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LDB

1
Scienza
e filosofia

collana diretta
da Armando Massarenti

2
Paul Thagard

IL CERVELLO
E IL SENSO
DELLA VITA

Traduzione di Arnaldo Benini

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Edizione originale:
Paul Thagard, The Brain and the Meaning of Life
© 2010 by Princeton University Press
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Progetto di copertina: Alfredo La Posta

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Indice

Prefazione

Ringraziamenti

1. Tutti abbiamo bisogno di saggezza


Perché vivere
Fonti della saggezza
Approcci filosofici
Importanza di mente e cervello
Anticipazioni
Conclusione

2. L’evidenza prevale sulla fede


Fede contro evidenza
Come agisce la fede
Come agisce l’evidenza
Evidenza e inferenza nella scienza
Medicina: evidenza o fede?
Evidenza, verità, Dio
Ragionamenti a priori ed esperimenti mentali
Conclusione

3. La mente è il cervello
La rivoluzione del cervello
Evidenze a favore dell’identità di mente e cervello
Come il cervello spiega
Percezione
Memoria
Apprendimento
Inferenza e linguaggio
Farmaci e malattie
Esistono evidenze a favore del dualismo?
Sopravvivenza dopo la morte

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Parapsicologia
Coscienza
Obiezioni all’identità di mente e cervello
Chi sei tu?
Conclusione

4. Come i cervelli conoscono la realtà


La realtà e le ragioni per essere scontenti
Conoscere gli oggetti
Apparenza e realtà
Concetti
Conoscenza oltre la percezione
Coerenza nel cervello
Coerenza e verità
Conclusione

5. Come i cervelli sentono le emozioni


Le emozioni sono importanti
Il cervello che valuta
Valutazione cognitiva contro percezione corporea
Sintesi: il modello EMOCON
Coscienza emotiva
Spiegazioni a più livelli
Razionalità e sventure affettive
Conclusione

6. Come i cervelli decidono


Grandi decisioni
Inferenza al progetto migliore
Decisioni nel cervello
Cambiare obiettivi
Scegliere gli obiettivi
Rinunciare agli obiettivi
Rivalutare gli obiettivi
Razionalità degli scopi
Come prendere cattive decisioni
Vivere senza libera volontà
Conclusione

7. Perché la vita è degna d’essere vissuta


Il significato della vita
Nichilismo
Felicità
Scopi e significato

6
Amore
Lavoro
Gioco
Conclusione

8. Necessità e speranze
Desideri contro necessità
Necessità vitali
Come amore, lavoro e gioco soddisfano i bisogni
Equilibrio, coerenza e cambiamento
Speranza contro disperazione
Conclusione

9. Cervelli etici
Decisioni etiche
Coscienza e intuizioni morali
Neuroni specchio
Empatia
Motivazione morale
Teoria etica
Oggettività morale
Responsabilità
Conclusione

10. Dare un senso a tutto


Un insieme di relazioni
Saggezza raggiunta
Che tipo di governo dovrebbero avere le nazioni?
Come realizzare un cambiamento creativo?
Che cos’è la conoscenza matematica?
Perché c’è qualcosa anziché niente?
Il futuro della saggezza

Glossario

Bibliografia

Indice dei nomi

7
Ai miei figli, Adam e Dan

8
Prefazione

Avevo quindici anni quando lessi un libro che trasformò completamente la mia vita,
indirizzandomi verso un percorso intellettuale che comprende la filosofia e la scienza
cognitiva, cioè lo studio interdisciplinare di come funziona la mente. Lavoravo nella
biblioteca pubblica di Saskatoon, nel Saskatchewan, quando, sistemando libri negli
scaffali, m’imbattei in un testo di Bertrand Russell, Perché non sono cristiano. Per uno
studente di un’università cattolica che era stato chierichetto e in un momento in cui
stavano crescendo in me i dubbi su quanto mi dicevano le monache e i sacerdoti della
scuola, era un titolo incendiario. Letteralmente divorai la demolizione di Russell degli
argomenti più comuni a favore dell’esistenza di Dio e cominciai a leggere altri filosofi
scettici, come John Stuart Mill e Jean-Paul Sartre. Più o meno nello stesso periodo trovai,
nel reparto sulle professioni della biblioteca, un altro libro che illustrava quanto fosse
piacevole la vita del professore universitario. Decisi di tentare di diventarne uno.
Sorprendentemente il sogno si è avverato, ed ora, quarant’anni dopo, posso guardare ad
una meravigliosa traversata accademica non solo dalla religione alla filosofia ma anche
alla psicologia, all’intelligenza artificiale e alla neuroscienza. Oggi, davanti agli ultimi
sviluppi nello studio di come il cervello crea la mente, provo la stessa eccitazione di
quando scoprii la filosofia. L’esplosione dei risultati teorici e sperimentali della
neuroscienza degli ultimi dieci anni ha portato ad una notevole comprensione di come la
gente pensa, percepisce ed agisce. Questi risultati influiscono notevolmente sui
tradizionali problemi filosofici e su tutte le questioni quotidiane relative a come gli
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uomini possano condurre la vita nel modo migliore. Questo libro è un insieme dei molti
argomenti a favore del fatto che le neuroscienze cognitive sono decisive per temi
filosofici fondamentali come la conoscenza, la realtà, la morale, e il significato della vita.
Io intendo dimostrare come questioni metafisiche ed etiche, una volta riservate al
pensiero religioso, possono essere meglio chiarite sapendo come i processi cerebrali ci
mettono in grado di percepire il mondo, le ragioni per cui è com’è e come dovrebbe
essere.
Il risultato di molte idee emergenti su mente e cervello è una rivoluzione concettuale
altrettanto significativa del cambiamento operato da Copernico, che pose al centro del
cosmo il Sole anziché la Terra, e di Darwin, che considerò gli esseri umani animali
prodotti dell’evoluzione e non della creazione divina. Giacché, a differenza di quelle
copernicana e darwiniana, la rivoluzione attuale non è associabile all’attività di un
singolo pensatore, l’ho battezzata Brain Revolution, cioè «rivoluzione del cervello». Le
sempre più provate evidenze della neuroscienza e della psicologia impongono di
abbandonare le idee tradizionali circa l’anima, la libera volontà e l’immortalità.
Per molti di noi, un passo del genere è molto doloroso. Intendo dimostrare che la vita
ha significato e valore anche secondo la concezione che io chiamo naturalismo neurale.
Il naturalismo è la concezione che affronta i problemi filosofici nel modo migliore, con
evidenze e teorie scientifiche piuttosto che con fonti soprannaturali. Molte branche della
scienza sono rilevanti, dalla fisica all’antropologia, ma avremo modo di vedere che la
neuroscienza è particolarmente importante per i temi connessi alla natura della mente e
del significato.
Il naturalismo presenta vantaggi sostanziali sia rispetto alla fede religiosa sia rispetto
al ragionamento concettuale basato sull’esperimento mentale. La scienza da sola non può
risolvere questioni filosofiche ineluttabili, ma può collaborare con la filosofia per
costituire teorie generali sulla realtà e sulla morale. Questo libro spiega come i cervelli
giungono alla conoscenza del mondo reale e prendono decisioni assennate e rilevanti in
virtù dell’amore, del lavoro e del gioco.
Ho cercato di scrivere questo libro senza gerghi e oscurità, in modo che possa essere
capito da lettori intelligenti senza particolari preparazioni. Esso è scritto a due livelli. Ho
cercato di rendere il testo il più possibile accessibile, spiegando le idee chiave senza
riferimenti alla letteratura scientifica e filosofica. Gli studiosi troveranno note e ampi
riferimenti bibliografici, che potranno essere di guida per ulteriori letture e
approfondimenti. Alla fine del libro un glossario spiega, almeno parzialmente, il
significato dei termini fondamentali. Altro materiale può essere trovato su Internet
all’indirizzo http://press.princeton.edu/titles/9152.html.

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Ringraziamenti

Per i commenti alle prime stesure del lavoro sono grato a Jonathan Aycan, William
Bechtel, Chris Eliasmith, Lloyd Elliott, Scott Findlay, Carole Lee, Abninder Litt, Josef
Nerb, Cameron Shelley, Peter Slezak, Terry Stewart e Joanne Wood. Grazie al redattore
Eric Schwartz per i preziosi suggerimenti e per il sostegno entusiastico e a Lauren Lepow
per l’accorto lavoro editoriale. Grazie a John Michela e a Jennifer La Guardia per gli utili
suggerimenti circa obiettivi e bisogni. Vicki Brett è stato d’aiuto per la bibliografia. Le
figure Fig. 3.1, Fig. 3.2, e Fig. 5.1 sono di Peter Sylwester, riprese, con consenso, da
Sylwester (2007). Grazie a Don Addis per il consenso all’uso della vignetta della
prefazione. Ho ricevuto un aiuto finanziario sostanziale dal Natural Sciences and
Engineering Research Council del Canada.

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1
Tutti abbiamo bisogno di saggezza

Perché vivere?

Perché non ti uccidi? Albert Camus, romanziere e filosofo francese, premio Nobel per
la letteratura nel 1957, comincia il Mito di Sisifo sostenendo che «c’è un solo problema
filosofico veramente serio, il suicidio». Camus sostiene che il giudizio sul valore della
vita è il problema fondamentale della filosofia. Se la vita non ha senso, è inutile
affrontare le tradizionali questioni filosofiche sulla natura della realtà, sulla conoscenza e
sulla moralità. Mentre la domanda se la vita sia degna d’essere vissuta è veramente
pressante, quella sul suicidio è rara. La domanda, perché non ti uccidi, sorge solo quando
si pensa che ci siano ragioni per farlo, ma la vita è raramente tanto miserabile da indurre
al suicidio. Nei momenti in cui sconforto, malattia e disperazione prevalgono, la gente
intraprende contro di loro la quotidiana battaglia della vita. Sfortunatamente non son
pochi i giovani che devono condurla: nelle università degli Stati Uniti il 10% degli
studenti ha ammesso di aver pensato seriamente al suicidio nel corso dell’anno
precedente. La maggior parte di noi si confronta con la questione meno drastica di come
tirare avanti, di come vivere le nostre vite. La domanda sul significato della vita non è, di
regola, quella scettica se essa ne abbia uno, ma piuttosto quella costruttiva di valutare
quali aspetti della vita la rendano degna di essere vissuta. Per la maggioranza di noi la
religione è la fonte principale delle risposte circa il significato della vita. Quando, da
bambino, negli anni Cinquanta, frequentavo la scuola cattolica, imparai dal catechismo
che «Dio mi ha creato per conoscerlo, amarlo, servirlo in questo mondo, e per essere
felice con lui per l’eternità». Per la religione, il significato della vita non è legato ai banali
aspetti d’ogni giorno, ma ai nostri profondi legami con Dio, che ci ha dato la vita e ci
offre l’eterna felicità. Tuttavia, per Camus e per altri, come me, che hanno abbandonato la
fede religiosa, la risposta teologica alla domanda sul significato della vita è inverosimile.
Ciò implica che la vita è assurda, ridicola e futile, così assolutamente priva di senso che il
suicidio dovrebbe essere l’assillo quotidiano di tutti noi? Niente affatto. Secondo
l’eminente psicologo clinico Martin Seligman, i tre ambiti della vita sono l’amore, il
lavoro e il gioco, che per la maggioranza della gente sono le ragioni della vita. Se la
vostra vita è ricca dell’amore dei familiari e degli amici, se il lavoro è produttivo e
gradevole, se avete passatempi e svaghi che vi procurano momenti di gioia, è raro che il

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tema del senso della vita venga a importunarvi. La questione estrema del suicidio di cui
parla Camus non si pone. Nei capitoli 7 e 8 vedremo che la psicologia e le neuroscienze
mostrano che l’amore, il lavoro e il gioco danno un senso alla vita della maggioranza
della gente, non solo dei credenti. Trascurando la minaccia di situazioni assurde, i
problemi sul senso della vita insorgono quando i tre aspetti entrano in conflitto fra loro.
Ad esempio, coppie con figli piccoli possono vivere gravi conflitti fra amore e lavoro, se
le ineludibili esigenze dei bambini sottraggono tempo ed energia allo sviluppo
professionale. I giovani devono trovare il modo di conciliare le delizie del tempo libero,
come lo sport e la musica, con la necessità inderogabile di trovare un lavoro e di
mantenersi. Uno dei pochi vantaggi dell’invecchiamento è che le minori responsabilità
familiari e i risultati raggiunti o ridimensionati rendono assai più gestibili i contrasti fra
gli ambiti dell’amore, del lavoro e del gioco. Io intendo spiegare che il significato della
vita non consiste soltanto nella devozione a Dio, ma che dipende da molti aspetti la cui
importanza cambia durante il corso della vita. Questo non è un motivo per precipitare
nell’assurdità di cui era preda il ventenne Camus. Lo scopo del mio libro è utilizzare la
ricerca teorica e sperimentale della psicologia e delle neuroscienze per fornire una
comprensione più ampia e profonda di come l’amore, il lavoro e il gioco siano buone
ragioni per vivere. Una risposta al dilemma filosofico di Camus circa il significato della
vita è strettamente legata alle scoperte della scienza, che molti filosofi e religiosi
considereranno ingannevoli, dal momento che ritengono che la filosofia debba occuparsi
della verità eterna e assoluta e non delle scoperte confuse e spesso provvisorie della
scienza empirica. Sfortunatamente la filosofia non ha avuto maggior successo della
religione nella ricerca di verità eterne. Cerco di dimostrare che la neuropsicologia gioca
un ruolo molto importante non solo per il significato della vita, ma anche per domande
che ritengo fondamentali sulla natura della realtà, della conoscenza e della morale.
Secondo me, le domande fondamentali della filosofia, senza alcuna gerarchia di valori,
sono:

– Che cos’è la realtà?


– Come possiamo conoscerla?
– Perché la vita è degna d’essere vissuta?
– Che cosa rende le nostre azioni giuste o sbagliate?

Contrariamente a Camus, penso sia più opportuno affrontare il problema del


significato della vita dopo aver preso in considerazione la natura della nostra conoscenza
della realtà e dopo aver constatato quanto le due cose siano intimamente connesse. Ad
esempio, la domanda circa il valore della vita pone la questione della legittimità morale
dei fini dell’amore, del lavoro e del gioco. Inoltre, temi come la natura della conoscenza e
della realtà sono cruciali quando si tratta di moralità e di significato della vita. Dobbiamo
sapere ciò che siamo e come possiamo acquisire la conoscenza per valutare il valore
oggettivo della vita, la correttezza o l’errore morale delle nostre azioni.

Fonti della saggezza

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La parola filosofia deriva da due parole greche che indicano l’amore per la saggezza.
Che cos’è la saggezza, che la filosofia dovrebbe cercare, e come può essere trovata?
Saggezza non è conoscenza, perché tanti sono gli aspetti della conoscenza di scarsa
importanza generale. Sapere che Toronto è una città dell’Ontario non mi rende certamente
più saggio. Piuttosto dobbiamo riflettere sulla saggezza come conoscenza delle cose che
contano, sul perché contano e su come la si può raggiungere. Sapere ciò che conta
dovrebbe guidarci ad acquisire ulteriori aspetti importanti della conoscenza, invece di
molte credenze che possono essere vere, ma sono futili. A livelli più profondi, la saggezza
comporta la conoscenza non solo di ciò che è importante per gli esseri umani, ma anche
del motivo della sua importanza. Ad esempio, per essere saggi è necessario comprendere
l’importanza dell’amore e delle sue ragioni psicologiche e biologiche, e capire che ci
sono strade migliori e peggiori per trovarlo. Tutti gli uomini hanno bisogno di questa
saggezza per condurre la vita con efficacia. La saggezza può cambiare con l’età. I
bambini piccoli, per loro fortuna, quasi non ne hanno bisogno, perché alle loro necessità
provvedono i genitori o chi si prende cura di loro. Gli adolescenti, invece, affrontano
importanti transizioni, dal periodo in cui il gioco è la loro occupazione principale a quello
in cui si dedicano alla carriera e alla famiglia, e sperimentano una crescente importanza
del lavoro e dell’amore. L’equilibrio fra lavoro, amore e gioco è la chiave per raggiungere
soddisfazione e felicità nell’età matura. Le modificazioni delle responsabilità familiari e
le ridotte capacità fisiche delle persone anziane comportano la modificazione
dell’equilibrio fra i tre aspetti. L’antico filosofo greco Epicuro ha espresso efficacemente
la necessità della saggezza nell’arco di tutta la vita:

Nessuno esiti, da giovane, a cercare la saggezza e nessuno si stanchi di cercarla quando sta
invecchiando. Non c’è età adatta, non è mai troppo presto, o troppo tardi, per provvedere alla
salute dell’anima. Chi dice che la stagione per studiare filosofia non è ancora arrivata, o è già
passata, è come colui che sostiene che la stagione per la felicità non c’è ancora o non c’è più.
Sia i giovani sia i vecchi hanno il dovere morale di cercare la saggezza. I primi, in modo che,
crescendo, possano conservare con gratitudine lo spirito della giovinezza e delle sue belle
cose; gli altri, affinché non temano il futuro, perché sono contemporaneamente giovani e
vecchi. Dobbiamo impegnarci nelle cose che portano felicità, perché, se essa c’è, abbiamo
tutto, e, se manca, dobbiamo fare il possibile per trovarla.

Nel settimo capitolo intendo contestare la convinzione di Epicuro che la felicità sia il
significato della vita. Io preferisco parlare, anziché della salute dell’anima, di quella della
mente o del cervello. Condivido pienamente l’opinione che sia i giovani sia i vecchi
hanno l’obbligo morale di cercare la saggezza. La saggezza agisce a diversi livelli. In
linea generale, essa concerne il riconoscimento degli scopi fondamentali dell’amore, del
lavoro e del gioco. Inoltre, molta parte della saggezza riguarda il modo con cui
raggiungere tali scopi. Ad esempio, sapere come comportarsi in una relazione
sentimentale felice contribuisce a conseguire l’obiettivo dell’amore nella vita. Inoltre la
saggezza comprende molti tipi di conoscenza che completano l’informazione specifica
circa gli scopi principali della vita e il modo per raggiungerli. In particolare, la
conoscenza del fatto che mangiare in maniera appropriata mantiene in salute comporta
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che la malattia non venga ad interrompere il raggiungimento degli scopi principali. Una
saggezza particolarmente profonda concerne la conoscenza del perché amore, lavoro e
gioco siano così importanti. Nell’ottavo capitolo si sostiene che lavoro, amore e gioco
sono il significato della vita perché essi contribuiscono a soddisfare le esigenze umane.
Dove cercare tutti questi tipi di saggezza? I filosofi l’hanno cercata per millenni 1, ma
oggi c’è scarso consenso su quel che ci hanno insegnato. Il filosofo Jerry Fodor ironizza
sul fatto che chi sostiene che i filosofi dispongono d’imponenti risorse di saggezza pratica
non ha mai assistito a una loro riunione di facoltà. Il mio approccio alla saggezza è
inconsueto perché utilizzo la psicologia sperimentale e le recenti ricerche
neuroscientifiche per descrivere sistematicamente ciò che ha valore per l’uomo e perché
lo ha.

Approcci filosofici

L’approccio che preferisco, per rispondere alle questioni fondamentali della filosofia
collegate alle scoperte scientifiche, è il naturalismo 2. Da Platone in poi molti filosofi
hanno disprezzato il naturalismo, sostenendo che la scienza non è in grado di rispondere
alla domande filosofiche più profonde, non solo su come il mondo è, ma anche su come
dovrebbe essere. Essi ritengono che la filosofia debba arrivare, con la sola ragione, a
conclusioni vere a priori, cioè precedenti l’esperienza sensoriale. Sfortunatamente,
nonostante migliaia d’anni di tentativi, nessuno è stato in grado di trovare verità a priori
indiscusse. L’assenza di principi a priori universalmente accettati dimostra che la raffinata
tradizione filosofica platonica non è stata finora in grado di trovarli. La saggezza va
cercata con più modestia.
Qualche volta, però, la filosofia procede con eccessiva modestia. Il molto influente
filosofo austro-britannico Wittgenstein asseriva che la filosofia differisce dalla scienza
perché mira alla spiegazione concettuale. Nei suoi scritti giovanili egli si rivolse alla
logica formale per trovare gli strumenti adatti, più tardi al linguaggio ordinario. Egli
sosteneva che la filosofia «lascia ogni cosa com’è» 3. Molta della filosofia di lingua
inglese nel secolo XX ha perseguito solo il modesto scopo di chiarire i concetti esistenti.
Ma nessuno ha imparato molto analizzando la logica, o l’uso comune, delle parole saggio
e saggezza. Serve una teoria della saggezza che ci dica ciò che è importante e perché lo è.
Una tale teorizzazione richiede l’introduzione di concetti nuovi e l’eliminazione o la
modifica di concetti vecchi.
Il mio approccio, in questo libro, è di cercare la saggezza naturale, non nel senso che
essa, come si dice dei cibi, sia senza additivi chimici, ma nel senso scientifico di essere
guidata da esperimenti e teorie. Il naturalismo filosofico è intellettualmente più ambizioso
della spiegazione dei concetti, ma rifiuta Platone e le pretese religiose di cercare la verità
in regni soprannaturali. Nel secondo capitolo porterò un argomento sostanziale a favore
della necessità di basare ciò in cui crediamo sull’evidenza scientifica piuttosto che sulla
fede. Dal momento che psicologia e neuroscienze sono fonti particolarmente ricche di
evidenze rilevanti circa le quattro questioni filosofiche fondamentali della realtà, della

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conoscenza, del significato e della morale, ho chiamato il mio approccio naturalismo
neurale 4.

Importanza di mente e cervello

La psicologia sperimentale e le neuroscienze sono ambiti di ricerca ancora giovani. La


loro origine risale alla seconda metà del secolo XIX. Lo scopo del mio libro è mostrare
che esse possono contribuire a rispondere a questioni filosofiche centrali sulla natura
della realtà, sulla conoscenza, sulla morale e specialmente sul significato della vita. I miei
argomenti saranno prevalentemente empirici, basati su collegamenti di temi filosofici a
esperimenti e teorie della neuropsicologia. Analogamente ad altre scienze come la fisica,
la psicologia e le neuroscienze sono sia sperimentali che teoriche. Gli sforzi per capire la
mente sono antichi, risalgono ai pensatori greci vissuti oltre due millenni fa, come
Platone. Egualmente antichi sono gli sforzi di capire il mondo fisico. La scienza
sperimentale è sorta solo a partire dal secolo XVI, quando pensatori come Galileo
dimostrarono i vantaggi di basarsi, per trarre conclusioni sul mondo fisico, sull’evidenza
di osservazioni sistematiche strumentali e su esperimenti accuratamente progettati. Con i
telescopi da poco inventati, Galileo, studiando i pianeti, giunse all’inattesa scoperta delle
lune di Giove. Egli, inoltre, eseguì esperimenti per calcolare la velocità di caduta dei
gravi su piani inclinati. La superiorità degli approcci sperimentali al mondo rispetto ai
testi di autorità come Aristotele e Tommaso d’Aquino divenne sempre più evidente. Il
senso comune, la tradizione, la Chiesa cattolica dicevano che la Terra è ferma al centro
dell’universo, mentre le prove raccolte da Galileo, Keplero ed altri, combinate con le
teorie di Copernico e Newton, portarono alla conclusione irrefutabile che la Terra si
muove.
La psicologia, comunque, divenne sperimentale solo secoli più tardi, quando Willhelm
Wundt ed altri allestirono laboratori per condurre indagini sistematiche sulle attività
mentali. Le prime teorie psicologiche erano rozze, perché il linguaggio comune forniva
un vocabolario molto inadeguato alla descrizione del lavoro della mente. Assai rilevante
fu la svolta teorica degli anni Cinquanta, quando le crescenti conoscenze relative alla
computazione fornirono, grazie a simulazioni e processi meccanici, analogie sul modo di
operare della mente. Queste idee si svilupparono contemporaneamente a nuove tecniche
sperimentali, come la misurazione della velocità di reazione delle persone a stimoli
diversi. Oggi il campo interdisciplinare della scienza cognitiva 5 sviluppa teorie
computazionali per spiegare i risultati di molti diversi tipi di esperimenti psicologici.
Le neuroscienze presero a fiorire alla fine del secolo XIX, quando la nuova tecnica di
colorazione delle cellule rese possibile capire come i neuroni costituiscono il cervello. Il
biologo spagnolo Ramón y Cajal sviluppò la cosiddetta «dottrina dei neuroni», secondo la
quale le funzioni dei cervelli sono in gran parte dovute alle loro cellule nervose. Durante
la prima parte del secolo XX psicologia e neuroscienze si svilupparono
indipendentemente l’una dalle altre, e iniziarono a convergere solo negli anni Ottanta,
grazie alla combinazione di progressi sperimentali e teorici. Uno dei maggiori progressi
sperimentali fu l’invenzione di macchine che visualizzano il cervello in vita. Grazie ad

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esse è possibile osservare l’attività di aree del cervello mentre le persone eseguono
attività mentali. Un progresso teorico notevole fu lo sviluppo di schemi computazionali
sul modo in cui i neuroni interagiscono per generare processi e rappresentazioni
complessi. L’insieme di questi progressi portò alla neuroscienza cognitiva 6, cioè allo
studio teorico e sperimentale dei processi nervosi ai quali si deve il pensiero umano. La
combinazione degli esperimenti psicologici e neurologici con le teorie computazionali
che spiegano i loro risultati ha portato lo studio della mente molto al di là da quanto
l’introspezione casuale possa dirci sui fenomeni mentali. Lo scopo principale dei capitoli
dal terzo al decimo è mostrare la rilevanza dei risultati della neuroscienza cognitiva per
problemi filosofici riguardanti la realtà, la conoscenza, il significato della vita e la
morale.

Anticipazioni

Riassumendo ora il resto del libro corro il rischio di dar l’impressione di asserire
dogmaticamente molte opinioni non ancora discusse. Qui intendo offrire al lettore un’idea
di dove il libro vada a parare e di come i suoi temi siano collegati. Questa
interconnessione segue un processo olistico e parallelo, che non è facile afferrare con la
lettura, necessariamente seriale, di un capitolo dopo l’altro; tenterò perciò di fornire un
quadro d’insieme, ora in una forma preliminare, più diffusamente nel capitolo conclusivo,
dove tutti gli argomenti saranno collegati. Questo primo sguardo d’insieme è sbrigativo e
incompleto, ma dovrebbe nondimeno servire a introdurre alcune idee chiave necessarie
per dare risposte naturalistiche a questioni filosofiche.
Che cos’è la realtà? La mia risposta sarà che la realtà consiste di cose e processi
identificati da campi ben strutturati della scienza, con teorie corroborate da osservazioni
sistematiche e da esperimenti. È un’opinione molto controversa, perché elimina dalle
fonti della conoscenza della realtà sia la fede religiosa sia gli assunti a priori. Il secondo
capitolo argomenterà che la filosofia, come la medicina e la scienza, dovrebbe essere
basata sull’evidenza e non sulla fede. Collegare la realtà ai risultati delle indagini
scientifiche non comporta di per sé l’esclusione di entità spirituali come la divinità, le
anime e gli angeli, perché ci potrebbero essere osservazioni e risultati sperimentali la cui
spiegazione richiede teorie che postulano l’esistenza di tali entità. Storicamente, in verità,
lo sviluppo delle spiegazioni naturalistiche negli ambiti della fisica, della biologia e delle
altre scienze ha reso superflue le spiegazioni soprannaturali. Descriverò come le teorie
fisiche e biologiche hanno demolito gli argomenti teologici sull’origine e sulla natura
dell’universo per opera della creazione divina. Allo stesso modo il terzo capitolo renderà
evidente che le teorie neuropsicologiche sono oggi sufficientemente fondate da render
plausibile l’identità di mente e cervello, cosicché ipotesi sull’esistenza di divinità, anime
e angeli diventano superflue. La realtà è ciò che la scienza può scoprire.
Parlando dell’approccio scientifico alla realtà, il secondo capitolo traccia l’abbozzo di
una risposta alla seconda principale questione filosofica relativa a come conosciamo la
realtà. Entrerò nei dettagli di come lavora il pensiero scientifico, e di come osservazioni
ed esperimenti costituiscano un’evidenza che può esser spiegata da teorie scientifiche in

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competizione. La medicina basata sull’evidenza è un esempio dei vantaggi derivanti dal
ricorso alla scienza anziché alla fede o a ragionamenti a priori. Filosofia e scienza non
sono circoscritte a ciò che può essere osservato, ma possono andare oltre l’osservazione
per sviluppare teorie su cose ed eventi che sorpassano i nostri sensi e gli strumenti a
nostra disposizione. Possiamo usare il procedimento della ragione chiamato «inferenza
alla miglior spiegazione» per giustificare l’adozione di teorie che vanno oltre ciò che
osserviamo direttamente.
Il secondo capitolo non si riferisce a scoperte neuropsicologiche, ma l’argomento
chiave del terzo capitolo, l’identificazione necessaria di mente e cervello, pone le basi del
capitolo successivo su come il cervello conosce la realtà. Qui mi riferirò ampiamente a
risultati sperimentali e teorici recentemente raggiunti dalle neuroscienze per spiegare
come il cervello rappresenta il mondo, usando sia processi sentitivi, come la visione, sia
processi razionali come l’inferenza alla migliore spiegazione. Ciò consente agli scienziati
di elaborare una conoscenza che va oltre i nostri sensi, che sono piuttosto limitati.
Il secondo, terzo e quarto capitolo propongono risposte integrate ad alcune delle
questioni centrali della metafisica (la teoria della realtà) e dell’epistemologia (la teoria
della conoscenza). Il ragionamento scientifico è il miglior tramite per la conoscenza, e le
menti sono cervelli equipaggiati con tutte le capacità d’osservazione e d’inferenza di cui
abbiamo bisogno per capire come il mondo funziona. Pensare è un’attività multimodale,
poiché richiede rappresentazioni verbali e sensoriali, e multidimensionale, dal momento
che impiega rappresentazioni che acquistano significato dai rapporti fra di loro e col
mondo. Per affrontare questioni etiche sulla natura della moralità e il significato della vita
e per capire come il cervello produce il senso morale e come prende decisioni, occorre
andare oltre i processi cognitivi descritti nel secondo, terzo e quarto capitolo.
Il quinto capitolo sostiene una teoria della coscienza emozionale che serve a due scopi.
Il primo, avanzato nel terzo capitolo, è mostrare come sia possibile una spiegazione
naturalistica della coscienza. Il secondo, fornire il fondamento naturalistico ai tentativi, di
cui si parla nei capitoli sesto, settimo e ottavo, di individuare la base naturale delle
decisioni razionali e dei giudizi morali. Argomenterò che le nostre sensazioni emotive
sono il risultato di processi cerebrali che si svolgono in parallelo e coinvolgono
simultaneamente la valutazione cognitiva delle situazioni che si hanno di fronte e
percezioni interne dello stato del nostro corpo. Le decisioni circa il nostro quotidiano da
farsi coincidono con gli stessi processi nervosi che generano le reazioni istintive che ci
dicono quali azioni compiere.
Nel sesto capitolo si spiega che l’atto di prendere una decisione consiste nella scelta di
quel che si pensa sia meglio, e dei mezzi per raggiungerlo. L’obiettivo che si persegue ha
una rappresentazione nervosa emotiva. Simili inferenze richiedono un’interazione
dinamica di cognizione ed emozione. Prendere una buona decisione presuppone la
capacità di adottare, abbandonare e rivalutare gli obiettivi secondo l’esperienza.
Una volta stabilite teorie circa la realtà, la conoscenza e il prendere decisioni, si può
tornare alla domanda iniziale: perché la vita merita d’essere vissuta?
Nel settimo capitolo riporto scoperte recenti di processi nervosi implicati nell’amore,
nel lavoro e nel gioco, per un rendiconto di come questi ambiti possano fornire tutto il
significato della vita di cui si ha bisogno. Mentre il quarto capitolo discute il significato
18
di rappresentazioni mentali, come i concetti, e i loro molteplici aspetti, il settimo
prospetta una visione multidimensionale del significato della vita, basata sull’attività
nervosa. Inoltre, il settimo capitolo completa il resoconto del capitolo precedente su come
il cervello prenda decisioni, descrivendo come l’amore, il lavoro e il gioco costituiscano
gli obiettivi che influenzano le azioni che si decide di intraprendere. La filosofia si
rivolge a preoccupazioni normative su come le cose dovrebbero essere, non agli aspetti
descrittivi di come esse sono. Il sesto ed il settimo capitolo sfiorano i temi normativi su
come le persone dovrebbero pensare ed agire, che vengono poi trattati esaurientemente
nei capitoli ottavo e nono.
L’ottavo capitolo mostra come amore, lavoro e gioco sono significativi perché
contribuiscono alle necessità umane vitali della convivenza, competenza e autonomia.
Amore, lavoro e gioco soddisfano i requisiti di cui si ha bisogno per vivere, procurando
così il significato normativo e descrittivo della vita. Bilanciare obiettivi contrastanti e
bisogni non è facile, ma la prospettiva di soddisfarne almeno alcuni è sufficiente per
suscitare la speranza, che è l’opposto della disperazione, che potrebbe indurre a pensieri
di suicidio. Per il naturalismo neurale, la speranza è il processo cerebrale che,
combinando la valutazione cognitiva e la percezione fisiologica, crea la sensazione
positiva di soddisfare intenti futuri.
Nel nono capitolo sostengo che i giudizi morali sono prodotti dai processi nervosi
della coscienza emotiva. Capire la base nervosa dei giudizi morali non è di per sé la
risposta alla domanda filosofica su ciò che rende un’azione giusta o sbagliata. Ma elimina
due tipi di risposte che sono state storicamente influenti. Il mio approccio naturalistico è
incompatibile con la cultura, ancora oggi dominante, secondo la quale la moralità deriva
dall’insegnamento religioso. La teoria dell’intuizione etica, che derivo dalla convinzione
della coscienza emozionale neurale, non è compatibile nemmeno con le opinioni
filosofiche che cercano le basi della morale in intuizioni etiche inoppugnabili o in
ragionamenti a priori.
Io sosterrò una posizione etica che ci consente di giudicare la moralità delle azioni
secondo le loro conseguenze su tutti coloro che ne sono coinvolti, tenendo conto delle
limitazioni della nostra struttura nervosa, della natura biologica e delle necessità sociali.
Le inferenze su come le cose dovrebbero essere non possono essere derivate solo
empiricamente, ma possiamo trarre conclusioni normative oggettive utilizzando inferenze
riferite al massimo della moralità. Conclusioni normative sul significato della vita e sui
diritti umani possono essere basate sull’evidenza biologica e psicologica delle necessità
vitali. Sebbene il mio approccio sia profondamente biologico, rifiuto molte opinioni degli
psicologisti evolutivi circa la base innata di particolari tipi di comportamento.
Nel decimo capitolo, infine, ribadisco che l’approccio naturalistico alla mente basato
sulla psicologia e le neuroscienze risponde alle questioni filosofiche fondamentali. Il
terzo e il quarto capitolo trattano la conoscenza e il nono la morale; nel decimo
l’inferenza collega tutte le conclusioni rilevanti in un insieme coerente.
Cercherò di esporre quella che per me è la coerenza globale del naturalismo neurale.
Anche se i sistemi filosofici globali sono fuori moda, cerco di mostrare che le mie
conclusioni sul realismo, la coerenza, le conseguenze morali e le molte dimensioni del
significato della vita sono coerenti fra loro e con le scoperte scientifiche. Traccerò un
19
primo abbozzo di risposte naturalistiche a qualche altra domanda importante. Qual è la
forma di governo più desiderabile? In quali modi può essere creativo il cervello? Che
cos’è la conoscenza matematica? Perché c’è qualcosa piuttosto che niente? Tratterò
queste domande in modo molto propedeutico, con l’intento di tracciare la via per una
futura collaborazione fra filosofia e scienza.

Conclusione

Platone sosteneva che la filosofia inizia quando ci si meraviglia, ma aveva ragione


solo in parte. Per molti pensatori, come Camus, la filosofia comincia con l’ansia, con la
sensazione, intensa e difficile da dominare, che la vita non abbia senso, sia assurda,
irrazionale, vana, immorale. La scienza moderna alimenta enormemente la sensazione di
meraviglia, chiarendo ciò che è strano e sorprendente nel mondo naturale. Ma la scienza
potrebbe sembrare impotente di fronte all’ansia per la mancanza di significato della vita e
addirittura potrebbe aggravarla, anziché attenuarla. Supponiamo che la fisica abbia
ragione nel sostenere che il nostro universo cominciò circa quattordici miliardi di anni fa
e che il big bang ha prodotto miliardi di stelle; e supponiamo che la biologia sia nel
giusto nel considerare gli esseri umani una sorta di scimmie altamente evolute. In questo
caso le nostre vite non avrebbero, nell’universo, il posto centrale e speciale che le
attribuiscono la religione, con la fede, e la filosofia, col raziocinio a priori. Per questo non
sorprende che la «rivoluzione del cervello» venga contestata da coloro che temono le sue
conseguenze pratiche e intellettuali. Questo libro intende mostrare che il naturalismo
neurale può contribuire a soddisfare la meraviglia circa la natura della mente e della
realtà e ad alleviare l’ansia delle difficoltà della vita in un universo immenso e privo di
senso evidente. Filosofia e neuropsicologia possono fare ben poco per rimuovere le molte
avversità che incontrano gli esseri umani durante la vita, che inevitabilmente sono
costretti ad affrontare fallimento, rifiuto, malattia, ed alla fine con la morte. Ma filosofia e
scienza insieme sono in grado di fornire un’immagine plausibile di come le menti, anche
se sono solamente cervelli, possono apprendere la realtà, decidere con criterio, agire
moralmente, e condurre vite significative arricchite dall’amore, dal lavoro e dal gioco.
Per iniziare questo quadro abbiamo bisogno di capire come l’evidenza scientifica sia una
fonte di conoscenza migliore della fede religiosa e della pura razionalità.

1
Per lavori filosofici sulla saggezza e il significato della vita cfr. Klemke – Cahn 2007; Flanagan 2007;
e le pagine web: http//plato.stanford.edu/entries/wisdom/; http://plato.stanford.edu/entries/life-meaning/.
Per una trattazione del pensiero dei filosofi che si sono occupati della saggezza e del senso della vita cfr.
Sternberg 2003 e Baumeister 1991. Per l’importanza delle scienze umane cfr. Kronman 2007. Per un ampio
ma superficiale riassunto cfr http://en.wikipedia.org/wiki/Meaning_of_life.
2
Altri filosofi con una componente naturalistica sono Aristotele, John Locke, David Hume, John Stuart
Mill, Charles Peirce, W.V.O. Quine. Molti dei filosofi della mente di cui si parla in questo libro sono
naturalisti.

20
3
Wittgenstein 1968, par. 124. Per la visione terapeutica della filosofia come chiarimento concettuale cfr.
Wittgenstein 1971. Nel secondo capitolo critico quest’opinione.
4
I pionieri della neurofilosofia sono P.S. Churchland 1986 e P.M. Churchland 2007. Per i rapporti tra
filosofia e scienza cfr. Thagard 2009.
5
Per il campo interdisciplinare della scienza cognitiva cfr. Boden 2006 e Thagard 2005a.
6
Per il campo delle neuroscienze cognitive cfr. Ward 2006; Smith – Kosslyn 2007.

21
2
L’evidenza prevale sulla fede

Fede contro evidenza

Quando avete un problema di salute, dove cercate informazioni per venirne a capo?
Forse consultate un medico esperto come quello di famiglia, oppure cercate in rete ciò
che dicono i praticanti della medicina alternativa. Oppure vi rivolgete ad un capo
religioso per avere una guida medica e spirituale. In medicina e filosofia preferisco
cercare l’evidenza scientifica piuttosto che affidarmi alla fede religiosa o al ragionamento
a priori. Perché questa preferenza? Non è semplicemente fede nella scienza anziché fede
nella religione?
No: questo capitolo fornirà buone ragioni per basare decisioni e convincimenti
sull’evidenza piuttosto che sulla fede. Dopo uno scorcio storico sul conflitto fra evidenza
scientifica e fede religiosa, descriverò come la fede e l’evidenza influenzano
diversamente credenze e decisioni. Userò la medicina come ambito in cui la superiorità
dell’evidenza sulla fede è chiara, per estendere poi le mie conclusioni ad altri campi, ivi
compresa la filosofia. Per quanto la tradizione del ragionamento a priori in filosofia non
sia di regola collegata alla fede religiosa, io sosterrò che la sua dipendenza dalle
intuizioni e l’omissione dell’evidenza è simile al pensiero basato sulla fede. L’uso
corrente degli esperimenti mentali in filosofia è simile al ragionamento basato sulla fede
piuttosto che sull’evidenza.
Platone e Aristotele, a lungo i filosofi più influenti, non avvertirono conflitti profondi
fra ragione e religione. Entrambi considerarono la teologia parte cruciale del loro
pensiero circa la natura della realtà e della morale. Le loro opinioni divergono, in quanto
Platone sosteneva la superiorità della conoscenza a priori basata sulle idee astratte;
mentre l’approccio di Aristotele era più empirico, basato su quanto, a quel tempo, si
conosceva della fisica e della biologia. Filosofi medievali di varie tradizioni religiose –
Averroe per l’Islam, Maimonide per l’Ebraismo, e Tommaso d’Aquino per il
Cristianesimo – cercarono di integrare le opinioni religiose con l’approccio filosofico
aristotelico. Mentre molto del lavoro di Aristotele era basato sulle osservazioni empiriche
dei mondi fisici, biologici e sociali, le discussioni medievali su Aristotele tendevano a
trattare i suoi scritti come una sorta di testi sacri da venerare quanto la Bibbia e il Corano.

22
La venerazione dei testi fu messa alla prova dalla rivoluzione scientifica dei secoli
XVI e XVII. Il motto della Royal Society di Londra, fondata nel 1660, era Nullius in
verba, che in latino significa «Niente nelle parole». La frase esprimeva la determinazione
di trarre conclusioni solo con metodologie sperimentali, come quelle impiegate dai suoi
membri Robert Boyle e Robert Hooke. Tali metodi contrastavano fortemente con la
pratica di affidarsi ai sacri testi religiosi e filosofici, sebbene molti scienziati, come Isaac
Newton, rimanessero credenti. Nel secolo XVIII, comunque, il conflitto fra religione e
scienza divenne esplicito nei lavori di filosofi come Voltaire e David Hume. Oggi la
maggior parte degli scienziati di spicco sono atei o agnostici 1, e negano o mettono in
dubbio l’esistenza di Dio. All’altro estremo, fondamentalisti religiosi, sia cristiani che
islamici, rifiutano la scienza, e propugnano opinioni non solo false, ma anche pericolose.
Alcuni pensatori, oggi, cercano di conciliare scienza e religione, indebolendo le
dottrine religiose in modo da renderle compatibili con le scoperte scientifiche, o
attribuendo aree di responsabilità diverse alla scienza e alla religione. Ad esempio, il
biologo Stephen Jay Gould ha sostenuto che scienza e religione occupino aree separate
della riflessione: la scienza sarebbe responsabile delle questioni empiriche, come quella
dell’esistenza dell’evoluzione, mentre la religione sarebbe autonoma e prevalente in
questioni di moralità e di significato 2. La mia opinione è che l’approccio dell’evidenza
scientifica alla morale e al significato è migliore di quello della fede religiosa.
Ora ci occuperemo della differenza fra pensiero basato sulla fede e pensiero basato
sull’evidenza.

Come agisce la fede

Secondo dati diffusi in rete, l’84% dei circa 6 miliardi di persone che costituiscono
oggi la popolazione mondiale appartiene ad un gruppo religioso. La religione più diffusa
è il Cristianesimo con 2 miliardi e 100 milioni di aderenti di varie tendenze, seguita
dell’Islam, con circa 1 miliardo e mezzo di fedeli. Entrambe credono ad un solo Dio, a
differenza della terza per numero di seguaci, l’Induismo. Cristianesimo e Islamismo
hanno testi fondamentali: la Bibbia e il Vangelo per i cristiani, il Corano per i musulmani.
Esse hanno anche guide religiose storicamente importanti, come san Paolo per i cristiani
e Maometto per i musulmani, e guide contemporanee come il papa e i cardinali per i
cattolici e gli ayatollah per i musulmani sciiti. Il Cristianesimo e l’Islamismo sono divisi
in confessioni. Molti protestanti sono ostili al Cattolicesimo, e, fra i musulmani, i sunniti
sono spesso in conflitto con gli sciiti per divergenze relative alla dottrina e alla pratica
religiosa.
La fede religiosa è un credo, una fiducia e una devozione in Dio, nelle guide e nei testi
religiosi, che non necessita di alcuna evidenza. Ad esempio, i cattolici credono in Dio e
nei santi, come Maria, madre di Gesù, e si affidano al papa e alla Bibbia che considerano
fonti della parola di Dio. Il credo è una fede il cui fondamento è l’accettazione della
parola della divinità, del sacerdote o dei testi sacri. Se sei credente e hai il dilemma
morale se mentire o meno ad un amico, puoi pregare Dio, consultare una guida religiosa
come un sacerdote, o leggere un testo sacro come la Bibbia per avere una risposta, basata

23
sulla fede, su ciò che sei moralmente obbligato a fare. La fede può dare risposte anche a
dilemmi reali, quali per esempi l’età dell’universo: i fondamentalisti cristiani consultano
il Vecchio Testamento e i loro ministri del culto e concludono che l’universo ha avuto
origine seimila anni fa, contrariamente ai quattordici miliardi di anni suggeriti
dall’evidenza scientifica.
La fede religiosa è immensamente importante per la vita di miliardi di persone. Essa
ha davanti a sé tre seri problemi relativi a che cosa credere o che cosa fare: le diversità fra
le religioni, la falsità delle credenze, e l’opportunità o meno di compiere il male per
ragioni religiose.
Il primo problema è che Dio, le guide e i testi cui le varie religioni propongono di
credere sono molto diversi, e la fede non fornisce alcun aiuto per scegliere. Dovete
credere al Dio unico del Cristianesimo o alla dozzina di dei induisti, tra cui Shiva? La
miglior guida per la vita è san Paolo o Maometto? Dovete seguire il papa cattolico o il
ministro protestante? Dovete cercare la saggezza nella Bibbia, nel Corano o nel Libro dei
Mormoni? Ci sono grandissime divergenze all’interno e fra le varie religioni, per dirimere
le quali la vostra fede altro non sa fare che gridare che la vostra è meglio delle altre. Non
tutte le fedi religiose possono essere giuste, ma tutte possono essere sbagliate. Per la
maggior parte delle persone la fede religiosa dipende da dove sono nate. Considerate due
esempi significativi, l’ex presidente degli Stati Uniti G.W. Bush e il leader arabo Osama
bin Laden. Molte delle credenze e delle decisioni di Bush erano basate sulla sua fede
religiosa di matrice protestante. Bush divenne profondamente religioso all’inizio dei
quarant’anni, quando rinunciò all’alcol e cominciò a studiare seriamente la Bibbia.
L’insieme delle credenze e dei valori di Obama bin Laden era assai diverso, ma anch’esso
profondamente basato sulla fede derivatagli dall’educazione musulmana e da studi
successivi. È ovvio che molti cristiani non condividono il modo di pensare di Bush e
molti musulmani quello di bin Laden, e la religione non è il solo fattore determinante dei
loro credi. Ma è altrettanto ovvio che la fede particolare di ogni persona è il risultato di
circostanze legate alla sua famiglia. Per un bambino ha senso acquisire la religione dei
genitori, che sono la fonte della maggior parte delle sue informazioni. Una volta che i
bambini sono esposti ad una particolare religione, le loro dottrine possono diventare
altamente coerenti con le altre loro opinioni e con i loro fini personali. La coerenza molto
intensa può rendere assai difficile al credente religioso comprendere o prendere sul serio
visioni religiose contrastanti. Ciò vale anche per gli atei, che respingono la religione in
blocco. Se la fede deve essere la fonte della conoscenza, non può essere accidentale o
arbitraria.
Il secondo, ovvio problema della pratica della fede religiosa è che in molti casi i credi
basati su di essa si sono rivelati falsi. Ad esempio, la Chiesa cattolica respinse le idee
copernicane di Galileo come eresie, mentre oggi anche i fondamentalisti sono convinti
che la Terra gira attorno al Sole. L’evoluzione biologica fu respinta perché incompatibile
con la Bibbia, ma oggi la maggior parte dei cristiani la condivide. Prima della medicina
moderna, molte persone erano convinte che le malattie fossero punizioni divine per le
loro cattive azioni, mentre oggi sappiamo che hanno cause naturali. Non tutti i sostenitori
della religione accettano queste revisioni, ma molti hanno riconosciuto che le spiegazioni
teologiche relative al moto dei pianeti, all’origine delle specie e alle malattie sono
24
sbagliate. Anche convinzioni scientifiche si sono rivelate false, secondo la prospettiva che
nuove evidenze e nuove ipotesi porteranno a cambiare opinione. La fede religiosa
s’intreccia con tendenze molto naturali del pensiero umano 3, anche se esse inducono
spesso in errore. Una è il pregiudizio della conferma, che è la tendenza a prendere in
considerazione solo gli esempi che confortano le nostre idee, ignorando le evidenze che
le contrastano. Se capi o testi religiosi avanzano previsioni, le persone tendono a notare
gli eventi che le confermano e non quelli che le smentiscono. Il preconcetto della
conferma è parte integrante del pensiero umano, come dimostrano gli stereotipi sociali,
che perdurano grazie al fatto che le persone prendono atto solo degli eventi che
confermano le opinioni che già possiedono. Un supporto ancora più influente al radicarsi
dei credi religiosi è l’inferenza motivata, che è la tendenza a usare selettivamente la
memoria e l’evidenza per giungere a conclusioni che facilitano i nostri scopi. Credere in
Dio può consentire alle persone di sentirsi più a loro agio coltivando desideri come
l’immortalità, l’amore divino, la libertà, il successo personale, oltre all’identità di gruppo
e all’assistenza sociale da parte della comunità religiosa. Sfortunatamente il fatto che una
potenziale convinzione sia d’aiuto per raggiungere i vostri scopi non significa che essa sia
vera. L’inferenza motivata e il preconcetto della conferma convergono nel rendere arduo
il cambiamento della vostra opinione, anche a fronte dell’evidenza contraria a ciò che
credete. Il filosofo Charles Taylor propone di discutere credi e miscredenze non come
teorie rivali dell’esistenza e della moralità, ma come esperienze vissute di natura diversa,
coinvolte nella comprensione della pienezza e ricchezza della nostra vita morale e
spirituale 4. Ma senza teorie confermate dall’evidenza, non c’è ragione di preferire un tipo
di esperienza di vita ad un’altra, o di pensare che la ricchezza dell’esperienza sia altro che
un’illusione, basata sulle nostre motivazioni a credere che ci siano più cose nell’universo
di quante in realtà ce ne siano. Queste motivazioni sono potenti, perché assicurano la vita
dopo la morte e un progetto divino che garantisce che tutto avviene per una ragione
precisa. Ma le esperienze religiose vissute possono esser spiegate come il risultato di
fattori psicologici, che non sono prove di una realtà che trascende le teorie della scienza.
La vostra esperienza vissuta può dirvi che la vostra vita è piena grazie alla protezione di
Dio, ma in passato la gente era fermamente convinta che la Terra fosse piatta, che il Sole
le girasse attorno e che i terremoti fossero punizioni divine.
Il terzo grosso problema delle fedi religiose è che ci sono stati molti casi nei quali
azioni basate sulla fede si sono rivelate malvagie. Per rammentare solo pochi esempi di
intolleranza, pregiudizi e persecuzioni basati sulla religione, si pensi ai massacri delle
crociate cristiane, ai pogrom antisemiti, alla strage di Al-Quaeda a New York nel
settembre 2011. Tutte queste azioni si appoggiavano alla fede negli dei, nei capi, nei testi
sacri. La fede spesso produce una certezza eccessiva che alimenta l’intolleranza, come
nella storiella seguente.
Un giorno, mentre attraversavo un ponte, vidi un uomo che stava per gettarsi di sotto.
Corsi verso di lui e gli dissi: «Si fermi. Non lo faccia.»
«Perché non dovrei?» mi chiese.
«Ci sono tante cose per cui vale la pena vivere.»
«Quali, ad esempio?»
«Lei è religioso?»
25
«Sì», rispose.
«Lo sono anch’io – dissi, – lei è cristiano o buddista?»
«Cristiano».
«Anch’io. Cattolico o protestante?»
«Protestante.»
«Anch’io. Episcopale o battista?»
«Battista.»
«Caspita! Anch’io. Battista della Chiesa di Dio o della Chiesa del Signore?»
«Sono battista della Chiesa riformata di Dio.»
«Anch’io. Della Chiesa battista di Dio riformata nel 1879 o di quella riformata nel
1915?». Rispose di essere della Chiesa battista riformata nel 1915. «E allora – dissi –
muori, canaglia eretica» e lo spinsi giù.
Spesso la fede assicura alle persone che le fedi differenti dalla propria sono non solo
false ma anche immorali, per cui gli eretici vengono non solo contestati ma anche puniti.
La fede religiosa è stata utilizzata per giustificare ineguaglianze sociali, come per
esempio nel caso della dottrina cristiana che considerava i re tali per diritto divino. Se
l’autorità e la legittimazione del monarca derivano da Dio, i popoli non possono sfidare i
tiranni. Analogamente, l’idea hindu del fato e della reincarnazione può sembrare innocua,
ma in realtà è servita a legittimare il sistema oppressivo delle caste indiane. Chi nasce e
vive in condizioni miserabili ha commesso cose orribili in una vita precedente. Le
religioni polarizzano l’attenzione dei credenti sulle ricompense divine ed eterne,
distogliendoli dalla necessità di cambiare le condizioni della vita.
La fede avvalora, di regola, le religioni più diffuse, come le correnti del Cristianesimo
e dell’Islam, ma alimenta anche una moltitudine di pratiche osservate da chi si considera
più spirituale che religioso. Le credenze della New Age in fenomeni come l’astrologia, lo
spiritismo, la reincarnazione, le esperienze psichiche, la numerologia, gli angeli, le sfere
di cristallo, la medicina olistica sono suffragate dal vissuto personale e dall’ossequio a
dubbie autorità. Libri di autori popolari come Deepak Chopra e Andrew Weil
incoraggiano la fede, alla stessa stregua della Bibbia e del Corano per gli aderenti alla
Cristianità e all’Islam, dando ai difficili problemi della vita risposte la cui forza di
attrazione appartiene molto più al preconcetto della conferma e all’inferenza motivata
piuttosto che alla cauta valutazione dell’evidenza.
Un esempio rilevante dell’inferenza motivata della New Age è il libro, bestseller del
2006, The Secret, che propugna con grande enfasi la «legge dell’attrazione», secondo la
quale i pensieri di una persona attraggono equivalenti esperienze positive o negative. La
gente trova molto attraente l’idea di poter cambiare drasticamente la propria vita solo col
pensiero positivo, migliorando la propria condizione economica o i rapporti sentimentali.
Sfortunatamente, la convalida della legge dell’attrazione si fonda solamente
sull’inferenza motivata, sul pregiudizio della conferma, e su allusioni confuse a supposti
eventi scientifici relativi all’energia, alle vibrazioni, alla fisica quantistica. La spiritualità
della New Age non si riferisce alla divinità nel modo delle religioni tradizionali, ma fa
egualmente affidamento arbitrario a guide e testi come fonti di idee emotivamente
attraenti, ma prive d’evidenza.

26
Anche il pensiero basato sull’evidenza può portare a false opinioni e a cattive azioni,
ma con differenze cruciali. In caso di disaccordi, gli scienziati non devono far ricorso a
vuote prediche su quale delle fedi sia più forte. Essi possono, invece, provare a valutare le
opinioni contrastanti tenendo conto dell’evidenza manifesta. A volte, ci possono volere
anni o decenni per risolvere controversie scientifiche, ma il metodo della soluzione non
sta nella disputa, ma nel mettere insieme un’evidenza maggiore e nel determinare quale
delle visioni in conflitto sia la migliore. Questo processo può portare al clamoroso
abbandono di opinioni precedenti, come è accaduto nelle rivoluzioni scientifiche ed
anche in casi meno eclatanti, quando gli scienziati si son visti costretti a cambiare
opinione. Il pensiero basato alla fede non fornisce alcuna base per risolvere disaccordi
convincendo gli altri a cambiare opinione, mentre il pensiero basato sull’evidenza lo fa.
Vediamo ora più nei dettagli come questo avviene.

Come agisce l’evidenza

Per cominciare con un uso familiare dell’evidenza, considerate i ragionamenti delle


indagini relative a fatti criminali descritte nei libri, nei film e in televisione. Sono i
ragionamenti di Sherlock Holmes, dei detective di Agatha Christie e degli investigatori
dei programmi televisivi della CSI e di Law and Order 5 e di molti altri interpreti di
fantasia. Ragionamenti per identificare i responsabili di azioni illegali e criminali sono
compiuti anche dagli investigatori reali e dai pubblici ministeri, come nel caso famoso di
O.J. Simpson, giocatore di football e star del cinema, la cui moglie era stata assassinata
nel 1994. Gli investigatori di Los Angeles raccolsero numerose prove, tra cui i suoi guanti
macchiati di sangue, che convinsero molti della sua colpevolezza. Ciò nonostante nel
1995 la giuria prosciolse Simpson perché l’accusa di incriminazione non era riuscita a
dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la sua colpevolezza. I giurati erano
legittimamente condizionati dall’evidenza che i poliziotti razzisti di Los Angeles avevano
costruito alcune prove contro di lui. D’altra parte era anche chiaro che alcuni giurati
erano portati a giudicare Simpson innocente per i suoi successi nello sport e nel cinema.
A parte le motivazioni, l’esempio mostra come si pensa che proceda il ragionamento
legale. Detective e investigatori forensi raccolgono tutte le prove evidenti di un crimine,
come, ad esempio, le impronte digitali. La miglior evidenza si raggiunge con osservazioni
scrupolose, come quando il luogo del delitto viene ispezionato e fotografato e si
impiegano tecniche come il rilievo delle tracce con la polvere e la raccolta di capelli.
L’evidenza può essere rafforzata da procedimenti scientifici come l’analisi del sangue e
del DNA. Questi tipi di evidenza contrastano con le informazioni che verosimilmente non
hanno nessuna connessione col crimine attuale, come quelle, per esempio, fornite da uno
psicopatico che racconti d’aver sognato un omicidio. Sulla base di evidenze e
informazioni sulla vittima, gli investigatori formulano ipotesi su chi potrebbe aver
commesso il crimine e le valutano a seconda del potenziale di spiegazione dell’insieme
complessivo dell’evidenza. Un’ipotesi è la congettura su ciò che potrebbe aver causato
quel che è successo. Ad esempio, l’ipotesi che Simpson abbia ucciso la ex-moglie
fornisce la spiegazione del ritrovamento di tracce del sangue di lei sui suoi guanti. È una

27
spiegazione causale: l’accoltellamento della moglie potrebbe aver causato la presenza del
sangue rinvenuto sui guanti dell’accusato. Compito della difesa è di proporre spiegazioni
alternative, nel caso di Simpson, per esempio, che il sangue della moglie sui suoi guanti
sia stato messo dagli ufficiali di polizia e che Nicole Simpson sia stata uccisa non dal
marito, ma da trafficanti di droga. Si presume che la giuria stabilisca imparzialmente se
l’ipotesi secondo cui l’accusato ha commesso il delitto sia o meno la miglior spiegazione
di tutti gli aspetti dell’evidenza, al di là di ogni ragionevole dubbio. Tale tipo di
ragionamento è chiamato dai filosofi «inferenza alla miglior spiegazione» 6. Questo modo
di ragionare è comune nella vita d’ogni giorno. Ne fate uso quando siete sconcertati dal
comportamento di qualcuno che conoscete, un amico d’animo gentile che
inaspettatamente vi tratta con astio. Naturalmente cercate una spiegazione, ad esempio
che il vostro amico sia depresso a causa di inconvenienti nel lavoro o a scuola. Un’ipotesi
alternativa è che abbiate detto inavvertitamente qualcosa che il vostro amico ha trovato
offensivo. In questo caso dovete raccogliere un’ulteriore evidenza che possa farvi
stabilire se lo stress sul lavoro o l’insulto involontario siano la miglior spiegazione del
comportamento astioso del vostro amico. Usiamo lo stesso ragionamento quando
dobbiamo risolvere problemi meccanici. Quando la vostra automobile non parte e la
portate in officina, il compito del meccanico è di trovare il guasto che spieghi ciò che non
va. Il meccanico farà una serie di prove per capire se sia la batteria, l’accensione, o
qualche altra cosa a impedire alla vostra automobile di partire. Lo stesso accade se andate
dal medico con un disturbo come, ad esempio, il mal di stomaco. Il medico cercherà
l’evidenza palpando l’addome e, se del caso, ordinando esami del sangue e radiografie.
La diagnosi del medico è un’inferenza alla spiegazione migliore della malattia,
responsabile dell’insieme dell’evidenza, ivi compresi i disturbi e i risultati delle analisi.
La trasmissione televisiva House racconta di un odioso, ma brillante, medico che ogni
settimana ha il compito di diagnosticare la malattia insolita di un paziente afflitto da
disturbi inconsueti. Il dottor House ragiona come Sherlock Holmes e il meccanico
dell’automobile: raccogliere l’evidenza e ne cerca la migliore spiegazione.
Ipotesi legali e mediche coinvolgono spesso vari livelli di spiegazioni. L’investigatore
cerca l’evidenza della colpevolezza del sospettato raccogliendo dati, come le impronte
digitali sull’arma del delitto, spiegabili con l’ipotesi che egli ne sia responsabile. Inoltre
egli indaga circa i possibili moventi che spieghino perché il sospettato abbia commesso il
crimine: ad esempio la causa potrebbe essere stata la collera nei confronti della vittima
per una lite precedente. Analogamente il medico che cerca la miglior spiegazione dei
vostri disturbi di stomaco tenterà di accertare non solo la condizione che li ha provocati,
ma quale ne possa essere la causa. Ad esempio, un’infezione gastrointestinale potrebbe
essere la conseguenza dell’ingestione di qualche cibo esotico e quindi del mal di stomaco.

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Figura 2.1. Struttura dell’inferenza alla miglior spiegazione, con un’ipotesi prevalente che spiega
un’ipotesi che compete con altre per spiegare l’evidenza. Le linee continue indicano le relazioni
esplicative, mentre le linee tratteggiate mostrano la competizione fra spiegazioni alternative.

La Fig. 2.1 spiega che ipotesi come quelle di una malattia servono a spiegare
l’evidenza osservata e che sono esse stesse spiegate da ipotesi di livello superiore. Il caso
generale è tracciato a sinistra, un esempio medico molto semplice si trova a destra: le
linee continue indicano le relazioni esplicative e quelle tratteggiate la competizione fra
varie ipotesi. Di regola, l’ipotesi 1 è altamente coerente perché spiega due parti
dell’evidenza e, a sua volta, è spiegata dall’ipotesi d’ordine superiore 2, che la rende
superiore all’ipotesi 3 in competizione, la quale spiega solo una parte dell’evidenza. A
destra, nella raffigurazione dell’esempio del disturbo allo stomaco, l’ipotesi che il dolore
sia provocato da un’infezione batterica prevale come spiegazione, sia perché spiega una
maggior evidenza rispetto all’altra spiegazione dell’ulcera, sia perché essa, a sua volta,
può essere spiegata dall’ipotesi dell’ingestione di cibo avariato. La scelta della
spiegazione migliore richiede non solo l’inclusione delle parti di evidenza spiegate 7, ma
anche la valutazione di quale delle ipotesi in competizione sia maggiormente coerente
con tutte le informazioni disponibili.

Evidenza e inferenza nella scienza

È ovvio che spettacoli televisivi e semplici esempi medici non possono essere prove
valide del fatto che l’inferenza alla miglior spiegazione sia il modello più efficace per
accertare l’evidenza, ma li ho usati come spiegazioni elementari. La storia della scienza
fornisce esempi molto più seri dell’inferenza alla miglior spiegazione 8. L’origine delle
specie di Darwin è una lunga, brillante argomentazione a favore della sua teoria
dell’evoluzione per selezione naturale, che dimostra che essa fornisce una miglior
spiegazione dell’evidenza dei resti fossili di quanto non possa fare la teoria della
creazione divina. In fisica, l’accettazione della teoria della gravitazione di Newton, della
teoria della relatività di Einstein e della teoria quantistica possono essere interpretate
come istanze d’inferenza alla miglior spiegazione. Un esempio più recente è il dibattito
sulla causa della sparizione dei dinosauri avvenuta 65 milioni d’anni fa. Esso si basa
sull’acquisizione e valutazione dell’evidenza che possa essere spiegata dalle ipotesi in
competizione. L’opinione che la scomparsa dei dinosauri sia stata il risultato della
collisione di un enorme asteroide sulla Terra è quella più accettata, perché essa spiega
29
fatti come il ritrovamento recente di resti fossili di dinosauri in sedimenti che contengono
l’elemento iridio, di cui sono ricchi gli asteroidi.
L’inferenza alla miglior spiegazione nella scienza ha la stessa base strutturale del
ragionamento in giurisprudenza, in medicina, nella vita quotidiana. In tutti questi ambiti,
voi dovreste raccogliere quanta più evidenza possibile, considerando le ipotesi d’alto
livello e le sue alternative e accettando quelle che forniscono la miglior spiegazione
dell’evidenza.
Una spiegazione particolare descrive come un evento o un processo ipotetici possano
aver causato ciò che è stato osservato. Comunque, gli esempi scientifici di questo modo
di ragionare differiscono da quelli della vita quotidiana in molti aspetti, implicando
meccanica, matematica, strutture sociali, osservazioni sistematiche, strumenti e
sperimentazione.
In primo luogo, le spiegazioni nella scienza impiegano meccanismi che sono
descrizioni di sistemi di parti fra loro interconnesse che producono cambiamenti
regolari 9. Per capire come funziona una bicicletta, dovete identificare le sue parti – il
telaio, i pedali, le ruote, la catena, il manubrio, e così via – e come ognuna di esse sia
connessa alle altre. I rapporti reciproci fra le parti producono cambiamenti regolari, come
il pigiare sui pedali che fa muovere la catena, che fa muovere le ruote. Alla stessa stregua,
le spiegazioni in fisica identificano parti di elementi, come atomi e particelle
subatomiche, e le relazioni che intercorrono fra loro, come forze che inducono il
movimento ed altri cambiamenti. La spiegazione in biologia identifica parti di organismi
– ad esempio cellule e proteine – le cui interazioni biochimiche producono processi vitali
come la riproduzione. In psicologia, le spiegazioni stanno diventando sempre più
meccanicistiche da quando gli studi hanno cominciato a dimostrare che – come vedremo
nel terzo capitolo – pensiero e comportamento sono il prodotto di processi nervosi. Le
spiegazioni biologiche e psicologiche utilizzano meccanismi di gran lunga più efficaci,
complessi e flessibili dei semplici meccanismi della vita d’ogni giorno. In secondo luogo,
la scienza impiega spesso la matematica nella formulazione delle sue ipotesi e delle
spiegazioni che le connettono con le osservazioni. In campi assai diversi fra loro come la
fisica atomica, la genetica delle popolazioni, e la psicologia cognitiva, la matematica è
uno strumento indispensabile per superare i limiti della conoscenza, potendo essa
rappresentare le relazioni fra varie quantità. La formula del movimento di Newton F=ma
non dice nulla di più del fatto che la forza equivale alla massa moltiplicata per
l’accelerazione, ma essa facilita enormemente la sua applicazione e quella di altri principi
matematici a derivazioni che connettono altre teorie con la loro evidenza. In terzo luogo,
le strutture sociali della scienza rafforzano le prescrizioni logiche dell’inferenza alla
miglior spiegazione in modo più stringente di quel che avvenga nella vita quotidiana. Gli
scienziati sono inclini, come ogni altra persona, a confermare preconcetti e inferenze
motivate e a prestare maggior attenzione all’evidenza che corrobora le loro teorie. Ma
essi sono ben consapevoli di quanto sia difficile pubblicare i loro punti di vista personali
nelle riviste con revisioni critiche, se non sono sostenuti da un’ampia evidenza e
confrontati con ipotesi alternative. Investigatori, medici e persino la gente comune,
quando cerca di spiegare il comportamento dei propri amici, dovrebbero prendere in
considerazione tutta l’evidenza e l’insieme delle ipotesi; essi tuttavia possono spesso
30
cavarsela senza riflessioni selettive perché non hanno a che fare con revisori ed editori.
La ricompensa sociale della scienza, invece, incoraggia a cercare il nuovo, promettendo
incentivi a coloro che producono teorie inedite e stimolanti oltre che evidenza. A
differenza delle organizzazioni sociali conservatrici, come sono la maggior parte delle
religioni, modificazioni delle credenze sono non solo tollerate ma previste
dall’introduzione di nuove spiegazioni e di nuova evidenza. Si è consapevoli che la
scienza è approssimativa e fallibile, e ciò consente lo sviluppo di teorie nuove e migliori
piuttosto che la conservazione dogmatica delle ortodossie. In quarto luogo, gli scienziati
sono educati a non focalizzare l’attenzione solo sulle osservazioni che combaciano con le
loro tendenze, ma piuttosto a condurre osservazioni sistematiche su ampi e
rappresentativi campioni di dati rilevanti. Gli astronomi scrutano il cielo
sistematicamente, raccogliendo una vasta gamma di osservazioni che forniscono
l’evidenza per valutare teorie in competizione sulla natura e l’origine dell’universo. In
quinto luogo, mentre la gente comune trae l’evidenza solo dai sensi, come la vista, gli
scienziati usano strumenti per osservare cose ed eventi che sono fuori dalla portata
dell’esperienza sensoriale diretta. A partire dal secolo XVII, gli scienziati sono in grado di
utilizzare telescopi, microscopi, apparecchi a raggi X, e molti altri strumenti per compiere
osservazioni sistematiche di oggetti troppo lontani, troppo piccoli o troppo nascosti per
essere percepibili direttamente.
La sesta, e probabilmente più interessante, differenza fra l’inferenza basata
sull’esperienza della scienza e la vita d’ogni giorno è l’impiego degli esperimenti. Le
persone imparano dalla percezione che hanno del mondo e fanno inferenze sulle
spiegazioni migliori a ciò che osservano. L’impiego di esperimenti accuratamente
progettati e controllati è relativamente recente nella Storia 10. Esperimenti grossolani
furono eseguiti dagli antichi pensatori greci e arabi del Medioevo, ma esperimenti in
laboratorio con misurazioni quantitative cominciarono solo nel secolo XVII. Galileo fu
uno dei pionieri. Anche se egli potrebbe non aver mai condotto il famoso esperimento
consistente nel far cadere palle pesanti e leggere dalla Torre di Pisa, egli impiegò
comunque piani inclinati per verificare la dottrina aristotelica secondo la quale il peso
influisce sulla velocità della caduta. Usò, inoltre, ritmi musicali per misurare il tempo
impiegato da palle pesanti e leggere a rotolare lungo un piano inclinato, e concluse che
palle pesanti e leggere rotolano alla stessa velocità.
Simili esperimenti di laboratorio presentano diversi vantaggi rispetto a osservazioni
più casuali. Innanzitutto, negli esperimenti sono compiute manipolazioni pianificate,
cambiando, per poter identificare cause ed effetti, solo poche caratteristiche di una
situazione. In secondo luogo, ogni esperimento può essere ripetuto da altri scienziati, con
identici eventi e situazione, per verificare se i risultati rimangono gli stessi in tempi e
luoghi diversi. In terzo luogo, l’esperimento può esser programmato per raggiungere dati
quantitativi piuttosto che qualitativi. Osservazioni precise e ripetibili forniscono
un’evidenza che può esser messa alla prova da diverse ipotesi, cosicché i risultati degli
esperimenti di laboratorio contribuiscono grandemente all’evidenza dell’inferenza alla
miglior spiegazione.
Tutte le inferenze derivate da osservazioni presuppongono un tipo di inferenza alla
miglior spiegazione. Ad esempio non è possibile inferire direttamente dall’affermazione:
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«Io vedo un orso» che sia veramente un orso ciò che state vedendo. Che ci sia veramente
un orso davanti a voi è una delle possibilità; ma potrebbe anche essere che siate tratti in
errore dall’immagine di un orso o di un grosso cane o che stiate avendo un’allucinazione.
Similmente, se avete visto molti orsi con i denti, non potete dedurre che tutti gli orsi li
hanno, perché potreste aver visto solo una particolare razza di orsi. Comunque, se avete
fatto molte osservazioni in buone condizioni ed avete l’evidenza contraria a spiegazioni
alternative, allora potete essere giustificati a concludere che in quel caso particolare si
trattava proprio di un orso e che, in linea generale, gli orsi hanno denti.
Gli esperimenti di laboratorio creano situazioni speciali che aiutano ad eliminare
approcci nei quali le osservazioni potrebbero essere inattendibili. Ad esempio, è una
fortuna che Galileo abbia condotto l’esperimento con le palle in caduta su piani inclinati e
non solo dalla Torre di Pisa, dove interferenze come un colpo di vento avrebbero potuto
portare a risultati meno attendibili. Per avere teorie ben giustificate per la miglior
spiegazione di ciò che si osserva, dobbiamo esser certi che le osservazioni siano corrette,
il che richiede che la loro miglior spiegazione sia basata sulla realtà di ciò che si osserva
piuttosto che su preconcetti, ricerca di novità, o incompetenza. In questo capitolo
torneremo sull’importanza degli esperimenti quando discuteremo della medicina basata
sull’evidenza (evidence-based medicine). Nel quarto capitolo, invece, si discuterà più
ampiamente di come i meccanismi cerebrali rendano possibile la percezione della realtà.
Nella scienza, come nella vita d’ogni giorno, l’inferenza alla miglior spiegazione
spesso autorizza inferenze che vanno ben al di là di quel che si sta osservando. Ad
esempio, se pensate che un amico potrebbe essere depresso, allora sospettate una
condizione mentale che non potete osservare direttamente. In tribunale, la giuria può
concludere che l’imputato aveva un’intenzione malvagia e perciò è giusto condannarlo
per omicidio volontario e non colposo. I giurati non possono conoscere con certezza le
intenzioni passate o presenti della persona sospetta, ma possono dedurle dal suo
comportamento. In medicina l’insorgenza di una malattia può essere talora percepita, ma
spesso essa deve essere dedotta. Ad esempio, la diagnosi di malattia di Alzheimer non
può esser confermata definitivamente senza l’autopsia che identifica le placche nel
cervello del paziente, ma essa può tuttavia esser supposta nella persona viva in quanto
rappresenta la miglior spiegazione dei sintomi del suo comportamento, quali la perdita
della memoria. In tutti questi casi si accetta un’ipotesi come la miglior spiegazione
dell’evidenza, anche se non si può osservare direttamente ciò che si è ipotizzato.
La scienza, dunque, va spesso oltre l’osservabile. Per la visione filosofica del
positivismo, tali salti sono illegittimi e la scienza deve limitarsi rigorosamente a ciò che
può esser osservato dagli organi di senso. Ma perché l’osservazione dovrebbe limitarsi a
ciò di cui sono capaci gli organi di senso umani, con i loro limiti evoluzionistici? Ci sono
specie che possono vedere, udire e percepire con l’olfatto molto più degli esseri umani.
Gli uomini, comunque, hanno eccelso nello sviluppo di strumenti che potenziano
enormemente le nostre capacità sensorie, dal telescopio ai microscopi elettronici e alla
tomografie del cervello. Nel quarto capitolo avremo modo di parlare di come il cervello
possieda la capacità sia di osservare il mondo sia di inferire ciò che va oltre
l’osservazione. Il balzo scientifico al di là di ciò che è direttamente osservabile ha portato
enormi vantaggi teorici e pratici. La fisica e la chimica ci dicono che la materia consiste
32
di atomi, a loro volta costituiti anche da protoni ed elettroni. Possiamo osservare gli atomi
solo usando i microscopi elettronici e presumiamo che ci siano elettroni, che però non
vediamo. Abbiamo tuttavia ragione di credere che gli elettroni esistano, perché le teorie
che postulano la loro esistenza hanno un grande potere esplicativo. Innumerevoli
fenomeni elettrici e magnetici sono spiegati al meglio dall’ipotesi che la materia includa
particelle di carica negativa estremamente piccole. Senza elettroni, non esiste spiegazione
credibile di come sia possibile il funzionamento della luce elettrica e di come i computer
possano elaborare le informazioni. In breve, l’uso scientifico dell’evidenza è
radicalmente diverso e più efficace della fede religiosa. La scienza usa spiegazioni
meccaniche e matematiche, osservazioni sistematiche raccolte da strumenti più potenti
dei sensi umani, ed esperimenti che generano l’evidenza intensamente rilevante per
scegliere le ipotesi che forniscono le spiegazioni migliori.

Medicina: evidenza o fede?

Per illustrare ulteriormente la natura e il valore delle convinzioni basate sulla raccolta
accurata e sulla valutazione dell’evidenza, consideriamo la pratica della medicina.
Quando sentii parlare per la prima volta della evidence-based medicine, cioè della
medicina basata sull’evidenza, la mia reazione fu: «Che cosa? Esiste forse una medicina
diversa?». Ero colpito dall’apprendere che molti trattamenti medici si basavano più su
tradizioni e pratiche corrive che su prove rigorose della loro efficacia. Il movimento della
evidence-based medicine 11 fu lanciato da visionari come Archie Cochrane, David Sackett
e Gordon Guyatt al fine di rendere più scientifica la pratica medica. Essi sostennero la
convinzione che un’evidenza medica di standard elevato deve basarsi su una verifica
randomizzata, con l’alternativa cieca del placebo. Supponete di dover verificare l’ipotesi
che la vitamina C previene i raffreddori. Potete cominciare ingerendo voi stessi la
vitamina C e notando quando vi raffreddate, oppure potete convincere un gruppo di amici
a prendere la vitamina C e a monitorare la loro salute. Quest’evidenza è di scarso valore,
perché siete inevitabilmente portati a confermare preconcetti e inferenze correlate, che vi
portano a registrare i successi e ad ignorare i fallimenti. La maggior parte di coloro che
acquistano nel negozio di cibi naturali rimedi vegetali o omeopatici sono egualmente
inclini a confermare i loro preconcetti e le relative inferenze. La miglior spiegazione della
convinzione che un trattamento è efficace può ben essere un preconcetto piuttosto che
l’efficacia provata.
Se volete veramente sapere se la vitamina C previene i raffreddori, dovete condurre
un’indagine clinica controllata. Ciò significa che, oltre al gruppo che riceve la vitamina
C, deve essere controllato un altro gruppo che non la riceve. Ciò permette di giudicare se
il gruppo che ha ricevuto la vitamina C è veramente meno colpito dal raffreddore del
gruppo di controllo. Se ciò viene confermato, avete motivo di pensare che la miglior
spiegazione della riduzione del numero di raffreddori è la vitamina C piuttosto che il
preconcetto o il dato occasionale dell’osservazione.
Un’altra strada per ridurre il preconcetto consiste nel randomizzare lo studio
controllato selezionando una popolazione omogenea e dividendola casualmente (ad

33
esempio con il testa o croce di una medaglia) in due gruppi, uno dei quali riceve la
vitamina C e l’altro no. Se invece si lasciasse alle persone la scelta se prendere o meno la
vitamina C potrebbe succedere che scelgano di prenderla le persone particolarmente
attente alla loro salute, che per questo s’ammalano di raffreddore meno delle altre. Per la
stessa ragione non è desiderabile che siano i medici a decidere chi deve ricevere la
medicina e chi no, perché nella selezione potrebbero essere condizionati dal pregiudizio
di distribuire la vitamina C a persone più o meno sane o a quelle ligie alle regole. Se lo
studio mostra che con la vitamina C ci si ammala meno di raffreddore, la miglior
spiegazione di questo dato dovrebbe essere che quelle persone si ammalano veramente di
meno, non che questo avviene per un pregiudizio nella loro selezione.
La domanda dell’inferenza per la spiegazione migliore giustifica anche il fatto che uno
dei requisiti ideali dei processi randomizzati e controllati prevede che essi siano double
blind, cioè che né il medico né il paziente sappiano chi riceve placebo, chi medicina. In
caso contrario, potrebbe succedere che le persone consapevoli di utilizzare una medicina
potrebbero sentirsi meglio solo perché è ciò che si aspettavano. L’effetto placebo è ben
noto in medicina 12: un trattamento biologicamente inerte come una zolletta di zucchero
può aiutare gli ammalati ad avere meno dolori o a migliorare, anche se la zolletta non ha
alcun effetto sulla malattia. Per questo, nell’esperimento con la vitamina C, occorre
essere sicuri che le compresse di vitamina e di placebo abbiano lo stesso aspetto, cosicché
il paziente non possa distinguerle. Inoltre è indispensabile che nemmeno chi distribuisce
le pillole possa distinguere la vitamina dal placebo. Altrimenti lo sperimentatore che
sapesse che cosa distribuisce potrebbe aspettarsi che il gruppo di chi riceve la vitamina
presenti un andamento migliore dell’altro e per questo motivo lo curi in maniera
differente, con meno casi di raffreddore. Gli esperimenti double-blind con placebo
aiutano ad escludere l’ipotesi che l’effetto osservato della vitamina C sia dovuto ai
preconcetti dei pazienti e degli sperimentatori e non all’efficacia del trattamento.
Spero che sia ora chiaro perché studi clinici ben prefigurati e controllati sono un tipo
particolarmente valido di evidenza: essi forniscono fondati motivi per pensare che la
miglior spiegazione delle osservazioni mediche è un’ipotesi concernente la causa vera o
la cura efficace di una malattia, piuttosto che un’ipotesi alternativa come un preconcetto o
un tentativo. Inoltre, esperimenti strettamente controllati raggiungono il massimo
standard di evidenza in altri campi scientifici, come la fisica, la biologia molecolare e la
psicologia cognitiva. Sfortunatamente ci sono vari ambiti del mondo reale – fra i quali
l’astronomia, l’economia, l’ecologia – rispetto ai quali risulta assai difficile effettuare
studi controllati. In economia, ad esempio, nessuno ha il potere o può disporre di una
giustificazione etica che gli consenta di dividere alla cieca un insieme di paesi in due
gruppi per sperimentare quale sia il miglior tipo di politica monetaria. Anche in medicina
sorgono spesso ragioni biologiche o etiche che rendono difficile condurre studi controllati
e casuali. Ad esempio, gli interventi chirurgici raramente possono essere distribuiti alla
cieca, perché per il chirurgo è eticamente problematico operare un paziente solo perché la
scelta cieca l’ha messo fra gli operandi. Sebbene le ricerche controllate e alla cieca siano
giustamente considerate come il massimo degli standard, in medicina vengono utilizzati
altri tipi di dati basati sull’evidenza, secondo una gerarchia che comprende altre forme di
analisi, come gli studi non prospettici, bensì retrospettivi di eventi naturali. Una vasta
34
popolazione in cui l’uso della vitamina C si è prolungato per molto tempo può fornire una
certa evidenza per accettare o rifiutare l’ipotesi che la vitamina C protegga dal
raffreddore. Molte conclusioni sul valore di un trattamento medico dovrebbero fondarsi
sulla valutazione sistematica del fatto che la sua efficacia sia la miglior spiegazione dei
risultati di molti studi, ivi comprese, tutte le volte che sia possibile, le analisi
programmate, randomizzate e controllate. Per inciso, simili studi clinici accuratamente
controllati sembrano dimostrare che larghe dosi di vitamina C non aiutano a ridurre
l’insorgenza e la gravità del raffreddore.
Molte persone, compresi alcuni medici, nutrono scarsa considerazione per la medicina
razionale basata sull’evidenza. Alcuni medici continuano a sostenere i vantaggi
dell’«esperienza clinica», che, in effetti, a volte può essere una fonte di osservazioni
valide circa l’efficacia dei trattamenti medici. Ma è difficilissimo distinguere la validità di
tali esperienze dall’aneddotica e dall’illusione, dal momento che i medici, come tutti,
sono inclini a preconcetti cognitivi ed emozionali 13. La situazione è ancora peggiore per
coloro che basano i loro trattamenti medici sul consiglio dei naturisti, su diete personali,
su guru autonominatisi medici, la maggior parte dei quali ha poca o nessuna conoscenza
della buona evidenza. Anche se aveste l’impressione che un trattamento che vi è stato
raccomandato ha un buon effetto su di voi, non per questo si può escludere che siate
testimoni di nient’altro che di un effetto placebo o di un’osservazione preconcetta. È
possibile che il vostro rimedio vegetale preferito, il trattamento omeopatico, la
manipolazione chiropratica abbiano qualche efficacia generale, ma non c’è nessun
metodo per appurarlo se non l’evidenza derivata da indagini cliniche ben programmate.
Poche persone, oggi, si affidano esclusivamente alla religione come trattamento dei
disturbi della salute. I membri della Chiesa di Cristo e gli Scientisti perseverano nella
guarigione spirituale anziché in quella medica, ma sono pochi e sempre meno. Sacerdoti,
ministri di culto, rabbini, iman musulmani consultano i medici in caso di malattia,
piuttosto che affidarsi solo al potere dell’intervento divino. Ovviamente i leader religiosi
perorano la preghiera, ma gli esperimenti hanno dimostrato che gli ammalati di cuore non
ne traggono alcun beneficio 14. Si hanno buone ragioni per preferire la medicina basata
sull’evidenza a quella basata sulla fede.
La medicina basata sull’evidenza non è sempre agevole. Ho già ricordato che spesso è
difficile condurre certi tipi di indagini cliniche accuratamente controllate, che sono del
massimo aiuto per determinare l’efficacia di un trattamento medico. Un’altra fonte di
preoccupazione deriva dalla consapevolezza del fatto che molte indagini sono condotte da
industrie farmaceutiche, che hanno un forte interesse finanziario a dimostrare che i loro
medicamenti sono efficaci, suscitando questioni scottanti circa la possibilità di
interferenze tese al raggiungimento di uno scopo preconcetto 15. Provoca disagio, ma non
sorpresa, che le pubblicazioni a favore dell’efficacia di un medicamento siano di regola a
cura delle società che lo vendono. Le industrie farmaceutiche americane spendono più
soldi per la commercializzazione dei loro prodotti che per la ricerca e lo sviluppo. Per
questo non è semplice praticare la medicina basata sull’evidenza, sia sul piano
istituzionale sia sul piano individuale, anche se i suoi vantaggi sulla medicina basata sulla
fede sono indiscutibili. Alla stessa maniera, i vantaggi dell’evidenza sulla fede nel campo
della fisica, della chimica e della biologia sono facilmente documentabili. Nel terzo
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capitolo si argomenterà a favore dell’approccio basato sull’evidenza anche per la
psicologia.
La medicina fornisce un esempio eloquente della superiorità dell’evidenza sulla fede
come guida per acquisire conoscenza, anche se sarebbe opportuno un argomento più
generale a favore dell’uso dell’evidenza per trarre inferenze alla migliore spiegazione
come metodo affidabile al fine di giungere a conclusioni veritiere. Nella vita quotidiana e
nella scienza ci sono spesso casi nei quali evidenza e inferenza portano fuori strada. A
volte non riusciamo a capire il prossimo perché traiamo conclusioni false sulla sua
condizione mentale. In medicina molte teorie si sono rivelate false dopo esser apparse la
miglior spiegazione disponibile. La teoria ippocratica secondo la quale le malattie sono
provocate dallo squilibrio dei quattro umori sangue, flegma, bile gialla e nera ha
dominato la medicina per due millenni, e solo recentemente teorie ampiamente accettate
che associavano l’ulcera di stomaco agli stress sono state abbandonate. Anche fisica e
chimica hanno avuto teorie esplicative dominanti che ora vengono rifiutate, come quella
secondo cui la luce viaggerebbe attraverso un medium invisibile chiamato etere, o quella
secondo cui la combustione sarebbe dovuta all’emissione da parte della materia che
brucia di una sostanza simile al fuoco chiamata «flogisto». Se il pensiero basato
sull’evidenza con l’uso dell’inferenza alla miglior spiegazione si dimostrasse proprio
inaffidabile, allora si potrebbe veramente concludere che esso non sia molto meglio del
pensiero basato sulla fede. Il fatto che l’inferenza alla miglior spiegazione dell’evidenza
possa far andare fuori strada non è una buona ragione per rifiutarla, fino a quando essa
spiega correttamente molte cose e fino a quando non ci sia un metodo alternativo,
suffragato da una documentazione affidabile che consenta di raggiungere verità
importanti ed evitare errori.
Ho già argomentato che sulla base dei successi tecnologici abbiamo buone ragioni di
credere che il tipo di inferenza basata sull’evidenza della scienza raggiunge spesso verità
quantomeno approssimative; il quarto capitolo riporta un’argomentazione più ricca di
come la scienza raggiunga una conoscenza quantomeno approssimativa della realtà.
In medicina possiamo sottolineare che la durata della vita umana è doppia rispetto a
quella di due secoli fa, una prova della verità della teoria batterica che ha indicato come
prevenire e curare malattie infettive.
I casi in cui le teorie accettate vengono poi rigettate sono una conferma della forza e
non della debolezza del pensiero basato sull’evidenza, che può progredire acquisendo
nuova evidenza e sviluppando nuove teorie per spiegarla. Il pensiero basato sulla fede
non ha motivazione a migliorare ciò che si trova nei testi sacri. La scienza, al contrario,
cresce revisionando le opinioni e migliorando le teorie sulla traccia dei progressi
sperimentali. Per questo è bene che la teoria e la pratica medica siano basate
sull’evidenza piuttosto che sulla fede.

Evidenza, verità, Dio

Si potrebbe, volendo, usare l’evidenza per sostenere il pensiero basato sulla fede. Il
sostegno dell’evidenza al pensiero basato sulla fede può concretizzarsi in due modi: si

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può usare l’evidenza per giustificare la convinzione dell’esistenza di Dio, oppure per
sostenere, citando molti esempi, che il pensiero basato sulla fede rende gli uomini più
felici di quello basato sull’evidenza. Alcuni filosofi e scienziati hanno ritenuto che
l’esistenza di Dio non dovrebbe essere una questione di fede, ma piuttosto che ad essa si
può credere sulla base dell’evidenza. I due argomenti più stringenti a favore
dell’esistenza di Dio 16 spiegano anche l’origine e la struttura dell’universo. Secondo
l’argomento cosmologico, il mondo deve aver avuto una causa, ed essa è Dio. Sebbene
questo argomento possa essere sviluppato in forma deduttiva, esso è molto più sostenibile
se espresso come inferenza alla miglior spiegazione, con l’ipotesi che Dio creatore
dell’universo è anche la spiegazione del suo inizio. Anche l’argomento del piano
prestabilito è convincente soprattutto come affermazione che la complessità del mondo
biologico è il risultato di un programmatore intelligente, creatore di tutte le forme della
vita.
Sebbene questi due argomenti siano, di solito, trattati separatamente, essi acquistano il
massimo della forza quando sono combinati in una grande e coerente inferenza alla
miglior spiegazione. Dovremmo concludere che Dio esiste perché questa supposizione
fornisce la miglior spiegazione sia dell’esistenza sia della complessità dell’universo.
Quest’argomento non legittima alcuna religione, dal momento che non stabilisce se il Dio
che si suppone abbia creato il mondo sia l’Allah dei musulmani, la Trinità cattolica o lo
Zeus degli antichi greci. Esso fornirebbe comunque una base per sostenere l’esistenza di
un qualche creatore.
Sfortunatamente per i teisti, questo mega-argomento dell’esistenza di Dio non ha
consistenza, perché la scienza fornisce spiegazioni alternative e competitive. La teoria di
Darwin dell’evoluzione per selezione naturale si è rivelata fondamentale perché ha
fornito una spiegazione alternativa e forte della complessità biologica, tanto più che essa
è stata consolidata dallo sviluppo parallelo delle teorie della genetica e della biologia
molecolare ad essa connesse. La conoscenza delle proteine, dei geni e delle popolazioni
ecologiche, unita al concetto di base espresso da Darwin, fornisce una spiegazione delle
modificazioni biologiche molto più dettagliata e molto più corroborata dall’evidenza
rispetto a quella della teoria alternativa del disegno intelligente. La cosmologia scientifica
ha trovato il supporto sperimentale della teoria del big bang dell’inizio dell’universo
nell’esplosione espansiva avvenuta 14 miliardi di anni orsono e che continua tuttora.
Questa teoria spiega l’evidenza del fatto che le galassie si allontanano l’una dall’altra e
della radiazione di fondo di microonde. Quest’evidenza e la proporzione relativa degli
elementi di luce presenti nell’universo sono esattamente spiegate dall’espansione
primaria. Rimane speculativa la domanda da dove sia venuto il big bang 17, ma recenti
sviluppi della teoria delle stringhe suggeriscono una possibile spiegazione nei termini
delle operazioni di oggetti spazio-tempo chiamati branes (vedi la discussione riportata nel
decimo capitolo).
Anche senza quest’ultima teoria, la combinazione di evoluzione biologica e di
cosmologia del big bang, spiega molto di più di quanto non possa fare l’ipotesi della
creazione divina. La teoria evoluzionistica moderna, che comprende, accanto alla
selezione naturale, anche la genetica e la biologia molecolare, può spiegare una folta
schiera di fatti inerenti la natura e lo sviluppo degli organismi. La cosmologia e le varie
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branche della fisica ad essa collegate spiegano in dettaglio un gran numero di eventi
relativi alla natura e alla storia dell’universo. Di conseguenza i difensori del credo
religioso sono costretti a ricorrere ad una razionalizzazione imbarazzante e priva di
evidenza. Essi devono fornire una spiegazione plausibile di come si possa conciliare
l’ipotesi della creazione da parte di un Dio benevolo con la ricorrenza di disastri naturali
come i terremoti e di tragedie umane come le guerre, che causano all’umanità infinita
sofferenza. Le conciliazioni proposte – ad esempio che noi non possiamo sperare di
capire i disegni di Dio – sono semplici riaffermazioni della fede.
Per molte persone, l’evidenza più forte dell’esistenza di Dio è la loro personale
esperienza del timore religioso e della devozione. Ci sono, comunque, alternative
psicologicamente plausibili alle ipotesi che l’esperienza religiosa provenga da un
messaggio divino. Tali vicende, fortemente condizionate dal retroterra culturale
individuale, possono essere indotti da farmaci come l’LSD e dalla stimolazione
magnetica del cervello. In altre parole, l’esperienza religiosa può esser spiegata come una
forma di coscienza emozionale da parte di meccanismi nervosi, di cui si parlerà nel
quinto capitolo.
Posto che l’evidenza empirica esclude la fede cieca come tramite verso la verità, è
tuttavia plausibile che la fede religiosa sia una strada migliore della ricerca scientifica per
soddisfare esigenze personali. Per molte persone, la religione è una grande fonte di
conforto e di certezza che le cose andranno a finir bene. Ci sono alcuni studi che
suggeriscono che i credenti sarebbero più felici, sebbene sia difficile distinguere la
religiosità da altri fattori che possono contribuire alla felicità, come l’appartenenza ad una
comunità di aiuto reciproco. Storicamente, le religioni hanno avuto maggior successo
sociale come fonti di risposta alle domande sul senso della vita rispetto a fonti alternative
come letteratura e filosofia. Nel settimo capitolo argomenterò a favore dell’evidenza delle
neuroscienze e della psicologia come guide altamente affidabili per il raggiungimento
della felicità e di una vita colma di senso. Se è vero che gli approcci alla conoscenza
basati sulla fede sono di portata inferiore rispetto a quelli basati sull’evidenza, allora
perché ancora oggi la religione domina il pensiero della vasta maggioranza della
popolazione 18? Io penso che la risposta sia una combinazione di testimonianza e di
inferenza motivata. Come ho già avuto modo di notare, i bambini ricevono la prima
conoscenza delle dottrine religiose dai loro genitori, che, di regola, sono fonti degne di
fiducia. La maggior parte di ciò che crediamo non deriva dall’esperienza diretta, bensì
dalla testimonianza di altri. È ovvio, quindi, che acquisiamo la fede in Dio, con le sue
pratiche, dai genitori e dagli insegnanti con i quali entriamo in contatto, ben prima di
acquisire le conoscenze dei metodi sistematici basati sull’evidenza, propri della scienza.
Inoltre le credenze religiose, comprese quelle più approssimative circa la spiritualità,
sono sostenute da un’inferenza motivata. Noi desideriamo credere in una religione e in
una fede perché esse elargiscono consolazione in un mondo minaccioso, certezze circa
l’immortalità, un Dio provvido, una comunità religiosa, e il senso ultimo delle cose e
della vita in generale. Nel quinto capitolo si parlerà della base nervosa dell’intuizione
emotiva, che spiega perché la fede possa essere un generatore così potente del credo
religioso.

38
Ragionamenti a priori ed esperimenti mentali

Molta parte del discorso filosofico non si basa né sull’evidenza empirica né sulla fede.
A partire da Platone, molti filosofi hanno cercato una conoscenza a priori della verità
necessaria. Un metodo importante per cercare di fondare tali verità è quello degli
esperimenti mentali, di cui si suppone che mostrino ciò che deve esser vero, deducendolo
dalla natura dei concetti coinvolti. Io sostengo l’opinione che i tentativi filosofici di
stabilire verità concettuali a priori non sono migliori del pensiero basato sulla fede e
devono essere soppiantati da argomenti legati all’evidenza.
Oltre agli argomenti sull’esistenza di Dio, a quelli cosmologici e relativi al disegno
intelligente, ce n’è uno a priori, difeso in maniera diversa da filosofi come Anselmo,
Descartes e Leibniz. L’argomento ontologico di Anselmo dice che Dio è, per definizione,
l’essere massimo concepibile. Se questo essere non esistesse, potremmo concepirne un
altro ancora più grande, perché un tale essere deve esistere. Ma supporre l’esistenza di un
essere più grande del massimo essere concepibile conduce a una contraddizione, e quindi
Dio come essere massimo concepibile deve esistere. La concepibilità si riferisce
principalmente alla mente e meno al corpo. Descartes sostiene che gli riesce di pensare a
se stesso senza corpo, ma mai senza mente, perché il dubbio che egli sia in grado di
pensare è un pensiero. Non il corpo, conclude Descartes, ma il pensiero è l’essenza
dell’essere della persona. Vedremo nel terzo capitolo che varianti di questo argomento
sono usate oggi da filosofi secondo i quali la coscienza non può essere un processo fisico.
Tali argomenti presuppongono che ciò che possiamo concepire o immaginare può dirci
qualcosa sulla realtà, e che le nostre menti possono afferrare non solo com’è il mondo ma
anche come dovrebbe essere. Ma ciò che possiamo immaginare è determinato dai concetti
e dalle credenze che già abbiamo e non da una qualche capacità di concepire
qualcos’altro. La maggioranza delle persone non riesce a concepire uno spazio con più di
tre dimensioni, ma i concetti e la matematica della teoria fisica delle stringhe ci
consentono di pensare ad uno spazio con dieci e più dimensioni. Ci sono alcuni che
trovano ostico immaginare di scomparire, ma se si abbandona il concetto di anima e si
comincia a pensare in termini di cervelli e corpi deperibili, allora diventa molto più facile
(anche se non gradevole) concepire la propria scomparsa. La storia del pensiero trabocca
di casi in cui ciò che si riteneva concepibile è cambiato in funzione della disponibilità di
nuove teorie e concetti. Un tempo l’atomo era descritto come indivisibile, mentre oggi è
diviso in una miriade di particelle subatomiche. Alcuni dizionari definiscono il
matrimonio come l’unione di un uomo e una donna, ma in alcuni paesi, come il Canada e
l’Olanda, sono comuni i matrimoni fra persone dello stesso sesso.
Platone era certo che le credenze potessero essere vere anche se basate sul solo
pensiero, grazie alla capacità delle anime di afferrare le ideali forme divine. Ma se le
menti sono cervelli e non anime (come vedremo nel terzo capitolo) e se i concetti sono
processi nervosi piuttosto che entità ideali (come si vedrà nel quarto capitolo) le credenze
a priori possono essere false. Un credo a priori, se mai ne esistesse uno, dovrebbe basarsi
su idee innate e su concetti che ci appartengono dalla nascita. In realtà, è possibile che gli
esseri umani posseggano alcuni concetti del genere, selezionati dall’evoluzione perché
utili al fine di facilitare la sopravvivenza e la riproduzione. Ma tali vantaggi evolutivi non
39
implicano che tali concetti altro non siano che approssimazioni utili alla realtà e che le
convinzioni derivate da loro siano vere.
Ad esempio, i bambini possono venire al mondo già col concetto della geometria
euclidea, ma la teoria generale della relatività di Einstein implica uno spazio non
euclideo. Può essere utile nascere con la convinzione innata che tutti i serpenti sono
pericolosi, anche se alcune specie non lo sono. Le teorie che spiegano al meglio le
osservazioni raccolte al telescopio o con altri potenti strumenti possono sostituire teorie
congruenti con concetti nati e successivamente selezionati dall’evoluzione solamente per
facilitare la sopravvivenza e la riproduzione. Quindi, anche se possiamo formulare
argomenti a priori condivisi da tutti, non dovremmo prestar loro fede se manca l’evidenza
degli scienziati, ben più ampia oggi di quella dei tempi dei nostri progenitori. Il
ragionamento a priori basato su ciò che è concepibile non equivale alla fede, in quanto
esso dipende da ipotesi piuttosto che dalla fiducia cieca in una divinità, in un leader, o in
testo. Nondimeno ha la stessa natura arbitraria della fede. Ciò che le persone adottano
come fede religiosa dipende largamente dalla loro educazione e dai loro coetanei, di
conseguenza ciò che si assume come vero a priori – ciò che si può immaginare che sia
vero a priori – dipende da ciò che già si sa. I teisti cercano una giustificazione a priori
dell’esistenza di Dio, i dualisti cercano motivi a priori per confutare il materialismo, cioè
la concezione secondo cui non esiste nulla che non sia materia ed energia. Pochi sono i
materialisti, comunque, che, rifiutando Dio e anima, cercano i motivi a priori
dell’esistenza di materia ed energia: i materialisti sono di regola naturalisti, e difendono le
loro convinzioni sulla base dell’evidenza e della interferenza alla miglior spiegazione.
Sono solito pensare che esista almeno una verità a priori, individuata dal filosofo
americano Hilary Putnam 19: non tutte le asserzioni sono sia vere sia false. Ma ho sentito
dire che un filosofo postmoderno definisce la verità come qualunque cosa i
contemporanei ci concedano che sia. Non penso che sia una buona definizione della
verità, e nel quarto capitolo sosterrò la visione più tradizionale della verità come ciò che
corrisponde alla realtà. Quella visione, altamente relativistica, è perlomeno concepibile, e
consente ai contemporanei tanta ingenuità da poter essere convinti di una cosa e del suo
contrario. Allora sarebbe concepibile che ogni asserzione sia vera e falsa! Così, mentre
concordo ampiamente con Putnam sul fatto che non tutte le asserzioni sono sia vere sia
false, e argomenterei a favore dell’opinione più forte che nessuna asserzione è sia vera sia
falsa, non posso considerare queste asserzioni come interamente razionali.
Se allargate un po’ la mente, allora anche la legge di non contraddizione diventa
concepibile. Alcuni hegeliani e marxisti pretendono che, per capire il movimento alla luce
del paradosso di Zenone, noi dobbiamo immaginare che un oggetto sia e non sia nello
stesso posto nello stesso momento. Un filosofo dei nostri giorni ha sostenuto che
affermazioni paradossali come: «Questa proposizione è falsa», dove è falsa se essa è vera
e vera se essa è falsa, sono comprensibili al meglio se sono sia vere sia false. Io ritengo
che per capire il procedimento e i paradossi della logica ci siano strade migliori che
avvalorare una proposizione come vera e falsa ad un tempo. Io direi che il principio di
non contraddizione, nel nostro mondo, è vero. Ma il fatto che qualcuno abbia avuto
l’audacia di concepire eccezioni è motivo sufficiente per dubitare della sua verità a priori.
Si può insistere che nessuno può realmente concepire che esso sia falso, perché voi non lo
40
potete ma, come nell’asserzione della fede religiosa secondo cui nessuno può realmente
dubitare del fatto che un dio ha creato l’universo, altro in esso non c’è.
Una delle motivazioni per servirsi del ragionamento a priori è di arrivare a verità
necessarie, valide nel nostro e in tutti i possibili mondi. Ma che cosa stabilisce che un
mondo è possibile? Se la possibilità è concepibile, è anche arbitraria, perché la
concepibilità si riferisce solo a ciò cui già si crede. La possibilità logica è di regola
definita come coerenza con le leggi della logica, ma si è appena visto che persino la
violazione del principio di non contraddizione è concepibile, per cui, a priori, non
conosciamo le leggi della logica. Pertanto la nozione di verità necessarie è vuota quanto
quella dell’a priori. Entrambe, come le asserzioni basate sulla fede, servono solo per
fornire un supporto quanto mai malfermo a ciò cui la gente per caso già crede. Il concetto
di necessità è un residuo della teologia e dovrebbe esser spedito nella pattumiera della
Storia, insieme a quelli della divinità e della monarchia. Nel prossimo capitolo discuterò
di come il più diffuso argomento filosofico contro l’identificazione di mente e cervello si
rifà alla nozione illegittima di necessità.
Alcuni filosofi replicheranno che quantomeno la verità della matematica deve
certamente essere vera e conoscibile a priori: non possiamo proprio immaginare che 1+1
non faccia 2. Douglas Hofstadter però ha provato a immaginare che cosa sarebbe il
mondo se 13 non fosse un numero primo. Per il filosofo Immanuel Kant le verità della
geometria euclidea erano necessarie e a priori, ma nel secolo XIX fu sviluppata la
geometria non euclidea, che divenne parte della fisica nella teoria della relatività di
Einstein. Trovo arduo immaginare che 1+1 possa non fare 2, così come trovo arduo
immaginare che le carote possano essere arance. Di nuovo: ciò che possiamo concepire o
immaginare dipende da ciò che noi crediamo e non da qualche accesso diretto e assoluto
a quel che dovrebbe essere la verità.
Molti scritti filosofici danno per certo che gli esperimenti mentali, come quello di
Descartes d’immaginarsi senza un corpo, sono in grado di rivelare verità concettuali 20.
Alcuni hanno anche argomentato che scienziati come Galileo usarono legittimamente gli
esperimenti mentali per stabilire verità necessarie. Astutamente Galileo rifiutò la
convinzione di Aristotele secondo cui i gravi pesanti cadono più velocemente di quelli
leggeri, immaginando quel che sarebbe successo se un oggetto pesante fosse stato unito
ad uno leggero, creando un oggetto ancora più pesante. Non si limitò a questo, perché
condusse esperimenti d’ampia portata misurando il movimento di oggetti di peso diverso
sui piani inclinati. Io riconosco che gli esperimenti mentali possono essere utili
nell’ambito scientifico e in quello filosofico per mettere in rilievo l’inconsistenza di
opinioni opposte ed anche per sviluppare ipotesi nuove, come successe ad Einstein
quando cercò di immaginare se stesso all’inseguimento di un raggio di luce. Ma non
conosco nessuna teoria scientifica che sia stata adottata solo sulla base di esperimenti
mentali. La fisica di Galileo si rivelò giustamente superiore all’opinione di Aristotele
grazie alla quantità di prove che la confermavano. Senza prova sperimentale l’uso degli
esperimenti mentali diventa semplicemente lo strombettare delle intuizioni di un filosofo
su quelle di un altro, un processo capace di condurre alla verità tanto quanto le
professioni di fede dei sostenitori di sette religiose rivali. Ad ogni esperimento mentale se
ne contrappone uno uguale e opposto.
41
Gli esperimenti mentali sono spesso considerati strumenti per l’analisi concettuale, ma
l’idea che il mestiere della filosofia sia quello di chiarire i concetti si basa su diversi
errori. In primo luogo essa presume che la filosofia dovrebbe accontentarsi di esaminare
il nostro insieme attuale di concetti. È una visione conservatrice in conflitto con la storia
della scienza, la quale dimostra il valore della revisione drastica di concetti
empiricamente inadeguati come pianeta, forza, aria, e vita. Come per la scienza, così per
la filosofia il punto centrale dovrebbe essere quello di migliorare i concetti, non di
analizzarli. In secondo luogo, l’idea della filosofia come chiarificatrice di concetti
presuppone che essi possano essere esaminati indipendentemente dalle teorie cui si
riferiscono. Ma noi sappiamo dalla storia della scienza che i concetti, come quelli citati
sopra, cambiano quando cambiano le teorie: l’adozione di nuove teorie porta all’adozione
di nuovi concetti. Il quarto capitolo sviluppa una teoria nervosa dei concetti, che mostrerà
come i loro significati sono collegati sia alla teoria sia all’osservazione.
Dal momento che questo libro non cerca di analizzare dei concetti, come saggezza o
significato della vita, non si useranno esperimenti mentali o ragionamenti a priori. Questi
strumenti della considerazione filosofica hanno poco da dirci circa la natura della
conoscenza, la realtà, la morale, o il significato. Piuttosto, nella tradizione naturalistica di
filosofi come Aristotele, John Locke, David Hume, John Stuart Mill, Charles Peirce, John
Dewey e W.V.O. Quine, tenterò di far corrispondere le conclusioni filosofiche alla miglior
evidenza disponibile, in particolare alle nuove scoperte della psicologia e delle
neuroscienze. La filosofia può essere sperimentale e teoretica quanto la scienza 21, ma i
problemi normativi vanno discussi con maggior generalità e maggior intensità.

Conclusione

In questo capitolo si è tentato di illustrare le buone ragioni a favore della ricerca


naturalistica della conoscenza rilevante. Gli approcci al senso della vita basati sulla fede
sono limitati, perché non forniscono le ragioni per scegliere fra la vasta congerie delle
fedi religiose. Gorge W. Bush e Osama bin Laden hanno fedi diverse, ma nessun
argomento per sostenere che una è migliore dell’altra. Le fedi religiose hanno sostenuto
molte opinioni che si hanno tutte le ragioni di ritenere false, come, ad esempio, che la
Terra sia al centro dell’universo. La fede è stata usata anche per avvalorare molte
pratiche, come le torture e le guerre di religione, che hanno a che fare più col male che
col bene. La fede non fornisce alcun mezzo per resistere alla tendenza all’errore del
pensiero umano, ivi compresi il preconcetto della conferma e l’inferenza motivata. Ciò
contrasta col pensiero basato sull’evidenza, che, pur essendo fallibile, contiene in sé un
metodo efficace per correggere gli errori, raccogliendo sistematicamente nuova evidenza,
sviluppando sempre nuove ipotesi esplicative e selezionando le migliori. I metodi
sperimentali, come quelli usati nella medicina basata sull’evidenza, hanno il vantaggio di
rendere più efficace l’inferenza alla miglior spiegazione, aiutando a riconoscere i casi in
cui le osservazioni sono il risultato di preconcetti, di errori o del caso. L’inferenza alla
miglior spiegazione ci mette nelle condizioni di andare oltre i limiti delle osservazioni

42
degli organi di senso e di accettare teorie su entità invisibili come i virus e gli elettroni.
Nessuna inferenza, per quanto accurata, giustifica la fede in Dio.
Il filosofo Karl Popper è ricordato spesso per aver sostenuto che la differenza fra
scienza e non scienza è la falsificabilità 22. Egli pensa che gli scienziati facciano
congetture audaci per poi escogitare esperimenti che le possono rigettare. L’essenza
dell’evidenza scientifica non sarebbe quella di dimostrare che le teorie sono vere, come
nel caso dell’inferenza alla migliore spiegazione, ma piuttosto di dimostrare che sono
false. Secondo Popper, ciò che rende fasulle le teorie metafisiche è che non sono
falsificabili. L’opinione di Popper, dal punto di vista della filosofia della scienza, è
parecchio problematica. Nessuna teoria è, a rigore, falsificabile, perché una teoria può
essere usata per avanzare previsioni solo se collegata ad altri presupposti, come le
condizioni sperimentali e l’affidabilità degli strumenti utilizzabili. Se una previsione si
rivela falsa, lo scienziato non è in grado di sapere se è falsa la teoria o uno dei
presupposti. Nella Storia è avvenuto spesso che teorie precedenti siano state rigettate solo
quando una nuova teoria ha fornito una spiegazione migliore dell’evidenza sperimentale.
Secondo Popper, il metodo scientifico prevede che gli scienziati siano impegnati a
dimostrare che le loro teorie sono false, il che avviene assai raramente. E ciò non perché
gli scienziati inseguano baldanzosamente solo il loro successo personale, ma piuttosto
perché gli scopi della ricerca scientifica sono di arrivare a teorie che descrivano
accuratamente la realtà e procurino spiegazioni informative dei fenomeni osservati. Per
questo motivo, il segno distintivo della scienza non è la falsificabilità, quanto piuttosto
l’uso dell’evidenza nelle inferenze alla miglior spiegazione. L’inferenza alla miglior
spiegazione ci può indurre a concludere che molte teorie metafisiche non solo sono
falsificabili, ma sono false. Ad esempio, in questo capitolo, ho sostenuto che, in base
dell’evidenza disponibile, dovremmo concludere che gli dei non esistono. Allo stesso
modo, nel prossimo capitolo, si sosterrà che l’ipotesi dell’esistenza dell’anima può esser
giudicata falsa per l’evidenza di gran lunga maggiore della concezione alternativa che le
menti sono cervelli.
Tentativi filosofici di stabilire verità con ragionamenti a priori, o con esperimenti
mentali, o con analisi concettuali, non hanno maggior successo di quanto ne abbia avuto
il pensiero basato sulla fede. Tutti questi metodi non fanno che irrobustire i pregiudizi
esistenti. Al contrario, il pensiero basato sull’evidenza spesso ci obbliga a renderci conto
che le nostre vecchie teorie e i concetti che ad esse si riferiscono sono inadeguate. Ciò ci
spinge a sviluppare nuove teorie molto più congruenti con l’intera gamma delle
osservazioni. Ecco perché la ricerca della saggezza non dovrebbe basarsi sulla fede o
sulla pura ragione, ma dovrebbe considerare tutta l’evidenza rilevante, in particolare ciò
che si può imparare dalla psicologia sperimentale e dalle neuroscienze. Un passo
determinante in questa ricerca consiste nel riconoscere che le menti sono cervelli.

1
Cfr. Larson – Withnam 1998.
2
Gould 1999.

43
3
Cfr. Glovich 1991, Kunda 1990 e 1999. La ricerca d’avanguardia sull’inferenza motivata fu condotta
da una brillante psicologa sociale, mia moglie Ziva Kunda, morta di carcinoma a 48 anni nel 2004. I nostri
due figli avevano 12 e 14 anni. Le riflessioni sul perché la vita è degna d’essere vissuta ebbero origine dagli
sforzi di affrontare la sua malattia.
4
Taylor 2007, p. 4.
5
CSI (Crime Scene Investigation) e Law & Order sono agenzie di investigatori statunitensi che si
occupano di fatti di cronaca nera irrisolti o controversi o di malversazione politica, traendone soggetti per
film che vengono poi trasmessi nelle maggiori reti televisive [NdT].
6
Cfr. Harman 1973, 1986; Thagard 2003, 2006, cap. 8.
7
Per la mia teoria generale della coerenza cfr. Thagard 1989, 1992, 1999, 2000.
8
Circa il caso di Darwin, cfr. Thagard 1989 o 1992; per esempi di fisica cfr. Thagard 1992; Eliasmith –
Thagard 1997; Novak – Thagard 1992a, 1992b. Sull’estinzione dei dinosauri cfr. Thagard 1991. Per esempi
legali cfr. Thagard 1989, 2003, 2004. Per un esempio medico cfr. Thagard 1999.
9
Per la difesa della spiegazione nella scienza cfr. Bechtel – Richardson 1993; Bechtel – Abrahamsen
2005; Bechtel 2008; Craver 2007; Machamer – Darden – Craver 2000; Salmon 1984; Thagard 1999, 2006.
10
Cfr. Hall 1962.
11
Sulla medicina basata sulla prova cfr. Guyatt et al. 1992; Worrall 2007.
12
Sull’effetto placebo in medicina cfr. Harrington 1997.
13
Sull’atteggiamento dei medici cfr. Groopman 2007.
14
Sugli scarsi e dubbi effetti delle preghiere sulle malattie cfr. Benson et al. 2006; Sloan – Bagiella
2002.
15
Sulla pratica delle industrie farmaceutiche cfr. Angell 2004.
16
Per la discussione sull’esistenza di Dio cfr. Thagard 2000, cap. 4; Swinburne 1999.
17
Sul big bang cfr. Steinhardt – Turok 2007.
18
Cfr. Thagard 2006; Dawkins 2006; Dennett 2006; Flanagan 2007; McCauley e Lawson 2002. Anche
chi è d’accordo sul vuoto della religione è incline a naturalizzare la spiritualità (Flanagan 2007) o a
reinventare il sacro (Kaufman 2008). Inoltre, cfr. Bunge 2003.
19
Putnam 1983.
20
Sugli esperimenti mentali cfr. http://plato.stanford.edu/entries/thought-experiment/; Shepard 2008;
Williamson 2007. I loro argomenti non riescono a dimostrare che gli esperimenti mentali siano qualcosa di
più che suggerimenti.
21
Cfr. Knobe – Nichols 2008; Thagard – Beam 2004; Thagard 2009.
22
Cfr. Popper 1950; Lakatos 1970; Thagard 1998.

44
3
La mente è il cervello

La rivoluzione del cervello

Il vostro cervello è un agglomerato di cellule, contenuto all’interno del cranio, che


pesa circa un chilo e mezzo. Il senso comune è convinto che la vostra mente, con tutte le
sue sorprendenti capacità di pensare e sentire, non possa consistere solo nel vostro
cervello. La convinzione contraria, che le menti siano anime, è condivisa dalla stragrande
maggioranza delle persone, che professano le religioni teistiche, e da molti filosofi dopo
Platone e Descartes. Essi concedono che la mente possa essere strettamente collegata al
corpo, e in particolare al cervello, ma insistono che mente e cervello, per le loro proprietà
così diverse, non siano la stessa cosa. Il vostro cervello ha massa, consiste di materia ed
energia, e cesserà di funzionare alla vostra morte; l’anima non ha peso, non è sottoposta
alle leggi fisiche e sopravvive alla morte. La maggior parte delle persone, oggi, è dualista,
crede cioè che una persona consista sia di un’anima spirituale sia di un corpo fisico.
La maggioranza dei neuropsicologi e neuroscienziati, al contrario, è materialista, crede
cioè che le menti siano cervelli: la mente è ciò che il cervello la fa essere. L’accettazione
generale di questa opinione costituirebbe la più radicale rivoluzione concettuale nella
storia del pensiero. Fino ad ora, le due rivoluzioni culturali più radicali sono state il
rifiuto da parte di Copernico della visione tolemaica secondo la quale la Terra si
troverebbe al centro dell’universo, e il rifiuto di Darwin della concezione religiosa
secondo la quale gli esseri umani sarebbero una creazione speciale di Dio. Secondo la
moderna astronomia, la Terra è uno dei tanti pianeti che girano attorno al Sole, che a sua
volta è una fra i miliardi di stelle in miliardi di galassie. Secondo Darwin, l’uomo è una
delle tante specie biologiche evolutasi attraverso la selezione naturale. Dal momento che,
in base alla teoria secondo cui le menti sono cervelli, i nostri preziosi pensieri e
sentimenti altro non sarebbero che processi biologici, la rivoluzione del cervello ora in
atto viene sentita come una minaccia al naturale desiderio umano di pensarci come esseri
speciali. Non sorprende, per questo, che anche molti pensatori non credenti trovino
sgradevole l’opinione secondo cui le menti sono cervelli, a dispetto delle sempre più
numerose prove di tale identificazione. Non solo l’immortalità, ma anche le seducenti
dottrine del libero arbitrio e della responsabilità morale sono collegate all’idea che le
menti sono anime. La lusinga del dualismo è potente.

45
Questo capitolo argomenterà che l’ipotesi che le menti sono cervelli ha di gran lunga
più forza esplicativa di quella secondo la quale le menti sono anime. Più avanti si
prenderanno in considerazione due preminenti opinioni materialiste che contrastano
l’identificazione delle menti con i cervelli: l’opinione funzionalista, per la quale la mente
è un processo possibile in diversi sistemi fisici; e la visione dell’incarnazione delle menti
come stati dell’intero corpo. Io penso che queste due opinioni non contraddicano la mia
posizione di fondo secondo cui le menti sono cervelli, che è, comunque, radicalmente
incompatibile con la visione del senso comune che le menti non sono oggetti fisici.
I filosofi chiamano la visione secondo la quale stati e processi della mente sono
identici a stati e processi del cervello «teoria dell’identità» 1. L’identificazione di mente e
corpo s’aggiunge ad una lunga lista di identificazioni teoriche che hanno contraddistinto
il progresso scientifico: i suoni sono onde, la combustione è una combinazione chimica
con l’ossigeno, l’acqua è H2O, il calore è movimento di molecole, il lampo una scarica
elettrica, la luce energia elettromagnetica, l’influenza un’infezione virale, e così via. Ogni
identificazione fa parte di una teoria più ampia, accettata perché forniva una spiegazione
migliore dell’evidenza rilevante delle teorie in competizione. Allo stesso modo
argomenterò che l’opinione secondo cui le menti sono cervelli fa parte di una teoria
capace di fornire spiegazioni di molti fenomeni mentali, come la percezione, la memoria,
l’apprendimento, l’emozione. Una volta stabilita l’identificazione, si possono considerare
le sue implicazioni radicali per le tradizionali questioni filosofiche circa la realtà, la
conoscenza, la morale, e il significato della persona. Alla fine saremo in grado di capire,
dai processi naturali che creano l’amore, il lavoro, e il gioco, perché essi siano così
importanti per la vita umana.

Evidenze a favore dell’identità di mente e cervello

Noi crediamo che l’acqua è H2O e che il fulmine è una scarica elettrica nell’atmosfera
perché queste identificazioni fanno parte di teorie accettate per il loro sostanziale potere
esplicativo. La connessione fra fulmine ed elettricità fu registrata la prima volta nel 1746,
quando il fisico olandese Peter van Musschenbroek ideò il vaso di Leyden per conservare
energia elettrica. Il famoso esperimento con l’acquilone, del 1752, realizzato da Benjamin
Franklin fornì la prima diretta evidenza che il fulmine è una scarica elettrica. Ciò chiarì
non solo perché, durante un temporale, dalla chiave attaccata da Franklin all’acquilone
schizzarono scintille, ma anche altre caratteristiche del fulmine, come il lampo, il gran
rumore, la capacità di ferire la gente. Dimostrare che le menti sono cervelli è un po’ più
complicato, ma il ragionamento di base è lo stesso: procurarsi una larga messe di
evidenze per la quale quest’ipotesi è parte della migliore spiegazione.

Come il cervello spiega

Non è sempre stato ovvio il fatto che i cervelli hanno a che fare con il pensiero 2.
Aristotele credeva che l’organo primario del pensiero fosse il cuore e non il cervello, del
quale egli credeva che servisse principalmente a raffreddare il sangue. Nel secolo XVI

46
furono elaborate le prime, approssimative, connessioni fra cervello e pensiero, come ad
esempio l’idea secondo cui l’udito e la vista potessero dipendere dall’anatomia del
cervello. La comprensione di come il cervello lavora iniziò solo alla fine del secolo XIX,
quando lo sviluppo di nuove tecniche di colorazione delle cellule rese possibile
l’identificazione di quelle del cervello, i neuroni. Ciò avvenne alcuni decenni prima che
venisse scoperta la loro natura elettrica. Solo con lo sviluppo dei computer divenne
possibile formulare e verificare ipotesi dettagliate circa il modo in cui le interazioni fra un
gran numero di neuroni siano in grado di rendere possibili diversi tipi di pensiero.
Nel 2007, durante la trasmissione televisiva The Colbert Show, Colbert chiese allo
psicologo Stephen Pinker di spiegare, in cinque parole o ancora meno, come funziona il
cervello. Pinker, con brillante concisione, rispose: «Le cellule del cervello scaricano
secondo un piano».
I neuroni sono cellule diverse da quelle degli altri organi del corpo, in quanto
producono cariche che si propagando ad altri neuroni come una sorta di scarica elettrica.
La corrente della carica elettrica nei neuroni è di pochi millivolt, ben altro rispetto al
miliardo di millivolt del fulmine, dal quale differisce anche perché essa si propaga lungo
percorsi formati dalle migliaia di connessioni che ogni neurone ha con gli altri. Le
connessioni sono le sinapsi. La Fig. 3.1 mostra come un neurone spedisce messaggi ad
altri neuroni in forma di segnali elettrici tramite le connessioni sinaptiche.

47
Figura 3.1. Modello funzionale delle connessioni fra due neuroni.

Il neurone che scarica non manda semplicemente una scintilla ad un altro neurone, ma
manda piuttosto un segnale chimico sotto forma di neurotrasmettitore, che, attraverso la
fessura sinaptica, fluisce dal neurone che scarica al neurone che riceve lo stimolo.
Utilizzando questi segnali, un neurone può sia eccitare i neuroni con i quali è connesso,
incrementando la loro attività elettrica, sia inibirli.

48
Figura 3.2. Schizzo di alcune delle maggiori aree del cervello.
Per un diagramma più dettagliato, vedi la Fig. 5.1.

Mentre il bagliore del fulmine è come il singolo, forte suono di una tromba, senza
direzione prefissata, le connessioni sinaptiche fra i neuroni fanno di loro una specie di
orchestra ben addestrata composta da molti suonatori. Così come la prestazione di
un’orchestra è un sistema complesso derivante dall’attività di un gruppo di musicisti che
suonano insieme, la funzione del cervello è realizzata dalla stimolazione coordinata di
neuroni interconnessi. Il cervello non è come un’orchestra sinfonica con un direttore che
sincronizza tutti i suonatori, ma assomiglia piuttosto all’improvvisazione di un complesso
di suonatori di jazz, il cui suono coordinato emerge dalle interazioni dinamiche fra di
loro. A tutta prima sembra incredibile che moduli di attività elettrochimica in grappoli di
cellule possano generare il pensiero. Egualmente, non è ovvio che un centinaio di
musicisti, suonando insieme, possano produrre una magnifica sinfonia, o che i miliardi di
minuscole molecole d’acqua di una nuvola accumulino l’immensa carica elettrica che
genera i lampi luminosi dei fulmini e i fragorosi rombi dei tuoni. Ma si conosce sempre
meglio il meccanismo grazie al quale le scariche nervose producono tipi complessi di
percezione, memoria, apprendimento, inferenza, linguaggio ed altre funzioni mentali.
Sarò conciso, perché non c’è bisogno di convincere gli neuropsicologi cognitivi e i
neuroscienziati che le menti sono cervelli. Le spiegazioni che seguono sono rivolte a

49
coloro per i quali l’idea che il pensiero possa essere spiegato con l’attività nervosa è
nuova.

Percezione

Consideriamo prima di tutto i sensi della vista, dell’udito, dell’olfatto, del gusto e del
tatto, che sono le più importanti fonti di informazioni provenienti dal mondo. Della base
fisica del lavoro degli organi di senso si sa molto 3, perché essi possono essere studiati
negli animali, i cui sensi sembra che lavorino, grosso modo, come i nostri. Che cosa
succede quando vedete un albero? La luce riflessa dall’albero entra nei vostri occhi, dove
i fotoni stimolano alcuni milioni di cellule nervose presenti nella retina, che si trova nel
fondo del globo oculare. Da qui partono i segnali che, lungo il nervo ottico, arrivano al
lobo occipitale, il quale inizia un complicato processo d’interpretazione degli impulsi che
giungono dalla retina coinvolgendo altre regioni cerebrali, che comprendono parti del
lobo temporale (vedi Fig. 3.2). Il risultato è un sistema di attivazione di neuroni situati in
più regioni, che danno luogo all’attività nervosa che corrisponde al concetto
approssimativo di albero: in questo modo potete identificare l’oggetto che avete davanti
come un albero. Allo stesso modo l’olfatto consiste nella stimolazione delle cellule
recettrici e nel successivo processo di riconoscimento e di memorizzazione. Quando
annusate una banana, ad esempio, alcune sue molecole penetrano nel vostro naso dove
stimolano le cellule olfattorie. Queste cellule si attivano, mandano segnali alle aree
cerebrali specifiche dell’olfatto, come il bulbo olfattorio, e ad aree correlate come
l’amigdala, organo importante dell’esperienza emotiva. Complessivamente l’attivazione
di tutte queste aree cerebrali può farvi riconoscere la banana, se esperienze precedenti con
la stessa sostanza hanno prodotto connessioni sinaptiche che generano moduli simili
d’attivazione. Se non avete mai annusato prima una banana, il modulo d’attivazione
produce modificazioni sinaptiche che portano, in futuro, al riconoscimento delle banane.
Il senso del gusto, dell’udito, del tatto coinvolgono, allo stesso modo, processi complessi
di stimolazione di cellule recettrici, con codificazioni e trasformazioni nervose. Ciò vale
anche per la percezione del dolore, della temperatura, dell’equilibrio e dello stato degli
organi interni, come ad esempio la sensazione di pienezza gastrointestinale; il cui
funzionamento appare sempre più chiaro alla luce degli studi su come le diverse aree
cerebrali interpretano i segnali dei vari tipi di recettori. Alcuni animali possiedono organi
di senso che gli uomini non hanno – come ad esempio quelli che consentono a certi pesci
di avvertire i campi elettrici. Sebbene molto sia ancora sconosciuto circa il modo in cui il
cervello percepisce la visione, gli odori, e altre sensazioni, le spiegazioni nervose della
percezione sono sufficientemente ricche da giustificare la convinzione che essa sia
costituita da un insieme di tipi diversi di processi cerebrali. Nel quarto capitolo si
discuterà ulteriormente di come il cervello percepisce il mondo.

Memoria

Le conoscenze relative ai meccanismi della memoria stanno diventando sempre più


ampie. Quando avete un’esperienza interessante, come assistere ad un concerto, i vostri

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neuroni lavorano secondo schemi che, tutti insieme, creano l’esperienza del concerto. La
memoria del concerto comporta alcune modificazioni delle vostre connessioni nervose
che vi consentiranno, in futuro, di ricordarlo. Per capire la memoria, è necessario
conoscere le teorie nervose della conservazione e del richiamo del ricordo. Accumulare
ricordi nel cervello non è come conservare file in un computer, operazione che consiste in
una semplice registrazione che ricrea interamente il contenuto originale. Le percezioni
che formano la vostra esperienza del concerto sono dapprima catturate dalle popolazioni
di neuroni presenti nell’ippocampo, un organo cerebrale così cruciale che chi ha subito un
danno in questa parte del cervello può diventare completamente incapace di ricordare
cose nuove. L’archiviazione permanente del ricordo del concerto richiede poi interazioni
fra l’ippocampo e alcune regioni della corteccia, che è lo strato superficiale del cervello.
L’archiviazione dei ricordi in entrambe le regioni è un’altra forma di apprendimento (di
cui si parlerà nel prossimo paragrafo), che è prodotta da modificazioni delle connessioni
sinaptiche fra i neuroni.
Il ritorno del ricordo avviene grazie alla riattivazione di un modulo di scariche di aree
di neuroni. Immaginate che qualcuno cominci a parlarvi di un altro concerto, simile a
quello cui avete assistito voi, forse perché era stato suonato lo stesso tipo di musica.
Sentir parlare del nuovo concerto può provocare scariche nervose all’incirca nella stessa
popolazione di neuroni che ha fissato nella memoria i vari aspetti del vostro concerto.
Grazie alle connessioni sinaptiche, il nuovo modulo di scariche nervose genera
un’ulteriore attività nervosa, producendo verosimilmente un modulo di attività simile a
quella dell’esperienza del primo concerto. L’attivazione dello stesso modulo di scariche
dei neuroni ne suscita così il ricordo. Molti tipi di esperimenti confermano l’ipotesi che la
memoria sia un processo del cervello. Ho già ricordato la triste evenienza di chi ha
perduto la capacità di fissare nuovi ricordi per una lesione dell’ippocampo. Nei cervelli di
ammalati di Alzheimer privi di memoria, l’autopsia mostra la presenza di placche che,
formandosi, hanno progressivamente distrutto le connessioni nervose. Le risonanze
magnetiche che misurano l’afflusso di sangue in aree del cervello di pochi millimetri,
mostrano quali aree anatomiche si attivano quando le persone vengono stimolate con
vecchi ricordi di vario tipo. Questi esperimenti forniscono una forte evidenza del fatto
che, quando ricordate qualcosa, il vostro cervello riattiva moduli di attività nervose
precedenti.

Apprendimento

Anche lumache e lumaconi possono imparare. Eric Kandel ha vinto il premio Nobel
per la sua ricerca sui meccanismi dell’apprendimento del lumacone marino Aplysia 4 .
Questi lumaconi hanno solo poche migliaia di grandi neuroni, e Kandel è stato in grado di
tracciare nei dettagli la mappa delle connessioni esistenti fra loro e di investigarne i
meccanismi chimici. I lumaconi marini non imparano molto, ma sono in grado di
modificare il comportamento, ad esempio per nutrirsi o ritrarsi da stimoli nocivi.
Nel 1960 Kandel mostrò che tali modificazioni del comportamento sono il risultato di
modificazioni delle sinapsi che collegano i neuroni fra di loro. Ad esempio, quando una
Aplysia è messa in contatto con una nuova sostanza e riceve una scossa elettrica, nei suoi
51
neuroni avvengono modificazioni chimiche che ne alterano il comportamento e le fanno
evitare la sostanza. Molto più tardi, Kandel riuscì a dimostrare che i lumaconi marini
praticano lo stesso tipo d’apprendimento descritto dal neuroscienziato canadese Donald
Hebb.
Questo tipo di apprendimento può essere sintetizzato dal seguente motto relativo alla
modalità con cui si formano due connessioni nervose: ciò che fa scaricare insieme,
unisce. Si considerino due neuroni con una debole connessione sinaptica, che scaricano in
seguito allo stesso stimolo. Secondo Hebb dev’esserci un meccanismo grazie al quale le
scariche simultanee uniscono i neuroni rafforzando la loro connessione sinaptica 5. Dal
lavoro di Kandel e da quello di molti altri ricercatori sappiamo che tale processo di
apprendimento avviene non solo nei lumaconi marini, ma anche in animali con cervelli
molto più complicati.
Le neuroscienze cognitive sono ancora lontane dal fornire una spiegazione completa di
tutte le forme di apprendimento umano, dalle più semplici fino alle prodezze creative di
scienziati, inventori e artisti. Ma grazie alle ricerche di Kandel e di altri, sappiamo con
certezza che molti tipi di apprendimento sono il risultato di processi cerebrali
identificabili. Condizionamento e apprendimento, secondo Hebb, avvengono negli
uomini come negli animali. Lo psichiatra Norman Doidge ha scritto un libro divulgativo
sulla neuroplasticità, che è l’enorme capacità di adattabilità del cervello umano come
risultato dei meccanismi dell’apprendimento. Non è necessario conoscere i meccanismi di
ogni tipo d’apprendimento per rilevare le continue conferme all’ipotesi secondo cui esso
è un processo cerebrale.

Inferenza e linguaggio

Gran parte della ricerca cognitiva sull’inferenza, sulla soluzione di problemi e sul
linguaggio ha sviluppato più spiegazioni psicologiche che neurologiche. Molti progressi
sono stati fatti anche nella spiegazione dei meccanismi nervosi della riflessione
complessa, di cui porterò alcuni esempi. John Anderson è uno psicologo noto per i
modelli computazionali di soluzioni di problemi, da lui strettamente collegati alle
operazioni di particolari aree cerebrali. Vinod Goel ha usato le visualizzazioni
computazionali del cervello per identificare i correlati neuroanatomici di ragionamenti ad
alto livello. Jerome Feldman ha proposto una teoria nervosa dell’apprendimento e una sua
applicazione al linguaggio.
Leggere è un esempio pratico importante di inferenza e di linguaggio, e Maryanne
Wolf, una delle più autorevoli ricercatrici nel campo della dislessia, ha recentemente
riconsiderato lo stato attuale della conoscenza relativamente alle modalità con cui il
cervello legge. Maryanne Wolf sottolinea che l’alfabetismo, cioè la capacità di leggere e
scrivere, è un evento recente nella storia umana, avvenuto per la prima volta appena
cinquemila anni fa presso i Sumeri. Non c’è prova del fatto che per leggere il cervello
abbia dovuto sviluppare funzioni speciali; piuttosto, la capacità di leggere, come molte
altre evoluzioni culturali, è scaturita da meccanismi nervosi evolutisi per altre ragioni.
Wolf descrive come sia possibile leggere solo grazie alle interazioni fra diverse aree
cerebrali, ivi comprese le regioni occipitali, temporali e frontali.
52
Difficoltà nella lettura possono insorgere per problemi in aree particolari, come ad
esempio il giro angolare, o nelle connessioni fra due o più aree. La spiegazione dei
meccanismi nervosi della lettura e della dislessia è ancora lacunosa e provvisoria, ma le
prospettive di ulteriori progressi nella comprensione di queste e di altre caratteristiche del
linguaggio sembrano molto incoraggianti. Per poter avere una teoria nervosa completa
del pensiero umano, dovremmo prima essere in grado di spiegare come il cervello porti a
compimento pensieri creativi di alto livello. Cominciano a delinearsi teorie su come il
cervello gestisce le sue più impressionanti prodezze, come per esempio risolvere
problemi difficili, scrivere romanzi, comporre musica, e creare teorie scientifiche. Ci
sono idee rudimentali su come il cervello possa essere creativo, ma ancora nulla che
equivalga ad una spiegazione meccanica. Come il cervello sviluppa nuovi concetti
scientifici, come per esempio quelli dell’onda sonora, degli elettroni, dei geni? Come
possono reti di neuroni generare nuove ipotesi, come quella, ad esempio, che le specie
evolvono per selezione naturale? Per essere più chiari, in che modo i neuroni riescono a
realizzare le nostre forme base di inferenza, come la deduzione, la generalizzazione di
esempi, l’analogia 6? L’attuale penuria di risposte a queste domande non significa
minimamente che le menti non siano cervelli. Tutto ciò che non abbiamo ancora
compreso sui fulmini non sminuisce il fatto che l’identificazione del lampo con una
scarica elettrica nell’atmosfera sia stata un grande successo esplicativo. Ogni teoria
scientifica è incompleta nel senso che non riesce a spiegare alcuni fenomeni rilevanti, ma
queste lacune diventano evidenti a danno di una teoria solo quando sorge una nuova
teoria che le colma, spiegando i fenomeni. L’opinione che le menti siano anime non
spiega né la creatività né le inferenze ad alto livello, e non ha alcuna prospettiva di
progresso.

Farmaci e malattie

Le impressionanti connessioni fra processi mentali come la percezione,


l’apprendimento, la memoria, la lettura e specifici processi cerebrali costituiscono
l’evidenza dell’identificazione di mente e cervello solo se modificazioni del cervello
causano modificazioni mentali. Non è escluso però che si tratti semplicemente di una
correlazione e non di un rapporto causale. Il fatto che il consumo di gelato e la frequenza
degli annegamenti crescono contemporaneamente non significa che l’uno sia causa
dell’altro, ma che entrambi sono dovuti alle alte temperature.
Un dualista potrebbe obiettare che tutti gli studi empirici descritti dianzi mostrano che
i processi cerebrali sono correlati con quelli mentali, senza che questo voglia
necessariamente dire che il cervello è la sola causa dell’attività della mente.
Nel procedimento scientifico, il modo migliore per dimostrare che il rapporto è di
causa ed effetto, piuttosto che di correlazione, è l’introduzione di un intervento che mostri
che la manipolazione di un fattore ne modifica un altro 7. In psicologia e nelle
neuroscienze intervengono ragioni sia tecniche sia etiche a rendere ostica la
dimostrazione del fatto che una modifica avvenuta nel cervello ne comporta una
corrispondente nella mente.

53
Comunque, ci sono persone che si impegnano frequentemente in simili manipolazioni
ingerendo sostanze che hanno effetti psicologici. Utilizzando sostanze ricreative come
l’alcol, o farmaci antidepressivi, si ottiene un cambiamento fisico del cervello che cambia
lo stato della mente in modo prevedibile.
Una rapida rassegna di come farmaci e droghe alterano il cervello e di conseguenza
cambiano gli stati mentali fornisce l’evidenza che la connessione fra cervello e mente è
causale e non di correlazione. Molto si sa sui meccanismi nervosi e molecolari che
spingono la gente all’uso di sostanze ricreative 8. L’alcol di un bicchiere di birra, di vino o
di whisky cambia rapidamente la chimica del cervello. L’aumento della concentrazione
del neurotrasmettitore dopamina aumenta l’attività nel nucleo accumbens, un’area del
cervello collegata col senso del piacere. L’alcol inoltre aumenta l’attività del
neurotrasmettitore GABA, che a sua volta mette in grado alcuni neuroni di inibire le
scariche di altri neuroni. L’inibizione delle scariche prodotte dall’assunzione di piccole
dosi di alcol può produrre rilassamento; dosi maggiori, invece, possono causare perdita
della coordinazione motoria, parola impastata e anche la morte. Altri neurotrasmettitori
influenzati dall’alcol sono la serotonina e la norepinefrina. Ampi studi condotti su animali
e su uomini suffragano la catena causale secondo la quale l’alcol modifica i processi
cerebrali e quindi cambia il pensiero. Allo stesso modo si diventa dipendenti dal fumo
delle sigarette perché la nicotina stimola i recettori del neurotrasmettitore acetilcolina,
causando un aumento del livello di dopamina e quindi dipendenza fisica. Anche i
meccanismi neuropsicologici scatenati dall’uso di droghe illegali sono ben conosciuti.
Stimolanti come la cocaina e le anfetamine, compresa la popolare droga ecstasy,
aumentano la concentrazione nel cervello del trasmettitore dopamina, che provoca
piacere, così come di altre sostanze energizzanti come la norepinefrina. La dipendenza da
queste sostanze può insorgere perché l’esaurimento dei neurotrasmettitori citati ne
produce un gran desiderio. Oppiacei come l’eroina stimolano recettori particolari del
cervello, che causano la messa in circolo di dopamina, e quindi un senso di piacere e di
rilassamento, e una forte inclinazione ad aumentare le dosi. Si sa abbastanza dei potenti
meccanismi messi in atto dal consumo di tali droghe per poter affermare con certezza che
le persone le usano per manipolare le condizioni mentali attraverso la modificazione delle
condizioni del cervello.
In psichiatria, la cura di malattie mentali si basa su analoghe manipolazioni ottenute
con l’impiego di farmaci. Contro la depressione, milioni di persone ricorrono a farmaci
come Prozac e Zoloft, che inibiscono il riassorbimento del neurotrasmettitore serotonina.
Il farmaco può alleviare la depressione sia con la produzione di nuovi neuroni
nell’ippocampo sia con l’incremento della disponibilità di serotonina all’interno delle
fessure sinaptiche che si creano fra i neuroni già esistenti 9. Altri antidepressivi, come i
MAO (monoaminoossidasi)-inibitori, influiscono sulla trasmissione nervosa in diversi
modi. Il disordine bipolare, conosciuto come depressione maniaca, può essere
efficacemente trattato col litio, che influisce su diversi neurotrasmettitori. La
schizofrenia, una malattia spesso devastante, può essere favorevolmente influenzata con
farmaci come Thorazine e Risperdal, che inibiscono la dopamina e modulano il livello di
altri neurotrasmettitori. L’aumento di dopamina può portare sollievo nel morbo di
Parkinson. L’effetto di farmaci ricreativi e terapeutici aggiunge quindi evidenza al fatto
54
che modificazioni dei processi cerebrali modificano i processi mentali. Ovviamente,
l’effetto dei farmaci dipende anche dalle aspettative: si pensi a quando le persone,
condizionate dall’ambiente sociale nel quale si trovano, mostrano un grado di
ubriachezza superiore a quello giustificabile sulla base della quantità di alcol ingerita.
Allo stesso modo possiamo sostenere che i processi mentali causano processi cerebrali.
Dopo tutto, la teoria dell’identità mente-cervello afferma che i processi mentali sono
processi cerebrali, e quindi non c’è nulla di problematico nel sostenere l’effetto della
mente sul cervello. È importante sottolineare che gli effetti delle aspettative non
forniscono alcun supporto alla necessità di reintrodurre il concetto di anima, o altre entità
immateriali, per spiegare le modificazioni del cervello, dal momento che le convinzioni
sono processi nervosi.
In questa sezione io ho solo scalfito la superficie dei vari tipi di spiegazione che le
neuroscienze sono in grado di dare relativamente alle diverse modalità del pensiero. Chi
desidera maggiori dettagli consulti testi e riviste di scienze cognitive e di
psicofarmacologia, i quali riportano migliaia di esperimenti sulla base nervosa della
percezione, della memoria, dell’apprendimento, dell’emozione e di altri processi mentali.
L’ipotesi secondo cui le menti sono cervelli è parte di un programma di ricerca in rapida
espansione e accompagnato da grande successo, che sta fornendo le spiegazioni nervose
di una vasta gamma di fenomeni mentali. La metodica sperimentale dei programmi di
ricerca comprende non solo la visualizzazione del cervello mediante tomografie assiali
computerizzate e risonanze, capaci di identificare le correlazioni fra pensiero e attività
nervosa, ma anche la stimolazione magnetica transcranica, che è in grado di modificare il
pensiero con un’alterazione non invasiva dell’attività elettrica dei neuroni. In questa
tecnica, gli impulsi elettromagnetici sono impiegati per alterare scariche nervose e
provocare cambiamenti dei processi cognitivi, come quelli della visione e della memoria.
Più avanti porterò altre prove dell’evidenza dell’identità di mente e cervello. I capitoli
dal quarto al sesto forniscono resoconti più ampi di come i cervelli conoscono il mondo,
hanno esperienze emotive e prendono decisioni. Coloro che sostengono l’ipotesi
dell’esistenza dell’anima non possono ignorare l’evidenza che collega tali aspetti della
mente con i processi cerebrali, ma sostengono che l’ipotesi del cervello non sia di per sé
sufficiente a spiegare tutto ciò che riguarda il pensiero. Il dualismo insiste a sostenere che
la persona è composta sia di mente sia di corpo, più esattamente di anima e cervello.
Consideriamo ora alcune evidenze che potrebbero avvalorare il dualismo contro l’identità
di mente e cervello.

Esistono evidenze a favore del dualismo?

Sopravvivenza dopo la morte

Nonostante la mia convinzione che le menti sono cervelli, potrei venir convinto del
contrario, se ciò fosse spiegato, nel migliore dei modi, dalla supposizione che le menti
non siano sostanza materiale. La forma più forte di evidenza sarebbe l’osservazione che
le menti sopravvivono alla perdita dei loro corpi. Cristiani, musulmani, ebrei, hindu, e

55
sostenitori della maggioranza delle altre religioni credono fermamente che la vita mortale
sia solo una minima parte della nostra esistenza. Che cosa potrebbe dimostrare che hanno
ragione? La possibilità di comunicare col mondo dei morti sarebbe l’evidenza più
convincente che le persone sopravvivono alla distruzione dei loro corpi. I miei genitori
sono morti da tempo, ma se io fossi in grado di conversare con loro e di convincermi che
sono a conoscenza di ciò che ho fatto dopo la loro scomparsa, dovrei prendere in
considerazione l’ipotesi che le loro anime siano sopravvissute ai loro corpi. Ovviamente
dovrei scartare ipotesi alternative, come quella che la conversazione con loro altro non sia
che una macchinazione fraudolenta o l’effetto di una malattia mentale che mi predispone
alle allucinazioni. Se la comunicazione con i morti fosse un evento frequente nella vita di
molte persone, senza fraudolenze e psicosi, essa sarebbe un’evidenza convincente a
favore del dualismo e contraria alla teoria dell’identità di mente e cervello.
Nel secolo XIX accadeva spesso che un gran numero di persone frequentasse sedute
nelle quali la comunicazione con i defunti avveniva attraverso i medium. Oggi ci sono
sensitivi che in televisione raccontano che cosa stanno facendo i loro cari defunti. Molti
medium e sensitivi sono stati, comunque, denunciati per frode 10, cosicché chi crede
all’identità di mente e cervello può spiegare gli sporadici resoconti di dialoghi con i
trapassati come combinazione di frode e di pia illusione.
Un’altra possibile fonte di evidenza della sopravvivenza della mente alla morte del
cervello sono le cosiddette «esperienze in prossimità alla morte». Persone che sono state
temporaneamente in fin di vita a causa di un’emergenza medica raccontano spesso di aver
provato la sensazione di precipitare dentro un tunnel con una luce abbagliante all’uscita,
dal quale sono riuscite in qualche modo ad uscire. Anche il famoso filosofo ateo A.J. Ayer
riporta esperienze di prossimità alla morte che lo fecero dubitare della morte come fine
dell’esistenza. Comunque i resoconti delle esperienze in prossimità della morte sono
un’evidenza molto debole dell’esistenza delle anime, perché la scienza ne fornisce
plausibili spiegazioni alternative. Attacchi di cuore ed altre malattie possono causare
carenza di ossigeno nel cervello, con effetti cognitivi intensificati dalle aspettative: molta
gente ha sentito dire di persone che, in quelle stesse circostanze, avevano avuto la
sensazione di precipitare attraverso un tunnel verso la luce. Esperienze extracorporee
possono essere indotte in esperimenti di laboratorio che producono alterazioni nervose al
confine fra le regioni parietali e temporali. Per questo le esperienze di prossimità alla
morte sono come i racconti di contatti con i defunti: si possono benissimo spiegare senza
dover far ricorso alla sopravvivenza della mente dopo la morte.
Se l’evidenza della sopravvivenza dopo la morte è così insufficiente, perché tanta
gente crede alla propria immortalità? Ritengo che le ragioni principali siano due: la fede
religiosa e l’inferenza motivata. La gente impara a credere nella vita dopo la morte (e,
presso gli hindu, anche prima della nascita) dagli insegnanti di religione e ancor più dai
genitori. Come ho fatto notare nel capitolo precedente, è naturale che i bambini
acquisiscano convinzioni religiose dai genitori e da altre persone considerate come
autorità, e che si fidino di queste convinzioni. La vita dopo la morte fa parte di un
complesso di credenze che include Dio e l’anima. L’immortalità è particolarmente
attraente, perché attenua la paura della morte e della separazione dai propri cari. Malattie
e altre difficoltà della vita perdono di significato se si crede alla prospettiva della felicità
56
eterna in paradiso, uniti a Dio e alle persone che ci erano care, morte prima di noi. Alcune
religioni, comunque, rendono l’immortalità meno attraente, per la prospettiva di una
punizione eterna da scontare in una qualche forma d’inferno.
Il filosofo greco Epicuro asseriva che l’aspettativa della fine della nostra vita dovrebbe
eliminare la paura della morte, perché al momento della morte non si avrà
consapevolezza di nulla. Ciò nondimeno, per la maggioranza della gente, la prospettiva
dell’immortalità è positiva. Woody Allen ha affermato di desiderare di raggiungere
l’immortalità non per ciò che ha fatto, ma per non aver fatto niente. Sfortunatamente, la
credenza in un’anima che sopravvive alla morte è basata più sulla fede che sull’evidenza.

Parapsicologia

Un’altra possibile fonte di evidenza per l’esistenza dell’anima è la parapsicologia, cioè


lo studio di fenomeni inconsueti come la percezione extrasensoriale (lettura della mente,
visione a distanza, precognizione) e la telecinesi (la mente al di fuori della materia).
Sarebbe difficile spiegare tali fenomeni con la teoria dell’identità di mente e cervello,
perché essi sembrano violare i principi basilari della fisica. Ad esempio, la telecinesi
sostiene che i cervelli avrebbero, in qualche modo, la capacità d’influenzare gli oggetti
del mondo esterno con mezzi diversi dalle comuni forze fisiche. Secondo la
precognizione, eventi futuri potrebbero modificare in qualche modo il cervello attuale.
Se i fenomeni parapsicologici fossero reali, fornirebbero una conferma empirica
all’ipotesi che la mente sarebbe qualcosa di più del cervello. Storicamente, gli sforzi di
corroborare la parapsicologia non hanno mai avuto alcun successo 11. Studi informali di
percezioni extrasensoriali e di telecinesi, come quelli condotti su coloro che sembrano in
grado di piegare i manici dei cucchiaini semplicemente guardandoli, sono privi di valore
a causa della mancanza di controlli contro frodi e autoinganni. I tentativi di condurre test
sperimentali, accuratamente controllati, sulle percezioni extrasensoriali hanno avuto
risultati al massimo debolissimi e passibili di molte critiche sul piano metodologico, per
esempio critiche relative a una progettazione trasandata e ad errori statistici. Per questo la
parapsicologia non fornisce alcun supporto alla dimostrazione dell’esistenza dell’anima
oltre a quello delle sedute spiritiche e delle esperienze prossime alla morte.

Coscienza

I veri fenomeni psicologici che potrebbero suffragare al massimo grado il dualismo


concernono l’esperienza cosciente. La vostra coscienza comprende esperienze percettive
come i colori, le forme, i suoni, i sapori, gli odori e il tatto. Voi siete, inoltre,
frequentemente consapevoli di stati emotivi (ad esempio, dell’esser felici o tristi), di
sensazioni corporee (dolore, pienezza dopo un pasto), e di pensieri (in questo momento
state leggendo questo capitolo).
Una delle maggiori sfide ancora aperte della neuropsicologia consiste nel giungere ad
una spiegazione plausibile di come tali esperienze provengano da processi cerebrali.
Alcuni filosofi materialisti e scienziati comportamentisti hanno tentato di evitare la sfida
della coscienza negandone l’esistenza, ma per la stragrande maggioranza delle persone

57
l’aspetto cosciente della percezione, del sentire e del pensare è innegabile. Ignorare la
coscienza equivarrebbe ad ammettere l’invincibile evidenza a favore dell’anima a scapito
dell’identità di mente e cervello.
La mia strategia per trattare i problemi della spiegazione della coscienza è,
innanzitutto, di rifiutare gli argomenti che non possono essere trattati scientificamente, e
di ciò si parlerà nella prossima sezione. Il compito concreto di delineare, come esempio
di spiegazione neuropsicologica della coscienza, la modalità attraverso la quale il cervello
sente, costituisce il tema del quinto capitolo, dove si parlerà non di una teoria generale
della coscienza, ma piuttosto di un modello nervoso di una delle esperienze più
importanti, la sensibilità emotiva. Il modello usato è ancora molto provvisorio, ma
nondimeno suggerisce una traccia plausibile per le neuroscienze al fine di portare
l’esperienza cosciente nell’ambito della spiegazione causale.
La difficoltà di spiegare la coscienza costituisce l’ostacolo maggiore alla mia più
generale asserzione secondo cui l’identità di mente e cervello è parte della miglior
spiegazione dell’evidenza disponibile circa i fenomeni mentali, ma tenterò di
argomentare in che modo la difficoltà possa essere superata. Altri fenomeni mentali,
portati a volte come esempio dei limiti della spiegazione nervosa, verranno discussi nei
prossimi capitoli, tra questi l’intuizione (capitoli quinto e nono) e il libero arbitrio
(capitolo sesto). Se in futuro la psicologia e le neuroscienze saranno in grado di spiegare
la coscienza, allora il dilemma dell’identità di mente e cervello diventerà obsoleto.
Abbiamo accennato agli eccellenti punti di partenza per spiegazioni nervose della
percezione, dell’apprendimento, della memoria e di altri processi mentali come la lettura.
I fenomeni principali portati a sostegno dell’ipotesi alternativa della mente come anima,
quali il contatto con i morti, le esperienze di prossimità alla morte e la parapsicologia,
possono essere spiegate come episodi di frode e di errore. La coscienza non può essere
spiegata, e il quinto capitolo, esaminando a fondo la questione, indicherà le strade che
possono far progredire la ricerca scientifica.
Se le menti sono cervelli, non c’è più bisogno dell’ipotesi che siano anche anime. Le
spiegazioni dualistiche sono per loro natura meno semplici di quelle materialistiche, dal
momento che presuppongono l’esistenza non di una, ma di due cose. La semplicità non è
di per sé una virtù, come dimostra l’ipotesi del primo grande filosofo e scienziato Talete,
per il quale tutto è acqua. Einstein disse che tutto deve essere il più semplice possibile,
ma non più semplice di tanto, e l’ipotesi di Talete era troppo semplice, come lo era
l’opinione appena più complessa di Aristotele, secondo cui i quattro elementi
fondamentali sono terra, aria, fuoco e acqua. La chimica moderna vede la necessità di
considerare più di cento elementi, compresi l’idrogeno e l’ossigeno, che insieme formano
l’acqua. Similmente, non è escluso che ci possano essere fenomeni la cui spiegazione
richiede anima e spirito, oltre che materia ed energia. Comunque, il rapido e progressivo
sviluppo delle spiegazioni neuroscientifiche di molti fenomeni mentali suggerisce che le
anime non sono parte della miglior spiegazione generale più di quanto non lo sia stato il
calore, ritenuto la causa del caldo fino a quando non si scoprì che quest’ultimo è
provocato dal movimento delle molecole. In questo capitolo è stata presentata
un’evidenza sufficiente a giustificare l’uso dell’identità fra mente e cervello come base
per il resto della discussione sulla natura della conoscenza, della realtà, della morale, e
58
del significato. La Fig. 3.3 mostra la struttura complessiva dell’inferenza alla miglior
spiegazione della teoria dell’identità di mente e cervello, compresi i tipi di evidenza che
sono stati sempre più accertati come meccanismi nervosi. L’ipotesi secondo cui le menti
sono cervelli compete con l’ipotesi secondo cui le menti sono anime, ma quest’ultima è
confortata da pochi successi esplicativi. La figura mostra inoltre la competizione fra
l’ipotesi d’alto livello dell’evoluzione naturale della mente e quella della creazione
divina. Se siete convinti dei miei argomenti, passate al quarto capitolo. Comunque, per
scuotere lo scetticismo filosofico sull’identità di mente e cervello, desidero concludere
questo capitolo discutendo alcune delle obiezioni più influenti che le vengono mosse.

Figura 3.3 Struttura dell’inferenza secondo la quale l’identità di mente e cervello è la miglior spiegazione
disponibile di molti fenomeni psicologici. Le spiegazioni sono indicate dalle linee continue, la competizione
fra le due ipotesi dalla linea tratteggiata.

Obiezioni all’identità di mente e cervello

Per molte persone, l’obiezione immediata all’asserzione che le menti sono cervelli è
che essa è in conflitto con le loro convinzioni religiose sull’immortalità. La loro fede dice
che Dio creò le anime, e che queste sopravvivranno alla morte dei loro corpi.
Dianzi, in questo capitolo, ho argomentato che non esiste una buona evidenza
relativamente all’immortalità, e nel capitolo precedente ho mostrato perché l’evidenza
fornisca una strada migliore rispetto alla fede per giustificare le credenze.
Un altro rifiuto generico al mio approccio è l’accusa postmodernista secondo cui io
ignorerei dogmaticamente l’opinione filosofica oggi dominante, per la quale il mondo
altro non è che un testo, di cui la scienza è uno dei tanti, e tutti egualmente buoni, modi di
parlarne.
La mia difesa dell’evidenza contraria alla fede contenuta nel secondo capitolo è una
parte della risposta a questa obiezione. Un’ulteriore risposta si troverà nella discussione
sulla natura della realtà della mente e della sua indipendenza contenuta nel quarto
capitolo. Spesso l’identità di mente e cervello appare intuitivamente poco credibile anche
ai non credenti, perché gli schemi concettuali delle nostre culture sono dualisti 12. Molte
lingue: dall’ebraico, al greco, all’inglese, utilizzano per indicare mente e spirito parole
che sembrano designare entità non fisiche. I bambini imparano dai genitori a considerare
i loro pensieri ed emozioni come intrinsecamente diversi dagli stati dei loro corpi.
L’esperienza cosciente suggerisce con forza alle persone che la loro mente sceglie in
libertà, indipendentemente da cause biologiche. La «rivoluzione del cervello» richiede un
59
massiccio cambiamento concettuale al fine di riconsiderare gli stati della mente come
nervosi. Alcuni filosofi hanno usato intuizioni dualistiche per sfidare l’identità di mente e
cervello con esperimenti mentali, il più noto dei quali è l’argomento dei cosiddetti
«zombi» 13, così congegnato: immaginate delle persone fisicamente in tutto e per tutto
uguali a noi, con la sola eccezione d’essere senza coscienza. Chiamateli zombi, anche se
non sono spaventosi come gli zombi dei film dell’orrore. Simili esseri sono immaginabili
– pensate solo ad una persona che conoscete ed immaginate che in realtà non sia
cosciente, ma che appaia solo tale. Dal momento che possiamo immaginare esseri
fisicamente identici a noi, ma senza esperienza cosciente, ciò vuol dire che le menti
coscienti non sono necessariamente identiche ai cervelli. Ma perché un’asserzione di
identità sia vera, essa deve essere vera necessariamente, vera in tutti i mondi possibili,
come l’asserzione d’identità A=A. Pertanto la possibilità dell’esistenza degli zombi
mostra che non è necessariamente vero che le menti sono cervelli, e quindi l’identità di
mente e cervello non è assolutamente vera. Nella coscienza deve esserci qualcosa di più
che semplici stati del cervello.
Ci sono diversi errori nel ragionamento degli zombi. Innanzitutto, è ovviamente troppo
forte, perché scarta molte identificazioni teoriche che hanno avuto grande successo nella
storia della scienza. Abbiamo già ricordato gli esempi dell’acqua che è H2O, la
combustione come ossigenazione rapida, il calore come movimento di molecole, la luce
come energia elettromagnetica e il lampo come scarica elettrica nell’atmosfera. Io posso
ben immaginare che il lampo non sia elettricità – forse avevano ragione i greci a pensare
che si trattasse del dio Giove che mostrava la sua potenza. Ma la concepibilità del fatto
che il fulmine non sia una scarica elettrica non indebolisce la mole di evidenze,
accumulata a partire dal secolo XVIII, che attesta che esso in realtà lo è. La miglior
spiegazione di questa evidenza comprende l’ipotesi dell’identità del fulmine con la
scarica elettrica nell’atmosfera. Come si è già visto nel secondo capitolo, gli esperimenti
mentali sono eccellenti per avanzare e chiarire ipotesi, ma è folle usarli per cercare di
giustificare l’accettazione di credenze. In secondo luogo, l’argomento degli zombi
considera l’idea filosofica delle verità necessarie come asserzione che esse devono essere
vere, in contrasto con quelle vere solo nel nostro mondo. Come già visto nel secondo
capitolo, il concetto di necessità è di per sé problematico. Noi non possiamo
semplicemente dire che la necessità è vera in tutti i mondi possibili, dal momento che
necessità e possibilità sono interdefinibili: qualcosa è possibile anche se la sua negazione
non è necessariamente falsa. Né possiamo definire la possibilità in termini di
concepibilità, dal momento che ciò che è concepibile in qualunque momento non è
assoluto, ma semplicemente una funzione contingente dei concetti e delle convinzioni
disponibili. Né è realistico dire che qualcosa è possibile se è coerente con le leggi della
logica, dato l’acceso dibattito su che cosa siano le leggi della logica. Nel capitolo secondo
si è ricordato che anche il principio di non contraddizione, secondo il quale nessuna
asserzione può essere contemporaneamente vera e falsa, è stato messo in dubbio. Pertanto
è errato sostenere che affermazioni d’identità come «le menti sono cervelli» debbano
essere necessariamente vere, e quindi esse non dovrebbero essere usate in competizione
con una asserzione per la quale esiste un’evidenza sostanziale. Il quinto capitolo fornirà
un’evidenza più specifica del fatto che le esperienze emotive conscie sono processi
60
cerebrali, presentando una teoria che chiarisce perché le intuizioni filosofiche non
debbano essere scambiate per evidenze.
Alcuni filosofi pensano che attribuire al cervello proprietà psicologiche come la
coscienza sia incoerente 14 – semplicemente, non avrebbe senso. Non avrebbe senso se il
vostro schema concettuale fosse impelagato nel dualismo. Comprendere la mente richiede
la volontà di sviluppare nuovi schemi concettuali prendendone in considerazione
l’evidenza. Come le rivoluzioni di Copernico, di Darwin e altre ancora richiesero un
apprezzamento graduale della forza esplicativa dei nuovi schemi concettuali, così la
rivoluzione del cervello richiede il riconoscimento dei vantaggi esplicativi provenienti
dall’identificazione dei processi nervosi mentali, come la percezione. La miglior risposta
a coloro che sostengono di non poter immaginare come la mente possa essere il cervello
è: mettetecela tutta! Non è facile superare l’illusione seducente che la mente sia
immateriale, ma ci si può convincere del contrario acquisendo conoscenze sufficienti sui
meccanismi nervosi del pensiero e del comportamento. L’identità di mente e cervello è
contestata anche da non dualisti, che ritengono che lo sviluppo dei computer abbia fatto
nascere l’ipotesi che essa sia troppo angusta.
Le possibilità dell’intelligenza artificiale, che è un computer capace di ragionare ed
imparare, suggeriscono che, in linea più generale, dovremmo identificare i processi
mentali con processi che possono avvenire non solo nel cervello, ma anche in macchine
con chip di silicio o altri tipi di macchinari. Quest’opinione è chiamata funzionalismo 15,
perché sostiene che gli stati mentali, stabilendo connessioni causali fra input e output che
danno luogo a comportamenti intelligenti, sono di natura funzionale. Dal momento che
computer ed altre macchine, e organismi extraterrestri, possono avere stati funzionali
anche senza possedere un cervello, l’identificazione di mente e cervello è un errore. È il
software mentale che fa lavorare la mente, mentre l’hardware sul quale gira non è molto
importante. Io fui attratto da questa visione computazionale durante i miei primi approcci
alle scienze cognitive, nel 1978, ma mi sorsero dei dubbi alla fine degli anni Ottanta,
quando cominciai a lavorare ai modelli delle reti nervose, e ancor più negli anni Novanta,
quando mi dedicai alle ricerche sulle emozioni. La mia prima risposta al funzionalismo è
che la semplice possibilità di un’intelligenza sostenuta da un sistema fisico diverso dal
cervello non è sufficiente per indebolire l’ipotesi dell’identità di mente e cervello.
Nonostante decenni di ricerche di un’intelligenza extraterrestre, non c’è alcuna evidenza
che esistano menti nell’universo al di fuori del nostro misero pianeta. Se si manifestasse
una tale evidenza e noi fossimo in grado di discernere qualcosa sulla natura
dell’intelligenza di esseri non umani, sarei curioso di vedere che cosa si potrebbe
apprendere circa i loro processi mentali. Se la loro intelligenza derivasse da sistemi fisici
molto diversi dai nostri cervelli, sarei felice di ripiegare sulla più modesta ipotesi che le
menti umane sono cervelli. Inoltre, se l’intelligenza artificiale dovesse superare le
realizzazioni piuttosto modeste degli ultimi cinquant’anni, sarei propenso a prendere in
considerazione la possibilità che ci siano molti tipi di menti, inclusa la variante umana,
che possono essere identificate col cervello, e con qualunque macchinario da cui esse
sorgano. L’intelligenza del computer ha ottenuto alcuni notevoli successi 16 in campi
come i giochi, la robotica, la programmazione, ma è ben lontana dalla piena intelligenza
umana. E così, l’idea che un’intera gamma di processi mentali possa essere attuata con
61
diversi tipi di processi fisici è ancora oggi più un esperimento mentale che un’evidenza
che indebolisce l’identificazione della mente con il cervello. Nei primi, pochi, decenni di
vita della ricerca moderna nel campo delle scienze cognitive, dagli anni Cinquanta agli
anni Settanta del secolo XX, sembrò che il progresso nella comprensione della mente
sarebbe venuto in primo luogo dalla descrizione del pensiero nei termini di processi
computazionali, indipendentemente dalle loro basi nervose. Come ho già accennato in
questo capitolo e come si vedrà meglio nei capitoli dal quarto all’ottavo, molta parte
dell’attuale ed esaltante progresso delle scienze cognitive combina gli studi sperimentali
sul cervello con modelli computazionali relativi alla sua modalità di funzionamento.
Questa ricerca suggerisce che i processi mentali sono sia nervosi sia computazionali,
combinando la base propria del funzionalismo con la teoria dell’identità di mente e
cervello.
Alcuni critici attuali della tendenza dominante nelle neuroscienze cognitive
argomentano che la sua comprensione dei processi mentali è fondamentalmente falsa,
perché ignora la natura della mente, che è incorporata, estesa e localizzata. Le menti sono
incorporate nel senso che il nostro pensiero dipende in misura determinante dai modi
particolari in cui il corpo ci mette in grado di percepire e di agire, non dalle capacità
astratte di processare le informazioni. Il pensiero è esteso e localizzato nel senso che la
sua presenza dipende in misura determinante dalle interazioni col nostro ambiente fisico e
sociale. Le menti sono parti dei mondi fisico e sociale, e non entità incorporee come il
desktop del computer digitale che non fa altro che snocciolare cifre. Concordo sul fatto
che le menti sono incorporate 17, estese e localizzate, tuttavia queste asserzioni non
rappresentano alcun problema per l’identità di mente e cervello, dal momento che i
cervelli sono ovviamente incorporati, estesi e anche localizzati, come vedremo meglio nei
prossimi capitoli. Nei capitoli quarto e quinto si discuteranno i modi particolari con i
quali i nostri corpi mettono i cervelli in grado di conoscere la realtà e di usare le emozioni
per apprezzarne significato e importanza. Si vedrà che l’incorporazione e la
localizzazione dei cervelli sono compatibili con la comprensione dei loro processi come
rappresentativi e computazionali.

Chi sei tu?

Se le menti sono cervelli, dobbiamo rivedere le concezioni correnti sulla natura delle
persone e sull’Io. L’idea religiosa dell’anima immortale forniva un’immagine gradevole
dell’Io come entità spirituale, e di conseguenza il superamento delle illusioni sull’anima
richiede un radicale cambiamento della concezione di noi stessi. Il filosofo empirico
David Hume sosteneva che l’Io non è altro che un fascio di percezioni, ma il nostro
pensiero sembra essere più compatto di una serie di esperienze sensibili. Immanuel Kant
cercava tale unità negli Io trascendentali che rendono possibile ogni esperienza, ma la
loro evidenza non è maggiore di quella delle anime. La comprensione delle modalità di
funzionamento del cervello ci dice qualcosa sulla natura delle persone e comincia a
rispondere alla domanda: chi sei tu?

62
La rivoluzione del cervello richiede un cambiamento concettuale più profondo circa
l’Io, che ci faccia passare dalla visione di noi come cose a noi come processi complessi.
Il neuroscienziato Joseph LeDoux scrive con eloquenza 18:

Secondo la mia opinione, l’Io è la totalità di ciò che un organismo è fisicamente,


biologicamente, psicologicamente, socialmente e culturalmente. Sebbene sia un’unità, l’Io
non è per questo unitario. Esso comprende cose che sappiamo e cose che ignoriamo, cose che
gli altri sanno di noi e che noi non comprendiamo. Esso comprende caratteristiche che
manifestiamo e altre che nascondiamo, ed altre ancora di cui semplicemente non ci curiamo.
Esso comprende ciò che vorremmo essere e ciò che speriamo di non diventare mai.

LeDoux illustra come il cervello impieghi sia la plasticità parallela, che è


l’apprendimento che avviene in sistemi cerebrali diversi, sia le zone di convergenza, che
sono regioni nelle quali le informazioni di sistemi diversi possono essere integrate. La
loro combinazione spiega come l’Io possa avere un’unità nella diversità. Il pensiero
dell’Io come un sistema nervoso complesso ci allontana dal senso comune, e anche altri
commiati sono necessari. Una teoria completa dell’Io non è stata ancora sviluppata, ad
ogni modo essa si basa non solo sulla neuroscienza ma anche sulla psicologia sociale, che
si occupa di argomenti come l’autoregolazione, l’autoconsiderazione, e le variazioni
culturali dell’autoconcetto. Nel quinto capitolo sosterrò che la piena comprensione delle
emozioni e di altri aspetti dell’Io richiede di rivolgere l’attenzione a meccanismi che si
svolgono a livello molecolare, psicologico, sociale e nervoso. Nel nono capitolo la
discussione sulla responsabilità morale tratterà le persone come componenti intrinseche
dei loro mondi sociali, ponendo in rilievo sia relazioni sociali sia meccanismi nervosi.
Sostenere che le menti sono cervelli è compatibile con il carattere sociale delle persone e
dell’Io.

Conclusione

L’identità di mente e cervello potrebbe non essere vera. Potrebbe succedere che io
rimanga strabiliato, dopo l’ultimo, fatale attacco di cuore, nello scoprire che posso
pensare anche senza corpo e finisca per rendermi conto del fatto che questo libro è stato
un errore. Detto meno drasticamente, molti esperimenti ben controllati sulle
comunicazioni con i defunti e con le potenze paranormali potrebbero fornire una nuova
evidenza non spiegata dal presupposto che esistano solo materia ed energia. Allora la
rivoluzione del cervello, che ha ribaltato il nostro schema concettuale dualistico, non
potrebbe rimanere in piedi, e la gente sarebbe libera di sentirsi sicura del fatto che noi
siamo più del nostro corpo.
Religione e senso comune dualistico potrebbero quindi legittimamente sopravvivere.
Noi non dovremmo rinunciare allo schema concettuale molto gradevole che ci offre
l’immortalità, un Dio premuroso, una volontà libera e il senso della nostra centralità
nell’universo. Ma l’evidenza attualmente disponibile ci dice ben altro. Questo capitolo
contiene solo uno accenno al perché la miglior spiegazione di processi mentali come la

63
percezione, la memoria, l’apprendimento e le esperienze fatte sotto l’effetto di droghe,
consiste nel considerarli processi del cervello. Mi sono trattenuto dal fornire troppi
dettagli su come il cervello realizza questi modi del pensiero, perché desideravo che il
lettore avesse un’idea generale degli argomenti a favore dell’identità di mente e cervello.
Molte e più dettagliate spiegazioni si possono trovare nei prossimi capitoli e nella vasta
letteratura relativa alle neuroscienze cognitive. Di contro, ho descritto la dubbia natura
dell’evidenza proposta a favore del dualismo, basata sulla comunicazione con i morti, le
esperienze di prossimità alla morte e le capacità parapsicologiche come la percezione
extrasensoriale. Il fenomeno psicologico serio che sembrerebbe poter richiedere una
spiegazione dualistica è la coscienza, ma vedremo, nel quinto capitolo, che la
neuroscienza sta iniziando a comprendere come i cervelli possano avere esperienze
coscienti. Gli esperimenti mentali sugli zombi non sono d’alcun ostacolo all’assunzione
dell’ipotesi che i processi mentali sono processi cerebrali, né lo sono le preoccupazioni
circa la natura computazionale e incorporata del pensiero.
La rivoluzione del cervello esige una modificazione sostanziale di teorie e concezioni
fino ad ora largamente accettate. Le nostre convinzioni e altre rappresentazioni devono
essere ripensate come modelli dell’attivazione di popolazioni di neuroni, considerate
come processi piuttosto che come cose. L’inferenza è un processo nervoso che coinvolge
in parallelo interazioni fra popolazioni di neuroni, non solo una procedura linguistica
graduale. Più in generale, menti e Io devono essere concepiti come processi che agiscono
in relazione al mondo e ad altre menti, e non come cose. Lo spostamento della
comprensione del mondo in termini di processi relazionali piuttosto che come cose e
proprietà semplici è stata una parte importante nello sviluppo della scienza, come il
riconoscimento da parte di Newton del fatto che il peso è una relazione fra gli oggetti e il
riconoscimento avvenuto nell’ambito della teoria termodinamica del fatto che il calore è
un processo di movimento di molecole.
Più difficili di queste riclassificazioni sono i cambiamenti emozionali e concettuali che
dobbiamo accettare per abbandonare l’immagine confortevole di menti come anime
immortali centrali nell’universo e accettare il quadro biologico di menti come processi
nervosi senza evidente significato cosmico. Spero che il settimo capitolo faciliti queste
transizioni emotive, mostrando come cervelli ragionanti possano aiutarci ad apprezzare il
fatto che le menti sono nondimeno in grado di trovare e creare un significato nella ricerca
dell’amore, del lavoro, e del gioco, riducendo così le lusinghe del dualismo. Il quadro
biologico non è per niente desolante e può suggerire mezzi efficaci per aumentare il
benessere umano. Tutta l’evidenza relativa al fatto che le menti sono cervelli giustifica la
ricerca della saggezza, del significato e di altre questioni filosofiche da una prospettiva
neuroscientifica.
Vediamo ora che cosa può dirci sulla realtà lo studio del cervello.

1
Sulla teoria dell’identità mente-cervello cfr. http://plato.standford.edu/entries/mind-identity; Place
1956; Feigl 1958; Smart 1959; P.S. Churchland 1986, 2002; P.M. Churchland 1995, 2007. L’asserzione

64
secondo cui le menti sono cervelli comprende un gran numero di opinioni che devono essere precisate. Essa
può essere divisa in due campi: quello locale, secondo il quale ogni stato o processo mentale di una persona
rappresenta uno stato o un processo particolare di ogni cervello (identità simbolica); e quello più globale,
secondo il quale i generi degli stati e processi mentali che ricorrono in molte persone sono generi di stati e
processi nervosi (identità di tipo). Potete accettare il campo locale e rifiutare quello globale – ad esempio
concordando sul fatto che la vostra percezione di un orso è un processo del vostro cervello, ma negando che
tutte le percezioni degli orsi siano un genere identificabile di processo nervoso, a causa delle molte varianti
fra uomini, animali e meccanismi pensanti. Io condivido la versione locale, ma non ho molto da dire circa
quella globale fino a quando non si saprà di più circa i generi rilevanti degli stati mentali e nervosi.
2
Cfr. Finger 1994; http://faculty.washington.edu./chudler/hist.html.
3
Cfr. Banich 2004; Smith – Kosslyn 2007.
4
Kandel 2006.
5
Hebb 1949.
6
Su come i neuroni elaborino forme basiche di inferenza come deduzioni, generalizzazioni di esempi,
analogie, cfr. Smith – Kosslyn 2007; Thagard 2005a.
7
Woodwar 2004.
8
Sulle sostanze ricreative cfr. Meyer – Quenzer 2005.
9
Su come questi farmaci allevino le depressione cfr. Kramer 2005.
10
Cfr. http://www.skepdic.com/medium.html; Ehrsson 2007; Blanke et al. 2005.
11
Sui tentativi, compiuti nel corso della Storia, di corroborare la parapsicologia cfr. Diaconis 1978;
Kurtz 1985; http://www.csicop.org.si/9603/claims.html.
12
Cfr. Macdonald 2003; Bloom 2004. Non c’è evidenza sufficiente per avvalorare la convinzione che il
dualismo sia innato. Se il dualismo fosse innato, sarebbe un altro esempio di come una convinzione a priori
possa essere falsa. Non condivido l’idea che la religione sia innata, perché è più plausibile che provenga da
processi psicologici basici come emozioni e spiegazioni. Cfr. Thagard 2006, cap. 14. Se la religione fosse
innata, sarebbe un altro caso di convinzioni a priori scalzate dalle indagini scientifiche.
13
Sugli zombi cfr. Chalmers 1996; P.S. Churchland 2002; Dennett 2005.
14
Cfr. Bennett et al. 2007. L’idea filosofica di un errore di categoria è un errore sulle categorie, cfr.
Thagard 2009.
15
Cfr. Putnam 1975; Bechtel 2008; P.M. Churchland 2007; Thagard 1986.
16
Cfr. Russell – Norvig 2003; P.S. Churchland – Sejnowski 1992.
17
Cfr. Gibbs 2006; Dreyfus 2007; Thompson 2007. Sono preparato a condividere la tesi
dell’incarnazione moderata, secondo la quale la cognizione è strettamente legata ai processi sensomotori,
come si vedrà nel quarto e nel quinto capitolo. Ma rifiuto la tesi dell’incarnazione estrema, secondo la quale
la cognizione sarebbe solo un’azione incarnata e quindi incompatibile con approcci computerizzati e
rappresentativi di come il cervello lavora. Molti generi di pensiero, compresi il ragionamento causale, le
emozioni e le teorizzazioni scientifiche, ci portano oltre i processi sensomotori. La tesi della «mente estesa»
di Clark 2008 è troppo vaga per poter essere considerata un’evidenza.
18
LeDoux 2002, p. 31. Bechtel 2008 contiene una ricca discussione sull’Io da una prospettiva
neuroscientifica. Dobbiamo considerare l’Io come processo emergente che combina meccanismi a più
livelli. Resoconti di emergenze sfiorano talvolta il misticismo. Per la discussione cfr. Bechtel 2008; Bunge
2003; Chi 2005; Thagard – Findlay 2010, che sostengono che una delle grandi difficoltà che le persone
incontrano nella comprensione della mente umana come prodotto dell’evoluzione biologica consiste

65
nell’accettare che un processo emergente (selezione naturale) possa produrre un altro processo emergente
(le menti). L’emergenza è una strada molto più utile per riflettere sulla relazione fra livelli meccanicistici
che non la nozione filosofica di supervenienza.

66
4
Come i cervelli conoscono la realtà

La realtà e le ragioni per esserne scontenti

La commediografa Lily Tomlin dice che la realtà è la stampella di chi non sa


maneggiare le droghe. Anche alcuni filosofi hanno della realtà una scarsa opinione,
considerandola una mera costruzione di menti o di contesti sociali. In questo capitolo,
invece, si argomenta che ciò che la scienza studia esiste indipendentemente dalle nostre
menti, strutturate come cervelli. Utilizzando percezione e inferenza, i cervelli possono
sviluppare una conoscenza oggettiva della realtà, che comprende anche aspetti importanti
per valutare il significato della vita.
La conclusione del precedente capitolo, che le menti sono cervelli, ha implicazioni
rilevanti per due questioni filosofiche centrali: che cos’è la realtà, e come la conosciamo?
Queste questioni sono fra di loro correlate, dal momento che la considerazione di ciò che
esiste va di pari passo con la discussione di come se ne acquisisce conoscenza. Ad
esempio, un empirista, che crede che la conoscenza si acquisisca solo attraverso i sensi,
potrebbe concludere che oggetti fisici come leoni e montagne non sono reali, perché noi
percepiamo di loro solo le fattezze e non la cosa in sé. All’altro estremo, un idealista, che
ritiene che la realtà sia intrinsecamente ideale, potrebbe anche concludere che non si può
dire di leoni e montagne che sono reali, ma che si può dire soltanto ciò che pensiamo di
loro.
Per me, leoni e montagne sono reali, così come le nuvole e gli elettroni. Ma l’ipotesi
che le menti sono cervelli non sostiene una forma di realismo ingenuo, per il quale le cose
sono così come le percepiamo o immaginiamo che siano. Conosciamo a sufficienza il
lavoro del cervello per capire che la percezione e la teorizzazione sono processi altamente
costruttivi che coinvolgono inferenze complesse. Nondimeno ci sono buone ragioni per
credere che, se il cervello lavora a dovere, esso raggiunge la conoscenza della realtà degli
oggetti quotidiani come le montagne e di entità scientifiche teoriche come gli elettroni.
Questo capitolo mostra come la scienza del cervello e la riflessione filosofica insieme
sostengono una sorta di «realismo costruttivo» 1, l’opinione cioè che la realtà esiste
indipendentemente dalle menti, ma che la nostra conoscenza di essa è costruita dai
processi cerebrali.

67
Io cerco di dimostrare che il realismo costruttivo è superiore alle teorie alternative
della conoscenza e della realtà di diverse varianti dello scetticismo, dell’empirismo e
dell’idealismo.
Lo scetticismo è l’opinione secondo cui noi non abbiamo alcuna conoscenza della
realtà, per cui ogni discorso sulla natura della realtà è privo di senso. Alcuni antichi
filosofi greci sostenevano una forma estrema di scetticismo, secondo la quale nessuna
sensazione e nessun ragionamento ci pongono in grado di distinguere il vero dal falso.
Una forma corrente e influente di scetticismo si rinviene in filosofi postmoderni e in
teorici della letteratura, che considerano il mondo come un testo, aperto a molti tipi di
interpretazione, di nessuna delle quali si può dimostrare che sia meglio delle altre 2. In
campi come la storia, l’antropologia, e negli studi relativi al folklore e alla cultura
popolare è di moda sostenere che la realtà è solo un costrutto sociale, e quindi che la
conoscenza oggettiva è solo un mito. Io tenterò di dimostrare che l’obiettività è possibile,
grazie alle complesse capacità percettive e teoretiche dei nostri cervelli. I cervelli non
sono specchi della natura, ma potenti strumenti per rappresentarla.
L’empirismo cerca di evitare i problemi dello scetticismo, restringendo la conoscenza
a ciò che può esser percepito dai sensi. A partire da filosofi della prima modernità come
John Locke e David Hume, fino a pensatori recenti come Rudolf Carnap e Bas von
Fraassen, la restrizione della conoscenza all’esperienza dei sensi ha esercitato una forte
attrazione. Io mostrerò, comunque, che l’empirismo rigoroso è incompatibile sia con la
neuropsicologia della percezione sia con la pratica della scienza. Fortunatamente i
processi cognitivi dei nostri cervelli sono capaci di condurci in modo affidabile ben oltre i
dati che i nostri sensi ci sottopongono.
Un altro approccio alla comprensione della conoscenza della realtà è l’idealismo, che
vede la realtà come dipendente o addirittura come costruita dalle menti. Questa posizione
è più compatibile dell’empirismo con la natura costruttiva della percezione e
dell’inferenza, ma sopravvaluta enormemente i contributi della mente al mondo. Essa
salta dal presupposto che non possa esserci conoscenza delle cose senza la costruzione
della loro rappresentazione mentale alla conclusione che le entità siano costrutti mentali.
Il filosofo Immanuel Kant pensò di aver compiuto una sorta di rivoluzione copernicana
ponendo la mente al centro della conoscenza e della realtà. Ma l’idealismo sta
attualmente tentando una controrivoluzione tolemaica 3, con tentativi reazionari e non
plausibili di riportare la Terra al centro del sistema solare o di negare l’evoluzione umana.
Per sviluppare la mia alternativa dell’approccio basato sul cervello al realismo
costruttivo, discuterò innanzitutto le modalità con cui avviene la percezione degli oggetti,
per procedere poi a trattare il modo in cui l’inferenza ci consente di andare oltre la
percezione.

Conoscere gli oggetti

Una vecchia storiella racconta di tre arbitri di calcio che parlavano di reti e di falli.
Uno diceva: «Io li fischio quando li vedo», l’altro: «Io li fischio quando ci sono», il terzo:
«Non esistono fin quando non li fischio». Queste attitudini corrispondono alle posizioni

68
filosofiche dell’empirismo, del realismo e dell’idealismo. Le neuroscienze potrebbero
confermare la realtà degli oggetti, qualora si riuscisse a dimostrare che le strutture e i
processi del cervello sono in grado di rappresentare le cose del mondo come esse sono,
almeno approssimativamente.
Si è tentati di pensare alle rapprentazioni mentali del mondo in analogia alle
rappresentazioni linguistiche che usiamo per comunicare col prossimo, a voce e per
iscritto. Il filosofo Jerry Fodor è dell’opinione che esista un linguaggio del pensiero che
possiede gli stessi tipi di strutture di un linguaggio naturale come l’inglese e il cinese 4.
Molti filosofi contemporanei ritengono che il conoscere sia un’attitudine propositiva,
cioè una relazione fra una persona e una qualche forma di entità simile ad una
proposizione 5. Ma capire l’identità di mente e cervello ci impone di impiegare una
visione molto più ampia di rappresentazioni, con strutture linguistiche di tipo affermativo
che rappresentano l’unica possibilità a disposizione del cervello per conoscere il mondo.
Non è necessario essere un adulto linguisticamente sofisticato per conoscere gli oggetti.
Anche animali che possiedono un linguaggio assai limitato, come topi e lucertole, hanno
percezioni, esattamente come i bambini prima di cominciare a parlare. Nel primo capitolo
abbiamo riflettuto sul modello di funzionamento del cervello basato sulla stimolazione
reciproca fra neuroni interconnessi. Ora scenderemo un po’ di più nei dettagli della
percezione visiva degli oggetti da parte del cervello.
Quando vedete un oggetto – diciamo, un’anatra – la luce, sotto forma di onde di
particelle chiamate fotoni, viene proiettata dall’oggetto ai vostri occhi. Nel fondo degli
occhi, le cellule fotoriceventi della retina convertono l’energia in segnali chimici, che
viaggiano verso il cervello grazie all’eccitazione delle cellule del nervo ottico. I segnali
arrivano nella parte posteriore del cervello, dove si trovano le aree della corteccia visiva.
Le cellule della cosiddetta area 6 reagiscono a caratteristiche elementari come colore,
movimento, posizione nello spazio, mentre altre aree sono specializzate e si occupano di
rappresentazioni più elaborate, come i volti. Popolazioni nervose diverse interagiscono
per determinare quali caratteristiche vadano messe assieme, come ad esempio quando si
percepisce sia il colore dell’anatra sia la forma del suo becco. Il cervello gestisce assieme
le varie caratteristiche, così che voi non percepite separatamente il becco dell’anatra, il
suo colore e il suo movimento, ma piuttosto un’anatra bianca con un becco giallo che
cammina sulla strada.
Questi processi, guidati da informazioni sensoriali provenienti dal mondo esterno,
sono chiamati processi bottom-up (dal basso in alto), a differenza da quelli top-down
(dall’alto in basso), che sono indotti dalla conoscenza, dalle aspettative, da ciò che ci si
prefigge.
L’importanza dei processi top-down nella percezione visiva è resa evidente
dall’impossibilità di riconoscere oggetti nel caso di un particolare danno cerebrale:
l’agnosia. Pazienti con questo tipo di lesione possono percepire accuratamente
caratteristiche come contorni e forme, ma non sono in grado di metterli assieme così da
riconoscere un oggetto. Il riconoscimento è difficile, perché l’anatra e gli altri oggetti
possono presentarsi da diversi punti di vista, e poi ci sono specie diverse di anatre.
L’iniziale stimolazione elettrica retinica è bidimensionale, ma, in qualche modo,
riconosciamo l’anatra come tridimensionale. Il cervello è in grado di aggiungere
69
simultaneamente alla sua esperienza precedente caratteristiche, elementi, e
configurazioni, attraverso l’interazione dinamica di miliardi di neuroni in aree diverse. Se
voi aveste un danno nella parte del cervello in cui si trovano i neuroni connessi con ciò
che già sapete dell’anatra, non sareste in grado di mettere insieme tutte le caratteristiche e
le configurazioni necessarie per riconoscere un esemplare di anatra. Persone con una
lesione dell’area cerebrale fusiforme dei volti possono soffrire della prosopagnosia,
dell’incapacità, cioè, di riconoscere i volti.

Figura 4.1 Immagine reversibile di anatra e coniglio.

La natura top-down dei processi visivi è evidente nel disegno utilizzato dalla Gestalt
che rappresenta l’immagine reversibile coniglio-anatra (Fig. 4.1). Se vi aspettate di
riconoscere un’anatra, vedete le linee di sinistra come un becco, se invece cercate un
coniglio le vedete come le sue orecchie.
Questo tipo di inferenza non consiste di passi linguistici seriali, ma piuttosto di
un’interazione dinamica parallela di neuroni che codificano informazioni sensoriali con
neuroni che codificano aspettative e conoscenze relative a come appaiono anatre e
conigli.
La percezione è un tipo d’inferenza, ma assai differente dal tipo di inferenza familiare
del linguaggio comune. Quando parliamo o scriviamo, ci imbattiamo in una frase alla
volta ed è come se deducessimo la frase successiva da quelle precedenti, proprio come in
un compito di matematica. Ma l’inferenza, nel cervello, non opera in questo modo seriale
e graduale. Ogni neurone è connesso, con le sinapsi, con migliaia d’altri neuroni, e la sua
attività elettrica è condizionata da tutti i neuroni che lo eccitano o inibiscono, e che esso a
sua volta eccita o inibisce. Così l’inferenza è parallela, nel senso che molti neuroni
scaricano più o meno nello stesso momento, e asincrona, nel senso che non c’è un
orologio centrale che coordina le onde di stimolazione che si diffondono attraverso le
popolazioni di neuroni.
Pertanto la percezione è molto diversa dal tipo di passi seriali propri dell’inferenza
linguistica, che è stata utilizzata come modello di ragionamento fin dai tempi di
Aristotele, il quale per primo formulò sillogismi come se A è B e B è C, allora A è C. Dal
momento che i cervelli compiono inferenze usando l’attività in parallelo di milioni di
neuroni, la percezione può elegantemente integrare l’informazione bottom-up e top-down.

70
Vedremo nel quinto capitolo che le sensazioni emotive coinvolgono una forma simile
di integrazione dinamica di molteplici tipi d’informazione. Anche il nostro senso
dell’olfatto richiede una combinazione di processi bottom-up e top-down. Quando voi
inalate, gli odori stimolano reti di milioni di recettori cellulari nel vostro naso, mandando
schemi d’attività nervosa al bulbo olfattorio alla base del cervello. Il bulbo olfattorio
riceve stimoli anche da altre aree cerebrali, come l’ippocampo e la neocorteccia, cosicché
i segnali che esso manda al resto del cervello sono già una combinazione di informazioni
sensorie bottom-up e di processi nervosi top-down. Pertanto, quando voi annusate
qualcosa, per esempio un’anatra viva in un’aia o una cucinata in un ristorante, l’odore è il
risultato delle interazioni dinamiche di aree diverse del cervello, che coinvolgono stimoli
sensoriali, conoscenza pregressa e aspettative.
La complessità del processo percettivo nei cervelli mostra l’implausibilità della
tradizionale visione empiristica secondo cui le nostre esperienze sensoriali sono copie
degli oggetti del mondo. Senza concetti precedentemente acquisiti o innati avremmo
difficoltà enormi ad elaborare i moltissimi segnali sensori che dagli occhi, dagli orecchi, e
dagli altri organi di senso arrivano al cervello. La percezione richiede che i cervelli siano
in grado di collegare gli stimoli degli organi di senso alle informazioni già presenti nella
forma di connessioni sinaptiche fra i neuroni. Gli esempi di ambiguità, come quello
dell’anatra-coniglio, mostrano che la percezione non è semplicemente il processo bottom-
up degli impulsi sensori, perché coinvolge anche l’interpretazione top-down basata su
quel che già si conosce.
Dal momento che il cervello è un processore in parallelo, capace di elaborare molti
aspetti simultaneamente, non è necessario scegliere fra ipotesi secondo le quali la
percezione è guidata da stimoli degli organi di senso o da interpretazioni top-down. I
cervelli sono infatti in grado di elaborare inferenze che usano contemporaneamente
entrambi i tipi d’informazione.

Apparenza e realtà

Il contributo top-down della conoscenza pregressa, essenziale per la percezione, ha


indotto alcuni filosofi e psicologi a concludere che i sensi non sono in grado di farci
conoscere come gli oggetti sono, ma solo come essi appaiono. Alcuni di loro, come Kant,
che sosteneva la nostra impossibilità di conoscere le cose in sé, sono angustiati dal fatto
che la lacuna fra apparenza e realtà non può essere colmata. Scrivendo di allucinazioni,
alcuni psicologi hanno sostenuto che la capacità del cervello di generare percezioni
illusorie senza alcun rapporto con la realtà è un sostegno all’idealismo kantiano 6. Pochi
microgrammi di una droga come l’LSD possono sganciare l’apparato percettivo del
cervello, liberandolo dai normali stimoli sensoriali e creare immagini fantastiche senza
alcun rapporto con la realtà. Non c’è bisogno di prendere droghe per avere allucinazioni,
perché processi simili avvengono ogni notte quando si sogna. Il cervello genera
esperienze sensoriali complesse e spesso convincenti che non sono causate da qualcosa
che esiste nel mondo. L’altra notte ho segnato di aver acquistato del pane delizioso in un
supermercato, ma al risveglio ho capito che supermercato e pane erano irreali.

71
Nondimeno, la complessità di processi percettivi e di fenomeni come le allucinazioni e
i sogni non devono indurci a credere che i sensi non siano in grado di fornirci la
conoscenza di come il mondo realmente è. Il sostegno alla realtà degli oggetti è basata
sull’inferenza alla miglior spiegazione, come sostenuto nel secondo capitolo. Esiste
un’abbondante evidenza del fatto che il pane che ho mangiato oggi a pranzo esiste, con le
caratteristiche che gli attribuisco. Innanzitutto, io non devo basarmi solamente su un
singolo senso. Vedo il colore e la forma della pagnotta, ma posso anche verificare la sua
forma usando il senso del tatto, che conferma l’informazione fornita dagli occhi. Inoltre
posso usare l’udito, per esempio posso sbattere la pagnotta contro un vaso e ascoltarne il
suono. Inoltre, il pane suscita una stimolazione piacevole dei miei sensi del gusto e
dell’olfatto. Il cervello ha sistemi diversi di sensibilità, che può combinare per formare
percezioni unificate. A differenza di allucinazioni e sogni, che sono difficili da
controllare, in questo caso sono possibili esperimenti sistematici: io posso generare
sensazioni integrate e coerenti del pane – ad esempio, guardandolo, spezzandolo o
mangiandolo simultaneamente. Dal momento che posso fare del pane la causa di queste
esperienze, e dal momento che non esistono ipotesi alternative (come quella che si tratti
di allucinazioni o di sogni), è ragionevole concludere che il pane esiste. La sua realtà è la
miglior spiegazione delle diverse esperienze che ne ho.
In secondo luogo, l’evidenza della realtà degli oggetti non dipende soltanto dalle
specifiche esperienze sensibili che io ho di loro, perché posso far riferimento anche alle
testimonianze di altri. Qualsiasi dubbio sul pane come causa delle mie esperienze, può
essere indebolito se quelle esperienze sono comuni anche ad altre persone. Voi potete non
apprezzare questo pane integrale come l’apprezzo io, ma sarei molto sorpreso se i vostri
resoconti del suo colore, forma, consistenza, odore e sapore fossero molto diversi dai
miei. Possiamo trovarci e assaggiare insieme il pane per poi riferirci le nostre esperienze
sensoriali. È prevedibile che i resoconti circa aspetto, tatto, sapore, odore e suono del
pane siano notevolmente convergenti. La miglior spiegazione di questa convergenza fra
le esperienze sensoriali di molte persone è che esiste realmente una pagnotta che provoca
in tutti i cervelli esperienze simili. I resoconti di esperienze simili da parte mia e di altri è
il risultato della combinazione di meccanismi fisici, con i quali il pane influenza i nostri
sensi, e di meccanismi nervosi, con i quali il cervello interpreta i segnali sensoriali.
Dobbiamo far affidamento sulla testimonianza di altre persone come parte della nostra
inferenza per la miglior spiegazione dei dati sensoriali? Le persone, dopo tutto,
potrebbero mentire o scherzare, anziché riferire le loro vere esperienze col pane. Di
nuovo, la nostra valutazione della verità di quel che la gente ci dice riguarda l’inferenza
alla miglior spiegazione 7. Siete giustificati a credere ciò che vi si dice se esso rappresenta
la miglior spiegazione disponibile dell’evidenza che si ha sottomano. Le persone sono, di
regola, spinte a descrivere le cose come pensano che siano, e noi siamo giustificati a
considerare ciò che ci viene detto come evidenza rilevante fin quando non si presenti
l’evidenza ci che induce a ritenere che si tratta di allucinazioni o menzogne. Le
testimonianze sorrette dall’inferenza alla miglior spiegazione mi consentono di credere,
ragionevolmente, a molte cose osservate dal prossimo. Non sono mai stato sul monte
Everest, ma non ci sono dubbi che esso esista, perché i resoconti di molte persone che

72
l’hanno visto sono spiegati meglio dall’ipotesi che quel monte esista piuttosto che
dall’ipotesi che si tratti di una menzogna di massa.
Ma come facciamo a sapere se le esperienze riportate da altre persone sono uguali alle
nostre? È possibile che quando riferite di aver assaggiato del pane integrale, un po’
coriaceo, riportiate un’esperienza analoga a quella vissuta da me quando assaggio il pane
bianco e molliccio.
Ci sono due motivi per dubitare che ci sia sufficiente variabilità nell’esperienza per
scalzare l’utilità della testimonianza. Primo, il modello generale dell’esperienza riferito
dalle altre persone è di gran lunga coerente col mio modello d’esperienza, il che rende
inverosimile il fatto che le nostre esperienze divergano proprio sul pane coriaceo o
molliccio. Secondo, l’anatomia e gli esperimenti con la visualizzazione del cervello
forniscono un’evidenza notevole del fatto che i cervelli degli esseri umani presentano
processi sensoriali molto simili. Se non c’è l’evidenza di menzogne o follie, ci sono
buone ragioni per considerare la testimonianza altrui come attendibile. Oltre alla coerenza
multisensoriale e alla testimonianza d’altre persone, c’è una terza ragione per desumere
che le nostre percezioni degli oggetti sono grosso modo vere: esse possono essere
corroborate con misurazioni strumentali. La gente, di regola, non sottopone una pagnotta
ad un’ispezione strumentale; mentre un fisico può usare il compasso per misurarne
altezza e larghezza, lo spettrometro per misurare la riflessione che ne determina il colore,
e un rilevatore di odori per sapere quali molecole la circondano, e così via. Tali
misurazioni, compiute da persone o da robot, forniscono un’ulteriore evidenza, che è
spiegata al meglio dalla supposizione che la pagnotta esiste realmente.
Argomenti simili comprovano l’inferenza all’esistenza di molti altri tipi di oggetti, dai
leoni alle montagne. Contrariamente a quanto sostenuto dall’empirismo, la conoscenza
scientifica non è solo opera dei sensi, ma va ben oltre, grazie ad una moltitudine di
strumenti affidabili, dai telescopi ai microscopi, ai contatori Geiger (che misurano le
radiazioni), ai collisori (impiegati per studiare il comportamento delle particelle
subatomiche).
L’efficacia degli strumenti scientifici è ben congruente con il realismo costruttivo,
mentre è incompatibile con l’idealismo, dal momento che le misurazioni non dipendono
dall’attività mentale. Potreste pensare che anche se pezzi di pane sono reali, non lo sono i
suoi attributi (colore, sapore, consistenza), perché essi dipendono in gran parte dalla
mente.
Molti filosofi hanno pensato che niente, nel mondo esterno, corrisponda alle
esperienze che le persone hanno dei colori, che verrebbero così in qualche modo espulsi
dalla realtà. I loro argomenti si basano sul fatto che non esiste una mappatura che metta
semplicemente in relazione fra loro la varietà di colori percepita dalle persone e le
proprietà degli oggetti, che potrebbero influenzare la modalità con cui essi riflettono la
luce a seconda delle diverse lunghezze d’onda.
Paul Churchland ha messo a punto un modo di analizzare gli attributi fisici degli
oggetti, che rivela una corrispondenza fra l’efficienza del loro indice di riflessione e
l’esperienza che le persone hanno di colori come il rosso, il verde e il blu. Egli descrive
come il sistema visivo umano tracci con successo approssimazioni della riflessione dei
profili degli oggetti ad un basso livello di risoluzione, cosicché i colori possono essere
73
visti come proprietà reali degli oggetti, anche se la visione del colore è molto sensibile
all’ambiente. La corrispondenza fra le proprietà della riflessione e l’esperienza del colore
dà senso alle teorie correnti relative alla modalità con la quale il cervello processa
l’informazione dei colori, dalla stimolazione delle cellule nella retina che codificano
specifiche lunghezze d’onda di luce fino alle interpretazioni generate nella corteccia
visiva.
A me piace la conclusione secondo la quale i colori sono proprietà reali degli oggetti.
Essa sembra corrispondere alla miglior comprensione possibile di come il cervello
interagisca con gli oggetti. Ma il realismo riguardante gli oggetti potrebbe essere vero
anche se il realismo riguardante i colori non lo è, almeno fino a quando avremo ragione di
credere che gli oggetti e, quantomeno, alcune delle loro proprietà esistono
indipendentemente dalle loro rappresentazioni mentali.
In questa sezione del libro, ho tentato di mostrare che la miglior spiegazione delle
esperienze, convergenti dai molteplici organi di senso della maggior parte delle persone e
dagli strumenti, è che ci sono realmente oggetti fisici che causano queste esperienze. Per
di più, le proprietà osservabili di questi oggetti costituiscono buona parte di ciò che di
loro percepiamo. Ovviamente, essi hanno anche proprietà non osservabili, come ad
esempio la struttura atomica, della quale possiamo apprendere qualcosa solo attraverso la
teorizzazione scientifica.
Riassumendo, la considerazione di come il cervello funziona nelle percezioni
favorisce il realismo costruttivo a scapito dell’empirismo e dell’idealismo. La natura
costruttiva della percezione, con i processi bottom-up e top-down, mostra che un rigoroso
empirismo, che colleghi troppo strettamente conoscenza e stimoli sensoriali, è
inverosimile. D’altra parte, la forza degli stimoli sensoriali di vario tipo favorisce
l’inferenza alla miglior spiegazione contro la visione idealistica secondo cui l’esistenza
degli oggetti dipende dalla mente. La nostra conoscenza percettiva è costruita su oggetti
reali.
Il realismo costruttivo è, quindi, il miglior approccio alla conoscenza teorica che usa
concetti ed ipotesi per andare oltre la percezione.

Concetti

La conoscenza della realtà è molto più dell’esperienza sensoriale. Il discorso umano è


ricco di concetti, come per esempio conoscenza e realtà, che non sono direttamente
collegati a ciò che possiamo vedere, toccare, assaggiare, annusare o sentire.
Filosofi, psicologi, ed ora anche neuroscienziati, cercano di capire la natura di tali
concetti. Per Platone, i concetti erano entità astratte, chiamate «forme», che esistevano in
un certo reame paradisiaco, ed erano comprensibili solo alle anime.
Nelle scienze cognitive contemporanee i concetti sono rappresentazioni mentali, cioè,
come s’è visto nel capitolo precedente, sono rappresentazioni cerebrali. Un grande
problema della ricerca contemporanea consiste nel cercare di capire come sistemi di
scariche nervose giochino tutti i ruoli necessari per spiegare i molti usi cognitivi dei
concetti.

74
Il libro di Greg Murphy Big Book of Concepts (Grande libro dei concetti) fornisce un
panorama delle teorie psicologiche correnti. Secondo la teoria classica, ancor oggi
sostenuta da molti filosofi, anche non accademici, noi possiamo definire i concetti
unicamente attraverso le loro condizioni necessarie e sufficienti. Ad esempio, il concetto
di triangolo consiste della definizione secondo la quale una figura è un triangolo se e solo
se ha esattamente tre lati. Sfortunatamente pochi concetti, oltre a quelli matematici, sono
passibili di definizioni così rigorose. Tale difficoltà riguarda non solo concetti astratti,
come realtà, ma anche concetti della vita di tutti i giorni, come sedia o gatto. Se non ci
credete, provate a dare una definizione rigorosa, onnicomprensiva e immune dal rischio
di esclusioni arbitrarie di sedia: deve avere uno schienale, delle gambe o che cosa?
Nondimeno, una teoria completa dei concetti richiederebbe spazio anche per quei rari
concetti, come quelli matematici, che sono realmente definibili.
Negli anni Settanta alcuni filosofi, psicologi e scienziati informatici sostenevano una
visione più debole dei concetti, considerandoli come prototipi, ossia rappresentazioni
mentali che specificano proprietà tipiche piuttosto che definizioni 8. Mentre una
definizione tenta di elencare le proprietà possedute da tutte le sedie e solo da loro, il
prototipo comprende solo caratteristiche tipiche delle sedie. I prototipi sono più flessibili
delle definizioni, e ci sono ragioni sperimentali per pensare che essi forniscano una
miglior descrizione della psicologia dei concetti. Tuttavia, anch’essi potrebbero non
essere sufficientemente flessibili, pertanto alcuni psicologi ritengono che in realtà le
persone accumulino concetti non come prototipi ma come insieme di esempi. In tal modo
il vostro concetto di sedia consiste di una rappresentazione impressa nella memoria di
molte e diverse sedie. Questa posizione è chiamata «teoria esemplare dei concetti».
L’altro rilevante insieme di concetti attualmente discusso dagli psicologi va sotto il
nome di «opinione sulla conoscenza», o «teoria-teoria». Essa mette in evidenza il ruolo
importante che i concetti rivestono nel fornire spiegazioni. Ad esempio, il concetto di
ubriaco aiuta a spiegare il comportamento delle persone che hanno consumato troppo
alcol, come quando si dice che Fred ha fracassato l’automobile perché guidava in stato di
ubriachezza. La parte determinante di un concetto non sono le caratteristiche che lo
definiscono, o le condizioni che gli sono proprie o l’insieme di esempi collegati, bensì le
relazioni causali fra le cose che esso identifica.
Un’altra complicazione nel recente lavoro sperimentale sui concetti è la proposta che
molti di essi siano di per se stessi multimodali, avendo un’ampia componente sensoriale
(visuale, tattile, uditiva, ecc.) e non solo verbale. Per esempio, il concetto di sedia può
essere altamente visivo se coinvolge rappresentazioni figurate derivate da precedenti
percezioni di sedie. Il concetto di ubriaco può essere in parte olfattivo, se comprende
l’odore di alcol del suo alito. Sebbene l’evidenza psicologica possa essere usata contro
l’opinione classica che ritiene che i concetti siano strettamente definibili, essa non è
sufficiente per metterci nelle condizioni di scegliere definitivamente fra prototipi, esempi,
conoscenza, e teorie multimodali. Ma non vedo la ragione di considerare le suddette
opinioni in competizione tra loro; preferisco interpretarle come modi diversi di fare luce
su vari aspetti relativi alla modalità con cui i concetti sono rappresentati nel cervello.
Alcuni concetti, come quelli matematici, possono essere anche definibili. Nel terzo
capitolo ho suggerito che concetti e altre rappresentazioni mentali sono moduli di attività
75
nervosa. Ora è necessario dimostrare che la concezione dei concetti basata sul cervello
può sostenere tutti questi diversi aspetti dei concetti.
Non è difficile vedere come le caratteristiche multimodali, esemplari, prototipiche dei
concetti siano ben spiegate dalle popolazioni di neuroni. Un concetto non attiva solo una
popolazione di neuroni situata in un’area isolata del cervello circoscritta ai processi del
linguaggio. Un concetto può essere multimodale nel senso che coinvolge molte
popolazioni di neuroni, comprese aree impegnate nella rappresentazione sensoria.
La psicologa Larry Barsalou riesamina l’evidenza secondo la quale il concetto di
automobile, ad esempio, è distribuito attraverso aree del cervello che comprendono
principalmente quelle impegnate nelle rappresentazioni visive. Di conseguenza, le
immagini mentali che potete avere delle automobili possono esser parte del vostro
concetto, come lo possono essere i suoni e gli odori che associate all’automobile. I
concetti sono moduli d’attivazione di popolazioni di neuroni, che possono comprendere
le attivazioni prodotte da stimoli percettivi, di cui alimentano parte della struttura.
Simulazioni con reti nervose artificiali consentono di osservare come i concetti
possono avere proprietà associate a insiemi di esemplari e di prototipi. Quando una rete
nervosa è addestrata con molti esempi, si formano connessioni fra i suoi neuroni che le
consentono di conservare automaticamente le caratteristiche degli esempi. Inoltre queste
stesse connessioni mettono in grado le popolazioni dei neuroni connessi di comportarsi
come un prototipo, riconoscendo gli aspetti di un concetto, in accordo con la capacità
propria dei prototipi di considerare varie caratteristiche tipiche piuttosto che soddisfare un
rigido insieme di condizioni. Così anche culture simulate di neuroni artificiali possono
afferrare l’esemplare e il prototipo dei concetti in modo addirittura più semplice di quello
dei neuroni veri del cervello. È molto più complicato capire come i concetti, considerati
come sistemi di attività nervosa, possano assolvere il ruolo implicito nell’opinione
secondo la quale una delle funzioni cruciali di concetti come ubriaco sarebbe il loro
contributo alla spiegazione causale. Forse il cervello gestisce i concetti esplicativi
incorporandoli in regole del tipo: se X è ubriaco, allora X incespica. Ma qual è la
rappresentazione nervosa della connessione fra i concetti di ubriaco e di incespicare?
Questa struttura richiede dunque alcuni tipi propri della rappresentazione nervosa se-
allora, che, in questo contesto esplicativo, implica un giudizio di casualità: l’ubriachezza
causa l’incespicare. Mi occuperò più avanti, in questo capitolo, della rappresentazione
della causalità, ma per ora la questione principale è tentare di vedere come il cervello
possa usare popolazioni nervose per mostrare che esiste una relazione fra i concetti di
ubriaco e di incespicare.
Il filosofo e neuroscienziato teorico Chris Eliasmith sta sviluppando idee interessanti
circa il modo in cui i cervelli possono agire con simili relazioni 9. Tralasciando dettagli
tecnici, tenterò di comunicarvi come ciò funzioni nelle simulazioni al computer e come
potrebbe funzionare nel cervello. Eliasmith ha sviluppato un metodo generale per
rappresentare vettori, che sono serie di numeri, in popolazioni di neuroni. Si può
associare un concetto con una serie – per esempio pensando semplicemente ai numeri
come velocità di scarica (numero di scariche elettriche al secondo) dei molti neuroni che
il cervello attiva per il concetto. (Il metodo di Eliasmith è in realtà molto più complicato).
Allo stesso modo, relazioni del tipo causa o se-allora possono essere vettori associati.
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Ora l’astuzia: ci sono tecniche che consentono di allestire vettori dai vettori, cosicché da
ubriachezza causa incespicare può sortire un vettore composto dai vettori ubriachezza,
cause, incespicare.
Il punto cruciale è che il nuovo vettore conserva l’informazione strutturale,
mantenendo la distinzione fra ubriachezza causa incespicare e incespicare causa
ubriachezza. Una volta che l’intera struttura relazionale è catturata da un vettore,
possiamo applicare il metodo di Eliasmith per rappresentarla in una popolazione di
migliaia di neuroni.
Tali rappresentazioni nervose possono essere trasformate in modo da sostenere
inferenze complesse come quelle del ragionamento se-allora.
È troppo presto per dire se il cervello impiega qualcosa di simile alla tecnica
matematica di Eliasmith per costruire strutture all’interno dei vettori e poi tradurle in
attività nervosa. Il lavoro di Eliasmith suggerisce un possibile meccanismo mediante il
quale il cervello potrebbe combinare concetti dentro tipi più complicati di
rappresentazioni relazionali. Pertanto abbiamo un punto di partenza per vedere come i
concetti possono funzionare nel modo suggerito dalla teoria della conoscenza: le
spiegazioni sono costruite da complessi di relazioni che possono essere rappresentati nei
sistemi del cervello. Inoltre, dal momento che i concetti, nella teoria della conoscenza,
hanno la stessa natura fondamentale dei sistemi d’attivazione delle popolazioni di
neuroni, la teoria rimane compatibile col prototipo, con l’esemplare e con le visioni
multimodali dei concetti. Nei rari casi in cui sono disponibili definizioni rigorose dei
concetti, come per esempio un triangolo è una figura con tre lati, le condizioni necessarie
e sufficienti possono essere rappresentate da relazioni fra concetti, che possono essere
acquisite da vettori di vettori e quindi rimodulate come attività nervosa.
Dal mio semplice resoconto si potrebbe temere che la descrizione dei concetti come
sistemi di attivazione nervosa sia così vaga e generica da essere compatibile con ogni
possibile visione dei concetti, venendo così ad esser priva di contenuto. Si può superare
questa preoccupazione innanzitutto considerando le dettagliate analisi matematiche e le
simulazioni al computer già a nostra disposizione. Si vedrà come le popolazioni di
neuroni artificiali possono avere le proprietà desiderate, che sono necessarie per
modellare esemplari, prototipi e relazioni fra concetti 10. In secondo luogo, il resoconto
che sto fornendo è fortemente incompatibile quantomeno con un’opinione oggi
preminente sui concetti: l’«atomismo concettuale» di Jerry Fodor. Secondo l’atomismo, i
concetti lessicali (per i quali ci serviamo delle parole) non hanno nessuna struttura
semantica e acquistano significato solo attraverso il loro rapporto col mondo 11. Dal punto
di vista psicologico, questa opinione non è verosimile, in quanto non può spiegare la gran
mole di evidenza di cui disponiamo, che corrobora la fondatezza dell’ipotesi del
prototipo, dell’esemplare, e della teoria della conoscenza dei concetti. Ad esempio, il
concetto di sedia, costruito come schema d’attivazione mentale, ha significato in parte
perché ha correlazioni causali con il mondo attraverso vari tipi di interazioni percettive e
motorie 12. Le sedie hanno effetti causali sull’attività nervosa attraverso processi
sensoriali, e l’attività nervosa ha effetti causali sulle sedie grazie alla capacità del cervello
di dirigere movimenti del corpo. Ma è egualmente importante il fatto che lo schema
possiede correlazioni con altri schemi nervosi, alcuni dei quali possono avere scarse
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connessioni dirette con la percezione. Ad esempio, fa parte del significato del concetto di
sedia il fatto che essa è un pezzo di mobilio e che può esser acquistata nei negozi.
Nel terzo capitolo mi sono espresso a favore dello spostamento concettuale dalla
considerazione delle menti come entità al pensiero di loro come processi relazionali. Allo
stesso modo, una parte difficile, ma ben spiegabile, della rivoluzione del cervello è il
cambiamento che conduce dalla considerazione dei concetti e del loro significato come
entità, alla considerazione di loro come processi, con relazioni in molte dimensioni, che
coinvolgono il mondo ed altri concetti. Vedremo nel settimo capitolo che anche il
significato della vita è multidimensionale, in quanto concerne relazioni fra persone e vari
aspetti della loro vita, in particolare l’amore, il lavoro e il gioco. Dal momento che il
significato di un concetto non dipende semplicemente dall’esperienza percettiva, i
concetti possono costituire una forma di conoscenza delle cose che i nostri sensi sono
troppo rozzi per percepire. Vediamo ora come possiamo acquisire la conoscenza di cose
che vanno al di là delle nostre limitate capacità sensoriali.

Conoscenza oltre la percezione

Nella scienza e nella vita quotidiana, molti dei nostri concetti vanno al di là
dell’esperienza. Per esempio, quando parliamo di altre persone facciamo di frequente
riferimento ai loro desideri, convinzioni ed emozioni anche se non possiamo averne
esperienza diretta. Le teorie scientifiche richiamano molti tipi di entità che non possono
essere direttamente osservabili – fra le quali atomi, elettroni, quark, buchi neri, geni,
reazioni biochimiche, virus, personalità, e rappresentazioni mentali.
La conoscenza del mondo sarebbe disperatamente limitata se dovessimo seguire
l’ingiunzione degli empiristi rigorosi, per la quale la nostra conoscenza è circoscritta a
quanto possono conoscere i sensi umani. Ci sono animali che dispongono di sensi
superiori ai nostri: gli uccelli vedono la luce ultravioletta, i cani hanno nasi più sensibili, i
pipistrelli usano l’ecolocazione, e così via.
L’ambito particolare dell’esperienza sensoriale umana è una coincidenza dovuta
all’evoluzione biologica e non una guida perfetta alla natura della realtà. L’unico ambito
nel quale gli uomini superano di gran lunga gli altri animali è quello relativo all’abilità di
formulare e valutare rappresentazioni cerebrali che trascendono i limiti dei nostri sensi.
L’ammissione della conoscenza oltre l’informazione data dall’esperienza sensoriale
solleva due problemi filosofici difficili. Il primo concerne la possibilità che i concetti
abbiano significato se vanno oltre l’esperienza, che per gli empiristi è l’unica fonte di
significato. La risposta nasce dal riconoscimento che il significato dei concetti, costruiti
come schemi di attività nervosa, è relazionale e multidimensionale. Concetti teorici come
atomo e virus sono solo indirettamente correlati alla nostra esperienza sensoriale, ma ciò
non è un problema né filosofico né psicologico, perché tali concetti sono riccamente
correlati ad altri concetti, grazie alle teorie di cui sono parte. Ad esempio, il concetto di
atomo è correlato ad altri concetti come elemento, molecola, elettrone, protone, ognuno
dei quali contribuisce alla teoria atomica della materia, capace di spiegare un gran
numero di scoperte sperimentali in fisica, chimica e biologia molecolare. La

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significatività di tali concetti è un enigma solo se si condivide l’angusta opinione
empirista che i concetti dipendono dall’esperienza sensoriale.
La seconda questione è molto più seria: se i concetti vanno oltre l’esperienza
sensoriale, come sappiamo quale di loro ha a che fare con la realtà? Ci sono molti
concetti che devono il loro significato alle relazioni che hanno con altri concetti, ma non
ne hanno alcuna con il mondo. I bambini acquisiscono rapidamente concetti come nano o
unicorno, ma imparano anche che si tratta di miti. Se la mia critica al pensiero basato
sulla fede, esposta nel secondo capitolo, è corretta, allora concetti come dio e angelo sono
mitici.
Lo stesso problema si pone nella storia della scienza, quando concetti, cruciali in
teorie una volta dominanti, vengono abbandonati. Ad esempio, nella chimica del secolo
XVIII, prima che Lavoisier sviluppasse la teoria dell’ossigeno, molti chimici ritenevano
accettabile la teoria del flogisto per la combustione. Si pensava che la combustione
dipendesse dall’emissione da parte di alcuni oggetti di un elemento chiamato «flogisto»,
di cui oggi si sa che non esiste. Perché oggi sappiamo che il concetto di ossigeno si
riferisce alla realtà e quello di flogisto no? Altri concetti abbandonati assieme alle teorie
di cui erano parte sono: l’elemento calorico della chimica del secolo XVIII, la forza vitale
della biologia del secolo XIX e l’etere luminescente della fisica prima dell’avvento della
teoria della relatività. Essi, come i concetti che noi oggi accettiamo, furono costruiti in
modo tale da apparire significativi a chi li usava; ora ci sembrano del tutto estranei alla
realtà. Forse tutti i nostri concetti scientifici sono moduli temporanei di pensiero, che
verranno alla fine abbandonati, come le teorie che li contengono, una volta soppiantate.
Io dubito, comunque, che la maggior parte degli attuali concetti scientifici vada
incontro alla fine del flogisto. La ragione per cui concetti come ossigeno e atomo sono
ancora attuali è che sono basati sull’evidenza, in linea con i principi dell’inferenza alla
miglior spiegazione di cui si è parlato nel secondo capitolo.
La teoria della combustione dell’ossigeno ha soppiantato la teoria del flogisto perché
Lavoisier mostrò che essa fornisce una spiegazione migliore degli esperimenti chimici
disponibili. Ad esempio, quando gli oggetti sono bruciati all’interno di contenitori che
impediscono alla materia di fuoriuscire, essi acquistano peso, come previsto dalla teoria
della combustione, che si basa sulla combinazione con l’ossigeno, piuttosto che perdere
peso, come vorrebbe la teoria della combustione con emissione di flogisto. Ma
l’inferenza alla miglior spiegazione è più complicata della semplice enumerazione dei
fatti che una teoria spiega, perché una teoria può subdolamente avanzare supposizioni
supplementari che può applicare a risultati sperimentali, i quali sembrerebbero metterla in
discussione. Ad esempio, alcuni difensori della teoria del flogisto suggerirono
temerariamente che esso avrebbe peso negativo, nel tentativo di spiegare perché gli
oggetti guadagnano peso mentre bruciano e presumibilmente perdono flogisto. Pertanto
noi desideriamo valutare la miglior spiegazione non solo considerando quanti fatti la
teoria spiega, ma anche quante ipotesi particolari essa formula per generare queste
spiegazioni.
È inoltre rilevante considerare quanto le ipotesi siano compatibili con altre teorie
accettate: in fisica non c’è posto per pesi negativi. Una teoria come quella dell’ossigeno
di Lavoisier ha dalla sua sia il valore della spiegazione sia la semplicità, in quanto spiega
79
molto con un minimo di ipotesi 13. Un altro aspetto cruciale dell’inferenza alla miglior
spiegazione è che noi, a volte, valutiamo le ipotesi non solo per quanto esse spiegano, ma
anche per come esse stesse sono spiegate da ipotesi di livello superiore. Nel secondo
capitolo ho riportato l’esempio di come l’ipotesi che qualcuno abbia commesso un
omicidio diviene più plausibile se esiste un motivo che spiega perché l’omicida
desiderasse la morte della vittima. Col tempo, le migliori ipotesi scientifiche si spiegano
da sole. Lavoisier ipotizzò che l’ossigeno si combina con gli oggetti che bruciano senza
aver alcuna idea di come questo avvenisse.
Nel secolo XX fu sviluppata la teoria del legame chimico, che spiega che a livello
subatomico gli atomi di ossigeno si combinano con quelli di carbone per formare biossido
e monossido di carbonio. Pertanto la teoria della combustione dell’ossigeno è più forte
oggi di quanto non lo fosse alla fine del XVIII secolo, perché essa è coerente con la fisica
subatomica e con i molti fatti che essa spiega. Nel corso di due secoli, la teoria
dell’ossigeno non solo si è estesa, essendo stata utilizzata per spiegare molti altri eventi
oltre alla combustione, ma si è anche approfondita grazie alla scoperta dei meccanismi
del contributo fondamentale dell’ossigeno al fuoco, alla ruggine, alla respirazione.
Un altro buon esempio di teoria che si è estesa ed approfondita riguarda la teoria delle
malattie infettive, proposta nel secolo XIX per spiegare malattie come la tubercolosi, il
colera, l’influenza. Oggi noi usiamo la teoria infettiva non solo per spiegare in che modo
le persone si ammalino di infezioni di batteri, virus, ed altri agenti, ma la impieghiamo
anche per spiegare meccanicisticamente come gli agenti patogeni distruggano cellule e
organi, descrivendo il loro operato in termini di geni e di processi biochimici.
Questi due esempi di scienza altamente sviluppata, che si è progressivamente estesa e
approfondita nel corso del tempo, ci consentono di superare la visione pessimistica per la
quale la scienza attuale sarebbe altrettanto transitoria di quella antica, delle teorie e dei
concetti surclassati 14, come il flogisto. Io non conosco alcuna teoria scientifica
approfondita ed estesa che si sia dimostrata falsa. È ovvio che l’inferenza alla spiegazione
migliore e ogni altro tipo di pensiero basato sull’evidenza sono fallibili. C’è sempre la
possibilità che si acquisisca nuova evidenza o che siano sviluppate nuove ipotesi che
mostrano che le nostre idee attuali sono sbagliate.
La coerenza della teoria atomica della materia e della teoria delle malattie infettive,
non solo per quel che chiariscono, ma anche per i meccanismi sottostanti che le spiegano,
mi inducono a credere che esse non saranno soppiantate. Tali teorie non solo hanno
costruito concetti ed ipotesi, ma sembrano anche aver compreso aspetti importanti della
realtà. Pertanto, il pensiero scientifico, come la conoscenza percettiva, esemplifica la
visione che io chiamo «realismo costruttivo», in opposizione all’empirismo e
all’idealismo. Abbiamo buone ragioni per credere che sia la percezione sia il pensiero
scientifico, nonostante la loro fallibilità, possono essere spesso fonti affidabili della
conoscenza del mondo.
Concetti come elettrone e gene, che sono al di là dell’esperienza sensibile, possono
nondimeno essere pensati come riferimenti ad oggetti reali, almeno fino a quando sono
parte di teorie che forniscono la miglior spiegazione dell’evidenza.
In alcuni ambienti e nelle scienze sociali è opinione corrente che la scienza sia
costruita su basi sociali 15. La sommessa rivendicazione del fatto che la scienza è
80
un’impresa portata avanti da gruppi di persone che interagiscono fra di loro implica che
la sua struttura sociale è un aspetto significativo dello sviluppo della conoscenza
scientifica. Sfortunatamente, l’aspetto sociale è spesso usato con aggressività per
sostenere che la scienza non ha nulla a che fare con una realtà indipendente dagli
schieramenti umani, cosicché l’intero progresso scientifico altro non sarebbe che una
questione di negoziati sociali e di potere.
Questi dissensi contrastano con molto di ciò che sappiamo sulla percezione e sulla
pratica della scienza. Il nostro apparato percettivo ha la capacità di osservare gli oggetti
approssimativamente per quello che sono. E per questo gli scienziati non possono
perseguire solo i risultati che desiderano, ma devono lavorare con ciò che le osservazioni
e gli strumenti forniscono loro. La proposta di ipotesi sui meccanismi approfondisce e
amplia le teorie scientifiche. Le applicazioni tecnologiche delle teorie scientifiche non
avrebbero senso se non vi fosse qualche rapporto fra teorie e mondo.
Le mie spiegazioni cognitive e nervose delle percezioni e del pensiero scientifico sono
altamente compatibili con i molti fattori sociali dello sviluppo della conoscenza di tutti i
giorni e di quella scientifica, ma escludono la pretesa imperialistica che le sole
spiegazioni legittime siano quelle sociali. Così il pensiero scientifico e quello di tutti i
giorni possono ben andare oltre la percezione e in tal modo acquisire anche conoscenza
della realtà. Per far ciò, le menti devono usare l’evidenza, che dipende dall’affidabilità
generale delle nostre percezioni nel fornire osservazioni e risultati sperimentali, ma hanno
bisogno anche dell’uso efficace delle inferenze alla migliore spiegazione di quelle
osservazioni. L’inferenza valuta le teorie paragonandole ad altre in competizione, e per
far ciò si basa su quanto siano coerenti con l’evidenza che spiegano e con le teorie dalle
quali sono spiegate. Così abbiamo buone ragioni per credere che le ipotesi e i concetti
delle teorie abbiano una presa approssimativa sulla realtà, che costituisce la conoscenza
degli oggetti e dei processi che vanno oltre quanto noi siamo in grado di percepire.
Vediamo ora più in profondità come il cervello riesce a realizzare questa coerenza.

Coerenza nel cervello

Discutendo della percezione, io ho contrapposto le inferenze graduali del linguaggio


parlato o scritto ai corrispondenti tipi di inferenza, spesso non linguistici, praticati dal
cervello. Dal momento che si discute delle migliori spiegazioni di crimini o di
esperimenti scientifici, sembra, a tutta prima, che le inferenze alle ipotesi siano fatte in
serie e linguisticamente. Ma il cervello agisce diversamente, con rappresentazioni
multimodali di ipotesi e causalità, e con valutazioni parallele della loro coerenza.
Il senso comune suggerisce che il linguaggio è una parte importante della
rappresentazione che le menti fanno delle ipotesi, anche se possono contribuire altre
modalità sensoriali. Voi potete manifestare la vostra convinzione che O.J. Simpson abbia
assassinato la sua ex-moglie con la frase: «O.J. uccise Nicole». Ma se avete visivamente
presente Simpson, potete anche manifestare quest’ipotesi con l’immagine mentale
dinamica di lui, come in una specie di film mentale, che lacera Nicole con il coltello.

81
Alla stessa maniera, gli scienziati possono illustrare la struttura semplificata
dell’atomo con le parole: «L’elettrone ruota attorno al protone», ma possono anche usare
diagrammi o immagini mentali per immaginarsi quest’ipotesi visualmente.
Altre immagini sensoriali possono aiutare a costituire ipotesi – ad esempio
immaginarsi il suono del grido di Nicole. Sia le ipotesi espresse con parole sia le
immagini sensoriali sono allestite dal cervello con l’attivazione di popolazioni di neuroni.
Ho già dato un’idea di come ciò possa funzionare quando ho esposto in che modo
concetti come quello di ubriachezza possano contribuire alle spiegazioni. Se il vostro
cervello posside popolazioni di neuroni che rappresentano Simpson, Nicole e il concetto
di uccidere, ha anche moduli di attività nervosa che rappresentano l’ipotesi secondo cui
Simpson ha ucciso Nicole. La vostra rappresentazione mentale di Simpson può
comprendere sia l’informazione verbale, come quella che egli era un giocatore di
football, sia l’informazione visiva, come il ricordo del suo volto; così la rete di neuroni
che rappresenta l’ipotesi dell’omicidio può combinare aspetti verbali e visivi.
È ancora poco compresa la modalità con cui il cervello è in grado di combinare schemi
diversi d’attività. Ma il metodo di Eliasmith, che consiste nel tradurre concetti e relazioni
in vettori, e vettori in attività di popolazioni di neuroni, mostra la fattibilità
computazionale di rappresentare ipotesi esplicative usando l’attività di un gran numero di
neuroni. Con l’ipotesi e l’evidenza indicata dai moduli di attività nervosa noi possiamo
costruire anche asserzioni relazionali d’alto livello, come: il fatto che Simpson abbia
ucciso Nicole spiega perché essa è morta. Ma come dobbiamo intendere spiega?
Un’ampia discussione filosofica sulla spiegazione 16 tenta di tradurla nei termini di
relazioni logiche come la deduzione o la probabilità matematica, ma ci sono molte
ragioni filosofiche e psicologiche per asserire che le spiegazioni sono causali. La morte di
Nicole è spiegata dal fatto che Simpson l’ha uccisa nel senso che la morte della donna fu
causata (ipoteticamente) dal suo agire. Il fatto che la combustione sia ossidazione spiega
perché la materia che brucia aumenta di peso, dal momento che l’ossidazione causa
quell’aumento. Ora però abbiamo il problema di cercare di capire la causalità.
Io propongo l’ipotesi secondo cui molta parte della nostra comprensione delle
relazioni causali è preverbale e multimodale, ed è condivisa da neonati e da animali senza
linguaggio. Già all’età di due mesi e mezzo i bambini reagiscono con sorpresa quando gli
oggetti che incrociano non sono i soliti. Ciò suggerisce che siano già in possesso di una
forma elementare del principio di causalità. I limiti linguistici e matematici dei bambini
piccoli ci costringono a cercare altrove ipotesi su come essi si rappresentino la causalità,
che, a mio parere, è una rappresentazione basata principalmente su modelli sensomotori. I
bambini hanno modelli di attivazione nervosa per esperienze sensibili, come vedere un
giocattolo o sentire il suono di una campana, ed inoltre hanno modelli nervosi
corrispondenti a sequenze di comportamenti motori, come sporgersi per afferrare il
giocattolo. Sarebbe affascinante poter elaborare un resoconto delle modalità con le quali
le popolazioni di neuroni possano combinare i meccanismi motori con quelli della
sensibilità; ad esempio, analizzare che cosa accade quando un bambino vede un sonaglio,
lo afferra, lo muove e poi vede il giocattolo in una luce diversa mentre questo suona,
elaborando una sequenza di esperienze ripetute, sensorie-motorie-sensorie. Entro pochi
mesi dalla nascita, i bambini hanno un’ampia esperienza di simili interazioni sensorie-
82
motorie-sensorie. Esse forniscono loro una idea realistica di che cosa significhi
manipolare il mondo, cioè non solo osservarlo ma anche intervenire costantemente
affinché succeda qualcosa. Molto più tardi, una volta acquisito il linguaggio, essi
utilizzeranno la parola «causa», il cui significato dipende comunque dall’esperienza
preverbale di percezione di situazioni e di azioni e dalle modalità con cui vengono
percepiti i loro risultati. Ancora più tardi, è possibile acquisire una più ricca
comprensione della causalità attraverso lo studio e la comprensione dell’inferenza
statistica, anche se essa dipende comunque dalla nozione intuitiva di causalità come
apprendimento iniziato con l’esperienza sensomotoria.
Anche idee molto sofisticate relative alla casualità come le reti di Thomas Bayes
richiedono una nozione intuitiva di causalità al fine di costruire un’impalcatura
concettuale di collegamento fra le variabili 17. I cervelli collegano questa nozione
preverbale con successive rappresentazioni linguistiche allo scopo di allestire un concetto
di causalità estremamente proficuo e codificato nelle reti nervose, capace di fornire la
base per la relazione esplicativa fra ipotesi ed evidenza. Così cominciamo ad intravedere i
meccanismi nervosi che consentono ai cervelli di costruire ipotesi e concetti, comprese
spiegazione e causalità, utilizzando sistemi di attività nervosa che costituiscono
rappresentazioni verbali e multimodali. Io sospetto che la comprensione umana del
tempo, dello spazio e della causalità sia spesso difficilmente esprimibile con parole
perché la sua codificazione nervosa dipende parzialmente da rappresentazioni
fisiologiche piuttosto che verbali.
C’è ora bisogno di spiegare come i cervelli integrino molte e concorrenziali asserzioni
per selezionare un’inferenza alla miglior spiegazione 18. Per fare questo bisogna
individuare la metodologia più coerente così da accettare alcune ipotesi e scartarne altre.
Ipotesi ed evidenze sono reciprocamente correlate, sia da verifiche positive relative ad
aspetti su cui concordano, sia da verifiche negative relative a rappresentazioni
inconciliabili. La più importante verifica positiva è che quando un’ipotesi spiega un
frammento di evidenza, essi sono reciprocamente coerenti. Ad esempio, l’ipotesi che
Simpson abbia ucciso Nicole collima con l’evidenza che Nicole è morta perché
l’omicidio ne è la spiegazione causale. Il tipo più importante di verifica negativa si ha fra
ipotesi che si contraddicono a vicenda, o che competono per spiegare il frammento
d’evidenza. Ad esempio, l’ipotesi che Simpson abbia ucciso Nicole compete con l’ipotesi
della difesa secondo cui la donna fu uccisa da trafficanti di droga. Per ossevare come
questo tipo di lavoro possa avvenire nel cervello, cominciamo con un’immagine
altamente semplificata di elementi quali ipotesi ed evidenza, rappresentati da singole
unità di neuroni artificiali piuttosto che da sistemi di attivazione di popolazioni di
neuroni. Possiamo così costruire una rete artificiale di neuroni che esercita delle
costrizioni fra gli elementi attraverso i legami esistenti fra le unità che li costituiscono.

83
Figura 4.2. Struttura dell’inferenza su chi uccise Nicole Simpson.

La Fig. 4.2 mostra una semplice rete con unità che rappresentano le ipotesi in
competizione nel caso Simpson. I controlli positivi basati su ciò che spiega quel che è
fissato fra le connessioni eccitatorie sono analoghi, grosso modo, alle connessioni
sinaptiche che consentono ad un neurone di eccitarne un altro. Si noti che la Fig. 4.2
consente diversi livelli di ipotesi esplicative: per esempio, l’ipotesi dell’ira di Simpson
contro la ex-moglie spiega perché egli la uccise, che a sua volta spiega perché la donna è
morta. Le costrizioni negative derivano da legami inibitori fra le unità. Un’altra
costrizione positiva che influenza la rete è rappresentata dal fatto che noi tenderemmo ad
accettare ciò che abbiamo osservato con i nostri sensi, in questo caso che Nicole è morta.
Per arrivare a individuare la miglior spiegazione dell’evidenza, dobbiamo trovare
come soddisfare al massimo le costrizioni positive e negative: si soddisfa una costrizione
positiva fra elementi accettandoli entrambi, si soddisfa una costrizione negativa
accettandone uno e rifiutando l’altro 19.
Per fortuna esistono vari algoritmi computazionali utilizzabili per massimizzare la
soddisfazione delle costrizioni. L’algoritmo più naturale dal punto di vista psicologico usa
un valore di attivazione per indicare l’alta o la bassa accettabilità di un’unità, secondo cui
l’attivazione è, all’incirca, analoga alla velocità di eccitazione di un neurone. Così
possiamo usare semplici algoritmi per allargare l’attivazione in parallelo fra le unità di
una rete fino a quando alcune vengono accettate ed altre rifiutate, Ad esempio, quando
tutte le unità della Fig. 4.2 sono attivate, il risultato è che l’unità relativa all’ipotesi che
Simpson sia un omicida viene attivata, mentre l’unità in competizione, relativa alla
colpevolezza dei trafficanti di droga, è disattivata. In questo modo una rete nervosa
altamente semplificata può portare a un giudizio coerente usando la soddisfazione
parallela delle costrizioni.
Questo metodo della massimizzazione della coerenza esplicativa è stato impiegato per
illustrare molti esempi nel campo legislativo e scientifico, comprese le revisioni delle
teorie delle più rilevanti rivoluzioni scientifiche: quella di Copernico e quella di Einstein.
Dal punto di vista della scienza del cervello, il metodo testè descritto è insoddisfacente,
perché, come è ovvio, ipotesi complesse come la spiegazione di un crimine e le asserzioni
scientifiche non sono rappresentate nel cervello da singoli neuroni. Un altro problema è
rappresentato dal fatto che le costrizioni della Fig. 4.2 sono simmetriche, consentendo a
due elementi di limitarsi a vicenda, così che i legami eccitatori ed inibitori fra le unità
sono anche simmetrici. Ma nella realtà all’interno delle reti di neuroni non succede mai

84
che due di loro si eccitino e inibiscano l’un l’altro. Per fortuna, è possibile illustrare il
calcolo della coerenza esplicativa in una maniera neurologicamente molto più realistica.
Primo, ogni elemento viene rappresentato da una popolazione di neuroni anziché da una
singola unità. Secondo, una connessione è rappresentata da un intero complesso di
connessioni fra neuroni presenti in più popolazioni. A questo livello non c’è alcun
problema ad avere connessioni simmetriche, perché alcuni neuroni di una popolazione
eccitano neuroni in un’altra, mentre altri neuroni della seconda popolazione eccitano
neuroni nella prima.
Le risultanti reti, con migliaia di neuroni artificiali, sono molto più ampie rispetto alle
poche dozzine di unità sufficienti a modellare il processo di O.J. Simpson, così come altri
casi giudiziari e scientifici. Ma il nostro cervello possiede circa 100 miliardi di neuroni
che lavorano, così questa scala non sembra essere un problema. Le simulazioni al
computer mostrano che reti neurali biologicamente più realistiche possono conseguire lo
stesso tipo di soddisfazione della costrizione parallela rispetto a reti più semplici, che
usano un’unità per ciascun elemento. Così cominciamo a capire in che modo avvenga nel
cervello l’inferenza alla miglior spiegazione. Come si è già visto con la percezione,
l’inferenza è il risultato dell’interazione parallela e dinamica di assembramenti di
neuroni, non di passi linguistici seriali. L’attenzione ai meccanismi cerebrali mostra come
l’inferenza possa essere solistica e multimodale. Gli ultimi capitoli mostreranno come
analoghi meccanismi nervosi leghino l’inferenza alle emozioni e alle azioni.

Coerenza e verità

Il cervello conosce la realtà tramite una combinazione di percezione e di inferenza alla


miglior spiegazione di ciò che si sta osservando. Una tale inferenza cerca di massimizzare
la coerenza esplicativa, che talora impone di rifiutare le informazioni provenienti dagli
organi di senso. Il rifiuto delle osservazioni avviene sia nella vita quotidiana, per esempio
quando un ubriaco decide che il fatto di vedere doppia una persona non può
corrispondere alla realtà, sia nella scienza, quando un ricercatore si disfa di alcuni dati
sperimentali in contrasto con una teoria ben dimostrata. Pertanto l’acquisizione della
conoscenza consiste nel ricercare la coerenza fra molte ipotesi e pezzi d’evidenza, non
nel partire con qualche indubitabile fondamento dell’esperienza sensoriale o della
conoscenza a priori e cercare di basare tutto il resto su quello.
Non ci sono fondamenti per la conoscenza, anche se l’affidabilità generale della
percezione giustifica il convincimento che i risultati dell’osservazione debbano avere la
priorità nella massimizzazione della coerenza. La conoscenza non è questione di pura
coerenza, dal momento che l’evidenza dell’osservazione dispone di una certa priorità e
pone costrizioni alle speculazioni completamente fantasiose.
Nondimeno io sostengo una sorta di coerentismo, cioè l’opinione secondo cui ciò in
cui si crede è giustificato dalla sua congruenza con le altre credenze e con l’esperienza
sensoria. Il coerentismo della conoscenza si accorda bene col realismo costruttivo nel
fornire una risposta alle due domande con le quali abbiamo cominciato questo capitolo:
che cos`è la realtà? come la conosciamo? La realtà consiste di oggetti e delle loro

85
caratteristiche, che noi possiamo conoscere tramite la percezione e l’inferenza alla
miglior spiegazione.
Nel secondo capitolo si è visto come l’inferenza alla miglior spiegazione nella scienza
sia diversa da quella propria della vita quotidiana, dal momento che la prima impiega
spiegazioni meccanicistiche ed altri procedimenti, valutando un vasto ambito d’evidenza
fornito da esperimenti rigorosi. Questa è la ragione per cui teorie scientifiche ben
corroborate sono, di regola, una guida più affidabile alla comprensione della realtà di
quanto non lo sia il senso comune, che spesso deriva da tradizioni e non da valutazioni
sistematiche di ipotesi alternative riferite all’evidenza. In ogni momento, è bene accettare
ciò che le migliori teorie scientifiche ci dicono. La consapevolezza di nuove evidenze e lo
sviluppo di nuove ipotesi può indurci alla conclusione che alcune teorie correnti non
costituiscono una rappresentazione adeguata della realtà. Basandoci sull’evidenza
corrente, dovremmo essere appagati dal riconoscere come reali varie forme di materia ed
energia, quali gli atomi, gli elettroni, i quark, fino all’identità di mente umana e cervello.
Sia la percezione sia l’inferenza alla miglior spiegazione sono fallibili e richiedono
processi mentali complicati, ma nondimeno sono buoni motivi per prendere le distanze
dall’idealismo, secondo il quale la realtà dipende solo dalla mente. L’evidenza suggerisce
che l’universo ha più di tredici miliardi di anni, mentre le menti umane hanno un’età che
si aggira attorno a pochi milioni di anni. Stando ai resti fossili, i primi mammiferi, i cui
cervelli erano più voluminosi e più sviluppati di quelli dei rettili dai quali provenivano,
hanno fatto la loro comparsa appena duecento milioni di anni fa. Possediamo quindi
un’abbondante evidenza del fatto che la realtà esistesse moltissimo tempo prima che si
sviluppassero le menti e probabilmente continuerà ad esistere anche dopo che tutte le
menti saranno estinte. Per questo si devono respingere i tentativi controrivoluzionari dei
tolemaici, che si dicono sicuri del fatto che la mente sia il centro della realtà. Come si
vedrà nel settimo capitolo, la vita può essere ricca di significato anche se le menti sono
cervelli e non entità soprannaturali. Dal momento che abbiamo buoni motivi per asserire
che la realtà esiste indipendentemente dalla mente, possiamo dedurre che la verità è la
corrispondenza fra rappresentazione mentale e aspetti della realtà. Le rappresentazioni
rilevanti non consistono solo di proposizioni linguistiche, ma anche di immagini
sensoriali e delle loro estensioni, quali le immagini costruite dalla nostra mente. La
corrispondenza fra rappresentazioni e realtà non dipende solamente dalla relazione
binaria vero/falso, ma può comprendere anche delle approssimazioni. Un insieme di
rappresentazioni, come una teoria, è approssimativamente vero se la maggior parte delle
sue asserzioni è quantitativamente prossima alle condizioni attuali del mondo. La verità è,
quindi, un obiettivo legittimo della teorizzazione scientifica e quotidiana, insieme
all’esplorazione e alla previsione.

Conclusione

All’inizio del capitolo ho affermato che l’accettazione della teoria dell’identità di


mente e cervello presenta implicazioni di rilievo relativamente ai problemi della realtà e
della conoscenza, ed ho tentato di mostrare che processi nervosi come percezione e

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inferenza consentono al cervello di conoscere la realtà. L’implicazione, come l’inferenza,
non è una semplice relazione, dal momento che essa richiede la ricerca del sistema
d’ipotesi di massima coerenza, valutata attraverso l’interazione dinamica di
rappresentazioni che operano in parallelo. Per questo il mio ragionamento non è la
semplice deduzione del fatto che le menti sono cervelli e quindi che il realismo
costruttivo è vero. Piuttosto, come tutte le inferenze, le mie conclusioni sono giustificate
dalla coerenza complessiva: data l’identità di mente e cervello, e date anche tutte le
informazioni che possediamo, la conclusione più coerente è che usiamo percezione e
inferenza alla miglior spiegazione per costruire la conoscenza della realtà. Questo
processo di giustificazione sembrerà circolare se si pensa che la conoscenza dovrebbe
avere un fondo di indubbie verità, dalle quali dovrebbero derivare altre verità. Ma
nessuno è riuscito ad identificare tale fondo né con l’esperienza sensoriale né col
ragionamento a priori, per cui dobbiamo piuttosto sforzarci di costruire i sistemi di
rappresentazione nel modo più coerente possibile.
Fortunatamente, in ambiti come la percezione quotidiana e le teorie delle scienze
naturali, i nostri cervelli riescono a produrre sistemi simili a come il mondo è
effettivamente. Circa la percezione, il motivo della riuscita è evoluzionistico, nel senso
che i sistemi percettivi umani e i loro antecedenti presenti nei primati e in altri
predecessori furono sottoposti alla selezione di organismi ben funzionanti nei loro
ambienti. La spiegazione del successo scientifico è molto più culturale, dal momento che
metodiche efficaci come la sperimentazione controllata, l’inferenza statistica e la
simulazione computerizzata sono sorte solo in tempi recenti. Con tali metodiche la
conoscenza può ben svilupparsi oltre la percezione senza soggiacere alle fantasie
soprannaturali.
Tuttavia, per essere saggi e apprezzare il significato della vita non basta conoscere la
realtà. Dobbiamo conoscere quali aspetti della realtà sono importanti e perché. La
saggezza senza conoscenza è vuota, ma la conoscenza senza saggezza è cieca. Per
raggiungere la saggezza è necessaria non solo la capacità del cervello di acquisire
conoscenza tramite la percezione e l’inferenza alla miglior spiegazione, ma anche la
capacità di assegnare valori positivi e negativi, anche agli aspetti dell’amore, del lavoro e
del gioco. Noi possiamo capire ciò molto più a fondo studiando il modo in cui il cervello
sente le emozioni.

1
Il termine «realismo costruttivo» è ripreso da Giere 1999.
2
Cfr. http://plato.standford.edu/entries/postmodernism/. Sulla realtà come qualcosa di più di una
costruzione sociale cfr. Hacking 1999.
3
L’espressione «controrivoluzione tolemaica» è di Russell 1948. Ci sono molte varianti contemporanee
del tentativo tolemaico di rendere la realtà dipendente dalla mente. Cfr. il decimo capitolo. Kant disse che
doveva negare la conoscenza per far posto alla fede. La mia strategia è opposta.
4
Fodor 1975.

87
5
Cfr. Richard 1990; P.M. Churchland 2007; Thagard 2008. Sulle neuroimmagini della convinzione,
della diffidenza e dell’incertezza cfr. Harris – Sheth – Cohen 2008.
6
Su allucinazioni in testi di psicologi cfr. Behrendt – Young 2005.
7
Cfr. Thagard 2005b.
8
Per la filosofia cfr. Wittgenstein 1968 e Putnam 1975; per la psicologia cfr. Rosch – Mervis 1975; per
l’intelligenza artificiale cfr. Minsky 1975. Per l’opinione che i concetti giochino un notevole ruolo nel
fornire spiegazioni cfr. Medin 1989; per l’evidenza cfr. Barsalou et al. 2003.
9
Cfr. Eliasmith 2005a; Eliasmith – Anderson 2003.
10
Cfr. Rumelhart – McClelland 1986; Kruschke 1992; Eliasmith – Thagard 2001.
11
Fodor 1998. «La mia visione dei concetti è incompatibile con il corrente assunto filosofico secondo
cui i concetti sono essenzialmente linguistici. Non vedo ragione di negare il fatto che gli infanti e gli
animali non umani abbiano concetti. I dibattiti filosofici sulla domanda se esista o meno un “contenuto non
concettuale” presuppongono una visione strettamente linguistica dei concetti».
12
Cfr. Eliasmith 2005b. Per una diversa opinione della neurosemantica cfr. P.M. Churchland 2007.
L’ambiguità non è una proprietà aberrante di concetti carenti, ma una caratteristica inevitabile, e spesso di
valore, di moduli di popolazioni di neuroni. Sul significato nei robot cfr. Parisien – Thagard 2008. Per una
critica della dottrina filosofica delle attitudini propositive cfr. Thagard 2008.
13
Sulla semplicità cfr. Thagard 1988, 1992.
14
Cfr. Thagard 2007a. La meccanica di Newton può essere considerata un esempio di una teoria
generale che si è rivelata falsa, ma che non fu mai approfondita, e che, comunque, rimane valida per corpi
di media grandezza. Sul realismo nella scienza cfr. Bunge 2006 e Thagard 1992, 1999, 2000. Il realismo è
anche necessario per spiegare aspetti comuni della scienza come l’affidabilità di molti strumenti e i risultati
sperimentali sorprendenti.
15
Sulla discussione e sugli argomenti a favore e contro l’idea secondo cui la scienza è un prodotto
sociale cfr. Thagard 1999; Hacking 1999; Latour – Woolgar 1986; Latour 1987.
16
Cfr. Salmon 1984, 1989; Thagard 1989; Woodward 2004; http://plato.standford.edu.entries/scientific-
explanation/; Thagard – Litt 2008.
17
Sulla causalità cfr. Pearl 2000.
18
Per una rigorosa esposizione della mia teoria cfr. Thagard 1989,1992, 2000.
19
Cfr. la voce «Soddisfacimento parallelo dei vincoli» contenuta nel glossario. Si assegnano valori a
certe cose, soggette a costrizioni. [NdT]

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5
Come i cervelli sentono le emozioni

Le emozioni sono importanti

Ecco una vicenda che può avere su di voi un effetto emotivo. La Madre Superiora
convoca le monache per dir loro che nel convento si è verificato un caso di gonorrea. «Sia
grazie a Dio – esclama un’anziana monaca in fondo alla sala, – sono così stufa di
Chardonnay». A questa storiella molta gente, piacevolmente sorpresa, reagisce ridendo.
Questo capitolo cercherà di spiegare le basi nervose di questa e di altre reazioni emotive,
fondamentali per apprezzare il senso della vita.
Ecco alcuni fatti a voi probabilmente sconosciuti. Tirana è la capitale dell’Albania. La
sarcoidosi è una malattia del sistema immunitario caratterizzata dallo sviluppo di piccoli
noduli in vari organi. I vermi platelminti non hanno ghiandole endocrine. Se il resto del
capitolo continuasse con questa noia, probabilmente smettereste presto di leggerlo. Le
persone, di regola, usano percezione e inferenza per acquisire una conoscenza che
ritengono importante, e trascurano isolati frammenti d’informazione che considerano
irrilevanti per la loro vita. Se siete galvanizzati in vista di un viaggio nei Balcani, o vi
preoccupate di un gonfiore dei vostri linfonodi o siete affascinati dall’anatomia degli
invertebrati, è chiaro che cominciate a provare interesse per l’Albania, per la sarcoidosi o
per i platelminti.
Emozioni, eccitazioni e preoccupazioni configurano la nostra conoscenza della realtà
guidandoci nell’acquisizione di informazioni per noi rilevanti. Anche se esisono emozioni
distruttive, come la depressione profonda, che talvolta azzerano il significato della vita,
senza emozioni non si comprenderebbe il senso di ciò che vale, e quindi non ci sarebbe
saggezza.
Questo capitolo descrive i meccanismi cerebrali che formano il senso delle emozioni e
con esso i valori dell’esperienza, la saggezza nel riconoscere ciò che ha importanza, e una
vita piena di significato. Emozioni fondamentali come felicità, tristezza, paura, ira,
disgusto e sorpresa possono essere descritte come processi cerebrali, e così anche
emozioni sociali più complesse, come vergogna, colpa, disprezzo, invidia, orgoglio,
gratitudine. Psicologi e filosofi hanno a lungo discusso se le emozioni debbano essere
considerate 1) come valutazione cognitiva che le persone fanno circa il grado di
soddisfazione delle loro mete, o 2) come percezione del loro stato fisiologico. Vedremo

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come il cervello possa realizzare valutazioni e percezioni simultaneamente, integrandole
dinamicamente con rappresentazioni cognitive come per esempio concetti e credenze.
Tale integrazione è decisiva, come si dirà nei successivi capitoli circa la decisione e
l’azione, per conoscere ciò che dà valore alla vita e la rende degna di essere vissuta e per
esprimere giudizi morali. Si dice spesso che una persona è razionale anziché emotiva.
L’opinione secondo cui le emozioni sarebbero in conflitto con la ragione risale a Platone,
il quale, nel Fedro, dice che è necessario che l’intelletto controlli le passioni come il
cocchiere controlla il cavallo. Ci sono molte vie attraverso le quali gli stati emotivi
possono interferire con la formazione di buone inferenze, dai problemi psichiatrici, come
la mania e la depressione fino a sofferenze quotidiane, come il fatto di essere pieni di
voglie, la debolezza della volontà e l’autoinganno. La comprensione dei processi emotivi
cerebrali aiuta a trattare questi problemi, ma aiuta anche ad apprezzare il fatto che in tutti
i campi, dalle decisioni pratiche alle scoperte scientifiche, le emozioni sono essenziali per
l’efficacia del pensiero.

Il cervello che valuta

La mente non si limita ad avere concetti e convinzioni, ma attribuisce loro anche un


valore 1. Che cosa provate se pensate ai seguenti tipi di cose: bambini piccoli, cani,
cioccolata, carne di manzo, televisione, scarafaggio, e broccoli? Probabilmente le vostre
rappresentazioni mentali di molte di queste cose coinvolgono precisi atteggiamenti
emozionali, positivi o negativi, oppure siete indifferenti ad alcune di esse.
Aspetti diversi relativi a una di queste cose sono accompagnati anche da atteggiamenti
emotivi – ad esempio la riflessione positiva che la cioccolata ha un buon sapore, e quella
negativa che fa ingrassare. Quando i vostri cervelli rappresentano concetti correnti e
opinioni, essi connettono le rappresentazioni con valutazioni positive e negative.
Supponete, come si è visto nei due capitoli precedenti, che il vostro concetto di
cioccolata sia uno schema d’attivazione in una popolazione di neuroni. Questi neuroni
non devono essere necessariamente circoscritti alle aree cerebrali del pensiero verbale,
ma possono includere neuroni di aree relative a processi sensoriali come la vista,
l’odorato, il gusto. Così l’aspetto, il tatto e il sapore della cioccolata sono parte del vostro
concetto di cioccolata, come lo è l’informazione verbale che essa è fatta di semi di cacao.
L’attività di neuroni in regioni differenti della corteccia cerebrale è temporaneamente
coordinata dalle interconnessioni sinaptiche che si verificano grazie a lunghi assoni che
consentono ai neuroni di una regione di eccitare o inibire neuroni presenti in un’altra
area. Questa attività multimodale vi mette nella condizione di riconoscere un boccone di
cioccolata dalle caratteristiche sensoriali, come il gusto, l’odore, e il sapore che lascia in
bocca, che conoscete da precedenti esperienze. Per concetti e convinzioni, simili tipi di
coordinazione avvengono in aree importanti che interessano le emozioni.
Ci sono molte aree cerebrali, ma noi ci concentreremo sulle due che influenzano i
processi emotivi. Innanzitutto consideriamo l’amigdala, una piccola area a forma di
mandorla situata nella parte mediana e basale del cervello, sotto la corteccia (Fig. 5.1).
Registrazioni di scariche di neuroni di animali e visualizzazioni del cervello di esseri

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umani mostrano l’importanza dell’amigdala nelle emozioni, in particolare per quanto
riguarda la paura 2. Ad esempio, l’immagine di un volto che incute spavento mostra nella
visualizzazione cerebrale di cervelli umani un aumento del flusso sanguigno verso
l’amigdala, a conferma del fatto che i suoi neuroni stanno scaricando più rapidamente e
quindi hanno bisogno di carburante. Per questo è verosimile che l’esperienza della paura
generata da un volto che incute spavento richieda l’associazione delle scariche dei
neuroni che visualmente rappresentano la faccia e di quelle dei neuroni dell’amigdala.
Possiamo dire o pensare che la faccia è spaventosa, ma questa è solo la descrizione
verbale dell’esperienza emotiva della paura suscitata dalla faccia. Tutti i mammiferi
hanno l’amigdala, e analoghe regioni cerebrali si trovano nei pesci e nei rettili.
L’amigdala ha connessioni reciproche con molte altre aree del cervello, compresa la
corteccia prefrontale e di conseguenza la popolazione di neuroni dell’amigdala può
incrementare le scariche dei neuroni della corteccia, e viceversa.
Un’altra area del cervello importante per le emozioni è il nucleo accumbens, che si
trova sopra l’amigdala. Se vi piace la cioccolata, probabilmente quando ne mangiate un
pezzo si attiva questa regione del vostro cervello, largamente studiata per il suo ruolo
nell’assuefazione a droghe come alcol e cocaina. Queste due droghe aumentano entrambe
le scariche dei neuroni del nucleo accumbens e delle regioni correlate. La sensazione di
piacere e l’anticipazione degli effetti desiderati sono associate a un circuito di neuroni che
impiega il neurotrasmettitore dopamina, il quale fluisce dall’area segmentale ventrale
attraverso il nucleo accumbens all’area prefrontale 3. Questi circuiti cerebrali sono
reciproci, ed è possibile la retroazione. Per chi, come me, ama la cioccolata, le scariche
nervose associate all’atto di mangiarne un pezzo, sono dovute a neuroni del nucleo
accumbens e di parti del cervello coinvolte in rappresentazioni verbali, visive, e in altre
rappresentazioni sensorie.

91
Figura 5.1. Localizzazione dell’amigdala e di alcune aree cerebrali importanti per le emozioni. Le
localizzazioni sono approssimative, per la difficoltà di riprodurre la struttura tridimensionale del cervello.

Non intendo parlare di tutte le aree del cervello che contribuiscono alle emozioni
umane. È una lunga lista, che comprende la corteccia orbitofrontale (dietro gli occhi), la
corteccia prefrontale ventromediale e l’insula. Più avanti spiegherò come esse lavorino
assieme per produrre le emozioni. È noto, e questo è un punto cruciale, che queste aree
cerebrali ben definite, come il nucleo accumbens e l’amigdala, sono associate ad
emozioni positive e negative, e che queste associazioni si realizzano attraverso scariche
nervose coordinate. I sistemi di scariche nervose che danno luogo a rappresentazioni
come i concetti comprendono le attività di popolazioni di neuroni situati in aree di cui si
sa che sono attive in processi emotivi. Tali associazioni garantiscono che quando il
cervello è impegnato a rappresentare aspetti del mondo, nello stesso momento li valuta.

Valutazione cognitiva contro percezione corporea

Nelle emozioni c’è ben di più che la sola valutazione positiva o negativa, come
abbiamo modo di verificare quando proviamo una grande varietà di sensazioni, quali la
felicità, l’esultanza, la contentezza, la paura, la collera, il disgusto e l’orrore. Filosofi e
psicologi hanno a lungo dibattuto sulla natura delle emozioni, proponendo teorie che
possono essere distinte in due gruppi: la valutazione cognitiva e la percezione corporea 4.
92
Secondo le teorie del primo gruppo, le emozioni sono giudizi relativi al grado in cui una
situazione percepita realizza una scopo personale. Secondo le teorie dell’altro gruppo, le
emozioni non sono giudizi, ma piuttosto percezioni di stati psicologici. Dopo una breve
revisione critica di queste teorie storicamente contrapposte, intendo formularne una
sintesi elaborando un modello relativo a come il cervello combina la valutazione
cognitiva con la percezione corporea. Quando vi succede qualcosa, ovviamente valutate
quanto ciò incida sulla vostra vita. Se vi offrono un buon posto di lavoro, ne siete felici
perché ciò contribuisce allo scopo di aver successo nella carriera e di guadagnare di più.
Secondo l’approccio della valutazione cognitiva delle emozioni, una situazione vi
rende felici se essa contribuisce a raggiungere i vostri scopi, facendovi provare una
felicità tanto maggiore quanto maggiori sono i risultati. La tristezza è l’opposto. Essa sta
ad indicare che una situazione impedisce il raggiungimento dei vostri scopi, come quando
non ottenete il posto di lavoro desiderato o vi offrono un misero aumento di stipendio. La
collera sopravviene quando qualcuno impedisce il raggiungimento dei vostri scopi – ad
esempio quando un collega vi impedisce di aver successo nel lavoro. La paura insorge in
situazioni che mettono in pericolo la vostra sopravvivenza, come quando rischiate uno
scontro perché un’automobile vi taglia la strada. Il disgusto è, fondamentalmente, la
violazione del vostri scopi culinari e del desiderio dell’integrità corporea, come quando
qualcuno tenta di farvi ingoiare cibi per voi repellenti, come per esempio vermi fritti, ma
può estendersi anche a situazioni non alimentari e riguardare, per esempio, atti sessuali
che considerate depravati. In tutti questi casi voi provate un’emozione diversa perché la
valutazione della situazione vi porta a formulare un giudizio della sua rilevanza
relativamente ai vostri scopi.
Emozioni sociali complesse, come la vergogna e l’orgoglio, sembrano coinvolgere una
sorta di valutazione cognitiva in riferimento a scopi connessi alle relazioni con altre
persone. Se compite un’azione come un furto, che va contro le aspettative delle persone a
cui tenete, o che contravviene al codice morale nel quale siete cresciuti, proverete
vergogna o senso di colpa. Queste reazioni sono in parte dovute al giudizio, da voi stessi
formulato, di aver agito in un modo che non vi consente di ricevere l’approvazione altrui.
Se invece vi riesce di raggiungere qualcosa, per esempio di ottenere un riconoscimento in
armonia con i valori che coindividete col vostro gruppo sociale, vi sentirete orgogliosi. La
gratitudine è il sentimento positivo che provate nei confronti di qualcuno che vi ha aiutato
a raggiungere i vostri obiettivi. L’invidia è il sentimento negativo nei confronti di
qualcuno che possiede qualcosa che vorreste avere voi.
Le emozioni sociali richiedono l’identificazione del vostro posto nel contesto sociale e
la valutazione di come una situazione particolare influenzi le altre persone in quel
contesto.
Nondimeno alcuni psicologi e alcuni filosofi rifiutano l’approccio della valutazione
cognitiva a favore dell’asserzione che le emozioni consistono solo di percezioni corporee.
È indubbio che il corpo è una parte importante delle emozioni umane, come è evidente in
caso di emozioni negative come la paura. Supponete di venire a sapere che una persona
che vi è cara è stata coinvolta in un incidente stradale. Il vostro corpo registrerà
modificazioni drastiche, come per esempio l’aumento del ritmo cardiaco e respiratorio,
l’innalzamento della pressione sanguigna e l’innalzamento del livello ematico di
93
cortisolo, cioè dell’ormone dello stress. Queste modificazioni fisiologiche sono sentite
dal corpo e trasmesse ad aree cerebrali come l’amigdala e l’insula. Secondo le teorie della
percezione corporea, le vostre emozioni sono la risposta del cervello a modificazioni
fisiologiche, come si legge in un famoso passo dello psicologo e filosofo americano
William James 5:

L’affermazione più razionale è che ci sentiamo addolorati perché piangiamo, arrabbiati perché
litighiamo, impauriti perché tremiamo, e non che piangiamo, litighiamo, o tremiamo perché
siamo addolorati o arrabbiati o impauriti. Senza le condizioni corporee conseguenti alla
percezione, quest’ultima sarebbe una pura forma cognitiva, pallida, senza colore e senza
calore emotivo. Potremmo così vedere un orso e giudicare che è meglio scappar via, ricevere
un insulto e ritenerlo causa di un litigio, ma non potremmo veramente sentirci impauriti o
arrabbiati.

Che cosa è vero, che le emozioni sono percezioni corporee, o che sono valutazioni
cognitive? Non c’è bisogno di scegliere. Penso che il dibattito fra la valutazione cognitiva
e le teorie della percezione corporea sia simile a quello che riguarda altre due classiche
dispute sulla mente: spiegazione genetica contro spiegazione ambientale del
comportamento, spiegazioni deduttive (top-down) contro spiegazioni induttive (bottom-
up) della percezione. In ognuno di questi dibattiti, entrambe le parti hanno parzialmente
ragione, in modi che iniziano a chiarirsi con lo sviluppo di una ricca teoria relativa alle
modalità con cui le interazioni dinamiche producono la completa gamma dei fenomeni
che devono essere spiegati.
Qui non voglio discutere di natura contro cultura, ma, già nel quarto capitolo, ho
accennato a come la percezione coinvolga processi paralleli e simultanei che combinano
la conoscenza top-down con lo stimolo percettivo. Analogamente, le emozioni possono
essere considerate come interazioni dinamiche di aree del cervello che eseguono sia la
percezione visiva sia la valutazione cognitiva.

Sintesi: il modello EMOCON

Nel tentativo di spiegare la coscienza emotiva, ho sviluppato il modello EMOCON 6


rappresentato nella Fig. 5.2, che mostra le relazioni fra molte delle aree più importanti del
cervello. Le frecce indicano che l’attività delle popolazioni di neuroni in un’area induce
l’attività nervosa di aree connesse. Il disegno mostra, a sinistra, l’informazione percettiva
proveniente dai processi sensoriali, che è simultaneamente inoltrata, via talamo, alle aree
corticali, quali la corteccia prefrontale dorsolaterale dei giudizi cognitivi, e alle aree della
percezione corporea, come l’amigdala e l’insula. Inoltre il talamo influenza processi
corporei come la frequenza cardiaca (assente nella Fig. 5.2). Se il cervello fosse un
processore seriale, come la maggior parte dei computer, dovrebbe alternare processi
cognitivi che elaborano gli impulsi sensoriali cognitivamente con quelli della percezione
corporea, ma l’energia dei processi paralleli consente di eseguirli contemporaneamente. Il
gran numero di connessioni reciproche esistenti fra le aree cerebrali comporta che i

94
risultati dei processi in una parte del cervello siano in grado di influenzare facilmente i
processi che avvengono in altre parti.
La Fig. 5.2 riporta molte delle interazioni fra il sistema della dopamina, che
comprende il nucleo accumbens; il sistema della valutazione cognitiva della corteccia
prefrontale e il sistema della percezione emotiva, che comprende l’amigdala e l’insula.
Non c’è alcun processore centrale che coordini tutti i risultati e porti a una decisione.
Piuttosto, la reazione del cervello a un volto che incute paura, o ad altri stimoli sensoriali,
avviene attraverso l’interazione dinamica della percezione da parte degli organi sensoriali
esterni, di quelli interni e della valutazione cognitiva, positiva o negativa. Si tenga
presente che le connessioni fra aree cerebrali nel modello EMOCON sono reciproche,
basate sull’evidenza nervosa che esiste un’estesa retroazione fra popolazioni di neuroni in
ogni coppia di regioni.

Figura 5.2. Modello EMOCON relativo a come le varie aree del cervello interagiscono per produrre
emozioni come risultati sia della valutazione cognitiva sia della percezione corporea. Abbreviazioni: CPDL
corteccia prefrontale dorso laterale; CPOF corteccia prefrontale orbito frontale; CPVM corteccia
prefrontale ventrolaterale. La linea punteggiata sta ad indicare che la coscienza delle emozioni emerge
dall’attività dell’intero sistema. Vedi la Fig. 5.1 per la corrispondente anatomia del cervello.

Il modello della Fig. 5.2 include la teoria della percezione corporea delle emozioni,
perché tiene conto del ruolo giocato dall’amigdala e dall’insula nel raccogliere stimoli
95
dagli organi sensoriali interni che reagiscono alle modificazioni corporee. Questi effetti
sono il risultato sia dello stimolo sensoriale, convogliato dal talamo e dalle retroazioni fra
processi fisici come il battito del cuore e la respirazione, sia dei processi cerebrali che
avvengono in aree come l’amigdala e l’insula. Le persone propendono per spiegazioni
semplici e lineari: il fattore A causa il fattore B, che causa il fattore C. Ma i sistemi
biologici richiedono spesso complesse interazioni causali basate su retroazioni, cosicché
A e B interagiscono per causare C, che ha poi un’influenza causale su A. Ad esempio, la
funzione del fegato e l’alimentazione fanno aumentare il livello di colesterolo nel sangue,
che a sua volta induce il fegato a produrre meno colesterolo. La comprensione di come il
cervello produce le emozioni richiede l’apprezzamento della complessità delle
connessioni reciproche mostrate nella Fig. 5.2. A causa di tutte le retroazioni, esse
producono processi non lineari. Sebbene le teorie della percezione corporea delle
emozioni, negli ultimi anni, siano diventate popolari, non riescono tuttavia a spiegare
interamente il sistema complesso della fenomenologia emozionale 7. Le correlazioni fra
emozioni come ira e paura e stati fisiologici, quali per esempio l’espressione del volto o
l’eccitazione involontaria, sono deboli. Le sottili differenze fra le varie emozioni non
sono strettamente correlate a stati fisiologici diversi, alla loro importanza, o a particolari
neurotrasmettitori. L’interruzione chirurgica di segnali che partono dal corpo non elimina
le reazioni emotive. Manipolazioni della fisiologia con iniezioni di epinefrina possono
produrre reazioni emotive diverse a seconda di come le persone interpretano la propria
situazione sociale. Emozioni sociali come il senso di colpa o l’orgoglio richiedono la
considerazione della propria posizione all’interno della società. Per questo la valutazione
sociale, per generare l’intera gamma delle reazioni emotive, deve far da complemento
alle percezioni corporee. La percezione corporea rimane, comunque, una parte cruciale
del modello EMOCON, perché senza di essa la valutazione cognitiva non produrrebbe le
sensazioni della coscienza emotiva.
La Fig. 5.2 mostra come l’integrazione della valutazione cognitiva e della percezione
corporea possa avvenire grazie alle interazioni fra l’amigdala, l’insula, e diverse parti
della corteccia prefrontale. La corteccia prefrontale dorsolaterale, situata nella parte
laterale della parte anteriore degli emisferi cerebrali, è importante per i processi verbali e
la memoria di lavoro. La corteccia prefrontale orbitofrontale, situata alla base del cervello
dietro gli occhi, contribuisce, col sistema dopaminico, alla valutazione del valore.
Valutazioni positive e negative, componenti centrali delle emozioni, sono dovute alla
coordinazione dell’attività delle popolazioni di neuroni in quelle aree con l’attività
nervosa in aree preposte alle rappresentazioni verbali o sensoriali. La parte ventromediale
della corteccia prefrontale è importante per la comunicazione fra corteccia e amigdala.
Persone che hanno subito danni in queste aree hanno grandi difficoltà a prendere
decisioni sensate 8.
Teorie psicologiche e filosofiche per le quali le emozioni sono basate su valutazioni
cognitive hanno poco da dire circa i meccanismi cerebrali necessari al fine di valutare
l’importanza di una situazione per il conseguimento degli scopi di una persona. La
valutazione di un chiaro stimolo sensoriale (un uomo armato vi sta prendendo di mira)
può essere relativamente facile, ma la riflessione su una situazione complessa (l’offerta di
un lavoro in una città lontana) può richiedere la valutazione di diversi aspetti e scopi. Nel
96
quarto capitolo descriverò la teoria della valutazione, che richiede una sorta di analisi
parallela di molteplici condizioni, la quale concepisce la valutazione cognitiva come il
soppesare parallelo delle varie condizioni. Pertanto il cervello può portare a termine la
valutazione cognitiva di una situazione con riferimento a molti scopi 9, impiegando lo
stesso tipo di meccanismi descritto nel quarto capitolo per l’inferenza alla miglior
spiegazione.
Perché avvenga la valutazione, i diversi aspetti di una situazione e i diversi scopi sono
rappresentati da varie popolazioni di neuroni. Condizioni positive e negative fra aspetti e
scopi sono determinate da connessioni sinaptiche eccitatrici e inibitrici fra neuroni
appartenenti a popolazioni diverse. La valutazione globale di una situazione, ossia se essa
sia convergente o meno con gli scopi prefissi, avviene grazie a processi paralleli
attraverso l’attività eccitatrice che le popolazioni di neuroni svolgono nel momento in cui
interagiscono. Il valore è parte naturale dell’evento, dal momento che le popolazioni di
neuroni coinvolte nella rappresentazione della situazione e degli scopi personali
comprendono aree come l’amigdala, il nucleo accumbens e la corteccia prefrontale
orbitofrontale, le quali partecipano alla codificazione delle caratteristiche positive e
negative. Un apprezzamento complessivo del valore si ha quando la soddisfazione della
condizione parallela combina le caratteristiche della situazione, degli scopi e dei valori
per calcolare la coerenza emozionale globale della situazione.
La Fig. 5.2 mostra come le percezioni corporee possano contribuire all’apprezzamento
cognitivo e all’accertamento del valore attraverso le interazioni dell’amigdala e
dell’insula con le aree corticali. Pertanto la percezione corporea è parte importante della
condizione parallela che valuta l’importanza delle situazioni in riferimento agli scopi.
Le emozioni non sono solo reazioni, dal momento che esse comprendono anche
giudizi cognitivi. Contrariamente alle teorie puramente cognitive delle emozioni, reazioni
adeguate sono parte della valutazione. Sarebbe sconcertante se si immaginasse che il
cervello procede un passo alla volta per decidere che cosa fare prima e che cosa dopo:
apprezzamento cognitivo o percezione corporea? I tipi d’interazioni dinamiche della Fig.
5.2 mostrano come l’emozione possa essere sia rappresentativa sia incorporata. Come
tutti i modelli, EMOCON è, per molti aspetti, troppo semplice. Ci sono molte altre aree
cerebrali importanti – per esempio l’ippocampo, che svolge un ruolo primario nella
memoria e nell’interpretazione delle situazioni nel contesto delle esperienze pregresse.
La Fig. 5.2 può suggerire che il cervello è una sorta di osservatore passivo in attesa
d’informazioni sensoriali da interpretare. Ma i cervelli sono molto più attivi, poiché sono
in grado di anticipare situazioni che possono indurre all’azione. Il sesto capitolo dirà
molto di più su come le emozioni contribuiscano alle decisioni che possono indurre ad
agire. Nel quarto capitolo abbiamo già visto che la percezione è un processo top-down e
bottom-up, e quindi ogni processo d’informazioni sensoriali nel talamo è condizionato da
attese accumulate nella corteccia prefrontale. Pertanto la Fig. 5.2 non dovrebbe essere
interpretata come se le emozioni fossero solo reazioni a stimoli, ma piuttosto come la
raffigurazione semplificata di un processo di pensiero più complesso che comprende
aspettative e azioni.

97
Coscienza emotiva

Qualcosa d’importante manca ancora in tutti i nostri discorsi sulle interazioni fra aree
del cervello. Noi, in realtà, non abbiamo emozioni, ma le sentiamo, come dice il titolo di
questo capitolo. Conosciamo la sensazione di sentirci felici, tristi, adirati, disgustati,
sorpresi, e così via 10. Dov’è il sentire nel modello EMOCON della Fig. 5.2?
Il nome EMOCON suggerisce che si tratta di un modello di coscienza emotiva, ma
sarebbe una burla se non ci dicesse qualcosa circa l’esperienza cosciente di sentirsi felici
o tristi. Nel terzo capitolo ho espresso l’idea che trovare i meccanismi della coscienza
rappresenti l’ostacolo maggiore per accettare l’inferenza alla miglior spiegazione delle
menti come cervelli. Non intendo, in questo libro, proporre una teoria generale della
coscienza, ma delineare come il modello EMOCON sia in grado di suggerire una
spiegazione meccanicistica della coscienza emotiva.
Il mio scopo non è descrivere solo aspetti delle esperienze emotive, ma dare un’idea di
come le interazioni fra popolazioni di neuroni possano generare e costituire veramente
tali esperienze. Pensate ad un momento recente di felicità, per esempio quello derivato
dalla lettura della barzelletta sul convento di monache raccontata all’inizio di questo
capitolo, o forse ad una gioia ancora maggiore come quella derivante dall’invito a visitare
un caro amico in una città interessante.
Queste esperienze non sono complessi rigidi, chiusi ad ogni ulteriore interpretazione,
bensì hanno vari aspetti identificabili. Innanzitutto, la vostra felicità non era campata in
aria, ma era connessa alla rappresentazione cognitiva del mondo, nel caso particolare del
vostro amico e della sua città. Voi eravate felici di essere stati invitati a far visita al vostro
amico. Secondo, le esperienze emotive coscienti hanno un carattere positivo o negativo:
nel caso dell’invito non è solo una sensazione, ma una buona sensazione. Terzo, le
esperienze emotive coscienti hanno una diversa intensità, nel caso dell’invito dell’amico
si tratta di un’emozione di grado alto a paragone con altre situazioni che vi hanno reso
felici ma non fino a quel punto. Quarto, quest’esperienza emotiva è diversa da altre
emozioni, comprese quelle negative come la tristezza e le versioni più o meno intense
della felicità. Quinto, le esperienze emotive hanno un inizio e una fine: vi sentite felici
quando ricevete l’invito, ma la felicità scompare per il lavoro noioso da portare a termine
prima di partire. Sarebbe insensato tentare di spiegare meccanicisticamente qualcosa di
così vago come sentirsi felici, ma il modello EMOCON ha tante cose da dire sui cinque
aspetti dell’esperienza cosciente ora descritta.
Circa il quinto aspetto, è già stato mostrato il fatto che emozioni come la felicità e la
rappresentazione cognitiva della visita ad un amico possono essere integrate, tramite
l’attività coordinata delle popolazioni di neuroni, in diverse aree cerebrali. Pertanto il
modello EMOCON mostra come le esperienze emotive non sono solo sensazioni, ma
sensazioni circa cose. In secondo luogo, il carattere positivo e negativo dell’esperienza
emotiva è spiegato dal ruolo di particolari aree cerebrali come il nucleo accumbens e
l’amigdala, di cui è nota l’associazione con la sensazione di bene e di male. Sentirsi bene
quando si è felici è un meccanismo nervoso che riguarda particolari regioni del cervello 11
associate alla percezione corporea e alle valutazioni cognitive. In terzo luogo, l’intensità
variabile dell’esperienza emotiva di momenti di felicità può, ovviamente, essere spiegata
98
dal grado di attività di particolari popolazioni di neuroni. Le ricerche mostrano che
quando si è più odiosi sono più attive aree come l’insula, e che la previsione di una
maggior ricompensa s’accompagna all’aumento d’attività del nucleo accumbens 12. Si è
verificata l’ipotesi che l’aumento del grado d’intensità di un’esperienza emotiva
corrisponde all’aumento di velocità delle scariche nervose nelle corrispondenti aree
cerebrali, misurato dalla risonanza magnetica che registra l’aumento di afflusso di
sangue. Ad esempio, la preferenza per la Coca Cola anziché per la Pepsi Cola è correlata
all’aumento di attività nella corteccia prefrontale ventromediale 13. Il legame fra
preferenza e attivazione è più che una correlazione, dato che alcune tecniche come
l’elettrostimolazione di neuroni o la stimolazione magnetica transcranica possono essere
impiegate per stimolare o inibire in vario grado le aree cerebrali.
In quarto luogo, a differenza del valore limitato delle emozioni come percezioni
corporee, il mio modello combinato di emozioni può spiegare come l’esperienza emotiva
possa essere sottilmente differenziata. Le emozioni non insorgono solo con diverse
combinazioni di valutazioni positive/negative e di gradi d’intensità, perché esse
implicano un numero illimitato di valutazioni cognitive riferite a diversi scopi. Esiste un
gran numero di possibili condizioni cerebrali con diverse combinazioni di modelli
d’attività elettrica di miliardi di neuroni presenti in varie aree cerebrali che regolano la
sensibilità del mondo esterno, quella interiore, la valutazione e ne stimano la congruenza
con gli scopi. La grande varietà delle nostre esperienze emotive non è quindi
sorprendente. Le emozioni ambigue, come quelle di genitori orgogliosi e nello stesso
tempo preoccupati quando il figlio va via di casa, sono facilmente spiegate dalla
complessità della soddisfazione nervosa necessariamente limitata quando sono coinvolti
molti scopi.
Infine, le modificazioni dell’esperienza emotiva sono spiegate naturalisticamente dalla
sensitività del modello EMOCON all’esperienza percettiva, che, soggetta a frequenti
variazioni, procura nuovi stimoli all’intero processo della Fig. 5.2. L’inizio e la fine di
esperienze emotive possono essere indotti da processi cognitivi interiori, come quando
improvvisamente vi ricordate di un progetto e vi preoccupate perché siete in gran ritardo.
In questo caso, l’attività nella corteccia prefrontale dà inizio alle reazioni corporee e alle
valutazioni cognitive che generano l’esperienza emotiva. Dal momento che il modello
EMOCON può spiegare tutte queste caratteristiche dell’esperienza emotiva, diventa
plausibile identificare le emozioni con gli stati cerebrali. Il vostro sentirvi felici è un
modulo complesso dei processi neurali indicati nella Fig. 5.2. Le emozioni sono schemi
d’attività che si verificano in molte aree cerebrali che integrano la valutazione cognitiva e
la percezione corporea per produrre l’esperienza cosciente e guidare il comportamento.
Alcuni filosofi risponderanno che non riescono ad immaginare come i sentimenti possano
essere stati cerebrali, e che possono ben immaginare di avere cervelli come i nostri, ma
privi di sentimenti. Già nel secondo capitolo ho argomentato che tali capacità e incapacità
di intendere la mente come cervello non dovrebbero essere prese sul serio, perché ciò che
tentiamo di concepire non è un indicatore della realtà, ma solo la nostra attuale e limitata
comprensione di essa. Io prevedo che il progresso delle neuroscienze renderà sempre più
facile pensare alla mente come cervello e immaginare come il cervello senta le emozioni.

99
Dovrebbe ora esser chiaro come la fede religiosa sia una sorta di coscienza emotiva.
Quando la gente dichiara che la fede assicura loro l’esistenza e la bontà di Dio, la loro
certezza deriva da un intenso sentimento basato sulla coerenza emotiva di quel credo con
i propri fini personali, non dall’inferenza alla miglior spiegazione basata sull’evidenza. I
sentimenti che vengono dal cuore o dalla pancia possono essere molto convincenti,
perché combinano in modo forte la valutazione dell’importanza di uno scopo con la
percezione corporea. Entrambe sono prodotte in maniera inconscia e, com’è mostrato nel
modello EMOCON, diventano coscienti solo come parte di un processo integrato unito
alla memoria di lavoro. Ma la coscienza delle emozioni giustifica il credo della fede solo
quando essa è basata sulla piena valutazione di ipotesi alternative, tenendo conto di tutta
l’evidenza rilevante. Esperienze spirituali e intuizioni filosofiche sono prodotti di processi
cerebrali interattivi e non di fonti di un’evidenza speciale relativa alla natura della mente
e alla realtà.
Il mio interesse in questo capitolo è rivolto solo alle emozioni, ma le spiegazioni
meccanicistiche sono emerse anche per altri tipi di coscienza, in particolare per quella
visiva 14. In antitesi, la spiegazione dualista della coscienza come prodotto di poteri
spirituali ineffabili rimane misteriosa. Pertanto, i fenomeni della coscienza non
costituiscono alcun ostacolo alla conclusione secondo cui le menti sono cervelli. Molte
sono, ovviamente, le domande ancora senza risposta, come quelle, ad esempio, relative al
perché e al come la coscienza si sia evoluta. È facile apprezzare i vantaggi evolutivi che
gli animali acquistano dagli aspetti valutativi delle emozioni, capaci di guidare gli
organismi verso strategie di sopravvivenza e di riproduzione più efficaci. Ma perché il
sentimento dovrebbe essere parte del processo evolutivo? Una possibilità è che la
coscienza emozionale ed altri aspetti della coscienza siano solo sottoprodotti
dell’organizzazione estremamente complessa del cervello, che non apportano alcun
particolare contributo evolutivo. Ma è altrettanto possibile che i cervelli evolvano in
direzione dei sentimenti come rappresentazioni complesse per il contributo che essi
danno all’efficienza individuale e di gruppo. Il sentimento di felicità e quello di paura
possono fornire una sintesi concisa della complessa valutazione inconscia dei vantaggi e
dei pericoli di una situazione. I sentimenti forniscono informazioni succinte anticipando
benefici e rischi, e favorendo così azioni rapide ed efficaci 15. Altri probabili vantaggi
della coscienza emotiva sono di carattere sociale. Essa consente infatti di capire in modo
diretto gli stati emotivi altrui (vedi la discussione sull’empatia presente nel nono
capitolo). Forse saremo in una condizione migliore per identificare il significato della
coscienza emotiva quando si saprà di più circa i meccanismi nervosi che la determinano.

Spiegazioni a più livelli

Emozioni come felicità e tristezza sono processi nervosi, ma ciò non esclude che altri
tipi di meccanismi siano importanti per spiegare eventi come l’intristirsi o l’innamorarsi.
Se buone notizie vi rendono felici, il cambiamento è dovuto a processi nervosi conosciuti,
come l’attivazione del nucleo accumbens. La spiegazione completa della felicità
coinvolge quattro livelli: molecolare, psicologico, sociale e nervoso.

100
Il livello molecolare è importante per capire come lavorano i neuroni 16. È già stato
ricordato il neurotrasmettitore dopamina, impiegato dai neuroni che provocano il senso
del piacere. La scarica elettrica prodotta da uno di questi neuroni non arriva direttamente
ai neuroni che vengono eccitati, ma provoca la liberazione di molecole di dopamina
nell’interstizio sinaptico fra la terminazione del suo assone e i dendriti dei neuroni che
ricevono la scarica. Dozzine di analoghi neurotrasmettitori giocano ruoli simili rendendo
i processi nervosi sia chimici sia elettrici. Il più importante è il glutammato, che
contribuisce all’eccitazione, e il GABA che contribuisce all’inibizione. Nel terzo capitolo
è stato descritto come tali neurotrasmettitori possano essere manipolati con il ricorso a
droghe medicamentose o ricreative. Oltre ai neurotrasmettitori, altri tipi di molecole sono
importanti per spiegare le modificazioni emotive – ad esempio il cortisolo prodotto dalle
ghiandole surrenali in situazioni di stress, e ormoni come gli estrogeni e il testosterone.
Per questo le spiegazioni nervose delle emozioni, come quelle del modello EMOCON,
hanno una base molecolare.
Ma ciò non significa che sia possibile sostituire descrizioni di meccanismi nervosi con
descrizioni di meccanismi molecolari, e questo per due ragioni. La prima è che i
meccanismi molecolari sono troppo complicati per consentirci di descrivere
completamente le modalità con cui fanno lavorare anche un solo neurone. Le operazioni
interne di un neurone sono controllate da migliaia di geni che influiscono sulle interazioni
chimiche di migliaia di proteine e di altre molecole. Molto si sa di come lavorino queste
molecole, ma la complessità delle interazioni è tale che la scienza non sarà mai in grado
di fornire un resoconto meccanicistico completo delle scariche di singoli neuroni, così
come i modelli delle spiegazioni e delle previsioni del tempo atmosferico non potranno
mai essere completi. Per fortuna, non dobbiamo aspettare di comprendere interamente il
meccanismo con il quale i neuroni lavorano, perché ci basta averne un anticipo basato
sulle loro proprietà cruciali: la capacità di accumulare e di trasmettere cariche elettriche.
In secondo luogo, anche se noi riuscissimo ad avere un quadro molecolare completo di
come lavora un singolo neurone, ci mancherebbe egualmente la conoscenza dei
meccanismi in base ai quali reti di miliardi di neuroni interagiscono per produrre effetti
complessi come un’emozione. Per ora, l’approccio migliore ai fenomeni emotivi che
desideriamo descrivere consiste nel cercare le interazioni che avvengono fra regioni
cerebrali e non fra singoli neuroni o popolazioni di neuroni. Anche quando si saprà molto
di più sulle operazioni di singoli neuroni e sulle loro popolazioni, rimarrà comunque più
utile prendere in considerazione le modalità con cui interagiscono aggregati di
popolazioni di neuroni, come quelli presenti in una regione cerebrale, per produrre effetti
psicologici. Per questo le spiegazioni meccanicistiche si completano anziché competere
l’un l’altra.
Allo stesso modo, ritenere che le emozioni siano processi cerebrali non annulla il
valore delle spiegazioni psicologiche. Non intendo le spiegazioni semplicistiche della
gente comune che si riferiscono all’elaborazione popolare di credi e desideri, ma piuttosto
le teorie degli psicologi cognitivi, che spesso trovano utile parlare di rappresentazioni
mentali come concetti, regole, immagini e simili.
Sostenere che i concetti sono moduli di attività nervosa rafforza, anziché eliminare, il
valore esplicativo di tali rappresentazioni. Se voi siete felici per aver vinto la lotteria, non
101
possiamo determinare esattamente che cosa stia succedendo nelle vostre popolazioni di
neuroni, e così la miglior spiegazione disponibile sarà più o meno di questo tipo: siete
felici della vincita perché avete bisogno di soldi. Parte di tali spiegazioni psicologiche
richiede di prestare attenzione al valore positivo che voi riconoscete a concetti come
vincita e soldi. Anche se queste valutazioni hanno una base nervosa, grazie alla
coordinazione fra le popolazioni di neuroni delle rappresentazioni verbali e quelle dei
valori positivi, il livello psicologico della spiegazione rimane importante, perché voi siete
all’oscuro dei dettagli relativi all’attività nervosa e per la rilevanza diretta di concetti
come soldi per gli interessi pratici. Per questo le spiegazioni psicologiche delle emozioni,
così come quella molecolare, possono ben coesistere con quelle nervose, integrandole.
I livelli sociali delle spiegazioni sono molto importanti per le emozioni. Se vincete la
lotteria, ciò ha un rilevante valore sociale, dall’interazione stessa col biglietto che
conferma la vincita, alla gioia di comunicare ad amici e familiari la vostra fortuna. Molti
degli scopi che generano felicità, tristezza e altre emozioni sono di carattere sociale,
legati alle relazioni con coloro che rivestono un ruolo importante nella vostra vita. La
felicità della vincita alla lotteria può derivare non solo dalla considerazione di ciò che
potete fare per voi, ma anche per gli scopi della vostra famiglia. Emozioni sociali come
colpa e orgoglio possono essere comprese solo considerando il vostro ruolo all’interno di
rapporti sociali come quelli rappresentati dalla famiglia, dalle amicizie, e dalle persone
con cui lavorate o giocate.
Nel settimo capitolo si discuterà dell’importanza delle emozioni nell’amore, nel lavoro
e nel gioco. Esse possono essere capite al meglio in termini di interazioni fra livelli di
spiegazione nervosi, molecolari, psicologici e sociali. Da qui la mia difesa della
concezione secondo la quale i processi mentali, come le emozioni, sono processi cerebrali
che non diminuiscono il valore delle spiegazioni sociali, psicologiche e molecolari. Noi
non dovremmo essere né riduzionisti, pretendendo che la spiegazione riguardi un solo
livello fondamentale, né antiriduzionisti, pretendendo che i livelli delle spiegazioni siano
indipendenti gli uni dagli altri. Il miglior approccio alla spiegazione degli eventi mentali
impone di fare attenzione a diversi livelli, da quello sociale a quello molecolare, e alle
loro interazioni. I processi nervosi, come quelli che portano alle emozioni, sono
chiaramente condizionati sia dalle reazioni biochimiche dei neurotrasmettitori sia dalle
relazioni sociali 17.
Per fare un esempio chiaro, pensate a quel che succede quando un vostro amico,
improvvisamente, prende ad insultarvi e a minacciarvi. La vostra reazione emotiva di
paura e di collera si comprende considerando tutto quel che qui segue: (1) scariche di
popolazioni di neuroni in aree cerebrali come l’amigdala, (2) aumento dell’effetto, nel
vostro cervello, di molecole come quelle di adrenalina e di cortisolo; (3) valorizzazione di
concetti come insulto e pericolo; (4) interazione sociale col vostro amico, che porta la
reazione emotiva al primo posto. La spiegazione completa della paura mette in rilievo
l’importanza delle modificazioni molecolari nel determinare le modificazioni nervose e
delle modificazioni psicologiche nel determinare quelle sociali; ma sottolinea anche come
i meccanismi siano correlati fra loro biunivocamente. Ad esempio, un’interazione sociale
minacciosa provoca la modificazione molecolare dell’aumento di cortisolo. I livelli di
spiegazione sono intrecciati, non semplicemente riduzionistici. Il rifiuto del riduzionismo
102
incondizionato non deve portarci ad abbracciare un antiriduzionismo cieco, che ignora
come i gruppi sociali siano formati da persone, a loro volta costituite da organi come il
cervello, che consistono di neuroni, che consistono di proteine e di altre molecole.

Razionalità e sventure affettive

Che il pensiero sia generalmente emotivo è dimostrato da diversi generi di evidenza,


da studi psicologici sui legami generali fra valutazioni e concetti e da studi sulle
interconnessioni che si verificano fra le regioni della corteccia cerebrale e i centri
dell’emotività, come l’amigdala. Ma lo scopo principale di questo libro non è descrivere
solo fenomeni psicologici, ma trattare questioni filosofiche normative circa il significato
della vita. Da qui la domanda: è un bene o un male che il pensiero sia emotivo?
È diffusa la convinzione che le emozioni siano un male per noi 18. Platone, nella
metafora dell’auriga, oppone frequentemente l’«emotivo» al «razionale». Molte persone
credono che bambini e donne siano emotivi, ma che i veri uomini non piangano. Forse
dovremmo considerare le emozioni come intrusioni fastidiose nella razionalità del
pensiero, al pari della fame, della sete, e della necessità di andare in bagno. La saggezza
derivante dalla razionalità consisterebbe nel minimizzare il ruolo delle emozioni,
superando la loro irritante interferenza col pensiero rigoroso basato sulla logica.
Sebbene io sia contrario alla completa rimozione delle emozioni dal pensiero
razionale, desidero comunque riesaminare alcuni dei modi in cui le emozioni possono
veramente impedire di perseguire saggiamente una vita colma di significato. Sono
almeno cinque le sventure affettive che possono far deviare seriamente il nostro pensiero
dalla razionalità: l’inferenza motivata, l’autoinganno, la debolezza della volontà, la
depressione e l’esuberanza maniacale.
Nel secondo capitolo ho descritto come l’inferenza motivata possa interferire con la
valutazione obiettiva dell’evidenza. Le inferenze sono motivate quando sono influenzate
da nostri scopi personali, come quando le persone si affidano a trattamenti medici non
verificati, nella speranza di migliorare le proprie condizioni fisiche. Simili inferenze
motivate sono chiaramente emozionali, perché la convinzione che il trattamento
funzionerà si basa sullo scopo di sentirsi meglio e non sull’evidenza della sua efficacia.
La maggior parte di noi è incline a prestar fede a ciò che ci rende felici. Tali inferenze non
sono, di regola, pure illusioni, dal momento che la gente ci crede non perché ignori del
tutto l’evidenza, ma perché valorizza l’evidenza che conferma ciò in cui crede 19. Ad
esempio, se un amico vi dice che una medicina erbacea è d’aiuto contro il raffreddore, il
vostro desiderio emotivo di evitarlo vi può portare a valorizzare il piccolo frammento di
evidenza più di tutti i numerosi studi che provano che quella sostanza è inefficace.
L’inferenza motivata può contribuire all’autoinganno, che si verifica quando si
costruisce un credo ignorando le evidenze contrarie. Ad esempio, voi potete pensare di
essere una persona coscienziosa, anche se siete coscienti di ignorare spesso i vostri
impegni. Alcuni filosofi si sono arrovellati nel cercare di capire come sia possibile
l’autoinganno, dal momento che sono dell’opinione che la gente abbia la capacità di
esaminare razionalmente l’insieme delle proprie convinzioni. Ma il pensiero non ha

103
accesso diretto al numero immenso delle nostre rappresentazioni e dei nostri processi
nervosi, cosicché non sorprende che possiamo ingannare noi stessi con inferenze
motivate ad alcune conclusioni che l’evidenza disponibile dovrebbe indurci a rifiutare.
L’inferenza motivata può contribuire a far prendere cattive decisioni a causa di conflitti
d’interesse 20, come quando un medico esperto testimonia erroneamente a favore
dell’efficacia di un medicamento, pur sospettando che l’evidenza a suo favore sia debole.
Un’afflizione ancora più frequente è la debolezza di volontà, che si manifesta quando vi
sorprendete a far qualcosa di cui sapete che non è nel vostro miglior interesse 21.
Situazioni di questo tipo che fanno parte dell’esperienza comune sono nutrirsi di cibi
grassi, bere troppo alcol, scommettere cifre superiori alle proprie disponibilità, praticare
sesso rischioso, stare pigramente davanti al televisore anziché portare a termine lavori
arretrati. Tali debolezze diventano frequenti sotto il forte influsso emotivo di attività
come mangiare, bere, scommettere, fare sesso e sotto l’impulso di sottrarsi ai doveri
domestici. Anche se il nostro pensiero cosciente può riconoscere un valore più alto a fini
come la salute, la morale, la produttività, i meccanismi emotivi del cervello possono
condurci in una direzione che, tutto considerato, preferiremmo evitare. La debolezza della
volontà è favorita dal fatto che i meccanismi nervosi scatenati dalla prospettiva di
ricompense immediate non sono gli stessi che si verificano nel caso di ricompense
posposte. Il sistema dopaminergico del mesencefalo viene preferibilmente attivato da
decisioni che riguardano le ricompense immediatamente disponibili, mentre aree corticali
lateroprefrontali e parietali posteriori sono uniformemente attive in scelte a breve e lungo
termine. Le persone sono particolarmente predisposte a fare scelte sbagliate quando sono
stanche, stressate e poste a confronto con stimoli sensoriali accattivanti. La corteccia
prefrontale dice: no, il nucleo accumbens dice: sì, sì, sì!
Molte persone soffrono occasionalmente o cronicamente di depressione, uno stato di
tristezza invasiva nel quale non si vede che valore possa avere qualunque cosa 22. Una
persona depressa può smarrire il piacere per attività che prima lo deliziavano e può
scivolare nell’inedia. La depressione può indurre a prendere cattive decisioni a causa di
convinzioni incongruenti con l’evidenza manifesta – ad esempio la vostra storia di
successi e di soddisfazioni per i risultati raggiunti. La terapia cognitiva è spesso un aiuto
efficace per cambiare le convinzioni di persone che hanno perso la speranza. È possibile
coadiuvare la terapia con farmaci, che intervengono sul cervello modificando il livello di
neurotrasmettitori, come la serotonina, e aumentando la genesi di nuovi neuroni
nell’ippocampo. All’altro estremo, alcune persone hanno attacchi di mania, che è una
condizione di grande eccitazione in cui tutto sembra possibile 23. In casi estremi, persone
nella fase maniacale della psicosi maniaco-depressiva possono incorrere in rischi
pazzeschi, come guidare in modo spericolato o praticare sesso rischioso.
Una forma più moderata di mania è l’esuberanza irrazionale di persone talmente
eccitate da prospettive finanziarie o sentimentali da ignorare ogni cautela.
Le bolle finanziarie, come il boom del mercato azionario alla fine degli anni Novanta e
del mercato immobiliare americano negli anni 2000, furono alimentate da un’esuberanza
irrazionale, perché la gente si convinse del fatto che ciò che stava aumentando di valore
avvrebbe continuato a farlo indefinitamente.

104
Gli effetti negativi dell’inferenza motivata, come l’autoinganno, la debolezza della
volontà, i conflitti di interessi, la depressione e l’esuberanza maniacale – e afflizioni
affettive, come le paure immotivate – alimentano l’opinione classica secondo cui le
emozioni sono un ostacolo al pensiero razionale. Le afflizioni dell’affettività rendono
poco plausibile l’idea romantica in base alla quale i nostri sentimenti sono di per sé buoni
ed è bene assecondarli. Io non condivido certamente l’opinione di chi afferma: «Se ti fa
stare bene, credici».
Ci sono buone ragioni che spiegano perché il classico percorso verso la saggezza
basato su emozioni rinunciatarie o irresistibili non sia praticabile. Innanzitutto, non è
possibile spegnere i meccanismi emotivi che collegano i processi nervosi dell’inferenza
con quelli della valutazione, che impiegano interconnessioni con aree cerebrali come il
nucleo accumbens e l’amigdala. Non è possibile prendere una decisione in una
condizione che sia completamente priva di emozioni, come non è possibile separare
l’emisfero cerebrale destro da quello sinistro senza un intervento neurochirurgico
devastante. In secondo luogo, se voleste sottoporvi volontariamente ad una sorta di
amputazione delle emozioni, paghereste un costo enorme. Ridurreste ampiamente la
suscettività alle varie afflizioni, ma la mutilazione vi farebbe perdere gran parte del senso
che avvertite nel fare qualunque cosa. Anche il lavoro intellettuale diventerebbe futile,
senza la gioia della scoperta, il timore del fiasco, e la soddisfazione del cauto progresso.
Senza i processi emotivi cerebrali che legano le rappresentazioni dei concetti e le
convinzioni all’accertamento dei valori, si perderebbe la permanente valutazione della
situazione e delle opzioni che guidano la ricerca di ciò che si persegue. Tutti gli eventi e
le teorie sarebbero egualmente insignificanti e tutto ciò che avviene sarebbe banale.
Pensieri ed azioni sarebbero privi di motivazione.
Come un computer incapace di avvertire se è acceso o spento, il cervello non sarebbe
in grado di decidere ciò che merita di essere pensato e fatto. Tutte le ragioni che saranno
presentate nel settimo capitolo per spiegare perché la vita meriti di essere vissuta,
svanirebbero. Pertanto la strategia classica dell’emozione che domina o che paralizza non
è la giusta rotta verso la saggezza.
Allora, che cosa dobbiamo fare se vogliamo essere sia razionali sia emotivi? Prendete
l’esempio dell’alimentazione, che, se scegliete di nutrirvi con cibi sani, evitando quelli
dannosi per la salute, può tradursi in un’impresa assai razionale. Così come non potete
eliminare il pensiero emotivo, allo stesso modo non siete fisiologicamente in grado di
rinunciare al mangiare, il cui valore metabolico è imprescindibile a dispetto del danno
che il cibo troppo abbondante e nocivo può provocare.
La scienza della nutrizione ci insegna come mangiare con moderazione in modo da
rafforzare e non compromettere la nostra salute. Trovo che il suggerimento di Michael
Pollan sia semplice e nondimeno valido: «Mangia non troppo cibo, e soprattutto di
origine vegetale 24». Analogamente io propongo questa regola: senti, non troppo
fortemente, le emozioni, e soprattutto quelle felici. Noi abbiamo bisogno di emozioni per
dare senso e orientamento alle nostre inferenze, ma l’intensità delle emozioni dovrebbe
essere proporzionata alla loro importanza per il raggiungimento dei nostri scopi, che
devono essere coerenti con i nostri interessi e con le nostre convinzioni fondate
sull’evidenza. Il sesto capitolo descrive il processo della decisione nei termini della
105
coerenza di scopi e azioni. Emozioni negative come la paura, l’ira e la tristezza sono
ineliminabili, ma ci sono motivazioni più efficaci e piacevoli, che vengono da emozioni
positive come per esempio le molte forme di felicità 25.
La mia regola sulle emozioni sarebbe priva di scopo se esse fossero, come spesso
sembrano, forze interamente fuori dal nostro controllo. Come si può evitare di avvertire la
piena forza delle emozioni e inclinare verso le sensazioni proprie delle emozioni positive
anziché di quelle negative? Risposte a queste domande sono più materia di psicologia
clinica che della mia indagine filosofica, anche se il modello EMOCON dà utili
suggerimenti in proposito.
La percezione corporea del modello suggerisce che noi dovremmo essere in grado di
modulare le emozioni modificando il nostro stato fisico, e che ciò è effettivamente
possibile. Meditazioni e altre tecniche rilassanti possono essere impiegate per calmare la
respirazione e il ritmo del cuore, contribuendo così a contenere emozioni negative come
l’ansia. L’esercizio fisico è eccellente per mitigare lo stress modificando le condizioni del
corpo. Le emozioni possono essere modulate attraverso modificazioni della valutazione
cognitiva, e le tecniche psicologiche, come la terapia cognitiva e quella razionale-
emotiva, sono d’aiuto per esaminare criticamente convinzioni e scopi così da migliorare
significativamente lo stato d’animo. Farmaci impiegati per trattare l’ansia come il Valium
o lo Xamax modificano i processi nervosi, ma possono anche alterare eventi corporei
come il battito cardiaco.
Pertanto, le emozioni insorte come combinazione di percezione corporea e valutazione
cognitiva possono essere modificate agendo con comportamenti e trattamenti su una o su
entrambe. Talvolta possiamo evitare l’afflizione affettiva della debolezza della volontà
attivando l’amigdala in modo che collabori con la corteccia prefrontale contro il nucleo
accumbens, come quando il timore di un danno alla salute aiuta a vincere la tentazione di
mangiare o bere troppo.
Sul versante più propriamente filosofico, si può chiedere, in punto di norma, come
dovrebbero comportarsi le persone per ridurre l’impatto delle afflizioni affettive
sull’esistenza sforzandosi d’essere razionalmente emotive.
Innanzitutto si può essere consapevoli dell’impatto delle emozioni su di sé e su gli altri
tenendo presenti le frequenti inferenze motivate, le debolezze della volontà e gli
autoinganni. Spesso è più facile riconoscere questi errori nel prossimo che in se stessi, e
per questo è importante che familiari e amici ci facciano presenti le nostre deviazioni
emotive.
In secondo luogo, le persone hanno bisogno di modelli normativi di buona inferenza
che siano psicologicamente naturali – per esempio l’inferenza alla miglior spiegazione
così com’è descritta nel secondo capitolo. Con tali modelli ci si può facilmente porre le
domande rilevanti circa l’intero campo dell’evidenza e le spiegazioni alternative.
Strumenti tecnici propri della razionalità, come la teoria della probabilità, possono essere
di grande aiuto in situazioni in cui i dati siano suscettibili di inferenze statistiche, anche
se tali strumenti devono essere incorporati in una più ampia comprensione del pensiero
basato sull’evidenza.
Infine, c’è bisogno d’essere consapevoli di come si possa ottimizzare la cognizione
emozionale nel contesto sociale, affidandosi, per motivare le persone, ad emozioni
106
positive come l’entusiasmo, anziché a quelle negative come ira e paura. Spero che queste
tre strategie, assieme alle modifiche della percezione corporea e della valutazione
cognitiva, possano aiutare a diventare più razionalmente emotivi e più emotivamente
razionali.

Conclusione

Negli ultimi due decenni la neuropsicologia ha fatto grandi progressi nella


dimostrazione del fatto che emozioni, come la felicità e la paura, sono processi nervosi.
Le rappresentazioni mentali sono multimodali, non solo perché comprendono vari
generi di rappresentazioni sensoriali, come quelle descritte nel quarto capitolo, ma anche
perché includono aspetti di valore emotivo.
Il cervello integra le percezioni corporee con valutazioni cognitive in un’esperienza
che comprende una vasta gamma di emozioni cruciali per agire, che hanno, inoltre,
un’influenza notevole su quali inferenze facciamo e su come le facciamo, nel bene e nel
male. Le buone influenze emotive sono i valori che le emozioni collegano a ciò che
conosciamo e che desideriamo conoscere, mettendoci nella condizione di acquisire
convinzioni che possono essere importanti per i nostri scopi, anziché le innumerevoli
convinzioni fastidiose e irrilevanti che possiamo acquisire con l’osservazione e
l’inferenza.
Sfortunatamente, le emozioni ci possono anche indurre a trascurare i buoni principi
dell’evidenza e indurci a convinzioni che soddisfano innanzitutto i nostri fini e i nostri
pregiudizi. Per superare quest’afflizione dell’inferenza motivata, dobbiamo essere
consapevoli di come buoni canoni della ragione, come l’inferenza alla spiegazione
migliore, possano essere indeboliti da distorsioni emotive. Inoltre, dobbiamo condurre le
nostre emozioni verso direzioni positive, come si vedrà nell’ottavo capitolo.
La neuropsicologia sta iniziando a fornire spiegazioni circa la maggior parte degli
aspetti enigmatici del pensiero emotivo, di altri generi di pensiero e dell’esperienza
cosciente.
Un modello del cervello come EMOCON impiega i meccanismi nervosi per spiegare
come le esperienze emotive siano integrate con le cognizioni, siano collegate a
valutazioni positive e negative, siano d’intensità variabile, siano molto diverse, e il modo
in cui cominciano e finiscono.
Un resoconto completo delle emozioni deve prestare attenzione non solo ai
meccanismi nervosi che gestiscono le interazioni delle aree cerebrali e di altri processi
corporei, ma anche ai meccanismi complementari della spiegazione. Si cominciano a
capire sempre più gli aspetti biochimici dei processi nervosi, che comprendono i geni e le
molecole attive dentro e fra i neuroni. Il livello psicologico della spiegazione, relativo alle
rappresentazioni mentali come gli scopi, i concetti, le convinzioni, rimane utile per
descrivere gli effetti globali dei processi nervosi.
Le cause delle emozioni sono spesso sociali, e sono pesantemente influenzate dalle
nostre interazioni con gli altri. Ritenere che le emozioni siano processi cerebrali non

107
trascura l’importanza dei livelli sociali, psicologici e molecolari nel dar conto del
comportamento emotivo.
Il resoconto neuropsicologico delle emozioni esposto nel presente capitolo è essenziale
per comprendere il resto del libro. Se esso è corretto, le emozioni non sono supplementi
del pensiero, ma parte integrale di tutti gli aspetti del pensiero valutativo. Le emozioni
giocano un ruolo cruciale nel prendere decisioni e nell’azione, che sono i temi del
prossimo capitolo, il quale esplora i meccanismi nervosi sottostanti le scelte umane.
Nel nono capitolo saranno descritti i contributi di questi meccanismi al pensiero
morale, che ci mettono in grado di prenderci cura del prossimo e di elaborare decisioni
etiche nei suoi riguardi. Anche il pensiero emotivo è integrato nella saggezza, che ho
descritto come conoscenza di ciò che importa, e del perché importa, e di come è possibile
raggiungerla. L’importanza che le cose hanno per noi è dovuta alle emozioni che ci
suscitano, sia le cose positive che desideriamo, sia quelle negative che non vogliamo.
Nel settimo capitolo si descriverà come i tre maggiori campi della vita umana – amore,
lavoro, e gioco – rendano la vita degna d’essere vissuta. Le percezioni del valore sono
eminentemente emotive, e si vedrà che i meccanismi nervosi rendano possibili tipi di
piacere (e talora di pena) che derivano dalle relazioni sociali, dall’attività produttiva e dai
divertimenti. Obiettivi come il matrimonio, l’impiego, lo sport, le arti dipendono tutti
fortemente dai tipi di esperienze emotive descritte in questo capitolo.
Nel secondo capitolo si è sostenuto che il pensiero dovrebbe basarsi sull’evidenza, ma
ora dovrebbe essere altrettanto chiaro che esso dipende allo stesso modo dalle emozioni.
Uno dei problemi centrali della razionalità è come combinare questi due versanti del
pensiero umano. Shakespeare chiede, nel Mercante di Venezia: «Ditemi, dove nasce
Amore? Nel cuore o nel cervello?». La mia risposta è che il pensiero ha bisogno, per
essere pienamente efficace, di integrare cognizione ed emozione, e che noi disponiamo di
meccanismi cerebrali che eseguono questa integrazione al meglio, quantomeno per la
maggior parte del tempo. Si vedrà ora se questa integrazione avviene anche quando si
prendono decisioni.

1
Cfr. Fazio 2001; Zajonc 1980; Montague 2006.
2
Cfr. LeDoux 1996; Phelps 2006. Sulla neuroscienza delle emozioni cfr. Panksepp 1998; Davidson et
al. 2003; Rolls 2005.
3
Cfr. Knutson – Greer 2008.
4
Per i teorici della valutazione cognitiva cfr. Nussbaum 2001; Oatley 1992; Scherer et al. 2001. Per i
teorici della percezione corporea cfr. Damasio 1994; James 1884; Prinz 2004.
5
Cfr. http://psychclassics.yourku, ca/James/emotion.htm
6
Cfr. Thagard – Aubie 2008. Vedi inoltre il modello dello spazio neuronale di Changeux 2004, quello di
Grandjean et al. 2008, e la teoria della coscienza di Rolls 2005. La coscienza emotiva è una proprietà
emergente delle reti nervose, quindi di tutto un sistema e non di singoli neuroni. Cfr. Bunge 2003. Problema
aperto è come si collegano le varie aree cerebrali.
7
Cfr. Barrett 2006; Rolls 2005.

108
8
Cfr. Thagard 2006, cap. 6.
9
Per i dettagli neurocomputazionali cfr. Thagard – Aubie 2008; Eliasmith – Thagard 2008; Wagar –
Thagard 2004.
10
Sugli argomenti filosofici relativi all’impossibilità della scienza di affrontare il problema di che cosa
significhi essere felici o tristi, o la domanda generale di che cosa significhi essere qualcosa cfr. Nagel 1979;
Chalmers 1996.
11
Cfr. Phan et al. 2004.
12
Cfr. Zeki – Romaya 2008; Knutson et al. 2001.
13
Cfr. McClure et al. 2004; Montague 2006.
14
Cfr. Damasio 1999; Koch 2004; Tononi – Koch 2008.
15
Cfr. Schwartz – Clore 2003; Loewenstein et al. 2001.
16
Cfr. Thagard 2006, cap. 7; Lodish et al. 2000.
17
Cfr. Bechtel 2008; Craver 2007; McCauley 2007; Thagard 2006.
18
Per il contributo positivo delle emozioni alla razionalità cfr. Damasio 1994; de Sousa 1988; Frank
1988; Thagard 2006.
19
Cfr. Kunda 1990.
20
Cfr. Thagard 2007c.
21
Cfr. McClure et al. 2004.
22
Cfr. Kramer 2005.
23
Cfr. Goodwin – Jamison 2007.
24
Cfr. http://www.nytimes.com/2007/01/28/magazine/28nutritionism.t.html.
25
Sulle motivazioni piacevoli ed efficaci cfr. Seligman 2003.

109
6
Come i cervelli decidono

Grandi decisioni

Tra le decisioni più ardue della vita ci sono la scelta della carriera, il cambio del
mestiere, il momento della pensione, il matrimonio, il divorzio, l’avere figli.
La teoria matematica della decisione dovrebbe aiutare nelle scelte difficili, ma a questo
proposito è molto significativa una storiella su Howard Raiffa, uno dei fondatori della
teoria. Si tratta di una sua conversazione col noto filosofo della scienza ed esperto di
teoria della probabilità Ernest Nagel. Non ricordo chi mi ha riferito l’episodio, ma, dopo
averlo raccontato, anni fa, all’Università di Tel Aviv, una persona presente fra il pubblico,
che era stato uno studente di Nagel, disse d’averla sentita da lui. Un giorno Nagel, fuori
dal suo ufficio alla Columbia University, incontrò Raiffa che borbottava: «Che cosa devo
fare?». Nagel gli chiese quale fosse il problema, e Raiffa gli disse che aveva ricevuto
un’offerta di lavoro e che non sapeva decidersi se accettarla o meno. Volendo essergli
d’aiuto, Nagel gli disse: «Howard, tu sei uno dei maggiori esperti al mondo del processo
decisionale. Perché non tracci l’albero delle decisioni con tutti i rami delle possibili
azioni e risultati, usando poi la teoria delle probabilità per calcolare i vantaggi e per
arrivare alla decisione?». Raiffa, seccato, gli rispose: «Ernest, si tratta di una cosa seria!».
Se mai avete cercato di prendere una decisione importante circa carriera e relazioni
personali usando simili metodi quantitativi 1, avrete certamente provato la stessa
frustrazione.
Decisioni importanti, come quelle della carriera, sono di per sé emotive sotto vari
aspetti. In primo luogo, quando prendete una decisione, la valutazione dell’attrattività dei
possibili risultati della scelta è raramente quantitativa, ma implica piuttosto una qualche
forma d’immaginazione emotiva.
Se l’offerta di lavoro comporta il trasferimento in California, potete rallegrarvi del bel
tempo, ma anche preoccuparvi per gli alti costi delle abitazioni e per il traffico
congestionato. Il clima soleggiato ha un effetto emotivo positivo sulla maggioranza della
gente, mentre le spese ingenti e il restare bloccati nel traffico hanno un influsso negativo.
Nel cervello, tali valutazioni sono dovute all’attività cerebrale descritta nel capitolo
precedente, difficilmente esprimibile con i numeri.

110
In secondo luogo, il processo decisionale suscita spesso emozioni come ansia o
eccitazione. Prendere decisioni richiede il bilanciamento costi/benefici, ma solo
raramente è possibile allestire un programma che faccia i calcoli per voi. Uno dei molti
paradossi dello studio empirico del prendere una decisione è che la persona posta davanti
alla scelta fra due opzioni eccellenti, come due ottime offerte di lavoro, può provare
un’intensa ansia a causa del conflitto in cui si trova, anziché la gioia di sapere che il
risultato sarà buono in ogni caso. Lo scarto di una delle opzioni può riportare serenità.
Infine, il risultato di una decisione ha spesso un valore emozionale positivo legato alla
o alle azioni che alla fine hanno prevalso. Se Raiffa alla fine decise di lasciare New York,
egli, nel suo conflitto interiore, trovò probabilmente buona la scelta di andare e non
buona quella di rimanere alla Columbia.
La considerazione dei vantaggi e degli svantaggi dovrebbe alla fine risolversi con un
insieme di sensazioni emotive positive sui risultati della scelta. Le emozioni sono: (1)
stimoli alle decisioni attraverso la valutazione delle loro componenti; (2)
fiancheggiamenti del processo decisionale; e, (3) risultati del processo che comprende
sensazioni sull’atto della scelta e sensazioni di soddisfazione o insoddisfazione sulla
decisione presa.
Questo capitolo allargherà la discussione sulle emozioni svolta nel capitolo
precedente, per fornire un quadro generale di come il cervello prenda le decisioni che
conducono all’azione. Si traccerà innanzitutto un resoconto del processo decisionale
come inferenza al miglior progetto, in analogia con l’inferenza alla miglior spiegazione di
cui s’è parlato nel secondo capitolo 2. Poi si descriverà come il cervello possa portare a
termine tali inferenze usando i meccanismi della valutazione emotiva dianzi descritti. La
valutazione delle azioni richiede il giudizio su come esse contribuiscano agli scopi; ma
quali sono gli scopi e da dove vengono? Si traccerà un abbozzo di come gli scopi siano
acquisiti e modificati nel corso del processo decisionale, e si discuterà la relazione fra
decisione e azione, sostenendo che la libera volontà è un’illusione di cui possiamo fare a
meno.
Questo capitolo si occupa non solo della descrizione delle modalità con cui le persone
prendono decisioni, ma anche della questione normativa relativa a come si dovrebbero
prendere le decisioni. In particolare si esplora la questione di come talora gli scopi
debbano essere modificati, in modo da contribuire a una maggior saggezza e ad una vita
più ricca di significato.

Inferenza al progetto migliore

Supponete di dover decidere che cosa mangiare questa sera. Le scelte vanno dal
cucinare a casa, all’andare in uno dei tanti ristoranti tipo fast food, gourmet, o in una
qualunque trattoria. Dovete scegliere fra almeno quattro soluzioni, tenendo conto di una
varietà di scopi come ad esempio quelli di assaporare un cibo prelibato, mangiare sano,
spendere parecchio, non sprecare tempo ed energia. La decisione non è, comunque, solo
un’inferenza alla migliore azione, perché essa comporta che si esegua più di un’azione.
Ad esempio, se decidete di cucinare a casa, dovete andare al supermercato per acquistare

111
il cibo – un’opzione che richiede due o più azioni che costituiscono un piano. Dovete
scegliere il progetto migliore, vagliando l’intera gamma di opzioni e di scopi. Se sono
coinvolte altre persone, le scelte possono diventare più complicate, perché cenare in
gruppo comporta la necessità di tenere presenti non solo i vostri ma anche gli scopi degli
altri.
Il secondo capitolo illustra l’opinione secondo cui le convinzioni sono accettate o
rifiutate sulla base dell’inferenza alla miglior spiegazione, che si acquisisce valutando
ipotesi in competizione in riferimento a quanto sia convincente la loro spiegazione
dell’evidenza. Analogamente, io propongo l’opinione secondo cui le decisioni sono prese
sulla base dell’inferenza al piano migliore, che è elaborato soppesando come le azioni in
competizione raggiungano tutti gli scopi rilevanti. Nella valutazione teorica, desideriamo
arrivare a comprendere quale insieme d’ipotesi dimostri la maggior forza esplicativa,
mentre, nel prendere la decisione, dobbiamo trovare quale sequenza di azioni porti alla
massima realizzazione dei nostri scopi. Nessuna delle due valutazioni può basarsi sulla
semplice conta dei frammenti d’evidenza o sul numero degli scopi, a causa delle
complicate interazioni fra gli elementi valutati. Il secondo capitolo descrive come
l’accettabilità di un’ipotesi dipenda dalla sua coerenza complessiva, non solo con quello
che spiega, ma anche con l’ipotesi che la spiega. Inoltre la coerenza deve considerare
come un’ipotesi si combini con altre ipotesi per completare le spiegazioni, e come essa
sia in competizione con spiegazioni alternative dell’evidenza. Alla stessa stregua,
l’accettabilità di un’azione dipende dalla sua coerenza globale con un intero insieme di
azioni e di scopi, singolarmente valutati. Se decidete di cenare a casa, la decisione può
dipendere da molteplici gerarchie di scopi. Ad esempio, potete desiderare di mangiar sano
per soddisfare lo scopo di evitare malattie, cha a sua volta contribuisce ad allungare la
vita. Inoltre, potete desiderare di mangiare a buon mercato per soddisfare lo scopo di
risparmiare per potervi poi permettere un viaggio all’estero, che a sua volta contribuisce
allo scopo di svagarvi. In alternativa, potete andare al ristorante perché tutti questi
propositi sono sovrastati da quelli più pressanti di mangiare in fretta e di evitare la fatica
di fare la spesa e cucinare.
L’inferenza al miglior progetto raggiunge il massimo della semplicità quando accettate
un’azione come il mezzo migliore per soddisfare i vostri scopi. Ma essa, di regola,
richiede di valutare contemporaneamente tutti i sistemi di azioni e di scopi in
competizione. A parole, suona piuttosto misterioso, ma esistono algoritmi computeristici
che servono a valutare proprio questi generi altamente connessi di coerenza 3.
Ci sono algoritmi che usano reti nervose semplici per valutare la coerenza, e altri che
possono essere calibrati per lavorare in reti biologiche più realistiche. Sebbene l’inferenza
alla miglior spiegazione e quella al miglior progetto siano strutturalmente simili, la
differenza maggiore fra le due è di natura psicologica e concerne il ruolo dell’emozione.
La valutazione di un’ipotesi è, in parte, un processo emotivo, in cui abbiamo bisogno
di emozioni che ci guidino verso ciò che le inferenze sono in grado di fare, accettando
una teoria altamente coerente che procuri piacere. Ma la valutazione fondamentale del
grado di coerenza di un insieme d’ipotesi in riferimento all’evidenza e alle spiegazioni
alternative non dovrebbe essere distorta dalle varie inferenze motivate di cui si è discusso

112
nel precedente capitolo. Ipotesi ed evidenza richiedono di essere giudicate secondo il loro
grado di corrispondenza con la realtà e non dal fatto che ci rendano felici o meno.
Il punto cruciale dell’inferenza al miglior piano è, invece, il suo contributo positivo
alla felicità e alle altre emozioni. È psicologicamente evidente che il raggiungere uno
scopo ha un effetto positivo sul benessere 4. In gran parte l’inferenza al miglior piano
dipende dal tipo di valutazione dell’evidenza, che fa parte dell’inferenza alla miglior
spiegazione. Buone decisioni presuppongono un’informazione affidabile sul contributo di
azioni particolari al conseguimento di scopi particolari. Ad esempio, se decidete di andare
in un ristorante caro perché pensate di ricevere il miglior cibo, dovreste aver acquisito
l’evidenza affidabile del fatto che il cibo sia veramente buono. La pubblicità che pretende
che il ristorante offra cibo superbo non merita fiducia, perché la miglior spiegazione di
tale affermazione è che il ristorante desidera attirarvi ai suoi tavoli. D’altra parte, la
miglior spiegazione della classifica dei ristoranti d’eccellenza pubblicata in un giornale, è
che essi forniscono realmente buon cibo.
E così l’inferenza al miglior piano deve essere basata su un complesso d’inferenze alla
miglior spiegazione concernenti relazioni causali fra opzioni e risultati, preventivamente
prese in considerazione, rapportate agli scopi. Come porta a termine il cervello simili
inferenze?

Decisioni nel cervello

Innanzitutto dobbiamo prendere in considerazione il modo in cui il cervello


rappresenta azioni e scopi. Esistono rappresentazioni verbali relative ad azioni, come il
cucinare a casa, e a scopi, come il risparmiare. Si usano parole per azioni e scopi, quando
si parla con altre persone di che cosa fare, come quando si dice: «Andiamo al ristorante
italiano perché lì si mangiano delle lasagne squisite». Ma le rappresentazioni cerebrali
delle azioni sono di regola multimodali, in quanto possono comprendere generi diversi
d’informazioni sensoriali, motorie ed emotive.
Quando pensate all’azione di cucinare, la rappresentazione sensoriale può
comprendere la vostra immagine ai fornelli, o la rappresentazione olfattiva dell’odore di
quel che state preparando. Pensare di preparare una omelette può comprendere anche
l’immagine motoria di come muovete le braccia quando scuotete il tegame. La
rappresentazione dell’azione di andare al ristorante può includere i movimenti che fate
per andarci a piedi o in automobile. Quando cominciate a pensare alla cena, diverse
azioni possono contenere scarse informazioni emotive, ma, una volta presa la decisione,
potete sorprendervi d’esserne entusiasta e di provare emozioni negative per le altre
opzioni.
Gli obiettivi da raggiungere sono implicitamente emotivi sin dall’inizio. L’importanza
che voi date al risparmio è condizionata dal valore positivo o negativo che attribuite alle
rappresentazioni verbali o multimodali dello spendere soldi o del conservarli in banca.
Già il solo pensiero di risparmiare può farvi sentir bene se siete frugali, o può apparire
detestabile se vi piace spendere.

113
Alcuni scopi possono essere visivi, ad esempio se immaginate di stare pigramente
sdraiati in una splendida spiaggia; oppure tattili, se pensate d’essere accarezzati dalla
persona amata; o possono essere collegati con odori e sapori, se immaginate di mangiare
il vostro cibo preferito. La rappresentazione di obiettivi che comprendono la spiaggia, la
persona amata, e il cibo preferito richiedono che il cervello combini rappresentazioni che
comprendono parole, esperienze sensoriali ed emozioni.
Le rappresentazioni degli uomini sono diverse da quelle degli altri animali, in quanto
non sono limitate alle situazioni immediate e possono proiettarsi in scenari futuri e
complessi, creando relazioni fino a quel momento mai provate 5. Ad esempio, potete
immaginarvi a Tahiti coccolato da un nativo che vi nutre di frutti tropicali, anche se non
ci siete mai stato e non avete mi assaggiato frutti tropicali. Riassumendo, gli obiettivi
sono rappresentazioni mentali valutate emotivamente o immagini del mondo e di se
stessi.
I capitoli quarto e quinto descrivono come tali combinazioni multimodali possano
funzionare come concetti e convinzioni, e come gli stessi meccanismi si applichino ad
azioni e scopi concepiti come modelli di attività nervosa in molte aree del cervello.
Regioni diverse del cervello rappresentano le varie componenti verbali, sensoriali,
motorie ed emozionali delle rappresentazioni di ciò che si fa e del perché si fa.
L’integrazione dinamica delle attività nervose che si svolgono in queste regioni
avviene attraverso le connessioni sinaptiche che generano le coordinazioni temporali fra i
milioni o i miliardi di neuroni coinvolti nella rappresentazione. Per esempio, se prendete
in considerazione di andare in un ristorante cinese per mangiare dei gamberi, il cervello
rappresenta queste azioni attraverso l’attività di aree che vanno da quella del linguaggio
di Broca, alla corteccia occipitale visiva, al nucleo accumbens per il piacere. Oltre ad
azioni e scopi, il cervello deve rappresentare relazioni causali, come la comprensione del
fatto che se andate in un ristorante particolare è perché desiderate mangiare del buon
cibo.
Una componente cruciale della rappresentazione cerebrale degli obiettivi è la loro
correlazione con ricompense e punizioni 6. Quando raggiungete un obiettivo, sperimentate
un senso di soddisfazione grazie all’attività delle popolazioni di neuroni presenti in aree
come la corteccia orbitofrontale e il nucleo accumbens. Anche solo l’anticipazione del
raggiungimento di un traguardo ambìto può essere sentito come una ricompensa.
Il raggiungimento di uno scopo, come altre esperienze gradevoli, trasmettono il senso
del piacere sia nell’attesa sia nella realizzazione. Ad esempio, il pensiero di un dolce alla
cioccolata, che mangerete come dessert, non provoca lo stesso piacere che si prova a
mangiarlo, ma è comunque un piacere. Tali anticipazioni della ricompensa servono a
spingerci a compiere le azioni necessarie per raggiungere lo scopo desiderato. Una
motivazione può anche essere quella di evitare le emozioni negative che derivano da
risultati non raggiunti. Risonanze magnetiche del cervello di persone che stanno
decidendo che cosa acquistare, mostrano che le preferenze per un prodotto sono correlate
all’attivazione di regioni associate al senso dell’anticipazione del profitto, come il nucleo
accumbens 7. Prezzi giudicati eccessivi, invece, sono correlati all’attivazione di aree che
anticipano il senso della perdita, come l’insula.

114
Codificando le relazioni esistenti fra azioni e obiettivi, il cervello è equipaggiato per
fare inferenze al progetto migliore. Il processo di deliberazione non è uguale alle
espressioni verbali graduali usate quando si parla o si scrive, ma è simile piuttosto alla
soddisfazione forzata descritta nel quarto capitolo per l’inferenza alla miglior spiegazione
e nel quinto capitolo per la valutazione cognitiva delle emozioni.
I legami maggiormente positivi consistono in relazioni fra azioni e scopi, cosicché se
un’azione raggiunge uno scopo c’è coerenza fra loro. I legami maggiormente negativi
consistono in relazioni incompatibili fra le azioni – ad esempio non potete
contemporaneamente cucinare a casa e andare a mangiare al ristorante. Quando azioni e
scopi sono rappresentati da schemi di attività delle popolazioni di neuroni, i vincoli
esistenti fra loro possono essere registrati da legami eccitatori e inibitori fra i neuroni più
rilevanti. Semplificando al massimo, se l’azione di cucinare a casa è rappresentata dalla
popolazione di neuroni A, e lo scopo di risparmiare è rappresentato dalla popolazione di
neuroni B, allora l’informazione che cucinare a casa fa risparmiare può essere registrata
dalle connessioni sinaptiche che corrono nelle due direzioni fra le due popolazioni di
neuroni. In questo modo, la valutazione complessa relativa a quale combinazione di
azioni produca il piano migliore può essere risolta dalla scarica parallela di tutti i neuroni
importanti, indotta dalle connessioni reciproche fra le due popolazioni 8. Da questo punto
di vista, il prendere una decisione non è il genere di inferenza seriale suggerito dagli
argomenti verbali, né il tipo di calcolo matematico richiesto dalla teoria delle decisioni,
ma piuttosto un processo di soddisfazioni parallele limitate costituite attraverso la
coordinazione di molte aree cerebrali.
Dal momento che le rappresentazioni di valori sono una parte cruciale degli obiettivi,
le aree del cervello interessate includono anche quelle che nel capitolo quinto sono
descritte come importanti per le emozioni. Ad esempio, il sistema della dopamina, attivo
nel nucleo accumbens e nelle aree ad esso connesse, è importante per attribuire un valore
positivo agli scopi e per scegliere le azioni, mentre l’amigdala, l’insula e le altre regioni,
associate ad emozioni negative, sono importanti per produrre il rifiuto di azioni estranee
all’inferenza al miglior piano. Si è visto che un simile processo di parallela soddisfazione
dei vincoli nell’inferenza alla miglior spiegazione può occasionalmente portare al rifiuto
di parti di evidenza sulla base della loro incompatibilità con le buone ipotesi. Alla stessa
stregua, la valutazione cerebrale di azioni in riferimento agli scopi può portare alla nuova
valutazione dell’importanza degli obiettivi 9. È possibile che scopriate, nel corso del
processo decisionale relativo alla scelta di cosa mangiare la sera, che il risparmio non vi
importa molto o che il pensiero di mangiare nel ristorante preferito ha avuto il
sopravvento. Ora si tratta di investigare in dettaglio da dove provengono gli obiettivi, e
come possano essere costruiti ed elaborati nel cervello.

Cambiare obiettivi

La teoria economica sostiene che le persone dovrebbero prendere le loro decisioni, e di


fatto lo fanno, secondo il massimo dell’utilità. Per teorici del secolo XIX, come Bentham
e Mill, l’utilità è un’entità psicologica affine alla felicità e al piacere. Economisti del

115
secolo XX, invece, proposero una concezione meno mentalistica dell’utilità, considerata
una costruzione matematica che dipende dalle preferenze del pubblico, rivelate dalle
scelte di comportamento 10. La costruzione era elegante, ma inutile come spiegazione
delle scelte, e così gli economisti abbandonarono il tentativo di stabilire da dove
provenissero le preferenze. Questa rinuncia era congruente con i pregiudizi
comportamentistici che dominarono la psicologia degli anni Quaranta e Cinquanta, ma la
rivoluzione cognitiva degli anni Sessanta avrebbe dovuto indurre gli economisti a tornare
all’idea di cercare di spiegare le preferenze in termini di processi mentali, considerando
l’utilità come stato o processo emotivo. Per ora gli economisti hanno fatto resistenza al
ritorno delle spiegazioni basate sulle rappresentazioni mentali, nonostante i numerosi
esperimenti che dimostrano che la tradizionale teoria dell’utilità spesso fallisce nella
spiegazione del comportamento umano della scelta 11.

Scegliere gli obiettivi

La mia visione del processo decisionale intende essere, psicologicamente e


neurologicamente, molto più realistica. Il comportamento nelle scelte è causato da
preferenze, e le preferenze fra due particolari opzioni derivano dagli obiettivi che ci si
pone.
Da dove vengono gli obiettivi? Alcuni scopi sono intrinsecamente biologici, come
quello di desiderare del cibo quando si ha fame, dell’acqua se si ha sete, di dormire
quando si è stanchi, e così via. Altri obiettivi sono facilmente comprensibili come
subordinati a scopi più importanti. Ad esempio, se avete fame ed avete come scopo quello
di mangiare, potete scegliere l’obiettivo secondario di andare in un negozio per acquistare
cibo, in modo che lo scopo di non aver più fame sia soddisfatto.
Ma molti degli obiettivi che nella società moderna le persone si pongono non sono
fisiologici, nemmeno in via subordinata. Obiettivi come fare una buona carriera sono
correlati a quelli biologici, perché una buona carriera fornisce i mezzi per acquistare cibo,
ma le decisioni dei giovani che stanno pianificando il futuro non si riferiscono a necessità
fisiche immediate.
Le decisioni possono, comunque, dipendere dalle profonde necessità psicologiche di
agire con efficacia e di mettersi in rapporto con il prossimo (la base biologica di tali
necessità è discussa nell’ottavo capitolo). Inoltre altri obiettivi sorgono nel corso della
vita, e per loro dobbiamo cercare meccanismi diversi.
Il pioniere dell’intelligenza artificiale Marvin Minsky ha avuto un’idea interessante su
come possano sorgere i primi obiettivi, secondo quello che egli chiama «apprendimento
basato sull’attaccamento» 12. I bambini sviluppano naturalmente forti legami emotivi con
chi si prende cura di loro, di regola i genitori. Essi trasmettono ai bambini non solo
informazioni su quel che succede, ma anche su valori emotivi, compresi quelli che
verranno poi collegati agli scopi. Se un genitore dà particolare valore ad uno scopo, ad
esempio che il bambino sia bravo a scuola, può accadere che il figlio persegua lo stesso
obiettivo. L’acquisizione dello scopo non è semplicemente la sottomissione strumentale
da parte del bambino che desidera l’approvazione dei genitori e i buoni risultati ottenuti a
scuola per raggiungerla. Piuttosto il valore emotivo che provoca il perseguimento di uno
116
scopo può insorgere in maniera più diretta dal contagio emotivo, attraverso il quale il
bambino acquisisce alcune delle esperienze emotive del genitore per mimetismo fisico.
Questo processo è agevolato dall’attività dei neuroni specchio, che possono mettere il
bambino all’incirca nella stessa condizione cerebrale in cui si trova il genitore che prova
emozioni positive o negative (vedi la discussione sui neuroni specchio nel nono capitolo).
Così bambini ed adulti che vivono in rapporto stretto con altre persone possono acquisire
i loro obiettivi. Tale trasferimento emotivo è di gran lunga più efficace del semplice dire
agli altri quali obiettivi dovrebbero perseguire. Si possono acquisire obiettivi anche
attraverso il pensiero analogico dei modelli di comportamento. Se siete incerti su che
cosa desiderate fare nella vita, e qualcuno che stimate vi suggerisce un insieme di
obiettivi, potreste farli vostri. Ad esempio, se per voi il Mahatma Gandhi è degno della
massima stima per via della sua condotta politica e morale, potete fare vostri alcuni suoi
principi, diventando pacifisti e vegetariani. Questo modello di comportamento analogico
non coinvolge scopi intrinsecamente biologici, obiettivi strumentali subordinati ad altri
vostri scopi, o rapporti personali, ma piuttosto un genere di pensiero emotivo analogico
nel quale si acquisiscono valori emotivi paragonandosi ad altre persone. Per di più,
modelli di comportamento negativi possono suggerire quali obiettivi non avere, come
quando vi rendete conto di non voler fare la fine di Britney Spears.
Altri obiettivi sorgono naturalmente se vi prendere cura del prossimo, di familiari, di
amici o di persone in condizioni di bisogno. Talvolta gli economisti sostengono che la
razionalità è intrinsecamente autointeressata, anche se ci sono prove abbondanti del fatto
che le persone sono spesso altruiste, e perseguono obiettivi nell’interesse degli altri 13. Ad
esempio, gli scopi che mi portano a fare qualcosa per i miei figli e per carità non sono
subordinati ad altri miei scopi, ma sono dovuti alla sollecitudine per i figli e per chi ha
bisogno. Non tutti si comportano così, e nel nono capitolo discuteremo la natura della
psicopatologia.
Per la maggior parte della vita non c’è bisogno di riflettere su quali nuovi e importanti
obiettivi si debbano perseguire, dal momento che la maggioranza delle decisioni circa
azioni e scopi principali e subordinati è già stata presa. In realtà, la maggior parte di quel
che si fa richiede ben poche decisioni, perché le azioni seguono le consuetudini. Ma ci
sono momenti, ad esempio quando si è giovani adulti, in cui la selezione degli scopi della
vita è inevitabile. Scelte di carriera e di famiglia richiedono non solo il calcolo di quali
siano i mezzi migliori per raggiungere i propri fini, ma anche la determinazione di quali
scopi perseguire. Un’altra età di grandi cambiamenti di obiettivi è quella che coincide con
la fine dell’attività professionale, in cui si affrontano non solo i dilemmi di quando e
come andare in pensione, ma anche le questioni fondamentali di come trascorrere i
restanti anni della vita. Nella giovinezza e nell’età della pensione si cercano nuovi
obiettivi, sollecitati dalle necessità biologiche, dalle motivazioni affettive e dai modelli di
comportamento. In che modo, da un punto di vista prescrittivo, debba concretizzarsi
l’individuazione di nuovi obiettivi è un tema filosofico esplorato brevemente più avanti in
questo capitolo e più in esteso nel capitolo ottavo, quando si parlerà di ciò di cui abbiamo
bisogno per essere pienamente umani.
Un metodo raro, ma potenzialmente molto efficace, di acquisizione di obiettivi è la
creazione di nuovi scopi, che sarà discussa nella sezione dedicata ai meccanismi nervosi
117
del cambiamento nel decimo capitolo.

Rinunciare agli obiettivi

Obiettivi biologici come mangiare, bere e dormire sono presenti per tutta la vita,
mentre altri, con gli anni, vengono abbandonati. Ad esempio, un bambino può
considerare lo sport la massima priorità e fantasticare di farne la propria professione. Tali
obiettivi perdono d’importanza man mano che si affrontano altre attività e quando si
comincia a capire quanto sia difficile arrivare a giocare nelle grandi leghe.
Molte sono le situazioni che possono indurre ad abbandonare un obiettivo, per
esempio realizzare che è inarrivabile, avvertire un conflitto con altri scopi, modificare le
informazioni in proprio possesso e le circostanze. Innanzitutto può succedere che capiate
che raggiungere uno scopo è di fatto impossibile per le vostre capacità e la vostra
situazione – ad esempio se siete un violinista non abbastanza bravo per suonare
professionalmente. La convinzione dell’impossibilità può provocare emozioni intense,
precedute da una grande frustrazione avvertita nel tentativo di raggiungere lo scopo e poi
dal sollievo per averlo abbandonato.
William James ha osservato con acutezza: «Rinunciare alle pretese è un sollievo
benedetto quanto quello di esaudirle; e sempre, quando la delusione è incessante e il
conflitto è continuo, è ciò che si vuole».
L’invecchiamento esige il graduale abbandono di diversi obiettivi, a causa delle
capacità fisiche e mentali declinanti dopo il picco dei venti e trent’anni. Per la quasi
totalità delle persone è fisicamente impossibile correre veloci, o lavorare intensamente, a
sessanta anni come a venti. Abbandonare obiettivi irraggiungibili è difficile, ma è parte
inevitabile dello sviluppo razionale.
W.C. Fields ammoniva guardingo: «Se la prima volta non riuscite, riprovateci. Poi non
più; non ci guadagnate nulla a diventare maledettamente scemi».
Desistere da alcuni propositi che si sono dimostrati impossibili da realizzare è molto
meno estremo della vignetta del «New Yorker», nella quale un barbone alcolizzato dice
ad un altro: «Allora, pensavo – hey, ascolta un momento – può essere che anche il
fallimento sia un’opzione». Psicologi clinici hanno dimostrato che il disimpegno da
obiettivi irraggiungibili ha un effetto benefico sulla salute e sul benessere generale 14.
Gli obiettivi possono essere abbandonati per ragioni meno radicali della loro
irraggiungibilità. Si può scoprire che uno scopo è in conflitto con un altro che merita
priorità. Ad esempio, se desiderare diventare partner di una società preminente di giuristi,
dovete lavorare ottanta ore alla settimane, e ciò può essere in conflitto col vostro
desiderio di dedicarvi alla famiglia o all’atletica.
Conciliare questi conflitti può imporvi di abbandonare un insieme di obiettivi, come
quello di diventare ricchi e potenti. Modificazioni di circostanze e di informazioni
possono indurre ad abbandonare fini subordinati. Detto semplicemente, se state
perseguendo uno scopo che era subordinato ad un altro che avete abbandonato, è
ragionevole abbandonare anche lo scopo secondario. Ad esempio, se desiderate essere un
atleta olimpionico e per questo motivo dovete allenarvi quaranta ore alla settimana, una
volta deciso di abbandonare lo scopo primario potete interrompere l’allenamento.
118
Un altro motivo per abbandonare uno scopo secondario è la consapevolezza che esso
non porta alla realizzazione di quello primario. La gente crede spesso che il denaro possa
comprare la felicità, ma risultati empirici mostrano che le persone estremamente ricche
non sono più felici di quelle che dispongono di un benessere medio (vedi il settimo
capitolo). Per questo, se i vostri obiettivi finanziari sono orientati alla felicità, una volta
acquisita la consapevolezza del fatto che un mucchio di denaro non realizzerà il vostro
scopo principale di essere felici, li potrete abbandonare. Se però il fare soldi è diventato
per voi uno scopo autonomo, esso sopravvivrà alla consapevolezza del fatto che l’essere
ricchi non significa essere felici.

Rivalutare gli obiettivi

Ho descritto finora quattro modi mediante i quali è possibile acquisire obiettivi:


attraverso meccanismi biologici, obiettivi subordinati, apprendimento per contatto e
modelli di comportamento. Nell’altra direzione, ho identificato quattro motivi che
possono indurre ad abbandonare gli scopi: perché sono impossibili da raggiungere,
perché sono incompatibili con altri scopi, perché sono obsoleti in quanto subordinati a
scopi abbandonati, o perché non possono realizzare gli scopi per i quali si pensava che
potessero essere di supporto.
In aggiunta all’acquisizione o all’abbandono di obiettivi, può accadere di riconsiderare
la loro priorità in senso ascendente o discendente. Per esempio, potete essere convinti di
voler continuare a praticare lo sport, ma non tanto intensamente come avete fatto finora,
perché volete applicarvi maggiormente allo studio o alla carriera. Ci serve sia una teoria
psicologica, che spieghi come tali aggiustamenti siano fatti, sia una teoria filosofica
normativa che renda conto di come possano esser fatti nel migliore dei modi.
Per adesso, posso delineare una teoria descrittiva basata sull’idea già menzionata del
soddisfacimento parallelo dei vincoli. Quando azioni e obiettivi sono rappresentati da
popolazioni di neuroni, il processo delle attivazioni di aggiustamento dei neuroni per
soddisfare i vincoli favorisce le azioni che realizzano gli scopi. Ma anche la selezione
delle azioni può correggere gli scopi, riducendo la loro importanza se l’insieme più
coerente delle azioni non è congruente con loro. Ad esempio, se, dopo aver progettato un
viaggio in Europa, vi rendete conto che non avrete il tempo di andare a Barcellona,
succederà che ridurrete l’importanza emotiva di visitare quella città.
Tutto ciò funziona bene a livello subcosciente, grazie ai processi paralleli che uniscono
le varie aree cerebrali: l’importanza è rappresentata dalla coordinazione fra le
rappresentazioni nervose delle varie situazioni, come per esempio quella di trovarsi a
Barcellona, con l’attività delle aree cerebrali delle emozioni. In quel momento le
connessioni sinaptiche che collegano la popolazione di neuroni della rappresentazione di
trovarsi a Barcellona con la valutazione emotiva sono indebolite, forse per il contrario
della legge di Hebb: se i neuroni non scaricano più assieme, non sono più collegati.
L’evidenza sperimentale dice che, quando si prendono decisioni, si modificano giudizi
su scopi e azioni 15. Queste modificazioni non hanno nulla in comune con l’uva acerba
della favola di Esopo, alla quale la volpe rinuncia perché non riesce a raggiungerla,
sebbene brontoli che vi rinuncia perché è ancora acerba. Piuttosto, la rivalutazione di
119
obiettivi, come quello di andare a Barcellona, è il risultato del processo razionale
derivante dal soppesare scopi incompatibili l’uno con l’altro.
Oltre all’aggiustamento conseguente alla soddisfazione parallela dei vincoli, la
rivalutazione degli scopi può avvenire semplicemente attraverso il processo di
apprendimento, così come è stato descritto da Hebb. Se i neuroni che, insieme,
rappresentano un obiettivo continuano a scaricare quando lo scopo è raggiunto, le
connessioni sinaptiche fra i neuroni che rappresentano gli obiettivi e i neuroni del sistema
basato sulla ricompensa della dopamina verrà rinforzato, e di conseguenza lo scopo
raggiunto avrà una valutazione più alta di prima.
Il libro del neuroscienziato Read Montagne Why Choose This Book (Perché scegliere
questo libro) è una buona introduzione al ruolo svolto dal sistema della dopamina nel
prendere decisioni 16.

Razionalità degli scopi

Come filosofo non posso sottrarmi alla considerazione di questioni normative relative
a come dovremmo agire quando accettiamo, abbandoniamo, o rivalutiamo i nostri
obiettivi.
L’antica parola greca per indicare scopi e fini è telos, per cui chiamo telic rationality
(razionalità degli scopi) la riflessione su come dovremmo cambiare i nostri obiettivi.
Aristotele disse che si ponderano i mezzi, non i fini, ma abbiamo visto che la
valutazione dei fini ultimi è inevitabile. Sorge naturale una domanda: perché dovremmo
avere più obiettivi dell’insieme basilare di fini biologici necessari per tenerci in vita?
La teoria della valutazione cognitiva delle emozioni prevede la possibilità che siate
felici e che possiate evitare la tristezza avendo soltanto pochi obiettivi facili da
raggiungere. Se tutto ciò che voglio fare è alzarmi e nutrirmi, allora i miei scopi
quotidiani sono raggiunti e dovrei essere felice. Come emerge dalle vignette di Calvin e
Hobbes 17, il segreto dell’autostima consiste nell’abbassare le aspettative al livello nel
quale esse risultano già soddisfatte. Sheryl Crow canta che la vita non è avere quel che si
desidera, ma desiderare ciò che già si ha. Asceti come i monaci buddisti si propongono di
rinunciare a tutti i desideri mondani.
La telic rationality non può eliminare il minimalismo dei fini, ma ci sono forti ragioni
psicologiche che contrastano con il tipo di serenità proprio degli scansafatiche che esso
potrebbe promuovere. Non siamo autonomi nella scelta dei fini, perché alcuni sono
necessità biologiche ed altri ci vengono trasmessi dalla società tramite meccanismi come
l’apprendimento da vicinanza, le regole di comportamento, l’altruismo. Da tali fini
basilari sorgono naturalmente altri scopi subordinati, grazie all’acquisizione di
informazioni relative agli effetti che i cambiamenti possono avere sui risultati.
Nel settimo capitolo si discuteranno in maggior profondità alcuni dei fini più
importanti della vita in riferimento all’amore, al lavoro e al gioco, per tornare poi al
problema del perché il minimalismo dei fini non è desiderabile.
Il nono capitolo prenderà in considerazione il fatto che le necessità umane basilari
comportano fini etici che ciascuno è moralmente obbligato a perseguire. Si paragoni il
minimalismo dei fini con quello dell’evidenza, ossia l’opinione secondo la quale
120
raccogliamo il minimo di evidenza possibile così da non aver bisogno di andare troppo
oltre nella ricerca di ipotesi che siano capaci di spiegarla. Noi aumentiamo la conoscenza
raccogliendo il massimo di evidenza interessante possibile e spiegandola con un insieme
ragionevole di ipotesi esplicative. Analogamente, avanziamo nella vita pratica avendo un
ricco insieme di scopi e progettando piani coerenti per raggiungerli.
La razionalità degli scopi è cruciale per lo sviluppo delle innovazioni sociali
necessarie per affrontare i maggiori problemi del mondo, quali il cambiamento del clima,
la scarsità di energia, le ingiustizie globali. Il cambiamento sociale diventa possibile se e
solo se sia i politici sia la gente si convincono a perseguire nuovi obiettivi, come, ad
esempio, una maggior cura dell’ambiente. Alcuni dei cambiamenti necessari sono di fatto
convinzioni – ad esempio l’accettazione dell’immensa evidenza fornita dalla scienza del
fatto che il riscaldamento dell’atmosfera rappresenta un pericolo crescente per il
benessere umano. Ma altri cambiamenti richiedono di adottare o modificare la
valutazione degli scopi, come ad esempio la riduzione del consumo d’energia.
S’è visto nel quinto capitolo che i nostri cervelli operano con un complesso di
convinzioni, emozioni e scopi che cambiano simultaneamente. Per questo, le innovazioni
sociali comportano modificazioni degli obiettivi, delle emozioni e delle convinzioni.
Modificazioni di scopi e di emozioni sono strettamente collegate, perché nuovi scopi
generano nuove valutazioni cognitive e quindi nuove emozioni, secondo i meccanismi
descritti nel quinto capitolo.

Come prendere cattive decisioni

La psicologia è largamente impegnata nel compito di descrivere come la gente prende


decisioni, mentre la filosofia è prevalentemente interessata al compito normativo di
prescrivere come la gente dovrebbe prendere decisioni.
Le applicazioni della psicologia ad ambiti come l’educazione e l’organizzazione del
comportamento pongono naturalmente problemi normativi su come, nelle scuole, negli
affari e nel governo, si possano prendere le decisioni migliori. Al contrario, la filosofia ha
bisogno di portare l’attenzione sui risultati empirici del processo decisionale, così da
poter sviluppare modelli normativi che non siano così astratti da risultare inutili al fine di
prendere buone decisioni.
Un problema descrittivo e normativo importante concerne il modo in cui le persone
prendono, oggettivamente, cattive decisioni, scegliendo azioni che altri, e talora anche chi
le prende, giudica non essere le migliori per raggiungere risultati rilevanti.
Tutti, di quando in quando, prendiamo cattive decisioni, molte delle quali di scarsa
importanza, come acquistare un pullover anche se pensiamo che sia brutto. Ma alcune
decisioni possono avere conseguenze orribili, come quando un capo di Stato dichiara una
guerra che costa migliaia di vite, o una persona qualunque sceglie una carriera sbagliata o
un coniuge col quale non va d’accordo. Non si considera cattiva una decisione che eventi
imprevedibili impediscono di realizzare, come una vacanza interrotta da un uragano.
Piuttosto, decisioni cattive sono quelle che si sarebbero potute evitare se si fosse prestata
maggior attenzione a tutte le azioni possibili e agli scopi rilevanti.

121
La teoria del processo decisionale come inferenza al miglior progetto basata sui
meccanismi emotivi del cervello dovrebbe fornire una sorta di guida per ridurre simili
errori. Ecco alcuni metodi per prendere cattive decisioni.
Innanzitutto, prendetele con gran velocità, in modo che non vi rimanga tempo per
considerare tutte le azioni e tutti i fini importanti. Invece di considerare una gamma di
azioni possibili, concentratevi su un insieme di azioni e ignorate tutte le altre, che
potrebbero realizzare meglio i vostri scopi. Ad esempio, se siete uno studente
universitario che sta riflettendo sulla preparazione e sulla carriera, cercate di pensare ad
una sola università e a un solo corso di studi. Per semplificare ulteriormente la decisione,
concentratevi su uno, massimo su due obiettivi, ad esempio sul desiderio di guadagnare
molti soldi, tralasciando gli altri, come metter su famiglia o aver tempo per giocare. Se
usate analogie quando riflettete su una decisione, prendetene in considerazione una sola –
per esempio se riflettete su una possibile carriera militare considerate solo un evento di
grande successo, come la Seconda guerra mondiale, piuttosto che una disfatta come
l’intervento militare americano in Vietnam. Lavorando velocemente e restringendo la
varietà dei fattori che prendete in considerazione, potete far affidamento sulla limitata
capacità della memoria a breve termine ed esser sicuri che quando verrà il momento di
decidere avrete solo poche azioni e pochi obiettivi in mente. La vostra coscienza emotiva
genererà così una risposta inferiore, affidabile quanto qualunque altro giudizio intuitivo.
«Abbiate fiducia nella vostra pancia» raccomandava George W. Bush, ignorando
questa osservazione di Maureen Dowd: «Ogni istinto della pancia è selvaggiamente
sbagliato e orrendamente dannoso da ogni punto di vista. Se vi affidate alla pancia senza
nutrirla di notizie, opinioni e fatti contrari e le somministrate una dieta uniforme di
magniloquenza, ignoranza, piaggeria, noccioline e panini rammolliti, le decisioni
istantanee possono essere rovinose».
In secondo luogo, evitate informazioni attendibili sul grado con cui altre azioni
faciliterebbero il raggiungimento di obiettivi diversi. Può essere assai difficile trovare
un’informazione del genere, sia che siate una persona comune, che prende decisioni
semplici, sia che siate un leader politico, le cui decisioni influenzano la vita di milioni di
persone. Raccogliere tutta l’evidenza importante, allo scopo di decidere l’inferenza alla
miglior spiegazione su come differenti azioni influiscano sui obiettivi diversi, richiede
molto tempo e molto impegno, cosicché ve la sbrigherete senz’altro più in fretta tenendo
conto solo di quel che avete già sentito dalla gente o dai media. Come già visto nel
secondo capitolo, la riflessione basata sull’evidenza richiede un grande impegno, pertanto
fidatevi del fatto che la prima che vi viene in mente sia la migliore. Un’inferenza
motivata vi sarà d’aiuto per ignorare l’evidenza che non quadra con i vostri fini, in questo
modo potrete ignorare se le varie azioni realizzino o meno i vostri scopi. Metafore e
analogie emotivamente toccanti possono contribuire a distrarvi dalla fastidiosa
complessità di una situazione. Non tenete in nessun conto la decisione che avete preso e
se essa funzioni o meno, e così non imparerete nulla dai vostri errori. Pensate seriamente
a quanti soldi vi è costata un’azione piuttosto che ai suoi effetti futuri. Non cercate di
prevedere gli effetti dei vostri progetti sulle emozioni future, fidandovi del referto
psicologico che afferma che la gente, spesso, non apprezza le previsioni emotive 18.
Anche se avete a disposizione dati che potrebbero mettervi in grado di usare gli strumenti
122
quantitativi potenzialmente efficaci della statistica e della teoria della decisioni,
ignorateli.
In terzo luogo, tralasciate di valutare accuratamente l’importanza dei diversi obiettivi.
Il vostro cervello stabilisce la priorità dei fini attraverso l’attività combinata, che include
le rappresentazioni multimodali delle situazioni, delle popolazioni di neuroni, compresi i
neuroni di aree come l’amigdala utili per le interpretazioni emotive. In linea di principio,
il cervello può portare a termine un processo reale di soddisfacimento dei vincoli
prendendo in considerazione tutte le azioni, gli obiettivi rilevanti e le relazioni esistenti
fra loro. Ma, in pratica, il pensiero è spesso distorto da stimoli con una forte influenza
emotiva. Per esempio, mentre state soppesando opzioni diverse, può succedere che siate
distratti dall’effetto eccessivo che alcuni interventi, come quello di un amico secondo il
quale i vostri obiettivi sono folli, possono provocare in voi. Un buon sistema per
distorcere le decisioni consiste nel prenderle sotto l’effetto di droghe, come l’alcool.
Secondo Erodoto, gli antichi persiani prendevano le decisioni importanti da ubriachi,
per rivederle poi da sobri. Forse questo metodo presenta il vantaggio dell’accesso libero a
molti fattori emotivamente rilevanti nella fase della sbornia, ma comporta anche il rischio
di spingere oltre il giusto alcuni fini emotivamente potenti. Nel caso estremo, il ricorso a
una droga come la cocaina rischia di mandare completamente all’aria il processo di
valutazione dello scopo, facendo in modo che tutto dipenda più dalla droga che da
preoccupazioni relative alla salute, al lavoro o alle relazioni.
Seguiamo la tendenza naturale del cervello a perseguire scopi a breve termine, come il
mangiare, piuttosto che quelli a lungo termine, come la salute. Fissandosi sulle
ricompense a breve termine, il vostro cervello può utilizzare il sistema dopaminico del
mesencefalo piuttosto che le regioni frontali e parietali, necessarie per valutare le
conseguenze a lungo termine delle azioni. Evitate la sgradevole impresa filosofica di
tentare di valutare se i vostri scopi attuali siano appropriati. Ignorate il problema
spaventosamente difficile di come conciliare gli scopi delle generazioni future con quelli
di oggi, che può rendere sconvolgenti problemi come il progressivo riscaldamento
globale.
In quarto luogo, una volta che avete preso una decisione, confidate nella sua validità e
ignorate ogni nuova informazione su situazioni in via di sviluppo, che potrebbe indurvi a
cambiare progetto. Il mondo è fastidiosamente mutabile, da qui il proverbio: «L’uomo
propone e Dio ci ride sopra». Ma nel caso in cui siate soddisfatti di una decisione presa
con informazioni limitate, non c’è motivo di cambiare opinione al sopraggiungere di
nuove informazioni.
In quinto luogo, prendete la decisione da soli senza consultare altri che potrebbero
darvi un’idea più ampia di tutte le possibili azioni, scopi e reali connessioni esistenti fra
loro. Se dovete affidarvi ad un gruppo di persone che vi aiuti a prendere la decisione e
che vi assicuri che avete fatto la scelta giusta, siate sicuri di scegliere solo chi condivide i
vostri pregiudizi. Così la vostra decisione basata sulla fede può procedere senza le
complicazioni dell’evidenza.
In sesto e ultimo luogo, prendete la decisione basandovi esclusivamente suoi vostri
scopi, ignorando fini e necessità del prossimo. Questa restrizione concorda con le

123
prescrizioni economiche dell’autointeresse e preserva dalle confuse complicazioni etiche
di cui si parlerà nel nono capitolo.
Se seguite le sei precedenti raccomandazioni, potete esser certi che le vostre decisioni
saranno spesso sbagliate. D’altra parte, se controllate il vostro processo decisionale e vi
procurate l’aiuto di qualcuno che conosce ed è in grado di smascherare i trabocchetti
psicologici, è possibile che troviate il modo di migliorare le vostre scelte attenendovi alle
seguenti regole positive:

1. prendete accuratamente in considerazione tutte le azioni e tutti gli scopi rilevanti;


2. raccogliete tutte le informazioni disponibili su quanto azioni diverse facilitino fini
diversi;
3. valutate l’importanza di obiettivi diversi;
4. rimanete flessibili ed aperti a nuove informazioni;
5. consultate altre persone a proposito di azioni e scopi;
6. prendete in considerazioni, altruisticamente, gli obiettivi del prossimo.

Non dimenticate mai che la sensazione soggettiva che vi fa ritenere di prendere una
buona decisione è probabilmente senza valore, perché la maggior parte dei processi
decisionali descritta in questo capitolo sono inconsci.
Le nostre possibilità di accesso all’attività delle popolazioni di neuroni delle diverse
aree cerebrali necessarie alla rappresentazione delle azioni, degli scopi, e delle loro
relazioni sono limitate, così come le possibilità di accesso al calcolo del soddisfacimento
parallelo dei vincoli del miglior progetto. Di regola, non sappiamo che cosa stiamo
facendo quando prendiamo una decisione. Possiamo sperare di far meglio solo
esercitando un controllo cosciente, che comprenda lo stare in guardia da ciò che induce a
prendere decisioni cattive quando si ignorano azioni e scopi rilevanti, dallo sbaglio nella
valutazione dei fini e dall’uso di cattive informazioni sul modo in cui le azioni incidono
sugli scopi. Sebbene Raiffa possa non esser stato in grado di utilizzare la teoria della
decisione matematica per decidere se accettare o meno l’offerta di lavoro, egli avrebbe
comunque potuto approfittare della considerazione dei molti scopi e delle molte azioni.
Le intuizioni 19 possono essere assennate quando sono basate sulla soddisfazione
parallela inconscia dei vincoli concernenti tutte le azioni e gli scopi rilevanti. Ma le
intuizioni possono sorgere anche da processi inconsci e difettosi dovuti a informazioni
limitate, e quindi non si dovrebbe fare affidamento su di loro senza la considerazione
dell’intera gamma di fattori. Come la scelta delle ipotesi esplicative, anche prendere una
decisione dovrebbe essere un evento basato sull’evidenza.

Vivere senza libera volontà

In questo capitolo parlerò di come lavorano le menti, del fatto che le decisioni sono
processi del cervello e del fatto che tutte le nostre azioni sono causate da interazioni del
cervello con l’ambiente fisico e sociale. Psicologi come Daniel Wegner hanno raccolto
l’evidenza sostanziale contraria all’opinione comune dell’azione cosciente 20.
Comportamenti come l’alzarsi e il camminare avvengono per l’attività di molte aree
124
cerebrali, specie le aree prefrontali, che sembrano particolarmente importanti per la
funzione esecutiva e la memoria di lavoro, così come lo sono le aree motorie del
cervelletto, i gangli della base e l’area motoria primaria, che, attraverso il midollo spinale,
manda stimoli ai muscoli che fanno muovere il corpo. Molti comportamenti non risultano
da decisioni, ma da abitudini consolidate, acquisiste con i meccanismi nervosi
dell’apprendimento 21.
Anche le nostre decisioni più importanti sono opera dei processi del cervello. Potreste
rimanere sbigottiti alla domanda se ciò possa significare che non disponiamo di libera
volontà.
Nei molti anni di lezioni universitarie di filosofia della mente, mi sono spesso reso
conto della sofferenza psicologica degli studenti di fronte alla prospettiva che la volontà
libera potrebbe essere un’illusione. La loro religione e la cultura in generale li ha fatti
crescere nella convinzione che le loro scelte siano libere, e che per questo essi ne siano
responsabili.
Se le scelte hanno una causa, allora libertà e responsabilità sembrano uscir fuori dalla
finestra. Se il vostro pensiero è solo un processo cerebrale, allora non sembrate più capaci
di un tostapane nel controllare ciò che fate. Per questo l’opinione materialista, basata
sull’evidenza che sto per difendere, ha un aspetto tre volte dannato. Non solo vi ho
angustiato per avervi privato della possibilità di ricorrere ad un dio misericordioso e alla
prospettiva dell’immortalità; ora vi colpisco con la minaccia di non poter disporre di
libera volontà. A completamento del massacro, potreste anche aspettarvi d’essere
dispensati dalla legge morale.
Non allarmatevi: quantomeno l’etica può sopravvivere, come si vedrà nel nono
capitolo. Ma l’approccio biologico, che io prediligo come parte della generale
comprensione scientifica del mondo, ci richiede di rinunciare a molte cose, ivi comprese
teologia e immortalità. Per questo la rivoluzione del cervello, come già quelle di
Copernico e di Darwin, richiede un cambio concettuale fortemente emotivo; non solo la
riorganizzazione dei nostri sistemi di concetti e convinzioni, ma anche l’aggiustamento
dei valori ad essi collegati.
Filosofi come Daniel Dennett e Owen Flanagan hanno mostrato che rinunciare alla
libera volontà, nei termini assoluti proposti dalla concezione della mente come anima
immateriale, non è poi così male come si potrebbe pensare 22. Possiamo continuare ad
avere molti degli attributi gradevoli della libera volontà, compresi l’autocontrollo,
l’autoespressione, l’individualità, l’apertura alla ragione, la ragionevolezza delle
decisioni, la responsabilità, e un importante genere di autonomia che verrà discusso
nell’ottavo capitolo.
Nel terzo capitolo ho sostenuto che la rivoluzione del cervello richiede di non pensare
più all’Io come anima immateriale, ma come un sistema nervoso collocato in condizioni
sociali. Da questa prospettiva, l’autocontrollo si identifica con la capacità individuale
delle persone di determinare i propri comportamenti attraverso i processi del cervello.
In assenza di coercizione sociale e di disordini mentali, come la schizofrenia, la
maggior parte delle persone sono capaci di autocontrollo in un modo che sarà meglio
compreso considerando la teoria dell’Io come sistema di meccanismi a più livelli.
Sarebbe comunque forviante il tentativo di ridefinire la libera volontà come controllo del
125
comportamento da parte del pensiero, se il pensiero è poi identificato con un processo
nervoso. Non dobbiamo sottovalutare l’attrazione esercitata dalla tentazione di
considerare la libera volontà completamente sottratta ai meccanismi del cervello, che è
qualcosa che noi desideriamo naturalmente, come l’immortalità. Entrambe sono lusinghe
del dualismo. Il pensiero che la morte non ponga fine all’esistenza esercita una grande
seduzione, come la visione di Tennyson, secondo cui noi siamo gli artefici del nostro
destino e i condottieri della nostra anima.
Comunque, l’approccio alla conoscenza, proposto nel secondo capitolo, impone di
abbandonare convinzioni incompatibili con l’evidenza a disposizione. L’evidenza del
fatto che le azioni sono causate da processi cerebrali mette la libera volontà come
prodotto dell’anima sulla stessa barca dell’immortalità.
La razionalità dei fini proposta in questo capitolo sostiene la bontà della scelta di
abbandonare scopi impossibili da realizzare, e quindi dobbiamo rinunciare a desiderare la
libera volontà e l’immortalità. Questi benefici soprannaturali sarebbero certamente
gradevoli, ma per noi sono irraggiungibili in forza della natura materiale delle menti.
L’opinione basata sull’evidenza del fatto che il cervello lavora con interazioni dinamiche
fra molte aree impone di abbandonare la nozione propria del senso comune di un
controllore centrale consapevole, che detiene la funzione di decidere.
L’affermazione della vostra mancanza di libera volontà non implica che voi siate dei
robot senza mente, condannati ad una vita insensata, predeterminata senza alcun riguardo
nei confronti di ciò che tentate di fare. Voi non siete, ovviamente, senza mente, perché il
cervello è pienamente in grado di assolvere ad una vasta gamma di processi mentali,
come percezione, memoria, apprendimento, inferenze.
Il vostro cervello è molto più intelligente e flessibile di qualsiasi robot, sebbene non si
possa escludere la possibilità che un giorno esisteranno robot in grado di prendere
decisioni complesse come quelle discusse dianzi. La vostra vita può essere priva del
significato assicuratole dall’eterna vicinanza di un essere divino, ma voi potete
ciononostante realizzarvi nella ricerca dell’amore, del lavoro e del gioco, come si vedrà
nel settimo capitolo. Le idee di predeterminazione e di destino sono essenzialmente
religiose; esse non portano alcuna minaccia scientifica al tipo di libertà ridotta
compatibile con l’opinione secondo cui il cervello è un insieme di processi causali.
Ci sono anche dei vantaggi nel considerare illusorie l’immortalità e la volontà libera.
Come già visto nel terzo capitolo, la morte incute meno paura se significa solo la fine
dell’essere. Se l’immortalità fosse possibile e voi foste rimasti intrappolati in una
religione falsa per la sfortuna d’esser nati nella famiglia sbagliata, allora vi angustiereste
per il timore di soffrire per l’eternità a causa delle punizioni di un dio incollerito. Non vi
sembra meglio il nulla rispetto a tutto ciò?
Se le vostre azioni sono causate da processi cerebrali, compresi quelli altamente
reattivi alle distorsioni cognitive ed emotive che possono indurre a prendere cattive
decisioni, allora avete ancora più motivi per essere tolleranti con voi stessi quando
commettete un errore. Avete eccellenti ragioni per esser più tolleranti anche nei confronti
degli errori degli altri, considerando che non sono volontari ma sono il risultato di forze
causali.

126
Emozioni come colpa, vergogna e rimorso possono essere appropriate fino a quando
servono a prevenire errori. Ma non ci sono motivazioni che possano giustificare
l’opprimente senso di peccaminosità, di paura e di terrore che affliggono alcuni popoli
religiosi.
Il concetto di libera volontà fa parte del complesso teologico che comprende lo
sgradevole trio formato da peccato, colpa e punizione eterna; così la modificazione
concettuale emotiva richiesta per riconoscerr l’illusorietà della libera volontà può essere
sia positiva sia negativa. Detto in breve, potete vivere una vita piena di significato senza
credere alla liberà volontà, come sarà spiegato nel settimo capitolo.
Nel nono capitolo, invece, si chiarirà che potete vivere una vita morale nella quale
siete ritenuti responsabili di quel che fate.

Conclusione

Prendere una decisione non è quasi mai un argomentare verbale graduale o un calcolo
matematico, quanto piuttosto un processo mentale parallelo di inferenza al miglior
progetto.
Il processo comprende giudizi sulle azioni in competizione al fine di determinare quali
di esse siano in grado di realizzare al meglio i fini personali. Gli obiettivi sono
rappresentazioni mentali emotivamente valutate di condizioni immaginarie del mondo e
di sé.
Il cervello crea tali rappresentazioni con scariche di popolazioni di neuroni in diverse
aree, comprese quelle dell’informazione sensoriale e verbale. Il valore emotivo è parte
della rappresentazione degli obiettivi e delle azioni, grazie alla coordinazione con aree
cerebrali come il nucleo accumbens e l’amigdala, che codificano aspetti positivi e
negativi del mondo.
La valutazione generale della coerenza delle azioni e dei propositi è il risultato del
soddisfacimento parallelo dei vincoli, che è messo in atto dalle scariche dei neuroni in
tutte le popolazioni rilevanti basate su connessioni sinaptiche che si creano fra loro. Non
siete voi a dire al vostro cervello ciò che deve fare, e il vostro cervello non lo dice a voi:
voi siete il vostro cervello, che decide cosa fare nel vostro ambiente fisico e sociale. A
causa della centralità degli obiettivi nella scelta delle decisioni da prendere, una parte
rilevante della razionalità è rappresentata dall’adozione, abbandono e rivalutazione dei
fini. Facciamo nostri nuovi obiettivi per cause biologiche e perché sono sussidiari a scopi
che già abbiamo, ma anche attraverso processi sociali di natura emotiva, come per
esempio che ci sia qualcuno che si prende cura di noi, la condivisione di modelli di
comportamento, l’affetto di gente che ci preme. Quando ci rendiamo conto che
raggiungere un obiettivo non è possibile o che le situazioni sono cambiate al punto che
esso non è più sussidiario ad un fine più alto, è razionale lasciarlo perdere. Il processo
decisionale, che comprende il soddisfacimento parallelo dei vincoli attraverso la
valutazione della coerenza di azioni e obiettivi, può indurre a ridurre l’importanza di
alcuni fini. La saggezza – saper distinguere ciò che ha importanza – richiede la capacità
di adattarsi acquisendo, abbandonando e rivalutando i propri propositi. La natura

127
intrinsecamente emotiva del prendere una decisione ha conseguenze importanti in molti
campi dell’attività umana, compresa la politica.
Lo psicologo Drew Westen ha messo in evidenza, nel 2007, i fallimenti ripetuti degli
strateghi della politica americana che tentarono di conquistare voti con campagne
spassionate basate solo su argomentazioni 23.
Egli sostiene che le decisioni degli elettori si basano sulle risposte a quattro domande.
Che cosa provo per il partito del candidato e per i suoi principi? Che cosa provo per il
candidato? Che cosa provo per le caratteristiche personali del candidato, in particolare per
la sua integrità, capacità di guida e sensibilità sociale? Che cosa provo per la posizione
del candidato sui temi che mi stanno a cuore? Dalla sostanziale evidenza dell’impatto
delle emozioni sui votanti, Western non deduce l’opinione secondo cui il Partito
democratico, di cui è un sostenitore, dovrebbe approfittare delle speranze e delle paure
della gente. Piuttosto, egli incita il Partito a selezionare dirigenti che abbiano la saggezza,
l’integrità e l’attrazione emotiva necessarie per convincere i votanti a preferirli, basandosi
sui valori che professano e sulla loro evidenza. La trionfale campagna presidenziale di
Barack Obama nel 2008 è la prova della forza della combinazione di argomentazioni forti
e di magnetismo emotivo. La complessità psicologica e nervosa del processo decisionale
lascia aperta la strada a decisioni sbagliate, come quella di trascurare fini importanti, ad
azioni alternative e ad entrambe le possibilità. Prendere decisioni comporta
inevitabilmente delle emozioni, di cui gli stimoli sono le valutazioni delle
rappresentazioni rilevanti accompagnate da stati d’animo quali eccitazione o ansietà, e i
risultati soddisfazione o disappunto. Intendere le decisioni come processi cerebrali ha
come sgradevole conseguenza la necessità che l’idea dualistica della libera volontà debba
essere abbandonata, ma ciononostante la vita può essere piena di senso e di morale, come
vedremo nei prossimi tre capitoli.

1
Benjamin Franklin propose di prendere le decisioni utilizzando un metodo quantitativo. Per la
moderna teoria matematica delle decisioni cfr. Luce – Raiffa 1957.
2
Cfr. Thagard – Milligram 1995; Milligram – Thagard 1996.
3
Cfr. Thagard 2000; Thagard – Millgram 1995.
4
Sull’effetto positivo del successo sul benessere cfr. Wiese 2007.
5
Cfr. Penn et al. 2008.
6
Cfr. Rolls 2005.
7
Cfr. Knutson et al. 2007. Soon et al. 2008 hanno dimostrato che il risultato di una decisione può essere
codificato dall’attività cerebrale alcuni secondi prima che diventi cosciente.
8
Cfr. Wagar e Thagard 2004; Thagard 2006, cap.6; Litt et al. 2008; Thagard – Aubie 2008.
9
Cfr. Simon et al. 2004.
10
Cfr. Frey – Stutzer 2002.
11
Cfr. Kahnemann – Tversky 2000; Ariely 2008.
12
Cfr. Minsky 2006; Wild – Enzle 2002. Secondo Josephs et al. 1992, i fini che guidano le decisione
della gente evitano il danno dell’autostima. Cfr. anche Locke – Latham 1990.

128
13
Su quest’evidenza cfr. Batson 1991; Sober – Wilson 1998.
14
Cfr. Wrosch et al. 2007.
15
Cfr. Simon et al. 2004.
16
Sulla neuroeconomia cfr. Camerer et al. 2005; Akerlof – Shiller 2009; Litt et. al. 2008; Thagard –
Aubie 2008; McClure et al. 2004.
17
Calvin e Hobbes sono personaggi dei fumetti di Bill Watterson che compaiono in rete (Calvin and
Hobbes Daily).
18
Cfr. Gilbert 2006.
19
Sul rapporto tra intuizioni e decisioni cfr. Thagard 2006; Dijksterhuis 2004; Gigerenzer 2000;
Gladwell 2005; Vohs et al. 2007.
20
Wegner 2003.
21
Cfr. Barnes et al. 2005.
22
Cfr. Dennett 2003; Flanagan 2002. Per un’introduzione alle controversie filosofiche sulla libera
volontà cfr. http://plato.standford.edu/entries/freewill. Per discussioni su libera volontà e autocontrollo
secondo le neuroscienze cfr. Bechtel 2008; P.S. Churchland 2009; Hebb 1980; Roskies 2006.
23
Westen 2007, p. 418.

129
7
Perché la vita è degna d’essere vissuta

Il significato della vita

Albert Camus non si uccise. Ho iniziato il primo capitolo con le sorprendenti parole di
Camus, secondo cui il suicidio è un problema filosofico, che rappresenta un aspetto della
questione se la vita valga la pena d’essere vissuta. Camus scrisse la sua asserzione alla
fine dei venti anni, ma non tentò mai di uccidersi e morì a metà dei quaranta anni in un
incidente d’auto. L’auto, guidata da un amico, si schiantò contro un albero. Sua moglie,
invece, tentò il suicidio, per la sofferenza causatale dalle infedeltà del marito. Camus
visse una vita molto ricca, ebbe una famiglia e due bambini, amici fedeli, avventure con
giovani attrici, e un immenso successo professionale come romanziere, drammaturgo e
giornalista. Le sue affermazioni giovanili sull’assurdità della vita furono contraddette
dalle molti occasioni che ebbe di darle un senso, dalla sua partecipazione alla Resistenza
francese contro i nazisti e dai suoi innumerevoli scritti apprezzatissimi.
Anche persone meno conosciute trovano il significato della vita dedicandosi agli amici
e ai familiari, impegnadosi nel lavoro e negli hobby, e traggono piacere da attività che
vanno dallo sport, alla lettura di libri, all’ascoltare musica. Il significato della vita
comprende amore, lavoro e gioco. Ognuno di essi deve essere costruito su ampie basi,
cosicché l’amore comprenda sia l’amicizia e la sensibilità per i disagi del prossimo, sia i
legami sentimentali e familiari. Il lavoro spazia da quello manuale di un carpentiere a
quello intellettuale che consiste nello scrivere un libro. Il gioco non è solo quello dei
bambini, ma comprende anche molti generi d’intrattenimento per adulti come musica,
lettura, sport, viaggi. Farò ricorso alla psicologia e alla sociologia di queste attività, ma
esaminerò anche perché sia sempre più chiaro che i processi cerebrali facciano
dell’amore, del lavoro e del gioco le fonti del significato della vita. Il mio scopo
descrittivo è di mostrare che la gente sembra trovare il significato della vita attraverso tali
fini, ma il mio scopo normativo è di mostrare che amore, lavoro e gioco rendono la vita
veramente degna d’essere vissuta. Il salto normativo verso ciò che la vita dovrebbe
essere, richiede di collegare questi ambiti con le necessità vitali delle persone attraverso
un resoconto di come i cervelli lavorano. Collegherò ciò che si sa della fisiologia
dell’amore, del lavoro e del gioco ai modelli nervosi delle emozioni e degli obiettivi,
trattati precedentemente. Una rassegna e un’analisi di come i cervelli funzionano

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nell’amore, nel lavoro e nel gioco ci dirà molto su come la gente conduce la vita e sul
perché delle scelte, anche se per l’intera storia normativa dei motivi per i quali queste
attività sono così importanti dovremo aspettare la discussione su bisogni e morale dei
capitoli ottavo e nono.
Lo studio del cervello non ci dice che cosa dobbiamo apprezzare, ma ci rivela quali
valori attribuiamo a situazioni e azioni, secondo quanto descritto nel quinto capitolo. Le
attività nervose che combinano la rappresentazione delle situazioni e delle azioni con la
loro valutazione incorporata conferiscono valore alle varie possibilità di scelta. Qualcosa
ha valore per voi se la rappresentazione cerebrale comprende associazioni che generano
in voi emozioni positive. Discuterò come si può sviluppare un significato strutturato,
nella vita di una persona, grazie alla coerenza di fini e azioni. Io non posseggo un
argomento a priori e irrefutabile del fatto che amore, lavoro e gioco costituiscono il
significato della vita. La difesa della mia opinione si basa su tre ragionamenti. Primo, le
risposte alternative suscitano problemi assai seri, comprese quella nichilistica secondo cui
la vita non ha senso, quella teologica per la quale il senso alla vita è dato da Dio o da altre
entità spirituali e quella monolitica che individua nella sola felicità il senso della vita.
Secondo, esiste una vasta evidenza psicologica e sociologica del fatto che amore, lavoro e
gioco sono realmente fonti di obiettivi cui si dà valore nella vita. Infine, un’evidenza
neuroscientifica crescente indica come fini e necessità legati all’amore, al lavoro e al
gioco sono parte dei meccanismi della cognizione e dell’emotività che conferiscono
valore alle attività umane.

Nichilismo

Per il nichilismo, la vita non ha alcun senso. Nel romanzo di Camus intitolato Lo
straniero il narratore Meursault è accusato di omicidio. Il magistrato inquirente è
indignato dall’asserzione di Meursault di non credere in Dio. «[Il magistrato] mi disse
che ciò era impossibile, che tutti credono in Dio, anche coloro che non vorrebbero
accettarlo. Questa era la sua convinzione e se avesse avuto anche solo il minimo dubbio,
la sua vita avrebbe perso ogni significato». Secondo il magistrato non già l’inesistenza di
Dio, ma anche soltanto la mera credenza nell’inesistenza di Dio da parte di qualcuno,
come Meursault, renderebbe la vita insensata. Che cosa occorre perché la vita sia senza
significato? In forma estrema, la vita è priva di ogni significato se non se ne ha alcuna
rappresentazione mentale. Questa condizione comporta il fatto di non avere convinzioni
ed esperienze coscienti nel presente, se non si ha anche la prospettiva di averne in futuro.
È possibile che, temporaneamente, non abbiate esperienze coscienti perché siete immersi
in un sonno profondo o in uno stato di coma dovuto a cause mediche, ma potenzialmente
siete in condizione di averle una volta risvegliati.
A causa di un grave danno al cervello, la persona colpita può trovarsi nello stato
vegetativo permanente, dal quale è impossibile riprendersi. In tali condizioni, la vita della
persona priva di coscienza non ha senso, anche se potrebbe averlo per chi le è accanto.
Ad esempio, nel 2005, quando i genitori di Terri Schiavo si opposero alla decisione del
marito di interromperle la nutrizione, la vita della figlia, per loro, era ancora importante,

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nonostante il danno cerebrale, che all’autopsia si rivelò più grave di quanto i medici
sospettassero. Data l’evidente incapacità di qualunque tipo di rappresentazione, a me
sembra che la vita di Terri Schiavo avesse perso ogni significato.
In assenza di un grave danno al cervello, la vostra vita potrebbe essere priva di senso
qualora nulla fosse importante per voi, come accade a Meursault, il personaggio di
Camus che afferma: «Niente, niente ha valore». È difficile figurarsi una persona
totalmente priva di scopi, come per esempio coloro che sono gravemente depressi, che a
mala pena si preoccupano di nutrirsi e di guardarsi dai pericoli. Meursault e i depressi
gravi non hanno più scopi rilevanti, così come li abbiamo descritti nel sesto capitolo
come stati cerebrali che collegano le rappresentazioni delle situazioni con le valutazioni
emotive. Meursault dice di non aver rimpianti, facendo intravedere l’orribile incapacità di
attribuire un significato emotivo ad eventi importanti, quali il suo arresto per omicidio e
la morte di sua madre. A differenza dalle persone temporaneamente depresse, la cui vita
può tornare gradevole quando le cose migliorano, la condizione di Meursault sembra
essere cronica. È forse ragionevole concludere che la sua vita è veramente priva di
significato e che egli ha perso poco venendo giustiziato.
Il saggista americano Roger Rosenblatt ha descritto il nichilismo, in modo divertente,
nella prima delle regole per invecchiare bene:

Regola 1: niente importa.

Qualunque cosa voi pensiate abbia importanza, non ne ha. Seguite questa regola, e la vostra
vita s’allungherà di decenni. Non importa se siete in ritardo o in anticipo; se siete qui o là; se
dite o non dite; se siete intelligenti o stupidi; se state avendo bello o cattivo tempo; se il vostro
capo vi sta guardando di sbieco; se la vostra fidanzata (o) vi guarda di sbieco; se non avete
avuto la promozione, o il premio, o la casa, o se invece li avete ricevuti. Non importa.

Come la seconda regola di Rosenblatt: «Nessuno sta pensando a voi», la prima regola
è un utile antidoto contro l’eccessiva preoccupazione per questioni di piccola o media
importanza. Ma nessuno dovrebbe prendere queste regole alla lettera considerandole un
suggerimento del fatto che relazioni personali sul posto di lavoro non abbiano alcuna
importanza. Il nichilismo può assumere la forma della disperazione, che è l’atteggiamento
emotivo intensamente negativo in base al quale la vita altro non è che una successione di
sogni infranti. Un altro atteggiamento piuttosto comune è il distacco ironico, in base al
quale ci si mostra indifferenti a tutto, anche se si avvertono bisogni profondi e non
realizzati. Il referto contrario al nichilismo è il dato empirico secondo cui la maggior
parte della gente è felice 1. Quando a persone appartenenti a culture differenti si richiede
di quantificare il proprio grado di soddisfazione per la vita in una scala da 0 a 10, la
media indica 7. Il Meursault di Camus, la regola 1 di Rosenblatt e i depressi gravi sono
eccezioni, a causa dell’incapacità di trovare aspetti della vita che abbiano valore.
Considerare il depresso lo standard del significato della vita corrisponde a prendere lo
schizofrenico come misura della conoscenza; in entrambi i casi i disturbi neurochimici
abbassano il funzionamento cerebrale. Secondo lo specialista delle forme maniaco-
depressive Kay Jamison, il 90% delle persone che commette suicidio soffre di una
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malattia psichiatrica diagnosticabile. Ovviamente, il fatto che la maggior parte della gente
sia felice non basta a contestare il nichilista, il quale può controbattere che il diffuso
perseguimento della gioia non è per nulla più convincente dell’atteggiamento ben
radicato del dualismo. Forse solo i depressi hanno una visione corretta dell’insensatezza
della vita. Ma la discussione seguente relativa a come amore, lavoro e gioco alimentano il
significato della vita contribuendo alle sue necessità, servirà a dimostrare che le persone
felici non sono deliranti.
Storicamente, l’alternativa importante al nichilismo è stata la visione teologica
secondo la quale Dio creò l’universo dandogli uno scopo. È appurato il fatto che credenti
sono mediamente più felici di chi non lo è. Già nel secondo capitolo si è argomentato che
non c’è alcuna evidenza del fatto che esista una divinità capace di dare senso alla vita, e
quindi dobbiamo cercare altrove. Contrariamente a quel che pensava il magistrato di
Meursault, abbandonare la teologia non implica il nichilismo e la rinuncia alla ricerca
profonda di altre fonti del significato della vita. Fortunatamente poca gente ha
l’incapacità emotiva di Meursault, e possiamo respingere l’opinione di Camus secondo
cui la caratteristica principale della vita di ognuno di noi è la sua assurdità. Forse il
significato della vita è proprio la felicità.

Felicità

Negli ultimi dieci anni si sono condotte molte ed estese indagini al fine di identificare
l’ampiezza e le fonti della felicità 2. Diversi studi si sono occupati di quanto la gente sia
felice, di quanta soddisfazione provi per la vita che conduce, e fino a che livello abbia
esperienza del «benessere». Felicità, soddisfazione e benessere non sono esattamente la
stessa cosa, anche se non vedo differenze nette. Ovviamente la gente preferisce essere
felice che infelice, e allora perché non identificare il significato della vita con la felicità?
Ci sono molte ragioni per condividere una visione meno monolitica del significato della
vita.
Il significato della vita si basa più sugli scopi che ci si prefigge che sulla felicità. Per
comprendere la felicità pensate al fatto che essa dipende dal ruolo della coscienza
emotiva nella valutazione cognitiva, di cui si è parlato nel quinto capitolo. Come da
tempo ribadiscono i sostenitori della teoria cognitiva delle emozioni, la gente è felice
quando realizza i suoi obiettivi. Ma ciò vuol dire che ciò cui la gente aspira, ciò che dà
significato alla vita, sono, di fatto i suoi scopi: la felicità è la soddisfazione per averli
raggiunti. Non è chiaro come la gente possa in realtà porsi ragionevolmente lo scopo
d’essere felice. Nathaniel Hawthorne ha scritto: «La felicità è come una farfalla che, se
volete acchiapparla, non si lascia prendere, ma se state seduti e fermi vi vola attorno» 3.
La sola via per provare la felicità è di proporvi obiettivi il cui raggiungimento vi renda
felici, in accordo con la valutazione cognitiva della coscienza emotiva. Ovviamente
qualcuno potrebbe obiettare che scopi come amore, lavoro e gioco sono importanti solo
se e fin quando il loro raggiungimento vi rende felici, ma questa opinione è contraddetta
da un’accurata disamina delle dinamiche della felicità. Le ricerche sulla dinamica delle
soddisfazioni nella vita mostrano che i fattori che le determinano sono diversi a seconda

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dell’età. L’economista americano Richard Easterlin descrive, in uno studio, i modelli
ciclici della felicità generale. Egli sostiene che la felicità, mediamente, è più o meno
stabile, con un modesto picco che si verifica attorno all’età di 51 anni. Questo risultato
corrobora l’opinione di alcuni psicologi secondo i quali ogni persona ha un set point (cioè
un livello medio con oscillazioni giornaliere) di felicità, che è solo moderatamente
perturbato dagli eventi della vita. Lo stesso studio ha misurato la soddisfazione riferita a
quattro specifici ambiti della vita: famiglia, lavoro, finanze e salute. Ad eccezione della
soddisfazione per la famiglia, anch’essa con l’apice intorno ai 50 anni, per gli altri ambiti
ci sono profili molto diversi della felicità generale. La soddisfazione per le condizioni
finanziarie tende a salire regolarmente dopo i 40 anni, mentre quella per il lavoro arriva al
massimo a 62 anni. La soddisfazione per la salute, invece, cala progressivamente a partire
dai 18 anni. Easterlin è contrario all’opinione secondo cui la felicità si mantiene
relativamente costante perché sarebbe il risultato della personalità e della struttura
genetica e, con il ricorso ad analisi statistiche, mostra che sia le relazioni familiari, che la
situazione finanziaria, il lavoro e la salute contribuiscono alla felicità. Così il modello
relativamente stabile di felicità lungo il corso della vita è il risultato di vari fattori che si
bilanciano l’un l’altro. Visti nell’insieme, i quattro ambiti della soddisfazione variabile
anticipano piuttosto bene lo stadio attuale del ciclo vitale della felicità.
Un’ulteriore evidenza del fatto che la felicità è un effetto della soddisfazione raggiunta
in altri ambiti della vita piuttosto che un fine a sé, è data da uno studio sulla condizione
coniugale. Vedovanza e divorzio causano una forte diminuzione della soddisfazione, che
richiede anni per essere recuperata 4. Vedovi e vedove ritornano, di media, solo dopo sette
anni a provare la soddisfazione nei confronti della vita che provavano un anno prima
della scomparsa del coniuge, un livello comunque inferiore rispetto a quello di pochi anni
prima. Lo stesso vale per la disoccupazione, il cui effetto negativo sulla soddisfazione
della vita dura anni. Questi dati indeboliscono l’opinione secondo cui ogni persona
possiede un livello standard di felicità e che la felicità sia un fattore singolo indipendente
da altri aspetti chiave come le relazioni e il lavoro. Ovviamente, se lo standard della
felicità fosse vero, esso contrasterebbe molto fortemente con l’opinione secondo cui la
felicità è lo scopo principale della vita: in questo caso potremmo fare ben poco per
raggiungerlo, perché non possiamo cambiare la nostra personalità geneticamente
determinata!
Un altro studio, condotto dal Pew Research Center, fornisce un’ulteriore evidenza
delle componenti da cui è costituita la felicità. Nel 2004 il 34% degli Americani
descrissero se stessi come molto felici, 50% come parecchio felici, e solo il 15% come
poco felici, percentuali pressoché costanti dal 1972. Lo studio considerò i vari fattori
correlati con l’essere molto o poco felici. Persone con un reddito superiore ai 100.000
dollari avevano una probabilità doppia di essere felici rispetto a quelli con un reddito
sotto i 30.000 dollari, ed erano significativamente più felici rispetto a quelli che avevano
un reddito compreso fra i 75.000 e i 1000.000 dollari (49% contro 38%). Spiccavano altre
correlazioni. Le persone sposate erano più felici di quelle non sposate, anche se l’aver
figli incideva poco. Coloro che assistevano regolarmente a riti religiosi erano più felici. I
repubblicani erano più felici dei democratici, un risultato che non è dovuto
semplicemente al fatto che i ricchi sono più felici dei poveri. Il fattore più largamente
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rappresentativo della felicità risultava essere la buona salute, se è vero che il 55% di
coloro che sostenevano di avere un cattivo stato di salute si sentivano infelici. Un altro
gruppo con deficit di felicità era rappresentato dai genitori singoli con figli ancora
minorenni, il 27% dei quali dichiarava di non essere molto felice. Non c’è studio che, da
solo, mostri in modo definitivo che cosa porti alla felicità. Le analisi che ho riportato
presentano comunque risultati congruenti. Nell’insieme, l’evidenza circa le oscillazioni di
felicità e soddisfazione nel corso della vita ribadisce che la felicità consiste nel
perseguimento dei propri obiettivi. Non c’è ragione di credere che le persone li
perseguano come se fossero subordinati a quello superiore della felicità. La felicità è, di
regola, transitoria 5, come le altre emozioni, mentre gli scopi e il significato che si
attribuisce ad essi possono essere durevoli.
Il significato della vita non consiste nella felicità che si prova nel momento del
raggiungimento dei fini, ma nel loro valore. Molti degli obiettivi cui la gente tiene di più
– ad esempio crescere i figli e dedicarsi a compiti impegnativi – non sono sempre fonti di
felicità. Lo psicologo sociale Daniel Gilbert si oppone all’opinione popolare secondo cui
l’avere figli rende le persone felici. Egli si riferisce a studi secondo i quali la
soddisfazione coniugale decresce in modo significativo dopo la nascita del primo figlio e
ricresce solo quando l’ultimo figlio lascia la casa. I neonati possono suscitare emozioni
positive come gioia ed orgoglio, accompagnate però da preoccupazioni, notti in bianco,
esperienze sgradevoli come il cambio del pannolino. Il lavoro può essere una fonte di
grande soddisfazione, ma anche di frustrazione e di ansia a causa di scadenze tassative,
risultati irraggiungibili, relazioni interpersonali difficili. Nondimeno compiti impegnativi
come crescere i figli e perseguire obiettivi ambiziosi nel lavoro conferiscono valore alla
vita, a dispetto di tutti i problemi quotidiani e delle frequenti interferenze con la felicità.
Similmente, scopi nel gioco, come dare il meglio di sé nello sport, possono procurare
felicità e conferire motivazione e orientamento alla vita. Pertanto una vita è piena di
significato non quando tutti gli scopi sono stati raggiunti, ma quando si avvertono delle
motivazioni che spingono a fare le cose. Dal momento che il significato della vita
richiede il perseguimento di scopi non ancora soddisfatti, esso non può essere
semplicemente identificato con il conseguimento degli obiettivi misurato dalla felicità o
dal benessere. La vita piena di significato è quella in cui avete sempre qualcosa da fare,
anche se il vostro da fare quel giorno, quella settimana o quell’anno non vi rende felici.
Nel primo paragrafo del sesto capitolo si è parlato della serenità degli scansafatiche, la
felicità che apparentemente deriva dall’abbandonare scopi impegnativi per accettare
semplicemente quel che già si ha. Ma chi conduce una vita più ricca di significato, il
genitore che cresce i figli e lavora duramente o l’eremita che conduce una vita isolata e
inattiva? Come disse John Stuart Mill: «È meglio essere un uomo insoddisfatto che un
maiale soddisfatto; meglio essere Socrate insoddisfatto che uno sciocco soddisfatto» 6.
Una versione aggiornata potrebbe essere: meglio un genitore singolo insoddisfatto che un
facoltoso repubblicano soddisfatto. Un’altra fonte di felicità transitoria possono essere
droghe come la cocaina o l’eroina, che manipolano il meccanismo cerebrale del piacere,
ma ben poche persone attribuiscono significato al consumo di droghe, anche a quelle che
non causano orribili effetti a lungo termine.

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Riassumendo, la felicità può fugacemente derivare dall’uso di droghe, dall’accumulo
di ricchezze, dalla serenità del fannullone, mentre il perseguimento di scopi più profondi
come crescere i figli e lavorare con impegno può far scemare la felicità. Potete essere
felici senza che la vostra vita sia ricca di significato, ed avere una vita ricca di significato
senza essere molto felici: la felicità non è il significato della vita. La felicità è il
raggiungimento dei fini, mentre il significato della vita consiste nell’avere scopi
meritevoli che possono essere conseguiti o meno. Pertanto non si può semplicemente
concludere che il significato della vita è la felicità: occorre esaminare in dettaglio la
natura degli scopi e il modo in cui essi contribuiscono al significato della vita. Nell’ottavo
capitolo si argomenterà che gli scopi più profondi sono quelli che soddisfano i bisogni
della vita umana.

Scopi e significato

Nel primo paragrafo del sesto capitolo ho descritto gli scopi come rappresentazioni
nervose di stati immaginari del mondo e di sé. Immaginare qualcosa che si spera di
realizzare può suscitare emozioni positive, come quando vi pensate nell’atto di
raggiungere obiettivi che meritano un riconoscimento universitario o di completare un
progetto importante. Ma l’immaginazione diventa fonte d’ansia se si pensa all’eventualità
di un fallimento. Il semplice avere degli scopi non produce felicità, ma fornisce la
motivazione ad agire in modo tale da contribuire al successo e da evitare il fallimento. Gli
scopi che ci si prefigge non ci danno necessariamente la garanzia di riuscire, e, nei casi di
riuscita, essa può essere di vari gradi. Sarebbe insensato, comunque, perseverare in un
obiettivo che sappiamo di non poter raggiungere. Rinunciare ad un obiettivo può essere
razionale come perseguirlo. Come possono le persone avere degli scopi che diano
significato alla vita? Nel primo paragrafo del quarto capitolo, ho sostenuto che dovremmo
considerare il significato dei concetti e delle altre rappresentazioni come
multidimensionale e ricordare che esso coinvolge molti modi di correlazione al mondo e
agli stati mentali. Similmente, il significato della vita non dovrebbe essere concepito da
un punto di vista binario, come qualcosa che si ha o non si ha. La contrapposizione fra
vita piena e vuota di significato è troppo netta. Non molto meglio è immaginare un
continuum fra la condizione di chi ha pochi e chi ha molti significati. Si tratta di una
visione unidimensionale che suggerisce che più scopi si hanno meglio è, trascurando le
importanti differenze che caratterizzano queste due condizioni. Più oltre in questo
capitolo difenderò l’opinione secondo cui il significato della vita ha tre dimensioni:
l’amore, il lavoro, il gioco. Nei vari stadi della vita, le persone avvertono gradi diversi di
aspirazione al raggiungimento degli obiettivi in ciascuna delle tre dimensioni. È difficile
dire fino a che punto il senso della vita consista nell’avere obiettivi da soddisfare e quanto
dipenda dagli scopi già raggiunti. Quale vita è più piena di significato, quella del giovane
che non ha ancora raggiunto la maggior parte degli obiettivi, o quella della persona molto
avanti negli anni che ha già realizzato la maggior parte dei propri scopi? Posta in questi
termini, la domanda è fuorviante, perché il giovane ha degli obiettivi da raggiungere – ad
esempio andare avanti negli studi fino a portarli a termine e fare progressi nei rapporti

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sociali stringendo amicizie; ma anche la persona molto anziana può avere ancora scopi
minori e circoscritti, relativamente alla famiglia e agli amici, a meno che non sia
precipitata in una demenza grave quanto lo stato vegetativo di Terri Schiavo. Il significato
è alimentato sia dai risultati da raggiungere sia da quelli raggiunti in una misura
apprezzabile. Un problema filosofico cruciale è come il significato dipenda dall’avere
scopi che possiedano un valore genuino e non siano capricci.
In sintesi, la vostra vita ha significato se:

1. avete scopi, che sono rappresentazioni mentali di situazioni emotivamente valutate,


consistenti in moduli di attività nervosa;
2. alcuni dei vostri scopi sono stati raggiunti in una certa misura;
3. alcuni dei vostri scopi non sono stati ancora raggiunti, ma sono ragionevolmente
raggiungibili;
4. i vostri scopi sono fra di loro coerenti;
5. i vostri scopi sono oggettivamente valutabili.

Le condizioni 1-5 non sono necessarie e sufficienti per avere una vita ricca di
significato, perché ciò presumerebbe la visione binaria del significato della vita, che
abbiamo già scartato. Insieme, queste condizioni determinano piuttosto il grado di
significato della vita. La valutazione del significato non avviene in considerazione di un
insieme fisso di scopi, perché nelle varie fasi della vita si hanno insiemi del tutto diversi
di fini, grazie al processo di acquisizione, abbandono e rivalutazione degli scopi descritto
nel sesto capitolo. Le condizioni 2 e 3 riguardano il raggiungimento degli scopi di cui
abbiamo già discusso. È necessario avere alcuni scopi già realizzati in qualche misura, ed
averne altri ancora allo stadio di aspirazioni. La condizione 4 circa la coerenza dei fini è
stata introdotta per trattare casi in cui la vita è resa complicata dal fatto che la persona
coltiva diversi scopi incompatibili l’uno con l’altro. Supponete di voler essere sia un
giocatore professionista di pallacanestro sia un dottore in medicina. Entrambe le
professioni richiedono un’enorme quantità di tempo e di applicazione, ed è quindi
durissimo perseguirle entrambe. Ci sono quindi due casi in cui la clausola della
condizione 3 delle «prospettive ragionevoli» può venir meno: il caso in cui la natura del
mondo, ivi comprese le vostre capacità, rende improbabile che possiate raggiungere lo
scopo – ad esempio se siete piccolo e maldestro per poter giocare a pallacanestro; o se i
vostri fini si escludono a vicenda, nel senso che gli sforzi per raggiungerne uno rendono
molto arduo poter esaudire anche l’altro. Tale incompatibilità impone di abbandonare uno
scopo, come descritto nel sesto capitolo. La condizione 5, che riguarda la valutazione
obiettiva degli scopi, è quella più impregnata di filosofia, perché presuppone una
distinzione fra il valore che voi attribuite e il valore effettivo. Si parla di casi in cui le
persone hanno fini ai quali attribuiscono un grandissimo valore, e che procurano anche
una qualche motivazione e una certa soddisfazione, che altri invece giudicano futili.
Considerate, ad esempio, qualcuno il cui unico scopo consiste nel giocare con
videogiochi violenti per raggiungere punteggi sempre più alti. Questa persona può
raggiungere livelli alti nel campo del gioco, ma fallire totalmente nell’amore e nel lavoro.
Non voglio affrontare ora il problema di ciò che dà oggettivamente valore ad uno scopo,
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perché ciò richiede una discussione sulle esigenze umane e sui temi etici, di cui si parla
nell’ottavo e nel nono capitolo. Tralasciando per ora la parte normativa, esaminerò qui tre
aspetti della vita che sono le fonti principali degli scopi e delle loro realizzazioni: amore,
lavoro e gioco. Per ognuno di essi, cercherò di identificare come generino scopi, che sono
rappresentati nei cervelli. L’amore sentimentale e la musica sono due ambiti rispetto ai
quali è stato già fatto un lavoro ricco e interessante con risonanze magnetiche per
identificare alcuni rilevanti processi cerebrali, inoltre discuterò del ruolo che con ogni
probabilità il cervello svolge in altri aspetti dell’amore, del lavoro e del gioco. Si vedrà
come questi tre ambiti possano essere fonti importanti di scopi e di loro realizzazioni per
gli esseri umani.

Amore

Indagini sul benessere confermano che le relazioni personali sono una delle maggiori
fonti di soddisfazione nella vita delle persone 7. Per mantenere il benessere, abbiamo
bisogno di sostegno, relazioni positive e appartenenza sociale. Solo un paio di misantropi
hanno negato che relazioni affettive siano parte essenziale di ciò che dà senso alla vita. La
maggior parte delle persone attribuisce valore alle relazioni sentimentali, ai legami
familiari, e all’amicizia. Il 99% delle persone sane di mente è disposto a prendersi cura
non solo dei propri cari, ma anche del prossimo in generale, mostrando compassione per
la sofferenza altrui. Si comincia ora a capire quali sono i processi cerebrali che stanno alla
base di questi valori sociali.
I meccanismi dell’amore sentimentale sono stati studiati da un gruppo che comprende
l’antropologa Helen Fisher, lo psicologo Arthur Aaron e la neuroscienziata Lucy Brown 8.
Le loro ricerche riportano l’evidenza antropologica che l’intenso amore sentimentale è un
fenomeno culturale e storico universale. Esso è associato a specifiche modificazioni
fisiologiche, psicologiche e di comportamento, che comprendono l’euforia, l’attenzione
fortemente concentrata, il pensiero ossessivo, la dipendenza emotiva e l’aumento
dell’energia. La Fisher e i suoi collaboratori hanno usato le risonanze magnetiche nucleari
(RMN) per studiare i sistemi nervosi coinvolti nell’amore sentimentale. I ricercatori
hanno selezionato dei volontari che riferivano d’essersi innamorati, e che venivano
sottoposti alle RMN del cervello mentre osservavano una fotografia dell’oggetto del loro
recente interesse sentimentale. L’attività del cervello in questa situazione veniva
confrontata con l’attività del cervello dello stesso partecipante, mentre osservava
l’immagine simile ma emotivamente neutrale di una conoscenza familiare. Quando le
persone guardano l’immagine dei loro nuovi partner sentimentali, i loro cervelli mostrano
un aumento di attività in regioni che mediano le soddisfazioni grazie al sistema
dopaminico descritto nel quinto capitolo, in particolare l’area segmentale ventrale e il
nucleo accumbens. Sono le stesse aree del piacere indotto da droghe come la cocaina, che
determinano anche euforia, insonnia, inappetenza. Inoltre sono coinvolte aree corticali
associate alle emozioni, come l’insula, la corteccia cingolata anteriore e l’amigdala, tutte
presenti nel modello EMOCON esaminato nel quinto capitolo. Il fatto che vedere il
proprio partner sentimentale stimoli aree cerebrali associate al piacere e alla ricompensa

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spiega perché è così bello innamorarsi. Uno studio precedente sull’amore sentimentale
condotto da Andreas Bartels e Semir Zeki ha riscontrato, invece, un aumento dell’attività
dell’insula e della corteccia cingolata, ma nessuna attivazione del sistema dopaminico,
forse perché era svolto su persone che vivevano uno stadio avanzato della loro relazione
romantica, quando l’intensità del piacere aveva preso a scemare. Ma l’amore non è solo
un sentimento, perché è anche uno stimolo a compiere azioni per avvicinarsi l’un l’altro.
Fisher e collaboratori hanno inoltre mostrato che quando si osserva un quadro romantico
si verifica una grande attivazione della regione cerebrale chiamata nucleo caudato e di
parte dei gangli della base, che comprende anche il nucleo accumbens. Il nucleo caudato
contribuisce alla rappresentazione dei fini, all’attesa della ricompensa, all’integrazione
degli stimoli sensoriali nella preparazione dell’azione. L’amore sentimentale può essere
considerato uno stato orientato verso uno scopo che suscita emozioni specifiche, come
euforia ed ansia, piuttosto che un’emozione particolare. La sua neurofisiologia sembra
diversa da quella dell’attrazione puramente sessuale e da quella del legame di lunga
durata. La dopamina è anche il fattore chiave per spiegare l’accoppiamento dell’arvicola
dei campi, animale simile a un piccolo topo 9. Nell’accoppiamento, maschi e femmine,
mostrano un enorme aumento di dopamina, oltre ad altre modificazioni chimiche. A
differenza della maggior parte dei mammiferi, anche se molto simili come l’arvicola delle
montagne, l’arvicola dei campi è monogamo per tutta la vita. Tale differenza rispetto alla
maggior parte dei mammiferi è dovuta all’attività di sostanze cerebrali come l’ossitocina
e la vasopressina, che aumentano durante l’accoppiamento rispettivamente nelle femmine
e nei maschi. Quest’attività è controllata da un singolo gene, che infatti è stato trovato nel
DNA dell’arvicola dei campi e non in quello dell’arvicola delle montagne: se tale gene
viene inserito nel DNA dell’arvicola delle montagne, anch’esso tende ad essere
monogamo. È verosimile che un’analoga chimica contribuisca ai legami sentimentali.
Inoltre l’ossitocina è molto importante nel determinare il comportamento materno di topi
e pecore. Infine, vasopressina e ossitocina contribuiscono ad una serie di altri
comportamenti collegati alla paura e all’ansia.
L’ossitocina aumenta la fiducia fra estranei 10. In un esperimento, due volontari
interagiscono in un gioco finanziario sulle decisioni da prendere relativamente ad alcuni
trasferimenti di capitali. La somministrazione intranasale di ossitocina aumenta del 17%
la velocità con cui un volontario sviluppa fiducia nell’altro. Con l’ossitocina, la gente
sembra essere meglio disposta a superare il timore di essere ingannata. In rete si possono
trovare oscure pubblicità di spray di ossitocina della fiducia, rivolti a rappresentanti e a
singoli acquirenti, anche se nessuno ha un’idea della loro efficacia. La fiducia è un
aspetto essenziale dell’amicizia, relazione meno intensa dell’amore sentimentale e del
matrimonio, ma comunque di grande importanza per il senso di soddisfazione delle
persone in relazione alle proprie vite.
Esiste una forte correlazione fra l’isolamento sociale e la diminuzione del benessere. I
processi cerebrali dei legami interpersonali hanno molte aree in comune con quelli dei
legami sentimentali e familiari. Passare il tempo con gli amici è molto piacevole, e tale
piacere è alimentato dal circuito cerebrale della dopamina. Con gli amici stretti si sente di
avere un legame reale e si sente di poter avere fiducia in loro anche per la difesa dei
nostri interessi, ed è plausibile che ciò sia opera dell’ossitocina.
139
Io mi sono concentrato sugli aspetti positivi delle emozioni dell’amore e dell’amicizia,
che si provano quando il rapporto nasce e si consolida, ma la maggior parte delle persone
conosce anche gli aspetti negativi della loro scomparsa reale o minacciata. Quando si
viene respinti da una persona amata, ci si separa da un coniuge, si diventa vedovi, o non
ci si capisce più con un buon amico, il dolore sociale può essere immenso. Secondo gli
psicologi sociali Geoff MacDonald e Mark Leary è più che metaforico descrivere come
una ferita quel che si prova. Le reazioni al pericolo fisico e al rifiuto sociale sono mediate
da sistemi fisiologici simili: il dolore sociale è un vero dolore. Studi con RMN hanno
dimostrato che la sofferenza sociale è associata ad attività della corteccia cingolata
anteriore, conosciuta per il suo ruolo importante nell’elaborazione del dolore fisico 11.
(Essa compare anche nel modello EMOCON esposto nel quinto capitolo). Un’altra area
cerebrale coinvolta nel dolore fisico e in quello sociale è la sostanza grigia che si trova
attorno all’acquedotto nel mesencefalo, che gioca un ruolo importante sia nella
percezione del dolore di una lesione fisica sia nel regolare il comportamento all’interno di
un rapporto affettivo. Sembra esserci una spiegazione fisiologica dei molti correlati
linguistici e comportamentali reciproci che accomunano il dolore fisico e quello sociale.
In molte lingue il termine «ferita» è usato dalle persone per indicare un rifiuto di cui sono
state vittime. Il comportamento e il senso d’ansia e di paura sono strettamente legati sia al
dolore fisico sia a quello sociale, collegati a loro volta alla tristezza e alla depressione.
Inoltre ci sono somiglianze chimiche fra il dolore fisico e quello sociale, entrambi
sensibili ad oppioidi come la morfina. Piccole dosi di morfina riducono le strida della
pena da separazione di cuccioli isolati di ratti. È stato descritto il ruolo dell’ossitocina nel
rapporto col prossimo, ma essa funziona anche nella regolazione del dolore fisico dei
ratti. Nelle persone, le minacce sociali possono diminuire la sensibilità al dolore, come
avviene nel caso di una ferita; il rifiuto sociale provoca un aumento della pressione
arteriosa e del livello di cortisolo, che è l’ormone dello stress. Tutto ciò depone sempre
più a favore dell’ipotesi secondo la quale sono riscontrabili meccanismi simili nel dolore
fisico e in quello sociale, come ad esempio quelli della parte anteriore della corteccia
cingolata e dei suoi processi chimici. Le menti sono cervelli, bene o male che si sentano.
Secondo la Bibbia cristiana, voi dovreste amare il vostro prossimo come voi stessi. Per la
maggioranza di noi non è psicologicamente possibile prendersi cura del prossimo, di
conoscenti e di estranei, come di noi stessi e dei nostri familiari. Intellettualmente posso
essere d’accordo sul fatto che due persone qualsiasi nel mondo sono moralmente
importanti quanto i miei due figli, ma la storia del mio cervello è tale per cui gli stranieri
non potranno mai avere per me l’importanza dei miei figli. Nondimeno, la gente spesso
risponde con compassione alle disgrazie altrui, com’è testimoniato dai molti atti di carità
a favore di organizzazioni per la lotta alla povertà e alle malattie. Ad esempio, quando,
nel 2004, un enorme terremoto e il conseguente tsunami devastarono parte dell’Indonesia
e di altri paesi, popoli e organizzazioni offrirono miliardi di dollari per aiutare la ripresa.
Nel nono capitolo si parlerà dei neuroni specchio, che sembrerebbero far parte dei
meccanismi nervosi della compassione e dell’empatia. Se vedete qualcuno che soffre, nel
vostro cervello si attiva la stessa area che si attiva quando siete voi a provare dolore. Nel
cervello di monaci buddisti tibetani sembra che avvengano interessanti modificazioni
della corteccia cerebrale in seguito alla pratica di un’intensa meditazione sulla
140
sofferenza 12. Dopo aver trascorso migliaia di ore in uno stato di cosiddetta «amabilità»,
un genere di vita senza relazioni fisse che promuove la facilità illimitata e la disponibilità
a soccorrere esseri umani, paragonati a persone che non avevano svolto un tale esercizio,
i monaci mostrarono differenze nelle onde cerebrali registrate con l’elettroencefalografia,
che rileva l’elettricità lungo lo scalpo: durante la meditazione essi erano in grado di
produrre onde di grande ampiezza e sincronizzazione. Studi in corso con le RMN cercano
di identificare le aree cerebrali modificate dalla meditazione.
Un resoconto completo dei meccanismi cerebrali dell’amore dovrebbe comprendere
tutte le sue manifestazioni, dalla passione, all’amicizia, alla compassione. Non c’è
evidenza sufficiente per proporre una teoria onnicomprensiva, ma ciò che si sa è
sufficiente per descrivere in modo abbastanza attendibile alcuni meccanismi nervosi.
Particolarmente rilevanti sono le aree cerebrali correlate al piacere, come il nucleo
accumbens e i circuiti basati sulla dopamina e sull’ossitocina. È possibile quindi collegare
l’amore ai processi nervosi emotivi descritti nel quinto capitolo. Ma in che modo l’amore
influenza le decisioni attraverso i processi di applicazione e di cambiamento degli scopi?
Il filosofo Harry Frankfurt ha osato suggerire che l’amore è una fonte di scopi finali,
che sono scopi che noi valutiamo in sé e per sé e non perché servano a raggiungerne altri.

Come si spiega il fatto che esistano cose che possono avere per noi un valore definitivo,
indipendente dalla loro utilità per perseguire altri scopi? Fino a che punto è accettabile fare
delle necessità i nostri scopi finali?
È l’amore, io credo, che può far questo. Se accade che si amano certe cose – quale ne sia la
causa – siamo legati agli scopi finali da qualcosa di più di un impulso inatteso o di una
deliberata volontà di scelta. L’amore è la fonte originaria del valore definitivo.

Io non so quali generi di evidenza psicologica o neurologica possano essere impiegati


per giudicare questa opinione, ma essa coincide con le comuni esperienze dell’amore
sentimentale duraturo e dall’amore per figli e genitori. L’amore sentimentale iniziale –
l’infatuazione – può essere guidato dal desiderio sessuale e da altri scopi personali, ma
con l’amore maturo un’altra persona entra a far parte della nostra interiorità, come
avviene con i figli, i genitori e gli amici intimi. Dianzi, in questo capitolo, ho argomentato
che la felicità non è il nostro unico fine, dal momento che spesso le persone perseguono
attività legate all’amore, che possono non contribuire alla felicità, come prendersi cura di
un bambino disabile, di un coniuge, o di un genitore. Sarebbe interessante integrare gli
esperimenti con RMN cerebrali, condotti dalla Fisher e colleghi, su persone che si sono
innamorate di recente, con esami di persone innamorate da tempo. Secondo dati
preliminari, ci sono persone che dopo aver vissuto un amore intenso per venti anni,
mostrano ancora l’attivazione dell’area segmentale ventrale, che fa parte del sistema
dopaminico della gratifica 13. Anche nei momenti di disperazione per la morte del
coniuge, alcune persone mostrano l’attivazione dei meccanismi della ricompensa estesi al
nucleo accumbens.
Douglas Hofstadter descrive con emozione il legame creatosi fra due persone, che
stanno insieme da molto tempo 14. In un buon rapporto, si creano col tempo interessi e
modalità comuni, specie se i coniugi condividono l’obiettivo di avere dei figli. Egli
141
descrive in modo toccante le speranze e i sogni che la moglie defunta e lui avevano
condiviso, come moduli nervosi simili in due cervelli diversi. Tali moduli integrano
cognizioni ed emozioni, come descritto nel quinto capitolo, ma i dettagli della cifratura
non sono ancora noti. Mi piacerebbe conoscere la base nervosa della differenza
riscontrata da un mio amico in un esperimento informale condotto su un gruppo di padri.
Fu chiesto loro se avrebbero acconsentito ad essere colpiti da un proiettile al posto della
loro moglie. Dopo un attimo di riflessione, i mariti risposero che probabilmente
avrebbero acconsentito. Poi fu chiesto loro se avrebbero acconsentito ad essere colpiti al
posto dei figli, e la risposta fu immediata: ma certo! Per questi padri, l’amore era
certamente una fonte del valore finale. La visualizzazione del cervello ha identificato
attività cerebrali altamente specifiche (nella corteccia orbitofrontale mediale) simili a
quella che si verifica quando si osservano i volti di bambini, ma non di adulti 15, e ciò
potrebbe indicare l’origine nervosa del forte attaccamento che molti genitori provano per
i loro figli. Trovo intuitivamente plausibile la riflessione di Frankfurt sull’amore come
fonte di valore, ma ci serve l’evidenza per desumere legittimamente che l’amore è parte
del significato della vita. Ho cercato una tale evidenza nella combinazione di studi
psicologici e sociologici sulle connessioni esistenti fra relazioni personali e benessere
dichiarato, e specialmente in studi nervosi che possano spiegarci in che modo l’amore
sentimentale e l’appartenenza diventino fonti potenti di significato nella vita. Non intendo
però suggerire, che possiamo sperare di spiegare tutto ciò che concerne l’amore solo con
meccanismi nervosi e molecolari. Come si è già visto nel quinto capitolo, la
comprensione delle emozioni umane dovrebbe avvenire a più livelli, e richiede una
particolare attenzione per i meccanismi psicologici delle rappresentazioni mentali e per
quelli sociali delle interazioni, come le comunicazioni. Se vogliamo capire come è
avvenuto l’innamoramento reciproco fra due persone, pensiamo sia utile prendere in
considerazione i fattori sociali del loro incontro e dei loro scambi, così come i fattori
psicologici di quel che l’uno ha pensato dell’altro. Questi fattori dovrebbero completare
la descrizione delle modificazioni nervose e biochimiche che caratterizzano
l’innamoramento.

Lavoro

Il lavoro è un altro ambito della vita che va capito sia in termini di processi sociali e
psicologici sia in termini di processi nervosi. Voi potete pensare al lavoro come a
qualcosa da cui stare alla larga, ma le ricerche indicano che molta gente trae dal proprio
lavoro, anche se banale, molte soddisfazioni 16. Molti preferiscono il lavoro al far niente
dell’ozio casalingo. Il lavoro remunerato può procurare molti benefici, come per esempio
soldi, attività gratificanti, contatti sociali, obiettivi attraenti e stimolanti. I lavori
gratificanti offrono l’opportunità di prendere decisioni e di impiegare la propria maestria,
e inoltre assicurano una varietà di compiti, il rispetto, un’alta posizione sociale, contatti
interpersonali, e una buona retribuzione.
Uno dei propositi del lavoro è di procacciarsi il denaro per vivere, ma il lavoro non è
solo orientato al guadagno. Un guadagno elevato, come ricordato prima, può essere

142
correlato alla felicità e al benessere, ma la relazione fra le due cose è complessa. La gente
considera la felicità più importante del denaro. Negli ultimi cinquant’anni, negli Stati
Uniti, le retribuzioni, anche considerando l’inflazione, sono aumentate continuamente,
senza che ciò abbia comportato un aumento corrispondente del livello di soddisfazione
della vita. Le nazioni ricche sono tendenzialmente più felici di quelle povere, ma, una
volta raggiunto un livello base accettabile di remunerazione, le differenze sono minime.
Gli americani più ricchi hanno un alto livello di soddisfazione rispetto alla propria vita,
ma non tanto più alto degli americani con un reddito medio, e di chi, come gli Amish
della Pennsylvania, conduce una vita molto semplice. Se non sembra ragionevole
considerare il denaro lo scopo principale della vita, allora non c’è motivo di vedere nel
lavoro solo un mezzo per far soldi. Un fattore intrigante può essere che la felicità non
dipende dalla dimensione assoluta della ricchezza, ma piuttosto da come percepite il
confronto con gli altri. I disoccupati sono decisamente meno felici di chi è occupato o è in
pensione. Alcuni motivi possono essere sociali o finanziari, ma io penso che ci sono altre
ragioni cognitive ed emozionali per le quali il lavoro contribuisce alla felicità.
La teoria cerebrale delle emozioni e degli scopi, di cui si è parlato nel quinto e nel
sesto capitolo, aiuta a capire perché il lavoro a volte possa essere molto soddisfacente.
Porsi degli obiettivi influenza sia la soddisfazione sia il rendimento sul lavoro 17. Gli
scopi concentrano l’attenzione, animano lo sforzo, incoraggiano la resistenza e stimolano
lo sviluppo della strategia. Porsi degli scopi è molto efficace quando gli obiettivi che le
persone si pongono sono specifici e impegnativi, rientrano nelle loro capacità e sono
accompagnati da ritorni, ricompense e supporto sociale. In queste condizioni, gli scopi
possono avere i valori emotivi positivi rappresentati nel cervello dall’associazione di aree
della dopamina, di conseguenza la loro realizzazione, e, in misura minore, la loro
anticipazione, può essere ricompensata da esperienze gradevoli.
Riflettete su come la soddisfazione sul lavoro agisce nel campo che mi è più familiare,
quello accademico e scientifico. La Fig. 7.1 mostra il ruolo delle emozioni nella
soluzione dei problemi scientifici. Gli scienziati elaborano domande alle quali rispondere,
ivi comprese questioni empiriche su ciò che potrebbe succedere nell’ambito di un
particolare esperimento e questioni teoriche sulle cause di quel che si è osservato. Le
ispirazioni per tali domande sono spesso legate a reazioni emotive come curiosità,
sorpresa, meraviglia, così come alla necessità di non annoiarsi. Il tentativo di rispondere
alle domande può generare emozioni positive come speranza e felicità, quando sembra
che si facciano progressi, e negative, come frustrazione e disappunto, quando le cose non
procedono bene. Allo stesso modo, un esperimento elegante o il conseguimento di un
risultato teorico possono generare un forte senso di gioia ed anche di bellezza, ma un
tentativo andato a vuoto comporta inevitabilmente sensazioni negative. Per fortuna, se
siete ragionevolmente esperti nel vostro lavoro, successi regolari producono un bilancio
gradevole di emozioni positive e negative. Molti mestieri ad eccezione di quelli
accademici generano problemi che nella maggior parte dei casi possono essere risolti. Ad
esempio, un carpentiere affronta sfide interessanti quando deve progettare come costruire
il pezzo per una fornitura o come riparare una parete, con la conseguente soddisfazione
derivante dall’aver risolto il problema. Sfortunatamente, la maggior parte dei lavori umili,

143
come lavorare in un fast-food o a una catena di montaggio non offre la possibilità di
risolvere problemi, e di conseguenza le persone sperimentano noia e fastidio.

Figura 7.1. Ruolo delle emozioni nella soluzione dei problemi scientifici.

Quando la soluzione di un problema procede per il meglio, non è necessario che ne


siate necessariamente consapevoli. Lo psicologo Mihaly Cskszentmihaly ha descritto lo
stato mentale del flusso, nel quale si trova una persona che è completamente immersa in
un’attività impegnativa, ma alla portata delle sue capacità 18. Provo la stessa sensazione,
talora, soprattutto nei giorni migliori, quando mi sembra che un articolo o un capitolo si
scrivano da soli. Il flusso può essere anche la caratteristica di altre attività lavorative, di
giochi e di sport. Anche senza flusso, la prestazione può contribuire alla soddisfazione
derivante dal lavoro e quindi della vita in generale, grazie al successo, agli obiettivi
raggiunti, all’efficacia dimostrata nello svolgere particolari compiti, ai progressi nel
raggiungimento degli scopi e allo stato d’animo positivo, che s’accompagnano
generalmente alla soddisfazione derivante dal lavoro ben riuscito.
Altri fattori che possono contribuire ad incrementare l’impegno di chi lavora
comprendono il suo apprezzamento per un ambiente sociale in cui vigono fiducia e
rispetto, per la possibilità di prendere decisioni autonome e di partecipare alle
informazioni generali. Le persone possono considerare il loro lavoro da diversi punti di
vista e di conseguenza apprezzarlo per motivi differenti: possono considerarlo un
mestiere e apprezzarlo per il denaro, oppure possono considerarlo un’opportunità di fare
carriera e apprezzarlo per il riconoscimento, oppure possono considerarlo una vera e
propria vocazione e apprezzarlo per l’intrinseco appagamento che garantisce loro. Alcune
occupazioni sono non solo non appaganti, ma, nella pratica, umilianti. Un obiettivo
sociale lodevole è quello di rendere possibile alla maggioranza della gente di cercare un
lavoro appagante e non umiliante.
Riassumendo, il lavoro può essere un grande fonte di significato nella vita non solo
per ragioni esterne, come la remunerazione e i contatti sociali, ma ancor più per ragioni
interne collegate alla natura neurale della soddisfazione derivante dalla soluzione dei
problemi. Lavori che richiedono impegno, ma con obiettivi raggiungibili, danno alle
persone la motivazione, che può esser di per sé una gioia, dal momento che la scelta e il
raggiungimento degli scopi costituisce la parte più rilevante del sistema emotivo nei

144
nostri cervelli. Per la maggior parte delle persone, occuparsi di un incarico impegnativo è
molto più soddisfacente dell’oziosa serenità.

Gioco

Seguendo un’idea falsamente attribuita a Freud, ero solito pensare che il significato
della vita dipendesse da amore e lavoro 19. Ma un amico, appassionato di escursioni in
montagna, mi convinse che mancava qualcosa d’importante: i molti modi che le persone
escogitano per intrattenersi. Il gioco è più dell’occupazione principale dei bambini, e i
dizionari lo descrivono più generalmente come impegno in un’attività di piacere e
ricreazione, piuttosto che come un’attività seria con fini pratici. In questo senso, ascoltare
musica e leggere romanzi sono, chiaramente, dei giochi.
Per la maggior parte delle persone, il gioco si associa all’amore e al lavoro come fonte
di significato. All’inizio e alla fine della vita non ci si aspetta che il lavoro sia di primaria
importanza. Ho già ricordato che i pensionati sembrano felici come coloro che lavorano,
e nessuno si aspetta che i bambini si preoccupino troppo del lavoro. Per i bambini piccoli,
prima che la scuola e il lavoro acquistino importanza, il significato della vita è soprattutto
nel gioco, sebbene l’attaccamento ai genitori sia altrettanto importante. Anche per gli
adulti, ci sono molti generi d’attività, oltre al lavoro e alle relazioni personali, che
procurano piacere. In un’indagine del 2004 svolta su un campione di adulti americani,
alla domanda quale fosse la loro attività preferita nel tempo libero, le risposte più
popolari sono state: leggere (35%), guardare la TV (21%), passare il tempo con familiari
ed amici (20%), vedere dei film (16%), pescare (8%), stare al computer (7%), praticare
esercizio fisico (6%), fare giardinaggio (6%) e camminare (6%). Altre fonti di
intrattenimento sono il buon cibo, le droghe ricreative come l’alcol, la musica, il teatro, lo
sport e gli hobby. Nel 2005 la media dei canadesi adulti trascorreva 5.5 ore al giorno
impegnata in attività ricreative.
Il neuropsicologo Jaak Panksepp ha condotto ampie ricerche sull’attivazione dei
circuiti del gioco che nel cervello possono produrre piacere 20. Egli ritiene che il cervello
contenga diversi sistemi nervosi adibiti all’attività di azzuffarsi per gioco propria di tutti i
cuccioli, dai ratti fino agli esseri umani. Come i bambini, i ratti amano azzuffarsi fra loro
in modi che sono intimamente collegati ai processi dell’informazione somato-sensoriale
nel mesencefalo, nel talamo, e nella corteccia. I neuromediatori sinaptici efficaci
nell’attivare il gioco comprendono l’acetilcolina, il glutammato, e gli oppiodi. Panksepp
ritiene che il gioco nei cuccioli e nei bambini abbia importanti funzioni, fra le quali
facilitare l’apprendimento, acquisire destrezza fisica, e assimilare le norme sociali.
Questo tipo di divertimento può continuare nell’età adulta, attraverso la pratica di sport
interattivi, come il football, la pallacanestro e l’hockey.
Perché il gioco è divertente? Studi sui ratti non hanno identificato alcuna particolare
area del cervello essenziale per il gioco, che coinvolge popolazioni di neuroni di molte
aree cerebrali, come descritto nel quinto capitolo a proposito dei processi emotivi. Il
gioco può essere inibito da modificazioni ambientali che provocano stati emotivi negativi
come paura, ira, ansia da separazione, così come disturbi corporei come fame e malattie.

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Il gioco induce una diffusa liberazione di oppioidi nel sistema nervoso, i quali sono in
grado di modularlo: basse dosi di morfina possono intensificare il gioco nei ratti,
antagonisti della morfina possono ridurlo. L’attivazione dei sistemi della serotonina e
della noradrenalina riduce il gioco, come anche il blocco dei sistemi dopaminici. Il
resoconto completo della neurofisiologia del gioco non è ancora possibile, ma c’è già ora
l’evidenza sufficiente per suggerire che il gioco diverte per i suoi effetti neurochimici. Gli
studi attuali si riferiscono soprattutto ai ratti, i cui circuiti nervosi e neurochimici sono
assai simili a quelli degli esseri umani.
Nel quinto capitolo è stata descritta l’evidenza in base alla quale le persone provano
piacere nell’assumere le droghe ricreative, come l’alcol, grazie agli effetti che esse
producono su vari circuiti neurochimici, come quelli della dopamina e degli oppioidi
endogeni. Le ragioni neurochimiche del piacere che si prova a praticare sport non sono
state molto studiate, ma la valenza emotiva del brivido per la vittoria e della sofferenza
per la sconfitta è ovvia. Come molti lavori impegnativi, lo sport è fatto di obiettivi e degli
sforzi per raggiungerli. Per questo il piacere di vincere una gara o di eseguire un’ottima
prestazione personale proviene verosimilmente dallo stesso processo nervoso che produce
soddisfazione per un lavoro ben riuscito. Per di più, l’esercizio può stimolare la
produzione di endorfine, oppioidi naturali del cervello che riducono il dolore e
trasmettono la sensazione di benessere 21. Assistere a manifestazioni sportive è un
passatempo molto più diffuso che praticare sport, e ampie ricerche sono state fatte sul
perché la gente tragga piacere da questo tipo d’intrattenimento. Le motivazioni emotive
dell’assistere a manifestazioni sportive comprendono il piacere d’incoraggiare la squadra
del cuore, l’eccitazione per quel che si vede, l’aumento dell’autostima in caso di vittoria
della propria squadra, e l’evasione dallo stress quotidiano 22. Le persone hanno anche
motivazioni cognitive, come informarsi sui giocatori e sulle squadre, e sociali, come lo
stare in compagnia e sperimentare l’appartenenza ad un gruppo. Quando un gruppo di
persone s’identifica con una squadra e viceversa, il successo di quella squadra diviene
uno scopo, anche se, sfortunatamente, i tifosi non hanno influsso sul suo raggiungimento.
Ci sono, oltre allo sport, molti altri generi di giochi. Uno degli intrattenimenti principali è
la musica, la cui base biologica è intensamente studiata da psicologi e neuroscienziati.
Nel suo stimolante libro intitolato This Is Your Brain on Music, Daniel Levitin descrive
come la nostra esperienza musicale derivi da processi nervosi della percezione e
dell’emozione 23. Ad esempio, la nostra capacità di riprodurre accuratamente il ritmo di
una canzone, è probabilmente dovuta al cervelletto, che contiene un sistema di
marcatempo della vita d’ogni giorno. Ascoltare musica e prestare attenzione alla sua
struttura attiva la parte orbitale della regione della corteccia frontale sinistra, che è
coinvolta nel linguaggio, e l’analoga area dell’emisfero destro, che non ha rapporti col
linguaggio. La percezione e la memoria della musica presentano meccanismi nervosi
comuni che spiegano come le canzoni possano insediarsi nelle nostre teste nella forma dei
cosiddetti vermi dell’orecchio difficili da fermare 24. Emozioni musicali intense – fremiti
e brividi – sono associate alle regioni del cervello della ricompensa, della motivazione,
dell’attivazione: il corpo striato ventrale, l’amigdala, il mesencefalo, e regioni della
corteccia frontale. Levitin ha impiegato la RMN funzionale per esaminare se il nucleo

146
accumbens, che è parte dello striato ventrale coinvolto nel piacere e nell’assuefazione,
contribuisca al piacere musicale. Ecco che cosa ha scoperto:

Ascoltare musica attiva a cascata molte regioni cerebrali in un ordine preciso. Innanzitutto la
corteccia uditiva per l’elaborazione delle componenti del suono. Poi le regioni frontali, come
la BA44 e BA47, coinvolte, come si sa, nei processi nervosi della struttura e della aspettativa
musicale. Alla fine, una rete di regioni – il sistema mesolibico – responsabile dell’eccitamento
e del piacere, con la trasmissione di oppioidi e la produzione di dopamina, che culminano
nell’attivazione del nucleo accumbens. Inoltre il cervelletto e i gangli della base sono
costantemente attivi, fungendo da sostegno al processo nervoso del ritmo e del marcatempo.

L’aspetto gratificante della musica sembra quindi essere mediato dall’attività della
dopamina nel nucleo accumbens, come avviene per gli aspetti positivi legati al cibo e alle
droghe. Levitin fornisce esempi illuminanti di come la musica abbia forgiato il mondo
attraverso sei generi di canti: sull’amicizia, sul piacere, sul benessere, sulla conoscenza,
sulla religione e sull’amore 25. Altri studi hanno osservato le modalità con cui la
percezione musicale influisce sulle emozioni, sul sistema nervoso simpatico, sui sistemi
ormonali e immunitari e sui meccanismi della rappresentazione. I meccanismi alla base
delle emozioni musicali comprendono la valutazione cognitiva, i riflessi del tronco
encefalico, la condivisione delle emozioni, immaginazione visiva, memoria episodica,
l’attesa musicale.
Un altro dei miei intrattenimenti preferiti è la lettura di romanzi, racconti, poesia e
saggistica. Provo particolare piacere nella lettura di biografie di personaggi interessanti,
come scienziati, scrittori e uomini politici. Come è stato ricordato nel quarto capitolo,
molte ricerche sono state fatte sui processi cerebrali della lettura. Stando a quanto afferma
Maryanne Wolf, esperta di dislessia, la lettura scorrevole richiede il riconoscimento dei
moduli di lettere e parole, strategie pianificate per interpretare i sottofondi inferenziali e
metaforici e il sentimento per il significato emotivo di ciò che si legge 26. Gli sforzi del
cervello per identificare lettere e parole attivano numerosi processi nervosi nelle aree
visive della corteccia di entrambi gli emisferi, che diventano molto più efficienti con
l’esercizio. Le regioni emotive del cervello sono importanti per dare priorità e valore a
quel che si legge. Così il leggere, come la musica, ha una componente emotiva, percettiva
e cognitiva. Come la musica, il ruzzare e il far capriole, il leggere richiedono attività
integrate di molte regioni del cervello: le aree sensomotorie, visive, uditive, del
linguaggio, il lobo temporale, il cervelletto. La Wolf descrive alcune ricerche che sono
state condotte sui deficit cerebrali che possono rendere difficile per alcuni bambini
imparare a leggere, e sulle strategie psicologiche per superarli. Non sono al corrente
dell’esistenza di studi sulle modalità che consentono al cervello di apprezzare la poesia, il
dramma, le arti visive, ma mi attendo che si tratti di processi nervosi simili a quelli della
percezione, della cognizione e dell’emozione.
Un altro genere molto piacevole di gioco è l’umorismo, un’attività universale di cui
l’umanità fa esperienza attraverso il riso. L’umorismo genera l’emozione positiva
dell’allegria, che sorge dalla combinazione di processi cognitivi come la scoperta
dell’incongruità, e processi emotivi come la percezione di cambiamenti fisiologici. Come
147
ogni altra esperienza emotiva, l’umorismo dipende dall’interazione di molti meccanismi
che operano su quattro livelli diversi, dal sociale al molecolare. Il riso e il gioco fanno la
loro comparsa nei bambini intorno ai quattro-sei mesi di età, e sono facilitati dai contesti
sociali. Ora viene a proposito la mia barzelletta preferita sulla psicologia, che racconto
per divertirvi. Sapete perché gli psicologi, anziché usare i topi nei loro esperimenti, come
facevano una volta, impiegano gli avvocati? Primo, perché ci sono più avvocati che topi.
Secondo, i ricercatori si stavano affezionando ai topi. E, terzo, ci sono cose che i topi non
vogliono fare. Ora gli psicologi stanno rinunciando anche agli avvocati, perché non
possono trasferire i risultati sperimentali agli esseri umani.
Riassumendo, esiste l’evidenza sociologica e psicologica del fatto che le diverse forme
del gioco sono molto importanti per le persone, ed esiste l’evidenza nervosa del fatto che
alcune varietà di intrattenimento, come la musica, sono rilevanti. Ciò che ancora manca è
un argomento che porti alla conclusione normativa che il gioco deve essere importante
per le persone. Per tali parti normative dobbiamo attendere il prossimo capitolo. Non
credo che tutte le forme di gioco abbiano lo stesso significato, e quindi, per cortesia, non
attribuitemi l’opinione secondo cui il fatto di stare ore davanti alla televisione o di
ubriacarsi durante una partita di football diano significato alla vita. Nemmeno tutte le
varietà d’amore e di lavoro hanno lo stesso significato, e alcune di loro, come una
relazione equivoca o lavori noiosi, possono essere dannose per la felicità. Nel capitolo
ottavo sosterrò che amore, lavoro e gioco hanno un valore oggettivo quando aiutano a
soddisfare le necessità della vita. Le ricerche di biologi e psicologi forniscono il
collegamento cruciale fra significato soggettivo ed obiettivo.

Conclusione

Se volete ridurre il mio libro ad uno slogan, potete scegliere questo: il significato della
vita consiste nell’amore, nel lavoro e nel gioco. Un riassunto con qualche sfumatura in
più potrebbe essere: la vita umana ha significato perché amore, lavoro e gioco forniscono
scopi coerenti e validi, che possono essere perseguiti e almeno in parte raggiunti,
garantendo alla coscienza emozionale, che ha sede nel cervello, soddisfazione e felicità.
Ho tentato di sviluppare una teoria naturalistica del significato della vita, costituto
principalmente da amore, lavoro e gioco. Ciascuno di questi ambiti fornisce scopi
gratificanti, che sono rappresentazioni cerebrali dello stato delle cose, intrise, grazie a
varie attività nervose, di significato emozionale. La ricerca della felicità che la maggior
parte della gente intraprende offre una buona ragione per rifiutare il nichilismo, cioè
l’opinione secondo cui la vita sarebbe insensata o assurda. C’è più significato che felicità,
e questa è il risultato del soddisfacimento di scopi più profondi, il cui perseguimento e
realizzazione aiuta la vita a prosperare. Il significato della vita è multidimensionale, e
richiede la combinazione e l’integrazione di vari tipi di obiettivi, i più importanti dei quali
concernono l’amore, il lavoro e il gioco.
Un sostegno all’importanza di questi ambiti della vita è fornito dall’evidenza
psicologica e sociologica che riguarda i loro contributi al benessere, e inoltre dalla
crescente comprensione di come operino i nostri cervelli. La ricerca riuscita di questi

148
obiettivi minimizza la tetra osservazione di Woody Allen secondo cui la vita è piena di
miseria, solitudine, e sofferenza – e tutto questo concentrato in troppo poco tempo. Un
filosofo ha sostenuto la desolata opinione secondo cui sarebbe meglio non nascere,
perché la vita comporta sempre serie sofferenze 27. La vita di tutti comprende l’esperienza
del dolore, ma il dolore non è incondizionatamente il male, perché in molti casi – vedi la
chirurgia – esso è parte di un processo sostanzialmente buono. Amore, lavoro e gioco
possono esporci al dolore, ma la loro ricerca e i loro ricorrenti benefici garantiscono il
fatto che la vita, per la maggior parte delle persone, è meglio della sua assenza. Altri
scopi, come la bellezza, il potere, l’armonia sociale, sono parte della condizione umana:
ma essi mi sembrano subordinati rispettivamente al gioco, al lavoro e all’amore. La base
nervosa dell’amore sentimentale comincia ad essere ben capita, ma dobbiamo occuparci
anche di altri aspetti dell’amore, come la cura dei figli, l’amicizia, la compassione. Anche
il lavoro può essere fonte di benessere, per la soddisfazione derivante dal conseguimento
di risultati che comprendono il guadagno, l’approvazione sociale, e l’efficacia nel
risolvere problemi. Il gioco può sembrare troppo futile per contribuire al significato della
vita, ma esso coinvolge bambini ed adulti, e le neuroscienze ci stanno mettendo a
conoscenza delle modalità attraverso le quali la musica ci procura gioia e piacere.
La maggior lacuna di questo capitolo concerne lo stato normativo delle opinioni sul
significato della vita, di cui discuteremo nei prossimi due capitoli. Spero, comunque, di
aver prospettato alcune ragioni per rifiutare diversi approcci inappropriati al significato
della vita, ivi comprese le religioni, il nichilismo e la serenità dello scansafatiche. Gli
ambiti dell’amore, del lavoro e del gioco forniscono risposte esaurienti alla domanda sul
perché la vita sia degna d’essere vissuta, ma solo se abbiamo validi motivi per pensare
che essi non forniscono solo scopi che si possono raggiungere, ma anche obiettivi che si
devono perseguire. Nel prossimo capitolo si argomenterà che amore, lavoro e gioco sono
fini normativamente appropriati per il loro contributo alle vitali necessità umane.

1
Cfr. Biswas-Diener et al. 2005.
2
Sulle fonti della felicità umana cfr. Deaton 2008; Diener e Seligman 2004; Easterlin 2006;
http://harrisinteractive.com.harris_poll/index.asp?PID=900.
3
Non ho trovato la fonte originale della frase di Hawthorne sulla farfalla.
4
Cfr. Lucas 2003; http://pewresearch.org/pubs/301/are-we-happy-yet.
5
Cfr. Lazarus 2003.
6
La frase di John Stuart Mill si trova nel saggio Utilitarismo.
7
Cfr. Baumeister – Leary 1995; Diener – Seligman 2004.
8
Cfr. Fisher 2004; Aaron et al. 2005; Fisher et al. 2005; Bartels – Zeki 2000.
9
Cfr. Insel – Young 2001.
10
Cfr. Kosfeld et al. 2005; Krueger et al. 2005. Sui processi cerebrali dei legami sociali cfr. Depue –
Morrone-Strupinsky 2005; Panksepp 1998; Mac-Donald – Leary 2005.
11
Per uno studio di visualizzazione cerebrale in casi di esclusione sociale cfr. Einsenberg et al. 2003;
Einsenberg – Lieberman 2004.

149
12
Per le modificazioni che avvengono nei cervelli dei monaci buddisti tibetani cfr. Lutz et al. 2004.
13
Cfr. http://www.sciencenews.org/view/generic/id/38653/title/Still_crazy_(in_love)_after_all_these-
years.
14
Hofstadter 2007, pp. 222-224. È possibile che il legame di lunga durata crei un’entità nuova.
15
Cfr. Kringelbach et al. 2008.
16
Cfr. Diener e Seligman 2004; Spector 1997; Dawis 2004; Judge et al. 2001; Deaton 2008; Spreitzer et
al. 2005.
17
Cfr. Judge et al. 2001; Locke et al. 1981.
18
Csikszentmihalyi 1997.
19
Freud nega che la vita abbia un senso, ma dice che la gente si impegna nel cercare di raggiungere la
felicità, alla quale contribuiscono amore e lavoro. Secondo Haidt 2006 (con molte interessanti riflessioni
sulla felicità), Freud potrebbe aver detto (non scritto) che il senso della vita è dato dall’amore e dal lavoro.
20
Sulla neuroscienza dell’umore cfr. Martin 2007; Panksepp 1998.
21
Cfr. Thoren et al. 1990.
22
Per le emozioni che si provano osservando lo sport cfr. Raney 2006; Gordon 2008.
23
Levitin 2006, in part. p. 187.
24
«Vermi dell’orecchio» («Ohrwürmer» in tedesco, «earworm» in inglese) sono motivi musicali sentiti
subito come familiari perché stimolano nicchie uditive a loro predisposte (nota del T.).
25
Levitin 2008. Cfr. inoltre Koelsch – Siebel 2005; Juslin – Vastfjiall 2008.
26
Wolf 2007. Zunshine 2007 ritiene che la gente legga narrativa perché essa impegna cognitivamente la
nostra teoria della mente, ma io penso che la stimolazione emotiva sia altrettanto importante. Cfr. Goldman
2006 e l’ottavo capitolo sui neuroni specchio.
27
Secondo Benatar 2006 l’autovalutazone della qualità della vita è ingannevole.

150
8
Necessità e speranze

Desideri contro necessità

Negli anni Sessanta i Rolling Stones cantavano:«Tu non puoi sempre avere quel che
vuoi/Ma se tenti, qualche volta potresti riuscire/E avere quel che ti serve». La maggior
parte delle persone desidera aver successo in amore, nel lavoro e nel gioco, ma ne ha
realmente bisogno? Il semplice desiderare qualcosa da parte nostra non significa che essa
meriti d’essere desiderata. La gente ha spesso desideri futili, suscitati dal contagio sociale
o dalla pubblicità – si pensi a coloro che desiderano gli ultimi ritrovati tecnologici o i
vestiti alla moda. Per avere una solida risposta alla domanda sul senso della vita,
dobbiamo stabilire che alcuni fini hanno realmente valore, e non solo rilevare il fatto che
molta gente li apprezza. Questa è la ragione per cui il problema del significato della vita
ha bisogno di muoversi dagli ambiti descrittivi della psicologia, della neuroscienza e della
sociologia verso l’ambito normativo della filosofia.
In questo capitolo si sostiene che le necessità stabiliscono la connessione cruciale fra
valori soggettivi e oggettivi. Amore, lavoro e gioco non sono desideri arbitrari, ma sono
strettamente legati alle necessità vitali di parentela, competenza e autonomia. Le necessità
vitali sono caratteristiche e relazioni di cui si ha bisogno per vivere come esseri umani.
Dal momento che amore, lavoro e gioco aiutano a soddisfare le necessità umane, essi
possono costituire il significato della vita sia come norma sia come descrizione.
Un altro problema normativo importante riguarda le modalità da utilizzare per
affrontare i conflitti che possono sorgere fra gli obiettivi importanti dell’amore, del lavoro
e del gioco. La gente spesso avverte stress e ansia quando è sopraffatta da simili conflitti,
come quando l’obiettivo della carriera sembra incompatibile con quello della famiglia. Si
discuteranno le strategie per raggiungere l’equilibrio nel perseguimento dei fini in
conflitto, e si valuteranno i consigli su come fare per incrementare la felicità e per
cogliere ancor di più il senso della vita. Tali strategie mostrano come amore, lavoro e
gioco siano le fonti di speranza che danno valore alla vita.

Necessità vitali

151
Stando al filosofo David Wiggins, la gente ha bisogno delle cose senza le quali non si
sente bene 1. Egli rifiuta la cinica asserzione secondo la quale un bisogno è ciò che si
desidera senza essere disposti a pagarlo. I bisogni sono assai più fondamentali dei
desideri e degli interessi: voi potete desiderare una vacanza alle Hawai, ma avreste grandi
difficoltà ad argomentare che senza di essa sareste danneggiati. Le persone coltivano vari
interessi, che influenzano il loro benessere. Ma solo alcuni sono interessi vitali, cioè
indispensabili alla persona per essere quello che è. Ad esempio, voi potete avere un
interesse per la musica, che è collegato al vostro benessere nel senso che ascoltare musica
vi rende felici; ma l’essere privati della musica non vi rende incapaci di vivere una vita
piena di significato. Detto in senso positivo, la soddisfazione dei bisogni vi mette nella
condizione di avere una buona vita.
Wiggings non fornisce alcuna evidenza per stabilire quali bisogni siano realmente
vitali per il buon andamento della vita. Alcuni bisogni biologici sono ovvi: morireste se
steste senza bere per alcuni giorni o senza mangiare per alcune settimane. Altri bisogni
sono meno immediati – ad esempio le persone si ammalano e deperiscono se hanno a
disposizione solo acqua contaminata o cibi poco nutrienti, o se non possono dormire,
evacuare o muoversi. L’evidenza causale del fatto che cibo, acqua e sonno sono bisogni
umani vitali è sia negativa sia positiva: se i bisogni non sono soddisfatti, le persone non si
sentono bene; nel caso contrario, prosperano. Noi sappiamo che, private dell’acqua, le
persone soffrono e muoiono presto, mentre dare acqua agli assetati li rende felici e
consente loro di sopravvivere.
Per chi vive in povertà, i bisogni elementari di cibo, acqua e rifugio sono
preoccupazioni giornaliere, che lasciano poco tempo ed energia alla riflessione sul
significato della vita. Al contrario, per chi di noi ha risolto il problema del
soddisfacimento delle necessità elementari, la domanda chiave sul significato della vita
verte su quali siano i bisogni che contribuiscono al soddisfacimento delle necessità
psicologiche. Se si possono identificare i profondi bisogni psicologici delle persone, si
può valutare l’ampiezza del contributo dell’amore, del lavoro e del gioco alla loro
soddisfazione. Quali sono, dunque?
Gli psicologi Edward Deci e Richard Ryan hanno proposto una teoria efficace della
motivazione umana, che postula tre bisogni psicologici fondamentali: competenza,
autonomia e legami di appartenenza 2. La competenza è il bisogno che si prova ad essere
efficaci nelle proprie attività, impegnandosi in compiti ed esperienze fisiche e sociali
stimolanti. Il bisogno di competenza induce le persone a scegliere compiti appropriati alle
proprie capacità. L’autonomia è il bisogno di sentire che quel che si fa deriva da una
propria scelta e partecipazione, e che è possibile organizzare e regolare il proprio
comportamento come espressione di interessi e valori. La relazione è il bisogno di
provare un senso di vicinanza agli altri, che implichi affetto e senso di sicurezza,
appartenenza e intimità. Ciò richiede il legame con persone di cui abbiamo cura e che si
prendono cura di noi. Per Deci, Ryan e collaboratori esiste un’ampia evidenza psicologica
del fatto che questi tre bisogni sono veramente di grande importanza. Se sono soddisfatti,
si prova benessere; mentre contesti sociali e contrasti individuali che li ostacolano sono
associati a motivazioni e prestazioni più scadenti.

152
Gli psicologi dovrebbero fornire l’evidenza del fatto che, privando la gente di
competenza, autonomia, e appartenenza la si danneggia, mentre il soddisfacimento di
questi bisogni rende la vita ricca di significato da un punto di vista psicologico.
L’evidenza più convincente dovrebbe mostrare causalità e correlazione, ma, per ragioni
etiche e sociali, è difficile condurre esperimenti al fine di determinare gli effetti dei tre
fattori. Il caso più eclatante di un legame causale si riferisce al bisogno d’appartenenza.
Roy Baumeister e Mark Leary hanno studiato il bisogno di appartenenza delle persone
e si sono occupati del fatto che il desiderio di affetto interpersonale è una motivazione
umana fondamentale 3. La formazione di legami sociali è tipica di tutte le società, e i
moduli di base del pensiero riflettono un interesse fondamentale per le relazioni sociali –
ad esempio l’uso universale dei concetti di parentela. La formazione di legami sociali è
generalmente associata a emozioni positive, come l’esperienza dell’innamoramento. Al
contrario, la minaccia agli affetti e ai legami sociali è una fonte primaria di emozioni
negative, come la gelosia e la solitudine. In molti casi, il rapporto di causalità fra
privazione sociale ed emozioni negative è evidente, come nel caso in cui la morte di un
coniuge, di un figlio, di un genitore o di amici cari provoca una pena intensa e in alcuni
casi una lunga depressione. Molti studi dimostrano che la privazione dei legami di
appartenenza compromette la salute fisica e mentale. I divorziati corrono il rischio di
incorrere in brutte esperienze, comprese malattie, omicidi, criminalità, incidenti e morte.
L’evidenza del fatto che autonomia e competenza sono bisogni vitali è meno
comprensibile. Secondo Ryan e Deci, la questione se il comportamento delle persone
dipenda dai suoi interessi e valori, o da ragioni esterne, è importante in tutte le culture. Se
la motivazione è autonoma e sentita, le persone hanno più interesse, entusiasmo e fiducia,
sono capaci di prestazioni di valore e dimostrano tenacia e creatività. Autonomia e
competenza sono fortemente associate ad eventi della vita che le persone indicano come i
più soddisfacenti, mentre la loro assenza coincide con casi della vita poco o per nulla
soddisfacenti. La sofferenza causata da un capoufficio o da un coniuge autoritari
sottolineano l’importanza dell’autonomia, e la tristezza in seguito a fallimenti nel lavoro
o nello studio mostrano l’importanza della competenza. I bambini sono maggiormente in
grado di correggersi se i genitori sostengono la loro autonomia piuttosto che controllarli
autocraticamente 4. Non sono sicuro che l’evidenza sia ora sufficiente a suffragare la
convinzione di Deci e Ryan che i bisogni di appartenenza, autonomia e competenza sono
innati, perché ancor poco si sa della loro storia evolutiva e della loro base genetica 5. Ma
non è necessaria la dimostrazione del fatto che siano innati per stabilire che i tre bisogni
psicologici sono veramente vitali: la gente prospera in loro presenza e soffre se non ci
sono. Senza competenza, autonomia e appartenenza è veramente difficile funzionare
come esseri umani. Inoltre, sono sempre più evidenti i meccanismi nervosi di questi
bisogni.

Come amore, lavoro e gioco soddisfano i bisogni

Le attività legate agli ambiti dell’amore, del lavoro e del gioco possono contribuire
enormemente alla soddisfazioni dei bisogni psicologici vitali della competenza,

153
dell’autonomia e dell’appartenenza. Il lavoro, quando è impegnativo ma fattibile, è molto
importante per la competenza, perché permette alle persone di sentirsi efficienti. La
mancata soddisfazione del bisogno della competenza è una spiegazione parziale del fatto
che i lavori umili siano sgradevoli. Anche il gioco può contribuire al senso di
competenza, quando comprende attività impegnative come lo sport, la musica, gli hobby.
Soddisfare il bisogno della competenza richiede impegno, per cui è chiaro che ad alcuni
passatempi, come guardare trasmissioni televisive senza senso, non può essere attribuita
la capacità di generare valore. L’amore, nel quale ho compreso l’amicizia, la compassione
e il coinvolgimento sentimentale, è chiaramente la strada più agibile per soddisfare il
bisogno dei legami di appartenenza. I giochi frivoli che non richiedono competenze
possono essere giustificati come distrazione dagli stress del perseguimento dei fini di
valore dell’amore e del lavoro.
Pertanto lavoro, gioco ed amore sono chiaramente conformi ai bisogni di competenza
e appartenenza, ma che ne è del bisogno d’autonomia? Ci sono prove, nelle fonti citate
nel settimo capitolo, del fatto che il lavoro è particolarmente soddisfacente quando è stato
scelto ed è regolato da chi lo esegue, suggerendo che i generi più piacevoli di lavoro
aiutano a soddisfare il bisogno d’autonomia. Il problema dei lavori noiosi non consiste
solo nel fatto che non trasmettono il senso di efficienza necessario per soddisfare il
bisogno di competenza, ma anche nel fatto che sono controllati da altri e quindi non
consentono di fare scelte autonome e di regolare il proprio comportamento. L’autonomia
sembra essere importante anche per le relazioni sentimentali, tant’è vero che le persone
tendono ad essere più soddisfatte nelle relazioni basate sull’amore che nei matrimoni
combinati 6. Non conosco simili dati per il gioco, ma giochi e intrattenimenti sono
plausibilmente più soddisfacenti quando è possibile sceglierli. La gente non gradisce che
le si prescriva quel che deve fare per divertirsi.
Se Deci e Ryan hanno ragione nel sostenere che competenza, appartenenza e
autonomia sono necessità psicologiche vitali, e se esiste un’evidenza sufficiente del fatto
che amore, lavoro e gioco contribuiscono sostanzialmente alla soddisfazione di tali
bisogni, allora siamo alla soglia della spiegazione del motivo per cui le attività, in questi
tre ambiti, contribuiscano tanto al benessere. Gli scopi che amore, lavoro e gioco possono
raggiungere non sono arbitrari e acquisiti dalle mutevolezze della cultura e
dell’esperienza, ma sono basati sulla natura della mente umana. Per completare meglio
questo quadro, sarebbe desiderabile conoscere più a fondo le basi nervose dei bisogni di
competenza, appartenenza e autonomia, così da avere la spiegazione meccanicistica del
perché chi ne è privo soffre 7. La base nervosa dell’appartenenza è quella più conosciuta,
grazie allo studio dei meccanismi dei legami interpersonali descritti nel settimo capitolo.
Nel quinto capitolo abbiamo visto che la perdita di relazioni di appartenenza causa una
sofferenza psicologica simile al dolore fisico. Il bisogno di competenza è radicato nei
meccanismi nervosi del soddisfacimento degli scopi, fissato dentro il cervello come parte
della base neurochimica della rappresentazione e del soddisfacimento degli scopi.
Secondo la neuropsicologa Kelly Lambert, il nucleo accumbens e altre strutture cerebrali
fanno funzionare un sistema di ricompensa correlato all’impegno che ha permesso ai
nostri antenati di sopravvivere sostenendo l’alto livello di attività necessarie
all’acquisizione di risorse come cibo, acqua e rifugio. Non sorprende che un maggior
154
impegno possa portare ad una maggior ricompensa, per via del piacere che deriva
dall’aumento dell’attività dei neuroni che rilasciano dopamina nel nucleo accumbens e
nella corteccia orbitofrontale. Sarebbe opportuno arrivare a una spiegazione nervosa più
dettagliata del perché scopi impegnativi, come quelli che spronano a svolgere lavori e
giochi più complessi, siano potenzialmente più gratificanti di quelli che richiedono un
impegno minore. Perché portare a termine un progetto ambizioso ci fa sentir meglio che
svolgere un impegno banale? La risposta è probabilmente correlata in parte
all’approvazione sociale, ma dovrebbe essere sviluppata una spiegazione nervosa
dettagliata dei meccanismi della ricompensa in rapporto all’impegno. Si sa a sufficienza,
comunque, del motivo per cui la serenità dei perdigiorno non è gradita alla maggioranza
delle persone: la ricompensa psicologica del perseguimento di obiettivi minimi
raggiungibili con scarsi sforzi. è assai piccola.
Il bisogno d’autonomia è probabilmente legato ai meccanismi cerebrali del controllo
volontario propri della corteccia frontale e di quella cingolata. Nel secondo anno di vita,
lo sviluppo dei meccanismi frontali specifici consente ai bambini il controllo volontario
delle azioni e permette loro di iniziare a posporre la ricompensa, valutando il fatto che più
tardi essa sarà superiore rispetto a quella immediata 8. Il maggior controllo consente ai
bambini una maggior attenzione e autodisciplina. Senza l’attesa e il desiderio di
autonomia, i bambini sarebbero perennemente soddisfatti del fatto che i loro bisogni
vengano assolti da chi si prende cura di loro. L’adolescenza porta ad un altro rilevante
sviluppo della corteccia frontale, associato ad un desiderio ancora maggiore di
autonomia. Ancor più dei bambini piccoli, gli adolescenti traggono maggiore
soddisfazione da prestazioni del tutto autonome. Sembra pertanto che le interazioni fra le
regioni cerebrali del controllo esecutivo, la corteccia frontale e i sistemi emotivi
forniscano maggiori ricompense correlate allo sforzo sostenuto per conseguire obiettivi
mediante azioni controllate da chi agisce. Gli psicologi hanno dimostrato che le persone
sono più felici, più sane e più alacri quando perseguono obiettivi originali, radicati nei
loro interessi profondi e nei valori che stanno loro a cuore. Sono necessarie ulteriori
ricerche per descrivere in dettaglio i meccanismi che sottostanno alla maggior
soddisfazione derivante da azioni del tutto autonome.
A prima vista, sembra che quel che ho detto dell’autonomia come bisogno vitale
contraddica l’assenza della libera volontà, di cui si è parlato nel precedente capitolo. I
meccanismi cerebrali del processo decisionale sono veramente incompatibili con una
nozione metafisica dell’autonomia basata su azioni totalmente libere da parte di un’anima
immateriale. Ma la nozione psicologica di autonomia, secondo cui le persone agiscono in
base ai propri interessi e valori, è perfettamente congruente con la mia teoria nervosa del
processo decisionale, dal momento che interessi e valori sono rappresentati nel cervello
dall’attività dei neuroni. Voi agite autonomamente se le vostre decisioni sono basate sui
vostri fini, anche se il processo nervoso dell’inferenza al miglior progetto è incompatibile
con il genere di libera volontà che il dualismo promette ma non mantiene.
Trovare una base neurale per i desideri di competenza, di legami di appartenenza e di
autonomia è importante, perché ciò mostra che si tratta di bisogni biologici e psicologici
profondi. È ovvio che le persone sono danneggiate se manca loro la soddisfazione di
bisogni biologici elementari come cibo, acqua e rifugio. Per questo attività come il
155
mangiare, il bere e costruire rifugi e case sono comprensibili e giustificabili come cruciali
per la soddisfazione di bisogni fondamentali. Similmente, amore, lavoro e gioco sono
comprensibili e giustificabili come fondamentali per la soddisfazione di bisogni
psicologici vitali, derivati dalla natura del nostro cervello. Per questo essi sono parti
centrali del significato della vita, normativamente e narrativamente.
Forse vi state meravigliando del fatto che non abbia ancora sostenuto che competenza,
appartenenza e autonomia rappresentano il significato della vita, dal momento che questi
bisogni spiegano perché le persone perseguono amore, lavoro e gioco. Il motivo è che
esiste più evidenza sperimentale diretta, di cui si è parlato nel settimo capitolo, per amore,
lavoro e gioco come reali dimensioni umane che non per i tre bisogni astratti proposti da
Deci e Ryan.
Io spero che, alla fine, avremo teorie più dettagliate e basate su dati sperimentali sui
bisogni psicologici, che siano in grado di fornire spiegazioni meccanicistiche più
esaustive delle modalità con cui le persone perseguono l’amore, il lavoro e il gioco. I
bisogni dell’Io costituiscono le condizioni del mondo, senza le quali l’Io è menomato. I
bisogni vitali sono costituenti tanto centrali per le persone, che esse non potrebbero
esistere come esseri umani senza di loro. Pertanto gli scopi più importanti sono tesi a
realizzare condizioni del mondo e dell’Io che possano soddisfare i bisogni vitali. Amore,
lavoro e gioco sono obiettivi il cui perseguimento contribuisce in modo centrale al
significato della vita, perché il loro raggiungimento soddisfa i bisogni vitali dei legami di
appartenenza, di competenza e di autonomia.
La mia opinione in questa capitolo è congruente con uno sviluppo teorico importante
che ha riguardato l’economia e la filosofia politica, ossia l’approccio alle capacità di
Amartya Sen e Martha Nussbaum 9. Essi pongono l’accento sull’importanza per le
persone di fare le cose alle quali attribuiscono valore, come vivere una vita lunga e sana,
essere in grado di stabilire rapporti sociali, avere il controllo del proprio ambiente fisico e
sociale. Per quel che riguarda il mio pensiero, le persone hanno tutte le ragioni di dar
valore a ciò che contribuisce ai loro bisogni vitali, ivi compresi i bisogni psicologici
dell’appartenenza, della competenza e dell’autonomia.
Anche l’idea di Peter Railton sull’interesse obiettivo può essere collegata ai bisogni
vitali. Egli immagina di conferire a individui ideali poteri cognitivi non qualificati e
immaginifici, e una piena e reale informazione circa le circostanze e le loro condizioni
fisiche e psicologiche. Noi potremmo allora chiedere a questi individui idealizzati che
cosa desidererebbero che i loro Io originali desiderino, e le risposte segnalerebbero i loro
interessi oggettivi in contrasto con i loro desideri soggettivi. Railton arguisce che ciò che
è morale poggia soprattutto sugli interessi oggettivi generali. Il mio dissenso riguarda il
fatto che le conoscenze psicologiche e neurologiche dei bisogni vitali forniscono già ora
gran parte di ciò che abbiamo bisogno di conoscere sul sorgere di tali interessi oggettivi,
che comprendono appartenenza, competenza e autonomia.
Si metta a confronto la mia spiegazione del perché amore, lavoro e gioco siano fonti
normative di significato con la giustificazione dei metodi scientifici degli esperimenti e
dei ragionamenti trattati nel secondo capitolo. In linea generale, possiamo impiegare
un’informazione descrittiva per giungere a conclusioni normative, ogni volta che
possiamo individuare i fini appropriati. Se i fini appropriati della scienza sono la verità, la
156
spiegazione, la previsione, e se la storia della scienza rivela che gli esperimenti e
l’inferenza alla miglior spiegazione sono le pratiche più adatte per raggiungere questi
obiettivi, allora queste pratiche giustificano normativamente ciò che la scienza deve fare.
Allo stesso modo, se la psicologia ci dice che gli scopi vitali degli esseri umani
comprendono appartenenza, competenza e autonomia, e se neuropsicologia e sociologia
possono chiarire che amore, lavoro e gioco sono le pratiche migliori per soddisfare questi
bisogni, allora queste pratiche sono normativamente giustificate come fonti di significato
oggettivo della vita. Nel decimo capitolo si tornerà sulla questione generale di come
qualcosa possa essere naturalisticamente normativo.

Equilibrio, coerenza e cambiamento

Si dice che le persone hanno bisogno di un buon equilibrio lavoro-vita, specie


criticando chi è concentrato su un solo genere di scopi, ad esempio la carriera.
Ho sperimentato questa ristrettezza attorno ai miei vent’anni, quando il dottorato e i
primi passi della carriera accademica mi sembravano più importanti delle relazioni
personali o del divertimento. Verso i trent’anni, invece, quando mi sposai ed ebbi il primo
figlio, conducevo una vita molto più equilibrata, nella quale lavoro e famiglia avevano lo
stesso valore.
Sfortunatamente, lo sforzo di raggiungere l’equilibrio di amore, lavoro e gioco può
introdurre nella vita un alto livello di incoerenza emotiva. Nel sesto capitolo ho spiegato
che si raggiunge la coerenza emotiva non soddisfacendo scopi particolari, perseguendo
un insieme di obiettivi congruenti fra di loro. L’opposto consiste nell’avere un insieme di
scopi reciprocamente incompatibili, come quando qualcuno desidera una carriera che
comporta cento ore di lavoro alla settimana, un’intensa vita familiare e molto tempo
libero da dedicare al surf e allo sci. Per raggiungere tutti questi obiettivi manca il tempo,
l’energia e il denaro.
Pertanto, la chiave per evitare l’incoerenza consiste nell’assicurarsi che all’amore, al
lavoro e al gioco siano riservati in misura sufficiente tempo, energia e soldi per contenere
un accettabile grado di soddisfazione della vita. Idealmente, ogni giorno dovrebbe avere
una porzione d’amore, di lavoro e di gioco, anche se l’equilibrio può mantenersi per
settimane, mesi o forse anche anni. È bene essere moderati in tutto, anche nella
moderazione.
Un equilibrio del genere controbilancia lo sconforto di non poter raggiungere tutti gli
obiettivi insieme. Nel migliore dei casi, la coerenza emotiva può andare oltre questa
condizione, se si riesce ad armonizzare scopi che altrimenti sembravano inconciliabili. Ci
sono vari modi di combinare amore, lavoro e gioco, ad esempio, trovando un lavoro che
comprenda attività piacevoli, cosicché il lavoro sia come un hobby; unendo viaggi di
lavoro e viaggi di piacere; lavorando nello stesso campo del coniuge, in modo da
combinare lavoro e interesse sentimentale; trascorrendo le vacanze con la famiglia, in
modo da combinare amore e gioco. Queste strategie non sono alla portata di tutti – ad
esempio io ho approfittato enormemente della flessibilità della vita accademica, cosa che
la maggior parte della gente non può fare – ma dimostrano che la vita può essere non solo

157
equilibrata ma anche coerente. Potrebbe sembrare che i bisogni psicologici
dell’autonomia siano incompatibili con quelli dei legami di appartenenza, enfatizzando
gli uni la libertà personale e gli altri il legame col prossimo. Ma l’autonomia nel senso di
Deci e Ryan non richiede la totale indipendenza o il distacco dagli altri.
L’interdipendenza è compatibile con l’autonomia quando il legame sorge spontaneamente
per soddisfare il bisogno personale di appartenenza.
I bisogni fisiologici cambiano col tempo e con lo sviluppo, dalla pubertà, all’età
adulta, alla vecchiaia, e così cambiano i bisogni psicologici. Secondo Daniel Levinson, i
cicli della vita umana evolvono attraverso una sequenza di quattro periodi che si
sovrappongono: infanzia e adolescenza (da 0 a 22 anni), prima età adulta (17-45 anni),
età adulta di mezzo (40-65 anni), tarda età adulta (oltre i 60 anni).
Nell’infanzia il bisogno di legami di appartenenza è soddisfatto dai familiari e sempre
più dagli amici, mentre l’influenza dei bisogni di autonomia e competenza aumentano
con l’adolescenza e l’età adulta. Nel passaggio alla prima età adulta si formano nuovi
scopi circa lavoro ed amore. La tarda età adulta è, di regola, un periodo di ridotti bisogni
nel lavoro e di maggiori opportunità nel gioco.
Uomini e donne, secondo Levinson, percorrono la stessa strada, pur con alcune
differenze 10.
Non ho parlato dell’eventuale differenza del bisogno di appartenenza, autonomia e
competenza fra donne e uomini, perché non ne vedo alcuna che abbia una qualche
rilevanza. Sono incline a pensare che i bisogni sono fondamentali nella stessa misura per
uomini e donne, perché amore, lavoro e gioco sono il senso della vita per tutti gli esseri
umani. Ci sono certamente molte differenze fra le diverse culture, alcune delle quali
ritengono che il lavoro debba essere al primo posto per l’uomo e l’amore per la donna. Io
credo che la soddisfazione dei bisogni e la felicità siano maggiori nelle società nelle quali
vige un avanzato egualitarismo e l’importanza attribuita all’amore e al lavoro è
indipendente dal genere. Studi sulla soddisfazione della vita e sul benessere sembrano
mostrare qualche correlazione con la parità dei sessi, ma è arduo trarre conclusioni
causali dal momento che ci sono altri fattori in gioco, come lo sviluppo economico.

Speranza contro disperazione

Nella campagna per le presidenziali americane del 2008, Barack Obama pose al centro
del suo messaggio la speranza. Ma che cos’è la speranza? Per me, la speranza è il
sentimento positivo che ci fa sentire che uno o più dei nostri obiettivi possa essere
raggiunto. La speranza può concentrarsi su un fine, come quando sperate di vincere la
lotteria, o può essere più generale, e consistere nell’avvertire che alcune buone cose
stanno per accaderci. Per questo la speranza può essere sia un’emozione, un particolare
sentimento che riguarda alcuni scopi in sospeso, sia uno stato d’animo, il sentimento
positivo più diffuso in base al quale si attende che accadano eventi proficui.
La speranza è un’emozione che rientra, ovviamente, nel modello di coscienza emotiva
che integra la valutazione cognitiva con la percezione fisiologica, di cui s’è parlato nel
quinto capitolo. La valutazione richiede rappresentazioni nervose di situazioni future e di

158
fini attuali, e la stima che gli scopi hanno alcune probabilità d’essere raggiunti. Il
sentimento positivo deriva da una complessa rappresentazione nervosa che combina la
valutazione con la percezione delle condizioni fisiologiche. Dal momento che il futuro è
sempre incerto, la speranza è, di solito, uno stato emotivo piuttosto vario che comprende
una certa ansia legata al fatto di non sapere se il futuro porterà soddisfazione o
delusione 11. Nel modello EMOCON, le varie emozioni possono succedersi per la
presenza simultanea di valutazioni e di stati fisiologici.
La disperazione è la totale mancanza di speranza, il sentimento che vi fa ritenere che
nessuno dei vostri scopi possa essere soddisfatto. È diversa dalla convinzione che la vita
sia insensata, che presuppone che non esistano scopi da perseguire. Nella disperazione,
voi credete che ci siano fini degni d’esser perseguiti, come quelli che fanno parte
dell’amore, del lavoro e del gioco, ma siete costretti dalle circostanze della vita e/o dal
funzionamento del cervello a concludere che il raggiungimento dei fini è tragicamente al
di là delle vostre possibilità.
Una strada per evitare la disperazione è quella di adottare alcune delle tattiche di
revisione dei fini descritte nel sesto capitolo, rimpiazzando un obiettivo irraggiungibile
con uno che possa essere conseguito, almeno parzialmente. Se i vostri unici sogni sono:
sposare una stella del cinema, creare un’impresa che vi renda miliardario, e navigare con
un grande yacht attorno al mondo, allora le probabilità che possiate ottenere
soddisfazione nell’amore, nel lavoro e nel gioco sono esili. Fini più modesti, come avere
alcuni buoni amici, guadagnare quel tanto che basta per viver bene, e divertirsi di quando
in quando, dovrebbero essere a portata di mano e rivelarsi sufficienti a tenervi lontano
dagli abissi della disperazione. Anche persone molto avanti negli anni ed inferme,
confinate in case di riposo possono provare un certo piacere nei contatti sociali, nel
ricordo degli obiettivi raggiunti e in attività senza pretese. Una vita ricca di significato è
una vita piena di speranze, non perché la speranza sia parte del significato della vita, ma
perché è il sentimento sintesi che ci fa sentire che ci sono almeno alcuni obiettivi che
hanno valore e il cui perseguimento e raggiungimento occasionale danno significato alla
vita. Speranze specifiche riguardano l’attesa emotivamente positiva del fatto che obiettivi
particolari nell’amore, nel lavoro e nel gioco possano essere verosimilmente raggiunti.
La speranza è più facile da coltivare per le persone la cui passata esperienza ha
compreso episodi con un alto grado di soddisfazione dei bisogni dell’appartenenza,
dell’autonomia e della competenza. Se avete dietro di voi una storia soddisfacente di
sostegno sociale e di azioni efficaci sotto il vostro controllo, allora avrete ancora più
ragioni di aspettarvi che almeno una parte dei vostri obiettivi venga soddisfatta da eventi
futuri. Precedenti successi in amore, lavoro e gioco facilitano la capacità di recupero
necessaria per fronteggiare le sorprese che inevitabilmente la vita ci riserva. Il ciclo
desiderabile è di adeguarsi alle avversità conservando la piena speranza nel fatto che il
futuro andrà meglio, e di impegnarsi in azioni autonome, competenti e socialmente
sostenute che assicurino che il futuro tornerà a portare soddisfazioni e raggiungimento
degli scopi più importanti. Da questo punto di vista la speranza non è una vaga sorta di
spiritualità, ma piuttosto l’attesa del futuro basata sull’evidenza. La disperazione è
ingiustificata fino a quando ci sono prospettive che autorizzino a ritenere che sia possibile
raggiungere gli obiettivi più importanti della vita.
159
La mia convinzione secondo cui il significato della vita consiste nell’amore, nel lavoro
e nel gioco omette alcuni elementi che molte persone vorrebbero ovviamente includere.
Abbiamo visto, discutendo della soddisfazione della vita, che lo stato di salute è uno dei
fattori principali, ma la salute non è uno scopo primario, quanto piuttosto un mezzo per
raggiungere altri obiettivi. Una cattiva salute è un impedimento per perseguire altri fini,
oltre che, spesso, qualcosa sgradevole di per sé. Ma non si gioisce per la buona salute,
perché la si considera garantita giorno dopo giorno. Pratiche come quelle di attenersi ad
un’alimentazione sana e di praticare esercizi fisici impegnativi favoriscono il
mantenimento di un buono stato di salute e rendono quindi possibile perseguire altri
obiettivi. Ma, diversamente da amore, lavoro e gioco, la salute non è, per la maggior parte
della gente, uno scopo primario.
L’omissione più rilevante in questo capitolo concerne un aspetto della vita che per
molte persone è assai importante: la religione e la spiritualità. Ai credenti la religione
fornisce la maggior fonte di speranza, in questa e nella vita oltre la morte. I credenti
ritengono veramente che Dio provvederà, che le cose andranno per il meglio, che tutto
avviene per una ragione precisa, che Dio li ama e ha cura di loro, e che, se anche questa
vita è una valle di lacrime, non ci si deve preoccupare troppo perché la vita eterna sarà
meravigliosa. Questa idea è enormemente attraente, e non sorprende che molti la
integrino entusiasticamente nella propria vita. Nel settimo capitolo si è ricordato che i
credenti praticanti riportano di essere più felici di coloro che non possiedono una fede
religiosa.
Se il mio approccio fosse puramente descrittivo, dovrei includere religione e
spiritualità nel significato della vita della maggioranza delle persone. Per una prospettiva
normativa, comunque, non è ragionevole comprendere la religione come aspetto legittimo
del significato, perché manca l’evidenza di un Dio che si prende cura di noi e di una
redenzione nell’aldilà. Come l’immortalità e la libera volontà, anche l’amore divino e
l’eterna beatitudine sarebbero meravigliosi, ma dobbiamo imparare a vivere senza di loro.
Fortunatamente amore, lavoro e gioco sono reali e realizzabili, e garantiscono alla
maggioranza delle persone una vita sostanzialmente ricca di significato. Il conforto
offerto dalla religione e dalla spiritualità con la prospettiva che tutto andrà a finir bene è
illusorio, ma la maggioranza delle persone possiede risorse intellettuali e materiali per
colmare di significato la propria vita attraverso il prudente perseguimento dell’amore, del
lavoro e del gioco. Forse uno dei motivi principali della felicità che provano i credenti
quando assistono alle funzioni religiose è il senso d’identificazione e di appartenenza ad
una comunità religiosa. Se così è, la spiritualità non è un bisogno vitale, ma piuttosto un
sostituto del legame di appartenenza, che può essere soddisfatto anche frequentando
comunità secolari.
Nella libreria che frequentate abitualmente o biblioteca a voi più vicina c’è senz’altro
un settore dedicato ai manuali di autoaiuto, nel quale potrete trovare innumerevoli
tentativi di dare consigli alle persone su come essere felici e vivere una vita migliore. La
maggior parte di questo libri è basata sulla fede religiosa o è scritta per attirare
l’attenzione dei creduloni. Sonja Lyubomirsky 12 ha raccolto una ricchissima serie di
testimonianze sulle fonti delle emozioni positive, e raccomanda una dozzina di attività
concrete che, sperimentalmente, hanno mostrato di contribuire alla felicità:
160
1. esprimere gratitudine;
2. coltivare l’ottimismo;
3. evitare di riflettere troppo e di fare confronti sociali;
4. compiere gesti gentili;
5. coltivare rapporti sociali;
6. sviluppare strategie che aiutino a far fronte alle difficoltà;
7. imparare a perdonare;
8. imparare dalle esperienze;
9. godere i piaceri della vita;
10. impegnarsi per i propri scopi;
11. praticare religione e spiritualità;
12. prendersi cura del corpo con esercizi fisici.

Tranne la numero 11, le altre raccomandazioni sono ben congruenti con


l’impostazione di questo capitolo relativo alla modalità attraverso le quali le persone
possono cercare di raggiungere la felicità e di sviluppare il senso della vita, perseguendo
obiettivi riguardanti l’amore, il lavoro e il gioco.
Il libro molto impegnato della Lyubomirsky mostra che l’autoaiuto può basarsi
sull’evidenza e può orientare le persone a migliorare intelligentemente la propria vita
senza ricorrere a una fede cieca o a voglie irrazionali. Meno ovvio è il perché queste
attività aumentino la felicità, anche se molte di loro contribuiscono chiaramente alla
soddisfazione dei bisogni vitali. Ad esempio, esprimere gratitudine, compiere atti di
gentilezza, coltivare relazioni sociali possono contribuire alla soddisfazione del bisogno
di legami di appartenenza, e imparare dalle esperienze e impegnarsi per i propri scopi può
soddisfare il bisogno di competenza. Gli effetti di altre attività possono ovviamente essere
capiti sulla base del resoconto integrato delle emozioni presentato nel quinto capitolo.
Sviluppare strategie che aiutino a far fronte alle difficoltà e a godersi i piaceri della vita
favoriscono positive valutazioni cognitive, mentre meditazione e attività fisica
contribuiscono alle emozioni positive grazie alle modificazioni del corpo.
Ho scritto in lungo e in largo sul significato della vita, ma che ne è del significato della
morte? Privata delle sue illusioni religiose, la morte non presenta nessuna attrattiva per
l’eterna ricompensa e non suscita nessun terrore per la punizione eterna. Da un punto di
vista naturalistico, tutto è finito quand’è finito. La fine non dovrebbe esser motivo di
disperazione, perché da quel momento si cessa d’avere scopi e altre rappresentazioni
mentali. La buona notizia è che non ci saranno più obiettivi non raggiunti e che
l’infelicità sarà impossibile tanto quanto la felicità. Per questo la morte non dovrebbe
essere causa di disperazione, anche se non si deve attendere con impazienza che
sopraggiunga. È più probabile che gli atei, più dei credenti, non richiedano misure
aggressive come la respirazione meccanica per prolungare la propria vita e quella dei
propri cari 13, e ciò dimostra che la fede non è necessaria per affrontare la morte con
coraggio.
Indifferenti alla fede nell’aldilà, potete attendervi che alcune delle vostre realizzazioni,
come l’aiuto che avete dato alle persone di cui avete avuto cura e i lavori compiuti,
continuino ad avere influenza anche dopo che voi avete cessato di vivere. Se la vostra
161
ricerca d’amore e di lavoro ha avuto un qualche successo, avete ragione di pensare che la
vostra vita abbia un valore duraturo anche dopo la sua fine. Religioni come il
Cristianesimo hanno trasmesso un modello concettuale ed emotivo per affrontare la
morte, ma il modo migliore per gestire la paura della non esistenza è semplicemente
quello di sforzarsi, per esser certi che, prima della fine, abbiate raggiunto i vostri fini e
abbiate tralasciato gli obiettivi irragionevoli. Considerate le ultime parole di John Stuart
Mill alla figlia adottiva: «Tu sai che ho fatto il mio lavoro» 14. La biografia di Mill mostra
che si era largamente impegnato sia nell’amore sia nel gioco.

Conclusione

Mi sono sforzato di mostrare che i bisogni possono fornire un legame fra ciò che le
persone apprezzano e ciò che dovrebbero apprezzare, elevando la convinzione empirica
che il valore della vita risiede nell’amore, nel lavoro e nel gioco (di cui s’è parlato nel
precedente capitolo) alla convinzione normativa secondo cui questi sono gli aspetti che
danno valore alla vita. Le persone hanno profondi bisogni biologici e psicologici che
generano scopi il cui perseguimento e soddisfacimento sono carichi di significato.
L’evidenza psicologica conferma l’esistenza dei bisogni umani fondamentali di
appartenenza, competenza e autonomia. La ricerca fruttuosa dell’amore, del gioco e del
lavoro è il mezzo migliore per soddisfare questi bisogni, pertanto questi tre aspetti sono e
dovrebbero essere ciò che dà valore e significato alla vita. La comprensione della base
nervosa di bisogni psicologici come il legame di appartenenza, la competenza e
l’autonomia ci consente di capire che i bisogni psicologici sono bisogni biologici.
Non intendevo scrivere un libro per venire in aiuto a qualcuno, anche se questo
capitolo ha delle implicazioni circa quel che dovreste fare se vi sentiste inutili e senza
significato. Ponetevi obiettivi ragionevoli circa l’amore, il lavoro e il gioco, e investite
tempo, energia e soldi nel perseguirli. Riconsiderate i metodi di acquisizione e di
revisione degli obiettivi, di cui si parla nel sesto capitolo, ed evitate di intraprendere
strade che portano a cattive decisioni. Mirate all’equilibrio fra i tre aspetti principali
dell’amore, del lavoro e del gioco, e siate coerenti nel combinarli e nel perseguirli.
Mettete in pratica attività che procurano felicità, come quelle proposte dalla
Lyubomirsky. Se vi sentite profondamente depressi o meditate il suicidio, allora avete
bisogno immediato di uno psicologo o di uno psichiatra, che possa fornirvi un aiuto
basato sull’evidenza e sulla combinazione di una terapia cognitiva e di farmaci.
La domanda sul perché la vita è degna d’essere vissuta è solo una delle questioni
normative cui la filosofia cerca di rispondere. Ora desidero prendere in considerazione
più generalmente ciò che rende le azioni giuste o sbagliate, iniziando con l’esame delle
basi neuropsicologiche dei giudizi morali.

1
Sui bisogni delle persone cfr. Wiggings 1987; Orend 2002; Braybrooke 1987.

162
2
Per la teoria dell’autodeterminazione cfr. Deci – Ryan 2000, 2002;
http://www.psych.rochester.edu/SDT/.; Sheldon et al. 2001.
3
Sulla necessità dell’appartenenza cfr. Baummester – Leary 1995; Lucas et al. 2003.
4
Cfr. Ryan et al. 2006; Walton et al. 2004.
5
Cfr. Richardson 2007 sui pericoli di postulare meccanismi innati senza alcuna base evolutiva.
Emozioni basiche come felicità e tristezza sono verosimilmente innate, e una vasta evidenza culturale e
biologica lo confermerebbe. Quartz – Sejnowski 2002 sostengono che la principale eredità evolutiva del
cervello umano è la grande capacità d’imparare. Dibattiti relativi alla questione se vari comportamenti e
concetti siano o meno innati sono spesso basati su modelli semplicistici, cfr. Stiles 2008. Nondimeno sono
dell’opinione che il bisogno di appartenenza sia innato, e forse lo sono anche gli altri due. Già molti autori
hanno sottolineato il fatto che l’uomo è un animale sociale.
6
Cfr. Xiahoe – White 1990.
7
Sulle basi nervose dell’appartenenza cfr. Depue – Morrone-Strupinsky 2005.
8
Sullo sviluppo cerebrale cfr. Posner – Rothbart 2007; Sylwester 2007; Lyubomirsky 2008; Sheldon
2002.
9
Per l’approccio alle capacità secondo Amartya Sen e Martha Nussbaum cfr. Sen 1999; Nussbaum
2000.
10
Levinson 1978, 1996. Secondo Levinson ci sono più difficoltà nella vita delle donne che in quella
degli uomini, sebbene in ogni persona si alternino gioia e dolore, successi e fallimenti, autoconferme e
autoumiliazioni. Cfr. anche Inglehart et al. 2008.
11
Cfr. Lazarus 1999.
12
Nello studio del 2008 The How of Happiness [Com’è la felicità] la psicologa sociale Sonja
Lyubomirsky, basandosi sulla «psicologia positiva», una corrente in voga nella psicologia clinica e sociale,
studia la natura e le cause del perfetto funzionamento degli esseri umani.
13
Cfr. Phelps et al. 2009.
14
Su Stuart Mill cfr. Capaldi 2004, p. 356.

163
9
Cervelli etici

Decisioni etiche

Supponete di lavorare per un’agenzia di sicurezza del vostro paese e di aver arrestato
un uomo di cui sospettate fortemente che sia coinvolto in una cospirazione terroristica.
Avete ragione di credere che altri membri del suo gruppo stiano preparando un attentato
che potrebbe costare molte vite, ma l’uomo si rifiuta di rivelare i nomi dei suoi complici,
nonostante i lunghi interrogatori. Il vostro dilemma morale è se dovete torturare il
terrorista per costringerlo a darvi informazioni che possono prevenire un disastro.
La decisione da prendere non si riferisce alla soddisfazione di vostri fini personali.
Avete di fronte, invece, il conflitto fra due principi etici: la rigorosa legge secondo cui la
tortura è sempre sbagliata, e la norma più flessibile secondo cui dovreste perseguire il
bene maggiore per il maggior numero di persone. Ora avete di fronte l’ultima grande
questione filosofica tracciata nel primo capitolo: che cosa rende le azioni giuste o
sbagliate?
Alcuni filosofi, come Nietzsche, hanno rifiutato l’intera concezione dell’oggettività
morale 1. È possibile che non esistano standard assoluti che consentano di stabilire ciò che
è giusto e ciò che è sbagliato e che la morale sia relativa a particolari individui, situazioni
e culture. Forse dovreste dire che la tortura è sbagliata se lo pensa la vostra società,
diversamente sarebbe giusta. O, su un piano più soggettivo, forse la tortura è sbagliata per
voi perché non vi piace, ma buona per me, se mi piace. Molti pensatori religiosi hanno
pensato che queste forme di relativismo morale siano l’inevitabile conseguenza del rifiuto
della teologia. Senza Dio, tutto è ammesso. In antitesi a ciò, la mia aspirazione è quella di
sviluppare una teoria della morale oggettiva che sia coerente con un approccio generale
naturalistico basato sull’evidenza e su particolari risultati della ricerca relativa alle
modalità con cui i cervelli pensano. Molti filosofi vedrebbero ciò come un compito
disperato, a causa della famosa ingiunzione di Hume secondo la quale non è possibile
derivare un dovrebbe da un è 2 . Io non pretendo di osare una tale derivazione, dal
momento che Hume aveva indubbiamente ragione che non esistono solidi argomenti
deduttivi che possano condurre dai fatti empirici sul mondo all’accettazione di giudizi
morali particolari o generali. Piuttosto, io vorrei arrivare ad una teoria morale altamente
coerente con ciò che si conosce sulle modalità con cui i cervelli prendono decisioni

164
morali e con altri eventi psicologici e sociali. Questa teoria morale dovrebbe essere una
parte centrale di un profilo generale della saggezza e del perché la vita è degna d’essere
vissuta. Come già visto nell’ottavo capitolo, il ponte fra l’è e il dovrebbe è costituito dai
bisogni umani che indicano una teoria generale di ciò che rende le azioni giuste o
sbagliate. Discuterò meccanismi cerebrali come quelli che coinvolgono i neuroni
specchio, i quali consentono e incoraggiano le persone a prendersi cura del prossimo oltre
che di se stesse.

Coscienza e intuizioni morali

Quand’ero bambino, i miei insegnanti di religione mi dicevano che Dio mi aveva dato
una coscienza che mi consentiva di dire se quel che stavo facendo era giusto o sbagliato.
Ad esempio, quando desideravo un iPhone e pensai di aggiungerlo alla notaspese della
mia ricerca, ebbi la sgradevole sensazione di fare un cattivo uso dei fondi pubblici.
Parlando seriamente, la prigionia arbitraria e la tortura di persone vagamente sospettate di
terrorismo mi colpisce come errore, non solo in astratto e in modo puramente cognitivo,
ma come parte di una reazione viscerale, emotiva. Il 99% delle persone non psicopatiche
reagisce emotivamente ai problemi morali, sebbene individui diversi reagiscano
diversamente a situazioni diverse. I resoconti delle emozioni e delle decisioni emotive
contenute nei capitoli quinto e sesto dovrebbe aiutarci a capire le origini
neuropsicologiche dei giudizi morali. Da sola tale comprensione non è sufficiente a
stabilire una teoria morale, ma può fornire una parte della teoria empirica e dell’evidenza
con la quale è lecito presumere che una teoria morale debba concordare.
Al giorno d’oggi, la teoria morale ha largamente abbandonato l’idea della coscienza,
ma utilizza ampiamente il concetto affine di intuizione morale. Le persone hanno
l’intuizione morale che alcune cose sono giuste e altre sbagliate. Secondo la teologia,
queste intuizioni sono la voce di Dio che parla alla coscienza. Se, invece, credete che tali
intuizioni derivano da convinzioni basate su verità a priori, allora dovreste comunque
essere inclini a prenderle molto seriamente. Dall’altra parte, il punto di vista scettico e
relativista risponderebbe che le intuizioni morali altro non sono che espressioni arbitrarie
delle vostre esperienze passate, e che la questione se esse siano giuste o sbagliate non ha
nessuna importanza.
Molti filosofi credono che possiamo sviluppare le nostre teorie morali attraverso un
processo continuo di aggiustamento reciproco delle nostre teorie e intuizioni, puntando a
raggiungere il buon equilibrio che John Rawls chiamò «equilibrio riflessivo» 3 .
Comunque, uno sguardo attento alla neuropsicologia delle intuizioni morali mostrerà
l’inverosimiglianza sia dell’equilibrio riflessivo, sia dell’a priori teologico, sia del
relativismo.
Le intuizioni morali sono istanze della coscienza emotiva e sono state descritte nel
quinto capitolo. Esse sono, ovviamente, coscienti, dal momento che le persone sono ben
consapevoli del sentimento che qualcosa sia giusto o sbagliato. Ci possono essere
emozioni inconsce, come nel caso di qualcuno che agisca in preda ad una fortissima
collera pur rifiutando di riconoscere d’essere furioso, ma non ho mai sentito parlare di

165
un’intuizione morale inconscia. Le parole «conscio» e «coscienza» hanno la stessa radice
latina.
Ma le intuizioni morali sono sempre emotive? È chiaro che molte lo sono, com’è
testimoniato dall’intensità dei dibattiti su temi come l’aborto, ma forse esiste qualcuno
che è capace di giudizi morali totalmente spassionati. Non intendo affermare con forza
che le emozioni sono essenziali per i giudizi morali, perché le essenze sono proprietà
necessarie, ed io ho già rifiutato, nel secondo capitolo, ogni idea di verità necessarie.
Nondimeno, l’introspezione e l’osservazione degli altri rafforzano l’opinione secondo cui
le intuizioni morali sono, di regola, reazioni emotive. Pertanto è ragionevole concludere
che le intuizioni morali sono un genere di coscienza emotiva.
Allora, l’argomento secondo cui la coscienza emotiva è un processo cerebrale del tipo
delineato nel modello EMOCON ha una conseguenza importante. Le intuizioni morali
sono processi del cervello che combinano valutazioni cognitive con percezioni corporee
attraverso i meccanismi nervosi del soddisfacimento parallelo dei vincoli. Le intuizioni
non sono scatole nere, misteriose ed impenetrabili. Esse sono processi nervosi come molti
altri generi di giudizi. Il carattere spesso viscerale e istintivo delle intuizioni morali si
spiega con la percezione corporea, che fa parte della coscienza emotiva. È veramente la
vostra pancia che vi dice che cosa fare, assieme al cuore, ai polmoni, e alle altre parti del
corpo, le cui condizioni sono riferite ad aree cerebrali come l’insula e l’amigdala. Le
reazioni viscerali e istintive non costituiscono da sole la coscienza emotiva, che richiede
anche la valutazione cognitiva della vostra situazione.
Per quanto riguarda i giudizi morali, la situazione che state valutando non è solo
individuale e personale, perché essa di regola coinvolge anche altre persone. Dal
momento che non abbiamo accesso diretto a tutti i processi nervosi della percezione
corporea, della valutazione cognitiva e delle loro interazioni, le intuizioni morali
sembrano inesprimibili. Le neuroscienze cominciano ora a spiegare le loro origini.
L’ipotesi che le intuizioni morali provengono dai meccanismi psicologici della
conoscenza emotiva spiega diversi e importanti aspetti del pensiero etico. Primo, essa
mostra come la coscienza possa essere sia emozionale sia cognitiva, combinando una
reazione fisica istintiva col giudizio relativo a vari aspetti del mondo. Quando la gente
reagisce con ribrezzo alle descrizioni di episodi di tortura, si tratta spesso sia di una
reazione psicologica simile al disgusto sia di una rappresentazione cognitiva della
visualizzazione di persone torturate. La componente di percezione corporea del modello
EMOCON relativo alla coscienza emozionale spiega perché le intuizioni morali, di
regola, coinvolgono una reazione viscerale. Ma il modello mostra anche come tali
intuizioni abbiano un sostanziale contenuto cognitivo, sia rispetto agli atti che
rappresentano sia rispetto alla valutazione degli scopi. Teorie puramente somatiche o
puramente cognitive dell’emozione non sarebbero in grado di fissare il duplice aspetto
del pensiero etico.
Secondo, la comprensione delle intuizioni morali come processi nervosi della
coscienza emotiva può iniziare a spiegare perché ci sia tanto accordo e tanto disaccordo
su ciò che è giusto e ciò che è sbagliato.
L’accordo è spiegato, in parte, dal fatto che quasi tutte le persone possiedono le
strutture descritte nel modello EMOCON, comprese aree come l’amigdala e l’insula,
166
necessarie alle percezioni corporee, e strutture come la corteccia prefrontale e il sistema
dopaminico necessari per le valutazioni cognitive. Da qui l’evidenza che i meccanismi
che sottostanno alle intuizioni morali sono pressoché universali. Inoltre spesso le persone
condividono valutazioni morali relative al significato etico delle situazioni perché hanno
obiettivi simili. La maggior parte delle persone si preoccupa della sopravvivenza e del
benessere di sé e degli altri, cosicché le valutazioni cognitive di molte pratiche possono
essere simili. Ad esempio, la maggior parte delle persone approva l’aiuto a chi soffre,
perché condivide scopi emotivi che spingono a realizzare opere di compassione.
Da qui l’esistenza di un livello sostanziale d’accordo morale, che può essere spiegato
dalle somiglianze tra le persone, sia rispetto alla fisiologia sia rispetto agli scopi sociali.
Ma c’è anche un considerevole disaccordo che deve essere spiegato. Certe persone, ad
esempio, non hanno dubbi sul ricorso alla tortura nei confronti di chi è sospettato di
terrorismo. Gli psicopatici sono persone totalmente prive di coscienza, e costituiscono
circa l’1% della popolazione 4. Essi sono caratterizzati, di regola, da un fascino
superficiale, una grandiosa autovalutazione, impulsività e irresponsabilità. I più famosi
esempi di psicopatici sono rappresentati da serial killer come Jeffrey Dahmer, che uccise
e mangiò molte vittime, ma psicopatici più scaltri possono arricchirsi sfruttando la gente
in modi meno macabri – ad esempio con truffe finanziarie.
Il motivo per cui ad alcune persone manca la normale capacità di intuizione morale
comincia ad essere capito solo ora a livello nervoso. Una teoria preminente sostiene che
l’amigdala di queste persone presenti un danno che interferisce col genere di
apprendimento emotivo di cui si ha bisogno per provare reazioni morali di fronte
all’esperienza del male subito dal prossimo. Se questa spiegazione della psicopatologia è
corretta, allora il genere più forte di disaccordo morale – non farsi carico eticamente di
nessuno e di niente – ha una spiegazione nervosa.
Questa spiegazione concorda col mio modello di coscienza emotiva, che considera
l’amigdala una componente fondamentale. Differenze nel giudizio morale possono inoltre
risultare dal danno ad altre aree cerebrali, come la corteccia prefrontale ventromediale.
Differenze meno estreme nelle intuizioni morali possono sorgere, in persone con
cervelli intatti, in forza di obiettivi differenti legati alla socializzazione. La valutazione
cognitiva è influenzata dall’esistenza e dalla priorità degli scopi, dalle convinzioni circa il
modo di raggiungere i fini, e da altre convinzioni sulle persone e sul mondo. Il sesto
capitolo ha spiegato come gli scopi vengono adottati e adattati dall’esperienza della vita.
Esistono sostanziali variazioni che riguardano gli ambienti sociali, specie di carattere
religioso; le variazioni possono portare a obiettivi molto diversi, che possono
drammaticamente influenzare le valutazioni cognitive. Nel caso della tortura, chi pensa
che lo scopo principale sia la sicurezza nazionale, può essere indifferente al modo in cui il
sospetto terrorista è trattato. Ma se i vostri genitori e gli insegnanti di religione vi hanno
insegnato a prendervi molta cura del benessere di tutti, allora la tortura violerà i vostri
scopi emotivamente più importanti. Educazioni diverse possono portare a convinzioni
diverse – come quelle relative alla questione se la vita inizi o meno al momento del
concepimento – con giudizi diversi circa, ad esempio, la moralità dell’aborto.
Abbiamo così l’evidenza che le intuizioni morali sono istanze della coscienza emotiva,
come descritto dal modello EMOCON, che mostra perché la coscienza possa combinare
167
emozione e cognizione e possa portare, sia all’accordo morale, sia ad un considerevole
disaccordo morale.
Più avanti tenterò di collegare quest’opinione dell’intuizione morale alle teorie morali
generali circa la natura del bene e del male. Innanzitutto desidero utilizzare lavori recenti
dell’ambito delle neuroscienze per affrontare un problema cruciale del ragionamento
morale: perché dovreste preoccuparvi degli scopi e del benessere del prossimo? Si vedrà
che possedete speciali generi di popolazioni di neuroni che rendono molto naturale il
preoccuparsi del prossimo.

Neuroni specchio

La scoperta dei neuroni specchio è stata salutata come una delle maggiori conquiste
delle neuroscienze, con possibili implicazioni per la spiegazione di molte e importanti
funzioni cognitive, ivi compresa la comprensione delle azioni altrui, l’imitazione, il
linguaggio e l’empatia.
I neuroni specchio sono stati scoperti negli anni Novanta da Giacomo Rizzolati e dai
suoi colleghi dell’Università di Parma 5. Essi scoprirono che la corteccia prefrontale della
scimmia contiene una particolare classe di neuroni che scaricano sia quando la scimmia
fa qualcosa, sia quando osserva un altro individuo fare la stessa cosa. Negli esseri umani,
simili classi di neuroni fungono da specchio non solo per azioni fisiche ma anche per
sentimenti quali il dolore e il disgusto.
Quando una scimmia afferra un oggetto, ci sono neuroni dell’area F5 della corteccia
premotoria che scaricano. Molto più sorprendente fu la casuale scoperta di Rizzolati e
collaboratori del fatto che la stessa regione contiene neuroni che scaricano sia quando la
scimmia afferra un oggetto sia quando osserva un’altra scimmia o un uomo fare lo stesso.
Nell’area F5 ci sono neuroni specchio che riguardano l’atto di prendere qualcosa con le
mani o con la bocca, mentre un’altra area, il solco temporale superiore, contiene neuroni
specchio per il camminare, la rotazione della testa, la flessione del tronco, il movimento
delle braccia. Le osservazioni fornite dai neuroni specchio sono viso-motorie, nel senso
che integrano le esperienze visuali e motorie delle scimmie.
Per Rizzolati, il sistema dei neuroni specchio è la base sia della comprensione delle
azioni altrui sia delle imitazioni. Il sistema dei neuroni specchio non solo permette la
comprensione diretta di quel che fa un’altra scimmia quando si muove, ma facilita
l’imitazione dei movimenti, che può tornare utile per i propri scopi, come per esempio la
ricerca di cibo. I neuroni specchio possono lavorare con rappresentazioni sia uditive sia
motorie: ci sono neuroni nella corteccia premotoria della scimmia che scaricano quando
l’animale compie un’azione specifica e quando sente il suono relativo. L’evidenza della
presenza dei neuroni specchio nel cervello delle scimmie deriva dalle registrazioni dirette
dei singoli neuroni, mentre l’evidenza relativa alla presenza di sistemi analoghi negli
esseri umani è indiretta, fornita dalla visualizzazione cerebrale. Molti studi mostrano che
l’osservazione di azioni compiute da altri attiva una rete complessa formata da aree
visuali e motorie. L’evidenza del fatto che un sistema di neuroni specchio esiste anche
negli esseri umani proviene da molti tipi di esperimenti cerebrali, ivi comprese la

168
visualizzazione con risonanze magnetiche e la stimolazione magnetica transcranica, che
impiega impulsi magnetici per influenzare l’attività della corteccia. Pertanto osservare
l’azione fisica del prossimo consente alle persone non solo di capire ciò che stanno
osservando ma anche di imitarlo. Negli esseri umani, i neuroni specchio possono essere
importanti per comprendere sia le emozioni sia le azioni degli altri. Un sistema di neuroni
specchio che comprende i centri viscero-motori può far capire le emozioni degli altri.
Alcuni ricercatori hanno impiegato la risonanza magnetica cerebrale funzionale (fMRI)
per paragonare le reazioni delle persone ad odori disgustosi alle reazioni delle persone
alle immagini di video che ritraggono persone che reagiscono ad odori disgustosi. Tale
esperimenti hanno mostrato che la parte anteriore dell’insula del cervello, nota per la sua
funzione nel raccogliere informazioni da vari centri viscerali, è attiva sia durante
l’emozione provocata dagli odori disgustosi sia durante l’osservazione delle espressioni
facciali del disgusto. Un’ulteriore sovrapposizione è stata trovata nella corteccia cingolata
anteriore. Sembra quindi che ci siano due aree corticali, l’insula e la corteccia cingolata
anteriore, in grado di afferrare le emozioni di disgusto del prossimo. Entrambe le aree
fanno parte del modello EMOCON. Similmente, con la visualizzazione del cervello si è
scoperto che la percezione delle espressioni facciali di dolore attiva aree corticali attive
anche nell’esperienza personale del dolore, ivi comprese la corteccia cingolata anteriore e
la corteccia dell’insula, le stesse aree che riflettono il disgusto. Un altro studio ha
dimostrato che la corteccia dell’insula e la corteccia cingolata anteriore sono attivate sia
dall’esperienza del dolore sia dall’osservazione di una persona amata che prova dolore.
Ulteriore conferma del rispecchiamento del dolore si è trovato negli studi che usano la
stimolazione magnetica transcranica per verificare l’evidenza della presenza di
apprezzamento empatico del dolore altrui.

Empatia

«Provare empatia» significa immaginarsi nella situazione di un altro e avere alcuni


indizi del suo stato emotivo: l’empatia è importante perché ci permette di capire il
prossimo e di prendere decisioni morali che coinvolgono altre persone. Allison Barnes ed
io abbiamo tracciato un profilo dell’empatia che la raffigura come una sorta di mappatura
analogica basata largamente sulle rappresentazioni verbali della condizione di qualcuno 6.
I neuroni specchio rendono possibile un tipo più diretto d’empatia tramite
rappresentazioni visuali e motorie.
Barnes ed io abbiamo analizzato l’empatia sulla base della teoria cognitiva delle
emozioni, secondo la quale le emozioni sono soprattutto indicatori del grado in cui gli
scopi personali sono stati raggiunti o meno. Da questa prospettiva, l’empatia consiste nel
ragionamento in base al quale qualcuno, che si trova in una situazione simile a quella che
avete vissuto voi in precedenza, sta probabilmente provando un’emozione simile alla
vostra in quella condizione. Ad esempio, se desiderate capire un amico che sembra essere
triste a causa di un delusione, potete ricordare una situazione, come per esempio il rifiuto
di una domanda di lavoro, nella quale avete sperimentato la tristezza per non aver

169
raggiunto un obiettivo lavorativo che vi eravate prefissato. L’empatia è, pertanto, la
mappatura analogica fra la condizione di qualcun altro e la vostra.
Tania Singer e i sui collaborati sostengono, invece, un modello percezione-azione di
empatia, nel quale l’osservazione e l’immaginazione di un’altra persona, in uno stato
emotivo particolare, attivano una rappresentazione dello stesso stato nell’osservatore. La
Singer e i suoi collaboratori hanno usato la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per
misurare l’attività cerebrale in volontari che osservavano altri volontari sottoposti a
stimolazioni dolorose nelle mani. Come previsto, la semplice osservazione del dolore di
un altro produce un aumento di attivazione nella rete della sensibilità dolorosa
dell’osservatore, comprese le aree dell’insula e della corteccia cingolata anteriore.
Persone che raggiungono un alto livello nella scala della sensibilità empatica presentano
una maggiore attività in queste aree del cervello. Sembra dunque che le persone
maggiormente empatiche abbiano sistemi di neuroni specchio più attivi per sentire il
dolore degli altri.
Nello studio della Singer, le persone sottoposte a stimolazioni dolorose avevano
precedentemente preso parte ad un gioco in cui alcune si erano comportate correttamente
ed altre no. Gli uomini, meno frequentemente le donne, mostravano una minore
attivazione cerebrale collegata al dolore quando osservavano le sofferenze di coloro che
si erano comportati scorrettamente. Inoltre solo uomini mostravano una maggior
attivazione nell’area collegata alla ricompensa del nucleo accumbens quando osservavano
le sofferenze delle persone scorrette. Più uomini che donne si rallegravano del dolore
degli scorretti.
Gli studi della Singer e dei suoi collaboratori suggeriscono la necessità di allargare il
resoconto largamente verbale della mappatura empatica analogica suggerita da Barnes e
da me. L’analogia ha inizio con l’esperienza di ciò che ho provato come risultato della
stimolazione:

rappresentazione visuale/tattile della mia stimolazione→


rappresentazione sensoriale/affettiva del mio dolore.

Così, quando io osservo voi mentre venite stimolati alla stessa maniera, il risultato
analogico è:

rappresentazione visuale della vostra stimolazione→


rappresentazione sensoriale/affettiva del mio e del vostro dolore

Questa operazione mentale è ancora una sorta d’inferenza analogica, in quanto essa
implica di considerare una similitudine relazionale fra due situazioni, ma è molto più
diretta del genere verbale dei programmi di ragionamento analogico dei computer. Le
frecce indicano una sequenza di rappresentazioni nervose senso-motorie, non una
descrizione verbale.
Così il mio sentimento del vostro dolore può essere talvolta una reazione diretta basata
sull’osservazione, e non un esercizio intellettuale che io eseguo vedendo le mappature
sistematiche fra le condizioni e gli scopi di due persone. Può esserci anche un genere

170
intellettuale e verbale di empatia, ma esso probabilmente dipende dalle vie nervose
visive/motorie/sensitive/affettive che generano la risposta emotiva propria dell’empatia.
Posso percepire il vostro dolore come risultato della riflessione sulla vostra condizione,
considerata in parallelo alle mie esperienze, ma se osservo il vostro dolore ne ho una
sensazione molto più immediata.
L’empatia come analogia verbale corrisponde bene agli aspetti cognitivi del modello
EMOCON, mentre l’empatia come esperienza fisica è più congruente con gli aspetti
fisiologici. S’è già visto che una teoria completa delle emozioni dovrebbe comprendere i
processi sia cognitivi sia fisiologici, e in questo modo sarebbe un anticipo dell’intera
dimensione dell’empatia. I neuroni specchio ci aiutano a capire le emozioni del prossimo
in quanto essi scaricano quando vediamo gli altri manifestare le loro emozioni.
Il lavoro dei neuroni specchio chiarisce anche perché il tipo fisicamente diretto di
empatia sia diverso dal contagio emotivo, che implica l’assunzione di un’emozione di
qualcuno senza nessuna inferenza. Stando alla teoria del contagio emotivo di Hatfield,
Cacioppo e Rapson, una persona «cattura» le emozioni altrui nel modo seguente.

1. Conversando: le persone tendono continuamente e in modo automatico ad imitare e a


sincronizzare le proprie reazioni con le espressioni del volto, i toni della voce, gli
atteggiamenti, i movimenti e il comportamento determinante degli interlocutori.
2. Le esperienze soggettive emotive sono influenzate, momento per momento,
dall’attivazione e/o dal feedback di tale imitazione.
3. Conseguenza delle proposizioni 1 e 2 è che le persone tendono a «catturare», momento
per momento, le emozioni degli altri.

All’opposto, l’empatia dei neuroni specchio non richiede né l’imitazione né la


sincronizzazione del comportamento, ma solo la percezione di una situazione diversa, che
attiva un genere di schema percettivo/motorio che genera il sentimento dell’analogia.
Riassumendo, l’empatia può essere basata sul tipo di mappatura verbale e analogica
discussa da Barnes e da me; ma essa può, in misura fondamentale, implicare la diretta
localizzazione percettiva della relazione fra la situazione di qualcun altro e la vostra
grazie ai neuroni specchio. In ogni caso, la frase: «Io sento il tuo dolore» non corrisponde
allo stereotipo di chi ha l’abitudine di toccare gli altri, ma è piuttosto un’espressione di
genuina partecipazione all’esperienza del prossimo. Inoltre, sentire il dolore degli altri
può contribuire enormemente a prendersi cura di loro e ad essere motivati eticamente.
L’empatia è uno dei fattori principali dello sviluppo morale dei bambini.

Motivazione morale

Perché essere morali? Questa domanda è fondamentale per l’etica. Anche se le persone
sono spesso in grado di capire autonomamente quali siano le scelte giuste, possiamo
tuttavia chiederci perché vengano fatte proprio quelle scelte. Il problema della
motivazione morale – che cosa spinge la gente ad agire moralmente – ha due classi di
risposte, una razionalista, l’altra sentimentale. Le risposte tradizionali della filosofia sono
di tipo razionalista: dobbiamo essere morali perché sarebbe irrazionale fare altrimenti. La
171
razionalità della morale potrebbe derivare dalle verità a priori su ciò che è giusto, o
dall’argomento in base al quale le persone in virtù della loro razionalità concordano
sull’opportunità di agire moralmente.
Il filosofo Sean Nichols argomenta che uno dei maggiori problemi del razionalismo
consiste nel fatto che gli psicopatici, pur non avendo impedimenti per quanto riguarda il
ragionamento astratto, nondimeno non trovano niente di male nel tormentare il prossimo.
Nichols è convincente quando sostiene che ciò che è sbagliato negli psicopatici non sono
i ragionamenti, ma le emozioni. Ho ricordato dianzi in questo capitolo la teoria secondo
la quale la psicopatia, i cui sintomi includono il comportamento antisociale, la mancanza
del senso di colpa e la povertà delle emozioni, è il risultato del danno all’apprendimento
emotivo che deriva da un disturbo del funzionamento dell’amigdala. Secondo Nichols,
una concezione adeguata della riflessione etica deve essere in grado di spiegare il ruolo
giocato delle emozioni nel collegare giudizi morali e motivazioni, lasciando posto alla
ragione nel giudizio morale. La sua spiegazione delle norme etiche è sia culturale sia
storica: «Le norme hanno più probabilità di mantenersi nella cultura se riecheggiano i
nostri sistemi affettivi, proibendo azioni con probabili influenze negative» 7. Norme che
proibiscono di fare del male al prossimo sono pressoché ubiquitarie attraverso tutte le
culture, grazie alla loro «risonanza affettiva». L’adozione di norme ci consente di
ragionare su ciò che è giusto e ciò che non lo è, ma queste norme hanno un sottofondo
emotivo che intrinsecamente crea una connessione fra morale e azione: le persone fanno
scelte morali grazie all’impegno emotivo che avvertono verso le regole normative.
Ciò che manca alla concezione di Nichols, altrimenti plausibile, è la spiegazione del
perché le persone provino una reazione emotiva di base nei confronti del male compiuto
sugli altri. Non c’è mistero sul fatto che non si desideri il male per se stessi, data
l’esperienza intrinsecamente negativa del dolore e della paura. Si può sentire il male degli
altri con un ragionamento analogico astratto, ma non c’è da fidarsi del fatto che un tale
ragionamento sia motivante: posso capire che voi sentiate dolore e paura, ma perché
dovrei preoccuparmene? Che cosa rende effettivo, allora, l’insegnamento della morale
emotiva?
S’è visto nella discussione sull’empatia che i neuroni specchio costituiscono il legame
plausibile fra l’esperienza personale e quella degli altri. Le persone non solo osservano il
dolore e il disgusto del prossimo; hanno esperienza diretta della sensazione altrui di
dolore e di disgusto, come è dimostrato dall’attività specchio in regioni corticali come
l’insula e la corteccia cingolata. I bambini privi di danni cerebrali non hanno bisogno
d’imparare le regole morali sotto forma di astratti principi teologici («Non uccidere!») o
razionali («Agisci solo nel modo che potrebbe diventare universale»); non hanno bisogno
di riflettere sul perché compiere cattive azioni sia disdicevole: essi, di fatto, possono
sentire che il male è qualcosa di negativo. In questo modo i neuroni specchio forniscono
la motivazione che spinge a non fare male agli altri in forza della diretta comprensione di
che cosa significa per gli altri provare il male.
La mia teoria sarebbe indubbiamente più elegante se ora potessi aggiungere che esiste
l’evidenza del fatto che negli psicopatici i neuroni specchio non funzionano
normalmente; ma esperimenti rilevanti in questo senso non sono ancora stati fatti. È
possibile che il deficit dell’apprendimento emotivo degli psicopatici, che implica un
172
funzionamento difettoso dell’amigdala, sia parzialmente dovuto a un danno al sistema dei
neuroni specchio. Bambini incapaci, per ragioni genetiche o ambientali, di sentire il
dolore degli altri, non si sentiranno motivati a osservare la regola che non si deve causare
dolore al prossimo. Blair e collaboratori considerano la socializzazione morale in termini
di condizionamento contrario, come quando gli educatori puniscono i bambini per le loro
malefatte 8. Essi ritengono che la tristezza, la paura e l’ansia di una vittima agiscano come
stimolo all’apprendimento determinante del fatto che si deve evitare di causare dolore al
prossimo. L’attività dei neuroni specchio mostra perché l’insegnamento risulta
particolarmente efficace quando le persone sono in grado di stimare pienamente cosa c’è
di negativo nel loro comportamento.
Ho sostenuto che i meccanismi dei neuroni specchio contribuiscono alla soluzione del
problema filosofico della motivazione morale, dal momento che spiegano perché le
persone biologicamente normali hanno, di natura, un minimo di comprensione e di
preoccupazione per il dolore degli altri. Avvertire il dolore del prossimo non esaurisce la
motivazione morale, dal momento che ci sono molte aggiunte cognitive e sociali che,
sotto forma di norme e di aspettative, possono essere forgiate grazie ai neuroni specchio.
La ragione che dà la motivazione ad essere morali non è tanto che la morale è razionale,
ma piuttosto che il sentimento del dolore del prossimo è parte biologica degli esseri
umani. Per l’etica, la capacità di prendersi cura degli altri è, come minimo, altrettanto
importante della capacità di ragionare di loro. Il prendersi cura del prossimo ha una base
nervosa, dal momento che i neuroni specchio consentono ai cervelli una sorta di
comprensione diretta del suo dolore e delle sue emozioni. I neuroni specchio non sono né
necessari né sufficienti per compiere valutazioni etiche, ma sono di enorme aiuto nel
mettere in grado bambini e adulti di comprendere le esperienze degli altri. Essi
forniscono una base causale all’empatia e alla motivazione morale, incoraggiandoci a
sentire e ad avere cura del dolore degli altri e ad agire per alleviarlo 9. La capacità di una
tale premura è costruita all’interno dei nostri circuiti nervosi, ma ha bisogno d’essere
promossa dall’educazione morale, che può portarci a prenderci cura delle persone anche
al di fuori del nostro cerchio di conoscenze. I neuroni specchio e il contagio emotivo sono
i meccanismi che determinano l’inizio dell’apprezzamento morale e dell’interessamento
nei confronti del prossimo, ma è richiesta molta socializzazione per migliorarlo. Abbiamo
bisogno dell’educazione morale per rinforzare la resistenza alla suggestione psicopatica
secondo la quale il nostro interesse è il massimo dei beni.
Pertanto l’empatia, rafforzata dai neuroni specchio, è parte importante della riflessione
morale, ma non esaurisce l’argomento. Quando cercate di giudicare se torturare i terroristi
possa mai essere etico, potete essere influenzati dall’empatia che provate per le vittime,
sia della tortura sia del terrore, ma avrete bisogno di molta più riflessione per risolvere i
dilemmi morali che coinvolgono il dolore e la sofferenza di più persone. Io non penso che
l’evidenza sul funzionamento del nostro cervello sia di per sé sufficiente a guidarci verso
la teoria etica che dovremmo adottare, ma cercherò di mostrare che una tale evidenza
pone alcune restrizioni alla valutazione delle teorie etiche.

Teoria etica
173
Una teoria etica è il tentativo di rispondere, in linea generale, alla questione relativa a
che cosa renda le azioni giuste o sbagliate. Per molte persone, oggi, la risposta a questa
questione è religiosa. Chi è cristiano o musulmano, ad esempio, crede probabilmente che
le azioni sono giuste o sbagliate a seconda dei Comandamenti che Dio ha dettato nella
Bibbia o nel Corano. Ma una morale dipendente dalla religione porta con sé tutti i
problemi sulla fede di cui s’è parlato nel secondo capitolo. Primo, quale religione deve
essere considerata una valida guida morale? L’Islam, l’Hinduismo, l’Ebraismo, e le molti
varianti del Cristianesimo hanno prescrizioni morali diverse, e voi dovreste possedere
qualche ragione in più, oltre al luogo di nascita, per seguire un particolare codice morale.
Secondo, anche se avete scelto una religione particolare, come potete essere certi che le
prescrizioni divine di quella religione sono morali? Ad esempio, nel Vecchio Testamento,
Dio dice ad Abramo di sacrificare il figlio Isacco, una richiesta straordinariamente
crudele che provoca in Abramo molta angoscia. Terzo, anche se aveste tutte le ragioni per
scegliere una religione, si verificano spesso incertezze su ciò che è opportuno fare in
particolari situazioni, a causa delle difficoltà che si incontrano qualora si vogliano
applicare con equità regole piuttosto dure. Un comandamento accettato da molte religioni
è che non si deve uccidere, ma questo non sembra essere d’aiuto per appianare il dilemma
se sia opportuno torturare o meno un terrorista.
D’accordo, da Socrate in poi i filosofi hanno cercato risposte non teologiche alla
domanda su che cosa renda le azioni giuste o sbagliate. Uno degli approcci più influenti
consiste nel cercare di trovare principi morali che possano essere giustificati come veri a
priori, proprio come fece il filosofo tedesco del secolo XVIII Immanuel Kant.
Sfortunatamente, i tentativi di trovare verità necessarie in etica non hanno avuto più
successo dei tentativi, discussi nel secondo capitolo, di trovare verità necessarie per
quanto concerne la realtà. Se ci fossero gli a priori, cioè verità necessarie circa il bene e il
male, si dovrebbe pensare che secoli di riflessione filosofica ne avrebbero identificati
alcuni. Secondo Kant esistono principi generali che stabiliscono diritti e doveri, i quali a
loro volta determinano il bene e il male. Ad esempio, si può pensare che la tortura sia
male perché viola un fondamentale diritto umano, cosicché tutti hanno il dovere di non
torturare. Ma continuano ad infuriare i dibattiti sull’accettabilità di principi morali
generali e sulla loro applicazione a casi particolari.
Abbiamo bisogno di una teoria morale che concordi meglio con i dati empirici dianzi
descritti, compresi i seguenti:

1. le persone hanno bisogni vitali biologici e psicologici senza la soddisfazione dei quali
si sentono danneggiate;
2. le intuizioni morali sono il risultato di processi nervosi che uniscono giudizi cognitivi e
percezioni corporee;
3. i neuroni specchio sono una delle fonti principali di comprensione empatica del dolore
e della sofferenza altrui, e animano le persone a prendersi cura del prossimo.

Intendo mostrare che queste conclusioni concordano molto di più con un’etica
conseguenzialista che con gli approcci teologici, kantiani e relativisti.

174
Il conseguenzialismo è la visione filosofica secondo la quale il fatto che un atto sia
giusto o sbagliato dipende solo dagli effetti che esso ha su tutte le persone coinvolte 10. Ce
ne sono molte varietà, non tutte pienamente compatibili con quanto ho affermato sul
cervello. La versione classica è rappresentata dall’«utilitarismo edonistico», propugnato
da Jeremy Bentham e John Stuart Mill. Essi sostennero che un’azione è giusta se produce
il massimo di bene per il maggior numero di persone, dove per bene s’intende il piacere e
l’assenza di dolore. A prima vista, sembrerebbe che la mia descrizione della coscienza
emotiva possa integrarsi con l’edonismo, l’opinione cioè secondo cui il bene è piacere, e
con l’idea secondo cui il bene può essere misurato con l’unico metro dell’utilità. Dopo
tutto, la mia teoria delle emozioni attribuisce ad ogni esperienza emotiva una valenza
positiva o negativa, e ciò suona molto simile all’utilità. Si potrebbe anche cercare di
associare piacere e dolore a particolari aree cerebrali in virtù delle forti correlazioni
esistenti fra l’attività del nucleo accumbens e le esperienze piacevoli, e le correlazioni
esistenti fra le emozioni negative e alcune aree cerebrali come l’amigdala e l’insula.
Comunque il modello EMOCON concorda meglio con una versione del
conseguenzialismo nella quale siano contemplate altre forme di bene oltre al piacere e
all’assenza del dolore.
Va sottolineato che la discussione sulla rappresentazione nervosa degli scopi
presentata nel sesto capitolo non tende a ridurre gli scopi all’unica finalità di provare
piacere e di evitare il dolore. Le persone agiscono spinte da fini diversi, e, fra questi,
molti dei più importanti concernono l’amore, il lavoro e il gioco. Non c’è nulla nel
cervello che suggerisca che tutti gli scopi possono essere ridotti a un ipotetico percorso
comune.
Ho sostenuto che la felicità non è, di per sé, fonte di significato, e che ci sono obiettivi,
come crescere i figli, che hanno valore indipendentemente dalla felicità che procurano.
Ho ricordato diverse volte che il sistema della dopamina è implicato nella valutazione
positiva, ma esso è solo uno dei meccanismi con i quali il cervello valuta le diverse
situazioni. Il nucleo accumbens è importante, e altrettanto lo sono la corteccia prefrontale,
la corteccia cingolata anteriore, e altre aree cerebrali. Oltre alla dopamina, altri
neurotrasmettitori, come la serotonina, contribuiscono certamente ai processi nervosi di
valutazione degli scopi. Pertanto, invece di tentare di ridurre il bene ad un solo scopo: il
piacere, si può ammettere che molti fini possano essere rilevanti per giudicare che cosa
sia bene. Questa visione è chiamata «conseguenzalismo pluralistico», in quanto ammette
una varietà di scopi il cui soddisfacimento può avere conseguenze positive. L’argomento
del settimo capitolo, secondo cui le persone cercano di conseguire più scopi e non solo la
felicità, suggerisce che il conseguenzialismo pluralistico è più verosimile dell’utilitarismo
edonistico.
L’adozione di una versione pluralistica del conseguenzialismo ci avvicina ad alcune
delle obiezioni più dannose che siano state mosse all’utilitarismo. Un’obiezione standard
riguarda il fatto che esso può essere usato per giustificare azioni orribilmente scorrette.
Ad esempio, può sembrare che la tortura possa essere facilmente giustificata ogni volta
che ci si può verosimilmente attendere che il dolore e la sofferenza di una sola persona
siano inferiori al dolore e alla sofferenza di più persone. Se un terrorista fa parte di una
cospirazione che potrebbe uccidere dozzine di persone, torturarlo potrebbe salvare molte
175
vite, al costo di una al massimo. Sembrerebbe dunque che il conseguenzialismo possa
giustificare la violazione dei diritti umani in molte circostanze, e ciò evidenzia la
necessità di una teoria kantiana dei diritti come alternativa, o quantomeno come
supplemento del conseguenzialismo. Alcune azioni sembrano sbagliate anche se
producono il bene maggiore per il massimo numero di persone. Un esempio estremo può
essere rappresentato dall’immoralità della decisione di torturare un innocente in diretta
televisiva solo perché tale spettacolo sarebbe un divertimento per milioni di spettatori
sadici. Il miglior modo per affrontare questa obiezione non è di abbandonare il
conseguenzialismo, ma di modificarlo, includendovi alcuni principi generali o regole.
Molte tradizioni religiose, fin dai tempi degli antichi greci, comprendono alcune varianti
della regola aurea che raccomanda di trattare gli altri come vorresti essere trattato tu 11.
Questa regola potrebbe essere considerata un esercizio intellettuale astratto, come la
proposta di John Rawls in base alla quale, quando tentiamo di stabilire principi morali,
dovremmo porci dietro un «velo d’ignoranza» che ci allontani dalla nostra situazione
personale e ci imponga di pensare al prossimo in generale 12. Ma io ritengo che l’efficacia
della regola aurea dipenda invece dal suo ricordarci di trattare il prossimo all’incirca
come trattiamo noi stessi. Se vi si chiedesse come vi sentireste se foste trattati nello stesso
modo crudele che state prendendo in considerazione per qualcun altro, allora sareste
stimolati ad immaginarvi in quella situazione. Tale immaginazione può suscitare empatia
grazie ai neuroni specchio, i quali vi consentirebbero di avvertire un’approssimazione di
ciò che altri proverebbero come risultato del vostro malvagio trattamento.
Così la regola aurea è uno strumento per l’empatia e la premura, non per esercizi
intellettuali come il «velo d’ignoranza» o l’«imperativo categorico» di Kant, che ci
spingerebbero ad agire secondo modalità che si pretende siano universali. La
progressione psicologica naturale va dall’attività dei neuroni specchio all’empatia e
all’apprezzamento emotivo e intellettuale delle necessità altrui.
Ma di quali aspetti della vita del prossimo dobbiamo prenderci cura? L’utilitarismo
edonistico dice che dovremmo concentrarci solo sulla felicità, come piacere e assenza di
dolore, senza fare differenze fra desideri e bisogni. Un concetto più ampio afferma che le
decisioni etiche dovrebbero prendere in considerazione i diritti umani basati sugli
interessi vitali delle persone.
Il filosofo Brian Orend utilizza la concezione dei bisogni di Wiggings per sviluppare
un ricco e plausibile quadro dei diritti umani 13. Secondo Orend, ci sono cinque interessi
vitali indispensabili all’agire di una persona:

1. la sicurezza personale, che assicura protezione dalla violenza;


2. la sussistenza materiale, che garantisce accesso a risorse come cibo e rifugio
indispensabili ai bisogni umani;
3. l’eguaglianza elementare, come eguaglianza iniziale agli altri;
4. la libertà personale da interferenze per le scelte vitali;
5. il riconoscimento della propria dignità come membro della comunità umana.

L’assenza di una qualunque delle cinque condizioni compromette la capacità di vivere


con un minimo di bene. Per Orend il principio essenziale è quello in base al quale le
176
persone hanno il diritto di non soffrire pene pesanti per il soddisfacimento dei propri
bisogni vitali.
Le condizioni identificate da Orend sono tutte conformi alla regola aurea. Voi sapete di
non voler essere fisicamente minacciati, di non voler soffrire la fame, di non voler essere
discriminati, coartati, o rifiutati come esseri umani. Pertanto l’empatia dovrebbe
motivarci a trattare il prossimo in modo tale da non minacciare i suoi interessi vitali. Da
questo punto di vista, i diritti umani non sono il prodotto della sola ragione; essi derivano,
piuttosto, dalla riflessione, basata sull’empiria, su ciò che è indispensabile per agire come
essere umano. Riconoscere alle persone diritti umani pone limiti ad alcune delle meno
gradevoli implicazioni del conseguenzialismo, opponendosi alla diminuzione della
felicità dell’uno solo per aumentare quella di un gruppo di altri.
Sfortunatamente il riconoscimento dei diritti umani non fornisce una facile risposta
alla domanda su che cosa fare in casi in cui possa essere necessario violare i diritti di una
persona per prevenire la violazione dei diritti di altri. L’utilitarismo edonistico offre una
scappatoia per questo problema, suggerendoci di calcolare ciò che procura la maggior
felicità al maggior numero di persone. Simili calcoli sono molto difficili, ma ancor più
complicata è la valutazione della misura in cui le diverse azioni violerebbero i vari
bisogni di persone o gruppi di persone diversi.
Gli interessi vitali, secondo Orend, non comprendono solo la sicurezza personale e la
sussistenza materiale, ma anche aspetti sociali come l’uguaglianza, la libertà, e il rispetto.
Eguaglianza e libertà sono strettamente collegate alle necessità psicologiche della
competenza e dell’autonomia discusse nell’ottavo capitolo, e il riconoscimento è un
aspetto del bisogno dei legami di appartenenza. Pertanto c’è un buona sovrapposizione
fra quel che Orend considera la base dei diritti umani e quel che Deci e Ryan individuano
come bisogni psicologici fondamentali di tutta l’umanità.
Un altro grande problema del conseguenzialismo è che esso sembra pretendere troppo
dalle persone. Si aspetta che noi consideriamo in maniera equanime le conseguenze per
tutte le persone, il che vuol dire che dovremmo considerare gli estranei allo stesso modo
in cui consideriamo noi stessi e le persone che ci sono vicine, per esempio i nostri
familiari. Ma ben poche persone sono in grado di non considerare la propria felicità e
quella di coloro che amano più importante di quella di uno o più estranei. Per affrontare
questo problema, abbiamo bisogno di un quadro più dettagliato di come il bisogno di
legami di appartenenza possa spiega perché le relazioni strette sono molto più importanti
delle amicizie occasionali e della partecipazione ad associazioni.
Dal momento che le persone provano un bisogno più profondo di legami di
appartenenza basati su intime relazioni familiari piuttosto che su conoscenze casuali, è
logico che esse si preoccupino maggiormente per i propri cari piuttosto che per la gente in
generale. Grazie ai neuroni specchio e agli aspetti corporei e cognitivi dell’intuizione
emotiva, le persone sono in grado di prendersi cura del prossimo in generale. Ma non
possiamo aspettarci che, per questo, trascurino il benessere dei loro cari.
Pertanto, le concezioni dei bisogni vitali possono essere impiegate per superare le
obiezioni più serie al conseguenzalismo come teoria etica, rendendolo pluralistico,
compatibile con i diritti e sensibile ai rapporti sociali. Al contrario, i problemi degli
approcci teologici e a priori all’etica sono insormontabili. Noi possiamo valutare le azioni
177
giuste o sbagliate a seconda di quanto soddisfino i bisogni umani, specialmente le
necessità vitali come la sussistenza materiale, ma anche le necessità sociali e psicologiche
come l’appartenenza e l’autonomia. Azioni che violano i bisogni umani possono
danneggiare la gente, della quale possiamo prenderci cura non solo per motivazioni
razionali, ma anche perché i nostri neuroni specchio ci danno un senso empatico diretto di
ciò che succede quando qualcuno soffre. Intuizioni morali, come la coscienza emotiva in
generale, coinvolgono sia la valutazione cognitiva sia la percezione corporea. Anche se
non possono essere considerate come indicatori di verità a priori, o impiegate come una
evidenza diretta della realtà morale, esse possono nondimeno essere molto informative, in
particolari situazioni, su ciò che dovrebbe essere fatto. La validità delle loro informazioni
dipende dal grado in cui le valutazioni cognitive, e le percezioni corporee che le
generano, sono basate sull’esperienza delle conseguenze positive e negative delle azioni
precedenti. Il conseguenzialismo basato sui bisogni è la teoria etica più plausibile tra
quelle oggi a disposizione, in quanto prevede la possibilità che i giudizi sul bene e sul
male possano essere oggettivi 14.

Oggettività morale

A causa della difficoltà di fondare principi morali generali, con i quali tutti concordino,
si è talora tentati di abbandonare l’idea stessa dell’oggettività morale. Il filosofo Jesse
Prinz difende il relativismo morale, l’opinione cioè secondo cui i giudizi morali sono solo
manifestazioni di valori culturali, che variano da una società all’altra 15. Egli descrive la
grande divergenza di vedute morali fra individui e culture su temi come la monogamia,
l’omosessualità e il cannibalismo, praticati da molte popolazioni. Egli ritiene che, per
giudicare se un’azione è giusta o meno, non c’è nulla di meglio dell’attitudine emotiva di
approvazione o disapprovazione.
Molti degli approcci tradizionali alla moralità oggettiva non funzionano. Ho già
criticato l’approccio religioso basato sulla fede e quello degli a priori basato sulla pura
ragione. Un’altra possibilità è che tutti gli esseri umani siano nati con principi etici innati,
che costituiscono una sorta di grammatica morale universale 16. Questi suggerimenti
pongono diversi problemi. Primo, c’è scarsa evidenza del fatto che esistano principi etici
culturalmente universali. Non è difficile trovare culture le cui pratiche prevedono
l’omicidio, il cannibalismo, l’infanticidio, l’incesto, per cui ogni tentativo di radicare i
nostri principi etici fondamentali in proprietà universali della mente sembra inverosimile.
Secondo, se i principi etici particolari sono innati, dovrebbe essere possibile identificare
aree cerebrali dedicate alla riflessione morale, dove i principi siano conservati ed
elaborati, come avviene per le aree cerebrali visive. Ma il modello della coscienza
emotiva e gli studi, in rapida evoluzione, della visualizzazione cerebrale durante le
riflessioni morali suggeriscono che molte aree cerebrali interagiscono nella riflessione
morale, senza che ci sia un modulo circoscritto. Terzo, anche se esistessero principi
culturalmente universali e biologicamente fondati, essi potrebbero non essere eticamente
accettabili. Ad esempio, supponete che la gente coltivi un innato principio xenofobo
derivato dalla nostra storia evolutiva, che prescrive di trattar male i membri di gruppi

178
estranei al proprio. Il principio sarebbe innato, ma sbagliato, in base a quanto discusso nel
secondo capitolo, a proposito del fatto che le convinzioni innate sul mondo, come la
geometria di Euclide, possono essere sbagliate. Alla pari della conoscenza scientifica,
anche i giudizi morali devono essere considerati fallibili e soggetti a revisione, sulla base
dell’evidenza accumulata. Per questo non vedo ragione di credere che esista una
grammatica morale universale che possa fungere da supporto parziale all’oggettività
morale.
Molti filosofi contemporanei guardano al metodo dell’equilibrio riflessivo come rotta
verso l’oggettività. Questo metodo consiste in un aggiustamento riflessivo delle intuizioni
e dei principi morali, così da raggiungere un equilibrio nella forma di un ricco insieme di
intuizioni e principi che combacino l’un con l’altro. Considerando l’equilibrio riflessivo
come fonte di oggettività morale si presentano due problemi rilevanti. Il primo problema
è la natura altamente soggettiva delle intuizioni morali, come si evince dal resoconto
della coscienza emotiva dato dianzi. Noi sappiamo ben poco del perché abbiamo le
particolari reazioni emotive che abbiamo nelle diverse situazioni, dal momento che i
processi cerebrali descritti nel modello EMOCON non sono accessibili alla coscienza. Le
vostre intuizioni morali iniziali possono basarsi su ricche e affidabili esperienze personali
di ciò che giova alla vita delle persone, ma esse potrebbero anche basarsi su pregiudizi
morali privi di fondamento che derivano dai vostri insegnanti e da chi si prende cura di
voi. Molti filosofi morali contemporanei amano trattare le intuizioni morali come
evidenze, come se fossero dati sperimentali da spiegare con teorie. Ma il metodo descritto
nel secondo capitolo, relativo alla valutazione delle teorie in base ai dati, si basa
sull’affidabilità generale dei risultati delle osservazioni e delle esperienze. Le intuizioni
morali non possiedono una simile solidità e quindi non si possono considerare come dati.
Non c’è quindi ragione per utilizzarle come stimolo al processo d’equilibrio riflessivo,
anche se ci si può attendere che la riflessione sui principi porti ad una revisione delle
intuizioni.
Secondo, il metodo dell’equilibrio riflessivo è difettoso perché spesso è molto facile
raggiungere l’equilibrio, senza aver ottenuto nulla che assomigli all’oggettività. Rawls
sviluppò l’idea dell’equilibrio in analogia con ciò che pensava succedesse nella logica,
dove si sviluppano principi logici che presumibilmente concordano con le intuizioni
evolutive circa i tipi legittimi di inferenze. Da questo punto di vista, principi logici come
il modus ponens (se p allora q; p, quindi q) e l’inferenza statistica non sono veri a priori,
ma piuttosto sono sorti a seguito di un processo di reciproco aggiustamento con intuizioni
logiche. Il problema, comunque, è che le persone potrebbero accomodarsi negli stati
d’equilibrio con un buon armamentario di intuizioni e principi non troppo logici 17. Ad
esempio, molti credono nella regola infondata dei giochi d’azzardo, secondo cui se,
lanciando in alto una moneta, esce testa per molte volte di seguito, allora a breve dovrà
necessariamente toccare alla croce. Nel campo dell’etica è stato storicamente facile, per le
persone, accontentarsi di principi come quello secondo cui ciò che dice la Bibbia sul bene
e sul male è vero. Pertanto l’equilibrio riflessivo fornisce, nel migliore dei casi, un
metodo debole di perseguimento dell’oggettività morale, e nessun tipo di appiglio per la
sua difesa.

179
Nel quarto capitolo abbiamo visto che l’evidenza basata su osservazione ed
esperimento rende la coerenza di teoria e dati qualcosa di più di una questione puramente
interiore. Ci serve una strada simile per rompere il circolo di intuizioni e principi generato
dall’equilibrio riflessivo. I bisogni vitali indicano la direzione più attraente, dal momento
che la domanda su ciò che è indispensabile per funzionare al massimo e al minimo come
esseri umani è, quantomeno parzialmente, empirica. La biologia ci dice che le persone
non possono vivere senza cibo e senza acqua. Ma per una più ampia comprensione
dell’attività umana, ci servono altre fonti empiriche come la psicologia, l’antropologia e
la sociologia.
Se esistono bisogni vitali oggettivi che forniscono le basi per il riconoscimento dei
diritti umani nelle varie culture, allora abbiamo motivi per rifiutare il salto di Prinz dal
relativismo descrittivo (le morali cambiano da popolo a popolo) al relativismo normativo
(le morali sono soggettive). Considerate, ad esempio, il cannibalismo, un tempo comune
a molte culture. È facile concordare sul fatto che uccidere qualcuno per mangiarlo viola i
bisogni elementari della vittima, ma mangiare qualcuno che è morto per altre cause è una
questione diversa. Allo stesso modo, l’omosessualità non viola nessun diritto umano nel
senso di Orend, e la sua discriminazione è una minaccia all’eguaglianza elementare, alla
libertà personale e al bisogno psicologico di autonomia. Un fenomeno più difficile da
classificare è la poligamia, nel caso ipotetico in cui la rottura del rapporto uno-a-uno fra
marito e moglie, tipico del mondo occidentale, non danneggi gli interessi vitali delle
donne coinvolte nel rapporto poligamico volontariamente. In pratica, comunque, la
poligamia è di regola accompagnata da violazioni dei diritti delle donne per quel che
riguarda l’eguaglianza, la libertà, il rispetto e talora anche la sicurezza personale.
Riassumendo, l’oggettività morale diventa possibile se noi guardiamo non alla
teologia o al ragionamento a priori, ma piuttosto all’evidenza tratta dalla biologia e dalla
psicologia. Il conseguenzialismo basato sui bisogni collima perfettamente con la
coscienza emotiva basata sui meccanismi cerebrali dell’intuizione morale e con le
diversità culturali del comportamento morale. La difficoltà di arrivare a principi morali
indiscutibili non è il risultato del relativismo morale, ma piuttosto della difficoltà di
determinare il rango e l’importanza dei bisogni psicologici umani e dell’enorme
complessità del calcolo delle conseguenze delle azioni possibili. Formulare giudizi morali
è un compito molto difficili, ma dobbiamo sforzarci di usare tutto quel che sappiamo
sulla natura del mondo e sulle menti umane per fare del nostro meglio.

Responsabilità

Ha senso parlare di impegno se i giudizi morali sono solo processi cerebrali basati su
meccanismi neurochimici? Che cosa ce ne facciamo dell’idea della responsabilità morale
se le menti sono cervelli e la libera volontà è un’illusione? Supponete di arrestare un
sadico torturatore che ha inflitto alle sue vittime grandi sofferenze e lesioni per il vago
sospetto che esse nascondessero qualche informazione utile. Secondo la teoria
tradizionale che identifica la mente con l’anima, il torturatore può esser considerato
responsabile e punito per l’atto biasimevole della tortura. Ma se la decisione di torturare è

180
dipesa in realtà da un processo fisico di neuroni che scaricavano in risposta a stimoli
sensoriali, come istruzioni e ordini di un superiore, allora può apparire non legittimo
incolpare il torturatore per un atto di cui non aveva il controllo. La risposta ad ogni
malvagità potrebbe essere: «Non è colpa mia, il mio cervello mi ha imposto di farla». La
rivoluzione del cervello avrebbe come estrema conseguenza che il concetto di
responsabilità morale dovrebbe essere abbandonato, assieme a quelli di immortalità e di
libera volontà: un prezzo che molti trovano inaccettabile.
Il distinto neuroscienziato Michel Gazzaniga accetta il punto di vista secondo cui le
decisioni e le azioni sono determinate da processi cerebrali, ma ritiene che si possa
mantenere il concetto di responsabilità come proprietà delle persone, non dei cervelli.
Egli sostiene che la responsabilità è una costruzione umana che esiste solo nel mondo
sociale, non una proprietà dei cervelli 18. Chi propone concetti religiosi relativamente alla
morale potrebbe replicare che si tratta di una nozione della responsabilità troppo debole
per essere moralmente interessante, di poco migliore del suo completo abbandono.
Lo psicologo comportamentista B.F. Skinner ha scritto un libro intitolato Beyond
Freedom and Dignity (Oltre la libertà e la dignità), nel quale rifiuta completamente la
nozione tradizionale di responsabilità morale. Se ciò che fate è il semplice risultato di ciò
che avete appreso in passato, e consiste nel fornire moduli prevedibili di risposta agli
stimoli, allora la nozione di responsabilità non ha senso. Non ci sarebbe ragione di
considerare qualcuno responsabile della tortura, più di quanto un topo è responsabile di
rosicchiare la sua gabbia. Ma abbiamo visto nel sesto capitolo che il processo decisionale
è molto più complicato delle semplici risposte agli stimoli. Una decisione è il risultato di
un’interferenza al miglior piano, raggiunta attraverso la valutazione emotiva di azioni
differenti in rapporto agli scopi prefissati. Quindi la scelta di considerare qualcuno
responsabile di aver agito immoralmente deve basarsi su un concetto: noi desideriamo
tentare di assicurare che le future decisioni, sia della persona biasimata sia di altre
persone, vengano prese sulla base di scopi che tengano conto degli interessi e dei bisogni
di tutte le persone coinvolte. Chiunque prenda in considerazione l’idea di procedere alla
tortura tenga conto del fatto che le sue decisioni e i suoi giudizi morali devono rispondere
anche del dolore e della sofferenza delle sue vittime potenziali. Considerare le persone
responsabili delle proprie azioni implica l’attesa legittima e socialmente benefica che esse
si comportino meglio, incoraggiate da scopi sociali che comprendono il prendersi cura del
prossimo e il non fargli del male, così da evitare la disapprovazione. È moralmente
legittimo considerare le persone moralmente responsabili delle proprie azioni, perché ciò
comporta conseguenze socialmente positive. Punirle è giustificato per prevenire che loro
o altri agiscano male. Mettere i criminali in prigione sfortunatamente limita la
soddisfazione dei loro bisogni di autonomia e appartenenza, ma serve ad impedire che
facciano altro male al prossimo. Pertanto la rivoluzione del cervello non impone di
abbandonare l’idea della responsabilità morale, ma la modifica nella sostanza.
Secondo la tradizionale visione dualistica, una persona è una mente che coincide con
un’anima, e le azioni sono il risultato di libere scelte non interamente determinate da
cause fisiche. Coloro che fanno cattive scelte di loro volontà possono essere ritenuti
responsabili di ciò e meritano d’essere puniti.

181
Ma, per l’opinione che io sto difendendo, le azioni sono il risultato di decisioni che a
loro volta sono processi fisici del cervello, cosicché l’aspetto della responsabilità e della
punizione non può determinare la natura peccaminosa di ciò che la persona ha commesso.
Piuttosto, il fatto di considerare le persone responsabili di quel che fanno e di punirle è
giustificato se avrà come conseguenza futura un minor rischio per il prossimo. Come
suggerisce Gazzaniga, dovremmo pensare di una persona che è un essere sociale,
comprenderla nei termini delle relazioni col suo prossimo, e non solo considerarla come
un cervello o un corpo. Se le persone sono concepite come esseri sociali e se la finalità di
considerarle responsabili è il miglioramento sociale, allora l’idea della responsabilità
morale sopravvive.
I neuropsicologi Joshua Greene e Jonathan Cohen giungono a conclusioni simili circa
l’importanza delle neuroscienze per quanto riguarda il tema giuridico della punizione.
Essi argomentano che le neuroscienze mostrano che la volontà libera è un’illusione, e
chiedono quindi l’abbandono della tradizionale giustificazione della punizione legale
come pena per il reato commesso. Se le persone non sono anime libere di scegliere le loro
azioni immorali, non meritano d’essere punite, come sarebbe se la loro volontà fosse
assolutamente libera 19.
Comunque, le neuroscienze non indeboliscono la giustificazione conseguenzalista
della punizione necessaria per il bene sociale, come deterrente contro azioni pericolose. I
criminali vanno rimossi dalla società cosicché non possano commettere altri reati. Ho
argomentato prima che il conseguenzalismo è coerente con una visione dei diritti umani
riferita ai bisogni, che evita l’obiezione standard secondo cui le conseguenze possono
essere usate per giustificare punizioni arbitrarie ed ingiuste.
Di primo acchito, può sembrare che il mio rifiuto della libera volontà sia incompatibile
col bisogno dell’autonomia. Come possono le persone sentire che ciò che fanno dipende
da scelte personali, se il processo decisionale non è altro che attività nervosa? La risposta
richiede di sostituire il tradizionale concetto di Io, di anima immortale senza costrizioni
fisiche, con un concetto basato sulle neuroscienze. In questo caso l’Io può essere visto
come un sistema nervoso complesso, che comprende strutture rappresentative e capacità
di elaborazione che differenziano (a) azioni generate da decisioni interne basate su
interessi intrinseci, e (b) azioni che sono motivate o imposte dall’esterno. Inoltre, in
accordo con la concezione dei sistemi a più livelli difesa del quinto capitolo, l’Io può
anche essere considerato come un sistema sociale e psicologico. Amore, lavoro e gioco
fanno, di regola, parte dei sistemi sociali, e non solo di quelli nervosi. Per questo il
bisogno d’autonomia è pienamente compatibile col rifiuto della libera volontà e
l’adozione della responsabilità sociale 20. Un Io totalmente responsabile dovrebbe essere
in grado di compiere inferenze autonome al miglior progetto morale, tenendo conto sia
dei propri bisogni personali sia degli interessi del prossimo.

Conclusione

La rivoluzione che deriva dall’identificazione di mente e cervello ci impone di


abbandonare concetti familiari e tradizionalmente apprezzati come l’immortalità e la

182
volontà libera. Ma le idee etiche circa il bene e il male e la responsabilità morale possono
sopravvivere in forme diverse. Possiamo per esempio conservare la vecchia idea della
coscienza, interpretandola come processo cerebrale e non come tramite fra Dio e l’anima.
I giudizi su bene e male sono istanze della coscienza emotiva, prodotte dalle interazioni
di molte aree cerebrali, che collegano i giudizi cognitivi con la percezione corporea. Le
intuizioni morali possono apparirci come percezioni dirette del bene e del male, ma in
realtà sono processi cerebrali molto complicati, che dipendono dall’esperienza passata,
sia personale sia educativa. Le emozioni morali, di per sé, non costituiscono l’evidenza
del fatto che qualcosa è bene o male, e devono essere analizzate così da distinguere
preoccupazioni morali oggettive da semplici preconcetti o idee arbitrarie e coercitive,
inculcate da autorità morali fasulle.
L’idea del peccato come atto di libertà nei confronti di Dio va abbandonata perché si
basa su ipotesi false circa l’esistenza dell’anima e della divinità. Ma le emozioni sociali,
come la colpa e la vergogna, e l’idea ad esse affine della responsabilità morale possono
essere ancora appropriate, se contribuiscono ai bisogni vitali di tutti coloro che sono
coinvolti. La considerazione dei bisogni psicologici vitali di competenza, appartenenza e
autonomia fornisce la giustificazione e la spiegazione dell’asserzione secondo cui il
significato della vita si trova nell’amore, nel lavoro e nel gioco.
Secondo il naturalismo neurale, l’oggettività morale non dipende dalle prescrizioni
teologiche, dalle verità a priori, dalla grammatica morale universale o dall’equilibrio
riflessivo. La base della morale è costituita fal fatto che le persone hanno oggettivi
bisogni vitali, senza i quali sarebbero menomate nella loro capacità di funzionare come
esseri umani. Le azioni hanno conseguenze che influenzano i bisogni delle persone;
un’azione è giusta fino a quando promuove quei bisogni, ed è sbagliata se li danneggia. I
giudizi morali sono di per sé emotivi, nel senso che noi sentiamo di approvare ciò che ci
sembra bene e di disapprovare ciò che ci sembra male. Come le esperienze emotive in
generale, i giudizi morali hanno una componente di valutazione cognitiva, che dovrebbe
comprendere l’accertamento delle conseguenze di un’azione sui bisogni delle persone
coinvolte. L’accertamento non è solo un freddo calcolo di costi e benefici, ma dovrebbe
includere anche la comprensione del prossimo. Tale comprensione avviene in forza degli
aspetti fisiologici delle emozioni e del funzionamento dei neuroni specchio.
Le neuroscienze stanno cominciando ad usare la visualizzazione del cervello con le
risonanze magnetiche e con altre tecnologie per acquisire l’evidenza delle modalità con
cui i cervelli formulano giudizi morali: la ricerca importante è cominciata appena negli
anni 2000. Una ricerca più completa sui cervelli etici terrà conto di reperti affascinanti
come questi:

– i pazienti con lesioni della corteccia prefrontale possono diventare manifestamente


immorali;
– le visualizzazioni cerebrali di persone alle prese con dilemmi morali rivelano diversi
tipi di attività corticale che corrispondono a intuizioni morali diverse a seconda del
fatto che il diretto interessato sia o meno coinvolto personalmente nei giudizi morali;
– le persone possono essere indotte ad aver fiducia nel prossimo con uno spray nasale
contenente l’ormone ossitocina, che fa aumentare nel cervello il senso di appartenenza.
183
Il presente capitolo non desidera fornire una teoria completa di psicologia morale, ma
piuttosto indicare alcuni dei fattori chiave, come i neuroni specchio e la coscienza
emotiva, per la comprensione della natura dei giudizi etici elaborati dal nostro cervello.
Questa comprensione non salta la barriera fatto/valore con una qualsiasi inferenza
deduttiva, ma piuttosto riunisce molti generi di evidenza psicologica, neurologica e
antropologica, coerenti o meno con le teorie filosofiche circa il bene e il male. Non potete
derivare un dovrebbe da un è, ma potete apprezzare il fatto che alcuni dovrebbe sono
molto più congruenti di altri con quel che sappiamo delle menti, dei cervelli e delle
culture. Il conseguenzialismo dei bisogni vitali è congruente con la conoscenza biologica
e psicologica, e per questo fornisce un miglior approccio all’etica normativa di quelli
forniti dalla teologia o dall’etica di Kant 21. In realtà, l’obiettività morale è possibile in
quanto ci sono certezze psicologiche, neurologiche, e sociali di ciò di cui l’umanità ha
bisogno per esistere e prosperare. Per avere progresso morale, noi abbiamo bisogno di
considerare intellettualmente i bisogni del prossimo e di prendercene cura emotivamente.
La capacità del nostro cervello di discernere il bene dal male è congruente con la nostra
capacità di conoscere la realtà, sentire emozioni, prendere decisioni, e condurre una vita
piena di significato. Nel prossimo, conclusivo capitolo, riassumerò come queste capacità
convergono e suggerirò risposte ad altre questioni, come la forma di governo di cui
l’umanità ha bisogno e perché esiste qualcosa anziché niente.

1
Su Nietzsche cfr. http://plato.standford.edu/entries/nietzsche/; Prinz 2007.
2
Hume 1888.
3
Rawls 1971.
4
Cfr. Hare 1993. Forse essi hanno bisogni diversi da quelli delle persone normali, ma non dovremmo
riferire l’etica ad una minoranza patologica, e tanto meno l’epistemologia al senso distorto della realtà
proprio della schizofrenia. Sul danno all’amigdala degli psicopatici cfr. Blair et al. 2005. Per differenze nei
giudizi morali in seguito a lesioni del cervello cfr. Koenigs et al. 2007; Greene et al. 2001; Moll et al. 2005;
Casebeer – Churchland 2003.
5
Sui neuroni specchio cfr. Rizzolati – Craighero 2004; Thagard 2007b; Goldman 2006. Iacoboni 2008
sostiene che la violenza presente nei media stimolerebbe la violenza sociale attraverso i neuroni specchio.
6
Sull’empatia cfr. Barnes – Thagard 1997; Thagard 2006; Singer et al. 2006; Preston – de Waal 2002;
Decety – Jackson 2004; Jackson et al. 2006; Singer 2004; Hatfield – Rapson et al. 1994; Hoffman 2000.
7
Cfr. Nichols 2004, p. 140.
8
Sulla socializzazione morale cfr. Blair et al. 2005, p. 128.
9
Sulla cura del prossimo cfr. Held 2006; Slote 2007.
10
Cfr. http://plato.stanford.edu/entries/consequentialism/.
11
Cfr. http://www.religioustolerance.org/reciproc.htm.
12
Rawls 1971.
13
Orend 2002.
14
Per difenderla in pieno, dovrei criticare teorie etiche alternative come il contrattualismo,
l’espressivismo, l’etica della virtù. Sull’affinità fra neuroscienze e virtù etiche cfr. Casebeer e Churchland

184
2003; P.M. Churchland 2007. Trovo che l’etica della virtù – l’opinione secondo cui un’azione è giusta se è
ciò che una persona virtuosa farebbe nella stessa circostanza – sia poco attraente per ragioni sia filosofiche
sia psicologiche. Dal punto di vista filosofico è inutile, perché lascia incerta la questione su che cosa renda
virtuoso un agente, che, secondo me, è colui che si prende cura dei bisogni altrui. Il consiglio che proviene
dall’etica della virtù è del tipo: «Non usare la virgola come uno stupido». Psicologicamente l’etica della
virtù si scontra col problema di dover considerare un’enorme quantità di evidenze sperimentali secondo le
quali il comportamento delle persone dipende più dalle circostanze che del carattere. Cfr.
htpp://plato.standford.edu/entries/moral-psych-emp.
15
Prinz 2007.
16
Cfr. Hauser 2006; Mikhail 2007. L’opinione è basata sull’approccio linguistico, sempre più
controverso, che postula una grammatica universale del linguaggio. Sia per il linguaggio sia per la morale si
riscontra una diversità tale da far supporre che la forza dell’apprendimento sia superiore a quella di principi
innati.
17
Cfr. Stich – Nisbett 1980; Thagard 1988; Harman – Kulkarni 2007.
18
Secondo Gazzaniga 2005, noi dovremmo pensare alle persone come a esseri sociali. Cfr. Koggel
1980; Bechtel 2008.
19
La discussione in corso sull’importanza delle neuroscienze per comprendere la libertà e la
responsabilità si sta svolgendo nel florido ambito della neuroetica. Cfr. Greene – Cohen 2006;
http://www.neuroethics.upenn.edu/websites.html.
20
Cfr. Ryan et al. 2006.
21
Il conseguenzialismo circa i bisogni vitali è coerente con la conoscenza biologica e psicologica. Sulla
coerenza, in particolare quella etica, cfr. Thagard 2000.

185
10
Dare un senso a tutto

Un insieme di relazioni

In una delle mie barzellette preferite, un uomo, entrando in un cinema, rimane


sorpreso dal vedere una donna che entra con un cane. Quando il film comincia, il cane
guarda lo schermo, ride alle scene comiche, piange a quelle tristi e saltella qua e là
durante il finale eccitante. Una volta terminato il film, l’uomo si avvicina alla donna e le
dice: «Mi scusi, sono rimasto sbalordito da come il suo cane sembrava apprezzare il
film». E la donna: «Ero sorpresa anch’io, perché il libro non gli è piaciuto per niente».
Come molte barzellette, questa è buffa perché monta un insieme coerente di attese che
poi viola andando in un’altra direzione, egualmente coerente. La finalità delle barzellette
è quella di sorprendere.
Le spiegazioni scientifiche e filosofiche, di regola, non sono buffe, tuttavia
raggiungono la coerenza per vie sorprendenti. Io ho cercato un approccio integrato a ciò
che considero i quattro problemi filosofici più importanti: che cos’è la realtà? come la
conosciamo? perché la vita è degna d’essere vissuta? che cosa sono il bene e il male?
La coerenza proviene, in parte, da una convergenza di metodo e di fiducia
nell’evidenza delle osservazioni e degli esperimenti scientifici, piuttosto che dalla fede
religiosa, da argomenti a priori, o da esperimenti mentali.
Ho cercato di non dimenticare il proverbio ebraico: «Per esempio, non è una prova».
Gli aneddoti sono, al massimo, una forma debole di evidenza, e l’espediente degli
esperimenti mentali, che tanti filosofi apprezzano, non rappresentano in alcun modo
un’evidenza. Ho impiegato forme più sistematiche d’evidenza per argomentare a favore
di due opinioni principali relative alla realtà, e cioè che le menti sono sistemi fisici
costituiti da cervelli che interagiscono coi corpi e col mondo, e che il mondo esiste
indipendentemente dalle menti.
Conosciamo la realtà non solo attraverso i risultati delle osservazioni e degli
esperimenti, ma anche grazie a teorie che possiamo vagliare per decidere se sono parte
della miglior spiegazione dell’intera gamma dell’esperienza disponibile. Teorie
scientifiche, come la meccanica di Newton, l’elettromagnetismo e la teoria batterica delle
malattie, hanno avuto un enorme effetto nel consentire all’uomo di interagire con il

186
mondo, facendogli capire con chiarezza che il metodo dell’inferenza basata sull’evidenza
è molto più efficace di quelli basati sulla fede o sull’intuizione.
Similmente, l’evidenza raccolta scientificamente può aiutarci a sviluppare il genere di
teorie normative necessario per rispondere alle domande sull’etica e sul significato della
vita. Il salto da così sono le cose a le cose dovrebbero essere così non è possibile, tuttavia,
per quanto riguarda le questioni di valore, l’evidenza è molto rilevante.
Quest’importanza si apprezza molto facilmente nel ragionamento strumentale, nel
quale a qualcosa viene attribuito valore in quanto rappresenta un mezzo per raggiungere
qualcos’altro che è stato già identificato come valido. Ad esempio, se attribuiamo valore
alla verità, e se il metodo scientifico è una buona strada verso la verità, allora anche il
metodo scientifico deve essere ritenuto valido.
Il problema principale riguarda la modalità con cui procedere razionalmente per
assegnare valore ai nostri scopi principali, come verità e spiegazione. Ho già scartato ogni
trascendenza e gli argomenti a priori, cosicché chi difende tali metodi dovrebbe apparire
arbitrario o confuso. Ho cercato di dimostrare che la coerenza dei fini fra di loro e con i
vari tipi di evidenza apre una strada intermedia fra arbitrarietà e inconsistenza. Così come
teorie scientifiche ed esperimenti sono giustificati dalla loro congruenza reciproca, allo
stesso modo possiamo cercare resoconti descrittivi e normativi che siano corroborati dalla
loro mutua coerenza. Lo spettro dell’inconsistenza è evitato grazie alla relativa
oggettività dell’evidenza raccolta dai sensi, di cui sappiamo che è generalmente affidabile
per via della passata esperienza e della crescente comprensione dei meccanismi fisici con
i quali la visione, il tatto, l’udito e l’olfatto permettono di interagire con il mondo.
Scienze come la biologia e la psicologia ci consentono di identificare i bisogni degli
esseri umani, che sono i fattori che ci mettono in grado di operare come persone nei nostri
complicati mondi fisici e sociali. Tali fattori sono la verità e la spiegazione, perché non
possiamo agire come esseri umani senza una qualche affidabile comprensione delle
modalità con cui il mondo funziona attorno a noi. Altri bisogni oggettivi comprendono la
sussistenza materiale, l’autonomia e i legami di appartenenza sociale.
L’importanza facilmente riconoscibile di tali fattori ci consente di rifiutare il
nichilismo sul significato della vita e il minimalismo della serenità del perdigiorno.
Ho tentato di mostrare come sia possibile essere normativi naturalisticamente circa la
conoscenza (secondo e quarto capitolo), il significato della vita (settimo e ottavo capitolo)
e le questioni del bene e del male (nono capitolo).
La Fig. 10.1 fornisce un riassunto schematico dell’uso dell’evidenza scientifica e delle
teorie per una deliberazione informata sulla giustificazione delle azioni, secondo i loro
contributi a fini appropriati. L’evidenza può aiutarci a selezionare teorie e ad identificare
pratiche e scopi, tenendo conto però che l’evidenza è a sua volta influenzata dalle teorie e
che pratiche e scopi si influenzano a vicenda.
Può essere arduo capire il processo parallelo rappresentato nella fig. 10.1.

187
Fig. 10.1. L’informazione descrittiva può essere rilevante per conclusioni normative. Le frecce indicano la
rilevanze delle inferenze.

Per questo segue qui una raffigurazione più lineare di come l’evidenza descrittiva
possa aiutare a stabilire norme prescrittive. Chiamerò questa sequenza procedura
normativa.

1. Identificate un ambito di pratiche, come un’inferenza scientifica (secondo capitolo) o


un ragionamento etico (nono capitolo).
2. Identificate norme da candidare per queste pratiche, come una inferenza alla miglior
spiegazione (secondo capitolo) o il conseguenzalismo (nono capitolo).
3. Identificate gli scopi appropriati di queste pratiche nell’ambito prescelto, come la
verità (quarto capitolo) o i bisogni vitali (ottavo capitolo).
4. Valutate il grado di soddisfacimento degli scopi rilevanti da parte delle diverse
pratiche.
5. Adottate come norme dell’ambito prescelto quelle pratiche che soddisfano al meglio gli
scopi rilevanti 1.

Il punto 3 è il più ingarbugliato, perché richiede la considerazione complessa degli


scopi importanti, tenendo conto anche dell’evidenza, della teoria e delle pratiche, come
emerge dalla Fig. 10.1. Per stabilire gli scopi dell’inferenza relativamente al pensiero e
all’azione, possiamo porci le seguenti domande: a che cosa mirano le persone? perché
hanno proprio questi obiettivi? i fini sono coerenti con altri scopi?
Anche il punto 4 è difficile, perché richiede l’evidenza delle pratiche che sono la causa
del soddisfacimento dei fini, e non semplicemente le correlazioni fra pratiche e scopi.
Nondimeno, questi passi aprono la strada all’uso dell’evidenza descrittiva per affrontare
questioni normative, come illustrerò più avanti in questo capitolo parlando della natura
del governo.
Non pretendo certamente, con questo libro di modeste dimensioni, d’aver dato un
senso a tutte le cose, ma ho tentato di identificare alcune connessioni fra le possibili
risposte ai problemi filosofici più seri. Domande su come perseguire la conoscenza e la
morale richiedono risposte descrittive e normative. Desideriamo sapere sia come si
formano le convinzioni, sia come dovremmo formarle; allo stesso modo desideriamo
sapere come la gente si comporta e come dovrebbe comportarsi. In epistemologia e in
etica, comunque, le questioni descrittive e normative possono essere unite da
considerazioni sull’esperienza trascorsa e dalla coerenza di diversi tipi di pratica con
differenti generi di scopi, come i bisogni e gli interessi fondamentali. Simili nessi fra
conclusioni descrittive e normative collimano con la visione naturalistica della realtà
188
delle menti secondo la quale esse sono parti complesse, basate sul cervello, dell’intero
universo fisico.
La stessa combinazione di considerazioni empiriche, teoriche e normative è servita a
fornire risposte alla questione se la vita è degna d’essere vissuta. Scopi concernenti
l’amore, il lavoro e il gioco sono collegati ai bisogni vitali degli esseri umani,
identificabili con ricerche empiriche. Queste ricerche fanno spesso parte dell’ambito di
studio di competenza delle scienze sociali, e impiegano tecniche empiriche collaudate in
psicologia, economia e sociologia. Ma le ricerche sui meccanismi biologici dei cervelli
umani stanno penetrando sempre più in profondità. Conosciamo sempre più a fondo il
funzionamento del nostro cervello e sappiamo che dipende da compensazioni fra
interazioni di aree cerebrali coinvolte in cognizioni ed emozioni, come la corteccia
prefrontale, l’amigdala e il nucleo accumbens. Le ricerche ci consentono, non solo di
usare le scienze sociali per verificare il dato di fatto che amore, lavoro e gioco hanno
importanza per la gente, ma anche di impiegare le neuroscienze per vedere le modalità
con cui questi ambiti della vita personale acquistano importanza attraverso le attività del
cervello. Così comprendiamo come gli scopi di questi aspetti della vita siano collegati ai
profondi e oggettivi interessi degli esseri umani.
Comunque, negli ultimi anni, mi sono tenuto alla larga da molte e radicate convinzioni
sulla rilevanza diretta della biologia evoluzionistica. Non ho dubbi sul fatto che il
cervello umano evolva per selezione naturale, ma non esiste alcuna particolare evidenza a
favore delle convinzioni dei sostenitori della psicologia evoluzionistica in base alla quale
il cervello sarebbe una raccolta di moduli innati orientati a scopi particolari, come il
linguaggio o il comportamento sociale 2. Dal momento che non esiste alcuna evidenza
sulle modalità evolutive del cervello, è quantomeno plausibile che l’effetto più rilevante
della selezione naturale sia stato quello di consentire lo sviluppo di metodi efficaci per
l’apprendimento individuale e sociale 3. Ovviamente il cervello dispone di un’architettura
prestabilita di aree, come per esempio quelle del sistema di ricompensa della dopamina,
ma il suo funzionamento è legato soprattutto a strategie d’apprendimento flessibili
piuttosto che a moduli fissi. La rivoluzione del cervello non ci condanna a servirci di
moduli di pensiero fissati con cablaggi biologici già dall’età della pietra.
Al contrario, gli sviluppi culturali in ambiti come la letteratura, la matematica, il
dibattito e la sperimentazione scientifica, hanno aperto ricche possibilità di sviluppo alle
nostre società in modi che possono arricchire immensamente la vita della gente. Nel
quinto capitolo sostengo un approccio che si avvicina su più piani ad una spiegazione
della mente né riduzionistica né antiriduzionistica. Dobbiamo avvicinarci a tutti i
meccanismi relativi ai processi mentali che la rivoluzione del cervello ci rende
accessibili, consapevoli della persistente importanza delle spiegazioni psicologiche e
sociali, così da poter capire come stanno le cose e come possono essere migliorate.

Saggezza raggiunta

Inevitabilmente molti lettori saranno disturbati dai miei argomenti, basati


sull’evidenza, a favore dell’identità di mente e cervello, dell’indipendenza della realtà dal

189
nostro modo di pensarla, e del significato della vita e della morale che devono essere
cercati nella biologia e nella psicologia umane piuttosto che in qualche regno
trascendentale.
Nel corso dei secoli le persone hanno trovato già abbastanza difficile subire i
cambiamenti cognitivi richiesti per riorganizzare i sistemi concettuali, fino ad accettare
che gli esseri umani sono solo un altro genere di animale e che la Terra è solo uno dei
miliardi di pianeti dei sistemi solari e delle galassie. Psicologicamente ancora più difficile
è stato il cambiamento concettuale ed emotivo imposto dal dover abbandonare, assieme ai
concetti di immortalità, di libera volontà e all’esistenza di un dio che fungesse da
sollecito protettore, anche l’idea che la via umana sia il centro del cosmo.
Il cambiamento cognitivo e concettuale è giustificato dall’evidenza incontrovertibile di
teorie scientifiche come l’evoluzione per selezione naturale e il big bang dell’universo.
Queste teorie spingono anche nella direzione di un cambiamento concettuale ed emotivo,
perché contestano la convinzione religiosa dell’esistenza dell’anima. Ma i cambiamenti
emotivi e concettuali che accompagnano la sostituzione della fede con l’evidenza non
sono necessariamente negativi né devono provocare una crisi esistenziale di profonda
disperazione.
La speranza va cercata non nell’assoluzione eterna o nella supervisione divina, ma
nella molto più mondana e realisticamente realizzabile ricerca dei fini dell’amore, del
lavoro e del gioco. Le vite secolari non devono essere necessariamente vuote o immorali,
ma possono avere gli stessi primari obiettivi che caratterizzano le vite dei credenti, ossia
famiglia, lavoro e intrattenimento. Inoltre, in questo modo si evitano il tedio delle
funzioni religiose e la minaccia terrificante della punizione eterna. Il fatto che l’universo
non si prenda cura di voi non deve rappresentare un pensiero terribilmente angosciante,
almeno fino a quando ci sono altri che lo fanno. Se voi potete avere fiducia che un
moderato successo in amore, nel lavoro e nel gioco possa soddisfare le vostre necessità
vitali di appartenenza, competenza e autonomia, allora non dovreste più aver bisogno
della convinzione religiosa secondo cui Dio vi osserva o della convinzione spirituale
secondo cui tutto accade per una ragione.
Riconoscere che le menti sono cervelli è, ovviamente, una rivoluzione concettuale, ma
non deve essere sentita come una rivoluzione emotiva completa, perché i valori che
guidano la maggior parte delle persone nella vita quotidiana rimangono invariati.
Nel primo capitolo, ho caratterizzato la saggezza come conoscenza di ciò che ha
importanza, del perché ha importanza e di come raggiungerla. Spero che siate d’accordo
che le risposte, basate sull’evidenza, alle questioni circa la natura della realtà, la
conoscenza, la morale e il significato costituiscono generi di conoscenza che hanno
grande importanza. In particolare, ho cercato di mostrare che gli ambiti che hanno e
dovrebbero avere il massimo d’importanza nella vita quotidiana sono l’amore, il lavoro e
il gioco, piuttosto che la felicità o la ricerca della salute. Ho tralasciato i dettagli su come
raggiungere i fini associati all’amore, al lavoro e al gioco, perché per simili consigli
pratici è consigliabile rivolgersi ad uno psicologo piuttosto che ad un filosofo.
Molte questioni filosofiche, neuropsicologiche e sociali rimangono aperte. Sebbene io
non voglia tentare di rispondere ad ognuna di esse in profondità, desidero comunque
delineare un abbozzo di risposta ad alcune delle domande chiave che possono sorgere
190
all’interno della cornice neuronaturalistica che propugno: quale tipo di governo
dovrebbero avere le nazioni? come possiamo realizzare cambiamenti creativi? che cos’è
la conoscenza matematica? perché c’è qualcosa invece di niente? Le mie risposte a queste
domande saranno molto propedeutiche, ma serviranno ad indicare alcune dei compiti
futuri del naturalismo neurale.

Che tipo di governo dovrebbero avere le nazioni?

Il problema centrale della filosofia politica concerne quale tipo di Stato debba essere
considerato il più legittimo. Non è un problema descrittivo relativo a quale forma di
governo abbiano usato paesi diversi, ma piuttosto concernente la forma di governo da
scegliere. Tentiamo di rispondere usando la procedura normativa già tracciata in questo
capitolo.
Il primo passo consiste nell’dentificare un ambito di pratiche. Circa diecimila anni fa
gli esseri umani cominciarono ad organizzarsi in gruppi più grandi dei clan di cacciatori
che rappresentavano le organizzazioni sociali originarie. Lo sviluppo dell’agricoltura
nella valli lungo i fiumi dell’Egitto e della Mesopotamia portò a raggruppamenti più
numerosi, con conseguente centralizzazione del potere per scopi economici e militari. Si
formarono governi che, nel corso dei millenni successivi, assunsero varie strutture
organizzative, che costituiscono il campo delle pratiche politiche che sono ora il nostro
tema.
Il secondo passo consiste nell’identificare norme, proprie delle forme di governo
attuali ed ipotetiche, che giustifichino queste pratiche. I primi governi erano monarchie,
mentre i secoli successivi hanno portato a nuove forme di governo come la democrazia
liberale, gli stati socialisti, il fascismo, e forme ipotetiche di anarchia nelle quali lo Stato
è idealmente abolito a favore o di cooperative mutualistiche (anarchismo di sinistra) o di
forze del libero mercato (libertarismo) 4.
Se diamo un’occhiata al mondo d’oggi, possiamo individuare differenti forme di
governo, che possono suggerire norme relative all’organizzazione dello Stato. Per
esempio:

– democrazia liberale, caratterizzata da un governo rappresentativo e dalla tutela della


libertà individuale, ad esempio gli Stati Uniti;
– comunismo, caratterizzato da uno governo totalitario e dal controllo di un solo partito,
ad esempio Cuba.
– assolutismo, caratterizzato dall’assenza di un governo costituzionale, ad esempio
l’Arabia Saudita.

All’interno di queste forme ci sono variazioni importanti, ad esempio la


socialdemocrazia svedese pone maggior enfasi sull’eguaglianza economica rispetto agli
Stati Uniti, che, invece, favoriscono la libertà economica.
Il terzo passo della mia procedura normativa consiste nell’identificare gli scopi della
politica pratica, che impongono di chiedersi perché esista lo Stato. Alcuni conservatori
preferiscono la risposta minimalista secondo la quale lo Stato è legittimamente tenuto
191
solo a proteggere i cittadini dal nuocersi a vicenda, mentre i fondamentalisti religiosi
vedono lo Stato come idealmente dedicato alla realizzazione dei comandamenti divini. Lo
Stato dovrebbe essere, in primo luogo, interessato alla libertà delle persone, o ai temi
della correttezza e della giustizia sociale, o ad altri fini? La mia risposta preferita deriva
direttamente dall’etica basata sui bisogni sviluppata nell’ottavo e nel nono capitolo: i fini
idonei dello Stato consistono nell’aiutare le persone a soddisfare le loro necessità vitali.
Esse comprendono le necessità fisiologiche indispensabili come la sicurezza, il cibo,
l’abitazione, la cura della salute, e le necessità psicologiche fondamentali dell’autonomia,
dell’appartenenza e della competenza. Non dobbiamo aspettarci che lo Stato stabilisca
un’eguaglianza completa circa salute o ricchezza, almeno fino a quando agisce per
promuovere l’eguaglianza della soddisfazione delle necessità elementari. Di nuovo, il
concetto di necessità congiunge descrizione e norma: le necessità possono essere
identificate sulla base dell’evidenza di ciò di cui la popolazione ha bisogno per evitare
danni e prosperare; le necessità generano poi l’obbligo per i singoli e per lo Stato di
adoperarsi per soddisfarle. L’empatia e il prendersi cura del prossimo sono momenti
cruciali dell’insorgenza degli obblighi, dal momento che le strutture dei nostri cervelli
danno alla maggioranza di noi la capacità di capire le necessità del prossimo 5.
Ora possiamo procedere al quarto passo, basato più direttamente sull’evidenza, che
riguarda la valutazione di quanto le varie forme di governo raggiungano lo scopo di
soddisfare le necessità umane vitali. A questo proposito abbiamo una messe di dati a
disposizione, come ad esempio l’Indice dello sviluppo umano delle Nazioni Unite, che
calcola la capacità media di 177 paesi di aiutare i propri cittadini a soddisfare i bisogni
vitali garantendo loro una vita lunga e sana, l’educazione e un tenore di vita decente. Nel
2008, i dieci paesi al vertice dell’Indice erano Islanda, Norvegia, Canada, Australia,
Irlanda, Olanda, Svezia, Giappone, Lussemburgo e Svizzera. Un altro criterio per valutare
il soddisfacimento delle necessità umane in differenti paesi è rappresentato dall’esame
delle indagini sul benessere soggettivo dal 1981 in poi 6. Fra i paesi col tenore di vita
soggettivamente più alto si trovano Messico, Danimarca, Colombia, Irlanda, Svizzera,
Olanda, Canada e Austria. Dall’osservazione delle due liste possiamo ragionevolmente
dedurre che la forma di governo che attualmente soddisfa al meglio le necessità umane è
la democrazia liberale in un sistema d’economia capitalistica con sostanziale supporto
statale per l’educazione, la salute, ed altre esigenze di eguaglianza sociale.
È ovvio che ci vorrebbero molta più evidenza e molti più argomenti per affrontare il
quinto passo della procedura normativa, ossia per concludere che la democrazia
capitalistica liberale e sociale dovrebbe essere indicata come la forma di governo
migliore per le nazioni. Argomenti difficili sull’importanza relativa di particolari bisogni
come l’autonomia e i legami di appartenenza devono essere discussi tenendo conto di
ogni evidenza disponibile, così da valutare il successo dei vari paesi nel soddisfare questi
bisogni. Non dovremmo nemmeno escludere la possibilità che alcune forme di governo
momentaneamente non praticate potrebbero essere meglio di quelle attuali per soddisfare
le necessità umane.

Come realizzare un cambiamento creativo?


192
Da dove vengono le nuove idee, e come trovare soluzioni creative per i problemi seri
che il mondo ha di fronte? I problemi globali più pressanti sono le crisi economiche, la
povertà, la disoccupazione, il cambiamento del clima, la sovrappopolazione, e la
minaccia rappresentata dalla scarsità d’energia 7. Affrontare questi problemi richiede
grandi innovazioni sociali e scelte creative derivanti da processi psicologici, nervosi e
molecolari dei cervelli umani. Qui voglio riportare alcune ricerche recenti sull’emergere
di nuovi concetti attraverso i moduli interconnessi dell’attività cerebrale.
Al livello più semplice, la creatività può essere interpretata come il processo che
determina una nuova combinazione concettuale, nella quale concetti esistenti vengono
collegati per la prima volta l’un con l’altro per produrre qualcosa di nuovo.
La mia città natale, Waterloo, nell’Ontario, è il quartiere generale della Research in
Motion, la società che produce i popolari dispositivi portatili senza fili Blackberry. A
metà degli anni Novanta, quando questa compagnia possedeva solo una piccola fabbrica
di cercapersone senza fili, il suo fondatore, Mike Lazaridis, ebbe l’idea di sviluppare un
dispositivo per usare i cercapersone per la posta elettronica. Il concetto di comunicazioni
senza fili era già diffuso e la posta elettronica era in uso da decenni, ma la combinazione
concettuale posta elettronica senza fili era nuova e creativa, come è stato confermato
dall’enorme successo del Blackberry e dalla crescita della Research in Motion, che si è
trasformata in una compagnia che vale molti miliardi di dollari.
Se quanto ho sostenuto nel terzo e quarto capitolo è vero, allora concetti come wireless
(senza fili) e email (posta elettronica) sono moduli dell’attività cerebrale. Assieme ai miei
collaboratori sto lavorando ad un modello neurocomputazionale che mostra come nuovi
moduli di attivazione possano emergere in una popolazione di neuroni attraverso
l’integrazione di moduli dell’attivazione di due popolazioni neurali che codificano due
concetti preesistenti 8. Stiamo cercando di identificare i meccanismi nervosi con i quali
possono essere formati nuovi concetti a partire dalle attività nervose collegate a concetti
esistenti. Questi meccanismi dovrebbero essere sufficienti per spiegare come nascono
concetti creativi nuovi come quello della posta elettronica senza fili ed altri. Contiamo di
costruire un modello nervoso unificato da applicare al processo da cui sorgono ipotesi
scientifiche, come l’evoluzione di Darwin (quarto capitolo), e da cui si generano nuovi
scopi creativi (sesto capitolo). Riuscire a spiegare la creatività in aree cerebrali diverse
per combinazione concettuale, formazione di ipotesi e sorgere di scopi rappresenterebbe
un ulteriore risultato a favore dell’evidenza del fatto che le menti sono veramente
cervelli, come sostenuto nel terzo capitolo. È ovvio che la nascita di nuove idee nel
cervello non è il solo processo necessario per sviluppare soluzioni ai problemi sociali.
Come discusso nel quinto capitolo, dobbiamo pensare alle persone in termini di
sistemi a più livelli che includono meccanismi sociali, psicologici, molecolari e nervosi.
Qui si elencano alcune congetture relative al modo migliore per tentare di modificare
sistemi complessi come le menti e le società umane:

1. Per cambiare un sistema di più livelli, intervenire a tutti i livelli accessibili.


2. Ad un livello particolare, intervenire comprendendo i meccanismi rilevanti in misura
sufficientemente dettagliata da poter individuare le manipolazioni di parti, le

193
interazioni, e i circuiti retroattivi più probabilmente in grado di produrre i cambiamenti
voluti.
3. Prestare attenzione alle interazioni fra meccanismi a vari livelli.
4. Coordinare gli interventi, in modo che siano complementari piuttosto che
incompatibili.

Come esempio concreto di modificazione in sistemi a molti livelli, considerate il


trattamento più efficace nei casi di depressione severa. L’evidenza a disposizione
suggerisce che il modo migliore per migliorare lo stato d’animo delle persone depresse è
la combinazione di terapia cognitiva e di farmaci antidepressivi 9. Questa combinazione
agisce ai quattro livelli rilevanti: sociale, psicologico, nervoso e molecolare. Il terapista
cognitivo assiste i pazienti a livello psicologico, aiutandoli ad identificare e superare
convinzioni, scopi ed emozioni negativi. Inoltre il terapista aiuta il paziente a migliorare
le relazioni personali e di lavoro, e quindi la terapia cognitiva interviene anche a livello
sociale. I farmaci antidepressivi, come Prozac e Wellbutrin, influenzano i
neurotrasmettitori, fra i quali la dopamina e la serotonina, agendo così sulle molecole, ma
essi modificano anche il ritmo delle scariche dei neuroni e la generazione di nuovi
neuroni nell’ippocampo. Pertanto, sembra che la combinazione di terapia cognitiva e di
farmaci antidepressivi abbia effetti benefici perché agisce sinergicamente ai quattro livelli
rilevanti dei meccanismi che producono la depressione. Interventi ancora più efficaci
saranno possibili quando si potrà disporre di una conoscenza più approfondita dei
meccanismi sociali, psicologici, nervosi e molecolari che sono all’origine della
depressione, comprese le interconnessioni descritte nella seconda e nella quarta
congettura. Per valutare la plausibilità delle mie congetture sul cambiamento di sistema
sono necessari molti altri esempi di cambiamento. Abbiamo un urgente bisogno di
sviluppare nuove teorie, basate sull’evidenza, su come modificare i sistemi psicologici,
politici e sociali per poter affrontare la lista scoraggiante di problemi che l’umanità ha di
fronte. L’abbozzo di spiegazione a più livelli contenuta nel quinto capitolo dovrebbe
aprire la strada ad interventi a più livelli che soppiantino i modelli semplicistici di
casualità.
La fig. 10.2 espone quattro opinioni, molto dibattute, su tali relazioni 10. La più
familiare è (A), la classica concezione riduzionistica secondo la quale cambiamenti a
bassi livelli provocano cambiamenti a livelli alti. Stando a quest’opinione, la causalità
procede verso l’alto, e così dovrebbe fare la spiegazione: i cambiamenti sociali sono
spiegati come il risultato di modificazioni psicologiche, a loro volta derivanti da
modificazioni nervose fino al livello subatomico.

194
Fig. 10.2. Quattro rappresentazioni delle relazioni fra i livelli di spiegazione nella scienza cognitiva. Le
frecce indicano la causalità. [Fonte: Cognitive Science Society].

Nelle scienze sociali, alcuni autori vanno in tutt’altra direzione, suggerendo che il
livello sociale è la chiave della causalità, come si vede in (B). Secondo quest’opinione,
causalità e spiegazione procedono dall’alto verso il basso, dal livello sociale a quello
psicologico, e ogni cosa è una costruzione sociale; i livelli nervosi e molecolari sono
largamente ignorati.
Una forma moderata, meno imperialista, di riduzionismo è quella autonoma, (C); nella
Fig. 10.2 le linee punteggiate indicano che le spiegazioni ad ogni livello possono
procedere indipendentemente l’una dall’altra. Quest’opinione è diffusa fra sociologi,
economisti e antropologi che desiderano mantenere la loro indipendenza dalla psicologia
senza troppe pretese di costruttivismo sociale.
Similmente, alcuni psicologi e filosofi della mente desiderano difendere la psicologia
dalle incursioni rapidamente invadenti delle neuroscienze. La visione autonoma perde
progressivamente di plausibilità, da quando la psicologia nelle sue varie branche:
cognitiva, sociale, clinica ed evolutiva, si interessa in maniera crescente ai processi
nervosi. Alla stessa stregua, a livello sociale, l’economia viene sempre più influenzata da
approcci comportamentali e nervosi.
La mia concezione preferita è quella altamente interattiva (D), nella quale interazioni
causali e quindi relazioni esplicative avvengono fra tutti i livelli. È un punto di vista che
non è né riduzionista, perché rifiuta le connessioni causali unidirezionali proprie di (A),
né antiriduzionista, perché riconosce che i processi molecolari sono parte della
spiegazione degli eventi nervosi, e che i processi nervosi sono parte della spiegazione
degli eventi psicologici, i quali concorrono a loro volta alla spiegazione degli eventi
sociali. Faccio affidamento sul fatto che l’aumento di conoscenza circa i meccanismi
interconnessi a più livelli sarà d’aiuto per spiegare il pensiero umano, e, inoltre, per
creare nuovi approcci a problemi sociali difficili. Così filosofia e neuroscienza non solo
serviranno ad interpretare il mondo, ma aiuteranno anche a cambiarlo.

Che cos’è la conoscenza matematica?


195
Interpretare il mondo è un obiettivo grandioso. Una questione irrisolta concerne la
natura della conoscenza matematica. Perché è vero che 3+4=7?
Nel secondo e nel quarto capitolo ho sfiorato l’argomento della conoscenza
matematica accennando che essa ha spinto numerosi filosofi e matematici a rifiutare il
naturalismo. Per Platone, e molti suoi successori, deve esserci una base a priori per le
verità dell’aritmetica, della geometria (come il teorema di Pitagora) e per molti altri
campi della matematica. Essi ritengono che è necessariamente vero (in tutti i possibili
mondi) che 3+4=7, e che la scienza naturale non può spiegarlo.
I misteri su come l’umanità gestisce l’apprendimento delle verità matematiche sono
stati, a lungo, la fonte della convinzione secondo cui le idee sono soprannaturali.
Un’alternativa naturalistica del tutto plausibile richiede di sapere molto di più circa la
natura dei concetti matematici e sulle modalità con cui essi si sviluppano nel cervello.
Si sa già qualcosa sui concetti dei numeri in animali e in bambini, ma il fondamento
nervoso della conoscenza matematica comincia solo ora ad essere investigato 11.
Come primo passo, possiamo dire che concetti matematici come tre, angolo retto,
numero infinito sono tutti sistemi d’attivazione cerebrale, secondo quanto discusso nel
quarto capitolo. Ciò non significa, necessariamente, che tali concetti derivino
direttamente dall’esperienza, dal momento che, come abbiamo già visto, nuovi concetti
possono essere formati dalla combinazione concettuale prescindendo dalla percezione.
Inoltre alcuni concetti base, come oggetto, possono essere innati. L’attivazione di concetti
come numero e addizione può cominciare con esempi specifici, per esempio quando i
bambini osservano una collezione di oggetti e sono istruiti a contare e a fare somme, ma
la combinazione concettuale può velocemente generare combinazioni astratte come
numero divisibile solo per se stesso e per 1. Questi tipi di meccanismi nervosi, di cui s’è
parlato a proposito della creatività, dovrebbero essere egualmente e ampiamente in grado
di produrre rappresentazioni di astrazioni matematiche.
Ma c’è una differenza cruciale fra le entità teoriche come l’onda sonora e le entità
matematiche come un numero infinito. Anche se non possiamo osservare le onde sonore,
siamo tuttavia giustificati a credere alla loro esistenza per l’inferenza alla miglior
spiegazione. Non possiamo sentire o vedere onde sonore, ma possiamo osservare i loro
effetti causali tutte le volte che sentiamo i suoni. Al contrario, entità puramente
matematiche come i numeri non hanno alcun effetto causale diretto, e quindi come
possiamo essere autorizzati a credere alla loro esistenza?
In passato sono stato tentato di dire che i numeri esistono perché sono concetti, e i
concetti sono moduli d’attivazione nervosa in cervelli reali. Il problema di questa
opinione consiste nel fatto che sembra che ci siano più numeri che moduli d’attività
cerebrale. Ammesso che i neuroni possono scaricare o non scaricare 100 volte al secondo
e che ci sono 100 miliardi di neuroni, possiamo calcolare che ci siano almeno
(2 100) 100.000.000.000 possibili moduli di attivazione nel cervello umano. Ma i numeri interi
(1, 2,...) sono infiniti, perché ne possiamo sempre creare uno maggiore aggiungendo 1.
(Una simile evidenza dimostra che può esistere un numero infinito di reality show
televisivi, perché ne verrà sempre uno peggiore).
Andando a fondo del problema, il matematico del secolo XIX Georg Cantor mostrò
che ci sono più numeri reali (ad esempio π, 3,14159...) che numeri interi, e che, in realtà,
196
esiste un numero infinito di insiemi di numeri infiniti di diverse dimensioni, un’infinità
d’infiniti. È chiaro che il cervello non può possedere un numero infinito di moduli, e
quindi non tutti i numeri possono essere concetti cerebrali, non più di quanto possano
essere entità teoriche dedotte dall’inferenza alla miglior spiegazione.
La via d’uscita più plausibile da questo vicolo cieco consiste, secondo me, nel
concludere che i numeri e altri oggetti matematici sono solo finzioni, inesistenti nel
mondo reale, al pari di Harry Potter, Amleto e gli angeli 12. Anche le asserzioni puramente
matematiche sono fittizie, sebbene possano essere plausibili o non plausibili a seconda
del contesto dei mondi fittizi che esse descrivono. Nella fantasia, Harry Potter è un
maghetto e non un cane, e gli angeli hanno ali e non eliche. Similmente, nel contesto
degli assiomi della teoria dei numeri, i numeri possono essere infinitamente grandi o
infinitamente piccoli; e, nel contesto della teoria degli insiemi, esiste un’infinità di
insiemi infiniti. Ma numeri, insiemi e maghetti non esistono nel mondo reale.
Il problema maggiore che si riscontra nel considerare gli oggetti matematici come
finzioni consiste nel capire perché la matematica sia così utile nella descrizione e nella
spiegazione del mondo. Sembra che la rilevanza di verità matematiche elementari come
2+2=4 e di molte branche della matematica, come algebra e calcolo, siano inestimabili in
numerosi campi scientifici, dalla fisica alle neuroscienze teoriche. Come possono i
modelli matematici del funzionamento del cervello dirci qualcosa sul pensiero se la
matematica è fittizia?
La risposta più plausibile è che molte asserzioni matematiche possono essere
comprese se riferite al mondo reale piuttosto che a qualche aspetto astratto degli oggetti.
Ritengo che l’asserzione seguente sia vera: 2 oggetti assieme ad altri 2 oggetti fanno un
totale di 4 oggetti. Questa è un’asserzione sugli oggetti, non sui numeri, e per questo può
essere vera nel mondo reale. Similmente, algebra e calcolo non sono né veri né falsi, ma
sono usati per esprimere asserzioni misurabili relativamente a sistemi fisici, asserzioni
che sono giudicate vere o false sulla base dell’evidenza sperimentale e dell’inferenza alla
miglior spiegazione. Le asserzioni matematiche non sono vere a priori come non sono
generalizzazioni sul mondo; ma possiamo combinare concetti matematici con concetti
relativi a oggetti e processi per avanzare asserzioni sul mondo. Asserzioni matematiche
astratte come quelle della teoria degli insiemi e quella dei numeri sono affermazioni
fittizie, piuttosto che verità necessarie.
Succede che queste finzioni si rivelano utilissime per descrivere il mondo reale. I
numeri immaginari e la teoria dei gruppi, ad esempio, sono puri sviluppi matematici, che
si sono dimostrati importanti per l’elaborazione di teorie fisiche. Ritengo che la
matematica pura, talora, si riveli scientificamente utile per la stessa ragione per cui la
buona narrativa può dirci molto sulla psicologia e sulle relazioni sociali. Harry Potter e i
maghi non esistono, ma i caratteri di J.K. Rowling sono basati sulla sua dimestichezza
con la comprensione delle relazioni sociali. I miei autori preferiti (come Shakespeare,
Tolstoj, e Carol Shields) creano caratteri ed eventi fittizi intensamente interessanti perché,
grazie alla loro esperienza, sanno molto della natura umana. Alla stessa maniera, le
astrazioni della matematica spesso non sono pure creazioni; piuttosto, i matematici le
sviluppano combinando, con l’immaginazione, concetti provenienti da riflessioni su vari
aspetti del mondo reale. Lo scrittore Julian Barnes disse che il romanzo racconta
197
meravigliose e ben combinate bugie, che circondano verità dure ed esatte 13. La
matematica dice meravigliose ed esatte bugie che talora si avvicinano al disordine delle
verità.
Per rendere plausibile questa opinione sulla matematica dovremmo sapere molto di più
della natura dei suoi concetti. Si sta accumulando una ricca messe d’evidenza
sperimentale sulla natura del pensiero matematico negli adulti, nei bambini e negli
animali. Secondo quanto affermato a proposito dei concetti nel quarto capitolo, i concetti
matematici sono moduli d’attività nervosa che codificano molti e diversi generi di
rappresentazione – sia visiva e spaziale sia verbale e formale. Ma lo sviluppo della
matematica non sarà ben compreso fino a quando non disporremo di una conoscenza più
approfondita, procurata dalle neuroscienze teoriche, dei meccanismi grazie ai quali le
popolazioni di neuroni presenti in aree diverse del cervello sono in grado di generare
nuovi e più astratti concetti matematici.

Perché c’è qualcosa anziché niente?

Certamente c’è una domanda, fra le più rilevanti, cui io non sono in grado di
rispondere, un tema centrale che un approccio naturalistico non può affrontare: perché,
dopo tutto, esiste qualcosa? Gran parte dell’evidenza astrofisica è a favore della teoria
secondo cui l’universo è emerso da uno stato incandescente e denso circa 14 miliardi
d’anni fa, in un big bang da cui sorsero spazio e tempo. Ma il big bang da dove veniva?
Poche persone istruite accettano il racconto biblico in base al quale il mondo sarebbe
stato creato appena seimila anni fa, mentre più condivisa è la concezione secondo cui Dio
produsse il big bang e quindi creò l’universo. È facile screditare convinzioni di questa
natura, chiedendosi come un essere immateriale possa riuscire a creare materia ed
energia, ma nonostante tutto l’idea di un creatore è comunque più soddisfacente di quella
secondo cui il nostro universo si è affacciato all’esistenza in forza di un’inspiegabile
fluttuazione quantica. La teologia sembra avere un potenziale esplicativo superiore a
quello della magia.
Recentemente due eminenti fisici, Paul Steinhardt e Neil Turok, hanno proposto
un’alternativa sia alla teologia sia alla visione magica. Essi hanno sviluppato la teoria
ciclica, secondo la quale il nostro universo prese ad esistere a causa della ripetibile
collisione fra due strani oggetti chiamati branes. Il modello ciclico è basato
sull’approccio guida alla fisica fondamentale: la teoria delle stringhe, secondo cui la
materia è composta da oggetti vibranti simili a funicelle, che operano in più dimensioni
non soltanto in quella temporale e spazialmente tridimensionale propria della nostra
esperienza quotidiana. Un brane (abbreviazione di membrane) è una superficie a più
dimensioni che può muoversi, estendersi, incurvarsi, e collidere con altre superfici simili.
Secondo Steinhardt e Turok, l’universo cominciò con una violenta transizione da uno
stato a bassa densità d’energia ad uno ad altissima densità d’energia di plasma
incandescente, che costituì il big bang. L’energia prodotta alla fine decadrà, portando
l’universo, fra circa tre miliardi di anni, indietro fino allo stadio nel quale una nuova
collisione produrrà un nuovo big bang, con la ripetizione, ad intervalli regolari di storia

198
cosmica, di passato e futuro. In ogni ciclo c’è un big bang seguito successivamente da
condizioni dominate da radiazioni, materia, energia, che portano ad una contrazione e
infine ad un nuovo big bang.
Secondo Steinhardt e Turok, è evidente che la teoria ciclica collima con tutte le attuali
osservazioni astronomiche in modo altrettanto accurato rispetto alla teoria modificata del
big bang, e sono convinti che possa potenzialmente spiegare e unificare alcuni aspetti
dell’universo meglio della teoria del big bang. Nessuno è in grado di dire se la teoria
ciclica verrà accettata dall’astrofisica, in parte perché è difficile allestire esperimenti che
forniscano l’evidenza a favore della teoria delle stringhe, che è il presupposto della teoria
ciclica. Il modello ciclico viene ricordato qui perché mostra la possibilità di una risposta,
basata sull’evidenza, alla domanda perché esiste qualcosa anziché niente. Stando al
modello, c’è sempre qualcosa, e cioè i branes, che sono le cause storiche dell’esistenza di
un infinito numero di universi, compreso il nostro. La spiegazione principale
dell’esistenza di realtà a noi familiari come il Sole, i pianeti, e i membri della nostra
specie è la storia del big bang, che prende origine dalla collisione dei branes così come è
stato proposto da Steinhardt e Turok. Forse la teoria ciclica, emotivamente, non è del tutto
soddisfacente, perché è lontana dal fornire una qualsiasi rassicurazione circa il significato
dell’universo e del nostro posto in esso. Ma è potenzialmente soddisfacente dal punto di
vista cognitivo, perché spiega in modo non misterioso come il nostro universo è sorto. Se
mai avverrà che scriva una seconda edizione di questo libro spero di potervi aggiungere
un capitolo intitolato I branes e il significato della vita.
Steinardt e Turok rifiutano il popolare «principio antropico», secondo il quale la
complessità dell’universo è connessa alla nostra capacità di esistere in esso e di
osservarlo, come se l’universo esistesse per produrre esseri umani. Essi ammettono che le
leggi fisiche e le condizioni che governano l’universo devono essere compatibili col fatto
che la vita esiste, ma ciò non ci dice nulla sull’origine di quelle leggi e condizioni.
Alcuni fisici suggeriscono che il nostro pianeta si trova in un universo particolare con
molte possibilità, meravigliosamente foggiato come prerequisito all’evoluzione della vita.
Di contro, il modello ciclico considera il nostro universo come sorto da meccanismi fisici,
non da idee astratte quali quella di fungere da prerequisito all’evoluzione della vita.
Il principio antropico è per me un nuovo tentativo di controrivoluzione tolemaica, tesa
a riportare la mente al centro della realtà. A questo tentativo arride maggior successo che
a molti dei precedenti, ivi compresa la teoria kantiana della conoscenza, la fenomenologia
di Husserl, il misticismo buddista, la spiritualità velleitaria della New Age, il
postmodernismo, la difesa dei concetti quotidiani di Wittgenstein, e l’interpretazione
della meccanica quantistica basata sulla coscienza.
Rifiutando l’idealismo e la lusinga del dualismo, dobbiamo comprendere in profondità
la fisica, la biologia e le neuroscienze, le quali ci dicono che le nostre menti sono solo un
processo fisico particolare in un vasto universo. La teoria ciclica mostra come
quest’universo potrebbe esser sorto da un meccanismo fisico, senza che il centro della
realtà sia il pensiero umano. Solo negli ultimi cinquecentomila anni, quando l’universo
già esisteva da diversi miliardi di anni, le menti umane hanno cominciato ad interpretare
la realtà. Non possiamo in alcun modo sapere se altri generi di menti si siano evolute nei

199
cicli precedenti a quello che ha portato alla formazione del nostro universo, e se nuovi
generi di menti evolveranno nei miliardi di anni a venire.

Il futuro della saggezza

Mi chiedo quanto tempo durerà la specie umana. Forse disastri come epidemie,
drastici cambiamenti climatici, una guerra atomica impediranno all’Homo sapiens di
gustare i pochi milioni di anni di vita della maggior parte dei vertebrati. Volendo essere
più ottimisti, considerando la nostra inventiva e la capacità di adattamento, potremmo
essere in grado di tener duro per i cinque miliardi di anni, o giù di lì, trascorsi i quali, avrà
inizio la morte del Sole per mancanza d’idrogeno. Se la conoscenza scientifica continua
ad aumentare con la crescente rapidità degli ultimi pochi secoli, gli esseri umani
potrebbero riuscire ad emigrare in altri sistemi solari.
Rimanendo nell’immediato, possiamo attenderci una conoscenza molto più
approfondita delle modalità con cui i cervelli producono i processi mentali, di cui s’è
parlato in questo libro. Entro i prossimi dieci-venti anni, spero di assistere a un notevole
progresso nell’ambito delle neuroscienze sui modi con cui si conosce la realtà, si provano
emozioni, si prendono decisioni, si agisce moralmente, e si conduce una vita piena di
significato. Mi aspetto di assistere a continui e rapidi progressi sui meccanismi nervosi
responsabili dei processi cognitivi di base come la percezione, la memoria,
l’apprendimento, e l’inferenza. Spero inoltre che si giunga a una più profonda
comprensione di come lavora il pensiero scientifico, in particolare per quanto riguarda i
processi più creativi, nei quali sorgono nuove ipotesi e nuovi concetti. Nuovi modelli
neurocomputazionali dovrebbero gettar luce sulla natura della comprensione umana della
causalità.
Oltre a questo, molto rimane da imparare circa le basi nervose delle emozioni umane,
la loro integrazione con i processi cognitivi e la generazione di esperienze coscienti. Io ho
tracciato solo il profilo di alcuni meccanismi nervosi propri della coscienza emotiva, e
molti resoconti dettagliati sono necessari per capire emozioni particolari, come la paura e
l’ira. Mi attendo che questi dati includano sia le valutazioni cognitive sia le percezioni
corporee, e che forniscano dettagli molto più specifici su come il cervello genera tipi
particolari di esperienze emotive. Uno dei miei più importanti progetti di ricerca riguarda
lo sviluppo di un modello nervoso di modificazione emotiva da applicare sia alla
psicologia individuale sia al progresso sociale. Un nuovo progetto d’equipe riguarda il
tentativo di identificare le strutture emotive profonde dei conflitti nazionali.
Le teorie meccanicistiche innovative della cognizione e dell’emotività dovrebbero
preparare la strada ad accertamenti più profondi sui meccanismi del processo decisionale,
inclusi quelli concernenti le valutazioni etiche. Molto ancora c’è da dire su come gli scopi
sono rappresentati nei cervelli umani e su come li utilizziamo per scegliere fra azioni
possibili sulla base di ragioni etiche e strumentali. Spero che una teoria nervosa altamente
sviluppata e basata sull’evidenza dei meccanismi del processo decisionale fornisca il
presupposto per una teoria psicologicamente più realistica del comportamento
economico. In particolare, una teoria più elaborata della revisione degli scopi dovrebbe

200
fornire la base per una spiegazione delle maggiori variazioni emotive che caratterizzano
le attività umane, dalla psicoterapia all’innovazione sociale. Idealmente, dovrebbe
suggerire soluzioni più elaborate dei conflitti in grado di garantire la possibilità di
giungere ad una comprensione maggiore delle dispute che coinvolgono sia i singoli sia
gruppi di individui.
Per finire, una più ampia teorizzazione delle basi neurali della conoscenza,
dell’emozione, del processo decisionale e della coscienza dovrebbe aprire la strada ad una
maggior comprensione dei generi di saggezza dai quali dipende il modo in cui
affrontiamo le difficoltà della vita. Psicologia e filosofia hanno bisogno di ulteriori
indagini su come gli aspetti fondamentali della vita, amore, lavoro e gioco aiutino a
soddisfare le necessità primarie delle persone. Aspetto con impazienza teorie dettagliate
sui meccanismi nervosi che sottostanno a fenomeni come il legame sentimentale,
l’amicizia, la soddisfazione nel lavoro, e il divertimento. Le discipline accademiche che
maggiormente hanno bisogno di questi sviluppi sono gli studi letterari e culturali, che
finora hanno fatto affidamento soprattutto su idee filosofiche e psicologiche, prese a
prestito da tradizioni di ricerca scarsamente basate sull’evidenza. Per fortuna, stanno
emergendo approcci cognitivi alla letteratura e approcci nervosi all’estetica 14.
Lo studioso di diritto Anthony Kronman rimprovera le università di aver rinunciato al
tentativo di capire il significato della vita, e sottolinea l’importanza delle scienze umane
nello sforzo di recuperarne la comprensione 15.
Sono certamente d’accordo sul fatto che molto può essere appreso sul significato della
vita dalle grandi opere della letteratura e dell’arte e dalla riflessione sui temi classici della
filosofia e della storia. Ma ho cercato di mostrare che la neuropsicologia è utilizzabile
anche per esaminare in profondità ciò che rende la vita degna d’essere vissuta, e spero di
assistere allo sviluppo di connessioni molto più ricche fra le scienze umane e quelle
sociali.
Il mio scopo non è quello di usare la scienza come sostituto della filosofia, che rimane
fondamentale per indagare questioni generali descrittive e normative molto importanti.
Ho cercato di mostrare come possiamo valutare le risposte a queste domande utilizzando
l’evidenza delle neuroscienze e di altri campi della scienza. Nel primo capitolo ho
affermato che la filosofia nasce sia dall’ansia sia dalla meraviglia, e che entrambe sono
analizzate con maggiore perizia dal naturalismo piuttosto che dalla fede o dalla pura
ragione.
Problemi circa la realtà, la conoscenza, la morale e il significato sono interconnessi,
non per via di verità trascendentali, ma per via della storia e della natura degli esseri
umani in un universo fisico. Il sistema filosofico di tipo naturalistico basato sull’evidenza
che ne risulta è, spero, altamente coerente sia con l’informazione scientifica a
disposizione sia con le ragionevoli aspirazioni della vita. Ho evidenziato un forte legame
fra coerentismo come teoria della conoscenza e realismo costruttivo come teoria di ciò
che è. Entrambe sostengono la teoria multidimensionale secondo cui il significato della
vita si basa su amore, lavoro e gioco, allo stesso modo della teoria conseguenzialista della
morale legata ai bisogni umani oggettivi.
Come la scienza, la filosofia basata sull’evidenza non è mai un progetto finito, e spero
di vedere la metafisica, l’epistemologia e l’etica evolvere di pari passo con gli sviluppi
201
scientifici. A differenza delle posizioni affrettate della fede e del ragionamento a priori, il
naturalismo richiede pazienza e tolleranza, perché il suo sviluppo è soggetto ad errori
nella formulazione delle teorie e nel reperimento dell’evidenza. Il pensiero basato sulla
fede dovrebbe essere considerato sempre più come tradizione culturale derivata da
inferenze motivate, che hanno potuto essere neutralizzate dal riconoscimento del fatto che
amore, lavoro e gioco sono in grado di soddisfare i bisogni umani. Julian Barnes ha
scritto: «Non credo in Dio, ma mi manca» 16. L’apprezzamento di come l’amore, il lavoro
e il gioco diano senso alla vita dovrebbe sedare un simile desiderio.
Quando ero uno studente universitario, i professori spesso fumavano in classe. Un
giorno l’insegnante di logica buttò un fiammifero nel cestino della carta straccia, che
prese fuoco. Quando cercò di spegnere il fuoco calpestandolo, il suo grosso piede rimase
incastrato nel cestino, fra l’orrore e l’ilarità degli studenti. Similmente, i filosofi spesso
danno inizio a veri e propri incendi di natura intellettuale che poi hanno difficoltà a
spegnere, e questo non per errori di linguaggio o di logica interna ai problemi più
importanti che trattano, ma piuttosto perché i problemi filosofici sorgono ogni volta che si
pongono questioni impegnative circa le azioni e le convinzioni. Questi problemi si
collocano inevitabilmente alla frontiera fra scienza e tecnologia, così come lo sono i
dilemmi della vita della gente.
Si racconta che il fisico Richard Feynman abbia detto che gli scienziati hanno bisogno
dei filosofi come gli uccelli degli ornitologi, eppure i temi filosofici abbondano sui
confini taglienti della scienza, si pensi al tentativo di sviluppare una teoria quantica della
gravitazione. Mi si lasci riformulare una frase che Santayana pronunciò riferendosi alla
storia: chi ignora la filosofia è destinato a ripeterla. Mi si lasci aggiungere quel che
Keynes disse a proposito della teoria economica: «Chi denigra la filosofia è, di solito,
schiavo di qualche filosofo defunto». Temi filosofici circa la conoscenza, la realtà, il
significato, la morale non possono essere ignorati da chi desidera riflettere a fondo su ciò
che si deve credere e si deve fare 17.
Non è più di moda proporre sistemi filosofici, ma io ho nondimeno cercato di mostrare
che l’evidenza scientifica fornisce i fondamenti per un insieme integrato di risposte alle
questioni filosofiche fondamentali. L’ossessione avvilente dei problemi del dubbio, della
morte e del potere può cedere il passo a riflessioni più positive su come gli esseri umani
frequentemente riescono a raggiungere la conoscenza, la morale, e a condurre vite che
vanno incontro ai bisogni vitali attraverso il perseguimento dell’amore, del lavoro e del
gioco. La rivoluzione del cervello continuerà a produrre chiarimenti sui meccanismi con i
quali pensiamo, sentiamo e prendiamo decisioni, comprese quelle sulla moralità delle
azioni e sul modo migliore di condurre la nostra vita affinché sia ricca di significato.

1
Sulla discussione fra descrittivo e normativo cfr. Thagard 1998, 2000; Hardy-Valée – Thagard 2008.
2
Cfr. Richardson 2007.
3
Cfr. Quartz – Sejnowski 2002.

202
4
Sulle antiche monarchie cfr. Trigger 2003. Per una discussione su quale forma di Stato sia la più
coerente con l’esperienza umana cfr. Thagard 2000, cap. 5.
5
Per la capacità umana di apprezzare i bisogni degli altri cfr. Ignatieff 1985.
6
Sui primi 10 paesi dell’indice dell’Human Development nel 2008 cfr. http://hdr.undp.org/en/statistics.
Sulle osservazioni circa il benessere soggettivo a partire dal 1981 cfr.
http://thehappinesshow.com/HappiestContries.htm. Cfr. anche Inglehart et al. 2008, secondo cui il
benessere soggettivo starebbe aumentando nella maggior parte dei paesi.
7
Cfr. Homer-Dixon 2007.
8
Per una discussione storico-cognitiva della creatività scientifica cfr. Nersessian 2008.
9
Cfr. Kramer 2005.
10
La fig.10.2 è tratta (con l’autorizzazione della Cognitive Science Society) da Thagard 2009. Per un
video sul cambiamento dei sistemi complessi cfr. http:/video.google.com/videoplay?
docid=1880605980833989.
11
Cfr. Kadosh – Walsh 2009, che sostengono che la rappresentazione numerica è sostenuta dalla
popolazione nervosa della corteccia parietale.
12
Cfr. Bunge 2006; Maddy 2007.
13
Cfr. Barnes 2008, pag. 7.
14
Cfr. sulla musica Levitin 2006. Mar – Oatley 2008 illustrano l’importanza della psicologia cognitiva
per capire la letteratura. Mi piacerebbe assistere al sorgere di teorie neurocognitive ed emotive sul cinema,
sulla danza, sulla pittura, che costituiscono parte del significato della vita per i loro contributi al gioco, al
lavoro e qualche volta anche all’amore. La mia speranza è che il naturalismo neurale possa aiutare a salvare
gli studi culturali dalla fossa del postmodernismo, che combina una psicologia obsoleta (Freud) con una
politica antiquata (Marx) e una filosofia oscura (Heidegger).
15
Uno scrittore che, oltre a Anthony Kronman, apprezza il valore delle scienze umane ma ignora la
neuropsicologia è Eagleton 2007.
16
Barnes 2008, pag. 1.
17
Per una discussione dettagliata sull’importanza della filosofia per la scienza cfr. Thagard 2009.

203
Glossario

Amigdala – Area cerebrale sottocorticale localizzata al centro del cervello, importante


per emozioni come la paura.
Antropico, principio – Opinione secondo cui l’esistenza degli esseri umani è rilevante
per spiegare la natura dell’universo.
Appartenenza – Bisogno psicologico di legami sociali e di un senso di sicurezza e
intimità con gli altri.
Autonomia – Necessità psicologica di organizzare e regolare il proprio comportamento e
di evitare il controllo degli altri.
Cervello, rivoluzione – L’emergente sostituzione della convinzione che la mente è
l’anima con l’ipotesi che la mente è il cervello.
Cervello, visualizzazione – Uso delle tecniche di visualizzazione come la risonanza
magnetica funzionale (fMRI) per studiare le strutture e le funzioni del cervello.
Coerentismo – Teoria epistemologica secondo cui le convinzioni sono giustificate se
concordano con altre convinzioni e con l’esperienza sensoriale.
Cognitiva, neuroscienza – Studio delle funzioni mentali collegate a processi nervosi.
Cognitiva, scienza – Studio interdisciplinare della mente e dell’intelligenza,
comprendente filosofia, psicologia, neuroscienze, linguistica, antropologia,
intelligenza artificiale.
Cognitiva valutazione – Componente dell’emozione che giudica l’impatto di una
situazione sugli obiettivi personali.
Competenza – Necessità psicologica di occuparsi di compiti in modo ottimale, con
esperienza e con controllo fisico e sociale.
Conferma del preconcetto – La tendenza delle persone a cercare l’evidenza che
conferma e non mette in dubbio le proprie convinzioni.
Conoscenza a priori – Conoscenza acquisita solo con la ragione, senza esperienza
sensoriale.
Corporea, percezione – Parte delle emozioni che impiega sensori interni per percepire
stati corporei come il battito del cuore e la respirazione.
Corteccia – Strato esterno del cervello, responsabile di molte funzioni cognitive.
Coscienza – Stato mentale comprendente l’attenzione, la veglia, e l’esperienza
qualitativa.
Costruttivo, realismo – Opinione secondo la quale la realtà esiste indipendentemente
dalle menti, ma la nostra conoscenza della realtà è costruita dai processi mentali.
204
Descrittivo – Pertinente a come sono le cose, in opposizione a come dovrebbero essere.
Dopamina – Neurotrasmettitore dei circuiti cerebrali della ricompensa.
Dualismo – Opinione secondo la quale una persona consiste di due generi di sostanze: la
mente spirituale e il corpo fisico.
Elettroencefalografia (EEG) – Tecnica che usa elettrodi sistemati sullo scalpo per
registrare l’attività elettrica del cervello.
Incorporazione – Opinione secondo cui il nostro pensiero dipende prevalentemente dalle
modalità che il nostro corpo impiega per percepire il mondo e per agire su di esso.
EMOCON – Modello di come le aree del cervello interagiscono per produrre la
coscienza emotiva attraverso l’attività simultanea della memoria a breve, della
valutazione cognitiva, e della percezione corporea.
Empatia – Capacità di comprendere gli stati mentali del prossimo immedesimandosi in
maniera empatica.
Emozione – Stato del cervello relativo a valutazioni positive o negative di una situazione
e alla percezione di cambiamenti fisiologici.
Empirismo – Visione filosofica secondo cui tutta la conoscenza è basata sull’esperienza
sensoriale.
Epistemologia – Studio filosofico della natura della conoscenza.
Etica – Studio filosofico dei fondamenti del bene e del male.
Evidenza – Informazione acquisita con l’osservazione attenta, in particolare con gli
esperimenti scientifici.
Evidenza, filosofia basata sulla – Indagine filosofica basata sui risultati sperimentali,
teorici e sull’osservazione piuttosto che sulla fede o sulla ragione a priori.
Fede – Credere a, aver fiducia in, sentire devozione per un dio, leader, o testi
indipendentemente dall’evidenza.
fMRI – Immagini della risonanza magnetica funzionale. La tecnica usa il flusso di
sangue presente nel cervello per misurare l’attività delle varie aree.
Felicità – Emozione che caratterizza un’esperienza positiva e può avere un’intensità che
va dalla contentezza alla gioia intensa.
Filosofia – Ricerca della risposta alle questioni fondamentali circa la natura della realtà,
della conoscenza, della morale, e del senso della vita.
Funzionalismo – Opinione filosofica secondo la quale gli stati mentali sono definiti dalle
relazioni (input-output) funzionali esistenti fra loro e non da un particolare genere di
manifestazione fisica.
Hebb D., apprendimento secondo – Processo di reti nervose che rinforza l’associazione
fra due neuroni simultaneamente attivi.
Idealismo – Visione filosofica che considera la realtà come mentale.
Identità, teoria della – Ipotesi secondo cui stati e processi mentali sono stati e processi
del cervello.
Inferenza al miglior progetto – Decisione presa scegliendo un’azione piuttosto che altre
perché essa è parte dei mezzi migliori per raggiungere gli scopi.
Inferenza alla miglior spiegazione – Accettazione di un’ipotesi perché essa fornisce una
spiegazione migliore dell’evidenza verificabile rispetto ad ipotesi alternative.

205
Inferenza motivata – Tendenza a usare selettivamente memoria ed evidenza per
giungere a convinzioni che favoriscono i nostri scopi.
Intuizione – Giudizio conscio apparentemente immediato sorto da processi cerebrali
inconsci.
Ipotesi – Congettura circa i fattori che possono spiegare perché qualcosa avviene.
Ippocampo – Regione cerebrale coinvolta nella memoria.
Materialismo – Opinione metafisica secondo cui nulla esiste tranne materia ed energia.
Meccanismo – Un sistema di parti connesse le cui interazioni producono modificazioni
regolari.
Mentale, esperimento – Costruzione mentale di una situazione immaginaria priva di
tentativi di osservazione diretta del mondo.
Metafisica – Studio filosofico della natura fondamentale di ciò che esiste.
Multimodale, rappresentazione – Struttura del cervello che può coinvolgere diversi
generi d’informazione sensoriale, emozionale e verbale.
Naturalismo – Opinione secondo cui noi possiamo affrontare al meglio questioni
filosofiche considerando l’evidenza scientifica e le teorie piuttosto che fonti
soprannaturali.
Necessità – Condizione senza la quale la persona sarebbe menomata.
Nervosa, rete – Gruppo interconnesso di neuroni.
Neurone – Cellula nervosa.
Neuroni specchio – Neuroni che scaricano sia quando un animale agisce sia quando
percepisce la stessa azione compiuta da un altro animale.
Neuropsicologia – Indagine delle funzioni mentali collegate ai processi nervosi.
Neurotrasmettitore – Molecola che trasmette impulsi nervosi attraverso la sinapsi.
Nichilismo – Opinione secondo cui la vita non ha alcun senso.
Normativo – Concernente il modo in cui le cose dovrebbero essere anziché essere come
sono.
Nucleo accumbens – Area cerebrale sottocorticale importante per la percezione del
piacere e per le emozioni positive.
Positiva, filosofia – Approccio alla filosofia analogo alla psicologia positiva, che
enfatizza il raggiungimento della conoscenza, della morale e del significato piuttosto
che il dubbio e la disperazione.
Rappresentazione – Struttura concepita per essere qualcosa.
Razionalità degli scopi – Considerazione di come gli scopi dovrebbero essere acquisiti,
abbandonati o rivalutati.
Responsabilità – Condizione che si verifica quando si è ritenuti moralmente responsabili
per le proprie azioni.
Riduzionismo – Opinione secondo cui la spiegazione dei fenomeni dovrebbe sempre
avvenire nei termini delle entità e dei processi che li compongono.
Riflessivo, equilibrio – Metodo filosofico che raggiunge conclusioni normative con
aggiustamenti vicendevoli di principi e di intuizioni.
Scienza – Indagine sperimentale e teorica sul mondo.
Scetticismo – Opinione filosofica secondo cui la conoscenza è irraggiungibile.

206
Serenità del fannullone – Stato di felicità che proviene dall’avere solo obiettivi minimi,
sottraendosi al lavoro e ad altri doveri.
Sinapsi – Spazio nel quale uno stimolo passa da un neurone all’altro.
Soddisfacimento parallelo dei vincoli – Processo di reti nervose nel quale un problema
è risolto attraverso la simultanea scoperta del trasferimento di valori ad aspetti
interconnessi del problema.
Teoria – Raccolta di ipotesi che, insieme, spiegano un campo dell’evidenza.
Tolemaica, controrivoluzione – Tentativo di collocare la mente al centro della realtà,
analogo al tentativo di tornare alla visione tolemaica secondo cui il Sole e i pianeti
girano attorno alla Terra.
Saggezza – Capacità di comprendere ciò che ha importanza, perché ha importanza, e
come raggiungerlo.
Scopo – Rappresentazione nervosa, valutata emotivamente, di stati immaginari del
mondo e di sé.
Speranza – Processo cerebrale che produce un sentimento positivo circa il
raggiungimento futuro dei propri obiettivi.
Spiegazione – Specificazione della modalità in base alla quale uno stato o un processo
deriva da un meccanismo causale sottostante.
Stimolazione magnetica transcraniale – Uso di impulsi magnetici per influenzare
l’attivazione nervosa della corteccia.
Vitale, necessità – Qualcosa senza la quale una persona non può funzionare come essere
umano.
Volontà libera – La libertà di prendere decisioni non causate da processi fisici.
Zombi, argomento – Convinzione secondo cui le menti non possono essere cervelli,
perché possiamo immaginare degli esseri (gli zombi) fisicamente identici a noi, ma
privi di coscienza.

207
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223
Indice dei nomi

A
Aaron, A., 192, 192n
Abramo, 247
Abrahamsen, 28n
Akerlof, G.A., 165n
Allen, W., 68,209 166
Anderson, J., 61
Anderson, C.H., 98n
Angeli, M., 37n
Anselmo, 42
Aquino, T., 8, 16
Ariely, D., 158n
Aristotele, 6n, 8, 15, 16, 46, 47, 48, 54, 72, 165
Aubie, B., 125n, 129n, 157n, 165n
Averroe, 16
Ayer, A., 67

B
Bagiella, E., 36n
Barnes, A., 243
Barnes, J., 283, 283n, 290, 290n
Barnes, T.D., 173n, 240, 241
Barrett, L.F., 127n
Barsalou, L.W., 96n, 97
Batson, C.D., 161n
Behrendt, R., 90n
Banich, M.T., 57n
Bartels, A., 192n, 193
Baumeister, R., 5n, 192n, 214, 214n
Bayes, T., 109
Beam, C., 48n
Bechtel, W., 28n, 76n, 79n, 138n, 174n, 258n
Benatar, D., 210n
Bennett, M., 75n
Benson, H., 36n
Bentham, J., 158, 248
bin Laden, O., 18, 48
Biswas-Diener, R., 183n
Blair, J., 236n, 245, 245n
Blanke, O., 67n
224
Bloom, P., 73n
Boden, M., 8n
Boyle, R., 16
Braybrooke, D., 212n
Brown, L., 192
Bunge, M., 41n, 79n, 105n, 125n, 282n
Bush, G., 18, 48, 169

C
Cacioppo, J., 242
Cahn, S.M., 5n
Camus, A., 1, 14, 179, 181, 182, 183
Camerer, C., 165n
Cantor, G., 282
Capaldi, N., 229n
Carnap, R., 84
Casebeer, W.D., 236n, 253n
Chi, T.M., 79n
Chalmers, D.J., 73n, 130n
Changeux, J-P., 125n
Chopra, D., 22
Christie, A., 23
Churchland, P.M., 7n, 52n, 76n, 93, 100n, 253n
Churchland, P.S., 7n, 52n, 73n, 77n, 86n, 174n, 236n, 253n
Clark, A., 78n
Clore, G.L., 135n
Cochrane, A., 33
Cohen, J.,86n, 260, 260n
Colbert, S., 54
Copernico, N., XII, 8, 51, 75, 112, 173
Craighero, L., 238n
Craver, C.F., 28n, 138n
Crow, S., 166
Csikszentmihalyi, M., 202, 202n

D
Dahmer, J., 236
Damasio, A., 122n, 134n, 139n
Darden, L., 28
Darwin, C., XII, 27, 27n, 39, 40, 51, 52, 75, 173, 277
Davidson, R.J., 120n
Dawis, R.W., 199n
Dawkins, R., 41n
Deaton, A., 184n, 199n
Decety, J., 240n
Deci, E., 213, 213n, 214, 215, 216, 219, 222, 252
Dennett, D., 41n, 73n, 174, 174n
Depue, R.A., 194n, 217n
Descartes, R., 42, 43, 46
de Sousa, R., 139n
Dewey, J., 48
Diaconis, P., 69n
Diener, E., 184n, 192n, 199n

225
Dijksterhuis, A., 172n
Doidge, N., 61
Dowd, M., 169
Dreyfus, H.L., 77n

E
Eagleton, T., 289n
Easterlin, R., 184n, 185
Ehrsson, H.H., 67n
Einsenberg, N.I., 195n
Einstein, A., 27, 44, 46, 47, 71, 112
Eliasmith, C.,27n, 98, 98n, 99, 100n, 108, 129n
Enzle, M.E., 159n
Epicuro, 4, 68
Erodoto, 170
Esopo, 165
Fazio, R.H., 118n
Feigl, H., 52n
Feldman, J., 61
Feynman, R., 201
Fields, W.C., 162
Findlay, S., 79n
Finger, S., 54n
Fisher, H., 192,192n, 197
Flanagan, O.,5n, 41n, 174, 174n
Fodor, J., 5, 86, 86n, 100, 100n
Frank, R.H., 139n
Frankfurt, H., 197, 198
Franklin, B., 53, 54, 149n
Fraassen, B.C.v, 84
Freud, S., 203, 203n, 289n
Frey, B.S., 158n

G
Galilei, G., 7, 19, 30, 31, 46, 47
Gandhi, M., 160
Gazzaniga, M., 258, 258n, 260
Gibbs, R.W., 77n
Giere, R.N., 84n
Gigerenzer, G., 172n
Gilbert, D., 169n, 187
Gladwell, M., 172n
Glovich, T., 19n
Goel, V., 61
Goldman, A.I., 238n
Goodwin, F.K., 142n
Gordon, D., 205n
Gould, S.J., 16, 17n
Grandjean, D., 125n
Greene, J., 236n, 260, 260n
Greer, S.M., 120n
Groopman, J., 36n
Guyatt, G., 33, 33n

226
H
Hacking, I., 84n, 105n
Haidt, J., 203n
Hall, A.R., 30n
Hary-Valée, B., 268n
Hare, R.D., 236n
Harman, G., 24n, 256n
Harrington, A., 34n
Harris, S., 86n
Hatfield, E., 240n
Hauser, M.D., 254n
Hawthorne, N.,184
Hebb, D., 60, 61, 61n, 164, 165, 174n, 295
Heidegger, M., 289n
Held, V., 246n
Hoffman, M.L., 240n
Hofstadter, D., 46, 198, 198n
Holyoak, K.J., 164n
Homer-Dixon, T., 207n
Hooke, R., 16
Hume, D., 6n, 16, 48, 78n, 84, 232, 232n
Husserl, E., 286

I
Iacoboni, M., 238n
Ignatieff, M., 274n
Inglehart, R., 223n, 275n
Insel, T.R., 193n
Isacco, 247

J
Jackson, P.L., 240n
James, W., 122n, 124, 124n, 162
Jamison, K.,142n, 183
Josephs, R.A., 159n
Judge, T.A., 199n, 200n
Juslin, P.N., 207n

K
Kadosh, R.C., 281n
Kahnemann, D., 158n
Kandel, E., 60, 60n, 61
Kant, I., 46, 85, 85n, 90, 247, 248, 250, 263
Kaufman, S., 41n
Keplero, J., 8
Keynes, J., 291
Klemke, E.D., 5n
Knobe, J., 48n
Knutson, B., 120n, 132n, 156n
Koch, C., 134n
Koelsch, S., 207
Koenigs, M., 236n
Koggel, C.M., 258n

227
Kosfeld., M., 194n
Kosslyn, S.M., 9n, 57n, 62n
Kramer, P.D., 65n, 141n, 277n
Krawczyk, D.C., 164n
Kringelbach, M.L., 198n
Kronman, A., 5n, 289, 289n
Krueger, F., 194n
Kruschke, J.K., 100n
Kulkarni, S., 256n
Kunda, Z., 19n, 140n
Kurtz, P., 69n

L
Lakatos, I., 49n
Lambert, K., 217
Larson, E.J., Withnam, 16n
Latham, G.P., 159n
Latour, B., 105n
Lavoisier, A., 102, 103, 104
Lawson, E.T., 41n
Lazaridis, M., 276
Lazarus, R.S., 187n, 224n
Leary, M., 192n, 194n, 195, 214, 214n
LeDoux, J., 79, 79n, 120n
Leibniz, G., 42
Levinson, D., 222, 223, 223n
Levitin, D., 206, 206n, 207, 207n, 289n
Lieberman, M.D., 195n
Litt, A., 108n, 157n, 165n
Locke, J.,6n, 48, 84
Locke, E.A., 159n, 200n
Lodish, H., 135n
Loewenstein, G.F., 135n
Lucas, R.E., 185n, 214n
Luce, R.D., 149n
Lutz, A., 196n
Lyubomirsky, S., 218n, 227, 227n, 228, 230

M
MacDonald, G., 73n
Machamer, P., 28n
MacDonald, G., 194n, 195
Maddy, P., 282n
Maimonide, 16
Maometto, 17, 18
Mar, R.A., 289n
Martin, R.A., 204n
Marx, K., 289n
McCauley, R.M., 41n, 138n
McClelland, J.L., 100n
McClure, S.M., 132n, 141n, 165n
Medin, D.L., 96n
Mervis, C.B., 96n

228
Meyer, J.S., 64n
Mikhail, J., 254n
Mill, J.S., XI, 6n, 158, 188, 188n, 229, 229n, 248
Milligran, E., 151n, 153n
Minsky, M., 96n, 159, 159n
Moll, J., 236n
Montague, R., 118n, 132n, 165
Morrone-Strupinsky, J.V., 194n, 217n
Murphy, G., 95
Musschenbroek, P.v., 53

N
Nagel, E., 130n, 149,
Nersessian, N., 276n
Newton, I. 8, 16, 27, 28, 81n, 105n, 266
Nichols, S., 48n, 243, 244, 244n
Nietzsche, F., 231, 231n
Nisbett, R.E., 256n
Norvig, P., 77n
Novak, G., 27
Nussbaum, M., 122n, 220, 220n

O
Oatley, K., 122n, 289n
Obama, B., 178, 223
Orend, B., 212n, 251, 251n, 252, 257

P
Panksepp, J., 120n, 194n, 204, 204n
Paolo, 17, 18
Parisien, C., 100n
Pearl, J., 109n
Phelps, A.C., 120n, 228n
Peirce, C., 6n, 48
Phan, K.L., 132n
Pinker, S., 54
Pitagora, 280
Place, U.T., 52n
Platone, 6, 7, 15, 42, 43, 95, 118, 139, 280
Pollan, M., 143n
Popper, K., 49, 49n
Posner, M.J., 218n
Preston, S.D., 240n
Prinz, J., 122n, 231n, 254, 254n, 257
Putnam, H., 44, 45, 76n, 96n

Q
Quartz, S.R., 215n, 270n
Quenzer, L.F., 64n
Quine, W., 6n, 48

R
Raiffa, H., 149 e n, 150, 172

229
Railton, P., 220
Ramon y Cajal, S., 8
Raney, A.A., 205n
Rapson, R., 240n
Rawls, J., 233, 233n, 250, 250n, 256
Richard, M., 86n
Richardson, R.C., 28n, 215n, 270n
Rizzolatti, G., 238, 238n
Rolls, E.R., 120n, 125n, 127n, 156n
Romaya, J.P., 132n
Rosch, E.R., 96n
Roskies, A., 174n
Rosenblatt, R., 182,183
Rothbart, M.K., 218n
Rowling, J., 283
Rumelhart, D.E., 100n
Russell, B., XI, 85n
Russell, S., 77n
Ryan, R., 213, 213n, 214, 215, 215n, 216n, 219, 222, 252, 261n

S
Sackett, D., 33
Salmon, W., 28n, 108n
Santayana, G., 291
Sartre, J.P, XI
Scherer, K.R., 122n
Schiavo, T., 181
Schwartz, N., 135n
Sejnowski, T.J., 77n, 215n, 270n
Seligman, M., 2, 144n, 184n, 192n, 199n
Sen, A., 220, 220n
Shakespeare, W., 147, 283
Sheldon, K.M., 213n, 218n
Shepard, R.N., 46n
Sheth, S.A., 86n
Shields, C., 283
Shiller, R.J., 165n
Siebel, W.A., 207n
Simon, D., 158n, 164n
Simpson, N., 24, 107, 108, 110, 111
Simpson, O., 23, 24, 107, 108, 110, 111, 112
Singer, T., 240, 240n, 241
Skinner, B., 259
Sloan, R.P., 36n
Slote, M., 246n
Smart, J.J.C., 52n
Smith, E.E., 9n, 57n, 62n
Socrate, 188, 247
Sober, E., 161n
Soon, C.S., 156n
Spears, B., 160
Spector, P.E., 199n
Spreitzer, G., 199n
230
Steinhardt, P.J., 40n, 284, 285, 286
Sternberg, R.J., 5n
Stich, S., 256n
Stiles, J., 215n
Stutzer, A., 158n
Swinburne, R., 39n
Sylvester, P., 218n

T
Talete, 71
Taylor, C., 20, 20n
Tennyson, A., 174
Thagard, P. 7n, 8n, 24n, 26n, 27n, 28n, 39n, 41n, 48n, 49n, 62n, 75n, 76n, 79n, 86n, 92n, 100n, 104n,
105n, 108n, 110n, 125n, 128n, 129n, 135n, 138n, 139n, 140n, 151n, 153n, 157n, 165n, 172n,
238n, 240n, 243, 256n, 263n, 268n, 273n, 278n, 291n
Thompson, E., 77n
Thoren, P., 205n
Tolstoj, L., 283
Tolomeo, 51
Tomlin, L., 83
Tononi, G., 134n
Trigger, B.G., 273n
Turok, N., 40n, 284, 285, 286
Tversky, A., 158n

V
Vastfijall, D., 207n
Voltaire, F., 16
Vohs, K.D., 172n

W
Waal, E.B.d., 240n
Wagar, B.M., 129n, 157n
Wahls, V., 281n
Walton, M.E., 215n
Ward, J., 9n
Wegner, D., 172, 173n
Weil, A., 22
Westen, D., 177, 177n, 178
White, M.K., 216n
Wiese, B.S., 153n
Wiggins, D., 212, 212n, 251
Wild, T.C., 159n
Williamson, T., 46n
Wilson, D.S., 161n
Wittgenstein, L., 6, 6n, 96n, 286
Wolf, M., 61, 62, 207, 207n, 208
Woodward, J., 63n, 108n
Woolgar, S., 105n
Worral, J., 33n
Wrosch, C., 162n
Wundt, W., 8

231
X
Xiahoe, X., 216n

Y
Young, C., 90n, 193n

Z
Zajonc, R., 118n
Zeki, S., 132n, 192n,193
Zenone, 45
Zunshine, L., 207n

232
Scienza e Filosofia
Collana diretta da Armando Massarenti

Carlo Rovelli, Che cos’é la scienza. La rivoluzione di Anassimandro.


Anna Meldolesi, Mai Nate. Perchè il mondo ha perso 100 milioni di donne.
Giorgio Vallortigara, La mente che scodinzola. Storie di animali e di cervelli.
Elena Pasquinelli, Irresistibili schermi. Fatti e misfatti della realtà virtuale.
Luciano Maiani, Romeo Bassoli, A caccia del bosone di Higgs. Magneti, governi,
scienziati e particelle nell’impresa scientifica del secolo.
Lucio Russo, L’America dimenticata. I rapporti tra le civiltà e un errore di Tolomeo.
Pier Luigi Luisi, Sull’origine della vita e della biodiversità.
James R. Flynn, Osa pensare. Venti concetti per capire criticamente e apprezzare la
modernità.
Gilberto Corbellini, Elisabetta Sirgiovanni, Tutta colpa del cervello.
Gianvito Martino, In crisi d’identità.Contro natura o contro la natura?
Simon Critchley, Come smettere di vivere e iniziare a preoccuparsi. Conversazioni con
Carl Cederström.
Carlo Scognamiglio Pasini, L’arte della ricchezza. Cesare Beccaria economista.
Hilary Putnam, Che cosa è la logica.
Paul Thagard, Il cervello e il senso della vita.

233
Indice
Il cervello e il senso della vita 3
Copyright 4
Indice 5
Prefazione 9
Ringraziamenti 11
1. Tutti abbiamo bisogno di saggezza 12
Perché vivere 12
Fonti della saggezza 13
Approcci filosofici 15
Importanza di mente e cervello 16
Anticipazioni 17
Conclusione 20
2. L’evidenza prevale sulla fede 22
Fede contro evidenza 22
Come agisce la fede 23
Come agisce l’evidenza 27
Evidenza e inferenza nella scienza 29
Medicina: evidenza o fede? 33
Evidenza, verità, Dio 36
Ragionamenti a priori ed esperimenti mentali 39
Conclusione 42
3. La mente è il cervello 45
La rivoluzione del cervello 45
Evidenze a favore dell’identità di mente e cervello 46
Come il cervello spiega 46
Percezione 50
Memoria 50
Apprendimento 51
Inferenza e linguaggio 52
Farmaci e malattie 53
Esistono evidenze a favore del dualismo? 55
Sopravvivenza dopo la morte 55
Parapsicologia 57
Coscienza 57
Obiezioni all’identità di mente e cervello 59
234
Chi sei tu? 62
Conclusione 63
4. Come i cervelli conoscono la realtà 67
La realtà e le ragioni per essere scontenti 67
Conoscere gli oggetti 68
Apparenza e realtà 71
Concetti 74
Conoscenza oltre la percezione 78
Coerenza nel cervello 81
Coerenza e verità 85
Conclusione 86
5. Come i cervelli sentono le emozioni 89
Le emozioni sono importanti 89
Il cervello che valuta 90
Valutazione cognitiva contro percezione corporea 92
Sintesi: il modello EMOCON 94
Coscienza emotiva 98
Spiegazioni a più livelli 100
Razionalità e sventure affettive 103
Conclusione 107
6. Come i cervelli decidono 110
Grandi decisioni 110
Inferenza al progetto migliore 111
Decisioni nel cervello 113
Cambiare obiettivi 115
Scegliere gli obiettivi 116
Rinunciare agli obiettivi 118
Rivalutare gli obiettivi 119
Razionalità degli scopi 120
Come prendere cattive decisioni 121
Vivere senza libera volontà 124
Conclusione 127
7. Perché la vita è degna d’essere vissuta 130
Il significato della vita 130
Nichilismo 131
Felicità 133
Scopi e significato 136
Amore 138

235
Lavoro 142
Gioco 145
Conclusione 148
8. Necessità e speranze 151
Desideri contro necessità 151
Necessità vitali 151
Come amore, lavoro e gioco soddisfano i bisogni 153
Equilibrio, coerenza e cambiamento 157
Speranza contro disperazione 158
Conclusione 162
9. Cervelli etici 164
Decisioni etiche 164
Coscienza e intuizioni morali 165
Neuroni specchio 168
Empatia 169
Motivazione morale 171
Teoria etica 173
Oggettività morale 178
Responsabilità 180
Conclusione 182
10. Dare un senso a tutto 186
Un insieme di relazioni 186
Saggezza raggiunta 189
Che tipo di governo dovrebbero avere le nazioni? 191
Come realizzare un cambiamento creativo? 192
Che cos’è la conoscenza matematica? 195
Perché c’è qualcosa anziché niente? 198
Il futuro della saggezza 200
Glossario 204
Bibliografia 208
Indice dei nomi 224
Scienza e Filosofia 233

236

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