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Bianca Marconero
Copyright testi © Christian Borghi
I Edizione digitale ottobre 2019
Cura editoriale: Valentina Crimella
Un ringraziamento speciale a Bianca Ferrari, Denise Aronica,
Ester Sardo e Alessandra Angelini.
Tutti i diritti riservati.
La prima volta
La seconda volta
La terza volta
La quarta e la quinta volta
La sesta volta
La settima volta
Ringraziamenti
Anteprima de “L’ultimo bacio”
A mamma e papà.
Grazie per avermi regalato una possibilità.
Eredi e dinastie
Chi è stato l’indiscusso re delle Notti di Smeraldo? Naturalmente
lui, Alessandro Francalanza Visconti (24 anni, nella foto)! Più volte
avvistato tra Porto Cervo e Baja Sardinia, al Sottovento o al
Billionaire, l’erede del noto gruppo editoriale stavolta le vacanze se
le è proprio meritate!
Dopo la laurea alla Bocconi e un master negli Stati Uniti, lo scorso
autunno il giovane Francalanza ha trovato il proprio posto
nell’azienda fondata dal bisnonno, nel lontano 1902.
Lo abbiamo beccato al noto bar Ughino, in compagnia degli amici
di sempre tra cui spicca, ça va sans dire, la splendida Carlotta Dei
Pinzi Ranieri (21 anni, nella foto a sinistra).
Gli abbiamo chiesto un bilancio dei suoi primi otto mesi in azienda.
«Sono fiero di essere dove sto», ha detto, «è quello per cui sono
nato. Per me il gruppo editoriale Francalanza Visconti non è solo
un’azienda. Per me è una missione».
Più evasivo, ma mai lapidario, si è dimostrato quando il discorso si
è spostato sugli affari di cuore. «Ho molte amiche. Sono una
persona socievole».
Ma ci sono amiche speciali? Come dobbiamo interpretare gli scatti
eseguiti sul ponte della Gutenberg, durante una festa esclusiva (vedi
pagina 15), che lo ritraggono in atteggiamenti confidenziali proprio
con Carlotta? Lui e la giovane ereditiera sono inseparabili.
«Sono anni che leggo sui giornali che io e Alessandro ci
sposeremo», ha commentato Carlotta con uno splendido sorriso.
«Magari prima o poi lo facciamo sul serio».
Si tratta di uno scherzo malizioso o di una involontaria rivelazione?
Per ora pare che siano soltanto amici. La bella Carlotta sembra
felice accanto al suo Eugenio, e Alessandro non disdegna altre
compagnie femminili. Dopo il suo flirt con la cantante Sabryna,
vincitrice del talent Voice Over, chi sarà la prossima a cadere ai piedi
del Golden Boy?
Karisma Bartoletti, Storie2000
Prologo
Il giorno che ti ho incontrato
Ci sono situazioni nella vita in cui non puoi dire di no. Non puoi
perché gli altri si aspettano un sì, perché nessun uomo è un’isola,
perché dobbiamo sforzarci di far felici coloro che amiamo.
Sono in sala mensa e cerco di ripetermi tutte queste cose, mentre
rigiro il caffè e Fosco mi tiene addosso i suoi bellissimi occhi blu, in
attesa della mia risposta. Cerco di collegare il cervello con la bocca,
poi lo dico.
«No, Fosco».
Okay, qualcosa deve essere andato storto nel collegamento, forse
a causa di un’interferenza del cuore, ma non posso proprio
concepire una risposta diversa. È tutto troppo assurdo.
«È tutto troppo assurdo, Fosco», chiarisco nel tentativo di
attenuare la sua delusione. «E non per il capodanno con te, a
Cortina, che sarebbe stupendo, soprattutto perché Gaia come al
solito non c’è».
«Questa te la potevi risparmiare».
«È la semplice verità», minimizzo. «Io, te, la neve», sospiro,
«sarebbe tutto bellissimo, perfino la faccenda che mi insegneresti a
sciare, perché comprendo che è una grande lacuna nella mia
formazione di essere umano».
«Lo è».
«Ma, Fosco…»
«Senza “ma”, Alice, fine della questione. Capodanno insieme, a
Cortina, io e te».
Su queste parole effettuo un rapido test. Mi soffermo sulla sua
bocca, sulle sillabe “io e te”, cerco di fissare la sua voce sexy che
modula “insieme”, sto un attimo in ascolto delle emozioni. Mi
riscopro tranquilla.
Credo che la cotta mi sia del tutto passata.
«Alice», riprende, «devi venire. Punto».
«Devo lavorare alla tesi».
«Ti correggo quella tesi da mesi», protesta, «so a memoria l’intero
epistolario di Svevo!».
Ha ragione. Ha sacrificato per me il suo pochissimo tempo libero,
mettendo nuovamente in pausa lo sviluppo del suo videogioco.
Questo è il problema delle persone generose, concedono in giro
pezzi del loro tempo, finché non ne resta più per i loro sogni. Cambio
strategia.
«Fosco, non posso permettermi il capodanno in un albergo a
cinque stelle».
«Neppure io», ribadisce. «Ma siamo ospiti di…»
«Tua madre», lo precedo, certa di aver appena addotto
l’argomento più solido a favore del mio “no”.
Perché l’invito ce lo ha fatto la signora Amelia Barozzi Foscarini. È
riuscita nell’impresa di riunire i suoi tre figli e, come sempre durante
le feste, approfitta dell’assenza di Gaia e include anche me.
«So che mio padre non è il massimo, ma la mamma ti piace. E ti
piacciono Cassandra ed Ettore».
«Fosco…»
«E noi ti vogliamo».
«Fosco!».
Incrocia le braccia al petto. «Alice, se resti a Milano, non parto
neanche io».
Siamo arrivati ai ricatti. Perfetto. Quello che ha detto è vero: vado
d’accordo con la sua famiglia e adoro lui. Ma sospetto che sarà un
disastro. Il punto è che so per certo che al raduno dei parenti ci sarà
anche un’altra persona.
Penso al nemico, e sfiga vuole che lo veda. È con Marilù. Lei
indossa un vezzoso maglioncino d’angora e un sorriso radioso. Lui
oggi ha scelto il nero minimal-chic, tessuti lisci e strutturati che
sembrano non solo senza pieghe ma anche senza cuciture.
Lei tira dritto senza degnarci di uno sguardo, Alessandro invece,
dopo avermi illuso, ci ripensa e torna sui suoi passi.
Si ferma al nostro tavolo, mi chiama e ottiene il mio sguardo.
«Alice», ripete, forse per prolungare l’agonia che provo sentendo il
mio nome pronunciato da lui. «Abbiamo anticipato la riunione alle
14:30. Vedi di essere puntuale e, per favore, di essere sul pezzo».
Vorrei digli che la puntualità è la mia religione, che io vivo “sul
pezzo”, anzi sono io a decidere cosa sia “il pezzo”. Ma mi ingoio
tutto e mi limito ad annuire.
«È l’ultima riunione dell’anno, è importante per il planning del
nuovo trimestre».
Vorrei dirgli che per me potrebbe essere l’ultima in assoluto,
perché tra un po’ scade il contratto e magari non firmo il rinnovo che
due giorni fa ha avuto la faccia tosta di farmi trovare sulla scrivania.
Vorrei dirgli che, se alla fine me ne andrò, sarà stata solo colpa sua.
Vorrei dirgli che, se dopo Capri siamo andati di male in peggio, non è
stato solo per la clausola bastarda di un contratto capestro, ma
perché dopo quattro mesi non ha ancora avuto la decenza di
chiedermi scusa.
Ma sto zitta e mi limito a un cenno d’assenso.
Mi fissa in attesa.
Sigillo le labbra in un mutismo ostinato.
Lui chiude le sue ma con l’aria di trattenere una parolaccia. Poi
saluta Fosco e se ne va.
«Idiota…», bofonchio.
«Smettila», mi implora Fosco. «Mi sento come il figlio di genitori
divorziati».
«Ha cominciato lui», preciso.
«Quattro mesi di rappresaglie», dice Fosco e indica il numero con
le dita. «E perché? Perché siete così orgogliosi che preferite soffrire
all’infinito piuttosto che cedere».
«Soffrire?», rido. «Lui soffre solo per i rossi in bilancio e io non
soffro per uno disposto a vendermi nell’ambito di una transazione
d’affari».
«Lui non aveva capito», mi ripete con l’esasperazione di chi è
chiamato a ribadire per la millesima volta lo stesso concetto.
Può essere che abbia ragione. Che Alex non abbia compreso
quanto oltre si fosse spinto Guglielmo. Ma quello che è successo
dopo il nostro rientro a Milano, la sua dichiarazione di indifferenza e
soprattutto il suo vile tranello annidato nel contratto restano
irrimediabili.
Lo ripeto a me stessa. Poi mi alzo. «Ora vado. Che non voglio
dargli la soddisfazione di arrivare in ritardo alla mia ultima riunione».
«Non sarà l’ultima», mi riprende. «Firmerai il rinnovo».
«O magari no», lo provoco, «comunque, ringrazia tua madre e
dille…».
Fosco non mi lascia finire, mi afferra la mano.
«Le dico che vieni. Che andiamo», mi suggerisce. Cerca di
imporsi, ma in quel modo suo che persuade senza lusingare, che
avvince senza raggirare.
Mi concentro sulla sua mano. Cosa provo?
Niente.
Mi sento guarita e anche un po’ orfana. E non riesco a capire
perché. Saluto e me ne vado senza aggiungere altro.
Alex
Quello che tu provi per me
Cortina d’Ampezzo.
Saranno le Dolomiti, sarà la neve, sarà un cielo che è l’essenza
del turchese e le nuvole che sembrano la panna sparata per gioco
da un gigante, ma è come essere finiti dentro una cartolina.
Davanti a me si staglia la lussuosa facciata in legno e mattoni
della struttura che ci ospiterà. Cassandra Foscarini contempla la
stessa meraviglia, con l’aria di chi ritrova un posto famigliare.
«Bello, vero?», dice. «Hai rischiato di perderti lo spettacolo…»
«Non ho rischiato», mento. «Non ascoltare tuo fratello».
«Se il fratello sono io», scandisce Fosco, mezzo nascosto dal
portello del bagagliaio, «voglio potermi difendere». Poi richiude il
baule e arriva con le valigie.
Mi sembra di vedere i bicipiti contratti sotto il piumino, mentre
solleva i bagagli come fossero di cartone. Poi allarga il torace per
respirare a pieni polmoni, un gesto che toglierebbe il fiato a
qualunque ragazza provvista di cuore. L’altro fratello Foscarini,
Ettore, il volto coperto da una corta barba nera, lo segue con il resto
dei nostri bagagli. Quando cerco di alleggerirlo del carico, declina
con silenziosa fermezza. Poi mi fa cenno di precederlo verso il
solarium. Vuole portarmi lo zaino e questo conferma che i Foscarini
sono stati cresciuti come dei gentiluomini del passato.
Educazione cavalleresca a parte, Ettore è diverso da Fosco. È un
tipo taciturno, benché non solitario. Fa parte di quella categoria rara
di persone che parlano solo se hanno qualcosa da dire, ma capaci di
ascoltare con grandissima attenzione.
Lui ci precede lungo il pavimento di legno scuro della grande
terrazza.
Il Cristallo è un hotel nel quale non avrei mai pensato di mettere
piede. Quando ho dato un’occhiata ai prezzi, sul sito della struttura,
mi sono sentita male. Qui sono passate grandi personalità e nella
suite super bella ha dormito, tra gli altri, perfino Frank Sinatra.
Quando ho fatto presente la cosa, Fosco ha cercato di
minimizzare, ha alluso a un prezzo di favore che la società
proprietaria ha fatto a suo padre, per ringraziarlo di aver messo in
luce la loro eccellenza in non so quale inchiesta sulla qualità delle
strutture alberghiere della regione. Provo a non pensarci, ho deciso
di venire, nonostante tutto e nonostante Alessandro.
Alex ha detto che il mio odio per lui supera l’affetto che provo per
Fosco. Ho deciso di venire per dimostrargli che si sbagliava. E
volevo dimostrarglielo perché, in realtà, non si sbagliava affatto.
Non mi fa onore ma il rancore che ho sviluppato per il mio capo è
più feroce, costante e sproporzionato di qualunque sentimento io
abbia mai concepito.
C’è chi ha i grandi amori, e chi i grandi rancori.
Cassandra abbandona il suo borsone accanto a un tavolino in
ferro battuto, e si lascia cadere su una delle sedie a sdraio, gli
occhiali calati sul naso e le gambe distese. Porge un documento a
Fosco e gli chiede di consegnarlo alla reception per il suo check-in.
Fosco se ne va e io lo seguo con lo sguardo. Il suo corpo da
Capitan America è sempre una gioia per gli occhi, ma in movimento
diventa proprio una droga. Vorrei farci un video e vederlo a
ripetizione.
«Che spreco!», sospira Cassie, e solo in questo momento mi
accorgo che anche lei guarda suo fratello.
«Cosa intendi?», chiedo.
«Hai presente il detto “perle ai porci”? Ecco, mi viene in mente
ogni volta che penso a Gaia», si abbandona contro i cuscini verdi.
«Quella scarica mio fratello a ogni festa comandata».
«Non farmi parlare male di Gaia», scandisco, ma la convinzione
del mio tono è solo una posa. So bene come andrà a finire: io e
Cassie passeremo la vacanza a malignare. Inizieremo mille discorsi
con il preambolo: “Niente contro Gaia, ma…”. Oppure: “Non è che
odio Gaia, tuttavia…”, o ancora: “Gaia sicuramente ha tante qualità,
però…”.
Ma alla fine ci sbronzeremo e a quel punto diremo senza mezzi
termini che si tratta di una stronza, che non ha a cuore la felicità del
suo compagno, che gli ha fatto lasciare l’università, che gli sta
ammazzando i sogni e il futuro, finché non ci prenderà male e
piangeremo una sulla spalla dell’altra. Lo scorso capodanno è
andata proprio così.
Entrambe vorremmo che Fosco trovasse una ragazza che lo ami
come merita.
Quando riappare, Fosco ha un vassoio e tre bicchieri di vino
caldo, ed è in compagnia di sua madre. Sorridente ed elegantissima,
in pelliccia e colbacco, la signora Amelia ci accoglie con il suo garbo
aristocratico. Ci avvisa che il signor Priamo è già sulle piste da sci e
aggiunge un: «Sapete com’è fatto papà».
Cassandra e Fosco lo sanno benissimo. “Papà” è un orso
arrogante e solitario che si aspetta dalla moglie prove di devozione e
dai figli prestazioni all’altezza. A volte ho il sospetto che Ettore abbia
aderito a Medici Senza Frontiere per tenersi alla larga da Milano e
che Cassandra abbia scelto la variante più pericolosa del mestiere
paterno, il giornalismo di guerra, solo per non deluderlo.
La signora Foscarini ci esorta a rilassarci, quindi si congeda, con
la solita leggiadra eleganza, accennando all’autista che l’aspetta per
portarla allo châteaux.
Prima che possa domandare cosa sia questo castello, Cassandra
mi spiega che è il modo confidenziale con cui in famiglia si parla
della dimora della contessa Augusta Barozzi Dei Lanzi. Una sorta di
matriarca della famiglia. È lei che organizza, ad anni alterni, questi
veglioni di capodanno.
«Non so se reggerò alla vista di tutta questa borghesia in
ghingheri», osservo, godendomi il vino caldo.
«A proposito di eleganza, mamma vuole che ti convinca a “optare
per un abbigliamento adeguato”», confessa Cassandra.
«Lo ha suggerito anche a me», ammetto sconfortata. Non ce l’ho
con la signora Amelia, so di essere l’antitesi dell’eleganza, ma resta
una gran seccatura.
«Faremo un po’ di acquisti», taglia corto Cassie. «E in merito al
veglione allo châteaux, tranquilla. Ci sbronzeremo e poi ce la
svigneremo per andare a una vera festa».
«Come facciamo sempre», scandisce una voce alle nostre spalle.
Mi giro e vedo Alessandro. Moncler azzurro e jeans perfetti, porta
gli occhiali da sole ma se li solleva subito sui capelli, rivelando una
nota scura negli occhi chiarissimi. Come se per un attimo
condividessero il tono carico e assolutamente blu del cielo.
Cassandra e Fosco si alzano per salutarlo.
Io invece me ne sto immobile tra i cuscini e scruto il parcheggio,
cerco di capire quanti siano esattamente gli inservienti che stanno
portando il bagaglio di Alex.
Ne conto cinque poi mi fermo.
Neppure una debuttante alla sua prima Stagione londinese
avrebbe fatto di meglio.
Alex dice che dobbiamo infilarci le tute, recuperare sci e scarponi,
e prendere la seggiovia; Cassandra nota che ci sarà luce fino alle
cinque. Fosco dice che non vede l’ora di farmi diventare una vera
sciatrice.
Mi rassegno e lascio la mia sdraio. Stiamo camminando verso le
porte di questo albergo da sogno, quando Alex si avvicina.
«Allora che mi racconti, Alice? Hai fatto progressi?».
Lo conosco abbastanza per capire che allude al piano di
seduzione fasullo che gli ho illustrato in ufficio. Una provocazione
buttata lì per farlo tacere e che, evidentemente, non ha funzionato.
Ora però non posso tirarmi indietro.
«Vedo che la faccenda ti sta proprio a cuore», commento senza
guardarlo.
La sua voce si perde tra i miei capelli.
«Ti tengo d’occhio».
«Oh, e scommetto che ti piace da morire», lo accuso, e nel farlo
mi giro. Tento di affrontarlo con un’occhiata spavalda ma qualcosa
va storto. Colpa dei suoi occhi. Posti alla distanza di sicurezza, mi
suscitano un legittimo fastidio. Tutto quell’argento, che nessun altro
ha, è una forma irritante di esibizionismo. Sotto una certa distanza
però le cose cambiano. Mi appare evidente che sono bellissimi. E
che è estremamente ingiusto e crudele che appartengano a lui. E
così, pur nella sua sconcertante assurdità, io resterei qui a odiarlo e
guardarlo negli occhi, a guardarlo e odiarlo più forte, fino alla fine.
E questa cosa senza senso è una delle ragioni per cui non dovrei
firmare il rinnovo.
Cassandra per fortuna mi chiama e io corro da lei. Cerco di
mettere più spazio possibile tra me e il mio capo.
Ma ho la sensazione che, neppure se fossi sulla luna, la distanza
sarebbe abbastanza.
Alex
L’esatto contrario del mio amore
Sono arrabbiato.
Così arrabbiato e confuso che ho dovuto fare appello a tutto il mio
autocontrollo per mantenere un po’ di discrezione sui veri motivi per
cui sono ridotto così.
Alice mi ha mandato via. E questo, in certa misura, lo potevo pure
prevedere. Ciò che non avevo messo in conto era di sentirmi a
pezzi.
Il suo rifiuto mi ha mandato fuori fase.
Carlotta ha intuito che qualcosa mi turbava, mi conosce da una
vita, ma è stata abbastanza discreta e intelligente da non fare
domande. Per fortuna era sulle piste con un gruppo di conoscenze
comuni e dopo un paio di discese l’ho lasciata con loro. Sono
arrivato all’albergo, dove ero determinato ad affrontare Alice, perché
è chiaro che non possiamo andare avanti così, e invece le cose
sono peggiorate per due motivi diversi. Il primo è che ho scoperto da
Ettore che Alice è andata in paese con Fosco e Cassandra, il
secondo è stata la convocazione di mia madre. Mi ha telefonato per
dirmi che la dovevo raggiungere all’Hôtel de la Poste.
Urgentemente.
«I Dei Pinzi sono a Cortina», mi ha detto, confermando ciò che già
sapevo. «Non puoi perdere l’occasione di risanare lo strappo».
Devo presentarmi al bar dell’hotel, salutare un potente competitor
facendo finta di non sapere che ce l’ha con me.
Che fosse arrabbiato, lo sapevo da amicizie comuni. Che si fosse
sfogato con mia madre, me lo ha detto lei poco dopo l’annuncio
dell’acquisizione. Ma che a distanza di mesi io debba ancora
mostrarmi contrito e correre se mi chiama è una cosa che mi
disturba. Ancora non so quale sarà la mia penitenza ma, poiché
sarebbe ottimista pensare di farla franca e sarebbe ridicolo
dichiarare guerra a una persona potentissima con cui, in parte, sono
in affari, devo rassegnarmi a questa farsa.
Mamma mi ha dato appuntamento in Corso Italia, sotto la basilica
dei Santi Filippo e Giacomo. La raggiungo dopo aver parcheggiato.
La avvisto ancora prima di raggiungere il campanile. Avvolta nel
suo piumino grigio di Chanel, mi accoglie con uno sguardo glaciale e
il volto lievemente segnato dalla tensione. Mi comunica che l’ho fatta
attendere cinque minuti. Io mi scuso.
«Quanto è grave la situazione con Dei Pinzi?», domando
alzandomi il bavero del cappotto. Una debole protezione contro il
vento glaciale.
«Più di quanto sembrava a inizio settembre».
«E Leonardo aspetta che siamo tutti in vacanza a Cortina per
lamentarsi?»
«Le vacanze non esistono, Alessandro», decreta. «Si lamenta
perché ti considera in debito con lui. E tu non puoi tirarti indietro».
Cerco una replica. Ma non ne trovo nessuna. Solo stanchezza. La
strada è chiusa al traffico, i negozi gareggiano a colpi di luci e
addobbi, gli edifici con i loro balconcini di legno risplendono e non
hanno nulla da invidiare alle luminarie sotto le quali passiamo. Tutte
queste luci non servono a niente. Non riesco a vedere cosa ha in
serbo il futuro che sta un passo davanti a me.
«Devi essere prudente e convincente», riprende mia madre.
«Evita di trattare la questione con eccessiva leggerezza e abbraccia
la mia linea di difesa, dicendo…»
«…Che non ero al corrente del suo interessamento».
«Sì», si sistema i guanti di camoscio. «Ma aggiungi anche che sei
stato malconsigliato. Di’ che l’idea di comprare la Hannover non è
stata tua».
«Ma è stata mia».
Mia e di Alice.
Fisso le vetrine tirate a lucido, dove la neve finta fa da
contrappunto alla neve vera. Metà di una e metà dell’altra. Il
riassunto della mia vita.
«L’operazione non è stata un grande affare. Non sono la sola a
pensare che la soluzione migliore sia ricapitalizzare entro due anni,
aggiungendo le quote della Visconti Santi».
La cosa mi coglie di sorpresa. «Vendere tutto? Smetteremmo di
essere editori di libri».
Tiene gli occhi nei miei. «Aveva già smesso tuo padre», mi dice,
«tu hai voluto fare un passo indietro, fuori dal solco tracciato da lui».
«Non ho molto in comune con mio padre», preciso. Ma questa
affermazione non produce in lei alcun addolcimento.
«Lui era un grande imprenditore, che ha pagato tutte le sue
debolezze». In questa descrizione lo elogia e lo condanna. «Ha
completato l’opera iniziata da tuo nonno, portando l’azienda a essere
leader in un settore dove non abbiamo concorrenza. Tu devi finire
quello che lui ha iniziato, sbarazzandoti del passato».
«Posso rafforzare la posizione del gruppo in edicola senza
rinunciare alla libreria. Diversificare è sempre un vantaggio».
«Non quando servono fondi. E dal prossimo febbraio ne
serviranno. Cominceremo a programmare seriamente l’ingresso in
altri mercati».
So che la divisione internazionale richiederà tutta la nostra
attenzione, ma io non voglio rinunciare al mio progetto.
Io credo nei prodotti da libreria. Ma era più facile farlo quando ci
credevo con Alice. Quando eravamo in due. Ora mi sento perso
all’idea di difendere da solo quello che avevamo cominciato a
costruire.
Alzo lo sguardo e, oltre la vetrina di un negozio di catena, vedo
proprio Alice. Sta parlando con Cassandra e ha un certo numero di
vestiti caricati sul braccio.
Perfetto. Sogno di dirgliene quattro da questo pomeriggio e
quand’è che la vedo?
Proprio ora, che non posso raggiungerla.
Perché non posso certo dire a mia madre: «Precedimi all’Hôtel de
la Poste dove Leonardo si deve togliere lo sfizio di mettermi in
castigo, perché io devo correre dietro a una mia dipendente che non
vuole firmare il rinnovo del contratto».
E infatti non glielo dico.
Ma non posso neanche scordarmi di Alice.
Opto per una versione ridotta con alcune importanti omissioni.
«Mamma, precedimi. Ti raggiungo tra cinque minuti».
Quando l’ho distanziata, ritorno sui miei passi e mi infilo nel
negozio. È piuttosto affollato. Hanno avuto l’idea di fare i saldi pre-
veglione e questo ha attirato parecchie persone. Mi aggiro tra
stender e manichini. Mi riconoscono in troppi, poi per fortuna mi
imbatto in Cassandra. Imbraccia una pila di vestiti.
«Oh, meno male che sei qui! Fammi un favore. Porta questo ad
Alice, così posso infilarmi pure io in camerino», dichiara e, dando per
scontato che non mi ribellerò, mi lascia un vestito.
Raso nero. Corpetto smanicato. Gonna geometrica. Un po’ stile
Audrey Hepburn.
Immagino Alice che lo indossa. Ma, se pensare a lei mezza nuda
è un colpo strano, il rinculo è pure peggio. Il secondo pensiero mi
spedisce il cuore nello stomaco e lo stomaco più giù ancora.
Mi torna in mente lei sulla neve, stesa sotto di me.
Cerco di caricare i polmoni e ricordarmi che sono arrabbiato.
Se sto elaborando questi pensieri così schizofrenici è solo perché
lei mi manca. Mi manca quello che avevamo e perfino ciò che non
abbiamo mai avuto. La vedo in fuga quando avrei bisogno che lei
difendesse i nostri progetti. Vorrei sbatterla contro un muro ed
elencarle quello che mi ha fatto. Vorrei saperla trattenere.
Arrivo nella zona dei camerini. È inaspettatamente tranquilla.
Ci sono solo Alice e Fosco.
Precisamente c’è Alice con la schiena nuda e Fosco che tenta di
chiuderle il vestito.
«Secondo me si è inceppata la zip», sta dicendo lui. «Incastrata
proprio!», in quel momento squilla il suo telefono, lui prende
l’apparecchio e mi vede sulla soglia, escluso come lo spettatore di
un film già iniziato.
«Oh Alex, ciao! Dai una mano ad Alice, io devo rispondere a
Gaia…».
Alice, colta di sorpresa, trasalisce.
«Alex? Ma che ci fai qui?»
«Arrivo nel momento del bisogno», dichiaro, mentre mio cugino
esce. Mi avvicino. Lei indietreggia.
«No, lascia stare. Faccio da sola».
«È una zip sulla schiena. Non puoi fare da sola».
«E allora me lo levo. È uno stupido vestito», dice reggendoselo sul
petto. «L’ho provato solo per far felice Cassandra, ma a dirla tutta mi
sono stufata di…».
Tace di colpo. L’ho presa per i fianchi.
«Ma cosa diavolo…?»
«Zitta».
La giro con un gesto brusco. Ho la sensazione di averle tolto il
fiato. È una vittoria irrilevante, da segnare su un taccuino comunque
mezzo vuoto.
«Senti, perché non torni da Carlotta?»
«Smettila di dirmi dove devo andare e con chi devo stare», le
strattono la zip.
Lei non molla. «Hanno ragione i giornalisti», insiste. «Siete così
adatti da risultare ovvi».
Non è l’unica a pensarlo. Da quando ho quindici anni e Carlotta
undici tutti dicono che ci sposeremo.
«Ti inviterò al mio matrimonio».
«Piangerò per tutto il tempo».
Cerca di girarsi, la blocco. Mi accorgo che tenta di sottrarsi, per
limitare il contatto. Le piazzo una mano sulla schiena solo per il
gusto di darle fastidio, ma resto vittima del mio stesso gesto. La sua
schiena è una tela bianca su cui sento il bisogno di disegnare i miei
desideri.
«Vorrei farti piangere sul serio, Alice».
«Non ce la puoi fare», obietta. La voce ora le trema. Il tipo di
vibrazione dal colore indefinito. Non la decifro, ma la mia pancia sì.
E il resto si adegua.
Levo la mano dalla sua pelle.
Torno a occuparmi della zip. Cerco di sbloccarla.
«Dovresti comportati da persona matura, Alice, smettere di
ribellarti e firmare il rinnovo».
Per fortuna la mia voce è salda.
«O magari dovrei cercare un lavoro in cui il mio capo non cerchi di
fottermi».
Il significato delle parole slitta veloce verso un’ambivalenza
insidiosa.
Mi scappa un gesto brusco, scriteriato. Il rumore è inequivocabile.
Le ho appena strappato il vestito.
«Oh, merda! L’hai rotto?!», si gira di scatto. Me la trovo davanti.
Ho in mano un pezzo della cerniera da cui pende un brandello di
tessuto.
«Pace. Lo ripago».
«Ecco!», mi indica. «Non cambi mai. Tu rompi, poi paghi per
metterci una pezza. Però, ti svelo un segreto: certe cose non si
aggiustano con i soldi».
«Oh, falla finita», lancio la cerniera. «Apri gli occhi, Alice. Tutto si
aggiusta con i soldi, okay? Tutto! Chi dice di non avere un prezzo è
solo qualcuno per cui nessuno ha alzato la posta».
«Non vale per me!»
«Okay. Dimmi quanto vuoi per restare».
Lei spalanca i suoi occhi giganteschi. Io insisto.
«Diecimila? Venti? Cinquanta?»
«Cioè…», scuote la testa, incredula. «Fai sul serio? Tu mi daresti
davvero cinquantamila euro?»
«Sì, Alice. Firma il rinnovo e ti giro sul conto cinquantamila euro».
«Tu sei malato», e scuote ancora la testa. «Sei un arrogante del
cazzo con seri problemi di ego! Sono proprio contenta che tu abbia
fissato una quota, perché così la soddisfazione di scaricarti non ha
prezzo».
Capisco in un lampo di lucidità che fa sul serio. Sono mesi che
aspetta questo momento. Sono mesi che aspetta di vendicarsi.
Vuole scaricarmi.
Contro ogni logica o interesse. Vuole solo avere l’ultima parola
dopo Capri. Vuole dimostrarmi che non posso risolverla.
Che ho rovinato tutto e i soldi non aggiusteranno quello che
avevamo.
Ma non glielo permetterò.
La scaricherò prima io.
«Sei licenziata».
«Cosa?»
«Sei licenziata, Alice», sorrido. «Dovresti avere familiarità con il
concetto».
«No, scusa, mi sono persa un pezzo. Prima mi offri cinquantamila
euro, e ora mi licenzi? Mi licenzi a sette giorni dalla scadenza del
mio contratto?»
«Esatto». Allargo le braccia. «Non vuoi essere comprata? Ritiro la
mia offerta».
Piazza le mani sui fianchi del suo vestito mezzo aperto.
Fa un passo verso di me. «Sei un bastardo rancoroso».
Faccio un passo verso di lei. «E tu una piccola strega ostinata».
«Pretendi di disporre delle persone».
«Perché è così che funziona: svegliati!»
«La tua arroganza mi lascia senza fiato», mi incalza.
«Anche i tuoi occhi, cazzo!»
«Cosa?»
«Cosa?»
«Hai detto…»
«Che sei licenziata».
«No, dopo hai detto…».
Batto in ritirata. «Non ho detto niente, Alice. E non preoccuparti
del vestito. Io non ho nessun problema a pagare per i miei errori».
A parte te, penso mentre esco. Tu sei l’errore per cui non c’è
rimedio.
Alice
Quello che lui prova per te
Sono seduto alla mia scrivania quando bussano alla porta. So già
che è Alice. Non mi sorprende quando la vedo, e non mi stupisco
neppure per il modo in cui si è vestita. Ha il talento di indovinare ciò
che mi fa impazzire e la crudeltà di usarlo contro di me. Lo fa proprio
nel momento in cui sono privo di difese. Ecco perché si è messa
quella sottoveste spudorata che le cade sul seno e sul sedere,
assumendone le forme. Cerco di non trovarla bellissima, ma il mio
sangue scorre più veloce.
«Alice, sono molto arrabbiato con te».
«Sono pentita», dice camminando verso di me.
Ogni sillaba è un passo, finché la distanza si azzera.
«Non sei mai davvero pentita», le rinfaccio.
«E tu non sei mai davvero arrabbiato», è così vicina che le sue
parole sono sulle mie labbra, il suo seno mi sfiora il petto. Non devo
toccarla, ma è una battaglia che lacera i nervi. L’ho già combattuta e
persa un milione di volte. Da tre anni vivo sul confine di un desiderio
negato, costruisco argini che sono illusioni. Basta la sua mano sul
mio petto, per spazzarli via.
«Alice, non puoi toccarmi», le intimo. Ma le ho già bloccato i
fianchi. Sto trasgredendo i miei stessi divieti.
E anche lei lo fa. Posa le labbra sulle mie. Io evito il bacio nello
spazio di un respiro, un intervallo in cui rinasco e muoio. Poi la
afferro, la spingo contro il muro. Lei mi dà le spalle, mi offre la
schiena, le sollevo la gonna. La vista del suo sedere è un pugno al
cuore. Sono un oggetto frantumato. Divento le mani che la toccano,
divento la bocca che la bacia, divento il respiro che mi ruba, divento
labbra e pelle. Sono fuori di me, sono dentro di lei.
Poi apro gli occhi.
Affannato, sconvolto. Ansimante. Scatto a sedere. Prendo atto che
sono nella mia stanza. Realizzo di essere solo. Mi abbandono di
nuovo tra i cuscini. Le lenzuola sono un cumulo indistinto. Questo è
il campo di una battaglia che non c’è stata. Una guerra interiore che
perdo ogni volta che sogno Alice. Ed è la terza volta.
La terza, questa settimana.
Mi passo una mano sugli occhi. «No, Alex», dico a me stesso,
«così non va bene».
Sotto la doccia, cerco di nuovo di analizzare la cosa da un punto
di vista razionale. Non faccio sesso e quindi il mio inconscio si sfoga
così. Certo, potrebbe farmi la grazia di materializzare una persona
meno destabilizzante di Alice ma, probabilmente, se sogno lei e
nessun’altra, è perché devo sfogare anche un altro tipo di
frustrazione. Sogno di farci l’amore ogni volta che litighiamo.
Più tardi, attraverso la città, sui sedili posteriori della mia Lancia.
Milano mi passa davanti agli occhi come un film. La vedo, oltre il
finestrino, senza che nessuno possa vedere me. Questa condizione
mi dà le vertigini. Mi porta a dubitare di esistere davvero. Alla guida
della vettura, il mio autista tace, rispettando il mio silenzio. Questa
settimana comincia con un sole smorzato e due pensieri fissi. Il
primo è mio cugino.
Inutile girarci intorno: ora sono davvero preoccupato.
Ho visto Fosco per l’ultima volta cinque giorni fa. Sono stato a
trovare la zia per sondare il terreno, ma lei era all’oscuro di tutto.
L’ho lasciata nell’ignoranza. Cerco di convincermi che un adulto
abbia il diritto di starsene isolato per tutto il tempo che vuole,
soprattutto se sta affrontando una crisi di natura sentimentale, ma
non resisterò, dovrò chiedere aiuto alle forze dell’ordine.
Vorrei che fosse venuto da me. O che fosse andato da Alice.
Eppure nessuno di noi due gli è sembrato all’altezza. Vuole sempre
cavarsela da solo. Lui è uno che mette il cuore in prima linea. Lo
stimo e lo rispetto anche per questo, ma a volte è frustrante avere a
che fare con chi non si lascia aiutare.
Credo che Alice la pensi come me. Ed ecco che arriviamo al
secondo pensiero fisso: la mia Alice. Se metto da parte la rabbia che
mi suscita la sua ottusa devozione per Fosco e se accantono pure i
sogni erotici, quello che resta è la pena che provo per lei. Venerdì
era davvero preoccupata. Non mi piace vederla così scossa. Se una
cosa le fa male, vorrei solo saperla risolvere.
Arrivo a palazzo e nell’atrio scambio un saluto con Omero, il capo
delle guardie giurate. Mi informo sulla salute di sua moglie. È stata
Alice a dirmi che la signora ha affrontato un trapianto di valvola
cardiaca. Alice mi mette al corrente di queste cose e mi esorta a
sembrare attento, gentile e partecipe. Insomma, lei mi fa apparire
migliore di quello che sono.
Alice è sempre più indispensabile, sempre più connessa e sempre
più integrata, e allo stesso tempo è una variabile sfuggente. Il nostro
è un equilibrio precario. È come se fossimo su una lastra di ghiaccio
che si scioglie. Lo spazio si accorcia, siamo costretti a stare più
vicini, ci sembra la scelta migliore per la salvezza di entrambi. Ma è
come se io sotto sotto sapessi che arriverà un momento in cui in due
su quella lastra non ci staremo più. O mi libero di lei, o sarò io a
cadere.
Sto ancora pensando ad Alice quando la porta dorata
dell’ascensore si apre, rivelando Emilia Levoskova in tutto il suo
indiscutibile splendore. Venerdì l’ho invitata all’aperitivo, ma dopo
l’interruzione di Alice non sono stato una buona compagnia. Il che è
stato scortese almeno quanto stupido. Emilia è dolce, divertente e
bellissima. Ed è bellissima anche in questo momento. Sfoggia un
sorriso radioso. Sarei lusingato di esserne la ragione ma quando, in
preda a un’eccitazione quasi infantile, mi rivela di aver appena
incontrato mio cugino è ancora meglio.
«Fosco? Qui? Sei sicura?»
«L’ho appena lasciato in sala mensa».
«E come sta?»
«Bene. Più o meno. Lui e Gaia hanno rotto davvero. Ricordi che,
dopo l’incidente dell’ascensore, hai detto a Fosco di tornarsene a
casa prima?»
«Sì».
«Be’, lui l’ha fatto. E ha trovato un tizio in salotto. Un tizio nudo».
Queste parole sono un pugno. Penso a come deve essersi sentito
mio cugino di fronte a una scena del genere e immagino il suo
dolore.
La cosa strana è che ci riesco. Lo immagino davvero. Riesco
perché se tradissero la mia fiducia io non riuscirei più a perdonare.
«Ha dormito qui la scorsa notte», riprende Emilia.
«In ufficio?».
Annuisce. «È molto confuso. Deve aver passato un brutto
momento», ipotizza. «Non ha voluto chiedere aiuto a nessuno».
«Tipico suo», sospiro, ma poi sorrido. «L’importante è che ora sia
qui. Per tutto il resto troveremo una soluzione».
Su queste ultime parole l’espressione di Emilia cambia.
«Io una soluzione ce l’avrei già. Sai che cerco casa qui a Milano.
Non mi piace stare in albergo».
«Lo so».
«Ho visto un appartamento che sarebbe perfetto».
«Per lui?»
«Per noi», dichiara. La mia espressione deve risultare come
minimo perplessa e lei si affretta a spiegare. «Gli voglio chiedere di
smezzare l’affitto».
La guardo, mi guarda.
«Insomma, non credo gli faccia bene restare da solo, no?»
«No, ma…»
«E quell’appartamento è davvero gigantesco», allarga le braccia.
Come motivazione non regge. Ci sono una marea di case grandi, ma
non per questo cerchiamo qualcuno con cui dividerle. Il mio silenzio
però la sta mettendo in imbarazzo e ho pietà di lei.
«Emilia», scandisco. «È davvero così grande questa casa?»
«Troppo per starci da soli».
«Allora mi sembra una bellissima idea».
Lo è sul serio.
Se questa ragazza vuole prendersi in casa mio cugino, reduce da
una delusione d’amore, io non posso che approvare.
«Gli mostrerò l’appartamento questo pomeriggio. E poi gli
chiederò se vuole smezzare. Spero gli vada a genio».
«Lo spero anche io, Emilia».
Ci salutiamo e io salgo al quarto piano.
In ascensore rifletto su quello che mi ha detto. In condizioni
normali Fosco non accetterebbe mai di vivere con una persona che
non conosce. Ma non c’è nulla di normale nella sua attuale
situazione e, a dirla tutta, non è normale neppure una come Emilia.
Una convivenza tra di loro sarebbe surreale. Ci si potrebbe scrivere
un libro, su una storia così assurda.
Sto ancora cercando di metabolizzare, quando arrivo al quarto
piano. Mi blocco sulla soglia perché rivedo Fosco.
Fosco abbracciato ad Alice.
E realizzo una cosa a cui non avevo ancora pensato.
Tolta di mezzo Gaia, non c’è più niente che li separi. Fosco è
libero e Alice farà tutto il possibile per prenderselo.
Era la cosa più ovvia e ci ho messo un’eternità ad arrivarci.
«Alex?».
Fosco mi ha visto, mi riscuoto, lo raggiungo. Anche io lo abbraccio
e provo a concentrarmi sul sollievo nel rivederlo.
Scambiamo qualche parola, cerco di confortarlo. Alla fine Fosco
dice di voler raccogliere le sue cose dall’ufficio perché tra poco
arriveranno i colleghi e non vuole che trovino un plaid per terra.
Tengo per me che, plaid o no, chiunque vedendolo stamattina con
quei vestiti stropicciati, l’aria derelitta e la barba lunga di sicuro
capirebbe che qualcosa non va.
Fosco se ne va e resto solo con Alice.
Lei fa un sospiro profondissimo.
«Mi sono tolta un peso».
«Già».
Tengo lo sguardo sul pavimento. Sto valutando cosa dirle del
piano di Emilia. Forse è meglio che lo sappia. Forse questa cosa le
dispiacerà. Ma, prima che decida, lei mi precede.
«Comunque, non preoccuparti, capo. Ero passata a prendere le
mie cose, ma adesso vado».
«Dove?»
«Be’, credevo che venerdì mi avessi licenziato», ha un tono di
sfida. Non solo non crede alle mie minacce, ma è diventata
sfrontata.
«Dovrei licenziarti davvero, Alice. Sono molto arrabbiato con te».
Sorride. «E io sono molto pentita».
È la stessa cosa che mi ha detto in sogno. La battuta è mia.
«Tu non sei mai davvero pentita, Alice».
«E tu non sei mai davvero arrabbiato».
Ecco. Ci mancava solo questo. Dovrei uscire di qui e invece faccio
un passo verso di lei. Lo faccio perché nel sogno a questo punto mi
toccava.
E mi sento toccato sul serio, perché sono appena inciampato in
uno di quei momenti in cui i suoi occhi diventano carezze.
«Alex…»
«Sì?»
«Sono licenziata?»
«No».
«Sei veramente arrabbiato?»
«Sì».
«Possiamo aggiustarla?»
«Non lo so… mi hai davvero messo in imbarazzo…»
«Scusa se ti ho preso il telefono».
«Le tue scuse non bastano».
Appoggia la mano sul braccio. Ne esce contatto che mi ridefinisce,
che lascia una scia di esistenza, dove c’era solo pelle.
«Cosa vuoi che faccia?».
Che mi tocchi ancora, Alice…
«Ci penserò», dico, stringo i pugni per non cedere e restituirle la
carezza. «Fino a quel momento vedi di non peggiorare la
situazione».
Poi, non so dove, trovo la forza di staccarmi da lei e andarmene
via.
La lastra di ghiaccio è sempre più stretta.
Alice
Fallo per me
«Ho sentito Marilù che lo diceva a una ragazza del quarto piano!
Stamattina il dottor Francalanza e la Dei Pinzi sono arrivati insieme».
«Si conoscono. Sono amici da quando erano bambini».
«Secondo me non sono solo amici».
«Lei ha lasciato il fidanzato».
«Io sono certa che il dottor Francalanza aspettasse questo
momento».
«Giacomino delle risorse umane esce con la Baraldi dell’ufficio
legale e si lamentava perché lei sta facendo gli straordinari. L’ufficio
è impegnatissimo con le pratiche di una cessione importante. Il
compratore è il gruppo di Dei Pinzi Ranieri. Per me non è un caso».
«Cosa stanno cedendo a Dei Pinzi?».
Le mie tre colleghe, che stanno facendo una pausa gossip a due
metri dal mio cubicolo, si girano verso di me.
«Si parlava del dottor Francalanza», dice Carolina Basso.
«Questo l’ho capito, ma voglio sapere a quali pratiche di preciso
lavora l’ufficio legale del gruppo».
Carolina ci pensa. «Credo si tratti della cessione di una divisione
editoriale. Qualche marchio relativo ai prodotti da libreria; se vuoi mi
informo e…»
«Tranquilla», mi alzo in piedi. «Ho capito».
Loro riprendono a parlare e io scambio un’occhiata con il mio
unicorno. Ci scommetto la sua coda arcobaleno che Alessandro si
prepara a cedere la Hannover.
Lo sguardo torna alla mail che ho ricevuto ieri mattina.
È strano come una cosa tanto desiderata possa perdere parecchio
del suo fascino, se arriva nel momento sbagliato.
La rileggo. Per essere certa del suo contenuto.
Cordialmente,
Dott.ssa Lucrezia Ferguson
Senior Editor per Visconti Santi
Okay, è un segno.
Un segno che, sommato a tutti gli altri, dovrebbe farmi capire che
chiusa una porta si spalanca un portone.
Sono arrivata a Milano perché volevo lavorare in una casa
editrice. Sono inciampata in un bastardo e ho perso di vista
l’obbiettivo.
Ora però la strada è di nuovo davanti a me chiara e senza bivi.
Mi hanno preso. E non in una casa editrice qualunque. Mi hanno
preso alla Visconti Santi.
Mi sono concessa un giorno per metabolizzare, o forse aspettavo
che il destino si muovesse dandomi l’ennesima prova che non c’è
nessun motivo per restare. Quindi ci siamo. Devo salire al decimo
piano, bussare all’ufficio di Alessandro e dirgli che me ne vado.
E non perché ora si vede con Carlotta, lei è solo l’ultima di una
lista infinita di ragazze che Alessandro esibisce senza pietà, lo faccio
perché si sta liberando della Hannover Press. Questa è la prova che
vuole cancellare tutto quello che siamo stati.
Mi sta colpendo in tutti i modi in cui una persona può essere
colpita. Mi castiga sul lavoro, mi sbatte in faccia le sue scopate con
allusioni accidentali e ora mi sta dicendo che quello che abbiamo
fatto insieme non conta più un cazzo.
E perché?
Perché durante una serata in cui sembravamo invincibili abbiamo
trovato un mio amico sul pianerottolo di casa.
Alex mi ha dichiarato guerra, ha scatenato una rappresaglia senza
precedenti per una cosa che avremmo potuto sistemare parlandone
cinque minuti. Mi sento ancora stupida per aver creduto di farlo
ragionare. Non posso stare accanto a una persona che porta la
vendetta a questo livello.
Sono le cinque quando mi decido a salire al decimo piano. Informo
la segretaria che trovo all’accoglienza che vorrei parlare con Alex e
lei solleva il ricevitore e riferisce la cosa.
Alessandro le risponde che posso accomodarmi in sala d’attesa.
Avviserà appena si libera. La segretaria mi fa sapere che sarà
questione di qualche minuto.
E così, a mano a mano che i minuti passano, lei diventa sempre
più perplessa. Dopo quaranta minuti di attesa richiama il capo per
sincerarsi di aver capito bene.
Alex risponde che ha capito benissimo e che, a breve, sarà in
grado di ricevermi.
Sono le sei e un quarto, a ridosso dell’orario di chiusura degli
uffici, quando al desk si presenta una ragazza bellissima. Alta,
elegante, con una massa perfetta di ricci rossi sparsi sulla schiena e
un paio di occhi nocciola. Ha un marcato accento straniero, dice di
chiamarsi Maya Sunrise e di essere attesa dal dottor Francalanza
Visconti.
La segretaria guarda prima lei poi me, poi si decide a fare la
telefonata. Spiega la situazione e poi la sento balbettare.
«È sicuro, dottore? Le ricordo che c’era Alice Baker che… sì
certo… ci mancherebbe… io pensavo solo… lo faccio subito».
Riattacca. E poi si rivolge a Maya.
«Il dottore la aspetta nel suo ufficio, signorina Sunrise».
Lei si avvia per il corridoio con il suo passo da indossatrice e il
poncho calato sulla spalla con la noncuranza di chi sa che presto i
vestiti non le serviranno più. La povera segretaria è esterrefatta. Si
scusa con me ammettendo di non aver proprio capito che cosa sia
successo. Io, al contrario, ho capito benissimo. Alessandro sta solo
portando umiliazione e mortificazione a un altro livello. Mi fa
aspettare, come se fossi indegna del suo tempo e per suggerire che
può disporre del mio. Chiama una delle sue amiche e le dice di
raggiungerlo in ufficio, perché io sappia che vede altre persone.
E tutto questo ostentare sufficienza, distacco e indifferenza non fa
che dirmi quanto sia ancora arrabbiato con me.
E tutto perché il suo ego del cazzo non ha saputo gestire la
presenza di un mio amico sul pianerottolo del mio appartamento…
Sto per andarmene quando la porta dell’ufficio si apre, sento la
risata di Maya e, più bassa e impostata, quella di Alessandro.
Escono parlando in inglese.
Alessandro indossa uno sguardo distante e un sorriso crudele. La
sua eleganza è assoluta, la sua bellezza è spietata. Fa male vedere
che, nonostante tutto, la prima cosa che penso trovandomelo
davanti è che resterei a guardarlo per ore.
«Buonasera Marta, a domani», dice passando davanti alla
segretaria. A me riserva il sorriso di chi neppure sa chi sei, ma
prende atto che sei lì, nel suo stesso corridoio.
Non si scusa per avermi fatto aspettare, non si giustifica per
quanto accaduto.
Ma non sono sorpresa. Non mi aspetto più nulla da lui. Direi che
abbiamo toccato il fondo.
«Alessandro», lo richiamo.
«Scusa, ma sono davvero di fretta…», dice senza voltarsi.
«Okay, volevo solo farti sapere che ho ricevuto un’offerta di
lavoro», parlo alla sua schiena, «e l’ho accettata. Passa una buona
serata».
Lo supero e imbocco il corridoio. Sono sulla prima rampa di scale
quando sento i suoi passi. Ma non mi procura nessuna emozione.
Solo un picco di rabbia. È così prevedibile da risultare ovvio. Mi
supera prima che io arrivi al pianerottolo.
«Alice, cos’è questa storia?»
«Ero venuta per spiegartelo».
«Sai benissimo che non puoi lasciare la redazione. Siamo nel
pieno di un trimestre di collaborazione con una celebrità a cui sono
legati migliaia di euro di contratti. Non hai più la penale da diecimila
euro, ma posso comunque farti causa».
«E non dubito che lo faresti», replico. «Ma, tranquillo, non dovrai
pagare i tuoi avvocati. Durante il colloquio ho detto di avere un
impegno morale con la tua redazione. Loro hanno capito e mi
aspetteranno. Finirò il lavoro iniziato con Emilia. Poi a gennaio inizio
a lavorare alla Visconti Santi».
La sua espressione interdetta si dilegua nella sorpresa.
«Visconti Santi?»
«Già. Ora torna dalla tua amichetta, Alex. Se è mediamente
intelligente non ci metterà molto a capire che deve starti alla
larga…».
Faccio per superarlo, ma lui mi blocca.
«C’è stato un errore», dice. «Quel contratto ti è arrivato per
sbaglio».
«Ma di cosa stai parlando?»
«Ti è stato mandato per errore», insiste.
«Ma come fai a dirlo? Neppure sapevi che avevo fatto il colloquio.
Io sono la persona informata dei fatti, non tu!»
«E io sono la persona che detiene un pacchetto azionario della
Visconti Santi. Non tu».
Questa affermazione mi spiazza. Ma peggio fanno i suoi occhi.
Tutta la rabbia di prima ha lasciato il posto a un’espressione
implacabile. L’espressione di chi prepara una contromossa.
«Che diavolo significa, Alex?»
«Se dico che ti è arrivato per sbaglio, ti è arrivato per sbaglio. Ma
non perché sia vero. Solo perché io posso farlo diventare vero».
«Tu non…».
Mi interrompo, ha preso il suo telefono dalla tasca del cappotto.
Compone un numero. Sento il riverbero di un paio di squilli, poi
Alex sorride.
«Ciao Vittorio, come stai?», dice tenendo gli occhi fissi nei miei.
«Ti rubo un minuto soltanto. Credo che il vostro ufficio selezione
personale abbia commesso un errore. È stato mandato per sbaglio
un contratto a una certa Alice Baker. Sì. Esatto, è una mia
dipendente. Sì, mi fa piacere che il colloquio sia andato bene, ma io
preferisco resti in azienda. Ecco sì. Te lo chiedo come favore
personale. Grazie. Ah, un’ultima cosa: avvisatela subito. Non vorrei
che si facesse illusioni».
Riattacca.
Il primo pensiero è che sia uno scherzo. Una recita beffarda fatta
per mettermi paura. L’ostentazione di un potere che sa di avere ma
che non potrebbe mai usare, una prepotenza fine a se stessa.
Perché un conto è avere la possibilità di compiere un gesto ignobile,
un conto è compierlo.
Solo che sento vibrare il mio telefono nella tasca dei jeans.
Rispondo.
«Signorina Baker?»
«Sì… sono io».
«Sono Tabata, ufficio personale Visconti Santi, la volevo avvisare
che le è stato erroneamente inviato un contratto di…».
Chiudo la chiamata.
Incontro lo sguardo di Alessandro e mi chiedo come possa tenerlo
fisso nel mio. Dove trovi il coraggio di guardarmi in faccia dopo
quello che mi ha appena fatto.
«Bene. Direi che l’abbiamo sistemata», si aggiusta il cappotto.
«Ah, e ricorda che dopodomani io e te andiamo a una festa, cerca di
trovare un abbigliamento adeguato e, già che ci sei, di rinnovare il
guardaroba. Gradirei che in futuro ti vestissi meglio di come hai fatto
finora».
Alex
Gli occhi di tutti
Ho baciato Alice.
Lo penso mentre due amiche di amici di cui non ricordo neppure il
nome reclamano la mia attenzione.
Hanno interrotto il momento più importante della mia vita.
Ho baciato Alice.
Me lo ripeto mentre sorrido e cerco di liberarmi di loro.
Ho baciato Alice.
Scandisco ossessivamente e, poiché la devo assolutamente
baciare ancora, alla fine mi congedo dalle due e mi giro.
Ho baciato Alice.
Ma Alice è sparita.
La cosa mi procura uno strano smarrimento. La cerco tra le
macchine. Ma non la trovo. Le telefono, ma l’apparecchio è
irraggiungibile, le mando comunque un messaggio. Poi rientro nel
castello dove la festa prosegue.
Cerco Hywell, e vedo che è con i suoi amici. Di Alice neanche
l’ombra.
Mi aggiro senza tregua, schivando le persone che conosco con
modi sempre più scontrosi. Mio malgrado sento crescere l’ansia.
Perché ho baciato Alice.
Ma non la trovo più.
E in questo momento comincia la discesa all’inferno.
Perché continuo a cercarla e riempio prima i minuti e poi le ore
chiedendomi dove diavolo sia.
Sono le tre di notte quando mi trovo a suonare al citofono di casa
sua, senza che nessuno risponda.
Sono le quattro e mezzo quando mi ritrovo con il telefono in mano.
Nella mia testa rimbalza quella parola, “Berlino”, come fosse una
biglia impazzita. Controllo a che ora partono i voli.
Malpensa, ore sei e un quarto.
Ci arrivo alle cinque e mezza. Mollo la macchina ed entro nella
struttura.
Non può essere qui. Posso accettare l’idea che mi abbia baciato e
che poi se ne sia andata, perché tutto quello che è accaduto prima di
quel bacio è stato tremendo.
Ma non posso credere che dopo quel bacio lei mi abbia piantato
per scappare a Berlino.
È impossibile che sia qui, penso mentre percorro i corridoi
dell’aeroporto. Mi sento spettatore della mia stessa follia.
Però forse è vero che non tutto si aggiusta. Che alcuni disastri
sono irreversibili. Se bruci un fiammifero, puoi scordarti per sempre
di riaverlo indietro.
Il nostro bacio è stato irreversibile?
In parte mi rispondo da solo quando la vedo.
Il cuore si pianta nel costato. Vuole disertare. Non ce la fa più.
Alice è nell’area destinata all’imbarco. Ha un paio di jeans e il suo
solito cappottino. Deve essere passata da casa.
E in questo momento ho nostalgia di tutto, perfino del male che ci
siamo procurati.
Mi avvicino alla guardia giurata, qualcosa racconterò, ma devo
entrare in quell’area senza carta d’imbarco. Ma, prima che possa
raggiungerlo, vedo lui. Hywell Stockton. È arrivato con due sacchetti
e due caffè.
Le ha portato la colazione.
E questa intimità che lei riesce ad avere con un estraneo mi
sembra il tradimento definitivo.
La mia determinazione non è mai esistita. Basta un caffè per farmi
fare un passo indietro.
Perché ci sarà sempre qualcuno sul pianerottolo.
Qualcosa che non riesco a gestire.
Perché la mia verità su di noi non è uguale alla sua.
Perché io la amo e lei no.
Sento il telefono squillare.
Quando leggo il nome sul display provo un sollievo che non
credevo possibile.
«Carlotta…»
«Alex, ma dove sei finito?»
«Storia lunga».
«Ora me la racconti. Sono al bar Iago, vicino a casa tua».
Guardo Alice per l’ultima volta. Poi chiudo gli occhi.
Abbasso la testa.
«D’accordo, Carlotta», le dico, «vengo da te».
Alice
La verità su di noi
Il quinto grazie, con buona pace di Serpieri, è per chi rende più
facile il mio lavoro. Scrivere è inevitabile ma è anche una pratica
solitaria. Ma poi arriva il messaggio di un’amica che ti dice
buongiorno, il post di qualcuno che ti ha letto, una recensione onesta
ma rispettosa del tempo che hai impiegato e del lavoro svolto, e tutto
va a creare un contesto che annulla la sensazione di essere soli.
Perché quando alzi lo sguardo dal foglio è come se vedessi tutti e
non c’è solitudine più affollata di quella che sperimenta uno scrittore
che ha la fortuna di avere lettori come voi.
Reggio Emilia
8 ottobre 2018
ANTEPRIMA
L’ultimo bacio
Il volume conclusivo della storia di Alex e Alice
L’ultimo bacio
Bianca Marconero
Prologo
L’Unico Anello
Continua…