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Indice

Il libro
L’autrice
Frontespizio
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Epilogo
Ringraziamenti
Copyright
Il libro

È un giorno qualunque quello in cui Layla, avvocatessa newyorkese,


entra in sala riunioni e si scontra con il potenziale cliente che dovrebbe
incontrare. Il suo caffè si rovescia, i suoi fogli finiscono dappertutto e lei
per poco non perde l’equilibrio davanti a tutti i soci dello studio legale.
Ma il peggio deve ancora arrivare: il potenziale cliente, infatti, altri non
è che Grayson, il suo ex fidanzato nonché ex… detenuto.
Dopo essere stato in prigione per un reato che non ha commesso, e
ora sul punto di tornare a essere l’uomo di successo di un tempo,
Grayson è più deciso che mai a riconquistare la donna che ama e che ha
perso a causa di troppi ostacoli e verità nascoste. Seppur inizialmente
restia a concedergli una seconda occasione, Layla alla fine cede al
fascino irriverente di Grayson. Ma non appena lui riesce a farsi spazio
nella vita – e nel cuore – di Layla, il passato ritorna, rischiando di
rovinare tutto. Un’altra volta.
Grayson e Layla, seppure innamorati, dovranno decidere se il loro
amore è sufficiente per resistere a tutti i segreti che continuano a tenerli
lontani e per conquistare il lieto fine che meritano.
Dopo aver sedotto più di due milioni di lettrici in tutto il mondo e
aver scalato le classifiche americane con le sue storie, Vi Keeland ci
regala un nuovo romanzo ricco di passione, emozioni e irresistibile
ironia.
L’autrice

Vi Keeland è un’autrice bestseller. Con più di 2 milioni di copie vendute


nel mondo, i suoi romanzi sono apparsi in oltre un centinaio di
classifiche e sono attualmente tradotti in più di 20 lingue. Vive con il
marito e i tre figli a New York, dove ha realizzato il suo «vissero felici e
contenti» con il ragazzo incontrato all’età di sei anni.
Per Sperling, della stessa autrice sono già stati pubblicati Bossman,
The Player, Beautiful Mistake e Sex Not Love.
www.vikeeland.com
Facebook: Author Vi Keeland
Twitter: @ViKeeland
Instagram: @vi_keeland
Vi Keeland

THE NAKED TRUTH

Traduzione di Rosa Prencipe


Ci vuole forza per perdonare.
Quando ti innamori di una donna forte e mandi tutto all’aria, lei ti
perdonerà… dopo averti preso a calci.
1

Layla
«MI dispiace. Ho dimenticato di telefonarti. Oggi non riesco ad andare a
pranzo.» Sospirai e indicai le carte disseminate sulla scrivania. «Pittman mi
ha chiesto una presentazione per un nuovo cliente.»
«Il vecchio Pittman o Joe?»
«Il vecchio Pittman. Be’, chiesto non è proprio il termine giusto. Ha aperto
la porta senza bussare mentre ero in conference call, mi ha fatto mettere in
attesa il cliente e poi ha abbaiato qualcosa tipo ‘le tre in punto in sala
riunioni’ e se n’è andato. Mi è toccato chiamare la sua segretaria, Liz, per
conoscere i dettagli.»
«Ma è fantastico. Finalmente stai rientrando nelle grazie dei soci senior.
Sapevo che saresti riuscita a farti strada fin lì.» Oliver girò intorno alla
scrivania e mi baciò sulla testa. «Ti porto i tacos al tonno fresco che
piacciono a te.»
«Sei il migliore.»
Ormai era un mese che frequentavo Oliver Blake, anche se eravamo amici
da quasi cinque anni. Era socio junior nella divisione diritti dello studio
legale e non esageravo: era davvero il migliore.
Quando ero stata male, il weekend precedente, era passato a portarmi il
brodo di pollo. Se ero giù di morale, mi ricordava tutte le cose belle della mia
vita. Mi aveva sostenuto come nessuno già da prima che cominciassimo a
uscire insieme, incoraggiandomi a superare la tempesta, qui alla Latham &
Pittman, dopo che per poco non mi avevano radiata e licenziata, un paio
d’anni prima. Intelligente, bello e con un ottimo lavoro, era l’uomo dei sogni
che ogni ragazza avrebbe adorato presentare ai genitori. E l’assoluto contrario
degli idioti dai quali ero attratta di solito.
La settimana precedente aveva accennato che il suo affitto sarebbe scaduto
entro pochi mesi e gli sarebbe piaciuto se lo avessi aiutato a cercare un posto
più grande, visto che, in futuro, sperava che io ci trascorressi più tempo.
Intelligente, bello, ottimo impiego e… senza paura di impegnarsi.
Mi riproposi di verificare la presenza di eventuali scheletri nascosti negli
armadi alla prossima occasione che mi fossi trovata nel suo appartamento,
poi tornai a studiare la mia relazione.
Avevo osservato in varie circostanze i soci senior presentare lo studio a un
potenziale cliente, ma questa era la prima volta che toccava a me. E detestavo
disporre solo di qualche ora per esaminare le slide e prendere appunti. Per
non parlare del fatto che tutto ciò che sapevo della società di investimenti in
questione era che si trattava di una start up con un enorme finanziamento in
arrivo. Probabilmente qualche trader di successo arrogante che aveva lasciato
il precedente impiego portandosi dietro investitori per un miliardo di dollari:
il classico cliente che adoravano i soci senior.
Le società di investimenti vecchia scuola erano sempre molto apprezzate,
perché garantivano un’entrata sicura per rivedere contratti, prospetti e
innumerevoli transazioni con la SEC, la Commissione per i titoli e gli
scambi. Ma quelle giovani, sfrontate e new age, gestite da yuppie, facevano
lievitare le spese legali come se in ballo ci fossero i soldi del Monopoli.
Venivano citate in giudizio per molestie ai dipendenti, discriminazioni,
violazioni contrattuali e finanziarie. Diamine, perfino il nostro dipartimento
fiscale veniva coinvolto, perché tutti questi ragazzini rampanti pensavano di
essere più in gamba dell’Agenzia delle entrate.
Un paio d’ore dopo, quando fu il momento della mia presentazione,
raggiunsi in ascensore l’ultimo piano e varcai le spesse porte a vetri per
accedere agli uffici dirigenziali. Lo studio legale non era modesto – il mio
ufficio personale era spazioso e gli arredi di alta qualità. Ma il piano
dirigenziale puzzava di denaro, di ricchezza ereditaria: reception in mogano,
lampadario di cristallo, tappeti persiani e opere d’arte originali con
un’illuminazione impeccabile.
Non mi sfuggì il fatto che l’ultima volta che ero stata invitata quassù
risalisse a quasi due anni prima: mi avevano convocata per giustificarmi del
mio operato, sfociato in accuse a mio carico da parte della commissione
disciplinare dell’Ordine degli avvocati dello Stato di New York. Significava
qualcosa, nel bene e nel male, quando venivi chiamato all’ultimo piano e, per
questo, il motivo per cui quella presentazione fosse toccata a me mi
incuriosiva più che mai.
Sarah Dursh, uno dei soci senior, mi venne incontro nel corridoio mentre
mi dirigevo alla sala riunioni. «Sei pronta?»
«Tanto pronta quanto potrei esserlo senza sapere granché del cliente.»
Sarah aggrottò la fronte. «Cosa significa, non sai granché del cliente?»
«Conosco le basi. Ma il prospetto dell’azienda non era ancora disponibile,
perciò so poco degli attori principali. Non mi sento molto preparata.»
«Ma hai già lavorato con l’amministratore delegato. Ecco perché ha
chiesto che fossi proprio tu a fare la presentazione.»
«È stato chiesto che facessi io la presentazione? Non l’avevo capito. Da
chi è partita la richiesta?»
Raggiunta la porta a vetri della sala riunioni dirigenziale, vidi Archibald
Pittman che stava ridendo con un uomo. Questi era di spalle, così non lo vidi
subito in faccia.
Né feci due più due appena Sarah dichiarò: «Eccolo. È Mr. Westbrook. È
lui che ha domandato di te per il lancio promozionale».
Poiché avevo le braccia cariche di fascicoli, laptop e caffè di Starbucks, fu
Sarah ad aprire la porta e io entrai per prima. Avevo fatto esattamente due
passi quando l’uomo con cui Pittman stava parlando si girò. Poi andò tutto a
rotoli.
Letteralmente. Restai pietrificata.
Sarah, che era dietro di me, mi finì addosso, facendomi cadere i fascicoli
dalle mani. Mi chinai a raccoglierli. Il caffè sussultò, così strinsi forte il
bicchiere, facendo saltare via il coperchio. Tentai di acchiapparlo, ma l’intero
contenuto si versò sul tappeto. L’unica cosa che riuscii a salvare dalla
collisione con il pavimento fu il mio computer.
Prima che potessi raccogliere le mie cose o addirittura tirarmi su, una
mano forte mi strinse il gomito mentre vacillavo. L’uomo si era accovacciato
proprio davanti a me e io non potei far altro che fissarlo.
Eppure non riuscivo a credere ai miei occhi.
Né riuscivo a capire come far funzionare la bocca per pronunciare una
singola parola, e d’un tratto fummo faccia a faccia. L’intensità di quel
contatto mi lasciò senza fiato. Il battito accelerò, il cuore prese a martellarmi
nel petto e neanche tentai di recuperare i fascicoli o il caffè versato.
Tenendomi per il gomito, mi porse l’altra mano.
«È bello rivederti, Lentiggini.»
Non avevo idea di come fossi riuscita a superare l’inizio della
presentazione. In principio pensavo che la presenza di Mr. Pittman e degli
altri titolari mentre parlavo mi avrebbe messa in agitazione. Ma, d’altro
canto, non sapevo che mi sarei ritrovata Gray Westbrook che mi guardava
dall’altro lato del tavolo. Gli occhi penetranti e il sorrisino di compiacimento
mi intimidivano e, al tempo stesso, mi facevano infuriare.
Peggio ancora, era persino più splendido di quanto ricordassi. Era
abbronzato, il che rendeva ancora più intenso il verde dei suoi occhi.
Attraverso il completo, vedevo bene che si era irrobustito e che sotto i
raffinati abiti su misura c’era un corpo scolpito quanto la sua mascella.
Seduto a capotavola, poi, emanava un potere in grado di colpire tutti i miei
punti più sensibili. Avevo dimenticato che un uomo potesse avere un simile
effetto fisico su di me.
Tentai di ignorarlo e mi attenni alle mie slide. Ma lui mi stava rendendo le
cose quasi dannatamente impossibili. Dal momento in cui avevo cominciato,
mi aveva costretta a interagire ponendo diverse domande. La presentazione
comprendeva una trentina di slide e lui si era già inserito su almeno dieci.
All’inizio mi ero fatta prendere dal panico, anche se le sue domande di fatto
non erano complesse. Ma, una volta ritornata in me, quel continuo
martellamento mi aveva fatto infuriare.
«La nostra divisione finanziaria lavora a stretto contatto con la SEC, la
FINRA, il Dipartimento di giustizia e la divisione finanziaria dello Stato di
New York, per monitorare e…»
Mi interruppe. Di nuovo. «Chi guiderà la mia squadra?»
«Come stavo per dire, la divisione finanziaria è composta da un socio
senior che ha lavorato presso il Dipartimento di giustizia, gestendo frodi
finanziarie per undici…»
Mentre parlavo, Gray guardò l’orologio. Poi passò a interrompermi per
quella che doveva essere la ventesima volta in meno di mezz’ora. «Mi
dispiace. Ho una riunione dall’altra parte della città, devo scappare.»
Se lo sguardo fosse stato in grado di pugnalare, quell’uomo avrebbe avuto
l’aspetto di una fetta di groviera. Che diavolo sta facendo? Vuole vendicarsi
per come è andata a finire?
Incrociai le braccia sul petto. «Non le era chiaro che la nostra
presentazione avrebbe richiesto almeno un’ora?»
Anche se i miei occhi non lasciarono mai quelli di Gray, percepii le teste
di tutti voltarsi nella mia direzione. Probabilmente in quel momento ai soci
senior stava venendo un attacco di cuore.
Non me ne fregava niente.
Il labbro di Gray fremette. Si stava divertendo. Lo stronzo.
«Inizialmente avevamo previsto un’ora, ma si è presentata una questione
urgente che richiede la mia immediata attenzione.»
«Davvero? E quando è successo?»
«Layla», mi ammonì Mr. Pittman, lasciando in sospeso …non dire
un’altra parola. Ma non ebbe bisogno di parlare, il suo tono era molto
eloquente.
Poi si rivolse a Gray. «Mi dispiace, Mr. Westbrook. Naturalmente
comprendiamo che lei sia occupato. Magari possiamo fissare un altro
appuntamento e sarei più che lieto di terminare la presentazione e rispondere
a ogni domanda che vorrà sottoporci.»
Gray si alzò e si abbottonò la giacca. «Non sarà necessario.»
Mr. Pittman fece per parlare, ma Gray si rivolse direttamente a me
dall’altra parte del tavolo. «Magari Layla potrà concluderla a cena stasera.»
Strizzai gli occhi. «Ho già un impegno con un cliente.»
Per poco a Pittman non schizzarono gli occhi fuori dalle orbite. «Ti
sostituisco io, Layla. Terminerai la presentazione a cena con Mr.
Westbrook.»
Il grande capo non me lo stava chiedendo, me lo stava comunicando.
Avevo già tirato abbastanza la corda, perciò tenni la bocca chiusa e guardai
torva Gray.
I soci strinsero la mano al potenziale cliente e scambiarono due
chiacchiere con lui. Io non avevo alcuna intenzione di andare all’altro lato del
tavolo. Per avere qualcosa da fare, radunai laptop e fascicoli nella speranza
che Mr. Westbrook scomparisse.
Non fui così fortunata.
Gray si avvicinò e mi tese la mano. «Ms. Hutton.»
Vedendo che i miei capi stavano osservando il nostro scambio, allungai la
mano, che lui usò per attirarmi a sé. Sentii il suo respiro caldo sul collo
quando mi sussurrò all’orecchio.
«Puoi fingere di essere incazzata quanto ti pare. Ma il tuo corpo mi dice
tutt’altro. Sei contenta di vedermi quanto lo sono io.»
Tirai indietro la testa, indignata. «Sei pazzo.»
Abbassò gli occhi sul mio petto, dove i capezzoli stavano praticamente
trafiggendo la camicia sottile. Dannati traditori.
Gray sogghignò. «Da Logan, alle sette. Prenoto un tavolo e mando un’auto
a prenderti.»
«Ci vediamo lì.»
Lui scosse la testa ridendo.
«Mi è mancato questo modo di fare, Lentiggini.»
Ottimo, perché ne avrai un bel po’.

---

Ovviamente ero l’unica puntuale. Controllai il telefono. Le sette e dieci.


Decidendo di applicare le regole dell’università, giurai di dare a Gray altri
cinque minuti prima dichiararlo assente e andarmene.
«Posso portarle qualcosa da bere mentre attende?» chiese il cameriere.
Di norma aspettavo di vedere cosa faceva il cliente riguardo all’alcol e ne
seguivo l’esempio. Ma stasera non era la norma.
Mi sfregai il collo rigido. «Prendo una vodka al mirtillo, grazie.»
Speravo che mi calmasse i nervi e allentasse un po’ della tensione prima
che mi scoppiasse un mal di testa in piena regola. Presi il telefono e
cominciai a scorrere le email per distrarmi mentre aspettavo drink e
commensale.
Girai di scatto la testa al suono della voce di Gray dietro di me. «Scusa il
ritardo.»
Ebbi un’inattesa palpitazione e lottai contro la sensazione di eccitazione.
«Ma davvero? Perché trovo che tu non abbia un briciolo di educazione dopo
che oggi mi hai interrotta un milione di volte.»
Lui ignorò il mio sfogo e prese posto di fronte a me. «Arrivare in centro
con questo traffico è un’impresa. La prossima volta ceneremo da me.»
«Non ci sarà una prossima volta.»
Le labbra di Gray si piegarono in un sorriso compiaciuto mentre lui
calamitava il mio sguardo. «Certo che ci sarà. Ci saranno un sacco di
prossime volte. E alla fine smetterai di fingere di non gradire la mia
compagnia.»
Detestavo la reazione del mio corpo nei suoi confronti. Sin dall’inizio
c’era stata una chimica folle tra di noi, ed era difficile smorzarla.
Sospirai. «Che stai facendo, Gray? Perché sei venuto al mio studio?»
Prese il tovagliolo e se lo sistemò sulle gambe. «Non è ovvio? Ho bisogno
di un nuovo rappresentante legale.»
«Presso il mio studio? E preferiresti che il rappresentante fosse un
associato invece del capo del mio capo – il capo della nostra divisione
finanziaria? O perfino Pittman, che, con i suoi cinquant’anni e oltre di
esperienza, sarebbe felice di tenerti per mano e offrirti tutta la consulenza
legale di cui hai bisogno?»
«La lealtà è importante per me. Voglio qualcuno a cui poter affidare i miei
affari.»
«E hai deciso che questo qualcuno sono io? Un’associata con cinque anni
di esperienza che si è messa nei guai con l’Ordine degli avvocati per
violazione del segreto professionale?»
Il cameriere arrivò con il mio drink. «Ecco a lei, signora.» Si rivolse a
Gray: «Posso portarle qualcosa da bere? O preferisce aspettare anche gli
altri?»
«Siamo solo noi due. Prendo un Macallan, liscio, per favore.»
«Subito.» Il cameriere fece il giro del tavolo con l’intenzione di togliere il
terzo coperto.
Allungai una mano per fermarlo. «In realtà sta arrivando un’altra persona,
perciò lasci pure.»
«Bene», annuì.
Gray aspettò che si allontanasse. «Non ho invitato nessun altro a cena.»
Sorseggiai la mia vodka e gli scoccai un sorriso fasullo. «L’ho fatto io. Ho
pensato che un cliente importante come te dovesse avere più di un avvocato
per rispondere alle sue domande.»
Proprio mentre posavo il bicchiere, vidi entrare l’altro uomo che stavo
aspettando. Questi scrutò la stanza, cercandomi, così gli feci segno con la
mano.
«Tempismo perfetto. Ecco Oliver.»
Gray guardò prima l’uomo che veniva verso di noi e poi me. Invece di
essere arrabbiato, quell’idiota era divertito. «Questa è bella. Hai invitato un
accompagnatore perché non ti fidi a rimanere con me.»
2

Gray
«QUINDI lei è il capo di Layla?» Mandai giù un bel sorso del drink che era
arrivato nel frattempo.
«No, non il suo capo. Sono nella divisione diritti, in realtà. Ma sono socio
junior presso la Latham & Pittman. Ci lavoro da quindici anni. Posso
rispondere a pressoché tutte le sue domande.»
Volevo che quell’irritante ingombro seduto tra me e Layla se ne andasse.
«Sta insinuando che Layla non è in grado di rispondere a qualsiasi domanda
possa porre?»
«No, niente affatto.»
«Allora perché è qui?»
Collo a Matita guardò Layla per avere una risposta.
«Ho invitato io Oliver», spiegò lei. «Come le ho detto, ho pensato che
dovesse esserci più di un avvocato per rispondere ai suoi quesiti,
considerando che cliente prezioso sarebbe per il nostro studio.»
«Ha pensato male.» Mi rivolsi di nuovo a Oliver. «Può andare. Sono certo
che Layla sarà in grado di fornirmi tutte le risposte di cui potrò aver
bisogno.»
Layla parlò a denti stretti ma riuscì a mantenere un tono neutro. «Oliver è
già qui. Ed è una persona di gran valore. Sono convinta che lo capirà anche
lei a fine serata.»
Apparve il cameriere con i menu.
«Non credo proprio», brontolai fra me.
Dopo aver ordinato, l’accompagnatore di Layla si scusò e andò alla
toilette.
Appena si fu allontanato, ripresi: «Dobbiamo parlare, Layla. Da soli. Digli
di farsi un giro».
«Cosa? No!»
Mi alzai. «E va bene. Ci penso io.»
Ignorai le sue proteste mentre lo seguivo in bagno. Collo a Matita era
all’orinatoio. A quanto pareva non era solo il suo collo a sembrare una matita.
Lo raggiunsi e mi infilai la mano in tasca. Sfilate dieci banconote da cento dal
portafogli, aspettai che si tirasse su la lampo. Poi gli allungai il contante.
«Perché non te ne vai a cena da un’altra parte? Offro io.»
Collo a Matita guardò il denaro, poi me, infine andò ai lavandini. Aspettai
che si lavasse le mani.
Una volta finito, si appoggiò al lavandino e incrociò le braccia sul petto.
«Immagino che stiamo parlando da uomo a uomo, non da avvocato della
Latham & Pittman a potenziale cliente, giusto?»
«Certo», annuii. «Da uomo a uomo.»
Sorrise. «Bene. Allora, lascia che te lo dica. Stai perdendo tempo se sei
interessato a Ms. Hutton.»
«Come mai?»
«Per tre ragioni. Uno, Layla non uscirebbe mai con un cliente. Due, ho
fatto qualche ricerca su di te. Sarai anche un cliente che vale un sacco di soldi
per lo studio, ma sei anche un ex detenuto. E tre, lei è la mia ragazza.»
Il sangue prese a pomparmi più forte. Non mi aspettavo l’ultima parte.
Tuttavia, se Oliver pensava di farmi battere in ritirata, si sbagliava di grosso.
Avevo appena scontato tre anni di carcere. Anche se avessi trovato quel tipo
vagamente minaccioso – e non era affatto così –, non mi avrebbe mai visto
sudare freddo.
Invece sorrisi e gli misi una mano sulla spalla. «Lascia che sia onesto, sai,
da uomo a uomo. Trovo che nessuna di queste tre ragioni sia un deterrente.»

---

Per lo meno fu abbastanza sveglio da capire l’antifona. Oliver, il fidanzato,


tenne la bocca chiusa per gran parte della cena, lasciando che fosse Layla a
condurre la conversazione. A differenza di quel pomeriggio, lasciai che mi
parlasse dello studio legale, che avevo già deciso di assumere, senza
interromperla. In realtà non mi importava un bel niente di nessuno dei vecchi
compari che avrebbero provveduto alle mie necessità. Ma, seduto a quel
piccolo tavolo, guardare la bocca di Layla muoversi mentre parlava, fissare la
leggera spruzzata di lentiggini che cercava di nascondere, indugiare con gli
occhi sulle sue labbra generose mentre lei e Collo a Matita erano distratti, era
diventato un gioco divertente: Metti Layla a disagio.
Era passato più di un anno dall’ultima volta che l’avevo vista e, se
possibile, era diventata ancora più bella. I capelli scuri erano più lunghi e li
teneva naturali, ondulati, anziché lisci come allora. Guardandola, vedevo solo
l’aspetto che sognavo avrebbero avuto quei capelli dopo aver passato ore a
sbattere i nostri corpi uno contro l’altro.
Era stato un sogno ricorrente dopo che lei aveva tagliato i ponti con me.
Aveva riempito i miei pensieri durante tante notti solitarie.
Quella sera, le labbra turgide erano di un rosso acceso e il centro di quello
superiore scendeva formando una piccola V perfetta. Volevo seguirne il
contorno con la lingua. Il lungo collo femminile aveva bisogno di essere
succhiato e morsicato. Ma gli occhi erano da mozzare il fiato. Erano un
azzurro-verde chiaro che sapevo, per esperienza, scurirsi se era eccitata.
«Ma mi sta ascoltando?» Layla era interdetta.
Merda. Non avevo sentito una sola parola. «Certo che sì.»
Si protese in avanti e abbassò la voce. «Allora, cos’ho appena detto?»
Dannazione, i suoi occhi si scuriscono anche se è incazzata. Non vedevo
l’ora di scoparla quando era arrabbiata per scoprire come sarebbe stato.
«Stava parlando dello studio.»
Lei mi guardò diffidente. «Come vuole. A ogni modo, stasera ho parlato
solo io. Mi dica, Mr. Westbrook, che genere di servizi cerca in uno studio
legale? Questo pomeriggio ha accennato alla sua richiesta di licenza presso la
SEC e alla sua nuova iniziativa imprenditoriale. Ma non so niente dei suoi
progetti, visto che oggi era troppo occupato per dedicarci l’ora prevista.»
Collo a Matita alternò lo sguardo tra noi due. Vedevo bene che non sapeva
cosa pensare dell’atteggiamento di Layla. Non fraintendetemi, sono convinto
che si stesse divertendo, visto che avevo cercato di corromperlo, ma avevo la
sensazione che non sapesse dei trascorsi tra Layla e me. Decisi di mettere alla
prova la mia ipotesi.
«Ha un’aria familiare, Oliver, ma non riesco a collocarla. È mai stato al
penitenziario federale di Otisville?»
Era la prima volta che mi rivolgevo direttamente a lui dopo l’episodio in
bagno.
«Io? No, mai.» Guardò Layla. «Non era dove hai insegnato ai detenuti
come presentare ricorso in appello?»
«Sì.» Lei mi scoccò quella che mi sembrò un’occhiata ammonitrice.
Chiaramente Oliver era svelto a fare i conti. «È lì che ha scontato la sua
pena?»
Mi portai il bicchiere alle labbra e sorrisi. «Sì.»
Lui guardò l’adorabile fidanzata, poi me e infine di nuovo lei. «Non vi
siete mai incrociati?»
E la sua adorabile fidanzata gli mentì spudoratamente. «No.»
Mi fece felice, dannazione. Rivolsi a Oliver il mio primo sorriso autentico.
Pensavo che Collo a Matita mi avrebbe intralciato nel tentativo di capire se
Layla avesse qualche interesse a cercare di sistemare le cose con me. Ma
quella bugia diceva più di quanto lei avrebbe ammesso spontaneamente.
Se non sei un bugiardo patologico, non menti senza motivo. E c’è un solo
motivo per mentire sul conto di un altro uomo al tizio con il quale stai
uscendo: perché non si ingelosisca. Il che significa che c’è qualcosa di cui
ingelosirsi.
Sorrisi compiaciuto a Layla. Lei si accigliò e i suoi occhi si fecero ancora
più scuri.
«Perché non ci ragguaglia sulle sue esigenze legali, Mr. Westbrook?»
chiese. «Che tipo di attività sta avviando?»
«Una società specializzata in capitali di rischio. Abbiamo intenzione di
concentrarci su investimenti tecnologici e legati alle comunicazioni. Perciò
avrò bisogno di qualcuno che compia le dovute ricerche sui requisiti
necessari per i potenziali investimenti, gestisca i contratti di acquisto, stili i
contratti di mutuo e si assicuri che non ci imbattiamo in qualche truffatore.»
«Quest’ultima parte è interessante.» Layla sorseggiò il suo drink. «E
prevede di presentare domanda per riavere la sua licenza di mediatore
finanziario?»
«Sì. Ma non ancora. Per il momento vorrei concentrarmi sulla nuova
iniziativa imprenditoriale mentre metto a punto alcuni aspetti che potrebbero
aumentare le probabilità di successo della richiesta.»
«Sa, le possibilità che la FINRA reintegri la sua licenza di mediazione
finanziaria dopo una condanna sono davvero esigue», commentò Layla. «È
prevista l’interdizione automatica per dieci anni.»
«Tecnicamente, non sono stato condannato. Ho patteggiato per non
rischiare un processo. All’epoca era il minore dei due mali.»
«Agli occhi della legge, accettare un patteggiamento è l’equivalente legale
di una condanna.»
«Comprendo le conseguenze di un patteggiamento. Tuttavia, ho letto che
si possono ottenere permessi speciali per acquisire la licenza malgrado
l’interdizione.»
«Secondo la normativa è possibile. Ma non facile. Abbiamo presentato
alcune domande e non sono state accettate mai neanche una volta.»
«Be’, allora, vedo un sacco di prime volte per noi in futuro.» Alzai il
bicchiere per brindare a lei.
Finita la cena, uscimmo tutti e tre insieme. Cercai in tasca la ricevuta per
recuperare l’auto. Fortunatamente per me, la prima ad arrivare fu la vettura di
Oliver. Ne sopraggiunse un’altra, né di Layla né mia, che accostò subito
dietro, costringendo Oliver a spostarsi da lì.
Lui temporeggiò, nella speranza che l’auto di lei arrivasse subito, per non
lasciarci soli. Ma non accadde.
Quando una coppia montò a bordo della macchina appena arrivata, gli
indicai con il mento la sua vettura. «A quanto pare sta bloccando qualcuno
che deve andarsene.»
Lui guardò Layla e poi me.
Sorrisi e continuai: «Non si preoccupi. Mi assicurerò che salga in
macchina sana e salva».
A parti invertite, mai e poi mai avrei lasciato la mia donna sola fuori da un
ristorante con un ex detenuto che aveva già messo in chiaro di avere un
interesse non professionale per lei, potenziale cliente o no.
Malgrado l’espressione combattuta, la decisione di Oliver atterrò sul lato
sbagliato della virilità.
«Ci vediamo domani in ufficio.» Diede una stretta alla spalla di Layla e
poi mi tese la mano. Stretta molle… smidollato. «È stato un piacere
conoscerla. Spero che sceglierà Latham & Pittman.»
La mia risposta fu una salda stretta di mano. «Buonanotte.»
Layla e io restammo a guardare in silenzio l’interferenza andare via.
«Oliver è il mio ragazzo», dichiarò in tono ammonitore.
«Lo so. Me l’ha detto alla toilette quando ho cercato di pagarlo perché
andasse a farsi un giro. Bel bacio della buonanotte, a proposito.»
I suoi occhi lampeggiarono. «Dimmi che non l’hai fatto. Dio, sei un tale
stronzo!»
Abbassai lo sguardo sulle sue labbra. «Mi è mancata quella bocca
maliziosa.» E non vedo l’ora di scoparla. Ma ero abbastanza intelligente da
sapere che non era il momento giusto per dirlo.
«Tu sei pazzo. E baciarmi davanti a un cliente sarebbe stato assolutamente
poco professionale, anche se non mi sorprende che tu non te ne renda conto.»
«Penso che il pazzo sia il tuo fidanzato, che se n’è appena andato
lasciando la sua donna con un uomo che ha espresso un chiaro interesse per
lei. A proposito, chi se ne frega se non è professionale: io marcherei il mio
territorio.»
Layla si mise le mani sui fianchi. «Lui si fida di me. E tu cosa sei? Un
cane? Marchiare il territorio. Pisci anche sugli idranti?»
«Lui si fida di te? Deve essere per questo che non si è accorto della tua
bugia quando gli hai detto che non ci eravamo mai visti prima.»
Feci un passo verso di lei, invadendo il suo spazio. Invece di
indietreggiare, sollevò la testa per guardarmi. Cazzo, amavo che rifiutasse di
farsi indietro.
«Non c’è ragione perché sappia di noi. Sai perché? Perché non c’è mai
stato un noi.»
«Raccontati pure quello che vuoi.»
«Dio, sei così arrogante.»
Le accarezzai i capelli. «Hai cambiato taglio. Mi piacciono così ondulati.
Sono sexy. Ma ti stai di nuovo coprendo quelle bellissime lentiggini sul
naso.»
Mi allontanò la mano con uno schiaffo. «Ma mi stai ascoltando?»
«Sì. Lui si fida di te. Non c’è un noi. Sono uno stronzo arrogante.»
Mi ringhiò. Era fottutamente adorabile.
«Le sue chiavi, Miss.»
Nessuno dei due si era accorto dell’arrivo della sua auto né del
parcheggiatore che faceva dondolare le chiavi, fermo accanto a noi.
Afferrate le chiavi, andò impettita alla macchina. Il parcheggiatore corse
ad aprirle lo sportello. Layla fece per entrare, poi si fermò e concluse:
«Assumi un altro studio, Gray. Qualunque cosa pensi possa accadere tra noi,
non accadrà».
3

Layla
«SONO stupende.»
Becca, la receptionist, che era anche mia amica e frequente compagna di
pranzo, entrò nel mio ufficio con un enorme mazzo di rose gialle. Dovevano
essere due dozzine. Le posò sulla scrivania e sospirò. «Vorrei trovare un
ragazzo come Oliver. Quell’uomo è pazzo di te.»
Sorrisi, anche se avevo la brutta sensazione che potesse non essere lui il
mittente. Sperai di sbagliarmi.
«Pranzo oggi?» chiese.
«Senz’altro. Verso l’una?»
«Ti faccio uno squillo. Altrimenti non uscirai a respirare finché fuori non
sarà buio.»
Aveva ragione. Avevo la tendenza a gettarmi a capofitto in un progetto
perdendo la cognizione del tempo.
Mentre Becca stava uscendo dall’ufficio, entrò Oliver.
«Perché non hai un fratello, Oliver?» scherzò.
Lui sorrise. Poi i suoi occhi inquadrarono l’enorme mazzo sulla mia
scrivania e il sorriso allegro si spense.
Merda. Non era stato lui a inviarle.
«Un ammiratore segreto di cui dovrei preoccuparmi?»
«Uhm… Becca le ha appena portate. Pensavo le avessi mandate tu.»
Lui scosse la testa. «Magari.»
Anche se Oliver e io ci frequentavamo da poco, non avevamo mai
affrontato quel discorso; più che altro perché non era necessario. Nessuno dei
due aveva il tempo per frequentare qualcun altro. Diamine, mangiavamo un
boccone al volo quando potevamo ma, in quattro settimane, avevamo avuto
solo un paio di appuntamenti ufficiali insieme. Lavoravamo entrambi dieci
ore al giorno, sei giorni alla settimana. Perciò non mi ero mai presa la briga di
pensare che lui potesse vedere altre donne e, a quanto pareva, sembrava che
fosse reciproco. Fino a quel momento.
Non fece domande, ma rimase lì ad aspettare, lanciando occhiate
occasionali al biglietto ancora chiuso e spillato al cellofan trasparente. La
situazione si fece imbarazzante.
Pregai che il telefono squillasse, ma naturalmente non lo fece. Alla fine,
staccai il biglietto mentre riflettevo su come gestire la situazione se i fiori
fossero stati da parte di Gray. Oliver mi osservò mentre sfilavo il cartoncino
dalla busta rosa.
Leggendolo, mi stampai sulla faccia il sorriso perfezionato e fasullo da
aula di tribunale. «Un’amica. L’ho aiutata con una faccenda legale e mi ha
regalato le rose per ringraziarmi.»
Oliver apparve sollevato. Ripiegai il biglietto nel palmo della mano, che
aveva già cominciato a sudare.
«Allora, cosa ti porta qui nei bassifondi?» gli chiesi. «Sei venuto a vedere
come vive l’altra metà?»
Il suo ufficio era due piani sopra il mio. Era stato ristrutturato di recente e,
anche se il mio rispecchiava gli standard dello studio, il suo era lussuoso.
«Ho pensato di passare a salutarti e raccontarti la chiacchierata che ho
avuto ieri sera con il nostro potenziale cliente.»
Merda. Stavo scavando una grossa buca di menzogne e avevano tutte a
che fare con Gray Westbrook. Non sapevo neanche bene perché avessi dato
inizio a questo casino fingendo di non conoscerlo. Ma le bugie continuavano
ad accumularsi.
«Sì?» Tecnicamente non era una bugia, bensì un’omissione fingere di non
sapere che Gray aveva tentato di allontanarlo la sera prima nel bagno degli
uomini. Ma, omissione o bugia, comunque la chiamassi, continuava a
sembrarmi sbagliata.
«È interessato ad avere da te ben più che una consulenza legale. Quel
cialtrone ha pensato di potermi mettere in mano una mazzetta di dollari per
sbarazzarsi di me prima di cena.»
«E tu cosa gli hai risposto?»
«Che non usciresti mai con un cliente o un ex detenuto.»
«Capisco…»
«A ogni modo, è la prima presentazione che ti assegnano i titolari, perciò
so che sarebbe un bel colpo se ti aggiudicassi il cliente. Tuttavia, il mio lato
egoista spera che vada altrove, così non ci proverà con te.»
«So badare a me stessa.»
«Lo so. Questa è una delle cose di te che trovo così sexy. Hai più attributi
di molti uomini di mia conoscenza. Ma questo tizio è appena uscito di
prigione.»
«Penitenziario federale per aggiotaggio. Non è uno stupratore.»
«Già. Ma detesto che uno senza morale né etica ti gironzoli intorno.»
«Se non passassi tempo con gente senza morale né etica, avrei pochissimi
clienti. Lo sai, vero, che lavoro per la divisione finanziaria dello studio e non
per il dipartimento artistico e onesto dei diritti d’autore come te?»
«Triste», ridacchiò Oliver, «ma vero. Devo scappare, ho un appuntamento
alle dieci per cui devo prepararmi. Ceniamo insieme questa settimana?»
«Certo. Buona idea.»
Gli domandai di chiudere la porta mentre usciva, fingendo di dover fare
una conference call. Rimasta sola, mi sedetti alla scrivania, aprii il cartoncino
spiegazzato che tenevo in mano e lo rilessi.

Lentiggini,
mi sei mancata. Corri il rischio e dammi un’altra possibilità.
X
Gray
Odiavo tutto quanto quest’uomo aveva fatto nelle ultime ventiquattr’ore.
Si era presentato senza preavviso allo studio legale e aveva insistito perché
fossi io a tenere la presentazione, aveva richiesto davanti ai soci la mia
presenza a una cena – una cena durante la quale era stato sgarbato con Oliver
–, mi aveva fatto mentire sui nostri trascorsi e aveva avuto la faccia tosta di
mandarmi dei fiori. Ma soprattutto… odiavo avere le farfalle nello stomaco
quando lui era nei paraggi.

Il profumo delle rose permeava l’aria. Anche se non avevo tolto il cellofan
né sfilato il vaso dall’involucro di cartone sul fondo, nel mio ufficio
aleggiava un dolce aroma floreale. Mi ero sorpresa a fissare il mazzo più di
una volta mentre la mia mente vagava. Mi distraeva mentre cercavo di finire
di leggere un’offerta per l’acquisto di azioni. Avevo trascorso l’intera
mattinata e tre ore dopo pranzo nel tentativo di rivedere quel dannato affare,
mentre avrei dovuto metterci un’ora in tutto.
Frustrata, mi sfilai gli occhiali da lettura e li lanciai sulla scrivania,
guardando torva quelle dannate rose.
«Sapete, gli assomigliate un sacco.» Avevo decisamente perso la testa,
visto che stavo parlando con un bouquet di fiori ancora chiuso. «Così belle e
profumate. Ma se cedo e ne prendo una, finirò per pungermi con una spina.»
Era palese che non avrei concluso nulla con quelle dannate rose che mi
tormentavano. Sospirando, mi alzai, presi il mazzo, andai al cestino e gettai
quelli che dovevano essere duecento dollari di fiori.
Forse fu simbolico o forse era quello il mio livello di pazzia, ma dopo fui
in grado di concentrarmi. In meno di mezz’ora avevo terminato ciò a cui
stavo lavorando, così andai dalla mia assistente legale per farle trascrivere al
computer gli appunti.
Ero tornata in ufficio e stavo rovistando nello schedario quando qualcuno
bussò alla porta aperta. Alzai gli occhi e vidi Mr. Pittman sulla soglia. Chiusi
lo schedario.
«Mr. Pittman. Come posso aiutarla?»
Era la seconda volta in due giorni che scendeva dalla torre d’avorio per
venire a parlarmi. Sapevo che, qualunque cosa volesse, doveva avere a che
fare con un certo potenziale cliente. Per la prima volta, mi sovvenne che il
colpo inflitto all’ego di Gray potesse averlo spinto a parlar male di me ai miei
capi. Non sarei sopravvissuta in quello studio se i soci senior si fossero fatti
l’idea che avevo sabotato di proposito un grosso potenziale cliente. Il terreno
incerto dopo la mia sospensione aveva cominciato a consolidarsi solo di
recente.
«Abbiamo pensato di darti noi la buona notizia, Layla.» Pittman mi scoccò
un raro sorriso.
«La buona notizia?»
«Sì.»
Fece qualche passo nel mio ufficio e in quel momento notai che non era
solo. Gray entrò impettito come fosse stato il padrone. Mi rivolse un sorriso
malizioso.
Pittman lo indicò. «Mr. Westbrook ha appena firmato con noi. Ha riferito
che sei stata molto persuasiva a cena.»
Lottai contro la vertigine che mi assalì. «Oh. Ma è… è una notizia
fantastica.»
Pittman diede una pacca sulla spalla di Gray. «Ha fatto la scelta giusta.
Layla si prenderà cura di lei nel migliore dei modi.»
Gli occhi dello stronzo scintillarono. «Ci conto.»
«Be’, vi lascio a parlare.» Pittman mi guardò. «So che devi seguire la
deposizione Barag. Ti farò sostituire da Charles. Mr. Gray è un cliente VIP,
perciò dovremo ridefinire alcune cose in modo che tu sia disponibile quando
lui ha bisogno di te.»
«La deposizione Barag? È domani.»
«Non preoccuparti. Se Charles non ce la fa, la riprogrammiamo. Il viaggio
di Mr. Westbrook ha la priorità.»
«Viaggio?»
«Lo accompagnerai a Greensboro.»

Rimasi in silenzio, con un sorriso di circostanza incollato sulla faccia


finché non chiusi la porta alle spalle di Pittman. Se n’era andato con il
simbolo dei dollari negli occhi, ignaro del mio impulso di strangolare il
nuovo cliente VIP.
Incrociate le braccia sul petto, mi voltai verso Gray e sibilai: «A che razza
di gioco pensi di giocare?»
«Cosa? Ho bisogno di un nuovo consulente.»
«Pensavo di aver messo bene in chiaro che non sono interessata a
rappresentarti quando ieri sera ti ho detto: ‘Assumi qualcun altro’. Quale
parte non hai capito?»
«Sono un buon cliente. Lo studio dà a te il merito di esserti aggiudicata
l’affare. È positivo per te.»
Sprezzante, tirai su il mento. «Tu non sai cosa è positivo per me. Tu non
sei positivo per me.»
Trattenni il respiro quando venne verso di me. Le terminazioni nervose
della mia pelle presero vita malgrado non fossi stata toccata. Però mai e poi
mai sarei indietreggiata né avrei tradito l’effetto che aveva su di me. Gray
invase il mio spazio.
Mi aspettavo che il profondo vibrato della sua voce minacciosa mi
mettesse al mio posto. Invece mi parlò in tono dolce, cogliendomi alla
sprovvista.
«Scusa se ti ho mentito, Layla.»
Mi ero indurita con quest’uomo. Non riuscivo a essere tenera.
«Qualunque cosa sia successa più di un anno fa è stata un errore», replicai.
«Ma l’errore non era nella tua bugia. L’errore è stato farmi coinvolgere da
te.»
L’impercettibile contrazione del suo occhio fu l’unico segno che avesse
accusato il colpo.
«Dobbiamo essere a Greensboro a mezzogiorno per incontrare i miei
nuovi soci», annunciò. «È meglio avere il tuo input mentre le condizioni della
collaborazione vengono negoziate, in modo che le cose siano già appianate al
momento di redigere il contratto.»
La richiesta in sé non era strana. Avevo già accompagnato clienti a
trattative per la creazione di imprese. Ciò che non mi andava, tuttavia, era il
fatto che mi avesse praticamente incastrata. Non c’era dubbio che Gray fosse
ben conscio della situazione in cui mi aveva cacciata. Se adesso fossi andata
dai soci per informarli che mi rifiutavo di lavorare per il nuovo cliente, avrei
dovuto dare loro una spiegazione.
E cosa avrei detto? «Ricordate il periodo in cui ho dovuto svolgere servizi
legali pro bono come parte delle mie sanzioni per aver violato il segreto
professionale? Sì, quella volta che per poco non mi avete licenziata. Be’,
mentre scontavo la punizione lavorando in un carcere maschile, ho
conosciuto Grayson Westbrook e mi sono infatuata di lui. A volte
sgattaiolavamo in biblioteca a pomiciare. Era tutto fantastico, finché non mi
ha mentito. Cosa? Ritenete che dovessi aspettarmelo? Ma come facevo a
sapere che intrattenere una relazione con un detenuto arrestato per
aggiotaggio fosse una pessima idea?»
Gli scoccai un’occhiata irritata. «Dirò alla mia assistente di organizzare la
cosa e mandarti i dettagli via email.»
Un lento sorrisino si allargò sulla sua splendida faccia. Avrei voluto
cancellarglielo a suon di ceffoni.
«Grandioso. Dille che preferisco il Langham.»
«Un hotel? Mi era parso di capire che l’incontro fosse a mezzogiorno.»
«Lo è. Ma alcuni degli investitori arrivano da fuori città, in aereo.
Vorranno cenare.»
«Allora cena tu con loro. Non hai bisogno di me per questo.»
«La cena sarà il prosieguo della nostra discussione d’affari.»
«Allora prenderai appunti e mi informerai di eventuali modifiche dopo
l’effettivo incontro d’affari. Io tornerò a casa con un volo serale.»
Con mia grande sorpresa, Gray cedette. Annuì, fece un passo indietro e mi
tese la mano. «Lieto di averti nella mia squadra, avvocato.»
Abbassai lo sguardo sulla sua mano. Un ricordo cui non pensavo da
tantissimo tempo mi balenò davanti agli occhi. La prima volta che mi aveva
baciata, mi aveva preso il viso tra le sue grandi mani e io per poco non mi ero
sciolta. Odiavo che adesso mi facesse sentire vulnerabile e timorosa anche
solo di toccarlo. Era una pessima idea lasciare che il passato avesse potere su
di me.
Sperando di non tremare, gli strinsi la mano. Una scintilla mi saettò in
tutto il corpo. Fu come infilare il dito in una presa elettrica. Bruscamente,
sfilai la mano da quella di Gray e andai alla scrivania.
«Inviami per email i nomi dei tuoi soci, così potrò fare una ricerca veloce
con la SEC e il nostro investigatore.»
«Non sarà necessario.»
Con la scrivania che adesso fungeva da barriera, presi un fascicolo e gli
dedicai la mia attenzione mentre parlavo. «Chiariamo una cosa. Se devo farti
da consulente, faremo le cose a modo mio e con la dovuta scrupolosità.»
Non alzai lo sguardo ma sentii il suo tono divertito. «Sì, signora.»
«Lascia le tue informazioni di contatto alla mia assistente legale quando te
ne vai. Ti auguro una buona giornata.»
Un minuto dopo la porta si aprì e vi buttai un’occhiata. Ovviamente trovai
Gray ancora sulla soglia, in attesa della mia attenzione. Accennò con lo
sguardo al cestino dei rifiuti pieno di rose.
«Allergica?»
Non riuscii a nascondere il sorrisetto compiaciuto. «Già, proprio così.»
Mi fece l’occhiolino. «La prossima volta ti manderò delle caramelle.»
«La prossima volta mandale a tua moglie.»
4

Layla, due anni prima


«DOVRÀ cambiarsi le scarpe.»
«Le scarpe?» Mi guardai i piedi. I sandali rossi con il cinturino Brian
Atwood non si abbinavano esattamente all’aspetto compito del mio tailleur
da avvocato. Ma, se ero costretta a lavorare qui di sabato, avevo bisogno di
qualcosa che mi aiutasse a sentirmi umana. E di certo non erano così
stravaganti da doverli cambiare. Risposi alla guardia carceraria: «Cosa c’è
che non va nelle mie scarpe?»
«Nei penitenziari federali non sono ammesse scarpe aperte.»
Mi stai prendendo in giro.
«Nessuno mi ha informata. Ho guidato per quattro ore dalle cinque di
stamattina per arrivare qui. È il mio primo giorno di volontariato.»
Lei sogghignò. «Cos’ha fatto di male?»
«Di male?»
«Gli avvocati che fanno volontariato qui durante il weekend di solito non
sono davvero volontari.»
«Oh.»
La donna mi fissò con l’aria di aspettare una risposta sincera.
Sospirai. «Duecento ore di servizi sociali per violazione del segreto
professionale.»
Le sfuggì un fischio. «Duecento ore. Le sanzioni inflitte qui sono molto
più leggere di questa.»
«Ah sì? Cosa succede quando qualcuno si mette nei guai qui?»
«Le spie finiscono a farsi ricucire in infermeria.»
Grandioso. Davvero grandioso.
Mi riconsegnò il documento di identità. «Allora, ce l’ha un altro paio di
scarpe?»
«No. C’è un negozio nei paraggi dove possa trovarne un paio?»
«Una trentina di chilometri più avanti c’è un Walmart.»
Guardai l’ora. «Dovrei cominciare fra trenta minuti.»
«Meglio darsi una mossa, allora.»

Ero all’interno di un carcere. Non nel tipo di sale colloqui che si vedono in
tv, quelle dove i visitatori si siedono da un lato dello spesso vetro di
protezione e c’è bisogno di usare un telefono per parlarsi, ma dentro al
carcere vero e proprio, dove gli uomini circolavano liberamente. A differenza
della vicina struttura di massima sicurezza, la prigione di minima sicurezza di
Otisville, dove avrei insegnato ogni sabato per i prossimi mesi, mi sembrava
una specie di college. Il perimetro della struttura non aveva recinzione. I
detenuti neanche vivevano in celle chiuse a chiave. Anzi, avevano alloggi e
armadietti in stile dormitorio. Se non avessi saputo che si trattava di una
prigione, non avrei degnato di una seconda occhiata gli uomini che vi si
aggiravano in pantaloni kaki e camicie button down. Molti di loro potevano
benissimo passare per professori. Sembravano per lo più uomini ammodo, di
una certa età, e si capiva che fuori di lì abitavano in un attico.
«Quante persone ospita questa struttura?» chiesi alla guardia che mi stava
accompagnando in biblioteca.
«Il numero varia ogni giorno, ma di solito poco più di cento.»
Varcammo una porta e proseguimmo lungo un corridoio con le finestre.
Gli uomini all’esterno erano sorridenti e parevano divertirsi.
«È… un campo da bocce?»
Lui ridacchiò. «Già. Ne hanno anche uno da baseball migliore di quello
del liceo di mio figlio. Non per niente chiamano questi posti Club federali.»
Il luogo era più gradevole di quanto mi aspettassi, ma la biblioteca… La
biblioteca era un sogno. Due dozzine di scaffali contenevano più libri di
quanti ne ospitasse la biblioteca pubblica che frequentavo da piccola. C’erano
grandi tavoli con sedie di legno che mi ricordavano quelli che occupavo fino
a tarda sera ai tempi dell’università. Una parete di vetro separava un’ampia
aula dotata di computer a schermo piatto per ogni banco.
«Accidenti.» Mi guardai intorno.
«Non se lo aspettava, vedo.»
«Affatto.»
La guardia indicò l’aula. «La biblioteca è chiusa a chiunque non sia
iscritto al suo corso. Perciò lei può usare aula e biblioteca. Penso ci siano
quattordici persone iscritte al corso che inizia oggi, escluso Westbrook.
Quindi avrà spazio a volontà.»
«Westbrook?»
«È lui che coordina tutti i corsi attivi.»
«Oh. D’accordo.»
«Parli del diavolo.» La guardia sollevò il mento. «Ecco che arriva il nostro
bel faccino.»
Mi voltai e vidi un uomo alto e bruno venire verso di noi. Camminando
insieme a un altro, tenne la testa bassa fino alla soglia della biblioteca.
Quando la alzò, mi balzò il cuore in petto. Bel faccino non era una
descrizione che gli rendeva giustizia. Era stupendo. In modo assurdo. Il tipo
di bellezza rude, bruna e virile che probabilmente lo rendeva un arrogante
pieno di sé. Il mio debole.
I nostri sguardi si incrociarono e un lento sorriso sfacciato gli si allargò in
faccia. Fu allora che apparve l’artiglieria pesante: le fossette più evidenti e
profonde che avessi mai visto.
Già. È decisamente pieno di sé.
Anche se… forse questa punizione non sarebbe stata così male, dopo tutto.
L’agente fece le presentazioni. «Westbrook, questa è Layla Hutton. Terrà
il corso per le richieste d’appello da parte dei detenuti.»
Lui mi tese la mano con un cenno del capo. «Piacere di conoscerla.
Grayson Westbrook. Qui le guardie chiamano la gente solo con il cognome.
Per i civili sono Gray.» I suoi occhi mi diedero una rapida ripassata. «Dovrò
starle appiccicato. Un sacco di questi uomini non vedono una donna bella
come lei da…» Scosse la testa. «Diamine, questa potrebbe essere la prima
volta per molti di loro.»
La guardia ridacchiò. «Già. Ecco perché le starai appiccicato, Westbrook.»
Poi si rivolse a me. «Come ho detto, questo è un carcere di minima sicurezza.
Le nostre porte non sono blindate e in pratica ci fidiamo dei prigionieri. Non
ci sono criminali violenti. Se i detenuti decidono di fuggire, alla fine vengono
riacciuffati e a quel punto non sono più ospiti di questo bel posto. È un
problema se la lascio con Casanova per un po’ mentre vado a mangiare un
boccone? Abbiamo poco personale e di solito permettiamo ad avvocati e
professionisti abituali di restare da soli, se per loro va bene.» Indicò le
telecamere alle pareti e sul soffitto. «Terremo sempre gli occhi su di lei e
siamo a portata di voce. E la porta della biblioteca sarà chiusa a chiave, visto
che oggi non è giorno di apertura.»
«Ehm… certo.» In realtà ero parecchio in ansia, anche se in buona parte si
allentò appena lo stupendo coordinatore del programma sfoggiò di nuovo le
sue fossette.
Quando la guardia fu scomparsa, Gray mi accompagnò nell’aula
adiacente. «Allora… le è toccata la pagliuzza corta al suo studio per il
servizio pro bono oppure si è messa nei guai e questa è la sua punizione?»
Immagino che non fossero molti gli avvocati che si offrivano volontari per
guidare fin nel bel mezzo del nulla e insegnare per bontà d’animo ai detenuti
come ribaltare le proprie condanne. «Punizione. Oggi è il primo giorno della
mia condanna.»
«Potrebbe andare peggio. Potrebbe essere detenuta qui invece di essere
costretta a lavorarci per un po’.»
«Vero.»
«Cos’è che l’ha fatta finire nei guai?»
«Sa che non è educato chiedere a una donna l’età, il peso o il motivo per
cui ha quasi rischiato di essere radiata?»
Sorrise. Dio, doveva smettere di farlo. «Mi scusi.»
«Nessun problema.»
Gray accese il laptop sulla cattedra. «C’è il wi-fi ma è limitato. Se ha
bisogno di un sito che non è accessibile, me lo faccia sapere e le darò
l’accesso.»
«Va bene. Ottimo.»
«La lezione non inizia prima di due ore. Sarò qui accanto, in biblioteca,
così lei potrà sistemarsi. Se le serve qualcosa, basta un colpetto sul vetro.»
Trascorsi la mezz’ora successiva ad accertarmi di avere accesso a tutti i
mezzi di ricerca che avrei passato in rassegna durante la mia prima
presentazione. Poi riguardai le slide che avevo preparato.
Gray si era seduto in biblioteca e stava leggendo un libro, con indosso
degli occhiali che prima non aveva. Dovevano essere da lettura. Visto che
come al solito mi ero preparata anche più del dovuto per la lezione, avevo un
sacco di tempo da ammazzare. Inoltre, ero curiosa di vedere come fosse da
vicino Adone con gli occhiali. Così, andai in biblioteca.
«Sabbie mobili, eh?»
Gray era concentrato sul suo libro e non mi aveva sentita entrare.
«Narrativa o saggistica?» domandai.
Lui alzò lo sguardo. Gli occhiali squadrati dalla montatura robusta
avevano un effetto fantastico su di lui… e anche su di me. La loro forma
angolata si adattava alla sua mascella spigolosa. Se li sfilò e mi ritrovai a
riflettere se mi piacesse di più con o senza. Ero persino combattuta.
«Saggistica. È un’autobiografia scritta dopo che all’autore è stato
diagnosticato un cancro ai polmoni. È una sorta di rivisitazione del passato
mentre è ancora in vita.»
«Sembra deprimente.»
«Già. Ma in realtà non lo è. È divertente. Ripensa alle stronzate che aveva
preso sul serio da una prospettiva tutta nuova. E si rende conto che alcuni dei
giorni più importanti che aveva vissuto erano quelli normali trascorsi con le
persone giuste.»
Mi sedetti al tavolo di fronte a lui e i nostri occhi si incrociarono. Lui
chiuse il libro. L’avevo appena conosciuto, di lui sapevo solo che lavorava
nella prigione, ma avevo la strana sensazione di vivere uno di quei giorni
importanti. Era una follia.
Ci sorridemmo in silenzio, mentre la chimica tra noi raggiungeva picchi
incendiari, finché la guardia non aprì la porta della biblioteca.
«Sono solo passato a vedere come andava. Tutto bene?»
Lo salutai con la mano. «Tutto bene. Grazie.»
«Tornerò più tardi, prima che arrivino i suoi studenti.»
«D’accordo.»
Gray non mi aveva levato gli occhi di dosso durante lo scambio con
l’agente. Non finse neanche di guardare altrove mentre mi mettevo di nuovo
comoda al mio posto. Mi fece sentire un’adolescente osservata dal ragazzo
carino durante la lezione di matematica – in preda a una sorta di eccitazione
nervosa. Ma il mio modo di gestire l’agitazione era sempre diretto. Anche al
liceo, mi giravo verso il ragazzo e gli sorridevo finché non si tirava indietro o
faceva la sua mossa. Le cose non erano cambiate.
«Mi sta fissando», gli feci notare.
Il suo sorriso si allargò. «È bellissima. Le dà fastidio il mio
apprezzamento?»
Sostenni il suo sguardo. «No. Neanche lei è così male. Le dà fastidio se la
fisso?»
Lo scintillio nei suoi occhi brillò un po’ più luminoso. «Per nulla.»
Passammo i minuti successivi a guardarci. Fu l’interazione più strana che
avessi mai avuto con un uomo appena incontrato.
«Dimmi qualcosa di te, Layla Hutton. A parte età, peso e motivo della tua
quasi radiazione, naturalmente.»
«Ho ventinove anni, peso cinquantatré chili e mezzo e ho scoperto che un
cliente picchiava sua moglie, così ho infranto il segreto professionale e l’ho
denunciato alla polizia.»
Lui sorrise e si sfregò il mento. «A quanto pare avrebbero dovuto darti una
medaglia per l’ultima parte, altro che sospensione.»
«Sì, be’… è quello che penso anch’io. La commissione disciplinare e i
soci dello studio presso cui lavoro la vedono diversamente.»
Sospirai. Era davvero bello conoscere qualcuno e levarmi subito quel peso
dal petto.
«Sai una cosa?» ripresi. «Dovrebbe essere sempre così. Conosci un uomo.
Lui dice che ti trova attraente. Tu gli dici che la cosa è reciproca. Poi tiri fuori
tutti i tuoi scheletri dall’armadio. Se lui continua a guardarti ancora così,
prosegui. Altrimenti te ne vai. La vita è troppo breve per sprecare tempo.»
«Sono d’accordo. Dimmi, come ti sto guardando dopo che hai tirato fuori
gli scheletri dall’armadio?»
Lo studiai. Inarcò un sopracciglio quando mi protesi per dare un’occhiata
approfondita a ciò che stava pensando dentro quella sua bella testa. Ciò che
trovai mi diede la pelle d’oca. Gli occhi sono davvero la finestra dell’anima.
Mi appoggiai allo schienale della sedia. «Mi stai guardando come se
desiderassi vedermi nuda.»
Gray scoppiò a ridere. «Molto bene.»
Tirai su il mento. «Adesso tocca a te. Fuori i panni sporchi.»
I suoi occhi si adombrarono e l’espressione si fece seria. «Ho trentun anni,
pesavo novantatré chili l’ultima volta che ho controllato e…» Fece una pausa
e si protese verso di me, appoggiando i gomiti sul tavolo mentre mi guardava
dritto negli occhi. «E sono stato mandato in galera per un aggiotaggio che
non ho commesso.»
Il mio sorriso appassì prima ancora che il cervello registrasse l’ultima
parte. Ero confusa. «Sei stato in prigione?»
«Sono il coordinatore didattico, Layla. È il mio lavoro. Il mio lavoro da
detenuto.» Gray mi si avvicinò ancora di più e scrutò i miei occhi. «Adesso in
che modo mi stai guardando?»
5

Layla
STAVO cercando di ridurre il caffè a una sola tazza, ma quella mattina era
necessaria una dose doppia. Avevo passato una notte agitata, incapace di
spegnere il subbuglio di pensieri abbastanza a lungo per rilassarmi e
addormentarmi. Ringraziai il cielo per il correttore.
Guardai fuori dalla finestra del mio appartamento al terzo piano,
sorseggiando il caffè. Avevo mezz’ora prima che passasse a prendermi l’auto
per l’aeroporto e dovevo solo vestirmi, il che mi lasciava altro tempo per
riflettere.
Una berlina nera rallentò, poi si fermò davanti al mio palazzo. Diedi
un’occhiata all’orologio sul comodino per capire se avessi perso la
cognizione del tempo. Le sei e mezzo. L’auto di servizio era arrivata
parecchio in anticipo. Certo, avrei potuto far aspettare l’autista fino alle sette,
l’orario concordato, ma non era nel mio stile. Trangugiai quanto restava del
caffè e andai all’armadio a prendere l’abito che avevo deciso di indossare, ma
mi bloccai al suono del citofono.
In genere gli autisti restavano ad aspettare che uscissi, non parcheggiavano
né venivano a informarmi del loro arrivo.
Premetti il pulsante. «Sì?»
«’giorno, bellezza.»
Mi pietrificai. La voce di Gray era profonda e inconfondibile. Non avrei
potuto scambiarla con quella di un altro.
«Che ci fai qui?»
«Siamo venuti a prenderti per andare in aeroporto.»
«Siamo?»
«Io e il mio autista.»
«Ho già un’auto che sta arrivando. Ci vediamo all’aeroporto.»
«L’ho annullata.»
«Tu cosa?»
«Ci serve tempo per rivedere alcune cose prima della riunione. E poi, non
ha senso prendere due auto per andare nello stesso posto. La tua segretaria mi
ha dato l’itinerario, così ho chiamato l’autonoleggio per avvisare che non
serviva più.»
«Non puoi farlo.»
«La mia presenza dimostra il contrario, no?»
Alzai gli occhi al cielo e contai fino a dieci. Ciò che Gray stava cercando
di fare era ben più che dividere un’auto per l’aeroporto. Voleva
destabilizzarmi. Di tanto in tanto mi comportavo anch’io così con gli
avversari per metterli fuori gioco. Cambiavo a caso l’argomento delle mie
domande, invertivo di punto in bianco l’ordine dei testimoni… qualsiasi cosa
in grado di scombussolarli e consentire alla vulnerabilità di insinuarsi.
Qualunque fosse il gioco che Gray pensava di poter fare con me, non
avevo alcuna intenzione di diventarne una pedina.
Premetti il tasto del citofono dopo una lunga pausa. «Scendo tra qualche
minuto.»
«Ho bisogno di usare il tuo bagno.»
«No!»
«O quello o troverò un vicolo da qualche parte.»
«Va’ a cercarti un vicolo.» Rilasciai il tasto e andai a vestirmi. Dall’altra
stanza, sentii la sua voce replicare in lontananza, senza però distinguere cosa
avesse detto. Non aveva importanza. Di sicuro non sarebbe salito nel mio
appartamento.
Per natura cerco di compiacere tutti. Perciò, senza pensarci, corsi a
vestirmi per non far aspettare Gray e il suo autista. Appena me ne resi conto,
rallentai, passando qualche minuto in più a sistemarmi i capelli e applicare un
altro strato di mascara. Ma ottenni solo di arrabbiarmi con me stessa, perché
avevo la sensazione di aver dedicato uno sforzo extra al mio aspetto a
beneficio del mio compagno di viaggio.
Dovevo smetterla di pensare troppo e cominciare a trattare Gray come
qualsiasi altro cliente.
Misi nel borsone i pochi fascicoli che avevo, aggiunsi penne e quaderni, e
feci un respiro profondo prima di scendere. Gray stava davanti al portone,
appoggiato alla ringhiera.
«Trovato il vicolo?» lo provocai.
«Macché. Ci ho ripensato. Sono fuori in libertà condizionata. Farmi
sbattere di nuovo dentro per atti osceni non è nelle mie intenzioni.»
«C’è una caffetteria all’angolo.»
«Ci ho provato. Il proprietario ha detto che è fuori servizio.»
Spazientita, mugugnai prima di girarmi e tornare di sopra. «Andiamo.
Solo il bagno.»
In ascensore guardai dritto davanti a me, anche quando, con la coda
dell’occhio, colsi il suo sguardo su di me. Tuttavia, vedere le lucide porte
argentate che riflettevano quasi quanto uno specchio non mi aiutava molto
nell’impresa. Gray indossava un completo su misura di Brioni da cinquemila
dollari, e il sarto aveva fatto un lavoro pazzesco. L’abito metteva in risalto la
vita snella, gli aderiva alle spalle larghe e gli conferiva un’eleganza naturale.
Alcune donne preferiscono il look da ragazzo ribelle – James Dean in
giubbotto di pelle. Ma per me, un completo che calzava a pennello era molto
più eccitante.
Ammirare il pacchetto che avevo davanti quasi mi fece dimenticare la sua
vera natura. Quasi.
Arrivati al piano, mi affrettai a uscire dall’ascensore, ansiosa di respirare
aria che non fosse in comune con Gray Westbrook. Aprii la porta
dell’appartamento e gli diedi indicazioni.
«In fondo al corridoio, prima porta a destra. Non metterci troppo.»
Distolsi lo sguardo da lui mentre si avviava, restia ad ammettere che il
sarto avesse fatto un lavoro divino dietro quanto davanti.
Mentre aspettavo impaziente sulla soglia, un cellulare suonò da qualche
parte. Mi guardai intorno prima di rendermi conto che veniva dal bagno.
Qualche minuto dopo, Gray tornò dal corridoio a grandi passi. La suoneria
ricominciò quando mi raggiunse. Estrasse il telefono dalla tasca e sollevò un
dito.
«Cosa c’è?» rispose. «È tutto a posto?»
Sembrava preoccupato. Sentii la voce di una donna ma non distinsi le
parole. Così ascoltai solo un lato della conversazione.
«Non sono mai troppo occupato per te. Che succede?»
Lei riprese a parlare e lui chiuse gli occhi.
«Sei ferita? Cos’è successo?»
L’ansia nella sua voce mi contagiò.
Si passò una mano tra i capelli. «Chi guidava?»
Un’altra pausa.
Gray scosse la testa. «Dove sei? C’è ancora la polizia?»
Altri suoni ovattati attraverso il telefono.
«Arrivo subito. Non parlare con nessuno, Etta. Non una parola.»
Concluse e mi guardò. «Cambio di programma.»
«Che è successo?»
«Un’amica di famiglia ha avuto un incidente. Ha settantasette anni e
l’anno scorso il dottore le ha fatto togliere la patente. Ma lei continua a
guidare. Devo andare nel Queens.»
«Andiamo.»

Gray guardò fuori dal finestrino durante il tragitto fino al Queens.


«Andrà tutto bene. Le daranno solo una multa per guida senza patente.»
Annuì.
«Hai detto Etta? Ricordo che l’hai nominata qualche volta.»
«È il diminutivo di Henrietta. Ma non chiamarla così. Lo odia. Etta avrà
anche più di settant’anni ma riesce ancora a metterti una paura matta.»
Risi finché non mi resi conto che lui non stava scherzando. «Chi è?»
«È stata la governante di mio padre per quasi trentacinque anni. Quando
ero piccolo, badava anche a me… In pratica è stata lei a crescermi, visto che
papà non c’era mai.»
«Caspita! E vive nel Queens?»
«Sì. In uno dei condomini di proprietà di mio padre. Non si è comportato
bene con molte donne, ma si è preso cura di Etta.»
Al nostro arrivo, due auto della polizia sostavano in diagonale sulla strada,
a delimitare l’area. I paramedici stavano trasferendo sull’ambulanza un uomo
anziano in barella.
Gray balzò fuori quasi prima che ci fermassimo e corse da Etta. Lo seguii
più veloce che potevo. Lo sportello dal lato conducente era aperto e lei era
seduta al volante con le gambe che sporgevano fuori. Accanto, un agente di
polizia era intento a scrivere qualcosa sul suo taccuino.
«Etta, sei ferita?»
«Sto bene, Zippy. Non volevo telefonarti. È che non sapevo se avrei avuto
bisogno di assistenza con la polizia.»
Zippy?
Gray si inginocchiò e squadrò Etta. Sembrava volesse accertarsi del suo
stato di salute.
«Ha ricevuto cure mediche?» domandò al poliziotto.
«I paramedici l’hanno visitata. Non ha riportato ferite e non ha voluto
andare in ospedale.»
«Ti fa male qualcosa?» le chiese.
«Niente che non mi facesse già male prima.»
«Dovresti andare lo stesso in ospedale. Solo per precauzione.»
Lei rifiutò sdegnata. «Sciocchezze. Quelli della mia età vanno all’ospedale
per qualche punto e una settimana dopo muoiono per un’infezione da
stafilococco che si sono beccati lì.»
«Hai battuto la testa?»
«Un colpetto leggero. Il mio Henry faceva più danni sbattendomi la zucca
contro la testiera del letto ai suoi tempi. Quell’uomo era un leone.»
Le sopracciglia dell’agente schizzarono su, poi scosse la testa
ridacchiando.
Etta sollevò lo sguardo su di me. «A proposito di testiera del letto, chi
abbiamo qui?»
«Questa è Layla Hutton. Lei è…»
Mi feci avanti. «Sono l’avvocato di Gray.»
Gli occhi le scintillarono. «Layla. È così bello conoscerti finalmente.» Si
rivolse a Gray. «Ed è un sacco meglio di quell’idiota che ti ha consigliato di
patteggiare.»
«Già», ammise lui. «Com’è successo l’incidente, Etta?»
«Stavo tornando a casa dopo aver preso una nuova guida tv. Penso che il
postino mi stia rubando la mia.»
Gray la interruppe. «Alle sei e mezzo del mattino?»
«Quando hai la mia età, Dio smette di richiederti il sonno, così non devi
sprecare quel poco tempo che ti resta.»
Gray fece un respiro profondo e chiuse gli occhi per un momento. Si
capiva che era frustrato e sconvolto ma fece del suo meglio per non darlo a
vedere. «Continua. Raccontami dell’incidente.»
«Non c’è molto da dire. Mi sono fermata allo stop all’angolo e un
vecchiaccio cui avrebbero dovuto levare la patente mi ha tamponata.»
Il poliziotto smise di scrivere sul taccuino e puntò la penna su Etta. «Lui
ce l’aveva una patente, Mrs. Bell. Diversamente da lei.»
«Come crede», ribatté alzando gli occhi al cielo.
«Posso parlarle un secondo?» chiesi all’agente.
Lui indicò l’auto di pattuglia con un cenno del capo. «Certo. Mi lasci solo
notificare che l’ambulanza sta per partire.»
Mi ci vollero dieci minuti per dissuaderlo dall’infliggere a Etta una
citazione in giudizio. Dovetti dirgli che la donna aveva difficoltà a ricordare
di non avere più la patente, e promettere che le avrei portato via le chiavi
appena fossimo andati a casa.
Tornai alla macchina con il verbale in mano. «Per stavolta lascerà correre.
Ma dovrà ottenere una patente o smettere di guidare, Mrs. Bell.»
«Chiamami Etta. E ho avuto una patente per più anni di quanti ne ha
quell’idiota. E anche di quanti ne ha l’oculista che ha fatto la spia alla
Motorizzazione, se è per questo. Penso che se una persona vuole portarti via
la patente o farti una multa, dovrebbe almeno avere la decenza di aver
superato i trent’anni.»
Gray scosse la testa. «Grazie per essertene occupata. Pare che la vettura
sia ancora in buone condizioni. È solo un’ammaccatura al paraurti. Facciamo
così, io porto Etta a casa e tu ci segui con l’autista.»
«Certo.» Controllai l’ora sul telefono. «Perderemo l’aereo.»
«Chiamo la compagnia e vedo se possono metterci sul prossimo volo.»
Mentre tornavo in auto da sola e informavo l’autista dell’accaduto, mi
accorsi che sul retro non erano esposte né livrea né licenza di autonoleggio.
«Ehm, mi scusi, lei lavora per un autonoleggio?»
«No, lavoro per Mr. Westbrook. Mi chiamo Al, signora.»
Gray era stato rilasciato solo due settimane prima. Avevo controllato.
«Salve, Al. Da quanto tempo lavora per Mr. Westbrook?»
L’autista incrociò il mio sguardo nello specchietto retrovisore. Aveva una
certa età, e i capelli argentei, probabilmente sulla sessantina. «A
intermittenza, ormai da otto anni.»
«A intermittenza?»
«Sì, signora. Mentre Mr. Westbrook era… fuori città… ho fatto un po’
l’autista freelance. Ma adesso che è tornato, sono tornato anch’io.»
Non so perché ma trovai la cosa interessante. Gray era stato in prigione
per tre anni, ne era uscito da appena due settimane e già aveva salvato la sua
vecchia tata da una multa e riassunto il suo autista.
La casa di Etta era a pochi isolati dall’incidente. Al accostò al marciapiede
mentre Gray parcheggiava sul vialetto. Li raggiunsi per vedere come
rendermi utile.
Si dà il caso che la donna non avesse alcun bisogno di aiuto. Aprì da sé lo
sportello e scese prima che Gray potesse spegnere il motore e fare il giro per
aiutarla.
Entrammo insieme in casa sua.
«Bevi una tazza di tè con me, Layla», mi offrì.
Gray chiuse la porta d’ingresso. «Cosa? Io non sono invitato?»
«Tu sei invitato a preparare il tè. Hai smesso di essere un ospite in casa
mia quando portavi ancora il pannolino. Adesso fai il bravo e va’ a mettere su
il bollitore. Preparaci anche qualcosa da mangiare. Dovrebbero esserci dei
biscotti nella credenza a sinistra del frigorifero.»
Gray guardò Etta e poi me, poi di nuovo Etta. «Va bene.»
Trovai divertente il fatto che una presenza grossa e dominante come Gray
potesse trasformarsi tanto facilmente in qualcosa di così diverso per mano di
quella donna. Le loro interazioni erano a dir poco interessanti.
Etta andò alla poltrona di fronte al divano. «Vieni, cara. Non abbiamo
molto tempo.»
Mi rivolse un sorriso affettuoso prima di cominciare a parlare. «Diciamo
le cose come stanno. Gray sa essere un vero stronzo.»
Ero spiazzata. «Wow.» Risi. «Non so bene cosa mi aspettassi, ma di sicuro
non questo.»
«Ho superato ormai da tempo l’età in cui smetti di pensare se sta bene o
meno dire una cosa.»
«Lo apprezzo. In realtà anch’io sono parecchio diretta.»
«Lo so. È una delle cose che per prime hanno attratto Zippy.»
Dalla sua reazione al momento delle presentazioni, avevo intuito che
sapesse qualcosa di me, e qualcosa dei miei trascorsi con Gray.
«Le ha parlato di me?»
Etta aprì il cassetto del tavolino accanto e ne tirò fuori un grosso mazzo di
lettere tenute ferme da un elastico. «Sei stata in ogni lettera sin dal giorno in
cui è entrato in quella biblioteca e ti ha vista. Non puoi andare a trovare un
detenuto a meno che lui ti metta nella lista dei visitatori. Lo stronzetto non ha
voluto inserire il mio nome; non voleva che lo vedessi in quell’ambiente. Ma
mi ha scritto ogni settimana.»
«Non lo sapevo. È una cosa così dolce.»
«È di questo che volevo parlarti. Grayson è dolce. Ha fatto alcune scelte
pessime, non ha avuto i migliori esempi di vita da seguire, ma non è l’uomo
che pensi.»
«Con tutto il rispetto, Etta, come fa a sapere cosa penso di lui?»
Lei annuì con un sorriso. «Sono stata sposata per più di quarant’anni
prima che il mio Henry se ne andasse.» Rivolse lo sguardo verso una foto di
matrimonio alla parete e i suoi occhi si addolcirono. «Era un uomo
affascinante. Faceva girare la testa a tutte le donne. Compresa me. Ci
conoscemmo al Plaza Hotel: ci siamo letteralmente scontrati nella hall. Lui
era nuovo in città e siamo subito andati d’accordo. Dopo circa un mese che
eravamo diventati inseparabili, scoprii che era stato sposato. Direi che era una
cosa ben più seria di una fidanzata, non credi?»
«Assolutamente.»
«A ogni modo, per farla breve, smisi di vedere Henry dopo aver scoperto
che mi aveva mentito. In seguito, appresi che era rimasto coinvolto in un
incidente d’auto con la moglie. Guidava lui e lei era morta nello scontro.
Erano sposati solo da poche settimane. Si riteneva responsabile, anche se non
era così. Incapace di sfuggire ai ricordi nella piccola città in cui vivevano, si
era trasferito a New York, dove era cresciuto, lasciandosi tutto alle spalle. Per
lui era troppo doloroso parlarne, perciò fingeva che non fosse mai successo.»
«È molto triste.»
«Già. La cosa migliore che abbia mai fatto è stata dare a Henry una
possibilità e ascoltare la sua storia sino alla fine. Mi aveva mentito. Ma, a
volte, la gente mente non solo per nasconderci la verità. A volte, le bugie
servono a proteggere se stessi.»
«Non lo so, Etta. La moglie di Gray non è morta. Non riesco a immaginare
quale ragione possa avere per giustificare una menzogna del genere. Non è
che avessimo una relazione normale. Non potevamo uscire a cena né andare
al cinema. Non avevamo che lunghe chiacchierate e verità. È per questo che
mi ha fatto così male scoprire che era sposato. Per un anno sono andata a
trovarlo tutti i sabati dopo che i sei mesi del mio incarico erano terminati. Ha
avuto ogni opportunità per dirmelo.» Feci un respiro profondo. «E comunque
ho voltato pagina. In realtà ci ho messo moltissimo tempo. Ma ce l’ho fatta. E
adesso frequento un uomo fantastico.»
Mi diede un buffetto sul ginocchio. «Okay, tesoro. Non voglio
scombussolarti. Volevo solo che sapessi che conosco quell’uomo da quando è
nato. E non ce ne sono di più leali. Anzi, è proprio questo che l’ha fatto finire
nei guai. Sei deliziosa come diceva nelle sue lettere. Spero che tu sia felice,
cara.»
Gray entrò con due tazze di tè e vide le nostre facce serie. «Oh, Gesù. Non
credere a nessuna delle stronzate che ti dice Etta.»
Lei lo sgridò per l’uso del termine «stronzate», ma avevo visto i suoi occhi
illuminarsi appena Gray aveva parlato. Gli voleva un bene infinito.
Restammo a bere il tè e poi, a malincuore, Gray annunciò che dovevamo
andare. La abbracciò e le disse che sarebbe tornato a vedere come stava
durante il weekend.
Quando fu il mio turno di salutarla, lei mi attirò in un abbraccio. «È stato
meraviglioso conoscerti finalmente, Layla.»
«Anche per me, Etta.»
«Gray, ti dispiace prendermi la guida tv dall’auto prima di andare?»
Una volta che fummo di nuovo sole, mi strinse forte la mano. «Ho visto
come ti guarda. Tiene moltissimo a te. Sono felice che tu abbia voltato
pagina. Ma conosco il mio Zippy: ha una volontà di ferro. Non andrà avanti
se pensa di avere la minima possibilità di sistemare le cose con te. Ha appena
perso tre anni di vita che non meritava di perdere. Se te la senti, ascolta
cos’ha da dire. Lascia che ti racconti finalmente la sua storia. Vedere che non
sei interessata dopo che sei stata a sentirlo potrebbe aiutare anche lui a voltare
pagina. Ha perso già abbastanza tempo.»
6

Layla
«GRAZIE per stamattina», disse Gray mentre prendevamo posto sull’aereo,
uno accanto all’altra, in prima classe.
Pensai che fosse un altro dettaglio del mio itinerario che aveva scelto di
modificare, poiché il posto che mi aveva trovato la mia assistente era nella
fila ventitré. Non mi lamentai di questo cambiamento.
«Figurati, Etta è fantastica. Tiene molto a te.»
«Considero più lei un genitore di quello che ho avuto. Molte delle maestre
alle elementari pensavano fosse mia madre, dopo che lei era morta. Etta era
l’unica a presentarsi ai colloqui con gli insegnanti e agli spettacoli scolastici.
Mio padre non l’ha mai fatto.»
Mi addolcii, tornando al tipo di conversazioni a cuore aperto che avevamo
tenuto per oltre un anno. Non volevo essere cattiva mentre mi parlava in
termini tanto affettuosi di una donna che era palesemente così importante per
lui, ma nemmeno volevo che usasse questa situazione per riallacciare i
rapporti con me.
Gli rivolsi un sorriso comprensivo e mi voltai a guardare fuori dal
finestrino. Gray poteva essere un sacco di cose ma, prima di tutto, era
perspicace. Colse l’antifona e restammo entrambi in silenzio per il resto delle
operazioni di imbarco e decollo. Mi ero portata gli auricolari, con
l’intenzione di usarli per evitare di chiacchierare con lui, ma, dopo quella
mattina, la cosa mi sembrava troppo scortese.
Avevamo raggiunto la quota di crociera da quindici minuti, quando si girò
sul sedile per guardarmi. «Adesso che sei costretta a scegliere tra saltare da
diecimila metri o ascoltarmi, vorrei darti delle spiegazioni.»
Eravamo nella fila due, perciò vedevo il portellone dell’aereo. Lo osservai.
«Dammi un minuto, sto valutando.»
Sorrise e poi si fece serio. «Non ci girerò intorno. È tanto che aspettavo di
levarmi questo peso dal cuore.»
I nostri sguardi si incrociarono e lui lesse nel mio silenzio
un’autorizzazione a procedere.
«Sono stato sposato. Per un breve periodo. Ma, tecnicamente, non ti ho
mentito quando me l’hai domandato. Avevo chiesto l’annullamento del
matrimonio. Il che significa che non è mai esistito.»
Mi assalì un’improvvisa, travolgente ondata di nausea. A volte avevo
preso in considerazione l’idea di tornare indietro e dirgliene quattro dopo
aver scoperto la sua bugia; ma ero troppo ferita e mi sentivo troppo stupida
per essermi innamorata di un tizio che stava in prigione.
Era stato un anno di scelte pessime per me ed ero giunta al punto di
dubitare di tutte le mie decisioni. Se Gray fosse stato un uomo normale che
frequentavo e avessi scoperto che era sposato, mi sarei presentata a casa sua
per sfidarlo. Ma nel suo caso, penso che, nel profondo, avessi un po’ paura di
dargli la possibilità di spiegarsi. Il mio cuore si era innamorato in fretta, ma la
mente continuava a urlare che era una pessima idea.
«Ha firmato come tua moglie sul registro visite.»
«Non posso spiegartelo in altro modo che questo: quando ho stilato la mia
lista visitatori, le cose erano diverse e lei era ancora mia moglie.»
«Perché non mi hai semplicemente detto che eri stato sposato e che il
matrimonio era stato annullato? Mi hai anche raccontato di non aver avuto
nessuna relazione seria in precedenza. Penso che il matrimonio lo sia, e
parecchio.»
Gray si passò le dita tra i capelli. «Ho avuto paura.»
«Perché? Il fatto che fossi divorziato o avessi un matrimonio annullato alle
spalle non mi avrebbe fatto scappare. Ma le bugie e la sensazione di essere
stata ingannata per oltre un anno… sono state orribili.»
«Lo so. Ci sono arrivato quando mi hai rimandato le lettere senza neanche
aprirle e hai smesso di venire a trovarmi.»
«Non capisco. Perché avevi paura di dirmelo?»
«Perché avresti fatto domande e non volevo spiegarti che razza di idiota
ero stato. Tanto per cominciare, sapevo che eri a disagio per quello che stava
succedendo tra di noi. Ammettiamolo, mi hai conosciuto in prigione. Partivo
già male.»
Guardai fuori dall’oblò per qualche momento mentre in testa avevo un
groviglio di pensieri. Gli credo? Se sì, ha importanza? E se fosse stato
sincero con me un anno prima? A che punto saremmo stati oggi? E Oliver?
Una parte di me non voleva ascoltare la storia di Gray. Da donna non
volevo dargli la possibilità di pulirsi la coscienza. E comunque non mi sarei
mai più fidata di lui. Non aveva solo tradito la mia fiducia, mi aveva fatto il
cuore a pezzi.
Ma da avvocato avevo bisogno di andare a fondo di quanto era successo.
E, se ora dovevo lavorare con lui, era necessario superare questo impasse.
Altrimenti sarebbe rimasto lì a incombere su di noi per sempre. Etta
sembrava dell’idea che se Gray avesse raccontato la propria storia e avesse
constatato che la situazione tra noi restava immutata, avrebbe potuto voltare
pagina. Forse avevamo entrambi bisogno che lo facesse.
Ascoltarlo e accettare le sue scuse non avrebbe di certo peggiorato i nostri
rapporti.
Feci un respiro profondo, assunsi un’espressione seria, mi voltai verso di
lui e gli rivolsi la mia totale attenzione. «Comincia dall’inizio.»
Mi osservò per un momento e poi annuì. «Max e io abbiamo avviato
insieme l’attività.»
«Mi hai parlato di lui. Hai detto che il tuo socio ti ha incastrato.»
Lui scosse la testa e chiuse gli occhi. «Max non è un lui. Tu l’hai dato per
scontato e io te l’ho lasciato credere per evitare di dirti la verità. Max è una
donna. È stata la mia socia, nonché moglie per un certo periodo.»
«Quindi la persona che ti ha incastrato era tua moglie?»
Gray abbassò lo sguardo. «Sì. Non mi sono accorto di niente.»
«Per quanto tempo siete stati sposati?»
«Abbastanza da mandare a puttane la mia vita.» Fece una pausa. «Due
anni dopo aver avviato l’attività, già gestivamo investimenti per oltre mezzo
miliardo di dollari. Quando abbiamo chiuso il più grosso contratto che
avremmo mai potuto aggiudicarci, Max e io abbiamo fatto un viaggio in
Repubblica Dominicana per festeggiare. Eravamo entrambi stacanovisti.
Passavamo dodici ore al giorno insieme ma, fino a quel viaggio, il nostro
rapporto era rimasto su un piano strettamente professionale.»
«Okay.»
«Abbiamo festeggiato per un lungo weekend ed è successo qualcosa fra
noi. La sera prima di ripartire ci siamo ubriacati e abbiamo finito per
sposarci. È stato un atto impulsivo o, per lo meno, all’epoca pensavo che lo
fosse. Non avevo idea che fosse l’inizio di una trappola che mi avrebbe
letteralmente rubato anni di vita.»
«E hai fatto annullare il matrimonio al rientro?»
«No. È ciò che avrei dovuto fare. Invece ho cominciato a entusiasmarmi
all’idea di essere sposato. Lavoravo molte ore al giorno e non avevo tempo
né desiderio di investire in una relazione. Ogni volta che uscivo con una
donna, mettevo bene in chiaro di non volere impegni. La ragazza di turno
diceva che non era un problema, ma le cose cambiavano sempre dopo i primi
appuntamenti. Stare con Max rendeva tutto semplice.»
«La amavi?»
«Non lo so. Pensavo di sì. Non la amavo come una moglie, ma le volevo
bene come a una socia e amica.»
«Quanto è durato il matrimonio?»
«Quasi due anni.»
«Mi hai detto che il tuo socio ti aveva incastrato e che avevi accettato di
patteggiare perché le prove a tuo carico erano così schiaccianti che rischiavi
di prendere dieci anni in più. Quindi sapevi che era stata lei ma non potevi
dimostrarlo?»
Gray emise un lungo respiro. «Ho accettato il patteggiamento per lei. È
una lunga storia. Max mi aveva fatto credere che uno dei tizi che lavorava per
noi avesse incastrato entrambi. Che saremmo stati tutti e due sotto inchiesta.
Io sono stato incriminato per primo. E a breve sarebbe toccato a lei. Ho
accettato il patteggiamento perché, secondo il nostro avvocato, c’erano buone
probabilità che dessero a entrambi più di dieci anni. Fosse stato per me, avrei
rischiato. Ero innocente, cazzo. Ma non potevo lasciare che Max, mia moglie,
andasse in prigione. Il mio avvocato è riuscito a strappare un accordo in base
al quale avrei scontato qualche anno se mi fossi assunto la colpa di tutto
quanto. Max ha ottenuto l’immunità dal processo.» Scosse la testa. «Non
sono i nemici a tradirti. Sono le persone a cui tieni.»
Sgranai gli occhi. «Quindi hai accettato un patteggiamento per evitare che
la persona che ti ha incastrato finisse in galera?»
Mi rivolse un sorriso triste. «Ironico, no?»
Mi assalì un tumulto di emozioni. Tristezza. Senso di colpa. Rabbia. Pietà.
Sorpresa. Paura. Avevo paura di credergli, anche se da qualche parte, nel
profondo, sapevo che mi stava dicendo la verità.
«Potevi dirmelo…»
«Mi vergognavo. E poi eri già nervosa riguardo al nostro rapporto. Non
volevo spaventarti con queste cose – un’ex moglie, il mio livello di ingenuità.
Volevo solo andare avanti con la mia vita e non guardarmi più indietro.»
«Quando hai capito che era stata Max a incastrarti?»
«Circa un mese dopo aver iniziato a scontare la pena, un amico è venuto a
trovarmi. Gli era capitato di incontrarla in metropolitana, ma lei non l’aveva
visto. Era troppo impegnata a succhiare la faccia di Aiden Warren.»
«Quindi ti sei insospettito perché ti stava tradendo?»
«Aiden Warren era il tizio che pensavamo ci avesse incastrati.»
Sgranai di nuovo gli occhi. «Merda. Quindi hanno architettato tutto
insieme?»
«Più di dieci milioni di profitti derivanti da aggiotaggio sono entrati e
usciti da un conto a mio nome, senza che se ne sia trovato né recuperato un
centesimo. Ho incaricato il mio amico di assumere un investigatore per fare
ricerche su Aiden. A quanto pare, i due stavano insieme sin da prima che io
lo assumessi.»
«Sei in grado di dimostrare tutto questo? Ti sei consultato con il tuo
avvocato sulla possibilità di ritrattare la dichiarazione di colpevolezza?»
«Il mio avvocato ha detto che è difficile far revocare un patteggiamento
dopo che sei stato condannato, ed è ancora più difficile dopo che la condanna
è stata scontata. Abbiamo delle prove e ci sto lavorando, ma non sono
neanche certo di voler perdere tempo a combattere quella battaglia.»
«Ma far revocare il patteggiamento significa evitare la battaglia per riavere
indietro la licenza di mediatore finanziario.»
«Lo so», annuì. «Ho avuto trentanove mesi per pensare solo alla mia vita.
Sono nato ricco. Mio padre gestiva una rinomata società di investimenti e io
ero sulla buona strada per seguire le sue orme. Ero sempre a lavorare. Mai a
casa. Nessuna quantità di denaro era mai sufficiente. Ho sposato una donna
perché era comodo per il mio lavoro. Mio padre sceglieva donne con le quali
lavorava. Dopo che mia madre è morta, ha scelto donne cui non importava se
lui era a casa, e che erano contente di spendere i suoi soldi. Ma alla fine si
stancavano di stare da sole e lui finiva per divorziare di nuovo. È stato
sposato cinque volte prima dei cinquant’anni. È morto da solo, di infarto, a
cinquantanove anni mentre io scontavo il mio ultimo mese in prigione.»
«Mi dispiace.»
Gray mi rivolse un sorriso triste. «Grazie. Quegli anni a Otisville mi hanno
fatto capire che non voglio finire come lui. Il mercato consuma le persone, io
ero già sulla buona strada. Mio padre mi ha lasciato abbastanza denaro per
pagare il risarcimento e avviare la mia compagnia. Ho la possibilità di
ricominciare. Non me la lascerò sfuggire.»
«Wow. A quanto pare hai fatto un bel po’ di analisi interiore.»
«È incredibile l’effetto di anni trascorsi senza avere altro da fare che
rivivere la tua vita mentalmente. Capisci cos’è importante.»
Ero addolorata per lui. Se tutto ciò che aveva detto era vero, come mi
suggeriva l’istinto, allora aveva perso tre anni della sua vita, l’attività, il
padre e aveva subìto l’atroce tradimento della donna che aveva sposato e di
cui si fidava. Eppure non sembrava amareggiato. Se è vero che si dice:
«Quando la vita ti dà dei limoni… fanne una limonata», sono più che
convinta che quei limoni io li avrei tirati in testa alla gente, se mi fossi trovata
nei suoi panni.
Mi ero appoggiata al bracciolo in mezzo a noi. Gray mi accarezzò piano il
braccio.
«Mi dispiace di averti ferita, Layla. So che ti ci vorrà del tempo per fidarti
di me. Ma ho intenzione di guadagnarmi quella fiducia.»
Non sapevo come replicare, perciò scelsi di non farlo. Anche se
allontanare il braccio probabilmente disse più di qualsiasi parola.
Il rimpianto rannuvolò i suoi occhi. «Lo ami questo Oliver?»
«È un bravo ragazzo. Stiamo bene insieme.»
Mi osservò attentamente. «Non ho sentito la parola ‘amore’.»
«Non ha importanza.» Agitai la mano in mezzo a noi. «Non succederà,
Gray.»
Un lento sorriso si allargò sul suo volto così bello. «Invece sì. Puoi opporti
quanto vuoi.» Si protese verso di me.
I nostri nasi praticamente si toccavano. Sentire il suo respiro caldo sulla
pelle mi fece formicolare il corpo.
«Anzi, voglio che tu ti opponga. Che lotti con le unghie e con i denti. Sarà
molto più bello per entrambi quando finalmente cederai.»
7

Gray
PER tutto il giorno fu impossibile concentrarsi.
Passai metà del tempo a fissare Layla, mentre parlava al di là del tavolo,
senza sentire una stramaledetta parola ma scorgendo la lingua rosa e bagnata
fare capolino tra le labbra rosso acceso e i denti bianco perla. Quando faceva
un mezzo sorriso, la bocca le si sollevava sempre sulla sinistra e appena un
accenno di zampe di gallina le segnava la pelle di porcellana.
Per fortuna, uno dei miei due soci, invece, fu in grado di concentrarsi.
Franklin Marks era stato socio di mio padre per una vita e adesso aveva
all’incirca sessantacinque anni. Unirsi a me in questa società di venture
capital era un passatempo per lui. Possedeva già più soldi di quanti potessero
bruciarne le successive due generazioni di Marks. Franklin portava con sé
anni di esperienza nella finanza, del genere che non insegnano nei corsi di
gestione d’impresa della Ivy League. Era un tipo tradizionalista, ma questo
non costituiva un problema poiché avrebbe contribuito a bilanciare Jason,
l’altro socio.
Jason e io eravamo amici sin da ragazzini. Gli avrei affidato la vita. Nel
corso degli anni avevamo investito insieme in piccoli progetti per
divertimento. Ma lui aveva la tendenza a correre rischi, sia negli affari sia
nella vita personale. Lavorava duro e giocava ancora più duro. Per questo
motivo l’avevo preso in disparte dopo l’incontro per dirgli che l’avvocato per
cui aveva sbavato tutto il giorno era off limits.
Avevo programmato la riunione per lo più come scusa per viaggiare
insieme a Layla e sorprenderla da sola per un po’. Avevo perfino dato buca
alla cena con i soci di quella sera, soltanto per avere qualche ora in più con lei
sul volo di ritorno. Ma l’incontro si era rivelato produttivo. Adesso Layla
aveva tutto ciò che le serviva per finalizzare i contratti che dovevamo stilare e
Franklin era così colpito dal modo in cui aveva gestito tutti e tre che le disse
che l’avrebbe chiamata per qualche altro lavoro.
Nell’auto che ci riportava all’aeroporto, il mio telefono squillò. Vi trovai il
miglior sms che avessi mai ricevuto. Incapace di trattenere il sorriso, mostrai
a Layla il messaggio di American Airlines.
«Il volo è stato cancellato.»
«Cosa? No!» Mi strappò il cellulare di mano per verificare l’autenticità
della notizia. «Siamo stati messi su un volo di domani? Dobbiamo chiamare.
Deve esserci un volo che possiamo prendere stasera.»
«Quando ho posticipato i nostri piani per via dell’incidente di questa
mattina, la mia assistente ha detto che il nostro era l’ultimo volo della
giornata.»
«Ma è impossibile.»
«Stiamo volando da Greensboro, non da Atlanta», le ricordai. «Non
partono aerei ogni tre minuti a tutte le ore del giorno e della notte.»
Tirò fuori il suo cellulare e fece un controllo su internet. Mentre era
impegnata nel vano tentativo di sfuggire alla mia compagnia, cominciai a
cercare un albergo vicino con un buon ristorante – preferibilmente romantico.
Avevo già alloggiato all’O. Henry Hotel. Era un bel posto e ricordavo che
aveva un ristorante annesso. Lo trovai sul telefono e diedi un’occhiata alle
foto. L’albergo era bello come ricordavo e, meglio ancora, il ristorante
sembrava tranquillo, con un’atmosfera piacevole. Layla stava ancora
insistendo con i voli mentre io prenotavo due suite.
Sbuffò. «È incredibile che non ci sia un altro volo stasera.»
«Ho prenotato due stanze in un albergo dove ho già alloggiato in passato.»
Omisi di dirle che avevo chiesto che fossero una accanto all’altra.
«Non ho neanche un cambio d’abiti né uno spazzolino.»
«Ci sono un centro commerciale e molti negozi dall’altro lato della strada
e un ristorante nell’albergo.»
Mi guardò torva. «Puoi almeno fingere di non essere felice di tutto questo?
Il tuo sorriso mi sta proprio facendo arrabbiare.»
«Ho promesso a me stesso che, se fossi riuscito a parlare di nuovo con te,
non ci sarebbero state più bugie. Quindi neanche mi sforzerò di nascondere
che sono elettrizzato all’idea di essere bloccati qui insieme.»
Dissi all’autista di portarci all’O. Henry Hotel e Layla chiamò il suo studio
per informare del cambiamento di programma. Quando accostammo davanti
all’albergo era già parecchio tardi, l’orario di chiusura dei negozi era a breve.
«Sarà meglio fare una corsa a comprare il necessario prima che chiudano i
negozi.»
«Va bene.»
Per caso ci imbattemmo subito in un Victoria’s Secret. Conoscevo quella
donna da più di un anno, eppure non avevo idea di quale lingerie prediligesse.
Se speravo di scoprirlo quanto prima, il mio sogno si infranse.
Si fermò davanti all’ingresso. «Perché non vai a cercare quello che ti
serve? Non ho bisogno di aiuto qui dentro.»
«Sei sicura? Potrebbe tornarti utile un secondo parere mentre sei in
camerino.»
Mi indicò un negozio di Gap. «Vai.»
Sorrisi. «Prendo qualcosa e vado a fare il check-in. Ci vediamo in
albergo.»
Aprì la porta del negozio. «Posso pensare da sola al mio check-in.»
Parlai alla sua schiena mentre si allontanava. «Il mio colore preferito è il
rosso…»
Per lo meno non mi fece un gestaccio. Progressi.

---

Sapevo che l’avevano chiamata Layla perché sua madre era una grandissima
fan di Clapton. Sapevo che in terza elementare aveva fatto a botte con un
bambino, lo aveva preso a pugni e gli aveva rotto il naso. Eppure non l’avevo
mai vista in jeans né avevo consumato un pasto decente insieme a lei. Ero
seduto al bar del ristorante, godendomi la vista dei suoi fianchi che, fasciati in
denim aderente, avanzavano armoniosi verso di me.
«Non guardarmi così.»
Bevvi un sorso dello scotch e soda che avevo ordinato. Un’altra cosa che
mi era mancata. «Come?»
«Lo sai.»
«Come se preferissi mangiare te per cena al posto di qualsiasi altra cosa
sul menu?»
La direttrice di sala ci raggiunse per dirci che il nostro tavolo era pronto,
sventando l’eventuale replica pungente che Layla stava per infliggermi.
Rimasi deluso.
Mi alzai. «Dopo di te.»
Lei mi guardò diffidente. «Va bene. Ma non guardarmi il sedere.»
Come se all’inferno potesse nevicare.
Una volta che ci fummo accomodati, Layla ordinò del vino e io rifiutai un
secondo drink. Tre anni senza alcol avevano abbassato la mia soglia di
tolleranza e volevo restare lucido mentre mi trovavo in compagnia di questa
donna.
La osservai. Per certi versi, adesso mi pareva una sconosciuta. Tuttavia,
sconosciuta o no, mi sentivo molto più legato a lei che a chiunque altro nella
mia vita. Esisteva un legame tra di noi e, mentre lei cercava di reciderlo, io
avevo intenzione di rinsaldarlo.
«Allora… i tuoi nuovi soci sembrano simpatici», cominciò.
«Sì. Di sicuro meglio dell’ultimo.» Sapendo che il tempo da solo con lei
era limitato, la mia mente viaggiava a senso unico. «Allora, da quant’è che
frequenti Collo a Matita?»
La vidi perplessa, così mi spiegai meglio. Anche se trovavo perfettamente
palese a chi mi riferissi. «L’avvocato con cui lavori. Il tuo studio non è
contrario alle relazioni tra colleghi?»
«Sai bene che si chiama Oliver. E non ti riguarda da quanto tempo lo
frequento né qual è la politica dello studio sulla questione.»
La cameriera portò il vino di Layla e prese le ordinazioni. Osservarla
portarsi il bicchiere alle labbra e seguirne la gola sottile mentre deglutiva fu
straordinario.
Mi sorprese a guardarla ed ebbe un moto di disagio.
«Hai ragione», ribattei. «Meno dettagli conosco, meglio è. Purché non
scopi con lui.»
«Vado a letto con chi mi pare.»
«Sei andata a letto con qualcuno dopo che abbiamo smesso di vederci?»
«Vederci?» ripeté in tono di scherno. «È così che definisci il servizio
civile obbligatorio che mi ha costretta a lavorare con te?»
«No, solo le tre ore che passavamo insieme ogni settimana prima che tu
‘timbrassi il cartellino’ per il tuo servizio civile obbligatorio. E tutti i sabati
che abbiamo trascorso insieme quando non eri più tenuta a venire. E le
lunghe lettere che ci siamo scambiati ogni settimana. Certo, non era il
massimo – non potevo assaggiarti né palparti a fine serata – ma la
consideravo comunque una relazione.»
«La cosa non è reciproca.»
Sapevo che mentiva. Aveva provato quello che provavo io. Ma era più
facile andare avanti se non ammetteva la verità.
«Parlami del tuo lavoro. Come vanno le cose adesso? Quando abbiamo
smesso…» sogghignai «…di vederci, eri appesa a un filo. Immagino che tutto
sia andato per il meglio, visto che sei ancora nello stesso studio.»
«Ho fatturato quasi tremila ore l’anno scorso, superando di almeno
duecento ogni altro associato. Ho reso l’intenzione di sbarazzarsi di me
economicamente sciocca.»
Feci qualche rapido calcolo. «Sono sessanta ore fatturate alla settimana.
Tenendo conto di pranzo e trasferta, un paio di pause alla toilette, devi aver
lavorato dodici ore al giorno, sette giorni su sette.»
«Esatto. Quest’anno sono scesa a sei per non esaurirmi.»
«Almeno ti sei ritagliata il tempo di vedere qualcuno.»
Alzò gli occhi al cielo e poi vuotò il bicchiere. Finito il vino, parve
rilassarsi un poco. La conversazione prese dei toni meno combattivi.
«Allora, sei uscito da quanto ormai, due settimane?»
«Quindici giorni. Dovevo sistemare delle questioni prima di presentarmi al
tuo studio. Sono stato fuori città una settimana per occuparmi di alcune
faccende per mio padre.»
«Sono dispiaciuta per la tua perdita. Sarà stato un duro colpo.»
«Avevamo un rapporto conflittuale. Ma le sue ultime volontà gli hanno
reso onore. Ha avuto cinque mogli, però ha voluto essere seppellito con mia
madre.»
«È morta quando eri piccolo, giusto?»
«Sì. Cancro al seno a trentotto anni. È stata sepolta in California, con sua
madre e sua sorella, entrambe morte prima dei quaranta per la stessa
malattia.»
«Accidenti.»
«Era una fioraia e conobbe mio padre quando lui entrò in negozio per
mandare dei fiori alla sua fidanzata.» Scossi la testa a quei ricordi. «Quello
avrebbe dovuto essere un campanello d’allarme per lei.»
«Quindi l’hai fatto seppellire accanto a tua madre?»
«Probabilmente lei un giorno mi prenderà a calci per questo, però sì. Ho
dato disposizioni in tal senso mentre ero ancora dietro le sbarre.»
Layla sorrise.
«Avevo solo nove anni quando è morta. Ma ormai erano separati già da
qualche tempo. Anche se lei non ha mai chiesto il divorzio. Diceva che era
l’amore della sua vita e che, quando trovi il tuo unico vero amore, non puoi
sostituirlo, perché hai già dato via il cuore.»
«Wow. E immagino che anche lui la pensasse così, visto che, nonostante
le altre quattro mogli, ha voluto essere seppellito con lei.»
«Credo di sì. Non riuscivano a stare insieme, però non hanno mai smesso
di amarsi.»
I nostri sguardi si incrociarono, ma Layla si affrettò a distogliere il suo.
«Quindi sei andato in California per far visita alle loro tombe?» chiese.
«Sì. E a piantare un giardino gigantesco.»
«Un giardino?» ripeté perplessa.
Risi per le assurdità alle quali avevo dedicato la mia prima settimana da
uomo libero. «Quando si sono sposati, lei voleva una casa in periferia. Lui
voleva stare vicino al suo ufficio e vivere nell’attico che già possedeva.
Scesero al compromesso di restare in città per qualche anno e poi trasferirsi a
Westchester o Long Island. Lei aveva in serbo per quel momento un
faraonico progetto per un giardino sul retro, con tutti i suoi fiori e alberi
preferiti. Mi ricordo che ci lavorava di continuo. Era su un foglio da disegno
grande come una cianografica, con ogni sorta di dettagli. Ci ha lavorato una o
due volte alla settimana per anni, aggiungendo cose e riprogettandolo. Dopo
il trasloco dall’attico di mio padre, non rividi più quei progetti. Mamma si
ammalò poco dopo la separazione.»
«Quindi hai piantato un giardino per lei?»
«Non un giardino qualsiasi, il suo giardino. L’avvocato di mio padre
aveva quei vecchi fogli insieme al testamento e ai documenti legali. Lui
aveva conservato i progetti di mia madre per tutti questi anni e lasciato
indicazioni per assumere qualcuno che piantasse il giardino dove loro erano
sepolti.»
«Bizzarro e romantico al tempo stesso.»
«Mi ci è voluta una settimana per trovare tutto quello che lei voleva
piantare. Ho ancora il collo ustionato dal sole per aver scavato e zappato.»
«L’hai piantato tu?»
Annuii. «Il piano prevedeva che mia madre e io lo facessimo insieme. Non
ne abbiamo mai avuto la possibilità. Era il minimo che potessi fare. E per
quanto abbia disprezzato mio padre per un sacco di cose, spero che i miei
genitori si siano riuniti e si stiano godendo il giardino insieme.»
La cameriera ci interruppe portandoci la cena. Dopo che se ne fu andata,
Layla mi guardò in modo strano.
«Cosa c’è?» chiesi.
«Niente. Mangia e non fare in modo che mi piacciano altre delle cose che
ti escono dalla bocca.»
Sogghignai. «Penso che le cose che so fare con la bocca ti piacerebbero
ancora di più.»
8

Layla
ERO taciturna sin dall’arrivo in aeroporto. Mentre aspettavamo l’imbarco,
accesi il laptop e lessi le email. Potevo lavorare ventiquattro ore su
ventiquattro, sette giorni su sette, senza mai restare senza niente da fare in
ufficio. Ma quel giorno, a dire la verità, mi immersi nel lavoro perché non
volevo parlare con Gray.
La sera prima ci eravamo accordati per vederci a colazione prima del volo.
Ma, dopo essere rimasta sveglia per ore, pensando in modo ossessivo
all’uomo del quale avevo avuto un assaggio a cena, con la sensazione di
essere stata indotta a vedere l’uomo che avevo conosciuto due anni prima –
un uomo che mi aveva distrutta –, sentivo la necessità di usare non il cuore
ma la testa per mettere le cose nella giusta prospettiva.
Guarda caso, quella mattina mi ero svegliata con il mal di testa e non
l’avevo raggiunto per colazione. Non volevo trascorrere altro tempo da sola
con Gray. Avevo appena rimesso la mia vita sul binario giusto e l’ultima cosa
che desideravo era riaprire vecchie ferite.
Dopo aver ascoltato la sua storia, tuttavia, mi sentivo in colpa. Sul serio.
Ma ci avevo messo quasi un anno per voltare pagina e tra noi non c’era
nemmeno stato niente di fisico. Il legame che avevamo era diverso da
qualsiasi cosa avessi mai provato e la sua bugia – o come la si voglia
chiamare –, insieme al suo folle passato e al fatto che adesso fosse un cliente,
rendeva tutto troppo difficile.
Non vanto ottimi precedenti nella scelta dell’uomo giusto. Lo stesso vale
per mia madre. Ed ero decisa a non diventare lei – una donna che aveva
passato la vita con un uomo che non era mai stato davvero suo – per quanto
sentissi la tentazione divorarmi.
Appena l’aereo raggiunse la quota di crociera, tirai di nuovo fuori il laptop
nel tentativo di ignorare Gray. Lui lo chiuse con delicatezza.
«Verrà a costare parecchio se mi tocca intrappolarti a diecimila metri di
altitudine ogni volta che voglio parlarti», osservò.
«Scusa. Sto recuperando delle cose che non sono riuscita a fare ieri. Vuoi
discutere del tuo accordo di partnership?»
Fece di no con la testa.
Sospirai. «Gray, stai avviando una nuova società. Hai di nuovo la tua vita.
Dovresti andare avanti. Sono convinta che ti basti schioccare le dita per avere
un appuntamento. Ma ti sei accorto di come ti stava guardando l’assistente di
volo quando è venuta a portarci le salviette calde? È attraente. Perché non le
chiedi di uscire?»
Mi scoccò un’occhiata torva. «Tu esci con tutti gli uomini di bell’aspetto
che sono interessati a te?»
«No. Ma io sto frequentando una persona.»
«Non è quella giusta per te.»
«E questo lo sai in base a un’unica cena, durante la quale hai mancato di
rispetto a Oliver e lui è stato costretto a mostrarsi educato con te per via del
suo lavoro?»
«No. Lo so perché lui non è me.»
Ingaggiammo una lunga battaglia di occhiatacce. Avevo la sensazione che
niente di ciò che avrei detto l’avrebbe minimamente dissuaso. «Ho voltato
pagina, Gray. Devi accettarlo se dovremo lavorare insieme.»
«E se non stessi frequentando Pisello a Matita?»
«Pensavo che il nome fosse Collo a Matita.»
«L’ho seguito nel bagno degli uomini. Fidati, il collo sottile è
proporzionato all’intera anatomia.»
«Sei proprio scemo.»
«Non stai difendendo il suo onore dicendomi che mi sbaglio. Il che vuol
dire che solo uno di noi due ha avuto la sgradevole esperienza di vedere il suo
pisellino. Oppure sai che è vero e quindi il soggetto è indifendibile.»
«Penso che tu sia impazzito. Non parlerò dei genitali di un altro uomo con
te.»
«Ottimo. Perché preferirei parlare dei miei.»
Non potei fare a meno di ridere. «Insomma, Gray. Che ne dici di non
parlare dei genitali di nessuno e invece mi spieghi cosa posso fare per te, a
parte redigere l’accordo di partenariato?»
«Non puoi farmi quella domanda – cos’altro voglio che tu faccia per me –
e aspettarti una risposta legittima.»
«Starò attenta a quello che dico in futuro.»
La sua espressione giocosa si fece seria. «In realtà c’è una cosa che puoi
fare per me.»
«E sarebbe?»
«Ricominciamo daccapo. Non tiriamo fuori il passato o cose del genere.»
Non me l’aspettavo. «D’accordo. La trovo un’ottima idea. Ne abbiamo
discusso e possiamo metterlo da parte. Penso che fare tabula rasa, se dovremo
lavorare insieme, sia la cosa giusta.» Inclinai la testa. «Anche se la tua
proposta un po’ mi sorprende, visto che hai trascorso gran parte delle ultime
ventiquattro ore a cercare di farmi ricordare quello che c’è stato fra noi.»
Tenevo la mano sinistra sul bracciolo in mezzo a noi. Gray la coprì con la
sua e mi guardò negli occhi. «Volevo solo darti una spiegazione. Chiarire i
fatti. Ma sono disposto a ricominciare da zero per riconquistarti.»
«Gray…»
«Adesso ti concederò un po’ di spazio. So che ne hai bisogno.» Intercettò
il mio sguardo. «Però non ci saranno altre bugie e neanche omissioni. Detto
questo, tra noi non è finita. Abbiamo appena cominciato. Perché quello che
abbiamo avuto è stato reale e la realtà non sparisce, per quanto tu possa
volerlo.»
9

Layla, due anni prima


«DIMMI qualcosa di te che nessun altro sa.»
Gray si grattò il mento. Eravamo seduti in biblioteca da ore, con il pretesto
di preparare la lezione che dovevo tenere di lì a un’ora. Era così che eravamo
riusciti a passare tanto tempo insieme il sabato nelle ultime otto settimane.
«Non mangio né angurie né cocomeri», rispose.
«E perché sarebbe top secret?»
«Non lo è. Ma nessuno conosce la ragione per cui non li mangio.»
Appoggiai i gomiti sul tavolo. «Sentiamo…»
Gray mi puntò contro un dito ammonitore. «Non ridere.»
«Non sono sicura di poter fare questa promessa.»
Scosse la testa con un sorriso spontaneo. «All’asilo, la maestra ci leggeva
Jack e la pianta di fagioli. In qualche modo mi ero convinto che dai semi
potessero nascere cose gigantesche, se piantati nel posto giusto. A casa
avevamo da un po’ questo cocomero sul bancone della cucina e un giorno
mamma decise di aprirlo. Disse che era senza semi e, non vedendo i classici
semini neri, ci diedi dentro. Alla terza fetta, annunciai a mia madre che
preferivo i cocomeri alle angurie ovali che di solito comprava, perché erano
più croccanti.»
«Era croccante? Quindi il cocomero era cattivo?»
«No, dentro c’erano dei semini bianchi, morbidi ma croccanti ai bordi. Li
avevo mangiati senza saperlo. Lei li tirò fuori da una fetta e me li mostrò.
Disse che erano innocui. Ma ormai mi ero ficcato in testa che nello stomaco
mi sarebbe cresciuto un gigantesco cocomero e sarei esploso. Ogni sera
andavo a letto e spingevo la pancia in fuori per vedere se stava aumentando.
Ed ero così sicuro che sarebbe successo, che mi sembrava di vedere la pancia
gonfiarsi.»
Mi coprii la bocca e risi. «Oh, mio Dio. E da quel giorno hai smesso di
mangiare il cocomero?»
Annuì. «Ormai sono pulito da venticinque anni.»
«Roba da matti.»
«Ed ecco la ragione, sconosciuta a tutti, per cui non mangio il cocomero.»
Vidi gli occhi di Gray vagare sul mio viso, guizzare sulle mie labbra e
risalire fino a incrociare i miei occhi.
«Hai le lentiggini sul naso», osservò. «Ma cerchi di coprirle.»
Mi portai la mano alla faccia. «A quanto pare non sto facendo un buon
lavoro.»
«A me piacciono. Mi ricordano che sei reale. A volte, dopo che te ne sei
andata, comincio a chiedermi se non ti ho immaginata.»
Per qualche motivo, sentii il cuore gonfiarsi a quelle parole.
Una guardia ci interruppe facendo capolino per l’occasionale controllo.
«Tutto bene qui dentro?»
Lo salutai con la mano. «Tutto bene. Grazie, Marcus.»
«Torno tra mezz’ora per l’inizio della lezione.»
Le poche ore da sola con Gray ogni sabato erano diventate il clou della
mia settimana. Ma ultimamente sembravano passare sempre più in fretta.
Quando mi ero rilassata abbastanza da convincermi di nuovo che non ero
pazza a provare qualcosa per un uomo che viveva in una prigione federale,
ecco che arrivava il momento di cominciare il lavoro. Avevo preso
l’abitudine di arrivare tre ore prima, adducendo come scusa la necessità di
preparare la lezione con Gray. Ma in realtà noi due ce ne stavamo seduti uno
di fronte all’altra e imparavamo tutto il possibile nel lasso di tempo che
avevamo a disposizione. Era come un appuntamento: dedicavo del tempo
extra per prepararmi, sentivo la scarica di adrenalina quando lui entrava nella
stanza e volevo saperne sempre di più sul suo conto. La parte più difficile,
tuttavia, era cercare di ignorare il legame fisico. Era sempre presente e, la
settimana prima, ci eravamo avventurati in un territorio nuovo quando Gray
aveva descritto il bacio che voleva darmi. Non avrei mai pensato che solo
parlare di passare al piano fisico potesse essere tanto erotico.
«Tocca a te», riprese.
La mia mente era uscita dai binari. «Che cosa?»
Gli occhi di Gray si abbassarono sulle mie labbra e l’angolo della sua
bocca fremette come se sapesse a cosa stavo pensando. «Tocca a te dirmi
qualcos’altro che nessuno sa.»
Non risposi subito, poi rialzai lo sguardo e scoprii che l’accenno di sorriso
di Gray si era trasformato in un sorriso autentico. Agitai la testa per
schiarirmi le idee.
«Ehm…» Pensai a una cosa che neanche la mia migliore amica sapeva,
ma che poteva essere troppo folle da condividere. «Ho un quaderno degli
Assolutamente sì.»
«Un cosa?»
«Un quaderno degli Assolutamente sì», ripetei. «Be’, in realtà, ormai ne ho
sette.»
«E cosa sarebbe?»
«È una lista di cose che analizzo per decidere se sono assolutamente sì o
nemmeno per sogno. Non criticare il nome. Ho iniziato a sette anni. Avevo
chiesto a mio padre se potevamo prendere un cane e lui rispose che i cani
hanno bisogno di un sacco di esercizio, bisogna tenerli puliti e sono costosi.
Io replicai che erano ottimi per fare la guardia e mi avrebbero insegnato a
essere responsabile. Lui rise e replicò che lo trovava un bel tentativo, ma i
contro superavano i pro. Così quella sera presi un quaderno nuovo e disegnai
una linea al centro della prima pagina. Scrissi tutti i pro e i contro che mi
venivano in mente e poi feci un altro tentativo con mio padre. Ovviamente
avevo trovato venticinque pro e solo dieci contro.»
Gray sorrise. «L’avvocato che è in te è venuto fuori presto, vedo.»
«Già. La mia lista non gli fece cambiare idea, ma ebbe effetto su mia
madre, così finimmo per prendere il cane. E scoprii che mi piaceva stilare i
pro e i contro delle cose. Diciamo che mi aiutava a organizzare i pensieri.»
«Per cos’altro fai le liste?»
«Qualsiasi cosa. Tutto. Dovevo baciare Danny Zucker in terza media?
Dovevo partire per il college? Vale la pena spendere millequattrocento dollari
per un paio di stivali di pelle?»
Gli occhi di Gray brillarono. «Hai baciato Danny Zucker?»
Alzai la mano sinistra e cominciai a enumerare i pro. «Era popolare.
Aveva belle labbra. Aveva esperienza nel baciare.» Con la destra enumerai i
contro. «La sua esperienza comprendeva scambiare saliva con…» storsi il
naso «…Amanda Ardsley.» Snocciolai altri contro. «Tutti conoscevano le
ragazze che aveva già baciato, perciò probabilmente avrebbero saputo anche
di me. Germi. Apparecchio.» Abbassai l’ultimo dito della mano destra e,
impassibile, aggiunsi: «Alitosi».
Gray scoppiò a ridere. «Deduco che il povero Danny abbia perso.»
«Altroché», sogghignai.
«Hai frequentato un college fuori città?»
«Sì. Quella fu probabilmente la mia lista più squilibrata. I contro erano che
mi sarebbero mancati mia madre e gli amici. E che avevo paura. I pro
occupavano fronte e retro.»
«Gli stivali?»
«Li indosserò per te la settimana prossima.»
Adoravo le zampe di gallina attorno ai suoi occhi quando sorrideva
apertamente.
«E hai conservato tutti i quaderni con queste liste di pro e contro?»
«Certo. Sette quaderni pieni che risalgono a vent’anni fa. Sono diventati la
mia bizzarra versione di diario segreto.»
«Le fai ancora? Le liste, intendo.»
Mi morsicai il labbro e riflettei se dirgli di quella che avevo iniziato la
settimana prima. «Di tanto in tanto. Non so perché ma lo trovo confortante.»
Mi scrutò. Quell’uomo aveva la prodigiosa capacità di leggermi dentro.
Mi inquietava e al tempo stesso trovavo la cosa affascinante. Quando i nostri
occhi si incontrarono, seppi che aveva la risposta prima ancora di farmi la
domanda.
«Ne hai fatta una per capire se iniziare una relazione con me?»

La lezione era terminata da dieci minuti ma avevo ancora gente in attesa di


parlare con me in privato. Più nozioni fornivo sui processi di appello e la
ricerca dei casi precedenti, più aumentavano le domande sulla possibilità di
revocare le condanne.
Una guardia che avevo visto una o due volte, senza mai parlarci, passò
dall’aula.
«Il tempo è scaduto, ragazzi», annunciò dalla porta.
I miei occhi cercarono immediatamente quelli di Gray. Lui andò dalla
guardia e i due parlarono per qualche minuto. Di tanto in tanto lanciarono
occhiate nella mia direzione. Poi Gray tornò davanti alla classe e si rivolse ai
ritardatari.
«Kirkland deve sgomberare la stanza prima della fine del suo turno. Le
vostre domande dovranno aspettare fino alla settimana prossima.»
Senza troppe proteste, gli ultimi partecipanti si avviarono all’uscita. Le
interazioni con la maggior parte di quei detenuti non mi sembravano diverse
da quelle che avevo in ufficio. Questi uomini erano colletti bianchi, molti dei
quali con una formazione accademica migliore della mia.
La guardia rivolse a Gray un avvertimento. «Hai dieci minuti, Westbrook.
Questo è quanto. Poi devo portarla a firmare l’uscita.»
Aspettai che la porta si chiudesse prima di chiedere: «Che succede?»
«Quarto scaffale dalla porta della biblioteca. È un punto cieco per le
telecamere.» Gray indicò con il mento. «Prendi quel libro che hai usato per la
lezione come se volessi rimetterlo a posto.»
«Ma viene dalla biblioteca del mio ufficio. L’ho portato io.»
Mi guardò negli occhi. «Fidati di me. Ci vediamo là in fondo tra due
minuti.»
Dal modo in cui le pupille nere divorarono quasi tutto il verde dei suoi
occhi, pensai di sapere cosa stava per accadere. E, di punto in bianco, sentii
tutto il corpo in preda alla trepidazione. Annuii e mi avviai alla biblioteca
adiacente, contando gli scaffali. Il mio viso era in fiamme, eppure le dita di
mani e piedi sembravano gelate e quasi senza più sensibilità. Mi girava la
testa mentre cercavo di camminare normalmente sulle gambe tremanti e di
comportarmi in modo naturale, sapendo che le telecamere avevano occhi
dappertutto.
Indecisa sul da farsi, una volta arrivata al quarto scaffale, cercai di
mostrarmi occupata sfiorando i dorsi dei libri per esaminarne i titoli. Se
qualcuno mi avesse puntato una pistola alla testa e ordinato di leggere le
parole, tuttavia, sarei morta. Ero troppo tesa per vedere chiaramente.
Sentii l’odore di Gray prima ancora di vederlo. Aveva un profumo pulito e
fresco, ma virile. Gli rivolgevo le spalle quando percorse il corridoio dietro di
me e una delle sue grandi mani mi afferrò un fianco mentre l’altra spinse i
capelli da un lato. Mi sfuggì un verso strozzato. Fu come il momento in cui
arrivi in cima alle montagne russe: il sangue scorre più veloce, pieno di paura
adrenalinica e trepidazione, in attesa del tuffo mozzafiato.
La sua voce bassa mi solleticò il collo. «Fermami adesso, Layla, se non lo
desideri.»
Il vagone dell’ottovolante ondeggiò sull’orlo del precipizio. «E le
telecamere?» La mia voce era così roca e ansimante che stentai a
riconoscerla.
«Fidati di me», ripeté lui.
Fidati di me.
Per quanto fosse folle, lo feci. E forse neanche mi importava delle
conseguenze, se mai ce ne fossero state. Volevo toccare quell’uomo più di
ogni altra cosa avessi mai desiderato. Mi girai e lo sguardo acceso di Gray si
impossessò del mio. Mi fissò negli occhi, come per darmi un’ultima
possibilità di fermarlo. Incapace di parlare, gli rivolsi un impercettibile cenno
del capo mentre il mio petto si alzava e si abbassava affannoso.
Prima che potessi prepararmi a ciò cui avevo appena acconsentito, Gray
mi afferrò il viso con entrambe le mani e mi fece indietreggiare contro lo
scaffale. Abbassò la testa e piazzò le labbra sulla mia bocca.
La scossa nel sentire il suo corpo premuto contro il mio mi fece
dimenticare l’esistenza di ogni altra cosa. Mi leccò le labbra, esortandomi ad
aprirle e gemette nella mia bocca quando la sua lingua trovò la mia. Mugolai.
Mai in tutta la vita avevo provato una fame simile né mi ero sentita desiderata
in maniera così profonda. Una sorda pulsazione tra le gambe mi spinse a
premermi contro di lui, senza riuscire a trovare soddisfazione completa.
Come se avesse percepito il mio bisogno, mise le mani dietro il mio sedere
e mi strinse le cosce, facendo sì che avvolgessi le gambe attorno a lui, in
modo che potesse premere più a fondo. Schiacciò l’erezione contro la mia
clitoride dolente e sfregò su e giù. La frizione mi aveva eccitata a tal punto
che non mi sarei stupita se fosse riuscito a farmi venire solo strusciandosi
contro di me.
Infilai le dita tra i suoi capelli di seta, tirando le ciocche morbide. Lui
gemette di nuovo e il suono si riverberò dalle nostre labbra unite fino in
mezzo alle mie gambe. Una delle mani sul sedere risalì sul collo e il pollice
mi piegò la testa da un lato per rendere il bacio più profondo.
La sensazione di non avere peso mi colpì al ventre e cominciai a
precipitare. Il mio vagone dell’ottovolante dondolò avanti e indietro
un’ultima volta prima di fiondarsi giù per la lunga discesa. Mentre
ansimavamo e ci artigliavamo l’un l’altra, alzai in aria le mie mani
immaginarie e mi godetti la pazza, spaventosa, meravigliosa discesa.
Quando il bacio si interruppe, ero ipnotizzata dall’effetto che quell’uomo
aveva su di me. Le mani di Gray tornarono sul mio viso: mi prese le guance,
accarezzandole delicatamente con il pollice mentre mi ricopriva le labbra di
baci leggeri come piume.
La sua voce era roca. «Questo è reale.»
Deglutii. Sul momento non capii cosa intendesse.
Il cigolio della porta che si apriva e la voce della guardia mi fecero
sobbalzare. «Il tempo è scaduto, Westbrook!»
Gray appoggiò la fronte alla mia. «Devo andare. Ricorda cos’ho appena
detto quando martedì ricomincerai a dubitare di te stessa.»
10

Gray, due anni prima


«IL saldo del mio conto all’emporio della prigione è passato chissà come da
zero al massimo di duecentonovanta bigliettoni», annunciò Rip, il mio
compagno di cella. «Per caso ne sai qualcosa?»
Ero contento di rivolgergli le spalle. Continuai a piegare sulla mia cuccetta
il bucato che avevo appena ritirato. «Come diavolo faccio a sapere da dove
sono arrivati i soldi sul tuo conto?» mentii.
Qualche settimana prima avevo scritto a Etta pregandola di riempirgli il
conto. Era lei ad avere accesso ai miei fondi personali nel mondo reale. Mi
stavo giusto chiedendo se il denaro fosse arrivato.
«Sarà stata la mia Katie?»
Mi sentii in colpa per avergli dato la speranza che sua figlia Katie avesse
cambiato idea. Ma non avrebbe accettato i soldi da me e sapevo che aveva un
mucchio di lettere che le aveva scritto, ma che non poteva permettersi di
spedire. Rip e io eravamo compagni di cella sin dal giorno in cui ero arrivato.
Lui era qui già da alcuni mesi, perciò mi aveva mostrato come funzionavano
le cose.
«Forse. Ma almeno adesso puoi comprare un po’ di quel cibo gourmet che
ti piace tanto», lo stuzzicai. «Ramen, prugne secche e Pop-Tarts.»
«Non tutti sono venuti su mangiando caviale da un cucchiaino d’argento,
bel faccino.»
Ridacchiai. «Cos’hai in programma oggi dopo la dialisi?»
«Probabilmente guarderò un po’ di tv. Questo pomeriggio tengono una
maratona di John Wayne nella sala attività.»
«Ah. Quindi un pisolino bello lungo, allora?»
Mi gettò addosso un asciugamano.
Il vero nome di Rip era Arthur Winkle. Ma l’avevano ribattezzato Rip per
via della sua tendenza a schiacciare sonnellini. Rip Van Winkle. Quell’uomo
si appisolava nel bel mezzo di conversazioni, durante la cena e,
inevitabilmente, davanti al televisore. Negava sempre di essersi
addormentato, affermando che stava solo «riposando gli occhi». Ogni volta
che i detenuti si riunivano per guardare qualcosa, si lagnavano tutti quando
partecipava anche Rip, perché avrebbe russato come un trattore nel giro di
dieci minuti dall’inizio del programma.
«A che ora arriva la signora tua amica, oggi?» chiese.
«Alle dieci.»
Rip sapeva tutto di Layla e me. Soprattutto perché non smettevo di parlare
di lei. Mai. I giorni della settimana erano in pratica un conto alla rovescia per
il weekend. E mentre i sabati erano sempre incredibili, le domeniche
facevano schifo perché ci voleva così tanto prima di rivederla. Mancavano
solo due settimane alla fine dei suoi sei mesi di servizi sociali, ed esitavo a
tirar fuori l’argomento perché mi sembrava sbagliato chiederle di continuare
a venire fin qui ogni settimana per farmi visita. Tuttavia, il pensiero di non
vederla per più di un anno, finché non fossi uscito, mi uccideva.
«Penso che scriverò una lettera a Katie e la ringrazierò per i soldi; poi le
spedirò tutte le lettere arretrate.»
Rip scriveva alla figlia tutte le settimane, puntuale come un orologio. Lei
non gli aveva risposto nemmeno una volta.
«Mi pare una buona idea.» Guardai l’ora, le dieci meno dieci, e presi la
mela che avevo tenuto dal pranzo del giorno prima per ingraziarmi la
maestra. «Sarà meglio che vada a lezione.»

«Dimmi qualcosa che odiavi della tua infanzia.»


Mi appoggiai allo schienale della sedia e incrociai le mani dietro la testa.
«Dimmi qualcosa» era diventato un rituale settimanale per Layla e me. Ogni
settimana uno faceva una domanda a caso all’altro. L’esperienza di voler
sapere tutto di una donna mi era sconosciuta.
Non fraintendetemi: non ero il tipo che andava agli appuntamenti e
parlava solo di sé. C’erano state conversazioni, ma per lo più superficiali:
lavoro, vacanze, roba così. Non avevo mai voluto sapere nulla dell’infanzia
di una donna. Non mi era mai passato per la testa di fare una domanda del
genere.
Ma volevo sapere tutto di Layla – ovvero, cosa motivava questa donna.
«I giovedì. Da piccola odiavo i giovedì.»
«Giornata di verifiche a scuola?»
«Macché. Era il giorno in cui ogni settimana mio padre partiva.»
Aveva accennato al fatto che non sentiva più suo padre, evitando però di
spiegarsi meglio. Avevamo soltanto qualche ora insieme alla settimana e non
volevo usare quel tempo per ficcare il naso in quelli che potevano essere
brutti ricordi, se lei non era pronta a condividerli.
«Ogni settimana? Divideva il suo tempo tra voi e il lavoro?»
«Divideva il tempo tra le sue famiglie.»
«Aveva un’ex moglie e altri figli?»
Lei abbassò lo sguardo e scosse la testa. «No, aveva moglie e figli. Noi ce
l’avevamo dal lunedì sera al giovedì mattina. La moglie e i figli avevano gli
altri quattro giorni, sulla costa occidentale.»
«Gesù. Quindi tua madre era la sua amante?»
«Già.»
«Quanto è durata?»
«Più di vent’anni. Finché mia madre è morta.»
«Che casino. E lei sapeva che era sposato?»
«Sì. E sua moglie sapeva che aveva un’altra donna. Tutti tranne me
sembravano non avere problemi con questo ménage. E ho cominciato a
pensare che fosse sbagliato solo da adolescente, perché, stranamente, il mio
era un padre fantastico. Anche se c’era per pochi giorni alla settimana,
passava più tempo con me di quanto non facessero gli altri padri che stavano
sempre a casa. Papà aveva semplicemente due famiglie e non ne parlavamo.
Ma crescendo, non riuscivo a capire come si potessero amare due persone e
come si potesse aver bisogno di due famiglie.»
«Era mormone?»
«Macché. Cattolico.»
«Be’, adesso capisco perché odiavi i giovedì.»
Layla sospirò. «Sei l’unica persona a saperlo, a parte la mia migliore
amica.»
La guardai negli occhi. «Ne sono onorato.»
Sorrise e poi si mise comoda. «Tocca a me.»
«Di sicuro qualsiasi cosa ti rivelerò adesso sembrerà banale.»
«Be’, penso che ci farebbe bene qualcosa di meno deprimente dopo questa
condivisione. Fammi pensare.» Si batté il dito sulle labbra.
Dio, quanto avrei voluto succhiarle.
«Dimmi l’ultima bugia che hai raccontato.»
«Facile. Ho mentito al mio compagno di cella qualche ora fa.»
«Rip?»
«Sì. Ho messo dei soldi sul suo conto dell’emporio e ho negato di averlo
fatto. Non accetta la carità.»
Sorrise. «Che cosa dolce.»
«Solo che adesso si è illuso che sia stata sua figlia.»
«Sono in cattivi rapporti?»
«Lei non gli parla dal suo arresto. Non è venuta a trovarlo neppure una
volta. Nessuno è venuto, per quanto ne so. Sua moglie è mancata qualche
anno fa.»
«Davvero triste.»
«Già. Rip è una brava persona. Molti sono finiti qui dentro per avidità. Lui
è dentro per altruismo.»
«Hai detto che realizzava e vendeva tessere della previdenza sociale. È in
prigione per contraffazione federale, giusto?»
«Già. Ha avuto una tipografia per quarant’anni. Una nipote si è ammalata
gravemente e aveva bisogno di cure mediche molto costose, così lui ha
cominciato a fabbricare tessere per un tizio che vendeva passaporti, patenti e
documenti falsi di ogni genere. Le mandava il denaro in forma anonima
perché lui non avrebbe mai avuto tutti quei soldi legalmente.»
«Però. E sua figlia non gli parla per questo?»
Annuii. «Le famiglie fanno cose assurde nella situazioni difficili.»
«Dillo a me.»
All’improvviso sentii il suo piede nudo sul polpaccio. Si era sfilata la
scarpa e mi aveva sollevato la gamba del pantalone – uno dei pochi contatti
che potevamo goderci senza le telecamere. Amavo il modo in cui le
brillavano gli occhi quando diceva o faceva qualcosa che non avrebbe
dovuto. Abbassai lo sguardo sul suo naso. L’avevo notato mentre stava
parlando ma non avevo detto niente.
«Oggi non ti sei coperta le lentiggini. L’hai fatto per me?»
Sorrise compiaciuta. «Forse. Ti piace?»
«Sono sexy da morire, ma la cosa che più mi eccita è che l’hai fatto per
me.»
Risalì con il piede lungo il polpaccio, strappandomi un gemito. «Me lo
farai venire duro con quel dannato piede sulla gamba.»
La luce nei suoi occhi danzò. «Be’, abbiamo un’altra ora prima della
lezione. Tanto vale approfittarne.»
Socchiusi gli occhi: non capivo che intenzioni avesse.
«Ricordi quando abbiamo fatto quel giochino in cui hai descritto come mi
avresti baciata?»
«Certo, Lentiggini. Sono poche le cose che dimentico delle tue visite.»
«Be’, cosa ne dici se lo rifacciamo, ma stavolta io descrivo come ti bacerei
sotto la cintura?»
11

Layla
«NON sai quanto ho bisogno di bere.»
«E io che pensavo che fossi passata a trovarmi per la mia personalità
affascinante.»
La mia migliore amica, Quinn, possedeva un bar a meno di quattro isolati
dallo studio. L’O’Malley era un pub appartenuto da sempre a suo padre.
Dopo che lui aveva deciso di trasferirsi in Florida qualche anno prima, Quinn
aveva continuato a gestirlo mentre il padre l’aveva messo in vendita. Sei mesi
dopo, lei aveva scoperto ciò che lui aveva amato fare per una vita intera e
aveva deciso di tenere quel locale per sé.
Per lo più, era un bar d’altri tempi. Ma era il posto perfetto per trattenersi
dopo il lavoro, senza giovani che dessero per scontato che una donna da sola
al bancone fosse in cerca di sesso. Era una fortuna che fossi lavoro-
dipendente, altrimenti avrei potuto tranquillamente trascorrere tutto il tempo
in quel locale e sviluppare un altro tipo di dipendenza.
Quinn prese due bicchierini e, da sotto il bancone, tirò fuori una bottiglia
di qualcosa. Non vedendo etichette, capii cosa stava cercando di rifilarmi.
Coprii con la mano il piccolo bicchiere. «Scordatelo. Ho avuto mal di testa
per una settimana dopo aver bevuto quella roba.»
«È una nuova partita.»
«L’hai fatta tu?»
Quinn sorrise orgogliosa. «Altroché.»
«Allora no, grazie.»
Dopo aver guardato troppi episodi di Moonshiners, Quinn aveva deciso di
essere in grado di fabbricarsi il liquore da sé. Ne era capace, solo che il
risultato era imbevibile e sapeva di solvente per smalto.
La mia amica mise il broncio e si versò un bicchierino; poi allungò la
mano verso la scorta privata del mio vino, che teneva dietro il bancone.
«Giornata piena in ufficio, tesoro? Aspetta, cominciamo con la roba buona.
Hai messo fine al periodo di magra e sei andata a letto con il nuovo ragazzo
con cui stai uscendo? Com’è che si chiama?»
Passai il dito sul bordo del bicchiere. «Oliver. E, no. Ma abbiamo un
appuntamento stasera. Viene qui tra un’ora.»
Inarcò un sopracciglio. «Non mi sembri troppo entusiasta all’idea.»
Quinn mi conosceva. Eravamo inseparabili dal 2 febbraio della quarta
elementare, il giorno in cui ero stata incaricata dal preside di presentare alla
classe la nuova bambina. Lei aveva le calze spaiate e teneva una rana toro nel
cestino del pranzo tutto crepato. Il panino al burro d’arachidi e gelatina era
schiacciato in fondo allo zaino in un sacchetto di carta marrone.
Sospirai. «Lo sono. Forse non tanto quanto dovrei, ma mi piace davvero
passare il tempo con Oliver.»
Appoggiò i gomiti sul bancone e il mento sulle mani. «Sputa il rospo.
Cosa succede? Eri tutta eccitata per il primo appuntamento con questo tizio
un mese fa. Aspetta… fammi indovinare. Alitosi? Non fa che parlare di sua
madre? Peluche sul lunotto posteriore?»
Risi. «Niente del genere. È solo… be’… diciamo che ho un nuovo
cliente.»
Gli occhi di Quinn si illuminarono. Aveva sposato il suo ragazzo del liceo
a diciannove anni, perciò viveva per interposta persona tramite me – non che
ci fosse stato qualcosa di eccitante da sentire nel corso dell’ultimo anno.
«Il cliente è un lui, giusto?»
Annuii.
«Be’, continua. Com’è?»
«È alto, ha incredibili occhi verdi, il tipo di colore che ti scalda in inverno
mentre arranchi nella neve perché ti ricorda che l’erba primaverile presto
crescerà di nuovo.»
Aggrottò la fronte e il suo sorriso si fece dubbioso. «È una descrizione
tremendamente elaborata. Continua.»
«Fisico da dio greco, corpo snello e muscoloso, avambracci da far venire
l’acquolina e sicurezza che trasuda da tutti i pori.»
Quinn emise un sospiro sognante e chiuse gli occhi. «Avambracci con le
vene?»
«Un po’. Abbastanza da farti capire che va in palestra ma non al punto da
dare l’impressione che infilargli una flebo provocherebbe l’eruzione di un
geyser.»
Aprì gli occhi. «Ho questa teoria. Dicono ‘mani grandi, uccello grande’.
Ma io penso che sia tutto negli avambracci. In pratica sono un sostituto
visivo: avambracci grossi e pieni di vene, oh Dio. Avambracci smilzi, già
finito?»
Risi. «Dovrò sacrificarmi e verificare la tua teoria.»
D’un tratto Quinn parve delusa. «È sposato? È questo il problema?»
«A dire la verità, si dà il caso che non lo sia.»
«Allora perché stasera ti vedi con Oliver e non con questo nuovo tizio?
Come si chiama?»
La guardai dritto negli occhi. «Grayson.»
«Grayson?» ripeté perplessa. «Come lo stronzo?»
Annuii adagio e aspettai, sapendo che ci sarebbe arrivata.
«Il tuo nuovo cliente è Gray?» esclamò sgranando gli occhi. «Quello della
prigione?»
Inclinai il bicchiere verso di lei a mo’ di conferma e bevvi un bel sorso.
«Proprio lui.»
Per tutta l’ora successiva, le feci il riassunto degli ultimi dieci giorni, da
quando Gray era ripiombato nella mia vita. C’era un sacco da raccontare: la
presentazione, la cena, i fiori, il viaggio… il suo matrimonio. Per fortuna
Quinn già conosceva il resto della nostra storia, quindi sapeva quanto mi
avesse devastata scoprire che era sposato e troncare la relazione. Perciò non
dovetti spiegarle come stava il mio cuore adesso, quanto fossi combattuta.
«Cosa è successo dopo il ritorno dal viaggio?»
«Niente», replicai abbattuta. «Non l’ho più sentito.»
Gray aveva mantenuto la parola e mi aveva lasciato spazio. Negli otto
giorni da che eravamo tornati, non l’avevo sentito, a parte un breve scambio
di email dopo che gli avevo inviato la bozza dell’accordo di partenariato.
E odiavo che una parte di me ne sentisse la mancanza.
Per lo meno questa settimana ero stata indaffarata. Avevo fatto tardi in
ufficio ogni sera perché il lavoro in programma prima che Grayson
Westbrook irrompesse di nuovo nella mia vita non era stato riassegnato, a
parte un’unica deposizione.
«Cos’hai intenzione di fare? Gli darai un’altra possibilità?»
«Non posso. Ho superato Gray. Ho voltato pagina.»
L’espressione di Quinn urlava: Stronzate. «Lascia che ti chieda una cosa.»
«Cosa?»
«Quand’è stata l’ultima volta che hai visto Oliver?»
«Intendi il nostro ultimo appuntamento?»
«No. Parlo di posare gli occhi su di lui. È stato oggi? Quattro giorni fa?
Quanto tempo?»
Oliver e io lavoravamo nello stesso ufficio, ma alcune settimane era una
fortuna se riuscivamo a pranzare insieme solo una volta e a parlare in
ascensore per tre minuti. «Be’, ieri sono stata fuori tutto il giorno per una
deposizione. Quindi giovedì, direi.» Feci una pausa. «No, aspetta. Lui
giovedì non c’era, doveva andare a una conferenza. Deve essere stato
mercoledì. O forse martedì. Abbiamo pranzato al ristorante greco uno di quei
giorni.»
Quinn mi riempì di nuovo il bicchiere. «E che mi dici di Gray? Quand’è
stata l’ultima volta che l’hai visto?»
«Una settimana fa, giovedì.»
«Sicura?»
«Certo. Giovedì mattina verso le nove e mezzo, per la precisione. Siamo
atterrati all’aeroporto. Dove diavolo vuoi arrivare?»
Posò la bottiglia di vino sul bancone e vi infilò il tappo. «Non hai superato
Gray. Ce l’hai ancora in testa.»
«Di cosa parli?»
«Quando sai esattamente quanto tempo è passato dall’ultima volta che hai
visto qualcuno, non l’hai dimenticato.»
«Ma è assurdo.»
«Ce l’ha il tuo numero di telefono?»
«Sì, è sul mio biglietto da visita. Tutti i miei clienti ce l’hanno. Ma non mi
ha mai chiamata.»
Un sorriso d’intesa si allargò sulla sua faccia. «Controlli se ci sono
chiamate perse o sms da parte sua prima di andare a letto?»
Serrai le labbra.
Lei mi prese le mani. «Va tutto bene, tesoro. Ci arriverai.»
Quinn andò dall’altro lato del bancone per servire un cliente. Appena
tornò, chiese: «Oliver ha i capelli biondo scuro e assomiglia a uno studente
carino troppo cresciuto?»
«Immagino di sì.»
Guardò dietro di me. «Allora penso che l’uomo che hai dimenticato stia
venendo qui.»
«Ehi.» Oliver mi prese il viso per un bacio tenero ma veloce.
Che ragazzo dolce. Mi voltai e lo presentai a Quinn proprio mentre notavo
l’arrivo di un sms sul mio cellulare. Scorto il nome che vi lampeggiava,
GRAY , lo agguantai e lanciai un’occhiata a Oliver per capire se anche lui
l’avesse visto. Non se n’era accorto.
Ma mentre lui sorrideva e parlava con Quinn, l’espressione compiaciuta
della mia amica mi disse che a lei non era sfuggito. Gettai il telefono nella
borsa e mi ripromisi di ignorarlo per tutta la serata.
Restammo a chiacchierare con Quinn mentre io finivo il vino e Oliver
beveva una birra. Dopo una ventina di minuti, lui guardò l’ora.
«Mi dispiace. Non avevo capito che la tua amica lavorasse qui. Pensavo
che avremmo bevuto giusto qualcosa, così ho prenotato un tavolo per le otto
alla Gramercy Tavern.»
Quinn fischiò. «La Gramercy Tavern. Elegante. Andate. Divertitevi. E
comunque devo tornare al lavoro.»
Oliver tirò fuori dalla tasca qualche banconota per pagare i drink. Prima
che potesse posarle sul bancone, lei alzò la mano.
«Qui Layla non paga, e neanche i suoi ospiti.»
Lui le rivolse un sorriso cordiale. «Grazie.»
Mi protesi sul bancone per baciare la mia amica sulla guancia. «Ci
vediamo venerdì prossimo a cena, giusto?»
«Sì. Potrebbero esserci maccheroni al formaggio, a meno che Brian non
torni presto dal lavoro. La tua figlioccia ha intenzione di metterti lo smalto
alle unghie. Il che vuol dire che lo smalto finirà anche su gran parte delle dita.
Perciò forse è il caso che tu prenda appuntamento per una manicure sabato.»
«Va bene. Grazie per l’avvertimento», risi.
Oliver salutò Quinn con una stretta di mano. «È stato un piacere
conoscerti.»
«Altrettanto.» Mentre si stringevano la mano, lei usò l’altra per tirargli su
la manica della giacca, scoprendogli l’avambraccio.
Oliver apparve giustamente confuso ma si lasciò comunque esaminare il
braccio.
«Oh», scosse la testa lei, «scusa. Pensavo di aver visto spuntare un
tatuaggio. Stavo ficcanasando.»
Sempre sportivo, Oliver sorrise. «Macché. Non ho tatuaggi.»
Quando il mio accompagnatore si voltò verso la porta, fulminai la mia
amica con un’occhiataccia. Entrambe sapevamo esattamente cosa aveva fatto.
Ma, nel caso non mi fossi fatta un’idea chiara, lei unì pollice e indice
formando un minuscolo cerchio e articolò: «Avambracci smilzi».

Quel dannato messaggio stava risucchiando tutta la mia capacità di


concentrazione. Ero convinta che il cellulare sarebbe stato incandescente se
l’avessi tirato fuori dalla borsa. Era il passato che continuava a tormentarmi.
E, al tempo stesso, il fatto che mi distraesse era motivo di rabbia, che avevo
bisogno di scrollarmi di dosso. Perché più lasciavo che il passato si
impadronisse del mio cuore, più sentivo di non avere spazio per il futuro.
Tra il telefono che mi ossessionava e la consapevolezza che quello era il
mio terzo appuntamento ufficiale con Oliver, mi sentivo sulle spine.
Avrei voluto lanciarmi a capofitto nella serata e dimenticare tutto fuorché
quel ragazzo così dolce. Ma quando riuscivo a concentrarmi su Oliver, non
facevo che pensare al fatto che mi avesse invitata a casa sua a guardare un
film dopo cena: a mio parere, una velata richiesta di sesso.
In genere non ero una facile. Avevo avuto un paio di storie da una notte e
via all’università, rendendomi subito conto che non facevano per me. E anche
se il terzo appuntamento poteva essere quel momento in cui le coppie
andavano a letto, spesso per me ci voleva più tempo. Avevo bisogno di
conoscere l’altra persona e creare un rapporto di fiducia, cosa che non mi
riusciva facile. Ma conoscevo Oliver ormai da anni, perciò il terzo
appuntamento aveva la scioltezza che a volte veniva solo dopo sei mesi di
frequentazione.
Fra la trepidazione di cosa sarebbe successo poi, il messaggio che
aspettava di essere letto e quello che ci eravamo dette prima con Quinn,
l’atmosfera a cena aveva un che di imbarazzante. Doveva essersene accorto
anche Oliver. La conversazione languiva e le pause sembravano sempre più
lunghe. Le cose tra noi erano sempre state spontanee. Eppure, d’un tratto, era
come se avessi aperto il cassetto delle cianfrusaglie nel mio cervello e stessi
tirando fuori roba inutile a casaccio.
«Allora… quale musicista trovi che sia il più sopravvalutato?»
Oliver mi scoccò un’occhiata confusa. «Musicista?»
Sorseggiai il cappuccino di fine pasto che la cameriera aveva appena
portato e annuii.
«Direi Blake Shelton.»
Altro silenzio.
«Hai visto qualche bel film di recente?»
Oliver posò il caffè che aveva in mano. «È tutto a posto, Layla?»
«Sì, perché?» risposi troppo in fretta per aver dato alla domanda il giusto
peso.
«Non lo so. Sembri… agitata. Nervosa, quasi. Va tutto bene al lavoro?»
«Sì, tutto bene.»
«È solo… le tue domande, anche se non sono domande insolite di per sé…
come quella sui film che ho visto di recente… sono…» Oliver si interruppe.
Poi la sua espressione corrucciata si allentò, sostituita da una sorta di
illuminazione. «Film… Venire da me dopo cena ti mette forse a disagio?»
Oliver era un avvocato dannatamente bravo. Inoltre, il suo lavoro l’aveva
abituato a seguire il filo dei pensieri dell’altra persona. E lo stesso valeva per
me. Aveva dedotto che ero agitata per la serata. E non aveva tutti i torti.
Decisi di essere onesta. «Non sono ancora pronta a fare sesso con te»,
dichiarai tutto d’un fiato.
Oliver bevve un sorso di caffè. «Neanch’io sono ancora pronto a fare
sesso con te.»
Sgranai gli occhi. «No?»
Sorrise imbarazzato. «Mentirei se ti dicessi che non spero che le cose
progrediscano in tal senso. Ma ho davvero noleggiato dei film che pensavo
potessero piacerti.»
«Scusa», replicai con un sorriso triste.
«Nessun problema. È tutto a posto.» Mi prese la mano. «Mi piace la tua
compagnia, Layla. Non importa quanto ci vorrà.»
Mi sentii molto più rilassata dopo quel chiarimento. E gustai perfino il
dolce che ci dividemmo. Fuori dal ristorante, Oliver consegnò la ricevuta
all’addetto al parcheggio e mi prese le mani. «Vuoi venire da me per quel
film? E, con film, intendo film.» Sorrise.
Avrei voluto che il mio cuore fosse più partecipe. «Possiamo fare un’altra
volta? A dire la verità, sono parecchio stanca.»
«Senz’altro.» Tentò di dissimulare la delusione, ma la vidi comunque.
«Lascia almeno che ti dia un passaggio a casa.»
Oliver viveva a Westchester, mentre io abitavo in città, nella direzione
opposta. Tuttavia, sentivo di averlo già offeso abbastanza per quella sera.
«Certo. Sarebbe fantastico. Grazie.»

Finalmente potevo grattarmi quel dannato prurito. Ma prima mi versai un


grosso bicchiere di merlot, mi sbarazzai di vestito e reggiseno a favore di un
comodo pantalone della tuta e di una maglietta lisa, e misi su della musica
rilassante. Sprofondando nel divano, presi il cellulare e digitai la password
per leggere finalmente il messaggio che Gray mi aveva mandato ore prima. Il
mio patetico cuore accelerò solo nel vedere il suo nome illuminarsi.
Buttai giù un bel sorso di vino e mi accinsi a leggere la lunga serie di
messaggi.

GRAY : Ciao. Scusa il disturbo. A meno che tu non abbia un


appuntamento. In tal caso, ritiro le scuse.

Qualche minuto dopo, era arrivato un altro sms.

GRAY : Forse sto esagerando con questa faccenda della sincerità. Ok,
ricomincio. Oggi Etta si è di nuovo cacciata nei guai con la polizia.
Una multa per eccesso di velocità e guida senza patente. Mi ha anche
confessato che era la seconda. E secondo Google ormai è diventato un
reato. Le ho detto che non ti occupavi di queste cose ma non ha
voluto che chiamassi nessun altro. Non è che potresti almeno
parlarle? Fammi uno squillo.
Merda.

Non potevo lasciare che Etta risentisse della situazione tra me e Gray. Non
sarebbe stato giusto. Quindi dovevo chiamarlo.
Per lo meno è così che giustificai il dito che indugiava sul suo nome,
combattuta se rispondergli alle undici di venerdì sera.
12

Gray
LA mia serata era stata caratterizzata dalla consegna di un materasso nuovo e
dal controllo ossessivo di messaggi in arrivo sul cellulare.
Avevo appena passato tre anni costretto in un posto dal quale non potevo
andarmene, senza donne e mangiando da schifo. Ed eccomi qui, di venerdì
sera, a mangiare cibo cinese scadente tutto solo nel mio appartamento.
Dopo aver controllato il telefono per l’ennesima volta, lo gettai sul divano
e sbuffai frustrato.
Avrei dovuto essere in qualche bar, a rimorchiare una donna che voleva
soltanto qualcosa di duro tra le gambe. E invece me ne ero rimasto a casa,
fedele a una donna che molto probabilmente era a un fottuto appuntamento.
Layla Hutton.
Una parte di me pensava che forse quell’ossessione sarebbe svanita una
volta che fossi riuscito a vederla e a dirle la mia, dopo un anno trascorso a
ricordare com’era fatta e che profumo aveva.
Non ero stato così fortunato. Quella donna mi era entrata dentro e non
riuscivo a scrollarla via… a differenza della mia ex; stavo appunto gettando
la macchina per il caffè Breville da duemila dollari di Max in una scatola per
darla in beneficenza.
Dopo tre anni di assenza, mi ero aspettato di trovare vuoto l’appartamento
che possedevo e dividevo con Max. Ma era l’esatto contrario. Lei aveva
lasciato tutto quello che c’era dentro quando avevo iniziato a scontare la
pena. Perfino i suoi vestiti erano ancora nell’armadio. Anche se, con la
quantità di denaro che aveva sottratto, ero sicuro che potesse ricominciare
daccapo la collezione di beni di lusso.
Visto che il mio pomeriggio era stato leggero, avevo deciso di imbarcarmi
in un’opera di pulizia: in pratica, sbarazzarmi di tutta la sua roba. Non mi
importava se fosse nuova o riutilizzabile. Volevo che tutto ciò che aveva
portato nella mia vita sparisse.
Il corridoio del mio attico era ingombro di scatole e sacchetti per le
donazioni.
Scarpe Prada.
Borse Hermes.
Occhiali da sole Cartier.
Max aveva gusti costosi. Probabilmente stavo donando cinquantamila
dollari di roba pagata più del dovuto. Ma l’epurazione di quanto restava della
mia vita con lei valeva qualsiasi prezzo.
Gettando via un mixer Kitchen Aid che aveva comprato e mai usato, mi
guardai attorno nell’appartamento semivuoto. Fuori il vecchio, dentro il
nuovo. A parte il materasso appena consegnato, non c’era molto che avessi
urgenza di sostituire.
Non sapevo se fosse stata Max a scegliere la bottiglia di scotch
invecchiato trent’anni sulla quale avevo messo gli occhi, ma, ehi! me ne sarei
sbarazzato quella sera… una volta vuota.
Mi sedetti sulla mia poltrona di pelle preferita, vecchia e consumata,
messa di fronte a un divano di design, e sorseggiai il liquore mentre
osservavo la città. Il mio appartamento a Tribeca aveva il soggiorno
affacciato su Manhattan e una vista sul fiume Hudson dalla camera da letto.
La città era buia ma lo skyline netto e luminoso illuminava la sera. Più
restavo lì a guardare, più mi scoprivo a chiedermi dove fosse Layla in quel
momento.
Non ero così stupido da pensare che riconquistarla sarebbe stato rapido e
facile. Ma il pensiero di lei là fuori con un altro non era una cosa che sarei
riuscito a gestire ancora per molto. Anche se non potevo averla, dovevo
trovare un modo per assicurami che non l’avesse nessun altro.
Il telefono vibrò sul divano. Guardando l’ora, vidi che erano passate da
poco le undici, così pensai che fosse uno dei miei soci. Entrambi vivevano
sulla costa occidentale e non dormivano mai.
Ma un piccolo raggio di sole sbucò dall’orizzonte buio nel momento in cui
scorsi il nome di Layla sul display.

LAYLA : Mi dispiace per Etta. Certo che la aiuterò.


Feci tintinnare il ghiaccio nel bicchiere, pensando a una risposta. Avevo
fatto bene a non contattarla ultimamente, dandole spazio per capire da sola
che tra noi non era finita. Anche se la situazione di Etta non mi rendeva di
certo felice, solamente vedere l’sms di Layla fu un sollievo: non aveva deciso
di tagliare del tutto i ponti.

GRAY : Grazie.

Non potei fare a meno di inviargliene un altro.

GRAY : È tardi. Appena rientrata?


LAYLA : Sì.
GRAY : Appuntamento?

Guardai i puntini saltellare, poi fermarsi e infine ricominciare.

LAYLA : Non che la cosa ti riguardi, ma sì. Ero fuori con Oliver.

Il pensiero di lei con un altro avrebbe dovuto mandarmi in bestia, invece


sorrisi e vuotai quanto restava dello scotch.
Niente pigiama party. Brava la mia ragazza.
Risposi.

GRAY : Neanche io ho scopato di recente.

Layla andò in silenzio radio per cinque minuti buoni. Forse mi ero spinto
troppo oltre. Scherzare con i messaggi non è lo stesso che farlo di persona.
Mi passai le mani tra i capelli e ne scrissi un altro.

GRAY : Scusa. Stavo facendo il cretino.

Trascorsero altri dieci minuti, ma stavolta vidi i puntini saltellare e


fermarsi. Saltellare e fermarsi. Saltellare e fermarsi. Si capiva che aveva
qualcosa in mente ed era restia a condividerlo con me. Stavo per scriverle di
nuovo quando arrivò la risposta.
LAYLA : Mi stai rovinando la possibilità di avere un rapporto piacevole
e normale.

Merda.
Feci per rispondere ma ci ripensai. Premetti il tasto di chiamata. Lei
rispose al primo squillo.
«Ehi», espirò.
Una sola parola e capii che era più scombussolata che arrabbiata. Dovevo
andarci cauto.
«Mi è mancata la tua voce.»
«Ti è mancata dopo una settimana?» commentò. «Non l’hai sentita per un
anno intero e te la sei cavata benone.»
Misi i piedi nudi sul tavolino da caffè davanti a me. «Ma io la sentivo la
tua voce. Rileggevo le tue lettere ogni giorno. Ormai alcune le so a memoria.
Nella mia testa, sentivo la tua voce dire tutte le cose che avevi scritto.»
«Forse dovresti riesumarle, se ancora le hai. Puoi usarle quando senti il
bisogno di sentirmi, invece di chiamarmi.»
Ridacchiai. «Erano solo un sostituto, poiché era fisicamente impossibile
avere l’originale.»
«È ancora fisicamente impossibile.» Sentii il sorriso nella sua voce.
«Affatto. Basta che tu lo dica e sarò alla tua porta in venti minuti.»
Tacque, così la provocai. «Se ci stai pensando, arrivo subito, così non
perdiamo tempo nel caso remoto in cui tu decida per il sì.»
Non mi aspettavo la confessione che venne poi. «Non faccio sesso da
prima di conoscerti.»
«Perché?»
Non parlò per qualche momento, mentre le mie speranze correvano
sfrenate. Poi: «Non volevo farlo».
«Perché vuoi farlo con me?»
«No. Non voglio farlo con te.»
«Non vuoi o non vuoi desiderarlo? C’è una grossa differenza, Lentiggini.»
Altro silenzio. «Non voglio desiderarlo. Non voglio neanche desiderare di
parlare con te.»
Sentire quelle parole mi fece un male d’inferno. Ma era comprensibile che
avesse paura. Dovevo riconquistarmi la sua fiducia.
«Se ti fa sentire meglio», rivelai, «neanch’io ho fatto sesso dopo che ti ho
conosciuta.»
Dal suo tono, immaginai l’espressione spazientita. «Povero piccino. Sei
libero da tre settimane e non riesci a trovare nessuna che soddisfi i tuoi
bisogni?»
«Non illuderti. Non ho alcuna difficoltà a trovare un bel culo. Ma ce n’è
solo uno che voglio ed è il tuo.»
La sentii respirare, così seppi che non aveva riattaccato. Cazzo. Tanto vale
rischiare il tutto per tutto. Non pensavo che questa conversazione sarebbe
avvenuta nell’immediato futuro. A volte devi spingere la porta e correre
dentro prima che ti venga sbattuta in faccia.
«Vieni a cena con me? Anche a pranzo. Colazione? Accetterò tutto ciò che
sei disposta a darmi.»
«Non lo so, Gray.» Divenne di nuovo silenziosa. «Devo andare. Mandami
il numero di Etta, la chiamo domattina.»
«Buonanotte, bellissima.»
Aspettai che riattaccasse, poi abbassai il telefono. «Non ha detto di no»,
mormorai. Progressi.

«Pronto?»
Mi rotolai sulla schiena con il telefono premuto all’orecchio. La luce del
mattino si riversava dal piccolo spazio lasciato dalle tende a cui mancava una
stecca. Il che mi ricordò che dovevo gettare anche quella roba. La stecca era
caduta la prima notte in cui la mia sposa e io eravamo tornati dalla
Repubblica Dominicana, quando una sessione di sesso ubriaco si era svolta
con lei premuta contro la finestra.
«Non dirmi che sei ancora a letto, ragazzo. Hai appena sprecato tre anni
della tua vita. Dovresti essere in piedi alle prime luci, bramoso di fare cose.»
Etta.
Mi sfregai gli occhi assonnati. «Che ore sono?»
«Le sette del mattino passate.»
«Potrebbero essere anche le quattro del pomeriggio, Etta. Che ne dici di
essere più precisa?»
Mi ignorò. «Sei libero più tardi?»
«Se più tardi significa ore dopo le sette del mattino, sì.»
«La serratura della mia porta non funziona.»
Mi tirai su a sedere. «Okay. Dammi qualche minuto e arrivo.»
«No, no. Ho chiuso quella principale e il mio quartiere è ancora sicuro. Le
ragazze vengono a giocare a mahjong oggi. Perché non vieni verso le
quattro? Ti preparo la tua cena preferita.»
Mi venne l’acquolina. «Gumbo?»
«E crostata di pesche se passi al negozio e mi prendi qualcosa.»
«Rapinerò un negozio se mi prepari il gumbo e la crostata di pesche,
Etta.»
«Insomma… Penso sia un po’ presto per questo tipo di battute visto che
sei appena uscito dalla gattabuia. Non si sa mai chi potrebbe spiare i telefoni
di questi tempi.»
Risi. «Cosa ti serve?»
«Del vino. Rosso.»
«Tu odi il vino.»
«Be’, mi è presa una voglia matta e non mi districherei nel reparto vini di
un negozio di alcolici.»
«Nessun problema. Ti prendo qualcosa lungo la strada.»
«Ci vediamo nel pomeriggio.»
Visto che mi ero alzato presto, immaginai che Etta avesse ragione. Negli
ultimi tre anni c’erano state cose per fare le quali avrei dato tutto. Eppure,
adesso che potevo, non avevo fatto alcun tentativo di apprezzare
l’opportunità che mi si presentava.
Così sollevai le mie pigre chiappe dal comodo materasso nuovo e
cominciai la giornata con una lunga corsa a Central Park. Poi andai al canile.
Per via della sua allergia, avevo dovuto dare in adozione il mio cane il giorno
che Max era venuta a stare da me. Mi sentivo ancora in colpa per questo,
anche se avevo fatto ricerche approfondite sulla coppia che l’aveva adottato.
Ripensandoci, avrei dovuto tenere il cane e sbarazzarmi di Max.

«Già, amico. So cosa provi.» Infilai le dita nella gabbia per accarezzare
uno strano incrocio di basset hound e… qualcosa.
«Signore, la prego, non metta le mani dentro. Alcuni cani diventano
aggressivi quando sono in gabbia. Se vuole conoscere qualcuno dei nostri
animali, lo dica pure a uno dei volontari in camicia blu.»
«Va bene, mi scusi.»
Tirai via le dita. Aggressivi quando sono in gabbia, eh? Ne so qualcosa. A
quanto pare, voi ragazzi non avete una palestra in cui sfogarvi. E neanche un
campo di bocce.
Continuai a camminare. C’era una vagonata di gabbie, ciascuna con un
cartellino informativo appeso in cima.
POLLY. ETÀ: DUE ANNI. RAZZA: INCROCIO TERRIER. Se ne stava in fondo
alla gabbia. Le dissi ciao e passai oltre.
BUSTER. ETÀ : DODICI ANNI. INCROCIO CARLINO/PECHINESE.
«Ehi, amico», chiamai. Non parve colpito dal mio saluto.
SNOWY. ETÀ: OTTO SETTIMANE. Un incrocio di Staffordshire bull terrier.
«Sei adorabile, cazzo. Tempo qualche giorno e una ragazzina darà il
tormento a suo padre per portarti a casa. Non hai bisogno di me.»
Snowy sollevò il naso come se ne fosse consapevole.
Superai altre due file di gabbie, alla ricerca del mio cane. Nessuno saltò
verso di me, finché raggiunsi l’ultima gabbia in fondo all’ultima fila. A
differenza delle altre, non c’era nessun cartellino con le informazioni. Mi
accovacciai per guardare dentro e mi accolse il più sporco dei musi. Era
disteso su una scarpa e sollevò il mento nel gesto universale dei ragazzi che
diceva: Come butta?
Ricambiai. «Che diavolo ti è successo, amico?» Pensai che potesse esserci
uno springer spaniel sotto tutto quel fango incrostato.
Fermai una volontaria che passava di là. «Cos’è successo a questo tipo?»
«È arrivato oggi. Quello è il suo aspetto dopo il bagno. Triste storia. Era il
cane di un vecchio signore che viveva solo. Il padrone è morto in casa mentre
travasava delle piante e questo piccolino ha abbaiato per giorni senza che
nessuno lo sentisse. Non aveva cibo, così ha masticato un flacone di colla e in
qualche modo gli è finita tutta addosso. Poi deve essersi rotolato nella terra
dei vasi, impiastricciandosi. Adesso ha pelle e peli incrostati. Per oggi non
vogliamo infastidirlo troppo, visto che è appena arrivato. Domani lo
raderemo e cercheremo di levargli il resto.»
«Può tirarlo fuori dalla gabbia per me?»
La donna mi guardò interdetta. «Vuole che metta questo sudicione in un
recinto per le visite?»
Sorrisi. «Perché no? Sono appena tornato da una corsa. Anche lui potrebbe
essere disgustato dal mio aspetto e dal mio odore.»
Io e Faccia di Fango ci dirigemmo verso una delle stanze private dove chi
era intenzionato ad adottare poteva giocare con i cani e fare conoscenza. La
volontaria portò il mocassino e lo posò accanto a lui.
«Come mai quella vecchia scarpa?»
«Era del suo padrone. Ringhia se qualcuno di noi prova a portargliela via.
Ma, a parte quello, è davvero adorabile. Pensiamo che vi sia attaccato perché
gli manca il padrone.»
Mi accovacciai e allungai la mano perché la fiutasse. Faccia di Fango fece
un passo e si protese per annusarmi. Per non spaventarlo, pensai di lasciargli
tutto il tempo che voleva. Solo che Faccia di Fango aveva altri piani. Dopo
una ventina di secondi, tirò indietro la testa e la inclinò, studiandomi. Poi,
all’improvviso, si lanciò alla carica, mandandomi a finire a terra, e cominciò
a leccarmi la faccia.
Scoppiai a ridere. «Accidenti, cane. Il tuo alito è pessimo quasi quanto il
tuo aspetto.»
Rimase sulle zampe posteriori, poggiando quelle anteriori sulle mie spalle
e continuando a leccarmi.
«No.» La volontaria che ci aveva accompagnati lì dentro si alzò da
dov’era seduta a giocare con il cellulare. Tirò il collare del cane. «No,
Lentiggini.»
La guardai. «Come ha detto?»
«Sto cercando di levarglielo di dosso.»
«Sì, ma cosa ha detto?»
«Ho detto: ‘No, Lentiggini’.»
«Lentiggini?»
«È il suo nome. Se guarda attentamente, sepolta sotto quel pasticcio di
fango e colla, sul naso bianco c’è una spruzzata di puntini marroni.» Alzò le
spalle. «Sembrano lentiggini. Probabilmente è per questo che il suo padrone
l’ha chiamato così.»
Guardai il cane con più attenzione. In effetti, c’erano delle macchie sotto a
quel pasticcio. «Lentiggini, eh?»
Lui rispose dandomi un’altra leccata.
«E va bene, amico. Dopo questa, non posso non prenderti.» Mi rivolsi alla
volontaria: «Voglio adottare Lentiggini».

Mi trattenni dal fischiettare quando suonai al campanello di Etta. Era una


bellissima giornata di primavera, l’indomani sarei andato a prendere il mio
nuovo amichetto al canile, Etta mi stava preparando gumbo e crostata di
pesche e Layla non aveva detto no a un pranzo o una cena con me. Cos’altro
potevo chiedere?
La porta si aprì e la domanda ebbe subito risposta. Era stata una giornata
dannatamente bella, ma la prospettiva che migliorasse ulteriormente era
cresciuta in modo esponenziale.
Perché era stata Layla ad aprire la porta di Etta.
13

Layla
«COSA ci fai qui?» chiesi in tono accusatorio.
«Etta mi ha pregato di venire a ripararle la serratura della porta», rispose
Gray.
«Voleva parlarmi delle sue multe. Ha detto che trovava difficile girare
senza auto e mi ha domandato se potevo passare da lei nel pomeriggio.» Lo
guardai diffidente. «Sei stato tu a convincerla, vero?»
Alzò una mano a mo’ di giuramento. «Non avevo idea che tu fossi qui. Lo
giuro.» Poi parve giungere a una conclusione. Posò i sacchetti che reggeva,
insieme a una piccola cassetta per gli attrezzi. «Fammi dare un’occhiata alla
serratura.»
Gray si inginocchiò e scosse un paio di volte la maniglia. Il chiavistello
entrò e uscì. Sembrava funzionare bene. Poi infilò un cacciavite nella toppa
dall’altro lato dello stipite e qualcosa saltò fuori.
«Che roba è?» chiesi.
Raccolse l’oggetto da terra e cominciò a spiegarlo. «A quanto pare, una
scatola di cerini vuota e accartocciata impediva alla serratura di chiudersi
come si deve.»
«Una scatola di cerini?»
«Già. Penso che siamo stati raggirati entrambi.» Gray chiuse la cassetta
degli attrezzi e si alzò, afferrando anche gli altri sacchetti che aveva con sé.
«Mi ha anche pregato di portarle del vino rosso, anche se il vino non le è mai
piaciuto. Ha detto che ne aveva una voglia matta.»
«A me ha domandato che tipo di vino mi piacesse. Ho risposto quello
rosso.»
«Chi è alla porta, Layla?» domandò Etta dal piano di sopra.
Se mai avevo dubitato di Gray, il tono di Etta confermò che era stata lei ad
architettare quella serata. Era di qualche ottava più alto e quasi cantilenante.
Sapevo che se la stava ridendo.
Gray scosse la testa e alzò gli occhi al cielo. «Sono io, Etta. Sto
controllando la tua serratura.» Poi abbassò la voce rivolgendosi a me.
«Perdonala. È animata da buone intenzioni.»
Nel muro impenetrabile che avevo eretto intorno al cuore si aprì
un’impercettibile crepa per il fatto che Gray si fosse scusato per Etta e ne
avesse preso le difese, invece di chiederle conto delle sue piccole bugie. Non
l’avrebbe messa in imbarazzo. Che cosa dolce. Dannazione.
«Oh, ma è fantastico», esclamò Etta. «Ho appena fatto il gumbo. Layla ha
acconsentito a restare a cena. Dovresti farlo anche tu.»
L’espressione di Gray si fece seria. «È un problema per te?» mi chiese
sottovoce.
Il mio stomaco fece una piccola danza ma il cervello non vi prese parte.
«No, affatto.»
«Dopo di te», disse indicandomi le scale con la mano libera.
La faccia di Etta si illuminò all’ingresso di Gray in cucina. «Zippy. Grazie
per essere venuto in mio soccorso.»
Lui sorrise e pescò dalla tasca la scatoletta di cerini che lei aveva infilato
nella serratura. Tenendola nel palmo della mano, annunciò: «La porta è a
posto». Mi strizzò l’occhio. «Il vento ci avrà fatto entrare qualcosa, che è
rimasto incastrato.»
Etta si dedicò al forno. «Ottimo. È meraviglioso. Adesso possiamo
metterci seduti e cenare con un po’ di anticipo. Lo sapevi che il gumbo è
anche uno dei piatti preferiti di Layla?»
Gray intercettò il mio sguardo. «Sì. Le piacciono anche le escargot. Ma su
quelle non mi troverà d’accordo.»
Cominciavo a pensare che non stesse esagerando quando aveva detto di
rammentare tutto del tempo trascorso insieme.
«Se non ricordo male», intervenni, «nella lista dei cibi preferiti di Gray c’è
la pasta ad anellini con i baby wurstel. Perciò penso che dovremo accettare di
non essere d’accordo sui piatti preferiti.»
Etta posò una crostata di pesche sui fornelli e si sfilò i guanti da forno.
«Per lui il massimo è grigliare il wurstel, farlo a fettine sottili e aggiungerlo a
un barattolo di anellini. Ti ha mai raccontato di quella volta che li ha
preparati al suo amico Percy mentre io ero al supermercato?»
Gray prese l’apribottiglie da un cassetto e il vino che aveva portato. «Se
dobbiamo condividere le storie della mia infanzia, penso che avrò bisogno di
questo.»
Etta mi prese per un braccio. «Vieni, tesoro. Andiamo a sederci in
soggiorno mentre ci porta un po’ di vino. A proposito, prima di arrivare alla
storia dei wurstel e che me ne dimentichi, lascia che ti racconti in che modo
ha chiamato per anni il suo miglior amico Percy per via di un piccolo difetto
di pronuncia.»
Gray gemette e sbatté la bottiglia sul tavolo, mugugnando sottovoce:
«Cazzo».
«Il povero piccino non riusciva ad articolare la R, perciò ne usciva una
specie di ‘uuh’. Era carino, solo che Percy è diventato una parola che le
signore di solito non nominano.» Ridacchiò. «La cosa buffa è che si dà il
caso che avesse ragione. Crescendo, quel Percy è diventato una
femminuccia.»
Etta e io andammo a sederci insieme in soggiorno, poi Gray ci raggiunse
con due bicchieri di vino e un drink che aveva preso per Etta senza bisogno di
chiederle cosa volesse. Lei mi raccontò un aneddoto dopo l’altro sul giovane
Gray, tutti imbarazzanti dal primo all’ultimo, fino a farmi piangere dalle
risate.
«Oh, mio Dio», risi. «Basta. Non riesco neanche a bere un sorso di vino
per timore che mi esca dal naso e le macchi il divano.»
Gray scosse la testa ma non se l’era presa. Avevo la sensazione che niente
di ciò che Etta potesse dire o fare sarebbe riuscito a farlo arrabbiare con lei.
«Secondo me è il caso di riempire di gumbo la bocca di Etta, così almeno
starà zitta per un po’.»
«Oh, Zippy. Ci stiamo solo divertendo. Non ti sto mica mettendo in
imbarazzo, vero?»
L’uso di quel soprannome mi fece pensare che ancora non ne conoscevo
l’origine. Bevvi un sorso di vino, il mio secondo bicchiere era già quasi
vuoto, e chiesi: «Da dove deriva questo soprannome, Etta? Perché lo chiama
Zippy?»
«Merda», bofonchiò lui.
Ormai Gray aveva rinunciato al tentativo di far tacere Etta pronunciandone
il nome in tono minaccioso e scoccandole occhiatacce. Si preparò a quanto
stava per arrivare.
Lo sguardo di lei era divertito. «Era l’estate tra l’asilo e la prima
elementare. Davvero rovente, ma Gray non era tipo da giocare in casa con
l’aria condizionata, anche se fuori c’erano trentacinque gradi. Così il sudore
gli provocò un’infiammazione.» Si protese e aggiunse sottovoce: «Ai
testicoli».
Mi coprii la bocca e mi sforzai di non ridere. «Oh, mio Dio.»
«Perciò quella divenne nota come ‘estate smutandata’. Gray diceva che
stava più fresco senza biancheria e Dio sa quanto prurito avesse là sotto, così
non insistei. Andò tutto bene fino all’incidente della zip.»
La risata che avevo cercato di trattenere esplose e a quel punto Etta
scoppiò a ridere insieme a me. Fu costretta a raccontare il resto della storia tra
gli attacchi di risa.
«Si stava infilando un paio di jeans e un pezzettino di pelle della terza
gamba rimase incastrato. Ci misi sopra un cerotto. Non sanguinava troppo.
Per fortuna, a quell’età non sempre il sangue scorre verso sud. Quell’episodio
segnò la fine dell’estate smutandata.»
Gray si dimostrò davvero sportivo. Guardò noi due ridere a sue spese e si
protese per riempirmi il bicchiere.
«Continua a bere. Magari domani non ricorderai niente di tutto questo.»
Mi asciugai le lacrime dagli occhi. «Non credo proprio, Zippy.»
Si alzò, prendendo la bottiglia di vino ormai vuota, e mi osservò mentre si
rivolgeva a Etta. «Non è proprio una cosa che avrei voluto sentirti ripetere,
Etta, ma te l’ho già sentita raccontare e ti è sfuggita una parte che ritengo
essenziale per ristabilire la mia virilità dopo l’ultima mezz’ora.»
Dapprima Etta aggrottò la fronte e poi ghignò. «Probabilmente gli è
rimasta una piccola cicatrice. Ma, per Giove, il ragazzo aveva un cannone
parecchio grosso per essere un piccoletto.»
Fissai Gray, che sfoggiava un sorriso malizioso. Imbarazzata, distolsi lo
sguardo e, visto che lui era in piedi, mi ritrovai faccia a faccia con l’oggetto
della nostra conversazione. Indossava un paio di jeans con la zip, ma fu il
rigonfiamento ad attirare la mia attenzione.
Mi alzai di scatto e gli tolsi di mano la bottiglia vuota. «Vado a buttare
questa.»
Bisognosa di un minuto in solitudine, rimasi a guardare fuori dalla finestra
sopra il lavello della cucina. Ero così immersa nei pensieri che non sentii il
rumore dei passi nella stanza. Ma mi accorsi decisamente del corpo vicino a
me.
Non mi voltai, intanto Gray cominciò a parlare. La sua voce era bassa. «A
Otisville dovevo mangiare a un orario prestabilito, fare la doccia a un orario
prestabilito e non ho potuto lasciare quel vecchio palazzo grigio per tre anni.
Eppure, quello che mi faceva sentire imprigionato più di ogni altra cosa, era
non poterti toccare come volevo quando eri vicina a me. E non intendo che
volessi palparti né niente di sessuale. Volevo solo mettere la mano sulla tua
se tergiversavi dopo che la guardia ti aveva avvisato che era ora di andare,
sfregare il pollice sul tuo braccio per avere la tua attenzione nel momento in
cui distoglievi lo sguardo da me se avevo detto qualcosa che ti aveva colpita,
scostarti i capelli dal viso quando ridevi e ti si impigliavano nelle lunghe
ciglia.» Fece una pausa. «Adesso sono libero, ma una grossa parte di me
sente di essere ancora in prigione.»
Chiusi gli occhi. Ricordavo di non aver desiderato niente di più che essere
toccata da lui durante tutti quei mesi in cui avevo vissuto in vista del sabato.
La verità era che, in quell’istante, non c’era niente che desiderassi di più che
essere toccata da lui. Non potevo negare che l’attrazione fosse ancora viva.
L’aumento di temperatura mentre lui era fermo dietro di me non era solo
calore corporeo.
Infine, mi voltai. Gray non si fece indietro ma rimase saldamente nel mio
spazio, scrutandomi. Osai alzare lo sguardo e i nostri occhi si incrociarono;
mi concessi di perdermi per un minuto. Di punto in bianco, mi ritrovai a
chiedere qualcosa che mi tormentava sin dal momento in cui era rientrato di
prepotenza nella mia vita.
«L’ultimo giorno che sono venuta a trovarti, ho firmato sul registro e ho
visto un’altra firma sopra la mia. Non sono riuscita a decifrare il nome, ma la
parola nella colonna relativa alla relazione con il detenuto era chiara come il
giorno: moglie. È così che l’ho scoperto. Ormai ero in buoni rapporti con
tutte le guardie, perciò ho chiesto se fosse un errore e mi hanno confermato di
no, aggiungendo che era un po’ che non passava a trovarti.»
Feci una pausa, ricordando che mi ero sentita come se mi avessero presa a
calci nello stomaco. «Perché Max era venuta a trovarti se c’era già stato il
divorzio… o l’annullamento?»
Gray mi guardò negli occhi. «Mio padre era svenuto in ufficio. Il giorno
seguente gli hanno diagnosticato un aneurisma inoperabile al cervello. Uno
dei suoi amici ha contattato Max perché mi informasse. Lui non sapeva dei
nostri trascorsi e lei si è presentata in carcere. Era la prima volta che la
vedevo da quando le avevo comunicato che sapevo cosa aveva fatto e che
stavo facendo annullare il nostro matrimonio-truffa. Ero curioso di sapere
perché diavolo avesse deciso di farsi vedere. È entrata nella sala visite. Le ho
intimato di non disturbarsi a sedersi e di dirmi perché era lì. Lei mi ha sorriso
e ha risposto: ‘Quello stronzo di tuo padre ha un aneurisma al cervello. Sarà
morto prima che tu esca’. Poi si è girata ed è uscita tutta disinvolta dalla porta
da cui era entrata. Non l’ho più vista da allora.»
Abbassai lo sguardo. «Quindi, il giorno dopo che la donna che ti ha rubato
tre anni di vita si è presentata per dirti che tuo padre stava morendo, io ti ho
detto di andare a farti fottere e me ne sono andata.»
Alzai lo sguardo, e una ciocca di capelli mi cadde sul viso. Gray fece per
scostarla ma si fermò, tirando indietro la mano. «Non è colpa tua. Avrei
dovuto essere sincero con te, avrei dovuto parlarti di Max sin dall’inizio.
Allora mi avresti dato la possibilità di spiegarti la sua visita quel giorno.»
Annuii, ma il suo tentativo di addossarsi la responsabilità non mi fece
sentire meglio riguardo a ciò che doveva aver passato. «Mi dispiace, Gray.
Sul serio.»
Etta entrò in cucina. Avevo quasi dimenticato la sua presenza. Gray fece
un passo indietro.
«Scusate l’interruzione, ma se non abbasso la fiamma finirà che
mangeremo fuori.» Andò ai fornelli e tolse dal fuoco la grossa pentola.
«Come posso aiutarla, Etta?»
«Sei mia ospite. Va’ a sederti, Gray penserà ad apparecchiare.»
Lui non se lo fece dire due volte. Dalla credenza tirò fuori piatti e posate.
Si capiva che sapeva come muoversi in quella cucina, il che mi scaldò un po’
il cuore. Un uomo adulto che ancora ascoltava e amava la tata della sua
infanzia era un tipo leale. E questo per me significava molto più della chimica
che ancora sprizzava tra di noi.

Non ricordavo l’ultima volta che ero stata così bene. Sì, il cibo era
fenomenale, ma la compagnia era ancora meglio. Durante la cena, Etta
continuò a raccontare storie imbarazzanti su Gray e lui parve rilassarsi più di
quanto l’avessi mai visto fare. Sorrideva con tutto il viso, sfoggiando le
fossette, e rideva in quel modo che tradisce vera felicità. I nostri sguardi si
incrociarono più di una volta e io non distolsi il mio. Anzi, lasciai che la
serata seguisse il suo corso e mi divertii più di quanto volessi ammettere.
Quando Etta cominciò ad appisolarsi sulla sua poltrona mentre io e Gray
lavavamo i piatti, mi accorsi di quanto a lungo mi fossi trattenuta. «Sarà
meglio che vada. Sono qui da otto ore, Etta è stanca.»
L’espressione di Gray si rattristò. «Ti accompagno fuori.»
Gli occhi di Etta si aprirono appena andai a prendere la borsa. Mi chinai
per darle un bacio sulla guancia. «Grazie per la fantastica cena e la
meravigliosa compagnia, Etta. Sentirò il mio amico al tribunale per le
infrazioni stradali, vediamo se possiamo occuparci della sua multa senza che
lei debba presentarsi.»
«Ti ringrazio, tesoro. Spero che tornerai presto a trovarmi.»
«Mi piacerebbe molto.»

Gray mi fermò sulla veranda. «Grazie per essere così gentile con Etta.»
«È un piacere. È davvero fantastica.»
«Già. La cosa migliore che mi sia capitata da bambino. Anche da adulto,
penso che possa essere l’unica che non ha mai creduto alle cose di cui mi
hanno accusato. Di sicuro mio padre ha pensato che fossi colpevole. Uno
degli aspetti peggiori del patteggiamento è stato sentire di averla delusa.»
«È impossibile che tu possa deludere quella donna.»
Lui annuì, ma era evidente che non ne fosse convinto.
Uscimmo in strada, dove era parcheggiata la mia auto. Feci scattare la
sicura e Gray mi aprì lo sportello, ma esitai prima di mettermi al volante.
Come dovevo salutarlo? Con un abbraccio? Un bacio sulla guancia? Una
stretta di mano mi sembrava imbarazzante.
«Layla…» Mi interruppe prima che trovassi una soluzione.
«Sì?»
«Vieni a pranzo con me?»
«Intendi come un appuntamento?»
«O un non-appuntamento. Chiamalo come ti pare. Ma passa del tempo con
me.»
Abbassai lo sguardo.
Non dovevo. Ma ciò non significava che non volessi.
’fanculo.
No. Pensa con la tua testa, Layla!
Ma è solo un pranzo.
Niente era solo qualcosa con quell’uomo.
Sì.
No.
Sì. Perché no? Merita una seconda chance.
No. Finirai per farti del male.
E Oliver?
La mano di Gray sul mio mento mise fine a quel dibattito interiore. Non
ero abituata al suo tocco, né lo ero al modo in cui il mio corpo reagì a un
gesto tanto semplice. Il respiro si fece più veloce e anche il battito era
aumentato. Lui mi sollevò delicatamente la testa, costringendo i nostri occhi a
incrociarsi.
«Vuoi mettere fine a ciò che avevamo, mi sta bene. Ma dammi una
possibilità. Cominciamo daccapo.»
Lo volevo… Lo volevo davvero.
«Solo un pranzo?…»
«Se è questo ciò che vuoi, solo un pranzo.»
Sapevo, senz’ombra di dubbio, che la cosa più stupida che potessi fare era
accettare. Cosa che, ovviamente, non mi fermò. «E va bene. Solo un pranzo.»
La sua faccia si illuminò come quella di un bambino che vede i regali sotto
l’albero la mattina di Natale. «Passo a prenderti domani alle undici.»
«Ci vediamo direttamente lì.»
Ridacchiò. «Ma non sai neanche dove andremo.»
«Mandami l’indirizzo.» Feci per salire in auto ma Gray mi afferrò per un
polso.
Mi guardò negli occhi. «Ti assicuro che non stai commettendo un errore.»
Non ero certa che fosse vero, ma annuii comunque.
Salita in auto, riuscii in qualche modo a procedere lungo l’isolato senza
andare a sbattere da qualche parte. Ma, una volta lontana dalla vista di Gray
Westbrook, dovetti accostare per riprendere fiato. Fermai la macchina e
appoggiai la fronte al volante. Avevo detto sì appena trenta secondi prima e
già non sapevo cosa mi avesse spinta a farlo. Dov’era finito il mio
buonsenso? Oh, un momento, lo sapevo. Era stato ridotto al silenzio dal mio
accecante desiderio per quell’uomo, lo stesso che mi aveva spinta a fare cose
stupide poco più di un anno prima, perfino sotto l’occhio vigile delle
telecamere.
Solo che stavolta… lui era un uomo libero e non c’erano telecamere… e
niente ci impediva di fare tutte le cose che allora avremmo voluto fare l’uno
all’altra.
14

Gray
MI ero presentato davanti a un giudice e avevo accettato di trascorrere anni
rinchiuso in un centro di detenzione federale, ma adesso che stavo andando
all’appuntamento con Layla ero molto più nervoso di allora. Forse perché
all’epoca ero consapevole che, uscito di lì, sarei stato di nuovo un uomo
libero, pronto a ricominciare ex novo.
Con Layla, invece, non avevo tutta questa sicurezza. Stavolta, se avessi
fallito non ci sarebbe stata un’altra possibilità. E non ero certo che mi sarei
mai più sentito libero da lei, anche nel caso in cui Layla avesse chiuso con
me.
Arrivai con quindici minuti d’anticipo allo Starbucks dietro l’angolo, dove
avevo deciso di portarla, e ordinai per entrambi un caffè, una delle varie cose
che non avevamo mai condiviso – una semplice tazza di dannato caffè –,
benché sapessi esattamente come lo beveva, perché l’aveva descritto in una
delle sue lettere.
Lei arrivò puntuale e io mi misi accanto al divano che avevo fatto in modo
di accaparrarmi, perché era piccolo e quindi avremmo dovuto sederci vicini.
«Ciao.»
Sembrava nervosa quanto me. Mi chinai per darle un bacio sulla guancia.
Il profumo della sua pelle ebbe su di me un effetto maggiore di quando ero un
adolescente arrapato e arrivavo in seconda base.
Le avevo detto di vestirsi casual per via di dove saremmo andati, ma
vederla in jeans, maglia celeste aderente e sandali col tacco alto e una specie
di nastro attorno alla caviglia, mi diede la conferma che la mia idea di cosa
fare quel pomeriggio fosse giusta per più di un motivo. I capelli scuri e
ondulati le incorniciavano il viso bellissimo e, invece del solito rossetto
rosso, la bocca stupenda era del suo colore naturale, solo più lucida. Ma tutto
ciò scomparve alla vista del suo naso.
Dovetti sforzarmi per impedire che mi si riempissero gli occhi di lacrime
come una dannata mammoletta.
«Le tue lentiggini sono tornate.» Parve imbarazzata che le avessi notate e
distolse lo sguardo. «Mi piace dare una tregua alla pelle durante il weekend.
Vado a prendere un caffè. Tu vuoi qualcosa?»
Sollevai le due tazze dal tavolo e gliene porsi una. «Latte macchiato alla
vaniglia con extra sciroppo alla vaniglia.»
«Oh! Grazie.»
Al mio appuntamento mancava ancora mezz’ora, perciò le feci segno di
sedersi. «Abbiamo un po’ di tempo prima di andare.»
«Andare? Pensavo che fossimo già dove dovevamo andare. Hai detto di
incontrarci da Starbucks.»
«Proprio così. Ci incontriamo da Starbucks. Da dove raggiungiamo un
altro posto.»
«Quale?»
Ridacchiai. «È un segreto.»
Si morse il labbro, raro segno di nervosismo, e bevve un sorso di caffè.
Non potei fare a meno di fissarla.
«Devi smettere di farlo», commentò.
«Cosa?»
«Fissarmi. Mi snerva.»
«E va bene.» Mi misi comodo sul divano e girai la testa da un’altra parte.
«Allora, raccontami cos’è successo nell’ultimo anno.»
Mi diede una scherzosa gomitata nelle costole. «Sai cosa intendo.»
Mi voltai a guardarla. «Certo che lo so. Vuoi che mi comporti come se tu
non fossi al centro dei miei pensieri e non debba ricorrere appena ti vedo a
tutto il mio autocontrollo per impedirmi di afferrarti per i capelli e farti
ricordare com’erano le nostre labbra premute insieme.»
Layla emise un impercettibile verso strozzato. Voleva nascondere
eventuali effetti che avevo su di lei. Distolse lo sguardo per interrompere il
momento e poi si girò di nuovo, scuotendo la testa.
«Ho fatto una lista, sai.»
Bevvi un sorso di caffè, sapendo benissimo cosa intendeva. Tutto andava
analizzato in maniera minuziosa. «Spara.»
«Pro», esordì ridacchiando. «Fammi pensare. Quella era una lista molto
più corta.»
«Tranquilla. Sono certo che te ne sia sfuggito qualcuno. Un altro motivo
per cui dobbiamo passare del tempo insieme oggi. Così posso aiutarti a
bilanciare la situazione.»
«Magari me ne andrò con tutta una nuova serie di contro che non avevo
considerato.»
«Non succederà.»
Alzò gli occhi al cielo, ma sorrise. «Che arroganza.»
Le feci l’occhiolino. «Quando si hanno certi attributi…»
«E questo mi ricorda che devo aggiungere ‘pervertito’ alla lista dei
contro.»
Mi protesi verso di lei. «Dammi la possibilità di mettere in pratica le
oscenità che dico. Lo trasferirai nella lista dei pro. Te lo garantisco.»
«Torneremo mai ad avere una conversazione normale?»
Sogghignai. «Abbiamo mai avuto una conversazione normale?»
Sospirò. «Hai ragione.»
«Sto solo scherzando. Abbiamo fatto delle belle chiacchierate, Layla. Tu
sei bellissima, ma non sono casto dopo più di tre anni perché non riesco a
trovare una donna. Eravamo legati su un piano diverso. Voglio che tu sia
disposta a riprovarci.»
Annuì ma non parve troppo convinta.
«Ti farebbe sentire meglio se ti dicessi che anche tu mi fai una paura
matta?»
Le sue labbra si schiusero, ma le coprì portandosi il caffè alla bocca.
Mi accorsi che una donna in attesa del suo caffè ci stava fissando.
Indicandola con il mento, chiesi a Layla: «Una tua amica?»
Si voltò a guardare e cambiò espressione e atteggiamento. Sembrava che
volesse nascondersi sotto il divano. La sconosciuta salutò con la mano e
Layla ricambiò esitante. «Merda.»
«Qualcuno che non vuoi vedere?»
«La mia sorellastra.»
«L’altra…»
«Famiglia di mio padre. Sì.»
«Vive a New York?»
«Si è trasferita qualche mese fa. È convinta che dovremmo essere ottime
amiche.»
Lanciai un’occhiata alla donna che adesso si stava dirigendo verso di noi.
«Be’, non voltarti, ma la tua migliore amica sta venendo qui.»
La donna aveva un’irritante voce stridula. «Layla! Non riesco a credere di
averti finalmente incontrata. Ti ho lasciato dei messaggi. Cominciavo a
pensare che mi stessi evitando.»
«No. Sono stata molto occupata.» Indicò me. «Lavoro anche nel weekend.
Un incontro con un cliente.»
«Oh», esclamò lei guardandomi, d’un tratto incuriosita. «Beata te.»
«Ma è stato fantastico incontrarti», calcò la mano Layla.
«Anche per me. Ceno con papà il prossimo weekend. Dovresti venire. Gli
piacerebbe moltissimo vederti.»
Layla si finse delusa come una vera attrice. «Mi spiace. Sarò fuori città.»
«Okay. Be’, ti lascio tornare al lavoro», ribatté amareggiata. Si chinò per
un goffo abbraccio e un bacio nell’aria. «Ti chiamo!»
«Ci conto», replicò Layla. «Stammi bene.»
Quando si voltò verso di me, parve avvilita. «Spero che, ovunque tu mi
stia portando, ci sia alcol.»
Guardai l’ora. «È ancora meglio. Lo adorerai. Ti farà sorridere e
dimenticare tutto della tua pazza famiglia. E domani non avrai i postumi di
una sbornia.»
«Non sono certa di dovermi fidare di te…»
«Mi piace come la pensi. Ma puoi fidarti di me.» Mi alzai e le tesi una
mano. «Pronta ad andare?»
Lei la guardò per qualche istante, esitando prima di mettere la piccola
mano nella mia. Anche se la lasciò andare subito dopo essersi alzata – mentre
io avrei voluto continuare a tenergliela – mi sembrava già un passo avanti.
Piccoli passi.
Progressi.
Restammo in silenzio mentre uscivamo dalla caffetteria avviandoci lungo
la strada. Per tirarle su il morale stavo per rivelarle dove eravamo diretti, ma
d’un tratto mi sorprese confidandosi.
«È simpatica, davvero. Mi sento in colpa a non volerci avere a che fare.
Ma non ce la faccio a trascorrere del tempo con lei.»
«È comprensibile», osservai. «È il costante ricordo di qualcosa che per te è
doloroso.»
«Ma perché a lei non dà fastidio? Non dovrebbe vedermi allo stesso modo
in cui io vedo lei? Solo il fatto che voglia essere mia amica mi fa sentire
come se ci fosse qualcosa di sbagliato in me perché non la penso così.»
«Non tutti gestiscono le cose dolorose allo stesso modo.» Feci una pausa e
pensai se fosse il caso di condividere con lei l’esempio che mi era subito
balenato in mente. Decisi che avrebbe potuto giocare a mio favore. «Guarda
cosa ho combinato con Max. Sarebbe stato così semplice dirti che ero stato
sposato e che avevo fatto annullare il matrimonio la volta che me l’hai
chiesto. Ma non volevo neanche ammetterlo. Ero imbarazzato, eppure non
avevo fatto niente di male. C’è probabilmente una piccola parte di te che
prova lo stesso per il comportamento di tuo padre.»
Lei annuì. «Già. Tutti quegli anni e solo Quinn sa la verità sullo strano
rapporto tra i miei genitori. E, a essere sincera, non avevo neanche avuto
intenzione di dirglielo. Il giorno del mio sedicesimo compleanno, il volo di
mio padre era stato cancellato e io ero sconvolta per il fatto che avrebbe
trascorso la giornata con l’altra famiglia. Quinn e io ci ubriacammo e finii per
confidarle tutto. Ormai erano anni che sapevo come stavano le cose, ma fino
a quel momento non avevo detto una sola parola.»
«Dimentica gli errori che fanno gli altri; impara da essi. Quello era uno dei
mantra di Etta quand’ero bambino. È incredibile quanto sia azzeccato per la
mia vita in questo momento.»
Giungemmo all’edificio che ospitava il canile e mi fermai. «Eccoci
arrivati.»
«Dove?» Si guardò attorno e i suoi occhi si illuminarono scorgendo
l’insegna sull’alto palazzo di mattoni: NEW YORK CITY ANIMAL CARE .
«Andiamo a trovare dei cani?»
«Possiamo vederli tutti. Ma sono qui per uno in particolare. Ieri ho
adottato un cane e oggi ho appuntamento per prenderlo.»

«Oh, mio Dio.» Layla atterrò sul sedere e scoppiò a ridere. Proprio come
la volta precedente, dapprima Lentiggini aveva fatto il ritroso, fiutandola
finché non aveva deciso che era okay, poi le era saltato addosso per leccarle
la faccia. Stavolta lo afferrai per il collare, come aveva fatto la volontaria.
«Calma, ragazzo. Vacci piano. So che ha un buon odore ma ci stai
mettendo in imbarazzo. E poi, potrei essere un tantino geloso.»
Layla alzò gli occhi al cielo ma sorrise e lasciò che la aiutassi a rialzarsi.
Rimase accovacciata accanto a me mentre Lentiggini finalmente mi rivolgeva
le sue attenzioni.
«Ecco! Era ora che ti accorgessi di me.»
Layla continuò a guardare mentre grattavo Lentiggini dietro le orecchie e
gli davo una bella sfregata a due mani.
«E io che pensavo ti riferissi alle attenzioni che stavo dando al cane», mi
provocò. «Adesso non ne sono più così sicura. Penso che tu fossi geloso delle
sue attenzioni nei miei riguardi.»
«Lascia che io ti lecchi la faccia e mi scorderò di avere un cane.»
Lei rise.
Carol, la volontaria che ci aveva accolto, ci spiegò che il wi-fi del centro
era fuori uso quella mattina, perciò erano un po’ indietro con i documenti
delle adozioni. Ci suggerì di trattenerci nell’area giochi mentre loro finivano
di mettere a punto i dettagli.
Sarei rimasto tutto il giorno in quella stanza puzzolente solo per mantenere
il sorriso sulla faccia di Layla: sembrava davvero spensierata.
Lentiggini corse a prendere la sua scarpa. Immaginai che quell’affare
sarebbe venuto a casa con me, se ancora non vi aveva rinunciato. Layla prese
il mocassino e ne tirò un’estremità mentre lui strattonava l’altra tutto felice.
«Sono questi i giocattoli che usano adesso? Qualunque sia il costo
dell’adozione, penso che tu debba raddoppiare la donazione.»
Dio, quel dannato sorriso.
«Apparteneva al suo padrone. Una storia triste. È morto…» Grattai il cane
sulla schiena mentre loro due giocavano a tira e molla. «E questo piccoletto
ha combinato qualche pasticcio in casa per alcuni giorni prima che venissero
ritrovati. Ecco perché è rasato. Ieri era coperto di colla e fango. Ma quella
scarpa è del suo padrone e sembra che ci sia affezionato.»
«Aaah, povero piccolo.» Layla mollò la scarpa e prese Lentiggini tra le
braccia, stringendoselo al petto.
Potei giurare che il cane si fosse voltato verso di me con un sogghigno.
Forse era solo la mia immaginazione.
«Avevo un cane da piccola.»
«Lo so. È così che sono cominciate le tue liste Assolutamente sì. Avevi un
meticcio che hai chiamato Muffin il Meticcio.»
Mi guardò in modo strano, arricciando il naso. «Ti ricordi il nome del mio
cane?»
«Troppo inquietante?»
«Magari un pochino.»
Dieci minuti dopo, Carol apparve sulla soglia. «A quanto pare si è preso
una cotta per la sua signora.»
Con la coda dell’occhio, vidi che Layla stava per correggerla, così la battei
sul tempo. «Può dargli torto? Il cane ha buon gusto.»
Ammiccai quando la mia presunta moglie mi fulminò con lo sguardo.
«Siamo pronti con i documenti. Chiedo scusa per l’attesa. Abbiamo
bisogno che firmi qualche modulo e poi potrete andare.»
Presi il cane dalle braccia di Layla e le tesi una mano per aiutarla a
rialzarsi.
«Sono nella stanza accanto, appena sarete pronti», ci informò Carol. Fece
per andarsene, poi si girò e indicò il malconcio mocassino a terra. «Non
dimenticate la scarpa di Lentiggini.»
Layla si stava spazzolando i peli dai jeans. Tirò su la testa di scatto.
«Cos’ha detto?»
«Che è qui accanto appena saremo pronti.»
Mi guardò diffidente. «Dopo di quello.»
«Non voleva che ci dimenticassimo della scarpa.»
«Sì, e com’è che ha chiamato il cane?»
«Con il suo nome, ovviamente.»
Mi diede una manata scherzosa sul braccio. «Come si chiama il cane,
Westbrook?»
«Lentiggini», ghignai.
«Era già il suo nome o l’hai chiamato tu così?»
«Io non c’entro niente.» Le indicai il naso del cane. Le lentiggini del
piccoletto erano ben visibili dato il pelo tosato. «Ma adesso so perché
abbiamo legato subito. Io e Lentiggini. Era destino.»
Lei scosse la testa, ma il sorriso non scomparve. Le feci segno di
precedermi all’uscita ma la fermai mentre mi passava accanto per sussurrarle:
«Mi riferivo a entrambi i Lentiggini, nel caso te lo stessi chiedendo».
15

Gray
NON ero pronto a concludere la giornata.
Ma dopo l’incursione in un vicino negozio per animali per fare scorta di
provviste, Lentiggini mi rivelò che era pronto per andare a casa. Si stese a
terra mentre ero in fila alla cassa.
Layla posò sul nastro le ciotole che teneva in mano mentre io aggiungevo
un sacchetto di cibo per cani da dieci chili, biscotti, bastoncini da masticare e
una scarpa di plastica che sapevo mi avrebbe fatto impazzire col suo suono.
Layla osservò Lentiggini che sbadigliava e si metteva comodo. «Penso che
tu abbia un cane pigro.»
«Non insultare il tuo omonimo.» Pagai gli acquisti e presi il cibo per cani
e uno dei sacchetti. Layla afferrò le altre buste e uscimmo in strada insieme.
«Il mio amichetto è esausto e mi farebbe davvero comodo un po’ d’aiuto
per portare tutta questa roba a casa mia.»
Layla mi guardò con una faccia come per dire: Cazzate. «Potrei legarti
queste buste ai passanti della cintura e farti tornare a casa come un mulo da
soma, mentre io vado in ufficio per qualche ora come avrei dovuto fare
oggi.»
Ridacchiai. «Oppure… potresti venire a casa con me e lasciarti
impressionare dalla vista dal mio soggiorno.»
«Se ti aiuto, mi garantisci la tua buona condotta?»
«Sì.» Abbassai lo sguardo sul mio nuovo cane. «Ma non posso garantire
per Lentiggini. Non sono l’unico che vuole leccarti.»
«Da che parte? Prima che cambi idea.»

Le mani mi sudavano mentre aprivo la porta del mio appartamento.


Proprio non sapevo perché. Vivevo in un palazzo fantastico, la vista era
spettacolare e, prima della disastrosa relazione con Max, ero solito divertirmi.
Ma con Layla tutto mi sembrava importante.
Non avrei potuto chiedere un’accoglienza migliore se avessi ordinato io
stesso il tramonto. Le porte finestre in soggiorno mostravano un tramonto
variopinto e sfumato che proiettava strisce arancioni, gialle e viola nel cielo.
Non era ancora buio del tutto, ma abbastanza perché le luci di Manhattan
irradiassero un chiarore su tutta la città.
«Porca miseria.» Layla andò dritta alla vetrata. «Pensavo che mi avessi
parlato della vista solo per attirarmi in casa tua.»
La raggiunsi e mi fermai dietro di lei. Dio, cosa avrei dato per spostarle i
capelli da un lato e divorarle lo splendido collo. Guardammo insieme fuori in
placido silenzio finché lei non lo interruppe.
«Deve esserti mancato.»
La osservai, così vicina a me, e mi venne l’acquolina. «Non ti immagini
neanche.»
Se non avessi messo un po’ di distanza tra noi, avrei mandato tutto
all’aria. Mi schiarii la voce. «Devo dare a Lentiggini un po’ d’acqua. Posso
offrirti un bicchiere di vino?»
«Mi piacerebbe, sì.»
Layla rimase alla finestra mentre io riempivo la ciotola di Lentiggini e
aprivo una bottiglia di vino. Stava facendo buio in fretta e, una volta tornato
da lei, la luce del giorno era quasi scomparsa.
«Da piccola, se mi chiedevano quale fosse il mio colore preferito,
rispondevo arcobaleno, perché amavo il modo in cui i colori stavano insieme
e non riuscivo a sceglierne uno», raccontò. «Penso che non sia più così.»
«Ah sì?» Le porsi il bicchiere. «Qual è il tuo nuovo colore preferito?»
Sorrise. «Il tramonto. Ecco il mio nuovo colore preferito.»
«Andiamo. Lascia che ti mostri la vista dalla camera da letto prima che
faccia del tutto buio. È diversa ma altrettanto bella.»
«Non mi importa se è solo un modo per provarci. Voglio vedere il
panorama.»
«Magnifico!» esclamò entrando. Le due finestre in camera erano più
piccole della vetrata in soggiorno, ma incorniciavano una vista dell’Hudson
che, al momento, stava riflettendo gli ultimi raggi del tramonto e le luci della
sera in arrivo. «Questo è il miglior panorama che abbia mai visto da un
appartamento. Non penso che uscirei mai se abitassi qui.»
«Sono certo di poter organizzare la cosa.»
Proprio come avevamo fatto in soggiorno, restammo alle finestre a
guardare fuori per un po’. Non so per quanto tempo ma, quando Layla si
voltò, era completamente buio.
I suoi grandi occhi verdi mi fissarono. «Cosa ti è mancato di più?»
Prima che potessi rispondere, alzò un dito, precisando: «E non puoi
rispondere me».
Riflettei per un momento. «Mi è mancato desiderare che il tempo
rallentasse.»
«Cosa vuoi dire?»
«Volevo che ogni giorno passasse in fretta. In pratica desideravo che la
mia vita scorresse via. Mi mancavano i momenti in cui volevo che il tempo si
fermasse.»
«Non sono sicura di capire.»
«Come ti sei sentita guardando il tramonto dal soggiorno? Ti stavi
godendo il momento, e hai pensato che magari sarebbe stato bello allungarlo
di qualche minuto… far rallentare il tempo?»
«Sì. Esattamente così.»
«Mi è mancata quella sensazione. Mi è mancato avere cose che fossero
importanti per me, che mi piacessero al punto da desiderare che durassero un
po’ più a lungo.»
«Ottima risposta. Immagino possa comprendere tante cose diverse: un
tramonto, un momento speciale con qualcuno, ascoltare una vecchia canzone,
un arcobaleno.»
Avrei voluto dirle che questo era uno di quei momenti. Ma mi trattenni per
paura di spaventarla. E così, entrambi sorseggiammo il nostro vino. La
tensione montò dentro di me. Doveva essersene accorta anche lei. Stavamo
nella mia camera da letto, al buio, in silenzio. Guardai il letto, a poca
distanza, e non potei fare a meno di pensare a come sarebbe stato essere
dentro di lei. Volevo scoparla in tutto l’appartamento; una sorta di battesimo.
Contro le finestre in soggiorno mentre contemplava il tramonto, in camera da
letto a quattro zampe mentre ammirava sorgere il sole. Sul bancone in cucina,
nella doccia, sul pavimento davanti al caminetto in sala da pranzo, sulla
scrivania nella stanza per gli ospiti, che usavo come ufficio.
La voce di Layla mi riscosse dalle mie fantasie sessuali.
«A cosa stai pensando? Sembri così concentrato.»
Bevvi un sorso di vino. «Non penso sia il caso di rivelarlo.»
Lei inclinò la testa. Nonostante fosse ormai buio, il verde nei suoi occhi
scintillò. «Perché no?»
«Perché mi sono ripromesso che non avrei mai più fatto la stupidaggine di
mentirti.»
«Perché dovresti mentirmi?»
Lanciai uno sguardo al letto e poi di nuovo a lei.
«Oh!» esclamò.
La tensione che eravamo riusciti a tenere sotto controllo d’un tratto si
intensificò. L’aria parve condensarsi man mano che i secondi passavano e
nessuno dei due faceva il primo passo per uscire dalla camera buia. Sentii il
suo respiro farsi più pesante mentre teneva lo sguardo basso, evitando i miei
occhi. Quando lo rialzò da sotto le folte ciglia e i nostri occhi si incontrarono,
pensai di essere sul punto di cedere.
Così dannatamente bella.
Così dannatamente sexy.
Nella mia camera da letto.
Ma non potevo fare la prima mossa, anche se avrei dato qualsiasi cosa per
prendere quella bocca, divorare quel collo, sentirla gemere come sapevo che
faceva quando la baciavo. Era un suono che non avrei mai dimenticato.
La sua voce era così bassa che all’inizio pensai di essermela immaginata.
«Dimmi a cosa stavi pensando.»
«Non lo userai contro di me?»
Lei fece cenno di no.
«Stavo immaginando di svegliarmi all’alba nel mio letto insieme a te.
Stavo immaginando il sole sorgere sopra il fiume con tutti i magnifici colori.»
La mia voce era roca e aspettai che lei mi fermasse. Non lo fece. «Stavo
immaginando te carponi al centro del mio letto mentre ti scopo da dietro,
adagio, e guardi il sole che sorge.»
Le sue labbra si schiusero. Eppure non mi fermò, perciò lo presi come un
segnale per continuare.
«Voglio scoparti contro la finestra in soggiorno, così la città intera saprà
che sei mia.»
Il suo respiro divenne più affannoso.
«Voglio sollevarti sul bancone della cucina, allargarti le gambe e
mangiarti a colazione.»
«Gesù, Gray.»
Un tintinnio richiamò la nostra attenzione verso la porta e ci voltammo
proprio mentre il mio cane irrompeva in camera. La grossa scarpa che
portava con sé sbatté contro lo stipite quando entrò di gran carriera.
Sinceramente, mi ero scordato di lui. Lentiggini prese la rincorsa e saltò sul
letto. Girò in tondo un paio di volte e poi si accasciò a peso morto al centro.
Rovinò decisamente l’attimo. Forse prendere un cane non è stata una così
grande idea, dopo tutto.
Layla aprì e chiuse gli occhi ripetutamente. Ebbi la sensazione che fosse
sollevata per quell’interruzione. Andò al letto e vi si sedette. «Ehi, piccolino.
Ti piace la tua nuova casa?»
Rimasi alla finestra a guardare la loro interazione.
Lentiggini si alzò e la raggiunse sul bordo del letto. Layla allungò una
mano perché gliela annusasse e lui ne approfittò, aggiungendovi anche
qualche leccata. Poi, all’improvviso, proprio come aveva fatto con me la
prima volta e poi con Layla quel pomeriggio, le saltò addosso. Solo che
stavolta non la buttò a terra. Lei ricadde sul letto e rise mentre lui le leccava
la faccia.
Invece di fermarlo subito, mi godetti la scena. I capelli scuri di Layla
erano sparsi sulla mia trapunta e lei rideva spensierata. Alla fine mi sentii in
colpa per non aver richiamato il cane e diedi un piccolo strattone al collare.
«Basta così, amico. Vacci piano», scherzai. «Lasciane un po’ anche a me.»
Layla si tirò su a sedere con un sorriso sincero e si asciugò la bava del
cane dal viso.
Ancora non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso.
«Cosa c’è?» Si diede un buffetto ai capelli e si raddrizzò la maglia, che le
si era abbassata su una spalla. «Ho il trucco sbavato o cosa?»
Scossi la testa. «Ricordi cosa mi hai chiesto prima? Cosa mi era mancato
di più?»
«Sì.»
La fissai negli occhi. «Questo è stato uno di quei momenti. Semplicemente
guardarti mentre ti diverti con il cane.»
Il calore le riempì gli occhi. «È un cane dolcissimo.»
«E il suo padrone?»
«Ha i suoi momenti», ridacchiò. Guardandosi attorno, dovette rendersi
conto che era ormai buio. «Sarà meglio tornare di là. Grazie per avermi
mostrato la vista.»
«La mia vista è la tua vista. Vieni per il tramonto, resti per l’alba.»
Lei rise e la seguii in cucina, godendomi la spettacolare visione del suo
sedere. Si fermò davanti al bagno in corridoio, mi beccò ma non disse niente.
«Posso usare il bagno?»
«Certo. Ce n’è uno anche in camera da letto, se vuoi.»
«Grazie. Questo va benone.»
Lentiggini andò alla porta d’ingresso e cominciò a grattare. «Hai bisogno
di uscire, amico?»
Lui rispose mettendosi a rincorrere la propria coda davanti alla porta. «Lo
prenderò come un sì.»
Layla rientrò in cucina mentre cercavo di attaccare il guinzaglio al collare
di Lentiggini. «Penso che abbia bisogno di fare una passeggiata.»
«Wow. È fantastico che te lo faccia capire. Noi ci abbiamo messo mesi ad
addestrare il nostro cane. Lui però era un cucciolo e immagino che il
precedente padrone di Lentiggini avesse già risolto la faccenda. Ma resta
comunque un’ottima cosa non dover affrontare l’esperienza.»
«Perché non ti rilassi? Resta qui. Versati un altro bicchiere di vino mentre
porto fuori lui.»
Lei andò a prendere la borsa. «A dire la verità, penso sia meglio che
vada.»
Avevamo passato insieme l’intera giornata, e ancora non volevo che
finisse. «Sicura? C’è un fantastico posticino italiano poco più avanti. Oggi
avrei dovuto portarti a pranzo e non l’ho più fatto. Possiamo ordinare da
asporto. O andare lì a mangiare un boccone, se vuoi.»
«Grazie. Ma penso sia meglio così. E poi, ho una tonnellata di lavoro da
sbrigare.»
Nessuno dei due disse una parola durante tutto il tragitto in ascensore. Una
volta in strada, Lentiggini mi tirò verso un albero, dove liberò la vescica.
«Cane intelligente», osservò Layla.
«Già. Direi che sono stato fortunato.»
Abbassò lo sguardo. «Grazie per avermi portata con te a prenderlo. Mi
sono divertita molto.»
Non potevo lasciarla andare senza insistere. Le misi due dita sotto il mento
e lo sollevai per guardarla negli occhi. «Permettimi di portarti a cena. Un
vero appuntamento.»
Rimasi in attesa mentre le rotelline nel suo cervello giravano. Lei si morse
il labbro e distolse lo sguardo, per poi rivolgerlo di nuovo su di me.
«Andiamoci piano.»
«Posso farlo», risposi troppo in fretta. Era evidente che se avesse detto:
‘D’accordo, ma prima devi mangiare un sacco di merda’, avrei accettato
comunque.
«Spero di non pentirmene.»
La mia faccia si accese per quello che probabilmente era il sorriso più
insopportabile, esagerato e sdolcinato di sempre. «Era un sì?»
«E va bene. Sì.» Alzò un dito ammonitore. «Ma è una cena. Piano, Gray.»
Le misi un braccio attorno alla vita e la attirai a me. «Posso andare piano.»
Mi guardò sospettosa. «Pensavo avessi detto niente bugie.»
«Esatto. Questo non significa che voglia andarci piano. Però posso e lo
farò, se è ciò che serve.»
Mi posò una mano sul petto, applicando una leggera pressione, come per
dirmi di mantenere le distanze. «Devo sbrigare alcune cose. Mi chiami in
settimana?»
«Prenderti tra le braccia e stritolarti è andare troppo in fretta?»
Ridacchiò. «Un abbraccio va benone.»
Attirai Layla in un abbraccio stretto e sprofondai la faccia nei suoi capelli.
Aveva un odore così buono. «Non sai quanto mi hai appena reso felice.»
«Mmm… se devo giudicare dall’affare che mi preme contro il fianco,
penso di sapere quanto sei felice.»
Ridemmo e, per quanto odiassi lasciarla andare, mi sforzai di fare il bravo.
Non cercai neanche di succhiarle la faccia, benché fosse solo la punta
dell’iceberg di ciò che volevo succhiare. Anche se dovette tirare via la mano
dalla mia al momento di allontanarsi. Non riuscivo a separarmi
volontariamente da lei.
16

Layla
«SIAMO davvero qui dentro nello stesso giorno?» Mercoledì mattina, Oliver
entrò nel mio ufficio con il suo consueto sorriso solare.
Lunedì era stato in tribunale tutta la giornata, martedì io ero stata fuori con
un cliente nel New Jersey fino a sera. Ci eravamo scambiati qualche sms e gli
avevo detto che non riuscivo a cenare con lui mercoledì sera, proponendogli
invece un pranzo. Era decisamente più facile rompere durante un pranzo
veloce, inoltre avevo deciso che non avrei passato del tempo con Gray finché
non avessi troncato con Oliver. Anche se Oliver e io non avevamo mai
parlato di un rapporto esclusivo, non mi sentivo comunque a mio agio.
Il mio cellulare vibrò e fui contenta che avesse il display rivolto verso il
basso. Gray mi aveva mandato dei messaggi quella mattina e non volevo
mostrarmi irrispettosa nei confronti di Oliver. Era un ragazzo fantastico – una
parte di me desiderava stare con lui invece che con Gray –, ma il cuore sa,
anche se il cervello ancora non c’è arrivato.
«Sono sorpresa di essere riuscita ad arrivare al lavoro oggi». Chiusi lo
schedario nel quale stavo rovistando. «Mr. Kwan mi ha consumato l’orecchio
fino alle otto ieri sera.»
Oliver e io avevamo dei clienti in comune e la Kwan Enterprises usava i
servizi legali di quasi ogni dipartimento del nostro studio.
«Ha portato Jin Me o Song?» mi chiese.
«Jin Me. Chi è Song?»
Ridacchiò. «Sua moglie.»
«Oh, mio Dio! È sposato? Non ne avevo idea. All’inizio pensavo che Jin
Me fosse la figlia. Cioè, lei avrà trent’anni e lui probabilmente è sulla
sessantina. Per questo mi sono venuti i brividi quando lei gli ha messo una
mano sulla coscia.»
«Già. Quel tizio è uno stallone. È mio cliente più o meno da quando lavoro
qui. Ci sono state decine di Jin Me.»
«Accidenti, non so perché ma non avrei mai pensato che fosse un
fedifrago.»
«Sono sempre quelli più insospettabili.» Sapevo che Oliver non si riferiva
a me, ma mi sentii comunque in colpa per aver trascorso del tempo con Gray.
«Ehm… sì. Devo prendere una chiamata. Pranzo all’una?»
«Greco?»
«Certo.» Mi costrinsi a sorridere. «Fantastico.»
Dopo che Oliver se ne fu andato, rimasi a guardare fuori dalla finestra per
un po’. Sapevo che troncare con lui era giusto, che le cose funzionassero o
meno con Gray. Perché, se il mio cuore fosse stato con Oliver, non si sarebbe
allontanato così facilmente. Però non era mai semplice rompere con una bella
persona.
Il telefono vibrò sulla scrivania, distogliendo la mia attenzione dal pranzo
che mi aspettava. Ovviamente era un messaggio di Gray. Come suo era
quello che non avevo letto quando Oliver era entrato nel mio ufficio.

GRAY : Stasera vado a Chicago per una riunione domattina presto con
un potenziale investitore.
GRAY : Che ne dici di pranzare insieme oggi?

Risposi.

LAYLA : Mi dispiace. Oggi non posso. Ho un appuntamento a pranzo.

Dopo aver scritto il messaggio, ripensai alle mie parole e lo corressi prima
di premere INVIO .

LAYLA : Mi dispiace. Oggi non posso. Ho da fare a pranzo.


GRAY : Non puoi rimandare? Farò in modo che ne valga la pena. Un
mio amico sta aprendo un ristorante francese in centro e ospita dei
critici gastronomici: ogni piatto in miniatura, un assaggio dell’intero
menu.

Riflettei per qualche minuto sulla risposta e decisi di dirgli la verità.


LAYLA : Oggi vado a pranzo con Oliver.

Archibald Pittman entrò nel mio ufficio e interruppe il resto di quanto


stavo per scrivere. Le sue visite mi rendevano sempre nervosa.
«Ms. Hutton. Ho appena esaminato le ore fatturabili. Ottimo lavoro, si è
aggiudicata il nuovo cliente e ha dato impulso alle altre aree di
specializzazione.»
Non avevo idea di che cosa stesse parlando. «La ringrazio.»
«Continui così.» Scomparve.
Ancora all’oscuro di cosa si riferisse, scrissi a Gray.

LAYLA : Per caso hai affidato altro lavoro legale allo studio che esula
dal mio dipartimento?
GRAY : Non sono solito condividere, Layla.

Mmm. Quella sì che era una risposta strana.

LAYLA : Non credo di capire.

Aspettai il suo sms e invece squillò il telefono.


«Lo so che hai detto che dovevamo andarci piano, ma cazzo, Lentiggini,
non posso condividerti.»
«Di che stai parlando?»
«Il tuo appuntamento a pranzo.»
«Oh!» risi. «Scusa, mi ero persa. Ti stavo accennando al mio pranzo con
Oliver, poi è entrato Pittman e ha detto qualcosa di un cliente che stava
portando altri affari allo studio. Ho pensato che potessi essere tu. Deve essere
qualcun altro con cui lavoro.»
«Ho io dato altro lavoro allo studio. Si stanno occupando
dell’omologazione del testamento di mio padre e di una transazione
immobiliare di cui ho bisogno. Ho chiamato Pittman e gli ho detto che mi
avevi convinto ad affidare il lavoro allo studio invece di lasciarlo
all’avvocato di mio padre.»
«Wow. Non eri tenuto a farlo, ma grazie.»
«Figurati. Adesso puoi farmi un favore in cambio?»
«Certo. Cosa?»
«Non andare a pranzo con Pisello a Matita. Posso aspettare undici mesi
per vederti. Posso trattenermi dallo strapazzarti quando sei in casa mia. Posso
procedere con tutta la lentezza che vuoi. Ma cazzo, non posso accettare l’idea
di te con un altro uomo.»
Per quanto odiassi ammetterlo, la sua possessività e gelosia furono
eccitanti in quella situazione; anche se non potei trattenermi dal prenderlo un
po’ in giro.
«Ma ho già rotto con Jared.»
«Chi?»
Dovetti coprirmi la bocca per smetterla di ridacchiare. «Jared. E avevo
intenzione di mollare pure Trent. Anche se ho pensato di andarci a letto
un’ultima volta prima di troncare.»
«Mi stai prendendo in giro? Ti prego, dimmi che mi stai prendendo in
giro.»
Stavolta lasciai che mi sentisse ridere. «Pranzerò con Oliver per rompere
con lui. Avevo intenzione di dirtelo, poi Pittman mi ha interrotto e ho
dimenticato di aggiungere quella parte.»
Gray sbuffò forte. «Pensi di essere divertente, vero?»
«Sì. Anzi, in questo momento sono parecchio divertita.» Mi appoggiai allo
schienale.
«Mi fa piacere che tu ti stia divertendo. Ma questo merita una sculacciata e
mi divertirò a ripagarti la prossima volta che ti vedo.»
«Potrebbe piacermi anche quello.»
Gray gemette. «Cristo.» Poi lo sentii che copriva il telefono. «Può fare un
paio di volte il giro dell’isolato, per favore?»
Sentii la voce lontana di quello che doveva essere un autista. «Senz’altro,
signore.»
Poi Gray tornò in linea.
«Adesso a causa tua farò tardi all’appuntamento in banca.»
«A causa mia? E cosa ho fatto?»
«Mi hai appena detto che ti piacerebbe che ti sculacciassi e adesso riesco
solo a pensare all’aspetto che avrà il tuo sedere con sopra l’impronta della
mia mano. Non posso entrare lì dentro con il pacco gonfio.»
Mi spostai sulla sedia. «Oh.»
«Che ne dici di una cena anticipata? Non vedo l’ora di incontrarti dopo
che sarai ufficialmente mia.»
«Non correre troppo. Ho detto che avrei troncato con Oliver, non che sarei
stata ufficialmente di qualcuno.»
Mi ignorò. «Cena alle cinque in punto. Sposterò alle nove il mio volo delle
sette.»
«Non posso. Ho un cliente alle quattro e devo prepararmi per un caso
domani. Quando torni dal tuo viaggio?»
«Domani sera tardi. Venerdì allora?»
«Ho il compleanno di una bambina venerdì sera. Sabato?»
«Un evento con il vecchio socio di mio padre. Domenica sera?»
«Ho una deposizione lunedì mattina presto per la quale devo prepararmi.»
«Gesù Cristo. E io parto per la costa occidentale lunedì mattina. Non
posso aspettare due settimane per baciarti.»
Sorrisi. «Potresti sempre venire con me alla festa. È per la mia figlioccia.»
«Ci sarà un angolino tranquillo o uno sgabuzzino in cui spingerti per
qualche minuto e mangiarti di baci?»
Risi. «Non garantisco. Ma è possibile.»
«E va bene. A che ora passo a prenderti?»
«Davvero verrai a una festa piena di bambini insieme a me?»
«Mi stai invitando?»
«Certo, se vuoi. Sono sicura che a Quinn farebbe piacere conoscerti. È la
festa della figlia della mia migliore amica.» Feci una pausa. «A essere sinceri,
però, non credo che sia la tua più grande fan. Ci diciamo tutto e
probabilmente ti guarderà storto e ti farà il terzo grado.»
«Ne varrà comunque la pena, anche soltanto per la possibilità di beccarti
da sola per qualche minuto. Inoltre, prima o poi dovrò conquistare la tua
amica.»
Adorai che fosse disposto a lavorare con qualsiasi cosa gli offrissi. «Sai
che c’è, renderemo quella festa interessante. Se riesci a farti abbracciare dalla
mia figlioccia alla fine della festa e la madre ti dà la sua approvazione, mi
lascerò palpare in auto tornando a casa.»
Ovviamente non sapeva che la mia figlioccia odiasse gli uomini in
generale e che, a un certo punto, Quinn avesse pensato di andare a trovarlo in
carcere per tagliargli le palle. Ma che divertimento ci sarebbe stato se lo
avessi informato a tale proposito?
«Dolcezza, non hai idea di quello che farei pur di vincere questa
scommessa.»
«Alle sei, venerdì pomeriggio.»
«Non vedo l’ora.»

Il suono del citofono mi fece sobbalzare. Non ricordavo una volta in cui
fossi stata così nervosa per un appuntamento – se così si poteva definire
portare Gray con me a una festa per bambini alle sei di venerdì pomeriggio.
«Sei in anticipo di mezz’ora», risposi. «Perché penso che tu l’abbia fatto
apposta così non sarei stata pronta e ti avrei detto di salire invece di
scendere?»
«Perché sei intelligente.» La sua voce roca e l’onestà mi fecero ridere.
«Vieni su.»
Aspettai l’ascensore sulla soglia. Ero tornata a casa un po’ prima per fare
una doccia e prepararmi, ma avevo ancora bisogno di un quarto d’ora per
truccarmi. Gray uscì dall’ascensore e venne verso di me, sicuro e determinato
– aspetto che trovavo eccitante. Qualcosa nel modo in cui un uomo si atteggia
e cammina mi fa capire moltissime cose. Può essere la posizione a gambe
aperte, leggermente più ampia delle spalle, o il modo in cui tiene la testa alta
e guarda dritto davanti a sé.
Gray si mangiò il tratto fino alla mia porta con la sua lunga falcata
armoniosa. Nonostante mi turbasse, non cedetti terreno quando capii che non
si sarebbe fermato.
Entrò dritto nel mio spazio personale e mi mise un braccio attorno alla
vita. «Venendo qui ho cercato la definizione di ‘piano’.»
Lo guardai scettica. «Ah sì? E cos’hai appreso?»
«Muoversi o procedere con velocità inferiore al normale.»
«Molto bene. Hai imparato la definizione. Cosa mi dici di ‘avvenenza’?
Ho imparato a memoria quella parola anni fa per l’esame di ammissione alla
scuola di legge.»
Gray usò la mano attorno alla mia vita per portarci più vicini. «Sapientona.
Intendevo… ‘piano’ non vuol dire fermarsi. Significa continuare a procedere,
solo a un ritmo inferiore.»
«Già, proprio così.»
Giuro che vidi un brillio nei suoi occhi mentre un sorrisino astuto gli si
allargava in faccia. «Mi fa piacere che siamo d’accordo. Adesso dammi
quella bocca, così possiamo continuare a procedere.»
Aprii la bocca per replicare ma le sue labbra si abbatterono sulle mie
prima che potessi dire qualcosa. Avevo dimenticato quanto fossero morbide e
il contrasto che creavano con la passione del suo bacio. Gray non perse
tempo e affondò la lingua per assaggiarmi. Gemetti nelle nostre bocche unite
e lui reagì con un ringhio che vibrò in alcuni punti interessanti.
Mi spinse contro la porta del mio appartamento e, d’un tratto, mi ritrovai
con le gambe avvolte attorno alla sua vita. Non sapevo se fosse stato lui a
sollevarmi e a guidare le mie azioni o se avessi fatto tutto da sola. La folle
velocità del mio cuore martellante rese tutto ancora più febbrile. Infilai le dita
tra i suoi capelli, tirandolo più vicino. Gray sfregò i fianchi contro di me. Ce
l’aveva durissimo e le gambe aperte mi lasciavano scoperta alla frizione. Così
peccaminosamente scoperta!
Gemetti di nuovo e Gray spinse ancora più forte. Mi afferrò una natica e la
strinse fino quasi a farmi male. Ma quel po’ di dolore non fece che eccitarmi
ulteriormente. Ero assolutamente fregata quando si trattava di andarci piano
con quest’uomo. In quel momento, se si fosse tirato giù la lampo e mi avesse
scostato gli slip, gli avrei permesso di scoparmi contro la porta di casa mia,
alla vista di tutti i vicini.
Per fortuna, nonostante fosse un asso nel capirmi, non era in grado di
leggermi nel pensiero. Così, una volta interrotto il bacio, io ero ansimante,
senza fiato, ma, per lo meno, ancora con tutti i vestiti addosso.
Tenni gli occhi chiusi mentre tentavo di ricompormi, lottando contro una
tempesta ormonale per riprendere una parvenza di autocontrollo. Perciò venni
colta alla sprovvista dal sonoro schiocco della mano di Gray che entrava in
contatto con il mio sedere. Spalancai gli occhi.
«Ma che diavolo?…»
«Te lo dovevo per l’altro giorno al telefono: mi hai sfottuto per il pranzo
con Oliver e per gli altri uomini che frequentavi.» Gray mi sfregò la natica
per far passare il bruciore.
Mai e poi mai gli avrei detto che le mie mutande si erano appena bagnate
un po’ di più. Approfittai invece del momento per staccarmi da lui, perché
non ero sicura di riuscire a rispettare la mia richiesta di andarci piano.
Deglutii e misi i piedi a terra. «Dopo questo, dovrei lasciarti qua fuori sul
pianerottolo mentre finisco di prepararmi.»
«Se è questo ciò di cui hai bisogno per mantenere il controllo, fa’ pure.»
Mi prese per la nuca e mi sfiorò le labbra con le sue. «Ma non dimenticare di
cambiarti le mutande bagnate.»
Scossi la testa ma non gli sbattei la porta in faccia mentre entravo in casa.
«Così pieno di te.»
Lo sentii ridacchiare mentre lo lasciavo in cucina.
Non tentò di entrare in camera da letto durante i venti minuti che impiegai
per truccarmi e cambiarmi, il che un po’ mi sorprese. Ma avevo la sensazione
che avrebbe rigato dritto, sapendo che c’erano dei limiti che, se varcati,
avrebbero messo a repentaglio tutto.
Una volta pronta, lo trovai in soggiorno, intento a guardare le fotografie
sulla libreria. Ne teneva una in mano. Lo raggiunsi e vidi che si trattava di
una vecchia foto di famiglia, di me con i miei genitori.
«Non so nemmeno per quale motivo la tenga esposta. Forse è perché sono
addestrata a mantenere le apparenze di una famiglia normale.»
«Puoi amarli entrambi pur non approvando il loro stile di vita.»
Gli tolsi la foto di mano e la posai di nuovo sulla mensola. Per cambiare
argomento, ne presi una di me e Quinn alle medie, dove portavamo vestiti
abbinati.
«Questa è Quinn. Non so perché, ma avevamo l’abitudine di chiamarci la
domenica sera e stabilire un abbigliamento abbinato da indossare il lunedì.»
Gray sorrise. «Eri sexy già alle medie.»
«Neanche tu dovevi essere malaccio.»
Il resto delle fotografie sulla mensola mostrava la mia figlioccia, Harper.
Gray ne indicò una. «Immagino sia lei la festeggiata di stasera.»
«Come hai fatto a indovinare?» chiesi sarcastica.
Harper era stesa in una lunga scatola e guardava la tv. Era ossessionata
dalle scatole sin da quando aveva imparato a camminare, e i genitori le
usavano per realizzare svariati mobili, incluso il letto nella foto. La scatola
malandata stava proprio accanto al bellissimo, e vuoto, letto a baldacchino
che le avevano comprato.
Guardando l’ora, mi resi conto che dovevamo avviarci. «Prendo il telefono
e poi possiamo andare.»
«Non mi fai fare prima il giro?»
«Dell’appartamento? Non c’è molto da vedere. A differenza tua, non ho la
vista sulla città. Ma se guardi fuori dalla finestra della camera verso le due
del mattino, a volte il tipo dirimpetto fa yoga nudo.»
«Fantastico», mugugnò Gray. Mi mise una mano sul fondoschiena e mi
guidò verso la camera da letto. «Farò comunque un tour della stanza dalla
quale puoi guardare il tizio fare yoga nudo.»
Mi fermai sulla soglia, perché la camera era occupata per lo più dal
materasso. Avevo un king-size in uno spazio destinato a un normale
matrimoniale. Ma dormivo sonni agitati e tendevo a rigirarmi parecchio.
Indicando letto e cassettone, dissi: «Questo è quanto. Camera piccola ma con
una grossa cabina armadio».
Gray si voltò sulla soglia. «Com’è andata con Oliver?»
«Io ti mostro la mia camera da letto e tu pensi a Oliver?»
Mi sfiorò le labbra con il pollice. «Penso a quanto non vedo l’ora di
scoparti in quel tuo grande letto, e voglio accertarmi che non ci siano più
ostacoli.»
Dio, mi piaceva ogni volta che diceva di volermi scopare. Sapevo
senz’ombra di dubbio che la nostra prima volta sarebbe stata proprio quello:
scopare. Non fare l’amore. Sarebbe stata una rude, primitiva scopata quando
finalmente saremmo stati insieme.
Mi schiarii la voce. «È andata bene. Sarà meglio muoverci.»
Dabbasso, fui sorpresa di trovare ad aspettarci la berlina di Gray. Pensavo
che avrebbe guidato lui per andare alla festa, non che si presentasse con
l’autista.
«Un autista per un compleanno?»
Fece un cenno ad Al, che, nel vederci, era smontato e mi precedette per
aprirmi lo sportello. «Ci avevo pensato. Però mi servono due mani per
palparti lungo la strada del ritorno… dopo che avrò vinto la nostra
scommessa.»
17

Layla
«DAVVERO non vuoi dirmi cos’è questo gigantesco affare?»
«Te lo mostro io un affare gigantesco…»
Alzai gli occhi al cielo. «Quell’affare nei tuoi pantaloni farà meglio a
essere notevole se alla fine lo vedrò, visto quanto te ne stai vantando. Adesso
dimmi cosa c’è in quello scatolone.»
«Te lo dico per un bacio.»
«Ti ho già baciato.»
«C’è un limite giornaliero?» Gray mi attirò sulle sue ginocchia.
Ridacchiando, pensai: Io non ridacchio, per la miseria.
«Mi sei mancata, Lentiggini. Mi è mancato questo: la sensazione che tu
fossi mia.» Mi scostò i capelli da un lato e mi baciò il collo. Sospirai e chiusi
gli occhi. Era mancato anche a me. Anche se, a differenza di Gray, stavo
facendo passi da formica e non mi stavo buttando a capofitto in questa
relazione, così tenni per me ciò che pensavo.
«Posso farti una domanda?» chiesi.
«Tutto quello che vuoi.» Inspirò a fondo e tenne la testa sprofondata nel
mio collo. «Dio, amo il tuo profumo.»
«Pensi sia possibile amare due persone contemporaneamente?»
Lo sentii irrigidirsi. «C’è qualcosa che vuoi dirmi?»
Risi. «No. Non parlavo di me. È che vederti guardare la foto dei miei
genitori mi ha fatto pensare a quanto sembri possessivo. Sarebbe stato un
problema se avessi frequentato Oliver e te contemporaneamente?»
Staccò la testa dai miei capelli e mi fissò. «Parliamo per ipotesi, giusto?
Hai rotto con Pisellino l’altro giorno a pranzo?»
«Sì, pazzo. Non si tratta di noi. Te lo assicuro. È solo che per tutta la vita
mi sono affannata a capire come abbia potuto mia madre accettare che papà
avesse un’altra donna, un’altra famiglia. E come lui potesse dire di amare le
sue famiglie nello stesso modo.»
Parve sollevato che non fossi innamorata di un altro. Cambiò posizione e
guardò fuori dal finestrino, mentre rifletteva sulla mia domanda. Riportò gli
occhi su di me. «È una questione difficile. Non voglio ferire i tuoi sentimenti
rispondendo che non ritengo possibile amare due persone allo stesso modo.»
Sospirai. «È tutto a posto. Neanch’io. Sono pochissimi a sapere della mia
vita famigliare e non ne avevo mai parlato con un uomo. Pensavo che, per
qualche ragione, la tua prospettiva potesse essere diversa dalla mia.»
«Credo che ci siano modi diversi di amare. Ma se davvero ami qualcuno,
come un uomo dovrebbe amare la sua donna, allora nel tuo cuore non c’è
spazio per amare qualcun altro alla stessa maniera.»
«Allora perché non divorziare?»
Gray scosse la testa. «Non ne ho idea. Per istinto, direi che alcuni uomini
considerano le donne come una proprietà.»
«Ma anche tu sembri parecchio possessivo.»
«C’è differenza tra voler possedere qualcuno ed essere possessivi.»
«E sarebbe?»
«La possessività deriva dalla paura di perdere qualcosa cui tieni. Voler
possedere qualcosa significa che vuoi controllarla, portarle via la libertà.»
Sorrisi. «Sembri così saggio, mentre in genere dai l’impressione di essere
solo saccente.»
L’espressione di Gray si fece seria. «Nessuno di noi due ha avuto dei
modelli ideali in fatto di relazioni. Tuttavia, mi piace pensare di aver per lo
meno imparato cosa non fare. La lealtà di mio padre era nei confronti del suo
lavoro, non delle sue mogli. Per me non sarà così. Non più. Immagino che a
volte, se sei costretto a restare fermo per un lungo periodo, la vita ti dà la
possibilità di guardarti indietro. Così le cose sono più chiare rispetto a quando
ti guardi indietro da sopra la spalla mentre continui a correre.»
Per la prima volta presi l’iniziativa. Mi protesi verso di lui e gli sfiorai le
labbra con le mie. Quando mi tirai indietro, restammo a lungo a fissarci.
«Grazie», mormorò.
«Per il bacio?»
«No. Per la seconda possibilità.»
Harper mi corse incontro a tutta velocità appena entrammo. Avvolse le
piccole braccia attorno alle mie gambe e prese a saltellare su e giù, indicando
l’enorme scatola che reggeva Gray. Ancora ne ignoravo il contenuto. «È per
me? È per me?»
Gray si calò su un ginocchio per guardarla negli occhi. «Il tuo nome è
Harper?» le chiese.
Lei annuì vigorosamente.
«Oggi è il tuo sesto compleanno?»
Altri cenni di assenso.
Gray si volse alla scatola e alzò le spalle. «Be’, allora direi che è per te.»
«Posso aprirla?»
Gray si girò verso di me in cerca di risposte.
«Oh no», dissi. «Sei stato tu a portare qui quella cosa enorme. Non mi
costringerai a dirle che non può farla a pezzi.»
Per fortuna ci raggiunse Quinn. Mi baciò sulla guancia e si rivolse a Gray
con fare impassibile. «Cerchi di comprare la mia bambina, eh? Spero che tu
mi abbia portato qualcosa di buono. Costa caro comprarmi.»
Gray si chinò a baciare Quinn sulla guancia. Le parlò con la sua voce roca
e sexy. «Ti ho portato la miglior cosa possibile: Layla. È un piacere
conoscerti, Quinn.»
Lei lo guardò storto. «Direi che la cosa è reciproca, ma la giuria deve
ancora deliberare a tale proposito.»
Gray parve apprezzare la risposta. «Hai tutto il diritto di essere scettica.
Sono contento che Layla abbia amici protettivi.»
Quinn mi prese sottobraccio. «Perché non porti l’amico di zia Layla in
soggiorno? Lì potrai aprire il tuo regalo con papà, Harper.» Si rivolse a Gray.
«Porto Layla in cucina per aprire una bottiglia di vino e parlare di te. Cosa
posso offrirti da bere?»
Lui rispose con un sorriso smagliante. «Una birra sarebbe fantastica.»
La porta della cucina si stava ancora chiudendo quando Quinn cominciò:
«Gesù Cristo. Hai detto che era bello. Non così, però. Qui siamo ai livelli di
Brad Pitt prima di Angelina».
Presi due bicchieri da vino dalla credenza. «Potrei innamorarmi sul serio,
Q. È terrificante.»
Lei sfilò una bottiglia di vino da una rastrelliera sul bancone e un
apribottiglie dal cassetto nell’isola centrale. «Non ti fidi ancora di lui?»
«Non è che non mi fidi. Ho paura di farlo. Insomma, il motivo per cui ha
mentito ha parecchio senso. E, tecnicamente, non si è trattato neanche di
mentire: il matrimonio era stato annullato. Era in una posizione di grande
svantaggio e il nostro legame è iniziato molto in fretta. Quindi una parte di
me capisce perché non volesse farmi fuggire con la sua folle storia. Sono
convinta che le sue scuse siano sincere e che lui tenga a me.»
Un sonoro pop riempì l’aria appena Quinn stappò la bottiglia. «Allora, a
cosa è dovuta l’esitazione?»
«Potrebbe devastarmi.»
Lei sollevò la bottiglia. «Potrebbe anche perdere le palle con un coccio di
bottiglia.»

«Oh, mio Dio.» Porsi a Gray la sua birra e gli rimasi accanto mentre gli
invitati si affollavano attorno a Harper, intenta a scartare il regalo. «Non
dirmi che quell’affare è una scatola di scatole.»
La mia figlioccia aveva appena aperto la scatola di un metro per un metro
che Gray le aveva portato, solo per trovarne una leggermente più piccola
all’interno.
Gray ridacchiò e bevve un sorso di birra. «Hai detto che era ossessionata
dalle scatole.»
Certo, ma un anno e mezzo prima. «Come diavolo hai fatto a
ricordartene?»
«Te l’ho detto, ricordo ogni minuto trascorso a parlare con te.»
Dio, dice sul serio. E il fatto che rammentasse un particolare a caso, che
gli avevo raccontato di sfuggita tanto tempo prima, mi fece desiderare di
trovare quello sgabuzzino vuoto in cui aveva minacciato di spingermi.
«È davvero dolce da parte tua. Io le ho portato solo un ciondolo a forma di
cuore. Ne resterà delusa dopo questo. Purtroppo.»
«E l’ultima scatola contiene un vero regalo», sorrise fiero. «È una scatola
di legno difficilissima da aprire.»
Lo guardai torva. «Qui si rasenta la corruzione, e potrebbe essere
considerato imbrogliare nella nostra scommessa.»
«Tutto il mio regalo è costato meno di venti dollari. Tu quanto hai speso?»
Mi portai il bicchiere alle labbra. «’fanculo.»
Si lanciò un’occhiata attorno con un sorriso odioso. «Mi piacerebbe. Ma
con te. Dov’è quello sgabuzzino?»
«Andiamo, imbroglione. Lascia che ti presenti a tutti.»
Gli invitati non erano numerosi – per lo più Quinn e la famiglia di suo
marito Brian, e qualcuno dei dipendenti del pub. Brian, da diffidente
poliziotto di New York qual era, sfoggiò un’espressione ostile stringendo la
mano a Gray. Quando Quinn gli aveva detto che avevo conosciuto un uomo
in carcere, si era espresso senza mezzi termini sulla mia sanità mentale. Nello
scoprire che le cose tra noi erano andate com’erano andate, non aveva potuto
esimersi dal dirmi: «Te l’avevo detto».
Brian fissò Gray negli occhi. «Layla è come una sorella minore per me. E
porto una pistola.»
«Brian!» lo sgridai.
Gray mi fece segno di lasciargli gestire la cosa. Annuì rivolto a Brian:
«Ricevuto».
Era buffo, visto che avevo deciso di perdonare Gray e andare avanti, ma
mi sentivo in colpa per quello che aveva vissuto e volevo che anche tutti gli
altri andassero avanti. Le persone continuavano a vederlo come un ex
galeotto nonché futuro sospetto, pur conoscendo la verità sul suo passato.
Perciò, mentre capivo in parte la diffidenza di Brian, mi sentivo anche in
dovere di difendere Gray.
«Sai una cosa, Brian…»
Gray mi mise una mano attorno alla vita e strinse con discrezione. I miei
occhi sfrecciarono sui suoi e capii che voleva che lasciassi perdere. E lo
feci… per il momento.
Agitando un dito in direzione di Brian, conclusi: «Ne parliamo dopo».
Uscimmo sul retro e finii di presentare Gray agli altri ospiti. Per lo meno
furono cordiali. Finito il giro, ci sedemmo insieme su una sdraio al sole. Era
una meravigliosa serata di fine primavera. Appoggiai la testa sulla sua spalla.
«Mi dispiace per Brian e Quinn.»
«Nessun problema. Se non fossero protettivi, non sarebbero buoni amici.
Sono contento che tu li abbia.»
«Lo so. Ma vorrei che piacessi anche a loro.»
«Non ho intenzione di andare da nessuna parte, Lentiggini. Da’ loro tempo
di cambiare idea e sarà una cosa autentica. Non puoi costringere nessuno ad
abbassare la guardia.» Mi baciò sulla testa. «Devo guadagnarmi la loro
fiducia, proprio come sto ancora guadagnandomi la tua.»
Qualche ora dopo, mentre la festa volgeva al termine, osservai da una
certa distanza Gray che parlava con Brian.
I ragazzi stavano giocando a lanciare i ferri di cavallo e Gray si era unito a
loro. Avevo il sospetto che l’avesse fatto più per passare del tempo con Brian
che per la voglia di giocare.
Quinn mi raggiunse e si sedette accanto a me. «Immagino tu abbia mollato
Mr. Twist?»
Impiegai un minuto a capire che si riferiva a Oliver. «Già. È un bravo
ragazzo, ma quando Gray è rientrato nella mia vita, ho capito che Oliver non
era quello giusto. Anche se verrà fuori che non lo è nemmeno Gray… ciò che
provo mi ha ricordato come dovrebbe essere.»
Un grido riportò la mia attenzione al gioco dei ragazzi. Doveva essere
successo qualcosa di bello, perché Brian spinse il pugno in aria e poi lo vidi
battere il cinque con Gray.
«Per conquistare mio marito devi essere bravo nei giochi stupidi che gli
piace fare.»
«E cosa deve fare Gray per ottenere l’approvazione di sua moglie?»
«Semplice. Basta che renda felice e non triste la mia ragazza.»
Harper arrivò di corsa con la cugina e balzò sulle mie gambe. «Zia Layla,
vuoi giocare con le mie scatole?»
«Certo, mocciosa.»
Non sapevo bene come si giocava con le scatole, ma mi lasciai dirigere
dalla piccola tiranna finché i ragazzi non finirono la partita con i ferri di
cavallo. Brian tirò fuori Harper dalla scatola in cui era seduta e la lanciò in
aria. La mia figlioccia strillò come una bambina dovrebbe fare quando il suo
papà gioca con lei.
«È tardi», annunciò Brian. «Che ne dici se metto a letto te e tua cugina, ma
vi lascio tenere la luce accesa e portare con voi alcune di queste scatole?»
«Sì!»
Mise giù Harper che, proprio in quel momento, sbadigliò.
«Di’ buonanotte e ringrazia tutti per essere venuti.»
La bimba fece il giro degli ospiti, abbracciando tutte le donne ma
tenendosi alla larga dagli uomini, come al solito. Io fui premiata con un
gigantesco abbraccio a due braccia; poi lei si fermò e guardò Gray, accanto a
me.
Lui si abbassò. «È stato bello conoscerti, Harper.»
Harper esitò, poi lasciò tutti di stucco saltando fra le braccia di Gray.
Quinn e io eravamo ancora incredule quando Brian la portò in camera sua.
Gray sussurrò al mio orecchio, facendomi venire la pelle d’oca. «Una è
andata, adesso tocca all’altra.»
Indietreggiò e iniziò a srotolarsi le maniche della camicia, che doveva aver
tirato su mentre giocava con i ragazzi. Quinn mi diede una gomitata nelle
costole.
«Ahi.» Mi voltai verso di lei, che strabuzzò gli occhi in direzione delle
braccia di Gray: i suoi enormi, possenti avambracci.
Dio, spero che la sua analogia sia vera.
Dopo che le bambine furono messe a dormire, Brian, Quinn e io restammo
in giardino con Gray, raccontandogli aneddoti della nostra gioventù.
Ridemmo e bevemmo qualche drink. Pensai che fosse un bel passo avanti nel
loro gradimento nei confronti del mio nuovo… Come definire Gray?
Immagino che avessero cominciato ad accettare il mio nuovo ragazzo. Verso
mezzanotte decidemmo di mettere fine alla serata.
Sulla soglia, salutai la mia amica con un abbraccio e le promisi di passare
dal pub per cenare con lei in settimana. Brian e Gray si strinsero la mano,
stavolta senza l’occhiata glaciale. Quando Gray abbracciò Quinn, lei mi fece
l’occhiolino da sopra la sua spalla e poi il segno dei pollici in su.
I pollici in su.
Ovviamente Gray voltò la testa in quel preciso momento. Ma ebbi la
certezza che avesse visto il gesto di Quinn nel momento in cui si voltò del
tutto: il luccichio nei suoi occhi confermò che non gli era sfuggito niente.
Quell’uomo aveva fatto l’impossibile nel giro di sei ore: un abbraccio
dalla festeggiata e l’approvazione della mia amica.
E io…
…io stavo per essere palpeggiata in auto sulla via del ritorno.
18

Gray
UNA limousine aspettava davanti al marciapiede.
«Una limousine? Dov’è la tua berlina?» domandò Layla.
Salutai l’autista e le aprii lo sportello, senza dire altro. Lei mi guardò,
ancora in attesa di una risposta, mentre le sedevo accanto sul sedile posteriore
e chiudevo lo sportello. Diedi all’autista l’indirizzo di Layla e conclusi con:
«Prenda la strada lunga. Farò in modo che ne valga la pena».
Premetti un bottone sul pannello in alto e il vetro divisorio cominciò ad
alzarsi. A quel punto la privacy era completa, così mi issai Layla in grembo.
«Credo di aver vinto una scommessa e sono pronto a reclamare il mio
premio.»
L’odore del suo profumo, o forse era lo shampoo, mi faceva impazzire. Mi
sentivo un adolescente in procinto di ottenere il primo assaggio della ragazza
sexy per la quale aveva sbavato tutto l’anno. Solo che ero un uomo
ultratrentenne sul punto di coprirsi di ridicolo venendo nelle mutande.
Lei sgranò gli occhi quando allungai la mano sull’orlo della sua maglia e
mi eccitò a non finire guardarle il petto sollevarsi. Era così tanto che
aspettavo di vedere quei bellissimi seni. Adesso che finalmente era arrivato il
momento, volevo memorizzare ogni cambiamento nel suo respiro, ogni suono
che emetteva, per capire cosa le piaceva.
Sollevai la stoffa fin sopra l’ombelico e abbassai la testa per leccare la
pelle lì attorno prima di procedere mordicchiando da un lato e poi dall’altro
dei fianchi.
Alzando lo sguardo sul suo viso, scoprii che i bellissimi occhi verde-
azzurro erano diventati di un profondo blu oceano. Avevo sperimentato che si
scurivano se era arrabbiata o eccitata, e mi elettrizzava rivedere finalmente
quel colore per la ragione giusta. Le sollevai ancora un po’ la maglia, poco al
di sotto dello sterno.
Optando per un bacio delicato, mormorai: «Ho cercato la definizione di
‘palpeggiare’».
Nella sua voce c’era un mix di divertimento e sarcasmo, con un tocco di
roca eccitazione. «Non sapevo che ‘palpeggiare’ fosse sul dizionario.»
«Ho dovuto usare l’Urban Dictionary.»
«Ah davvero? E cosa aveva da dire esattamente l’Urban Dictionary?»
Feci scorrere la lingua lungo la pelle sotto la coppa del reggiseno,
seguendo la forma del seno. Prima uno e poi l’altro.
Le mie labbra vibrarono sulla sua pelle mentre risposi. «Diceva:
‘palpeggiato’ significa toccato nelle parti intime.»
Tirando indietro la testa per guardarla, le sollevai più adagio che mai la
maglia, scoprendo il reggiseno. Fu quasi impossibile, ma non abbassai gli
occhi quando le parlai: «Visto che c’è ambiguità riguardo a cosa dovrebbe
toccare le tue parti intime, scelgo di farlo con la lingua».
«E io che pensavo che essere palpeggiata significasse che un ragazzo
infilava la mano sotto la felpa di una ragazza…» La sua voce si affievolì
mentre passavo la bocca nel magnifico incavo: con la lingua tracciai una linea
dai seni fino al collo.
Layla cambiò posizione e si mise cavalcioni sopra di me. La gonna che
indossava si aprì e sentii il suo calore attraverso la stoffa dei miei pantaloni e
dei suoi slip. Gemetti e usai i pollici per abbassarle le coppe del reggiseno
prima di chinare la testa e impadronirmi di un capezzolo eretto. Venne
travolta dalle sensazioni quanto me nel momento in cui la morsi, tenendo il
bocciolo turgido tra i denti e tirando, prima di liberarlo e passare all’altro. Mi
prese le guance tra le mani mentre succhiavo, graffiandomi la mascella con le
unghie. Sollevai i fianchi per spingere contro di lei, perché sentisse cosa mi
stava facendo.
Sentendola gemere il mio nome, per poco non persi la testa. Era tanto
tempo che desideravo ascoltare quel suono più di ogni altra cosa. Il mio nome
pronunciato in un gemito. Ansimante, si sfregò contro di me. Non avevo
pianificato nient’altro che una pomiciata e di succhiarle i magnifici seni, ma,
quando lei si strusciò di nuovo sulla mia erezione, ormai di pietra, capii che
aveva bisogno di venire.
Tuttavia, avevo paura di insistere troppo e troppo in fretta. Così sondai le
acque, passando piano il pollice sul lato esterno degli slip.
Porca miseria.
Erano fradici.
Dopo quel gesto, accadde tutto come una valanga. La presi per i capelli e
le tirai la bocca sulla mia. A differenza dell’ultima volta, non dovetti
incoraggiarla ad aprirla per me. La lingua di Layla scivolò nella mia bocca,
così avida che mi fece gemere. La sua maglia era ancora sollevata e i seni
erano premuti contro di me così forte che la durezza dei capezzoli sul mio
petto – anche attraverso la camicia – mi faceva pensare alla selce che sfrega
sull’acciaio. Sprizzavano scintille.
Ma non bastava; avevo bisogno di infiammarla.
Sollevandola con delicatezza, le presi il sesso nel palmo della mano.
Anche se vi si strusciò sopra, volevo ancora sentirglielo dire.
«Dimmi che vuoi che ti faccia venire.»
Fece per replicare, ma le sue parole furono interrotte da un rantolo appena
premetti il pollice sulla clitoride gonfia attraverso gli slip bagnati. «Sì. Sì.»
«Sì, cosa?»
«Fammi venire», ansimò. «Ti prego.»
Le afferrai il fianco con la mano sinistra, la sollevai leggermente e le
strappai quelle dannate mutande con l’altra. I suoni della mia disperazione la
fecero gemere ancora.
Potrei venire prima di lei, anche senza che mi tocchi l’uccello.
Appena infilai due dita dentro di lei, inarcò la schiena. Con l’altra mano le
tirai indietro i capelli per scoprirle il collo. Succhiandole con forza la pelle
delicata, avevo l’intenzione di lasciarle un segno perché ricordasse com’era
farsi scopare con le dita da me.
Era così stretta. Tirai fuori le dita, poi le spinsi dentro più forte di quanto
si aspettasse. Emise un verso strozzato e abbassai di nuovo la testa per
prenderle un capezzolo.
«Sei così bagnata per me. Così meravigliosamente stretta. Amo il fatto che
sarò il tuo primo uomo dopo tantissimo tempo. E tu la prima donna per me.»
Aumentai la velocità delle dita. Adesso erano ben lubrificate, con il suo corpo
che si rilassava e accettava il piacere. I suoi fianchi cominciarono a muoversi
avanti e indietro.
«Prendi la pillola, Layla?»
«Sì», gemette.
«Bene. Ho fatto un check-up dal dottore la settimana scorsa. Sono pulito.
Ti porterò i referti, se vuoi.» Aggiunsi un terzo dito nel momento esatto in cui
le diedi un altro strattone ai capelli, e il suo gemito fu musica per le mie
orecchie.
«Ci sono state barriere tra di noi per anni. Non voglio niente tra di noi
quando sarai pronta. Ti voglio nuda, così potrò riempirti con il mio seme.»
Allungai il pollice per premerle la clitoride, che avevo ignorato di
proposito, e mentre intonava: «Sì, sì, sì», non sapevo se era perché le piaceva
ciò che stavo facendo o se anche lei non vedeva l’ora che le venissi dentro.
Mi piaceva pensare che fosse per entrambe le cose.
Sentii il suo sesso serrarsi attorno alle mie dita e tirai indietro la testa per
osservare il momento magico della sua esplosione. La scena fu più intrigante
di qualsiasi cosa avessi mai visto. I muscoli pulsavano mentre urlava il mio
nome e la sua faccia si irrigidì prima di essere pervasa da un lampo di
appagamento. Con gli occhi chiusi, cavalcò un’ondata di euforia.
Bellissima.
Bellissima, cazzo.
Alla fine, allentai la presa sui capelli e lei crollò in avanti su di me. La
faccia premuta sulla mia spalla, rimase così, ansante, per un po’. Appena il
respiro tornò regolare, girò la faccia per guardarmi e scorsi sulle sue labbra
un meraviglioso sorriso pigro.
Ricambiai con il mio, che andava da un orecchio all’altro. Era stata lei ad
avere un orgasmo, ma quell’espressione felice era il regalo migliore che
potesse farmi. Avvolgendola tra le braccia, la baciai sulla testa. Questo…
questo era un altro di quei momenti in cui avrei voluto che il tempo si
fermasse.
«Dio, ne avevo davvero bisogno.» La voce di Layla si era già fatta
sonnacchiosa.
«Lo penso anch’io.»
«Dannazione. Se essere palpeggiati significa questo, i ragazzi al liceo non
sapevano proprio dove mettere le mani.»
Ridacchiai. «Sono pazzo se ho l’impulso di pestare un branco di anonimi
atleti del liceo che hanno potuto palpeggiarti le tette prima di me?»
«Pazzo?» rise. « Sì. Ma anche molto dolce.»
Sentii rallentare l’auto e guardai fuori dal finestrino. Eravamo già
dall’altro lato del tunnel e di nuovo a Manhattan. Perdevo la cognizione del
tempo in compagnia di quella donna. Dal primo giorno che l’avevo
conosciuta, le ore sembravano volare.
«Siamo quasi a casa tua», sussurrai baciandole la fronte.
Lei si tirò su e guardò fuori. «Wow. Abbiamo fatto davvero in fretta.»
Guardai l’ora. «Abbiamo lasciato casa di Quinn quasi un’ora fa.»
Si sistemò i capelli e ridacchiò. «Accidenti. Il tempo vola quando ti
diverti.»
Qualche minuto dopo – ci eravamo appena ricomposti –, accostammo
davanti al suo palazzo. La mia erezione non sarebbe sparita da sola, ma per lo
meno adesso ero in grado di camminare.
«Ti accompagno.»
Layla si morse il labbro, evitando i miei occhi, chiaramente combattuta.
«Non mi sono presa cura di te. Ti va di restare da me per un po’?»
Era un invito per il quale avrei dato il braccio sinistro fino a qualche
settimana prima. Tuttavia, la guardai negli occhi, e vedendoci esitazione,
seppi che non era pronta per quello.
«Per quanto vorrei dire di sì…» Le sollevai il mento con due dita per
poterla vedere meglio. «Per quanto vorrei davvero dire di sì, sarà meglio che
vada.»
Lei parve al tempo stesso sollevata e delusa, ma annuì.
Decisi che era più prudente salutarsi sul pianerottolo. Dopo che ebbe
aperto la porta, mi appoggiai allo stipite con entrambe le mani. «Vieni a una
festa con me domani sera. Il socio di mio padre compie sessant’anni, quindi
non sarà divertente come un compleanno di una bambina che ne compie sei,
ma mi piacerebbe portarti e sfoggiarti. Grant è anche il mio padrino.»
L’espressione di Layla si addolcì. «Mi piacerebbe.»
«Non cambierai idea se ti dico che è richiesto l’abito lungo?»
Sorrise. «Sono sicura di poter trovare qualcosa nell’armadio.»
«Alle sette.»
«Va bene.»
Le sfiorai le labbra con le mie, anche se avrei voluto tanto divorare di
nuovo quella bocca. «Grazie per questa sera, Lentiggini.»
Arrossì. «Mi sa che sono io a doverti ringraziare dopo il passaggio in
auto.»
«È stato un piacere. Non vedo l’ora di rifarlo presto… solo che la
prossima volta… sarà con la lingua.»
19

Layla
È GROSSO .
E duro.
Ed è passato davvero tanto, tanto tempo.
Mordicchiai il cappuccio della penna e fissai il quaderno.
Davvero, davvero duro, aggiunsi. Al punto che meritava due spazi nella
colonna dei pro. E sottolineai entrambi i davvero.
Mi ero preparata in anticipo, perciò non mi restava che infilare il vestito.
Visto che Gray non sarebbe arrivato prima di un’altra mezz’ora, avevo
iniziato un’analisi dei pro e dei contro dell’andare a letto con lui. Dopo venti
minuti, l’elenco dei pro era parecchio lungo, mentre quello dei contro aveva
una sola voce. Ma se avessi messo la mia collezione di pro e contro su una
bilancia, ero sicura che il peso di quell’unica voce negativa avrebbe fatto
pendere l’ago dalla sua parte.
Potrebbe spezzarmi di nuovo il cuore.
Era quella la mia unica riserva. L’avevo perdonato. Avevo accettato come
verità tutto ciò che mi aveva detto. Avevo perfino confessato a me stessa che
eravamo una storia non finita dalla quale non potevo staccarmi, per quanto mi
sforzassi di farlo.
Eppure ero ancora terrorizzata. Nel profondo, una parte di me temeva di
non essere affatto diversa da mia madre, di non essere capace di vedere una
situazione per quella che era davvero e che avrei accettato un uomo che non
era ciò che volevo.
Ripensai al giorno in cui avevo capito che mia madre era incapace di
accettare la realtà. Avevo quindici anni e mio padre era partito il giorno prima
per i suoi soliti quattro giorni sulla costa occidentale, con la sua vera
famiglia. Mamma era seduta al tavolo in cucina, beveva una tazza di tè
sfogliando delle brochure di vacanze alle Hawaii. Presa dall’entusiasmo, le
avevo chiesto se avessimo in programma un viaggio.
Sorridendo, mi aveva risposto di sì. «Tuo padre voleva farci una sorpresa,
ma ho trovato queste nella sua valigia dopo che è tornato dal suo viaggio
d’affari.»
Viaggio d’affari. È così che chiamava il tempo che lui passava con sua
moglie e l’altra figlia.
Il mio sorriso si era spento. Come no. Voleva sorprenderci con una
vacanza. Non erano brochure che sua moglie gli aveva messo in valigia
perché scegliesse un bel posto per la sua vera famiglia. Avevo scosso la testa.
«Mamma… non c’è nessun viaggio.»
«Certo che c’è», aveva replicato lei.
L’avevo scrutata in viso, certa che non potesse crederci davvero. E invece
ci credeva.
Mi intristì.
Non andammo alle Hawaii quell’estate. Ma, guarda caso, mio padre si
assentò per due settimane e, quando ci chiamò per salutarci, il prefisso del
viaggio d’affari era 808. Maui.
Come aveva fatto mia madre a non capire? Io ero solo una ragazzina,
eppure per me era chiaro come la luce del sole. L’unica spiegazione logica
era che lei giustificava tutto nella sua mente perché voleva stare con lui. E
ammettere che l’uomo che amava era un bugiardo significava che era
sbagliato stare con lui. L’amore dovrebbe essere cieco, ma non dovrebbe
renderti sordo, muto e anche stupido.
Messo via il quaderno, decisi di vestirmi. Se davvero pensavo di dare una
possibilità a questa relazione, non potevo passare il tempo prima
dell’appuntamento a rimuginare sul pessimo esempio dei miei genitori in
fatto di legami e su tutti i miei problemi di fiducia.
Avevo deciso di indossare un abito da sera invece che da cocktail. Abito
lungo significava entrambe le cose, ed ero in vena di agghindarmi. Avevo
speso una fortuna per quell’affare e l’avevo messo una volta sola, per un
evento di beneficenza al quale avevo partecipato per un cliente insieme a
qualche collega dello studio. Era di una bellissima sfumatura di blu notte, con
una silhouette semplice e slanciata e una scollatura che, pur essendo
profonda, riusciva a coprire tutto e a risultare elegante. Un delicato motivo a
perline cingeva la vita a mo’ di cintura, esaltando le mie curve. In occasione
di quell’evento avevo ricevuto una marea di complimenti da parte di uomini e
donne.
Il citofono suonò puntuale e dissi a Gray di salire mentre mi passavo sulle
labbra un rosso ultra brillante. Lui uscì dall’ascensore proprio mentre aprivo
la porta. Mi sfuggì un piccolo sospiro. Dio, era stupendo.
I capelli, solitamente arruffati, erano pettinati all’indietro con una riga di
lato e lo smoking gli stava alla perfezione. Mi ricordava una vecchia star del
cinema, un gentiluomo. Appena mi raggiunse sulla porta e mi prese per la
vita, però, la sua bocca fu tutt’altro che gentile.
«Ti mangerei.»
Gli appoggiai le mani sul petto e lo provocai: «Forse ho bisogno di
perdere un’altra scommessa alla festa di stasera».
Sorrise e mi catturò la bocca in un bacio. Amavo che le sue mani
trovassero sempre la mia faccia nel baciarmi. Mi prese le guance per
piegarmi la testa da un lato mentre mi succhiava la lingua. Immaginai la
sensazione di avere la sua testa fra le gambe, dove mi avrebbe succhiata con
la stessa intensità. Prima di interrompere il bacio, ritrasse la lingua che poi
tornò palpitante contro la mia.
Oh, mio Dio.
Non dovevo immaginare come sarebbe stata la sua lingua su di me, me lo
stava mostrando.
«Non devi vincere o perdere una scommessa, dolcezza. Basta che tu lo
dica. Ho l’acquolina al pensiero di sprofondare la lingua in quella tua fighetta
stretta.»
Rabbrividii. Dio, amavo quella sua boccaccia. «Sarà meglio che resti qui
fuori mentre vado a prendere la borsa.»
Feci per entrare, ma lui rimase lì piantato sulla soglia.
«Stavo scherzando, dai. Entra.»
Scosse la testa adagio mentre i suoi occhi mi spogliavano. «Fidati. È
meglio che resti fuori.»

«Avrei dovuto portare dei biglietti da visita. Infilarmeli nel vestito.»


Avevamo appena finito di parlare con la terza coppia alla quale Gray
aveva consigliato di trasferire le proprie faccende legali al mio studio. Non
mi era neanche passato per la mente che la maggior parte delle persone che
avrei conosciuto quella sera potessero essere potenziali clienti, nonostante
fosse logico, dal momento che si trattava dell’attività di suo padre e che
quello era il compleanno del suo socio.
Lui abbassò lo sguardo sulla mia scollatura. «Non credo ci sia posto per
nascondere qualcosa lì sotto.»
Gray mi tirò verso la pista da ballo e mi prese tra le braccia. Non fu una
sorpresa scoprire che ballava come baciava: in modo aggressivo, tenendomi
premuta contro di sé. Aveva grazia e ritmo, e guidava con mano forte.
«Dove hai imparato a ballare?» gli chiesi.
«Non alle lezioni di liscio alle quali mi iscrisse una delle mie matrigne
all’età di undici anni.»
«Non ci sei andato ma hai appreso comunque a danzare?»
«Mi ha insegnato Etta. Faceva parte dell’accordo che avevo con lei. Io
volevo studiare il karate, non il liscio. La mia matrigna insisteva che ballare
era una dote essenziale per un uomo che avrebbe partecipato a occasioni
mondane. Etta usò i soldi ricevuti per le lezioni di liscio per pagare quelle di
karate, delle quali nessuno sapeva, ma dovevo lasciare che mi insegnasse a
ballare.»
L’adorabile visione di un Gray undicenne che ballava con Etta mi fece
sorridere. «Che cosa meravigliosa. E ha fatto un ottimo lavoro con te. Hai un
certo fare assertivo che ti rende un buon compagno di ballo.»
Gray sfregò il naso contro i miei capelli e usò la mano sul mio
fondoschiena per attirarmi ancora di più a sé. «Non vedo l’ora di danzare con
te orizzontalmente.»
Aveva un profumo così buono, ballava in modo così meraviglioso, mi
baciava come se potesse essere l’ultima volta e, dopo essere stata a cavalcioni
su di lui la sera prima nella limousine, sapevo che era anche ben dotato. C’era
da chiedersi chi dei due fosse più bramoso dell’altro.
Finito il brano, prendemmo posto al tavolo assegnato. Eravamo seduti con
le figlie di Grant, due donne della mia età o forse poco più. Erano state
entrambe molto cordiali quando Gray ci aveva presentate all’inizio della
serata.
«Allora, Layla, di cosa ti occupi?» si informò Chelsea.
«Sono avvocato presso lo studio Latham & Pittman.»
«Qual è il tuo ambito?»
«Per lo più SEC e transazioni.»
«Oh. Quindi hai dimestichezza con il gergo che utilizza tutta questa
gente?»
«Purtroppo sì», sorrisi.
«Io sono un perito d’arte.» Si versò del vino da una delle bottiglie sul
tavolo. «Il che significa che tutto quanto sento dire qui è bla bla bla.»
Risi. «Nell’ambiente si tende a usare un sacco di acronimi e simili per
parlare di lavoro.»
«Come vi siete conosciuti con Gray?»
«Ehm…»
Ero del tutto impreparata a quella domanda e non sapevo come non far
sembrare un po’ bizzarro «ci siamo conosciuti in prigione».
Forse perché era un po’ bizzarro.
Gray doveva aver sentito e visto la mia espressione mentre cercavo di
pensare a una risposta adeguata.
«Insegnava a un corso che seguivo», spiegò strizzando un occhio. «Mi
sono preso una cotta per la professoressa.»
Restammo a parlare per un po’. A volte, Gray era preso da una
conversazione e io da un’altra, eppure la sua mano era sempre sullo schienale
della mia sedia o la sua coscia premuta contro la mia. Amavo che sembrasse
aver bisogno di restare connesso con me in qualche modo, perché era così
anche per me.
Alla fine, un signore venne a chiedere se poteva rubarci Gray per qualche
minuto per parlare di lavoro. Mentre era via, colsi l’occasione per cercare il
bagno delle signore e darmi una rinfrescata. Mi sistemai i capelli, ritoccai il
rossetto e, proprio mentre stavo per andarmene, decisi di usare la toilette
prima di tornare alla festa.
Mi chiusi nel cubicolo e mi tirai su il vestito. Avevo sentito dei passi e
delle voci avvicinarsi, ma non ci badai. Proprio mentre stavo per aprire la
porta, sentii fare il nome di Gray. Mi fermai per ascoltare.
«E la donna che ha portato? È un avvocato della SEC. Davvero
vantaggioso. Avrà pensato che la prossima volta che lo beccano a truffare un
cliente, almeno ci sarà chi lo difende gratis.»
Riconobbi la voce di Chelsea, la figlia di Grant, che si era mostrata così
simpatica.
L’altra scoppiò a ridere. «Vorrei essere io un avvocato. Lui sarà pure un
criminale, ma resta sempre sexy da morire. Mi farei trapanare da lui in
cambio di servizi legali gratuiti.»
«Mio padre è convinto che sia innocente. Ma ti pare? D’altro canto, era
anche socio di suo padre. Magari gli piacciono gli stronzi.»
Le due scagliarono frecciate all’indirizzo di qualcun altro, poi tornarono
alla festa. Io rimasi paralizzata dov’ero, ancora chiusa nel cubicolo. Quella
donna ci aveva sorriso e si era comportata in modo amichevole mentendo
spudoratamente. Ero stata così presa dalle mie riflessioni su Gray, da non
essermi mai soffermata a pensare che quell’uomo aveva perso parecchio altro
oltre a tre anni della sua vita.
Quel periodo in prigione l’avrebbe perseguitato per sempre. La gente
avrebbe finto di dimenticare, ma l’ombra del sospetto non sarebbe mai stata
cancellata. L’avevo visto succedere ad alcuni clienti – un uomo accusato
ingiustamente di stupro. Anche dopo che il suo nome era stato riabilitato, la
gente continuava a guardarlo in modo strano. C’era sempre un pizzico di
dubbio. Forse, solamente forse, era colpevole e l’aveva fatta franca. Soltanto
che, nel caso di Gray, non solo lui non era colpevole, ma nemmeno l’aveva
fatta franca, e aveva perso la sua libertà per anni.
Non sapevo bene come comportarmi a proposito di quello che avevo
sentito. Dovevo dirglielo? Era possibile che già lo sapesse? L’istinto mi
diceva che non aveva idea che quella gente fosse falsa e gli parlasse alle
spalle. Rimasi in bagno ancora qualche minuto per raccogliere le idee e poi
tornai alla festa.
Gray stava arrivando dal corridoio nel momento in cui uscii dal bagno.
«Eccoti qui. Stavo per mandare una squadra di ricerca.»
Mi costrinsi a sorridere. «Scusa. Le donne ci mettono una vita in bagno.»
Lo vidi studiare la mia espressione. «Va tutto bene?»
«Certo», mentii.
«Balla di nuovo con me.» Mi mise un braccio attorno alla vita e ci
incamminammo insieme. «È l’unico modo per metterti le mani addosso in
pubblico senza dare nell’occhio.»
Una volta sulla pista da ballo, affrontai l’argomento delle figlie di Grant
per capire se si rendeva conto che fossero due stronze dalla doppia faccia.
«La famiglia di Grant sembra simpatica.»
«Già. Grant è stato uno dei pochi a non dubitare mai della mia innocenza.
E anche le sue figlie sono fantastiche.»
Fu un colpo al cuore. Dio, odiavo che avesse fatto una cosa così
ammirevole per salvare la donna cui teneva, e che per questo la gente avrebbe
nutrito dubbi per sempre. Immagino che non fui molto brava a camuffare la
mia espressione.
«Sicura che va tutto bene?»
«Sì, certo.»
A quel punto non aveva senso dirgli cosa mi era capitato di ascoltare. Gli
avrebbe solo fatto male. Ma la consapevolezza che gli altri avrebbero
dubitato di lui per parecchio tempo mi fece capire che dovevo smetterla con
la mia esitazione. O ero dentro o ero fuori. Non era giusto nei suoi confronti
essere come quella gente.
In quel momento, decisi di correre il rischio. Di gettarmi a capofitto.
«Quanto tempo dobbiamo restare qui?» gli chiesi mentre ballavamo.
Gray parve deluso. «Devi tornare a casa presto?»
«Sì.»
«Domani è domenica. Lavori?»
«Be’, forse. Ma no.»
«Non ti stai divertendo?»
«Non mi sento più in vena.»
Lui tirò indietro la testa. «Ti va di andare in qualche altro posto?»
Lo guardai negli occhi e sfiorai le sue labbra con le mie. «A casa tua.»
Gray rimase di sasso. Scrutò i miei occhi ed ebbi la sensazione che avesse
paura di credere a quanto gli stavo dicendo.
«Casa mia?»
Mi protesi a sussurrare: «Cos’è che hai detto di volermi fare mentre
sorgeva il sole?»
Un minuto eravamo sulla pista da ballo e l’altro ci stavamo dirigendo
all’uscita. Risi mentre mi affannavo a stargli dietro con i tacchi. Gray stava
praticamente correndo verso la porta.
Fuori, si precipitò sul marciapiede e, fermato un taxi con un fischio
assordante, spalancò lo sportello per me.
Non riuscivo a smettere di ridere. «Ma siamo venuti con la tua auto!»
«Non abbiamo tempo per aspettare l’autista. Sali.»
20

Gray
NON volevo deluderla.
A metà strada dal mio appartamento, mi resi conto che avevo bisogno di
fare una doccia veloce, e da solo, appena arrivati. Il pene implorava sollievo
anche solo stando sul sedile posteriore del taxi mano nella mano con lei. Era
impossibile riuscire a soddisfarla in quello stato. La mia prestazione sarebbe
stata uguale all’orrenda prima volta di un adolescente. Sarei stato fortunato a
non venire nella mia mano mentre cercavo di tirarlo fuori dai pantaloni.
Mantenni le distanze per evitare che la situazione si scaldasse al punto da
dovermi districare per calmarmi. In ascensore tenni le mani in tasca per
impedirmi di toccarla. Lei mi stava così vicino, con un profumo così
paradisiaco, e il pensiero di schiacciarla contro il vetro della cabina era
intollerabile. Volevo che guardasse il proprio riflesso nello specchio mentre
la prendevo con forza da dietro.
Ma, una volta in casa, evitarla divenne un’impresa. Lentiggini ci venne
incontro sulla soglia e mi ignorò per leccare Layla. Cane intelligente.
Pensai che la distrazione fosse la scusa perfetta per sgattaiolare via per
qualche minuto. «Vado a fare una doccia veloce.»
Layla mi prese per i baveri della giacca. «Vuoi compagnia?»
Cazzo.
Forse, se me lo fossi insaponato bene, non si sarebbe accorta che mollavo
il carico prima ancora che lei mi toccasse.
Mi passai le mani tra i capelli. «Ripensandoci, che ne dici di un po’ di
vino?»
«Mmm. Certo. Il vino mi sembra un’ottima idea.» Andò alle porte finestre
in soggiorno per ammirare il panorama. Era una notte limpida e la città
risplendeva nel buio.
Me la presi comoda mentre aprivo una bottiglia del suo vino preferito e
riempivo due bicchieri. La raggiunsi alla finestra e, porgendogliene uno, mi
venne un’altra idea. Se buttavo giù qualche bicchiere, forse l’alcol avrebbe
rallentato un po’ la mia libido.
Ne ingollai mezzo e mi slacciai il papillon, lasciandolo appeso al collo. Mi
sforzai di non guardare la donna stupenda accanto a me, ma non potei farne a
meno.
Dio, perché la sua clavicola deve avere quell’aspetto? Quel collo… Avrei
voluto azzannarlo.
Senza neanche rendermene conto, finii quanto restava del vino. Ma Layla
se ne accorse. Guardò il bicchiere vuoto che avevo in mano, mentre il suo era
ancora intatto.
«C’è qualcosa che non va, Gray?»
Si voltò verso di me e il chiarore della luna le illuminò il viso. Sembrava
un angelo… un angelo al quale volevo fare cose diaboliche. Ficcai le mani in
tasca per sicurezza e quasi scordai che mi aveva fatto una domanda.
«No, è tutto a posto.»
Mi guardò con sospetto.
Maledizione. «E va bene.» Scossi la testa e sbuffai. «È parecchio che non
vado con una donna.»
Lei ridacchiò. «Hai paura di esserti dimenticato come si fa?»
«Spiritosa.»
«È come stare in sella a una bicicletta. Sono sicura che te la caverai
benone.»
Stare in sella. Doveva proprio usare quell’espressione? Non vedevo l’ora
che salisse in sella a me. Optai per un altro bicchiere di vino. Tornai alle
finestre, Layla mi rivolgeva le spalle. Si scostò i capelli da un lato. «Mi
aiuteresti con la lampo? Voglio levarmi quest’abito.»
Alzai gli occhi al cielo e parlai silenziosamente a Dio. Non ho già avuto la
mia dose di vergogna? Almeno concedimi questo. Dieci minuti senza che mi
copra di ridicolo. È troppo da chiedere? Ho appena donato tre dannati anni.
La stanza era così silenziosa che ogni dentino della lampo riecheggiò. Il
collo di Layla si coprì di pelle d’oca e sentii il suo respiro mozzarsi appena la
mia mano raggiunse la fine della cerniera sul suo bellissimo sedere.
Si voltò, guardandomi prima di sfilarsi adagio il vestito, che ricadde in una
pozza blu ai suoi piedi. Chiusi gli occhi e contai fino a dieci prima di riaprirli.
Ma niente avrebbe potuto trattenermi quando scorsi la vista che avevo
davanti. Dio, è stupenda. Layla non indossava altro che slip di pizzo nero, un
reggiseno a balconcino abbinato dal quale i seni pieni erano sul punto di
traboccare e un paio di scarpe sexy col tacco a spillo. La vita era così sottile
che avrei potuto cingerla con le mani. E le gambe! Un chilometro di setosa
levigatezza che la mia lingua non vedeva l’ora di leccare dalla punta dei piedi
fino alle cosce.
«Cazzo.» Scossi la testa e feci un passo indietro, incapace di staccarle gli
occhi di dosso. «Layla… dovrai promettermi che mi darai più di una chance
per rimediare alla scarsa prestazione la prima volta che sarò dentro di te.
Sono a trenta secondi da finire e non abbiamo neanche iniziato. Sei
bellissima.»
«Penso di poterti aiutare in tal senso.» Si calò all’improvviso sulle
ginocchia.
E se prima pensavo che fosse bellissima, questo… niente poteva reggere il
confronto con questo. Così. Fottutamente. Bella. Mi sarei decisamente
coperto di ridicolo, ma almeno avrei avuto una possibilità.
Layla cominciò ad armeggiare con la mia cintura, e sia ringraziato il cielo
che le sue dita fossero ancora funzionanti, perché io ero del tutto incapace di
far altro che fissarla. A differenza del suo abito, mentre abbassava la cerniera
dei miei pantaloni non sentii i dentini che si separavano, perché il sangue mi
rimbombava nelle orecchie. Il battito cardiaco era fuori controllo.
«Accidenti», mormorò quando il mio pene balzò fuori. «Adesso sono io
un po’ nervosa.»
Layla si leccò le labbra rosse e mi guardò da sotto le lunghe ciglia. «Non
fermarti. Ingoierò.»
Porca.
Miseria.
Si protese in avanti leccando la punta luccicante e mi scoccò il più
ambiguo dei sorrisi prima di spalancare la bocca e risucchiarmi. Sentii
scivolare via tutto l’autocontrollo che mi restava.
Infilai le dita tra i suoi capelli folti e sentire la sua testa ondeggiare tra le
mie mani mi fece crollare. Gemetti e rafforzai la presa sui suoi capelli,
dandole un leggero strattone. Lei lasciò che fossi io a stabilire il ritmo con le
mani e, non so come, riuscii a trattenermi dal trasformare la sensazione
migliore che avessi provato in vita mia nello scoparle la faccia fino a
scorticarle la gola.
La vista della sua testa che si muoveva sempre più veloce, ogni volta
prendendomi un po’ più a fondo, era la cosa più sexy del mondo. Sentii le sue
mani cominciare a massaggiarmi i testicoli e capii che per quel momento era
valsa la pena aspettare tre anni. Diamine, avrei potuto donarne altri tre se, una
volta uscito, avessi trovato questo ad aspettarmi.
Ci sono quasi.
Così dannatamente vicino.
Dimentica la vergogna. Dimentica la dignità.
Gemetti. Layla rispose con un suono che fu quasi una melodia e, d’un
tratto, ingoiò e io colpii il fondo della sua gola.
«Cazzo.»
«Sì.»
«Cazzo. Prendilo tutto dentro…»
Nel giro di pochi istanti sentii i testicoli contrarsi e seppi che ero sul punto
di esplodere. Anche se mi aveva detto di non fermarmi, volevo comunque
avvertirla. Potevo anche desiderare di scoparle la faccia, il culo, le tette, la
figa e qualsiasi altro posto in cui mi avesse lasciato infilare l’uccello, ma non
ero un animale, dopo tutto.
«Piccola…» riuscii a gemere. «Sto venendo…»
Lei rispose conficcandomi le unghie nel sedere e io persi la battaglia.
Schizzi di seme vennero fuori mentre tutto il mio corpo sussultava. Non so
neanche come feci a restare in piedi, vista l’intensità di quell’orgasmo.
Dopo un minuto per raccogliere un po’ di forze, tirai su Layla e la presi fra
le braccia. Lei si rannicchiò contro il mio petto, che era ancora coperto dalla
camicia.
«Gesù, è stato…» Ero davvero senza parole. «È stato…»
Lei mi mise le braccia attorno al collo. «Solo l’inizio. Ecco cosa è stato.»
21

Layla
LA camera da letto era buia.
Gray non mi toccava da quando eravamo entrati, ma lo sentivo dietro di
me. Il suo respiro caldo mi solleticava il collo.
«Voglio guardarti in faccia mentre sono dentro di te, ma privarti della
vista potenzierà gli altri tuoi sensi, perciò dovrò aspettare.» Mi sfiorò un
braccio con le dita, facendo rizzare ogni pelo sul mio corpo. Dio, non stava
scherzando, tutti gli altri sensi erano acuiti.
L’intensa chimica sessuale che era sprizzata tra di noi sin dal primo
incontro divampò come un rogo. Ero così tesa che trasalii nell’istante in cui
mi afferrò per un fianco. L’altra mano mi scostò i capelli da un lato e poi la
sua bocca si abbassò per succhiarmi il collo.
«Alza le mani. Reggiti al mio collo.»
Feci come mi diceva. Le mani di Gray mi risalirono lungo il corpo
accarezzandomi. Quando raggiunsero i seni, strizzarono forte, strappandomi
un piccolo gemito.
«Erano anni che lo sognavo», mormorò. «Così tante fantasie. Non vedo
l’ora di realizzarle tutte con te.» Tirò giù le coppe del reggiseno e pizzicò i
capezzoli.
«Raccontamele.» La mia voce risuonò sensuale. Quasi non sembravo io.
Ma, d’altro canto, non ero mai stata così eccitata in tutta la mia vita.
La bocca di Gray rimase sul mio orecchio mentre le mani massaggiavano i
capezzoli che avevano appena risvegliato con un delizioso dolore. «Voglio
che ti metta davanti a uno specchio e giochi con i seni mentre io ti succhio il
collo, con le dita dentro di te e l’uccello sprofondato nel tuo sedere.»
Emisi un verso strozzato. «Cos’altro?»
Le sue mani scesero tormentosamente lente sul mio corpo e scivolarono
negli slip. «Voglio che ti sieda sulla mia faccia e la cavalchi. Voglio tenere il
naso sprofondato nella tua figa mentre ti succhio la clitoride.»
Infilò un dito dentro di me, poi un altro.
«Oh, Dio.»
«Sei così bagnata per me.»
Spinsi la testa all’indietro contro il suo petto.
«Nel tuo ufficio, dietro quella grande scrivania, ti vedo così padrona di te
e potente. Voglio portarti via questo aspetto, farti calare sulle ginocchia per
succhiarmi l’uccello.»
Mi sfuggì una risatina nervosa. Ma non stava scherzando.
Gray usò una mano per attirarmi a sé mentre le sue dita continuavano a
scivolare dentro e fuori. La sua erezione era di nuovo completa e premeva sul
mio fondoschiena. Ne sentivo la pelle liscia e calda contro di me.
«Voglio riempire ogni parte del tuo corpo.» Mi infilò dentro un altro dito.
«Con le dita, la lingua, l’uccello… Voglio possedere la tua figa, il tuo culo, le
tette, la bocca.»
«Cielo, Gray!»
Tirò via le dita e mi fece girare. Avevo le vertigini e le ginocchia erano sul
punto di cedere. Mi abbassò le mutande e mi sfilò il reggiseno prima di
avanzare di qualche passo. I miei occhi non si erano ancora abituati alla totale
oscurità perciò non riuscivo a vedere dove andavo.
«Il letto è qui di fronte a te. Piegati in avanti e appoggia la testa. Allarga
bene le gambe per me.»
Gray si calò sulle ginocchia e poi la sua bocca fu tra le mie gambe
divaricate. Non cominciò adagio. Seppellì la faccia nel mio centro bagnato,
leccando come se non riuscisse a saziarsi e poi succhiò con forza la clitoride.
L’orgasmo iniziò a crescere e temetti di cadergli addosso.
«Così dolce…»
Infilò di nuovo un dito dentro di me.
«Così stretta…»
Gemette e mi sferzò la clitoride con la lingua.
«Così bagnata per me…»
L’ondata che minacciava in lontananza mi travolse senza preavviso.
Gemetti mentre il mio corpo cominciava a pulsare per conto suo.
Proprio mentre stavo per placarmi, Gray mi prese e mi depose sul letto. Il
suo corpo coprì il mio e così fecero le sue labbra. Mi divorò la bocca in un
bacio pieno di una passione che non avevo mai provato. Il suo tocco era forte
e dominante, con un controllo perfetto, al limite della prepotenza. Composte,
eppure esigenti, le nostre labbra si fusero, le lingue si intrecciarono e i corpi
si avvolsero uno attorno all’altro. Ci separammo solo per un attimo, quel
tanto che bastava perché Gray si togliesse la camicia che ancora indossava.
Si spostò leggermente, allineando la grossa punta con la mia fessura. Ma
poi si fermò.
«Posso prenderti senza protezione?»
Ne avevamo già parlato, ma apprezzai che me lo chiedesse comunque.
Gli avvolsi le gambe attorno alla vita, incoraggiandolo. «Sì, per favore.»
Così da vicino, vedevo il bianco brillante dei suoi occhi e li osservai
mentre si chiudevano per un istante quando spinse dentro.
Date le dimensioni, doveva essere consapevole della necessità di andarci
piano. Senza mai interrompere il contatto visivo, fece con calma, entrando
adagio e tirandosi fuori, spingendo poi un po’ più a fondo a ogni colpo. Una
volta quasi del tutto dentro, si fermò e mormorò contro la mia bocca: «Cazzo!
È così bello».
Dopo che il mio corpo prese a rilassarsi e ad aprirsi, Gray reclamò la mia
bocca e prese a muoversi con più vigore. Con più forza. Più a fondo. I colpi
divennero affondi roteanti e mi penetrò sempre più in profondità finché la
base del pene si mise a sfregare contro la clitoride. Mai avevo provato una
sensazione così bella – non di certo la prima volta. E questo era solo l’inizio.
Il mio orgasmo cominciò a crescere di nuovo e i muscoli presero a pulsare
attorno a lui. «Gray…»
Lui aumentò il ritmo. «Caaazzo. Sono con te, piccola.»
Il suono dei nostri corpi che sbattevano uno contro l’altro riecheggiava
nella stanza. L’odore del sesso permeava l’aria e il mio corpo vibrava sotto il
suo tocco. Mi sentivo consumata in maniera totale e assoluta da quell’uomo.
La sensazione mi spinse oltre il limite e l’orgasmo si sprigionò. Gray
mantenne il ritmo perfetto mentre io cavalcavo una perfetta onda di estasi. Mi
sussurrò all’orecchio mentre gemevo, dicendomi quanto fosse bello stare
dentro di me, che il mio corpo gli apparteneva e con quanta forza sarebbe
venuto. Dopo che finalmente iniziai a rilassarmi, Gray accelerò il ritmo e
affondò dentro di me, riempiendomi del suo orgasmo.
Poi mi baciò a lungo. Con baci lenti, bellissimi, romantici, sensuali, di
quelli che sognano le ragazze. Baci che sentivi nel cuore.
Se non fossi stata così inebriata dal momento, avrei potuto temere che ciò
che sentivo nel cuore fosse molto più di un bacio.

Gray mi raggiunse sotto la doccia il pomeriggio seguente. Entrò senza


niente addosso, a parte quella che cominciavo a pensare fosse un’erezione
perenne e un’espressione che mi diceva che aveva intenzione di farne buon
uso.
I capelli, che aveva pettinato all’indietro per la festa, adesso erano arruffati
in quel modo sexy che solo gli uomini riescono a sfoggiare dopo una
maratona notturna e mattutina di sesso. Non mi chiese il permesso e,
stranamente, la cosa mi eccitò da morire.
Ero di fronte al getto d’acqua e non mi mossi quando aprì la porta a vetri
ed entrò. Mi avvolse le braccia attorno al corpo da dietro, strizzandomi un
seno con una mano e massaggiandomi la pancia con l’altra mentre premeva il
pene contro la fessura tra le mie natiche. «’giorno», mugugnò. Poi chinò la
testa per mordicchiarmi una spalla.
«Penso che tecnicamente sia pomeriggio.»
«Qualunque cosa sia, è un buon giorno se ti trovo già svestita e bagnata.»
Risi. «Lo dici come se non fossi bagnata solo per la doccia.»
La sua mano si insinuò tra le mie gambe e spinse due dita dentro di me. «È
così?»
Dovetti appoggiare entrambe le mani contro le piastrelle. «Penso che tu
possa avere una dipendenza dal sesso.»
«Io penso di avere una dipendenza da te.» Accostò la bocca al mio
orecchio e la sua voce si fece roca. «Sei indolenzita?»
Ero un po’ indolenzita. Ma le sue dita scivolavano dentro e fuori di me e
non faceva troppo male. «Forse un pochino.» Gray si fermò e le allontanò.
«Scusa.»
«È tutto a posto.» Mi girai e gli misi le braccia attorno al collo. «Ne è
valsa assolutamente la pena.»
Sorrise e appoggiò la fronte alla mia. «Ah sì?»
Annuii. «È un bel tipo di indolenzimento. Del genere che fa sorridere, non
trasalire. Perché mi ricordo com’è stata la notte scorsa.»
«Grazie. È un regalo sentirtelo dire, Lentiggini. Lo è davvero.» Mi baciò
delicatamente sulle labbra. «Voltati. Lascia che ti lavi io.»
Sospirai appagata e gli porsi la saponetta prima di girarmi di nuovo verso
il getto caldo.
Lui mi insaponò e cominciò a lavarmi la schiena. Ben presto, le sue mani
si concentrarono sulla metà inferiore, insinuando le dita tra le natiche.
«Sai, se sei indolenzita…» La sua voce era sensuale – puro sesso – mentre
le dita scendevano sempre più in basso, fermandosi sulla fessura per
tracciarvi un cerchio e applicare una leggera pressione. «…ci sono altri modi
in cui potrei darti piacere.»
«Demonio. Penso che oggi ci accontenteremo di te che mi lavi la schiena.
Purtroppo devo tornare a casa a lavorare. Sei stato una distrazione per l’intero
weekend. Una bella distrazione, ma sono costretta a rimettermi in pari prima
di tornare in ufficio domani.»
Le mani insaponate di Gray risalirono sulle mie spalle. «Possiamo farlo
insieme?»
«Cosa? Lavorare?»
«Domani pomeriggio devo andare sulla costa occidentale e non sono
ancora pronto a cederti.»
«Certo. Ma potresti stancarti di me. Siamo stati insieme per tutto il
weekend.»
«Dolcezza, ho intenzione di stare insieme a te parecchio più a lungo di un
weekend.»
22

Layla
GRAY : Penso che tu mi stia rammollendo.
Lanciai gli occhiali sulla scrivania e mi appoggiai allo schienale con un
sorriso da liceale. L’sms era una pausa gradita dopo il lunedì mattina
trascorso in tribunale e il primo pomeriggio a studiare un caso noioso nel mio
ufficio. Ciò per cui avrei dovuto impiegare mezz’ora me ne aveva già fatte
perdere due. Dovevo assolutamente finire, perché presto sarebbe arrivato un
nuovo cliente.

LAYLA : Spero che tu non stia parlando di una parte che mi piace
dura…
GRAY : Merda. Non dire quella parola. Sono appena atterrato a L.A. e
sono in taxi per andare a incontrare un potenziale socio. Adesso mi
toccherà fare prima una sosta in albergo.
LAYLA : LOL. Quale parte di te si sta rammollendo, demonio?
GRAY : L’interno. È possibile diventare succube di una figa dopo essere
stato dentro la suddetta figa solo per due giorni? Mi è bastato sentire
una dannata canzone di Taylor Swift mentre attraversavo l’aeroporto
per pensare a te.

Sospirai.

LAYLA : Quale canzone?


GRAY : Che cazzo ne so. Ho detto che sono succube di una figa, non
una fighetta.
LAYLA : Penso che tu abbia bisogno di supporto psicologico. A che ora
hai le riunioni oggi e domani?
GRAY : Questo pomeriggio alle cinque e domani alle otto, ora di Los
Angeles. Sarà tardi da te, perciò ti chiamo domani. Ho spostato
l’incontro di domani dal pomeriggio alla mattina, così posso prendere
un volo prima per tornare a casa. Voglio rientrare in tempo per
portarti a cena fuori la sera.»
LAYLA : Okay. C’è qualche ragione speciale?
GRAY : Sì. Mi manchi.

Quell’uomo poteva seriamente farmi perdere la testa. Proprio mentre stavo


per rispondergli, la mia segretaria mi chiamò all’interfono. «Il tuo
appuntamento delle tre è qui.»
Premetti il tasto sulla scrivania. «Va bene. Grazie. Dai da leggere alla
cliente il contratto standard mentre aspetta. Ho bisogno di dieci minuti per
sistemare la scrivania e fare una corsa alla toilette.»
«Nessun problema.»
Mi concessi un altro minuto per rileggere la conversazione con Gray,
trattando ciascun messaggio come carburante per arrivare alla fine della
giornata. Per una donna che, fino a pochissimo tempo prima, aveva avuto il
terrore di una relazione con lui, sembravo averlo decisamente superato.
Avevamo passato venerdì e sabato sera insieme partecipando a diverse feste,
poi avevamo trascorso dal sabato sera fino alla domenica pomeriggio facendo
sesso tante volte quanto era umanamente possibile. Domenica sera ci
eravamo messi in pari con il lavoro, seduti uno di fronte all’altra nel mio
soggiorno. Ci eravamo scambiati contenitori di cibo da asporto e sorrisi
silenziosi finché, alle undici, avevamo finito ed eravamo andati a letto
insieme. Sembrava il meglio dei due mondi: l’eccitazione di qualcosa di
nuovo ma anche il conforto di qualcosa di familiare. Avevo perfino
acconsentito a tenergli Lentiggini in occasione della sua partenza quella
mattina, invece di spedire la dolce creatura in un albergo per i quattro zampe.
Avevo assolutamente bisogno di darmi una mossa e non far aspettare
troppo il mio appuntamento. Rimasi con le dita sospese sulla tastiera del
cellulare, riflettendo per qualche istante sulla risposta al suo messaggio.
’fanculo. Quando sei in ballo, devi ballare.

LAYLA : Mi manchi anche tu.

Mackenzie Cartwright, la mia consulenza del pomeriggio, entrò in ufficio


con uno di quei passeggini super accessoriati e una bambina addormentata.
Non posso dire che mi fosse già capitato prima. A parte il fatto che l’ottanta
per cento dei miei clienti era composto da uomini, le donne a cui di tanto in
tanto offrivo la mia consulenza tenevano ben separati affari e vita privata.
Non sapevo neanche se molte di loro avessero o meno una famiglia.
Le tesi la mano. «Layla Hutton. Piacere di conoscerla, Miss Cartwright.»
Mi corresse. «Ms., in realtà.»
«Oh. Sì. Certo.» Le indicai le tre sedie per gli ospiti dall’altro lato della
scrivania. «Prego, si accomodi. Posso farle portare qualcosa da bere?»
«No, grazie. Ma se potessimo parlare a bassa voce così mia figlia non si
sveglia, sarebbe fantastico.»
«Sicuro», replicai, rendendomi conto di non aver affatto abbassato la voce.
«Scusi», bisbigliai. «Certo.»
Feci il giro della scrivania e aspettai che Ms. Cartwright si accomodasse.
Indossava una giacca leggera – anche se fuori dovevano esserci ventiquattro
gradi – e occhiali da sole scuri. Si sedette senza togliere nessuno dei due.
Okay. Come vuoi.
«Allora… l’assistente legale che si è occupato della sua registrazione e le
ha fissato l’appuntamento ha detto che lei ha una disputa societaria in corso
per la quale chiede la nostra consulenza.»
Sembrava che mi stesse fissando. Aspettai in imbarazzato silenzio che
rispondesse.
«Proprio così.»
«Perché non comincia dall’inizio?» Diedi un’occhiata al modulo di
accettazione che gli assistenti legali compilano durante il colloquio telefonico
prima di accettare un nuovo cliente. «A quanto pare lei sospetta che la sua
socia abbia distratto dei fondi.»
La donna continuò a fissarmi. Quello era l’incontro preliminare più
insolito che mi fosse mai capitato. Ancora una volta, aspettai la sua risposta
in un lungo e imbarazzato silenzio.
Questo mi diede la possibilità di osservarla bene. Era attraente, anche se
un po’ troppo magra. Gli zigomi alti, che con qualche chilo in più avrebbero
potuto essere quelli di una modella, sporgevano dalla pelle pallida e
grigiastra. A un esame più attento, pensai che i folti capelli scuri, che le
coprivano una buona porzione del viso minuto, potessero essere una
parrucca. Cercai di scorgere gli occhi, ma erano nascosti dietro i grandi
occhiali scuri.
A un certo punto, restare lì a squadrarsi e aspettare divenne strano e cercai
di provocare una sua reazione. «Ha già affrontato il problema con la sua
socia?»
«Sì.»
Ormai era chiaro che avrei ricevuto solo risposte a monosillabi. In genere
queste erano le repliche che ottenevo dal cliente della parte avversa durante
una deposizione, non dai miei. I clienti in cerca di aiuto di solito non vedono
l’ora di raccontarmi la propria versione.
«E qual è la posizione della sua socia riguardo all’appropriazione
indebita? Ammette di aver rivolto i fondi a un uso diverso?»
«Socio.»
«Oh. D’accordo. Il suo socio ammette di aver preso i fondi?»
«No.»
«Ha ancora la firma sui conti bancari della società?»
«Sì.»
«Bene. La prima cosa che possiamo fare è chiedere al tribunale
un’ingiunzione che gli impedisca di ritirare contante o incassare assegni
senza entrambe le firme. In questo modo sarete ancora in grado di utilizzare i
fondi societari per scopi legittimi sui quali siete d’accordo, ma nessuno dei
due potrà prendere una decisione unilaterale per ritirare denaro per uso
personale.»
«Va bene.»
«Ha una contabilità dei fondi che ritiene siano stati distratti?»
«No.»
«Almeno un’idea approssimativa?»
Mi fissò ancora.
Frustrata, le feci segno di parlare. «Sono… mille, diecimila, centomila?
Non voglio la cifra esatta. Faremo una stima di circa…»
«Sei milioni.»
«Sei milioni?» ripetei interdetta.
«Sì.»
Ebbi la sensazione di essere presa in giro. Chi è che si presenta in uno
studio legale per denunciare l’appropriazione indebita da parte di un socio ma
non vuole fornire alcuna informazione, salvo ammettere, messo alle strette,
che il furto stimato si aggira sui sei milioni di dollari?
Posai la penna e smisi di prendere appunti. C’era decisamente qualcosa
che non andava. «E questi fondi… sono stati sottratti dai profitti della
società?»
Lei scosse la testa. «Si tratta di fondi ai quali abbiamo contribuito
entrambi prendendoli da un’impresa precedente della quale facevamo parte.
Trasferimenti dalla nostra vecchia attività.»
«Un capitale di investimento, dunque?»
«Sì.»
«Ciascuno ha contribuito in eguale misura?»
«Non ne sono sicura.»
«Va bene. Quindi, se andassimo al processo con qualcosa del genere,
dovremmo dimostrare chi ha messo cosa e la provenienza del denaro.
Sarebbe un problema?»
Una dolce vocina richiamò la nostra attenzione. «Mamma.»
Stiracchiandosi, la bella addormentata nel passeggino si animò. La
bambina era stupenda. Un’enorme testa di ricci scuri, un nasino impertinente
e occhi verde chiaro. Le sorrisi e lei mi scoccò un sorriso smagliante prima di
coprirsi la faccia con la coperta, facendo la timida.
A quanto pareva, la bizzarra reticenza di sua madre era riservata solo a
me. La donna si protese sulla figlia con un luminoso sorriso e abbassò la
coperta per scoprire gli occhi della bambina.
«Ti vedo», disse in tono melodioso.
La bimba strillò e tirò giù la coperta, rivelando lo stesso grosso sorriso
della madre. Osservai entrambe, affascinata dal repentino cambiamento nella
donna. La sua freddezza si era spenta, come se la figlia fosse il sole che la
scaldava. Giocarono per un minuto, poi la donna sganciò la cintura del
passeggino e si mise la piccola in grembo.
I bellissimi occhi chiari erano incorniciati da foltissime ciglia nere. «Gli
occhi di sua figlia sono incredibili.»
«Li ha presi dal padre.»
Non riuscivo a smettere di guardare la bambina. Con gli occhi chiari come
Gray e i capelli scuri come me, sembrava la figlia che un giorno avremmo
potuto avere insieme.
Scossi la testa a quel pensiero. Il fatto che il mio cervello ci avesse anche
solo pensato mi inquietava un po’.
«Di’ ciao, Ella.» La mia strana cliente era diventata una persona diversa.
Sembrava aver dimenticato come essere cordiale finché il sorriso di sua figlia
non glielo aveva ricordato.
«Ciao!» La bambina salutò con la mano.
«Ciao, Ella», risposi. «Dormito bene?»
Lei sorrise e si portò una mano al mento, come se volesse mandarmi un
bacio volante.
Sua madre le spinse un ricciolo ribelle dietro l’orecchio e notai che aveva
un apparecchio acustico. Ah. Linguaggio dei segni. Non mi aveva mandato
un bacio.
«Be’, sarà meglio che vada», annunciò la mia cliente. «Cosa le serve per
cominciare?»
«Nomi e indirizzi delle parti, il nome della banca e il numero del conto dal
quale i fondi sono stati sottratti. Questo dovrebbe bastare per ottenere almeno
un’ingiunzione temporanea per la banca.»
Snocciolò i dati di due conti bancari più veloce di quanto riuscissi ad
annotare le cifre. La donna dei monosillabi era diventata una mitragliatrice.
«Ottimo. E il nome e l’indirizzo del suo socio?» chiesi.
Lei si alzò all’improvviso e cominciò a legare la figlia nel passeggino.
Una volta finito, si sistemò gli occhiali da sole e mi guardò. «Aiden Warren.»
Aiden Warren… Perché quel nome mi sembrava familiare?
«Questo nome non mi è nuovo. Sa per caso se è mai stato cliente di questo
studio? In tal caso, dovrò controllare se esiste conflitto di interessi.»
«Non credo. Ma penso che potremmo avere una conoscenza in comune.»
Tutt’a un tratto, un ricordo mi balenò nella mente. Era una conversazione
che avevo avuto con Gray.
«Quando hai capito che era stata Max a incastrarti?» gli avevo chiesto.
«Circa un mese dopo aver iniziato a scontare la pena, un amico è venuto a
trovarmi. Gli era capitato di incontrarla in metropolitana, ma lei non l’aveva
visto. Era troppo impegnata a succhiare la faccia di Aiden Warren.»
«Quindi ti sei insospettito perché ti stava tradendo?»
«Aiden Warren era il tizio che pensavamo ci avesse incastrati.»
Rimasi interdetta. «Lei è…»
Il suo volto rimase inespressivo. «Mackenzie Cartwright Westbrook. Gli
amici mi chiamano Max. E sì, lei è sua figlia.»
23

Gray
DOVE diavolo sei?
Avevo acceso il telefono appena avevamo toccato terra, ma ancora nessun
segno di Layla. Dato che il volo era in ritardo, erano quasi le otto di sera qui
sulla costa orientale. In un primo momento, quando non aveva risposto,
avevo ipotizzato che fosse presa dal lavoro. Ma i miei messaggi risultavano
letti, quindi doveva pur aver avuto due minuti per mandarmi una risposta
veloce.
Sceso dall’aereo con il mio bagaglio a mano, mi assalì un brutto
presentimento mentre mi avviavo all’uscita dell’aeroporto. Feci il numero di
Layla. Squillò una volta sola e partì la segreteria. Aveva premuto IGNORA .
Mi sforzai di pensare alla migliore delle peggiori ipotesi: chissà come,
l’avevo fatta arrabbiare e questo era il suo modo per farmelo sapere. Ma la
parte protettiva di me non poteva fare a meno di preoccuparsi. E se mentre lei
andava a pranzo, uno stronzo al volante l’aveva investita sulle strisce perché
troppo impegnato a inviare sms? O magari si era sentita male e adesso era al
pronto soccorso? Uscii in fretta dall’aeroporto. Sarebbe venuto a prendermi
Al. Poiché non è possibile fermarsi ad aspettare passeggeri fuori dal JFK,
sicuramente stava ammazzando il tempo da qualche altra parte, così gli
mandai un messaggio perché mi raggiungesse al terminal degli arrivi.
«L’appartamento di Layla», dissi prima ancora di chiudere lo sportello.
«Certo, capo.»
Al guardò nello specchietto retrovisore prima di partire, anche per vedere
come stavo. «Fatto buon viaggio?»
Mi misi comodo sul sedile. «Sì. Solo una lunga giornata.»
Il traffico era scorrevole, perciò arrivammo da Layla che erano appena le
nove.
«Dammi dieci minuti e ti faccio sapere.»
«Ricevuto», replicò Al.
Uscito dall’auto, alzai lo sguardo alla finestra di Layla. Era buia e
sembrava che in casa non ci fosse nessuno.
Il suo palazzo aveva un androne con il portone che si chiudeva a chiave.
Per entrare, era necessario citofonare a qualcuno. Premetti il suo campanello
e aspettai che mi rispondesse.
Ma non lo fece. Tre scampanellate e un ultimo tentativo di raggiungerla al
telefono non diedero alcun risultato. Sentivo il nodo allo stomaco farsi
sempre più stretto.
«1275 di Broadway, Al.» Sbattei con forza lo sportello dell’automobile.
«L’ufficio di Layla.»
Lui lanciò di nuovo un’occhiata nella mia direzione. «Tutto bene?»
«Lo spero.»

Archibald Pittman usciva dall’ingresso principale insieme a un altro uomo


proprio nell’istante in cui la mia auto accostò al marciapiede. La cosa
intelligente da fare sarebbe stata aspettare che se ne andasse, ma il tragitto
dall’appartamento di Layla aveva alzato il livello della mia ansia. Mai e poi
mai avrei sprecato trenta secondi solo per sottrarmi al suo capo.
Avviandomi alla porta, tenni lo sguardo sul cellulare per evitare il contatto
visivo. Ciò non impedì a Pittman di notarmi.
«Grayson?» Interruppe la sua conversazione e mi chiamò mentre cercavo
di passare oltre.
Alzai gli occhi. «Archie. Che piacere.»
«Sta andando su a quest’ora?»
Gli rifilai la prima scusa che mi venne in mente. «Un contratto urgente, da
rispedire sulla costa occidentale entro stasera.»
«Lieto di sapere che il mio staff si prende cura delle sue esigenze.»
«Sì.» Gli rivolsi un breve cenno di saluto, ansioso di entrare nell’edificio.
«Be’, il tempo scorre. Le auguro una buona serata.»
Avevo già fatto quattro passi prima che lui potesse finire di ricambiare il
saluto.
L’ascensore raggiunse il piano di Layla e fui sollevato vedendo che la
porta a vetri era ancora aperta. Certo, la reception era deserta alle dieci di
sera, così mi feci strada nei corridoi interni. Erano illuminati, anche se gran
parte degli uffici era chiusa. Feci l’ultima svolta a sinistra e vidi che il quarto
in fondo – quello di Layla – era ancora aperto, nonostante la luce fosse
spenta.
Non mi aspettavo di trovarci qualcuno e, a causa del buio, per poco
mancai di vederla quando entrai. Poi la luce si accese all’improvviso. Dovevo
aver attivato un sensore di movimento. La trovai seduta alla scrivania proprio
davanti a me.
«Stavi dormendo?» le chiesi perplesso.
«No.»
«Che succede?» La scrivania, normalmente ordinata e organizzata, era
disseminata di fogli. Alcuni erano perfino sul pavimento.
Mi avvicinai e la osservai meglio in faccia. La pelle attorno agli occhi era
gonfia e arrossata. Aveva pianto.
«Layla, rispondi. Qualcuno ti ha fatto del male?» Cominciai a sentire il
sangue montarmi alla testa all’idea di cosa poteva essere accaduto. Tutti i
pensieri peggiori si scatenarono nella mia mente. Era sola in ufficio, di sera,
seduta al buio… la scrivania era nel caos… aveva pianto… Qualcuno l’aveva
aggredita?
Lei continuò a fissarmi, senza dire niente. Andai dietro la scrivania e girai
la sua sedia verso di me. Mi accovacciai, cercai di restare calmo e mantenere
un tono di voce fermo. «Layla. Parlami. Cos’è successo, tesoro?»
Un foglio sul bordo della scrivania attirò il mio sguardo. Mi voltai, certo
che fosse soltanto uno scherzo della mia fantasia. Ma non lo era.
Presi il foglio. La foto aveva qualche anno ma non c’erano dubbi che si
trattasse di Max. Ricordavo bene quell’articolo. Il Kiplinger aveva pubblicato
un pezzo sull’ascesa delle donne agenti di cambio e vi era apparsa Max,
insieme ad altre promesse del settore. L’articolo risaliva ad alcuni mesi prima
che avviassimo la nostra attività.
I miei occhi vagarono sul resto delle carte sulla scrivania.
Ma che cazzo?
Presi un altro foglio, un pezzo sulla nostra società.
Un altro: l’UCC che apriva un fascicolo sulla nostra società.
Un altro ancora: copie dei documenti attestanti la mia condanna.
L’intera scrivania era coperta di carte riguardanti me, Max e la nostra
ormai defunta società.
Layla mi stava fissando quando mi girai nuovamente verso di lei.
«Che è successo? Perché hai fatto ricerche su Max?»
Si voltò a guardare il buio fuori dalla finestra per un po’ prima di
rispondere. «Oggi l’ho incontrata.»
La scrutai in volto, cercando di trattenere un milione di domande perché
vedevo che aveva altro da dire.
Lei chiuse gli occhi e fece un profondo respiro prima di riaprirli e
guardarmi in faccia. «È venuta nel mio ufficio… con tua figlia.»

«Comincia dall’inizio, Layla.»


Avevo dovuto sedermi dopo averle fatto ripetere per tre volte quello che
aveva detto e ribadito di non sapere che Max avesse una figlia, tantomeno
una che potesse essere mia.
«Avevo in agenda un appuntamento con una nuova cliente di nome
Mackenzie. Non immaginavo che Max fosse il diminutivo di Mackenzie,
perciò non ci ho pensato più di tanto.» La voce di Layla era inquietante nella
sua calma. «Si è presentata comportandosi in maniera davvero strana. Aveva
una bambina addormentata nel passeggino. Ha spiegato che il suo socio le
aveva rubato sei milioni di dollari. Poi la figlia si è svegliata e… era
bellissima. Aveva i tuoi stessi occhi verdi. Le ho fatto i complimenti, e lei ha
precisato che aveva gli occhi del padre.»
«E ha detto che è mia figlia?»
«Davvero non lo sapevi?» chiese guardandomi negli occhi.
«Certo che no!» Mi alzai e presi a camminare avanti e indietro. «È una
fottuta pazzia. Non posso avere una figlia con lei.»
«Perché no?»
«Per quale motivo me l’avrebbe tenuto nascosto?»
«Perché avrebbe dovuto derubarti e incastrarti quando avevate già più
denaro di quanto sapeste come spenderlo?»
Mi rimisi a sedere. Con i gomiti sulle ginocchia, mi tenni la testa tra le
mani mentre mi sfregavo le tempie. «Non so risponderti. Perché niente di
tutto ciò ha mai avuto senso per me.»
Layla tacque per un momento. «Davvero non lo sapevi?» mi chiese infine.
La sua voce sembrava spaventata e vulnerabile.
Era almeno la terza volta che me lo chiedeva. Porca miseria. Ero così
preso a superare lo choc di quella rivelazione, che non mi aveva neanche
sfiorato il pensiero di cosa avrebbe significato per noi due se fosse stato vero.
D’un tratto, tutto ciò che avevo aspettato di avere per più di due anni parve
scivolarmi dalle dita.
Mi alzai e tornai da lei dietro la scrivania. Mi accovacciai davanti alla sua
sedia e le presi il viso tra le mani. «Non vedo Max da più di un anno.
L’ultima volta che l’ho sentita, si era trasferita in Florida. Non sapevo
neppure che fosse a New York e di sicuro non sapevo che sarebbe venuta da
te a fare questa specie di gioco malato. Non avevo idea che avesse una figlia
e, conoscendola, sarebbe capace di essersi inventata tutto, Layla. Devi
credermi.» Avvicinai la faccia alla sua, così che ciascuno potesse vedere solo
gli occhi dell’altro. «Non ne sapevo assolutamente niente. Niente.»
Mi scrutò il viso e annuì.
Emisi un sospiro di sollievo, anche se sapevo essere soltanto temporaneo.
Un tintinnio di chiavi distolse la mia attenzione da Layla per rivolgerla al
corridoio. Un addetto alla sicurezza si era fermato sulla soglia. «Il palazzo
chiude tra quindici minuti, Layla.»
«Va bene, Frank. Grazie.»
L’uomo guardò la sua espressione e poi me, accovacciato accanto a lei.
«Va tutto bene?»
«Sì. Tutto a posto. Qualche minuto e usciamo.»
«Buonanotte, allora.»
Quando la guardia se ne andò, le scostai i capelli dalla guancia. «Hai l’aria
esausta. Vieni a casa con me.»
Lei scosse la testa e cominciò a raccogliere in un mucchio tutti i fogli
sparsi sulla scrivania. «Ho Lentiggini da me, ricordi? E poi sono
stanchissima. Stanotte ho proprio voglia di dormire nel mio letto.»
Si stava già allontanando mentalmente da me. Non potevo lasciare che si
aggiungesse anche la distanza fisica. «Posso venire da te, allora?»
Vidi la sua esitazione.
«Dormirò sul divano se hai bisogno di spazio. Solo, non spingermi fuori
dalla tua vita, Layla. Ti prego.»
A malincuore, annuì.
Quella notte mi lasciò dormire nel suo letto. La avvolsi tra le braccia e la
tenni stretta a me con tutte le mie forze. Perché sapevo. Sapevo. L’indomani
la situazione si sarebbe messa molto male.
24

Layla
IL letto era vuoto accanto a me. E freddo.
La luce del giorno non splendeva ancora attraverso gli scuri, perciò non
ero sicura se fosse notte fonda o mattino presto. Mentre prendevo il telefono
per guardare l’ora, scorsi la luce accesa in cucina filtrare da sotto la porta
chiusa della camera.
Le cinque del mattino. Non ero una che si alza tardi, ma ci avevo messo un
sacco a prendere sonno, anche dopo essermi arresa e aver finto di
appisolarmi. Perciò quella mattina ero fiacca. Parte di me voleva girarsi
dall’altra parte e dimenticare tutto, ma sapevo che il sonno non sarebbe
venuto. Avevo bisogno di alzarmi e fare una doccia, pensare a quanto
accaduto con la mente lucida di un nuovo giorno. Ma dovevo anche sapere se
Gray era ancora lì. Ne percepivo la presenza, così mi alzai e uscii dalla stanza
con passo felpato.
Lo trovai con una tazza di caffè in mano mentre fissava lo schermo del suo
laptop in soggiorno. La luce era spenta ma lo schermo gli illuminava il viso.
Gray era sempre bello. Era impossibile non notarlo anche attraverso le
emozioni che si susseguivano sulla sua faccia. I lineamenti decisi non
consentivano alla bellezza di sparire come accadeva per alcuni uomini, in
base al loro stato d’animo. Quella mattina però aveva l’aria stanca. Gli occhi
verdi riflettevano le ombre scure sottostanti e mostravano tutti i segni di una
nottata insonne.
«Da quanto sei in piedi?» Andai in cucina e presi una tazza dalla credenza.
Gray posò il laptop sul tavolino e si spostò per guardare nella mia
direzione. «Un paio d’ore?»
Mi preparai un caffè e mi appoggiai al bancone per berlo. «Ma hai dormito
almeno un po’?»
«Diciamo che ho fatto un breve pisolino. Tu?»
«Il mio è stato un po’ più lungo.» Lanciai un’occhiata al computer. «A
cosa stai lavorando? Non sembri così entusiasta, qualunque cosa sia.»
«Alcune modifiche alla proposta rivolta alla società informatica per la
quale hai stilato il contratto. Oggi i miei soci vogliono fare un’offerta.
Pensano che un’altra società come la nostra sia interessata e che, se ne
avanziamo una con breve scadenza, non avranno tempo di fare i dovuti
controlli né di proporne una più competitiva.»
Annuii. «Fammi sapere se hai bisogno che faccia qualcosa.»
Nessuno dei due disse niente per qualche imbarazzante minuto. Odiavo
sentirmi un elefante nella stanza e preferivo levarmi il pensiero.
«Hai intenzione di sentirla oggi?»
Lui diede un buffetto al posto sul divano accanto a sé. «Vieni a sederti.»
Si prospettava un tira e molla. Già lo vedevo. Io avrei cercato di mettere
un po’ di distanza tra noi – fisica o mentale – e Gray si sarebbe opposto.
«Preferisco stare qui mentre bevo il caffè.»
Si accigliò, ma si alzò e venne a mettersi di fronte a me. La mia cucina a
forma di U era piccola, perciò la distanza tra noi era davvero poca.
Tira.
Molla.
Abbassò lo sguardo. «Prima ho cercato su internet le sue informazioni di
contatto. Ho trovato un indirizzo email e un numero di un ufficio che sembra
attivo. Non ho neanche il suo numero di telefono.»
«Cosa vuoi dire? Come fai a non avere il suo numero?»
«Ho provato a chiamarla dopo aver scoperto quello che aveva fatto. Ma
aveva cambiato numero di cellulare e le email mi tornavano indietro.»
«Oh.» Esitai un momento. «Ce l’ho io. Voglio dire, ha fornito i suoi
contatti all’assistente legale che ha fissato l’appuntamento. Se ti servono…»
«Ti ha già coinvolta abbastanza in qualunque gioco stia giocando.
Comunque grazie.»
«Cosa hai intenzione di dirle quando la sentirai?»
Gray scosse la testa al pensiero. «Non ne ho idea, cazzo. Ma immagino
che dovrei esordire con: ‘Ho una figlia?’»

Alle due del pomeriggio, quella risultava la giornata meno produttiva di


tutta la mia carriera. Avevo letto un contratto quattro volte e presenziato a
una riunione dello staff dove mi ero letteralmente presa un calcio sotto il
tavolo dall’avvocato accanto a me, perché mi era stata rivolta una domanda
che ovviamente non avevo neanche sentito. Avevo cercato di ordinare il
pranzo con la mia segretaria, ma non ero stata in grado di scegliere cosa
mangiare, così avevo mentito dicendo che mi ero ricordata di aver portato
degli avanzi.
Un colpo alla porta mi costrinse a distogliere lo sguardo dalla finestra.
Oliver sorrise e rimase sulla soglia. «Ehi. Come va?»
Anche se lavoravamo per lo stesso studio, nello stesso edificio, non lo
vedevo da quel pranzo in cui avevo troncato con lui.
«Bene. Indaffarata.»
Annuì. «Non so se l’hai saputo, ma Elizabeth Waring se ne va.»
«Oh? No. Non lo sapevo. Dove andrà?» Elizabeth era una buona amica di
Oliver, nonché avvocato presso la divisione proprietà intellettuale con la
quale lui collaborava spesso. Avevamo pranzato tutti e tre insieme in più di
un’occasione.
«Va in pensione.»
«In pensione? Quanti anni ha… trentacinque?»
Sorrise. «È l’espressione che usiamo per chi lascia la pratica privata e va a
lavorare per il governo. Ha accettato un posto all’U.S. Copyright Office.»
«Oh. Buon per lei. Diceva di volere dei figli. Questo le renderà la vita più
facile: un orario regolare dalle nove alle cinque, senza doversi preoccupare
delle ore fatturabili.»
«Già. È felice. In questo posto sarebbe una cosa irraggiungibile a qualsiasi
età. Conosci la differenza tra Pittman e una sanguisuga?»
«No. Qual è?»
«Dopo che sei morto, una sanguisuga smette di succhiarti il sangue.»
Risi. «È verissimo.»
«A ogni modo. Volevo solo salutarti e dirti che la portiamo fuori per il suo
ultimo giorno, se ti va di unirti. Venerdì sera al Rodeo Bar dietro l’angolo.»
«Quel posto con il toro meccanico?»
«Proprio quello.»
«E io che pensavo che quelli del diritto di famiglia fossero i più selvaggi.»
Sorrise. «Dovresti venire. Sarà divertente.»
«Grazie per l’invito. Ci proverò.»
Dopo che Oliver se ne fu andato, mi misi comoda sulla sedia – visto che
non avevo oziato abbastanza per quel giorno. Che ragazzo carino. E
scommettevo che non aveva figli segreti di cui era all’oscuro. E,
considerando che era stato ammesso all’Ordine, ero anche sicura che non
fosse un ex detenuto. Ma, naturalmente, non potevo innamorarmi di lui.
Sarebbe stato troppo facile. A quanto pareva, ero più per le cose complicate.
Il cellulare vibrò sulla mia scrivania. Parli del diavolo.

GRAY : Cena stasera?

Solo vedere il suo nome illuminare lo schermo mi diede la scossa. Certo


che volevo vedere Gray. Quello era parte del mio problema. Non sapevo
quando era il momento di allontanarmi da quell’uomo. O, piuttosto, lo
sapevo, solo che non riuscivo a farlo in sua presenza. Ciò mi spinse a
chiedermi se fosse questo che aveva provato mia madre, lasciando che fosse
il cuore a controllare la mente quando si trattava di mio padre e della sua
famiglia segreta. Dovevo essere più forte di lei, così optai per una piccola
bugia bianca.

LAYLA : Scusa. Ho da fare stasera.

Tira.
Molla.
Immaginai Gray seduto alla sua scrivania, la mascella contratta mentre
leggeva il mio rifiuto al suo invito. Sapevo che il prossimo sms non sarebbe
stato un semplice: Okay. In questo momento avevo bisogno di un po’ di
spazio, mentre lui voleva affollare una piccola stanza e chiuderci entrambi
dentro.

GRAY : Lavoro?

Se avessi risposto solo con un no, sarebbe sembrato sospetto e vago. Non
mi piaceva mentire. Così decisi di trasformare la mia bugia in una verità.
Invece di rispondere subito a Gray, mandai un sms a Quinn.

LAYLA : La mia giornata ha bisogno di un intruglio fatto in casa.


Conosci qualche posto?
QUINN : Sei fortunata. Ne ho appena preparato una nuova scorta.
Stavolta ho aggiunto acido acetilsalicilico.

Risi.

LAYLA : Non è di questo che sono fatte le aspirine?


QUINN : Puoi dirlo forte. Due piccioni con una fava. A che ora passi?
LAYLA : Presto.
QUINN : Presto? L’orologio dietro al bancone dice che non sono
neanche le tre. Devo cambiare le batterie? O abbiamo roba seria di
cui discutere, visto che esci da quell’ufficio prima delle sette di sera?

Mi conosceva bene.

LAYLA : Non sprecare le batterie. Potrebbero servirmi presto per il


vibratore. XO

Be’, non sto mentendo.


Riaprii la chat con Gray.

LAYLA : No. Con Quinn.


GRAY : Okay. Mi raccomando.

Avrei voluto concludere così la nostra conversazione, ma ero curiosa di


sapere se avesse parlato con Max e volesse discuterne a cena. Sarebbe stato
tipico da parte sua dare di persona quel tipo di notizie.

LAYLA : Hai sentito Max?


GRAY : No, non ancora. Le ho lasciato due messaggi. La receptionist ha
detto che oggi è fuori città.

Feci un respiro profondo e lanciai il telefono sulla scrivania. ’fanculo.


Cosa stavo aspettando? Che il fischietto suonasse alle cinque in punto?
Aprii il cassetto della scrivania e tirai fuori la borsa. Senza neanche
prendermi la briga di mettere via il fascicolo al quale stavo lavorando, decisi
che la mia giornata si era conclusa.
Da qualche parte sono le cinque.

Quinn rimase a bocca aperta. Il che era tutto dire. La mia migliore amica
aveva un papà irlandese e possedeva un bar. Non erano molte le cose in grado
di scioccarla.
«Quindi ha avuto questa figlia mentre Gray era in prigione per il reato
commesso da lei e, appena lui comincia a fare ordine nella sua vita, lei si
presenta per sganciare questa bomba?»
«Così pare.» Vuotai un terzo bicchierino di whisky fatto in casa e feci una
smorfia per il bruciore che mi investì la gola.
Un anziano signore, che doveva essere un cliente fisso – sembrava
familiare perfino a me – sollevò il boccale di birra vuoto dall’altro lato del
bancone. «Ehi, Q., che ne dici di riempirmelo?»
Quinn lo congedò agitando la mano e rispose senza neanche girare la testa.
«Fa’ il giro e riempiti il boccale da solo, Frank. Offro io, ma questo
pomeriggio è self-service.»
L’uomo saltò giù dal suo sgabello per andare a servirsi.
La mia amica appoggiò i gomiti sul bancone e si prese la testa tra le mani.
«Allora, mandiamo avanti il nastro e cerchiamo di capire. Per chissà quale
ragione, lei non gli dice che ha una figlia. Ma viene fuori che è davvero sua.
Cosa significa questo per te e Gray?»
«Non ne ho idea.»
«Avere un figlio non è la fine del mondo. Certo, è la fine della tua vita
sessuale, dei tuoi soldi, del tuo bel fisico e della pelle giovane, ma non è la
fine del mondo.»
Risi. E singhiozzai. Una specie di risata-singhiozzo che fece scoppiare a
ridere anche lei. A dire il vero, non era così divertente, però penso che
entrambe avessimo bisogno di ridere.
Quinn si asciugò le lacrime dagli occhi. «Sai, adesso che ci penso, avere
una relazione con un tipo che ha un figlio non è così male. In genere hanno i
mostriciattoli a weekend alterni e fanno la parte del genitore buono. Non
devono svegliarli per la scuola né torcere loro il piccolo collo perché si lavino
i denti la sera. È come il meglio di entrambi i mondi. Hai figli senza la
responsabilità a tempo pieno.»
«Devi torcere loro il collo per costringerli a lavarsi i denti la sera?»
«Soltanto un pochino. Ma è più per me che per Harper.»
Alcuni clienti avevano cominciato a entrare nel bar – clienti ai quali Quinn
non poteva offrire il servizio fai-da-te. Perciò rimasi sola per un po’ a
riflettere e ad affogare i dispiaceri nell’alcol. E riflettei eccome.
Cosa avrei fatto se la bambina fosse stata la figlia di Gray?
Una volta avevo frequentato un divorziato con un figlio di quattro anni.
Non lo avevo escluso a priori per questo, perciò perché con Gray avrebbe
dovuto essere diverso?
Perché il tizio che avevo frequentato era solamente quello, un tizio che
frequentavo.
Non l’uomo di cui ero innamorata.
L’uomo
Di cui
Ero
Innamorata.
La frase continuò a ripetersi nella mia mente.
Con lentezza.
Non giunse proprio come uno choc. Mi ero innamorata di Gray due anni e
mezzo prima. Solo, era la prima volta che lo confessavo a me stessa. Il che
significava… Trangugiai il resto del whisky.
Dopo cinque ore seduta al bancone a crogiolarmi
nell’autocommiserazione, finalmente mi avviai a casa. Quinn mi mise su un
taxi e prese il numero identificativo del conducente – dicendogli di averlo
annotato – per essere sicura che mi portasse dritta a casa.
Una volta lì, andai di filato a letto, senza neanche togliermi le scarpe, e mi
gettai a faccia in giù sul materasso. Mi ero appena appisolata quando sul
cellulare arrivò un nuovo messaggio.
Cercai a tentoni il comodino senza alzare la testa e dovetti strizzare gli
occhi per distinguere le parole. Era un sms di Gray.

GRAY : Sono passato da casa tua poco fa ma sono riuscito a


trattenermi dal suonare al citofono. Non so neanche se c’eri, ma era
una bella sensazione stare nello stesso posto in cui potevi esserci
anche tu. Ti sto dando lo spazio che vuoi, ma questo non significa che
non desideri stare con te. Sappilo, Lentiggini.
Lo amai ancora di più dopo aver letto quel messaggio. Eppure non potevo
dargliela vinta. Avevamo appena risolto le cose e non pensavo che la nostra
relazione fosse pronta per aggiungervi un figlio. Risposi ignorando le sue
parole.

LAYLA : Hai parlato con Max?


GRAY : Il suo ufficio mi ha richiamato per dirmi che posso trovarla lì
domani alle nove.

La gelosia mi trafisse il cuore con una freccia al pensiero di loro due


insieme nella stessa stanza. Era assurdo. Lo sapevo. Lui la disprezzava.
Questo però era ciò che provavo. L’amore era possessivo. Non importava chi
fosse l’intruso; l’unica cosa che contava era che qualcuno stava girando
attorno a ciò che consideravo mio.
Inghiottii il groppo di diffidenza e replicai con tutto l’entusiasmo di cui
ero capace in quel momento.

LAYLA : Buona fortuna per domani.


25

Gray
TAMBURELLAI le dita sul bracciolo della sedia, sempre più irrequieto a ogni
minuto che passava.
La segretaria di Max mi aveva fatto accomodare in una sala riunioni, con
un lungo tavolo e più di una dozzina di sedie. Ma, cosa più importante, dotata
di una parete a vetri che consentiva di vedere dentro a chiunque vi transitasse
davanti. Dapprima immaginai che fosse una procedura standard – la
segretaria non sapeva chi fossi né aveva motivo di pensare che il mio
incontro con Max richiedesse una sorta di privacy. Ma, con lo scorrere dei
minuti, mi resi conto che Max non lasciava niente al caso. Doveva aver dato
istruzioni perché mi mettessero esattamente dove mi voleva, quindi il fatto di
essere seduto in un acquario non era affatto una casualità.
Max era sicuramente nervosa riguardo la mia reazione. Considerando che
mi sentivo una bomba a orologeria, probabilmente la sua decisione era
sensata. Temevo di poter esplodere da un minuto all’altro. E chi si fosse
trovato sul mio cammino? Che Dio aiutasse entrambi.
Alle nove e dieci la porta della sala riunioni si aprì e Max entrò. Se era
nervosa, non lo diede subito a vedere. Si diresse al lato opposto del tavolo,
posò un grosso fascicolo tenuto insieme da un elastico e il cellulare, e si
sedette di fronte a me. Incrociò le mani sul fascicolo e mi guardò senza dire
una parola.
Era passato più di un anno dall’ultima volta che l’avevo vista e il tempo
non era stato gentile con lei. Era sempre stata alta e magra. La mattina faceva
lunghe corse – a volte percorrendo la distanza di un maratoneta che si prepara
a gareggiare – quando era stressata. Nel periodo in cui eravamo sotto
indagine, aveva perso parecchio peso, correndo due o tre ore al giorno, pur
conservando comunque un aspetto sano, benché fosse magrissima.
Ma la donna seduta di fronte a me dava l’impressione di aver sopportato
un’enorme dose di stress. Le guance erano incavate, le spalle sembravano la
metà di un tempo, e il collo a V della maglia mostrava clavicole che
sporgevano in modo più scheletrico che sexy. Se non fossi stato così
incazzato, il suo aspetto mi avrebbe allarmato.
«È bello vederti, Gray. Ti trovo bene», esordì finalmente.
Sbattei una mano sul tavolo, facendo sobbalzare tutto, e lei trasalì.
«A che razza di gioco malato stai giocando adesso?» La mia voce
trasudava veleno.
Si ricompose alla svelta, raddrizzando la schiena. «So che sei un
brav’uomo, ma avevo bisogno di vedere chi sarebbe stato vicino a nostra
figlia prima di decidermi a dirtelo.»
«Nostra figlia? Se lei è mia figlia, perché cazzo aspettare così tanto tempo
per dirmelo?»
Un uomo aprì la porta. «Tutto bene qui dentro?» chiese a Max.
Lei si portò la mano all’orecchio. Aveva sempre avuto il vezzo di giocare
con gli orecchini quando era nervosa. Per la miseria. Ci credo che sei
nervosa.
«Tutto bene, Jack. Grazie.»
L’uomo mi rivolse una seconda occhiata e, vedendo il mio sguardo feroce,
esitò e guardò di nuovo Max.
Lei dovette rassicurarlo. «Davvero. È tutto a posto. Gray e io ci
conosciamo da tantissimo tempo. Stavamo solo avendo un’animata
discussione sul mercato dei futures.»
L’uomo annuì, anche se aveva l’aria di non credere nemmeno a una
parola, poi chiuse adagio la porta.
Max si schiarì la voce. «Se tre anni fa ti avessi detto che ero incinta, forse
ti saresti battuto di più per la tua libertà e a quel punto io non avrei avuto
l’immunità.»
La fissai. Aveva in pratica appena ammesso che tutto ciò che avevo
immaginato era vero. Non che avessi dubbi, però mai mi sarei aspettato una
confessione.
«Perché all’improvviso mi stai dicendo tutto questo? Sono fuori da quasi
due mesi e ti presenti in ufficio dalla mia ragazza fingendoti una cliente per
presentarle una bambina che affermi essere mia?»
Max fece scivolare verso di me il fascicolo che aveva portato. Non mi
mossi per prenderlo.
«Non avevo alcuna intenzione di dirtelo. Avevo ottenuto ciò che volevo ed
ero andata a ricominciare la mia vita a Key West.»
«E cosa è cambiato?»
Spostò lo sguardo sul fascicolo. «È tutto lì dentro.»
La mia voce era sinistramente calma. «Basta giochetti. Cosa c’è nel
fascicolo, Max?»
Si alzò e andò alla finestra. La mia pazienza giunse al limite durante i
lunghi minuti in cui guardò fuori, ma, chissà come, riuscii ad attendere che si
decidesse a parlare.
Senza voltarsi, iniziò. «Ho un cancro al seno al quarto stadio. Si è
propagato ai polmoni, al fegato, alle ossa e al cervello. Risonanza magnetica,
PET e documenti medici sono tutti in quel fascicolo; insieme a un test del
DNA che dimostra che Aiden non è il padre e a un test che attesta invece la
tua paternità. Ho fornito il tuo spazzolino e il rasoio perché potessero
prelevare un campione.»
Tornò al tavolo e, reggendosi allo schienale della sedia sulla quale prima
era seduta, mi guardò dritto negli occhi. «È inclusa anche una lettera che ti ho
scritto.»
Di tutte le cose che immaginavo avrebbe potuto dirmi, mai mi sarei
aspettato questa. La fissai. Quella era una donna che mi aveva sempre
mentito e io avevo creduto a tutte le sue bugie. Avevo perso tre anni della
mia vita a causa della sua capacità di mentire… Eppure… potevo giurare che
in quel momento mi stesse dicendo la verità.
Avvicinai il grosso fascicolo alla mia parte di tavolo e sfilai l’elastico. Con
un profondo respiro lo aprii e cominciai a passare in rassegna i numerosi
documenti. Gran parte era gergo medico che non capivo. Le parole saltavano
dalle pagine come se fossero state lampeggianti.
Trattamento palliativo.
Istopatologia.
Neutropenia.
Una particolare sezione in fondo a un referto del Memorial Sloan
Kettering sembrava scritta in un linguaggio più semplice delle altre.
Confermava tutto ciò che lei aveva detto, citando grosse masse nella testa, nei
polmoni, nel fegato – perfino dove aveva subìto una mastectomia totale.
La guardai di nuovo. Ecco spiegato il motivo della perdita di peso. Niente
grasso corporeo, faccia smunta… Iniziai a notare cose che prima mi erano
sfuggite. La pelle era di un grigiastro itterico, il viso invecchiato di vent’anni,
i capelli di un colore diverso e molto più folti di quanto non lo fossero in
precedenza: indossava una parrucca. Un tempo formosa, con curve anche
quando era diventata troppo magra a furia di correre, adesso non aveva più
seno.
Chiusi gli occhi per un momento. Non sortì alcun effetto sul subbuglio
nella mia mente. Riaprendoli, guardai la donna che mi aveva rubato anni di
vita, insieme a reputazione e dignità. Non volevo vederla come un essere
umano. Volevo vederla come il mostro che avevo passato tre anni a odiare.
Ma non ci riuscii. Tutto ciò che vedevo era una persona fragile. Una donna.
Una madre. La figlia di qualcuno, che aveva trent’anni e stava morendo.
Provai un vuoto nel petto. La mia voce si addolcì. «Quanto tempo hai?»
«Sei mesi… forse.»
Mi presi la testa fra le mani. Era come se la stanza avesse cominciato a
girare. «Mi dispiace.»
Lei si sedette di nuovo di fronte a me. «Anche a me, Gray. Anche a me.
Lo so che non basta. E non mi aspetto il tuo perdono. A volte devi guardare
la morte in faccia per ripensare alla tua vita e renderti conto di non averla
vissuta in modo da andarne fiera. Non vado fiera di molto di ciò che ho fatto.
Ho vissuto per il denaro e il potere, incurante delle vittime che facevo. Ma
sono fiera di Ella. Lei è innocente e dolce, è piena di amore e vita.» Fece una
pausa. «Immagino di essere fortunata che abbia preso da suo padre e non da
me.»
La guardai. «Sei sicura che sia mia? Come faccio a essere sicuro che quei
test non siano manipolati?»
Max fece un sorriso triste e infilò la mano nella tasca della giacca. Fece
scivolare una foto verso di me.
La presi e rimasi senza fiato. La bambina era uguale a me. Grandi occhi
verdi, ciglia scure, fossette che ne sottolineavano il sorriso sbilenco. Un
pensiero assurdo mi balenò nella mente. Assomiglia a mio padre.
Deglutii e sentii il sapore salato in gola. «Ho bisogno di tempo per digerire
tutto quanto.»
«Certo.»
Osservai la fotografia di quella bellissima bambina. «Posso tenerla?»
«Senz’altro.»
Mi alzai, stordito. Presi il fascicolo e rivolsi a Max un cenno di saluto
prima di avviarmi alla porta. Con la mano già sulla maniglia, le chiesi: «C’è
altro che vuoi confessare prima che vada?» Era solo un pessimo tentativo di
fare dello spirito.
Ma lei abbassò lo sguardo.
Scossi la testa. «Cazzo… cos’altro?»
«Aiden mi ha rubato tutti i soldi che avevamo rubato a te. Vorrei davvero
che la tua amica tentasse di recuperarli. Sono l’eredità di Ella.»
Incredibile. Aprii la porta e replicai senza voltarmi: «Sei davvero un bel
tipo».
26

Gray
AGITANDO i cubetti di ghiaccio nel bicchiere vuoto, osservavo il casino della
mia vita disseminato sul divano in salotto e sul pavimento. Il fascicolo che mi
aveva dato Max conteneva ogni cosa: i referti medici, il testamento con cui
mi nominava unico tutore di Ella, una lettera di sette pagine che spiegava in
dettaglio tutti i perché, i come e i quando della sua malattia e gravidanza, il
certificato di nascita di mia figlia e le cartelle mediche. Aveva perfino
confessato la truffa ai miei danni. Era una vagonata di informazioni. Ma era
alla fotografia di mia figlia, messa in cima al mucchio, che continuavo a
tornare.
Mia figlia.
Non sapevo se mi sarei mai abituato anche solo a pensare a quelle due
parole, figuriamoci a dirle ad alta voce. Ella Kent Cartwright era nata il
giorno di San Valentino di tre anni prima. Max aveva fatto scrivere padre
ignoto sul certificato di nascita, ma aveva dato a Ella come secondo nome
quello da nubile di mia madre, Kent.
Studiai la foto per la millesima volta. Non avevo idea di come ci si prende
cura di un bambino – una figlia, nientemeno. Ma sentivo il cuore gonfiarsi
ogni volta che guardavo il suo adorabile faccino. Era come se la mia vita
fosse stata di nuovo risucchiata in un tornado, e non sapevo dove mi avrebbe
sputato fuori. Una cosa però sapevo per certo: dovevo incontrare Ella il prima
possibile.
Dirigendomi in cucina sulle gambe malferme, riempii di nuovo il
bicchiere e maledissi la bottiglia vuota quando versai le ultime gocce.
Avevo bisogno di parlare con Layla. Mi aveva mandato un sms un’ora
prima e ancora non ero riuscito a risponderle. Che cazzo dovevo scriverle?
Sì, ho una figlia.
E… presto sarò il papà single di una bimba che non ho mai conosciuto.
Avrei tanto voluto mentirle, dirle che Max non si era presentata
all’incontro e passare ancora una notte negando la realtà. Ma… niente bugie.
Era così che l’avevo persa la prima volta.
Di sicuro non era una conversazione da fare tramite sms. Erano quasi le
otto, perciò Layla doveva essere ormai a casa.

GRAY : Va bene se passo da te così possiamo parlare?

La sua risposta fu veloce.

LAYLA : No.

Il cuore iniziò a battermi forte e il cellulare mi cadde di mano mentre stavo


per replicare. Sentii un altro telefono squillare in sottofondo mentre
raccoglievo il mio dal pavimento. Ero così concentrato sulla ragione per la
quale non mi voleva a casa sua da non rendermi conto che si trattava del mio
telefono fisso.

GRAY : Sei ancora al lavoro? Potrei passare a prenderti e andare


insieme a casa tua.
LAYLA : Non sono più al lavoro.

Merda. Non voleva che andassi da lei.

GRAY : Troppo stanca?

Il telefono squillò di nuovo. Stavolta lo sentii forte e chiaro ma scelsi di


ignorarlo. Chiunque stesse chiamando non era importante quanto Layla.

LAYLA : In realtà, no.

Cazzo.
Cominciai a scrivere una risposta, poi ci ripensai e premetti CHIAMA . Lei
rispose al primo squillo.
«Dobbiamo parlare, dolcezza.»
«Sono d’accordo. Quindi perché non rispondi al telefono di casa?»
Per qualche istante rimasi assolutamente spiazzato. «Come fai a conoscere
il mio…»
«Perché sono qui in attesa che tu dica al tuo simpatico portiere che posso
salire da te.»
Sollevai il ricevitore del telefono e lo accostai all’altro orecchio.
«Norman?»
«Sì, Mr. Westbrook.»
«Può per favore mandare su Ms. Hutton?»
«Certo.»
«E, a futura memoria, Ms. Hutton è la benvenuta ogni volta che vuole.»
«Ricevuto.»
Riattaccai e tornai al cellulare. «Porta le chiappe quassù, spiritosona.»

Aspettai davanti all’ascensore. Lentiggini, invece, prese la sua fidata


scarpa e si fiondò dentro appena si aprirono le porte.
Layla si chinò per prenderlo. «Sei felice di vedermi o stai cercando di
fuggire in ascensore?»
Avrei voluto conservare quel sorriso sulla sua faccia per sempre. D’un
tratto, mi assalì un pensiero deprimente. Non avevo voluto sostenere una
conversazione seria tramite sms. Magari anche lei aveva pensato la stessa
cosa. Magari era lì per mollarmi di persona.
Mi sforzai di scacciare quel pensiero dalla mente e di restare positivo.
«Questa sì che è una piacevole sorpresa.»
Lei finì di grattare Lentiggini e lo rimise giù. «Ho pensato che mi avessi
evitata tutto il giorno perché avevi notizie che non desideravi condividere e
non volevi mentire se ti avessi fatto delle domande.»
Mi costrinsi a sorridere. «Mi conosci bene.»
Dentro ero a pezzi, incapace di pensare lucidamente, ma questo non mi
impedì di bearmi della sua vista. Indossava un tailleur rosso – gonna e giacca,
con una blusa di seta bianca. Quando aveva tenuto Lentiggini in braccio, il
tessuto sottile aveva aderito al reggiseno e io avevo potuto distinguere il
motivo di pizzo sottostante. Le lunghe gambe tornite erano lisce e portava
scarpe nere col tacco… Mi sarei fatto camminare sulla schiena solo per
sentirle trafiggermi la pelle. Ma fu il suo naso a stendermi. Non si era coperta
le lentiggini. In qualche modo, questo mi dava un barlume di speranza cui
aggrapparmi.
Mentre ero impegnato a mangiarmela con gli occhi, a quanto pareva lei
aveva fatto lo stesso con me. Solo che il risultato non doveva essere stato
altrettanto piacevole.
«Hai un aspetto terribile», osservò.
«Allora è un’ottima cosa che tu sia abbastanza bella per tutti e due.»
«Hai… intenzione di invitarmi a entrare così possiamo parlare? Oppure
dobbiamo restare qui a fissarci davanti all’ascensore?»
«Che ne pensi di restare qui?»
Mi rivolse un sorriso forzato. «Andiamo. Offrimi da bere. A giudicare dal
tuo aspetto, ho parecchio da recuperare.»
Dopo averle versato un bicchiere di vino e aver preso una bottiglia
d’acqua per me – avevo bevuto abbastanza – andammo in soggiorno. Avevo
dimenticato il caos che avevo lasciato. Spostando i fogli sul divano, le feci
posto.
Gli occhi di Layla si posarono sulla fotografia che non ero riuscito a
smettere di guardare per tutta la giornata. La prese e la osservò mentre
sorseggiava il suo vino.
«È bellissima. La foto non le rende giustizia», mormorò.
«Non ho fatto altro che guardarla per ore.»
Il suo sguardo si alzò per intercettare il mio. «È tua?»
Emisi un lungo sospiro. «Max mi ha dato i risultati del DNA per
dimostrare che Aiden non è il padre. Afferma di aver fatto il test con
campioni prelevati dal mio spazzolino e dal rasoio e il risultato è positivo.»
«Le credi?»
Guardai la foto che teneva ancora in mano. «Penso che le avrei creduto
anche solo con quella.»
Layla mi rivolse un sorriso triste. Restammo a fissarci a lungo in totale
silenzio. Non sapevo cosa dire, pensai che fosse meglio lasciarle digerire la
situazione.
Alla fine distolse lo sguardo. «Perché te l’ha tenuto nascosto?»
«Ha detto di aver scoperto di essere incinta poco prima che accettassi il
patteggiamento; pensava che avrei potuto tirarmi indietro se avessi saputo di
avere un figlio in arrivo. Avrei potuto lottare per la mia libertà e questo
avrebbe messo a rischio la sua immunità.»
«Dio», esclamò con voce strozzata. «Che cosa spietata.»
Scossi la testa e mi guardai i piedi. «Non pensavo che potesse esserci altro
in grado di scioccarmi.»
«Ti rivuole con sé? È per questo che te l’ha fatto sapere in questa maniera,
tramite me? Presentandosi così nel mio ufficio?»
«No. Ha detto che voleva vedere in compagnia di chi la figlia avrebbe
trascorso il tempo.»
«Ci sono modi molto più normali per farlo. Come magari far sapere al
padre che ha una figlia prima di stalkerarne la fidanzata?»
«Non c’è niente di normale in Max. L’ho imparato a mie spese.»
Restammo di nuovo in silenzio per qualche minuto. Dovevo raccontarle il
resto, ma non sapevo come dirle che la vita che avevo appena riavuto indietro
stava per essere stravolta. La sua domanda successiva, tuttavia, aprì la strada.
«Quindi, cosa succede adesso? Ti permetterà di vederla? Si opporrà alle
tue visite e ai tuoi diritti legali?»
Aspettai che Layla bevesse un sorso e tornasse a guardarmi. «Max sta
morendo. Quarto stadio di un cancro al seno che si è diffuso… ovunque.»
Restò a bocca aperta e si portò la mano al petto. «Oh mio Dio, Gray.»
«Ha deciso di dirmelo perché non ha più tempo e vuole fare in modo che
la transizione sia più facile.»
«La transizione?»
«La mia custodia.»
«Wow.» Layla si sfregò una tempia. «Io… io non so neanche cosa dire.»
Le tolsi il bicchiere e lo posai sul tavolino per poterle prendere le mani.
Guardandola negli occhi, dissi: «Di’ che uscirai con un papà single che
non ha la minima idea di cosa fare con una bambina. Dimmi che questo non
ti farà fuggire di nuovo via da me».
Lei abbassò gli occhi. «Gray… è un bel fardello.»
«Lo so. E non ti sto chiedendo di accettare tutto su due piedi. Cazzo, non
l’ho digerito nemmeno io.»
Mi fissò. Sembrava avere la mente in subbuglio, come l’avevo avuta io per
tutto il giorno, cercando di far combaciare tutti i pezzi del puzzle. «Ecco
perché è così magra. La parrucca. I grossi occhiali da sole.»
«Non ha un bell’aspetto», convenni.
«Sei riuscito a vedere Ella oggi?»
«No. Ho lasciato l’ufficio di Max piuttosto confuso. Sono tornato a casa
per leggere una lettera di sette pagine, che mi aveva dato insieme a un
mucchio di documenti legali. Sulla lettera c’era il suo numero di cellulare e
c’era scritto di mandarle un messaggio quando fossi stato pronto a conoscere
Ella. Prima le ho scritto un sms ma non ho ancora ricevuto risposta.»
«Ella porta un apparecchio acustico. L’ho notato nell’istante in cui Max le
ha scostato i capelli l’altro giorno. Mi era del tutto passato di mente.»
«Sì, nel fascicolo ci sono anche i referti medici di Ella. Ha la Connessina
26. È una condizione genetica che può causare una perdita dell’udito da lieve
a totale. Nel suo caso è lieve, però può peggiorare con il tempo, perciò Max
le sta insegnando il linguaggio dei segni per precauzione. Ce l’aveva anche
mio padre. Lui non portava l’apparecchio acustico, ma avrebbe dovuto. Si
limitava a farsi ripetere le cose di continuo.»
«Gesù, Gray. Non so cosa dire. Ti sei perso tre anni di vita di tua figlia.»
«Dovrò rimediare.»
Mi guardò negli occhi e vidi i suoi riempirsi di lacrime. Pensai che fosse
triste per quest’ultimo colpo. Una lacrima solitaria le solcò la guancia e la
asciugai con il pollice.
«Mi dispiace di avere tutta questa zavorra. Se fossi un uomo migliore,
andrei via e non ti scaricherei addosso tutto questo. Quando però si tratta di
te, sono un egoista assoluto. Non posso farne a meno. Scusa se ti sto
sconvolgendo. Ma non posso lasciarti andare via di nuovo. L’ultima volta
non ho avuto scelta.»
Cominciarono a cadere altre lacrime. Feci un grosso respiro e le asciugai
ancora le guance. «Mi dispiace. Ti prego, non arrabbiarti. Risolverò la cosa.
La risolveremo. Mi uccide vederti piangere perché ti ho delusa un’altra
volta.»
«Non sto piangendo perché mi hai delusa.» Tirò su col naso. «Sto
piangendo per gli anni persi con una bambina che non hai ancora neanche
conosciuto.»
La attirai a me e la strinsi fra le braccia. Fu come tornare a respirare. Le
accarezzai i capelli.
«È un sacco, lo so. E non mi aspetto che tu dica qualcosa oggi. Hai
bisogno di tempo. Ma c’è ancora una cosa che devo dirti.»
Si tirò indietro e un sorriso triste le increspò le labbra. «Non credo di poter
reggere altro.»
Le presi una mano e gliela baciai. «Questo non ha niente a che fare con
Max. Ma è importante che tu lo sappia.»
«Cosa?»
«Domani o quando rifletterai su tutto quanto – quando penserai a tutto
quanto ti ho appena scaricato addosso – ho bisogno che ricordi anche un’altra
cosa.» Feci una pausa e aspettai che mi guardasse negli occhi prima di
continuare. «Sono innamorato di te, Layla Hutton – così innamorato di te che
sto male fisicamente al pensiero di perderti.»
Lei sorrise. «Gray…»
Premetti le labbra sulle sue per impedirle di proseguire. «Ssh. Abbiamo
parlato abbastanza di cose pesanti per questa sera. Che ne dici di un altro
bicchiere e poi di un bel bagno caldo?»
«Non lo so Gray. Dovrei andare…»
«Se te ne vai, vengo con te. Non ti libererai di me così facilmente.
Possiamo andare da te, se vuoi, ma non ti lascio sola stanotte… non dopo che
ti ho rovesciato addosso questa valanga.»
Parve combattuta, ma dopo qualche minuto annuì.
Layla accettò la mia offerta di vino, ma rifiutò la proposta di un bagno
insieme. Più tardi, a letto, la tenni fra le braccia quanto più stretta potevo
senza farle male. Ma, nonostante il mio abbraccio di ferro, sentivo che stava
scivolando via.
27

Layla
MI svegliai con la vista di Gray addormentato. Sembrava così sereno. Mi
doleva il cuore per tutto quello che aveva perduto: tre anni di vita, l’attività,
la reputazione, vivere la nascita di sua figlia – i suoi primi passi, il primo
taglio di capelli, le prime parole, il primo… tutto. Perciò volevo esserci per
lui, volevo tenere duro. Ma il pensiero di costruire una nuova vita che adesso
includeva una bambina piccola e sua madre, sul punto di morire, mi
terrorizzava.
Il meccanismo di autoconservazione nel mio cuore voleva che me la dessi
a gambe il più velocemente possibile. Ma la parte che batteva all’impazzata
ogni volta che Gray entrava nella stanza mi tratteneva lì a guardarlo dormire.
La notte prima non ero riuscita a smettere di pensare a una cosa che mia
madre aveva detto una volta. Dopo aver capito che non eravamo l’unica
famiglia di papà – e che, in realtà, lei era l’altra e io la figlia illegittima –, le
avevo chiesto in più di una circostanza come potesse accettare una situazione
del genere. La risposta era stata sempre la stessa: «Quando ami qualcuno, a
volte devi mettere i suoi bisogni al primo posto».
Avevo sempre pensato che equivalesse a tirarsi indietro, che
quell’accettare che mio padre avesse bisogno di avere due famiglie fosse una
stronzata. Eppure mi ero sempre sforzata a freno la lingua, restia a turbarla e
a parlar male di mio padre, che era così buono con me… quando c’era.
Ma, dentro di me, ogni volta che lei diceva che l’amore significava
anteporre i bisogni di lui ai propri, pensavo solo: Certo, e gli hai appena fatto
capire che i tuoi vengono sempre al secondo posto. Crescendo, avevo giurato
di mettere i miei bisogni per primi, se mai mi fossi innamorata.
In quel momento, Gray aveva aperto gli occhi.
«Ehi.» Allungò una mano e mi sfiorò la guancia con il pollice. «Sei ancora
qui.»
«Pensavi che me ne sarei andata?»
Mi rivolse un sorriso dolce. «Avevo paura che, se mi fossi addormentato,
avrei mollato la presa e tu saresti scivolata via.»
«Be’, in effetti devo alzarmi e andare al lavoro. Ma prima ho bisogno di
tornare a casa a fare una doccia e cambiarmi. Perciò, meglio darsi una
mossa.»
Lui mi attirò a sé. «Fa’ la doccia con me.»
«Di sicuro non mi farà arrivare in tempo in ufficio.»
Gray affondò la testa nei miei capelli. «Possiamo fare in fretta.»
Dal modo in cui il suo respiro caldo mi eccitò all’istante solleticandomi il
collo, capii che era un cumulo di fesserie. «Che ne dici se faccio la doccia qui
mentre tu prepari la colazione?»
«Trattiamo», brontolò contro la mia pelle prima di deporre una serie di
baci lungo il collo. «Facciamo la doccia insieme e mangerò te per colazione
mentre ti lavi. Multitasking.»
Piegai la testa all’indietro per concedermi di più a lui e sorrisi. «Bel
tentativo. Ma ho una deposizione alle dieci che mi prenderà gran parte della
giornata, perciò ho bisogno di qualcosa che mi riempia lo stomaco.»
«Te lo do io qualcosa per riempirti lo stomaco.»
Ridendo, lo spinsi via e mi alzai. «Dovrò rimandare l’invito.»
Dopo una doccia veloce, avvolsi i capelli in un asciugamano. Con indosso
la camicia di Gray, che mi arrivava alle ginocchia come un vestito, seguii il
profumo del bacon fino in cucina. Era ai fornelli a torso nudo, con un
pantalone da ginnastica nero. I muscoli dorsali spiccavano anche senza che li
flettesse e scendevano affusolandosi verso la vita sottile. Per quanto confusa
fosse la mia mente in quel momento, la mia libido sapeva esattamente cosa
voleva.
Lo raggiunsi e gli passai le unghie sulla schiena. Non troppo piano.
Gray gemette. «Non hai idea della forza di volontà che mi ci è voluta per
restare qui, sapendo che eri nuda nell’altra stanza. Graffiami di nuovo e dirò
’fanculo all’autocontrollo e tu finirai sul bancone della cucina con le gambe
aperte e in ritardo al lavoro.»
Mise nel piatto il bacon, afferrò al volo il pane appena uscito dal tostapane
e si voltò verso di me. I suoi occhi scesero sul notevole rigonfiamento nei
pantaloni.
Mi coprii la bocca e ridacchiai. «Quello è appena successo?»
«Mi sono svegliato accanto a te. Aveva cominciato a calare un attimo
prima che mi affondassi le unghie nella schiena. Adesso hai di nuovo
svegliato la bestia.»
Presi il piatto dalle sue mani e cercai di ignorare la mia bestia – che, a
differenza sua, si trovava a nord della vita. «Bacon e pane tostato?»
«Ho finito le uova. C’era questo, con il burro di arachidi, oppure una
bistecca.»
«Ottima scelta.»
«Siediti. Il caffè è quasi pronto. Ne verso un po’ a tutti e due.»
Anche se Gray aveva riempito un altro piatto, lo lasciò sui fornelli e si
sedette di fronte a me solo con il caffè.
«Non fai colazione?»
«Al ritorno dalla corsa. Non riesco a mangiare prima.»
Sorseggiai il caffè. Non mi aveva chiesto come lo prendevo, eppure era
perfetto. Mi scaldò il cuore. «Che programmi hai oggi?»
Il suo sorriso si spense. «Ho controllato il telefono mentre eri sotto la
doccia. Max mi ha risposto ieri sera tardi. Dice che posso vedere Ella nel
pomeriggio. Ho proposto il parco qui di fronte. C’è un’area giochi per i
bambini e una per i cani. Dovrò organizzarmi per lavorare da casa oggi. Le
ho detto di indicarmi un orario, così mi farò trovare lì.»
«Okay. Sei nervoso?»
Si passò una mano tra i capelli. «Sono terrorizzato. Un uomo non
dovrebbe mostrare paura, ma ho paura che questa bambina possa darmi
un’occhiata e mettersi a piangere.»
«Oh, mio Dio.» La sua vulnerabilità toccò un punto debole dentro di me.
Mi alzai e mi inginocchiai davanti a lui. Prendendogli la mano, lo rassicurai:
«Ti amerà, Gray. I bambini hanno un sesto senso per riconoscere una brava
persona. E ti ho visto con la figlia di Quinn. Te l’avevo detto che Harper non
ha nessuna simpatia per gli uomini, eppure le sei piaciuto».
«L’ho corrotta con un regalo che sapevo avrebbe adorato.»
«Forse. Ma fidati, non avresti ricevuto quell’abbraccio da lei se non avesse
avuto la sensazione che sei un bravo ragazzo. E, che tu lo sappia o no, sei
stato fantastico con lei. Hai un talento naturale. Quando le hai parlato, non
l’hai guardata dall’alto. Ti ho osservato. Ti sei chinato e ti sei messo al suo
livello. L’hai trattata da persona, non da bambina piccola, e l’hai ascoltata
davvero. Questo è tutto ciò che ti serve per cominciare. Il resto verrà da sé.»
«Non ho mai cambiato un pannolino in vita mia. Ho guardato dei video su
YouTube senza il sonoro ieri sera dopo che ti sei addormentata.»
Sorrisi. «Te la caverai. Risolveremo tutto. E poi, la maggior parte dei
bambini non porta più il pannolino dopo i due anni. Quindi, una cosa in meno
di cui preoccuparsi.»
Aveva tenuto gli occhi bassi sulle nostre mani unite ma in quell’istante i
suoi balzarono su, cercando i miei. Il suo sguardo era intenso.
«Cosa c’è?» chiesi.
«Hai parlato al plurale.»
Aggrottai la fronte.
«Plurale. Hai detto: ‘Risolveremo tutto’.»
Non me n’ero neanche accorta, ma aveva ragione. «Immagino di sì.»
Gray spinse la sedia indietro e mi issò sul suo grembo. Mi prese il viso fra
le grandi mani.
«Di tutto quello che potevi dire per infondermi sicurezza, questo mi dà più
speranza di qualsiasi cosa. Perché, con te accanto, posso fare tutto.»

«Ho chiamato Al.» Gray si allacciò le scarpe da corsa e si rialzò proprio


mentre uscivo dal bagno, vestita e intenta a spazzolarmi i capelli bagnati.
«Sarà qui sotto tra cinque minuti. Ti porterà a casa per cambiarti e poi ti
accompagnerà in ufficio.»
«Oh. Non ce n’era bisogno. Potevo prendere la metropolitana.»
«È un piacere.»
I miei occhi fecero un rapido esame di come si era vestito Gray per andare
a correre. Una seconda pelle: maglietta nera e shorts.
«Mi piace la tua tenuta.»
«Ah sì?» Mi raggiunse e mi intrecciò le mani dietro la schiena. «La
indosserò tutti i giorni, allora.»
«Penso che potrebbe cominciare a puzzare dopo un po’.»
«Ne comprerò dei doppioni.»
Una mano scivolò sotto la camicia e iniziò ad accarezzarmi la pelle. Si
pietrificò quando arrivò dove avrebbe dovuto esserci il reggiseno e poi prese
a tastare tutt’intorno, come per verificare l’ipotesi iniziale.
«Non porti il reggiseno.»
«L’ho infilato in borsa. L’avevo messo ieri.»
La mano viaggiò davanti e si chiuse attorno a un seno. «Mi piace. Facile
accesso. Ma non mi piace l’idea di te che viaggi così in metropolitana.»
«Ma non prenderò la metro. Hai appena detto che mi avrebbe
accompagnata Al.»
«Sì, ma non lo sapevi quando ti sei vestita.»
«Be’, allora tutto è andato per il meglio, non trovi?»
Gray mi guardò diffidente e pizzicò un capezzolo. «Spiritosa.»
Mi alzai sulle punte e mi protesi per sussurrargli all’orecchio. «Se non ti
piace l’idea di me che viaggio in metro senza reggiseno, probabilmente non
apprezzerai sapere che non porto neanche le mutande.»
Gray bofonchiò qualcosa sull’autocontrollo un attimo prima che le sue
labbra travolgessero le mie. Mi baciò appassionatamente e fu la prima volta,
dal giorno in cui Max era entrata nel mio ufficio, che le cose tra noi parvero
di nuovo normali. Sospirai nella sua bocca e lui mi fece indietreggiare verso
il letto. Quasi non mi accorsi che la mia schiena colpì il materasso, ma sentii
decisamente l’erezione che mi premeva contro il fianco. Per quanto odiassi
farlo, mi costrinsi a interromperci.
Gli appoggiai i palmi sul petto e diedi una leggera spinta. «Devo andare al
lavoro.»
«Chiamo Pittman e gli dico che ho avuto un’emergenza di cui devi
occuparti.»
«A quel punto dovrei metterti in conto le ore.»
«Mettimele in conto per un mese. Tutto pur di non lasciarti andare.»
Ridendo lo spinsi via con più forza. «No, davvero. Devo andare.»
«E va bene.» Mise il broncio ma si alzò.
In ascensore, la giocosità continuò. Le mutande spuntavano dalla borsa
aperta e ce le contendemmo. Lui tirava. Io anche. Avrei voluto restare in
quella cabina, il nostro piccolo mondo dove avremmo dimenticato, per un
po’, l’esistenza di tutto il resto.
Ma, fin troppo presto, le porte si aprirono sull’androne. Una coppia meno
giovane stava aspettando di entrare e Gray pensò di poter sfruttare la
situazione a proprio vantaggio. I suoi occhi scintillarono trionfanti, dando per
scontato che avrei ceduto, imbarazzata da quella lotta per un perizoma di
pizzo nero.
Invece mi schiarii la voce e feci un passo avanti, rifiutandomi di mollare le
mutande. Guardai la donna. «Chiedo scusa. Mio fratello è un travestito e a
volte lo becco a rubarmi la biancheria.»
La donna strabuzzò gli occhi vedendo Gray che lasciava andare il
perizoma. Gli scoccai un sorriso maligno di vittoria da sopra la spalla mentre
uscivo dall’ascensore.
«Simpatica. Davvero simpatica», mi gridò dietro mentre le porte si
richiudevano alle sue spalle. «Quella è Mrs. Elsworth. È la rappresentante di
condominio. Sono sicuro che il mio travestitismo sarà oggetto di discussione
alla prossima riunione di condominio.»
Risi per tutto l’atrio fino al portone d’ingresso. Ma la mia risata cessò
bruscamente appena uscii in strada.
Mi ero bloccata all’improvviso, tanto che Gray mi finì addosso. Riuscì a
fermare entrambi e a impedire che cadessi. Pensando che stessimo ancora
scherzando, mi strinse e mi sollevò di peso, facendomi compiere un giro
completo finché non si trovò faccia a faccia con la coppia di persone davanti
al suo palazzo.
Max ed Ella.
28

Layla
NESSUNO di noi sapeva cosa dire o fare. Gray mi teneva la spalla talmente
forte che mi avrebbe senz’altro lasciato un livido.
«Cosa ci fai qui?» chiese a Max, che si raddrizzò per quel tono brusco.
«Ti ho mandato un sms venti minuti fa. La babysitter si è data malata, così
ho deciso di portare Ella in ufficio con me. Casa tua è di strada, perciò ho
pensato…» Max alternò lo sguardo tra noi due. «Se non è un buon momento,
possiamo tornare un’altra volta.»
Gray non rispose. Mi voltai e vidi che stava fissando Ella. La bambina lo
stava osservando con i suoi incredibili occhi verdi, identici ai suoi. Vedere la
figlia di persona per la prima volta parve provocargli una specie di choc.
Continuava a fissarla senza fiatare, allora cercai con nonchalance di prenderlo
per un braccio e riscuoterlo da quello stato prima che spaventasse Ella e la
sua paura peggiore si avverasse, ovvero che la piccola cominciasse a
piangere.
«Gray…»
Lui batté le palpebre più volte e guardò Max. La sua espressione era a
metà tra lo smarrimento e il terrore. Mi fece pensare a un bambino piccolo
che non voleva alzarsi dal letto per timore che sotto vi fosse un mostro e
quindi non sapeva come uscire dalla sua stanza.
Max si inginocchiò davanti alla figlia e cominciò a parlarle mentre faceva
anche i segni con le mani. «Tesoro, questo è l’amico di mamma, Gray. Di’
ciao.»
Ella stese le dita e piegò il pollice sul palmo, poi fece un saluto partendo
dalla fronte. «Ciao.»
Gray mi guardò senza sapere cosa fare, come reagire. Accennai alla
bambina e gliela indicai con gli occhi. Fortunatamente seguì le mie
indicazioni.
Inginocchiatosi al livello del viso della piccola, si schiarì la voce: «Ciao,
Ella».
Stavolta lei fece dei segni senza aggiungere le parole.
Max la esortò: «Ella, aggiungi le parole, tesoro».
Ella fece lo stesso segno e poi disse: «Parco».
Max guardò Gray. «Le ho detto che avremmo incontrato il mio amico e
poi saremmo andati tutti insieme al parco.»
Gray annuì. E poi l’imbarazzo che aveva cominciato a svanire tornò,
almeno da parte mia. Max si voltò verso di me. Il suo sguardo duro
comunicava tacitamente che una quarta persona non era gradita nella loro
uscita di famiglia.
Mi scoccò un sorriso al botox. «Ti ricordi di Ms. Hutton, Ella? Lei è
l’avvocato di mamma.»
La sentii forte e chiaro.
Per fortuna, l’autista di Gray accostò davanti al marciapiede proprio in
quel momento. Non vedevo l’ora di fuggire.
«Ecco il mio passaggio. Sarà meglio che vada a lavorare.» Sorrisi alla
bambina. «Ciao, Ella.» Stringendo il braccio di Gray, gli rivolsi un mezzo
sorriso forzato. «Ci sentiamo dopo.»
Poi mi affrettai a raggiungere l’auto prima che qualcuno avesse modo di
dire altro.
Chiudendo lo sportello con forza, ripresi fiato mentre guardavo i tre fermi
sul marciapiede. Mai prima di allora ero stata così grata ai vetri oscurati.
La piccola allungò le mani verso la madre e Max si chinò per sganciarle la
cintura e aiutarla a scendere dal passeggino. Non riuscii a staccare gli occhi
dal terzetto neanche quando Al partì. Allungai il collo per guardare dal
lunotto posteriore. C’era traffico, per cui ebbi tempo a volontà per osservarne
l’interazione.
Max richiuse il passeggino ed Ella la prese per mano. Poi la donna parlò
alla figlia, che tese l’altra mano a Gray. Vederlo così in difficoltà mi spezzò il
cuore. Tenere per mano tua figlia dovrebbe essere la cosa più naturale del
mondo. Eppure lui sembrava rigido e terrorizzato. Dopo qualche istante, le
prese la manina. Gray non riusciva a smettere di fissare la bimba – cosa che
comprendevo nella maniera più assoluta. Dopo un paio di minuti, finalmente
si avviarono in direzione del parco.
L’auto procedeva a passo di lumaca, preceduta da una lunga fila di taxi in
attesa di svoltare a sinistra. Alla fine non dovetti più allungare il collo e i tre
ci superarono. Gray sembrava non essersi accorto di essere passato davanti
alla propria auto.
Li vidi allontanarsi. Con la piccola Ella in mezzo che teneva loro la mano,
parevano una famiglia come tante a spasso per New York. Più li guardavo,
più i miei occhi perdevano lucidità.
Dio… una famiglia.
Non sono pronta per questo. Non siamo pronti per questo. A stento
avevamo superato i nostri problemi e cominciato a fare progressi. Le coppie
dovrebbero andare per gradi per prepararsi a diventare una famiglia. Anche se
fossi rimasta incinta, avremmo avuto nove mesi per abituarci all’idea.
I miei occhi tornarono a mettere a fuoco mentre il terzetto si allontanava,
ma la vista iniziò anche a farmi brutti scherzi. Mentre vedevo Ella e Gray
nitidamente, Max iniziava a svanire. Poco per volta, guardai la donna
trasformarsi in un’ombra e poi scomparire del tutto. Cancellata dal quadro,
sparì. Quando, qualche secondo più tardi, riapparve di nuovo alla vista,
inghiottii il respiro. Non vedevo più Max… era stata sostituita da… me. La
visione sembrava così reale: Gray e io che camminavamo mano nella mano
con Ella in mezzo a noi.
Era così che sarebbe stato, no?
Scompare Max.
Appare Layla.
Chiusi gli occhi per scacciare la visione, solo per rendermi conto che non
se ne andava. La vedevo ancora.
Scompare Max.
Appare Layla.

Spensi il telefono durante la deposizione. Era stato difficile concentrarsi


per l’intera mattinata e, dopo dieci minuti di domande al teste, mi ero resa
conto che continuavo a fissare il cellulare, aspettando che arrivasse qualcosa
da parte di Gray. Il mio cliente meritava di essere rappresentato meglio di
così e io avevo bisogno di gettarmi nel lavoro per restare sana di mente quel
giorno.
Lo riaccesi verso le cinque. I messaggi cominciarono ad arrivare in rapida
successione, per lo più di Gray. Molti erano stati inviati a intervalli di pochi
minuti, seguendo il flusso dei suoi pensieri.

GRAY : È incredibile. Così intelligente.


GRAY : Non ha pianto.
GRAY : Avrei potuto farlo io quando sono tornato a casa.

Sorrisi tristemente al telefono nel leggere quest’ultimo.

GRAY : Avevi ragione. È già abituata al vasino.


GRAY : Basta tutorial su come si cambiano i pannolini. Grazie a Dio. Mi
sembrava un po’ malato guardare un neonato nudo.
GRAY : Mi ha salutato con un abbraccio.
GRAY : Non avrei voluto lasciarla andare.

Dopo questo messaggio, seguiva un intervallo più lungo, poi…

GRAY : Non vedo l’ora che possa conoscerla anche tu.

Non ero mai stata una gran bevitrice, ma, in quel momento, desiderai
tenere una bottiglia di qualcosa nel cassetto della scrivania. Mi avrebbe fatto
comodo un bel sorso per calmare i nervi.
L’ultimo messaggio di Gray risaliva a un’ora prima.

GRAY : Spero che la tua giornata sia andata bene. Cena stasera?

Evitai di rispondere e mi dedicai agli altri messaggi persi. Ce n’era uno da


parte di Quinn, uno di un cliente e uno da Kristen… la mia sorellastra. Per
qualche strana ragione, scelsi di aprire quello, che di norma avrei evitato
come la peste.

KRISTEN : Sono appena passata davanti a un fantastico ristorante


coreano. Il preferito di papà. Dovremmo cenare qui tutti insieme. Ci
sentiamo presto!

Sentii la sua voce acuta perfino in un sms.


Sulla scrivania la mia assistente aveva lasciato un mucchietto di
promemoria di chiamate perse, così mi concentrai su quelle per un po’. Ma,
alle sei, il cellulare riprese a vibrare e non ebbi bisogno di guardare il display
per sapere chi era.

GRAY : Hai letto i miei messaggi un’ora fa. Cosa succede in quella tua
testolina, Lentiggini?

Sorrisi.

LAYLA : Scusa. La deposizione mi ha preso tutta la giornata e poi ho


dovuto fare alcune telefonate di lavoro prima che fosse troppo tardi.
Mi fa piacere che sia andato tutto bene con Ella.

Vidi il messaggio venire consegnato e poi letto. I puntini cominciarono a


saltellare mentre lui rispondeva e poi si fermarono. Poco dopo, il cellulare
prese a suonare.
Gray rispose al mio «Pronto» con una voce roca e sexy. «Avevo bisogno
di sentire la tua voce.»
«Sembra che ti sia appena svegliato.»
«Macché. Sono andato a correre.»
Avevo dimenticato che la sua corsa era stata interrotta quella mattina.
«Oh.»
«Allora, avevi davvero un sacco da fare o mi stavi solo evitando?»
Risposi di riflesso. «Ero occupata.»
«Layla…»
Alzai gli occhi al cielo. «E va bene. Ti stavo evitando. Ma sono anche
occupata.»
Sentii il sorriso e il compiacimento nella sua voce. «Non l’hai ancora
capito che non puoi evitarmi? Se non avessi risposto subito, mi sarei
presentato nel tuo ufficio. Non rinuncerò a noi tanto facilmente, dolcezza.
Capisco che è parecchio tutto insieme e ti darò tempo per incassare il colpo se
ti serve. Ma voglio essere certo che non mi stai respingendo e che hai solo
bisogno di tempo.»
Nonostante lo sconvolgimento totale della sua vita, era lui quello con la
testa sulle spalle. Ero consapevole che avrei dovuto fargli sentire il mio
appoggio. Ma avevo paura. Ogni volta che prendevo la decisione di andare
avanti – di correre il rischio – c’era qualcosa che mi spingeva indietro. Il
minimo che potevo fare era essere sincera.
«Vi ho guardati mentre v’incamminavate al parco. È stata una specie di
illuminazione… tu hai una famiglia adesso.»
«Max non è la mia famiglia.»
«Lo so. È solo che… voi tre sembravate una famiglia. E mi sono resa
conto che stare con te significava…»
«Non pretendo che tu sostituisca Max nella vita di Ella, se è ciò che stai
pensando.»
Più o meno era quello. Sospirai. «È solo che è difficile. Io… io ho paura,
Gray.»
«Anche io, piccola. Ma ho più paura di perderti di nuovo che di tutto
quello che mi sta succedendo. Ne verremo fuori.»
Dio, era così dolce. «Va bene.»
«Cena stasera?»
Non ero in vena. Gli ultimi giorni erano stati parecchio impegnativi. Il
primo istinto fu di mentire e dire che avevo altri programmi. Ma scelsi
l’onestà perché lui si meritava almeno quella. «Ho bisogno di una sera a casa
mia, da sola, Gray.»
Impiegò un minuto prima di rispondere. «Capisco.»
Odiai il dolore nella sua voce. «Rivedrai presto Ella?»
«Dopodomani. Domani parto per Chicago, ho un incontro con i miei soci e
il CEO di una società nella quale stiamo investendo. Non tornerò prima di
sera. Comunque Max e io abbiamo avuto una conversazione civile mentre
Ella giocava al parco. Passerò più tempo possibile con loro, così la bambina
potrà conoscermi. Quando Ella sarà più a suo agio, Max lascerà che stia con
lei da solo. Voglio che anche tu la conosca, se riesci ad affrontare la
situazione.»
«Facciamo un passo alla volta. Per ora concentrati su Ella. In questo
momento non devi preoccuparti per me.»
«Posso farlo meglio se mi dici che non mi stai mollando.»
Sorrisi. «Sto ancora insieme a te.»
«Potrei fartelo ripetere ogni giorno, Lentiggini. Come un mantra.»
29

Gray
GOOGLE era diventato il mio migliore amico.
Come si dice «come stai» nel linguaggio dei segni?
Cosa mangia un bambino di tre anni?
Regali da comprare a una bambina di tre anni.
Giocattoli per una bambina di tre anni.
Cose di cui parlare con una bambina di tre anni.
Quarto stadio del cancro al seno.
Cosa diavolo è Yo Gabba Gabba?
Quel giorno sarei andato a casa di Max per stare un po’ con lei ed Ella.
Quando mi aveva proposto di andare a casa sua, la mia reazione automatica
era stata di rifiuto totale. Col cazzo che voglio restare bloccato dentro quattro
mura insieme a te – anche se il posto è grande quanto un palazzo. Ma, dopo
averci riflettuto, avevo capito che dovevo essere più flessibile e fare ciò che
era meglio per Ella. Dovevo fare qualsiasi cosa per indurla ad aprirsi a me, e
questo era più facile a casa sua che nell’appartamento di uno sconosciuto.
Così, non mi ero opposto. I miei sentimenti per Max, l’istinto di obiettare a
quanto voleva lei, andavano relegati in secondo piano rispetto alla mia
bambina.
La mia bambina.
Era davvero surreale.
Max aveva detto che l’attività preferita di Ella erano le lunghe passeggiate.
Le piaceva guardarsi intorno nella città movimentata dal suo passeggino.
Perciò, quando mi fermai al negozio di giocattoli sull’Ottantaduesima – al
quale passavo davanti di continuo senza esserci mai entrato –, seppi cosa
prenderle nel momento in cui lo vidi.
Il Radio Flyer 4 in 1, rosa. Era una combinazione fra triciclo e passeggino.
Poteva imparare a pedalare, se voleva, ma aveva un appoggio per i piedi se si
fosse stancata. Mi ritrovai a tirare l’imbragatura a tre punti e a tempestare di
domande il commesso adolescente, mandandolo in crisi come in
un’interrogazione di fisica.
Raggiunsi l’indirizzo che mi aveva dato Max e fui sorpreso che vivesse di
una brownstone, una di quelle vecchie case eleganti in arenaria bruna, a
Brooklyn, invece che in uno sciccoso attico nell’Upper East Side.
Personalmente amavo le strade tranquille di quella zona, invece lei aveva
sempre preferito il fermento di Manhattan.
Suonai il campanello e venne lei ad aprire la porta. Indossava una canotta
bianca che mi diede la misura di quanto peso avesse perso. Quando l’avevo
incontrata giorni prima, aveva addosso una felpa. Certo, avevo notato il viso
smagrito, ma quello era solo la punta dell’iceberg. Fu una vista assolutamente
allarmante. Clavicole e scapole sporgevano: non c’era più carne. Era poco più
di uno scheletro con la pelle, e quella pelle era itterica.
Si fece da parte per lasciarmi entrare. A quanto pareva non ero stato bravo
a nascondere i miei pensieri.
«È per via della chemio. Ecco perché ho smesso. Vomito persistente. I
farmaci antiemetici e antinausea hanno smesso di funzionare. Non ce la
facevo più. Voglio godermi il tempo che mi resta con mia figlia, non passarlo
con la testa sul water.»
Annuii ed entrai.
Max guardò l’ora mentre eravamo nell’ingresso. «Ella non si è ancora
svegliata dal suo riposino. Di solito dorme per un’ora, ma oggi sta facendo un
po’ tardi. Non la sveglio in questi casi. Credo che il suo corpo sappia quando
è il momento di svegliarsi. Ma posso farlo, se vuoi.»
Sì. Non posso restare qui da solo con te.
«No, va bene così. Lascia che si svegli da sola.»
Promemoria: la lunghezza del pisolino è stabilita dal bambino, non
dall’adulto. Una cosa in meno da googlare. Sentii il bisogno di prendere
penna e quaderno.
«Stavo per farmi un tè. Nel primo pomeriggio tendo a trascinarmi. Ecco
perché adesso lavoro solo la mattina. La caffeina mi aiuta a restare
abbastanza vigile per guardare Ella giocare. Cosa ti offro?»
«Il tè va bene.»
Non volevo stare a casa di Max né tantomeno desideravo chiacchierare
con lei. Ma cosa diavolo dovevo fare?
Andando in cucina, mi guardai un po’ intorno. L’appartamento in cui
viveva era dannatamente bello: boiserie su misura, soffitti alti, pavimento a
listoni di rovere bianco, doppi infissi e finestre colorate, una tonnellata di
luce.
«Bel posto», osservai.
Max riempì al rubinetto una teiera di ferro battuto. «Grazie. Presto sarà
tuo. Te l’ho lasciato nel testamento.»
«Cosa?»
Posò la teiera sul fornello e accese la fiamma. «L’ho comprato con i soldi
che ti ho rubato. È il minimo che potessi fare. Non accettare meno di due
milioni quando lo venderai. Non c’è mutuo.»
Mi aveva scioccato due volte nel giro di due minuti. «Non so cosa dire.
Grazie, immagino.»
Si appoggiò al lavello mentre io rimasi dall’altro lato della spaziosa isola
centrale. La lontananza da lei era gradita.
«Ci sono anche novantamila dollari in risparmi e un’assicurazione sulla
vita. Ho lasciato i profitti della polizza a Ella, ma tu sei l’amministratore
fiduciario, quindi potrai gestirli per lei.»
Era assurdo avere quella conversazione. Ma qual è il momento giusto per
questo tipo di discorso se ti restano solo pochi mesi da vivere? Non sai quale
giorno finirà per essere il tuo ultimo. Non ha senso aspettare.
«Okay. Altri aspetti legali di cui dovrei essere a conoscenza?»
Mi guardò dritto negli occhi. Era la prima volta che lasciavo che accadesse
da quando avevo scoperto cosa aveva fatto. Anche il giorno in cui si era
presentata in prigione per dirmi che mio padre stava male, mi ero rifiutato di
guardarla. Non ci ero riuscito nemmeno l’altro giorno al parco. Ma ora, per
qualche ragione, lo feci. Forse vederla deteriorarsi fisicamente mi aveva
fornito un grammo di compassione.
«Sono andata da Layla perché ero curiosa di conoscerla; gelosa,
addirittura. Ma non le ho mentito. Aiden ha rubato tutto il denaro che
abbiamo rubato a te. Dovresti riprendertelo.»
Scossi la testa con una risata sarcastica. «Eravate proprio due anime
gemelle, eh?»
«Sono dispiaciuta per quello che ti ho fatto, Gray. So che nessuna scusa
basterà a compensare gli anni di vita perduti. Dio sa quanto lo capisco adesso.
Ma mi dispiace davvero.»
La fissai. La donna che mi aveva attirato in un matrimonio, rubato milioni
di dollari, fatto incarcerare per un reato che aveva commesso lei e nascosto
per anni il fatto che avessi una figlia. Eppure… una parte di me le credeva.
Che cazzo ho che non va?
«Perché l’hai fatto?» le chiesi.
Quella domanda era stato in cima ai miei pensieri durante i primi mesi di
prigionia. Poi avevo deciso che non aveva importanza e che non sarei mai
andato avanti concentrandomi su cose che non ero in grado di cambiare.
Max abbassò lo sguardo per qualche minuto. Quando lo rialzò, c’erano
delle lacrime nei suoi occhi. «Tu non mi amavi davvero.»
«Di che diavolo stai parlando?»
«Io ti amavo.»
«Hai avuto un modo del cazzo di dimostrarlo.»
«Per anni ti ho voluto e tu neanche mi vedevi. Mi vedevi come la tua
socia, non come una delle donne con cui uscivi e che ti portavi a letto.»
«Ti ho sposata, cazzo!»
«Eppure non mi amavi come io amavo te.»
«Quindi hai deciso di scoparti uno dei nostri dipendenti, derubarmi e
incastrarmi? Per cosa? Per punirmi?»
«Pensavo che Aiden mi amasse davvero.»
«Non puoi desiderare così disperatamente che un uomo ti ami.»
«Mi dispiace. So che non ha senso. Ma ero arrabbiata al pensiero che,
dopo tutti quegli anni passati ad amarti, tu continuassi a non amarmi come
avresti dovuto. Una volta sposati, ho pensato di tirarmi fuori dal piano
architettato con Aiden. Dentro di me ti amavo ancora e pensavo che
finalmente mi avresti amata anche tu. Ma tu non mi vedevi come l’amore
della tua vita.»
Rimasi a fissarla, completamente esterrefatto… e troppo furioso per
continuare quella conversazione. Vidi le sue lacrime cominciare a cadere, e
mi arrabbiai ancora di più con me stesso. Non avrei dovuto provare
dispiacere per lei. Eppure era così.
Che cazzo ho che non va?
«Ho bisogno di fare due passi. Torno tra un po’.»
Camminai per un’ora buona nei paraggi. Anzi, a un certo punto cominciai
a procedere a passo svelto, poi a correre e infine mi lanciai in uno sprint
velocissimo.
Solo quando mi piegai in due, le mani sulle ginocchia e rantolante, mi resi
conto di quanto avevo fatto. Avevo bisogno di aria per mettermi in pari con la
velocità delle cose che mi saettavano nella mente.
Che cazzo di problema aveva Max? Non l’avevo amata abbastanza?
Eravamo amici, cazzo, soci d’affari. Non mi ero mai reso conto che provasse
qualcosa per me. Non me l’aveva mai detto né mi aveva fatto avance.
Pensavo che ci fossimo sposati sull’onda del momento, mentre eravamo
ubriachi e in vacanza su un’isola. All’inizio era stato uno scherzo, finché lei
non aveva suggerito di provarci sul serio. Dopo un po’, avevo cominciato ad
abituarmici. Era sembrato comodo per entrambi. Vero, forse non l’avevo
amata come un uomo dovrebbe amare sua moglie, ma è un motivo valido per
rovinarmi la vita?
Per tutto questo tempo, ripensando al passato l’avevo ritenuta un
capolavoro di cattiveria. Non avevo idea che fosse matta da legare e cattiva.
Qui eravamo ai livelli di Glenn Close in Attrazione fatale.
Dopo essermi calmato, mi resi conto che dovevo liberare la mente da
quella roba per il bene di mia figlia. Adesso la mia priorità doveva essere
Ella. Non potevo lasciare che Max mi rubasse altro tempo. Così tornai a casa
sua, feci un respiro profondo e suonai il campanello.
Il faccino che strillò il mio nome all’aprirsi della porta mi diede la forza di
tornare dentro.

«Oggi è mercoledì», dichiarò Ella, sia a voce sia con le mani. Avevo una
tonnellata di roba da imparare sul linguaggio dei segni. Avevo appreso
qualche parola e delle frasi grazie a certi video su YouTube, ma Ella
sembrava conoscere l’intera lingua.
«Già. Oggi è mercoledì. Mi insegni a dirlo con le mani?»
Max ci aveva lasciati soli una volta che la bimba era sembrata a suo agio
con me. Ero contento di potermi concentrare su di lei senza altri scambi di
idee con sua madre.
Annuì e ripeté i gesti con le mani.
«Così?»
Scoppiò a ridere nel vedere il mio tentativo.
«No. Così, sciocco.»
Lo rifece e che sia dannato se scorsi qualche differenza. Ma ritentai
comunque.
Lei rise di nuovo. A quanto pareva, avevo sbagliato ancora. Ella mi piegò
il pollice e il mignolo, in modo che si toccassero, e poi me lo mostrò sulla sua
mano.
«Ah. Adesso ho capito. Le tre dita formano l’iniziale del giorno.»
Non sapevo a che età i bambini cominciassero a conoscere l’alfabeto, ma
ero straconvinto che non fosse prima dei tre anni. Tuttavia, mia figlia sapeva
che mercoledì cominciava con la M. Il mio petto si gonfiò un pochino.
Mi tenne la mano, guidandola per formare un cerchio con le mie tre dita.
«Mercoledì», disse chiudendo il cerchio.
Le diedi un buffetto sul naso con il dito. «Com’è che sei così
intelligente?»
«Ho preso da papà.»
Restai pietrificato. Cosa… le aveva detto Max? Pensavo fossimo
d’accordo che era meglio aspettare un pochino, lasciare che mi conoscesse
prima di dirle chi ero. O… forse si riferiva a Aiden. Quel pensiero mi diede la
nausea.
«Il tuo papà?»
Lei annuì vigorosamente. «Mamma dice che sono intelligente come il mio
papà.»
Quando non aggiunse altro, pensai che fosse meglio cambiare argomento.
«Allora… è mercoledì.» Lo dissi con le mani e, a quanto pare, la terza
volta fu quella giusta, perché la mia prova si guadagnò un grosso sorriso
smagliante. «Fai qualcosa di particolare il mercoledì?»
Lei scoppiò di nuovo a ridere. «Bianco. Ci vestiamo di bianco.» Ella fece
una piroetta, sfoggiando il suo abbigliamento. Indossava una maglietta
bianca, con scintillanti lettere d’oro che dicevano VITA DA SIRENA, abbinata a
pantaloncini bianchi. Anche i sandali erano bianchi.
«Oh.» Abbassai lo sguardo sui miei vestiti. Avevo un paio di pantaloni
kaki e una polo blu. «Devo aver fatto confusione con i miei giorni.»
Arricciò il nasino e cominciò a enumerare i giorni della settimana sulle
dita. L’indice fu il primo. «Lunedì, rosso magenta.» Medio. «Martedì,
turchese.» Anulare. «Mercoledì, bianco.»
La interruppi facendo con la mano la parola mercoledì e le strizzai
l’occhio. Il suo sorriso si allargò.
Continuò, finendo le dita della mano e passando all’altra. «Giovedì, verde
acqua. Venerdì, fucsia.» Che lei, in modo adorabile, pronunciò fuschia.
«Sabato, verde salvia. Domenica, color zaffiro!» concluse, battendosi le mani
sui fianchi.
«Quindi indossi sempre un colore abbinato al giorno?»
Annuì.
Mi serviva sul serio quel dannato quaderno.
«Qual è il tuo preferito?»
«Zaffiro! Blu, blu, blu!»
«Blu è anche il mio colore preferito.» Per lo meno lo era diventato adesso,
vedendo quanto la rendeva felice. Mi venne un’idea. «Te la ricordi Layla?»
Lei annuì di nuovo.
«Il suo colore preferito è arcobaleno.»
Scoppiò a ridere. «Arcobaleno non è un colore.»
«Forse no. Ma se hai un sacco di colori che piacciono, perché sceglierne
solo uno? Le ragazze speciali possono avere tutti i colori preferiti che
vogliono.»
Max fece capolino nella stanza. «Tutto bene qui?»
«Mamma, mamma!» Ella prese a saltellare su e giù. «Il mio colore
preferito è arcobaleno!»
Max mi guardò e poi sorrise alla figlia. «Ah sì?»
«È anche quello di Layla! Siamo speciali, perciò possiamo avere più di un
colore preferito!»
Il sorriso di Max si spense. «Che bella cosa, tesoro. Vuoi fare merenda
adesso?»
«Sì!» Ella continuò a saltellare. Era piena di energia.
«Preparo due piatti.»
Qualche minuto dopo, Max tornò con due piattini, uno per ciascuno.
Mercoledì. Bianco. Fettine di mela e burro d’arachidi. Forse avrei dovuto
prendere quegli appunti sul cellulare.
Ci sedemmo sul pavimento del soggiorno, con i piatti sul tavolino da
caffè. Mentre mangiavamo le nostre mele, notai che Ella usava la sinistra.
«Quale mano usi per colorare, tesoro?»
Lei alzò la sinistra.
«Anch’io scrivo con la sinistra. La maggior parte del mondo scrive con
l’altra mano.»
«Mamma scrive con una mano diversa.»
Questo perché tu hai preso da tuo padre.
Finita la merenda, Ella chiese se potevamo fare una passeggiata. Avevo
completamente dimenticato il triciclo passeggino che le avevo comprato.
L’avevo lasciato nell’ingresso al mio arrivo. Presi i piatti e, insieme a Ella,
andai a cercare sua madre.
La trovammo in cucina; stava bevendo un frullato proteico.
«Ella vuole fare una passeggiata.»
«Oh, va bene. Divertitevi.»
La piccola corse dalla madre e la tirò per la maglietta. «Vieni anche tu,
mamma.»
Gli occhi di Max balenarono sui miei. Prima Ella, rammentai a me stesso.
Le rivolsi un silenzioso cenno di assenso.
«Va bene. Ma prendo una felpa.»
Mentre andava a recuperarla, mostrai a Ella il suo nuovo triciclo
passeggino. Andò in visibilio. Poi tornò di corsa in soggiorno. La osservai dal
corridoio mentre apriva il cassetto del tavolino, tirava fuori qualcosa da una
scatola e lo ficcava in una busta. Corse di nuovo da me proprio mentre Max
tornava con la felpa.
Porgendomi la busta, Ella esclamò: «Grazie!»
Incuriosito, sfilai il foglietto dalla busta. Era un bigliettino con stampato
GRAZIE in lettere argentate sul davanti, mentre l’interno era vuoto.
Max si mise a ridere. «Ella, tesoro, bisognerebbe scriverci qualcosa prima
di darli alle persone.»
Ella si accigliò.
«Non la lascio giocare con i regali che riceve se prima non scriviamo un
bigliettino di ringraziamento», spiegò Max.
La bambina era davvero sveglia. E io non avevo bisogno di niente di
scritto. Mi inginocchiai davanti a lei. «Il mio biglietto di ringraziamento è
perfetto così com’è. Non c’è di che, Ella.»
«Posso provarlo?»
Lanciai un’occhiata a Max, che annuì.
«Assolutamente. Che ne dici se ti spingo per un isolato, poi salto su e mi
spingi tu?»
Scoppiò in una risata fragorosa. Le mie giornate sarebbero state sempre
bellissime se avessi potuto svegliarmi con quel suono.
«Sei troppo grande!»
Mi diedi un buffetto sulla pancia. «Ho preso qualche chilo.»
Max chiuse a chiave mentre io agganciavo la cintura a Ella. Le misi i piedi
sui pedali e le mostrai dove poggiarli se si fosse stancata.
Nell’istante in cui cominciammo a camminare, avrei potuto lasciare il
manico che spingeva quell’affare. Ella iniziò a pedalare da sola quasi
immediatamente. Il triciclo passeggino aveva un tettuccio che la riparava dal
sole e lei era nel suo piccolo mondo, intenta a pedalare. Non ci avrebbe sentiti
parlare, ma tenni comunque la voce bassa.
«Ha qualche allergia?»
Il burro di arachidi mi aveva fatto pensare a quanti ragazzini sembrano
essere allergici alla frutta secca di questi tempi.
«Piume. Le ho fatto fare le prove allergiche perché le era venuto uno sfogo
con il cuscino. È risultata allergica solo alle piume.»
«Farmaci?»
«No. Solo vitamine per bambini tutti i giorni.»
«Di cosa ha paura?»
Max mi guardò e poi abbassò lo sguardo con un grosso sospiro. «Che io
me ne vada.»
«Te ne vada?»
«Ho letto parecchi libri su come preparare un bambino alla morte di un
genitore. I bimbi della sua età non comprendono il concetto di morte. La
vedono come temporanea o reversibile. Immagino sia logico, visto che
guardano cartoni i cui personaggi vengono spiaccicati da un’auto e poi
tornano come prima. Ho cercato di spiegarle la morte dicendole che a volte le
mamme e i papà devono andare via, anche se non vorrebbero. Pensavo che
avesse capito, ma, qualche giorno dopo, avevo una riunione di lavoro fuori
città e, quando le ho detto che sarei partita, ha cominciato a piangere. Perciò
penso di aver cannato in pieno.»
Sorrisi mestamente. «Mi ha detto che il suo papà è intelligente. Immagino
pensi che Aiden sia suo padre?»
«Cosa?» Max fece una smorfia. «No. Non le ho mai presentato Aiden
come suo padre. Abbiamo rotto quando lei aveva meno di un anno. Dubito
perfino che si ricordi di lui.»
«Allora di chi stava parlando?»
«Di te. A volte le parlo di suo padre in generale. Lei pensa che il suo papà
sia via per un lungo viaggio d’affari. Non ha la concezione del tempo e non
ha mai messo in dubbio la questione.»
Mi passai le mani tra i capelli. «Gesù.»
Dopo una ventina di minuti di passeggiata, Ella era sfinita a furia di
pedalare. Anche Max sembrava aver esaurito tutte le energie. Le
riaccompagnai a casa e andarono in bagno. Mentre aspettavo, tirai fuori il
cellulare. Mi sconvolse scoprire che erano quasi le cinque e mezzo. Avevo
l’impressione di essere appena arrivato.
«Ti va di restare a cena?» chiese Max quando tornò.
La verità era che non mi sentivo ancora pronto a lasciare Ella. C’era così
tanto da imparare, così tanto da recuperare. Tuttavia, non volevo subentrare
nella sua routine e confonderla. Google diceva che la presentazione di un
compagno doveva avvenire per gradi – non che io fossi il compagno di Max.
Ma immaginavo che il concetto fosse lo stesso.
«Forse è meglio che vada. Non voglio sfidare la sorte e iniziare a
disturbare Ella. Probabilmente è abituata a stare da sola con te.»
«Oh. Va bene.»
«Quando posso rivederla?»
«Venerdì è il mio ultimo giorno di lavoro. Fino ad allora farò solo mezze
giornate. Perciò i miei programmi sono molto flessibili.»
«Ti prendi una pausa?»
«Me ne vado. Amo lavorare, le fluttuazioni del mercato sono state una
parte importante di ciò che sono. Ma sin dalla mia diagnosi, ho saputo che me
ne sarei andata per trascorrere con mia figlia quanto mi restava da vivere.
Ormai sento i cambiamenti in me sempre più veloci. Sto perdendo le forze e
anche le cose semplici diventano difficili.»
Quanto le restava da vivere.
Sentivo un peso nel petto. Presto mia figlia non avrebbe più avuto una
madre. Per non parlare del fatto che, malgrado si fosse comportata in modo
orribile con me, Max aveva appena trent’anni.
Annuii. «Capisco.»
«Che ne dici di dopodomani? Ella ha un controllo all’una, ma potremmo
vederci dopo.»
«Posso venire al controllo?»
«Ehm… certo. Senz’altro. E comunque Ella dovrà farci l’abitudine.»
Proprio in quel momento Ella corse fuori dal bagno e, d’un tratto, me la
immaginai più grande, sugli otto o nove anni. A quel punto non avrebbe
voluto un uomo con sé alle visite mediche.
«Ella, Gray sta andando via. Ma lo rivedremo prestissimo.»
«Quale giorno?»
Un sorriso mi increspò le labbra. Anche se non fosse stata mia, l’avrei
trovata fantastica.
Mi inginocchiai per parlarle. «Venerdì. Posso indovinare cosa
indosserai?»
Lei ridacchiò. «Fucsia! Rosa!»
Le presi una guancia nella mano e le accarezzai la pelle morbida con il
pollice. L’avevo fatto senza pensarci, ma il mio gesto non la spaventò. Mia
figlia non sembrava turbata dal mio tocco. Mi chiesi se fosse una cosa
fisiologica. Di sicuro avrei interrogato Google a tal proposito.
«Ci vediamo presto, tesoro.»
Senza preavviso, saltò fra le mie braccia e mi avvolse le sue attorno al
collo. Mi venne un nodo alla gola quando si lasciò avviluppare in uno stretto
abbraccio. Poi saltellò via, spensierata come prima, beatamente ignara del
potente scossone che aveva dato al mio mondo.
Max mi rivolse un sorriso caloroso. «Penso sia stata una visita grandiosa.»
Mi alzai. «Anch’io. Abbi cura di te, Max.»
30

Layla
NOTAI l’appuntamento sulla mia agenda solo dopo pranzo.
«Ehi, Peggy.» Chiamai la mia assistente all’interfono. «Hai appena
inserito un appuntamento per oggi alle quattro?»
«L’ho fatto stamattina. Mr. Westbrook ha chiesto se potevi infilarlo come
ultimo della giornata. Eri al telefono, così non ho verificato con te. Ma non
avevi niente in agenda. Vuoi che lo sposti?»
«No, nessun problema. Pensavo solo che mi fosse sfuggito. Grazie.»
Era qualche giorno che Gray e io non ci vedevamo. Lui era stato con sua
figlia e io mi ero tenuta occupata con ciò che facevo meglio: quindici ore
quotidiane di lavoro. Mi mancava, ma adesso la situazione era molto più
complicata che avere semplicemente un fidanzato.
Una parte di me aveva pensato che fosse possibile fare un passo indietro
nella nostra relazione, ma, più stavamo lontani, più mi rendevo conto che
ormai non si poteva procedere con calma e senza impegno – non che Gray e
io l’avessimo mai fatto. Si era instaurato un legame speciale sin dalla prima
volta che ci eravamo incontrati.
La sera prima, al telefono, non aveva accennato alla necessità di parlarmi
di lavoro. Così presi il cellulare per mandargli un sms e accertarmi che
andasse tutto bene. Ma in quel momento squillò il fisso e fui convocata da
uno dei soci dello studio per discutere di un nuovo caso. Un classico: gli
associati dovevano mollare qualsiasi cosa stessero facendo e trascorrere
qualche ora nell’ufficio dei soci quando questi ne avevano voglia. Non
sentivano la necessità di fissare un orario che fosse comodo per tutti. Ecco
perché conoscevo per nome ogni addetto alla sicurezza che chiudeva a chiave
l’edificio. Le necessità dei soci si aggiungevano al mucchio di lavoro che già
dovevo smaltire.
Non tornai alla mia scrivania che poco prima delle quattro. Durante la
riunione mi ero sforzata di non guardare continuamente l’ora. Peggy mi
chiamò all’interfono prima ancora che riuscissi a sistemarmi il rossetto.
«Il tuo appuntamento delle quattro è qui.»
«Puoi farlo entrare.»
Ficcai la borsa nel cassetto della scrivania e incrociai le mani sul grembo
aspettando Gray. Sentendo i suoi passi nel corridoio, il battito del mio cuore
accelerò. Aveva una falcata decisamente inconfondibile, e adesso stava
camminando con il passo svelto di chi non vuole perdere tempo con le
stronzate.
Varcò la mia porta con un sorriso arrogante ed equivoco. Fermandosi per
guardarmi, non disse una parola. Rimasi in silenzio anch’io, ma, dannazione,
il mio corpo parlò un sacco. I capezzoli si fecero turgidi, i peli sulle braccia si
rizzarono e il battito tornò ad accelerare. Cambiai posizione sulla sedia e la
luce negli occhi di Gray divampò.
Si chiuse la porta alle spalle e, molto lentamente, girò la chiave.
Si voltò di nuovo verso di me e lo guardai ironica. «La questione è così
riservata che è necessario chiudere a chiave?»
Indossava un completo grigio tre pezzi, del tipo che gli aderiva in tutti i
punti giusti e moltiplicava per dieci la sua immagine già sicura di sé. La
cravatta era di un bellissimo azzurro che, normalmente, avrebbe riflettuto il
colore dei suoi occhi, solo che adesso si stavano scurendo davanti a me.
«Se fosse per me, lascerei la porta aperta mentre ti faccio venire. Anzi,
preferirei che tutto lo studio sentisse. Ma ho pensato che avresti gradito un
po’ di privacy.»
Dio, era così arrogante. E amavo questa cosa. La amavo da matti.
Incrociai le braccia sul petto. «Parecchio sicuro di te, dico bene?»
«Sul fatto di riuscire a farti venire? Assolutamente.»
«Non mi riferivo a quello. Mi riferivo al fatto che pensi che ti lascerei
provare, in pieno giorno, nel mio ufficio.»
Sogghignò. Quel sogghigno.
Mi preparai mentre veniva verso di me. Afferrato un bracciolo della mia
sedia, la fece girare e mi sorprese sollevandomi di peso e issandomi sulla
scrivania. Alzò un ginocchio per divaricarmi le gambe, poi ci spinse i fianchi
in mezzo mentre mi premeva un bacio sulla mascella. «Mi sei mancata.»
La sua voce sarebbe bastata a farmi bagnare. Anzi, era possibile che
l’avesse fatto. «Sei venuto per…» Mi interruppi quando la sua bocca si
spostò sulla mia gola. «Sei venuto per parlare di lavoro?»
Risalì fin sull’orecchio. «Sono venuto per farti venire.»
Una mano scivolò in mezzo a noi e sotto la mia gonna, facile accesso.
Sentii la faccia avvampare mentre lasciavo che sfregasse la seta dei miei slip.
Non avrei dovuto. Eppure non feci niente per impedire che accadesse.
«Non dovremmo.» Un flebile tentativo, per lo meno.
Le sue dita si insinuarono sotto la seta. «Sei sicura?» Trovò la clitoride e
cominciò a massaggiarla. «Sei già bagnata. Posso fare in fretta.»
Prima che trovassi le parole per replicare, un dito scivolò dentro di me.
Chiusi gli occhi e inghiottii la replica che stavo per dargli, qualunque
fosse. Non riuscivo neanche a ricordare quale fosse. Entrò e uscì
delicatamente alcune volte, poi estrasse il dito e ne affondò due. Gemetti e lui
mi zittì con un bacio.
«Ssh. Volevo leccarti prima, ma non voglio metterti nei guai. Perciò
dovremo fare in questo modo prima che ti assaggi, così sarai più rilassata.»
La sua mano si mise al lavoro. Piegando le dita dentro di me per sfregare il
mio punto sensibile, spinse dentro e fuori senza sosta. Quell’uomo aveva dita
magnifiche. Neanche tre minuti prima ero determinata a limitarci a giocare al
gatto col topo e non avrei mai fatto una cosa del genere nel mio ufficio in
pieno giorno. Adesso ero issata sulla mia scrivania e tiravo la stoffa della
gonna mentre cercavo di aprire di più le gambe e gemevo senza vergogna
nella sua bocca.
«Così. Vieni per me, piccola. Non vedo l’ora di leccarti tutta.»
In quel momento, sinceramente non mi importava un bel niente di quanto
fossi spericolata, il volo era cominciato e tutto ciò che potevo fare era tenermi
forte e aspettare di atterrare da qualche parte.
La mano di Gray – quella che non era impegnata a fare miracoli – si
insinuò tra i miei capelli e mi tirò la testa all’indietro in modo da essere naso
contro naso. «Voglio guardarti venire. Fammi vedere, bellezza. Fammi
vedere.»
Il suo pollice premette con decisione sulla clitoride e tutto dentro di me si
contrasse. Avevo la sensazione che sarei esplosa se non avessi trovato
sollievo. Avvertendo la mia disperazione, Gray spinse dentro e fuori sempre
più forte e veloce, mandandomi oltre il limite. Mi aggrappai alla scrivania
con tutte le mie forze mentre cavalcavo le pulsanti ondate di piacere. Gli
intensi occhi di Gray che mi fissavano sembravano prima a fuoco e poi
sfocati man mano che la sensazione raggiungeva il culmine. I nostri sguardi
si incrociarono; non sarei riuscita a distogliere il mio neanche se avessi
voluto.
Quando l’ondata iniziò a dissiparsi, Gray mi sollevò di peso per spingermi
la gonna fin sulla vita. Ancora in preda allo stordimento, non avevo idea di
cosa volesse fare, sapevo solo che avevo le natiche sul freddo ripiano della
scrivania. Poi si inginocchiò e prese a succhiarmi il bocciolo gonfio. Il mio
corpo si rianimò con prepotenza. Ero già pronta ad appisolarmi rannicchiata
contro di lui, ma una sferzata della sua lingua mi fece capire che la festa era
appena cominciata.
Abbandonandomi completamente, mi distesi sulla scrivania e mi crogiolai
nella sensazione della sua lingua che guizzava e succhiava, penetrava e
prometteva. L’orgasmo mi travolse, senza che potessi capire se fosse il
secondo o se il primo fosse rifluito con tanta forza da scatenare un nuova
ondata.
Gray non si fermò finché mi sembrò di non avere più le ossa. Esausta,
guardai il soffitto, riprendendo fiato mentre lui scivolava via dai miei slip e
mi sistemava la gonna. Poi mi prese tra le braccia, si sedette sulla mia sedia e
mi lasciò cadere sul suo grembo. Mi girava la testa.
Mi baciò sulla fronte. «È stato un incontro produttivo. Sei molto efficiente.
Sono contento di essere passato.»
«Direi qualcosa di arguto ma non credo che il mio cervello abbia ripreso a
funzionare.»
Ridacchiò. «Ottimo. Perché immaginavo che dopo gli straordinari avesse
bisogno di una pausa.»
Appoggiai la testa al suo petto. «Ho lavorato parecchio.»
«Mi riferivo al tuo cervello che pensa e ripensa troppo quando si tratta di
noi due.»
«Oh.»
Qualche minuto dopo, Gray continuò: «Odio mangiare e scappare via, ma
ho un appuntamento con un avvocato dall’altro capo della città tra mezz’ora,
il legale della società nella quale stiamo investendo. Pare sia un vecchio
amico di mio padre».
«Mi solleva sentire che tu abbia detto vecchio e amico… visto come hai
trattato questo avvocato dal primo istante in cui ti sei presentato nel suo
ufficio.»
Gray mi sollevò dal suo grembo e mi depositò sulla mia sedia. Mi baciò
sulla bocca. «Vedo Ella domani pomeriggio. Vado a prenderla a mezzogiorno
e la porto fuori per la prima volta da solo. Mi piacerebbe che tu venissi con
me.»
«Non lo so, Gray. Forse è il caso che tu lo faccia davvero da solo se è la
prima volta.»
Mi scrutò negli occhi. «Voglio che tu la conosca.»
«Io… io lo farò. Soltanto… non ancora.»
Annuì e si costrinse a sorridere, ma sapevo di averlo ferito. «Va bene.
Ceniamo insieme domani sera?»
«Mi sembra un’ottima idea.»

---

Il senso di colpa mi aveva fatto passare una notte agitata. Sabato mattina mi
ero alzata prestissimo per lavorare da casa, ma non riuscivo a concentrarmi.
Continuava a ossessionarmi il ricordo del sorriso di Gray quando mi aveva
chiesto di trascorrere il pomeriggio con sua figlia, e il modo in cui gliel’avevo
spento dicendogli che non mi sentivo ancora pronta.
Gettai la penna sul tavolo da pranzo e mi appoggiai allo schienale della
sedia. Era un problema trascorrere un pomeriggio con una bambina? Passavo
di continuo del tempo con Harper, la figlia di Quinn. Perché ne stavo facendo
una questione di Stato?
Perché non mi ero mai chiesta se Quinn sarebbe rimasta per sempre nella
mia vita, ecco perché. Crescendo com’ero cresciuta, avevo imparato che i
bambini hanno bisogno di coerenza. Andare e venire dalla loro vita manda un
messaggio che non puoi smentire con le parole: Non sei tu la mia priorità.
Perciò esitavo a fare quel passo adesso.
Però, se escludevo la bambina dal quadro? Ero pazza di Gray come mai mi
era capitato con un uomo. Qualcosa dentro di me sapeva che avevamo un
legame speciale; e questo mi spaventava a morte. Quindi, era Gray che stava
correndo troppo? Era conoscere Ella e il crescente attaccamento fra di noi?
Oppure stavo solo evitando di gettarmi a capofitto, pur non dubitando dei
miei sentimenti, perché avevo paura di farmi male ancora una volta?
Dannazione.
Sono una tale idiota.
Presi il telefono per chiamare Gray e mi accorsi che erano già le undici e
mezzo.
Mentre squillava, corsi in camera da letto e mi guardai allo specchio.
Un mostro.
Lui rispose mentre mi scioglievo i capelli, con il cellulare incastrato tra
orecchio e spalla.
«Ehi, bellissima.» Sembrava davvero felice di sentire la mia voce. Fu la
conferma che avevo preso la decisione giusta.
«Stai andando da Ella?»
«Sì.»
«Se l’invito è ancora valido, vorrei venire anch’io.»
«Sei sicura?»
«Sicura.»
«Be’, mi piacerebbe molto. Abbiamo appena superato il ponte di Brooklyn
ma posso fare inversione.»
«No, non ce n’è bisogno.» Saltellai su un piede mentre mi toglievo i
pantaloni della tuta. «Ci vediamo lì. Faremo prima. Prendo un taxi. Non
voglio farti arrivare tardi.»
«Possiamo fare inversione e passare a prenderti», ripeté. «Non arriverò in
ritardo.»
«No. Ella ti sta aspettando. Mandami l’indirizzo. Ci vediamo lì il prima
possibile.»
Gray rise. «E va bene, pazzerella. Come vuoi tu.»

Il mio taxi accostò davanti a casa di Max otto minuti dopo le dodici. Gray
uscì dalla sua solita berlina mentre io scendevo dall’auto. Dovevo apparirgli
frenetica.
«Scusa per il ritardo.»
«Niente scuse.» Mi prese il viso tra le mani. «Sono felice che tu abbia
deciso di venire.»
Espirai e gli strinsi i polsi. «Anch’io.»
Lui si protese per depormi un bacio leggero sulle labbra. «Significa
moltissimo per me.»
Ne ero consapevole. «Siamo in ritardo.»
«Max mi ha fatto aspettare tre anni interi. Penso possa affrontare qualche
minuto di ritardo.»
Sorrisi. «Questo è vero.»
Mano nella mano, ci incamminammo verso la porta. «È davvero un bel
quartiere. Amo le vecchie brownstone.»
«L’ha comprata con i soldi che mi ha rubato.»
«Merda. Un vero schifo. Scusa.»
Gray suonò il campanello e, un minuto dopo, Max venne ad aprire. Il suo
sorriso svanì appena vide che non era solo. Non so bene cosa avesse contro di
me, ma era palese che non fosse contenta della mia presenza.
«Non avevo capito che avresti portato qualcuno per la tua visita a Ella.»
«Non qualcuno», replicò lui in tono rigido, «Layla. Sono certo che ti
ricordi di lei dopo che ti sei presentata nel suo ufficio.»
Max fece un sorriso forzato e si strinse nel cardigan. «Entrate. Ella si sta
lavando.»
Per fortuna, non fummo costretti a trattenerci lì e a scambiare convenevoli.
Ella arrivò di corsa dal corridoio con un sorriso enorme. «Gray!»
Si fermò davanti a lui e disse qualcosa con il linguaggio dei segni.
Il suo entusiasmo doveva essere contagioso – mi ritrovai a sorridere
ancora più di lei, anche se non sapevo cosa diamine stesse succedendo.
Gray mi sconvolse rispondendo anche lui con le mani. La sua prova si
meritò un applauso e uno strillo da parte di Ella. «Te lo sei ’cordato!»
Sua madre la corresse. «Si dice ricordato, Ella.»
Gray si rivolse a me. «È sabato.» Diede un leggero strattone alla propria
polo verde e poi continuò usando le mani. «Sabato. Verde salvia.»
Mi resi conto che tutti e due indossavano la stessa tonalità di verde salvia.
Ella aveva una maglietta verde.
Aggrottai la fronte e sorrisi incuriosita. «Non sapevo che i giorni della
settimana seguissero un codice di colori.»
Ella tirò la maglia di Gray e gli chiese di aiutarla a prendere il nuovo
passeggino dallo sgabuzzino. Perciò rimasi da sola con Max.
Lei non finse neanche di sorridere e partì subito in quarta. «Presto la
gestione sarà impegnativa, dovrai calarti nei panni di una donna morta con
una figlia devastata dal dolore.»
Aprii la bocca e rimasi così, senza parlare. Mi aspettavo un
comportamento da stronza, ma, Gesù… davvero? Cosa diavolo potevo
ribattere? Tacqui perché mi aveva lasciata senza parole, non per rispetto nei
suoi confronti.
Immaginò di poter continuare visto che sembravo tutta orecchie. «Ha
bisogno di legare con suo padre. Non intrometterti per giocare alla famiglia
felice. Se non hai intenzione di farle da madre, lasciali in pace. Per un
bambino, una perdita dovuta alla rottura di un rapporto non è da meno di un
lutto. La devasterai quando deciderai di andartene.»
Gray ed Ella tornarono sorridenti. Lui mi guardò e il suo sorriso
scomparve. «Tutto bene?»
Fu Max a rispondere. «Stavamo solo parlando della mia prognosi.»
L’espressione di Gray si fece seria e lui diede segno di comprendere.
«Oh.» Mi accarezzò il braccio. «Pronta ad andare, piccola?»
Annuii.
Fuori, restai un po’ indietro mentre lui agganciava Ella nel seggiolino sul
sedile posteriore e infilava il passeggino rosa nel bagagliaio. Appena fummo
tutti e tre soli sul sedile posteriore, Ella disse qualcosa che a me sfuggì e Gray
scoppiò a ridere. Quei due avevano già legato. D’un tratto mi sentii il terzo
incomodo e pensai che venire non fosse stata poi una così grande idea.
Ero persa nei miei pensieri e sentii la voce di Gray, ma non le sue parole.
Mi strinse la mano. «Tutto okay? Sembri altrove con la mente.»
Guardai fuori dal finestrino e mi accorsi che avevamo già superato il ponte
in direzione di Manhattan. Mi ero persa i primi dieci minuti di viaggio. «Sì,
sto benone. Scusa. Dove stiamo andando?»
«Pensavo di fermarci sulla Settantaduesima e fare una passeggiata fino al
Conservatory Water.»
«È dove fanno le gare di…»
Gray mi zittì e mi fece l’occhiolino. «È una sorpresa per lei.»
Sorrisi. «Mi sa che dovrò abituarmi a fare lo spelling delle parole.»
Ella dondolava le gambe e guardava fuori dal finestrino mentre
attraversavamo il ponte. Ma aveva sentito la parola spelling.
«Io so fare lo spelling del mio nome!» Scandendo le lettere, le
accompagnò con i segni. «E-L-L-A.»
Gray era raggiante. «Non credo che varrebbe la pena studiare l’hindu per
parlare in privato. Lo imparerebbe prima di noi. È una ragazza sveglia.»
Ella si indicò la testa. «Papà mi ha dato il cervello.»
Sgranai gli occhi. Gray abbassò la voce: «Non è come pensi. Ti spiego
dopo».
Il traffico era scorrevole e arrivammo al parco in un lampo. Ancora una
volta, osservai l’interazione fra loro due, affascinata da quanto lui sembrasse
già così a suo agio con la bambina. Preso dal bagagliaio il passeggino rosa
con i pedali e sistemata Ella sul sellino, Gray disse ad Al di tornare a
riprenderci in quello stesso punto dopo due ore.
Ella guardò tutto ciò che avveniva attorno a noi mentre ci incamminavamo
verso l’acqua, cosa che diede a Gray e me modo di parlare.
«È ossessionata dal film e dal libro di Stuart Little», disse. «Sua madre mi
ha elencato alcune delle sue cose preferite nella lettera che mi ha scritto. Così
l’altra sera ho guardato il film per avere qualcosa di cui parlare con lei e mi
sono reso conto che buona parte si svolge in questo parco, al Conservatory
Water, il posto dove tutti portano le barchette telecomandate. Max ha detto
che non c’era mai stata, così ho pensato che forse l’avrebbe riconosciuto dalla
storia.»
Sorrisi. «Che cosa dolce. Scommetto che lo adorerà.»
Appena pronunciate queste parole, Ella confermò quanto avevo detto.
Lanciò un urlo e indicò il lago pieno di barche, che era apparso davanti a noi
dopo aver girato l’angolo.
«Stuart! Stuart!» gridò.
Mi fece pensare al genere di cose che mio padre avrebbe fatto quando ero
piccola; nei giorni in cui era mio padre e non quello di qualcun altro.
Per tutta l’ora successiva, la piccola rimase incollata al sellino guardando
le centinaia di barchette motorizzate che solcavano il lago. Anche se Gray le
aveva spiegato che Stuart Little non era a bordo di nessuna di esse, ero
convinta che volesse accertarsene di persona. A un certo punto, salì sul
grembo di Gray e si mise comoda. L’espressione di lui fu impagabile.
Emanava felicità.
Dopo pranzo, Gray propose di prendere un gelato, così andammo a un
chiosco e ci sedemmo su una panchina del parco.
Ella leccò il suo cono e si rivolse a me. «Lo sai che mamma ha il cancro?»
Il gelato mi andò di traverso.
Gray si assicurò che stessi bene e poi subentrò nella conversazione.
«Sì. Lo sappiamo.»
Ella continuò a leccare e rifletté per qualche momento. «Morirà.»
Stavolta fu Gray a strozzarsi. Andai al chiosco dei gelati e presi tre
bottiglie d’acqua. Lui ne trangugiò mezza e parlò con voce ancora roca: «A
volte succede quando le persone sono malate, tesoro. Purtroppo».
«Tu morirai?»
Dio, che conversazione assurda. E fui più riconoscente che mai a Gray,
intervenuto per contenerla.
«Non per parecchio tempo, spero.» Gray le tirò la coda. «Non ho ancora
fatto la lista dei miei colori per ciascun giorno della settimana. Perciò spero di
avere moltissimo tempo a disposizione.»
Lei rise e tornò al suo gelato. Per Ella, era come se stessimo parlando del
tempo. Tuttavia, Gray sembrava aver bisogno di un drink, e io pensavo di
doverne buttare giù più di uno.

Verso il tramonto ci immettemmo nelle stradine che portavano a casa di


Ella. Lei si era addormentata in auto e io avevo appoggiato la testa sulla
spalla di Gray, chiudendo gli occhi. L’intera giornata era stata alquanto
surreale. Terrorizzata com’ero di partecipare all’incontro, osservare Gray con
sua figlia e trascorrere il pomeriggio con loro due aveva alleviato alcuni dei
miei timori.
Nella mente, riuscivo a vedere noi tre insieme. Anche se la cosa
continuava a spaventarmi, intravedevo la possibilità di superarla con il
passare del tempo. Questo era ciò di cui avevo bisogno: intraprendere una
strada che potesse portarmi lì.
«Hai l’aria stanca.» Gray mi scostò i capelli dalla faccia mentre
accostavamo davanti a casa di Max ed Ella.
«Cosa te lo fa pensare? Il fatto che ho le braccia flosce lungo i fianchi e
che ti ho sbavato sulla spalla lungo il tragitto?»
Gray lanciò un’occhiata a Ella, che dormiva ancora. «Perché non resti in
auto e ti rilassi mentre io la porto dentro?» Si protese verso di me finché le
nostre labbra si toccarono. «Avrai bisogno di tutte le tue energie per quando
ti riporterò a casa.»
31

Gray
ANDAI alla porta senza fretta.
Il respiro dolce e leggero di Ella mi soffiava sulla guancia mentre lei
teneva la testa appoggiata sulla mia spalla. Qualche settimana addietro non
avrei mai pensato che questa sarebbe stata la mia vita. Se qualcuno mi avesse
detto che avrei temporeggiato davanti alla porta per restituire mia figlia a sua
madre morente, gli avrei dato del matto.
E la cosa folle non sarebbe stata il fatto di avere una figlia, bensì di
potermi innamorare a tal punto di una bambina della quale, fino a poco tempo
prima, ignoravo l’esistenza.
Ma Ella era speciale. Intelligente, buffa, con un entusiasmo per la vita di
cui avevo dimenticato l’esistenza, per non parlare del fatto che – osservai la
sua faccia addormentata – era adorabile, anche mentre mi sbavava sulla
maglietta. Ero ancora terrorizzato e una parte di me non riusciva a
comprendere del tutto l’enormità di quanto sarebbe accaduto nell’immediato
futuro, ma lo volevo. Volevo prendermi cura di quella bimba, proteggerla da
tutti i mali del mondo ed essere un padre presente. Dicono che i bambini
imparino guardando l’esempio dei genitori, non le loro parole. Be’, lo stesso
vale per i bambini che non hanno avuto i migliori esempi di vita. Da mio
padre, avevo imparato cosa non fare.
Sono fermamente convinto che tutto accada per una ragione. Se tre anni
prima avessi saputo di avere una figlia, quando il mio lavoro era la cosa più
importante della mia vita, forse avrei seguito le orme del mio caro vecchio
papà, lasciando agli altri il compito di allevare la bimba e concentrandomi su
denaro e potere. Ma gli anni trascorsi a non fare altro che pensare mi avevano
dato un’altra prospettiva. I bisogni di Ella sarebbero venuti al primo posto…
a qualsiasi costo. E così quelli di Layla.
Suonai il campanello e aspettai di restituire la mia bella addormentata.
Dopo qualche minuto, suonai di nuovo. Ancora nessuna risposta. Mentre
cercavo il telefono in tasca, la porta finalmente si aprì. Max aveva un aspetto
terribile rispetto a quella mattina. E già quella mattina stava da cani.
«Cosa succede? Ti senti male?»
Era avvolta in una coperta. «No. Ho solo freddo. Mi sono addormentata
sul divano.»
«Ci sono almeno ventisei gradi fuori. Hai l’aria troppo alta?»
«No. È un effetto collaterale di alcuni farmaci. Freddo e sonnolenza.»
Le tastai la mano. Non era calda.
Max si sforzò di sorridere ma sembrava non averne la forza. Si fece da
parte per lasciarmi entrare. «Da quanto tempo dorme?»
«Forse una mezz’ora. È crollata in auto al ritorno.»
«Ti dispiacerebbe metterla nella sua stanza?»
«Come no.»
Portai la mia principessa in camera e la deposi sul letto. Lei si agitò, ma si
rigirò su un fianco senza aprire gli occhi. Dopo averle rimboccato le coperte,
la baciai sulla fronte prima di uscire dalla stanza, cercando di non fare
rumore.
Interessarmi della salute di Max era causa di sentimenti contrastanti. Avrei
voluto tirare dritto vedendola seduta in soggiorno, fregandomene come lei se
n’era fregata di me mentre marcivo in prigione. Ma ero umano. Per non
parlare del fatto che lei si occupava di mia figlia. Perciò era mio dovere
assicurarmi che fosse in grado di farlo.
«Sicura che sia tutto a posto?» Rimasi sulla soglia tra l’ingresso e il
soggiorno.
Prima che potesse rispondere, una teiera fischiò.
«Non voglio che svegli Ella.» Si alzò e andò in cucina.
La seguii. «Hai qualcuno che ti aiuti? Che venga a vedere come stai?»
Lei trasferì la teiera su un fornello spento. «Sono pochi i ponti che non ho
tagliato. Ho Paula, che lavora per me. Si prende cura di Ella mentre io sono al
lavoro.»
Sapevo che Max era figlia unica come me; lei e sua madre non erano
legate. Per quanto ricordavo, aveva una zia nel Connecticut con la quale
andava d’accordo. Com’è che si chiamava? Betty, Betsy… Il cognome era
Potter e ricordavo un’attinenza con quei libri per bambini sui conigli. Beatrix!
«E Beatrix?»
«È morta l’anno scorso. Ictus.» Max prese una tazza dalla credenza. «Ti
va una tazza di tè?»
«Niente tè, grazie.»
Max riempì la tazza di acqua bollente e vi immerse una bustina di tè.
Voltandosi, disse: «Me la caverò. Sono ancora in grado di gestirla, se è
questo che ti preoccupa».
«Può stare da me per questa notte, se è troppo.»
«No.» Scosse la testa e abbassò lo sguardo. «Lo saprò quando sarà troppo.
Non voglio metterla in pericolo, anche se voglio passare con lei tutto il tempo
possibile.»
Annuii.
Fece un grosso sospiro. «Ho bisogno di dirti qualcosa che potrebbe non
farti piacere.»
Esattamente, cosa pensava le fosse uscito di bocca in quegli ultimi anni
che mi avesse fatto piacere? Le bugie, la manipolazione? Mi morsicai la
lingua.
«Cos’hai in mente, Max?»
«Sono preoccupata per Layla.»
«In che senso?» sbottai.
«Ella sta per perdere sua madre. Questo la devasterà. Ma nessuno di noi
può farci niente.»
«Capisco. Ma cos’ha a che fare questo con Layla?»
«Ella le si affezionerà. Cercherà un’altra donna, è naturale. Vorrà una
figura materna.»
Strinsi i denti. «E allora?»
«Il giorno che Layla se ne andrà, nella mente di Ella non sarà affatto
diverso da una morte… un’altra perdita mentre è già così vulnerabile.»
«Sembri così sicura che se ne andrà.»
«Sei un uomo dal quale non ci si allontana facilmente, Gray. Ma lei non è
ancora pronta per una famiglia.»
«Hai passato… quanto, mezz’ora nel suo ufficio qualche settimana fa?
Fingendoti una cliente quando in realtà volevi solo ficcare il cazzo di naso nei
miei affari? E sai tutte queste cose di lei?»
«Oggi abbiamo parlato per qualche minuto. L’ho osservata con te ed
Ella.»
Scossi la testa. «Sei incredibile, cazzo.»
«Nelle donne, tu vedi quello che vuoi vedere, Gray. L’hai sempre fatto.
Immagino c’entri con la tua madre gentile e con il fatto di averla persa in
tenera età.»
«Chi sei, Sigmund Freud? Non hai la minima idea di cosa stai parlando.»
Che diavolo ci facevo ancora lì? Mi avviai alla porta, e dissi senza
voltarmi indietro:«Sarò qui domani a mezzogiorno per prendere Ella».

Layla era stata taciturna per tutto il tragitto fino a Manhattan. Non ci
avevo fatto caso per tre quarti del viaggio perché ero ancora furente dopo la
conversazione con Max. Quella donna aveva avuto il coraggio di parlarmi
della mia vita sentimentale. Avevo deciso di tenere quei pensieri per me
invece di scaricarli addosso a Layla. Non aveva senso peggiorare la tensione
fra lei e Max.
«Sei silenziosa.» Intrecciai le dita alle sue mentre uscivamo dal ponte.
«Tutto bene?»
Lei sorrise, ma il sorriso non raggiunse i bellissimi occhi. «Sì. Sono solo
stanca.»
«Hai ancora voglia di andare a cena fuori?»
«In realtà preferirei stare a casa, se non ti dispiace.»
Mi portai la sua mano alla bocca e la baciai. «Tutto quello che vuoi.
Anche se adoro l’idea di sfoggiarti in un abito sexy, sono anche un grande
sostenitore del cinese nudi.»
Non sapevo neanche se mi avesse sentito. Layla sembrava avere la mente
altrove. Guardò fuori dal finestrino e poi si girò verso di me. «Ella è
fantastica.»
Il mio sorriso fu grande abbastanza per tutti e due. «Sono un presuntuoso
bastardo se dico di essere d’accordo?»
Stavolta lei sorrise con sincerità. «Affatto.»
Ci fermammo davanti al suo palazzo e io feci il giro dell’auto per aprirle
lo sportello. Poi dissi al mio autista di prendersi il resto della serata libera.
Aiutando Layla a scendere, le spiegai: «Non ho intenzione di andarmene
stasera, a meno che non mi sbatti fuori a calci. E, in tal caso, posso prendere
un taxi».
Una volta in casa, Layla scomparve in bagno, io aprii una bottiglia di vino
e riempii due bicchieri. Trovavo un che di strano nel suo comportamento, ma
pensai che forse stavo immaginando cose che non esistevano per via di quello
che aveva detto Max. Quella donna era il male.
Tornata in cucina porsi a Layla un bicchiere. «Hai fame? Non hai
mangiato granché a parte quel gelato. Che ne dici se ordino qualcosa?»
Lei bevve un sorso. «Certo. Buona idea.»
«Di cosa hai voglia?»
«Qualsiasi cosa. Scegli tu.»
Le tolsi il bicchiere di mano e lo posai sul bancone della cucina insieme al
mio. Avvolgendole le braccia intorno alla vita, la attirai a me. «Se mi lasci
scegliere quello di cui ho voglia, potresti morire di fame.»
Le scostai i capelli dal viso e aspettai che i nostri occhi si incontrassero.
«Grazie per oggi. Ha significato un sacco per me poter trascorrere il tempo
con tutte e due le mie ragazze. Ma, lo ammetto, per quanto mi sia piaciuto e
non lo scambierei per niente al mondo, sono contento di averti tutta per me,
adesso.»
«Non sarà così quando… voglio dire, non sarà così quando Ella vivrà con
te.»
«Farò insonorizzare le pareti della camera da letto.» Lei non sorrise, così
mi tirai indietro per osservare meglio la sua espressione. «Parlami. Cos’è che
ti turba?»
«Niente.» Scosse la testa. «Non lo so. Mi sono appena venute le mie cose,
perciò mi sento un po’ giù, immagino. E poi sono stanca. Probabilmente ho il
ferro un po’ basso.»
Volevo credere che non fosse niente, perciò non insistei. Dopo il vino,
Layla fece una doccia e mi lasciò a scegliere qualcosa da ordinare per cena.
Mi disse di cercare tra i menu d’asporto nella scrivania e di fare attenzione
perché a volte il cassetto era traballante.
Traballante era un eufemismo. Tirai il cassetto e l’intero affare uscì dalle
guide. Il fondo di legno balzò fuori e il contenuto si riversò sul pavimento.
Almeno dieci chili di roba erano stati ficcati in un cassetto fatto per reggere
qualche fascicolo. Risi e andai in cucina alla ricerca di un cacciavite e delle
pinze.
Ripararlo fu semplice. Si erano allentate due viti che reggevano il pannello
sottostante e il cassetto era traballante perché era venuta via una delle
rotelline che lo facevano scorrere sulle guide. Rimisi tutto insieme e
cominciai a infilarvi dentro la roba che prima aveva raccolto. C’erano dei
fogli, raccoglitori e una scorta di quaderni. Quello in cima era caduto dal
mucchio, atterrando con la pagina finale aperta. Senza pensarci feci per
prenderlo, ma una delle frasi sulla pagina attirò la mia attenzione.
Lui mente.
Ma che cazzo?
Avrei dovuto chiudere il quaderno e tenere il naso fuori dagli affari di
Layla. Ma non potevo farlo dopo aver visto la parola Lui. Sono un uomo, e
pure possessivo e geloso. Perciò, come uno stronzo, continuai a leggere.
Non è affidabile.
Mi persi d’animo. Cazzo.
Mi ero imbattuto in una delle sue liste di pro e contro. Ecco cos’erano tutti
quei quaderni. Questo era proprio in cima e ormai all’ultima pagina. Doveva
essere recente.
Ragionai con me stesso. Probabilmente riguarda qualcos’altro. Sto
saltando alle conclusioni.
Non sarò mai la sua priorità.
La speranza cominciò a scemare man mano che leggevo.
Finirò per stare di nuovo male.
Cazzo.
Ogni illusione che la lista non riguardasse me andò a farsi benedire appena
lessi le ultime due voci.
Mai voluto davvero dei figli.
Merito di più.
Cazzo. Fissai il foglio e rilessi ancora l’ultima parte.
Merito di più.
Era vero. Layla meritava di più di un ex detenuto con un’ex moglie che gli
aveva appena accollato una figlia.
Guardai di nuovo la lista e mi accorsi che era stato tutto scritto sul lato
destro. Al centro era tracciata una linea, ma il lato sinistro era completamente
vuoto.
Nessun pro.
Essendo masochista, girai la pagina per guardare l’altro lato e vidi i titoli.
PRO in cima al lato sinistro e CONTRO in alto a destra. Su questo lato, però, la
colonna dei contro non arrivava a metà pagina, ma la riempiva fino al
dannato orlo. E la colonna dei pro non era vuota. C’era solo una voce.
Lo amo, anche se non vorrei.
«Gray?» La voce di Layla mi chiamò dalla camera da letto.
Non mi ero neanche accorto che l’acqua non scorreva più. Chiusi in tutta
fretta il quaderno e lo infilai nel cassetto.
Chiusi gli occhi. «Sì?»
«Hai già ordinato?»
«No.»
«Che ne dici del sushi? Da Umi le consegne sono veloci e hanno il miglior
sashimi di tonno. Non credo di avere il menu, ma hanno tutto quanto.»
«Certo. Va bene.»
Mi alzai da dove avevo sistemato il cassetto e ficcato il naso; volevo
riflettere su come gestire quanto avevo appena letto prima di parlarne con
Layla. La bottiglia di vino che avevo aperto era ancora sul bancone, ma la
ignorai e mi diressi alle poche bottiglie di liquore che, sapevo, teneva nella
credenza. Mi versai un doppio Jack da una bottiglia polverosa e lo vuotai in
un sorso solo. Aveva un sapore schifoso ma il bruciore fu piacevole.
Ne bevvi un altro e riempii il bicchiere di vino prima che Layla uscisse
dalla camera da letto. Quando lo fece, accese la luce in cucina.
«Te ne stai lì al buio?»
Non mi ero accorto che il sole fosse tramontato, portandosi dietro tutta la
luce dalla finestra. Doveva essere parecchio scuro.
«Ero perso nei pensieri, mi sa.»
«C’è qualcosa di cui vuoi parlare?» chiese sospettosa.
«No. E tu?»
Distolse lo sguardo. «No. È stata una grande giornata per entrambi, direi.»
Annuii.
Smanettò con il cellulare e poi venne a mettersi accanto a me. «Ho trovato
il menu online.»
Aveva i capelli bagnati e il viso struccato. La osservai mentre scorreva la
pagina e leggeva il menu. Le lentiggini che amavo tanto erano più evidenti da
quell’angolazione. Per qualche ragione, volli memorizzarne la disposizione.
«Ecco.» Mi passò il telefono. «Io prendo il tonno Ahi scottato. Se ti piace
l’involtino Meraviglia, lo divido con te.»
Avevo difficoltà a mettere a fuoco il menu sul suo cellulare. I miei occhi
continuavano a vagare sulle sue lentiggini. Non riuscivo a capire il motivo di
quella attrazione, ma, guardandola in quel momento, decisi che forse era il
loro carattere fanciullesco, in contrasto con la donna forte. Layla le
nascondeva come se non volesse mostrare altro che la propria forza.
Dio, è così bella. Così vera, così intelligente, così… tutto.
«Che ne pensi?» chiese. «Ti piace la roba nell’involtino Meraviglia?»
Non avevo letto una sola parola del menu. «Sì. Sembra buono. Prendo
quello che prendi tu.» Cliccai sul numero di telefono sullo schermo e tirai
fuori il portafogli dalla tasca.
«Posso fare un’ordinazione da asporto?»
La donna mi chiese cosa volessi. Ma l’avevo già scordato.
Coprii il telefono. «Cos’è che volevi?»
Layla corrugò la fronte. «Ahi scottato e involtino Meraviglia. Pensavo
volessi la stessa cosa.»
«Sì, giusto.»
Il resto della serata non andò molto diversamente dal mio tentativo di
ordinare. Non riuscivo a stare dietro alla nostra conversazione e nemmeno al
mio stesso flusso di pensieri. La dannata lista di pro e contro continuava a
ossessionarmi, così come le parole di Max.
Volevo solo afferrare Layla e tenerla stretta, dirle che la sua lista era
sbagliata. Ma più pensavo a quella lista, più mi rendevo conto che non era
così lontana dal vero.
Lui mente.
Non si poteva negare che avessi incasinato tutto con lei non dicendole
subito di Max. Occorreva parecchio tempo per costruire la fiducia e due
secondi per farla crollare. Avevo pensato che stessimo facendo progressi,
ma…
Nelle donne, tu vedi quello che vuoi vedere, Gray. Ecco cosa aveva detto
Max.
Non sarò mai la sua priorità.
Anche se mi piaceva pensare che lei ed Ella sarebbero state le mie priorità,
chi volevo prendere in giro? Ben presto sarei stato il padre single di una
bambina affranta. Quale sarebbe stata la mia priorità: portare Layla a cena
fuori o restare a casa con mia figlia?
Mai voluto davvero dei figli.
Non avevamo mai parlato di mettere su famiglia. Stupidamente, avevo
dato per scontato che volesse dei figli. Ma su quali basi si reggeva quell’idea?
Non nutriva rispetto per sua madre e suo padre, e nemmeno per la situazione
in cui l’avevano cresciuta.
Nelle donne, tu vedi quello che vuoi vedere, Gray.
Chiudi quella cazzo di bocca, Max.
Merito di più.
Non potevo contestare quell’affermazione. Layla meritava il mondo ai
suoi piedi.
Stranamente, la cosa che più mi faceva male non era neanche un contro.
Era l’unica cosa che le era venuta in mente come pro.
Lo amo, anche se non vorrei.
Quando fu l’ora di andare a letto, avevo bevuto troppo e volevo dormire,
così avrei potuto fingere che quella sera non fosse mai successa. Infilandomi
sotto le lenzuola dietro di lei, avvolsi il corpo attorno al suo. Le strinsi forte le
braccia attorno alla vita, curvandomi per avvilupparla. Forse per lei non era la
posizione più comoda, ma ne avevo bisogno.
Ne avevo un fottuto bisogno.
Premetti le labbra contro la sua spalla e desiderai poterle dire che i suoi
timori si sarebbero risolti nel migliore dei modi. Però non potevo essere così
egoista.
E così sussurrai: «Voglio che tu sia felice più di ogni altra cosa».
Si girò verso di me. Era buio ma riuscivo a vederla in faccia.
«Gray… io…»
Lo squillo di un telefono la interruppe. Impiegai un momento per rendermi
conto che proveniva dal comodino dalla mia parte. La prima reazione fu di
ignorarlo, di lasciar partire la segreteria. Ma poi mi ricordai che adesso avevo
una figlia.
Afferrai il cellulare e mi impensierii nel vedere il nome di Max sul
display. Erano le undici di sera. Mi tirai su a sedere e risposi.
«Che succede?»
La sua voce era tremante. «Ho appena chiamato l’ambulanza. Ho molta
difficoltà a respirare.»
32

Gray
«È TUTTO a posto, tesoro. Ssh…» Accarezzai i capelli di Ella e dondolai
avanti e indietro con lei tra le braccia finché il suo pianto cominciò a
calmarsi. Aveva i capelli davanti bagnati dalle lacrime versate. Mi uccideva
vederla così sconvolta. E non mi piaceva che stesse nella sala d’attesa di un
ospedale infestato di germi mentre i medici finivano con le analisi di Max.
Ma che scelta avevo all’una del mattino?
Layla era venuta con me, anche se le avevo detto che non era necessario.
Guardandola, desiderai aver insistito di più. Sembrava spaventata e non
potevo biasimarla. Ero terrorizzato anch’io.
Quando eravamo arrivati al pronto soccorso, l’ambulanza aveva già
portato dentro Max e una donna dei servizi sociali era insieme a Ella. Durante
il tragitto Max aveva smesso di respirare due volte, con
elettroencefalogramma piatto. Erano riusciti a rianimarla ma la gravità della
situazione mi aveva colpito dritto in faccia. Sta succedendo davvero. Magari
non sarebbe successo proprio quel giorno, magari non l’indomani. Ma presto.
E io non ero pronto. Né lo era la povera bambina fra le mie braccia.
«Mr. Westbrook?» Il dottore in camice azzurro chiamò dalla soglia della
sala d’attesa.
«Sono io.» Lo raggiunsi e Layla mi accompagnò.
«Sono il dottor Cohen, uno dei chirurghi oncologici dell’ospedale. Sua
moglie è stabile. Le abbiamo inserito un tubo in gola per aiutarla a respirare.
Uno dei tumori si trova vicino all’esofago e ha fatto sì che dei frammenti di
cibo restassero incastrati. Col tempo sono aumentati, provocando un gonfiore
che ha compromesso ulteriormente il passaggio dell’aria.»
«Si riprenderà?»
«Per oggi», rispose con aria cupa. «Speriamo che, adesso che il passaggio
è stato liberato, il gonfiore si riduca e il tubo possa essere rimosso entro un
paio di giorni. Ma devo farle presente che si tratta solo di un palliativo, Mr.
Westbrook.» Il suo sguardo si posò su Ella fra le mie braccia.
Gli occhi spalancati della bambina fissavano nel vuoto, senza muovere le
palpebre. Non sapevo se stesse ascoltando, né tantomeno comprendendo di
cosa parlavamo, ma si capiva che il dottore voleva essere sincero e sentiva di
non poterlo fare.
Guardai il medico, poi Ella e di nuovo lui, concordando tacitamente che
avremmo fatto del nostro meglio per parlare in codice. «Il blocco può essere
eliminato in via permanente?»
«La signora ha firmato una direttiva anticipata di trattamento. Non ci è
possibile ricorrere ai metodi che useremmo normalmente.»
Traduzione: Max aveva legalmente chiesto di farla finita.
«Capisco.»
«Abbiamo avuto qualche successo con la PDT, la terapia fotodinamica. Si
inietta un farmaco che si attiva con la luce e raccoglie più cellule
cancerogene. Poi una sonda viene inserita nella gola e nei polmoni e una luce
al laser uccide le cellule che abbiamo raccolto. Passato qualche giorno,
torniamo a raccogliere quelle cellule morte. È un’opzione, ma, per come
stanno le cose, non ci è consentita. Magari può parlarne con la signora una
volta staccato il respiratore. Per adesso dobbiamo fare un passo alla volta.
Come ho detto, sua moglie è stabile, perciò sarà meglio che lei vada a casa a
riposare. Ha con sé degli effetti personali che può portare via o depositare
nella cassaforte dell’ospedale.»
«Max è la mia ex moglie. Ma grazie di tutto, dottore.»
Dopo che se ne fu andato, Layla guardò Ella in braccio a me. «Si è
addormentata nel frattempo.»
«Oh, bene.»
Continuò a guardare Ella e a scuotere la testa. «Sapevo che sarebbe stata
dura per lei. Ma vedendola oggi…» Fece una pausa. «Sarà devastata.
Diventerai il suo mondo, Gray.»
Il contenuto di quel dannato quaderno mi balenò di nuovo in mente.
Mai voluto davvero dei figli.
Non sarò mai la sua priorità.
Abbassai lo sguardo. «Lo so.»
Andai a vedere un’ultima volta Max e presi i pochi effetti personali che
aveva con sé: le chiavi di casa, un borsellino e una collana che le avevano
tolto. Dopo le ultime settimane, pensavo che niente fosse più in grado di
sconvolgermi. Ma tenere in mano ciò che lei portava appeso al collo mi
lasciò ancora una volta senza parole. La sua fede nuziale. Le avevamo
comprate abbinate dal tizio che ci aveva sposati nella Repubblica
Dominicana.
«Sto pensando che dovrei portarla a dormire a casa sua», dissi a Layla
appena la raggiunsi. «Non è mai stata da me, potrebbe aiutare se si svegliasse
nella propria stanza. Le chiavi di Max erano nella busta insieme agli altri
effetti personali.»
«Oh. Sì. È un’ottima idea.»
Fuori, fermammo un taxi e riuscii a salirvi senza svegliare Ella. Tutti e tre
restammo in silenzio mentre l’auto ripartiva. Il peso di tutto quanto era troppo
per sforzarmi di dire qualcosa di sensato.
L’ultima cosa che avrei voluto era separarmi da Layla. Sentivo la distanza
tra noi perfino sul sedile posteriore del taxi. La separazione fisica avrebbe
solo peggiorato la situazione, dandole il tempo di pensare a quanto le si
sarebbe incasinata la vita se fosse rimasta con me. Ma chiederle di dormire a
casa della mia ex moglie era parecchio.
Ci andai piano. «Passiamo prima da te?»
«Sì. Grazie.»
Così diedi al tassista il suo indirizzo. Il silenzio si dilatò per tutta la durata
del tragitto fino a casa di Layla. La sua mano era sulla maniglia dello
sportello prima ancora che accostassimo al marciapiede.
«Ho una riunione domani nel Connecticut. Ma fammi sapere come
procede.»
«Senz’altro.»
Si protese a baciarmi sulla guancia. Non è che potessi muovermi con un
minuscolo essere umano aggrappato a me. «Buonanotte.»
Layla stava uscendo dall’auto quando cominciai a farmi prendere dal
panico. «Layla, aspetta…»
Lei si voltò a guardarmi. Se mai avevo dubitato di amarla, ne fui
dannatamente certo in quel momento. Per qualche ragione, avevo la
sensazione di non doverla lasciare andar via.
Ricordale che la ami.
Ricordale che la ami, smidollato.
«Io… io… grazie per oggi. E per stanotte. Ho apprezzato che tu sia
rimasta con me in ospedale.»
Lei mi rivolse un sorriso triste. «Figurati.»
«Buonanotte, Lentiggini. Accendi la luce in camera da letto così saprò che
sei sana e salva.»
Feci ripartire il taxi solo dopo aver visto la luce accendersi e poi feci una
cosa che mai avrei immaginato di poter di fare.
Portai mia figlia a dormire a casa della mia ex moglie, quella comprata
con i soldi che mi erano stati rubati.

«Posso esserle utile?» Per non svegliare Ella ero corso alla porta
d’ingresso senza maglietta sentendo suonare il campanello. Anzi, terrorizzato
che potesse svegliarsi.
«Sono Paula.»
«Posso esserle utile, Paula?»
«Io mi prendo cura di Ella.»
Avevo completamente scordato che Max mi aveva riferito di avere una
tata per le mattine in cui lavorava.
«Piacere di conoscerla. Sono Gray.»
La donna parve allarmarsi. «Oh! Max sta bene?»
«Perché non entra?»
Agguantai la maglietta in soggiorno e me la infilai, poi impiegai i dieci
minuti successivi a ragguagliare Paula sull’attuale stato di salute di Max. A
quanto pareva, l’aveva già informata della situazione con me. Sapeva che ero
il padre di Ella e che lei me l’aveva tenuto nascosto. Ignoravo quanto
addentro Max si fosse spinta nei nostri trascorsi.
«Quindi bada a Ella durante la mattina? Anche adesso che Max non lavora
più?»
«Stavo con lei dalle sette a mezzogiorno, ma la settimana scorsa Max mi
ha chiesto di restare fino alle cinque. Il pomeriggio comincia a essere duro
per lei.»
Annuii. «Può mantenere lo stesso orario per me? Penso che alla bambina
farebbe un sacco di bene se la sua routine restasse il più possibile invariata
mentre Max è in ospedale. Ecco perché stanotte sono rimasto qui con lei.»
«Certo. Max e io abbiamo già parlato di una mia permanenza… dopo…»
Si intristì, poi ricordò qualcosa che diede alle sue labbra la parvenza di un
sorriso. «Sto con loro dalla nascita di Ella. Per scherzare, Max dice che mi
lascerà in eredità a lei.»
Fu un enorme sollievo sapere di avere un aiuto – per lo meno finché non
avessi sbrogliato la situazione. Quando Ella si svegliò e corse tra le braccia di
Paula, la tensione del mio collo si sciolse per la prima volta dopo ore.
Mi sfregai la nuca e osservai la loro interazione. Ci vollero un paio di
minuti prima che Ella si accorgesse che c’era qualcun altro nella stanza. Mi
guardò arricciando il naso ma sorrise. «Hai fatto un pigiama party?»
«Sì, con te.» Le diedi un buffetto sul naso. «Ma tu ti sei addormentata.»
Ridacchiò. «Mamma è ancora all’ospedale?»
«Sì, tesoro.»
«La faranno guarire?»
I miei occhi balenarono su Paula. «Sì. La faranno guarire.»
«Starai con me finché mamma non tornerà a casa?»
«È quello che pensavo di fare. Magari una sera potresti dormire a casa
mia.» Mi protesi a bisbigliarle in un orecchio: «Ho un cane».
Sgranò gli occhi. «Possiamo andarci adesso? Possiamo andarci adesso?
Per favore.»
«Ho alcune cose da fare. Ma possiamo andarci più tardi. Che ne dici?»
Paula la portò in cucina per farle fare colazione e io sfruttai quel tempo per
spostare alcuni incontri che avevo in programma nella giornata. Quando
andai a controllare la situazione, Paula mi offrì un caffè.
Parlammo sottovoce in disparte mentre Ella era impegnata a mescolare
l’impasto dei pancake.
«Max ha passato qualche notte in ospedale durante l’ultimo anno. Di solito
non vuole che la bambina vada a trovarla. Pensa che sia troppo difficile
vederla con tutti gli aghi e i monitor attaccati. Certo, non le sto dicendo cosa
fare, ma ho pensato che dovesse sapere cosa si aspetta Ella.»
«Wow. Va bene. Fantastico. Grazie. L’ha presa parecchio male ieri in
ospedale. Credevo di doverla portare a trovare la madre oggi. Ma ero
preoccupato per la sua reazione. Max è intubata.» Lanciai un’occhiata a mia
figlia e bevvi un sorso di caffè. «Pare che Max stia meglio stamattina, ma
probabilmente non sarà il caso di portarla in ospedale.»
«Io sarò qui tutto il giorno. Lei faccia pure quello che deve. Se passa da
Max, le porti i miei migliori auguri.»
La colazione con Paula ed Ella mi tranquillizzò ancora di più. La loro
routine comprendeva che Ella salisse su uno sgabello e risciacquasse i piatti.
Vedevo che la bambina era pazza di Paula. L’appuntamento che avevo
chiesto di cancellare mi richiamò, così decisi di posticiparlo al pomeriggio
invece di annullarlo del tutto. Ella aveva il suo programma e, prima o poi, io
avrei dovuto imparare a trovare un equilibrio fra lei e il lavoro. Inoltre,
l’ospedale era vicino al luogo dell’appuntamento, così prima avrei avuto
modo di fare visita a Max.

---

Quella sera, mi versai un bicchiere di scotch e mi misi comodo sul divano.


Ella si era finalmente addormentata e io ero sfinito. Fare il genitore single
non era un lavoro per niente facile.
Quel giorno avevo avuto due riunioni, ero passato dall’ufficio per qualche
ora di scartoffie, avevo fatto visita a Max e parlato con i medici, ero tornato a
Brooklyn per prendere la roba di Ella e portarla a casa mia, poi avevo
preparato la cena e giocato con lei e Lentiggini finché aveva cominciato a
sbadigliare.
A quel punto, il mio cane e la sua fidata scarpa mi avevano abbandonato.
Si era steso ai piedi del letto nella stanza degli ospiti in cui dormiva Ella e
non ero riuscito a smuoverlo da lì. Non potevo biasimarlo. Ultimamente
aveva passato più tempo con il ragazzino che avevo assunto per portarlo a
spasso, che insieme a me. E poi Ella era molto più contenta di me di rotolarsi
sul pavimento e lasciarsi leccare la faccia, alle otto e mezzo di sera.
Bevvi qualche sorso e presi il cellulare. Avevo scambiato qualche sms con
Layla durante il giorno, ma avevo bisogno di sentire la sua voce.
Rispose al terzo squillo. «Ehi. Mi dai solo un secondo? Ho una persona in
ufficio.»
Guardai l’ora. Le nove. «Sei ancora al lavoro?»
«Già. Dammi un minuto. Sono subito da te.»
Sentii delle voci attraverso il ricevitore coperto e, poco prima di tornare in
linea, Layla doveva aver tolto la mano perché sentii una donna dire: «Se
cambi idea, sai dove trovarci».
«Grazie, Maryanne.»
Tornò da me. «Scusa. Alcuni degli associati escono a bere qualcosa e
un’amica stava cercando di convincermi a unirmi a loro.»
Questo mi fece pensare di nuovo a quanto sarebbe stata diversa la sua vita
con me adesso. Anche se odiavo l’idea del suo bellissimo sedere sullo
sgabello di un bar senza di me, non potevo fare lo stronzo.
«Perché non vai? Qualunque cosa ti resti da fare in ufficio, ormai può
aspettare a domani.»
Layla sospirò. «Immagino di sì. Ma sono anche stanca. In realtà non
vedevo l’ora di andare a casa a fare un bagno. Non ho dormito molto bene
ieri notte e stamattina sono arrivata in ufficio all’alba.»
L’ennesima cosa che era colpa mia. La vita di un genitore single era
praticamente inesistente. Chi frequenta quel genitore non riceve tutte le
attenzioni che merita. E quello era nel migliore dei casi.
«Scusa», dissi. «Per il resto, com’è andata la tua giornata?»
«Non male. Come vanno le cose da te? A Ella piace Lentiggini?»
Chiusi gli occhi, appoggiai la testa allo schienale del divano e i piedi sul
tavolino. «Quel traditore sta dormendo ai piedi del suo letto.»
«Be’, sicuramente lei è più divertente di te, vecchietto.»
«Vacci piano col vecchietto. Ho solo qualche anno più di te.»
«In questo momento hai i piedi sul tavolino e un bicchiere in mano alle
nove di sera di un giorno lavorativo?»
Sorrisi. «Spiritosa.»
Verso la fine della telefonata, le dissi: «Mi manchi. È una situazione
incasinata quella in cui mi trovo in questo momento. Mi dispiace non essere
riuscito a portarti a cena in un bel posto dopo il lavoro. O di non essere
seduto dietro di te nella vasca dopo una lunga giornata. Non sai quanto darei
perché fosse così».
Layla tacque per un po’. «Lo so. Capisco. Devi fare quello che è
necessario, Gray. Hai una bambina adesso. Quando ami qualcuno, metti al
primo posto i suoi bisogni. È così che funziona. Ripensandoci, è per questo
che crescendo non ho mai perdonato mio padre. Lui non metteva al primo
posto ciò che era meglio per noi, ciò che era meglio per mia madre. Metteva
se stesso al primo posto. E io non l’ho mai superato. Tu sarai un padre
fantastico. Già lo so.»
Ci salutammo, finii lo scotch e rimasi a fissare a lungo il soffitto. Layla
aveva ragione. Quando ami qualcuno, metti i suoi bisogni al primo posto. Era
un luogo comune trito e ritrito, ma a volte questo significava lasciare quel
qualcuno libero di andare. Penso che ormai sapessi da un po’ cosa dovevo
fare. Solo non volevo ammetterlo.
Ammetterlo significava agire di conseguenza. E agire di conseguenza mi
avrebbe ucciso. Ma cos’altro doveva essermi sbattuto in faccia perché mi
decidessi a fare la cosa giusta?
La lista che avevo trovato…
Mai voluto davvero dei figli.
Non sarò mai la sua priorità.
Le osservazioni di Max…
…lei non è ancora pronta per una famiglia.
Nelle donne, tu vedi quello che vuoi vedere, Gray.
Le parole di Layla…
Quando ami qualcuno, metti al primo posto i suoi bisogni.
…è per questo che non ho mai perdonato mio padre…
33

Gray
FERMO davanti al palazzo di Layla, fissavo la finestra della sua camera da
letto. La luce era accesa, e poco prima avevo visto un’ombra passare, perciò
sapevo che era in casa. Solo non avevo ancora trovato il coraggio di salire da
lei.
Layla non sapeva che io fossi lì. Avevo trascorso le ultime quarantotto ore
a pensare a cosa le avrei detto. Se le avessi confessato di aver letto la sua lista
e di voler mettere al primo posto i suoi bisogni, l’avrei solo fatta sentire in
colpa. La conoscevo: si sarebbe sentita in colpa per non essere lì a sostenermi
mentre avevo bisogno di lei. Era quel tipo di donna.
E io non ero abbastanza forte da oppormi se avesse detto che voleva
restare con me. Perché non c’era niente che desiderassi di più al mondo che
combattere con le unghie e con i denti per noi.
Perciò decisi di assolverla da qualsiasi senso di colpa e lasciare che
pensasse che era ciò che volevo veramente. Avrei infranto il giuramento di
non mentirle mai più, ma aveva già perso abbastanza tempo con me: più di un
anno di conversazioni al sabato, la sua vita in stand-by dopo aver smesso con
le visite in prigione, e poi gli ultimi mesi. Non sarebbe stato giusto trattenerla
oltre. Rapido e indolore, ecco come doveva essere. Probabilmente si
arrabbierà. Ma è più facile andare avanti quando sei arrabbiato rispetto a
quando ti senti in colpa perché vuoi cose diverse dalla persona cui tieni.
Diedi un’ultima occhiata alla finestra, misi a tacere il cuore e mi diressi al
portone. Suonai il campanello e cominciai a sudare, aspettando che
rispondesse.
«Chi è?»
«Ehi. Sono io. Scusa se non ho chiamato prima.»
«Ciao. Nessun problema. Vieni su.» Il portone si aprì.
Pensai di cambiare idea dieci dannate volte durante il tragitto in ascensore.
Ed esitai prima di uscire dalla cabina.
Layla era sulla soglia del suo appartamento. «Che bella sorpresa»,
esclamò.
Ripetilo fra dieci minuti.
Avevo difficoltà a parlare e dovetti schiarirmi la voce. «Ho bisogno di
parlarti.»
La sua espressione si fece preoccupata. «Va tutto bene? Max…»
Scossi la testa. «No, niente del genere.»
Esitò prima di farsi da parte per farmi entrare. In genere, l’avrei afferrata
nell’istante in cui mi fossi avvicinato, avvolta tra le braccia e baciata con
decisione. Per quanto avrei voluto farlo un’ultima volta, avrebbe solo
peggiorato le cose.
«Ella sta bene? Dov’è?»
«Sta benone. Dorme. Ho chiesto a Paula di stare con lei qualche ora
stasera invece che al mattino, così potevo passare da te.»
Layla mi mise le braccia attorno al collo. «Allora questa è una visita di
piacere?»
Cazzo. Altroché se avrei voluto che lo fosse. Il mio dannato corpo reagì
nell’istante in cui lei mi toccò. Come avrei fatto a parlarle se la desideravo
con tutto me stesso? Abbassai lo sguardo.
Non fare il rammollito, Gray.
Falla finita.
Metti via quella lingua penzoloni. Avrai un sacco di tempo per leccare
cose a casa; tipo le tue ferite.
Feci un respiro profondo e la guardai negli occhi. Dio, era stupenda. Così
bella e così piena di tutto ciò che è buono.
Premette i seni contro di me. Sentivo i capezzoli eretti attraverso le
maglie. «Il gatto ti ha mangiato la lingua?»
Amavo anche il suo sarcasmo, cazzo.
Le misi le mani sulle braccia e me le sfilai dal collo. Dalla sua espressione,
sembrava che l’avessero appena presa a schiaffi. Fece un cauto passo indietro
e incrociò le braccia sul petto, in un gesto di protezione.
«Che succede, Gray?»
«Ho un sacco di carne al fuoco in questo momento.»
«Lo so bene.» La sua voce aveva un accenno di rabbia. Era sempre due
passi avanti ai suoi clienti ed era in grado di leggere una situazione meglio di
chiunque conoscessi. Il resto della conversazione che stavamo per avere era
una formalità. Sapeva già cosa stavo per dirle.
«Tra la nuova attività, i rapporti con Max, stabilire un legame con Ella… è
tutto troppo.»
«Be’, non è che tu abbia alternative al riguardo. È quanto ti è capitato in
sorte. Devi occupartene.»
Distolsi lo sguardo. «Sì. E lo farò. Ed è proprio questo il mio
ragionamento. Ho parecchie cose di cui occuparmi. Perciò non avrò molto
tempo libero. Ho dovuto riorganizzare giornata e lavoro con la babysitter solo
per poter venire da te stasera.»
Layla sciolse le braccia e si mise le mani sui fianchi. Era incazzata.
«Avanti, dillo, Gray.»
«Non ho tempo per altro. Devo mettere fine alla nostra relazione.»
«Mio padre aveva tempo per una moglie e una figlia e per un’amante e
una figlia illegittima. Se vuoi davvero qualcosa, il tempo lo trovi.»
Come un codardo, abbassai lo sguardo. «Mi dispiace.»
Layla non aveva alcuna intenzione di rendermi le cose facili. «Guardami.»
Alzai la testa ma tenni gli occhi chiusi per qualche istante prima di aprirli.
«Non vuoi neanche provarci? Lo capisco che per adesso non avremo
molto tempo. Però alla fine le cose si sistemeranno.»
La sua voce si incrinò impercettibilmente, ma me ne accorsi comunque.
Senza pensarci, mi avvicinai per consolarla. Lei si ritrasse.
«Rispondimi.»
La guardai negli occhi e spezzai il cuore a entrambi. «No. Non voglio
neanche provarci.»
Lei mi scrutò, come se cercasse qualcosa. Poi andò alla porta e la aprì.
«Vattene.»
Andai alla porta e mi fermai davanti a lei. «Layla… io…»
Mi interruppe e indicò il pianerottolo. «Vattene!»
I passi più difficili che avessi mai mosso furono quelli per uscire da casa
sua. Lei mi aveva dato una seconda occasione quando non lo meritavo. Mai e
poi mai ne avrei avuta una terza. Le cose stavano così.
Sentivo le gambe di piombo. Mi voltai per guardarla un’ultima volta ma
non ne ebbi la possibilità. Mi sbatté la porta in faccia.
Se c’era qualcuno in grado di tirarmi su il morale, quello era il mio
vecchio compagno di cella, Rip. Era l’unica cosa che aspettavo con ansia da
quando avevo lasciato casa di Layla, quattro sere prima.
Paula teneva Ella. Max non era più intubata ed era migliorata al punto che
i medici parlavano di dimetterla nel giro di pochi giorni, e Rip stava per
tornare a essere un uomo libero. Cosa potevo chiedere di più quel giorno?
Layla, ecco cosa.
I secondini mi salutarono come se fossi un vecchio amico invece che un
ex detenuto.
«Ma guardati, Bel Faccino.» L’agente Kirkland fischiò. «Quanto costa
quel completo? Più di quanto prendo al mese, scommetto.»
«Chiudi il becco, Kirkland», sorrisi. «Sei solo geloso perché mi hanno
rilasciato. A te quanto resta ancora? Venti, venticinque anni prima di poter
andare in pensione?»
Scosse la testa. «Non ricordarmelo.»
«Come sta Rip? È eccitato per oggi?»
«Per forza. Ho sentito che è rimasto sveglio per tutto il notiziario del
mattino.»
Alle spalle di Kirkland, si aprì una porta e O’Halloran, un altro bravo
secondino, scortò Rip lungo il corridoio.
O’Halloran fece un cenno con il mento nella mia direzione. «Ti stai
tenendo fuori dai guai, Westbrook?»
«Non ho ancora ucciso la mia ex moglie. Se continuo così, riuscirò a stare
lontano da questo posto.»
Sorrise. «Stammi bene. E anche tu, Rip.»
Rip strinse la mano a entrambe le guardie e poi spalancò le braccia, con un
sorriso enorme sulla faccia. Fu il momento più carico di emozioni di qualsiasi
altro mai avuto con mio padre. Ci abbracciammo con grandi di pacche sulla
schiena.
«Come va, vecchio mio?» gli chiesi. «Ti sono mancato?»
«Altroché. Il tizio che ha preso il tuo posto russa come un trattore ed è un
dannato sciattone.»
Fu bello sorridere. «Non credo tu possa lamentarti di come dorme la gente
qui dentro, Van Winkle.» Indicai la porta. «Filiamocela prima che decidano
di tenere uno dei due.»
Rip mi aveva fatto fare tre soste durante la prima ora del nostro viaggio
per tornare in città. La prima perché voleva pranzare da McDonald’s, la
seconda perché doveva usare il bagno e la terza perché voleva prendere un
cellulare da Walmart. Invece lo portai in un negozio Verizon.
Mentre esaminava dei telefoni dell’anteguerra, fermai un addetto alla
vendita e gli dissi di prendermi l’ultimo iPhone e aggiungerlo al mio piano
mensile.
«Ecco a te. Felice giorno della libertà.» Gli porsi il sacchetto.
Rip guardò la mia offerta. «Cos’è?»
«Un cellulare. Uno vero.» Indicai col mento i vecchi modelli che stava
valutando. «A differenza di quegli affari.»
«Non posso permettermelo.»
«Non devi farlo. Offro io. Aggiunto alla mia bolletta. Una volta che ti
sarai rimesso in sesto, potrai sdebitarti.»
«Non posso accettare. Quegli affari costano. Questo varrà più di cento
bigliettoni.»
Riuscii a contenere il mio sorriso. Diciamo pure un migliaio. «Era
scontato. E poi, te lo devo.»
Prese il sacchetto. «Perché me lo devi?»
«Tre anni ad ascoltare le mie stronzate.»
«Le tue stronzate erano più interessanti delle mie stronzate. Anzi, io non
ne ho nessuna interessante», rise.
«Andiamo. Rimettiamoci in viaggio.»
Non c’era molto traffico, così ci rilassammo a parlare del più e del meno.
Non ci volle molto per rimettermi in pari con la vita di Rip. Non gli restava
che la sua unica figlia, che viveva a Seattle.
«Come se la passa la tua avvocatessa?» chiese. «Te la tieni ancora ben
stretta?»
La mia ultima lettera a Rip risaliva a qualche giorno prima che tutto
andasse a rotoli con Max ed Ella. Ovviamente, avevo una tonnellata di cose
da raccontargli. Non avevo voglia di parlarne ma non potevo sottrarmi,
essendo soli in auto.
«È una lunga storia», lo avvertii.
Lui si mise comodo. «Ho ancora qualche ora da ammazzare. Comincia
dall’inizio.»
E così feci. Il povero Rip passò l’ora successiva a scuotere la testa. Per lo
più tacque, limitandosi a qualche «stai scherzando?»; fino alla parte
riguardante la rottura con Layla.
«Non ti ho mai detto perché la mia Laura non mi parla più.»
Laura era la figlia di Rip. Gli lanciai un’occhiata, poi tornai a guardare la
strada. «No. Non me ne hai mai parlato.»
Sapevo perché era stato mandato in prigione: volendo contribuire alle
spese mediche della nipote, aveva usato l’antiquata tipografia per stampare
tessere fasulle della previdenza sociale. Per cento dollari ciascuna, ne aveva
sfornate più di un migliaio, mandando nel frattempo il denaro alla figlia in
forma anonima. Il giorno dell’arresto, lei aveva capito tutto e aveva smesso di
parlargli. Lui non mi aveva mai detto il motivo, e io non avevo insistito.
«La dolce Daniella, che Dio conceda pace alla sua anima, aveva sedici
anni quando il suo cuore ha cominciato a cedere. A diciotto la situazione era
così critica da costringerla a letto. Aveva subìto decine di interventi sin dalla
nascita, senza riuscire a risolvere la situazione. Aveva bisogno di un
trapianto. La maggior parte delle persone pensa che ci sia un’unica grande
lista d’attesa per gli organi. C’è, ma non c’è. Ti registri presso il tuo centro
trapianti. Ma puoi anche registrarti presso più di un centro per cercare di
aumentare le probabilità di ricevere un organo: si chiama registrazione
multipla. Però la compagnia assicurativa paga solo per una serie di analisi,
poi c’è il viaggio, l’albergo e tutto quello che ne consegue per trasferire un
paziente in una struttura diversa. Servono soldi.»
«Non ne avevo idea.»
«Già. Neanch’io. Sapevo che mia figlia non li avrebbe accettati se avesse
saputo come me li ero procurati. Così glieli ho mandati in forma anonima. I
ricchi a volte lo fanno. Gli ospedali li chiamano angeli della salute.»
«Ha usato il denaro?»
Rip abbassò lo sguardo e scosse la testa. «Daniella si era fatta coinvolgere
parecchio dal suo gruppo religioso durante l’ultimo anno di vita. E aveva
stretto diverse amicizie nell’ospedale pediatrico, ragazzini anch’essi in lista
per il trapianto. Non voleva che sua madre prendesse i soldi perché pensava
che il denaro non dovesse avvantaggiare qualcuno a discapito di un altro.
Aveva amici nella stessa lista che non potevano permettersi registrazioni
multiple. Così mia figlia ha finito per donare i soldi al fondo dell’ospedale
per i bambini senza assicurazione.»
«Merda.»
«Già. Laura ha dovuto affrontare la perdita di Daniella da sola, mentre io
ero in prigione per un reato che non avevo bisogno di commettere. Prima o
poi tornerà sui suoi passi, spero. Ma è furiosa che non ne abbia prima parlato
con lei, che non le abbia mai neanche chiesto cosa ne pensava Daniella della
registrazione presso altre liste. Dice che ho preso la decisione al posto suo,
come se sapessi cosa avrebbe voluto lei.» Fece una pausa. «Ti suona
familiare?»
Sospirai. «Capisco il tuo ragionamento. Ma è diverso. Sto cercando di fare
quel che è meglio per Layla.»
«E io stavo cercando di fare ciò che era meglio per Daniella e Laura. Ma
non possiamo decidere cos’è meglio per altri adulti, figliolo. Sono loro a
decidere per se stessi.»
Capivo cosa stava dicendo, davvero. Ma a volte le persone che ami non
fanno ciò che è meglio per sé se questo significa ferire chi hanno a cuore.
«Lascia che ti faccia una domanda. Rifaresti tutto daccapo?»
«Cosa? Mettermi nei guai per salvare mia nipote? Certo. Passerei il resto
della vita in quel buco di merda dal quale mi hai appena prelevato, se questo
le avesse permesso di vivere più a lungo. Ma… stavolta ne parlerei prima con
lei. Magari non le racconterei tutto il piano, ma almeno scoprirei cosa
desidera. Se l’avessi fatto, avrei risparmiato a tutti noi un sacco di dolore.»
Restammo in silenzio per un po’. Rip guardava dal finestrino, perso nei
pensieri e senza dubbio godendosi la ritrovata libertà. Io feci quello che
avevo fatto per una settimana intera: rimuginai sulla decisione di troncare con
Layla.
Arrivati in prossimità della città, Rip disse: «Non sono riuscito a trovare
posto all’ostello del Queens. Erano al completo. Così ne ho preso uno a
quello del Bronx. Puoi lasciarmi ovunque tu stia andando. Prenderò un treno
per raggiungerlo».
Avevo scordato di dire a Rip che avevo già pensato io alla sua
sistemazione. «Ti ho trovato un posto.»
«Grazie. Ma non posso stare da te. Ho bisogno di rimettermi in piedi. Ho
abbastanza denaro per un mese o due.»
«Non ti stavo invitando a vivere da me», lo presi in giro. «Ti ho preso un
posto tutto tuo. Nel Queens. Piano terra di una bifamigliare, non troppo
lontano da dove vivevi. Il primo mese è gratis. Se ti piace, possiamo
organizzarci così: farai dei lavoretti in casa e aiuterai l’altro inquilino di tanto
in tanto in cambio dell’affitto.»
«Sembra troppo bello per essere vero.»
«Ancora non hai conosciuto l’altro inquilino…»
34

Layla
«LAW & Order è molto più interessante», sentenziò Etta. «Senza offesa.»
Risi. «Nessun problema. Al tribunale per le infrazioni stradali non succede
niente di troppo eccitante.»
Il cassiere chiamò «Il prossimo», così Etta e io ci avvicinammo allo
sportello per pagare le sue multe. Il procuratore aveva acconsentito a lasciar
cadere le accuse per guida senza patente se Etta si fosse dichiarata colpevole
di apertura incauta dello sportello e fanale posteriore rotto, entrambe multe
sostanziose ma non infrazioni al codice della strada.
Aveva recitato la parte della vecchietta confusa talmente bene che il
procuratore si era perfino scusato di doverle fare quelle contravvenzioni. Il
giudice, d’altro canto, aveva intuito la farsa di Etta e le aveva fatto una
paternale di venti minuti. Ero certa che il giudice Peterson avesse un paio
d’anni più di Etta. Ma la questione era stata comunque risolta.
Uscendo dal tribunale, ci imbattemmo in Travis Burns, un avvocato che
non vedevo da qualche anno. Ci fermammo a parlare e gli presentai Etta.
«Ti trovo benissimo», mi disse.
«Grazie. Anche tu stai molto bene. Cosa ci fai qui?»
«Il figlio di un cliente VIP è accusato di guida in stato di ebbrezza.»
Guardai Etta e sorrisi. «Anche Etta è una VIP.»
Dopo qualche minuto di chiacchiere, Travis propose: «Vediamoci presto.
Beviamo qualcosa e recuperiamo il tempo perduto».
«Certo. Mi piacerebbe.»
«È una vera bellezza», osservò Etta appena andammo via.
«Travis è simpatico. È anche un buon avvocato.»
«Dannazione, Gray è un idiota.»
Quando ero passata a prenderla quella mattina, Etta mi aveva detto che
Gray era andato a farle visita il giorno prima e le aveva raccontato di noi.
Premettendo che non erano affari suoi, pensava comunque che fosse un
peccato. Avevo pensato che forse ero scampata a una conversazione più
lunga riguardo a ciò che era successo tra Gray e me. Ma, a quanto pareva, la
mia speranza era stata prematura.
Nonostante ritenessi il suo motivo per rompere una stronzata, cercai di
fingermi comprensiva. «Non era il momento giusto», le dissi. «Lui ha
parecchio da fare.»
«Scusa il linguaggio, ma è un’enorme cazzata. Quell’uomo si è bevuto il
cervello. La vita gli ha lanciato una palla difficile. Lo capisco. Ma tu non
smetti di colpire. Stringi più forte la mazza e fai volare la palla fuori dal
campo.»
Scendemmo i gradini del tribunale e ci dirigemmo al parcheggio. Di solito
prendevo il treno per raggiungere il tribunale del Queens, ma avevo voluto
dare un passaggio a Etta, così quel giorno ero in auto.
«Il desiderio di stare con qualcuno deve essere tale da darti la forza di
superare gli ostacoli», dichiarai. «Per Gray non è stato così.»
«È questo che pensi? Che non ti ami abbastanza?» esclamò, bloccandosi.
«Penso sia chiaro dalla sua scelta, Etta.»
Lei scosse la testa. «Cara, sai che conosco quel ragazzo da quando portava
i pannolini. Ha amato tre donne nella sua vita: sua madre, riposi in pace, me e
te. Si è fatto tre anni di prigione per una moglie alla quale teneva, che però
non ha mai amato e ha sposato per caso. Quell’uomo si sacrifica per le
persone della sua vita come non ho mai visto fare a nessun altro. Ecco cos’è
stata la rottura con te, tesoro. Per qualche ragione, si è messo in testa che
restare con te non sia giusto nei tuoi confronti.»
Raggiungemmo il parcheggio, recuperammo la mia auto e ci avviammo da
Etta. Le sue parole continuavano a risuonare nella mia mente. Ero così
sconvolta e furiosa per quello che aveva fatto Gray, che finora non mi ero
soffermata a pensare che forse l’aveva fatto per rendermi libera. Un atto di
altruismo, tipico di Gray, che non mi avrebbe mollata solo perché «era troppo
occupato».
Guidai per tutto il tragitto immersa nei pensieri. Lei doveva aver capito il
mio bisogno di rimuginare su quanto aveva detto, perché me ne lasciò la
possibilità. Entrai nel vialetto proprio mentre un uomo usciva da casa sua.
Sembrava avere all’incirca la sua stessa età e stava portando fuori la
spazzatura in pantofole.
Oh, cavolo, Etta ha un fidanzato.
Sorrisi. «A quanto pare hai più fortuna di me con gli uomini.»
Lei aggrottò la fronte e poi capì cosa avevo pensato. «Quello è Rip»,
spiegò ridendo. «Ha preso in affitto l’appartamento al piano terra.»
«Rip? Come il vecchio compagno di cella di Gray?»
«Il solo e unico.»
Rip salutò con la mano e andò ad aprire lo sportello a Etta.
Tese una mano per aiutarla a scendere e io smontai per congedarmi da lei.
«Rip, questa è…» cominciò Etta.
Lui fece il giro dell’auto e mi catturò in un abbraccio da orso. «So chi sei.
Ho sentito parlare di te ogni giorno per parecchio tempo.»
Sorrisi. Gray mi aveva raccontato la storia di Rip. I due avevano un sacco
in comune: entrambi puniti per ciò che avevano fatto per il bene di altre
persone. «Anch’io ho sentito parlare molto di lei. Gray me l’aveva detto che
l’avrebbero rilasciata presto. Non sapevo che fosse già successo.»
«Già. Bel Faccino è venuto a prendermi qualche giorno fa. E mi ha anche
trovato un bell’appartamento in cui sistemarmi.»
«Oh, bene. Be’, benvenuto a casa.»
Rip disse a Etta che avrebbe strappato le erbacce dal suo giardino, poi mi
abbracciò di nuovo. «È stato bello conoscerti finalmente, Layla. Immagino
che ti rivedrò presto da queste parti.»
Annuii, restia a spiegare che probabilmente non sarebbe stato così.
Appena si fu allontanato, dissi a Etta: «Immagino non sappia».
Lei sorrise. «Oh, sì che lo sa. Abbiamo cenato con Gray l’altra sera.»
Scossi la testa, confusa.
Etta mi prese la mano. «Lascia che ti racconti una piccola storia. Penso di
averti già detto come ci siamo conosciuti io e mio marito – ci scontrammo
nella hall del Plaza – e di come gli diedi il benservito quando scoprii che
mentiva. Be’, era un uomo, perciò, ovviamente, non fu l’unica volta che
mandò tutto a rotoli.
«Nel 1967, Henry fu arruolato nella guerra del Vietnam. Qualche
settimana prima della partenza ruppe con me, dicendo che si era innamorato
di un’altra e che non mi amava più. Avevo il cuore a pezzi. Impiegai un anno
prima di cominciare a voltare pagina. All’epoca, le donne erano vecchie
zitelle se a venticinque anni si ritrovavano ancora nubili, e mia madre aveva
iniziato a farmi pressioni perché tornassi di nuovo sul mercato. Alla fine
conobbi Fred.» Etta abbassò lo sguardo e sorrise come se il ricordo le
suscitasse un moto di affetto. «Fred era un uomo meraviglioso. Mi trattava da
regina e mi faceva sorridere in un momento in cui non avrei voluto farlo. Lo
adoravo… Ma non l’ho mai amato come avevo amato Henry.»
«Ma ha sposato Henry, non Fred, giusto?»
Etta annuì. «Due anni dopo l’inizio della nostra storia, Fred mi invitò a
cena in un ristorante elegante per il mio compleanno. Avevo la sensazione
che mi avrebbe chiesto di sposarlo. Sapevo che sarebbe stato un marito
fantastico. Ma non mi sembrava giusto accettare, perché non amavo Fred
come avevo amato Henry.»
«Fred le ha chiesto di sposarlo?»
«Non ne ebbe la possibilità. La sera prima del mio compleanno andai al
Plaza Hotel. Il padre di Henry faceva il portiere lì e io ci andavo a pranzo
quando mia nonna era in città. Avevo sempre pensato che fosse un posto
magico. Solo stare nella hall mi dava la pelle d’oca… era così bello. Così mi
agghindai come se avessi un appuntamento e andai a sedermi nella hall,
pensando a cosa avrei fatto se, l’indomani sera, Fred mi avesse chiesto di
sposarlo. In quella hall decisi che non potevo accettare, per quanto fosse un
ottimo partito. Significava accontentarmi di Fred e nessuno dei due lo
meritava. Dopo qualche ora pensai di tornare a casa. Ma sai cosa successe?»
«Cosa?»
«Uscii dall’albergo nel preciso istante in cui un certo uomo in divisa stava
entrando.»
Sgranai gli occhi. «Henry stava entrando mentre lei usciva?»
«Puoi scommetterci. Era stato congedato ed era tornato a casa proprio quel
giorno. Suo padre non faceva più il portiere. Le ginocchia non lo sostenevano
più, così era diventato addetto all’ascensore dell’hotel. Passava le sere seduto
su una sedia, perciò non l’avevo visto, e Henry era venuto a trovarlo.»
«Wow. Incredibile.»
«Altroché. Una città con otto milioni di persone e tutti e due ci trovavamo
nello stesso posto in quello stesso momento. Henry mi chiese cosa ci facessi
lì. E gli spiegai che ero venuta a riflettere su un uomo che frequentavo da un
po’. Salterò la parte in cui lo feci strisciare ai miei piedi, limitandomi a dirti
che scoprii che Henry aveva rotto con me perché stava andando in guerra e
non voleva che sprecassi anni ad aspettarlo, non sapendo cosa avrebbe potuto
offrirmi se e quando fosse tornato a casa. All’epoca gli uomini non tornavano
subito o, peggio, non tornavano affatto.»
«Quindi ha sposato Henry.»
«Alla fine, sì. Lo perdonai perché aveva a cuore il mio bene, nonostante
avesse agito da idiota prendendo quella decisione per entrambi. La settimana
prossima sarebbero stati quarantacinque anni. Non potevamo permetterci di
sposarci al Plaza, naturalmente. Ma ci concedevamo un drink lì ogni anno il
giorno del nostro anniversario.»
Sorrisi. «Grazie per aver condiviso la tua storia con me, Etta. Ma la
situazione con Gray non è la stessa, anche se so dove vuole andare a parare.»
«Spero davvero che si risolva per voi due, perché una volta provato il vero
amore, tutto il resto sembra un ripiego e nessuno dovrebbe mai accontentarsi
in fatto di amore.» Mi strinse la mano. «Grazie per oggi, tesoro.»
«Si riguardi, Etta. Ha il mio numero se mai avesse bisogno di qualcosa.»
35

Gray
TUTTO finalmente cominciava ad appianarsi, anche se la tranquillità non
faceva che rendermi più infelice. Max era tornata a casa dall’ospedale quel
giorno, Ella e io avevamo stabilito una routine e due dei primi investimenti
della mia società stavano andando benissimo.
Certo, era solo una parentesi temporanea nelle acque placide, perché, il
giorno che Max se ne fosse andata, i cavalloni sarebbero tornati. Avevo fatto
un giro di prova nella paternità, che, tuttavia, non aveva previsto la morte
dell’unico genitore che mia figlia avesse mai conosciuto. A un certo punto,
sarei diventato il sostituto ventiquattro ore su ventiquattro.
Ma, per ora, la falsa sicurezza indotta dall’esperienza senza grossi
scossoni mi aveva fatto riflettere su come mi ero comportato con Layla. Ci
avevo ripensato almeno mille volte. Avevo dato per scontato che Ella fosse
un peso per lei; ma la verità era che, man mano che conoscevo mia figlia e
capivo come muovermi, avevo iniziato a chiedermi se magari, a poco a poco,
anche per Layla non sarebbe stata più un peso.
Ella era un dono. Certo, mi aspettavano un sacco di momenti difficili. Ma
il giorno prima avevamo trascorso tutto il tempo insieme e, in qualche modo,
il mio piccolo angelo aveva tenuto a bada l’infelicità dentro di me. Quel
giorno ero da solo e avevo una voglia tremenda di uccidere qualcuno. Non
avevo preso in considerazione l’idea che mia figlia potesse rendere migliore
la mia vita, rendere migliori la mia e la vita di Layla.
Quella sera non ero in vena di compagnia, ma Etta mi aveva invitato a
cena con lei e Rip tre volte nell’ultima settimana. Non volevo mancare loro di
rispetto.
Entrai con la mia chiave e mi fermai sulle scale, sentendoli parlare.
«Lei è un vero schianto», dichiarò Rip. «Probabilmente ha la fila di
uomini sotto casa in attesa di portarla fuori, adesso che è di nuovo sul
mercato.»
«È anche in gamba. Nessuna delle altre donne in tribunale era come lei.
Quell’uomo era molto attraente. Aveva un bel portamento. Non c’è niente di
meglio di un uomo con un bel portamento.»
Feci i gradini due alla volta. «A giudicare dalle parole in gamba, uno
schianto e tribunale, mi sono fatto un’idea precisa di chi state parlando voi
due. Ma mi piacerebbe sapere chi è lo stronzo con il bel portamento.»
Etta e Rip si guardarono come se fossero stati beccati nel bel mezzo di una
rapina. Con gli occhi sgranati, Etta cercò di cambiare subito argomento.
«Zippy.» Venne da me e mi baciò sulla guancia, mentre me ne stavo lì
rigido, aspettando una risposta. «Sono così felice che noi tre abbiamo
finalmente trovato il tempo per un’altra cena insieme.»
Strinsi la mano al mio amico, fissandolo negli occhi. «Che succede, Rip?»
Lui guardò Etta e, con fare mortificato, alzò le spalle prima di
rispondermi. «Etta è andata in tribunale con la tua ragazza la settimana
scorsa. Un tizio ha cercato di recuperare il tempo perduto con lei nell’atrio
del tribunale, le ha chiesto di uscire a bere qualcosa.»
Strinsi così forte i denti da provocarmi un immediato mal di testa. «Chi?»
«Non ricordo il nome», rispose Etta. «Ma era un bell’uomo. Sembrava
fossero amici. È un avvocato.»
«E lei ha accettato di uscire con lui?»
«È rimasta sul vago in tribunale.»
I muscoli delle spalle si allentarono impercettibilmente. Ma poi, una strana
comunicazione silenziosa si instaurò fra Etta e Rip.
«Cosa?»
«Niente.» Etta indicò la cucina. «Credo che il pane stia bruciando.»
Dopo che lei si fu precipitata di là, guardai di nuovo Rip. «Cos’altro c’è
che mi state nascondendo?»
Lui cacciò un grosso respiro. «Etta ha ricevuto via mail un rendiconto da
parte dello studio della ragazza. La parcella era azzerata. Layla si è occupata
del caso pro bono. Etta ha chiamato l’ufficio per farsi mandare un vero conto
e quando Layla si è rifiutata, Etta le ha detto che avrebbe voluto almeno
invitarla a cena per ringraziarla.»
«Okay. E allora?»
Rip si accigliò. «Layla aveva impegni… col tizio del tribunale, a quanto
pare. Un vero spendaccione. La porta a cena al Plaza domani sera.»
La sensazione di infelicità che avevo provato tutto il giorno crebbe
all’improvviso in ogni parte del mio corpo. La testa prese a pulsarmi, lo
stomaco si annodò e fu come se un elefante mi si fosse seduto sul petto,
impedendomi di respirare. Andai in cucina, agguantai l’alcol che Etta teneva
nella credenza e mi riempii un mezzo bicchiere. L’impulso di schiacciarlo
nella mano fu travolgente.
Rip si sedette in soggiorno. «Mi dispiace, Gray. Non volevo essere io a
dirtelo.»
Bevvi il liquido amaro in un sorso solo, sperando che mi aiutasse a
calmarmi, che mi annebbiasse la mente.
«So che merita una bella vita. Solo, odio non poter essere io a dargliela. Il
pensiero di lei con un altro mi fa venir voglia di fracassare la testa di ogni
fottuto avvocato.»
Il mio amico ridacchiò. «Be’, non sarebbe necessariamente una cosa
negativa.» Scosse la testa. «Fottuti avvocati. Senza offesa per la tua signora.»
«Come hai fatto ad andare avanti quando sei rimasto solo?» Ormai la
moglie di Rip non c’era più da quattro o cinque anni. «Diventa più facile con
il tempo?»
«Hai passato un solo giorno senza sentire il nome della mia Eileen mentre
eravamo dentro?»
Ci pensai. Ero sicuro di saperne più sul conto di Eileen che di Rip. Mi
presi la testa tra le mani. «Cazzo.»
Lui si protese per togliermi il bicchiere dalla mano e ne vuotò il contenuto.
«Dillo a me.»
Fui di pessima compagnia durante e dopo la cena. Il giorno dopo avrei
dovuto mandare dei fiori a Etta per rimediare. Per lo meno, lei e Rip
sembravano andare d’accordo. I due erano parecchio divertenti insieme. Tra
l’umore nero e l’alcol che avevo bevuto, me ne andai che mi sentivo pronto
per il letto.
Tenni il capo contro il poggiatesta e gli occhi chiusi per tutto il tragitto
fino a casa. Certo, non mi aspettavo che Layla restasse casta. Ma quanto era
passato? Due settimane, cazzo, e lei stava già voltando pagina? E il Plaza
Hotel? Quello stronzo doveva aver preso anche una camera per la notte.
Conoscevo quella mossa. Una bella cena, un paio di drink – sei stupenda
stasera… e, ehi, la mia camera è di sopra.
Cazzo.
L’auto si fermò e aprii gli occhi per vedere dov’eravamo. Dovetti battere
le palpebre più volte per essere certo di non avere una visione. Ci eravamo
fermati nel traffico proprio davanti al Plaza. Lo stesso dannato posto in cui la
donna che amavo sarebbe venuta a un appuntamento l’indomani sera.

Il mattino seguente mi svegliai con i denti ancora serrati, un tremendo mal


di testa e i palmi sudati. La sensazione di sventura imminente mi ricordava
come mi ero sentito il giorno prima di iniziare a scontare la dannata condanna
in prigione. Ma il pensiero di Layla che voltava pagina avrebbe avuto
conseguenze di ben più lunga durata. Quella perdita non sarebbe stata
questione di anni: quando incontri l’amore della tua vita, e lo perdi, cosa ti
resta? Solo la vita senza amore. Prima di conoscere Layla, non mi ero
neanche reso conto che mi mancava qualcosa. Eppure adesso, senza di lei, mi
sentivo del tutto incompleto.
Ero già stato preso dalla gelosia in passato, ma era scaturita da un posto
diverso: il mostro dagli occhi verdi che tirava su la sua brutta testa era
un’arcaica sorta di possessività derivante da roba ormonale, da maschio alfa,
nata dall’immaturità. Ciò che provavo adesso era invece totalmente diverso.
Certo, volevo pestare a sangue il tizio con cui Layla aveva in programma di
uscire quella sera. Ma provavo anche altre emozioni che erano nuove per me:
paura, dolore, perdita. Per quanto sembrasse folle, probabilmente non era poi
così diverso dall’essere alle prese con la morte di una persona cara.
Per fortuna, avevo altri motivi per trascinare le chiappe fuori dal letto.
Altrimenti sarei rimasto lì tutto il giorno, crogiolandomi nei miei pensieri da
rammolito, anche se avevo troppa paura per dare loro seguito. C’erano
responsabilità che avevano la precedenza sull’autocommiserazione. Mia
figlia mi aspettava.
Arrivai a casa di Max ed Ella un po’ in anticipo. Paula era già lì e stava
aiutando la piccola a vestirsi: fuschia, perché era venerdì.
«Come ti senti?»
In qualche modo, mi ero rassegnato ad avere un rapporto civile con Max.
Anche se non avrei mai capito le cose terribili che mi aveva fatto, né
probabilmente l’avrei mai perdonata, durante il ricovero in ospedale mi ero
reso conto che non aveva nessuno. E l’umanità mi impediva di torturarla
durante quel poco tempo che le restava.
«Bene. Debole, ma felice di essere a casa.»
Ficcai le mani in tasca e annuii.
«Come vanno le cose fra te ed Ella?» chiese. «Non ha smesso di parlare di
te dal giorno in cui sono tornata a casa.»
«È una bambina fantastica.» Feci una pausa e pensai di non dirle ciò che
avevo sulla punta della lingua. Ma poi ritenni che forse avrebbe offerto a
Max un po’ di pace. «L’hai cresciuta benissimo. È intelligente, felice, educata
e molto posata per essere una bimba la cui madre entra ed esce
dall’ospedale.»
Max sorrise. «Grazie. Rimpiango un sacco di cose nella mia vita. Ma più
di tutte che tu abbia perso anni con lei per via delle mie azioni. Lei si merita
te. E tu meriti lei. Il tempo è un dono e spero che tu abbia tanti anni con lei,
Gray. Dico sul serio.»
«Grazie.»
Tirò un respiro profondo. «Penso che dovremmo dirglielo.»
I miei occhi balenarono sui suoi.
«Non mi resta molto e sapere che ha un altro genitore, che non è sola al
mondo, potrebbe renderle la mia perdita più facile.»
Mi feci prendere dall’agitazione. «Pensi che sia pronta per questo?»
«Sì.»
«E va bene, allora. Quando vuoi.»
Il sorriso di Max fu triste. «Il tempo non è qualcosa che posso permettermi
di sprecare. Non rimandare a domani quello che puoi fare oggi ormai è il mio
mantra.»
Ella entrò di corsa nella stanza e io mi inginocchiai per acchiapparla. Dio,
avevo bisogno di quell’abbraccio, bambina bellissima. La strinsi tanto forte
quanto lei strinse me. Le sue piccole braccia non riuscivano a chiudersi
attorno a me e sperai che avrebbe continuato ad abbracciarmi così anche una
volta cresciuta.
«Possiamo andare a cercare di nuovo Stuart oggi?»
Vidi l’espressione perplessa di Max e spiegai: «Central Park. L’ho portata
al lago dove hanno girato Stuart Little». Guardai Ella. «Perché non passiamo
a prendere Lentiggini? Sono certo che gli piacerebbe venire al parco.»
Lei si mise a saltellare. «Sì! Sì! Sì!»
Max si chinò. «Tesoro, prima di andare, c’è una cosa di cui Gray e io
vorremmo parlarti.»
Guardò sua madre e, a gesti, disse un sacco di cose che non capii.
Max rise. «Sì. Devi drizzare le antenne.»
Paula parve capire che avevamo bisogno di stare da soli. «Ho detto alla tua
mamma che tornerò stasera per aiutarvi con la cena e il bagnetto», informò
Ella. «Ci vediamo più tardi, piccolina. Non vedo l’ora che mi racconti del
parco.» La baciò sulla testa e salutò Max e me.
«Perché non andiamo in soggiorno?» propose Max.
Il cuore cominciò a battere all’impazzata. E se la scoperta l’avesse delusa?
E se avesse pensato che avevo sempre saputo che lei era mia figlia e avevo
scelto di non essere presente? Come diavolo dire a una bambina che l’uomo
appena conosciuto era suo padre? Speravo con tutto me stesso che sua madre
avesse un piano, perché io non l’avevo di certo.
Max ed Ella si sedettero insieme sul divano. Io occupai la poltrona di
fronte a loro. Max mi guardò, cercando la mia approvazione per cominciare.
Solo che, invece di offrirle una conferma, dovetti ricordarle un alce accecato
dai fari di un’auto.
«Andrà tutto bene», mormorò prima di voltarsi a guardare nostra figlia.
«Ella, ricordi quando ti ho detto che eri intelligente come il tuo papà?»
Ella si indicò la testa. «Ho preso il cervello da papà.»
Max sorrise. «Proprio così. Be’, ho una notizia per te.»
Trattenni il fiato.
La piccola espresse qualcosa con le mani che fece ridere la madre. Avevo
assoluto bisogno di imparare alla svelta il linguaggio dei segni.
«Non credo che Gray abbia capito, Ella. Diglielo con le parole e le mani.»
Lei procedette con calma, mostrandomi ogni parola a gesti. «Gray.» Poi
fece un movimento circolare. «Intelligente.» Si batté la fronte con un dito e
poi alzò la mano, rivolgendomi il palmo.
Fissai Max scioccato. Sta chiedendo quello che penso?
Vedendo la mia espressione, Max rise. «Ella, stai dicendo che Gray è
intelligente come tuo padre perché vuoi che lui sia il tuo papà?»
La bambina sorrise e si coprì la faccia con le mani, come per timidezza.
Allargò due dita per scoprire un occhio e mi guardò, annuendo.
Deglutii più volte per ricacciare indietro un’ondata di lacrime inaspettate.
«Vieni qui, tu.» Agganciandole un braccio attorno alla vita, la sollevai e me
la issai in grembo. Le scostai le mani dal viso e sorrisi.
«Sono felice che tu lo voglia, Ella. Perché io sono il tuo papà. Mi dispiace
non esserci stato quando eri piccola, ma prometto che, d’ora in poi, ci sarò
sempre.»
Lei mi fissò, poi guardò sua madre per una sorta di conferma. Max annuì.
«Posso chiamarti…»
Alzò la mano, stese le dita e si batté il pollice sulla fronte due volte. Mi
ricordò un tacchino. Ero pessimo con il linguaggio dei segni, ma mi ero
imbattuto nella parola papà quella prima notte in cui avevo cercato di
impararlo su internet. Mi era rimasta impressa.
«Ne sarei onorato se tu mi chiamassi…» Mimai il segno e aggiunsi la
parola con la voce rotta. «Papà.»
Il suo sorriso mi fece venire un groppo in gola. Ma poi si portò l’indice
alle labbra, come se stesse riflettendo su qualcosa. Lanciai un’occhiata a
Max, che alzò le spalle, e aspettammo.
«Significa che verrò a vivere con te e non starò più con la mamma?»
Scossi la testa, poi mi resi conto che presto sarebbe stato così. Non volevo
che la mia prima azione da padre ufficiale fosse una bugia. Guardai Max e le
chiesi con gli occhi: Cosa le rispondo?
Max prese la mano di nostra figlia. «Hai due posti che puoi chiamare casa.
Uno con mamma e uno con papà. E questa è una cosa fantastica, perché se
uno dei due dovesse mai… andare via… tu avrai sempre un posto che puoi
considerare casa.»
Ella si rivolse a me. «Te ne andrai di nuovo?»
«Niente al mondo potrebbe farmi andare via da te, adesso che posso essere
il tuo papà.»
Ella sorrise. «Va bene.»
«E sai un’altra cosa?» continuai.
«Cosa?»
«Hai presente la stanza in cui hai dormito a casa mia?»
Annuì.
«D’ora in poi, quella sarà la tua camera. Perciò avrai sempre un posto da
chiamare casa tutte le volte che siamo insieme. E sai che c’è? Puoi scegliere
di che colore dipingerla e compreremo delle decorazioni, così la sentirai tua.»
Ella sgranò gli occhi. «Posso dipingerla del mio colore preferito?»
«Possiamo dipingerla come vuoi.»
Sorrise. «Il mio colore preferito è arcobaleno, come Layla.»
36

Gray
IL giorno trascorse come ogni altra giornata con Ella. Ci fermammo a
prendere Lentiggini, che si portò dietro la vecchia scarpa fino a Central Park,
e poi tutti e tre passammo il pomeriggio a guardare i modellini di barche.
Mentre Ella cercava Stuart Little, io rimuginai ossessivamente
sull’appuntamento serale di Layla, ricordando il bel pomeriggio trascorso qui
insieme.
Ella e io comprammo perfino il gelato allo stesso chiosco e ci sedemmo
sulla stessa panchina dove avevamo mangiato l’altra volta. Questo fece sì che
anche Ella pensasse a Layla.
Leccò il cono mentre il cioccolato le colava sulle dita dall’altro lato. «La
prossima volta, può venire anche Layla con noi al parco?»
Non pensavo di doverle spiegare che avevamo rotto. Quel giorno c’era già
stato un sovraccarico di informazioni. «Non lo so, tesoro.»
Lei continuò a leccare il gelato. «Tu e mamma siete sposati?»
Il gelato mi andò di traverso e tossii. «No, la mamma e io non siamo più
sposati.»
«Quindi questo significa che puoi sposare Layla?»
Magari. «Significa che posso risposarmi. E lo stesso vale per tua madre,
tecnicamente.»
«Che significa tec-cli-camente?»
«Significa che potrebbe succedere, ma non per forza andrà così.»
Girò la testa, si osservò le dita coperte di gelato sciolto e cominciò a
leccarsele.
«Come trovare Stuart Little qui.»
Ridacchiai. «Immagino di sì.»
«Perché le persone si sposano?»
Bella domanda. Sono anni che mi sforzo di capire perché ho sposato tua
madre.
«Si sposano perché si amano.»
«Tu ami Layla?»
Merda.
Be’, per lo meno quella era una domanda alla quale potevo rispondere con
sincerità. «Sì, tesoro. Amo Layla.»
Dopo, Ella rimase a lungo taciturna. Mi voltai a guardarla un mucchio di
volte mentre leccava il cono in silenzio, sapendo solo che le rotelle nella sua
testolina stavano girando veloci.
«Com’è l’amore?»
Gesù, faceva domande difficili. «Ti fa sentire in grado di fare qualsiasi
cosa al mondo per rendere felice la persona che ami. Ti rende felice e ti fa
sentire caldo dentro.»
«Il mio gelato mi sta facendo sentire freddo dentro. Ma io amo il gelato»,
rispose ridendo.
Finì il cono e comprai dell’acqua per inumidire i fazzoletti con cui pulirle
le mani, anche se Lentiggini sembrava più che disposto a farlo al posto mio.
Pensavo che la nostra chiacchierata fosse finita.
«Io ti faccio sentire felice e caldo dentro?» mi chiese.
Mi si gonfiò il cuore. «Sì. E farei qualsiasi cosa al mondo per renderti
felice.»
Lei mi rivolse quel sorriso pieno di denti. «Questo significa che mi ami.»
Sfregai il naso contro il suo. «Certo che sì. Ti amo moltissimo, tesoro.»
La sua espressione si fece seria. «Resterai?»
«Resterò per sempre, Ella.»

---

Continuai a pensare alla conversazione con mia figlia anche ore dopo averla
riportata a casa. Ero stato sincero in ogni parola che le avevo detto. La amavo
e avrei fatto qualsiasi cosa al mondo per renderla felice. Un mese prima, se
qualcuno mi avesse chiesto se volevo dei figli, probabilmente avrei risposto
di no. Le esperienze vissute mi avevano provocato un’avversione per la vita
famigliare. Avevo creduto di conoscere la strada che volevo percorrere.
Eppure, adesso non mi ero limitato ad accettare che quello fosse il mio
destino: volevo Ella nella mia vita. A volte, le cose più inattese deviano il
nostro corso e ci rendiamo conto che neanche sapevamo dove stessimo
andando.
Il che mi fece pensare… Se, poco tempo prima, non avevo desiderato una
famiglia e ora non riuscivo a immaginare la mia vita senza Ella, non era
possibile che anche per Layla le cose fossero cambiate? L’amore cambia
tutto.
Se Ella non mi avesse voluto come padre, non avrei lottato per il suo
amore? Non era ciò che, in pratica, le avevo detto quel giorno?
Com’è l’amore?
Ti fa sentire in grado di fare qualsiasi cosa al mondo per rendere felice la
persona che ami.
Come potevo decidere cosa avrebbe reso felice Layla se, un mese prima,
neanche sapevo cosa avrebbe reso felice me?
Cazzo.
Avevo mandato tutto all’aria. Alla grande. Di nuovo.
Layla poteva anche non voler stare con me, ma Rip, Etta, tutti quanti
avevano ragione: non era una scelta che spettava a me. Era una sua scelta.
Presi il cellulare e controllai l’ora sul display. Le sette e un quarto.
Scorrendo la rubrica con le mani tremanti, mi alzai e presi chiavi e portafogli.
Trovai il numero che mi serviva e premetti CHIAMA .
«Etta, a che ora è l’appuntamento di Layla?»
37

Gray
TRAFFICO . Saltai fuori dal taxi due isolati prima del Plaza e lanciai cinquanta
dollari al conducente. Faccio prima a piedi. Il che è ciò che cominciai a fare,
finché la camminata non si trasformò in corsa e la corsa in un dannato scatto.
Il portiere dell’hotel non sapeva se alzare una mano per fermarmi o aprire
la porta.
«Dov’è il ristorante?» domandai.
«Quale, signore?»
Merda. «Tutti quanti.»
Iniziai da quello al pianterreno. Il Palm Court era gremito di persone, ma
nessuna era Layla. Poi raggiunsi lo Champagne Bar, ma niente anche lì.
Aspettai l’ascensore per salire al Rose Club, ma mi feci prendere
dall’impazienza e andai in cerca delle scale. Facendo i gradini due alla volta,
salii e passai oltre il maître che cercava di aiutarmi.
Nessun segno di lei al bar.
Mi diressi a una scalinata interna, che conduceva a un ambiente arredato
come un enorme soggiorno. Scrutando l’ampia stanza, stavo per dirigermi
all’obiettivo successivo quando vidi la testa di una donna spuntare da sopra
l’alto schienale di una sedia rossa, in un angolo appartato della sala. Era
seduta da sola.
Il mio cuore prese a battere fuori controllo. Doveva essere lei. Mentre mi
avvicinavo, mi resi conto di non avere la più pallida idea di cosa avrei detto.
Facendomi strada tra gli arredi, scorsi un paio di gambe. Stupende, sexy,
spettacolari. Le avrei riconosciute ovunque.
Mi fermai dietro la sua sedia e feci qualche respiro profondo prima di
avvicinarmi.
Layla teneva la testa china e stava mandando un sms. Impiegò qualche
istante ad accorgersi che c’era qualcuno di fronte a lei. Allora alzò lo
sguardo, rimanendo interdetta.
«Gray? Cosa ci fai qui?»
«Ho bisogno di parlarti.»
La sorpresa sul suo volto si tramutò in rabbia. «Qui? Adesso? Non
sembravi troppo interessato quando ero io a voler parlare con te.» Si alzò e
incrociò le braccia sul petto. «Prendi un appuntamento con la mia segretaria
lunedì.»
«No.»
«No?» ripeté allibita.
«Non può aspettare.»
Si alzò e venne verso di me. Il fuoco nei suoi occhi avrebbe dovuto farmi
indietreggiare, invece mi eccitò. Mi ricordò la prima volta che ci eravamo
incontrati. I suoi modi spicci mi avevano attratto prima ancora di notare
quanto fossero perfette le sue labbra. Quella era stata la nostra caratteristica:
sincerità senza giri di parole.
Si mise le mani sui fianchi. «Ne hai di faccia tosta, lo sai? Mi scarichi, mi
cancelli come se non fossi mai esistita, poi ti presenti qui mentre aspetto di
cenare e pretendi che molli tutto per parlare con te?»
«Non parlare. Ascolta e basta.»
Il fuoco nei suoi occhi divampò. Aprì la bocca per dire qualcosa, poi la
chiuse e alzò il braccio per guardare l’ora. «Hai un minuto.»
Non potei più resistere all’impulso di toccarla. Le presi il viso tra le mani.
Lei non si sottrasse e pensai che fosse un buon segno.
«Ho combinato un casino. Lo so. Ho messo fine alla nostra relazione
perché pensavo fosse meglio per te. Oggi mi sono reso conto che non sapevo
neanche cosa fosse meglio per me, perciò come diavolo avrei potuto sapere
cosa lo fosse per te?»
La sua espressione si addolcì.
«So che non vuoi figli. Un mese fa avrei detto la stessa cosa. Veniamo
entrambi da famiglie incasinate. Ma a volte arriva l’inatteso e ci fa capire che
non abbiamo mai saputo davvero cosa volevamo.»
«Tu non mi hai mai nemmeno chiesto se volessi dei figli.»
Avevo dimenticato che non sapeva che avevo letto la sua lista. Chinai il
capo. «Mentre cercavo i menu da asporto, tu eri sotto la doccia. Ho visto
quello che hai scritto.»
Mi guardò diffidente. «Quello che ho scritto? Di cosa stai parlando?»
Avevo memorizzato la dannata pagina a furia di ripetermela nella mente.
«Non sarò mai la sua priorità… Finirò per farmi di nuovo male… Mai voluto
davvero dei figli… Merito di più.» La guardai e annuii. «Lo so che meriti di
più. Meriti esattamente ciò che vuoi. Ma forse c’è una possibilità che ciò che
vuoi possa cambiare.»
Gli occhi di Layla parvero perdere concentrazione per un momento, come
se stessero cercando qualcosa. Poi capì.
«Hai letto uno dei miei quaderni?»
«Non l’ho fatto di proposito, ma… sì, l’ho fatto.»
«Ed è per questo che hai rotto con me? Per via della lista?»
«Avrei dovuto parlartene.»
«Già. Avresti dovuto. E sai perché?»
«Perché non avevo il diritto di fare una scelta al posto tuo.»
«Questo è vero. Ma mi avrebbe anche dato modo di spiegarti che la lista
che hai letto non riguardava te.»
«Cosa?»
«Proprio così. Mi piacerebbe avere figli un giorno. Se me lo avessi
chiesto, te lo avrei detto. Quella che hai letto era una lista che ho fatto
probabilmente quindici anni fa, per capire se fosse il caso di perdonare mio
padre.»
La fissai incredulo.
Enumerò sulle dita le voci della lista. «Non sarò mai la sua priorità. Finirò
per farmi di nuovo male. Mai voluto davvero figli. Merito di più. Credo di
averla scritta il giorno che non si presentò alla cerimonia del diploma, mentre
aveva promesso di esserci. Se ben ricordo, c’è scritto anche Non è affidabile.
Perché non lo era. Mai.»
Mi passai una mano tra i capelli. «Gesù Cristo. Dici sul serio?»
«E basandoti solo su questo, te ne sei andato via da me. Senza lottare?»
«Max ha detto che quando vi siete parlate…»
Layla alzò una mano. «Non azzardarti a finire questa frase.»
Merda.
Controllò di nuovo l’ora. «Cinque secondi. C’è altro?»
Merda.
Adesso o mai più. Mi mancava tutto di questa donna. Dal suo profumo
all’atteggiamento, alla sensazione di calore che sentivo nel petto adesso che
ero di nuovo vicino a lei. Abbassai lo sguardo sul suo naso e mi accorsi che
non aveva coperto le lentiggini. Ciò mi diede il coraggio che mi serviva per
mettere in gioco il mio cuore.
«Ti amo. Non sono mai stato così sicuro di qualcosa in tutta la mia vita. Ti
amo, cazzo, Layla. Siamo destinati a stare insieme. L’abbiamo saputo sin da
quel primo giorno. Amarti è come respirare: non riesco a smettere.»
Le sue labbra serrate si incurvarono verso l’alto, poi si abbassarono di
nuovo. «Mi hai fatto del male, Gray. Due volte. Non posso affrontarlo di
nuovo.»
«Lo so. E se mi concederai un’altra chance, prometto che mi farò
perdonare. Non dubiterò più di quello che c’è tra noi. Non posso. Perché
voglio invecchiare con te, Lentiggini. Entrambi siamo cresciuti guardando le
relazioni dei nostri genitori e decisi a non ripetere quanto abbiamo visto. Ella
vorrà crescere desiderando di avere la relazione che vede tra noi. Possiamo
rompere il circolo vizioso e fare le cose bene.»
Gli occhi le si riempirono di lacrime. «Ho paura, Gray.»
«Mi ami?»
Layla annuì. «Non riuscivo a voltare pagina dopo la prima volta che
abbiamo rotto, perché non sapevo come fare. Non lo so ancora.»
«Allora non farlo, piccola. Resisti. E io farò lo stesso.» Catturai con il
pollice una lacrima.
«Mi manca Ella», ammise.
In quel momento fui io ad avere un groppo in gola. A parte sentirle dire
che mi amava, la cosa che più mi rendeva felice era sentirle dire che amava
anche mia figlia.
«Vuole dipingere la sua stanza in casa mia con i colori dell’arcobaleno.»
Layla sorrise. «Possiamo farlo. Da piccola, ho sempre voluto pareti
bianche con sopra dipinto un grande arcobaleno.»
Disse «possiamo». Le sfiorai le labbra con le mie. Non mi fermò, così
continuai. Le leccai le labbra, esortandola ad aprirle per me, e lei gemette
nella mia bocca. Il bacio fu più appassionato di qualsiasi cosa avessimo
condiviso. Una scarica di emozione repressa si sprigionò tra noi, al punto che
fu impossibile non sentirla ardere. La avvolsi tra le braccia e la attirai a me.
L’odore del suo profumo e il sapore del suo dolce bacio mi fecero perdere la
cognizione di dove mi trovavo. Quando la sollevai in aria, perché mi
avvolgesse le gambe attorno alla vita e potessi spingerla contro la parete più
vicina, Layla tornò in sé.
«Gray…»
«Mmm…» Le tirai i capelli e cominciai a esplorarle il collo con la bocca.
«Siamo in un luogo pubblico.»
Le mordicchiai l’orecchio. «Bagno. Dov’è il bagno più vicino?»
Lei ridacchiò. Fu un suono più bello di qualsiasi melodia. «Non penso che
dovremmo andare in un bagno. Ma… siamo in un albergo.»
«Cazzo, sì.» A malincuore la lasciai andare, ma solo per precipitarmi
insieme a lei fuori dalla sala e verso la reception. Fu praticamente costretta a
correre sui tacchi per starmi dietro.
Grazie a Dio, l’albergo aveva una stanza.
Una volta in ascensore, finalmente potei schiacciarla contro la parete. Le
afferrai le natiche e le guidai le gambe attorno alla mia vita, fregandocene
entrambi del fatto che indossasse un vestito. Poi le succhiai la clavicola e le
dissi tutte le cose che non vedevo l’ora di farle.
«Non vedo l’ora di venire dentro di te. Non me ne frega un cazzo se è
primitivo e sciovinista. Voglio marcare ogni parte del tuo corpo come mia. Ti
lascerò i segni dei denti sulle gambe prima di succhiarti la figa e farti venire
nella mia bocca. Voglio venire nella tua dolce passera e poi nella tua bocca.
Poi ti piegherò sul letto e ti scoperò il culo con le dita finché non implorerai
di avere anche il mio uccello lì dentro.»
«Dio, Gray!»
Le porte si aprirono e una coppia esterrefatta ci costrinse a separarci. Per
fortuna era il nostro piano.
L’unica pausa fu per entrare barcollanti in camera come adolescenti
arrapati. E questo fu solo perché non riuscivo a decidere da dove volevo
cominciare a scoparla: contro la porta, sulla costosa scrivania nell’angolo o
sul soffice letto king size. D’altro canto, il bracciolo del divano sembrava
perfetto per piegarla… Letto. Il letto deve essere il primo.
In qualche modo riuscii a spogliare entrambi mantenendo le lingue
intrecciate. Tirai indietro la testa per guardarla nuda. I capelli scuri erano
sparsi sulle lenzuola bianche e il corpo naturalmente abbronzato aveva una
patina di sudore che avrei voluto leccarle dalla testa ai piedi. Ma la sua
bellezza mi tenne lì fermo a guardarla.
«Sei…» Ero davvero senza parole. «Vorrei dire bellissima, ma non mi
sembra abbastanza. Sei… l’amore della mia vita.»
Lei mi tese una mano. Ne baciai il dorso e il palmo, poi intrecciammo le
dita e salii sopra di lei. Spingendo le nostre mani unite sopra la sua testa,
allineai il pene alla sua fessura bagnata. Sfregando su e giù, la sensazione di
quel calore umido bastò quasi a farmi venire.
Le presi la bocca in un bacio appena spinsi dentro di lei. Mi tremarono le
braccia mentre mi tenevo forte. «Ti amo, Layla.»
«Ti amo anch’io, Gray.» Sorrise e avvolse le gambe attorno ai miei
fianchi.
Avrei voluto restare fermo, dirle ancora cosa provavo per lei, ma il
bisogno di muovermi era troppo grande. Scivolai dentro e fuori, succhiandole
ogni parte del corpo: seni, gola, labbra seducenti. Poi i nostri occhi si
incontrarono, e cominciammo a fare l’amore. Vero, reale, spontaneo,
dolorosamente bellissimo amore. Diverso da qualsiasi cosa avessi mai
provato.
Volevo continuare a muovermi piano, apprezzare quel momento e non
lasciarlo mai, ma se la tua donna pronuncia le parole: «Vieni dentro di me. Ti
prego, vieni dentro di me», ogni possibilità di farlo piano e con calma va a
quel paese.
Il mio ritmo aumentò e, quando lei serrò le gambe attorno alla mia vita,
spinsi a fondo, sfregando contro il punto che amava così tanto. Rovesciò gli
occhi all’indietro nelle orbite e gemette.
«Così. Vieni per me, piccola. Voglio riempirti… sto per venire così
forte…»
Il suo corpo si contrasse e lei cominciò ad avere spasmi attorno a me.
Chiamò il mio nome in un misto di gemiti e grida mentre cavalcavamo
insieme l’onda. Iniziò a placarsi, allora accelerai e la scopai con forza ancora
maggiore. Il suono dei nostri corpi che sbattevano uno contro l’altro era il più
erotico che avessi mai sentito. Ero sepolto tanto a fondo e lei era tanto aperta
per me che i testicoli cominciarono a sbattere contro le sue natiche. Incapace
di trattenermi oltre, mi lasciai andare, venendo a lungo e con forza dentro di
lei.
Impiegammo un sacco di tempo a riprendere fiato. Rotolai fuori e mi
distesi sulla schiena portandola sopra di me. La sua testa era appoggiata al
mio cuore.
«Il tuo cuore sta battendo così forte.»
«È l’effetto che mi fai.»
Sentii il suo sorriso contro il petto mentre le accarezzavo i capelli umidi.
Qualche minuto dopo, girò la testa e appoggiò il mento sulla mano per
guardarmi. «Devo fare una telefonata.»
Mi irrigidii. L’unica persona che poteva dover chiamare in quel momento
era l’uomo con cui aveva appuntamento. La bloccai tra le braccia e la tenni
stretta contro di me. Sensato o no, ero geloso dell’uomo al quale aveva dato
buca per il semplice fatto che era quasi uscita con lui.
«Potremmo almeno aspettare che il mio uccello si sgonfi prima che ti alzi
per chiamare un altro uomo?»
«Un altro uomo? Di cosa parli?»
«Non avevi intenzione di telefonare al tuo appuntamento e scusarti per
avergli dato buca?»
Layla alzò la testa. «Un momento. Come facevi a sapere che sarei stata qui
stasera?»
«Me l’ha detto Etta.»
Scoppiò a ridere.
«Cosa c’è di tanto divertente?»
«Etta. Ci ha ingannati entrambi. Avrei dovuto incontrare lei qui a cena. Mi
ha raccontato che lei e suo marito si sono conosciuti scontrandosi nella hall di
questo albergo, e mi ha detto che venivano qui ogni anno per il loro
anniversario. Da piccola aveva sempre pensato che questo posto fosse magico
e poi, il giorno in cui si è imbattuta qui nell’uomo che alla fine ha sposato, ne
ha avuto la conferma.»
«Me lo ricordo vagamente. Si agghindavano e venivano qui tutti gli anni.»
«Quindi non è successo che all’improvviso hai capito di amarmi e di non
poter vivere senza di me. È stata più la gelosia a farti muovere le chiappe per
tentare di riconquistarmi.»
«Ha importanza il motivo?»
«In genere sei una persona gelosa, vero?»
«Sono geloso solo se la gente tocca ciò che è mio, dolcezza.»
«Ma non ero tua quando hai pensato che avevo un appuntamento a cena
con un uomo stasera.»
Tirai Layla verso di me, così che fossimo faccia a faccia. «Sei mia dal
giorno che ci siamo conosciuti. Potremo anche non essere stati sempre
insieme, ma ciò non ti ha resa meno mia.»
Epilogo

Layla, due anni dopo


RIENTRAI trovando qualcosa di raro: una casa silenziosa.
Quando quella mattina ero uscita per incontrarmi a pranzo con mio padre e
la mia sorellastra, la casa era già nel caos. Alle otto, Gray ed Ella stavano già
lavorando come matti in giardino. Lentiggini si era rotolato nel mucchio di
concime che avrebbero in seguito dovuto spargere e poi era corso tra gli
irrigatori.
Non c’era niente di meglio di un caffè mentre aleggiava la puzza di cane
bagnato e sterco di mucca poco prima di pranzare con due persone che ancora
mi rendevano nervosa.
Qualche mese prima, ero uscita con Ella e mi ero imbattuta di nuovo in
Kristen, la mia sorellastra. Si era autoinvitata a pranzare con noi, e alla fine
mi ero resa conto di essermi divertita. Si era aperta una porta che avevo
creduto chiusa per sempre, e da allora stavamo prendendo le cose con calma.
Lasciai la borsa sul tavolino da caffè in soggiorno e uscii sul retro. Non
c’era nessuno neanche lì, ma non potei fare a meno di ridere per la follia che
vi trovai.
La casa che avevamo comprato a Brooklyn sei mesi prima era a pochi
isolati da dove Ella aveva vissuto con sua madre. Mi ero innamorata del
quartiere nell’anno e mezzo di visite frequenti per andare a prendere la
bimba. Max aveva sorpreso tutti, perfino i dottori, vivendo per altri diciotto
mesi, invece dei tre, sei previsti. Durante quel periodo c’erano stati momenti
difficili, frequenti ricoveri per Max e patemi per Ella, che, crescendo,
cominciava a capire davvero cosa stesse accadendo.
La piccola aveva subìto così tanti cambiamenti e, restando nel quartiere al
quale era già abituata, avrebbe avuto una cosa in meno alla quale adattarsi.
Così, avevamo comprato una bellissima vecchia brownstone con un
piccolo giardino, lungo una strada alberata, e deciso di fare di Brooklyn casa
nostra. Ella si era chiusa un po’ in se stessa dopo che sua madre era mancata,
e Gray aveva cercato disperatamente di entrare in sintonia con lei. Ci
avevamo provato entrambi. A un certo punto, avevo proposto di trovare un
progetto al quale lavorare, che desse loro modo di trascorrere del tempo
insieme. Gray aveva tirato fuori le cianografiche del giardino di sua madre,
quello che non avevano mai avuto la possibilità di piantare insieme e che
aveva realizzato attorno alla tomba di lei in California.
Mi guardai intorno. In un angolo c’era il giardino di sua madre, fedele alle
indicazioni, con tutti gli alberi, i fiori e le piante che lei aveva voluto
venticinque anni prima. Quel progetto aveva fatto uscire Ella dal suo guscio e
Gray voleva continuare. Così, i due avevano deciso di realizzarne uno tutto
loro, proprio come lui aveva fatto con sua madre quando era piccolo.
Avevano passato diverse sere a progettarlo per un mese intero. Durante i
weekend facevamo il giro dei vivai e delle esposizioni, che spesso portavano
a modifiche del piano. Adesso erano alla fase tre della piantumazione. Non
volevo neanche sapere il valore di ciò che cresceva in quel folle giardino. Ero
sicura che avessimo il corrispettivo di un’auto là sul retro. Ma ciò che aveva
dato a Gray ed Ella era inestimabile. Il ritorno alla vita di lei e il loro legame
erano impagabili.
Diedi ancora un’occhiata a quella giungla e tornai dentro. Dov’erano tutti
quanti? Mi accorsi che mancava anche Lentiggini. La sua fedele scarpa era
nella cuccia – non quella originale, ovviamente. Il mocassino consunto del
vecchio padrone, che aveva trascinato ovunque per quasi due anni, era ormai
sepolto nel nostro giardino. Circa una settimana dopo l’arrivo di Ella, Gray e
io l’avevamo sorpreso a metterlo a riposo vicino al grosso albero in mezzo al
terreno. Quella notte, aveva rubato una delle sneaker con le lucine di Ella. Il
suo vecchio padrone era stato finalmente sostituito. Adesso, di rado se ne
andava in giro senza la scarpetta della bimba.
Salii a cambiarmi e mi fermai sulla soglia della stanza di Ella per spegnere
la luce. Le pareti bianche con l’enorme arcobaleno non mancavano mai di
farmi sorridere. Qualche mese prima, le avevo letto per la centesima volta
Stuart Little prima di andare a dormire e lei mi aveva chiesto se la sua
mamma poteva vedere l’arcobaleno dal cielo. Io le avevo risposto che
pensavo di sì. Dio mette gli arcobaleni in cielo solo dopo il temporale e avevo
sempre pensato che fosse per ricordarci che il sole tornerà a splendere.
Spensi la luce in camera di Ella e mi diressi nella nostra. Il secondo piano
della casa poteva diventare rovente durante il giorno, soprattutto la stanza da
letto, visto che il mio folle fidanzato aveva fatto insonorizzare e coibentare
tutte e quattro le pareti durante la ristrutturazione. Solo perché adesso
eravamo genitori a tempo pieno, non significava che Gray ci andasse piano a
letto la notte.
Entrai nella cabina armadio e mi cambiai, indossando canotta e shorts.
Uscendo, notai qualcosa al centro del letto.
Un quaderno rosso a spirale. Sulla copertina, con la sua grafia mascolina e
obliqua, Gray aveva scritto: Quaderno Assolutamente sì di Gray. Risi e mi
sedetti per vedere cosa aveva in mente.
Proprio come nei miei quaderni, la pagina era divisa in pro e contro da un
tratto di penna. La sua lista non aveva titolo, così cercai di sbrogliare il
mistero.
L’elenco dei pro era lunghissimo e scoppiai a ridere nel leggere la prima
voce.
Grosso uccello.
Non riuscii a capire a cosa si riferissero le successive.
Telecomando
Caffè programmato
Pomodori ciliegini freschi
Rip e Etta.
Sul serio? Che diavolo aveva in mente quel pazzo? Continuai a leggere la
lista.
Lingua magica
Amore della mia vita
Arcobaleni
La lista proseguiva e occupava quasi interamente due facciate. L’ultima
voce mi fece sospirare.
Perché lei ha l’altra metà del mio cuore e, insieme, le nostre anime
battono come una sola.
Ero così intenta a leggere che non avevo sentito arrivare qualcuno. La
voce profonda di Gray mi fece sobbalzare sul letto e il quaderno volò per
aria.
«Ficchi il naso?»
«Dio, Gray.» Mi misi una mano sul cuore, che sembrava sul punto di
esplodere dal petto. «Mi hai messo una paura matta.»
Lui rimase sulla soglia, riempiendola con il suo fisico imponente. Alzò le
braccia sopra la testa, reggendosi allo stipite. Mi bastò un’occhiata a quel suo
mezzo sorrisino sexy per capire che non aveva in mente niente di buono. Il
pulsare tra le mie gambe sperò che, qualunque cosa fosse, accadesse in quella
stanza.
Accennò con gli occhi al quaderno sul pavimento. «Hai capito?»
«Sì, penso di sì. Il titolo della lista è: Gray è folle.»
Il suo labbro fremette e lui entrò nella stanza. Raccolse il quaderno e me lo
porse.
«Perché non lo esaminiamo insieme?»
Mi resi conto che Ella non era corsa nella stanza. «Dov’è Ella?»
«A dormire dai nonni.»
Traduzione: da Ella e Rip.
Ella aveva cominciato a chiamarli nonna e nonno circa un anno prima.
Qualche volta l’avevano tenuta a dormire da loro – una volta quando
eravamo partiti per un viaggio di lavoro e di nuovo la sera in cui Gray mi
aveva chiesto di andare a vivere insieme.
«Me l’avevi detto che sarebbe rimasta da loro e io l’ho scordato?»
Lui scosse la testa. «No. Ho pensato che avremmo potuto parlare senza
interruzioni. Hanno preso anche Lentiggini.»
Il mio corpo amava alla follia l’idea di un’intera notte da sola con Gray.
«Di cosa vuoi parlare?»
Indicò di nuovo la lista. «Comincia a leggere.»
Ero a dir poco incuriosita. Lessi la prima. «Grosso uccello?»
«Direi sopra la media, non trovi?»
«Quindi questo si riferisce alla tua anatomia?»
«Ma certo.»
Ridacchiai. «Telecomando?»
Gray si mise a sedere sul letto. «Sai come farlo funzionare?»
«No.»
«Be’, io sì.»
Aggrottai la fronte. «Okay…»
«Continua a leggere.»
«Caffè programmato?»
«Quanto è importante per te il caffè al risveglio?»
«Quanto è importante per te il numero uno della tua lista?»
Quel labbro sexy fremette di nuovo. «Va’ avanti.»
«Pomodori ciliegini freschi?»
«Sono buoni quelli del giardino infernale, no?»
«Mmm… Come mangiare palline di zucchero.»
Continuai con il rompicapo. «Rip e Etta?»
«Da quant’è che sono sposati?»
«Non lo so. Qualche mese?»
Rip e Etta erano segretamente diventati una coppia a qualche settimana
dall’arrivo di lui in casa di lei. Questo non ci aveva sconvolti. Erano
inseparabili. Ma a sorprenderci era stato il fatto che Rip le avesse chiesto di
sposarlo. Avrebbe perso alcuni dei benefìci residui che riceveva dalla
pensione della moglie defunta se si fosse risposato. Quando gliel’avevamo
accennato, aveva replicato di esserne ben consapevole ma che preferiva
essere al verde e fare di Etta una donna onesta piuttosto che avere qualche
soldo in tasca – anche se ormai non dovevano più preoccuparsi del denaro.
Come regalo di nozze, Gray aveva donato loro la casa in cui vivevano.
Be’, quello e l’altro regalo a sorpresa che aveva organizzato. In qualche
modo, era riuscito a convincere Laura, la figlia di Rip, a venire al
matrimonio. Rip aveva pianto come un bambino appena l’aveva vista. E
noialtri non avevamo potuto fare a meno di imitarlo.
Gray sbirciò la lista. «La prossima si spiega da sé.»
Lingua magica.
Cambiai posizione e sorrisi.
La successiva era: L’amore della mia vita.
«Mi ami?» chiese.
«Certo. Più di ogni altra cosa.»
«Continua.»
«Arcobaleno?»
«Cosa mi hai detto quando abbiamo finito di dipingere la stanza di Ella
con quel grosso arcobaleno per farle una sorpresa?»
Me lo ricordavo. «Ho detto che eri l’arcobaleno della mia vita. Hai fatto in
modo che smettesse di piovere.»
Mi prese la mano e la strinse. Insieme scorremmo il resto della lista.
«Non ci sei ancora arrivata?» chiese.
«Forse dovrei leggere i contro.»
C’era una sola riga nel lato dei contro. La lessi ad alta voce.
«Bloccata con me per sempre.»
Gray si alzò. Poi si calò su un ginocchio e mi prese la mano.
«Volevo essere preparato nel caso avessi bisogno di discuterne prima di
darmi una risposta. Conoscenza del telecomando e programmazione della
macchina del caffè, lingua magica, Rip e Etta che ci hanno preceduti
sull’altare… sono solo alcune di un’infinita lista di ragioni per cui dovresti
sposarmi.»
Si infilò la mano in tasca e ne tirò fuori una scatola bellissima. Aprendola,
rivelò l’anello di fidanzamento più incredibile che avessi mai visto. La pietra
centrale doveva essere tre o quattro carati e ai lati ce n’erano altre due,
ciascuna abbastanza grande per bastare da sola come anello di fidanzamento.
«Ho raccontato a Etta che avevo intenzione di chiederti di sposarmi, e che
volevo incorporare la pietra dell’anello di mia madre, e allora lei ha insistito
perché prendessi il suo anello di nozze e usassi anche quella pietra per il tuo.
Perciò, questo anello è fatto con tre pietre appartenenti alle donne più
favolose della mia vita. Quella grande al centro è solo per te. E quelle ai lati
sono di Etta e di mia madre. Mentre lavoravo con il gioielliere per disegnarlo,
mi sono reso conto che quelle tre pietre simboleggiavano anche un’altra cosa:
avrai due persone, me ed Ella.»
Le lacrime mi bagnarono le guance. Abbassai lo sguardo sulle nostre mani
unite e notai che le sue stavano tremando. Quell’uomo non tradiva mai la sua
agitazione.
«È bellissimo, Gray. Non so neanche cosa dire.»
«Forse avrò fatto pendere la lista dei pro un tantino a mio favore. E quella
dei contro, restare bloccata con me per sempre, potrebbe pesare più delle due
pagine di pro. Ma se acconsenti a diventare mia moglie, ti prometto che ogni
giorno mi impegnerò ad aggiungere qualcosa a quella lista di pro. Potrei dire
che hai riportato in vita la mia fiducia nell’amore, ma hai fatto più di questo,
Layla. Hai riportato in vita me. Perciò, ti prego, sposami. Dimmi che passerai
il resto della vita come mia moglie.»
Il nodo in gola era tale che riuscii a malapena a parlare. «Sì. Sì. Dio, sì!»
Mi prese il viso tra le mani e mi baciò dolcemente sulle labbra. «Quasi
dimenticavo. Oggi ho detto a Ella che ti avrei chiesto di sposarmi e lei mi ha
detto di riferirti una cosa.»
«Cosa?»
Gray si tirò indietro e mise il pollice contro la mano, allargando le dita.
«Mamma», disse. «Vuole smettere di chiamarti Layla e ti chiamerà mamma,
se per te non è un problema.»
Seguì un fiume di lacrime di felicità. Afferrai Gray in un abbraccio e non
lo lasciai andare per un tempo infinito. Era un bene che avesse fatto quella
lista per me, perché elencare tutte le ragioni per le quali sposarlo avrebbe
potuto richiedere anni e svariati quaderni. Ma, alla fine, avevo bisogno solo
di una verità sulla lista dei pro: ogni parte di me amava ogni parte di lui.
Tirai su col naso. «C’è un errore sulla tua lista Assolutamente sì, Mr.
Westbrook.»
Mi scostò una ciocca dalla guancia e sorrise. «Ah sì? E sarebbe,
Lentiggini?»
«Bloccata per sempre con te è sul lato sbagliato della pagina.»
RINGRAZIAMENTI

A voi – i Lettori. Grazie perché continuate a permettermi di far parte della vostra
evasione. A volte non possiamo partire ma abbiamo bisogno di andare altrove per un
po’. È un onore sapere che le mie storie vi tengono compagnia laggiù.
A Penelope – gli ultimi mesi sono stati tosti. Dalla nostra folle tabella di marcia
alla perdita personale, sei stata presente e mi hai sopportata. Risparmio una fortuna in
psicanalisi perché ho te al mio fianco. Grazie.
A Julie – grazie per la tua amicizia, il sostegno e il mio perfetto caffè mattutino
newyorkese.
A Luna – grazie per la tua bellissima grafica, l’incrollabile sostegno, l’amicizia e la
sincerità. So sempre di potermi rivolgere a te per un parere schietto.
A Sommer – sono convinta che ormai tu sappia prima di me cosa voglio. Dai vita
ai miei libri con le tue bellissime copertine! Grazie!
Alla mia agente e amica, Kimberly Brower – grazie per tenere sempre gli occhi
aperti in cerca di nuove opportunità e per essere la mia cassa di risonanza.
A Jessica, Elaine e Eda – grazie per farmi sembrare più intelligente con tutto il
vostro lavoro di revisione! Rendete migliori tutte le mie storie e me.
A Mindy – non potrei essere più entusiasta di averti in squadra insieme a noi!
Grazie per aver lavorato con me a questa pubblicazione dall’inizio alla fine. Spero sia
stata la prima di tante volte!
A tutti i blogger – la visibilità dei social media è passata, i programmi di
affiliazione sono stati decimati e le nuove leggi e le politiche sulla privacy sono un
terreno arduo. Eppure voi ci siete ancora, postando senza sosta e condividendo la
vostra passione per i libri. Il vostro entusiasmo è contagioso e in grado di lanciare un
libro nonostante tutti gli ostacoli che deve superare. Grazie perché dedicate il vostro
tempo a leggere le mie storie, a scrivere recensioni, a fare video e a condividere
anteprime che portano in vita i miei libri.

Con tanto amore


Vi
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Questo romanzo è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi
sono frutto dell’immaginazione dell’autrice. Qualsiasi rassomiglianza con
fatti, luoghi o cose reali o con persone, realmente esistenti o esistite, è
puramente casuale.

www.sperling.it
www.facebook.com/sperling.kupfer

The naked truth (versione italiana)


di Vi Keeland
© 2019 Mondadori Libri S.p.A., Milano
Titolo originale The Naked Truth
Copyright © 2018 by Vi Keeland
The moral rights of the author have been asserted
Pubblicato per Sperling & Kupfer da Mondadori Libri S.p.A.
Ebook ISBN 9788893428590

COPERTINA || FOTO © SHUTTERTSTOCK | ART DIRECTOR:


FRANCESCO MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: CARLO
MASCHERONI

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