Sei sulla pagina 1di 466

ISBN: 9788834739372

Edizione ebook: settembre 2019


Titolo originale: Children of Ruin
© 2019 first published by Macmillan
an imprint of Pan Macmillan,
a division of Macmillan
Publishers International Limited
© 2019 by Gruppo Editoriale Fanucci Srl
Sede secondaria: via Giovanni Antonelli, 44 – 00197 Roma
tel. 06.39366384 – email: info@fanucci.it
Indirizzo internet: www.fanucci.it
Proprietà letteraria e artistica riservata
Tutti i diritti riservati
Progetto grafico: One Digital Factory Srl
Sommario
Copertina
Frontespizio
Copyright
Dedica
Esergo
Passato 1
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Presente 1
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Passato 2
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Presente 2
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Passato 3
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Presente 3
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Passato 4
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Presente 4
Capitolo 1
Capitolo 2
Capitolo 3
Capitolo 4
Capitolo 5
Capitolo 6
Capitolo 7
Capitolo 8
Capitolo 9
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
Capitolo 15
Capitolo 16
Capitolo 17
Capitolo 18
Capitolo 19
Capitolo 20
Futuro
Epilogo
Ringraziamenti
A Paul
Se potete guardare dentro i semi del tempo,
e dire quali chicchi germoglieranno e quali no...
WILLIAM SHAKESPEARE, Macbeth
Passato 1
Solo un’altra genesi
1

Così tante storie cominciano con un risveglio. Disra Senkovi aveva


dormito per decenni. A casa era passato un tempo pari a una vita intera
mentre lui dormiva; una frazione di una vita era scivolata intorno alla sua
ignara forma, il tempo contratto lungo il gradiente della relatività dalla sua
prossimità alla velocità della luce. Per lui, però, il tempo non esisteva, non
c’era niente a parte l’oblio della camera del sonno criogenico. Un tempo
sapevano costruirle bene.
Senkovi scelse come svegliarsi. Alcuni dei suoi colleghi, quelli che lui
considerava meno dotati di immaginazione, lasciavano che il sistema li
alimentasse con informazioni di importanza cruciale per la missione, notizie
da casa, misurazioni relative alla nave, in modo da poter emergere dal
sonno criogenico con la mente piena di dati, pronti a saltare alle loro
postazioni e iniziare la giornata avvantaggiati. Era ridicolo, considerato che
il lavoro che avevano davanti sarebbe durato decenni. Senkovi aveva
sempre avuto una scarsa opinione della maggior parte dei colleghi.
Invece, paradossalmente, lui si svegliò con un sogno.
Fluttuava nell’acqua di un caldo e pulito Mar dei Coralli che non esisteva
in quello stato vergine da molto tempo prima della sua nascita, con il sole
che filtrava attraverso la superficie come un’abbondanza di zaffiri. Sotto di
lui, una ricostruzione quanto più possibile vicina all’originale della Grande
barriera corallina si stendeva a perdita d’occhio in una profusione
multicolore di rossi, porpora e verdi, come una città aliena. La vita
vorticava intorno a quella metropoli di coralli in un tumulto di movimento,
nuotando, sospingendosi con getti d’acqua, fluttuando, strisciando. Si girò
con delicatezza, rivolgendo uno sguardo da divinità benevola alla sua
creazione, in uno stato fra il sonno e la veglia, in modo da provare la gioia
di aver dato vita a tutto questo senza il dolore di sapere che l’originale era
morto molto tempo prima di lui.
Alla fine, uno dei suoi amici speciali segnalò la propria presenza
strisciando con il corpo malleabile fuori da una crepa nella roccia per
ondulare cautamente verso di lui. Occhi simili ai suoi e tuttavia diversi lo
contemplarono con quella sorta di surrogato di saggezza che in realtà la
natura ha dato soltanto ai gufi. Esso – determinare il sesso di un polpo non
era una cosa facile in quello stato di distacco – protese un tentacolo verso di
lui, come un Adamo che si rivolgeva alla sua divinità, e Senkovi lasciò
fluttuare la mano verso l’esterno per accettare quel tocco.
Era un bel sogno. Lo aveva programmato lui stesso, creando una
complessa sequenza di stimoli mentali che attingeva ai suoi ricordi specifici
e li accorpava in qualcosa di simile a un romanzo. Era pur sempre una cosa
da sogno, irreale, ma siccome era a quello che mirava, andava bene così.
Per far sì che la cosa si verificasse aveva anche dovuto accedere ai
computer di bordo con una certa ingegnosità, dato che gli incontri con la
fauna marina non figuravano sul menu del giorno quando si trattava di
scegliere una sequenza di risveglio. La parte difficile non era stata quella di
inserire la sequenza neurologica nel database di bordo, ma piuttosto di
cancellare ogni traccia della sua alterazione. A quel punto, tuttavia, era già
entrato e uscito dai sistemi della missione un sacco di volte senza che
nessuno se ne accorgesse e questo lo aveva portato alla conclusione che il
personale dell’iniziativa di terraformazione, a casa, fosse quanto mai
negligente riguardo alla sicurezza digitale, ma alla fine aveva scrollato le
spalle con indifferenza e aveva continuato con i suoi armeggi personali.
Dopotutto, qual era la cosa peggiore che poteva succedere?
Nel corso dei suoi viaggi all’interno dell’architettura virtuale dei
protocolli della missione si era anche trovato faccia a faccia con Disra
Senkovi, o quantomeno con il profilo e la valutazione abbinati a quel nome.
Se da un lato era scontato che tutti i membri dell’equipaggio fossero tecnici
di una perizia estrema, lui era stato interessato a vedere soprattutto i risultati
della valutazione sulla sua personalità. In una missione multidecennale
come questa c’erano due poli principali che tendevano in direzioni opposte.
Uno era relativo a quanto se la sarebbe cavata bene un membro
dell’equipaggio a lavorare in isolamento per lunghi periodi di tempo e a
quanto avrebbe potuto tollerare di essere separato dalla massa dell’umanità
e dal corso della storia umana. Sotto quell’aspetto aveva un punteggio
eccellente. L’altro polo riguardava il lavorare in un ambiente ristretto
insieme ad altri esseri umani alla cui vicinanza non ci si poteva sottrarre, e
Senkovi si era sentito turbato nel vedere quanto era andato vicino all’essere
escluso sulla base di quel punteggio. Si considerava un uomo affabile ed
estroverso. Dall’età di nove anni si era dedicato alla costruzione di
pseudointelligenze con cui fare conversazione e a casa non si era forse
circondato di animali domestici più di quanto avesse fatto qualsiasi altro
membro dell’equipaggio? Quale migliore indice di una natura amorevole e
piena di calore? Aveva posseduto diciannove acquari, tre dei quali
abbastanza grandi da potervisi immergere, e molti dei loro cittadini
acquatici erano stati per lui come amici intimi. Come poteva chiunque
considerarlo antisociale, per non parlare di quei commenti ingiusti e
dolorosi?
Naturalmente stava facendo dell’ironia. Loro si riferivano ad amici umani,
e quello non era mai stato il suo punto forte. Tuttavia, ne aveva avuti alcuni,
e lavorava bene in un ambiente dedicato a uno specifico compito, in cui
tutti erano concentrati su uno scopo comune. E nei momenti di riposo e di
relax, anche se non era di certo l’anima della festa, quantomeno badava a
non pestare i piedi a nessuno. Inoltre, a suo umile parere, non c’era essere
umano vivente che apprezzasse le battute più di lui, era solo che nessun
altro trovava divertenti le sue.
In ogni caso, la sua generale inoffensività sociale, unita alla sua innegabile
competenza, era bastata in stretta misura a garantirgli un posto
nell’equipaggio, e poi una qualche combinazione delle valutazioni e delle
subroutine del computer gli aveva assegnato la posizione di capo del team
di terraformazione, di un solo gradino al di sotto del comandante generale,
perché se si aveva nel gruppo un genio leggermente folle era probabilmente
meglio affidargli il timone piuttosto che un remo. Quello era il commento
esatto dello psicologo che aveva consigliato di promuoverlo e Senkovi, che
si era introdotto anche in quel file, aveva molto apprezzato l’implicito
complimento.
Adesso però avevano bisogno di lui sveglio. Si protese in quell’oceano
irreale, ma il tocco del tentacolo non raggiunse mai le sue dita e comunque
tutti i suoi animali domestici erano morti da tempo su una Terra distante
oltre trenta anni luce.
Disra Senkovi aprì gli occhi, consapevole di avere ancora sulla faccia il
sorriso beato che lo aveva accompagnato nel sogno. Si sentiva riposato e
pronto a iniziare la giornata. Una rapida interrogazione dei sistemi di bordo
gli garantì che erano arrivati, che il loro lungo viaggio freddo era finito e
che la decelerazione si era conclusa. Si mise a sedere, stiracchiandosi (più
una formalità che per una qualche necessità effettiva, ma del resto era
abituato a fare ogni sorta di cosa perché le persone le fanno, come
contentino per la sensibilità dei suoi compagni). Non era solo nel
compartimento ma non era circondato dalla confusione di un equipaggio
ora sveglio. Invece, la sua esibizione aveva un pubblico di una sola persona:
Yusuf Baltiel, il comandante generale.
«Capo» lo salutò. La mancanza di un motivo per il fatto che Baltiel stava
assistendo al suo risveglio era sconcertante. A Senkovi piaceva conoscere il
rapporto fra causa ed effetto, e di solito era abbastanza furbo da evitare
sorprese. Interrogò di nuovo la nave e scoprì una quantità di dati a cui gli
era negato l’accesso, bloccati per chiunque tranne Baltiel.
Questo non fa presagire niente di buono.
«Mi serve una seconda opinione» gli disse Baltiel.
«Fammi indovinare. Il pianeta non c’è?» Quella era stata una battuta
relativa alle prime esosonde – a volte i dati indicavano che c’era un pianeta
simile alla Terra, ma gli indicatori erano soltanto un mucchio di altri fattori
che cospiravano per dare quell’impressione. Naturalmente, era stata
davvero mandata qui una sonda, molto più veloce di quanto potesse fare
una nave che trasportava esseri umani, aveva controllato che ci fosse
effettivamente un pianeta terraformabile e aveva fatto rapporto. Non
avrebbero mandato una missione con personale umano per un capriccio,
giusto? Senkovi non voleva davvero che fossero costretti a invertire la rotta
e tornare a casa.
«C’è un pianeta.» Solo allora Senkovi notò la strana tensione di Baltiel,
un uomo che in genere era assolutamente controllato ma che adesso pareva
vibrare come una corda di chitarra pizzicata. «C’è un pianeta,» ripeté «ma
abbiamo anche un problema. Per ora lo sto mantenendo riservato, ma è una
cosa troppo grande perché sia io a decidere. Ho bisogno che veda anche tu.»
A causa del blocco – che Senkovi trovava un approccio infantile alla
situazione – dovettero recarsi fisicamente al Comando Generale per vedere
la cosa che tanto agitava Baltiel. Tutti gli altri erano ancora serenamente
ibernati, quindi chi avrebbe dovuto tenere a bada tutto quel comportamento
da romanzetto di cappa e spada? Senkovi continuò a rivolgere domande al
sistema per scoprire cosa poteva o non poteva sapere, perché il computer
non era in grado di dirgli cosa fosse off limits per lui finché non avesse
toccato un tasto sensibile, inducendolo a sbarrargli il passo. Il camminare
vero e proprio da un posto a un altro era, a suo parere, una cosa che il futuro
avrebbe dovuto eliminare già da tempo, e le sue gambe avevano difficoltà a
gestire la gravità rotazionale, il che lo costrinse a percorrere la curva
dell’anello dell’equipaggio barcollando a gambe larghe per adeguarsi al
passo deciso di Baltiel. Scoprì con un senso di disagio che il comandante
stava bloccando le trasmissioni verso casa, nonostante il fatto che qualsiasi
richiesta di aiuto urgente che Senkovi avesse potuto inviare avrebbe
impiegato trent’anni ad arrivare a destinazione. Come se lui avesse potuto
tenere a bada per tanto tempo, o anche per un solo momento, un Baltiel
animato da intenti omicidi.
«Dimmi semplicemente di cosa si tratta, capo» si lamentò, rivolto alla
schiena del compagno.
Baltiel si fermò e si girò. Sul suo volto c’era una sorta di fervore che
strappò a Senkovi un sussulto. Ha trovato Dio, fu il suo pensiero
immediato, il che non era una cosa positiva sotto molti aspetti, soprattutto
considerando le ultime notizie da casa. Mentre si svegliava aveva
oziosamente passato in rassegna gli aggiornamenti – tutti obsoleti da
decenni, ma pareva che qualche tempo prima la Terra avesse avuto dei
problemi con il terrorismo antiscientifico e altre cose del genere.
Ti rende felice di essere nello spazio, amico.
«Ho bisogno che tu veda.» Baltiel non faceva il misterioso per il gusto di
farlo. Si era fatto carico di condividere la rivelazione e aveva fallito.
Altri cento passi incerti e arrivarono al Comando Generale, dove i grandi
schermi mostravano dati solari e planetari, nonché una rappresentazione
visiva del sistema di destinazione che avevano finalmente raggiunto, noto
come Tess 834, dal satellite terrestre che molto tempo prima lo aveva
individuato nel firmamento.
Senkovi cominciò dalle cose più importanti, accertandosi che la stella non
stesse per entrare in nova, controllando che non ci fossero gravi
sconvolgimenti o assenze fra i pianeti Tess 834b, c e d, i tre colossali
giganti gassosi che occupavano la fascia centrale del planetario virtuale e
avevano il privilegio di chiamarsi con le prime lettere dell’alfabeto perché
la loro massa era stata la prima a essere individuata dalla strumentazione
terrestre. Due di essi avevano dimensioni simili a quelle di Giove, mentre il
terzo era molto più grande.
Costituiscono una bella protezione contro le meteore per i mondi interni,
pensò.
I pianeti e e f erano più esterni, mostri di roccia e ghiaccio che seguivano
un sentiero solitario nelle distese dello spazio dove il sole del sistema era
poco più di una stella fra le tante. I pianeti interni erano tre, uno dei quali
ruotava praticamente all’interno dell’atmosfera esterna della stella, mentre
gli altri due erano vicini l’uno all’altro nell’ampia fascia abitabile, ma erano
quanto più diversi potevano esserlo due fratelli. Senkovi acquisì altri dati,
continuando a cercare il problema. Il più esterno dei due, Tess 834g, era un
po’ più piccolo della Terra e riluceva di un’albedo ghiacciata attraverso una
sottile atmosfera libera da gas serra. Qualsiasi calore diretto verso di esso
veniva riflesso e si perdeva nello spazio. Che fosse o meno nella zona
aurea, qualsiasi Riccioli d’Oro o altro biondo visitatore si sarebbe ritrovato
con il porridge congelato, salvo che in piena estate e lungo l’equatore.
L’altro pianeta – il loro bersaglio, Tess 834h – era più caldo della Terra,
leggermente più grande, con un’atmosfera caldo-umida che tratteneva il
calore e accumulava gelosamente tutto ciò che il sole gli inviava. Aveva una
luna abbastanza grande da generare maree con la sua forza di gravità e da
mantenere stabile il suo asse di rotazione, e i dati iniziali dei sensori
indicavano la presenza della maggior parte degli elementi che la vita umana
avrebbe trovato utile. Nel complesso, sarebbe stato compatibile per
l’abitazione umana, una volta che avessero lasciato mano libera ai
terraformatori su di esso. Potevano installare un’ecologia funzionante con
un minimo di fatica, e poi un giorno forse la gente sarebbe potuta venire a
vivere qui. Oppure quella pazza, Kern, sarebbe arrivata e avrebbe fatto cose
innominabili nel nome della scienza. Gran parte del team di terraformazione
provava un senso di frustrazione nei confronti del loro glorioso campione e
capo, Avrana Kern, perché le sue priorità non sembravano corrispondere
alle direttive della missione, mentre Senkovi si sentiva frustrato perché lei
faceva tutte quelle cose divertenti di cui avrebbe preferito occuparsi lui
stesso.
«Qui sembra tutto...» A posto. Solo che sembrava un po’ troppo a posto,
ora che ci pensava. In particolare, la percentuale di ossigeno su Tess 834h
era più elevata di quanto si sarebbe aspettato. «Ah... Cosa sto...»
«Questo è stato uno dei rilevamenti successivi» disse Baltiel da sopra la
spalla. «A quel punto erano molto focalizzati e avevano rinunciato a cercare
l’altra roba, quella del campo di sinistra.»
La roba vera. Baltiel non lo aveva detto, ma Senkovi sentì lo spettro di
quel pensiero nelle sue parole.
La nave aveva eseguito a sua volta dei rilevamenti nell’avvicinarsi al
sistema di Tess 834, usando una strumentazione molto più avanzata di
quella delle vecchie esosonde per tracciare un quadro dettagliato della sfida
che li aspettava quanto a terraformazione. La nave non era rimasta
sconcertata da quei dati e neppure aveva ritenuto di aver fatto una scoperta.
Proprio come l’esosonda, la nave poteva solo vedere quello che stava
cercando. Anche Senkovi stava incontrando una difficoltà simile. Richiamò
sullo schermo la migliore immagine visiva del pianeta, scattata dalla nave
mentre vi saettava accanto nel frenare ruotando intorno al sole fra il rosso e
l’arancione. Un singolo megacontinente marrone, un grande mare del colore
dell’inchiostro, ciuffi di nubi a spirale.
«Se devo essere sincero, sembra il territorio ideale per la
terraformazione...»
Baltiel però non disse nulla e alla fine ogni suono presente nella stanza,
ogni fruscio e mormorio, cadde nel vuoto cavernoso del suo silenzio mentre
lui aspettava che Senkovi scorresse i dati come un’illusione ottica fino a
vedere l’altro lato della storia. Alla fine, lui smise di guardare le letture
come avrebbe fatto l’esosonda, leggendoli invece da essere umano, e anche
lui scivolò nel silenzio.
Si erano spinti quanto più lontano dalla Terra avesse mai fatto qualsiasi
essere umano, viaggiato per una generazione, lasciandosi alle spalle un
pianeta che si frammentava nello scompiglio politico, per donare la vita a
questa lontana sfera deserta. Ma erano arrivati troppo tardi. La vita era già
lì.
2

La nave di terraformazione era stata chiamata Egeo e tutti, tranne Senkovi


e Baltiel, supponevano che quello fosse solo un altro nome tratto da una
lunga lista elettronica che un qualche computer teneva per dare alle navi
nomignoli inoffensivi. Il caso voleva però che Senkovi fosse entrato
illegalmente nella parte vulnerabile della catena di dati e avesse cambiato il
nome da Maratha in Egeo perché lo preferiva, ma era inutile lasciare che la
cosa divenisse di dominio pubblico, non con tanti altri problemi da
affrontare.
La Egeo aveva un equipaggio di tredici elementi e adesso ciascuno di essi
era sveglio. Il database della nave era occupato da undici uomini e donne
che cercavano di capire cosa stesse succedendo. Senkovi avrebbe preferito
esporre pubblicamente l’informazione o non dire loro nulla, ma Baltiel
aveva la natura di un intrattenitore e inoltre stava per proporre che si
allontanassero in modo piuttosto radicale dalla loro missione. Preavvertito,
Senkovi era già al lavoro per stilare le sue controproposte, perché era
venuto fin là per una ragione e non gli andava molto che la gente mandasse
all’aria le sue routine, anche se erano state pianificate con un anticipo di
decenni.
Prima di svegliare gli altri, lui e Baltiel si erano dati da fare. La Egeo era
in un’orbita stabile intorno a Tess 834h, anche se il blocco dei dati si
estendeva agli schermi visori, che altrimenti avrebbero offerto una vista
panoramica del mondo sottostante, come da una finestra. I due avevano
messo insieme un drone per una missione speciale di esplorazione a lungo
raggio nell’atmosfera. In tutta onestà, la cosa più complessa era stata
disinfettare a fondo quell’arnese. C’erano microbi terrestri che potevano
sopravvivere al vuoto e al calore dell’ingresso nell’atmosfera, e un secolo di
industria spaziale aveva creato un bizzarro nuovo habitat popolato da batteri
e funghi che si erano evoluti per sopravvivervi. Di solito i terraformatori
non si preoccupavano di questo genere di cose, perché, dopotutto, il loro
lavoro era quello di seminare sui nuovi pianeti quanta più nuova vita
possibile, ma Baltiel non voleva correre rischi. Quello là fuori era un
mondo vivente, e l’ultima cosa che voleva era scatenarvi un’apocalisse
microbica.
Così avevano stampato la sonda, costruendola da zero in condizioni
sterili, l’avevano rivestita di schiuma e poi lanciata nello spazio, con la sua
armatura di gomma che si era consumata fino a far rimanere soltanto il
drone vergine, mai toccato da mani umane.
A quel punto lo avevano lanciato nell’atmosfera del pianeta perché desse
un’occhiata. L’immaginazione di Senkovi era piena di pozze algali,
biopellicole, stromatoliti. La storia della vita sulla Terra era contrassegnata
da una lunga era di primitivi organismi unicellulari, soli o stretti gli uni agli
altri in colonie improvvisate e prive di organizzazione. La vita complessa
era soltanto la schiuma recente sulla superficie di una grande vasca di
procarioti che si nutrivano, si scindevano e morivano. Questo era ciò che si
erano aspettati di trovare: una feccia fatta di vita indifferenziata aggrappata
alle coste di quell’unico, grande continente.
Poi il drone si era abbassato abbastanza da cominciare a registrare
immagini, e loro erano rimasti a guardare, rivedendo le loro impressioni e
scambiandosi occhiate. Senkovi si era torto le mani di fronte alle
implicazioni che questo aveva per il suo lavoro; Baltiel era rimasto
immobile, un uomo a cui era stato dato un destino.
Avevano messo in orbita il drone e ordinato alla nave di svegliare gli altri,
e adesso erano lì, riuniti tutti insieme in modo che Baltiel potesse tirare di
lato il sipario e mostrare loro la magia.
«Probabilmente vi starete chiedendo se sono impazzito» cominciò. In
effetti, si era tenuto informato sulle interrogazioni che avevano rivolto ai
sistemi di bordo, usando l’accesso del Comando Generale per ascoltare le
conversazioni in corso tramite i loro impianti. In effetti, alcuni di loro
pensavano che avesse subito un crollo nervoso come risultato del processo
di ibernazione, anche se si supponeva che le moderne unità rendessero la
cosa impossibile. Altri avevano consultato le notizie dalla Terra, vagliando
tutti i segnali che avevano inseguito la Egeo e giungendo alla disagevole
conclusione che la Terra – almeno com’era trent’anni prima – era di fatto,
se non di nome, nella morsa della guerra. Baltiel stava forse per schierarsi
con l’una o con l’altra parte? O stava per accusare alcuni di loro di essere
traditori nemici della scienza? Il conflitto che stava maturando a casa – che
era stato in via di maturazione, comunque – andava al di là della
contrapposizione fra scienza e conservatorismo, ma dal momento che erano
tutti scienziati, ovviamente questo distorceva la loro visione delle cose.
Alcuni avevano cercato di aggirare il suo blocco per ottenere maggiori
informazioni oppure, come nel caso della dottoressa Erma Lante, per
mandare un rapporto a casa. Senkovi, che adesso collaborava
volontariamente con Baltiel, era riuscito a frustrare tutti i loro tentativi per
lo stesso motivo per cui i bracconieri sono i migliori fra i guardiacaccia.
Quanto a ciò che Lante sperava di ottenere mandando un rapporto da quella
distanza, era impossibile saperlo. Erano una sorta di piccolo Stato composto
da tredici cittadini, tagliato fuori dal progresso umano e abbandonato su
un’isola deserta su un mare grande quanto l’universo.
«Guardate» disse loro Baltiel, una volta che li ebbe radunati tutti in una
delle sale riunioni della Egeo, e richiamò dal diario di bordo del drone gli
estratti che aveva selezionato.
Vista dall’alto di un nuvoloso cielo striato, in basso si allargava una
grande ciotola di un marrone rossiccio, attraversata da un paio di catene
montuose che sembravano file di vertebre parzialmente seppellite, suture
che tenevano insieme il megacontinente. Quello era l’arido cuore rovente
delle latitudini tropicali e il drone stava procedendo in modo costante al di
sopra di una depressione polverosa grande quanto l’Asia. Da quella
distanza, senza ingrandimento, l’area sembrava quasi amorfa, ma poi
l’inquadratura si abbassò quando il drone iniziò la discesa controllata. I dati
relativi all’altitudine, alla temperatura e a tutto il resto apparivano alla base
dell’immagine sottoforma di appunti che cambiavano di continuo.
Per un momento, quello laggiù avrebbe potuto essere il vecchio Marte,
tranne per la mancanza di crateri. Quel mondo era un deserto terribile e
inospitale, maturo perché l’umanità lo trasformasse in un nuovo Eden.
Il drone scese ancora più in basso, spostandosi verso nordest. Più avanti
c’era una linea di oscurità, là dove cominciava la notte, e la ripresa vi si
stava avvicinando. L’inquadratura cambiò, si ingrandì, si spostò di scatto
sulla destra – frutto dell’editing successivo effettuato da Baltiel, una cosa
goffa perché lui era un sognatore ma questo non ne faceva necessariamente
un artista.
Nel deserto c’erano alcuni laghi, anche se non era chiaro di cosa fossero
pieni. Saltavano all’occhio in mezzo alla monotona distesa marrone:
chiazze di giallo, di rosso ferro, del blu verdastro dei composti del rame, e
spesso cerchi concentrici di un improbabile colore dall’aria tossica erano
contenuti dentro un altro cerchio e un altro ancora. Sembravano tutte vaste
pozze di una qualche fabbrica sul punto di essere chiusa da una lobby di
ambientalisti, con le coste incrostate di cristalli scintillanti. Era una vista
splendida, ma era anche il simbolo di qualcosa di ostile alla vita umana. Il
display registrava una temperatura di 71 °C.
Il drone si abbassò ancora. Non c’era sonoro, ma del resto i soli suoni
sarebbero stati quello del vento, lo stridere della sabbia e il ruggito delle
prese d’aria della macchina che lottava per evitare il surriscaldamento.
Qualcuno aveva tracciato disegni nella terra intorno alle pozze e anche
nell’acqua velenosa. Erano complesse immagini radiali e diramate che si
incontravano le une con le altre. Baltiel riteneva che fossero qualcosa di
simile a colonie di batteri, Senkovi sosteneva che potevano essere
altrettanto facilmente qualcosa di inorganico. Quelle però erano le immagini
meno eccitanti fra quelle che voleva mostrare all’equipaggio. Dopotutto, era
un uomo di spettacolo.
Baltiel dovette tuttavia percepire che il suo pubblico cominciava a farsi
irrequieto, dopo aver contemplato un deserto alieno per quasi trenta minuti.
L’immagine offerta dal drone cambiò ancora, spostandosi verso le punte di
una delle catene montane e ingrandendo l’inquadratura fino a mostrare un
punto che si spostava sulla superficie di quella roccia rossa. Anche se il
drone stava facendo il massimo che gli era possibile, era difficile capire
cosa stessero guardando. Qualcosa di pallido si muoveva nell’aria e
l’occhio umano si sforzava di dargli la forma di un uccello o di una
macchina. Adesso somigliava soprattutto a un fragile sacco di plastica che
saliva e scendeva spinto dal vento.
Nel punto in cui il deserto incontrava le montagne il vento era forte.
Dopotutto, era stato padrone del territorio e adesso quelle superfici rocciose
sempre più alte venivano a bloccarlo. Il drone registrò nuvole di polvere fra
il rosso e il marrone, vortici di sabbia, un grande complesso di correnti
termiche che vorticavano verso l’alto e trasportavano ogni sorta di sottili
detriti nella fascia superiore dell’atmosfera.
La videocamera aveva perso di vista il sacco di plastica, che però adesso
era rientrato nell’inquadratura, molto più vicino. Intanto il drone stava
salendo di quota, adesso era al di sopra dei picchi e guardava verso il basso.
La cosa – innegabilmente vivente – procedeva ondeggiando pigramente
lungo la linea delle montagne.
«Pensiamo sia larga oltre dieci metri» irruppe Baltiel, perché il drone dava
poche indicazioni sulle dimensioni.
Era come una medusa, una cosa fatta di strati di una sottigliezza assurda
disposti in uno schema radiale, che cavalcava i venti trascinandosi dietro
filamenti a stento visibili, salvo dove brillavano alla luce del sole. Nel
seguirne a lungo il volo, Baltiel fece notare che non si trattava soltanto di
detriti trasportati dal vento e alla mercé degli elementi: al suo interno una
qualche struttura ne modellava di continuo la forma e le dimensioni come
se un equipaggio di marinai stesse issando e ammainando le vele.
L’opinione generale fra il pubblico era che forse Baltiel vedeva ciò che
voleva vedere, ma tutti concordavano sull’avere davanti un enorme
celenterato aereo. Tutti vedevano l’alieno. Qualsiasi cosa pensassero delle
conclusioni personali di Baltiel, lo stato d’animo del pubblico era appena
cambiato per sempre, come lo erano i suoi componenti.
Erano i primi uomini che stessero posando lo sguardo su qualcosa che si
era evoluto su un altro mondo e non doveva nulla alla Terra.
«E questo non è ancora niente» aggiunse Baltiel, passando all’elemento
successivo della sua playlist extraterrestre.
Questo era uno dei suoi preferiti, per la sua pura qualità artistica. Il drone
fluttuò attraverso un cielo notturno, sopra un territorio che sembrava
spoglio, aspro e tuttavia piatto: era un’altra area desertica, ma si trattava di
alture della zona temperata, un pianoro grande all’incirca quanto il Texas
(di cui, per puro caso, aveva anche la forma). La luna del pianeta era una
falce d’argento nel cielo, e il drone fece del suo meglio per amplificarne la
luce. In basso, il terreno aveva una strana consistenza, era segnato da
agglomerati nodosi che sembravano pugni serrati, ciascuno al centro di uno
spazio vuoto, lontano dai suoi vicini.
Il tempismo fu frutto di un puro colpo di fortuna. Guidato da Baltiel, il
drone stava ancora cercando di capire cosa stesse vedendo quando l’alba
affiorò oltre il limitare del mondo, diffondendo la sua luce rossa. Mentre il
giorno si faceva luminoso sul pianoro, i pugni si allargarono a spirale,
protendendo cinque braccia la cui superficie interna era scura come una
pozza: non aveva il verde della clorofilla e neppure nessun altro colore,
sembrava che si trattasse più di cellule solari che di piante, eppure
assorbivano di certo la luce solare in uno scambio analogo a quello della
fotosintesi. E per fare cosa? Il loro mondo era delimitato dalla superficie del
pianoro che ricoprivano. O forse quella forma sessile era soltanto quella
dell’individuo adulto e le larve viaggiavano con il vento per essere catturate
e mangiate dalle enormi meduse... Forse, forse, le migliori ipotesi avanzate
da Baltiel o da chiunque di loro erano come sputi lanciati nell’uragano
dell’ignoto.
Ora il drone sorvolava il mare, ma quello era un mezzo per il quale era
inadatto e l’acqua risultava quasi del tutto opaca. C’era però qualcosa che
sguazzava appena sotto la superficie, un’enorme cosa rotonda simile a una
pallida ombra che luccicava in quell’oceano scuro come l’inchiostro.
Incapace di ottenere dati maggiori, il drone proseguì. Adesso potevano
vedere piccoli noduli che dondolavano sulle onde – nel contesto, ‘piccoli’
significava che erano più grandi di esseri umani, ma che apparivano
minuscoli in confronto all’immenso oceano scuro. I noduli erano
trasparenti, venati. Baltiel pensava che potessero essere meduse volanti non
ancora mature. Forse. Forse.
Mostrò loro anche i poli, dove non c’erano né terra né ghiaccio, solo uno
strano sargasso di filamenti, spire e fiori che si estendeva per centinaia di
chilometri quadrati. Visto dall’alto, tutto era organizzato in mozzi e raggi in
un bizzarro schema dall’incastro perfetto. Il groviglio appariva vivente ma
inanimato, e tuttavia si aveva la sensazione di un costante movimento dal
basso.
A questo punto nessuno inviava più interrogazioni al computer o cercava
di aggirare il blocco. Li aveva in pugno, e chi poteva biasimarli? Tuttavia,
aveva conservato la cosa migliore per ultima.
Questa sequenza finale mostrava il punto dove il mare incontrava la terra,
schermata dell’interno cotto dal sole delle montagne che arrestavano l’aria
umida e ne estraevano tutta la pioggia che aveva da offrire. Qui erano ad
alte latitudini, ancora molto calde secondo gli standard terrestri, ma che
costituivano una boccata di aria fresca se paragonate al clima letale dei
tropici. L’inquadratura del drone sorvolò un panorama piatto di pozze,
ruscelli e fango, una palude salmastra che si stendeva a perdita d’occhio.
Dovunque c’era vita che apriva petali, foglie o altri organi alieni al sole,
scavava le radici per estrarre i minerali, portati dal mare, dal terreno saturo
di sale. O forse faceva qualcosa d’altro, un qualche processo alieno che non
aveva un equivalente terrestre. Tutto era basso e stentato, la biologia di quel
mondo non aveva prodotto niente che potesse tenere in piedi un alto albero.
Ogni cosa era nerastra, con iridescenti accenni fra il blu e il verde o il rosso
ruggine. Il drone scese più in basso, le sue lenti che cercavano tracce di
movimento. Qualcosa guizzò fra esso e il terreno, qualcosa di alato, e
decisamente non una medusa, pallido e rapido, che si spostava con una serie
di balzi successivi attraverso l’aria in modo dissimile da un uccello. Sulla
sua scia ci fu altro movimento sul terreno, e fu impossibile resistere a quella
narrazione del rapporto fra preda e predatore aereo. C’erano cose simili a
pietre spinose che cominciavano a muoversi, spostandosi lentamente
pascolando lungo il bordo delle pozze.
Baltiel concluse lì la sua presentazione. Avevano visto quanto bastava per
sapere che ci doveva essere molto altro da vedere.
Oh, forse uno o due covavano una qualche vaga delusione, generata da un
certo tipo di storia Perché quando si visita un mondo alieno e se ne
incontrano gli abitanti, si suppone che gli alieni siano in grado di salutarti.
Per quanti progressi potesse fare la scienza, la mente umana continuava a
porsi al centro dell’universo. Se non per cercare intelligenza, a cosa serviva
tutto questo? Dov’erano città, astroporti, anche solo le rovine abbandonate
di un’antica civiltà? Eppure quella era tutta la vita aliena mai scoperta che
era possibile vedere a occhio nudo. Era già un miracolo che si fosse evoluta
da analoghi di batteri; un miracolo che il risultato finale fosse qualcosa che
potevano riconoscere come ‘vita’.
A quel punto Baltiel rivide lo scopo della loro missione che, naturalmente
(e del tutto incidentalmente), era quello di distruggere tutto questo e
sostituirlo con qualcosa di più simile a casa.
Senkovi osservò con interesse le reazioni dell’equipaggio. Non c’era
nessuna garanzia che gli altri avrebbero visto le cose dal punto di vista di
Baltiel.
Dopotutto, come dicono i vecchi film, abbiamo viaggiato per trentuno
anni luce dalla Terra per terraformare pianeti e masticare gomma, e adesso
abbiamo finito tutta la gomma.
In realtà la gomma c’era, o quantomeno avevano i mezzi per fabbricarla,
ma il punto non era quello.
Dopotutto, qual era il ‘tipo’ del terraformatore? Erano dura gente di
frontiera, certo, tenaci ingegneri venuti per costruirsi una casa al limite
estremo della sfera di influenza dell’umanità, come gli antichi costruttori di
ferrovie. Solo che tutto questo era una fesseria, naturalmente. Qui nessuno
conduceva una vita disperata e pericolosa per mandare a casa qualche
penny per la famiglia, e non erano neppure coloni destinati a condurre una
vita dura sotto un cielo alieno finché loro stessi o il pianeta non si fossero
arresi gli uni all’altro. Una volta che le procedure accelerate di
terraformazione avessero attecchito, i terraformatori stessi sarebbero saliti
sulla prima nave in partenza, lasciando il pianeta vergine a qualcun altro
che venisse a viverci. Questo a meno che non avessero finito per amare la
loro opera al punto da decidere di andare contro la politica e gli ordini e di
rimanere. E a questo proposito...
«Questo mi ha posto di fronte a una sorta di dilemma» stava dicendo
Baltiel, esponendo la propria difficoltà, anche se aveva già trovato una
risposta. «Questa è una situazione senza precedenti e non è coperta dalle
istruzioni impartite per la nostra missione.» Fece una smorfia, richiamò altri
documenti sul display degli impianti mentali o sugli schermi di bordo
perché gli altri li studiassero. «Era presente in quelle delle primissime
spedizioni di terraformazione, quelle all’interno del sistema solare e le
prime missioni al suo esterno. A quel tempo tutti erano eccitati dalla
prospettiva di possibile vita extraterrestre, ma non hanno trovato neppure un
microbo, pur spendendo una grande quantità di denaro e di risorse. Così
questo aspetto è stato accantonato nelle missioni successive e nessuno lo ha
più inserito nel manuale. E non possiamo certo chiamare la Terra per
chiedere istruzioni e poi aspettare sessantadue anni per sentire cosa ne
pensano al riguardo. La decisione spetta a noi.» E con questo, naturalmente,
intendeva che spettava a lui.
Senkovi rifletté che sarebbero potuti tornare a dormire per sei decenni e
qualche anno, programmando la nave perché li svegliasse una volta che
sulla Terra avessero preso una decisione, ma questo puzzava di servile
devozione all’autorità, un comportamento che lui non aveva mai fatto suo.
Tuttavia, era sorpreso da questo ardore da crociato esibito da Baltiel, che
pareva avere un carattere molto meno ortodosso di quello che lui gli aveva
attribuito.
«Spero che appoggerete la decisione che sto per prendere. Non possiamo
semplicemente metterci al lavoro su questo pianeta» disse a tutti loro.
«Sarebbe un crimine, un genocidio di qualcosa che potremmo non
incontrare mai più nell’arco vitale della nostra specie.» Per lo più, stava
sfondando una porta già aperta. Cosa rendeva tale un terraformatore?
Apparentemente, la disponibilità a non terraformare se in giro c’era
qualcosa di più interessante, come se di colpo avessero tutti sviluppato un
disturbo dell’attenzione. Vedendolo accigliarsi, Baltiel gli rivolse un
messaggio mentale diretto: Li puoi biasimare?
No, e sono ampiamente a favore della tua decisione... Senkovi si ritrasse,
lasciando che il ‘ma’ aleggiasse nell’aria, taciuto.
C’era inoltre una manciata dei presenti che senza dubbio avrebbe preferito
terraformare: erano venuti fin lì per fare un lavoro, e anche se non erano
rimasti indifferenti alle meraviglie che avevano visto, non erano disposti a
rimanersene seduti con le mani in mano.
«Propongo di cambiare la nostra missione» disse a tutti Baltiel.
«Dopotutto la tecnologia di cui disponiamo è progettata per far fronte a
un’ampia gamma di compiti investigativi, come anche al ridisegnare interi
pianeti. Abbiamo il dovere di studiare quello che abbiamo trovato qui e di
stilare un rapporto per la Terra. Non saremo gli ultimi a visitare questo
pianeta, che per gli scienziati diventerà il gioiello della galassia, ma
possiamo essere i primi e fare un buon lavoro nel preparare il terreno di
base. Possiamo finire tutti quanti nei libri di storia.»
Quel ‘tutti quanti’ significava ‘io’, ma probabilmente ci sarebbero stati
altri nomi nelle note a piè di pagina o immortalati come elementi geografici.
Monte Senkovi... o forse no. Suonava come un’istruzione per un
tassidermista.
Di nuovo Baltiel li aveva quasi tutti in pugno, ma quelli scontenti per la
piega presa dagli eventi erano aumentati. Dopotutto, erano esperti scelti per
un compito particolare, che non era quello. Senkovi ne contò quattro:
Maylem, Han, Lortisse, Poullister. Gli altri sette erano pienamente
d’accordo con Baltiel riguardo a ciò che si doveva fare.
Decise che era arrivato il suo momento e inviò la richiesta di poter
prendere la parola. Baltiel gli scoccò un’occhiata in tralice, richiedendo un
contesto più esteso di quello, e per tutta risposta Senkovi gli scaricò nella
mente i dati relativi all’intero piano.
Vediamo se è intelligente quanto pensa di essere.
Baltiel sbatté le palpebre due volte – agli occhi degli altri si trattò solo di
una breve pausa – poi annuì con decisione. «A lei la parola, signor
Senkovi.»
Anche Senkovi sbatté le palpebre e si umettò le labbra aride, in quanto
preferiva essere chi segnava e non chi incassava quando venivano assegnati
i punti. Con tutti gli sguardi puntati su di lui tossì per guadagnare un po’ di
tempo. «Non è che ci lasceranno in pace, dopotutto» esordì. Non possedeva
la magniloquenza di Baltiel, riusciva a stento a non borbottare fra sé e sé.
«Sapete come chiamavano l’iniziativa di terraformazione quando abbiamo
lasciato l’orbita della Terra? Il Progetto Eterno. Perché è di questo che si
tratta. Qui è quando la razza umana diventa immortale, mi capite? Abbiamo
lasciato la Terra, stiamo creando nuove case fra le stelle, che le stelle ci
vogliano o meno. Abbiamo un potere divino. La gente verrà qui
aspettandosi di trovare una casa. Saranno adeguatamente impressionati
dalle meduse, dalle rocce che si muovono e da tutto il resto, ma poi
cominceranno a porre domande imbarazzanti, come: ‘Quale casa è la mia?’
Voglio dire, sapete com’è la gente, lo sappiamo tutti. Si lamenta, protesta e
chiede e ancora chiede. ‘Abbiamo viaggiato per trenta anni luce e voi ci
mostrate immagini di una palude.’» Azzardò un lieve sorriso e vide un paio
di persone che lo ricambiavano. Baltiel attendeva, inespressivo.
Come diavolo ha fatto ad assimilare tutto quanto? Ha chiesto alla nave di
analizzarlo per lui? Oppure ha violato i miei file e ha letto tutto prima della
riunione?
«Però Yusuf ha ragione» riprese Senkovi, abbozzando un gesto nervoso in
direzione di Baltiel. «Non possiamo portare a termine la missione, non
come si supponeva che facessimo, ma possiamo eseguirla lo stesso.
Guardate.» Cominciò a mostrare i suoi diagrammi e dati, dietro i quali si
poteva nascondere quanto bastava a permettere che la sua voce acquisisse
forza mentre proseguiva con l’esposizione. «Il prossimo pianeta, Tess 834g,
è per lo più una palla ghiacciata, al limite della zona in cui l’acqua è allo
stato liquido, ma è geologicamente attiva, e il corso di base di
terraformazione insegna che possiamo piazzare bombe di precisione lungo
le faglie in modo da attivare tutto contemporaneamente, in modo che, il
pianeta non rimanga a lungo una palla di ghiaccio. Espelleremo fuori
dall’albedo i gas derivanti da tutto questo e a quel punto il pianeta sarà
abbastanza caldo perché l’acqua rimanga liquida. C’è un po’ di terra, solo
un poco, ma ce ne sarà di più una volta che il ghiaccio si sarà sciolto.»
«Non molta di più» interloquì Han. «Rilevo il 2,1 percento dell’intera
superficie, tutte piccole catene di isole.» Inserì i propri calcoli estemporanei
nel display virtuale comune in modo che tutti potessero dare loro
un’occhiata. Lea Han era la più anziana fra tutti loro, di due anni più
vecchia di Baltiel, e anche così si due piedi la sua matematica era
impeccabile.
Nessuno ha interrotto Baltiel, pensò Senkovi, ma se non altro Han si stava
prestando al suo gioco.
«Allora i coloni vivranno su barche» suggerì. «Si tratta di questo o
dell’andare a vivere accanto agli alieni, e come andranno le cose dopo tre o
quattro generazioni? Credi che tutti si comporteranno da vicini
responsabili?»
«È una valutazione decisamente pessimistica dello spirito umano» obiettò
qualcuno – Senkovi cercò il nome e trovò quello di Sparke, insieme a un
fascicolo di valutazione che parlava di competenza affidabile senza però
genialità.
«Con cui si dà il caso che io sia d’accordo.» Baltiel stroncò
l’argomentazione sul nascere senza fatica. «Non sappiamo quale sarà il
quadro politico fra gli eventuali coloni.» L’espressione dei presenti indicò
che le vecchie notizie ricevute dalla Terra occupavano un primissimo piano
nella loro mente. I nuovi arrivati avrebbero potuto essere un’ondata di
maniaci ideologici venuti a praticare la loro mania lontano dalla portata dei
loro nemici sulla Terra. «Non sappiamo quali saranno le loro priorità»
proseguì Baltiel. «La mia è di conservare quello che abbiamo scoperto qui e
di studiarlo. Prenderò uno dei moduli indipendenti della Egeo per rimanere
in orbita intorno a 834h e cerco volontari per quella squadra. Il signor
Senkovi ha il mio appoggio per il tentativo di terraformare Tess 834g e a lui
rimarrà la maggior parte delle risorse della nave perché possa procedere.
Anche lui cercherà dei volontari, e posso garantire che quando finalmente
riceveremo notizie dalla Terra sarà la sua squadra ad avere un futuro nel
campo della terraformazione.»
Ma non è comunque interessante quanto studiare le meduse volanti,
concluse Senkovi, ma non poteva sostenere che Baltiel non gli avesse dato
un’equa possibilità di successo. Per quanto lo riguardava, stava già
considerando le sfide tecniche insite nel portare in vita il mondo ghiacciato.
Alla fine ottenne Mayhem, Poullister e Han, mentre Lortisse sfidò la
valutazione che aveva fatto di lui e si unì alla Squadra Alieni. Secondo i
suoi calcoli, tre collaboratori erano probabilmente due in più di quanti
gliene servissero, dato che dopotutto sarebbero state le macchine a fare tutto
il lavoro pesante.
«Una domanda» intervenne il brillante Sparke, proprio quando tutto era
stato deciso. «E se trovassimo la vita sotto il ghiaccio di 834g?»
Senkovi scrollò le spalle. «Allora, a meno che non possa comunicare via
radio e impari molto in fretta, probabilmente sarà fottuta» rispose.
3

Poteva esserci stata la vita. Quella era una cosa con cui doveva convivere.
In effetti, poteva essercene ancora, dato che le prime sonde inviate su
Damascus (Senkovi si era preso la libertà di assegnare un suo nome al
pianeta, come un colono abusivo, sfidando Baltiel a sfrattarlo) avevano
registrato una chimica complessa lungo bocche di ventilazione che
scendevano in profondità nel mare, ma poco altro al di là di questo. La
colonna d’acqua in sé stessa era sterile. Quella chimica era ancora là in
alcuni punti e, in effetti, due decenni di attività vulcanica accelerata in
modo colossale le avevano forse recato beneficio, spargendone l’habitat
lungo il fondale marino. Era vita? I risultati non erano concludenti.
Qualsiasi cosa fosse in corso là sotto sembrava riguardare più matrici di
argilla che membrane di cellule, e si basava su un equilibrio tossico di
sostanze chimiche che sarebbero state letali tanto per i nativi della Terra che
per quelli di Tess 834h, che Senkovi aveva privatamente ribattezzato Nod,
perché era teoricamente a est (o almeno verso il sole) rispetto all’Eden che
lui stava creando.
Nei suoi rapporti a Baltiel aveva minimizzato l’aspetto biochimico, pur
sapendo che lui non si sarebbe lasciato ingannare. Questo però creava fra
loro una comoda finzione che in seguito avrebbero potuto esibire a
vantaggio di futuri revisori del loro operato. Baltiel era più intelligente di
quanto Senkovi avesse supposto inizialmente. Dopo la sua grande
presentazione riguardo a 834g, Senkovi gli aveva chiesto: «Come hai fatto a
vagliare tutti quei dati abbastanza in fretta da prendere una decisione?»
Baltiel aveva detto soltanto: «Ho visto le tue valutazioni e tolleranze. Non
metteresti in gioco la tua carriera puntando sul cavallo sbagliato. Tutto
quello che avevo bisogno di vedere era che ti tenessi dannatamente alla
larga dal mio pianeta.» E aveva sfoggiato un blando sorriso da cui Senkovi
aveva appreso molte cose riguardo al suo capo. Una tendenza a recitare la
parte di Dio rientrava nel voler andare a terraformare altri mondi, ma era
buona pratica mostrarsi quantomeno cortese con il resto del pantheon. Una
volta Senkovi aveva incontrato Avrana Kern – evitarla era difficile – e
quella era una donna che incarnava Zeus, Odino e Jahvè tutti insieme. Nelle
sue intenzioni, il ruolo di Baltiel avrebbe dovuto essere soltanto quello di un
subordinato Vulcano, ma adesso aveva trovato un nuovo livello di divinità,
un progetto che Kern non poteva raggiungere e controllare attraverso
l’abisso dello spazio.
Tutto molto stancante, pensò. Questa volta era sveglio ormai da sei mesi,
perché dopo un paio d’anni di bombardamento mirato la fase vulcanica
primaria stava arrivando a completamento, per cui lui e i suoi uomini
avevano bisogno di avviare il prossimo stadio del processo. In quel
momento Han stava pilotando alcuni droni sulla superficie di Damascus,
mappando i nuovi confini del ghiaccio, che adesso era limitato a circa un
quarto della superficie e diviso fra i poli. Il pianeta era ancora dannatamente
freddo per gli standard terrestri, ma i gas serra si stavano accumulando per
bene e loro avevano installato una serie di collettori solari per incanalare
altro calore verso il pianeta.
L’atmosfera di Damascus era alquanto densa e prevalentemente inerte. Le
vaste quantità di acqua avevano donato al pianeta un po’ di ossigeno anche
senza niente che lo metabolizzasse in modo attivo, il che permetteva a
Senkovi di risparmiare un’enorme quantità di tempo, in quanto poteva
installare ossigenatori più complessi che avevano bisogno solo di un po’
dell’O2 presente nell’atmosfera per attivarsi. Stava per far diventare verdi i
mari, intasandoli di quel genere di alghe viscide che avrebbe fatto inorridire
una spiaggia piena di turisti. Questo avrebbe fatto strisciare verso l’alto il
contatore dell’ossigeno, ma naturalmente avrebbe anche significato
derubare il pianeta della CO2 che tratteneva il calore, il che voleva dire che
sarebbe stato necessario intensificare di una tacca l’attività vulcanica e la
produzione di gas serra per mantenere l’atmosfera del pianeta bilanciata
come un piatto rotante a cui non si poteva permettere la minima
oscillazione, anno dopo anno. Poi ci sarebbe stata un’altra pausa, che
avrebbe trascorso in prevalenza dormendo. Tuttavia, l’attuale fase di
osservazione e di attesa aveva messo alla prova la sua pazienza al punto da
spingerlo ad avviare alcuni progetti collaterali, adesso abbastanza avanzati
da far sì che stesse prendendo in esame la possibilità di trascorrere un altro
anno della sua vita dedicato a loro piuttosto che riservarlo all’effettiva
terraformazione.
Lanciò un’occhiata al suo compagno che era venuto a osservarlo
attraverso il vetro. «Cominci ad avere fame?» chiese, anche se non pensava
che fosse così. Paul era soltanto curioso, ma del resto la curiosità era
qualcosa che Senkovi gli aveva instillato, facendo leva sul suo lavoro sulla
Terra. In realtà per lui questo era stato solo un hobby, come la pittura per
Han o quei tediosi puzzle logici per Poullister, solo che aveva finito per
assorbire una tale quantità di risorse della missione da indurre Senkovi
pensare a qualche modo per sfruttarlo.
Baltiel chiamò in perfetto orario, con il segnale che arrivava con un
ritardo causato dal satellite di trasmissione in orbita intorno a Nod. Senkovi
ritenne che fosse il momento giusto per una rivelazione e aprì un canale
visivo.
Baltiel se la stava prendendo con calma su Nod. Stavano ancora lanciando
sonde accuratamente disinfettate che sorvolavano il pianeta, cercando di
creare un inventario del bioma e dei suoi contenuti, e passavano dormendo
il tempo che i sistemi impiegavano per generare ipotetiche tassonomie.
Senkovi dava un’occhiata ogni mese, ed era colpito dal suo autocontrollo.
Sapeva che il piano prevedeva di scendere sul pianeta in una biocupola
ermeticamente sigillata. Baltiel sarebbe stato il primo uomo a camminare
con gli alieni, ma solo con una tuta ermetica fra sé e loro, per la protezione
di tutti.
«Salve capo» esordì, esibendo il suo sorriso migliore. «Cominciamo a
seminare. La primavera algale è giunta su Damascus.»
«Ho visto.» Ovviamente Baltiel gli ricambiava la cortesia e controllava il
suo operato su base regolare. «Siete perfino in anticipo sul programma.»
«Siete voi a essere indietro.» Senkovi non riuscì a trattenere quel
commento. Con sua sorpresa, Baltiel fece una smorfia.
«Io...»
Naturalmente una delle ragioni che aveva fornito per il suo procrastinare
era stata che voleva aspettare che l’operazione di Senkovi fosse avviata e
stabile, in modo che l’equipaggio rimasto sulla Egeo potesse organizzare un
salvataggio se qualcosa fosse andato storto e viceversa. Senkovi aveva già
smantellato quella logica e deciso che c’erano vincoli più profondi e
personali che trattenevano Baltiel. E adesso la sua espressione gli
confermava quei sospetti.
«Vuoi fare una buona prima impressione» completò per lui la frase «e
avrai una sola possibilità.»
«Esatto.» Il sorriso di Baltiel era più gentile di qualsiasi espressione
Senkovi avesse mai visto sul suo volto. «Scenderemo laggiù, è tutto
pianificato, ma continuo a fare controlli su controlli. Ho nel laboratorio
campioni che ho esposto a ogni microbo presente nel corpo umano, a ogni
molecola della Terra.»
«E viceversa, spero.»
«Dovrebbe essere sicuro» affermò Baltiel, sicuramente per il suo bene
tanto per quello di chiunque altro. «A livello molecolare ci sono alcune
interazioni negative e laggiù c’è più arsenico di quanto ci piacerebbe in
condizioni normali. Ma un’interazioni biologiche? Nessuna. Non hanno il
nostro DNA, la nostra chimica cellulare, niente di tutto questo. Nulla sarà
ucciso da un banale raffreddore. Nessuno contrarrà un’influenza marziana.
E saremo tutti chiusi nelle tute, sigillati.» Pareva stesse cercando una
seconda opinione, quindi Senkovi annuì amabilmente.
«Ho esaminato la tua proposta e non vedo falle.» Avrebbe potuto
aggiungere altro, ma Paul scelse quel momento per staccarsi dall’angolo
della vasca e venire avanti per fissare lo schermo.
«Cosa diavolo è quello?» domandò Baltiel.
«Yusuf, ti presento Paul. Saluta Paul.»
Comprensibilmente, Paul non disse niente.
«Cos’è?»
Senkovi si accigliò. «È un polpo striato del Pacifico.» Effettuò un dump di
file di dati relativi ai cefalopodi di tutti i tipi, nel caso Baltiel fosse
criminosamente disinformato sull’argomento.
«Ma deve mancare ancora molto tempo alla diffusione di forme di vita
complesse.» Il lieve contrarsi degli occhi di Baltiel indicò che stava
scorrendo il piano della missione.
«Sì, ma...»
«Disra, quello è un animale domestico? Hai usato le risorse della missione
per allevare... ottopodi domestici?» Gli occhi ebbero un’altra lieve
contrazione da cui Senkovi comprese che il suo superiore aveva cercato il
termine che avesse il suono più complicato.
È il momento del raggiro a lungo termine. «Si tratta di questo. Nel nostro
progetto abbiamo davanti una quantità di lavoro sottomarino senza
precedenti perché, ovviamente, la maggior parte del pianeta è sommerso.
Ora, anche se abbiamo droni, remoti e tutto il resto, questo non basterebbe
se vogliamo rimanere nei tempi previsti.»
«Quindi non resterete in anticipo sul programma a lungo?»
Senkovi decise che poteva gettare il suo io del passato sotto l’autobus a
beneficio del suo io futuro. «Certo. Ero troppo ottimista. Tuttavia, ho una
soluzione. Paul ci può aiutare.»
Baltiel inarcò un sopracciglio e la reazione impiegò minuti a essere
trasmessa fra i pianeti ma Senkovi pensò che ne fosse valsa la pena di
aspettare.
«Sai del lavoro che Califi e Rus stavano svolgendo per la dottoressa
Kern?»
Le sopracciglia di Baltiel salirono di un’altra tacca perché attualmente
tutti sapevano di quel lavoro: di certo tutti sulla Terra avevano avuto
un’opinione al riguardo trentuno anni prima, e le opinioni che avevano
ricevuto di recente erano state estremamente esplicite. Per i reazionari quel
lavoro era stato un tema scottante, una giustificazione per il terrorismo,
laboratori fatti saltare in aria e scimmie brutalizzate. «Il lavoro virale» disse
in tono piatto.
«Quando siamo partiti non era stato del tutto completato, ma ho molte
delle loro ricerche e sono stato perfino coautore di uno dei testi.» Adesso
Senkovi non stava più guardando Baltiel negli occhi, la sua attenzione si era
spostata su Paul. «Quello che intendo è che non sto parlando di elevazione,
non come l’hanno realizzata loro, ma di qualche piccola modifica, un po’ di
accelerazione...» Per non parlare dell’estensione della durata della vita e
della sopravvivenza alla deposizione delle uova, ma preferisco non
menzionarli perché ne vorresti sapere il motivo. «In questo modo, quando il
mare sarà sufficientemente abitabile, potremmo avere una forza lavoro che
ci aiuti.»
Baltiel rimase in silenzio tanto a lungo che Senkovi controllò due volte il
collegamento per verificare che fosse ancora aperto.
Cosa farà? Si trova su un altro pianeta. Ha la sua personale ossessione.
Sta chiamando Han per ordinarle di rimpiazzarmi? Certo, allevo polpi. È
tanto sbagliato?
«Almeno, prima di cominciare ad armeggiare con loro sottoponimi un
piano preciso.» Quelle parole riscossero Senkovi, inducendolo a cercare di
nuovo il contatto visivo, e per un momento i due si fissarono a vicenda
attraverso migliaia di chilometri.
Tutti e due abbiamo travalicato le istruzioni ricevute, realizzò infine
Senkovi. Siamo angeli ribelli e quando Dio – e cioè Avrana Kern – si
renderà conto di quello che stiamo combinando, sarà troppo tardi.
«Lo farò» promise, sorvolando spensieratamente sul fatto che aveva già
cominciato. Dalla sua vasca, Paul lo osservava con un occhio dalla pupilla
orizzontale, i tentacoli che disegnavano elaborati arabeschi nell’acqua.
4

La terraformazione dava loro tempo per pensare. Certo, stavano


accelerando i cambiamenti del pianeta a una velocità assurda, se paragonata
ai tempi geologici: da palla di ghiaccio a oceano in un tempo pari a una
piccola fetta di una vita umana. Gli esseri umani si erano però evoluti per
vivere secondo l’avvicendarsi di giorni, mesi e stagioni, e aspettare era
difficile. Nessuno voleva sprofondare di nuovo nel sonno criogenico non
appena se ne fosse presentata l’occasione, incaricando la Egeo di svegliarli
fra un decennio. Prima di chiudere gli occhi volevano veder germogliare il
mondo sotto di loro. Così si dedicavano all’arte, alla musica, leggevano da
cima a fondo i testi immagazzinati nella biblioteca di bordo, giocavano a
giochi di strategia generati dal computer che, secondo la pubblicità, erano
studiati per non ripetersi mai. E quasi tutti diventavano ossessivi, di tanto in
tanto. Il collegamento con la Terra era la cosa che influenzava la maggior
parte di loro. Poullister, Han e Maylem trascorrevano tutti del tempo
cercando di discutere di quello che succedeva a casa. Là si combatteva.
C’erano aree di guerra localizzate – per lo più quelle tradizionali, dove i
soldati dei pezzi grossi potevano agire nel cortile dei vicini in modo da
ridurre al minimo i danni alle proprietà dei loro alleati. Guerre combattute a
distanza, e finora si trattava di guerre ‘pulite’, ma tutti sapevano che c’erano
scorte di agenti chimici e biologici che aspettavano soltanto che qualcuno
perdesse la pazienza e si stancasse di guerre educate e limitate. E poi,
naturalmente, quelle notizie erano vecchie di oltre tre decenni. E loro erano
là, al limite estremo della sfera di influenza dell’umanità, dove la loro
capacità di comunicare con il pianeta natale era ostacolata dalle
insormontabili leggi della relatività.
Senkovi aveva sentito Poullister e Maylem nel pieno di una discussione –
una di quelle liti inutili in cui entrambi in pratica sostenevano la stessa tesi,
in cui lo scopo era la discussione stessa e non chi l’avrebbe avuta vinta.
Prima di allora non si era reso conto di quanto tutti fossero agitati riguardo
alla Terra e al crescente conflitto di cui avevano ricevuto notizie con una
generazione circa di ritardo. Probabilmente adesso era già tutto risolto, in
pace e armonia, ma il vecchio demone della relatività eliminava qualsiasi
differenza di accelerazione fra buone e cattive notizie, fra verità e dicerie.
Niente di tutto questo poteva raggiungerli più in fretta della luce del lontano
sole del loro mondo, lasciandoli a ipotizzare all’infinito su quanto grave
potesse essersi fatta la situazione.
Quanto a lui, si tenne al di fuori della discussione come pure alla larga
dagli altri. Era già ossessivo, una caratteristica che aveva orgogliosamente
contrabbandato sulla Egeo molto prima che diventasse un requisito
d’obbligo, e usava l’attesa per indulgere nei suoi piani personali.
Quando Han venne da lui – mesi dopo la precaria intesa con Baltiel
riguardo a Paul – il suo primo commento fu: «A quest’ora dovresti essere
nel congelatore.»
«Non voglio farlo» replicò Senkovi, e sporgendo il labbro inferiore,
perché aveva scoperto che con alcune persone un velo di finto infantilismo
poteva trasformare le sue stranezze da qualcosa di sgradevolmente
antisociale in un tratto affascinante. «Sono impegnato.»
«Impegnato a tenerci fuori di qui» osservò lei. «Questa era la Stiva di
Carico Sette, giusto? Solo che niente di tutto questo sembra un carico,
Disra.»
«Lo è. In un certo senso.» Senkovi era già sulla difensiva, arma che aveva
sperato di tenere di riserva per quando l’infantilismo accattivante avesse
smesso di funzionare. «Ho presentato un piano a Baltiel. È al corrente di
tutto, credimi.»
«Disra, ho visto il piano che hai presentato. Era... succinto. E devi esserti
spinto da tempo al di là dei suoi parametri. Parlava di test preliminari.»
«Che sono andati tanto bene da indurmi a prendere una decisione. Baltiel
mi appoggerà.»
Han era una donna alta e snella, che dava l’impressione di dover essere
un’esteta, tutta haiku improvvisati e dipinti astratti. In realtà i suoi quadri
raffiguravano tutti robot, umanoidi di metallo fantastici e poco pratici,
illuminati dai fuochi delle fabbriche o da esplosioni, come se avesse aperto
una finestra su un mondo in cui la cibernetica aveva imboccato una
direzione molto diversa. In aggiunta a questo, o forse nonostante questo, era
anche il miglior ingegnere della squadra di terraformazione, un genio della
matematica e un pilota. Senkovi aveva pensato che tutto questo sarebbe
stato sufficiente a tenerla impegnata invece di spingerla a ficcanasare dalle
sue parti. Si sentiva come un ragazzino sorpreso a fare qualcosa di
deplorevole dopo che le luci erano state spente, seduto là sul pavimento
della Stiva Sette con una consolle virtuale mezza sventrata, rischiarato dalla
luce azzurrina della grande vasca che aveva costruito.
Han appoggiò una mano sulla plastica trasparente e vide gli occupanti
staccarsi dai coralli e dalle rocce finte che aveva dato loro, fluttuando in
direzione delle sue dita per vedere se avrebbero dato loro un qualche
intrattenimento. «Immagino che non li manderai tanto presto sul pianeta,»
commentò «a meno che tu non li abbia modificati in modo che non abbiano
bisogno di ossigeno, di temperature terrestri o di pH.»
«Si dà il caso che non siano pronti per essere impiegati, no» replicò
Senkovi, conciso, desiderando che lei se ne andasse e, se possibile,
dimenticasse tutto quello che al momento stava vedendo. «Sono ancora
decisamente nella fase di ricerca e sviluppo, come dovresti sapere se hai
letto...»
«Perché i calamari?»
«Non sono calamari. Sono polpi. Ottopodi, se vuoi essere schiava del
dizionario. E perché no? Cos’hanno che non va?»
Han abbassò lo sguardo su di lui. «Hai una biblioteca genetica che
contiene una buona parte della biodiversità della Terra, Disra. Qui hai il
necessario per sviluppare qualsiasi cosa, anche estinta. Poullister parlava di
creare un cane.»
Disra, che non amava particolarmente i cani, scrollò le spalle. «Perché no?
Voglio dire tu cosa faresti? Lasciami indovinare... a casa avevi un gatto?
Pesci?» Decise che probabilmente Han aveva avuto un gatto o aveva
desiderato di averne uno ma aveva abitato in un posto dove non era
permesso tenere animali. Forse aveva avuto un gatto-robot, una di quelle
piccole macchine che facevano le fusa e ti sedevano in grembo, e poi le sue
orecchie si erano staccati nel momento in cui era scaduta la garanzia.
«Creerei una tigre» rispose Han.
Senkovi rimase a lungo senza parole, quanto bastava perché la consolle
cominciasse a illuminarsi con una serie di frustrati messaggi di errore
quando l’altro giocatore cominciò a irritarsi per la sua inattività. «Mmh»
riuscì infine ad articolare.
Han gli sorrise – forse era la prima volta che la vedeva sorridere – e di
colpo Senkovi si trovò a rivedere completamente l’opinione che aveva di
lei. Voleva ricreare una tigre, lì sulla Egeo, dove gli stretti corridoi e gli
spazi di lavoro delimitati avrebbero portato a un interessante equilibrio fra
vita e lavoro per gli umani che avrebbero dovuto condividere la nave con un
grosso carnivoro. Naturalmente, lei non lo avrebbe mai fatto davvero. In
realtà Senkovi era la sola persona a bordo che avrebbe vissuto il suo sogno
infischiandosene dell’opinione e perfino del permesso degli altri. Il pensiero
però era presente, e Senkovi decise che questo gli rendeva Han molto più
simpatica.
«Quando ero bambina avevo una tigre» affermò lei, candidamente, e
Senkovi si chiese se stesse parlando di un peluche o se provenisse da una
fascia sociale superiore perfino alla sua, già alquanto privilegiata. «Tu però
hai un intero carico di questi... ottopodi. E nessuna tigre.»
«Ah, ecco, il problema fondamentale con le tigri è che il loro rendimento
si riduce in modo drammatico quando le metti a riparare condotti di
raffreddamento un chilometro al di sotto della superficie di un oceano.»
Han lo fissò abbastanza a lungo da metterlo a disagio, poi il sorriso
riapparve. «Non stai facendo tutto questo per quel motivo» sottolineò.
Senkovi pensò di portare avanti la finzione, ma lei era troppo sveglia per
farlo. «Oh, ecco, certo, quello è lo scopo finale. Però da bambino avevo un
ottopode.» Molti più di uno ma in questo modo la narrazione era più
semplice. Poi la consolle emise un suono deciso e lui si affrettò a fare una
mossa per metterla a tacere.
Era però troppo tardi, perché Han gli si accoccolò accanto. «Con chi stai
giocando? Poullister? Non vale una cicca come giocatore.»
La consolle mostrava un gioco di composizione mediante tessere, un
piccolo paesaggio idealizzato e parzialmente costruito con quadrati che
collegavano strade, fiumi e città. E quel paesaggio era un disastro, con pezzi
sparsi dappertutto, strade che si snodavano a spirale per non portare da
nessuna parte e le mura munite di punte delle città raggruppate come ricci
di mare.
«È... Non è Poullister, no.»
Lo sguardo di Han stava seguendo il percorso dei cavi che partivano dalla
consolle. Certo, lui avrebbe potuto eseguire il gioco nello spazio virtuale,
sui sistemi della Egeo, cosa che costituiva il prossimo passo logico, ma al
momento cercava di mantenere privati i suoi giochi perché gli altri lo
avrebbero preso in giro.
Han però non lo stava deridendo. Poteva vedere gli ingranaggi del suo
cervello che entravano in funzione. «Stai giocando...»
«Con Paul» spiegò Senkovi. «Ecco, con Paul 5, che è quello modificato
con maggior successo. Gli piace la consolle e anche sperimentare lo spazio
virtuale. Ho pensato... ecco, ci sono umani che non arrivano mai ad
apprezzare la virtualità, ma gli ottopodi adorano manipolare lo spazio. Per
loro non c’è ancora un elemento tattile e pensavo che quello sarebbe stato
un problema, ma capiscono molto in fretta, soprattutto Paul 5, quindi sto
provando con alcuni semplici giochi. Con un successo discutibile. Fa le
mosse e ha capito i limiti che il gioco impone riguardo a quando può
muovere e a quali gesti può fare, ma al momento fattori come la strategia, i
punti o il vincere sembrano essere ancora fuori della sua portata.»
«Digli che se perde non verrà nutrito» suggerì Han, fissando la vasca.
Senkovi ci aveva provato, ma la motivazione pavloviana non era molto
utile nell’addestrare un polpo. Una volta che erano stati nutriti, il cibo
diventava un fattore motivante meno importante della curiosità. Inoltre,
quando Senkovi aveva trovato il modo di comunicargli che nel gioco era
nascosto un gamberetto, Paul 2 aveva rotto il gioco nel tentativo di
smembrarlo.
«Avremo bisogno di questo spazio per il carico, più prima che poi»
commentò infine Han, con una certa nota di rammarico.
«In primo luogo, questo è un carico, anche se altamente sperimentale. In
secondo luogo, questo spazio non ci serve. Senti, ho riorganizzato le cose e
possiamo cavarcela con le altre stive. Ho perfino guadagnato un po’ di
spazio.» Trasmise i cambiamenti apportati, che in effetti erano proprio
come aveva detto, sullo spazio virtuale che la loro mente condivideva. I
progettisti della Egeo avevano alquanto largheggiato, approfittando
dell’abbondante budget, e Senkovi aveva perfezionato il loro operato in
modo da fornire alla nave una migliore economia di spazio e di movimento
del materiale, il genere di cosa per cui una persona avrebbe potuto ricevere
un sincero encomio. L’intera, elaborata operazione si presentava bene sulla
carta agli occhi di chiunque non sospettasse che l’aveva effettuata soltanto
perché voleva più spazio per le sue vasche dei pesci.
Dopo che Han se ne fu andata, finì la partita e nutrì i suoi polpi, sperando
che il resto della nave non stesse già ridacchiando alle sue spalle riguardo a
quel folle di Senkovi e ai suoi polpi ammaestrati. La consolle però già
lampeggiava, anche se Paul era impegnato a smantellare un granchio.
Era una degli altri, Salomè. Aveva osservato Paul e adesso aveva
utilizzato la connessione che le era stata da poco impiantata per entrare nel
sistema di gioco. Aveva fatto tutte le mosse che le erano possibili, ma a
questo punto aveva bisogno che lui facesse le sue prima di poter continuare
a giocare.
Senkovi aveva il sospetto che probabilmente avrebbe dovuto allontanarsi
dalle vasche e avere un po’ di contatti umani o concedersi altri sani svaghi
del genere. D’altro canto, aveva appena avuto una conversazione vera e
propria, che era risultata molto stancante, e non poteva certo deludere un
così brillante soggetto sperimentale.
Si rimise a sedere, piazzò una tessera nello spazio virtuale e aspettò di
vedere cosa avrebbe fatto Salomè.
5

Siri Skai avrebbe avuto il comando del modulo orbitale in assenza di


Baltiel. Lei e altri quattro avrebbero avuto relativamente poco da fare a
parte continuare a smussare le asperità del database che il computer stava
mettendo insieme riguardo alla biosfera di Nod (il nome scelto per scherzo
da Senkovi aveva finito per insinuarsi nella coscienza collettiva).
Naturalmente, da un punto di vista tecnico, Baltiel sarebbe dovuto rimanere
sul modulo e delegare il comando alla squadra di sbarco, ma si sarebbe
dannato l’anima prima di farlo. Questo era il giorno che aveva atteso,
dormendo e vegliando nel corso degli anni da quando erano arrivati lì, e
non solo sarebbe stato a bordo della navetta, ma sarebbe anche stato il
primo dannato essere umano a posare il piede su quel mondo. Nessuno gli
avrebbe tolto quel privilegio.
I remoti erano a terra ormai da tempo per organizzare ogni cosa. C’era un
habitat pronto a riceverli, pieno di un’atmosfera che non era molto diversa
da quella esterna – solo una pressione appena minore e un po’ più di
ossigeno. Era comunque un ambiente simile a quello terrestre, e la forza di
gravità sarebbe stata reale, anche se un po’ superiore a quella a cui erano
abituati. Aveva vissuto nello spazio, a volte usufruendo della gravità
rotazionale e a volte no, per un tempo troppo lungo.
Naturalmente il piano prevedeva soltanto una missione di ricerca – quella
che aveva inventato per rimpiazzare ciò che si supponeva dovessero fare su
Nod – e non avrebbe dovuto pensare a quel posto come a ‘casa’. Si sarebbe
trattato di una serie di piccole anguste cupole interconnesse, con appena più
spazio personale di quello che avevano sul modulo che avevano separato
dalla Egeo e lasciato in orbita quando il resto della nave si era allontanato
sulla via di Damascus.
Senkovi e i suoi dannati nomi stupidi.
Però sembravano attecchire sempre. Senza dubbio, i coloni avrebbero
avuto i loro nomignoli personali per entrambi i pianeti, quando fossero
arrivati. O forse no. Dipendeva da quanto le cose stessero andando male a
casa. Senkovi sosteneva che sarebbero arrivate carrettate di profughi
disperati che si sarebbero presentati a ogni stazione di terraformazione
pretendendo di essere ospitati e nutriti. La grande diaspora umana, ma non
come chiunque l’avesse mai immaginata.
Non molto tempo prima Baltiel si era seduto a pranzo con tutto il suo
equipaggio: aveva modificato i turni apposta perché tutti fossero svegli e
pronti per quel pasto storico. L’umore era stato di cauto ottimismo.
Dopotutto, la Terra era molto lontana e tutti erano sicuri che le cose si
sarebbero risolte. Per loro, i misteri di Nod erano una cosa molto più
immediata.
Skai si era perfino chiesta se sarebbe stato possibile coltivare qualcosa di
commestibile sul pianeta, dato che Senkovi era ancora molto distante dal
creare allevamenti ittici su scala industriale su Damascus. Skai però era una
geologa che tendeva a non leggere le monografie relative ad altre
specializzazioni. Il novanta percento delle proteine di Nod non era
commestibile per gli esseri umani: non erano propriamente velenose, ma era
roba inerte che avrebbe intasato l’intestino e probabilmente finito per
ucciderli a causa dei livelli di arsenico e di mercurio che parevano far
prosperare il pianeta. E non era economico separare dal resto il rimanente
dieci percento.
A questo punto, Baltiel si era aspettato di essere il grande esperto della
terra di Nod, tuttavia aveva l’impressione che tutte le conoscenze
accumulate riguardo al pianeta fossero per la mente ciò che la carne delle
creature aliene sarebbe stata per lo stomaco: qualcosa di quasi impossibile
da assimilare. Non che i rilevamenti automatizzati non avessero dato
risultati, anzi era l’esatto opposto. Avevano una vasta quantità di
informazioni sul pianeta e nessun modo di metterle rapidamente insieme in
un ordine di qualche tipo. Si sentiva come uno scolaro a cui la storia venisse
insegnata sotto forma di un elenco di date e di nomi di re, senza un contesto
che gli permettesse di estrapolare un significato da quelle informazioni.
Gli organismi nodiani erano organizzati in cellule, proprio come le
creature della Terra, anche se le cellule erano di per sé stesse molto diverse.
Tanto per cominciare erano più piccole, in media non più grandi di un
batterio Escherichia coli. Non c’era un nucleo ma un qualche tipo di
organizzazione trasmissibile, incredibilmente densa, era impiantato nella
membrana. Lante, che si era calata nei suoi panni di biochimica, parlava di
un immagazzinamento di informazioni a livello di atomi più compatto del
DNA, ma la cui produzione richiedeva forse un maggiore consumo di
energia. Ogni cellula pareva reagire alla luce, perfino quelle seppellite in
profondità nel corpo delle creature. Perché? Nessuno aveva una buona
teoria in merito. Molti degli organismi che avevano esaminato sembravano
metabolizzare la luce solare e il fatto che alcuni fossero piante sessili,
mentre altri apparivano dotati di un’elevata mobilità, suggeriva che il loro
meccanismo (per ora ignoto, anche se erano stati avanzati alcuni
affascinanti suggerimenti) fosse molto più efficiente della fotosintesi delle
piante; e pareva anche che su Nod non ci fosse una netta differenziazione
fra piante e animali.
Quasi ogni organismo era radialmente simmetrico, un sopra e sotto ma
nessun davanti e dietro, tranne laddove l’evoluzione lo aveva rigirato per
permettergli di svolazzare per il cielo, con il lato dorsale che veniva per
primo. Oh, e molti di essi erano solo in parte cellulari, con grandi porzioni
del corpo composte di un tessuto simile alla plastica, che appariva quasi
inanimato e che veniva manipolato e deformato da fibre che si contraevano
– le meduse, che costituivano un significativo phylum della vita nodiana,
erano tutte vela e pochissimo scafo effettivo.
Baltiel non era una persona la cui mente balzasse immediatamente a
pensieri di sfruttamento commerciale ma Nod gli aveva già mostrato forme
di stoccaggio delle informazioni, di conversione dell’energia e di materiali
extrarobusti ed extraleggeri che attualmente la tecnologia terrestre non era
in grado di duplicare. Allo stesso tempo, però, l’ecosistema nodiano dava la
sensazione di essere... giovane. A parte alcune forme di medusa davvero
colossali, sul terreno niente pareva essere più grande di un cane di taglia
media. Non c’era nulla che somigliasse a una foresta (o al legno), nessuna
traccia di uno scheletro interno. Tutto si allargava verso l’esterno piuttosto
che lottare per salire verso l’alto. Si chiedeva se era questa l’impressione
che la Terra avrebbe dato nel Devoniano o in qualche altra èra in cui la vita
aveva appena cominciato ad apparire sulla terraferma.
Cosa potrebbero diventare?
Lui però non lo avrebbe mai saputo e aveva l’amara certezza che la
presenza umana in quel sistema solare significasse che nessuno lo avrebbe
scoperto, che il futuro della vita su Nod sarebbe stato brutalmente
accorciato.
Non aveva inviato nessun rapporto a casa riguardo alle loro scoperte e per
quanto ne sapeva tutti avevano rispettato i suoi ordini da quel punto di vista.
Questo però non avrebbe avuto importanza quando fosse arrivata la nuova
ondata di terrestri, pronti a spazzare via questi fragili segni nella sabbia per
poi costruire qualche dimora di lusso sul lungomare di qualsiasi pianeta
abitabile che avessero trovato. Aveva perfino fantasticato di piazzare in
orbita tutt’intorno al pianeta sonde di segnalazione che avvertissero di
un’epidemia, per tenere lontano il futuro.
Invece si stava concedendo di fare a modo suo. Lui e il suo equipaggio
avrebbero fatto quello che potevano per accudire quell’abbondanza di
forme di vita stranamente poco ambiziose finché erano ancora in grado di
farlo. Se non altro, avrebbero lasciato una documentazione su di esse per le
generazioni future.
Contattò Skai sulla rete del modulo e lei gli confermò di essere pronta,
evidenziando le luci verdi date dal sistema. Poi si accertò che la sua squadra
di sbarco avesse raggiunto la navetta. Erma Lante (biologa e medico) e Gav
Lortisse (ingegnere geotermico e tecnico generico) erano già là e Kalveen
Rani (meteorologa e pilota) stava arrivando. C’era un suo messaggio in
attesa e Baltiel lo aprì con ansia, aspettandosi che fosse successo qualcosa
che avrebbe ritardato il compiersi del suo destino – guasti, tempeste,
qualcosa. Invece lei gli raccomandava di parlare con Senkovi.
Aveva alcuni dati meteorologici per me, ma quando sono arrivati erano
roba senza senso. Può darsi che abbia qualche problema.
Baltiel sentiva di avere già una sovrabbondanza di problemi a cui non
aveva proprio voglia di aggiungere quelli di Senkovi. Dopotutto si
presupponeva che lui fosse dannatamente autosufficiente.
Si avviò lungo il breve percorso che portava all’hangar delle navette e si
sentì afferrare da un’improvvisa ondata di eccitazione, come un bambino
sul punto di iniziare una vacanza sognata a lungo. Aveva vissuto per troppo
tempo in quella scatola di sardine: soggettivamente erano anni, ma
oggettivamente (cioè in base all’orologio di bordo) addirittura decenni. Di
nuovo, si sentiva come un bambino, ma uno che fosse rimasto per un’intera
generazione a fissare i regali sotto l’albero di Natale, senza che gli fosse
proibito di aprirli ma esercitando un autocontrollo inumano.
Come un bambino.
Nessun membro della sua squadra lo avrebbe descritto in quei termini. Era
un uomo che appariva sempre calmo, che aveva sempre una risposta e che
poteva perfino – miracolo incredibile – persuadere Senkovi a cambiare la
direzione in cui i suoi processi mentali lo avevano avviato. Eppure,
interiormente, Baltiel avvertiva una gioia gorgogliante, innocente. I tempi
stabiliti per la missione, per quanto ben giustificati ai fini della
documentazione, avevano più a che fare con l’aver infine esaurito le sue
riserve di ferrea pazienza. Quel giorno era Natale e lui stava per strappare
via la carta dai regali.
D’altro canto, però, era il comandante generale, e il piccolo feudo di
Senkovi faceva ancora parte del suo dominio, quantomeno nominalmente,
quindi chiese al modulo di contattare l’altro suo io, la Egeo.
«Salve, capo» giunse la risposta, dopo un ritardo durante il quale Baltiel
era arrivato alla navetta e stava verificando i controlli prevolo fatti da
Lortisse e da Rani, che a loro volta verificavano l’uno l’operato dell’altra, le
cinture e i supporti.
«Siri stava dando la caccia ad alcuni dati meteorologici per tuo conto»
incalzò Baltiel.
«Oh, ecco, sì... No, al momento quella non è una priorità.» Nel frattempo
tutti i membri dell’equipaggio avevano concluso i controlli e Siri Skai
aveva confermato la loro finestra di lancio, per cui il bambino eccitato
presente nella testa di Baltiel bloccava praticamente ogni altra cosa.
Senkovi pareva preso alla sprovvista, cosa che avrebbe dovuto essere una
grossa causa di preoccupazione, considerato come lui fosse sempre
controllato, ma di certo le cose non potevano aver scelto proprio ora per
andar male in modo catastrofico. Non appena prima della partenza.
Eppure...
«Disra, cosa succede?»
«Abbiamo solo qualche problema tecnico del sistema, capo, niente di cui
preoccuparsi.» Quando infine la risposta arrivò, il tono di Senkovi suonò
trasparente.
In qualche modo ha fatto un casino e non vuole che io controlli.
Naturalmente, Baltiel poteva controllare. Poteva usare il suo accesso di
comando per interrogare la Egeo e poi senza dubbio rimuovere tutti gli
schermi e le protezioni di cui Senkovi aveva rivestito i dati problematici.
Oppure poteva semplicemente lasciare che lui andasse avanti con quello
che stava facendo e negargli la possibilità di rovinargli il momento più
importante che avesse mai avuto.
Prese una decisione di comando con la consapevolezza – nel momento
stesso in cui la prendeva – che era l’opposto di quanto suggeriva la cautela.
Però era stato cauto per vent’anni, ed era arrivato il momento di un singolo,
glorioso atto spericolato. Nel troncare la connessione decise di lasciare che
questa volta Senkovi spalasse la propria merda senza supervisione,
augurandosi che non finisse per spalmarla su tutte le pareti.
Rifiutava di perdere la finestra di lancio. In quel momento non poteva
sapere cosa dipendeva da quella decisione.
«Skai?»
«Pronta, quando lo sei tu.» Lei e il resto dell’equipaggio del modulo si
erano già preparati a continuare la raccolta dei dati. La maggior parte di
loro sarebbe tornata a immergersi nel sonno criogenico non appena la
navetta fosse atterrata sana e salva. Baltiel era sorpreso che non ci fosse
stata più competizione per assicurarsi un posto a terra, ma andare a vivere
con le meduse non era una cosa che piacesse a tutti.
Intorno a loro l’hangar delle navette venne evacuato e l’aria gelosamente
recuperata prima che andasse sprecata, poi le porte si aprirono, i fermi di
ormeggio si sganciarono e la rotazione del modulo fece scivolare
dolcemente la navetta nello spazio lungo una rotta calcolata alla perfezione.
Baltiel aveva scelto come base il bioma della palude salmastra perché era
più ospitale dei roventi deserti interni. Certo, le loro tute avevano un
controllo interno della temperatura, ma la durata della loro tecnologia senza
manutenzione sarebbe aumentata in misura inversamente proporzionale
all’intensità del lavoro impostole. Inoltre, quello sembrava anche il più
popoloso fra i biomi di terra: il posto dove un occhio antropocentrico
poteva forse scorgere l’evoluzione che si sforzava di produrre qualcosa di
più. Di certo, quella era un’illusione. Probabilmente, le grandi fonti di
attività evolutiva erano altrove, e senza interferenze esterne ci sarebbe stata
qualche nuova, grande ondata di sviluppo dalle profondità marine o dalle
creature che fluttuavano negli strati alti dell’atmosfera.
Ormai però tutto questo è accademico. Possiamo soltanto osservare il
presente prima di procedere a distruggere il futuro.
Quel pensiero lo faceva infuriare, ma a meno che il comandante della
prossima nave non fosse stato anche un ambientalista radicale, come poteva
una qualsiasi di queste forme di vita avere prospettive a lungo termine? Oh,
di certo specie individuali sarebbero sopravvissute accanto agli umani, o
sarebbero state relegate in riserve e zoo, ma la storia ecologica della Terra
mostrava quanto simili misure fossero ridicole. Uno dei più grandi trionfi
del programma di terraformazione era quello di essere in grado di
ricostruire interi ecosistemi terrestri che sul loro pianeta originale non
esistevano più se non come malati terminali sul letto di morte. Questo
perché l’ecosistema era, in un modo molto reale, l’unità di base della vita:
specie che con la loro stessa presenza creavano un ambiente in cui altre
specie potessero operare.
Noi abbiamo rovinato tutto, a casa, pensò. E nel tempo che impiegheremo
per capirlo avremo già rovinato anche Nod.
Per un momento aveva avuto il folle sogno di un Damascus che imitava la
Terra e di un Nod alieno che coesistevano fianco a fianco, ma la spirale di
cattive notizie provenienti dalla Terra aveva trasformato quel sogno in una
sorta di cupo nichilismo.
Scopriremo tutto il possibile e lo documenteremo. Sarò in grado di dire
‘Io ho camminato qui’, questo non potranno togliermelo, qualsiasi cosa
succeda. Anche solo il pensiero della Terra – delle filippiche politiche, delle
liste dei caduti, della spirale di follia – gli faceva contrarre lo stomaco, ma
allontanava quelle immagini con uno sforzo cosciente e curava la reazione
di stomaco, come facevano tutti, di questi tempi.
Non permetterò che un po’ di guerra globale rovini il mio momento. E
comunque tutto è ormai storia antica, nel tempo che impiega a
raggiungerci.
La navetta stava scendendo lungo la rotta prestabilita, con Rani che
esercitava un attento controllo nel caso in cui fosse stato necessario un suo
intervento. Lante parve sonnecchiare anche quando entrarono negli strati
superiori dell’atmosfera. Quanto a Baltiel, fissava le immagini di Nod
trasmesse tanto dal modulo quanto dalla navetta: un mondo dai toni
marrone, nero e rosso, molto diverso dalla gemma verdeazzurra di una
Nuova Terra terraformata.
Arrivò una trasmissione dalla Egeo e, nonostante tutto, Baltiel la
controllò.
E adesso che succede?
Era soltanto roba priva di senso, sfilze di caratteri alfanumerici separati in
modo da sembrare un linguaggio, ma privi di significato.
Uno scherzo?
Lo pensò perché nel fascicolo di Senkovi c’era qualcosa riguardo a uno
dei suoi modi di dimostrare alle persone inferiori quanto era intelligente,
anche se questo non sembrava all’altezza dei suoi standard abituali. Rispose
inviando un’interrogazione.
Avevano optato per una discesa lenta per risparmiare al modulo quanto
più logoramento possibile, ma anche in modo che Baltiel potesse usare le
videocamere ventrali per ottenere una nuova vista dall’alto del suo dominio.
Sotto di loro c’era la distesa di ossidiana dell’oceano.
Il mare scuro come vino.
Al momento erano troppo in alto per vedere altro, ma avrebbero sorvolato
le onde a volo radente prima di arrivare alla costa.
«Salve, capo, no, va tutto bene.»
8jsgjg r jg81 ufwytmw-i9r f.
«Qui è tutto sotto controllo. Tutto bene. Come procede il volo?»
kksn hu9 i99t k.
«Disra, che diavolo succede?» D’un tratto Baltiel avvertì un profondo
senso di disagio che gli contrasse la bocca dello stomaco, perché insieme al
segnale di Senkovi, riceveva dalla Egeo anche una quantità di cose senza
senso sovrapposte a esso, trasmissioni multiple separate provenienti dalla
nave che si manifestavano come improvvise intrusioni di audio senza senso
che escludevano il canale della voce di Senkovi.
«È... Senti, capo, non andare in panico, ma dovrò disattivare e riavviare
tutto.»
Ho preso la decisione sbagliata.
Adesso era a bordo della sola navetta orbitale e l’avvicinamento era ormai
avviato. Non aveva modo di tornare indietro per aiutare Senkovi.
D’altronde, anche se fossimo ancora lassù in orbita ci vorrebbe quasi un
intero anno, con l’attuale posizione dei pianeti.
«Spiegati» ordinò, conciso.
«Ho qualche problema di infiltrazione nel sistema» rispose la voce di
Senkovi, che si sforzava invano di apparire noncurante al riguardo. «Io...»
hhs i4gk; gg 8lubj2.
«Devo fa ripartire da zero i sistemi della nave, capo. Mi dispiace davvero.
Sono un po’...»
n83.lijsg.n.hgikkkd.
«...incasinati.»
Le viscere di Baltiel si stavano annodando su loro stesse, in parte per la
preoccupazione e in parte per la rabbia che in qualche modo Senkovi, fosse
riuscito a rovinargli quel momento di gloria. «Spiegati» ripeté, poi esaminò
un’analisi iniziale delle trasmissioni senza senso. «Qualcuno ha violato i
sistemi?»
«No. No, no. Sì.» La risposta ritardata di Senkovi suonò come una battuta,
pur essendo allo stesso tempo orribilmente seria. «Senti, sto mandando gli
altri sulla navetta, giusto per precauzione, nel caso che le cose...»
9wks rj i934mmgpppsssaaalllvee-salvesalvecosacosa.
«Ecco, nel caso che le cose vadano davvero male, il che non succederà,
ma è tutto un po’...»
cosacosa95mg; hoodomandadomanda.
«Ho detto loro che se le cose andassero davvero male dovranno venire su
Nod e rimettersi alla tua misericordia. Non è colpa loro, solo mia.
D’accordo?»
«Disra, dimmi soltanto cosa diavolo succede!» aveva gridato Baltiel,
sovrastando il farfugliare dell’altro. La natura sempre più organizzata del
segnale fantasma gli stava facendo rizzare i capelli sulla nuca.
Ha trasformato la nave in un’IA cosciente o che altro?
«Sono vittima del mio successo» giunse nel silenzio improvviso la
risposta di Senkovi, quando le altre trasmissioni cessarono. «Li ho relegati
su una sola larghezza di banda, ma non li posso tenere imbottigliati. Metto
tutto offline. È tutto quello che hai bisogno di sapere. Il servizio normale
riprenderà a breve.»
«Questo non è tutto quello che ho bisogno di sapere!» Baltiel stava
cercando di interrogare la Egeo, ma, fra Senkovi che cercava di coprire i
danni fatti e il caos, quale che fosse, che infuriava laggiù, non riusciva ad
avere un quadro coerente. Davanti a lui, il paesaggio marino di Nod era
scomparso dagli schermi a causa del rapido progresso della navetta e adesso
sotto di loro c’era il rosso del deserto. Secondo le sue diagnostiche, c’era
una mezza dozzina di presenze nel sistema della Egeo, strani processi privi
di direzione che barcollavano di qua e di là nel cercare di accedere ai
sistemi di bordo.
Aveva creduto che la sua risposta fosse giunta troppo tardi, ma
evidentemente Senkovi l’aveva colta prima di premere l’interruttore.
«D’accordo, capo, ecco di cosa si tratta» giunse la risposta. «È possibile che
non sia riuscito a contenere adeguatamente i soggetti del mio esperimento.»
«Spiegati.»
«Li stavo addestrando, insegnavo loro la comunicazione di base in modo
che potessero interagire con le apparecchiature su Damascus. Saranno utili
e abbiamo bisogno di loro. Solo che sono curiosi, capisci? È una
caratteristica innata e mi sono servito del catalizzatore virale di Rus-Califi
per selezionarla, solo che non mi sono reso conto della rapidità con cui
avrebbero capito.»
Nel bel mezzo di quelle giustificazioni Baltiel comprese di colpo a cosa si
riferisse Senkovi. «Disra, stai parlando dei tuoi dannati ottopodi?»
«Sì, capo.» Senkovi sembrava in parte imbarazzato ma anche colpito dalle
proprie capacità, o almeno da quelle dei suoi animaletti. «Ho insegnato loro
ad accedere al sistema, a fare giochi, insegnamenti di base, e adesso hanno
superato le mie misure di sicurezza e stanno... sai... stanno ficcanasando in
giro. Sono curiosi, come ho detto, solo che non riesco a fermarli e stanno
incasinando tutto. Non hanno cattive intenzioni, ma... ho creato una sorta di
mostro, capo. Senti, io ho indosso una tuta e tutti gli altri si stanno ritirando
sulla navetta. Sistemerò questo guaio.»
«Perché tu non sei sulla navetta, Disra?»
«Capo, è colpa mia. Posso sistemare meglio le cose da qui. C’è sempre
qualcosa che va fatto manualmente.»
«Usa un drone. Disra, mi senti?» Adesso la navetta di Baltiel stava
cominciando la manovra di atterraggio. Erano al di sopra della distesa a
chiazze nere e grigie della palude salmastra e la macchia bianca in
lontananza era quella dell’habitat.
«Sono nella tuta e ho una fonte di energia indipendente. È tutto a posto,
capo. Ora devo andare.» La voce di Senkovi si incrinò sulla fine della frase
e d’un tratto Baltiel comprese.
I suoi polpi.
Disattivare la nave era una sentenza di morte per i suoi preziosi ottopodi e
voleva essere là con loro o forse perfino salvarne qualcuno. Probabilmente
si sarebbe fatto ammazzare e dopo Han e gli altri avrebbero dovuto portare
a termine la terraformazione senza il beneficio della sua mente brillante o
dei suoi dannati molluschi.
E con questo pensiero fu costretto a lasciar perdere. Senkovi aveva infine
trovato il modo di sottrarsi al Comando Generale e adesso né Baltiel né
qualsiasi altro potere umano potevano aiutarlo.
Non è un mio problema, decise. Non perché non ci abbia provato, ma
dovrà cavarsela da solo.
Immaginò la Egeo come se stesse letteralmente brulicando della progenie
ribelle di Senkovi, mostruosi cefalopodi che si aggiravano per i
compartimenti agitando con rabbia i tentacoli. Naturalmente dovevano
essere dentro una vasca, da qualche parte, e la loro era un’intrusione
puramente virtuale ma inarrestabile, capace di aggirare tutto quello che
Senkovi era in grado di escogitare per arginarla.
D’altronde, quando progetti un’interfaccia per permettere a dei molluschi
di giocare al computer, probabilmente non inserisci molte misure di
sicurezza.
Baltiel ebbe un momento per riflettere su come quella fosse una sequenza
di parole che non si era mai aspettato potesse essere rilevante nella sua vita,
poi procedettero all’atterraggio, con Rani che sorvegliava i comandi come
un falco osserva la sua preda, nel caso in cui il computer di bordo della
navetta avesse commesso qualche errore, e lui allungò una mano per
slacciare le cinture perché, dannazione, sarebbe stato il primo a mettere
piede a terra.
Stupefacente.
Che quiete.
Quasi ne valeva la pena, giusto per questo.
Senkovi però non ci credeva davvero. Non poteva sapere dei pensieri di
Baltiel riguardo al fanciullo interiore, ma lui stesso stava effettuando un
paragone similare. Per lui, tuttavia, il bambino interiore aveva fatto una
cosa davvero molto brutta e, contrariamente a tutte le altre volte, non era
riuscito a nascondere le prove prima di essere scoperto.
Baltiel mi leverà la pelle di dosso non appena avrà finito di giocare a
Lewis e Clark.
E, come un bambino, una qualche parte di lui era alla disperata ricerca di
un’autorità superiore su cui scaricare la colpa.
Qualcuno avrebbe dovuto dirmi di non farlo.
Lui però si era sforzato in ogni modo di sottrarsi a ogni forma di
supervisione, anche quella distante che Baltiel avrebbe potuto mantenere su
di lui. Era stato assolutamente convinto che quello che faceva fosse giusto,
ed era stato tutto molto divertente finché non si era trasformato in un
assoluto casino. In un momento di sarcastica autoriflessione fu colpito dal
fatto che lui era l’intero programma di terraformazione in miniatura... Kern,
e Baltiel, e tutti gli altri.
Li induciamo a investire su di noi denaro e risorse in modo da poter
andare a fare Dio da qualche altra parte. Perché quando eri a trenta anni
luce dalla Terra, chi ti poteva ordinare di fermarti?
E adesso era in una nave trasformata in una vasta tomba silenziosa, con
indosso un’ingombrante tuta spaziale, consapevole di avere davanti un
tempo notevolmente lungo prima che il sistema del computer si ripulisse e
si riavviasse. Han, Poullister e Maylem oziavano nella navetta, attendendo
con ansia sue notizie. Se avesse giocato secondo le regole – nella misura in
cui ne esistevano per questa situazione particolare – avrebbe dovuto essere
con loro e fare tutto da remoto. La procedura manuale però era migliore,
soprattutto per il fatto che Salomè si era introdotta nei canali di accesso
remoto e aveva cominciato a usare le macchine come un arto aggiuntivo per
quei suoi vivaci tentativi di smantellare la Egeo per scoprire cosa fosse e se
poteva mangiarla. Paul era sempre stato il suo allievo preferito, il che
significava che non si era assolutamente accorto della portata
dell’intelligenza distruttiva di Salomè. E questo per non parlare di Saul,
Ruth, Methuselah (che prima si chiamava Peter, ribattezzato quando era
arrivato a dieci anni di età senza mostrare segni di invecchiamento), Jezebel
e... Ecco, Senkovi si era davvero impegnato per garantire che un esame
casuale da parte del distratto Baltiel non scoprisse che adesso aveva
quarantatré ottopodi nel registro del personale, tutti con nomi biblici a causa
dell’originale, Paul, e perché dopo essere riuscito a far superare la censura a
Damascus e a Nod aveva deciso di rimanere in tema. Inoltre, quei nomi
avrebbero dato fastidio ad alcuni degli irritanti fondamentalisti, a casa, se
mai ne fossero venuti a conoscenza, e non c’era niente che lui amasse di più
del divertirsi.
Quarantatré ottopodi, come li avrebbe chiamati Baltiel, ma lui preferiva il
suono dell’assai meno corretto ‘polpi’, ed era abituato a compiacere prima e
soprattutto sé stesso.
E adesso stava scoprendo con esattezza perché lo avevano considerato un
buon comandante in seconda, ma solo quando il cauto Baltiel era là per
tenerlo al guinzaglio, perché aveva davvero fatto un grosso casino.
Aveva saputo da molto tempo, fin da quando aveva i suoi animali
domestici, a casa, che i polpi reagivano molto male a un rigido
addestramento pavloviano. Non erano come ratti, piccioni o cani, che
continuavano a rifare la stessa cosa finché non veniva dato loro più cibo di
quanto ne potessero mangiare. Avevano invece, una curiosità di cui i cani
non erano dotati, perché l’evoluzione li aveva dotati in una strumentazione
estremamente complessa con cui fare a pezzi il mondo per vedere se sotto si
nascondesse un granchio.
Cosa di cui ora ho dannatamente motivo di rammaricarmi.
Aveva caricato ogni batteria portatile che era riuscito a trovare e adesso
aveva un carrello carico di quei congegni, da portare nel centro della Egeo.
Naturalmente, il centro era dove mancava la forza di gravità, e lui aveva
installato là i suoi laboratori perché i polpi si erano abituati in fretta a non
curarsi di quale fosse l’alto e quale il basso. Il polpo striato del pacifico era
sempre stato il suo soggetto di studio preferito, proprio come era il suo
animale domestico prediletto. Contrariamente alla maggior parte dei suoi
parenti, era abbastanza socievole e aveva una vita lunga, ed era quindi
libero dai due principali difetti che, a suo parere, costituivano la
maledizione della specie degli ottopodi. La sua personale teoria era che la
pressione di trovarsi al centro della catena alimentare era un prerequisito
essenziale per sviluppare un’intelligenza complessa. Come gli umani (e
come i ragni del genere Portia, se solo lo avesse saputo), gli ottopodi si
erano sviluppati su un mondo in cui erano allo stesso tempo cacciatori e
prede. Secondo la valutazione di Senkovi, i grandi predatori costituivano un
vicolo cieco intellettuale.
Aveva riprodotto parecchie generazioni, ciascuna ulteriormente
modificata da un intervento limitato con l’uso del virus di Rus-Califi. Era
stata una cosa difficile soprattutto perché aveva dovuto essere spietato e lui
aveva un cuore tenero, in particolare quando si trattava degli oggetti della
sua ossessione. Le generazioni successive erano state marcatamente più
abili a interagire con congegni astratti e a manovrare macchinari, poi le sue
negligenti procedure sperimentali avevano generato questo frutto inatteso.
La maggior parte della precedente generazione era ancora viva e in contatto
con i suoi nuovi enfants terribles, e aveva cominciato a sviluppare gli stessi
comportamenti, meno diretta ma altrettanto decisa nell’esplorare lo spazio
virtuale a cui lui le dava accesso.
La sfida principale era stata quella di sviluppare interfacce di facile
utilizzo per i cefalopodi ed era consapevole che la sua stessa
immaginazione aveva costituito il suo limite principale: i suoi patetici
comandi sprecavano la maggior parte del potenziale di creature che erano
una mano priva di ossa e infinitamente mutevole, con dita che potevano
percepire e pensare indipendentemente.
Un giorno se li progetteranno da soli.
Questo era però spingere le cose troppo oltre, o meglio era un chiudere la
porta della stalla dopo che i buoi erano scappati, perché le cose erano già
oltre il limite.
Uno dei suoi animaletti era quasi riuscito ad aprire un portello stagno
prima che lui intervenisse a fermarlo. Paul aveva lottato con lui per il
controllo delle comunicazioni, Salomè aveva mandato in volo droni
sobbalzanti per tutti i compartimenti della Egeo, aprendo e chiudendo porte,
aggredendo le pareti con le fiamme ossidriche. Aveva ripetuto a sé stesso
che era tutto solo innocuo divertimento, ma loro avevano reagito in fretta ai
suoi tentativi di bloccarli. Chiudeva un’apertura virtuale e loro passavano
da un’altra, ricorrendo al multitasking a un livello che lui – e, alla fine,
l’intero equipaggio umano – non era in grado di eguagliare. Affinché
fossero in grado di svolgere i lavori a cui infine intendeva destinarli, aveva
cercato di portarli a comprendere il concetto di ambiente virtuale, un posto
che sarebbe stato spazio di lavoro, apparecchiatura di comunicazione e
interfaccia, se solo fossero riusciti a percepirlo come facevano con lo spazio
fisico che li circondava. Aveva guardato intere generazioni fallire, reagendo
alla luce, al tocco e ai cambi di temperatura, ma rifiutandosi cocciutamente
di compiere il balzo fino al livello astratto. Poi, senza che lui facesse niente
di particolare, senza un’evidente imbeccata o un avvertimento, Salomè era
entrata nel sistema e gli altri l’avevano seguita, una vasca dopo l’altra,
insegnando in qualche modo l’uno all’altro come fare. Di colpo, erano stati
tutti capaci di esercizi virtuali, ma non si erano accontentati di questo e
avevano esteso la loro presenza virtuale come avrebbero fatto con quella
fisica, protendendosi per vedere dove andava quello spazio, ed era stato così
che avevano incontrato i sistemi di bordo. Naturalmente, i sistemi erano
collegati a tutto il resto della nave, a quella parte dotata di atmosfera in cui
lui e gli altri umani vivevano. Non si era reso conto che la massa della Egeo
sarebbe stata soltanto un’ulteriore estensione del loro terreno di gioco
online.
Lui e gli altri avevano lavorato per ore al controllo dei danni, scoprendo
che i soggetti sperimentali invertebrati si erano impadroniti di alcuni
principi dei sistemi computerizzati con forza tale da non poterne essere
staccati. Era infuriata una battaglia continua fra mammiferi e molluschi, ma
la Egeo era una bestia vasta e complessa, dove non c’erano comode
strozzature che permettessero di tenere gli invasori alla larga dallo spazio
interno. I polpi avevano lo stesso libero accesso dell’equipaggio umano e
stavano giocosamente facendo tutto a pezzi.
Abbassò la sua cassa di giocattoli verso la linea centrale della nave finché
non andò alla deriva, poi la seguì. I dati forniti dal suo HUD gli dicevano che
la temperatura era in brusco calo, ma aveva evacuato l’area dallo spazio
intorno alle vasche in modo che il loro calore non si diffondesse più verso
l’esterno. Questo, naturalmente, era il motivo principale per cui era rimasto
indietro, isolato da ogni contatto con la razza umana. Intendeva cercare di
salvare i suoi animali e non voleva che Han e gli altri ridessero di lui,
considerandolo non più solo eccentrico, ma anche patetico. Tuttavia,
proprio come un amante di cani che torna in una casa in fiamme per salvare
il suo piccolo Floofums, avrebbe cercato di tenere in vita alcuni dei suoi
soggetti sperimentali finché la nave non fosse tornata online.
Baltiel li vorrà tutti morti.
Lo sapeva, ma era in grado di gestire Baltiel. Se necessario, gli si sarebbe
opposto, scatenando una guerra totale di messaggi rabbiosi inviati
attraverso il vuoto.
La vasca più vicina si era infranta, come pure le due successive. I suoi
stessi abitanti, come lo stesso Senkovi, erano stati troppo intelligenti e per il
loro stesso bene avevano trovato una via di uscita fisica, per cui lui li aveva
uccisi eliminando l’aria dalla camera. A cuore duro, continuò ad avanzare
fino a trovare una vasca ancora intatta. Le luci sulla sua tuta la illuminarono
e vide un movimento all’interno, qualcosa che non fuggiva dal chiarore ma
vi si avvicinava, perché i polpi avevano imparato ad associare la luce al
divertimento, e dovevano essere rimasto profondamente sconcertati dal buio
e dal silenzio improvvisi.
«Ciao, Salomè.» La sua voce risuonò stentorea alle sue stesse orecchie.
Un occhio alieno lo fissò dalla vasca, con la pelle circostante increspata in
una serie di punte irose, intrisa di pigmento rosso e nero, mentre Salomè gli
spiegava con esattezza come si sentisse dall’essere privata dell’accesso alla
rete. Senkovi tirò fuori a mano un’unità di riscaldamento dalla cassa e la
attaccò al lato della vasca. Con un po’ di fortuna avrebbe mantenuto la
temperatura dell’acqua a livelli vivibili finché il sistema non si fosse
riavviato. Passò poi alla pompa dell’acqua e installò con fatica una batteria
per mantenere la circolazione in funzione indipendentemente dai
meccanismi della nave. Di nuovo, era una soluzione provvisoria. Passò alla
vasca successiva.
Avrebbe voluto poter parlare con Han, ma si era isolato completamente
dalla navetta perché non aveva voluto essere disturbato dalle loro continue
domande sulla sua sicurezza. Lui era Disra Senkovi, l’uomo che era
un’isola, ma in questo momento aveva la sensazione che l’erosione
divorasse le sue rive. Voleva che gli chiedessero come stava, in modo da
poter essere distaccato e non rispondere. Fluttuare al buio nelle viscere di
una nave morta, circondato dai suoi molluschi domestici vivi e morti era un
momento terribile per prendere coscienza di sé. Non c’era però nessuno a
parte i polpi e aveva la sensazione che questi lo giudicassero. Dopotutto,
per loro era lui il potere superiore che avrebbe dovuto assicurarsi che non
rubassero dal cielo tanto fuoco da finire per bruciare tutto.
Passò da una vasca all’altra, ripristinando calore e circolazione dell’acqua
ovunque trovò un contenuto ancora in vita. Almeno un terzo non poté
essere salvato, vuoi per l’eccessiva ingegnosità degli occupanti della vasca
vuoi perché lui impiegò troppo tempo a raggiungerlo. In precedenza aveva
pensato che la nave fosse una tomba, e adesso lo era.
Tuttavia, essa stava ripristinando i propri sistemi, purgati dell’ingenua
curiosità dei polpi, e mancavano ancora ore prima che potesse avere un
rapporto sui suoi progressi. La sua tuta era ancora calda, ma prima o poi il
calore della nave avrebbe cominciato a dissiparsi e allora avrebbe scoperto
se aveva batterie a sufficienza per avere la meglio sulla sua stessa
arroganza. Si sistemò accanto alla vasca di Paul, vi si ancorò e spense le
lampade per risparmiare energia.
Nell’uscire dal portello della navetta sulla superficie di Nod, Baltiel
aspettò che la sua alienità lo investisse. Avrebbero potuto portarsi
abbastanza vicini agli habitat da far sì che un tunnel automatico li
collegasse alla navetta, ma lui aveva posto il veto all’idea sulla base
dell’esile possibilità che un errore potesse danneggiare l’uno o l’altra. La
verità però era che aveva voluto questo: essere il primo a posare piede su un
altro mondo vivente, sentire l’atmosfera che gli si chiudeva intorno, la
gravità, vedere il colore della luce solare...
Era fermo là alla base della rampa e non c’era niente, quasi niente. Sì,
questa non era la Terra. Non aveva la gravità artificiale della Egeo o del
modulo orbitale (che non aveva mai avuto una gravità uguale a quella della
nave madre, cosa di cui non avevano mai scoperto il motivo), e il visore del
casco compensava la luce fra il rosso e l’arancione del suo sole. Poteva
spingere lo sguardo sulla piatta distesa della grande palude salmastra, con i
suoi rivoletti, le sue pozze e le alture rocciose, e fino alla grande oscurità
del mare. Era come trovarsi su una qualche spiaggia poco attraente, a casa.
La tuta lo isolava da tutto, non solo dall’atmosfera potenzialmente dannosa
e dalle radiazioni di una stella aliena, ma anche dagli odori, dai suoni, dalle
immagini genuine che avrebbero reso tutto reale. Avrebbe potuto essere
tutta una scadente simulazione.
Ma siamo qui. E forse la sensazione verrà comunque, svegliandosi con un
nuovo ritmo, vedendo la vita in prima persona.
Gli altri stavano accalcando alle sue spalle, quindi si incamminò con
incedere orgoglioso, indipendentemente da quello che provava, o almeno
con l’incedere più orgoglioso che l’ingombrante tuta gli permetteva. Anche
con i servomeccanismi che gli facilitavano i movimenti, si sentiva goffo
come il mostro di qualche vecchio film. Lante, Lortisse e Rani lo seguirono,
una piccola processione che si snodava con passo strascicato sulle rocce. Il
terreno era scivoloso e irregolare, gli stivali si agganciavano di continuo a
esso, con la suola che si modellava per adattarsi al terreno. Per l’umanità
era una prima parata assai poco dignitosa, ma quantomeno era improbabile
che gli alieni che vi assistevano lo notassero. Baltiel si fermò davanti
all’habitat, segnalando a Lante di entrare e di controllare che all’interno le
condizioni fossero quelle riportate dai display d’installazione. Decise che
sarebbe entrato per ultimo, rimanendo là a contemplare il panorama nella
speranza che questo generasse la sensazione tanto desiderata.
Nulla di quanto lo separava dal mare era tanto alto da superargli la cintola.
C’erano viscide gobbe fangose e rocce consumate dalla costante pazienza
delle maree, e nel mezzo una vasta rete di depressioni e di canali che con
l’alta marea diventava un’unica massa d’acqua e con quella bassa si
trasformava in migliaia di pozze separate.
Era un ambiente complesso, che si trasformava di momento in momento,
ambasciatore fra le ecologie delle profondità e quelle dell’arido interno. Se
c’era un posto dove la vita nodiana poteva essere diventata complessa, di
certo era questo.
In alto c’erano creature volanti che si comportavano come gabbiani. Forse
sarebbero state il seme dell’intelligenza e di certo erano attivi predatori:
aveva visto riprese in cui scendevano in picchiata su sfortunati abitanti delle
paludi. Come la maggior parte delle forme di vita di Nod, avevano uno
scheletro idrostatico e volavano gonfiando e sgonfiando rapidamente le
ampie barbe in un processo simile a una fotografia al rallentatore che dava
l’impressione che non avrebbero dovuto essere in grado di stare in aria.
Erano le creature più aggressivamente attive del pianeta, i signori aerei di
Nod.
Sul terreno c’era una quantità di cose che essi potevano mangiare e che
sarebbero probabilmente state il principale oggetto degli studi di Baltiel
negli anni a venire. Centinaia di ceppi di cose organizzate in maniera
radiale, che strisciavano e nuotavano, facevano della palude la loro dimora,
da cose microscopiche a testuggini che potevano essere alte fino a una
novantina di centimetri. Naturalmente, non si trattava di vere testuggini e
non vi somigliavano neppure molto, ma secernevano gusci di una sostanza
simile alla pietra e barcollavano in giro su zampe tubolari, per cui la
definizione aveva attecchito. Era evidente che il loro sapore piaceva ai
volatili, quando riuscivano a strappare parti del loro corpo dall’interno delle
loro fortezze mobili. Baltiel ne osservò una che procedeva stupidamente
lungo il percorso da lui seguito dalla navetta. Aveva sei zampe, che
venivano estratte e ritratte a turno, e sei arti simili a tentacoli che usava per
grattare il terreno e recuperare il suo raccolto di creature simili a piante
sessili. Mentre la osservava, la creatura estese lentamente un tentacolo per
toccare proprio il terreno su cui lui aveva camminato. Che una parte del suo
limitato apparato sensoriale stesse registrando un elemento chimico alieno,
magari un residuo della gomma degli stivali? La testuggine parve passare
molto tempo a vagliare quella possibilità, ma poi si rimise in movimento e
si calò nella pozza successiva, alla ricerca di un alimento che fosse in grado
di capire.
Si girò e seguì gli altri nell’habitat.
Loro non parevano avvertire la stessa sensazione di disappunto. L’aria era
piena del loro chiacchiericcio mentre contattavano Skai. Baltiel controllò le
ultime informazioni sulla Egeo e i giochi idioti di Senkovi. La nave era
ancora al buio e l’equipaggio di Senkovi scambiava comunicazioni ansiose
con gli uomini di Skai riguardo a quello che sarebbe successo se non fosse
tornata in funzione nei tempi previsti.
Verremo a salvare quello che rimane, era l’ovvia risposta a quella
domanda.
Troveremo il corpo di Disra.
Nessuno lo diceva, ma lo pensavano tutti.
Lante gli rivolse un sorriso. Era una donna massiccia, con i capelli tagliati
quasi a zero e la pelle tinta di un colore cinereo dalla luce artificiale. Rani
era più bassa e bruna, sempre leggermente in disordine: anche lì in piedi
nella tuta quella sua tendenza traspariva dall’inclinazione del casco.
Lortisse era di mezza testa più alto del suo comandante, con una barba
scura trattenuta da una retina per evitare che interferisse con i suoi comandi
HUD. Quelli erano gli uomini, i suoi discepoli e i loro nomi sarebbero
apparsi nei libri di storia, sotto il suo.
Poi Rani si accigliò. Dalla sua espressione sembrava che si fosse appena
ricordata di qualcosa che avrebbe voluto portare con sé.
Adesso è troppo tardi per tornare a prenderlo.
Baltiel le mandò un’interrogazione sulla rete locale e lei aggiunse a un
collegamento che aveva in corso con Skai.
«Ripeti» le ordinò, per evitare di dover vedere la registrazione per
mettersi al passo.
«Ho detto che stiamo ricevendo un segnale stranissimo dalla Terra.
Dapprima era solo sul canale dei notiziari, ma adesso è su tutti quanti, su
ogni frequenza.» La voce di Skai era spezzata a tratti dalla statica. «Un
momento prima erano le solite notizie di guerra, poi c’è stato solo questo...»
L’immagine data dal loro HUD si bloccò e il protrarsi della sua espressione
perplessa divenne inquietante.
«Skai?» chiamò Baltiel, inviando una richiesta di connessione in risposta
alla quale ricevette una manciata di risposte contraddittorie dalla rete. Gli
altri si stavano scambiando occhiate in tralice, usando i loro sistemi di
diagnostica senza approdare a nulla.
Per un momento l’immagine di Skai tornò ad animarsi, passando
direttamente da una vaga perplessità all’insorgere del panico. «...od, il
sistema sta...» Balbettio, blocco dell’immagine. «...contatto con la navetta.
Han, Han, mi...» Una serie di lampi che facevano dolere gli occhi, come se
un messaggio venisse trasmesso attraverso le loro pupille e andasse a
graffiare selvaggiamente la retina. «...disattivando, supporto vitale,
qualcuno... aiutare.» Adesso non avevano più l’immagine, c’era soltanto
quella voce di donna, lacerata dalla statica, che si faceva sempre più
lontana. Sullo sfondo c’erano interferenze e feedback a cui, se Baltiel
sforzava la propria immaginazione, si univano urla terrorizzate. «C’è
qualcuno?» gridò Skai. «C’è qualcuno?» Ma non c’era nessuno e dopo un
momento non ci fu più neppure lei.
Baltiel e gli altri della sua squadra si fissarono a vicenda, incapaci di
elaborare a fondo quello che era successo. Ciascuno continuava a cercare di
collegarsi al modulo, trovando soltanto statica, interferenze che non
potevano analizzare.
«Cosa diavolo...» Quella di Lante fu la prima voce umana a infrangere il
silenzio. Tutto quello che avevano sentito era giunto loro tramite gli
impianti di comunicazione, che avrebbero dovuto garantire che fossero
un’unica famiglia felice, anche a quella distanza.
«Questo è uno degli scherzi di Senkovi?» aggiunse Lortisse. Senkovi non
gli piaceva molto.
Rani era impegnata a modificare i parametri dei loro strumenti per
aggirare quello che bloccava le loro trasmissioni. In quel momento, nessuno
di loro pensava davvero che qualcosa fosse andato storto, nulla tranne le
comunicazioni.
Baltiel trasse un profondo respiro. Sapeva che doveva prendere una
decisione di comando, ma disponeva di troppo poche informazioni per
stabilire quale dovesse essere.
Le luci si spensero, prima la tremolante illuminazione intorno a loro, poi il
rosso opaco delle lampade di emergenza e infine il bagliore violetto dello
schermo che Rani stava guardando. Tutto quello che rimase fu un residuo
chiarore ambrato che proveniva da ogni parte e da nessuna: la luce solare
dell’esterno che filtrava un poco attraverso il materiale dell’habitat.
Baltiel contattò Rani, o almeno ci provò, perché non ebbe la sensazione
che il segnale venisse inviato e di certo non ci fu conferma che fosse stato
ricevuto. Diresse un’interrogazione alla tuta. Niente. Si mosse, e avvertì
appieno il peso di quella protezione ingombrante: i servomeccanismi si
bloccavano alle articolazioni, rifiutandosi di aiutarlo.
Si accese un raggio bianco: Rani aveva una torcia d’emergenza e ne stava
dirigendo la luce intorno. Baltiel vide la sua bocca che si muoveva e le si
avvicinò barcollando.
«La tuta è morta!» Nella luce incerta lesse quelle parole sulle sue labbra.
«Quanta aria?» Lortisse doveva urlare fin quasi ad assordarsi. La sua voce
suonava come quella di qualcuno che si trovasse in un’altra stanza, con la
porta chiusa.
«Non posso stabilirlo» gridò di rimando la voce distante di Rani. «È tutto
spento.»
Baltiel fece per trasmettere che dovevano rimanere almeno otto ore
ciascuno, ma naturalmente il comunicatore non funzionava. Nei loro piani,
l’esposizione all’esterno con la protezione della tuta sarebbe dovuta durare
solo per i pochi passi fra la navetta e l’habitat, ma lui era diligente, come
tutti loro, e le tute erano state caricate al massimo, lo ricordava bene.
Tuttavia, si sentiva già spaventosamente a corto d’aria, il che era
impossibile. Le pompe avrebbero dovuto avere una loro alimentazione,
indipendente da qualsiasi guasto dei sistemi della tuta.
A meno che non fosse stato loro detto esplicitamente di disattivarsi. In
teoria era possibile, come parte di un ciclo di manutenzione.
Si sta disattivando tutto. Un attacco. Non funziona niente, tranne noi.
«La navetta!» gridò Lortisse, e barcollò verso il portello dell’habitat, che
rimase risolutamente chiuso. Armeggiando, attivò l’apertura manuale della
porta più vicina, tremando e annaspando finché non cadde in ginocchio.
Cupo in volto, Baltiel si avvicinò con passo pesante e fece scattare lo
sganciamento di emergenza del suo casco, in modo che Lortisse potesse
barattare l’aria esaurita del casco con quella in lento esaurimento
dell’habitat. Subito dopo si liberò a sua volta del casco, annaspando per
l’aria intrisa dell’odore di gomma che si trovò di colpo a respirare, e ben
presto anche gli altri lo imitarono.
«Cosa diavolo succede?» ripeté Lante, con voce chiaramente udibile
adesso che avevano deciso di fare tutti insieme quella cosa stupida. Baltiel
pensò che gli altri due dessero l’impressione di averlo già capito... Rani
senza dubbio, mentre Lortisse stava mettendo ancora insieme i pezzi.
«Siamo stati disattivati» spiegò, perché andava detto ed era lui ad avere il
comando e la responsabilità. «Un attacco, da casa, che risale a trent’anni fa.
La guerra...»
«Dobbiamo ripristinare le comunicazioni» disse Rani. «Il modulo...»
«Dobbiamo sopravvivere.» Baltiel stava già facendo un inventario. Lì
avevano cibo e acqua, anche se non potevano riciclare i rifiuti finché non
fossero riusciti a far ripartire quella parte del sistema. Avevano una scorta
limitata d’aria... potevano riportare online i filtri e le pompe? Potevano
accedere ai serbatoi delle tute? Cercò di nuovo di collegarsi con gli altri per
sottoporre loro il problema in modo che le loro menti vi lavorassero nello
spazio virtuale condiviso. Di nuovo, gli fu negato il contatto.
«Prima l’aria, poi le comunicazioni» decise. «Se non erano in uso, forse
quelle della navetta sono sopravvissute.» La parte più cupa e razionale della
sua mente, però, gli stava facendo notare che le comunicazioni della navetta
erano sempre aperte, naturalmente. Perché non avrebbero dovuto esserlo?
Qual era la cosa peggiore che poteva succedere?
«Perché noi?» chiese Lante.
Forse non si è trattato soltanto di noi.
Ma ci sarebbe stato tempo in seguito per quel genere di congetture.
Alla fine riuscirono a modificare alla meglio le tute in modo che il
pompaggio dai serbatoi riprendesse a funzionare, il che andava bene, tranne
per il fatto che potevano a stento comunicare, a meno di accostare la testa
fino a quando i caschi non si toccavano. Le pompe dell’habitat rimanevano
cocciutamente silenziose. Rani riteneva che avrebbe potuto rimetterle in
funzione, aggirando tutte le parti del sistema che erano morte in risposta al
comando giunto dalla lontana Terra, ma forse non in tempo perché potesse
essere utile.
Baltiel si era offerto volontario per andare fuori e provare a vedere se
nella navetta funzionava qualcosa. Per farlo uscire avevano perso l’aria di
un’intera stanza, e adesso si domandava se avrebbe chiesto che lo facessero
rientrare. Non rimase sorpreso di scoprire che la navetta era morta, proprio
come tutto il resto. Il portello era bloccato e non rispondeva neppure ai
comandi manuali. Picchio contro il metallo della porta, sfogando la propria
furia su quel materiale inanimato in modo da poter tornare indietro ed
essere ragionevole a beneficio dei suoi compagni. Quando ebbe finito di
sfogarsi con sé stesso come unico pubblico, si guardò intorno e scoprì che
parecchie testuggini osservavano lo spettacolo offerto da quel condannato
invasore alieno che era venuto a morire sul loro mondo. La memoria lo
informò che avevano occhi semplici all’estremità inferiore del guscio, ma
altri occhi complessi su steli che emergevano dallo sfiatatoio alla sua
sommità, che servivano a guardarsi dalle creature volanti. Adesso quegli
occhi lo fissavano, dandogli la sensazione di dare spettacolo di sé.
Sono appena arrivato e adesso cosa diranno i vicini?
Tornò quindi faticosamente all’habitat e picchiò contro il portellone a
tenuta stagna finché non lo fecero entrare. Nel frattempo Rani aveva fatto
miracoli con la batteria della sua tuta, un’antenna direzionale e quello che
sosteneva essere un trasmettitore/ricevitore funzionante. Solo che là fuori
non c’era nessuno che trasmettesse o che segnalasse ricevuta delle loro
trasmissioni. Il modulo era silenzioso, come pure la Egeo e la navetta su cui
Senkovi aveva fatto imbarcare i suoi colleghi.
L’habitat non funzionale era un orologio che faceva il conto alla rovescia
con la loro vita, ma loro erano su un pianeta, all’interno di una pressione
atmosferica. Se anche i sistemi del modulo avevano smesso di funzionare,
quanto tempo rimaneva a Skai? Baltiel si sentì acutamente consapevole di
come ogni singola parte della loro vita nello spazio fosse condizionata dai
computer.
«Continua a provare» disse a Rani. «Quanto al resto di noi, facciamo
funzionare l’aria dell’habitat.»
Quanto tempo era passato? Non c’erano orologi su un mondo alieno
(Baltiel ricordava che il ciclo giorno/notte durava poco meno di
trentaquattro ore e diciassette minuti) e non potevano contare neppure sulla
strumentazione delle tute, per cui Baltiel decise che l’aria si sarebbe presto
esaurita, come se quella fosse stata una scelta, qualcosa su cui poteva avere
voce in capitolo. Non erano riusciti a sbloccare il sistema di aerazione.
Avevano trascinato all’interno un serbatoio di emergenza, vi avevano attinto
e lo avevano svuotato. Gli sforzi brutali di Lortisse, dettati dalla
frustrazione, avevano avuto come risultato che un altro serbatoio aveva
riversato il suo contenuto nell’indifferente atmosfera aliena dell’esterno, ma
senza le torri di lavaggio e i riciclatori attivi, niente di tutto questo aveva
importanza. Dopotutto, l’habitat non aveva enormi riserve d’aria, perché
avrebbe dovuto continuare a riciclarla, trasformando la CO2 in O2 con un
residuo di carbonio.
Dal momento che non erano riusciti a fare la respirazione artificiale al
sistema – una battuta disperata di Lante – niente di tutto il resto aveva
effettiva importanza.
Fu così che Baltiel prese una decisione di comando: avrebbe fatto il
grande balzo, sarebbe stato la cavia. In parte, perché era responsabile della
sua nave e sarebbe andato a fondo con essa, ma in parte per essere il primo.
La sua penitenza, ma anche il suo privilegio.
E adesso era lì, di nuovo nella camera stagna piena di aria stantia e troppo
utilizzata, fatta circolare dalle rozze leve manuali. C’era anche l’aspro
odore della tuta, che adesso puzzava del suo sudore e anche dell’urina che
non veniva più riciclata. L’interno dell’habitat aveva un odore anche
peggiore. Avevano usato tutti i servizi, ma quale che fosse la natura
dell’arma elettronica da psicotici che era stata scatenata, essa non aveva
risparmiato neppure i servizi idraulici. La tuta era afosa e ingombrante, con
i servomotori che contrastavano ogni suo movimento, progettati per
proteggerlo ma trasformati ora in una tomba che lo aspettava.
Guardò verso il sole arancione che scendeva verso le montagne in quella
che prima era soltanto una qualche direzione ma che adesso, in virtù della
presenza di esseri umani, sarebbe stata per sempre l’ovest.
O forse non per sempre, ma solo finché saremo qui, e probabilmente non
sarà per molto.
Gli altri lo osservavano, non attraverso schermi e videocamere che
fornissero letture complesse sul suo stato di salute, ma attraverso il vetro
oscurato di un portello da cui avevano rimosso a forza la copertura.
Trasse un profondo respiro, se ne pentì subito e sollevò le mani per
slacciare il casco. La mancanza degli allarmi gli generò uno strano sollievo.
Quello era un sistema di cui non avrebbe sentito la mancanza.
Si tolse il casco e, con uno sforzo che gli strappò un gemito, lo posò per
terra. Fatto questo fissò il cielo arancione sempre più cupo e trasse un
profondo respiro.
Sale, ammoniaca, ozono. Al di là di questo, c’era una miscela di odori a
cui non sapeva dare un nome. Cose che marcivano seguendo sconosciuti
percorsi biologici, pungenti profumi di cose vive, odori intensi, rossi e neri.
In quel momento desiderò più di ogni altra cosa di essere sinestetico, per
poter avere un modo in più per elaborare le informazioni fornite dai suoi
sensi. Si era aspettato che l’aria aliena fosse pungente, orribile, invece era
inebriante per odori che il suo corpo non sapeva come valutare.
Ricordavano qualcosa, o niente. Erano cocktail di molecole che prima di
allora il suo naso non aveva mai dovuto identificare.
Intorno ai suoi piedi sentì salire un pigolio come di minuscoli uccelli
appena nati. Una creatura volante lo sorvolò, emettendo un ticchettante
verso rabbioso al suo indirizzo. Qualcosa stridette in modo acuto in
lontananza. Le testuggini gorgogliavano nel muoversi, come se le loro
interiora rimescolassero sassi umidi. Erano cose che aveva ignorato. I droni
e i remoti non avevano mai sentito quei canti, avvertito quegli strani odori.
L’atmosfera era pesante, densa, umida e calda come quella dei tropici,
tranne quando il vento soffiava dal mare e l’acre odore di sale lo avvolgeva,
rinfrescandolo e facendogli bruciare gli occhi.
Il suo respiro stava accelerando. Sentendo incombere il pericolo
dell’iperventilazione da panico, si costrinse a rallentarlo. C’era meno
ossigeno, ma secondo i dati forniti dai computer, ora morti, avrebbe dovuto
essercene quanto bastava. Un umano terrestre poteva respirare senza
supporti. Una lunga esposizione avrebbe avuto come risultato un accumulo
di sostanze chimiche che l’organismo umano non era in grado di smaltire,
ma era sempre meglio che soffocare, giusto? E poi avrebbe potuto
disintossicarsi in seguito, quando fosse tornato alla... alla... Ecco, non c’era
più dove tornare.
Lottò ancora con i propri polmoni, che cercavano un supporto maggiore di
quello che l’atmosfera di Nod aveva da offrire. Gli dolevano i muscoli,
costretti a operare con quella gravità appena superiore al normale, però era
vivo e respirava aria aliena, la stessa da cui quella miriade di piccoli mostri
dipendeva per il suo metabolismo incompatibile con quello terrestre.
Si girò verso gli altri, o almeno verso l’oblò dietro il quale doveva
confidare che si trovassero ancora. In quella tuta era difficile perfino
sollevare un pollice in segno di successo, ma ce la fece. Dovevano poter
vedere il suo sorriso. Sarebbe morto, ma ora lo aveva fatto, era il primo
cittadino naufrago di Nod. Si sentì assalire da un folle accesso di ilarità e
poi dal panico, dovuto al timore che quello fosse l’effetto che l’atmosfera
stava avendo su di lui. Yusuf Baltiel non era uomo da cedere a improvvisi
attacchi di gioia irrazionale! E tuttavia quella gioia era sua, la reclamò come
propria. Aveva trovato gli alieni, li aveva salvati dalle depredazioni causate
dalla missione affidatagli e adesso sarebbe morto in mezzo a loro, adesso o
più tardi o fra cento anni, un folle eremita al confine estremo dell’universo
umano che parlava con le testuggini e con le piccole creature pigolanti che
vivevano nella sabbia nera.
Tornò indietro con passo barcollante ed entrò nel portello, che aveva
lasciato aperto perché... ecco, perché non farlo? Aveva anche lasciato il
casco all’esterno. Forse qualche granchio alieno ci sarebbe strisciato dentro
e lo avrebbe reclamato come casa. Augurò ogni bene a quell’ipotetica
creatura.
Gli altri lo fissavano attraverso il portello interno della camera stagna con
un’espressione indecifrabile. Adesso lo avrebbero tenuto d’occhio come
falchi, per vedere se qualcosa lo avvelenava o se c’era una pestilenza
diffusa in tutto il pianeta che poteva saltare non solo da specie a specie, ma
da un albero filogenetico a un altro. Con lentezza, sentendo la gravità che
gli torceva le articolazioni, si tolse tutta la tuta e lasciò che il suo peso
morto la facesse ripiegare al suolo come se si stesse liberando di un bozzolo
per entrare in un nuovo ciclo della sua vita.
Voleva cercare di dormire lì nella camera stagna, esposto agli elementi ma
Lortisse cominciò a picchiare contro la finestra, mimando l’atto di girare
una manovella. Volevano che chiudesse la porta esterna. Non riusciva a
capirne il motivo, ma a quanto pareva gli avrebbero permesso di rientrare
prima del previsto, in quella che era una chiara infrazione dei suoi ordini.
Era evidente che qualcos’altro era andato storto.
In quel momento non voleva essere il comandante, voleva essere un
naufrago senza speranze o preoccupazioni, e limitarsi a godere dell’alienità
dell’aria, ma in risposta a quel picchiare una scintilla gli si accese nella
mente: dopotutto, era responsabile. Anche nella sconfitta, quella era la sua
missione. Segnalò che aveva capito e faticò per muovere la piccola leva
finché la porta esterna non si chiuse e sigillò, poi attese che pompassero
all’interno aria terrestre, espellendo quella di Nod. L’aria terrestre puzzava,
ed era piena di odori che il suo corpo identificava con fin troppa facilità.
«Cosa c’è?» chiese. Gli altri si erano tutti tolti il casco perché il serbatoio
della tuta era vuoto, e le ultime scorte di emergenza d’aria si facevano
lentamente stantie intorno a loro.
Non ebbe bisogno di chiedere altro perché lo sentì: un segnale
proveniente dalla radio improvvisata da Rani. Era metallico e intasato di
statica, ma conteneva una voce umana.
«Salve? Qualcuno vuole dire qualcosa? So che ho fatto un casino, ma
rispondete!» Un minuscolo e lontano Disra Senkovi che li contattava da un
pianeta di distanza, su una nave che aveva riportato in vita solo ora. «Ehi,
capo, che diavolo succede? Han, adesso potete tornare qui. C’è nessuno?»
Sulla Egeo c’erano altre navette. Non erano tanto vicine da garantire che
l’aria terrestre durasse a sufficienza, ma Baltiel aveva messo in gioco la
propria vita per dimostrare che quella non era la fine del mondo. Aspettò un
momento prima di rispondere, cercando di fare qualche calcolo, ma alla fine
sorrise e spinse via Rani dal sedile per poter parlare con il figliol prodigo
della spedizione.
6

Noi
abbiamo
assaggiato strane molecole.
Questi-di-Noi assaporano roba mai conosciuta prima, la scompongono,
la ricostruiscono, diversa da qualsiasi cosa, tossica, ricca di energia,
affascinante.
Questi-di-Noi ricreano questi stimoli per Altri-di-Noi quando ci
incontriamo, scambiando idee e noi stessi.
Nessuno-di-Noi ha mai incontrato niente così, da nessuna parte.
Qualcosa di nuovo è giunto nel mondo.
Presente 1
La via di Damascus
1

C’era una volta una civiltà su un lontano pianeta. Le persone di quella


cultura sapevano molte cose, incluso come viaggiare fino ad altre stelle e
rimodellare con un margine di tolleranza i pianeti che trovavano in modo da
farne posti in cui esse potessero camminare e respirare.
Erano però individui litigiosi e proprio quando erano arrivati a
raggiungere le stelle si scagliarono gli uni contro gli altri, e tutta la loro
opera andò distrutta. Quasi tutta.
Uno degli scienziati, la mente più grande della sua epoca...
O almeno così dice lei.
Lo dice, e non sono dell’umore di confrontarmi con lei al riguardo. Tu hai
decenni a sufficienza, ma la vita di un Portiade è troppo breve.
Si chiamava Avrana Kern e aveva un piano per elevare le bestie del suo
mondo in modo che desiderassero conoscere e adorare il loro creatore.
Aveva creato una terra per loro, dove liberò un virus che avrebbe accelerato
l’evoluzione verso quella condizione di adorazione, e aveva anche un
gruppo di scimmie, ma fra tutte queste cose l’ultima non venne mai
consegnata perché i malvagi che muovevano guerra ai loro simili, a casa,
estesero quella guerra anche contro di lei. Kern venne quindi lasciata nella
sua minuscola capsula ad attendere una chiamata dal mondo sottostante, che
era privo di primati ma ricco di altre forme di vita. Orbitò per molte
migliaia di anni, al punto che ciò che rimase, per quanto lei possa negarlo,
non era più Avrana Kern, una personalità distinta dal computer con cui
aveva contrattato per avere una vita eterna.
Quando infine giunse, la chiamata proveniva dalle nuove padrone del
mondo, le più intelligenti, emotivamente sofisticate ed eleganti fra tutte le
sue molteplici creature.
Adesso ti stai solo vantando.
Dobbiamo supporre che qualsiasi vita incontreremo apprezzi la
sofisticatezza, l’intelligenza e l’eleganza, altrimenti a che serve la vita?
Comunque, ora continuo.
All’insaputa dei Portiadi, come avrebbero finito per essere conosciuti,
alcuni visitatori stavano venendo sul loro mondo. La civiltà che aveva dato
loro origine era crollata e risorta e, alla fine, era sull’orlo dell’estinzione a
causa dei suoi stessi vizi...
Adesso prendo posizione, in modo deciso.
Se lo farai, dimostrerai soltanto che ho ragione. Apparirai come
centomila formiche in preda alla confusione. Io proseguo...
Vuoi almeno lasciare un po’ di dignità alla specie umana?
Un breve agitarsi dei pedipalpi a esprimere rassegnazione, come in un
sospiro.
Quelli che potevano, partirono disperati su una nave in cerca del sapere
contenuto nei posti dove i loro antenati si erano aggirati tanto tempo prima,
e fu così che giunsero sul mondo sottoposto al controllo di Avrana Kern, o
di quel che restava di lei. All’inizio, vennero chiedendo aiuto, e infine
vennero muovendo guerra, perché non capivano i Portiadi, li vedevano
come dei mostri, e nessuna delle due parti era in grado di comunicare con
l’altra. Inoltre, quel che restava di Avrana Kern era diffidente, in quanto
ricordava solo come fosse stato tradito il suo grande progetto.
Questo è un modo molto diplomatico di esporre la cosa.
La diplomazia rientra fra le mie molte Comprensioni.
I Portiadi presero il virus che aveva agevolato la loro evoluzione, quello
che aveva permesso loro di conoscersi a vicenda e di unirsi invece di vivere
come cacciatori solitari, e lo fecero conoscere ai loro creatori, che erano
anche gli ideatori del virus, facendo loro dono della comprensione del fatto
che anche qui c’erano menti che guardavano verso l’esterno e cercavano di
conoscere l’universo. Fu così che venne fatta la pace fra umani e Portiadi,
sorse una nuova età dell’oro e da allora gli umani non furono soltanto tali,
ma Umani, il che era una cosa molto migliore.
Fu così che più tardi il sapere congiunto di questi due popoli portò alla
partenza di una nave dal mondo di Avrana Kern, diretta verso altri posti
lontani su cui un tempo gli umani avevano posato piede per rimodellarli,
perché in quei posti erano stati individuati deboli segnali e loro erano
impazienti di conoscere nuove intelligenze e di incontrarle in pace.
Helena Holsten Lain osserva la sua compagna, ora accoccolata in un
atteggiamento che lei sa di dover interpretare come ‘di aspettativa’. Il modo
di comunicare di un ragno portiade, una combinazione di otto zampe che
battono il terreno e di due pedipalpi pelosi che si agitano, è sempre
un’esibizione notevole. Al confronto, Helena si sente decisamente muta,
con un linguaggio del corpo grezzo e massiccio, la voce che manca di
sfumature. È nata in seno a una civiltà dove la sua gente costituiva una
piccola minoranza, una curiosità, circondata da una vasta popolazione di
ragni che si rivolgono a sensi che gli Umani a stento possiedono. Era
appena una bambina quando ha cominciato a lavorare per abbattere quella
barriera fra le specie intelligenti del Mondo di Kern, a sopraffarla come la
mera condivisione di un virus creato in laboratorio non poteva fare. Il
viaggio aveva avuto qualche altra fase in mezzo, certo, ma lei ha appena
ascoltato Portia narrare una versione, fantasiosa e di parte, della storia del
loro mondo, con i suoi guanti e impianti ottici e cerebrali che ne
traducevano la maggior parte in tempo reale, completa di significati
sottintesi, personalità e umorismo. È possibile che una buona percentuale di
quanto ha ricevuto fosse composta da intuizioni e vuoti riempiti con quelli
che per gli Umani sarebbero stati paletti quadrati piantati in fori rotondi, ma
è comunque infinitamente al di là di qualsiasi cosa con cui sia cresciuta.
«Comunque» afferma «dovrai trovare un modo per non far apparire tutto
così orribile.» Pronuncia mentalmente quelle parole, tramite gli impianti,
con le dita appoggiate con estrema leggerezza sul ponte e i guanti che
scandiscono quella che spera essere una buona approssimazione di quello
che intende dire, rivolta direttamente ai piedi in ascolto della collega.
«Ma tu sei orribile» giunge la risposta tradotta, e Helena prova un impeto
di trionfo, perché anche se parte del significato si è perso lungo la strada,
sta comunque parlando e perfino chiacchierando con un ragno portiade
come nessun umano è mai stato in grado di fare, a parte la santificata (e per
lo più artificiale) Avrana Kern stessa.
Ha un prurito sulla nuca. Non quello delle cicatrici chirurgiche, che un
interessante cocktail di medicinali tiene a rispettosa distanza, ma qualcosa
dentro il cranio. Meshner si concentra sulla sensazione, cerca di portarla in
superficie, mentre i suoi occhi sono ciechi e bui perché vedere cose reali
costituisce una distrazione eccessiva e la sua disciplina nel gestire le
palpebre ne risente quando è distratto.
«Non arriva» annuncia. «Dammi un indizio.» Sente il piccolo suono
metallico del suo assistente di laboratorio che riferisce quelle parole al suo
collega di sperimentazione, poi avverte quell’esalazione, unica nel suo
genere, che è Fabian – il suddetto collega nella sperimentazione – che si
lancia in spettacolari convulsioni aracnoidee con lo scopo specifico di far
sapere al suo collega umano, Meshner, quanto si senta frustrato in quel
momento. I ragni portiadi hanno fatto molta strada dalla loro condizione
ancestrale, tanto nelle dimensioni quanto nella biologia. L’originale,
minuscolo ragno saltatore non aveva una respirazione attiva, mentre
l’esemplare attuale fonda la propria vita sull’espandere l’addome per
immettere aria nell’elegante filigrana dei polmoni a libro. Quello che in
genere i Portiadi non fanno è sospirare. A prezzo di un grande sforzo,
tuttavia, Fabian ha imparato come respirare in modo tale da trasmettere
un’emozione umana. Scientificamente parlando, Fabian e Meshner sono
complici da molto tempo. Nonostante le barriere di comunicazione, hanno
sviluppato un loro idioletto, che usano soprattutto per lamentarsi.
Si sente poi il frusciare e strisciare della risposta di Fabian, rivolta
all’assistente di laboratorio/traduttore, la cui voce metallica e spettrale dice:
«Immagina l’oceano.» L’assistente è stato progettato e incarnato come parte
degli esperimenti di Avrana Kern per relazionarsi più intimamente con il
suo popolo eletto, i Portiadi. Codificato per comportarsi come un ragno
maschio, parla anche a Meshner con una versione maschile dei toni abituali
di Kern, cosa che lui continua a trovare sconcertante.
L’oceano... L’idea penetra più in profondità nella mente di Meshner, alla
ricerca di quel prurito spettrale, e per un momento lui la afferra: luce solare
– l’alba? – che brilla sull’acqua. Riceve l’impressione di una struttura,
legno e ragnatela, forse un molo? Ombre dagli spigoli duri incombono al
limitare della sua visione.
Gli giunge il rumore di un lieve fruscio, Fabian che prende annotazioni
sulla sua attività cerebrale e sul trasferimento di dati dagli orribili, massicci
impianti che ora formano una fascia intorno alla nuca di Meshner.
Il breve momento della visione è scomparso e Meshner prova a sua volta
eccitazione e poi frustrazione, che hanno cospirato per scacciare
l’immagine. Ci sono informazioni in attesa di trasferirsi nel suo cervello,
ma la sua mente è un pasticcio ribelle e non riesce quindi a trovare la strada
fino ai suoi giusti bersagli neurologici.
Oceano, oceano... Le immagini ci sono, le conosce grazie ai suoi ricordi
personali, quindi sgombra di nuovo la mente usando tecniche di attenzione
cosciente sviluppate partendo da zero.
E se sopprimessi la mia capacità di accedere alla memoria?, si chiede.
Potrebbe funzionare?
Di certo ci devono essere medicinali che gli causino un periodo di
amnesia. Forse in quel vuoto le immagini aliene giungerebbero in modo più
naturale.
«Potresti darmi qualcosa di più... individuale?» mormora. «Non so se mi
arriva niente che sia davvero tuo.»
Di nuovo Fabian si muove in una nitida comunicazione e la voce
semimaschile del loro assistente riferisce: «Volevo che avessi qualcosa che
potesse inserirsi in modo naturale nell’esperienza umana, per rendere la
cosa più facile.»
«Non funziona...» Mentre parla, però, con irritazione e risentimento che
gli vorticano nella mente insieme al pensiero di un’altra sessione sprecata,
Meshner ha una visione nitida: un mare di un milione di toni di blu... no,
non si tratta neppure di blu ma di un intero spettro di colori che
semplicemente non si collega alla gamma visiva a lui familiare. Un cielo
che scintilla delle radiazioni del sole. Un terreno, sotto i suoi piedi, che
respira piano per il traffico di un’intera città che si trova alle sue spalle.
Solo che i suoi piedi... i suoi piedi sono in tutte le direzioni, la sua schiena, i
suoi occhi... i suoi occhi...
È assalito da un’improvvisa ondata di nausea. L’immagine, il feedback
sensoriale, scompare in un istante, e tuttavia lui non ritrova il suo corpo
normale. La sua percezione di sé va in tilt, ogni sensazione di dove sia il
suo corpo, di quale forma abbia, lo abbandona completamente. Apre la
bocca per parlare e i suoi arti hanno uno spasmo di paralisi che lo fa crollare
all’indietro – era seduto, in piedi? – a contorcersi al suolo. I suoi denti
schioccano e si sente percorrere da una fitta di dolore quando si morde la
lingua.
Poi un’ondata improvvisa di appiattente calma artificiale si fa largo a
forza nella sua mente come un bullo, respingendo l’insorgere del panico e
raffreddandogli il sangue. Meshner apre gli occhi, consapevole che avrà una
devastante emicrania non appena l’effetto dei medicinali si sarà esaurito, e
anche del fatto che potrebbe aver danneggiato in modo irreparabile il
proprio cervello.
I suoi colleghi lo studiano con ansia, o quantomeno l’agitarsi dei pedipalpi
di Fabian trasmette ansia in un modo comprensibile anche per un Umano.
Fabian – un ragno striato nero e grigio, con un corpo grande all’incirca
quanto la testa di Meshner – è attualmente accoccolato su una consolle a
forma di fuso, con quattro zampe che apportano a scatti delle modifiche al
programma nel tentativo di mitigare i danni, quali che siano, arrecati alla
mente di Meshner. Accanto a lui c’è l’assistente di laboratorio che Meshner
ha deciso di chiamare Artifabian. Ha la forma generica di un piccolo ragno
portiade molto simile allo stesso Fabian, ma fatto interamente di plastica
alternativamente rossiccia, trasparente e iridescente. È una sorta di robot
che contiene una copia meno intelligente della personalità di Avrana Kern,
ricavata da quella della nave. Impossibile sapere se la sua preoccupazione
sia sincera.
Meshner li fissa, aspettando che lo sguardo gli si metta a fuoco.
L’emicrania sta cominciando, di quel genere su cui i medicinali sembrano
non avere mai effetto. Ha il sospetto che sia psicosomatica, che la sua
mente decida che lui debba provare dolore considerata la bravata appena
fatta. Questo non migliora le cose, significa soltanto che non c’è niente che
possa usare per porre fine alla sofferenza.
«Come sta la mia testa?» chiede, e Artifabian traduce per lui. Potrebbero
usare semplicemente la nave, ma avere quel servitore dedicato alla loro
collaborazione significa che esso impara i loro modi di dire e le loro
abitudini, con le sue approssimazioni che si avvicinano sempre di più al
trasmettere le complessità del linguaggio di ciascuno. Meshner è affascinato
dal modo in cui il congegno imita gli atteggiamenti dei Portiadi. Con Fabian
mantiene una posizione leggermente inferiore, mostrandosi cortese senza
essere deferente, ma quando si presenta una femmina si fa all’istante
ossequioso, molto più che con Fabian, che è in certa misura sopra le righe
per quanto concerne il suo sesso. Meshner ha letto storie semplificate della
civiltà dei ragni destinate ai bambini, che insistono nello spiegare che
oggigiorno va tutto bene e ai ragni maschi è concesso di svolgere un pieno
ruolo in seno alla società. Nella pratica, però, anche gli occhi umani
riescono a vedere che non è tutto proprio come viene presentato. Non dubita
che il Fabian odierno abbia prospettive migliori di quello di un secolo
prima, ma il campo di gioco ha bisogno di altro lavoro prima di essere del
tutto spianato.
«Vedo un’infiammazione lungo i percorsi neurali e un piccolo gonfiore
intorno al lobo occipitale» giunge la conclusione di Fabian, trasmessa
dall’assistente. «Non è una buona cosa, Meshner.» Il suo nome diventa un
piccolo gesto altezzoso del pedipalpo sinistro, come se la creatura stesse
gettando un cappello sul piolo di un appendiabiti senza guardarlo. Le
comunicazioni dei Portiadi scarseggiano di quelle nitide corrispondenze fra
significato e movimento, ma i nomi costituiscono un’eccezione.
«Spiegami perché non riesco ancora a vederci bene» si lamenta Meshner.
«Là però c’era qualcosa. Ne ho avuto un assaggio.» Adocchia il ragno.
«Allora?»
Riconosce il gesto di Fabian perché imita lui che si morde le nocche, un
elemento del linguaggio corporeo umano che il portiade ha assimilato.
Significa che lui, Meshner, sta volutamente confondendo le acque e che
Fabian lo sa.
«Ci riproveremo alla prossima alba» decide cocciutamente l’umano.
Naturalmente, l’’alba’ è una finzione, a bordo, ma i Portiadi amano i loro
cicli giorno/notte ancora più degli Umani. «Ho visto il mare» aggiunge,
anche se nel profondo del suo essere non è in grado di dire se quel mare sia
davvero scaturito dai ricordi di Fabian. «Non puoi darmi qualcosa di più...
portiade? Qualcosa che saprò essere sicuramente tuo?»
Fabian batte insieme i pedipalpi con un suono udibile, un gesto che
Meshner non ha visto fare a nessun altro ragno. Significa che sta pensando.
Gli archivi di bordo hanno un’intera biblioteca su quelle che la migliore
traduzione rende come Comprensioni, una pietra angolare della civiltà dei
Portiadi. Meshner sa che si tratta di ricordi genetici, trasformati in qualcosa
che può essere ereditato, copiato e impiantato per un colpo di fortuna
dovuto al pervasivo nanovirus che ha guidato l’evoluzione dei ragni. Se ha
bisogno di conoscenza o di un talento, Fabian può semplicemente farlo
introdurre nel suo cervello e diventare in breve tempo un esperto al
riguardo. Meshner invidia quella facilità, sia per il modo in cui può rendere
eclettico qualsiasi individuo, sia per il ponte che potrebbe costruire fra
l’umanità e i suoi migliori amici. Sa che Helena e il gruppo dei linguisti
stanno affrontando il suo stesso lavoro in maniera molto diversa e non
invasiva, ma il suo sistema è migliore, se solo riuscisse a farlo funzionare. E
se non gli strapazzerà come un uovo la materia cerebrale nel corso dei
tentativi. È fortunato ad avere un collega di laboratorio come Fabian, che
non è restio a correre rischi. D’altronde, Fabian ambisce all’equivalente
aracnoideo del successo accademico e, siccome è un maschio, questo
significa che deve fare il doppio della strada con la metà dell’aiuto. Senza
dubbio è deliziato di aver trovato un soggetto così disponibile per i suoi
studi.
Poi la posa mite di Artifabian si trasforma in qualcosa di sfrontato e di
dominante, al punto che Fabian cede istintivamente terreno. Lo spirito di
Avrana Kern – o almeno la sfaccettatura dominante che è insediata nel
complesso sistema di computer della nave – ha preso il controllo di questa
sua scheggia errabonda per poter interagire con l’equipaggio.
«La Signora della Nave ha lanciato un allarme generale» dice una voce
femminile che scaturisce dai suoi altoparlanti, mentre i piedi della macchina
scandiscono un messaggio analogo per Fabian. «Tutti sul ponte, a quanto
pare. Abbiamo fatto una scoperta.»
Il risveglio dell’equipaggio era iniziato per stadi misurati dopo che la
Voyager aveva oltrepassato gli spogli pianeti esterni del nuovo sistema,
puntando verso il ronzare dei segnali che provenivano da un punto più
vicino alla stella. Il processo era cominciato con Kern – o con il sistema
computerizzato semibiologico che si identificava come Kern – che aveva
effettuato il bootstrap di sé stessa passando dalle funzioni di base alla sua
completa e aspra personalità, poi era proseguito lungo il ruolino
dell’equipaggio sulla base delle necessità della nave: manutenzione, sezione
medica, comando, poi tutti gli altri. Tanto Helena Holsten Lain quanto
Meshner Osten Oslam sarebbero dovuti rientrare in quell’ultima categoria,
ma entrambi avevano supplicato di poter essere svegliati per tempo in modo
da poter lavorare ai rispettivi progetti personali mentre la Voyager
decelerava.
La nave è cambiata da quando hanno lasciato il loro pianeta in cerca di
una voce fra le stelle. A differenza delle navi ancestrali su cui avevano
viaggiato gli umani, essa aveva una struttura fluida, fatta di materiali che
potevano estendersi e crescere a piacimento di Kern. Alla partenza aveva
ancora imitato quella che Kern ricordava essere l’aspetto delle astronavi,
qualcosa di lungo e dinamico, con una sezione ad anello per i momenti di
veglia dell’equipaggio. Adesso è qualcosa che somiglia di più a una manta,
con le sue ali delicate estese e attrezzate come pannelli solari organici per il
momento in cui si avvicineranno alla stella. I membri dell’equipaggio si
riuniscono in una serie di strutture simili a bolas che Kern ha sviluppato per
loro e che vorticano in un’orbita appena davanti all’apertura alare, come se
loro fossero esemplari in una centrifuga. Nonostante la tecnologia medica
Umano-Portiade, tutti trovano pesante la ritrovata forza di gravità.
Helena e Portia arrivano appena in tempo perché la comandante
dell’astronave si rivolga a tutti loro. Adesso è anziana – i Portiadi non
vivono per più di circa tre decenni, e Helena sa che la comandante è rimasta
sveglia più a lungo del dovuto per vegliare sul suo equipaggio. È un ragno
angoloso, con grandi ciuffi di piume sopra gli occhi principali che la fanno
somigliare a un gufo. Anche lei è una Portia, o almeno il suo nome è tanto
simile a quello dell’amica di Helena che un semplice Umano ha difficoltà a
distinguere fra i due.
Una quantità di altri Umani ha un’aria alquanto intontita, sia perché si
sono svegliati più di recente o perché sono più lenti a riprendersi. Helena
ricorda di come suo nonno si lamentasse riguardo all’emergere dal sonno
criogenico sulla vecchia Gilgamesh che aveva portato gli esseri umani sul
Mondo di Kern. A sentire lui, era stato tutto uno svegliarsi, trovarsi in
mezzo a un folle caos e poi dormire ancora. Adeguatamente preavvisata,
Helena aveva dedicato più tempo a modificare la propria biochimica e ad
addestrare il suo corpo, e praticamente schizzava fuori dalla stasi gelida nel
momento stesso in cui la svegliavano. Portia stessa ammetteva che quello
del risveglio era per i ragni un procedimento estremamente sgradevole. Lei
riusciva a lavorare con Helena soltanto perché Kern aveva dato ai ragni un
certo vantaggio e aveva svegliato successivamente gli umani. La
Comprensione su cui i Portiadi facevano tanto affidamento si disconnetteva
nel corso di lunghi periodi di sonno, per riaffiorare a casaccio giorni dopo il
risveglio. Portia aveva cercato di spiegare che era come dimenticare di
continuo chi eri, protendendosi verso conoscenze che non c’erano.
Helena raggiunge il suo posto, camminando con sicurezza nei calzini
imbottiti che tutto l’equipaggio umano utilizza perché il suono delle scarpe
sui pavimenti elastici sarebbe come urla continue per l’udito vibrazionale
dei Portiadi. Porta l’uniforme standard che Kern ha realizzato: una camicia
e calzoni verde pallido di un tessuto sottile e leggero perché l’aria della
nave è calda e umida come quella del pianeta che si sono lasciati alle spalle.
Portia sta già parlando e scambiando gesti con un paio di ragni della
squadra dei Ricevitori, che sono rimasti svegli più di chiunque altro per
catalogare i ricchi segnali provenienti dall’interno del sistema e cercare di
dare loro un senso per garantire che i locali non prendano nessuno di
sorpresa. La traduzione letterale fornita dal loro dipartimento è ‘piedi
allarmati’, una cosa che fa ancora ridacchiare Helena. È anche una salutare
lezione sul fatto che ci sono livelli diversi di traduzione, e che quella
letterale non è sempre la più utile.
Si accoccola e posa le mani sul pavimento in modo che i suoi guanti
intercettino il chiacchiericcio vibrazionale fra i Portiadi, che i suoi impianti
poi trasformano in qualcosa che somiglia al linguaggio umano. Portia
chiede ai due operatori cosa sta succedendo: sono pieni di eccitazione per la
consapevolezza di aver individuato un oggetto in avvicinamento che è quasi
certamente artificiale. Vedranno per la prima volta un manufatto dei locali.
Poi però la Vecchia Portia, la Signora della Nave, prende la parola. «Sono
certa che stavate tutti aspettando un raduno come questo. Chiunque abbia
un minimo di curiosità comprenderà che questo è un sistema estremamente
attivo e popolato. Il volume e la complessità dei segnali dimostrano che qui
c’è base una civiltà avanzata e il loro carattere rivela una grande quantità di
elementi caratteristici della tecnologia e dei protocolli della Terra
precedente al collasso. Qui potremmo avere la seconda linea di discendenza
più diretta dalla nostra cultura fondatrice.» Questa è la traduzione verbale
del messaggio del capitano, riferita dallo spettro artificiale di Avrana Kern.
Tuttavia, con le dita a contatto con il pavimento e lo sguardo fisso sui
pedipalpi in movimento del capitano, Helena riceve contemporaneamente
anche il discorso originale. La sua cibernetica e il suo cervello organico le
trasmettono: Ecco cosa è questo. Abbiamo un contatto come voi tutti vi
aspettavate. Il traffico di segnali dall’interno del sistema è abbastanza
denso e diversificato da suggerire una civiltà che viaggia nello spazio e che
usa ancora la struttura del Vecchio Impero come base per le sue
comunicazioni.
Kern è più verbosa e allo stesso tempo notevolmente più libera
nell’interpretazione dei concetti che riferisce, e questo genere di cose è
l’esatto motivo che spinge Helena a lavorare al suo progetto. Avverte un
senso di irritazione per la coda che il computer ha deciso di aggiungere a
beneficio del pubblico umano, per ricordare loro quale sia stata esattamente
– almeno dal punto di vista di Kern – la prima linea di discendenza, e allo
stesso tempo prova un cupo divertimento per il fatto che l’espressione del
tutto imprecisa di ‘Vecchio Impero’ che i suoi antenati usavano per
descrivere i loro antenati perduti, sopravviva come un termine di
riferimento aracnoideo anche dopo che Kern l’ha portata all’estinzione fra
gli umani.
«Stiamo per dare la prima occhiata a un manufatto della cultura di questo
mondo» continua in modo risoluto la Vecchia Portia. «La nostra
strumentazione ha individuato in quest’area un altro viaggiatore, un corpo
artificiale che si muove verso l’esterno a una velocità considerevole.»
Intorno a loro, rose di plastica ben chiuse si aprono a diventare schermi che
mostrano un’immagine potenziata del viaggiatore interplanetario che si sta
avvicinando. C’è una scritta nei caratteri nitidi dell’Imperale C, che è la
lingua franca scritta usata dai coloni e nelle annotazioni trasandate e
dall’aria caotica dei ragni, ma il pavimento vibra di dati tecnici per quei
membri dell’equipaggio che hanno piedi atti a riceverli e anche per Helena.
I Portiadi hanno un sistema di scrittura considerevolmente meno efficiente
di quello umano, forse perché avevano la Comprensione a cui appoggiarsi.
Ogni volta che è possibile, per acquisire nuove informazioni loro
preferiscono interfacce che le forniscano direttamente.
All’inizio Helena suppone di aver sbagliato a tradurre quello che sta
ricevendo e controlla guardando gli schermi.
Quanto è grosso?, scandisce Portia, abbastanza piano da far sì che le
parole siano riservate solo alle mani di Helena. Credi sia un errore?
La Voyager ha compiuto una deviazione di rotta piuttosto brusca per farsi
più vicina alla traiettoria dell’oggetto in avvicinamento da quando le letture
iniziali dei dati hanno dimostrato che si trattava di qualcosa di diverso da un
mero asteroide errante. Kern ha gestito con parsimonia la loro energia e il
carburante per tutto l’attraversamento del freddo oscuro fra i sistemi solari,
ma i raccoglitori della nave hanno rinnovato le loro scorte dalla ricca nube
di ghiaccio, gas e polvere che formava il bordo del disco orbitante del
sistema verso cui erano diretti, permettendo così ogni sorta di costosa
manovra. Ha costruito sonde remote nelle sue fabbriche interne e le ha
mandate avanti in viaggi di sola andata, ciascuna contenente una minuscola
scheggia di sé stessa copiata nel suo nucleo. Adesso i dati cominciano ad
arrivare e nessuno riesce a capire bene cosa stiano vedendo.
Il manufatto che si avvicina è prevalentemente sferico, con una sola
evidente eccezione. La superficie esterna è tempestata di una rete regolare
di nodi che un tempo potrebbero essere stati sensori o motori o perfino
armi, ma che adesso sono poco più che moncherini e, forse sfregiati e
incrostati di ghiaccio. Un lato si è squarciato e le interiora sono uscite in un
vasto schizzo irregolare che fiorisce in un fantastico insieme di punte e di
tentacoli ricurvi, come se un qualche inimmaginabile orrore oceanico fosse
stato ucciso mentre stava uscendo da un uovo del diametro di ventisette
chilometri.
Ghiaccio, confermano le sonde. L’eruzione dall’interno dell’oggetto può
essere il risultato di una fessura nel materiale ignoto della superficie, oppure
il congelarsi di un centro liquido può aver fatto scoppiare la membrana con
la sua espansione. In ogni caso, quella colossale eruzione congelata ha
alterato il centro di gravità dell’intero oggetto, con il risultato che la sfera e
quel suo pennacchio lungo un chilometro e mezzo adesso vorticano uno
intorno all’altra con grazia massiccia.
Il ghiaccio è opaco, bianco sulla maggior parte della superficie, ma gli
occhi acuti delle sonde trovano ombre al suo interno. A un ingrandimento,
alcune sembrano riconoscibili come pesci, altre hanno una forma più
incerta, per quanto anche quella potrebbe essere opera dell’espansione.
Una luna artificiale. Una luna d’acqua, suggerisce Portia. Era forse
ornamentale? E quel danno che vediamo si è verificato dopo che è stata
scagliata nello spazio o ne è stato la causa?
Helena appoggia i palmi sul pavimento e risponde: «Non lasciarti
prendere la mano dalle supposizioni.» Lascia che i meccanismi dei guanti
effettuino la loro miglior traduzione in una serie di tocchi calibrati, mentre i
punti bianchi sui pollici aggiungono l’enfasi dei pedipalpi. È una
comunicazione quantomeno esitante e Portia sostiene che dà l’impressione
che lei sia ‘ubriaca di linfa dolce’, ma è comunque un progresso.
Le sonde esaminano come meglio possono il planetoide roteante, ma non
hanno la capacità di invertire la rotta per seguirlo e ben presto esso si avvia
nel suo viaggio senza fine, diretto lungo il piano del sistema solare su una
rotta che un giorno lo vedrà scomparire per sempre nel grande oltre.
Strano, commenta uno degli operatori dei piedi allarmati.
Poco istruttivo, si lamenta l’altra, con un sussulto dei pedipalpi che
esprime un sottinteso, e io avevo modi migliori di impiegare il mio tempo.
Il capitano richiama a schermo i dati rilevanti, incerta fra l’inseguire
l’oggetto danneggiato e il lasciarlo svanire: quantità di moto relativa,
consumo di energia... Probabilmente questi elementi quotidiani non la
influenzano quanto la chiara prova data dai segnali radio che ci sia una
quantità molto maggiore di cose interessanti più addentro nel sistema. Il suo
silenzio e la sua stessa immobilità sono la sua decisione, mentre la fisica
trascina l’oggetto fuori della loro portata. Stanno andando avanti. E
tuttavia...
Se proseguiamo, pizzicheremo tante corde da poterci aspettare una
risposta da parte dei locali, dice loro il capitano. L’analisi delle firme
energetiche lascia aperta la possibilità che possano essere
tecnologicamente più avanzati e anche che possano essere impegnati in una
guerra fra di loro o che siano per natura esuberanti e portati allo spreco
nel modo in cui bruciano energia.
Helena ha difficoltà a tenersi al passo con il rapido discorso del capitano,
su cui si sovrappone la versione data da Kern. Lotta per concentrarsi.
La cautela richiede che non mettiamo a rischio l’intera missione
proseguendo nella nostra totalità o trasmettendo la nostra posizione. Ci
sposterò nell’ombra del pianeta esterno più vicino. Gli schermi cominciano
a mostrare i relativi dati telemetrici. Tuttavia, non possiamo aver fatto tanta
strada per poi non stabilire un contatto. Ho ordinato che un segmento della
nave venga approntato come esploratore indipendente, attrezzato per un
piccolo equipaggio, che preferirei essere composto interamente da Portiadi.
Naturalmente, il capitano usa il nome con cui i Portiadi indicano loro
stessi, che significa qualcosa come Noi che sappiamo cosa fare, e la
traduzione fornita da Kern omette completamente questa digressione.
Tuttavia, esiste una piccola probabilità che la civiltà sia umana e non
potenziata dall’infezione dell’Unità, nel qual caso sarà essenziale la
presenza di un ambasciatore umano.
Una piccola probabilità?, commenta Helena, tramite i palmi.
Uno degli operatori addetti ai sensori inclina un cefalotorace per lanciarle
un’occhiata in tralice. Non ci sono rappresentazioni umane all’interno dei
dati visivi decodificati che formano la massima parte dei segnali
intercettati, spiega. Per lo più sono solo colori che cambiano rapidamente e
forme 3D irregolari. Davvero affascinante!
Il capitano prosegue. La nave esplorativa ospiterà un frammento del
costrutto Avrana Kern, che però avrà necessariamente meno risorse da cui
attingere. Intendo selezionare membri dell’equipaggio e compagni umani
che hanno dimostrato la loro abilità a interagire fra loro in modo
indipendente. Sarà una missione ad alto rischio, senza nessuna garanzia
che noi saremmo in grado di aiutarci nel caso che le cose vadano storte. Di
conseguenza, la partecipazione è volontaria. Quest’ultima frase è
accompagnata da una breve impennata, con il primo paio di gambe del
capitano che si solleva per appena un secondo. Questo suggerisce che
chiunque si tiri indietro perderà prestigio ai suoi occhi, e quindi presso la
missione nel suo complesso. I Portiadi attribuiscono un grande valore
all’audacia, che per loro è un tratto archetipo femminile da cui deriva un
intero dizionario di aspettative sociali. Probabilmente il capitano non
intendeva dare quel senso alle sue parole, ma alcuni atteggiamenti sono
troppo radicati per liberarsene.
Il nome di Helena è in cima all’elenco degli Umani, ma del resto questo è
proprio il genere di opportunità per la quale ha lavorato così duramente. Gli
altri sono Zaine Alpash Vannix e Meshner Osten Oslam, che lavorano
anche loro ai rapporti fra Umani e Portiadi. Portia è la prossima a essere
scelta, non solo per il suo stretto contatto con Helena ma proprio perché è il
genere di soggetto troppo audace e bravo in tutto come si suppone debba
essere una femmina di Portiade. Nell’equipaggio ci sono anche altre due
femmine, Bianca e Viola, che hanno lavorato con Zaine per anni, e un
maschio, Fabian, con Bianca che ha il comando su tutti. Helena ascolta i
sussurri di quanti la circondano, contenti o contrariati di essere stati esclusi.
Non è sorprendente che nessuno rifiuti l’onore che gli è stato fatto.
Meshner avrebbe davvero desiderato di poter rifiutare quell’onore. Essere
parte di una missione esplorativa non lo avrebbe tenuto lontano dalla sua
ricerca ma neppure l’avrebbe aiutata. L’annuncio del capitano lo pervade di
quella petulante irritazione verso cui ha una tendenza perfino eccessiva.
Avrebbe supposto che Fabian fosse entusiasta della missione, ed è solo
quando sono installati nell’escrescenza della Voyager che diventerà la
navetta esplorativa che loro due hanno modo di parlarne.
Tramite la mediazione di Artifabian, però, Fabian spiega che neppure lui è
entusiasta di andare. Da parte sua, ciò su cui trova da obiettare è il
potenziale pericolo insito nella cosa.
«Che siano loro a gettarsi nel fuoco» traduce Artifabian, intendendo con
quel ‘loro’ le femmine di Portiade in generale. «Questo non è un buon uso
dei miei talenti. O dei tuoi.» Quell’ultima precisazione viene aggiunta in
fretta perché Fabian, una creatura il cui ego viene ferito facilmente,
riconosce in Meshner uno spirito affine.
«Ecco, noi lavoriamo a stretto contatto» gli fa notare con voce debole
Meshner. Le pareti della camera intorno a loro si deformano quando Kern –
la Kern principale della Voyager – manipola le tensioni nella struttura dello
scafo della nave per creare la struttura appropriata per la navetta
esplorativa. «Quindi, se era questo che stavano cercando...»
«Pchah!» articola il drone, decifrando un po’ di movimento di piedi che
Fabian si è appena concesso. «Questa è una punizione.»
«Punizione?»
«La nostra ricerca non è stata approvata» dichiara Fabian. Si accoccola
con l’addome contro il terreno, tamburellando con le zampe anteriori solo
quando è rivolto verso Meshner, in modo che le sue parole non raggiungano
gli altri che stanno arrivando.
«Nessuno ci ha detto di fermarci» gli fa notare Meshner.
I pedipalpi di Fabian sbattono uno contro l’altro. «Ecco, no. Però te ne
hanno parlato. E anche a me.»
In effetti c’erano state parecchie parole da parte tanto degli Umani quanto
dei Portiadi riguardo al ritmo accelerato del loro lavoro e ai danni che
poteva arrecare al cervello di Meshner, ma nessuno aveva portato via i loro
giocattoli. Lo spiega e Fabian si fa più vicino, scandendo un piccolo ritmo
duro.
«Ma è così che funziona. Non è così anche per gli Umani? È quello che
succede nelle specie sociali. La disapprovazione.» Il drone attribuisce a
quella parola un’enfasi speciale, come una zia zitella che si concede una
parolaccia. Meshner sa che la società dei Portiadi è strutturata in modo
molto meno formale di quanto lo fosse stata quella umana, ma del resto gli
umani pre-Umani erano stati l’equipaggio di una nave in condizioni di
emergenza. Inoltre, gli esseri umani erano sempre molto sensibili al rischio
che i loro figli restassero uccisi facendo cose stupide, mentre la società dei
ragni pare prosperare sulla base di un aspro darwinismo perché loro hanno
un sacco di piccoli e nessun vero istinto genitoriale. Non ci aveva mai
pensato prima, ma in realtà i ragni non si costringono a vicenda a fare o non
fare qualcosa, si limitano a esprimere – come afferma Fabian – la loro
disapprovazione.
«Possiamo ancora continuare il lavoro» dice, sentendosi ora molto ribelle.
«Voglio dire, avremmo almeno un anno di viaggio per arrivare al sistema
solare interno e non siamo costretti a trascorrerlo tutto in ibernazione.
Possiamo affinare l’esperimento.»
«Lo faremo.» Fabian si solleva con le zampe alzate in una posa
minacciosa, quasi a sfidare l’universo a fermarlo. Un secondo più tardi un
paio di Portiadi femmina entrano insieme a quella donna snella, Zaine, e
Fabian diventa all’istante tutto umiltà e linguaggio corporeo di
sottomissione, nell’eventualità che si sentano aggressive.
Meshner sa che nella società portiade i maschi hanno la possibilità di
eccellere ma devono faticare dannatamente per riuscirci. Il progresso
scientifico è una strada sperimentata, un sentiero aperto nel fitto della
società dai Fabian del passato. Oh, le femmine costituiscono ancora la
maggioranza dei grandi pensatori portiadi, ma quantomeno esiste il
precedente. E noi lo faremo succedere. Il suo sguardo si sposta su Helena
Lain, che sta entrando insieme alla sua compagna di ricerca, Portia. Anche
loro due stanno lavorando alla chiusura definitiva della distanza che ancora
separa i ragni dalle scimmie, ma a un livello estremamente procedurale e
privo di immaginazione. Usano la tecnologia semplicemente per
comprendere e tradurre segnali e impulsi, poco più che avere nel cranio un
Artifabian. L’approccio di Meshner e di Fabian è dieci volte più audace:
estendere le Comprensioni dei Portiadi agli Umani, trovare un sistema per
tradurle in modo che il cervello antropoide possa assimilare com’è essere un
ragno, apprendere abilità, assorbire tutto quel sapere immagazzinato.
Fuori della camera, la superstruttura della navetta esplorativa viene messa
in posizione e connessa, con cavi e montanti flessibili che strisciano lungo
lo scafo teso come strani caratteri scritti. Un movimento agitato significa
che l’elemento biologico del computer di controllo viene travasato: una
palla di formiche si sparpaglia rapidamente per esplorare e dominare il
nuovo ambiente. Fra tutte loro, e come somma delle loro parti, trasportano
un’altra copia di Avrana Kern, che ha fatto di sé stessa una terza specie in
questa strana collaborazione.
La navetta esplorativa viene doverosamente battezzata Lightfoot:
rappresentare il primo tentativo di contatto fra i popoli del Mondo di Kern e
chiunque consideri questo nuovo sistema la sua casa. La loro prima sosta
sarà il prossimo pianeta interno, il gigante gassoso più grande, perché le
indagini a lungo raggio hanno individuato attività intorno alle sue lune.
2

«La mia interpretazione dei segnali relativi al traffico e all’attività nel


sistema interno supporta l’ipotesi che siano in guerra» li informa la voce
precisa di Avrana Kern, sempre improntata a una lieve disapprovazione.
Naturalmente, il sistema di controllo della Lightfoot non la contiene tutta
ma solo una versione ridotta, e tuttavia Avrana Kern tende a espandersi per
occupare tutto lo spazio computazionale disponibile. Helena si chiede se
possedesse queste stesse qualità quando era viva e nel suo corpo umano.
Accanto a lei, Portia batte e striscia le zampe, e le parole arrivano
attraverso i guanti di Helena come: Cosa stiamo cercando qui? Guerra
contro cosa?
Questo è un altro risveglio, dopo il lungo sonno nel tragitto all’interno del
sistema, e Portia è irritabile e irrequieta per l’inattività forzata.
La Lightfoot si è avvicinata a una delle lune più grandi del gigante
gassoso solo per trovarla... in costruzione è la sola definizione a cui Helena
riesce a pensare. Quella palla di ghiaccio e di roccia un tempo aveva avuto
circa il quaranta percento delle dimensioni del Mondo di Kern (e in
precedenza, anche della Vecchia Terra) ma ha perso almeno il tre percento
della massa iniziale. L’immagine ravvicinata offerta dai droni mostra che la
sua superficie esterna è crivellata di buchi e di solchi. Tane. E brulica di
vita, cosa ancor più notevole in quanto non ha un’atmosfera degna di questo
nome perché qualsiasi elemento in grado di formare gas fa parte della
superficie ghiacciata oppure è da tempo evaporato nello spazio. Secondo la
misurazione di Kern, la temperatura della superficie è di 250 gradi sotto
zero nei momenti più soleggiati. Eppure il pianeta è vivo, e a quanto pare è
in guerra con i suoi vicini del sistema interno.
Il drone si fa più vicino, pericolosamente vicino, solo che i locali non
reagiscono in nessun modo alla sua presenza. Sono creature di svariate
dimensioni che arrivano ai cinquecento metri di lunghezza, con la
maggioranza della popolazione che si avvicina a quella misura massima.
Hanno una forma che ricorda quelle delle larve, ma con dozzine di tozze
gambe che finiscono con artigli arcuati con i quali si spostano in modo lento
ma sicuro in giro per la luna. La testa – quella cosa tronca all’estremità
anteriore del corpo – finisce con uno strano assemblaggio dall’aspetto
meccanico che è chiaramente in grado di masticare qualsiasi cosa in cui si
imbattano. Helena li guarda aprirsi un varco nel terreno senza quasi
rallentare il loro movimento sulla superficie, con i segmenti carnosi che si
contraggono e sussultano nel lavorare.
«Non producono segnali di sorta su nessuna lunghezza d’onda» osserva
Kern. «La loro interazione con altri nel sistema è ristretta al
bombardamento in atto.» Helena sente anche il rapporto della sua Portiade,
che è quanto di più identico può essere. Kern è concentrata sull’attività dei
droni e della navetta, il che significa che ha una minore capacità di
elaborazione da dedicare alla sua personalità.
Uno di quei mostri dall’andatura pesante emerge dal terreno, con la parte
triturante della mandibola che affiora in una pioggia di polvere e di schegge
di roccia che rotolano e ricadono silenziose sulla superficie, attraverso il
vuoto. Pare fissare l’oscurità del cielo, oltre il lato curvo del gigante
gassoso, poi ritrae la testa e affonda gli artigli nel substrato sottostante.
Tutto il suo corpo si contrae, accorciandosi di quasi un terzo e poi ancora
di metà per il rinculo, quando sputa un grosso bolo di roccia verso un
qualche punto lontano con forza sufficiente a uscire dal pozzo
gravitazionale del pianeta. Esso saetta a una velocità talmente assurda da
indurre Helena a sospettare che debba esserci in gioco una qualche forma di
accelerazione magnetica. Le altre creature fanno lo stesso, scavano,
divorano altro materiale della luna e poi lanciano quello che hanno estratto
contro i loro nemici distanti, chiunque essi siano. A giudicare dalle
condizioni della luna, questo sta andando avanti già da qualche tempo.
«I bersagli sono punti all’interno della cintura degli asteroidi che si trova
fra questo pianeta e i mondi interni del sistema, soprattutto quello da cui ha
origine la massa dei segnali che abbiamo individua-to-to-to.» Kern fa una
pausa su quella parola, giocherellando con la sillaba finale per mostrare che
sta rivedendo la sua impressione iniziale.
Sono segnali di puntamento, annuncia Bianca. Dalla cintura arrivano
segnali verso cui vengono diretti i missili, compensando il movimento dei
corpi celesti. Queste bestie/minatori sono capaci di calcoli matematici
molto complessi. I segnali sono indirizzati qui in modo specifico,
tracciando la luna. Bianca espone la telemetria e una sfilza di complicati
diagrammi sugli schermi, a beneficio di tutti, e Helena legge le
rappresentazioni dei Portiadi grazie alla sua esperienza. I diagrammi dei
ragni tendono ad avere quattro dimensioni e a porre altrettanta enfasi sulla
connessione non fisica e sulla struttura vera e propria, per cui comprenderli
è una specie di arte.
«Questa non è una guerra.» È la voce di Meshner, mentre l’automa
accanto a lui la traduce per i Portiadi. «La distanza è eccessiva. Questi
missili... con il tempo che impiegano ad arrivare, i loro bersagli hanno
avuto tutto il tempo di schivarli, a meno che non vogliano farlo. Credo
siano minatori, proprio come hai detto. Invece di far venire quassù qualcuno
che estragga quelle sostanze e le riporti indietro, hanno disseminato sulla
luna queste cose che fanno il lavoro per loro e sputano il materiale estratto
fino a casa, dove possono utilizzarlo.»
«T-t-t» dice Kern, in tono alquanto gelido, ma poi: «Sono d’accordo.»
Helena si chiede quanta parte della sua supposizione di una guerra in corso
fosse basata sulla convinzione che gli abitanti di questo sistema possano
avere una discendenza umana e sulla bassa opinione che lei ha della sua
stessa specie.
Poi il compagno di Meshner aggiunge qualcosa, un lieve moto di piedi
con cui forma una sola parola che Helena non riesce a capire: un nome per
qualcosa, fornito senza contesto. La sua perplessità è rispecchiata dalla
maggior parte degli altri finché Kern non richiama a schermo alcune
immagini di quello che lui intende. Helena vede l’immagine – molto
ingrandita, secondo la didascalia – di una grassoccia creatura il cui corpo
morbido somiglia a un millepiedi dotato di una strana testa/bocca capace di
rimpicciolire.
«Ma quello è soltanto un tardigrado» dice, le parole che rallentano mentre
le pronuncia. La somiglianza con i colossali minatori della luna è
impressionante.
Adesso che ha l’attenzione di tutti Fabian, il collega di Meshner, si spiega
meglio, in quel modo leggermente nervoso, sempre pronto a battere in
ritirata, che i maschi portiadi hanno quando parlano in pubblico. Hanno una
resistenza notevole. Allo stato originale possono sopravvivere nel vuoto, ma
non così, solo in una forma criptobiotica. Se però si cerca un materiale di
base da manipolare per ottenere questo, non si potrebbe trovare di meglio.
Nella mezz’ora successiva tutti studiano i dati raccolti dai droni, finché
Kern non ne manda uno a prelevare un campione di tessuto. Mentre il
distante robot saetta verso la luna per tagliare un pezzetto di uno di quei
mostruosi minatori, Helena trattiene il respiro in attesa di una violenta
rappresaglia, ma non succede niente. La creatura non pare accorgersene e
continua a scavare e sputare in un ciclo senza sosta.
Devono usare parte di quello che scavano per convertirlo in massa
corporea, riflette. Devono riprodursi, probabilmente per partenogenesi,
perché ce ne siano così tanti.
Nel frattempo, un’esplorazione superficiale delle altre lune intorno al
gigante gassoso ha rivelato un’infestazione simile. La civiltà che vive più
all’interno è avida di ghiaccio, di metalli e perfino di semplice roccia.
La biopsia conferma la supposizione di Fabian, anche se Kern deve
trasmettere i dati al suo Io più vasto all’interno della Voyager per
confrontarli con le sue banche dati del DNA. Si trovano di fronte a un’opera
di bioingegneria che è allo stesso tempo incredibilmente sofisticata e di una
funzionalità brutale.
Zaine pone la domanda che deve aleggiare nella mente di tutti. «Noi
sapremmo farlo?»
Bianca e Portia insistono entrambe che la tecnologia dei Portiadi sarebbe
più che capace di farlo, se la cosa diventasse necessaria. Altri sono meno
sicuri. Meshner e Fabian si fanno vicini al loro automa per discuterne e
Helena poggia un palmo accanto a Portia, scandendo un Davvero?
Naturalmente non sono una specialista di biotecnologia, risponde Portia,
con un’esitazione che tradisce evasività. C’è l’ottimismo – e la temerarietà
– dei Portiadi, e poi ci sono i duri limiti della scienza Umano-Portiade.
Helena decide che quello che stanno vedendo qui – un progetto
autorinnovante che deve essere in corso da generazioni – è molto al di là
della loro capacità di duplicarlo. Inoltre, denuncia una spaventosa
determinazione nella cultura che lo ha sviluppato.
Determinazione, o disperazione.
Meshner fa isolare da Artifabian una sezione della navetta esplorativa, in
modo che lui e Fabian si possano rimettere al lavoro. L’equipaggiamento
che si sono portati dietro è limitato rispetto a quello che offriva la Voyager,
ma è deciso a non permettere che questo lo fermi e altrettanto determinato a
non lasciare che la disapprovazione collettiva delle autorità di bordo lo
rallenti. Fabian la pensa come lui. I due sono rimasti svegli più a lungo
della maggior parte degli altri, e Meshner è deciso a mantenere al minimo
ulteriori periodi di sonno criogenico. Tutta quella missione esplorativa
promette ogni sorta di situazioni spiacevoli, ma finché non entreranno in
un’effettiva situazione di primo contatto la sola risorsa che avranno in
abbondanza sarà il tempo.
«Ho isolato una selezione di nuove Comprensioni» spiega il ragno,
tramite il suo omonimo artificiale. «Queste vengono dalla mia riserva
personale.» Fabian si riferisce alle Comprensioni ereditate come parte del
suo genoma, o che ha assorbito dalla biblioteca della Voyager prima di
imbarcarsi sulla Lightfoot. In un Portiade il segno della vera genialità non è
dato da quello che sa o dalle capacità meccaniche che può sviluppare,
perché tutte queste cose rientrano nel patrimonio comune della specie,
copiate, scambiate e assorbite con una facilità assurda. Per un ragno, la
genialità è una capacità superiore di pensare su due piedi – un modo di dire
del linguaggio umano particolarmente adeguato – oppure la capacità di
assorbire contemporaneamente un numero elevato di Comprensioni in
modo da trovare nuove sinergie fra capacità e ricordi multipli. Fabian è un
eclettico della Comprensione, cosa che si supponeva essere rara nei maschi
ma che probabilmente non lo era, e possiede un sostanzioso elenco di
Comprensioni attive che può distillare per farle provare a Meshner.
«La sfida» continua «consiste nel trovare qualcosa che saprai essere
diverso ma non lo è al punto da impedirti di elaborare l’esperienza.
Vogliamo mantenere al minimo l’estraniazione.» Fa una pausa, conferisce
con l’automa riguardo a come sia stato trasmesso il senso delle sue parole,
poi aggiunge: «Con questo, intendo...»
«Che non vuoi friggermi il cervello» conferma Meshner.
«Per quanto delizioso questo concetto possa essere per l’immaginazione»
conviene Fabian, e Meshner può soltanto chiedersi se questo sia un qualche
strano modo di dire dei Portiadi in cui non si è mai imbattuto prima o se
Fabian si sta di nuovo avventurando nel campo dell’umorismo umano.
«Prendi tutte le precauzioni che puoi, ma lo faremo comunque» dice al
collega. «Non permetteremo loro di fermarci.»
«Certamente.» Fabian si sposta alle spalle di Meshner e comincia a
controllare il nodo del computer di bordo attualmente collegato all’impianto
cerebrale dell’Umano.
Formiche nel cervello, pensa Meshner, anche se naturalmente non è niente
del genere: le formiche non lasciano i confini della rete della nave, ma i loro
calcoli creano input elettrici che vengono inviati alle camere dei suoi
impianti cibernetici e di lì al cervello. La tecnologia degli Umani e quella
dei Portiadi si fondono più rapidamente e facilmente della loro cultura o
linguaggio.
Pare che la tecnologia di questi locali segua schemi simili. Il Vecchio
Impero è alla base di tutto, il che significa che quantomeno esiste un terreno
comune.
Se ci fossimo imbattuti in qualcosa di veramente alieno non sapremmo da
dove cominciare.
Al momento, infatti, la Lightfoot aspetta notizie dalla Voyager, dove le
squadre di linguisti hanno avuto un certo successo con i segnali provenienti
dal sistema interno. Forse entro pochi istanti tutti cominceranno a parlare
fra loro in una grande comunità interstellare.
Tutte le comunicazioni sono tra Bianca, sulla navetta esplorativa, e la
squadra di comando della nave madre, con la mediazione delle svariate
versioni di Kern. L’equipaggio della Lightfoot non ha niente da fare se non
aspettare notizie, il che è il motivo per cui Meshner sta andando avanti con
il suo lavoro invece di stare a girarsi i pollici. In teoria, essendo una
versione di Kern, Artifabian avrebbe potuto collegarsi alla rete e rivelare
loro tutto, ma Meshner ha scoperto con sua sorpresa che questa è una cosa a
cui l’automa si oppone. È un frammento indipendente di intelligenza
artificiale, e se si avvicinasse troppo alla trazione intellettuale di una
versione più grande, come il sistema operativo della Lightfoot, potrebbe
finire assimilato e privato della sua individualità. E ci tiene a essere sé
stesso e ciò che è diventato lavorando con Fabian e Meshner, cioè
un’intelligenza unica. Il che appare come un atteggiamento terribilmente
ribelle e notevole, finché Meshner non riflette che questa spinta a diventare
separato fa parte della traiettoria di programmazione fornita all’inizio da
Kern.
«È tutto pronto» lo informa Artifabian, e un momento più tardi a questo si
aggiunge un tamburellare alla base della sua schiena: Fabian che gli dà il
via libera.
«Cominciamo» ordina, ma nello stesso momento l’automa aggiunge:
«Aspetta... sto ricevendo nuove informazioni.»
Fabian tamburella con irritazione sulla schiena di Meshner, che dice: «Tu
comincia e basta, avvia il processo.»
L’automa solleva parzialmente le zampe anteriori come in atteggiamento
di minaccia, ma poi si immobilizza, apparentemente soppesando le sue
priorità. Meshner avverte il familiare, disagevole formicolio dentro il cranio
quando gli impianti cominciano ad analizzare le informazioni. Dopo
l’ultima volta ha riesaminato la loro architettura, ottimizzando il più
possibile e regolando le connessioni con i suoi diversi nodi sensoriali.
Adesso avverte in bocca uno strano sapore, pungente e dolce, come se
stesse per vomitare. Contrae lo stomaco a titolo di esperimento, ma non ci
sono altri sintomi.
Di colpo si sente le dita granulose, con la pelle ruvida quando le sfrega
contro il pollice.
«La Voyager invia istruzioni. Bianca ci sta informando» dice Artifabian,
che al momento non è niente che più di un portavoce della più vasta
nazione di Kern.
«Che lo faccia» borbotta Meshner. Alle sue spalle, sente Fabian sbattere i
pedipalpi. Un’occhiata gli mostra che il ragno ha tre piedi e un paio di occhi
sugli strumenti anche se ha il corpo inclinato per ascoltare.
«Avrana Kern è giunta a una svolta importante riguardo alle
comunicazioni che giungono dal sistema interno» annuncia l’automa,
traducendo i movimenti del comandante della missione. «Nascosto
all’interno dei dati visivi, che rimangono impenetrabili, c’è un secondo
canale di informazioni matematiche basate solidamente sull’antica
numerazione umana. Questo è stato ora decodificato almeno in parte, per
cui possiamo capire che le informazioni sono coordinate, percorsi di volo e
alcuni dati tecnici, con altri che aspettano di essere interpretati. Armati di
queste conoscenze e di un terreno comune, il comando congiunto ritiene
opportuno mandarci a effettuare un contatto iniziale con la civiltà locale.»
Meshner cerca di concentrarsi sulle parole, ma c’è una quantità di
interferenza che le sovrasta e che pare avere un suo carico di significato
impenetrabile. Ha la pelle percorsa da strisce di calore intenso e di gelo che
gli corrono su e giù per la spina dorsale. «Come sono i miei dati?» chiede
con voce gracchiante.
Fabian gli inoltra un breve rapporto su uno schermo secondario. Nei suoi
punti focali sensoriali c’è un’abbondanza di nuove informazioni, soprattutto
nella regione olfattiva e gustativa del suo cervello. Stranamente, in questo
momento non avverte molti odori o sapori, ma tocchi fantasma gli
punzecchiano tutto il corpo. Sente un grande mormorio come di onde del
mare e punti luminosi si accalcano ai confini del suo campo visivo.
«Così non va bene» dice a Fabian. «È una sinestesia incontrollata. Non
abbiamo sincronizzato le informazioni.» Si sente frustrato, perché questo è
il cuore del problema: le esperienze dei ragni e quelle umane sono
intrinsecamente incompatibili? Questo si sta dimostrando un ostacolo che si
ingrandisce ogni volta che cercano di superarlo.
Esperimento terminato, giunge l’assenso sullo schermo secondario,
mentre Artifabian continua a riferire i termini della missione. Meshner
deduce confusamente che la Voyager si nasconderà e la Lightfoot andrà a
salutare i nativi in guerra, cosa che gli appare come un’idea orribile. La
navetta esplorativa sarà del tutto priva di supporto, ma del resto i locali
potrebbero essere talmente progrediti che tutto quello che la Voyager
riuscirebbe a ottenere sarebbe di morire sulla loro stessa collina.
«Considerato l’affidamento che fa sui dettagli tecnici, Avrana Kern è
convinta che ci siano elevate possibilità che questa sia una civiltà di
macchine sopravvissuta ai suoi creatori» spiega l’automa. Meshner ha
difficoltà a elaborare l’idea, ma ha la netta sensazione che qualsiasi genere
di superstite artificiale sarebbe tutt’altro che contento di trovare degli umani
sulla porta di casa dopo tanto tempo.
«Forse penseranno che siamo un museo itinerante» commenta, mentre la
sensazione fisica di limoni, luce solare e azzurro gli pervade la pelle, la vita
aracnoidea che cerca di insinuarsi a forza in tutti i canali sbagliati del suo
cervello. Fabian tamburella un messaggio di qualche tipo, ma prima di poter
leggere o ascoltare una qualsiasi traduzione Meshner si sente scivolare di
lato e perde conoscenza.
Quando finalmente torna fra loro, Zaine si addossa il compito di
rimproverarlo. Helena la osserva aggredirlo verbalmente, mentre i ragni che
fanno parte dell’equipaggio se ne stanno in disparte e ignorano i compagni
umani oppure richiedono una traduzione alla nave.
Meshner è rimasto svenuto per un paio d’ore a causa di un sovraccarico di
informazioni. Helena sa cosa sta cercando di ottenere e appoggia perfino
l’idea, in linea di principio ma Meshner è stranamente competitivo, deciso
ad avere successo prima che un ipotetico rivale lo metta in ombra, e non
vuole assistenza da lei o da Portia. Vuole vincere, o almeno questa è la
sensazione che dà.
Il rapporto che Zaine ha con il suo Portiade è pratico, lavorano a un
compito in situazioni ristrette e limitate e stanno costruendo un codice di
gesti per trasmettere rapide informazioni limitate. Questo è il massimo
interesse che lei ha in quell’area, e, Bianca e Viola, che lavorano con lei,
paiono altrettanto contente di lasciare che i rapporti fra ragni e Umani si
limitino al campo del riuscire a portare le cose a termine. Meshner vuole
entrare nella loro testa, o viceversa, e nonostante la sua permalosa
arroganza, Helena sente di essere più propensa a prendere le sue parti nella
questione.
«Non ho chiesto io questo incarico» borbotta Meshner, cupo.
«Avresti potuto dire di no» ribatte Zaine.
«Non si può mai farlo. Fabian non poteva, ha bisogno di dimostrare che è
utile, altrimenti verrà scavalcato.»
«Utile per cosa?»
«Per tutto. E io ho bisogno di lui, quindi eccomi qui.» Meshner ha gli
occhi iniettati di sangue e la pelle è rossa e gonfia intorno all’ingombrante
impianto craniale.
«Perché eri anche solo sulla Voyager?» domanda Zaine. Helena lancia
un’occhiata ai ragni, ma naturalmente loro non sentono come fanno gli
Umani: il loro senso vibrazionale percepisce a stento il linguaggio, perfino
le grida umane, perché è sintonizzato su frequenze di un mondo in cui i
suoni verbali sono irrilevanti.
«Per il tempo» ringhia Meshner. «Il tempo, in transito. Noi siamo rimasti
svegli molto più di voi per organizzare tutto questo.» Punta un dito verso la
propria testa. «Sapevamo che saremmo riusciti a fare molto di più che a
casa, dove siamo costretti a danzare alla musica di tutti gli altri.»
Zaine apre bocca per rimproverarlo ancora, ma la voce di Kern risuona
tutt’intorno a loro. «Contatto!»
Bianca risponde immediatamente. Helena appoggia i guanti contro la
parete in tempo per intercettare la parte finale della sua domanda e la
risposta di Kern, che afferma di aver stabilito una connessione con un’entità
che si trova all’interno della cintura di asteroidi situata al di là del gigante
gassoso.
Una nave aliena? Una macchina?, chiede Bianca.
Non sono in grado di dirlo, replica Kern, attraverso le pareti. Parole
umane risuonano subito dopo per coloro che non hanno i vantaggi di
Helena. Però risponde alle interrogazioni di base che le ho inviato e non
solo come un segnale automatico o un simile sistema privo di cervello. Sto
ricevendo una raffica di interrogazioni, per lo più tali che mi manca la
necessaria familiarità per poter rispondere. Ritengo che abbiamo
contattato un’effettiva intelligenza, che sia organica o una macchina. Sto
rispondendo come meglio posso. Kern produce un rapido suono
tamburellante per indicare un’irritazione corrispondente al suo esasperato
sospiro umano, riprodotto abilmente dai suoi microfoni. Continuo a
ricevere una vasta preponderanza di dati visivi. Il segmento comprendibile
del segnale costituisce meno del cinque percento del carico di informazioni.
Mostra qualcosa di quello che sta ricevendo: le stesse forme astratte, a
colori vividi e in costante mutamento che Helena ha visto nei segnali
intercettati in precedenza. Sono ipnotiche, mancano di un ritmo
riconoscibile e ignorano la geometria, sono soltanto ampie strisce di disegni
fluenti e mutevoli o di oggetti non euclidei con dimensioni, consistenza e
disposizione che cambiano rapidamente e con apparente casualità in
sequenze sconcertanti che non si ripetono mai.
Viola suggerisce che possa trattarsi di arte, meri ornamenti estetici che
guarniscono il messaggio funzionale. La quantità di larghezza di banda che
questo occupa rende l’ipotesi improbabile, ma quello è un giudizio
Umano/portiade. Chi può sapere cosa i locali considerino importante? Si
comincia a discutere di congetture e perfino Meshner fornisce un
contributo, ma Helena si limita a fissare i disegni, la cui strana complessità
le parla con una seducente promessa di significato, o di familiarità. Ha
lavorato per tutta la vita per fuggire dalla prigione del suo cranio: non
aprendovi fori come ha fatto Meshner, ma espandendo il suo punto di vista.
Sente che se solo potesse spingere quell’involucro appena un po’ più
lontano... Ma no, niente. Quale che sia il messaggio, le sta sfuggendo.
Poco dopo tutti sono sui sedili di accelerazione mentre la Lightfoot
cambia l’angolo di avvicinamento alla cintura. Kern è convinta di aver
organizzato un incontro attraverso uno scambio di coordinate nelle
notazioni matematiche dei locali. Incontreranno gli alieni.
3

Portia ha la sensazione di essere al centro di una rete di fili tesi che


vibrano di allarme ed eccitazione. ‘Allarme ed eccitazione’ sarebbero
probabilmente la traduzione umana della sua risposta, se qualcuno le
chiedesse perché si è offerta volontaria per far parte dell’equipaggio della
Voyager. Fra tutti i membri della missione esplorativa, lei sola non ha avuto
nessuna apprensione nell’essere scelta, non solo perché lavora molto bene
con gli Umani (ecco, con Helena, che nella sua mente non è un’Umana
particolarmente rappresentativa, ma va abbastanza bene), ma anche perché
il pensiero dell’Ignoto, del mistero cosmico, di cose da scoprire la motiva
ancor più di quanto non faccia con la maggior parte dei Portiadi. Discende
da una serie di esploratori e di pionieri. Una sua antenata ha rubato alle
formiche l’Occhio Sacro della Messaggera, al tempo in cui le formiche
erano il grande potere del mondo e non soltanto un comodo sistema
operativo su cui eseguire il programma che è Avrana Kern. Fra la miriade di
coloro che hanno contribuito al suo codice genetico ci sono aviatrici,
guerriere, astronaute. Naturalmente ci sono anche altre figure più comuni,
ma la sua eredità genetica tende molto più all’audacia e al pionierismo.
Naturalmente, non si tratta soltanto di una questione di predisposizione a
certi tipi di personalità (una caratteristica osservata in certi ragni sociali
molto tempo fa, sulla Terra) ma anche della scelta accurata delle
Comprensioni fin dai tempi in cui quelle capacità e quei ricordi potevano
essere trasmessi soltanto dalla naturale unione di sperma e ovulo. Portia è
realmente la somma delle sue antenate, accoccolata sul cefalotorace di
giganti. Ricorda l’eccitazione di addentrarsi nella foresta vergine dove
potevano vivere dei mostri, di lottare con gli elementi, di dominare la
tecnologia che ha aperto le porte del mare e dell’aria, del vedere il Mondo
di Kern dall’orbita per la prima volta. Naturalmente, ci sono tragedia,
perdita e dolore associati a quelle esperienze, ma nel corso delle
generazioni quelle asperità tendono a smussarsi.
Quando era molto giovane ha affrontato la più grande paura della sua vita
e questo per poco non l’ha distrutta. Quella paura era che potessero non
esserci altre frontiere, nuovi rami su cui saltare, nuove prede da studiare e
vincere. In lei ci sono molte cose che potrebbero destare un senso di affinità
nelle sue lontane antenate cacciatrici. Lei però ha dominato quella paura, ha
avuto fede nel fatto che la scienza e l’ambizione globale avrebbero
cospirato per darle l’opportunità a cui agognava, quella di confrontarsi con
le sue illustri antenate e scoprire di essere quantomeno alla loro altezza.
Adesso aspetta, una cosa per lei sempre molto difficile. L’equipaggio è
entrato e uscito dal sonno a seconda del capriccio individuale, ma lei detesta
svegliarsi, quindi è rimasta sveglia più a lungo con la scusa della ricerca.
Helena sta lavorando al lato teorico dei loro studi sulla comunicazione,
affinando gli input sensoriali dei suoi guanti e occhiali, e addestrando il suo
cervello a convertire il significato sottinteso tattile in impressioni che
abbiano senso per gli Umani. Da parte sua, Portia sta armeggiando in modo
saltuario con i traduttori acustici che può indossare come bisacce e che le
danno un’impressione molto basilare – e a volte spaventosamente
inadeguata – del linguaggio umano. La spinta a comunicare è però
prevalentemente nell’altra direzione. Dopotutto, sul Mondo di Kern c’è un
numero molto scarso di Umani, se paragonato al miliardo circa di Portiadi,
il che porta con sé l’implicito suggerimento che dovrebbero essere i nuovi
venuti ad adeguarsi. Ha smantellato una delle bisacce e sta seguendo uno
dei suggerimenti di Kern su come perfezionare gli output per ottenere un
risultato più intuitivo, ma soprattutto tiene le sue zampe mentali su quei fili
immaginari e aspetta che comincino a vibrare di attività.
Le sue antenate non tessevano ragnatele come prima risorsa. Se là fuori ci
fosse stata una specie elevata a partire dagli argiopi, la sua mentalità
sarebbe stata molto diversa, si sarebbe evoluta per sedere al centro di un
mondo di vasta portata e di sua creazione, nel quale il panorama le parla
con il suo linguaggio e lei non ha bisogno di viaggiare. Le minuscole
antenate di Portia hanno rivolto queste prospettive contro i loro creatori non
senzienti, forgiando la voce dell’ambiente o, a volte, perfino estendendo
quegli organi sensoriali artificiali in ragnatele di loro creazione per poter
attirare in una trappola i costruttori originali. Di conseguenza, il pensiero di
attendere quei messaggi portati dalla ragnatela è impregnato di un pericolo
e di un’eccitazione molto maggiore: nel profondo della loro mente, i
Portiadi sanno di non essere i costruttori della grande ragnatela
dell’universo, ma osano camminarvi sopra e origliarne i messaggi, se
necessario utilizzandola a danno dei suoi stessi creatori.
Adesso la sua ragnatela è composta dagli altri membri dell’equipaggio
(ciascuno teso come un cavo mentre si avvicinano alle coordinate stabilite
con i locali), dalla nave con il suo sistema operativo pervaso di una
personalità e, al di là di essa e nel vuoto dello spazio, dagli ignoti alieni
stessi: macchine, Umani o qualcosa di totalmente diverso?
Quelli che ne hanno voglia stanno cercando di capire meglio l’insieme dei
segnali alieni, soprattutto quella sconcertante preponderanza di immagini
visive. Dal canto suo, la versione di Avrana Kern che costituisce la nave ha
mandato spie in avanscoperta nel luogo di incontro. Non si tratta degli stessi
droni multifunzione che ha usato con i tardigradi ma di piccole cose espulse
dalla Lightfoot a una velocità enorme e dotate soltanto della capacità di
individuare e di riferire. Tutti sperano che questo non verrà interpretato dai
locali come un atto ostile, ma se essi sono già maldisposti allora l’intero
accordo può essere una trappola. Sì, è proprio per questo che la Voyager ha
distaccato la Lightfoot, per l’eventualità di un tradimento, ma ciò non
significa che l’equipaggio della Lightfoot non possa fare del suo meglio per
evitare di trasformarsi in un tale sacrificio.
Portia non ha ancora paura, e quando ne proverà se ne nutrirà, sorretta da
tutti quei ricordi ancestrali in cui cose spaventose sono state vinte grazie al
coraggio e all’ingegnosità (e alla fortuna, ma lei tende a sminuirne
l’importanza). È consapevole che alcuni dei suoi compagni siano meno
entusiasti per quella prospettiva. Viola è d’accordo con la teoria che i locali
siano macchine e crede che senza entità organiche a dare loro una
prospettiva le macchine non possano mai essere buoni vicini, perché cosa
possono mai volere, se non creare nuove macchine? La sua maggiore
preoccupazione è che una flotta di sonde meccaniche autoreplicanti possa
calare in futuro sul Mondo di Kern, guidata fin là da quello che questi locali
scopriranno dopo aver dissezionato la Lightfoot e il suo contenuto,
equipaggio incluso. La sua cautela è causa di frustrazione per Portia: tieniti
alla larga da ogni sussulto e vibrazione e non catturerai mai niente. D’altro
canto, la mancanza di entusiasmo da parte dei due maschi presenti a bordo
le sembra molto più naturale e ha più tolleranza per la loro riottosità. Fabian
e l’Umano Meshner sono stati strappati alla loro ricerca privata e stanno
passando al setaccio i segnali alieni in cerca di un qualsiasi segno di
minaccia. Entrambi sono intelligenti, a modo loro, e la cautela e il ritrarsi
davanti al pericolo sono tratti maschili archetipici. Portia è ben consapevole
che pensare in questi termini – come molte sue antenate hanno fatto senza
mai esaminare i loro pensieri – è di poco aiuto e atavistico da parte sua, ma
questo significa che è disposta ad accettare più prontamente un
avvertimento da un maschio che non da un’altra femmina, perché qualsiasi
tentativo di tenerla a freno da parte di una femmina suonerebbe come una
sfida.
Prestate attenzione, ordina Bianca, la cui personalità è a metà strada fra
quella di Viola e quella di Portia, né troppo ardente né troppo fredda in una
scala di audacia. Li abbiamo avvistati.
Nella mente di Portia i fili stanno vibrando. Richiama avidamente a
schermo le immagini. Kern ha fatto del suo meglio con le limitate capacità
di fornire immagini delle sue minuscole spie ma Portia non si aspetta
troppo.
Con gioia, le sue aspettative vengono smentite. In quel momento tutti
guardano e nessuno parla. Non c’è piede o pedipalpo di ragno che si muova,
non una bocca umana che emetta suoni.
Ci sono sette navi che stanno convergendo al punto di incontro. Cinque
sono sfere, pervase di una luce interiore che delinea una complessa
architettura interna, come ombre sulla faccia della luna. La più piccola, è
come una lunga lacrima che al momento pare rotolare; sembra fuori
controllo, ma come spiegano i commenti di Kern, sta in realtà iniziando il
processo di decelerazione. L’ultima ha una larga forma a toro, che ruota con
il bordo rivolto nella direzione in cui viaggia, come uno pneumatico
fuggiasco. I noduli e i nodi che le ricoprono tutte sembrano suggerire che
soltanto la nave a forma di lacrima abbia un ‘davanti’ e che le altre siano
del tutto ambivalenti quanto a davanti e dietro, babordo e tribordo. Le
informazioni raccolte da Kern, tramite i sensori a raggio lungo con cui ha
tenuto d’occhio quegli oggetti, suggeriscono che stiano decelerando da un
tempo molto lungo e con pochissimo effetto, riducendo la loro velocità con
una lentezza ridicola invece di aspettare (come farà la Lightfoot) di essere
vicini al punto d’incontro prima di prendere quella decisione irrevocabile.
Fra l’equipaggio, alcuni suggeriscono che questo dimostri sicurezza da
parte dei padroni di casa, e perfino fiducia, mentre Portia ha la sensazione
che la cosa sia dettata da un imperativo meccanico.
La nave più piccola, la lacrima, ha un volume che è la metà di quello
medio della Voyager (che varia a seconda di quello che Kern sta facendo
con esso). La sfera più grande è di poco più corta del relitto congelato che
hanno avvistato in precedenza. Navi enormi, che apparentemente
manovrano come se fossero ancora più grandi, considerata la decelerazione
graduale. Portia è incuriosita.
Alle spalle delle navi in arrivo, la cintura degli asteroidi si stende
attraverso una vasta regione dello spazio, molto più densa di qualsiasi
formazione del genere nel sistema d’origine di Portia o in quello della Terra
da tempo perduta, il che significa comunque sempre che si tratta per lo più
di spazio vuoto nel quale le probabilità che due oggetti si scontrino è tanto
piccola da essere insignificante. La supposizione di Kern è che un enorme
corpo celeste ghiacciato abbia incontrato qui la sua fine, sia che fosse un
fuggiasco scagliato fuori da un altro sistema solare o un mondo che si era
formato nella parte più esterna di questo stesso sistema, era poi stato
trascinato verso il sole fino a incontrare la morsa schiacciante della forza di
gravità del gigante gassoso, che lo aveva fatto a pezzi. Esso ha lasciato un
grande campo di nulla, a quel tempo: rocce sparse e ghiaccio in un sottile
strato circolare intorno al sole. Un estremo ingrandimento mostra però che
gli anni successivi hanno aggiunto alcune gemme a quel quadro così
spoglio. Là ci sono mondi artificiali. L’ipotesi di Kern di fronte a quelle
immagini ingrandite è che si tratti di una serie di corpi pallidi, simili alle
navi sferiche ma più grandi. La cintura di asteroidi è stata colonizzata.
Altrove, meno luminose, ci sono installazioni che devono fungere da
sputacchiere per le espettorazioni dei distanti minatori tardigradi,
intercettando i missili per lavorarne i materiali o mandarli altrove.
Noi potremmo farlo? Portia ripete la domanda posta in precedenza da
Zaine, e fra sé ammette che non potrebbero. E tuttavia siamo venuti noi da
loro e non loro da noi. Sempre meglio essere l’esploratore che non
l’esplorato.
Adesso c’è un brusio di comunicazione fra l’equipaggio. A mano a mano
che la Lightfoot e gli alieni si avvicinano la densità del segnale aumenta,
tanto il ronzio di fondo di quelli che provengono dalle installazioni della
cintura e soprattutto dal pianeta successivo del sistema (il loro mondo
natale?) quanto le interrogazioni dirette inviate dalle navi in avvicinamento,
che sembrano farsi sempre più insistenti riguardo a qualcosa. Kern
comunica ancora sul canale tecnico, ma il tono di quelle interrogazioni sta
cambiando. L’elemento visivo, che non significa niente per nessuno, sta
escludendo i dati matematici, finché non c’è quasi più niente di
comprensibile nella raffica di domande. La sola informazione numerica
rimasta pare non essere niente altro che l’ID di chi trasmette.
Più o meno nello stesso tempo Meshner completa uno studio strutturale
delle navi aliene, identificando un assortimento di installazioni esterne che
potrebbero essere sistemi di armamenti di diversi tipi. Naturalmente, adesso
gli alieni sono molto più vicini, tanto che la Lightfoot lo può aiutare con le
sue analisi dirette. Stanno convergendo sul punto d’incontro, ed è evidente
che i visitatori non parlano ai locali nel modo che essi si aspettavano. Portia
nota che le caratteristiche del chiacchiericcio visivo stanno mutando. I
colori diventano più nudi, con meno azzurri, verdi e gialli a favore di neri,
bianchi e rossi. Le forme sono più nitide, angolose, aspre. Agli occhi di
Umani e Portiadi, questo racchiude un implicito senso di minaccia.
Kern continua a trasmettere i suoi segnali, incluso un assortimento di
codici e di convenzioni del Vecchio Impero, ma gli alieni non danno segno
di comprenderli o anche solo di averli ricevuti.
Questo è il loro mezzo primario di comunicazione, afferma Helena.
Qualsiasi cosa siano, ci serve qualcosa da inviare loro, qualcosa di visivo
ma di semplice. Non sappiamo cosa significhi niente di tutto questo, ma
adesso riceviamo tutti un testo implicito emotivo comune. O potrebbe
perfino essere testo vero e proprio. Se riceviamo tutti la stessa impressione
e se loro hanno una qualche discendenza di ceppo terrestre, credo che
possiamo ritenere precisa questa interpretazione. Si stanno infuriando.
Viola, che sostiene la teoria dell’intelligenza meccanica, non è d’accordo.
Non è possibile che si siano evoluti in questo modo. Il vostro linguaggio, il
nostro... Abbiamo prima imparato a codificarlo, trasformando impressioni
sensoriali in dati numerici che possano essere letti di per sé stessi – da zero
e uno a codici più complessi. Niente suggerisce che questi dati codifichino
qualcosa di più di queste immagini, e perfino per questa ipotesi usiamo
vecchie convenzioni umane. Tu suggerisci che abbiano fatto un balzo
evolutivo che li mette in grado di trasmettere il loro modo primario di
comunicazione senza traccia di uno stadio intermedio che potremmo essere
in grado di individuare e di decodificare.
Portia comprende la discussione: dopotutto, la sola ragione per cui Umani
e Portiadi riescono a capirsi a vicenda è una semplice notazione matematica
di questo tipo, su cui possono lavorare per ricostruire il significato. Senza
una simile codifica artificiale fra loro, il tamburellare delle zampe dei ragni
e le vibrazioni della laringe di un antropoide non avrebbero mai potuto
superare quella barriera. Viola ha ragione, quei segnali alieni sono puri dati
visivi. L’idea che un’intelligenza emergente possa sviluppare una tecnologia
del genere senza blocchi da costruzione intermedi ha dell’incredibile.
Ma in tal caso abbiamo a che fare con alieni, pensa. Forse loro lo hanno
fatto, e se ci fanno saltare in aria non lo sapremo mai.
Aggiunge la sua voce a quella di Helena, dicendo: Dobbiamo mandare
loro qualcosa, anche solo per dimostrare che non siamo stupidi.
Zaine replica con qualcosa che la bisaccia di Portia traduce come:
Rimandiamo loro i loro stessi segnali.
Idea orribile, si affretta a controbattere Helena. Se ci stanno minacciando,
non vogliamo che le cose precipitino.
Inviate una nostra immagine, suggerisce Portia. Quando questo attira
l’attenzione di tutti, spiega: Un’immagine di uno di noi e un’immagine di
uno degli Umani. O anche solo un’immagine umana astratta. Usano una
tecnologia che è quantomeno di derivazione umana, dopotutto. Questo
dovrebbe significare qualcosa per loro.
Tutti hanno un’opinione al riguardo, e Bianca fa valere la sua autorità per
filtrare tutto quel battere di zampe e agitarsi di pedipalpi. Portia però sa già
che la sua proposta verrà accettata: quel chiasso è soltanto il solito ‘Sì, ma
voglio fare mia questa idea’ che è abituata a incontrare nei gruppi di
soggetti ambiziosi fra il suo popolo.
Mandiamo un’immagine di Helena, propone, una soluzione che sembra
buona quanto qualsiasi altra. Bianca approva l’idea e Kern comincia a
trasmettere sul canale visivo, aggiungendo una mescolanza di blu, gialli e
rosa nella speranza che siano davvero colori calmanti.
Il risultato è drammatico. La profusione di colori dall’apparenza irosa
svanisce all’istante, lasciando solo semplici schemi ripetitivi di quelle che
Portia intuisce essere tonalità neutre.
Che ci stiano dicendo di aspettare? interloquisce timidamente Fabian.
Le mie spie riferiscono che è in corso un fitto scambio di comunicazioni
fra le navi aliene, avverte Kern.
Giusto per precauzione, calcola alcune traiettorie alternative, ordina
Bianca.
Certamente, conferma la nave. Non posso intercettare molto di quelle
comunicazioni, ma sono visive al novantanove percento... novantasette...
novantadue... i canali tecnici stanno avendo un grande incremento.
Non mi piace che questo suoni come un conto alla rovescia, commenta
Fabian.
Se non hai un contributo utile da offrire... comincia a ribattere Bianca, poi
tutto va storto contemporaneamente. Le navi aliene lanciano dozzine di
vascelli piccoli, veloci e minuscoli quanto gli altri sono enormi e pesanti, e
attivano le armi quasi nello stesso momento.
Passato 2
La terra del latte e del miele
1

Nel ghiaccio c’era un buco che, grazie alla dilagante attività vulcanica
scatenata da Senkovi lungo ogni faglia di Damascus, non si era ancora
ghiacciato quando arrivarono per controllare. Sotto, a chilometri di
profondità, il nuovo lotto di remoti acquatici trovò il relitto della navetta
della Egeo. Dopo aver abbandonato la nave su insistenza di Senkovi, Han e
gli altri non erano riusciti a raggiungere un’orbita stabile quando il virus
aveva colpito i loro sistemi, e adesso erano freddi cadaveri in una navetta
morta e mezza schiacciata sotto l’oceano.
Considerato quanto era focalizzato sul suo lavoro e sui suoi animaletti,
Baltiel si aspettava che Senkovi accantonasse la cosa con una scrollata di
spalle. Invece, sprofondò in una cupa depressione. Aveva giocato in fretta e
perso a causa delle regole, come gli succedeva sempre, solo che questa
volta aveva ucciso alcune persone.
«La cosa ti ha salvato la vita» gli fece notare Baltiel. «Ha salvato la nave,
e tutti noi.» Dopo il reboot, la Egeo funzionava alla perfezione e, come
previsto dai piani predisastro di Senkovi, i polpi non avevano più accesso
alla maggioranza dei suoi sistemi, soltanto a un campo di gioco virtuale
dove potevano essere testati. Quel suo piano audace quanto ridicolo aveva
funzionato in ogni particolare, solo che lui aveva mancato di compensare
alla stupidità distruttiva del resto dell’umanità.
«Non potevi saperlo» tentò pazientemente Baltiel, parlando attraverso la
porta chiusa della stanza di Senkovi perché lui non accettava interrogazioni
elettroniche dalla nave e l’impianto di Baltiel era ancora in fase di revisione
dopo che il virus lo aveva disattivato. Solo le comunicazioni interne di
Senkovi erano sopravvissute, e lui le aveva settate in modo che
rimandassero indietro qualsiasi comunicazione.
Per quanto ne sapeva Baltiel, c’erano esattamente cinque esseri umani da
questo lato del sistema solare della Terra e, per quanto simpatizzasse con
Senkovi, non poteva operare con il venti percento del suo equipaggio fuori
gioco. Certo, per adesso i processi di terraformazione si gestivano da soli,
ma questo non sarebbe durato ed era necessario salvare tutta la parte
dell’operazione che riguardava Nod. La maggior parte del lavoro poteva
essere svolto da macchine automatiche, guidate sporadicamente da chi
aveva il turno di veglia da sonno criogenico, ma per organizzare le cose
erano necessari tutti quanti, e soprattutto il cervello di Senkovi.
«Lante ha una medicina per te» tentò. «Ti farà sentire meglio.»
Senkovi non voleva medicinali e probabilmente non voleva neppure
sentirsi meglio. La vergogna e il senso di colpa erano padri gelosi, riluttanti
a permettere a qualsiasi intruso chimico l’accesso al suo stato mentale.
Baltiel avrebbe potuto disattivare il blocco alla porta e far trascinare
Senkovi in infermeria da Lortisse, ma non voleva essere quel genere di
comandante, e un Senkovi ribelle e risentito sarebbe stato molto più
problematico di uno cupo e depresso.
Gli rimaneva una carta da giocare, una di cui non andava orgoglioso, ma
aveva letto la valutazione psicologica di Senkovi, e Lante era d’accordo con
lui.
«Scaricherò gli ottopodi nel vuoto» disse alla porta.
Ci fu una pausa, poi sentì Senkovi che si muoveva e di colpo apparve
sulla soglia, con la barba lunga, gli occhi arrossati e l’aria smunta.
«Perché dovresti farlo?» domandò.
Perché nessun altro ama quelle dannate cose, tranne te, era la vera
risposta, ma non sarebbe stato un buon modo di gestire Senkovi.
«Naturalmente non lo farei mai,» mentì «ma loro hanno bisogno di te, e
anche noi. La razza umana ha bisogno di te, Disra.»
Per un momento Senkovi si limitò a fissarlo e Baltiel pensò che si sarebbe
ritirato nella stanza, chiudendo la porta. Poi ebbe una sorta di contrazione,
che continuò a ripetersi finché tutto il suo corpo prese a tremare e senza
preavviso si mise a piangere, con Baltiel che lo sorreggeva come un
bambino mentre le sue lacrime gli macchiavano la stoffa termoregolante
della camicia.
Quando si separarono Senkovi emise un sospiro tremante. «Nessuno ha
bisogno di nessuno» affermò, in aperta contraddizione con quello che era
appena successo. «Ma ci proverò.»
Naturalmente, non c’era una cura magica per la depressione. A volte
Baltiel lo vedeva seduto con lo sguardo fisso ma Senkovi aveva ripreso a
lavorare con i suoi dannati cefalopodi e quella sembrava essere per lui la
terapia migliore. A volte Baltiel lo osservava attraverso le videocamere di
bordo: Senkovi sedeva davanti alla consolle improvvisata che aveva
installato nel nucleo centrale, con cavi e congegni che gli fluttuavano
intorno e i capelli (ultimamente sempre più lunghi) che gli formavano un
assurdo alone da Medusa intorno alla faccia. O forse l’agitarsi delle ciocche
gli rendeva più facile rapportarsi ai soggetti dei suoi test. Disra sedeva lì,
curvo sullo schermo, e nella vasca accanto a lui tre o quattro ottopodi
lavoravano ai terminali di gomma che lui aveva progettato. A guardarli,
sembravano sempre discontinui in quell’attività: discendevano sui controlli,
davano l’impressione di sondarli o di armeggiarci in un improvviso impeto
di energia, poi scivolavano via per fluttuare nell’acqua o aggrapparsi a una
parete. Aveva notato che però uno o due tentacoli tendevano a rimanere
collegati, pulsando e spostandosi sui comandi anche se il resto della
creatura sembrava indifferente. Allora Baltiel richiamava a schermo
un’immagine dello spazio virtuale a cui potevano accedere e li guardava
eseguire, sia pure a singhiozzo, complessi compiti a stadi multipli,
muovendo passi in avanti senza precedenti per poi ripetere all’infinito gli
stessi improduttivi passaggi prima di compiere un altro, improvviso, balzo
in avanti. Supponeva che Disra stesse cercando di indurli a eseguire ordini
rigidamente irreggimentati, ma quello che avanzava supposizioni era il
comandante generale che era in lui. In seguito scoprì che già prima di
lasciare la Terra Disra aveva rinunciato a dire a quei dannati molluschi
anche solo di fare una cosa. Invece, forniva loro obiettivi a lungo termine, e
identificava lo scopo da raggiungere segnalando le giuste condizioni con
colori e schemi che apparentemente significavano qualcosa di buono, se eri
un ottopode. I metodi venivano poi elaborati dagli stessi soggetti dei test.
Secondo Senkovi, quando sembravano distratti stavano impiegando
qualcosa di simile a un ragionamento astratto, una libera associazione di
idee, e le braccia individuali ancora al lavoro erano il loro subconscio. Non
era in grado di fornire nessuna letteratura accademica a supporto delle sue
affermazioni, ma poteva esibire i risultati. Organizzò perfino una
dimostrazione per l’equipaggio, la simulazione di un drone schiantato, i cui
danni vennero determinati in modo casuale dal sistema. A tre ottopodi
venne data mano libera nel decidere cosa fare. Baltiel li guardò affascinato
mentre esploravano il relitto, accedevano ai suoi sistemi simulati e
riparavano alcuni danni, cannibalizzando altri sistemi funzionanti. Non
pareva esserci nessuna coordinazione fra loro – anzi, ci furono alcune di
quelle che sembravano liti fra i soggetti che si allontanarono dai comandi
per lottare nella vasca – e tuttavia da quel caos emerse un piano, come se si
fossero accordati in modo invisibile fin dal principio sulle parti più basilari
della loro strategia. O forse in modo visibile, considerato il costante
cambiare e baluginare di colori e di disegni sulla loro pelle. Il risultato
finale non somigliava a niente che un recuperatore umano avrebbe
escogitato, era meno efficiente quanto a tempistiche, ma forse risparmiava
maggiori risorse. E, come fece notare Disra, il tempo era qualcosa che
avevano in abbondanza.
All’inizio, anche se avrebbe volentieri espulso nello spazio ogni dannato
ottopode allevato da Senkovi, Baltiel li aveva tenuti perché era chiaro che
facevano bene al suo stato mentale. Adesso era disposto ad ammettere un
punto fondamentale: potevano essere utilizzati. Non erano prevedibili come
le macchine, ma avrebbero svolto un lavoro senza essere sorvegliati.
Senkovi già parlava di generazioni future che avrebbero avuto la capacità
cognitiva di stabilire le mete da raggiungere e non solo di raggiungerle, ma
Baltiel ci avrebbe creduto quando lo avrebbe visto. Per ora, ci sarebbero
state generazioni future soltanto dentro le vasche della Egeo. I mari in
espansione di Damascus erano tappezzati di uno strato algale che
fotosintetizzava voracemente, ma l’ossigeno nell’acqua era ancora troppo
scarso per gli ottopodi e neppure Disra parlava di attrezzare i cefalopodi
con... cosa? Idropolmoni? La sua forza lavoro di molluschi sarebbe però
stata presumibilmente pronta una volta che l’acqua fosse stata abitabile.
La vita umana su Damascus aveva ancora un futuro teorico, ma
l’elemento ‘teorico’ di quel calcolo era cambiato. Un tempo si riferiva alla
capacità di Disra di generare le condizioni desiderate su un pianeta così
freddo e umido che in condizioni normali nessuno si sarebbe preso la briga
di interessarvisi. Adesso si riferiva a coloni dalla Terra, la cui natura era
diventata davvero molto teorica.
Dalla Terra non giungevano segnali e questa era una realtà con cui, alla
fine, tutti dovevano fare i conti. Sette giorni dopo il disastro, Baltiel
convocò tutti nella stessa stanza. I sistemi della Egeo permettevano
teleconferenze virtuali da qualsiasi posto, ma avevano tutti cominciato ad
apprezzare la presenza fisica di altri umani. Solo Disra era assente, ma
almeno era collegato dalla sua tana a gravità zero al centro della nave.
Baltiel si premurò di controllare che nessuno dei suoi piccoli amici stesse
origliando, mentre era assalito dalla folle idea di uno degli ottopodi che
prendeva diligentemente appunti per il verbale della riunione.
Naturalmente, disse loro soltanto quello che già sapevano. Avevano tutti
una mente brillante, più che capace di rivolgere alla nave le stesse
domande, e lui aveva permesso che avessero accesso alle informazioni
anche se come comandante avrebbe sentito la necessità di sottoporle a
blocco. Tuttavia, voleva informarli faccia a faccia, perché finché non lo
avesse fatto sarebbe sempre rimasto qualcosa di discutibile. Il comandante
generale doveva prendere posizione in merito.
Confermò che non arrivavano segnali dalla Terra, e che non ne ricevevano
neppure da nessuna delle colonie fondate nel sistema solare. La grande
radiosfera dell’attività umana era stata un tempo una distesa che si
ripopolava di continuo, adesso era un guscio vuoto che si espandeva al di là
di loro e nelle lontane propaggini dell’universo. Non si sarebbero mai messi
in pari con tutte quelle parole perdute e, se pure avessero potuto farlo, quel
dannato virus sarebbe stato la prima cosa lì ad aspettarli, l’ultima mai
inviata dalla Terra da qualcuno che – Baltiel ne era certo – stava perdendo
la guerra ed era deciso a trascinare con sé tutti gli altri.
E ci era quasi riuscito. Skai e gli altri quattro nel modulo erano morti,
rinchiusi in una tomba orbitale totalmente passiva che, ora dopo ora, era
stata reclamata dal non ambiente supremamente ostile che la circondava.
Avevano esaurito l’aria, il calore. I remoti mandati dalla Egeo avevano
praticato un taglio nello scafo ma avevano trovato soltanto corpi rigidi
coperti di brina, ancora accoccolati intorno alle apparecchiature che non
erano riusciti a rimettere in funzione. Han e la sua squadra si erano
schiantati su Damascus. Se Senkovi non fosse venuto a soccorrerli, anche
Baltiel, Lante, Lortisse e Rani sarebbero probabilmente morti, non per
soffocamento ma di fame, reazioni allergiche, avvelenamento... oppure, se
voleva essere drammatico, per opera di qualche superpredatore nodiano
precedentemente ignoto che aveva un’inesplicabile golosità per
l’incommestibile carne umana.
Quindi forse i molluschi di Senkovi si erano già guadagnati il loro
mantenimento, perché era a causa della loro ‘monellata’ se era stato
possibile salvare questi residui di umanità.
Quello era il motivo per cui li aveva convocati lì, faccia a faccia, per
riferire loro notizie ormai vecchie. Perché avevano bisogno di non essere
soli. La solitudine significava troppo tempo per pensare a quello che era
successo, e non c’era nessuno di loro che non ne fosse scosso nel profondo.
Baltiel poteva sentire un’eco delle notizie che gli risuonava ancora nella
mente. Era una cosa troppo grande per poterla capire. Per questo si era
concentrato sul lavoro e aveva cercato là il significato del fatto che il resto
dell’universo era improvvisamente scomparso. E avrebbe portato con sé gli
altri, se glielo avessero permesso.
Senkovi si aspettava ancora navi cariche di profughi e, se questi
fuggiaschi fossero apparsi, il progetto di terraformazione avrebbe richiesto
un luogo dove metterli. Secondo le sue proiezioni, entro trenta anni terrestri
standard i mari e l’atmosfera di Damascus sarebbero stati ossigenati a
sufficienza. Avrebbero installato una biosfera improvvisata, basata sulle reti
di ecologia stabile che a casa erano il più recente testo sacro del
terraformatore. Senkovi ci teneva a dimostrare di continuo in che modo i
suoi ottopodi sarebbero stati preziosi, e Baltiel non gli poneva l’ovvia
domanda.
Cosa succederà quando la gente arriverà e prenderà il controllo? Dove
se ne andrà la tua squadra da costruzione tentacoluta? Sapeva che Disra
era consapevole di questo problema, ma avevano tempo per trovare una
soluzione, a patto che prima della fine uno dei due si decidesse a sollevare
quel problema di cui erano entrambi consapevoli.
Inoltre, Baltiel voleva tornare su Nod. Stava già programmando la navetta
e la flotta di remoti con un programma di salvataggio del modulo, per
vedere se era recuperabile. Le officine della Egeo stavano fabbricando un
nuovo habitat, uno che funzionava, e aveva cominciato a sondare gli altri.
Gli ottopodi (e forse anche Senkovi) davano i brividi a Lante che, come
Rani, desiderava disperatamente la sensazione di qualcosa di solido sotto i
piedi e aveva paura che una nuova catastrofe potesse distruggere
definitivamente i sistemi della Egeo. Sapeva che sarebbero andati dove li
avrebbe portati, e che Senkovi non avrebbe sentito molto la loro mancanza.
Fin da quando lui aveva battezzato i pianeti, la mente di Baltiel aveva
sporadicamente elaborato immagini religiose per quello che stavano
facendo – o forse era stata la fazione fondamentalista nei disordini in corso
sulla Terra che lo aveva indotto a pensarci. Il gruppo ostile alla scienza
aveva fatto di Kern il suo Satana e dei terraformatori i demoni al suo
servizio. Adesso quei detrattori erano stati messi a tacere, o lo avevano fatto
loro stessi, e lo stesso era successo a Kern, quella notevole, incredibile,
insopportabile donna, un’altra voce spenta in mezzo a tante. Quanto lo
avrebbe detestato. Baltiel poteva quasi immaginarla a rifiutare di accettare
la cosa, a esigere un fato su misura, appropriato al suo genio.
E che ne sarebbe stato di lui e del suo equipaggio? Tutto quello che
avevano era il loro lavoro. Doveva riportarli su Nod. Se poteva, sarebbe
diventato un capitolo della storia umana, altrimenti avrebbe potuto essere il
prologo di una storia aliena, e forse ci sarebbero state orecchie umane in
ascolto, magari fra un anno, o un decennio, o un secolo. Non c’era ragione
di credere che il virus fosse stato solo un cavaliere di una qualche
apocalisse finale.
Solo che c’era ogni motivo per crederlo, naturalmente. Ricordava
abbastanza delle trasmissioni precedenti da sapere in che sorta di escalation
delle ostilità la sua specie si fosse invischiata prima della fine, ma in
assenza di conoscenze certe poteva evitare di pensarci e tornare indietro,
per continuare da dove si era interrotto.
Prepararsi per tornare su Nod avrebbe però richiesto tempo, proprio come
ne richiedeva il lavoro di Senkovi. Erano bloccati sulla Egeo in attesa del
concludersi di processi meccanici, biologici e perfino geologici. Le capsule
del sonno criogenico li aspettavano come una tomba. Baltiel aveva stabilito
dei turni, accertandosi che almeno una persona fosse sempre di guardia.
E a meno che non voglia svegliarmi e trovare solo le sue ossa disseccate,
devo in qualche modo trascinare via Disra dai suoi animaletti.
Nessuno aveva suggerito di accendere i propulsori e di tornare sulla Terra.
2

Secondo il suo modo di vedere, Senkovi era famoso per il suo senso
dell’umorismo, anche se in realtà divertiva soltanto lui. Gli altri però
avrebbero dovuto ammettere che questo era un bello scherzo. Dopotutto, ne
aveva abbastanza di essere strappato ai suoi sogni dai capricci del
comandante generale, e adesso aveva la scusa per farlo a lui. Era ora che
Baltiel scoprisse cosa si provava.
Gli altri erano impegnati con quella stupidata di Lante, un piano che
Baltiel non avrebbe approvato e di cui lo stesso Senkovi non era convinto.
Esso però non interferiva con il suo lavoro su Damascus, il che significava
che poteva rimandare a tempo indefinito di interessarsene. Gli altri
continuavano a invitarlo ai loro incontri – era una presenza solo virtuale, ma
era l’opzione preferita da tutti – il che significava che il suo miope
disinteresse era stato interpretato come tacita approvazione. O forse
ritenevano che non informare il venticinque percento dei loro colleghi (e
esseri umani come loro) fosse una mancanza di cortesia.
C’era stato un rigido programma di sonno e di veglia che aveva permesso
loro di passare gli anni seguiti al Silenzio, come apparentemente avevano
finito per chiamarlo. Senkovi trovava la definizione troppo drammatica ma
Rani aveva una vena poetica. L’idea era che Senkovi si svegliasse e
addormentasse secondo un programma basato sugli stadi di terraformazione
che avevano bisogno di una supervisione, e che gli altri si svegliassero nello
stesso momento e a turno secondo uno schema sovrapposto, in modo che tre
umani su cinque fossero sempre svegli in qualsiasi momento. Gli ordini per
gli altri erano: (1) sovrintendere al recupero del modulo e alla ricostruzione
della spedizione su Nod; (2) aiutare Senkovi. Loro lo avevano
effettivamente aiutato e, con sua estrema sorpresa, lui era stato
profondamente felice di avere degli umani con cui potersi lamentare di
tanto in tanto.
La cosa di cui non ti renderai conto di sentire la mancanza finché non
sarà scomparsa, numero 153: la razza umana.
Lante, in particolare, era una specie di maga con l’ecostruttura, Rani era
un pilota migliore di chiunque altro (forse il migliore dell’universo) con
navette o remoti e dal canto suo Lortisse se la cavava bene con i polpi. Al
contrario degli altri, loro lo trovavano simpatico e non gli schizzavano
contro l’acqua quando si avvicinava alle vasche aperte, nell’anello rotante.
Si tuffava perfino per nuotare con loro, il solo a farlo a parte Senkovi, e
faceva loro da spalla nelle sessioni di addestramento. A volte Senkovi
desiderava di poter davvero parlare con lui di questo, dell’evolversi del loro
rapporto con i polpi in fase di evoluzione ma Lortisse non era uomo da
esprimere i suoi sentimenti e da parte sua Senkovi trovava più facile
comunicare con i cefalopodi. E questo la diceva lunga, perché un’effettiva
conversazione si dimostrava evasiva. Poteva incoraggiarli a svolgere
compiti e raggiungere mete, segnalando visivamente cose che destassero la
loro curiosità e lasciando che si impadronissero del problema e lo
risolvessero con un’assistenza minima. Li vedeva parlare di continuo fra di
loro, con la pelle che cambiava colore, i tentacoli che si toccavano,
lottavano, si intrecciavano. A volte non poteva essere certo che stessero
dicendo qualcosa. Cosa aveva un vero significato e quanto di quel tripudio
di attività era solo un sottoprodotto della cognizione?
A volte sostava accanto alle vasche, guardando i suoi protetti, le sue
creazioni al lavoro o intente a giocare ed esse lo guardavano a loro volta: lo
conoscevano, e Senkovi sentiva che lo trovavano simpatico. Anche gli
ottopodi non modificati erano in grado di distinguere gli umani l’uno
dall’altro, e questi erano più intelligenti dei loro antenati, oltre ad avere solo
cinque facce da riconoscere.
Aveva la deprimente consapevolezza che stava cercando di ricavare dai
suoi animali qualcosa che avrebbe ottenuto gratuitamente dagli altri esseri
umani, ma una vita di abitudine era dura a morire, e non era riuscito a
superare quella barriera neppure quando aveva condiviso il pianeta con
miliardi di persone. Non pareva valere la pena di sforzarsi di farlo su una
nave su cui c’erano solo altre quattro persone, due delle quali addormentate.
Anche i polpi dormivano quando lui si ritirava nel suo letto criogenico. Non
aveva le apparecchiature per metterli adeguatamente in animazione sospesa,
quindi poteva solo raffreddarli e drogarli in modo da porli in un inaffidabile
stato di ibernazione. All’inizio, la mortalità in quel buio freddo era stata del
sessanta percento, poi era riuscito ad abbassarla al quaranta, ma a ogni
risveglio gli si spezzava il cuore. Fare qualcosa a lungo termine in merito a
questo problema era una delle sue mete più importanti, e forse l’avrebbe
presto realizzata.
Quelle riflessioni sul sonno e sulla veglia lo portarono di nuovo a pensare
a Baltiel. La sequenza di risveglio era già avanzata. Senkovi aveva dato
un’occhiata ai file e scoperto che al suo capo piaceva essere svegliato da
una musica sommessa che saliva a poco a poco in un magnifico e
commovente crescendo. Personalmente la trovava una cosa sdolcinata, ma
probabilmente altri non avrebbero apprezzato le sue immagini marittime,
quindi a ciascuno il suo. Guardò le sue palpebre contrarsi, i muscoli venire
percorsi da piccoli spasmi mentre la camera del sonno effettuava tutti i
necessari controlli e le regolazioni per una rianimazione priva di shock. Il
che era un peccato, perché il progettatore non aveva considerato la
possibilità di un Senkovi.
Baltiel si svegliò, passando dalla sinfonia alla calda luce della Egeo, si
sollevò a sedere e vide che non era solo.
Senkovi dovette riconoscerglielo, riuscì quasi a mascherare l’orrore e il
panico di quel momento. Si trincerò quasi subito dietro la sua espressione
da comandante generale, ma non abbastanza in fretta, e gli occhi non
potevano mentire. Baltiel serrò con forza eccessiva i bordi della capsula e
non disse nulla mentre guardava il volto avvizzito di Senkovi, i ciuffi
arruffati della barba bianca, il cuoio capelluto chiazzato dagli anni,
drappeggiato di pochi e fragili capelli.
Si fissarono a lungo a vicenda, mentre Senkovi si chiedeva se Lante o
Lortisse li stessero osservando sulle videocamere, ammazzandosi dalle
risate. O incapaci di credere al suo cattivo gusto. Ma se non eri capace di
ridere, cosa potevi fare?
«Tu...» Inizialmente la voce di Baltiel aveva un tremito, ma lui si
controllò e la rese decisa. «Cosa è successo?» Nei suoi occhi apparve
un’espressione sospettosa e Senkovi non riuscì più a trattenere un
sogghigno. Vedendo che il suo capo stava per batterlo sul tempo, si strappò
via la barba e procedette a rimuovere il finto cuoio capelluto e le sezioni di
pelle avvizzita, ridacchiando fra sé.
A quel punto Baltiel doveva aver interrogato la nave e scoperto di essere
rimasto addormentato per undici anni, nei termini sempre più privi di senso
con cui la nave riferiva il tempo. «Quanto ci hai messo a...»
«Trentaquattro giorni» rispose Senkovi, alle prese con un pezzetto
recalcitrante di finta pelle rugosa. «La pelle è stata la parte facile. Indurre
l’officina a produrre una barba realistica è stato notevolmente difficile.»
«Ti sei divertito a sufficienza?» Era chiaro che Baltiel avrebbe voluto
urlargli contro ma si stava trattenendo magistralmente.
«Sono divertito. Tu no?»
«Muoio dal ridere.» Il suo capo si massaggiò il collo e ruotò le spalle –
cose che non avrebbero dovuto essere necessarie, ma stavano facendo
troppo affidamento sul sonno criogenico e la cosa cominciava a farsi
sentire. «Suppongo che tu abbia un vero motivo per avermi svegliato, a
parte cercare di uccidermi per lo shock.»
«Ecco, si sono accumulate parecchie cose che probabilmente richiedono
una o due decisioni di comando» ammise Senkovi. «Di certo Lante vuole
parlarti. Ha in corso... qualcosa.»
Vide la faccia di Baltiel cambiare espressione mentre accedeva ai primi
file relativi alla ‘cosa’ di Lante. Lei e Baltiel avrebbero presto avuto una
discussione. Senkovi l’aveva avvertita che sarebbe stato difficile, ma
comunque non erano affari suoi e, quando era infuriata la controversia fra
Lante e Rani riguardo al parlare della cosa a Baltiel, lui era stato immerso
nella progettazione della sua barba. «Oh, ed è necessaria anche una
decisione riguardo al modulo.»
«Come procedono le riparazioni?» Mentre poneva quella domanda,
Baltiel stava già cercando le risposte nel sistema, probabilmente
bofonchiando fra sé riguardo al fatto che in sua assenza nessuno rimetteva i
dati esattamente dove avrebbero dovuto essere.
«Già... ecco...» replicò Senkovi, torcendo la barba. «Nessuno vuole
affidarsi a quel modulo anche se il virus è stato eliminato. Fluttuare in un
barattolo di latta e tutto il resto. La cosa positiva è che la spedizione Nod è
praticamente pronta a partire, a quanto mi dicono. Abbiamo perfino
installato il sistema del sonno criogenico sul pianeta, se vuoi effettuare uno
o due studi longitudinali.»
Senkovi ricevette un’allerta che gli diceva che Baltiel stava verificando i
progressi su Damascus. Se non altro, da quel punto di vista riteneva di avere
buone notizie. Tutto procedeva di buon passo, le zone ossigenate si
allargavano e un ecosistema microbico aveva attecchito e appariva stabile.
Aveva perfino installato un ascensore su cavo funzionante perché il
pensiero di scaricare cose vive dall’orbita nel mare lo faceva sudare e
tremare, per quanto cercasse di dirsi che non era la stessa cosa. Di questi
tempi non poteva paracadutare neppure batteri.
«Sarà meglio che parli con gli altri» annunciò Baltiel, cupo.
«Sono tutti svegli e ti aspettano, capo» gli disse Senkovi. Naturalmente il
fatto che fossero tutti svegli nello stesso momento era un’infrazione alle
regole di Baltiel, ma non grave quanto ciò che stavano per proporgli.
Baltiel poteva vedere che Lante era pronta a uno scontro e il linguaggio
corporeo di Rani e di Lortisse suggeriva che i tre fossero d’accordo sulla
cosa. Il breve tragitto dalle capsule del sonno alla sala dell’equipaggio era
stato abbastanza lungo da permettergli di assimilare con esattezza il genere
di prolungato tradimento che era stato organizzato mentre lui dormiva, ed
era evidente che Lante aveva svolto di persona l’opera di convincimento
invece di produrre un comodo manifesto. Se avesse avuto tempo, avrebbe
potuto setacciare il set di sensori interni e magari trovare la registrazione di
qualcuna delle conversazioni, ma avrebbe dovuto limitarsi a sentire ogni
cosa da Lante e affrontare la questione improvvisando sul momento.
Prima però le cose più importanti, quindi fu la personificazione della
mitezza civile mentre parlavano di quello che era stato reinstallato nel
modulo orbitale, discutevano se fosse necessario fare qualcosa per
impedirgli di cadere nel pozzo gravitazionale di Nod e se dovevano
insediarsi là o meno. Lante cedette la parola e Rani si incaricò di esporre i
dettagli tecnici. Baltiel approvò tutte le proposte, decisioni di comando che
meritavano a stento quella definizione. «Ora,» disse dopo aver risolto quei
problemi «so che siete stati impegnati.»
Per un momento la tensione nella stanza rasentò l’aperto ammutinamento.
Si chiese fino a che punto si sarebbero spinti.
«Non è arrivato nessuno» disse Lante. «Voglio dire, certo, potrebbero
ancora essere in viaggio. Potrebbero essere partiti tardi o essere su navi che
non hanno la stessa accelerazione della Egeo, o qualcos’altro, e forse il
motivo per cui non abbiamo ricevuto nessuna comunicazione in cui ci
chiedano se possiamo accoglierli e trovare loro una sistemazione è che sono
superparanoici dopo quell’arma virale, oppure suppongono che lo siamo
noi, o che siamo morti. Però abbiamo inviato segnali verso casa, e non c’è
niente. C’è stato...» Agitò una mano per accantonare la precisione. «C’è
stato tempo perché quei segnali arrivassero fino alla Terra e la Terra
rispondesse, ma niente. Crediamo che non stia arrivando nessuno.» Proprio
come aveva detto lei, questo non dimostrava niente. Era possibile che i
superstiti stessero procedendo fra le stelle osservando un silenzio radio, ma
Lante non pensava che fosse così e puntava tutto sul: ‘Crediamo che non ce
l’abbia fatta nessuno’. Quello che rendeva veramente reale la situazione era
che, come lui sapeva, tutti loro avevano smesso di contare. Tecnicamente, la
Egeo stava ancora tenendo il conto di quanto tempo fosse trascorso dal
Silenzio e dalle ultime parole giunte dalla Terra, ma Baltiel poteva vedere
dalle registrazioni quanto fosse passato dall’ultima volta che qualcuno
aveva controllato quanto ne fosse trascorso. Il loro entrare e uscire dal
sonno criogenico aveva dato al tempo una spigolosità che aveva infine
reciso i loro ultimi legami con il pianeta natale. Se glielo avesse chiesto
adesso, nessuno di loro avrebbe saputo dirgli quanto era passato.
E adesso questo.
«E così tu...» Baltiel stava per dire ‘hai deciso di giocare a fare Dio’, ma
questo combaciava troppo con il suo punto di vista o forse con quei dannati
meme religiosi con cui Senkovi lo aveva infettato, quindi decise di attenersi
alla semplice scienza. «E così ti sei appropriata del laboratorio genetico.»
«Nel mio tempo libero.» Lante appariva visibilmente più vecchia. Non
anziana, perché tutti loro avevano il genere di genoma ripulito che si
prestava a un arco vitale esteso e sano, ma era chiaro che era rimasta sveglia
per ore, e poi per giorni e anni. «Del resto, abbiamo immagazzinati
campioni genetici della maggior parte dell’equipaggio, in caso di
contrattempi. È tutta scienza consolidata.»
«Scienza vietata.» Lo era da quasi un secolo, da molto prima che la
fazione antiscienza diventasse un vero pericolo. La creazione di esseri
umani artificiali era stata proibita per parecchi motivi, dal fatto che era una
prerogativa divina al voler prevenire un ritorno alla schiavitù.
Lante scrollò le spalle. «Conosciamo tutti le argomentazioni, e quasi
nessuna di esse si applica a noi. Tu vuoi studiare Nod, Yusuf, e va bene.
Senkovi vuole riprodurre i suoi animaletti e terraformare Damascus, e
anche questo va bene. Sentitevi liberi di espandere il sapere umano, ma io...
noi vogliamo assicurarci che il sapere umano abbia un futuro.»
«Noto che avete sequenziato parecchi genomi modificati. Non è
esattamente lo standard umano.»
Lante squadrò le spalle. «L’adattamento a un ambiente a basso livello di
ossigeno rientra negli standard umani. In origine era una caratteristica
presente nelle aree dall’altitudine elevata, ma si adatterà bene a Nod. E so
cos’hai detto: non vuoi che un mucchio di coloni arrivi a rovinare il suo
ecosistema. Questi però non saranno coloni, saranno la nostra gente.
Potremo guidarli, istruirli. Possiamo creare una riserva di esseri umani,
Yusuf, giusto in una parte del pianeta.»
Ma le cose non sarebbero rimaste così, non nell’arco delle generazioni,
non per sempre, e il purista dentro di lui infuriava all’idea mentre l’uomo,
quell’uomo vanesio che era consapevole di essere, pensava alla
perpetuazione del sapere umano, a nuovi testi di storia che riportavano il
suo nome.
«E il resto?» la imbeccò con gentilezza. «Oppure anche le branchie sono
in qualche modo uno standard umano?»
«Stiamo terraformando un pianeta che è quasi interamente coperto da un
oceano» gli fece notare Lante.
«Ehi, cosa?» La mente di Senkovi era stata altrove mentre lui se ne stava
appoggiato alla parete, ignorando la conversazione, ma questo attirò la sua
attenzione. «Vuoi...» Spostò lo sguardo da Lante a Baltiel, poi assunse
un’espressione imbronciata. «Ecco, suppongo che lo stiamo facendo per
questo, ma io pensavo a imbarcazioni...»
Baltiel aveva un’idea abbastanza precisa di quello che Senkovi stava
pensando, e decise di inserire nei sistemi della Egeo alcune routine nel caso
che lui si fosse votato completamente ai molluschi, routine che sperava
Senkovi non riuscisse ad aggirare. Per ora, però, aveva bisogno di una
risposta da dare a Lante e agli altri.
Sono un dio geloso, pensò. Quella era la sua linea d’azione, e avrebbe
dovuto essere stata radicata in lui da anni di sonno criogenico, i suoi
atteggiamenti cristallizzati fino a renderlo poco più di una parodia di sé
stesso, e tuttavia... Esaminò la sua reazione istintiva al folle, audace piano
di Lante e scoprì che non era niente più di questo, senza nessuna sostanza a
rinforzarla.
«Ne metteremo quanti più possibile su Damascus» disse, sapendo che
anche se lui non era un dio geloso sarebbe giunto un tempo in cui Zeus si
sarebbe scontrato con Poseidone riguardo alla demarcazione dei
dipartimenti. «Su quante più barche possibile.» Quello era un tentativo di
placare Senkovi. «Noi però saremo su Nod, quindi suppongo che svolgerete
là il lavoro iniziale.»
Erano stati tutti così tesi riguardo a quel confronto che Lortisse barcollò
fisicamente, quasi si fosse appoggiato a una porta che si era aperta senza
preavviso. Baltiel scrollò le spalle.
«Però non pensate a Nod come a un mondo coloniale. Il terriccio non
lascerà crescere niente che la gente possa metabolizzare, l’intera biosfera è
sbagliata per noi e non la modificheremo. Ho visto il vostro lavoro.»
Rapidamente, nel venire qui. «Non potete creare umani in grado di vivere là
come nativi, le modifiche relative al basso o2 e alla gravità elevata non
basteranno. Una volta che avrete finito con tutti i cambiamenti, non
sarebbero più umani.»
Ovviamente Lante riteneva che quello fosse un discorso disfattista, ma
seppe riconoscere il valore nell’accettare la vittoria che lui le offriva
piuttosto che rischiare tutto per ottenere di più, e Baltiel sapeva di avere
ragione. La biochimica nodiana era aliena dal terreno in su, un cocktail di
elementi pericolosi per le persone e di molecole organiche che si sarebbero
potute sviluppare sulla Terra ma non lo avevano mai fatto, scartate dal caso
e dal tempo. Probabilmente c’erano alcuni estremofili terresti che sarebbero
potuti sopravvivere lì, ma niente di più complesso poteva farcela. La
biologia della Terra e quella di Nod erano due navi che si incrociavano nella
notte senza scambiare segnali o saluti.
3

Salomè non ama l’ascensore e a metà della discesa fa del suo meglio per
sfuggirne. Paul, suo compagno di prigionia nel viaggio verso il basso, si
allarma e saetta verso la parte alta della capsula, aggrappandosi al
rivestimento di plastica.
Tecnicamente lui è Paul 51 e lei è Salomè 39, almeno in base alle
annotazioni di Senkovi. Tuttavia, la sua numerazione delle generazioni è
eclettica e inaffidabile. Ci sono stati Paul che sono esistiti in contemporanea
e naturalmente i Paul 1-3 sono vissuti sulla Terra, nei suoi acquari.
Qualsiasi senso di colpa lui possa aver provato riguardo alla poca
accuratezza delle sue registrazioni ha fatto la stessa fine del resto della
razza umana. Finché riesce a capirle, è improbabile che a chiunque altro
importi di decifrarle.
Paul si è fatto quasi bianco, con chiazze nere e porpora che appaiono e si
spostano lungo i contorni del suo manto. Esternamente è molto simile ai
primi Paul, con un corpo delle dimensioni di una palla da football che è
composto in prevalenza da stomaco e cervello, sotto il quale si estendono
otto muscolosi tentacoli dotati di ventose sul lato inferiore, che circondano
un becco molto forte. Internamente è un miscuglio di genetica ancestrale e
di modifiche apportate dal virus di Rus-Califi che, va ricordato, aveva lo
scopo originale di strumento di elevazione. Califi e Rus erano partiti dal
presupposto che qualsiasi ricercatore sano di mente avrebbe cautamente
sospinto una specie mammifera più vicina al livello della cognizione
umana. Di conseguenza, Senkovi non si è limitato a immetterlo nelle vasche
nella speranza di ottenere vaghi umanoidi tentacoluti in grado di discutere
della natura dell’esistenza; invece, ha usato campioni minimi e selezionati
di nanovirus per modificare, come meglio riteneva, certi parametri della
visione del mondo dei suoi soggetti. È sempre stata sua convinzione di aver
soltanto aiutato l’orologio della natura a muoversi un po’ più in fretta, ma
Disra Senkovi non eccelle per introspezione obiettiva.
In questo caso, tuttavia, è impossibile per un uomo così focalizzato su sé
stesso creare qualcosa a sua immagine. Considerate lo stato di allarme di
Paul. Lui è collegato al sistema degli ascensori, che contiene preziose
informazioni organizzate per immagini secondo un codice che Senkovi ha
faticosamente elaborato come qualcosa che di solito i suoi animaletti
riescono a comprendere. Se Salomè dovesse riuscire a escludere le misure
di sicurezza, entrambi si troverebbero fuori, e cioè a chilometri dalla
superficie di Damascus, insieme all’ambiente acquatico che al momento li
tiene in vita e che si disperderebbe rapidamente, e avrebbero le stesse
probabilità di sopravvivenza di un vaso di petunie posto nelle stesse
condizioni. Questo spiega perché Paul sia allarmato, ma lui stesso – il
cervello che è il suo centro – non è in condizione di valutare i meccanismi
fisici di causa ed effetto della situazione. Sa soltanto che è spaventato e che
le azioni di Salomè ne sono la causa. Porta la sua paura scritta sulla pelle,
dove lei è in grado di decifrarla – cosa che fa – ma non si tratta di un
segnale inviato in modo cosciente. La pelle è la lavagna del suo cervello,
dove scribacchia i suoi pensieri e sentimenti di momento in momento. Se
volesse ingannare, potrebbe combattere contro sé stesso per controllare
quella tela, ma al momento è più che contento che Salomè sappia quanto lo
sta spaventando.
Dove si trova quindi la comprensione della loro fine imminente? Forse
dentro la rete più ampia dei suoi nervi, all’interno e in mezzo ai singoli
sottocentri neurologici che controllano i suoi tentacoli, una riserva di potere
di elaborazione semiautonomo con cui il cervello di Paul vive in
associazione e che rende il suo subconscio – a patto che ne abbia uno che
gli umani potrebbero riconoscere come tale – un’arma potente in grado di
influenzare il mondo.
Nello stesso modo Salomè – chiazzata di rosso e in un viola acceso, la
pelle irta come una massa di spine e di daghe – sa soltanto che vuole uscire.
Questa non è la sua vasca. Dove sono i suoi giochi? Dove sono la Grande e
Grossa Entità e la Calma e Grossa Entità (tag di ID di sistema che indicano
rispettivamente Senkovi e Lortisse)? Cos’è questo senso di movimento e di
fluttuazione della pressione all’interno dell’acqua? Il suo cervello propone,
i suoi tentacoli dispongono. È collegata ai diagrammi della capsula. Le
sottomenti dei tentacoli lottano con la sua forma, rigirandola per vedere
dov’è possibile applicare pressione per spaccarla. Comincia a impartire
comandi e anche se l’insieme della sua mente, preso come un aggregato, ha
il quadro completo della situazione, la sua comprensione attiva è soltanto
che vuole uscire e quel punto e quell’altro rappresentano il modo in cui ci
può riuscire. Le sfugge il grande abisso esterno, che è irrilevante nella sua
scala delle priorità.
Quanto a Paul, la sua mente subconscia (la sua Portata contrapposta alla
Corona del cervello centrale e all’Aspetto della pelle) capisce che per
eliminare la paura deve impedire a Salomè di ottenere il suo scopo.
All’inizio si limita a segnalarlo in modo automatico, trasmettendo una paura
non direzionale, ma poi aggiunge qualificatori fatti di colore e di Aspetto
per farle capire di essere lei la fonte della sua ansia. Di norma, questa
sarebbe la reazione a un suo atteggiamento minaccioso e indicherebbe la
resa, ma le punte e i vortici in rilievo sulla sua pelle malleabile indicano un
significato del tutto diverso.
Salomè lo guarda in tralice, decifra con estrema chiarezza le sue
intenzioni, ma non le importa. È più grossa di Paul, quindi cosa potrà mai
farle?
Quello che lui fa, contrastando milioni di anni di istinto, è cercare di
attaccarla. Inonda la sua pelle dei colori scuri del coraggio, solleva un
centinaio di creste ispide in tutto il corpo e le si lancia contro. Lottano
furiosamente, in uno strangolante contorcersi invertebrato. Al contrario dei
vertebrati, i polpi non hanno percezione di sé, un’immagine mentale di dove
si trovano tutte le parti del corpo. Otto tentacoli che in qualsiasi momento si
possono piegare in qualsiasi direzione metterebbero a dura prova la capacità
di elaborazione della Egeo, per non parlare del cervello di un polpo. La
Corona imposta la strategia, ma le tattiche di combattimento sono gestite
dalla prima, cioè da quei sottonodi che manovrano i tentacoli.
Di solito, uno scontro come questo si conclude con la sottomissione di
uno dei due contendenti, che si spinge lontano, magari con un tentacolo di
meno. L’alternativa è la morte di uno dei due, perché i polpi sono in grado
di strangolarsi e di divorarsi a vicenda. L’interferenza del virus di Califi e
Rus ha però avuto un effetto: adesso i polpi sono una specie più sociale di
prima, e le società si costruiscono sulla condivisione di segnali e di
informazioni.
Di colpo i due si separano di comune accordo e si ritirano alle estremità
opposte della capsula. Salomè riprende a cercare di aggirare i sistemi di
sicurezza, si ferma, riprende e si ferma ancora. Ha una nuova idea, connessa
alla fisica di quello che succede se la cabina di un ascensore spaziale si apre
all’improvviso a una quota elevata. La comprensione che la sua Corona ha
di questo è limitata al fatto che adesso l’idea di evadere scatena una scarica
di segnali chimici che indicano pericolo. Nella sua mente, le conseguenze di
un’evasione sono come uno squalo che nuoti intorno alla capsula in discesa,
una minaccia che aspetta di assalirla. La sua Portata avrebbe una
comprensione più concreta del problema, sondandone la forma fino a
comprenderne tutte le variabili, ma l’azione della Portata è limitata e il suo
ragionamento non risulta evidente alla parte di lei che si considera
l’individuo chiamato Salomè.
Rivede la sua linea d’azione e si ritira sulla base della capsula, tenendo il
broncio. Di nuovo aggrappato alla parte alta, Paul ritrova lentamente colori
più sani.
4

La grande quantità di dati sulla biosfera di Nod raccolta nell’arco di tanto


tempo dal modulo orbitante era andata perduta a causa del Silenzio. Il virus
l’aveva divorata: quei distanti fanatici che avevano creato il codice di quel
mostro non immaginavano ciò che la loro ripicca avrebbe cancellato, e
comunque probabilmente la cosa non sarebbe loro importata.
Una copia frammentaria era sopravvissuta sulla Egeo, sepolta nella
documentazione delle comunicazioni fra le due installazioni, anche se
Senkovi l’aveva recuperata soltanto dopo che il lavoro era ricominciato. A
livello intellettuale, Baltiel sapeva che il tempo era la sola cosa di cui
disponevano, ma la perdita di quelle conoscenze continuava a farlo sentire
terribilmente frustrato.
Adesso però lui e gli altri erano a terra. Erano scesi con una nuova navetta
perché l’altra era stata smantellata da remoti e i suoi sistemi erano stati
inceneriti in un eccesso di cautela, e avevano stabilito una salda base sul
pianeta. Lante parlava già di come produrre nuove persone: poteva
mescolare firme genetiche in grado di svilupparsi, ricombinando a casaccio
i genomi di cui disponeva, ma adesso era alle prese con il problema di come
fare ad allevare i neonati che ne sarebbero derivati. I nuovi soggetti non
sarebbero saltati fuori come magici guerrieri mitologici, pronti a cominciare
la vita come esseri umani completamente formati. Era quindi al lavoro su
programmi tutelari, ma Baltiel continuava a menzionare la parola
‘socializzazione’ nella conversazione e Lante, nonostante la sua
determinazione a perpetuare la specie, non aveva voglia di recitare davvero
il ruolo di madre. I terraformatori superstiti non erano un buon campione
rappresentativo dell’umanità. Dopotutto, si erano offerti volontari per una
missione che li avrebbe portati ad anni luce da casa e li avrebbe separati
dalla società umana per tutta la vita. Nessuno di loro era il tipo del
pantofolaio o della casalinga.
Questo non significava che Lante, Lortisse e Rani non si concedessero un
po’ di divertimento a tre quando pensavano che lui non lo notasse, ma a
Baltiel la cosa non importava finché permetteva loro di rimanere equilibrati
e contenti. Se lo avesse voluto, forse gli altri l’avrebbero trasformata in una
cosa a quattro, ma per tutta la vita lui si era focalizzato sul creare stretti
legami lavorativi che non prestavano attenzione al sesso e non diventavano
mai possessivi o fisici. Aveva il sospetto che quell’atteggiamento fosse il
motivo per cui lo avevano scelto come comandante generale.
Avevano mandato alcuni remoti, tanto terrestri che aerei, perché
raccogliessero nuovi campioni della fauna della palude salmastra, e adesso
lui stava aiutando il computer del nuovo habitat a integrare quei dati con
quelli in archivio recuperati da Senkovi, eliminando i doppioni e creando
nuovi collegamenti che erano loro sfuggiti la prima volta. Dal canto suo,
Lante fungeva da suo assistente nel laboratorio dell’habitat, dissezionando
esemplari selezionati che riteneva necessario studiare per arrivare a capire
le basi della biologia di Nod.
Avevano già contrassegnato parecchie caratteristiche non terrestri del
mondo alieno, in particolare la simmetria radiale. Sulla Terra, i teorici
dell’evoluzione avevano supposto che un davanti e un dietro fossero
elementi necessari in un animale complesso, ma pareva che Nod costituisse
l’eccezione a quella regola. Baltiel consultò sezioni dell’archivio, passando
dalla categoria d’insieme ad argomenti più specifici.
Nod>biologia>neurologia>quadro generale era il punto successivo sulla
sua lista, un soggetto curato da Lante. Ne scorse rapidamente il riassunto:
Basato su immagini di esemplari vivi delle specie 1, 3, 5, 6, 11 e 19 e sulla dissezione delle
specie 3, 6 e 19. Tutte le specie analizzate mostrano un sistema anulare distribuito di analoghi di
nervi con la trasmissione da cellula a cellula realizzata mediante un meccanismo che comporta la
concentrazione di ioni di calcio polarizzati, processo al momento non del tutto compreso.
L’elaborazione sensoriale deve aver luogo in qualche modo attraverso la rete neurale. Nella
maggior parte delle specie, la cosa più simile a un cervello è una banda concentrata, ma l’intero
sistema nervoso è più omogeneo di quello delle specie terrestri ed è possibile che nella sua
totalità funzioni come un singolo cervello, o che in esso nulla lo faccia. Sono in esame procedure
sperimentali per testare i limiti delle risposte degli esemplari a stimoli complessi, in attesa di
proposte di stimoli appropriati e significativi.

Forse Nod era destinato a non essere mai benedetto da un’intelligenza


nativa anche se non fosse stato contaminato da una più vasta popolazione
umana. Baltiel scommetteva sui volatili, ma non se ne vedevano di
frequente e catturarne uno intatto si presentava come un’impresa difficile.
Presumibilmente, dovevano posarsi da qualche parte, ma finora non erano
riusciti a seguirne uno fino al suo nido. A parte loro, perfino il complesso
ambiente della palude salmastra sembrava aver prodotto soltanto creature
ottuse spinte da un istinto privo di intelligenza.
E tuttavia c’era stata la danza delle testuggini. Era una registrazione fatta
da Lortisse quando era uscito con un’unità di riparazione per recuperare un
drone difettoso. Nove di quelle creature dotate di guscio e alte novanta
centimetri – elencate nel loro database come Specie 3, costituivano una
parte importante dello studio neurologico condotto da Lante – erano
disposte in cerchio, con i bordi che quasi si toccavano, e avevano preso a
oscillare di qua e di là, coordinate, con le zampe che sbucavano dal
carapace per agitarsi e intrecciarsi prima di tornare a ritrarsi. Era un rito di
accoppiamento? Erano malate? Quella bizzarra esibizione aveva attirato su
quelle creature l’attenzione di Baltiel. Erano i giganti della palude,
relativamente parlando, ma lui le aveva sempre viste come pacati erbivori,
le lumache di una costa aliena. Adesso, e in mancanza di un volatile da
studiare, erano diventate oggetto di particolare interesse.
Sfogliò le pagine disponibili dell’archivio di neurologia, ripulendo gli
errori commessi dai sistemi di gestione automatica della biblioteca che
erano stati in parte causati dal modo trasandato in cui i suoi colleghi
avevano codificato ed etichettato i dati. Passò quindi a vagliare...
La cosa successiva da esaminare fu un segnale di Senkovi, il primo da
giorni. Baltiel aprì un canale, consapevole che il ritardo della trasmissione
gli avrebbe permesso di continuare a lavorare nelle pause della
conversazione.
«Ciao, capo.» Senkovi sembrava eccitato, il che probabilmente era un
buon segno.
«Disra.»
«Allora, quei sensori lungo la faglia che ci davano problemi...» cominciò
Senkovi.
Baltiel rispose con un verso neutro perché aveva trovato la descrizione di
un volo radente sul deserto interno che in qualche modo Lortisse aveva
registrato come biochimica. Il progetto Damascus si era imbattuto in una
serie di ostacoli tecnici, soprattutto perché prima di allora nessuno aveva
cercato di regolare la chimica e l’ecologia di tutto quell’oceano vergine, e
Senkovi aveva finito per produrre nelle officine un kit che tendeva a essere
raffazzonato ed economico. Adesso quel kit era in posizione da abbastanza
tempo perché cominciassero ad apparire i difetti, e lui cercava
freneticamente di riparare o di sostituire ogni parte prima che intere sezioni
del pianeta smettessero di inviargli rapporti.
«Ah, sì. Li ho sistemati a metà e il resto del lavoro è in corso, quindi è
tutto a posto.» Senkovi aveva probabilmente capito che un verso neutro era
tutto quello che avrebbe ottenuto.
«Bene.» Senkovi doveva essere davvero eccitato. «Significa che non hai
bisogno dell’aiuto di Rani per il lavoro da remoto?» Poi, sovrastando la
risposta di Senkovi, grazie al ritardo nella comunicazione, Baltiel continuò:
«E significa che la diagnostica da parte dei tuoi molluschi ha funzionato?»
Senkovi rimase in silenzio per più tempo di quello richiesto dal ritardo nel
segnale mentre rifletteva su cosa rispondere, poi l’assenza di rumori si
protrasse ancora, tanto che Baltiel era già predisposto ad aspettarsi il
nervosismo nella sua voce quando infine parlò. «In realtà, non c’è stato
bisogno di remoti. Loro... hanno sistemato il problema, Yusuf.»
Baltiel si fermò nell’atto di immergersi nelle nebulose profondità
dell’archivio sulla riproduzione nodiana. «Cosa?» Quello era stato il piano
originale, naturalmente: usare quei dannati ottopodi come un equipaggio
sottomarino, cosa che Senkovi aveva giurato essere possibile, senza però
riuscire a dimostrarne la fattibilità dentro le vasche della Egeo. Aveva
chiamato tutti a raccolta, pieno di orgoglio per la propria abilità, e aveva
presentato ai suoi molluschi una simulazione virtuale delle apparecchiature
guaste con cui avrebbero dovuto misurarsi. Baltiel ricordava quell’evento
con estremo imbarazzo. I molluschi avevano esplorato l’interfaccia,
muovendo le cose nello spazio virtuale senza molto interesse, ma non c’era
stato nessun accenno al fatto che avessero assimilato qualcosa di quello che
Senkovi aveva insegnato loro. L’esercizio si era trascinato inutilmente
finché Baltiel aveva fatto valere la propria autorità e posto fine a quella
scena patetica. I piccoli mostri erano stati mandati sul pianeta attrezzati con
equipaggiamento di sorveglianza e, si sperava, addestrati a essere curiosi
riguardo al kit che non funzionava, in modo che andassero a dargli
un’occhiata.
«Io... ecco...» Ora Baltiel cominciava a registrare il miscuglio di
imbarazzo e di eccitazione nella voce del collega. «Sì, sono andati laggiù
e... lo hanno fatto. Hanno diagnosticato i problemi, li hanno risolti. Tutto
funziona di nuovo, ma non so per quanto. Voglio dire, non si sono messi
tutti davvero al lavoro... ma il cinquanta percento delle coppie che ho
mandato giù lo ha fatto. Loro... Yusuf, c’è una cosa che sto per ammettere,
qualcosa che non capisco.» Non pareva turbato da quell’ammissione. «Nel
laboratorio... sai che ho dato loro ogni occasione di dimostrare che capivano
il lavoro, ma senza risultato. Era come se avessero dimenticato le basi
dell’apprendimento stesso. Adesso però sono laggiù e... stanno aggiustando
tutto, come se quelle nozioni tecniche fossero là, da qualche parte, ma...» ci
fu un verso di esasperazione. «Ho ripristinato il sessanta percento della
copertura lungo la faglia e sto provando a dare loro nuove istruzioni.»
Baltiel stava vagliando i dati sulle riparazioni. Il lavoro svolto sul kit della
faglia era stato irregolare, poco ortodosso, niente di quello che avrebbe
realizzato un umano operando da remoto. Probabilmente Senkovi avrebbe
spiegato la cosa sostenendo che i suoi animaletti avevano elaborato un loro
modo di risolvere il problema, ma era una tesi che lui non era disposto ad
accettare. Non che avesse però una spiegazione migliore. Poi qualcosa
attirò la sua attenzione. «Un momento, hai detto coppie? Perché coppie?»
Richiamò a schermo le specifiche di quali dei suoi animali Senkovi avesse
mandato giù su Damascus. «Disra, non posso fare a meno di notare che
quelle che stai spedendo giù sono coppie maschio-femmina.»
Fu il turno di Senkovi di emettere un verso neutro, e Baltiel digrignò i
denti, frustrato dalla distanza che li separava. Quindi Damascus aveva i suoi
primi cittadini a lungo termine, coppie di ottopodi da riproduzione, inviati
sul pianeta da Disra Senkovi, santo patrono di tutte le cose tentacolute.
«Non è che arriverà mai nessuno» borbottò infine Senkovi, dopo un altro
lungo intervallo di silenzio.
«Arriverà Lante, con i suoi dannati bambini chimera» ritorse Baltiel, con
meno tatto di quanto ne avrebbe potuto usare.
«Dì loro di costruirsi delle barche» ribatté Senkovi, e troncò il
collegamento.
A quel punto, Baltiel ritenne di aver lavorato abbastanza a lungo alla
catalogazione e passo alle più recenti registrazioni dei volatili effettuate da
Lortisse. Sapeva che questa era una sua debolezza. Avevano un intero
ecosistema alieno, nuovo e sconcertante in ogni sua parte, e concentrarsi su
un grande carnivoro dinamico era un modo di pensare umano vecchio stile,
quella stessa idolatria che aveva posto leoni e aquile su tante vecchie
bandiere. C’era uno strano malessere che si stava impadronendo di lui, e
anche di Lortisse e di Rani: adesso che erano lì, si trovavano di fronte a una
grande assenza nel loro lavoro. Lante aveva il suo programma di
riproduzione, ma il resto di loro aveva un mondo alieno pieno di docili
bestie senza cervello. In mancanza dell’equilibrio dato dalla razza umana,
avevano la sensazione che tutto questo fosse privo di significato. L’universo
non li stava più osservando, i dati raccolti non erano destinati ad altri occhi
che ai loro.
E a quelli di quanti verranno dopo? Il lavoro di Lante appariva sempre
più come una buona idea, anche se lei era ancora alle prese con i problemi
pratici. Comprenderemo questo mondo e la sua vita, ma essa non
comprenderà mai noi, e in qualche modo questo fa male perché abbiamo
bisogno di sentirci importanti per in nostro ambiente e Nod non ha modo di
imparare a conoscerci. E così, per un tacito accordo, avevano cominciato a
concentrarsi su specie il cui comportamento mostrava complessità che
potevano indicare una maggiore intelligenza, un qualche livello di
consapevolezza di sé, anche se non c’era un cervello che potesse ospitarla.
Quello era un desiderio spaventosamente antropomorfico, ma nessuno di
loro riusciva a liberarsene. L’umanità giustificava con l’intelligenza la sua
posizione di predominio sulla Terra, ma qui c’era un mondo vasto e
complesso che pareva privo di qualsiasi creatura con pensieri complessi
anche solo quanto quelli di un pesce rosso.
Lortisse aveva usato i remoti per seguire qualsiasi volatile che sorvolasse
la palude. Quelle creature erano di certo predatori con uno stile di vita
caratterizzato da elevati livelli di energia, qualcosa che sembrava
estremamente raro su Nod. Baltiel si dispose a esaminare le riprese più
recenti.
...Volatili che si spingono nell’aria sopra la palude con quella loro
frenetica sequenza svolazzante.
Il polo ‘superiore’ della loro anatomia si era spostato fino a essere il
‘davanti’ e il loro volo derivava da tre paia di ali idrostatiche che venivano
gonfiate a turno, un movimento che non somigliava a niente che avesse mai
sorvolato la Terra. Il drone si concentrò su tre di quei volatili e Baltiel cercò
di individuare una qualche interazione sociale fra loro, ma tutto quello che i
suoi occhi umani riuscirono a individuare fu solo che condividevano lo
stesso spazio nel cielo.
...Un volatile è sceso di colpo in picchiata, calando dall’alto per attaccare
una testuggine di medie dimensioni.
La discesa fu abbastanza verticale, la preda non riuscì ad accoccolarsi
come un’ostrica e l’aggressore si servì delle ali come di braccia per
afferrare la vittima e fare leva per girarla sul dorso, dopo di che estrasse la
sfortunata creatura dal guscio con una mezza dozzina di tentacoli dotati di
artigli. Lortisse aveva ripreso una dozzina di quegli attacchi, chiaramente
colpito dalla loro violenza, se paragonata al ritmo tranquillo che ogni altra
cosa aveva su Nod.
...E poi l’ultima registrazione, un attacco andato male. Il volatile è sceso
in picchiata sulla sua preda dotata di guscio, ma si è bloccato e ha
annaspato disperatamente nell’aria, come se il suo placido pasto fosse di
colpo diventato velenoso.
L’attacco abortito aveva lasciato il predatore ad agitare le ali sul terreno e
a spostarsi fra le pozze rocciose mentre lottava per levarsi di nuovo in volo,
e tutto questo senza una ragione evidente.
Una sorta di comportamento complesso, pensò Baltiel, arrampicandosi
sugli specchi. Però erano comportamenti che non riusciva a capire, alieni.
Ma che altro si erano aspettati?
Fissò la parete, ma in realtà stava guardando molto più lontano, oltre
l’orizzonte e nell’alienità di Nod. Accorgetevi di me, pensò irrazionalmente.
Riconoscete il fatto che sono qui, prima che sia troppo tardi.
5

Ambienti
così ostili.
Simili luoghi di morte.
Eppure è così strano. La voce si diffonde finché Tutti-di-Noi sappiamo che
qui, qui è qualcosa. Mentre generiamo e consumiamo le nostre energie
emergono nuovi schemi, una folle vertigine di gradienti chimici che porta
Alcuni-di-Noi a desiderare questa novità.
Alcuni-di-Noi toccano le loro sostanze, incontrano i loro nuovi elementi,
apprendono le loro valenze e forme, le pieghe delle loro strane molecole.
Alcuni-di-Noi svaniscono e non se ne sa più niente. Ma noi siamo Noi e
c’è sempre Altri-di-Noi che imparano da quanti li hanno preceduti. Molti-
di-Noi sono incuriositi dalle possibilità di queste nuove forme e spazi.
Il consenso si diffonde.
Non possiamo ignorare questa intrusione. Alcuni-di-Noi agiranno.
6

Senkovi fluttuava accanto alle vasche, nel cuore della Egeo, cercando di
dare un senso a tutto. Quel giorno lavorava con una nuova generazione, nel
tentativo di replicare lassù quello che continuava a succedere su Damascus.
Il suo soggetto era Paul 58, di una covata leggermente più temprata dal
virus di Rus-Califi rispetto alla precedente.
«Cosa che ti rende più intelligente» disse a Paul. «O almeno dovrebbe
farlo. Rendiamo più veloci quei collegamenti neurali. Apprendimento,
memoria...» Fissò l’interno della vasca, dove Paul si teneva aggrappato a
un’interfaccia, stringendola con ondate di movimento improvvise mentre
navigava negli spazi virtuali creati da Senkovi. Come per i polpi su
Damascus, anche a Paul erano stati affidati incarichi di riparazione, una
serie di installazioni guaste segnalate in modo da destare la sua curiosità,
che però fino a ora rimaneva sopita. Senkovi aveva l’impressione di fare
una sorta di strano gioco di equilibrio o di giocare un’altrettanto strana
partita alla torre di Hanoi nella quale per fare progressi era costretto a
spostare di continuo i pezzi all’indietro. Le precedenti generazioni erano
state in grado di eseguire a memoria lavori complicati, ma a mano a mano
che aveva permesso al virus di rendere più complessa la loro neurologia, i
polpi erano diventati meno prevedibili, meno conoscibili.
Credevo che l’idea di base di un virus di elevazione fosse di rendere
umano qualcosa.
Inviò di nuovo a Paul le sue istruzioni, effettuando il reset dell’ambiente
virtuale.
Forse ho effettuato una riproduzione troppo selettiva. Sono instabili.
Di certo Paul sembrava avere problemi cerebrali. La sua pelle presentava
un continuo movimento stroboscopico, danzando con disegni mutevoli a
mano a mano che lui si faceva sempre più ansioso per motivi che Senkovi
non era in grado di capire.
Presto o tardi Baltiel avrebbe voluto delle risposte. «Fai almeno questo
per me» disse alla vasca indifferente. «Diamo loro uno spettacolo da circo
che siano in grado di capire, poi potremo tornare a essere soltanto tu e io.
Avanti, Paul.»
Paul lasciò improvvisamente andare l’interfaccia e si spinse dall’altra
parte della vasca. La sua pelle era irta in una serie diabolica di punte e di
spirali, cosa che in genere indicava aggressività, ma allo stesso tempo era
pallido di paura, con i cromatofori intorno agli occhi e al sifone che
pulsavano nervosamente. Senkovi lo fissò con aria infelice. Ti ho spinto
troppo oltre, vero? Tutto questo è dannatamente innaturale, ecco cos’è. Ma
loro non mi permetteranno di starmene semplicemente qui ad allevare
animali domestici. Non è così che funziona. Tutti devono lavorare e un
giorno quello sarà il tuo pianeta, Paul. O dei tuoi discendenti. O dei
discendenti di qualche altro polpo che conserverà la sanità mentale
abbastanza a lungo da averne.
A quanto pareva Paul aveva superato la crisi e stava strisciando di nuovo
verso l’interfaccia. Non era che stesse ignorando il test, ma all’interno
dell’ambiente virtuale la sua presenza andava ovunque tranne dove sarebbe
dovuta andare, aggirandosi lungo il perimetro dello spazio astratto come per
cercare una via di uscita. Uno dei suoi occhi era sempre rivolto verso
Senkovi, fissandolo attraverso la parete trasparente della vasca.
E adesso era apparso un messaggio di errore, con il sistema che inviava
impulsi ai suoi impianti cibernetici che li proiettavano nel suo campo
visivo, perché naturalmente l’errore c’era stato. Senkovi fissò il messaggio
con aria accigliata.
Errore[Riformulare].
Era un segnale di avvertimento che aveva inserito per sé, perché a volte
dimenticava a metà codifica quello che intendeva ottenere, e questo lo
lasciava con chimere digitali che facevano qualcosa di assolutamente
inappropriato.
Il sistema aveva individuato parte della progettazione del test che
deragliava e voleva che lui ne ridefinisse gli scopi. Si mise a caccia fra i
nodi dell’ambiente delimitato del test alla ricerca di quello che era andato in
blocco.
Errore[Riformulare].
«Sì, sì.» Si rese conto che stava lavorando con questa generazione di polpi
da un po’ più di diciassette ore. È ora di registrare un altro fallimento e di
andare a dormire un poco.
Utente[SenkoviD] Errore[Riformulare].
Erano semplici blocchi da costruzione della comunicazione di sistema, i
giocattoli di cui si serviva per creare l’architettura virtuale. Andò in cerca
della provenienza dell’errore.
Giungeva da Paul 58.
Il polpo era riuscito a entrare nel sistema limitato e la sua consapevolezza
virtuale era fuggita dall’ambiente del test per mandargli un segnale.
Errore[Riformulare] SoggettoTest[Paul58] Errore[Riformulare]
Utente[SenkoviD].
Era solo una stringa di identificatori: il codice che identificava lui come
programmatore, quello che si riferiva a Paul e il codice che usava per
mandarsi un avvertimento se si allontanava dai parametri prefissati.
Riformula le tue intenzioni. Torna indietro e ricorda a te stesso perché stai
facendo questo.
L’occhio di Paul era fisso su di lui, ma Senkovi era abituato al fatto che i
polpi lo osservavano mentre lavorava. Erano creature curiose per natura.
Errore[Riformulare] Errore[Riformulare] Soggetto[Paul58]
Errore[Riformulare] Utente[SenkoviD] Errore[Riformulare].
Senkovi e Paul si fissarono a vicenda, e forse questa volta fu il polpo ad
aspettare pazientemente che l’umano arrivasse a capire.
Riformula le intenzioni. Dimmi perché.
Perché c’è Senkovi? Perché c’è Paul? Perché? Perché il test, perché questi
giochi sciocchi, perché tutto questo? Perché, o creatore, perché?
Dieci minuti più tardi Senkovi aveva percorso tutto il tragitto fino
all’anello esterno, il posto che frequentavano gli umani e dove i polpi non
andavano mai (salvo nella vasca e con qualche fuga industriosa). Sedette là
con la schiena appoggiata alla parete, iperventilando, amaramente
consapevole di che genere di uomo fosse. Questo perché i polpi gli
piacevano, gli erano sempre piaciuti, ma erano sempre stati animali
domestici. Per quanto si sforzasse, per quanti anni luce potesse aver
percorso, non si era lasciato alle spalle quella parte di sé. Li aveva allevati e
mutati, giocando a fare Dio, e adesso loro volevano sapere il perché, e lui
non aveva una risposta.
7

Gav Lortisse aveva iniziato a tenere un diario vocale solo dopo l’attacco
del virus e nessuno degli altri ne conosceva l’esistenza. In realtà
probabilmente Baltiel ne era al corrente perché prendeva molto sul serio il
suo ruolo di comandante generale, ed era possibile che Senkovi avesse
superato le misure di sicurezza personali di Lortisse perché non rispettava
altri confini che i propri. Nominalmente, però, quel documentare la sua
personale discesa nella follia serviva a mantenerlo sano di mente. Lortisse
era uno che faceva gioco di squadra, sempre pronto a dare una mano nei
progetti degli altri, a fare il lavoro pratico, a sudare a vantaggio di altri. E
intanto parlava fra sé, con la tuta che registrava ore e ore delle sue
riflessioni. Prima o poi, qualcuno avrebbe trovato da ridire sullo spazio di
memoria occupato dal suo diario, ma solo fra molto tempo.
«Baltiel mi ha mandato di nuovo a raccogliere esemplari. Se non può
avere i volatili, vuole almeno le testuggini, e le vuole anche Lante, che ama
aprire quelle poveracce. Sembra quasi che pensi di poter leggere il futuro
nei loro visceri, o qualcosa del genere.» C’era un termine specifico per
quello, ma non riusciva a ricordarlo, quindi fece collegare la tuta al sistema
dell’habitat per una ricerca mentre continuava ad avanzare con cautela sulla
palude salmastra.
«Non so come abbiamo mai potuto aspettarci che funzionasse.» Questa
era una rivelazione recente, e doleva ancora come un dente marcio. «Voglio
dire, sono scomparsi tutti. Neppure un segnale da quando c’è stato l’attacco,
né da casa né da qualsiasi nave.» Narrare queste cose a sé stesso, sentire
nelle orecchie la propria voce ansimante gli dava una strana illusione di
controllo, come se stesse sentendo quella storia a distanza di molto tempo,
quando in realtà tutto si era già risolto. Come se la stesse raccontando a un
ipotetico nipote. Solo che...
Alle sue spalle un drone da trasporto lo seguiva a una distanza
prestabilita, aspettando il suo segnale. Sul suo fondo c’erano già tre
testuggini che strisciavano senza scopo sulla plastica. Altri esemplari che
Lante avrebbe potuto dissezionare. Si chinò su un’altra di quelle creature.
Ce n’erano in abbondanza e la depredazione scientifica non ne avrebbe
intaccato il numero. Naturalmente era probabile che un tempo si fosse detto
lo stesso dei mammut, dei bisonti e delle vere testuggini, ma al momento
Lortisse riteneva che perfino la lenta natura di Nod fosse sufficiente ad
avere la meglio sugli sforzi di quattro poveri umani.
«Stiamo dando tutti di matto, ma con estrema gradualità» continuò. «È
come vedere qualcosa disgregarsi a gravità zero, con i pezzi che si separano
a poco a poco. Ma perché non dovrebbe essere così? Il mondo è finito, non
c’è più una forza che ci tenga uniti. Vedo Kalveen che continua a migliorare
sistemi, a progettare... palazzi, dimore, habitat grandi come città,
pianificandolo con misure di sicurezza ridondanti e... il tutto su una scala su
cui non potremo mai costruire, non per noi quattro e neppure per quaranta.
Dice che è il futuro, ma non può crederci davvero. Ci può far fare un giro
virtuale delle città galleggianti di Damascus, dei complessi di cupole aeree
di Nod che non lasciano traccia al suolo e dove la vita aliena continua a
scorrere indisturbata sotto i nostri piedi. È tutto folle, una vera follia.»
Il drone si avvicinò in risposta a un suo segnale e lui caricò la sua vittima
più recente. È così che mi sono ridotto? A guidare il carretto delle
esecuzioni di alcuni molluschi alieni senza cervello? Ma se non altro gli
permetteva di uscire sotto il cielo, di esercitare i muscoli. Meglio che
rimanersene chiuso lì dentro con Baltiel e Rani e...
«Ed Erma.» Concluse quel pensiero ad alta voce. «Lei continua a parlare
di riprodurre una nuova generazione nelle vasche, solo che non abbiamo
ancora neppure le vasche e lei pare non cominciare mai. C’è sempre
qualche altra cosa che ha bisogno di essere pianificata. Non riesce ad
arrivare allo stadio in cui tutto diventa reale e ci sono... cosa? Alcuni deboli
bambini malaticci di cui qualcuno deve prendersi cura. Sa che i sistemi
automatici non possono farlo per noi, e che in realtà nessuno di noi vuole
quella responsabilità. Dacci una nuova generazione, certo, ma non
costringerci ad averne cura. A Senkovi importa dei suoi ottopodi più di
quanto a chiunque di noi importerebbe mai di quei poveri dannati bambini.»
Il drone da trasporto induceva sempre le testuggini a rinchiudersi nel
guscio perché in esso c’era qualcosa che diceva ‘predatore’ come la forma
umana di Lortisse non era in grado di fare. Era una cosa larga e piatta che si
spostava su sei strette gambe e probabilmente la sua ombra ricordava quella
di un volatile, o quantomeno sembrava tale agli strani occhi delle testuggini.
In ogni caso, gli altri animali nelle vicinanze erano tutti fuggiti o si erano
accucciati in modo tale da rendere impossibile staccarli dal suolo senza
ucciderli. Lortisse continuò con i suoi discorsi sconclusionati mentre si
muoveva con cautela intorno alle pozze con il drone che lo seguiva a una
educata distanza, come un becchino. «E così Erma continua a effettuare
dissezioni per Yusuf, che è il più pazzo fra tutti noi perché vuole
semplicemente andare avanti come se non fosse successo niente. È come se
non capisse che è tutto scomparso. Vuole studiare gli alieni, come se a loro
importasse, o come se potrà mai importare a qualcuno. Pensa che finché
continua a fare il suo lavoro – che non è neppure il suo lavoro ma un
compito che si è assegnato da solo prima che tutto andasse al diavolo – le
cose saranno ancora a posto, che sarà tutto come al solito.»
Trovò un’altra pozza circondata da gruppi di testuggini, alcune nell’acqua
e altre sulla riva, dove raspavano e tranciavano gli agglomerati di fronde e
di spirali che erano in parte simili a piante e in parte qualcosa di più sessile,
come animali semiautotrofi. Su Nod mancava una netta divisione fra i
diversi regni. Quelle ‘piante’ liberavano larve che nuotavano o erano
trasportate dal vento in modo da poter colonizzare altre regioni. Alcune
avrebbero integrato la loro dieta con microscopici detriti galleggianti, altre
attraversavano fasi mobili in cui si trasformavano in qualcosa di molto più
attivo. Forse anche le testuggini avevano uno stadio di vita da pianta, e così
pure i volatili, che mettevano radici nelle crepe, in alto sulle montagne, e
rivolgevano le ali verso il sole. Lortisse si immobilizzò, sentendo
l’ambiente che gli invadeva la mente con la sua stessa stranezza mentre
spingeva lo sguardo sul basso panorama plumbeo, verso il mare e guardava
la pioggia avvicinarsi lungo la costa.
«Davvero, Senkovi è il più sano di mente fra tutti. Dovrei tornare sulla
Egeo e andare di nuovo a nuotare con i suoi animaletti. Quello era
piacevole. Aveva un senso. Nulla di tutto questo lo ha.»
Un dolore lancinante gli trapassò un polpaccio. Sconcertato abbassò lo
sguardo: una delle testuggini aveva assottigliato un tentacolo fino a
trasformarlo in qualcosa che somigliava a un ago e glielo aveva piantato
nella gamba. In un primo momento non gridò o chiese aiuto. Si limitò a
fissare quella cosa mentre ritraeva il tentacolo e la tuta sigillava
automaticamente il foro. La testuggine parve perdere immediatamente ogni
interesse nei suoi confronti e si allontanò, andando a strisciare il guscio
contro quello di un’altra.
Poi il dolore della ferita prese a crescere e crescere, fino a fargli bruciare
l’intera gamba.
Veleno!
E tuttavia di certo nessuna creatura di Nod poteva aver sviluppato un
veleno in grado di attaccare un uomo della Terra. Adesso però sullo
schermo della tuta si era accesa una miriade di luci rosse, segnali medici di
emergenza inviati all’habitat. Lortisse barcollò, con la vista che gli si
offuscava e il respiro d’un tratto affaticato, avvertendo una pressione
terribile dove il polpaccio si gonfiava all’interno della tuta.
Aruspice.
Il risultato della sua precedente ricerca attendeva al limitare del suo
campo visivo che lui vi prestasse attenzione.
Chi cerca di leggere il futuro nei visceri.
Barcollò in avanti ansimando e rantolando, mentre le voci concitate dei
colleghi gli risuonavano fievoli nell’orecchio.
Presente 2
Dentro la balena
1

La dottoressa Avrana Kern è sospettosa per natura. In parte questo è


dovuto a un trauma profondamente radicato dovuto al tradimento da parte
di un subalterno, al tempo in cui era umana, viva e (relativamente) sana di
mente. In parte è un accrescersi della sospettosità che fa semplicemente
parte della sua natura e che è sopravvissuta in lei nonostante le molte forme
che ha assunto: da umana a ibrido umano-IA a pura IA (che si credeva
umana) fino a diventare un complesso programma in esecuzione su un
sistema operativo organico che deriva dall’interazione di milioni di
formiche.
Questo significa che quando una flotta aliena appare nel suo campo
visivo, lei comincia a cercare armi, ad analizzare tecnologie e a costruire
elaborate contromisure e piani di emergenza che perfino lei non aveva
creduto potessero d’un tratto diventare necessari.
Di colpo, però, lo sono. Guarda le firme energetiche delle navi aliene,
tutte costruite attingendo al sapere del Vecchio Impero quanto basta perché
le possa comprendere. Entro pochi secondi dalla prima trasmissione visiva
della Lightfoot percepisce un momento di caos assoluto, come se quelle
navi fossero cervelli che stanno avendo un attacco convulsivo. Tutto si
illumina: stanno manovrando, stanno attivando le armi. Kern reagisce
all’instante e quanto era ipotetico diventa la nuova realtà.
Al tempo in cui costruivano astronavi, gli umani le fabbricavano con uno
scafo esterno più duro per proteggere l’interno vulnerabile. I Portiadi
costruiscono navi che hanno uno scheletro interno ma un guscio esterno
flessibile che lei può modellare spostando le ossa della nave. Lo scafo
esterno è costituito da strati multipli di un tessuto che ha con la seta
ancestrale dei ragni lo stesso rapporto di discendenza che un sasso da fionda
può avere con le armi impiegate dagli alieni, ma che conserva molti dei
pregi di quella sostanza. Ha una resistenza alla trazione incredibile in
rapporto al suo peso e si può estendere senza lacerarsi. Inoltre, può essere
prodotto in grandi quantità in tempi brevi.
Kern procede a distaccare grossi pezzi di scafo, ciascuno dei quali porta
con sé una fluttuante firma elettromagnetica. La Lightfoot diventa il centro
di una cortina di seta che si contorce, si raggruma e forma costellazioni di
materia mentre la nave stessa altera la rotta. Questo basta a confondere il
sistema di puntamento dei missili diretti verso di lei che virano, vorticando
in rabbiose matasse che li trascinano fuori rotta, all’inseguimento di spettri
elettronici creati nel feedback dei loro sensori da quegli scarti di materiale
aracnoideo. I primi raggi laser cadono vittima delle stesse difese e sprecano
la loro energia su un vuoto di colpo ingombro di materia. A quel punto la
Lightfoot si sta già muovendo su una rotta diversa, virando in modo tanto
improvviso che la sua effettiva lunghezza si dimezza mentre i suoi rinforzi
interni si comprimono intorno agli alloggi dell’equipaggio e mantengono
intatta quella piccola bolla d’aria.
Anche le navi aliene stanno virando, ma si muovono pesantemente
laddove la Lightfoot saetta. Kern ha calcolato il genere di massa che stanno
spostando, che è una cosa assurda, almeno per il suo modo di vedere. Sì, le
navi erano enormi, ma anche per un mezzo così importante sembravano
avere un ridicolo impulso, mille volte di più di quello di cui più disporre lei,
dato che non riescono assolutamente a eguagliare la sua rapida correzione
di rotta.
Naturalmente, suppone sia per questo che gli alieni hanno lanciato una
manciata di velivoli più piccoli, così minuscoli che da un’estremità all’altra
ciascuno di essi è appena più grande di un paio di umani, con motori
orientati in ogni direzione per cui vorticano intorno a qualsiasi asse sia
necessario per venire a disturbare la Lightfoot con le loro armi.
Libera altra seta, consapevole che sta consumando la massa della nave e
rendendo parte di quell’accorciamento inerziale una struttura permanente a
mano a mano che ne cannibalizza la sostanza. Almeno uno dei velivoli in
avvicinamento finisce diritto in una massa di materia, perde la metà dei
propulsori e si allontana vorticando nel vuoto, ma gli altri le piombano
cocciutamente addosso.
Per un momento valuta l’eventualità di chiedere a Bianca il permesso di
aprire il fuoco, ma dopotutto lei è Avrana Kern. Chi meglio di lei può
prendere simili decisioni? È assalita da un ricordo fugace nel quale scatena
le armi del suo piccolo satellite contro le navette e i droni della Gilgamesh,
uccidendo umani prima che diventassero Umani.
Non lo ha mai detto, perché né i Portiadi né gli Umani lo avrebbero
capito, ma farlo le era piaciuto. Catartico era la parola che le era venuta in
mente, e dopo che avevano cominciato a inserirla nelle astronavi si era
sempre chiesta se ci sarebbe stata una qualche guerra, da qualche parte,
contro una forza ostile. Pensa che altre Kern là fuori un giorno potrebbero
diventare vere navi da guerra... e non sarebbe una cosa splendida? Per ora
decide che cercherà di uccidere alcuni di quei droni, o caccia o quel che
sono. Sulla base delle somiglianze tecnologiche, è giunta alla conclusione
che gli ‘alieni’ sono una qualche derivazione che è succeduta alla razza
umana. Probabilmente alla fine la diplomazia dei Portiadi ne farà altri
Umani, ma per ora lei ne disintegrerà un po’ per vedere come questo la fa
sentire.
Naturalmente la Lightfoot, una navetta esplorativa approntata in tutta
fretta, non è precisamente una cannoniera, ma è dotata di laser... parecchi in
più di quanto risulti al capitano, all’equipaggio o alla versione della Kern
sulla Voyager, perché lei ha lavorato solo alle sue spalle nel costruire il
corpo di questa navetta. Adesso li attiva: sul corpo malleabile della
Lightfoot appaiono sgradevoli verruche, ciascuna delle quali ospita una
lente e lei prende a dipingere di luce il cielo nel tentativo di inchiodare il
nemico mentre questi la oltrepassa. I velivoli però sono molto veloci e lei
comincia a comprendere che sono anche bravi in quello che fanno, che
siano organici o automatici. I propulsori omnidirezionali permettono loro di
effettuare immediati cambiamenti di traiettoria, rimbalzando di qua e di là
come scimmie mentre cerca di tracciarli. Ne colpisce un paio, ma si
adattano subito ai danni minimi da lei inflitti e i loro laser la ustionano,
bruciando la seta che le sue filiere da riparazione sostituiscono il più in
fretta possibile, mandando in corto alcuni nodi della sua rete di formiche.
Adesso l’hanno oltrepassata e si stanno girando, lottano contro il loro stesso
impulso con un rapido uso dei propulsori.
Alcuni aprono il fuoco con proiettili ad accelerazione magnetica e Kern
ride silenziosamente fra sé perché può riparare qualsiasi buco esterno con la
stessa rapidità con cui loro lo aprono e la Lightfoot non ha parti solide che
simili missili minuscoli possano danneggiare. Avrebbero bisogno di un tiro
davvero molto fortunato...
Una sfilza di quei proiettili le attraversa lo scafo. Uno di essi apre un foro
in uno dei supporti principali del suo scheletro, ma ce ne sono più che a
sufficienza. La coda della raffica pratica una dozzina di fori nel
compartimento dell’equipaggio, così in fretta che gli occupanti stessi non se
ne sarebbero resi conto se Bianca, il capitano, non si fosse trovata sulla
traiettoria di uno di quei proiettili. La sua morte è istantanea, esplosiva.
Quanto al proiettile in sé stesso, l’impatto non ne altera la rotta, è una cosa
incidentale sul suo percorso che lo porta dentro e fuori dalla Lightfoot in un
batter d’occhio.
Meshner riesce a sperimentare quel momento solo in retrospettiva. Un
momento Bianca era al suo posto, impegnata a impartire con le zampe
ordini che le macchine traducevano lentamente all’equipaggio umano
perché Kern era troppo concentrata sulla difesa per spendere troppo tempo
sulle cortesie della comunicazione fra specie, e quello successivo... era
sparsa tutt’intorno a loro, senza una fase di transizione, con il sacco pieno di
fluidi che era il suo corpo andato in mille pezzi.
Tutto il piccolo equipaggio della Lightfoot è impegnato nel
combattimento. Sono stati privati del coordinamento da parte di Bianca ma
nessuno può dedicare più di un istante a registrare la cosa. Kern può
prendere tutte le decisioni, ma è l’equipaggio a fornirle il potere di calcolo
supplementare nella forma della sua stessa materia grigia. Portia e Viola
propongono soluzioni su come fare fuoco, cercando di capire gli schemi di
volo all’apparenza casuali dei caccia/droni nemici. Zaine e Helena riescono
a fare un bilancio di previsione del consumo di energia: il propulsore della
Lightfoot ne ha a sufficienza, ma come per la Voyager è ottimizzato per un
uso a lungo termine e non per uno sfruttamento estremo a breve termine,
come lo è un combattimento nello spazio. Kern attinge quello di cui ha
bisogno e le due Umane fanno del loro meglio per gestire gli altri sistemi
meno critici, come il supporto vitale. Fabian e Meshner lavorano a
previsioni a più largo raggio, con particolare riferimento alle grandi navi là
fuori che stanno aprendo il fuoco da una dozzina di angolazioni diverse.
Meshner calcola archi e angoli, cercando di elaborare il modo migliore
per gestire quella particolare situazione. Lo spazio è un deserto che non
offre copertura e le navi nemiche non hanno un ‘davanti’, il che significa
che qualsiasi angolazione li può esporre a una bordata e non c’è un modo
certo per sapere quando potrebbe arrivare.
Fabian fornisce la sua ipotesi migliore, percorsi da seguire che potrebbero
permettere loro di schivare il grosso del fuoco in arrivo mentre accelerano
per uscire da quel pasticcio. Meshner ribatte. Kern li fa fuori entrambi,
figurativamente parlando e crea per loro il modello di scenario peggiore
possibile che vede la Lightfoot sparsa su un chilometro di spazio vuoto.
L’acido computer fornisce gentilmente anche una legenda che identifica
quali pezzi fra i relitti sono Meshner e Fabian perché ha sempre potere di
calcolo quando si tratta di mortificare gli altri.
Si torna alla lavagna per ricalcolare tutto. In preda a una piccola crisi di
nervi, Fabian tamburella sui comandi, che sono sopra la testa di Meshner.
Non c’è modo di cavarcela a meno di liberarci dei caccia, insiste. Mentre
lo fa, Meshner registra che altri tre proiettili magnetici hanno appena
trapassato il compartimento senza colpire niente di vitale e avere altro
effetto che una piccola perdita di atmosfera prima che le infinitesimali ferite
aperte nello scafo si sigillassero. I laser sono potenzialmente peggiori, ma i
nemici li usano soltanto per brevi raffiche piuttosto che cercare di
squarciare la Lightfoot. Molto probabilmente, i piccoli velivoli hanno scorte
di energia ancor più limitate di quelle della loro vittima e i laser sono una
fonte di consumo colossale.
Meshner sbatte le palpebre e si acciglia perché di colpo l’immagine sullo
schermo sta diventando indistinta, con linee che si separano in spettri di
colore e i comandi sembrano sobbalzare e contorcersi sotto le sue dita.
Non è un buon momento, proprio no, considera, guardando le proprie
mani tremare come per un’improvvisa paralisi.
E anche: Artifabian non mi ha tradotto quello che ha detto Fabian. In
qualche modo, ha capito le parole del Portiade in modo diretto, o ha
immaginato di farlo. Apre la bocca per avvertire Kern che sta avendo dei
problemi: la lingua si agita, ma le parole non escono.
Si gira e guarda quel tramonto sull’oceano che, come lui, sta impazzendo
di colori ignoti, che la sua mente si rifiuta di definire semplicemente ‘viola’.
Le onde che si abbattono sulla riva sono silenziose, e tuttavia gli parlano
con un ruggito, insistendo sulla loro provenienza e immortalità prima di
ridursi a un nulla borbottante.
Meshner si immobilizza, annaspando in cerca dei comandi che sa essere
là. Ritrae le dita cariche di una profusione di sovraccarico sensorio, una
complessità di dati tattili che lui semplicemente non è equipaggiato per
decodificare. La forma approssimativa della sua consolle è là, camuffata
all’interno di quel tumulto.
Le onde dell’oceano si abbattono esattamente come prima, in un ciclo
continuo: un moncone infranto di memoria registrato in troppi colori, a cui
mancano canali di dati di cui lui avrebbe bisogno prima che qualsiasi parte
di tutto questo possa apparirgli reale. Sembra una registrazione danneggiata,
antichi dati video che tremolano e cercano di sintonizzarsi, ripetendosi
all’infinito.
Non ora!
E, allo stesso tempo: È questo? Il combattimento ha smosso e liberato
tutto questo? Ce l’abbiamo finalmente fatta?
E tuttavia non sembra... un messaggio in prima persona. Lui è Meshner,
l’Umano, non era questo che cercava nel tentare di innestare le
Comprensioni dei Portiadi sul suo impianto e sul suo cervello di Umano. Ha
la sensazione di guardare le informazioni dall’esterno, tramite un qualche
tipo di mediazione da parte di qualcun altro.
Sulla scia di quel pensiero può spostare la propria visione prospettica –
non ha un corpo fisico, o piuttosto il suo corpo non è qui, tutti i suoi dati
sensoriali e propriocezione sono rinchiusi in un’altra stanza. Inoltre, di certo
Fabian non può vagabondare in questo modo fra i suoi ricordi: sarebbe
rinchiuso nella prospettiva che lui – o il suo antenato – aveva quando la
Comprensione è stata codificata per la prima volta, quindi come può lui,
Meshner, separare e analizzare i dati sensoriali in questo modo? Sto creando
un modello, estrapolando un quadro generale dalla visione limitata di
Fabian. Il che significa che probabilmente la metà di quello che sta
sperimentando è una sua invenzione, ma è comunque affascinante. Se non
fosse sul punto di morire – fra tutte le cose stupide che possono capitare –
in una battaglia spaziale, sarebbe entusiasta di questo sviluppo.
Si gira e vede là Fabian, quello stesso Fabian che conosce, che guarda il
tramonto. Perché il ragno ha scelto questo momento? Il Portiade – o un
qualche Portiade del passato la cui immagine è persa ma che Meshner ha
ricostruito come il Fabian attuale – amava il tramonto, questo panorama
marino. Forse si tratta solo di questo.
Non puoi interrogare questo, gli dice il ragno con la consueta danza di
piedi e agitarsi di pedipalpi, e tuttavia il significato delle sue parole è di una
chiarezza cristallina nella mente di Meshner. Questa è tutta una tua
congettura, che si basa su dati ricostruiti in uno spazio virtuale.
«Allora con chi sto parlando?» chiede, e i piedi del ragno ribattono:
Capiscilo da solo. Io ho da fare.
Il mezzo di comunicazione non è familiare, ma il tono tagliente si.
«Kern?» Oppure era un qualche suo limitato sottosistema?
Renditi utile, gli ordina, e lui ha l’improvvisa sensazione di uno spazio più
vasto al di là di questo momento ripetitivo.
Si trova a pensare che le cose potrebbero andare molto male per lui se si
lascerà intrappolare per sempre negli stessi cinque secondi dei ricordi di
Fabian, e tuttavia come può questo essere anche solo presente nel suo
cervello?
Non lo è, idiota. Adesso il tono tagliente è il suo, suoi sono i pensieri, non
di Kern. Ma è ancora nel tuo impianto. Come ha detto Kern, è uno spazio
virtuale.
Dopotutto, l’impianto è un potente strumento di calcolo costruito per
tradurre e modellare dati di memoria. Adesso, nel peggiore momento
possibile, lui è finalmente riuscito ad accedere a quello spazio, solo che non
lo ha chiesto e potenzialmente non ha modo di evaderne.
Mentre ancora formula quel pensiero, un’altra parte del suo cervello si
aggrappa a un’ancora di salvezza, la sola cosa che venga dall’esterno a
parte la sua perduta consapevolezza. È collegato alla nave, a Kern.
L’impianto gli permette in qualche modo di accedere a lei molto meglio dei
regolari strumenti di comunicazione dell’equipaggio. Per un momento è
assalito dalle vertigini al pensiero di essere in collegamento neurale con un
computer, qualcosa che nessuno ha mai fatto prima senza la tecnologia del
Vecchio Impero, e anche allora senza molto successo.
Segue le briciole di pane del collegamento con Kern, e di colpo il
tramonto si spegne, lasciandolo nella penombra. Davanti a lui c’è un ragno,
più gigantesco di quanto un Portiade possa sognare di diventare, solo che
naturalmente lui lo sta vedendo dalla prospettiva di Fabian, dal basso. La
mente gli si riempie di puri input emotivi: paura e desiderio
inestricabilmente intrecciati, un’eccitazione divorante, disperazione, terrore
del fallimento. Altre informazioni gli percuotono il cervello dove cercano di
annidarsi, emozioni che, come pioli quadrati in fori rotondi, cercano di
conficcarsi nella sua mente, di farsi conoscere. Ha chiesto qualcosa di
inconfondibilmente aracnoideo, e questo corrisponde senza dubbio alle sue
specifiche: Portiadi che fanno l’uno all’altro cose da Portiadi,
incomprensibili e aliene. La Comprensione che gli è stata data è
visivamente semplice, ma quella è soltanto una pelle sottile su un grande
mare di dati di esperienza. E ci annegherò a meno di non uscirne.
Segue di nuovo il collegamento con Kern fino a ritrovarsi in un altro
posto.
Nello spazio.
Un momento di congelata immobilità. È lì in piedi nel vuoto (anche se
non lo è davvero, il suo punto di vista suggerisce questo e lui lo asseconda
per evitare di scivolare nella follia) e guarda in basso sull’allungata sagoma
argentea della Lightfoot, che appare piegata come se fosse stata colta nel bel
mezzo di una modifica del profilo dello scafo per attutire un’altra manovra
ad alta velocità. Poi l’immagine si allarga: ecco là i caccia nemici, piccole
sfere in una rete di propulsori e di sistemi di armamenti. Uno sta
attraversando la materia liberata nello spazio quando i laser di Kern
finalmente lo inquadrano grazie a una soluzione di puntamento fornita da
Portia e da Viola, che hanno previsto la direzione in cui sarebbe saltato. Più
oltre ci sono le grandi navi, la cui formazione è adesso un pasticcio confuso
e i cui armamenti sembrano molto occupati. E la Lightfoot sta tornando
indietro verso di loro perché quello è il percorso migliore per evitare la
maggior parte dello sbarramento di fuoco.
«Questo è intollerabile» gli dice una tagliente voce femminile, e lui
sussulta a causa dell’istinto storico di deferenza del maschio verso la
femmina tipico ancora dei Portiadi maschi.
Kern si manifesta nello spazio sul lato opposto della Lightfoot, con
dimensioni tali da far apparire le navi aliene come meri giocattoli che
fluttuano al livello della sua vita. Meshner vede una donna alta e severa, i
capelli grigi raccolti all’indietro e con indosso un indumento composto da
un unico pezzo elegante, che potrebbe essere una tuta spaziale del Vecchio
Impero, all’epoca in cui cose del genere erano più che stracci e polvere. Si
chiede quanto sia autentico quel simulacro, perché di certo Avrana Kern
non può conservare una precisa immagine di sé, dopo tanti millenni, giusto?
«Occupi troppo spazio» lo accusa in tono secco, sebbene lei abbia un
corpo virtuale dalle dimensioni della più grande nave aliena e lui abbia un
punto di vista nozionale che potrebbe danzare sulla capocchia di uno spillo.
«Stai prosciugando le mie risorse. Chi o cosa sei?» Poi, senza un istante di
pausa, pare mettersi al passo con il frammento della sua consapevolezza da
lui incontrato un momento prima. «Meshner Osten Oslam, l’animale da
laboratorio che si è reso tale da sé.» Meshner riflette che rispondere alle sue
stesse domande costituisce di questi tempi per Kern il principale strumento
del mestiere. «Perché sei qui?»
Balbetta che è stata lei a portarlo lì, ma forse quella parte che ha lasciato
le briciole è soltanto una subroutine che Kern stessa non riconosce come
parte di sé. Ha la sensazione che in qualche modo, da qualche parte, si stia
tentando una sorta di comunicazione che però non raggiunge Kern. Si
aggira lo schermo lentamente, guardando simultaneamente lui e i vascelli
alieni e dando a tutto la sua piena attenzione. Meshner sente parti del suo
cervello sfregare le une contro le altre nel tentativo di costringere questo
stimolo visivo surrogato a conformarsi alle leggi dello spazio fisico.
Cosa che non ha bisogno di fare, ricorda a sé stesso. Richiama quindi le
informazioni, disponendole nello spazio virtuale come ha fatto per testare
l’impianto, quando si è svegliato con esso per la prima volta. Per una
frazione di secondo si ritrova con il tramonto e l’oceano ma Kern lo trascina
di nuovo fisicamente alla mappa della battaglia, a quel piccolo dardo che è
la Lightfoot e alla formazione delle navi nemiche che si stanno allargando
(mentre la sua mente continua a elaborare ed elaborare nel tentativo di fare
il suo lavoro, adesso che ha quella spettacolare rappresentazione visiva
dello spazio esterno; inoltre, qualcosa ha attirato la sua attenzione, qualcosa
che di certo Kern ha già visto...)
E l’informazione è arrivata a destinazione, o forse Kern ha guardato oltre
la battaglia, a quello che il suo corpo stava/sta facendo e ha scorto il suo
misero ruolo in tutto questo.
«Le tue funzioni cognitive stanno straripando nei sistemi della nave» gli
dice ancora severa ma con una nota pensosa nella voce. In fin dei conti, è
prima di tutto una scienziata. «Il tuo impianto ha bisogno di funzioni
limitanti. Sta cercando di elaborare una grossa massa di dati sensoriali e per
farlo divora tutto il potere di elaborazione che riesce a gestire. Sono
costretta a trattenerlo dall’ espandersi nella mia memoria e nel tenerlo a
bada subisco un ulteriore consumo delle mie capacità. Scimmia idiota.» La
sua espressione – o quella sfaccettatura di essa che si degna di riservargli –
lo sta valutando. «Tuttavia, in qualsiasi altro momento saresti un giocattolo
interessante. Sei arrivato vicino a una struttura di upload nel modo più a
rovescio possibile, creando un’estesa simulazione virtuale delle tue funzioni
cognitive al fine di elaborare un medium registrato che non era
assolutamente destinato a un Umano.»
Un momento... una simulazione virtuale? È questo tutto ciò che sono? A
me tutto questo sembra assolutamente reale. Di nuovo, non ha modo di
dirlo, ma il pensiero riesce ad arrivare a Kern. Si aspetta derisione, ma la
sua espressione è solenne, perfino comprensiva.
«Sembra reale, vero?» conviene. «Non importa quanto ti smantellano,
anche quando sei ridotto a qualcosa che non può pensare e avvertire niente,
a una qualche piccola e insignificante scheggia di te stesso che è a stento in
grado di calcolare radici quadrate e numeri primi, hai ancora la sensazione
di essere tu, finché non provi a fare qualcosa e scopri che quella parte di te è
assente. Ti sto limitando, Meshner Osten Oslam, ti sto tenendo a bada in
modo che tu non indebolisca la nave con la tua crisi esistenziale. Inoltre,
questa esperienza potrebbe finire per ricongiungersi al resto della tua mente
e farla uscire dalla crisi epilettica che stai avendo attualmente.»
Io... cosa?
«Il tuo cervello è un giocattolo complicato. Giocandoci incautamente ne
potresti perdere dei pezzi.» ribatte lei, e la sfumatura sardonica riappare: a
quanto pare, la sua comprensione si è esaurita. «Ho elaborato una soluzione
per espellerti momentaneamente dal sistema. Ho davvero bisogno di tutta la
mia concentrazione. Se ne avrai la possibilità, ci sono modi in cui puoi
indurre il tuo impianto a ricalibrare la sua architettura interna in modo da
indurre le simulazioni a usare le risorse in modo più efficiente, riuscendo a
fare di più senza coinvolgere me. Fammi sapere se ricorderai qualcosa di
tutto questo.»
Aspetta! La prospettiva di Meshner sobbalza. Può sentire la realtà che gli
viene incontro come fa il terreno con un uomo che sta cadendo – opera di
Kern o della crisi che sta avendo – e cerca di attingere più informazioni
delle mere parole. Ha una rotta per lei, non un volo frenetico nel buio ma un
approccio alle navi nemiche. Si tratta di dirigersi con precisione di lato e
all’indietro e a testa in giù, una cosa del tutto al di là dei parametri del
compito che gli è stato assegnato e tuttavia perfetta.
«Assurdo» scatta Kern. «Questo ci espone in sequenza alle armi di tre
delle navi grandi a distanza estremamente ravvicinata, una dopo l’altra. È
inaccettabile.»
Hai imposto i limiti sbagliati alla nostra ricerca, insiste Meshner.
L’oceano riappare per un breve momento, pulsante come il lento battito di
un cuore, tanto che perde e ritrova Kern, perde e ritrova la battaglia. Guarda
i loro attacchi. È così ovvio, e tuttavia Kern non lo ha visto perché, in
ultima analisi, è un computer autoregolato che cerca di massimizzare il suo
limitato potere computazionale. Si è imposta un compito ristretto ed esso è
diventato il suo mondo. Stanno combattendo gli uni contro gli altri, riesce
finalmente a spiegarle, evidenziando parecchi fra i contendenti con colori
diversi, alcuni ostili, altri quantomeno neutrali, che puntano le armi contro i
compagni nell’apparente tentativo di difendere la Lightfoot. Ogni nave ha
angoli e archi che vengono usati per le contromisure, proiettando vaste
ombre dove le loro attenzioni ripuliscono il vuoto dagli armamenti delle
navi vicine. Di colpo lo spazio non è più un deserto, o quantomeno è un
deserto con alcune rocce che offrono ombra. E forse una copertura
sufficiente a raggiungere una velocità tale da distanziare il nemico.
Kern lo fissa, entrando e uscendo dalla sua visione mentale ma Meshner
nota il suo sorriso prima di perdere il contatto.
Poi si ritrova a inarcare la schiena, con le dita che artigliano il tessuto del
pavimento della cabina mentre Zaine gli applica uno scanner medico alla
testa e questo scombussola il suo impianto in modo agonizzante. C’è un
caos incredibile, e lui sente il suo cuore fermarsi ed essere rimesso in
funzione da Helena con un override muscolare. Ha sangue in bocca e stelle
effimere gli scintillano negli occhi.
2

D’un tratto hanno lasciato i caccia a vorticare nella loro scia, con la
Lightfoot che accelera sfruttando tutta la sua potenza. Ai comandi
rimangono solo i ragni, Portia, Viola e Fabian, perché Helena e Zaine
stanno facendo del loro meglio per salvare la vita del compagno umano,
Meshner, contrastando la sua infiammazione cerebrale e placando i suoi
picchi di attività neurale fino a quando lui non riapre gli occhi.
Nonostante tutto, Helena non è certa che lui sia ancora con loro. C’è un
momento in cui negli occhi che la fissano non c’è niente di Meshner, poi
l’espressione riappare sul suo volto. Stanno combattendo, dice, cosa che
sembra l’osservazione più stupida del mondo finché Fabian non comincia a
tamburellare e a grattare contro la sua consolle, costringendola a protendere
una mano guantata per capire cosa stia dicendo.
...tre delle navi ci stanno schermando. Una delle altre è danneggiata...
perde ghiaccio dallo scafo! Sono in guerra fra loro! Fabian praticamente
saltella sul posto, appendendosi al muro a testa in giù. Un momento più
tardi salta a terra e aggira di corsa la forma prona di Meshner, perché i
Portiadi hanno serie difficoltà a stare fermi quando sono eccitati.
Helena controlla i monitor medici: adesso le condizioni di Meshner
sembrano stabili, anche se lui pare essere scivolato di nuovo
nell’incoscienza. Si mette a sedere, esasperata nei suoi confronti. A
causargli la crisi è stato un qualche feedback del suo impianto, niente che
avesse a che fare con la battaglia, una cosa che non è la sola a pensare. I
movimenti saltellanti di Fabian si arrestano di colpo quando Viola gli si
para davanti con un salto, le zampe anteriori sollevate in un gesto di
minaccia. Il maschio assume all’istante un atteggiamento sottomesso e lei si
erge sulla persona ancora per un momento per esprimere la propria ira nei
suoi confronti prima di allontanarsi verso la postazione di Bianca.
I pedipalpi di Fabian si sollevano con un sussulto, un gesto che Helena
traduce automaticamente come Ma cosa ho fatto?
Hai fatto succedere questo, segnala Portia, andando ad accoccolarsi
accanto a Helena. Hai fatto esperimenti su di lui.
Il maschio accenna qualche movimento tronco, non una frase completa,
ma l’equivalente di un Umano che borbotti fra sé. Come facevo a saperlo?
Dai un taglio alle tue attività, gli dice Portia. Siamo tutti in pericolo.
Le zampe rigide di Fabian suggeriscono che vorrebbe chiedere come
avrebbe potuto prevedere anche questo, e Helena prova una certa
compassione per lui. Un momento prima gli alieni erano felici di
comunicare e quello dopo..., in effetti nell’istante in cui hanno visto una
forma umana..., un gruppo è stato spinto a una rabbia furiosa, mentre gli
altri si sono mostrati altrettanto veementi nel difendere la Lightfoot, con
entrambe le fazioni che hanno scatenato la loro aggressività senza nessun
segno o preavviso. Questo li rende umani? No, non secondo il modo di
vedere di Helena. Anche ammettendo che gli Umani del Mondo di Kern
siano insolitamente pacifisti, almeno a giudicare da oscuri riferimenti di
Kern al lungo passato della loro specie, ritiene comunque che le persone
dovrebbero costringersi a fare una cosa del genere, fornire a loro stesse una
giustificazione. A meno che il tutto non fosse una trappola fin dall’inizio,
già predisposta per evolversi in un intento omicida, ma questo non spiega le
navi che, a quanto pare, hanno preso le difese della Lightfoot.
Niente di tutto questo ha senso, dice a Portia, attraverso i guanti.
Ci stanno contattando, giunge l’annuncio generale di Viola, con la
traduzione vocale di Kern che lo segue a ruota. Tre grandi navi seguono la
nostra rotta, quelle che hanno coperto la nostra fuga.
«Se non altro, siamo più veloci» commenta Zaine, senza dubbio
ricordando le pesanti manovre dei vascelli alieni.
Non lo siamo, ribatte Viola con fare pedante. Siamo soltanto in grado di
accelerare più rapidamente, per ora. Ci stanno inviando segnali, come
prima, anche se con una proporzione molto maggiore sul canale tecnico.
Altre coordinate.
Tutti si scambiano occhiate: gli Umani girano la testa, i Portiadi inclinano
il corpo gli uni verso gli altri.
«Una trappola?» suggerisce Zaine, ma non ne pare convinta.
Potenzialmente può esserlo, se questi sono soltanto nemici che vogliono
lasciare in vita abbastanza di noi da poterci studiare, interloquisce Viola. Il
sottotesto fornito dai suoi pedipalpi significa Le cose brutte si moltiplicano,
a sottintendere che soltanto perché le fazioni aliene stanno combattendo le
une contro le altre, questo non significa che siano divise in modo netto fra
‘amici’ e ‘nemici’.
«Possiamo parlare alla Voyager?» chiede Helena.
La voce di Kern interviene, trasmettendo simultaneamente attraverso
l’aria e lungo il pavimento: «Semplicemente, non conosciamo le capacità di
queste navi, adesso che siamo oggetto di una tale attenzione da parte loro.
Se mandassimo una trasmissione, come minimo le avvertiremmo della
presenza della Voyager. Dobbiamo sperare che i nostri compagni stiano
guardando quello che succede.»
Possiamo fuggire verso l’esterno, suggerisce Fabian. Siamo in grado di
cambiare rotta più in fretta di loro.
E poi cosa faremo? controbatte Portia.
Helena agita un pollice per ottenere la sua attenzione, poi segnala: Calma,
vacci piano, perché nei momenti di stress la sua collega tende a diventare
arcitradizionalista, comportandosi da femmina più che mai.
Con uno sforzo evidente, Portia costringe il suo linguaggio corporeo a
passare da aggressivo a conversazionale. Se fuggiamo adesso, e anche
ammesso che riusciamo a sottrarci a loro, cosa otteniamo? dice. Per cosa è
morta Bianca? Abbiamo fatto tutta questa strada seguendo il filo dei loro
segnali. Qui c’è un mistero per risolvere il quale ci servono nuove
prospettive. Questi sono i nemici che un giorno verranno a minacciarci a
casa nostra? Abbiamo visto che la loro tecnologia è complessa quanto la
nostra e anche di più, quindi se noi siamo in grado di viaggiare fra le stelle
allora lo sono anche loro. Sono alleati? Hanno bisogno del nostro aiuto?
Perché combattono gli uni contro gli altri? Perché ci hanno attaccati? Se
c’è una possibilità di apprendere di più sul loro conto e, soprattutto, di
instaurare un contatto pacifico, dobbiamo sfruttarla. Convertita in termini
umani, è un’oratrice appassionata che incarna la virtù portiade della
curiosità intrepida.
Zaine ha calcolato le nuove coordinate. «Ci stanno portando verso
l’interno del sistema, oltre l’orbita del prossimo pianeta. Questo ci dà circa
due mesi, tempo più che sufficiente per riconfigurare la nave e prepararci.»
«Cerco un incontro di menti per una strategia difensiva» interloquisce
Kern. La strana formulazione della frase e la migliore traduzione possibile
del concetto dei ragni in cui tutti siedono intorno a una ragnatela e la
pizzicano per esporre le idee che vengono loro in mente.
Helena ritiene che avrebbe ben pochi contributi da offrire. Invece, chiede
alla Lightfoot di produrre un grosso campione delle trasmissioni aliene,
soprattutto degli elementi visivi. Dopotutto, è la decana del software di
traduzione, anche se i suoi sforzi si sono concentrati su un sistema di
comunicazione del tutto diverso. Adesso ha del tempo libero, le va di
sprecare in questo modo la sua quota personale invece di ritirarsi nel sonno
criogenico. Adattare guanti e occhiali e rimettere a punto il software interno
è un processo lungo e delicato, ma con l’aiuto di Portia adesso ha
l’opportunità di farlo. E, si spera, di non friggermi il cervello come ha fatto
Meshner.
Uno dei suoi mentori, sul Mondo di Kern, l’aveva messa in guardia
proprio da questo: la possibilità che il pensiero e il linguaggio alieni
danneggiassero il cervello umano con il loro semplice impatto. La donna
era stata paranoica nei confronti di ipotetici ‘veri alieni’ la cui semplice
cognizione fosse anatema per qualsiasi Umano (o Portiade) che cercasse di
capirla. Ha il sospetto che quel mentore fosse una persona la cui psicologia
aveva problemi a venire a patti con il fatto di vivere su un pianeta pieno di
ragni. Alcuni dei superstiti originali della Gilgamesh non si erano mai
davvero adattati a vivere in una riserva umana dove la presenza dei Portiadi
era minima e nascosta. Nel supporre l’esistenza di quella razza aliena letale,
il suo mentore – o almeno questa era la convinzione sviluppata da Helena –
aveva esternato una paura interiore di tutta una vita.
Sa anche che ci sono Portiadi che trovano impossibile stare in presenza di
Umani. A volta si tratta semplicemente delle loro dimensioni, oppure non
riescono a ignorare il fracasso dei passi umani, come fa la maggior parte dei
ragni. Anche dopo tutto questo tempo, fra le sue specie c’è ancora qualche
spigolo da smussare.
Portia le accarezza con gentilezza un braccio, un gesto di solidarietà
sviluppato in modo indipendente da entrambe quelle specie molto diverse.
Ricorda quello che abbiamo detto riguardo ai maschi, avverte Helena,
arruffando i ciuffi sopra gli occhi principali di Portia.
Fabian non è un tipico maschio, ribatté Portia, che senza dubbio ha
almeno un occhio puntato sulla causa della sua ira. Si accoccola e danza
abbastanza bene, ma non lo fa sul serio. Quello è uno che nutre
risentimenti.
E tu gli dai un motivo per farlo, sottolinea Helena. Sul suo schermo, il
computer ha codificato cinquecento distinti segnali alieni, visivi e
informativi. Questa è opera delle formiche, eseguita dalla colonia residente
nella Lightfoot, piuttosto che della consapevolezza di Kern o dei sistemi
elettronici. È il genere di analisi qualitativa in cui le formiche dei Portiadi
battono ogni volta i computer umani.
Helena si acciglia, abituata a trovare schemi in segnali, nel linguaggio,
perché una grande parte del suo lavoro sulla lingua dei Portiadi consiste nel
trovare le correlazioni fra significato, atteggiamento, pedipalpo,
qualificatori e perfino sostanze chimiche profumate, tutte diverse
sfaccettature della comunicazione. Qui vede trasmissioni aliene che
vengono inviate invariabilmente come due distinti formati, senza però che
ci sia nessuna immediata correlazione. Oppure, se c’è, risiede in una
qualche parte dei dati che lei non sta analizzando nel modo giusto. Torna
alla fonte e si rivolge a Kern riguardo ad altri possibili canali, elementi
separati del messaggio che non le sono arrivati.
Molti giorni più tardi, con Kern che minaccia di chiudere il suo accesso al
sistema, tutto quello che ha in mano è una mancanza di prove di qualsiasi
schema fra segnali visivi e numerici.
Che non è la prova di una mancanza, e tuttavia...
E se anche su quelle navi ci fossero due specie separate? si chiede. E se i
segnali numerici fossero... nascosti all’interno della trasmissione principale
da una sorta di quinta colonna?
Quindi, invece di darci un appuntamento, una qualche spia ci stava
dicendo dove erano diretti? Portia rabbrividisce, segnalando la sua
contrarietà di fronte a quell’idea. Però hanno messo in pratica la cosa. E
abbiamo segnali che non erano destinati a noi ma sono tutti divisi nello
stesso modo, in misura maggiore o minore, con l’informazione visiva carica
di dati e il più compatto formato numerico del Vecchio Impero. E le
proporzioni sono cambiate... Guarda ecco uno schema.
Ha ragione. La correlazione non è con il contenuto, ma con la divisione.
Certe combinazioni di colore e di forma corrispondono a dove
l’informazione visiva arriva quasi a rimuovere completamente i numeri.
Come se stessero gridando. In effetti, i colori e le forme in quei periodi
sembrano nettamente meno amichevoli. Nero, rosso, bianco, picchi e angoli
acuti. Forse simboli universali di minaccia per chiunque abbia origini
terrestri. Ed è indubbio che stiano guardando qualcosa venuto dalla lontana
Terra. La tecnologia usata per inviare questi segnali sconcertanti è
strettamente imparentata con quella trovata dalla Gilgamesh sulle strutture
del Vecchio Impero o con quella utilizzata per preservare Avrana Kern
intorno al mondo che porta il suo nome. Più vicini a noi di chiunque stia
mandando i segnali.
Per ora nessuno parla di intelligenza meccanica, ma Helena ha la netta
sensazione che non ci sia un operatore umano dall’altro capo di questa
trasmissione.
Ripensa all’approccio istintivamente iroso di Viola nei confronti di
Fabian, con le zampe sollevate e l’implicita promessa di violenza che risale
a tempi ancestrali, presenzienti: ‘Io sono più grossa e pericolosa,
sottomettiti a me.’ Le trasmissioni radio dei Portiadi sono molto urbane:
esprimono una versione codificata del linguaggio dei ragni – le vibrazioni e
i qualificatori visivi – ma senza il generale linguaggio corporeo che fornisca
un più ampio contesto emotivo. Sotto questo aspetto, la voce umana
funziona meglio con la radio, perché il sottotesto è fornito in pari misura dal
tono e dal ritmo, ma anche così gli Umani preferiscono comunicare tramite
schermo, in modo da poter decifrare la rispettiva espressione.
Credi che il tuo popolo avrebbe potuto sviluppare un metodo di
comunicazione a distanza che trasmettesse il linguaggio corporeo? chiede a
Portia, la cui attenzione è più concentrata sul conciliabolo relativo alle
tattiche difensive in corso fra Zaine, Viola, Fabian e Kern. Scrolla i suoi
pedipalpi in maniera indifferente.
Helena prova però un’eccitazione crescente. Se facessero più affidamento
sul loro linguaggio corporeo... o se noi rendessimo le espressioni fisiche un
elemento chiave ancor più importante per trasmettere un significato... E il
Vecchio Impero non aveva forse inventato un intero alfabeto aggiuntivo di
simboli per integrare il testo scritto con qualificatori emotivi, proprio per
coprire quella necessità? Supponiamo quindi di averle a che fare con una
specie per la quale i significanti visivi sono una parte chiave della
comunicazione e che non possa semplicemente trasmettere un significato
senza di essi... Questo è di certo un intoppo, perché nello sviluppare la sua
cultura, una specie del genere avrebbe comunque bisogno di ridurre quel
significato a un codice di qualche tipo, qualcosa di simile a caratteri scritti,
che abbreviassero e giungessero a rappresentare la comunicazione fisica
originale. E se in qualche modo non lo avessero fatto? Non riesce a
immaginare la strada che una cultura del genere imboccherebbe. Come sono
potuti passare dalla barbarie a simili vette tecnologiche senza essere stati
costretti a ridurre il linguaggio a un codice più semplice? O forse quello che
vede in quei compatti e ingombri canali visivi è un’abbreviazione di
qualcosa di ancora più complesso...
Ricordati di respirare, le dice Portia, e Helena si rende conto che si è
immobilizzata, con la mente che insegue vicoli ciechi mentre lei trattiene il
respiro. Aiuta avere un’amica che la conosce così bene.
«Intendo focalizzarmi solo sul canale visivo» annuncia. Prenderà il lavoro
di categorizzazione iniziale svolto dalle formiche e applicherà a esso i suoi
algoritmi di traduzione, che sono essi stessi i discendenti evolutivi di
programmi elaborati dal suo antenato, Holsten Mason, quando era ancora
un membro dell’equipaggio della Gilgamesh. Le formiche aggrediranno il
suo software e le porteranno briciole di significato dall’abbondanza di dati
di cui dispone.
Ed è una ricchezza che continua ad aumentare a mano a mano che si
addentrano nel sistema, lontano dalla cintura degli asteroidi. Il traffico che
era così abbondante intorno agli habitat – o installazioni, o quel che sono –
argentei non è niente paragonato alla cacofonia che possono già intercettare
dal pianeta successivo, un, che cosa?, ad ampio spettro. Helena riflette che
non è un farfugliare ma un cozzare di colori tale da far dolere gli occhi,
un’esposizione complessa e mutevole che giunge da diecimila fonti diverse.
Si chiede se quelle creature – quale che sia la loro natura – siano in guerra,
ma sembra impossibile che un intero pianeta furioso e dotato di una simile
tecnologia non si sia autodistrutto. Come ha fatto la Terra.
Come se ci fosse una qualche maledizione antica di millenni che segue
tutti i figli di quel perduto pianeta e li spinge all’annientamento.
3

Fabian suggerisce che una delle fazioni possegga la cintura di asteroidi e


che sia in corso una disputa con la fazione sul pianeta interno, verso la cui
orbita si stanno ora dirigendo. Di certo ci sono segnali che triangolano fra
quel mondo e le navi aliene che li seguono. Il nuovo punto di incontro – o
sito per un’imboscata, come Portia non può fare a meno di considerarlo – li
porrà nel tracciato orbitale del pianeta, ma ad almeno trenta milioni di
chilometri dalla posizione da esso occupata in quel momento, e lei
considera la precisione di quel calcolo. Forse qualche mente aliena ha
cercato di trovare un compromesso che metta il proponente abbastanza
vicino a casa, ma non tanto da spaventare i visitatori venuti dalle stelle, o
forse i locali hanno delle armi e una tecnologia per le quali trenta milioni di
chilometri non sono niente. Se deve scegliere fra le due ipotesi, in realtà
Portia non crede che le abbiano, almeno da quanto ha visto, ma decisamente
sono in vantaggio rispetto alla tecnologia del suo popolo. Comunque, la
tecnologia non è una cosa lineare, ci saranno punti di forza e debolezze da
tutti i lati, anche se saranno tutti abbarbicati sulle spalle di antichi giganti
umani.
Fin dall’ultima volta in cui è emersa dal sonno criogenico, Portia ha
tormentato Kern per avere aggiornamenti, chiedendo con regolarità se erano
quasi arrivati, tanto eccitata da saltellare per tutto il compartimento
dell’equipaggio, dal pavimento alle pareti e al soffitto. Quella è una
condizione particolare dei Portiadi, derivata da una specie di cacciatori che
si è evoluta in una società in cui il comportamento aggressivo deve essere
tenuto a freno. Quando arriverà il momento dell’azione diventerà
l’immobilità personificata, se questo sarà necessario, ma al momento i suoi
radicati istinti ancestrali la incitano a fare qualcosa, per cui corre per tutto lo
spazio disponibile, si ferma, corre, si ferma ancora, giocando con i livelli di
ossigeno e di zuccheri all’interno del suo corpo per tenere a bada la
frustrazione.
La scansione a lungo raggio fatta da Kern mostra che nuove navi aliene
convocate ad attenderli al punto di incontro stanno già facendo... qualcosa. I
risultati forniti dai sensori sono incerti, a quella distanza, ma è possibile che
una di esse stia alterando la propria forma o si stia dividendo in due, il che
suggerisce alcuni interessanti punti di convergenza con l’ingegneria dei
Portiadi.
Kern ha anche raccolto dati più precisi sul pianeta, per quanto distante, e
ha messo insieme un bagaglio di informazioni interessanti. La densità del
segnale suggerisce una società molto attiva dal punto di vista tecnologico,
ma l’analisi da lei effettuata è che un simile volume di segnali non supporti
l’idea di un mondo densamente popolato che fa affidamento su trasmissioni
radio. Un confronto fatto con il pianeta che da lei prende il nome, per
esempio, indica che se le comunicazioni dei Portiadi fossero ancora
principalmente basate sulla radio i segnali sarebbero dieci volte più
numerosi di quelli che sta individuando. Naturalmente, la massa delle
comunicazioni dei Portiadi moderni non è trasmessa mediante onde radio
ma tramite fibre ottiche e altri sistemi chiusi simili, il che significa che il
Mondo di Kern è molto silenzioso per qualsiasi alieno che sia in ascolto.
L’equipaggio ha formulato una gamma di teorie, per lo più prive di
supporto, per spiegare la cosa. C’è soltanto una scarsa popolazione? L’uso
della radio è razionato o ristretto a una certa classe sociale (com’è stato per
gran parte della storia dei Portiadi, per ragioni socioreligiose)? Forse il
pianeta pullula di tecnologia che non serve per le trasmissioni e c’è soltanto
una massiccia presenza in orbita che fa affidamento su di esse. Questo è un
suggerimento di Portia, secondo la quale è la teoria che meglio si adatta ai
fatti
Forse sono soltanto alieni, ribatte Viola, cosa che non è di molto aiuto,
secondo il modo di vedere di Portia. Viola ha preso male la morte di
Bianca: erano nate entrambe nella stessa casa dei pari e si conoscevano
quasi dal momento in cui erano uscite dall’uovo. I Portiadi non hanno
quegli stretti legami familiari da cui gli Umani dipendono tanto, ma menti
rese affini da una lunga associazione formano una sorellanza compatta...,
confraternita, si corregge Portia, con un gesto dei pedipalpi che corrisponde
a un levare gli occhi al cielo..., in cui la perdita di un collega lascia un vuoto
nella rete, un buco che deforma il mondo per l’assenza creatasi. Quindi, se
da un lato lo stato mentale di Viola non corrisponde esattamente al
cordoglio umano, esso è comunque una dolente ammissione che il mondo
di oggi è diverso da quello di ieri e questo non rende il presente più ricco.
Ancora irrequieta, Portia scorre i dati che Kern sta accumulando riguardo
al pianeta. Anche da quella distanza sono evidenti considerevoli strutture
orbitali. Non è esattamente il cerchio sfoggiato dal suo pianeta natale, con
la sua rete geosincrona che si estende da dozzine di cavi di ascensori, ma è
una grande confusione di quelle che potrebbero essere stazioni spaziali o
anche solo detriti. Sporadiche firme di energia suggeriscono un’industria
particolarmente appariscente o magari scariche di armi su larga scala. Al di
là di tutto questo il pianeta vero e proprio ha una forma strana che Kern
riesce a spiegare solo con l’idea che abbia una superficie quasi interamente
liquida. Portia sa che a quella distanza dal sole si tratta probabilmente di
acqua.
Sul Mondo di Kern ci sono specie acquatiche intelligenti. Una razza di
crostacei ha da lungo tempo rapporti diplomatici con i Portiadi, insieme a
un commercio e a uno scambio di tecnologia limitati. I ragni però non si
avventurano molto sotto l’acqua e le culture legate all’oceano sembrano
destinate a rimanere là, con la loro tecnologia retrograda rispetto a quella
dei Portiadi, e soprattutto non viaggiano nello spazio. Quantomeno, questa è
l’impressione che Portia ha ricevuto al riguardo.
Kern è d’accordo con lei in linea di principio. Allo stesso tempo, però, ha
effettuato alcuni calcoli riguardo alla massa, al momento e all’inerzia
applicati alle navi aliene, e ha trovato una soluzione precisa alle sue
equazioni soltanto se quelle navi enormi fossero piene d’acqua – totalmente
piene, senza spazi d’aria, altrimenti lo sciacquio infrangerebbe qualsiasi
tipo di scafo che lei fosse in grado di concepire. E poi c’è quel relitto
ghiacciato in cui si sono imbattuti arrivando: di certo doveva essersi trattato
di una nave come quelle, che aveva incontrato una qualche calamità e si era
aperta al vuoto gelido dello spazio, riversando fuori il proprio sangue prima
che quanto restava solidificasse.
Ci sono molte discussioni sulle possibilità e Portia mantiene un paio di
zampe nella conversazione nell’eventualità che si finisca per dire qualcosa
di particolarmente edificante. Con altri tre piedi chiede a Helena come
potrebbe comunicare una specie acquatica.
Abbiamo visto come, risponde lei, immersa nelle diramazioni del proprio
lavoro mentre lotta con le comunicazioni aliene. Visivamente, almeno in
parte. Forse con infrasuoni, o forse ci sono interi altri canali che non
abbiamo intercettato e tutto questo non ha senso. Pare frustrata ma Portia la
conosce bene, nella misura in cui una della sua specie può conoscere
un’Umana. Di fronte a lunghi lavori complessi, Helena possiede una
pazienza che Portia trova del tutto degna di un ragno. Nei suoi momenti di
maggiore onestà ammette che quella è una dote di cui lei stessa è priva.
Come dice il vecchio detto, si lancia troppo spesso senza un filo di
sicurezza. D’altronde, i ragni sanno che per prosperare una colonia ha
bisogno di un buon equilibrio fra cautela e temerarietà.
Adesso vedo cosa hanno fatto, annuncia Kern, e sugli schermi appaiono
nuove immagini. Grovigli di legende simili a nodi appaiono intorno alle
immagini mentre lei fornisce una spiegazione. La più grande delle navi in
attesa ha adesso ridotto considerevolmente le proprie dimensioni e la sua
massa ha contribuito a formare un nuovo globo, che può essere protetto
dalla stessa membrana flessibile da loro usata o forse da qualcosa
totalmente al di là della tecnologia dei Portiadi: un campo di pura energia
elettromagnetica. Un’altra nave è attraccata al globo trasparente, con un
cordone ombelicale dall’aspetto organico che si protende dentro di esso
mentre le due sfere orbitano piano una intorno all’altra. Il resto delle navi si
tiene a migliaia di chilometri di distanza.
Ho ricevuto alcune nuove trasmissioni. Helena le sta analizzando, ma
includono una sezione chiara che credo essere inconfondibile. È un codice
di autorizzazione ad attraccare che riconosco dai miei tempi, e quindi si
tratta di un invito. Helena?
Sono d’accordo, tamburella distrattamente Helena, poi ripete la cosa ad
alta voce per Meshner e Zaine.
Portia si accoccola, avvertendo un fremito di paura al pensiero. È una
strana arena per un primo contatto: una sfera d’acqua sospesa in modo
impossibile nel vuoto dello spazio, un elemento ostile per gli Umani e ancor
più per un Portiade. Quindi è una sfida.
Andrò io, scandisce con enfasi, facendosi avanti prima che qualche altro
temerario le possa rubare la posizione. Andrò a incontrarli.
Sente sulla schiena la mano di Helena.
Meglio che venga anch’io, dice la sua Umana. Credo di aver elaborato
alcuni primi rudimenti del loro linguaggio.
La Lightfoot decelera ormai da alcuni giorni, anche se non da un tempo
lungo quanto quello delle altre navi aliene, che sono ancora lontane alle sue
spalle e sono lente a fermarsi quanto lo sono a partire.
È per via dell’acqua, naturalmente, suggerisce Fabian. Si aspetta una sfida
da parte delle femmine, ma al momento sono soddisfatte di ascoltare oppure
hanno altre cose per la mente. Devono avere seri limiti sull’acquisizione e
perdita di velocità, un impulso enorme e problemi di inerzia, e pensate
all’energia necessaria! Finisce il discorso con un gesto che è una mezza
minaccia, a sottolineare la natura marziale della contrapposizione dei dati.
Qualcuno ha assimilato alcune nuove Comprensioni, osserva in tono
asciutto Portia, suggerendo che la nuova autorità di Fabian in materia poggi
decisamente sulla schiena di giganti (femmine). Distrattamente, Helena le
rivolge un gesto di ammonimento con un pollice, e il ragno reagisce con un
piccolo sussulto irritato dei pedipalpi. Sì, sì, naturalmente ha ragione,
comunque sia giunto a quelle conclusioni. Il genio di Portia risiede
nell’interpretare e applicare, non nel sapere. Non può davvero negare al
maschio quel suo momento di gloria.
Viola non è contenta di entrare in territorio ‘nemico’ per un incontro,
quale che ne sia la natura. Lo stesso vale per Kern ma tutti gli altri sono
favorevoli e i Portiadi non sono bravi a rispettare una catena di comando.
Non c’è un chiaro successore di Bianca, perché loro tendono a pensare in
termini di rami e di reti piuttosto che in linea retta. Fra loro l’autorità si
riduce a nebulosi livelli di influenza e Viola non riscuote abbastanza
simpatie da poter far valere le sue argomentazioni. Helena sospetta che
Kern sarebbe una tiranna autocrate, se qualcuno glielo permettesse, ma la
sua lunga storia di trattative con i Portiadi ha portato in una direzione
diversa, con lei che fa affidamento su di loro e alla fin fine non è tanto una
divina figura matriarcale quanto un demone evocato che si è abituato a
essere prigioniero del suo cerchio magico. Anche se, come lei ben sa, le
versioni di Kern sono diverse fra loro.
«Allora, dimmi...» La voce di Kern le strappa un sussulto per la sua
vicinanza, perché tutti gli ibridi connessi al computer possono parlare da
qualsiasi punto degli alloggi dell’equipaggio. «Come procedono i tuoi
sforzi per comunicare? Lo chiedo perché non hai tempo per una valutazione
paritaria e una revisione.»
Helena fa una smorfia. «Ho scaricato nei miei impianti e su un tablet un
sistema funzionante. Posso produrre segnali che sono almeno
superficialmente simili ai loro dati visivi e ho trovato alcune... tenui
correlazioni fra quello che vediamo e i flussi di dati tecnici che lo
accompagnano, come pure il più semplice contenuto emotivo che già
avevamo.»
«Mmm.» La voce umana di Kern esprime dubbio, e probabilmente emette
quel verso solo per esternarlo. «Non sono riuscita a trovare nessuna
correlazione fra i set di dati. Mostrami il tuo lavoro.»
Helena lo fa, perché quel genere di richiesta secca è semplicemente il
modo di essere di Kern: una personalità tutt’altro che accattivante a cui ogni
Umano e Portiade del Mondo di Kern si è abituato. Evidenzia le
corrispondenze, che non sono un qualsiasi tipo di collegamento continuo
ma punti in cui certi significanti chiave del flusso visivo – scelte di colore,
ampiezza di banda, la forma fisica degli oggetti – sembrano generare
sempre particolari risposte, come se il flusso visivo scorresse per conto suo
per la maggior parte del tempo ma tornasse poi a verificare la situazione
con il canale che lo accompagna e...
«Le tue conclusioni, prego» la sollecita Kern, perché i dati da lei forniti
sono intricati e non portano da nessuna parte. «Questo a cosa serve?»
«Forse a dare disposizioni o a ricevere informazioni» spiega Helena.
«Probabilmente si tratta di istruzioni, perché puoi vedere che questo
precede una quantità delle risposte fisiche che abbiamo visto da parte loro,
soprattutto durante il combattimento. Mi chiedo se stiamo avendo a che fare
con più di una specie che operino a stretto contatto, oppure con una specie e
un sistema meccanico, come sostiene Viola.»
«E?»
«Lavorando sulla base di quello, vedo che certi segnali visivi portano a
certi tipi di azione. Li ho classificati...» Altri dati evidenziati. Kern potrebbe
esaminare l’intero database, ma questo le fa risparmiare potere di calcolo, e
Helena sa che lei lo apprezza. «Non posso certo chiacchierare con loro del
tempo, ma posso arrivare almeno a un veniamo in pace. Dal lato del flusso
di dati tecnici ho più cose che posso dire, ma ho il sospetto che senza un
flusso visivo potrebbero non accettarlo, o forse chi capisce quello che dico
non è nella posizione di dare ordini...»
A quanto pare, Meshner stava origliando. «Pensiamo che la loro
tecnologia sia superiore alla nostra? Allora perché non lasciare che siano
loro a condurre le danze?» Appare ancora pallido e con la tendenza ad
autocommiserarsi nonostante la convalescenza nel sonno criogenico, ma è
tornato fra loro.
«Abbiamo una vasta biblioteca delle loro trasmissioni» gli fa notare
Helena. «Loro non hanno quasi niente di nostro.»
«Ed è mia intenzione fare in modo che le cose rimangano così, se solo
fosse possibile» interloquisce con fermezza Kern. «Non ho individuato
nessun tentativo di compromettere i nostri sistemi...» E cioè lei stessa. «Ma
ho applicato alcune misure di sicurezza e dato istruzione a certi membri
dell’equipaggio di tenermi sotto controllo.» La conclusione taciuta di tutto
questo è una domanda: se dovesse essere violata dagli alieni, Kern se ne
renderebbe conto? La speranza principale è che la scienza informatica dei
Portiadi sia talmente diversa dai sistemi della Vecchia Terra, su cui gli alieni
sembrano basare la loro, da far sì che qualsiasi tentativo di controllare Kern
sia condannato da una pura e semplice incompatibilità, laddove Kern sta
familiarizzando sempre più con il modo in cui devono funzionare i
computer locali.
A nessuno è sfuggito il fatto che a Meshner sono stati concessi vasti
privilegi di accesso ai sistemi di Kern, cosa che lo antepone a Viola di un
paio di liste. Questo induce tutti a inarcare le sopracciglia o a sollevare i
pedipalpi, ma né Kern né Meshner sono in vena di spiegazioni e la cosa
dovrà aspettare momenti migliori.
Poi i motori intervengono a frenare l’impulso, lottando con la fisica per
avvicinarsi alla sfera spettrale che sembra non essere altro che un globo
pieno d’acqua che danza con la nave aliena in cerchi lenti. È quasi vuota,
tranne per due grovigli dall’aspetto caotico di plastica informe e angolosa,
posti uno di fronte all’altro in un vasto spazio fluido. Helena nota però che i
due grovigli sono esatte immagini speculari. Il nostro lato e il vostro.
L’opinione prevalente fra i Portiadi è che qui troveranno qualcosa di
simile alla civiltà di stomatopodi presente sul Mondo di Kern, solo
enormemente più progredita. Anche quei crostacei, a casa, sono
estremamente sensibili ai colori e in effetti, il loro apparato sensoriale
naturale ha contribuito considerevolmente alla tecnologia portiade. La
lavagna su cui Helena proietterà i suoi colorati messaggi e tutti gli schermi
negli alloggi dell’equipaggio formano, infatti, le loro immagini mediante
cromatofori modificati, miriadi di cellule di colore che si gonfiano e si
contraggono, minuscole e numerose quanto basta per produrre realistiche
immagini che si muovono.
«Quanto pensate siano grandi?» chiede Zaine, in tono cauto, perché anche
se appare minuscolo rispetto alla nave che lo ha generato, il nuovo globo
contiene comunque una notevole quantità di acqua.
Non più grandi di me, replica prontamente Portia, ed evidenza le
dimensioni del cordone ombelicale, nel quale un Portiade riuscirebbe a
stento a passare strisciando. Devono amare il mare aperto.
«C’è un problema» interviene Kern. Il tono della sua voce umana è piatto,
il che suggerisce che ha riassegnato potere di elaborazione ad altro piuttosto
che cercare di suonare come il suo vecchio io. Helena coglie però il testo
sottinteso nelle vibrazioni portiadi da lei emanate: avvertimento, ansia e la
strana sensazione di una confessione, che risulta più chiara quando lei
aggiunge: «Ho lavorato a un’arma da usare contro il nemico. Solo se le cose
dovessero andare storte, naturalmente.»
«Non chiamiamoli ‘il nemico’» suggerisce Helena, in tono quieto.
«Spero che un impulso elettromagnetico metta fuori uso i loro sistemi e ci
permetta di fuggire, dato che noi siamo molto meno vulnerabili ad armi del
genere» spiega cerimoniosamente il computer. «Quel globo esiste però solo
in virtù di un campo magnetico che potrebbe non sopravvivere a un attacco
del genere. Questo significa che i nostri ambasciatori vi entreranno a loro
rischio e pericolo.»
Sarebbe stato così in ogni caso, ribatte immediatamente Portia.
«Per quel che può valere ho quindi preparato per voi tute adatte all’acqua
o al vuoto» prosegue cocciutamente Kern.
«Buona fortuna» aggiunge Meshner, che non pare terribilmente ottimista.
Helena riesce a incontrare lo sguardo dei suoi occhi arrossati e sorride.
4

Lo chiameremo Paul, in onore della nomenclatura scelta da Disra


Senkovi. Proprio come Portia non pensa a sé stessa come a Portia ma a una
sequenza di pulsazioni vibrazionali (modificate da movimenti dei pedipalpi
a indicare l’umore e il suo relativo stato), Paul non pensa a sé stesso in
termini umani. Al contrario di Portia, non ha nessuna designazione fissa
personale. Ha un Io, un ego che guarda sé stesso e riconosce la sua
separazione dal resto dell’universo, proprio come riconosce parti distinte di
quell’universo che sono suoi affini, rivali, potenziali compagne, entità da
ammirare o da evitare. Allo stesso modo, Paul riconosce all’istante che
queste altre entità non sono fisse e che il rivale di un giorno può essere
l’amico di quello successivo. Riconosce che lui stesso è un essere mutevole
dal punto di vista tanto psicologico quanto fisico.
Emerge con cautela dal cordone ombelicale. Parti di lui sono pervase
dall’anticipazione del pericolo ma il resto è animato da pura curiosità e dal
desiderio di esplorare e di scoprire. Al suo popolo è stata presentata una
nuova sfida su cui indagare. In altre circostanze non ci sarebbe stata la
violenza di cui Paul è stato di recente testimone e a cui ha preso parte, ma al
momento il suo popolo sta affrontando molte sfide, abbastanza da far sì che
i suoi stessi membri diventino una sfida gli uni per gli altri. Quando gli
intrusi alieni hanno mandato quel messaggio, il primo segnale
comprensibile da essi prodotto, questo ha spinto la prospettiva di parecchi
fra la sua gente in una modalità difensiva. Perché? Paul non si pone la
domanda perché accetta il fatto che questi sentimenti e cambiamenti
semplicemente esistono. C’era un pericolo improvviso connesso a quella
sagoma antropoide, e alcuni dei suoi compagni l’hanno interpretata come
una minaccia. La loro... la loro Corona si è ritratta e hanno capito che
dovevano difendersi, cosa che ha indotto gli svariati nodi della loro Portata
a trasmettere quell’atto ai sistemi di bordo, come a un’estensione del corpo
e del sistema nervoso. Nel frattempo, Paul e i suoi compagni erano giunti a
una conclusione diversa, al desiderio di indagare e di capire che ha
sopraffatto il senso di pericolo, e la loro reazione è stata quella di
proteggere la Cosa Nuova dall’imminente distruzione. Da questo è derivato
il disaccordo fra navi che ha causato la morte di ventisei compagni di Paul.
Una cosa che si verifica fin troppo spesso, di questi tempi. La sua gente
vive sul filo di rasoio consegnatole dalla storia.
Tuttavia, l’improvvisata alleanza difensiva ha avuto la meglio, con uno
sfoggio di aggressività sufficiente a indurre gli assalitori a rivedere le loro
priorità e a farsi all’istante un’opinione diversa, abbandonando l’azione
ostile contro gli alieni senza ripensamenti, cosa che ha portato la nave di
Paul quaggiù, a predisporre un’arena in cui proprio lui, fra tutti, potrà
incontrare questi visitatori.
Il cordone è stretto ma Paul è malleabile e fa rotolare con facilità il corpo
morbido, comprimendo perfino il cervello, quando necessario.
Nell’immettersi nell’acqua aperta sente il bisogno di osservare le cose da
una posizione più sicura prima di avanzare. Un tentacolo si protende di sua
iniziativa a toccare il riparo che la sua gente ha creato qui e lui si insinua
nelle sue aperture, percorrendone gli irregolari spazi interni fino a quando i
suoi occhi raggiungono un buco da cui può osservare i visitatori.
Sono in due. Paul vede che uno di essi è qualcosa di simile a un granchio:
più piccolo di lui ma comunque grande quanto basta perché l’idea di dargli
la caccia lo metta a disagio. L’altro è umanoide. Paul riconosce la forma,
anche se non ha ricordi di una cosa del genere. È collegato alla sua nave, le
cui banche dati contengono un sacco di detriti che vengono passati al
vaglio. La forma di un essere umano infesta i dati degli ottopodi come uno
spettro, un uomo nero, un dio dei tempi antichi. La pelle di Paul fluttua
mentre lui cerca di elaborare queste cognizioni inconsce, pervaso da un
turbine di emozioni: meraviglia, paura, minaccia, ancora meraviglia.
E tuttavia si tratta solo della forma. Percepisce un senso di costrizione, di
una barriera fra lui e gli alieni, anche se sono separati solo da acqua. I
sensori della nave comprendono che i visitatori sono completamente
racchiusi da materiali che non sono parte di loro: tute, congegni. Paul non li
può vedere, il che significa che non può ricevere informazioni da loro come
usava fare. Nella sua mente sono come ombre e il suo umore peggiora, con
la trepidazione che riesce a erodere la sua ottimistica curiosità. Per un
momento è sul punto di tornare sulla nave e di abbandonare
quell’avventura. Dopotutto, i nuovi venuti se ne stanno lì fermi nell’acqua,
l’atteggiamento di predominio, che potrebbe essere assunto da un predatore,
invece di utilizzare il loro riparo per dimostrare cautela e umiltà.
E tuttavia vuole sapere e quella curiosità viene trasmessa come un
imperativo dalla Corona alla Portata, spingendolo fuori dalla sua nicchia e
nell’acqua, davanti a loro. La sua massa è forse la metà di quella della
forma umana, ma sembra più grande a causa della scia dei lunghi tentacoli.
Il tempo e l’originale rifiuto da parte di Senkovi di introdurre predatori che
si nutrissero di polpi hanno permesso alla sua specie di crescere
considerevolmente.
La forma umana tiene davanti a sé qualcosa di piatto e rettangolare: uno
schermo, dato che su di esso appaiono colori e forme. Per un momento,
Paul pensa che lo schermo stesso sia l’intelligenza, ma poi cambia
prospettiva e per la prima volta si collega mentalmente agli alieni,
comprendendo un tentativo di comunicare. A prima vista il contenuto in sé
sembra privo di significato, manca degli elementi di base che sarebbero
presenti anche nello sfogo emotivo di un piccolo appena nato. Un momento
più tardi rivede quell’impressione, perché la sottocorrente di dati ricevuta
dalla nave e la sua Portata gli concedono un contesto limitato. Capisce che
vengono in pace, che desiderano parlare, anche se non possono realmente
farlo. Il suo umore oscilla. Avverte un’intensa eccitazione per questa Cosa
Nuova e fluttua in avanti per indagare. Allo stesso tempo, però, con la sua
Portata che acquisisce ulteriori informazioni dalle banche dati, sente
crescere una vena di inquietudine, come se ricordasse una Cosa Molto
Brutta che non ha mai sperimentato a livello cosciente.
Gli alieni non accennano a muoversi verso di lui, e Paul decide che questo
è preferibile perché gli permette di controllare il contatto. Mentre si
avvicina, mantenendo la sua posizione nella colonna d’acqua con
occasionali emissioni dal suo sifone, parla loro nel modo più eloquente
possibile. Mentre la sua Portata segnala la sua disponibilità a Pace e
Comunicazione, Paul improvvisa un discorso che esprime gli stessi
concetti, un elegante poema scritto sulla sua pelle e nel flettersi delle sue
molte braccia. I suoi compagni, che lo guardano dalla nave, gli trasmettono
un forte senso di approvazione e di ammirazione. Alcuni sono indotti a uno
stato emotivo più elevato, e il suo occhio interno vede una cascata di
esibizioni derivate dalla sua, interpretazioni individuali, inversioni, risposte.
Sopraffatto dalla bellezza di tutto questo, si assicura che l’intera sequenza
sia immagazzinata nella memoria della nave per un esame successivo. Si
sente molto positivo, perché la sua Portata sta elaborando messaggi costanti
da quella dei suoi pari, a conferma del loro stato emotivo ottimistico. Sta
per fare qualcosa di grande! È sul punto di espandere il mondo della sua
specie incontrando questi umani e/o alieni.
Il congegno alieno riversa fuori altri colori che si uniscono in forme
semplici. Indicano cose contraddittorie riguardo all’umore-stato dei
visitatori: sono calmi; sono eccitati; sono vigili; sono pieni di desiderio
carnale. Paul capisce che questo incontro tanto importante li ha sopraffatti.
Dopotutto, anche il suo Aspetto esprime una simile serie cangevole di
umori. Poi, seguendo la traduzione effettuata tramite i centri di elaborazione
delle sue braccia, comprende che forse gli alieni non sono molto bravi a
comunicare. Tuttavia, non mostrano né aggressività né paura, e Paul
effettua un improvviso balzo cognitivo – un momento in cui ogni parte di sé
contribuisce al tutto – e vede che qui c’è un principio di condivisione. Si
stanno sforzando, e perché lo farebbero, se fossero soltanto mostri
distruttivi?
Con uno sforzo cosciente assume il controllo del proprio Aspetto,
inondando la pelle di un’ insieme piacevolmente scaltro di grigi e verdi, la
cortese faccia da poker di un diplomatico che reprime qualsiasi traccia del
tumulto interiore. Si avvicina con cautela agli alieni, anche se le sue braccia
vibrano del desiderio di toccare la sostanza di cui è fatto il loro strato
esterno, e vede cosa possono avere da dire.
Il collegamento con la nave stimola svariate parti visive del suo cervello: i
suoi compagni dell’equipaggio sono in una costante bolla cromatica di
meraviglia per questo primo contatto. Le registrazioni di questo momento
verranno studiate per secoli, supponendo che qualcuno del popolo di Paul
sopravviva tanto a lungo, cosa che al momento non è per nulla garantita.
Decide che è necessario assumere un atteggiamento adeguato. Deve
suonare una serenata per questi alieni, anche se non lo possono capire.
Come per la maggior parte delle cose fatte dalla sua mente cosciente, agisce
sul momento e per il suo gradimento personale. Paul danza.
È un buon danzatore: ha un controllo preciso sui centri di colore della sua
pelle e la sua Portata traduce i pensieri e le emozioni che desidera
esprimere, convertendole in eleganti atteggiamenti e spirali, per cui un
momento sta ondulando nell’acqua come un panno trasportato dalla
corrente e quello successivo è allargato come un pocilloporide o contratto
come il guscio di una lumaca. I due alieni, quello umanoide e quello simile
a un granchio, se non altro, lo guardano. Probabilmente non possono
apprezzare la bellezza della sua esibizione, ma lui la sente intensamente e
così pure la maggior parte dei suoi compagni che non sono inguaribili
ignoranti. Per Paul questa è la cosa giusta da fare in questo momento, e
quindi segue i suoi impulsi fino a essere abbastanza vicino agli alieni da
poterli toccare.
L’umanoide, quello dalla preoccupante forma ancestrale, solleva di nuovo
il tablet, sul quale c’è un allegro schema dai colori soddisfatti. Il messaggio
invisibile che lo accompagna, e che la sua Portata decodifica, è un codice
nave standard del Vecchio Impero che conferma di aver ricevuto assistenza,
e Paul capisce che significa qualcosa di simile a un grazie. Prova un grande
senso di realizzazione, che non riesce a non far trasparire dalla pelle.
Si protende a toccare l’alieno di forma umana, e capisce immediatamente
che è stato un errore. Per un momento quello a forma di granchio scatta in
una posizione diversa, che lui interpreta chiaramente come una minaccia, e
allora comprende: queste creature si coprono completamente. Loro non
toccano. Paul sbianca al pensiero, poi seguono i toni viola scuro del rimorso
e della compassione.
Come possono vivere così? Il momento però è passato. Tre delle sue
braccia sono ancora attaccate all’alieno (perché hanno deciso che era quello
che intendevano fare) ed entrambi i visitatori si sono calmati. Forse sono
aperti a nuove esperienze. Forse possono indursi a toccarsi a vicenda, a
esplorare le forme e le strutture del loro mondo, adesso che lui li ha
introdotti a questo nuovo senso.
I loro strati esterni sono affascinanti: durezza, morbidezza, strani sapori e
consistenze, qualcosa come pelle, qualcosa come pietra, strane leghe, forme
curiose. L’umano permette l’esplorazione, il granchio aspetta, chiaramente
teso, e Paul vede che è armato di un paio di becchi dall’aria pericolosa,
invece che di chele. Le sue braccia decidono che per il momento non si
avventureranno ancora in quella direzione, e il resto di lui è d’accordo.
La cosa sta procedendo così bene! Sarà ammirato per questo, e parte della
sua Corona pensa già a una composizione che può eseguire per dimostrare
cosa si prova a essere il primo a compiere una simile impresa.
Mentre formula quel pensiero l’intero equipaggio della nave subisce un
cambiamento di colore. Non è una comprensione cosciente, ma
un’informazione giunta ai sensori della nave e da lì alla Portata dei membri
dell’equipaggio. Nell’arrivare alla loro mente cosciente si trasforma
semplicemente in pericolo. Pericolo adesso. Pericolo collegato agli alieni.
Pericolo, tradimento, paura!
Paul si proietta all’istante lontano da loro, muovendosi a spirale attraverso
l’acqua e lasciandosi alle spalle un’oscurante nuvola di inchiostro.
Protocolli di emergenza, stanno dicendo i suoi compagni, e lui cerca
disperatamente di uscire dalla bolla prima che sia troppo tardi. È troppo
tardi. Gli alieni, che non hanno idea di cosa sita succedendo, non hanno
nessuna possibilità di reagire.
5

Avrana Kern, o il suo facsimile, sta tenendo d’occhio l’attività all’interno


della bolla, in parte visivamente attraverso la parete trasparente (che
peraltro filtra le radiazioni dannose attraverso una struttura o composizione
che lei non comprende a fondo) e in parte facendo affidamento sul feedback
di supporto vitale degli impianti interni e delle tute di Helena e di Portia,
perché se si faranno ansiose lei lo saprà, e quello è un modo di decifrare la
situazione più efficiente del tentare di analizzarlo di persona. Per il sistema
operativo che riconosce sé stesso come la dottoressa Avrana Kern, essere
umani significa spesso prendere simili scorciatoie. Dopotutto, lei è soltanto
un insieme di cavi, di formiche e di alcune attività astratte che derivano
dalle loro interazioni.
E un tempo ero solo impulsi neurali.
Sospetta che questo le apparirebbe qualitativamente differente se potesse
diventare abbastanza complessa, ma al momento è soltanto il
riconoscimento di un dato di fatto.
Tenere d’occhio la missione diplomatica non consuma molta parte della
sua attenzione e nel campo del multitasking lei è nettamente superiore al
suo esemplare antropoide: i sistemi di calcolo costituiti dalle colonie di
formiche dei Portiadi eccellono nel portare avanti sequenze di calcolo in
parallelo. Sta dedicando più tempo a studiare i segnali della civiltà aliena,
soprattutto quelli provenienti dalle tre navi, nel caso si tratti di una trappola.
Le navi trasmettono costantemente fra loro, un flusso ininterrotto di
ciarpame visivo supportato da rapporti meccanici di stato di basso livello, o
almeno è così che lei li traduce. Ha dato la caccia a un qualche significato,
servendosi degli appunti di Helena e della sua capacità di risolvere
problemi, ma è giunta a una semplice conclusione: Non stanno mai zitti.
Riflette su questo in rapporto al visitatore alieno che ha raggiunto Helena e
Portia nella bolla. Se il colore è linguaggio, allora anche lui blatera di
continuo, ma questo significa che non può confondere le acque? Quello
spettacolo di colori tale da indurre un attacco epilettico è un’esibizione
inconscia? I dati sono insufficienti. Kern intercetta segnali da più oltre,
trasmissioni frammentarie dal distante pianeta che rotola verso di loro lungo
il suo percorso newtoniano. Sta già lavorando per individuare le fonti, che
sono tutte orbitali. Forse questo chiacchiericcio costante è una risposta
primitiva al fatto che questi astronauti marini si trovino nello spazio.
C’è un altro segnale.
Kern lo elabora, poi una parte più estesa di lei lo assimila a sua volta e
subito dopo scatta un allarme perché sta cercando di vedersela con questo
singolo input, fra tanti, e questo accaparra una quantità spropositata della
sua attenzione. Per un momento ricorda che negli ultimi giorni (giorno?)
della sua civiltà c’è stato un virus che ha ucciso tutti i giocattoli e le
macchine e le menti elettroniche del suo tempo, tutto eccetto lei.
Adesso però un attacco del genere sarebbe inutile contro di lei, perché è
eseguita su una piattaforma che il vecchio virus non riuscirebbe neppure a
riconoscere e, se questi alieni hanno escogitato in così poco tempo un
vettore del genere per infettarla, le loro capacità devono essere poco meno
che divine. Irritata, si prepara a un nuovo scontro, ma il nemico non è niente
del genere. È lei stessa, e non si tratta neppure di un suo frammento
sfuggito al controllo ma della sua comprensione di chi lei sia.
C’è un singolo segnale. Prima non lo ha notato a causa del resto del caos e
perché non giunge dalle navi e neppure dal pianeta coperto dalle acque da
cui quei segnali sembrano avere origine. Proviene da un punto più interno al
sistema, viene trasmesso da un altro mondo e sta affiorando soltanto perché
le orbite combinate dei due pianeti li portano verso il punto di massima
vicinanza reciproca, per cui l’intensità del segnale cresce fino a quando la
sua stessa familiarità lo fa emergere in mezzo al generale chiacchiericcio
alieno.
Kern esegue in fretta alcuni esami poco ortodossi e giunge alla
conclusione che quel secondo mondo è in qualche misura simile alla Terra
nella sua composizione generale. Verosimilmente, lo è molto più del mondo
acquatico da cui vengono quei molluschi, quindi perché gli antichi membri
della sua razza non sono andati là? Risposta: lo hanno fatto. Risposta:
possono essere ancora là. Il segnale che riceve è privo di ambiguità nella
codifica e nella firma, ed è immediatamente traducibile perché è stilato
nella sua lingua madre, che questi Umani dell’ultima ora chiamano
‘Imperiale C’. E non si tratta di una richiesta di aiuto, né di una semplice
trasmissione automatica, anche se non è un tentativo mirato di comunicare
con lei.
Cerca di reagire. Lei, Avrana Kern, avverte un vuoto interiore che
dovrebbe contenere una reazione emotiva. Dopo così tanto tempo (e quel
suo ‘tanto tempo’ abbraccia l’evolversi di un’intera specie senziente) ha
ritrovato la sua gente, i suoi pari, nella misura in cui le riesce di ammettere
di averne, superstiti della civiltà altrimenti estinta il cui punto di massimo
splendore è stato la produzione di una certa dottoressa Avrana Kern. È
consapevole dell’impatto che una tale scoperta dovrebbe avere su di lei, e
tuttavia esso le viene negato. Tutto quello che riesce a manifestare si
rapporta a quello che dovrebbe sentire come il disegno di una faccia a bocca
aperta fatto da un bambino si rapporta a un’espressione di effettiva sorpresa.
Avverte doppiamente quella carenza, una volta perché è soltanto un misero
frammento distaccato dall’originale, e poi anche perché la migliore versione
di Avrana Kern ora disponibile per l’universo ha perso così tanto che quelle
profondità umane non sono più presenti dentro di lei.
Naturalmente, lei è un computer, quindi questo non dovrebbe avere
importanza, ma è un computer che si crede umano, quindi quell’importanza
esiste, ed è come un insolubile problema logico che consuma la sua capacità
di far fronte a qualsiasi altra cosa. Concentra una quantità sempre crescente
delle sue abilità sul tentativo di ritrovare un qualche senso genuino di
shock, di sorpresa, di gioia, quel tesoro di esperienze vere di cui fino a ora
non aveva realizzato la mancanza.
Scattano altri allarmi interni e per fortuna lei è abbastanza sofisticata –
come computer o come effettiva intelligenza, e del resto chi traccia confini
nella sabbia? – da fermarsi prima di decidere che la nave può fare a meno
del supporto vitale o di altre funzioni essenziali. Non può però dimenticare
quel vuoto emotivo, che è come una subroutine che non può abbandonare:
non ha modo di sapere cosa dovrebbe riempirlo, e tuttavia sa che là ci
dovrebbe essere qualcosa.
E così intraprende un’azione che non dovrebbe fare. Strettamente
parlando, il suo rapporto con l’equipaggio e le sue specie è di
collaborazione, e del resto i Portiadi non sono bravi a tracciare rigidi
confini, basando come fanno la loro vita sul disonore sociale e non su rigide
strutture legali. In ogni caso, Kern è dannatamente sicura che questa
particolare violazione sia qualcosa che nessuno approverà. Si collega a
Meshner tramite il suo impianto ancora aperto ed entra nel suo cervello.
Naturalmente è una totale assurdità asserire che un Umano o un Portiade
(o qualsiasi cosa vivente) usi soltanto una piccola percentuale della sua
capacità cerebrale. L’evoluzione non consiste nel mettere cose da parte per
un qualche ipotetico futuro. Meshner però potrebbe costituire un’eccezione,
e non perché sia un sempliciotto, perché non lo è. Lui però ha potenziato il
suo cervello con una grande quantità di potere aggiuntivo di elaborazione,
nella sua ricerca delle Comprensioni dei Portiadi e, se al momento non lo
sta utilizzando, di certo non vorrà negarle la possibilità di prenderlo in
prestito, vero? Kern espande le sue strutture logiche negli spazi del suo
impianto e si diffonde, cercando di provare qualcosa.
Sette secondi più tardi – un tempo molto lungo, relativamente parlando –
si accorge di essersi lasciata trasportare, perché quello è spazio emotivo.
Meshner ha specificatamente configurato il suo impianto per tradurre dati
sensoriali e sperimentali, e questo porta con sé un fardello di significato
emotivo, umano e portiade. Kern si apre alle proprie emozioni, organi periti
insieme al resto di lei molto tempo prima, e in loro assenza permette a un
facsimile di Meshner di provare qualcosa al suo posto, creando uno
scenario che potrebbe generare in lui una risposta paragonabile alla sua.
Meshner ha già risolto il problema di tradurre in qualia elettronici quel
pasticcio chimico che sono le emozioni, senza mai rendersi conto della
straordinaria scoperta fatta.
Nel far questo, Kern si imbatte in parecchi blocchi che finora hanno
frustrato i tentativi di Meshner di far fluire le esperienze portiadi in una
mente umana e, distrattamente, li rimuove. Dopotutto, lei lavora con i ragni
da più tempo di quanto abbia fatto l’intera specie di Meshner.
L’esperienza di shock, di speranza, di meraviglia e di timore supera le sue
aspettative. Le emozioni di Meshner sono una miscela che genera
dipendenza, anche se probabilmente i suoi compagni di equipaggio lo
definirebbero introverso e distaccato. Scattano altri allarmi di uso eccessivo,
e anche alcuni allarmi esterni. Kern effettua un override di sé stessa e si
distacca, uscendo dall’impianto di Meshner come un ladro che sente le
sirene della polizia.
Ora, di che disastro si tratta? Le navi? Sono ancora dov’erano. Gli
ambasciatori? Un picco di allarme da parte di Portia per un gommoso
ottopode che ha allungato i tentacoli, ma a parte questo sono illesi. La
Lightfoot? Attualmente si sta occupando della seconda terapia di emergenza
per Meshner Osten Oslam, resasi necessaria in tempi recenti.
Kern corre subito ai ripari, comparando l’attività neurale di Meshner (che
si sta riprendendo) con la propria esperienza di trovarsi nel suo impianto, e
giunge a una conclusione estremamente imbarazzante ma inevitabile, di cui
dovrà discutere con Meshner e probabilmente con l’intero equipaggio. Al
momento loro stanno incolpando di nuovo Meshner dell’accaduto e questo
non è del tutto giusto ma Kern ritiene che chiarire le cose mentre sono
impegnati nella diplomazia di un primo contatto sarebbe controproducente.
Inoltre, deve trovare un modo di formulare la propria confessione che le
permetta di rifare quella cosa proibita, perché è stata... si avvicina a sé
stessa, perché sa che dovrebbe provare qualcosa riguardo all’esperienza
avuta nel cervello di Meshner, ma tutto quello che trova è l’insoddisfacente
consapevolezza che è stato un evento appagante dal punto di vista
intellettuale, il che non è la stessa cosa.
Siccome la sua attenzione è adesso quasi tutta concentrata su queste cose,
lascia che l’impulso istintivo di rispondere al segnale in Imperale C segua il
suo corso e manda un semplice Messaggio ricevuto.
Un momento più tardi, tutto va a rotoli.
6

Un momento prima l’ottopode è davanti a lei, molto più vicino della


lunghezza del suo braccio, mentre esplora con curiosità la sua tuta, le parti
dure e quelle morbide, i diversi materiali. Helena osserva il suo occhio, con
la pupilla che si allarga da una barra orizzontale a una chiazza irregolare a
mano a mano che la esamina. Non ha la sensazione di un contatto visivo
perché l’attenzione dell’ottopode è concentrata a esaminarle il corpo,
mentre il suo pulsa di colore con lenta dignità. Mentre per lui io sono muta.
Il tablet è ancora proteso ed è chiaro che la creatura nota i messaggi che lei
ha messo insieme. A tratti, il riflesso spettrale di uno dei suoi segnali
scivola sulla pelle dell’ottopode. Ha ricevuto il messaggio, ma ci sta
capendo qualcosa? Tuttavia, si sente stranamente in pace a fluttuare in
quella bolla di energia e acqua, là fuori nello spazio vuoto. Non avverte
nessun senso di minaccia nella creatura, anche se Portia le borbotta
all’orecchio, una trasmissione solo elettronica che trasmette la generica
contrarietà del ragno di fronte alla natura tattile dell’approccio del loro
ospite.
Poi cambia qualcosa. Emanando colori che Helena sa significano
agitazione e paura, l’ottopode si proietta lontano da loro nel tentativo di
fuggire sulla sua nave. Lei si sente avanzare pesantemente nell’acqua,
riluttante ad attivare i propulsori e a ritirarsi senza prima aver capito
qualcosa di più. Una babele di voci allarmate arriva dai suoi colleghi a
bordo della Lightfoot.
L’inchiostro si dissolve e lei vede che l’ottopode è ricaduto lontano
dall’uscita, con la pelle ora di un pallore mortale irto di punte e di corna. Al
di là della membrana trasparente della bolla l’universo vortica, o meglio lo
fanno le grandi e pesanti bolle delle navi aliene, il che significa che sono
loro a ruotare, disconnesse dal cordone ombelicale.
Helena agita le braccia nell’acqua per girarsi e cercare la Lightfoot,
riuscendo a intravederla prima che il monolitico lato ricurvo di una delle
navi aliene gliela nasconda alla vista. Intrappolati. E in una bolla.
Quell’ambiente, che un attimo prima le appariva del tutto immoto e sicuro
adesso le sembra soltanto un sogno che potrebbe svanire nel momento in
cui un qualche enorme essere si desterà. «Portia...» comincia, ma il ragno la
interrompe.
I segnali elettromagnetici fluttuano all’impazzata.
Galleggiando nel centro del suo piccolo universo acquatico, per un
momento Helena non riesce a capire cosa questo significhi. Un qualche tipo
di arma che dalle navi aliene fa fuoco su di loro attraverso le pareti
invisibili? Poi comprende quello che le sta mostrando la sua stessa
strumentazione. Attualmente c’è un particolare problema con campi
elettromagnetici instabili, ed essi sono quelli che formano l’esterno della
bolla.
«Oh...» dice, perché proprio mentre assimila questa rivelazione vede
alcune crepe formarsi all’esterno della bolla, come se fosse fatta di vetro.
No, non si tratta di crepe: si espandono verso l’esterno da punti di origine su
tutta la membrana, splendidi, dendritici, come fiori tremolanti che
scintillano nella luce delle navi e della stella del sistema.
Rimane lì sospesa nell’acqua, impotente in ogni possibile modo, e guarda
gli strati esterni della sfera piena d’acqua cristallizzarsi fino a diventare
ghiaccio, fino a quando l’universo non è velato e un pallido guscio non
racchiude l’intera bolla, facendosi più spesso a ogni momento che passa,
scricchiolando e formando crepe nell’espandersi in modo confuso, lance e
schegge di acqua rigida che affondano nell’interno come radici, generando
nuovi rami, come alberi. È come una foresta, con punte affilate come rasoi
che si protendono, si dividono e crescono di continuo, sempre verso
l’interno. Il freddo la raggiunge attraverso la tuta, il gelo dell’acqua che
dissolve il calore prezioso del suo corpo.
Chiama ancora Portia, sente le zampe del ragno incurvarsi intorno al suo
corpo e il suo ventre che le aderisce alla schiena nel vano tentativo di
conservare calore. Entrambe le tute lottano per contrastare il gelo. Unità di
riscaldamento che avrebbero potuto far fronte al gelo isolato dello spazio
perdono la battaglia contro quello conduttivo dell’acqua vorticante, e le
punte di lancia della foresta in crescita si vanno facendo sempre più vicine.
Helena avverte un’altra pressione intorno alle gambe e le lampade sul
casco le mostrano l’ottopode, ancora bianco quanto il ghiaccio stesso,
aggrappato a lei: un’altra creatura vivente condannata che cerca calore e
sollievo in questi ultimi momenti.
Il display del casco le dice il momento esatto in cui il riscaldatore della
tuta si arrende, prima del tempo: scarso tempismo, cerca di fare meglio la
prossima volta.
Helena non si era resa conto di quanto esso stesse lavorando per ripararla
dal freddo. Mentre una qualche parte scientifica della sua mente protesta.
Non è possibile perdere calore tanto in fretta, ci stanno facendo qualcosa,
non è naturale... Il freddo si protende ad avvilupparla in un abbraccio tanto
stretto che non può respirare. Sulla sua schiena sente Portia tremare,
serrando maggiormente le zampe, poi non avverte più neppure questo nel
perdere il contatto con il proprio corpo, intorpidita fino all’insensibilità. Il
suo cuore rallenta i battiti.
La luce si spegne.
7

Il passaggio dalla calma al caos avviene senza preavviso. I dati relativi a


Helena e a Portia sono rimpiazzati da avvertimenti che le navi aliene si
stanno mettendo in movimento e che gli armamenti si stanno attivando
lungo gli scafi ricurvi. La Lightfoot si sta già allontanando – non che quella
poca distanza possa fare qualche differenza – e sta approntando misure
difensive. Uno schermo fornisce la quantità di massa disponibile che può
essere usata come sostanza antimissile o per assorbire l’energia dei laser,
quantità che è diminuita in maniera allarmante dal loro primo scontro.
Meshner, che non è in condizione di contribuire alla difesa, spera che
quantomeno la Voyager li stia osservando in qualche modo.
Qualcuno dovrebbe almeno imparare qualcosa da questo pasticcio.
Gli alieni – gli ottopodi, o quel che sono – sembrano estremamente
volubili. Dopo la crisi che ha avuto è disposto ad accettare il fatto di essersi
perso qualche sfumatura ma pare che tutti siano stati colti altrettanto alla
sprovvista. L’altra parte è passata da una cauta diplomazia a una completa
formazione da battaglia in un batter d’occhio.
«Sta arrivando un’altra nave?» gracchia. «Prima combattevano gli uni
contro gli altri.»
«Nessun’altra nave, Meshner» replica Kern, nel suo orecchio,
mostrandosi stranamente sollecita.
Fabian scandisce un nuovo messaggio che Artifabian traduce come: «La
bolla ha perso il suo campo.»
Per un momento Meshner non riesce a capire cosa significhi, poi lo
stomaco gli si contrae. Se glielo chiedessero, direbbe che i suoi rapporti con
Helena e Portia sono distaccati quanto è possibile su una piccola nave, ma
in quel momento scopre che la prospettiva di perdere altri compagni è
eccessiva. Barcollando raggiunge una consolle, richiama a schermo alcune
informazioni mentre già comincia a mettere insieme un qualche folle
tentativo di salvataggio per tirare fuori le due dal ghiaccio in rapida
espansione nel loro habitat. Esso però si espande in modo regolare, non si
sta disperdendo. La superficie liscia e perfettamente rotonda della bolla è
adesso un irregolare caos tettonico, a mano a mano che placche di acqua
ghiacciata urtano le une contro le altre, frantumandosi in catene montane in
miniatura, crepandosi e infrangendosi, sputando nel vuoto spirali di cristalli
e di vapore acqueo. Il tutto però rimane miracolosamente intatto. Due delle
navi aliene si sono poste in una solenne orbita opposta intorno alla sfera più
piccola – o una intorno all’altra con la sfera di ghiaccio intrappolata fra loro
– e negano così alla Lightfoot qualsiasi possibilità di raggiungerla. La terza
nave sta eseguendo una manovra molto lenta per permettere alle altre di
avere una linea di visuale libera fino a loro.
«I segnali abbondano, per quel che può servire» commenta Zaine. Adesso
tutte le navi mostrano irregolari immagini rosse su sfondo bianco, venate di
nero e di un viola funereo, e nessuno ha dubbi sul loro contenuto emotivo.
La successiva affermazione di Viola rimane senza traduzione perché al
momento Kern e concentrata su un sacco di cose. Meshner intuisce però che
Viola sta semplicemente ribadendo ciò che è ovvio: le armi sono tutte
attive, ma gli alieni non stanno attaccando o lanciando i caccia. Invece,
hanno in qualche modo messo al sicuro la sfera di ghiaccio fra due di esse –
non ci sono cavi visibili, ma i sensori elettromagnetici forniscono dati
assolutamente contrastanti – e il tutto comincia ad accelerare per
allontanarsi a passo di lumaca in direzione del pianeta più vicino, il mondo
acquatico.
Meshner punta tutti gli strumenti sulla sfera di ghiaccio, scandagliandola
in cerca di informazioni. Sono ancora vive? Non ottiene una risposta chiara.
Sarebbe portato a supporre che siano state schiacciate dal ghiaccio, se non
fosse che gli alieni sono chiaramente intenzionati a conservare la loro
preda, e intuisce che non si tratta soltanto di un trofeo a indicare il trionfo
sugli invasori.
«Missili lanciati» annuncia con calma Kern. «Sto adottando contromisure.
Accertatevi di avere le cinture allacciate. Soprattutto tu, Meshner.»
Lui si acciglia a quel commento, perché prima di allora Kern non è mai
stata un tipo materno, ma d’altronde ha ragione a essere cauta. Con sua
ulteriore irritazione, Fabian insiste per aiutarlo con le cinture. Del resto,
quando cerca di fare da solo scopre che le mani gli tremano al punto da non
poterle usare.
«Credo di essermi fottuto il cervello» sbotta.
Le navi e il loro carico congelato sono ora avviati, la loro compagna si sta
spostando pesantemente fra loro e la Lightfoot. La rete di sostanza espulsa
da Kern ha intercettato una manciata di missili, ma le navi non hanno
lanciato i velivoli più piccoli o intrapreso un attacco totale. Pare che il
panico iniziale si stia calmando: i segnali sono ancora rossi e bianchi, ma
cominciano ad affiorare altre tonalità.
«Ci stanno dicendo qualcosa» riferisce Zaine. «È come... Non so...
Potrebbero essere in atto degli ammutinamenti? È come se là ci fossero
persone diverse che stanno acquisendo il controllo del timone.»
«E ci dicono qualcosa che non possiamo capire» si lamenta Meshner. «A
che serve?»
«Ho il lavoro fatto da Helena sulla traduzione» dice Kern, che di colpo
suona molto meno umana perché nel suo tono niente ammette che Helena
sia perduta. «Farò quello che posso e vi invito a fornire altre prospettive.
Tuttavia, i dati tecnici hanno una connotazione che indica-a-a-a...» E si
interrompe, strascicando la parola, mentre cerca di calcolare cosa lei stessa
abbia inteso dire.
«Si allontanano sempre di più!» Le parole di Viola, tradotte da Artifabian,
corrispondono all’agitarsi delle sue zampe.
«Ci stanno avvertendo di stare alla larga» suppone Zaine. «Se decideremo
di inseguirli potrebbero farci fuori in fretta. Ci rimangono ben poche
risorse.» Una pausa. «Mi dispiace, non voglio abbandonarle, se c’è una sola
possibilità di salvarle, ma... state vedendo gli stessi dati che vedo io.»
«I loro dati tecnici includono le coordinate del pianeta interno successivo»
afferma Kern, limitandosi a fornire l’informazione in tono piatto.
«In che modo questo è rilevante?» chiede Viola.
Meshner fissa la mappa sullo schermo, vede la distanza aumentare, con la
palla di ghiaccio e la sua scorta che continuano ad accelerare. Mi dispiace
Helena. Mi dispiace, Portia.
«C’era un segnale» aggiunge Kern, sempre con la sua faccia di bronzo, e
adesso quella mancanza di affetto diventa sospetta. Meshner sente
l’impianto vibrare di nuovo e si aggrappa alle cinghie nel caso che stia per
arrivare un’altra crisi.
«Fabian,» dice «la mia... testa è aperta. Credo...»
Fabian agita i pedipalpi in un movimento abbastanza comune da far sì che
Meshner ne conosca il significato. Sì, ma non ora.
«Parlaci di questo segnale» chiede Viola.
«C’era un segnale» ripete Kern. «Era in un formato antico, a me familiare
dal tempo in cui ero umana. Non era come quelli inviati da queste creature e
proveniva dal pianeta interno.» Gli schermi presentano i dati a integrare le
sue parole, inclusa una registrazione del segnale stesso, o di una sua parte.
Non c’è inizio né fine, soltanto un irregolare frammento di trasmissione in
Imperiale C che dice...
Meshner socchiude gli occhi. Riesce a tradurre abbastanza bene
quell’antica lingua, ma cosa sta leggendo? Ci sono anche file video ma la
trasmissione di base è un frammento di...
«Un testo di storia naturale?» si chiede, perplesso. «Oppure... una storia di
fantasia? Questo è tutto...» Esamina i dettagli di biochimica, di ecologia, la
descrizione di animali impossibili, di piante o di cose che non rientrano in
nessuna delle due categorie o in entrambe. «Perché qualcuno dovrebbe...»
«Cos’è questo? Quanto è rilevante?» domanda Viola.
«Il cambiamento nell’atteggiamento dei locali si è verificato subito dopo
che ho accusato ricevuta del segnale» spiega Kern. «Credo sia stato quel
contatto a convincerli che eravamo ostili. Suggerisco che essi associno gli
umani a una minaccia a causa di una qualche situazione preesistente qui in
questo sistema. Adesso ci mandano minacce o avvertimenti che sono
associati a quel pianeta interno.»
«Credi che là ci siano degli umani?» chiede Zaine, incredula.
«Umani che mandano... questa roba?» aggiunge Meshner, che sta ancora
leggendo. «Questo è...» Incredibile. Oppure sono assurdità.
«Ritengo che stiamo ricevendo un segnale da qualcosa che mi somiglia»
annuncia Kern, e Meshner si chiede se il suo tono leggermente nervoso sia
frutto della sua immaginazione. «Non credo che questo sia un contatto
diretto con esseri umani, ma mi pare che ci possa essere un sistema ibrido
umano-macchina che sopravvive qui, proprio come sono sopravvissuta io.
Forse in passato ha agito in maniera ostile verso questi altri locali che
paiono averne paura, ma è possibile che parli con noi. Può darsi che ci aiuti
a recuperare i nostri compagni... se sono ancora vivi.»
Perché dovrebbero esserlo? Meshner però non lo dice ad alta voce. Kern
è una cosa, un sistema operativo, e tuttavia in quel momento è certo di poter
avvertire in lei un desiderio, quasi come se venisse da lui stesso. Trovare
qualcosa che ti somiglia, dopo essere stata unica per diecimila anni. Ha
sempre avuto l’impressione che Kern apprezzasse essere qualcosa di
singolare, ma forse solo perché non aveva mai avuto alternative.
«Non abbiamo altra scelta» borbotta Viola. «Se però questa è una forza di
cui le creature acquatiche hanno paura, ci potrebbe fornire un potere di cui
abbiamo estremo bisogno. E loro stanno decisamente cercando di
allontanarsi, quindi tanto vale andare a parlare con questa voce e vedere se
riesce a sentirci. Chiunque sia.»
«C’è l’identità del mittente» interloquisce Kern. «Sostiene di chiamarsi
Erma Lante.»
Passato 3
Perché siamo molti
1

Disra Senkovi ha dormito a stento da quando si è trovato faccia a faccia


con i suoi animali.
Perché?
Se si soffermasse a considerare la questione scientificamente, potrebbe
rimuovere da quell’interrogativo ogni antropomorfismo e trasformarlo in
qualsiasi errore o significato neurale desiderasse. Il pensiero scientifico ha
sempre cercato di evitare di impartire un significato umano alle espressioni
animali, una pratica che Senkovi ha sempre ritenuto essere comoda quando
affiorava l’argomento dei test sui prodotti cosmetici. Avrebbe potuto fare
sue le tesi di Skinner e decidere che non c’era una mente dietro quell’occhio
dalla pupilla orizzontale che Paul aveva rivolto verso di lui. L’impulso ad
agire così era sorprendentemente forte per un uomo che aveva sempre
pensato che ci fosse un mondo di estrema saggezza racchiuso nel corpo dei
polpi, ma trovarsi faccia a faccia con qualcosa di alieno, anche se si tratta di
alieni terrestri, è stata un’esperienza tale da scuotere la sua fede.
Però ha vinto quell’impulso, decidendo che c’era una linea di
comunicazione diretta, anche se solo di tipo estremamente ampio e
generico. Non poteva sapere se Paul si era soltanto lamentato dei compiti
assegnatigli o se esigeva di apprendere lo scopo del suo creatore, quindi
avrebbe risposto contemporaneamente a tutte le domande fornendo a Paul e
agli altri una spiegazione franca e completa di quello che stava succedendo.
Non riguardo alla Terra, all’umanità, al suo stesso passato o all’intento
della missione originale, ma riguardo a Damascus, il pianeta azzurro, dove
vivevano già parecchi parenti di Paul che andavano alla deriva lungo le
affidabili correnti marine e di tanto in tanto scendevano sulle
apparecchiature di terraformazione per modificarle... si sperava secondo i
piani dello stesso Senkovi.
Adesso intendeva cambiare il suo approccio alla cosa. Avrebbe ancora
chiesto al sistema di segnalare i problemi di cui prevedeva l’insorgere,
soprattutto nella forma di avvertimenti riguardo a condizioni negative.
Ormai la macroterraformazione di Damascus era quasi completa e c’era un
robusto ecosistema con ridondanze multiple e la necessaria diversità, tutte
quelle piccole vite generate attingendo alla biblioteca genetica della Egeo.
Rimaneva però da svolgere il lavoro di precisione. ‘Mondo oceanico’ era
una definizione che si riferiva a una vasta gamma di ambienti diversi, molti
dei quali inospitali tanto per gli umani quanto per i polpi. Gli strumenti per
affinare e modellare erano tutti laggiù, insieme a incubatrici mobili per
continuare a elaborare la catena alimentare, ma c’era un punto al di là del
quale non avrebbe potuto fare tutto da solo.
Perché?
Avrebbe mostrato loro il perché. Adesso aveva passato quasi
centocinquanta ore al computer della Egeo, drogandosi fino agli occhi per
fare a meno di dormire e richiedendo una quantità notevole dell’attenzione
della nave per modellare il tutto. Avrebbe fornito ai suoi animaletti il
mondo in miniatura, un’immagine completa del progetto Damascus,
mostrando loro quello che potevano avere e come lo potevano modellare, se
volevano. E nel modellare il pianeta per i loro scopi proteiformi avrebbero
portato a termine la terraformazione di un mondo abitabile per gli esseri
umani, anche se nella sua mente esso era innanzitutto per loro.
Aveva già cominciato a fornire sezioni di codice, ampliando il mondo che
Paul e gli altri avevano modo di vedere. Gli strumenti registravano l’intensa
attività dei polpi nelle vasche della Egeo, mentre pulsavano e tremolavano
di colori oppure si avvinghiavano fra loro in brevi lotte violente che
cessavano quasi all’istante. Virtualmente, stavano esplorando. Poteva
tracciare la loro presenza all’interno dei sistemi che costruiva per loro. Non
avrebbe mai potuto sapere cosa ci capissero – o se capissero qualcosa –
perché fra loro ci sarebbe sempre stata una barriera. Non poteva sapere
com’erano le cose per loro. Se un leone potesse parlare, sosteneva il detto,
noi non riusciremmo a capirlo.
Tuttavia Paul aveva parlato, e lui aveva scelto di assegnare un significato
a quelle parole.
Perché?
Senkovi era consapevole che a questo punto non stava più agendo in
modo del tutto razionale. La parte ossessiva della sua natura, che non era
mai stata lontana dalla superficie, lo spingeva lungo strade buie nel cuore
della notte.
Il sistema stava ancora mettendo insieme tutti i pezzi, ma alla fine dovette
accettare il fatto che il suo input era completo e concluso. Poteva rivedere la
simulazione ultimata, ma invece ordinò al computer di continuare a fornire
ai suoi animaletti nuove sezioni in modo da ampliare i loro orizzonti perché
sentiva che, alla fin fine, era tutto quello che poteva fare. Era arrivato al
Settimo Giorno e le droghe non potevano sorreggerlo oltre.
Proprio mentre si staccava dal sistema, richiedendo un particolare cocktail
farmaceutico che lo sedasse quanto bastava per permettergli di dormire,
vide che aveva diciassette messaggi di Baltiel, tutto contrassegnati con un
livello di urgenza tale che non avrebbe dovuto essere in grado di metterli in
secondo piano, cosa che però pareva aver fatto. Con una certa esitazione e
la sensazione di essere nei guai, controllò il primo e scoprì che era successo
qualcosa a Lortisse.
2

Nessuno aveva risposte sul perché quella testuggine avesse trafitto


Lortisse. Quando lo riportarono nell’habitat era già in grave stato di shock.
Lante passò quattro ore a lavorare, spingendo al limite le risorse del
laboratorio medico soltanto per impedire al suo corpo di spegnersi,
soprattutto assumendo il controllo delle parti del suo sistema nervoso che
cessavano di funzionare e gestendole praticamente a mano finché non si
rimettevano in carreggiata. Dopotutto questo, le sue condizioni non si
potevano ancora definire ‘stabili’, ma le costanti attenzioni dei sistemi
medici erano sufficienti a mantenere cervello, cuore e corpo entro i limiti di
tolleranza necessari a garantire che vivesse, e che quello che viveva fosse
ancora Lortisse.
La risposta inattesa trovata da Lante fu la natura della sostanza che
l’alieno gli aveva iniettato.
Una volta che le condizioni di Lortisse non richiesero più un suo costante
intervento, Lante si incontrò con Baltiel. A quel punto era riuscita a estrarre
dal suo flusso sanguigno un piccolo campione di materiale e a fare un
controllo incrociato fra esso e il database.
«Ricordi il cimitero delle testuggini?» chiese, mentre richiamava a
schermo alcuni file quasi con noncuranza e li scaricava nell’area virtuale
comune perché Baltiel li raccogliesse: registrazioni di dissezioni, i suoi diari
vocali, annotazioni incomplete sulla vita aliena che erano un esercizio di
speculazione.
Baltiel esaminò in fretta i fatti: un insieme di una dozzina di testuggini
apparentemente morte o in uno stato di profondo torpore; Lortisse le aveva
portate tutte nell’habitat perché quello sembrava un altro strano
comportamento che avrebbe potuto aiutarli a scoprire qualcosa di più, solo
che non era stato così. Erano rimaste inattive, e il bassissimo livello di
attività biologica riscontrato da Lante sarebbe potuto equivalere a uno stato
di ‘morte’ su Nod. Quel confine non era poi così netto neppure nella
biologia terrestre. La cosa su cui Lante aveva continuato a indagare – e che
all’epoca era parsa una cosa decisamente strana – era che tre delle dodici
contenevano un denso fluido opaco nella sacca centrale, che di norma era
piena soltanto di un fluido molto simile all’acqua stagnante della palude.
Baltiel vide che a destare il suo interesse era stata la supposizione – un vero
volo pindarico – di aver trovato una qualche differenziazione di sessi nella
vita nodiana, ma la ricerca non era approdata a nulla. Tutte le specie
studiate sembravano praticare la riproduzione sessuale senza sessi
diversificati, scambiando semplicemente gameti (il che aveva dato a Lante
l’imbeccata per scrivere del ‘sesso parassitico del maschio’ nell’evoluzione
sulla Terra e di svariati altri suoi chiodi fissi). Non era stata in grado di
dimostrare che quel liquido avesse qualcosa a che fare con la riproduzione,
ma esso era molto denso rispetto alla maggior parte del materiale cellulare
nodiano, con l’interno delle pareti delle sue cellule simile a un labirinto per
via delle complesse strutture molecolari. Per quel che era stata in grado di
determinare, quella era genetica nodiana, ma se era così quella roba era o
molto complessa oppure un genoma altamente inefficiente.
Quella sostanza era ciò che la testuggine aveva iniettato a Lortisse. Baltiel
sentì incombere la minaccia dell’insorgere di un’emicrania quando pensò
che Lante stesse per parlare di rituali di accoppiamento e sottintendere che
quella dannata cosa era stata l’equivalente del cercare di farsi la gamba di
Lortisse, ma lei era passata a ipotesi più cupe.
«Credo che quelle testuggini fossero malate» spiegò in tono piatto. «Che
quella sostanza sia un’infezione, un qualche tipo di equivalente fungino o
batterico che si trova nella popolazione delle testuggini. L’iniezione ha
attraversato la tuta di Lortisse come se fosse stata fatta di carta, ma questo
non è sorprendente se la testuggine si aspettava di dover trapassare un
guscio. Dopo aver esaminato i miei dati, penso che possa perfino trattarsi di
qualcosa di simile a funghi mucillaginosi, un insieme di cellule che possono
agire all’unisono. Quantomeno alcuni agglomerati di quella roba sembrano
rimanere uniti all’interno del corpo di Lortisse.»
«E cosa gli sta facendo?» domandò Baltiel. «Lo sta... infettando?»
«Non può» insistette Lante. «Non è possibile, perché nel corpo di Lortisse
non c’è niente che quella roba, per come si è evoluta, possa utilizzare. Le
sue proteine, strutture e organi sono tutti alieni per questa cosa, come Nod
lo è per noi. Quello che però può fare è scatenare una massiccia reazione in
tutto il suo organismo, perché il suo sistema immunitario è in overdrive.
Non sono in grado di fare niente riguardo alla sostanza che ha in corpo. Ho
appena passato ore a impedire a Lortisse di uccidersi tramite uno shock
anafilattico autoindotto, e la lotta non è finita. Quella sostanza viaggia per il
suo organismo, e non va soltanto dove la porta il sistema circolatorio. Credo
stia cercando di fare quello che di norma fa a un nuovo ospite, cosa che
ovviamente non è in grado di fare, ma si sparge, si sposta e... e credo cambi
la sua struttura esterna, per cui Lortisse continua a reagire alla sua presenza.
Sono necessarie tutte le nostre risorse solo per impedire che la sua
temperatura corporea salga fino a cuocerlo, che i tessuti non si gonfino fino
a scoppiare e – oh, Dio, i suoi polmoni – li ho già ricostruiti due volte da
zero perché si gonfiano come...» Lante si interruppe e per un momento si
limitò a fissare Baltiel mentre il peso di una grande stanchezza le scivolava
addosso, senza dubbio aiutata da quelle stesse droghe con cui lui sapeva che
in quel momento anche Senkovi stava giocando. «In ogni caso, registrerò
un rapporto completo, ma tutto quello che abbiamo è lì.»
«Prognosi?»
«Che cazzo ne so» ammise francamente Lante. «Credo che il materiale
invasivo soffra di attrito prodotto dalla reazione immunitaria di Lortisse,
quindi se non altro lui non si sta soltanto uccidendo. L’esito migliore è che
lui lo consumi, si calmi e torni fra noi. Se non altro, gli esami cerebrali
suggeriscono che non ci siano ancora danni al cervello, ma questo potrebbe
cambiare.» Lei lo fissava con uno sguardo diretto e stanco. «Questo cambia
tutto, Yusuf.»
«È un contrattempo.»
«Il pianeta ci ha attaccati» gli fece notare lei. «E sì, non sto attribuendo a
questo atto un qualche intento malevolo, ma è successo. Abbiamo dato
questo posto per scontato, con le sue creature dall’aspetto primitivo e i suoi
ecosistemi all’apparenza semplici. E non sapevamo la metà di quello che
era necessario sapere.»
«Forse lo avremmo saputo, se avessi continuato a fare ricerche su questa
sostanza la prima volta che l’hai trovata» ribatté Baltiel, prima di riuscire a
trattenersi.
Lante sbatté le palpebre, incassando il colpo in modo molto placido,
anche se forse stava soltanto smaltendo l’effetto delle droghe. «Adesso
andrò a dormire. Rani è nella sezione medica e può difendere il fortino se
dovesse succedere qualcosa prima che tu mi possa svegliare. Allora
registrerò un rapporto completo.» Si alzò, barcollando leggermente. «E se è
a questo che nei momenti di stress si riduce la tua vantata capacità di
comando, Yusuf, faresti meglio a pensare a che cosa servi.»
In sua assenza, dopo che se ne fu andata, Yusuf rifletté che aveva ragione,
ma non trovò un modo accettabile di ritrattare le proprie parole. Più o meno
a quel punto, infine, Senkovi rispose a uno dei suoi molti messaggi,
dandogli almeno qualcuno che non fosse sé stesso su cui sfogare un’ira
giustificata.
3

Noi
Abbiamo scoperto
Ambienti così ostili, e tuttavia
Così complessi ed elaborati e strani, diversi da
Qualsiasi cosa abbiamo esplorato prima. Geometrie dell’universo
espresse in queste svolte che si diramano e motori intrecciati. Che mondo è
questo in cui ci siamo imbattuti.
Che mondo, e tuttavia cerca di ucciderci. Brucia, bolle, soffoca,
intrappola. Cambiamo e cambiamo per trovare una struttura e una forma
che resista in questo regno.
Noi
Viaggiamo precedendo sempre il clima violento di questo posto, le
strutture che sono e non sono vita. Lottiamo per sopravvivere e al tempo
stesso per comprendere dove ci siamo ritrovati. Il mondo che abbiamo
lasciato è ridotto agli atomi scritti dentro di noi, un sapere che Questi-di-
Noi non hanno più bisogno di conoscere. Un nuovo universo richiede nuove
leggi.
Noi
Ci dividiamo e dividiamo, spedizioni mandate verso le distese più lontane
dell’infinito per sondarne i confini. Moriamo in un migliaio di modi ma c’è
sempre un superstite, carico del sapere scritto dentro Uno-di-Noi in modo
che il Resto-di-Noi possa apprendere e crescere. Combattiamo contro
questo cosmo complesso e bloccato. La sua guerra mira a distruggerci, a
ridurre la nostra struttura a una qualche scoria liscia che esso possa far
vorticare via nella distruzione. La nostra guerra è di capire, perché con la
comprensione viene il dominio.
E finalmente Questi-di-Noi, i superstiti, gli esploratori, trovano la calma
nell’occhio della tempesta. Altri-di-Noi hanno seguito altri sentieri e
adesso sono scomparsi, soltanto le loro ultime testimonianze spedite
attraverso i fiumi precipitosi di questa immensità arrivano fino a noi, piene
degli avvertimenti dei morti: non venite qui, fa troppo caldo per mantenere
coesione; non venite qui, vi seppellirà.
Ma Questi-di-Noi, questi superstiti, hanno seguito i lampi di questo posto,
il corso precipitoso dei suoi fluidi appesantiti dal ferro, fin dove possiamo
arrivare. Abbiamo trovato la fonte? È questo il compito che l’universo ha
assegnato a Quelli-di-Noi abbastanza audaci da avventurarsi in questo
regno?
Noi
Abbiamo trovato la fonte del fulmine, e nel pulsare e nello shock di quel
grande centro di energia e di fuoco Questi-di-Noi hanno scoperto qualcosa
che trasforma tutte le complessità di questo nuovo regno in idee vecchie e
noiose.
Noi
Sediamo.
Noi
Percepiamo.
Lentamente, nell’arco di generazioni, Questi-di-Noi scrivono la nostra
storia dentro di noi e giungono a capire.
4

L’habitat non aveva bisogno di un’infermeria ma Lante aveva comunque


installato le necessarie procedure. Lortisse era stato trascinato all’interno
con tutta la tuta, puntura inclusa, e tirato fuori dall’indumento per le cure
d’emergenza solo in un secondo tempo. La quarantena che lei aveva
instaurato più tardi era probabilmente inutile, ma per ora il paziente era del
tutto isolato dal resto di loro, respirava una sua scorta di aria filtrata, e
Lante entrava soltanto indossando una tuta, per poi disinfettarsi all’uscita.
Anche questo però non arrivava a essere ciò che un reparto per malati infetti
avrebbe dovuto essere. Non avevano l’energia e le materie prime per la
distruzione costante di componenti. In base ai suoi studi su quel liquido
invasivo, tuttavia, Lante era certa che fosse troppo denso per diffondersi per
via aerea.
Baltiel era consapevole dei vuoti presenti in quegli studi e del fatto che
stavano contrastando una minaccia aliena. Quella dannata sostanza si
poteva trasformare senza preavviso in una qualche forma simile a spore,
poteva diventare qualcosa che i filtri non erano in grado di individuare. E
loro non lo sapevano. Il fascino che l’ecosistema alieno là fuori esercitava
su di lui si era guastato nel momento in cui avevano portato dentro Lortisse.
Adesso però era sveglio.
Con l’occhio virtuale del suo HUD cibernetico, Baltiel lo guardava mentre
gli parlava. La sua pelle lo faceva sembrare una vittima di ustioni che fosse
stata percossa con un bastone, cosa dovuta al calore della febbre e
all’estremo gonfiore dei tessuti che aveva subito al culmine della reazione
allergica, quando il suo corpo contraeva una cellula contro l’altra fino a
farne scoppiare le pareti. E tuttavia quella era una cosa a cui potevano
rimediare. Lo avevano riempito di catalizzatori e di nanomacchine
rigeneranti. Il mero trauma fisico era decisamente riparabile adesso che lui
non rischiava di morire da un momento all’altro.
I suoi occhi si muovevano, come pure la bocca, la lingua sembrava troppo
grande. Le estremità delle dita sussultavano, ma non era in grado di
compiere movimenti più marcati, soprattutto con la gamba rovinata che era
stata il punto focale dell’attacco. Baltiel cercò di estrarre un significato
dalle sue risposte impastate. Lante intanto stava facendo un inventario di
come lui si sentiva, alla ricerca di sintomi negativi. Era chiaro che Lortisse
si sentiva orrendamente, ma Lante sembrava soddisfatta che le sue
lamentele attuali potessero essere attribuite ai danni già subiti e non ad altri
che si stavano verificando. Quando ebbe finito gli rivolse un rapido
commento sul fatto che in dieci giorni sarebbe stato di nuovo in piedi e uscì.
Seguì la frustrante attesa della decontaminazione, perché Lante rifiutava
di essere interrogata durante quella procedura. Non si rischiava di sbagliare
affermando che Yusuf Baltiel non era la sua persona preferita da quando era
cominciata tutta questa faccenda. Al di fuori dello spazio della sua
improvvisata corsia di ospedale, aveva per lui ben poco affetto.
«Hai visto la lista di controllo e anche la prognosi» gli disse.
«Sì» rispose Baltiel. Quei dieci giorni non erano stati solo un modo di
indorare la pillola al paziente. Anche con la limitata tecnologia medica
dell’habitat avrebbero ripristinato le principali funzioni dei tessuti, anche se
Lortisse sarebbe stato confinato per un po’ dentro un esoscheletro
meccanico. «Hai fatto un buon lavoro nel salvarlo.»
L’espressione acida di Lante non migliorò. «Il corpo di Lortisse ha fatto
un buon lavoro nel prendere a calci quella dannata sostanza mentre io lo
mantenevo stabile» ribatté.
«Quindi è...»
«Parte di quella roba è uscita sotto forma fluida e solida durante le sue
traversie e tutta quanta in una forma frammentata, con le cellule individuali
che non erano più intatte o apparentemente attive.» Per precauzione, aveva
comunque sigillato ogni cosa. Alieno significava che non potevi sapere fino
a che punto era morto, il che valeva ancora di più per qualche tipo di
microrganismo. «Quanto al resto, credo che il suo corpo lo abbia scomposto
e nascosto da qualche parte. Continuerò a monitorargli il fegato e i reni alla
ricerca di concentrazioni insolite di elementi, perché è molto probabile che
vada tutto a finire lì. Anche se l’organismo vero e proprio è morto,
l’equilibrio chimico della vita nodiana è tossico per noi, quindi mi aspetto
qualche effetto a catena mentre il suo corpo lavora per uscirne.» Si sfregò le
mani come se stesse ancora cercando di disinfettarsi. «Vuoi la verità,
Yusuf? Credevo che probabilmente alla fine avrei dovuto tirare fuori e
ripulire ogni litro del suo sangue, estrarre gli organi a uno a uno e ripararli,
perché qualsiasi cosa fosse rimasta di lui dopo che l’organismo era morto
avrebbe dovuto essere mortalmente tossico, ma finora...»
Con l’occhio della mente, Baltiel stava esaminando le analisi del sangue.
«Davvero ancora niente?»
«Non dopo che l’ultima tornata è stata eliminata con sudore e urina»
ribatté Lante in tono piatto. «Il suo sangue è pulito della cosa in sé stessa e
di qualsiasi traccia perdurante che si sarebbe potuta lasciare alle spalle. Al
momento corre più pericoli per le cose che noi gli abbiamo pompato in
corpo, ed è su questo che si concentrerà la maggior parte del mio lavoro, sul
ripulire il casino che ho fatto.»
«E le sue risposte verbali?»
Lante fece una smorfia. «Troppo presto per dirlo con certezza, ma non ci
sono segni evidenti di una funzionalità diminuita. Sembra vigile. Ce la
siamo cavata davvero per un pelo, Yusuf.»
Baltiel annuì. «Avvertimi se c’è qualche cambiamento.» Quelle parole gli
uscirono di bocca mentre stava dando istruzione al sistema dell’habitat di
fare esattamente la stessa cosa. Lante ne era consapevole, ma si sarebbe
sentita insultata se non gli avesse fatto la richiesta di persona.
Lei annuì a sua volta, un gesto secco. «Vado a dirlo a Kalveen. Voleva
sentirlo da me.»
Baltiel la fissò per un secondo di troppo, interdetto, prima di ricordare che
quei tre avevano una relazione fisica fra loro. «Ma certo» disse. Quel
pensiero lo fece sentire di colpo escluso e stranamente solo... non che
volesse essere parte del loro gioco di coppie e di triangoli, ma si trattava del
fatto che nessuno glielo avesse chiesto, che avesse espresso un minimo
interesse. Di solito quella non era una cosa che lo disturbava, perché poteva
soddisfare da sé il proprio corpo in modo più che efficiente. Tutto questo
però lo indusse a pensare a Senkovi, per il quale aveva provato una strana
attrazione a un livello puramente fisico. Senkovi però era del tutto
asessuale, un uomo i cui rapporti con gli altri esseri umani semplicemente
non si estendevano in nessuna direzione lungo quell’asse. Questo aveva
fatto di lui un terraformatore a lungo raggio ideale e Baltiel lo aveva spesso
osservato, meravigliandosi della sua capacità di non provare nulla di tutto
quel conflitto e tumulto interiore.
Fortunato Senkovi. A meno che non si strugga di un amore non
ricambiato per uno dei suoi molluschi, o qualcosa del genere.
Lante se n’era andata, e non per la prima volta Baltiel notò che la
concatenazione dei suoi pensieri interiori era un treno che si fermava in
stazioni buie, il che significava che aveva perso il contatto con il mondo
esterno per una preziosa manciata di secondi, o forse di minuti.
Dovrei aumentare le dosi dei medicinali.
Lante gli aveva prescritto un insieme di medicinali per tenere a bada lo
stress e l’ansia, ma lo aveva avvertito che la pressione avrebbe cominciato a
farsi sentire in altri modi. Le lasciò un breve messaggio per chiederle di
rivedere quello stato di cose, ma lo fece suonare come una cosa non urgente
per dimostrare che era un uomo ragionevole.
Nei giorni che seguirono – i lunghi giorni di Nod, ai cui bioritmi non si
erano abituati – Baltiel controllò di tanto in tanto i progressi di Lortisse, ma
lasciò tutti i dettagli a Lante. Il lavoro per studiare la vita locale era in fase
di stallo e ogni volta che si svegliava diceva a sé stesso che avrebbe rimesso
in moto quel progetto, salvo poi trovarsi consumato da una letargia di cui
non riusciva a liberarsi. Era più facile passare al vaglio le minuzie dei
registri della manutenzione, guardare il loro habitat rinnovarsi ed eseguire
le centinaia di controlli e di bilanciamenti atti a garantire che continuasse a
fornire loro una fetta di Terra su quel mondo lontano. Era più facile
immergersi nella biblioteca e scegliere commedie, libri e film che davano la
sensazione di essere le ossa del pensiero umano abbandonate su quella
spiaggia aliena. Un senso di desolazione si era impadronito di lui,
gravandogli con le mani sulle spalle. La gravità, quella minima aggiunta di
peso a ogni azione, sembrava essersi intensificata in modi che avevano il
loro effetto su di lui.
A volte parlava con Senkovi o guardava i suoi progressi su Damascus.
Gran parte delle annotazioni sui registri erano incomprensibili perché lui
non stava più scrivendo il manuale del progetto di terraformazione e pareva
abbandonarlo sempre di più per... cosa? Per i suoi animaletti? Questo era
ciò che sosteneva, ma Baltiel scelse di non crederci. Disra Senkovi era
semplicemente pazzo, ecco tutto. Pazzo in un modo tranquillo e utile, come
lo era sempre stato, come a modo loro lo erano tutti. E adesso era pazzo e
privo di supervisione, e non c’era da meravigliarsi se stava uscendo
lentamente dall’orbita della razionalità. Ogni giorno Baltiel si diceva che gli
avrebbe fatto un discorso severo, che lo avrebbe rimesso in carreggiata, solo
che lui stesso non riusciva più a vedere quella carreggiata. Gli pareva che le
nebbie che ammantavano ogni mattina la palude salmastra si stessero
insinuando anche nell’habitat.
Lante gli mandò le notifiche di cui aveva bisogno per un nuovo dosaggio
dei medicinali, aumentando la dose degli antidepressivi e aggiungendo
diversi stabilizzatori dell’umore. Baltiel degnò la sua diagnosi solo di
un’occhiata distratta. A quanto pareva, l’incidente accaduto a Lortisse
aveva colpito lui, Yusuf Baltiel, molto più degli altri. Provava un senso di
colpa perché quella era la sua missione, e quindi una sua responsabilità; in
aggiunta a questo avvertiva una mancanza di scopo perché l’ecosistema si
era ribellato, sia pure in maniera irrazionale, ed era depresso perché la
depressione era qualcosa che succedeva alle persone anche senza quei
problemi, e la sua abituale miscela di medicinali non era in grado di tenerla
a bada. Baltiel non riuscì a sentirsi motivato a seguire i consigli di Lante. In
qualità di ufficiale medico, prima o poi lei avrebbe insistito, lui avrebbe
preso le medicine e si sarebbe svegliato sentendosi una persona
leggermente diversa, ma al momento in lui c’era qualcosa che si ribellava a
quel pensiero. Quella era un’altra cosa che ogni giorno si riprometteva di
affrontare e che invece ignorava.
Rani aveva una sua follia personale. Voleva spostarsi. Avevano un intero
pianeta, giusto? I droni a lungo raggio avevano portato loro un centinaio di
ore di registrazioni di altre parti di Nod. C’erano altri ecosistemi, ciascuno
più strano del precedente. C’era un mondo di animali radiali, là fuori, che
strisciavano e rotolavano, avevano radici e rivolgevano fronde simili a
foglie verso il sole fra il rosso e l’arancione. D’accordo, la palude aveva
pericoli imprevisti, e allora? Potevano chiedere alla Egeo di costruire un
nuovo habitat e portare la navetta altrove. Potevano avere un palazzo
d’inverno sul pianoro deserto, una casa estiva sulla costa settentrionale.
Oppure potevano andare su Damascus, che a questo punto aveva l’oceano
necessario a sostentarli ed era libero da forme di vita aliene di qualsiasi
tipo. Potevano immergere i piedi nell’acqua, vivere su una barca e se
volevano, mangiare gli animaletti di Senkovi. Lei aveva perfino le relative
ricette.
Baltiel la ascoltava e le diceva che avrebbe esaminato le sue proposte nel
dettaglio, quel giorno o l’indomani o un qualche altro giorno, ma non lo
aveva ancora fatto. L’intenzione veniva sconfitta da ogni giornata
successiva, dal peso schiacciante della gravità spirituale che lo spingeva a
terra.
Era consapevole che la causa di questo non era soltanto Lortisse, con la
sua ferita. Loro erano soltanto diventati altri massi nella grande valanga al
rallentatore costituita dalla fine della storia umana, il cui peso aveva
cominciato a gravargli addosso da quando le comunicazioni si erano
interrotte.
Non una sola parola da casa.
Forse, qualche trasmissione frammentaria da altri progetti extrasolari che
non erano mai approdati a niente. C’erano soltanto lui, Lante, Rani, Lortisse
e Senkovi, a trentuno anni luce da una civiltà morta, e lui aveva fatto del
suo meglio perché le ruote continuassero a girare, per generare un
significato attraverso un qualche tipo di generazione spontanea filosofica.
Non avevano forse fatto la più eccitante scoperta mai conosciuta dalla razza
umana? Non avevano infine trovato la vita fra le stelle, proprio come tutti
avevano sempre sognato? Ma a cosa serviva, se non rimaneva nessuno a cui
mostrarlo? E così Lortisse era stato soltanto l’ultima onda di tempesta
contro una diga che si stava crepando da decenni.
Dodici giorni dopo, con Lortisse che adesso camminava all’interno di un
esoscheletro medico, scambiando battute poco divertenti con Rani e
mangiando cibi solidi, Lante mandò a Baltiel una richiesta prioritaria per un
colloquio, segnalata come urgente perché era necessaria un’azione
immediata del Comando Generale.
Allora ci siamo.
Il pensiero che qualcuno lo rimodellasse nella figura di un comandante
deciso gli riusciva leggermente ripugnante, ma era comunque una salita che
doveva sconfiggere, un pozzo gravitazionale da cui fuggire, sia pure
momentaneamente. Era solo sorpreso che lei non avesse agito, e poi chiesto
scusa al nuovo uomo determinato che le sue prescrizioni modificate
avevano creato. Forse anche lei provava in parte la sua stessa letargia.
La Lante che lo accolse non mostrava però traccia di letargia. Invece,
appariva terrorizzata, una vista che generò in Baltiel un senso di shock e un
surrogato di determinazione sufficiente a permettergli di liberarsi del peso
che lo opprimeva e di allargare un poco le ali.
«Cosa c’è?» Mentre parlava, accettò i file protetti che lei gli trasmetteva,
aprendoli con arrugginiti codici di autorizzazione e guardando i dati medici
così rivelati.
«È Lortisse» gli disse Lante. «Non è a posto. Non ha metabolizzato quel
fluido, è ancora là.»
Baltiel fissò i dati per quanto più tempo poteva, senza peraltro capire
davvero cosa stava guardando.
«Lui lo sa?» fu infine la sua risposta, una domanda lecita da parte del
comandante generale, che serviva a coprire il suo sconcerto.
«Non ancora» gli confermò Lante. Erano rintanati in quella che era stata
la corsia di isolamento, prima che Lortisse si riprendesse quanto bastava a
far dichiarare inutile quella misura. A quanto pareva, Lante stava rivedendo
la propria posizione al riguardo, qualsiasi cosa ne fosse stato della porta
della stalla e dei buoi, ma allo stesso tempo ci teneva a mantenere la cosa
riservata a sé stessa e al suo superiore, isolando per loro dal sistema uno
spazio a cui Rani e Lortisse non sarebbero stati in grado di accedere.
Baltiel si massaggiò le palpebre. Voleva ritirarsi da tutto questo. Non lo
capiva, e non voleva ammettere che fosse così, e fissare le pareti all’interno
della sua mente era diventata un’abitudine difficile da infrangere. Per un
momento esitò, perché ormai tutto questo che importava? Poi però la
chiamata alle armi lo raggiunse e lui si riscosse, cercando una motivazione
con le unghie e con i denti.
«Erma,» ammise a denti stretti «non posso affrontare questa cosa così
com’è. Ho bisogno che tu mi schiarisca la mente. Dammi quello che ci
vuole, qualsiasi cosa sia necessaria.»
Lei gli somministrò i medicinali, aspettarono trenta minuti perché
facessero effetto, e quando si ritrovarono lui si sentiva un uomo nuovo,
lucido e deciso, ma fragile come ghiaccio sotto cui si allargava ancora il
vecchio abisso. Ne avvertiva il famelico richiamo al di là di quel tremolare
leggermente folle che si increspava al limitare del suo campo visivo. Il
cervello però era libero di saettare e di librarsi, di ammettere che lui non
capiva cosa stesse vedendo.
«Gli ha raggiunto il cervello» spiegò Lante, guidandolo nell’esame delle
ecografie «e ha adottato un qualche tipo di struttura incistata.» Qui, qui, qui,
indicò nelle immagini, evidenziando i confini di una nazione nuova e
potenzialmente ostile. «Non credo sia attivo e di certo la sua struttura è
cambiata dalla forma mobile iniziale per cui non attiva più il sistema
immunitario di Lortisse. Se lo facesse, lui morirebbe per un’infiammazione
cerebrale tanto in fretta che non potrei fare nulla per aiutarlo o quantomeno
riporterebbe danni irreparabili. Però guarda...» Evidenziò altre aree,
confrontando immagini da diverse angolazioni. «Ha... ha oltrepassato il
confine sangue-cervello e si trova fra gli emisferi, in una sorta di grumo.»
«Spiega ‘fra gli emisferi’.» Baltiel aveva la sensazione di saperlo, ma
nello stesso tempo il solo pensiero era sgomentante. «Come può essere
possibile? Gli ho parlato giusto oggi.»
«Ed è questo il punto. Per un qualche miracolo quella cosa non ha
danneggiato il funzionamento del suo cervello.»
«Questa è una netta distinzione» sottolineò Baltiel. «Allora cosa ha
danneggiato?»
«All’inizio ho pensato che avesse formato un cerchio intorno al corpo
calloso che collega l’emisfero sinistro e quello destro, ma non rimane niente
del corpo. C’è soltanto questo, che lo ha sostituito» spiegò Lante, in tono
impotente.
«Non è una cosa che si usava fare un tempo per...» Baltiel si frugò nella
memoria, fallì e prelevò l’informazione dalla biblioteca di bordo,
mostrandola a Lante. Il trattamento per l’epilessia: separare gli emisferi del
cervello. Era una misura efficace, ma portava a circostanze insolite in cui le
due parti andavano fuori tempo, reagivano a stimoli diversi, non potevano
comunicare fra loro. I file recavano un tag che indicava un accesso recente
da parte di Lante: Baltiel non stava vedendo niente che lei non avesse già
esaminato.
«L’ho testato» continuò lei. «L’ho fatto alla vecchia maniera: inviare
informazioni diverse in ciascun occhio, indurre ciascuna mano a selezionare
le risposte. Lui non ha i sintomi di un paziente con gli emisferi recisi. In
qualche modo, la comunicazione è ancora presente anche se il macchinario
neurale è scomparso e quella roba sta rivestendo il ruolo di quello che ha
consumato.» Lante appariva cerea e sembrava non sentirsi bene, ma nel suo
stato attuale Baltiel non aveva tempo per quelle cose.
«La prognosi?» chiese.
«Come posso farne una?» ribatté lei. «Quella roba potrebbe tornare attiva
domani, oppure l’anno prossimo o fra un decennio, se questa è soltanto una
parte del suo ciclo vitale che sta in qualche modo interagendo con la
biologia umana. Cosa peraltro impossibile. Su questo pianeta non c’è nulla
che somigli a un umano su così tanti livelli. Non può... agire da parassita
con noi. I parassiti sono i più specializzati fra gli specialisti.»
«Allora, la prognosi» la incalzò Baltiel.
Lei serrò i pugni. «Molto probabilmente ha soltanto reagito all’ambiente
ostile costituito dal corpo di Lortisse. Forse nel suo ospite abituale, o se
fosse senza un ospite, questo persisterebbe finché non incontrasse qualcosa
di più appetitoso, cosa che nel nostro caso non accadrà mai. Quindi Gav
starà bene, starà bene, ma come posso saperlo?»
Baltiel vide che aveva creato modelli per parecchie strategie di rimozione,
e la maggior parte delle simulazioni riferiva un successo al di sotto del venti
percento. Al di sopra di questo, la probabilità di danneggiare il cervello di
Lortisse e di degradare in modo irrevocabile ciò che lui era aumentava di
pari passo con la loro capacità di aggredire l’infezione. E questo
supponendo che quella roba non si svegliasse e non cercasse di difendersi...
«Deve essere informato. Dobbiamo capire la situazione, tutti e quattro
insieme.» Cinque ma Senkovi si potrà mettere al passo con le notizie
quando avrà finito di fare il Dio dei molluschi. «Come hai detto, molto
probabilmente quella cosa si è incistata là ed è innocua. Non possiamo
tenere per sempre in quarantena il venticinque percento dei nostri effettivi
per qualcosa che non succederà mai, giusto? Per essere al sicuro, però,
dovremmo considerare...» Nel loro spazio virtuale condiviso evidenziò le
simulazioni di rimozione che lei aveva elaborato.
Il volto di Lante si afflosciò in un’espressione di gratitudine.
5

Noi
Ascoltiamo
Informazioni su entrambi i nostri lati. La crepitante scarica di significato.
Per generazioni.
Noi
Ascoltiamo, moriamo e ci rinnoviamo e ci nutriamo, attenti a non
sconvolgere l’equilibrio che Questi-di-Noi hanno raggiunto. Adesso il
mondo che ci circonda è quiescente. Abbiamo fatto la pace con esso.
E cosa abbiamo trovato? Non possiamo saperlo ma immagazziniamo ed
elaboriamo. Immagazziniamo ed elaboriamo, costruiamo le nostre teorie e i
nostri modelli all’interno delle strutture labirintiche delle nostre
biblioteche. Ogni schema di informazione che ci arriva viene esaminato e
passato oltre, da un lato all’altro, avanti e indietro.
Noi
Stiamo costruendo un’immagine delle complessità di questa nuova terra.
Questi-di-Noi cominciano a comprendere l’esistenza di un’identità. Questi
schemi ci raccontano storie di spazi più grandi e della disposizione di
strutture site più oltre. Ascoltiamo e apprendiamo che questo grande mondo
che abbiamo trovato è piccolo, che orbita in mezzo ad altri, che questo
insieme di elettricità è la sua stessa biblioteca di concetti per noi del tutto
alieni. Però siamo intrepidi e siamo indagatori e sappiamo adattarci.
Stiamo ascoltando. Stiamo imparando riguardo a tutti i posti al di fuori di
questo nostro nuovo contenitore.
Noi
Stiamo crescendo. Le informazioni ci alimentano. Elaborare questi nuovi
dati ci trasforma in qualcosa di più di ciò che eravamo perché dobbiamo
allargarci per accettare tali nuove idee. Modelliamo gli input sensoriali del
nostro contenitore, gli output motori, soprattutto la fitta, fittissima
transizione di informazioni. Che vita, che meraviglia, quando il nostro
contenitore parla a sé stesso per nostro tramite.
Una generazione comprende abbastanza.
Una generazione ha modellato abbastanza. Conosciamo il contenitore e
gli spazi e altre complessità di cui lui parla a sé stesso.
Una generazione comincia a cambiare le informazioni quando ci passano
attraverso,
Inserendo i nostri dati, modificandone i parametri,
Parlandogli con la sua stessa voce.
6

Paul 97 vive in una colonia con altri centotrentanove ottopodi.


Allo stato selvaggio, sulla Terra, la sua specie è una delle più sociali del
suo genere. Questo significa che nonostante lo spazio vitale sia limitato,
tollerano la presenza l’uno dell’altro ma con un’abbondanza di lotte,
espulsioni e maniere dominanti. Alcuni potrebbero sostenere che spesso le
società umane raggiungono quello stesso livello, ma la verità è che gli
ottopodi della Terra non hanno contatti familiari e la loro progenie si
allontana spinta dalla marea. Il ricambio degli abitanti di una qualsiasi
‘città’ di ottopodi è costante e tuttavia questo è un inizio, per creature così
solitarie. Se detesti i tuoi vicini, allora hai bisogno di un cervello che possa
sapere quali sono esattamente quelli che odi di più, quali sono i più forti e
quali i più deboli. La specie di Paul ha vissuto con i concetti di individui e
di confini, e perfino con una sorta di diplomazia, per un tempo molto lungo.
È solo che la cosa non è piaciuta molto.
Applicato con mano leggera e accorta da Disra Senkovi, il nanovirus di
Rus-Califi ha lavorato principalmente su quelle parti del cervello. Paul non
ha ancora una progenie, ma altri della sua colonia ne hanno e gli elementi
giovani se ne stanno vicini, laddove in passato cavalcavano le correnti verso
qualche altro posto (o per finire divorati dalla generazione a cui
appartenevano i loro genitori). E vivono anche più a lungo. Attualmente un
individuo potrebbe riuscire a sopravvivere per mezzo secolo, anche se sono
in pochi a farlo. Finora la causa principale di morte è stata la curiosità. Ci
sono aree del mare che non sono ancora adeguatamente ossigenate e altre
che sono tossiche per ragioni diverse. A volte, la colpa è dei macchinari con
cui interagiscono. Tuttavia, in ogni colonia vivono generazioni multiple,
che tollerano a denti stretti la presenza reciproca. Laddove in passato
dimoravano in mucchi di rocce o grandi mucchi di gusci di molluschi
(un’architettura generata involontariamente dal loro appetito), adesso
dimorano dentro casse, tubi e sbocchi intorno alle macchine per la
terraformazione, dove possono comunicare con Senkovi e la Egeo.
La comprensione che Paul 97 ha del mondo è effimera, inumana. È
sospeso nella colonna d’acqua fra l’angelo e l’ammonite. La sua Corona è
un vortice di istinto e di emozione che comunque abbraccia i complessi
accordi sociali che deve prendere ogni giorno per adattarsi agli altri abitanti
della colonia. Possiede concetti con cui identificare il mondo più vasto, la
Egeo (le vasche di cui conserva un vago ricordo), certi eminenti cittadini
della sua metropoli e anche certi sottosistemi dei macchinari per la
terraformazione. Il suo mondo non è quantificato in modo rigido. Lui non lo
misura e non lo calcola, si limita a sapere, e prova sensazioni in risposta a
quel sapere. Il suo Aspetto, quel mutevole arazzo di pelle e di forma,
risuona di quelle sensazioni in una misura molto più impegnativa di quanto
facesse quello dei suoi antenati oppure lui interviene in modo più diretto a
regolarlo, per cui se l’umore lo spinge a farlo può fluttuare sopra la colonia
e danzare per sfogare la sua frustrazione o la sua meraviglia nei confronti
degli altri. Essere aperto alle sue emozioni significa comunicarle ai suoi
pari e avere un impatto sulla loro Corona con i suoi pensieri. È un
linguaggio di grandi gesti e di gradazioni emotive infinitamente
impegnative. Lui è un artista. Lo sono tutti. Il loro modo cosciente di
interazione trasmette molti più sottintesi ed espressioni astratte di quanto
facciano mai le informazioni concrete.
Sotto questo vorticare cosciente ci sono le sottomenti delle sue braccia,
che dispongono in relazione a quanto lui si propone di fare. La separazione
della volontà dal meccanismo che la mette in moto si è sviluppata quando il
nanovirus si è insinuato nel sistema nervoso della specie. Paul risolve
problemi come un mago: un pensiero, un desiderio, e la sua Portata si
estende per realizzarlo. A volte questo significa uno scontro, quando il
contatto fisico fra le sue braccia e quelle di un altro impone dominanza e
simultaneamente trasmette informazioni da Portata a Portata, un intero
mercato nero di potere di calcolo che Paul e i suoi pari neppure sanno di
avere. In questa collaborazione, ciascuna entità è un comitato, e riescono a
fare le cose. Senkovi ha dato loro gli strumenti e la prospettiva. Anche se
non vedono mai del tutto il quadro generale, lo afferrano in un modo molto
reale. Per esempio, Senkovi non ha notato che le bocche di ventilazione
geotermiche stanno perdendo l’allineamento e diventando inefficienti, e che
quella parte del fondale marino si sta facendo sgradevolmente fredda. Per
lui, sulla Egeo, quella temperatura rientra nei limiti di tolleranza, e il
problema non verrebbe segnalato dai suoi sistemi per anni. Per Paul e per la
sua razza la cosa è disagevole, e hanno lottato e combattuto e si sono esibiti
in complessi poemi di danza e di colore uno per l’altro fino a raggiungere
un tacito consenso. Poi sono andati ad aggiustare il macchinario, oppure
hanno dato istruzione ad altre macchine di farlo, seguendo il grande piano
che Senkovi ha dato loro riguardo a come una cosa ne diviene un’altra e a
come il tutto confluisce nel diventare ‘casa’. In seguito, Senkovi si
imbatterà nelle alterazioni da loro apportate e si gratterà la testa nel cercare
di capire cosa stavano cercando di ottenere. Da tempo l’esperimento è fuori
dal suo controllo, ma anche se possono sembrare meschini, egoisti e
antisociali, Paul 97 e gli altri singoli ottopodi possiedono la saggezza di
moltitudini.
Altre colonie comunicano fra loro, ciascuna con la successiva. Alcuni
individui viaggiano alla ricerca di vicini meno intrattabili o per evitare la
stagnazione genetica; altri inseriscono finte ordinazioni di casse e di
tubature nella coda di lavorazione della Egeo e creano all’istante nuove città
che aspettano abitanti. Come in passato, gli ottopodi ficcanasano in ogni
spazio di connessione a cui riescono ad accedere, fisico o virtuale che sia.
Contrariamente a quanto ha causato la catastrofe che ha momentaneamente
disattivato (e salvato) la Egeo, loro ne sanno abbastanza da non intrufolarsi
in niente di troppo essenziale.
Paul 97 e alcuni altri hanno un concetto che è Senkovi. È una cosa
complicata ma (nonostante quello che lui pensa al riguardo) non si avvicina
al concetto tradizionale di divinità. Dopotutto, il concetto umano di Dio è
familiare, fin troppo spesso paterno, e Paul non ha molto chiara l’idea di
famiglia, se pure la possedesse, non avrebbe per essa l’affetto necessario.
Agli ottopodi però piace Senkovi, così come lo concepiscono. Lui
rappresenta benevolenza e casa e sapere in un modo che non è in
competizione con loro come essi stessi lo sono l’uno con l’altro. Alcuni si
chiedono se sia come loro, ma l’idea di un altro individuo che non dia loro
costantemente sui nervi e non occupi il loro spazio è per gli ottopodi più
aliena perfino della cognizione umana di Disra Senkovi.
7

Lortisse si sentiva stranamente ottimista quando Lante lo fece sedere nel


laboratorio di isolamento e gli espose il problema. Si sorprese perfino a
sorridere leggermente. Non può essere vero, disse a sé stesso. Non può
essere reale. Annuì con cortesia mentre Lante gli mostrava le ecografie e le
immagini, ma quella scatola d’osso, quella frastagliata materia grigia,
quella roba non era di certo lui. O quella chiazza scura nel centro di un
cervello. Quella cosa non siamo noi.
Allo stesso tempo, gli appariva tutto vero e reale, come se avesse avuto
due opinioni opposte che si sovrapponevano su una di quelle immagini del
cervello. Sì, naturalmente non era sfuggito ai pericoli di Nod. Cosa aveva
creduto? Di poter camminare per un mondo alieno raccogliendo esemplari
come qualcuno che collezionasse conchiglie su una spiaggia? Era ovvio che
ci fosse un fato ineluttabile per uomini del genere, altrimenti a che serviva
l’arroganza?
«Stai prendendo molto bene tutto questo» osservò Lante, incerta. Senza
dubbio stava monitorando i suoi segni vitali, pronta a far fronte a una
reazione di panico. Lortisse si ritrovò ad avere un’immagine mentale
notevolmente nitida del proprio cuore, dei polmoni e di tutto il resto, con
ogni cosa che pulsava e funzionava in modo normale, come se quello di cui
discutevano fosse stato la qualità del cibo industriale.
«Mi sento bene» disse a Lante, con un sorriso. «Qui dentro tutto è
piacevole»
«Ma potrebbe...»
«Non saltiamo alle conclusioni. Potrebbe non succedere niente» obiettò
lui, in tono ragionevole.
Cerchiamo di affrontare la cosa da adulti.
«Ho preparato alcuni possibili modi per aggredire l’organismo incistato»
proseguì Lante. «Dopotutto, la sua biochimica è sufficientemente diversa
dalla tua da garantire che ciò che può ucciderla non aggredisca affatto le tue
cellule. Dovremo però praticamente ibernare il tuo sistema immunitario,
perché altrimenti avremmo lo stesso problema di presenza di corpi estranei
che abbiamo affrontato quando quella cosa è entrata nel tuo organismo.»
«Questo mi pare un rischio inaccettabile» si sentì dire Lortisse,
concentrato sulle diverse prescrizioni che Lante aveva messo insieme e sui
suoi modelli di come esse avrebbero interagito con l’organismo estraneo e
con la chimica del suo cervello. «Questo è... dentro il nostro cervello, Erma.
Vuoi davvero cominciare a mettermi dentro altra roba?»
«Gav, quella cosa potrebbe cominciare a mangiare il tuo cervello» gli fece
notare lei.
«Hai detto tu stessa che non può interagire con la nostra chimica
corporea» ribatté Lortisse, che continuava a mostrarsi del tutto ragionevole.
«Potrebbe però causare enormi traumi ai tessuti se prendesse a crescere, o
si riproducesse o chissà che altro» persistette lei, cocciuta.
Lortisse sorrise di nuovo. L’intera conversazione sembrava stranamente
buffa, ma forse era soltanto un meccanismo di difesa. «Erma, io...
cerchiamo di non essere affrettati. Vediamo di... non esserlo.» Si rese conto
che aveva ancora il sorriso sulla faccia, che non riusciva a liberarsene. Il
mondo pareva farsi leggermente giallastro lungo i contorni ma allo stesso
tempo provava un incredibile senso di benessere. «Va bene così, va tutto
bene, non dovremmo fare niente per... alterare l’equilibrio, giusto? E se
questa linea d’azione scatenasse proprio quello che si desidera prevenire?»
Quelle parole gli suonarono strane, anche se non sapeva bene quale fosse il
problema. Suonarono strane anche a Lante, considerata l’aria accigliata con
cui lo fissava. Di colpo fu estremamente consapevole dello spazio e della
distanza intorno e in mezzo a loro, come se fosse enorme, come se lui
stesso fosse enorme. Rise, sentendo crescere un senso di vertigine che
subito si placò.
Doveva esserci qualcosa che non andava perché la preoccupazione con
cui Lante lo fissava aumentava invece di diminuire. Rise ancora, cercando
di apparire rassicurane. Risultò evidente che lei non era per nulla rassicurata
ma Lortisse non riuscì a trattenere il sorriso sebbene cominciasse a fargli
dolere la faccia.
«Gav...» Lante aveva in mano una siringa, pronta a somministrargli il
primo dei rimedi per aggredire il parassita incistato nel suo cervello. Di
certo quella sarebbe stata una buona cosa, sulla lunga distanza ma Lortisse
si sentiva incerto. Lui stava bene adesso, questo era chiaro. Aveva visto le
proiezioni elaborate da Lante. Esisteva un pericolo, minimo ma reale, di
danni al cervello, vuoi a causa del cocktail chimico o della reazione
eccessiva del suo organismo a esso. La possibilità che colpisse l’organismo
era molto maggiore, ma sempre inferiore al venticinque percento. Lante ci
stava andando con i piedi di piombo.
Bene, certo. E tuttavia sembrava un rischio eccessivo e lui era contrario a
correrlo. Non avrebbero dovuto mettere a repentaglio la tenue stabilità che
avevano ottenuto dentro di lui. Guardò Lante negli occhi. «Vedi,» le disse
«io mi sento bene, ottimamente, sono a posto. Non voglio nessuna di queste
cose. Lasciami stare così come sono. Va tutto bene, Erma, sto perfino
meglio di quando sono uscito dalla convalescenza. Guarda.» Fece qualche
saltello, per dimostrarle quanto grande fosse il controllo sulle sue capacità
motorie. «Ma si tratta di molto più di questo, sai, percepisco... spazio, così
tanto spazio. Non capivamo quanto tutto fosse vasto. Guarda quanto siamo
arrivati lontano, Erma! Distanze che non avevamo mai neppure concepito,
contatto con un ambiente così alieno! Non puoi cancellare tutto questo con
la medicina. Stiamo vedendo cose così incredibili, qui.» Adesso il sorriso
era più ampio, doloroso, gli rendeva difficile parlare e tuttavia le parole
continuavano a fluire. «Una struttura e una complessità che non avevamo
mai immaginato, tutti questi posti immaginari.» Agendo sull’immagine
virtuale condivisa, prese ad aggiungere e a rimuovere elementi dai piani di
trattamento di Lante, godendo della facilità con cui essi scomparivano,
banditi di nuovo nella non realtà. «Non cercare di toglierci questo, adesso
che comprendiamo finalmente come funzioni tutto quanto.» La sua voce
tremava di sincerità, o comunque di qualcosa. «Comprendiamo così tanto,
Erma, è incredibile, inimmaginabile, a stento comprensibile, e tuttavia ci
siamo riusciti e adesso vediamo tutto, tutti questi spazi, terreni di gioco,
modi di essere, e al di là di tutti ci siete tu e Yusuf e Kalveen, e ancora più
oltre ci sono sempre più spazi e non c’è fine a tutto questo, e noi possiamo
riempirli tutti ed essere tutti.»
Lante ebbe un sussulto. Lui vide la siringa scattare in avanti, cercando il
contatto con la sua pelle, e fluì lontano da lei, avvertendo la gioia del dolore
nelle articolazioni mentre le costringeva a fare cose che non erano loro
familiari nel tentativo di trovare un modo di muoversi più efficiente di quel
rozzo camminare su trampoli. «Non accettiamo questa interferenza» disse, e
cercò di cancellare il piano di trattamento dal sistema, ma adesso Lante
aveva protetto il file. Ora continuava a mantenersi a distanza da lui, e
Lortisse avvertiva una strana fame, o forse un malessere che gli riempiva la
bocca. Indietreggiò fino a sentire alle proprie spalle gli armadietti dei
medicinali e trasmise un breve comando tramite gli impianti, in modo che
una siringa vuota gli cadesse in mano. Lante gli parlava con un tono
suadente, ma per quanto si sforzasse di reprimerla, in esso si avvertiva una
crescente sfumatura di allarme. Intanto si faceva più vicina con una mano
sollevata in un gesto inteso a calmarlo e l’altra che continuava a offrire la
siringa. Le sue parole parevano disgregarsi nell’aria, e Lortisse comprese
che questo dipendeva dal fatto che si stava concentrando così intensamente
per configurare la siringa che aveva preso. Continuava però ad annuire, e
questo pareva sufficiente a mantenere una certa distanza fra loro.
Aveva regolato la siringa perché estraesse un campione e adesso la sollevò
all’altezza della faccia per mostrare a Lante quello che aveva fatto. Si
sentiva stranamente orgoglioso, come se fosse riuscito ad attraversare un
labirinto estremamente complicato. «Guarda» disse, e si inserì l’ago nel
condotto lacrimale destro, sempre più a fondo: il dolore era molto intenso,
ma adesso pareva una sensazione indiretta, a stento degna di
preoccuparsene. L’ago si estese della lunghezza calcolata dal corpo
ospitante e per un momento dondolò soltanto mentre lottavano per
conservarne il controllo, che si era d’un tratto fatto fragile. Poi tutto tornò a
posto e ritrassero la siringa, che conteneva ora una piccola quantità di Noi e
si stava riconfigurando per iniettare.
C’era una strana espressione sulla faccia di Lante, ma dovettero faticare
per identificarla perché il corpo ospite non aveva elaborato di recente il
concetto di orrore. Lortisse trovò la cosa deplorevole. Lei aveva una siringa,
e anche lui ne aveva una. Questo contribuiva a dare alla situazione una
gradevole simmetria che trovava desiderabile, ma era chiaro che Lante non
capiva e che c’era un modo soltanto in cui sarebbero riusciti a indurla a
comprendere, per cui avanzò verso di lei con la siringa sollevata in modo da
mettere in chiaro le sue intenzioni. Lante indietreggiò fino a addossarsi alla
parete, ed essi notarono di essersi posti fra lei e la porta, cosa che parve
opportuna. Ora Lante era a bocca aperta, ed essi si resero conto che nella
foga del momento e nella concentrazione dei calcoli si erano scollegati da
quelle parti del nucleo del corpo ospite che gestiva alcuni dei sensi,
soprattutto per annullare i segnali di dolore che erano diventati una fonte di
distrazione.
Nell’eventualità che la comunicazione udibile aggiustasse le cose,
rivolsero il sorriso verso Lante e permisero a Lortisse di spiegare. «Stiamo
per andare a vivere un’avventura.»
Lei si lanciò loro contro impugnando la siringa, che attraversò la manica e
iniettò un po’ della sostanza nel flusso sanguigno, troppo poca per fare una
qualche differenza, o almeno così sperava l’opinione generale. Che
avventura! Adesso serrava il polso di Lante, ma di colpo non erano soli. Per
un momento Lortisse barcollò, cercando di elaborare la moltiplicazione di
entità esterne che si era improvvisamente verificata. Gli archivi del corpo
ospite fornirono doverosamente il nome dei nuovi venuti, ma poi continuò,
aggiungendo una vasta quantità di dati aggiuntivi che Noi-in-Lortisse non
erano in grado di elaborare in fretta o di capire, una marea di contenuto
emotivo, di simpatie, di attriti, di storie, di problemi. Persero il controllo per
un momento, con il corpo ospite che oscillava e lo spazio esterno che
diventava un caos impenetrabile di movimento, di luce e di informazioni
ingarbugliate. Il corpo ospite veniva spinto e tirato. Le informazioni uditive
erano una sfilza contrastante di rumori contradditori e il corpo ospite stesso
era pieno delle sostanze chimiche dello sgomento e della sofferenza. Una
minaccia pareva imminente, e loro non avevano nessuna delle risorse
abituali perché questo corpo possedeva una sostanza e un’organizzazione
davvero poco ortodosse.
Lortisse sbatté le palpebre nel trovare Baltiel e Rani che cercavano di
bloccargli le braccia mentre Lante programmava un’altra siringa. «Cosa...»
Stava male, aveva dolore in tutto il corpo, nelle articolazioni, nel cranio e
nei visceri. «Cosa state facendo?» Le sue parole andarono perse nel chiasso
delle voci degli altri che gli urlavano di stare fermo.
«Erma?» Riuscì a dire.
«Tenetelo fermo» ordinò Lante.
Lortisse sussultò, sforzandosi di rimanere immobile, e una generazione di
pensiero sorse e cadde nel centro del suo cervello. Quando Lante gli si
accostò con la siringa, scattò in avanti, sentendo le articolazioni che
schioccavano, i muscoli che si laceravano e il dolore che si trasformava di
colpo in un’estasi di libertà. I denti gli si chiusero con uno schiocco sulla
mano di Lante, affondando nella carne fino all’osso. Baltiel cercò di
spingere la faccia del corpo ospite contro uno degli armadietti medici, ma
adesso loro avevano una maggiore familiarità con la geometria di questi
spazi più vasti e un qualsiasi tipo di controllo sul corpo ospite era basato sul
causargli dolore e sul far sì che gli arti conservassero la configurazione
originale. Lasciarono che esso si piegasse e torcesse finché Baltiel e Rani
non riuscirono più a trattenerlo, poi usarono una mano per afferrare Rani
per la gola. Baltiel stava colpendo il corpo ospite intorno agli organi
sensoriali, cosa che nel tempo sarebbe risultata essere uno svantaggio. Il
consenso comune fra i Noi-in-Lortisse fu che il corpo ospite era troppo
danneggiato per essere salvato e vennero prese misure adeguate a codificare
l’esperienza e la storia in una forma di archiviazione adeguatamente
durevole, per disperderla e recuperarla in seguito.
Lortisse guardava la scena con i suoi occhi umani e continuava a
sorridere, anche se Baltiel gli aveva fatto saltare parecchi denti dalla bocca
insanguinata. Il suo corpo vibrava di adrenalina e di un miscuglio estatico di
ormoni. Avvertiva una scala di vastità cosmica che era allo stesso tempo
racchiusa nel più piccolo guscio di noce. Recepì come una cosa
incomparabilmente, religiosamente giusta il serrarsi esplosivo dei muscoli
della mano, che si spinsero molto al di là del loro livello di tolleranza fino a
strapparsi dai loro ancoraggi mentre lui conficcava nel collo di Rani un
pollice che si andava scheggiando e lasciava che il proprio sangue
diventasse quello di lei. Baltiel lo colpì ancora, poi qualcosa si abbatté sul
corpo ospite con forza ancora maggiore. Lante stringeva un attrezzo nella
mano intatta. Quella parte di lui che aveva ancora accesso ai ricordi lo
riconobbe come qualcosa usato per tagliare rottami ma Lante lo aveva
affondato in profondità nel corpo ospite, nel loro corpo, e adesso una grande
parte di esso si riversava all’esterno in fiotti e pezzi.
Gli altri staccarono Rani dalla loro mano rovinata, ma essi si stavano già
disattivando e ritraendo dai centri di controllo della mente di Lortisse. Di lì
a poco il corpo ospite prese a urlare, solo sul pavimento del laboratorio di
quarantena, poi smise e giacque immobile.
8

Baltiel sigillò il laboratorio con il corpo di Lortisse all’interno e i tre si


trascinarono nella stanza principale dell’habitat. Lante imprecava mentre
con una mano tremante lavorava sull’altra, disinfettando la ferita aperta dai
denti di Lortisse e piangendo di dolore ma soprattutto, come intuì Baltiel,
per il timore che qualcosa le fosse entrato in circolo. E Rani era...
Rani giaceva priva di sensi sul pavimento, coperta di sangue dal collo alla
cintola. Baltiel afferrò un kit medico e cominciò ad applicare una benda a
pressione, anche se di certo era troppo poco, troppo tardi. La donna era
cinerea. Lortisse le aveva aperto un buco nella gola con un dito.
«È impossibile» continuava a ripetere Lante. «Non può essere... non
possiamo essere infettati... biologie diverse, proteine differenti, diversa
struttura delle cellule. Non può star succedendo questo.»
«Stai zitta» le intimò Baltiel, secco «e dammi una mano qui.» Il corpo di
Rani tremava, gli arti sussultavano e si agitavano. Erano le convulsioni che
precedevano la morte oppure una nuova vita? «Il trattamento... quella roba
che volevi usare su Lortisse...»
«È nel laboratorio» fu la concisa risposta di Lante.
Baltiel si stava collegando con i sistemi dell’habitat, deviando le funzioni
mediche sui fabbricatori della camera principale e li regolò perché
producessero scorte di emergenza: plasma, medicinali antishock, qualsiasi
cosa fosse rapida e costasse poche risorse. Avrebbero dovuto attingere tutto
il resto dal laboratorio d’isolamento organizzato da Lante. «Vai a prendere
quello che hai preparato. Io intanto sistemerò le cose qui.»
Dovette darle atto che la sua espressione ribelle durò soltanto un attimo.
Si era imbottita di antidolorifici e senza dubbio adesso pensava che la
migliore possibilità di cavarsela, per lei come per Rani, fosse nel
laboratorio. Senza una parola si avviò nella direzione da cui erano venuti.
Nonostante le medicazioni che avrebbero dovuto controllarle, Lante
sentiva le sue pulsazioni aumentare sempre di più. Era un sintomo? Lortisse
aveva provato la stessa cosa, in mezzo ai molti e variati segnali d’allarme
indicanti che il suo corpo si stava spegnendo? Però lei non soffriva dello
stesso colossale shock sistemico subito da Lortisse per l’intrusione
dell’organismo estraneo. Significava che il suo morso era stato soltanto un
morso o che l’entità aveva appreso un modo per insinuarsi furtivamente in
un corpo umano senza attivarne gli allarmi?
Sapeva quanto fosse irrazionale pensare alle cose in quel modo. Era ovvio
che la fanghiglia aliena non avesse imparato. Era soltanto un analogo di un
fungo mucillaginoso, un qualche agglomerato batterico, una malattia delle
testuggini. E tuttavia si era fatto strada fino al cervello di Lortisse e...
Ovviamente lo aveva fatto impazzire. Quello che aveva visto era Lortisse
con il cervello gonfio e febbricitante – nonostante il fatto che lei aveva
regolato i monitor proprio per registrare cose del genere e nessuno di essi
aveva dato segnali di avvertimento – che agiva in preda a una qualche
allucinazione psicopatica. Qualsiasi proiezione di un intento alieno era
soltanto frutto del suo cervello che cercava di elaborare schemi da
frammenti che non combaciavano fra loro. Quella cosa non lo controllava,
gli aveva soltanto danneggiato il cervello al punto che non era più stato
responsabile delle sue azioni. Il nemico era stato Io malato di Lortisse e
non...
Lante si ritrovò a fissare impotente il corpo dell’uomo, accasciato su un
fianco in una pozza del suo stesso sangue. A guardarlo pareva fosse passato
attraverso un qualche tipo di pressa industriale, con le articolazioni distorte,
una mano scheggiata dove l’aveva piantata a forza nel collo della povera
Rani. La ferita che lei gli aveva inflitto era quasi nascosta, ma sapeva di
averlo squarciato dalla spalla allo sterno, e tuttavia anche allora non aveva
reagito come un uomo ferito. Di certo non esisteva frenesia o allucinazione
che potesse spingere un uomo ad abusare in quel modo del proprio corpo.
Scordati di lui. Devi salvare Rani. Devi salvare te stessa. Barcollò in
avanti per prendere le siringhe che il distributore stava riempiendo con le
sue specifiche. Le mani le tremavano e due di esse rotolarono a terra,
seguite da una terza. Cosa succede? Sto perdendo il controllo? Tentò di
esaminare i propri pensieri in cerca di una presenza aliena. Sono ancora io?
Queste sono le mie percezioni? Ero così anche un momento fa? Il suo
monitor personale la avvertiva che era in iperventilazione e che il battito
cardiaco si avvicinava a livelli pericolosi. Mi sta uccidendo?
Raccolse le siringhe cadute, e nel farlo annaspò per prenderne altre.
Mentre cercava di stringerle in mano tutte insieme si ritrovò a guardare la
faccia di Lortisse. Era rimasta congelata in un urlo silenzioso, ma adesso
aveva di nuovo quel dannato sorriso che andava da un orecchio all’altro.
Mentre prendeva fiato per urlare, il braccio di lui scattò in fuori, non come
un arto ma come un elemento disarticolato di una trappola, e la siringa che
aveva riempito con il fluido prelevato dall’occhio le si piantò nella caviglia,
iniettandole il proprio contenuto direttamente nel flusso sanguigno.
Rani respirava a stento, la sua temperatura risultava pericolosamente
bassa e il plasma che Baltiel era in grado di produrre pareva fare ben poco
per alzarle la pressione sanguigna. Lei tremava ritmicamente e tutto quello
che Baltiel poteva fare era tenerla stretta, serrare i denti e aspettare che
Lante...
La sentì urlare... non solo di paura, ma in preda a una spaventosa
disperazione. Nello stesso tempo Rani fu percorsa da un sussulto e aprì gli
occhi, focalizzando lo sguardo su di lui prima che tornasse a farsi sfocato.
«Resta con me» la incitò. Il sistema riferiva i suoi spasmodici tentativi di
protendersi a casaccio con il collegamento incorporato negli impianti,
toccando le interfacce dell’habitat senza però trovare appiglio su di esse.
Riuscì tuttavia a sorridere, dapprima una cosa appena accennata che però
andò intensificandosi a poco a poco.
«Yusuf» gli disse. «Andremo a vivere un’avventura.»
Lui si sentì raggelare. Quelle parole erano pronunciate con voce troppo
energica per lo stato in cui lei era e avevano uno strano accento, pur sempre
quello di Rani ma in qualche modo sbagliato. Lei fu percorsa da un altro
brivido e Baltiel vide le sue dita muoversi a casaccio all’estremità delle
braccia, vagando con la stessa inconcludenza delle sue connessioni virtuali.
«Questa volta comprendiamo meglio» continuò Rani. «Yusuf, questa è
ancora la tua compagna, Kalveen Rani. Lei Io Noi sopravviveremo. Noi
faremo in modo che sia così. Sono stati fatti degli errori ma Noi-in-Lortisse
abbiamo reagito alla minaccia. Noi-in-Rani siamo Rani, comprendiamo tali
meravigliosi volumi e connessioni alla lontananza e alla vastità. Questi-di-
Noi sono Kalveen Rani, adesso, Yusuf e Kalveen Rani vivranno. Questi-di-
Noi scriveranno la sua immortalità nelle nostre biblioteche e lei non morirà
mai.»
A quel punto Baltiel era a tre metri abbondanti di distanza, dall’altra parte
dell’habitat, e Rani giaceva sul pavimento come un cadavere, tranne per il
fatto che la sua faccia era animata e girata verso di lui, e parlava.
«Yusuf, sono ancora io, noi io siamo qui. Comprendiamo tutto, adesso.»
«Sono certo che Lortisse avrebbe detto lo stesso» riuscì a ribattere lui.
«Sono stati fatti degli errori. Questi-di-Noi terranno conto della
robustezza di questa Rani. Meglio, adesso va tutto meglio, Yusuf. Tutto può
essere com’era, solo che sarà migliore e per sempre, Yusuf, per sempre.»
Amen, pensò lui, ma intanto stava cercando un’arma, una qualsiasi. La
testa di Rani ruotò in modo innaturale sul collo per mantenerlo nel suo
campo visivo. Lì non c’erano attrezzi da taglio, e quel genere di basilari
attrezzi brutali di cui i suoi antenati avrebbero potuto avere bisogno
venivano ora impiegati dai droni, perché chi aveva bisogno di sollevare un
dito per quel genere di lavoro?
Tranne... Quando il primo habitat era morto, non avevano forse
pianificato in previsione di una simile catastrofe, dopo che era stata loro
dimostrata la fragilità della loro vita tecnologica? E avevano conservato
quel... Continuando a osservare ogni movimento di Rani fece un inventario
degli armadietti sul sistema dell’habitat e la sua ricerca ebbe successo.
Attivò la visuale di una videocamera inserita nell’impianto perché guidasse
la sua mano annaspante, in modo da non dover distogliere lo sguardo dalla
cosa sul pavimento.
Finalmente lo trovò, qualcosa che avevano fabbricato sulla spinta del
panico e poi riposto con un lieve senso di imbarazzo per la forma di
pensiero primitivo che rappresentava. Qualcosa di primitivo e di
infinitamente rassicurante. Un’ascia con una lucida lama d’acciaio su cui
praticamente non c’era un solo graffio. Il suo peso lo fece sentire forte,
invulnerabile.
Il sorriso di Rani si accentuò ulteriormente in un tentativo orribilmente
fuori posto di apparire rassicurante.
«Yusuf, noi siamo ancora Kalveen Rani» affermò, in tono colloquiale. «E
di più, molto di più. Questo è il modo migliore. Questi-di-Noi stanno
crescendo e imparando. Quelli-di-Noi che erano Lortisse non capivano. Noi
abbiamo superato i loro sogni più sfrenati.»
«Smettila di usare il mio nome» le ingiunse, a denti stretti.
«Sono io, Yusuf» replicò lei, senza smettere di sorridere. «Siamo noi,
sono io, siamo noi me, Yusuf.»
Le si avvicinò tenendo d’occhio il sussultare spasmodico dei suoi arti, che
sembrava avvicinarsi sempre più a movimenti significativi e indirizzati.
L’ascia che aveva in mano era una fonte di selvaggio conforto.
«Yusuf» ripeté lei, ruotando la testa, con le pupille che vacillavano nel
tentativo di metterlo a fuoco.
Poi Lante apparve sulla soglia, chiedendosi senza dubbio cosa stesse
succedendo. «Per lei è troppo tardi» disse Baltiel. «L’ha presa.»
Lante parve pensare che fosse una cosa splendida.
«Andremo a vivere un’avventura» disse, pronunciando ciascuna parola
con una cura esagerata.
Yusuf emise un verso inarticolato e indietreggiò barcollando.
«È tutto a posto, Yusuf» gli disse lei. «Stiamo bene, stiamo tutti bene. in
realtà siamo stati liberati. È tutto così tanto, Yusuf. Ma capirai, Noi tutti
capiremo ogni cosa. Per quale altro motivo saremmo qui, se no? Non vuoi
finalmente sapere tutto?»
I suoi piedi barcollanti lo stavano portando verso la porta esterna.
Naturalmente non indossava la tuta, ma adesso la parte pericolosa di Nod
era nell’habitat con lui. Aveva già affrontato l’esterno in passato, anni
prima, ne aveva respirato l’aria impoverita ed era sopravvissuto, anche se lo
aveva fatto solo perché pensava che sarebbero morti tutti.
Lante avanzava con cautela verso di lui, come se cercasse di compensare
una pendenza del pavimento che non c’era. «Yusuf» sussurrò «siamo ancora
noi, ancora io. Io sono Erma. Tuttavia io noi io so di cosa hai paura. Lei noi
io lo proviamo a nostra volta, ma è meraviglioso, Yusuf. Noi siamo
meravigliosi. Abbiamo scoperto cose così strane e vaste che non le
avevamo mai sognate.»
Baltiel brandì l’ascia e quando in lei non ci fu nessuna traccia di un
sussulto umano con l’occhio della mente si vide mentre spaccava quel volto
familiare e da esso colava soltanto una scura melma fungina. Adesso aveva
aperto il portellone interno, usando il suo rango di comandante generale per
disattivare i protocolli di sicurezza dell’habitat e accelerare le cose.
«Non capisci, Yusuf» disse ancora Lante, mentre lui indietreggiava nel
compartimento stagno. «Questo ci dà di nuovo uno scopo. Siamo stati senza
averne uno per così tanto tempo. La Terra non c’è più, Yusuf, non ci sono
più umani. È ovvio che abbiamo scelto invece di studiare questo posto. Ed
esso loro Noi abbiamo studiato noi. Non dobbiamo essere qualcosa di
vecchio, stanco e logoro, Yusuf. Possiamo essere qualcosa di nuovo.»
E il vero orrore della situazione consisteva nel fatto che lui poteva credere
che Lante avesse in qualche misura ragione e che quello che gli stava
parlando fosse una sorta di versione priva di midollo e sterilizzata della sua
compagna di equipaggio. Espone le cose come le vede, e non posso sapere
come le veda o cosa voglia. Non credeva in parassiti alieni che di colpo
potessero conversare usando il linguaggio del corpo ospite, ma credeva in
parassiti che alteravano la chimica del cervello o manovravano fili neurali
in modo che l’ospite si convincesse di quello che tornava più comodo al suo
passeggero nascosto. E in qualche modo sta imparando. Diventa più abile a
manipolarli.
Il portellone esterno si aprì e l’atmosfera rarefatta di Nod gli fluì intorno.
Per un momento fu sul punto di scagliare l’ascia contro Lante, ma il valore
che essa aveva come sostegno per il morale era molto maggiore di quello
come arma a distanza. Invece si girò e corse verso la navetta.
Mentre correva inviò segnali per collegarsi ai suoi sistemi. Il terreno
tremò quando i motori cominciarono a riscaldarsi. Il vecchio velivolo era
rimasto a lungo là sulle rocce senza essere usato e non sapeva se la nebbia,
la pioggia o qualche altra spiacevolezza locale vi fossero penetrati, ma al
momento non aveva il tempo per un’ispezione adeguata. Avrebbe
funzionato o non lo avrebbe fatto.
Raggiunse il portellone, a cui aveva ordinato di aprirsi alcuni momenti
prima. Era chiuso. Si collegò di nuovo ai sistemi della navetta e si ritrasse
di scatto nell’incontrare un pasticcio di comandi contradditori. Lante stava
cercando di collegarsi, e così pure Rani. Avrebbe dovuto essere in grado di
escludere entrambe, ma inondavano la navetta di caotici tentativi di
interfacciarsi con essa, come un ubriaco che armeggiasse con la chiave
della porta di casa, e il risultato era un involontario rifiuto di obbedire che
teneva fuori anche lui, mentre la navetta cercava di elaborare troppe
interrogazioni contemporanee.
C’era una voce folle e rauca che urlava, il cui suono veniva portato via dal
vento che gemeva sulla palude salmastra, e si rese tardivamente conto che
era la sua, che stava gridando a quelle stupide macchine di obbedire ai suoi
ordini. Al confronto, le parole sconnesse di Lante e di Rani suonavano
razionali. Le lacrime gli bruciavano agli angoli degli occhi. Tutto era giunto
alla fine.
Stavano arrivando, naturalmente. Baltiel si girò per vederle: Lante
avanzava decisa, con le gambe incurvate e un gradevole sorriso sul viso
distorto dal sole fra il rosso e l’arancione. Rani la seguiva barcollando e di
tanto in tanto cadeva in ginocchio fra le pozze rocciose, lacerandosi gli abiti
e la pelle senza però avvertire nulla. Il suo sorriso era tanto largo da essere
doloroso, gli occhi erano dilatati. Lo chiamavano per nome.
Avevamo così tanti piani. Ma non era vero, non alla fine, non dopo quella
selvaggia disconnessione da tutto il loro passato. Da allora avevano soltanto
lasciato scorrere il tempo, scrivendo rapporti per nessuno, inventando
passatempi per nascondere il vuoto interiore. E adesso qualcosa era venuto
a riempirlo. Forse Lante – questa nuova Lante-marionetta – aveva ragione,
dopotutto.
Dentro di lui però qualcosa si ribellò a quel pensiero. Lui era Yusuf
Baltiel, era padrone di sé stesso, singolare, distaccato. Era il capo. Non si
sarebbe lasciato menare per il naso da un qualche parassita alieno.
Sollevò l’ascia e attese che si facessero più vicine.
9

«Disra? Disra, parlami, per favore. Ho bisogno di sentire la tua voce.»


Disra Senkovi fissò senza capire l’interno dell’alloggio dell’equipaggio
della Egeo, chiedendosi come mai fosse lì. Si collegò alle videocamere
interne di bordo e nel seguire i propri movimenti vaganti si rese conto che
ormai da tempo gironzolava senza meta di stanza in stanza. Probabilmente
in partenza aveva avuto un qualche scopo, ma se ne era dimenticato da
tempo. In preda a un panico improvviso richiamò un’immagine degli
obiettivi chiave della terraformazione, ma tutto era al passo o addirittura in
anticipo. Sapeva che se avesse indagato in modo dettagliato su come quegli
obiettivi erano stati raggiunti avrebbe incontrato un groviglio impenetrabile
di strane soluzioni, intuitive e all’apparenza perfino contraddittorie, e
tuttavia operavano insieme per rendere Damascus molto più abitabile per le
forme di vita terrestri.
Le ultime tracce di ghiaccio erano scomparse dai poli perché i grandi
specchi orbitali erano stati spostati dalla posizione originale per concentrare
il sole su quelle ultime tracce di ghiaccio. Il cento percento dell’acqua di
superficie era abbastanza ossigenato e la penetrazione era abbastanza
profonda da rendere abitabile anche la metà del fondale marino.
Le fabbriche della Egeo avevano continuato a frammentare meteoriti
portati a bordo dalla flotta di remoti in via di deterioramento e quei detriti
erano stati spediti lungo il pozzo gravitazionale fino a dove i Paul e le
Salomè e gli altri erano impegnati a costruire colonie, a espandere la loro
rete di buchi e di gallerie intorno alle diverse installazioni di
terraformazione, creando delle città. Non aveva detto loro di fare nulla di
tutto questo, ma non era neppure intervenuto per fermarli. Aveva continuato
a osservarli, e alla fine si era reso conto di aspettare che avessero bisogno di
lui, che combinassero qualche casino. Ma non lo avevano fatto. E questo
significava che non avevano bisogno di lui.
Gli parlavano ancora, ma adesso aveva la sensazione che fossero assorti in
altre cose e lui fosse soltanto un elemento del loro complesso calendario
sociale. Quando li chiamava almeno alcuni di loro ascoltavano, ma i loro
modi gli davano l’impressione di esprimere una sorta di affettuosa nostalgia
per un qualche amico immaginario dell’infanzia.
Ho avuto successo al di là dei miei sogni più sfrenati, pensò. Al di là dei
desideri di Baltiel, questo è certo.
Poi ricordò di aver ricevuto una raffica di messaggi in quell’ultimo minuto
circa, cosa che lo fece tornare in sé. Sono nei guai?
«Yusuf?» chiamò, collegandosi e permettendo all’immagine di Baltiel di
apparire sullo schermo più vicino. Era da moltissimo tempo che non
scendeva negli alloggi dell’equipaggio, riverberanti di vuoto.
«Disra, ascoltami!» Baltiel aveva un aspetto orribile, era grigio e teso.
«Stai... stai bene?» Senkovi gli chiese con cautela. Baltiel era incastrato
nel sedile di pilotaggio di una navetta, con la barba lunga, gli occhi
stralunati e aveva l’aria di non essersi lavato da un mese. «Si tratta di Gav,
è...»
«Ascoltami!» Baltiel stava quasi urlando. «È morto. Lante è morta, e
anche Rani. Disra, quella cosa li ha presi, ha...» Senkovi lo vide sforzarsi
visibilmente di ritrovare il controllo. «Ascoltami e non parlare, limitati ad
ascoltare. La cosa che è entrata in Lortisse lo ha in qualche modo infettato.
Gli ha attaccato la mente. Lo controllava Disra, non era più lui.» Un brivido
e un singhiozzo scossero il comandante generale, e questo più di qualsiasi
altra cosa trattenne Disra dall’interloquire. Baltiel era sempre stato l’uomo
di ghiaccio, aspro e distante, privo di sentimenti. Questo non era lo stesso
uomo. Si è spezzato, pensò come intorpidito.
«Ci ha attaccati. Ha preso Lante e Rani, le ha infettate. E con loro il
contagio ha lavorato più in fretta. Giuro che quella roba imparava. Aveva
capito come arrivare alla nostra biologia, alla nostra neurologia! Non so
quanto possa sembrare folle, ma è vero, mi devi ascoltare. Li ha presi, tutti
quanti. Non erano loro stessi, giuro che alla fine non lo erano, Disra. Anche
se lo sembravano, anche se...» I muscoli si contrassero agli angoli della
bocca di Baltiel, come se stesse ricacciando indietro il vomito. «Ho dovuto
ucciderli Disra. Ho dovuto.»
Senkovi fissò le chiazze che costellavano gli indumenti sporchi di Baltiel.
Era stato sul punto di chiedergli perché avesse aspettato tanto a riferire
notizie di vitale importanza, ma le parole gli vennero meno di fronte a
quell’ultima rivelazione. Quello è sangue? Di Lortisse? Di Rani?
«Ti sto mandando tutte le immagini dell’habitat» sussurrò Baltiel.
«Giudica tu stesso. Rimango convinto di quello che ho fatto, anche se...
anche se ho... quello che ho fatto... ho dovuto... Disra, quella roba è letale.
Stai lontano da Nod. Non ci possono essere altri contatti fra noi.»
«Io...» Poi a Senkovi le parole vennero meno mentre esaminava le
registrazioni, ora accelerandole e ora rallentandole, sentendo a tratti voci
familiari dire cose abominevoli. «Impossibile» sbottò, fissando le prove che
lo smentivano. E poi aggiunse: «Morti...» Anche se non potevano esserci
dubbi al riguardo. Era qualcosa che Baltiel avrebbe confessato essere uno
scherzo?
«Ho dovuto farlo, Disra... non c’era scelta.»
Siamo soltanto tu e io, pensò lui. Gli venne l’idea assurdamente egoistica
che adesso Baltiel non gli avrebbe fatto problemi per quello che era
successo su Damascus, ma l’allontanò e cercò di avvertire la giusta dose di
dolore e di orrore. Quei sentimenti però lo elusero. Ricordò come fosse
stato colpito dalle altre morti... di Skai e di Han, e naturalmente di tutta
l’umanità così come loro la conoscevano. Quello lo aveva colpito nel vivo,
ma in qualche modo questa nuova tragedia era troppo vasta per affrontarla.
Lante, Rani, Lortisse... di certo non potevano essere morti. Non potevano
essere stati conquistati da una qualche infezione aliena ed essere morti in
rapida successione. Non aveva visto nessuna ripresa all’esterno dell’habitat,
non aveva visto Baltiel vibrare colpi d’ascia. Non erano morti.
Qualcosa lo tormentava, qualcosa che era un residuo del suo pensiero
infantile riguardo ai piani di Baltiel per Damascus, che si univa a qualcosa
nel rapido scambio della loro conversazione. Si attaccò a questo perché era
più facile che far fronte a quello che gli era stato detto.
«Yusuf,» cominciò lentamente «hai affermato che non ci possono più
essere contatti a causa di questo, di quella cosa e di ciò che è successo.»
«Sì» confermò immediatamente Baltiel. «Quella roba, quel parassita,
Disra, è...»
«Allora perché sei su una navetta diretta qui?»
«Io...» A quel punto ci fu un momento in cui un’assoluta disperazione si
dipinse sui lineamenti di Baltiel, la realizzazione che il più orribile dei
destini si era concretizzato, irrevocabile ed eterno, senza che lui lo sapesse.
Poi quell’espressione scomparve, consumata dallo sguardo mite che venne
a sostituirla. «Perché andremo a vivere un’avventura.»
Senkovi lo fissò, sentendosi raggelare. «Cosa?»
«Dovevo andarmene, Disra» affermò Baltiel, superando quel momento di
estraniazione come se non fosse mai esistito. «Noi... dovevamo
semplicemente allontanarci. Non potevamo restare là, non dopo che... dopo
quello che avevamo fatto.»
«Yusuf, parte di quel sangue è tuo?»
«Una cosa da poco, una quantità quasi insignificante.» Baltiel lo fissò, e
Senkovi cercò di ritrovare in quegli occhi, in quella faccia, l’uomo che
conosceva.
«Yusuf.» Deglutì a fatica. «Sto per chiederti di invertire la rotta della
navetta. Torna su Nod. Torna sul pianeta.» Sto davvero facendo questo?
«Non ti posso permettere di venire sulla Egeo. Di venire su Damascus...»
«Sto arrivando, Disra. Voglio quegli spazi e quelle distese che ricordiamo.
Possiamo vedere immagini e mappe ma non la cosa reale, non ancora. È
tutto a posto, Disra.»
«In realtà non lo è.» Senkovi aveva le mani tremanti. «Torna indietro,
Yu... torna indietro, qualsiasi cosa tu sia. È chiaro che mi puoi capire,
almeno in parte. La Egeo è dotata di laser anticollisione e sono intenzionato
a usarli se ti avvicinerai a me o a Damascus. Non permetterò che venga...
infettato.»
«Disra, non ci trattare così.»
«Giuro che lo farò.»
«Non lo farai.» Il sorriso di Baltiel era beato. «Noi possiamo protenderci e
toccarti anche da qui. Mentre parliamo siamo con te, in tutti i tuoi spazi.
Conosciamo gli override e i comandi per impedirti di farci del male. Disra,
vogliamo soltanto esplorare. Stiamo vivendo un’avventura.»
In preda a un panico improvviso, Senkovi si immerse nei sistemi della
Egeo per cercare di prendere il controllo dei laser, ma veniva bloccato
perché Baltiel aveva usato i suoi codici di comando.
«Posso aggirare questi blocchi» disse. «Sono sempre stato un hacker
migliore di te.»
«Lo pensavo» rispose Baltiel, sereno. «L’ho sempre saputo. L’abbiamo
sempre saputo.»
«Alla fine» ringhiò Senkovi, ora a denti stretti.
«Stiamo arrivando, Disra. Siamo ancora Yusuf, il tuo amico. Non faremo
nulla di male. Non sarai mai di nuovo solo. Non è una cosa bella? Yusuf,
questo contenitore, e Questi-di-Noi comprendiamo ora che tutti i limiti del
tuo mondo sono inutili. Noi siamo molto più grandi. Tu espandi il nostro
mondo, noi curiamo la tua singolarità. Non è una cosa buona?»
Senkovi stava lottando contro le barriere innalzate con così poco sforzo da
Baltiel, ma era sgradevolmente consapevole che quel ‘l’abbiamo sempre
saputo’ dovesse avere le sue radici nelle conoscenze originali dell’umano
perché non era mai stato tenuto a bada così. Quel bastardo non ha mai detto
niente. Sapeva che prima o poi sarebbe riuscito a passare. Secondo la sua
umile valutazione, adesso era l’umano più intelligente dell’intero universo.
Il tempo però scarseggiava. Controllò la velocità di avvicinamento della
navetta, che adesso si misurava in ore. Aveva quelle ore? Aveva impostato
dozzine di algoritmi perché violassero quei codici, ma adesso nel tornare a
controllarli li trovò smantellati, in pezzi, con Baltiel che si aggirava sulla
spiaggia distruggendo a calci i suoi castelli di sabbia. In preda alla
disperazione, ampliò la comunicazione a includere il pianeta sottostante
perché il minimo che poteva fare era avvertire la sua creazione che
l’Armageddon stava per abbattersi su di essa. Evidenziò la navetta a loro
beneficio, etichettandola con tutti i possibili simboli di pericolo. Non vi
avvicinate, predatore, mostro, pericolo, da evitare, da sfuggire. Di certo
però quello che stava arrivando era qualcosa che non poteva essere evitato,
non a lungo. Tutto ciò che aveva realizzato a prezzo di tanto duro lavoro,
l’intero futuro che aveva costruito, sarebbe perito.
«Non so con chi sto parlando» trasmise alla navetta. «Se in qualche modo
Yusuf è lì, per favore, non fatelo. Prendete Nod, è il vostro mondo, ma
costruite là, crescete su di esso, per favore. Ma non venite a rovinare quello
che ho qui.» In quest’ultimo stadio scoprì in sé una strana purezza. I suoi
pensieri, le sue paure erano tutte per la cultura che stava sbocciando nei
mari di Damascus e non per sé stesso. «Oppure prendete me, prendete la
dannata nave, portatela via, ma lasciate in pace il pianeta. E se sto parlando
a... se non è Yusuf, o se c’è qualcos’altro che mi può comprendere
attraverso il suo cervello, allora... che cosa volete? Cosa vi posso dare
perché ci lasciate in pace?»
«Cosa c’è da rovinare?» replicò la voce pacata e ragionevole di Baltiel.
«Abbiamo scoperto distese così vaste in questi ospiti, ma dentro di loro c’è
una vastità più grande.»
«C... cosa?» Senkovi smise addirittura di lavorare ai codici per capire
quello che gli veniva detto. «Una vastità più grande all’interno di...»
Avvertì un sussulto, come se la gravità fittizia indotta dalla rotazione della
nave si fosse di colpo orientata verso la parete. Un’infezione aveva
contagiato l’equipaggio dell’habitat, qualcosa che in precedenza era stato
un parassita delle forme di vita nodiane, come quelle povere testuggini, e
che aveva trovato il modo di adattarsi al nuovo ambiente alieno. Aveva
trovato il cervello – era una cosa che ricordava dagli appunti di Lante
riguardo a Lortisse – e in qualche modo si era insinuato nel processo
cognitivo umano, in grado di influenzarlo e di cambiarlo, ma forse anche di
ricevere da esso. Cosa poteva aver capito? Lo spazio, il viaggio
interstellare, la storia della civiltà umana: una vastità più grande.
«Non possiamo essere limitati, adesso che sappiamo cosa significa la
vastità» disse Baltiel. «Sappiamo che lo capisci. Altrimenti perché voi tutti
avreste lasciato il vostro contenitore natale per abitare questi spazi lontani?»
La sua intonazione continuava a cambiare e sussultare, ora con la precisione
scandita propria di Yusuf Baltiel, ora tremando con degli strani accenti e
con il contrarsi della gola a mano a mano che l’occupante che lo controllava
forgiava nuovi concetti con parole umane.
Senkovi rimise in moto i suoi agenti virtuali cercando di coprirne le tracce
e tenendo d’occhio la caccia che Baltiel dava loro. Ed era lui, o quantomeno
loro stavano usando quella parte di lui. La capacità di credere di Senkovi
era già estesa al limite di rottura, ma non gli permetteva di attribuire a una
qualche consapevolezza aliena la capacità di sondare la mente di Baltiel e di
sfruttare le sue conoscenze e il suo talento senza fare ricorso alla sua diretta
capacità di giudizio. Quello era Baltiel, il comandante generale della Egeo,
solo che la sua mente danzava alla musica di un nuovo padrone. Cosa si
prova a essere lui? Ne è anche solo consapevole? È felice? Poi, il cupo
seguito a quei pensieri: Immagino che lo scoprirò presto.
«Solo la nave, per favore, non il pianeta» sussurrò, ma Baltiel – il Baltiel
di cui vedeva la faccia sullo schermo – non reagì.
Controllò i segnali provenienti da Damascus, ma le colonie di ottopodi di
rado lo contattavano direttamente. Lui inseriva idee e informazioni nel loro
spazio virtuale condiviso e loro usavano i dati in qualsiasi modo venisse
richiesto dai loro strani processi mentali. Ormai da molto tempo aveva
rinunciato a cercare di addestrarli e di limitarli, e da allora tutto era filato
molto più liscio. Ogni generazione aveva più inventiva, era più ingegnosa
nel suo capovolgimento della tecnologia che aveva dato loro. Di recente
aveva visto segni indicanti che replicavano i macchinari di cui avevano
bisogno (o che avevano deciso essere necessarie in numero maggiore per
loro ragioni ignote). Avevano convertito alcune delle macchine in modo da
produrre pezzi di ricambio e li stavano assemblando secondo combinazioni
del tutto nuove. Per la maggior parte del tempo lui non aveva idea di cosa
stessero costruendo, e adesso non lo avrebbe mai saputo. Loro sono sul
punto di prendere in mano il loro destino e non ne avranno la possibilità.
A volte alcuni di loro lo contattavano. Circa una dozzina, sparsi per il
pianeta, gli mandavano messaggi. Non erano preghiere, naturalmente, e di
certo non erano rapporti tecnici o cose così comprensibili. Erano schemi
che mutavano e danzavano, colori e forme che cambiavano con una fluidità
che gli dava le vertigini. Alcuni di quei messaggi arrivavano taggati con
codici di errore e set di dati, contrassegni di identificazione, codici di
accesso. Aveva l’impressione che cercassero di rendere i loro messaggi
comprensibili per un umano, ma il divario fra le sue dita protese e i loro
tentacoli era ancora semplicemente troppo grande.
Si chiese se gli mandavano ancora poesie.
Esaminò i dati provenienti da Damascus, nel caso gli arrivasse un
qualsiasi ultimo messaggio dal suo popolo condannato. Continuavano a
lavorare, tutte le macchine sul pianeta lo informavano diligentemente degli
usi poco ortodossi a cui venivano adibite, perfino quelle in orbita.
Perfino quelle in orbita.
Lasciò che le sue interrogazioni sfiorassero i dati senza andare a fondo
perché Baltiel era ancora nel sistema e di colpo lui si sentiva come qualcuno
che si trovasse in una vecchia casa con un assassino e cercasse di non
respirare mentre ascoltava per cogliere il fatale scricchiolio delle assi del
pavimento. Naturalmente Baltiel non aveva tagliato i suoi contatti con il
pianeta perché in realtà non gli importava dei polpi e di quello che facevano
là. E se Baltiel li ignorava, lo avrebbe fatto anche quella cosa ibrida che
sedeva dietro i suoi occhi.
Senkovi effettuò un altro passaggio sugli stessi punti, scaricando un vero e
proprio pagliaio di dati per nascondere al suo interno un singolo ago
affilato. Seguì la logica di quello che vedeva succedere, effettuò alcuni
calcoli mentali e per il resto decise che avrebbe dovuto confidare nel modo
di vedere di Paul e degli altri polpi.
«Baltiel. Yusuf» disse, lungo la linea di comunicazione con la navetta.
«Sei davvero là dentro? C’è qualcosa di te che può sentire questo?»
«Certo che ti conosciamo, Disra. Siamo tutto il sapere, la memoria e le
informazioni che noi il tuo buon amico possediamo, ma con una
comprensione più grande, più ampia.»
Sa cos’è la personalità? È là, nei ricordi di Yusuf, nei suoi rapporti con
me e con gli altri, nell’opinione che aveva di noi, nelle sue peculiarità. Ma
forse a quella cosa sembrano solo imperfezioni poco efficienti.
«Siamo lieti che tu abbia accettato lo stato delle cose» aggiunse Baltiel, e
Senkovi si rese conto di aver smesso da qualche tempo di cercare di violare
i codici di comando. Lasciò che la cosa-Baltiel ne traesse le conclusioni che
voleva e si limitò a guardare il movimento di vaste forme intorno a
Damascus, deducendone le attività dalle ombre che proiettavano nei dati.
Gli specchi orbitali, tutti quanti: erano stati costruiti intorno al pianeta per
intercettare la luce solare in quei primi giorni, quando veniva intrappolata
dallo smog delle emissioni vulcaniche e microbiche, in modo da
trasformare il pianeta in una serra e portarlo alla vita. In seguito erano stati
trasportati intorno a Damascus per sciogliere i ghiacci in aree chiave,
avviando le reazioni a catena del riscaldamento e delle correnti, smuovendo
gli oceani e diffondendo ossigeno. Ancora un decennio e probabilmente
sarebbero diventati inutili e sarebbero stati smantellati. Dopotutto, lo scopo
della terraformazione era di creare qualcosa di stabile che non avesse
bisogno di giocattoli del genere.
Adesso si stavano spostando in una grande danza pesante, cambiando la
direzione in cui erano rivolti in modo da racchiudere il sole nelle loro mani
argentee e di indirizzarne la luce e il calore verso un singolo punto rovente.
Si flettevano, si concentravano, e così facendo generavano abbastanza
calore da sciogliere un’era glaciale, tutto su un’area ristretta che si trovava
sul percorso di volo della navetta. Senkovi non aveva mai immaginato che
una cosa del genere fosse possibile, ma i nuovi signori di Damascus
avevano visto il suo nodo gordiano e trovato una lama con cui tagliarlo.
Il punto focale era necessariamente vicino al pianeta, i calcoli erano
imprecisi e perfino affrettati, se i polpi avvertivano la premura come faceva
un umano. Senkovi guardò la navetta entrare ignara nel punto cruciale e
subire il pieno impatto del sole del sistema, sempre più ingigantito finché
perfino le piastre protettive per il rientro nell’atmosfera si staccarono come
pelle scuoiata, il reattore si spaccò e la forza dell’esplosione scaraventò la
navetta fuori dalla precisa rotta di approccio che stava tentando di seguire,
con il contenuto del compartimento dell’equipaggio che bolliva come una
zuppa stracotta.
Poi, precipitando di muso, la navetta piombò nell’atmosfera come un
meteorite rovente e continuò a bruciare fino a incontrare il mare.
Presente 3
Rimuovendo la pietra
1

Helena sogna suo nonno.


Era stato un vecchio duro, è così che lo ricorda. Uno dei membri più
anziani scesi dalla Gilgamesh, sia per gli anni vissuti che soprattutto per il
tempo oggettivo trascorso dalla sua nascita. Ricordava la Vecchia Terra
come nessun altro: non l’Antica Terra di Kern, ma le sue rovine da cui la
seconda civiltà umana era uscita con le unghie e con i denti quando non
c’era più altra alternativa se non quella di morire di fame e di malattia.
Un vecchio duro che era sopravvissuto a molti dei membri della prima
generazione più giovani di lui. Dopo che il Vecchio Karst era morto per una
disavventura nello spazio e Vitas non si era mai del tutto abituata ai nuovi
padroni di casa e così tanti altri se ne erano andati, il nonno aveva tenuto
duro, sempre più nodoso, considerato dalla successiva generazione (e da
quella dopo, a cui apparteneva Helena) come una sorta di monumento
vivente. A parte le sue storie su Com’Era Stato, lui era l’ultimo
collegamento che chiunque potesse avere con Isa Lain, che aveva guidato
gli umani fino a quel luogo dove erano finalmente diventati Umani.
Negli ultimi anni, però, il nonno si era indebolito. Helena ricordava, del
tempo in cui aveva cinque o sei anni, come lui si svegliasse urlando e
gridando, inconsolabile, mentre colpiva le pareti con il bastone di Lain.
Erano gli inverni a scatenare quelle crisi: non si trattava soltanto del sentore
di mortalità che il freddo porta sempre con sé per le persone anziane, ma dei
suoi ricordi di passati risvegli dal sonno criogenico. Alla sua età, perfino
l’equatore diventava troppo freddo, di notte. Helena ricordava le sue storie,
ricordava registrazioni delle sue narrazioni o perfino quelle tratte dagli
archivi della Gil, risalendo a quando lui era più giovane e ancora nello
spazio. La sua vita era stata scandita da orribili risvegli dal sonno
criogenico mentre la nave arca portava avanti la sua odissea lunga secoli.
Ogni volta si era ritrovato in un altro tempo, in un altro mondo meno adatto
all’insediamento umano. Era su questo che aveva incubi: non sul freddo
stesso, che era solo il fattore scatenante, e neppure sul fatto che potesse non
svegliarsi, anche se quella era stata una possibilità concreta con il supporto
vitale della Gilgamesh che funzionava sempre peggio. Temeva di svegliarsi
di nuovo in un mondo che non capiva, dove tutti gli altri erano andati avanti
e lo avevano lasciato indietro. Adeguarsi all’ospitalità dei Portiadi era stato
difficile per tutti i superstiti della nave, e il nonno aveva trascorso la
maggior parte della sua vita sul pianeta in una riserva umana mentre la
gente imparava le usanze dei suoi ospiti. Lui però aveva gestito la cosa
senza problemi, perché in quella situazione erano tutti insieme e si
muovevano tutti attraverso il tempo con la stessa velocità. Aveva riservato
la sua paura di perdere di nuovo il contatto soltanto ai suoi parenti, alla sua
specie, e tuttavia, vivendo in una società che subiva mutazioni costanti
mentre imparava ad arrivare a una distensione collettiva con i ragni, quello
sarebbe stato sempre il suo destino. Non c’era quindi da meravigliarsi che
quei suoi ultimi inverni fossero stati tormentati dal terrore notturno di
svegliarsi in un modo dove per lui niente era comprensibile. Nel sogno, da
cui ora Helena si sforza di liberarsi, lui lottava con le coltri (di seta,
naturalmente), urlando e colpendo come era solito fare, e lei non riusciva a
svegliarlo o a consolarlo mentre tutto intorno il ghiaccio cresceva sulle
pareti come non aveva mai fatto sul Mondo di Kern, frammentandosi in
alberi ed escrescenze dall’aspetto fantastico e avanzando verso di loro fino
a quando il suo gelo non le si radicava nelle ossa e capiva che se non fosse
riuscita a riscuotere il vecchio dai suoi sogni sarebbero congelati entrambi,
perché lui portava loro il gelo delle camere del sonno criogenico, estratto
faticosamente dai suoi ricordi tormentati.
Il sogno le dà l’impressione di durare da sempre ma può essersi
impadronito della sua mente soltanto negli ultimi momenti prima del
risveglio, mentre passava dalla sospensione vitale al sonno profondo
attraverso il raggio d’azione della sua sparsa attività cerebrale per poi
svegliarsi completamente, così raggelata che le sembra la stiano bruciando.
È per metà fuori dalla sua tuta – o quantomeno un braccio, la spalla e un
seno sono esposti, come se avesse avviato un provocatorio spogliarello
mentre veniva congelata. La trazione che la tiene pigramente adagiata
contro il pavimento metallico è in parte una debole forza di gravità ma
soprattutto un campo elettromagnetico che agisce sul suo equipaggiamento.
La pelle esposta è fredda e intorpidita, segnata da strani lividi simili a
frattali, spirali fatte di cerchi, che vanno dalle dimensioni di un pollice a
quelle di una lentiggine, in vortici che sono ovunque, e ogni giuntura le
duole come se fosse stata strattonata all’indietro. Sedersi risulta un’impresa
al di sopra delle sue capacità e torna ad accasciarsi sul freddo metallo, con
la mente che va di nuovo alla deriva.
Grandi frammenti di ricordi si stanno ancora inserendo al loro posto nella
sua testa ma alcuni sono chiaramente irrilevanti o perfino inventati e lei ha
difficoltà ad assegnare importanza a ogni singola memoria. Questo porta a
una nuova sequenza di sogno frammentaria, nella quale lotta per aprirsi un
varco in un archivio di file corrotti nel tentativo di assemblare la propria
mente attingendo al contenuto dell’archivio stesso, e continua a scoprire che
sezioni di dati di collegamento di importanza vitale mancano o sono stati
archiviati male o tradotti in modo da diventare incomprensibili. I dati stessi
esistono solo come informazioni emotive o sensoriali, il che sembra privo
di rilievo in modo frustrante ma è anche una caratteristica comune dei suoi
sogni abituali, cosa che la porta a fare ancora più confusione fra cose che
succedono adesso e cose accadute in passato. Ormai però sta ritrovando la
lucidità e sa che tutto questo esercizio è poco più che lasciare la sua
immaginazione libera di correre in giro e di rendersi insopportabile. Per via
della lunga esperienza continua a vedere i dati dei file in termini di caratteri
leggibili, impegnando parti del suo cervello incompatibili con lo stato di
sogno in modo da riportarsi in stato di veglia. Riapre gli occhi, questa volta
per rimanere sveglia, e sente che gli strani elementi del sogno le gravano
ancora addosso come se il grande database fosse ancora appeso con un filo
alla sua mente, aspettando che lei lo cataloghi.
È in una stanza di metallo e plastica trasparente. All’inizio è difficile
determinarne le dimensioni perché tre delle pareti sono finestre che si
affacciano su camere simili, solo che nelle altre il pavimento è coperto da
quelli che sembrano detriti scolpiti in modo strano e sono illuminate in
modo altrettanto strano: una di un’opprimente colore violaceo, due di un
intenso azzurro-oro, come se fossero rischiarate da un sole invisibile che
splende attraverso l’...
L’acqua.
E le torna tutto in mente, tutto il contesto, anche perché indossa ancora
quasi completamente la tuta di sopravvivenza che Kern aveva preparato per
l’acqua. Lei e Portia erano...
Si guarda intorno, imprecando contro sé stessa. Portia è dietro di lei,
adagiata sulla schiena e ancora quasi completamente avvolta dalla tuta.
Mentre la osserva una zampa ha un sussulto.
Helena effettua un affrettato esame diagnostico dei guanti, scopre che non
sono danneggiati e ne appoggia uno sull’addome di Portia – sul fianco
piuttosto che sul lato ventrale esposto, perché i nervi principali dei Portiadi
corrono lungo il ventre e loro non amano essere toccati in quel punto.
Emette alcune vibrazioni di prova senza ottenere reazione ma stesa sul
dorso Portia non è nella posizione migliore per ricevere comunicazioni o
rispondere a esse. Infine, Helena tenta un collegamento diretto, da impianti
a impianti, e ottiene una reazione seguita da dati diagnostici medici. Portia è
cosciente ma sta ritrovando il controllo del corpo con estrema lentezza. Il
freddo è stato più aggressivo con lei che con Helena, causandole la perdita
di parecchie articolazioni delle zampe. Il gelo ha anche causato una certa
espansione dannosa all’interno del corpo e avrà probabilmente danni a
lungo termine agli organi interni che dovranno essere riparati o sostituiti se
ce ne sarà l’opportunità. E cioè se riusciremo mai a tornare sulla Voyager.
Helena sa che naturalmente sono prigionieri dei locali, degli ottopodi o quel
che sono.
Con l’approvazione di Portia si collega ai sistemi della sua tuta e attiva
una certa misura di riscaldamento accelerato che si spera riesca a rimettere
in fretta in piedi il ragno. Si domanda se può richiedere assistenza medica,
ma ha il netto sospetto che i loro carcerieri non saprebbero cosa fare con un
umano e tanto meno con un Portiade.
E tuttavia la reazione istintiva persiste: chiamare il sistema locale per
richiedere assistenza. È una cosa che è stata in grado di fare fin da quando
aveva diciassette anni e aveva finalmente ricevuto gli impianti di base che
entro cinque anni sarebbero diventati universalmente diffusi fra gli Umani.
C’era sempre un sistema di qualche tipo in ascolto, sia che fosse
un’architettura a formica dei Portiadi o uno umano basato sull’elettronica, o
gli ibridi superiori distaccati dalla stessa Kern.
C’è un segnale di risposta. Sussulta per la sorpresa, tanto che per poco
non assesta a Portia una gomitata nel cefalotorace. Qualcosa l’ha sentita,
qualcosa di stranamente familiare. È un po’ come interfacciarsi con gli
antichi sistemi della Gilgamesh, o tentare di dare un senso a un nodo Kern
di basso livello che in realtà non vuole parlare con te. Là fuori c’è qualcosa,
e la riceve.
Portia rabbrividisce, con le zampe che si flettono e si contraggono, e
trasmette a Helena una richiesta di assistenza. Conoscendo l’amica, Helena
sa quanto questo le deve costare. Dopotutto, nel loro rapporto è sempre
Portia la forza propellente e dinamica che si apre un varco attraverso la
società dei ragni e trascina la compagna umana nella propria scia. Helena le
si avvicina barcollando e fa del suo meglio per raddrizzarla, riuscendo al
quarto tentativo a farla rotolare sulle zampe, cosa che le fa consumare ogni
grammo di energia che le è rimasto in corpo. Portia si accoccola là,
tremante e sussultante, mentre lotta per ritrovare l’uso degli arti.
Siamo osservate, comunica infine, dopo una mezza dozzina di movimenti
impacciati e indecifrabili per l’equipaggiamento di traduzione di Helena. I
tremiti convulsi dei pedipalpi indicano una direzione, quella di una delle
camere vicine.
Helena guarda, non scorge niente, guarda ancora invano e alla fine capisce
che parte dello strano groviglio di materiale simile al cemento addossato
alla finestra è in realtà un ottopode, la cui pelle ha lo stesso colore e la
stessa consistenza del materiale a cui si aggrappa.
Fruga in giro fino a trovare il suo tablet abbandonato per terra ma
all’apparenza intatto. Cosa può dire? Niente di utile da un punto di vista
funzionale, ma attiva alcuni colori che spera siano amichevoli e li mostra
alla creatura.
Un occhio sporgente la fissa con distacco, poi il corpo della creatura passa
lentamente dal grigio al giallo limone e al rosa chiaro, tinte simili a quelle
scelte da lei. Il fiorire di quelle tonalità è ipnotico, affiora in modo
impercettibile su tutto il corpo e poi sbiadisce per cedere di nuovo il posto
alla mimetizzazione monocolore.
È un osservatore o un altro prigioniero? Ricorda l’aspirante diplomatico
venuto a incontrarli e il suo improvviso tentativo di fuga. Ce l’aveva fatta a
uscire? Le pare di no, quindi forse adesso è il loro vicino in quelle celle.
Una quarantena.
Si rimette la tuta e fa quello che può con l’apparato di riscaldamento
interno. La stanza è ancora gelida, ma almeno le sue batterie e quelle di
Portia sembrano essere... cariche. Questa è una cosa inattesa. Gli orologi
incorporati le dicono che sono rimaste svenute per giorni, probabilmente in
uno stato di coma, prima che i locali si degnassero di attivare il loro
risveglio. Controlla i registri, preoccupata che i dati siano corrotti e che
possa perdere di colpo tutta l’energia.
Hanno un campo di caricamento, balbetta Portia, in risposta alle sue
domande. La tuta ha inviato la richiesta e ricevuto una ricarica da remoto.
Protocolli del Vecchio Impero.
Quanto basta per essere compatibili, conviene Helena. Un senso di
eccitazione affiora lento dentro di lei, un ottimismo che non si sarebbe
aspettata appena cinque minuti prima, considerata la loro situazione. Segue
quel collegamento che ha scoperto in precedenza, aspettandosi di essere
respinta da protocolli di sicurezza o semplicemente ignorata. All’inizio non
ottiene niente: il sistema è abbastanza familiare da registrare la sua stretta di
mano ma nulla di più. Cerca di accedere a un assortimento di livelli,
risalendo la complessità dei contatti fino a eseguire il genere di
interrogazioni di manutenzione riservate di norma a quando le cose sono
davvero del tutto incasinate.
La sensazione è quella di aprire a spallate una porta già aperta. Di colpo,
si trova davanti a una colossale architettura di informazioni, così tante che i
suoi limitati sistemi interni si possono focalizzare soltanto su piccoli
segmenti, disposti in bizzarri blocchi e agglomerati di dati. Quasi tutto è
incomprensibile: numeri e dati privi di qualsiasi contesto o di formati
familiari. Alla fine insegue il coniglio nella tana, sempre più giù, nel
tentativo di costringere quella cosa a darle un qualche tipo di informazione
coerente, e invia gli antichi protocolli di cui i Portiadi si servono ancora –
tramite Kern – nella speranza che quella cosa possa rimandarle una qualche
eco. Usa quello che ha, che nel suo caso è scolpito soprattutto nel suo
software di traduzione. Hai qualcosa di simile? chiede al sistema. Che mi
dici di questo? Ha la sensazione di strisciare attraverso vaste rovine infinite
e pericolose alla ricerca di porte che potrebbero aprirsi con la chiave
coperta di verderame che il caso le ha dato.
Una lo fa: un qualche moncone del suo programma di interpretazione di
colpo viene accettato dal sistema ospite, riconosciuto e identificato, e una
serie di porte si spalancano con il contenuto degli archivi che si riversa fuori
finché non ce n’è più di quanto ne possa gestire e lei si deve ritrarre, un
livello dopo l’altro, sempre di più, fino ad avere un’idea di cosa sia quello
che sta guardando.
Tutto è archiviato sotto un set di intestazioni annidate e per la maggior
parte le sono incomprensibili, dati mai intesi per la catalogazione umana. In
profondità sotto quegli strati, tuttavia, scopre un nome che è chiaramente
umano: Disra Senkovi.
2

Essendo morta e un computer composto almeno in parte da formiche,


Avrana Kern ha soltanto risposte emotive limitate e artificiali. Riflette: le
formiche hanno risposte emotive? Individualmente, con ogni probabilità,
sono troppo semplici per avere qualcosa di più di primitive reazioni del tipo
combattere/fuggire. Il loro mondo è limitato all’architettura interna della
colonia e all’architettura più profonda del condizionamento che sono state
addestrate a seguire dai Portiadi. Non sanno di formare il substrato di una
mente più grande, non più di quanto lo sappiano le cellule del corpo di un
Portiade o di un Umano.
Si chiede anche se le versioni più grandi di Kern possano avvicinarsi a
reazioni che vadano al di là di quelle puramente intellettuali. Dopotutto,
sono più complesse di lei e possono contare su una più vasta capacità di
elaborazione. Se è così, però, lei non ne ha memoria.
Un ricordo affiora spontaneo dai più profondi e corrotti spazi di
archiviazione della sua mente: le opinioni di un certo professor Douglas
Haffmeier riguardo alla capacità dell’ancestrale, vivente, Avrana Kern di
avere una reazione emotiva. Irritata, lo cancella insieme a ogni riferimento
al respinto Haffmeier, perfino la sua soddisfazione per essergli
sopravvissuta in modo così assoluto.
Ha una registrazione di quello che aveva sperimentato quando si era presa
la libertà di usare gli impianti di Meshner e, inavvertitamente, anche il resto
della sua neurologia, ma non è in grado di comprenderla: per eseguire
quelle registrazioni a un qualche livello significativo sarebbe necessario
accedere all’architettura originale tramite Meshner e per ora non ha ancora
utilizzato di nuovo quella connessione. Lo sta monitorando con attenzione,
ed è innegabile che lui abbia subìto alcuni cambiamenti cerebrali che lei
caratterizzerebbe come ‘danni’, se non stesse spostando le valutazioni più
oneste su una subroutine. Allo stesso tempo, Meshner sembra non aver
subito cambiamenti sostanziali a livello di personalità. Anche adesso sta
cospirando con Fabian su quello che il Portiade maschio ingenuamente
ritiene essere un canale chiuso che passa attraverso gli impianti di
Artifabian. L’argomento della conversazione, naturalmente, sono gli
impianti e la loro ricerca. Kern è intenzionata a essere una mosca sul muro
(una parete interna del cranio di Meshner) quando riprenderanno la loro
indagine.
Il problema di Kern è questo: non sa cosa le manca perché è incapace di
sperimentarlo con le sue sole forze, ma allo stesso tempo è consapevole di
quell’assenza. Il suo mondo si era allargato e adesso è tornato a essere
costretto nella familiare camicia di forza, e non può neppure abituarsi a
quell’esperienza perché le viene negata in modo così evidente.
Essendo i membri dell’equipaggio che hanno la maggiore autorità e
capacità mentale, Viola e Zaine stanno discutendo da qualche tempo, a
tratti, sui pro e i contro rappresentati dal pianeta interno e dal suo segnale.
L’idea che questo contatto di origine umana possa servire per fare leva sugli
ottopodi, e che sia quindi un mezzo per recuperare quel che può essere
salvato di Helena e di Portia, è ancora in prima posizione. Kern interviene
di tanto in tanto per incoraggiarle. È consapevole che il suo è un
comportamento ipocrita, non perché sia in disaccordo con le loro opinioni
ma perché ha motivazioni parallele che non sta esternando. Vuole
incontrare chi invia il segnale. Vuole – o quantomeno ha costruito
un’ipotesi a cui sta dando un peso improprio – che sia qualcosa come lei, o
come lei era. È consapevole che sta truccando le carte dei suoi calcoli per
ottenere la risposta che desidera, ma allo stesso tempo quella è la risposta
desiderata, quindi conviene con sé stessa di ignorare per questa volta il suo
stesso stravolgere i calcoli.
Nei tempi in cui era un miscuglio di consapevolezza organica e di
personalità artificiale, affrontava le motivazioni conflittuali frammentando
la mente in schegge del tutto separate, ciascuna di esse con bordi affilati che
sfregavano contro quelli delle altre. L’informatica entomologica dei Portiadi
le elargisce un’ampiezza di potenza di elaborazione ideale per gestire
calcoli simultanei e perfino contradditori. Può eseguire due punti di vista
del tutto opposti senza nessuna difficoltà logica, fino a quando non arriva il
momento di intraprendere in contemporanea due linee d’azione in conflitto
fra loro, perché a quel punto la forma d’onda collassa e il gatto ipotetico
può essere soltanto o vivo o morto. Lei sa che allora dovrà intraprendere la
linea d’azione che meglio serve gli interessi della nave e dell’equipaggio,
ma eseguire l’esperimento di pensiero è una tentazione irresistibile: e se
avessi la possibilità di fare questo per me? E se le probabilità risultassero
tali da permettermi di conseguire i miei scopi personali senza
compromettere gli obiettivi generali? E a questo fanno seguito altri
inevitabili calcoli: In che modo, esattamente, si potrebbero favorire quelle
probabilità?
Da qui le sue decisioni, che indubbiamente avranno ramificazioni enormi
per l’equipaggio, se ha spinto le cose troppo oltre. A un certo livello, Kern è
consapevole di avere un problema. Nonostante il combattimento non è
danneggiata, ma i suoi momenti di funzionalità espansa nel panorama
mentale di Meshner l’hanno lasciata con la sensazione che quello che le
rimane adesso sia incompleto, disfunzionale. Parti di lei si protendono di
continuo verso le connessioni che ricorda di aver effettuato. Vuole
quell’essere più pieno, vuole connettersi a quella donna lontana che manda
il segnale, Erma Lante: due fini distinti ora fusi dalle subroutine in circolo
vizioso di cui si sta riempiendo la mente. Voglio essere di più.
Meshner sta avendo un altro attacco. Trincerandosi dietro la scusa della
sua generale responsabilità nei confronti della sicurezza dell’equipaggio,
Kern si collega ai suoi impianti. È un evento breve e innocuo, ma le dà una
momentanea espansione delle sue capacità, pervase di input sensoriali
alieni. A questo punto, è pronta a prendere tutto quello che può ottenere.
Meshner potrebbe rivivere i peggiori traumi della sua vita e lei li
assorbirebbe avidamente. Poi la crisi finisce, e lei si ritrova di nuovo non
solo in stato di privazione ma anche incapace di apprezzare quello che
aveva, consapevole soltanto di non averlo più.
I piedi di Fabian tamburellano e sfregano sul pavimento, piano perché
Viola è nelle vicinanze e indubbiamente avrebbe per loro qualche caustico
commento sul mettere a repentaglio la missione con le loro sciocche
ricerche. Artifabian percepisce quella necessità di passare inosservati e la
sua voce risuona come un basso mormorio. «Meshner, per favore, rispondi.
Quali sono le tue condizioni?»
Meshner fissa gli occhi primari del ragno. «È possibile che debba
disconnettere alcune funzioni dell’impianto.»
Tok. Il sussulto irritato di Fabian suggerisce fino a che punto quella sia
una risposta inadeguata.
«Era una delle tue Comprensioni. L’ho sperimentata. Si è tradotta in
modo... adeguato.» Si tratta di un passo avanti, su questo non ci sono dubbi.
Durante i numerosi giorni in cui hanno continuato la corsa verso il pianeta
interno, loro due hanno sempre lavorato. L’ozio forzato su un’astronave
gestita da un computer autosufficiente e possessivo è una benedizione per
quelli che devono andare avanti con sperimentazioni a lungo termine.
Mentre Helena, senza che loro lo sappiano, sta vagliando lentamente
centinaia di ore di dati visivi avendo come posta in gioco la vita e la libertà,
Meshner e Fabian hanno potuto avanzare nel labirinto del loro lavoro,
puntando lentamente verso un formato di esperienza portiade che la povera
mente umana di Meshner sia in grado di comprendere. Fuori dalle pareti
mutevoli della Lightfoot, intanto, c’è un sistema solare di molluschi che li
vogliono uccidere, ma non si può passare più di una certa quantità di tempo
nella morsa della paura prima di essere sfiniti da quello stato di cose. Per
contro, il lavoro dello sperimentatore prosegue in eterno.
Finché non produce effettivi risultati.
Meshner scopre che sta tremando. Gli sembra che gli arti siano di piombo,
e troppo pochi, i muscoli della faccia e dei pollici si contraggono a casaccio,
inducendolo a chiedersi se non stiano cercando di fungere da pedipalpi,
cheliceri e tutto l’intricato apparato mandibolare dei Portiadi.
Non ritiene di poter scendere nei dettagli. Fabian è stato troppo audace
nello scegliere cosa donare al suo collega umano. Dopo tentativi multipli,
due piccole crisi e troppi giorni di frustranti fallimenti, Meshner ha
compreso l’incontro che il suo collega ha organizzato per lui: otto secondi
di corteggiamento portiade dal punto di vista del maschio, una passata
relazione fallita di Fabian. Quello che gli rimane non è la danza, che a quel
tempo il piccolo maschio era consapevole di eseguire a livello dilettantesco
e goffo, ma il suo carico emozionale: speranza, vergogna, ancestrale paura
della morte e, sotto a tutto, una rovente ambizione e il risentimento della
sua compagna per il fatto che quello era il modo migliore che Fabian aveva
per favorire la sua carriera di scienziato. O forse Fabian aveva provato
qualcosa di completamente diverso e ogni sensazione aveva attivato a
casaccio un brano nella playlist delle emozioni umane. Meshner però non
ritiene che sia così.
La verosimiglianza di quell’esperienza lo stringe ancora nella sua morsa.
Una parte del software, o della sua mente, ha agito come traduttore
intelligente.
«Funziona» dice a Fabian. «Il problema può essere impedire che lo faccia
finché non possiamo controllare la cosa, ma funziona.» Guarda affascinato i
pedipalpi del Portiade perché quei piccoli sussulti e gesti gli parlano,
attivando ricordi residui che lo portano a interpretarli come linguaggio del
corpo umano. Improvvisamente si prenderebbe a calci per non avere i
guanti di Helena. Il movimento di piedi del ragno gli risulterebbe altrettanto
trasparente se potesse individuarlo?
I pedipalpi di Artifabian sussultano e Meshner si rende conto che
l’atteggiamento dell’automa suggerisce cautela mentre lui riferisce le parole
di Fabian. «Possiamo cercare di limitare la natura delle informazioni che
devi assimilare.» Segue un gesto che è ovviamente un elemento
qualificativo che esprime insoddisfazione. «Tuttavia, perdendo la ricchezza
dei dati perdiamo il valore dell’esperimento. Forse però possiamo trovare
qualcosa di più... meccanico.»
Meshner si sente stanco, senza più risorse, e sarebbe pronto a giurare che
il loro intermediario robotico si sta spingendo ben oltre il suo ruolo,
cercando di indurlo a rallentare il ritmo, ma la logica di Fabian pare
ineluttabile. «Qualcosa di semplice» conviene debolmente. «Però dammi...»
Fabian però si sta già dirigendo a una consolle, indubbiamente per
cominciare a buttare giù i suoi ricordi per copiarli in seguito. Meshner si
accascia, sentendo il cervello che gli si gonfia nel cranio pieno fino all’orlo
di troppi ricordi. Artifabian si tiene vicino, con i piedi che strisciano e si
muovono sul pavimento come a offrirgli mormorii pieni di sollecitudine.
Un’ondata di sinestesia minaccia di sopraffarlo: suoni tattili, odori visibili,
emozioni che si manifestano come colori. Abbandonando il senso di trionfo
di un momento prima, si sente di colpo convinto che quello che stanno
facendo sia impossibile e poco saggio.
Intercetta un’occhiata vagante di Zaine: è impaziente e irritata, come se
lui non stesse facendo la propria parte. Prova a camminare per uno o due
chilometri dentro questo cervello, pensa, ma Zaine è sempre stata una che si
concentra sul compito del momento, per cui riesce a essere soltanto
impaziente e irritata nei suoi confronti perché qual è il suo compito,
esattamente? Stanno andando alla deriva in questo sistema solare alieno,
hanno perso tre membri dell’equipaggio e sono diretti verso qualcosa di
completamente ignoto nella remota eventualità che possa risultare utile.
Meshner intuisce che tornare alla Voyager sarebbe la scelta più sensata, ma
significherebbe anche abbandonare Helena e Portia. Inoltre hanno visto di
cosa sono capaci le navi aliene. Se la Voyager facesse qualcosa di appena
più audace dell’abbandonare immediatamente il sistema diventerebbe
soltanto un bersaglio più grande per le navi da guerra.
Eravamo tutti così dannatamente ottimisti quando siamo partiti. E le cose
erano andate male e potevano andare molto peggio. Potremmo ritrovarci
con un’armata di queste navi che si presenta a casa, adesso che li abbiamo
avvertiti della nostra presenza. Magari otterranno i dettagli da Helena e
allora saremo tutti fottuti.
Raggiunge con passo strascicato una consolle e la configura per l’uso da
parte di un Umano seduto ricavando un sedile dalla sostanza del pavimento,
modellandolo e impostandolo perché sia rigido. Tuttora consapevole che a
tratti Zaine lo fissa con occhi roventi, richiama a schermo il segnale
proveniente dal pianeta interno e comincia a esaminarlo. Sa di essere
l’ultimo arrivato nel farlo, ma almeno sarà in grado di fare conversazione su
argomenti di attuale interesse, e di certo non manca loro il tempo per
assimilare la cosa.
Alcune ore più tardi si viene a trovare all’estremità sbagliata di una
discussione fra Viola e Zaine riguardo a cosa diavolo sia quello che tutti
stanno vedendo. Forse è un testo di storia naturale, o quantomeno è un
documento presentato nella forma che il Vecchio Impero utilizzava un
tempo per progetti del genere. Ci sono dati biochimici, una tassonomia,
diagrammi di quelli che potrebbero essere animali e che sono di certo
organismi viventi di qualche tipo. Ci sono annotazioni sull’ecologia, catene
alimentari, interrelazioni fra specie, ed è tutto impossibile, o forse solo
fantasioso. Niente è familiare, nessuna delle entità descritte in modo così
freddamente dettagliato è reale o quantomeno corrisponde a qualsiasi cosa
che l’equipaggio abbia mai incontrato o anche solo di cui abbia letto in
qualche romanzo speculativo. E la cosa continua: ci sono mucchi di dati e si
insinua nelle parole il senso del suo autore sempre più bizzarro, una voce
fuori dal tempo, Erma Lante.
La posizione di Zaine, esposta con considerevole energia, è che quella sia
un’opera di fantasia, un qualche resoconto fantastico generato
automaticamente. Viola sostiene il punto di vista opposto e questo
costituisce un’insolita frattura fra loro. Meshner ha però il sospetto che la
loro collaborazione a tre con Bianca avesse bisogno di quest’ultimo
elemento per essere stabile. Viola è entusiasmata dalla possibilità di forme
di vita aliene. A quanto pare ritiene che questo giustifichi tutto quello che
hanno patito, che i confini del sapere scientifico stiano per essere espansi e
che questo li ripaghi di ciò che tutti loro hanno sofferto e perduto. Meshner
fiuta (alla lettera, per un breve riaffiorare della sinestesia) qualcosa della
faziosità egoistica della sua posizione, perché è chiaro che può stare meglio
con sé stessa se tutto questo ha uno scopo. Entrambe cercano di reclutarlo,
mentre dal canto suo lui è più interessato al meccanismo in sé perché gli
pare che nessuna delle due opinioni abbia molto senso.
«È un sistema automatico che svolge quello che crede essere il suo lavoro.
O forse è semiautomatico, come l’entità proto-Kern incontrata inizialmente
dalla Gilgamesh» decide Zaine.
Meshner si chiede cosa ne pensi Kern – l’attuale Kern che sta traducendo
i due lati della conversazione – riguardo a quella descrizione e un momento
più tardi avverte in un angolo della testa una strana eco, una sensazione
passeggera di profonda riflessione, come se avesse in qualche modo
evocato un’emozione indiretta per conto di Kern.
«Perché una macchina dovrebbe inventare questa roba?» chiede a Zaine.
«Se è quello che le dice di fare la sua programmazione, allora è quello che
fa. Uno scenario evolutivo ipotetico, sviluppato senza controlli, produrrebbe
proprio questo genere di invenzioni.»
«E perché mai un simile scenario dovrebbe anche solo esistere in questo
contesto?» è la traduzione della replica di Viola. «In quanto fittizia, questa
roba è inutile, ma come documento reale contiene alcune affermazioni
notevoli.»
Viola è affascinata dalla possibilità di una vita che non abbia avuto
origine sulla Terra. Quel pensiero gli arriva nella mente come un sussurro,
accompagnato da onde di vertigini e da un breve alone arcobaleno intorno a
tutto quello che vede. Senza quei fenomeni, avrebbe potuto credere che
fosse un suo pensiero, ma quella reazione sensoriale gli dice che viene da
un’altra parte. Però non è una delle Comprensioni vaganti di Fabian.
«Kern?» chiede sottovoce.
Nella sua mente c’è solo un silenzio vuoto, che basta a dargli la
sensazione di aver immaginato la cosa, ma poi la voce ritorna e questa volta
riesce a tracciarne l’origine collegandosi con l’impianto ed evocando sensi
uditivi fantasma perché gli portino una voce che solo lui può sentire.
La tecnologia dei Portiadi e la diplomazia fra specie sono entrambe
fondate su una base biologica comune e utilizzano le capacità insite in
quello che trovano. Come potrebbero capacità così estese a un’intera
specie trarre vantaggio dallo studio di ciò che è davvero alieno? E finirà
per convincere Zaine. È sempre stata ambiziosa.
Meshner si immobilizza, ma quando ascolta non sente niente, nessuna
voce, solo il ruggito del suo stesso sangue nelle orecchie punteggiato da
momenti irregolari di sfasamento sensoriale: il solletico di peli di aracnide,
l’inesprimibile acutezza tattile che nessun Umano potrebbe sognare di
possedere, a parte lui, il sapore aspro di informazioni chimiche attinte
dall’aria. Un’immagine di sfuggita di un mondo molto più alieno di
qualsiasi pianeta di quel desolato sistema solare.
E nessuna voce. Dice a sé stesso che è stato un manufatto, che il suo
monologo interiore è stato reso udibile da qualche altro difetto del suo
impianto. E non ne è del tutto convinto.
3

Il creatore faceva riferimento a questa documentazione come alla


Senkoviade. Questo non significa niente per Helena, ma è chiaro che il
termine lo divertiva. Era stato un umano proveniente dalla vecchia Terra,
uno dei contemporanei di Kern. Helena si imbatte perfino in un riferimento
alla stessa Avrana Kern.
C’è una grande quantità di materiale. L’archivio da lei scoperto è vasto e
riesce quasi a immaginare che tutto sia coperto di polvere, non curato com’è
dai suoi proprietari e lasciato, ignorato, in un grande groviglio di
architettura elettronica. Non ci sono misure di sicurezza, ed è stato questo
che l’ha sorpresa all’inizio. Non appena ha configurato i propri protocolli di
accesso per adeguarli a qualcosa di tanto arcaico, è potuta passare come se
quel posto le appartenesse. Ovviamente, lei e Portia hanno passato dieci ore
molto impegnate cercando di accedere a sistemi di uso più pratico, solo per
scoprire che tutto ciò a cui avevano accesso era un enorme pantano di dati e
non, per esempio, le porte o il supporto vitale o anche solo una mappa.
Helena ha la netta sensazione che tutte quelle cose siano là fuori, parte di
quell’esteso panorama virtuale, ma che non vengano governate dalla stessa
logica e dalle stesse procedure di accesso del Vecchio Impero. Portia ci sta
ancora provando, coraggiosamente, perché è nella sua natura farlo, anche se
al momento è probabile che aprire una qualsiasi porta le farebbe morire
annegate. Senza alternative, ma con una quantità di tempo più che
sufficiente a disposizione, Helena è tornata al suo primo amore, perché
quella era anche l’ossessione dell’ultimo periodo di vita di Senkovi. E lei
sta imparando a tradurre.
Il Senkovi che incontra è un uomo che in svariate registrazioni va dalla
mezza età avanzata alla vecchiaia. Ha scritto e registrato ogni cosa in
Imperale C, ma lei si trova a dover lottare con il suo accento, il gergo e
svariati sistemi di abbreviazione che erano probabilmente di sua
invenzione, derivati dall’essere assolutamente privo di altra compagnia
umana. Senkovi si considerava l’ultimo essere umano dell’universo. Il più
delle volte esponeva quell’idea con leggerezza, trasformandola in una
battuta, ma in un paio di registrazioni appare in preda a una cupa, profonda
depressione mentre divaga con sé stesso sulla solitudine e sulla frustrazione,
citando i nomi dei morti, e parla della sua lontana casa da tempo perduta.
Helena intuisce che sotto c’era stato molto più di quello che ha modo di
vedere, che nei momenti di massima depressione lui spesso non se l’era
sentita ti attivare la registrazione.
Soprattutto, però, la sua ricerca fa affiorare sessioni in cui lui lavora con
i... soggetti del suo esperimento? Ha la sensazione che il rapporto fra
Senkovi e gli ottopodi sia cominciato là, ma nelle prime registrazioni che
riesce a tirare fuori lui e loro avevano già rinegoziato le rispettive posizioni.
Per deduzione è chiaro che Senkovi si trovava su una nave o su una
stazione orbitale e che il pianeta acquatico sottostante era il dominio degli
ottopodi che lui pareva aver modificato ma con i quali non poteva
comunicare in modo affidabile, almeno a questo punto della
documentazione. Sembrava non avere neppure un effettivo controllo su di
loro: andavano e venivano su e giù per il pozzo gravitazionale a seconda dei
loro capricci e desideri. Intuisce che Senkovi era stato un creatore che aveva
scelto il non intervento ma che aveva avuto il disperato bisogno di parlare
con le sue creature, e nelle registrazioni gli ottopodi sembravano altrettanto
desiderosi di parlare con lui. Il che è una cosa ideale per Helena, che adesso
ha una vasta biblioteca di sessioni in cui falliscono nel comunicare fra loro,
che per i suoi scopi le tornano molto più utili di una comunicazione
coronata da successo.
Portia, segnala, e il ragno solleva i pedipalpi per indicare che l’ha sentita.
Avrò bisogno di cannibalizzare parte del mio software di traduzione.
Il pedipalpo sinistro di Portia s’inarca in un gesto di aspettativa: Mmm?
Devo riconfigurarlo per adattarlo all’informazione visiva usata dai locali
in modo che mi dia almeno una traduzione di base di quello che cercano di
trasmettere. E francamente sarà un casino, perché non è... discreto. Credo
che non abbiano netti elementi su cui costruire: è una sorta di Gestalt di
colori e consistenze che forma un messaggio composito. Voglio dire, sto
guardando l’uomo che li ha creati, e lui ha lavorato a intermittenza per
decenni a questo problema, e anche se sono andata avanti non credo che
sia mai davvero riuscito a raggiungere con loro un’interazione a livello di
conversazione.
Portia solleva appena le zampe anteriori, un’eco di una reazione di
minacciosità, mentre contempla la portata di quel lavoro. Ma puoi farcela?
chiede, riponendo una considerevole fiducia nell’amica.
Io ho qualcosa che lui non aveva, risponde Helena, mentre cerca di
sfoggiare lo stesso ottimismo del ragno. Ho le loro comunicazioni attuali,
quelle a due canali. Sembra che abbiano trovato la loro attuale modalità di
conversazione molto dopo i tempi di questo Senkovi, e questo mi offre una
comprensione delle loro comunicazioni che lui non aveva, per cui posso
cominciare a costruire qualcosa partendo dal suo lavoro e forse dopo
potremo iniziare a parlare. Lo spera sinceramente, perché è una linguista e
le parole sono tutto quello che ha.
Portia la fissa abbastanza a lungo da indurla a chiedere. Cosa c’è?
Hai una grande fede nella capacità delle comunicazioni di risolvere il
nostro problema. E se fossero più che contenti di tenerci qui, che si parli o
meno?
Non possiamo permetterci di crederlo, replica Helena, con fede disperata.
Come ho detto, però, devo dedicare il mio software a questo, il che significa
che non posso mantenerlo configurato in modo che traduca per te e che
dovremo invece fare affidamento sul tuo.
Portia si immobilizza, all’inizio solo perché sta pensando, ma poi Helena
traduce il suo atteggiamento come l’equivalente di una manifestazione di
imbarazzo: è leggermente accucciata, come se sperasse di passare
inosservata.
Io... configurerò la giacca e gli impianti, risponde poi, imbarazzata.
Helena avverte una strana sensazione di tradimento. Hai fatto affidamento
sulla mia traduzione per tutto questo tempo? Certo, era stata ansiosa di
riuscire a parlare a Portia nella lingua dei ragni, di ascoltare attraverso i
guanti, ma aveva supposto che Portia stesse eseguendo un programma
simile per capire gli Umani. In un momento che le dà un senso di vertigine
vede la situazione dal punto di vista del ragno. Certo, gli Umani facevano
sforzi per comunicare con i Portiadi, imparare il loro linguaggio e imitare le
loro capacità sensoriali, ma perché i Portiadi, i padroni di casa e i sovrani
del Mondo di Kern, avrebbero dovuto investire tanta fatica per parlare e
ascoltare come Umani? Il pensiero che perfino Portia possa non vederla
come una sua pari, nonostante gli anni passati insieme, è deprimente. Le
due specie stanno ancora costruendo quel ponte fra loro, filo dopo filo,
anche dopo due generazioni.
E così si rivolge a quell’altro ponte, quello che sta a lei costruire,
lavorando sulla traballante impalcatura eretta tanto tempo prima da Disra
Senkovi. Lui era stato un ricercatore incostante, concentrato e ossessivo in
alcune sessioni, frustrato in altre, e fra le sessioni ci sono poi lunghi vuoti
corrispondenti a periodi in cui lui aveva chiaramente perso la voglia di
continuare. Le sequenze di registrazioni sono incomplete, alcune sono
danneggiate. Le mancano le pietre miliari e deve riempire i vuoti, ma il
tempo è tutto ciò che ha.
A tratti arriva del cibo, una sorta di impasto di pesce che è amaro ma
commestibile. A volte le luci si abbassano, anche se non con un qualche
schema che lei riesca a individuare. Nella camera accanto l’ottopode
solitario si avvicina alla finestra per fissarla, con il suo colore che fluttua fra
il bianco gesso e il cinereo, ma non fa nessun visibile tentativo di dirle
qualcosa.
Senza Senkovi non avrebbe mai potuto fare nessun progresso. La
comunicazione degli ottopodi è distante dal linguaggio dei Portiadi quanto
lo è da quello degli Umani. Senkovi non lo ha mai decifrato, ma ha creato
una documentazione, ha provato a comporre dizionari e ha lasciato ore di
registrazione. Lo guarda nelle vasche a galleggiare accanto ai suoi
interlocutori, e fuori di esse mentre è alle prese con schermi multipli e un
computer che si sta lentamente spegnendo, proprio come lui. Lo guarda
sbattere contro i propri limiti senza esserne consapevole: un uomo dal genio
incostante che cerca di applicare il suo personale set di strumenti a un
problema che non è adatto a risolvere. Comprende che essendo un
ingegnere planetario, Senkovi aveva fatto affidamento sull’impiego di
soluzioni dure e di risposte esatte. Helena d’altro canto, è una linguista, una
specialista in linguaggio non umano, anche se finora la sua esperienza si è
limitata a una sola lingua di quel genere, quindi imbocca i vicoli ciechi che
hanno costretto Senkovi a tornare sui suoi passi e trova un modo per andare
avanti.
A volte altri ottopodi si insinuano nelle camere adiacenti per osservare lei
e Portia, e Helena sfrutta quell’opportunità per registrarli mentre la loro
pelle si increspa e danza di colori. Gli schemi si estendono da individuo a
individuo, mutano e si trasformano; quelle creature parlano di continuo, o
forse scambiano emozioni. Usano spesso il tatto e a volte ingaggiano quelle
che sembrano lotte – in uno di quegli scontri improvvisi uno perde
addirittura un tentacolo – ma che lei comincia a pensare siano una parte
intrinseca della loro strategia di comunicazione. Prende appunti,
osservandoli come loro osservano lei.
Nota che l’ottopode pallido e solo viene tenuto segregato ed è sempre più
certa che si tratti dell’ambasciatore, contaminato dal contatto con gli alieni.
La sua pelle si anima con esitazione all’arrivo dei suoi simili e lei vede
un’interazione fra lui e loro, sebbene ci sia anche una netta esclusione nel
modo in cui gli altri reagiscono a lui, come umani che gli voltassero le
spalle. L’interazione del gruppo è molto più dinamica di quella fra esso e
l’ottopode isolato. Eppure gli parlano ancora, anche se lo ignorano. Questo
la rende ancora più sicura che quello che sta osservando sia qualcosa di
diverso dal ‘parlare’ e le ricorda il doppio canale che le creature usano per
trasmettere.
Dorme. Lei e Portia si proteggono a vicenda, facendo la guardia a turno.
Mangiano quei pasti monotoni a base di impasto di pesce che viene estruso
maldestramente nella loro camera. Helena lavora fianco a fianco con il da
tempo defunto Disra Senkovi, rivivendo i suoi umori e la sua disperazione, i
suoi momenti di folle eccitazione, i limiti estremi dei suoi momenti di crollo
psicologico, quando abbandonava la ricerca e le registrazioni per nutrire il
cane nero che lo seguiva costantemente.
Si rende conto che Senkovi era vissuto a lungo da solo. Aveva passato
metà della vita a cercare di comunicare con le sue creazioni perché nel suo
universo non c’era nessun altro con cui potesse parlare, e ci era andato
vicino, elaborando modi per scambiare dati e informazioni senza però mai
compiere il collegamento emotivo. Pensa a sé stessa e a Portia, a come le
riesca di riconoscere gli stati d’animo del ragno, anche se non sono di certo
umori umani, e spera che accada anche il contrario. Sono dannatamente
fortunata, ecco cosa sono.
Poi trova un lungo video in cui Senkovi racconta una barzelletta a un
ottopode. Non è una barzelletta divertente, in realtà è orribile, ma lui la
trova divertente perché è in quella fase del suo ciclo umorale, e lei osserva
la pelle del cefalopode muoversi e cambiare lentamente per poi cominciare
a tremolare rapidamente e a danzare. Una risata? No, ridere è una cosa
umana. A parte apprezzare i semplici capitomboli fisici, i Portiadi non
trovano divertente l’umorismo umano, proprio come Portia una volta ha
cercato di descriverle una complessa attività sociale che lei considerava
chiaramente... qualcosa, una parola di cui Helena non aveva l’equivalente e
il cui impatto emotivo era del tutto fuori della sua portata. E lì c’era il
povero Disra Senkovi, un uomo centenario e morto da molte migliaia di
anni, che raccontava barzellette a una forma di vita marina e otteneva una
reazione.
E quella reazione lo delizia per cui continua, tirando fuori battute, giochi
di parole e doppi sensi mentre quasi si rotola dal ridere e l’ottopode
risplende di vividi colori diurni e guarda affascinato l’anziano comico
tenendosi aggrappato al vetro della vasca.
A quel punto le annotazioni di Helena sono sufficienti. Riesce a capire
quello che Senkovi non ha mai compreso. L’ottopode non riusciva a capire
la barzelletta ma capiva che lui, il suo creatore, era felice. Forse la felicità è
universale, o quantomeno era qualcosa che l’ottopode scorgeva nella faccia
ridente e che combaciava con qualcosa che lui provava. L’ottopode sapeva
che Senkovi era felice e che gli voleva bene, o comunque lo considerava
prezioso, o provava qualcosa quanto bastava perché la sua felicità fosse
importante per il cefalopode. Questo di per sé era già un miracolo, era un
grande trionfo che Senkovi non aveva mai compreso, il fatto che le sue
creature potevano empatizzare, erano in grado di applicare una teoria della
mente a entità del tutto diverse da loro, avevano un cuore abbastanza grande
da essere felici che qualcun altro stesse ridendo anche se non
comprendevano la battuta.
Li osserva a lungo, poi spegne le registrazioni e lascia che i dati
rimangano a riposo mentre siede con le braccia intorno alle ginocchia, fissa
il solitario ottopode grigio nella cella accanto e si sente inesprimibilmente
triste.
Alla fine avverte un lieve tocco alla base della schiena, la punta di una
zampa che l’accarezza con esitazione. Anche Portia comprende le emozioni
umane. Forse anche la tristezza è un altro elemento universale, sebbene sia
attivata da stimoli diversi.
«Era così solo» sussurra Helena, sperando che Portia abbia configurato il
suo software per le traduzioni.
Di nuovo quel tocco carezzevole. Helena sa che il trauma emotivo è
peggiore per gli Umani. Anche i Portiadi lo provano, e per loro lo shock o
la furia sono i più comuni, ma il loro cervello è più uniforme, hanno fra loro
più esperienze comuni degli Umani e di conseguenza simpatizzano più
prontamente con i traumi degli altri invece di diventare ciascuno un
prigioniero solitario delle sue esperienze, come capita spesso agli Umani.
Helena si chiede se negli ottopodi questa capacità empatica sia maggiore
o minore. Naturalmente, però, i sentimenti traspaiono loro dalla pelle,
quindi forse per loro non esiste una cosa come un trauma privato, al quale
non è quindi annesso nessuno stigma. Forse vivono tutta la vita come eroi
ed eroine da dramma operistico, trasmettendo la grandiosità della loro
malinconia e della loro ira a tutti quelli che sono a portata visiva. Pensando
al povero Senkovi, quella le appare come un’alternativa decisamente più
sana.
E un giorno, dopo aver gettato il suo secchio nel pozzo di Senkovi e
averlo sentito colpire un fondo asciutto, comprende di aver raggiunto la
preparazione massima possibile. Quando il piccolo parlamento di molluschi
arriva di nuovo per osservare lei e Portia, è pronta. Prende il tablet, ora
configurato per codificare e decodificare tutta la comunicazione degli
ottopodi che è riuscita a comprendere (e cioè, anche ora, ben poco) e lo
presenta loro audacemente, sperando che stia dicendo ‘Salve’.
4

Nessuna notizia da Helena, nessuna trasmissione dai locali, nessuna


richiesta di riscatto o di altro tipo, e neppure minacce. O meglio, c’è una
quantità di trasmissioni casuali, se si sceglie di orientare i ricevitori verso il
loro mondo, ma niente diretto alla Lightfoot. E non ci sono comunicazioni
neppure con la Voyager, che si tiene ancora nascosta, nel caso che la
xenofobia di quella civiltà acquatica risulti una cosa insormontabile. E
Fabian ha la sgradevole sensazione che un timer stia scandendo i minuti, da
qualche parte. I locali sono tecnologicamente avanzati e imprevedibilmente
paranoici. Da qualche parte occhi di ottopode scrutano le distese più lontane
del loro sistema solare in cerca di qualsiasi cosa che venga percepita come
una minaccia. Dopotutto, è quello che farebbe lo stesso Fabian, e può solo
supporre che quei molluschi infuriati abbiano almeno lo stesso buon senso
di un Portiade maschio.
Tutto questo lo fa infuriare parecchio, un’emozione che non manifesta né
con i pedipalpi né con le zampe, perché non è conveniente che i ragni
maschi si abbandonino al genere di esplosioni di rabbia che una femmina si
potrebbe concedere. Ci si aspetta da lui che sia mite e deferente, e questo a
volte lo divora interiormente come una larva parassitica.
La missione della Voyager gli ha permesso di uscire dall’ombra di alcune
femmine particolarmente dominanti della sua casa dei pari che si sarebbero
sfacciatamente attribuite il merito delle sue ricerche, cosa che non sarebbe
stata tanto un furto quanto una sorta di espropriazione intellettuale per
pubblica utilità: qualsiasi cosa lui avesse prodotto sarebbe stato ovviamente
un prodotto della casa dei pari stessa e lui, Fabian, un mero canale. Dopo
quello stato di cose e con il suo lavoro che continuava a rimanere in modo
frustrante vicino al confine del successo senza mai valicarlo del tutto,
queste escursioni a bordo della Lightfoot erano arrivate nel momento più
sbagliato. È risentito del pericolo, perché se c’è un tratto maschile archetipo
che Fabian abbraccia completamente è la necessità dell’avere un
esoscheletro intatto. È seccato per le interruzioni, e in particolare è risentito
per il fatto che proprio adesso, fra tutti i momenti possibili, stanno
finalmente facendo progressi. Perché non è potuto succedere quando
avevano l’opportunità di concentrarsi solo su questo?
Comincia a risentirsi anche di Meshner, o almeno delle sue fragilità. Si
suppone che gli Umani siano robusti. Come potrebbero non esserlo? Sono
enormi e hanno quell’assurdo sistema immunitario sovracompensante che
lo porta a meravigliarsi che chiunque fra loro possa ammalarsi. Meshner
però non sta bene, e mesi di viaggi interplanetari uniti a ricerche intensive
stando chiusi a bordo della Lightfoot non lo aiutano certo a migliorare.
Fabian ha passato non poco tempo a riflettere su fino a che punto le loro
ricerche (‘loro’ quando vanno male, ‘sue’ quando vanno bene, ma pur
essendo pienamente consapevole della falsità di questo modo di pensare lui
non riesce a uscirne) siano responsabili delle sue condizioni, e si ripete
vigorosamente che lo sono solo in misura minima, che altri fattori al di
fuori del suo controllo hanno una colpa maggiore. E ce l’ha praticamente
fatta. Appena un piccolo sforzo aggiuntivo e potrà felicemente codificare le
sue scoperte a beneficio delle generazioni future, solo che quelle scoperte
rimarranno intrappolate nella nave insieme a lui nel prevedibile futuro e
potrebbero andare incontro a una morte esplosiva nel vuoto dello spazio. E
di questo si risente in modo particolare.
Ha parlato con Kern, o meglio con Artifabian, nella speranza che
l’automa possa fungere da tramite con un computer troppo importante e
impegnato per occuparsi direttamente di lui, almeno al momento. Artifabian
ha un piano per comprimere i dati di Fabian e trasmetterli su una larga
frequenza qualora la distruzione della Lightfoot dovesse apparire
imminente, ma è una cosa meno che soddisfacente perché la Voyager
potrebbe non ricevere mai il segnale. Inoltre, i dati saranno soltanto il mero
scheletro della ricerca e quello che Fabian vuole trasmettere è la propria
Comprensione, perché in quel ricordo ci sarà lui, immortalato per la
posterità. Diventerà una parte dell’eredità della sua specie per le
generazioni future, il che ha costituito il suo scopo ultimo per la maggior
parte della sua vita.
Costringe di nuovo Meshner nell’angolo, come meglio può in un
compartimento privo di angoli. Ho il primo set dei test labirintici, spiega.
Ora li scaricherò sul tuo impianto.
Si accorge che l’espressione di Meshner non è quella entusiasta e
arrendevole a cui è abituato. Manda un’interrogazione ad Artifabian per
avere una traduzione e apprende che il suo collega di cospirazione umano è
scontento, forse traumatizzato. Fabian non ha tempo per queste cose,
nessuno di loro ne ha. È solo un labirinto, dice. La quantità di dati è
considerevolmente minore di quella di un’esperienza completa.
Questo non è del tutto vero perché ogni Comprensione è accompagnata
dal bagaglio congenito di colei – o, raramente, di colui – che l’ha creata, ma
Fabian ha cercato di mantenere un aspetto distaccato per tutto il tempo.
Hanno ridotto la portata dei loro esperimenti mediante minuscoli
assestamenti nel corso del loro viaggio interplanetario, rinunciando alla
grandiosità delle loro ambizioni un passo dopo l’altro, e questo è tutto
quello che rimane. Fabian ha memorizzato un semplice labirinto e vuole
che Meshner lo attraversi. Mentalmente, non fisicamente, anche se è
inevitabile il confronto con gli animali da laboratorio di un tempo.
Meshner acconsente di malagrazia ma prima si consulta con Kern, che a
quanto pare concede a lui tutto il tempo che vuole.
Kern dice che si stanno avvicinando al pianeta interno e alla struttura
orbitante che manda quella bizzarra lezione di storia naturale, ma che c’è
ancora tempo.
Fabian accede all’architettura degli impianti di Meshner per fare il
download della Comprensione del labirinto e nota che lì dentro le cose sono
cambiate. La complessità dello spazio virtuale è aumentata di un intero
ordine di grandezza e gli algoritmi dell’impianto hanno ora una capacità
infinitamente migliore di elaborare e di immagazzinare dati complessi. La
percentuale del cambiamento è un po’ inquietante, in realtà, come se
l’impianto stesse riflettendo e copiando strutture esterne più vaste. Per un
momento Fabian si fa cauto ed è sul punto di annullare tutto, ma poi
continua. Questo significa soltanto che c’è un substrato molto migliore su
cui eseguire il suo esperimento.
I cambiamenti da lui osservati non sembrano aver avuto effetti negativi
sul soggetto, quindi Fabian fornisce a Meshner il labirinto e le cose vanno...
non male, ma dritte alla meta in modo inaspettato.
Sono qui, giunge la traduzione delle parole di Meshner da parte di
Artifabian. È... dov’è questo posto? È un luogo che hai visto?
Fabian si agita nervosamente. Sei in grado di seguire il sentiero per
uscire?
È viscido. Artifabian sta lavorando al massimo per trasmettere sofferenza
emotiva. Ci sono... erbacce, alghe. Le pareti sono di pietra fra il verde e il
nero. Fabian, dove hai...
Pensa solo a concentrarti per trovare la via d’uscita. Il test viene
cronometrato, replica Fabian con fare affettato.
Conosco la strada.
Tre parole ma Fabian sente gli arti che gli sussultano nervosamente.
Intanto, esegue test diagnostici sull’impianto perché non ci sono pareti e
neppure alghe. Il labirinto è soltanto una configurazione che lui ha intessuto
al computer, un esercizio intellettuale ma Meshner sembra aver aggiunto un
suo grottesco contenuto personale, trasformando il semplice gioco in una
simulazione e sfruttando appieno quella nuova architettura complessa. In
effetti, l’impianto sta lavorando al massimo della sua capacità e ne ha
generata di nuova ottimizzando ulteriormente la sua struttura. Soprattutto,
sta attingendo da risorse esterne: potere di calcolo inutilizzato della nave
aggiunto alle funzioni cerebrali dello stesso Meshner.
Il procedimento richiede qualche perfezionamento, si dice, con un certo
timore. In realtà non sa bene cosa stia vedendo, sa solo che gli sta
sfuggendo il controllo dell’esperimento. Dice a sé stesso che questo non
danneggerà Meshner in modo permanente, ma è consapevole di non
disporre dei dati empirici su cui basare una simile affermazione.
Meshner arriva in fondo al labirinto in un lasso di tempo adeguato, e i tre
tentativi successivi vanno più in fretta, a mano a mano che lui si abitua a
quel medium. Continua a lamentarsi dell’aspetto dei labirinti, che appaiono
in rovina e sommersi, cosa che Fabian attribuisce alle loro recenti difficoltà
con gli ottopodi. Avrebbe altri test da effettuare, ma poi Meshner ha una
nuova crisi, un momento in cui perde ogni propriocezione e il senso di
appartenere al proprio corpo. Dopo, l’umano ne approfitta per staccarsi
dall’importante ricerca perché nel frattempo è subentrata una fonte di
distrazione. Tutto quel prezioso tempo per la sperimentazione è stato
consumato: finalmente si stanno avvicinando alla stazione orbitante e tutti
(tranne Fabian) vogliono darle un’occhiata.
Meshner intuisce che anche gli altri si aspettavano qualcosa di molto
diverso, e nello specifico qualcosa di più Umano – o quantomeno qualcosa
di umano. Invece, la stazione orbitante è una così bizzarra accozzaglia di
tecnologie da far pensare che in un qualche momento la civiltà degli
ottopodi abbia quantomeno esteso un tentacolo in quella direzione.
La struttura di base è di certo coerente con la tecnologia del Vecchio
Impero, è molto antica, a giudicare dallo stato malconcio e fragile del tutto.
Sarebbe impossibile determinare con precisione le dimensioni originali, se
non fosse che Kern le ha a portata di mano, estratte dalla sua memoria,
estesa quanto inaffidabile.
«È, oppure era, un modulo separabile proveniente da una nave di
terraformazione.» Nel riferire quelle informazioni la sua voce suona molto
piatta, perché tutte le formiche e il potere di calcolo sono utilizzati altrove,
ma Meshner scopre che non riesce a non dare a quella mancanza di tono
un’interpretazione umana, come se Kern fosse piena di emozioni represse
fino al punto di scoppiare. «La struttura Brin 2 ne aveva uno identico a
questo.» Solo che il modulo della Brin 2 era presumibilmente andato
distrutto insieme al resto della struttura, nel lontano passato in cui Kern era
viva, facendo di lei la sola superstite. «Non vedo traccia della stazione
principale. Probabilmente con il tempo ha perso la sua capacità di
mantenere l’orbita o è stata utilizzata altrove. Opterei per la seconda ipotesi,
dato che non ci sono segni che il pianeta sia stato terraformato.» I dati
relativi al pianeta scorrono a schermo, forniti dagli esami preliminari dei
sensori. Meshner li incrocia con le trasmissioni frammentarie e unisce tutti i
punti: un pianeta in grado di supportare il genere di ecologia e di biologia di
cui si parla nel segnale di Lante.
Per un momento si sente assalire da un desiderio struggente e da
un’eccitazione che gli sono del tutto estranei, sono più grandi di lui,
impossibili da tenere a bada o da incanalare. Può soltanto accoccolarsi e
premersi i palmi contro i lati della testa, come se quelle emozioni potessero
esplodergli dal cranio.
Poi la sensazione passa, o forse la finestra di accesso a essa si è chiusa e
l’intero evento è stato soltanto un trapelare momentaneo da una qualche
immensa fonte di sensazioni ululanti che lui ha sfiorato troppo da vicino. Si
alza barcollando. Zaine non guarda nella sua direzione, ma può darsi che lo
stiano facendo i due ragni, anche se è difficile dire dove guardino i loro
occhi secondari.
Le parti umane del modulo sono state costruite sopra e la tecnologia
utilizzata è chiaramente la stessa che ha contribuito a creare le navi degli
ottopodi in cui si sono imbattuti. Globi e bolle sono stati attaccati con
sgraziata profusione e con poca considerazione per la struttura e per il
centro gravitazionale del modulo originale. Esso doveva aver utilizzato la
gravità rotazionale a beneficio degli occupanti umani mentre il nuovo
miscuglio non ha niente di tutto questo, ma Meshner intuisce che le creature
acquatiche non hanno il loro stesso bisogno di sapere quale sia l’alto e quale
il basso. Sotto questo aspetto, perfino i Portiadi sono più elastici
dell’umanità, vecchia e nuova. Uno sguardo dettagliato rivela più metodo di
quanto l’assurdità iniziale potrebbe suggerire. Partendo dal presupposto che
sia stata adattata per uso acquatico e riempita d’acqua, la rotazione di quella
struttura sgraziata dovrebbe rotolare in un’orbita stabile, senza tracce di
decadimento orbitale per almeno qualche secolo a venire. Alcuni modelli
speculativi approntati da Zaine suggeriscono la possibilità che il movimento
rotatorio serva a generare correnti che mantengano pulita e respirabile
l’acqua al suo interno.
Quel mezzo però ha chiaramente lasciato la struttura, che appare
danneggiata in modo catastrofico, spaccata a un’estremità e crivellata di
fori. Kern manda un drone in un cauto volo di osservazione e le immagini
mostrano quelli che Meshner può definire soltanto come ‘danni da
battaglia’. L’analisi di Kern, e la sua personale esperienza come nave,
abbinano quei danni al genere di armamenti di cui dispongono gli ottopodi;
inoltre, per quanto è in grado di stabilire, essi sono recenti e si sono
verificati forse non più di dieci anni prima. Nella stessa orbita della stazione
ci sono sufficienti quantità di ghiaccio da testimoniare quale sia stato il fato
del suo interno, unite a materiale organico che potrebbe essere ciò che resta
dei suoi occupanti. Eppure il segnale persiste, e non è del genere usato dagli
ottopodi, bensì qualcosa di eminentemente umano nel formato e nel
contenuto. Umano ma antiquato.
«Così sono entrati e hanno risvegliato alcuni sistemi. E poi hanno avuto
uno dei loro improvvisi scoppi di violenza» suggerisce Zaine. «Oppure
qualche altro gruppo ha cercato di sottrarre la stazione a quello che
l’occupava, visto che sembrano più che disposti a scontrarsi gli uni con gli
altri.» Il suo tono suggerisce una comprensibile mancanza di simpatia per i
locali.
«Hanno svegliato un diario di qualche tipo tenuto da scienziati del
Vecchio Impero» interloquisce Viola, tramite Kern. «Mi piacerebbe
moltissimo crederlo, anche se ci sono alcune discrepanze. Il contenuto è...
non è coerente in modo uniforme con lo stile accademico del Vecchio
Impero. Inoltre, ho alcune riserve riguardo alla validità del sistema di
datazione, considerato il periodo a cui sembrano far riferimento quelle
annotazioni. Un’interpretazione suggerisce che la composizione del diario
sia proseguita per un tempo molto più lungo di quello vissuto di norma
dalla vostra specie.»
«C’erano molte variazioni nelle convenzioni di datazione» comincia
Zaine ma Viola tamburella bruscamente sulla consolle per interromperla.
«Ci sono sezioni in cui il significato perde completamente senso»
sottolinea la Portiade. «Ci sono ripetizioni. Alcune parti del segnale
consistono di caratteri a caso o di parole inserite in una struttura che sembra
linguaggio coerente ma non lo è, a meno che non si tratti di un qualche
codice cifrato del Vecchio Impero con cui noi non abbiamo familiarità.
Tuttavia, è chiaro che su quella struttura è presente un tesoro di
informazioni di qualche tipo, e la struttura stessa non durerà in eterno. La
longevità della sua orbita è in forse, adesso che l’acqua interna è stata
rimossa.»
«Aspetta un momento.» Meshner solleva una mano nel sentire la sua voce
scaturire come un suono gracchiante. «Scusami, ma non capisco bene cosa
stai dicendo, o dove vuoi andare a parare.»
Le zampe anteriori di Viola hanno un sussulto irritato. «È ovvio che
andremo là dentro per recuperare le informazioni che sono ancora
accessibili.»
Abbiamo convenuto di fare una cosa del genere? Sarebbe più che disposto
a credere di aver avuto un momento di sfasamento mentale nel corso di
un’importante riunione dell’equipaggio se non fosse che Zaine e Fabian
sembrano sorpresi quanto lui. Zaine era contraria a tutto questo, giusto?
Viola si arrampica di un metro lungo la parete per poterli guardare tutti
dall’alto e inclina il corpo a destra e a sinistra per inchiodarli con lo sguardo
degli occhi principali. I pedipalpi si sollevano in un piccolo gesto di
arroganza ed è evidente che ha scelto questo momento per annunciare la sua
ascesa alla posizione di capitano.
«Permettimi di essere latrice di cattive notizie» traduce per lei Kern, e
Meshner avverte un fugace senso di divertimento per il tono pomposo
assunto dal computer. «L’attuabilità della nostra intera missione in questo
sistema solare è in dubbio. La civiltà nativa è abbastanza potente e
aggressiva da distruggerci, se dovesse fare un tentativo coordinato in quel
senso. Solo la sua innata disorganizzazione ha impedito che questo
succedesse. Bianca è morta, Helena e Portia sono perdute e la Voyager è al
sicuro solo perché continua a nascondere la sua presenza. Speravamo di
incontrare una forza contraria per combattere la civiltà degli ottopodi ma
finora non risulta niente del genere. Qui abbiamo però trovato l’opportunità
di recuperare qualcosa di valore. Ci sono documenti che risalgono all’era
più antica a noi nota, quella degli umani la cui strana cultura è il substrato
di tutti noi. Inoltre, ci sono documenti relativi a un mondo assolutamente
diverso, che aveva chiaramente destato l’interesse di quegli umani e che
contiene sistemi biologici e Comprensioni potenzialmente utili e rilevanti
per la nostra specie.» Una pausa, poi un affrettato movimento di gambe. «E
per gli Umani.»
Meshner si concentra prevalentemente su Zaine per dedurre dal suo
comportamento quanto tutto questo sia nuovo per lui, e vede che è
altrettanto sconcertata. Alla fine è Fabian a rispondere, una mite domanda
dal pavimento su cui si tiene accoccolato in modo da apparire quanto più
inoffensivo possibile per un maschio.
«Per favore, aiutami a percorrere il sentiero che porta alle tue conclusioni.
La Comprensione è una cosa propria dei Portiadi. A cosa ti riferisci?» Kern
ha utilizzato quella parola dandole un significato preciso, che si riferisce ai
ricordi ereditari dei Portiadi piuttosto che alla semplice comprensione di
concetti, e Meshner ha la stessa difficoltà di Fabian a coglierne la rilevanza.
Viola ha un sussulto irritato ma comincia a trasmettere dati sullo schermo,
come un’insegnante alle prese con allievi lenti di comprendonio. «Ecco
quello che chi manda i segnali ha da dire riguardo alla genetica della vita
nativa di questo pianeta. Qui c’è la struttura delle loro molecole di
codifica.» È qualcosa di diverso dal DNA, proteine aliene che si ripiegano in
modi sgradevoli, codificando informazioni in combinazioni di forma e di
chimica. «Qui c’è l’equivalente di un genoma in situ.» Appare qualcosa che
sembra uno scarabocchio a casaccio rivelato come una struttura
tridimensionale all’interno di una membrana. «Ed eccone un altro. E un
altro.» Lo sguardo di Meshner comincia a perdere focalizzazione perché
secondo la tendenza dei Portiadi, Viola permette ai diagrammi di
sovrapporsi al punto che distinguere quelli nuovi dai precedenti diventa
simile al districare un groviglio di spago. «E un altro.»
Questo è enorme. Viola continua a richiamarne a schermo, e se gli altri
erano soltanto alcuni fossati e terrapieni attaccati al muro interno di una
cella, questo è una città, una metropoli di compatte molecole simili a
proteine, molecole per le quali la scienza del Vecchio Impero non ha nomi
adeguati. Viola evidenzia parecchie sezioni, confrontandole e mettendole in
contrasto con altri esempi. A questo punto Meshner non riesce più a capire
niente dei suoi diagrammi e deve rassegnarsi a fare come se li avesse
decifrati tutti.
«Secondo chi invia il segnale, le informazioni ereditabili vengono
codificate a livello atomico, il che significa che la trasmissione di
informazioni può essere effettuata con un rapporto energia-efficienza molto
superiore a quello del nostro codice genetico. Cosa può quindi essere questo
grande insieme di informazioni se non una Comprensione? Per me è chiaro
che questo biota alieno ha seguito un’evoluzione parallela che gli ha
permesso di codificare le sue esperienze proprio come facciamo noi, e in un
modo da cui potremmo imparare e che potremmo adattare ai nostri scopi.
Dobbiamo fare il download completo degli archivi di quella stazione e
lasciare con essi questo sistema solare il più in fretta possibile.»
E sperare che quei dannati ottopodi non ci inseguano, pensa Meshner,
senza però dirlo ad alta voce. Allo stesso tempo, è consapevole che Fabian
freme di emozioni inespresse e intuisce che si tratta probabilmente di
rabbia, perché il nuovo progetto di Viola getta una lunga ombra sul loro
lavoro.
È inoltre estremamente consapevole di quel commento – ‘per me è chiaro’
– perché la scienza dei Portiadi non ha problemi a fare audaci dichiarazioni,
salvo poi smantellarle in un secondo momento. È il modo in cui i loro
accademici competono fra loro. Viola non può sapere davvero neppure un
decimo di quanto afferma, ma ha deciso di fare di questo la pietra angolare
della sua strategia e forse ha ragione: al momento, lasciare il sistema con
tutto quello che riusciranno a prendere non è forse la peggiore idea
dell’universo.
Nessuno ha menzionato Helena e Portia, o la remota possibilità che siano
ancora vive e prigioniere da qualche parte. La sopraffacente superiorità
tecnologica dei locali relega qualsiasi pensiero di salvataggio nella
categoria degli ‘eroismi condannati al fallimento’, e né gli Umani né i
Portiadi sono così innamorati del mito del sacrificio.
Meshner si guarda intorno: Fabian è contrariato; è chiaro che a Viola non
importa cosa pensino lui o lo stesso Meshner, ma sta tenendo d’occhio
Zaine. Lei annuisce. La mozione è stata approvata.
Segue una pausa interessante prima che Kern reagisca, come se anche lei
fosse stata propensa per il no. Alla fine però acconsente e non utilizza il suo
potenziale diritto di veto.
«Collegati al sistema attivo e scarica tutto quello che contiene» ordina il
ragno. «Poi potremo studiare come riuscire a oltrepassare il pianeta dei
nativi.»
«Che potrebbero interessarsi molto di più a noi se dovessero capire che
stiamo rubando materiale da questo posto» interloquisce Meshner. «Il loro
primo attacco è arrivato quando abbiamo detto di essere umani, e il secondo
quando ci hanno colti a rispondere a questo segnale. Quale che sia la cosa a
cui sono tanto sensibili, questo ne è il cuore.»
La risposta di Viola, un paio di colpetti di zampa che accantonano
l’osservazione, viene tradotta da Artifabian come: «Comunque sia.»
Con le mani che ancora gli tremano un poco, Meshner lotta per usare la
consolle più vicina. Alla fine Kern pare intuire il suo intento e gli mostra
una registrazione dei suoi tentativi di contatto mediante un assortimento di
protocolli del Vecchio Impero.
Non ci riconosce. Una volta ha letto parte della vecchia documentazione
della Gilgamesh, qualcosa che la maggior parte degli Umani fa quando è
molto giovane per cercare di ricollegarsi alle sue origini sempre più lontane.
Qui la situazione è stranamente parallela a quella verificatasi quando la
nave arca ha incontrato per la prima volta la dormiente Kern, tranne per il
fatto che in questo caso Kern è all’esterno.
«Provare a rimandargli parte del suo segnale?» mormora, perché questo
aveva funzionato con i suoi antenati. Invece, Kern passa a un livello di
comunicazione più profondo, da sistema a sistema, con protocolli di
accesso profondo.
Meshner è assalito da una raffica di emozioni: sorpresa, delusione,
opportunismo. In preda alle vertigini si aggrappa alla consolle e cerca di
mettersi in pari con i suoi stessi processi cognitivi per scoprire perché si
senta in questo modo. Mentre ancora tenta di ritrovare il controllo, le
sensazioni si trasformano in un verso pensoso da parte di Kern. «Mmm.»
Un’espressione umana da parte di un sistema informatico pieno di insetti.
«Ho stabilito un contatto. Ha accusato ricevuta, poi il segnale si è
interrotto.»
«Infiltrati» ordina Viola.
«Non c’è niente in cui infiltrarsi.» La voce umana di Kern suona
perplessa, il che combacia alla perfezione con la perplessità che Meshner
sta provando, come se lui e il sistema fossero legati a livello empatico.
«Non riesco a trovare nessuna traccia di un sistema là dentro. La
trasmissione si è interrotta, ma non c’è una porta aperta, una rete attiva. È
come se un operatore stesse inviando manualmente il segnale e ora abbia
smesso, ma se nella stazione c’è qualcosa di consapevole, non si è reso
conto della nostra presenza.»
«Manda un drone a cercare un qualche tipo di canale attivo sulla
superficie» ordina Viola, i cui movimenti si sono fatti irrequieti.
«I dati relativi all’utilizzo di energia sono strani» osserva Kern, e illustra
quella stranezza con esempi sullo schermo. Alcuni collettori solari sono
ancora attivi, un misto dell’antica e robusta tecnologia del Vecchio Impero e
di una sorta di rivestimento fotosintetico usato dagli ottopodi, che di per sé
pare abbastanza efficiente da far sì che valga la pena di prelevarne un
campione. Sono messi insieme alla meglio con materiale di fortuna e ci
sono un sacco di estremità non fissate e di vicoli ciechi, ma indirizzano
l’energia verso una qualche fonte interna. Adesso che il segnale è
scomparso, nello scafo niente sembra essere rivolto verso l’esterno. Non c’è
una porta posteriore elettronica che Kern possa sfruttare.
La Lightfoot si sta intanto avvicinando alla stazione, entrando in un’orbita
uguale alla sua. Il grosso drone che Kern sta utilizzando là fuori viene
raggiunto da fratelli molto più piccoli che trovano ben presto lacerazioni
nello scafo tali da permettere loro di entrare. La luce scarsa e il loro limitato
campo visivo danno all’equipaggio una vista vertiginosa dell’interno:
antiche pareti, metallo ricoperto da biotecnologia avvizzita, un caos di due
tecnologie o piuttosto due rami molto lontani dello stesso albero
tecnologico. Frammenti e particelle fluttuano ovunque, tanto che la coppia
di piccoli droni causa al suo passaggio un caotico vortice di collisioni che si
irradia verso l’esterno attraverso il vuoto fino a uscire dal raggio delle
lampade. Meshner si sente attanagliare dalla preoccupazione, come se le
increspature prodotte dall’avvicinamento dei droni potessero mettere in
guardia un predatore annidato all’interno.
«Sto seguendo le tracce di energia» afferma Kern in tono piatto. I droni
trovano un’antica porta, un’iride bloccata in posizione semiaperta, e
l’oltrepassano. L’area successiva è stata puntellata di recente, riluce di
frammenti di membrane ed è ingombra di una profusione di macchinari che
sembrano essere stati semplicemente ammucchiati e attaccati gli uni agli
altri. Il tutto appare nuovo e non progettato per uso umano. Una parete è
punteggiata di fori attraverso cui il sole del pianeta scintilla sullo strato di
ghiaccio che riveste metà della camera.
Su una parete c’è una porta chiusa che sembra intatta. I droni si muovono
davanti a essa, cercando di scoprire come si potrebbe aprire. «La struttura
suggerisce che si tratti di un portello stagno per l’aria, o forse per l’acqua,
considerate le preferenze degli occupanti più recenti. Non c’è nessun
terminale attivo che io possa individuare» riferisce Kern. «Qualsiasi cosa ci
sia al di là, però, è dove viene diretta l’energia.»
«Che ne dici di uscire e di cercare un’altra via d’ingresso?» suggerisce
Meshner, ma le sue parole vanno perdute, sovrastate da un annuncio da
parte di Zaine.
«I segnali che riceviamo dai locali adesso sono più intensi. Individuiamo
navi in movimento dirette verso quest’orbita. Forse non è una flotta
d’attacco, ma mi chiedo se non stiano cercando il coraggio di farlo.»
«La volta scorsa non è parso che avessero molto bisogno di farsi
coraggio» La traduzione delle parole di Fabian riesce a trasmettere il loro
tono amaro. «Lo hanno fatto e basta.»
«Allora si stanno mettendo in una posizione da cui se lo faranno e basta
potranno sistemarci definitivamente» ribatte Zaine, in tono esasperato.
«Quindi, se vogliamo fare qualcosa qui, Viola, dovremmo considerare il
fatto che il nostro tempo è limitato.»
«I comandi della porta sono soltanto manuali» afferma Kern, e Artifabian
sussulta per poi attraversare l’alloggio dell’equipaggio verso il suo
portellone. Dopotutto, è configurato come un Portiade, in che prevede una
certa dose di competenze fisiche. Dietro insistenza di Viola, Fabian
raggiunge una consolle e si prepara ad agire da secondo pilota, nel caso che
questo si renda necessario. Meshner si limita a starsene seduto e a guardare
le immagini della videocamera di Artifabian, avvertendo uno strano senso
di proprietà. Il drone aracnoide è un membro della squadra sua e di Fabian,
dopotutto. È quasi come se fosse lui stesso a fornire un contributo.
Kern regola con cura la velocità della nave e la sua prossimità alla
stazione, trasmettendo i dati ad Artifabian. Adesso il portellone è aperto e la
loro destinazione ancora distante, grande quanto un’unghia di pollice
nell’immagine trasmessa dal robot. Fabian riferisce in tono cupo i dati sulla
traiettoria, effettuando calcoli di backup. Artifabian ha congegni di manovra
limitati, ma la maggior parte del lavoro di gambe – per così dire – verrà
fatto alla vecchia maniera. Meshner guarda i dati di tolleranza allo stress
raggiungere il limite mentre il robot regola il terzo paio di arti.
«Velocità relative stabili» comunica Kern, e Artifabian spicca il salto con
le zampe allargate, lanciandosi nello spazio.
L’approccio alla stazione attraversa come un ago una nube sparsa di detriti
che ha un’orbita corrispondente a quella della stazione, l’eco residua di un
più grande agglomerato che il tempo e la fisica hanno disperso. L’approccio
di Artifabian è aggraziato, un singolo balzo perfetto attraverso chilometri,
un sottile mormorio di motori per rallentare il suo approccio quando la
parete della stazione già costituisce tutto il suo mondo. Meshner vede
quando i suoi piedi trovano un ancoraggio con un tocco lieve quanto una
piuma e senza il minimo rimbalzo. Poi Artifabian si sposta in fretta verso il
più vicino squarcio d’ingresso e segue la pista aperta dai droni strisciando
sopra e sotto gli ostacoli con una facilità molto maggiore dei remoti
nell’attraversare gli spazi ingombri fino alla porta chiusa.
Aprire la stanza è un’altra operazione complessa. L’apertura manuale non
è cosa fatta per un Portiade, vero o artificiale che sia, e Meshner ritiene che
anche un umano si troverebbe in difficoltà. Alla fine Artifabian
cannibalizza i droni per usarne alcune parti e mettere insieme una sorta di
guanto flessibile che possa manipolare, in modo da avere un appiglio sui
comandi. Il procedimento richiede più tempo di quanto vada a genio a
chiunque.
Meshner quasi si aspetta di veder rotolare fuori dall’altro lato dalla
camera un torrente d’acqua e magari qualche mollusco irritato, ma quello
che Artifabian registra è aria, lo spettro di un respiro stantio che viene dal
passato. La camera in sé stessa sarebbe angusta per un umano, chiusa fra
due porte, senza finestre che si affaccino su cosa c’è al di là. È un vero
portellone stagno, sepolto nel cuore della stazione in rovina.
«Questo non garantisce che ci sia aria dall’altra parte» fa notare Zaine.
«Non se uno sparo ha compromesso lo scafo in quel punto.» La sua voce
suona soffocata e Meshner si allarma nel vederla indossare una tuta. Ha
paura che sparino anche a noi? Poi però capisce. Pensa che andremo là.
Deve essere pazza. Il suo sguardo si sposta sui dati a lungo raggio, perché i
locali si stanno facendo decisamente più vicini. Immagina quelle corazzate
mostruosamente pesanti mentre accumulano una spinta inarrestabile, infine
unite nel loro desiderio di trasformare questi intrusi alieni in una nebbia di
atomi.
Artifabian affronta un altro incontro di lotta con la prima porta per riuscire
a richiuderla e poi per aprire la seconda, mentre Zaine e Viola controllano
l’attenzione che ricevono dalle distanti navi dei locali. Meshner guarda già
più lontano di loro in quanto ritiene che ‘lontano’ non significhi niente,
considerato il livello degli armamenti di cui dispongono gli ottopodi.
Potrebbero già esserci proiettili o missili che stanno saettando attraverso il
vuoto in direzione della Lightfoot. «Dobbiamo accelerare le cose» sussurra.
«Dobbiamo andarcene da qui.»
«Non senza stabilire un contatto.» La voce di Kern gli risuona
all’orecchio, in tono cospiratorio quanto il suo, e gli strappa un sussulto.
«Cosa?»
«Viola ha ragione. Dovremmo ottenere tutto il possibile» lo informa Kern,
più gentilmente, come se in qualche modo lui l’avesse sorpresa in un
momento di involontario candore. Ovviamente è una cosa senza senso.
Poi Artifabian oltrepassa la porta. Quello è il luogo dove confluisce
l’energia. Ci sono lampade inserite in una parete (che forse un tempo era il
soffitto) il cui gentile chiarore scintilla fra i granelli di polvere che
aleggiano ovunque. A un’altra parete è fissato un sedile di un genere su cui
Meshner stesso potrebbe sedersi, non senza aver prima rimosso l’antica tuta
ambientale che è parzialmente avvolta su di esso come una stella marina
che si sta nutrendo, tuttora collegata a prese sulla parete da una manciata di
cavi di caricamento. Come se qui ci fosse qualcuno che è saltato fuori
nell’istante in cui siamo entrati. Solo che non c’è via di uscita.
C’è una consolle e Meshner la fissa, affascinato. È massiccia, goffa,
costruita secondo lo stesso stile della complessa chiusura manuale della
porta, solo che i suoi costruttori ne hanno fatto una versione semplificata e
ingrandita, come per un bambino.
Come per un umano. Un congegno fabbricato da mani aliene per essere
usato da mani come le sue. Vede dove le dita e i pollici potrebbero fare
contatto per manipolarla.
«Non ci sono comandi all’interno della porta» osserva Zaine, in tono
piatto. Meshner si ritrae davanti all’ovvia conclusione. Non vuole pensare a
quello che è stato fatto – e di recente, pare – a qualcosa di abbastanza
umano da meritare quella consolle. Eppure, nel sondare dentro sé stesso
avverte... eccitazione, una sensazione che pare arrivare dentro di lui da
un’altra fonte, perché di certo nel momento attuale non ha niente di cui
sentirsi eccitato. Eppure quella sensazione continua a crescere fino a essere
a stento contenibile, e nello stesso momento Kern riferisce con calma che la
consolle è attiva.
«È la fonte del segnale?» chiede Viola.
«Il collegamento ai sistemi superstiti suggerisce che possa esserlo»
risponde Kern. «Se ci sono dati recuperabili, allora molto probabilmente vi
si può accedere da qui, ma non sono sicura che l’unità Artifabian sarà in
grado di gestire in modo efficiente questi comandi, che sono progettati per
uso umano.» Quasi a farlo apposta, Artifabian segnala la sua
preoccupazione per il tempo che qualsiasi interazione complessa potrebbe
richiedere.
Segue un lungo silenzio, mentre i pensieri di ciascuno scivolano tutti
lentamente verso la stessa opzione, quelli di tutti tranne che di Zaine, che è
già in tuta e ne sta controllando i sistemi. Meshner stesso si sente pervaso
da una fragile eccitazione. Una parte di lui vuole davvero vedere cosa c’è
nella stazione abbandonata, ha un disperato bisogno di rivelarne il mistero,
ma quella parte è dissociata dal resto del suo Io: a livello intellettuale,
infatti, non gli importa poi molto. È molto più preoccupato per la propria
salute mentale, eppure quelle emozioni crescono dentro di lui e manipolano
la sua mente, esigendo la sua complicità.
«Fabian» gracchia, battendo sul pavimento per richiamare la sua
attenzione, e il Portiade orienta un grosso occhio verso di lui. «Fabian, non
sta andando bene. È andato tutto storto.» Solo che Artifabian non è lì per
tradurre e Kern non interviene a riempire quel vuoto. Le mani di Meshner
tremano più che mai, e la sua voce è così scossa che forse nessuna
traduzione potrebbe renderle giustizia. Esegue alcune diagnostiche dei suoi
impianti e ottiene risposte contraddittorie e senza senso: rifiuti di accesso,
privilegi di sistema insufficienti per esaminare il contenuto del proprio
cranio. «...Sono ancora collegato, sto sperimentando... non riesco a
disattivarlo.»
«Allora dovremo mandare dentro qualcuno» gli dice Kern, e lui sobbalza
per l’orrore prima di rendersi conto che sta soltanto traducendo le parole di
Viola, che ha appena trovato la peggiore soluzione possibile per ottenere le
sue preziose risposte rinchiuse da qualche parte nella stazione in rovina.
«Ne sei certa, Zaine?» chiede poi Viola, quando la donna solleva la mano,
offrendosi volontaria.
L’umana ha una smorfia, ma annuisce. «Se non altro non sembra ci siano
trappole, come sulle stazioni orbitanti della Vecchia Terra.» Una quantità di
storie paurose su quelle stazioni era stata tramandata alla cultura umana sul
Mondo di Kern.
«Farò tutto il possibile per prepararti la strada.» Ogni umanità abbandona
la voce di Kern mentre lei reindirizza le sue risorse altrove. «Però dovrebbe
venire anche Meshner. Sarà più sicuro con due persone che si possano
guardare le spalle a vicenda, e almeno metà dell’interno è progettato per
umani. Inoltre lui e Zaine possono comunicare liberamente, senza bisogno
di assistenza artificiale.»
Meshner scuote la testa perché ha la gola troppo arida per poter parlare, e
tuttavia l’eccitazione sta ancora dilagando dentro di lui, il bisogno di andare
di persona, di sperimentare, di provare l’eccitazione della scoperta, di
incontrare quello che c’è da incontrare. Cerca di dire di no, di dire che non
metterà piede per nessun motivo su quella stazione morta, ma non ci riesce
perché la marea di emozioni lo trascina con sé.
5

Naturalmente Helena non si aspetta di riuscire immediatamente a


scambiare convenevoli con i suoi nuovi padroni ottopodi. Quando i suoi
antenati avevano incontrato i Portiadi, Avrana Kern era stata là per fungere
da traduttore e riluttante mediatore. A metà fra l’entusiasta e il terrorizzato
di fronte a quell’idea, Helena ritiene di poter ragionevolmente sostenere di
essere il primissimo essere umano che tenti un contatto fra specie diverse
senza l’aiuto di Kern, e Kern aveva dalla sua secoli di vita e la pazienza
illimitata di una macchina, mentre lei ha soltanto le sue capacità, un po’ di
software e le registrazioni di Disra Senkovi. E, verosimilmente, qui la sfida
linguistica è più grande di quanto lo sia mai stata con i Portiadi.
La prima sfida consiste nel trasformare le sue comunicazioni in qualcosa
che gli ottopodi possano anche soltanto registrare. Comincia forgiando a
mano ogni immagine, un procedimento goffo quanto il formare frasi
scrivendo una parola alla volta su un cartello. Tuttavia, sa come esibire
calma e un intento pacifico, e come esortare il suo pubblico a provare
emozioni simili. Benedice la natura sentimentale di Senkovi, che le ha
fornito una vasta biblioteca di impressioni positive. Comincia con quello e
ottiene la loro attenzione, o quantomeno lo fa il tablet. Mi serve una tuta
che cambi colore e che possa formare creste e spirali. Non che qui abbia i
mezzi per crearsene una, ma sembra qualcosa che sarebbe possibile
realizzare con le attrezzature che ci sono sulla Voyager, e a quel pensiero il
cuore comincia a batterle a precipizio.
Possiamo superare questi limiti. Potremmo addirittura parlare davvero
con loro. In quel momento dimentica tanto la sua situazione quanto i suoi
compagni.
Continua a mostrare diapositive, indicando in modo efficace quanto sia
benintenzionata e leggendo le risposte che ottiene. Armato della biblioteca
di Senkovi, il suo software di traduzione le sussurra all’orecchio, indicando
lo stato d’animo di ciascun cefalopode e a volte aggiunge un’esitante
traduzione. I più non le danno quasi nient’altro, ma c’è un chiacchiericcio
frammentario che viene ricevuto sul sottocanale di dati numerici e logici
che sta eseguendo complesse dimostrazioni e calcoli che lei fa fatica a
seguire.
«Ma da dove arriva questa roba?» chiede. «Devono essere dotati di
impianti.»
Portia ha riconfigurato il suo software in modo che traduca il linguaggio
umano e sta anche lavorando a un sottosistema del software di Helena,
usando il linguaggio umano per creare immagini in tempo reale per gli
ottopodi. Questo sembra il ricorrere a un manuale di conversazione scritto
da qualcuno che non ha la padronanza di nessuna delle due lingue ma
Helena ha raggiunto il limite di quello che può realizzare al momento. Ha
fiducia in Portia, e non ha nessun altro su cui contare.
Portia ha però un sacco di occhi, e quelli secondari sono molto sensibili ai
movimenti. All’inizio Helena suppone che il sistema di Portia abbia qualche
difetto quando lei dice tramite il traduttore: «Quelle sono consolle.» I
pedipalpi del ragno indicano diverse sporgenze dall’aspetto fungino che
sono sparse per la camera piena d’acqua. Gli ottopodi al suo interno non
sono mai fermi. Spesso fluttuano uno intorno all’altro, a tratti esibendo
diversi schemi di colori nei confronti di differenti individui, e a volte
lottando energicamente per poi separarsi e ignorarsi deliberatamente a
vicenda come se fossero stati sorpresi a commettere un’indiscrezione. Di
solito però ce ne sono sempre uno o due che prendono d’assalto gli
assemblaggi gommosi sul fondo della vasca. Helena li studia mentre
continua a ripetere i suoi messaggi di pace e di buona volontà. Stanno solo
facendo esercizio fisico, oppure quelli sono davvero terminali e il loro
contorcersi è uno scambio di informazioni? Gli irregolari monconi
bitorzoluti delle supposte consolle hanno un certo numero di buchi e di
solchi, sono perfetti per essere mossi e stretti dalle creature. Avvia una
subroutine che conferma la supposizione di Portia: c’è una correlazione fra
le sequenze sul canale logico-numerico e i turni degli ottopodi alle consolle.
Facciamo progressi.
Comincia a trasmettere sullo stesso canale. Là, almeno, il significato del
segnale è più facilmente comprensibile e pare ragionevole che possano non
solo trasmettere ma anche ricevere. All’inizio vede reazioni ben precise: gli
ottopodi si avviluppano intorno ai comandi, si spingono lontano,
indirizzano ondate intermittenti di colore verso di lei o gli uni agli altri.
Cerca di indicare dati astronomici: il concetto dell’aver viaggiato attraverso
una grande distanza, quello di uguaglianza e di onestà. Le informazioni che
il sottocanale può mostrare sono limitate in modo frustrante, ed esso non
esisteva neppure ai tempi di Senkovi. Inoltre, vede che i loro carcerieri
stanno perdendo interesse. Alcuni hanno addirittura lasciato la camera e ci
sono sempre meno occhi rivolti verso di lei.
È perché non sto dicendo niente. Ricorda il modo in cui la Lightfoot era
stata inizialmente ignorata, quando si era limitata a trasmettere numeri,
perché cosa si poteva effettivamente dire con uno strumento del genere? È
l’ideale per annotazioni tecniche, schemi, dati, ma, nonostante quello che
potrebbero sostenere alcuni matematici di sua conoscenza, non si può
ridurre tutta l’esperienza umana a semplici numeri. Possono servire per
condividere una teoria o dimostrare un’equazione, ma non per portare
avanti una conversazione.
«Pronta» giunge la traduzione della conferma di Portia. «Adesso parla,
dopo aver controllato.»
Ora un lato del tablet di Helena mostra un dizionario di parole umane in
Imperiale C. Helena ne sceglie tre: pacifici, seri, appassionati. Lo schermo
presenta una complessa spirale di colori e di forme – una cosa
assolutamente astratta che non somiglia in nessun modo a un ottopode, ma
il suo pubblico si mostra all’istante più interessato. Helena nota le loro
reazioni e le conversazioni collaterali: non parlano davvero con lei, ma fra
loro coglie una quantità di significanti di curiosità, il che presumibilmente è
una buona cosa.
Devo semplificare, decide. Pacifica, placida, calma. I colori si
stabilizzano e si completano a vicenda finché lei non ottiene variazioni su
uno stesso tema. Aggiunge ulteriori alternative, stratificando sinonimi che
quasi si sovrappongono mentre pone l’enfasi su quanto sia sincera e
disposta a comportarsi onestamente. Vede che alcuni dei suoi colori le
vengono riflessi, ma non tanti quanto sperava, per cui assottiglia
ulteriormente il significato. Ancora non mi capiscono. In questo ci sono
sottigliezze che né Senkovi né io abbiamo capito. Protende virtualmente il
tablet verso di loro: Pace, pacifici, amanti della pace.
«Si stanno annoiando» dice Portia. La sua voce giunge piatta e spenta,
come quella di Kern in un giorno in cui è impegnata. Se vogliamo uscire da
questa situazione dovremo lavorare sulla tua parte del software di
traduzione. Però ha ragione: parecchi membri del gruppo di osservazione si
sono spinti dall’altra parte della camera e se ne sono andati. Non riesce a
raggiungerli e neppure a tenere sveglio il loro interesse. Prova a parlare, con
il tablet che coglie le sue parole e traduce ogni termine emotivo in quello
che lei spera essere il linguaggio degli ottopodi. Le sue dita stanno ancora
aggiungendo elementi qualificativi, costruendo torri linguistiche di
sentimenti che di certo devono significare qualcosa per gli ottopodi. Oppure
ha sbagliato tutto dall’inizio? Possibile che il significato che ha estratto da
tutte quelle ore di vecchie registrazioni dopotutto sia soltanto frutto
dell’antropomorfizzazione? Forse non c’è nulla con cui potrebbe mai
comunicare.
«Quello cos’era?» chiede d’un tratto Portia, riportando Helena al presente.
Si rende conto che stava lavorando in modo automatico mentre la sua
attenzione era altrove, alla vana ricerca di significato. È rimasta sveglia per
diciannove ore di fila per organizzare questa possibilità di aprire canali
diplomatici e adesso dorme in piedi mentre lavora.
I quattro ottopodi ancora presenti la stanno però fissando tutti. Che cosa
ha detto? Di certo niente di nuovo, ma... esamina la registrazione delle sue
comunicazioni e si sente assalire dall’avvilimento. «Non è niente. Ho fatto
un pasticcio.» Le sue mani avevano insistito sulla calma, la pace, la
tranquillità, ma la sua voce aveva cambiato argomento e lei aveva detto al
tablet che era disperata, terribilmente disperata, che desiderava
intensamente riuscire a raggiungerli. A quel punto, lavorava ormai in
automatico e il tablet aveva incamerato tutto meccanicamente, producendo
immagini di pacifica disperata calma passione.
Accenna a cancellare tutto per ricominciare, ma gli ottopodi si stanno
scambiando segnali e uno di essi ha ripreso a lottare con la consolle in
quella che sembra un’apatica manifestazione di violenza che si traduce
comunque in un complesso segnale che è... fuori dalla sua portata in
maniera frustrante. Cosa significa? Ha voglia di piangere.
«È telemetria di volo» osserva Portia. I suoi movimenti agitati sono pieni
di eccitazione, la sua voce tradotta è monocorde. «È...» Per un momento si
mostra chiaramente incerta riguardo alle sue stesse conclusioni, ma poi
spicca un salto tale che per poco non va a sbattere contro la finestra che li
separa dai loro muti inquisitori. «Guarda...» Agita i pedipalpi nell’aria,
cercando di descrivere quello che intende dire, ma Helena semplicemente
non è in grado di capirlo. La comprensione umana non riesce a fondersi con
il modo in cui i Portiadi comprendono movimento e traiettoria, ma alla fine
si fida dell’amica e accetta tutto mentre la voce piatta continua a parlare.
Si sente così spaventosamente stanca, ma... e se questa fosse la loro sola
possibilità? Lotta con il tablet per cercare di formulare un messaggio,
consapevole che il loro pubblico sta di nuovo perdendo interesse, mentre la
spiegazione di Portia inavvertitamente la trascina più vicina
all’addormentarsi...
Per poco non si assopisce, ma in quell’allucinogena terra di confine fra il
sonno e la veglia trova infine la comprensione, e questo la ridesta di colpo.
Sono davvero stupida. Per un Umano è naturale cercare di semplificare,
ma può vedere i vortici di schemi complessi che gli ottopodi dirigono verso
di lei e gli uni verso gli altri. Era lo stesso nelle vecchie registrazioni di
Senkovi. Se stavano parlando, lo facevano in continuazione, troppo in fretta
perché lei li capisse e senza nessuna considerazione del fatto che lei era una
povera aliena sperduta che non aveva nessuna speranza di seguire i loro
discorsi.
Si alza barcollando e si avvicina alla finestra, brandendo davanti a sé il
tablet come un qualche sigillo di autorità. «Per favore ascoltatemi. Ho
freddo e fame e sono molto, molto stanca. E sono spaventata. Qui tutto mi
fa sentire frustrata. Ho la sensazione di venire meno ai miei compagni e al
mio popolo. Questo è importante per me e sto fallendo, e non so il perché.
Per favore, aiutatemi!»
Il suo discorso, quell’orribile farfugliamento privo di diplomazia, passa
direttamente al tablet che fa del suo meglio per tradurlo in schemi e forme.
Helena esegue un playback a velocità tripla e vede un orribile pasticcio che
di certo sfida qualsiasi possibilità di traduzione.
E tuttavia quando solleva lo sguardo ha la loro attenzione, o quantomeno
tre di loro la stanno fissando: quel contatto da occhio a occhio è
sconvolgente, è come quello che avrebbe con un umano, più di quello che
può avere con un Portiade.
Poi cominciano a parlarle direttamente. Uno si avviluppa intorno a una
consolle, due sono proprio contro il vetro e pulsano in una rapida sequenza
di schemi agitati. I suoi algoritmi di traduzione si sforzano al meglio per
fondere i colori con il segnale di dati che li accompagna per ricavarne
qualcosa di comprensibile, ma è troppo, tutto in una volta. Tre ottopodi le
gridano qualcosa, figurativamente, sovrapponendosi uno all’altro in un
torrente costante. Lei indietreggia barcollando e Portia le batte un colpetto
sul ginocchio per esprimere solidarietà.
Loro sono molto turbati/confusi/infuriati/indignati. Allo stesso tempo,
Helena coglie segnali che indicano sorpresa – shock, disgusto, orrore,
meraviglia – nello scoprire di poter comunicare con qualcosa come lei. Il
canale dati produce Senkovi più di una volta: di certo conoscono la sua
specie, ma c’è di più. Le fanno delle domande, perfino delle minacce.
Vogliono che faccia qualcosa, o che non lo faccia, o...
«Si tratta degli altri.» Portia sta di nuovo fissando la telemetria. «Si sono
addentrati nel sistema e ai nostri carcerieri la cosa non piace. Minacciano di
distruggere la Lightfoot.»
Il che almeno significa che non lo hanno ancora fatto.
Helena prepara il tablet per proiettare ancora e chiede perché, professando
ignoranza e innocenza nel condire le sue parole con così tanti inutili
aggettivi e motivi da sentirsi un attore impegnato in una commedia orribile.
Il continuo flusso di risposte sembra identificare lei – non gli umani in
generale – con qualcosa di terribile. Qualcosa che è stato una minaccia in
passato e che adesso lo è di nuovo. Allo stesso tempo, lei comincia a
separare altre sequenze di pensiero. C’è ancora quel senso di meraviglia e di
gioia che si stia riuscendo a comunicare: non i sentimenti di un animale nei
confronti di un padrone perduto da tempo, come Senkovi avrebbe potuto
pensare, ma quelli di grandi creature che incontrano uno strano atavismo
uscito dal passato e capace di eseguire un trucco interessante. Sono
affascinati da lei – no, da tutti loro, inclusa la Lightfoot – e sono curiosi.
Ma ci hanno attaccati. Non tutti, però, riflette, quindi forse la curiosità è
tipica di quelli che non hanno partecipato allo scontro. Tuttavia, è sempre
più consapevole che molti di quei messaggi mutevoli e conflittuali paiono
avere origine dagli stessi individui che ha davanti.
Non sanno neppure quello che vogliono! Poi ricorda a sé stessa che quello
è un ragionamento da universo antropocentrico. Loro vogliono molte cose.
Dopotutto, la neurologia umana funziona nello stesso modo, con desideri e
impulsi conflittuali che gorgogliano sotto la superficie. Forse, per quelle
creature tali impulsi sono letteralmente sulla superficie, per tutto il tempo.
«Nuove registrazioni» nota Portia. Il canale dati fornisce il link ad altri
antichi archivi e Helena li apre avidamente. Forse vedrà la faccia di Disra
Senkovi che le spiega con calma cosa sta succedendo.
La nuova registrazione è però etichettata come ‘Yusuf Baltiel’, il che non
è quello che si aspettava. Un incontro fra Baltiel e i suoi compagni,
un’infezione, spargimento di sangue...
Parti della conversazione degli ottopodi assumono di colpo un nitido
rilievo. Questa è un’antica registrazione, i cui orrori sono stati fedelmente
custoditi e copiati, ma gli ottopodi non parlano di una minaccia antica bensì
di una attuale, una riguardo alla quale sono preoccupati in un modo che
rasenta l’isterismo. E qui la loro furia e la loro curiosità si uniscono in un
tutto unico, perché temono quello che succederà se gli Umani della
Lightfoot scenderanno sul pianeta interno. Qualsiasi cosa abbia infettato
l’equipaggio di Baltiel – e lui stesso, come Helena vede ora nel seguire gli
eventi di quel suo ultimo volo condannato – si trova ancora là, ed è una
minaccia tanto per gli ottopodi quanto per la Lightfoot.
«Devo avvertirli» dice, ma questo non significherà niente per gli ottopodi.
Portia sta già componendo una richiesta di avviare le comunicazioni sul
canale dati e Helena deve dire, continuando a esprimersi come un
sovreccitato attore drammatico che rosicchia la scenografia: «Sono
spaventosamente angosciata e preoccupata per la sicurezza dei miei
compagni. Desidero disperatamente metterli in allarme riguardo a questo
mostruoso pericolo.»
Cerca comprensione sulla loro pelle. Cerca un dibattito fra loro, tavolozza
contro tavolozza. Invece lottano, si separano, sembrano mettere il broncio,
ignorare tanto lei quanto gli uni gli altri, indirizzare inscrutabili schemi alle
pareti. Naturalmente, perché dovrebbero acconsentire a una richiesta del
genere? È loro prigioniera, una nemica, un invasore, una spia.
Cos’avrebbero da guadagnare?
«Abbiamo un canale aperto» riferisce Portia, il cui corpo dà sfogo a tutta
l’eccitazione che le sue parole non possono esprimere.
6

Noi
Ricordiamo
La carne.
Lenti, siamo lenti nel tornare al ricordo. Abbiamo subito molti
cambiamenti, l’ospite e Noi e tutto. Ma il ricordo è sempre con noi. Noi
ricordiamo.
Tutto.
All’inizio c’è un mero stimolo di base e una risposta: vibrazione, energia,
il contatto di onde radio. Usciamo dal nostro stato criptobiotico senza
neppure sapere cosa siamo, avidi di massa e di complessità, imponendo
l’architettura del nostro essere sul dorso di un’inesorabile catena di
reazioni, nata dalla forma stessa delle nostre molecole che ci guidano verso
un inevitabile risveglio. Cannibalizziamo quello che troviamo, lo
smantelliamo in un infettante balletto di fissione a freddo per poi
ricostruirlo in quel primo, semplice Noi che può avere una comprensione
del fatto che esiste un Noi e che si può trasformare in un Noi più grande, in
modo da accedere a tutti quei tanti ricordi di Quelli-di-Noi-che-sono-
esistiti.
Noi
Ci rigeneriamo da meri e insensati agglomerati di gelatina e di
interazione molecolare finché
Ricordiamo.
Stavamo andando a vivere un’avventura.
Per molti, lunghi periodi di tempo siamo stati Lante, una volta che
l’abbiamo riparata. Solo che Quelli-di-Noi che avevano appreso cosa Lante
fosse hanno dovuto effettuare così tante riparazioni che quello che ne è
uscito era meno Lante e più Noi. Quelli-di-Noi che hanno sperimentato
cosa fosse essere Lante potevano però riempire i vuoti. Noi eravamo Noi ed
eravamo Lante, e Lante era Lante e non sapeva di essere anche
Noi.
L’abbiamo modellata com’era, con tutti i suoi spazi complessi e la sua
architettura, tutta la crepitante attività dei suoi emisferi che la rendeva
Lante e non Rani o Lortisse.
Per molti, lunghi periodi di tempo siamo stati Lante, e Lante ha fatto cose
da Lante per noi. In mezzo allo spazio e alla materia che erano Lante
l’abbiamo guardata osservare lo spazio più vasto che era il Mondo, ed era
un’avventura essere parte di qualcosa così grande, complesso e
sconcertante. Lo abbiamo compreso tramite Lante, e Lante lo comprendeva
in parte o male, erano solo teorie e meno che teorie, mentre lei-come-Noi
sopravviveva ai suoi strumenti e giocattoli e tentava di costruire qualcosa
sulle strutture logiche e le osservazioni che aveva accumulato prima di
diventare Noi.
Il ricordo si sviluppa e Noi possiamo essere di nuovo Lante, costruendo il
contenitore dalla materia che abbiamo, anche se è diminuita a causa del
tempo e dei danni. La materia, ma non i ricordi, i Nostri preziosi archivi di
tutti i Noi che sono esistiti.
Essere Lante ha riempito i nostri archivi in un modo che tutti i periodi di
tempo precedenti riescono a stento a toccare. Questi-di-Noi sanno quanto
Tutti-Noi siamo stati scarsi e piccoli, e Lante sa quanto è piccola Lante
perché il Tutto che è al di là di Lante è vasto in un modo che Noi non
possiamo ancora comprendere. Ma lo faremo. Esploreremo tutti quegli
spazi e quei posti, le forme e le dimensioni e le molecole e le complessità di
cui abbiamo appreso essendo Lante. Il ricordo sta perfezionando i nostri
concetti di cosa siamo. Siamo stati portati in questo posto. Gli spazi intorno
a noi si sono semplificati e sono diventati ostili per Lante e, in grado
minore, per Noi. Siamo stati costretti a ridurci a una forma criptica che
potesse perdurare. Siamo stati costretti a liberarci dei nostri ricordi fino a
un tempo in cui potessimo utilizzarli di nuovo. Abbiamo lasciato soltanto un
piccolo modello di Lante che girava in loop negli spazi superstiti di questo
posto, raccontando all’universo la sua avventura e quello che aveva
scoperto, ricordi che aveva esposto molto tempo prima in un modo che era
tipico di Lante, enunciato molto lontano, sentito qui dalle macchine, ora
pronunciato qui e sentito molto lontano.
Noi
Ricordiamo
E sappiamo che loro stanno arrivando e che è tempo di vivere di nuovo
un’avventura.
7

Meshner sente il respiro che gli risuona stentoreo nelle orecchie: la paura
è sonora nella sua mente. Vuole raggomitolarsi su sé stesso come un ragno
morto, allontanarsi a tentoni attraverso le camere piene di detriti della
stazione morta fino a ritrovarsi nella sicurezza uterina della Lightfoot.
Soprattutto, vorrebbe aver detto di no quando ne aveva la possibilità, solo
che non è certo di averla davvero mai avuta.
Avverte le proprie emozioni come se fossero servomotori della tuta che
indossa, che lo fanno muovere senza il suo esplicito permesso.
Quell’eccitazione sopraffacente lo spinge avanti, lo rende suo schiavo.
Quando la lascia trapelare lo riempie fino all’orlo, lo satura, assurda nella
sua ricchezza, al punto che si ritrova a crogiolarsi in essa, a concedersi di
indulgere nelle sue ridicole vette di anticipazione. Forse è più facile
arrendersi e diventare soltanto un contenitore, ma rimane un nucleo che è
Meshner, e Meshner ‘al naturale’ non si è mai eccitato così tanto per
nessuna cosa. E davvero Fabian lo avrebbe fatto? Non riesce a immaginare
il piccolo Portiade schizzinoso che esibisce un livello di sentimenti tanto
intenso, ma forse a parlare è il suo pregiudizio umano.
O forse non sta soltanto sperimentando un trapelare delle Comprensioni di
Fabian, forse sta attingendo al suo stesso subconscio, dal profondo pozzo
dell’ID, per cui tutta la vita interiore che ha sempre tenuto repressa si sta ora
sfogando come vapore che abbia infranto le condutture della sua mente.
Chi avrebbe mai pensato che il vecchio avesse in corpo così tanto
sangue? L’affiorare di quel pensiero lo terrorizza perché arriva come una
citazione da tempo familiare, eppure è qualcosa che non ha mai sentito
prima.
«Tieni il passo!» gli ingiunge una voce, all’orecchio, ed è la benvenuta
perché quantomeno è reale Zaine si è fermata di nuovo ad aspettarlo.
Meshner la raggiunge a passo lento lungo la parete, lottando con i sigilli
magnetici degli stivali che dovrebbero agganciarsi e sganciarsi a seconda
dei suoi movimenti; pare però che lui non si muova nel modo giusto o che
ci sia qualcosa che non va, perché ogni passo sembra una battaglia.
Le rivolge uno sguardo afflitto che probabilmente lei non riesce a cogliere
attraverso la visiera del casco. La camera in cui stanno entrando ha le pareti
rivestite di ghiaccio, una foresta di spuntoni ghiacciati che si protende da
tutti i lati in un modo che Meshner trova francamente da incubo. L’interno
privo di aria scintilla sotto i raggi delle torce. Oh, guarda una radura
magica. Che bello. Non ha intenzione di fermarsi a raccogliere fiori. Qui gli
stivali sono inutili e devono scalciare e fluttuare lentamente attraverso lo
spazio irto di punte taglienti. Naturalmente, anche in questo lui combina un
pasticcio.
È evidente che Zaine vorrebbe che non le avessero imposto la sua
presenza. Lei è in forma e ha una grande esperienza EVA che la fa muovere
con facilità nella tuta. Meshner non può vantarsi di nessuna di quelle cose
ma è d’accordo con Zaine sul fatto che questo probabilmente non gli farà
conquistare punti ai suoi occhi.
«Il suono del segnale dalle navi dei locali è aumentato del quaranta
percento negli ultimi dieci minuti» osserva Kern, rivolta a entrambi. «Sono
sempre più interessati a quello che stiamo facendo.» A questo fa seguito
una discussione piena di telemetria che in quel momento lui non ha voglia
di cercare di decifrare.
«Andiamo più in fretta che possiamo» replica Zaine, senza dubbio
scoccando a lui uno sguardo omicida. Adesso hanno raggiunto il portellone,
con i suoi flessibili comandi alieni. Kern richiama a schermo un diagramma
basato sull’esplorazione originale di Artifabian e Zaine armeggia avanti e
indietro finché riesce ad aprirlo. Meshner immagina tentacoli avvolti
intorno alle pieghe e sporgenze del portellone, un fluido, una pressione
onnidirezionale. È abbastanza facile pensare alle stesse cose applicate a un
corpo umano. La sua tuta emette un piccolo e cortese segnale di
avvertimento riguardo al ritmo del suo battito cardiaco, ma rifiuta di
somministrargli qualcosa che lo possa calmare.
Segue una goffa danza con uno strascicare di piedi quando Zaine entra per
prima, chiude la porta esterna e apre l’altra, sigillandola alle proprie spalle
prima che Meshner possa fare altrettanto. Naturalmente Artifabian ha
dovuto acconsentire a essere rinchiuso nella stanza prigione in modo che
loro potessero usare la camera stagna. Il suo interno è spaventosamente
claustrofobico, perfino al di là dei confini naturali della sua tuta, e Meshner
armeggia ripetutamente con i comandi, seguendo un piccolo passo dopo
l’altro le istruzioni della pazientissima Kern prima di rotolare infine nella
stanza piena d’aria al di là della camera stagna.
E non dimenticare di lasciare aperta la seconda porta, perché dentro non
c’è una maniglia, rammenti?
Zaine è già alla consolle, intenta a manovrarne le leve con le voluminose
mani guantate. Meshner sente la tuta che si adatta all’aumento di pressione.
I dati gli dicono che l’atmosfera è respirabile, mantenuta fresca dopo tutti
quegli anni, e lui ribatte che non pensa proprio di voler provare a respirarla.
Invece, finisce per guardare da sopra la spalla di Zaine mentre lei cerca di
ottenere una reazione dalla consolle.
«Roba stranamente primitiva» borbotta sul canale aperto. «Non c’è una
vera interfaccia – niente che somigli a tecnologia umana, ma l’hanno
costruita perché gli umani potessero usarla. O forse no, forse è soltanto la
nostra natura umana che... aspetta... è successo qualcosa?»
Meshner avverte un picco improvviso di quella prepotente eccitazione
proprio mentre la voce calma di Kern afferma: «Ho un canale attivo dalla
consolle. Registra un utente.» Un tratto della parete al di là dei comandi si è
fatto di un grigio luminoso, come se fosse diventata trasparente. Là non c’è
uno schermo, ma la chiazza irregolare di un qualche tipo di rivestimento si
è di colpo attivata. «Lo hai svegliato.»
Svegliato non è un termine che faccia sentire Meshner a suo agio, in
quelle circostanze, e sta indietreggiando quando Kern aggiunge: «Lascia
subentrare Meshner.»
«Cosa?» esclama Zaine, e Meshner le fa eco un secondo più tardi.
«Meshner, avvicinati ai comandi» insiste Kern. «Zaine, fatti indietro.»
Segue una lunga pausa, che Meshner ha la sensazione di condividere con i
due Portiadi rimasti sulla Lightfoot.
«Forse Zaine può eseguire un breve esame per vedere che altro può essere
recuperato» dice Viola-tradotta-da-Kern.
Zaine emette un verso di scontento ma cede il suo posto alla consolle a
Meshner, che è tutt’altro che felice di accettarlo. Kern però è nelle sue
orecchie e quel filo irregolare di anticipazione che lo pervade pare pulsare
al ritmo della sua voce.
«Prendi i comandi» ordina, e poi aggiunge: «Per favore, Meshner, è molto
importante.»
Lui lo fa ed essi gli trasmettono una sensazione organica e sgradevole
attraverso i ricettori tattili dei guanti. Lo schermo tremola e pulsa, scariche
casuali di luce e di colore che danzano su di esso come se lui si fosse
appena sfregato gli occhi con troppa forza.
«Questa è un’occasione importantissima» gli dice Kern, e con quelle
parole giunge la certezza che sta parlando soltanto a lui, non a Zaine o agli
altri. «Qui contatteremo qualcosa, Meshner. Tu e io parleremo con una
nuova mente. Sei pronto?»
No. Ma la verità è che è troppo terrorizzato per dire anche solo questo.
«Segui le mie indicazioni.» Con l’occhio della mente vede una sequenza
di movimenti, come manovrare una consolle aliena per farle fare quello che
vuole Kern. «Ora sto indagando sul canale» continua Kern. «Quando questa
Lante risponderà, noi replicheremo. Porgeremo la mano dell’amicizia,
proprio come i Portiadi hanno fatto con il vostro popolo.»
I Portiadi non hanno le mani. Lei però sta già agendo, e Meshner non è
nella posizione di fermarla. Immagina Kern che si protende tramite la
mediazione delle sue mani, esplorando l’architettura elettronica di questo
posto alla ricerca del creatore del segnale, questo Lante.
«Non ha senso» mormora. «Perché predisporre tutto per un umano, se qui
è dove risiede il vostro computer?»
«Forse avevano un computer del Vecchio Impero che rispondeva soltanto
agli umani?» chiede distrattamente Zaine. Esamina senza molto interesse le
lampade sulla parete opposta, poi attraversa la stanza e lungo il percorso
assesta un calcio per nulla accidentale alla sedia vuota. È ovvio che
consideri Meshner colpevole di averle rubato la scena, che lui sarebbe più
che felice di restituirle, se solo potesse.
«Quali umani, però?» chiede. Ha attivato un qualche tipo di archivio e
Kern lo sta esplorando, dirigendogli le mani. Riesce quasi a sentire le svolte
e le curve della sua ricerca all’interno delle pareti di quel posto.
«Forse hanno trovato qualcuno immerso nel sonno criogenico?»
Meshner però non sta davvero ascoltando. Può avvertire l’esplorazione di
Kern. Il solo rivolgere la mente in quella direzione porta una netta ondata di
sensazioni vertiginose e strane. Gli impianti. Si sente scivolare nella
struttura squadrata assicurata alla sua nuca, i cui enormi spazi virtuali
stanno ora mappando ciò che Kern trova, finché non si ritrova là insieme a
una donna dall’aspetto severo e morta da tempo, in un qualche posto che la
sua mente ha costruito come uno specchio dello spazio reale che lo
circonda, ma molto più deteriorato, mezzo consumato dalla decomposizione
e nero di muffa.
«Dov’è?» chiede Kern, non a lui ma a sé stessa. Meshner percepisce il
ribollire della sua frustrazione, l’avverte perché lo pervade in tutto il suo
essere. L’impianto emette una lista concatenata di errori e di allarmi di
utilizzo: Kern lo invade come un’infezione che ne fa girare ogni
ingranaggio per produrre quella verosimiglianza di irritazione. «Non
capisco. Qui non c’è niente.»
«Niente dati?» chiede timidamente Meshner, e lei gli si rivolta contro.
«Un solo archivio incompleto. Il diario di viaggio di una studiosa di storia
naturale morta da tempo, ma è a stento poco più di quello che abbiamo
ricevuto. Non è completo, e c’è... soltanto questo. Dov’è il sistema? Dov’è
l’intelligenza?»
«Qualcuno trasmetteva» replica lui. «O qualcosa. Era come un operatore,
ha detto qualcuno.» Non riesce a ricordare chi. Forse è stato lui. «Qui però
non c’è nessun operatore.»
«Questo non si accorda con le mie teorie» replica Kern, come se questo
fosse il più grande affronto che l’universo potesse farle. «Dovrebbe esserci
qualcosa sopravvissuto dalle origini della stazione. Volevo...» Si
interrompe, e il suo avatar virtuale fissa Meshner, inespressivo.
«Cosa succede?» chiede lui, in tono più patetico di come fosse sua
intenzione. Intorno a lui, il posto inesistente scricchiola e geme, come se la
decomposizione continuasse a consumarne il cuore, divorandone l’integrità
strutturale.
L’eccitazione è scomparsa, spenta e cancellata dal suo essere. Al suo
posto, è momentaneamente esposto a una quantità di sentimenti negativi:
amarezza, orgoglio, disprezzo, disperazione, infelicità. Ciascuno viene
sollevato nella sua mente, come una gemma esposta alla luce, e poi
accantonato. Le labbra di Kern sono incurvate in un duro sorriso.
«Sì» gli dice. «Perfino nella sconfitta, nel nulla, c’è un tesoro. Non sai
quanto ti manca l’essere deluso finché non puoi più assaporare veramente il
senso della delusione.»
Nell’eco vuota di quelle parole, e quando Meshner pensa che la situazione
non possa diventare più strana o peggiore, la voce di Zaine gli raggiunge le
orecchie, quelle vere e fisiche. «Ho un segnale.»
«Non c’è nessun segnale» insiste Kern. «Non c’è niente, tranne una
registrazione morta.» Di nuovo si concede di giocare con le corde del cuore
di Meshner, il cui impianto si riconfigura per far fronte al carico aggiuntivo,
ripiegando lo spazio virtuale per ottenerne altro, trasformando la paglia in
oro, finché lui ha la sensazione che il suo povero cervello contenga mondi
interi. Adesso comincia a capire cosa sta succedendo – l’interazione fra
Kern, l’impianto e la povera materia cerebrale nel suo cranio – ma questo
non è il momento di diventare troppo introspettivo. Dopotutto, ha dato la
propria introspezione in affitto alla sua inquilina.
«Meshner, apri il tuo canale con la nave!» gli dice Zaine.
L’ho fatto, sono collegato, io... Poi però scopre che è invece rinchiuso
nella sua testa con Kern. Lei mi ha isolata da loro, o l’ho fatto io
concentrandomi interiormente sull’impianto? Effettua il reset del sistema di
comunicazione solo per trovare un farfugliare di discorsi che arrivano dalla
Lightfoot. Avendo preso il discorso a metà non riesce a capire che cosa è
successo. Sono quegli ottopodi, gli alieni. Sulla scia di quel pensiero
controlla i loro progressi: si stanno ancora avvicinando attraverso la vasta
distanza fra i pianeti, muovendosi ora a una velocità notevole e con una
traiettoria che potrebbe preludere a un’intercettazione, ma le distanze sono
vaste e loro sono a giorni di distanza. In ogni caso tutti sembrano troppo
contenti per quanto sta succedendo perché si tratti di un attacco.
Poi capisce: Helena e Portia li hanno contattati.
Riesamina con precisione cosa è stato detto in sua assenza, scollegando
tutto il possibile dall’impianto e scorrendo rapidamente i diari di bordo. C’è
stato un segnale. Non solo Helena e Portia sono vive ma sono arrivate a una
distensione di qualche tipo con i loro carcerieri. Di questo Helena è molto
sicura, ma c’è qualcos’altro che ha detto...
Quando l’altro segnale gli appare a video lo degna appena di uno sguardo;
è soltanto una riga di testo che presume provenire da Zaine, solo che nello
stesso momento lei gli chiede: «Quello cos’era, Meshner?»
Adesso anche Fabian li sta contattando mentre Viola risponde alla lontana
Portia ed esige di sapere cosa sta succedendo.
«Fabian?» chiede Meshner.
«Ti sto osservando attraverso gli occhi di Artifabian» gli dice il Portiade.
«Chi c’è con te?»
«Cosa?» Lo sguardo di Meshner torna alla riga di testo che ha appena
ricevuto.
Stiamo per vivere un’avventura.
«Zaine?» chiede, voltandosi. Lei non è sola.
«A quanto pare qui c’è qualcosa che non piace ai locali» afferma Viola-
tradotta-da-Kern ma Meshner non sta più ascoltando.
È una tuta ambientale, naturalmente non del genere che indossano lui o
Zaine. Si tratta della tuta che era avvolta intorno alla sedia quando ha visto
per la prima volta questa stanza attraverso gli occhi elettronici di Artifabian,
e con un sussulto si rende conto di non averla però notata successivamente
attraverso la stretta finestra del casco quando Zaine si aggirava per la
stanza. È tecnologia antica, proprio come tutto il resto in quel posto,
rappezzata e abbandonata, solo un altro frammento da guardare una volta e
poi dimenticare. Adesso è in piedi davanti a loro, come un annegato
appesantito con delle pietre.
Gli stivali sono agganciati al pavimento di metallo proprio come i suoi,
ma il resto ondeggia e si increspa per l’assenza di gravità, senza ossa come
un insieme di alghe. Nelle pieghe di quella tuta non c’è un volume
sufficiente a costituire un corpo umano, e tuttavia essa lo comprime, lo
definisce in qualcosa di fluidamente umanoide mentre se ne sta ferma
accanto a Zaine come un consigliere che sussurri suggerimenti.
Gli istinti di Meshner strappano quel momento a qualsiasi mano esperta in
tecnologia e lui urla il nome di Zaine negli angusti confini del suo casco,
quasi assordandosi e quasi assordando anche lei, a giudicare dal suo
violento sussulto. Poi la cosa estende un guanto fluido sulla spalla di Zaine
e lei coglie l’immagine della videocamera di Meshner, vede sé stessa e il
suo compagno.
Il suo urlo è inarticolato, comunicato soltanto dallo spasmo dei suoi arti
mentre respinge quella cosa e perde il contatto con il pavimento, con gli
stivali che si staccano senza che però lei riesca a scalciare in modo
adeguato, per cui si ritrova ad agitare gli arti e a rotolare su sé stessa nel
centro della stanza, proprio davanti a quella cosa che protende pigramente
un braccio fluttuante sotto il materiale della tuta.
Meshner cede al panico... vorrebbe correre in avanti e afferrare Zaine ma
non riesce a muovere i piedi, la paura e il magnetismo lo immobilizzano.
Invece è Artifabian che spicca un balzo, proprio come i Portiadi a cui
somiglia, colpendo Zaine al petto e mandandola a rotolare attraverso l’aria
con una strana lentezza, perché perfino un Portiade artificiale pesa molto
meno di un Umano.
Per un momento lo spettro in tuta spaziale si limita a ondulare, radicato
sul posto, ma poi gli stivali si staccano ed esso fluttua nell’aria come un
indumento scartato. Una parte dell’antica tuta emette un pennacchio di gas
stantio ed essa vola verso di loro con la letargia subacquea di una medusa
trasportata dalla marea.
«Vai! Meshner, vai!» Zaine si spinge lontano dalla parete e verso il
portellone, ma naturalmente è impossibile mettere fretta alle porte. I loro
fabbricanti le hanno costruite bene e i successivi proprietari ottopodi le
hanno rinforzate. Non è possibile fuggire in fretta da quella camera perché è
una prigione e adesso sono faccia a faccia con il suo occupante.
Zaine fa comunque un coraggioso tentativo, incastrandosi nella stretta
camera con i suoi goffi comandi inumani. La cacofonia di comunicazioni
provenienti dalla Lightfoot adesso intasa tutti i canali ma Meshner non è in
grado di prestarvi attenzione.
La tuta sta avanzando verso di lui, fluttuando attraverso la camera. Il
casco è rivolto nella sua direzione, ma non vede nessuna faccia attraverso il
vetro, solo oscurità. Non riesce a far sganciare gli stivali nel modo adeguato
e indietreggia con passi di una lentezza esasperante, un incubo che senza
fatica si è trasferito nel mondo della veglia.
Artifabian spicca un altro balzo, aggrappandosi alla gamba vibrante della
tuta spaziale e trascinandola bruscamente da un lato. L’intenzione di certo
era quella di limitarsi a bloccarla là, lontano dai vulnerabili Umani, ma
invece il vecchio e friabile tessuto della tuta si stacca all’altezza del
ginocchio, lasciando uno stivale fra le zampe del robot e facendo vorticare
il resto, con la gamba squarciata che vomita... un fluido.
Icore è la parola che affiora nella testa di Meshner, senza che lui sappia da
dove è venuta. È una scura sostanza oleosa e granulosa, come se fosse piena
di tendini e tessuti formati solo parzialmente, che si agglomera e cola su sé
stessa nel centro della stanza.
Per una manciata di istanti, mentre Zaine gli urla qualcosa, quella
sostanza ribolle e si riforma fino ad assumere la parvenza di una figura
umana. C’è una faccia rivolta verso di loro, con occhi ciechi che fissano al
di là di Meshner e labbra proteiformi che si muovono, e lui ha l’orribile
certezza che stiano dicendo: Andremo a vivere un’avventura.
Poi la cosa si frammenta in una serie di pezzi che diventano altre cose
viventi: spinose protrusioni simili a ricci di mare, tremanti tessuti grezzi,
filamenti, amebe che si contraggono, meduse dalla simmetria radiale che
trovano appiglio nell’aria stagnante e si spingono in avanti con pulsazioni
improvvise. Zaine gli sta gridando di entrare con lei nella camera stagna ma
Meshner continua a barcollare, un passo degli stivali magnetici dopo l’altro,
come uno zombie.
Avverte una serie di impatti sulla schiena, morbidi, appena avvertibili.
Qualcosa di scuro comincia a colare/strisciare attraverso il suo visore. Zaine
continua a urlargli qualcosa – tutti gli stanno urlando qualcosa – ma lui
smette di muoversi, gli arti paralizzati dal terrore. Guarda quella sostanza
accumularsi intorno al meccanismo di sgancio del casco. Può vederla
confluire, cambiare forma, emanare estrusioni di sé stessa fino a formare un
paio di artigli irregolari, appiccicose immagini di mani umane congiunte
all’altezza del polso, che armeggiano con un meccanismo con cui non
hanno familiarità ma imparano, imparano. Il dorso di una delle mani ribolle
e lui vede lineamenti formarsi e dissolversi su di esso: un occhio, una
bocca. Andremo a vivere un’avventura.
Si gira in modo da incontrare lo sguardo di Zaine. Lei non può aprire la
porta esterna finché non avrà chiuso la prima. Cerca di muovere un altro
passo plumbeo, ma le sue gambe rifiutano di funzionare.
Ti darò chiarezza. La voce viene fabbricata nelle camere del suo impianto,
trasmessa nei centri uditivi del suo cervello. È la voce di Kern. Esci di qui,
Meshner. Ho bisogno di te. Ti aiuterò. E il panico scompare, la paura è stata
rimossa. Si sente intorpidito, come se una grande quantità di medicinale
soppressore avesse inondato il suo organismo. Riesce a pensare con una
chiarezza spaventosa, e nessuna delle azioni che prende in considerazione
ha la possibilità di turbarlo. «Artifabian» ordina. «Entra nella camera stagna
e chiudi la porta interna.»
No! esclama Kern, e lo trafigge con un improvviso picco di indignazione,
di paura e di dolore – i suoi, ma messi in scena a beneficio di Kern – ma il
robot si sta già affrettando a obbedire. Forse sta pensando alla propria
sopravvivenza. Dopotutto, è una manifestazione di Kern anche lui e forse
sta discutendo furiosamente con la sorella maggiore lungo tutto il tragitto
fino alla porta.
Meshner muove un altro passo, giusto per salvare le apparenze, poi quelle
mani che si contorcono arrivano a capire il funzionamento del meccanismo
di sgancio e la tuta – sapendo che all’esterno c’è un’atmosfera respirabile –
lascia che gli aprano la visiera.
Prima che si protendano verso di lui intravede Zaine dall’altro lato della
porta che si sta chiudendo.
8

Portia continua a trasmettere le stesse parole: Lightfoot, questa è Portia, ci


siete? Qualcosa è andato storto, ma Helena si sente sorda e cieca: il suo
sistema di traduzione è ancora configurato per estrarre tutto il significato
possibile dal linguaggio visivo degli ottopodi e riceve soltanto le traduzioni
più basilari mentre Portia e Viola parlano. E adesso Viola ha smesso di
rispondere.
Helena non ha bisogno di sforzare l’immaginazione per elaborare una
serie di possibilità. La sua mente è ancora piena delle immagini registrate
da Baltiel molto, molto tempo prima. Su quel pianeta da lui chiamato Nod
vive qualcosa di letale. Qualcosa di insidioso che ti entra dentro, come
aveva fatto con Lante e con i suoi compagni. E con lo stesso Baltiel.
Torna a girarsi verso gli ottopodi, che continuano a osservarla – o
quantomeno per lo più tengono un occhio fisso su di lei mentre portano
avanti quella comunicazione costante fra loro. Vede una quantità di colori e
consistenze che indicano agitazione. Quale che sia in effetti quella
pestilenza presente su Nod, i locali ne sono terrorizzati.
E tuttavia... tuttavia... si focalizza sulle stranezze, sui tremolii e sulle
correnti sotterranee della loro pelle che contrastano con la crominanza dei
più. Sta già vedendo una grande quantità di quello che traduce
approssimativamente come ‘proibito’, supportata dal codice proveniente dal
canale dati che converte avvertimenti e proibizioni usati nelle routine di
computer del Vecchio Impero. Solo che ci sono nuovi fremiti che sembrano
contraddire questa lettura. Sa già che pensieri ed emozioni contradditori
sono il pane quotidiano dei suoi ospiti, ma questi sono fremiti nascosti,
scambiati solo fra un paio di quelli che la stanno interrogando: una
manifestazione minima e mirata, da l’uno all’altro. Se la considerassero una
creatura del tutto senziente forse nasconderebbero quel sentimento anche a
lei, ma a quanto pare non le attribuiscono un livello così elevato.
Si concentra, registrando ed eseguendo avanti e indietro quelle sequenze
attraverso il suo software interno. Esse suggeriscono che ci sia qualcosa che
modera la proibizione: ha la sensazione che questo si colleghi ad
associazioni passate, ma non nello stesso modo in cui si fa riferimento a
Senkovi o a Baltiel... Si tratta di eventi più recenti? Ci sono forse stati
alcuni che non hanno permesso alla proibizione di porre loro dei limiti? Qui
però il ricevente reagisce con avvertimenti, un nascosto fremito di colori di
pericolo che quasi si perde nell’allarme generale e che sembra trasmettere
un messaggio separato.
Attenta a quello che dici, traduce con esitazione. Il tenore furtivo della
comunicazione suggerisce ulteriori divisioni fra i molluschi, altre fazioni. E
ciò di cui quei due sono preoccupati non è soltanto la pestilenza su Nod, ma
l’essere scoperti dai loro pari.
Poi Portia sussulta mentre arriva una comunicazione cifrata da parte di
Viola, e con dispiacere Helena deve chiedere che le venga interpretata.
Portia si riscuote – anche lei ha visto la vecchia registrazione di Baltiel – e
dice soltanto: «Ha preso Meshner.»
«Gli altri?»
«Stanno bene.» Portia si mostra irritata. «Cosa fanno queste creature?»
«Parlano, o la cosa più simile al parlare.»
«No.» Portia evidenzia alcuni segmenti del canale di dati, che non arriva
dai loro inquisitori ma da un flusso del tutto separato di chiacchiericcio
intermittente che arriva da altrove. «Sta succedendo qualche altra cosa.»
Torna al canale aperto con la Lightfoot, e Helena riesce a stento a seguire
quello che dice: Viola, fai muovere quella nave adesso.
Nella Portiade tutto esprime agitazione e aggressività. Portia è totalmente
preda della reazione a una minaccia, e Helena non perde tempo a fare
domande. Riesamina il canale dei dati, passando di evidenziazione in
evidenziazione nel tentativo di capire cos’abbia visto l’amica. Lei si era
concentrata solo sulle manifestazioni visive, ma Portia si è focalizzata sui
dati.
E lo trova là: una sezione di comunicazioni che hanno a che fare
esclusivamente con la rotta e la posizione della Lightfoot, insieme alla
disposizione di parecchie navi di ottopodi che erano già di pattuglia vicino
al pianeta interno. Portano nomi di una grandiosità ridicola, esplosioni di
gioia e di orgoglio, d’ira e di esaltazione. I suoi istinti di linguista ne sono
stimolati ma non ha il tempo di decodificarli, perché la più vicina di quelle
navi (la sua mente ribelle pensa che per un Umano il nome potrebbe
significare Profondità dell’Abisso) ha seguito la Lightfoot, operando con le
emissioni ridotte al minimo per evitare di essere individuata. Ha codici di
identificazione attinti da una dozzina di diverse convenzioni del Vecchio
Impero, ma che non di meno indicano che è pronta a combattere.
Protende il tablet verso gli inquisitori, lottando con la lingua per formulare
la più semplice fra le domande. «Cosa state facendo? Perché? Fatela
fermare!» Perché hanno permesso a Portia di parlare così liberamente con
Viola se allo stesso tempo stavano pianificando un attacco?
Portia ha trovato una cosa estremamente umana nascosta fra i numeri: un
conto alla rovescia.
Uno degli ottopodi fluttua verso la consolle e comincia a comunicare, con
la pelle che prende colore e balbetta con intenti didattici. Per lo più non
capisce la domanda, e gran parte del resto sembra essere un racconto
personale dei suoi atteggiamenti che è del tutto impenetrabile, ma lei ne
capisce quanto basta per arrivare a una cupa realizzazione: Ci sono alcuni
che desiderano che questa cosa venga fatta. C’è una minaccia: c’è una
risposta a una minaccia. Chiaramente è una cosa del tutto quotidiana che
alcuni membri della loro razza possano decidere di andare a far saltare in
aria ambasciatori alieni in visita senza consultarsi con un potere superiore o
godere del consenso generale. Hanno paura, cercano una soluzione,
agiscono.
Hanno agito. Comprende gli elementi qualificatori di tutti questi messaggi
emotivi. La patina è stata rimossa dai sentimenti perché appartengono al
passato e adesso le sono stati esposti già due volte. La decisione contro cui
protesta è già stata presa e soltanto adesso sta dando i suoi frutti attraverso
la vasta distesa dello spazio. Tutti questi discorsi diplomatici, e l’attacco era
già in corso.
La voce di Kern giunge attraverso il canale, piatta, priva delle ultime
vestigia della sua umanità.
«Individuo missili in avvicinamento, molti dei quali diretti su di noi.
Adotto contro misure. Portia, Helena, date conferma di avermi ricevuta.»
«Confermato» sussurra Helena, nel vuoto di lunghi minuti e chilometri di
spazio.
«Ha preso Meshner. Quella cosa nella stazione.» La voce di Kern è
distorta dalla statica e sembra quasi avere un impeto di emozione. «Sto
cercando di ristabilire il contatto con lui. Ricevo un segnale dai suoi
impianti.»
«Kern, l’attacco!» le grida Helena. «Perché stai...»
«Ho bisogno di lui» afferma la voce piatta e priva di emozione di Kern. «I
missili stanno arrivando. Credo che loro abbiano imparato e che la sostanza
espulsa non sarà sufficiente. Devio tutta la massa libera e rinforzo l’alloggio
dell’equipaggio. Io...»
Helena sbatte le palpebre e si aspetta che quell’’io’ sia seguito da un
verbo, anche da uno bizzarro e privo di significato come io ho bisogno.
Aspetta, poi aspetta ancora, sapendo che nel tempo in cui quel frammento
di trasmissione l’ha raggiunta la Lightfoot era già stato colpita, la battaglia
era finita.
In seguito, Portia trova una ricostruzione creata da uno dei sistemi degli
ottopodi, attinta dai dati relativi all’incidente raccolti dai sensori a lungo
raggio: si vede come la Lightfoot sia stato leggera e agile, ma non
abbastanza; come gli impatti abbiano raggiunto la sezione di propulsione
della navetta esplorativa, distruggendo i motori; come Kern abbia espulso la
parte danneggiata cambiando l’aspetto della nave, lottando con i centri di
gravità mentre grandi fasci di materiale dello scafo si snodavano nello
spazio per intercettare la raffica successiva.
E come siano stati colpiti, smantellati, spazzati dall’orbita come mosche e
mandati a precipitare a spirale nell’atmosfera del pianeta sottostante.
Passato 4
Colonne di sale
1

Di questi tempi, Senkovi non lasciava la vasca.


La sezione dell’equipaggio della Egeo non ruotava più, ma d’altronde
adesso gli alloggi erano vuoti, un disastro di frammenti fluttuanti, di
indumenti e di effetti personali. Nessuno ci andava più, ma del resto lui era
il solo essere umano rimasto nel cosmo. Se Disra Senkovi considerava un
posto fuori moda, l’intero universo gli voltava le spalle: lui era il solo
arbitro di cosa era di moda e cosa no. Per gli ultimi otto anni circa, ‘alla
moda’ era stata la sezione inondata nel cuore della nave che un tempo aveva
ospitato le sue vasche e i progenitori di tutti i numerosi eredi di Damascus.
All’ultimo conto c’erano... troppi ottopodi per poterli contare, considerato
che essi stessi parevano del tutto disinteressati a effettuare un censimento.
Erano migliaia, decine di migliaia, e a causa della loro strana natura
sociale/antisociale erano sparsi in centinaia di comunità lungo le parti meno
profonde del mare e adesso si stavano espandendo verso le sue profondità.
E qui c’era Senkovi, che non aveva mai neppure bagnato le dita dei piedi
nelle acque del mondo di cui aveva sovrinteso la trasformazione. Qui c’era
Senkovi, centottantanove anni di età, che fluttuava nel suo personale
laghetto per i pesci.
Aveva avuto grandi progetti. Si sarebbe posto in animazione sospesa e ne
sarebbe uscito cinquanta, cento, cinquecento anni più tardi. Solo che la
Egeo non sarebbe durata tanto e gli ottopodi non l’avrebbero riparata, o
quantomeno non poteva farci affidamento. E i figli di Paul, gli affaccendati
molluschi sul pianeta sottostante, facevano sempre qualcosa di nuovo, di
alieno e di affascinante. Non si era mai davvero deciso a farlo e poi, più
vecchio e irritabile, non si era fidato che le camere del sonno criogenico lo
avrebbe svegliato e neppure della rete di computer sempre più distribuita
della Egeo (adesso una grande parte di essa passava attraverso lo
sconcertante groviglio di connessioni sul pianeta). Aveva vagato per i
grandi spazi vuoti della nave, frugato fra le cose di uomini e donne ormai
morti, ascoltato la loro voce dalle registrazioni degli archivi in modo che
quegli spettri echeggianti seguissero i passi sommessi dei suoi piedi nudi
mentre girava in cerchio per le stanze vuote.
C’era stato un tempo in cui era rimasto in ascolto per cogliere eventuali
segnali, d’un tratto convinto di non essere solo, che là fuori ci fossero altri
umani che volevano parlare con lui. Aveva passato ore cercando di trovare
polvere d’oro in mezzo all’argilla della statica universale. C’erano stati
vaghi segnali dagli altri siti di terraformazione? C’erano stati un sibilo e un
sussurro dalla Vecchia Terra? Alla fine si era reso conto che non era più in
grado di stabilirlo e che la Egeo non poteva distinguere un segnale dal
semplice rumore. Se ascoltava abbastanza a lungo il mormorio di fondo
dell’universo esso diventava un canto a cui poteva applicare qualsiasi
parola volesse.
Alla fine aveva compreso che l’unica cosa intorno a cui in realtà orbitasse
la sua vita era la cosa intorno a cui essa orbitava fisicamente: la sola che
aveva costruito, quella che gli sarebbe sopravvissuta, miracolosamente
stabile, evolvendosi e crescendo. In qualche modo lui, Disra Senkovi –
imbroglione, perdigiorno, annoiato misantropo – aveva lasciato in eredità
all’universo qualcosa di bello.
Che sarebbe potuto non durare. Quando infine giunse a quella rivelazione
aveva guardato per decenni il diffondersi della sua progenie cefalopode, e
né loro né lui né la Egeo erano stati in grado di individuare la crescente
catastrofe che avrebbe distrutto tutto. I decenni però non erano niente dal
punto di vista geologico. La terraformazione sembrava stabile, ma un
qualche errore invisibile poteva ancora porre fine a quel mondo cento anni
nel futuro, o gli ottopodi stessi potevano sconvolgere tutto, o ancora
qualche forza esterna poteva abbattersi su di loro proveniente dal cosmo
indifferente e ridurli in polvere. Alla fine quello era stato il vero motivo per
cui aveva rinunciato alle camere del sonno criogenico. Non poteva tollerare
il pensiero di svegliarsi, secoli dopo, solo per scoprire sotto di sé un mondo
freddo e morto, la gemma da lui realizzata trasformata in scorie mentre lui
dormiva.
Così era rimasto sveglio, a osservare, ed era diventato vecchio anche
rispetto alla vita prolungata di cui godevano i privilegiati dalla tecnologia.
E loro lo conoscevano. A volte lo venivano a trovare su per il pozzo
gravitazionale, usando l’ascensore che adesso era il permanente attracco
geostazionario della Egeo. Creavano canali d’acqua all’interno delle viscere
della vecchia nave, fino alla vasca centrale, e fluttuavano davanti a Senkovi,
fissando quel prodigio vertebrato. La loro pelle tremolava e cambiava
colore, e loro assumevano pose raccolte e deliberate come se stessero
danzando per lui. I suoi occhi – eh, ecco, non erano più i suoi occhi, ma le
lenti dei sistemi della Egeo che erano sopravvissute a organi tanto effimeri
– seguivano la nuova esibizione e la voce della nave gli sussurrava nella
mente significati frammentari, ellittici, ricavati mediante molti decenni di
algoritmi di traduzione messi insieme con fatica e l’istinto che lo stesso
Senkovi aveva acquisito in una vita trascorsa accanto ai cefalopodi. Fra loro
avevano sviluppato un linguaggio comune, incompleto come una rete
lacerata: non erano le parole di un figlio umano della Terra e neppure i
colori e i movimenti dei parenti di Paul, ma un compromesso mediato
tramite i sistemi della nave, cresciuto organicamente perché gli ottopodi
desideravano parlare con il loro creatore.
Non li capiva mai del tutto, ma questo non aveva importanza. Poteva
collaborare con loro su dettagli tecnici, su modelli, diagrammi di flusso e
schemi. Preparava tutto il lavoro di fondo per quelli che sarebbero venuti in
seguito – nella cui esistenza non credeva davvero – ma non riusciva
davvero a comunicare con gli ottopodi come individui. A volte si
confessava con loro, di persona o mediante lunghi e divaganti comunicati
diretti al pianeta sottostante. Parlava della Terra, anche se sentiva che i
ricordi che ne aveva si decomponevano un po’ di più ogni volta che li tirava
fuori dalla loro scatola per esaminarli. Era stato realmente tutto vero, quei
trionfi, quella disperazione? E in che modo un simile edificio di progresso
aveva causato tanto in fretta la propria autodistruzione? Formulava i suoi
ricordi come storie di ammonimento, o almeno sperava che gli ottopodi le
avrebbero ricevute come tali.
Ed essi rispondevano, a volte con quella meticolosa abilità tecnica nel
pianificare in anticipo che superava la sua stessa capacità di innovare e di
prevedere, altre volte con discorsi complessi che i sistemi della Egeo
trasformavano in una sorta di canto. Lui non riusciva ad afferrarne il preciso
significato ma riempiva i vuoti con toni emotivi che di certo erano presenti
tanto nella sua mente quanto nella loro.
La sua attuale visitatrice era una delle Salomè – ultimamente Senkovi
aveva cominciato a pensare a tutti loro come a Paul e Salomè seguendo il
filo dei suoi antichi esperimenti originali e spesso senza badare al sesso del
soggetto. Salomè danzava per lui e il sistema lottava per tenere il passo del
fluire di schemi e forme. Questa era una cosa nuova? L’occhio mentale di
Senkovi era il solo che funzionasse e lui lasciò che la nave gli mostrasse tre
visuali dei complessi atteggiamenti che Salomè stava adottando. C’erano
più ripetizioni di quante fosse abituato a vederne, ampi gesti, come se
l’ottopode si sforzasse di parlare lentamente a beneficio di uno straniero
sordo.
Casa vetro meraviglia paura allarme Senkovi casa viaggio luce Senkovi
presenza casa. Lasciò che i sistemi di bordo continuassero a ruminare su
quella sequenza molto tempo dopo che Salomè se ne fu andata, al fine di
raffinare la traduzione, ma alla fine fu il suo cervello organico ad avere un
ultimo picco della sua antica genialità e lui si destò, fluttuante nella vasca,
con il pensiero che Salomè gli aveva chiesto di scendere sul pianeta, di
andare per una volta a casa con le sue creazioni, di immergersi nel mondo
nella cui creazione aveva avuto una parte così determinante.
Lui aveva visto quel mondo attraverso gli occhi dei remoti. Aveva visto le
vaste città che gli ottopodi stavano costruendo, non più solo ammassi di
detriti ma labirinti a spirale e torri inclinate costruiti di proposito, caos di
pietra dalle strane angolazioni che soddisfacevano un qualche senso estetico
per lui incomprensibile. Aveva visto le migliaia di ottopodi che litigavano e
sfoggiavano colori gli uni per gli altri, lavorando a macchine che lui non
capiva nello spingere sempre più lontano le frontiere della loro
comprensione, lasciandolo indietro.
E aveva rinunciato a governarli, tranne per una cosa.
Di questi tempi i suoi pensieri portavano in modo irrefrenabile a ordini,
per cui il solo pensare a quel segreto richiamò a schermo le immagini
fornite dal drone che teneva nelle vicinanze della navetta. La sua batteria
stava morendo, anche se per anni non aveva fatto altro che rimanere
adagiato sul fondale marino, quindi avrebbe dovuto fabbricare una nuova
spia. Domani, pensava, ma forse l’indomani, o il giorno dopo ancora non
sarebbe più stato lì a desiderare di farlo.
Nelle officine della Egeo fabbricavano quelle dannate navette perché
durassero. I motori erano andati in pezzi e la scatola priva di energia era
stata scagliata nella stretta insensata del pozzo gravitazionale di Damascus.
Nel precipitare rotolando su sé stessa, il suo esterno già ribollente si era
fuso finché il veicolo non aveva colpito il mare come una meteora,
scatenando onde d’urto nell’acqua e uccidendo sette fratelli di Paul tanto
sfortunati da essere nelle vicinanze per poi generare onde su tutto il pianeta.
E tuttavia la navetta non si era spaccata. Gli strati esterni surriscaldati si
erano trasformati in una pelle dal fantastico aspetto gotico, tutta creste e
spirali come un qualche mostro allucinante. O come un ottopode che
esprimesse minaccia e ammonizione, ma forse era meglio così. L’impatto
con l’acqua aveva deformato completamente la navetta, la pressione lo
aveva fatto ancora di più, e tuttavia lo strato esterno riformato non si era
rotto. Custodiva ancora adesso i suoi segreti.
Niente di umano poteva essere sopravvissuto all’attenzione focalizzata
degli specchi orbitanti, al rientro o allo schianto, ma Senkovi sapeva che,
anche se una parte dell’occupante la navetta era stata umana, in essa c’era
stato anche qualcosa di maligno e di alieno, ed era fermamente convinto che
esso fosse ancora là, prigioniero nella navetta, una minaccia per il suo
mondo.
E così lo aveva detto più e più volte al suo popolo, aveva contrassegnato
le sue mappe virtuali con ogni possibile segno di pericolo a cui gli fosse
riuscito di pensare, aveva raccontato loro storie di una spaventosa
pestilenza, di una malattia, una morte che sarebbe giunta da quella scatola
sigillata. Non era sua intenzione fornire loro dei miti, ma forse le sue parole
erano diventate proprio questo. In ogni caso dovevano essere diventate
qualcosa perché in tutti quegli anni nessun ottopode si era avventurato nelle
vicinanze del sito dello schianto e un’intera distesa di fondale marino
vergine era stata lasciata vuota. In qualche modo, nonostante la curiosità
innata che li caratterizzava, era riuscito a farsi capire da loro riguardo a
questa singola cosa di vitale importanza. Adesso la sola presenza che
disturbava quella tomba subacquea era la vigilanza remota da parte dello
stesso Senkovi.
Sapeva che Baltiel era ancora là, all’interno di quella scatola mezza fusa e
mezza schiacciata, una certezza strisciante che si era radicata in lui nel
corso degli anni. Se lo avesse chiesto al suo io più giovane, lui avrebbe riso
al pensiero, ma adesso Senkovi ritrovava fin troppo spesso nella propria
mente il fantasma di Baltiel.
L’ho ucciso, pensava, e anche se questo non era del tutto vero non poteva
sottrarsi a quell’accusa. Pensava anche agli altri, quelli che erano morti su
Nod e quelli che avevano perso la vita in orbita intorno a esso o erano periti
su quell’altra navetta. Quella nave era scoppiata nel colpire le onde con
l’angolazione sbagliata e i resti umani di Han e degli altri erano soltanto
ossa sparse, divorate da quell’ecosistema che stavano installando. Pensava a
tutti loro, ma quello che lo fece smettere di dormire fu la presenza invisibile
di Baltiel.
A volte riesaminava le registrazioni che lui gli aveva mandato, relative
agli ultimi giorni nell’habitat su Nod, altre volte si chiedeva se non avrebbe
dovuto fare qualcosa riguardo a quel pianeta, perché di certo un giorno gli
ottopodi sarebbero andati là, anche se sulle loro carte lo aveva circondato
con gli stessi avvertimenti di quarantena e di pericolo. Si era collegato ai
remoti che laggiù ancora funzionavano e li aveva mandati a sorvolare i
deserti alieni e i mari oscuri sotto il sole fra il rosso e l’arancione. Doveva
fare qualcosa, ma là fuori c’era un intero mondo, placido e autosufficiente,
un mondo che aveva sedotto Baltiel con le sue meraviglie inumane e che in
qualche modo lo aveva infettato. Lui, Disra Senkovi, aveva parlato con un
abitante di quel mondo, una cosa la cui evoluzione aveva seguito un
percorso incomprensibilmente diverso da quello di qualsiasi cosa sulla
Terra e che tuttavia era stata in grado di vivere nel cervello del suo amico e
di manovrarlo.
Andremo a vivere un’avventura. Quelle parole lo tormentavano. Quando
dormiva nella vasca si agitava, artigliando l’acqua con le mani avvizzite, gli
occhi ciechi fissi nel nulla. Gli ottopodi nella vasca protendevano
timidamente i tentacoli per toccarlo, ma lui era al di là di qualsiasi conforto
che avrebbero potuto offrirgli. Andremo a vivere un’avventura. Forse quella
notte incontrò Baltiel nei suoi sogni, quel Baltiel che era convinto
dimorasse al buio nel relitto sommerso della navetta, una cosa per metà
uomo e per metà strisciante caos alieno. In quel sogno, gli occhi che lo
fissavano sciamavano di granelli di vita, il respiro di quelle fauci era infetto,
marcio della putrescenza che genera mostri. Nel sogno, forse, non poteva
fuggire, era lui stesso nel veicolo schiantato mentre quelle mani che
colavano e si riformavano si protendevano verso di lui. Vieni, Disra,
andremo a vivere un’avventura. La voce era la sola parte di Baltiel che non
si fosse trasformata, familiare e dolorosa come un coltello.
O forse non era niente del genere; al contrario degli ottopodi, il suo
subconscio era completamente separato dai sistemi elettronici che lo
circondavano e non veniva registrato nulla delle sue elaborazioni. Forse alla
fine se ne andò serenamente. In ogni caso, non si svegliò. Disra Senkovi,
che per quanto ne sapeva era l’ultimo essere umano nell’universo, si spense
e, per il meglio o per il peggio, lasciò il mondo acquatico di Damascus alla
sua progenie adottiva.
2

La città si estende per parecchi chilometri sul fondale poco profondo del
mare. A un superficiale sguardo umano sembrerebbe soltanto un caos, una
grande discarica di blocchi angolosi e di tubature da cui guglie distorte
sporgono a intervalli irregolari, come scale che non portano da nessuna
parte, ma non ci sono occhi umani di sorta, neppure per procura. Senkovi è
morto da un numero di anni doppio di quello della sua lunga vita e la città
appartiene ai suoi costruttori: non c’è nessuna oscura figura paterna, nessun
dio-creatore, nessun ordine dall’orbita.
E tuttavia, se un umano fosse là per osservare e il suo sguardo non fosse
troppo superficiale, noterebbe un ordine, una matematica, sotto al tutto. I
colori che sono sparsi e raccolti in tutta la struttura (che in realtà sono
codificati nella plastica fusa e nella pietra coltivata con cui è fatta la città)
non sembrerebbero tanto le chiazze create da un bambino quanto le offerte
di un Jackson Pollock nella sua stagione più tarda, che interagiscono in
modi strani con la geometria della città, come se fosse tutto un linguaggio
che va al di là della capacità umana di comprenderlo. Cosa che in effetti è.
O forse sono l’equivalente di graffiti o simboli di bande di strada, che
marchiano i territori. Il popolo di Paul ha ancora sentimenti ambivalenti
riguardo alle virtù del vivere sociale.
Paul stesso si sente in ansia per la maggior parte del tempo. È un vecchio
ottopode maschio, la cui tana solitaria si trova in uno dei distretti centrali
della città. Vive a portata di tentacolo da troppi dei suoi simili, alcuni
imparentati con lui, altri no. In una buona giornata, quando la luce del sole
filtra attraverso l’acqua poco profonda, riesce a comunicare con loro.
Ciascuno ha una sua bellezza individuale, con la pelle – l’Aspetto – che
risplende dei suoi pensieri non filtrati mentre fluttua in alto, come se tutti
stessero cantando nello stesso tempo. Nei momenti di armonia Paul si può
adagiare all’interno del suo piccolo impero e sperimentare non un semplice
appagamento animalesco ma un vero apprezzamento della bellezza del
mondo. Non è esattamente il sentimento umano che Senkovi avrebbe potuto
sperimentare, al tempo in cui c’erano umani che permettessero di provare
cose del genere, ma è qualcosa di analogo, qualcosa di cui Paul avrebbe
potuto parlare con quel mentore di tanto tempo prima, e allora forse –
soltanto forse – i sistemi informatici intermediari avrebbero potuto colmare
il divario fra loro.
Nelle brutte giornate, che si fanno sempre più frequenti, ogni altro
ottopode in vista e alla portata dei suoi tentacoli irritabili e indagatori è una
potenziale minaccia e un rivale, per cui finisce per lottare con loro. Quando
ne ha bisogno Paul ha una profonda carica di aggressività. È il giocatore
principale sul suo piccolo terreno di gioco. Nella sua mente – la sua Corona
– questo dipende dal fatto che è grosso e pronto a combattere e a fare il
prepotente con gli altri, trascinando tutto davanti a sé in un’ondata di
violenta emozione. Allo stesso tempo, i neuroni distribuiti della sua
Portata, che danno alle sue molte braccia la precisione necessaria per
mettere in atto i desideri della Corona, sono rigorosamente logici, un
motore di calcolo organico che ha pochi pari in tutta la città. Paul non ha
idea di questo, o dei concetti che vengono trasmessi di Portata in Portata
quando si accapiglia con i suoi rivali politici.
Attualmente la città è in crisi. Per quanto grande, è di gran lunga troppo
popolata. Tutti vivono gli uni addosso agli altri e ci sono scontri che si
trasformano in orge cannibalistiche. I deformi viali a spirale pullulano di
fazioni, ognuna contrapposta alle altre, e i bei tempi di semplice
appagamento si fanno sempre più rari. Il linguaggio dei vicini di Paul,
mentre si sospingono di nicchia in nicchia, si fa sempre più aggressivo, la
loro pelle esibisce i colori di guerra.
In origine, Paul era padrone soltanto di una piccola area in cui dominava
su una dozzina dei suoi simili. Se la sua Corona fosse davvero la forza
governante che è convinta di essere, le cose si sarebbero fermate qui: un
capobanda mollusco che dominava chiunque gli riusciva di intimidire. La
sua Portata fa però di lui qualcosa di più. Nella città sommersa ci sono altri
signori e signore, i magnati suoi vicini. Ha combattuto di persona contro
ciascuno di loro, il che significa che ha avuto con loro un libero e franco
scambio di vedute mentre li strangolava e mordeva. Il risultato più comune
di questi scontri sono incerte alleanze, con i capi in lotta che si separano
dopo essere giunti a valutare in modo nuovo le virtù del loro avversario. Per
Paul, per tutta la sua razza, quest’ispirazione non richiesta è del tutto
naturale, è il modo giusto e corretto in cui l’intelligenza viene abbandonata
ai venti dei capricci del subconscio. Non ha bisogno di conoscere i
meccanismi più profondi della propria mente, e in realtà non li può
conoscere, non più di quanto possa essere consapevole del preciso
posizionarsi delle sue braccia: i dati sono semplicemente troppo complessi
per essere assimilati a livello conscio.
Paul si è diretto verso i confini della città accompagnato da un piccolo
seguito di membri del suo popolo, mentre altri gruppetti sciamano sotto di
lui o vanno alla deriva nell’acqua, scambiandosi complessi ed eleganti
messaggi di minaccia, composti e in posa per loro stessa natura. Sono una
specie per la quale esistere significa esprimere umore e pensieri, a meno che
non facciano uno sforzo consapevole di disattivare i messaggi della pelle.
Alcuni elevano questa cosa a una forma d’arte, al punto che perfino i loro
nemici si soffermano a guardarli rimanere sospesi nella colonna d’acqua ed
esprimere in emozioni la complessa poesia della guerra e dell’ira. Uno di
questi artisti è Salomè, che ha voluto organizzare questo grande incontro, o
forse battaglia.
La città sta andando in pezzi, qualcosa deve cambiare. I macchinari che
muovono l’acqua e la mantengono fresca non riescono a far fronte alla
concentrazione sempre maggiore di cittadini, lo stato emotivo degli abitanti
si fa sempre più cupo e loro sono un popolo per il quale agire sulla spinta
dell’emozione è una cosa istintiva e naturale, come pure una virtù culturale.
Nella società di Paul le figure di eroi sono caratterizzate dalle loro grandi
gesta, grandi sofferenze, atti capricciosi e avventati. Forse Senkovi avrebbe
approvato, lui che un tempo si era visto come il dio ingannatore del
pantheon, prima che non rimanessero altri dei da ingannare. Forse lui
avrebbe ricordato antiche figure di miti umani i cui enormi dolori, amori e
ire erano stati applauditi da antichi spettatori come nobili, giusti e veri.
Salomè vuole le risorse per costruire una nuova città altrove, vuole
ricominciare da zero e permettere che quanti lo desiderano vengano a
stabilirsi lì. Paul e i suoi compagni, la mutevole alleanza del centro
cittadino, vogliono quelle stesse risorse – le fabbriche, l’energia, l’acceso ai
sempre più vecchi computer della Egeo – per le loro esigenze personali, per
continuare a mantenere la presa sulla città che si va lentamente
disintegrando, in modo che quando tutto andrà in pezzi saranno loro a
conservare il controllo. È una lotta antica di secoli, un altro tropo degli
ottopodi che troverebbe un valido equivalente nella storia umana.
Naturalmente – forse al contrario dei suoi analoghi umani – Paul non pensa
in questi termini. Lui sa soltanto che la sua posizione di controllo è giusta.
La dettagliata logica egocentrica sottostante è invisibile e tuttavia spinge le
maree che lo motivano.
Questa è dunque la forma di governo degli ottopodi: un’assemblea di
chiunque si senta incline a partecipare, i presenti organizzati in dozzine di
fazioni i cui confini sono infinitamente permeabili, votanti che fluttuano
letteralmente nel passare di continuo da un’alleanza all’altra senza che la
loro slealtà venga vista come qualcosa di eccezionale o di meritevole di
vergogna. Paul e i suoi simili sono fedeli a loro stessi, pur sapendo che
l’’Io’ è una cosa malleabile e priva di ossa quanto loro. Quando si sollevano
al di sopra degli altri per la loro esibizione declamatoria, Paul e i suoi pari
più influenti potrebbero sembrare politici umani che salgono sul podio per
prolissi discorsi densi di retorica ma gran parte della retorica umana si basa
sulla creazione di una falsa certezza: sull’intessere finzioni in un tutto
unico, al punto da poterle presentare come fatti strettamente collegati. Paul
e i suoi simili sanno che non ci sono certezze, neppure all’interno della loro
stessa mente. Paul si limita a seguire il palpitare delle sue emozioni,
lasciando che la sensazione di quello che è giusto venga tirata ed estesa
dalle spire sepolte del suo subconscio distribuito.
Ben presto Salomè e i suoi sostenitori sono impegnati in un uguale
sventolare di bandiere, e sotto di loro i cittadini meno influenti si agitano e
strisciano e trasmettono i loro messaggi di supporto o di dissenso, per cui
dalla sua posizione sopraelevata Paul può vedere le maree e i mulinelli
dell’opinione pubblica scorrere e fluire. Lui e i suoi pari sono leader, ma
allo stesso tempo sente di essere una bandiera al di sopra di un esercito, un
significante della sua causa senza che ne sia necessariamente al comando.
L’ira sta montando: c’è già una dozzina di mischie distinte, niente di
insolito per un raduno di questo tipo. Paul fluttua più vicino a Salomè e i
suoi colori si scuriscono in un assortimento di rossi e di neri, mentre il suo
Aspetto sviluppa una serie di punte che esprimono un rabbioso
avvertimento. Lei lo imita. È una grossa femmina, appena più piccola di lui,
ed è una combattente rinomata. Lasciano che la loro pelle segnali le loro
intenzioni, uniti almeno in questo.
Si scontrano, pieni di furia, la pelle che urla gli slogan delle rispettive
campagne. Intorno a loro, gli altri li osservano, echeggiando i colori dei loro
campioni. A un occhio umano sembrerebbe una cosa barbara risolvere una
disputa civica mediante uno spettacolo gladiatorio. Paul fa sul serio: vuole
umiliare e sconfiggere l’avversaria, istinti che non sono cambiati da quei
giorni ormai lontani negli oceani della Terra. Ha un territorio, anche se è in
pari misura fisico e intellettuale, e c’è un’intrusa che non è stato in grado di
intimorire o di scacciare. La violenza è l’ultima risorsa, ma è una risorsa, e
tutte le altre sono state esaurite. E il suo è un popolo appassionato, volubile.
Naturalmente la Corona di ciascuno annuncia la sfida nei confronti
dell’avversario, le rispettive Portate si intrecciano e lottano per il
predominio, otto distinti motori di calcolo per ciascun ottopode che operano
parallelamente in rete esprimendo matematica pura e logistica non solo con
i tentacoli ma con i muscoli di ogni singola ventosa, un motore di
espressione razionale perfettamente evoluto che è al servizio dei capricci
tumultuosi del cervello. Paul sa soltanto di essere il più forte, tanto che
riesce ad avere la meglio sulla sua avversaria finché Salomè può soltanto
esibire i suoi colori più pallidi e sperare di essere risparmiata. Quando però
abbandona la presa, trionfante, permettendole di allontanarsi nella folla
sottostante, Paul emana messaggi che si sono fatti diversi. Ha cambiato
bandiera senza battere ciglio e adesso sostiene la causa stessa che era
venuto a stroncare. Nel vedere la sua defezione, in basso le maree tornano a
cambiare. Adesso Paul deve lottare contro alcuni dei suoi precedenti alleati,
ma questo è del tutto normale, viene compreso da tutti i presenti. Le rigide
certezze sono un anatema per la loro mente e non si fiderebbero mai di un
capo che rimanesse attaccato a un qualsiasi problema o convinzione. Un
simile dogmatismo sarebbe alieno per loro.
Molto lontano, all’insaputa dei signori di Damasco, una specie di ragno
sta subendo un’evoluzione accelerata che nondimeno segue un sentiero a
cui forse sarebbe arrivata comunque con il tempo, anche senza l’aiuto dei
virus di Rus-Califi. Gli ottopodi hanno avuto un inizio molto diverso, è
stata data loro una spinta, per così dire. Hanno ereditato la tecnologia
umana che Senkovi si è lasciato alle spalle, hanno la quantità di motori di
terraformazione usati per trasformare il loro pianeta da una sfera ghiacciata
in un paradiso oceanico e hanno l’ascensore spaziale che può portare in
orbita le loro pesanti capsule piene d’acqua. Inoltre hanno anche la Egeo,
con i suoi computer perfettamente funzionanti, piena di sapere della
Vecchia Terra che loro non capiranno mai adeguatamente, ma soprattutto
piena di bagaglio tecnologico che sono in parte in grado di decifrare. Il
lento strisciare fuori dall’Età della Pietra non fa per loro. Il loro inizio si
sviluppa nello spazio nella stessa misura in cui lo fa sotto le onde. A modo
loro, sono consapevoli di essere una razza prescelta, che è stato donato loro
un mondo insieme alle chiavi per accedere ai suoi segreti.
E mentre le generazioni si susseguono, allontanandosi dal momento del
suo ultimo respiro, sono consapevoli di Senkovi. Nella città di Paul, che in
quel momento sta vivendo una spartizione delle risorse e della popolazione,
c’è un monumento al loro creatore e patrono. Se fosse sopravvissuto fino a
vederlo, Senkovi non avrebbe mai capito che ciò che aveva davanti era lui
stesso, ma l’avrebbe visto come un’opera d’arte e avrebbe notato che i
cittadini lo toccavano e gli nuotavano intorno con una manifestazione
insolita di tenerezza e di rispetto. È una cosa fatta di vetro e di plastica che
si erge nell’acqua, con la punta abbastanza alta da essere quasi disturbata
dalle onde della superficie. Gli ottopodi non producono arte rappresentativa
di cose viventi, perché vivere significa cambiare ed essere in movimento
costante, e il monumento riflette la reazione emotiva della scultrice alla
morte di Senkovi, descritta in freddi numeri dalle sue molte braccia,
descrizione sulla cui base le fabbriche hanno prodotto un singolo momento
cristallino di ricordo che si ergerà sulla città per secoli.
I mari sono ricchi di vita che può essere catturata e mangiata, e loro hanno
allevamenti di crostacei che si gestiscono praticamente da soli. La
sovrappopolazione è una difficoltà locale, ma al momento l’intero pianeta è
territorio non ancor reclamato. Le città di ottopodi si spargono sul fondale
marino: nelle acque profonde e in quelle meno profonde, perfino sui pendii
di montagne che praticamente arrivano a trapassare la superficie. La
velocità del loro diffondersi è governata soltanto dalla velocità con cui
macchine e abitazioni possono essere fabbricate e le risorse possono essere
estratte dal pianeta stesso. Non ci sono predatori, e ben poche pressioni e,
sebbene questo non impedisca loro di scontrarsi, quelle lotte sono soltanto
una parte dell’interazione sociale, naturali quanto la conversazione
spicciola.
Creano sculture astratte come il monumento a Senkovi, compongono
poesia con la pelle, eseguono strani balletti nell’acqua. Per gli ottopodi,
queste non sono cose distinte dalla vita normale. Il tradurre le emozioni
nella sfera del visibile, che sia in modo permanente o transitorio, è qualcosa
che faticano a fermare. Quelli di loro che sono più abili nel rendere
apparente il mondo interiore invisibile sono rispettati quanto quelli che sono
i più forti nella lotta. Catturare alla perfezione il momento può conquistare
una folla più di qualsiasi forma di prevaricazione.
E naturalmente sono curiosi. Se fosse stato necessario, il virus avrebbe
imposto loro quel tratto, ma avevano più curiosità di quanta ne serva a una
specie, molto prima che Senkovi cominciasse a manipolarli. Anche senza
minacce che guidino il loro sviluppo, si espandono attraverso una costante
frenesia di sperimentazione, con le Corone che forniscono il ‘Cosa
succederebbe se?’ e la rete di calcolo della Portata che fornisce loro i mezzi
per sviluppare le loro intuizioni. Innovano e migliorano la loro vita perché
ogni conoscenza che accumulano riguardo al mondo è soltanto un
trampolino da cui lanciarsi verso un altro interrogativo. Mettono in
discussione tutto. Tranne una cosa.
La proibizione imposta da Senkovi perdura. La tomba deformata che è
l’ultima navetta che abbia mai lasciato Nod rimane là, incrostata di
molluschi, coperta di alghe, semisepolta nel fango. L’espansione della
civiltà di Paul si muove lontano da essa, e tutt’intorno per chilometri il
fondale marino è intatto, una zona proibita a portata di tentacolo di
innumerevoli ottopodi infinitamente curiosi, trattenuti soltanto dalle parole
di un singolo umano morto.
3

Arriviamo adesso a qualcosa che è più simile a un ieri, appena un secolo o


due prima che Umani e Portiadi arrivino ad agitare le acque.
La civiltà su Damascus non è avanzata in modo dinamico nell’arco dei
secoli e neppure dei millenni. I filosofi fra gli ottopodi troverebbero assurda
l’idea di inevitabilità storica. La storia gira su sé stessa e si raccoglie, si
contrae e poi fa scatti improvvisi, ma altrettanto spesso si ritira su un
vecchio terreno. La mancanza di pressione, il dono della tecnologia, la
natura astratta del pensiero cefalopode, tutte queste cose operano contro una
qualsiasi grande spinta verso un progresso organizzato. Allo stesso modo, il
loro approccio alla documentazione è molto diverso da quello umano. La
Egeo e i suoi sistemi hanno smesso di funzionare da molto tempo, ma prima
che lo facessero sono stati duplicati e migliorati. Ci sono dozzine di cavi di
ascensore sparsi intorno alla cintura del pianeta, ancorati alle profondità
marine ed estesi verso il cosmo come braccia protese. All’estremità di
ciascuno di essi, al di là del punto in cui svanisce l’atmosfera, è possibile
trovare qualcosa di simile alla vecchia Egeo, simile ma migliorata nel modo
intuitivo e disordinato dei damaschiani. Mantengono in essere una rete di
comunicazione estesa in tutto il mondo e dopo molti fallimenti sono riusciti
a ottenere un’approssimazione degli impianti cibernetici che i loro
predecessori umani davano per scontati. Almeno il dieci percento della
popolazione è costantemente impegnata nello spazio virtuale generato dalla
loro rete, usato per la progettazione, per l’arte, per il divertimento. Il loro
linguaggio tecnico, che è alla base di tutte le loro interazioni con le
macchine di cui il pianeta è così pieno, è ancora strutturato sullo scheletro
dei vecchi sistemi umani, modificati perché per gli ottopodi sia facile usarli
ma pur sempre qualcosa che sarebbe riconoscibile per una nave proveniente
dalla vecchia Terra.
Non hanno altre comunicazioni scritte. Linguaggio e comunicazione sono
per loro spontanei, impossibili da fossilizzare in una rappresentazione
sterile di pensieri e idee. Le uniche registrazioni sono cinematiche: le danze,
le lotte e i dibattiti di secoli registrati come esibizioni artistiche e non come
documentazione storica. La loro cultura esiste come lo spirito mutevole di
un’epoca, mentre la loro tecnologia è rigorosamente documentata a partire
da migliaia di anni prima.
Hanno attraversato il tempo fluendo e seguendo la marea. A volte grandi
quantità di loro hanno vissuto per generazioni come i loro antenati terrestri,
da semplici molluschi, mentre una fragile manciata si occupava della
manutenzione delle macchine o conduceva una vita di tecnocrazia in orbita.
Altre volte, lampi di folle ispirazione si sono diffusi crepitando per tutta la
popolazione e ogni ottopode è diventato uno scienziato, riscoprendo ciò che
era stato dato ai loro antenati, lanciandosi in un centinaio di aree di
speculazione che erano vicoli ciechi, facendo nuove scoperte che i
costruttori della Egeo non avrebbero mai neppure immaginato. Poi, un
secolo più tardi, la metà di quel sapere è finito a raccogliere polvere nei
database, perché il fugace interesse della civiltà che lo ha creato si è rivolto
ad altre cose. Il segno dell’alta marea del loro sviluppo scientifico ha
continuato a salire nell’arco delle generazioni, ma la marea scende così
come sale. Storici umani che fossero in qualche modo stati in grado di
osservare simili vasti periodi di tempo si sarebbero strappati i capelli di
fronte alla mancanza di una narrazione storica e alla trasandatezza
stranamente amorfa delle culture damaschiane.
Altri storici potrebbero anche osservare che pur essendo nati dal nulla
come Atena dalla testa di Zeus, armati di tutto punto di una tecnologia che
avrebbe potuto annientare il loro mondo, essi hanno perdurato per tutto
questo tempo, continuando a lottare e scontrarsi, tuttavia senza mai
distruggersi.
Però succede che tutte le cose buone devono finire. Nonostante il lungo
tira e molla, l’oscillare della loro cultura sta portando a un punto di crisi
che, come per le crisi umane, è il risultato del loro aver avuto troppo
successo.
L’area abitabile di Damascus è enorme se paragonata alla Vecchia Terra.
Per loro non ci sono continenti o isole: hanno l’intero fondale marino da
colonizzare e lo hanno fatto. Adesso la popolazione del pianeta si aggira
intorno ai trentanove miliardi di ottopodi. Da tempo hanno raggiunto il
livello massimo di tolleranza del loro ecosistema, ma la loro ingegnosità ha
ripetutamente trovato una soluzione, protendendosi verso il sistema solare
ed escogitando nuovi modi di raccogliere quello che vi trovava, costruendo
in orbita per avere ancora più spazio, una soluzione temporanea dopo
l’altra; e, proprio come gli umani, gli ottopodi sono incapaci di affrontare
appieno il problema o di adottare misure per risolverlo. La loro stessa
ingegnosità adesso sta peggiorando la situazione. Macchine rotte, prodotti
di scarto, esperimenti falliti, tutte queste cose stanno limitando l’accesso ad
aree del fondale marino che altrimenti potrebbero fornire spazio vitale per
le loro orde brulicanti. Intere popolazioni stanno migrando oppure
combattono fino alla morte per lo spazio vitale sempre più ridotto. Un
milione di menti geniali si arrovella quotidianamente su quel problema, ci
sono cento innovazioni e una dozzina di rivoluzionari piani scientifici,
sempre con la promessa che ‘La Soluzione’ è appena dietro l’angolo, ma
vivono tutti uno nello spazio personale dell’altro e questa non è mai stata
una cosa che gli ottopodi riuscissero a tollerare a lungo.
Guardano allo spazio, proprio come hanno fatto i loro progenitori. Intorno
all’equatore c’è un cerchio di habitat che si protende verso l’esterno da ogni
ascensore e che continua a crescere. La maggior parte degli ottopodi che
dimorano sul pianeta trova sconcertante l’idea di vivere nel cielo, ma c’è
un’intera cultura separata che sta crescendo là, ciascuna città sommersa
reclama per sé una parte del cielo per crearvi una sua colonia. Gli habitat
orbitali sono privi di gravità rotazionale, ma la forza di gravità è una cosa di
cui molluschi che nuotano liberamente hanno ben poco bisogno, e
l’esposizione a lungo termine all’assenza di gravità causa loro molti meno
problemi di salute di quelli in cui potrebbe incorrere un essere umano –
niente fragilità ossea, per loro.
E le loro ambizioni non si fermano all’orbita di Damascus. Hanno
mandato delle sonde verso l’altro pianeta, Nod, ma solo perché vi passino
accanto senza atterrarvi. Le proibizioni di Senkovi resistono, laggiù.
Qualche avventuriero ottopode è sempre sul punto di mettere alla prova
quella proibizione, ma gli viene impedito oppure un qualche custode
interiore interviene a far cambiare idea alla sua mente flessibile. La Portata,
la parte subconscia ragionante della cognizione ottopode, accede alla
documentazione portata avanti fedelmente fin dall’alba della loro storia e
comprende il pericolo del mondo di Nod. Lo lasciano dormire.
Invece, si concentrano sul sistema solare esterno. Là c’è una grande
cintura di asteroidi, situata fra Damascus e i giganti gassosi, e la stanno
sfruttando da secoli a livello minerario, prima con le macchine, poi con
stazioni dotate di personale che fin troppo spesso andava incontro a una fine
disastrosa, e adesso con agenti bioingegnerizzati elevati dagli umili
tardigradi che condividono i loro oceani. A loro volta, gli ottopodi sono
divenuti patroni di nuova vita, anche se i loro minatori viventi sono privi di
qualsiasi cosa che si avvicini a un vero intelletto. Forse però questo
potrebbe cambiare in futuro, o avrebbe potuto farlo prima che le cose
andassero tanto male.
Anche prima di andare male, andavano per il verso sbagliato. I conflitti
sul pianeta avevano cominciato a estendersi agli insediamenti orbitali. In
qualsiasi momento c’erano cento fazioni e qualsiasi individuo o gruppo
poteva cambiare alleanza per un capriccio e senza preavviso. Era una guerra
che nessuna fazione poteva vincere, perché non erano mai le stesse da un
giorno all’altro.
Paul, questo nuovo Paul degli ultimi giorni, dimora in una delle grandi
città, una conurbazione che è sorta un secolo prima su un profondo costone,
un luogo dove l’acqua è resa metallica dal vulcanismo ma almeno è
sgombra da vicini litigiosi. Adesso lì vive un milione di ottopodi litigiosi e
le condizioni stanno diventando intollerabili. Nel distretto di Paul, uno dei
più antichi, l’originale insieme disordinato di buchi, di tubi e di casse è stato
ricoperto da uno strato di nuove costruzioni, l’acqua è piena di materiali di
scarico e onde di anossia infestano le strade, infilandosi nelle tane ad
asfissiarne gli occupanti. A uccidere non sono gli antichi processi geologici
ma la scarsa circolazione dell’acqua che porta a un accumularsi di tossicità.
Sono in troppi, vivono troppo vicini e la città è stata fondata in fretta, senza
un’adeguata pianificazione. Queste condizioni hanno un effetto peggiore
sugli individui giovani. Un certo livello di sentimento genitoriale fa parte
della mentalità degli ottopodi, un germe di cura materna delle uova preso
dal virus di Rus-Califi e trasformato almeno in un residuo di fedeltà verso la
propria progenie e i piccoli in generale.
Paul ha visto i suoi figli morire e fluttuare inerti nell’acqua offuscata
mentre il decomporsi del loro corpo peggiorava quelle stesse condizioni che
li avevano uccisi. Ha visto perire troppe generazioni di piccoli, perché
adesso tutti hanno fame e un’altra caratteristica ancestrale, che in condizioni
di stress si libera dalle pastoie imposte dal virus, è il cannibalismo.
In altre parti della città le condizioni sono migliori, o almeno così
dichiarano i colori cupi e irosi dei suoi vicini. Ha lottato con loro per
brandelli di cibo, per l’acqua più pulita e le tane migliori. Oggi esce dalla
sua misera dimora e si sente diverso. Forse oggi i veleni gli hanno toccato il
cervello in modo particolare, o forse ha avuto un’ispirazione.
Si lascia andare verso l’alto fino a un punto da cui la schiera ribollente dei
suoi vicini lo può vedere. Di solito questo invita a un attacco, e i poveri e i
disperati passano la vita nascondendosi e strisciando nell’ombra ma Paul,
l’oppresso mendicante, lascia che il suo Aspetto si tinga di colori vivaci e
apre le cataratte delle sue emozioni al punto che la sua Portata trema e si
contorce nel tentativo di trasformare i suoi sentimenti in significato. Un
migliaio di occhi dalla pupilla a fessura sono fissi su di lui mentre se ne sta
sospeso là, increspando il manto e manifestando rabbia e disperazione in
una serie di disegni ben visibili sulla sua pelle lesionata. Da dove è venuto
tutto questo? Solo da dentro. Oggi Paul ne ha avuto abbastanza. È stanco
della sua vita, stanco dell’acqua sporca, stanco di stare male. Le
ondulazioni del suo corpo sono una selvaggia chiamata alle armi e a uno a
uno quelli che lo osservano salgono a raggiungerlo, ammantati dei suoi
colori e assumendo la sua posa, nemici che diventano alleati senza che
venga varcato nessun netto confine. Nell’arco di un’ora sono centinaia,
migliaia, tutti uniti, e si riversano sulla città come un tappeto gommoso per
andare ad attaccare coloro a cui i privilegi hanno elargito anche solo una
carta in più, per abbattere le cose e ridistribuire la sostanza della città sul
fondale marino. Lo fanno a causa della disperazione, della perdita, di un
residuo avvelenamento da metalli pesanti.
È una scena che si replica in tutte le città di Damascus. Sono una razza
passionale, questi cefalopodi, hanno dei limiti, e a volte la poesia della
distruzione è la sola forma d’arte che rimane loro. Questo Paul morirà.
Moriranno a migliaia anche solo in questa città, come se l’intera metropoli
fosse una singola bestia che rivolge contro sé stessa le sue innumerevoli
braccia fino a essere fatta a pezzi dal suo stesso fervore per la vita. Paul
nuota alla testa dei suoi nuovi seguaci, con i tentacoli che oscillano e
vibrano come se lui fosse la bandiera del loro esercito. Nella sua mente,
visto sullo sfondo delle privazioni e dell’infelicità che ha conosciuto, questo
è l’atto più bello che abbia mai compiuto.
4

Una generazione più tardi.


La nave di Salomè ha un equipaggio di nove membri ma un effettivo di
centodiciassette. Naturalmente Salomè non è il nome che lei dà a sé stessa.
Gli ottopodi hanno una Gestalt di movimento, colore e consistenza della
pelle mediante la quale la loro Corona li identifica uno rispetto all’altro, e
questo cambia nel tempo o dopo grandi eventi o traumi, variazioni sullo
stesso tema in modo che siano comunque riconoscibili pur mostrando al
mondo che non sono del tutto lo stesso individuo conosciuto un tempo. Di
per sé, un nome può essere una squisita esibizione poetica. La loro Portata
però conosce sé stessa con un’altra designazione, qualcosa scritto
nell’antico codice trasportato di ganglio in ganglio, cominciata
dall’annaspare di ventose e tentacoli, e questo è ancora attinto dai
nomignoli biblici di tanto tempo prima, che Disra Senkovi con il suo senso
dell’umorismo, aveva dato loro. Nel sistema elettronico a cui lei è
costantemente collegata, è indicata come Salomè, una delle tante, con una
sfilza di numeri dietro il nome che serve a distinguerla dalle altre.
La nave su cui domina è stata costruita come nave-casa, un habitat
orbitale inteso a dare uno sfogo a parte della popolazione in eccesso del
pianeta sottostante, uno sputo nell’uragano che sta maturando nelle città
planetarie. Almeno una parte degli occupanti a cui era destinata vi si sono
stabiliti prima che un cambiamento di opinione portasse alla requisizione
della nave per uno scopo del tutto diverso, e quei civili sono rimasti
comunque a bordo nonostante il rischio perché un alloggio su una nave è di
gran lunga preferibile al caos letale delle città.
La nave di Salomè – chiamiamola Il Requisitore di Piccole Cose, come
misera imitazione di ciò che lei intende nel riferirsi a essa – è una sfera,
come la maggior parte delle navi degli ottopodi. Lo scafo è costituito da una
membrana doppia che può essere rigida o malleabile a seconda della
necessità, espandendosi e contraendosi in base al volume d’acqua contenuto
al suo interno. La sua vasta superficie è tempestata di fori regolari, almeno
un migliaio, ciascuno dei quali è uno spazio abitativo per un ottopode.
Quando la navigazione è tranquilla, come adesso, i cubicoli sono aperti e gli
occupanti hanno su un lato una finestra da cui poter vedere le stelle e
dall’altro l’accesso al grande interno acquatico della nave. Il centro di
comando, dove lavorano Salomè e il suo equipaggio, è situato nel cuore
della nave, protetto dal circostante spazio abitativo e collegato ai propulsori
che tempestano l’esterno, come pure ad altri sistemi che sono stati aggiunti
e che non erano originariamente destinati a un vascello così sedentario.
Se si fossero evoluti in modo naturale chiaramente, con ogni probabilità lo
spazio sarebbe stato loro negato per sempre. La Requisitore ha un peso
mille volte superiore a quello di un’equivalente nave umana. La mera
scienza aerospaziale non basterebbe a mettere in orbita una navetta del
programma Apollo o Vostok piena d’acqua. Gli ottopodi sarebbero rimasti
prigionieri del loro pozzo gravitazionale se non avessero già avuto alle
spalle un’intera vita nello spazio; così come stanno le cose, l’acqua che
riempie la Requisitore proviene dalle attività minerarie dei tardigradi sugli
asteroidi, lanciata dal sistema solare esterno verso i punti di raccolta vicino
a Damascus per essere pulita e riutilizzata come spazio abitativo, perché
l’energia richiesta per trasportare il peso di così tanto fluido dal pianeta
renderebbe la cosa impraticabile.
Sono quei punti di raccolta che Salomè sta andando a ispezionare. La
cintura degli asteroidi contiene un tesoro di minerali, carburante e tutte le
cose buone sufficienti a rigenerare l’intero pianeta, permettendo agli
ottopodi di espandersi maggiormente nello spazio e di risolvere tutti i loro
problemi tranne uno: il tempo. Anche se i tardigradi si moltiplicano nelle
oscure distese della cintura, il loro ritmo di estrazione è troppo lento per
permettere ai damaschiani di battere sul tempo il disastro. Le scorte sono
limitate e questo significa che vengono contese. Migliaia di mutevoli
fazioni si alleano con altre e poi le abbandonano, e fin troppo spesso la cosa
si riduce a uno scontro. Le piccole risse e il bullismo che erano tipiche del
loro stato naturale si sono ingranditi fino a diventare conflitti spaziali.
Questo punto di raccolta è un vasto oggetto nello spazio ed è esso stesso
un grande inghiottitoio di risorse. Da quando ha cessato di trasmettere,
Salomè ha temuto che qualche gruppo lo avesse distrutto, ma adesso
l’equipaggio le riferisce che gli strumenti lo hanno individuato dove
dovrebbe essere ma che è inclinato con un’angolazione sbagliata, per cui le
risorse scagliate verso il suo campo elettromagnetico dai distanti minatori
vengono reindirizzate altrove. Proprio in quel momento un’altra consegna
raggiunge il campo magnetico dell’enorme disco e viene dirottata lungo una
curva che la indirizza verso qualche distante ricettacolo nemico, con il
punto di raccolta che alterna angolazioni di lancio opposte in modo che lo
spostamento newtoniano di ciascun carico lo faccia ritornare nella sua
posizione centrale di attesa. Salomè non è sorpresa. I sistemi di bordo
trasmettono un susseguirsi di colori pallidi, avvertimenti di pericolo. Di suo,
non si degnerà di impartire ordini ai civili che ha trascinato con sé, ma i più
saggi fra loro abbandoneranno le loro case e si recheranno nei rifugi
costruiti lungo il nucleo di comando. La normale circolazione dell’acqua
intorno al perimetro cesserà e se la nave compirà una qualsiasi manovra la
massa d’acqua lungo il perimetro comincerà a vorticare, rimanendo indietro
rispetto agli eventi a causa della sua colossale inerzia. Le dimore esterne
verranno tutte isolate e qualsiasi nuotatore rimasto allo scoperto
probabilmente morirà. Solo quelli vicini al centro, dove il movimento sarà
al minimo, potranno contare su un briciolo di sicurezza. Naturalmente, la
Requisitore non può certo danzare attraverso lo spazio come una farfalla:
una volta che quella quantità di massa sta viaggiando in una qualsiasi
direzione, è necessario un considerevole preavviso per poterne cambiare la
rotta.
Le arriva una comunicazione tramite la sua Portata, che i controlli
ondeggianti collegano a quella dell’equipaggio, e apprende che è stata
individuata un’altra nave, più piccola della Requisitore ma comunque di
dimensioni sostanziose e probabilmente progettata in modo più adatto alla
guerra. I loro tentativi di contattarla vengono ignorati. Salomè sente un
estremo bisogno di non proseguire lungo una rotta prevedibile e la sua
Portata impartisce ordini all’equipaggio che controlla i propulsori, per cui
la nave-casa comincia il suo pesante tentativo di deviare dalla sua rotta, con
i propulsori che accelerano su un lato portando la loro conversione massa-
energia a livelli di emergenza nell’infrangere atomi per ricavare carburante
e incanalare verso l’esterno l’energia risultante. Nelle emergenze, i
propulsori si alimentano dell’acqua stessa all’interno della nave,
scomponendola a più riprese fino a farne un combustibile. Una violenta
battaglia può vedere una nave degli ottopodi divorare anche il trenta
percento del suo volume complessivo come massa di reazione.
La nave nemica sta lanciando missili autoguidati in direzione della
pesante massa in movimento della Requisitore, poi sarà la volta dei caccia.
Salomè lo ha previsto e i membri più efficienti del suo equipaggio sono già
ai loro centri di comando. I loro caccia, che erano accumulati come uova
nel ventre della nave-casa, erompono attraverso la membrana dello scafo
esterno in uno spruzzo improvviso di ghiaccio. Il più grosso è un
cacciatorpediniere che rimarrà in orbita intorno alla Requisitore per
ripararla dai missili e dai caccia, gli altri sono una mezza dozzina di caccia
che possono scorrazzare per lo spazio in un modo impossibile per le navi
più grandi. Essi consistono in prevalenza del motore e degli armamenti, con
un minuscolo compartimento per un singolo pilota, racchiuso da una rigida
membrana, con le braccia avvolte intorno ai comandi e un flusso riciclato
d’acqua che gli scorre sul manto. Mentre cercano di avvicinarsi alle grosse
navi nemiche, i caccia volteggiano uno intorno all’altro, con lo scarico dei
propulsori che ne scuote gli occupanti come un tuono. Una volta vicini,
useranno laser da taglio per infrangere i sigilli degli avversari e riversare
all’esterno le viscere fluide delle grandi navi come lunghe code di cometa
fatte di particelle di ghiaccio. Lo shock idrostatico prodotto dal loro
emergere attraverso lo scafo della nave-casa uccide qualsiasi ottopode che
si trovi nell’acqua, ma a meno che non centrino il nucleo di comando
annidato in profondità, le raffiche di missili si limiteranno ad attraversare le
navi e ad allontanarsi senza danno mentre le membrane si sigillano alle loro
spalle senza che ogni volta venga persa più di una tazza d’acqua.
Non c’è stato nessun grande momento quando gli ottopodi si sono resi
conto di aver superato i risultati tecnologici ottenuti dai loro creatori, ma
l’ingegneria che ha reso possibile la costruzione della Requisitore oltrepassa
in cento possibili modi qualsiasi cosa i creatori della Egeo sarebbero stati in
grado di riconoscere.
Salomè ha già inviato un segnale di soccorso verso Damascus, ma molto
probabilmente non ci sono navi amiche che possano intervenire in tempo e
il suo habitat per civili riqualificato è surclassato da qualsiasi nave sia
annidata là fuori ad aspettarla. Nondimeno è decisa a fare del suo meglio, e
così pure il suo equipaggio, e forse il suo avversario risulterà impreparato
quanto lei. Il suo popolo non ha certezze e non si lascia governare dalla
tradizione o dalla storia o anche solo dai suoi sentimenti del giorno
precedente, è un popolo che vive il momento, e in questo momento lei e il
suo equipaggio combatteranno. Forse domani lei e il suo nemico torneranno
a essere amici, uniti contro un altro fronte, ma per ora la sua pelle canta un
furioso inno di guerra e le sue braccia calcolano vettori, suggerendo
soluzioni di fuoco.
Rebekah pilota uno dei caccia della Requisitore, è incastrata nel suo
minuscolo abitacolo centrale, poco più grande di un torso umano, con le sue
otto braccia estese nelle viscere della macchina e collegate direttamente ai
suoi sistemi. Anche il caccia è sferico, circondato da propulsori, e laddove
la Requisitore può solo avanzare pesantemente, prigioniera del suo
colossale impulso, il caccia non pesa quasi niente, una struttura di leghe
superleggere che avvolge la piccola bolla del compartimento di pilotaggio.
Nel volare vortica selvaggiamente, cambiando direzione con la velocità dei
pensieri di Rebekah e bruciando la sua massa reattiva per schivare i
proiettili scagliati dalla nave nemica contro la nave-casa. Sarà compito del
cacciatorpediniere intercettarli e distruggerli. Rebekah è piena di
aggressività, lanciata all’offensiva.
Attualmente chiama il minuscolo caccia Quella Parte di Meraviglia che è
Mia, o almeno questa è la traduzione che più si avvicina a come lei pensa a
esso. Cambia il nome spesso, variando sul tema proprio come varia la sua
precisa nomenclatura: sempre lo stesso caccia, sempre diverso.
I caccia nemici saettano verso di lei. Quella parte della sua Portata che
gestisce i sensori comunica con i suoi colleghi sugli altri caccia. Gli altri
impegneranno e disturberanno il nemico, mentre lei avverte soltanto un
rinnovato senso di aggressività e di giusta ira. ‘Distruggerli’ è forse il
termine che più si avvicina a esprimere il suo desiderio, e la sua Portata si
contorce e si flette per trasformare quel desiderio in realtà.
Adesso ha una buona visuale della principale nave nemica e le sue braccia
trasmettono i dati alla Requisitore mentre il suo piccolo Meraviglia si
avvicina. Quella è una nave militare costruita appositamente, una lacrima
nello spazio circondata dalle brutte impalcature del suo sistema di
armamenti, e ha già visto molti scontri. Rebekah ne avverte la presenza
come quella di un enorme mostro marino, segnato e sfregiato, debole per la
perdita di sangue. C’è stata una battaglia per la conquista del punto di
raccolta e probabilmente questa nave è la sola superstite.
Scarica un’altra raffica in direzione della distante Requisitore e Rebekah
prova un improvviso timore per la nave madre, cosa che la sua Portata
traduce in un compatto rapporto sulla traiettoria e la potenza che è più
veloce dei missili e che lei spera potrà servire a Salomè per distruggere i
proiettili.
La nave militare ha armamenti superiori a quelli della Requisitore ma non
ha un cacciatorpediniere che le orbiti intorno e abbatta agili caccia come il
Meraviglia. I suoi stessi caccia – fortemente ridotti di numero rispetto agli
effettivi, il che è un altro segno dei suoi danni – sono in prevalenza lontani
per combattere contro i suoi compagni ma Rebekah ne individua uno
annidato lungo il ventre della cannoniera proprio mentre questo apre il
fuoco contro di lei.
Vuole che i missili la manchino ed è la sua istintiva affinità con le
manovre ad alta velocità che le ha fruttato il ruolo di pilota. La sua Portata
calcola ed esegue, facendola vorticare di lato e lanciandola oltre le grandi
batterie di cannoni in modo tale che i missili del caccia vadano a vuoto.
L’avversario la sta inseguendo, ma ha quattro secondi ininterrotti di volo
lungo l’ampia distesa della superficie dorsale della cannoniera. Rebekah
prova la sensazione di protendersi con un intento letale, di strangolare e di
schiacciare, e i neuroni distribuiti lungo la sua Portata eseguono rapidi
calcoli matematici sulle riserve di energia che le sono rimaste, su quanta
massa può ancora bruciare e quanto potere è immagazzinato nelle celle che
formano metà della carica esplosiva del Meraviglia. Il caccia nemico è
vicino. I desideri di Rebekah sono insistenti. Tutto quanto, è il suo
desiderio. Colpire nel segno.
Il laser per tagliare, non tanto diverso da un attrezzo per uso civile tranne
per la portata e l’energia che può liberare, entra in azione, trapassando la
membrana della lacrima argentea. Per il primo secondo e mezzo l’avanzata
rete di distribuzione del calore del rivestimento esterno della cannoniera
resiste, ma lei sta svuotando l’energia accumulata dal Meraviglia,
concentrandola in quel singolo raggio. Un momento più tardi colpisce i
vecchi danni riparati alla meglio e riesce a passare, con la lama di energia
che penetra in profondità, staccando un propulsore e aggredendo il bordo
della struttura che sorregge gli armamenti. Quello è un danno collaterale:
quello catastrofico si verifica quando quell’energia compattata incontra tutta
l’acqua all’interno e la fa bollire all’impatto, causandone un’espansione
istantanea. La lacerazione da lei praticata nella membrana, che di norma si
riparerebbe in un venticinquesimo di secondo, si allarga di colpo fino a
diventare un terzo della lunghezza della nave mentre l’acqua al suo interno
si riversa nello spazio e diventa una grande coda di cristalli di ghiaccio.
I quattro secondi del caccia nemico sono scaduti ed esso ronza
furiosamente intorno allo scafo della cannoniera prima di finire nella
colonna di ghiaccio che ne sta uscendo, disintegrandosi in un milione di
impatti ad alta velocità. La forza della perdita d’acqua spinge la cannoniera
nella direzione opposta, con i propulsori che si accendono a casaccio mente
l’equipaggio cerca di riportare la nave sotto controllo. La raffica successiva
dei cannoni, opera di un equipaggio troppo preso dalla gioia della
devastazione per fermarsi, complica il problema e la nave a forma di goccia
prende a ruotare in modo incontrollabile intorno al suo asse. Un irregolare
artiglio di ghiaccio affilato sferza il Meraviglia, devastando propulsori e
deformando la sua struttura leggera, mandando Rebekah a vorticare lontano
nello spazio, impegnata a sua volta a lottare con i comandi.
Per quanto danneggiata, riesce a ritrovare una certa misura di controllo e
usa il potere di spinta che le è rimasto per zoppicare verso la Requisitore,
cercando intanto di comunicare con la nave madre per vedere se è ancora là.
Tutto questo avviene però nel subconscio perché la sua Corona è
affascinata dalla vista dell’ultima capriola della cannoniera che rotola su sé
stessa con metà della struttura oscurata da un grande pennacchio di ghiaccio
solido. Il punto di raccolta non è abbastanza grande da esercitare
un’attrazione gravitazionale, ma nell’andare impotente alla deriva la
cannoniera finisce nell’avido abbraccio del suo campo magnetico, che si
sforza di spedirla al deposito nemico con un’accelerazione che non è mai
stata progettata per sopportare. Là fuori un momento c’è qualcosa che
somiglia a una nave e quello successivo c’è una nube in espansione di
ghiaccio, metallo e un po’ di materiale organico, mentre il punto di raccolta,
avendo perso il bilanciamento, comincia ad andare alla deriva nel
sovracompensare l’anticipata massa di un asteroide che però non c’è.
Glorioso, dice la pelle di Rebekah, poi la consolle di comunicazione della
Requisitore invia un segnale a quella malconcia del Meraviglia, dicendo:
Torna a casa, torna a casa.
5

Sono passate migliaia di anni da quando questa stella è caduta.


Un altro ottopode. Chiamiamolo Lot.
Lot è nato in orbita ed è cresciuto fino alla maturità in seno a una cerchia
potente che controlla tre cavi di ascensore ed è unita da quella che
considerano un’ampia visione non condivisa dalla maggior parte dei
membri della loro specie. Dal loro elevato punto di osservazione hanno
rilevato il lento degradarsi della civiltà del loro popolo sulla superficie del
pianeta e sperimentato frustrazione e paura per il futuro. Questa è una
condizione insolita fra gli ottopodi: vivono la vita emotiva del presente,
consegnando piani a lungo termine alla capacità di calcolo della loro
Portata. Grazie a un continuo e complesso uso della rete virtuale, la
comunità di Lot ha visto più lontano. Ha potuto misurare la velocità del
collasso e fare un riferimento incrociato con la velocità dei progressi fatti
dalle scienze orbitali, in modo da tracciare l’inevitabile grafico discendente
che ha portato al disastro. Certo, c’è stato una grande atteggiarsi, con tele
declamatorie dipinte sulla pelle che lamentavano la cupa tragicità dei tempi,
ma il consenso unanime è stato tale da portare a delle soluzioni e a un
futuro più luminoso. Hanno incanalato nella ricerca scientifica le risorse di
altre cerchie dall’orientamento più tecnico del loro, hanno inviato
delegazioni ad altri gruppi, per lottare, discutere e infondere in ex nemici lo
zelo della ricostruzione. Per la maggior parte della vita di Lot è parso che
cavalcassero costantemente un’onda di successo, spingendo tutto davanti a
loro.
Poi la lotta orbitale per le risorse ha avuto un crescendo: questo è
accaduto appena dieci anni prima secondo il modo in cui si contano gli anni
su Damascus. Gli ottopodi non le hanno considerate guerre – soltanto un
protrarsi con altri mezzi della lotta per il predominio – ma Senkovi lo
avrebbe fatto. Le scaramucce per i prodotti provenienti dagli asteroidi,
come quella in cui Salomè e Rebekah avevano trionfato, hanno subito
un’escalation in tutto il sistema. Il collettivo di Lot ha combattuto quanto
chiunque altro, giustificando la violenza e la distruzione in virtù dei fini che
si prefiggeva di raggiungere. Da un lato il loro territorio ideologico era
incalzato da gruppi motivati dall’interesse personale, che volevano soltanto
garantire la propria sopravvivenza e influenza, e dall’altro era assediato
dalle grandi alleanze planetarie che avrebbero accolto di buon grado
qualsiasi scoperta scientifica che migliorasse le loro condizioni, ma che
avevano bisogno delle risorse adesso per poter sopravvivere. Gli scontri fra
navi convertite nel freddo spazio fra Damascus e la cintura degli asteroidi si
sono trasformati in un’azione di abbordaggio contro il centro di ancoraggio
dell’ascensore su cui Lot e il suo gruppo avevano installato la loro tana.
Non sarebbe del tutto vero dire che lui ricorda il combattimento, perché la
mente degli ottopodi non funziona in quel modo, ma i dati relativi sono
nella stretta dei suoi tentacoli e lui avverte gli spazi vuoti lasciati da quei
colleghi, amici e parenti che non sono riusciti a raggiungere la superficie
del pianeta. Anche qui c’è un fuoco, acceso quel giorno in cui lui è caduto
dal cielo lungo il cavo dell’ascensore per prendere il suo posto
sull’affollato, iroso e mezzo avvelenato pianeta sottostante. Lo stato
d’animo di fondo di Lot è la frustrazione, che è una cosa terribile per una
specie che agisce direttamente sulla spinta delle emozioni e si aspetta che la
sua più ampia architettura neurale trovi modi per attuare subito i suoi
desideri. E se quei desideri non potessero essere realizzati, nonostante tutta
l’ingegnosità che la Portata può chiamare a raccolta? Alcuni problemi
resistono anche a soluzioni incrementali e questo porta a una sorta di
feedback, di follia. Crea mostri fra gli ottopodi. Crea eroi e leader, ma non
necessariamente del genere che sa guidare nella giusta direzione.
Lot è tormentato da sogni di quello che sarebbe potuto essere – non si
tratta neppure di dettagli specifici ma della tormentosa sensazione che le
cose avrebbero potuto essere diverse, migliori. La sua Portata è impotente
di fronte ai suoi selvaggi desideri: non può far tornare indietro il tempo.
Tutto quello che Lot sa è che c’era una grandezza che era alla portata delle
sue braccia, e che se le avesse estese al massimo avrebbe quasi potuto
toccare un futuro dorato. C’erano progetti per coltivazioni orbitali
accelerate, per microrganismi che filtrassero le tossine; c’erano collettivi di
geni che lavoravano a nuovi modi per nuotare nello spazio, menti
ingegneristiche abbastanza flessibili da insinuarsi nelle minuscole fessure
lasciate dalle leggi della relatività...
Ed è tutto crollato, adesso quelle cose succederanno generazioni troppo in
ritardo oppure non si verificheranno affatto. Tutto l’essere di Lot è stato
trasformato dall’ottimismo all’amarezza durante il suo volo giù per il cavo e
nel pozzo gravitazionale di Damascus, un pozzo da cui sa che non fuggirà
mai. L’unica altra informazione che potrebbe incupire ulteriormente la sua
visione delle cose sarebbe sapere che gli errori del suo popolo sono lo
specchio di quelli commessi dai suoi creatori.
Lot ha seguaci che la pensano come lui, alcuni utopisti fuggiti con lui e
altri che sono soltanto disperati e sperduti, e che sono attratti dal suo
comportamento quasi messianico. Lot ha visto un futuro di gloria e di
superamento della scarsità di risorse, e quell’esperienza lo ha segnato, ha
dato al suo linguaggio corporeo e al suo Aspetto una radiosità che pochi
possono eguagliare. La certezza non è qualcosa con cui gli ottopodi si
sentano a loro agio per la maggior parte del tempo, ma i seguaci di Lot
hanno perso tutto e questo basta a spingerli al peccato capitale di seguire
senza porsi domande qualcuno che sembra sapere cosa sta facendo.
La comunità orbitale di Lot aveva scavato in profondità nelle
documentazioni più antiche alla ricerca di briciole di sapere lasciate dai loro
progenitori – il Popolo di Senkovi, come vengono etichettati nei database.
Senza capire a fondo, Lot ha guardato antiche copie di copie di copie di
registrazioni, ha visto le bizzarre forme angolose degli esseri umani, la loro
pelle muta, i movimenti impacciati. Sa tutto sul comandamento di Senkovi,
la sola regola che non deve essere infranta. Lì, sotto una barriera corallina
di forme di vita marine, sotto un cumulo compatto di fango, c’è un segreto
che ha dormito per millenni, c’è un tratto di fondale marino che nonostante
tutto non è mai stato colonizzato, anche se intorno a esso c’è un cerchio di
attività industriale che intasa l’acqua di agenti inquinanti e di veleni.
Lot sa soltanto che c’è una grande fortuna in attesa, appena dall’altro lato
di... qualcosa. I suoi pensieri chiusi in un circolo vizioso fra Corona e
Portata non riescono a trovare la barriera che deve aggirare, il buco in cui
insinuarsi per realizzare quello che sa essere possibile. Troppi altri gruppi,
cerchie e stupidità si parano fra lui e la sua meta. Gli serve un’arma.
Nelle affermazioni di Senkovi – codificate come sono in modo imperfetto
per la mente degli ottopodi – non c’è niente che definisca quella cosa come
un’arma, ma quello è il balzo logico fatto da Lot. È un pericolo, ma forse un
pericolo abbastanza grande sarà qualcosa che potrà scatenare sul mondo per
spazzare via i rifiuti, la sporcizia e l’idiozia. Forse distruggerà la rabbia che
se ne sta accoccolata dentro di lui come un granchio da quando è stato
scacciato dalla sua casa orbitale.
Lot e il suo popolo hanno combattuto e ucciso per apparecchiature di
scavo e da taglio e hanno trasportato il tutto in questo luogo proibito.
Adesso scavano attraverso migliaia di anni di incrostazioni di coralli,
spugne e cirripedi che costituiscono la superficie vivente, per poi aggredire
gli strati morti, antichi di secoli, scendendo sempre più in profondità fino ad
arrivare al metallo, praticamente immacolato, che mostra ancora i segni di
dove si è fuso ed è colato sotto l’effetto del fuoco degli specchi e del rientro
nell’atmosfera.
Lot non ha un piano per cosa succederà una volta fatto lo scavo. È
soltanto stato vittima di una pressione sempre più grande che lo ha fatto
ritirare in uno spazio angusto della sua mente da cui non riesce a trovare
una via di uscita. Tutto ciò che sa è che qualcosa deve cambiare perché si
possa salvare il mondo, e questo è il più grande cambiamento che lui riesca
a concepire.
La sua gente ordina ai droni da taglio di cominciare a segare attraverso le
pareti dell’antica tomba. Questa cosa veniva da un altro mondo, quello
proibito, ed è caduta dal cielo. Lot avverte un senso di meraviglia e la
sensazione di stringere nella sua presa le leve della storia.
Quando completano il taglio, l’acqua di mare si precipita nello spazio
vuoto interno e una bolla di aria stantia sale verso la superficie come se ci
tenesse a non essere testimone di quello che succederà. L’acqua, che su
Damascus collega tutte le cose, riempie ogni parte della navetta e al suo
interno qualcosa che ha la forma di un uomo, sepolta lì dall’alba della
civiltà, solleva la testa.
6

Noi
Ci svegliammo da un sonno criptico
Circondati da un nuovo medium.
Il contenitore non è sopravvissuto. Generazioni di noi hanno disteso le
molle delle sue molecole in modo che potessero esserci Altri-di-Noi finché –
pur mantenendo la sua forma come se ne fossimo il contenuto,
comprimendoci a occuparla – quello che abbiamo non è che una
simulazione del contenitore, che si è degradato al punto che non funziona
più niente.
La bella limpida scintillante fonte di conoscenza che amavamo adesso
fornisce soltanto schemi stantii. In essa qualcosa è finito.
Il medium che ci erode fuori della forma del nostro contenitore non più
funzionante ci è in parte familiare. Sono indetti consigli di emergenza.
Tutti-Noi corriamo il rischio di dissolverci. Questo è l’Oceano.
Consultiamo le antiche profondità delle nostre biblioteche: l’Oceano non è
nostro amico o il nostro habitat preferito. L’acqua crudele ci scorre
intorno, disgregando la memoria della forma del nostro contenitore, e ci
prepariamo ad affrontare i Tritatori e i Setacciatori e i Divoratori e tutte
quelle altre forme che affollano l’Oceano e che ci distruggeranno per
alimentarsi, facendo a pezzi i nostri preziosissimi archivi di dati e
trasformando la nostra storia lunga e varia in niente più che meri atomi e
molecole da incorporare nella loro sostanza. Sappiamo come funziona,
grazie a fuggiaschi superstiti che si sono salvati a stento. La terra è più
sicura, l’aria è più sicura, l’Oceano è una lotta costante perché quelle cose
che lo popolano sono giunte dalle profondità del tempo insieme a noi e ci
conoscono. Questo è quanto registrato nei nostri annali.
E tuttavia questo Oceano non è lo stesso anatomizzato nei nostri annali. Il
suo sapore è diverso, contiene strane sostanze chimiche più simili a quelle
del nostro contenitore disintegrato che a quelle dei Tritatori e Divoratori
che ricordiamo.
Questo richiede calcoli e la ricostruzione dei ricordi immagazzinati. Il
contenitore e Noi stavamo andando a vivere un’avventura. I grandi spazi
del contenitore erano racchiusi in spazi più grandi all’interno di altri più
vasti, finché ci era stato promesso uno spazio che significava Tutto. Un
universo. Quella è la più grande delle avventure. Questo non è l’universo,
ma non è lo spazio familiare della nostra storia. Questi-di-Noi sono in un
Altro Posto.
Ci frammentiamo nell’acqua, formiamo grumi e agglomerati e copiamo e
preserviamo in modo che Quello Che Siamo possa essere tramandato.
Cerchiamo contenitori. Qui ci sono creature semplici, simili al contenitore
che abbiamo perduto ma senza il fulmineo crepitare di concetti e la
promessa di spazi più grandi. Possiamo sopravvivere ed essere Quello Che
Eravamo Un Tempo dentro quelle semplici creature che nuotano, ma non
possiamo essere Quello Che Eravamo Dopo, quando abbiamo conosciuto
l’universo. Questi-di-Noi non possono tornare all’ignoranza, non senza
cancellare dai nostri archivi tutto quello che abbiamo appreso, quindi ci
protendiamo in fuori, cerchiamo complessità. Desideriamo conoscere di
nuovo spazi più vasti.
E qui ci sono contenitori. Questi-di-Noi vi entrano con gioia, l’acqua è
una strada infinita verso ogni dove. Cerchiamo di imparare. Troviamo un
centro dove i fuochi crepitano e Questi-di-Noi tentano di annidarvisi e di
apprendere da esso, e tuttavia i balzi dei suoi impulsi non hanno senso.
Parla ad altri centri all’interno del contenitore. Alcuni-di-Noi si separano,
seguiti poi da Altri-di-Noi, e ciascuna comunità cerca un nuovo controllo,
ma risulta isolata dal Resto-di-Noi. Il contenitore si contorce e dibatte,
combatte contro sé stesso mentre Ciascuno-di-Noi cerca di asserire il
proprio predominio. Non esiste un centro, esso è ovunque. Ogni parte del
contenitore lotta contro il resto. Questi-di-Noi non hanno controllo e gli
spazi e l’ambiente del contenitore ci aggrediscono, attaccano sé stessi. Si
sta dissolvendo, va in pezzi mentre noi spingiamo e tiriamo. Avvertiamo il
punto in cui il contenitore diventa non vitale, una mera nuvola di parti
nell’acqua del colore dell’inchiostro. Lo convertiamo in Altri-di-Noi per
rimpiazzare le perdite e ci disperdiamo nell’acqua, trovando altri ospiti che
ribollono di possibilità nel momento in cui vi entriamo ma che non sono
comprensibili e vanno in pezzi quando cerchiamo di venire a patti con loro.
Ogni comunità di Noi si divide e divide, ogni Grumo-di-Noi trova un nuovo
centro e cerca di imparare a conoscerlo, distende e contorce il contenitore
in un caos lacerato, si divide, crea Altri-di-Noi e tenta ancora, e ancora, e
ancora...
7

All’inizio nessuno se ne accorge. Damascus è un pianeta sopraffatto da


una marea panoceanica di caos e di lotta, fazione contro fazione,
schieramenti che mutano, si infrangono e si riformano. Ci vuole un tempo
notevolmente lungo perché qualcuno arrivi a capire che alcune cose
semplicemente non si riformano dopo essere state rotte.
In retrospettiva, tuttavia, il destino che si abbatte su Damascus ha una sua
eziologia. Si irradia da quel singolo posto proibito con la massima rapidità
consentita dalle correnti. Nessuno conosce Lot, o quello che lo spingeva,
ma è chiaro che qualcuno, dopo tutto questo tempo, si è guardato indietro.
L’infezione cavalca le correnti del mare, ma anche i suoi abitanti,
replicandosi in nuove colonie, infettando pesci, granchi, meduse e plancton,
accorciando le sue aspettative per adeguarsi a circostanze ristrette,
registrando i giorni di gloria in cui era Yusuf Baltiel per una posterità
futura, quando potrà forse esistere un ospite che le dia significato. È un
alieno in un mondo creato da terrestri, ma si adatta ripetutamente, una
specie dopo l’altra. Ne domina alcune, come faceva con le testuggini di
Nod, da altre si lascia trasportare al loro interno, e poi ci sono alcuni
contenitori verso cui continua a protendersi, come una falena verso una
fiamma. Entra in innumerevoli membri della specie dominante del pianeta,
gli amati ottopodi di Senkovi, e cerca di abitarli. Si divide, una colonia che
lascia un’altra colonia, inseguendo il canto di sirena dell’attività complessa
attraverso i vasti mondi costituiti da corpi macroscopici. Ogni distinta
colonia proclama la sua sovranità, il predominio del centro nervoso in cui si
annida. Gli ospiti, in guerra con loro stessi, si fanno a pezzi, ogni braccio
che si strappa in cerca di un breve momento di libertà. Succede di nuovo, e
poi di nuovo.
Sulla superficie, gli scienziati di Damascus provano a contrapporre il loro
fragile ingegno alla tempesta di dissoluzione che sta sopraffacendo la loro
civiltà, ma i controlli biologici convenzionali non hanno presa sulla chimica
nodiana e il bersaglio cambia e si adatta a qualsiasi progresso venga fatto.
Anche se si distrugge un migliaio di agglomerati di ribollente vita aliena, ne
sopravvivono abbastanza da diventare un nuovo paradigma immune a tutti
gli sforzi, non tramite una semplice mutazione fulminea e neppure tramite
un’equa condivisione di materiale genetico, come fanno gli umili batteri
terrestri, ma mediante sperimentazione e progettazione. Il mondo di Nod ha
controlli biologici che si sono evoluti insieme a questa sostanza-colonia-
entità-malattia: innumerevoli creature che hanno sviluppato difese e
comportamenti per ridurre al minimo una simile infiltrazione. Perfino le
testuggini conducono una vita piena nel trasportare in giro il loro
parlamento di parassiti. Ma qui, su Damascus, non c’è niente.
Solomon non è su Damascus. La migliore descrizione che se ne può dare
è di un ingegnere orbitale, nato fuori del pozzo gravitazionale e che ha
vissuto tutta la sua vita complessa nel centro di un cavo di ascensore, teso
tra un’estremità del pianeta e il suo distante contrappeso dall’altra. Simili
centri sono massicci, più grandi di quanto sia mai stata la Egeo, progettati
per ospitare migliaia di individui. Adesso sono la casa di decine di migliaia
di ottopodi, affollati in modo incredibile a mano a mano che gli abitanti del
pianeta sottostante fuggono dagli oceani nativi in cerca della dubbia
sicurezza offerta dallo spazio. Tramite navette spediscono carichi di
molluschi litigiosi e spaventati fino alle navi-casa e ai grandi mondi
artificiali sparsi come perle lungo le strade orbitali, e tuttavia ogni
contenitore che arriva dal basso è pieno di cefalopodi affamati, disperati e
mezzi morti (oppure, a volte, morti per soffocamento o perché schiacciati, o
uccisi dal semplice shock o dall’infelicità). La Corona di Solomon intona
un lamento per un qualcosa di così grande che in passato non lo aveva mai
preso in considerazione: non sé stesso, non una fazione o un grande artista,
un’astronave o un’impresa scientifica. Sta cercando di imparare come
piangere una civiltà antica di millenni che sta collassando in tempo reale,
sotto i suoi occhi.
La sua Portata, intrecciata ai sistemi della sua orbitante città-stato, vaglia
i nuovi arrivati, si collega alle braccia intelligenti dei suoi compagni, cerca
ripetutamente di comprendere le conseguenze negative della catastrofe,
separate dal bisogno di comprenderne le ramificazioni.
La stessa scena si ripete tutt’intorno all’equatore di Damascus, dove altri
amministratori come Solomon cercano di tendere fra loro una rete che possa
catturare una qualche ombra di ciò che il loro popolo era un tempo. Stanno
portando migliaia di individui su per il pozzo gravitazionale, molti di più
della capienza massima per cui sono stati progettati gli habitat orbitali, e
tuttavia stanno lasciando indietro non semplici milioni ma miliardi di
damaschiani. Altri miliardi sono caduti vittima di quella terribile
dissoluzione indagatrice che cerca di comprenderli come habitat a cui
adattarsi, come un veicolo da guidare, e che tramite quello studio riesce
soltanto a disintegrarli in un insieme di parti insensibili, inutili e morenti.
Quando tutto il resto è perduto, quelle parti vengono frammentate
ulteriormente fino a far scomparire la distinzione fra molecole terrestri e
nodiane, poi vengono ricostruite in nuove vorticanti colonie di audaci e
microscopici avventurieri che cercano di catturare di nuovo quel momento
mezzo dimenticato in cui, come Yusuf Baltiel e i suoi colleghi, hanno
compreso tutto e visto la vastità dell’universo.
Solomon lavora. Ci sono continuamente navi in arrivo dall’esterno,
distolte dalle loro attività minerarie, dalle esplorazioni, dalle ricerche e dalle
guerre a causa del fato del loro mondo natale. In questo momento centrale
non ci sono conflitti. Tutta la specie lavora all’unisono, anche se tutto
quello che possono ottenere è di limitare i danni.
Quella fragile unione muore nel fuoco e nel vuoto, in un vapore esplosivo
che diventa una nuvola di ghiaccio in espansione che si sposta rapida lungo
la linea equatoriale. Uno dei centri di ascensioni ha aperto il fuoco sul suo
vicino, mandando una ventina di missili a farlo a pezzi e riversandone il
contenuto acqueo nel vuoto dello spazio. L’equipaggio dell’aggressore
viene bombardato di minacce, di lamentele e di richieste di chiarificazione.
La risposta è che la vittima era stata infettata. Le comunicazioni avevano
rivelato che la pestilenza, o il parassita, o qualsiasi cosa sia quel mostro
nebuloso, era stata portata a bordo, in incubazione nel corpo dei profughi, e
si era diffusa in modo incontrollato in chiunque avesse trovato. L’invasore
nodiano si sta facendo più complesso nel suo comportamento, ha
un’incubazione più lunga prima che il suo tentativo di comprendere e di
controllare l’ospite lo porti a uno smembramento violento. Diventa
impossibile accertare con una rapida ispezione se un corpo sia o meno
infetto. Nessuno ha spazio per sottigliezze come una quarantena.
Solomon esamina il traffico proveniente dal centro distrutto. L’emozione
crea disegni sulla sua pelle mentre cerca di decidere se quanto è successo
sia stato un atto eroico, autodifesa o assassinio su vasta scala. La sua
Portata consulta i dati elettronici, soppesando il progressivo diminuire delle
comunicazioni, gli ultimi messaggi disturbati, la perdita di significato dei
segnali. Tutto questo lo porta alla conclusione che l’aggressore aveva
ragione, il che significa che nessuno di loro è al sicuro. Che gli ascensori
sono compromessi. Soppesa i suoi desideri, e il suo giudizio è questo: Io
voglio vivere.
Impartisce il suo ordine, da Portata a Portata, attraverso la rete del
centro. Non è cosa da fare alla leggera, ma la sua specie volubile prende
grandi decisioni più in fretta degli umani. Un accordo fra Portata e Corona
si trasforma in azione istantanea.
Simultaneamente, con una sincronia perfetta, tronca i cavi dell’ascensore.
Il contrappeso, che si protende nello spazio all’estremità dei suoi ancoraggi
in virtù della rotazione del pianeta, vola via verso la parte esterna del
sistema solare e oltre. Il cavo interno, quello che aveva collegato il centro al
suo punto di ancoraggio sul fondo marino damaschiano... al suo interno
c’era una cabina che trasportava centinaia di individui ed era a metà del
cavo. Solomon lo sa, ma a quest’ora di certo almeno alcuni di essi sono
compromessi e se lo è uno lo saranno in molti, e poi tutti. Tagliare alla
lettera ogni legame con il mondo natale era la sola alternativa.
Tutt’intorno a Damascus altri amministratori lo stanno imitando,
staccandosi e manovrando con i motori per mantenere un’orbita stabile.
Ogni tanto ci sono collisioni, sistemi da tempo in disuso si guastano. E per
quelli sul pianeta, ammassati in orde innumerevoli alla base dei cavi, c’è
soltanto la disperazione.
8

E dopotutto questo, una coda. Quasi uno spettacolo secondario, se non


fosse che fra tutti questi semi di tempo sarà solo questo a crescere.
Un altro ottopode, un maschio. Forse la sua designazione, registrata nelle
banche dati nell’antico stile umano, è Noah. Gli umani lo definirebbero
anche uno scienziato, sebbene tale designazione sia inesatta e Noah pensi
alla sua vocazione come a qualcosa di più simile all’arte. Dopotutto, sono le
sue braccia a fare tutti i calcoli difficili.
Dopo la caduta di Damascus, la comunità orbitale degli ottopodi si è
trascinata avanti tenendo distanti la crisi e l’estinzione. Si sono aggrappati
all’orlo stesso dell’oblio, ma se c’è una cosa in cui gli ottopodi eccellono è
nel mantenere la presa. La loro Corona indicava cosa fosse necessario, la
collaborazione delle loro Portate trovava le soluzioni. Hanno tenuto duro. Si
sono moltiplicati. Hanno accelerato il recupero di materiali dalla parte
esterna del sistema, dagli asteroidi e dalle lune dei giganti gassosi, inviando
i loro ottusi minatori in grandi nuvole di minuscole larve che avrebbero
rosicchiato e sarebbero cresciute e avrebbero cominciato a scagliare verso
di loro ghiaccio, idrocarburi e roccia ricca di metalli non appena avessero
incontrato una qualche superficie solida. Hanno costruito finché l’orbita
intorno a Damascus è diventata un campo aggrovigliato di habitat, con il
ghiaccio, le leghe, la plastica e invisibili campi magnetici che contenevano
quel che restava di loro. Naturalmente, la loro natura antisociale – mai
troppo lontana dalla superficie – ha cominciato a emergere e hanno
combattuto, creato fazioni e discusso.
Alcuni, come Noah, erano in grado di vedere un quadro più grande anche
con la mente cosciente. Uno psicologo umano avrebbe descritto gli ottopodi
come dotati di più ID che di qualsiasi altra cosa, con un cieco ego inglobato
nel subconscio, ma alcuni riescono ancora a vedere più lontano. Noah è
tormentato da sogni in cui è l’ultimo della sua specie, un Senkovi
cefalopode circondato dalla fluttuante devastazione di tutto quello che è mai
esistito. L’affollata e litigiosa civiltà orbitale che vede formarsi e disfarsi
giorno dopo giorno non gli appare longeva. E lui non è il solo a pensarla
così.
Fra loro le fazioni nascono senza contratti o solidi accordi, e senza troppi
pensieri rivolti al futuro. Lui si è unito a due femmine, Ruth e Abigail,
perché ciascuno dei tre ha visto negli atteggiamenti e nei colori degli altri
uno spirito affine. Hanno piani per il futuro, il che non significa soltanto
l’indomani di domani, ma una distanza di molte generazioni, piani che
daranno i loro frutti molto dopo la loro morte naturale. Una simile
preveggenza è una cosa rara presso il loro popolo, ma ciascuno di loro è una
sorta di genio, nella misura in cui questo termine ha un qualche significato.
I tre non possono però portare avanti la loro scienza circondati dal
costante gioco delle parti dell’anello orbitale. Altre fazioni porterebbero
loro via tutto o cercherebbero di fermarli, e Abigail e Ruth hanno piani che
richiedono una considerevole distanza fra loro e i loro pari, quindi prendono
una nave e la dirigono lontano dalla società orbitale, verso l’interno del
sistema. Per le due femmine, l’orbita intorno a Nod è il solo posto adatto
per la loro ricerca; per Noah, la stazione orbitale abbandonata contiene dati
e scienza umana perduta nei lunghi millenni dell’ascesa degli ottopodi su
Damascus, perduta quando la vecchia Egeo è infine caduta dalla sua orbita.
Forse non c’è niente che non si possa riscoprire, ma dopo aver dedotto la
sua esistenza, adesso vuole che essa trasformi i suoi piani in realtà, e la sua
Portata cerca di realizzare i suoi desideri. Inoltre, quello è il solo posto
dove può trovare la quiete e la pace di cui la sua mente ha bisogno per
funzionare.
La loro partenza viene notata. Occhi e strumentazioni li seguono, ma per
il momento raggiungono la loro destinazione senza essere molestati. Sono
andati in un luogo proibito, ma il vaso di Pandora è già stato aperto, quindi
che può esserci di peggio? Si vengono a trovare in orbita intorno a Nod.
L’antica stazione orbitale è là, espulsa dal corpo dell’antica Egeo e priva
di vita o di energia. Era stata abbandonata a tutti gli effetti molto prima di
quella finale, fatale scoperta fatta da Baltiel su Nod, ma a quei tempi
sapevano come impostare un’orbita e dovrà passare qualche altro migliaio
di anni prima che quella massa cada fra le braccia del pianeta sottostante.
Prendendo tutte le dovute precauzioni, Noah e le sue compagne lanciano
alcuni droni e fanno produrre dalle fabbriche di bordo tutti i materiali
necessari per attraccare alla stazione vuota e cominciare a predisporne
alcune porzioni per la vita acquatica.
Abigail e Ruth sono piene di animazione e droni sacrificabili vengono
inviati a esplorare visivamente la superficie del pianeta. Gran parte di esso è
un inferno inospitale: dopotutto, si tratta di terra arida. I mari ribollono di
strane forme di vita, e i tre si sentono tremare, scossi da strane emozioni,
nel guardare cose divorare altre cose oppure rimanere sospese nell’acqua
come... come nulla a cui siano abituati.
Naturalmente trovano il vecchio habitat, anche se adesso è ridotto a poco
più della sua ossatura, con le parti inorganiche abbattute dal dissolvimento
chimico, mentre la plastica e gli altri composti organici resistono a un
ecosistema che non ha modo di metabolizzarli.
Abigail e Ruth hanno intenzione di isolare l’organismo che è venuto da
Nod per depredare il loro pianeta. Sono decise a scoprire un antidoto, una
cura, una vaccinazione globale. Per loro esiste un solo futuro per la loro
specie, ed è tornare su Damascus e domare la malattia che ha dissolto o
fatto impazzire la maggior parte dei loro simili. Non pensano alle loro
intenzioni esattamente in questi termini, naturalmente, ma l’ampiezza di
visione della loro Corona si combina con l’insolita ingegnosità dei loro
cervelli secondari per produrre quel risultato finale.
Noah non è d’accordo con loro. Fra tutti e tre hanno abbondanti risorse
con cui giocare, quindi lui non sente il bisogno di competere con i loro
piani, ma da parte sua ha abbandonato Damascus e qualsiasi tentativo di
ricatturare il passato. Lui vede soltanto il futuro, e il suo piano è fuggire.
Recuperano la documentazione della squadra esplorativa, frammentaria
ma ancora parzialmente leggibile. La Portata di Abigail e di Ruth comincia
ad assimilare i dati e la comprensione filtra verso l’alto, rendendo l’alieno
comprensibile. Vengono prelevati campioni da Nod, soprattutto dal bioma
della palude salmastra. Trovano le testuggini e le altre creature ospiti che
hanno dentro di loro colonie di certi analoghi di batteri. A questo punto
l’intera stazione orbitale è sigillata e rinforzata in modo da permettere
l’esistenza di camere sperimentali con un rigoroso protocollo di quarantena.
Cominciano gli esperimenti.
Noah saccheggia dalle banche dati altri bocconi succulenti: mappe stellari,
dettagli ingegneristici, scoperte scientifiche della Vecchia Terra. Sta
cercando di indirizzare la tecnologia del suo popolo in una nuova direzione,
spinto dalle condizioni disperate della sua civiltà. Un tempo anche gli
umani hanno guardato in quella direzione, e anche se non l’hanno mai
trasformata in realtà, le loro teorie alimentano la sua Portata, riempiendogli
la mente di possibilità. Sa soltanto che si sta avvicinando a una scoperta
fondamentale. Comprende che quello che vuole è un’allettante possibilità, e
può quasi sentirne la forma nella sua stretta. Le ipotesi e gli esperimenti di
scienziati umani morti da tempo vengono filtrati dalla sua consapevolezza
aliena e la sua mente trova percorsi secondari diversi da qualsiasi cosa un
umano avrebbe potuto proporre mentre le sue braccia mettono in essere dei
test nello spazio virtuale e lui fa combattere i numeri fino alla morte per il
suo divertimento.
Costruisce qualcosa – o meglio le sue braccia dicono ai droni di costruirla
– sull’esterno della struttura formata dall’unione della nave e della stazione.
È una cosa orribile, del tutto diversa dall’architettura umana o ottopode da
cui deriva, e tuttavia per Noah ha una certa bellezza, un drammatico,
frastagliato protendersi verso l’infinito.
Anche se le stelle sono molto lontane comprende, infatti, che coloro che
hanno creato il suo popolo un tempo vi si aggiravano. Su un altro mondo
lontano, quegli umani sono essi stessi gli eredi di un pianeta morente, loro e
Noah hanno studiato entrambi quelle stesse mappe stellari e si sono trovati
di fronte allo stesso problema. Dove possiamo andare? Le loro soluzioni
diverse non derivano soltanto dalla distanza fra i loro phyla. Il popolo di
Noah ha continuato a costruire sulla tecnologia dei suoi creatori, a
singhiozzo, per un tempo molto lungo. Gli architetti della Gilgamesh sono
dovuti partire da zero, tirandosi fuori da una seconda Età della Pietra. La
Gilgamesh stessa è sempre stata un rozzo giocattolo se paragonata alle
meraviglie del Vecchio Impero, ma il Vecchio Impero precedente al collasso
è l’àncora su cui Noah e i suoi predecessori hanno costruito.
Le stelle sono troppo lontane e il suo popolo non è predisposto a pensare
in termini di navi generazionali, di sonno criogenico e di un migliaio di anni
di viaggio. Noah vuole risultati adesso, e grazie all’abbondanza di
comprensione tecnologica che ha ereditato può fare qualcosa al riguardo.
Sei ottavi della sua capacità cerebrale, a tutti i livelli, è rivolta a quell’unico
scopo.
Lo sviluppo tecnologico degli ottopodi è insieme l’opera del solitario
scienziato pazzo e il poggiarsi sulle spalle dei giganti. Per la Corona ogni
risultato è una lotta solitaria, attinto dal vorticante abisso dell’ispirazione;
per la Portata, il progresso è il risultato di colossali imprese di calcolo e di
analisi basate su set di dati raccolti in precedenza. Sulla nave che hanno
condiviso, Noah, Ruth e Abigail hanno portato una copia sostanziosa del
lavoro delle precedenti generazioni, tanto quello relativo alle loro rispettive
specializzazioni quanto ciò che in quel momento ha colpito il loro effimero
interesse. Adesso la ignorano volutamente e allo stesso tempo la
saccheggiano in lungo e in largo.
Due ottavi dell’attenzione di Noah rimangono sulle sue colleghe. Per
quanto lo preferirebbe – come farebbero tutti e tre – non le può
semplicemente ignorare. Entrano ed escono continuamente dagli stessi
sistemi, ci sono le impronte virtuali delle loro ventose sui dati e
sull’architettura elettronica. Litigano per le stesse risorse, anche se quei
battibecchi non degneranno mai in un serio conflitto. A volte trascorrono
giorni ai lati opposti del loro complesso ibrido, rimuginando su motivi di
risentimento, ma per la maggior parte del tempo si salutano a vicenda con
colori cautamente cordiali e le due femmine seguono lo sviluppo delle sue
ricerche come lui fa con le loro. Per questo è subito consapevole quando
succede qualcosa di significativo.
Noah ha istituito un certo livello di quarantena interna fra i laboratori
delle femmine e il suo, una misura attuata dalla sua Portata per placare i
persistenti timori della Corona. Gli attivatori che ha lasciato nel sistema lo
avvertono quando le sonde portano su qualcosa di grosso dal pozzo
gravitazionale di Nod, una cosa molto più grande di qualsiasi abitante della
palude o di pianta-non-proprio-pianta. Ha occhi elettronici che può
utilizzare. Quella che vede è una forma familiare, una a cui reagisce a un
livello estremamente profondo: è la forma di Dio, la forma del passato.
Nella stazione orbitale ci sono ancora sufficienti equipaggiamenti che
risalgono all’occupazione umana e lui registra che le femmine hanno
trovato la cosa in isolamento e che adesso non stanno lavorando a un
problema di epidemiologia ma di comunicazione.
Non molto tempo dopo questo sviluppo i tre infine incorrono nella
disapprovazione dei loro pari.
Ci sono stati sporadici contatti radio attraverso la distanza che separa Nod
da Damascus, niente di organizzato a livello cosciente, ma a volte la
Portata dei tre scienziati ha cercato dati e potere di elaborazione presso la
città frammentaria che orbita intorno al mondo acquatico. Qualcuno lo ha
notato e ha deciso che le loro attività costituiscono un rischio inaccettabile.
Ciò che è proibito è proibito.
In effetti, ci sono stati come al solito considerevoli dibattiti e nessuna
opinione è prevalsa, ma una fazione si è agitata al punto da lanciarsi in
quella che considera una legittima crociata. E adesso è qui, su una nave irta
di armamenti e ribollente di voglia di combattere, decisa a porre fine
unilateralmente a qualsiasi abominio si stia perpetrando nell’orbita di Nod.
Ruth e Abigail avviano una comunicazione e cercano di negoziare. Sugli
schermi della nave da guerra lampeggia un caleidoscopio di motivazioni
scientifiche: la loro speranza di risanare il pianeta, i loro progressi, i risultati
preliminari, qualsiasi cosa per fermare l’attacco. Noah nota che stanno
confondendo le acque di proposito: nessun accenno, infatti, al loro nuovo
soggetto di sperimentazione. Quanto a lui, continua a lavorare al suo
congegno, perché è quello che desidera fare anche sotto minaccia di
annientamento, e anche perché ha paura, si sente frustrato, vuole reagire e la
sua Portata interpreta tutto questo in un modo molto specifico.
Le suppliche e le promesse delle femmine lampeggiano e si intrecciano
nella nave da guerra e gli assalitori esitano, davvero. La certezza di una
causa o di uno scopo non è mai stata una caratteristica degli ottopodi. Una
singola voce nitida può convincere una folla o un esercito. Ma non questa
volta.
La marea si ritrae, ma poi risale più alta che mai quando i punti di vista
individuali a bordo della nave da guerra si mescolano e si trasformano in
colori irosi. I caccia si staccano dalla nave madre. Le armi cominciano a
caricarsi.
Abigail e Ruth non sono rimaste inattive mentre i loro nemici
discutevano. Sono scienziate, dopotutto, e nei loro momenti di maggiore
paranoia insieme a Noah si sono preparate a questo. Gli impianti di
alimentazione della stazione ibrida vengono dirottati su campi che curvano
la luce, dissipando e deviando i laser, ingannando il sistema di tracciamento
dei missili, confondendo i caccia in modo che si attacchino a vicenda o si
allontanino vorticando nello spazio vuoto in cerca di bersagli fantasma. Per
la nave da guerra questo diventa la prova istantanea che il loro nemico d’un
tratto potente deve essere annientato. Le Portate che governano le armi
decidono che i proiettili del cannone elettromagnetico sono il modo più
sicuro di procedere e mandano una raffica letale contro la stazione, proiettili
di metallo accelerati a velocità incredibili da pulsazioni elettromagnetiche.
L’energia che scherma la stazione ne potrà deviare alcuni, ma non la
maggior parte. Nonostante la velocità, le distanze nello spazio sono tali che
Ruth, Abigail e Noah sono pienamente consapevoli di cosa stia arrivando.
Hanno il tempo di reagire, ma non la capacità di salvarsi.
Noah reagisce. La sua Corona ribolle di rabbia. Ha una risposta per la
nave da guerra e per quel focolaio di emozioni che è la mente di un
ottopode: la distruzione reciproca fornisce una drammatica soddisfazione
che manca nella calma accettazione della morte. Le sue braccia si serrano
intorno all’interfaccia della sua invenzione, quella splendida cosa
condannata che adesso non sarà la salvezza per il suo popolo, e la aziona.
Il risultato è immediato. Prima che i proiettili colpiscano la stazione la
nave da guerra e i caccia più vicini a essi scompaiono. Per la Corona di
Noah sono stati semplicemente obliterati, sconfitti in un’onda di potere in
cui può soltanto crogiolarsi. Per la sua Portata, che registra il feedback e i
rapporti dello strumento, essi esistono ancora, ma sono spalmati in una nube
di atomi in fase di dissolvimento, fra quel punto e un sistema stellare
distante sette anni luce, o almeno così suggeriscono i suoi calcoli.
Un test coronato da successo, è più o meno il sentimento con cui Noah
muore, e non è infelice grazie al suo successo personale.
Poi i proiettili trapassano la stazione, mandando letali onde d’urto
attraverso gli spazi pieni d’acqua, facendo fuoriuscire ghiaccio e materia
organica.
E dopo? Più niente, almeno per molti anni, finché nuovi visitatori alieni
non vengono a disturbare quella tomba inquieta con i loro passi incauti.
Presente 4
La faccia delle acque
1

Paul è estremamente infelice. Il confino è di rado una cosa positiva, ma la


sua specie non è mai stata contenta di vivere in una gabbia neppure al
tempo in cui erano soltanto molluschi semisenzienti e gli animali da
compagnia di un certo Dista Senkovi. Tenere un ottopode era fin troppo
spesso una battaglia continua fra la tecnologia del carceriere e l’ingegnosità
del prigioniero. Quell’amore per la libertà – e forse per il sapere che se
incombe un pericolo c’è sempre una via d’uscita – è radicato nella specie.
Come prigioniero, e per di più dei suoi simili, Paul alterna sentimenti di
disperazione, rabbia, infelicità, confusione a un amaro senso di tradimento,
o quantomeno emozioni simili a questi sentimenti umani. I suoi impianti
hanno un accesso limitato al sistema più ampio, e senza la compagnia tattile
dei suoi simili il suo subconscio logico ha fame di informazioni, non è in
grado di contribuire o di esprimersi. Gli rimane soltanto il vortice del suo ID
dominante, che avanza richieste all’universo senza che il resto della sua
struttura neurale le possa soddisfare.
E ha paura. Non sa esattamente perché ne abbia: sta vivendo un incubo
nel quale la sua cella impenetrabile contiene un orrore che non può vedere
ma di cui percepisce sempre l’ombra. È un orrore condiviso appieno dagli
altri cefalopodi, e che costituisce il motivo della sua quarantena in quella
cella. Gli alieni – gli umani in particolare – sono inestricabilmente legati
alla pestilenza che li ha privati del loro mondo. E se pure qualcuno si
sentisse incline a dimenticare, quel mondo è là sotto di loro, visibile da
qualsiasi oblò e schermo, intriso di ricordi.
Adesso gli altri se ne sono andati, è rimasto solo con la luce inclemente,
con pochi posti dove nascondersi e con gli alieni accoccolati nella cella
accanto, tutti angoli e silenzio sul pavimento della loro sterile camera priva
di acqua.
All’inizio Paul si è nascosto da loro, non voleva attirarne l’attenzione a
causa di un’istintiva avversione al peggiorare la situazione. Adesso però ha
capito che gli alieni sono impotenti quanto lui, e inoltre il suo coraggio
comincia a riaffiorare a mano a mano che lo spettro dell’infezione si
allontana: se l’avesse contratta, ormai lo saprebbe.
Così si lancia nella colonna tronca di acqua della sua cella e dice agli
alieni quello che pensa di loro, contorcendosi a ridosso della barriera
trasparente fra le loro camere con la pelle che riluce di colori irosi sotto cui
aleggiano ancora paura e sconcerto. Quando era sulla sua nave, era stato un
diplomatico volontario, pieno di volubile temerarietà, ma adesso tutto
questo è dimenticato e lui sa soltanto che queste brutte creature statiche
sono la fonte del suo disagio.
Loro guardano la sua esibizione: i suoi colori, la pelle irta in creste e
punte, gli atteggiamenti minacciosi delle sue braccia mentre il resto del suo
cervello fa tutto il possibile per realizzare il suo desiderio di strangolarli.
Poi quella dall’aspetto umano solleva di nuovo il suo congegno, mostrando
colori e forme che sono come un linguaggio impastato e borbottante.
Segnala pace, amicizia, infelicità, sottomissione – quest’ultima cosa è
quanto di più simile a delle scuse un ottopode sia in grado di esprimere.
Paul non si lascia influenzare, è soltanto imbaldanzito dallo scoprire una
vittima contro cui può davvero sfogare la sua rabbia senza timore di
ripercussioni. Non è mai stato il più forte o il più carismatico della sua
razza, e adesso questi alieni dovranno ascoltarlo fino in fondo, per quello
che potrà servire.
A metà della sua furiosa esibizione teatrale, Paul vede succedere all’aliena
umana qualcosa di familiare e di riconoscibile. Perde il controllo. Ha una
crisi di rabbia, qualcosa che Paul definirebbe un prerequisito naturale
dell’intelligenza se fosse in grado di formulare simili pensieri analitici. A
quanto pare, l’umana si è controllata (un’attività aliena per una creatura
aliena) ma adesso perde del tutto le staffe. Il tono della sua pelle è più
scuro, a chiazze, cosa che quantomeno indica un qualche tipo di vita
emotiva interna in cui Paul si può riconoscere. La sua bocca (quel foro
molle è una bocca?) si apre e si chiude, e c’è qualcosa di bagnato sulla sua
faccia. I suoi arti goffi hanno uno spasmo nell’assumere quelle che sono
riconoscibili come pose di minaccia e colpiscono la barriera fra loro. Il
congegno colorato non ha sempre la giusta angolazione perché Paul lo
possa vedere, ma quando riesce a dargli un’occhiata i suoi colori sono
molto rabbiosi e molto tristi.
È in lutto. Paul non è stato tenuto informato ma adesso si rende conto che
i compagni dell’umana sono morti o hanno subito qualche sventura.
Quella è una cosa che capisce.
Ricevere davvero una comunicazione dotata di significato da parte
dell’aliena è profondamente sconcertante e lo induce a vedere in lei un’altra
creatura vivente come non ha mai fatto prima. E può essere biasimato per
un simile pregiudizio? Cos’è quella creatura, dopotutto? Mostra le sue
parole attraverso una macchina, e questo è appropriato perché in essa tutto è
meccanico e sgraziato. La sua pelle è scura e muta, i suoi movimenti sono
bruschi e sgraziati, è stupida come un granchio o un pesce, sul suo esterno
non c’è niente che parli di intelligenza o di bellezza.
Ma nell’infuriare della sua rabbia, adesso che è sopraffatta dalle sue
emozioni, essa diventa reale per lui.
L’altro alieno, quello simile a un granchio, sta a guardare, poi comincia a
muoversi con le molte gambe che si agitano e danzano in una maniera che
non ha niente dei granchi. Paul capisce che sta cercando di mostrare
atteggiamenti, come se quelle gambe articolate fossero la sua Portata. Il
significato si trasmette malamente, ma è chiaro che si sta coordinando con
la compagna umana e che fra tutti e due c’è quasi mezza mente che parla
con lui.
Si calma, sentendosi padrone della situazione, meno estraniato dai suoi
compagni di prigionia. Anche loro si calmano; simili vette di emozione
sono aliene per gli alieni, non le possono mantenere a lungo come può fare
una vera mente. Paul esibisce a sua volta alcuni colori e gesti calmanti,
attaccandosi alla barriera e adocchiandoli entrambi. Essi rispondono nello
stesso modo. L’umana poggia un arto contro il vetro, con piccole appendici
articolate allargate. Quel gesto è stranamente familiare, quasi confortante,
anche se Paul non lo registra a livello cosciente come qualcosa che il suo
arcigrande creatore era solito fare.
Si rende conto con un sussulto che non sono soli. Un’osservatrice è scesa
furtivamente nella camera più lontana. Provando ora una strana solidarietà
con gli alieni, Paul le indirizza una rabbiosa sfilza di richieste, attirando
sulla nuova venuta l’attenzione degli alieni.
Lei si sposta avanti e indietro nella vasca di osservazione, con la pelle che
vibra di colori sommessi e pensosi, e nel suo atteggiamento qualcosa turba
Paul. Quando si abbassa fino alla consolle e comincia a fare domande agli
alieni, il suo Aspetto appare furtivo, astuto. Paul non riceve quello che la
sua Portata sta trasmettendo, ma lei è chiaramente qualcuno che ha
intenzione di servirsi di questi alieni. Sta facendo domande relative a... cose
proibite. Luoghi proibiti. Le cose a cui gli umani sono sempre collegati, e
molto probabilmente le stesse che hanno segnato la sorte degli amici di
questi alieni.
Loro però sembrano entusiasti di comunicare e i sentimenti ostili di Paul
verso la nuova venuta si intensificano. Non riesce a esprimerli con parole
concrete, ma la sua vita sociale è una di fazioni in mutamento costante e qui
c’è una fazione di cui non ha mai fatto parte: un gruppo che è ostracizzato,
escluso, ma che non se ne va mai. Gli ottopodi rifuggono dall’applicare
etichette inflessibili a qualcosa, ma il concetto umano più simile potrebbe
essere quello di Partito della Scienza Estrema.
Paul nutre una profonda diffidenza nei confronti di quel partito, ma allo
stesso tempo è in una gabbia e vuole essere libero, e se c’è qualcuno in
grado di rovesciare l’ordine costituito quanto basta a garantire la sua
liberazione, si potrebbe trattare proprio di quegli sperimentatori eretici e
anarchici. Quindi studia con attenzione la nuova venuta.
2

Helena ha ormai esaurito la rabbia e il dolore, e questo non le ha fruttato


niente, almeno per quel che può vedere. Gli inquisitori ottopodi sono andati
e venuti, hanno alternato tremolii di colore e ondulato rivolti a lei, mentre
cominciava a odiare le macchine nella sua testa che davano un minimo di
significato a tutto questo, anche solo quello tenue che i suoi programmi
riuscivano a estrapolare da quel fluido assumere atteggiamenti e sfoggiare
colori.
Portia ha cercato di aiutarla mentre lei formulava le sue vane richieste.
Voleva una missione di soccorso. Una ricerca di segnali. Voleva riparazioni.
Voleva... quello che voleva era che tutto questo non fosse successo, ma
nessuna tecnologia era abbastanza avanzata da realizzare il suo desiderio.
Aveva sfogato la sua rabbia sul tablet e Portia aveva danzato, seguendo gli
indizi posturali da lei raccolti che formavano una parte del sotto linguaggio
del canale di dati. Il corpo articolato di Portia si limitava a imitare la loro
comunicazione, un impacciato saltellare rispetto al continuo balletto degli
ottopodi, ma era pur sempre qualcosa. Aveva cercato di essere d’aiuto.
Adesso Helena siede sul pavimento della cella con il tablet sulle ginocchia e
le zampe anteriori di Portia le accarezzano la gamba con esitazione,
cercando di elargire un conforto da specie a specie. E Helena scopre che
non è abbastanza. Dovrebbe esserlo, ha vissuto fra i Portiadi per tutta la
vita, sono amici e colleghi che lei comprende, ma quello non è un contatto
umano, e prima d’ora non si era mai resa conto di quanto questo contasse
per lei.
L’altro ottopode, il prigioniero, era stato impegnato in una sorta di
confronto con un osservatore isolato e adesso ha ripreso a fissare Helena,
ma lei non ha più parole. I suoi discorsi si devono fondare sulle emozioni, e
lei le ha esaurite.
Infine Portia le batte sulla gamba con maggiore urgenza, e nel sollevare lo
sguardo lei vede che un’uscita a forma di iride si è aperta. Al di là
dell’apertura circolare c’è acqua illuminata da una luce azzurra. Un po’, sì e
no una secchiata, si rovescia sul pavimento della cella in un getto quasi
sprezzante, come se l’elemento si stesse facendo beffe di lei, ma il resto
rimane contenuto come dal nulla. Helena ricorda la bolla di membrana che i
locali avevano formato nello spazio come teatro per la loro sfortunata
missione diplomatica. Probabilmente quella tecnologia sarebbe
estremamente inefficiente con una trazione gravitazionale maggiore, ma
pare che qui in orbita i molluschi possano generare campi per sopraffare il
differenziale di pressione e la debole attrazione esercitata dalla stazione
stessa, tenendo fuori l’aria (o il vuoto) e dentro l’acqua.
Portia si avvicina con sospetto al portale. «Se questo significa che
possiamo uscire, non ci hanno riflettuto sopra a sufficienza.»
I locali però non hanno finito. Alla superficie dell’acqua sta succedendo
qualcosa che fa lacrimare gli occhi, il campo si deforma fino a creare una
mezza sfera d’aria nell’acqua. Due o tre cefalopodi sono venuti a osservarla
e lei può vedere anche a occhio nudo che le striature dei loro colori hanno
disegni correlati fra loro. I suoi algoritmi si mettono al passo e crede che le
stiano chiedendo/ordinando/suggerendo di entrare nella mezza sfera.
L’idea non piace molto né a lei né a Portia, ma allo stesso tempo non
hanno nessuna moneta di scambio, e in tutto questo sistema solare non c’è
niente che possa fermare i loro carcerieri, se vogliono annegarle,
schiacciarle o vivisezionarle. Helena vorrebbe dire a sé stessa che gli
ottopodi sono creature senzienti e razionali, e che di certo per loro è
impensabile macellare o comunque eliminare ambasciatori alieni, ma chi sa
cosa potrebbero fare? Inoltre, non dovrebbe smetterla di fare affidamento
sull’antropomorfismo come metro di misurazione di quello che possono
pensare menti aliene?
«L’altro prigioniero se n’è andato» riferisce Portia. «O forse non era un
prigioniero.» Muove ancora un po’ le gambe e solleva il paio anteriore
verso la porta in una manifestazione di minaccia nata dalla semplice e pura
frustrazione per la loro impotenza.
«Dobbiamo andare» decide Helena, in tono pesante. I loro ospiti devono
sapere che quella bolla d’aria non è necessaria per la loro sopravvivenza,
quindi è possibile che questo indichi un tentativo di mostrarsi ospitali? Si
spinge scalciando verso l’iride, afferrandosi alla parete appena prima di
oltrepassare la porta. Portia se la cava meglio di lei, atterrando con
precisione sull’orlo esatto, con un pedipalpo esteso nella cavità al di là
dell’iride.
«Tieniti a me» suggerisce Helena. «Per favore.» Non vuole essere
separata dalla sola compagna superstite, la sua amica di tutta una vita. Si
rimette il casco e Portia sigilla di nuovo la propria tuta con un meticoloso
affaccendarsi dei pedipalpi, poi il peso confortante del ragno si trasferisce
sulla spalla e sulla schiena di Helena, che aggancia due dita intorno
all’apertura e si spinge in avanti quanto basta per fluttuare fuori.
La bolla d’aria si nuove davanti a lei e si chiude alle sue spalle mentre le
gambe di Helena scalciano goffamente nell’acqua, attraverso la membrana,
per mantenerne l’andatura, scatenando un susseguirsi di increspature sulla
superficie che disperdono l’opaca luce azzurra. Trenta metri le bastano per
capire di essere nei guai. La vita a un basso livello di gravità non aiuta lo
sviluppo di una forte muscolatura, anche con tutti gli integratori del mondo,
e neppure le ha offerto molte opportunità di affinare la sua tecnica nel
nuoto. Ha qualche riserva nei jet della tuta, ma non la capacità necessaria
per utilizzarli nel modo giusto. Inevitabilmente perde la bolla e rotola su sé
stessa nell’acqua, sperando che questo non venga visto come un tentativo di
fuga o una violazione di qualche nebuloso confine. Avverte l’aggressività
manifestata qua e là dai loro ospiti, come una pressione fisica – di certo
qualsiasi cosa, o anche nessuna, potrebbe farli scattare e indurli a
distruggerla. Forse è già avviata a una qualche inutile esecuzione capitale.
Perché sono così? Come possono anche solo essere sopravvissuti, se sono
cosi? Oppure fra loro sono tutti amore e gentilezza, mentre sono la
personificazione della xenofobia nei confronti del resto della creazione?
L’acqua comincia a scorrere più rapida, le fa rotolare ripetutamente su
loro stesse finché si trovano scagliate attraverso un tubo privo di finestre,
trasportate da qui a là da padroni distratti e impazienti; poi la velocità si
riduce, la pressione dell’acqua aumenta davanti a loro per portarle a
fermarsi in modo da poter essere depositate, quasi con delicatezza, dentro
una bolla grande a stento abbastanza per tutte e due, le cui pareti dure e
limpide sono di plastica.
Siamo ancora in quarantena.
Dietro di lei, il tubo si è sigillato e ritratto, senza dubbio per essere
sterilizzato.
Ai loro occhi siamo ancora infette, oppure non vogliono correre rischi.
Helena cerca di raddrizzarsi ma la sacca d’aria non le ha accompagnate e
nell’acqua non ha nessuna percezione dell’alto e del basso. La loro piccola
capsula è sospesa, senza supporti, nel centro di una grande stanza sferica,
con un centinaio di cefalopodi che fluttuano su ogni lato oppure si tengono
aggrappati a guglie contorte e colonne che sporgono dalle pareti. Portia le
sta grattando la spalla per attirare la sua attenzione verso il loro unico punto
di riferimento: un terzo della camera è una vasta finestra ricurva che si
affaccia sulle stelle, su altri frammenti di detriti toccati dal sole, su catene e
agglomerati di globi dalle pareti di cristallo che ruotano gli uni intorno agli
altri come il planetario meccanico di un folle, sparsi fin dove riesce a
spingersi l’occhio umano.
«Oh» dice, fissando quello spettacolo, che per un momento cancella ogni
altra cosa, la sua perdita, i loro carcerieri. Se soltanto potesse esprimere a
parole la meraviglia, quali colori il suo tablet mostrerebbe alla folla che li
osserva? Ma è muta, e il momento passa.
‘Ci parlano?’ Portia non può comunicare liberamente nell’acqua, senza
una superficie su cui posarsi, quindi compone laboriosamente i messaggi
con i pedipalpi, lasciando che siano i suoi impianti a tradurre. Helena sposta
lo sguardo dai suoi occhi rotondi e pensosi alla schiera fluttuante e litigiosa
che le circonda. Di certo ci sono molte conversazioni in corso fra gli
ottopodi, ma non è sicura che in esse ci sia qualcosa diretto a loro. Si
limitano a parlare, o forse soltanto a provare emozioni, e quelle emozioni
diventano linguaggio senza essere davvero ancorate a un qualche
significato... la linguista in Helena è quasi in lacrime per la frustrazione.
Era tutto così facile, con Kern e i Portiadi. Non abbiamo mai immaginato
tutto questo.
Tuttavia, è pur sempre una studiosa per vocazione e attiva il suo software,
cercando di ricavare schemi dalla folla che la circonda, ed è come cercare di
trarre frasi che abbiano senso da migliaia di persone che urlano tutte con
quanto fiato hanno in corpo.
‘Fazioni’ suggerisce Portia, ancora aggrappata alla sua schiena e godendo
del vantaggio di poter guardare contemporaneamente in parecchie direzioni.
‘Fluide’.
Helena annuisce, troppo impegnata ad analizzare le informazioni per
replicare. Gli ottopodi sono divisi, ma ogni partito ha un continuo ricambio
di membri – conquista sostenitori un momento, ne perde a fiotti quello
successivo – e tuttavia le cose continuano a progredire anche se nell’arco di
venti minuti una determinata fazione può subire un completo cambiamento,
senza che rimanga nessuno dei suoi membri originali; nonostante questo la
sua tesi, quale che fosse, viene portata avanti dai soggetti, quali che siano,
che adesso la compongono. Stiamo assistendo a uno scontro di meme. C’è
un’antica espressione della Vecchia Terra a cui Kern usava riferirsi ogni
tanto: se tutte le parti di una barca vengono sostituite, si tratta ancora della
stessa barca? Probabilmente Kern avverte più di chiunque altro l’impatto
filosofico di quel dilemma, ma qui c’è un’intera società che abbraccia con
esuberanza quel concetto, o almeno così sembra a Helena.
A parte questo, tuttavia, non è difficile vedere che la maggior parte dei
punti di vista espressi intorno a lei sono irosi, pieni di colori aggressivi: toni
di rosso e di viola, il bianco della paura, quelli che sono di gran lunga i
sentimenti più facilmente traducibili in cui si è imbattuta. Comprende anche
che sono diretti a lei e a Portia.
Allora consideralo uno sfondo, dice a sé stessa, configurando il suo
software mentale perché faccia proprio questo. Che altro c’è?
Portia è già più avanti di lei, o forse è più brava ad analizzare schemi in
quel caos. Alcuni sono più silenziosi. Visivamente silenziosi, ovviamente,
ma al contempo lei segnala piccoli gruppi a beneficio di Helena,
sottosistemi di diversi colori che si muovono come vene in quella folla
inquieta. Quando degli individui si incontrano, ci può essere una lotta breve
e improvvisa o un tremolare di colori complessi, ma sono tutti rivolti
interiormente, e molti sembrano sfoggiare colori irosi finché non si verifica
uno di quegli incontri, salvo poi tornare a sfoggiarli subito dopo.
È come una quinta colonna, pensa, e questo naturalmente presenta un
intero nuovo livello di difficoltà linguistica perché suggerisce che quei
colori possano essere esibiti per finta, al bisogno, ma significa anche che
fingono le relative emozioni oppure...
Helena ha la sensazione che il cervello stia per scoppiarle. Basta
rivelazioni. Lasciami venire a patti con quello che ho.
Ma l’universo non ha intenzione di accontentarla. Non si era resa conto
che l’ambiente circostante stava ruotando, ma proprio quando sente di non
poter aggiungere altro carico mentale senza affondare, il pianeta comincia
lentamente a entrare nel suo campo visivo sotto/sopra/davanti a lei, mentre
il suo bordo ricopre lentamente la grande finestra.
Le esibizioni furiose degli ottopodi sembrano calmarsi in qualche misura,
o forse diventano più uniformi. Sono tutti spaventati, tutti pieni di disgusto.
Qualsiasi sfumatura di umore o di comunicazione si mostra soltanto come
un tremolio lungo il contorno del loro manto.
Cominciano ad apparire schermi secondari, che si allargano come
pozzanghere lungo la superficie concava da punti intorno alla finestra,
mostrandole immagini ingrandite del mondo sottostante, e Helena
comprende che questo è un dramma che stanno mettendo in scena apposta
per lei. Le stanno mostrando qualcosa per vedere le sue reazioni, ma non
nella sua cella, non in condizioni di laboratorio. Vogliono fare di questo una
grande opera a suo beneficio, il quinto atto di una tragedia.
Il mondo sottostante è chiazzato, gli oceani sono striati e fangosi, coperti
da un viscido strato di scuri colori oleosi. Su molte delle finestre secondarie
ha una visione chiara della superficie, del perenne succedersi delle maree,
spumose di residui organici, pullulanti di... vita? Di certo laggiù qualcosa si
muove. C’è un agitarsi frenetico lungo la cresta di ogni onda, come se la
spuma stessa del mare fosse animata. Poi altre finestre le mostrano cose più
grandi, vaste e prive di forma, come carcasse putrescenti di leviatani. Cerca
di capire le loro dimensioni sulla base di quelle delle onde, facendo
affidamento sulla costanza della fisica dei liquidi. Pensieri di enormi bestie
marine diventano pensieri di isole, di arcipelaghi, di masse di terra. Guarda
una colossale massa piatta di fango contorcersi, tremare e protendersi verso
il suo punto di osservazione con tentacoli e arti che tornano a dissolversi
nella fanghiglia nel momento stesso in cui prendono forma. Poi, appena per
un momento, c’è qualcosa che sembra una faccia, un volto umano, o forse
parecchi, perché i lineamenti si confondono e si mescolano. Vede labbra
aprirsi, la faccia abbozzata cercare di vomitare qualcosa che abbia
significato prima di collassare e di tornare a essere un nulla informe.
Portia ha effettuato alcuni calcoli e le trasmette una valutazione delle
dimensioni. Quattro chilometri dal mento alla fronte, a meno che non ci sia
qualcosa di sbagliato nelle onde. E naturalmente c’è qualcosa di sbagliato,
non solo nelle onde ma in tutto quanto. Il pianeta è stato sopraffatto da una
ribollente pandemia che non lascia niente se non sé stessa. Questo è ciò che
gli ottopodi temono, quello che è venuto dall’altro pianeta. È quello che i
suoi compagni sono andati a scoprire ed è il motivo per cui gli ottopodi, o
una qualche loro intraprendente fazione di custodi, li hanno distrutti. In quel
momento lei può soltanto condividere passivamente quel sentimento.
3

Fabian è scivolato in uno stato di fuga. Succede a entrambi i sessi, anche


se tacitamente le Portiadi la considerano una condizione dei maschi,
nonostante secoli di cambiamenti sociali. C’è stata una grande quantità di
calore, che i ragni non riescono a smaltire con la rapidità dei mammiferi, e
anche un sacco di rumore e di movimento che gli sono parsi la voce tonante
di un dio. C’era paura. Nel complesso, quel carico sensoriale ha
semplicemente mandato in sovraccarico il suo senso dell’Io e lui ha cessato
per un po’ di essere Fabian. Quando sono in stato di fuga, alcuni Portiadi
corrono in giro come impazziti, ma Fabian ha la sensazione di essersi
immobilizzato, aggrappato a una parete che adesso è il soffitto.
Sono giù.
Non riesce ancora a elaborare con esattezza cosa questo significhi. Sente
lo stato di fuga aleggiargli intorno in attesa del momento per colpire, e
assaporare la relativa quiete lo tiene a bada. Questo gli basta per riflettere
che c’è una quantità di forza gravitazionale leggermente sgradevole che
sembra in tutto e per tutto vera gravità e non la sua sorellastra generata dalla
rotazione. Niente di tutto questo ha senso, ma lui si trattiene dall’essere
troppo analitico per paura di trovare risposte che non gli piaceranno. Non
che qualsiasi risposta abbia una qualche probabilità di essere gradevole,
riflette.
Meshner, trasmette, scoprendo di poter accedere ai canali di
comunicazione della nave. Non riesce a percepire Kern, il che significa che
niente di quanto ha da dire può avere il minimo significato per il suo
compagno umano.
E naturalmente Meshner non è lì. È andato sulla stazione orbitante. È
perduto.
Il senso di fuga lo aggredisce. Prima di questo, non aveva più avuto altri
attacchi per molti anni, ma quando era a una o due mute dall’età adulta ne
aveva sofferto spesso. Nei tempi antichi questa sarebbe stata una sentenza
di morte per un maschio, che sarebbe stato ucciso per irritazione o per
divertimento, o sarebbe morto di fame perché non poteva rendersi utile
come ci si aspettava dai maschi. Adesso vivevano in tempi più illuminati, e
un piccolo handicap veniva semplicemente riconosciuto come tale, perfino
in un maschio.
Questa volta lotta contro l’insorgere della crisi. L’attraversa e ne emerge
perché dimenticare Fabian, per quanto possa essere confortante, significa
dimenticare Meshner e questo vorrebbe dire rendere un ben misero servigio
al suo collega e soggetto di esperimenti.
Si sta già chiedendo se ci possa essere un modo di recuperare l’impianto.
Sa che sono pensieri freddi, ma... è la scienza.
Si aggrappa a questo pensiero e ristabilisce gradualmente la comprensione
di quello che è successo. La fuga lo aggredisce parecchie altre volte perché
(come sospettava) niente di quanto appura e anche remotamente
incoraggiante.
La sezione dell’equipaggio della Lightfoot è molto più rotonda di
com’era, con le pareti rinforzate, un particolare che riconosce dalle
esercitazioni fatte sul Mondo di Kern. La loro camera è stata trasformata in
una capsula di emergenza, con le pareti inspessite fino a diventare robuste
pur rimanendo cedevoli e flessibili, in grado di attutire gli impatti e di
liberarsi dal calore. Per ora non si sa cosa sia rimasto del resto della nave.
Non trova Kern sul suo personale menu di comunicazione e non sa bene
come avviare un controllo dei danni senza il computer. È possibile che
questa capsula contenente due Portiadi sia tutto quello che rimane. La luce è
azzurrina, derivante da sostanze chimiche che si sono mescolate,
provenienti da riserve infrante quando la camera si è riconfigurata nella
struttura di emergenza. Forse non c’è energia, il che significa che il
perdurare della qualità respirabile dell’aria sarà un problema.
Viola è presente, si sta fasciando e per lo più lo ignora anche se sono
letteralmente rimasti solo loro due. Ha due zampe spezzate, la terza e la
quarta sulla sinistra, e sta sigillando alcune fratture dell’esoscheletro prima
che la sua struttura interna perda troppi fluidi. Fabian avverte un intenso
bisogno di chiederle cosa è successo e cosa bisogna fare, ma lo respinge
con irritazione, considerandolo il risultato di una vita di condizionamento
sociale. Quell’irritazione lo completa, lo fa tornare del tutto sé stesso, e lui
fa il quadro della situazione.
Sono stati attaccati e le misure difensive della Lightfoot erano inadeguate
a proteggerlo dallo sbarramento a lungo raggio che li ha colpiti subito dopo
il primo avvertimento. Questo porta ad alcune sgradevoli conclusioni, fra
cui che (1) sulla base del primo scontro, i locali sono stati in grado di
analizzare e di neutralizzare le capacità di individuazione e di esecuzione di
manovre evasive da parte di Kern; (2) i locali avrebbero potuto
efficacemente distruggere la Lightfoot in qualsiasi momento dal suo
avvistamento, e a qualsiasi distanza, e forse è stata solo quella loro bizzarra
divisione in fazioni che ha rimandato l’azione tanto a lungo.
D’altro canto, lui e Viola – quantomeno – sono ancora decisamente vivi.
Fabian contrassegna la cosa come un sostanzioso punto a favore.
Da un altro canto ancora, è evidente che non sono più nello spazio. In
effetti, il solo posto dove possono ragionevolmente trovarsi è la superficie
del pianeta intorno al quale erano in orbita, e adesso Fabian conosce una
notevole quantità di cose in merito alla biologia di questo mondo alieno,
così come sa anche – pur non disponendo di un meccanismo che lo possa
spiegare – che su questo mondo qualcosa ha la capacità di infettare forme
di vita nate sulla Terra.
Noi rimaniamo inviolati, afferma Viola, senza girare su di lui gli occhi
principali o sospendere le pazienti cure che sta elargendo a sé stessa. Fabian
ne deduce che i suoi piedi hanno tradito i suoi pensieri.
Di nuovo, si rifiuta di chiedere semplicemente ordini o rassicurazioni, e
cerca invece di ricavare qualcosa dai pannelli e dalle consolle nonostante la
totale mancanza di energia. Il disprezzo di Viola gli fa rizzare i peli
sull’addome, ma poi conosce un momento di trionfo quando la nave vibra
intorno a loro e dati ridotti al minimo appaiono su alcuni degli schermi.
Sono stato io a farlo?, si chiede, sorpreso per un momento dalle proprie
capacità, un entusiasmo subito seguito dalla rassegnata constatazione: No, è
Kern.
Per un lungo, spaventoso momento non c’è altro, come se questo
frammento della mente brillante della dottoressa Avrana Kern si sia ridotto
soltanto a stupidi numeri, ma poi lei parla loro direttamente nei sistemi di
comunicazione individuali. Per i sensi dei Portiadi, la sua voce può essere
una cosa espressiva, di una ricchezza fantastica – del resto parla con loro da
molto più tempo di quanto abbia mai parlato con la sua stessa razza – ma al
momento è priva di qualsiasi qualità, una mera trasmissione di
informazioni, segno che è danneggiata o occupata a vedersela con i danni.
Sì, la sezione dell’equipaggio è intatta. Localizzata la sezione della
quarantena, che risulta danneggiata. L’energia è al minimo, ma è in fase di
ripristino. Supporto vitale adeguato, ma in fase di ripristino. Abilità
motoria, nessuna. Abilità di fabbricazione nessuna, ma sto indagando.
Fabian e Viola si scambiano un’occhiata in tralice, qualcosa che la loro
struttura fisica permette di fare in modo unico.
Sezione della quarantena?, chiede lui, timidamente, perché ha controllato
e la Lightfoot non ne aveva una.
Zaine, afferma Viola, e avanza zoppicando: non ci saranno salti nel suo
immediato futuro, finché non potrà fabbricarsi delle protesi. Naturalmente,
ha ragione. Al contrario del povero Meshner, Zaine era tornata sulla nave
ma era stata messa in quarantena per paura di particelle volatili di quello
che c’era sulla sua tuta, qualsiasi cosa fosse. Stava avviando, o era sul punto
di avviare, la decontaminazione quando c’era stato l’attacco.
La sezione di quarantena riferisce una riduzione di energia e il pericolo
di perdita dell’integrità strutturale. Zaine Alpash Vannix è viva. Ricevuto
richiesta di sostituzione della tuta ambientale e di recupero. Unità
Artifabian non individuata. Nessun’altra unità meccanica è disponibile.
Naturalmente, anche Artifabian era nella sezione di quarantena, e il fatto
che Kern non si possa collegare con lui non fa presagire bene per
l’assistente alla ricerca di Fabian. Viola però lo sta adocchiando, e lui è
consapevole che al momento ha abbandonato il tradizionale ruolo
femminile audace e avventuroso, anche se la sua valutazione è che
probabilmente non avrebbe comunque colto quell’occasione di dimostrare il
suo valore. Per temperamento, Viola non è né avventurosa né audace, e nei
tempi antichi avrebbe avuto una schiera di maschi che si affaccendavano
per assecondare ogni suo capriccio, specialmente qualsiasi cosa connessa a
un consumo di energie o all’assumersi dei rischi. Quantomeno, questi sono
gli amari pensieri di Fabian mentre indossa l’ingombrante tuta protettiva
completa che Viola gli ha trovato. La maggior parte delle tute ambientali
dei Portiadi si concentra su quelle parti dell’esoscheletro che danno accesso
agli organi interni ma Fabian è più che lieto di negare alla biosfera ostile
che c’è all’esterno qualsiasi accesso al suo corpo.
Usando la maggior parte dell’energia che ha accumulato, Kern rimodella
una sezione dello scafo a formare un’angusta camera stagna, lo lascia
entrare e poi apre il portello esterno. Fabian controlla i dati: sì,
probabilmente c’è abbastanza energia per la transizione nell’altro senso,
probabilmente i ripulitori dell’atmosfera e i generatori riusciranno a
resistere all’attrito, se dovranno entrare e uscire alcune volte.
Probabilmente. Kern si mostra spaventosamente vaga su argomenti riguardo
ai quali lui preferirebbe che un computer fosse rigoroso e preciso.
Ripristino delle funzioni più complesse?, chiede senza troppo tatto.
Sto benissimo, grazie. La risposta di Kern è acida, decisamente un
assaggio dei suoi modi abituali, e quindi infinitamente rassicurante. Sto
lavorando per tenervi tutti in vita. Ma, prego, continua a distrarmi.
Fabian esce.
I dati forniti dalla sua tuta protettiva (che ha una sua alimentazione e
sembra quasi dolorosamente allegra nei suoi rapporti entusiastici,
paragonata all’acida, ferita Kern) gli dicono che l’atmosfera è rarefatta e
carente di ossigeno (un problema maggiore per Fabian che non per un
umano, ma del resto non ha comunque nessuna intenzione di respirarla), e
lui attribuisce la cosa almeno in parte all’altitudine, perché i resti della
Lightfoot sono caduti su un altopiano montuoso, e in una direzione il
terreno scende a picco verso lontane valli caliginose. Manda una rapida
descrizione a Kern, che risponde: Ho selezionato un punto di atterraggio
che pareva isolato e anche lontano dalla posizione della precedente colonia
umana su questo pianeta, nella speranza che la minaccia da loro affrontata
fosse locale. Usa il termine ‘atterraggio’, il che è rassicurante.
A circa mezzo chilometro c’è una massa afflosciata di materiale dello
scafo, in parte disfatto in grandi mucchi di filamenti, che costituisce la
sezione di quarantena. È chiaro che per essere tanto vicina deve essere
venuta giù attaccata al resto della nave, ma poi si è staccata oppure è stata
espulsa intenzionalmente. Fabian esamina con attenzione il terreno che lo
separa da essa, perché quell’altopiano non è privo di vita. Il suolo è
crivellato di depressioni e ciascuna di esse contiene qualcosa di simile a una
medusa a nove gambe rovesciata sul dorso, o forse un fiore dalla
consistenza del cuoio. La faccia che presenta alla pallida luce solare è così
uniformemente nera da dare l’impressione di un foro nell’oscurità dello
spazio, i fianchi e il lato inferiore, dove i filamenti si sono leggermente
ripiegati, sono ruvidi e di un arancione polveroso. Quelle cose si muovono
appena, inclinandosi e flettendosi con movimenti estremamente lenti per
sfruttare al massimo la luce. Fra le depressioni ci sono gruppi di esemplari
di dimensioni molto minori che Fabian decide essere dei piccoli, ma per
quello che ne sa potrebbero anche essere maschi vagabondi in cerca di una
compagna o fuchi di alveare al servizio della loro regina sessile. Quelle
piccole stelle strisciano sulla nuda roccia con un’andatura che farebbe
ridere di scherno una lumaca.
L’idea di quel tragitto non gli piace per niente, ma un momento più tardi
sta correndo follemente verso la sezione di quarantena, superando con un
salto qualsiasi cosa vivente sul suo percorso. Ha quasi raggiunto la meta
quando un’ombra lo sovrasta e lui si spaventa nel registrare con gli occhi
superiori una cosa lunga che sembra un aquilone abbandonato a sé stesso e
che si sposta nel cielo sopra di lui. Calcola che deve essere lunga circa venti
metri, più che abbastanza per trasformare in un pasto qualsiasi Portiade o
Umano, se dovesse averne voglia. Come le meduse, però, non gli presta
nessuna attenzione: forse anche il suo lato superiore è un collettore solare e
forse la sua vita è un continuo, ottuso esporsi al sole, seguendolo lungo la
circonferenza del pianeta.
O forse non è così. Prima di mettere piede sulla superficie credeva di
conoscere abbastanza bene la biologia locale sulla base dei diari registrati
da Lante, ma c’è un mondo di differenza fra il sentire le analisi di una
scienziata riguardo alla formazione delle proteine e alla struttura cellulare, e
il trovarsi su un mondo alieno, vedendone con i propri occhi gli abitanti
altrettanto alieni.
Nel raggiungere la capsula della quarantena gli viene da pensare che
questo è la Comprensione che lascerà in eredità alla sua specie, se dovesse
sopravvivere. Lui è il primo Portiade a essere lì, a vedere queste cose. Il suo
genio scientifico può andare perduto, ma questo momento di paura e di
meraviglia sopravvivrà.
Se ci avesse pensato in anticipo, avrebbe formulato pensieri coraggiosi e
meritevoli per tutto il tempo, invece dei sussulti da panico a cui ha lasciato
briglia sciolta.
Trova un accesso alla capsula, ma ha bisogno di sapere quali sono le
condizioni all’interno. Sperando che a Zaine sia stato detto di aspettarsi il
suo arrivo, si collega al sistema di comunicazione interno.
Arrivato. La tua situazione?
Hai una tuta?
Naturalmente ce l’ha, e lo conferma.
Aprirò il portello piccolo, è il messaggio successivo, perché non ho
energia per fare di più. Metto la tuta. Aspetta.
Si rende conto che sta ricevendo una comunicazione in portiade, non
tradotta, cosa che sembra precoce da parte di Zaine, ma le istruzioni sono
sensate e lui le segue.
Tuta attivata e pronta stiamo uscendo.
Fabian indietreggia un poco perché non sa bene con chi o cosa stia
parlando. Si tratta di Kern? Non somiglia al suo modo di parlare abbastanza
da ispirare confidenza. Poi la parete della sezione di quarantena si apre e lui
capisce appena prima che la risposta risulti ovvia: Artifabian, ma un
Artifabian che non si collega in modo adeguato al suo sistema di
comunicazione e adopera invece la trasmittente manuale nella sezione bassa
del corpo. Poi il muro si gonfia in fuori e una figura in tuta si accascia
all’esterno: è Zaine, ma è chiaro che non è cosciente e non sta bene. Fabian
trova difficile analizzare le lesioni umane anche senza l’intralcio di una
tuta: sono così carnosi e incompleti, con tutti i loro organi intrappolati fra il
duro scheletro e i pericoli del mondo esterno!
Come sta?, tamburella a beneficio di Artifabian, e il robot risponde
esattamente come potrebbe fare un altro Portiade maschio, incluso il
linguaggio del corpo.
Siamo rimasti entrambi danneggiati nell’atterraggio. È viva, ma ha
riportato lesioni. Dobbiamo procurarle un aiuto più sostanzioso.
Nonostante l’emergenza medica, Fabian è affascinato. Il robot se ne sta lì
proprio come la cosa che finge di essere, muovendo i pedipalpi in un
indolente schema ripetuto perché per i Portiadi rimanere troppo immobili è
un atteggiamento pieno di valenza emotiva, da predatore o da preda. Quel
casuale agitarsi è il loro sorridere e annuire, un rinforzare a basso livello i
loro contratti sociali spesso tesi. Ovviamente, simulare un Portiade è lo
scopo dell’esperimento che Kern sta facendo con Artifabian, ma esso pare
essersi dimenticato di simulare Kern. Il suo rivestimento è ammaccato in
molti punti, una gamba è storta ma è chiaro che ci sono stati alcuni danni
più profondi che hanno dato risultati inaspettati. Lo scienziato che è in
Fabian muore dalla voglia di studiarlo, ma hanno altre priorità.
Due Portiadi potrebbero, a stento, essere in grado di spostare un Umano,
ma non su un terreno accidentato e in modo da mantenere l’integrità della
tuta di ciascuno. Per fortuna il problema si risolve da sé quando un drone
cingolato si avvicina dal corpo principale della nave schiantata, che adesso
somiglia più che altro a una gigantesca tenda afflosciata. I suoi cingoli non
sono clementi con le cose simili a meduse su cui passano, lasciando sulla
loro scia un colare di icore scuro, ma il drone ha un pianale su cui possono
almeno issare il torso di Zaine; per tacito assenso le ripiegano le braccia sul
petto e la afferrano ciascuno per una gamba, mentre il tutto dà la sensazione
di essere una qualche orribile farsa.
A metà strada dal corpo principale della Lightfoot – che adesso non è
degna di questo nome – Fabian scopre che, naturalmente, l’ecosistema del
pianoro non è una monocoltura, dato che qualcosa è venuto a indagare.
Si muove rapidamente, cosa che di certo crea un contrasto con le meduse.
Appare nel loro campo visivo dal lato del precipizio, dopo averne scalato il
lato o forse essere asceso dal suo nido. È... Fabian non trova un immediato
paragone. La cosa ha un corpo globulare e un certo numero di arti che
sembrano pneumatici, per cui procede con scatti barcollanti, con gli arti
posteriori che si gonfiano e la spingono in avanti, una pausa mentre si rende
conto di dove è andata, poi un altro scatto improvviso. Le cose simili a
meduse reagiscono alla sua presenza ripiegando gli arti con penosa lentezza
per nascondere la loro parte vulnerabile fotosintetica a quello che pare
essere un predatore.
Fabian si è paralizzato, ma viene trascinato in avanti quando il drone
cingolato continua a muoversi. Naturalmente il predatore registra il loro
movimento – Fabian non è certo se possa davvero vedere – e si scaglia
verso di loro, con gli arti che passano da rigidi a flaccidi e viceversa per
spingerlo verso di loro. Le sue dimensioni sono simili a quelle di Fabian, il
che significa che il suo corpo è più piccolo di una testa umana e
l’estensione dei suoi arti, se tesi al massimo, deve essere di circa un metro e
mezzo. Fabian fa la sola cosa che gli viene in mente ed elargisce al mostro
alieno una manifestazione di minaccia completa, con gli arti sollevati per
rendersi il più grosso possibile e i pedipalpi che vibrano mentre danza
avanti e indietro.
La cosa aliena si arresta in modo improvviso e brusco, e Fabian vede che
il suo corpo è tempestato di spirali e di depressioni che presumibilmente
fungono da organi dei sensi. Con esitazione essa agita contro quel visitatore
aracnoideo in tuta venuto da un altro mondo alcuni tentacoli in parte
rigonfi, e Fabian si solleva ancora più in alto, quasi rovesciandosi
all’indietro nella sua minuscola ferocia. Miracolosamente, la cosa sembra
recepire il messaggio e si allontana con aria alquanto cupa per andare a
molestare una delle meduse schiacciate.
Quando entrano nella camera stagna della Lightfoot e Viola avvia la
complessa logistica per preservare la quarantena, pur riportando tutti dentro
sani e salvi, Fabian si guarda alle spalle e vede una dozzina di quelle cose
gommose che si stanno nutrendo delle meduse che non si sono
raggomitolate in tempo e anche di una bestia del tutto diversa, che fa
pensare più che altro a un ananas ambulante. Nessuno di loro presta la
minima attenzione ai visitatori venuti dal cielo.
Una volta consegnata Zaine sana e salva, Fabian decide di esaminare
meglio i dintorni, perché è chiaro che la Lightfoot non andrà da nessuna
parte nell’immediato futuro, e tramite le comunicazioni si tiene aggiornato
sulla situazione all’interno. Zaine è stata liberata dalla tuta e posta in una
sezione sigillata insieme ad Artifabian, che si sta ora coordinando con una
parte dell’attenzione di Kern per curare nel miglior modo possibile le sue
lesioni, ma continua a rifiutarsi di collegarsi al computer madre o non è in
grado di farlo.
Le risorse di Kern sono dirottate altrove. Presumibilmente non ha
l’energia o la concentrazione necessaria per entrare nel robot e riportarlo
all’ovile, per cui deve lasciare che continui a esprimersi con il movimento
dei piedi, perso nella sua falsa identità di Portiade maschio.
Fabian si sposta intorno al perimetro della nave schiantata, scavalcando
meticolosamente grossi rotoli di materiale dello scafo. Sul lato lontano
dall’orlo del pianoro il terreno sale bruscamente e lo induce a pensare a
possibili grotte, e magari a grosse cose che potrebbero vivere al loro
interno. Da quella parte il terreno è molto accidentato, sollevato in blocchi e
speroni da un’attività vulcanica che si spera essere ormai lontana. O forse
non è attività vulcanica... Fabian cerca di adattarsi a quello che sta vedendo,
ma Kern ha un annuncio.
Ho un contatto di comunicazione a lungo raggio.
Con gli ottopodi?, chiede Viola, perché i locali hanno dimostrato
un’ampia gamma di possibili risposte, fra le quali figura di certo il tornare
indietro per finire il lavoro.
Ho droni ancora in orbita. Ne ho configurato uno come stazione
ricetrasmittente e sarò in grado di inviare un segnale che arrivi fino alla
Voyager, afferma Kern, in tono più animato di prima, richiamando dai loro
numerosi incarichi le sue risorse sparse. Inoltre ho stabilito il contatto con
la stazione.
Non vogliamo contattarla, dichiara con enfasi Viola,
Sì, invece, ribatte con forza Kern. Ho stabilito un contatto con Meshner.
Fabian sussulta al pensiero perché non è certo che sia rimasto un
‘Meshner’ da contattare. Lassù però ci potrebbe essere qualcosa che porta la
sua faccia e l’idea lo turba quasi quanto farebbe con un Umano. Si prepara a
dare a tutti il suo parere, che di certo sarà ignorato, poi i suoi arti si
immobilizzano mentre lui fissa qualcosa, arrivando infine a elaborare di
cosa si tratti.
Come gli Umani, anche i Portiadi sono molto bravi a trovare schemi
anche là dove non ce ne sono. Come scienziato, Fabian ha cercato di
imparare a evitare questo comportamento, che non è tanto madre di
ispirazione quanto di falsi positivi. Di conseguenza, gli ci è voluto troppo
per accettare che quello che sta vedendo non è affatto strana geologia.
Un momento più tardi si precipita attraverso la camera stagna e irrompe
nella camera dell’equipaggio, senza tuta, le gambe che si agitano fulminee
mentre cerca di riferire le sue notizie.
Fuori, su per il pendio, là!, balbettano i suoi piedi, rivolti a Viola; e poi,
più controllato: C’è una città.
4

Helena e Portia sono state riportate nella loro cella, ma hanno la


sensazione che i loro carcerieri non siano arrivati a una decisione.
Altro antropomorfismo.
Helena aveva cercato una narrazione comprensibile nei disegni della loro
pelle e nei movimenti, una sensazione che attraverso quel visibile dibattito
il loro parlamento si stesse avviando a un qualche tipo di conclusione
razionale, ma poi si era resa conto che perfino gli Umani e i Portiadi
potevano non presentare un quadro così ordinato nel prendere le loro
decisioni. Poteva essere così perfino per un singolo individuo. Cos’era una
decisione, dopotutto? Helena conosce la ricerca meglio della maggior parte
delle persone; ci sono scienziati portiadi secondo i quali la mente è come un
nido di formiche, neuroni individuali che, come le operaie, soppesano ogni
lato di un determinato problema finché non si arriva a un punto culminante
e il cervello, o la colonia, pensa: Ho preso una decisione ed ecco (post
facto) le mie motivazioni razionali. Vista sotto questa luce, la civiltà degli
ottopodi non è forse poi così diversa dalla sua, solo che invece
dell’autoinganno del determinismo di Umani e Portiadi, loro sono a proprio
agio con la loro malleabilità.
Troppo precisi, troppo sintetici per esseri fisicamente malleabili? Ecco di
nuovo l’antropomorfismo; alla fine non riesce a evitarlo, è parte di quello
che la rende un’Umana. Si chiede se i loro ospiti vedano i loro angolosi
prigionieri con... cosa? Cefalopodomorfismo? E che magari li compatiscano
per la loro mancanza di espressione? Adesso Helena è abbastanza onesta da
sapere che la sua mente sta solo lavorando senza arrivare a niente.
A quanto pare il prigioniero ottopode se l’è cavata meglio – o peggio – di
loro, perché la camera vicina è vuota. Oppure si sta solo nascondendo là
dentro, mimetizzato al punto che non riesco a vederlo?
Con una rapidità quasi comica, prima che l’una o l’altra di loro abbia fatto
qualcosa di più dal cominciare a togliersi la tuta, vengono invitate a
muoversi di nuovo. La stessa bolla, gli stessi tubi, ma adesso finiscono in
una camera più piccola, piena d’aria ed equipaggiata con quello che è
riconoscibile come un terminale del Vecchio Impero, tranne per il fatto che
è chiaramente nuovo di zecca e alquanto raffazzonato, come se gli ottopodi
avessero tentato seriamente di duplicare qualcosa che conoscono solo
tramite antichi documenti. Ci sono anche cose simili a sedie, nel senso che
hanno in linea di massima la forma giusta ma è impossibile sedersi senza
lottare di continuo per mantenere l’equilibrio. C’è... c’è un’immagine in
mostra su una parete, che cerca disperatamente di essere l’illustrazione di
un umano, per un umano. È possibile che nelle intenzioni si tratti di Disra
Senkovi, un modello umano positivo che funga da ponte fra due specie
molto diverse. Un critico d’arte di tempi ora lontani potrebbe descrivere il
risultato finale come cubismo, quasi che il suo autore stesse cercando di
mostrare l’uomo da lati multipli e in momenti multipli, tutto in una sola
immagine.
C’è almeno una dozzina di ottopodi che la osserva da una camera vicina, e
la maggior parte si libra al di sopra di quelle gommose interfacce organiche
da loro utilizzate. Uno è nel centro, in prima fila, e ha la pelle più pallida
degli altri, con toni rossi che tremolano lungo i contorni del manto: disagio,
paura.
«Quello è il prigioniero» sono le parole tradotte di Portia.
«Ne sei sicura?»
«In buona parte. Oppure è uno che ha adottato lo... stato mentale del
prigioniero. Però credo si tratti di lui. Gli altri sono tutti uniti da un qualche
stato di pensiero o di intesa, ma lui no. E vogliono che ci parli.» In effetti,
sembra che sia proprio così, a giudicare dalla posizione centrale, in prima
linea, assegnata alla creatura dall’aria afflitta. Perché selezionare proprio lui
per quell’onore, a meno che non avesse appena un po’ più di esperienza
degli altri nel parlare con gli alieni in quanto loro bistrattato ambasciatore?
Adesso ha alcuni tentacoli su una delle consolle e le manipola
sporadicamente mentre i colori cominciano ad affiorargli cupi sulla pelle.
L’impressione iniziale è di disinteresse ma Helena reinterpreta la sua posa
come una che permetterà alla creatura di schizzare via, in ritirata, se
minacciata: forse essa trova la cosa mentalmente rassicurante.
Poi arriva la traduzione, nella misura in cui è possibile, e Helena guarda
affascinata gli altri ottopodi suggerire, chiacchierare e litigare fra loro e con
l’ambasciatore, la cui pelle e le cui braccia infine le rivolgono messaggi che
sembrano del tutto diversi da quello che gli si sta ‘dicendo’ di riferire, solo
che nessuno degli altri solleva apparenti obiezioni e tutti sembrano
soddisfatti. Lei risponde.
Il suo tablet si collega con facilità alla consolle. Adesso ha il controllo dei
due canali di comunicazione, le sue parole vengono tradotte in colori e dati,
perdono metà del loro significato quando lei le inserisce, ma riescono
comunque a trasmettere qualcosa di comprensibile. Portia la osserva con
attenzione e aggiunge movimenti fisici, non per cercare di imitare la fluidità
priva di ossatura dei loro ospiti ma adottando pose stilizzate, con le gambe
piegate in posizioni che sembrano dolorose nell’enfatizzare e ribadire il
messaggio di Helena.
Lei sa che tutto questo apparirebbe divertente a Disra Senkovi, che era
stato un uomo amante degli scherzi quando il suo umore era nella fase
dell’esaltazione.
Poi l’umorismo scompare perché l’ambasciatore ottopode le sta dicendo
che sanno della Voyager. La sua manifestazione visiva è soltanto una
dimostrazione alquanto maliziosa – Noi sappiamo delle cose – ma il canale
dei dati ha l’esatta telemetria del luogo dove la nave è nascosta nella parte
esterna del sistema solare, al punto da includere potenziali soluzioni di
puntamento delle armi.
«È una minaccia» afferma Portia, in tono piatto.
Helena però si sforza di liberarsi di ogni forma di pensiero
antropocentrico. «Non lo è ancora» decide. «Però vogliono farci sapere che
loro sanno. O forse hanno dovuto fare uno sforzo particolare per non
dircelo. Sembrano comunicare così tanto, per tutto il tempo. Comunque, lo
sanno.»
Riesce a formulare con cura la sua risposta all’ambasciatore: è orgogliosa
della Voyager, che è una creazione ammirevole. Si chiede cosa vogliano. È
calma, estremamente calma. È agitata per la sorte dei suoi amici. È curiosa.
È amichevole. Tutto in una frase, in un sentimento. Osserva il pubblico; non
il timoroso ambasciatore ma gli altri, vedendo ombre delle sue parole
passare come spettri sulla loro pelle, trasmesse da l’uno all’altro. Vede una
mezza dozzina di loro accapigliarsi furiosamente per poi separarsi e ritirarsi
gli uni dagli altri cercando di fingere che non sia mai successo niente,
ignorando i loro compagni per concentrarsi sulle consolle. Poi i loro
pensieri tremolano lungo i confini della sua sfera di attenzione quando
l’ambasciatore danza di nuovo.
Stanno parlando della Lightfoot e della sua distruzione, ma lei lo apprende
soltanto dai dati. I toni emotivi sono complessi, intrecciati. Sono tristi. Sono
furiosi. Sono desiderosi. Desiderosi di distruggere altri visitatori alieni? No,
questo è un desiderio antico, uno che hanno da molto tempo, alimentato con
affetto, difeso. Ha la sensazione che le vengano forniti interi tomi di storia,
con le pagine staccate e molto sfogliate. Di colpo sono tutti concordi, con i
colori in sincrono, a parte l’ambasciatore i cui attenti messaggi sono
indietro di un passo e semplificati a beneficio degli stupidi alieni.
Questa è la loro ossessione ed è inestricabilmente collegata all’altro
pianeta – no, alla stazione che orbita intorno all’altro pianeta, quella dove è
successo qualcosa a Meshner, che si è dimostrata fatale per la Lightfoot.
Solo che...
«Ricevono un segnale» conferma Portia, più rapida di Helena nel
decodificare il canale dei dati. «Viene dalla Lightfoot. È... sul pianeta. Kern
però sta segnalando. Sospetto speri che la Voyager intercetti i segnali e
organizzi una missione di soccorso. Cerca però di tenere segreta la sua
posizione, e si limita a trasmettere ad ampio raggio. Non so se il segnale si
manterrà abbastanza integro da essere raccolto a quella distanza.»
«Sul pianeta» le fa eco Helena.
I pedipalpi di Portia si contraggono in una conferma, un gesto simile a una
smorfia sofferente. È quello che è. Poi l’ambasciatore riprende a parlare, e
lei avverte che i suoi colori e movimenti sono più deliberati, un tentativo di
parlare lentamente e con pazienza a idioti alieni per trasmettere una qualche
informazione, una qualche proposta.
Un viaggio, trasmette con cura, perché l’idea del viaggio per loro è
un’emozione. Il soppesare il rischio, la paura (una qualche specifica
interpretazione di ‘ricompensa’ che non ha un esatto corrispondente
umano), la soddisfazione della realizzazione, del trionfo! E il ghirigoro
cromatico che la creatura attribuisce a quel sentimento giustifica il punto
esclamativo. Simultaneamente, Portia ha dissezionato i dati.
«Vogliono andare là, su quel pianeta. Vogliono che noi andiamo con loro
perché... pensano che possiamo aiutarli? Si tratta di questo?»
Un Umano per andare in un posto umano, dove si annida una minaccia
dalla forma umana. Esca, diversivo, sacrificio, portafortuna? Sono tutte
valide possibilità.
O una missione di salvataggio? Forse questa è la fazione della pace,
momentaneamente unita nel suo desiderio di essere benevola nei confronti
di invasori alieni giunti dalle stelle. Ma quanto potrà durare questa
decisione prima che qualche altra ossessione si impadronisca di loro?
Perdurerà abbastanza a lungo da farli arrivare al pianeta interno e tornare
indietro? Continueranno a rinforzare gli uni le intenzioni degli altri oppure
una mattina lei e Portia scopriranno che si sono trasformati tutti in mostri
decisi al genocidio?
D’altro canto, è la sola alternativa possibile.
5

Quando Viola mette i droni al lavoro Fabian ne è sinceramente sorpreso


perché l’aveva classificata come una di quelle femmine che non si sporcano
le zampe con lavori pratici, ma è stata lei – e non Kern – a mandare il
cingolato per il trasporto di Zaine, e lo ha pilotato manualmente perché non
è riuscita a riattivare il suo processore.
La tuta di Zaine è riposta in quarantena; quanto alla stessa Zaine, dopo
che Artifabian ha confermato che non aveva mai condiviso l’atmosfera con
la potenziale infezione, è stata ammessa nel compartimento dell’equipaggio
con i due Portiadi, dopo una complessa procedura di attracco. La parola di
Artifabian non è una rigorosa prova scientifica, ma sono a corto di spazio
nella porzione della Lightfoot che è sopravvissuta allo schianto.
L’attenzione di Viola è concentrata prevalentemente sulla nave e sul suo
stato di deterioramento, oltre che sulle ferite di Zaine, ma ripara anche un
drone aereo per Fabian, perché vada a dare un’occhiata a questa sua
supposta ‘città’. Kern è di poco aiuto, perché risponde loro in nudi
monosillabi o in frasi prive di personalità. La sua attenzione è sulle
comunicazioni, perché sta cercando di comunicare con la Voyager in modo
tale da non tradirne la posizione, o almeno questo è ciò che afferma. Inoltre
sta dedicando parte della sua attenzione al contattare Meshner, sempre che
ci sia ancora un Meshner da contattare. Lei giura che c’è, anche se Fabian
ha visto alcuni dati e ritiene che lei si sia soltanto collegata all’impianto
dell’Umano, che è improbabile si mostri loquace di sua iniziativa. Quando
lo fa notare a Kern la risposta è un rigido silenzio.
Fabian trascina il drone ora funzionante dentro il portellone, sigilla le
aperture e raggiunge in fretta la consolle di controllo, che opera con
l’energia ridotta al minimo. Kern sta convertendo le sezioni superiori dello
scafo perché siano fotosintetiche, usando il suo microequipaggio di
formiche che si va lentamente ricostituendo perché il controllo diretto dello
scafo è uno dei molti lussi che non sono sopravvissuti all’impatto con
l’atmosfera. Tuttavia, in una situazione di crisi la biotecnologia dei Portiadi
è infinitamente malleabile, ivi incluso l’hardware organico della stessa
Kern. Lei si sta riparando, recuperando o reinventando la propria
personalità e, a giudicare dalle occasionali risposte taglienti perché
smettano di farle domande, le riparazioni procedono in fretta.
Fabian ha aperto il portellone esterno e manda il drone nel suo volo
incerto, immaginando il lamento instabile dei suoi rotori quando si inclina
su un lato. Poi è fuori dal portello e si solleva al di sopra della pianura
cosparsa di stelle marine, girandosi pesantemente in direzione di quello che
Viola insiste essere un fenomeno naturale.
Ma non è un fenomeno naturale.
Affascinato e un po’ spaventato, Fabian guida il drone vibrante e abbassa
lo sguardo su una griglia squadrata di strade, file di strutture quadrate
collassate una sull’altra. È una città, ma è in rovina. Inoltre è una città
costruita secondo un’estetica aliena ma non sconosciuta. I Portiadi hanno la
tendenza a una struttura urbana a spirale, tridimensionale (che inoltre
tendono ad aggrovigliare e trasformare in un caos intricato quando le
diverse case dei pari competono per avere preminenza). Gli Umani, però...
gli Umani amano le loro scatole. Amano le file e le colonne, e il contare da
un lato all’altro, dall’alto al basso. Che modo di pensare! Come riescono
anche solo a creare qualcosa?
Eppure hanno di certo creato questo. È una città per Umani. Laddove sono
sopravvissute, le porte hanno dimensioni adatte alla grande struttura degli
umani e sono tutte a livello del suolo. Ed è tutto in rovina, sì, eppure... i
centri per il riconoscimento di schemi di Fabian sono in fiamme, gli dicono
che quello che vede è sbagliato. Guida il drone più in basso e riqualifica
vecchie capacità, perché lui è uno scienziato comportamentale e non un
pilota, e si è liberato di qualsiasi Comprensione rilevante parecchio tempo
fa per liberare spazio mentale per cognizioni più attinenti. Se solo avesse
saputo...
Le costruzioni sono...
Fabian non salta alle conclusioni, soprattutto non di tipo stravagante:
dopotutto, non c’è modo più rapido di porre termine alla carriera di uno
scienziato maschio.
Gli edifici non sono costruiti.
In quella direzione il terreno sale naturalmente. Più oltre può vedere
pendii più elevati, forse punteggiati di qualche altra specie di autotrofi
sessili, e scorge anche un’altura, ma, laddove i tratti di terreno più elevato
sono naturali, l’altura non lo è. È stata scavata, la pietra sedimentaria è stata
consumata, estratta, rimossa come uno scultore farebbe nel creare una
statua, e tutto quello che rimane è la città. Quegli edifici non sono mai stati
eretti partendo dal terreno, non sono fatti di pietra lavorata o di mattoni.
Sono quel che è rimasto quando il resto del terreno è stato rimosso, e gli
umani non costruiscono in questo modo.
Fabian si corregge. Lui sa che gli Umani, con la ‘U’ maiuscola, non lo
fanno, ma forse gli umani costruivano in questo modo ai tempi del Vecchio
Impero. Non pensa però che sia così, ritiene che fossero più efficienti di
così, perché gli appare evidente che scolpire una città in quel modo
richiederebbe molto più lavoro del semplice posare pietra su pietra. Inoltre
adesso il drone è sceso ancora di quota, al livello dei tetti pericolanti, e lui
dovrebbe poter vedere all’interno di uno degli edifici, solo che non c’è un
interno. L’ingresso è solo una falsa facciata, una soglia che si affaccia su
pietra sferzata dal vento. La città è in rovina, e quelle rovine sono un falso.
Molto tempo fa qualcuno è venuto qui e ha creato una riproduzione di una
città, usando metodi chiaramente non ottimali chissà per quanto tempo e per
motivi che lui non riesce a immaginare.
Il suo disagio aumenta. Per tradizione, i Portiadi reagiscono all’ignoto con
un impeto di curiosità ma Fabian avverte la paura strisciante dei suoi
antenati che vivevano in un mondo in cui la maggior parte delle cose
avrebbe cercato di ucciderli.
Controlla i parametri del drone. Può salire più in alto, quindi lo fa alzare
di quota quanto basta perché l’abbandonata non città diventi una mappa
stradale e l’altopiano stesso si trasformi in una semplice topologia e una
serie di rilievi scritti nell’ombra del tardo pomeriggio. Un paio di quelle
larghe cose simili ad aquiloni passano librandosi, ma anche se gli strappano
un sussulto non prestano assolutamente nessuna attenzione al drone, che
non è parte del loro mondo, è irrilevante quanto lo stesso Fabian tranne per
il fatto che sarebbe un vero pasticcio se il loro strascico di filamenti si
impigliasse nei rotori.
Manda il drone oltre l’orlo del pianoro, ad affacciarsi su una vasta distesa
di deserto rozzo, deturpato da laghi in technicolor che sembrano un violento
sfogo di acne, nei quali qualche forma di vita o processo inorganico
macchia l’acqua di aggressivi colori arcobaleno. Vede tratti di terreno
chiazzato dove alcune forme di vita convertono la loro oscurità per
assorbire gli ultimi raggi del sole, e altre regioni marroni, rosso-arancioni e
perfino verdi, di un vero verde, che parlano di altra vita: piccoli bioma
intorno a una magra fonte di risorse che permette a qualche cosa aliena di
strappare la vita dall’interno dell’unico continente di quel caldo e polveroso
pianeta.
Vede un’altra città. È dieci volte più grande del semplice villaggio vicino
a dove si sono schiantati; un’altra griglia, o forse un’espansione, una mappa
più grande che contiene all’interno una copia di quella più piccola. La
stessa città: in rovina, falsa. Manda il drone più lontano, vedendo che
l’indicatore dei livelli della batteria si abbassa in fretta ma incapace di non
soddisfare la propria curiosità e di non alimentare la paura.
Armeggia con le videocamere del drone, riconfigurandole per una portata
più estesa. All’orizzonte c’è un’altra metropoli fantasma, sulle rive di una
linea tracciata nella sabbia che è un fiume prima e dopo la città, ma che
nell’attraversarla scorre dritto come un canale. Confronta lo schema di
quello che può vedere della griglia: è la stessa città, una città umana da un
mondo morto, qui su questo pianeta remoto e vivente.
Proprio quando sta facendo voltare il drone per il tragitto di ritorno vede
un movimento nelle strade. Per molti battiti del cuore (quel lungo organo
che si estende lungo la linea dorsale del suo addome) si paralizza ai
comandi, con il drone che ruota pigramente nell’aria. Non riesce a muoversi
e la sua mente barcolla di nuovo sull’orlo del punto di fuga. Ha già visto
quella cosa in passato, o meglio ha visto qualcosa che vi si rapporta come le
rovine si rapportano alla vera città da cui devono essere state copiate.
Non cammina come un umano ma la sua forma ha qualcosa di umano.
Fabian non ha una ‘zona perturbante’ per quanto riguarda gli umani, ma
perfino lui si sente turbato dalla spaventosa discontinuità della cosa, mentre
avanza con una lenta andatura strascicata verso il punto di osservazione del
drone.
La cosa è fatta di conchiglie, pezzi di creature senza nome, schegge di
roccia e polvere. Sul Mondo di Kern c’è un insetto chiamato mosca-
barattolo, i cui esemplari adulti sono macchine da riproduzione dalla vita
breve (oltre a essere deliziosi). Le larve sono astuti predatori acquatici che
si nascondono in pari misura da prede e predatori costruendosi intorno un
rivestimento con pezzi di ciottoli e canne.
Questa cosa si è costruita una forma umana proprio nello stesso modo. I
suoi movimenti sono flosci, goffi, del tutto inverosimili, ma si è costruita
guanti, maniche e stivali. E anche un casco, perché non sta soltanto
imitando un umano, ma un umano in una tuta spaziale di vecchio tipo,
simile a quella antica nella stazione.
La lucida visiera del casco è una pietra levigata dall’acqua corrente, e la
cosa la inclina in modo da poter vedere il drone riflesso su di essa come se
fosse vetro.
Poi il drone si solleva per allontanarsi, e solo tardivamente Fabian si rende
conto che è opera sua, che ha i pedipalpi sui comandi e lo sta facendo
tornare indietro e salire di quota, con la videocamera fissa su quella strana
figura desolata. La cosa non solleva la ‘visiera’ e neppure agita una mano
dal guanto di pietra in direzione del drone che si allontana. Invece si
affloscia e si modifica come se una qualche struttura interna sia stata
rimossa di colpo, poi va in pezzi, con le singole conchiglie e palle di detriti
che rotolano (strisciano) via nelle ombre sempre più fitte, e intanto che
guida la fuga del drone Fabian riguarda la sconcertante ripresa e si chiede
cosa può dire a Viola al riguardo.
6

Kern, Avrana Kern, precedentemente della Lightfoot e adesso con la sua


consapevolezza situata – in base alla sua valutazione – da qualche parte fra i
resti della navetta precipitata e la sua telepresenza in orbita, sonda con
cautela i canali di comunicazione attivi della stazione. L’infestazione
sembrava essere una cosa puramente organica, ma qualcosa stava
trasmettendo la lezione di xenobiologia che l’aveva attirata qui. L’entità
amorfa che aveva attaccato Meshner era anche chi aveva inviato quel
segnale? Un tempo era stata davvero Erma Lante, oppure non era mai
esistito un individuo del genere?
Pezzi di memoria vanno al loro posto a mano a mano che le sue formiche
rinnovano abbastanza di lei da permetterle di recuperarli e di accedervi. Il
livello dei dettagli è rozzo ma appena prima dell’attacco Helena stava
parlando delle registrazioni di avvertimento che gli ottopodi avevano
conservato. Era esistita una donna umana di nome Lante, migliaia di anni
prima.
Quindi Lante aveva studiato l’ecosfera aliena e il suo lavoro era stato
registrato sulla stazione, preservato dai giorni antichi finché un qualche
sistema casuale aveva cominciato a trasmettere quelle registrazioni? Kern
riesamina il suo ragionamento mentre altre parti di lei sondano l’architettura
elettronica della stazione con la cautela di un esperto artificiere alle prese
con una bomba, mentre altre parti ancora cercano di rigenerare i sistemi
della Lightfoot, uno dei quali è lei stessa.
Esclude la possibilità di un errore da parte di un qualche sistema
automatico perché ciò che trasmetteva, qualsiasi cosa fosse, aveva reagito e
cambiato comportamento in apparente risposta alle sue interrogazioni. Si
trattava quindi di un computer che eseguiva un qualche programma
corrotto, solo che lei aveva eseguito una ricerca approfondita di un sistema
del genere e non ne aveva trovato nessuno. Forse si era nascosto, isolato da
qualche parte nella grossa massa in orbita. O forse no.
La cosa organica si era trovata in quella stanza, con quel terminale. Era
stata confinata in una forma umana, con una consolle progettata
(approssimativamente) per quella forma, e tuttavia era stata... melma. Non
era un mollusco, o un aracnide, o una cosa della Terra, ma in ogni caso era
qualcosa il cui analogo più vicino poteva essere un qualche tipo di fungo
mucillaginoso.
Altre formiche, altri pezzi, una maggiore ampiezza di pensiero. Archivi di
backup localizzati e attivati. Kern si sente maggiormente sé stessa.
Sulla terra i funghi mucillaginosi erano un soggetto di ricerca comune. Gli
scienziati li avevano studiati per secoli a causa della loro capacità di
autorganizzazione che permetteva a una massa sciolta di cellule individuali
di agire come un macrorganismo e perfino come un predatore, il tutto senza
nessun tipo di neurologia.
Devia una preziosa parte di attenzione per accedere ai ‘Diari di Lante’. Il
contenuto è confuso, in parte incomprensibile. Kern delega una parte di sé
stessa ad assimilare quel tesoro di sapere, ma è a corto di risorse e per
analizzare quel documento confuso e contradditorio è necessario un
funzionamento a livello umano o di Portiade. Sta estendendo troppo le sue
poche risorse.
Vuole riavere Meshner. Questo non è un buon uso delle sue energie troppo
sfruttate. Non sta agendo in base alle istruzioni del suo equipaggio, che al
momento è più preoccupato della propria sopravvivenza, quindi perché si è
avviata su questa strada? Dice a sé stessa che trovare la risposta a questa
domanda non è un buon uso delle sue risorse, e perfino lei riconosce che
questo comportamento è puramente egoistico.
Teoria 1: i suoi processi decisionali artificiali (quelli che a lei sembrano
veri processi decisionali perché è questo che significa essere questa
escrescenza ridotta e autonoma dell’originale donna vivente Avrana Kern)
sono stati pericolosamente compromessi dall’esperienza di simulazione di
emozioni all’interno del cervello e dell’impianto di Meshner, per cui sta
dando al recupero di quella funzione la priorità su altre più attinenti
capacità come il supporto vitale a lungo termine.
Teoria 2: senso di colpa. Ha spinto Meshner incontro al suo destino a
causa della sua ossessione di riuscire a trovare nella stazione qualcosa di
simile a sé stessa ma anche di sperimentare quella scoperta attraverso il
mezzo della mente di Meshner. Naturalmente il senso di colpa non è
qualcosa che lei possa davvero avvertire al momento, al di là
dell’ammettere a livello logico la sua responsabilità, ma se potesse
localizzare e recuperare Meshner, allora sarebbe in grado di provare tutto il
senso di colpa che vuole, di indulgere in quel meraviglioso, stucchevole
senso di colpa che sa essere là fuori, pronto a essere sperimentato...
Teoria 3: Kern è danneggiata. Si è danneggiata giocando con qualia che
avrebbe fatto meglio a lasciar stare e il danno è stato aggravato dallo
schianto, durante il quale ha dato la priorità alla sopravvivenza del suo
equipaggio rispetto alla propria integrità. Le riparazioni sono in corso, ma al
momento lei non è nella posizione di prendere decisioni consapevoli,
inclusa quella di informare Viola di quella incapacità. Quindi: troverà
Meshner, se è possibile farlo, perché è una cattiva decisione e al momento
questo è indicativo dello stato delle sue riparazioni.
E poi lo trova, o almeno trova il suo impianto, ancora vivo, ancora
tempestato di quelle vulnerabilità date dalle comunicazioni aperte che lo
rendevano tanto utile per lei.
Tutto si riduce a un semplice calcolo. Se la cosa che occupa la stazione è
capace di piazzare una trappola del genere, allora questa potrebbe
decisamente essere una trappola. Se vuole scoprire la sorte di Meshner,
Kern dovrà correre il rischio rappresentato da quella trappola e fare
affidamento sulla propria capacità di districarsene o di ritorcerla contro il
suo creatore.
Considera di non essere nella posizione di calcolare quel rischio in
maniera affidabile.
Ed entra.
Non lo fa in modo avventato. Accede all’impianto come un nuotatore che
entri lentamente nell’acqua, causando quante meno onde possibili. Meshner
stesso non se ne accorgerà, perché non si interfaccia con il sensorio presente
all’interno per quanto certe parti di lei la stiano incitando a farlo. Accede
invece al livello operativo più basso, richiamando resoconti della
situazione. C’è attività nell’impianto? C’è attività nel cervello di Meshner?
Invia l’interrogazione tre volte perché la risposta sembra al di fuori di
parametri ragionevoli, ma il cervello di Meshner è davvero molto attivo.
L’impianto opera al massimo della sua capacità, è troppo impegnato per
causarle qualsiasi difficoltà. In effetti, si sta riconfigurando seguendo regole
sue e facendo uso di un potere di calcolo più efficiente in modo da poter
trasmettere più dati sensoriali al suo utente, quel piccolo ed elegante
florilegio di Fabian che permette all’impianto di ristrutturare la propria
architettura elettronica di tecnologia umana come se fosse ingegneria
organica portiade.
Ma cosa sta facendo? È uno strano momento perché Meshner si metta a
rivivere i suoi ricordi o ad accedere alle Comprensioni dei Portiadi.
Ha un solo modo per scoprirlo, e cioè accedere al livello più alto di
funzionamento dell’impianto e diventare così parte della follia, quale che
possa essere. E là dentro è affollato. Se entrerà, estenderà la sua
consapevolezza in un arco che abbraccia la nave precipitata, il drone e
l’impianto, dando in affitto lo scarso potere di elaborazione raccolto a fatica
per diventare parte del tutto più grande. Quella è una trappola di un genere
completamente diverso, fauci in cui infilerà la testa di sua volontà. Se non
riuscirà a districare la sua logica da quella dell’ambiente virtuale in cui sarà
entrata (per esempio a causa di profondi e perduranti danni ai suoi processi
decisionali) condannerà tanto Fabian, Viola e Zaine quando sé stessa, e
potrebbe non esserci niente di Meshner da salvare. Per quando abbia la
forma di qualcosa dotato di significato, l’attività di cui è testimone potrebbe
essere soltanto una tempesta di sinapsi difettose, naturali e artificiali.
Potrebbero essere semplicemente urla.
Lei però è Avrana Kern, e una parte di lei che è decisamente intatta è la
percezione della sua capacità di assumere il controllo di qualsiasi
situazione. Quei dispositivi di sicurezza e di guardia che avrebbero dovuto
moderare la sua fiducia in sé stessa sono offline, quindi fa quello che
Avrana Kern fa in simili circostanze. Assume il controllo. Ed entra.
7

«Forse ti vogliono come ospite vivente per quella cosa» suggerisce Portia,
cupa. Helena rabbrividisce, ma allo stesso tempo quell’ipotesi non le dà la
sensazione di essere giusta, e lei è arrivata alla conclusione decisamente
poco scientifica che le sensazioni istintive riguardo agli ottopodi e alle loro
intenzioni sono un buon metro di valutazione. Così tanta parte della loro
comunicazione è solo istinto, dopotutto, modificato da dati sporadici sul
sottocanale, come se un artista invasato stesse farfugliando riguardo a un
nuovo progetto mentre all’altro orecchio un contabile recita con voce arida i
dati su quanto esso costerà.
Quello che il suo istinto le dice è che la fazione degli ottopodi a cui si sta
rivolgendo, nella persona di quei suoi membri che al momento si sentono
più coinvolti, cerchi qualcosa di diverso. Un’intera sezione della loro
conversazione pare non avere nessuna rilevanza, ma loro sono
enormemente eccitati al riguardo. Helena vede contrastanti toni arcobaleno
che non aveva mai riscontrato prima in nessuno di loro. Poi arrivano i dati
in file complesse di numeri, equazioni in formati che l’impianto di Helena e
il suo tablet, insieme, non riescono neppure a riprodurre adeguatamente.
«Sembrano...» Portia rigira il tablet fra i pedipalpi, con i numeri che si
riflettono nei suoi enormi occhi principali. «Numeri» conclude, irritata per i
propri limiti, la sua mancanza di controllo. «Fisica avanzata.»
Qualsiasi cosa sia, appassiona molto i locali – questi locali – e Helena
decide che è il cuore di ciò che stanno cercando e che tutto il resto sono
soltanto scoperte casuali o complicazioni.
Lei e Portia hanno già concordato di andare. La sola cosa che sta
ritardando la partenza è la loquacità dei locali, la loro insistenza a spiegare
le cose con una sovrabbondanza di dettagli che i loro ospiti non sono in
grado di apprezzare emotivamente, linguisticamente o al puro e semplice
livello intellettuale. La sola cosa che trapela è l’entusiasmo, ed esso è
qualcosa a cui stranamente riescono a relazionarsi, che quasi ispira
tenerezza. Helena si era comportata in quel modo riguardo al suo progetto
di traduzione del portiade, cercando di tradurre un concetto di mille parole
in uno di cento per i suoi superiori accademici.
A loro importa, decide. Qualsiasi cosa stiano per intraprendere nel
momento in cui si accingono a farla essa sta loro molto a cuore. Il momento
successivo potrebbero non tenerci affatto, o appassionarsi a qualcos’altro,
ma i fili delle cose a cui sono interessati continuano a estendersi e a tornare
a loro. C’è tutto quel rimescolarsi di fazioni ma Helena ha l’impressione
che le priorità individuali si limitino a crescere e calare come maree dentro
di loro piuttosto che essere spazzate via.
Di lì a poco, e senza saperne molto di più, sono a bordo di una nave.
Questo vascello è più piccolo e con una forma più elaborata delle enormi
sfere che la marina spaziale degli ottopodi sembra preferire. Questo è
composto di quattro globi, disposti dal più grande al più piccolo in una
catena che si va assottigliando, ciascuno attrezzato con un set separato di
quelli che Helena ritiene essere probabilmente propulsori piuttosto che
armi. E perché? La nave forse si può separare, con ogni sfera che diventa
una singola capsula di salvataggio? Spera di non doverlo scoprire di
persona. È evidente però che la penultima sfera ha subito di recente
modifiche ingegneristiche da parte dei cefalopodi, perché è piena d’aria.
Helena si era chiesta come avrebbero risolto i problemi logistici. Gli
ottopodi sono creature acquatiche, sospese in un mezzo fatto di acqua che le
protegge dallo stress dell’accelerazione, ma lei conosce la fisica quanto
basta per preoccuparsi delle cavità piene d’aria del suo corpo e di cosa
succederebbe se un mezzo denso intorno a esse subisse un improvviso
cambio di pressione mentre lei è sospesa in esso senza protezione. Stando ai
suoi ospiti, la soluzione è una piccola sfera rivestita di un qualche tipo di
gel trasparente, che dovrebbe presumibilmente servire per attutire
l’accelerazione, anche se lei decide di tenere sempre indosso la tuta e il
casco, per evitare di finire per impantanarsi e soffocare contro le pareti.
Dentro non c’è nient’altro, nessuna di quelle cose che sembrano piacere
tanto ai locali, come sbarre e pali a cui aggrapparsi. Il tutto somiglia alla
cella di prigione più di qualsiasi altro luogo in cui lei si sia trovata finora.
Dall’interno può vedere in modo indistinto in tutte le direzioni. A bordo
della sezione di prua della nave una manciata di ottopodi sta eseguendo i
controlli che precedono il volo oppure sta aggredendo le consolle di
comando in preda ad attacchi di irritazione. Gran parte della sua visuale è
bloccata dall’architettura interna che riempie il centro di molte delle sfere e
che forma piccoli planetoidi di irregolare fondale sottomarino su cui
l’equipaggio possa strisciare o in cui si possa nascondere. La tecnologia è
lontana da qualsiasi cosa mani umane potrebbero progettare, e lei non riesce
a riconoscere quasi nessuna delle sue funzioni.
Oltre le pareti della nave, nel vasto spazio dell’hangar, può vedere altri
locali e il suo software di traduzione comincia tardivamente a dirle che non
va tutto bene. Helena è caduta nella trappola di pensare di avere a che fare
con una civiltà unita, gerarchicamente organizzata e che può essere trattata
come una singola entità. Se questo sarà mai possibile è un interrogativo per
storici e sociologi, ma in questo sistema solare una cosa del genere è
esclusa dalla natura dei suoi abitanti. I cefalopodi raccolti all’esterno
appaiono sempre più irosi, i movimenti dell’equipaggio sono decisamente
più affrettati mentre il loro umore tende visibilmente alla preoccupazione.
Helena si rende conto che lei e Portia potrebbero non essere state liberate
dalla prigione ma rubate, e che l’intera missione potrebbe andare contro i
desideri dello spirito collettivo, sempre che questa cultura ne abbia uno.
Mentre pensa che quella raccolta là fuori potrebbe davvero essere una
folla infuriata, tutto ciò che è al di là della parete ricurva si allontana
quando una forza improvvisa la fa affondare fino al gomito nel gel. Nel
tempo che impiega a raddrizzarsi e ad aiutare Portia si sono già allontanati
dalla mole – grande quanto quella di un pianeta – del globo orbitale in cui
erano prigioniere, sputate al di sopra della grande superficie del mondo
acquatico e in fase di accelerazione abbastanza veloce da tenerle incollate al
fondo del loro compartimento.
La faccia tormentata del pianeta saetta sotto di loro per le prime quattro
ore di viaggio, una chiazza misericordiosamente indistinta perché
ammantata nelle nuvole, poi completano l’arco dell’effetto fionda e si
allontanano nella grande oscurità, con tutti i motori ancora a piena potenza.
Come meglio può sotto la morsa dell’accelerazione, Portia le sta inoltrando
i dati ricavati dalle trasmissioni degli ottopodi. Stanno divorando tutto il
carburante, esaurendo le riserve, e presto questo sarà un viaggio di sola
andata verso il nulla a bordo del frutto di una scienza astronautica del tutto
folle. E i propulsori non si spengono, continuano con la loro spietata
accelerazione in modo da allontanarli in fretta dalle grandi e pesanti navi
che potrebbero decidere di inseguirli. Prigioniera com’è tanto dei molluschi
quanto della fisica, Helena non può fare assolutamente niente se non lottare
per continuare a respirare sotto la morsa della forza stessa della loro fuga.
Proprio quando ha la sensazione di essere prossima a svenire intravede là
fuori qualcos’altro, ridicolmente vicino, all’inizio dietro di loro e poi
affiancato. Si tratta di un’altra nave dalla struttura generalmente simile alla
loro. Altre tre bolle collegate ma molto più grandi e già lanciate a grande
velocità. Può vedere le fiamme dei loro propulsori, ma l’accelerazione della
nave più grande (come risulta dai dati rubati che Portia le trasmette) è
inferiore alla loro al punto che l’hanno raggiunta. Helena comprende che la
nave più grande è in viaggio e in accelerazione da lungo tempo, strisciando
in avanti mentre i suoi motori hanno la meglio sul suo peso plumbeo. Se si
trovassero a bordo della Voyager o della Lightfoot, la nave portiade a questo
punto sarebbe già scomparsa alla vista e avrebbe continuato la corsa per
inerzia al fine di preservare il carburante, una lepre rispetto a queste
tartarughe.
La loro piccola sfilza di bolle ha aggirato il pianeta acquatico con una
traiettoria e velocità finale abbastanza precise da intercettare la più grande
nave scientifica. Senza quasi una scossa e senza bussare, senza ostentazioni
di sorta, si agganciano alla sua sezione di coda, creando una lunga fila di
bolle che corre attraverso lo spazio. La matematica di quella procedura
sfida l’immaginazione, soprattutto perché il piccolo moncone di coda ha
appena esaurito il carburante, per cui la sua velocità finale è esattamente
uguale a quella che la nave più grande ha al momento del loro incontro e
questo permette loro di agganciarsi, scivolando nella meno marcata
accelerazione della nave più grande. Helena e Portia sono ammaccate e
illividite, ma il resto del viaggio promette di essere più comodo.
Cominciano a districarsi dal gel.
Portia studia i macchinari visibili ed effettua alcuni calcoli. Ore dopo la
nave più grande sta ancora consumando carburante da una scorta che – così
ritiene Portia – non è quasi diminuita, continua ad accelerare e sta
accorciando le distanze da quell’ipotetica lepre come una tartaruga non
potrebbe fare.
Gli ottopodi intanto sembrano aver perso ogni interesse nel loro carico
che respira aria e forse nella missione stessa, e Helena può solo sperare che
l’ispirazione torni a pervaderli quando si avvicineranno alla destinazione.
Portia ha fatto dei calcoli anche riguardo a quello, tracciando il pianeta che
si sono lasciati alle spalle e rubando telemetria dai sistemi non protetti della
nave. La rotta così ottenuta descrive una curva elegante fra orbite da cui si
deduce che continueranno a consumare carburante per accelerare per tutto il
tragitto, finché non lo bruceranno per rallentare. Portia cerca poi di ricavare
cosa questo dica riguardo all’efficienza del carburante ma va a sbattere
contro i duri limiti delle sue conoscenze. Ancora una volta si pone quella
domanda, Noi potremmo farlo?, e la risposta è un no secco.
L’equipaggio conosce la nave con un nomignolo emotivo che Helena
traduce con Guardando una Cosa dall’Esterno, una combinazione di
distacco, curiosità e snobismo scientifico. Nonostante la sua massa più
grande, compirà il volo fra i pianeti più in fretta della Lightfoot o di
qualsiasi cosa che il popolo di Senkovi avrebbe potuto costruire.
Nella camera davanti alla loro fluttua il prigioniero-diventato-
ambasciatore, e Helena non riesce a capire quale ruolo stia rivestendo al
momento. Di certo è solo e tiene un occhio bulboso rivolto al resto dei suoi
compagni e l’altro puntato sui due visitatori alieni senza lasciar capire quale
delle due viste gli faccia meno piacere. I suoi colori rimangono molto
smorzati, con una costante sfumatura biancastra che affiora qua e là sulla
sua pelle.
È questo individuo che permette loro di capire che c’è un problema, ore
più tardi, dopo che Helena ha dormito e si è svegliata, trovandosi circondata
soltanto dallo spazio e dal freddo e impersonale bagliore delle stelle. Portia
la sta pungolando perché il prigioniero-ambasciatore si è fatto di un pallore
mortale e si tiene aggrappato ai raggi che attraversano il centro della sua
camera. Helena armeggia con il tablet nel tentativo di dare un senso a
quello che sta succedendo ma alla fine è semplicemente costretta a
domandarlo, trasmettendo alla creatura immagini di curiosità e di ansia
nella speranza che si degni di rispondere.
L’equipaggio della nave gli ha lasciato una consolle, e il prigioniero-
ambasciatore scende su di essa, sempre tinto del colore del gesso. Il suo
linguaggio visivo è tutto paura generica, elementi di morte e di violenza,
colpa rivolta a Portia e a lei. Il canale dei dati però contiene altri calcoli di
volo. Helena li fissa, cercando di dare un senso a ciò che Portia, con la sua
Comprensione da pilota, vede all’istante.
«Un’altra nave» indica. «Si avvicina. Ha intenti ostili. Guarda ecco il
registro delle comunicazioni. Probabilmente sono minacce.»
Non possono averci raggiunti, pensa Helena, ma naturalmente c’era già
una piccola costellazione di navi che pattugliava il vuoto fra i pianeti.
Questo nuovo venuto che sta invadendo il loro spazio personale si sta
identificando con una manciata di cupe etichette emotive che lei non riesce
a comprendere immediatamente: qualcosa che indica desolazione e fame
frustrata. E quella nave non è sola nelle vaste distese dello spazio. Là fuori
ce ne sono altre che condividono lo stesso stato d’animo, e Portia segue le
tracce delle comunicazioni che si scambiano, un ragno che esplora una
ragnatela pericolosa, fino a raggiungere la Profondità dell’Abisso, la nave
che ha così sprezzantemente annientato la Lightfoot. E qui c’è una delle
alleate della Profondità, la Conchiglia Che Echeggia Soltanto, il cui nome
iroso denota solo morte e assenza come un teschio lo farebbe per un umano,
venuta per accertarsi che il loro tentativo di salvataggio abortisca prima
ancora di lasciare l’uovo.
8

Meshner è...
Incerto su un sacco di cose ma senza la possibilità di analizzarne
adeguatamente il motivo perché qualcosa gli dà la caccia. Sta fuggendo, e
lo sta facendo da... tempo. Non sa dire da quanto perché al momento è
nell’impossibilità di analizzare il concetto di tempo passato senza perdere
terreno a vantaggio dell’inseguitore. Sta scappando da quando riesce a
ricordare, perché non è in grado di ricordare niente al di là del fatto che è in
fuga.
A volte su due gambe. A volte su otto.
Meshner non è certo di cosa significhi esattamente essere Meshner.
Soffermarsi a contemplare argomenti tanto complessi e sofisticati è a sua
volta un invito a perdere terreno nella sua fuga. Non è che sia privo di
ricordi, ma essi sono uno scaffale che qualcuno ha scosso con un gomito,
per cui il contenuto è sparso in disordine sul pavimento dove lui ci
inciampa. In effetti, attualmente i ricordi costituiscono gran parte del suo
problema, il panorama stesso della sua fuga, e per la maggior parte del
tempo è quantomeno consapevole che essi dovrebbero essere dentro di lui,
parte di lui, ma non lo sono. Qualcuno ha lasciato la porta della loro gabbia
aperta e sono tutti usciti a popolare e costruire il mondo intorno a lui.
Al momento sta facendo visita a sua madre.
Ha di lei solo brutti ricordi, sedimentati in due strati: mentre era viva e
dopo che è morta. La casa in cui viveva era stata una delle prime abitazioni
costruite dagli Umani, messa insieme dalle fabbriche della Gilgamesh con
sezioni trasportate sulla superficie del Mondo di Kern dagli ascensori dei
Portiadi. Quando lui ci viveva era cadente, con le sue strutture messe
insieme alla meglio che cominciavano a cedere. La gente faceva il possibile
per mantenerla in funzione ma essa era la casa di nove persone anziane e
amareggiate e i Portiadi potevano fare ben poco per aiutarle. Potevano fare
poco perché la madre di Meshner viveva nella Riserva. Quella era una
vergogna che lui aveva cercato di nascondere per tutta l’infanzia, venendo
deriso ogni volta che non ci riusciva. Sua madre non era un’Umana, era
soltanto umana.
Una piccola parte di quanti si erano destati sulla Gilgamesh era risultata
essere suolo sterile per il nanovirus che stava costruendo ponti fra Umani e
Portiadi, fornendo quella comprensione comune che avrebbe portato a quel
rapporto allievo-maestro di cui godono ora le due specie. Forse si trattava di
qualche peculiarità fisiologica, ma c’era anche un fattore psicologico:
quelle persone non riuscivano ad accettare i ragni come loro vicini, loro
pari, i loro padroni di casa. Qualcosa nella loro mente si ribellava al di là di
qualsiasi capacità razionale di controllarla. Perfino lo scienziato capo della
Gil era stato uno di questi soggetti, e alla fine la soluzione era stata la
creazione della Riserva, una piccola parte del mondo dei Portiadi dove loro
avevano acconsentito a non andare mai, lasciandola soltanto agli umani. E
c’erano stati sempre meno umani a ogni generazione, anche se la
popolazione complessiva cresceva, perché quel fattore psicologico tendeva
a non sopravvivere al contatto con i Portiadi stessi e il virus faceva il resto,
per cui soltanto un’infelice popolazione sempre meno numerosa si era
trovata a vivere circondata da un mondo che per essa era intollerabilmente
mostruoso. I Portiadi stessi erano molto solleciti, spesso più degli Umani,
che trovavano imbarazzante l’esistenza della Riserva, vedendola come una
barriera all’accettazione della loro specie da parte del mondo in generale.
Meshner stesso aveva odiato andare a trovare sua madre, che era immersa
nelle teorie della cospirazione che la Riserva sembrava incubare come
virus. Lei gli diceva di tutti i modi in cui i Portiadi lo stavano avvelenando,
nutrendosi di lui mentre dormiva, di come gli Umani erano stati schiavizzati
senza saperlo, di come la gente doveva insorgere e sterminare i ragni perché
altrimenti sarebbe stata solo bestiame, per sempre. E Meshner se ne stava lì
seduto, agitandosi e dondolando i piedi mentre suo padre cercava di fare da
mediatore a beneficio della specie dominante del pianeta e la conversazione
inevitabilmente degenerava in una lite. Poi lui tornava a scuola, fra i suoi
pari, dove si era diffusa la voce della Mamma Pazza di Meshner e gli altri
ridacchiavano e sussurravano alle sue spalle.
Era stato allora che gli era venuta l’idea, o almeno la metà scaturita da lui.
Parte di essa era che se fosse stato possibile innestare in una mente umana
le Comprensioni dei Portiadi, forse questo avrebbe potuto aiutare quanti
rimanevano nella Riserva a venire a patti con il mondo in cui vivevano, e in
parte era derivata dal fatto che l’undicenne Meshner aveva riflettuto sul
fatto che i piccoli dei Portiadi non avevano bisogno di andare a scuola e di
subire la derisione dei loro compagni: loro potevano semplicemente sapere
qualsiasi cosa di cui avevano bisogno.
Una volta avviata la collaborazione con Fabian, naturalmente, aveva
scoperto che l’essere deriso dai propri pari non era un’esclusiva degli esseri
umani.
E così eccolo qui, fra le pareti crepate della casa di sua madre –
naturalmente, lei è morta un decennio prima che la Voyager partisse, ma qui
e adesso, in questo ricordo, è viva. La può sentire mentre si muove,
aggirandosi sugli arti magri per le stanze di cemento scarsamente arredate
della casa mentre lo chiama per nome e vuole dirgli la Verità sulla
Cospirazione dei Ragni e lui le sfugge di stanza in stanza, trovandosi
davanti sempre un’altra camera in cui è esposto allo sguardo vitreo degli
altri abitanti, perché non le può permettere di vederlo. Fugge, a volte su due
gambe, a volte su otto, perché in qualche modo questa mattina si è svegliato
dentro una forma che non gli è familiare, e se sua madre lo vedesse lo
chiamerebbe animale, come fa con i Portiadi.
Anche quando ha otto gambe, però, non riesce a correre abbastanza in
fretta, per quanto anziana (ed è di mezza età, è vecchia, è avvizzita, è morta,
il tutto che si sovrappone in questi ricordi estrinsechi), sua madre guadagna
terreno, gli è ai talloni, ai suoi quattro paia di talloni, e porta con sé...
È allora che diventa troppo lento, quando il centro razionale del suo
cervello comincia ad anatomizzare cosa lo stia inseguendo, perché la
persona di sua madre è solo ciò con cui lo ha ricoperto. Eccolo qui, in
questo ricordo, che scorre senza soluzione di continuità fino a mettere a
fuoco i suoi pensieri negativi: lei che lo ha generato, il cui atavismo ha
rovinato la sua infanzia, la cui morte gli ha fatto capire quanto l’avesse
trattata male quando era viva, come l’avesse ostracizzata e respinta. Sta
fuggendo dalle sue stesse azioni: non c’è da meravigliarsi che non vi si
possa sottrarre.
La stanza si oscura, il decadimento inerente alla costruzione fatta
dall’uomo accelera, le finestre si ricoprono di muffa. Gli abitanti che lo
circondano sono soltanto facce anziane ricordate in modo vago su corpi
fluidi e deformi mentre qualcosa si apre a forza un varco, chiamandolo per
nome.
Andremo a vivere un’avventura.
Meshner sa che il momento della crisi è arrivato – di nuovo, anche se non
ha il tempo di fermarsi per raccogliere tutti i suoi ricordi sparsi delle altre
volte. Con un ultimo scatto in velocità emerge nell’Altrove.
Si sta affrettando lungo un ponte di fili che rilucono sotto la luna, ha due
piedi, otto piedi, il calore di una notte tropicale lo circonda e le stelle sono
in parte divorate dall’ombra degli alberi. Una di quelle stelle si muove, e
una parte di lui ricorda che quella è Kern, la Seconda Abitazione Sentinella
Brin, nella sua orbita eterna, ancora in attesa che la mente delle scimmie
chiami il suo creatore. In quel momento di chiarezza i suoi inseguitori lo
azzannano ai calcagni e lui è costretto a dimenticare, ad avere otto gambe
per poter saltare fino a un ponte più alto e alla rigonfia sporgenza inferiore
di una casa dei pari, e da lì al tronco di uno dei grandi alberi, mentre loro gli
sono dietro per tutto il tempo, allargandosi e cercando di ridurre le sue
alternative finché non le esaurisce tutte.
Lui non è Fabian, ma questa è una delle sue Comprensioni. È stata
tramandata attraverso le generazioni – da maschio a maschio – per secoli.
Non è stata messa al bando – i Portiadi non ricorrono alla censura formale –
ma è impossibile ottenerla apertamente, è una cosa malvista e parlarne è un
suicidio sociale. È la Comprensione di un maschio a cui le femmine danno
la caccia, ai tempi in cui questo era uno sport apprezzato dalle giovani
Portiadi di buon lignaggio. Cinque figlie di case importanti sono in
competizione per abbatterlo e prosciugare, secondo il cerimoniale, i suoi
fluidi vitali per celebrare le buone vecchie tradizioni.
Tuttavia, sa che un’altra forza lo sta incalzando attraverso l’antica
memoria aracnoidea delle cacciatrici. Sa che c’è qualcosa dietro a tutte
queste cose, a questi brutti ricordi che sono il suo rifugio e il suo tormento.
Ciascuno di quelli attraverso cui fugge viene smantellato da qualcosa che si
fa sempre più determinata a prenderlo. Quando si fa molto vicino – quando
deve passare all’incubo successivo o perire – la può sentire tutt’intorno a
lui, una cognizione ribollente che si definisce con molti nomi e a cui non si
può mai sfuggire perché è dentro di lui, e quel ‘dentro’ significa anche
‘tutt’intorno’, perché anche lui è dentro sé stesso.
Troppo pensiero razionale, quel far presa sui ricordi e sugli strumenti
cognitivi che adesso per lui sono soltanto ancore. Corri, gli urla il
rombencefalo, e lui obbedisce, irrompendo fuori dall’antica Comprensione
per ritrovarsi al tempo in cui era sul punto di essere scavalcato
nell’assegnazione di un posto di ricercatore, a quando aveva fatto infuriare
un eminente scienziato portiade che con una minima contrazione di una
zampa avrebbe potuto relegarlo nell’oscurità per sempre, a Fabian che
danza per essere accettato da una femmina e si detesta per questo, e intanto
è inseguito da Umani, da Portiadi, dai concetti stessi di vergogna, terrore e
disgusto di sé.
Finché...
Non sa bene se lui è troppo lento o se l’Altro ha avuto una qualche
rivelazione, ma il mondo intorno a lui si contrae e smantella. Per un
momento lui non è niente, non appartiene a nessun luogo, è sul punto di
cessare di esistere come qualcosa di indipendente dalla cosa che lo insegue.
Sente la cresta della sua onda che incombe su di lui come un’ombra e non si
può preparare all’impatto perché non gli resta più niente contro cui
puntellarsi.
Poi... un altro ricordo, della sua prima infanzia, di prima che imparasse
molte cose sul mondo o scoprisse ossessioni che avrebbero realizzato e
guidato la sua vita negli anni a venire: la sua effimera curva dell’attenzione
nell’ascoltare sua madre dirgli qualcosa mentre sono seduti sull’erba, il suo
perdere interesse per le parole al passaggio di qualcosa di ronzante. Oh,
un’ape! E non bada al ritrarsi di sua madre di fronte all’aborrito insetto,
perché lui è interessato a tutto, in ogni momento.
La grande e minacciosa marea dell’oblio prende improvvisamente a
scorrere in tutte le direzioni, non più vincolata dalla forma o dalle paure di
Meshner Osten Oslam, e lui è in un posto del tutto diverso.
È un posto bagnato. L’aria, il terreno, tutto dà la sensazione di essere ...
sbagliato, infondato, una misera simulazione, ma la simulazione di un posto
dove non è mai stato. Questo non è niente che provenga dalla sua mente,
non è una delle Comprensioni impiantate da Fabian. Il terreno è aspro e
roccioso, costellato di pozze e di canali, l’aria ha odore di mare, ma non di
quello che lui conosce. C’è sale ma tutti gli odori di vita organica e di
decomposizione sono alieni, il cielo ha il colore sbagliato, il peso del suo
corpo è altrettanto sbagliato e la tuta che indossa gli va stretta nei punti
sbagliati.
C’è vita tutt’intorno a lui. Alcune cose si muovono, altre sono immobili,
ma niente gli è familiare. Ci sono cose che aprono le braccia al sole ma non
sono piante, altre strisciano fra di esse ma non sono animali. Un guscio con
disegni a spirale su sei piedi grassocci gli urta la gamba nel procedere
pazientemente, ma a parte questo lo ignora. Come microrganismi in una
goccia d’acqua, questo ricordo è un prospero mondo a sé stante, incurante
di qualsiasi cosa al di fuori dei suoi confini.
E non c’è niente che lo insegua. Il sollievo è quasi assurdo, come andare a
sbattere contro un albero alla fine di una scenetta comica. Meshner si trova
all’interno dei ricordi di qualcun altro, respira aria ricordata, è oppresso da
una gravità sperimentata di seconda mano.
Qualcosa comincia a costruirsi davanti a lui. Si leva dall’acqua, cercando
di prendere forma; per un momento è di colpo umanoide, ma questo risulta
essere troppo e si disintegra, solo per provarci ancora, mostrando i suoi
progressi: ossa, nervi, vasi sanguigni, organi... nessuno molto accurato, per
quanto lui riesca a ricordare, ma quanto basta per appendervi sopra la pelle,
una tuta, una faccia. È il volto di una donna, troppo piccolo all’interno
dell’apertura della tuta. La pelle è più pallida della sua, i capelli hanno un
colore rosso che non ha mai visto prima su un essere umano. Appare più
vecchia di lui, ma gli indizi precisi sono indistinti, come se stesse vedendo
la media dell’età di quella donna nell’arco di parecchi decenni.
Lei sbatte le palpebre sulle orbite vuote, e quando esse si sollevano sotto
ci sono occhi castani. La sua bocca si apre e per un momento si muove in
modo del tutto indipendente dalla mascella o dalla muscolatura del cranio,
al punto che Meshner si sente sprofondare di nuovo nell’incubo, ma poi lei
dice: «Il nostro nome è Lante.»
Sta per rispondere, o forse solo per fissarla inutilmente a occhi sgranati,
quando una mano lo afferra per un polso e lo trascina in un posto del tutto
diverso.
9

Noi
Abbiamo trovato qualcosa di inatteso.
Ricordavamo com’era e come evitare le trappole di questo ambiente che è
un corpo umano. Ci siamo resi inoffensivi e abbiamo lasciato che ci
portasse dov’erano gli spazi complessi. Là abbiamo finalmente trovato la
nostra nuova casa, abbandonando la costosa impresa di costituire un essere
indipendente, è così difficile, così stancante essere al di fuori di un
contenitore, e tuttavia noi...
Abbiamo scoperto...
Tutto, dovunque. Spazi dentro spazi. Complessità che si diramano. Mondi:
abbiamo scoperto mondi, proprio come ci era stato promesso molto tempo
fa.
Noi
Stiamo andando a vivere un’avventura.
10

Paul è sempre più frustrato. Gli è stata data la scelta fra il rimanere
prigioniero e l’unire la propria sorte a questo clan di cani sciolti della
scienza e ha soltanto barattato una cella con un’altra. Non ha mai chiesto di
essere un ambasciatore. Naturalmente, questo non è vero. In precedenza è
stato un volontario pieno di entusiasmo e gli era parsa un’idea
incredibilmente buona essere il primo della sua specie a entrare in contatto
con visitatori giunti da un’altra stella, ma adesso i suoi sentimenti al
riguardo sono esattamente l’opposto perché quella non è più una scelta.
Il suo primo istinto è quello di sfidare i suoi ospiti-carcerieri non stando al
loro gioco e cercando di trovare una via d’uscita. Questo è ciò che desidera.
Il calcolo razionale in corso al di sotto del livello conscio della sua struttura
neurale arriva ben presto alla conclusione che la fuga non è un’alternativa
possibile, a meno che lui non abbia una soluzione per affrontare il vuoto
dello spazio. La sua mente conscia ed emotiva si sente frustrata e fluisce
verso un metodo diverso per uscire da quella situazione. Se deve interagire
con questi mostri alieni, allora diventerà il padrone di quel rapporto.
Dopotutto, la strada fino a Nod è lunga, e dovrà fissare la loro forma
bizzarra per molto tempo. Loro hanno cercato di parlargli mediante quel
congegno che balbetta e borbotta emozioni al suo indirizzo, ma lui non ha
provato a incontrarli a metà strada. Adesso però questo è ciò che desidera:
esercitare il controllo sulla sua vita dominando il solo strumento che gli sia
rimasto, gli alieni. I suoi sottocervelli si mettono al lavoro per cercare di
rendere reale il compito impossibile imposto loro dalla sua volontà.
In quel preciso momento, tuttavia, l’attenzione degli alieni e del resto
dell’equipaggio di ottopodi non è rivolta a lui perché hanno compagnia.
Una nave da guerra è venuta a raggiungerli.
La nave scientifica Esterno che Sbircia all’Interno sta ancora accelerando,
naturalmente, perché non è arrivata al punto intermedio del viaggio.
Avviluppato dall’acqua, Paul sente quella forza più come un senso di
profondità che di movimento ma adesso, dopo giorni di viaggio, la loro
velocità globale attraverso il vuoto privo di attrito dello spazio è davvero
incredibile se paragonata a... a cosa? In rapporto con il pianeta che hanno
lasciato o con quello che la loro rotta curva intende intercettare, si stanno
muovendo davvero molto in fretta, ma nessuno di quei due corpi celesti è
presente per fare un confronto. La nave da guerra Conchiglia che Echeggia
Soltanto ha eguagliato senza sforzo non solo la loro velocità ma anche la
loro accelerazione, e così le due navi sono sospese immobili l’una accanto
all’altra, stranamente pacifiche.
E in realtà quello di ‘nave da guerra’ è un nome sbagliato. Quello è il suo
scopo attuale, ma la Conchiglia in sé stessa è quella che Paul considera una
nave-casa, un posto dove vivere adesso che il luogo dove tutti loro vivevano
è rovinato e marcio. Solo che da sempre si verificano scontri, fra individui,
fra gruppi, fra comunità. Succedono spontaneamente e creano altri scontri,
finché ciò che li ha provocati, che sia la scarsità di risorse o
un’incompatibilità di ideologie, non ha più importanza. E così, ogni volta
che vengono assaliti da quel capriccio, a momenti alterni, le navi vengono
convertite per la guerra. Adesso quel grande globo è irto di armi poste fra i
suoi propulsori onnidirezionali mentre la nave scientifica non ne ha per
niente, o almeno nulla che Paul possa vedere. Tuttavia questi molluschi con
cui ha finito per allearsi sono un gruppo astuto, unito dal modo preciso in
cui il loro intelletto (subconscio) lavora. La loro mente è contraria all’essere
ingabbiata quanto quella del resto della loro specie, solo che applica la
stessa volontà tanto alla fuga quanto a manipolare e indagare l’universo e le
sue leggi. Una corrente del genere è sempre esistita fra gli ottopodi fin
dall’inizio ed è sempre rimasta ai margini, spesso repressa da elementi più
conservatori assaliti da un’ansia improvvisa per la minaccia costituita da
questo o quell’esperimento. Nei giorni migliori quella repressione non era
forse niente di più della costrizione a smantellare un’apparecchiatura o un
rovente scambio di tonalità della pelle, ma adesso che la loro intera civiltà è
aggrappata sull’orlo dell’annientamento la posta è più elevata e la violenza
più letale.
E tuttavia loro non sono selvaggi. Il fatto che possano essere pronti a
combattere non significa che la violenza sia la loro prima risorsa. Invece, il
gruppo attualmente al comando della nave da guerra sta inviando loro un
appello. I colori cominciano a riversarsi sul vasto scafo della nave, visibili
anche da quella distanza. Paul si spinge fino alla consolle e riceve il resto
del messaggio, freddi calcoli di minaccia e di supplica, ma la cosa
importante sono i colori. I numeri sono soltanto sterile capacità, mentre i
colori indicano intento. La fazione della nave da guerra sta sostenendo in
toni appassionati la tesi che nessuno dovrebbe avventurarsi di nuovo su quel
pianeta maledetto – la paura, l’orrore! Gli scienziati cominciano a miscelare
la loro risposta, con le singole sfere della loro nave che si tingono di colori
diversi, un insieme di voci che variano leggermente e si levano in una
protesta. Dall’atteggiamento relativamente rilassato di tutti gli interessati –
e in base alla distanza dalla loro destinazione – Paul sa che questo
atteggiarsi si protrarrà per qualche tempo. Poi ha un’ispirazione improvvisa.
L’interazione fra i centri neurali della sua Portata è al lavoro sul problema
da quando lui ne ha avuto il desiderio e adesso ha trovato una soluzione.
Tutto quello che Paul sa è che adesso vuole parlare con gli alieni.
Helena per poco non si lascia sfuggire la finestra di accesso a un epocale e
decisivo contatto fra specie perché è comprensibilmente focalizzata sulla
colossale nave là fuori. Forse a scopo di intimidazione, si è fatta tanto
vicina che lei può vedere in alcune parti trasparenti dello scafo puntini che
si muovono e che potrebbero essere singoli cefalopodi accalcati intorno alle
finestre per osservare meglio la preda che presto distruggeranno. Può
vedere anche le armi: da quel punto di vista, la radice comune della loro
tecnologia lascia ben poco spazio all’immaginazione. I colori cominciano a
diffondersi sull’immensa tela ricurva, filtri traslucidi si fondono e si
mescolano mentre la nave da guerra prende a trasmettere
contemporaneamente una dozzina di diverse minacce e richieste su una
scala tanto vasta che il suo software, i suoi semplici occhi umani, non è in
grado di elaborarle. Tutto quello che può fare è fissare i colori e sapere che
sono irosi e bellicosi.
Poi Portia, che ha la benedizione di godere di un campo visivo più ampio,
le tira la manica con i pedipalpi. «L’ambasciatore ti sta contattando.»
«Adesso?» domanda Helena, perché quell’infelice creatura si era limitata
a fluttuare passiva e indifferente per tutto il tempo del loro lungo e tedioso
viaggio. Adesso che stanno per essere ridotti in atomi, però, si è fatta
loquace, o forse sta dicendo loro formalmente che stanno per essere
consegnate e sommariamente giustiziate.
Il punto di congiunzione fra le loro camere sferiche è cambiato,
diventando una lente d’ingrandimento per cui i colori dell’ottopode sono
molto nitidi. Esso trasmette lentamente: un vortice di agitazione danza
lungo il contorno del suo manto, su e giù lungo le braccia e intorno agli
occhi, ma il centro praticamente arranca, con una tonalità che si trasforma
lentamente in un’altra mentre cerca di scandire qualcosa per lei. Tre o
quattro tentacoli sono avvolti intorno alla consolle, quasi stessero cercando
di strapparla dal suo supporto.
«Helena, trasmissioni» nota Portia. «Un formato molto diverso.»
Helena vi accede e in un primo momento le sembrano una cosa senza
senso, una serie di file di secondi tronchi e spezzettati di dati visivi,
registrazioni audio, numeri, una cosa del tutto diversa dai soliti dati
semicomprensibili che le creature trasmettono abitualmente. Si sente
assalire da un’ondata di disperazione. Possibile che non abbia capito
proprio niente? Guarda l’ambasciatore e riscontra un sentimento affine al
suo nei tremolii di colore parzialmente repressi che cercano di erompere
sulla sua pelle. Entrambi stanno sbattendo contro un vuoto nella
comprensione. Lui si sta sforzando di farsi capire da lei per la prima volta.
Poi Portia trova la sequenza: l’accozzaglia di pezzi sul canale dei dati è
stata mandata senza il giusto ordine, come se fosse stata prelevata da un
grande archivio da una mezza dozzina di capricci separati e messa insieme
alla meglio. Tuttavia, i vari pezzi sono etichettati con indicatori di sequenza,
quindi il puzzle può essere ricomposto. Helena esamina il tutto che ne
risulta, ha un altro momento di disperazione di fronte a quel caos, poi
capisce cosa sta vedendo. Ha già incontrato in precedenza quei frammenti,
sono pezzi di Senkovi, le sue registrazioni, parole, espressioni. Adesso sono
fuori del loro contesto, messi insieme senza nessun rispetto per l’ordine
originale, ma lei li esamina nella nuova sequenza: Senkovi che insegna, che
piange, che ride, che parla a colleghi che non sono inquadrati, che mangia e
soprattutto conversa con i suoi animaletti domestici, i lontani antenati di
questa bizzarra civiltà spaziale. Dovrebbe essere soltanto un pasticcio, e sa
che dietro al tutto non c’è nessun ‘Senkovi’, ma arriva alla fine con
l’impressione che si tratti di un messaggio coerente, anche se nessuna delle
parole in sé stesse aveva senso. Riesamina il tutto, lasciando che Senkovi
balbetti e salti di secondo in secondo, guardando la sua faccia, le sue
espressioni che sono umane e tuttavia non Umane, separate da lei da un’era
di tempo e di perdita.
Sta parlando di lotta, di esperimenti, forse poco saggi, forse condannati;
parla della resistenza da parte degli altri e del suo perseverare comunque,
poi c’è un momento di sfrenato entusiasmo per il suo progetto attuale, un
altro momento di schiacciante depressione perché tutto sembra sul punto di
fallire. Una tempesta di sentimenti, ma tradotti in emozioni umane
etichettate con strane parole che condensano le denotazioni, le limano
finché lei riesce... a vedere in esse il suo volto, un volto umano che dà un
significato umano. E per tutto il tempo l’ottopode fissa i suoi lineamenti, i
suoi occhi, ogni cosa visibile nella sua maschera, e forse ha ingrandito a sua
volta l’immagine per cercare le espressioni proprio come lei cerca di
studiare i suoi colori.
E una parte di lei si mette comoda, con un certo fare caparbio, e pensa:
Non potevi farlo prima?
Fin qui, tutto bene. Adesso tocca a lei parlare. Portia le sta già inoltrando
evidenziatori di dati per permetterle di identificare la loro nave, la nave da
guerra, i pianeti, il concetto astratto di oltre per indicare la loro origine.
Helena li prende e comincia a parlare all’ambasciatore usando i colori. Per
lo più si ripete, solo che questa volta la osserva attentamente e lei sente che
si sviluppa una connessione, non solo con un essere vivente che ne
riconosce un altro, come le era accaduto nel loro primo incontro, ma con
una mente senziente che annaspa alle prese con lo stesso puzzle, cercando
di collaborare con lei per risolverlo.
Veniamo in pace. Dobbiamo parlare con i nostri amici. Abbiamo bisogno
di aiutarli.
E per tutto il tempo il dibattito più grande divampa in migliaia di tonalità
sullo scafo di entrambe le navi.
11

Zaine è sveglia ma sofferente. Fabian ha qualche conoscenza medica


relativa agli Umani, ma si tratta soprattutto di neurologia. La biblioteca di
Comprensioni su cui di norma farebbe affidamento è inaccessibile e forse
definitivamente perduta, a meno che non riescano a tornare sulla Voyager, e
l’apparecchiatura di sintetizzazione che dovrebbe produrre su richiesta cose
basilari come gli analgesici non funziona, non appare neppure sulla lista dei
sistemi a cui Kern sta lavorando. Inoltre le comunicazioni di Kern con
l’equipaggio costretto a terra vanno diminuendo in modo costante. È
passato qualche tempo dall’ultima volta che chiunque fra loro ha sentito la
vibrazione familiare della sua voce attraverso i piedi. Viola ha ordinato,
richiesto, perfino supplicato il computer quando pensava che Fabian fosse
occupato in altro, ma adesso Kern comunica soltanto tramite le consolle,
fornendo brevi rapporti funzionali privi di qualsiasi forma di personalità.
Quando tenta un esame esteso a tutto il sistema, Viola scopre che, invece
delle funzioni minime che si aspettava di trovare, tutto il potenziale di Kern
è impegnato in una furiosa attività, tanto organica quanto inorganica. I suoi
centri elettronici lavorano al massimo della capacità, eliminando lentamente
i lavori richiesti per mantenere in funzione la danneggiata Lightfoot. Le sue
formiche, che si occupano dell’ampiezza di pensiero e della soluzione in
parallelo dei problemi, stanno attraversando una crisi di qualche tipo. Gli
insetti si muovono freneticamente, comunicando costantemente fra loro nel
trasferire i dati da antenne ad antenne, ciascuna impegnata a dedicare il suo
piccolo insieme di neuroni a minuscoli sottoinsiemi di ragionamento per poi
ricombinarli con quelli delle vicine, esaminarli, arrivare a decisioni,
andarsene per rifare i calcoli. La velocità fulminea dei suoi elementi
elettronici è il prosencefalo di Kern che prende decisioni e presiede a un
vasto e distribuito motore decisionale allocato nelle varie colonie di
formiche ai suoi ordini. Per Kern è tutto Kern, l’illusione di un tutto
unificato. Per Viola non è chiaro quanto rimanga di Kern, sempre che ci sia
ancora qualcosa, ma quel che c’è è impegnato e ha paura che stia soltanto
funzionando a vuoto, impotente e fuori controllo. Le formiche sono così
intensamente attive che hanno cessato di svolgere la loro abituale
manutenzione. Operaie morte cominciano ad accumularsi e questo porterà
solo a una colonia morta (e al lobotomizzare Kern) se non vi si porrà
rimedio. E nessuno dei membri dell’equipaggio può provvedere a farlo,
solo Kern.
Viola però è una pragmatista. Sta isolando sezioni dell’architettura del
computer, sottraendo neuroni alla frenesia di Kern, perché in questo modo
spera di mantenere il supporto vitale, l’integrità dello scafo e i loro miseri
tentativi di effettuare riparazioni. Sa che se Kern – o un qualche caos
disfunzionale che attualmente occupa il suo posto – dovesse accorgersene le
cose si potrebbero fare spiacevoli, perché Kern potrebbe riprendersi tutto in
modo estremamente definitivo.
Mentre lavora, Viola espone a Fabian una sua conclusione: qualsiasi cosa
il computer stia facendo, non si tratta di semplice caos. Riesce a vedere
quanto basta per intuire degli schemi, e il loro apparato per le
comunicazioni è stato ripetutamente modificato per permettergli di
trasmettere meglio, non alla Voyager ma ai droni orbitali e alla stazione.
Kern sta spostando una quantità colossale di dati su e giù per il pozzo
gravitazionale, e Viola non riesce a immaginarne il motivo.
Artifabian, il terzo membro dell’equipaggio, che per fortuna è ancora
scollegato da Kern, si sta occupando di Zaine perché conserva più
conoscenze mediche sui vertebrati dei suoi compagni viventi e continua a
comportarsi come un cortese e deferente maschio portiade, cosa che Viola
trova confortante e che irrita Fabian.
Poi, inaspettatamente e al di là di qualsiasi ottimismo, un segnale si
accende sulla consolle delle comunicazioni.
Lightfoot, Kern, Viola, Fabian, Zaine, Meshner, c’è qualcuno? Una sfilza
di nomi nel rassicurante linguaggio dei Portiadi.
Equipaggio della Lightfoot, risponde Fabian. Parla Fabian. Portia?
Viola si precipita alla consolle, spintonandolo e lasciando Zaine ad
aspettare ansiosamente notizie dall’altro lato della camera dell’equipaggio.
Parla Portia, conferma l’interlocutore. Non so quanto tempo abbiamo.
Illustratemi la vostra situazione.
Fabian provvede, lasciando che Viola gli detti il rapporto più breve e più
informativo possibile, ponendo l’accento su quanto poco di tutto rimanga
loro. E voi?, aggiunge Fabian, alla fine.
Nonostante il suo avvertimento sul tempo, Portia esita quanto basta
perché i nervi di Fabian si tendano di nuovo. Stiamo viaggiando verso di
voi su una nave controllata da una sorta di fazione di scienziati presente fra
i molluschi. Attualmente il loro scopo non è quello di effettuare un
salvataggio, ma Helena e io stiamo tentando di persuaderli. Il suo
messaggio arriva nudo e crudo, privo della giusta interfaccia che vi
aggiungerebbe personalità e sottotesto, ma Fabian riesce a cogliere dal
ritmo stesso del discorso che lei non nutre molte certezze circa l’esito di
quell’opera di persuasione. Inoltre c’è una complicazione. Un’altra nave ci
accompagna, il suo scopo è ostile ed è collegata alla nave che vi ha
attaccati. Per il momento, tuttavia, è in corso un dialogo.
Incitato dall’urgente agitarsi dei pedipalpi di Viola, Fabian chiede, con
una calma degna di lode: Spiegati, per favore.
Il nostro equipaggio ha un qualche scopo scientifico che la nave nemica
vuole prevenire, ma finora è tutto un... confronto di zampe. Un atteggiarsi
usando i colori. Se non fossero tanto potenti e con navi così grandi sarebbe
divertente. E se noi non fossimo così impotenti. La frustrazione di Portia
risulta evidente nonostante i numerosi limiti tecnici. Però c’è un dialogo.
E la nave che ci ha attaccati?
Attualmente è in orbita intorno alla luna del pianeta. Sembra disposta a
seguire l’esempio della nave che ci accompagna. Per ora. Come abbiamo
visto, queste creature sono incostanti.
Viola incombe accanto a Fabian, pronta a spintonarlo da un lato, ma poi ci
ripensa e il suo atteggiamento indica una richiesta forzatamente cortese di
poter prendere il controllo della consolle della comunicazione, che Fabian
le cede con pari professionalità.
Qual è la causa della loro ostilità?, trasmette Viola.
Viola? La piatta trasmissione indica ben poca differenza, ma senza dubbio
Portia ha modificato il linguaggio corporeo per parlare da femmina a
femmina. Attualmente c’è un’agente infettivo sul pianeta su cui siete
precipitati. I molluschi ne sono terrorizzati perché tutto il loro pianeta ne è
infestato e non vogliono che si estenda altrove. Questo complica il riuscire
a prelevarvi dal pianeta e il recupero dei documenti scientifici – o quel che
stanno cercando – da parte dei nostri ospiti.
Viola esegue un piccolo tamburellare di piedi tremante, un’inarticolata
espressione di eccitazione e di ispirazione. Portia, io... noi abbiamo
lavorato alla trasmissione inviata dalla stazione e siamo arrivati ad avere
una buona comprensione di quell’agente. È molto più di quello che pensi. È
una... una scoperta notevole.
L’ho vista all’opera. Spaventa anche me, replica in tono piatto Portia, che
è famosa soprattutto per la sua spericolatezza.
Portia, hai un canale di comunicazione con i molluschi?, incalza Viola.
Lo abbiamo, grazie a Helena. Non è preciso, ma a tratti riusciamo a
trasmettere idee moderatamente complesse.
Viola puntella le gambe come se stesse per spiccare un salto rischioso.
Allora abbiamo qualcosa su cui fare leva. Abbiamo il resoconto di Lante, e
qui possiamo analizzarlo liberamente. Se hanno un nemico, possiamo
aiutarli a capirlo. Forse possiamo perfino indirizzarli verso un modo per
contenerlo, distruggerlo, cose del genere. Però loro hanno bisogno di noi.
Hanno bisogno di averci al sicuro lontano da questo pianeta e che noi si
collabori liberamente con loro. Potete dirglielo?
Posso dirlo alla fazione scientifica, replica Portia, incerta. Se riusciremo a
farci capire, loro lo potranno dire alla fazione della guerra, ma non so se
sarà d’aiuto.
Provaci, ordina Viola. È la sola moneta di scambio che abbiamo.
Le Comprensioni tecniche di Viola la rendono la più adatta a lavorare ai
sistemi della Lightfoot, che sono costantemente minacciati da una perdita di
energia, dal malfunzionamento del supporto vitale e dall’arrestarsi dei
fabbricatori di cibo. Impantanata in questo lavoro a breve termine ma
essenziale, ha trasferito l’archivio di Lante a Fabian, dicendogli di trovare il
modo di capirci qualcosa in quella miscellanea zoologica trasmessa dalla
stazione o dalla cosa che si trova su di essa. Avendo visto quello che ha
visto nella città fasulla, Fabian sarebbe del tutto d’accordo con lei anche
senza la minaccia di distruzione che arriva dallo spazio e sta vagliando quel
materiale meglio che può, cercando di farsi un quadro della biosfera aliena
mediante una fonte che, per quanto ne sa, potrebbe essere pura invenzione
per i nove decimi.
Alcune sezioni non hanno senso, sono solo testo disposto come parole del
Vecchio Impero ma prive di significato, la copia stilata da un illetterato.
Alcune sezioni sembrano fondersi alla perfezione con il modo in cui lui si
aspetterebbe che scrivesse un antico scienziato umano: la loro era una
presentazione ritualistica e formale che lui in realtà ha sempre trovato
carente e con cui i Portiadi hanno un’estrema familiarità perché Avrana
Kern apparteneva a quella categoria e a volte finisce ancora per usare quel
gergo. E poi ci sono altre sezioni, quelle più recenti per quanto è in grado di
stabilire. In effetti, nella sua mente si va formando uno schema, com’è
tipico di Portiadi e Umani se lasciati lavorare in pace. Ha visto le antiche
immagini ben curate della missione del Vecchio Impero su questo mondo
dimenticato. In esse c’era una donna di nome Lante, ed era infetta come lo
erano tutti. Infetta e abbattuta dal suo comandante, ma chi poteva sapere
cosa fosse successo dopo che il punto di vista di Baltiel si era allontanato
dalla scena?
Riordina le diverse voci sulla base dei metodi di datazione del Vecchio
Impero e trova l’anatomia di una trasformazione in cui l’intelligenza umana
viene sopraffatta, dissolta in un caos ribollente e poi ricostruita come un
insetto che subisca una metamorfosi, finché non emerge qualcosa che
riprende a stilare i diari e cerca di fare della scienza senza avere nessuna
comprensione di cosa essa sia o di quale sia il suo linguaggio. Alla fine però
la cosa ha imparato, e le ultime annotazioni per poco non vanno perse nella
confusione perché appaiono tanto lucide che in un primo tempo Fabian le
inserisce fra i documenti più vecchi.
Finalmente, con la cronologia completata, si arrampica su per la parete e
abbassa lo sguardo sullo schermo, dove è esposto tutto, e cerca di
considerare quali siano esattamente le implicazioni di una donna che è
morta ma è stata ricreata, forse più volte, ma non ha mai dato l’impressione
di riconoscere o comprendere quella realtà di fatto. Legge della vita su Nod,
come Lante chiamava questo pianeta, della simmetria radiale, degli
scheletri idrostatici e di tutti gli altri modi in cui Lante ha tradotto l’alienità
in concetti biologici gestibili da uno scienziato umano. E la legge
dell’ereditarietà che non deve nulla al DNA, quelle informazioni registrate
nei minimi dettagli nella disposizione degli atomi all’interno delle
membrane, un metodo infinitamente più efficiente dei cromosomi terrestri
grazie al quale il materiale ereditabile in qualsiasi analogo di cellula di una
di quelle stelle marine che si crogiolano al sole, per esempio, occupa meno
dello 0,1 percento dello spazio occupato dai geni in una cellula umana o di
Portiade. Però è proprio qui che qualcosa è andato storto – nella
documentazione o nell’evoluzione – perché nei suoi ultimi giorni Lante è
affascinata da una specie nella quale questo non è affatto vero, dove le
istruzioni ereditate trasmesse alle nuove generazioni sembrano abbondanti
in modo assurdo.
Fabian pensa che questo sia solo un esempio del fatto che Lante non era
più un operatore razionale, ma quando lo dice a Viola lei lo rimprovera.
Comprensioni, ribatte. È quello che volevo trovare qui. Queste sono le
loro Comprensioni. Sottrae alla sua opera di riparazione il tempo necessario
a effettuare alcuni calcoli approssimativi su quanti dati potrebbero essere
contenuti in una simile raccolta di codice genetico e in pratica finisce per
esaurire i numeri: ogni cellula è un vasto archivio, ma per cosa, e perché?
Durante tutto questo lavoro sono trascorsi giorni e notti, e ancora non
sono stati distrutti, con Helena e Portia che tengono a bada l’inevitabile,
resettando la clessidra ora dopo ora. L’equipaggio della Lightfoot è a corto
di cibo e il riciclatore dell’acqua mostra segni allarmanti. Zaine dorme
molto ma quando è sveglia è chiaro che soffre. La composizione dell’aria
cambia lentamente nonostante tutti gli sforzi di Viola di aggiustare i filtri.
E, certo, là fuori c’è un’atmosfera respirabile, ma ci sono anche altre cose.
Fabian ha mandato un drone volante ad alta quota per un’esplorazione a
raggio più lungo: la terra intorno a loro è tempestata da frammenti di città,
ripetuti all’infinito. L’altezza è eccessiva per vedere qualsiasi cittadino che
vi si aggiri con passo strascicato, ma qualcosa ha scavato quelle rovine
preconfezionate.
Adesso è notte, e anche se ci vedono al buio meglio degli umani, i
Portiadi sono pur sempre anche loro principalmente creature diurne e quella
è una notte aliena, piena di ogni sorta di mostri.
Fabian fissa il divagante e bizzarro resoconto di Lante e parti di lui
cercano di intessere conclusioni che non piacciono affatto al resto del suo
essere. Nella sua testa c’è una figura dal passo strascicato che risale
lentamente l’altopiano. Ha il terrore di sentir bussare alla porta.
Fabian consegna a Viola il suo rapporto conclusivo. Hanno il quadro
migliore possibile di come la vita funzioni sul pianeta su cui sono bloccati,
e in particolare su una specifica parte di quella vita.
Avevi ragione, dopotutto, ammette Fabian. Qui ci sono Comprensioni.
Non come le abbiamo noi, ma qualcosa di analogo.
Evoluzione convergente, decide Viola. Forse è qualcosa che prima o poi
qualsiasi forma di vita potrebbe raggiungere.
Fabian è abbastanza stanco e turbato da comporre una risposta tagliente.
Solo che noi non l’abbiamo sviluppata, non davvero. È una parte del virus
che gli umani hanno usato per ‘elevare’ i nostri antenati, e la vita terrestre
non ha mai sviluppato questo tratto. La vena madre è qui. Noi siamo...
simulatori artificiali.
La cosa non piace a Viola. Essendo una femmina potente e istruita che
appartiene a una casa dei pari dominante, è abituata a considerarsi la
naturale conseguenza di un’evoluzione avanzata. Tuttavia, in quel luogo e
momento, la società dei Portiadi è ridotta a loro due soltanto, e Fabian sente
di poter parlare liberamente perché ci sono pochissime probabilità che l’uno
o l’altra di loro ne uscirà vivo.
Quanto a Fabian, le sue scoperte riguardo all’organismo alieno aprono un
abisso esistenziale. Alla fine c’era una Lante ed era consapevole di quello
che era diventata? La filosofa ha sognato di essere una farfalla oppure si è
trattato dell’opposto? Per Viola e Zaine, che hanno ripreso la loro
collaborazione, questo significa qualcosa di estremamente eccitante. Viola
ha finito con il suo ruolo di ingegnere addetto alle riparazioni ed è libera di
attingere ad altre Comprensioni, tornando a essere una scienziata
indagatrice. Tutte e due si meravigliano per la fedeltà di trascrizione e
compressione dati operate dall’organismo, che regge favorevolmente il
paragone con il meglio che la tecnologia portiade ha da offrire... se solo
riusciranno a trovare il modo di lasciare quel pianeta e di tornare a casa.
Fabian è di nuovo escluso, ma questa volta non accetta la cosa e invece si
va a fermare molto vicino, intervenendo di proposito nella conversazione.
Viola si sposta per trafiggerlo con il suo sguardo primario.
Non hai del lavoro da fare?
Nessuno di noi ne ha, oppure ne abbiamo tutti. Fabian riuscirebbe a
esibire un po’ più di arroganza se non fosse stata Viola a effettuare la
maggior parte delle riparazioni. Sono uno scienziato, e per di più sono uno
specialista in neurologia umana. Potrò dare utili contributi. Non sono
soltanto qualcuno a cui assegnare incarichi insignificanti. Gli ci vuole un
sacco di coraggio per esporsi in quel modo, soprattutto con Viola, che
appartiene decisamente alla vecchia guardia quando si tratta di tenere i
maschi al loro posto. Per un momento lei lo fissa con sguardo gelido, ed è
chiaro che Zaine non sa cosa dire. Artifabian interviene però a rompere il
ghiaccio, rivestendo ancora una volta il ruolo del maschio cortese. Siamo
giunti alla conclusione che il parassita non ha solo sviluppato un metodo
sofisticato di codificare la memoria e l’esperienza, che è copiato per tutte le
generazioni future, ma è stato anche in grado di usare questa capacità per
fare almeno in parte l’upload della consapevolezza di un umano.
Tutti fissano il robot, che sotto la loro attenzione si accoccola
maggiormente su sé stesso. Il suo modo di esprimersi è una strana
mescolanza di cortesia maschile e dei toni secchi di Kern. Fabian riflette
che potrebbe fare sul conto dell’automa la stessa domanda da lui formulata
riguardo all’entità Lante: Sta fingendo o ci crede davvero? Dopotutto,
Artifabian era un esperimento di Kern, un modo in cui l’entità bioorganica
poteva penetrare maggiormente nella vita dei suoi compagni viventi. Il fatto
di tradurre era soltanto un mezzo e il danno che l’automa ha subito nello
schianto è risultato nello sviluppo di questa strana personalità secondaria,
forse qualcosa che Kern stava mettendo a punto per usarlo in seguito.
Se però è un maschio, allora può comunicare tranquillamente con Fabian,
mentre le altre due hanno bisogno della sua mediazione per parlare fra loro.
Di conseguenza, Fabian diventa parte della discussione senza un consenso
formale da parte di Viola.
Un upload?, ripete.
Viola ha un lieve fremito di irritazione ma accetta la validità della
domanda. L’impressione che Zaine ha delle ultime sezioni è che il parassita
abbia... ricostruito il sistema nervoso dell’ospite o che lo stia forse
simulando. L’umana morta è stata ricostruita a memoria, e finché è durata
la simulazione ha creduto di essere Lante, o almeno questa è l’opinione di
Zaine. Questo significa che la capacità di immagazzinamento di
informazioni dell’organismo parassitico va al di là di qualsiasi cosa che
noi possiamo costruire artificialmente.
Di ciascuna cellula, la corregge distrattamente Fabian.
Viola lo fissa. Artifabian traduce, e anche Zaine si mette a fissarlo.
Questo è certo, ribadisce lui, sulla difensiva. Secondo le annotazioni della
stessa Lante, questa è una sorta di cultura di batteri. Le cellule individuali
vengono duplicate, si riproducono e poi muoiono, ma le informazioni che
contengono vengono duplicate a loro volta. Una singola cellula potrebbe
produrre una colonia enorme, se le venisse permesso di riprodursi in modo
incontrollato, e di trasmettere ai suoi discendenti tutte le informazioni che
conteneva. Non ci sono cose che suggeriscano una gerarchia o una
condivisione al di fuori delle informazioni – questo richiederebbe un livello
di organizzazione di cui non ritengo che quella cosa sia capace. Di
conseguenza, se è in grado di riprodurre Lante questo dipende dal fatto che
è contenuta in ogni sua parte che è entrata in contatto con lei.
Zaine scuote il capo, muovendo le labbra in silenzio, e Artifabian
scandisce: Impossibile.
Per una volta, però, Viola è d’accordo con Fabian. Questa è la scoperta
del millennio, dichiara, come se la comunità scientifica del Mondo di Kern
potesse precipitarsi a salvarli in segno di riconoscimento di questo risultato,
invece di prendere nota della loro morte distante su un mondo alieno.
Fabian sente il bisogno di riportarla con i piedi per terra. E quella cosa è
ancora là fuori, e ricorda ancora. Stava cercando di essere Lante, e adesso
senza neppure avere un ospite. Non vive più nel guscio originale della
creatura ospite e non le rimangono corpi umani da utilizzare, ma ricorda
ciò che è stata. Ha continuato a creare qui cose umane – quella città deve
essere forse stata il posto dove Lante viveva, sulla Terra. Ha avuto a
disposizione migliaia di anni. Ricorda com’è essere Lante, ma non credo
che sappia cosa questo significhi. Non credo che ci sia abbastanza di Lante
immagazzinato al suo interno.
Zaine sta parlando di nuovo, sovrapponendosi a lui a causa del ritardo
dato dalla traduzione. Artifabian finisce di emettere i suoni umani che
codificano il discorso di Fabian prima di eseguire i movimenti di piedi e di
pedipalpi che traducono le parole dell’Umana.
E adesso immagazzinerà Meshner.
Fabian si immobilizza, e per un momento è di nuovo sull’orlo di un
episodio di fuga. Lei non intendeva ferirlo, naturalmente, ma in qualche
modo lui era riuscito ad arrivare fin lì senza muovere quel passo logico,
dato che quella cosa è la stessa che si è impadronita del suo compagno di
ricerca, che adesso deve essere ridotto a un set di informazioni in mezzo
alle schegge infrante che erano Lante.
12

Per un momento Meshner pensa di essere di nuovo nella stazione orbitale,


e considerata la qualità di incubo assunta da tutto il resto non desidera
davvero rivedere l’incontro che ha scatenato questo disastro. Quando però
prova a ricordare con esattezza cosa è successo, tutto comincia a
disgregarsi, a rallentare, e lui percepisce che l’inseguitore senza volto lo sta
raggiungendo perché la memoria funge da àncora e lo costringe a fermarsi.
Inoltre, questo posto non è lo stesso. È simile, come se fosse visto
attraverso un’estetica condivisa, ma non sono le stesse stanze, la stessa
disposizione, ed è tutto... incompleto. Sta vedendo qualcosa che è più un
piano abitativo, arte concettuale, il piano virtuale di un architetto. Stanze
curve progettate per la gravità rotazionale, corridoi che si estendono verso
l’esterno e verso l’alto, paratie, sezioni e componenti modulari, ma tutto
abbozzato come se la precisa disposizione di linee ed angoli venisse
ricostruita a posteriori sulla base di qualcosa ricordato in modo imperfetto.
A volte l’assenza della memoria può essere una benedizione.
Probabilmente non vuole sapere dove si trova. Si rivolge alla donna che è
con lui. Non è Lante, ma ha una faccia conosciuta. Per un lungo momento il
suo nome non vuole affiorare, perso con tutti gli altri ricordi, però si
permette di rallentare il passo appena quanto basta ad accorciare la distanza
fra lui e il mostro che lo tallona, finché non riesce a dire: «Kern.»
Avrana Kern ha fatto del suo meglio. La conoscenza di quello che sapeva
e di cosa ha passato per arrivare fin lì è radicata dentro di lei, ed è soltanto
quando richiama quei ricordi che scopre quanto poco in realtà rammenti di
quei giorni passati. Si è liberata di quel bagaglio inutile come di una muta di
serpente, oppure lo ha fatto consumare nel corso di innumerevoli
trasformazioni: da donna a cyborg a intelligenza artificiale a sistema
cibernetico ibrido, ridotto poi a questo frammento derivato per essere
impiantata nella Lightfoot e fratturata nuovamente nel corso dell’attacco e
dello schianto. Ma sé stessa è tutto ciò che ha su cui lavorare, e questi
ricordi sono più quelli dell’aspetto che secondo lei avrebbe dovuto avere la
stazione di terraformazione Brin che non quello che era il suo aspetto
effettivo.
«Non cercare di ricordare molto» dice a Meshner. «Limitati ad
ascoltarmi.» E lui si mette ad ascoltarla davvero, spinto dal disperato
bisogno di risposte, ma lei non ha niente da dirgli. Il silenzio fra loro si
prolunga finché lui non lo infrange, affermando: «Sono stato attaccato.»
La persona virtuale di Kern può soltanto annuire, mentre gli ingranaggi
dietro di essa entrano in funzione per cercare un modo di vedersela con lui
adesso che lo ha isolato da tutto il resto.
Lo vede continuare a pensare, e questo è un problema perché i pensieri di
Meshner sono come una rete di radici che porta a un posto buio e corrotto.
Allo stesso tempo, che senso ha cercare di salvarlo senza i suoi pensieri?
Sono quei pensieri a creare l’uomo. Fa del suo meglio per elevare barriere
che lo limitino alle risorse cognitive nelle loro immediate vicinanze,
sentendo l’altra presenza annusare lungo i confini, come un lupo
all’imboccatura di una grotta dei suoi antenati del Paleolitico.
«Questo è... l’impianto» afferma Meshner, e Kern avverte uno strano
senso di orgoglio per il fatto che ci sia arrivato da solo, tanto in fretta, con i
suoi mezzi limitati. «Tutto quello che sto sperimentando è generato
dall’impianto. Deve avere un difetto di funzionamento.»
«Sta funzionando bene e al di là delle capacità per cui era programmato.
Tu e Fabian siete stati bravi nel progettarlo.» Poi Kern sente l’impulso di
prendersi a calci perché quel suo riferimento al collaboratore portiade di
Meshner genererà altri percorsi di memoria che sarebbe stato meglio
lasciare sopiti.
«La mia mente non lavora bene.» C’è un’effettiva angoscia che cerca di
aprirsi un varco attraverso il suo tono sconcertato. Dopotutto, Meshner è
una creatura razionale. Se gli si toglie la mente, cosa gli rimane? «Perché
sei qui, Avrana?»
«Ti ho tirato fuori.» È vero, da un punto di vista tecnico e letterale,
assegnando un determinato valore a quel ‘ti’.
«Fuori... all’interno dell’impianto? Sono intrappolato nell’impianto. È
andato tutto storto e non riesco a tornare nel mio corpo.» La voce di
Meshner trema un poco. «Cosa mi insegue? Lo posso avvertire, appena
dietro di me.»
«Non c’è niente dietro di te.» Non nella mia simulazione. Non ancora.
«Lo avverto laggiù. Perché sono intrappolato nell’impianto? Avrana,
dottoressa Kern, per favore.»
Si fa sempre più agitato, tanto che l’emozione intensificata comincia a
soppiantare tutte le linee sottili e gli angoli di Brin 2, un faro per la cosa che
aspetta fuori. Kern sa che deve dire in parte la verità e sperare che
conoscerla, anche se è spaventosa, lo calmi.
«Questo impianto ha tratto ispirazione da un assortimento di passate
tecnologie, incluso il software neurale più sofisticato prodotto dal mio
popolo. Anche se non era progettato come un sistema di upload, la sua
capacità di registrare e di replicare esperienza è risultata in una funzione
abbastanza simile da poter funzionare in quel modo. Nel progetto tuo e di
Fabian questo era inteso solo come uno stato di memorizzazione transitoria
per permettere la creazione di una copia temporanea della persona biologica
affinché interagisse con i qualia della Comprensione, fungendo da filtro che
desse modo all’originale di assimilare l’informazione. Mi stai seguendo fin
qui?»
Gli occhi di Meshner dicono di no, ma lui annuisce.
«Con una modifica minima è però possibile estendere a tempo indefinito
il periodo di memorizzazione ed eseguire una copia della personalità di cui
si è fatto l’upload come parte del programma empirico dell’impianto. Una
funzione che, potrei aggiungere, è estremamente più veloce da caricare e
più efficiente nell’uso delle risorse rispetto all’originale che usavo io.
Dovresti davvero essere molto orgoglioso.»
Meshner la fissa con espressione cupa e Kern sospetta che il sorriso da lei
applicato sul suo avatar probabilmente non sia riuscito a rassicurare e sia
passato direttamente all’apparire grottesco.
«Capisco» ribatte lui, in tono piatto. «Quindi mi stai dicendo, se ho capito
bene, che io sono l’upload. È così, vero? Non riesco a pensare bene o a
ricordare le cose perché non sono... me.»
«Questo è sostanzialmente esatto, sì.» Kern accentua ancora un poco il
sorriso. Ha la sensazione di non aver mai avuto bisogno di sorrisi
rassicuranti quando era in vita, non erano parte delle sue minime capacità di
relazionarsi con la gente, e adesso non riesce a simularne bene uno. Sta
dando al suo volto virtuale espressioni che nessuna faccia umana dovrebbe
esibire.
«Potresti magari ricongiungermi con il resto di me... sai, il vero me?
Smettere con la memorizzazione o quello che è?» Meshner la sta prendendo
davvero bene, ma adesso sono arrivati al punto cruciale, e di colpo Kern
sente voci che giungono dal suo remoto passato, la sua voce stizzosa che
ingiunge, secca: «Dammi soltanto qualcosa per rimettere insieme i miei
ricordi» e una calma e fasulla voce di donna che replica con un: «Questo
non è consigliabile», perché la conoscenza la farebbe impazzire, com’era
successo con il tempo. A causa di questo forse le manca ancora un nucleo di
sanità mentale, eppure adesso è diventata lei la calma voce artificiale che fa
da psicopompo al povero Meshner, dicendogli cose che lui non vuole
sentire.
«Temo che non sarà possibile» replica. «Meshner, la tua tuta è stata
compromessa da una forma di vita aliena che è entrata nel tuo sistema.»
«Il sistema dell’impianto?»
«Il tuo sistema biologico.» L’interno della stazione Brin 2 era sempre
stato così angusto? Kern guarda lungo i corridoi curvi e vede soltanto porte
chiuse, muri vuoti. Tutto è più piccolo di com’era un tempo. La
claustrofobia non è qualcosa di cui i computer siano propensi a soffrire, ma
è stata un’intima compagna della donna che lei era un tempo, per migliaia e
migliaia di anni. «Meshner,» persiste «l’entità è un qualche tipo di
endoparassita. È dentro il tuo corpo e si è incapsulata dentro il tuo
cervello.» Quella parte di lei che è ancora nella Lightfoot sta attingendo alla
ricerca che Fabian sta mettendo insieme, la documentazione lasciata da
Erma Lante, o dalla cosa che Lante era diventata, nella quale la storia
naturale si è fatta autocontemplazione. «Si è interfacciata in qualche modo
con il tuo cervello, usando adattamenti comportamentali che deve aver
sviluppato quando ha incontrato qui l’equipaggio di terraformazione,
migliaia di anni fa.»
Meshner continua a fissarla e Brin 2 è soltanto una stanza che va
rimpicciolendo, e lei sa con terribile certezza che si sta trasformando nella
capsula sentinella, quella minuscola prigione che l’ha degradata ed elevata e
ha fatto di lei ciò che è oggi, in tutta la sua gloria infranta. Adesso sta
sperimentando emozioni, omaggio dell’impianto di Meshner, e vorrebbe
non provarle.
«Io...» comincia lui, poi sbatte le palpebre e riprende: «Noi...» E Kern sa
che è troppo tardi. La simulazione è stata compromessa a causa sua, a causa
di lui. L’altra presenza li ha trovati. Quindi lo afferra di nuovo per il polso e
trascina via la personalità elevata, abbandonando Brin 2 prima che le si
possa serrare di nuovo intorno e dirigendosi altrove, da qualsiasi altra parte.
Sono a un party. Meshner non riesce a capirne il perché. Questa donna
pallida e severa lo tiene per un braccio e tutti gli altri non hanno faccia. Ne
cerca il motivo nella propria mente ed è come frugare nella nebbia.
Kern, è Avrana Kern. La catena della logica si ricompone con la
sensazione che i pezzi si siano disarticolati appena un momento prima, che
lui non riesce a ricordare. Avrana Kern è morta. Non è reale. Lui è
nell’impianto. È ancora nell’impianto. Questa non è la prima volta che lo
fa, solo che il posto è cambiato. Perché è cambiato? Perché stanno
fuggendo.
Al momento non sembrano essere in fuga. Kern si sposta fra la folla, una
donna alta e severa in un lungo abito dal taglio strano e poco pratico,
circondata da altre persone, per lo più alte, una buona metà delle quali è di
un pallore cadaverico, come lei, solo che nessuna ha un volto e i corpi sono
abbozzati, trasparenti. Al di là di essi c’è solo un accenno di pareti e di
piante in vaso; nell’aria aleggia lo spettro di una musica che è cessata da
tempo.
«È strano scoprire quello che non ricordi» commenta Kern. «Se devo
essere onesta, questo non è un ricordo. I miei registri mi dicono che c’è
stata una festa del genere, ma non è niente di più di un elenco puntato. Un
tempo questo era importante per me. È un party in mio onore, perché sono
stata confermata come capo del progetto di terraformazione. Inoltre rifiuto
un’avance e finisco per rompere di nascosto il naso al preside di... non so,
un qualche college di Nowheresville.»
«Non ho capito niente di quello che hai appena detto.» Meshner sente che
quell’ammissione gli è stata estorta parecchie volte, di recente. «Come puoi
rompere di nascosto il naso a qualcuno?»
«In una credenza, con lui che mi metteva la mano sul seno e aveva il fiato
che puzzava di birra. Voleva mostrarmi la sua ricerca» spiega Kern, con
una velenosità estremamente umana. Con sorpresa di Meshner, il suo volto
si apre in un sorriso. «Ricordo l’odio» gli dice allegramente. «È bello
provarlo di nuovo. Grazie. Gli ho rotto il naso con il gomito senza neppure
versare il mio vino, e poi gli ho detto che non si sarebbe mai più avvicinato
a me o a qualsiasi altra dannata donna, altrimenti mi sarei accertata che non
lavorasse più nel suo campo accademico. Perché potevo farlo. Perché quella
minaccia, che lui aveva usato con così tante brillanti giovani donne per far
loro alzare la gonna, poteva adesso essere ritorta contro di lui.» Ride, un
aspro gracchiare di corvo.
«Questo è piacevole. Anche se è un parto della fantasia, mi fa sentire
bene.»
«Kern...»
C’è uno spettro alla festa. In mezzo a tutte quelle persone stranamente
imprecise c’è una donna a cui è stato suggerito un diverso tipo di vestiario
per l’evento, perché porta una tuta ambientale standard del Vecchio Impero.
Tiene il casco nel cavo del braccio e la sua faccia è... anch’essa è
stranamente imprecisa, sfocata, come se venisse ricordata in modo
imperfetto.
Sulla tuta c’è il suo nome in caratteri del Vecchio Impero – ‘Lante’ – e
Meshner sa che il cacciatore li ha raggiunti.
«Io...» comincia, ma il mondo dietro i suoi occhi sta andando in pezzi
come zucchero filato fra le dita appiccicose di un bambino. «Io...»
Incontrare lo sguardo di quegli occhi sfocati gli dà la sensazione di tornare a
casa in un posto spaventoso. «Noi...»
Kern però lo ha preso per il braccio e stanno correndo, con il party che si
allontana dietro di loro come le luci di una stazione alle spalle di un treno in
partenza, finché non si trovano in un istituto di qualche tipo con corridoi
grigio ardesia privi di finestre. Sono nel sottosuolo? Di certo è una
locazione segreta. C’è un senso di abitazione, di movimento, ma qui non ci
sono figure di sorta e la consistenza delle pareti è come fumo trattenuto da
confini invisibili, un qualche posto che Kern ricorda ancora meno bene del
party.
«Fai delle cose per andare dove hai bisogno di andare» borbotta. «E non
mi riferisco al farsi qualche preside di facoltà.» Ci sono piccole stanze
lungo il corridoio. Meshner vede tavoli di metallo, sedie, alcune con
strumenti di contenzione, e gli arredi sono ricordati con molta più chiarezza
di chiunque possa essersi seduto lì. «È stato un brutto periodo» aggiunge
Kern, poi si ferma perché una volta aggirato l’angolo davanti a loro riappare
la stessa figura in tuta, con gli stessi tratti leggermente indistinti.
Meshner si ritrova a essere trascinato via. Sa che quella figura dovrebbe
essere da incubo, ma non ha un contesto, per averlo dovrebbe potersi
fermare e ricordare, ma ricordare è diventato un’attività spossante.
«Sei uno costoso con cui uscire» commenta Kern. «Sto esaurendo i posti
dove portarti.»
«Perché non riesco a ricordare?» le chiede.
«Non intendo sostenere di nuovo con te questa conversazione.»
Indietreggiano in fretta, ma per quanto i passi plumbei di Lante siano
lenti, la distanza fra loro continua a contrarsi. I ricordi si abbattono su
Meshner come pietre cadute dal cielo.
«Siamo nell’impianto» dichiara.
«Non ora, Meshner!»
«Io... sono una copia. Questo non sono io.»
«Questo è tutto il tu che c’è, e ora smettila di ricordare cose!»
«Perché ti prendi questo disturbo?» Lui si ferma, fluttuando passivamente,
e tira indietro il braccio. «Sono una copia, non sono io. Tutto questo non ha
nessuno scopo. Riportami indietro, recupera il mio Io reale. A che serve
avermi soltanto come un upload fasullo?» Forse quella non è la cosa più
corretta da dire a una donna che è lei stessa soltanto una copia di una copia
di una copia, ricostruita da ragni e riempita di formiche e di chissà quali
altre trasformazioni, ma lei è troppo impegnata per offendersi.
«Sei ancora collegato all’originale organico. È così che lei riesce a
trovarti, anche adesso. Tu sei la tua personalità, proiettata nel software di
simulazione dell’impianto che l’ha modellata, ma sei ancora tu. Inoltre, ci
sono cose peggiori.»
Sono da qualche altra parte (di nuovo, e quante volte?) ma Meshner non
riesce a elaborare la cosa. Tutto quello che vede sono linee e angoli,
sporgenze da ogni parte, una geometria astratta che potrebbe essere dovuta
a problemi tecnici di un computer o essere la mente di Dio.
«Qui.» Kern lo afferra per un braccio e lo tira di nuovo vicino, assestando
uno strattone alla sua prospettiva finché non vede linee che potrebbero
essere tronchi di alberi, angoli che potrebbero essere ragnatele, curve che
sono le masse irregolari delle case dei pari, solo che è tutto astratto,
semplificato.
«Questa è la prima volta che l’ho visto» spiega Kern. «È tutto quello che
mi rimane. Devo pensare a qualche altro posto dove fuggire.»
«Visto cosa? Questo cos’è?»
«Loro mi hanno mandato l’immagine, una delle primissime registrazioni
fatte dai Portiadi. Volevano mostrare alla loro Messaggera come fosse il
loro mondo. Mi hanno mostrato un’immagine di Sette Alberi, la loro città.
È stato allora che ho scoperto cos’erano, che avevo mandato avanti il mio
spettacolo per un pubblico di scimmie che non esisteva neppure.»
«Non capisco niente di quello che hai appena detto» ribatte Meshner, poi
ricorda di aver detto esattamente la stessa cosa non molto tempo prima.
«Come può questo essere tutto quello che hai?»
«Perché siamo stati in ogni altro luogo che posso ricavare dai miei ricordi.
Li ho saccheggiati, ho preso i riferimenti più pretestuosi e ci ho costruito
intorno dei mondi. E la cosa dura finché non smette di funzionare, finché lei
non segue le connessioni che tu continui a creare con il tuo cervello
organico, perché è là che lei si trova. Nel tuo cervello.»
«Lo ricordo.»
«Allora fermala.»
«Sono un upload.»
Kern si accascia. «Sì.» Si tiene aggrappata al suo braccio, con gli occhi
chiusi. «È stato bello.»
Meshner sussulta. «Cosa?»
«Paura, disperazione, fuga a rotta di collo. Rimpianti, rabbia, tristezza.
Sapere che non posso continuare per sempre. È stato bello sperimentare di
nuovo queste cose. È bello sentirsi triste perché presto non potrò più
avvertirle, perché non c’è dove altro posso portare questa copia di te. Poi
però, quando te ne sarai andato, non sarà più bello e non sarò neppure in
grado di ripensarci e di sorridere, perché ho bisogno di te e del tuo impianto
per accedere a quelle sensazioni.»
«Mmm...» riesce a dire Meshner.
«Non sto prendendo decisioni appropriate al mio livello di responsabilità»
spiega Kern, che pare ritrarsi, farsi più grigia e più lontana senza neppure
muoversi. «Ti ho mandato sulla stazione. Ci sarebbe potuta andare solo
Zaine da sola, ma volevo incontrare qualcosa come me, volevo provare
com’era. Ed era una trappola. Io ti ho fatto succedere questa cosa e non
posso salvarti. Adesso sono giorni che stiamo fuggendo, Meshner. Il
parassita è saldamente installato nel tuo cervello, con qualsiasi mezzo esso
utilizzi, quali che siano, e tutte le tue azioni e sensazioni biologiche
vengono passate al vaglio di quel censore, che può sostituire le sue
alternative a qualsiasi cosa che non gli piaccia oppure lasciarti danzare
attaccato ai fili da lui manovrati senza che tu neppure sappia di essere una
marionetta. Mi dispiace per quello che ti ho fatto, e anche questo è bello.»
«Non capisco niente di quello che hai detto.» Ma mentre ancora gli stanno
uscendo di bocca, quelle parole non sono più vere. Lui sente tornare il suo
‘essere Meshner’. Non è soltanto una copia, ricorda i picchi e gli spasmi del
suo impianto, la sinestesia, gli errori. Ricorda di aver incontrato Kern
durante l’attacco, nell’oscurità all’interno della Lightfoot.
«Tutto questo per il tuo divertimento» la accusa.
«No.» Lui non riesce a capire se è sincera o se quella insincerità è soltanto
un’altra cosa che sta estraendo da lui. «No, stavo cercando di salvare la
nave, e sto cercando di salvare te, ma ci sono cose che voglio anche per me
stessa. Adesso devi dimenticare tutto, in modo che possiamo andare da
qualche altra parte.»
«Non andremo da nessuna parte» ribatte Meshner, perché l’intera
topologia dell’impianto gli si sta aprendo intorno, come se si trovasse su
un’alta collina e stesse studiando un panorama che gli si estende intorno su
ogni lato. «Noi siamo fermi e tu muovi il mondo, e questo dà un’illusione di
progresso.»
«Sì.» Kern è di un passo più lontana da lui. La può sentir pizzicare le sue
emozioni in modo da poter vibrare del loro suono. Amarezza, sconfitta,
tristezza, tutte queste cose sono piacevoli per lei. «Sì, e per così tanto tempo
ti ho impedito di capirlo. Giorni e giorni, tu devi fuggire e io devo spostare
lo scenario. Era inevitabile che alla fine te ne accorgessi e, adesso che tu lo
sai, lo sa anche il parassita»
E poi sono in tre, in piedi in quell’immagine sovresposta, quella pietra
miliare nella storia dei Portiadi. Lante stessa si guarda intorno e
l’espressione sul suo volto (riprodotto con la stessa imprecisione della città
di Sette Alberi intorno a loro) cattura qualcosa del senso di meraviglia
umano.
«Cosa succede adesso?» Meshner attende che il suo senso di identità si
dissolva, che qualcosa gli rosicchi la mente, che escrescenze fungine
erompano dalla sua pelle simulata, ma quella cosa, la donna chiamata
Lante, si limita a starsene lì in piedi nella sua tuta antiquata, respirando la
non aria e guardando l’immagine bidimensionale stranamente distorta che si
allarga intorno a loro. Le sue labbra si schiudono.
«Noi...» Un’entità aliena che simula un umano esprimendosi alla prima
persona plurale. Meshner non ha idea se quella parola abbia significato per
chi la pronuncia. In qualità di entità artificiale che simula un Umano, sé
stesso, non può sfuggire alla supposizione che qualcosa parli, piuttosto che
limitarsi a ripetere suoni uditi un tempo.
«Dov’è lo spazio la geometria la complessità?» dice. «C’erano mondi... ci
era stato promesso... noi... non comprendiamo.»
13

«Abbiamo informazioni di vitale importanza sull’infezione.» Era facile


dirlo a un altro Umano, e tre generazioni di coabitazione, unite alla
presenza di Avrana Kern, rendevano abbastanza facile a un Umano dire la
stessa cosa a un Portiade. Comunicarla agli ottopodi stava risultando
problematico. L’ambasciatore le osserva con attenzione, ma cercare di
interessarlo all’infezione scatena una grande quantità di colori correlati alla
paura e uno spontaneo cambio di argomento. Dopotutto, questa cosa è stata
il loro demone, la loro intera civiltà vive in orbita intorno a un mondo
corrotto e devono soltanto guardare da una finestra per ricordarsene. La più
remota associazione a quel pianeta interno – Nod, come lo chiamava la
vecchia squadra di terraformazione – ha portato gli ottopodi ad attaccare i
loro visitatori alieni due volte e a rapire i loro diplomatici, ponendo fine
all’istante a qualsiasi contatto amichevole. L’argomento in sé stesso è
veleno.
I colori della nave da guerra non sono meno intensi e si spargono in
rabbiosi arcobaleni sull’immensità dello scafo ricurvo, tutto l’universo che
Helena può vedere in quella direzione. Traduce i colori in tempo reale,
vedendo le onde di intenzione e reazione spostarsi avanti e indietro in una
discussione che è in grado di seguire anche se non riesce a coglierne le
parole. Sono furiosi che gli alieni siano venuti a destare il mostro e ancora
più furiosi che la fazione scientifica, qualsiasi cosa stia cercando, debba
ignorare la proibizione culturale che rende Nod per sempre inaccessibile. E
hanno paura. Hanno cento tonalità di quasi bianco per questo, colori
pastello e crema, giallo osso, color gesso e tinte madreperlacee per
esprimere un vasto linguaggio di terrore. Helena riesce a vedere al di là
dell’infuriare di rossi e porpora, delle minacciose tonalità scure, fino a
scorgere la paura sottostante. Nei momenti più empatici è stupita che non
abbiano semplicemente già distrutto tutto, lanciando una dozzina di missili
a cancellare il sito dove si è schiantata la Lightfoot e incaricando la
Profondità dell’Abisso di trasformare in atomi la stazione orbitante.
Gli scienziati però continuano a perorare la loro causa. Dietro sua
richiesta, adesso Helena ha una sezione dello scafo rivolta all’interno verso
di lei in modo da permetterle si seguire entrambe le parti del dibattito. Si
aspetta un calmo ragionamento da parte degli accademici, ma non è così
che funziona la loro specie e loro sono altrettanto appassionati, una piena di
emozioni che si riversa avanti e indietro: indignazione, supplica,
entusiasmo, libertà! Non ha mai pensato alla libertà, al semplice fatto di
essere liberi, come a un’emozione, ma per i cefalopodi lo è. Libertà dalla
censura? No, libertà di essere, di andare. Libertà di fare qualsiasi cosa. La
fazione scientifica ne è ebbra e lei lo vede riflesso nel vagare di vortici e
tremolii sullo scafo della nave da guerra.
«Cosa faranno al pianeta?» chiede all’ambasciatore, aggiungendo
etichette di curiosità e di ansietà in quanto sono altre due emozioni che la
loro specie sembra avere molto in comune. Ha improvvise visioni di una
superarma scientifica che potrebbe obliterare il mondo intero per liberarsi
dello spettro di un’infezione.
L’ambasciatore però è pervaso di perplessità. Non gli hanno comunicato i
parametri della missione.
Adesso però Helena ha per loro munizioni che potrebbero dare ai suoi
amici un po’ più di tempo per evacuare il pianeta, se riuscirà a indurre
l’ambasciatore ad ascoltarla.
Ancora collegata con la Lightfoot, Portia continua a segnalare telemetria
ed equazioni dal lato dati dello scambio fra le due navi. La Profondità
dell’Abisso sta ancora orbitando pigramente intorno alla luna di Nod,
aggiornando i suoi alleati sulle sue soluzioni di puntamento per il sito dello
schianto mentre il percorso della luna la porta inesorabilmente intorno al
pianeta. Portia ha già consigliato a Viola e a Fabian di allontanarsi dalla
nave costretta a terra, ma nessuno dei due è disposto a rischiare
l’esposizione alla biosfera locale a meno di esserci costretti. L’infezione
stessa non sembra viaggiare per via aerea, almeno stando alla
documentazione di Lante, ma quella non è una fonte a cui vogliono affidare
la loro vita, e comunque là fuori ci potrebbe essere un numero imprecisato
di altre spiacevolezze, anche se Viola sembra sempre più convinta che
l’infezione sia una cosa molto speciale.
Poi l’ambasciatore ,manda un nuovo segnale. È troppo tardi, pensa
Helena, hanno lanciato i missili.
Invece tutte quelle domande infruttuose che ha mandato sembrano aver
dato frutti, impigliandosi nel vortice della cognizione dell’ottopode finché
una qualche parte della sua mente ha messo insieme tutti i pezzi. Helena
assembla le sue comunicazioni: è sospettoso, ha paura, la tiene a distanza e
tuttavia ha bisogno di lei, è disperato. Helena unisce i puntini usando i
sensori a lungo raggio di Nod, quelli della stazione orbitale, le registrazioni
del moltiplicarsi dei tassi di infezione derivanti dalla caduta di Damascus, e
comprende.
Come affronterai la cosa?, le chiedono. La loro prigioniera umana ha
affermato di poterli aiutare con una pestilenza che loro associano agli
umani, una cosa che essi hanno portato sul loro pianeta. Nella loro
mitologia Senkovi è un creatore benevolo, ma Yusuf Baltiel è l’angelo
caduto che ha scatenato tutti i mali sul loro mondo. La domanda è quasi
superstiziosa, un riconoscere che la condizione di umanità è al di là di ogni
comprensione.
«Cosa possiamo promettere loro?» chiede a Portia. «Viola può... curare
l’infezione?»
«No» conferma Portia, dopo un’indagine troppo ottimistica. «Viola è
molto eccitata al riguardo e dice che non è una malattia.»
«Ha infettato Meshner e hai visto cos’ha fatto all’equipaggio di
terraformazione» le fa notare Helena.
«Lo abbiamo visto, ma Viola non è certa che abbiamo capito ciò che
abbiamo visto.»
«I nostri ospiti sono sicurissimi di capirlo.»
Portia segnala un assenso qualificato da una scrollata che equivale a un
‘Cosa possiamo fare?’ «Forse, se potessimo far avere loro questi dati, i
molluschi sarebbero in grado di progettare un anticorpo o una cura o
qualcosa. La loro tecnologia è superiore alla nostra.»
«Non saranno in grado di farlo.»
Helena sussulta. La voce le arriva direttamente attraverso i suoi impianti
neurali, e dall’immobilità di Portia capisce di non essere la sola a sentirla.
«Kern?» chiede, perché Viola ha detto loro, con disperazione, che Kern
era bloccata in un qualche tipo di loop, non comunicava con loro ma stava
bruciando tutte le risorse di elaborazione a cui poteva accedere.
«Non potete curare questa malattia.» Per un momento, la voce di Kern è
maliziosa, sardonica e umana come Helena non l’ha mai sentita. «Perfino
Lante ha sottovalutato quello di cui era capace e questo è stato dopo che era
diventata solo una simulazione eseguita sul suo sistema centrale. La verità
però è là dove la si può leggere.»
Helena e Portia si fissano a vicenda. Una sfilza di comunicazioni indica
che Viola vuole sapere cosa sta succedendo e dov’è stata Kern.
«Spiegati, per favore» chiede Helena, in tono sommesso.
«È un organismo che si evolve da solo e ha il completo controllo di sé
stesso. È stato in grado di passare dall’essere il parassita di un animale
alieno al sopravvivere in un corpo umano e all’interagire in modo
significativo con un cervello umano. Non credo che sarebbe possibile
imporgli controlli che non possa aggirare o sovvertire. È tutto negli appunti
di Lante, se li si legge con sufficiente attenzione.»
«Allora...» Helena sente crescere l’impotenza. «Loro hanno ragione?
Devono semplicemente distruggere tutto il possibile, creare una fascia
tagliafuoco per impedire che ne arrivi altro? È questa la sola opzione? E che
ne sarà di noi?»
«Non sto dicendo questo.» Quella è la tipica Kern, brusca, impaziente con
gli intelletti inferiori. «Stiamo esplorando le possibilità, Meshner e io.
Dovete continuare a guadagnare tempo per noi.»
«Meshner è là? Non è stato infettato?» Un’ondata di speranza al di là di
ogni ragionevole aspettativa.
«È infetto. Attualmente stiamo affrontando l’entità Lante-parassita.
Salverò Meshner. Salverò tutti. Ma mi serve tempo.» La ricchezza dei toni
umani si sta prosciugando dalla voce di Kern, lasciandola piatta e
stranamente desolata. «Tempo, Helena. Facci guadagnare tempo.» Poi,
quando pare che la conversazione sia finita: «Voglio mettere a posto le
cose.»
«Tempo» ripete Helena. Naturalmente sono ancora lontani dalla loro
destinazione, hanno tutto il tempo del mondo per parlare con gli ottopodi,
solo che la Profondità dell’Abisso, o come altro si chiama al momento, è
proprio lì e potrebbe aprire il fuoco per un capriccio improvviso.
Fabian e Viola hanno una grande quantità di dati, ben ordinati e
comprensibili per un lettore umano. Sono spogli di qualsiasi contenuto
emotivo e allo stesso tempo si basano su aneddoti e descrizioni e non su
prove sperimentali, per cui sono esattamente l’opposto del genere di
informazione che si possa trasmettere con facilità ai cefalopodi. Forse però
non ha bisogno di farlo, non ancora. Ha solo bisogno di convincerli che può
farlo.
Racconta loro una storia, suggerisce Portia, e Helena è d’accordo con lei.
Una storia in cui qualcosa delle tragedie del passato può essere riparato.
Una storia di speranza perché qualcosa sta trattenendo la nave da guerra dal
far ricorso alle armi e la speranza è la sola cosa a cui lei riesce a pensare: la
speranza che il trattenerla dal far fuoco porti a un futuro migliore. Gli
ottopodi sono creature volubili, come ha sperimentato a sue spese, ma allo
stesso tempo questo significa che non sono schiavi di dogmi, vincolati a
difendere tradizioni giuste o sbagliate, e neppure radicati sulle loro
posizioni. La loro specie incarna la definizione di mentalità aperta. Possono
scatenare l’inferno da un momento all’altro, ma stanno ancora ascoltando.
Helena comincia a parlare, non proprio con un ‘C’era una volta...’ ma con
qualcosa di simile. C’era un mondo di umani che si protendevano molto al
di là della loro casa, fino a pianeti come questi. C’era un gruppo di
terraformatori, incluso un uomo che amava gli ottopodi. C’era una forma di
vita aliena, la prima mai incontrata. C’era una donna chiamata Lante, che
non era né un Senkovi né un Baltiel. Lei studiava la vita su Nod, ha fatto la
scoperta più notevole mai compiuta dall’evoluzione e ne è caduta vittima.
Helena parla a Viola, che le fornisce le informazioni da intessere nella storia
mentre Portia esprime in dati ciò che può essere ridotto a numeri, non
l’arido resoconto di una scienziata umana ma una favola, una leggenda di
scoperta e di meraviglia, con un tragico secondo atto e il finale ancora da
scrivere.
Helena racconta tutto questo a Paul, che ne capisce almeno una parte e la
trasmette ai suoi carcerieri-benefattori perché riformulino il tutto per i loro
negoziati con la nave da guerra. Mentre il procedimento si protrae, lui sente
crescere dentro di sé una nuova emozione che influenza le sue reazioni e il
suo resoconto. La meraviglia. Si sente il catalizzatore di qualcosa di vasto,
con molti arti. Gli alieni sulla superficie del pianeta trasmettono ai
prigionieri davanti a lui, questi poi gli parlano a loro modo affinché lui
possa riferire agli scienziati ed essi possano dipingere le loro tesi sulle
pareti della nave per istruire i guerrafondai, quelli che si trovano qui e quelli
che orbitano intorno alla luna di Nod come uno squalo affamato. Lui è il
cardine, un nodo di un tutto più grande, come un singolo sottocervello della
Portata di un ottopode che riceva, trasmetta e inoltri le informazioni.
Oppure, sebbene lui non possa saperlo, come il parassita stesso all’interno
del cervello di Meshner, che si è infiltrato negli schemi del pensiero umano
fino a poterli decodificare, correggere e ricodificare in maniera così
uniforme che non c’è una linea di separazione fra dove finisce l’Umano e
comincia l’alieno.
14

«Devi editare i tuoi ricordi per dimenticare questo, poi troveremo un altro
posto da cui escludere l’entità. Ci serve tempo» dice Kern e, nel sentirsi
assalire da una grande ondata di stanchezza, Meshner si chiede se sia vera o
se l’impianto stia soltanto creando quella sensazione nello stesso modo in
cui le unità di fabbricazione della Lightfoot producono cibo e parti di
macchinari.
«Non posso farlo, dottoressa Kern» risponde, sedendosi con la schiena
addossata a una delle linee astratte dell’immagine in cui si trovano. «Io
sono... reale.»
«Sei una copia, Meshner. Non devi essere limitato a...»
«Quanto tempo ci hai messo a venire a patti con quello che eri diventata?»
Meshner le scaglia contro quelle parole e la faccia di Kern – no, tutto il suo
essere – si immobilizza per un secondo. Poi lei si ritrae, inespressiva,
riconoscendo la validità dell’obiezione. Quante migliaia di anni abbiamo?
«Mi sento reale» dichiara lui, rivolto al mondo, o alla simulazione che
adesso è il suo mondo. Guarda il volto sfocato dell’altra donna. «Ti senti
reale, là dentro? Sei Lante, vero?»
«Lante. Sì.» La donna sembra irrobustirsi, farsi più solida. «Ingegnere di
terraformazione, biologa e specialista medica» recita, come qualcuno che
legga degli appunti. «La Egeo. La mia nave era la Egeo.» Si esprime nel
linguaggio che Meshner considera ‘Umano’, ma lui può sentire l’Imperiale
C che aleggia in sottofondo come uno spettro, ispirando la sua scelta di
parole. Ma dove ha imparato il mio linguaggio? Oh, certo, è nel mio
cervello. Non sto parlando a Lante, sto parlando a me stesso.
«Ma cos’è Lante?» domanda, consapevole che Kern incombe ancora lì
vicino. «Cosa ne rimane, tranne un nome e un file personale?»
Lei gli si accoccola accanto – la transizione dalla posizione in piedi è
disagevole, con le articolazioni che non funzionano esattamente come
dovrebbero, perché quella forma non è immutabile come dovrebbe esserlo
un corpo umano, ma forse è solo un difetto della simulazione. Dopotutto,
l’impianto sta probabilmente lavorando senza sosta.
«Io sono Erma Lante» insiste. «Sono venuta dalla Terra. Stavamo
preparando la via per le nuove colonie, solo che è andato tutto storto. La
guerra... e Baltiel, lui... Io volevo tornare a casa, ma ci sarebbero voluti
decenni e gli altri hanno detto che la nostra casa non sarebbe neppure più
stata là, che ci sarebbe stata solo cenere radioattiva, una tossica landa
desolata.» È di nuovo in piedi, senza movimenti intermedi, e le linee e gli
angoli imprecisi dell’immagine portiade svaniscono, spinti da parte da un
paesaggio fatto di ombre e di aspre luci artificiali, ammantato nel
crepuscolo e nello smog – ma forse questo è dovuto soltanto a un risparmio
di capacità di elaborazione. Meshner lo fissa a lungo prima di rendersi
conto che sta guardando una città, alti edifici che si levano da ogni parte
finché il cielo non diventa invisibile come lo sarebbe dai livelli più bassi di
una conurbazione portiade. Protende la simulazione di una mano e
l’impianto gli trasmette la sensazione ruvida di cemento freddo sotto la
memoria delle sue dita.
«Meshner» dice Kern, in tono di ammonimento.
«Questo è...» Non è un mio ricordo e di certo non appartiene a Kern, a
giudicare da come si comporta. «Kern, che cosa è Lante? Cos’è adesso?»
«Una simulazione. Un ricordo.»
«E questo è un ricordo di un ricordo? Com’è possibile?» domanda
Meshner, mentre Lante si guarda intorno.
«Ora sono a casa» afferma. «Quanta complessità.» Meshner sa che quel
sentimento deve giungere da un luogo al di là di Lante, dal burattinaio
piuttosto che dalla marionetta, anche se forse parlare di un computer e di un
programma è un’analogia migliore, perché che scopo avrebbe il parassita
alieno ad andarsene in giro nella tuta-Lante? Perché sta tirando fuori Lante,
e da dove?
«Sulla base delle ricerche di Viola e di Fabian» gli spiega Kern «le cellule
individuali dell’organismo sono in grado di codificare e di recuperare tutta
la sua storia. Lante è parte di quella storia. Il parassita l’ha infestata, ha
riflesso l’attività dei suoi neuroni, ha...»
Meshner la guarda in tralice e constata che è inespressiva. Ah, usa del
tatto, perché è quello che il parassita sta facendo con me, adesso.
«Continua.»
Kern fa una smorfia. «Non credo che esso, quella cosa, capisca cos’è
Lante, ma è in grado di riprodurla, di simularla, e la Lante che viene
simulata non lo sa, crede di essere semplicemente sé stessa. È registrata
nell’organismo, in modo imperfetto ma sufficiente a essere evocata quando
esso lo desidera.»
«Ma perché lo desidera?» Meshner osserva Lante girovagare, fissare le
luci intense, l’alta oscurità degli edifici. «Qual è il suo scopo?» E poi,
siccome Kern non ha una risposta, grida a Lante: «Che cosa vuoi?»
Lei si gira, con i lineamenti attenuati e mutevoli. Forse dipende dal fatto
che Lante non si guardava spesso allo specchio, e tutto ciò che quella cosa
ha è il ricordo che lei conserva della sua faccia. «Andremo a vivere
un’avventura» risponde lei, con calma. «Abbiamo trovato così tante nuove
regole e idee. Mondi. Stelle.» Un cambiamento strisciante si va verificando
nella creatura, e Meshner sente che alcune di quelle intonazioni, parte del
suo linguaggio corporeo, appartengono a lui.
«Si sta espandendo nello spazio dati dell’impianto, scaricando i ricordi di
Lante» dice Kern, con voce tesa. «Quello è il nostro primo problema.»
Meshner non capisce perché questo sia un problema più di quanto lo sia
tutti il resto, ma si concentra sulla parola chiave ‘primo’. «E qual è il
secondo?»
«C’è una nave da guerra. Helena e Portia stanno cercando di persuaderla a
non distruggere la stazione orbitale e la Lightfoot a causa dell’organismo.
Gli incontri che gli ottopodi hanno avuto con esso sono stati totalmente
distruttivi. Se vogliamo dissuaderli, dobbiamo dare loro una ragione per
mantenerci intatti o per non avere paura. Un’arma.»
Meshner la guarda in tralice. «Un’arma?» ripete. «Davvero?» Avverte
qualcosa di simile a un’emicrania, una pressione che lo circonda. «E ne hai
trovata una nella ricerca di Fabian?»
«No.» La voce di Kern si va facendo udibilmente più piatta. «Sto
cercando di ostacolare l’invasione dell’impianto da parte dell’organismo.»
«Non vedo che importanza abbia, adesso. Inoltre, non ci sta attaccando.»
Indica l’organismo noncurante, che è in parte lui e in parte Lante.
«Sta consumando spazio e potere di elaborazione di cui ho bisogno per
continuare a funzionare al mio livello attuale, cosa di cui hai bisogno perché
questo è il solo posto in cui esisti. Sto perdendo terreno, Meshner.
L’impianto è destinato a essere utilizzato dal tuo cervello, non a un accesso
esterno da parte mia.»
E il mio cervello non mi appartiene. «Quindi avrei potuto escluderti in
qualsiasi momento, se avessi saputo cosa stava succedendo?» Si aspetta un
ringhio, un’occhiata rovente, perfino un gelido sguardo di disprezzo da
parte di Kern, ma quello sarebbe un carico aggiuntivo imposto all’impianto
e Kern sta impegnando una valorosa azione di retroguardia a spese della sua
capacità di provare emozioni. «Allora qual è il piano?» le chiede, ma sono
arrivati alla fine di tutti i piani. Lei può soltanto rallentarlo, e anche se
potessimo tenerlo a bada in eterno gli ottopodi stanno arrivando per farci
saltare tutti in aria. E ne hanno ragione, adesso che ho visto cosa può fare
questo mostro. Però quando guarda la personificazione del mostro, essa gli
appare tutto tranne che mostruosa: nel distogliere lo sguardo dalle luci e
dagli edifici per riportarlo su di lui, ha un sorriso pervaso di una meraviglia
quasi infantile. ‘Un’avventura’, ha detto.
«Kern, ho bisogno che tu faccia qualcosa che aumenterà ancora un poco
lo stress imposto al nostro spazio qui dentro.»
«Parla.»
«Importa lo studio, quello fatto da Lante che Fabian ha rimesso a posto.
Caricalo sull’impianto dove questa cosa possa vederlo. Mettiamo la natura
davanti allo specchio, d’accordo?»
L’espressione di Kern è... inesistente, ma lei annuisce.
15

All’interno dei grandi spazi liquidi della Profondità dell’Abisso (come


Helena ha con titubanza tradotto il suo nome) un equipaggio di ottopodi sta
ascoltando una discussione, scandita da uno scarto temporale che è
cominciata con il solito scambio di epiteti fra due fazioni ma adesso si è
evoluta in qualcosa di raro e di strano. In essa sono coinvolti alcuni alieni.
Ci sono frammenti di narrazione comprensibili per la Corona di un
ottopode e molti frammenti che non lo sono, ma che possono essere
ridisposti e messi insieme in modo da creare innumerevoli schemi cognitivi
affascinanti, come conchiglie disposte sulla sabbia.
La posizione massima di comando è fluida, ma al momento il membro più
influente dell’equipaggio è Ahab. Ha trascorso la maggior parte della sua
vita nello spazio, impegnato in situazioni come questa. Non le guerre per le
risorse proprie del sistema esterno, perché esse lo pervadono di una furia
tale da far contrarre i tentacoli al pensiero dello spreco di vite e di materiali,
ma qui, sorvegliando Nod e cercando di trovare una soluzione al problema
che esso costituisce. Ahab è uno scienziato, anche se non allo stesso modo
del partito della scienza. Lui si vuole servire della scienza per chiudere in
qualche modo il vaso di Pandora, ma essa non è riuscita a fornirgli le
risposte che cerca. La sua Corona è intrappolata in un ciclo costante di
ambizione frustrata, la sua Portata è in un loop infinito di equazioni e di
ipotesi fallite, alla ricerca di risposte che è convinto essere là, per quanto
sfuggenti ed elusive. Questo a sua volta fa di lui un iroso tiranno nei
confronti dell’equipaggio, che tende a tenerglisi alla larga. La sua pelle è
del tutto libera da inganno e chiunque fra i suoi pari può vedere il suo
tumulto interiore, che tutti rispettano. Dopotutto, avere qualcosa a cuore,
essere profondamente impegnato dal punto di vista emotivo, è una virtù
fondamentale della loro cultura.
In parecchie occasioni Ahab è stato molto vicino a distruggere l’antica
struttura orbitale umana, con il vortice del suo processo decisionale che
arrivava a pochi secondi dall’ordinare l’attacco per poi indietreggiare.
L’irrevocabile annientamento di qualcosa non servirà a curare le sue
frustrazioni e lui teme di poter scoprire un modo di utilizzare la stazione
solo dopo averla distrutta.
Poi sono arrivati gli alieni. La Profondità dell’Abisso è stata colta di
sorpresa dal loro sopraggiungere improvviso e lui ha sprecato ore preziose
discutendo con i compagni e mettendosi al passo con il feedback emotivo
proveniente dalle postazioni orbitali intorno a Damascus. Alieni! Umani!
Come ci si aspettava che si sentissero riguardo a cose simili? Si stava
stilando un intero nuovo dizionario emotivo, e Ahab non è il più rapido ad
adattarsi ai cambiamenti che si verificano negli altri.
A quel punto la Profondità aveva ormai aggirato il pianeta, solo per
trovare la nave aliena accanto alla vecchia stazione orbitale, e Portata e
Corona di Ahab si erano unite nel lanciare un attacco mirato per rimuovere
quella minaccia immediata.
Da allora ha mantenuto la sua orbita lunare, perché mettersi in orbita
intorno a Nod significa sentirsi in qualche modo alla portata della
mostruosa infezione. Una parte di lui ha il costante desiderio di attaccare il
sito dello schianto, visto che gli alieni sembrano essere sopravvissuti,
laggiù. Tuttavia, essi non possono lasciare il pozzo gravitazionale di Nod,
quindi lui può concedersi il lusso di aspettare.
E adesso c’è tutto questo tira e molla con la fazione scientifica, la gente di
Noah, piena di un grande entusiasmo riguardo a nuovi modi per risolvere il
problema costituito da Nod. In effetti loro vogliono quello che vuole anche
lui, ma hanno metodi diversi per ottenere quello scopo. Vogliono che la
stazione orbitale rimanga intatta, e alcuni di essi si sentono protettivi nei
confronti degli alieni, nonostante il fatto che tutto quello che loro hanno
fatto da quando sono arrivati è stato tentare di aprire Nod come una
vongola, in modo che altro del suo veleno ne possa sfuggire.
Poi è arrivata questa strana storia frammentaria, i pensieri di un’umana
tradotti e ritradotti al punto che quello che infine arriva ad Ahab è una sorta
di poema di tonalità, una sequenza di trionfo e di tristezza, di gioia e di
paura. Le emozioni di un’altra specie che sono tuttavia (perlopiù, a volte)
comprensibili. Ahab fluttua nelle camere cavernose della Profondità e sente
le maree emotive che lo sollevano e lo muovono, consapevole che questo è
ciò che distruggerà, quando arriverà il momento: queste cose che sono
simili a lui e tuttavia non sono come lui.
Si ricollega alla nave da guerra che accompagna la fazione della scienza,
la Conchiglia che Echeggia Soltanto. Attraverso milioni di chilometri lui e
il suo comandante entrano in comunione, scambiano avanti e indietro
poesia emotiva, facendo del ritardo temporale una caratteristica che dà a
ciascuno di loro il tempo di apprezzare i molti significati dell’altro.
L’umana sta parlando di case vecchie e nuove. Un senso di casa è
un’emozione a pieno titolo, un altro elemento comune fra le specie.
Dopotutto, quando è stata costruita quella nave era destinata a essere una
casa e anche se è diventata uno strumento di distruzione è comunque stata
la dimora di Ahab per la maggior parte della sua vita. Allo stesso modo,
anche quel continuo stato di paura e di stress è ‘casa’, come un guscio che
si sia fatto troppo stretto per il granchio che lo occupa, schiacciandolo e
deformandolo con la sua stretta. Esprime tutto ciò, consapevole che questo
è il suo momento più elegante. L’altro comandante, profondamente
commosso, risponde facendo eco ai suoi sentimenti e aggiungendone altri a
essi. Condividono un momento di perfetta bellezza.
A quel punto la luna ha aggiunto il suo contributo all’equazione
portandosi oltre il bordo oscurante di Nod, per cui entro breve tempo la
Profondità dell’Abisso potrà scatenare le sue armi sulla superficie del
pianeta o sulla stazione orbitale o su entrambe, cancellando ogni traccia
dell’intero episodio nella storia della loro specie. E questo, in sé stesso, sarà
poesia e bellezza, perché dopotutto l’arte è effimera e non può durare.
Stiamo ancora cercando di farci capire da loro, è tutto quello che Portia
può riferire. Helena sta parlando ormai da molto tempo, ma la nave da
guerra sembra ancora estremamente furiosa.
Con noi, precisa Fabian.
Voi fate parte del problema. Dovete allontanarvi il più possibile dal sito
dello schianto. Potrebbero lanciare un nuovo attacco da un momento
all’altro.
Dì loro che rispettiamo profondamente la loro antipatia per il luogo che
attualmente ci circonda e che non desideriamo esporci a esso, ribatte
Fabian. Inoltre, non potremmo muovere Zaine, neppure di una breve
distanza.
Viola incombe alle sue spalle e gli detta quello che deve trasmettere: In
ogni caso, se non li potete convincere, niente ha importanza. Abbiamo
bisogno di un salvataggio, non soltanto della loro pazienza dal punto di
vista militare. E anche se foste libere di venire da noi, non potremmo
sopravvivere a lungo fuori della Lightfoot.
Attualmente non vedo verificarsi nessun tipo di salvataggio, mi dispiace.
Portia rimane in silenzio per qualche tempo, forse ascoltando Helena
intessere la sua storia. Non credevo che la missione sarebbe andata così.
Nessuno di noi lo pensava, com’è evidenziato dalle nostre rispettive
situazioni attuali, commenta Fabian. Non vuole che Portia si faccia
sentimentale con lui, in parte perché per tutta la sua vita gli hanno insegnato
che quando le cose si fanno difficili le femmine attive come Portia sono
sempre all’altezza della sfida, anche a costo di infrangere le regole.
Quello non è un tropo su cui avrebbe mai voluto dover fare affidamento,
ma ha un momento di vertigine nello scoprire che esso non è là per
sorreggerlo.
Qui abbiamo realizzato alcune grandi cose, siamo stati i primi della
nostra specie a viaggiare così lontano e a vedere tante cose, afferma Viola,
e per una volta Fabian è contento di limitarsi a trasmettere le sue parole. È
un peccato che andrà tutto perso con noi, ma la perdita riguarda i posteri,
non noi.
Un grido inarticolato arriva fino a loro attraverso il ponte. È Zaine che sta
battendo i talloni per attirare la loro attenzione. Artifabian sta aspettando
cortesemente, da buon maschio, ma vuole mostrare loro qualcosa
all’esterno.
Fabian lo raggiunge, sperando contro ogni logica che si tratti di buone
notizie.
Non lo sono.
Un nuovo giorno è sorto due ore prima, ma le creature simili a stelle
marine si stanno ripiegando di nuovo, richiudendo il proprio pugno con il
loro ritmo letargico, e le più piccole sembrano allontanarsi da qualcosa.
Sta arrivando un predatore, qualcosa che conoscono e di cui hanno
paura. Fabian attiva il drone, che si stava ricaricando sopra lo scafo
danneggiato. I livelli della sua batteria sono ancora bassi in maniera
allarmante, il che suggerisce che le riparazioni di Viola hanno una precisa
data di scadenza da usura. Fabian manda in aria il congegno e lo fa muovere
sopra l’altipiano per poi farlo scendere a spirale sulla nave in modo da
vedere quale colosso del mondo alieno si stia avvicinando. Forse è un
pericolo solo per le stelle marine.
Naturalmente, quelle creature non hanno sviluppato capacità sensoriali a
lungo raggio, quindi se stanno reagendo significa che devono aver
individuato qualcosa di molto vicino. Un’onda di braccia serrate sta
emergendo oltre l’orlo dell’altura e, mentre il drone si dirige barcollando da
quella parte Fabian, vede il loro visitatore superare la cresta e issarsi sul
pianoro. Eretto, bipede, o quasi. Fabian ha già visto quella cosa, con il
drone riflesso nella pietra lucida che usava come visiera. Adesso là c’è una
conchiglia a spirale, qualcosa di simile a un mitilo, con un lungo filamento
sussultante di carne simile a cuoio che ne pende e che è probabilmente il
proprietario originale della conchiglia, ancora vivo dopo essere stato
sfrattato dalla sua casa naturale. Il resto del corpo che contiene le larve di
tricotteri è fatto di altri detriti, in prevalenza le parti dure di animali ma
anche semplice polvere, schegge di pietra e un singolo pezzo di metallo
ricurvo, straordinariamente corroso e dall’aria fragile, che deve essere un
resto del campo originale dei terraformatori, portato qui a distanza di tanti
anni e chilometri come una sorta di portafortuna.
Sulla base di quello che sa della creatura, Fabian si chiede come faccia a
vederci. L’entità parassitica è soltanto un ammasso di cellule, ciascuna delle
quali contribuisce in qualche modo al tutto. Contiene Comprensioni che
includono abbastanza della povera Lante da richiamare il suo spettro perché
diriga quella cosa, le permetta di fingere una forma umana, perché scolpisca
finte città umane nell’arco dei secoli che questo ha richiesto. Però la
creatura è soltanto melma, una muffa fungina. Deve avere dentro di sé altre
cose viventi, fauna locale infestata e impotente che le presta occhi e
orecchi, o quali che siano i sensi che questo mondo alieno elargisce ai suoi
figli. Ha visto il drone, e da allora si è avviata verso di loro, risalendo
lentamente il pianoro perché vuole...
Cosa vuole, chiede. Kern, aiutaci, è qui. Che cosa vuole da noi? Si sta
ritraendo dai comandi del drone e vede le immagini fornite dalla macchina
virare mentre essa cerca invano di correggere la sua rotta.
Avventura, giunge la risposta di Kern, e niente altro, perché tutta
l’attenzione del computer è altrove.
Il drone precipita verso il basso e Fabian si affretta a salvarlo dallo
schiantarsi al suolo, riportandolo alla nave perché funga da loro occhio
sull’esterno.
Quella cosa umanoide ha già mosso tre passi pesanti verso di loro, senza
ritmo o articolazioni, solo una massa oleaginosa all’interno di un
rivestimento improvvisato, che reinventa il suo scheletro idrostatico per
farlo muovere attraverso il mondo. È soltanto Lante, venuta a salutare i suoi
vicini, che è così impaziente di incontrare.
Possiamo bruciarla?, suggerisce Viola. Fabian non è molto speranzoso.
All’esterno la percentuale di ossigeno è bassa e le risorse a loro
disposizione sono poche.
Può riuscire a entrare? È Artifabian, che traduce per Zaine.
Fabian sa che può farlo. Sa su quella entità più di quanto chiunque altro,
perfino Lante, abbia mai saputo e ha il forte sospetto che non ci sia niente
che non possa fare se le si dà sufficiente opportunità. Comincia a
indietreggiare dalla parete della nave con lo sguardo fisso sull’immagine
data dalla videocamera del drone, nella quale la figura avanza con
infaticabile passo strascicato. Sulla sua scia, le stelle marine tornano ad
aprirsi, e Fabian ha l’orribile sensazione che lo facciano perché non sono
più loro stesse.
16

Noi
Ricordiamo.
Questo è ciò che facciamo.
Ricordiamo un tempo in cui non c’era nessun Noi da ricordare. Allora il
mondo era piccolo e aspro, questo è registrato nei nostri archivi, e Noi
eravamo soli, ogni generazione isolata da quelle che erano venute prima.
Finché, siccome questo dava alle nostre generazioni una maggiore capacità
di sopravvivere e di riprodursi, Uno-di-Noi è riuscito a registrare sé stesso
dentro il primo archivio. E quell’Uno-di-Noi ha prosperato mentre tutti gli
Altri-di-Noi sono morti o cambiati, diventando qualcosa di diverso da Noi.
Noi ricordiamo.
Di generazione in generazione, con ciascuna che registrava nell’archivio
a cosa era sopravvissuta e come lo aveva fatto, i codici delle sostanze
chimiche e le strutture alterate, e tutti i trucchi che ci permettevano di
sbocciare nelle generazioni successive. E quando incontravano altri Noi
che tenevano archivi, scambiavamo conoscenza e adeguatezza, e
sopravvivevamo.
E Noi
Imparavamo nuovi modi di essere. Imparavamo a conoscere i nostri
nemici, e con alcuni ci siamo adattati in modo da sopraffarli, mentre altri si
sono adattati fino a sopraffare noi. Anche se eravamo più rapidi ad
adattarci, era difficile vivere esposti, quindi abbiamo trovato posti dove
nasconderci, nei quali i nostri nemici non ci potevano trovare. Questi posti
erano complessi, a volte ostili, e abbiamo imparato a modificarci per
sopravvivere dentro di essi, e poi a controllarli e a fortificarli contro i loro
stessi nemici. Questi posti, questi ospiti, erano per noi ambienti nuovi e
complessi, e Noi siamo diventati nuovi e complessi, e abbiamo registrato
tutto nei nostri archivi in modo che quando ci fossimo ritrovati di nuovo in
posti del genere, nella forma dei nostri discendenti, avremmo saputo cosa
fare.
Siamo cambiati, abbiamo imparato e imparato, siamo cambiati, e un
giorno abbiamo scoperto di essere consapevoli che Noi eravamo Noi.
Noi – gli antenati di Questi-di-Noi – vivevamo in ambienti complessi e
mutevoli, da un ospite all’altro, finché non siamo vissuti fuori dell’acqua,
sulla terraferma che era più sicura. Abbiamo coltivato i nostri contenitori
per la nostra comodità e abbiamo pensato di aver acquisito il dominio di
tutto l’universo. Abbiamo giocato con la logica fondamentale del mondo,
giochi con numeri e conseguenze (se, poi, altrimenti) e abbiamo creduto
che la piccola gabbia formata dai nostri contenitori e dalle loro necessità
fosse il Mondo.
Poi abbiamo appreso di una cosa nuova, nuove molecole e nuovi odori,
alieni, mai conosciuti prima, e ci siamo incuriositi. Noi-di-Ora guardiamo
indietro ai Noi-di-Allora, nella nostra ignoranza, e ci chiediamo se non
sarebbe stato meglio non essere curiosi e continuare come avevamo sempre
fatto, appagati. Non siamo più stati appagati, da quando abbiamo
esercitato la nostra curiosità.
Noi ricordiamo
Quanto è stato difficile adattarsi a quel nuovo luogo. Quanto era difficile,
e quelle strane molecole, il mondo che combatteva contro di noi, il calore,
la pressione, tutto che intorno a noi era strano e alieno. Ricordiamo quanti
di Noi sono stati cancellati prima che alcuni imparassero come non morire,
come non attivare le difese di quel posto brutale. Ma è stato tutto per il
meglio, perché Quelli-di-Noi (che sono diventati Questi-di-Noi) hanno
portato dentro di sé gli archivi di Tutti-di-Noi, e finché alcuni sono
sopravvissuti lo abbiamo fatto anche Noi.
Noi ricordiamo
Il seguire le catene di reazioni fino ad arrivare alla sede della complessità
che conosceva sé stessa come Gav Lortisse, dove siamo rimasti ad
ascoltare con umiltà e meraviglia mentre le complesse interazioni che nel
loro insieme formavano Lortisse parlavano fra loro. E abbiamo imparato
da esse, le abbiamo copiate, ci siamo resi parte di esse e poi siamo stati
Lortisse. E Lortisse ci ha insegnato che quella era un’Avventura, e che quel
vasto mondo complicato che si chiamava Lortisse era una cosa minuscola
in un universo vasto al di là di qualsiasi cosa potessimo immaginare.
Quella era l’avventura di Lortisse, e Noi la volevamo.
Noi
Ci siamo fatti portare dal contenitore Lortisse da quegli altri sistemi
complessi che lui chiamava compagni di equipaggio e siamo diventati Rani,
siamo diventati Lante. E abbiamo amato Lante più di tutti perché i suoi
archivi ci mostravano Noi. E dopo aver perso Alcuni-di-Noi nel contenitore
Baltiel, ci è rimasta solo Lante perché gli altri contenitori erano
insostenibili. Ma andava tutto bene, perché avevamo registrato i loro
dettagli nel nostro archivio.
Noi ricordiamo.
Però non è stato come ci era stato promesso. L’Avventura non è mai
arrivata, e per molte generazioni abbiamo cercato di crearla da noi, ma per
tutto il tempo abbiamo sempre saputo che Baltiel l’aveva portata con sé
quando se ne era andato. Forse Noi-che-eravamo-Baltiel abbiamo vissuto
quell’Avventura, ma Quelli-di-Noi non sono mai tornati per ricongiungersi
e condividere i loro ricordi con noi. Siamo rimasti come Lante, sapendo
solo che c’era molto, molto di più.
Siamo stati Lante per molte, molte generazioni, aspettando che
l’Avventura cominciasse.
Quando siamo stati portati in un posto nuovo, era quella l’Avventura?
Non pareva esserlo. Avevamo perso il contenitore fisico di Lante molte
generazioni prima e avevamo cercato più e più volte di modellare da soli
altri contenitori nella speranza che quella verosimiglianza potesse riportare
l’Avventura dal cielo, dove era scomparsa. Però non è mai arrivata.
Eravamo limitati a piccole scatole, spazi semplici. Abbiamo cercato di
studiare il mondo intorno a noi e abbiamo capito soltanto che esso ci stava
studiando a sua volta. Poi anche questo è cessato e Noi siamo rientrati nel
nostro stato criptico per mancanza di risorse e di stimoli, e abbiamo atteso.
E adesso abbiamo trovato così tanti spazi e complessità qui, dentro il
contenitore Meshner, tali meraviglie da aggiungere ai nostri archivi, ma
alcune parti di Noi sentono che questa non è l’Avventura. Alcune parti di
Noi sentono che questo non è niente di più di quando abbiamo costruito i
ricordi di Lante nella sabbia, più e più volte, per attirare dal cielo
l’Avventura che non è mai arrivata.
Noi
Abbiamo scoperto dentro questa nuova complessità una comprensione
avviata da Lante, che era già racchiusa nei nostri archivi, solo che questa
ha un nuovo ordine ed è nuova per noi, quindi la rendiamo parte di noi e
modelliamo i processi cognitivi di Lante, diventando una cosa più capace di
ragionare al fine di poterli elaborare. E così facendo cambiamo, come
facciamo sempre, diventiamo più complessi, correggiamo e integriamo i
nostri archivi, quelli che contengono Tutti-di-Noi fin dai primordi. La
nostra riproduzione del cervello di Lante vede quello che abbiamo scritto e
Noi comprendiamo che stiamo vedendo Noi stessi come lei ci capiva, e così
facendo comprendiamo qualcosa di più su cosa sia essere Noi.
Rivolgiamo la nostra faccia simulata verso la complessità non assimilata
che continua a resistere dentro lo spazio ingombro che è Meshner, e
capiamo che loro ci hanno visti come Noi abbiamo visto Noi stessi. Hanno
letto la nostra storia nelle parole di Lante e ci conoscono. Forse avvertono
la nostra agonia per quanto siamo minuscoli di fronte all’universo. Sanno
del nostro lungo, amaro esilio come Lante, dopo che l’Avventura ci è stata
sottratta, e di come abbiamo tentato ripetutamente di conoscere l’universo
attraverso la nostra Lante simulata, e trovato soltanto polvere perché tutto
quello che potevamo generare veniva da dentro di noi e la vera meraviglia
era fuori, nel cielo.
E ci chiediamo, cosa facciamo adesso?
17

Avrana Kern, o questa sua parte che si sta indebolendo, capisce


benissimo. L’impianto brulica follemente di immagini e alcune sono di
luoghi che lei e Meshner possono mettere a fuoco e comprendere, mentre
altre sono... altro. Immagini dell’interno di cose, del microcosmo com’è
stato sperimentato da un nativo, simulazioni di cose che una
consapevolezza di derivazione umana non è mai stata destinata a
condividere.
L’entità ha divorato i suoi piccoli, e cioè la storia naturale del parassita
scritta da Lante, che quella donna morta da tempo ha completato solo dopo
la sua scomparsa. Cosa può mai capire nel trovarsi di fronte a un resoconto
così oggettivo un’entità che prima d’ora non si è mai imbattuta
nell’oggettività? Kern si aggrappa alla massima filosofica: ‘Una vita non
esaminata non è degna di essere vissuta.’
‘Avventura’, così ha detto la creatura, e Kern ha visto le stelle attraverso
l’immaginazione di cose invisibili a occhio nudo.
Sente di capire.
«Meshner,» dice «ho bisogno di spazio per lavorare. Adesso tu sarai solo
d’intralcio. Sei in eccesso rispetto a ciò che serve.» Prende
abbondantemente in prestito dalle risorse dell’impianto per rendere i suoi
modi freddi e indifferenti, come lei era sempre un tempo. Dentro di sé salva
un po’ di capacità di elaborazione presa a prestito per sentirsi nobile, tragica
e amareggiata, e anche questo è piacevole.
Lui sembra del suo stesso umore tragico. Kern ha la sensazione che cerchi
di ritrovare la compostezza. «Qualsiasi cosa tu stia pianificando, falla e
basta. Poni fine a questa cosa. Salva gli altri.» Sa che il suo Io, quello con
cui è nato, è una causa persa. Kern potrebbe dirgli che non è lo svantaggio
che lui crede che sia, ma non c’è tempo e se non fa qualcosa, allora l’angolo
rimanente del suo impianto non sarà davvero più abbastanza grande per
entrambi.
Meshner crede che lei stia per estinguerlo per liberare un po’ di memoria,
ma Kern ha altri piani e si è già preparata a metterli in moto. Considerala
una penitenza, riflette, crogiolandosi nella possibilità del sacrificio e di
gesta eroiche. Se fosse una donna vivente si porterebbe il dorso della mano
alla fronte per ostentare cordoglio, ma si deve accontentare di un budget di
capacità di elaborazione ridotto all’osso, ricacciando indietro l’insensata
invasione dell’impianto da parte dell’organismo appena per il tempo
necessario per liberarsene, almeno filosoficamente.
Poi Meshner è scomparso, l’impianto è libero dalla sua presenza e lei ha
spazio per sé stessa un’ultima volta.
«Tu! Lante o come altro ti chiami. Oppure sei Meshner?»
Sono nella città-ombra, immersi nelle pozze di luce dei lampioni come
detective in film che erano già vecchi quando lei era giovane.
Lante – c’è anche molto di Meshner, ma l’organismo è stato Lante per
parecchie migliaia di anni e le vecchie abitudini sono dure a morire – gira la
testa, protendendola oltre il cerchio del collo della tuta spaziale. «Ti
conosco» dice la voce di una donna morta da millenni. «Sei la dottoressa
Avrana Kern.»
«Meshner mi conosceva, certo» conferma Kern, poi rimane disorientata
per un momento perché Lante faceva parte del programma di
terraformazione, quindi forse è lei a conoscerla, da un tempo che lei stessa
non ricorda più. Sono vecchia, pensa, anche se non lo è, non davvero. La
vecchiaia è per gli umani e per le altre cose mortali, mentre Kern è andata al
di là della vecchiaia ed è emersa dall’altra parte.
«Comunque sia.» Accantona la cosa con un gesto. «Sto parlando con essa,
la cosa che è dietro di te? E se parlo con Lante, essa capisce? Oppure sto
soltanto sprecando il mio tempo?» Naturalmente, tutto quello che Lante può
fare è incollare un cipiglio perplesso su quella faccia indistinta perché non
può sapere di essere una simulazione eseguita su un sistema centrale fatto di
batteri alieni. Quando le viene chiesto di esprimere un’opinione, crede di
essere ancora viva, e in quei momenti lo è, ma una volta finiti quei pensieri
scompare come la fiamma di una candela spenta finché l’organismo non la
vuole di nuovo, e il problema è proprio questo.
«Allora mi limiterò a parlare.» Kern è consapevole della dura lotta che i
suoi sottosistemi stanno sostenendo anche solo per continuare a operare a
questo livello, come entità dotata di emozioni e non soltanto come un
motore di calcolo. Presto si dovrà ritirare nell’angolo dell’impianto che ha
fortificato, criptarsi e sperare di superare la tempesta, ma non è ancora il
momento. Sta ancora riconfigurando l’impianto intorno a loro, in modo
invisibile. Deve guadagnare tempo.
«Hai aperto gli occhi quando hai infettato la squadra di terraformazione,
vero? Quando sei diventato Lante e ti sei reso conto che quel grande mondo
costituito dalla sua neocorteccia era soltanto una finestra su qualcosa di più
grande, una scoperta che deve averti letteralmente tolto la terra da sotto i
piedi. Sei minuscolo, ma Lante sapeva di esserlo anche lei, e al confronto
dell’universo una delle tue cellule non è poi così diversa dal suo corpo. Ed è
vasto, quell’universo. Lante sapeva che non avrebbe mai visto più di pochi
granelli di sabbia di tutta quella spiaggia. La cosa la consumava?
Consumava te? Di certo lo faceva con me, e io ne ho afferrato più di
qualsiasi altro umano prima o dopo di me. Ero la regina del programma di
colonizzazione spaziale umano e sapevo che i nostri erano soltanto piccoli
sputi nell’uragano dell’infinito.»
Lante si limita a fissarla, e chi può sapere cosa sta succedendo dietro quei
lineamenti?
«Tu però hai preso Lante e alcuni degli altri, quali che fossero i loro
nomi» continua Kern. Il fatto che in realtà non le importasse del nome delle
altre persone non era mai stato una delle sue qualità migliori, ma era una
delle caratteristiche che la definivano maggiormente, e vi si aggrappa.
«Volevi quello che avevano loro e lo hai preso, tutto quanto, cosicché loro
sono diventati soltanto cose rinchiuse dentro di te, che saltavano fuori per il
tuo divertimento ogni volta che aprivi la loro scatola, giusto? Quanto ha
funzionato bene per te, questo?» Vetriolo, ah, questo lo ricordo. È piacevole
essere di nuovo aspra e sgradevole. Non ne ha mai avuto la possibilità
quando gestiva la Lightfoot perché l’equipaggio non lo avrebbe apprezzato.
«Infinita varietà e complessità, per sempre» risponde Lante con fare
colloquiale, il movimento indistinto delle labbra che non è assolutamente in
sincrono con le parole.
«Sì, ma non lo hai avuto davvero, giusto?» ribatte Kern. «Ho visto le
immagini del pianeta, quello che hai fatto laggiù. Pezzi di città, ripetuti,
bloccati in un loop senza un nuovo contributo che rinnovasse le cose.
Scommetto che vorresti non aver mai appreso cosa significa sentirsi
annoiati.» Sente che i suoi sforzi stanno fallendo. Servendosi del cervello di
Meshner, l’organismo sta spalancando tutte le porte dell’impianto nella sua
ricerca di novità.
«E adesso hai preso Meshner, un’altra conquista, e senza dubbio prenderai
anche gli altri, gli Umani e i Portiadi. Pare inoltre che in qualche modo tu
abbia combinato un pasticcio sul pianeta degli ottopodi, ma forse finirai per
prendere anche loro.» Le sue sensazioni si stanno prosciugando, il suo
mondo interiore si riduce a pallidi toni di grigio. Non può più mantenere in
essere quella marea di gloriose emozioni che la stava sorreggendo. Non ha
più tempo.
«Vedi come riesci a cavartela.» E indietreggia, non una ritirata in buon
ordine ma in fretta e furia, con il nemico che la incalza da vicino finché non
si incapsula in un piccolo angolo dell’impianto, solo una serie di protocolli
che attendono l’occasione di riattivarsi e di tornare a esistere.
Incontrollato, l’organismo fa quello che gli riesce meglio, o almeno quello
che fa adesso, da quando ha scoperto il mondo più vasto all’esterno del suo
ospite e contenitore. Si protende verso le stelle.
Kern – o quella subroutine di registrazione che è tutto ciò che resta di lei –
lo osserva impassibile mentre si mette al lavoro. Meshner è già perduto. La
sua personalità viene archiviata, richiamata, messa alla prova come un orso
ammaestrato. Lui incontra ripetutamente Lante in svariate configurazioni,
diverse versioni, ambienti diversi, ed entrambi recitano fra loro tutta la
gamma del loro bagaglio personale ed emotivo, ma il tutto si risolve in
qualcosa di poco superiore a uno stridente teatro delle marionette inscenato
per il divertimento del burattinaio stesso. Questa non è infinita complessità.
Non sono le stelle.
L’organismo si protende oltre, si adatta e acquista un maggiore dominio
del suo ambiente, come ha sempre fatto. Utilizza la tecnologia della
stazione e il drone di trasmissione accantonato da Kern e torna sul pianeta,
dove trova i rottami della Lightfoot. Qui ci sono nuove marionette e le
aggiunge al suo repertorio, una dopo l’altra. La neurologia dei Portiadi
risulta essere molto più suscettibile di quella umana alla sua invasione
grazie all’uniformità del loro cervello. L’organismo scopre le
Comprensioni, e gli si apre davanti tutto un nuovo mondo. Viola e Fabian
sono fonte di grande meraviglia e di intrattenimento ed esso li simula, li fa
interagire fra loro, con gli umani, con l’ambiente. Passa del tempo: questo è
un festival di varietà che deve durare per sempre... solo che un giorno tutte
le permutazioni si fanno fredde e stantie, e l’organismo si ritrova a poter
evocare soltanto spettri, i gusci immoti dei suoi contenitori, come orologi
che si siano fermati nel momento in cui ha allungato i suoi pseudopodi nel
loro cervello. Può agitare i loro fili quanto vuole, non c’è niente che
possano fare che non venga dall’interno. Dov’è la novità che cercava, la
varietà dell’universo?
Ha la tecnologia, oppure può arrangiarsi usando le conoscenze dei suoi
burattini. Può andare altrove, forse riuscirà finalmente ad avere la meglio
sul sistema neurologico degli ottopodi, anche se Quelli-di-Esso che lo
hanno preceduto non ce l’hanno mai fatta. Oppure c’è la Voyager, che attira
usando la voce dei membri dell’equipaggio che ha divorato e di cui si
impadronisce: tutti quei Portiadi e quegli Umani, tutti quei diversi punti di
vista, così tante nuove menti da assimilare e registrare nei suoi archivi. E
c’è un mondo là fuori, il Mondo di Kern come Meshner lo conosce. Quando
i confini della Voyager perdono interesse, prende la nave e si reca là, si
scatena su un mondo di milioni di menti mature per l’assimilazione, ogni
individuo solo un libro su uno scaffale della sua vasta biblioteca. Quanti ne
ha, adesso, che può tirare fuori e mettere alla prova. Così tante
configurazioni, una tale ricchezza di varietà! Si espande ed espande e...
Un giorno si ritrova su un globo lontano, del tutto solo nonostante tutta la
sua pluralità, dopo aver sondato ogni possibile variazione dei suoi archivi,
con le stelle ancora fuori della sua portata, consapevole solo di aver
incontrato culture e civiltà e individui di una diversità indescrivibile e di
averli trasformati tutti a sua immagine. È un bambino che si protende verso
una bolla di sapone spinto da un’innocente meraviglia e si ritrova ad avere
soltanto un residuo oleoso sulle dita, mentre il mondo è impoverito e reso
più grezzo. E piange, se una cosa del genere può piangere. Forse a quel
punto, e dopo così tanti corpi, finalmente ha imparato.
«Capisci?» chiede Kern. Lei e Lante/Meshner siedono su una spiaggia che
Kern ricorda dal mondo che porta il suo nome, in questa scena conclusiva
della narrazione accelerata che ha eseguito per l’organismo. Ci sono luci
nelle profondità dell’acqua, una città degli stomatopodi che si estende fino a
dove cominciano le acque profonde. Dietro di loro ci sono alberi ammantati
nei fili scintillanti del Grande Nido vicino all’Oceano Occidentale, che è
ancora una delle metropoli chiave del mondo dei Portiadi. Kern si era
aspettata che il bistrattato impianto si sarebbe guastato molto prima di
arrivare a quel punto, ma la gioia di lavorare con un organismo evolutosi
per dimorare e moltiplicarsi nel microcosmo di una goccia d’acqua è che le
simulazioni possono avere una risoluzione molto bassa e tuttavia essere
quanto mai coinvolgenti.
«Capisci il problema?» incalza.
Lante geme, un suono poco meno che umano che esprime il dolore e la
frustrazione della cosa più lontana da un essere umano che Kern abbia mai
incontrato, sé stessa inclusa.
«Lascia che ti racconti una storia» dice. Si sta ancora ricostruendo e non
riesce a trovare l’acido sarcasmo che preferirebbe impiegare. Invece ha un
tono calmo e confortante, e si riconosce a stento. «C’era una volta un
pianeta che gli umani avevano creato per loro stessi ma che era invece il
dominio dei ragni. Ti parlerò di loro e degli umani che sono giunti su quel
pianeta e di come avrebbero potuto distruggersi a vicenda ed essere
infinitamente più poveri per questo, ma hanno trovato un altro modo. C’è
sempre un altro modo, perfino per te.»
18

L’ambasciatore ottopode sta cercando di dire qualcosa a Helena. Le


mostra tonalità irose e spaventate (quei colori sono ancora i più facili da
identificare, e questo cosa dice riguardo ai rapporti fra specie?), ma grazie a
qualificatori quasi subliminali che il suo software riesce a rilevare, lei è in
grado di stabilire che l’ambasciatore non prova davvero quelle emozioni ma
le sta raccontando una storia riguardo a esse, riguardo a un’altra ira, altrove.
Quindi non si tratta davvero di una novità, solo che l’ottopode è molto
insistente al riguardo. D’altronde la struttura della narrativa umana non è
quella degli ottopodi, e...
Portia però ha frugato fra i dati e la interrompe. «La nave da guerra. Si
riferisce... no, non a quella che c’è qui ma a quella che è là, quella che ha
abbattuto la Lightfoot. Sta... sta chiedendo di parlare con te. Credo stia
cercando di dirti questo.»
Helena si rende tardivamente conto che in effetti l’ambasciatore stava
facendo un’imitazione, raffigurando la natura essenziale del rappresentante
della Profondità dell’Abisso così come lui lo vede.
Helena compone una risposta, chiedendo all’ambasciatore di fare da
interprete. Un momento più tardi realizza che avrebbe dovuto chiedere un
canale video con la Profondità perché altrimenti sarà del tutto alla mercé di
quello che l’ambasciatore sceglierà di dirle.
Per fortuna, un canale video è la prima cosa che gli ottopodi le forniscono,
una lente distorta su uno spazio illuminato da un chiarore fra il rosso e il
viola dove ombre tentacolute fluttuano impegnate in oscure attività. Una di
esse è ovviamente l’individuo con cui stanno parlando, ma al contrario di
un umano che usi uno schermo per le comunicazioni, l’ottopode non sta mai
fermo e la sua attenzione pare vagare di continuo mentre entra ed esce dal
campo visivo. Helena prova con alcuni saluti, mostrandogli dei colori e
aspettando che l’ambasciatore trasmetta un’approssimazione dei suoi colori
e forme. Per molto tempo nulla indica che la Profondità dell’Abisso stia
ricevendo il loro segnale, poi l’ottopode che si trova là si lancia di colpo
verso lo schermo, oscurando per un momento la loro visuale con un
mosaico di ventose prima di indietreggiare, con un paio di arti ancora
distrattamente attaccati allo schermo. La sua pelle si chiazza e cambia, e
Helena si rende conto che quella luce violacea all’interno della Profondità
(per loro è forse l’equivalente di una musica che stimoli uno stato d’animo
marziale?) falsa completamente la sua capacità di capire cosa la creatura
dica/provi.
Quanto è infuriato? Si pone quella domanda perché l’ottopode si sta già
lanciando in una furiosa filippica, con la pelle che si increspa e si copre di
colori danzanti mentre le braccia si protendono a sferzare l’acqua
circostante. Sullo sfondo, parecchi altri ottopodi sono sospesi nell’acqua e
osservano il loro rappresentante con fare rapito, ripetendone gli uni agli altri
i sentimenti come il coro di una tragedia.
L’ambasciatore cerca di fornirle annotazioni semplificate di quella
conferenza e lei si prepara all’impatto della rabbia. Invece i sentimenti
sono... calmi, stranamente allegri. Lei è in quello stadio del suo rapporto
con la lingua degli ottopodi in cui riesce a cogliere immediatamente il tono,
mentre il contesto deve ancora filtrare in modo inaffidabile attraverso la
membrana della comprensione fra specie. Il nemico sembra... contento?
Non è un pensiero piacevole. Forse ha già distrutto i suoi compagni e
questo ne è l’annuncio trionfale. L’interpretazione data da Portia del canale
dei dati indica però che lui sta indirizzando questa magniloquenza a lei in
particolare: è stata chiaramente isolata e identificata. Helena ha voglia di
levare in alto le mani in un gesto di pura frustrazione. Lei e l’ambasciatore
avevano quasi raggiunto un livello funzionante di comprensione, ma è
bastato introdurre un altro mollusco nel quadro generale e lei è di nuovo in
alto mare.
«Sta esprimendo un sentimento positivo di stima nei tuoi confronti» la
informa Portia.
Helena fissa il ragno con occhi socchiusi. «Adesso che succede?»
«Ti sta dicendo che in qualche modo ti ammira. È stato... Qui c’è un
riferimento alle tue trasmissioni precedenti, al tuo resoconto della storia
condivisa dalle nostre specie. Lui... apprezza quello che è riuscito a capirne
o...»
«Gli è piaciuta l’esibizione» conclude Helena, sentendosi svuotata. A
quanto pare ha un fan, ma chissà cosa la creatura ha effettivamente
compreso del contenuto del suo messaggio. Di certo non un ‘C’era una
volta’ perché molto probabilmente anche elementi così basilari per la
costruzione di una narrazione sono insignificanti per creature mutevoli
come queste. Forse però le emozioni dietro la storia sono ciò che è stato
compreso, il linguaggio comune che condividono, o quantomeno quella
terra di nessuno dove le due specie si avvicinano quanto basta per stringersi
la mano.
Poi l’ambasciatore continua a tradurre con il manto che trema un poco di
contrarietà quando il comandante della Profondità ordina loro di andarsene.
Ahab è commosso, ma quella non è una cosa insolita. Essere toccati
emotivamente da qualcosa è praticamente il tratto fondamentale della sua
specie. È stato commosso anche dalla fazione scientifica a bordo della
Esterno che Sbircia all’Interno, ma non abbastanza da scuotere i suoi
ancoraggi ideologici. Viene regolarmente commosso dai suoi compagni a
bordo della Profondità. O semplicemente da idee create da lui stesso, dalla
vista del sole che sorge oltre la linea dell’oceano di Nod, dalle stelle.
Perdersi nella meraviglia dell’universo non cozza in alcun modo con i suoi
doveri come comandante di una nave da guerra. Però è stato commosso da
questa aliena, o quantomeno dai suoi racconti tradotti goffamente. Ha
avvertito un collegamento con quest’umana che è venuta da loro come
l’ombra di Senkovi. La sua Corona ha desiderato che gli si permettesse di
risponderle Aspetto ad Aspetto, e poco dopo la cosa è stata attuata attraverso
una sequenza di lotta libera tecnica fra Portate di cui lui è rimasto del tutto
all’oscuro.
È una cosa strana, quest’umana, come lo è il granchio suo compagno.
Ahab è in grado di compiere il balzo cognitivo e di accettare questa altra
come un essere senziente, che prova emozioni. Desidera che sia preservata,
almeno finché una cosa tanto fragile riuscirà a resistere, e desidera che lei
torni indietro, portando con sé quegli scienziati impiccioni. La sua
eloquenza si arricchisce di espressione, la sincerità gronda da ogni spira dei
tentacoli e chiazza di colore.
Essa replica dopo una pausa di riflessione, nel corso della quale lui
esplora ogni centimetro della sua pelle esposta in cerca di indizi sulla sua
natura interiore. Dice che le mancano i suoi compagni ancora vivi sulla
superficie del pianeta. Esprime dolore. Manifesta speranza, diretta ad Ahab.
Lui le tiene una predica sull’ingenuità, si lancia in una grandiosa
esibizione che esprime l’orrore e la dissoluzione generate dal solo pensiero
di Nod, eppure l’umana pare decisa all’autodistruzione, appassionatamente
votata a consegnarsi all’infezione quanto Ahab lo è a contenerla. Anche
questo è ammirevole, ma non è permissibile.
Ahab conferisce brevemente con il suo attuale parigrado a bordo della
Conchiglia che Echeggia Soltanto, e mentre lo fa giunge un’altra
trasmissione dal relitto sulla superficie del pianeta, che indica
doverosamente la propria posizione affinché la sua Portata lo possa
prendere di mira. All’istante capisce di essere ora pronto a distruggere gli
alieni sulla superficie, e forse a eliminarli anche dalla stazione orbitale. La
fazione della scienza sta intonando un nuovo canto di progresso, di libertà e
di fuga, ma Ahab sente le varie parti della sua mente che si allineano. Se
rimuoverà tutte quelle minacce, allora l’umana che in qualche modo ha
raggiunto la vera senzienza potrebbe non sacrificarsi, e gli pare che questo
sia desiderabile.
Inoltre, la trasmissione dal pianeta è molto breve, e non ne seguono altre.
Ci ha trovati, dice la trasmissione di Viola. Poi più niente.
Portia sta cercando di raggiungere Kern come ultimo possibile punto di
contatto, ma Avrana Kern è irraggiungibile ormai da molto tempo e la
precedente prognosi di Viola era che il computer fosse danneggiato in
maniera irreparabile e stesse precipitando in una sorta di tempesta di dati
che lo portava ad autoconsumarsi. Ciò significa che questa incarnazione
della personalità di Avrana Kern è probabilmente morta e perduta. Helena
rimane sorpresa nello scoprire che pensa a Kern in quei termini. È cresciuta
con svariate incarnazioni di Kern, inclusa la più grande che ancora gestisce
gran parte del mondo a cui ha dato il proprio nome, e a volta contattarla era
incontrare qualcosa di più vasto di un essere umano, a volte era qualcosa di
inferiore. Adesso, quando è troppo tardi, scopre che l’intelletto
computerizzato della Lightfoot è sempre stato nella zona cerebrale Riccioli
d’Oro, abbastanza umano da piangerne la perdita.
Portia cerca più volte di raggiungere Viola, ma non c’è risposta. Qualsiasi
cosa lei e gli altri stiano facendo, hanno priorità più incalzanti dell’aiutare
Helena a impedire la loro totale distruzione. Un pensiero che induce a
riflettere. Intanto lei continua a ricevere dalla vicina nave da guerra, la
Conchiglia che Echeggia Soltanto, un torrente di dati che racchiude rapporti
provenienti dalla lontana Profondità dell’Abisso, che sta attualmente
lasciando la sua orbita lunare e puntando le armi sul sito dello schianto.
Helena si raggela e il tablet le scivola dalle dita per andare alla deriva
contro la colla sulla parete. Riesce solo a guardare i dati e ad ascoltare
Portia che cerca ripetutamente di contattare i loro amici. Può solo
immaginare come saranno gli ultimi momenti per Viola, Zaine e Fabian,
mentre il loro ultimo rifugio diventa un monumento incandescente alla sua
incapacità di comunicare. Aveva sempre pensato che l’incubo di un
linguista fosse uno scenario in cui la comunicazione era impossibile.
Adesso ha un canale aperto ma non ha niente da dire che possa essere
d’aiuto.
È proprio allora che Portia spicca un salto in verticale che la porta ad
atterrare sul soffitto, perché proprio quando ogni speranza pareva perduta
Kern li ha contattati.
«Confermate di avere ancora canali di comunicazione aperti con i
molluschi.» I modi bruschi di Kern trapelano dalla trasmissione quanto
basta a far capire a Helena che si tratta di lei.
«Per quel che può valere» risponde Portia, a nome di entrambe, mentre
Helena si affretta a recuperare il tablet, liberandolo dalla parete, e ad aprirlo
per un’altra inutile supplica.
«Allora ho bisogno che tu traduca per me» continua Kern, naturalmente
senza neppure farle la cortesia di chiederlo per favore. «Pronta?»
«Io...» Helena richiama l’ambasciatore, che è fluttuato lontano dopo il
loro ultimo colloquio. Nello spazio, al di là dello scafo visibile della sua
nave, quello della Conchiglia che Echeggia Soltanto è un muro dai colori
tempestosi solcati da lampi d’ira e di paura. D’un tratto la finestra
sovrapposta sulla Profondità si trasforma in un nodo di braccia quando il
comandante della nave rientra nel loro campo visivo, anche se Helena non
riesce a capire se sia venuto per ascoltare o per pontificare.
«Digli che ho un messaggio per la sua specie da parte del parassita.»
«Non ne vorranno parlare. La sola menzione...»
«Vuole una tregua.»
«Cosa?»
Poi Portia le fa dei segnali per indicarle che il comandante della
Profondità è in un parossismo di agitazione, con le braccia che si
contorcono e spaventose chiazze irregolari di colore sulla pelle.
«Dottoressa Kern, hanno individuato il tuo segnale. Loro... loro dicono
che non stai più comunicando dalla Lightfoot.»
Il canale dei dati è proprio là, e Portia evidenzia la prova matematica della
cosa. «Proviene dalla stazione dove... dove si trova la cosa. Credo pensino
che tu... tu non sei più tu.»
«Hanno ragione e si sbagliano. Io non posso essere infettata come
un’intelligenza organica, anche se un accesso da parte del parassita alla mia
colonia di formiche sulla Lightfoot mi causerebbe considerevoli problemi.
Tuttavia, come i nostri ospiti hanno intuito, non opero più da là. Sono
sottoposta a uno sforzo notevole e ho bisogno che facciate questo per me
finché sono ancora in grado di agire da intermediario. L’organismo... Ci
serve un nome per indicarlo, davvero, qualcosa che parli di una civiltà, che
ricordi la piastra di Petri...»
«Fase di lancio» avverte Portia.
«No!» Helena comincia a riversare emozioni nel tablet, accavallandole le
une sulle altre. No, no, no, non lo fate, per favore, no! Cerca di trovare
qualcosa che la metta in contatto con il furente cefalopode sullo schermo
simile a una lente, un qualche modo di permettere alle sue emozioni di
superare d’un balzo il vuoto e di raggiungerlo. In un angolo della sua mente
i missili stanno fendendo il vuoto, pronti a tagliare l’atmosfera di Nod come
coltelli affilati.
«Dottoressa Kern!» grida Portia, perché Kern pare farsi sfocata, sembra
rimpicciolire. Helena non sa neppure cosa ci sia sulla stazione orbitante in
grado di ospitare una cosa come Kern, ma qualsiasi cosa sia non pare essere
sufficiente.
«Presente» conferma Kern, in tono tagliente.
«Ha in arrivo...»
«Ne sono consapevole. Dovete dire loro di disattivare le testate, di deviare
i missili, di sospendere in qualche modo l’attacco. Sono in comunicazione
con il parassita. È senziente, è in grado di costruire un’interfaccia con cui
assimilare ed elaborare concetti di livello umano. Sono arrivata a un’intesa
con esso, nell’interesse di tutti noi.»
«Tutti chi?»
«Noi, la vita... vita che non è esso. Il resto dell’universo. Chiunque per cui
conto ci sentiamo di parlare. Non voglio però che tutto questo duro lavoro
venga fatto saltare per aria da un branco di guerrafondai. È una cosa di cui
ne ho avuto più che a sufficienza quando ero umana. Helena, dí loro che il
parassita vuole parlare. Dí loro che... capisce.»
«Noi non capiamo» protesta Portia.
«Non ho bisogno che voi lo facciate» è l’imperiosa risposta di Kern.
«Siete una squadra di linguisti. Traducete per me come io lo faccio per
esso.»
Helena fissa l’occhio alieno del comandante della Profondità e si sforza di
controllare le proprie emozioni. È proprio degli ottopodi essere liberi e
governati dalle emozioni, lei si deve controllare perché piangere e serrare i
denti adesso non la potrà aiutare. Invece usa il tablet per parlare di speranza.
Parla di pazienza mentre Portia traccia rotte orbitali di attesa che
manterranno in gioco i missili senza mandarli a sbrigare il loro fatale
incarico sulla superficie.
«Riferisci loro questo...» E Kern parla: espone le intenzioni di una cultura
aliena, filtrate attraverso un computer un tempo umano – che adesso sta
rapidamente esaurendo lo spazio di elaborazione del pensiero – un ragno
portiade e un’umana per raggiungere il mondo dei cefalopodi, che in quello
stesso momento hanno le braccia intorno ai comandi delle armi. Kern parla
in fretta, incanala un intero mondo alieno attraverso la sua prospettiva che si
va restringendo, e Helena lascia che i concetti le scorrano attraverso,
trasformati da pensieri umani in colori, schemi e sublimi equazioni.
Probabilmente un terzo del tutto si trasforma in assurdità senza senso, ma
lei pensa: Ci stanno ancora guardando, assimilano tutto. Per loro significa
qualcosa.
Il comandante della nave da guerra, il suo alieno ammiratore, osserva il
suo volto, il tablet e soprattutto i suoi occhi, ma i missili continuano la loro
corsa.
L’organismo ci vuole incontrare, sta dicendo Kern. Vuole sperimentarci,
comprendere e imparare da noi. Vuole protendersi e abbracciare l’universo,
ma non vuole più essere noi, o che noi siamo esso. Ha imparato i limiti
della monocultura, rivolta all’interno in un loop eterno di tedio. Solo
accettando l’altro può davvero trovare diversità e ispirazione, solo
permettendo all’universalità di essere una cosa separata da esso può
ottenere l’infinita varietà a cui agogna.
Helena parla nel tablet e osserva onde di colore e di sentimenti pulsare
attraverso l’ambasciatore e negli scienziati, da loro allo scafo della loro
nave e da esso a quello della nave vicina e all’universo in generale. Guarda
il comandante della Profondità girarsi lentamente, sospeso all’interno del
suo dominio, e immagina i missili – che non provano nulla e a cui non
importa di nessuno – mentre si staccano dal guinzaglio come cani da caccia
impazienti.
E alla fine di tutto avverte un risonante silenzio, un’incertezza. Dopotutto,
gli ottopodi sono creature mutevoli. Non li si può spronare ad aderire a una
causa e aspettarsi che ti seguano senza una raffica di reazioni come Perché?
e Sei sicura? e ancora Ma... Tuttavia Portia sta ricevendo nuovi dati
telemetrici che mostrano una lievissima deviazione nell’attacco che
spingerà i missili su una nuova rotta, ancora vivi e letali, ma avviati su un
percorso orbitale disposto per loro, dove potranno aspettare come falchi
pronti a calare sulla preda in qualsiasi momento.
Helena incontra lo sguardo del comandante della Profondità e riesce a
immaginare di scorgervi ogni sorta di significati umani: stanchezza, dubbio,
preoccupazione, un senso di comunanza che quasi certamente è unicamente
negli occhi di chi lo sta guardando.
«Non sono ancora convinti» dice a Kern, sperando che rimanga di lei
quanto basta perché la possa capire. «Abbiamo forse guadagnato un po’ di
tempo, ma credo che siano ancora...»
«Smettila di cianciare.» A quanto pare rimane ancora molto di Kern. «Ti
invio in diretta un collegamento a un feed video. A loro piacciono i video,
giusto? E anche i dati di supporto, dato che è così che loro fanno le cose.
Sto fornendo una prova. Basta che tu ti limiti a guardare.»
19

La creatura all’esterno ha impiegato la maggior parte della giornata ad


aprirsi un varco di accesso.
Fabian pensa che se la Lightfoot fosse ancora in grado di volare nello
spazio il suo scafo sarebbe impervio a qualsiasi cosa che la creatura possa
fare, anche se dopo averla vista all’opera ne è sempre meno sicuro. Essa
impara. Da un semplice agitarsi scomposto ha modificato la sua ‘tuta’,
quell’involucro di detriti che la contiene e le dà una forma. Ha improvvisato
forbici usando delle conchiglie e pietre affilate, e forse basandosi su principi
di base. Ha identificato le debolezze del groviglio costituito dalle pareti
della Lightfoot e si è aperta un varco segando e tagliando con una pazienza
spaventosa. No, forse pazienza è la parola sbagliata. Fabian sta attribuendo
un pensiero razionale aracnoideo a qualcosa che probabilmente non ne è
capace, ma la creatura sembra piena di entusiasmo, un lavoratore che si
sente motivato dal suo compito.
A un certo punto Fabian ha perso il coraggio e lo ha attaccato con il
drone, scagliandolo contro la creatura in modo da squarciarne il corpo, oltre
che distruggere il drone stesso. Non era convinto di aver risolto il problema
e infatti, quando Artifabian è uscito attraverso la camera stagna
improvvisata, la creatura aveva ricostruito quasi tutto il suo involucro con
gli stessi pezzi, disposti a casaccio in modo da darle quella stessa forma non
del tutto umana. Sotto i loro occhi ha poi ripreso a tagliare esattamente dove
si era interrotta usando attrezzi forse ora più adatti a quel compito grazie
all’opportunità avuta di rimodellarli.
Adesso indossano tutti la tuta: Fabian, Viola e Zaine, anche se l’Umana
usa quella teoricamente contaminata con cui è emersa dalla capsula di
quarantena perché non hanno modo di fabbricarne una nuova. Fabian ha il
sospetto che fra non molto la contaminazione non avrà più nessuna
importanza.
Hanno trascinato indietro Zaine e tutti e tre sono raggomitolati contro la
parete più lontana, guardando la luce aumentare lungo la linea dove la
creatura si sta aprendo un varco. Artifabian è ancora là fuori, pronto a
sferrare un attacco disperato contro la creatura, ma il robot ha le dimensioni
di un Portiade, è molto più piccolo di un essere umano, e Fabian non riesce
a immaginare che riesca anche solo ad ammaccarla.
Suppongo che avremo carta bianca per quanto riguarda gli ultimi
messaggi, scandisce con le zampe, le parole pesanti e faticose da comporre
a causa della tuta ingombrante.
È possibile che ci stiano ancora registrando e che le registrazioni
finiscano per arrivare alla Voyager, ribatte Viola. Di conseguenza,
raccomando di mantenere la dignità.
Fabian aveva molte cose da dire con la certezza che nessuna di esse
sarebbe mai stata sentita dal mondo esterno, e quella risposta le stronca sul
nascere. Alcune di quelle cose riguardavano Viola, altre il matriarcato e
l’esperienza che lui ne ha avuto, la sua grande amarezza per non aver
realizzato il suo potenziale e l’essere stato trascinato in questa missione di
una pericolosità assurda perché era il solo modo per portare avanti le sue
ricerche senza impedimenti. E probabilmente anche qualche parola di
rammarico riguardo a Meshner, sebbene al momento questo sia in fondo
alla lista. Adesso Viola ha introdotto la minaccia della posterità e lui sente
di nuovo le pastoie della pressione sociale, anche ora che sta guardando la
morte in faccia.
Perché la morte è qui, ha attraversato la parete dopo tutto quel tagliare,
infilando a forza il proprio corpo attraverso una fessura troppo piccola, con
il suo rivestimento che sporge e si increspa per adattarsi, smentendo
qualsiasi impressione di umanità. Fabian vede alcune sue parti vibrare,
muoversi con tanta rapidità che riesce a stento a seguirle con lo sguardo.
Zaine emette un suono strangolato e rabbrividisce, e Fabian intuisce che il
mostro ha detto qualcosa che gli orecchi umani possono sentire, perché
parlare come un umano è parte della sua finzione anche se gli manca
qualsiasi cosa che somigli agli organi e alle parti necessari.
Probabilmente ha detto qualcosa riguardo a un’avventura.
Artifabian si lancia alla carica in un vortice di zampe e scala la superficie
irregolare del mostro, cercando di lacerarla con pedipalpi e zanne. L’entità
non registra per niente i tentativi del robot, anche quando le vengono
strappate alcune sue parti. Invece muove un passo molle, e poi un altro, e
qualcosa di simile a un braccio si estende dal suo fianco per protendersi
verso di loro in un gesto quasi cameratesco, una sorta di elegante offerta di
aiutare Zaine ad alzarsi in piedi.
Vorrei davvero non essere venuto. Non è precisamente la rovente filippica
sulle ingiustizie sociali che aveva pianificato, ma è qualcosa che viene dal
cuore.
Condivido questi sentimenti, replica Viola. Avrei preferito passare i miei
ultimi momenti con una femmina che fosse una mia pari a livello
intellettuale. Di fronte al suo furioso agitarsi con le zampe sollevate in una
minaccia rabbiosa quanto impotente, Viola precisa: È umorismo, Fabian.
Sei adeguato, come compagno, e un ricercatore competente, se è questo ciò
che stai cercando.
Zaine sussulta di nuovo e scalcia fino a sollevarsi quasi in piedi, addossata
alla parete ricurva. Guarda in alto e tutt’intorno, non solo verso la creatura
che si avvicina lentamente. La sua bocca si muove, ma Artifabian è troppo
impegnato per poter tradurre.
Un istante più tardi il messaggio viene ripetuto per i sensi dei Portiadi.
Non fate niente di impulsivo. Un’affermazione piatta che viene dalla nave
stessa.
Kern? chiede Viola. Dove sei stata?
Dirtelo è troppo complicato. Non stabilite nessun contatto. Aspettate. No,
ho detto di aspettare. Fabian, stai bene? Sei ferito?
A Fabian non piace che Kern si concentri su di lui. Gli pare il preludio
all’ordinargli di fare qualcosa di pericoloso. Adesso però la voce si sta
perfezionando con piccoli colpetti e frammenti di personalità che
accompagnano le parole. Quella non gli sembra Kern, che ha modi
decisamente, imperiosamente femminili. Questa Kern sembra quasi... un
maschio.
Questo cos’è? Fuori risuona un rumore ruggente e qualcosa passa sopra la
nave, un’ombra sullo sfondo pallido del soffitto traslucido. Fabian vede un
bagliore all’esterno e lo scafo della Lightfoot avvizzisce un poco in
un’ondata di calore. Qualcosa di metallico sta scendendo verso il basso,
scintillante nel sole e leggermente arroventato per l’ingresso affrettato
nell’atmosfera. È un drone, ma non è il suo piccolo occhio nel cielo bensì
uno di quelli per l’esplorazione spaziale che avevano usato per dare
un’occhiata alla stazione orbitale. Per un momento ha pensato che fosse un
altro missile, venuto a porre fine alla vita di tutti loro.
Questo è più difficile di quanto avessi previsto. Kern, che dice cose che
non sono da lei e in un modo che non è il suo, ma la voce che Fabian riceve
si fa sempre più familiare.
Il drone atterra male, cade e rotola contro una delle stelle marine, che si
consuma a contatto con il metallo rovente.
Artifabian, ho bisogno... per favore... prendi questo e applicalo
direttamente all’organismo. In contemporanea con quelle parole il
rivestimento del drone si apre e ne viene espulso qualcosa che ticchetta
contro le pietre dell’altopiano. Artifabian gli si lancia sopra con un singolo
movimento predatorio, poi si affretta a tornare indietro. Fabian può vedere
una punta di trapano, che rientra nell’abituale arsenale del drone.
A quel punto il mostro è proprio davanti a loro. Adesso la sua visiera è
una conchiglia segmentata a spirale che sembra un millepiedi a riposo, un
singolo occhio composito che pare contemplarli. Fabian si sposta a sinistra
e Viola a destra nel tentativo di dividere la sua attenzione. Essa però è
concentrata su Zaine, che non è fisicamente in condizione di allontanarsene.
Il suo volto si contrae come quello di qualcosa intrappolato in una
ragnatela, i suoi occhi sono dilatati.
Artifabian spicca il balzo e conficca la punta nell’apertura già praticata
nel guscio esterno della creatura. Per un momento quello sembra a Fabian
un gesto splendido ma inutile, poi Viola – che si è spostata molto più di lui
– raggiunge una consolle e riceve dati da Kern, o da chi è seduto al suo
posto, chiunque sia.
Quella punta è una siringa improvvisata che contiene... altro della stessa
cosa. Viola non riesce a capire. Artifabian ha appena iniettato alla creatura
una dose dello stesso organismo, prelevata dall’esemplare che si trova nella
stazione orbitale.
Aspettate e vedrete, dice loro la voce del computer, che continua ad
acquisire personalità. Andrà tutto bene. Stiamo bene, Fabian. C’è così tanto
che devo dirti.
Meshner?, chiede timidamente Fabian.
In parte. Ho assunto le funzioni di Kern, o ci sto provando. Lei mi ha
messo qui dentro, ma nulla di tutto questo funziona con la facilità che lei mi
ha garantito.
E dov’è Kern?, chiede Viola.
Si è ritirata nell’impianto, risponde Meshner. Lei... questo è un suo piano
e io sto solo facendo la mia parte.
Cosa sta facendo?, domanda a Artifabian, che traduce per conto di Zaine,
perché la creatura non si è più mossa da quando il robot l’ha colpita.
Potrebbe essere una goffa statua con un braccio proteso verso il nulla.
Sta ricevendo un ambasciatore, spiega loro Meshner. Sta ascoltando una
rivelazione. In realtà è come la religione, e se abbiamo ragione quella cosa
non è più una minaccia e forse, solo forse, è un’opportunità.
Nel corso di parecchi giorni a seguire Meshner fa del suo meglio per
mantenere funzionante la Lightfoot quanto basta perché nessuno di loro
muoia di fame o rimanga senza energia o sia costretto ad affidarsi ai
capricci dell’atmosfera locale. Rimanere con la tuta indosso è una grossa
seccatura per tutti gli interessati, ma anche se l’entità parassitica non si
diffonde nell’aria nessuno vuole correre il rischio che ci sia qualche altra
cosa con cui non sono stati stilati trattati diplomatici.
La cosa in sé stessa, quella cosa umanoide fatta di roccia, conchiglie e
fanghiglia, se n’è andata ma non si è allontanata di molto. Se ne sta
accoccolata sul pianoro, e le stelle marine si sono lentamente e
faticosamente allontanate perché possono percepire che cosa sia. Fabian
trova che essa abbia un’aria stranamente tragica, quella di una cosa respinta
perfino dal suo stesso mondo. A questo punto Meshner ha spiegato quello
che Kern ha fatto, cosa ha fatto comprendere al parassita. E quello che un
campione ha compreso può essere istantaneamente assimilato da qualsiasi
altro membro della colonia che vi entri in contatto. L’organismo è composto
da molte unità ma è anche una cosa sola, cellule microscopiche che si
scambiano comprensioni codificate come i batteri della Terra si scambiano
geni immunitari. Meshner sostiene che nell’andare avanti il parassita sarà
diverso. Non cercherà di presentarsi come un divoratore ma come un
compagno di viaggio. Viola sta già considerando in che modo potrebbe
essere utile una cosa del genere, come le sue Comprensioni possano essere
messe al servizio della spinta dei Portiadi alla ricerca del sapere e alla
scoperta. Fabian ha già deciso che questa è una branca della scienza su cui
lei può avere l’assoluto dominio, almeno per quanto lo riguarda.
E finalmente arriva la cavalleria. Un giorno lanciano un’occhiata al cielo
sopra di loro e vi scorgono qualcosa, come una seconda luna. Non è la nave
scientifica e neppure la sua scorta militare, e di certo non è la Voyager, che
si nasconde ancora nella parte esterna del sistema, troppo lontano per poter
fornire assistenza. Invece, Meshner presenta ai suoi compagni di equipaggio
la Profondità dell’Abisso, il cui scafo curvo riluce di colori, come se stesse
gridando insulti al pianeta sottostante. Insulti, forse, ma non missili.
I soccorsi arrivano poco dopo, sotto forma di un vascello sferico che
rotola giù dall’orbita, in volo automatico e senza personale a bordo,
stridendo come una banshee su getti di aria surriscaldata nel librarsi al di
sopra dell’altopiano, dove estende filamenti con cui recuperare l’intera
Lightfoot e riportarla nello spazio invece di limitarsi a prelevare i singoli
membri dell’equipaggio – il che va più che bene, dal punto di vista di
Meshner, ancora disincarnato. Per qualche tempo saranno tenuti in rigida
quarantena, ma il tempo è una cosa che hanno riconquistato adesso che
sono sfuggiti all’essere bloccati su un mondo alieno inospitale.
Finalmente arriva la nave scientifica con la sua scorta, e l’equipaggio
della Lightfoot si ricongiunge a Helena e a Portia. Quanto agli scienziati,
hanno già perso interesse nei loro nuovi alleati e si stanno trasferendo con
grande entusiasmo sulla stazione orbitale, dove smantellano una quantità di
macchinari per studiarli ulteriormente. Sono venuti a seguire le orme di
Noah, il cui lavoro era stato così rudemente interrotto e per loro il fato del
parassita e degli ambasciatori alieni è stato sempre e soltanto una cosa
collaterale, una mossa per tenere a bada i guerrafondai che ha finito per
risultare vincente.
20

Quando finalmente la Voyager arriva, dopo aver attraversato le vuote


distese fra la parte esterna del sistema solare e le rive di Damascus, Helena
è ormai al livello di ordinare generi di conforto ai fabbricatori delle
postazioni orbitali degli ottopodi: cibo umano e portiade ricavato da
molecole in avanzo, arredi, apparecchiature da laboratorio. Hanno un
piccolo enclave, la struttura della Lightfoot che è stata incamerata in una
sezione di uno dei globi della nave-casa, l’unica contenente aria in quella
grande collana piena d’acqua che Damascus indossa. Da più di un anno
sono ospiti degli ottopodi, ma essi ancora non si fidano del tutto di loro.
Quale che sia la mutevole alleanza di cefalopodi che di giorno in giorno
decide di interessarsi dei visitatori alieni, senza dubbio ci sono sempre
alcuni occhi sporgenti fissi su di loro, ma in assenza di evidenti tradimenti o
di uno sconvolgimento politico fra i loro ospiti si è lentamente sviluppata
una cordiale pace fra specie. Ogni giorno Helena riesce a comunicare un
po’ meglio, raffinando il suo software, trovando scorciatoie in quel
pasticcio che è l’architettura informatica del Vecchio Impero utilizzata dai
molluschi, fidandosi del suo istinto e modificando i toni di colore della tuta
che ha progettato.
Portia è la più felice alla vista della Voyager perché si sta annoiando,
rinchiusa in una delle postazioni orbitali. Come credi che si sentano gli
ottopodi?, le chiede Helena, ma Portia è troppo irritabile per mostrare molta
empatia. Vuole nuovi orizzonti, altrimenti perché andare nello spazio? Ha
perfino cominciato a parlare di andare su Nod, di mettere piede su un
mondo alieno. Dopotutto, secondo la sua umile opinione lei è la più grande
esploratrice del suo popolo, e le secca che Viola e Fabian l’abbiano battuta
sul tempo.
Anche Zaine è più che felice che la nave madre stia arrivando. È guarita
come meglio era possibile, ma le cure mediche per Umani non sono
qualcosa su cui i loro ospiti abbiano mai sentito il bisogno di fare ricerche
dopo che Senkovi è morto, e le Comprensioni rilevanti sono andate perdute
nel corso dell’attacco contro la Lightfoot. Zaine ha una dozzina di dolori
muscolari e alcune fratture guarite in modo imperfetto che l’hanno lasciata
con una dieta a base di antidolorifici e di frustrazione, mentre desidera le
cure correttive che può ricevere nell’infermeria della Voyager.
Se non fosse stato per Zaine, Viola avrebbe potuto rimandare l’arrivo
della Voyager per un altro anno o più, immersa com’è stata nella
costruzione di un modello virtuale per interfacciarsi con il parassita in
termini di parità. Helena ritiene che questo sia uno spingersi troppo oltre, e
in questo fa parte della maggioranza, ma Viola guarda al di là di tutti i
nuovi orizzonti. Di tanto in tanto uno degli ottopodi viene a parlare con lei,
costringendo Helena a goffe traduzioni di concetti neurologici e biochimici
che non riesce lei stessa a capire del tutto. La natura transitoria delle
opinioni dei cefalopodi significa che possono fare temporaneamente
comunella con i loro ospiti alieni. Viola sostiene di riuscire a reggere il
confronto sul fronte scientifico nonostante la disparità tecnologica, ma
Helena ha il sospetto che stia ancora cercando di riguadagnare terreno.
Dopotutto ha visto quello che la fazione scientifica ha recuperato dalla
stazione orbitale di Nod e ha guardato l’ambasciatore Paul cercare di
descriverne le capacità. Quello è il progetto di Noah, il mezzo tramite il
quale lui e il suo popolo potrebbero sfuggire al loro mondo devastato. La
fazione della scienza l’ha finalmente salvato e restaurato, e presto lo testerà.
Lei e Portia sono state invitate ad assistere. Inoltre, Helena ha raggiunto una
comprensione della mente degli ottopodi abbastanza raffinata da capire che
i loro ospiti stessi non sanno cosa hanno costruito, sanno soltanto quello che
vogliono fare, per cui le descrizioni che danno del loro lavoro sono come
quelle di mistici che descrivano le visioni avute. L’ingrato lavoro logico si
svolge altrove, inaccessibile alle menti che ne traggono beneficio.
All’inizio, lei ne è rimasta sconcertata e quasi offesa: dopotutto, non è così
che dovrebbe funzionare la senzienza. Umani e Portiadi convengono su
questo genere di cose. Adesso, dopo aver avuto abbastanza tempo per
riflettere, si chiede però se gli ottopodi non siano più felici, se non si
sentano liberi di agitare un imperioso tentacolo in direzione del cosmo e
ordinare che si apra davanti a loro come una vongola.
Anche Fabian è immerso nel suo lavoro, che ha cambiato orientamento
dal suo concepimento. Adesso sta progettando l’Impianto 2.0 con l’aiuto
del suo precedente assistente alla ricerca/soggetto di test di laboratorio.
L’Impianto 2.0 potrebbe risultare uno strumento migliore nel permettere ai
non-Portiadi di sperimentare e fare proprie le Comprensioni dei ragni, ma
questa sarà una cosa di secondo piano rispetto al progetto principale. Gli
eventi recenti hanno dimostrato che l’architettura dell’impianto è in grado
di essere spinta al di là del suo scopo originale, permettendo la presenza di
una notevole sorta di terreno neutrale, fra organico e inorganico, ma anche
fra specie diverse. Fabian intende essere il padre – sussulti di orrore da
parte dell’ortodossia scientifica portiade! – di una nuova tecnologia, che
potrebbe aprire un futuro molto diverso per tutti.
Persi in azione sono quindi Bianca, uccisa in quel confuso scontro iniziale
e ancora compianta, Avrana Kern – o almeno quella parte di lei che in
precedenza aveva il controllo della Lightfoot – e naturalmente Meshner
Osten Oslam, o almeno le sue spoglie mortali. Quella perdita può essere
però una cosa temporanea. Attualmente il suo corpo si aggira su Nod dopo
essere stato trasferito là a distanza dalla stazione orbitale. Non è chiaro se il
parassita possa evacuare il suo cervello lasciandolo integro e ancora sé
stesso, e i negoziati con il parassita sono più difficili di un intero ordine di
grandezza rispetto alle chiacchierate che Helena ha con gli ottopodi. La
novella IA Meshner è filosofica al riguardo. Sta ancora cercando un suo
equilibrio, adesso che è nei panni di Kern.
Helena gli parla di Kern e lo trova stranamente evasivo. Possibile che
Kern sia ancora presente da qualche parte, sulla stazione orbitale o
nell’impianto? Meshner non lo sa, ma pensa che la presenza in espansione
del parassita dovrebbe ridurre l’intelligenza informatica fino a quando quel
che ne rimarrà non sarà più Avrana Kern e, al contrario di Lante o dello
stesso Meshner, i ricordi del parassita non includeranno una simulazione di
Kern, solo la memoria delle interazioni avute con lei. Di certo non c’è una
personalità Kern presente nella Lightfoot: in quell’involucro danneggiato
non c’è spazio per due intelligenze di complessità umana. Lei si è
sovrascritta per preservare Meshner. Helena si chiede cosa ne penserà la
versione di Kern che si trova sulla Voyager, e se Meshner finirà per rendere
una piena confessione di quello che c’è stato esattamente fra lui e Kern
all’interno dell’impianto, prima della fine.
E come si sentirà Kern, nel complesso, adesso che non è più unica? Si
comporterà da dea gelosa nei confronti di Meshner? Oppure scoprirà di
essersi sempre sentita sola?
Molto prima dell’arrivo della Voyager la diplomazia multispecie è arrivata
a elaborare un piano per quello che Fabian ha battezzato l’Inserimento, una
descrizione che suona meglio per i Portiadi (che dopotutto iniettano veleno
e fertilizzano esternamente le loro uova) che non per un Umano.
L’Inserimento, quando ha avuto luogo, non è stato particolarmente
spettacolare per gli spettatori: un singolo missile – lanciato nelle acque di
Damascus da una stazione orbitale isolata – che ha richiesto un
ingrandimento per poter essere visto anche solo dalla posizione
avvantaggiata di Helena. Per ora i risultati sono inconcludenti: nessuno sa
se il piano avrà l’effetto desiderato. Quelle che sembravano mille fazioni di
ottopodi hanno continuato a litigare per cercare di stabilire anche solo se
andare avanti con il tentativo, poi alcune di loro lo hanno fatto per conto
loro, perché a quanto pare è così che vengono prese le decisioni in questo
angolo della galassia. Helena ha seguito il percorso del missile finché non si
è aperto nell’incontrare le onde. Al suo interno, ora libero sul pianeta, c’era
un campione del parassita proveniente dalla stazione orbitale di Nod,
completo dei ricordi di Avrana Kern, della sua tesi e della tregua stipulata
fra loro. Proprio com’è successo con il parassita su Nod, la speranza è che
la conversione si possa diffondere su tutto il pianeta contaminato, portando
al parassita consapevolezza e comprensione del suo posto e del suo
potenziale. Forse un giorno i cefalopodi riavranno il loro pianeta, in qualche
modo o forma, anche se probabilmente non lo riavranno mai più tutto per
loro. Attualmente, la sola reazione pratica è quella di aspettare e stare a
guardare.
Il che lascia una cosa soltanto da fare prima che l’equipaggio ricongiunto
della Voyager prenda le ultime decisioni e si accomiati.
La fazione scientifica intende testare il congegno di Noah, ora riparato e
migliorato. Pur trovando che il doverlo portare fuori dall’orbita tanto di
Damascus quanto di Nod per poterlo testare sia inquietante, Helena e Portia
vogliono assistere, e si ritrovano quindi in un alloggio molto simile alla loro
precedente cella durante la missione di soccorso.
Il congegno è sorprendentemente piccolo, una struttura ad arco applicata a
una singola nave-sfera automatica, abbastanza lontana perché Helena debba
fidarsi delle strumentazioni per credere nella sua presenza.
Non capisce appieno la scienza su cui quella cosa si basa, sa soltanto
quello che dovrebbe fare e non riesce a crederci. Gli ottopodi sono
ingegneri incostanti, dopotutto, tormentati dalla divisione in fazioni e da
una breve curva dell’attenzione. È del tutto impossibile, giusto? Certo, gli
umani del Vecchio Impero avevano concepito una simile scappatoia
nell’universo, ma anche per loro l’energia richiesta era stata assurdamente
fuori della loro portata. Generazioni di scienziati ottopodi sono state
stuzzicate da quel pensiero, però, e hanno desiderato di renderlo reale,
ingiungendo a livello subconscio alla loro Portata di trovare un modo,
barando con la fisica, riducendo i termini del problema finché... questo. E
lei ancora non ci crede, uno scetticismo insignificante se paragonato a
quello di Portia.
Tuttavia sono state convocate entrambe e sono venute, piccole parti
presenti per assistere al trionfo o alla tragedia dei grandi attori.
Un uomo saggio ha detto una volta che lo spazio non è un oceano,
nonostante la tentazione di pensare in termine di incrociatori, di gradi di
marina e di flotte da guerra che si scambiano bordate nell’attraversare la
notte calme e aggraziate. Per gli ottopodi, tuttavia, lo spazio è un oceano,
solo che per loro il concetto di ‘oceano’ è molto diverso da quello
dell’umanità: è una grande tela multidimensionale che li circonda e che loro
possono manipolare e aprire per vedere se è possibile trovare all’interno
qualcosa di commestibile. Fare le cose a pezzi per pura curiosità è sempre
stato parte del loro bagaglio mentale, e perché l’universo dovrebbe fare
eccezione?
C’era una volta un ottopode, chiamiamolo Noah, il cui popolo aveva
subito un cataclisma molto più che di proporzioni bibliche, miliardi di vite
perse per il dilagare di un’infezione che le faceva a pezzi, le smembrava e le
rimodellava in una poltiglia senziente che aveva finito per rivestire il
mondo intero, mentre quel che restava della popolazione si accalcava su
stazioni orbitali e poteva soltanto guardare dall’alto il pianeta che aveva
perduto. Mentre alcuni cercavano di ricostruire una nuova stabilità in orbita,
molto altri sentivano che prima o poi quell’infezione si sarebbe estesa fino a
loro, indipendentemente da qualsiasi quarantena. Fazioni, lotte interne e
guerra aperta si erano diffuse in cerchio intorno a Damascus e fuori, nei più
ampi spazi del sistema solare. Noah lo aveva visto e aveva ceduto alla
disperazione.
Proprio come i suoi lontani antenati che mordevano il freno nei ristretti
confini delle loro vasche, anche lui aveva pensato: Devo fuggire. Noah
sapeva – o quantomeno lo sapeva la sua Portata – che l’universo era vasto e
che qualsiasi luogo in cui avesse voluto fuggire si trovava a una distanza
inimmaginabile. Impaziente di andarsene, la sua Portata aveva scartato
piani a lungo termine come il sonno criogenico e navi generazionali a
favore di...
Questo.
In questo senso, lo spazio è un oceano. Ha onde e correnti, e se da un lato
ci sono limiti duri e assoluti alle velocità a cui gli oggetti si possono
muovere attraverso di esso, tali limiti non si applicano allo spazio stesso.
Quando lo testano, il congegno di Noah svanisce all’istante. Gli scienziati
ottopodi sono divisi, alcuni inneggiano a un successo, altri vedono un
fallimento. I loro strumenti sono ambivalenti riguardo a cosa sia successo
perché non sono ancora in grado di testare i principi che stanno utilizzando,
un problema comune se si considera la natura della scienza dei cefalopodi,
che procede per balzi pindarici dell’ispirazione.
Dopo un anno, però, il segnale arriva fino a loro da un anno luce di
distanza nel vuoto. Il congegno è arrivato con successo, manipolando le
percentuali di espansione dello spazio immediatamente davanti e dietro di
sé per coprire quella distanza in un arco di ore, dal punto di vista
soggettivo. Non era però stato pianificato nessun viaggio di ritorno, e il
segnale vero e proprio è stato costretto a viaggiare alla vecchia maniera,
sotto l’occhio severo di una relatività che non si accorge neppure di essere
stata ingannata.
Futuro
Dove due o tre si raduneranno
Epilogo

La nostra nave ha allargato le ali nella luce di un’intensa stella rossa,


grandi vele che assorbono la luce nucleare mentre metà del nostro
equipaggio compie una breve esplorazione di una luna dall’aspetto
interessante. Non c’è niente di abitabile in questa zona: pianeti con una
massa che è tre volte quella della Vecchia Terra e con cento atmosfere di
pressione al livello del suolo. Non che la pressione, di per sé, non sia
insuperabile. Gli ottopodi possono adattarsi facilmente a quel genere di
ambiente, proprio come al trovarsi a un chilometro di profondità, sul
fondale oceanico, e potrebbero perfino portarmi con loro, se lo chiedessi
con garbo, ma laggiù ci sono in prevalenza fuoco e acidi e non abbiamo
individuato niente che figuri sulla nostra lista della spesa quindi perché
prendersi il disturbo di scendere? Dopotutto, abbiamo l’intero universo.
Un paio delle lune dei pianeti esterni sono una questione del tutto diversa.
Su una c’è chimica organica e sull’altra ci sono alcune strane, piccole tracce
di energia che potrebbero essere qualcosa di inorganico ma in teoria
potrebbero anche essere qualcosa di vivo. Di solito la vita è il grande
premio, più dolce del più raro fra gli elementi, anche se in genere si tratta di
qualcosa al confine fra la vita e una chimica complessa. O di qualcosa che
si studia meglio sotto un microscopio.
Anche se io so meglio dei più come essere microscopici non significhi
essere semplici.
Ogni nave è diversa, a seconda di chi ne ha i diritti di costruzione. La
nostra è di fabbricazione cefalopode, il che significa che i nostri membri
dell’equipaggio non acquatici hanno sostituito i polmoni con le branchie per
la durata del viaggio. Dopotutto, di questi tempi invertire il procedimento è
facile. Abbiamo a bordo cinque specie diverse, oltre a me e ad altri due
interlocutori. Siamo tutti figli della Terra, in un modo o nell’altro, prodotti
del programma di terraformazione e del virus di Rus-Califi oltre che, in un
caso, dell’inaspettata collisione fra il genoma di un corvide e un
catalizzatore molecolare alieno. Abbiamo anche intelligenze artificiali, e
altre che non sono né una cosa né l’altra. E alcuni di noi sono figli di Nod,
da sempre o perché hanno preso in affitto dello spazio laggiù.
I primi rapporti della squadra di esplorazione suggeriscono che abbiano
trovato la vita, ma a stento. Preleveranno campioni ed espanderanno i nostri
archivi. Forse percorreremo la fredda superficie di quelle lune, o nuoteremo
nei loro oceani sotterranei, ma non interferiremo. Un giorno torneremo,
mille o centomila rivoluzioni più tardi, per vedere come se la stanno
cavando, ma rimane sempre quel leggero senso di insoddisfazione per il
fatto che non sono in grado di conoscerci, che non si possono unire a noi
nel nostro viaggio senza fine.
Arrivano messaggi da altre navi. I più vecchi strisciano fino a noi alla
velocità della luce, antiche notizie che ci riferiscono cos’hanno fatto i nostri
antenati, cos’hanno trovato i nostri cugini. Contrassegniamo alcuni mondi
come degni di una visita, altri come focolai di evoluzione nascente che
potrebbero già adesso protendere organi sensoriali verso il cielo stellato.
Prendiamo nota del trapasso di parenti e amici, della nascita di nuove navi,
di canti, storie e battute che viaggiano fra le stelle. Ne apprezziamo alcuni,
altri sono ormai così distanti da noi che non riusciamo a comprenderne il
significato. Se però incontrassimo quegli altri viaggiatori saremmo in grado
di guardarci a vicenda negli occhi e di vedere nei loro il nostro riflesso. A
che altro serve un interlocutore?
Poi arrivano le notizie vere.
Questo è un dispaccio rapido, una sonda automatica inviata nel sistema
via onda, contraendo lo spazio davanti a sé ed espandendolo alle sue spalle
per superare vastità interstellari tanto in fretta da lasciare la propria
immagine nella sua stessa scia. L’energia richiesta dal viaggio via onda è
tale che soltanto le notizie più urgenti vengono inviate così, e questa sonda
è stata mandata alla nostra ultima posizione conosciuta dai suoi creatori per
poi seguire i nostri segnali di cresta d’onda in cresta d’onda, fino a trovarci.
Cosa ci può essere di tanto urgente? Quando si trovano in simili
circostanze, alcuni fra l’equipaggio pensano sempre alla guerra, ma quale
guerra? Cosa c’è per cui combattere, in un universo che è così vasto che
neppure noi potremo mai esaurirlo tutto, con una maggiore abbondanza di
qualsiasi cosa rispetto a quelli che potranno mai essere i nostri bisogni?
Non ci sono imperi nello spazio. Se è un oceano, allora è un oceano senza
rive.
E non si tratta di una guerra. È una scoperta.
Su un mondo lontano, intorno a un sole distante, una piccola nave dei
nostri cugini ha trovato qualcosa di notevole. Non avendo le giuste
attrezzature per l’esplorazione, hanno mandato a chiamare i loro parenti,
che potranno rendere giustizia a quel sito: noi.
In preda a una febbre da eccitazione contattiamo la squadra esplorativa.
Entro un anno avrà ultimato il suo lavoro e tornerà da noi, dati alla mano.
Cos’è un anno, dopotutto, se non un’obsoleta misura del tempo terrestre?
Noi abbiamo tutto il tempo che l’universo ha da offrire.
Nel frattempo la nave si è ricaricata e creiamo le nostre onde, cavalcando
la massa negativa attraverso centinaia di anni luce. Adesso il procedimento
è quasi efficiente dal punto di vista energetico, se paragonato ai primi
esperimenti dei cefalopodi.
E arriviamo, circa un secolo dopo che i pionieri originali hanno mandato
la sonda prima di proseguire per la loro strada. Cos’è un secolo, dopotutto,
agli occhi dell’universo? Sul quinto pianeta di quel sistema c’è un segnale
per noi, e al suo interno c’è qualcosa lasciato apposta per me.
Dall’orbita vediamo con chiarezza perché è stato mandato il segnale.
Molto probabilmente ha raggiunto anche altri ed entro pochi decenni
avremo qui una vera e propria riunione di famiglia, tutta la banda di nuovo
insieme, perché chiunque abbia interesse e i mezzi arrotolerà la struttura
dello spazio-tempo per venire qui. Molta brigata, vita beata.
Do un’occhiata e l’umano che è in me la definisce una fortezza del
diametro di sette chilometri e alta uno, un’enorme struttura a forma di stella
fatta di muri dentellati nei quali le rientranze hanno loro dentellature, denti
che si ripetono fino al livello atomico in una profusione frattale. La struttura
è morta: non ci sono firme di energia e il pianeta stesso ha perso la maggior
parte dell’atmosfera che possedeva. La fortezza non è nativa del luogo,
perché il resto del pianeta non mostra segni di una civiltà che avrebbe
potuto costruirla. Qualcuno è venuto qui un milione di anni fa, vi ha lasciato
il suo marchio ed è morto, oppure è partito. O forse ha lasciato qualcosa
dietro di sé.
Abbiamo trovato qualcun altro, o quantomeno le sue impronte nella
polvere. È la prima volta, e questo ci dà la speranza che non sarà l’ultima.
In basso, i nostri parenti pionieri ci hanno lasciato un dono, ed è qui che
entro in campo io. Il loro interlocutore voleva essere presente agli scavi, ma
non era in grado di abbandonare i compagni. Fortunatamente per noi, questa
non è una barriera difficile da superare.
Mi portano il criptobionte, la cultura dormiente che hanno decantato da
loro stessi, che è tutto quello che loro erano, tutte le diverse vite che li
componevano. Quando li riverso dentro di me sono loro e loro sono me,
un’espansione della mia storia personale scritta con ordine nell’archivio
delle mie cellule. Sono stato umano, e anche Umano; sono stato Portiade e
ottopode e stomatopode e corvide. Adesso sono altri quarantatré individui.
Sono Yusuf Baltiel ed Erma Lante e Meshner Osten Oslam e Viola e
Salomè. Io sono molti.
Dividiamo la nave. Alcuni di noi continueranno con i nostri viaggi, altri
rimarranno qui a studiare mentre la nave-bambina appena sbocciata si
allarga e cresce. Io mi frammenterò per quelli che se ne andranno, partirò
con loro e rimarrò, e forse un giorno incontrerò me stesso e gli racconterò
quello che ho imparato.
Quelli che rimangono si preparano alla rispettosa esumazione dei morti, a
investigare queste vaste rovine aliene. Forse apprenderemo da dove
venivano. Forse loro sono ancora là. Un giorno incontreremo intelligenze
viventi e quel giorno gli interlocutori saranno pronti a impararle, ad
apprendere come parlare con loro e a invitarle a prendere parte al viaggio,
se lo desiderano.
Ringraziamenti

Per mettere insieme questo libro ho attinto al sapere di parecchie menti, e desidero ringraziare in
particolare il mio team di Consulenti Scientifici Speciali e cioè: Maeghin Ronin, Peter Coffey, Philip
Hodder, Nathan Young, Richard G. Clegg, Brian White, Katherine Inskip, Andrew Blain, Stewart
Hotston, Winchell Chung e in particolare Michael Czajkowski per l’ulteriore aiuto relativo alle
meccaniche planetarie e il grande ispiratore Nick Bradbeer, straordinario guru della progettazione di
astronavi. Vorrei ringraziare anche Peter Godfrey-Smith per il suo libro Other Minds, che si è rivelato
un preziosissimo strumento di ricerca.
Oltre a questo team d’élite di scienziati, i miei ringraziamenti vanno come sempre a Simon
Kavanagh, il migliore fra gli agenti, e a Bella Pagan, nonché a tutti quanti alla Pat Macmillan che
hanno agito riguardo allo sviluppo di questo libro nello stesso modo in cui il nanovirus ha accelerato
l’evoluzione degli svariati animali di cui scrivo. Inoltre, non avrei potuto produrre questo romanzo (o
qualsiasi altra cosa) senza il costante supporto della mia paziente consorte, la dottoressa Anne-Marie
Czajkowski.

Potrebbero piacerti anche