo trovammo. Entrammo, e nello stesso momento in cui lui si girò, dopo
essersi versato un altro drink, ci vide.
«Ma che cazzo…» La sua voce era abbastanza forte da sovrastare le
altre conversazioni e metterle a tacere. La gente spostava lo sguardo tra lui
e noi, alcuni con aria confusa, altri con sguardi di attesa, sicuri che stesse
per succedere qualcosa. Alex si era tolto la maglietta, mostrando i muscoli
sudati, e portava un berretto da baseball rosso all’indietro sulla testa. I
suoi occhi si fissarono su Manson e sbottò: «Chi diavolo ti ha invitato?»

È
«Ehm, ciaooooo?» Gli agitai le dita davanti alla faccia. «Sono stata io. È
qui assieme a me.»
Alex serrò la mascella, stringendo così forte che fui sorpresa di non
sentire i suoi denti rompersi. «Giusto. E tu perché sei qui, Jessica?»
«Perché non dovrei essere qui?» chiesi, come se la risposta fosse
dolorosamente ovvia. «Dove altro dovrei essere il sabato sera?»
«Probabilmente a scoparti i perdenti,» disse Danielle. Lei e Candace
erano entrate in cucina dietro di noi, con Nate e Matthew al seguito
questa volta. Era chiaro che avevano portato gli uomini per cercare di
intimidirci. Ma per quanto si atteggiassero e gonfiassero il petto, Manson
rimase del tutto indifferente. Il suo contegno sereno mi tranquillizzava,
mantenendomi calma nonostante i nervi a fior di pelle.
«È un po’ strano che vi preoccupiate della mia vita sessuale,» replicai.
Di solito i loro insulti mi avrebbero messa sulle difensive. L’impulso di
alzare la voce era forte, ma non volevo che mi vedessero perdere le staffe.
Danielle schioccò la lingua, esaminando con noncuranza le sue unghie.
«Sai, Jessica, è triste che tu pensi che a tutti importi così tanto di te. Sei
come una bambina che ha fatto un grande spettacolo e non si è resa conto
che tutti hanno applaudito solo per pietà. Come in questo momento. Ma
guardati! Sei venuta qui solo per sfoggiare la tua stramberia? Hai così
tanto bisogno di attenzione?»
Le mie vene sembravano in fiamme. Avrei voluto scagliarmi contro di
lei, artigliarle la faccia e strapparle le sue orrende extensions. Invece
abbassai lo sguardo sul cellulare e inviai un rapido messaggio alla chat di
gruppo: Trovato Alex. Il gruppo è al completo. Entrate.
Riposi il telefono e quando alzai la testa trovai tutti - Alex, Danielle,
Candace e i ragazzi riuniti - che mi fissavano in attesa di una risposta.
Con una risata, dissi: «Oh, mi dispiace. Stavate tutti aspettando che
dicessi qualcosa? Pensavo che aveste di meglio da fare.»
Danielle sembrava furibonda.
«Sai qual è il tuo problema?» sbottò, allontanandosi da Nate per darmi
addosso. Le persone in salotto e nel patio stavano notando la situazione e
cominciarono ad avvicinarsi per assistere alla rissa. «Sei così convinta che
il mondo giri intorno al tuo dito mignolo, ma non è così, Jessica. L’unica
cosa a cui ruota intorno la gente è la tua fica, visto che a quanto pare la
daresti in pasto a qualsiasi verme di strada.»
Manson fece un verso gutturale e io mi voltai a guardarlo e lo trovai che
rideva. Non gli importava della sua reputazione, né dei pettegolezzi, né
del fatto che qui ci fossero persone disposte a fargli del male fisico solo
per la sua presenza.
Per me questo era molto più sexy di tutte quelle persone che seguivano
senza pensieri la folla.
Conoscevo Danielle da anni. Avevamo condiviso dei segreti, i nostri
sogni. Ma ci eravamo anche nutrite della nostra tossicità, avevamo
incoraggiato il peggio l’una dell’altra. Questa non era un’amicizia. Il
nostro rapporto reciproco era stato parassitario, non di sostegno.
Mi chiedevo perché la facessi arrabbiare così tanto. Non volevo il suo
uomo; non mi ero mai intromessa nel suo spazio. Ma poi pensai a tutte le
persone che avevo odiato io senza motivo. Alle cose orribili che avevo
detto su gente che conoscevo appena. A come avevo giudicato le persone
con tanta severità senza mai concedere il beneficio del dubbio.
Mi aveva fatta sentire potente. Era bello fungere da guardiano, avere
potere sulla vita sociale e sulle decisioni degli altri. Senza dubbio Danielle
si sentiva allo stesso modo.
«Forse dovresti seguire qualche tuo stesso consiglio,» proposi. Non
volevo odiarla. Ma se avesse continuato a insistere, non mi sarei trattenuta.
«Il mondo non gira nemmeno intorno a te - e neanche io.»
«Dio, sei patetica!» La sua voce si alzò fino a diventare un urlo. «Ti stai
prostituendo alla spazzatura di Wickeston. Quattro ragazzi in una volta,
Jessica? Quanti altri te ne servono?»
«A quanto pare a Manson piace essere cornificato dal suo stesso
ragazzo.» Alex sghignazzò, suscitando le reazioni di chi lo circondava.
«Dov’è il tuo cane, Reed? Pensavo che Lucas stesse sempre ad annusare
alle tue calcagna.»
«Non posso portarlo in mezzo alla folla,» spiegò Manson. Aveva
appoggiato i gomiti all’indietro sul piano di lavoro, così tranquillo da far
pensare che fosse il padrone del locale. «Morde. A quanto pare, la gente si
arrabbia per queste cose.»
Il volto di Alex si oscurò e le sue mani si strinsero. La tensione nella
stanza era densa e la gente cominciava a essere impaziente. Erano tutti
esattamente dove dovevano essere, concentrati su di noi piuttosto che su
ciò che stava accadendo all’ingresso della casa.
Danielle arricciò le labbra e sibilò: «Magari volete mettere in scena un
piccolo spettacolo per tutti noi, come hai fatto qualche anno fa, che ne
dite? A casa di Daniel Peters?» Tirò fuori il cellulare. «Ho ancora il
video.»
Sapevo esattamente di quale video stava parlando: io in ginocchio ai
piedi di Manson, durante la sfida a ‘obbligo o bevi’ che avevamo fatto
quasi tre anni prima. Avevo baciato i suoi stivali davanti a tutti. Avevo
assorbito l’umiliazione come la prima dose di una droga e da allora non
ero più riuscita a liberarmi dalla dipendenza.
Stranamente, non mi sentivo nemmeno arrabbiata. L’intera situazione
era ridicola, con adulti che mi prendevano di mira per la persona con cui
avevo scelto di avere una relazione. Stavano cercando in tutti i modi di
aggrapparsi a questa finta dicotomia, decisi che ci dovesse essere una dura
divisione tra ‘noi’ e ‘loro’.
«Puoi riprodurre il video,» assicurai, scolando il bicchiere e gettandolo
nella spazzatura. «Fai pure, mandalo in streaming alla TV, se vuoi. Credo
che a questo punto sia un classico, ma nel caso in cui qualcuno non lo
sapesse…» Alzai un po’ la voce, in modo che tutti potessero sentirmi. «È
il video di me che bacio gli stivali di Manson, alla festa di Halloween di
Daniel. Quella sera ci siamo sfidati a vicenda, ma sai cos’è ancora più
assurdo, Danielle?»
Sembrava che volesse picchiarmi.
«È assurdo che tu creda che a me importi di quello che pensi di me,»
chiosai. Una volta pronunciate le parole, provai un senso di sollievo così
profondo che quasi mi venne da ridere. Mi era importato un tempo - mi
era importato così tanto che mi aveva fatto male, che mi aveva quasi
distrutta. Ma ora non più. Quella paura paralizzante era sparita.
Il cellulare mi vibrò in tasca, probabilmente il segnale dei ragazzi che
erano quasi pronti ad andarsene. Guardando la folla radunata intorno a
noi, esclamai: «Guardatevi tutti quanti! Nel momento in cui sono entrata,
tutta la vostra attenzione si è concentrata su di me. Su di me, Danielle.
Non credo che il mondo giri intorno a me. No, so che non è così. Ma
credo che tu e tutte le altre patetiche stronze meschine giriate intorno a
me. Non puoi farci niente. Non riuscite nemmeno a farvi gli affari vostri
abbastanza a lungo da capire che nulla di ciò che dite ha importanza per
me.»
Ringhiò come un gatto selvatico mentre si avventava su di me. Con un
movimento fluido, mi allungai, afferrai la ciotola di sangria dal bancone e
gliela gettai tutta in faccia.
Cadde un silenzio di morte. Manson sembrava stordito, con la bocca
aperta in un’espressione che era pericolosamente vicina allo scoppio di
una risata. Tutti guardavano con occhi spalancati, con la bocca aperta,
mentre Danielle era in piedi a gocciolare sulle piastrelle della cucina.
Ansimava, sbatteva lentamente le palpebre, mentre il mascara cominciava
a colare.
Un boato improvviso e forte proveniente dall’esterno fece scattare tutti
in piedi e capii immediatamente che dovevamo andarcene. Anche Manson
lo sentì e, non appena gli rivolsi lo sguardo, mi afferrò la mano e mi
trascinò di corsa con sé. Ci facemmo largo tra la folla, correndo verso la
porta. Non avevo idea di chi ci fosse dietro di noi: Danielle urlava come
una banshee, Alex sbraitava e sentivo diversi passi che ci inseguivano.
Uscimmo dalla porta principale e la Bronco era lì, con il portellone
posteriore aperto. Vincent era al posto di guida, mentre Jason e Lucas
erano accovacciati dietro, con i passamontagna sul viso e le pistole da
paintball in braccio.
Saltai sul retro mentre Manson corse verso il sedile anteriore del
passeggero e, nel momento in cui mi trovai al sicuro tra loro, Lucas e
Jason aprirono il fuoco.
Le palline di vernice rimbalzavano sulle auto, punteggiando i
parabrezza e lasciando piccole ammaccature sulle lamiere. Avevano
lanciato anche qualche pallina normale nel mix, mentre la vernice brillante
imbrattava la carrozzeria rosso lucido della Hellcat.
Con un urlo di eccitazione, Jason chiuse il portellone posteriore e urlò:
«Vai, Vince, dacci dentro!»
Vincent schiacciò l’acceleratore e le grandi gomme guadagnarono
rapidamente trazione. Guardai dal finestrino posteriore, con il cuore che
mi usciva dal petto, mentre la gente si riversava fuori dalla casa. Alex uscì,
diede un’occhiata alla nostra Bronco che fuggiva dalla scena e scattò verso
la sua auto. I suoi fari si accesero e io urlai: «Ci seguirà!»
Lucas sorrise torvo accanto a me. «Non andrà molto lontano.»
Aveva ragione. L’auto rossa si avvicinò a noi e per qualche secondo
sembrò che Alex stesse rapidamente guadagnando velocità. Ma le gomme
anteriori cominciarono a traballare, poi a tremare, e poi…
«Porca puttana!» Uno degli pneumatici anteriori di Alex si piegò verso
l’interno, l’auto sbandò di lato e finì in testacoda nello sterrato. Anche i
fari del furgone di Nate erano accesi, ma stavamo guadagnando velocità e
ci stavamo allontanando troppo per capire cosa stesse succedendo
esattamente. Mi girai e guardai Jason. «Che cosa hai fatto?»
«Ho allentato i bulloni delle loro ruote,» rispose. «E abbiamo messo
dello zucchero nei loro serbatoi.»
Lucas continuò: «Abbiamo tagliato qualche filo, tirato qualche tubo…»
«E abbiamo tagliato i tubi dei freni,» fece Vincent dal posto di guida.
Mi lanciò un’occhiata, dando una pacca eccitata sulla spalla di Manson.
«Vi siete divertiti là dentro?»
Scrollai le spalle, come se fosse stata solo una serata informale. «Ho
tirato una ciotola di sangria in faccia a Danielle.»
Vincent scoppiò a ridere e Jason mi afferrò e mi strinse in un abbraccio
dicendo: «Ecco la nostra ragazza! Sapevo che avresti spaccato.»
Non avrei mai pensato che sentire ‘la nostra ragazza’ dalle sue labbra mi
avrebbe fatto venire le farfalle nella pancia.
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46
Lucas
L’aveva fatto. Non ci avrei mai creduto se non l’avessi visto con i miei
occhi. Jessica era entrata alla festa dei suoi amici e ne era uscita come una
traditrice. Vedere il sorriso sul suo volto, l’entusiasmo con cui aveva
esultato per la nostra vittoria era stato come entrare in un universo
parallelo.
Ero stato certo che in pista avesse finto. Fare il tifo per Jason,
comportarsi in modo eccitato per la vittoria: doveva essere stata una finta.
Le era stato detto di sottomettersi a noi e di pensare al nostro piacere,
quindi quale modo migliore di farlo che fingendosi presa dalle nostre
vittorie?
Ma ora… ora non sapevo più se crederci.
Attraversammo Wickeston Heights a tutta velocità, rallentando solo
quando raggiungemmo il cancello, nel tentativo di sembrare disinvolti
mentre passavamo di nuovo davanti alla guardiola. Ma quella vecchia
guardia non si prese nemmeno la briga di alzare lo sguardo quando il
cancello di uscita si aprì per noi e fummo liberi.
«Non avete paura che sporgano denuncia?» chiese Jess. «Voglio dire, il
padre di Nate è un poliziotto…»
«Se loro denunciano noi, noi denunceremo loro,» affermò Jason. «E
abbiamo molte altre prove contro di loro, oltre a quello che hanno fatto
alle auto. Se Nate vuole andare a piangere da papà, è meglio che sia
pronto a spiegare tutte le droghe che ha comprato da Vincent nel corso
degli anni.»
Vincent ridacchiò dal posto di guida. «Ci sono dei vantaggi nell’essere
lo spacciatore di tutti. Materiale di ricatto di prim’ordine.»
«Se vogliono che le cose si mettano male, io posso rendergliele un
fottuto inferno,» proseguì Jason, con un sorrisetto cupo. Questo era
l’unico motivo per cui eravamo riusciti a essere così audaci. Coinvolgere la
polizia sarebbe stato un danno per tutti, ma se era questo che volevano,
potevamo fare di peggio che mandare a puttane le loro auto.
«Abbiamo con noi molte munizioni che non sono bloccate,» fece notare
Manson mentre guidavamo. «Dovremmo andare alla Crookston. C’è
ancora abbastanza luce.»
«Cos’è la Crookston?» Jess era seduta tra me e Jason e vibrava ancora
di energia. I suoi occhi verdi erano luminosi, la sua postura rigida, e
tamburellava rapidamente con le dita sulla spalla del sedile anteriore.
Qual era il suo problema? Cosa voleva? Perché lo stava facendo?
Perché continuava a fare questi giochetti?
«La Crookston High School,» replicò Jason. «L’intero edificio è
abbandonato da decenni. Lo usiamo per le partite di paintball.»
«Non mi dispiacerebbe fare un giro,» concordò Vincent. Il suo tono
cambiò quando lanciò a Jess uno sguardo malizioso nello specchietto
retrovisore. «E abbiamo abbastanza armi per tutti. Anche per te, Jess.»
«Davvero?» La sua voce uscì stridula, e pensai che avrebbe detto che
non era interessata. «Oh, certo che sì! Andiamo!»
Non avevo idea di cosa diavolo avesse in testa.
Continuammo a guidare e alla fine prendemmo una svolta per tornare
tra gli alberi. Il vecchio liceo non si vedeva più dalla strada: il suo cortile
era invaso dall’erba alta e dagli alberi cresciuti. Al crepuscolo, aveva un
aspetto particolarmente inquietante, con le finestre rotte e le porte
incatenate a metà dei loro cardini. L’intonaco bianco esterno era ormai di
un grigio squallido, con striature marroni che trapelavano dai telai delle
finestre come sangue secco.
«È stato abbandonato negli anni Settanta,» raccontò Vincent a Jess. Era
salita sul sedile accanto a me per avere una visuale migliore, mentre la
Bronco rimbalzava lungo la strada dissestata, con l’asfalto sconnesso e
crepato da anni di incuria. «L’affluenza era troppo bassa. L’hanno chiusa e
hanno lasciato tutto.»
Guardai di lato, giusto in tempo per vedere Jess distogliere lo sguardo
da me. Scesi per primo dal veicolo quando ci fermammo, spalancando la
portiera prima ancora che l’auto fosse parcheggiata.
«Sei pronta per un po’ di esplorazione urbana, giocattolino?» chiesi,
lasciando la portiera aperta in modo che Jess potesse scendere dietro di
me. Uscimmo tutti insieme, ci sgranchimmo le braccia e facemmo roteare
le spalle irrigidite.
Jess scrutò il vecchio edificio che si estendeva davanti a lei, mezzo
invaso da rampicanti. «Ha un aspetto piuttosto inquietante. È infestato?»
«Probabilmente,» rifletté Jason, e lei rise, dandogli un buffetto sulla
spalla. Il mio cipiglio si fece ancora più profondo.
«Tecnicamente è proprietà privata, ma nessuno si preoccupa di
controllare che non si intrufoli nessuno,» aggiunse Manson mentre apriva
il portellone della Bronco e tirava fuori le nostre pistole, lanciandone una
a ciascuno. Jess prese la sua senza indugio.
«Siamo tutti contro tutti?» chiese lei, guardando Jason e Vincent che
ricaricavano le loro pistole.
«Esatto. Giocatore contro giocatore,» confermò Jason.
«Ci sparpaglieremo per l’edificio,» disse Manson. «L’ultimo uomo che
resta in piedi senza vernice vince.»
«O ultima donna,» puntualizzò Jess, e io feci una risata bassa che la
portò a fissarmi con un’occhiataccia. «Cosa credi che ci sia di così
divertente?»
«Che tu pensi di avere una possibilità di vincere,» ribattei, appoggiando
la pistola sulla spalla. «O che tu creda davvero di stare in gara.
Onestamente, non riesco a decidere quale delle due cose sia più
divertente.»
Manson mi guardava con aria di sufficienza, ma ormai era troppo tardi.
Jess si avvicinò a me e mi conficcò l’unghia viola nel petto.
«Non solo giocherò e vincerò,» sibilò ferocemente, «ma ti farò fuori per
primo.»
«Oooh, verrà a darti la caccia, Lucas,» fece Vincent, e Jason ridacchiò.
Abbassai lo sguardo sulla donna minuta di fronte a me, con la pistola a
tracolla e l’anca armata di cartucce.
«Verrai di certo,» mormorai, e i suoi occhi lampeggiarono. «Ma non nel
modo in cui pensi tu.»
«Va bene, va bene, andiamo!» Manson batté forte le mani per far
riprendere a tutti la concentrazione. Jess e io ci scambiammo un’ultima
occhiata pungente prima di attraversare il vecchio parcheggio verso
l’edificio, e Manson le spiegò le nostre regole mentre camminavamo. «Se ti
colpiscono, sei fuori. Manda un messaggio al gruppo e aspetta alla
Bronco. La pianta dell’edificio è piuttosto semplice. È un quadrato con un
lungo corridoio al centro e due corridoi di fronte, su entrambi i piani.
L’integrità strutturale è abbastanza buona, ma fai attenzione. Oh, e fai
attenzione a eventuali occupanti abusivi.»
La visibilità si stava riducendo e la luce del giorno rimasta era appena
sufficiente per non avere bisogno di torce elettriche, purché fossimo
rimasti vicini alle finestre. Vincent mostrò a Jess come accendere la sua
torcia per ogni evenienza – tutti noi ne avevamo una attaccata ai nostri
mirini.
Riuscimmo a entrare dalla porta principale e ci infilammo nel corridoio
buio. Davanti a noi si estendevano file di armadietti e aule, con foglie,
sporcizia e detriti sparsi sul pavimento e ammassati negli angoli.
«Bene, impostate i vostri timer,» annunciò Manson, tirando fuori il suo
telefono, presto seguito dal resto di noi. «Cinque minuti per sparpagliarvi
e trovare una buona posizione per difendervi… o per iniziare la caccia.»
Sorrise, solo i suoi denti catturavano la luce. «Non hai ricaricato le
munizioni, Lucas, vuoi che aspettiamo?»
«No.» Mi incamminai e sfiorai la spalla di Jess. «A differenza di voi
stronzi, io so prendere la mira.»
Jess fece un sospiro acuto dietro di me, e con un tono sarcastico disse:
«Scommetto che ti serve solo una munizione per ciascuno di noi, vero? Sei
così bravo?»
Continuai a camminare. Quella mocciosa si sarebbe pentita di aver
cercato di provocarmi.
Chi diavolo credeva di essere? Dopo anni passati a guardarci dall’alto in
basso, la signorina Martin voleva improvvisamente giocare a fare la
delinquente. Voleva andare in giro con noi come se non ci avesse mai riso
in faccia, come se fosse sempre stata qui.
Dannazione, e io me l’ero cercata. Ero stato io a insistere perché venisse
con noi oggi, e per cosa? Perché speravo di vederla uscire di scena. Volevo
che ci mollasse, perché quello avrebbe dimostrato che avevo ragione. Ma
non lo aveva fatto. Non lo aveva fatto, anzi, era stata brillante. Aveva
sorriso e riso del fatto che Alex avesse avuto ciò che si meritava, ed era
venuta senza un minimo di esitazione.
Feci le scale a due alla volta, con gli stivali che scricchiolavano sui
vecchi vetri infranti. I graffiti coprivano le pareti della tromba delle scale,
la luce entrava dalle finestre rotte in mezzo a spazi angusti. Forse gli altri
avevano dimenticato in fretta chi fosse Jess, ma non io.
Non l’avrei mai dimenticato per nessun motivo al mondo. Avevo troppe
cicatrici per farlo.
Non capivo il senso del perdono. Dove diavolo ti portava? Al punto di
partenza: ingenuo e vulnerabile al ripetersi delle stesse cose. L’accordo
con Jess doveva essere un gioco, ma gli altri stavano diventando fin troppo
accoglienti. Dormire a casa sua, portarla in giro, allenarsi con lei?
No. Diavolo, no. Era così che saremmo stati fregati, era così che
Manson sarebbe finito con il cuore spezzato ancora una volta. Era così che
io…
Merda. Era così che mi sarei messo nei guai. Provando questi stupidi
sentimenti teneri per lei. Sentendomi orgoglioso di lei. Sentendo di volerla
baciare ogni dannata volta che la vedevo, o che la facevo ridere, o che la
vedevo sorridere.
Maledizione.
Mi infilai in un’aula e controllai il timer. Mancava poco meno di un
minuto. Mi misi vicino alla finestra e scrutai il cortile sottostante,
scorgendo Vincent che si faceva strada di soppiatto oltre alcuni tavoli
arrugginiti della mensa. Alzai la pistola e puntai su di lui. Era sicuramente
un gesto criticabile prendere la mira prima che il tempo a nostra
disposizione fosse scaduto, ma non aveva importanza. Non avrebbe
dovuto stare all’aperto.
Mi vibrò il telefono in tasca quando il scadde il tempo e strinsi il dito
sul grilletto.
Un suono proveniente dal corridoio mi fece bloccare, come il rumore di
una lattina di alluminio presa a calci. Spostai immediatamente la mira
verso l’ingresso, accovacciandomi dietro una scrivania. Rallentai il respiro
e rimasi in ascolto, con il dito teso pronto a sparare. Forza… spingi la
porta…
Ci fu un tonfo, un passo leggero… poi niente. Da giù nel cortile, sentii
qualcuno sparare una, due, tre volte. Ma non c’era nessun grido di
sgomento che mi dicesse che qualcuno era stato fatto fuori, e sgranai gli
occhi nel rialzarmi lentamente.
Dicevo sul serio quando sostenevo di avere una mira migliore di tutti
loro.
Spalancai la porta e tornai nel corridoio, dove spostai lo sguardo da un
capo all’altro. Poteva darsi che fosse solo una bestiola che si aggirava, ma
rimasi al riparo, scrutando con attenzione l’aula successiva. Niente, ma
sentii un lieve sentore di un profumo familiare: fragola e vaniglia. Quella
piccola annusata mi fece salivare e continuai a camminare, accelerando i
miei passi.
Dove diavolo era?
La parte migliore del mio cervello mi disse che mi stavo comportando
come un bambino. Far fuori Jess in quel gioco non avrebbe dimostrato un
cazzo, non avrebbe fermato quello che stava accadendo. Non avrebbe
fermato il modo in cui gli altri la guardavano e non avrebbe cambiato il
modo in cui mi sentivo. Manson diceva che avevo bisogno di uno sfogo, di
un modo per scaricare la mia frustrazione. Beh, era esattamente quello che
stavo facendo.
Sfogare una fottuta frustrazione.
Ma Jess era più intelligente di quanto pensassi. Quando passai davanti a
una fila di armadietti, mi fermai di nuovo, di fronte a una scala
incombente su entrambi i lati. I miei occhi si restrinsero, abbassai l’arma.
Era così stranamente silenzioso che avrei potuto sentire un ago cadere.
All’improvviso, con un’esplosione di palline piene di vernice, Jess uscì
da uno degli armadietti. Mi colpirono al petto, schizzandomi la vernice
rosa caldo sulla spalla e sul braccio destro. Mi irrigidii così tanto che per
poco non persi l’equilibrio, inciampando all’indietro mentre la fissavo
incredulo.
«Aaaaaah! Sì!» Jess saltellò sulle punte dei piedi, dimenando le mani,
mentre io la fissavo con occhi spalancati. Sorrideva a trentadue denti, e
continuava la sua danza della vittoria. «Te l’avevo detto che ti avrei
fregato!»
Strinsi le mani attorno alla pistola. Non era possibile… non era
possibile che lei…
«Ehi! Ehi, aspetta un attimo, sei fuori!» Lei indietreggiò quando io
avanzai, interrompendo i festeggiamenti per la sua vittoria. I miei occhi
erano sempre più assottigliati, concentrati su quel viso lentigginoso il cui
compiacimento si stava rapidamente trasformando in preoccupazione. «Ti
ho sparato, Lucas! Stai barando!»
Quasi inciampò sui detriti nello sgattaiolare nella prima aula alla sua
sinistra. Entrai dopo di lei, subito accolto da un altro proiettile di vernice
dritta al petto. Dannazione, quella avrebbe lasciato un livido. Gridò
quando presi la mira e schivò per un pelo la palla di vernice che esplose
contro il muro accanto a lei.
«Perché… non… vuoi… andare… giù?» Sparava a ogni parola, ogni
palla mi colpiva in pieno petto, ma io continuavo a camminare. I suoi
occhi si sgranavano a ogni mio passo in più, man mano che si rendeva
conto e non sapeva decidersi se lottare o fuggire.
Non poteva vincere. Non contro di me.
Balzò via quando mi avventai su di lei, e tornò fuori dall’aula con un
salto, presto seguita da me. Presi di nuovo la mira e la mancai.
Dannazione. Scese a metà della scala e poi saltò, atterrando accovacciata
prima di continuare a correre. Perché cazzo era così veloce? Mi facevano
male i polmoni mentre la inseguivo a tutta velocità lungo il buio corridoio
sottostante e poi attraverso le porte aperte del cortile.
Jess continuava a guardarsi alle spalle, con gli occhi spalancati e il
fiatone. Dio, quell’espressione sul suo viso mi faceva venire voglia di
afferrarla, di scavare con le dita nella sua pelle, di sentirla contorcersi e di
lottare contro di me. Vidi Jason che sbirciava da una delle finestre in alto e
lo sentii sparare, ma entrambi stavamo correndo troppo velocemente per
essere colpiti.
Jess irruppe dalle porte sul lato opposto del cortile e fummo di nuovo
dentro. Virò così in fretta che io sbandai sul pavimento e mi appoggiai agli
armadietti sul muro, quindi lei si voltò verso di me.
Il suo viso era rosso, i suoi capelli selvaggi, il petto ansante. Mi sentivo
come se avessi corso una dannata maratona. Boccheggiavo in cerca di aria,
e la fissavo ancora con gli occhi stretti in due fessure.
«Arrenditi», mi intimò, prendendo di nuovo la mira. «Ho un sacco di
munizioni in più e non mi hai colpito nemmeno una volta, perdente!»
Perdente. Oh… oh, ora l’aveva fatto.
Sparai e la colpii alla spalla. Lei urlò, stringendosi nel punto in cui era
stata colpita, e io ne approfittai. La palla di vernice successiva la colpì al
petto, quella dopo alla coscia e lei urlò, imprecando furiosamente contro
di me.
«Fa male, cazzo, stronzo!» Si infilò in un’aula e si accovacciò dietro il
grande banco davanti alla lavagna. Avevo comunque finito le munizioni.
Tirai la cinghia della mia pistola, finché non fu appoggiata alla mia
schiena, in modo che non mi desse impaccio, prima di andare a prenderla.
La piccola bambina viziata stava ancora lottando. Aveva il dito sul
grilletto e iniziò a sparare nel momento in cui mi avvicinai alla scrivania.
Le munizioni di vernice a distanza ravvicinata facevano un male cane, ma
non mi importava. Il dolore mi fece diventare il cazzo duro e
improvvisamente non me ne fregò niente di vincere o perdere questa
stupida partita. Mi interessava rimettere Jessica al proprio posto.
La disarmai, bloccandola a terra e strappandole la pistola dalle mani.
Spinsi via l’arma, facendola sfrecciare sul pavimento prima che riuscisse
ad afferrarla di nuovo. Era così dannatamente sfuggente che rischiò di
scapparmi, ma la trascinai in piedi e la tenni contro di me, con la mano
stretta intorno alla gola.
«Stai imbrogliando, cazzo!» ringhiò furiosa. Il modo in cui si dimenava
e strofinava il suo culo sul mio cazzo mi fece strusciare contro di lei.
Ringhiò di nuovo quando sentì che lo facevo, e sbottò: «Dio, sei proprio
un pervertito, Lucas! Sei un malato!»
Ogni parola furiosa mi spronava. Lottò con tutte le sue forze,
riversando tutta la sua furia, ma avrebbe potuto semplicemente
pronunciare la sua parola di sicurezza e scappare. Avrebbe potuto, ma
non lo fece.
«Chiama il rosso, Jess,» le sussurrai con voce rotta, mentre faticavo per
tenerla ferma. Stava combattendo con impeto, ma se non fossi stato
attento l’avrei ferita, e non volevo farlo. «Basta, adesso. Arrenditi.»
Rise, un suono beffardo e maniacale. «Arrendermi? Oh sì, scommetto
che vorresti che mi arrendessi.» Lo fece di nuovo: strusciò il culo contro
di me. Adesso lo stava facendo di proposito. «Hai perso! Ti ho fatto fuori,
proprio come avevo detto che avrei fatto.»
Per poco non si svincolò dalla mia presa, ma io la riafferrai. La
schiacciai contro il muro, bloccandola per la gola. Non c’era altro che
sfida nei suoi occhi mentre mi guardava, i nostri corpi erano così vicini
che potevo sentire il suo petto alzarsi e abbassarsi a ogni respiro.
«Perché cazzo non vuoi usare quella parola?» chiesi. «Perché non
smetti di provarci? Non vincerai.»
Le labbra le lasciarono scoperti i denti. «Ho già vinto e tu hai barato!
Tu… dannazione!» Appoggiò la testa contro il muro, gli occhi chiusi per
un attimo mentre affannava. «Perché non lo ammetti? Ti ho beccato.
Perché non… io vorrei…»
Riaprì gli occhi. Quelle iridi verdi si fissarono nelle mie, piene di
confusione e di sincerità… e di qualcosa di così strano che non osai
pronunciare una parola.
«Vorresti cosa?» domandai. «Che giocassi pulito? Perché io non gioco
così, tesoro.»
Stava ancora spingendo contro di me, ma sapevo che stava per esaurire
le forze, e le sue braccia cominciavano a tremare. Grazie a Dio, perché
non sapevo quante energie mi rimanessero per cercare di opporle
resistenza.
«Vorrei che non mi odiassi,» sibilò, e mi sembrò che tutto il mio mondo
si fosse fermato.
«Odiarti?» feci io. «Pensi… pensi che io ti odi?»
Le sue unghie mi scavarono nei polsi e annuì. Sembrava così arrabbiata,
così… ferita. Cazzo.
Spostai la mano dalla gola al mento. Jess era di una forza stupefacente.
Ogni volta che la spostavo, dovevo lottare. Eravamo così vicini da
respirare la stessa aria e non volevo che ci fosse più distanza di quella tra
noi.
«Vorrei odiarti,» ammisi. Il suo viso si tese, si irrigidì, si contorse per la
confusione. «Sarebbe tutto molto più facile se ti odiassi.»
Ci fu un lungo momento in cui ci limitammo a guardarci. I suoi occhi
vagavano sul mio viso, incerti, increduli.
«Non lo fai?» domandò a voce bassa, e le sue parole tremarono, come
se la risposta significasse tutto per lei. Ma perché avrebbe dovuto? Perché
avrebbe dovuto importarle? Io ero un fottuto perdente e lei era…
Non avrei saputo dire con certezza chi di noi due si fosse lanciato per
primo nel bacio. Mi abbrancò, usando tutta la sua forza per tirarmi più
vicino, ma io stavo già premendo contro di lei come se potessi fondermi
con lei. Il suo bacio fu selvaggio, quasi rabbioso, mi graffiava le braccia
con le unghie. Mi mordeva il labbro. La schiacciai contro il muro finché
non gemette.
Ma quel gemito mi spezzò. Dio, non ne avevo mai abbastanza. Non
riuscivo a respirare senza di lei. Le sfilai la maglietta sopra la testa e lei
raggiunse il bottone dei miei jeans, riuscendo infine ad aprirlo e a
stringere la mia erezione.
C’erano ancora file di banchi in quella vecchia aula e spinsi Jess su uno
di essi. Piegata su sé stessa, con le gambe divaricate, mi avvolsi la sua coda
di cavallo intorno alla mano e la tenni lì, dando un forte schiaffo sul suo
bel culo rotondo.
«Dannazione, Lucas…» mugolò mentre le abbassavo i pantaloni. Sotto
indossava un perizoma e mi fermai per un attimo quando notai il taglio
sulla natica destra.
Il nome di Manson era inciso sulla sua pelle. Mi provocò un brivido di
piacere vedere il modo in cui il mio uomo l’aveva già reclamata, e passai le
dita sui tagli, prima di abbassarmi frettolosamente i boxer.

È
«È a questo che pensavi?» chiese senza fiato. Scommetto che stava
cercando di sembrare ammiccante, ma le sue parole risultarono disperate.
«Quando ti sedevi dietro di me a biologia, era per questo che mi fissavi
continuamente?»
«Certo che sì.» Affondai dentro di lei, la sua fica era deliziosamente
umida e calda mentre si avviluppava intorno a me. Parte del motivo per
cui ero stato bocciato a quel corso - oltre al fatto che non mi interessava -
era che non riuscivo a smettere di fissare la sua testa, fantasticando su di
lei, immaginando quell’espressione ostinata sul suo viso che si sgretolava
fino ad assumere i tratti che aveva adesso.
Piena di desiderio, disperata per il bisogno, che mi guardava come se
fossi l’unico modo per ottenere ciò che desiderava così accanitamente.
La sbattei, la scrivania scricchiolava sul vecchio pavimento mentre la
prendevo con forza. «Ci ho pensato tante volte, Jess.» Sibilai quelle parole
fra i denti mentre lei pulsava intorno a me. «Volevo piegarti davanti a tutta
la dannata classe.» Piagnucolò quando abbassai la voce e le dissi: «Sapevo
che sarebbero bastati pochi affondi e mi avresti implorato di averne
ancora.»
Rimase a bocca aperta, a gridare il mio nome. Feci pressione sulla parte
bassa della sua schiena, facendola inarcare verso di me. Le sue cosce
tremavano, si contraeva così maledettamente bene intorno a me, ogni
spinta violenta suscitava un gemito da parte sua.
Gridò di nuovo quando venne, stringendomi così forte che mi tremolò
la vista. La graffiai con le unghie lungo la spina dorsale e mi accasciai su di
lei come una bestia mentre le venivo dentro.
«È questo che mi hai fatto, cazzo,» le ringhiai all’orecchio, mentre
premevo il più a fondo possibile. Volevo che ogni goccia del mio sperma
fosse dentro di lei. Volevo che ne sentisse il calore per il resto della notte.
«Non sono bravo a lasciar andare le cose che voglio, e tu… ti ho
desiderata per così tanto tempo.»
Alla fine, rimasi immobile. Eravamo entrambi a corto di fiato. Il mio
cuore batteva così forte che ero sorpreso che non fosse scoppiato. La tirai
su e contro di me, prima di accasciarmi senza forza contro il muro,
portandola giù con me. Si sedette sulle mie ginocchia, col mio cazzo
ancora dentro di lei, e si appoggiò al mio petto con le gambe che ancora le
si contraevano.
«Hai vinto,» dichiarai infine, quando ebbi abbastanza aria nei polmoni.
«Hai vinto, piccola viziata. Sei contenta?»
Avrei potuto giurare che i movimenti che fece volessero essere un’altra
danza della vittoria. «Sì, sono felice, Lucas.»
Questa affermazione non avrebbe dovuto farmi sentire così bene. Come
se avessi fatto qualcosa di giusto, come se la sua felicità fosse una stella
d’oro e io avessi vinto il primo premio. Dannazione, ero patetico.
Innamorarmi di una donna che avrei dovuto detestare, nutrire pensieri di
una vita felice insieme e immaginare letti abbastanza grandi per tutti noi.
Non ero così ingenuo, eppure… a quanto pareva, lo ero. Ero fottuto
come tutti gli altri.
Ma poi Jess si girò sulle mie ginocchia. Mi sfilai da lei, ma lei rimase a
cavalcioni su di me, petto contro petto, con le dita che mi accarezzavano
le labbra mentre mi guardava negli occhi.
«Nemmeno io ti odio, Lucas» ammise. «Anche quando mi irriti, o mi
guardi male, o imbrogli ai giochi…» Mi baciò, e fu molto più lento e
delicato di qualsiasi altro bacio mi fosse mai stato dato. Fece sciogliere il
mio corpo in un modo a cui non ero abituato.
Mi piaceva. Molto, moltissimo.
«Beh, sono felice di vedere che non vi siete uccisi a vicenda.»
Entrambi alzammo lo sguardo. Manson era in piedi sulla porta, con la
sua pistola da paintball appoggiata sulla spalla. La testa di Vincent spuntò
dietro di lui e io intravidi un lampo di capelli azzurri nel corridoio.
«In effetti sono ferita a morte,» ribatté Jess con fare teatrale, indicando
gli schizzi di vernice sui suoi vestiti. Non me la sentivo ancora di alzarmi;
avevo bisogno di un altro paio di minuti prima che le mie gambe fossero
disposte a lavorare.
«È stato un bagno di sangue,» confermai, appoggiando la testa al muro
e stringendo la mia presa sulla sua vita.
«Non dirmi che ti ha preso.» Vincent sogghignò. Alla fine, trovai la
forza di alzarmi, aiutando Jess a farlo con me. Ci sistemammo i vestiti e i
ragazzi ebbero modo di vedere quanti schizzi di vernice avessi sul petto.
«Cazzo, non stavi scherzando.» Jason mi girò intorno, annuendo con la
testa. «Niente male, principessa.»
Jess fece un sorriso raggiante, sembrava orgogliosa di sé. Quando mi
guardò di nuovo, sfoggiai un cipiglio per nascondere il mio ghigno.
«Non abituartici,» borbottai. «Sei stata fortunata.» Lei si limitò a
sollevare il mento, sorridendo.
«Allora, chi ha vinto?» chiese Jason.
Manson alzò la mano con un sorrisetto. «Nessuno mi ha beccato.»
Ma io scossi la testa. Odiavo ammettere la sconfitta, davvero. Ma Jess
aveva giocato pulito e io no. «Ho colpito Jess solo dopo che lei mi aveva
sparato più volte. Non è mai stata eliminata.»
«Allora siamo pari,» stabilì Manson, mettendosi a tracolla la cinghia
della pistola. «Siete tutti pronti a tornare a casa? Io sto morendo di fame.»
«Prendiamo una pizza sulla strada del ritorno,» propose Vincent
mentre noi cinque uscivamo dall’aula e ci dirigevamo verso la scuola.
«Oh, aspetta, no, ali di pollo… o forse hamburger… o tutti e tre?»
Jess rise dolcemente della sua indecisione. Camminavamo vicini, le
nostre braccia si strusciavano. Le passai un braccio intorno al fianco,
cingendole la vita e tirandola più vicino a me.
«Lo ammetto,» mormorai, «sei una tiratrice maledettamente brava.»
Jess sorrise e si appoggiò al mio fianco. Il caos nel mio cervello si era
calmato, ma invece di lasciarmi confuso e irritabile come di solito
accadeva, mi sentivo bene. Appagato.
Mi sentivo felice.
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47
Vincent
«I drink sono pronti, stronzi!»
Aprii la porta sul retro con un piede, con le braccia piene di bicchieri
mentre uscivo nel cortile. Le scintille si levavano nell’oscurità mentre
Lucas gettava altra legna nel fuoco e l’aria notturna era impregnata del
ricco profumo del fumo. Ci eravamo spinti fino alla pizzeria più vicina ed
eravamo tornati a casa nostra con tre grandi pizze e una porzione di alette
di pollo. Fuori era bello fresco, così avevamo deciso di accendere il fuoco
e di mangiare in giardino, con le nostre sedie pieghevoli disposte in
cerchio intorno al falò.
«Per la signora,» dissi, porgendo un drink a Jess, appollaiata con i piedi
sulla sedia.
«Oh, ora sono una signora, eh?» replicò lei.
Manson si avvicinò al suo fianco e le diede una carezza sul viso. «Hai
ancora il titolo ufficiale di ‘giocattolino’. Ma devo dire che sentirti ridere
come Joker quando la macchina di Alex ha fatto cilecca è stato uno dei
suoni più sexy che avessi mai udito. Ti sei guadagnata l’onore di essere la
‘signora’ Giocattolino.»
Jason ridacchiò. «È una posizione piuttosto importante.»
Jess scosse la testa, alzando vistosamente gli occhi. «Dio, siete tutti
terribili.»
«E a te piace,» replicai, alzando il bicchiere in un brindisi. «Signori - e
signora Giocattolino - propongo un brindisi. Al povero bastardo che
dovrà cercare di riparare la Hellcat di Alex.»
Risero e bevvero. Jess bevve un lungo sorso, allargando gli occhi prima
di deglutire.
«Accidenti, è buono,» commentò. Mi guardò, annuendo come se fosse
impressionata. «Quindi sai fare di più che raccontare barzellette atroci.»
«Le mie barzellette sono fantastiche,» controbattei, prendendo posto.
«Non è colpa mia se non capisci le freddure di alto livello.»
«Davvero il più elevato,» rispose Jason, ridendo quando mi avvicinai
per dargli uno schiaffo sul braccio.
«Sono attorniato da bambini viziati,» dissi. «Onestamente, cosa ho fatto
per meritarmi di essere circondato da ragazzi come voi?»
«Non so che cazzo farci neanche io,» aggiunse Lucas, scuotendo la testa
come se fosse disgustato. Ma colsi la malizia nel suo sguardo quando lo
puntò su Jess. «Puoi inseguire una bambina viziata con una pistola e
comunque non si sottometterà.»
Jess gli fece la linguaccia dall’altro lato del falò. Ci avventammo sul
cibo, tenendo piatti e tovaglioli di carta sulle ginocchia. Jojo venne a
chiedere l’elemosina, naturalmente, appoggiando la testa sulle ginocchia
di Manson con il miglior sguardo da cucciolotta che le riuscisse.
«Tu sei un barman, vero?» chiese Jess, guardandomi tra un boccone e
l’altro di pizza. Sollevò il bicchiere e bevve un altro sorso. «È chiaro che
sai fare un buon cocktail.»
«Sì. Al Tris,» risposi. «È un locale di Memphis. Non posso dire che mi
piaccia guidare un’ora per arrivarci, ma le mance sono buone.»
«Che tipo di locale è? Non riesco proprio a immaginarti mentre servi da
bere in un locale con musica scadente.»
«Mi piacciono un po’ tutti i tipi di musica,» riflettei. «Ma non è un
country club, no. Suonano molta elettronica e ogni tanto fanno uno
spettacolo metal. Il Tris è un locale un po’ insolito. Non è esattamente un
club BDSM, ma lavora con le comunità kink e LGBTQ locali. A volte
organizzano ritrovi speciali, ma per lo più si tratta di un posto divertente
dove ascoltare musica. E ovviamente la selezione di drink è eccellente.»
Jess inclinò la testa incuriosita. «Ritrovi speciali? Che cosa vuol dire?»
«Sono incontri per le persone interessate al BDSM,» chiarì Manson.
«Un modo per incrociare la comunità locale e le persone che la pensano
allo stesso modo. Il primo pranzo a cui io e Vince siamo andati è stato al
Tris.» Rise sommessamente e capii, ancor prima che lo dicesse, che stava
pensando a quanto fosse stato imbarazzante quel primo incontro. «Noi ci
siamo presentati con un atteggiamento dannatamente presuntuoso. Al Tris
dovrebbero entrare solo persone con più di ventun anni, ma noi ne
avevamo diciotto e siamo entrati con l’imbroglio. Credo che non ci sia
cascato nessuno.»
«Ci guardavano tutti come se fossimo dei ragazzini,» feci io. Il ricordo
mi faceva ancora rabbrividire, e io non ero uno che si imbarazzava
facilmente. «Pensavamo di essere dei fighi, dei cattivoni dominatori.»
«Ci hanno messo in riga molto alla svelta,» raccontò Manson. «La
donna che gestisce i pranzi ci ha presi da parte e ci ha avvertiti di
comportarci bene, o non avremmo più messo piede lì. Sapeva che
volevamo davvero imparare, ma dovevamo essere un po’ più umili. Non
potevamo definirci dominanti solo perché ci andava di farlo.»
La padrona Rachel e suo marito Mark ci avevano messi sulla strada
giusta. Era stata una fortuna avere qualcuno che ci facesse notare le nostre
cattive abitudini in anticipo, prima di essere troppo coinvolti nella scena.
Qualcuno avrebbe potuto farsi male, se avessimo continuato a pensare che
per legare qualcuno o brandire una frusta fosse sufficiente il desiderio di
farlo. Ci vuole molta più responsabilità che semplice desiderio.
«Ti ci porteremo qualche volta,» proposi, e Jess sorrise eccitata.
Sembrava che si trovasse a suo agio in un locale, a ballare sotto le luci al
neon. «Penso che ti piacerebbe.»
«Adoro andare a ballare,» confermò. «Credo di aver girato tutti i locali
di Nashville durante il college.» Spostò lo sguardo tra di noi, riflettendo
con gli occhi leggermente assottigliati. «Chi di voi è il miglior ballerino?»
Poi soffermò lo sguardo su Lucas, la cui espressione fu di totale
sgomento.
«Io? Pensi che sia io?» rispose lui, passandosi nervosamente la mano
sulla nuca. «Non so ballare affatto.»
«Ci hai mai provato?» domandò lei, e lui scosse di nuovo la testa con
veemenza.
Manson lo guardava ridacchiando. «La cosa più simile alla danza che sa
fare è buttarsi in mezzo alle risse nei concerti.»
«Come se tu fossi migliore,» commentò Lucas.
Manson alzò innocentemente le mani. «Non ho detto di essere migliore,
credimi. Gongolo nelle risse dei concerti insieme a te. Mi dispiace, Jess,
nemmeno io sono bravo.»
«Non avete mai provato,» sancì lei. «Vi porteremo entrambi sulla pista
da ballo quando andremo al Tris.»
Non aveva detto ‘se’ fossimo andati al Tris, ma ‘quando’. Lanciai una
rapida occhiata a Jason e, quando ricambiò lo sguardo, capii che l’aveva
colto anche lui.
«E tu, Jason?» domandò Jess, e lui le rivolse un sorriso presuntuoso,
dopo aver sorseggiato il suo drink.
«Sono il miglior ballerino di tutti,» affermò, e nessuno di noi lo negò.
«E in realtà mi piace.»
Jess rivolse lo sguardo a me e io scossi rapidamente la testa. «No, non
io. Sono un musicista, non un ballerino.»
«Oh, un musicista?» Jess si appoggiò allo schienale per la sorpresa. «Un
altro tuo talento nascosto?»
«Ne sono pieno.» Le feci un occhiolino, mentre mi alzavo dalla sedia.
«Dammi un minuto.»
Tornai dentro e salii in soffitta, recuperando Miss Daisy dalla sua
custodia e portandola fuori. Jess rimase a bocca aperta quando tornai.
«Oh, mio Dio, è un violino?» esclamò.
«Questa è Miss Daisy,» annunciai, tendendo lo strumento in modo che
potesse vederlo. «Fa parte della famiglia da un po’ di tempo, come puoi
vedere…» Indicai tutti i piccoli disegni e gli adesivi sulla cassa inferiore,
comprese delle semplici margherite disegnate con un pennarello. «Mia
sorella, Mary, l’ha preso in mano quando eravamo piccoli e ha lasciato il
suo segno. Penso che gli aggiunga carattere.»
«Non avevo idea che tu sapessi suonare,» ammise lei.
«In quale altro modo pensi che abbia sedotto questo affascinante
signore?» risposi facendo un cenno a Jason, tornando a sedermi. «Gli ho
suonato la canzone del mio popolo e lui non ha saputo resistermi.» Jason
quasi si strozzò con il suo drink, balbettando mentre cercava di fermare le
sue risate.
«La canzone del tuo popolo?» Jess inarcò un sopracciglio verso di me.
«E quale sarebbe, esattamente?»
Alzai la mano, chiedendo un perfetto silenzio. Infilai lo strumento sotto
il mento, posizionai le dita, sollevai l’archetto e… cominciai a suonare il
tema di Benny Hill.
Scoppiarono tutti a ridere. Ma non era l’unica canzone del mio
repertorio. Passai alla Charlie Daniels Band e Jess si alzò dalla sedia,
tenendo il suo drink in una mano mentre ballava intorno al fuoco. Tirò
Manson dalla sedia e lui le fece fare una piroetta prima di prenderla in
braccio. Jason batteva le mani mentre ballavano e persino Lucas aveva un
sorriso fisso sul volto nel guardarli.
Le serate in cui potevamo lasciarci andare e godere della reciproca
compagnia erano troppo poche e diradate. Ma Jess ci aveva fatti uscire
tutti dalla nostra testa. Ci aveva fatti adattare alla nostra realtà e provare
qualcosa di nuovo. Era persino riuscita a far alzare Lucas dal suo posto
per un ballo, anche se per poco.
Infine, Jess cadde sulle ginocchia di Jason, ridendo come un’ubriaca,
con la testa appoggiata sulla sua spalla. Cambiai di nuovo e rallentai il
ritmo, fino a optare per qualcosa di calmo e tranquillo. Questa era una
delle cose che mi piacevano di più della musica: il modo in cui riusciva a
suscitare le emozioni delle persone e a cambiare l’umore con poche note.
Tra il mio lento movimento sulle corde, il fuoco scoppiettante e l’alcol,
capii che tutti stavano cominciando a stancarsi.
Quando il fuoco si spense, Jess sbadigliò e si stiracchiò tra le braccia di
Jason.
«Penso che sia un segnale, ragazzi,» dichiarò Jason, aiutando Jess ad
alzarsi con un braccio intorno alla vita. «Probabilmente è ora di metterci
sotto le coperte.»
Manson annuì, si alzò a sua volta dalla sedia e si fermò a stiracchiarsi.
Lucas sotterrò gli ultimi tizzoni ardenti e Jess sbatté le palpebre verso di
me assonnata, con la testa reclinata sul petto di Jason.
«Stanotte dormirai qui con noi,» affermai, chinandomi a baciare le sue
labbra morbide e poi quelle di Jason. Sembrava così a suo agio tra le sue
braccia, e soffocò uno sbadiglio dietro la mano. Manson si avvicinò a lei,
le prese la mano mentre lei la stava abbassando e le baciò le nocche. Jess
sorrise e si avviò su per i gradini sul retro canticchiando un motivetto
stupido.
Poi Lucas si fiondò dietro di lei, afferrandola tra Manson e Jason e
prendendola tra le braccia. Lei ebbe un sussulto, spalancò gli occhi e lo
guardò.
«Non ho intenzione di guardarti inciampare e cadere di faccia mentre
cerchi di salire al piano di sopra,» la informò. «Ti porto a letto io.»
«Il mio letto è il più grande,» feci notare a Lucas, mentre Manson
apriva la porta per portare Jess dentro. «Possono infilarcisi dentro tutti.»
«Mi farò una bella sudata con tutti voi stronzi,» si lagnò Jason, ma era
un amante delle coccole e non ci avrebbe rinunciato.
Ci volle un po’ perché tutti si facessero la doccia e si mettessero a letto,
ognuno con indosso cose diverse. Jess era avvolta in una delle mie
magliette e, per capire quale fosse il suo posto in questa festa delle
coccole, ci vollero altri dieci minuti di spostamenti e imprecazioni
reciproche. Alla fine, trovammo una sistemazione, con Jess tra Manson e
Jason, e Lucas e io ai lati.
«Questa volta è meglio che non mi prendi a calci nel sonno,» brontolò
Lucas, anche se avvolse le braccia intorno al petto di Manson e appoggiò
la testa contro la sua schiena. Spingemmo via le coperte, il calore dei
nostri corpi uniti era più che sufficiente a tenerci caldi. Ero sempre stato
un nottambulo ed ero abituato a stare sveglio fino a tardi, ma anche se
non ero stanco, non volevo perdere l’occasione di accoccolarmi a letto. Mi
mancava troppo nelle notti in cui dormivo fuori.
Jason sospirò contro di me e io abbassai lo sguardo per scoprire che si
stava già addormentando. Di solito si girava e rigirava per ore. Ma il
braccio di Jess era gettato sulla sua schiena, le sue lunghe unghie
tracciavano lentamente cerchi rilassanti sulla sua pelle.
Ben presto fui l’ultimo a rimanere sveglio. Ma una parte di me sentiva
che valeva la pena di restare sveglio solo per vederci tutti così vicini.
Dopo tutto quello che era successo nelle ultime settimane, era bello
sentirsi in pace.
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48
Jessica
Quando aprii gli occhi la mattina dopo, sbattendo lentamente le palpebre
sotto la luce dorata della finestra, capii subito che non ero ancora pronta
ad alzarmi. Ero troppo comoda, troppo a mio agio. Le mie gambe erano
intrecciate con quelle di Jason, il mio braccio era appoggiato sul suo
fianco e sul petto di Vincent. Manson era contro la mia schiena, così chiusi
gli occhi e mi accoccolai nei cuscini, appisolandomi di nuovo fino a
quando il bisogno di andare in bagno mi spinse ad alzarmi.
Scivolando silenziosamente fuori dal letto, notai che Lucas se n’era già
andato. Non ero sicura di chi fosse la maglietta oversize che indossavo,
così me la tirai sul naso e inspirai profondamente: Vincent. Una miscela
agrodolce di marijuana e agrumi che mi lasciò un sorriso sul viso mentre
uscivo dalla soffitta.
«Buongiorno, Jojo,» la salutai alla base della scala della soffitta, dove
era distesa sul pavimento. Scodinzolò pigramente mentre le accarezzavo il
fianco, emettendo un piccolo sospiro di sonnolenta soddisfazione.
Finii in bagno e mi sentii un po’ più sveglia dopo essermi lavata il viso e
aver districato un po’ di nodi dai capelli. Il profumo del caffè appena fatto
aleggiava per la casa, invitandomi a scendere al piano di sotto e ad andare
in cucina.
Lucas era in piedi davanti al bancone e stava versando nella sua tazza il
caffè da un bricco pieno. Era a torso nudo e scalzo, con indosso solo dei
pantaloni rossi e larghi della tuta. Dio, quanto era sexy. Tutte le ore di
lavoro in officina avevano affinato i suoi muscoli e reso ruvide le sue
grandi mani. Ma il suo viso sembrava più morbido al mattino, come se
non si fosse ancora assestato nel suo cipiglio permanente.
«Buongiorno!» esclamai, dopo essere rimasta in silenzio appoggiata allo
stipite della porta per alcuni istanti ad ammirarlo.
Mi lanciò un’occhiata da sopra la spalla. «Mi chiedevo quando avresti
detto qualcosa. Non sei così subdola, ragazza, ti ho sentita scendere le
scale. E poi che ci facevi lì dietro, mi stavi guardando il culo?»
Sghignazzai, andando a mettermi accanto a lui. «Può darsi. E se pure
fosse? Hai un bel culo.»
Mi guardò con le sopracciglia inarcate prima di voltare rapidamente la
testa verso gli armadietti. «Vuoi del caffè?» chiese, già tirando giù una
tazza per me.
«Con panna e zucchero, per favore.»
I miei occhi vagarono sulla sua schiena mentre lo preparava. Il suo
elaborato tatuaggio sulla schiena sembrava essere ancora in corso; i
contorni c’erano, ma le sfumature erano assenti. Ma i dettagli che già
conteneva erano stupefacenti. Il fulcro dell’opera era un grande albero, il
tronco seguiva la colonna vertebrale e i rami si estendevano sulle spalle.
«Cosa ha ispirato il tatuaggio sulla schiena?» chiesi quando si voltò con
entrambe le nostre tazze in mano. Mi porse la mia e ne bevvi un sorso, il
cui profumo e il cui sapore ricco mi risollevarono immediatamente
l’umore.
«Andiamo a sederci in veranda,» propose. «Non fa ancora troppo
caldo.»
L’aria del mattino era fresca e frizzante, ma il cielo azzurro mi diceva
che si sarebbe riscaldata rapidamente. Ci sedemmo all’ombra del portico;
io presi una vecchia sedia a dondolo che scricchiolava leggermente
quando mi dondolavo, mentre Lucas si sedette sulla panchina accanto a
me.
«Dove vivevo io, quando ero bambino, avevamo un grande albero in
giardino,» spiegò dopo alcuni istanti di silenzio. «Era vecchio e massiccio.
Aveva rami enormi e molti di essi erano non molto alti da terra, perciò era
facile arrampicarsi. Io e mio fratello costruivamo una specie di fortezze
assurde e pericolose tra i rami. Prendevamo letteralmente dei vecchi pezzi
di legno e delle lamiere e li ammassavamo tutti insieme, fissandoli con
corda e chiodi. Non era un granché come casa sull’albero, ma… amo quei
ricordi. Sono belli. Sto cercando di concentrarmi di più sul ricordo di ciò
che è stato bello, invece che su tutto il resto.» Sorseggiò il caffè, annuendo
lentamente. «Quindi è questo che ha ispirato il tatuaggio. I bei ricordi.»
«Non sapevo che avessi un fratello,» confessai. «Quando ti sei trasferito
qui, lui non…»
Lucas tenne gli occhi puntati davanti a sé, ma la sua mano stritolò la
panchina al suo fianco. «Non è venuto con noi quando ci siamo trasferiti,
e nemmeno mia madre. Solo io e papà, una coppia perfetta per l’inferno.»
Scosse la testa, espirando debolmente. «Papà mi ha portato con sé solo
per avere qualcun altro che lavorasse e portasse soldi a casa. Mamma non
riusciva a gestirmi, era troppo malata. È ancora nella stessa vecchia casa in
cui sono cresciuto. Le mando i soldi per la sua badante. Deve avere
qualcuno che la assista sette giorni su sette.»
Provai a immaginare mia madre che si lasciava assistere da qualcuno in
casa. Probabilmente avrebbe criticato ogni sua mossa, infastidita perché
nulla sarebbe stato all’altezza dei suoi standard.
«Tuo padre era una persona difficile?» chiesi, sapendo che
probabilmente era l’eufemismo dell’anno.
«Sì, era un pezzo di merda,» rispose Lucas senza mezzi termini. «Non
era il tipo di persona che credeva nel dialogo con i figli. O facevi quello
che ti diceva o ti costringeva. E io ero uno stronzetto difficile, così ho
passato la maggior parte della mia infanzia a farmi prendere a calci in culo
un giorno sì e l’altro pure.» Si fermò, poi si schiarì la gola. «Comunque, la
famiglia sembra essere più problematica di quanto valga nella maggior
parte dei casi. Manson è stato fottuto dai suoi, Jason è praticamente
sfuggito a una setta.» Mi lanciò un’occhiata. «Senza offesa, ma tua madre
sembra una santa in confronto.»
«Mia madre può essere molte cose. Credo che abbia a cuore i miei
interessi… forse.» Sospirai, sistemandomi sulla sedia a dondolo. «Vuole
tutto a modo suo, sempre. E se non è così… diamine, devi stare all’erta,
perché non ti darà mai tregua.»
«Fa fatica a cedere il controllo, crede di essere al centro del mondo…
perché mi suona familiare?»
«Ehi, occhio,» lo ammonii, allungando una gamba per dargli un
calcetto scherzoso. «Non ti mettere a paragonarmi a mia madre.»
Alzammo entrambi lo sguardo quando la porta si aprì. Manson, Vincent
e Jason uscirono, strizzando gli occhi alla luce del sole con le tazze di caffè
in mano.
«Buongiorno a tutti,» fece Vincent, buttandosi sulla panchina accanto a
Lucas e passando un braccio intorno alle sue spalle. Scosse Lucas tanto da
fargli quasi rovesciare il caffè, ma Vincent non sembrò accorgersene e
continuò a sorseggiare il proprio. «Bella giornata.»
«Farà un caldo torrido,» mormorò Jason, sedendosi sui gradini.
Manson si avvicinò alla mia sedia, prendendo con cura la mia tazza e
mettendola accanto alla sua sulla ringhiera, prima di accomodarsi accanto
a me. Mi tirò sulle sue ginocchia, sistemandomi, e poi prese di nuovo le
nostre tazze.
«Così va meglio,» disse. Mi passò un braccio intorno alla vita e
appoggiò la testa contro la mia, con la voce impastata dal sonno. «Mi sono
svegliato e tu non c’eri. Non ricordo di averti dato il permesso di lasciare
il letto.»
Ridacchiai. «Non potevi certo dare il permesso se stavi dormendo, no?»
Jojo abbaiò dall’interno della casa, e Jason improvvisamente trattenne il
fiato. Guardai Lucas alzarsi lentamente in piedi e, nello stesso momento,
l’intero corpo di Manson si irrigidì sotto di me.
C’era qualcuno in piedi davanti al cancello: un uomo alto e magro con i
capelli brizzolati. Il fumo di una sigaretta si arricciava lentamente nel cielo
sopra la sua testa.
«Oh, mio Dio…» Le mie parole uscirono in un sussurro incredulo.
«Quello è…»
Manson si alzò, portandomi con sé. Appena fui in piedi, mi si parò
davanti, bloccandomi fisicamente con il suo corpo. Vincent era sul bordo
della panchina, con la faccia truce. Lucas aveva i pugni stretti e stava lì a
squadrarlo, e anche Jason era in piedi.
«Lucas, porta Jess dentro.» La voce di Manson era dura, lo sguardo
fisso sull’uomo al cancello.
«Manson.» Lucas aveva la voce tesa. «Non credo che dovrei
andarmene…»
«Lucas, adesso.» La spietatezza nel tono di Manson mi sconvolse quasi
quanto l’espressione del suo volto quando si voltò. Non avevo mai visto
Manson con quell’espressione.
Terrorizzato. Completamente terrorizzato.
Lucas annuì, mi prese per mano e mi tirò via da dietro Manson.
«Andiamo. Stammi vicino.» Mantenne il suo corpo tra me e il cortile,
spingendomi verso la porta.
Stava ostruendo la mia vista. Mi stava nascondendo.
«Manson?» Cercai di raggiungerlo, con la paura che cominciava a
propagarsi dentro di me.
«Andrà tutto bene, Jess,» mi assicurò, ma il sorriso che mi offrì era
fiacco. «Non preoccuparti. Lucas…»
«La tengo io.» La voce di Lucas era ferma e la sua presa su di me
incrollabile, mentre apriva la porta d’ingresso e mi spingeva dentro,
davanti a lui.
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49
Manson
Mi dissi che non avevo più paura di mio padre. Vincent e Jason erano
dietro di me mentre attraversavo il cortile verso il cancello, ma anche con
loro, il panico mi assaliva. Ogni passo che facevo era troppo rumoroso,
l’adrenalina mi scorreva nelle vene, mi costringevo a respirare lentamente.
Avevo memorizzato quali assi del pavimento scricchiolavano in casa.
Sapevo esattamente quanto potevo aprire una porta prima che cigolasse.
Mi ero allenato a camminare in silenzio, a respirare piano, ad abbassare la
voce. Come se mio padre fosse una bomba e il minimo rumore potesse
farlo detonare.
Mi sudavano le mani. Non avevo ancora preso le pillole perché per una
volta mi ero svegliato sereno, ma ora mi pentivo amaramente di non averlo
fatto. Il panico mi premeva sotto i polmoni, un soffocamento che si
espandeva a poco a poco. Mi ripetevo che non provavo paura, ma più mi
avvicinavo a lui, che aspettava lì con la sigaretta appesa alle labbra, più mi
allontanavo da me stesso.
Stavo sparendo, e di me non stava rimanendo che un bambino
terrorizzato, piccolo e solo. Un bambino che cercava una via d’uscita, che
bramava disperatamente un posto dove nascondersi, seduto con le spalle
alla porta della sua camera da letto, nella speranza che il suo stesso corpo
potesse fungere da barricata.
Mi fermai a circa cinque metri da lui e dal cancello che ci separava.
Vincent e Jason si arrestarono dietro di me. Mi guardavano le spalle;
avrebbero combattuto per me senza un secondo di esitazione.
Papà si tolse la sigaretta dalle labbra, la cenere si accese prima di
allontanarla e soffiare via una nuvola di fumo. Dio, com’era invecchiato.
Anni di abuso di alcol e di fumo gli avevano scavato profonde rughe sul
viso, le guance erano arrossate ed era passato qualche giorno dall’ultima
volta che si era fatto la barba. Eppure, guardarlo era come fissare uno
specchio terribilmente distorto. Come in quei film dell’orrore in cui il
protagonista vede il proprio riflesso trasformarsi in qualcosa di sinistro.
La nostra somiglianza era una maledizione, ma anche un avvertimento.
La sua strada avrebbe potuto essere la mia, e io avevo fatto di tutto perché
non lo fosse.
«Non sei il benvenuto qui,» affermai. La mia voce non tremava, ma la
tenevo bassa e roca per lo sforzo di stabilizzarla.
Papà ridacchiò, accompagnando il tutto con un leggero rantolo. «È
questo il saluto che ricevo? Torno a casa e mio figlio mi dice che non sono
il benvenuto? Che razza di stronzate sono?»
Quello era il saluto che si meritava. Niente convenevoli, niente
chiacchiere. Non era il benvenuto, cazzo, e volevo che non ci fossero
dubbi.
Il solo suono della sua voce mi fece sentire come se avessi appena
ricevuto un pugno nel petto. Il mio corpo divenne rapidamente caldo e
poi freddo.
Almeno Jess era dentro, fuori dalla sua vista. Lucas era sempre il più
smanioso di attaccare briga, ma ora non avevo bisogno di quello. Avevo
bisogno che tenesse al sicuro la nostra ragazza, e sapevo che l’avrebbe
fatto. Lo sapevo, ma non riuscivo comunque a frenare il panico crescente.
Nondimeno, lo tenevo nascosto. Lo mascheravo come avevo sempre fatto.
«Questa è una mia proprietà,» rincarai. «E se dico che non sei il
benvenuto, allora non sei il cazzo di benvenuto.»
Girò la testa e sputò, il suono fece scattare qualcosa in fondo al mio
cervello. La sensazione della saliva calda e densa che mi colpiva il viso. La
repulsione nello stomaco per l’odore di tabacco marcio. Si avvicinò a me
adagio, senza mai staccare gli occhi dal mio viso. Come se mi stesse
mettendo alla prova, sfidandomi a scappare. Mi aveva sempre dato del
codardo perché correvo via.
Sollevai il mento e strinsi le mani dietro la schiena. Probabilmente davo
l’impressione di essere a mio agio, ma volevo nascondere quanto fossero
serrate le mie mani.
«La tua proprietà,» replicò, guardando da me a Vincent e poi a Jason.
«È così? Non c’è posto per il caro vecchio papà, mm?» Guardò la casa,
con gli occhi socchiusi. Il solo fatto che potesse venire qui a scrutare la
mia famiglia mi faceva venire la nausea. «Beh, non è una cosa da poco. Hai
una casa tutta tua, hai sistemato tutti i tuoi amici, ti sei anche trovato una
ragazza. O è di uno di voi? Non riesco a capire chi di voi se la scopi.»
Da quanto tempo ci osservava? Era la prima volta che veniva qui? O era
solo la prima volta che si faceva notare?
«Non mi interessa scambiare due chiacchiere con te.» La rabbia coprì
la mia paura, annegandola. «Vattene, o ti faremo allontanare noi.»
Mi fissò, quindi fece un lento cenno d’assenso col capo. I suoi occhi
continuavano a vagare sulla casa, come se stesse cercando qualcosa. «Ora
sei un uomo grande, vedo. Hai il tuo spazio, e pensi che sia giusto lasciare
la famiglia al freddo? Sei fortunato che non mi occorra una stanza stasera.
Non sto cercando una dannata elemosina. Voglio quello che mi spetta di
diritto.»
«Non c’è una sola cosa in questa proprietà su cui tu abbia diritto. Se la
mamma avesse voluto che questo posto arrivasse a te, te lo avrebbe
lasciato. Ma non l’ha fatto.»
Nella mia mente, immaginavo di sbattere il pugno sul suo viso ancora e
ancora: il sangue che schizzava, il naso che si rompeva, i denti che si
spezzavano.
Quante volte avevo pensato di ucciderlo? Lo sognavo – sognavo che un
giorno lo avrei affrontato, che gli avrei dimostrato che non mi aveva mai
spezzato. Avrei assaporato lo sgomento sul suo volto prima di morire.
Immaginavo anche cosa sarebbe successo dopo averlo ucciso, cosa avrei
detto in tribunale, come avrei fatto a sopravvivere in prigione.
Ma questo mi avrebbe reso uguale a lui, capace della stessa violenza.
Avrebbe dimostrato che il ciclo continuava, che il dolore generava dolore.
«Ti sbagli, ragazzo.» Papà tirò indietro le spalle e fece scrocchiare il
collo. Il mio stomaco si contorse allo scricchiolio. «Sai che tua madre non
era più in sé verso la fine. Non lo è stata per la maggior parte della sua
vita. Mi ha dato molte ragioni per sospettare che tu non fossi nemmeno
mio.» Sogghignò. «Non posso negare la genetica, però. Sei la mia
immagine sputata.»
Non c’era bisogno che me lo ricordasse, cazzo.
«Cosa vuoi?» chiesi. «Smettila di dire stronzate e dimmi perché sei
qui.»
«Ho sentito dire che stai rimettendo a posto la casa per venderla,» fece
lui. «Stai ragionando in modo intelligente. Pensi come me.» Non come lui.
Mai come lui. «Voglio una parte della vendita. Cinquanta e cinquanta.
Direi che è giusto, visto che stai vendendo la proprietà in cui ti ho
cresciuto.»
Lo fissai con aria assente, con le sue parole che si rimestavano in quella
rabbia oceanica che avevo dentro. Poi…
Mi misi a ridere. Risi così a crepapelle da provare dolore. Quando le
risate si spensero, feci un passo avanti, fino a trovarmi di fronte al suo
brutto muso, con le sole sbarre del cancello a dividerci. Lo guardai dritto
in quegli occhi ingialliti e iniettati di sangue, che mi facevano rabbrividire
di paura ogni volta che si posavano su di me.
«Io e tutti quelli che vivono in questa casa saremo morti e sepolti prima
che tu veda un dannato centesimo da questo posto,» annunciai, con il
veleno in ogni parola.
Eravamo proprio faccia a faccia. Stessa altezza. Stessa corporatura. Lo
stesso sangue nelle vene che mi faceva venire voglia di tagliarle e svuotarle
tutte, se non altro per liberarmi di ogni traccia di lui.
«Stai attento, ragazzo,» borbottò a bassa voce. «Questo è un mondo
molto pericoloso. La morte è molto vicina. Non siamo tutti a una sola
decisione sbagliata di distanza dalla morte e dalla sepoltura?»
Lo guardai lentamente dall’alto in basso. «La morte è più vicina ad
alcuni che ad altri.»
«Hai ragione. Cammina vicino ad alcuni… corre per raggiungere altri.
Ma raggiunge sempre, in un modo o nell’altro.» Fece un passo indietro e
io trasalii quando si portò la mano alla giacca. Non gli sfuggì. Lo fece
sorridere.
Tirò fuori una sigaretta, l’accese e lasciò che il fumo mi soffiasse sul
viso. Camel Crushes. Odiavo il profumo del mentolo, cazzo. Rimase
qualche istante in silenzio, lanciando un’occhiata minacciosa sopra la mia
spalla, prima di concludere: «Vincent. Era questo il tuo nome. Il ragazzo
di quella grande famiglia. Quattro bellissime sorelle…» Lasciò cadere il
commento. «Ci vediamo.»
Se ne andò con calma lungo la strada. Aspettai, guardandolo finché non
salì su quel vecchio pick-up e fece un’inversione a U nello sterrato, con la
polvere che gli si ammassava attorno agli pneumatici.
Ma la rabbia era ancora dentro di me, tremante come un cane
bastonato.
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50
Jessica
La tensione di Lucas era evidente mentre mi conduceva su per le scale. Mi
stava praticamente schiacciando la mano a forza di stringerla, e non la
lasciò finché non entrammo nella sua stanza. Solo allora mi mollò la mano
e andò subito alla finestra, con le sopracciglia aggrottate nel fissare il
cortile.
Ma il cancello non era visibile da quel punto di osservazione.
Sibilò con frustrazione, le braccia conserte e i pugni stretti. «Merda.»
«Non dovresti andare là fuori?» chiesi. Mi sudavano i palmi delle mani,
l’energia nervosa mi faceva scalpitare. Non avevo mai visto nessuno di
loro con quell’espressione, come se fossero davvero spaventati, quando
avevano visto Reagan al cancello.
«Jason e Vincent gli coprono le spalle,» ribatté Lucas. Non sembrava
particolarmente felice della cosa. «Se Manson vuole che ti tenga al sicuro,
e allora ti tengo al sicuro, cazzo. Quindi rilassati.»
Si sedette sul bordo del letto, i gomiti appoggiati sulle gambe mentre
chinava la testa. Sembrava tutt’altro che rilassato – sembrava piuttosto una
granata la cui spoletta si stava lentamente staccando.
«Quanto è pericoloso?» Il mio stomaco si contorse quando ricordai che
Vincent mi aveva detto che Reagan era il motivo per cui aveva una pistola.
Cosa diavolo poteva essere successo per renderli così terrorizzati da lui?
Capivo perché Manson lo fosse, potevo solo immaginare il trauma di
avere un genitore del genere. Ma erano tutti impauriti, e questo mi
metteva ancora di più in allarme.
«Non sottovalutarlo.» Lucas scese di nuovo dal letto, camminando
davanti ad esso come se non riuscisse a trovare pace. «L’ultima volta che
Manson lo ha visto, Reagan ha minacciato di ucciderlo.»
Il nodo dentro di me si fece duro come una roccia. «Dobbiamo
chiamare la polizia. Non è sicuro.»
«La polizia non farà un cazzo, Jess.»
Si avvicinò di nuovo alla finestra, fece una smorfia e tornò indietro. Si
guardò intorno nella stanza, impotente, la sua frustrazione era palpabile
nell’aria.
«Da qualche parte in quella stazione di polizia in centro c’è un fascicolo
della famiglia Reed spesso circa tre centimetri,» spiegò. «Problemi
domestici, guida in stato di ebbrezza, ubriachezza molesta, aggressioni in
famiglia. Non ne è uscito nulla di concreto. Niente, cazzo. Sua madre non
ha voluto sporgere denuncia. Reagan passava una notte al fresco e tornava
subito la mattina dopo. I poliziotti qui intorno vedono il cognome Reed e
pensano alla spazzatura. Criminali.» Sospirò pesantemente, passandosi
una mano sui capelli arruffati. «Un ragazzo come Manson non dovrebbe
arrivare a questo punto, Jess. Dovrebbe essere morto, o drogato, o già in
prigione. La polizia lo tiene d’occhio da quando ha portato il coltello a
scuola. Vincent ha dei precedenti. Io ho dei precedenti. Se le persone che i
poliziotti dovrebbero aiutare sono già dietro le sbarre nella loro mente,
allora non gli importa nulla.»
Criminali. Proprio come li aveva definiti mia madre. Ma era sbagliato,
era così sbagliato. Le loro intere vite erano state bollate a causa di ciò che
avevano fatto pur di sopravvivere, per via di circostanze al di fuori del loro
controllo.
«Non è giusto.» Ero così frustrata che mi si gonfiò la gola, ma ingoiai il
groppo. Non era il momento di piangere, non ora, non davanti a Lucas.
Erano già abbastanza in pena. «È così sbagliato, non dovrebbero…
cazzo.» Ero così inutile a rimanere lì, senza sapere cosa stesse succedendo.
Volevo aiutare, ma cosa potevo fare?
«La vita non è - e non è mai stata – giusta,» sentenziò Lucas. La sua
voce era più dolce di quanto mi aspettassi, come se stesse impartendo una
preziosa lezione di vita che avrebbe voluto non dover dare. Si mise di
fronte a me, guardandomi per un attimo come se non riuscisse a capire
come comportarsi.
Poi mi abbracciò. All’inizio in modo lento e rigido, come se stesse
abbracciando qualcosa di spinoso. Ma quando mi rannicchiai con il viso
contro di lui e lo strinsi a mia volta, si ammorbidì. Era come se il suo petto
si fosse scavato e lui stesse cercando di farmici entrare dentro,
aggrappandosi a me per non farmi scivolare via.
«Hai scelto dei tipi di merda con cui giocare, Jess,» commentò. Il suo
mento era appoggiato sulla mia testa e potevo sentire il suo cuore battere
così forte e veloce che era un miracolo che riuscisse a stare fermo. «Mi
dispiace ammettere che queste cose fanno parte del nostro ambiente. Ma
con noi sei al sicuro, te lo assicuro.»
«Non sono preoccupata per me,» spiegai, senza alzare la testa dal suo
petto. «Sono preoccupata per te. Per Manson, Jason e Vincent. Voglio che
anche loro siano al sicuro.»
Espirò debolmente, con una mezza risata. «Non credo che troveremo la
sicurezza a Wickeston. Ma un giorno… un giorno ci riusciremo. Da
qualche altra parte.»
Senza di me. Il pensiero mi balzò in mente così potente e repentino che
mi sconvolse, e il groppo mi si formò di nuovo in gola. Ma non volevo
pensarci, non ora. Più avessi pensato al futuro, peggio sarebbe stato.
Dovevo concentrarmi sul presente.
E qui, ora, avevamo un problema più grande da affrontare.
«Cerca di non preoccuparti.» Lucas finalmente allentò la presa,
stringendomi le braccia. «Manson può cavarsela da solo.»
La mia preoccupazione non si era di certo dissolta – e percepivo che
non lo era nemmeno la sua. Ma almeno mi sentivo un po’ più stabile.
Andò a posizionarsi sull’uscio, appoggiandosi al telaio in attesa che
rientrassero in casa. Nel frattempo, cercai di occupare la mia energia
nervosa dando un’occhiata in giro.
La prima volta che avevo visto la sua stanza, avevo pensato che fosse
una camera per gli ospiti per quanto era vuota. Ma c’erano segni di vita
vissuta: il suo letto era sfatto e il cesto della biancheria nell’angolo era
stracolmo. Il comò era vecchio, coperto di graffi e macchie, ma sopra
c’erano alcuni oggetti che attirarono la mia attenzione.
C’era una piccola figura di legno che sembrava essere stata intagliata a
mano, una candela al profumo di camomilla e lavanda, un mazzo di carte
e persino un vecchio GameBoy. Presi la sagoma di legno e me la rigirai sul
palmo della mano. Sembrava un gatto: si vedevano i baffi sul muso e gli
artigli sulle zampette. Il mazzo di carte aveva un aspetto decisamente
usato e il GameBoy conteneva una cartuccia Pokemon Rosso.
Sul retro della cassettiera c’era uno stereo portatile, con la plastica
esterna danneggiata e screpolata. Era chiaramente vecchio, dotato di un
lettore di cassette e di una radio AM/FM, ma nient’altro, nemmeno un
lettore CD.
La fessura anteriore era aperta e all’interno c’era una cassetta. Estrassi
la cassetta, leggendo con curiosità l’etichetta scritta a mano sul davanti. La
miglior compilation di sempre! era scribacchiato con una penna rossa, in
lettere disordinate e infantili.
Il pavimento scricchiolò delicatamente quando Lucas si avvicinò alle
mie spalle. Mi girai, tenendo in mano la cassetta. «L’hai fatta tu?»
Qualcosa di doloroso tremolò nella sua espressione. Prese il nastro e lo
rigirò tra le mani.
«L’ha fatta mio fratello,» spiegò. « Ma gli ho dato io il nome. È vecchia,
l’audio è rovinato in alcuni punti…»
Lo inserì di nuovo nello stereo portatile e premette play. Il volume era
basso, ma dopo un attimo riconobbi la melodia di ‘Heaven’s On Fire’ dei
KISS.
«Come si chiama tuo fratello?» chiesi.
Fermò il nastro. La dolcezza della sua espressione aveva ancora un che
di guardingo, prese il gatto e si mise a sfregare il legno ruvido con il
pollice.
«Benji,» rispose, tenendo gli occhi bassi. «Ha cinque anni più di me.»
Un fratello maggiore. Era difficile immaginare Lucas diverso da com’era
ora: duro come la pietra e altrettanto inamovibile. Ma mentre parlava,
riuscivo a immaginarlo sotto una luce diversa. Come una persona molto
più innocente e gentile, un bambino che il mondo non aveva ancora
spezzato.
«Pensavo che fosse il ragazzo più fico del mondo,» raccontò. «Lo
seguivo ovunque, quando ero bambino. Probabilmente lo facevo
impazzire. Usciva di nascosto con i suoi amici e si ritrovava con il fratello
minore al seguito, ma era sempre gentile. Mi teneva con sé e si assicurava
che non mi succedesse nulla.»
Si schiarì la gola e posò il gatto sul mazzo di carte. Il suo volto era
illeggibile ora, depurato da qualsiasi emozione vi avessi visto prima.
«Cosa gli è successo?» Avevo paura che si chiudesse, di fare una
domanda di troppo e di distruggere la fragile apertura che c’era tra noi.
Con mia grande sorpresa, rispose senza mezzi termini, quasi
insensibilmente: «È in prigione. È dentro da tredici anni.»
Il suo tono era così piatto che lì per lì non mi resi conto di quello che
aveva detto. Poi i miei occhi si allargarono, la consapevolezza si fece
strada e sbottai: «Tredici anni? Che cosa ha fatto?»
Quella domanda avrebbe richiesto molto più tatto di quanto ne avevo
messo io. Nel momento in cui le parole uscirono sussultai, cercando di
scusarmi per il fatto che avevo sbagliato tutto, ma Lucas non sembrò
infastidito.
La sua voce rimase distaccata per tutta la spiegazione. «Si è innamorato
di una ragazza. Credo che anche un ragazzo più grande avesse una cotta
per lei; non ne sono sicuro. Gran parte del caso giudiziario è stato…»
Fece una pausa, strofinandosi la nuca. «… complesso. Io ero piccolo. Non
l’ho capito bene. Ma a quanto pare…» Si incupì, come se non credesse del
tutto a ciò che stava per dire. «A quanto pare Benji era molto possessivo
nei confronti di questa ragazza, e non gli piaceva che quest’altro ragazzo si
interessasse a lei. Così lui…» Il suo cipiglio si fece più profondo. «Ha
attirato il ragazzo fuori di casa, lo ha colpito in testa con un mattone, lo ha
portato nel bosco… e lo ha ucciso.»
Lo disse in modo così pacato, ma le parole mi colpirono con un brivido
freddo. «Oh, mio Dio…»
«Lo misero in prigione quando aveva quindici anni,» aggiunse.
«Continuavano a dire che era pericoloso, ma era solo mio fratello. Gli
piaceva la musica rock, la Pepsi e sapeva creare roba come nessun altro.
Era un artista. Era paziente. Non l’ho mai sentito alzare la voce.» Espirò
pesantemente dal naso, scuotendo la testa. «Ma hanno detto che è stato
lui. L’hanno rinchiuso. Tutta la comunità lo sapeva, a quel punto avevo
praticamente un bersaglio sulla schiena. Così mio padre mi portò con sé e
ce ne andammo. Mamma si ammalò sempre di più…»
Non sapevo cosa dire. La mia sorellina poteva essere una spina nel
fianco, ma non riuscivo a immaginare che mi venisse portata via. E per
una cosa così atroce, a un’età così giovane… era orribile. Era
inimmaginabile.
Gli posai una mano sul braccio. Stava guardando ovunque tranne che
verso di me, ma questo perché lo scudo che copriva il suo viso era sparito.
Potevo vedere la tristezza nei suoi occhi, la confusione. Come se
conoscesse la storia ma si rifiutasse di credere che fosse vera.
«Ti manca?» chiesi, e lui finalmente alzò lo sguardo. La gola gli si
sollevò mentre deglutiva con fatica.
«Sì, mi manca. Ogni maledetto giorno.»
Il rumore della porta d’ingresso che si apriva ci fece girare entrambi di
scatto verso il corridoio, seguito dai passi di qualcuno che stava entrando
in casa.
«Sono tornati,» feci io.
Lucas mi prese di nuovo la mano. La portò alle labbra e mi baciò
teneramente le nocche. «Andiamo a vedere cos’è successo.»
***
Raggiungemmo il fondo delle scale proprio mentre Vincent stava
chiudendo la porta. I loro volti erano tirati, l’energia rilassata di nemmeno
un’ora prima era ormai completamente esaurita. Il piccolo Haribo era in
salotto, sollevato sulle zampe posteriori in modo da poter guardare fuori
dalla finestra con Jojo verso il cancello, entrambi chiaramente in
apprensione. Gli occhi di Manson erano vuoti, sprofondati nell’ombra.
«Che diavolo voleva?» chiese Lucas.
Jason scosse la testa, andò in cucina e prese una birra dal frigorifero
nonostante fosse presto.
«Vuole dei soldi,» sibilò Vincent a denti stretti. «Dalla vendita della
casa. Il cinquanta per cento.»
«Fanculo,» ringhiò Lucas. «Non gli daremo un cazzo.»
«È quello che gli ho detto io,» mormorò Manson. Sulla fronte gli si
erano scavate delle rughe profonde, come se il peso di tutta la sua vita
l’avesse raggiunto all’improvviso e gli si fosse depositato sul cranio. «Non
gli è piaciuto.»
«Ti ha minacciato,» dichiarò Jason con fermezza, aprendo la birra. Si
appoggiò al bancone della cucina e ci parlò dall’altro lato dell’uscio.
«Tutte quelle stronzate sulla morte? Era una minaccia, senza dubbio.
Abbiamo bisogno di telecamere di sicurezza migliori. Immagini più nitide,
audio più chiaro. E serrature elettroniche per i cancelli.»
Manson sbatté il pugno contro il muro così forte che sobbalzai. Jojo
appiattì le orecchie contro la testa e lo guardò con occhi sgranati.
«Perché cazzo deve tornare nella mia vita come se fosse sua?»
Non avevo mai sentito Manson alzare così tanto la voce. Non guardava
nessuno di noi mentre urlava, con i pugni stretti e il viso arrossato.
«Perché cazzo deve venire nella mia proprietà e minacciare la mia
famiglia? Cazzo!» Sbatté di nuovo il pugno contro il muro, lasciando
dietro di sé una macchia di sangue, giacché gli si spaccarono le nocche.
Poi lo fece ancora, e ancora, e ogni impatto del pugno faceva tremare il
muro. Haribo emise dei latrati deboli al rumore e Vincent lo zittì
dolcemente, abbassandosi per grattargli il petto.
Manson respirava a fatica. Si passò bruscamente le dita tra i capelli per
mandarli indietro e si girò, inspirando a fondo. I suoi occhi si posarono su
di me, stretti dalla furia, e fu come se si fosse completamente dimenticato
della mia presenza.
Nel momento in cui mi vide, si bloccò. La sua ira svanì e venne
sostituita da un’espressione di pura vergogna e orrore.
«Non può fare un cazzo,» ringhiò Lucas. «Troveremo una soluzione.»
«Non può costringerti a dargli nulla,» rincarò Jason. «Né legalmente né
in altro modo.»
Ma era come se Manson non lo avesse sentito. La sua gola si tese e
ansimò, fissandomi e scuotendo lentamente la testa.
«Jess…» La sua voce era un sussurro. «Mi dispiace tanto. Non… non
volevo…»
La paura che avevo provato era già sparita, causata dallo sgomento nel
vederlo in quello stato piuttosto che dalla preoccupazione per la mia
incolumità. Ma Manson si guardò la mano, con le nocche spaccate e
imbrattate di sangue.
Tirò un respiro affannoso, le mani gli tremavano.
«Stai sanguinando,» mormorai, raggiungendolo. «Devi…»
Si scansò dal mio tocco. Scosse la testa, guardando i suoi pugni e poi di
nuovo verso di me.
«Mi dispiace,» ribadì. Guardò i cani che lo osservavano con le orecchie
appiattite. «Cazzo. Merda, non volevo…»
«Va tutto bene.» La voce di Vincent era placida, rilassante. «Sei
arrabbiato, va bene così.»
«No.» Manson fletté le nocche, guardando il sangue che gli colava dalle
dita. «No, non va bene, cazzo. Niente di tutto questo va bene.»
Aprì la porta d’ingresso con uno strattone. Lucas fece un passo avanti.
«Ehi, Manson, dai, non devi…»
«Ho bisogno di aria,» sussurrò a fatica. Mi guardò di nuovo, come se
avesse ancora molto da dire. Ma poi trasalì e si voltò, uscendo dalla porta
d’ingresso e sbattendola dietro di sé.
Cercai subito di seguirlo. Ma Vincent mi afferrò il braccio prima che
potessi aprire la porta. Mi disse gentilmente: «Dagli tempo, dagli solo
tempo.» Mi strinse a sé, massaggiandomi la schiena e rallentando in
qualche modo il mio cuore martellante. «È spaventato. Non avrebbe mai
voluto che tu lo vedessi così.»
«Allora devo andare a parlargli,» ribattei ferocemente. Non sapevo cosa
diavolo avrei detto, né se sarebbe servito a qualcosa. Ma non potevo più
nascondermi in casa. Almeno Manson aveva avuto Vincent e Jason con sé
quando aveva affrontato suo padre. Qualunque cosa stesse fronteggiando
ora, stava cercando di farlo da solo e non mi sembrava giusto.
Vincent allentò la presa, ma mantenne il suo braccio intorno a me.
Dalla cucina, Jason fece: «Non preoccuparti, Jess. Non è un problema
tuo, andrà tutto bene.»
«Sì che è un problema mio!» sbottai senza volerlo, ma non era per
rabbia. Avevo solo bisogno che capissero. «Non sono un fiorellino
delicato, okay? Abbiamo fatto un patto. Sarò vostra fino a quando il mio
debito non sarà saldato, e intendevo sul serio. Vostra. Ma se io sono
vostra, anche voi siete tutti miei.» Spostai lo sguardo fra loro, cercando di
placare il tremolio nervoso delle mie parole. «Non sono più all’esterno.
Sono parte di tutto questo, anche delle parti spaventosamente incasinate.
Ho bisogno di parlare con lui. Per favore.»
Jason mi guardava, con le braccia molli lungo i fianchi. Per una volta,
quello sguardo gelido non era così tagliente. Vincent mi strinse a sé,
chinandosi a baciarmi il lato della testa. « Okay, ho capito. Hai ragione.
Immagino che non possiamo cercare di proteggerti da tutto questo
quando ce l’hai davanti agli occhi.»
Mi lasciò andare e tornai a guardare Lucas. La sua mascella era serrata,
la sua postura rigida.
«Siamo abituati a sbrigarcela per fatti nostri,» affermò. Tornai da lui e
posai le mani sulle sue braccia ben incrociate sul petto.
«Dopo ieri,» mormorai, «credo di aver chiarito che mi considero parte
di noi.» La sua espressione vacillò, combattuta tra l’accettazione e
l’automatica negazione. «Noi ce la sbrigheremo per fatti nostri. Anch’io la
affronterò.»
Abbassò lo sguardo su di me e il suo volto finalmente si incrinò. Scosse
la testa con un pesante sospiro.
«Sei la donna con la testa più dura che abbia mai conosciuto,»
brontolò. «E non credo che tu abbia molto buon senso nel cercare di
essere così dannatamente coinvolta…»
«Dille solo che si è guadagnata il tuo rispetto e andate a cercare
Manson, cazzo!» urlò Jason dalla cucina.
Le labbra di Lucas si strinsero. Non aveva bisogno di dire ad alta voce
quello che Jason aveva chiesto. Per me era abbastanza chiaro.
«Andiamo.» Mi prese di nuovo la mano. «So dove andrà.»
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51
Manson
Era stata la vergogna a farmi uscire di casa. Vergogna per essere crollato,
per aver deluso i miei ragazzi, quando invece avrei dovuto essere presente.
Per aver deluso Jess, quando invece non avrebbe mai dovuto essere
coinvolta in questo pasticcio.
Le avevo permesso di vedermi perdere il controllo. Non lo avevo mai
fatto – ma figuriamoci se, quando alla fine ero crollato, non era dovuto
succedere davanti ai suoi occhi.
La violenza era come un’infezione dentro di me che non riuscivo a
debellare. Non potevo lottare contro qualcosa che avevo nel sangue e che
mi era rimasto impresso nel cervello per anni di esposizione reiterata. Non
potevo cambiare lo stampo da cui ero stato forgiato, e il fallimento
sembrava inevitabile.
La strada sterrata di fronte alla nostra casa portava o alla Route 15 o a
un vicolo cieco. Mi diressi verso il vicolo cieco, con gli stivali che
sollevavano polvere. Superai la barriera metallica alla fine della strada e mi
inoltrai tra gli alberi, imboccando il sentiero invaso dalle erbacce. La
strada mi sembrava ancora familiare, anche se erano passati alcuni anni
dall’ultima volta che ero tornato qui.
I luoghi contengono ricordi, e la maggior parte dei miei erano brutti.
Questo posto tranquillo tra gli alberi era il luogo in cui ero venuto a
cercare la pace, ma con il passare degli anni era diventato più un luogo in
cui nascondermi. Un posto dove poter scappare quando non riuscivo ad
affrontare la realtà.
Vigliacco. Fottuta femminuccia. A scappare come una patetica, piccola
troia.
Mi sedetti, tirai su le ginocchia e vi appoggiai sopra le braccia. La mia
stessa voce interiore aveva lo stesso suono di quella di mio padre. Come se
non potesse mai lasciarmi in pace, cazzo. Anche una volta morto e
sepolto, la sua voce sarebbe rimasta ancora lì.
Mi sentivo la lingua spessa, la bocca troppo secca, ma deglutii
comunque con forza. Ero stato egoista. Avevo voluto Jess così tanto.
Avevo sperato in un’altra possibilità, una seconda chance che mi avrebbe
permesso di dimostrarle che il suo posto era con me. Con noi.
Mi ero permesso di dimenticare che Jess era circondata da privilegi, da
sicurezze. Inserendomi nella sua vita, mi ero portato dietro tutti i miei
problemi.
Mio padre l’aveva vista. L’aveva vista con noi, cazzo. Era stata una
violazione il solo fatto di metterle gli occhi addosso. Era una violenza
anche solo il fatto che lui conoscesse il suo nome. Niente era proibito nella
sua mente, nemmeno lei. E io l’avevo esposta a questo. Era colpa mia.
Un nodo oscuro e attorcigliato di ansia mi serpeggiò nel petto. Mi
attanagliò i polmoni con artigli affilati, mi farcì la gola con la sua bruttezza
e mi fece tremare le mani. Nonostante tutti i miei sforzi, si assicurò di
privarmi di tutto il controllo.
Lo scricchiolio di un ramoscello che si spezzò nelle vicinanze mi fece
balzare in piedi e portare di scatto la mano verso la tasca posteriore, dove
tenevo il coltello. Ma non era mio padre a camminare tra gli alberi.
«Jess?» Mi schiarii la gola, la mia voce era appena udibile. I suoi occhi
erano spalancati mentre si guardava intorno, osservando gli alberi, il
cinguettio degli uccelli, l’erba morbida sotto le scarpe. Ma quando il suo
sguardo cadde su di me, la preoccupazione nei suoi occhi mi fece sentire
un vero e proprio pezzo di merda.
La stavo spaventando; probabilmente stavo spaventando tutti loro.
Meritavano di meglio da me, ma io non riuscivo a funzionare abbastanza
bene per essere quella persona. Non ora.
«Come mi hai trovato?» Si avvicinò, guardandomi come se stesse
cercando altre ferite. Mi faceva male la mano per aver preso a pugni al
muro, ma era un dolore meritato e avrei voluto rompermi le dita.
«Lucas,» spiegò. «È lì, sulla strada. È preoccupato per te.»
Non riuscendo più a mantenere il contatto visivo con lei, sussurrai:
«Dovresti andare a casa, Jess. Dillo a Lucas… digli che sto bene. Fatti
accompagnare a casa.»
Avevo sfoggiato una voce sicura? Forte? Determinata? O ero sembrato
fottutamente debole, un codardo, un uomo che non era in grado di
affrontare il mondo?
Inspirò profondamente, sollevando il mento con quell’atteggiamento
familiare di sfida che mi fece stringere il petto. «Non ti lascerò qui fuori
da solo.»
«Non preoccuparti per me.» Volevo abbracciarla, ma non osai. Se non
ero nemmeno in condizioni di spiegarmi, come facevo a meritare di
toccarla? Riuscii ad abbozzare una specie di sorriso, ma l’espressione del
suo viso mi disse che fu poco convincente. «Sto bene. Ho solo bisogno di
stare un po’ da solo.»
«Stronzate,» replicò lei. «Senti, mi hai dato una regola sulla
comunicazione. Mi hai detto di essere sempre onesta, di parlare
apertamente. Se non sei ancora pronto a parlare, va bene. Ma io non me
ne vado. Non sono arrabbiata, te lo assicuro. Tu non hai…»
«Dovresti esserlo.»
Si fermò, aggrottando le sopracciglia. «Cosa?»
«Dovresti essere arrabbiata.» Mi sedetti di nuovo, appoggiandomi
all’albero dietro di me e stringendomi le ginocchia al petto. Mi auguravo
che quella pressione avrebbe alleviato un po’ della tensione che avevo
dentro.
Lei si sedette accanto a me, lasciando uno spazio tra noi. Ma si avvicinò
e posò la sua mano sulla mia, e le parole uscirono prima che potessi
fermarle.
«Dovresti essere arrabbiata, perché non avresti dovuto assistere a una
scena del genere. Non avresti dovuto vedere un ragazzo tirare i pugni da
tutte le parti come se non riuscisse a controllarsi. Alzare la voce come un
bambino. Non è giusto. Non è sicuro.»
Non doveva vedere quello che io ero cresciuto vedendo. I capricci degli
adulti, i pugni sbattuti contro le pareti, i piatti, le tazze e gli oggetti di
valore infranti. L’uso della violenza come forza, come intimidazione. Mi
faceva star male vederlo fuoriuscire da me, colare come una ferita infetta.
Ma questo era tutto ciò che mio padre mi aveva lasciato: ferite
incancrenite che si rifiutavano di rimarginarsi.
«Con te sono al sicuro, Manson», dichiarò lei con fermezza. «Non c’è
un solo dubbio nella mia mente che io non sia al sicuro con te. Ti sei
arrabbiato. Capita a tutti. Va bene così.»
No. No, non andava bene. Si sbagliava. Trasalii quando mi toccò la
guancia e girai il viso verso di lei. La stretta al petto si stava comprimendo
fino al punto di rottura. Ma lei mi tenne il viso fermo, e io non riuscii a
guardarla e a mentire. Mi aveva disarmato così completamente che non
importava quanto mi vergognassi di apparire così.
Meritava di sentire la verità. Tutta.
«Ho visto il modo in cui mia madre lo guardava,» raccontai. «Ho visto
la paura che aveva ogni volta che lui parlava, ogni volta che si muoveva. E
io…» La mia voce si spezzò, e io la detestai. Odiavo il modo in cui la mia
stessa mente mi rimproverava per questo. «Ogni secondo di ogni giorno
che ho trascorso in quella casa, ho avuto paura. Non ero mai al sicuro lì.
Lui non riusciva a controllarsi. Non gli importava. Voleva causare dolore.
Lo faceva sentire potente. E sai cosa fa davvero schifo? Che io gli volevo
bene. Mamma lo amava. Cosa fai quando ami qualcuno così tanto da
permettergli di farti del male e persino di distruggerti? Solo nella speranza
che ti ami a sua volta… Nella speranza di guadagnarti il suo affetto…»
La stretta si era spezzata. Mi sentivo così provato che rabbrividii, e le
dita di Jess mi sfregarono delicatamente le guance. Beh, cazzo, le lacrime
stavano arrivando e non si sarebbero fermate.
«Come faccio a stare meglio?» Le parole avevano un sapore amaro nella
mia bocca. «Come cazzo faccio a essere migliore di lui? È come se mi
avesse contagiato, Jess, i suoi geni sono un fottuto cancro. Il modo in cui
giochiamo… anche se lo chiamiamo un gioco… io ti faccio del male, e mi
piace. Mi piacciono i tuoi suoni, il modo in cui mi guardi quando ti
ferisco. Desidero vederti soffrire per me. Come cazzo fa ad andare bene
una cosa del genere?»
Stavo entrando in una spirale e non vedevo vie d’uscita. L’oscurità
intorno a me non faceva che aumentare e temevo che mi avrebbe
soffocato.
Volevo parlare, ma odiavo le mie stesse parole. Volevo che qualcuno
capisse, ma non volevo che qualcuno lo sapesse. Non erano cose facili da
ammettere. Erano pensieri oscuri e spaventosi che si annidavano in fondo
al mio cervello, impacchettati accanto a ricordi d’infanzia ben sigillati.
Potevo cercare di rinchiuderli, ma non potevo nasconderli quando
vivevano nella stessa casa, quando riecheggiavano fra i muri, spettri di
dolore in agguato in ogni angolo.
«Sono rotto, Jess.» Le presi le mani tra le mie, avvolgendole le dita e
baciandole.
Potevo sentire l’odore di Lucas su di lei, e mi ricordò tutte le volte in
cui eravamo solo io e lui. Quando mi raggiungeva qui fuori al buio, o lo
andavo a prendere con la Bronco e guidavamo finché non trovavamo un
posto dove dormire. Tutte le crisi che nessuno dei due sapeva come
gestire, perché eravamo solo dei bambini che cercavano di capire come
crescere da soli. Ci tenevamo stretti l’un l’altro tra lacrime e rabbia,
sperando che, se ci fossimo aggrappati abbastanza, non ci saremmo persi.
Mi attaccai alle mani di Jess allo stesso modo, con parole che non
riuscivo a dire. L’avrei persa perché non ero abbastanza bravo, perché ero
troppo guasto, troppo incasinato.
«Mi sono detto che non sarei mai stato come lui,» spiegai, fissando le
sue piccole mani nelle mie. «Non voglio fare del male alle persone, non lo
voglio. Ma a volte mi sento così arrabbiato che non so nemmeno chi sono.
Potrei distruggere tutto ciò che tocco, anche le cose che amo. Persino me
stesso.»
«Manson, tu non sei affatto come tuo padre.»
La sua voce era tremendamente risoluta. Mi stritolò le mani come se
quello potesse servire a farvi entrare dentro le parole, ma non fu
sufficiente. Mi cinse con le braccia e mi tirò contro di lei. Ero congelato,
rigido e tremavo per lo sforzo di contenermi.
«Sono stata terribile con te e tu non mi hai mai ferito,» bisbigliò al mio
orecchio. «Sei stato tu a mostrarmi cosa significhi ricevere delle premure,
sai? Nessuno si era mai preoccupato di parlare di una parola d’ordine con
me. Nessuno si era mai preoccupato di chiedermi cosa mi piacesse. Hai
vinto una stupida scommessa a una festa e non hai fatto nulla che non
volessi. Ti importava, Manson. Ti è sempre importato.»
Il cervello mi urlava che le sue parole non erano vere. Stava mentendo,
mi compativa, mi odiava. Non avrei mai potuto essere abbastanza per lei.
Ma non mi lasciò andare e, per quanto sembrasse feroce, le sue parole
erano intense quando aggiunse: «Mi fido di te, Manson. Lucas si fida di te,
e non si fida di nessun altro. Vincent e Jason si fidano di te. Ti
seguirebbero fino in capo al mondo. Non sei una persona malvagia e
terribile. Sei forte e gentile, e ti prendi cura delle persone. Ma non puoi
prenderti sempre e solo cura degli altri e impedire a qualcun altro di
prendersi cura di te.»
Il suo petto si gonfiò con un lungo e profondo respiro e io sollevai la
testa. Jess tenne le braccia intorno a me e mi baciò, e la brutta oscurità che
avevo dentro si spense un po’ di più.
«Sono qui perché lo voglio,» ribadì, appoggiando la fronte alla mia.
«Perché ho scelto di essere qui. E non so davvero cosa diavolo succederà
o come tutto questo si risolverà alla fine. Ma le sole cose di cui ho paura
sono proprio quelle che tu riesci a farmi dimenticare.»
«Cazzo.» In qualche modo, fortunatamente, la pressione si allentò da
dietro le mie costole. Riuscii a respirare di nuovo. Potevo pensare. Il
panico mi attanagliava ancora, ma ora era gestibile. Non era più la stessa
tempesta impetuosa di prima.
Alcune cose andavano oltre le parole, e ci stringemmo l’un l’altra fino a
quando quelle cose non furono chiare.
***
Lucas era seduto sulla transenna metallica quando io e Jess tornammo.
Si alzò bruscamente non appena ci sentì arrivare, spegnendo la sigaretta
fumata a metà tra le dita e spostandosi da un piede all’altro finché non lo
raggiungemmo.
Poi mi abbracciò e mi strinse così forte da farmi praticamente uscire
l’aria dai polmoni.
Jess si allontanò, concedendoci un momento l’uno con l’altro. Il suo
cuore martellava, il suo petto si gonfiava a ogni respiro profondo.
«Lucas…» cominciai lentamente, ma lui non aveva intenzione di
permettermi di scusarmi.
«Non dire che ti dispiace, cazzo,» sbottò. «Non… non andartene di
nuovo così. Ti prego.» Abbassò ancora di più la voce, appena sopra un
sussurro, ma il dolore nelle sue parole era incredibilmente forte. «Non
posso vederti uscire dalla porta, Manson. Non mi interessa cosa devi fare
per restare. Ti ascolterò urlare tutto il giorno, se ne hai bisogno. Ma non
abbandonarmi.»
Annuii contro di lui, intrecciando fra le mani il retro della sua maglietta.
Era stato ferito, spaventato, probabilmente molto più di quanto avrebbe
mai detto. «Non lo farò. Non vado da nessuna parte.»
Si schiarì la gola quando ci separammo, passandosi frettolosamente la
mano sul viso in modo che non rimanesse altro che la sua solita
espressione di pietra. Annuì bruscamente, allungò il braccio verso Jess e
glielo fece scivolare intorno alle spalle, mentre lei mi prese di nuovo per
mano.
Quando tornammo a casa, Jason era seduto sul portico, intento a
masticarsi l’unghia del pollice fino a ridurla a niente. Bo era accanto a lui e
mi aspettavo che mi abbaiasse contro di nuovo, ma scodinzolò e mi leccò
la mano quando gli grattai la testa.
«Scusa, amico,» mormorai. «Non volevo spaventarti.»
«Sono contento di vedere che ti hanno riportato indietro,» rispose
Jason, abbracciandomi dopo essersi rimesso in piedi. «Sarei venuto a
cercarti io stesso, se non ti fossi fatto vivo nei prossimi cinque minuti.»
Gli diedi una pacca sulla spalla, concedendomi finalmente una piccola
risata. «Non sono fuggito dal Paese, sono solo sceso in strada.»
«Sì, beh, ci sei andato da solo.» Jason si accigliò. «Non dovrebbe
succedere. Se devi fuggire da qualche parte, farai meglio a portarci con
te.»
Avevo versato abbastanza lacrime per quel giorno e non volevo che mi
turbasse di nuovo. Quindi non dissi quanto questo significasse per me.
Non riuscivo a trovare le parole per comunicargli che erano riusciti a
smantellare tutte le atrocità che il mio cervello voleva credere. Ma se non
riuscivo a verbalizzarlo, avrei trovato un modo per dimostrarlo coi fatti.
Se volevo continuare a essere presente per loro come loro lo erano per
me, dovevo affrontare i miei demoni.
«La colazione sta arrivando!» gridò Vincent dalla cucina quando
rientrammo in casa. Sentivo l’odore di pancetta e di hash brown e, quando
mi affacciai in cucina, notai diverse ciotole sul bancone e pentole sui
fornelli. Mi guardò da sopra la spalla con un sorriso, i lunghi capelli legati
in modo disordinato mentre aggiungeva un altro pancake alla pila davanti
a sé.
«Dio, Vince… non dovevi…»
Alzò una mano. «Non farlo. Non voglio sentire una parola, a meno che
non sia ‘wow, Vincent, sei il miglior cuoco di sempre e così
insopportabilmente affascinante e attraente’.» Alzò le sopracciglia, in
attesa.
Jess si mise al mio fianco e avvolse le sue braccia intorno a Vince,
esclamando: «Oh, wow, chef Vincent, sei così affascinante e attraente che
potrei svenire!»
Ridacchiai, mentre Vincent mi guardava con aria di sufficienza. «Visto?
Lei sa come fare.»
Jojo venne a sedersi ai miei piedi, appoggiandosi di peso alle mie
gambe, guardandomi, con la coda che batteva a terra. Niente paura,
niente odio, niente rabbia. Solo il suo grande sorriso ebete mentre le
grattavo le orecchie.
Non so dove sarei finito senza tutti loro. Non sarei sopravvissuto così a
lungo, questo lo sapevo. Qualunque cosa fosse accaduta nel corso degli
anni, avevo sempre avuto qualcuno che mi tirava indietro dall’orlo del
baratro, qualcuno che si aggrappava a me quando pensavo che non ci
fosse più nulla per cui continuare a provare.
Quando avevo conosciuto Lucas, lui mi aveva capito meglio di
chiunque altro avessi mai incontrato. Era lo specchio del mio dolore e
della mia rabbia, in molti modi diversi da quelli a cui ero preparato. Ma
era stato forte quando io non lo ero stato. Era stato presente ogni volta
che avevo avuto bisogno di lui senza esitare, anche quando questo aveva
significato per lui dover affrontare le sue stesse paure pur di correre il
rischio di starmi vicino.
E Vincent? Dio, se non ci fosse stato lui a portare un senso di ottimismo
infinito su quello spettacolo di merda che era la mia vita, mi sarei
crogiolato nell’infelicità per sempre. Aveva il tipo di famiglia unita e
amorevole che avevo sempre desiderato, ma questo non lo rendeva
ingenuo. Lo rendeva premuroso, ferocemente protettivo, disposto a fare
qualsiasi cosa per le persone che amava.
Quando avevamo conosciuto Jason, avevo pensato che quel ragazzo
taciturno, con la sua bella famiglia rispettabile, non avrebbe mai voluto
farsela con dei perdenti come noi. Ma avevo visto la sua intera esistenza
andare in pezzi per poter vivere in modo autentico, tutto perché aveva
osato allontanarsi dalla vita che i suoi genitori gli avevano imposto. Aveva
sopportato il loro rifiuto, tutto il dolore dell’abbandono, e nemmeno una
volta l’avevo visto vacillare. Era stato così dannatamente determinato a
rivendicare la sua vita, a vivere come voleva, che aveva fatto andare avanti
anche me.
E ora Jess, la cui presenza nella mia vita era sembrata sia un’aspirazione
che un avvertimento. Non si trattava solo di un gioco, a prescindere dalle
sciocche regole che avevamo stabilito o dalle scuse che avevamo trovato.
Jess mi aveva dato qualcosa per cui lottare, ma era molto di più.
La sua presenza era la prova che ero migliore di ciò da cui provenivo.
Ero più forte della violenza e del dolore che mi avevano formato. Lei si
sentiva al sicuro qui, al sicuro con me, e questo significava tutto. Era
quello che avevo sempre voluto per me e per i miei ragazzi: sicurezza,
pace, un posto dove potessimo esistere senza essere giudicati
costantemente, senza paura.
La guardavo con loro e sapevo che l’avrebbero protetta con la stessa
ferocia con cui avevano protetto me. A prescindere da qualunque cosa
mio padre avesse tentato di fare - se mai l’avesse fatto - non gli avremmo
mai permesso di toccarla.
Mai.
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52
Lucas
Il sole al tramonto baciava l’orizzonte, colorando il cielo di rosa e
arancione. I colori si fondevano con le nuvole, vorticando come vernice
mentre la luce dorata sfiorava le mie braccia nude.
Mi fece sentire nostalgico, anche se non sapevo bene perché. Era
possibile provare nostalgia per qualcosa che non si era mai vissuto? Le
storie della buonanotte, le corse attraverso gli irrigatori, i parchi giochi e il
tenere per mano i propri genitori: avevo nostalgia di cose che avevo
veduto solo in televisione o che avevo visto vivere con invidia agli altri. Le
desideravo come se fossero state mie e non solo un sogno.
Ci furono uno schiocco e un sibilo quando Manson aprì una birra e me
la porse prima di aprire la sua. Eravamo seduti sul retro della Bronco, con
le gambe a penzoloni sulle erbacce alte in mezzo al campo in cui eravamo
parcheggiati.
Anche questo mi dava nostalgia. Solo noi due nel retro della sua auto, a
meravigliarci dell’avvicinarsi di un’altra lunga notte. Sconvolti dal fatto
che fossimo sopravvissuti a un altro giorno.
Quante notti ci eravamo sdraiati insieme nel retro di quel veicolo,
raccontandoci ogni cazzo di pensiero che ci passava per la testa perché
nessun altro ci avrebbe ascoltati? Quante notti ci eravamo addormentati
l’uno nelle braccia dell’altro, perché se ci fossimo separati temevamo che
uno di noi due avrebbe potuto non esserci più la mattina dopo?
Quante volte ci eravamo detti di andare avanti, di continuare a lottare,
perché se uno di noi si fosse arreso non ci sarebbe stata speranza per
nessuno di noi?
«Sembra passata una vita dall’ultima volta che abbiamo guardato il
tramonto,» mormorai.
Manson era seduto vicino a me, con il braccio premuto contro il mio
mentre sollevava la lattina e ne beveva un sorso. «È passato troppo tempo.
Mi sembra di perdere la cognizione del tempo. I giorni continuano a
scomparire.»
Annuii, tirai fuori una sigaretta e l’accesi. Feci una lunga tirata,
assaporando il leggero bruciore in gola e la botta di nicotina. Gliela passai
e lui la fissò a lungo tra le sue dita prima di fare un tiro.
«Probabilmente dovrei smettere,» ammise. Quelle parole mi fecero
vibrare il petto, come un fulmine. Aveva ragione, dovevamo smettere
entrambi. Ma a volte, quando lo vedevo migliorare, quando vedevo
quanto si sforzava di essere un uomo migliore, mi sentivo come se fossi
rimasto indietro. Lui era in grado di fare ciò che io non riuscivo a fare e,
sebbene continuasse a cercare di trascinarmi con sé, vivevo ancora con la
paura che alla fine lui si sarebbe curato e io sarei rimasto comunque
distrutto.
Troppo spezzato per lui, per tutti loro.
Ci eravamo incontrati nel momento più buio e ne eravamo usciti
insieme. Eravamo stati disperati allora, alla ricerca di una qualsiasi ragione
per andare avanti, e l’avevamo trovata l’uno nell’altro.
Quanto ero egoista a preoccuparmi che lui non avesse più bisogno di
me?
Era strano come sembrasse riuscire a leggermi nel pensiero. Mi passò di
nuovo la sigaretta e disse: «Sai perché ti volevo con lei? Perché ti ho
mandato dentro con Jess, invece di averti con me?»
Era come se sapesse di avermi ferito. E io avevo cercato di non restarci
male, ci avevo provato davvero. Ma questo fece crescere in me la paura
che lui mi stesse allontanando. L’avrei protetto, l’avrei sempre protetto.
Ma se non me lo voleva permettere…
«Ho un pessimo carattere,» sussurrai, inspirando lentamente. «Tuo
padre è volubile e io faccio schifo nel mantenere la calma. Ho pensato che
volessi evitare che la situazione degenerasse.»
Potevo sentire i suoi occhi sul lato del mio viso, anche se stavo ancora
fissando il sole al tramonto.
«Sapevo che l’avresti tenuta al sicuro. Sapevo che, qualunque cosa fosse
successa, se mio padre avesse voluto farle del male, l’ultima persona che
sarebbe riuscito a superare per arrivare a lei saresti stato tu. E che non
sarebbe riuscito ad abbatterti.»
Non era il tipo di persona che lo diceva per compassione o che mentiva
nel tentativo di farmi sentire meglio. Manson era sempre stato attento alle
parole e intendeva ciò che diceva.
Mi strappò la sigaretta dalle dita, inspirando profondamente. Mi prese
il viso, le sue dita scesero lungo la mia mascella fino ad afferrarmi la nuca
e a tirarmi a sé.
Mi baciò, il suo gusto così familiare, la puntura affilata dei suoi denti sul
mio labbro accese un fuoco nel mio petto. Afferrai la sua maglietta,
annodando le dita nel tessuto, mentre la sua lingua si infilava nella mia
bocca e il suo profumo mi riempiva la testa di desiderio.
Mi ero convinto di essere impazzito quando l’avevo incontrato. Quando
avevo incontrato questo ragazzo così simile a me, che fremeva di dolore e
di rabbia come me, che cercava una ragione per vivere come me. Il modo
in cui mi aveva fatto sentire, come se avessi finalmente trovato questa
scintillante scheggia di bontà nel mondo, era fottutamente terrificante.
Non mi era mai importato nulla del sesso delle persone con cui andavo a
letto, e anche se mio padre aveva cercato a furia di botte di farmi passare
la voglia quando gli avevo detto che avrei scopato con chi mi pareva,
questo non mi aveva dissuaso.
Avevo trovato qualcuno di cui mi fidavo abbastanza per poter essere
vulnerabile, cosa che avevo creduto impossibile.
«Mi è mancato questo…» Fece scorrere le dita lungo la mia mascella, le
fece scivolare lungo la gola e poi vi posò la mano. Non strinse, ma mi
piacque il peso della sua mano. «Mi sei mancato.»
«Lo so,» dissi. Non mi piacevano i cambiamenti, e sembrava che le
nostre vite fossero in costante mutamento da molto tempo ormai. Mi
rendeva nervoso e, quando ero angosciato, mi ritiravo in me stesso. Mi
allontanavo dalle persone a cui ero più legato. Come se avessi bisogno di
punirmi per aver provato qualcosa.
«Mi hai detto di non abbandonarti.» Il suo respiro mi sfiorò la pelle e le
mie labbra si aprirono per il desiderio di baciarlo di nuovo. Ma non lottai;
lasciai che mi tenesse in pugno anche se volevo affondare i denti nella sua
pelle e assaggiare il suo sangue sulla mia lingua. «Ora io dico la stessa cosa
a te. Non abbandonarmi.» Mi toccò il lato della testa con un dito, la sua
lingua scivolò languida lungo il mio labbro inferiore prima di ammettere:
«Quando sei fisicamente davanti a me, ma non mentalmente… non riesco
a sopportarlo. Ho bisogno di averti con me, Lucas. Lo capisci?»
«Capisco,» risposi. Mi portò la sigaretta alle labbra, con attenzione,
permettendomi di inspirare.
«Cosa vuoi da me, piccolo?» mi chiese. La sua mano mi strinse il collo e
io lasciai che il fumo mi uscisse dalla bocca. «Hai quello sguardo negli
occhi, sai? Come se avessi bisogno di qualcosa, come se avessi bisogno
di…»
Lasciò cadere la domanda, i suoi occhi scuri cercarono i miei.
«Di provare dolore,» risposi. Le sue pupille si dilatarono, le sue labbra
si separarono mentre il suo respiro accelerava. «Ho bisogno che tu mi
faccia del male. Che mi controlli.»
A volte avevo bisogno di distruggermi e di farlo in modo brutale, senza
pietà. Avevo bisogno del dolore per ricordarmi che ero umano, per
radicarmi in una realtà che spesso sembrava troppo caotica da sopportare.
Non c’era caos nel modo in cui Manson riusciva a sopraffarmi. Era
l’opposto: quando gli lasciavo il controllo, sentivo pace, chiarezza.
Mi avvicinai, facendo scorrere le dita sulla sua guancia. Era davvero un
uomo meraviglioso. Mi piaceva il modo in cui si appoggiava alla mia
mano, come i suoi occhi non lasciavano mai i miei. Diceva che spesso
parlavo in silenzio e che per questo osservava il mio viso con tanta
attenzione. Cercava le cose che lasciavo in sospeso.
«Tu sei ciò di cui ho bisogno,» dichiarai.
Mi fece un sorriso sghembo mentre si chinava per baciarmi. Il suo bacio
fu deliziosamente lento, e io aggrovigliai le dita nei suoi capelli, tenendolo
stretto. Era inebriante, un dio imperfetto che non potevo non adorare. La
sua imperfezione lo rendeva sacro, la sua forza lo rendeva santo. Ma la
lussuria che mi ispirava lo rendeva malvagio, e la facilità con cui mi
piegava alla sua volontà era quanto di più vicino alla divinità potessi
immaginare.
Si separò da me, facendo un altro tiro mentre allentava la presa sulla
mia gola.
«Togliti questa,» ordinò, tirando l’orlo della mia maglietta prima di
alzarsi.
Obbedii e lo seguii quando scese dal retro della Bronco. Gettai via la
maglietta e lui mi spinse contro la fiancata del veicolo, con il metallo
freddo che mi colpì la pelle. Mi fissò il petto e mi bloccò per la gola,
tracciando con la sigaretta le linee della mia carne tatuata, muovendola
lentamente nell’aria. Avvicinò la punta arroventata alla mia pelle,
facendola passare sopra un piccolo tratto di pelle non coperto
dall’inchiostro.
«Implorami,» sussurrò. Non voleva avere dubbi. Non voleva temere di
fare qualcosa che non bramassi. Ero così irrequieto che pensavo che sarei
esploso, aspettavo sul filo del bisogno disperato che mi desse ciò che
agognavo.
«Ti prego, fammi male, cazzo.» Riuscii a far uscire quelle parole, dure e
grevi. «Usami. Scopami. Dimostrami che non potrò mai allontanarmi da
te.»
Le sue labbra si schiantarono contro le mie e la sigaretta premette
contro il mio petto. Fu solo per un attimo, solo il tempo necessario perché
il bruciore si manifestasse. Il dolore non mi spaventava, anzi, mi ci
crogiolavo.
Mi faceva sentire umano. Carne e sangue, mente e anima finalmente
uniti in un unico essere completo.
Gemetti nella sua bocca, i suoi fianchi premettero contro i miei mentre
lui spegneva la sigaretta e la schiacciava sotto lo stivale. La sua lingua
scivolò oltre le mie labbra e la sua mano sulla mia gola strinse proprio
sotto la mascella.
Mi piaceva giocare a spegnere le sigarette sulla mia pelle. Era una brutta
abitudine, distruttiva, piena di odio verso la mia stessa carne. Manson mi
aveva fatto smettere con la promessa che l’avrebbe fatto lui al posto mio,
se glielo avessi chiesto. Il controllo che cercavo nell’autodistruzione era
qualcosa che potevo trovare con lui. Qualcosa che potevo affidare a lui.
A volte avevo bisogno di qualcuno che mi dicesse quando era
abbastanza, prima che mi riducessi in pezzi.
Cercai la fibbia della sua cintura, la aprii e afferrai il suo cazzo
attraverso gli slip. Era caldo nella mia mano, e pulsò quando lo strinsi. Mi
spinse in ginocchio e io premetti il viso in mezzo alle sue gambe e inspirai
a fondo. Stavo praticamente salivando, la mia testa era inondata dal suo
profumo muschiato.
Si tirò giù gli slip e io affondai le dita nei suoi fianchi, prendendo il suo
cazzo in bocca finché il mio naso non fu sepolto nei suoi peli scuri. Me lo
spinse in gola, con una mano premuta contro la parte posteriore del mio
cranio.
«Strozzatici,» mormorò, e il piacere nella sua voce mi rese famelico.
«Bagnalo per bene. Fallo per me, piccolo.»
Mi tenne fermo fino a farmi venire i conati di vomito, finché non mi
lacrimarono gli occhi e non riuscii più a respirare, con i polmoni che mi
dolevano per la mancanza d’aria. Ma non mi importava. Volevo
raggiungere quel limite di sopportazione e superarlo.
Si sfilò dalla mia bocca e le mie labbra erano ancora aperte quando mi
sputò in faccia.
«Grazie, signore.» Gli sorrisi, con il petto stretto da una risata ferina,
tutto per la beatitudine di averlo sopra di me. Mi tirò in piedi e mi girò,
sfiorando la mia spina dorsale con le unghie.
Premette il suo corpo contro il mio, bloccandomi. Poi fece: «Non
muoverti. Torno subito.»
I secondi in cui se ne andò, rovistando nella parte anteriore della
Bronco, sembrarono un’eternità. Trattenni il fiato, contando ogni istante
che passava, appoggiando la fronte contro il vetro freddo del finestrino.
Quando tornò, aveva in mano una bottiglietta di lubrificante.
Tenevamo quella roba dappertutto, per ogni evenienza. Nei vani
portaoggetti, nei cassetti del comodino, nelle tasche delle giacche. Non
volevamo farci cogliere impreparati.
Mi fece rimanere in piedi mentre mi spogliava. Iniziando dagli stivali, si
inginocchiò per allentare i lacci gialli. Mi abbassò i jeans,
schiaffeggiandomi via le mani quando cercai di farlo da solo.
«Abbi pazienza,» disse, una volta che fui nudo e lui ancora vestito. Gli
davo le spalle e il mio petto era premuto contro il veicolo. Era così difficile
rimanere così, obbedire ai suoi ordini di non muoversi e aspettare. Non
ero paziente. L’attesa era quasi impossibile da tollerare.
«Fai in modo che faccia male.» Ripetei le parole come una preghiera
mentre lui mi baciava la spalla, graffiandomi il braccio con le unghie. Udii
un suono, lo scatto di un tappo di bottiglia, e poi le sue dita mi
sondarono, bagnate di lubrificante. Una premeva nel mio culo, mentre
con l’altra mi stringeva la nuca. Prese tempo prima di aggiungere un
secondo dito, e io gemetti quando si fece strada dentro di me.
«Ne vuoi ancora?» chiese. La sua voce era bassa nel mio orecchio
mentre le sue dita pompavano dentro di me. Il mio cazzo stava
sgocciolando sulla Bronco, gli umori si stavano accumulando sul metallo.
«Di più… cazzo, dammi di più» ringhiai. Ne avevo bisogno ora, subito.
Non volevo aspettare. Non mi andava di arrovellarmi sul dolore. Volevo
perdermi nel dolore e nell’agonia, finché non ci fosse stato più nulla nel
mio cervello.
Ci fece spostare di lato e mi costrinse ad abbassare la testa, finché non
fui piegato a novanta nel retro della Bronco. Il tremore del suo braccio
indicò quanto fosse impaziente di farlo. Un terzo dito si infilò dentro di
me e io sbattei il pugno contro la sottile moquette così forte da farmi male.
«Fallo,» mormorai. «Fallo, fallo, fallo, cazzo, ti prego…»
Affondò le dita ben oltre le nocche, pompandole dentro finché il mio
pene non ebbe un fremito e presi ad ansimare a denti stretti. Le mani mi si
strinsero a pugno quando lui ritirò le dita da dentro di me e la punta del
suo cazzo mi premette contro.
Si piegò avanti sulla mia schiena, la lingua scivolava lungo la mia spina
dorsale. «Se è troppo pronuncerai la parola ‘rosso’,» mi rammentò, e io
ringhiai per la frustrazione. Mi strinse il collo in segno di avvertimento.
«Promettimelo.»
«Va bene, cazzo. Sì, te lo prometto.»
Affondò dentro di me, allargandomi con una lenta e pungente fitta che
mi fece cacciare un gemito rumoroso. La sua morsa sul mio collo mi fece
stare fermo, mantenendomi in posizione mentre mi adattavo a lui.
«Cazzo, dannazione…» Ansimai, le gambe mi tremavano mentre lui
ritraeva i fianchi e si spingeva di nuovo in avanti, sbattendo contro di me.
La sensazione mi travolse, fondendosi in ogni angolo del mio cervello
come una sostanza appiccicosa che annegava ogni altra cosa sul suo
cammino. Niente paura, niente frustrazione. Niente pensieri vorticosi e
caotici.
Solo piacere. Solo agonia. Solo noi.

È
«È questo ciò di cui avevi bisogno, cucciolo?» Le sue parole erano
roche. Le pronunciò con la bocca poggiata sulla mia schiena, con i denti
che mi sfioravano la pelle come se volesse impiantare le parole nella mia
carne. «È questo che ti meriti?»
Cercai di rispondere. Ma lui si sputò sul palmo della mano e allungò
una mano per afferrarmi il cazzo e masturbarlo. Le sue dita si muovevano
su di me con un movimento tale da farmi rovesciare gli occhi all’indietro. I
miei soliti sforzi per rimanere stoico si sgretolarono, i gemiti che lui mi
faceva uscire dalla bocca erano spudoratamente chiassosi. Spingevo il mio
cazzo contro la sua mano, a corto di fiato.
«Me lo merito…» La mia voce era strozzata e i miei muscoli si tesero
mentre precipitavo oltre il punto di non ritorno. Non riuscivo a
muovermi, se non per tremare. Non riuscivo a far uscire di bocca una sola
parola in più.
Un brivido attraversò ogni mio nervo, dalla punta dei piedi fino alla
testa. Il mio seme schizzò sulla sua mano mentre venivo, perdendomi
nell’estasi. Avvertii una sensibilità insopportabile quasi all’istante e
boccheggiai mentre lui continuò a masturbarmi, fino a quando non mi
venne voglia di raggomitolarmi su me stesso e fuggire.
«Prendilo per me,» grugnì lui, e le sue spinte si fecero più forti, dotate
di una nuova intensità. Si appoggiò con forza alla mia schiena, il suo
respiro era affannoso e rovente mentre si seppelliva in profondità dentro
di me. Il suo cazzo pulsò quando venne, il suo corpo ebbe un fremito.
Per quasi un minuto nessuno dei due si mosse. Non riuscimmo a fare
altro che rimanere in piedi, con le gambe che ci tremavano, appoggiati lì a
riprendere fiato.
Alla fine, anche se ancora con parole tremanti, sussurrai a bassa voce:
«Ti amo.»
Lui appoggiò la testa contro la mia schiena, il suo respiro caldo sulla
mia pelle. «Anch’io ti amo.»
Si tirò fuori da me, mantenendo la presa sul mio braccio, quindi ci
infilammo di nuovo nel retro della Bronco e crollammo.
«Non te lo dico abbastanza,» ammisi. «Ci penso sempre, dannazione.
Ti guardo…» Gli lanciai un’occhiata – il sudore sulla sua pelle, il beato
bagliore sul suo viso. «E penso a quanto ti amo, ma non lo dico, cazzo.»
I suoi occhi erano socchiusi sotto la luce che si stava affievolendo. «So
che ci provi.»
«Devo sforzarmi di più. So che non ci riesco sempre. Non con te o…
con Jess, o Vincent, o Jason. Ma ci sto provando. E continuerò a provarci.
Voglio che tu lo sappia.»
Mi spaventava il modo in cui lo amavo, così come mi spaventava amare
Jason e Vincent. C’era tanto da perdere, troppo. E ora…
Ora c’era anche Jessica.
Dio, mi terrorizzava.
Ci sdraiammo fianco a fianco, accoccolati l’uno contro l’altro,
accendemmo un’altra sigaretta e ce la passammo. Il sole era sparito e i
grilli frinivano nell’erba alta. L’aria si stava rinfrescando, il caldo
cominciava finalmente ad affievolirsi.
«Credo che anche lei ti ami,» dissi all’improvviso, e lui si spostò accanto
a me.
«Jess? Ne dubito.»
«Non dovresti. Avresti dovuto vedere quanto era preoccupata per te
quando sei uscito di casa.» La mia testa era appoggiata sul suo braccio e
lui lo strinse di più intorno a me. «Credo che, se avessi fatto a botte con
tuo padre, lei si sarebbe unita a me.»
All’inizio non mi ero aspettato molto da lei. Un tipo come me non
poteva aspettarsi nulla da una donna come lei. Ma Jess non mancava mai
di sorprendermi. Era determinata, di una tenacia che non poteva passare
inosservata, eppure ora riuscivo a vedere le crepe nella sua armatura, le
insicurezze, le preoccupazioni, la paura.
Non era così diversa da me come avevo pensato. Forse era per questo
che mi faceva sentire così, come se volessi aggrapparmi a lei e allontanarla
allo stesso tempo.
«Non credo che possa amarmi,» riflettei, e Manson mi schernì.
«Se è questo che pensi, allora vorrei che tu vedessi come ti guarda,»
replicò. «Siete entrambi troppo dannatamente orgogliosi.»
«Non vale la pena soffermarsi su questo,» osservai, prendendo la
sigaretta quando me la porse. «Non l’avremo con noi ancora per molto.»
Il pensiero non mi piaceva affatto. Anzi, odiavo l’idea che potesse
scomparire di nuovo dalle nostre vite, al punto che mi tremavano le dita
per la rabbia. Doveva restare e darci la possibilità di trovare una
soluzione.
«Ti ricordi cosa ti ripetevo?» domandò Manson. «Quando eravamo
adolescenti e venivamo qui a parlare di cazzate… e mi dicevi che non
volevi vedere un altro giorno…»
Me lo ricordavo, certo che me lo ricordavo. Ricordavo la disperazione
che avevo provato, il dolore che avevamo condiviso, quanto fossi stato
senza speranza.
«Se riesci a superare la notte, vedrai di nuovo il sole,» mormorai,
ripetendo le parole che mi aveva detto allora. «Continua a inseguire la
prossima alba.» Chiusi gli occhi mentre espiravo. «La notte sembra
davvero fottutamente buia, Manson, ma io continuo a inseguire le albe.»
Mi strinse il braccio, chinando la testa per premerla contro la mia. «Già.
Ultimamente le cose sono diventate un po’ più buie di quanto vorrei.»
Passarono alcuni minuti di silenzio, prima che lui dicesse: «Dobbiamo
lasciare la città per qualche giorno. Andare da qualche altra parte,
prenderci una pausa. Dare a mio padre la possibilità di andare a farsi
fottere.»
«Sì? Non mi dispiacerebbe. I genitori di Vincent potrebbero badare ai
cani.» Non riuscivo a ricordare l’ultima volta che avevamo fatto una
vacanza, anche breve. Sembrava che ci fossimo trasferiti in quella grande
casa e che da allora avessimo lavorato fino allo sfinimento ogni giorno. «E
Jess? È strano lasciarla.»
«Non la lasceremo,» disse lui, con un tono riflessivo, e le sue labbra si
incurvarono in un ghigno. «Ho dei progetti per lei.»
«Mi piace quando sorridi così,» sussurrai. Quel sorrisetto da sadico sul
suo volto significava solo guai, e io ero pronto ad affrontarli. «Qual è il
piano?»
«Mi ha parlato della sua ultima fantasia,» raccontò, grattandosi il mento
con il pollice. «Mi ha detto che vuole essere rapita, che vuole
sottomettersi, che tutte le sue preoccupazioni e i suoi problemi
spariscono. Io dico di realizzare questa fantasia.»
Un brivido mi percorse la schiena al solo pensiero. «Oh, cazzo, sì.
Prendere il nostro bel giocattolino e portarlo via, tutto per noi? Sembra
proprio la vacanza di cui ho bisogno.»
Non era solo la lussuria a eccitarmi. Il bisogno di stringere Jess a me e
di non lasciarla mai andare, per quanto mi facesse impazzire, diventava
ogni giorno più intenso. Avevo dei problemi di abbandono e non sapevo
cosa Jess provasse per noi, ma sapere che quella era la sua più grande
fantasia mi fece esplodere nel petto una ridicola ondata di speranza.
Voleva qualcosa che noi potevamo darle. Una via di fuga, uno sfogo per
la sua oscurità, un luogo sicuro dove poter realizzare tutti i suoi sporchi
desideri. Volevo darle questo. Volevo dimostrarle che, a prescindere dalle
sue paure, avrebbe potuto avere tutto quello che voleva e anche di più.
Avevo bisogno che questa volta fosse diverso. Avrei infranto ogni
dannata regola necessaria per vincere, per reclamare un premio che
pendeva davanti ai nostri occhi da anni.
Questo era il nostro gioco, e non mi importava cosa ci sarebbe voluto
per renderla nostra alla fine.
Continua…
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LA SERIE
CONTINUA CON
PERDENTI - Parte II
E’ solo un gioco? - Vol. 3
di Harley Laroux
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Ringraziamenti
Quando ho pubblicato «La sfida», non pensavo che una novella
bizzarra e perversa come quella di Halloween avrebbe avuto molto
seguito. Ma man mano che sempre più persone la leggevano, la
apprezzavano e me ne parlavano, una cosa divenne molto chiara: la storia
di Manson, Jess e dei ragazzi non poteva ancora finire. I lettori volevano
saperne di più e io volevo approfondire questi personaggi, volevo dar loro
lo spazio per raccontare la loro storia come doveva essere raccontata.
Quindi il primo ringraziamento che devo fare è a tutti coloro che hanno
voluto che «La sfida» continuasse. Tutti coloro che sapevano che Manson,
Jess, Jason, Vincent e Lucas avevano una storia da raccontare, tutti coloro
che hanno aspettato con tanta pazienza che scrivessi questo libro. Vi
apprezzo infinitamente.
A mio marito, come sempre. Hai visto il meglio e il peggio di me in
questo processo. Consoli i miei crolli, le lacrime e tutti i miei dubbi. E ti
assicuri che io mangi e che esca di casa ogni tanto. Grazie per avermi
sempre sostenuta, per esserti preso cura di me e per avermi mostrato tutto
l’amore che ispira questi libri. Senza di te non ci sarebbe Manson Reed.
A Z, la mia adorabile editor, grazie per tutto il lavoro che hai fatto su
questo mattone di manoscritto! So che posso sempre contare su di te per
far brillare questi libri.
Tasha, grazie mille per essere la mia beta! E la mia terapista part-time.
Questo libro non sarebbe quello che è senza di te.
A tutti i fantastici collaboratori di JLCR Author Services, grazie di
tutto! Non so cosa avrei fatto senza di voi.
A Bethany, sono convinta che tu sia letteralmente una Superwoman.
Grazie per il tuo instancabile lavoro e per aver creduto in questi libri.
Al mio gruppo di lettori di Wicked Dark Desires e al team ARC, tutti
voi mi aiutate a mantenere l’ispirazione giorno dopo giorno e mi spingete
a migliorare sempre come scrittrice. Questi libri non sarebbero mai finiti
se non fosse per l’incredibile sostegno e la gentilezza che mi avete dato
tutti. Grazie!
A tutte le booktagrammer, blogger, creatrici di TikTok, reviewer e
artiste che si prendono il tempo di condividere il loro amore per qualsiasi
cosa io abbia scritto: non potrò mai ringraziarvi abbastanza. La creatività e
l’amore che vedo nascere dalla comunità dei libri è davvero incredibile e
sono così grata di farne parte.
E infine, a tutti i lettori che hanno preso in mano questo libro, grazie.
Grazie per avermi dato fiducia e per avermi permesso di accompagnarvi in
un’avventura strana, oscena e selvaggia. Vi prometto che ne arriveranno
molte altre.
Alla prossima,
Harley
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Indice
Prima di copertina
Copyright
Avvertenze
Nota dell'Autrice
Dedica
Titolo
1. Jessica
2. Jessica
3. Manson
4. Jessica
5. Vincent
6. Jessica
7. Jason
8. Jessica
9. Jessica
10. Lucas
11. Jessica
12. Vincent
13. Jessica
14. Lucas
15. Jessica
16. Manson
17. Jessica
18. Jason
19. Jessica
20. Jason
21. Jessica
22. Lucas
23. Jessica
24. Jessica
25. Lucas
26. Jessica
27. Vincent
28. Jessica
29. Jessica
30. Jessica
31. Jason
32. Jessica
33. Manson
34. Jason
35. Jessica
36. Manson
37. Jessica
38. Lucas
39. Jessica
40. Jessica
41. Vincent
42. Jason
43. Jessica
44. Jessica
45. Jessica
46. Lucas
47. Vincent
48. Jessica
49. Manson
50. Jessica
51. Manson
52. Lucas
La serie continua...
Ringraziamenti

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