Esplora E-book
Categorie
Esplora Audiolibri
Categorie
Esplora Riviste
Categorie
Esplora Documenti
Categorie
“Ogni volta è come se lo facessi per la prima”, pensò Neil, appoggiato contritamente sul suo non
troppo comodo sedile. Il countdown in quel momento era appena iniziato: “10, 9, 8, 7, 6, 5, 4, 3, 2,
1… pronti al lancio!”. Il motore del razzo eruttò un rombo fracassante e cominciò a sollevarsi da
terra vincendo la forza di gravità. Neil, a causa dell’inerzia, si sentì sprofondare verso il basso e
chiuse gli occhi, proprio come aveva fatto le scorse quattro volte: pensò a sua figlia Madeleine,
tanto piccina quanto gli sarebbe parso il mondo di lì a poco, e a sua moglie Samantha, attraente per
lui tanto quanto un buco nero per tutta la materia. Il razzo raggiunse la velocità che gli permetteva
di fuggire dalla Terra, uscendone fuori dall’atmosfera poco dopo: Neil si sentì finalmente sollevato
e a proprio agio.
Correva l’anno 2161, e l’umanità era progredita in maniera esponenziale da quando quasi due secoli
prima aveva messo piede sulla Luna. Neil era l’astronauta più competente della sua epoca, tanto che
in quarant’anni di vita aveva condotto l’esplorazione di Giove e di Mercurio. Adesso questa nuova
missione lo stava portando verso l’ignota nube di Oort, ai veri margini del sistema solare, una
missione, questa, che lo avrebbe privato di alcuni anni sulla Terra insieme alla sua famiglia.
Il povero Neil, o fortunato, impostò la rotta e si guardò alle spalle: il suo spirito curioso non poteva
avere completamente la meglio su questo ancora incomprensibile sentimento quale è l’amore. Le
sue pupille dilatate e bagnate di pianto osservarono il geoide allontanarsi sempre di più nell’abisso
spaziale che tutto circonda, finché non scomparve in un vuoto assoluto. Rimase a fissare la sua
immagine riflessa nel vetro della navicella per alcuni minuti. Il suo sguardo era tetro, il viaggio era
lunghissimo e sentiva che avrebbe perso il suo scopo, prima o poi, ma ricordandosi il suo direttore,
che lo aveva spronato riguardo “l’importanza universale della sua missione”, si andò a coricare un
po’ più rasserenato. Un direttore geniale, se ha pensato ciò che ha detto, ma anche stolto, se ci ha
creduto veramente. La speranza riesce sempre a dare un senso alla gente, il problema è capire
quanto essa sia solida…
Tutti si erano rifiutati di partire per questo viaggio, per la pericolosità e per la lunghezza, quindi
Neil si trovava da solo sulla navicella. Questa continuava imperterrita secondo la sua rotta, “Sarà
contenta lei”, pensava Neil, “a non dubitare mai delle sue azioni!”. Egli si era portato con sé il suo
amato taccuino, che lo aveva accompagnato in tutte le sue sortite e nel quale aveva annotato
qualunque pensiero gli fosse mai passato per la mente, una mente geniale, la sua: le riflessioni
concernevano argomenti vari, dal senso della vita all’etica della scienza, dalla curiosità umana al
contrasto amore-ragione; “avrei potuto fare il filosofo, invece di torturarmi con questo viaggio!”
pensò, scherzando con sé stesso. Poco dopo, però, si redense: <Se non avessi viaggiato in questa
maniera, questi pensieri non mi sarebbero mai venuti. Certo! È l’esperienza che ti apre la mente!>, e
lo annotò con la sua penna biro, oramai quasi scarica.
Quando, dopo un anno e mezzo, la navicella emise il tanto atteso suono di <fine-rotta-pre-
impostata>, Neil spalancò gli occhi e sorrise per la seconda volta in tutto quel tempo (la prima fu
quando vide passare una cometa, esprimendo un desiderio per la sua piccina Madeleine). Prese il
comando manuale e iniziò a girovagare: voleva divertirsi un pochino prima di cominciare a
raccogliere dati. Dall’interno la nube non sembrava veramente una nube, a dire il vero non vi era
nulla di così dissimile da un cielo stellato terrestre, se non fosse stato per la mancanza della Terra.
Neil si esaltò, poteva vedere in lontananza un puntino denso e luminoso: era il Sole. Se la navicella
avesse continuato ancora un po’ il suo perpetuo ronzio nella direzione preimpostata, anch’esso
sarebbe stato inghiottito dall’abisso spaziale che tutto circonda. Neil si rallegrò a questa visione, ma
un attimo dopo dovette subito svalutare la sua contentezza: il Sole era sparito, improvvisamente,
tutto ad un tratto! Adesso sì, quel puntino luminoso, che pareva insignificante in tutto il cosmo, sì
che aveva acquistato un minimo di interesse. Neil si alzò di scatto, come se qualcosa si fosse rotto
nel suo animo. “Dove è finito il Sole? Dove sarà finita la Terra?” si domandava freneticamente.
Non sarebbe potuto tornare indietro prima di 6 mesi, il tempo stabilito per raccogliere i dati, non
poteva andare ai comandi e fare marcia indietro, poteva solo restare lì, attonito, terrorizzato,
impotente. Un uomo comune si sarebbe subito demoralizzato e avrebbe voltato le spalle al
problema, ma Neil aveva l’animo dello scienziato, e lo scienziato osserva tutto, anche ciò che non
vorrebbe. Scrutando meglio la situazione, all’occhio di Neil si presentò una stranezza inconcepibile:
il Sole spariva e riappariva ad intervalli regolari, più o meno di 32 secondi. Non poteva esserci nulla
di spiegabile, l’ipotesi più sensata per la mente di Neil era che Dio si stesse divertendo a giocare
con un pendolo ideale fra la sua navicella e il sistema solare, e che al filo del pendolo fosse
attaccato un corpo enorme il quale impiegava ben 32 secondi per compiere interamente il tragitto
davanti ai suoi occhi. Da ciò si comprende quanto Neil avesse le idee chiare…
All’improvviso, un boato cupo e fragoroso risuonò nel vuoto. Neil stava seriamente cominciando a
credere in un intervento divino, date le circostanze, quando finalmente vide, e svenne, per fortuna
senza colpire spigoli o altro.
Si risvegliò un’ora dopo, convinto che avesse sognato. Non poteva essere veramente reale, ciò che
aveva visto. Rimessosi in piedi, barcollò, perdendo l’equilibrio per un attimo, e riuscì ad arrivare
non senza difficoltà alla finestra. Osservò l’ambiente circostante, e lo rivide. Strabuzzò gli occhi, la
gola si irrigidì, la pelle diventò gelida. Un gigante, un vero gigante, si stagliava sontuosamente
davanti a lui, la sua testa era grande probabilmente quanto un intero palazzo, e alla proporzione di
essa erano le altre membra; la pelle appariva molto scura, tanto che quasi si mimetizzava nel nero
circostante; non portava “vestiti”, ma non c’era pericolo di scorgere parti intime, visto che ne era
privo. Il suo viso appariva ieratico, senza emozioni, e i suoi occhi non avevano nessuna profondità,
sembrava quasi essere cieco, per quanto fossero sprovvisti di linfa vitale. Neil capì, dopo aver
ragionato un po’, che il motivo per cui il Sole spariva e riappariva era il “semplice” passeggio del
gigante, che alzava e abbassava la gamba. Da questo punto di vista, poteva essere contento: sulla
Terra stavano tutti a meraviglia. Lui di sicuro molto meno.
Il gigante non accennava a continuare la sua camminata, ma si era invece fermato davanti la
navicella; non sembrava incuriosito, anzi, era quasi seccato per l’imprevisto: non voleva che la sua
eternità avesse qualche intoppo. Neil prese la tuta da astronauta nel ripiano dove vi era scritto:
“USARE SOLO IN CASO DI EMERGENZA”; tale a lui pareva questa situazione. Uscì di fuori e
gridò fortissimo al gigante, ignorando che il suo udito funzionava perfettamente da miliardi di anni:
“Chi sei?”;
Rispose una voce bassa e grave: “Non ho un nome, nessuno mi deve chiamare.”
“Io sono Neil, un astronauta della Terra. Sono stato inviato in questo punto della nube di Oort per
raccogliere dati sulle radiazioni e sulle comete. Non ho intenzioni bellicose o di qualunque genere
simile.”; disse l’astronauta mettendosi sulla difensiva.
Seguì un silenzio lungo, imbarazzante; il gigante se ne stava sempre fermo, con lo sguardo perso e
con la medesima espressione vuota, mentre Neil sperava che dicesse qualcosa, pur accorgendosi che
niente sembrava scalfire la sua apatia.
“Insomma… dimmi: come fai a camminare nel vuoto? come riesci a sopravvivere? Anzi, meglio, da
quanto vivi?” si decise a chiedere Neil, che stava mutando il suo terrore in curiosità.
“Esisto dalla formazione dell’universo. Non so perché, o come esista, sono domande che non mi
pongo. Mi pare di essere immortale. Le supernove non riescono a scalfirmi, i buchi neri non
riescono ad attrarmi. Nulla si accorge della mia presenza.”
“Avrai visto un sacco di cose durante la tua vita… in 14 miliardi di anni avrai passeggiato molto,
penso.”
“Non saprei dirti, niente mi interessa veramente. Neanche te, a dire il vero. Aspetto solo che ti
sposti per continuare ad andare avanti.”
“Perché non mi passi semplicemente a lato?”
“Non cambio mai direzione”.
“Io dovrò stare sei mesi fermo qui, ti avverto!”
“Aspetterò”
Neil si rese conto che era quasi impossibile ragionare con quell’entità, la curiosità stava mutando in
delusione. L’astronauta aveva appena compiuto il primo contatto dell’umanità con un qualche
essere alieno, ma a dire il vero gli sarebbe sembrata più eccitante una partita a bowling col suo
direttore in quel momento. Rientrò nella navicella e prese il suo taccuino. Dopo aver azionato i
sensori raccoglitori di dati, si mise subito a scrivere: <Ho incontrato un gigante alieno che cammina
nell’universo. Non è l’inizio di un film fantascientifico, è ciò che mi sta capitando per davvero.
Perché sto scrivendo e non sto parlando con lui? Perché non sembra essere vivo. Egli ha affermato
di essere immortale, di camminare sempre nella stessa direzione dall’alba dei tempi, di non essere
mai stato attratto da nulla e di non essersi mai posto domande su sé stesso, o sulla sua natura.
Davanti ai miei occhi non c’è un essere che vive, c’è un ammasso senziente di materia che esiste
senza uno scopo. Lui non cammina verso qualcosa, lo fa perché non ha nient’altro. Ora sta
aspettando che passino i sei mesi della mia missione. Pur di non cambiare, pur di non pensare
diversamente da quanto ha fatto per 14 miliardi di anni, è disposto a stare inerme, in piedi, per così
tanto tempo (non so, in realtà, se gli comporti fatica, ma sorvoliamo). Io non lo critico, anzi, lo
compatisco. Vivere per l’eternità non è idilliaco. Sai di non avere una fine, perciò niente appare
interessante poiché ti si ripresenterà miriadi e miriadi di volte. Chissà quanti “me” avrà già
incontrato nei diversi sistemi planetari dell’universo e chissà quanti mesi, o anni, avrà aspettato
prima che si spostassero dalla sua direzione. Per quanto io sia uno scienziato e per quanto io mi
meravigli di fronte al minimo fenomeno della natura, di fronte a ciò non posso che comportarmi in
modo ugualmente apatico; cosa dovrei trovare di interessante in un ente meccanico, che non cambia
mai? Cosa dovrebbe suscitare in me la mancanza di senso o di scopo? Per quale motivo potrebbe
attirarmi la nullità di mistero, o di caos? Sono domande dalla facile risposta; quello che mi pare
invece veramente complicato è riuscire a convincerlo a vivere. Forse ci proverò, in ques…> Neil
aveva quasi finito di scrivere i suoi pensieri, ma la penna si era scaricata proprio sull’ultima frase.
Imprecò a gran voce, dato che si doveva alzare dal materasso, e prese la biro di scorta in uno dei
tanti cassetti della navicella. Continuò quindi a redigere: <…ti mesi. Almeno avrò un muro meno
metallico di quello della nave con cui dialogare, almeno mi sentirò meno solo; non so dire se sarà lo
stesso per lui…>. Finito ciò, poté addormentarsi soddisfatto e tranquillo; di certo non sarebbe
accaduto nulla di eclatante, né di intrigante là fuori. Nel mentre, il gigante aspettava…
Passarono settimane e addirittura mesi. Ogni giorno Neil accendeva i raccoglitori di dati, lavorava
un po’ di tempo su quelli già presi, e dopo usciva fuori a parlare col gigante. Qualunque argomento
gli proponesse, dal più banale al più interessante, la reazione era sempre la stessa. Gli raccontava
storie di sua figlia o di sua moglie, dei suoi amici all’università, del suo percorso da astronauta, di
come l’umanità era riuscita a mandarlo su Giove o su Mercurio; ma niente, il gigante viveva da
miliardi di anni, tuttavia non poteva conoscere né tristezza né gioia, né amore né paura, né superbia
né misericordia, né ira né invidia. Pur avendo visto probabilmente tutto, non conosceva nulla. Neil
non sapeva se il gigante potesse considerarsi felice, d’altra parte non aveva mai avuto altra
alternativa che vivere in questa maniera. <Vivere, vivere, che bella la vita! Ma è la morte che dà
senso alla vita, elogiamola! Senza di lei, esisteremmo, inermi come il gigante.> scrisse una volta
Neil nel suo taccuino.
Al cominciare del quinto mese, durante un giorno, o una notte, non si sa bene, apparentemente
uguale ad ogni altro, Neil vide una luce luminosissima in lontananza. Pareva apparsa dal nulla, nata
all’improvviso, come una sorta di Creazione. Ciò che stava spaventando il povero astronauta, era il
fatto che questa luce sembrava avvicinarsi proprio verso di lui, lo stava puntando come una freccia
che vuole centrare il bersaglio. Subito comprese, era una cometa! Essa stava percorrendo
imperterrita la sua orbita all’interno della nube, e lui si trovava proprio sulla linea d’azione.
Esprimere un desiderio per fare in modo che cambiasse direzione era qualcosa di troppo debole,
serviva un alcunché di più potente. La luce si avvicinava, malevola, di più e di più; Neil si irrigidiva
a mano a mano che il tempo scorreva. La navicella non poteva essere spostata, doveva restare ferma
lì, in quel punto, i dati erano di importanza universale, aveva detto il direttore. Non poteva mettere
la tuta e uscire dalla navicella: tornare a piedi sulla Terra sarebbe stato difficile. Ma non poteva
neanche stare lì impalato ad aspettare morte certa. Ragionò, ragionò, e alla fine gli venne un’idea.
Prese comunque la tuta, uscì fuori comunque, ma si fermò appena dopo, gridando al gigante: “Tu,
lassù, vedi la cometa che sta arrivando? Mi colpirà tra poco, morirò. Non puoi fare qualcosa per
aiutarmi? Hai detto che neanche le supernove ti possono scalfire…”.
“Non ho mai aiutato nessuno. Non agisco mai.”
“Non ti sembra questo il momento migliore per cominciare? Morirò sicuramente, ti scongiuro!
Pensa a Madeleine, a Samantha, ti ho raccontato di loro, non le potrò mai più rivedere! So che puoi
fare qualcosa, lo so.” gridò Neil, con la voce rotta di pianto.
“Nulla mi ha mai interessato di ciò che mi hai detto, io sto aspettando di continuare il cammino.”
rispose impassibile il gigante.
Neil era disperato, non riusciva a trovare l’anima di questo essere, non capiva come indurlo a
smuoversi dal suo seggio, dalla sua staticità. Ma d’altronde, caro Neil, non puoi essere così superbo
da pretendere di aver cambiato 14 miliardi di anni di abitudine in cinque mesi, cosa rappresenta un
breve intoppo quale è la tua presenza rispetto ad una passeggiata che perdura da millenni? La
risposta pare semplice, per il gigante sei come un piccolo inciampo su una lastra del marciapiede
mal posta: nonostante accada, si continua ugualmente a camminare.
“Non ti rendi conto di ciò che mi stai facendo? Maledetto tu e la tua eternità. Se potessi morire,
capiresti…” continuò Neil; la cometa si faceva ancora più incombente;
“Cosa capirei?”
“Capiresti che esistere non basta! Solo con l’idea della morte noi, uomini, riusciamo a vivere la vita.
Solo con l’idea della morte siamo spinti a desiderare, ad essere curiosi, a scoprire, ad amare, ma
anche a uccidere, a compiere violenze, è tutto compreso: solo morendo, noi umani siamo noi. Tu
non puoi avere uno scopo, non lo puoi avere, dannazione! È ovvio che non mi aiuterai, sarebbe un
atto con un fine; ma tu non agisci con un fine, tu non hai neanche una fine, tu ti lasci andare a
questa camminata insensata perché, semplicemente, ti può condurre in nessun luogo.” ormai Neil si
stava rassegnando alla morte, era consapevole di aver vissuto la vita che voleva, ora voleva almeno
concluderla con una speranza. Ma il gigante rimaneva lì, apriva cautamente la bocca per rispondere,
poi la richiudeva. L’espressione non mutava, di certo non sembrava trafitto dalle parole che Neil gli
stava scagliando addosso (neanche le supernove potevano scalfirlo, si ricordi). La cometa era
adesso a quattro minuti di distanza. Neil non ci vedeva più, era ormai accecato; parlava al gigante
guardando la sua mano, quest’ultimo non ci faceva neanche caso.
“Posso dedicarti le mie ultime parole?”, disse Neil, per la prima volta con una voce dall’intensità
molto bassa.
“Come vuoi, parla pure”;
“Accetto il fatto che mi stai lasciando morire, non è colpa tua, non sei cattivo, lo so, forse neanche
sai cosa sono, la colpa o la malvagità. Ma ascoltami bene, forse qualcosa lo imparerai: tutto ciò che
sta intorno a te, l’universo, vive grazie al cambiamento; un qualcosa che non muta, non interagisce,
ed è quindi morto. Mi sembri solo un povero sonnambulo, che passeggia durante la notte più bella
senza accorgersi che lo sia. Esprimo il mio desiderio finale: che la luce di questa cometa possa
abbagliare la tua mente, magari qualcosa si risveglierà in quella cantina impolverata. Ti saluto per
sempre, so che ti scorderai subito di me, tra qualche secolo magari o poco più; la cometa è ormai
arrivata, non ti tedierò più con la mia presenza, ma pondera bene ciò che sto per dirti:
<la mia Morte, io, la chiamo Vita; la tua vita, io, la chiamo morte.>”.
Neil pensò un’ultima volta a sua figlia, sperando ancora, nel profondo, in un cambiamento nel
gigante, e poi morì.
La cometa trapassò e squagliò la navicella come se fosse insignificante, mentre il gigante sentì una
piccola calura all’altezza della caviglia. Non preoccupandosi neanche di questo, ricominciò
impassibile il suo cammino, chissà dove lo condurrà…Di certo a lui non importa, quindi perché al
lettore dovrebbe?
Il 12 agosto di molti anni dopo, quasi una ventina, Madeleine si stava recando in Ohio, a casa della
madre ormai anziana. Madeleine era diventata un’astronoma, dopo il “fallimento” della missione
del padre, ed era stata lei a calcolare un luogo sicuro per il posizionamento di una navicella nella
nube di Oort. Ciò era riuscito a renderla famosa e apprezzata in tutto l’ambiente scientifico, ma
niente avrebbe mai potuto colmare quello che aveva perso, neanche un successo così grande nella
vita. Quella sera madre e figlia mangiarono un hamburger di manzo, per poi rifocillare la tristezza
con una vaschetta di gelato: erano passati esattamente 18 anni da quando Neil era partito…
Madeleine aiutò la madre a scendere in giardino e ad appoggiarsi sulla sedia a dondolo,
prendendone un’altra per sé stessa subito dopo. Si misero a guardare il cielo stellato, insieme.
Stettero lì, con gli occhi sognanti, per due ore, quando all’improvviso passò una cometa, proprio
sopra le loro teste. Era l’arma del delitto? Sicuramente no, dato che avrebbe attraversato il
firmamento terrestre 2000 anni dopo; ma non era importante, entrambe la maledirono con tutto il
cuore. Madeleine si mise poi a sorridere, probabilmente in modo rassegnato, e disse alla madre:
“Pensa, mamma, è stata proprio una cometa. Agli altri elargisce desideri, dispensa speranze e
distribuisce sogni; a noi, invece, ha tolto tutto. Ah, magari Dio avesse potuto deviarla, ma un povero
uomo che sfida le sue leggi, forse, non era così degno di salvazione per lui”.
Non sapevano che la colpa era del gigante, invece. Ma poverino, lui non sa cosa sia, la colpa. Lui
non sa cosa sia, la vita.