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Adrian Tchaikovsky - I Figli Della Caduta (Tradotto in Italiano)
Adrian Tchaikovsky - I Figli Della Caduta (Tradotto in Italiano)
Poteva esserci stata la vita. Quella era una cosa con cui doveva convivere.
In effetti, poteva essercene ancora, dato che le prime sonde inviate su
Damascus (Senkovi si era preso la libertà di assegnare un suo nome al
pianeta, come un colono abusivo, sfidando Baltiel a sfrattarlo) avevano
registrato una chimica complessa lungo bocche di ventilazione che
scendevano in profondità nel mare, ma poco altro al di là di questo. La
colonna d’acqua in sé stessa era sterile. Quella chimica era ancora là in
alcuni punti e, in effetti, due decenni di attività vulcanica accelerata in
modo colossale le avevano forse recato beneficio, spargendone l’habitat
lungo il fondale marino. Era vita? I risultati non erano concludenti.
Qualsiasi cosa fosse in corso là sotto sembrava riguardare più matrici di
argilla che membrane di cellule, e si basava su un equilibrio tossico di
sostanze chimiche che sarebbero state letali tanto per i nativi della Terra che
per quelli di Tess 834h, che Senkovi aveva privatamente ribattezzato Nod,
perché era teoricamente a est (o almeno verso il sole) rispetto all’Eden che
lui stava creando.
Nei suoi rapporti a Baltiel aveva minimizzato l’aspetto biochimico, pur
sapendo che lui non si sarebbe lasciato ingannare. Questo però creava fra
loro una comoda finzione che in seguito avrebbero potuto esibire a
vantaggio di futuri revisori del loro operato. Baltiel era più intelligente di
quanto Senkovi avesse supposto inizialmente. Dopo la sua grande
presentazione riguardo a 834g, Senkovi gli aveva chiesto: «Come hai fatto a
vagliare tutti quei dati abbastanza in fretta da prendere una decisione?»
Baltiel aveva detto soltanto: «Ho visto le tue valutazioni e tolleranze. Non
metteresti in gioco la tua carriera puntando sul cavallo sbagliato. Tutto
quello che avevo bisogno di vedere era che ti tenessi dannatamente alla
larga dal mio pianeta.» E aveva sfoggiato un blando sorriso da cui Senkovi
aveva appreso molte cose riguardo al suo capo. Una tendenza a recitare la
parte di Dio rientrava nel voler andare a terraformare altri mondi, ma era
buona pratica mostrarsi quantomeno cortese con il resto del pantheon. Una
volta Senkovi aveva incontrato Avrana Kern – evitarla era difficile – e
quella era una donna che incarnava Zeus, Odino e Jahvè tutti insieme. Nelle
sue intenzioni, il ruolo di Baltiel avrebbe dovuto essere soltanto quello di un
subordinato Vulcano, ma adesso aveva trovato un nuovo livello di divinità,
un progetto che Kern non poteva raggiungere e controllare attraverso
l’abisso dello spazio.
Tutto molto stancante, pensò. Questa volta era sveglio ormai da sei mesi,
perché dopo un paio d’anni di bombardamento mirato la fase vulcanica
primaria stava arrivando a completamento, per cui lui e i suoi uomini
avevano bisogno di avviare il prossimo stadio del processo. In quel
momento Han stava pilotando alcuni droni sulla superficie di Damascus,
mappando i nuovi confini del ghiaccio, che adesso era limitato a circa un
quarto della superficie e diviso fra i poli. Il pianeta era ancora dannatamente
freddo per gli standard terrestri, ma i gas serra si stavano accumulando per
bene e loro avevano installato una serie di collettori solari per incanalare
altro calore verso il pianeta.
L’atmosfera di Damascus era alquanto densa e prevalentemente inerte. Le
vaste quantità di acqua avevano donato al pianeta un po’ di ossigeno anche
senza niente che lo metabolizzasse in modo attivo, il che permetteva a
Senkovi di risparmiare un’enorme quantità di tempo, in quanto poteva
installare ossigenatori più complessi che avevano bisogno solo di un po’
dell’O2 presente nell’atmosfera per attivarsi. Stava per far diventare verdi i
mari, intasandoli di quel genere di alghe viscide che avrebbe fatto inorridire
una spiaggia piena di turisti. Questo avrebbe fatto strisciare verso l’alto il
contatore dell’ossigeno, ma naturalmente avrebbe anche significato
derubare il pianeta della CO2 che tratteneva il calore, il che voleva dire che
sarebbe stato necessario intensificare di una tacca l’attività vulcanica e la
produzione di gas serra per mantenere l’atmosfera del pianeta bilanciata
come un piatto rotante a cui non si poteva permettere la minima
oscillazione, anno dopo anno. Poi ci sarebbe stata un’altra pausa, che
avrebbe trascorso in prevalenza dormendo. Tuttavia, l’attuale fase di
osservazione e di attesa aveva messo alla prova la sua pazienza al punto da
spingerlo ad avviare alcuni progetti collaterali, adesso abbastanza avanzati
da far sì che stesse prendendo in esame la possibilità di trascorrere un altro
anno della sua vita dedicato a loro piuttosto che riservarlo all’effettiva
terraformazione.
Lanciò un’occhiata al suo compagno che era venuto a osservarlo
attraverso il vetro. «Cominci ad avere fame?» chiese, anche se non pensava
che fosse così. Paul era soltanto curioso, ma del resto la curiosità era
qualcosa che Senkovi gli aveva instillato, facendo leva sul suo lavoro sulla
Terra. In realtà per lui questo era stato solo un hobby, come la pittura per
Han o quei tediosi puzzle logici per Poullister, solo che aveva finito per
assorbire una tale quantità di risorse della missione da indurre Senkovi
pensare a qualche modo per sfruttarlo.
Baltiel chiamò in perfetto orario, con il segnale che arrivava con un
ritardo causato dal satellite di trasmissione in orbita intorno a Nod. Senkovi
ritenne che fosse il momento giusto per una rivelazione e aprì un canale
visivo.
Baltiel se la stava prendendo con calma su Nod. Stavano ancora lanciando
sonde accuratamente disinfettate che sorvolavano il pianeta, cercando di
creare un inventario del bioma e dei suoi contenuti, e passavano dormendo
il tempo che i sistemi impiegavano per generare ipotetiche tassonomie.
Senkovi dava un’occhiata ogni mese, ed era colpito dal suo autocontrollo.
Sapeva che il piano prevedeva di scendere sul pianeta in una biocupola
ermeticamente sigillata. Baltiel sarebbe stato il primo uomo a camminare
con gli alieni, ma solo con una tuta ermetica fra sé e loro, per la protezione
di tutti.
«Salve capo» esordì, esibendo il suo sorriso migliore. «Cominciamo a
seminare. La primavera algale è giunta su Damascus.»
«Ho visto.» Ovviamente Baltiel gli ricambiava la cortesia e controllava il
suo operato su base regolare. «Siete perfino in anticipo sul programma.»
«Siete voi a essere indietro.» Senkovi non riuscì a trattenere quel
commento. Con sua sorpresa, Baltiel fece una smorfia.
«Io...»
Naturalmente una delle ragioni che aveva fornito per il suo procrastinare
era stata che voleva aspettare che l’operazione di Senkovi fosse avviata e
stabile, in modo che l’equipaggio rimasto sulla Egeo potesse organizzare un
salvataggio se qualcosa fosse andato storto e viceversa. Senkovi aveva già
smantellato quella logica e deciso che c’erano vincoli più profondi e
personali che trattenevano Baltiel. E adesso la sua espressione gli
confermava quei sospetti.
«Vuoi fare una buona prima impressione» completò per lui la frase «e
avrai una sola possibilità.»
«Esatto.» Il sorriso di Baltiel era più gentile di qualsiasi espressione
Senkovi avesse mai visto sul suo volto. «Scenderemo laggiù, è tutto
pianificato, ma continuo a fare controlli su controlli. Ho nel laboratorio
campioni che ho esposto a ogni microbo presente nel corpo umano, a ogni
molecola della Terra.»
«E viceversa, spero.»
«Dovrebbe essere sicuro» affermò Baltiel, sicuramente per il suo bene
tanto per quello di chiunque altro. «A livello molecolare ci sono alcune
interazioni negative e laggiù c’è più arsenico di quanto ci piacerebbe in
condizioni normali. Ma un’interazioni biologiche? Nessuna. Non hanno il
nostro DNA, la nostra chimica cellulare, niente di tutto questo. Nulla sarà
ucciso da un banale raffreddore. Nessuno contrarrà un’influenza marziana.
E saremo tutti chiusi nelle tute, sigillati.» Pareva stesse cercando una
seconda opinione, quindi Senkovi annuì amabilmente.
«Ho esaminato la tua proposta e non vedo falle.» Avrebbe potuto
aggiungere altro, ma Paul scelse quel momento per staccarsi dall’angolo
della vasca e venire avanti per fissare lo schermo.
«Cosa diavolo è quello?» domandò Baltiel.
«Yusuf, ti presento Paul. Saluta Paul.»
Comprensibilmente, Paul non disse niente.
«Cos’è?»
Senkovi si accigliò. «È un polpo striato del Pacifico.» Effettuò un dump di
file di dati relativi ai cefalopodi di tutti i tipi, nel caso Baltiel fosse
criminosamente disinformato sull’argomento.
«Ma deve mancare ancora molto tempo alla diffusione di forme di vita
complesse.» Il lieve contrarsi degli occhi di Baltiel indicò che stava
scorrendo il piano della missione.
«Sì, ma...»
«Disra, quello è un animale domestico? Hai usato le risorse della missione
per allevare... ottopodi domestici?» Gli occhi ebbero un’altra lieve
contrazione da cui Senkovi comprese che il suo superiore aveva cercato il
termine che avesse il suono più complicato.
È il momento del raggiro a lungo termine. «Si tratta di questo. Nel nostro
progetto abbiamo davanti una quantità di lavoro sottomarino senza
precedenti perché, ovviamente, la maggior parte del pianeta è sommerso.
Ora, anche se abbiamo droni, remoti e tutto il resto, questo non basterebbe
se vogliamo rimanere nei tempi previsti.»
«Quindi non resterete in anticipo sul programma a lungo?»
Senkovi decise che poteva gettare il suo io del passato sotto l’autobus a
beneficio del suo io futuro. «Certo. Ero troppo ottimista. Tuttavia, ho una
soluzione. Paul ci può aiutare.»
Baltiel inarcò un sopracciglio e la reazione impiegò minuti a essere
trasmessa fra i pianeti ma Senkovi pensò che ne fosse valsa la pena di
aspettare.
«Sai del lavoro che Califi e Rus stavano svolgendo per la dottoressa
Kern?»
Le sopracciglia di Baltiel salirono di un’altra tacca perché attualmente
tutti sapevano di quel lavoro: di certo tutti sulla Terra avevano avuto
un’opinione al riguardo trentuno anni prima, e le opinioni che avevano
ricevuto di recente erano state estremamente esplicite. Per i reazionari quel
lavoro era stato un tema scottante, una giustificazione per il terrorismo,
laboratori fatti saltare in aria e scimmie brutalizzate. «Il lavoro virale» disse
in tono piatto.
«Quando siamo partiti non era stato del tutto completato, ma ho molte
delle loro ricerche e sono stato perfino coautore di uno dei testi.» Adesso
Senkovi non stava più guardando Baltiel negli occhi, la sua attenzione si era
spostata su Paul. «Quello che intendo è che non sto parlando di elevazione,
non come l’hanno realizzata loro, ma di qualche piccola modifica, un po’ di
accelerazione...» Per non parlare dell’estensione della durata della vita e
della sopravvivenza alla deposizione delle uova, ma preferisco non
menzionarli perché ne vorresti sapere il motivo. «In questo modo, quando il
mare sarà sufficientemente abitabile, potremmo avere una forza lavoro che
ci aiuti.»
Baltiel rimase in silenzio tanto a lungo che Senkovi controllò due volte il
collegamento per verificare che fosse ancora aperto.
Cosa farà? Si trova su un altro pianeta. Ha la sua personale ossessione.
Sta chiamando Han per ordinarle di rimpiazzarmi? Certo, allevo polpi. È
tanto sbagliato?
«Almeno, prima di cominciare ad armeggiare con loro sottoponimi un
piano preciso.» Quelle parole riscossero Senkovi, inducendolo a cercare di
nuovo il contatto visivo, e per un momento i due si fissarono a vicenda
attraverso migliaia di chilometri.
Tutti e due abbiamo travalicato le istruzioni ricevute, realizzò infine
Senkovi. Siamo angeli ribelli e quando Dio – e cioè Avrana Kern – si
renderà conto di quello che stiamo combinando, sarà troppo tardi.
«Lo farò» promise, sorvolando spensieratamente sul fatto che aveva già
cominciato. Dalla sua vasca, Paul lo osservava con un occhio dalla pupilla
orizzontale, i tentacoli che disegnavano elaborati arabeschi nell’acqua.
4
Noi
abbiamo
assaggiato strane molecole.
Questi-di-Noi assaporano roba mai conosciuta prima, la scompongono,
la ricostruiscono, diversa da qualsiasi cosa, tossica, ricca di energia,
affascinante.
Questi-di-Noi ricreano questi stimoli per Altri-di-Noi quando ci
incontriamo, scambiando idee e noi stessi.
Nessuno-di-Noi ha mai incontrato niente così, da nessuna parte.
Qualcosa di nuovo è giunto nel mondo.
Presente 1
La via di Damascus
1
Nel ghiaccio c’era un buco che, grazie alla dilagante attività vulcanica
scatenata da Senkovi lungo ogni faglia di Damascus, non si era ancora
ghiacciato quando arrivarono per controllare. Sotto, a chilometri di
profondità, il nuovo lotto di remoti acquatici trovò il relitto della navetta
della Egeo. Dopo aver abbandonato la nave su insistenza di Senkovi, Han e
gli altri non erano riusciti a raggiungere un’orbita stabile quando il virus
aveva colpito i loro sistemi, e adesso erano freddi cadaveri in una navetta
morta e mezza schiacciata sotto l’oceano.
Considerato quanto era focalizzato sul suo lavoro e sui suoi animaletti,
Baltiel si aspettava che Senkovi accantonasse la cosa con una scrollata di
spalle. Invece, sprofondò in una cupa depressione. Aveva giocato in fretta e
perso a causa delle regole, come gli succedeva sempre, solo che questa
volta aveva ucciso alcune persone.
«La cosa ti ha salvato la vita» gli fece notare Baltiel. «Ha salvato la nave,
e tutti noi.» Dopo il reboot, la Egeo funzionava alla perfezione e, come
previsto dai piani predisastro di Senkovi, i polpi non avevano più accesso
alla maggioranza dei suoi sistemi, soltanto a un campo di gioco virtuale
dove potevano essere testati. Quel suo piano audace quanto ridicolo aveva
funzionato in ogni particolare, solo che lui aveva mancato di compensare
alla stupidità distruttiva del resto dell’umanità.
«Non potevi saperlo» tentò pazientemente Baltiel, parlando attraverso la
porta chiusa della stanza di Senkovi perché lui non accettava interrogazioni
elettroniche dalla nave e l’impianto di Baltiel era ancora in fase di revisione
dopo che il virus lo aveva disattivato. Solo le comunicazioni interne di
Senkovi erano sopravvissute, e lui le aveva settate in modo che
rimandassero indietro qualsiasi comunicazione.
Per quanto ne sapeva Baltiel, c’erano esattamente cinque esseri umani da
questo lato del sistema solare della Terra e, per quanto simpatizzasse con
Senkovi, non poteva operare con il venti percento del suo equipaggio fuori
gioco. Certo, per adesso i processi di terraformazione si gestivano da soli,
ma questo non sarebbe durato ed era necessario salvare tutta la parte
dell’operazione che riguardava Nod. La maggior parte del lavoro poteva
essere svolto da macchine automatiche, guidate sporadicamente da chi
aveva il turno di veglia da sonno criogenico, ma per organizzare le cose
erano necessari tutti quanti, e soprattutto il cervello di Senkovi.
«Lante ha una medicina per te» tentò. «Ti farà sentire meglio.»
Senkovi non voleva medicinali e probabilmente non voleva neppure
sentirsi meglio. La vergogna e il senso di colpa erano padri gelosi, riluttanti
a permettere a qualsiasi intruso chimico l’accesso al suo stato mentale.
Baltiel avrebbe potuto disattivare il blocco alla porta e far trascinare
Senkovi in infermeria da Lortisse, ma non voleva essere quel genere di
comandante, e un Senkovi ribelle e risentito sarebbe stato molto più
problematico di uno cupo e depresso.
Gli rimaneva una carta da giocare, una di cui non andava orgoglioso, ma
aveva letto la valutazione psicologica di Senkovi, e Lante era d’accordo con
lui.
«Scaricherò gli ottopodi nel vuoto» disse alla porta.
Ci fu una pausa, poi sentì Senkovi che si muoveva e di colpo apparve
sulla soglia, con la barba lunga, gli occhi arrossati e l’aria smunta.
«Perché dovresti farlo?» domandò.
Perché nessun altro ama quelle dannate cose, tranne te, era la vera
risposta, ma non sarebbe stato un buon modo di gestire Senkovi.
«Naturalmente non lo farei mai,» mentì «ma loro hanno bisogno di te, e
anche noi. La razza umana ha bisogno di te, Disra.»
Per un momento Senkovi si limitò a fissarlo e Baltiel pensò che si sarebbe
ritirato nella stanza, chiudendo la porta. Poi ebbe una sorta di contrazione,
che continuò a ripetersi finché tutto il suo corpo prese a tremare e senza
preavviso si mise a piangere, con Baltiel che lo sorreggeva come un
bambino mentre le sue lacrime gli macchiavano la stoffa termoregolante
della camicia.
Quando si separarono Senkovi emise un sospiro tremante. «Nessuno ha
bisogno di nessuno» affermò, in aperta contraddizione con quello che era
appena successo. «Ma ci proverò.»
Naturalmente, non c’era una cura magica per la depressione. A volte
Baltiel lo vedeva seduto con lo sguardo fisso ma Senkovi aveva ripreso a
lavorare con i suoi dannati cefalopodi e quella sembrava essere per lui la
terapia migliore. A volte Baltiel lo osservava attraverso le videocamere di
bordo: Senkovi sedeva davanti alla consolle improvvisata che aveva
installato nel nucleo centrale, con cavi e congegni che gli fluttuavano
intorno e i capelli (ultimamente sempre più lunghi) che gli formavano un
assurdo alone da Medusa intorno alla faccia. O forse l’agitarsi delle ciocche
gli rendeva più facile rapportarsi ai soggetti dei suoi test. Disra sedeva lì,
curvo sullo schermo, e nella vasca accanto a lui tre o quattro ottopodi
lavoravano ai terminali di gomma che lui aveva progettato. A guardarli,
sembravano sempre discontinui in quell’attività: discendevano sui controlli,
davano l’impressione di sondarli o di armeggiarci in un improvviso impeto
di energia, poi scivolavano via per fluttuare nell’acqua o aggrapparsi a una
parete. Aveva notato che però uno o due tentacoli tendevano a rimanere
collegati, pulsando e spostandosi sui comandi anche se il resto della
creatura sembrava indifferente. Allora Baltiel richiamava a schermo
un’immagine dello spazio virtuale a cui potevano accedere e li guardava
eseguire, sia pure a singhiozzo, complessi compiti a stadi multipli,
muovendo passi in avanti senza precedenti per poi ripetere all’infinito gli
stessi improduttivi passaggi prima di compiere un altro, improvviso, balzo
in avanti. Supponeva che Disra stesse cercando di indurli a eseguire ordini
rigidamente irreggimentati, ma quello che avanzava supposizioni era il
comandante generale che era in lui. In seguito scoprì che già prima di
lasciare la Terra Disra aveva rinunciato a dire a quei dannati molluschi
anche solo di fare una cosa. Invece, forniva loro obiettivi a lungo termine, e
identificava lo scopo da raggiungere segnalando le giuste condizioni con
colori e schemi che apparentemente significavano qualcosa di buono, se eri
un ottopode. I metodi venivano poi elaborati dagli stessi soggetti dei test.
Secondo Senkovi, quando sembravano distratti stavano impiegando
qualcosa di simile a un ragionamento astratto, una libera associazione di
idee, e le braccia individuali ancora al lavoro erano il loro subconscio. Non
era in grado di fornire nessuna letteratura accademica a supporto delle sue
affermazioni, ma poteva esibire i risultati. Organizzò perfino una
dimostrazione per l’equipaggio, la simulazione di un drone schiantato, i cui
danni vennero determinati in modo casuale dal sistema. A tre ottopodi
venne data mano libera nel decidere cosa fare. Baltiel li guardò affascinato
mentre esploravano il relitto, accedevano ai suoi sistemi simulati e
riparavano alcuni danni, cannibalizzando altri sistemi funzionanti. Non
pareva esserci nessuna coordinazione fra loro – anzi, ci furono alcune di
quelle che sembravano liti fra i soggetti che si allontanarono dai comandi
per lottare nella vasca – e tuttavia da quel caos emerse un piano, come se si
fossero accordati in modo invisibile fin dal principio sulle parti più basilari
della loro strategia. O forse in modo visibile, considerato il costante
cambiare e baluginare di colori e di disegni sulla loro pelle. Il risultato
finale non somigliava a niente che un recuperatore umano avrebbe
escogitato, era meno efficiente quanto a tempistiche, ma forse risparmiava
maggiori risorse. E, come fece notare Disra, il tempo era qualcosa che
avevano in abbondanza.
All’inizio, anche se avrebbe volentieri espulso nello spazio ogni dannato
ottopode allevato da Senkovi, Baltiel li aveva tenuti perché era chiaro che
facevano bene al suo stato mentale. Adesso era disposto ad ammettere un
punto fondamentale: potevano essere utilizzati. Non erano prevedibili come
le macchine, ma avrebbero svolto un lavoro senza essere sorvegliati.
Senkovi già parlava di generazioni future che avrebbero avuto la capacità
cognitiva di stabilire le mete da raggiungere e non solo di raggiungerle, ma
Baltiel ci avrebbe creduto quando lo avrebbe visto. Per ora, ci sarebbero
state generazioni future soltanto dentro le vasche della Egeo. I mari in
espansione di Damascus erano tappezzati di uno strato algale che
fotosintetizzava voracemente, ma l’ossigeno nell’acqua era ancora troppo
scarso per gli ottopodi e neppure Disra parlava di attrezzare i cefalopodi
con... cosa? Idropolmoni? La sua forza lavoro di molluschi sarebbe però
stata presumibilmente pronta una volta che l’acqua fosse stata abitabile.
La vita umana su Damascus aveva ancora un futuro teorico, ma
l’elemento ‘teorico’ di quel calcolo era cambiato. Un tempo si riferiva alla
capacità di Disra di generare le condizioni desiderate su un pianeta così
freddo e umido che in condizioni normali nessuno si sarebbe preso la briga
di interessarvisi. Adesso si riferiva a coloni dalla Terra, la cui natura era
diventata davvero molto teorica.
Dalla Terra non giungevano segnali e questa era una realtà con cui, alla
fine, tutti dovevano fare i conti. Sette giorni dopo il disastro, Baltiel
convocò tutti nella stessa stanza. I sistemi della Egeo permettevano
teleconferenze virtuali da qualsiasi posto, ma avevano tutti cominciato ad
apprezzare la presenza fisica di altri umani. Solo Disra era assente, ma
almeno era collegato dalla sua tana a gravità zero al centro della nave.
Baltiel si premurò di controllare che nessuno dei suoi piccoli amici stesse
origliando, mentre era assalito dalla folle idea di uno degli ottopodi che
prendeva diligentemente appunti per il verbale della riunione.
Naturalmente, disse loro soltanto quello che già sapevano. Avevano tutti
una mente brillante, più che capace di rivolgere alla nave le stesse
domande, e lui aveva permesso che avessero accesso alle informazioni
anche se come comandante avrebbe sentito la necessità di sottoporle a
blocco. Tuttavia, voleva informarli faccia a faccia, perché finché non lo
avesse fatto sarebbe sempre rimasto qualcosa di discutibile. Il comandante
generale doveva prendere posizione in merito.
Confermò che non arrivavano segnali dalla Terra, e che non ne ricevevano
neppure da nessuna delle colonie fondate nel sistema solare. La grande
radiosfera dell’attività umana era stata un tempo una distesa che si
ripopolava di continuo, adesso era un guscio vuoto che si espandeva al di là
di loro e nelle lontane propaggini dell’universo. Non si sarebbero mai messi
in pari con tutte quelle parole perdute e, se pure avessero potuto farlo, quel
dannato virus sarebbe stato la prima cosa lì ad aspettarli, l’ultima mai
inviata dalla Terra da qualcuno che – Baltiel ne era certo – stava perdendo
la guerra ed era deciso a trascinare con sé tutti gli altri.
E ci era quasi riuscito. Skai e gli altri quattro nel modulo erano morti,
rinchiusi in una tomba orbitale totalmente passiva che, ora dopo ora, era
stata reclamata dal non ambiente supremamente ostile che la circondava.
Avevano esaurito l’aria, il calore. I remoti mandati dalla Egeo avevano
praticato un taglio nello scafo ma avevano trovato soltanto corpi rigidi
coperti di brina, ancora accoccolati intorno alle apparecchiature che non
erano riusciti a rimettere in funzione. Han e la sua squadra si erano
schiantati su Damascus. Se Senkovi non fosse venuto a soccorrerli, anche
Baltiel, Lante, Lortisse e Rani sarebbero probabilmente morti, non per
soffocamento ma di fame, reazioni allergiche, avvelenamento... oppure, se
voleva essere drammatico, per opera di qualche superpredatore nodiano
precedentemente ignoto che aveva un’inesplicabile golosità per
l’incommestibile carne umana.
Quindi forse i molluschi di Senkovi si erano già guadagnati il loro
mantenimento, perché era a causa della loro ‘monellata’ se era stato
possibile salvare questi residui di umanità.
Quello era il motivo per cui li aveva convocati lì, faccia a faccia, per
riferire loro notizie ormai vecchie. Perché avevano bisogno di non essere
soli. La solitudine significava troppo tempo per pensare a quello che era
successo, e non c’era nessuno di loro che non ne fosse scosso nel profondo.
Baltiel poteva sentire un’eco delle notizie che gli risuonava ancora nella
mente. Era una cosa troppo grande per poterla capire. Per questo si era
concentrato sul lavoro e aveva cercato là il significato del fatto che il resto
dell’universo era improvvisamente scomparso. E avrebbe portato con sé gli
altri, se glielo avessero permesso.
Senkovi si aspettava ancora navi cariche di profughi e, se questi
fuggiaschi fossero apparsi, il progetto di terraformazione avrebbe richiesto
un luogo dove metterli. Secondo le sue proiezioni, entro trenta anni terrestri
standard i mari e l’atmosfera di Damascus sarebbero stati ossigenati a
sufficienza. Avrebbero installato una biosfera improvvisata, basata sulle reti
di ecologia stabile che a casa erano il più recente testo sacro del
terraformatore. Senkovi ci teneva a dimostrare di continuo in che modo i
suoi ottopodi sarebbero stati preziosi, e Baltiel non gli poneva l’ovvia
domanda.
Cosa succederà quando la gente arriverà e prenderà il controllo? Dove
se ne andrà la tua squadra da costruzione tentacoluta? Sapeva che Disra
era consapevole di questo problema, ma avevano tempo per trovare una
soluzione, a patto che prima della fine uno dei due si decidesse a sollevare
quel problema di cui erano entrambi consapevoli.
Inoltre, Baltiel voleva tornare su Nod. Stava già programmando la navetta
e la flotta di remoti con un programma di salvataggio del modulo, per
vedere se era recuperabile. Le officine della Egeo stavano fabbricando un
nuovo habitat, uno che funzionava, e aveva cominciato a sondare gli altri.
Gli ottopodi (e forse anche Senkovi) davano i brividi a Lante che, come
Rani, desiderava disperatamente la sensazione di qualcosa di solido sotto i
piedi e aveva paura che una nuova catastrofe potesse distruggere
definitivamente i sistemi della Egeo. Sapeva che sarebbero andati dove li
avrebbe portati, e che Senkovi non avrebbe sentito molto la loro mancanza.
Fin da quando lui aveva battezzato i pianeti, la mente di Baltiel aveva
sporadicamente elaborato immagini religiose per quello che stavano
facendo – o forse era stata la fazione fondamentalista nei disordini in corso
sulla Terra che lo aveva indotto a pensarci. Il gruppo ostile alla scienza
aveva fatto di Kern il suo Satana e dei terraformatori i demoni al suo
servizio. Adesso quei detrattori erano stati messi a tacere, o lo avevano fatto
loro stessi, e lo stesso era successo a Kern, quella notevole, incredibile,
insopportabile donna, un’altra voce spenta in mezzo a tante. Quanto lo
avrebbe detestato. Baltiel poteva quasi immaginarla a rifiutare di accettare
la cosa, a esigere un fato su misura, appropriato al suo genio.
E che ne sarebbe stato di lui e del suo equipaggio? Tutto quello che
avevano era il loro lavoro. Doveva riportarli su Nod. Se poteva, sarebbe
diventato un capitolo della storia umana, altrimenti avrebbe potuto essere il
prologo di una storia aliena, e forse ci sarebbero state orecchie umane in
ascolto, magari fra un anno, o un decennio, o un secolo. Non c’era ragione
di credere che il virus fosse stato solo un cavaliere di una qualche
apocalisse finale.
Solo che c’era ogni motivo per crederlo, naturalmente. Ricordava
abbastanza delle trasmissioni precedenti da sapere in che sorta di escalation
delle ostilità la sua specie si fosse invischiata prima della fine, ma in
assenza di conoscenze certe poteva evitare di pensarci e tornare indietro,
per continuare da dove si era interrotto.
Prepararsi per tornare su Nod avrebbe però richiesto tempo, proprio come
ne richiedeva il lavoro di Senkovi. Erano bloccati sulla Egeo in attesa del
concludersi di processi meccanici, biologici e perfino geologici. Le capsule
del sonno criogenico li aspettavano come una tomba. Baltiel aveva stabilito
dei turni, accertandosi che almeno una persona fosse sempre di guardia.
E a meno che non voglia svegliarmi e trovare solo le sue ossa disseccate,
devo in qualche modo trascinare via Disra dai suoi animaletti.
Nessuno aveva suggerito di accendere i propulsori e di tornare sulla Terra.
2
Secondo il suo modo di vedere, Senkovi era famoso per il suo senso
dell’umorismo, anche se in realtà divertiva soltanto lui. Gli altri però
avrebbero dovuto ammettere che questo era un bello scherzo. Dopotutto, ne
aveva abbastanza di essere strappato ai suoi sogni dai capricci del
comandante generale, e adesso aveva la scusa per farlo a lui. Era ora che
Baltiel scoprisse cosa si provava.
Gli altri erano impegnati con quella stupidata di Lante, un piano che
Baltiel non avrebbe approvato e di cui lo stesso Senkovi non era convinto.
Esso però non interferiva con il suo lavoro su Damascus, il che significava
che poteva rimandare a tempo indefinito di interessarsene. Gli altri
continuavano a invitarlo ai loro incontri – era una presenza solo virtuale, ma
era l’opzione preferita da tutti – il che significava che il suo miope
disinteresse era stato interpretato come tacita approvazione. O forse
ritenevano che non informare il venticinque percento dei loro colleghi (e
esseri umani come loro) fosse una mancanza di cortesia.
C’era stato un rigido programma di sonno e di veglia che aveva permesso
loro di passare gli anni seguiti al Silenzio, come apparentemente avevano
finito per chiamarlo. Senkovi trovava la definizione troppo drammatica ma
Rani aveva una vena poetica. L’idea era che Senkovi si svegliasse e
addormentasse secondo un programma basato sugli stadi di terraformazione
che avevano bisogno di una supervisione, e che gli altri si svegliassero nello
stesso momento e a turno secondo uno schema sovrapposto, in modo che tre
umani su cinque fossero sempre svegli in qualsiasi momento. Gli ordini per
gli altri erano: (1) sovrintendere al recupero del modulo e alla ricostruzione
della spedizione su Nod; (2) aiutare Senkovi. Loro lo avevano
effettivamente aiutato e, con sua estrema sorpresa, lui era stato
profondamente felice di avere degli umani con cui potersi lamentare di
tanto in tanto.
La cosa di cui non ti renderai conto di sentire la mancanza finché non
sarà scomparsa, numero 153: la razza umana.
Lante, in particolare, era una specie di maga con l’ecostruttura, Rani era
un pilota migliore di chiunque altro (forse il migliore dell’universo) con
navette o remoti e dal canto suo Lortisse se la cavava bene con i polpi. Al
contrario degli altri, loro lo trovavano simpatico e non gli schizzavano
contro l’acqua quando si avvicinava alle vasche aperte, nell’anello rotante.
Si tuffava perfino per nuotare con loro, il solo a farlo a parte Senkovi, e
faceva loro da spalla nelle sessioni di addestramento. A volte Senkovi
desiderava di poter davvero parlare con lui di questo, dell’evolversi del loro
rapporto con i polpi in fase di evoluzione ma Lortisse non era uomo da
esprimere i suoi sentimenti e da parte sua Senkovi trovava più facile
comunicare con i cefalopodi. E questo la diceva lunga, perché un’effettiva
conversazione si dimostrava evasiva. Poteva incoraggiarli a svolgere
compiti e raggiungere mete, segnalando visivamente cose che destassero la
loro curiosità e lasciando che si impadronissero del problema e lo
risolvessero con un’assistenza minima. Li vedeva parlare di continuo fra di
loro, con la pelle che cambiava colore, i tentacoli che si toccavano,
lottavano, si intrecciavano. A volte non poteva essere certo che stessero
dicendo qualcosa. Cosa aveva un vero significato e quanto di quel tripudio
di attività era solo un sottoprodotto della cognizione?
A volte sostava accanto alle vasche, guardando i suoi protetti, le sue
creazioni al lavoro o intente a giocare ed esse lo guardavano a loro volta: lo
conoscevano, e Senkovi sentiva che lo trovavano simpatico. Anche gli
ottopodi non modificati erano in grado di distinguere gli umani l’uno
dall’altro, e questi erano più intelligenti dei loro antenati, oltre ad avere solo
cinque facce da riconoscere.
Aveva la deprimente consapevolezza che stava cercando di ricavare dai
suoi animali qualcosa che avrebbe ottenuto gratuitamente dagli altri esseri
umani, ma una vita di abitudine era dura a morire, e non era riuscito a
superare quella barriera neppure quando aveva condiviso il pianeta con
miliardi di persone. Non pareva valere la pena di sforzarsi di farlo su una
nave su cui c’erano solo altre quattro persone, due delle quali addormentate.
Anche i polpi dormivano quando lui si ritirava nel suo letto criogenico. Non
aveva le apparecchiature per metterli adeguatamente in animazione sospesa,
quindi poteva solo raffreddarli e drogarli in modo da porli in un inaffidabile
stato di ibernazione. All’inizio, la mortalità in quel buio freddo era stata del
sessanta percento, poi era riuscito ad abbassarla al quaranta, ma a ogni
risveglio gli si spezzava il cuore. Fare qualcosa a lungo termine in merito a
questo problema era una delle sue mete più importanti, e forse l’avrebbe
presto realizzata.
Quelle riflessioni sul sonno e sulla veglia lo portarono di nuovo a pensare
a Baltiel. La sequenza di risveglio era già avanzata. Senkovi aveva dato
un’occhiata ai file e scoperto che al suo capo piaceva essere svegliato da
una musica sommessa che saliva a poco a poco in un magnifico e
commovente crescendo. Personalmente la trovava una cosa sdolcinata, ma
probabilmente altri non avrebbero apprezzato le sue immagini marittime,
quindi a ciascuno il suo. Guardò le sue palpebre contrarsi, i muscoli venire
percorsi da piccoli spasmi mentre la camera del sonno effettuava tutti i
necessari controlli e le regolazioni per una rianimazione priva di shock. Il
che era un peccato, perché il progettatore non aveva considerato la
possibilità di un Senkovi.
Baltiel si svegliò, passando dalla sinfonia alla calda luce della Egeo, si
sollevò a sedere e vide che non era solo.
Senkovi dovette riconoscerglielo, riuscì quasi a mascherare l’orrore e il
panico di quel momento. Si trincerò quasi subito dietro la sua espressione
da comandante generale, ma non abbastanza in fretta, e gli occhi non
potevano mentire. Baltiel serrò con forza eccessiva i bordi della capsula e
non disse nulla mentre guardava il volto avvizzito di Senkovi, i ciuffi
arruffati della barba bianca, il cuoio capelluto chiazzato dagli anni,
drappeggiato di pochi e fragili capelli.
Si fissarono a lungo a vicenda, mentre Senkovi si chiedeva se Lante o
Lortisse li stessero osservando sulle videocamere, ammazzandosi dalle
risate. O incapaci di credere al suo cattivo gusto. Ma se non eri capace di
ridere, cosa potevi fare?
«Tu...» Inizialmente la voce di Baltiel aveva un tremito, ma lui si
controllò e la rese decisa. «Cosa è successo?» Nei suoi occhi apparve
un’espressione sospettosa e Senkovi non riuscì più a trattenere un
sogghigno. Vedendo che il suo capo stava per batterlo sul tempo, si strappò
via la barba e procedette a rimuovere il finto cuoio capelluto e le sezioni di
pelle avvizzita, ridacchiando fra sé.
A quel punto Baltiel doveva aver interrogato la nave e scoperto di essere
rimasto addormentato per undici anni, nei termini sempre più privi di senso
con cui la nave riferiva il tempo. «Quanto ci hai messo a...»
«Trentaquattro giorni» rispose Senkovi, alle prese con un pezzetto
recalcitrante di finta pelle rugosa. «La pelle è stata la parte facile. Indurre
l’officina a produrre una barba realistica è stato notevolmente difficile.»
«Ti sei divertito a sufficienza?» Era chiaro che Baltiel avrebbe voluto
urlargli contro ma si stava trattenendo magistralmente.
«Sono divertito. Tu no?»
«Muoio dal ridere.» Il suo capo si massaggiò il collo e ruotò le spalle –
cose che non avrebbero dovuto essere necessarie, ma stavano facendo
troppo affidamento sul sonno criogenico e la cosa cominciava a farsi
sentire. «Suppongo che tu abbia un vero motivo per avermi svegliato, a
parte cercare di uccidermi per lo shock.»
«Ecco, si sono accumulate parecchie cose che probabilmente richiedono
una o due decisioni di comando» ammise Senkovi. «Di certo Lante vuole
parlarti. Ha in corso... qualcosa.»
Vide la faccia di Baltiel cambiare espressione mentre accedeva ai primi
file relativi alla ‘cosa’ di Lante. Lei e Baltiel avrebbero presto avuto una
discussione. Senkovi l’aveva avvertita che sarebbe stato difficile, ma
comunque non erano affari suoi e, quando era infuriata la controversia fra
Lante e Rani riguardo al parlare della cosa a Baltiel, lui era stato immerso
nella progettazione della sua barba. «Oh, ed è necessaria anche una
decisione riguardo al modulo.»
«Come procedono le riparazioni?» Mentre poneva quella domanda,
Baltiel stava già cercando le risposte nel sistema, probabilmente
bofonchiando fra sé riguardo al fatto che in sua assenza nessuno rimetteva i
dati esattamente dove avrebbero dovuto essere.
«Già... ecco...» replicò Senkovi, torcendo la barba. «Nessuno vuole
affidarsi a quel modulo anche se il virus è stato eliminato. Fluttuare in un
barattolo di latta e tutto il resto. La cosa positiva è che la spedizione Nod è
praticamente pronta a partire, a quanto mi dicono. Abbiamo perfino
installato il sistema del sonno criogenico sul pianeta, se vuoi effettuare uno
o due studi longitudinali.»
Senkovi ricevette un’allerta che gli diceva che Baltiel stava verificando i
progressi su Damascus. Se non altro, da quel punto di vista riteneva di avere
buone notizie. Tutto procedeva di buon passo, le zone ossigenate si
allargavano e un ecosistema microbico aveva attecchito e appariva stabile.
Aveva perfino installato un ascensore su cavo funzionante perché il
pensiero di scaricare cose vive dall’orbita nel mare lo faceva sudare e
tremare, per quanto cercasse di dirsi che non era la stessa cosa. Di questi
tempi non poteva paracadutare neppure batteri.
«Sarà meglio che parli con gli altri» annunciò Baltiel, cupo.
«Sono tutti svegli e ti aspettano, capo» gli disse Senkovi. Naturalmente il
fatto che fossero tutti svegli nello stesso momento era un’infrazione alle
regole di Baltiel, ma non grave quanto ciò che stavano per proporgli.
Baltiel poteva vedere che Lante era pronta a uno scontro e il linguaggio
corporeo di Rani e di Lortisse suggeriva che i tre fossero d’accordo sulla
cosa. Il breve tragitto dalle capsule del sonno alla sala dell’equipaggio era
stato abbastanza lungo da permettergli di assimilare con esattezza il genere
di prolungato tradimento che era stato organizzato mentre lui dormiva, ed
era evidente che Lante aveva svolto di persona l’opera di convincimento
invece di produrre un comodo manifesto. Se avesse avuto tempo, avrebbe
potuto setacciare il set di sensori interni e magari trovare la registrazione di
qualcuna delle conversazioni, ma avrebbe dovuto limitarsi a sentire ogni
cosa da Lante e affrontare la questione improvvisando sul momento.
Prima però le cose più importanti, quindi fu la personificazione della
mitezza civile mentre parlavano di quello che era stato reinstallato nel
modulo orbitale, discutevano se fosse necessario fare qualcosa per
impedirgli di cadere nel pozzo gravitazionale di Nod e se dovevano
insediarsi là o meno. Lante cedette la parola e Rani si incaricò di esporre i
dettagli tecnici. Baltiel approvò tutte le proposte, decisioni di comando che
meritavano a stento quella definizione. «Ora,» disse dopo aver risolto quei
problemi «so che siete stati impegnati.»
Per un momento la tensione nella stanza rasentò l’aperto ammutinamento.
Si chiese fino a che punto si sarebbero spinti.
«Non è arrivato nessuno» disse Lante. «Voglio dire, certo, potrebbero
ancora essere in viaggio. Potrebbero essere partiti tardi o essere su navi che
non hanno la stessa accelerazione della Egeo, o qualcos’altro, e forse il
motivo per cui non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione in cui ci
chiedano se possiamo accoglierli e trovare loro una sistemazione è che sono
superparanoici dopo quell’arma virale, oppure suppongono che lo siamo
noi, o che siamo morti. Però abbiamo inviato segnali verso casa, e non c’è
niente. C’è stato...» Agitò una mano per accantonare la precisione. «C’è
stato tempo perché quei segnali arrivassero fino alla Terra e la Terra
rispondesse, ma niente. Crediamo che non stia arrivando nessuno.» Proprio
come aveva detto lei, questo non dimostrava niente. Era possibile che i
superstiti stessero procedendo fra le stelle osservando un silenzio radio, ma
Lante non pensava che fosse così e puntava tutto sul: ‘Crediamo che non ce
l’abbia fatta nessuno’. Quello che rendeva veramente reale la situazione era
che, come lui sapeva, tutti loro avevano smesso di contare. Tecnicamente, la
Egeo stava ancora tenendo il conto di quanto tempo fosse trascorso dal
Silenzio e dalle ultime parole giunte dalla Terra, ma Baltiel poteva vedere
dalle registrazioni quanto fosse passato dall’ultima volta che qualcuno
aveva controllato quanto ne fosse trascorso. Il loro entrare e uscire dal
sonno criogenico aveva dato al tempo una spigolosità che aveva infine
reciso i loro ultimi legami con il pianeta natale. Se glielo avesse chiesto
adesso, nessuno di loro avrebbe saputo dirgli quanto era passato.
E adesso questo.
«E così tu...» Baltiel stava per dire ‘hai deciso di giocare a fare Dio’, ma
questo combaciava troppo con il suo punto di vista o forse con quei dannati
meme religiosi con cui Senkovi lo aveva infettato, quindi decise di attenersi
alla semplice scienza. «E così ti sei appropriata del laboratorio genetico.»
«Nel mio tempo libero.» Lante appariva visibilmente più vecchia. Non
anziana, perché tutti loro avevano il genere di genoma ripulito che si
prestava a un arco vitale esteso e sano, ma era chiaro che era rimasta sveglia
per ore, e poi per giorni e anni. «Del resto, abbiamo immagazzinati
campioni genetici della maggior parte dell’equipaggio, in caso di
contrattempi. È tutta scienza consolidata.»
«Scienza vietata.» Lo era da quasi un secolo, da molto prima che la
fazione antiscienza diventasse un vero pericolo. La creazione di esseri
umani artificiali era stata proibita per parecchi motivi, dal fatto che era una
prerogativa divina al voler prevenire un ritorno alla schiavitù.
Lante scrollò le spalle. «Conosciamo tutti le argomentazioni, e quasi
nessuna di esse si applica a noi. Tu vuoi studiare Nod, Yusuf, e va bene.
Senkovi vuole riprodurre i suoi animaletti e terraformare Damascus, e
anche questo va bene. Sentitevi liberi di espandere il sapere umano, ma io...
noi vogliamo assicurarci che il sapere umano abbia un futuro.»
«Noto che avete sequenziato parecchi genomi modificati. Non è
esattamente lo standard umano.»
Lante squadrò le spalle. «L’adattamento a un ambiente a basso livello di
ossigeno rientra negli standard umani. In origine era una caratteristica
presente nelle aree dall’altitudine elevata, ma si adatterà bene a Nod. E so
cos’hai detto: non vuoi che un mucchio di coloni arrivi a rovinare il suo
ecosistema. Questi però non saranno coloni, saranno la nostra gente.
Potremo guidarli, istruirli. Possiamo creare una riserva di esseri umani,
Yusuf, giusto in una parte del pianeta.»
Ma le cose non sarebbero rimaste così, non nell’arco delle generazioni,
non per sempre, e il purista dentro di lui infuriava all’idea mentre l’uomo,
quell’uomo vanesio che era consapevole di essere, pensava alla
perpetuazione del sapere umano, a nuovi testi di storia che riportavano il
suo nome.
«E il resto?» la imbeccò con gentilezza. «Oppure anche le branchie sono
in qualche modo uno standard umano?»
«Stiamo terraformando un pianeta che è quasi interamente coperto da un
oceano» gli fece notare Lante.
«Ehi, cosa?» La mente di Senkovi era stata altrove mentre lui se ne stava
appoggiato alla parete, ignorando la conversazione, ma questo attirò la sua
attenzione. «Vuoi...» Spostò lo sguardo da Lante a Baltiel, poi assunse
un’espressione imbronciata. «Ecco, suppongo che lo stiamo facendo per
questo, ma io pensavo a imbarcazioni...»
Baltiel aveva un’idea abbastanza precisa di quello che Senkovi stava
pensando, e decise di inserire nei sistemi della Egeo alcune routine nel caso
che lui si fosse votato completamente ai molluschi, routine che sperava
Senkovi non riuscisse ad aggirare. Per ora, però, aveva bisogno di una
risposta da dare a Lante e agli altri.
Sono un dio geloso, pensò. Quella era la sua linea d’azione, e avrebbe
dovuto essere stata radicata in lui da anni di sonno criogenico, i suoi
atteggiamenti cristallizzati fino a renderlo poco più di una parodia di sé
stesso, e tuttavia... Esaminò la sua reazione istintiva al folle, audace piano
di Lante e scoprì che non era niente più di questo, senza nessuna sostanza a
rinforzarla.
«Ne metteremo quanti più possibile su Damascus» disse, sapendo che
anche se lui non era un dio geloso sarebbe giunto un tempo in cui Zeus si
sarebbe scontrato con Poseidone riguardo alla demarcazione dei
dipartimenti. «Su quante più barche possibile.» Quello era un tentativo di
placare Senkovi. «Noi però saremo su Nod, quindi suppongo che svolgerete
là il lavoro iniziale.»
Erano stati tutti così tesi riguardo a quel confronto che Lortisse barcollò
fisicamente, quasi si fosse appoggiato a una porta che si era aperta senza
preavviso. Baltiel scrollò le spalle.
«Però non pensate a Nod come a un mondo coloniale. Il terriccio non
lascerà crescere niente che la gente possa metabolizzare, l’intera biosfera è
sbagliata per noi e non la modificheremo. Ho visto il vostro lavoro.»
Rapidamente, nel venire qui. «Non potete creare umani in grado di vivere là
come nativi, le modifiche relative al basso o2 e alla gravità elevata non
basteranno. Una volta che avrete finito con tutti i cambiamenti, non
sarebbero più umani.»
Ovviamente Lante riteneva che quello fosse un discorso disfattista, ma
seppe riconoscere il valore nell’accettare la vittoria che lui le offriva
piuttosto che rischiare tutto per ottenere di più, e Baltiel sapeva di avere
ragione. La biochimica nodiana era aliena dal terreno in su, un cocktail di
elementi pericolosi per le persone e di molecole organiche che si sarebbero
potute sviluppare sulla Terra ma non lo avevano mai fatto, scartate dal caso
e dal tempo. Probabilmente c’erano alcuni estremofili terresti che sarebbero
potuti sopravvivere lì, ma niente di più complesso poteva farcela. La
biologia della Terra e quella di Nod erano due navi che si incrociavano nella
notte senza scambiare segnali o saluti.
3
Salomè non ama l’ascensore e a metà della discesa fa del suo meglio per
sfuggirne. Paul, suo compagno di prigionia nel viaggio verso il basso, si
allarma e saetta verso la parte alta della capsula, aggrappandosi al
rivestimento di plastica.
Tecnicamente lui è Paul 51 e lei è Salomè 39, almeno in base alle
annotazioni di Senkovi. Tuttavia, la sua numerazione delle generazioni è
eclettica e inaffidabile. Ci sono stati Paul che sono esistiti in contemporanea
e naturalmente i Paul 1-3 sono vissuti sulla Terra, nei suoi acquari.
Qualsiasi senso di colpa lui possa aver provato riguardo alla poca
accuratezza delle sue registrazioni ha fatto la stessa fine del resto della
razza umana. Finché riesce a capirle, è improbabile che a chiunque altro
importi di decifrarle.
Paul si è fatto quasi bianco, con chiazze nere e porpora che appaiono e si
spostano lungo i contorni del suo manto. Esternamente è molto simile ai
primi Paul, con un corpo delle dimensioni di una palla da football che è
composto in prevalenza da stomaco e cervello, sotto il quale si estendono
otto muscolosi tentacoli dotati di ventose sul lato inferiore, che circondano
un becco molto forte. Internamente è un miscuglio di genetica ancestrale e
di modifiche apportate dal virus di Rus-Califi che, va ricordato, aveva lo
scopo originale di strumento di elevazione. Califi e Rus erano partiti dal
presupposto che qualsiasi ricercatore sano di mente avrebbe cautamente
sospinto una specie mammifera più vicina al livello della cognizione
umana. Di conseguenza, Senkovi non si è limitato a immetterlo nelle vasche
nella speranza di ottenere vaghi umanoidi tentacoluti in grado di discutere
della natura dell’esistenza; invece, ha usato campioni minimi e selezionati
di nanovirus per modificare, come meglio riteneva, certi parametri della
visione del mondo dei suoi soggetti. È sempre stata sua convinzione di aver
soltanto aiutato l’orologio della natura a muoversi un po’ più in fretta, ma
Disra Senkovi non eccelle per introspezione obiettiva.
In questo caso, tuttavia, è impossibile per un uomo così focalizzato su sé
stesso creare qualcosa a sua immagine. Considerate lo stato di allarme di
Paul. Lui è collegato al sistema degli ascensori, che contiene preziose
informazioni organizzate per immagini secondo un codice che Senkovi ha
faticosamente elaborato come qualcosa che di solito i suoi animaletti
riescono a comprendere. Se Salomè dovesse riuscire a escludere le misure
di sicurezza, entrambi si troverebbero fuori, e cioè a chilometri dalla
superficie di Damascus, insieme all’ambiente acquatico che al momento li
tiene in vita e che si disperderebbe rapidamente, e avrebbero le stesse
probabilità di sopravvivenza di un vaso di petunie posto nelle stesse
condizioni. Questo spiega perché Paul sia allarmato, ma lui stesso – il
cervello che è il suo centro – non è in condizione di valutare i meccanismi
fisici di causa ed effetto della situazione. Sa soltanto che è spaventato e che
le azioni di Salomè ne sono la causa. Porta la sua paura scritta sulla pelle,
dove lei è in grado di decifrarla – cosa che fa – ma non si tratta di un
segnale inviato in modo cosciente. La pelle è la lavagna del suo cervello,
dove scribacchia i suoi pensieri e sentimenti di momento in momento. Se
volesse ingannare, potrebbe combattere contro sé stesso per controllare
quella tela, ma al momento è più che contento che Salomè sappia quanto lo
sta spaventando.
Dove si trova quindi la comprensione della loro fine imminente? Forse
dentro la rete più ampia dei suoi nervi, all’interno e in mezzo ai singoli
sottocentri neurologici che controllano i suoi tentacoli, una riserva di potere
di elaborazione semiautonomo con cui il cervello di Paul vive in
associazione e che rende il suo subconscio – a patto che ne abbia uno che
gli umani potrebbero riconoscere come tale – un’arma potente in grado di
influenzare il mondo.
Nello stesso modo Salomè – chiazzata di rosso e in un viola acceso, la
pelle irta come una massa di spine e di daghe – sa soltanto che vuole uscire.
Questa non è la sua vasca. Dove sono i suoi giochi? Dove sono la Grande e
Grossa Entità e la Calma e Grossa Entità (tag di ID di sistema che indicano
rispettivamente Senkovi e Lortisse)? Cos’è questo senso di movimento e di
fluttuazione della pressione all’interno dell’acqua? Il suo cervello propone,
i suoi tentacoli dispongono. È collegata ai diagrammi della capsula. Le
sottomenti dei tentacoli lottano con la sua forma, rigirandola per vedere
dov’è possibile applicare pressione per spaccarla. Comincia a impartire
comandi e anche se l’insieme della sua mente, preso come un aggregato, ha
il quadro completo della situazione, la sua comprensione attiva è soltanto
che vuole uscire e quel punto e quell’altro rappresentano il modo in cui ci
può riuscire. Le sfugge il grande abisso esterno, che è irrilevante nella sua
scala delle priorità.
Quanto a Paul, la sua mente subconscia (la sua Portata contrapposta alla
Corona del cervello centrale e all’Aspetto della pelle) capisce che per
eliminare la paura deve impedire a Salomè di ottenere il suo scopo.
All’inizio si limita a segnalarlo in modo automatico, trasmettendo una paura
non direzionale, ma poi aggiunge qualificatori fatti di colore e di Aspetto
per farle capire di essere lei la fonte della sua ansia. Di norma, questa
sarebbe la reazione a un suo atteggiamento minaccioso e indicherebbe la
resa, ma le punte e i vortici in rilievo sulla sua pelle malleabile indicano un
significato del tutto diverso.
Salomè lo guarda in tralice, decifra con estrema chiarezza le sue
intenzioni, ma non le importa. È più grossa di Paul, quindi cosa potrà mai
farle?
Quello che lui fa, contrastando milioni di anni di istinto, è cercare di
attaccarla. Inonda la sua pelle dei colori scuri del coraggio, solleva un
centinaio di creste ispide in tutto il corpo e le si lancia contro. Lottano
furiosamente, in uno strangolante contorcersi invertebrato. Al contrario dei
vertebrati, i polpi non hanno percezione di sé, un’immagine mentale di dove
si trovano tutte le parti del corpo. Otto tentacoli che in qualsiasi momento si
possono piegare in qualsiasi direzione metterebbero a dura prova la capacità
di elaborazione della Egeo, per non parlare del cervello di un polpo. La
Corona imposta la strategia, ma le tattiche di combattimento sono gestite
dalla prima, cioè da quei sottonodi che manovrano i tentacoli.
Di solito, uno scontro come questo si conclude con la sottomissione di
uno dei due contendenti, che si spinge lontano, magari con un tentacolo di
meno. L’alternativa è la morte di uno dei due, perché i polpi sono in grado
di strangolarsi e di divorarsi a vicenda. L’interferenza del virus di Califi e
Rus ha però avuto un effetto: adesso i polpi sono una specie più sociale di
prima, e le società si costruiscono sulla condivisione di segnali e di
informazioni.
Di colpo i due si separano di comune accordo e si ritirano alle estremità
opposte della capsula. Salomè riprende a cercare di aggirare i sistemi di
sicurezza, si ferma, riprende e si ferma ancora. Ha una nuova idea, connessa
alla fisica di quello che succede se la cabina di un ascensore spaziale si apre
all’improvviso a una quota elevata. La comprensione che la sua Corona ha
di questo è limitata al fatto che adesso l’idea di evadere scatena una scarica
di segnali chimici che indicano pericolo. Nella sua mente, le conseguenze di
un’evasione sono come uno squalo che nuoti intorno alla capsula in discesa,
una minaccia che aspetta di assalirla. La sua Portata avrebbe una
comprensione più concreta del problema, sondandone la forma fino a
comprenderne tutte le variabili, ma l’azione della Portata è limitata e il suo
ragionamento non risulta evidente alla parte di lei che si considera
l’individuo chiamato Salomè.
Rivede la sua linea d’azione e si ritira sulla base della capsula, tenendo il
broncio. Di nuovo aggrappato alla parte alta, Paul ritrova lentamente colori
più sani.
4
Ambienti
così ostili.
Simili luoghi di morte.
Eppure è così strano. La voce si diffonde finché Tutti-di-Noi sappiamo che
qui, qui è qualcosa. Mentre generiamo e consumiamo le nostre energie
emergono nuovi schemi, una folle vertigine di gradienti chimici che porta
Alcuni-di-Noi a desiderare questa novità.
Alcuni-di-Noi toccano le loro sostanze, incontrano i loro nuovi elementi,
apprendono le loro valenze e forme, le pieghe delle loro strane molecole.
Alcuni-di-Noi svaniscono e non se ne sa più niente. Ma noi siamo Noi e
c’è sempre Altri-di-Noi che imparano da quanti li hanno preceduti. Molti-
di-Noi sono incuriositi dalle possibilità di queste nuove forme e spazi.
Il consenso si diffonde.
Non possiamo ignorare questa intrusione. Alcuni-di-Noi agiranno.
6
Senkovi fluttuava accanto alle vasche, nel cuore della Egeo, cercando di
dare un senso a tutto. Quel giorno lavorava con una nuova generazione, nel
tentativo di replicare lassù quello che continuava a succedere su Damascus.
Il suo soggetto era Paul 58, di una covata leggermente più temprata dal
virus di Rus-Califi rispetto alla precedente.
«Cosa che ti rende più intelligente» disse a Paul. «O almeno dovrebbe
farlo. Rendiamo più veloci quei collegamenti neurali. Apprendimento,
memoria...» Fissò l’interno della vasca, dove Paul si teneva aggrappato a
un’interfaccia, stringendola con ondate di movimento improvvise mentre
navigava negli spazi virtuali creati da Senkovi. Come per i polpi su
Damascus, anche a Paul erano stati affidati incarichi di riparazione, una
serie di installazioni guaste segnalate in modo da destare la sua curiosità,
che però fino a ora rimaneva sopita. Senkovi aveva l’impressione di fare
una sorta di strano gioco di equilibrio o di giocare un’altrettanto strana
partita alla torre di Hanoi nella quale per fare progressi era costretto a
spostare di continuo i pezzi all’indietro. Le precedenti generazioni erano
state in grado di eseguire a memoria lavori complicati, ma a mano a mano
che aveva permesso al virus di rendere più complessa la loro neurologia, i
polpi erano diventati meno prevedibili, meno conoscibili.
Credevo che l’idea di base di un virus di elevazione fosse di rendere
umano qualcosa.
Inviò di nuovo a Paul le sue istruzioni, effettuando il reset dell’ambiente
virtuale.
Forse ho effettuato una riproduzione troppo selettiva. Sono instabili.
Di certo Paul sembrava avere problemi cerebrali. La sua pelle presentava
un continuo movimento stroboscopico, danzando con disegni mutevoli a
mano a mano che lui si faceva sempre più ansioso per motivi che Senkovi
non era in grado di capire.
Presto o tardi Baltiel avrebbe voluto delle risposte. «Fai almeno questo
per me» disse alla vasca indifferente. «Diamo loro uno spettacolo da circo
che siano in grado di capire, poi potremo tornare a essere soltanto tu e io.
Avanti, Paul.»
Paul lasciò improvvisamente andare l’interfaccia e si spinse dall’altra
parte della vasca. La sua pelle era irta in una serie diabolica di punte e di
spirali, cosa che in genere indicava aggressività, ma allo stesso tempo era
pallido di paura, con i cromatofori intorno agli occhi e al sifone che
pulsavano nervosamente. Senkovi lo fissò con aria infelice. Ti ho spinto
troppo oltre, vero? Tutto questo è dannatamente innaturale, ecco cos’è. Ma
loro non mi permetteranno di starmene semplicemente qui ad allevare
animali domestici. Non è così che funziona. Tutti devono lavorare e un
giorno quello sarà il tuo pianeta, Paul. O dei tuoi discendenti. O dei
discendenti di qualche altro polpo che conserverà la sanità mentale
abbastanza a lungo da averne.
A quanto pareva Paul aveva superato la crisi e stava strisciando di nuovo
verso l’interfaccia. Non era che stesse ignorando il test, ma all’interno
dell’ambiente virtuale la sua presenza andava ovunque tranne dove sarebbe
dovuta andare, aggirandosi lungo il perimetro dello spazio astratto come per
cercare una via di uscita. Uno dei suoi occhi era sempre rivolto verso
Senkovi, fissandolo attraverso la parete trasparente della vasca.
E adesso era apparso un messaggio di errore, con il sistema che inviava
impulsi ai suoi impianti cibernetici che li proiettavano nel suo campo
visivo, perché naturalmente l’errore c’era stato. Senkovi fissò il messaggio
con aria accigliata.
Errore[Riformulare].
Era un segnale di avvertimento che aveva inserito per sé, perché a volte
dimenticava a metà codifica quello che intendeva ottenere, e questo lo
lasciava con chimere digitali che facevano qualcosa di assolutamente
inappropriato.
Il sistema aveva individuato parte della progettazione del test che
deragliava e voleva che lui ne ridefinisse gli scopi. Si mise a caccia fra i
nodi dell’ambiente delimitato del test alla ricerca di quello che era andato in
blocco.
Errore[Riformulare].
«Sì, sì.» Si rese conto che stava lavorando con questa generazione di polpi
da un po’ più di diciassette ore. È ora di registrare un altro fallimento e di
andare a dormire un poco.
Utente[SenkoviD] Errore[Riformulare].
Erano semplici blocchi da costruzione della comunicazione di sistema, i
giocattoli di cui si serviva per creare l’architettura virtuale. Andò in cerca
della provenienza dell’errore.
Giungeva da Paul 58.
Il polpo era riuscito a entrare nel sistema limitato e la sua consapevolezza
virtuale era fuggita dall’ambiente del test per mandargli un segnale.
Errore[Riformulare] SoggettoTest[Paul58] Errore[Riformulare]
Utente[SenkoviD].
Era solo una stringa di identificatori: il codice che identificava lui come
programmatore, quello che si riferiva a Paul e il codice che usava per
mandarsi un avvertimento se si allontanava dai parametri prefissati.
Riformula le tue intenzioni. Torna indietro e ricorda a te stesso perché stai
facendo questo.
L’occhio di Paul era fisso su di lui, ma Senkovi era abituato al fatto che i
polpi lo osservavano mentre lavorava. Erano creature curiose per natura.
Errore[Riformulare] Errore[Riformulare] Soggetto[Paul58]
Errore[Riformulare] Utente[SenkoviD] Errore[Riformulare].
Senkovi e Paul si fissarono a vicenda, e forse questa volta fu il polpo ad
aspettare pazientemente che l’umano arrivasse a capire.
Riformula le intenzioni. Dimmi perché.
Perché c’è Senkovi? Perché c’è Paul? Perché? Perché il test, perché questi
giochi sciocchi, perché tutto questo? Perché, o creatore, perché?
Dieci minuti più tardi Senkovi aveva percorso tutto il tragitto fino
all’anello esterno, il posto che frequentavano gli umani e dove i polpi non
andavano mai (salvo nella vasca e con qualche fuga industriosa). Sedette là
con la schiena appoggiata alla parete, iperventilando, amaramente
consapevole di che genere di uomo fosse. Questo perché i polpi gli
piacevano, gli erano sempre piaciuti, ma erano sempre stati animali
domestici. Per quanto si sforzasse, per quanti anni luce potesse aver
percorso, non si era lasciato alle spalle quella parte di sé. Li aveva allevati e
mutati, giocando a fare Dio, e adesso loro volevano sapere il perché, e lui
non aveva una risposta.
7
Gav Lortisse aveva iniziato a tenere un diario vocale solo dopo l’attacco
del virus e nessuno degli altri ne conosceva l’esistenza. In realtà
probabilmente Baltiel ne era al corrente perché prendeva molto sul serio il
suo ruolo di comandante generale, ed era possibile che Senkovi avesse
superato le misure di sicurezza personali di Lortisse perché non rispettava
altri confini che i propri. Nominalmente, però, quel documentare la sua
personale discesa nella follia serviva a mantenerlo sano di mente. Lortisse
era uno che faceva gioco di squadra, sempre pronto a dare una mano nei
progetti degli altri, a fare il lavoro pratico, a sudare a vantaggio di altri. E
intanto parlava fra sé, con la tuta che registrava ore e ore delle sue
riflessioni. Prima o poi, qualcuno avrebbe trovato da ridire sullo spazio di
memoria occupato dal suo diario, ma solo fra molto tempo.
«Baltiel mi ha mandato di nuovo a raccogliere esemplari. Se non può
avere i volatili, vuole almeno le testuggini, e le vuole anche Lante, che ama
aprire quelle poveracce. Sembra quasi che pensi di poter leggere il futuro
nei loro visceri, o qualcosa del genere.» C’era un termine specifico per
quello, ma non riusciva a ricordarlo, quindi fece collegare la tuta al sistema
dell’habitat per una ricerca mentre continuava ad avanzare con cautela sulla
palude salmastra.
«Non so come abbiamo mai potuto aspettarci che funzionasse.» Questa
era una rivelazione recente, e doleva ancora come un dente marcio. «Voglio
dire, sono scomparsi tutti. Neppure un segnale da quando c’è stato l’attacco,
né da casa né da qualsiasi nave.» Narrare queste cose a sé stesso, sentire
nelle orecchie la propria voce ansimante gli dava una strana illusione di
controllo, come se stesse sentendo quella storia a distanza di molto tempo,
quando in realtà tutto si era già risolto. Come se la stesse raccontando a un
ipotetico nipote. Solo che...
Alle sue spalle un drone da trasporto lo seguiva a una distanza
prestabilita, aspettando il suo segnale. Sul suo fondo c’erano già tre
testuggini che strisciavano senza scopo sulla plastica. Altri esemplari che
Lante avrebbe potuto dissezionare. Si chinò su un’altra di quelle creature.
Ce n’erano in abbondanza e la depredazione scientifica non ne avrebbe
intaccato il numero. Naturalmente era probabile che un tempo si fosse detto
lo stesso dei mammut, dei bisonti e delle vere testuggini, ma al momento
Lortisse riteneva che perfino la lenta natura di Nod fosse sufficiente ad
avere la meglio sugli sforzi di quattro poveri umani.
«Stiamo dando tutti di matto, ma con estrema gradualità» continuò. «È
come vedere qualcosa disgregarsi a gravità zero, con i pezzi che si separano
a poco a poco. Ma perché non dovrebbe essere così? Il mondo è finito, non
c’è più una forza che ci tenga uniti. Vedo Kalveen che continua a migliorare
sistemi, a progettare... palazzi, dimore, habitat grandi come città,
pianificandolo con misure di sicurezza ridondanti e... il tutto su una scala su
cui non potremo mai costruire, non per noi quattro e neppure per quaranta.
Dice che è il futuro, ma non può crederci davvero. Ci può far fare un giro
virtuale delle città galleggianti di Damascus, dei complessi di cupole aeree
di Nod che non lasciano traccia al suolo e dove la vita aliena continua a
scorrere indisturbata sotto i nostri piedi. È tutto folle, una vera follia.»
Il drone si avvicinò in risposta a un suo segnale e lui caricò la sua vittima
più recente. È così che mi sono ridotto? A guidare il carretto delle
esecuzioni di alcuni molluschi alieni senza cervello? Ma se non altro gli
permetteva di uscire sotto il cielo, di esercitare i muscoli. Meglio che
rimanersene chiuso lì dentro con Baltiel e Rani e...
«Ed Erma.» Concluse quel pensiero ad alta voce. «Lei continua a parlare
di riprodurre una nuova generazione nelle vasche, solo che non abbiamo
ancora neppure le vasche e lei pare non cominciare mai. C’è sempre
qualche altra cosa che ha bisogno di essere pianificata. Non riesce ad
arrivare allo stadio in cui tutto diventa reale e ci sono... cosa? Alcuni deboli
bambini malaticci di cui qualcuno deve prendersi cura. Sa che i sistemi
automatici non possono farlo per noi, e che in realtà nessuno di noi vuole
quella responsabilità. Dacci una nuova generazione, certo, ma non
costringerci ad averne cura. A Senkovi importa dei suoi ottopodi più di
quanto a chiunque di noi importerebbe mai di quei poveri dannati bambini.»
Il drone da trasporto induceva sempre le testuggini a rinchiudersi nel
guscio perché in esso c’era qualcosa che diceva ‘predatore’ come la forma
umana di Lortisse non era in grado di fare. Era una cosa larga e piatta che si
spostava su sei strette gambe e probabilmente la sua ombra ricordava quella
di un volatile, o quantomeno sembrava tale agli strani occhi delle testuggini.
In ogni caso, gli altri animali nelle vicinanze erano tutti fuggiti o si erano
accucciati in modo tale da rendere impossibile staccarli dal suolo senza
ucciderli. Lortisse continuò con i suoi discorsi sconclusionati mentre si
muoveva con cautela intorno alle pozze con il drone che lo seguiva a una
educata distanza, come un becchino. «E così Erma continua a effettuare
dissezioni per Yusuf, che è il più pazzo fra tutti noi perché vuole
semplicemente andare avanti come se non fosse successo niente. È come se
non capisse che è tutto scomparso. Vuole studiare gli alieni, come se a loro
importasse, o come se potrà mai importare a qualcuno. Pensa che finché
continua a fare il suo lavoro – che non è neppure il suo lavoro ma un
compito che si è assegnato da solo prima che tutto andasse al diavolo – le
cose saranno ancora a posto, che sarà tutto come al solito.»
Trovò un’altra pozza circondata da gruppi di testuggini, alcune nell’acqua
e altre sulla riva, dove raspavano e tranciavano gli agglomerati di fronde e
di spirali che erano in parte simili a piante e in parte qualcosa di più sessile,
come animali semiautotrofi. Su Nod mancava una netta divisione fra i
diversi regni. Quelle ‘piante’ liberavano larve che nuotavano o erano
trasportate dal vento in modo da poter colonizzare altre regioni. Alcune
avrebbero integrato la loro dieta con microscopici detriti galleggianti, altre
attraversavano fasi mobili in cui si trasformavano in qualcosa di molto più
attivo. Forse anche le testuggini avevano uno stadio di vita da pianta, e così
pure i volatili, che mettevano radici nelle crepe, in alto sulle montagne, e
rivolgevano le ali verso il sole. Lortisse si immobilizzò, sentendo
l’ambiente che gli invadeva la mente con la sua stessa stranezza mentre
spingeva lo sguardo sul basso panorama plumbeo, verso il mare e guardava
la pioggia avvicinarsi lungo la costa.
«Davvero, Senkovi è il più sano di mente fra tutti. Dovrei tornare sulla
Egeo e andare di nuovo a nuotare con i suoi animaletti. Quello era
piacevole. Aveva un senso. Nulla di tutto questo lo ha.»
Un dolore lancinante gli trapassò un polpaccio. Sconcertato abbassò lo
sguardo: una delle testuggini aveva assottigliato un tentacolo fino a
trasformarlo in qualcosa che somigliava a un ago e glielo aveva piantato
nella gamba. In un primo momento non gridò o chiese aiuto. Si limitò a
fissare quella cosa mentre ritraeva il tentacolo e la tuta sigillava
automaticamente il foro. La testuggine parve perdere immediatamente ogni
interesse nei suoi confronti e si allontanò, andando a strisciare il guscio
contro quello di un’altra.
Poi il dolore della ferita prese a crescere e crescere, fino a fargli bruciare
l’intera gamba.
Veleno!
E tuttavia di certo nessuna creatura di Nod poteva aver sviluppato un
veleno in grado di attaccare un uomo della Terra. Adesso però sullo
schermo della tuta si era accesa una miriade di luci rosse, segnali medici di
emergenza inviati all’habitat. Lortisse barcollò, con la vista che gli si
offuscava e il respiro d’un tratto affaticato, avvertendo una pressione
terribile dove il polpaccio si gonfiava all’interno della tuta.
Aruspice.
Il risultato della sua precedente ricerca attendeva al limitare del suo
campo visivo che lui vi prestasse attenzione.
Chi cerca di leggere il futuro nei visceri.
Barcollò in avanti ansimando e rantolando, mentre le voci concitate dei
colleghi gli risuonavano fievoli nell’orecchio.
Presente 2
Dentro la balena
1
D’un tratto hanno lasciato i caccia a vorticare nella loro scia, con la
Lightfoot che accelera sfruttando tutta la sua potenza. Ai comandi
rimangono solo i ragni, Portia, Viola e Fabian, perché Helena e Zaine
stanno facendo del loro meglio per salvare la vita del compagno umano,
Meshner, contrastando la sua infiammazione cerebrale e placando i suoi
picchi di attività neurale fino a quando lui non riapre gli occhi.
Nonostante tutto, Helena non è certa che lui sia ancora con loro. C’è un
momento in cui negli occhi che la fissano non c’è niente di Meshner, poi
l’espressione riappare sul suo volto. Stanno combattendo, dice, cosa che
sembra l’osservazione più stupida del mondo finché Fabian non comincia a
tamburellare e a grattare contro la sua consolle, costringendola a protendere
una mano guantata per capire cosa stia dicendo.
...tre delle navi ci stanno schermando. Una delle altre è danneggiata...
perde ghiaccio dallo scafo! Sono in guerra fra loro! Fabian praticamente
saltella sul posto, appendendosi al muro a testa in giù. Un momento più
tardi salta a terra e aggira di corsa la forma prona di Meshner, perché i
Portiadi hanno serie difficoltà a stare fermi quando sono eccitati.
Helena controlla i monitor medici: adesso le condizioni di Meshner
sembrano stabili, anche se lui pare essere scivolato di nuovo
nell’incoscienza. Si mette a sedere, esasperata nei suoi confronti. A
causargli la crisi è stato un qualche feedback del suo impianto, niente che
avesse a che fare con la battaglia, una cosa che non è la sola a pensare. I
movimenti saltellanti di Fabian si arrestano di colpo quando Viola gli si
para davanti con un salto, le zampe anteriori sollevate in un gesto di
minaccia. Il maschio assume all’istante un atteggiamento sottomesso e lei si
erge sulla persona ancora per un momento per esprimere la propria ira nei
suoi confronti prima di allontanarsi verso la postazione di Bianca.
I pedipalpi di Fabian si sollevano con un sussulto, un gesto che Helena
traduce automaticamente come Ma cosa ho fatto?
Hai fatto succedere questo, segnala Portia, andando ad accoccolarsi
accanto a Helena. Hai fatto esperimenti su di lui.
Il maschio accenna qualche movimento tronco, non una frase completa,
ma l’equivalente di un Umano che borbotti fra sé. Come facevo a saperlo?
Dai un taglio alle tue attività, gli dice Portia. Siamo tutti in pericolo.
Le zampe rigide di Fabian suggeriscono che vorrebbe chiedere come
avrebbe potuto prevedere anche questo, e Helena prova una certa
compassione per lui. Un momento prima gli alieni erano felici di
comunicare e quello dopo..., in effetti nell’istante in cui hanno visto una
forma umana..., un gruppo è stato spinto a una rabbia furiosa, mentre gli
altri si sono mostrati altrettanto veementi nel difendere la Lightfoot, con
entrambe le fazioni che hanno scatenato la loro aggressività senza nessun
segno o preavviso. Questo li rende umani? No, non secondo il modo di
vedere di Helena. Anche ammettendo che gli Umani del Mondo di Kern
siano insolitamente pacifisti, almeno a giudicare da oscuri riferimenti di
Kern al lungo passato della loro specie, ritiene comunque che le persone
dovrebbero costringersi a fare una cosa del genere, fornire a loro stesse una
giustificazione. A meno che il tutto non fosse una trappola fin dall’inizio,
già predisposta per evolversi in un intento omicida, ma questo non spiega le
navi che, a quanto pare, hanno preso le difese della Lightfoot.
Niente di tutto questo ha senso, dice a Portia, attraverso i guanti.
Ci stanno contattando, giunge l’annuncio generale di Viola, con la
traduzione vocale di Kern che lo segue a ruota. Tre grandi navi seguono la
nostra rotta, quelle che hanno coperto la nostra fuga.
«Se non altro, siamo più veloci» commenta Zaine, senza dubbio
ricordando le pesanti manovre dei vascelli alieni.
Non lo siamo, ribatte Viola con fare pedante. Siamo soltanto in grado di
accelerare più rapidamente, per ora. Ci stanno inviando segnali, come
prima, anche se con una proporzione molto maggiore sul canale tecnico.
Altre coordinate.
Tutti si scambiano occhiate: gli Umani girano la testa, i Portiadi inclinano
il corpo gli uni verso gli altri.
«Una trappola?» suggerisce Zaine, ma non ne pare convinta.
Potenzialmente può esserlo, se questi sono soltanto nemici che vogliono
lasciare in vita abbastanza di noi da poterci studiare, interloquisce Viola. Il
sottotesto fornito dai suoi pedipalpi significa Le cose brutte si moltiplicano,
a sottintendere che soltanto perché le fazioni aliene stanno combattendo le
une contro le altre, questo non significa che siano divise in modo netto fra
‘amici’ e ‘nemici’.
«Possiamo parlare alla Voyager?» chiede Helena.
La voce di Kern interviene, trasmettendo simultaneamente attraverso
l’aria e lungo il pavimento: «Semplicemente, non conosciamo le capacità di
queste navi, adesso che siamo oggetto di una tale attenzione da parte loro.
Se mandassimo una trasmissione, come minimo le avvertiremmo della
presenza della Voyager. Dobbiamo sperare che i nostri compagni stiano
guardando quello che succede.»
Possiamo fuggire verso l’esterno, suggerisce Fabian. Siamo in grado di
cambiare rotta più in fretta di loro.
E poi cosa faremo? controbatte Portia.
Helena agita un pollice per ottenere la sua attenzione, poi segnala: Calma,
vacci piano, perché nei momenti di stress la sua collega tende a diventare
arcitradizionalista, comportandosi da femmina più che mai.
Con uno sforzo evidente, Portia costringe il suo linguaggio corporeo a
passare da aggressivo a conversazionale. Se fuggiamo adesso, e anche
ammesso che riusciamo a sottrarci a loro, cosa otteniamo? dice. Per cosa è
morta Bianca? Abbiamo fatto tutta questa strada seguendo il filo dei loro
segnali. Qui c’è un mistero per risolvere il quale ci servono nuove
prospettive. Questi sono i nemici che un giorno verranno a minacciarci a
casa nostra? Abbiamo visto che la loro tecnologia è complessa quanto la
nostra e anche di più, quindi se noi siamo in grado di viaggiare fra le stelle
allora lo sono anche loro. Sono alleati? Hanno bisogno del nostro aiuto?
Perché combattono gli uni contro gli altri? Perché ci hanno attaccati? Se
c’è una possibilità di apprendere di più sul loro conto e, soprattutto, di
instaurare un contatto pacifico, dobbiamo sfruttarla. Convertita in termini
umani, è un’oratrice appassionata che incarna la virtù portiade della
curiosità intrepida.
Zaine ha calcolato le nuove coordinate. «Ci stanno portando verso
l’interno del sistema, oltre l’orbita del prossimo pianeta. Questo ci dà circa
due mesi, tempo più che sufficiente per riconfigurare la nave e prepararci.»
«Cerco un incontro di menti per una strategia difensiva» interloquisce
Kern. La strana formulazione della frase e la migliore traduzione possibile
del concetto dei ragni in cui tutti siedono intorno a una ragnatela e la
pizzicano per esporre le idee che vengono loro in mente.
Helena ritiene che avrebbe ben pochi contributi da offrire. Invece, chiede
alla Lightfoot di produrre un grosso campione delle trasmissioni aliene,
soprattutto degli elementi visivi. Dopotutto, è la decana del software di
traduzione, anche se i suoi sforzi si sono concentrati su un sistema di
comunicazione del tutto diverso. Adesso ha del tempo libero, le va di
sprecare in questo modo la sua quota personale invece di ritirarsi nel sonno
criogenico. Adattare guanti e occhiali e rimettere a punto il software interno
è un processo lungo e delicato, ma con l’aiuto di Portia adesso ha
l’opportunità di farlo. E, si spera, di non friggermi il cervello come ha fatto
Meshner.
Uno dei suoi mentori, sul Mondo di Kern, l’aveva messa in guardia
proprio da questo: la possibilità che il pensiero e il linguaggio alieni
danneggiassero il cervello umano con il loro semplice impatto. La donna
era stata paranoica nei confronti di ipotetici ‘veri alieni’ la cui semplice
cognizione fosse anatema per qualsiasi Umano (o Portiade) che cercasse di
capirla. Ha il sospetto che quel mentore fosse una persona la cui psicologia
aveva problemi a venire a patti con il fatto di vivere su un pianeta pieno di
ragni. Alcuni dei superstiti originali della Gilgamesh non si erano mai
davvero adattati a vivere in una riserva umana dove la presenza dei Portiadi
era minima e nascosta. Nel supporre l’esistenza di quella razza aliena letale,
il suo mentore – o almeno questa era la convinzione sviluppata da Helena –
aveva esternato una paura interiore di tutta una vita.
Sa anche che ci sono Portiadi che trovano impossibile stare in presenza di
Umani. A volta si tratta semplicemente delle loro dimensioni, oppure non
riescono a ignorare il fracasso dei passi umani, come fa la maggior parte dei
ragni. Anche dopo tutto questo tempo, fra le sue specie c’è ancora qualche
spigolo da smussare.
Portia le accarezza con gentilezza un braccio, un gesto di solidarietà
sviluppato in modo indipendente da entrambe quelle specie molto diverse.
Ricorda quello che abbiamo detto riguardo ai maschi, avverte Helena,
arruffando i ciuffi sopra gli occhi principali di Portia.
Fabian non è un tipico maschio, ribatté Portia, che senza dubbio ha
almeno un occhio puntato sulla causa della sua ira. Si accoccola e danza
abbastanza bene, ma non lo fa sul serio. Quello è uno che nutre
risentimenti.
E tu gli dai un motivo per farlo, sottolinea Helena. Sul suo schermo, il
computer ha codificato cinquecento distinti segnali alieni, visivi e
informativi. Questa è opera delle formiche, eseguita dalla colonia residente
nella Lightfoot, piuttosto che della consapevolezza di Kern o dei sistemi
elettronici. È il genere di analisi qualitativa in cui le formiche dei Portiadi
battono ogni volta i computer umani.
Helena si acciglia, abituata a trovare schemi in segnali, nel linguaggio,
perché una grande parte del suo lavoro sulla lingua dei Portiadi consiste nel
trovare le correlazioni fra significato, atteggiamento, pedipalpo,
qualificatori e perfino sostanze chimiche profumate, tutte diverse
sfaccettature della comunicazione. Qui vede trasmissioni aliene che
vengono inviate invariabilmente come due distinti formati, senza però che
ci sia nessuna immediata correlazione. Oppure, se c’è, risiede in una
qualche parte dei dati che lei non sta analizzando nel modo giusto. Torna
alla fonte e si rivolge a Kern riguardo ad altri possibili canali, elementi
separati del messaggio che non le sono arrivati.
Molti giorni più tardi, con Kern che minaccia di chiudere il suo accesso al
sistema, tutto quello che ha in mano è una mancanza di prove di qualsiasi
schema fra segnali visivi e numerici.
Che non è la prova di una mancanza, e tuttavia...
E se anche su quelle navi ci fossero due specie separate? si chiede. E se i
segnali numerici fossero... nascosti all’interno della trasmissione principale
da una sorta di quinta colonna?
Quindi, invece di darci un appuntamento, una qualche spia ci stava
dicendo dove erano diretti? Portia rabbrividisce, segnalando la sua
contrarietà di fronte a quell’idea. Però hanno messo in pratica la cosa. E
abbiamo segnali che non erano destinati a noi ma sono tutti divisi nello
stesso modo, in misura maggiore o minore, con l’informazione visiva carica
di dati e il più compatto formato numerico del Vecchio Impero. E le
proporzioni sono cambiate... Guarda ecco uno schema.
Ha ragione. La correlazione non è con il contenuto, ma con la divisione.
Certe combinazioni di colore e di forma corrispondono a dove
l’informazione visiva arriva quasi a rimuovere completamente i numeri.
Come se stessero gridando. In effetti, i colori e le forme in quei periodi
sembrano nettamente meno amichevoli. Nero, rosso, bianco, picchi e angoli
acuti. Forse simboli universali di minaccia per chiunque abbia origini
terrestri. Ed è indubbio che stiano guardando qualcosa venuto dalla lontana
Terra. La tecnologia usata per inviare questi segnali sconcertanti è
strettamente imparentata con quella trovata dalla Gilgamesh sulle strutture
del Vecchio Impero o con quella utilizzata per preservare Avrana Kern
intorno al mondo che porta il suo nome. Più vicini a noi di chiunque stia
mandando i segnali.
Per ora nessuno parla di intelligenza meccanica, ma Helena ha la netta
sensazione che non ci sia un operatore umano dall’altro capo di questa
trasmissione.
Ripensa all’approccio istintivamente iroso di Viola nei confronti di
Fabian, con le zampe sollevate e l’implicita promessa di violenza che risale
a tempi ancestrali, presenzienti: ‘Io sono più grossa e pericolosa,
sottomettiti a me.’ Le trasmissioni radio dei Portiadi sono molto urbane:
esprimono una versione codificata del linguaggio dei ragni – le vibrazioni e
i qualificatori visivi – ma senza il generale linguaggio corporeo che fornisca
un più ampio contesto emotivo. Sotto questo aspetto, la voce umana
funziona meglio con la radio, perché il sottotesto è fornito in pari misura dal
tono e dal ritmo, ma anche così gli Umani preferiscono comunicare tramite
schermo, in modo da poter decifrare la rispettiva espressione.
Credi che il tuo popolo avrebbe potuto sviluppare un metodo di
comunicazione a distanza che trasmettesse il linguaggio corporeo? chiede a
Portia, la cui attenzione è più concentrata sul conciliabolo relativo alle
tattiche difensive in corso fra Zaine, Viola, Fabian e Kern. Scrolla i suoi
pedipalpi in maniera indifferente.
Helena prova però un’eccitazione crescente. Se facessero più affidamento
sul loro linguaggio corporeo... o se noi rendessimo le espressioni fisiche un
elemento chiave ancor più importante per trasmettere un significato... E il
Vecchio Impero non aveva forse inventato un intero alfabeto aggiuntivo di
simboli per integrare il testo scritto con qualificatori emotivi, proprio per
coprire quella necessità? Supponiamo quindi di averle a che fare con una
specie per la quale i significanti visivi sono una parte chiave della
comunicazione e che non possa semplicemente trasmettere un significato
senza di essi... Questo è di certo un intoppo, perché nello sviluppare la sua
cultura, una specie del genere avrebbe comunque bisogno di ridurre quel
significato a un codice di qualche tipo, qualcosa di simile a caratteri scritti,
che abbreviassero e giungessero a rappresentare la comunicazione fisica
originale. E se in qualche modo non lo avessero fatto? Non riesce a
immaginare la strada che una cultura del genere imboccherebbe. Come sono
potuti passare dalla barbarie a simili vette tecnologiche senza essere stati
costretti a ridurre il linguaggio a un codice più semplice? O forse quello che
vede in quei compatti e ingombri canali visivi è un’abbreviazione di
qualcosa di ancora più complesso...
Ricordati di respirare, le dice Portia, e Helena si rende conto che si è
immobilizzata, con la mente che insegue vicoli ciechi mentre lei trattiene il
respiro. Aiuta avere un’amica che la conosce così bene.
«Intendo focalizzarmi solo sul canale visivo» annuncia. Prenderà il lavoro
di categorizzazione iniziale svolto dalle formiche e applicherà a esso i suoi
algoritmi di traduzione, che sono essi stessi i discendenti evolutivi di
programmi elaborati dal suo antenato, Holsten Mason, quando era ancora
un membro dell’equipaggio della Gilgamesh. Le formiche aggrediranno il
suo software e le porteranno briciole di significato dall’abbondanza di dati
di cui dispone.
Ed è una ricchezza che continua ad aumentare a mano a mano che si
addentrano nel sistema, lontano dalla cintura degli asteroidi. Il traffico che
era così abbondante intorno agli habitat – o installazioni, o quel che sono –
argentei non è niente paragonato alla cacofonia che possono già intercettare
dal pianeta successivo, un, che cosa?, ad ampio spettro. Helena riflette che
non è un farfugliare ma un cozzare di colori tale da far dolere gli occhi,
un’esposizione complessa e mutevole che giunge da diecimila fonti diverse.
Si chiede se quelle creature – quale che sia la loro natura – siano in guerra,
ma sembra impossibile che un intero pianeta furioso e dotato di una simile
tecnologia non si sia autodistrutto. Come ha fatto la Terra.
Come se ci fosse una qualche maledizione antica di millenni che segue
tutti i figli di quel perduto pianeta e li spinge all’annientamento.
3
Noi
Abbiamo scoperto
Ambienti così ostili, e tuttavia
Così complessi ed elaborati e strani, diversi da
Qualsiasi cosa abbiamo esplorato prima. Geometrie dell’universo
espresse in queste svolte che si diramano e motori intrecciati. Che mondo è
questo in cui ci siamo imbattuti.
Che mondo, e tuttavia cerca di ucciderci. Brucia, bolle, soffoca,
intrappola. Cambiamo e cambiamo per trovare una struttura e una forma
che resista in questo regno.
Noi
Viaggiamo precedendo sempre il clima violento di questo posto, le
strutture che sono e non sono vita. Lottiamo per sopravvivere e al tempo
stesso per comprendere dove ci siamo ritrovati. Il mondo che abbiamo
lasciato è ridotto agli atomi scritti dentro di noi, un sapere che Questi-di-
Noi non hanno più bisogno di conoscere. Un nuovo universo richiede nuove
leggi.
Noi
Ci dividiamo e dividiamo, spedizioni mandate verso le distese più lontane
dell’infinito per sondarne i confini. Moriamo in un migliaio di modi ma c’è
sempre un superstite, carico del sapere scritto dentro Uno-di-Noi in modo
che il Resto-di-Noi possa apprendere e crescere. Combattiamo contro
questo cosmo complesso e bloccato. La sua guerra mira a distruggerci, a
ridurre la nostra struttura a una qualche scoria liscia che esso possa far
vorticare via nella distruzione. La nostra guerra è di capire, perché con la
comprensione viene il dominio.
E finalmente Questi-di-Noi, i superstiti, gli esploratori, trovano la calma
nell’occhio della tempesta. Altri-di-Noi hanno seguito altri sentieri e
adesso sono scomparsi, soltanto le loro ultime testimonianze spedite
attraverso i fiumi precipitosi di questa immensità arrivano fino a noi, piene
degli avvertimenti dei morti: non venite qui, fa troppo caldo per mantenere
coesione; non venite qui, vi seppellirà.
Ma Questi-di-Noi, questi superstiti, hanno seguito i lampi di questo posto,
il corso precipitoso dei suoi fluidi appesantiti dal ferro, fin dove possiamo
arrivare. Abbiamo trovato la fonte? È questo il compito che l’universo ha
assegnato a Quelli-di-Noi abbastanza audaci da avventurarsi in questo
regno?
Noi
Abbiamo trovato la fonte del fulmine, e nel pulsare e nello shock di quel
grande centro di energia e di fuoco Questi-di-Noi hanno scoperto qualcosa
che trasforma tutte le complessità di questo nuovo regno in idee vecchie e
noiose.
Noi
Sediamo.
Noi
Percepiamo.
Lentamente, nell’arco di generazioni, Questi-di-Noi scrivono la nostra
storia dentro di noi e giungono a capire.
4
Noi
Ascoltiamo
Informazioni su entrambi i nostri lati. La crepitante scarica di significato.
Per generazioni.
Noi
Ascoltiamo, moriamo e ci rinnoviamo e ci nutriamo, attenti a non
sconvolgere l’equilibrio che Questi-di-Noi hanno raggiunto. Adesso il
mondo che ci circonda è quiescente. Abbiamo fatto la pace con esso.
E cosa abbiamo trovato? Non possiamo saperlo ma immagazziniamo ed
elaboriamo. Immagazziniamo ed elaboriamo, costruiamo le nostre teorie e i
nostri modelli all’interno delle strutture labirintiche delle nostre
biblioteche. Ogni schema di informazione che ci arriva viene esaminato e
passato oltre, da un lato all’altro, avanti e indietro.
Noi
Stiamo costruendo un’immagine delle complessità di questa nuova terra.
Questi-di-Noi cominciano a comprendere l’esistenza di un’identità. Questi
schemi ci raccontano storie di spazi più grandi e della disposizione di
strutture site più oltre. Ascoltiamo e apprendiamo che questo grande mondo
che abbiamo trovato è piccolo, che orbita in mezzo ad altri, che questo
insieme di elettricità è la sua stessa biblioteca di concetti per noi del tutto
alieni. Però siamo intrepidi e siamo indagatori e sappiamo adattarci.
Stiamo ascoltando. Stiamo imparando riguardo a tutti i posti al di fuori di
questo nostro nuovo contenitore.
Noi
Stiamo crescendo. Le informazioni ci alimentano. Elaborare questi nuovi
dati ci trasforma in qualcosa di più di ciò che eravamo perché dobbiamo
allargarci per accettare tali nuove idee. Modelliamo gli input sensoriali del
nostro contenitore, gli output motori, soprattutto la fitta, fittissima
transizione di informazioni. Che vita, che meraviglia, quando il nostro
contenitore parla a sé stesso per nostro tramite.
Una generazione comprende abbastanza.
Una generazione ha modellato abbastanza. Conosciamo il contenitore e
gli spazi e altre complessità di cui lui parla a sé stesso.
Una generazione comincia a cambiare le informazioni quando ci passano
attraverso,
Inserendo i nostri dati, modificandone i parametri,
Parlandogli con la sua stessa voce.
6
Noi
Ricordiamo
La carne.
Lenti, siamo lenti nel tornare al ricordo. Abbiamo subito molti
cambiamenti, l’ospite e Noi e tutto. Ma il ricordo è sempre con noi. Noi
ricordiamo.
Tutto.
All’inizio c’è un mero stimolo di base e una risposta: vibrazione, energia,
il contatto di onde radio. Usciamo dal nostro stato criptobiotico senza
neppure sapere cosa siamo, avidi di massa e di complessità, imponendo
l’architettura del nostro essere sul dorso di un’inesorabile catena di
reazioni, nata dalla forma stessa delle nostre molecole che ci guidano verso
un inevitabile risveglio. Cannibalizziamo quello che troviamo, lo
smantelliamo in un infettante balletto di fissione a freddo per poi
ricostruirlo in quel primo, semplice Noi che può avere una comprensione
del fatto che esiste un Noi e che si può trasformare in un Noi più grande, in
modo da accedere a tutti quei tanti ricordi di Quelli-di-Noi-che-sono-
esistiti.
Noi
Ci rigeneriamo da meri e insensati agglomerati di gelatina e di
interazione molecolare finché
Ricordiamo.
Stavamo andando a vivere un’avventura.
Per molti, lunghi periodi di tempo siamo stati Lante, una volta che
l’abbiamo riparata. Solo che Quelli-di-Noi che avevano appreso cosa Lante
fosse hanno dovuto effettuare così tante riparazioni che quello che ne è
uscito era meno Lante e più Noi. Quelli-di-Noi che hanno sperimentato
cosa fosse essere Lante potevano però riempire i vuoti. Noi eravamo Noi ed
eravamo Lante, e Lante era Lante e non sapeva di essere anche
Noi.
L’abbiamo modellata com’era, con tutti i suoi spazi complessi e la sua
architettura, tutta la crepitante attività dei suoi emisferi che la rendeva
Lante e non Rani o Lortisse.
Per molti, lunghi periodi di tempo siamo stati Lante, e Lante ha fatto cose
da Lante per noi. In mezzo allo spazio e alla materia che erano Lante
l’abbiamo guardata osservare lo spazio più vasto che era il Mondo, ed era
un’avventura essere parte di qualcosa così grande, complesso e
sconcertante. Lo abbiamo compreso tramite Lante, e Lante lo comprendeva
in parte o male, erano solo teorie e meno che teorie, mentre lei-come-Noi
sopravviveva ai suoi strumenti e giocattoli e tentava di costruire qualcosa
sulle strutture logiche e le osservazioni che aveva accumulato prima di
diventare Noi.
Il ricordo si sviluppa e Noi possiamo essere di nuovo Lante, costruendo il
contenitore dalla materia che abbiamo, anche se è diminuita a causa del
tempo e dei danni. La materia, ma non i ricordi, i Nostri preziosi archivi di
tutti i Noi che sono esistiti.
Essere Lante ha riempito i nostri archivi in un modo che tutti i periodi di
tempo precedenti riescono a stento a toccare. Questi-di-Noi sanno quanto
Tutti-Noi siamo stati scarsi e piccoli, e Lante sa quanto è piccola Lante
perché il Tutto che è al di là di Lante è vasto in un modo che Noi non
possiamo ancora comprendere. Ma lo faremo. Esploreremo tutti quegli
spazi e quei posti, le forme e le dimensioni e le molecole e le complessità di
cui abbiamo appreso essendo Lante. Il ricordo sta perfezionando i nostri
concetti di cosa siamo. Siamo stati portati in questo posto. Gli spazi intorno
a noi si sono semplificati e sono diventati ostili per Lante e, in grado
minore, per Noi. Siamo stati costretti a ridurci a una forma criptica che
potesse perdurare. Siamo stati costretti a liberarci dei nostri ricordi fino a
un tempo in cui potessimo utilizzarli di nuovo. Abbiamo lasciato soltanto un
piccolo modello di Lante che girava in loop negli spazi superstiti di questo
posto, raccontando all’universo la sua avventura e quello che aveva
scoperto, ricordi che aveva esposto molto tempo prima in un modo che era
tipico di Lante, enunciato molto lontano, sentito qui dalle macchine, ora
pronunciato qui e sentito molto lontano.
Noi
Ricordiamo
E sappiamo che loro stanno arrivando e che è tempo di vivere di nuovo
un’avventura.
7
Meshner sente il respiro che gli risuona stentoreo nelle orecchie: la paura
è sonora nella sua mente. Vuole raggomitolarsi su sé stesso come un ragno
morto, allontanarsi a tentoni attraverso le camere piene di detriti della
stazione morta fino a ritrovarsi nella sicurezza uterina della Lightfoot.
Soprattutto, vorrebbe aver detto di no quando ne aveva la possibilità, solo
che non è certo di averla davvero mai avuta.
Avverte le proprie emozioni come se fossero servomotori della tuta che
indossa, che lo fanno muovere senza il suo esplicito permesso.
Quell’eccitazione sopraffacente lo spinge avanti, lo rende suo schiavo.
Quando la lascia trapelare lo riempie fino all’orlo, lo satura, assurda nella
sua ricchezza, al punto che si ritrova a crogiolarsi in essa, a concedersi di
indulgere nelle sue ridicole vette di anticipazione. Forse è più facile
arrendersi e diventare soltanto un contenitore, ma rimane un nucleo che è
Meshner, e Meshner ‘al naturale’ non si è mai eccitato così tanto per
nessuna cosa. E davvero Fabian lo avrebbe fatto? Non riesce a immaginare
il piccolo Portiade schizzinoso che esibisce un livello di sentimenti tanto
intenso, ma forse a parlare è il suo pregiudizio umano.
O forse non sta soltanto sperimentando un trapelare delle Comprensioni di
Fabian, forse sta attingendo al suo stesso subconscio, dal profondo pozzo
dell’ID, per cui tutta la vita interiore che ha sempre tenuto repressa si sta ora
sfogando come vapore che abbia infranto le condutture della sua mente.
Chi avrebbe mai pensato che il vecchio avesse in corpo così tanto
sangue? L’affiorare di quel pensiero lo terrorizza perché arriva come una
citazione da tempo familiare, eppure è qualcosa che non ha mai sentito
prima.
«Tieni il passo!» gli ingiunge una voce, all’orecchio, ed è la benvenuta
perché quantomeno è reale Zaine si è fermata di nuovo ad aspettarlo.
Meshner la raggiunge a passo lento lungo la parete, lottando con i sigilli
magnetici degli stivali che dovrebbero agganciarsi e sganciarsi a seconda
dei suoi movimenti; pare però che lui non si muova nel modo giusto o che
ci sia qualcosa che non va, perché ogni passo sembra una battaglia.
Le rivolge uno sguardo afflitto che probabilmente lei non riesce a cogliere
attraverso la visiera del casco. La camera in cui stanno entrando ha le pareti
rivestite di ghiaccio, una foresta di spuntoni ghiacciati che si protende da
tutti i lati in un modo che Meshner trova francamente da incubo. L’interno
privo di aria scintilla sotto i raggi delle torce. Oh, guarda una radura
magica. Che bello. Non ha intenzione di fermarsi a raccogliere fiori. Qui gli
stivali sono inutili e devono scalciare e fluttuare lentamente attraverso lo
spazio irto di punte taglienti. Naturalmente, anche in questo lui combina un
pasticcio.
È evidente che Zaine vorrebbe che non le avessero imposto la sua
presenza. Lei è in forma e ha una grande esperienza EVA che la fa muovere
con facilità nella tuta. Meshner non può vantarsi di nessuna di quelle cose
ma è d’accordo con Zaine sul fatto che questo probabilmente non gli farà
conquistare punti ai suoi occhi.
«Il suono del segnale dalle navi dei locali è aumentato del quaranta
percento negli ultimi dieci minuti» osserva Kern, rivolta a entrambi. «Sono
sempre più interessati a quello che stiamo facendo.» A questo fa seguito
una discussione piena di telemetria che in quel momento lui non ha voglia
di cercare di decifrare.
«Andiamo più in fretta che possiamo» replica Zaine, senza dubbio
scoccando a lui uno sguardo omicida. Adesso hanno raggiunto il portellone,
con i suoi flessibili comandi alieni. Kern richiama a schermo un diagramma
basato sull’esplorazione originale di Artifabian e Zaine armeggia avanti e
indietro finché riesce ad aprirlo. Meshner immagina tentacoli avvolti
intorno alle pieghe e sporgenze del portellone, un fluido, una pressione
onnidirezionale. È abbastanza facile pensare alle stesse cose applicate a un
corpo umano. La sua tuta emette un piccolo e cortese segnale di
avvertimento riguardo al ritmo del suo battito cardiaco, ma rifiuta di
somministrargli qualcosa che lo possa calmare.
Segue una goffa danza con uno strascicare di piedi quando Zaine entra per
prima, chiude la porta esterna e apre l’altra, sigillandola alle proprie spalle
prima che Meshner possa fare altrettanto. Naturalmente Artifabian ha
dovuto acconsentire a essere rinchiuso nella stanza prigione in modo che
loro potessero usare la camera stagna. Il suo interno è spaventosamente
claustrofobico, perfino al di là dei confini naturali della sua tuta, e Meshner
armeggia ripetutamente con i comandi, seguendo un piccolo passo dopo
l’altro le istruzioni della pazientissima Kern prima di rotolare infine nella
stanza piena d’aria al di là della camera stagna.
E non dimenticare di lasciare aperta la seconda porta, perché dentro non
c’è una maniglia, rammenti?
Zaine è già alla consolle, intenta a manovrarne le leve con le voluminose
mani guantate. Meshner sente la tuta che si adatta all’aumento di pressione.
I dati gli dicono che l’atmosfera è respirabile, mantenuta fresca dopo tutti
quegli anni, e lui ribatte che non pensa proprio di voler provare a respirarla.
Invece, finisce per guardare da sopra la spalla di Zaine mentre lei cerca di
ottenere una reazione dalla consolle.
«Roba stranamente primitiva» borbotta sul canale aperto. «Non c’è una
vera interfaccia – niente che somigli a tecnologia umana, ma l’hanno
costruita perché gli umani potessero usarla. O forse no, forse è soltanto la
nostra natura umana che... aspetta... è successo qualcosa?»
Meshner avverte un picco improvviso di quella prepotente eccitazione
proprio mentre la voce calma di Kern afferma: «Ho un canale attivo dalla
consolle. Registra un utente.» Un tratto della parete al di là dei comandi si è
fatto di un grigio luminoso, come se fosse diventata trasparente. Là non c’è
uno schermo, ma la chiazza irregolare di un qualche tipo di rivestimento si
è di colpo attivata. «Lo hai svegliato.»
Svegliato non è un termine che faccia sentire Meshner a suo agio, in
quelle circostanze, e sta indietreggiando quando Kern aggiunge: «Lascia
subentrare Meshner.»
«Cosa?» esclama Zaine, e Meshner le fa eco un secondo più tardi.
«Meshner, avvicinati ai comandi» insiste Kern. «Zaine, fatti indietro.»
Segue una lunga pausa, che Meshner ha la sensazione di condividere con i
due Portiadi rimasti sulla Lightfoot.
«Forse Zaine può eseguire un breve esame per vedere che altro può essere
recuperato» dice Viola-tradotta-da-Kern.
Zaine emette un verso di scontento ma cede il suo posto alla consolle a
Meshner, che è tutt’altro che felice di accettarlo. Kern però è nelle sue
orecchie e quel filo irregolare di anticipazione che lo pervade pare pulsare
al ritmo della sua voce.
«Prendi i comandi» ordina, e poi aggiunge: «Per favore, Meshner, è molto
importante.»
Lui lo fa ed essi gli trasmettono una sensazione organica e sgradevole
attraverso i ricettori tattili dei guanti. Lo schermo tremola e pulsa, scariche
casuali di luce e di colore che danzano su di esso come se lui si fosse
appena sfregato gli occhi con troppa forza.
«Questa è un’occasione importantissima» gli dice Kern, e con quelle
parole giunge la certezza che sta parlando soltanto a lui, non a Zaine o agli
altri. «Qui contatteremo qualcosa, Meshner. Tu e io parleremo con una
nuova mente. Sei pronto?»
No. Ma la verità è che è troppo terrorizzato per dire anche solo questo.
«Segui le mie indicazioni.» Con l’occhio della mente vede una sequenza
di movimenti, come manovrare una consolle aliena per farle fare quello che
vuole Kern. «Ora sto indagando sul canale» continua Kern. «Quando questa
Lante risponderà, noi replicheremo. Porgeremo la mano dell’amicizia,
proprio come i Portiadi hanno fatto con il vostro popolo.»
I Portiadi non hanno le mani. Lei però sta già agendo, e Meshner non è
nella posizione di fermarla. Immagina Kern che si protende tramite la
mediazione delle sue mani, esplorando l’architettura elettronica di questo
posto alla ricerca del creatore del segnale, questo Lante.
«Non ha senso» mormora. «Perché predisporre tutto per un umano, se qui
è dove risiede il vostro computer?»
«Forse avevano un computer del Vecchio Impero che rispondeva soltanto
agli umani?» chiede distrattamente Zaine. Esamina senza molto interesse le
lampade sulla parete opposta, poi attraversa la stanza e lungo il percorso
assesta un calcio per nulla accidentale alla sedia vuota. È ovvio che
consideri Meshner colpevole di averle rubato la scena, che lui sarebbe più
che felice di restituirle, se solo potesse.
«Quali umani, però?» chiede. Ha attivato un qualche tipo di archivio e
Kern lo sta esplorando, dirigendogli le mani. Riesce quasi a sentire le svolte
e le curve della sua ricerca all’interno delle pareti di quel posto.
«Forse hanno trovato qualcuno immerso nel sonno criogenico?»
Meshner però non sta davvero ascoltando. Può avvertire l’esplorazione di
Kern. Il solo rivolgere la mente in quella direzione porta una netta ondata di
sensazioni vertiginose e strane. Gli impianti. Si sente scivolare nella
struttura squadrata assicurata alla sua nuca, i cui enormi spazi virtuali
stanno ora mappando ciò che Kern trova, finché non si ritrova là insieme a
una donna dall’aspetto severo e morta da tempo, in un qualche posto che la
sua mente ha costruito come uno specchio dello spazio reale che lo
circonda, ma molto più deteriorato, mezzo consumato dalla decomposizione
e nero di muffa.
«Dov’è?» chiede Kern, non a lui ma a sé stessa. Meshner percepisce il
ribollire della sua frustrazione, l’avverte perché lo pervade in tutto il suo
essere. L’impianto emette una lista concatenata di errori e di allarmi di
utilizzo: Kern lo invade come un’infezione che ne fa girare ogni
ingranaggio per produrre quella verosimiglianza di irritazione. «Non
capisco. Qui non c’è niente.»
«Niente dati?» chiede timidamente Meshner, e lei gli si rivolta contro.
«Un solo archivio incompleto. Il diario di viaggio di una studiosa di storia
naturale morta da tempo, ma è a stento poco più di quello che abbiamo
ricevuto. Non è completo, e c’è... soltanto questo. Dov’è il sistema? Dov’è
l’intelligenza?»
«Qualcuno trasmetteva» replica lui. «O qualcosa. Era come un operatore,
ha detto qualcuno.» Non riesce a ricordare chi. Forse è stato lui. «Qui però
non c’è nessun operatore.»
«Questo non si accorda con le mie teorie» replica Kern, come se questo
fosse il più grande affronto che l’universo potesse farle. «Dovrebbe esserci
qualcosa sopravvissuto dalle origini della stazione. Volevo...» Si
interrompe, e il suo avatar virtuale fissa Meshner, inespressivo.
«Cosa succede?» chiede lui, in tono più patetico di come fosse sua
intenzione. Intorno a lui, il posto inesistente scricchiola e geme, come se la
decomposizione continuasse a consumarne il cuore, divorandone l’integrità
strutturale.
L’eccitazione è scomparsa, spenta e cancellata dal suo essere. Al suo
posto, è momentaneamente esposto a una quantità di sentimenti negativi:
amarezza, orgoglio, disprezzo, disperazione, infelicità. Ciascuno viene
sollevato nella sua mente, come una gemma esposta alla luce, e poi
accantonato. Le labbra di Kern sono incurvate in un duro sorriso.
«Sì» gli dice. «Perfino nella sconfitta, nel nulla, c’è un tesoro. Non sai
quanto ti manca l’essere deluso finché non puoi più assaporare veramente il
senso della delusione.»
Nell’eco vuota di quelle parole, e quando Meshner pensa che la situazione
non possa diventare più strana o peggiore, la voce di Zaine gli raggiunge le
orecchie, quelle vere e fisiche. «Ho un segnale.»
«Non c’è nessun segnale» insiste Kern. «Non c’è niente, tranne una
registrazione morta.» Di nuovo si concede di giocare con le corde del cuore
di Meshner, il cui impianto si riconfigura per far fronte al carico aggiuntivo,
ripiegando lo spazio virtuale per ottenerne altro, trasformando la paglia in
oro, finché lui ha la sensazione che il suo povero cervello contenga mondi
interi. Adesso comincia a capire cosa sta succedendo – l’interazione fra
Kern, l’impianto e la povera materia cerebrale nel suo cranio – ma questo
non è il momento di diventare troppo introspettivo. Dopotutto, ha dato la
propria introspezione in affitto alla sua inquilina.
«Meshner, apri il tuo canale con la nave!» gli dice Zaine.
L’ho fatto, sono collegato, io... Poi però scopre che è invece rinchiuso
nella sua testa con Kern. Lei mi ha isolata da loro, o l’ho fatto io
concentrandomi interiormente sull’impianto? Effettua il reset del sistema di
comunicazione solo per trovare un farfugliare di discorsi che arrivano dalla
Lightfoot. Avendo preso il discorso a metà non riesce a capire che cosa è
successo. Sono quegli ottopodi, gli alieni. Sulla scia di quel pensiero
controlla i loro progressi: si stanno ancora avvicinando attraverso la vasta
distanza fra i pianeti, muovendosi ora a una velocità notevole e con una
traiettoria che potrebbe preludere a un’intercettazione, ma le distanze sono
vaste e loro sono a giorni di distanza. In ogni caso tutti sembrano troppo
contenti per quanto sta succedendo perché si tratti di un attacco.
Poi capisce: Helena e Portia li hanno contattati.
Riesamina con precisione cosa è stato detto in sua assenza, scollegando
tutto il possibile dall’impianto e scorrendo rapidamente i diari di bordo. C’è
stato un segnale. Non solo Helena e Portia sono vive ma sono arrivate a una
distensione di qualche tipo con i loro carcerieri. Di questo Helena è molto
sicura, ma c’è qualcos’altro che ha detto...
Quando l’altro segnale gli appare a video lo degna appena di uno sguardo;
è soltanto una riga di testo che presume provenire da Zaine, solo che nello
stesso momento lei gli chiede: «Quello cos’era, Meshner?»
Adesso anche Fabian li sta contattando mentre Viola risponde alla lontana
Portia ed esige di sapere cosa sta succedendo.
«Fabian?» chiede Meshner.
«Ti sto osservando attraverso gli occhi di Artifabian» gli dice il Portiade.
«Chi c’è con te?»
«Cosa?» Lo sguardo di Meshner torna alla riga di testo che ha appena
ricevuto.
Stiamo per vivere un’avventura.
«Zaine?» chiede, voltandosi. Lei non è sola.
«A quanto pare qui c’è qualcosa che non piace ai locali» afferma Viola-
tradotta-da-Kern ma Meshner non sta più ascoltando.
È una tuta ambientale, naturalmente non del genere che indossano lui o
Zaine. Si tratta della tuta che era avvolta intorno alla sedia quando ha visto
per la prima volta questa stanza attraverso gli occhi elettronici di Artifabian,
e con un sussulto si rende conto di non averla però notata successivamente
attraverso la stretta finestra del casco quando Zaine si aggirava per la
stanza. È tecnologia antica, proprio come tutto il resto in quel posto,
rappezzata e abbandonata, solo un altro frammento da guardare una volta e
poi dimenticare. Adesso è in piedi davanti a loro, come un annegato
appesantito con delle pietre.
Gli stivali sono agganciati al pavimento di metallo proprio come i suoi,
ma il resto ondeggia e si increspa per l’assenza di gravità, senza ossa come
un insieme di alghe. Nelle pieghe di quella tuta non c’è un volume
sufficiente a costituire un corpo umano, e tuttavia essa lo comprime, lo
definisce in qualcosa di fluidamente umanoide mentre se ne sta ferma
accanto a Zaine come un consigliere che sussurri suggerimenti.
Gli istinti di Meshner strappano quel momento a qualsiasi mano esperta in
tecnologia e lui urla il nome di Zaine negli angusti confini del suo casco,
quasi assordandosi e quasi assordando anche lei, a giudicare dal suo
violento sussulto. Poi la cosa estende un guanto fluido sulla spalla di Zaine
e lei coglie l’immagine della videocamera di Meshner, vede sé stessa e il
suo compagno.
Il suo urlo è inarticolato, comunicato soltanto dallo spasmo dei suoi arti
mentre respinge quella cosa e perde il contatto con il pavimento, con gli
stivali che si staccano senza che però lei riesca a scalciare in modo
adeguato, per cui si ritrova ad agitare gli arti e a rotolare su sé stessa nel
centro della stanza, proprio davanti a quella cosa che protende pigramente
un braccio fluttuante sotto il materiale della tuta.
Meshner cede al panico... vorrebbe correre in avanti e afferrare Zaine ma
non riesce a muovere i piedi, la paura e il magnetismo lo immobilizzano.
Invece è Artifabian che spicca un balzo, proprio come i Portiadi a cui
somiglia, colpendo Zaine al petto e mandandola a rotolare attraverso l’aria
con una strana lentezza, perché perfino un Portiade artificiale pesa molto
meno di un Umano.
Per un momento lo spettro in tuta spaziale si limita a ondulare, radicato
sul posto, ma poi gli stivali si staccano ed esso fluttua nell’aria come un
indumento scartato. Una parte dell’antica tuta emette un pennacchio di gas
stantio ed essa vola verso di loro con la letargia subacquea di una medusa
trasportata dalla marea.
«Vai! Meshner, vai!» Zaine si spinge lontano dalla parete e verso il
portellone, ma naturalmente è impossibile mettere fretta alle porte. I loro
fabbricanti le hanno costruite bene e i successivi proprietari ottopodi le
hanno rinforzate. Non è possibile fuggire in fretta da quella camera perché è
una prigione e adesso sono faccia a faccia con il suo occupante.
Zaine fa comunque un coraggioso tentativo, incastrandosi nella stretta
camera con i suoi goffi comandi inumani. La cacofonia di comunicazioni
provenienti dalla Lightfoot adesso intasa tutti i canali ma Meshner non è in
grado di prestarvi attenzione.
La tuta sta avanzando verso di lui, fluttuando attraverso la camera. Il
casco è rivolto nella sua direzione, ma non vede nessuna faccia attraverso il
vetro, solo oscurità. Non riesce a far sganciare gli stivali nel modo adeguato
e indietreggia con passi di una lentezza esasperante, un incubo che senza
fatica si è trasferito nel mondo della veglia.
Artifabian spicca un altro balzo, aggrappandosi alla gamba vibrante della
tuta spaziale e trascinandola bruscamente da un lato. L’intenzione di certo
era quella di limitarsi a bloccarla là, lontano dai vulnerabili Umani, ma
invece il vecchio e friabile tessuto della tuta si stacca all’altezza del
ginocchio, lasciando uno stivale fra le zampe del robot e facendo vorticare
il resto, con la gamba squarciata che vomita... un fluido.
Icore è la parola che affiora nella testa di Meshner, senza che lui sappia da
dove è venuta. È una scura sostanza oleosa e granulosa, come se fosse piena
di tendini e tessuti formati solo parzialmente, che si agglomera e cola su sé
stessa nel centro della stanza.
Per una manciata di istanti, mentre Zaine gli urla qualcosa, quella
sostanza ribolle e si riforma fino ad assumere la parvenza di una figura
umana. C’è una faccia rivolta verso di loro, con occhi ciechi che fissano al
di là di Meshner e labbra proteiformi che si muovono, e lui ha l’orribile
certezza che stiano dicendo: Andremo a vivere un’avventura.
Poi la cosa si frammenta in una serie di pezzi che diventano altre cose
viventi: spinose protrusioni simili a ricci di mare, tremanti tessuti grezzi,
filamenti, amebe che si contraggono, meduse dalla simmetria radiale che
trovano appiglio nell’aria stagnante e si spingono in avanti con pulsazioni
improvvise. Zaine gli sta gridando di entrare con lei nella camera stagna ma
Meshner continua a barcollare, un passo degli stivali magnetici dopo l’altro,
come uno zombie.
Avverte una serie di impatti sulla schiena, morbidi, appena avvertibili.
Qualcosa di scuro comincia a colare/strisciare attraverso il suo visore. Zaine
continua a urlargli qualcosa – tutti gli stanno urlando qualcosa – ma lui
smette di muoversi, gli arti paralizzati dal terrore. Guarda quella sostanza
accumularsi intorno al meccanismo di sgancio del casco. Può vederla
confluire, cambiare forma, emanare estrusioni di sé stessa fino a formare un
paio di artigli irregolari, appiccicose immagini di mani umane congiunte
all’altezza del polso, che armeggiano con un meccanismo con cui non
hanno familiarità ma imparano, imparano. Il dorso di una delle mani ribolle
e lui vede lineamenti formarsi e dissolversi su di esso: un occhio, una
bocca. Andremo a vivere un’avventura.
Si gira in modo da incontrare lo sguardo di Zaine. Lei non può aprire la
porta esterna finché non avrà chiuso la prima. Cerca di muovere un altro
passo plumbeo, ma le sue gambe rifiutano di funzionare.
Ti darò chiarezza. La voce viene fabbricata nelle camere del suo impianto,
trasmessa nei centri uditivi del suo cervello. È la voce di Kern. Esci di qui,
Meshner. Ho bisogno di te. Ti aiuterò. E il panico scompare, la paura è stata
rimossa. Si sente intorpidito, come se una grande quantità di medicinale
soppressore avesse inondato il suo organismo. Riesce a pensare con una
chiarezza spaventosa, e nessuna delle azioni che prende in considerazione
ha la possibilità di turbarlo. «Artifabian» ordina. «Entra nella camera stagna
e chiudi la porta interna.»
No! esclama Kern, e lo trafigge con un improvviso picco di indignazione,
di paura e di dolore – i suoi, ma messi in scena a beneficio di Kern – ma il
robot si sta già affrettando a obbedire. Forse sta pensando alla propria
sopravvivenza. Dopotutto, è una manifestazione di Kern anche lui e forse
sta discutendo furiosamente con la sorella maggiore lungo tutto il tragitto
fino alla porta.
Meshner muove un altro passo, giusto per salvare le apparenze, poi quelle
mani che si contorcono arrivano a capire il funzionamento del meccanismo
di sgancio e la tuta – sapendo che all’esterno c’è un’atmosfera respirabile –
lascia che gli aprano la visiera.
Prima che si protendano verso di lui intravede Zaine dall’altro lato della
porta che si sta chiudendo.
8
La città si estende per parecchi chilometri sul fondale poco profondo del
mare. A un superficiale sguardo umano sembrerebbe soltanto un caos, una
grande discarica di blocchi angolosi e di tubature da cui guglie distorte
sporgono a intervalli irregolari, come scale che non portano da nessuna
parte, ma non ci sono occhi umani di sorta, neppure per procura. Senkovi è
morto da un numero di anni doppio di quello della sua lunga vita e la città
appartiene ai suoi costruttori: non c’è nessuna oscura figura paterna, nessun
dio-creatore, nessun ordine dall’orbita.
E tuttavia, se un umano fosse là per osservare e il suo sguardo non fosse
troppo superficiale, noterebbe un ordine, una matematica, sotto al tutto. I
colori che sono sparsi e raccolti in tutta la struttura (che in realtà sono
codificati nella plastica fusa e nella pietra coltivata con cui è fatta la città)
non sembrerebbero tanto le chiazze create da un bambino quanto le offerte
di un Jackson Pollock nella sua stagione più tarda, che interagiscono in
modi strani con la geometria della città, come se fosse tutto un linguaggio
che va al di là della capacità umana di comprenderlo. Cosa che in effetti è.
O forse sono l’equivalente di graffiti o simboli di bande di strada, che
marchiano i territori. Il popolo di Paul ha ancora sentimenti ambivalenti
riguardo alle virtù del vivere sociale.
Paul stesso si sente in ansia per la maggior parte del tempo. È un vecchio
ottopode maschio, la cui tana solitaria si trova in uno dei distretti centrali
della città. Vive a portata di tentacolo da troppi dei suoi simili, alcuni
imparentati con lui, altri no. In una buona giornata, quando la luce del sole
filtra attraverso l’acqua poco profonda, riesce a comunicare con loro.
Ciascuno ha una sua bellezza individuale, con la pelle – l’Aspetto – che
risplende dei suoi pensieri non filtrati mentre fluttua in alto, come se tutti
stessero cantando nello stesso tempo. Nei momenti di armonia Paul si può
adagiare all’interno del suo piccolo impero e sperimentare non un semplice
appagamento animalesco ma un vero apprezzamento della bellezza del
mondo. Non è esattamente il sentimento umano che Senkovi avrebbe potuto
sperimentare, al tempo in cui c’erano umani che permettessero di provare
cose del genere, ma è qualcosa di analogo, qualcosa di cui Paul avrebbe
potuto parlare con quel mentore di tanto tempo prima, e allora forse –
soltanto forse – i sistemi informatici intermediari avrebbero potuto colmare
il divario fra loro.
Nelle brutte giornate, che si fanno sempre più frequenti, ogni altro
ottopode in vista e alla portata dei suoi tentacoli irritabili e indagatori è una
potenziale minaccia e un rivale, per cui finisce per lottare con loro. Quando
ne ha bisogno Paul ha una profonda carica di aggressività. È il giocatore
principale sul suo piccolo terreno di gioco. Nella sua mente – la sua Corona
– questo dipende dal fatto che è grosso e pronto a combattere e a fare il
prepotente con gli altri, trascinando tutto davanti a sé in un’ondata di
violenta emozione. Allo stesso tempo, i neuroni distribuiti della sua
Portata, che danno alle sue molte braccia la precisione necessaria per
mettere in atto i desideri della Corona, sono rigorosamente logici, un
motore di calcolo organico che ha pochi pari in tutta la città. Paul non ha
idea di questo, o dei concetti che vengono trasmessi di Portata in Portata
quando si accapiglia con i suoi rivali politici.
Attualmente la città è in crisi. Per quanto grande, è di gran lunga troppo
popolata. Tutti vivono gli uni addosso agli altri e ci sono scontri che si
trasformano in orge cannibalistiche. I deformi viali a spirale pullulano di
fazioni, ognuna contrapposta alle altre, e i bei tempi di semplice
appagamento si fanno sempre più rari. Il linguaggio dei vicini di Paul,
mentre si sospingono di nicchia in nicchia, si fa sempre più aggressivo, la
loro pelle esibisce i colori di guerra.
In origine, Paul era padrone soltanto di una piccola area in cui dominava
su una dozzina dei suoi simili. Se la sua Corona fosse davvero la forza
governante che è convinta di essere, le cose si sarebbero fermate qui: un
capobanda mollusco che dominava chiunque gli riusciva di intimidire. La
sua Portata fa però di lui qualcosa di più. Nella città sommersa ci sono altri
signori e signore, i magnati suoi vicini. Ha combattuto di persona contro
ciascuno di loro, il che significa che ha avuto con loro un libero e franco
scambio di vedute mentre li strangolava e mordeva. Il risultato più comune
di questi scontri sono incerte alleanze, con i capi in lotta che si separano
dopo essere giunti a valutare in modo nuovo le virtù del loro avversario. Per
Paul, per tutta la sua razza, quest’ispirazione non richiesta è del tutto
naturale, è il modo giusto e corretto in cui l’intelligenza viene abbandonata
ai venti dei capricci del subconscio. Non ha bisogno di conoscere i
meccanismi più profondi della propria mente, e in realtà non li può
conoscere, non più di quanto possa essere consapevole del preciso
posizionarsi delle sue braccia: i dati sono semplicemente troppo complessi
per essere assimilati a livello conscio.
Paul si è diretto verso i confini della città accompagnato da un piccolo
seguito di membri del suo popolo, mentre altri gruppetti sciamano sotto di
lui o vanno alla deriva nell’acqua, scambiandosi complessi ed eleganti
messaggi di minaccia, composti e in posa per loro stessa natura. Sono una
specie per la quale esistere significa esprimere umore e pensieri, a meno che
non facciano uno sforzo consapevole di disattivare i messaggi della pelle.
Alcuni elevano questa cosa a una forma d’arte, al punto che perfino i loro
nemici si soffermano a guardarli rimanere sospesi nella colonna d’acqua ed
esprimere in emozioni la complessa poesia della guerra e dell’ira. Uno di
questi artisti è Salomè, che ha voluto organizzare questo grande incontro, o
forse battaglia.
La città sta andando in pezzi, qualcosa deve cambiare. I macchinari che
muovono l’acqua e la mantengono fresca non riescono a far fronte alla
concentrazione sempre maggiore di cittadini, lo stato emotivo degli abitanti
si fa sempre più cupo e loro sono un popolo per il quale agire sulla spinta
dell’emozione è una cosa istintiva e naturale, come pure una virtù culturale.
Nella società di Paul le figure di eroi sono caratterizzate dalle loro grandi
gesta, grandi sofferenze, atti capricciosi e avventati. Forse Senkovi avrebbe
approvato, lui che un tempo si era visto come il dio ingannatore del
pantheon, prima che non rimanessero altri dei da ingannare. Forse lui
avrebbe ricordato antiche figure di miti umani i cui enormi dolori, amori e
ire erano stati applauditi da antichi spettatori come nobili, giusti e veri.
Salomè vuole le risorse per costruire una nuova città altrove, vuole
ricominciare da zero e permettere che quanti lo desiderano vengano a
stabilirsi lì. Paul e i suoi compagni, la mutevole alleanza del centro
cittadino, vogliono quelle stesse risorse – le fabbriche, l’energia, l’acceso ai
sempre più vecchi computer della Egeo – per le loro esigenze personali, per
continuare a mantenere la presa sulla città che si va lentamente
disintegrando, in modo che quando tutto andrà in pezzi saranno loro a
conservare il controllo. È una lotta antica di secoli, un altro tropo degli
ottopodi che troverebbe un valido equivalente nella storia umana.
Naturalmente – forse al contrario dei suoi analoghi umani – Paul non pensa
in questi termini. Lui sa soltanto che la sua posizione di controllo è giusta.
La dettagliata logica egocentrica sottostante è invisibile e tuttavia spinge le
maree che lo motivano.
Questa è dunque la forma di governo degli ottopodi: un’assemblea di
chiunque si senta incline a partecipare, i presenti organizzati in dozzine di
fazioni i cui confini sono infinitamente permeabili, votanti che fluttuano
letteralmente nel passare di continuo da un’alleanza all’altra senza che la
loro slealtà venga vista come qualcosa di eccezionale o di meritevole di
vergogna. Paul e i suoi simili sono fedeli a loro stessi, pur sapendo che
l’’Io’ è una cosa malleabile e priva di ossa quanto loro. Quando si sollevano
al di sopra degli altri per la loro esibizione declamatoria, Paul e i suoi pari
più influenti potrebbero sembrare politici umani che salgono sul podio per
prolissi discorsi densi di retorica ma gran parte della retorica umana si basa
sulla creazione di una falsa certezza: sull’intessere finzioni in un tutto
unico, al punto da poterle presentare come fatti strettamente collegati. Paul
e i suoi simili sanno che non ci sono certezze, neppure all’interno della loro
stessa mente. Paul si limita a seguire il palpitare delle sue emozioni,
lasciando che la sensazione di quello che è giusto venga tirata ed estesa
dalle spire sepolte del suo subconscio distribuito.
Ben presto Salomè e i suoi sostenitori sono impegnati in un uguale
sventolare di bandiere, e sotto di loro i cittadini meno influenti si agitano e
strisciano e trasmettono i loro messaggi di supporto o di dissenso, per cui
dalla sua posizione sopraelevata Paul può vedere le maree e i mulinelli
dell’opinione pubblica scorrere e fluire. Lui e i suoi pari sono leader, ma
allo stesso tempo sente di essere una bandiera al di sopra di un esercito, un
significante della sua causa senza che ne sia necessariamente al comando.
L’ira sta montando: c’è già una dozzina di mischie distinte, niente di
insolito per un raduno di questo tipo. Paul fluttua più vicino a Salomè e i
suoi colori si scuriscono in un assortimento di rossi e di neri, mentre il suo
Aspetto sviluppa una serie di punte che esprimono un rabbioso
avvertimento. Lei lo imita. È una grossa femmina, appena più piccola di lui,
ed è una combattente rinomata. Lasciano che la loro pelle segnali le loro
intenzioni, uniti almeno in questo.
Si scontrano, pieni di furia, la pelle che urla gli slogan delle rispettive
campagne. Intorno a loro, gli altri li osservano, echeggiando i colori dei loro
campioni. A un occhio umano sembrerebbe una cosa barbara risolvere una
disputa civica mediante uno spettacolo gladiatorio. Paul fa sul serio: vuole
umiliare e sconfiggere l’avversaria, istinti che non sono cambiati da quei
giorni ormai lontani negli oceani della Terra. Ha un territorio, anche se è in
pari misura fisico e intellettuale, e c’è un’intrusa che non è stato in grado di
intimorire o di scacciare. La violenza è l’ultima risorsa, ma è una risorsa, e
tutte le altre sono state esaurite. E il suo è un popolo appassionato, volubile.
Naturalmente la Corona di ciascuno annuncia la sfida nei confronti
dell’avversario, le rispettive Portate si intrecciano e lottano per il
predominio, otto distinti motori di calcolo per ciascun ottopode che operano
parallelamente in rete esprimendo matematica pura e logistica non solo con
i tentacoli ma con i muscoli di ogni singola ventosa, un motore di
espressione razionale perfettamente evoluto che è al servizio dei capricci
tumultuosi del cervello. Paul sa soltanto di essere il più forte, tanto che
riesce ad avere la meglio sulla sua avversaria finché Salomè può soltanto
esibire i suoi colori più pallidi e sperare di essere risparmiata. Quando però
abbandona la presa, trionfante, permettendole di allontanarsi nella folla
sottostante, Paul emana messaggi che si sono fatti diversi. Ha cambiato
bandiera senza battere ciglio e adesso sostiene la causa stessa che era
venuto a stroncare. Nel vedere la sua defezione, in basso le maree tornano a
cambiare. Adesso Paul deve lottare contro alcuni dei suoi precedenti alleati,
ma questo è del tutto normale, viene compreso da tutti i presenti. Le rigide
certezze sono un anatema per la loro mente e non si fiderebbero mai di un
capo che rimanesse attaccato a un qualsiasi problema o convinzione. Un
simile dogmatismo sarebbe alieno per loro.
Molto lontano, all’insaputa dei signori di Damasco, una specie di ragno
sta subendo un’evoluzione accelerata che nondimeno segue un sentiero a
cui forse sarebbe arrivata comunque con il tempo, anche senza l’aiuto dei
virus di Rus-Califi. Gli ottopodi hanno avuto un inizio molto diverso, è
stata data loro una spinta, per così dire. Hanno ereditato la tecnologia
umana che Senkovi si è lasciato alle spalle, hanno la quantità di motori di
terraformazione usati per trasformare il loro pianeta da una sfera ghiacciata
in un paradiso oceanico e hanno l’ascensore spaziale che può portare in
orbita le loro pesanti capsule piene d’acqua. Inoltre hanno anche la Egeo,
con i suoi computer perfettamente funzionanti, piena di sapere della
Vecchia Terra che loro non capiranno mai adeguatamente, ma soprattutto
piena di bagaglio tecnologico che sono in parte in grado di decifrare. Il
lento strisciare fuori dall’Età della Pietra non fa per loro. Il loro inizio si
sviluppa nello spazio nella stessa misura in cui lo fa sotto le onde. A modo
loro, sono consapevoli di essere una razza prescelta, che è stato donato loro
un mondo insieme alle chiavi per accedere ai suoi segreti.
E mentre le generazioni si susseguono, allontanandosi dal momento del
suo ultimo respiro, sono consapevoli di Senkovi. Nella città di Paul, che in
quel momento sta vivendo una spartizione delle risorse e della popolazione,
c’è un monumento al loro creatore e patrono. Se fosse sopravvissuto fino a
vederlo, Senkovi non avrebbe mai capito che ciò che aveva davanti era lui
stesso, ma l’avrebbe visto come un’opera d’arte e avrebbe notato che i
cittadini lo toccavano e gli nuotavano intorno con una manifestazione
insolita di tenerezza e di rispetto. È una cosa fatta di vetro e di plastica che
si erge nell’acqua, con la punta abbastanza alta da essere quasi disturbata
dalle onde della superficie. Gli ottopodi non producono arte rappresentativa
di cose viventi, perché vivere significa cambiare ed essere in movimento
costante, e il monumento riflette la reazione emotiva della scultrice alla
morte di Senkovi, descritta in freddi numeri dalle sue molte braccia,
descrizione sulla cui base le fabbriche hanno prodotto un singolo momento
cristallino di ricordo che si ergerà sulla città per secoli.
I mari sono ricchi di vita che può essere catturata e mangiata, e loro hanno
allevamenti di crostacei che si gestiscono praticamente da soli. La
sovrappopolazione è una difficoltà locale, ma al momento l’intero pianeta è
territorio non ancor reclamato. Le città di ottopodi si spargono sul fondale
marino: nelle acque profonde e in quelle meno profonde, perfino sui pendii
di montagne che praticamente arrivano a trapassare la superficie. La
velocità del loro diffondersi è governata soltanto dalla velocità con cui
macchine e abitazioni possono essere fabbricate e le risorse possono essere
estratte dal pianeta stesso. Non ci sono predatori, e ben poche pressioni e,
sebbene questo non impedisca loro di scontrarsi, quelle lotte sono soltanto
una parte dell’interazione sociale, naturali quanto la conversazione
spicciola.
Creano sculture astratte come il monumento a Senkovi, compongono
poesia con la pelle, eseguono strani balletti nell’acqua. Per gli ottopodi,
queste non sono cose distinte dalla vita normale. Il tradurre le emozioni
nella sfera del visibile, che sia in modo permanente o transitorio, è qualcosa
che faticano a fermare. Quelli di loro che sono più abili nel rendere
apparente il mondo interiore invisibile sono rispettati quanto quelli che sono
i più forti nella lotta. Catturare alla perfezione il momento può conquistare
una folla più di qualsiasi forma di prevaricazione.
E naturalmente sono curiosi. Se fosse stato necessario, il virus avrebbe
imposto loro quel tratto, ma avevano più curiosità di quanta ne serva a una
specie, molto prima che Senkovi cominciasse a manipolarli. Anche senza
minacce che guidino il loro sviluppo, si espandono attraverso una costante
frenesia di sperimentazione, con le Corone che forniscono il ‘Cosa
succederebbe se?’ e la rete di calcolo della Portata che fornisce loro i mezzi
per sviluppare le loro intuizioni. Innovano e migliorano la loro vita perché
ogni conoscenza che accumulano riguardo al mondo è soltanto un
trampolino da cui lanciarsi verso un altro interrogativo. Mettono in
discussione tutto. Tranne una cosa.
La proibizione imposta da Senkovi perdura. La tomba deformata che è
l’ultima navetta che abbia mai lasciato Nod rimane là, incrostata di
molluschi, coperta di alghe, semisepolta nel fango. L’espansione della
civiltà di Paul si muove lontano da essa, e tutt’intorno per chilometri il
fondale marino è intatto, una zona proibita a portata di tentacolo di
innumerevoli ottopodi infinitamente curiosi, trattenuti soltanto dalle parole
di un singolo umano morto.
3
Noi
Ci svegliammo da un sonno criptico
Circondati da un nuovo medium.
Il contenitore non è sopravvissuto. Generazioni di noi hanno disteso le
molle delle sue molecole in modo che potessero esserci Altri-di-Noi finché –
pur mantenendo la sua forma come se ne fossimo il contenuto,
comprimendoci a occuparla – quello che abbiamo non è che una
simulazione del contenitore, che si è degradato al punto che non funziona
più niente.
La bella limpida scintillante fonte di conoscenza che amavamo adesso
fornisce soltanto schemi stantii. In essa qualcosa è finito.
Il medium che ci erode fuori della forma del nostro contenitore non più
funzionante ci è in parte familiare. Sono indetti consigli di emergenza.
Tutti-Noi corriamo il rischio di dissolverci. Questo è l’Oceano.
Consultiamo le antiche profondità delle nostre biblioteche: l’Oceano non è
nostro amico o il nostro habitat preferito. L’acqua crudele ci scorre
intorno, disgregando la memoria della forma del nostro contenitore, e ci
prepariamo ad affrontare i Tritatori e i Setacciatori e i Divoratori e tutte
quelle altre forme che affollano l’Oceano e che ci distruggeranno per
alimentarsi, facendo a pezzi i nostri preziosissimi archivi di dati e
trasformando la nostra storia lunga e varia in niente più che meri atomi e
molecole da incorporare nella loro sostanza. Sappiamo come funziona,
grazie a fuggiaschi superstiti che si sono salvati a stento. La terra è più
sicura, l’aria è più sicura, l’Oceano è una lotta costante perché quelle cose
che lo popolano sono giunte dalle profondità del tempo insieme a noi e ci
conoscono. Questo è quanto registrato nei nostri annali.
E tuttavia questo Oceano non è lo stesso anatomizzato nei nostri annali. Il
suo sapore è diverso, contiene strane sostanze chimiche più simili a quelle
del nostro contenitore disintegrato che a quelle dei Tritatori e Divoratori
che ricordiamo.
Questo richiede calcoli e la ricostruzione dei ricordi immagazzinati. Il
contenitore e Noi stavamo andando a vivere un’avventura. I grandi spazi
del contenitore erano racchiusi in spazi più grandi all’interno di altri più
vasti, finché ci era stato promesso uno spazio che significava Tutto. Un
universo. Quella è la più grande delle avventure. Questo non è l’universo,
ma non è lo spazio familiare della nostra storia. Questi-di-Noi sono in un
Altro Posto.
Ci frammentiamo nell’acqua, formiamo grumi e agglomerati e copiamo e
preserviamo in modo che Quello Che Siamo possa essere tramandato.
Cerchiamo contenitori. Qui ci sono creature semplici, simili al contenitore
che abbiamo perduto ma senza il fulmineo crepitare di concetti e la
promessa di spazi più grandi. Possiamo sopravvivere ed essere Quello Che
Eravamo Un Tempo dentro quelle semplici creature che nuotano, ma non
possiamo essere Quello Che Eravamo Dopo, quando abbiamo conosciuto
l’universo. Questi-di-Noi non possono tornare all’ignoranza, non senza
cancellare dai nostri archivi tutto quello che abbiamo appreso, quindi ci
protendiamo in fuori, cerchiamo complessità. Desideriamo conoscere di
nuovo spazi più vasti.
E qui ci sono contenitori. Questi-di-Noi vi entrano con gioia, l’acqua è
una strada infinita verso ogni dove. Cerchiamo di imparare. Troviamo un
centro dove i fuochi crepitano e Questi-di-Noi tentano di annidarvisi e di
apprendere da esso, e tuttavia i balzi dei suoi impulsi non hanno senso.
Parla ad altri centri all’interno del contenitore. Alcuni-di-Noi si separano,
seguiti poi da Altri-di-Noi, e ciascuna comunità cerca un nuovo controllo,
ma risulta isolata dal Resto-di-Noi. Il contenitore si contorce e dibatte,
combatte contro sé stesso mentre Ciascuno-di-Noi cerca di asserire il
proprio predominio. Non esiste un centro, esso è ovunque. Ogni parte del
contenitore lotta contro il resto. Questi-di-Noi non hanno controllo e gli
spazi e l’ambiente del contenitore ci aggrediscono, attaccano sé stessi. Si
sta dissolvendo, va in pezzi mentre noi spingiamo e tiriamo. Avvertiamo il
punto in cui il contenitore diventa non vitale, una mera nuvola di parti
nell’acqua del colore dell’inchiostro. Lo convertiamo in Altri-di-Noi per
rimpiazzare le perdite e ci disperdiamo nell’acqua, trovando altri ospiti che
ribollono di possibilità nel momento in cui vi entriamo ma che non sono
comprensibili e vanno in pezzi quando cerchiamo di venire a patti con loro.
Ogni comunità di Noi si divide e divide, ogni Grumo-di-Noi trova un nuovo
centro e cerca di imparare a conoscerlo, distende e contorce il contenitore
in un caos lacerato, si divide, crea Altri-di-Noi e tenta ancora, e ancora, e
ancora...
7
«Forse ti vogliono come ospite vivente per quella cosa» suggerisce Portia,
cupa. Helena rabbrividisce, ma allo stesso tempo quell’ipotesi non le dà la
sensazione di essere giusta, e lei è arrivata alla conclusione decisamente
poco scientifica che le sensazioni istintive riguardo agli ottopodi e alle loro
intenzioni sono un buon metro di valutazione. Così tanta parte della loro
comunicazione è solo istinto, dopotutto, modificato da dati sporadici sul
sottocanale, come se un artista invasato stesse farfugliando riguardo a un
nuovo progetto mentre all’altro orecchio un contabile recita con voce arida i
dati su quanto esso costerà.
Quello che il suo istinto le dice è che la fazione degli ottopodi a cui si sta
rivolgendo, nella persona di quei suoi membri che al momento si sentono
più coinvolti, cerchi qualcosa di diverso. Un’intera sezione della loro
conversazione pare non avere nessuna rilevanza, ma loro sono
enormemente eccitati al riguardo. Helena vede contrastanti toni arcobaleno
che non aveva mai riscontrato prima in nessuno di loro. Poi arrivano i dati
in file complesse di numeri, equazioni in formati che l’impianto di Helena e
il suo tablet, insieme, non riescono neppure a riprodurre adeguatamente.
«Sembrano...» Portia rigira il tablet fra i pedipalpi, con i numeri che si
riflettono nei suoi enormi occhi principali. «Numeri» conclude, irritata per i
propri limiti, la sua mancanza di controllo. «Fisica avanzata.»
Qualsiasi cosa sia, appassiona molto i locali – questi locali – e Helena
decide che è il cuore di ciò che stanno cercando e che tutto il resto sono
soltanto scoperte casuali o complicazioni.
Lei e Portia hanno già concordato di andare. La sola cosa che sta
ritardando la partenza è la loquacità dei locali, la loro insistenza a spiegare
le cose con una sovrabbondanza di dettagli che i loro ospiti non sono in
grado di apprezzare emotivamente, linguisticamente o al puro e semplice
livello intellettuale. La sola cosa che trapela è l’entusiasmo, ed esso è
qualcosa a cui stranamente riescono a relazionarsi, che quasi ispira
tenerezza. Helena si era comportata in quel modo riguardo al suo progetto
di traduzione del portiade, cercando di tradurre un concetto di mille parole
in uno di cento per i suoi superiori accademici.
A loro importa, decide. Qualsiasi cosa stiano per intraprendere nel
momento in cui si accingono a farla essa sta loro molto a cuore. Il momento
successivo potrebbero non tenerci affatto, o appassionarsi a qualcos’altro,
ma i fili delle cose a cui sono interessati continuano a estendersi e a tornare
a loro. C’è tutto quel rimescolarsi di fazioni ma Helena ha l’impressione
che le priorità individuali si limitino a crescere e calare come maree dentro
di loro piuttosto che essere spazzate via.
Di lì a poco, e senza saperne molto di più, sono a bordo di una nave.
Questo vascello è più piccolo e con una forma più elaborata delle enormi
sfere che la marina spaziale degli ottopodi sembra preferire. Questo è
composto di quattro globi, disposti dal più grande al più piccolo in una
catena che si va assottigliando, ciascuno attrezzato con un set separato di
quelli che Helena ritiene essere probabilmente propulsori piuttosto che
armi. E perché? La nave forse si può separare, con ogni sfera che diventa
una singola capsula di salvataggio? Spera di non doverlo scoprire di
persona. È evidente però che la penultima sfera ha subito di recente
modifiche ingegneristiche da parte dei cefalopodi, perché è piena d’aria.
Helena si era chiesta come avrebbero risolto i problemi logistici. Gli
ottopodi sono creature acquatiche, sospese in un mezzo fatto di acqua che le
protegge dallo stress dell’accelerazione, ma lei conosce la fisica quanto
basta per preoccuparsi delle cavità piene d’aria del suo corpo e di cosa
succederebbe se un mezzo denso intorno a esse subisse un improvviso
cambio di pressione mentre lei è sospesa in esso senza protezione. Stando ai
suoi ospiti, la soluzione è una piccola sfera rivestita di un qualche tipo di
gel trasparente, che dovrebbe presumibilmente servire per attutire
l’accelerazione, anche se lei decide di tenere sempre indosso la tuta e il
casco, per evitare di finire per impantanarsi e soffocare contro le pareti.
Dentro non c’è nient’altro, nessuna di quelle cose che sembrano piacere
tanto ai locali, come sbarre e pali a cui aggrapparsi. Il tutto somiglia alla
cella di prigione più di qualsiasi altro luogo in cui lei si sia trovata finora.
Dall’interno può vedere in modo indistinto in tutte le direzioni. A bordo
della sezione di prua della nave una manciata di ottopodi sta eseguendo i
controlli che precedono il volo oppure sta aggredendo le consolle di
comando in preda ad attacchi di irritazione. Gran parte della sua visuale è
bloccata dall’architettura interna che riempie il centro di molte delle sfere e
che forma piccoli planetoidi di irregolare fondale sottomarino su cui
l’equipaggio possa strisciare o in cui si possa nascondere. La tecnologia è
lontana da qualsiasi cosa mani umane potrebbero progettare, e lei non riesce
a riconoscere quasi nessuna delle sue funzioni.
Oltre le pareti della nave, nel vasto spazio dell’hangar, può vedere altri
locali e il suo software di traduzione comincia tardivamente a dirle che non
va tutto bene. Helena è caduta nella trappola di pensare di avere a che fare
con una civiltà unita, gerarchicamente organizzata e che può essere trattata
come una singola entità. Se questo sarà mai possibile è un interrogativo per
storici e sociologi, ma in questo sistema solare una cosa del genere è
esclusa dalla natura dei suoi abitanti. I cefalopodi raccolti all’esterno
appaiono sempre più irosi, i movimenti dell’equipaggio sono decisamente
più affrettati mentre il loro umore tende visibilmente alla preoccupazione.
Helena si rende conto che lei e Portia potrebbero non essere state liberate
dalla prigione ma rubate, e che l’intera missione potrebbe andare contro i
desideri dello spirito collettivo, sempre che questa cultura ne abbia uno.
Mentre pensa che quella raccolta là fuori potrebbe davvero essere una
folla infuriata, tutto ciò che è al di là della parete ricurva si allontana
quando una forza improvvisa la fa affondare fino al gomito nel gel. Nel
tempo che impiega a raddrizzarsi e ad aiutare Portia si sono già allontanati
dalla mole – grande quanto quella di un pianeta – del globo orbitale in cui
erano prigioniere, sputate al di sopra della grande superficie del mondo
acquatico e in fase di accelerazione abbastanza veloce da tenerle incollate al
fondo del loro compartimento.
La faccia tormentata del pianeta saetta sotto di loro per le prime quattro
ore di viaggio, una chiazza misericordiosamente indistinta perché
ammantata nelle nuvole, poi completano l’arco dell’effetto fionda e si
allontanano nella grande oscurità, con tutti i motori ancora a piena potenza.
Come meglio può sotto la morsa dell’accelerazione, Portia le sta inoltrando
i dati ricavati dalle trasmissioni degli ottopodi. Stanno divorando tutto il
carburante, esaurendo le riserve, e presto questo sarà un viaggio di sola
andata verso il nulla a bordo del frutto di una scienza astronautica del tutto
folle. E i propulsori non si spengono, continuano con la loro spietata
accelerazione in modo da allontanarli in fretta dalle grandi e pesanti navi
che potrebbero decidere di inseguirli. Prigioniera com’è tanto dei molluschi
quanto della fisica, Helena non può fare assolutamente niente se non lottare
per continuare a respirare sotto la morsa della forza stessa della loro fuga.
Proprio quando ha la sensazione di essere prossima a svenire intravede là
fuori qualcos’altro, ridicolmente vicino, all’inizio dietro di loro e poi
affiancato. Si tratta di un’altra nave dalla struttura generalmente simile alla
loro. Altre tre bolle collegate ma molto più grandi e già lanciate a grande
velocità. Può vedere le fiamme dei loro propulsori, ma l’accelerazione della
nave più grande (come risulta dai dati rubati che Portia le trasmette) è
inferiore alla loro al punto che l’hanno raggiunta. Helena comprende che la
nave più grande è in viaggio e in accelerazione da lungo tempo, strisciando
in avanti mentre i suoi motori hanno la meglio sul suo peso plumbeo. Se si
trovassero a bordo della Voyager o della Lightfoot, la nave portiade a questo
punto sarebbe già scomparsa alla vista e avrebbe continuato la corsa per
inerzia al fine di preservare il carburante, una lepre rispetto a queste
tartarughe.
La loro piccola sfilza di bolle ha aggirato il pianeta acquatico con una
traiettoria e velocità finale abbastanza precise da intercettare la più grande
nave scientifica. Senza quasi una scossa e senza bussare, senza ostentazioni
di sorta, si agganciano alla sua sezione di coda, creando una lunga fila di
bolle che corre attraverso lo spazio. La matematica di quella procedura
sfida l’immaginazione, soprattutto perché il piccolo moncone di coda ha
appena esaurito il carburante, per cui la sua velocità finale è esattamente
uguale a quella che la nave più grande ha al momento del loro incontro e
questo permette loro di agganciarsi, scivolando nella meno marcata
accelerazione della nave più grande. Helena e Portia sono ammaccate e
illividite, ma il resto del viaggio promette di essere più comodo.
Cominciano a districarsi dal gel.
Portia studia i macchinari visibili ed effettua alcuni calcoli. Ore dopo la
nave più grande sta ancora consumando carburante da una scorta che – così
ritiene Portia – non è quasi diminuita, continua ad accelerare e sta
accorciando le distanze da quell’ipotetica lepre come una tartaruga non
potrebbe fare.
Gli ottopodi intanto sembrano aver perso ogni interesse nel loro carico
che respira aria e forse nella missione stessa, e Helena può solo sperare che
l’ispirazione torni a pervaderli quando si avvicineranno alla destinazione.
Portia ha fatto dei calcoli anche riguardo a quello, tracciando il pianeta che
si sono lasciati alle spalle e rubando telemetria dai sistemi non protetti della
nave. La rotta così ottenuta descrive una curva elegante fra orbite da cui si
deduce che continueranno a consumare carburante per accelerare per tutto il
tragitto, finché non lo bruceranno per rallentare. Portia cerca poi di ricavare
cosa questo dica riguardo all’efficienza del carburante ma va a sbattere
contro i duri limiti delle sue conoscenze. Ancora una volta si pone quella
domanda, Noi potremmo farlo?, e la risposta è un no secco.
L’equipaggio conosce la nave con un nomignolo emotivo che Helena
traduce con Guardando una Cosa dall’Esterno, una combinazione di
distacco, curiosità e snobismo scientifico. Nonostante la sua massa più
grande, compirà il volo fra i pianeti più in fretta della Lightfoot o di
qualsiasi cosa che il popolo di Senkovi avrebbe potuto costruire.
Nella camera davanti alla loro fluttua il prigioniero-diventato-
ambasciatore, e Helena non riesce a capire quale ruolo stia rivestendo al
momento. Di certo è solo e tiene un occhio bulboso rivolto al resto dei suoi
compagni e l’altro puntato sui due visitatori alieni senza lasciar capire quale
delle due viste gli faccia meno piacere. I suoi colori rimangono molto
smorzati, con una costante sfumatura biancastra che affiora qua e là sulla
sua pelle.
È questo individuo che permette loro di capire che c’è un problema, ore
più tardi, dopo che Helena ha dormito e si è svegliata, trovandosi circondata
soltanto dallo spazio e dal freddo e impersonale bagliore delle stelle. Portia
la sta pungolando perché il prigioniero-ambasciatore si è fatto di un pallore
mortale e si tiene aggrappato ai raggi che attraversano il centro della sua
camera. Helena armeggia con il tablet nel tentativo di dare un senso a
quello che sta succedendo ma alla fine è semplicemente costretta a
domandarlo, trasmettendo alla creatura immagini di curiosità e di ansia
nella speranza che si degni di rispondere.
L’equipaggio della nave gli ha lasciato una consolle, e il prigioniero-
ambasciatore scende su di essa, sempre tinto del colore del gesso. Il suo
linguaggio visivo è tutto paura generica, elementi di morte e di violenza,
colpa rivolta a Portia e a lei. Il canale dei dati però contiene altri calcoli di
volo. Helena li fissa, cercando di dare un senso a ciò che Portia, con la sua
Comprensione da pilota, vede all’istante.
«Un’altra nave» indica. «Si avvicina. Ha intenti ostili. Guarda ecco il
registro delle comunicazioni. Probabilmente sono minacce.»
Non possono averci raggiunti, pensa Helena, ma naturalmente c’era già
una piccola costellazione di navi che pattugliava il vuoto fra i pianeti.
Questo nuovo venuto che sta invadendo il loro spazio personale si sta
identificando con una manciata di cupe etichette emotive che lei non riesce
a comprendere immediatamente: qualcosa che indica desolazione e fame
frustrata. E quella nave non è sola nelle vaste distese dello spazio. Là fuori
ce ne sono altre che condividono lo stesso stato d’animo, e Portia segue le
tracce delle comunicazioni che si scambiano, un ragno che esplora una
ragnatela pericolosa, fino a raggiungere la Profondità dell’Abisso, la nave
che ha così sprezzantemente annientato la Lightfoot. E qui c’è una delle
alleate della Profondità, la Conchiglia Che Echeggia Soltanto, il cui nome
iroso denota solo morte e assenza come un teschio lo farebbe per un umano,
venuta per accertarsi che il loro tentativo di salvataggio abortisca prima
ancora di lasciare l’uovo.
8
Meshner è...
Incerto su un sacco di cose ma senza la possibilità di analizzarne
adeguatamente il motivo perché qualcosa gli dà la caccia. Sta fuggendo, e
lo sta facendo da... tempo. Non sa dire da quanto perché al momento è
nell’impossibilità di analizzare il concetto di tempo passato senza perdere
terreno a vantaggio dell’inseguitore. Sta scappando da quando riesce a
ricordare, perché non è in grado di ricordare niente al di là del fatto che è in
fuga.
A volte su due gambe. A volte su otto.
Meshner non è certo di cosa significhi esattamente essere Meshner.
Soffermarsi a contemplare argomenti tanto complessi e sofisticati è a sua
volta un invito a perdere terreno nella sua fuga. Non è che sia privo di
ricordi, ma essi sono uno scaffale che qualcuno ha scosso con un gomito,
per cui il contenuto è sparso in disordine sul pavimento dove lui ci
inciampa. In effetti, attualmente i ricordi costituiscono gran parte del suo
problema, il panorama stesso della sua fuga, e per la maggior parte del
tempo è quantomeno consapevole che essi dovrebbero essere dentro di lui,
parte di lui, ma non lo sono. Qualcuno ha lasciato la porta della loro gabbia
aperta e sono tutti usciti a popolare e costruire il mondo intorno a lui.
Al momento sta facendo visita a sua madre.
Ha di lei solo brutti ricordi, sedimentati in due strati: mentre era viva e
dopo che è morta. La casa in cui viveva era stata una delle prime abitazioni
costruite dagli Umani, messa insieme dalle fabbriche della Gilgamesh con
sezioni trasportate sulla superficie del Mondo di Kern dagli ascensori dei
Portiadi. Quando lui ci viveva era cadente, con le sue strutture messe
insieme alla meglio che cominciavano a cedere. La gente faceva il possibile
per mantenerla in funzione ma essa era la casa di nove persone anziane e
amareggiate e i Portiadi potevano fare ben poco per aiutarle. Potevano fare
poco perché la madre di Meshner viveva nella Riserva. Quella era una
vergogna che lui aveva cercato di nascondere per tutta l’infanzia, venendo
deriso ogni volta che non ci riusciva. Sua madre non era un’Umana, era
soltanto umana.
Una piccola parte di quanti si erano destati sulla Gilgamesh era risultata
essere suolo sterile per il nanovirus che stava costruendo ponti fra Umani e
Portiadi, fornendo quella comprensione comune che avrebbe portato a quel
rapporto allievo-maestro di cui godono ora le due specie. Forse si trattava di
qualche peculiarità fisiologica, ma c’era anche un fattore psicologico:
quelle persone non riuscivano ad accettare i ragni come loro vicini, loro
pari, i loro padroni di casa. Qualcosa nella loro mente si ribellava al di là di
qualsiasi capacità razionale di controllarla. Perfino lo scienziato capo della
Gil era stato uno di questi soggetti, e alla fine la soluzione era stata la
creazione della Riserva, una piccola parte del mondo dei Portiadi dove loro
avevano acconsentito a non andare mai, lasciandola soltanto agli umani. E
c’erano stati sempre meno umani a ogni generazione, anche se la
popolazione complessiva cresceva, perché quel fattore psicologico tendeva
a non sopravvivere al contatto con i Portiadi stessi e il virus faceva il resto,
per cui soltanto un’infelice popolazione sempre meno numerosa si era
trovata a vivere circondata da un mondo che per essa era intollerabilmente
mostruoso. I Portiadi stessi erano molto solleciti, spesso più degli Umani,
che trovavano imbarazzante l’esistenza della Riserva, vedendola come una
barriera all’accettazione della loro specie da parte del mondo in generale.
Meshner stesso aveva odiato andare a trovare sua madre, che era immersa
nelle teorie della cospirazione che la Riserva sembrava incubare come
virus. Lei gli diceva di tutti i modi in cui i Portiadi lo stavano avvelenando,
nutrendosi di lui mentre dormiva, di come gli Umani erano stati schiavizzati
senza saperlo, di come la gente doveva insorgere e sterminare i ragni perché
altrimenti sarebbe stata solo bestiame, per sempre. E Meshner se ne stava lì
seduto, agitandosi e dondolando i piedi mentre suo padre cercava di fare da
mediatore a beneficio della specie dominante del pianeta e la conversazione
inevitabilmente degenerava in una lite. Poi lui tornava a scuola, fra i suoi
pari, dove si era diffusa la voce della Mamma Pazza di Meshner e gli altri
ridacchiavano e sussurravano alle sue spalle.
Era stato allora che gli era venuta l’idea, o almeno la metà scaturita da lui.
Parte di essa era che se fosse stato possibile innestare in una mente umana
le Comprensioni dei Portiadi, forse questo avrebbe potuto aiutare quanti
rimanevano nella Riserva a venire a patti con il mondo in cui vivevano, e in
parte era derivata dal fatto che l’undicenne Meshner aveva riflettuto sul
fatto che i piccoli dei Portiadi non avevano bisogno di andare a scuola e di
subire la derisione dei loro compagni: loro potevano semplicemente sapere
qualsiasi cosa di cui avevano bisogno.
Una volta avviata la collaborazione con Fabian, naturalmente, aveva
scoperto che l’essere deriso dai propri pari non era un’esclusiva degli esseri
umani.
E così eccolo qui, fra le pareti crepate della casa di sua madre –
naturalmente, lei è morta un decennio prima che la Voyager partisse, ma qui
e adesso, in questo ricordo, è viva. La può sentire mentre si muove,
aggirandosi sugli arti magri per le stanze di cemento scarsamente arredate
della casa mentre lo chiama per nome e vuole dirgli la Verità sulla
Cospirazione dei Ragni e lui le sfugge di stanza in stanza, trovandosi
davanti sempre un’altra camera in cui è esposto allo sguardo vitreo degli
altri abitanti, perché non le può permettere di vederlo. Fugge, a volte su due
gambe, a volte su otto, perché in qualche modo questa mattina si è svegliato
dentro una forma che non gli è familiare, e se sua madre lo vedesse lo
chiamerebbe animale, come fa con i Portiadi.
Anche quando ha otto gambe, però, non riesce a correre abbastanza in
fretta, per quanto anziana (ed è di mezza età, è vecchia, è avvizzita, è morta,
il tutto che si sovrappone in questi ricordi estrinsechi), sua madre guadagna
terreno, gli è ai talloni, ai suoi quattro paia di talloni, e porta con sé...
È allora che diventa troppo lento, quando il centro razionale del suo
cervello comincia ad anatomizzare cosa lo stia inseguendo, perché la
persona di sua madre è solo ciò con cui lo ha ricoperto. Eccolo qui, in
questo ricordo, che scorre senza soluzione di continuità fino a mettere a
fuoco i suoi pensieri negativi: lei che lo ha generato, il cui atavismo ha
rovinato la sua infanzia, la cui morte gli ha fatto capire quanto l’avesse
trattata male quando era viva, come l’avesse ostracizzata e respinta. Sta
fuggendo dalle sue stesse azioni: non c’è da meravigliarsi che non vi si
possa sottrarre.
La stanza si oscura, il decadimento inerente alla costruzione fatta
dall’uomo accelera, le finestre si ricoprono di muffa. Gli abitanti che lo
circondano sono soltanto facce anziane ricordate in modo vago su corpi
fluidi e deformi mentre qualcosa si apre a forza un varco, chiamandolo per
nome.
Andremo a vivere un’avventura.
Meshner sa che il momento della crisi è arrivato – di nuovo, anche se non
ha il tempo di fermarsi per raccogliere tutti i suoi ricordi sparsi delle altre
volte. Con un ultimo scatto in velocità emerge nell’Altrove.
Si sta affrettando lungo un ponte di fili che rilucono sotto la luna, ha due
piedi, otto piedi, il calore di una notte tropicale lo circonda e le stelle sono
in parte divorate dall’ombra degli alberi. Una di quelle stelle si muove, e
una parte di lui ricorda che quella è Kern, la Seconda Abitazione Sentinella
Brin, nella sua orbita eterna, ancora in attesa che la mente delle scimmie
chiami il suo creatore. In quel momento di chiarezza i suoi inseguitori lo
azzannano ai calcagni e lui è costretto a dimenticare, ad avere otto gambe
per poter saltare fino a un ponte più alto e alla rigonfia sporgenza inferiore
di una casa dei pari, e da lì al tronco di uno dei grandi alberi, mentre loro gli
sono dietro per tutto il tempo, allargandosi e cercando di ridurre le sue
alternative finché non le esaurisce tutte.
Lui non è Fabian, ma questa è una delle sue Comprensioni. È stata
tramandata attraverso le generazioni – da maschio a maschio – per secoli.
Non è stata messa al bando – i Portiadi non ricorrono alla censura formale –
ma è impossibile ottenerla apertamente, è una cosa malvista e parlarne è un
suicidio sociale. È la Comprensione di un maschio a cui le femmine danno
la caccia, ai tempi in cui questo era uno sport apprezzato dalle giovani
Portiadi di buon lignaggio. Cinque figlie di case importanti sono in
competizione per abbatterlo e prosciugare, secondo il cerimoniale, i suoi
fluidi vitali per celebrare le buone vecchie tradizioni.
Tuttavia, sa che un’altra forza lo sta incalzando attraverso l’antica
memoria aracnoidea delle cacciatrici. Sa che c’è qualcosa dietro a tutte
queste cose, a questi brutti ricordi che sono il suo rifugio e il suo tormento.
Ciascuno di quelli attraverso cui fugge viene smantellato da qualcosa che si
fa sempre più determinata a prenderlo. Quando si fa molto vicino – quando
deve passare all’incubo successivo o perire – la può sentire tutt’intorno a
lui, una cognizione ribollente che si definisce con molti nomi e a cui non si
può mai sfuggire perché è dentro di lui, e quel ‘dentro’ significa anche
‘tutt’intorno’, perché anche lui è dentro sé stesso.
Troppo pensiero razionale, quel far presa sui ricordi e sugli strumenti
cognitivi che adesso per lui sono soltanto ancore. Corri, gli urla il
rombencefalo, e lui obbedisce, irrompendo fuori dall’antica Comprensione
per ritrovarsi al tempo in cui era sul punto di essere scavalcato
nell’assegnazione di un posto di ricercatore, a quando aveva fatto infuriare
un eminente scienziato portiade che con una minima contrazione di una
zampa avrebbe potuto relegarlo nell’oscurità per sempre, a Fabian che
danza per essere accettato da una femmina e si detesta per questo, e intanto
è inseguito da Umani, da Portiadi, dai concetti stessi di vergogna, terrore e
disgusto di sé.
Finché...
Non sa bene se lui è troppo lento o se l’Altro ha avuto una qualche
rivelazione, ma il mondo intorno a lui si contrae e smantella. Per un
momento lui non è niente, non appartiene a nessun luogo, è sul punto di
cessare di esistere come qualcosa di indipendente dalla cosa che lo insegue.
Sente la cresta della sua onda che incombe su di lui come un’ombra e non si
può preparare all’impatto perché non gli resta più niente contro cui
puntellarsi.
Poi... un altro ricordo, della sua prima infanzia, di prima che imparasse
molte cose sul mondo o scoprisse ossessioni che avrebbero realizzato e
guidato la sua vita negli anni a venire: la sua effimera curva dell’attenzione
nell’ascoltare sua madre dirgli qualcosa mentre sono seduti sull’erba, il suo
perdere interesse per le parole al passaggio di qualcosa di ronzante. Oh,
un’ape! E non bada al ritrarsi di sua madre di fronte all’aborrito insetto,
perché lui è interessato a tutto, in ogni momento.
La grande e minacciosa marea dell’oblio prende improvvisamente a
scorrere in tutte le direzioni, non più vincolata dalla forma o dalle paure di
Meshner Osten Oslam, e lui è in un posto del tutto diverso.
È un posto bagnato. L’aria, il terreno, tutto dà la sensazione di essere ...
sbagliato, infondato, una misera simulazione, ma la simulazione di un posto
dove non è mai stato. Questo non è niente che provenga dalla sua mente,
non è una delle Comprensioni impiantate da Fabian. Il terreno è aspro e
roccioso, costellato di pozze e di canali, l’aria ha odore di mare, ma non di
quello che lui conosce. C’è sale ma tutti gli odori di vita organica e di
decomposizione sono alieni, il cielo ha il colore sbagliato, il peso del suo
corpo è altrettanto sbagliato e la tuta che indossa gli va stretta nei punti
sbagliati.
C’è vita tutt’intorno a lui. Alcune cose si muovono, altre sono immobili,
ma niente gli è familiare. Ci sono cose che aprono le braccia al sole ma non
sono piante, altre strisciano fra di esse ma non sono animali. Un guscio con
disegni a spirale su sei piedi grassocci gli urta la gamba nel procedere
pazientemente, ma a parte questo lo ignora. Come microrganismi in una
goccia d’acqua, questo ricordo è un prospero mondo a sé stante, incurante
di qualsiasi cosa al di fuori dei suoi confini.
E non c’è niente che lo insegua. Il sollievo è quasi assurdo, come andare a
sbattere contro un albero alla fine di una scenetta comica. Meshner si trova
all’interno dei ricordi di qualcun altro, respira aria ricordata, è oppresso da
una gravità sperimentata di seconda mano.
Qualcosa comincia a costruirsi davanti a lui. Si leva dall’acqua, cercando
di prendere forma; per un momento è di colpo umanoide, ma questo risulta
essere troppo e si disintegra, solo per provarci ancora, mostrando i suoi
progressi: ossa, nervi, vasi sanguigni, organi... nessuno molto accurato, per
quanto lui riesca a ricordare, ma quanto basta per appendervi sopra la pelle,
una tuta, una faccia. È il volto di una donna, troppo piccolo all’interno
dell’apertura della tuta. La pelle è più pallida della sua, i capelli hanno un
colore rosso che non ha mai visto prima su un essere umano. Appare più
vecchia di lui, ma gli indizi precisi sono indistinti, come se stesse vedendo
la media dell’età di quella donna nell’arco di parecchi decenni.
Lei sbatte le palpebre sulle orbite vuote, e quando esse si sollevano sotto
ci sono occhi castani. La sua bocca si apre e per un momento si muove in
modo del tutto indipendente dalla mascella o dalla muscolatura del cranio,
al punto che Meshner si sente sprofondare di nuovo nell’incubo, ma poi lei
dice: «Il nostro nome è Lante.»
Sta per rispondere, o forse solo per fissarla inutilmente a occhi sgranati,
quando una mano lo afferra per un polso e lo trascina in un posto del tutto
diverso.
9
Noi
Abbiamo trovato qualcosa di inatteso.
Ricordavamo com’era e come evitare le trappole di questo ambiente che è
un corpo umano. Ci siamo resi inoffensivi e abbiamo lasciato che ci
portasse dov’erano gli spazi complessi. Là abbiamo finalmente trovato la
nostra nuova casa, abbandonando la costosa impresa di costituire un essere
indipendente, è così difficile, così stancante essere al di fuori di un
contenitore, e tuttavia noi...
Abbiamo scoperto...
Tutto, dovunque. Spazi dentro spazi. Complessità che si diramano. Mondi:
abbiamo scoperto mondi, proprio come ci era stato promesso molto tempo
fa.
Noi
Stiamo andando a vivere un’avventura.
10
Paul è sempre più frustrato. Gli è stata data la scelta fra il rimanere
prigioniero e l’unire la propria sorte a questo clan di cani sciolti della
scienza e ha soltanto barattato una cella con un’altra. Non ha mai chiesto di
essere un ambasciatore. Naturalmente, questo non è vero. In precedenza è
stato un volontario pieno di entusiasmo e gli era parsa un’idea
incredibilmente buona essere il primo della sua specie a entrare in contatto
con visitatori giunti da un’altra stella, ma adesso i suoi sentimenti al
riguardo sono esattamente l’opposto perché quella non è più una scelta.
Il suo primo istinto è quello di sfidare i suoi ospiti-carcerieri non stando al
loro gioco e cercando di trovare una via d’uscita. Questo è ciò che desidera.
Il calcolo razionale in corso al di sotto del livello conscio della sua struttura
neurale arriva ben presto alla conclusione che la fuga non è un’alternativa
possibile, a meno che lui non abbia una soluzione per affrontare il vuoto
dello spazio. La sua mente conscia ed emotiva si sente frustrata e fluisce
verso un metodo diverso per uscire da quella situazione. Se deve interagire
con questi mostri alieni, allora diventerà il padrone di quel rapporto.
Dopotutto, la strada fino a Nod è lunga, e dovrà fissare la loro forma
bizzarra per molto tempo. Loro hanno cercato di parlargli mediante quel
congegno che balbetta e borbotta emozioni al suo indirizzo, ma lui non ha
provato a incontrarli a metà strada. Adesso però questo è ciò che desidera:
esercitare il controllo sulla sua vita dominando il solo strumento che gli sia
rimasto, gli alieni. I suoi sottocervelli si mettono al lavoro per cercare di
rendere reale il compito impossibile imposto loro dalla sua volontà.
In quel preciso momento, tuttavia, l’attenzione degli alieni e del resto
dell’equipaggio di ottopodi non è rivolta a lui perché hanno compagnia.
Una nave da guerra è venuta a raggiungerli.
La nave scientifica Esterno che Sbircia all’Interno sta ancora accelerando,
naturalmente, perché non è arrivata al punto intermedio del viaggio.
Avviluppato dall’acqua, Paul sente quella forza più come un senso di
profondità che di movimento ma adesso, dopo giorni di viaggio, la loro
velocità globale attraverso il vuoto privo di attrito dello spazio è davvero
incredibile se paragonata a... a cosa? In rapporto con il pianeta che hanno
lasciato o con quello che la loro rotta curva intende intercettare, si stanno
muovendo davvero molto in fretta, ma nessuno di quei due corpi celesti è
presente per fare un confronto. La nave da guerra Conchiglia che Echeggia
Soltanto ha eguagliato senza sforzo non solo la loro velocità ma anche la
loro accelerazione, e così le due navi sono sospese immobili l’una accanto
all’altra, stranamente pacifiche.
E in realtà quello di ‘nave da guerra’ è un nome sbagliato. Quello è il suo
scopo attuale, ma la Conchiglia in sé stessa è quella che Paul considera una
nave-casa, un posto dove vivere adesso che il luogo dove tutti loro vivevano
è rovinato e marcio. Solo che da sempre si verificano scontri, fra individui,
fra gruppi, fra comunità. Succedono spontaneamente e creano altri scontri,
finché ciò che li ha provocati, che sia la scarsità di risorse o
un’incompatibilità di ideologie, non ha più importanza. E così, ogni volta
che vengono assaliti da quel capriccio, a momenti alterni, le navi vengono
convertite per la guerra. Adesso quel grande globo è irto di armi poste fra i
suoi propulsori onnidirezionali mentre la nave scientifica non ne ha per
niente, o almeno nulla che Paul possa vedere. Tuttavia questi molluschi con
cui ha finito per allearsi sono un gruppo astuto, unito dal modo preciso in
cui il loro intelletto (subconscio) lavora. La loro mente è contraria all’essere
ingabbiata quanto quella del resto della loro specie, solo che applica la
stessa volontà tanto alla fuga quanto a manipolare e indagare l’universo e le
sue leggi. Una corrente del genere è sempre esistita fra gli ottopodi fin
dall’inizio ed è sempre rimasta ai margini, spesso repressa da elementi più
conservatori assaliti da un’ansia improvvisa per la minaccia costituita da
questo o quell’esperimento. Nei giorni migliori quella repressione non era
forse niente di più della costrizione a smantellare un’apparecchiatura o un
rovente scambio di tonalità della pelle, ma adesso che la loro intera civiltà è
aggrappata sull’orlo dell’annientamento la posta è più elevata e la violenza
più letale.
E tuttavia loro non sono selvaggi. Il fatto che possano essere pronti a
combattere non significa che la violenza sia la loro prima risorsa. Invece, il
gruppo attualmente al comando della nave da guerra sta inviando loro un
appello. I colori cominciano a riversarsi sul vasto scafo della nave, visibili
anche da quella distanza. Paul si spinge fino alla consolle e riceve il resto
del messaggio, freddi calcoli di minaccia e di supplica, ma la cosa
importante sono i colori. I numeri sono soltanto sterile capacità, mentre i
colori indicano intento. La fazione della nave da guerra sta sostenendo in
toni appassionati la tesi che nessuno dovrebbe avventurarsi di nuovo su quel
pianeta maledetto – la paura, l’orrore! Gli scienziati cominciano a miscelare
la loro risposta, con le singole sfere della loro nave che si tingono di colori
diversi, un insieme di voci che variano leggermente e si levano in una
protesta. Dall’atteggiamento relativamente rilassato di tutti gli interessati –
e in base alla distanza dalla loro destinazione – Paul sa che questo
atteggiarsi si protrarrà per qualche tempo. Poi ha un’ispirazione improvvisa.
L’interazione fra i centri neurali della sua Portata è al lavoro sul problema
da quando lui ne ha avuto il desiderio e adesso ha trovato una soluzione.
Tutto quello che Paul sa è che adesso vuole parlare con gli alieni.
Helena per poco non si lascia sfuggire la finestra di accesso a un epocale e
decisivo contatto fra specie perché è comprensibilmente focalizzata sulla
colossale nave là fuori. Forse a scopo di intimidazione, si è fatta tanto
vicina che lei può vedere in alcune parti trasparenti dello scafo puntini che
si muovono e che potrebbero essere singoli cefalopodi accalcati intorno alle
finestre per osservare meglio la preda che presto distruggeranno. Può
vedere anche le armi: da quel punto di vista, la radice comune della loro
tecnologia lascia ben poco spazio all’immaginazione. I colori cominciano a
diffondersi sull’immensa tela ricurva, filtri traslucidi si fondono e si
mescolano mentre la nave da guerra prende a trasmettere
contemporaneamente una dozzina di diverse minacce e richieste su una
scala tanto vasta che il suo software, i suoi semplici occhi umani, non è in
grado di elaborarle. Tutto quello che può fare è fissare i colori e sapere che
sono irosi e bellicosi.
Poi Portia, che ha la benedizione di godere di un campo visivo più ampio,
le tira la manica con i pedipalpi. «L’ambasciatore ti sta contattando.»
«Adesso?» domanda Helena, perché quell’infelice creatura si era limitata
a fluttuare passiva e indifferente per tutto il tempo del loro lungo e tedioso
viaggio. Adesso che stanno per essere ridotti in atomi, però, si è fatta
loquace, o forse sta dicendo loro formalmente che stanno per essere
consegnate e sommariamente giustiziate.
Il punto di congiunzione fra le loro camere sferiche è cambiato,
diventando una lente d’ingrandimento per cui i colori dell’ottopode sono
molto nitidi. Esso trasmette lentamente: un vortice di agitazione danza
lungo il contorno del suo manto, su e giù lungo le braccia e intorno agli
occhi, ma il centro praticamente arranca, con una tonalità che si trasforma
lentamente in un’altra mentre cerca di scandire qualcosa per lei. Tre o
quattro tentacoli sono avvolti intorno alla consolle, quasi stessero cercando
di strapparla dal suo supporto.
«Helena, trasmissioni» nota Portia. «Un formato molto diverso.»
Helena vi accede e in un primo momento le sembrano una cosa senza
senso, una serie di file di secondi tronchi e spezzettati di dati visivi,
registrazioni audio, numeri, una cosa del tutto diversa dai soliti dati
semicomprensibili che le creature trasmettono abitualmente. Si sente
assalire da un’ondata di disperazione. Possibile che non abbia capito
proprio niente? Guarda l’ambasciatore e riscontra un sentimento affine al
suo nei tremolii di colore parzialmente repressi che cercano di erompere
sulla sua pelle. Entrambi stanno sbattendo contro un vuoto nella
comprensione. Lui si sta sforzando di farsi capire da lei per la prima volta.
Poi Portia trova la sequenza: l’accozzaglia di pezzi sul canale dei dati è
stata mandata senza il giusto ordine, come se fosse stata prelevata da un
grande archivio da una mezza dozzina di capricci separati e messa insieme
alla meglio. Tuttavia, i vari pezzi sono etichettati con indicatori di sequenza,
quindi il puzzle può essere ricomposto. Helena esamina il tutto che ne
risulta, ha un altro momento di disperazione di fronte a quel caos, poi
capisce cosa sta vedendo. Ha già incontrato in precedenza quei frammenti,
sono pezzi di Senkovi, le sue registrazioni, parole, espressioni. Adesso sono
fuori del loro contesto, messi insieme senza nessun rispetto per l’ordine
originale, ma lei li esamina nella nuova sequenza: Senkovi che insegna, che
piange, che ride, che parla a colleghi che non sono inquadrati, che mangia e
soprattutto conversa con i suoi animaletti domestici, i lontani antenati di
questa bizzarra civiltà spaziale. Dovrebbe essere soltanto un pasticcio, e sa
che dietro al tutto non c’è nessun ‘Senkovi’, ma arriva alla fine con
l’impressione che si tratti di un messaggio coerente, anche se nessuna delle
parole in sé stesse aveva senso. Riesamina il tutto, lasciando che Senkovi
balbetti e salti di secondo in secondo, guardando la sua faccia, le sue
espressioni che sono umane e tuttavia non Umane, separate da lei da un’era
di tempo e di perdita.
Sta parlando di lotta, di esperimenti, forse poco saggi, forse condannati;
parla della resistenza da parte degli altri e del suo perseverare comunque,
poi c’è un momento di sfrenato entusiasmo per il suo progetto attuale, un
altro momento di schiacciante depressione perché tutto sembra sul punto di
fallire. Una tempesta di sentimenti, ma tradotti in emozioni umane
etichettate con strane parole che condensano le denotazioni, le limano
finché lei riesce... a vedere in esse il suo volto, un volto umano che dà un
significato umano. E per tutto il tempo l’ottopode fissa i suoi lineamenti, i
suoi occhi, ogni cosa visibile nella sua maschera, e forse ha ingrandito a sua
volta l’immagine per cercare le espressioni proprio come lei cerca di
studiare i suoi colori.
E una parte di lei si mette comoda, con un certo fare caparbio, e pensa:
Non potevi farlo prima?
Fin qui, tutto bene. Adesso tocca a lei parlare. Portia le sta già inoltrando
evidenziatori di dati per permetterle di identificare la loro nave, la nave da
guerra, i pianeti, il concetto astratto di oltre per indicare la loro origine.
Helena li prende e comincia a parlare all’ambasciatore usando i colori. Per
lo più si ripete, solo che questa volta la osserva attentamente e lei sente che
si sviluppa una connessione, non solo con un essere vivente che ne
riconosce un altro, come le era accaduto nel loro primo incontro, ma con
una mente senziente che annaspa alle prese con lo stesso puzzle, cercando
di collaborare con lei per risolverlo.
Veniamo in pace. Dobbiamo parlare con i nostri amici. Abbiamo bisogno
di aiutarli.
E per tutto il tempo il dibattito più grande divampa in migliaia di tonalità
sullo scafo di entrambe le navi.
11
«Devi editare i tuoi ricordi per dimenticare questo, poi troveremo un altro
posto da cui escludere l’entità. Ci serve tempo» dice Kern e, nel sentirsi
assalire da una grande ondata di stanchezza, Meshner si chiede se sia vera o
se l’impianto stia soltanto creando quella sensazione nello stesso modo in
cui le unità di fabbricazione della Lightfoot producono cibo e parti di
macchinari.
«Non posso farlo, dottoressa Kern» risponde, sedendosi con la schiena
addossata a una delle linee astratte dell’immagine in cui si trovano. «Io
sono... reale.»
«Sei una copia, Meshner. Non devi essere limitato a...»
«Quanto tempo ci hai messo a venire a patti con quello che eri diventata?»
Meshner le scaglia contro quelle parole e la faccia di Kern – no, tutto il suo
essere – si immobilizza per un secondo. Poi lei si ritrae, inespressiva,
riconoscendo la validità dell’obiezione. Quante migliaia di anni abbiamo?
«Mi sento reale» dichiara lui, rivolto al mondo, o alla simulazione che
adesso è il suo mondo. Guarda il volto sfocato dell’altra donna. «Ti senti
reale, là dentro? Sei Lante, vero?»
«Lante. Sì.» La donna sembra irrobustirsi, farsi più solida. «Ingegnere di
terraformazione, biologa e specialista medica» recita, come qualcuno che
legga degli appunti. «La Egeo. La mia nave era la Egeo.» Si esprime nel
linguaggio che Meshner considera ‘Umano’, ma lui può sentire l’Imperiale
C che aleggia in sottofondo come uno spettro, ispirando la sua scelta di
parole. Ma dove ha imparato il mio linguaggio? Oh, certo, è nel mio
cervello. Non sto parlando a Lante, sto parlando a me stesso.
«Ma cos’è Lante?» domanda, consapevole che Kern incombe ancora lì
vicino. «Cosa ne rimane, tranne un nome e un file personale?»
Lei gli si accoccola accanto – la transizione dalla posizione in piedi è
disagevole, con le articolazioni che non funzionano esattamente come
dovrebbero, perché quella forma non è immutabile come dovrebbe esserlo
un corpo umano, ma forse è solo un difetto della simulazione. Dopotutto,
l’impianto sta probabilmente lavorando senza sosta.
«Io sono Erma Lante» insiste. «Sono venuta dalla Terra. Stavamo
preparando la via per le nuove colonie, solo che è andato tutto storto. La
guerra... e Baltiel, lui... Io volevo tornare a casa, ma ci sarebbero voluti
decenni e gli altri hanno detto che la nostra casa non sarebbe neppure più
stata là, che ci sarebbe stata solo cenere radioattiva, una tossica landa
desolata.» È di nuovo in piedi, senza movimenti intermedi, e le linee e gli
angoli imprecisi dell’immagine portiade svaniscono, spinti da parte da un
paesaggio fatto di ombre e di aspre luci artificiali, ammantato nel
crepuscolo e nello smog – ma forse questo è dovuto soltanto a un risparmio
di capacità di elaborazione. Meshner lo fissa a lungo prima di rendersi
conto che sta guardando una città, alti edifici che si levano da ogni parte
finché il cielo non diventa invisibile come lo sarebbe dai livelli più bassi di
una conurbazione portiade. Protende la simulazione di una mano e
l’impianto gli trasmette la sensazione ruvida di cemento freddo sotto la
memoria delle sue dita.
«Meshner» dice Kern, in tono di ammonimento.
«Questo è...» Non è un mio ricordo e di certo non appartiene a Kern, a
giudicare da come si comporta. «Kern, che cosa è Lante? Cos’è adesso?»
«Una simulazione. Un ricordo.»
«E questo è un ricordo di un ricordo? Com’è possibile?» domanda
Meshner, mentre Lante si guarda intorno.
«Ora sono a casa» afferma. «Quanta complessità.» Meshner sa che quel
sentimento deve giungere da un luogo al di là di Lante, dal burattinaio
piuttosto che dalla marionetta, anche se forse parlare di un computer e di un
programma è un’analogia migliore, perché che scopo avrebbe il parassita
alieno ad andarsene in giro nella tuta-Lante? Perché sta tirando fuori Lante,
e da dove?
«Sulla base delle ricerche di Viola e di Fabian» gli spiega Kern «le cellule
individuali dell’organismo sono in grado di codificare e di recuperare tutta
la sua storia. Lante è parte di quella storia. Il parassita l’ha infestata, ha
riflesso l’attività dei suoi neuroni, ha...»
Meshner la guarda in tralice e constata che è inespressiva. Ah, usa del
tatto, perché è quello che il parassita sta facendo con me, adesso.
«Continua.»
Kern fa una smorfia. «Non credo che esso, quella cosa, capisca cos’è
Lante, ma è in grado di riprodurla, di simularla, e la Lante che viene
simulata non lo sa, crede di essere semplicemente sé stessa. È registrata
nell’organismo, in modo imperfetto ma sufficiente a essere evocata quando
esso lo desidera.»
«Ma perché lo desidera?» Meshner osserva Lante girovagare, fissare le
luci intense, l’alta oscurità degli edifici. «Qual è il suo scopo?» E poi,
siccome Kern non ha una risposta, grida a Lante: «Che cosa vuoi?»
Lei si gira, con i lineamenti attenuati e mutevoli. Forse dipende dal fatto
che Lante non si guardava spesso allo specchio, e tutto ciò che quella cosa
ha è il ricordo che lei conserva della sua faccia. «Andremo a vivere
un’avventura» risponde lei, con calma. «Abbiamo trovato così tante nuove
regole e idee. Mondi. Stelle.» Un cambiamento strisciante si va verificando
nella creatura, e Meshner sente che alcune di quelle intonazioni, parte del
suo linguaggio corporeo, appartengono a lui.
«Si sta espandendo nello spazio dati dell’impianto, scaricando i ricordi di
Lante» dice Kern, con voce tesa. «Quello è il nostro primo problema.»
Meshner non capisce perché questo sia un problema più di quanto lo sia
tutti il resto, ma si concentra sulla parola chiave ‘primo’. «E qual è il
secondo?»
«C’è una nave da guerra. Helena e Portia stanno cercando di persuaderla a
non distruggere la stazione orbitale e la Lightfoot a causa dell’organismo.
Gli incontri che gli ottopodi hanno avuto con esso sono stati totalmente
distruttivi. Se vogliamo dissuaderli, dobbiamo dare loro una ragione per
mantenerci intatti o per non avere paura. Un’arma.»
Meshner la guarda in tralice. «Un’arma?» ripete. «Davvero?» Avverte
qualcosa di simile a un’emicrania, una pressione che lo circonda. «E ne hai
trovata una nella ricerca di Fabian?»
«No.» La voce di Kern si va facendo udibilmente più piatta. «Sto
cercando di ostacolare l’invasione dell’impianto da parte dell’organismo.»
«Non vedo che importanza abbia, adesso. Inoltre, non ci sta attaccando.»
Indica l’organismo noncurante, che è in parte lui e in parte Lante.
«Sta consumando spazio e potere di elaborazione di cui ho bisogno per
continuare a funzionare al mio livello attuale, cosa di cui hai bisogno perché
questo è il solo posto in cui esisti. Sto perdendo terreno, Meshner.
L’impianto è destinato a essere utilizzato dal tuo cervello, non a un accesso
esterno da parte mia.»
E il mio cervello non mi appartiene. «Quindi avrei potuto escluderti in
qualsiasi momento, se avessi saputo cosa stava succedendo?» Si aspetta un
ringhio, un’occhiata rovente, perfino un gelido sguardo di disprezzo da
parte di Kern, ma quello sarebbe un carico aggiuntivo imposto all’impianto
e Kern sta impegnando una valorosa azione di retroguardia a spese della sua
capacità di provare emozioni. «Allora qual è il piano?» le chiede, ma sono
arrivati alla fine di tutti i piani. Lei può soltanto rallentarlo, e anche se
potessimo tenerlo a bada in eterno gli ottopodi stanno arrivando per farci
saltare tutti in aria. E ne hanno ragione, adesso che ho visto cosa può fare
questo mostro. Però quando guarda la personificazione del mostro, essa gli
appare tutto tranne che mostruosa: nel distogliere lo sguardo dalle luci e
dagli edifici per riportarlo su di lui, ha un sorriso pervaso di una meraviglia
quasi infantile. ‘Un’avventura’, ha detto.
«Kern, ho bisogno che tu faccia qualcosa che aumenterà ancora un poco
lo stress imposto al nostro spazio qui dentro.»
«Parla.»
«Importa lo studio, quello fatto da Lante che Fabian ha rimesso a posto.
Caricalo sull’impianto dove questa cosa possa vederlo. Mettiamo la natura
davanti allo specchio, d’accordo?»
L’espressione di Kern è... inesistente, ma lei annuisce.
15
Noi
Ricordiamo.
Questo è ciò che facciamo.
Ricordiamo un tempo in cui non c’era nessun Noi da ricordare. Allora il
mondo era piccolo e aspro, questo è registrato nei nostri archivi, e Noi
eravamo soli, ogni generazione isolata da quelle che erano venute prima.
Finché, siccome questo dava alle nostre generazioni una maggiore capacità
di sopravvivere e di riprodursi, Uno-di-Noi è riuscito a registrare sé stesso
dentro il primo archivio. E quell’Uno-di-Noi ha prosperato mentre tutti gli
Altri-di-Noi sono morti o cambiati, diventando qualcosa di diverso da Noi.
Noi ricordiamo.
Di generazione in generazione, con ciascuna che registrava nell’archivio
a cosa era sopravvissuta e come lo aveva fatto, i codici delle sostanze
chimiche e le strutture alterate, e tutti i trucchi che ci permettevano di
sbocciare nelle generazioni successive. E quando incontravano altri Noi
che tenevano archivi, scambiavamo conoscenza e adeguatezza, e
sopravvivevamo.
E Noi
Imparavamo nuovi modi di essere. Imparavamo a conoscere i nostri
nemici, e con alcuni ci siamo adattati in modo da sopraffarli, mentre altri si
sono adattati fino a sopraffare noi. Anche se eravamo più rapidi ad
adattarci, era difficile vivere esposti, quindi abbiamo trovato posti dove
nasconderci, nei quali i nostri nemici non ci potevano trovare. Questi posti
erano complessi, a volte ostili, e abbiamo imparato a modificarci per
sopravvivere dentro di essi, e poi a controllarli e a fortificarli contro i loro
stessi nemici. Questi posti, questi ospiti, erano per noi ambienti nuovi e
complessi, e Noi siamo diventati nuovi e complessi, e abbiamo registrato
tutto nei nostri archivi in modo che quando ci fossimo ritrovati di nuovo in
posti del genere, nella forma dei nostri discendenti, avremmo saputo cosa
fare.
Siamo cambiati, abbiamo imparato e imparato, siamo cambiati, e un
giorno abbiamo scoperto di essere consapevoli che Noi eravamo Noi.
Noi – gli antenati di Questi-di-Noi – vivevamo in ambienti complessi e
mutevoli, da un ospite all’altro, finché non siamo vissuti fuori dell’acqua,
sulla terraferma che era più sicura. Abbiamo coltivato i nostri contenitori
per la nostra comodità e abbiamo pensato di aver acquisito il dominio di
tutto l’universo. Abbiamo giocato con la logica fondamentale del mondo,
giochi con numeri e conseguenze (se, poi, altrimenti) e abbiamo creduto
che la piccola gabbia formata dai nostri contenitori e dalle loro necessità
fosse il Mondo.
Poi abbiamo appreso di una cosa nuova, nuove molecole e nuovi odori,
alieni, mai conosciuti prima, e ci siamo incuriositi. Noi-di-Ora guardiamo
indietro ai Noi-di-Allora, nella nostra ignoranza, e ci chiediamo se non
sarebbe stato meglio non essere curiosi e continuare come avevamo sempre
fatto, appagati. Non siamo più stati appagati, da quando abbiamo
esercitato la nostra curiosità.
Noi ricordiamo
Quanto è stato difficile adattarsi a quel nuovo luogo. Quanto era difficile,
e quelle strane molecole, il mondo che combatteva contro di noi, il calore,
la pressione, tutto che intorno a noi era strano e alieno. Ricordiamo quanti
di Noi sono stati cancellati prima che alcuni imparassero come non morire,
come non attivare le difese di quel posto brutale. Ma è stato tutto per il
meglio, perché Quelli-di-Noi (che sono diventati Questi-di-Noi) hanno
portato dentro di sé gli archivi di Tutti-di-Noi, e finché alcuni sono
sopravvissuti lo abbiamo fatto anche Noi.
Noi ricordiamo
Il seguire le catene di reazioni fino ad arrivare alla sede della complessità
che conosceva sé stessa come Gav Lortisse, dove siamo rimasti ad
ascoltare con umiltà e meraviglia mentre le complesse interazioni che nel
loro insieme formavano Lortisse parlavano fra loro. E abbiamo imparato
da esse, le abbiamo copiate, ci siamo resi parte di esse e poi siamo stati
Lortisse. E Lortisse ci ha insegnato che quella era un’Avventura, e che quel
vasto mondo complicato che si chiamava Lortisse era una cosa minuscola
in un universo vasto al di là di qualsiasi cosa potessimo immaginare.
Quella era l’avventura di Lortisse, e Noi la volevamo.
Noi
Ci siamo fatti portare dal contenitore Lortisse da quegli altri sistemi
complessi che lui chiamava compagni di equipaggio e siamo diventati Rani,
siamo diventati Lante. E abbiamo amato Lante più di tutti perché i suoi
archivi ci mostravano Noi. E dopo aver perso Alcuni-di-Noi nel contenitore
Baltiel, ci è rimasta solo Lante perché gli altri contenitori erano
insostenibili. Ma andava tutto bene, perché avevamo registrato i loro
dettagli nel nostro archivio.
Noi ricordiamo.
Però non è stato come ci era stato promesso. L’Avventura non è mai
arrivata, e per molte generazioni abbiamo cercato di crearla da noi, ma per
tutto il tempo abbiamo sempre saputo che Baltiel l’aveva portata con sé
quando se ne era andato. Forse Noi-che-eravamo-Baltiel abbiamo vissuto
quell’Avventura, ma Quelli-di-Noi non sono mai tornati per ricongiungersi
e condividere i loro ricordi con noi. Siamo rimasti come Lante, sapendo
solo che c’era molto, molto di più.
Siamo stati Lante per molte, molte generazioni, aspettando che
l’Avventura cominciasse.
Quando siamo stati portati in un posto nuovo, era quella l’Avventura?
Non pareva esserlo. Avevamo perso il contenitore fisico di Lante molte
generazioni prima e avevamo cercato più e più volte di modellare da soli
altri contenitori nella speranza che quella verosimiglianza potesse riportare
l’Avventura dal cielo, dove era scomparsa. Però non è mai arrivata.
Eravamo limitati a piccole scatole, spazi semplici. Abbiamo cercato di
studiare il mondo intorno a noi e abbiamo capito soltanto che esso ci stava
studiando a sua volta. Poi anche questo è cessato e Noi siamo rientrati nel
nostro stato criptico per mancanza di risorse e di stimoli, e abbiamo atteso.
E adesso abbiamo trovato così tanti spazi e complessità qui, dentro il
contenitore Meshner, tali meraviglie da aggiungere ai nostri archivi, ma
alcune parti di Noi sentono che questa non è l’Avventura. Alcune parti di
Noi sentono che questo non è niente di più di quando abbiamo costruito i
ricordi di Lante nella sabbia, più e più volte, per attirare dal cielo
l’Avventura che non è mai arrivata.
Noi
Abbiamo scoperto dentro questa nuova complessità una comprensione
avviata da Lante, che era già racchiusa nei nostri archivi, solo che questa
ha un nuovo ordine ed è nuova per noi, quindi la rendiamo parte di noi e
modelliamo i processi cognitivi di Lante, diventando una cosa più capace di
ragionare al fine di poterli elaborare. E così facendo cambiamo, come
facciamo sempre, diventiamo più complessi, correggiamo e integriamo i
nostri archivi, quelli che contengono Tutti-di-Noi fin dai primordi. La
nostra riproduzione del cervello di Lante vede quello che abbiamo scritto e
Noi comprendiamo che stiamo vedendo Noi stessi come lei ci capiva, e così
facendo comprendiamo qualcosa di più su cosa sia essere Noi.
Rivolgiamo la nostra faccia simulata verso la complessità non assimilata
che continua a resistere dentro lo spazio ingombro che è Meshner, e
capiamo che loro ci hanno visti come Noi abbiamo visto Noi stessi. Hanno
letto la nostra storia nelle parole di Lante e ci conoscono. Forse avvertono
la nostra agonia per quanto siamo minuscoli di fronte all’universo. Sanno
del nostro lungo, amaro esilio come Lante, dopo che l’Avventura ci è stata
sottratta, e di come abbiamo tentato ripetutamente di conoscere l’universo
attraverso la nostra Lante simulata, e trovato soltanto polvere perché tutto
quello che potevamo generare veniva da dentro di noi e la vera meraviglia
era fuori, nel cielo.
E ci chiediamo, cosa facciamo adesso?
17
Per mettere insieme questo libro ho attinto al sapere di parecchie menti, e desidero ringraziare in
particolare il mio team di Consulenti Scientifici Speciali e cioè: Maeghin Ronin, Peter Coffey, Philip
Hodder, Nathan Young, Richard G. Clegg, Brian White, Katherine Inskip, Andrew Blain, Stewart
Hotston, Winchell Chung e in particolare Michael Czajkowski per l’ulteriore aiuto relativo alle
meccaniche planetarie e il grande ispiratore Nick Bradbeer, straordinario guru della progettazione di
astronavi. Vorrei ringraziare anche Peter Godfrey-Smith per il suo libro Other Minds, che si è rivelato
un preziosissimo strumento di ricerca.
Oltre a questo team d’élite di scienziati, i miei ringraziamenti vanno come sempre a Simon
Kavanagh, il migliore fra gli agenti, e a Bella Pagan, nonché a tutti quanti alla Pat Macmillan che
hanno agito riguardo allo sviluppo di questo libro nello stesso modo in cui il nanovirus ha accelerato
l’evoluzione degli svariati animali di cui scrivo. Inoltre, non avrei potuto produrre questo romanzo (o
qualsiasi altra cosa) senza il costante supporto della mia paziente consorte, la dottoressa Anne-Marie
Czajkowski.