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Le nostre prime sette volte

Bianca Marconero
Copyright testi © Christian Borghi
I Edizione digitale ottobre 2019
Cura editoriale: Valentina Crimella
Un ringraziamento speciale a Bianca Ferrari, Denise Aronica,
Ester Sardo e Alessandra Angelini.
Tutti i diritti riservati.

© per l’immagine di copertina: shutterstock/Africa Studio

Facebook: Bianca Marconero


Instagram: @bianca_marconero
INDICE

La prima volta
La seconda volta
La terza volta
La quarta e la quinta volta
La sesta volta
La settima volta
Ringraziamenti
Anteprima de “L’ultimo bacio”
A mamma e papà.
Grazie per avermi regalato una possibilità.
Eredi e dinastie
Chi è stato l’indiscusso re delle Notti di Smeraldo? Naturalmente
lui, Alessandro Francalanza Visconti (24 anni, nella foto)! Più volte
avvistato tra Porto Cervo e Baja Sardinia, al Sottovento o al
Billionaire, l’erede del noto gruppo editoriale stavolta le vacanze se
le è proprio meritate!
Dopo la laurea alla Bocconi e un master negli Stati Uniti, lo scorso
autunno il giovane Francalanza ha trovato il proprio posto
nell’azienda fondata dal bisnonno, nel lontano 1902.
Lo abbiamo beccato al noto bar Ughino, in compagnia degli amici
di sempre tra cui spicca, ça va sans dire, la splendida Carlotta Dei
Pinzi Ranieri (21 anni, nella foto a sinistra).
Gli abbiamo chiesto un bilancio dei suoi primi otto mesi in azienda.
«Sono fiero di essere dove sto», ha detto, «è quello per cui sono
nato. Per me il gruppo editoriale Francalanza Visconti non è solo
un’azienda. Per me è una missione».
Più evasivo, ma mai lapidario, si è dimostrato quando il discorso si
è spostato sugli affari di cuore. «Ho molte amiche. Sono una
persona socievole».
Ma ci sono amiche speciali? Come dobbiamo interpretare gli scatti
eseguiti sul ponte della Gutenberg, durante una festa esclusiva (vedi
pagina 15), che lo ritraggono in atteggiamenti confidenziali proprio
con Carlotta? Lui e la giovane ereditiera sono inseparabili.
«Sono anni che leggo sui giornali che io e Alessandro ci
sposeremo», ha commentato Carlotta con uno splendido sorriso.
«Magari prima o poi lo facciamo sul serio».
Si tratta di uno scherzo malizioso o di una involontaria rivelazione?
Per ora pare che siano soltanto amici. La bella Carlotta sembra
felice accanto al suo Eugenio, e Alessandro non disdegna altre
compagnie femminili. Dopo il suo flirt con la cantante Sabryna,
vincitrice del talent Voice Over, chi sarà la prossima a cadere ai piedi
del Golden Boy?
Karisma Bartoletti, Storie2000
Prologo
Il giorno che ti ho incontrato

In questo torrido giorno di fine agosto mi sovvengono tre certezze.


La prima è che io, Alice Baker, non ho niente in comune con il
campionario femminile che si accalca intorno a me stipando il
corridoio di un glorioso edificio storico, se non il fatto, evidente, che
stiamo morendo di caldo e quello, altrettanto ovvio, che cerchiamo
tutte un lavoro.
Oggi, a Palazzo Francalanza Visconti – la sede di alcune
redazioni del noto gruppo editoriale Francalanza Visconti – si
tengono i colloqui per i nuovi copywriter. In particolare, cercano due
persone da inserire a «Power Player», quindicinale di informazione
videoludica, e una sola “fortunata” persona da piazzare nella
redazione di «Lollipop», il settimanale per ragazzine in pieno
sviluppo ormonale, che esiste da quando Mosè ha separato le
acque.
La diversità tra me e le altre aspiranti salta agli occhi.
Tanto per cominciare, loro sono un plotone floreale, in varie
gradazioni di pastello. Io sono bardata di nero. Anfibi, leggings,
gonna di pizzo, maglietta a maniche corte, tutto è uniformemente
cimiteriale. Perfino i capelli si allineano, ho un tono di castano quasi
nero che sembra finito per sbaglio nel mio bagaglio genetico, dal
momento che, come fototipo, sono chiara. Ho gli occhi azzurri e un
incarnato che, a parte le lentiggini, si colloca tra il tono “latte” e
quello “bagliore associato ad apparizione religiosa”.
In questo corridoio, dicevo, l’universo delle teenager drogate di
ormoni e talent show, devote a pseudomusicisti nati su YouTube e
fermamente credenti negli oroscopi, è rappresentato da chiunque a
parte me.
Ne segue che io non avrò il posto di lavoro a «Lollipop».
La seconda certezza è che me ne farò una ragione.
La terza è che io non sono l’unico esemplare anomalo dello
schieramento.
Pur con un’approssimazione sessista, posso azzardare che tutte
le ragazze sono qui per «Lollipop», mentre tutti i ragazzi – tranne,
forse, quello con la borsetta rosa e quello con il foulard legato
intorno alla testa – sono qui perché sperano di ottenere il posto a
«Power Player».
Ecco, se io sono una macchia nera nell’esercito della salvezza
rosa, in mezzo alla schiera di ragazzi, che vanno dal “troppo
trasandato” al “troppo hipster”, chiaramente devoti ai videogiochi, ce
n’è uno che si stacca dal mucchio.
Uno diverso. Uno che legge La coscienza di Zeno.
E quando vedi qualcuno che legge il tuo libro preferito è un po’
come se avessi scoperto il tatuaggio del Fight Club sul polso di un
estraneo.
Gli riconosci l’appartenenza alla tua stessa setta.
Visto che devo ammazzare il tempo, nella speranza che il caldo
non mi ammazzi prima, mi sono messa a fissarlo. Il ragazzo lettore è
anomalo, non solo perché legge ma anche perché, a differenza degli
altri, non cerca di fare amicizia, sulla fragile base aleatoria
dell’essere nello stesso luogo, nello stesso momento; non è neppure
un sociopatico, però. Se scambia uno sguardo con qualcuno, ci
aggiunge sempre un sorriso.
Un bel sorriso che ti mette voglia di attaccar bottone. Tutto unito a
un fisico notevole e a capelli interessanti. Non so nulla dei suoi occhi
perché porta un paio di lenti da miope. Ma ho la sensazione che
siano chiari.
Smetto di pensare al tizio con il libro quando chiamano il mio
nome.
Mi alzo, mi sistemo la tracolla di Nightmare Before Christmas e
vado incontro al mio destino.
I colloqui si svolgono in una specie di salotto di rappresentanza, a
pianterreno.
È luminoso, anche se le finestre sono velate dalle tende di lino, ed
è infinitamente più freddo rispetto al corridoio. I condizionatori
creano un microclima di tipo subartico. Lo sbalzo termico mette a
rischio di congestione.
Nella stanza ci sono due tavoli massicci. Dalla disposizione delle
persone e delle sedie capisco che i colloqui, benché individuali, sono
simultanei, due per ogni tavolo. La distanza tra le seggiole dei
candidati è al minimo sindacale per garantire la privacy.
Da un lato c’è una commissione di quattro esaminatori maschi,
che presumo valutino le candidature per «Power Player». Sull’altro
tavolo, ci sono due esaminatrici in attesa della sottoscritta, e un tizio
biondo che si occupa di una seconda candidata. Non mi curo di lui
ma do un’occhiata alla mia rivale. Giusto il tempo di vedere che è
vestita con un abito adatto a una vacanza in Provenza e che ha una
scollatura strategica, studiata per togliere ogni dubbio sulla sua
quarta misura piena. La natura le ha messo sul petto tutto ciò che si
è scordata di dare a me.
Una ragazza con camicetta immacolata e giro di perle, per un
effetto fin troppo chic, mi fa cenno di accomodarmi accanto a Quarta
Misura.
Eseguo e mi trovo faccia a faccia con la mia esaminatrice, una
tizia sui ventisette massimo. Lei deve essere il boss. È vestita di
bianco, come la sua assistente, ma è un bianco più abbagliante, che
le infonde un alone messianico. C’è una nota eccessiva nel suo
sorriso, perché sembra che un chirurgo plastico ubriaco glielo abbia
tirato sul viso.
Nel tempo in cui mi sistemo, compare una ragazza dalle retrovie e
porge alla tizia con il ghigno perfido, che abbrevierò in “Perfida”, una
bottiglia d’acqua naturale. Perfida accetta modulando un:
«Finalmente, Martina. Ormai ti davo per persa», a cui seguono una
marea di scuse da parte della povera Martina che si è,
evidentemente, macchiata della colpa imperdonabile di non aver
eseguito il suo compito alla velocità prevista dalla sua capa.
Proprio lei torna a guardare nella mia direzione. «Sono Marilù»,
dice, «e tu sei…?»
«Baker», rispondo. «Alice Baker».
«E cosa ti porta qui, cara Alice?»
«Be’, mi avete chiamata», replico. «Cioè, credo di aver passato la
preselezione, il test di cultura generale. Se guarda in mezzo a quei
fogli», e indico le carte di fronte a lei, «c’è scritto di sicuro».
«Sì, ovvio», le sillabe sono più affilate, «chiaramente hai passato il
test. Intendevo dire “cosa ti ha spinto a sottoporci la tua
candidatura”».
«Ho bisogno di un lavoro. Vengo da Roma. Mi sono trasferita da
poco. Sono iscritta a Lettere. Vorrei lavorare in una casa editrice.
Occuparmi di editing, correzione di bozze, ma intanto mi sta bene
anche fare il copy…»
«Quindi, noi di “Lollipop” siamo il tuo piano B?».
A dire il vero erano il piano C, il piano B era uno stage presso un
quotidiano importante. Ma, esattamente come per l’editoria seria,
non è andata. Evito di fornire dettagli e annuisco.
«Visto che sei qui, proviamo a conoscerci meglio», rilancia. Sto
per dirle che ci vuole poco, visto che partiamo dal “niente” su cui si
attesta, attualmente, il nostro livello di conoscenza. Ma stavolta mi
trattengo. Rischio di diventare bravissima a trattenermi.
«Quali sono i tuoi gusti, Alice?», mi domanda, in una rapida
ispezione del mio outfit. «Per esempio che musica ascolti», ripiega,
quasi avesse deciso che non vale la pena interpellarmi sulla moda,
«o chi è il tuo membro preferito degli Only Us, per dire…»
«Dei chi?».
Il sorriso di Perfida si incrina in un barlume di onestà. «Gli Only
Us», ripete, «la boy band britannica che a giugno ha vinto Rising
Star, la versione UK del format per talenti musicali…».
Non ho idea di cosa stia parlando. Mi stringo nelle spalle, ma poi
aggiungo: «Ma se si tratta di cercare su Wikipedia due informazioni
sulle meteore del momento, a uso e consumo delle ragazzine, ho gli
strumenti per farlo e…».
Una risatina mi interrompe. È Quarta Misura e il sospetto che mi
trovi buffa mi induce a girarmi. In realtà è euforica per qualcosa che
ha detto il suo esaminatore, una battuta apparentemente irresistibile.
Mi decido a guardarlo, questo comico che le sta facendo il colloquio.
È un tipo ben vestito, attraente, con una testa di ricci di un biondo
ideale, che non credevo esistesse in natura. È impegnato nel
tentativo di nascondere a sua volta un sorriso e dare a questo
colloquio una parvenza di professionalità, quando lo sento dire: «In
fondo l’aperitivo è un rituale di indubbio interesse antropologico».
L’aperitivo? Ma è serio? Magari è argomento di interesse per i
sociologi dei consumi. Spero che Quarta Misura intervenga e lo
corregga.
Invece no. Deve aver lasciato in corridoio la sua capacità critica,
perché ride di nuovo.
Bene, so abbastanza della vita per avventurarmi in un pronostico.
Se il fighetto biondo ha un’unghia di potere, la farà valere per dare il
posto di copywriter a Quarta Misura e magari scoparsela contro la
fotocopiatrice.
La voce di Perfida mi ripesca da queste riflessioni. «Quindi tu,
Alice, non leggi “Lollipop”?»
«Certo che no».
Ecco, potevo evitare di usare un tono mezzo scandalizzato. In
fondo sono qui per un posto di lavoro, anche se ho appena scoperto
che non lo avrò mai. Cerco di arrivare a un giusto compromesso tra
servilismo e onestà.
«Il punto è che io sono brava a imparare. Ascolto, seziono e
assimilo. Questo si deve chiedere a un copy, giusto? Non le nozioni.
Quelle cambiano con le stagioni. Oggi sono gli Only Bus…»
«Only Us», puntualizza a denti stretti.
«Quelli, ma domani? Le mamme dei cantanti di boy band sono
sempre incinte. A voi non dovrebbe importare di trovare una persona
esperta di questa band in particolare, ma dovreste dare il lavoro a
una persona la cui abilità non sia soggetta alle mode, in grado di
diventare esperta di qualunque cosa, in tempi brevi, e scriverne
come se gliene fregasse davvero qualcosa! E questo lo so fare»,
proclamo, «posso scrivere come la vostra miglior redattrice, dopo un
tempo di apprendimento quantizzabile in un paio d’ore, o anche
meno, con internet a disposizione».
«Questo mi pare un po’ avventato».
È stato il tizio biondo a parlare. Mi accorgo solo ora che ha
terminato il colloquio con Quarta Misura e che sta aspettando una
nuova candidata. Credo si sia messo ad ascoltare me per ingannare
il tempo.
Affronto i suoi occhi e li scopro di un grigio cristallino. Sembrano
d’argento. Per un attimo mi trovo spiazzata come davanti a
un’incongruenza. Perché poco fa lottava per non ridere ma quegli
occhi non sembrano appartenere a una persona capace di farlo.
Fanno pensare a una barriera di metallo, qualcosa in cui ti rifletti, ma
che non puoi proprio penetrare.
Ha detto che sono avventata.
«So di poterlo fare», ribadisco.
Non sembra impressionato, ma ho la sensazione che vorrebbe
impressionare me.
Primo indizio, si scombina i capelli con un gesto così noncurante
da risultare artefatto. Secondo indizio, sorride, lasciando indietro gli
occhi. Terzo, posa i gomiti sulla scrivania e si sporge verso di me.
«Quindi lei può imitare uno stile, simulare una competenza, scrivere
come la migliore delle nostre redattrici, dopo un periodo di
apprendimento quantizzabile in, quanto?, un paio d’ore», riassume.
«Ma, signorina, l’ha mai sfiorata il sospetto che per “Lollipop”
lavorino persone motivate, convinte che la rivista sia un valore da
proteggere e che, magari, la dedizione a una causa non si possa
simulare?».
Su “motivate”, “valore” e “dedizione” Perfida ha annuito a tempo
come fosse la sua parte in una precisa liturgia.
«No», dico, onestamente. «Prima che lei suggerisse questa
prospettiva, io non avrei mai creduto che i poster dei minorenni e i
test fossero un valore da proteggere. Ma il fatto che la sua sia una
domanda retorica mi obbliga a rivedere le mie convinzioni»,
annuisco. «Ciò non toglie che io possa simulare qualsiasi cosa».
Non ho pensato troppo alle mie parole, ma sono obbligata a farlo
quando mi accorgo di averlo spiazzato. Oddio, ho detto che posso
“simulare qualsiasi cosa”, ho esitato con la voce su qualsiasi cosa.
Vuoi che il tizio biondo abbia colto un’avance? È così abituato a
essere irresistibile? Se solo sapesse quanto poco mi attirano quelli
della sua razza, si sentirebbe al sicuro.
Perfida interviene: «D’accordo, Baker, grazie davvero. Le faremo
sapere».
Questo passaggio al registro formale suona come un calcio in
culo, ma me lo prendo, sapendo di meritarmelo. Ho fatto un casino.
Non si sputa nel piatto in cui si chiede di mangiare.
Nel momento in cui prendo la tracolla, arriva una tizia dalla
magrezza preoccupante, che indossa un prendisole verde prato e un
paio di ballerine che sembrano avere ancora il cartellino attaccato.
Ma il fighetto biondo si alza proprio mentre lei si siede.
«Marilù, mi prendo una pausa», dichiara. «Puoi pensare tu alla
nuova candidata?», e indica il fuscello vestito di verde che si stava
sedendo davanti a lui.
Perfida annuisce servile, cosa che si può spiegare in due modi: o
è innamorata del biondo oppure la sua deferenza ha ragioni
gerarchiche.
Comunque, non mi riguarda e mi importa ancora meno.
Almeno finché il biondo non mi raggiunge.
«Signorina, le va un caffè?».
Anche se ha detto “signorina”, sento il bisogno di guardarmi alle
spalle, nell’eventualità che ci sia un’altra con i requisiti.
E, niente, vedo solo un usciere con il papillon.
«Se mi va un caffè?», ripeto per sicurezza.
«Se le va un caffè», insiste e mi guarda dall’alto al basso, perché
ora che sta in piedi davanti a me, miseria, mi accorgo che mi
surclassa.
Solo chi non supera il metro e sessanta può capire l’invidia che
proviamo noi persone piccole verso quelli che sono stati favoriti dalla
genetica. Come accaduto con Quarta Misura, mi sento defraudata di
qualcosa che, se la natura fosse equa, mi sarebbe spettato di diritto.
Alla fine mi decido e annuisco. «E prendiamocelo, questo caffè».
Ho la sensazione che questa sosta alle macchinette sarà epica.
Già mi figuro l’impiegatuccio modello delle risorse umane intento
a elargirmi preziosi consigli per il prossimo colloquio di lavoro.
Magari sta pensando di farmi un favore.
Mi scorta verso una stanza contigua. È piccola e trovano posto
giusto una macchinetta per le bevande calde e una grossa
fotocopiatrice.
«Quindi lei è, o dice di essere, una persona attenta e perspicace».
«Sì», confermo. «Sono flessibile».
«Flessibile?»
«Adattabile», ripiego. «Insomma, i linguaggi sono il mio pane. Ho
redatto annunci funebri, sa? E anche i testi per i diari scolastici. Ho
perfino lavorato per un politico, subito dopo la maturità».
«Questa è una buona referenza».
«No, perché era un coglione», taglio corto. «Il pensiero di aver
portato anche solo un voto alla causa di quell’uomo avrebbe dovuto
togliermi il sonno. Ma avevo bisogno di soldi…»
«Un po’ come adesso, presumo». Messa alle strette, annuisco.
«Bene, mi dia una prova di questo suo talento», mi invita.
Sulle prime non capisco, poi lui estrae una chiavetta dalla tasca e
mi guarda. Il muro di argento del suo sguardo mi tiene a distanza.
Impenetrabile.
«Secondo te, come prendo il caffè?».
È passato al tu. Forse per mettermi alle strette, per confondermi.
«Non lo so».
«Indovina», suggerisce. «Sei intuitiva, sei perspicace. Se ci riesci,
il posto è tuo».
Do una rapida scorsa alle possibili selezioni. Lungo, dolce,
macchiato, ristretto, macchiato soia, caramello, marocchino, arabica,
colombiana, orzo. Ho una possibilità su dieci di prenderci.
E invece io ripiego sull’undicesima.
«Tu non bevi caffè», dico a colpo sicuro.
La sua espressione resta impassibile. Gli occhi d’argento hanno
qualcosa di liquido, un riflesso mobile. Poi si riscuote, come avesse
realizzato un dettaglio discriminante.
«Colpa mia», dichiara, una mano sul petto. «In effetti non è un
segreto. Hai letto l’articolo di Karisma Bartoletti per “Storie2000”,
giusto?»
«Karisma cosa?»
«Karisma Bartoletti, la direttrice di “Storie2000” che…»
«Mi prendi per il culo?», lo interrompo e rido. «Non può esistere
davvero».
Lui è spiazzato, e sembra gli scappi pure un sorriso. «Te lo posso
giurare, esiste».
«E immagino sia molto carismatica».
Stavolta ride, ma se ne pente subito.
«Che nome del cavolo», commento, poi lo guardo e mi ricordo da
dove siamo partiti. «E comunque, no! Non ho letto il sondaggio sul
caffè, pubblicato su una rivista patinata».
«Non era un sondaggio», puntualizza. «Era un’intervista. A me».
«Ah, e perché? Sei l’impiegato dell’anno o cose così?».
Mi squadra prima allibito e poi guardingo. «Quindi, tu non sai chi
sono?».
C’è una sorta di provocazione nel modo in cui la voce si appoggia
agli accenti. Riconosco uno scetticismo di fondo. Come se
escludesse la possibilità.
«No. Non so davvero chi sei».
Bussano. E poi fa capolino una testa di capelli ricci che riconosco.
È il tizio che leggeva La coscienza di Zeno.
La sua apparizione porta un sorriso sul viso del ragazzo biondo. Il
primo sorriso vero.
«Fosco!»
«Ciao», dice quello di nome Fosco, poi mi vede e mi sorride con
un cenno, e io ricambio d’istinto.
«Hai già fatto?», s’informa il biondo, è quasi contrariato, «Dovevi
chiamarmi».
«Tranquillo», dichiara Fosco. «È stato un colloquio lampo». Ha
una voce rotondissima con delle vibrazioni basse piuttosto sexy. È
alto quasi quanto l’altro, ma riesce a gestire la mole attraverso la
postura, senza surclassarmi. Anche questo è un talento.
«Dovevi comunque chiamarmi», insiste Biondo.
Fosco risponde stringendosi nelle spalle.
«Io sono Alice», mi presento, giusto per farlo parlare ancora. Ha
una voce che urge risentire. E in fretta.
«Piacere, Pietro Foscarini», dice lui, «ma chiamami Fosco», e mi
stringe la mano. Gran presa, energica, ferma. Io sono terribilmente
sensibile ai dettagli.
Dio, fa’ che sia single, fa’ che sia single, fa’ che sia single e questa
giornata del cazzo non sarà sprecata.
«Come sta Gaia?», chiede Biondo, «Ha ancora la febbre?».
Dio, fa’ che sia la sorella, o la madre, fa’ che sia una cugina di
primo grado e questa giornata non sarà sprecata…
«Malata», dice Fosco. «Anzi, ora volo a casa, non mi va di
lasciarla sola».
«Bravo, devi prenderti cura della tua ragazza».
Merda. Non è single. Sta con questa Gaia.
Porca miseria, Biondo ha distrutto i miei sogni d’amore, ancora
prima che li potessi concepire.
Già mi era velatamente antipatico, adesso tendo all’odio, come se
quella Gaia se la fosse inventata lui.
Fosco comunque se ne va, portandosi via l’estremo conforto della
sua voce vibrante e delle fantasie erotiche che stavo avendo su noi
due che leggevamo La coscienza di Zeno. Nudi.
«Okay, senti, vado anche io», dichiaro e mi assesto la tracolla.
«Ho il treno per Rogoredo e a quest’ora è sempre un casino».
Lui sembra spiazzato, poi diventa serio. «Quindi non ti interessa il
posto?»
«Cazzo, sì», sbotto. «Ma, non so come, siamo finiti a parlare di
caffè. Per cui, davvero, ciao», indico la porta.
«Fermati», mi blocca. «Se stai bluffando, lo stai facendo bene e
questo potrebbe bastarmi. Se non stai bluffando e non sai chi sono,
non hai letto l’intervista e hai davvero indovinato che io non bevo
caffè, potresti avere le doti che dici. O solo fortuna. Ma se vuoi sul
serio il posto devi darmi un buon motivo».
«Non so se lo voglio», ribatto, le mani sui fianchi. «Cioè.
Parliamoci chiaro. Sei uno che cambia idea troppo in fretta, che
rimescola le carte», faccio anche un movimento con le mani, a
simulare il gesto di un croupier, «e chi mi garantisce che tu abbia il
potere? Perché dovrei crederti?»
«Perché sono il direttore editoriale del segmento teen e under
ventisei».
«Okay, sei un capo», e accentuo sull’indeterminativo. «Ma dovrai
pure rispondere a qualcuno, o sei il monarca? Il padrone del
palazzo?»
«Ecco sì, il palazzo è mio, tra le altre cose».
Ammutolisco, poi mi scappa un sorriso. «Mi prendi per il culo?»
«No», dice. «Sono Alessandro Francalanza Visconti, e non è un
caso che io mi chiami come questo edificio». Poi mi tende la mano.
Forse no, non è un caso.
Ma non è un caso neppure che io tenga le mie mani dove stavano,
attaccate alle mie braccia conserte al petto. Rifiuto la sua mano tesa.
E non tanto perché si chiama come un palazzo, ma per il modo in
cui me l’ha fatto presente. È un patetico snob.
«Vuoi un motivo?», lo sfido.
Lui si riprende indietro la mano.
«Sì».
«Dovresti darmi il posto perché posso fare questo lavoro senza
metterci un briciolo d’amore».
«E sarebbe una cosa buona?»
«Sì. Non è necessario che un pubblicitario ami il prodotto della
propria campagna. L’amore ti annebbia, ti rende parziale, ti distoglie.
Se sei un copy e lavori per una rivista come “Lollipop” non ti puoi
affezionare al ballerino di un talent o alla cantante che ha beccato
per caso un pezzo che piace. Non fai un buon servizio. Il gusto
personale ti porta a riesumare i cadaveri. Invece devi esser libero e
seguire le mode, come una puttana segue i propri clienti».
«Quindi per te scrivere per “Lollipop” si colloca a metà tra la
prostituzione e il marketing?»
«Precisamente».
Mi godo il suo silenzio. Sostengo i suoi occhi, un muro d’argento
che sembra incrinato, e poi lui pronuncia le ultime parole che mi
sarei aspettata.
«Okay», dice, «cominci lunedì».
La prima volta
La ragazza di Schrödinger
Alex
Atto di fiducia

In un mondo ideale, si dovrebbe garantire per legge il diritto di


godersi il giorno del proprio compleanno. Oggi è il quattro novembre
ed è il mio venticinquesimo compleanno ma sono in trincea da
quarantotto ore.
La battaglia è cominciata due giorni fa, con la riunione
straordinaria voluta da mia madre. Doveva essere un focus
sull’andamento trimestrale delle mie quattro riviste. Gli analisti
avevano anticipato un lieve calo come conseguenza di una
contrazione del mercato. Durante la riunione non ero sorpreso per i
dati, né per l’entità della flessione – che confermava le proiezioni –
ma ero infastidito dal contesto. Il ragionier Comacchi voleva
indorarmi la pillola. Lui e quelli dell’ufficio bilanci minimizzavano con
sorrisi e alzate di spalle.
Mi hanno trattato con la stessa condiscendenza che si riserva ai
bambini permalosi. Il che non ha senso: io non ho avuto tempo per
essere un bambino.
Quando avevo sette anni mio padre morì in un incidente d’auto a
Monte Carlo. Magari avrei potuto superare il lutto senza rinunciare
all’infanzia, ma mio padre è morto mentre la sua amante
diciassettenne, strafatta di coca, era a cavalcioni su di lui, e si faceva
scopare.
L’infanzia incrinata è stata definitivamente spazzata via quando ho
capito che questa faccenda, al di là dello scandalo, per mia madre
era una liberazione. Sapere che la morte di mio padre, dopotutto,
poteva avere risvolti non del tutto negativi è stata una rivelazione
pesante.
Nessun bambino sopravvive a questo tipo di epifania.
Quindi non sopporto che mi si tratti come un ragazzino, che mi si
assolva ancora prima di farmi sentire in colpa. Soprattutto non tollero
che tutto questo avvenga davanti a mia madre.
Se lei ha chiesto questo focus era proprio per sbattermi in faccia
l’avverarsi di una previsione negativa che io non ho saputo evitare.
Per ricordarmi che le persone normali possono accontentarsi di
limitare i danni. Io, invece, devo fare miracoli.
Sono qui da undici mesi e non posso fare passi indietro.
Mi sono messo al lavoro e ho convocato i miei caporedattori.
Durante gli incontri, sono arrivate alcune buone idee da Lara
Lazzaretti, la caporedattrice di «Webstar», mensile sulle celebrità dei
social media e soprattutto da Giovanni Magnani, il caporedattore
storico di «Power Player», magazine di videogiochi e cultura digitale.
Giovanni ha avuto l’intelligenza di farsi aiutare da Pietro Foscarini.
Fosco per gli amici.
Fosco ha tre anni meno di me, le nostre madri sono cugine di
secondo grado, una parentela alla quale tengono entrambe, per un
discorso di reciproco prestigio. Io e Fosco, invece, ci siamo scelti.
Poiché lo considero un fratello, la mia decisione di assumerlo
potrebbe sollevare il sospetto di nepotismo. Ma mio cugino meritava
il posto. È un informatico brillante, con una profonda conoscenza del
settore, una grande attitudine per il lavoro di squadra, il talento di
piacere a tutti e il quoziente intellettivo di un genio.
Se durante queste prime due riunioni ero moderatamente
ottimista, riconosco che l’outlook è peggiorato nelle ultime due.
Enrica Farini di «TeenTele» è brava, ma ha in mano un format
davvero poco versatile, perché il suo magazine è poco più di una
guida alle tv, che i ragazzini comprano più che altro per gli adesivi e
gli allegati.
Mentre «Lollipop» è tutta un’altra storia. È una testata storica,
radicata nell’immaginario, che potrebbe ancora spostare il bilancio
del trimestre se fosse rilanciata. Ma Marilù Slanzi, la caporedattrice,
non sa da che parte cominciare. Marilù è una ragazza decorativa,
utile in molti frangenti e sulla cui lealtà, anche riguardo a questioni
extra lavorative, non si discute però non ha l’intelligenza per trovare
la soluzione, superare la congiuntura negativa e riportare in alto le
vendite.
Ho esposto questi dubbi a mia madre, ma Marilù è stata assunta
in azienda su pressioni di un membro del cda ed è intoccabile. Non
possiamo liberarci di lei. Ci vorrebbe un Pietro Foscarini anche per
«Lollipop», una nuova entrata di talento, senza alcuna ambizione,
capace di portare idee innovative, lasciando che il capo se ne
prenda il merito.
A causa di queste tensioni, ieri sera sono uscito dal lavoro
distrutto. Avevo bisogno di una serata come si deve. La scelta si è
ridotta a un ballottaggio tra il vernissage in una galleria di arte
contemporanea e il party per il lancio del primo disco di Sabryna,
una cantante uscita da un talent con cui la scorsa estate ho avuto un
paio di serate carine. Come spesso succede, i giornali hanno dato
alla nostra frequentazione un risalto sproporzionato all’importanza, si
sono inventati che tra di noi ci fosse un “grande amore”, poi finito per
“il veto” posto da mia madre. Come se non fossi perfettamente in
grado di mettercelo da solo, il veto, a una come lei.
Però, ieri sera, dovendo scegliere tra l’arte moderna e una festa in
discoteca, riconosco di aver sciolto presto il dilemma. Non tanto per
Sabryna, ma perché si trattava del tipo di party pieno di ragazze
come lei, alla ricerca di persone come me.
Alla fine ne ho rimediato una mora, con il viso da bambola, un
corpo da infarto e il nome di una festività cristiana, tipo Natalina,
Natalie o Natalia.
È stata una scopata tutto sommato passabile, ma viziata da due
gravi errori. Il primo è che l’ho fatta entrare in casa e il secondo è
che le ho permesso di addormentarsi nel mio letto.
Stamattina ho provato a svegliarla. Ho fatto parecchio rumore, ho
acceso lo stereo, ma lei ha continuato a dormire. Per quello che ne
so è ancora lì.
In momenti come questi Marilù si rivela utile. Perché se è vero che
è inferiore al suo incarico e non merita la posizione che occupa, è
anche vero che pur di compiacermi si metterebbe a quattro zampe e
scodinzolerebbe. Ogni tanto penso davvero a come sarebbe farla
mettere in ginocchio e testare altre sue doti, ma l’unica regola che mi
impongo con il sesso è farlo fuori dalla redazione. Non posso
mischiare il divertimento con il lavoro. E Marilù per me diventa
fondamentale in giornate come questa, quando faccio le cose alla
leggera e mi ritrovo a dover ripulire casa.
Sono quasi le undici quando scendo alla redazione di «Lollipop».
La mia apparizione fa cessare il brusio delle ragazze al lavoro, resta
solo la musica della radio, diffusa nell’openspace. Sento i loro
sguardi, scambio sorrisi con quelle che hanno il coraggio di
guardarmi, e osservo le altre.
Tra le stagiste nuove c’è anche la gemella incazzata di Mercoledì
Addams.
Quella con i capelli scuri e gli occhi grandissimi che ai colloqui ha
detto di sapere fingere qualsiasi cosa. Ecco, mi piacerebbe che
fingesse di essere di buonumore. Mai visto un essere umano così
ostinatamente determinato a non sorridere.
Pure adesso è seria come una sfinge infuriata, ha i capelli tutti
raccolti in testa e fermati con mille matite, in perfetto stile
studentessa sfigata, gli auricolari alle orecchie perché
evidentemente si dissocia moralmente dal pezzo pop trasmesso
dalla nostra radio. Morde la matita.
Ecco, lei me la scoperei, non perché sia una bellezza, ma solo per
darle un momento di gioia. Scommetto che poi butterebbe in
discarica il suo guardaroba da disadattata, vestirebbe di rosa e
sorriderebbe per tre settimane. Dovrei proprio farlo. Sbattermela e
porre fine alle sue sofferenze…
«Alessandro?».
È Marilù, comparsa alle mie spalle. Mi giro e scorgo subito lo
sguardo da cucciolo ansioso di dimostrarmi il suo amore.
«Ciao, cercavo proprio te», la esorto a seguirmi e una volta a
distanza di sicurezza abbasso comunque la voce.
«Ho un piccolo problema».
«Dimmi come posso aiutarti…»
«Ieri sono stato a una festa e ora ci sarebbe da ripulire
l’appartamento».
Le scappa un sorriso fin troppo complice. «Come lo scorso
maggio?»
«Come lo scorso maggio», confermo. «Ma questa volta è una
sola».
«Nessun problema», annuisce. «Lasciami le chiavi. Vado dopo
pranzo e sistemo tutto».
«Sarebbe meglio subito».
«Ma tra dieci minuti ho la riunione».
Non so niente, di nessuna riunione. E lei, abbassando ancora il
tono di voce, mi rivela: «La signora Lucrezia vuole vedere tutti i
caporedattori del tuo segmento».
Serro le labbra. Tipico di mia madre.
Sono certo che tenterà di scoprire che tono ho usato con i miei
collaboratori. Vuole capire quanta fiducia ripongo in me stesso, e lo
fa chiedendo agli altri quanta fiducia sto accordando a loro. Mi viene
quasi il mal di testa.
Mi appare subito chiaro che Marilù deve andare alla riunione
perché è lì che mi serve un’alleata.
«Okay, allora cambiamo il piano», le dico, «tu vai alla riunione e
mandi una delle tue ragazze a ripulire l’appartamento».
«È una cosa delicata, forse è meglio che lo faccia io, dopo».
«No, Marilù, la cosa va sistemata. Se quella persona è ancora in
casa mia, va accompagnata alla porta, possibilmente prima di
pranzo. Non può farlo Alfredo. Gli uomini non sono adatti per queste
cose. Ci vuole una sensibilità femminile. Quindi dammi il nome di
una ragazza. Una affidabile».
«Okay. Allora prendiamo quella nuova», ha indicato senza ombra
di dubbio la scrivania della sorella di Mercoledì.
Resto dubbioso. «Dici sul serio? Non sarà un azzardo?»
«Tranquillo, Alex. Quella è una che abbaia ma non morde. Ha
messo in piedi la storiella che non voleva questo lavoro, che non
seguiva i fenomeni giovanili, ma era un bluff. Nessuno avrebbe mai
imparato tutto così in fretta. Ieri ha corretto una collega che in un
pezzo citava il produttore del quinto disco degli Another Street. Molte
ragazze qui dentro non sanno neppure quale sia il titolo di
quell’album».
«Aveva detto che imparava in fretta».
«Non così tanto e non così in fretta. Ha solo fatto la scena. In
verità voleva questo lavoro. Fa tutto quello che le ordino. Scommetto
che, se glielo chiedo, si mette a quattro zampe e scodinzola».
Sorrido perché io e Marilù abbiamo la stessa fantasia. E ammetto
che l’immagine mi piace parecchio. Decido di fidarmi.
«Okay, mandiamo lei. Però le parlo io».
«Sicuro?».
Annuisco. So che, se l’incarico viene direttamente da me, il vincolo
di fedeltà sarà più stretto.
Raggiungo il cubicolo della stagista. Mi piazzo accanto alla sua
scrivania.
Non dico una parola, ma osservo cosa c’è sopra. Un astuccio con
i teschi, che conferma il desiderio di ostentare simboli tardo
adolescenziali e, sorpresa, un unicorno bianco con la criniera
arcobaleno. Tendo la mano per prenderlo.
«Fermo», mi ingiunge. E nel farlo non stacca gli occhi dallo
schermo, né le mani dalla tastiera. «Non toccare le mie cose».
«Volevo solo…»
«Toccare le mie cose», mi precede. «E ti ho detto che non puoi».
«Okay, solo, è strano vedere sulla tua scrivania un oggetto così»,
sdolcinato, colorato, femminile… «particolare».
Lei non fa alcun commento. Come se non avessi aperto bocca.
Come se fosse sola.
Mi rendo conto di doverla richiamare, ma realizzo che non so il
suo nome. Mi tornano in mente solo i soprannomi che le ho dato in
questi due mesi. Inutile girarci intorno. Lo ammetto. «Scusa, mi
ricordi il tuo nome?».
Lei smette di scrivere e alza lo sguardo con l’aria di trattenere una
parolaccia. Poi dà un colpo al bordo della scrivania e, con assoluta
destrezza, gira la sedia in modo da trovarsi davanti a me, ma
lontana quanto lo consente la misura di questo cubicolo.
«Okay, ti do un indizio. Questo», e indica l’ambiente intorno a noi,
«è il Paese delle Meraviglie, così come lo immaginerebbe una
teenager drogata. Marilù è il Bianconiglio, pronta a correre dove la
chiama l’autorità monarchica, tu sei la Regina di Cuori e io sono…»,
lascia la frase in sospeso. Mi chiede di finirla. Fin troppo facile.
«Tu sei Alice».
«Lo sono», ammette. «In ogni senso possibile».
Ha l’aria di sottintendere che, esattamente come Alice, anche lei è
capitata qui per caso e, come Alice, cerca il modo di svignarsela.
Marilù è convinta che sia solo una posa e decido di ignorare il mio
istinto e di fidarmi della mia caporedattrice.
«Okay, grazie per avermi suggerito questa associazione di idee.
Ora di sicuro non mi scorderò il tuo nome».
«Figurati, ho solo ricambiato il favore. Sei stato tu il primo a
impedirmi di dimenticare il tuo, quando mi hai fatto notare che ti
chiamavi come questo palazzo».
È un’allusione alla nostra prima e finora unica conversazione. Non
è stato proprio un colloquio, ma più un test che le ho fatto in una
delle salette ristoro del pianterreno.
Devo ammettere che le ho proposto di appartarsi con me per
“bere un caffè” perché mi era parso di intuire, nel tono e nel modo in
cui si mordeva le labbra, una specie di tentativo di seduzione che
non avrei avuto alcun problema ad assecondare scopandomela
contro la fotocopiatrice.
È singolare la frequenza con cui immagino di farci sesso,
considerato che non è una di quelle che metteresti in copertina.
«Okay, capo, che si fa?», mi chiede. «Mi dici perché sei qui, o lo
devo indovinare?».
Non ha la deferenza che ci si aspetta da una neoassunta, ma
cerco di non soffermarmi. Lei è informale, io sarò amichevole.
Getterò così le basi di una complicità che potrebbe tornarmi utile.
«Allora, Alice, dovresti sbrigare per me un incarico non
convenzionale», le dico.
Il suo sguardo si fa acuto, se non avesse la parete alle spalle
indietreggerebbe. «Che genere di incarico?»
«Devi raggiungere il seminterrato, dove troverai il signor Alfredo, il
mio autista, che ti consegnerà le chiavi. Non ho mai fatto un
duplicato, sono uniche. Capisci cosa ti sto affidando?».
Ho usato un po’ di enfasi. Il suo viso resta impassibile.
«Okay, una volta che hai le chiavi, sali sulla Lancia e ti fai portare
a casa mia, l’attico affaccia su Parco Sempione. Sali al quarto piano,
apri con le chiavi che ti ho affidato. Dentro l’appartamento potresti
trovare una ragazza…»
«In che senso potrei? C’è o non c’è?»
«Non lo so. Devi prima aprire la porta dell’appartamento».
«Tipo gatto di Schrödinger?».
Cerco di non sorridere. «Più o meno. Anche se a differenza del
gatto è sicuramente viva. In caso contrario, chiama la polizia…»
«È una battuta?».
È cosi seria da ammazzarmi il sorriso. Mi sento quasi a disagio nel
confermare che, sì, in effetti lo era.
«Come si chiama la ragazza?»
«Natalie», dico, poi ci penso. «O Natalina, o Natalia».
«Tu hai un serio problema di memoria».
«Mi vengono presentate persone tutti i giorni, Alice», rimarco il suo
nome per dimostrarle che, se voglio, i nomi non me li scordo. Poi
reggo il suo sguardo serio una manciata di secondi, respiro e
propongo di risolverla con un soprannome. «Chiamala Nat. Vai sul
sicuro».
Mi sembra un escamotage apprezzabile per quanto Alice continui
a fissarmi come se fossi incongruo, bizzarro e anche leggermente
offensivo.
Poi però si decide a parlare.
«Okay e che faccio se trovo la ragazza?»
«Sei gentile, le spieghi che sono tanto impegnato. Ti fai dare il
numero, le garantisci che me lo farai avere e le dici di lasciare la
casa».
«E le dico che le telefonerai…»
«Certo».
«Perché tu vuoi davvero telefonarle…».
Alzo una spalla. «Forse, chi può dirlo».
«Quindi fammi capire, devo andare a casa tua, dove forse ci sarà
una ragazza o forse no, che forse si chiama Natalia o forse no, per
accompagnarla alla porta e farmi dare un numero di telefono che
forse userai, o forse no?».
Messa così non suona benissimo. Ma sorrido e annuisco.
«Bravissima. Sei davvero di una gentilezza unica!».
Mi rivolge uno sguardo che molte cose sembra, ma di certo non
gentile. Poi afferra la sua tracolla nera e se ne va senza salutare.
Alice
Tutta la verità

La gentilezza non c’entra un cavolo.


Avrei dovuto dirgli di risparmiarmi le stronzate. Io eseguo ordini e
ho giurato a me stessa che non pianterò grane. Farò tutto quello che
mi dicono di fare, compresa questa cosa, sebbene sia la richiesta
vigliacca di un bastardello senza spina dorsale.
E non lo faccio perché mi piaccia «Lollipop», ma perché è un
lavoro decente e non posso permettermi di perderlo.
Oltre al copywriter io faccio anche la cameriera, senza uno
straccio di contratto, in un bar di Rogoredo, in zona stazione, gestito
da un cinese sessista, ma non è una professione con la quale posso
campare. Non mi basta certo per pagarmi la stanza, i libri su cui
studiare o qualcosa da mangiare, quando mi ricordo di farlo. Ma con
le mie venticinque ore di lavoro in redazione, e la piccola scorta di
denaro garantita dall’eredità di mia zia, in qualche modo ce la faccio.
Ora devo solo concentrami per non combinare casini.
Okay, l’attività di redazione fa un po’ schifo, Marilù è una
presuntuosa senza qualità e il mio capo è un pornocrate convinto
che il mondo giri intorno a lui.
Ma la paga è sorprendentemente buona per il numero di ore,
alcune colleghe sono carine e poi sto a tre piani di distanza da quel
figo fuori scala di Pietro Foscarini. Tra soste ai distributori automatici
e pranzi, passiamo insieme un sacco di tempo.
Pietro Foscarini fa pendere la bilancia dalla parte giusta e non solo
perché esteticamente è il mio ragazzo ideale. Il suo vero merito è
che fa parte di una categoria di uomini che non credevo esistesse.
Non pensavo ci fossero persone così disponibili, così intelligenti,
divertenti e maledettamente belle.
Purtroppo Foscarini è anche totalmente fidanzato e ama Gaia.
Quindi, per quanto in questi due mesi io non abbia perso occasione
di stare con lui, cerco di tenere questa cotta sotto controllo.
Comunque il compito che mi ha affidato il capo non mi piace. Mi
agita.
Rigiro tra le dita le Uniche e Irripetibili Chiavi del suo
appartamento.
Mi chiedo quanto deve essere diffidente o sola una persona che si
vanti di non aver mai fatto una copia delle proprie chiavi.
E quanto sia arrogante chi ti fa ripulire i propri casini con l’aria di
farti un favore.
Oltre i finestrini, Milano corre via senza farsi afferrare. Non so
ancora se mi piace questa città e se lasciare Roma sia stata una
buona idea. Ma dopo la morte dell’unica parente che mi era rimasta
e dopo la fine di una storia parecchio tossica con un compagno di
università più incasinato di me, tanto valeva cambiare aria e cercare
di avvicinarmi alle case editrici con le quali vorrei arrivare a
collaborare.
Invece sono qui a fare il lavoro sporco per un capo indecente.
Spero che la ragazza, tanto cretina da scoparselo, stamattina sia
rinsavita e scappata.
Una volta giunti a destinazione, Alfredo parcheggia e spegne il
motore. Quindi indica la palazzina. Non aggiunge altro. Capisco che
devo scendere, sbrigare il mio sporco lavoro e sperare che la
faccenda del karma sia una stronzata, perché dopo oggi come
minimo mi reincarno in un millepiedi. Fuori dall’auto mi prendo un
attimo. Parco Sempione è davvero vicinissimo, penso che dai
balconi dell’attico si possa avere l’illusione di galleggiarci sopra. Lo
stabile è un edificio signorile, che sembra antico e allo stesso tempo
troppo nuovo per effetto di un probabile restauro.
Do un’occhiata alla pulsantiera di ottone. Sul quarto campanello
c’è scritto AFV. Capisco che è il pied-à-terre che il mio capo usa per
sbattersi le ragazze.
Se voglio conservare un po’ di stima per me stessa devo fare
presto. La sto perdendo alla velocità della luce.
Apro il portone ed entro. Fotografo in un colpo d’occhio i marmi dei
pavimenti, il candore abbagliante delle pareti, le colonne, i vasi pieni
di fiori e le piante ornamentali che sembrano più finte di tutto il resto.
Entro nell’ascensore ultra moderno che mi porta su in una
manciata di secondi. Sul pianerottolo c’è una sola porta. Respiro
profondamente. Giro la chiave nella toppa ed entro.
L’appartamento è un openspace ultramoderno e minimalista. Il
vuoto regna sovrano sul parquet scuro, interrotto giusto dalla
presenza di un sontuoso divano di alcantara. In alto c’è un soppalco
con la ringhiera di acciaio.
Okay, è deserto e questo mi riempie di un sollievo indicibile. Direi
che me ne posso andare…
«Alex? Sei tu amore?».
… O forse no.
Una ragazza compare nel mio campo visivo urlando di gioia.
Smette solo quando vede che io non sono lui. Nonostante il
trambusto, registro il suo aspetto in un battito di ciglia. È una specie
di gazzella dai lunghi capelli neri, tagliati con una frangia netta. È
alta e slanciata, con un seno fenomenale di quelli che sembrano
roccia, labbra sceniche, il tutto appoggiato su gambe lunghe e sottili,
completamente in vista dal momento che indossa solo una camicia
bianca, troppo ampia di spalle per appartenere a lei.
Per il resto non capisce chi io sia.
«Scusa, sono Alice. Mi manda il dottor Francalanza Visconti».
Basta il nome del suo eroe, perché il viso della gazzella si sciolga
in un’espressione innamorata. Si porta pure una mano al cuore.
«Che tesoro, ti ha mandato da me!».
Non è un tesoro, vorrei dirle. È uno stronzo e fossi in te scapperei
senza voltarmi indietro. Ma mi appresto a fare quello che il mio capo
bastardo mi ha chiesto di fare: metterla alla porta con la vaga
promessa di una telefonata che tanto non arriverà mai. La ragazza
però mi anticipa.
«È una fortuna che tu sia qui! Una fortuna vera! Ho proprio
bisogno di un’amica che mi dia qualche consiglio».
Ha chiaramente deciso che quell’amica sono io perché mi aggira,
mi afferra per le spalle e mi sospinge con una determinazione
inarrestabile verso il gigantesco divano di alcantara. Una volta che
mi ha fatto sedere, trascina una specie di pouf bianco, lo posiziona
di fronte a me e ci si siede sopra.
Nel farlo accavalla le gambe e, non so come, riesce ad assumere
una posa plastica da contorsionista, una cosa che le fa emergere il
seno dalla camicia, e pure occhieggiare gli slip che per fortuna
indossa. Fossi un maschio, prenderei un sacchetto di carta e
ricorrerei all’iperventilazione, mentre da femmina mi sento un pelo
mortificata. Se ci provassi io, a mettermi così, qualcuno chiamerebbe
il Pronto Soccorso perché penserebbe a uno spasmo dei nervi. O
agli effetti della Maledizione Cruciatus.
Comunque.
«Allora, non ti nascondo che questa cosa è troppo importante»,
comincia la gazzella. «E me la devo giocare bene. Sono mesi che
imploro Sabryna per aver il numero del dottor Francalanza Visconti!
Ma quella stronzetta ha marcato il territorio e tratta Alex come fosse
suo», alza lo sguardo al cielo. «Le verrà un colpo, quando le
racconterò di essere stata qui», e indica il pavimento. «Lei è stata
quattro volte con Alex, ma qui», indica di nuovo il pavimento, «non
c’è mai stata».
«…quattro volte», ripeto, ma solo per dimostrare a me stessa che
non sto sognando.
La ragazza annuisce. «Anche se a dire il vero è Sabryna che
conta “quattro volte”, però so per certo che una era una cosa che
hanno fatto mezzi vestiti stando in piedi, durante una festa in barca a
cui Alex era andato con un’altra, quindi non so se conta come
“uscita”».
Sono annichilita e non ho uno straccio di opinione sull’argomento.
Intendiamoci, non ho nessun problema con il sesso, né quello che
faccio né quello che altri mi raccontano, ma questa ragazza mi parla
di quel cretino del mio capo come fosse un trofeo, come se levarsi le
mutande per lui fosse una competizione speciale in cui vince chi
riesce a scoparselo di più. Siamo oltre lo squallore, siamo nel
territorio della farsa.
«Quindi, capisci? Ho motivo di credere che ci tenga davvero a me!
Perché ieri è stato…», stavolta rotea gli occhi e si porta una mano al
petto gigante per simulare una romantica palpitazione cardiaca.
A me sembra che manchi la premessa di questa conclusione. È
chiaro che se uno, dopo averti presumibilmente aperta come una
mela, scappa dal vostro letto senza dirti una parola, a te non ci tiene,
ma proprio per niente. Eppure mi sforzo di annuire. Decido che darle
ragione è il modo più rapido per uscire da questo strazio.
«Ottimo, sicuramente ti richiama», le dico, «anzi lui mi ha detto
che vorrebbe il tuo numero, se per te va bene. Si è raccomandato di
chiedertelo, così puoi andare via, e poi lui ti chiama. L’ho già detto,
vero? Perché andrà proprio così: ti chiamerà».
E se questo non è un biglietto di sola andata per l’inferno, girone
dei bugiardi, ci va molto vicino.
«Prima dimmi se è vera quella storia dell’accordo prematrimoniale
con Carlotta Dei Pinzi Ranieri. Perché questo complicherebbe le
cose».
Ha nominato la figlia unica di un magnate dell’editoria italiana. Una
che ha bevuto dagli stessi biberon d’oro di Alessandro, ma mi
auguro per l’ereditiera che le voci siano false. Nessuno merita di
sposarsi il mio capo. Nel dubbio, mi stringo nelle spalle, fatalista.
«Okay, forse non è vero», conclude da sola. «Anche se è
assodato che la vecchia punta in alto».
«Quale vecchia?»
«La madre di Alex. È stata lei a dirgli di smettere di uscire con
Sabryna. Ma io spero di piacerle. Non sono l’ultima arrivata», si
impettisce, come fosse in procinto di condividere una rivelazione
solenne. «Io sono stata tra i Pretendenti da febbraio a giugno, sai? E
mi avevano offerto il Trono», si liscia una ciocca.
«…il Trono?»
«“Pretenders”, la trasmissione!», mi dice. «Ma il dottor
Mastropace, lo show manager, sul Trono ti ci mette solo se vai a
letto con lui. E a me lui non piace. Cioè, io sogno un uomo bello e
giovane come Alex, gentile come lui, sincero e innamorato. Se
sapessi le cose che mi ha detto ieri, quanto mi ha ringraziato quando
ho lasciato che mi facesse anche…»
«Credo si sia fatto tardi», la interrompo. Perché sul serio non me
ne frega niente di cosa hanno combinato insieme. Emerge un
quadro desolante di una ragazza che dice di cercare l’amore, e lo
confonde con Alex.
Ma non le salta agli occhi che, qualunque cosa sia l’amore, deve
per forza essere totalmente diverso da questo squallore? E lui?
Quante bugie deve averle detto per convincerla a fare tutto quello
che aveva in mente?
Mi sto arrabbiando e questo è pericoloso. Devo chiuderla qui,
perché mi conosco e so che, se mi si ottura la vena della razionalità,
poi combino un casino.
«Che ne dici di darmi il tuo numero, Nat?»
«Ma perché mi chiami Nat? Io mi chiamo Pasqualina. Lina per gli
amici. Non te lo ha detto Alex?».
Cazzo. La goccia che fa traboccare il vaso. Capisco che gli
vengano presentate persone in continuazione, ma se porti una
ragazza a casa, se te la scopi, se le riempi la testa di cazzate, ecco,
magari dovresti avere un’idea più precisa di come si chiama.
«Senti, Lina, vuoi davvero sapere la verità su Alessandro
Francalanza Visconti? E intendo le cose vere, che sanno solo i suoi
collaboratori più stretti?».
Lei si illumina, annuisce. Io sorrido.
Ora sì che comincia il divertimento.
Alex
Gli occhi più grandi del mondo

Sono incredulo. No, sono infuriato. Anzi, no, sono addormentato,


non c’è altra possibile spiegazione. Questo è un incubo e ora mi
sveglio e scopro che non è successo davvero.
Perché okay lo shock di quattro giorni fa, quando, benché Alice
Baker mi avesse assicurato che era andato tutto liscio, ho trovato
l’appartamento vandalizzato. Okay il divano di alcantara fatto a
brandelli con un cutter, perché posso ricomprarlo, e okay pure le
bottiglie in frantumi, anche se mi è dispiaciuto parecchio per
l’Amarone del 1986.
Okay tutto, perché sono abituato a imparare dagli errori, e
l’episodio era stato istruttivo. Mi aveva fatto capire quanto fosse
imprudente portare a casa mia una sconosciuta di diciannove anni,
rimediata a una festa, e quanto fosse sconsiderato affidare un
incarico delicato a una persona che non si conosce a sufficienza. È
ovvio che Alice Baker non ha interpretato correttamente la
situazione. Perché c’è una notevole differenza tra il suo: «È andato
tutto a meraviglia», e il casino che ho trovato rientrando in casa.
Ma se l’episodio si poteva liquidare come un incidente spiacevole,
l’articolo pubblicato oggi da «QuiGossip», sulla base delle
dichiarazioni di Pasqualina Santosuosso, è su un altro livello di
gravità. Questo è defcon 1.
«Mamma, ti garantisco che non c’è niente di vero», ribadisco per
l’ennesima volta. Piazzo la mano aperta sulla copertina, forse per
non vederla più. Vorrei far sparire quella foto che mi immortala con
un calice in mano e un sorriso che sembra non essere mio. Vorrei
cancellare il titolo dell’articolo, che segna un record di idiozia: “Tutti i
vizi dell’erede”.
Resto in ufficio dieci ore al giorno e, un paio di sere a settimana,
cerco di ricordami per cosa vale la pena ammazzarsi di lavoro. Tutto
qui.
Questi sono i miei vizi.
Mamma tace e mi dà le spalle. Tiene le mani sui fianchi e lo
sguardo verso il cielo. Il suo ufficio, qui al decimo piano, è quello più
luminoso. È dotato di un terrazzo spazioso, con una vista pazzesca,
nel quale, tuttavia, lei non si avventura mai.
Non apprezza l’altezza, non le piace stare all’aperto, ma non ha
rinunciato a occupare l’ufficio di mio padre. Lei si prende il meglio
perché le spetta, non perché lo desideri o lo apprezzi.
«Mamma, per favore, credimi», la imploro di nuovo.
Finalmente si volta. Ha un’espressione impassibile e dura. Uno
sdegno scolpito sulle labbra tirate e nella mascella contratta. È
indubbiamente una bella donna, ma priva di ogni tenerezza. Lei
incarna la determinazione, il dovere e l’impegno. Mi ricordo che da
bambino pensavo che fosse così magra perché doveva farcela da
sola e mandare avanti l’azienda. Usava più energia delle persone
normali. All’epoca io desideravo solo crescere per aiutarla, per
scongiurare che si consumasse fino a svanire. Avevo il terrore di
restare da solo.
Oggi, fasciata nel tre pezzi scuro, la sua figura sottile fa riaffiorare
il pensiero.
«Alessandro, rimarchi un punto irrilevante», mi dice, avanza verso
la scrivania e prende la rivista. Purtroppo la apre e la gira verso di
me. Articolo centrale, quattro pagine. Fisso gli strilli sguaiati, le mie
foto e quelle della mitomane che ha venduto un sacco di bugie su di
me al peggior giornale scandalistico d’Italia.
«“Alessandro Francalanza Visconti è un tossicodipendente e
abusa di cocaina”», dice mia madre, e io mi sforzo di non distogliere
lo sguardo dal suo, sebbene la parola “cocaina” sia per entrambi un
poderoso richiamo a mio padre. Come nominare la corda nella casa
dell’impiccato.
«“La sua prima esperienza sessuale è stata con un uomo”»,
continua, quasi sfidandomi. «“L’affetto che prova per sua madre
nasconde un desiderio edipico. Ha fantasie erotiche su…”».
«Mamma, è porcheria da giornali scandalistici! Bugie che…»
«No, Alessandro, non sono più bugie. Se una cosa è scritta sulla
carta che si vende in edicola, quella cosa diventerà vera. Anche se
non lo è, anche se sta su giornali di quart’ordine. E sai perché?
Perché questo è un Paese di quart’ordine, abitato da persone di
quart’ordine».
«Posso querelarla».
«No, la querela prolungherebbe lo strascico polemico, sarebbe
l’ennesimo riflettore puntato su questa disdicevole vicenda.
Pubblicamente non farai nulla. Dobbiamo ottenere che la tua
signorina ritratti di sua spontanea volontà».
«Vuoi offrirle del denaro?»
«No. Io non pago le donne come lei. Quello lo fanno gli uomini
stupidi. Agiremo come avresti dovuto fare tu, una settimana fa,
quando questa Pasqualina Santosuosso ti ha distrutto casa: le
mandiamo i legali. Gonfiamo la stima dei danni e le prospettiamo
una causa da cinquantamila euro. È una sciacquetta squattrinata
con un conto in rosso. Ritratterà».
Quindi è colpa mia. Una ragazza mi ha vandalizzato
l’appartamento, io ho lasciato correre e la cosa è degenerata. Mia
madre non tarda a darmene conferma.
«Questa è la prova che infatuarsi delle sgualdrine con cui te la
spassi non è mai senza conseguenze».
«Io non mi sono infatuato. Ci sono uscito una volta soltanto».
«È bastato perché tutto il mondo ne parlasse. Poco fa mi ha
telefonato Ermione dei Pinzi. E lei ha saputo dell’articolo da sua figlia
Carlotta».
Sottolinea il nome, quasi a procurarmi un carico aggiuntivo di
vergogna. In realtà l’opinione di Carlotta non mi preoccupa. Primo
perché, al di là delle evidenti aspettative delle nostre famiglie, io e
Carlotta siamo solo amici. Secondo perché, se la conosco, si sarà
fatta una risata.
«Dovevi denunciare quella poco di buono», riprende mia madre.
«Non l’ho denunciata proprio per evitare di finire sui giornali», mi
difendo. «Ho preferito ricomprarmi il divano, mamma. Mi sembrava il
modo più elegante per uscire da questa situazione».
«Elegante?», le labbra si piegano in un sorriso di scherno. «Se
volevi essere “elegante” hai mancato il tuo obiettivo», lascia andare
la rivista con un gesto sprezzante. Quindi mi dà di nuovo le spalle e
se ne va alla finestra. È il suo modo di congedarmi.
Esco in corridoio, ho voglia di urlare ma non posso. Ho imparato
prestissimo l’importanza di mostrarmi sempre impassibile. Mai dare
l’idea di essere stato toccato o, peggio, ferito. Mai mostrare il
sangue. Perché la maggior parte delle persone aspetta solo di
fiutarlo per finirmi. Soprattutto al decimo piano di palazzo
Francalanza Visconti.
Quindi, procedo verso l’uscita, mi stampo un sorriso adeguato e
auguro a Marta, neoassunta all’accoglienza, di passare una
bellissima giornata. Lei mi risponde con un sorriso tirato.
Probabilmente ha una copia di «QuiGossip» nel cassetto della
scrivania.
So che i miei presunti vizi e le mie supposte preferenze sessuali
da oggi e per parecchi giorni ancora saranno l’argomento di tutte le
conversazioni a cui non parteciperò.
Mi infilo in ascensore e decido di scendere al sesto. Ho bisogno di
parlare con Fosco. Sono certo che con lui accanto troverò il modo di
farmela passare. Le porte si chiudono e ricevo un messaggio.
Neanche a farlo apposta è di Carlotta.
“Che mi combini, Alex?”
Sto per risponderle ma sono sceso di un piano e le porte
dell’ascensore si aprono. Siamo alla redazione di «Lollipop» e infatti
mi trovo davanti la stagista. Quella di cui mi sono fidato.
Alice Baker.
Rimetto il telefono in tasca.
La sua espressione stupefatta mi procura una sorta di imbarazzo.
La sua esitazione, sulla soglia, dura troppo e io non ce la faccio.
«Ti giuro che non è vero niente», le dico. «Sali pure, non mi
metterò a tirare cocaina, arrotolando una banconota da cinquecento
euro».
Sono stato diretto, sebbene io lo sia molto di rado. Non mi spiego
perché per un attimo è stato così urgente dirle che non ho fatto le
cose scritte in quel giornale. Forse per quella voglia di fuga che le ho
letto negli occhi. Che ancora vedo nel suo sguardo.
Comunque, rompe gli indugi. Prende un respiro ed entra. Oggi è
anonima. Lei veste sempre male, ma ha uno stile. Oggi no. È
ordinaria. Indossa una t-shirt nera, un paio di jeans e non si è
truccata. Realizzo che in questo stato dimostra tredici anni.
«A che piano vai?», le chiedo.
«Stavo venendo al decimo», dice. «Stavo venendo da te».
È una frase che non mi aspettavo. Suona bene, senza che ne
capisca la ragione.
«Perfetto, ci prendiamo qualcosa al quarto piano? Così mi dici
perché mi cercavi».
«No, te lo dico qui. Se ci penso ancora, poi finisce che mi manca il
coraggio», mi rivolge uno sguardo smarrito e immenso. «Ti devo
chiedere scusa, Alessandro. Credimi, mi dispiace più di quanto
possa esprimere a parole».
Sono certo di aver capito a cosa allude. Mi godo un attimo la sua
contrizione, il modo in cui torce le mani, e la maniera singolare con
cui il suo sguardo si allarga e si fa immenso. E ammetto che mi
piace essere guardato così, mentre le sue scuse coincidono con
l’unico momento bello in una giornata da dimenticare.
«Okay, Alice, è chiaro che quando hai parlato con la signorina
Santosuosso qualcosa è andato storto», le dico. «E può essere che,
sulle prime, sia stato tentato di darti qualche colpa. Ma poi ci ho
pensato e…»
«No, non ripensarci», dice, «è davvero colpa mia», e lo sguardo
che mi rivolge lo sento nella mia testa, piantato nei miei pensieri. Lo
sapevo anche prima che i suoi occhi erano belli. Ma in questo
preciso istante lo sono troppo. Così tanto che mi fanno sentire in
pericolo.
«Alex, sono stata io», insiste, «sono stata io a dirle che hai una
dipendenza dal sesso e dalle droghe».
Cala il silenzio.
Devo aver capito male.
Devo, per forza.
Alice Baker non può avermi appena detto quello che mi ha appena
detto. Perché, se lo ha fatto davvero, io devo ucciderla.
«Io non credo di aver capito».
«Ho condiviso alcune… riflessioni personali», risponde come se
un boia le stesse strappando le parole con la forza, «ma sappi che
Pasqualina ci ha aggiunto del suo. Per esempio, è vero che io le ho
detto che, poiché lavori come un mulo, era probabile che ti aiutassi
con dei farmaci, e non escludevo che avessi sviluppato qualche
forma di dipendenza dagli stupefacenti. Ma ti giuro che pensavo più
alle anfetamine, quindi la cocaina è stata farina del suo sacco, se mi
passi il gioco di parole. E poi, sì, posso aver condiviso con lei
l’ipotesi che la tua anafettività verso le donne nascondesse
un’omosessualità latente, ma non ho mai fatto riferimento a vere
esperienze nella pubertà; e in merito al fatto, lampante, che veneri
tua madre, e che non vuoi mai deluderla, io ho suggerito più una
devozione platonica; ti giuro che non ho mai alluso a
un’interpretazione edipica, mai nominata, anche se…»
«Alice, dimmi che è uno scherzo», la blocco. «Io dirò che non
faceva ridere e la chiudiamo qui. Dimmelo, perché se l’hai fatto
davvero, se tu sei la “fonte interna” di cui parlava quel giornale da
quattro soldi, se una mia dipendente…»
«Mi dispiace». Ha gli occhi nei miei. Sperimento una vertigine
spiazzante. Mi coglie il pensiero assurdo di essere scivolato dentro
di lei. «Mi dispiace, Alessandro, io non potevo immaginare che…»
«Sei licenziata».
Lei ammutolisce. Ho cancellato la sua voce e vorrei avere il potere
di far sparire lei e i suoi occhi giganteschi. Continuano a essere
l’unica cosa che vedo, l’unica che conta, in questo casino senza
senso. Hanno una bellezza ostinata che si fissa come una nota sulla
bacheca, un pensiero piazzato nella testa, conficcato con una
puntina.
«Okay, ci sta», mi dice, e per fortuna distoglie lo sguardo, apre la
porta automatica. «Libero la scrivania e sparisco. Scusa ancora».
Sono incredulo. Sono infuriato. No, devo essere per forza
addormentato se, nonostante la rabbia, lo sbigottimento e la
sorpresa, il pensiero resta ancora fermo su quanto per un attimo mi
sono apparsi immensi i suoi occhi.
Alice
L’ultima occasione

Il bar da Prospero è un posto frequentato dagli impiegati di questa


zona. Gli interni ricercano un’allure da pub gallese attraverso lo
sfoggio della boiserie sulle pareti, dei broccati verdi sui divanetti e
della dominante scura del bancone.
Fosco, davanti a me, siede sul bordo della seggiola come se fosse
pronto ad andarsene, tiene i pugni chiusi sul tavolo e mi scruta con
uno sguardo incredulo e profondamente amareggiato.
Tutto questo lo so. Anche se non lo vedo.
E non lo vedo perché ho gli occhi chiusi.
In questo momento me ne sto con la fronte sul tavolo, abbattuta in
senso figurato e letterale, tramortita dalla vita.
Accanto ai miei piedi c’è uno scatolone, in origine destinato alle
arance tarocco e ora ricettacolo dei miei effetti personali. Quelli che
hanno perso il diritto di stare sulla mia ex scrivania, nel mio ex posto
di lavoro, dopo che io, in un impeto di onestà di cui mi sono già
pentita, ho deciso di confessare al mio ex capo il mio coinvolgimento
nell’affaire Santosuosso.
«Io non ci posso credere, Alice», mi ripete Fosco.
È la quarta o quinta volta che pronuncia la stessa frase. Annaspa
ancora nel limbo della sorpresa. È alle prese con l’ostinato rinvio
della rassegnazione. La negazione che precede l’accettazione di
una perdita che consideriamo inconcepibile.
«Credici, Fosco, è andata davvero così», dico, parlando sul tavolo.
«Io non ci posso credere», insiste.
«Credici, credici, credici», lo esorto con la voce ridotta a un
gemito, e per ogni credici sbatto la testa sul tavolo.
«Smettila», mi dice, il tono adesso è dispiaciuto. «Finisce che ti fai
male».
«Lo merito», decreto. E decido di punirmi ancora, colpendo il
tavolo. «Era un maledetto lavoro decente! E non sono riuscita a
tenermelo stretto». A quel punto sento la voce leggermente nasale
del cameriere che annuncia l’arrivo dei nostri caffè americani.
Cerco di recuperare un briciolo di dignità e rizzo la schiena. Mi
stampo un sorriso che il cameriere non ricambia. Probabilmente,
dopo avermi visto prendere il tavolo a testate, vuole scoraggiare ogni
confidenza.
Fosco afferra una bustina di zucchero, la agita e intanto scuote la
testa. «Ma perché l’hai fatto, Alice? Perché hai fatto una cosa del
genere ad Alessandro?».
Questo è forse l’unico aspetto della questione per cui ho una
risposta.
«Perché è un bugiardo e un vigliacco».
«Non lo è affatto», mi rimprovera, come se avessi appena
abbracciato una tesi troppo strampalata e inaccettabile. «Alice, tu
non puoi giudicare Alex. Tu non sai nulla di lui, tu non sai cos’ha
passato da bambino…»
«Ehi ehi, frena. Questa faccenda dei traumi infantili con me non
attacca. C’è gente che lotta tutti i giorni contro abbandono, fame e
povertà, ma non la prende come scusa per essere stronza. E a
maggior ragione non dovrebbe farlo un bastardello ricco,
attualmente impegnato a diventare ancora più ricco».
«Alex è una bravissima persona», si ostina, «e tu non dovevi
metterlo in questa situazione», strappa la bustina di zucchero e lo
versa nel mio caffè.
Perché, quando prende le bustine di zucchero, Fosco non lo fa per
metterle nel suo caffè, ma per versarle nel mio. Lui, il suo
americano, lo beve amaro.
Ci conoscevamo da una settimana appena la prima volta che mi
ha messo lo zucchero nel caffè.
Vedi, gli vorrei dire, questa è la differenza tra di voi. Alex dopo due
mesi non sapeva il mio nome, tu ti preoccupi di dolcificarmi il caffè. E
questo perché lui è un bastardo menefreghista, mentre tu guardi le
persone negli occhi, ti preoccupi di ciò che le rende felici e sei così
meraviglioso che vorrei alzarmi e baciarti.
Vorrei davvero baciarlo. Mi rendo conto che il desiderio raggiunge
un picco di intensità senza precedenti. Forse perché realizzo che è
ora o mai più, dal momento che difficilmente lo rivedrò. Perdendo il
lavoro ho appena perso anche lui.
Questo ragazzo meraviglioso dentro e fuori non farà più parte
della mia vita, quindi tanto vale…
«Fosco…», mi sporgo verso di lui, traccio una strada sicura tra i
nostri caffè, la bustina aperta e un cucchiaino abbandonato. Gli
afferro un polso.
È un polso bellissimo. Grande, caldo, sento la pelle sotto le dita,
sento l’articolazione delle ossa. Vorrei baciare anche la pelle sopra
le sue vene.
«Fosco, scusa, ma lo devo proprio fare…»
«Cosa?»
«Questo…».
Gli passo una mano dietro alla nuca, non oppone resistenza, mi
fissa con gli occhi spalancati. Ingenuo fino all’ultimo. Così
sprovveduto da non mettere in conto l’agguato di una ragazza
disperata, che non ha più nulla da perdere.
Mi sporgo.
«Pietro?».
Mi blocco.
Alzo lo sguardo.
Avvolta in un cappottino dal taglio squadrato, c’è una tipa con la
frangia corta, alla francese, e un paio di occhi nerissimi, ora stretti in
due fessure.
«Gaia?».
Se c’è un momento giusto per morire di vergogna, probabilmente
è questo: l’istante esatto in cui Gaia, la legittima ragazza di Fosco,
mi guarda mentre sto mezza distesa su un tavolo, con le mani tra i
capelli del suo fidanzato e il mio viso a una spanna dal suo.
Fosco ha detto il suo nome ed è scattato in piedi; sul suo viso
trionfa un sorriso totalmente innamorato dove brilla l’assenza di
colpa. A dimostrazione che il bacio mancato era un desiderio solo
mio.
Fosco le afferra le braccia, le stampa un bacio vero sulle labbra e
nel farlo sembra che trattenga il respiro. Come a sottolineare il
momento, a celebrare il fatto che la ama.
Poi finalmente si allontana. «Non ci credo che sei qui».
«Avevo una commissione da sbrigare per il mio capo», spiega lei,
il sorriso distaccato, come se quel bacio senza respirare non
l’avesse rivoltata come un calzino. È immune al turbamento in un
modo che fa quasi paura. «Ero nei paraggi e ho pensato di salutarti.
Sono entrata perché, mentre passavo, ti ho visto attraverso i vetri».
Parla con lui, ma su “ti ho visto” ha spostato lo sguardo su di me.
A differenza di Fosco, che è l’innocenza fatta persona, io ho la
coscienza sporca.
Devo fare qualcosa.
Mi alzo in piedi. «Piacere, sono Alice».
«Ah, la famosa collega», sfoggia un sorriso, stavolta stronzo.
«Non so perché, ma ti immaginavo più alta».
«In realtà sono bassa, e non sono più una sua collega», abbasso
la testa. «Sono stata licenziata».
Lo dico per mettere subito in chiaro quanto sono sfigata, come se
inconsciamente le volessi chiedere scusa per aver pensato di
baciare il suo ragazzo, e per farle sapere che non succederà più.
Esprime un generico rammarico, Fosco torna ad avere l’aria triste,
io non so più cosa dire e quindi prendo lo scatolone di cartone
dentro al quale ci sono finiti l’unicorno che mi ha regalato il mio
amico Pier, la cancelleria e le speranze.
«Okay, io vado. Ciao, Gaia. E tu, Fosco, stammi bene».
Glielo dico, ma riconosco che non sembra stare bene. È
l’immagine dello sconforto e manifesta i suoi sentimenti senza alcun
filtro.
«Non starò bene», mi conferma. «Mi mancherai un sacco, Alice».
Mi limito a sorridere.
Non posso permettermi di dirgli che a me mancherà di più.
Alex
La persona giusta

Siamo al venticinquesimo piano di un edificio tutto vetri e travi


d’acciaio, in piazza Gae Aulenti. Qui ha sede la Notabili & Associati,
lo studio legale che cura gli interessi della mia famiglia. Il vecchio
Girolamo Notabili era un compagno di università di mio padre. Il fatto
che fossero amici mi ha sempre tranquillizzato. È confortante sapere
che l’uomo che ci deve proteggere conosca già il peggio di noi. Non
rischiamo che affiori uno scandalo dal passato per cui lui non abbia
già pronta una linea di difesa. Probabilmente i peccati di mio padre
gli sono tutti noti.
È stato l’avvocato Notabili a proporre che incontrassimo
Pasqualina Santosuosso, accompagnata dal suo legale. Ha
suggerito che l’incontro avvenisse in un luogo in grado di sbilanciare
gli equilibri. Una location capace di intimidirli, annichilirli e dimostrare
loro, senza possibilità di equivoci, che in una disputa non avranno
speranza di vincere.
Lo studio Notabili & Associati si presta allo scopo.
Gianni Bassi, l’avvocato fresco di iscrizione all’albo che
rappresenta gli interessi della Santosuosso, deve aver capito
l’antifona non appena ha varcato la soglia dello studio legale e si è
trovato di fronte la prima linea del desk di accoglienza. Una delle tre
impiegate lo ha condotto nella sala d’aspetto, un ambiente più
grande di qualsiasi studio lui possa aspirare ad avere. Qui, lui e la
sua cliente hanno fatto quarantacinque minuti di anticamera.
Quando finalmente sono stati convocati, sono stati scortati nella
sala più grande, dove le vetrate danno l’illusione di essere sospesi.
Da qui si sovrasta uno scorcio di città e si suggerisce,
implicitamente, un dominio di tipo differente. Il tavolo di cristallo e
acciaio taglia la stanza in due. Da una parte ci siamo schierati io,
Notabili, cinque legali dello studio, e due periti chiamati per produrre
le prove dei danni, e per fare scena.
Dall’altro il povero Bassi, con la sua cravatta da ipermercato, le
scarpe cinesi e lo sguardo di uno che comincia a capire che si è
messo in una faccenda più grande di lui, e Pasqualina, stretta in un
tailleur bianco con i bottoni dorati, e il seno strizzato in un giacchino
strettissimo che non sfigurerebbe sul set di un porno di quart’ordine.
La guardo nella sua bellezza aggressiva e smaccata e, alla luce del
sole, non riconosco me stesso, in questa scelta fatta al buio.
Pasqualina è il tipo con cui accetto di familiarizzare in certe serate,
ma non è il genere di persona alla quale desidero essere associato
di giorno.
Non ci vuole molto perché sia l’avvocato Bassi sia Pasqualina
capiscano che, se la questione viene portata in tribunale, io ne
uscirò ammaccato ma lei ne sarà distrutta. Dovrà risarcirmi. E
probabilmente si farà la fama di persona poco affidabile e poco
discreta. Lo scandalo in cui mi ha trascinato è un boomerang.
Perché la gente come me, che possiede un nome vecchio quanto
questo Paese, ha più vite di quante ne abbiano le persone come lei.
Noi bruciamo e risorgiamo, perché siamo il pasto infinito degli amanti
del gossip. Quelle come lei sono intercambiabili. Lei è solo una
figurante che uscirà di scena comunque, ma se non collabora lo farà
ancora più in fretta.
Notabili e i suoi sono riusciti a dimostrare danni per ottantamila
euro, hanno alluso a testimoni e prove inconfutabili. Se Pasqualina
all’inizio del colloquio teneva il mento alto in una posa aggressiva, a
metà la vedo ripiegare in un contegno appena spavaldo, e infine
comincia a lanciarmi occhiate da cucciolo indifeso che ricordo
vagamente dalla notte che abbiamo trascorso insieme.
Ha capito di essersi cacciata in un bel casino.
E ancora una volta affiora in me l’istinto di lasciar correre. Vorrei
alzarmi e dirle: okay, hai fatto una cretinata, ma la vera colpevole è
quella stronza della stagista. Della mia ex stagista. Quindi non
parliamone più e ognuno per la sua strada.
Ma siamo andati troppo oltre. Mia madre non mi perdonerebbe un
gesto di clemenza. La scambierebbe per debolezza.
Mentre Notabili illustra implacabile i dettagli dell’enorme guaio in
cui questa sconsiderata si è cacciata, io resto in silenzio; non voglio
intervenire, né farmi influenzare, quindi dirigo lo sguardo al cielo,
oltre la vetrata e, forse per un’associazione di idee con l’azzurro,
torno a pensare alla stagista stronza.
Mi sforzo di etichettarla così. Non si merita un nome, non voglio
dargliene uno. Anche se ultimamente è dura perché Fosco mi parla
sempre di lei.
Mi ero accorto che lei e mio cugino mangiavano insieme, si
fermavano al distributore automatico, scendevano da Prospero per
l’aperitivo, ma pensavo che fosse lei a stargli addosso e che lui
fosse come al solito troppo buono per tenerla alla larga. Invece a
Fosco lei piaceva. Dice che andavano d’accordo, che lei era
intelligente e che lo faceva ridere.
Io so solo che era una grandissima stronza.
Una stronza con occhi stupendi, ma pur sempre una stronza.
«L’ammontare dei danni è stato provato dalle perizie degli
esperti», sta dicendo Notabili, «quindi, credo di potermi sbilanciare e
affermare che, dopo la causa legale che il mio cliente vuole
intentare, non avremo difficoltà a provare la sussistenza del reato. E
non avremo esitazioni».
L’avvocato Gianni Bassi si allenta la cravatta, Pasqualina cerca di
nuovo il mio sguardo, rivolgendomene uno da schiava devota.
Io annuncio che si è fatto tardi e devo andarmene.
Secondo il copione messo a punto con l’avvocato Notabili, quando
avrò lasciato la stanza, i miei legali suggeriranno una via d’uscita.
Diranno che, se Pasqualina accetta l’intervista con un rotocalco
scelto da noi e ritratta le sue affermazioni, attenendosi ai punti che lo
studio Notabili stabilirà, mi convinceranno a non intentare causa.
Mentre esco dalla stanza sento lo sguardo di Pasqualina che mi
insegue, che implora e prega. Non ha il potere di cambiare le cose, e
a dirla tutta non ce l’ho neppure io.
In ascensore mi ritorna in mente il momento in cui la stagista
stronza mi ha chiesto scusa. Se tornassi indietro bloccherei le porte
e la costringerei a stare lì a ripetermelo cento volte. Meglio se in
ginocchio.
Magari nuda.
Avrei dovuto farmela sul serio, cazzo. Scoparmela sul serio.
Poco dopo, salgo in macchina e dico ad Alfredo di portarmi in
ufficio.
Sui sedili posteriori ci sono alcuni fogli sparpagliati. Sono le
relazioni che ho sfogliato venendo qui. Marilù non aveva idee e ha
raccolto le proposte della sua redazione, per cercare di sollevare le
sorti di «Lollipop». Lancio uno sguardo di sfida alle carte. Sono
piuttosto sfiduciato e decisamente di cattivo umore. Prendo il
raccoglitore e scorro le proposte.
La giornata è stata abbastanza dura ma la pochezza degli
interventi mi mette di fronte all’evidenza che, passato un certo limite,
la fiducia si scontra con l’intelligenza e muore.
Poi scorgo un plico più corposo degli altri e gli riconosco il merito
di una tabulazione ordinata e razionale. Decido di leggere le prime
righe e mi trovo alla fine delle prime due pagine.
Ho il battito un po’ accelerato. Ci sono più idee in queste due
pagine che nel resto delle relazioni messe insieme. Il redattore
suggerisce di usare almeno tre copertine diverse per ogni uscita, per
aumentare la possibilità che la cover story venga incontro ai gusti
delle lettrici; scrive di distribuire un formato pocket nelle zone
turistiche e negli eventi mediatici che interessano il target. Parla di
“ridefinire la nostra identità, attraverso partnership di rilievo con i
brand più popolari presso il target”, insomma suggerisce di creare
alleanze con marchi attualmente più forti del nostro. Suggerisce in
quest’ottica una joint venture con alcuni negozi di catena amati dai
teenager, come la Bonbon Cosmetici, che possiede un circuito di
negozi monomarca. Ha elaborato una bozza di proposta in cui loro
curerebbero le rubriche di make-up nelle pagine della rivista,
aiutando la diffusione del marchio e noi otterremmo di piazzare i
totem di «Lollipop» nei loro punti vendita.
Prosegue definendo le modalità di un contest per eleggere la
ragazza immagine di «Lollipop».
Continuo a leggere, del tutto rapito. C’è un progetto per
diversificare i gadget a seconda della zona geografica d’Italia, e
questo in base all’analisi delle vendite dei numeri dell’ultimo anno. E
c’è l’analisi delle vendite dell’ultimo anno. Pare che in Puglia e nelle
Marche le collanine dell’amicizia siano amatissime.
Non faccio in tempo a chiedermi se sia economicamente
sostenibile che, nella pagina dopo, mi ritrovo la proposta per un
sistema di rotazione dei gadget allegati che ci consentirebbe di non
variare gli ordinativi minimi dei pezzi mantenendo così il prezzo
unitario dei nostri ordini standard.
Sono pronto a dichiarare il mio eterno amore a chiunque abbia
scritto questa relazione.
Quando rientro a palazzo sono carico come non mi capitava da un
pezzo, vado subito al nono piano. Trovo Marilù alla sua scrivania con
tre ragazze davanti a lei che prendono appunti.
Si alza in piedi non appena mi vede.
Piazzo la relazione sul tavolo con un gesto fin troppo energico.
Una delle ragazze trasalisce.
«Marilù, voglio parlare con chi ha scritto questo», dichiaro.
«Mandala in ufficio da me. Subito».
Abbassa lo sguardo sui fogli. Poi serra le labbra.
«Oh, scusami, quella relazione non doveva stare con le altre.
Qualcuna delle ragazze deve aver commesso un errore, ora mi
sentiranno».
«Quale errore?», scuoto la testa. «È un lavoro promettente. Chi
l’ha scritto ha decifrato il potenziale della rivista, Marilù. Voglio
parlare con lei».
Lo sguardo di Marilù è irrequieto. Apre la bocca, la richiude.
«Si può sapere che problema c’è?», domando, «Perché non puoi
semplicemente dirmi chi ha scritto questa relazione e mandarla in
ufficio?»
«Perché la persona che l’ha scritta non lavora più qui, Alessandro.
Quella che hai in mano è la relazione di Alice Baker».
Alice
Lasciando fuori il cuore

Dante la sapeva lunga. Il contrappasso è ciò che meritano i


peccatori. E poiché io sono stata la più cretina tra le peccatrici di
ultima generazione, mi merito di essere qui, in questo bar di zona
stazione Rogoredo, con un grembiulino che dovrebbe essere bianco,
ma tende al grigio, a sgobbare per un compenso di cinque euro
all’ora. In nero.
C’è di buono che abito dall’altra parte della strada, almeno finché
potrò permettermi di pagare un affitto. Per colpa di una stupida
crociata femminista ho perso la mia principale fonte di guadagno.
Io volevo solo fare un favore a Pasqualina Santosuosso. Volevo
parlare male di Alex così lei se ne sarebbe andata felice di essere
scampata a un pericolo. Non avrei mai immaginato di scatenare la
sua follia distruttiva e, peggio ancora, la sua ansia di vendicarsi.
Fare la copywriter a «Lollipop» era un lavoro brutto, ma fare la
cameriera qui, in un covo di pregiudicati e spacciatori, è un lavoro di
merda, e la differenza semantica si spiega con la differenza
contrattuale. Nel senso che, nel primo caso, un contratto l’avevo, nel
secondo no.
Charlie Xu Li, detto Il Cinese, proprietario di questa bettola, glissa
sull’argomento contratto. Dice che se io «non avere fiducia», io
«potere andare, che porta stare lì». E, sì, lo so che fa un po’
colonialista dell’Ottocento imitare i cinesi lasciando i verbi all’infinito,
ma giuro che Charlie parla sul serio così. Mai sentito avventurarsi in
una coniugazione.
Sempre per il contrappasso, questa è l’ennesima serata
movimentata. Poco fa c’è stata una rissa tra due tunisini ubriachi che
ho dovuto sedare io, disarmando il più ubriaco dei due, che aveva
spaccato una bottiglia. E ora sto macinando metri su metri per
prendere le ordinazioni ai tavoli dei clienti abituali.
«Ehi bambolina, vieni qui».
Il gentleman che mi ha appena richiamato ai miei doveri è un tizio
che tutti chiamano Lo Smilzo che, contrariamente a quanto si possa
pensare, è un omone gigantesco, guastato dall’abuso di alcol, con
una fedina penale più lurida del mio grembiule. Si prende qualche
confidenza, è vero, ma non è mai stato davvero molesto. Anche
stasera sta al tavolo con Fadul, un marocchino simpatico. Secondo
l’autorevole opinione del mio datore di lavoro, Lo Smilzo e Fadul da
qualche tempo sono entrati in affari. Charlie Il Cinese mi ha
suggerito di far sapere al dinamico duo qual era precisamente la
porta del mio appartamento, così non rischiavano di forzare la
serratura nel tentativo di svaligiarmi casa. In questi momenti mi
consolo pensando che avere conoscenze nella malavita non è
faccenda priva di vantaggi.
Raggiungo il suo tavolo con il taccuino in mano.
«Allora, bambolina, portami una rossa grande, gelida e senza
schiuma».
«E carte da briscola», aggiunge Fadul. Fadul ha la fissa delle
carte da briscola. Gioca a briscola e tresette meglio di un
pensionato.
Vado al bancone e mi metto a spillare la birra, prendo le ciotole
meno sudice che trovo, le riempio di arachidi e patatine e ci metto un
cucchiaino di cortesia che nessuno di loro userà. Lo Smilzo ci tiene
all’aperitivo, ovvero un adeguato accompagnamento di grassi saturi,
quando gli servo la sua birra annacquata.
Afferro il vassoio con la perizia che mi viene da anni di pratica –
estati a Ostia e inverni al circolo Pandemonio di Trastevere – apro il
portello che chiude il bancone e mi blocco.
Davanti a me c’è l’ultima persona al mondo che mi aspettavo di
trovare qui. Capelli biondi, disciplinati in una piega da pubblicità dello
shampoo, un cappotto di lana blu, aperto su un completo blu,
camicia sartoriale, cravatta che tende al rosso, per quanto di sicuro
la shop assistant di Versace che gliel’ha rifilata deve aver trovato un
termine migliore per indicarne il colore.
«Alessandro, ma che ci fai qui?».
Lui è ingabbiato in una rigidità spiazzante. Ho la sensazione che,
se serra ancora la mascella, sentirò il rumore dei denti.
«Dobbiamo parlare».
Non lo stimo, non mi piace e una parte di me non è neppure del
tutto pentita, ma mi sento ancora in colpa.
«Okay, porto questi e sono tutta tua».
Vado verso il tavolo di Fadul e dello Smilzo, e Alessandro mi
tallona, come fosse un poliziotto che mi deve portare in carcere e
non vuole perdermi di vista.
Al tavolo, il premiato duo di ladri d’appartamento passa in
rassegna il mio ex capo. Temo per il destino del Rolex che questo
sconsiderato porta al polso. Mollo tutto, mi pulisco le mani sul
grembiule e faccio cenno ad Alessandro di seguirmi nello
sgabuzzino, almeno lì non attirerà l’attenzione. Ho la sensazione che
tutti qui stiano guardando Alessandro con la stessa attenzione che
riserverebbero a una ballerina ucraina super sexy, e con lo stesso
desiderio di spogliarlo.
Ha la ventiquattrore Montblanc, il cappotto Loro Piana, con una
bella etichetta in vista sulla manica, i gemelli di Bulgari. Non sono
una fanatica dei marchi di lusso, ma stimo abbia più o meno
cinquemila euro addosso, sotto forma di capi d’abbigliamento e
accessori. Senza contare l’orologio.
«Alessandro, lasciatelo dire: tu ami vivere pericolosamente», gli
dico nell’atto di chiudere la porta. Mi giro e lo trovo vicinissimo.
Cerco di recuperare lo spazio personale e mi ritrovo spalle al muro.
«Primo: pretendo che tu lo dica. Devi dirlo ancora, Alice».
«Cosa?», mi esce una voce da topo di Cenerentola.
«Devi dirmi che ti dispiace tanto. No, tantissimo. Devi dirmi:
“Scusa Alessandro, perdonami, per favore”».
Giuro che non riesco a capire questa sottospecie di fantasia di
dominazione ma, poiché non sono innocente, lo accontento.
«Scusami».
«“Perdonami, per favore”», insiste.
«Okay, perdonami, per favore», dico con enfasi. «Ti prego di
accettare le mie scuse. Se non ti basta mi metto in ginocchio».
La serietà del suo viso viene turbata da una nota sorpresa, gli
occhi d’argento tradiscono un tremito. Ma scuote la testa.
«No. Non Farlo. In ginocchio è meglio di no», mi sembra che
deglutisca. «Può bastare», sentenzia.
«Posso tornare a lavorare?»
«No, non abbiamo finito. Mi devi dire perché. Perché lo hai fatto.
Ho passato giorni ad arrovellarmi su questa cosa e non ci salto fuori.
Io ti ho dato un lavoro, ti ho dato fiducia. Quindi perché? Perché mi
hai scatenato contro quella pazza?»
«Be’, perché lì per lì Pasqualina mi ha fatto pena».
«Sei seria?»
«L’hai trattata da schifo».
«L’ho trattata benissimo! Sono stato gentile, gentilissimo. Le ho
dato tutto quello che voleva e…»
«Quella voleva dei figli da te, Alex, parlava di tua madre come se
fosse già sua suocera».
«E con questo? Non sono responsabile delle fantasie romantiche
di una ragazzetta senza cervello».
Lo indico con un gesto trionfante.
«Vedi!», gli dico, «Vedi che sei un bastardo!»
«Alice!»
«E ti ostini a pensare di essere molto meglio di come sei. Io ti ho
chiesto scusa, perché so di aver fatto una cavolata. Volevo
convincerla a scappare senza rimpianti e forse ho esagerato ma
resta il fatto che le ho dato il consiglio migliore che potesse ricevere
da me: starti alla larga. E, se non apprezzi la sincerità, mi dispiace
ma è così che la penso».
Stringe i pugni. «Quindi tu credi sul serio che io sia un tossico, che
sia attratto dagli uomini e che abbia una passione segreta per mia
madre?».
Accenno un sorriso e ammetto: «Due su tre».
«Ma neppure mi conosci, Alice», protesta. «Okay, hai indovinato
che non bevo caffè. Ma mi sa che il resto delle tue conclusioni è
quantomeno pretestuoso e se proprio vuoi la verità…».
Ma non fa in tempo a dirmela, questa verità, perché la porta si
apre.
È Charlie il Cinese, con la sua t-shirt gialla e la sua immutabile
espressione da orientale incazzato.
Metto subito le mani avanti e gli assicuro che ho finito e che ora
torno in sala a guadagnarmi la paga.
«Non abbiamo finito», protesta Alex.
«E tu, chi essere? Marito?»
«Non scherziamo», intervengo. «È il mio ex capo».
«No. Sono ancora il tuo capo».
«Mi hai licenziata…»
«E ora ti assumo».
Silenzio.
«Perché?», lo interroga Charlie.
«Già, perché?», chiedo io.
«Perché ho visto gli appunti che avevi passato a Marilù. Perché
erano buone idee, tutte buone. E ho aspettato una settimana,
sperando che qualcuno ne avesse di migliori, così non sarei stato
costretto a venire qui a riprenderti», allarga le braccia. «Ma non c’è
nessun altro. Non posso rinunciare all’unica persona che ha saputo
mettere insieme una proposta decente».
«Davvero? Davvero mi riprendi?»
«Sì, per altri dodici mesi. E arriviamo a quaranta ore a settimana».
«Non stai scherzando, vero?»
«Vorrei. Dovrei. Ma no», scuote la testa. Apre la valigetta nera e
mi porge un plico. È il contratto nuovo. «Ma ti avverto: stavolta c’è
una clausola di riservatezza con la quale ti impegni al silenzio.
Azzardati a raccontare ancora qualcosa su di me, vera o falsa che
sia, e io ti porto in tribunale».
«Grazie», sospiro, poi mi correggo, «non per il tribunale, per
questa seconda possibilità che io…»
«Ricominci lunedì», taglia corto. Poi saluta Charlie e se ne va.
Resto con il contratto in mano e realizzo che questa cosa deve
essergli costata un anno di vita. Alessandro è convinto sul serio che
io possa essere utile alla redazione, altrimenti non sarebbe mai
tornato sui suoi passi.
Me ne sto immobile, con il contratto stretto al petto, poi supero la
sorpresa e, in un impeto di gratitudine, decido di inseguirlo.
Lo trovo sul ciglio della strada, mentre l’autista gli apre la portiera
della berlina scura, sotto l’occhio cupido di un paio di spacciatori
della zona.
«Alessandro», lo chiamo e lo raggiungo. «Io mi sento davvero di
ringraziarti, con tutto il cuore perché…».
Si gira di scatto. «Stai zitta», ringhia e azzera la distanza tra di noi.
Entro in collisione con un muro di ostilità e gelo. «Non ringraziarmi, e
lascia il tuo cuore fuori da questa storia. Perché io farò lo stesso».
Poi mi dà le spalle, entra nell’automobile e se ne va.
Resto immobile una manciata di secondi. Devo aggiungere un
tassello al mosaico del carattere del mio capo. Un aspetto che mi
era sfuggito. È capace di serbare rancore. E, poco ma sicuro, sono
finita nella lista nera.
Mi ha guardato come se volesse cancellarmi. Tiro un profondo
sospiro.
«Come vuoi tu», dico rivolgendomi a lui, ma consegnando le
parole all’aria fredda, «lasciamo fuori il cuore».
Poi me ne torno al bar di Charlie Il Cinese.
La seconda volta
Il vero spirito del Natale
Come ti vesto il Natale
Le settimane della moda sono ormai alle spalle ma Milano
impazzisce per l’avanguardia sartoriale di Maestri & Pignatti.
L’impressionante ascesa della coppia di stilisti agrigentini culmina
stasera con la festa al Malanotte, il fulcro della movida più chic.
Madrina dell’evento è sempre lei, Carlotta dei Pinzi Ranieri (23
anni, nella foto), sempre più a suo agio nel ruolo di influencer e
trendsetter della Milano che conta.
«Alfredo e Carmelo (Maestri e Pignatti, ndr) hanno fatto della loro
vita un capolavoro», ha detto la bella Carlotta al nostro inviato, «e la
loro festa sarà uno spettacolo. Tanti amici saranno lì per sostenerli».
Tra i nomi degli ospiti confermati ci sono quelli di Tiberio Degli
Innocenti e di Sabryna, reduce dal successo del suo singolo estivo
Movimento lento. Sabryna arriverà accompagnata dal marito, il
calciatore Alberto Bentivoglio, attuale capocannoniere del
campionato italiano di calcio. Confermata anche la presenza di
Alessandro Francalanza Visconti (26 anni, nella foto).
«Alex mi ha garantito la sua presenza», ha detto Carlotta. «Su di
lui posso sempre contare».
Davvero duratura questa amicizia tra gli eredi di due tra i maggiori
gruppi editoriali del Paese! I beninformati riferiscono che entrambe le
famiglie, legate da rapporti di affari, vedrebbero davvero di buon
occhio un’evoluzione di questo legame. Magari nella direzione dei
fiori d’arancio. Per ora Carlotta continua a mostrarsi sorridente al
braccio di Eugenio Della Riva, mentre Alessandro è stato
recentemente avvistato con la modella Matilde Bonavista.
Ma a noi piace sognare! E chissà che il nostro sogno, e quello
delle famiglie Dei Pinzi Ranieri e Francalanza Visconti, non diventi
realtà…
Karisma Bartoletti, Storie2000
Alex
Vicini ma non troppo

«…Sono io che ti ringrazio, piccola. Mi hai fatto stare bene».


La voce mi esce in affanno. Mi sistemo l’auricolare, e mi preparo a
saltare il primo dei tre muretti. Le distanze diverse spezzano il ritmo.
Devo regolare la falcata e fare attenzione.
Matilde ride. «La prossima volta ti faccio stare ancora meglio,
Alex», promette, «ma mi dispiace non esserci stasera».
«Dispiace anche a me, Matilde, ma il lavoro è lavoro», prendo
fiato. «E poi ti capisco. Lasci Milano per un photoshooting a Santo
Domingo».
Glielo dico sapendo di mentire. Io, quando posso, scelgo di
restare. Io Milano la preferisco sempre. La prediligo quando l’afa ti
ammazza e le strade restituiscono il calore di una fornace, quando la
nebbia nasconde i parchi, quando il cielo cerca di essere azzurro ma
non ci riesce fino in fondo.
Mentre le rifilo questa bugia, manco la presa e devo rimediare. Ho
qualche problema con il voult ma alla fine sono dall’altra parte, le
gambe reggono e riprendo a correre verso lo stagno delle Sirene. Se
non sapessi dov’è, faticherei a trovarlo. La nebbia ha stretto
d’assedio la città come non succedeva da anni e Parco Sempione
sembra un non-luogo, dai misteriosi confini. Scelgo Milano, anche
quando la città non si vede. Anzi soprattutto in giorni come questo,
quando si cela e mi nasconde, realizza un desiderio che non posso
dire ad alta voce. Quello di non essere al centro degli sguardi.
Il telefono nella fascia da braccio vibra. Controllo lo smartwatch.
«Ci sei ancora, Alex?»
«Chiamata in entrata», la avviso. «Torno subito da te».
Escludo Matilde e accetto la telefonata di Susanna. Susanna, una
PR che lavora per alcuni locali di tendenza, mi è stata presentata
due giorni fa. Sono sorpreso. Ci ha messo meno del previsto a
richiamarmi.
«Ehi, ciao».
«Ciao, Alex, disturbo?»
«No figurati, stavo pensando a te».
Ride. «Immagino che tu lo dica a tutte».
«A tutte quelle a cui mi capita di pensare».
Avvisto il ponte in lontananza divorato dalla nebbia. Ha qualcosa
di magico questa domenica mattina. Mi sembra di essere l’unico
abitante rimasto in città. Un pensiero inquietante, con un retrogusto
sereno.
«Ho saputo che sarai alla festa per il lancio della nuova collezione
di Maestri & Pignatti».
È vero. Ho accettato perché Carlotta, che è amica personale di
questi stilisti emergenti, mi ha chiesto di sostenerli con la mia
presenza e a Carlotta non ho motivo di dire di no.
«Sì», confermo, «mi piace supportare il talento».
«Ci vai con qualcuno?».
Questa Susanna, una notevole bionda con un paio di occhi color
ambra, è proprio un tipo diretto. Merita che io lo sia altrettanto.
«Pensavo di andarci con te», le dico.
Ride di nuovo, mi dice che mi manda un messaggio con l’indirizzo,
così la passo a prendere. Poi chiudo la chiamata e torno da Matilde.
«Scusa, piccola. Cose di lavoro».
«Ecco, Alex, stavo dicendo che mi dispiace un sacco non essere
alla festa stasera. E che ti penserò».
«Anche io ti penserò. Ti mando un bacio e divertiti ai Caraibi».
Non faccio in tempo a riattaccare che di nuovo c’è una chiamata in
arrivo. Leggo il nome di Arturo Ribaldi e a lui non voglio rispondere.
Oggi è domenica, il giorno in cui tutti si riposano e io cerco di
tenere insieme la mia vita sociale, recuperare gli allenamenti persi e
magari passare un po’ di tempo con mio cugino, che in questo
momento è impegnato qui al parco, nel medesimo percorso. Faccio
queste cose, e mi permetto di non lavorare. E poiché la chiamata in
entrata ha indubbiamente una ragione lavorativa, lascio squillare il
telefono.
Arturo è il manager per la soluzione delle crisi d’impresa voluto da
mia madre e dal cda. Poiché i conti virano al rosso, è chiaro che si
dovrà pianificare una drastica riduzione dei costi. Partendo dai tagli
sul personale.
Una decisione che non è piaciuta a nessuno, ma che andava
presa.
Con un notevole sforzo, decido di non farmi rovinare la giornata.
Le mie quattro riviste sono spudoratamente toniche. Ci apprestiamo
a chiudere un anno grandioso, in controtendenza con il resto dei titoli
di proprietà del gruppo, in controtendenza rispetto all’editoria e
perfino al Paese. Abbiamo fatto la nostra parte, ma un’azienda è una
somma di parti e anche le mie redazioni dovranno pagare il prezzo
dei fallimenti altrui. Però non voglio pensarci. Devo proteggere il mio
tempo libero.
Ho diritto a una domenica leggera, ho diritto a stare bene
allenandomi con Fosco, leggendo un libro brutto e magari cercando
di capire quanto è diretta Susanna, anche su altre questioni. Perché,
a dirla tutta, dopo un mese che mi vedo con Matilde, comincio ad
avvertire una certa esigenza di cambiare.
Avvisto la ringhiera verde, dalle parti della biblioteca. Mi preparo al
volteggio della scimmia, l’esercizio con cui si conclude la Blood Run,
questo percorso ideato da me e mio cugino, dove ci alleniamo
insieme e sul quale detengo ancora il record. Lo slancio è
sufficiente, sto attento alla presa, le braccia, che pure avrebbero
bisogno di qualche allenamento extra, reggono. Ma, in fase di
atterraggio, sono le gambe a fregarmi.
E i muscoli non c’entrano. Mi fregano perché la vedo.
È seduta ai piedi di un albero, a suo agio come un elfo,
nonostante la terra sia umida e l’aria fredda; ha uno zaino a sinistra,
un thermos a destra e un libro in mano. Ha i capelli sciolti sulle
spalle, e mette in mostra le punte colorate, novità di questi giorni. Le
ha tinte con lo stesso azzurro dei suoi occhi.
Solleva la testa nel momento in cui arresto la corsa.
«Cavolo», dice, lo sguardo puntato su di me come fossi una brutta
sorpresa. «È domenica. Dovrebbe essere proibito vedere il capo di
domenica».
Sono in affanno, mi piazzo le mani sui fianchi e cerco di riprendere
il controllo del respiro e normalizzare il cuore.
«Alice, se non vuoi vedermi, evita i parchi dove mi alleno».
«Ma io mica lo so cosa fai tu la domenica mattina. Sai che non
leggo gli articoli che parlano di te», prende il thermos, «ho portato il
caffè per Fosco. Sono qui per lui», e poi indica anche la bici rossa di
mio cugino, legata con un catenaccio.
«Alice, posso essere sincero?»
«Certo, capo. Sempre che tu ne sia capace».
«Mi fai molta tenerezza», le dico, «te ne stai appostata qui, con il
tuo caffè caldo e ti prendi cura di lui. Ma, sai, mi risulta che Fosco
abbia già una ragazza. Si chiama Gaia».
«Gaia è una stronza egoista», dice con un sorriso. «È tornata in
Sicilia, dove resta fino all’Epifania. Lo abbandona, per dirti quanto è
cretina. E io ne approfitto. Mi “prendo cura di lui”, in tutti i modi
possibili».
Lo fa sempre. Quando insinuo che le piace Fosco, lei fa di tutto
per confermare il sospetto.
Ci scherza. Quindi sarei portato a credere che non sia vero. Ma
poi mi viene il sospetto che ci scherzi proprio per depistarmi.
A dirla tutta non so neppure perché mi ci arrovelli tanto.
Supero la distanza che ci divideva e mi piazzo sotto l’albero. Ora
Alice deve reclinare la testa all’indietro per guardarmi in faccia. Nel
farlo mette in mostra la gola. È bianchissima, per contrasto con la
sciarpa rossa. Quando si tratta di lei io sono altamente recettivo a
particolari come questo. Li fotografo, creando istantanee a uso
personale, alle quali poi ripenso. Mi tornano in mente in riunione,
sotto la doccia, o mentre una ragazza diversa da lei mi sorride. La
spiegazione che mi do è che Alice è una persona ricca di sfumature.
Non puoi pretendere di riassumerla in una parola: non è solo bassa,
o solo castana o solo femmina. Nessuna categoria la descrive
davvero. Sono così recettivo nei confronti dei suoi particolari e arrivo
a fissarli nella memoria soltanto per esigenza di completezza. Il mio
interesse per lei è unicamente professionale. Da risorsa promettente
si è trasformata in punto di riferimento per l’intera redazione. Ma è
chiaro che, dopo il casino di un anno fa, io ho alzato le difese.
Perché è vero che quella psicolabile di Pasqualina Santosuosso è
stata il braccio. Ma Alice è stata la mente.
Da allora, tratto Alice come si maneggia l’uranio in uno
stabilimento nucleare: con la diffidenza e la cautela riservata alle
cose pericolose, ma indispensabili per il buon funzionamento
dell’impianto.
So anche di non piacerle. Ormai escludo che si tratti di una posa.
E lucidamente riconosco che è una fortuna, perché se capissi di
piacerle potrei perfino prenderla in considerazione. Giusto per
togliermi la curiosità…
Ma non le piaccio.
Il problema non si pone.
Mi afferro la caviglia e mi appresto a stirare i quadricipiti. Lei torna
con il naso nel libro. Quasi volesse dimenticarsi di me. Non leggo il
titolo ma la veste grafica, candida e spartana, è inequivocabile. Si
tratta di una pubblicazione della Visconti Santi.
«Sai che il mio bisnonno è stato cofondatore di quella casa
editrice?», indico il libro. «Il gruppo Francalanza possiede ancora
una quota».
Lei tace.
«Ho ricevuto molte offerte per il mio dieci percento», lascio andare
la gamba, e afferro l’altra caviglia, stavolta mi appoggio al tronco.
«Offerte alte, soprattutto da Dei Pinzi Ranieri, che detiene il resto del
pacchetto. I membri del mio cda erano tentati, ma non credo che lo
venderò mai. Ci sono affezionato».
Lei mi rivolge un sorriso tesissimo. «Oh come sei potente,
Alessandro. E io che pensavo fossi soltanto biondo. E alto».
«Non l’ho mica detto per vantami. Era più per fare
conversazione».
Alice ripone il libro.
«Vuoi parlare? Okay, parliamo dei licenziamenti».
Appoggio la fronte alla mano, tiro più forte la caviglia per tendere i
muscoli. E forse per farmi male, così mi distraggo.
«Alice, ti ricordo che è domenica».
«E io ti ricordo che tra poco è Natale», insiste. «Tu hai una
posizione di potere in un’azienda che medita di tagliare il personale.
A Natale. Giusto per dare il vostro contributo alla tendenza che vuole
i suicidi in aumento sotto le feste».
«Alice, rilassati. Non c’è niente di sicuro», mento. «Abbiamo solo
chiamato un manager per capire come ottimizzare le risorse».
«Chiamare manager Arturo Ribaldi è come chiamare assistente di
fine vita un boia! Quello è un tagliatore di teste, Alex. Ho preso
informazioni».
Mollo la caviglia e mi libero la fronte dai capelli. Sono esasperato.
Sto affrontando il discorso che volevo evitare.
«Alice, stai tranquilla, okay? Non dovrei dirtelo, per una questione
di riservatezza, ma il tuo rinnovo è pronto. Un altro contratto di dodici
mesi, e ti do la mia parola che…»
«Perché non capisci mai il punto?», si alza in piedi. «Non sono
preoccupata per me. Io me la caverei anche senza “Lollipop”».
Sono tentato di ricordarle che poco più di un anno fa l’ho ripescata
da una bettola in zona stazione, dove il rischio minimo era quello di
essere derubata mentre quello più serio era di vedersi asportato un
rene per il commercio clandestino di organi.
«E invece resterai a “Lollipop”», le dico. «Perché ti ho rinnovato il
contratto. E c’è pure un piccolo aumento di stipendio. Una
sciocchezza perché l’azienda punta a risparmiare ma…»
«Senti, Alex, riducimelo lo stipendio, okay?», mi incalza. «Riducilo
a tutti, ma fai in modo che le tre stagiste di “Lollipop” vengano
confermate per un altro semestre».
Ecco. Ecco cosa mi mancava! La crociata in favore dei colleghi a
rischio. Cerco di non perdere la lucidità.
«I rinnovi comportano incrementi di compenso. Da un punto di
vista fiscale, è preferibile un contratto ex novo», allargo le braccia,
«e in questo momento la scelta ricade per forza su ciò che costa
meno».
«Tu trascuri il valore della formazione, Alex», ribatte, «e trascuri,
come sempre, le persone».
C’è energia nella sua voce, nel modo in cui muove le mani, e in
quello in cui riduce le distanze per essere certa che io la ascolti.
Non immagina che sta ottenendo l’effetto contrario. Io la ascolto
sempre ma smetto proprio quando le preme convincermi. Smetto di
ascoltarla perché mi viene vicino e io, sotto una certa distanza,
accuso un po’. Come Superman con la kriptonite.
Da questa distanza i suoi capelli con le punte blu profumano di
menta. Da questa distanza noto che ha qualcosa sulle labbra che
conferisce loro una consistenza di velluto. Da questa distanza noto
che la nebbia le ha appesantito il parka militare e questa
combinazione di menta, velluto e foschia mi distrae come un rebus
che devo per forza risolvere. Una priorità che sovverte l’ordine delle
cose urgenti. Che suscita il languore della sfida e mi sposta lontano
da dove stavo. Non so esattamente dove, ma lontano.
Ho perso totalmente il filo del discorso.
«Quindi semplicemente non puoi. Okay? Non farmi perdere fiducia
nell’umanità, Alex. Assicurami che non lo farai».
Esito, resto a fissarla. Capisce che non sono sul pezzo. Perché
quell’oceano di fiducia che per un attimo sono stati i suoi occhi si
stringe in due fessure.
«…Tu non mi hai neanche ascoltato!».
La verità non è la scelta migliore. In questi casi si nega. O si spera
nel destino. E proprio il destino mi salva perché arriva mio cugino.
Fosco oltrepassa la ringhiera con un volteggio, l’ultimo scatto e
decelera, spegnendo il cronometro.
Il suo gesto mi ricorda che non ho spento il mio.
«Okay», dice in affanno. «Ho migliorato di venticinque secondi.
Non è record, ma tu non puoi aver fatto meglio».
«No», dico, «mi sa che oggi hai vinto tu».
Alza il pugno, nel massimo dell’esultanza antisportiva che il suo
carattere gli concede, poi si precipita da Alice.
«Oddio, l’hai fatto davvero?», dice incredulo. «Hai portato sul serio
il thermos con il caffè?»
«Sono di parola», dice lei, «devi essere carico per portare avanti
la programmazione del tuo videogioco».
Si riferisce a un videogioco che Fosco sta scrivendo da solo dai
tempi dell’università. Era, insieme allo studio, la sua principale
occupazione. Poi è arrivata Gaia e le priorità sono cambiate.
Quasi mi avesse letto nel pensiero, Alice lo incoraggia: «Devi
approfittarne ora che Gaia non c’è». Lo dice con l’aria di
sottintendere che potrebbe approfittare anche di lei, mentre Gaia è
lontana. Ma la cosa peggiore è che gli sorride; ci mette le guance, gli
occhi e la bocca. Lo guarda e sorride tutta.
«Promesso, sarò carico e sul pezzo».
«E stasera io ti premio e ti porto la pizza!»
«Siete meglio di due fidanzati», dichiaro. La frase e il tono hanno
un risultato strano. Ironia e cinismo sono intenzioni confinanti.
«Dammi tempo, Alessandro», dichiara Alice, «prima o poi Fosco si
sbarazzerà di Gaia e lo avrò tutto per me».
Lei ci marcia per non darmi soddisfazione. Fosco ride e non la
prende sul serio. Eppure tra loro c’è sintonia. Complicità. Realizzo
che perfino Fosco, oltre la sua esasperata monogamia,
probabilmente intuisce che loro due sarebbero perfetti.
Davvero non è tentato? Davvero non ha voglia di provare come
sarebbe? Davvero non desidera mai vederla nuda?
Mi sembra inconcepibile.
E se arrivasse a farlo? Se, per esempio, la baciasse?
Mi figuro la scena. È disturbante e mi fa mancare il cuore.
Il che è davvero cretino. Troppo cretino, come la maggior parte dei
pensieri che faccio su Alice.
Mi riscuoto.
Li lascio al loro idillio, cercando di concentrarmi su Susanna e di
convincermi che la mia sarà una domenica grandiosa.
Alice
Il vero spirito del Natale

«Carolina, non fare la stupida! Esci dal bagno».


«No, Alice», risponde la stagista mentre lotta per non piangere.
«Carolina, non è un dramma. Troverai mille lavori migliori di
questo!».
Siamo nelle toilette del nono piano. Carolina, la mia stagista, si è
chiusa qui. Provo a farla ragionare ma è durissima. Quello che le è
capitato è brutto sul serio.
Oggi è il quindici dicembre, oggi scadevano i contratti delle mie tre
ragazze. Dico mie perché le ho scelte io. Selezionandole mi sono
presa la responsabilità delle loro speranze. In sede di colloquio ho
prospettato loro un semestrale con un rinnovo quasi garantito.
Quindi mi sento in colpa.
L’ho capito subito che Arturo Ribaldi, il viscido tagliatore di teste
assunto dall’azienda, avrebbe colpito tutte le posizioni fragili e
neppure un uovo è fragile quanto i contratti a tempo determinato, in
scadenza. Non appena l’ho visto, stempiato, con il physique du rôle
di un gerarca nazista, ho capito che non solo l’avrebbe fatto, ma
l’avrebbe fatto senza rimorsi.
Certo, non nego di aver covato una speranza, per quanto debole.
Speravo nel mio capo.
Avrei voluto che Alex si incaricasse di difendere i deboli, come un
cavaliere d’altri tempi, ma a conti fatti era un po’ come aspettarsi
clemenza da Vlad l’Impalatore. E infatti oggi ho la misura del mio
errore. Dopo che i tagli si sono abbattuti su tutte le redazioni, è
toccato anche a «Lollipop» e Alessandro non ha mosso un dito. A
nessuna delle stagiste è stato rinnovato il contratto. Tre persone a
spasso, tre Natali rovinati, mentre la massima preoccupazione dei
bastardi del decimo piano è scegliere tra un Rolex e un Cartier, da
regalare alle loro amanti.
«Carolina, credimi. Non serve a niente fare così», riprendo.
«Ci avevo sperato tanto!», singhiozza in risposta.
«Anche io ho sperato tanto, in tante cose!», cerco di
generalizzare. «Ti ho mai raccontato del motivo per cui sono a
Milano? Non ci crederai ma è colpa di un ragazzo. Un figo
esagerato, ma altrettanto incasinato. Pure io, come te, ci avevo
creduto. Non che facessi chissà quali piani, ma mi piaceva sul serio.
Poi, la catastrofe! Sua madre, vedova, comincia a uscire con un tipo,
un politico ricco sfondato, e lui, il mio ragazzo, esce fuori di testa. Io
ho provato a gestirlo, ma poi mi sono arresa e sono venuta a Milano.
E forse è stato meglio così. Lui era in gamba, ma aveva bisogno dei
suoi tempi, per fortuna ora siamo amici. Però non ti nascondo che è
stata dura, all’inizio. Mi sentivo come uno che punta tutto sul cavallo
sbagliato e…».
I singhiozzi di Carolina quasi coprono la mia voce.
Niente da fare, neppure la triste storia con il mio ex fa sembrare
meno brutto quello che le è capitato.
Sono incazzata e mi sento colpevole. L’ho scelta io, questa
ragazza.
Valutando le candidate con Marilù, ho cercato di fare una scelta
etica. Volevo capire chi, a parità di requisiti, aveva davvero bisogno
di questo lavoro.
E ora che succede? La signora Lucrezia si sveglia, si accorge che
i conti sono in rosso e, anziché dare la colpa agli stipendi milionari
dei suoi manager, decide di sprecare migliaia di euro per pagare la
consulenza di Arturo Ribaldi, incaricandolo di tagliare le spese. È un
paradosso pagare qualcuno che non sa niente degli equilibri di una
redazione affinché decida quali sono le persone di cui si può fare a
meno.
E così sono cadute le teste di Anita, di Barbara e purtroppo anche
quella di Carolina.
Barbara e Anita l’hanno presa abbastanza bene, ma Carolina è
crollata.
E non è difficile immaginare perché. Ha un fratellino di dieci anni
colpito da una grave malattia degenerativa. Sua madre è in cassa
integrazione. Il padre non c’è. Sembrano usciti da un romanzo di
Verga o di Steinbeck, uno di quelli così tristi da essere insostenibili.
Dove non c’è lieto fine né riscatto. Carolina ha perso più di un lavoro.
Ha perso la speranza che Babbo Natale, dopotutto, esista.
Mi sento lacerata dai sensi di colpa.
«Okay, senti, hai ragione: piangi», mi arrendo. Mi risponde
singhiozzando senza freni, come se un fiume di tristezza avesse
appena rotto l’argine. «Piangi», insisto, «butta fuori tutto. Ma ti do
dieci minuti. Poi torno qui e se ti ostini a non uscire, io sbatto giù la
porta, intesi?».
Singhiozza un sì e me lo faccio bastare.
Raggiungo il corridoio dove sono stati posizionati alberelli e lucine,
così da ribadire il Natale e amplificare la tristezza di questo giorno.
Mi appare il tripudio festoso dei led intermittenti, e degli abeti
decorati. Gli addobbi presidiano i due lati del corridoio, diffondendo
un’allegria grottesca.
Arrivo alla redazione di «Lollipop», dove regna un silenzio irreale.
Anche la radio tace, quasi si volesse adeguare al momento. Le
scrivanie di Anita e Barbara sono state liberate. Ora sono vuote,
proprio come le loro sedie vuote, nei cubicoli vuoti. Ma non lo
saranno per molto. A primavera selezioneranno nuove candidate a
cui dovrò spiegare tutto. Da capo.
Raggiungo la mia postazione, l’unica senza poster. Mi abbandono
sulla seggiola, mi reggo la testa con le mani, e nel farlo mi trovo
faccia a faccia con il mio unicorno di pezza.
Il regalo d’addio di Pier, un mio amico di Roma. Lui ha un talento
pazzesco per le prospettive. Riesce sempre a inquadrare i disastri in
modo che facciano meno schifo. Quasi quasi lo chiamo…
Smetto di pensarci quando realizzo che qualcuno ha spostato
l’unicorno sopra un plico di fogli che prima non c’era.
È la copia di un contratto a tempo determinato.
Mi hanno confermato per altri dodici mesi; c’è pure l’aumento.
Faccio scorrere i fogli e noto che la direzione ha già firmato. Prendo
il plico e lo infilo nella tracolla. Guardarlo ora mi mette a disagio.
Cerco di fare chiarezza in ciò che provo. Questo lavoro è una
fortuna, mi sta permettendo di studiare e, anche se mi servirà un
altro anno per la laurea, sto realizzando il mio progetto. L’ho messo
a punto quando i casini del mio ex sono diventati troppo grandi. In
quel momento ho deciso di prendere le mie aspirazioni, lasciare
Roma e avvicinarmi a Milano, la città degli editori con cui sognavo di
lavorare. Primo tra tutti Visconti Santi, sebbene non lo ammetterò
mai in presenza di quel megalomane del mio capo, che si vanta di
avere lo stesso lignaggio dei cofondatori, come testimonia il suo
dieci percento azionario. Se io fossi nata nella famiglia di
Alessandro, che ha fatto sul serio la storia dell’editoria, avrei scelto
di continuare a investire nei libri, e non nei periodici.
Ma è chiaro che io e Alessandro in comune non abbiamo neanche
la temperatura del sangue.
Torno a pensare al contratto. Oggi ho avuto il rinnovo e dovrebbe
essere un giorno bellissimo, ma non lo è. La scrivania di Carolina è
ancora invasa dalle sue cose. Non vorrei ma lo sguardo cade proprio
sulla foto di Samuele, il suo fratellino. Samuele con le sue gambette
prosciugate dalla malattia e un sorriso imperterrito. Il sorriso di chi
comunque ci crede.
Come fai, bambino? Come fai a mantenere quello sguardo
fiducioso, mentre io non ci riesco? Eppure tu lo sai meglio di me in
che guaio ci cacciamo, nel momento stesso in cui veniamo al
mondo.
Mi sale una stupida commozione e la certezza che devo fare un
tentativo con Alessandro. Ho il dovere morale di provarci. Appoggio
la tracolla sulle spalle, lascio la redazione e salgo al decimo piano.
Qui saluto la receptionist, una biondissima ragazza che si alterna a
un’altra biondissima ragazza, con la conseguenza che non riesco
mai a distinguerle e ricordare chi sia Elisa e chi Marta. Chiedo di
vedere il dottor Francalanza Visconti.
«È con il dottor Ribaldi e la dottoressa Slanzi, in sala riunioni, ma
se vuoi lo avviso che sei qui».
«Sì, per favore. È piuttosto importante».
Un attimo dopo la sento riferire il messaggio al telefono, annuisce,
riattacca.
«Il dottore ha detto che puoi raggiungerlo».
Non me lo faccio ripetere. Cedo alla tentazione di sperare ancora.
Forse Alessandro e Marilù si sono alleati, forse hanno deciso di
fare la cosa giusta. Staranno sicuramente dicendo al tagliatore di
teste che le mie ragazze non possono essere licenziate.
L’illusione dura un battito di ciglia, spazzata via dalla visione che
mi appare oltre la parete di vetro. Non è in corso nessuno scontro a
fuoco.
Attorno al tavolo ci sono Marilù, il tailleur rosso-Natale, il sorriso
sfolgorante e le gambe accavallate, Arturo che si serve da un
cabaret di pasticcini, e Alessandro che sta versando il Dom Pérignon
in un calice.
Mi soffermo su Alex. In dolcevita scuro e pantaloni scuri, mette in
scena una disinvoltura navigata. Ha una corona di capelli
scompigliati in un disordine regale e le labbra increspate in un
sorriso. È il sorriso a colpirmi. È quello di una divinità a cui non frega
nulla dei mortali. Mi appare bello, ma di una perfezione distante,
crudele. La perfezione senza empatia di chi non calpesta la stessa
terra che calpesti tu.
Cosa posso sperare di ottenere da un dio?
Quasi richiamato dall’insistenza del mio sguardo, alza la testa e mi
vede. Il suo sorriso distaccato accusa una piccola perturbazione, poi
mi fa cenno di entrare.
Lo faccio, ma già so che me ne pentirò.
È chiaro che Marilù non sta cercando di farli ragionare. Lei è qui
per ingraziarsi il boia che ha impugnato la scure e per sorridere al re
che ha ordinato l’esecuzione.
«Ciao, Alice», mi saluta Alex, «posso fare qualcosa per te?»
«Potevi fare un mucchio di cose», gli dico.
Forse avverte aria di burrasca. Distoglie lo sguardo, prende un
calice di cristallo, lo riempie e lo fa scivolare sul tavolo, verso di me.
Credo di interpretarla come un’offerta di pace e per questo lo lascio
dov’è.
Alex è costretto a guardarmi e la cosa assurda è che mentre lo fa
per un attimo io ci credo. Credo ci sia qualcosa che vale dietro i suoi
occhi grigi. Voglio ancora che lui si dimostri migliore di come sembra.
«Alice, ti chiedo di essere più precisa», spinge di nuovo il calice
verso di me. Mi illudo che si possa davvero aprire una trattativa.
Ribaldi si intromette. «Signorina Baker, prenda anche un
pasticcino al pistacchio», mi invita. Parla masticando pastafrolla e
crema. «Li faccio venire dalla Sicilia, sa? È il mio rituale di fine
lavoro».
«Non ho appetito».
«Non si sente bene?»
«Sto benissimo», replico, «ma mi chiedo come faccia lei a
mangiare».
«Qual è il problema, Alice?», chiede Marilù. «Non credo che
nessuno qui abbia capito».
«Hai visto il contratto?», domanda Alessandro. Ho la sensazione
che stia fiutando il mio umore. Ha capito che sono arrabbiata e mette
sul piatto qualcosa che secondo lui è rilevante.
Infilo la mano nella tracolla e tiro fuori il plico.
Alessandro lo riconosce. «Ah, perfetto. Lo hai già firmato?».
Ignoro la domanda e vado dritta al punto. «Bisogna che rinnovi il
contratto alle stagiste, Alessandro».
«Alice, ma sei impazzita?», mi interrompe Marilù. Prende le
distanze da me e da tutto quello che dirò.
«Hanno avuto una opportunità preziosa», scandisce Alessandro.
«Questa esperienza arricchirà i loro curricula».
«Hanno bisogno di lavoro, non di voci sul curriculum. Non
pretendo che le tieni tutte e tre, ma devi confermare Carolina Basso.
Lei la devi proprio tenere, Alex».
«Ne abbiamo parlato, sai che è un periodo difficile e…»
«Basta che la dirigenza rinunci a qualche benefit. Basta togliere
qualcosa a tutti».
«Alice, una colletta pietosa non risolve il problema».
«Quanto costa la bottiglia che hai stappato?».
Alex stringe lo sguardo, gli occhi diventano una fessura.
«Alice, evitiamo le crociate, per favore. Questa è un’azienda e non
un’opera pia».
«È sicura di non volere un pasticcino?», mi interrompe Ribaldi.
Chiuso nel suo piccolo mondo di egoismi e gratificazioni, non
capisce cosa c’è in ballo. Rovina la vita alle persone e si concede
dolcetti siciliani per il suo gran finale.
«Non li voglio i suoi pasticcini», gli dico. «Lei è un uomo ignobile».
«Alice!», mi riprende Alessandro. I suoi occhi si fanno di fuoco. Un
incendio d’argento. «Il dottor Ribaldi è stato chiamato da noi per
svolgere un lavoro delicato e lo ha fatto egregiamente».
«Il dottor Ribaldi è uno stronzo bastardo che licenzia la gente a
Natale», insisto.
«Ti vieto di mancare di rispetto a…»
«A chi? Al bastardo? A te? Perché sia chiaro che sei più colpevole
di lui!»
«Alice, un’altra parola e…»
«E cosa?», lo sfido. «Mi licenzi?»
«Sì».
«Allora vaffanculo», dico. «È una parola, no? Puoi riprenderti il tuo
rinnovo».
Gli scaglio addosso il plico del contratto. Un tripudio di fogli
esplode contro il suo petto, come ali di farfalle tristi. Lo sguardo di
Alex da allibito si fa furente, stringe i pugni.
«Prendi le tue cose e vattene. Sei licenziata».
Questa è la sua sentenza, ho sperato che avesse, se non un
cuore, almeno una coscienza e ho sperato invano.
Mi giro e me ne vado.
Alla fine ho avuto la risposta che cercavo. Non c’è davvero niente
dietro il muro dei suoi occhi d’argento.
Alex
Soddisfazioni quantificabili

«…E ne segue che, come evidenziato dal grafico, gli incrementi


più significativi hanno riguardato il segmento teen e under ventisei,
con “Lollipop” in evidente vantaggio su tutti».
Maurizio Adani si tampona il sudore dalla fronte e poi ammicca
nella mia direzione. Qualcuno alle mie spalle fa partire un applauso
e, come il sasso che scatena la frana, in un attimo tutti battono le
mani. La riunione di Natale è quella in cui arrivano i rimproveri e le
pacche sulle spalle. In alcuni casi arriva l’incoronazione. E questo è
il giorno della mia. Perché il mio settore under ventisei non ha solo i
valori assoluti più alti, grazie alla straordinaria performance di
«Lollipop», ma è l’unico in cui tutte le riviste sono cresciute. A
nessuno degli altri è andata così bene.
È il mio secondo Natale come direttore di settore e, se qualcuno
aveva insinuato che fossi qui per il mio nome, oggi si deve ricredere.
Ora devo prendermi la corona e sorridere davanti a quelli che, alle
spalle, mi auguravano di fallire. Me lo appiccico in faccia, questo
sorriso, non troppo sorpreso, non troppo grato, non troppo
emozionato. Anzi facciamo che l’emozione la leviamo proprio dalla
lista.
Sono dove mi merito di stare.
La riunione finisce e Fabrizio Herrera, uno dei soci del gruppo,
stappa personalmente lo spumante per il brindisi.
Oggi è la vigilia. Ci si sente in dovere di rimarcarlo sempre, il
Natale, vuoi con un panettone industriale, vuoi con una decorazione
dozzinale. In alcuni casi, con una bottiglia pregiata. Però non ci
stanchiamo di festeggiare. Forse una società davvero civile
dovrebbe essere più discreta nel decretare la gioia sul calendario,
evitare di istituzionalizzarla. Perché, dopotutto, serve solo ad acuire
la depressione di chi non ha veri motivi per essere felice.
Non è il mio caso, certo. Io di motivi ne ho. Sono scritti sul grafico
che occupa lo schermo da settanta pollici. La misura della mia gioia
è la colonnina dei ricavi di «Lollipop» che sovrasta tutte le altre, che
supera, evento epocale, perfino «Aplomb», la storica rivista di moda.
Mia madre si avvicina e mi ricorda che stasera non sarà alla cena
della vigilia dai Foscarini perché ha l’aereo per Dubai. Sta cercando
di formare una cordata di investitori stranieri per un progetto di
esportazione del nostro marchio. I suoi interlocutori non festeggiano
il Natale e lei si adegua.
Poco dopo mi appresto a presentare i miei auguri ai dipendenti.
Dopo «Webstar» e «TeenTele», tocca alla redazione di «Power
Player», ma tra i ragazzi che mangiano il panettone non vedo mio
cugino.
Alla fine raggiungo il nono piano, sede della redazione di
«Lollipop». Marilù è la prima a venirmi incontro. Mi fa gli auguri,
reggendo il calice in una posa teatrale. Si aspetta i miei complimenti
per il risultato della sua rivista e io glieli faccio. Come da copione.
In redazione, oltre a Marilù e alle ragazze, c’è anche mio cugino.
Fosco sta parlando con una ragazza rossa di cui non ricordo il
nome. Mi basta un istante per fotografare la situazione. Lei potrebbe
figurare come esempio illustrato in un libro sul linguaggio del corpo,
alla voce “attrazione sessuale: come si manifesta”; mentre mio
cugino è il solito esempio di cecità maschile all’ultimo stadio. La
ragazza lo trova attraente e lui non ne ha il minimo sospetto. Ma
anche se fosse il tipo da capire i segnali, non cambierebbe niente.
Lui è un integralista della monogamia.
Mi vede, mi fa un cenno. Ci ritroviamo a metà strada.
«Mi dispiace che stasera tua madre non ci sia», mi dice.
«Dispiace anche a lei», replico, ma solo perché è previsto che lo
dica. A essere onesti, non credo sia dispiaciuta. Amelia le piace e
rispetta Priamo, stima anche i loro figli, sebbene a volte liquidi Fosco
come “troppo buono”, che per mia madre è solo una tacca sopra a
“sprovveduto”, ma la sua priorità resta il lavoro. Non la metterà in
discussione per il Natale, per il piacere di stare con i Foscarini e
neppure per il piacere di stare con me.
«Che ci fai a “Lollipop”?», chiedo.
«Sono qui per Alice. Ha dimenticato il suo unicorno».
Non reagisco. Non commento. Mi astengo come forma di suprema
indifferenza.
Tredici mesi fa, quando ripescai Alice in quella bettola e la riportai
in redazione, lo feci perché la rivista era in difficoltà e lei era l’unica
persona che avesse dimostrato di essere sul pezzo.
Ora che le sue idee hanno sollevato le sorti del magazine, ora che
ci sono automatismi nuovi in redazione e le rubriche funzionano, io
posso fare a meno di lei. La perdita di Alice è sostenibile per
l’azienda e irrilevante per me.
Me lo ripeto ogni giorno.
Sto ottenendo ottimi risultati. Non mi interessa neppure sapere
come se la sta passando.
«Come se la passa Alice?».
Ecco. Forse devo lavorarci ancora un po’, sul disinteresse…
«Se la cava», risponde, mentre si dirige alla scrivania della mia ex
dipendente. «Non ha trovato un vero e proprio lavoro, ma si dà da
fare. Per ora ha un’occupazione temporanea. Lei lo chiama
“marketing sul campo”; in realtà è volantinaggio per un negozio di
oggettistica di una catena norvegese. Vendono cancelleria e articoli
stagionali, dalle parti di Brera. È per questo che stasera non viene a
cena dai miei». Ci pensa e poi aggiunge: «Per questo e perché ci sei
tu».
«Se l’è cercata, Fosco, lo sai», dico, mentre mio cugino si siede
alla poltroncina girevole che è stata di Alice e comincia ad aprire i
cassetti. «Io sono stato molto tollerante con lei. Sempre. Sono
passato sopra a un sacco di cose. Ma stavolta ha esagerato. Non
potrei mai riprenderla».
«Tranquillo», dice, abbassandosi per aprire gli ultimi cassetti.
«Non tornerebbe mai. È troppo arrabbiata».
«Anche io sono troppo arrabbiato, quindi per una volta io e lei
vogliamo la stessa cosa», dico, cercando una maschera di
indifferenza.
«Lo so, Alex, e lo sa pure Alice».
Finalmente Fosco trova quello che cercava: il pupazzo
dell’unicorno. Una cosa a cui lei è molto affezionata, forse perché
sotto sotto la rappresenta. Anche gli idealisti sono creature
mitologiche.
Guardo mio cugino che fissa il peluche.
«Però una cosa te la devo dire, Alex», scandisce Fosco, poi alza
lo sguardo su di me. «Se non fosse per Gaia, mi sarei licenziato
anche io. I tagli e i mancati rinnovi sono stati una cosa ignobile».
Sto per difendermi, per replicare che non c’erano alternative, che i
rami si tagliano per permettere all’albero di crescere più rigoglioso.
Ma non faccio in tempo. Lui si alza.
«Comunque non è colpa tua, Alex», mi stringe il braccio. «So che
hai fatto tutto il possibile per evitarlo».
Mi dà appuntamento a stasera e se ne va.
Realizzo che se ne sono andate anche Marilù e le ragazze. Ora la
redazione è vuota. Mi ritrovo seduto alla scrivania di Alice. So che
non ci devo pensare. So che non mi devo fermare.
So che devo tenerlo a bada, questo senso di colpa. Se mi
raggiunge, si stende su di me e mi soffoca.
So che non dovrei associare nessun rimpianto all’assenza di una
dipendente che si è scavata la fossa da sola, ma questa sensazione
nera, opprimente e cattiva non lo sa, o se ne frega, perché arriva lo
stesso.
Un rumore di passi mi fa alzare la testa. All’ingresso della
postazione di Alice compare una ragazza; sembra sorpresa di
trovarmi lì.
Ha una testa di ricci neri schiacciati da un berretto di lana e un
piumino dozzinale. Ha qualcosa di famigliare, ma non riesco a capire
cosa. Forse lavora per l’impresa di pulizie.
«Oh, mi scusi», dice, «cercavo una persona».
È arrossita. Ma non come le donne a cui importa della mia vita,
seguono gli scoop sui giornali e si emozionano quando mi vedono di
persona. È un imbarazzo severo; sembra originare dal risentimento.
Mi alzo e accenno un sorriso amichevole.
«Le ragazze hanno staccato prima», le dico, «per via della vigilia».
Forse non ama le feste, perché diventa seria.
«Sono felice per loro. Io volevo solo ringraziare la ragazza che ha
permesso a me, mia madre e mio fratello di passare un Natale
decente».
«Se questa ragazza lavora qui, posso aiutarla a mettersi in
contatto con lei e…»
«Anche io lavoravo qui», precisa. E ora è risentita. Capisco perché
aveva un viso famigliare. Deve essere una delle dipendenti
licenziate. Perfetto. Era proprio quello di cui avevo bisogno.
«Quando la vede, dica ad Alice Baker che io, mia madre e mio
fratello le siamo grati per la colletta che ha organizzato tra i
dipendenti. La cifra per noi è davvero significativa. Ci permetterà di
tirare avanti ancora un po’».
Non sapevo nulla della colletta, ma non sono stupito. Alice non è
una che si ferma. Se c’è qualcosa a cui tiene, lei trova il modo.
«Ora vado», dice, «ma una cosa gliela devo proprio dire, dottore.
Sappia che è stato brutto fregarsene così, mentre io e tante altre
persone venivamo lasciate a casa. Sappia che io non augurerei il
male a nessuno, ma sono stata tentata di augurarlo a lei. E sa cosa?
Lei non dovrebbe festeggiare stasera. Il Natale dovrebbe essere
vietato alle persone come lei».
Non mi dà il tempo di difendermi e forse è meglio così. Non posso.
Ha ragione: io non ho mosso un dito, quindi non mi merito il Natale,
ma me lo prendo, come faccio con qualunque cosa.
Fosco mi assolve, mi crede migliore di come sono. Ma, visto che
Fosco ha torto su di me, vorrei che almeno Alice o questa ragazza
avessero ragione. Vorrei essere quello a cui non importa davvero
nulla. Invece mi sento in colpa.
Dovevo riconoscere di avere un dovere non solo verso l’azienda e
gli azionisti, ma verso le persone che fanno l’azienda. E, sebbene
non potessi salvarli tutti, avrei dovuto proteggere i più fragili.
Provarci, almeno. Così da meritare la stima di Fosco, così da poter
guardare Alice negli occhi e dirle che ce l’avevo messa tutta.
Ma magari non è troppo tardi. Magari posso fare qualcosa per
sistemare le cose.
«Carolina», dico. Perché ho capito che è lei, è Carolina Basso.
Lei è già sulla porta, si ferma e si volta. Le sorrido.
«Posso offrirle un caffè?».
Alice
In attesa di una renna

Fa un freddo maledetto. Avrei freddo anche vestita in modo


adeguato, con un piumino e tre felpe, quindi a maggior ragione
conciata così: con il dolcevita verde, lo smanicato tirolese, la
gonnellina di panno e queste calze verdi con un fiocco idiota proprio
dietro il ginocchio. Sorvolo sul fatto che quelli del negozio mi hanno
imposto di mettermi anche un lungo berretto a punta, il “pezzo forte
della divisa”, come l’ha definito la coordinatrice degli elfi che
distribuiscono buoni sconto nel quartiere. Sento il pompon sfiorarmi il
centro delle scapole, come un molestatore che pretende la mia
attenzione.
Ho lo sguardo perso verso i palazzi storici di questa zona
elegante, quando qualcosa mi strattona il bordo della gonna.
Abbasso lo sguardo.
«Tu non sei un elfo autentico».
Lo sputasentenze è un bambino secco come un chiodo, con
un’aria da saputello. Cerco di sorridere. Lo impone il mio ruolo di elfo
buono che distribuisce sconti e lo suggerisce anche il fatto che il
ragazzino sta in compagnia del suo enorme papà. L’uomo, tarchiato
e senza collo, sta guardando il cellulare. Cerco di essere super
professionale.
«Certo, bimbo, sono un elfo. E faccio doni ai bambini buoni, tu sei
stato buono?».
Il nano mi guarda con un’espressione acuta e scettica. «Io ho
chiesto una PlayStation. Mi regali una PlayStation?».
Questo mostriciattolo è il perfetto prodotto del consumismo
imperante.
«No, piccolo», sfoggio un sorriso e mi sforzo affinché non trasudi
ostilità. «Ma vedi questo?», agito il foglietto, «È un buono sconto
immediato del dieci percento, se il tuo papà farà un acquisto lì», e
indico il negozio alle mie spalle. «Potrà risparmiare una cifra pari
al…»
«Non sei un elfo autentico», torna alla carica, ormai il tono è
accusatorio. «Gli elfi lavorano per Babbo Natale e tu invece lavori
per strada come gli zingari che rubano i bambini».
Il padre sghignazza, come se queste parole rivelassero chissà
quale acume. Il che mi porta a concludere che uno dei vizi peggiori
dei genitori moderni è l’indulgenza verso i loro piccoli abomini
maleducati. Mai nessuno che ponga un freno alla faccia tosta. Tutti a
incoraggiarla come se fosse prova di intelligenza, senza dare
nessun riscontro alla compassione, all’empatia, alla gentilezza.
«Io non lavoro per Babbo Natale», ammetto, «ma siamo molto
amici e gli dirò di non portarti la PlayStation».
Il sorriso del padre si incrina, il bimbo perde la sua strafottenza. La
prospettiva, seppure remota, che io abbia una qualche influenza
sulle decisioni di Babbo Natale lo spaventa. Rivolge uno sguardo a
suo padre il quale fa un cenno di diniego, come a dire di non darmi
ascolto. Poi mi fulmina con un’occhiata e lo porta via bofonchiando
qualcosa.
Io me ne resto sul marciapiede con il mio plico di buoni sconto tra
le dita. Provo a vedere se le muovo ancora. Non me le sento più.
«Sei vestita da carnevale?».
È un altro mostriciattolo, stavolta femmina, ma femmina davvero,
fino al midollo.
Avrà sei anni ma è molto più donna di quanto possa sperare di
essere io. Sembra pronta per essere incoronata nel regno delle
principesse. Ha una cascata di boccoli biondi, gli occhi azzurri.
Indossa un pellicciotto bianco, stivaletti con il pelo, una gonnella di
tulle che è un tripudio di stelline luccicanti.
«Sono un elfo vero», mento. «E sono qui per farti un regalo».
«La mamma dice che non devo prendere regali dagli
sconosciuti…».
La madre è la sua versione adulta e sexy, jeans skinny al posto
della gonnella, pellicciotto corto in vita, tronchetti con tacco dieci ai
piedi e le labbra rosse come un semaforo. Chiamata in causa,
annuisce.
«Chiedi all’elfo cosa sarebbe questo regalo», la incoraggia.
Per qualche ragione, lei non può rivolgersi all’elfo.
«Cosa vuoi vendere, elfo?»
«Non vendo niente. Ti regalo un buono sconto, che puoi usare nel
negozio qui dietro», rispondo, mi giro per indicare il negozio e mi
trovo davanti un tizio biondo, in cappotto e ventiquattrore. Ma non un
tizio qualunque.
È Alessandro.
Resto senza parole, e riconosco che neppure lui sembra averne
molte a disposizione. I suoi occhi d’argento sono attraversati da uno
stupore perplesso. Realizzo come sono conciata e devo stringere i
buoni sconto per evitare di strapparmi il cappello dalla testa.
Chi invece non ha proprio problemi a parlare è la principessa in
miniatura. «Mamma, ma quello lì è il signore che c’era sul tuo
giornale?»
«Ludovica, non essere sfacciata», la riprende la madre, ma
tradisce un’evidente emozione. Ha un sorriso super tirato, che
sconfina nell’isteria. Sta già immaginando quando racconterà alle
sue amiche di aver visto il dottor Francalanza Visconti.
Alessandro si riscuote e tira fuori uno dei suoi sorrisi da pubbliche
relazioni. Quelli ammalianti.
«Credo di no, piccola», interviene rivolto alla bimba. «Quello che
hai visto tu è solo uno che mi somiglia».
«Vedi, Ludovica? È solo uno che gli somiglia», ribadisce la madre,
ma ammicca, come a dire che lei ha capito che si tratta davvero di
lui. E l’idea non le dispiace affatto. Che gli fa quest’uomo alle donne,
proprio non lo capisco.
«Avanti, prenditi il tuo buono sconto», lo ficco nelle mani della
bambina. Poi me ne vado, sperando di poterla chiudere qui.
Sento un rumore di passi che mi tallonano, so che è lui prima di
sentire la sua voce.
«Alice…».
Accelero.
«Alice!»
«Non ci parlo con te».
Mi supera. Me lo trovo davanti e faccio per scartarlo, se
l’aspettava e mi sbarra il passo.
«Cinque minuti».
«Non ce li ho. Sto lavorando».
«Uno», rilancia, poi si slaccia l’orologio. Me lo mostra. «Un giro di
lancette. Poi, se vorrai ancora andartene, non ti fermerò».
Mi piazzo le mani sui fianchi. «Sei un manipolatore», gli dico. «Un
minuto in mano tua e l’Austria si arrende mentre i carri armati
arrivano in Polonia».
Per qualche motivo gli viene da sorridere. «E tu stai consumando
secondi preziosi del mio minuto. Chiedo i supplementari».
Gli prendo l’orologio e indico la lancetta. «Quaranta secondi,
Alex».
«Poi che fai? Chiami Rudolph e scappi con la slitta?»
«Muoio dal ridere».
«Scusa, io…», fa un cenno con la mano, come a dirmi di
cancellare le sue ultime parole. «Allora, visto che domani è Natale,
io ho un regalo per te».
Rido. «Non me ne frega niente del tuo regalo».
«Magari te ne frega».
«Hai trenta secondi e, no, sono sicura che non me ne frega».
Lui annuisce e passa all’azione, apre la ventiquattrore tira fuori un
pacco rosso. Me lo porge, lo guardo. Lui si spazientisce, strappa da
solo la carta. Poi mi dà il contenuto. Un plico di fogli stampati. Esito
ancora.
«Non collabori», protesta, «è un contratto…»
«Sei patetico».
«Alice…»
«Io non ci torno nella tua azienda, io non voglio lavorare per
rendere più ricco uno come te. Tu non hai un cuore, Alex. Il tuo
egoismo mi fa stare male, okay? Vederti tutti i giorni mi ricorda che il
mondo è in mano alle persone come te ed è per questo che il mondo
fa schifo e…»
«Guardalo», mi intima, «leggi!».
È perentorio e d’istinto lo assecondo. Non c’è il mio nome. C’è
quello di Carolina Basso. È un contratto di assunzione per Carolina.
«Sul serio?», balbetto. Sono realmente sbalordita. «Davvero, te la
riprendi?»
«Sì. Ma, visto che è Natale e che se fai un regalo ne ricevi uno in
cambio, io ne voglio due da te».
Sono ancora spiazzata, sorpresa e magari anche un po’ felice, e
non solo per Carolina. Provo una specie di stupido orgoglio per aver
sbilanciato Alessandro, per avergli fatto cambiare idea.
Capisco che ci avevo sperato sul serio. Io voglio che questo
cretino mi smentisca. Io voglio potermi affezionare a lui.
«Okay sì, credo di poterti dare quello che vuoi, Alex», annuisco.
«Se te la riprendi io farò tutto quello che mi chiedi».
Peso le mie parole quando vedo un lampo di sorpresa nel suo
sguardo. Sto per precisare che sono esclusi i favori sessuali, ma mi
censuro. Sono abbastanza certa che la cosa non rientrerebbe mai in
una trattativa tra di noi.
«So che dovevi passare la vigilia dai Foscarini. Vorrei che
accettassi quell’invito. Vorrei che ci venissi. Con me».
«Stacco tra mezz’ora, non faccio in tempo a cambiarmi e…».
Mi leva il cappello. «Ecco, tolto questo, sei a posto».
«Ho un gilet tirolese e i fiocchi nelle calze».
«Alice, non è che di solito ti vesti molto meglio di così», mi
provoca. Mi viene quasi da sorridere. Cerco di trattenermi.
«Okay, si può fare, se ti riprendi Carolina, posso venire con te dai
Foscarini, vestita da elfo. Hai detto due regali, che altro vuoi?»
«Voglio te».
«Vuoi me?»
«Assolutamente. Ti rivoglio indietro», chiarisce.
Sto ancora in silenzio.
«Perché?»
«Perché “Lollipop” è stata la rivista con la miglior prestazione di
tutto il gruppo. Perché le squadre che vincono non si cambiano».
«Quindi non hai bisogno di me, ma di quello che io faccio per te?».
Mi fissa come se la domanda lo avesse fatto deragliare verso un
luogo imprevisto. Poi annuisce, senza perdere l’aria confusa.
«Voglio che ti siedi alla tua scrivania, voglio entrare a “Lollipop” e
sapere che ci sei tu, voglio averti intorno, Alice».
E mentre lo dice realizzo che anche io, in fondo, voglio stare
seduta su quella scrivania e vederlo, quando entra in redazione.
Sono tentata. Ma anche spaventata. La verità è che sarebbe la
seconda volta che ci proviamo.
«Alex, ho la sensazione che me ne pentirò».
«Anche io, Alice», ammette. «Quando si tratta di te io mi pento
sempre».
Questo è il momento più sincero che ci sia mai stato tra noi. Mi è
chiaro che la difficoltà è reciproca. Io non lo comprendo, lui non mi
capisce. Eppure nessuno dei due vuole smettere di provarci.
Squadra che vince non si cambia.
Alla fine annuisco, mi tolgo il cappello da elfo idiota e dico solo:
«Dove hai la macchina?».
Lui sorride. Ha capito. Si incammina e io lo seguo.
Magari il futuro ci riserva qualcosa, magari finiremo meglio di
come abbiamo cominciato.
O magari no.
Ma corro il rischio perchè in fondo fidarsi è una scelta. E, per
ragioni che mi sfuggono, io voglio potermi fidare di lui.
La terza volta
L’altra parte del mio noi
Dolce Vita
Agosto è agli sgoccioli e pare che lo sia anche il matrimonio di
Selvaggia Hannover. Ormai la relazione con il ballerino cubano Raúl
Delgado, sposato in fretta e furia dopo appena tre settimane di
travolgente passione, è giunta al capolinea e la questione è ora in
mano agli avvocati.
Selvaggia si consola a Villa Folgore, la storica residenza estiva
degli Hannover sull’isola di Capri, in compagnia del fratello e degli
amici più cari.
Fonti beninformate dicono che presto verranno raggiunti da un
altro amico di famiglia: Alessandro Francalanza Visconti. Il Golden
Boy dell’editoria italiana si conferma ancora una volta un infaticabile
esponente del jet set, pronto a volare dove lo portino gli affari o dove
lo chiamino gli amici.
Erano ancora fresche di stampa le foto che lo ritraevano sulla
plancia di uno yacht battente bandiera monegasca, in compagnia di
una misteriosa modella ucraina, quando eccolo sorridere al
banchetto di nozze del barone Alberigo, stavolta al fianco dell’amica
di sempre Carlotta Dei Pinzi Ranieri.
E ancora una volta vi confermiamo che Alessandro e Carlotta
sono la nostra coppia preferita. Ogni volta che li vediamo insieme, il
sogno si accende!
Karisma Bartoletti, Storie2000
Alex
’O sole mio

Stiamo perdendo quota. Questo significa che l’atterraggio è


imminente. La cosa mi riempie di sollievo. Non ho mai superato la
paura di starmene sospeso a diecimila metri d’altezza.
Di solito supero l’ansia bevendo. Nella classe in cui viaggio il
personale è molto disponibile e, una volta capito che tipo di
passeggero sono, fa in modo che il bicchiere sia sempre pieno.
Stavolta però ho declinato ogni offerta del bar e mi sono tenuto la
paura.
Devo essere lucido per due motivi. Il primo è il business all’origine
di questo viaggio di lavoro. Lunedì definiremo i dettagli
dell’acquisizione della Hannover Press, una casa editrice
specializzata in saggi e manuali. Fino a lunedì studierò il nemico,
Guglielmo Hannover, cercherò di assecondare sua sorella Selvaggia
e accetterò la loro ospitalità nella villa di Capri.
La seconda ragione per cui non bevo è qui davanti a me con gli
auricolari, gli occhi chiusi e la bocca aperta.
La seconda ragione è, ovviamente, Alice.
È seduta nella spaziosa Poltrona Frau nella quale, minuta com’è,
fa l’effetto di una bambina su una sedia costruita per un gigante. È
vestita, come al solito, malissimo – t-shirt nera, gonnellina nera,
scarpe da ginnastica in tela nera – ma ho appena scoperto che Alice
funziona meglio del Martini. La guardo e l’inquietudine si spegne.
Sarei tentato di toglierle la ciocca blu che ha sulle labbra, giusto per
darle un aspetto meno derelitto, ma non mi azzardo a sfiorarla.
La conosco da due anni e a volte vorrei che fosse meno brava,
così da poter fare a meno di lei, o in alternativa che fosse meno
ostile, così da starle accanto senza la sensazione di essere su un
campo minato. Con lei non posso usare trucchi, perché mi
smaschera; non posso puntare sul flirt, perché è del tutto immune;
non posso neanche essere sincero, perché quando succede
litighiamo. Non siamo d’accordo su nulla. Quando ho detto a Fosco
che stavo valutando di portarla con me al meeting con Guglielmo
Hannover, mi ha detto che era una follia.
«Non puoi portare Alice in mezzo ai tuoi amici», ha sintetizzato.
«Se ci tieni a concludere l’affare con Hannover, sarebbe meglio non
correre rischi».
Eppure ho deciso di portarla. E questo per un paio di motivi. Il
primo è che io, inspiegabilmente, funziono meglio con Alice di fianco,
il secondo è che questo progetto è anche un po’ suo.
Il core business di Francalanza Visconti è l’editoria periodica ma,
se l’acquisizione va a buon fine, incorporeremo le dieci etichette di
saggistica e manuali di Hannover. Torneremo a essere una presenza
significativa sugli scaffali delle librerie.
Mia madre ha seguito questa mia iniziativa con un certo
scetticismo. Dice che sono un sentimentale e che non riesco a
lasciarmi alle spalle passato e tradizione. In parte è vero: la storia
della mia famiglia è legata a doppio filo con la storia delle librerie
italiane. Il mio bisnonno ha co-fondato la Visconti Santi, la casa
editrice più vecchia del Paese, prima di costruire la Libri
Francalanza, il primo nucleo del Gruppo che ancora porta il nostro
nome.
Ma non è solo un’operazione nostalgica. Sono anche convinto che
sia un ottimo affare. La prima a mettermi in testa che lo fosse è stata
Alice.
È stata lei, durante un pranzo in mensa in cui si lamentava del suo
lavoro e dichiarava che avrebbe ucciso per lavorare in una casa
editrice come la Visconti Santi, ad aver pronunciato le parole che
hanno messo in moto tutto.
«La Libri Francalanza non è la vostra priorità, ma secondo me ha
un potenziale non sfruttato», mi ha detto. «Vi accontentate di
ristampare classici dell’Ottocento, ma perché non ampliare il
catalogo? Perché non vi buttate sui prodotti per casual buyers? Tipo
libri di ricette regionali e manuali su Come Educare i Figli Secondo il
Metodo di un Paese Mai Sentito Nominare. Quelli che regali quando
non sai cosa regalare. Piazzi espositori giganti negli autogrill e nei
supermercati, alte tirature, prezzi bassi e margini sulla quantità».
È stata lei, una domenica che mi allenavo al parco con Fosco, a
sollecitare uno studio di settore mirato a verificare il volume delle
vendite. È stata lei a dirmi di sondare il terreno con Hannover, per
appurare se fossero vere le voci di corridoio che parlavano di un
accordo informale con Dei Pinzi Ranieri per la cessione della loro
divisione editoriale, specializzata proprio in saggi e manuali. Sono
partito perché lei mi ha dato la spinta. Lei è il fiocco di neve che
sbilancia tutto e genera le mie valanghe.
Durante questo weekend, la sua mansione sarà più vicina a quella
di un’assistente personale. Finalizzerà la bozza del mio intervento
per la riunione con il cda programmata per mercoledì. Sta
organizzando i dati e le analisi di settore in modo che gli azionisti
capiscano cosa mi ha spinto a chiudere l’affare e allo stesso tempo
seguirà a distanza il mio lavoro redazionale. Insomma, con lei
accanto giocherò a tennis e allo stesso tempo sarò completamente
operativo.
Resta il sospetto che quello di Fosco fosse un buon consiglio
perché, se è vero che io e Alice siamo altamente intersecabili sul
lavoro, è anche vero che siamo incompatibili nel resto della vita.
Ma il problema è che non ho alternative a lei.
È insostituibile, lo è anche mentre dorme.
Arriva, improvviso, un rombo allarmante; sembra che lo scheletro
di questo mostro cigoli, in procinto di frantumarsi. Poi precipitiamo,
per un’eternità. Come quando cadi nei sogni e ti svegli angosciato.
Infatti Alice si sveglia di colpo.
«Che succede?»
«Vuoto d’aria», le dico, sono felice che non veda il mio cuore.
Alice sbuffa, sbadiglia, appoggia la testa raccogliendo le gambe.
Mi rivolge uno sguardo assonnato, nel quale colgo una punta di
vulnerabilità assoluta. Poi sembra assopirsi di nuovo.
«No, Alice, resta sveglia», le dico, «tra poco atterriamo».
Non voglio più che dorma. Potrebbe esserci un altro vuoto d’aria
e, se succede, io devo poterla guardare negli occhi. Solo così non
avrò paura.
«Alex, sei uno schiavista», geme.
«Non lamentarti. Sei strapagata per farmi compagnia».
«E questo mi rende identica alle ragazze con cui esci», mi
provoca.
«No. Loro vestono meglio di te».
«E io che pensavo fossero sempre nude!».
Cerco di non sorridere. Non voglio che pensi che la trovo
divertente.
«Gli Hannover hanno la piscina. Hai portato il costume?»
«No. Sono lì per lavorare e poi, diciamo la verità, se mi infilassi un
costume, il padrone di casa avrebbe un infarto per l’emozione.
Guglielmo Hannover sarà anche un playboy ma finirei per spezzargli
il cuore».
«Senza offesa, Alice, ma non sei esattamente il suo tipo».
«Già, il suo tipo è uguale al tuo», dice con un sorrisetto cinico. «Il
vostro tipo è Arabella Smith, quella modella super sexy che usciva
con lui e, cinque minuti dopo, è stata fotografata mentre baciava te».
«È storia vecchia».
«È successo la scorsa estate. Fossi in lui ti sguinzaglierei dietro i
cani. Altro che venderti l’azienda!»
«Guglielmo è un uomo di mondo. Sa di non avere nessuna
esclusiva sulle sue scopate del momento».
«Forse. Ma “l’uomo di mondo” aveva regalato ad Arabella un
diamante da un trilione di carati, quarantotto ore prima che lei
limonasse con te».
«Niente male per una che non legge giornali scandalistici…»
«Ti tengo d’occhio», dice con un mezzo sorrisetto che le sta
d’incanto. «Seguo la massima: “Conosci il tuo nemico”».
Mi mordo le labbra per vietarmi di sorridere. Certo, quello che dice
Alice è vero. È stato Guglielmo a presentarmi Arabella, durante una
festa in barca strana e piuttosto trasgressiva. Sapevo che l’aveva
invitata lui ma, se dovessi rinunciare a tutte le donne che hanno già
scopato con qualcuno che conosco, probabilmente abbraccerei la
castità. E Guglielmo è troppo smaliziato per non saperlo. È
impossibile che serbi rancore. In caso contrario avrebbe accettato
l’offerta di Dei Pinzi Ranieri, che punta da sempre al pacchetto
Hannover. Invece ha scelto di trattare con me.
Alice sospira.
«E comunque qualcosa mi dice che ha ragione Fosco», si
rannicchia ancora. «Tra me e te finirà in tragedia».
Mi abbandono contro lo schienale e cerco di rammentarle che ho
un piano per evitarlo.
«Attieniti ai tuoi compiti, Alice, e osserva le tre regole che ho
stilato e che tu hai accettato», le ricordo, «e vedrai che potremmo
perfino divertirci». Ignoro la sua smorfia scettica e rilancio: «L’isola è
davvero bellissima, la villa degli Hannover ad Anacapri ti lascerà
senza parole».
«Ne dubito. Io le parole le trovo sempre».
«Soprattutto per contraddire me».
«Ma in merito alle regole che avrei accettato…»
«Non sono più negoziabili, Alice», preciso. «Infrangile e ti
licenzio».
«Okay, ma ho un dubbio. Nel negoziato, come lo chiami tu, non
abbiamo stabilito se sarò licenziata infrangendone una oppure se
dovrò infrangerle tutte e tre».
«La tua è una domanda tendenziosa. Stai cercando un cavillo».
«No, Alex, ma il punto è che sono abbastanza certa di riuscire a
trattenermi in merito al primo punto che recita…».
Afferra la borsa, un rettangolo di tela nera, infila la mano e tira
fuori il foglio spiegazzato. È la nota che abbiamo messo per iscritto
nel mio ufficio tre giorni fa. Il fatto che l’abbia tenuta dimostra la
scarsissima fiducia che nutre per me.
«“Se durante le conversazioni emergessero segnali di uno
schieramento ideologico e/o politico con il quale dissento, il mio
dissenso non sarà espresso”».
Annuisco. «La firma vera e propria è fissata per lunedì», le
rammento, «quindi passeremo il weekend in compagnia di
Hannover, della sorella e dei loro ospiti. Tu devi aiutarmi lavorando.
Ma avrai a che fare con queste persone. Non pretendo che tu
piaccia a loro, ma di sicuro ha ragione Fosco: loro non piaceranno a
te».
«Sono abituata a trovarmi con persone che non mi piacciono,
Alex, lavoro per te».
«Ecco», la stano. «È il genere di battuta che non devi fare».
«Non era una battuta».
«Non farla comunque», ribadisco.
«Okay, non dirò nulla sui ricchi schiavisti con cui mi troverò gomito
a gomito, e sorriderò mentre bevete moscow mule e parlate di come
ignorare i migranti che arrivano a bordo dei gommoni. Lo posso
fare», annuisce. «E posso pure attenermi al punto due: “impegnarmi
all’assoluta ubbidienza”».
«Assoluta», ripeto e sorrido. Questa clausola mi mette proprio di
buonumore.
Dagli altoparlanti, la voce serena del pilota ci informa che comincia
la discesa, che il tempo è ottimo e che siamo perfettamente in orario.
Ci ricorda di allacciarci le cinture.
Sono alle prese con il gancio di chiusura quando Alice riprende il
discorso. «Quindi sono fiduciosa riguardo a due punti su tre. Ma il
terzo è più delicato».
Prendo il foglietto. «Non mi sembra così difficile, c’è scritto che io
e te saremo un team. Lavoro di squadra. Sono certo che sia alla tua
portata».
«No», mi corregge, punta il dito sul foglio, «c’è scritto che mi
impegno a essere “l’altra parte del tuo noi”».
«Un modo un po’ ricercato di dire la stessa cosa», glisso.
«Ma che ti aspetti esattamente? Mi sono già impegnata a non
esprimere pareri e di ubbidire ai tuoi ordini. Cos’altro vuoi?»
«Voglio contare su di te», le dico senza esitazione. «Qualunque
cosa succeda, tu devi lavorare con me e per me».
Mi guarda. La guardo.
Poi lei scuote la testa. «Finirà in tragedia», sospira. Poi finalmente
si allaccia la cintura.
Alice
Animali da compagnia

Sono una persona avida e stupida. Questa certezza mi coglie


chiara e senza pietà come un raggio di sole nella retina. Siamo su
una macchinina decapottabile guidata da uno spericolato tassista dai
capelli neri e dal sorriso sfolgorante. Alessandro, seduto di fianco a
me, tiene il gomito fuori dal finestrino e lo sguardo rivolto al mare. Ha
la camicia bianca, i pantaloni beige sopra al ginocchio, i mocassini ai
piedi, i Ray-Ban scuri e il Borsalino color panna. I marchi di lusso
esistono per la gente come lui. Creature ricche che ostentano il
proprio benessere.
Ma non posso neanche prendermela con lui. La colpa è della mia
avidità e della mia stupidità. È bastato che Alessandro mi
sventolasse un assegno davanti al naso perché smettessi di dar
retta a Fosco e decidessi di partire.
Siamo in viaggio da cinque ore e mi sono già pentita della mia
decisione un certo numero di volte.
Per esempio, quando lui ha flirtato smaccatamente con la hostess
di terra della compagnia aerea; quando, in volo, ha fatto gli occhi
dolci alla hostess mora e poi a quella rossa. E infine quando,
all’aeroporto di Napoli, una madre di famiglia ha preso coraggio e lo
ha fermato per farsi autografare il nuovo numero di «Storie2000» nel
quale, guarda caso, lui compariva in ben due servizi: fotografato
sulla plancia di uno yacht battente bandiera monegasca, in
compagnia di una non meglio precisata “modella ucraina” e nel
reportage del matrimonio del barone Alberigo Della Fratta, dove Alex
veniva ritratto al braccio della bellissima Carlotta, l’unica erede di Dei
Pinzi Ranieri. Una foto che racchiude il mercato editoriale italiano.
Dopo due anni, mi è evidente che per Alex è sempre stagione di
caccia. Se Hannover fosse stato saggio, non gli avrebbe mai
presentato Arabella Smith. Comunque ho avuto modo di pentirmi
ancora, quando all’eliporto i paparazzi hanno riconosciuto
Alessandro e quando l’elicottero è atterrato e i paparazzi isolani –
messi in preallarme da quelli che operano sul continente – gli hanno
teso un agguato.
Giuro che, se becco la mia foto su un giornale di merda tipo
«Storie2000», mi do fuoco. Lui invece non dà alcun segno di
insofferenza. È come un animale da zoo, abituato agli sguardi dei
visitatori. È sempre in posa perché qualcuno potrebbe fotografarlo.
Il tassista attenta alla nostra vita, sfrecciando a una velocità
illegale, non rallenta neppure quando le strade si fanno strette e a
strapiombo sul mare.
«Quella è Marina Grande», mi informa il tassista, a cui ho detto,
en passant, che è la mia prima volta sull’isola. «E lassù comincia la
Scala Fenicia».
«Tutto bellissimo», gli concedo, «quanto dobbiamo salire
ancora?»
«Fino in cima, signorì», dice, «ma poi vedrà che le resta nel cuore.
L’isola è bella di giorno e magica di notte. Anzi se vuole le dico dove
ci si diverte la sera».
Mi lancia uno sguardo dallo specchietto retrovisore. È un bel tipo,
con la camicia bianca a maniche corte che ha il doppio vantaggio di
far risaltare l’abbronzatura e di lasciare scoperti due notevoli bicipiti.
Sorrido, mi appresto a rispondere.
Ma Alessandro si intromette. «La signorina è qui per lavorare».
Gli rivolgo un’occhiata perplessa, me ne restituisce una che è la
sintesi del rimprovero. Mi sento come una collegiale, ripresa dalla
suora intransigente. Archivio immediatamente il flirt con il tassista. È
chiaro dallo sguardo che il capo non approva. E io, come ha più
volte ribadito, e goduto nel ribadire, sono ai suoi ordini.
Arriviamo ad Anacapri, il secondo comune dell’isola. Pare che qui
ci siano ville di una bellezza senza paragoni. Ci dirigiamo verso il
monte Solaro, la parte più alta dell’isola, poi imbocchiamo una strada
sterrata. Dopo un paio di curve ci troviamo di fronte a una cancellata
adatta a racchiudere un giardino segreto. Il tassista ferma la
macchina e annuncia che siamo arrivati a Villa Folgore, la residenza
degli Hannover. Una graziosissima cameriera con la divisa nera e il
grembiule immacolato sposta le ante del cancello e fa una specie di
inchino, imitata da un cameriere in bianco, che compare dietro di lei.
Eravamo attesi.
Recuperiamo i nostri bagagli ma, mentre Alessandro cede la sua
Horizon di Vuitton al cameriere, io mi tengo stretta lo zainetto.
La vegetazione oltre il cancello è incredibilmente rigogliosa, ci
addentriamo in un sentiero lastricato di marmo, che si arrampica
attraverso terrazzamenti stretti, anfore dall’aria antica e alcuni stagni
abbelliti dalle statue. Quando il bosco si interrompe, ci troviamo in
una spianata enorme. Il confine è sancito da un porticato che
sembra finire sul mare. All’orizzonte si vedono il golfo, la costa e il
Vesuvio. Al centro dello spiazzo c’è la villa. È un edificio di una
bellezza sfacciata, sembra originato da un’infinità di case una
accanto all’altra, una sull’altra. È tinteggiato di bianco e pare brillare
alla luce del sole. Oltre alla villa, ci sono un campo da tennis e una
piscina attorno alla quale si aggirano alcuni personaggi in costume
da bagno.
Una silfide ci avvista prima di tutti gli altri, ci saluta con la mano e
si affretta nella nostra direzione. Indossa una vestaglietta candida,
aperta sul costume striminzito. Regge un enorme cappello e
cammina come un’indossatrice, incrociando le gambe a ogni passo.
Sono ammirata dalla sua capacità di non cadere su quei sandali
tacco dodici.
Quando è abbastanza vicina la riconosco. È la sorella
pluridivorziata del padrone di casa, una di quelle personalità a cui i
giornali scandalistici dovrebbero passare un vitalizio. Certi rotocalchi
prosperano grazie ai flirt, ai periodi di riabilitazione, ai sorrisi, ai
topless e alle lacrime di persone come lei. Donne bellissime,
ricchissime e fragili come soffioni.
«Alex, amore!».
Amore si leva gli occhiali.
«Selvaggia», la saluta. E sul viso gli compare lo stesso sorriso che
regala ai fotografi quando vuol far credere di essere felicissimo. La
raggiunge, lei se lo abbraccia e intanto gli stampa un bacio eterno.
Ma non sulla guancia. Lo bacia sulla bocca.
Alex si allontana, ma non manifesta né stupore né imbarazzo.
Probabilmente per lui è un modo normale di salutarsi. Lo guardo e il
sorriso di prima ha lasciato il posto a un altro. Non c’è
compiacimento, non c’è gioia. È il sorriso del dio a cui niente
importa, neanche il bacio di una donna bellissima.
Dopo che Alex e Selvaggia Hannover si sono detti a vicenda
quanto sono straordinari, quanto sono in forma e quanto sono
contenti di vedersi, lei sembra accorgersi di me.
«Eccola finalmente, la famosa assistente!»
«Ah già, sì. Lei è Alice», dice Alex come constatasse una cosa
ovvia, tipo il colore del cielo in una giornata di sole. Non sono
neppure vere presentazioni, un po’ come se io fossi un cane, che
uno sente il bisogno di identificare con un nome e poi la cosa finisce
lì. L’analogia con il cane assume una nuova consistenza quando
aggiunge: «Grazie Selvaggia, siete stati davvero gentilissimi a
permettermi di portarla».
«Mi casa es tu casa», dice lei.
Non faccio in tempo a chiedermi se per caso hanno preparato una
cuccia per me, quando ecco arrivare il padrone della villa.
Guglielmo Hannover è appena emerso dalla piscina, gronda
acqua dai capelli scuri e trasuda ricchezza. Ha indossato senza
fretta un sottile accappatoio blu. Conosco il suo aspetto – il volto
squadrato, la mascella larga, gli occhi neri – perché se lavori nei
periodici di costume la gente come lui impari presto a riconoscerla.
Rimpiango un po’ il periodo in cui potevo stare davanti ad
Alessandro Francalanza Visconti e non avere la minima idea di chi
fosse.
Tornando agli Hannover, hanno interessi nelle emittenti private, nel
cinema e possiedono anche una casa editrice, la Hannover Press.
Ovvero la ragione per cui Alessandro è qui.
In breve, altri individui abbronzati, palestrati e ritoccati dalla
chirurgia plastica emergono, chi dalla piscina e chi dalla villa, per
dare ad Alessandro il benvenuto.
Conto nove persone, compresi noi. Tra loro una certa Lucilla, tutta
labbra e seno, che deve essere una specie di fidanzata del padrone
di casa, visto che lui le tiene la mano piazzata sul sedere e lei non si
scuote.
Io resto ferma a tre metri da loro. Sono alle spalle di Alex. Vedo
solo la sua schiena imponente, fasciata dalla camicia bianca e le sue
ciocche bionde che escono dal Borsalino, per arricciarsi sulla nuca.
Se gli altri mi ignorano, lui li legittima perché è il primo a trattarmi
come se non facessi parte di questo scenario.
Dopo un’eternità, Selvaggia si rammenta di me e richiama la
cameriera.
«Carmela, da brava, fai vedere la stanza all’assistente del dottor
Francalanza. Così si dà una sistemata».
Aggiunge quella parole con un pizzico di condiscendenza. Forse
crede di avermi fatto un favore nel concedermi di lasciare il gruppo e
“sistemarmi”.
Cerco lo sguardo di Alex, giusto per fargli un cenno, per dire: “Ehi,
l’altro pezzo del tuo noi è appena stato congedato”, ma non riesco
ad avere la sua attenzione.
È come se fossi oltre un vetro oscurato. Io lo vedo ma lui no.
Seguo Carmela cercando di non pensare al fatto che, in fondo, e
neppure troppo in fondo, ci sono rimasta davvero malissimo.
Alex
Errori di valutazione

La terra rossa è il mio elemento. Il dritto di Selvaggia è veloce e


basso, sfiora la rete e corre come un proiettile. Non posso contare
su Lucilla, mia compagna in questo doppio, perché è carente di
tecnica e lenta di riflessi. Stiamo perdendo e così scatto, mi allungo
e in qualche modo salvo la palla. Mi esce una respinta veloce che,
superata la rete, resta in campo per un soffio. Ma Tiberio Degli
Innocenti, un cugino degli Hannover che gioca in doppio con
Selvaggia, trova il colpo della vita, salva il risultato e respinge.
Indirizza la palla addosso a Lucilla. Ha decifrato il punto debole.
Penso ai miei lati scoperti e dirigo lo sguardo verso la piscina.
Alice è ancora lì, seduta di spalle, con la t-shirt nera, le matite in
testa, il portatile davanti a lei e Guglielmo seduto di fianco. Rispetto
all’ultima volta che ho controllato ci sono tuttavia un paio di
differenze. Il padrone di casa ha ridotto le distanze e sono apparsi
due cocktail sul tavolo.
Un’esclamazione di Lucilla riporta la mia attenzione al campo.
La mia compagna è in ritardo ma miracolosamente arriva alla palla
e respinge. Tiberio cerca la schiacciata sotto rete. Mi preparo per
parare il colpo, poi sento la risata di Guglielmo e mi giro verso di lui.
Un attimo dopo Selvaggia e Tiberio esultano.
La pallina è rimbalzata a terra, a un metro da me.
Hanno vinto.
Cerco di prenderla con sportività. Ma, se perdere non mi piace,
perdere per colpa mia è peggio. Prendo l’asciugamano, me lo passo
intorno al collo e raggiungo la fonte della mia distrazione fatale.
Seguo i mosaici romani che circondano la piscina. Sono a pochi
passi dal gazebo sotto il quale Alice lavora e, inspiegabilmente,
Guglielmo le sorride.
Guglielmo bisbiglia qualcosa. Alice quasi volta e mi rivolge
un’espressione totalmente neutra.
È tutto il pomeriggio che ce l’ha.
«Chi ha vinto?», mi chiede lui.
«Tua sorella».
Fa una smorfia. «Che duro colpo!»
«Mi riprenderò…»
«È sempre difficile cedere sul campo qualcosa che consideriamo
nostro».
«Non si può vincere sempre».
Prendo una seggiola e mi siedo, Alice non parla. Prende alla
lettera la regola di tenere per sé le proprie opinioni.
«Posso perdere una partita di tennis, Guglielmo, purché tutto fili
liscio lunedì».
Guglielmo reclina la testa in modo plateale. «Non ti smentisci mai.
Parli solo di lavoro».
«Non è vero».
«Te lo sei perfino portato in vacanza», e indica Alice.
Sentirlo mentre definisce Alice il “lavoro” è corretto nella sostanza
ma forse un po’ duro nella forma. Lei è come la partizione del mio
cervello che non perde di vista l’obiettivo in quei momenti in cui devo
fingere di non vivere per il lavoro.
«L’ho portata per farle prendere il sole», scherzo. «Sta sempre
chiusa in redazione».
«È pallida, in effetti».
Parliamo di lei ma Alice continua a stare zitta. Cerco di
convincermi che sia una fortuna. Ma il padrone di casa la incalza
ancora.
«E tu, segretaria di Alex, sei contenta di essere qui?»
«Non sono la sua segretaria», precisa.
«Non è la mia segretaria», confermo.
«Però scommetto che sai renderti utile».
Per un attimo le vedo negli occhi uno sguardo terribile. Sono già
pronto a intervenire perché ho la certezza che la risposta di Alice
rientrerà tra quelle perseguibili penalmente. Invece lei, pur con un
evidente sforzo di volontà, tiene le labbra serrate, si prende un
secondo e poi si alza.
«Scusatemi, ci sono alcune e-mail davvero urgenti a cui devo
rispondere». Prende il computer e se ne va.
Respiro di sollievo. Si sta impegnando a non infrangere le regole,
quindi andrà tutto liscio. Smetto di essere sereno quando mi accorgo
che Guglielmo guarda Alice allontanarsi verso il magnifico pergolato,
che affaccia sul golfo.
Perché mai la fissa?
Nel tentativo di rispondere, dirigo lo sguardo su Alice che si
allontana.
Registro i capelli neri striati di blu, la nuca e la schiena. Da lì,
l’occhiata scivola di sua iniziativa verso il sedere.
Quegli hot pants glielo fasciano e impacchettano come se fosse
un regalo da scartare.
Okay.
Ora è chiaro cosa ha attirato l’attenzione di Guglielmo.
Ci sta.
Mi sono accorto da un pezzo che il culo di Alice è stupendo.
Eppure non voglio che lui la guardi. Cerco di distoglierlo.
«Allora, cosa mi racconti? Vedo che continui a uscire con Lucilla».
«Sì, forse la sposerò», sospira. «Sempre che i miei legali riescano
a trovare un accordo prematrimoniale con suo padre che sia
abbastanza vantaggioso per me».
«Sono certo che lo troverete».
«Ma, parlando di donne, sappi che ci hai totalmente spiazzato».
«Io? E perché?», e faccio cenno al cameriere che si aggira a
bordo vasca.
«Quando mi hai detto che saresti venuto qui con una
collaboratrice», e virgoletta la parola, «io e Selvaggia abbiamo
pensato fosse la tua scopata del momento. E invece arrivi con un
adorabile mucchio di ossa, che passa il pomeriggio a lavorare
davvero».
«Perché questo fa. Lavora davvero per me».
«Anche alcune delle mie impiegate», dice con un mezzo sorriso,
«ma i loro compiti vengono sbrigati sotto la scrivania. E in ogni caso
non me le porto in giro».
Mi sforzo di sorridere. «Io non mischio mai svago e lavoro».
«Quindi è per questo che non te la scopi?».
La brutalità della domanda mi disorienta.
Non sono scandalizzato, no, ma mi manda fuori fase. Ci ho messo
due anni per arrivare alla conclusione che il sesso e Alice sono
argomenti che si escludono a vicenda. Non devono neppure stare
nella stessa frase. La domanda di Guglielmo mi destabilizza. Mi
pone un problema che è meglio non affrontare.
Per fortuna arriva il cameriere e mi salva. L’uomo mi porge un
bicchierone di centrifugato, finendolo con una fetta di lime. Sento
l’urgenza di cambiare di nuovo argomento. Chiedo al padrone di
casa come procedono le pratiche per il divorzio di Selvaggia.
«Mia sorella è una patetica sognatrice, Alessandro. Ha trentadue
anni e due matrimoni falliti», e indica il numero con le dita, «ma
almeno Francesco Altopasci era un conte ed era ricco. Ammorbante,
se vuoi, ma ricco. Niente a che vedere con Raúl Delgado. Solo una
povera cretina si sposa un ballerino di fila cubano, di dieci anni più
giovane», mi sorride. «Il terzo marito sarà anche peggio, a meno che
non la sposi tu».
Rido. Lui insiste: «Potresti farlo! Sempre che non siano vere le
voci su di te e la nostra Carlotta».
«Non mettertici anche tu!», lo ammonisco mantenendo il sorriso.
«La favola che io e Carlotta saremmo segretamente fidanzati ha
smesso di essere divertente e sta diventando imbarazzante.
Soprattutto per il vero fidanzato di Carlotta».
«Povero Eugenio! Mezza Italia vuole che tu scopi la sua donna».
«Te l’ho detto: ha smesso da un pezzo di essere divertente».
«Già, però Carlotta è bellissima…».
Lo è. Splendida, a dire il vero, oltre che disinvolta, acuta e
brillante. Aggiungo pure popolarissima, in virtù delle sue
collaborazioni nel settore della moda. Ma la ragione per cui siamo
amici è che io e Carlotta siamo davvero molto simili. Abbiamo
coscienza del nostro ruolo, autocontrollo emotivo e non abbiamo un
reale bisogno di altre persone.
«Comunque, Alex, nella metà dell’Italia che vi vuole insieme ci
sono anche tua madre e suo padre…»
«Temo che quando la Hannover diventerà mia, suo padre
cambierà idea».
«Allora lo sapevi!», mi stana. «Sapevi che stavo trattando anche
con Dei Pinzi. Sei davvero un farabutto senza scrupoli, Alex».
«Voglio la Hannover Press. Voglio potenziare la mia divisione
editoriale».
«Okay, Alex, visto che mi hai detto quello che vuoi, devi mettere
sul piatto qualcosa di significativo».
«Due milioni sono abbastanza significativi».
«Non essere venale! Io intendo qualcosa di simbolico. Ricorda che
dopo la faccenda di Arabella mi devi un favore».
Ha nominato l’affaire dello scorso anno.
Maledizione!
Alice aveva ragione. Sento il bisogno di dimostrarmi disponibile.
«Chiedimi qualunque cosa, e l’avrai».
«Davvero? Qualunque cosa?», c’è una luce strana nel suo
sguardo. «Qualunque cosa», confermo.
«Voglio la tua segretaria».
La cosa mi spiazza, forzo una risata. «Andiamo, non è che sia
mia. Nel senso che non dispongo di lei».
«Però ti sta bene, vero?»
«Cosa?»
«Ti sta bene se io dispongo di lei?», chiarisce. Mi sta mettendo
alla prova, è evidente che non fa sul serio.
Eppure sto per dirgli che no, non mi sta bene affatto. Che questo
discorso è ridicolo e che quando intendevo tutto erano
implicitamente escluse le persone. Era implicitamente esclusa Alice.
Ma siamo di nuovo interrotti, ci raggiungono Tiberio e Lucilla, e la
conversazione prende subito un’altra direzione.
Cerco di rilassarmi, di tenere a bada l’inquietudine e alla fine mi
sforzo con tutto me stesso di non dare al discorso di Guglielmo né
credito né importanza.
Alice
Spazio personale

Sono in camera, una stanzetta al pianterreno, arredata con un


letto, un piccolo armadio e un grande specchio. La finestra ha una
vista un po’ misera, sulla rimessa degli attrezzi. Cerco di trovare una
soluzione per l’ennesima rogna. Stasera si cena fuori. Ho provato a
defilarmi ma il padrone di casa ha insistito e Alessandro, per non
inimicarselo, mi ha praticamente ordinato di obbedire. Quindi cenerò
con i membri di questa allegra compagnia di persone diversamente
utili. Non so precisamente chi siano le due gemelle e il tizio biondo
che le accompagna e a che titolo Guglielmo li ospiti, ma ho
memorizzato alcuni tra i personaggi principali.
C’è Selvaggia Hannover, ovvero la sorridente e fragile sorella
maggiore nonché probabile trombamica del mio capo; poi c’è Lucilla
Rattinbergh, cioè la ragazza ufficiale del padrone di casa; quindi
abbiamo Tiberio Degli Innocenti, un playboy imparentato con gli
Hannover che di mestiere fa la persona ricca, e infine lui, Guglielmo,
quello che sorride sempre, ma come un sadico sorriderebbe davanti
al dolore. Non avevo grandi aspettative, ma è peggio di quello che
sembrava dai giornali.
Ha qualcosa di cattivo nello sguardo. Questo pomeriggio, mentre
era in corso la partita di tennis, mi ha messo a disagio, non tanto per
l’invadenza con cui ha tentato di avviare una conversazione, ma
piuttosto per il modo in cui mi guardava, quasi volesse attribuirmi un
significato. Guglielmo Hannover è inquietante, come i personaggi in
certi thriller da cui sai già di doverti aspettare il peggio.
Cerco di concentrarmi sui soldi, unico motivo per cui sono
sull’isola. E intanto mi sforzo anche di superare la delusione. Inutile
girarci intorno, la freddezza di Alessandro mi amareggia. Credevo di
conoscere tutti i suoi difetti invece ho scoperto che in mezzo ai suoi
simili si adegua. Mi sta trattando da schifo e sospetto che “l’altra
parte del mio noi” sia un sinonimo di “schiava”.
Da una conversazione tra Lucilla e Selvaggia ho dedotto che
stasera si cena in un posto chic, dalle parti di Marina Piccola. Non
l’avevo previsto, ma per fortuna ho infilato nello zaino questo baby
doll nero che si annoda sulle spalle.
Lo metto e penso a Brando.
Me lo ha regalato proprio lui, il mio ex, perché stava un po’ in fissa
con l’intimo carino e, diciamo la verità, sapeva anche come
sfruttarlo. Più che fidanzati eravamo amici con i benefici e, visto che
lui era decisamente portato per il sesso, il beneficio derivante dai
“benefici” oscillava tra “sublime” e “pazzesco”.
Tra di noi le cose non sono andate perché io stavo perdendo la
casa e lui aveva delle difficoltà famigliari, ma sono certa che in un
momento meno incasinato avrebbe anche potuto funzionare. Ancora
oggi è consolante sapere che la migliore scopata della mia vita era
una bella persona. Qualcuno che, a distanza di due anni, continuo a
considerare un amico.
Sono quasi tentata di chiamarlo. Non lo sento da un paio di
settimane.
A volte avverto il bisogno della sua voce, ma non per ragioni
romantiche o nostalgiche. Sesso leggendario a parte, la cotta mi è
passata mentre ancora lo frequentavo. È più un’urgenza di casa,
ricordi e radici. O forse di un passato in cui tutto sembrava in salita,
ma ancora non sapevo quanto sarebbe stata dura.
Ignorare il proprio futuro è, talvolta, un gran vantaggio.
Infilo il baby doll. Okay che è lingerie di poliestere, ma siamo in
estate e ci sarà buio, non si noterà la differenza tra questo affare e
un mini abito nero di Versace.
Mi convinco che non ce ne siano e prendo il cellulare per
chiamare Brando, proprio mentre il telefono squilla.
È Fosco.
Che singolare tempismo: mentre pensavo al mio ex ragazzo
compare sul display quello che vorrei fosse il mio attuale ragazzo.
Mi precipito a rispondere.
«Sei viva?»
«Più o meno», dico. «Ho appena indossato una sottoveste con un
bordo di pizzo. Sai, stasera si cena fuori».
«Cavolo, non so se essere più sorpreso del fatto che esci o
perché lo fai in sottoveste. E, a proposito, quanto è corta?».
L’avesse detto qualunque uomo sulla terra, avrei pensato a
un’intenzione maliziosa. Ma purtroppo Fosco non flirta mai.
«Ora mi scatto una foto in posa sexy e te la invio», lo provoco.
Ride. «E come facciamo con Gaia?».
Stringo il telefono. Lascia Gaia, vorrei dirgli, lasciala e mettiti con
me, Foscarini, diamo seguito a questa meravigliosa cosa che c’è tra
noi, e facciamolo adesso. Perché mi sto abituando a non avere più
nessuna fantasia su di te, e stiamo diventando più che amici. Stai
diventando il fratello che non ho e poi succederà come l’ultima volta
che qualcuno mi è piaciuto sul serio: se cominciamo a vederci come
fratelli, non si torna più indietro.
«Alice, ci sei ancora?»
«Sì, sì, scusa ero distratta», mi giustifico, «ora devo salutarti. Non
voglio arrivare tardi. Rischio che Alex si incazzi e mi licenzi».
«È probabile. Non c’è due senza tre», scherza Fosco.
Può permettersi di fare battute. Non rischia nulla lui. Io invece ho
una bruttissima sensazione.
Rinuncio a chiamare Brando e finisco di prepararmi. Decido di
optare per un trucco pesante, ma solo per creare un diversivo, così
chi mi guarderà sarà distratto dal mio make-up drammatico e non
abbasserà lo sguardo sul vestito-non-vestito o sulle scarpe di tela.
Lasciata la stanza, mi avventuro per il corridoio e salgo una breve
scalinata. Arrivo al piano nobile, attraverso un disimpegno ed entro
in una stanza bellissima. È su due livelli, collegati da una scalinata.
Sul livello più alto c’è una vetrata che promette una vista magnifica.
Mi avvicino per dare un’occhiata, quando sento una voce alle mie
spalle.
«Eccoti qui, finalmente».
È il padrone di casa.
Mi trovo spalle alle finestre perché si è fermato a un metro da me.
Mi scruta con una nota curiosa. Decisamente troppo interessata.
«Ehi, che sorpresa», dichiara, «un po’ lo immaginavo, ma non così
tanto».
Ecco. Non so a cosa si riferisca ma mi guarda come fossi una
torta. Non posso trattare questo playboy palestrato come vorrei. C’è
una cessione da milioni di euro in ballo. Cerco di mantenere la
calma.
«Che c’è? Perché non parli?», mi provoca.
Perché non posso dire quello che vorrei.
«Sei forse timida? Sei in soggezione perché sono io?», dice io
come se dicesse Dio; poi con un gesto discendente indica,
nell’ordine, il laccetto di cuoio stretto al collo, la camicia slacciata e i
bermuda super stretti. Sui bermuda si ferma e sorride.
«Lo sai che il tuo capo mi deve un favore?»
«Ah».
«Già». Sorride e poi, maledizione, fa un passo verso di me. Ora è
così vicino che sento il suo respiro addosso. «Alla fine ci sono tante
clausole non scritte in un accordo finanziario».
Lo dice, allunga una mano e mi accarezza il braccio.
Ho un concetto molto ristretto di spazio personale. Se si esclude
l’intimità, non sono una persona che apprezza il contatto fisico. Ma
soprattutto non tollero che me lo si imponga. Mi sento aggredita.
Cerco di scansarmi, lui insiste.
Affronto la cosa. «Mi stai mettendo a disagio, Guglielmo».
«Dove sta scritto che devo metterti a tuo agio?».
Che diavolo di risposta è? Mantenere la calma è sempre più
complicato.
«Gli ospiti non vanno messi in posizioni scomode, Guglielmo…»
«La posizione che ho in mente per te è parecchio comoda per
me».
Questo è troppo. Lo scanso con un gesto brusco. Lui si incupisce.
«Ehi, vacci piano, ragazzina».
Lassù qualcuno mi odia perché Alessandro arriva in tempo per
sentire quelle parole.
Camicia azzurra, pantaloni blu e quell’abbronzatura color miele,
tipica delle persone bionde, tiene lo sguardo stretto in una fessura e
ha l’aria di aver già deciso che è tutta colpa mia. Con lui c’è
Selvaggia Hannover e il suo abito con fantasia a cerchi rossi,
maniche a campana e cintura gioiello è, probabilmente, un vero
Versace.
Selvaggia ci esorta a unirci al gruppo, per quanto si rivolga solo a
suo fratello, poi mette in chiaro la sua prelazione su Alessandro,
passandogli una mano sulla nuca, non so se per sistemargli i capelli
o scombinarglieli, ma comunque ricadono in una nuova variante del
loro glorioso disordine.
Guglielmo, sempre scuro in volto, raggiunge Alex e gli dice
qualcosa all’orecchio. Qualcosa che gli fa cambiare espressione.
Selvaggia segue il fratello fuori dalla stanza e io sto per fare lo
stesso quando Alessandro si piazza davanti a me.
«Alice, che diavolo combini?!».
È aggressivo, quasi violento. Il tono è rotto da uno strano affanno.
Come fosse in debito di ossigeno.
«Ehi, guarda che…»
«Non azzardarti!»
«Dammi almeno il beneficio del dubbio», protesto. «Mi sono
comportata benissimo! Ma non si può dire lo stesso del tuo amico.
Ha allungato le mani e si è preso delle libertà».
«In che senso?»
«Il braccio. Mi ha accarezzato il braccio e…»
«Siamo ospiti, Alice», mi interrompe scuotendo la testa. «Questa è
casa sua. Devi adeguarti».
«…Cosa? Cioè, fammi capire, se a questo viene in mente di
levarmi le mutande io mi adeguo?»
«Non essere drammatica, Alice. Ti ha toccato un braccio. E sai
cosa? Te la sei cercata. La prossima volta evita di vestirti come una
prostituta».
Resto paralizzata dallo stupore.
«Okay, sorvoliamo sul fatto che mi hai appena dato della
puttana…»
«Non travisare. Intendevo che, conciata così, lo sembri e che
qualcuno potrebbe pensarlo».
Questa precisazione peggiora le cose e infatti mi arrabbio. «Ecco,
sei esattamente come lui! Siete il tipo di uomini che considera la
gonna un incoraggiamento allo stupro».
Stringe i pugni. «Non ci provare, Alice! Non ho le risorse
psicologiche per litigare con te. Ma incasinami e te ne pentirai. Prova
a crearmi dei problemi con Guglielmo e ti licenzio».
Poi mi indica la porta, come si farebbe per cacciare un bambino
fuori dall’aula. Io non so precisamente come mi sento.
Gestisco la rabbia, ma non la delusione.
La delusione, infatti, è una brutta faccenda: ti mette davanti ai tuoi
errori di valutazione. Chi diavolo è davvero la persona per cui
lavoro?
Appena raggiungiamo il resto della compagnia lo vedo
trasformarsi per l’ennesima volta. Lo vedo sorridere e scherzare,
sfoggiare quei suoi modi ammalianti. È così falso e opportunista da
lasciarmi senza parole.
Non è un bugiardo. È lui la bugia.
Quando usciamo dalla villa, Alex accetta il passaggio sulla
macchina di Tiberio. Poi fa un cenno nella mia direzione
aggiungendo un: «Forza, muoviti», degno di un padrone al suo
schiavo.
Mi sento mortificata, ma il peggio arriva quando Guglielmo si
avvicina.
«No, Alex», gli dice. «La segretaria me la prendo io».
Alex esita, per quanto continui a sorridere.
Guglielmo lo incalza: «Ricorda che mi devi un favore».
Supplico Alessandro con lo sguardo. Faccio anche cenno di no
con la testa. Ma ho riposto male le mie speranze.
«Prenditela pure», dice.
Neppure mi guarda. Stavolta quel bastardo del mio capo gira le
spalle e se ne va. Stavolta mi ha proprio abbandonato.
Alex
Fosco aveva ragione

Fosco aveva ragione. Maledizione! Portare Alice è stato un errore.


Io analizzo sempre le possibili evoluzioni dello scenario ma in
questo caso ho commesso un errore di valutazione. Ora sono
inquieto e navigo a vista. Credo che Guglielmo mi stia solo
provocando. Per lui fare allusioni su Alice è un gioco. E Alice deve
capirlo e mantenere la calma. Deve fare squadra, e gestirla.
Non può perdere la testa perché lui le tocca il braccio.
Un braccio, porca miseria! Capisco che possa averle dato fastidio.
Cazzo, dà fastidio pure a me se ci penso. Ma a volte si deve
scendere a compromessi.
E poi l’errore è stato suo. Non sono uno che pensa che la gonna
sia un incoraggiamento allo stupro, ma i vestiti sono un segnale. E
se una si veste come Alice ti sta autorizzando a provarci. Non è un
implicito consenso ma un invito. E non ti puoi incazzare se uno ti
tocca il braccio.
Pure io ci sono rimasto di sasso quando l’ho vista. Pure io l’avrei
toccata…
So che non posso ridurre tutto al vestito che indossa. Okay, fa un
effetto destabilizzante. Scioccante. Ma che peso potrà mai avere
sull’accordo con la Hannover, su Guglielmo o su di me?
«Carina, comunque».
Mi giro verso Tiberio. Intorno a noi il mare sembra fatto di onice.
«Di chi parli?»
«Della segretaria», chiarisce, quasi avesse letto i miei pensieri.
«Non è una che salta agli occhi; però, se la guardi una volta, poi
torni a guardarla. È il tipo che ti frega», pontifica, poi mi lancia
un’occhiata maliziosa, «stasera poi è scopabilissima».
Scelgo il silenzio. Da un lato sono troppo infastidito per replicare,
dall’altro dovrei dargli ragione. Non so se sia bella davvero, ma so
che è marginale. Alice mi colpisce altrove. Dove non ho difese. E io
mi chiedo come diavolo faccia a dare un significato nuovo a tutto,
dalle matite che morde ai bicchieri da cui beve, passando per capi
d’abbigliamento che sono la morte del buon gusto. Non dovevo
portarla. La sua presenza sta complicando tutto.
Non replico e mi metto a parlare di lavoro. Tutto pur di non dover
rispondere ad altre domande su Alice.
Tiberio mi conferma che per gli Hannover la cessione è importante
e che andrà tutto liscio. Hanno necessità di monetizzare. Il divorzio
di Selvaggia sarà un’operazione da qualche milione perché, negli
undici mesi di matrimonio in comunione dei beni, il suo “futuro ex
marito” l’ha convinta a comprare di tutto: dallo yacht al castello in
Scozia. Ora Selvaggia deve cedergli la metà.
«Ne usciranno in piedi, ovvio», decreta Tiberio, «ma liberarsi della
Hannover Press permetterà a Guglielmo di proporre una sostanziosa
liquidazione, in denaro, senza toccare fondi e immobili», mi indirizza
uno sguardo sornione. «Se non avesse avuto urgenza di liquidità,
Guglielmo non avrebbe preso in considerazione la tua offerta.
Avrebbe accettato di vendere, fra un anno, a Dei Pinzi Ranieri».
«Magari l’avrei convinto comunque».
«Non dopo la faccenda di Arabella».
Non faccio commenti ma ho appena avuto la conferma di aver
sottovalutato la cosa. Sono arrivato qui pensando che sarebbe stata
una transazione amichevole, ma sono stato ottimista.
Guglielmo cova rancore.
Percorriamo l’ultimo tratto di strada, lancio uno sguardo distratto
allo Scoglio delle Sirene: mi pare ritagli sulla notte un dettaglio di
malinconia estrema. Posteggiamo nel parcheggio del ristorante.
La Conchiglia del Mare è un beach club a cui gli Hannover sono
molto affezionati. Una terrazza panoramica, una serie di piscine,
l’approdo privato e la vista sui Faraglioni lo rendono un distillato
iconico della dolce vita caprese. Stazione balneare molto esclusiva
di giorno, dopo il tramonto diventa un gradevole ristorante, e la
serata è animata da complessi che fanno del revival la loro ragion
d’essere.
La cena è una somma di portate, chiacchiere e dinamiche di
gruppo fortemente perturbate. Lucilla è stizzita con Guglielmo che la
sta trascurando, Selvaggia mi sta addosso e Alice sembra in
procinto di esplodere. Sta in fondo al tavolo, isolata. È alle prese con
il telefono e mostra la stessa alienazione di una dodicenne
impegnata nella sua prima chat. Cerco di non chiedermi con chi
diavolo stia scambiando messaggi.
Cerco di vedere nel suo mutismo un segnale incoraggiante.
Piuttosto che sentirla parlare e vederla rovinare l’acquisizione
preferisco di gran lunga che stia sola e zitta. È troppo sperare che
capisca le mie motivazioni? Lavora per me. È qui per me. Non c’è
altro da aggiungere.
Dopo cena, Lucilla prende atto che Guglielmo non la degna di uno
sguardo. È alle prese con il telefono, proprio come Alice, e ignora la
sua fidanzata.
Lucilla allora cerca di attirare la sua attenzione con la più scontata
delle manovre. Porta Tiberio sulla palladiana rosa, davanti al
palchetto dell’orchestra e, approfittando di un pezzo lento, si esibisce
in un ballo languido.
Quando riporto la mia attenzione verso il fondo del tavolo, scopro
che Alice è sparita. La sua sedia è vuota. Constatarlo mi provoca un
vuoto di una concretezza sorprendente. Si accompagna a una sorta
di angoscia che cerco di tenere a bada.
Decido di versarmi un altro bicchiere di vino. Dopo un po’ sento la
tensione allentarsi. Mi rilasso. Mi tranquillizzo al punto che, quando
Selvaggia mi prende per mano, non faccio alcuna resistenza. La
seguo tra la gente che balla, fino a un pergolato di glicini dal profumo
invasivo, poi affrontiamo una breve scalinata, nella quale lei
inciampa e, ridendo, si aggrappa al mio braccio. La nostra
destinazione è un posto appartato, un terrazzino panoramico
costellato di divanetti. C’è una bottiglia nel secchiello e due calici.
Sospetto che li abbia fatti portare lei, ma non vuole brindare. Mi
spinge a sedere, si piazza a cavalcioni sulle mie gambe, mi rivolge
un sorriso che vale come mille promesse, mentre mi mette una
mano sul petto e una dietro al collo.
Dalle sue labbra, vicino alle mie, esce una promessa scandalosa,
una di quelle che fanno impazzire. O almeno dovrebbero. La mia
testa resta indietro. Selvaggia ha le idee chiare ma io no. Mi tocca
sulla gola, passa sulla nuca. Poi mi bacia.
Il tempo di sentirmela sulla bocca, di riconoscere la sua lingua e
arriva la voce di Alice.
«Alessandro!».
Selvaggia si scosta, Alice entra nel mio campo visivo. Nonostante
il vestito assurdo, il make-up pesantissimo, la cosa che noto è l’aria
smarrita. Ha gli occhi spalancati, stringe i pugni. Ha qualcosa di
vulnerabile e incazzato insieme.
«Alice?»
«Alex, io voglio andare via».
L’affermazione è così perentoria e così assurda che mi irrigidisco.
«Stai scherzando, vero?», chiedo, e intanto mi vedo costretto a
bloccare la mano di Selvaggia che, sbronza com’è, si sta
avventando sul primo bottone della mia camicia.
«No, Alex. Ti prego io…»
«Oh, ma che palle», la interrompe Selvaggia. «Mandala via,
Alex». Lo dice e mi appoggia le labbra sul collo. Con la destra mi
afferra una spalla, con la sinistra si infila tra le mie gambe.
Il mio cuore perde l’equilibrio. E di colpo focalizzo quello che
provo.
Mi fa star male che questo avvenga davanti ad Alice. Mi distrugge
che lei mi veda. Soffro come se mancassi nei suoi confronti. Mi
sento sbagliato, come un congegno assemblato con parti difettose.
Come un cumulo di errori.
Mi vergogno e mi sento colpevole.
La consapevolezza è peggio del sentimento in sé. Sono forse
impazzito? Alice è solo una mia dipendente. Perché mi sento in
colpa?
Mi libero di Selvaggia, determinato a riprendere il controllo di me e
di questa assurda situazione.
Mi ritrovo in piedi davanti ad Alice e devo aggrapparmi a una forza
che non ho per non scivolare in quello sguardo gigantesco.
«Fai uno sforzo, okay?», scandisco. «Dobbiamo restare qui e…»
«Tu resti. Non io».
Ancora?
Possibile che ancora non abbia capito che non c’è differenza?
«Come cazzo te lo devo spiegare?», ringhio. Non so più
controllare la voce. «Tu stai dove sto io. E fai quello che dico io. E
quindi mettiti buona, in un angolo e, per una volta, ubbidisci».
Il suo sguardo sembra sbandare come se l’avesse colta una
folgorazione inattesa.
«Hai capito, segretaria, o ti faccio un disegno?», interviene
Selvaggia, la voce strascicata.
La replica di Alice perde d’importanza. Qualcuno sta risalendo la
scalinata. È Guglielmo, sul suo viso c’è un’espressione contrariata.
Quella che temevo di vedere. Tiene lo sguardo puntato su Alice.
Lei gliene restituisce uno che equivale a una aggressione a mano
armata.
Capisco che è successo qualcosa tra di loro.
«Ho una formale lamentela per te, amico mio», dichiara
Guglielmo, mentre raggiunge il tavolino, dispone i calici e comincia a
versare lo champagne. «La tua segretaria mi deve delle scuse».
Prendo il bicchiere che mi offre.
Questa situazione è un aereo in caduta libera, sta precipitando e
si schianterà. Io devo limitare i danni. Rivolgo ad Alice un’occhiata di
fuoco. Delego al mio sguardo la tacita minaccia di licenziarla, se non
corregge subito il tiro.
E lei? Non cede e mi guarda come se fossi un criminale.
Perché diavolo deve sempre fare così? Perché non mi posso
fidare di lei, quando le affiderei tutto? Perché, se siamo una squadra,
lei deve giocare contro di me? E qualunque sia il motivo per cui sta
dichiarando guerra al padrone di casa, lei non se lo può permettere.
Perché non me lo posso permettere.
Le porgo il bicchiere. Lei sta immobile.
«Prendilo».
«Non mi va».
«Tu fai quello che dico io, Alice».
Scandisco ogni sillaba perché si ricordi il nostro patto. Perché si
focalizzi su cosa rischia. Ottengo il mio scopo. Lei prende il
bicchiere.
«Alice, ricorda che siamo ospiti».
«Sei serio?»
«Non tirare la corda».
«Neanche mi chiedi cosa è successo?», mi rinfaccia.
«Perché sono certo che tu abbia frainteso, Alice». Lo dico con il
tono di chi suggerisce una linea di difesa. «Ora, da brava, chiedi
scusa a Guglielmo».
«Io? A lui?»
«Esatto», ribadisco. «Non mettermi in imbarazzo davanti ai miei
amici».
«Dovresti sentirti in imbarazzo ogni volta che ti guardi allo
specchio, Alex!», irrompe lei. «Io non pensavo che tu fossi così».
E di colpo mi sento la sua delusione incollata addosso,
un’etichetta che mi ridefinirà per sempre. Le ho appena permesso di
dirmi qualcosa che non volevo sapere. Si gira e se ne va. Io ci metto
un secondo a riscuotermi e inseguirla.
La supero lungo la scalinata. Mi piazzo davanti a lei.
La festa intorno a noi è un contrappunto cacofonico.
«Io ti ho deluso? E tu, allora? Come hai potuto farmi questo,
Alice?! Come hai potuto farmi una piazzata del genere!».
Sto urlando. Non trovo un altro modo di rivolgermi a lei.
«E tu? Come puoi trattarmi così di merda? Come fossi una pedina
dello scambio», protesta, «io che da due anni salvo il culo alla tua
rivista e seguo tutti i tuoi dannati progetti come se fossero miei!».
Ha gli occhi lucidi mentre mi sbatte in faccia la verità.
«Non darti un’importanza che non hai! Il tuo è solo un lavoro. E
poiché lavori per me e sei pagata da me, tu dovevi gestire
Guglielmo».
«Come tu gestivi Selvaggia? In quel modo?»
«In qualsiasi modo, cazzo!».
Non riesco a finire la frase. Non ci riesco perché Alice mi ha
appena rovesciato addosso lo champagne che le avevo dato.
Reggo il suo sguardo accusatorio e furibondo, chiedendomi come
possiamo essere arrivati a questo. Quando le ho dato il potere di
farmi questo?
«Alice…»
«Torna dai tuoi amici di merda, Alessandro. Sono felice di essere
venuta, ti ho visto per quello che sei. Quello che sei davvero. E ti
anticipo la battuta con cui mi dici che “sono licenziata”. Io e te
abbiamo chiuso».
Stavolta non la fermo. Stavolta la lascio andare.
Ci sono parole che hanno il potere di bloccarti sul posto. Sono
chiodi piantati da due colpi di martello.
“Io e te” sono le parole oltre le quali non posso andare. “Io e te” è
stato l’errore originale. Perché sono stato il primo a permettere che
esistesse. Il primo a pensare a lei come a qualcuno che non
svolgeva solo un lavoro. Come la parte di un noi che mi ha
destabilizzato. Il colpo secco di un asteroide che ti strappa dall’orbita
che credevi fosse tuo destino percorrere per sempre. E poi, se vai
alla deriva, puoi incolpare solo te stesso. Ho fatto qualcosa che non
avevo mai fatto. Ho dato importanza a un’altra persona. E ora devo
assolutamente correre ai ripari. E pagarne le conseguenze.
Alice
Alla luce del sole

Non so quanto tempo sia passato, forse è mezzogiorno. Sono sul


molo di Napoli. Mi stringo le gambe al petto, seduta sul bordo di un
marciapiede sudicio. Lo sciabordio pigro di un mare inquinato
esercita un’azione ipnotica. Mi distrae. Mi sento come se mi
avessero infilato dentro qualcosa di nocivo e non riuscissi a
levarmelo di dosso. Mi sento anche stupida, perché se sei ospite
nella casa di uno che ti mette le mani addosso e passa la serata a
scriverti messaggi schifosi, te ne devi andare subito e non cercare
l’aiuto di qualcuno a cui non frega un cazzo di te.
Ho il trucco sfatto e indosso ancora questo finto vestito, una bugia
che alla luce del sole non regge. A Capri mi sono imbarcata
clandestinamente su un traghetto. Mi è rimasto solo un cellulare
scarico. La batteria ha resistito il tempo di fare una telefonata a
Fosco.
Gli ho detto che avevo avuto un problema e che avevo bisogno di
lui. E Fosco, che è la persona più solida e affidabile del mondo, mi
ha detto: «Arrivo».
“Arrivo”, nonostante stesse a Milano. “Arrivo”, nonostante non
avesse tempo. “Arrivo” a costo di mettere in pausa i sogni che
stanno invecchiando in un cassetto. “Arrivo” perché è questo che
fanno gli amici. Arrivano.
Quando lo vedo scendere dal taxi, in bermuda e maglietta bianca,
capisco che non si è neanche cambiato. E lo so senza che mi
racconti com’è andata. So che ha lasciato casa un secondo dopo
aver parlato con me, so che Gaia ha provato a trattenerlo, ma non
c’è riuscita.
Mi abbraccia, prima ancora di dirmi “ciao”.
Mi stringe come se fosse disposto a frapporsi tra me e tutto il male
del mondo. Lui è capace di metterci tutto, in un abbraccio.
Non mi chiede cosa sia successo, mette da parte la sua curiosità
per occuparsi di me.
Mi fa salire sul taxi, apre lo zaino e mi passa una bottiglietta
d’acqua. Mi esorta a bere. Alla stazione dei treni si ferma in farmacia
e mi compra sapone e salviette. In un negozio di catena prende un
paio di shorts e una maglietta gialla con la scritta I love Napoli. Mi
accompagna in bagno e mi aspetta fuori. Il silenzio tra di noi
continua a essere meglio delle parole, è un elemento nel quale lui si
muove senza imbarazzo e io anche. Non so neanche da dove
iniziare a raccontargli le ultime ventiquattro ore.
Fosco mi fa sedere al tavolino di un bar e si mette in fila per la mia
colazione. Mentre aspetta, lo vedo parlare al telefono. Immagino che
stia cercando di sedare quella stronza di Gaia. È proprio triste che
Fosco passi dei guai a causa mia.
Poco dopo, compaiono sul tavolo una spremuta per lui, due
brioche e il caffè americano per me. Fosco me lo riempie di
zucchero. Sono due anni che mi mette lo zucchero nel caffè.
E finalmente sento la spinta per raccontargli tutto. Un fatto dietro
l’altro. Gli dico che il padrone di casa mi ha molestato. Che all’inizio
pensavo che fosse un cretino, ma poi ha esagerato. In macchina ha
provato a infilarmi una mano sotto la gonna, arrivati al ristorante mi
ha preso il telefono e, una volta scoperto il mio numero, ha
cominciato a scrivermi dei messaggi spudorati. Ho cercato di
passarci sopra, ho cercato di defilarmi, ma è stato tutto inutile. Mi ha
seguito in bagno e mi ha aggredita. Mi ha spinto contro il muro e ha
provato a baciarmi. Mi sono liberata di lui solo perché sono entrate
due ragazze che non smetterò mai di ringraziare. Sono corsa fuori a
cercare Alex. E lui?
Non ha mosso un dito.
«Capisci? Gli stava bene tutto, perfino che fossi… violentata»,
riassumo. «Tutto purché non gli rovinassi il business; se fossi
rimasta lì mi avrebbe ordinato di scopare con un coglione».
Solo a questo punto Fosco mi interrompe.
«Non è possibile», mi dice, «sono certo che Alex non avesse
capito la gravità della situazione».
Fosco ha fiducia in Alex, ma mentre dice queste cose ha una
sicurezza che deve per forza fondarsi sui fatti.
Me lo conferma un istante dopo.
«Ho sentito Alessandro. Parecchie volte. Lui è…»
«Arrabbiato?», lo sfido.
«Sì. Ma anche preoccupato».
«Certo, me lo immagino», borbotto.
«Senti, Alice, lui non ha il quadro. Non sa quello che ha fatto
Guglielmo. Ne sono sicuro».
Realizzo che prima ho visto Fosco al telefono.
«Stavi parlando con lui, vero?».
Fosco non sa mentire e quindi annuisce. «Alex voleva essere
sicuro che ti avessi trovata. E aveva un messaggio per te, voleva
dirti che…»
«Che sono licenziata?»
«No», sospira con una punta di esasperazione. «Voleva che ti
dicessi che ti aspetta lunedì, in ufficio».
«Ah, ah, ah!», forzo una risata. «Che povero illuso! Diventerà
vecchio nell’attesa di vedermi tornare».
«Immaginava che avresti risposto una cosa del genere», scuote la
testa, «mi ha detto di ricordarti che ha in custodia le cose che hai
lasciato dagli Hannover. E che le terrà nel suo ufficio finché non vai
di persona a riprendertele».
Serro le labbra. Tipico di Alessandro Francalanza Visconti! Deve
essere sempre lui a decidere.
Ma stavolta dovrà arrendersi. Ci sono stata troppo male. Mi ha
ferito in un modo che mi ero ripromessa non sarebbe successo più.
Per quanto criticassi Alex, la verità è che lo avevo accettato; per
quanto alzassi i muri, ero la prima a sedermici sopra sperando che
mi raggiungesse lì, al confine delle nostre differenze. Per quanto mi
proclamassi distante da lui, sperimentavo una vicinanza che aveva
l’impronta di noi due. Non dovevo permettergli di farmi tutto questo
male. E non ripeterò ancora lo stesso errore.
Alex
Senza lasciarti scelta

Oggi è venerdì e, secondo le previsioni del tempo, a breve si


scatenerà un temporale imponente. Le nuvole, in preallarme, si
stanno addensando sulla città.
Sono seduto alla mia scrivania.
Alle mie spalle il cielo si fa pesante ed elettrico. I lampi lo
infiammano, i tuoni già rotolano nell’aria.
Davanti a me, sul terminale, i risultati dell’analisi sui prodotti di
make-up preferiti da un campione di ragazzine, dai dodici ai sedici
anni, commissionata a uno studio di Zurigo. La sto fissando da un
quarto d’ora, senza riuscire a dare un significato ai risultati.
Sul tavolo di vetro, il cellulare vibra. La notifica mi avverte che è
appena arrivato un messaggio di Selvaggia Hannover. È una foto.
Non devo guardarla per indovinare il genere. La ignoro. Un minuto
dopo giunge lo squillo del telefono. Sempre lei. La ignoro ancora.
Le ho dato quello che voleva, e ho avuto quello che volevo. Ora
non voglio più pensarci.
Devo stare concentrato sul presente. Su Alice.
Lei arriverà da un momento all’altro. Ho la scatola con le sue cose.
So che non gliene frega nulla dei vestiti, ma non può vivere senza il
suo computer. Lì ci sono la metà della sua vita e la totalità dei suoi
sogni.
Quindi verrà.
Quando sarà qui, le spiegherò perché non può andarsene. Le
spiegherò quale è stato l’errore che ci ha fatto franare. Chiuderemo
questa fase. Lo faremo e ripartiremo.
Sono quattro giorni che aspetto che succeda.
La sto coprendo con l’amministrazione. Sto giustificando questa
assenza dal lavoro scalandole le ferie, ma non potrò andare avanti
per sempre. So che prima o poi cederà. Guardo la scatola
nell’angolo per sincerami che sia sempre lì.
Squilla il telefono. Metto la centralinista in vivavoce.
Mi riferisce che hanno chiamato dalla redazione di «Power
Player» e che mi chiedono di scendere al sesto piano. Sono felice di
avere un pretesto per uscire di qui.
Al nono piano l’ascensore si ferma ed entra Marilù. Appena mi
vede mi saluta come se tutto andasse alla grande. Lei parla e io non
le presto attenzione, almeno finché non nomina Alice.
La frase è precisamente: «Dovremmo trovare una ragazza da
mettere al posto di Alice».
«In che senso?»
«Non lo sai? Ha telefonato all’amministrazione per dire che non
intende tornare», mi rivela. «Quindi dovremo chiudere la “pratica
Baker”. Ho guardato i curricula e ho già selezionato le cinque
candidate top. Se vuoi ti mando le foto».
«Non capisco di cosa parli», mi è uscito un tono brusco. «Sia
chiaro che Alice è in ferie. Sia chiaro che torna. Alice non verrà mai
sostituita».
«Ma lei ha detto…»
«Non è lei che decide».
«Sì certo, scusa. Devo aver frainteso io».
La porta si apre e io esco senza aggiungere una parola. Marilù
deve essere impazzita. Rimpiazzare Alice? Pensa davvero che sia
possibile? Non puoi sostituire i pezzi unici e, porca miseria, un’altra
Alice non esiste. Ecco perché la rivoglio indietro. La rivoglio subito.
Non alle condizioni di prima, chiaro. Ma la rivoglio.
Raggiungo l’ingresso della redazione di «Power Player» e trovo
Fosco che mi aspetta sulla soglia, spalle al muro. Ha il cellulare in
mano. Mi vede, schiaccia un paio di tasti e infine si infila il telefono in
tasca.
«Ciao, Fosco. Mi hanno detto che c’è un problema che…»
«Nessun problema. Abbiamo risolto», sfoggia un sorriso, quasi
inquietante tanto è largo. «Mi fai compagnia mentre prendo il
caffè?».
Non aspetta risposta, mi afferra per il braccio e si dirige verso le
scale antincendio.
«Non usiamo l’ascensore?».
Scuote la testa. «Movimento, Alex! Sono tre settimane che non
vieni al parco. Devi tenerti in forma».
Lo accontento e comincio a scendere le scale. Parla a ruota, ride
senza motivo e da questo trapela un nervosismo insolito. Sta
forzando ogni reazione. Se ho pensato che fosse tutto molto strano,
ne ho la certezza quando, raggiunta la sala mensa, davanti al
distributore automatico estrae la chiavetta e mi chiede se voglio un
caffè.
«Fosco, mi hai mai visto bere caffè?».
Ride, ma io avverto un’agitazione stonata.
«Fosco, ma cosa ti prende? Senti il tempo?», chiedo con un
cenno alle vetrate attraverso le quali si scaricano i lampi.
«No, anzi mi piace! Non posso avere voglia di scambiare due
chiacchiere con mio cugino?».
Prima che possa rispondere sento vibrare il telefono nella tasca
dei jeans.
Ho inserito un allarme, per ricordarmi di una conference call con i
pubblicitari di Roma che devono curare alcune iniziative
promozionali nel periodo natalizio.
«Scusa, Fosco, è stato bello allenarci insieme, percorrendo due
piani di scale, ma tra dieci minuti ho la videoconferenza con la
Rubber soul e…»
«No», è quasi perentorio. «Non ora. Devi ancora bere il tuo caffè».
«Fosco, ma sei impazzito?»
«No», il tempo di dirlo e la sua espressione si scioglie nello
sconforto. «Però devi restare qui, resta un attimo. Giusto il tempo
per…», esita.
«Per cosa?», lo incalzo. E, quasi ad aggiungere un tono
drammatico a questo scambio surreale, il cielo si carica ancora di
elettricità.
«Il tempo per cosa, Fosco?».
Lui cerca di tacere ma alla fine cede. «Mi avete messo in una
situazione orrenda. Non si dovrebbe mai costringere qualcuno a
scegliere tra due amici. Ma lei era determinata a denunciarti per
appropriazione indebita».
Non chiedo neppure chi sia “lei”. Lo so. È Alice.
«Fosco, le restituirò tutto», preciso, «quando la smetterà di
comportarsi come una bambina e tornerà».
«Lascia perdere. Lei non torna».
«Lei non ha scelta».
«Prenderà le sue cose e sparirà e…».
Ammutolisce, e io finalmente capisco. Questa sosta al distributore
automatico serviva per creare un diversivo.
«Lei è qui, vero?»
«Alex, stavolta non si torna indietro…».
Non sa quello che dice. Io devo tornare indietro e riprendermela,
non come prima. Prima è stato un errore.
Ma in un altro modo sì.
«Lei è qui», ribadisco e sto già correndo verso le scale
antincendio. Perché ora so che Alice è al decimo piano. Alice è nel
mio ufficio.
Alice
Tabula rasa

Arriva il messaggio di Fosco, un semplice “via libera”.


Fosco, il mio improbabile complice costretto a scegliere tra me e
quel farabutto di suo cugino. So che è ingiusto averglielo chiesto, ma
dopotutto è la vita a essere ingiusta. Altrimenti io non avrei mai
incrociato la strada di un bastardo come Alessandro.
In un attimo, sono in ascensore pronta a salire al decimo.
Se Fosco riesce a trattenere Alex, io dovrò avere faccia di bronzo
e sangue freddo. Gli uffici amministrativi sono piantonati dai cloni
biondi, che si alternano al desk di accoglienza.
Sulla porta traggo un respiro profondo, come un attore che si
appresta a entrare in scena.
Varco l’ingresso con foga e mi precipito alla scrivania.
«Buongiorno», mi saluta la bionda di turno. «In cosa posso
aiutarti?»
«Il dottor Francalanza mi ha detto di portargli una cosa dall’ufficio,
c’è un meeting giù al nono e stanno per saltare un po’ di teste. Mai
visto il capo così infuriato», poi, come se queste farneticazioni
bastassero, oltrepasso il desk diretta all’ufficio di Alex.
«Aspetta un minuto», mi dice. Ha già la mano sul citofono e infatti
annuncia: «Ora lo chiamo per l’autorizzazione…».
Allargo le braccia. «Licenzierà anche te», mento. «Ha detto che
non voleva ritardi, ha detto “Sali, prendilo e portamelo”», imposto la
voce in un’imitazione di Alessandro davvero penosa. «Tu fai come
credi, ma ti avviso: rischiamo di farlo incazzare ancora di più».
Esita. «Solo una scatola?»
«Solo una scatola… piena di cose, un computer, un hard disk,
vestiti…»
«Vestiti?».
Mi stringo nelle spalle, come se fossi perplessa quanto lei. Poi per
spezzare la sua indecisione metto in scena l’azzardo degli azzardi.
Mi avvicino all’interfono. «Okay, chiamalo, ma quando lo sentirai
imprecare non dire che non ti avevo avvertita…».
Le porgo la cornetta.
«Okay», si rassegna. «Ma vengo con te e prendi solo la scatola».
Poco dopo sono in ascensore, purtroppo si ferma al sesto piano,
dove sale un tizio del comparto grafico, e si ferma di nuovo al
secondo, dove il tizio scende. Sono impaziente. Stringo lo scatolone
al petto cercando di sentirmi allegra. In realtà mi sforzo di piazzare
delle etichette su ciò che provo, ma ogni tentativo risulta
insoddisfacente e parziale. Ciò che ho vissuto in questi sei giorni non
ha precedenti in tutta la mia vita. Alessandro non ha precedenti.
Spero di non vederlo mai più, ma le porte dell’ascensore si aprono
e, porca miseria, me lo trovo davanti.
È in affanno, trafelato, la schiena leggermente ricurva per lo
sforzo. Deve aver usato le scale ed è in debito di ossigeno, lo
capisco perché il primo tentativo di parlarmi è un rantolo in cui
riconosco le sillabe del mio nome.
Un attimo per riprendermi dalla sorpresa, poi scarto Alex e punto
all’ingresso. Dalla vetrata si intuisce un’apocalisse di fulmini e
rovesci di pioggia. Un colpo, per assicurarmi che il portatile sia
protetto sotto lo strato di magliette e mutande, poi punto verso
l’uscita.
Alessandro, che speravo fosse fuori uso, invece reagisce e mi
rincorre.
Mi raggiunge e mi supera. Mi blocca sotto la tettoia che protegge
la facciata del palazzo.
«Fermati, Alice!», mi intima, ma visto che non mi fermo, lui mi
intercetta, afferra lo scatolone dalle mie mani e se ne appropria con
una forza sorprendente. Poi tende il braccio per piazzare una
distanza invalicabile. Non so come faccia a trovare l’energia, non so
come possa trovare il fiato.
«Che diavolo vuoi da me, Alex? Vuoi dirmi quanto ti ho deluso?»,
fa un cenno di diniego, e io insisto. «Vuoi dirmi che ho frainteso le
intenzioni di quel coglione?», fa di nuovo cenno di no, con la testa.
«E allora cosa vuoi?»
«Una… pietra sopra».
La frase tronca potrebbe significare che vuole archiviare la
faccenda. Un lampo spacca il cielo per protesta, le folate di vento
spostano la pioggia e sento una raffica di gocce proprio sulla
schiena.
«Te l’ho già detto, Alex, io e te abbiamo chiuso».
«Non importa».
«Cosa?».
Riempie i polmoni. «Non voglio che mi perdoni, che ti fidi o che tu
mi sia amica», inspira ancora, «ci ho pensato e ho concluso che è
molto meglio lasciarci questa fase alle spalle».
Il cielo è carico di elettricità, i chicchi di grandine rimbalzano
sull’asfalto. Il freddo che sento non dipende solo dalla temperatura in
picchiata.
Sto metabolizzando, quindi la battuta è di nuovo sua.
«Quello che è successo è frutto dei miei errori», chiarisce. «Non
voglio che sia l’azienda a farne le spese».
«Quali sarebbero i tuoi errori?»
«Primo: ho sbagliato a portarti dagli Hannover. Dovevo capire che
non saresti stata all’altezza. Secondo: ho sopravvalutato le tue
funzioni. Sei indubbiamente necessaria all’azienda, ma io non ho
alcun bisogno di te». I suoi occhi sono ghiaccio e standoci dentro ora
sento un freddo mortale. Il tipo di gelo che non ti togli più dalle ossa.
«Infine, ho sbagliato a darti un ruolo», riprende. «Perché tu non ce
l’hai. Sei una mia dipendente e la cosa finisce lì. Se ti sei presa certe
libertà, compresa quella di mettermi in imbarazzo davanti ai miei
amici, è perché io, stupidamente, te l’ho concesso».
Mi ha messo al muro e ha scaricato il mitra.
Rincorro una replica all’altezza, ma mi accontento della prima che
mi viene.
«Hai degli amici indecenti», preciso, «e, giusto per chiarire, non
me ne è mai fregato nulla di avere un ruolo nella tua vita. Scelgo le
persone a cui voglio bene seguendo altri criteri».
«Le persone a cui vuoi bene?», ripete, le labbra piegate da un
sarcasmo che taglia. «Ti ho mai chiesto di “volermi bene”, Alice?»
«Non l’avrei comunque fatto».
Lui esita, i suoi occhi nei miei, c’è qualcosa di parossistico nel
modo in cui infuria il vento, nella maniera in cui i capelli di Alex si
scuotono, come fossero la forma fisica di un conflitto invisibile.
«Bene, direi che ci siamo chiariti».
«Perfetto. Dammi la scatola».
Me la restituisce.
Per un attimo mi sembra troppo semplice. Tutto qui? Voleva
vedermi per parlare dei danni all’azienda? Per dichiarare che lui non
ha bisogno di me, che la nostra amicizia non conta nulla, che non ha
mai desiderato il mio affetto, e poi tanti saluti?
Mi riscuoto e capisco che devo andarmene.
«Allora addio, Alex».
«Ciao, Alice. Ci vediamo lunedì».
Mi scappa una risata nervosa. «Ma di cosa parli?»
«Questi ultimi giorni ti sono stati scalati dalle ferie», dice, «ma da
lunedì scattano le sanzioni. È un’assenza ingiustificata».
«Sei impazzito. Io non torno».
«Non ti ho licenziato. Quindi resti».
«Mi sono licenziata da sola!»
«E allora vedi di rimediare diecimila euro, perché questa è la
penale che devi corrispondere all’azienda per lo scioglimento
anticipato del rapporto».
«Penale? Quale penale?»
«Quella prevista nel contratto che ti ho fatto firmare lo scorso
Natale», risponde. «Mi auguro che tu lo abbia letto».
Non l’ho letto. Figuriamoci se leggo un contratto…
«Ho fatto inserire la clausola per tutelare l’investimento
dell’azienda», mi rivela. «Io ti posso licenziare. Ma tu non puoi
andartene. Se lo fai devi indennizzarci».
«Con diecimila euro?»
«Precisamente».
«Alex! Ma questo è un ricatto!»
«No, è un contratto. E tu l’hai firmato. Quindi fine della questione»,
mi guarda e lo dice. «Tu resti con me».
Lo sguardo che mi rivolge è più freddo della grandine. Non riesco
a credere agli infiniti modi in cui mi sono lasciata fregare. Perfino lo
scorso Natale mentre mi portava in dono un contratto ci nascondeva
dentro una trappola. Ha fissato un costo per la mia libertà. Non ho
diecimila euro. Devo arrendermi a restare, fino alla scadenza, ma
non rinuncerò a lottare.
«Mi hai imbrogliato. Hai approfittato della mia fiducia».
«Faccio i miei interessi».
«Ti renderò la vita un inferno, Alex».
Accenna un sorriso quasi spietato.
«Non avrai mai questo potere, Alice».
Lo dice e se ne va.
La pioggia continua a cadere.
La quarta e la quinta volta
Last Christmas (I gave you my heart)
Ghiaccio bollente
Tra flirt e rimpatriate, Cortina d’Ampezzo si conferma amatissima
non solo dal comitato olimpico ma anche da imprenditori ed
esponenti del mondo dello spettacolo, dello sport e della finanza.
Tra i vip avvistata anche Emilia Levoskova e pare proprio che lo
abbia fatto ancora! La ragazza che scioglie il cuore di mezza Italia è
stata pizzicata di nuovo con Alberto Bentivoglio, sulle nevi di Cortina.
La cantante Sabryna, moglie di Bentivoglio, continua a gettare
benzina sui flame dei social, ma Emilia non raccoglie e si gode il
bomber dagli occhi di ghiaccio.
Sono attesi nell’esclusiva cittadina delle Dolomiti anche Lucrezia
Francalanza Visconti e suo figlio Alessandro, entrambi invitati a un
esclusivo ricevimento di famiglia.
Karisma Bartoletti, Storie2000
Alice
Dimmi di sì

Ci sono situazioni nella vita in cui non puoi dire di no. Non puoi
perché gli altri si aspettano un sì, perché nessun uomo è un’isola,
perché dobbiamo sforzarci di far felici coloro che amiamo.
Sono in sala mensa e cerco di ripetermi tutte queste cose, mentre
rigiro il caffè e Fosco mi tiene addosso i suoi bellissimi occhi blu, in
attesa della mia risposta. Cerco di collegare il cervello con la bocca,
poi lo dico.
«No, Fosco».
Okay, qualcosa deve essere andato storto nel collegamento, forse
a causa di un’interferenza del cuore, ma non posso proprio
concepire una risposta diversa. È tutto troppo assurdo.
«È tutto troppo assurdo, Fosco», chiarisco nel tentativo di
attenuare la sua delusione. «E non per il capodanno con te, a
Cortina, che sarebbe stupendo, soprattutto perché Gaia come al
solito non c’è».
«Questa te la potevi risparmiare».
«È la semplice verità», minimizzo. «Io, te, la neve», sospiro,
«sarebbe tutto bellissimo, perfino la faccenda che mi insegneresti a
sciare, perché comprendo che è una grande lacuna nella mia
formazione di essere umano».
«Lo è».
«Ma, Fosco…»
«Senza “ma”, Alice, fine della questione. Capodanno insieme, a
Cortina, io e te».
Su queste parole effettuo un rapido test. Mi soffermo sulla sua
bocca, sulle sillabe “io e te”, cerco di fissare la sua voce sexy che
modula “insieme”, sto un attimo in ascolto delle emozioni. Mi
riscopro tranquilla.
Credo che la cotta mi sia del tutto passata.
«Alice», riprende, «devi venire. Punto».
«Devo lavorare alla tesi».
«Ti correggo quella tesi da mesi», protesta, «so a memoria l’intero
epistolario di Svevo!».
Ha ragione. Ha sacrificato per me il suo pochissimo tempo libero,
mettendo nuovamente in pausa lo sviluppo del suo videogioco.
Questo è il problema delle persone generose, concedono in giro
pezzi del loro tempo, finché non ne resta più per i loro sogni. Cambio
strategia.
«Fosco, non posso permettermi il capodanno in un albergo a
cinque stelle».
«Neppure io», ribadisce. «Ma siamo ospiti di…»
«Tua madre», lo precedo, certa di aver appena addotto
l’argomento più solido a favore del mio “no”.
Perché l’invito ce lo ha fatto la signora Amelia Barozzi Foscarini. È
riuscita nell’impresa di riunire i suoi tre figli e, come sempre durante
le feste, approfitta dell’assenza di Gaia e include anche me.
«So che mio padre non è il massimo, ma la mamma ti piace. E ti
piacciono Cassandra ed Ettore».
«Fosco…»
«E noi ti vogliamo».
«Fosco!».
Incrocia le braccia al petto. «Alice, se resti a Milano, non parto
neanche io».
Siamo arrivati ai ricatti. Perfetto. Quello che ha detto è vero: vado
d’accordo con la sua famiglia e adoro lui. Ma sospetto che sarà un
disastro. Il punto è che so per certo che al raduno dei parenti ci sarà
anche un’altra persona.
Penso al nemico, e sfiga vuole che lo veda. È con Marilù. Lei
indossa un vezzoso maglioncino d’angora e un sorriso radioso. Lui
oggi ha scelto il nero minimal-chic, tessuti lisci e strutturati che
sembrano non solo senza pieghe ma anche senza cuciture.
Lei tira dritto senza degnarci di uno sguardo, Alessandro invece,
dopo avermi illuso, ci ripensa e torna sui suoi passi.
Si ferma al nostro tavolo, mi chiama e ottiene il mio sguardo.
«Alice», ripete, forse per prolungare l’agonia che provo sentendo il
mio nome pronunciato da lui. «Abbiamo anticipato la riunione alle
14:30. Vedi di essere puntuale e, per favore, di essere sul pezzo».
Vorrei digli che la puntualità è la mia religione, che io vivo “sul
pezzo”, anzi sono io a decidere cosa sia “il pezzo”. Ma mi ingoio
tutto e mi limito ad annuire.
«È l’ultima riunione dell’anno, è importante per il planning del
nuovo trimestre».
Vorrei dirgli che per me potrebbe essere l’ultima in assoluto,
perché tra un po’ scade il contratto e magari non firmo il rinnovo che
due giorni fa ha avuto la faccia tosta di farmi trovare sulla scrivania.
Vorrei dirgli che, se alla fine me ne andrò, sarà stata solo colpa sua.
Vorrei dirgli che, se dopo Capri siamo andati di male in peggio, non è
stato solo per la clausola bastarda di un contratto capestro, ma
perché dopo quattro mesi non ha ancora avuto la decenza di
chiedermi scusa.
Ma sto zitta e mi limito a un cenno d’assenso.
Mi fissa in attesa.
Sigillo le labbra in un mutismo ostinato.
Lui chiude le sue ma con l’aria di trattenere una parolaccia. Poi
saluta Fosco e se ne va.
«Idiota…», bofonchio.
«Smettila», mi implora Fosco. «Mi sento come il figlio di genitori
divorziati».
«Ha cominciato lui», preciso.
«Quattro mesi di rappresaglie», dice Fosco e indica il numero con
le dita. «E perché? Perché siete così orgogliosi che preferite soffrire
all’infinito piuttosto che cedere».
«Soffrire?», rido. «Lui soffre solo per i rossi in bilancio e io non
soffro per uno disposto a vendermi nell’ambito di una transazione
d’affari».
«Lui non aveva capito», mi ripete con l’esasperazione di chi è
chiamato a ribadire per la millesima volta lo stesso concetto.
Può essere che abbia ragione. Che Alex non abbia compreso
quanto oltre si fosse spinto Guglielmo. Ma quello che è successo
dopo il nostro rientro a Milano, la sua dichiarazione di indifferenza e
soprattutto il suo vile tranello annidato nel contratto restano
irrimediabili.
Lo ripeto a me stessa. Poi mi alzo. «Ora vado. Che non voglio
dargli la soddisfazione di arrivare in ritardo alla mia ultima riunione».
«Non sarà l’ultima», mi riprende. «Firmerai il rinnovo».
«O magari no», lo provoco, «comunque, ringrazia tua madre e
dille…».
Fosco non mi lascia finire, mi afferra la mano.
«Le dico che vieni. Che andiamo», mi suggerisce. Cerca di
imporsi, ma in quel modo suo che persuade senza lusingare, che
avvince senza raggirare.
Mi concentro sulla sua mano. Cosa provo?
Niente.
Mi sento guarita e anche un po’ orfana. E non riesco a capire
perché. Saluto e me ne vado senza aggiungere altro.
Alex
Quello che tu provi per me

Siamo in sala riunione, la luce artificiale sfida un giorno cupo e


oscuro dove il cielo sembra essersi divorato il sole.
Come di consueto, alla riunione settimanale di «Lollipop» ci sono
Tommaso Lucarelli, a rappresentare il comparto grafico, Marilù e le
sue senior copywriter, per la redazione di «Lollipop».
Tra loro c’è anche Alice.
Le ho fatto consegnare il rinnovo del contratto, ma lei non lo ha
ancora firmato. Mi dico che è solo una delle sue piccole vendette.
Come evitare di guardarmi quando le parlo, dileguarsi quando arrivo.
O non accettare l’invito di mia zia a Cortina.
Cerco di concentrarmi su Marilù; in occasione della riunione si
veste con grande cura e oggi non fa eccezione. In piedi accanto al
tabellone, illustra i timoni per i numeri di gennaio. Adotta gesti
strategici, da velina televisiva. Vuole che ammiriamo i frutti delle sue
diete violente e delle sessioni frenetiche di pilates.
E, se io non fossi un cretino, la guarderei.
E invece sono un cretino e mi trovo a fissare Alice che morde le
matite. La scruto e mi chiedo per l’ennesima volta che nome dare
alla nostalgia che mi divora. Perché dopo centosei giorni è chiaro
che il mio piano per ricollocare Alice fuori dalla mia cerchia è stato
un fallimento. Lei è indubbiamente fuori, ma dentro è rimasto il buco.
L’impronta di qualcosa che mi manca da morire.
«Quindi, le quattro cover story di gennaio sono decise», sta
dicendo Marilù e sposta il peso da una gamba all’altra. «Ma queste
pagine qui», indica sei fogli bianchi nel tabulato che rappresenta la
foliazione del magazine, «sono il nostro attuale problema da
risolvere. Erano tradizionalmente destinate ai redazionali concordati
con i nostri partner», assume un’aria afflitta, «ma come ben sapete
non possiamo più contare sugli inserzionisti abituali».
Me lo aspettavo. Dopo una partnership di quindici mesi, i nostri
marchi “amici” hanno perso interesse alla collaborazione con
«Lollipop». Ho incontrato Erminia Delle Piane della Bonbon
Cosmetici all’inaugurazione di un locale del centro e, tra un calice di
bianco e una tartina all’hummus, ha ammesso che il marketing sta
valutando soluzioni diverse. Ritengono esaurita la sinergia con
«Lollipop». A meno che non ci inventiamo qualcosa di nuovo.
«Dobbiamo trovare un nuovo spunto per una rubrica
continuativa», intervengo. «E dobbiamo sforzarci di trovare qualche
idea sostenibile».
Nel silenzio di tutti, ho la sensazione di riconoscerne uno in
particolare. Si distingue dagli altri per il tasso di ostinazione. È
rumoroso, disturbante come un clacson, sfacciato come una
parolaccia. Il silenzio di Alice ha un’impronta tutta sua e ho imparato
a riconoscerlo. Mi rimbomba nelle orecchie da mesi.
«Per i prossimi due numeri, riempiremo le pagine in sospeso
implementando i test, ma è una soluzione di emergenza. Io voglio
una rubrica fissa che possa accendere l’interesse degli
inserzionisti».
Marilù annuisce con vigore poi cerca di scaricare la patata
bollente. «Maria, Gloria, Carolina», dice rivolta alle sue copy,
«questo sarà il vostro compito per le vacanze. Il sette gennaio io e
Alessandro ci aspettiamo di essere stupiti!»
«Vale anche per te, Alice», aggiungo. «Spero troverai il tempo di
pensare al lavoro mentre prendi lezioni di sci».
Non era una battuta irresistibile, ma la tensione delle ragazze
durante la riunione è tale che qualsiasi cosa io dica con
un’intenzione ironica le fa scoppiare. L’unica che non ride è Alice.
«Non credo che prenderò lezioni di sci, Alessandro».
Lo vedremo...
Mi alzo in piedi e congedo la redazione. Raccomando a tutti di
rilassarsi, di godersi le vacanze, li ringrazio per il lavoro svolto. Poi,
quando sfilano verso l’uscita tra sorrisi e auguri, mi godo il momento
che aspettavo.
Quello per cui mi sono alzato stamattina.
La possibilità di esercitare un potere che tra poco non avrò più.
«Alice, tu resti qui. Non abbiamo finito».
Lei si rimette seduta. Si morde il labbro, lancia il portamatite
dentro la sua tracolla e incrocia le braccia al petto. Un attimo dopo
riprende a fissare fuori dalla finestra.
Preferirebbe morire piuttosto che stare in una stanza con me. E
questa è una delle ragioni per cui le chiedo di restare.
La obbligo e già rimpiango il momento in cui non potrò più
ordinarle di fare qualcosa.
Appena siamo soli, afferro la sua sedia e la giro con un gesto
brusco. L’ho colta di sorpresa, mi rivolge uno sguardo offeso e
stupefatto.
Sono in piedi davanti a lei e pure io incrocio le braccia al petto.
«Grazie per il contributo nullo che hai dato alla riunione di oggi».
«Non avevo niente da dire».
«Non ci credo. Tu hai sempre qualcosa da dire».
«Chissà», alza una spalla. «Posso andare ora?»
«No. Fosco ha detto che non vuoi venire a Cortina».
«Ho una tesi da correggere, la discussione di laurea è fissata per
marzo e io…»
«Fosco sta pensando di stare a casa. Con te».
«Tranquillo. Non lo farebbe mai».
La voce ha una punta di malinconia che vorrei ricacciarle in gola.
«Invece di comportarti da nevrotica dovresti riflettere sugli
innegabili vantaggi».
Il suo sguardo, impassibile su “nevrotica”, si fa acuto su
“vantaggi”.
«Ma di che parli?»
«Gaia non c’è. Passa le ferie in Sicilia come sempre», le dico.
«Avrai via libera. Pensa a tutte le splendide occasioni che ti si
presenteranno. Se te la giochi bene, tra te e Fosco potrebbe finire
come in uno di quei video di musica pop dove i protagonisti si
rincorrono e poi cadono in mezzo alla neve».
«Mi stai suggerendo di mandare a fanculo la mia tesi
nell’eventualità, improbabile e poco salutare, di rotolarmi sulla neve
con un mio amico?».
Allargo le braccia, con fare possibilista. «Vedila in prospettiva.
Magari è la volta buona che riesci a scopartelo. Faccio il tifo per te,
Alice. Ti meriteresti un premio alla costanza, dopo ventisette mesi».
«Se hai davvero contato i mesi, ti suggerisco uno psicoterapeuta».
Non solo i mesi, Alice…
«Lavori qui da ventisette mesi», le faccio presente. «E ci lavorerai
per i prossimi dodici».
Non replica e io come al solito riempio il suo silenzio con i miei
dubbi. Ripenso al contratto che non ha firmato. Dopo Capri l’ho
obbligata a restare. Tra pochi giorni sarà nella posizione di farmela
pagare.
Tento il tutto per tutto.
«Comunque mi sento lusingato, Alice». Le scappa un sorriso
perplesso e io le spiego: «La tesi è una scusa. Tu non vuoi venire a
Cortina perché ci sono io».
Una scintilla le accende lo sguardo. «Alex, mi spiace darti un
dolore, ma non sei la ragione per cui faccio le cose».
«Vero. Io sono la ragione per cui scegli di non farle. In una certa
misura, quello che provi per me è più forte di quello che provi per
Fosco».
Ride. Non aggiunge una sola parola, si limita a ridere e a far
durare quel suono oltre ogni decenza.
«Dimostrami che sbaglio, Alice».
Mi guarda, la guardo.
Si alza.
«Sai cosa? Mi hai convinto».
Resto immobile, in attesa di una battuta sarcastica. Ma non arriva.
Alice mi guarda, le mani sui fianchi e un sorriso a cui non si potrebbe
applicare un solo aggettivo meno che sgradevole.
La scruto, diffidente. «Dici sul serio?»
«Ma sì», annuisce, «partiamo tutti per Cortina! Magari riesco
davvero a portarmi a letto tuo cugino! Anzi sai cosa? Veniamo in
camera tua. Perché da quando ti conosco non fai che menarmela
con le tue battute del cazzo su me e Fosco che ci diamo dentro», i
suoi occhi entrano nei miei come se mi stesse per baciare. «E allora
ti accontento: noi scopiamo davanti ai tuoi occhi e tu guardi. Così ti
togli la voglia».
Il silenzio dura un’infinità, faccio in tempo ad annegarci dentro. Poi
lei mi dà le spalle e se ne va.
E stavolta la lascio andare. Non la fermo, non torno
sull’argomento. Stavolta ho letteralmente perso le parole.
Alice
Viste mozzafiato

Cortina d’Ampezzo.
Saranno le Dolomiti, sarà la neve, sarà un cielo che è l’essenza
del turchese e le nuvole che sembrano la panna sparata per gioco
da un gigante, ma è come essere finiti dentro una cartolina.
Davanti a me si staglia la lussuosa facciata in legno e mattoni
della struttura che ci ospiterà. Cassandra Foscarini contempla la
stessa meraviglia, con l’aria di chi ritrova un posto famigliare.
«Bello, vero?», dice. «Hai rischiato di perderti lo spettacolo…»
«Non ho rischiato», mento. «Non ascoltare tuo fratello».
«Se il fratello sono io», scandisce Fosco, mezzo nascosto dal
portello del bagagliaio, «voglio potermi difendere». Poi richiude il
baule e arriva con le valigie.
Mi sembra di vedere i bicipiti contratti sotto il piumino, mentre
solleva i bagagli come fossero di cartone. Poi allarga il torace per
respirare a pieni polmoni, un gesto che toglierebbe il fiato a
qualunque ragazza provvista di cuore. L’altro fratello Foscarini,
Ettore, il volto coperto da una corta barba nera, lo segue con il resto
dei nostri bagagli. Quando cerco di alleggerirlo del carico, declina
con silenziosa fermezza. Poi mi fa cenno di precederlo verso il
solarium. Vuole portarmi lo zaino e questo conferma che i Foscarini
sono stati cresciuti come dei gentiluomini del passato.
Educazione cavalleresca a parte, Ettore è diverso da Fosco. È un
tipo taciturno, benché non solitario. Fa parte di quella categoria rara
di persone che parlano solo se hanno qualcosa da dire, ma capaci di
ascoltare con grandissima attenzione.
Lui ci precede lungo il pavimento di legno scuro della grande
terrazza.
Il Cristallo è un hotel nel quale non avrei mai pensato di mettere
piede. Quando ho dato un’occhiata ai prezzi, sul sito della struttura,
mi sono sentita male. Qui sono passate grandi personalità e nella
suite super bella ha dormito, tra gli altri, perfino Frank Sinatra.
Quando ho fatto presente la cosa, Fosco ha cercato di
minimizzare, ha alluso a un prezzo di favore che la società
proprietaria ha fatto a suo padre, per ringraziarlo di aver messo in
luce la loro eccellenza in non so quale inchiesta sulla qualità delle
strutture alberghiere della regione. Provo a non pensarci, ho deciso
di venire, nonostante tutto e nonostante Alessandro.
Alex ha detto che il mio odio per lui supera l’affetto che provo per
Fosco. Ho deciso di venire per dimostrargli che si sbagliava. E
volevo dimostrarglielo perché, in realtà, non si sbagliava affatto.
Non mi fa onore ma il rancore che ho sviluppato per il mio capo è
più feroce, costante e sproporzionato di qualunque sentimento io
abbia mai concepito.
C’è chi ha i grandi amori, e chi i grandi rancori.
Cassandra abbandona il suo borsone accanto a un tavolino in
ferro battuto, e si lascia cadere su una delle sedie a sdraio, gli
occhiali calati sul naso e le gambe distese. Porge un documento a
Fosco e gli chiede di consegnarlo alla reception per il suo check-in.
Fosco se ne va e io lo seguo con lo sguardo. Il suo corpo da
Capitan America è sempre una gioia per gli occhi, ma in movimento
diventa proprio una droga. Vorrei farci un video e vederlo a
ripetizione.
«Che spreco!», sospira Cassie, e solo in questo momento mi
accorgo che anche lei guarda suo fratello.
«Cosa intendi?», chiedo.
«Hai presente il detto “perle ai porci”? Ecco, mi viene in mente
ogni volta che penso a Gaia», si abbandona contro i cuscini verdi.
«Quella scarica mio fratello a ogni festa comandata».
«Non farmi parlare male di Gaia», scandisco, ma la convinzione
del mio tono è solo una posa. So bene come andrà a finire: io e
Cassie passeremo la vacanza a malignare. Inizieremo mille discorsi
con il preambolo: “Niente contro Gaia, ma…”. Oppure: “Non è che
odio Gaia, tuttavia…”, o ancora: “Gaia sicuramente ha tante qualità,
però…”.
Ma alla fine ci sbronzeremo e a quel punto diremo senza mezzi
termini che si tratta di una stronza, che non ha a cuore la felicità del
suo compagno, che gli ha fatto lasciare l’università, che gli sta
ammazzando i sogni e il futuro, finché non ci prenderà male e
piangeremo una sulla spalla dell’altra. Lo scorso capodanno è
andata proprio così.
Entrambe vorremmo che Fosco trovasse una ragazza che lo ami
come merita.
Quando riappare, Fosco ha un vassoio e tre bicchieri di vino
caldo, ed è in compagnia di sua madre. Sorridente ed elegantissima,
in pelliccia e colbacco, la signora Amelia ci accoglie con il suo garbo
aristocratico. Ci avvisa che il signor Priamo è già sulle piste da sci e
aggiunge un: «Sapete com’è fatto papà».
Cassandra e Fosco lo sanno benissimo. “Papà” è un orso
arrogante e solitario che si aspetta dalla moglie prove di devozione e
dai figli prestazioni all’altezza. A volte ho il sospetto che Ettore abbia
aderito a Medici Senza Frontiere per tenersi alla larga da Milano e
che Cassandra abbia scelto la variante più pericolosa del mestiere
paterno, il giornalismo di guerra, solo per non deluderlo.
La signora Foscarini ci esorta a rilassarci, quindi si congeda, con
la solita leggiadra eleganza, accennando all’autista che l’aspetta per
portarla allo châteaux.
Prima che possa domandare cosa sia questo castello, Cassandra
mi spiega che è il modo confidenziale con cui in famiglia si parla
della dimora della contessa Augusta Barozzi Dei Lanzi. Una sorta di
matriarca della famiglia. È lei che organizza, ad anni alterni, questi
veglioni di capodanno.
«Non so se reggerò alla vista di tutta questa borghesia in
ghingheri», osservo, godendomi il vino caldo.
«A proposito di eleganza, mamma vuole che ti convinca a “optare
per un abbigliamento adeguato”», confessa Cassandra.
«Lo ha suggerito anche a me», ammetto sconfortata. Non ce l’ho
con la signora Amelia, so di essere l’antitesi dell’eleganza, ma resta
una gran seccatura.
«Faremo un po’ di acquisti», taglia corto Cassie. «E in merito al
veglione allo châteaux, tranquilla. Ci sbronzeremo e poi ce la
svigneremo per andare a una vera festa».
«Come facciamo sempre», scandisce una voce alle nostre spalle.
Mi giro e vedo Alessandro. Moncler azzurro e jeans perfetti, porta
gli occhiali da sole ma se li solleva subito sui capelli, rivelando una
nota scura negli occhi chiarissimi. Come se per un attimo
condividessero il tono carico e assolutamente blu del cielo.
Cassandra e Fosco si alzano per salutarlo.
Io invece me ne sto immobile tra i cuscini e scruto il parcheggio,
cerco di capire quanti siano esattamente gli inservienti che stanno
portando il bagaglio di Alex.
Ne conto cinque poi mi fermo.
Neppure una debuttante alla sua prima Stagione londinese
avrebbe fatto di meglio.
Alex dice che dobbiamo infilarci le tute, recuperare sci e scarponi,
e prendere la seggiovia; Cassandra nota che ci sarà luce fino alle
cinque. Fosco dice che non vede l’ora di farmi diventare una vera
sciatrice.
Mi rassegno e lascio la mia sdraio. Stiamo camminando verso le
porte di questo albergo da sogno, quando Alex si avvicina.
«Allora che mi racconti, Alice? Hai fatto progressi?».
Lo conosco abbastanza per capire che allude al piano di
seduzione fasullo che gli ho illustrato in ufficio. Una provocazione
buttata lì per farlo tacere e che, evidentemente, non ha funzionato.
Ora però non posso tirarmi indietro.
«Vedo che la faccenda ti sta proprio a cuore», commento senza
guardarlo.
La sua voce si perde tra i miei capelli.
«Ti tengo d’occhio».
«Oh, e scommetto che ti piace da morire», lo accuso, e nel farlo
mi giro. Tento di affrontarlo con un’occhiata spavalda ma qualcosa
va storto. Colpa dei suoi occhi. Posti alla distanza di sicurezza, mi
suscitano un legittimo fastidio. Tutto quell’argento, che nessun altro
ha, è una forma irritante di esibizionismo. Sotto una certa distanza
però le cose cambiano. Mi appare evidente che sono bellissimi. E
che è estremamente ingiusto e crudele che appartengano a lui. E
così, pur nella sua sconcertante assurdità, io resterei qui a odiarlo e
guardarlo negli occhi, a guardarlo e odiarlo più forte, fino alla fine.
E questa cosa senza senso è una delle ragioni per cui non dovrei
firmare il rinnovo.
Cassandra per fortuna mi chiama e io corro da lei. Cerco di
mettere più spazio possibile tra me e il mio capo.
Ma ho la sensazione che, neppure se fossi sulla luna, la distanza
sarebbe abbastanza.
Alex
L’esatto contrario del mio amore

La giornata è luminosa, il panorama sulle Tofane toglie il fiato. Il


bianco domina e si esalta sotto un sole che splende senza ritegno.
Mi sistemo gli occhiali e respiro il freddo pungente della neve.
Accanto a me, fasciata in una tuta rosa, c’è Cassandra. Alta,
proporzionata, con labbra bellissime e una massa di corti capelli
castani, mia cugina è una delle ragioni per cui sono felice di essere
qui. L’altra è suo fratello Ettore che proprio ora si allontana,
sfrecciando tra il resto degli sciatori.
Manca Fosco, lui è rimasto in fondo, ai margini della pista, per
cercare di insegnare i rudimenti della discesa ad Alice. Da quel poco
che ho visto è una fatica totalmente sprecata.
Fosco sta perdendo il proprio tempo, ma ad Alice non sembrerà
vero di averlo tutto per sé.
Quando lo guarda, nei suoi occhi io leggo: “Ti venero, Fosco, fai di
me quello che vuoi”.
Invece, quando guarda me, ciò che leggo suona più o meno:
“Muori, Alessandro e, per favore, soffri mentre lo fai”.
Ormai non mi parla più. Dopo Capri, speravo di arrivare a una
cordiale indifferenza. Avevo cercato di azzerare tutto. Avevo sancito
un nuovo inizio con altri presupposti.
Ho retto due settimane. Poi ho ammesso il fallimento. Lei mi
mancava. Da allora valuto strategie di approccio e faccio tentativi per
recuperare il rapporto. Tutto quello che avevamo, liti comprese. Io e
lei abbiamo un’attitudine alla discussione che sembra scritta nei
nostri geni. E a volte mi sono sentito così solo da farmi bastare
questo. Litigare è un modo come un altro per essere vicini. La lite è
una collisione. Il contatto è l’effetto collaterale.
Ma perfino litigare è diventato difficile. Non ho fatto i conti con
l’ostinazione di Alice. Ha adottato una strategia elusiva. Si comporta
come uno di quegli animali che, quando avvertono il pericolo, si
rintanano nel guscio, e lì stanno finché il predatore non se ne va.
Mi manca da impazzire.
«A chi arriva prima», dichiara Cassandra, si dà una spinta con le
racchette e affronta la discesa.
Le lascio un vantaggio. Cerco di riempire i polmoni ma il respiro è
più corto del normale. È come se avessi perso la capacità di
rilassarmi. Non ricordo la mia ultima vacanza di piacere. Non so più
come si fa a staccare la spina.
Come se mi illudessi di scappare da questi pensieri, mi do la
prima spinta e la pendenza fa il resto; acquisto velocità con la stessa
facilità con cui, crescendo, si perdono direzioni e certezze. Gli sci
aderiscono senza attrito, il rumore della neve dà il ritmo alla corsa.
Cerco di assaporare il piacere di questa esperienza. Siamo in
altissima stagione, la difficoltà modesta del tracciato determina una
certa presenza di principianti. Devo mantenere alta l’attenzione.
Quando la pendenza diminuisce, avvisto la spianata dove sorge lo
storico rifugio Pomedes. Un edificio basso, con il tetto ricoperto di
neve. Intorno alla terrazza ci sono una corolla di fioriere vuote e una
precaria staccionata di sci piantati nella neve fresca. Le sedie a
sdraio e i tavolini sono già presi d’assalto da chi preferisce godersi la
montagna senza faticare.
Da qui si parte per piste ripide e performanti, come la Olimpia, ma
anche per tracciati più facili.
Niente è abbastanza facile per Alice però, e infatti lei e Fosco
sono rimasti nei pressi dell’edificio, per tentare l’impresa impossibile
di educarla ai rudimenti dello sci.
Fosco ha la sua tenuta scura; Alice ne indossa una di Cassandra,
ma poiché è più piccola e minuta di mia cugina, risulta un po’ goffa e
senza forma. Cosa che se non altro mi toglie un pensiero.
Non voglio ricordarmi come è fatta.
Cassie ed Ettore si sono fermati da Alice e Fosco, io mi sento
autorizzato a fare lo stesso.
Alice smette di ridere appena mi avvicino e punta lo sguardo al
cielo, quasi si aspettasse un aiuto divino per dileguarsi.
E a quel punto vorrei sparire io, visto che l’unico potere che ho su
di lei è cancellarle il sorriso. Ma non lo faccio. Sono quasi felice di
farle male.
«Allora, Alice, come procedono le lezioni private?»
«Alla grande», risponde e si tiene per sé quel prima che arrivassi
tu che ha comunque scritto in faccia.
«È bravissima», interviene Fosco, e le sistema una ciocca sotto la
fascia di pile.
E ora perché diavolo la tocca? Perché si allarga?
Perché mi dà così fastidio che lo faccia?
Cerco di nascondere tutto dietro a un sorriso. Propongo una
Pausa Grappa, una delle nostre tradizioni sciistiche più consolidate,
inaugurata non appena Ettore, il maggiore di noi, ha avuto l’età per
bere. Cassandra è entusiasta.
«Dài, famiglia, sbronziamoci!», ci incita. «È l’unico modo di
sopravvivere alla rimpatriata dei parenti! Tu, fratellino, corri a
prendere i posti. Ettore, con me al banco, che mi serve un aiuto!
Alex, pensa ad Alice».
«Ce la faccio da sola», precisa Alice. Non si aspettava di essere
scaricata proprio a me. Lo capisco dalla voce allarmata. Ma sta
parlando alle schiene dei tre Foscarini che, capitanati da Cassandra,
si sono già dileguati.
Visto che ho l’incarico di occuparmi di Alice le porgo la mano, ma
lei la guarda con lo scetticismo che riserverebbe a un arto mozzato.
«Ce la faccio».
E per dimostrarmi che se la cava pianta le racchette nella neve.
Peccato che, per paura di mettere le punte a valle, finisca per
pattinare sul posto.
«Notevole», scandisco. «Forse riuscirai a muoverti di un
centimetro prima del disgelo».
La provoco e lei cade nella trappola: depone la prudenza, gira gli
sci e si dà pure una spinta. Pessima idea. Finisce per terra dopo una
patetica caduta al rallentatore.
Non si è fatta nulla e io le rivolgo un sorriso sfacciato.
Lo nota e si incazza. Vuole alzarsi in fretta ma è bloccata sulla
schiena, gli sci incrociati. È come una tartarughina girata sul guscio.
In un impeto di compassione forzo con la racchetta gli attacchi dei
suoi sci, così da liberarla. Poi mi levo pure i miei e le offro di nuovo
la mano.
«Forza, fatti aiutare!».
Visto che mi ignora, agisco senza il suo consenso: la prendo per
un braccio. Ho modo di pentirmene presto. Appena si sente toccata,
Alice si agita e colpisce la mia mano.
«La smetti di essere così infantile, Alice?»
«Tu smetti di toccarmi».
Io la tengo stretta. «Perché, altrimenti?».
Mi contrasta con un gesto scomposto, mi sbilancia e io finisco per
caderle addosso.
Essere lungo disteso su Alice comporta che lei sia completamente
sotto di me.
È come risvegliarsi tra le sue gambe, la tenerezza del suo seno mi
si imprime addosso. Dovrei dirle che è colpa sua: degeneriamo
perché con lei non si può avere una conversazione normale. Però
non ce la faccio. Le parole mi si piantano tra bocca e stomaco, dalle
parti del cuore. Ammutolisco perché la vedo con i capelli neri e blu,
sparpagliati sulla neve. Perché le vedo sulla pelle un candore che mi
manda in confusione. Perché i suoi colori mi fanno venire fame.
Vorrei baciarle gli occhi.
«Levati», mi intima.
Vorrei baciarle le lentiggini.
«Mi stai soffocando!».
Vorrei baciarle la guance.
«Alex, porca vacca! Hai una commozione cerebrale o cosa?».
Mi colpisce a una spalla. Mi riscuoto. Cerco di sorridere.
«Vedila così: sono le prove generali per te che ti rotoli sulla neve
con il tuo grande amore».
«Ecco, sì. Peccato che ci sei tu», mi spintona ancora. «Ovvero
l’esatto contrario del mio grande amore».
«Mi ferisci».
«Togliti», mi spinge più forte. La accontento. Si alza, si ripulisce
mormorando parole furiose che non riesco a decifrare. Seduto sulla
neve la guardo abbrancare gli sci e allontanarsi verso il rifugio.
Sono l’esatto contrario del suo grande amore. Questa è forse la
cosa più sincera che mi dice da un pezzo.
Tra di noi c’è un muro.
Lo so. Ho deciso io di piazzarne uno e lei ha finito per accettarlo.
Ora però sono l’unico che vorrebbe cancellarlo.
Mentre penso che vorrei baciare i suoi occhi, lei pensa di
scappare.
Mi alzo e mi chiedo se esista un rimedio per quello che mi sta
capitando. Ho la sensazione che il peggio debba ancora venire.
E che mi troverò ad affrontarlo da solo.
Alice
La futura sposa di Alessandro

Secondo giro di grappa, una terrazza sospesa nel cielo, un


panorama mozzafiato sulle Dolomiti e Fosco, senza Gaia.
Non potrei chiedere di più. Ma vorrei comunque qualcosa in meno.
E non parlo certo dei Foscarini. No. Vorrei eliminare Alex dalla mia
visuale.
Quattro mesi fa mi ha detto che non gli importava nulla di me, e
ora vorrei che mi ignorasse. Il minimo sindacale è la coerenza.
Invece mi cerca, mi provoca e sembra incapace di scordarsi che ci
sono. Il picco di assurdo l’abbiamo toccato poco fa, quando mi è
finito addosso.
Mi ha guardato come se stesse soffrendo le pene dell’inferno
senza la decenza di scansarsi. Mi sono sentita in trappola, come una
farfalla trafitta da uno spillo.
Anzi da un martello pneumatico.
Ho ancora la forma del suo corpo impressa sulla pelle.
Mi odio, perché ci sto ancora pensando. Non devo dar valore a
niente di quello che succede con Alex.
Devo smetterla di cercare qualcosa che non c’è. Aiuterebbe se
smettessi anche di pensare che è bellissimo.
Se ne sta qui, fasciato in una tuta bianca e blu che, maledizione,
riempie a meraviglia, con gli scarponi ai piedi e una gamba piegata
contro la staccionata in una posa da spaccone disinvolto. L’umidità
gli ha arricciato i capelli e lui ci ha piazzato sopra un paio di
occhialoni super tecnici e sicuramente costosissimi.
Mi irrita. Tutto di lui mi infastidisce. Il fatto che io non smetta di
pensare a lui, però, è la cosa che mi infastidisce di più.
I Foscarini stanno parlando della mia discussione di laurea.
Cassandra, a cui Fosco ha passato la mia tesi sull’epistolario di
Svevo, dice che è correttissima e che è ben fatta. Fosco aggiunge
una dose massiccia di complimenti, perché lui è sempre così:
entusiasta e pronto a incoraggiarmi.
«E dopo?», domanda Ettore. «Cosa farai una volta che ti sarai
laureata?».
Sto per rispondere, ma Alex mi anticipa.
«Farà la redattrice di “Lollipop”».
«Tu dici?», lo provoco.
«Non ci sono alternative», replica con un misto di arroganza e
fatalismo.
«Vorrei avere le tue certezze, Alex».
Mi riserva un sorriso da monarca condiscendente con un pizzico di
compatimento, ma non fa in tempo a rispondermi.
Cassandra se ne esce con una specie di gemito stupito.
«Non ci credo! Guarda, Alex! È proprio lei!», dice e indica un
gruppo di persone poco lontane. «Lo sapevi che sarebbe venuta?».
Alex fissa nella stessa direzione di Cassandra.
«No», risponde, «ero certo che fosse ai Tropici».
«Era più nel suo stile, in effetti», commenta Fosco, fissando nel
medesimo punto.
«Mi sembra in gran forma», nota Ettore.
«Scusate, posso sapere di chi state parlando?», chiedo io.
«Della futura moglie di Alessandro», dichiara Fosco.
Alex cerca di non ridere, ma sembra lusingato, come se la donna
in questione fosse una star di Hollywood, uno di quei personaggi che
fanno risplendere gli altri con la loro luce. Mi chiedo chi può
provocare questo compiacimento in uno come Alessandro che brilla
di luce propria.
Metto a fuoco il gruppetto di persone ma ancora non identifico la
candidata.
«Sarebbero le nozze del secolo», scherza Fosco.
«Ma prima dovremmo avvertire il suo attuale fidanzato», dice
Alessandro. «Che per inciso è un mio amico di vecchia data».
«Non è necessario», ribatte Cassandra con leggerezza, «avete la
dispensa morale di tutti gli italiani amanti del gossip, siete un po’
come i rampolli delle famiglie reali».
Sto ancora cercando di capire di chi diavolo stanno parlando,
quando la risposta alle mie domande si presenta al nostro tavolo,
sulla terrazza del rifugio.
Il sole emerge dall’unica nuvola presente in cielo solo per colpire
tempestivamente la chioma dorata e il sorriso candido di Carlotta Dei
Pinzi Ranieri, facendola brillare. Fasciata nella sua tuta immacolata,
in pendant con il paesaggio, sbattendo le lunghe ciglia sugli occhi
azzurri, coordinati al colore degli scarponi, appare investita di un
alone divino.
C’è chi vive la propria ricchezza con discrezione, chi invece
costruisce un’esistenza intera lasciando che sia il denaro a definirla.
Lei, presenzialista della rete, super cliccata nei social, amica degli
stilisti e fondamentalmente fancazzista, è sicuramente un prodotto
del proprio denaro, è una persona che di professione interpreta se
stessa, così come molti altri, nella cerchia di Alex. La differenza è nel
cognome. Il padre della fancazzista è Leonardo Dei Pinzi Ranieri, il
proprietario del più importante gruppo editoriale italiano. La DPR
possiede dodici diverse case editrici, tra cui il pacchetto di
maggioranza della Visconti Santi, una propria rete di promozione
libraia con centocinquanta agenti sparsi per tutta la nazione, la
Buybook ovvero un portale di vendita online, un centinaio di librerie
di catena e una decina di megastore.
E ovviamente la principessa dei libri e il principe delle edicole sono
amici di vecchia data.
«Alessandro, non ci credo!», annuncia l’ereditiera.
«Carlotta! Che bellissima sorpresa», replica lui andandole
incontro. Il tono di entrambi trasuda un entusiasmo senza freni, tipico
di certi ambienti altoborghesi, come se l’appartenenza allo stesso
ceto facesse di loro una grande famiglia e fossero davvero contenti
di vedersi.
Certo, a guardarli sembrano contenti sul serio. Un po’ perché il
bacio di Carlotta si posiziona dalle parti dell’angolo sinistro della
bocca di Alex, un po’ perché la mano di Alex si colloca un paio di
centimetri sopra lo splendido sedere di Carlotta, un po’ perché
cominciano a conversare senza smettere di fissarsi e toccarsi.
Mi sembra di rivivere una scena già vista la scorsa estate a Capri,
quando Selvaggia si spalmava addosso ad Alex come se fosse la
cosa più normale del mondo. Stavolta però mi sembra che lui sia più
sincero. Più coinvolto. Ma forse solo perché Carlotta è infinitamente
più bella di Selvaggia.
Lei saluta il resto dei Foscarini, che chiama per nome, chiede
notizie della famiglia, ma quando è il mio turno il suo sguardo mi
attraversa come se la sedia fosse vuota. In effetti nel suo mondo io
non ho diritto di cittadinanza. Anche se non voglio ascoltare,
apprendo poi alcune notizie di importanza fondamentale per
l’umanità come la geolocalizzazione del fidanzato ufficiale, Eugenio
Della Riva, che in effetti si trova in un atollo tropicale e il motivo per
cui Carlotta non è con lui a bere hugo in una suite vista oceano.
«Tra due giorni cominciano le sessioni in studio per la
registrazione del nuovo video di dj Hustler. Sai che non amo
sovraespormi, ma Hustler è un amico. Ha tanto insistito perché
facessi la parte di me stessa. Alla fine ho ceduto. Eugenio invece è
partito. Non voleva rinunciare a fare immersione con il nuovo
brevetto e sono venuta con mamma e papà al villino».
Sulla parola “villino” la mia mente concepisce la visione di una
reggia da ottanta stanze. Per stare bassi.
«C’è anche tuo padre?», domanda Alex.
«Temo di sì», risponde lei, poi si acciglia, ma più per gioco,
«siamo tutti molto arrabbiati con te per l’affaire della Hannover
Press».
«Troverò il modo di farmi perdonare».
«Okay, comincia con me. Mi accompagni alla Olimpia?»
«Mi piacerebbe moltissimo ma sono con un’amica che non sa
sciare».
Mi indica, ma sento comunque il bisogno di guardarmi alle spalle
perché, a quanto ricordo, il titolo di “amica” mi è stato revocato
quattro mesi fa, ancora prima che mi illudessi di poter aspirare ad
averlo.
Non c’è nessuno. Questo mistificatore mi ha appena promossa sul
campo, probabilmente perché, nonostante la bellezza sorprendente
dell’ereditiera, Alex non ha alcuna voglia di andare sulla pista con lei.
«Alessandro».
«Dimmi, Alice».
«Puoi anche andartene».
Il suo sorriso si incrina appena. «Tranquilla, Alice. Resto
volentieri».
«Non devi sacrificarti per me», tento un tono affettato, «vai e
divertiti come solo tu sai fare».
Nei suoi occhi passano un certo numero di offese, per quanto il
sorriso resti sulle sue labbra.
Alla luce dello scambio, Carlotta sente il bisogno di prendere atto
della mia esistenza. Mi porge addirittura la mano.
«Ciao, sono Carlotta. Alessandro è proprio un cafone, non ci ha
neanche presentate».
Stringo la sua mano. «Eh, lo so. Alessandro tende a dare le cose,
e le persone, per scontate», ribatto. «Quanto al resto, piacere, sono
Alice. È vero che non so sciare, ma è un problema mio. Poiché
Alessandro non è indispensabile, può tranquillamente evitare di
assumersi un ruolo. Portatelo pure sulle piste nere!».
Gli ho restituito le parole che mi lanciò contro quattro mesi fa.
Perché le parole hanno un peso e hanno conseguenze. E lui non
può fare come se nulla fosse successo.
Deve arrivare alla medesima conclusione perché il suo sorriso ora
è una smorfia.
«Come vuoi, Alice. Vedrò di divertirmi».
«Nessun dubbio che ci riuscirai. È la tua specialità».
Apre la bocca ma poi decide di tenersi per sé l’ultima parola.
Tuttavia i suoi occhi sono un oceano che fluttua tra rabbia e
frustrazione.
Saluto Carlotta e distolgo lo sguardo. L’ho mandato via, ma ora
non voglio vederlo che si allontana. Non sempre siamo pronti per le
conseguenze delle nostre azioni.
Torno a occuparmi del tavolo e trovo lo sguardo di Fosco. È serio.
«Che c’è? Perché mi fissi?»
«Potevi essere più gentile, Alice».
«E perché mai? Lui non se lo merita».
«Stai sbagliando tutto con Alex», insiste Fosco.
«Io?»
«Tu», conferma Cassandra.
Cerco lo sguardo di Ettore, per essere assolta, ma lui preferisce
bere e astenersi. E in questi casi il silenzio è una chiara risposta.
Pure lui sta prendendo, inspiegabilmente, le parti del ricco erede che
ci ha appena salutato per sciare con una della sua stessa specie.
«Non so di cosa parlate», taglio corto.
Poi mi verso un’altra dose di grappa. Io sono la vittima, porca
miseria, non ho nessuna voglia di sentirmi in colpa.
Però mi torna in mente la nota delusa negli occhi di Alex, qualcosa
di simile al rammarico. Come se andarsene, dopotutto, gli
dispiacesse. È questo che mi frega e mi fregherà sempre con lui:
vedo sempre quello che vorrei che ci fosse.
Cerco di ricordarmi che in realtà non c’è niente e bevo la grappa.
Tutta d’un fiato.
Alex
L’ultima parola

Sono arrabbiato.
Così arrabbiato e confuso che ho dovuto fare appello a tutto il mio
autocontrollo per mantenere un po’ di discrezione sui veri motivi per
cui sono ridotto così.
Alice mi ha mandato via. E questo, in certa misura, lo potevo pure
prevedere. Ciò che non avevo messo in conto era di sentirmi a
pezzi.
Il suo rifiuto mi ha mandato fuori fase.
Carlotta ha intuito che qualcosa mi turbava, mi conosce da una
vita, ma è stata abbastanza discreta e intelligente da non fare
domande. Per fortuna era sulle piste con un gruppo di conoscenze
comuni e dopo un paio di discese l’ho lasciata con loro. Sono
arrivato all’albergo, dove ero determinato ad affrontare Alice, perché
è chiaro che non possiamo andare avanti così, e invece le cose
sono peggiorate per due motivi diversi. Il primo è che ho scoperto da
Ettore che Alice è andata in paese con Fosco e Cassandra, il
secondo è stata la convocazione di mia madre. Mi ha telefonato per
dirmi che la dovevo raggiungere all’Hôtel de la Poste.
Urgentemente.
«I Dei Pinzi sono a Cortina», mi ha detto, confermando ciò che già
sapevo. «Non puoi perdere l’occasione di risanare lo strappo».
Devo presentarmi al bar dell’hotel, salutare un potente competitor
facendo finta di non sapere che ce l’ha con me.
Che fosse arrabbiato, lo sapevo da amicizie comuni. Che si fosse
sfogato con mia madre, me lo ha detto lei poco dopo l’annuncio
dell’acquisizione. Ma che a distanza di mesi io debba ancora
mostrarmi contrito e correre se mi chiama è una cosa che mi
disturba. Ancora non so quale sarà la mia penitenza ma, poiché
sarebbe ottimista pensare di farla franca e sarebbe ridicolo
dichiarare guerra a una persona potentissima con cui, in parte, sono
in affari, devo rassegnarmi a questa farsa.
Mamma mi ha dato appuntamento in Corso Italia, sotto la basilica
dei Santi Filippo e Giacomo. La raggiungo dopo aver parcheggiato.
La avvisto ancora prima di raggiungere il campanile. Avvolta nel
suo piumino grigio di Chanel, mi accoglie con uno sguardo glaciale e
il volto lievemente segnato dalla tensione. Mi comunica che l’ho fatta
attendere cinque minuti. Io mi scuso.
«Quanto è grave la situazione con Dei Pinzi?», domando
alzandomi il bavero del cappotto. Una debole protezione contro il
vento glaciale.
«Più di quanto sembrava a inizio settembre».
«E Leonardo aspetta che siamo tutti in vacanza a Cortina per
lamentarsi?»
«Le vacanze non esistono, Alessandro», decreta. «Si lamenta
perché ti considera in debito con lui. E tu non puoi tirarti indietro».
Cerco una replica. Ma non ne trovo nessuna. Solo stanchezza. La
strada è chiusa al traffico, i negozi gareggiano a colpi di luci e
addobbi, gli edifici con i loro balconcini di legno risplendono e non
hanno nulla da invidiare alle luminarie sotto le quali passiamo. Tutte
queste luci non servono a niente. Non riesco a vedere cosa ha in
serbo il futuro che sta un passo davanti a me.
«Devi essere prudente e convincente», riprende mia madre.
«Evita di trattare la questione con eccessiva leggerezza e abbraccia
la mia linea di difesa, dicendo…»
«…Che non ero al corrente del suo interessamento».
«Sì», si sistema i guanti di camoscio. «Ma aggiungi anche che sei
stato malconsigliato. Di’ che l’idea di comprare la Hannover non è
stata tua».
«Ma è stata mia».
Mia e di Alice.
Fisso le vetrine tirate a lucido, dove la neve finta fa da
contrappunto alla neve vera. Metà di una e metà dell’altra. Il
riassunto della mia vita.
«L’operazione non è stata un grande affare. Non sono la sola a
pensare che la soluzione migliore sia ricapitalizzare entro due anni,
aggiungendo le quote della Visconti Santi».
La cosa mi coglie di sorpresa. «Vendere tutto? Smetteremmo di
essere editori di libri».
Tiene gli occhi nei miei. «Aveva già smesso tuo padre», mi dice,
«tu hai voluto fare un passo indietro, fuori dal solco tracciato da lui».
«Non ho molto in comune con mio padre», preciso. Ma questa
affermazione non produce in lei alcun addolcimento.
«Lui era un grande imprenditore, che ha pagato tutte le sue
debolezze». In questa descrizione lo elogia e lo condanna. «Ha
completato l’opera iniziata da tuo nonno, portando l’azienda a essere
leader in un settore dove non abbiamo concorrenza. Tu devi finire
quello che lui ha iniziato, sbarazzandoti del passato».
«Posso rafforzare la posizione del gruppo in edicola senza
rinunciare alla libreria. Diversificare è sempre un vantaggio».
«Non quando servono fondi. E dal prossimo febbraio ne
serviranno. Cominceremo a programmare seriamente l’ingresso in
altri mercati».
So che la divisione internazionale richiederà tutta la nostra
attenzione, ma io non voglio rinunciare al mio progetto.
Io credo nei prodotti da libreria. Ma era più facile farlo quando ci
credevo con Alice. Quando eravamo in due. Ora mi sento perso
all’idea di difendere da solo quello che avevamo cominciato a
costruire.
Alzo lo sguardo e, oltre la vetrina di un negozio di catena, vedo
proprio Alice. Sta parlando con Cassandra e ha un certo numero di
vestiti caricati sul braccio.
Perfetto. Sogno di dirgliene quattro da questo pomeriggio e
quand’è che la vedo?
Proprio ora, che non posso raggiungerla.
Perché non posso certo dire a mia madre: «Precedimi all’Hôtel de
la Poste dove Leonardo si deve togliere lo sfizio di mettermi in
castigo, perché io devo correre dietro a una mia dipendente che non
vuole firmare il rinnovo del contratto».
E infatti non glielo dico.
Ma non posso neanche scordarmi di Alice.
Opto per una versione ridotta con alcune importanti omissioni.
«Mamma, precedimi. Ti raggiungo tra cinque minuti».
Quando l’ho distanziata, ritorno sui miei passi e mi infilo nel
negozio. È piuttosto affollato. Hanno avuto l’idea di fare i saldi pre-
veglione e questo ha attirato parecchie persone. Mi aggiro tra
stender e manichini. Mi riconoscono in troppi, poi per fortuna mi
imbatto in Cassandra. Imbraccia una pila di vestiti.
«Oh, meno male che sei qui! Fammi un favore. Porta questo ad
Alice, così posso infilarmi pure io in camerino», dichiara e, dando per
scontato che non mi ribellerò, mi lascia un vestito.
Raso nero. Corpetto smanicato. Gonna geometrica. Un po’ stile
Audrey Hepburn.
Immagino Alice che lo indossa. Ma, se pensare a lei mezza nuda
è un colpo strano, il rinculo è pure peggio. Il secondo pensiero mi
spedisce il cuore nello stomaco e lo stomaco più giù ancora.
Mi torna in mente lei sulla neve, stesa sotto di me.
Cerco di caricare i polmoni e ricordarmi che sono arrabbiato.
Se sto elaborando questi pensieri così schizofrenici è solo perché
lei mi manca. Mi manca quello che avevamo e perfino ciò che non
abbiamo mai avuto. La vedo in fuga quando avrei bisogno che lei
difendesse i nostri progetti. Vorrei sbatterla contro un muro ed
elencarle quello che mi ha fatto. Vorrei saperla trattenere.
Arrivo nella zona dei camerini. È inaspettatamente tranquilla.
Ci sono solo Alice e Fosco.
Precisamente c’è Alice con la schiena nuda e Fosco che tenta di
chiuderle il vestito.
«Secondo me si è inceppata la zip», sta dicendo lui. «Incastrata
proprio!», in quel momento squilla il suo telefono, lui prende
l’apparecchio e mi vede sulla soglia, escluso come lo spettatore di
un film già iniziato.
«Oh Alex, ciao! Dai una mano ad Alice, io devo rispondere a
Gaia…».
Alice, colta di sorpresa, trasalisce.
«Alex? Ma che ci fai qui?»
«Arrivo nel momento del bisogno», dichiaro, mentre mio cugino
esce. Mi avvicino. Lei indietreggia.
«No, lascia stare. Faccio da sola».
«È una zip sulla schiena. Non puoi fare da sola».
«E allora me lo levo. È uno stupido vestito», dice reggendoselo sul
petto. «L’ho provato solo per far felice Cassandra, ma a dirla tutta mi
sono stufata di…».
Tace di colpo. L’ho presa per i fianchi.
«Ma cosa diavolo…?»
«Zitta».
La giro con un gesto brusco. Ho la sensazione di averle tolto il
fiato. È una vittoria irrilevante, da segnare su un taccuino comunque
mezzo vuoto.
«Senti, perché non torni da Carlotta?»
«Smettila di dirmi dove devo andare e con chi devo stare», le
strattono la zip.
Lei non molla. «Hanno ragione i giornalisti», insiste. «Siete così
adatti da risultare ovvi».
Non è l’unica a pensarlo. Da quando ho quindici anni e Carlotta
undici tutti dicono che ci sposeremo.
«Ti inviterò al mio matrimonio».
«Piangerò per tutto il tempo».
Cerca di girarsi, la blocco. Mi accorgo che tenta di sottrarsi, per
limitare il contatto. Le piazzo una mano sulla schiena solo per il
gusto di darle fastidio, ma resto vittima del mio stesso gesto. La sua
schiena è una tela bianca su cui sento il bisogno di disegnare i miei
desideri.
«Vorrei farti piangere sul serio, Alice».
«Non ce la puoi fare», obietta. La voce ora le trema. Il tipo di
vibrazione dal colore indefinito. Non la decifro, ma la mia pancia sì.
E il resto si adegua.
Levo la mano dalla sua pelle.
Torno a occuparmi della zip. Cerco di sbloccarla.
«Dovresti comportati da persona matura, Alice, smettere di
ribellarti e firmare il rinnovo».
Per fortuna la mia voce è salda.
«O magari dovrei cercare un lavoro in cui il mio capo non cerchi di
fottermi».
Il significato delle parole slitta veloce verso un’ambivalenza
insidiosa.
Mi scappa un gesto brusco, scriteriato. Il rumore è inequivocabile.
Le ho appena strappato il vestito.
«Oh, merda! L’hai rotto?!», si gira di scatto. Me la trovo davanti.
Ho in mano un pezzo della cerniera da cui pende un brandello di
tessuto.
«Pace. Lo ripago».
«Ecco!», mi indica. «Non cambi mai. Tu rompi, poi paghi per
metterci una pezza. Però, ti svelo un segreto: certe cose non si
aggiustano con i soldi».
«Oh, falla finita», lancio la cerniera. «Apri gli occhi, Alice. Tutto si
aggiusta con i soldi, okay? Tutto! Chi dice di non avere un prezzo è
solo qualcuno per cui nessuno ha alzato la posta».
«Non vale per me!»
«Okay. Dimmi quanto vuoi per restare».
Lei spalanca i suoi occhi giganteschi. Io insisto.
«Diecimila? Venti? Cinquanta?»
«Cioè…», scuote la testa, incredula. «Fai sul serio? Tu mi daresti
davvero cinquantamila euro?»
«Sì, Alice. Firma il rinnovo e ti giro sul conto cinquantamila euro».
«Tu sei malato», e scuote ancora la testa. «Sei un arrogante del
cazzo con seri problemi di ego! Sono proprio contenta che tu abbia
fissato una quota, perché così la soddisfazione di scaricarti non ha
prezzo».
Capisco in un lampo di lucidità che fa sul serio. Sono mesi che
aspetta questo momento. Sono mesi che aspetta di vendicarsi.
Vuole scaricarmi.
Contro ogni logica o interesse. Vuole solo avere l’ultima parola
dopo Capri. Vuole dimostrarmi che non posso risolverla.
Che ho rovinato tutto e i soldi non aggiusteranno quello che
avevamo.
Ma non glielo permetterò.
La scaricherò prima io.
«Sei licenziata».
«Cosa?»
«Sei licenziata, Alice», sorrido. «Dovresti avere familiarità con il
concetto».
«No, scusa, mi sono persa un pezzo. Prima mi offri cinquantamila
euro, e ora mi licenzi? Mi licenzi a sette giorni dalla scadenza del
mio contratto?»
«Esatto». Allargo le braccia. «Non vuoi essere comprata? Ritiro la
mia offerta».
Piazza le mani sui fianchi del suo vestito mezzo aperto.
Fa un passo verso di me. «Sei un bastardo rancoroso».
Faccio un passo verso di lei. «E tu una piccola strega ostinata».
«Pretendi di disporre delle persone».
«Perché è così che funziona: svegliati!»
«La tua arroganza mi lascia senza fiato», mi incalza.
«Anche i tuoi occhi, cazzo!»
«Cosa?»
«Cosa?»
«Hai detto…»
«Che sei licenziata».
«No, dopo hai detto…».
Batto in ritirata. «Non ho detto niente, Alice. E non preoccuparti
del vestito. Io non ho nessun problema a pagare per i miei errori».
A parte te, penso mentre esco. Tu sei l’errore per cui non c’è
rimedio.
Alice
Quello che lui prova per te

«…E mi ha licenziata», lancio la stola sul letto, e finisce nel


mucchio dei vestiti di Cassandra.
Lei, seduta su una poltrona con le gambe incrociate, indica nel
marasma di vestiti.
«Prova con il pellicciotto rosa», suggerisce non troppo a tono.
La accontento, afferro il coprispalle in finto pelo, dal quale ancora
pende il cartellino. Me lo metto intorno al collo, sul vestito che
Cassandra mi ha voluto comprare, e poi fisso il risultato allo
specchio.
«Sembro una debuttante psicopatica».
«Sì», conferma Cassandra. «Hai l’aria di aver appena scuoiato un
unicorno».
«Un unicorno no, ma Alessandro lo aprirei in due».
«Non devi darci peso. Alex non è abituato», decreta.
«A cosa? Alla civiltà, all’amore per il prossimo?».
Lei scuote la testa. «Ora prova con…»
«Senti, lasciamo stare!», la blocco. «Mi scuserò con tua madre,
ma non mi va di sembrare diversa da quello che sono», mi levo il
pellicciotto e cerco di slacciare la cerniera. Cassandra si rassegna, si
alza in piedi e mi dà una mano.
«Ferma, non vorrai rompere anche questo!».
Scherza, ma io la fulmino con un’occhiata. «È stato Alex! Lui ha
rotto il vestito! Lui rompe tutto quello che tocca».
Mi levo questo abito adeguato sperando che la signora Amelia
non ci resti troppo male. Stasera non ho la testa per i compromessi.
Il bastardo mi ha licenziato!
«Mi ha licenziato!», ripeto, liberandomi del vestito. «Io ancora non
ci credo».
«Neppure io», sentenzia. Ma lo fa con un tono neutrale, privo di
partecipazione.
La cosa mi stranisce. «Okay, Cassandra, gradirei che fossi triste
per me», chiarisco mentre mi metto a cercare nel cumulo di
indumenti l’outfit originale, quello che avevo quando sono entrata.
«Perché dovrei essere triste? Non volevi andartene?»
«Sì… no… forse», scuoto la testa. «Volevo decidere io, ecco».
«Tranquilla. Come ho detto prima, non credo che facesse sul
serio. Era solo arrabbiato per via di Carlotta».
«Non ti seguo».
«Oggi. Sulle piste», riassume. «Ha chiesto il tuo aiuto e tu non gli
hai retto il gioco. Ce l’aveva con te».
Sbuco con la testa dalla maxi maglia con i teschi. «Ce l’ha sempre
con me», affermo poi mi assesto in vita la cintura, tutta catene e
borchie.
«Tu non hai capito niente di Alex», decreta Cassie, mentre cerca
le mie cose, perse tra le sue. «Io sono cresciuta con lui e lo conosco.
Credimi, nessuno lo manda fuori fase quanto te. Purtroppo».
Ci sono un certo numero di punti, nella frase, che esigerebbero
chiarimenti, ma sono sopraffatta e mi fermo sull’ultimo.
«Purtroppo?»
«Eh, sì», sospira, mi porge il primo degli scaldamuscoli fucsia.
«Okay, Cassie, anche tralasciando che non credo di mandarlo
fuori fase, per quanto probabilmente io riesca a irritarlo», mi chino e
allaccio le stringhe verde acido degli anfibi, «non ho proprio capito il
tuo “purtroppo”».
«Be’, io contavo su di te nella mia guerra contro Gaia. Insomma
speravo ti mettessi in mezzo e salvassi mio fratello», alza una spalla.
«Ma poiché tu piaci ad Alex forse è meglio non complicare lo
schieramento e lasciare che Fosco venga salvato da una new
entry».
Mi esce una risata nervosissima. «Mi predi per il culo?»
«No. E vorrei che la new entry fosse di una bellezza indecente e
innamorata persa di lui. Mio fratello se lo merita».
Scuoto la testa. «Mi riferivo al fatto che io piaccio a…», scuoto
ancora la testa. «Non riesco neppure a dirlo tanto è assurdo!»
«Credimi, tu gli piaci. E vorrebbe disperatamente piacere a te.
Purtroppo».
«Senti, signorina Purtroppo, non so quale fase romantica e
stramba tu stia attraversando, ma no. A lui piacciono quelle come
Carlotta Dei Pinzi. Che, per inciso, è la sua perfetta controparte. Due
persone egocentriche e vanesie che non fanno un cuore in due».
«Sei molto ingiusta con lui. Per te mette in campo tutto il cuore
che ha».
«Ti posso assicurare che se, come dici tu, io piacessi a quel
cretino del mio ex capo, me ne sarei accorta».
«No», ribatte. «Non puoi accorgertene. Dal momento che neppure
lui se n’è ancora accorto».
Sono quasi felice che squilli il telefono di Cassandra, quasi
sollevata che per rispondere decida di andare sul piccolo balcone,
nonostante il freddo maledetto. Quasi.
E quello che manca per essere del tutto felice o del tutto sollevata
è impiegato nel cercare di superare questa parentesi surreale.
Mi sistemo gli scaldamuscoli e impongo a me stessa di non
pensarci più.
Alex
È solo colpa tua

Sono nell’atrio di una dimora fortificata, costruita un secolo fa da


un eccentrico gerarca nazista in fissa con le suggestioni delle saghe
germaniche, tra torri e stucchi che ricordano il castello di Ludwig di
Baviera, al netto delle suggestioni wagneriane, e addobbi
marcatamente natalizi. Sono qui e sono pietrificato.
Ero accanto a mia madre, intento a conversare con una cugina
piemontese, invitata come noi al ritrovo dei Barozzi, quando ecco
arrivare i Foscarini. E con loro Alice.
Ho perso sia l’uso della parola sia il contatto con la realtà.
Completamente distratto da una domanda che ha preso a
rimbalzarmi in testa.
Come. Diavolo. Si. È. Vestita?
Io sono sotto shock.
Per un attimo mi sono perfino scordato di essere furioso con lei.
Pensavo che il peggio l’avesse mostrato con quel baby doll in
poliestere con cui l’estate scorsa si è messa nei casini. Invece
stasera è peggio. È un miracolo che l’abbiano fatta entrare. Indossa
una t-shirt sepolcrale con simboli satanici, fermata in vita da una
specie di catenaccio da bicicletta che dovrebbe fare le veci della
cintura. Ha le gambe coperte dai collant a rete, calza un paio di
scaldamuscoli fluorescenti e gli anfibi.
Quanto al trucco, probabilmente ha usato un badile per mettersi
l’eyeliner.
Credo che, in cento anni dalla posa della prima pietra, qui allo
châteaux nessuno sia mai entrato vestito così.
Cerco di far finta di nulla, come il resto degli invitati. Lei si siede al
tavolo dei Foscarini. Tra di loro, tutti perfetti, lei resta un pugno
nell’occhio, ma quel genere di pugno che per qualche ragione stai lì
a prenderti in faccia.
Non riesco a distogliere lo sguardo.
Vorrei capire che cazzo di problema ho.
Lei si gode la serata. Lei che è una profanazione del tovagliato
ricamato e delle porcellane pregiate. Ma accanto a Fosco, che onora
la ricorrenza con un tre pezzi nero, probabilmente fornito dalla
madre, Alice trova una sua collocazione. Si guardano come se si
fossero già capiti da una vita. Lui si china per dirle qualcosa
all’orecchio e lei scoppia a ridere.
Perché ride? L’ho licenziata, porca miseria. Dovrebbe essere
triste! Invece Fosco ha questo effetto su di lei. Loro due insieme
sono felici e mi mostrano cosa, di preciso, manca a me per esserlo.
Perfino mia madre, a un certo punto, li nota.
«Chi è quella persona strana che sta con Pietro? La sua
ragazza?»
«No. È una sua amica».
«Piuttosto bizzarra», nota. «Ma ha qualcosa di inspiegabilmente
familiare».
«Lavora a palazzo. Nella redazione di “Lollipop”».
Ometto che quella persona bizzarra è colei che ha reso «Lollipop»
la rivista di punta del gruppo, che ha passato gli ultimi due anni e
mezzo a stupirmi con le sue idee.
Il pensiero di averla persa mi mette addosso una tristezza senza
appello.
Cerco di non pensarci. Guardo l’orologio. Tra poco dovrò salutare
tutti e raggiungere i Dei Pinzi. Come prova di buona volontà ho
accettato l’invito di Leonardo al veglione che organizzano a casa
loro. Gli ho garantito che sarei stato lì per la mezzanotte. Altro tempo
sacrificato sull’altare dei miei doveri.
Se mi faccio trascinare da queste riflessioni mi deprimo davvero.
Inserisco il pilota automatico. Le mie skill sociali parlano per me.
E tutto più o meno va a posto, più o meno funziona.
Quando la cena è alle battute finali, i passaggi degli ospiti da un
tavolo all’altro diventano frequenti. Sto alla larga da Alice, ma per tre
volte contravvengo alla regola di fingere che non esista e la guardo.
Nelle prime due sta bevendo dal bicchiere, nella terza dal collo della
bottiglia. Sono le undici quando decido di andarmene. Devo recarmi
al veglione di Dei Pinzi.
Mi decido a raggiungere il tavolo dei Foscarini ma quando arrivo
trovo solo Alice.
Sta bevendo ancora, ma smette quando mi vede.
«Continua così e non ti reggerai in piedi», le dico.
Mi riserva uno sguardo fulminante. I suoi giganteschi occhi chiari
risaltano nel nero del trucco pesante.
Rimaniamo a fissarci. È sfrontata e non cede. Resta a guardarmi.
Devo andarmene, mi dico.
Ma non ce la faccio.
Scosto una seggiola e mi siedo. La mia gamba finisce contro la
sua. Non la tolgo. Come dimostrazione di supremo disinteresse.
Non la toglie, per dimostrarmi di non essere da meno.
Il risultato della nostra conclamata indifferenza è un contatto che
diventa il centro della gravità universale.
Direi che devo lavorarci, su questo fatto dell’indifferenza.
«Allora, quanto hai bevuto?».
Tace.
«Che c’è, non sono più degno di una risposta?»
«Non lo sei mai stato», dice. «Ora non devo più fingere».
Le nostre gambe premono una contro l’altra in un contatto
ostinato.
Forzo un sorriso. «Mi avevi detto di saper fingere qualsiasi cosa».
«Questo era prima di conoscerti. Tu sei una bugia che non riesco
a dire».
La sua gamba preme ancora contro la mia. Abbasso appena lo
sguardo. Mi immagino di prenderle la coscia. Stringere. Salire.
Sparire…
Forse pure io ho bevuto troppo…
«Hai lavorato per un politico corrotto, Alice. Per un ristoratore
asiatico che non ti corrispondeva i contributi e chissà per quante
altre persone disoneste o scorrette. E io sono la tua nemesi?».
Non risponde.
In compenso arriva Cassandra. Ha un’aria trafelata. «Oh, eccoti,
Alex. Forza, sganciamoci. È tempo di andare alla Baitina».
Ha nominato un locale molto piccolo, a due passi dal nostro hotel,
dove ci siamo sempre divertiti tantissimo. Era da dire che pensavano
di finire lì la serata.
«Mi dispiace, ma non posso. Mia madre mi ha chiesto di far
presenza al veglione di Dei Pinzi».
Cassandra dice che le dispiace e dichiara di andare a cercare
Fosco.
Alice si volta e fa quello che io non ho osato fare. Mi piazza una
mano sulla gamba. Mi afferra e stringe.
La sua presa sale al confine di un territorio sensibile. Sono
disorientato.
«Sappi che non mi mancherai…».
Ha usato un tono del tutto dissociato dalle parole. Perché dice una
cosa ma pare dichiarare l’esatto contrario.
«Neppure tu mi mancherai», mento e la mia voce sembra finita
per sbaglio su quelle parole.
Mi stringe la gamba. Vorrei fare lo stesso con la sua.
«Quindi qual è la tua mission, Alessandro? Sedurre Carlotta?»
«E la tua?», rilancio. «Sbronzarti?»
«Ma come, non ti ricordi? Io devo scopare con Fosco».
E non so come faccia a dirlo guardandomi negli occhi. Non so
come possa accarezzarmi.
Non ci vedo più. Le afferro la mano.
«Non lo farai».
«Perché?»
«Perché io non voglio».
«Allora sarà ancora meglio…».
La voce di Cassandra ci interrompe.
Io ritraggo la mano. Lei si alza di scatto.
«Devi proprio andare da Dei Pinzi?», domanda Cassandra,
comparendo di nuovo, stavolta con Fosco.
Annuisco. Devo. L’ho promesso. Però le ultime parole di Alice mi
hanno fatto uscire di testa. Mi offro di dar loro uno strappo alla
Baitina e così, poco dopo, ci ritroviamo tutti sul mio Range Rover.
I Foscarini stanno dietro e Alice si è piazzata accanto a me.
Si è arrampicata sul sedile in un modo quasi rocambolesco, ho
dovuto afferrarla per il cappotto, come si fa con un gattino che non
riesce a salire sul divano. Scopro presto che non è la sola ad aver
esagerato con l’alcol. Fosco è a un paio di bicchieri di distanza da
una sbronza colossale.
Siamo a metà del tragitto quando Fosco dichiara di dover
telefonare a Gaia e le ragazze lo supplicano di non farlo.
«Lei non ti chiama. Tu non chiamarla», dice Cassie, lapidaria.
«Comincia a guardarti intorno, fratello, puoi trovare di meglio».
«Sì, guardati intorno», suggerisce Alice, e nel farlo si gira e si
sporge verso di lui. La devo afferrare per il braccio e costringerla a
rimettersi seduta come si deve.
Mi fulmina con un’occhiata di odio.
Non ho nessun problema a restituirgliene una identica.
«Anno nuovo, vita nuova», si accoda Ettore. Che a questo punto
dovrebbe starsene zitto, se il massimo che riesce a fare è suggerire
al fratello di sostituire la sua fidanzata con la prima che passa.
«Appena ci liberiamo del mostro», dice Alice indicandomi,
«metterò in atto il mio piano per farti dimenticare Gaia».
Lo afferma restando con i suoi occhi fissi su di me. Mi sono
scavato la fossa. Le ho detto di non farlo. Il modo migliore per
farglielo fare.
Mi sento le braccia rigide per la rabbia. Ho voglia di prendere a
pugni qualcosa.
Fosco continua a straparlare dei suoi doveri verso Gaia,
Cassandra non demorde e gli suggerisce di cambiare ragazza, Alice
si accoda con frasi che oscillano tra lo spericolato e l’imbarazzante.
«Mi prenderò cura di te», oppure, «Vedrai che domattina la
penserai diversamente». Fino all’apice della sfrontatezza: «Devi farti
una scopata come si deve».
Eppure io ho la sensazione che non parli con lui. Sta parlando per
me. Vuole essere sicura che io abbia il quadro.
Grazie al cielo, sull’invito a farsi una scopata arriviamo nel
parcheggio.
È pieno di macchine e gli addetti hanno un bel daffare per cercare
un posto ai suv in fila.
Cassandra propone di scendere, così io potrò girare la macchina e
andarmene.
I fratelli Foscarini escono dalla vettura e Alice ha già la mano sulla
maniglia.
Non so se lo decido in questo istante o se ce l’avevo in testa
dall’inizio. Ma so che non posso lasciarla andare.
Blocco la sicura.
Lei ci mette un paio di secondi ad accorgersi che non si apre e,
nel tempo che realizza, io ho già ultimato l’inversione.
Abbasso il finestrino.
«Cassie, porto Alice in albergo, è troppo ubriaca per circolare».
«Ma che cazzo… no!», protesta.
«Okay», dice invece Cassandra e poi ci gira le spalle.
«Okay? Sei pazza? Cassandra!».
Ma lei la ignora. Si è già incamminata con i suoi due fratelli, uno
dei quali non si è accorto di nulla, l’altro che probabilmente se n’è
accorto ma condivide l’idea che un’ubriaca non debba essere
lasciata a piede libero.
«Ferma questa macchina», mi intima Alice, «e fammi scendere».
«No».
Tutto tace per una manciata di secondi poi sento un dolore
lancinante.
Mi ha tirato un pugno sul braccio. Segue il secondo e poi il terzo.
«Smettila», le intimo. «Lo capisci che lo faccio per te? Finiresti per
fare cose di cui ti pentiresti».
«Tipo scopare con tuo cugino?».
La indico con un cenno, la mascella mi fa male per la tensione.
«Non voglio che fai una cazzata con lui solo perché sei arrabbiata
con me», prova a protestare ma io alzo la voce. «Avete un’amicizia
stupenda. Non puoi rovinarla così».
«Non hai diritto di parola!»
«Perché la vostra amicizia è troppo speciale?»
«No, idiota, perché la nostra era speciale, cazzo! Quello che io e
te avevamo era speciale e tu l’hai mandato a fanculo!».
Non me l’aspettavo. Non la guardo solo perché devo prendere le
misure a quello che ha detto. Decelero per entrare nel parcheggio
dell’hotel.
Poi capisco che non posso tirarmi indietro. Colgo l’occasione. Mi
assumo il rischio.
«Okay, facciamolo. Parliamo di quello che è successo a Capri».
Lei incrocia le braccia al petto, ma tace.
Le lancio una rapida occhiata. «Ammetto che in quei giorni ero
teso. Ho sottovalutato la situazione…».
Evidentemente non basta, perché mi rifila altri due pugni furiosi.
Impreco e spengo il motore.
«Ma porca miseria! Perché non possiamo semplicemente…?».
Alice non mi lascia finire, è svelta a sbloccare la sicura e ad aprire
la portiera. Pur barcollando, guadagna metri in fretta sulla neve
caduta da poco.
«Fermati, Alice».
«Vattene».
Mi pianto sul posto. «Brava, sei molto matura! Uno cerca un
confronto e come si riduce? A parlare con la tua schiena!».
Si blocca e si gira. La vedo oscillare sotto la luce del lampione.
E finalmente torna sui suoi passi.
«Cinque ore fa mi hai licenziato solo per avere l’ultima parola».
«Sì. Perché avevo capito che te ne saresti andata lo stesso».
«Ma cosa…?»
«Eri pronta a lasciarmi nei casini», ribadisco. «A lasciare la rivista
in un momento in cui il timone ha un buco di programmazione
che…»
«Ma davvero?», avanza e mi spintona. «Io mi ammazzo per te da
anni e tu mi rinfacci un cazzo di buco nel timone che…», scuote la
testa come se completare la frase implicasse uno sforzo
insostenibile. «Guarda, Alex, ciao! Vai da Carlotta o anche
all’inferno, se preferisci, ma sparisci dalla mia vista».
La blocco prima che possa girarsi, e mi guadagno l’ennesimo
pugno. Cerco di trattenerla per i polsi, mi rifila un calcio.
«Ma la finisci di picchiarmi, cristo santo?».
La risposta è un pugno e, per evitarlo, tento una presa maldestra.
Troppo imprecisa. Il suolo ghiacciato mi frega. Scivolo e trascino
Alice con me.
È di nuovo sotto di me, che sono di nuovo steso sopra di lei.
Ci scambiamo un’occhiata così ravvicinata che mi sembra di
sprofondare, senza speranze di frenare la caduta, nel mare dei suoi
occhi.
«Ma che cazzo!», cerca di spintonarmi. «Ancora mi sbatti per
terra? Ci stai prendendo gusto?»
La guardo negli occhi.
«Sì».
Tace. Ho la sensazione che non sappia più cosa dire.
Non so come mi sia uscita quella risposta, ma non ritratto. È sotto
di me, so di schiacciarla ma non mi sposto. Mi fissa con uno sguardo
che oltre la rabbia resta un enigma. Che provoca una sorta di
vertigine feroce.
Mi sento in pericolo.
Mi sento in salvo.
«Okay, ti piace stare sopra di me?»
«Mi piace che tu non te ne possa andare».
«Ho la schiena gelata», dichiara. «Mi ammalerò e sarà colpa tua».
La afferro per i fianchi e mi giro, trascinandomela dietro.
Adesso sono io quello sdraiato nella neve. La luce del lampione
alle sue spalle ne disegna la sagoma sottile.
«Ora va meglio?»
«No, va meglio solo se mi molli e te ne vai».
Le accarezzo la schiena per toglierle la neve. «Ancora un attimo.
Non abbiamo finito».
«Okay, è questo il problema?», si alza sulle ginocchia e si siede
sulla mia pancia. «Sei preoccupato perché me ne vado lasciando un
buco nel timone?»
«Non solo lì, Alice».
La accarezzo ancora, non c’è più neve da togliere ma le mani
decidono al posto mio.
Lei mi mette a fuoco. «Alex, secondo me quello sbronzo sei tu»,
scuote la testa, mi offre per un istante la visione del suo profilo poi
annuisce.
«Tre mesi con il vip».
«…Cosa?»
«La rubrica nuova, Alex».
«Quale rubrica nuova?»
«Quella che avevo pensato per la tua rivista».
«Hai fatto scena muta alla riunione…».
Fa una smorfia di sufficienza. «Non mi andava di parlartene».
«E vuoi farlo adesso?».
Annuisce. «Così la smetterai di dire che ti lascio nei casini. È
un’ospitata lunga. Prendete un vip, e per dodici settimane gli fate
firmare articoli scritti dalla redazione. Ma la svolta sarà il product
placement. Trasformate il servizio in uno spazio pubblicitario da
vendere al miglior offerente».
Voi. Seconda persona plurale.
«Alice…»
«Alex, seguimi, per favore», mi richiama. «Prendete una youtuber
tredicenne da due milioni di iscritti, la ospitate sulle pagine della
rivista per dodici uscite, scrivete articoli in cui lei suggerisce ad altre
tredicenni come vestirsi per il primo giorno di scuola, o al primo
appuntamento, coinvolgete un marchio di abbigliamento che
sponsorizzi la collaborazione, in cambio della contestualizzazione
del brand, e vi fate pagare per ogni servizio fotografico che apparirà
su “Lol”. Prendi queste persone diversamente famose, le metti sulla
rivista e intanto vendi ogni singola parte di loro».
Ci penso. «E, se funziona, a settembre potremmo pure portare il
vip del trimestre sulla “Lol tv”, il canale di streaming…»
«Questo mi rassicura di te, Alex: che non ti lascerai mai scappare
la possibilità di diventare più ricco».
Ogni volta che mi regala una fiamma io ho la sensazione di poterla
trasformare in uno spettacolo pirotecnico.
Ma stavolta anziché esaltarmi mi sento sprofondare.
Come farò ad andare avanti senza di lei?
Il senso di abbandono diventa tangibile quando si alza.
Barcolla ancora, ma il freddo e l’adrenalina devono averla
svegliata.
«Non disturbarti a ringraziarmi», dice con l’aria di congedarsi.
«Saluta Carlotta. E magari sposala davvero! Che alla fine nessuno di
noi vuole restare solo…».
Ma io ci resto, solo. Ci resto sulla neve, per un’eternità, disteso
come se fosse ancora su di me, incerto in un modo che non ho mai
sperimentato. Ci resto e so che, per quante persone io possa avere
intorno, questa condizione non me la leverò più di dosso. La
solitudine non è un fatto assoluto. È relativo. La solitudine sono io
senza di lei. So cosa devo fare, so che devo alzarmi e correre da Dei
Pinzi, ma non è la cosa che voglio fare.
E quindi alla fine mi alzo e faccio ciò che davvero non posso
evitare.
Alice
La chiave

Che serata di merda! Ho perfino voglia di piangere, il che non ha


senso. Ma come diavolo mi sono ridotta se dopo tutti questi mesi lui
mi fa stare così? Posso davvero piangere per un bastardo del
genere? Non faccio in tempo a chiudere la porta e riordinare i
pensieri che il telefono squilla.
Escludo sia Fosco, era davvero sbronzo. Spero sia Cassandra,
che mi deve delle scuse per avermi abbandonata, e invece sul
display leggo un altro nome. Rispondo subito.
«Brando?»
«Ciao splendore! Volevo essere il primo ad augurarti…».
Fatico a distinguere le parole.
«Ma dove sei?»
«A una fest…». Un rumore infernale copre la sua voce. «Sono
verso Fiumicino, credo! Aspetta che chiedo…».
Si assenta un attimo, sento il rullante di una batteria.
«No, cancella! Stiamo a Castel Porziano. Guidava Giamaica, chi
l’ha vista la strada? E te che combini, Alice?»
«Sono in camera», mi levo le scarpe.
«Di già?»
«Non è come pensi. Stasera non si batte chiodo».
«Non ci credo!»
«Credici», mi sfilo calze e cintura.
«Non è da te».
Lo dice con sicurezza. E ne capisco il motivo. Ammetto che
quando l’ho conosciuto non perdevo tempo. Se qualcuno mi
piaceva, ci provavo. L’ho fatto pure con lui. Bei tempi. Non facili, ma
belli.
«Non è serata, Brando».
«Perché no?».
Mi butto sul letto e chiudo gli occhi. «Sono una gran cretina».
«Non è vero».
«Sono una cretina. Ne ho le prove».
La musica sullo sfondo cala sensibilmente, Brando deve essersi
defilato. Questo conferma che il mio ex è una persona che se ti
sente giù non scappa. Lui non ti scarica.
«Alice, ho la sensazione che ti servirebbe una brioche al
pistacchio».
«Un intero vassoio».
«Mi dici che succede?»
«Fa lo stesso, Brando. Non voglio ammorbarti con la mia deriva
vittimista. Sei a una festa, sarà pieno di ragazze carine, no?»
«È un locale gay», ride.
«Non ne esci vivo…», scherzo e mi butto sul letto. A ridosso della
testiera ci sono dieci cuscini di cui finalmente capisco l’utilità.
«Io non ci volevo venire, ma Pier e Giamaica hanno fatto una
scommessa e io e Spillo ci siamo adeguati».
Brando, Pier, Giamaica e Spillo. Mi basta chiudere gli occhi e li
rivedo tutti quanti al Pandemonio in fila per farsi servire una birra da
me. Non rimpiango spesso la mia vita di prima ma in momenti come
questo, quando la solitudine e il senso di sconfitta mi si appiccicano
alle ossa, torno a pensarci.
«Insomma, è stata una specie di sfida tra Pier e Giamaica»,
prosegue Brando. «A volte l’unico modo per comprendere quei due
è rinunciare a farlo».
«Forse funziona in generale».
«Forse. Ora mi dici cos’hai?»
«Niente, ho bevuto un po’ e mi ha preso male». Mi passo una
mano sugli occhi.
«Ancora problemi con il capo idiota?»
«Ex capo idiota. Sono stata licenziata».
«Ancora?», domanda. «Ma allora più che idiota è proprio una
testa di cazzo».
Mi premo un cuscino sulla faccia. «Ma sai cosa? Alla fine non è
neanche colpa sua. Lui è un bastardo, e mica posso cambiarlo. La
povera cretina sono io, Brando!»
«Ecco! Per una volta io e te siamo d’accordo».
È la voce di Alex, non quella di Brando.
Lancio il cuscino e lo vedo. Fermo ai piedi del letto, identico a
come l’ho lasciato poco fa, nel suo completo da gran serata, con il
suo dannato cappotto di lusso. E, a meno che non sia come una di
quelle visioni mistiche dove il santo appare alla pastorella, devo
concludere che non solo è qui, ma mi ha appena dato della cretina.
«Ma cosa…?»
«Che succede, Alice?», domanda Brando.
«Niente, spero di essermi addormentata e che questo sia un
incubo. Ti richiamo», chiudo la telefonata e allargo le braccia.
Alex imita il mio gesto.
«Con chi cavolo parlavi?»
«Che cavolo ci fai tu qui?».
Non risponde ma si leva il cappotto.
«Ehi tu, non metterti comodo! Non esiste che resti».
«Buttami fuori», mi sfida poi mi dà le spalle e se ne va al frigobar.
«Come sei entrato?»
«Dalla porta che hai lasciato aperta», dice. È chinato e la luce
interna del frigo lo irradia di un’aura divina.
«Che stai facendo, ora?»
«Cerco qualcosa da bere, ma solo per me».
Decide per una birra. Si alza in piedi e la stappa.
«Oh, sì, accomodati! Fai come se fossi a casa tua».
Non coglie il sarcasmo o più probabilmente se ne frega. Si sfila la
giacca. Resta in camicia. Poi si avvicina al letto e ci monta sopra.
«Ma cosa…?»
«Zitta». Mi intima. Si appoggia con la schiena alla testiera e da
quella posizione si leva le scarpe con un colpo di tallone.
Per quanto sia grottesco e surreale, quel cretino del mio capo è
sdraiato sul mio letto. Accanto a me.
«Ah, perfetto. Entri in camera mia, ti freghi la mia birra, sali sul mio
letto e devo stare zitta».
«Non per sempre», mi concede. «Solo finché non avrò detto come
la penso».
Sbircio il suo profilo perfetto nella penombra delle luci smorzate.
Ha lo sguardo ostinatamente puntato davanti a sé.
«Senti, Alex, mi frega poco di come la pensi. Dovresti essere alla
festa di tuo suocero».
«Non sei divertente», mi punta contro la bottiglia di birra, «non lo
sei per niente».
«Okay, ma perché sei qui? Mi sembra che abbiamo risolto la
questione del buco nel timone, no? Anche se, per inciso, non ti
meritavi il mio aiuto visto che sono mesi che mi tratti da schifo e…»
«Scusa».
«Cosa?»
«Scusa», si attacca al collo della bottiglia.
Scuoto la testa perplessa. «Per cosa, precisamente?»
«Per tutto, credo».
«Definisci “tutto”».
«Primo, mi scuso per non aver preso le tue difese a Capri»,
abbassa appena la testa. Il suo profilo perfetto in questo gesto di
sconfitta acquisisce una bellezza che colpisce dove non vorrei. Più
delle parole mi convince il suo conflitto. Gli costa fatica. Ma lo fa
ugualmente.
«So che Guglielmo è un bastardo e sono stato un idiota»,
riprende. «Dovevo immaginare che covasse rancore, dovevo
immaginare che avrebbe cercato di colpirmi dove ero scoperto».
«E dove saresti scoperto, tu?»
«Dove la mia vita tocca la tua. Tu sei il punto in cui io sono
vulnerabile, Alice».
«Sei… ubriaco?»
«No», mi guarda con un’aria offesa. «Lui l’ha capito appena ti ha
visto che poteva farmi male usando te».
«…Straparli», gli faccio notare. «E, per cortesia, non fingere di
avere un cuore. Mi hai detto, testuali parole, che io non contavo un
cazzo».
«Era una stronzata, tu conti».
«Non so perché tu stia cercando di…»
«Io sono fatto a modo mio», mi interrompe. «Sono diffidente per
natura e come prassi di sopravvivenza. Non puoi nascere con il mio
nome e allo stesso tempo concederti il lusso di fidarti. Questa cosa
non cambia. Io non cambio, Alice. Mi adatto in apparenza ma non
cambio. Però non sono lo stesso di due anni fa. E sai quando me ne
sono accorto?»
«Quando?»
«A Capri. Lì ho capito che non mi eri solo vicina, ma ti eri ricavata
un posto. Non eri fuori, eri dentro. E questa rivelazione dell’ovvio mi
ha scombussolato. Mi ha preso il panico».
«E hai passato i successivi quattro mesi in preda al panico?».
Mi riserva di nuovo un’occhiata seccata. «Certo che no. Ti avrei
chiesto scusa la settimana dopo, ma tu sai piazzare dei muri, Alice,
tu scavi solchi e trincee».
«Quindi il sunto è che ti scusi per quanto accaduto a Capri e ti
scusi per il fatto di non esserti scusato?»
«Qualcosa del genere».
«Okay», abbasso lo sguardo sulle mie gambe nude. «La verità è
che non mi va di avercela con te».
«Ah no?», chiede scettico.
«No», ribadisco. «Non che tu mi sia particolarmente simpatico,
però è un po’ come con i cani, no? Se il tuo cane abbaia, perde il
pelo e morde mica lo abbandoni. Ti sei preso la responsabilità di
quell’animale e te lo tieni».
«Quindi io sarei come un cane che abbaia e morde».
«Senza offesa per i cani, sì», rispondo. «E, comunque, scuse
accettate».
«Non mi basta. Devi firmare il rinnovo».
«Oggi pomeriggio mi hai offerto cinquantamila euro e non mi hai
convinta, devi mettere sul piatto qualcosa in più delle tue scuse».
Lui sospira e si infila una mano in tasca; per un attimo credo
davvero che stia per tirare fuori il portafoglio per mettermi in mano
un assegno, invece mi porge la mano aperta.
Guardo nel suo palmo.
«Chiavi?»
«Sì».
«E cosa ci devo aprire?»
«Il mio appartamento, la mia testa, me. Tutto. Insomma».
Lo guardo, mi guarda.
«Sai che non ho mai avuto un secondo mazzo di chiavi, Alice. Non
ho mai sentito il bisogno di averne uno fino a che non sei arrivata
tu».
E per la prima volta ho la sensazione che tutto vada a posto. Non
ho sprecato questi anni, non ho investito sulla persona sbagliata. Ho
fatto crescere qualcosa di cui ora abbiamo entrambi bisogno.
Appoggio la mia mano sulle chiavi. Lui chiude la mia nella sua.
Mi intrappola tra le dita e nei suoi occhi.
«Diciamoci tutto, Alice. D’ora in avanti. Tutto».
E per un attimo mi manca la voce e mi si capovolge il cuore.
Perché ho trovato nei suoi occhi un posto adatto e ho scoperto che
non ci si sta affatto male. Perché c’è poco da fare. Io mi ci sono
affezionata a questo imbecille. E starei qui a guardarlo e volergli
bene, a volergli bene e guardarlo fino alla fine dei miei giorni.
Prendo le chiavi e cerco di recuperare respiro e battito.
«Okay, comincio col dirti che dovevi andare da Dei Pinzi. Secondo
me non gli sta affatto bene come si è chiuso l’affare Hannover».
Annuisce. «Hai terribilmente ragione», beve una sorsata di birra,
«suggerimenti su come gestirla?»
«Be’, escludendo il matrimonio con sua figlia, non ti resta che
permettergli di mangiare nel tuo stesso piatto».
«Lasciando percentuali alte per i titoli Hannover che vendono nella
loro piattaforma digitale?»
«Anche, ma pensavo più a coinvolgere la sua rete di promozione
libraia. Chiudi un accordo con i suoi rappresentanti. Lui marginerà
sui tuoi titoli e in questo modo viene premiato anche il lavoro delle
persone».
«Soluzione etica».
«Soluzione etica», confermo.
Alex cerca di capire come fare, pensa a una licenza specifica per
le etichette nuove, lo vedo che vuole mettere punti fermi, acciuffare
le idee prima che scappino, in questo non siamo diversi. E così
riprende a riflettere ad alta voce. Sviluppa la mia l’idea che, una volta
prestata a lui, smette di essere mia e diventa nostra. Non so quanto
tempo passa, quando siamo in questo stato di grazia le ore durano
cinque minuti.
Ed è inutile che finga di non volerlo o di non divertirmi, ci sono
certi aspetti del lavoro che mi esaltano. Quello che mi esalta di più è
vedere Alex che rigira nella sua testa le mie idee. Per quanto sia
tossico, io non so fare a meno di questo.
La notte passa in un attimo. Io sono certa che albeggi, e ora la sua
voce è più lenta, le sue parole più rare e a me si chiudono gli occhi.
Ho passato la notte con il mio capo, parlando di lavoro. E la cosa
drammatica è che non l’avrei scambiata con nessun’altra notte,
trascorsa con nessun’altra persona facendo nessun’altra cosa. Ci
separa una spanna, ma lo spazio che ci divide è ancora una volta
una faccenda soggettiva. Alex, in questo momento, è come una
delle mie mani o uno dei miei piedi, è una parte del mio essere
intera.
Mi giro sul fianco.
«Scusa, ma sto crollando. Devi proprio andartene».
Fissava il soffitto ma gira la testa. Nella penombra, una luce
assoluta gli accende lo sguardo, e l’angolo della sua bocca si
impenna in un sorriso bellissimo. Mi prende la mano.
«Mi sa che resto qui».
Sento che mi stringe. Ci siamo toccati con gli sguardi, con le
parole e con i silenzi. Non ci eravamo mai toccati con le mani prima
di stasera.
Non so come mi sento ma so che non voglio smettere di sentirmi
così.
«Non posso dormire con il mio capo».
Stringe la mia mano.
«Sei licenziata».
«Cosa?»
«Fino a domani», dice. «Non sei una mia dipendente. Ora puoi
chiudere gli occhi».
E recupera un panno ai piedi del letto. Lo usa per coprirci. Poi
pianta lo sguardo al soffitto.
«Alex, renditi conto che mi hai licenziato cinque volte».
«Però siamo ancora qui».
«Sei volubile e capriccioso».
«Sono inamovibile e costante», ribatte, sull’orlo del sonno. «E
soprattutto sono qui. Perché non saprei dove andare, senza di te,
Alice», mi dice a voce bassa. «Non saprei proprio dove andare».
Sono le sue ultime parole.
E io chiudo gli occhi con il dubbio di averle soltanto sognate.
La sesta volta
Il patto
Instagirl e Golden Boy
Arriva l’autunno e ci chiediamo: che ne è stato delle coppie che
hanno incendiato l’estate? Tra amori persi e ritrovati, c’è chi riscopre
le gioie del matrimonio. Alberto Bentivoglio (26 anni, nella foto in
basso), bomber della Nazionale azzurra, è tornato dalla sua Sabryna
e presto la coppia sarà allietata dall’arrivo di un bebè. Quando gli
abbiamo chiesto notizie della sua fiamma, Emilia Levoskova (21
anni, nella foto grande), ha risposto con un elegante «No comment».
E che ne è stato di lei? Che fine ha fatto la ragazza più desiderata e
fotografata dell’estate italiana? Un progetto tutto nuovo ha portato la
splendida Emilia a Milano, nell’orbita del gruppo editoriale
Francalanza Visconti. E, chissà, magari anche nell’orbita dell’erede,
Alessandro, grande estimatore della bellezza femminile. E lasciateci
fantasticare per un po’, noi piazziamo la nostra scommessa su di
loro e terremo gli occhi aperti. Forse il noto Golden Boy,
l’imprenditore più amato dalle donne italiane, ha già una nuova
conquista nel mirino!
Karisma Bartoletti, Storie2000
Alex
Tutto normale

Mi accarezza sul viso e mi accarezza la schiena. Mi toglie le


difese ma mi rende resistente. È alle mie spalle e mi bacia sulla
pelle. Mi abbraccia da dietro e, riflesse su un vetro, vedo le sue mani
sul mio costato.
Sapere che sono le sue mi fa sentire forte e debole. Le afferro e
me le imprimo addosso. Sul petto, sull’addome. Sotto l’elastico dei
boxer.
Le sue dita suggeriscono un nuovo scopo: cercare dentro di lei
una nuova forma per i miei desideri. Lo sento proprio, il bisogno di
esserle dentro, come se fosse l’unico modo di incontrare me stesso.
Mi tocca e mi toglie il fiato. Ma anche lei sembra non averne più.
Mi sta crescendo il cuore in petto.
«Perché non siamo ancora nudi, Alice?»
«Perché devi spogliarmi, Alessandro».
«Dillo ancora».
«Perché devi…»
«No, di’ il mio nome…», vado a prendermelo sulle sue labbra.
«Alessandro!»
«Ancora…».
«Alessandro, porca miseria!».
Il tono è una mazzata senza dolcezza che non appartiene a
questo momento perfetto.
Mi alzo di scatto. Sono nella mia camera da letto. I cuscini sono
spariti, le lenzuola anche; nel mio campo visivo ci sono solo io, in
mutande. Ma in uno di quei momenti che capitano al mattino in cui
preferiresti non essere visto in mutande.
«Alessandro! Sappi che ti scuso soltanto se sei morto».
Mi alzo cercando di stare in equilibrio e raggiungo la balaustra del
soppalco.
Nel living, le mani sui fianchi e lo sguardo alto, c’è lei. Non proprio
come nel mio sogno. Eppure non farei cambio.
«Ah, okay, sei vivo», constata.
Una maglietta nera, una gonnellina nera, un paio di calze
psichedeliche che probabilmente raccolgono tutti i colori presenti in
natura: mi basta vederla per ricollocarmi dove devo stare.
«Sei solo, vero?», mi chiede, un attimo dopo.
«Prima ero solo. Ora ci sei tu».
Scuote la testa e si avventura per la scalinata, risale tre gradini
alla volta.
Si ferma davanti a me. Ricordo come sto messo dalla vita in giù e
mi abbasso la maglietta.
«Alex».
«Alice. Ricordami perché nove mesi fa ti ho dato le chiavi del mio
appartamento».
«Perché eri ubriaco?», suggerisce. «E anche per una serie di
motivi opportunistici travestiti da slanci altruistici. Per esempio mi hai
concesso l’onore di farti da sveglia vivente quando ti spari trentuno
ore di volo nell’arco di tre giorni e poi sei confuso dal jet lag».
Mi dà le spalle e si dirige alla cabina armadio. Ci metto un attimo a
seguirla. La ritrovo che rovista tra le grucce dei miei abiti. Mi
appoggio allo stipite e la guardo. C’è qualcosa di ipnotico nel suo
disordine. Di armonioso nel suo caos. Il modo in cui si muove ha una
grazia storta, inafferrabile. Irripetibile.
«Vieni a vivere qui», la provoco, «risparmiamo tempo».
«Pensa che bello», sospira polemica, mentre passa in rassegna i
vestiti, «io e te insieme per il resto della vita». Poi si ferma e prende
un Ferragamo. Lo scruta accigliata.
«E questo da dove sbuca? Non l’ho mai visto».
«L’ho acquistato il mese scorso a Portofino».
Accenna un sorriso malizioso. «Giusto. La tua minivacanza! Un
bel weekend a casa di Dei Pinzi».
«Ero ospite di Leonardo».
«E casualmente c’era anche Carlotta a cui non sarà sembrato
vero portarti in giro per negozi».
«Be’, non sono il genere di uomo a cui dispiace comprarsi
qualcosa da indossare».
Lei mi riserva un sorriso sfacciato. «Siete proprio fatti l’uno per
l’altra. Deve solo decidersi a lasciare il suo inutile fidanzato, poi vi
potrete sposare».
«No», replico. «Ti ho già detto che il mio piano è vivere qui, per
sempre, insieme a te».
«Ah già», nota senza scuotersi. «Ora vatti a fare una doccia, sai
che oggi sarà un casino per il quale sei già in ritardo».
Mi chiudo la fronte in una mano. Cerco di fare mente locale, poi mi
arrendo.
«Che succede oggi di preciso, Alice?»
«Be’, prima di tutto devi dire a Fosco che rifiuti la sua candidatura
per il posto di caporedattore».
«Non proprio», ribatto, «non la rifiuto. Prendo tempo».
«Alex, se Fosco aumenta le sue ore in redazione non finirà più di
programmare il suo videogioco. Non può rinunciare al suo sogno
solo perché la sua ragazza è una stronza carrierista».
«Gli darò due settimane per ripensarci», insisto. «Se tra due
settimane vorrà ancora il posto, dovrò darglielo».
Alice sa che ho ragione. Io cambio argomento.
«Altre cose in programma?»
«Mi prendi per il culo?», domanda e spalanca i suoi occhi enormi.
Intensifico lo sforzo, ma non riesco a orientarmi.
«Forza, aiutami. Settanta ore fa ero a Shanghai. Poi sono volato a
Dubai e quindi sono atterrato a Parigi. Abbi pietà, Alice».
«Quindi vuoi farmi credere che non sei in fibrillazione per l’arrivo
della ragazza che mezza Italia, te compreso, vorrebbe scoparsi?».
Realizzo. «Emilia Levoskova!»
«Emilia Levoskova».
«Giusto, oggi arriva in redazione per la rubrica “Tre mesi con il
vip”», recupero il cellulare, «ieri le ho scritto, ma sarà meglio
ricordarle che oggi vede il fotografo», digito un messaggio e lo invio.
«Ricordale anche di portare il cervello! Ammesso che ne abbia
uno».
«Non essere acida. È una persona molto intelligente».
«Dubito che quando siamo scesi a Roma e tu hai cenato con lei, a
lume di candela, tu cercassi prove della sua intelligenza».
«Ma ci ho visto giusto a sceglierla», dico riponendo il telefono.
«Newgym e Bonbon hanno accettato il product placement, Emilia in
questo momento trasforma in oro ciò che tocca. E poi ti ricordo che
io e te non siamo andati a Roma solo per convincerla ma anche
perché avevamo bisogno di staccare. Ci siamo divertiti, no?»
«Mi hai fatto cenare da sola in albergo».
«Ti ho chiesto di accompagnarmi al ristorante», ribatto. «Mi hai
risposto che a un tavolo con me e una modella ti saresti sentita di
troppo. Ho rispettato la tua scelta».
Lei si porta una mano al cuore. «Quanto sei sensibile! Sono
commossa. Ora vatti a preparare, ma senza metterci troppo
impegno. Non vorrei mai che spezzassi il cuore della povera Emilia il
primo giorno».
«Altruista».
«No, lo dico nel mio interesse. L’hai voluta tu, ma la rogna è mia!
Io sono il suo tutor. Posso gestire una modella cretina ma non posso
gestire una modella cretina traumatizzata da te».
«Emilia non è cretina. Una ragazza bella non deve per forza
essere stupida».
«Ma non tutte le ragazze belle devono essere per forza intelligenti
solo per compensare un pregiudizio».
Mi dà le spalle. Si mette a trafficare tra le grucce delle camicie.
Vorrei replicare ma mi ritrovo con lo sguardo sul suo sedere. Lo
distolgo. Poi lo abbasso ancora. E, niente, è una calamita. Mi dico
che lo guardo per trovargli un difetto, ma so da un pezzo che di
difetti il suo culo non ne ha. Mi arrendo e vado verso il bagno. È un
fatto contro il quale è inutile combattere.
Cerco di non pensarci, mentre mi spoglio in bagno e mentre entro
nella doccia. Però sotto la doccia mi torna in mente il sogno che
stavo facendo. Anche sognare Alice è normale, in fondo. Esco poco
ultimamente e passo più tempo con lei che con chiunque altro. Non
ricordo l’ultima ragazza con cui mi sono divertito. È stato il mese
scorso? O forse a luglio?
Quante settimane sono trascorse dall’ultima volta che ho toccato
una ragazza?
Cerco di ricordare un momento spensierato ma mi torna in mente
solo il weekend che io e Alice abbiamo passato a Roma, e non per
aver cenato con Emilia. Ma per tutti i momenti in cui siamo stati
insieme. E siamo stati benissimo.
Chissà quante altre cose tu e lei potreste fare benissimo
insieme…
Caccio il pensiero. Abbasso la temperatura dell’acqua e provo a
non pensare che Alice è nell’altra stanza e sta toccando le mie
camicie.
Alice
Troppo vicini

Dispongo la camicia sul letto e poi sento il bisogno di sistemare il


colletto. Il gesto si trasforma in una carezza. Una di quelle inutili ma
irrefrenabili. Alex è stato via per quattro giorni. Mi è mancato. Non
vorrei ammetterlo ma mi è mancato.
Sono un po’ arrabbiata con lui e un po’ con me stessa. L’arrivo di
Emilia Levoskova, una modella attualmente al centro dell’attenzione
generale, mi preoccupa sul serio. È chiaro che lei gli piace. Ma
normalmente quelle che gli piacciono non sono sul mio posto di
lavoro. E poi, diciamo la verità, mi stavo abituando al nuovo corso
monastico di Alex. Se si escludono i weekend che lui e la madre
hanno trascorso con i Dei Pinzi, Alex ha condotto un’estate
insolitamente tranquilla. Poi, durante una riunione redazionale, ecco
che tira fuori un giornale scandalistico su cui c’era una enorme foto
di Emilia paparazzata con un noto calciatore sposato e dice: «Voglio
lei».
Proprio così. Come un bambino viziato che vuole le cose. O come
Alessandro Francalanza Visconti, quando individua la sua prossima
scopata.
E così l’ufficio legale ha contattato l’agenzia della Levoskova,
siamo stati a Roma per convincerla e ora lui si veste per incontrarla.
Io ho ancora nelle orecchie la sua voce che dice “voglio lei”.
Tutti i vip mi hanno dato parecchio filo da torcere e temo che la
modella scema non farà eccezione. Ma c’è un margine di
peggioramento. Se lei finisse per frequentare Alex si creerebbero
nuovi motivi di tensione. Se ci metti il sesso, finisce sempre tutto in
malora.
La porta del bagno si apre. Alex ha i capelli leggermente umidi e
un set di intimo diverso da prima.
Prima era in bianco. Adesso in nero.
In nero è francamente eccessivo.
Lo guardo in faccia per dimostrargli che non ho nessun problema
e per nascondere il fatto che in realtà ho un grosso problema ad
affrontare tutto il resto di lui.
Ha un corpo maledettamente perfetto.
Mi dico che è un fatto oggettivo. E che sarebbe sciocco avere un
problema con un fatto oggettivo. Per quanto questo fatto oggettivo,
in mutande e canottiera, mi tolga il fiato.
Lui ha esaminato camicia, completo e cravatta senza parlare. Ma
quando comincia a indossarli capisco che approva la scelta. Non
avevo dubbi. Non che io sia un’esperta di vestiti in generale, ma
sono un’esperta dei suoi. So quali cravatte associa a quali camicie,
quali completi predilige in base alle occasioni. Ho una finestra
temporale di quasi tre anni in cui l’ho guardato. E ho imparato. È
ancora alle prese con la cintura. Per la mia tranquillità urge vedere
sparire braccia, pettorali e addominali sotto una camicia.
«Ti sbrighi per favore?», lo sollecito.
«Ho solo due mani», replica. «Aiutami anziché lamentarti».
Lo accontento cercando di oggettivare pure questo.
Si tratta di una semplice camicia.
Non importa che dentro ci sia lui.
Le sue mani e le mie si danno il cambio. Cerco di stare
concentrata su quello che faccio, ma sento la traiettoria dei suoi
occhi che si sposta sul mio viso. Mi guarda credendo che io non me
ne accorga.
Oggettivare anche questo è difficile.
Non è come essere guardata da uno qualsiasi, perché i suoi occhi
tracciano percorsi imprevisti, scavano senza chiederti il permesso. E
poi finisce che te li senti dentro per ore e per giorni.
Quando arrivo all’ultimo bottone, mi cade l’occhio sulla sua gola e
tutto il mio autocontrollo va a farsi fottere perché realizzo che mi
piacerebbe conoscere il sapore di quel punto. Quel punto preciso.
Batto in ritirata.
«Okay, ora finisci da solo».
«Puoi prendermi la cravatta che…»
«Prendila tu, Alex. Non voglio arrivare in ritardo in ufficio».
«Ci andiamo insieme. Ti do uno strappo».
«No. Vado con i mezzi».
«Ma almeno facciamo colazione insieme…».
Scuoto la testa e sto già scendendo i gradini del soppalco.
«Alice! Per favore, stai qui».
«Non voglio sopportarti anche fuori dall’orario di lavoro».
Non se l’aspettava e lo lascio senza parole. O perlomeno richiudo
la porta alle mie spalle prima che lui le trovi.
Fuori dall’appartamento mi appoggio al muro.
Ripenso al suo collo, alla sua gola e al desiderio di piazzarci sopra
labbra e lingua.
«Ma che cazzo mi passa per la testa?», gemo chiudendo gli occhi.
Ma è una di quelle domande a cui uno preferisce non saper
rispondere.
Alex
Più di uno

Sono al sesto piano nella redazione di «Power Player» e sto


facendo una cosa che mio cugino non si aspetta.
Gli sto negando la promozione che ha chiesto. Non sono
impazzito, ma sto cercando di farlo riflettere sul fatto che se
aumenterà le sue ore per il magazine non avrà più tempo di finire il
videogioco che programma da anni.
«Ti invito a valutare che il posto, che chiedi solo per compiacere la
tua ragazza, ti toglierà tutto il tempo che ora usi per tenere viva la
tua vera professione», mi lascio andare contro lo schienale. «Niente
contro Gaia, ma chiediti se ne vale la pena».
«Oh, ma non ci credo», sbotta lui. «Mi sembra di sentir parlare
Alice!».
Al nome di Alice, tutta la teatrale impostazione del mio discorso
subisce un brusco mutamento. Sono ancora arrabbiato per il modo
in cui mi ha scaricato stamattina.
«Non. La. Nominare», scandisco. «Potresti evocarla».
«Tranquillo, se fosse qui, darebbe ragione a te», mi dice. «E
sarebbe la prima volta».
«Neppure se stessi affermando che la Terra è rotonda, Fosco.
Neanche in quel caso, lei darebbe ragione a me», riassumo. E poi
faccio l’elenco delle piccole battaglie senza senso che si ostina a
combattere, per il gusto di contrariarmi. Fino allo sproposito di
rifiutare il contratto a tempo indeterminato che le ho offerto mentre
stavamo a Roma.
«Non credo le interessi restare».
«E se ne vada, allora». Incrocio le braccia, sulla difensiva. «Anzi
sai cosa? Dovrei fregarmene. O pagare qualcuno per fare sesso con
lei, così magari si rilassa».
«Non credo che il problema sia il sesso», ribatte Fosco. «Da quel
punto di vista la vita di Alice è okay».
Come, cosa?
«Okay in che senso?», domando. «Si vede con qualcuno?»
«Non con uno in particolare ma…».
Non uno? Quindi… più di uno?
«Di quanti stiamo parlando?».
Fosco è spiazzato. Fa per rispondere ma poi scuote la testa.
«Senti, Alex, possiamo tornare al punto di prima?».
Lui lo fa ma io faccio più fatica a seguirlo.
Questa faccenda mi ha scombussolato. Cerco di ribadire il punto,
poi lo lascio nella redazione di «Power Player» e salgo al decimo
piano.
Non riesco a metabolizzare neppure quando mi trovo solo,
neanche quando raggiungo la sala meeting, né quando comincia la
riunione con quelli del bilancio.
Mi rendo conto che non riesco a seguire ciò che mi succede
intorno. Il pensiero si è improvvisamente arenato su una
constatazione terribile quanto ovvia.
Alice, la mia Alice, ha una vita sessuale.
Alice, la mia Alice, vede un numero imprecisato di partner
occasionali.
E cosa credevo? Solo perché Fosco è impegnato e Alice non
flirtava sul lavoro non significava che non lo facesse in assoluto. Ora
sospetto che abbia sempre adottato la mia stessa regola: non
mischiare sesso e lavoro.
Questo pensiero rischia di farmi uscire di testa. Perdo di continuo
il senso del discorso, poi di colpo bussano.
Strano.
È in corso una riunione di bilancio, chiunque conosca le prassi e le
priorità dell’azienda non disturberebbe mai in un simile frangente.
Quando sulla porta compare Marilù, ovvero una dipendente che
conosce le regole e sa rispettarle, capisco che è accaduto qualcosa
di serio.
Chiede di parlarmi “per una questione urgente” e una volta in
corridoio, in un caotico resoconto, mi riferisce un fatto senza senso.
«Pietro Foscarini è impazzito! Ha aggredito la povera Emilia
Levoskova!»
«Aggredita?»
«Sì, le ha… tolto i vestiti».
Ci sono almeno tre spropositi in questa frase. Mio cugino è
lontano dalla follia quanto Alice lo è dal buon gusto. Mio cugino non
aggredirebbe mai una ragazza, mio cugino non toglierebbe i vestiti a
una che non è Gaia e in ogni caso mai senza il suo consenso.
Non mi resta che sentire le parti coinvolte e cercare di capire
come si possa essere originata una leggenda così strampalata. Li
faccio chiamare nel mio ufficio.
Emilia è la prima a entrare ed è furiosa. Ma devo riconoscere che
questo passa in secondo piano.
Nelle foto sembra bellissima ma dal vivo ridefinisce il concetto e
fissa dei nuovi standard di perfezione universale. Mora, con un paio
di occhi nocciola dal taglio intrigante, è dotata di un corpo perfetto,
un seno trionfale, una bocca che, se anche fosse l’unica cosa bella
del suo viso stupendo, giustificherebbe comunque l’amore a prima
vista.
Ha una voce dolcissima, marcata da una forte cadenza romana,
che finisce per darle qualcosa di spontaneo e ancora più sexy. Come
se non bastasse il resto.
Fosco, al contrario, è contratto e paralizzato dalla tensione.
Sembrerebbe lui quello traumatizzato.
Il resoconto che ne segue, a cui entrambi prendono parte, per
quanto in totale disaccordo, mi chiarisce ciò che è accaduto.
Emilia, che stamattina era attesa al nono piano, redazione di
«Lollipop», si è confusa ed è salita al sesto, redazione di «Power
Player», dove per una strana coincidenza Fosco stava aspettando
l’idraulico.
Vedendo Fosco, Emilia ha immaginato che fosse il fotografo con
cui aveva appuntamento.
Vedendo Emilia, Fosco ha creduto che fosse… l’idraulico.
La cosa ha preso una deriva assurda quando lui le ha chiesto se
volesse cambiarsi e lei ha colto al volo l’occasione spogliandosi di
fronte a lui.
Emilia, che probabilmente è abituata a guardarsi le spalle, ora
accusa Fosco di aver omesso di proposito la verità per approfittare
della situazione. Fosco, a cui una cosa del genere non sarebbe mai
passata per la mente, ribadisce la sua innocenza ma quello che
vedo io è che sta sprofondando nell’imbarazzo. Alla fine chiede di
potersene andare e io lo accontento. Credo che sia arrivato al limite.
Lo conosco da una vita e, per quanto cominci a pensare che c’è
qualcosa di divertente in tutto questo, mi è sembrato davvero
travolto dalla situazione.
E non fatico a capirne il motivo. A parte la rabbia e le accuse di
Emilia, che devono per forza averlo destabilizzato, resta il fatto che
questa ragazza bellissima si è appena mostrata in reggiseno davanti
a lui. E credo fosse una epifania per la quale non era preparato.
Quando resto solo con lei, cerco di sistemare le cose. Uso tutto il
mio savoir-faire e cerco di darle un quadro del carattere di mio
cugino.
«Credo che Fosco sia l’unica persona al mondo che poteva
davvero pensare che tu fossi un idraulico».
Lei si addolcisce, sorride, e mi offre una versione di lei che
probabilmente mette in scena in occasioni come questa.
«D’accordo, Alessandro, mi basta la tua parola», dice, «e mi
impegnerò a non fare altri casini». Il suo sorriso vira verso
un’intenzione maliziosa. «Comunque non pensare che mi spogli
davanti a chiunque».
Rispondo come faccio in occasioni come questa: le reggo il gioco.
«Anche io ti credo sulla parola, sebbene, a essere sinceri, sono
molto tollerante sulla questione. Sappi che riconosco sempre alle
ragazze il diritto di spogliarsi».
La battuta adesso è sua, ma non fa in tempo. La porta si apre ed
entra Alice.
«Dov’è Fosco?».
Ecco, che mi aspettavo? Fosco è in pericolo e Alice corre. Mi dà
fastidio che sia qui, ma ancora di più che sia preoccupata per lui.
«Se n’è già andato», rispondo.
«E come stava?»
«Bene, Alice. Tutto è stato chiarito e lui è tornato a casa sua. Da
Gaia».
Alice di sicuro coglie il modo in cui ho caricato la voce sull’ultima
parola, ma non replica e si rivolge a Emilia.
«So che non mi conosci», le dice, «ma io conosco Fosco e ci
metto la mano sul fuoco! È solo distratto e un po’ ingenuo. Forse
l’unico al mondo che poteva scambiarti per l’idraulico».
Ha usato le stesse parole che ho usato io. Ma le coincidenze non
hanno sempre lo stesso effetto. Ci sono momenti in cui ti senti
fortunato e altri condannato. Cerco di non pensarci.
Visto che siamo qui, colgo l’occasione per fare le presentazioni.
Dico a Emilia che Alice lavorerà con lei e per lei e sarà a sua
disposizione.
Questo insistere sul concetto è una frecciata per Alice che accusa
il colpo. Sembra sul punto di dire una parolaccia, invece invita Emilia
a recuperare il tempo perso davanti a un aperitivo.
«L’aperitivo è già prenotato per me», dico. «Ma puoi sempre unirti
a noi, Alice».
«Un aperitivo con te?»
«E con Emilia», preciso.
«Un sogno che si realizza, insomma», dice Alice.
Ma annuisce e ci precede fuori dalla porta.
Alice
Partita doppia

L’ultima cosa di cui avevo bisogno era finire la giornata in un


locale da aperitivo. Dipendenti eleganti si stordiscono alla fine
dell’orario lavorativo, perché dimenticare la loro vita forse è l’unico
modo per andare avanti senza suicidarsi.
Ma il popolo dell’aperitivo non è neanche l’aspetto peggiore di
questa serata da Prospero.
Alex che fa l’idiota vince a mani basse.
Si sta concretizzando il mio incubo delle scorse settimane.
Quel cretino del mio capo che fa il cascamorto con la super
modella. Il suo corteggiamento è fatto di complimenti ovvi su
qualunque aspetto del suo corpo da urlo e del suo viso da fata, e
corredato di gesti stucchevoli come scostarle la sedia e versarle da
bere. Ha ordinato una bottiglia intera di Franciacorta, e non mi
stupirei se la finissero, mentre continuano a spogliarsi con gli occhi.
Io mi dissocio, reggo il lume e vado ad acqua.
Cerco un paio di volte di portare l’attenzione sul lavoro ma è una
fatica sprecata. Alex ha altre priorità ed Emilia è distratta dal fascino
del mio capo.
Saltando da un argomento superficiale, come le settimane della
moda, a uno inutile, come il provino che Emilia ha fatto per un
blockbuster ispirato a una brutta saga fantasy sui vampiri, finiscono
per parlare di musica. Scopro così che Emilia va matta per gli Only
Us.
Come ho imparato dopo tre anni a «Lollipop», si tratta di una boy
band britannica che fa musica commerciale ma prospera per la
venerazione accordata da orde di fan.
A parte che Emilia ha pessimi gusti musicali, il modo in cui parla
della band e di come sarebbe contenta di incontrare Hywell, Ronan,
Cian e Malachi rivela un aspetto quasi infantile della sua personalità.
Realizzo che dopotutto ha solo ventuno anni. Che è nello show
business da quando ne aveva sei e che forse ha dovuto sacrificare
la propria infanzia.
Ma questo momentaneo afflato di simpatia ha vita breve.
Finisce nel momento in cui Alessandro le sorride.
«Se lo desideri, Emi, possiamo andare insieme al party, quando ci
sarà la tappa al Forum di Assago».
«Dici sul serio?», domanda lei e quasi si illumina tanto è stupefatta
e felice. «Davvero? Se lo fai ti giuro amore eterno».
Non capisco perché, ma sento il desiderio di tirarle addosso il mio
bicchiere d’acqua.
Poi penso alla fatica che ho fatto versandomelo da sola e lascio
perdere.
Dopo la dichiarazione di amore eterno capisco che per me è
giunto il momento di andare.
«Bene, si è fatto tardi! Ci si vede domani», afferro la tracolla e
Alex si alza.
«In che senso tardi? Che devi fare?».
La domanda è un tantino invadente e mi spiazza. Ma pure Emilia
si alza in piedi.
«Anche per me si è fatto un po’ tardi. Grazie per tutto e ci vediamo
domani».
Lui risponde al saluto, sorride, ma non prova a fermarla. Lei se ne
va e così restiamo soli.
Cioè, soli come si può esserlo in un locale di Milano preso
d’assalto dagli impiegati che fanno l’aperitivo.
«Allora? Che devi fare? Hai un impegno», muove una mano
nell’aria, «o un appuntamento…?»
«No», dico con un certa lentezza. «Ho solo voglia di cenare con
qualche schifezza da asporto, buttarmi sul divano e non pensare al
lavoro».
«Okay», prende la giacca, mi fa cenno di precederlo. «Però
facciamo a casa mia! Non sono pronto a vedere casa tua».
«Come, scusa? Non mi sembra di averti invitato…»
«Infatti. Ti ho invitato io. Forza», mi prende per le spalle e mi
spinge con fermezza. Mi ritrovo a camminare davanti a lui.
«Posso dire la mia?»
«Ancora? Ti ho lasciato decidere il programma», mi fa notare.
«Ma non la compagnia», preciso uscendo dal locale. «Tu hai
senso solo nell’orario di lavoro».
«Smettila di essere sgradevole», mi rimprovera, rotea le spalle per
sistemarsi la giacca e poi fa cenno al suo autista, che lo aspettava
dall’altra parte della strada.
Potrei protestare, potrei dirgli che non può decidere senza
domandarlo, potrei fare un sacco di cose legittime e sensate ma
scelgo di fare l’unica che desidero.
Lo seguo.
Alex
Il patto

«Basta, ci rinuncio», dichiara Alice e allontana il cartoccio della


rosticceria vegetariana. Io, seduto dall’altra parte di un tavolo
disseminato di carte e contenitori mezzi vuoti, mi sporgo e controllo
cosa è rimasto.
«Be’, direi che i fiori di zucca ti sono piaciuti».
«Domani non entrerò nei vestiti», si lamenta. È seduta, ma tiene
un piede sulla seggiola e la gamba piegata davanti a sé. Spesso si
dimentica che sta indossando una gonna. Se mi abbassassi sotto il
tavolo, vedrei le sue mutande.
Il pensiero si associa a un inspiegabile picco di calore. Mi allento
ancora la cravatta. Cerco refrigerio nella birra e nella presenza di
Alice, un elemento schizofrenico sullo sfondo di una cucina lucida e
intonsa.
«Avremmo dovuto chiamare Fosco», riprende. «Ci avrebbe aiutato
a finire queste venti portate», indica la distesa di contenitori mezzi
vuoti, «invece gli sarà toccato affrontare Gaia. La strega non
prenderà bene la mancata promozione».
«Be’, mettila così: la giornata per Fosco non è stata tutta da
buttare», mi lascio andare contro lo schienale. «Non capita tutti i
giorni che una ragazza come Emilia Levoskova si spogli davanti a
te».
«Fosco non è come te», precisa. «A lui non frega nulla di queste
cose».
«È un uomo, io dico che gli importa», le faccio presente, «aveva
perso l’uso della parola».
«Alle parole ci hai pensato tu, da Prospero», mi fa notare. «Tu e la
modella avete parecchio feeling». Sembra che questa frase le sia
scappata, e infatti si attacca al collo della sua bottiglia, quasi a
prendere tempo.
«Mi sta simpatica», ammetto.
Appoggia la bottiglia e tiene lo sguardo puntato alla sua destra.
Poi alla sua sinistra. Evita di guardare davanti, perché davanti ci
sono io.
Mi chiedo cosa le passi per la testa.
E mi rispondo che, qualunque cosa sia, sono felice che le passi
per la testa mentre è qui, in casa mia, nella mia cucina, e quindi a
distanza di sicurezza da quel numero imprecisato di scopamici di cui
parlava Fosco…
«Comunque questa rosticceria vegetariana sarà la nostra rovina»,
riprende.
«Be’, hai margine, Alice», le dico. «Puoi tranquillamente
ingrassare, in qualunque punto del tuo corpo, senza che questo sia
un problema».
Lei sgrana gli occhi, poi afferra un tovagliolo e me lo tira.
«Ehi! Che ho detto?».
Mi scaglia addosso le bacchette della rosticceria.
«Smettila e dimmi cosa ho sbagliato!»
«Lo sai! Mi stai sfottendo perché non sono e non sarò mai
prosperosa e sexy come la tua Emilia. Questo è body shaming».
«Alice, ma neanche ci pensavo a fare un paragone».
La difesa fallisce l’obiettivo, mi tira addosso il cartone dei fiori di
zucca.
«Certo! Lei è bellissima».
«Mi metti in bocca parole che non ho detto», chiarisco, «e poi
mica ti voglio cambiare. Tu vai benissimo così».
«Risparmiami il “premio per aver partecipato”».
«Ehi, Terra chiama Alice! Riesci a sentirmi, Alice? Capisci quello
che dico, oppure questo canale di comunicazione tra noi è soggetto
a interferenze cosmiche?»
«Io ti capisco anche troppo, Alex».
No. Non capisce per niente. Non capisce mai. Ma stavolta sento il
bisogno di essere chiaro. Mi alzo, giro intorno al tavolo e mi piazzo
davanti a lei.
«Forza, Alice, in piedi!»
«Ma cosa…?»
«In piedi», scandisco. Lei scuote la testa ma ubbidisce. Si è levata
le scarpe, i nostri trenta centimetri di differenza le impongono di
piegare la testa indietro per guardami in viso.
Le appoggio le mani sulle spalle.
«Come pensavo: sono a distanza giusta».
Abbassa lo sguardo.
«Ma come fai a dire che è giusta?»
«Perché dalla punta delle spalle alla gola ci sta esattamente una
mano», la tocco mostrandole quello che intendo. I miei palmi sulle
sue clavicole, le mie dita sulla sua gola.
Cerca di non ridere. «Che idiozia».
«Hai spalle perfette a una distanza perfetta, rassegnati».
«Okay, ma…».
Tace perché le afferro i polsi.
«Questi potrebbero sembrare sottili, ma vedi? Possono essere
tutti chiusi nei miei pugni».
Le mostro che riesco a mettere le dita a contatto con i palmi. I suoi
polsi stanno perfettamente dentro le mie mani.
«Oh, hai dato una svolta alla mia giornata, sai? Lo scriverò nel mio
curriculum quando cercherò un vero lavoro».
«Lavorerai sempre per me. Arrenditi», taglio corto. Poi le appoggio
le mani sui fianchi.
Stavolta trattiene il fiato.
«Ora non vantarti di chiudermi la vita nelle mani», mi dice.
«Perché questo lo sanno fare tutti».
«Tutti chi?»
«Parlavo in generale».
«Quanto in generale?»
«Ma non lo so…», sembra imbarazzarsi.
«Chi lo deve sapere?», la stringo. Si irrigidisce. Fa un passo
indietro e si sottrae. Non tenerla più tra le mani mi provoca un vuoto
spaventoso.
«E dài, Alex, che ti importa?»
«Sai, Fosco ha accennato al fatto che hai una vita piuttosto
movimentata».
Sgrana gli occhi. «Ma è pazzo? Perché ti dice i fatti miei?»
«Sono contento che se lo sia lasciato scappare, perché ha
sollevato un problema di rendimento», cerco di impostare un tono
neutro. Ma mi batte il cuore.
Cazzo, se mi batte.
Se prima ha fatto un passo indietro, ora lo fa verso di me. È
incredula.
«Ti stai lamentando del mio rendimento?»
«No, ma non voglio farlo in futuro. Prendila come una misura
cautelativa. Visto che il momento è critico, tra ospiti vip in redazione
e i miei impegni legati all’impostazione della redazione
internazionale, sarei più tranquillo se sapessi che sei disposta ad
accantonare le storie occasionali».
«Sei serio?»
«Non sai quanto…»
«Non hai diritto di parola, ti sei fatto recapitare in redazione la tua
probabile prossima scopata. Il mio unico problema di rendimento
sarà una conseguenza di come tratterai Emilia. Se la corteggi e la
strapazzi, sarà distratta nella migliore delle ipotesi e incazzata nella
peggiore».
«Okay, se questa è la tua condizione per adempiere alla mia
richiesta ci sto».
«Ci stai? Scusa non…»
«Mi impegno solennemente a non provarci con Emilia o con altre,
così non ti complicherò il lavoro, tu ti impegni a fare altrettanto per
non complicare il mio».
«Stai dicendo che non scoperemo?»
«Esatto».
«Con nessuno, mai più?»
«Ma no, diciamo che il nostro esperimento potrebbe durare finché
riterremo di essere soddisfatti».
«Soddisfatti di… non scopare?»
«Sì».
Le labbra si piegano in un mezzo sorriso.
«Tu sei pazzo».
«Previdente».
«Non resisterai».
Le restituisco il sorriso.
«Tu non hai idea di quanto io possa essere resistente».
Il sorriso di Alice devia per un attimo verso una sfumatura
inaspettata, è come se fosse intrigata. Mi aspetto una replica
all’altezza, invece si gira e recupera la sua borsa.
«Che fai?»
«Vado, si è fatto tardi».
«Ma no, dài, resta! Stavamo…»
«Se resto, ho paura che tu mi estorca qualche promessa ancora
più surreale. Direi che per stasera abbiamo dato».
Non che mi piaccia vederla andare via, ma sono abituato a portare
a casa il risultato, e stasera l’ho fatto.
Mi sono appena levato un enorme problema.
Quindi la aiuto a raccogliere le sue cose, astenendomi dal
consigliarle di sostituire la tracolla logora con qualcosa di meno
derelitto, le recupero le scarpe, finite inspiegabilmente in due punti
diversi del soggiorno e poi le apro la porta di casa.
«Ci si vede al lavoro, Alice».
«Come sempre».
«Ricorda che abbiamo un accordo».
Non dice niente. Ride e scuote la testa. Per un attimo mi coglie il
sospetto che condividiamo lo stesso sollievo.
Ma in entrambi i casi mi è molto difficile capire perché l’idea di
aver posto un freno alla libertà della nostra vita sentimentale sia
un’idea che piace a tutti e due.
Alice
Guardami quando ti parlo

Oggi è il 16 settembre e sono preoccupata. Inutile girarci intorno.


Io so di avere un sesto senso e tendo a fidarmi di certi brividi. Ora ho
la sensazione che sia successo qualcosa al mio amico Fosco.
Non è venuto al lavoro.
Gli ho scritto e mi ha risposto che non devo preoccuparmi. Ma lo
ha fatto in un modo che mi ha preoccupata.
Questo rende particolarmente difficile concentrarsi e cercare di
spiegare a Emilia in che modo io e lei ci possiamo dividere il lavoro.
Emilia per alcuni aspetti è peggio del previsto: non legge mai
nessuna delle relazioni che le preparo, firma qualunque cosa le dica
di firmare e sembra che nel suo delegare si nasconda un autentico
disinteresse.
Però riconosco che sotto altri aspetti si è dimostrata meglio di
quello che credevo. Per esempio è gentile.
Io sono estremamente sensibile alla gentilezza perché mi sembra
che ci voglia del coraggio a esserlo. Hanno tutti paura di sembrare
servili o di sottoscrivere una posizione subalterna in una ipotetica
gerarchia. Emilia invece no, è semplicemente attenta, il che mi fa
supporre che sia anche buona. E le persone buone sono il mio punto
debole.
Anche in questo caso è di moda screditarle, ci si è pure inventati
una parola, “buonismo”, per colpevolizzare di bontà. Ma secondo me
qualifica più chi la usa, che coloro a cui è indirizzata.
Emilia si informa se sto bene, se ho bisogno di qualcosa, non fa
che ripetermi che mi ammira e che è felice di essere “gestita” da me.
Ma non ha questo atteggiamento con tutti. Marilù, per esempio,
non le piace. La tratta con grande distacco.
Ne ho la conferma pure adesso. Marilù si ferma alla mia scrivania
e mi ordina con i suoi modi dispotici di tenermi pronta per la riunione.
E, dopo avermi fatto il riassunto di tutte le cose che non posso
scordare, indossa un sorriso da squalo e accarezza la spalla di
Emilia.
«Ma che vestito delizioso, mi pare di averne visto uno identico nel
campionario di Cavalli».
«No, ti giuro che questo è mio», replica Emilia.
Cerco di non ridere. Ma Marilù ovviamente lo fa per tutte e due.
«Oh, ma come sei spiritosa, cara! Mi piacerebbe tanto portarti in giro
per Milano, prima o poi, cosa ne dici, si può fare?»
«Forse», taglia corto e si mette a raccogliere i fogli e le dispense
sulla mia scrivania, come se fosse super indaffarata. Io so benissimo
che quei fogli non le interessano e non li legge, ma ottiene l’effetto
che sperava.
«Bene ragazze, vi lascio lavorare», dice Marilù, poi cinguetta un
“ciao” e se ne va.
Io torno a controllare il telefono, scorrendo la chat con Fosco, e
quando constato che lui ha replicato con un semplice “pollice su” al
mio ultimo messaggio di tre righe, allora mi esce un gemito
esasperato. La cosa non sfugge a Emilia.
«Che succede, Alice? Problemi?»
«Fosco», dico senza pensarci troppo. «Ho la sensazione che…»,
scuoto la testa. «Forse sono io che mi faccio i film».
«Ho notato che non è venuto al lavoro stamattina. Mi hanno detto
che è malato».
Mi sorprende che una come lei noti l’assenza di uno come Fosco
ma è stupefacente che arrivi perfino a informarsi sul motivo che l’ha
tenuto a casa.
Sorrido. «Forse la disavventura in ascensore lo ha traumatizzato»,
dico. Mi riferisco a un episodio toccato ieri a Fosco ed Emilia, rimasti
intrappolati a causa di un guasto temporaneo.
«Lo escudo. Era in gran forma». Ci pensa e aggiunge:
«Veramente in gran forma».
Ha aggiunto un pizzico d’enfasi. Forse le è solo sfuggito. Ma
ricordo com’era vestito Fosco e capisco al volo la ragione per cui lo
trovava in forma.
«La maglietta gialla di Final Fantasy ha colpito ancora»,
scandisco. Lei sgrana gli occhi, perché evidentemente non si
aspettava di essere stanata. «Tranquilla, lui non lo sa, ma quella
maglietta è patrimonio dell’umanità. Quando la indossa, in redazione
viene diramato l’allarme giallo».
Emilia si morde il labbro, poi finisce per annuire. «È il cugino di
Alessandro, vero?»
«Una specie di cugino», riassumo.
Annuisce ancora, poi inspira come a prendere coraggio e
pronuncia le parole che sono giorni che temo di sentire.
«Posso farti una domanda personale su di lui?».
Ecco, ci siamo. La modella ora vuole sapere vita, morte e miracoli
sessuali del golden boy Alessandro Francalanza Visconti. Passano
gli anni, ma questo resta sempre uguale. Alzo gli occhi al cielo.
«Oh, santo cielo, non dirmi che siamo già a questo punto!»
«Quale punto?»
«Bazzichi il jet set, sei bella e ti riconosco una certa scaltrezza.
Quindi il più grande favore che puoi fare a te stessa è lasciarlo
perdere…»
«Be’… sì… certo… non…», farfuglia. Poi riordina i pensieri: «Non
fraintendermi! Era solo curiosità. Non che io avessi chissà quali mire
su Fosco da…»
«Fosco?»
«Sì».
«Non parlavamo di Alex?»
«No».
Mi guarda, la guardo.
Scuote la testa.
Un allarme riempie il silenzio e io trasalisco. L’ho impostato per
non arrivare tardi alla riunione. Raccolgo in fretta le mie cose e taglio
la corda. In realtà sono spiazzata.
Davo per scontato che Emilia volesse informazioni su Alessandro.
Invece lei voleva farmi una domanda su Fosco. Non me ne capacito.
La prima cosa che vedo entrando in sala riunioni è che Alex si è
unito a noi. Non cerca il mio sguardo e non mi saluta. Non cerco il
suo e non lo saluto.
È una cosa assurda, ho le chiavi di casa sua, ceno con lui,
passiamo insieme più tempo di quello che sarebbe lecito e
consigliato. Ma sul lavoro siamo sempre più freddi e, quasi sempre,
in rotta di collisione.
La riunione inizia e anche oggi sperimento l’effetto Francalanza
Visconti sulle mie colleghe. Quando c’è lui, le ragazze si comportano
diversamente. La sala è pervasa da una sorta di nervosismo
elettrico.
È una tensione di tipo sessuale.
Lui la alimenta con consapevolezza perché c’è sempre qualcosa
di costruito nel modo in cui declina il sorriso, si concede, scherza o
non lo fa.
Eppure, nonostante conosca il trucco, anche io resto a guardarlo.
Un po’ come si fa con quei prestigiatori che ti stupiscono
mascherando benissimo l’inganno, e che tu alla fine apprezzi proprio
per averti raggirato.
«…E quindi la Newgym ha chiesto un rapporto specifico. Ne
hanno diritto ma, poiché io sono oberata, dovrà pensarci qualcuna di
voi», sta dicendo Marilù. «La scelta ricade su di te, Alice, in qualità di
tutor di Emilia. Alice, mi senti?»
«Cosa?», mi riscuoto.
«Alice, è la seconda volta che sei distratta. Puoi sforzarti di
prestare attenzione? Siamo in riunione».
«Scusa».
«E il discorso vale per tutta la run», riprende Marilù. «Per quello
che riguarda i tutorial video…».
Perdo di nuovo il filo quando sento il telefono vibrare nella tasca.
Spero che sia Fosco, mi toglierebbe un peso, quindi cerco di
guardare senza dare nell’occhio. Invece è un messaggio di
Alessandro.
“Sei distratta. Ricorda che tengo d’occhio il tuo rendimento”
La cosa mi strappa una sorriso nervoso. Tento di nascondere il
cellulare sotto il tavolo e digito.
“Pensa a dare il buon esempio. Oppure la tizia con cui sei uscito
ieri sera ti ha messo fuori uso? ”
Il tempo di contare fino a dieci e di nuovo il telefono vibra.
“Nessuna uscita. Nessuna tizia. Rispetto la promessa. Non so se
posso dire lo stesso di te”
“Vuoi sapere se sono uscita con qualcuno?”
“Sei uscita con qualcuno?”
«…Rispondi, Alice!».
Per poco non mi cade il telefono di mano.
Annuisco benché non sappia a cosa, e poi mi rassegno e chiedo
che mi rifaccia la domanda. Per fortuna il capo mi viene in aiuto,
prendendo la parola e spostando l’attenzione.
Enuncia le conclusioni del discorso, se ne esce con qualche
generica frase d’incoraggiamento e poi dichiara chiusa la riunione.
Le mie colleghe escono dalla sala, io mi accodo, con lo sguardo al
telefono, perché il pensiero si è di nuovo spostato su Fosco e sulla
sensazione che qualcosa non quadri.
Alex mi affianca.
«Non mi hai risposto», mi dice, un tono basso, carezzevole.
Mi mette i brividi e cerco di non guardarlo.
«Scusa un secondo. Finisco di mandare un messaggio…»
«A chi?»
«A Fosco…»
«Perché?»
«Perché voglio sapere come sta».
«Ha un po’ di febbre, non è in fin di vita».
Rallento, lascio che le ragazze ci distanzino.
Quando sono lontane mi sento libera di parlare. «Non fare lo
stronzo insensibile, Alex. Stiamo parlando di Fosco».
Il suo sorriso si piega in una smorfia cinica. «Dovresti sentire il
tono che usi».
«Che tono uso?»
«Dici “Fosco” come una devota direbbe “San Gennaro”».
«È mio amico e sono preoccupata per lui».
«Amico. Certo», piazza le mani sui fianchi. «Non sei credibile».
«Oh, se devi essere così girato male forse è meglio che riprendi a
scopare».
«Non sono girato male. Noto un fatto. Io sono qui», si indica, «ti
parlo e tu neanche mi guardi per cercare di comunicare con lui».
Okay, capisco che nel suo mondo Alex-centrico essere ignorato
una frazione di secondo sia inconcepibile, ma mi sembra che la stia
prendendo troppo sul personale.
Però non riesco a decidere cosa dirgli. E lui non sa cosa dire a
me.
Si limita a un criptico «Non so neanche perché me la prendo», poi
scuote la testa e se ne va.
Io vorrei dirgli che siamo in due.
Non so proprio perché me la prendo.
Alex
Devo farmi curare

Preparo un’espressione seria. Risoluta. Deve capire che non farò


concessioni, non ci sarà alcun margine di trattativa.
Faccio quello che avrei dovuto fare anni fa.
Le dico le cose come stanno.
«Dobbiamo fare un discorsetto, Alice. Lo dico per il tuo bene, sai?
Sono tre anni», indico il numero con le dita, «che corri dietro a
qualcuno che non ti vuole. Rassegnati e accettalo. Fosco non ti ama.
Mi dispiace essere brutale ma è un fatto. Ora lui è a casa malato, e
so che magari vorresti stare con lui, ma non sei la sua ragazza. E so
che è ingiusto. Credimi, io neppure capisco perché lui preferisca
Gaia. Cioè, considerato che tu sei molto più… be’, più intelligente,
per cominciare. Ma anche più bella. Non bella in senso relativo. Non
bella paragonata ad altre ragazze o ai canoni di bellezza. Bella in
modo assoluto. È come se ci fossero le donne e poi ci fossi tu. E
okay che ti vesti malissimo, ma ogni tanto tra quelle cose orrende
escono degli indumenti che danno una svolta alla mia giornata. Tipo
i jeans che avevi oggi, quelli con gli strappi sotto il sedere. Quelli mi
ammazzano il cuore, Alice, e io non capisco come faccia Fosco…».
La porta del bagno si apre. Un redattore di «Power Player» entra e
cerca di mantenere un sorriso.
Probabilmente mi ha sentito parlare e ha capito che lo sto facendo
da solo.
Si chiude in fretta in una delle ritirate. Forse per pietà verso di me.
«Ma come mi sono ridotto?», sussurro al mio riflesso nello
specchio.
Mi passo una mano davanti alla faccia. Ed esco dal bagno.
Sono al nono piano e vengo subito intercettato da Marilù. Ha
un’aria corrucciata. Guai in vista.
Mi informa che negli spazi allestiti per girare i tutorial video di
Emilia su fitness, moda e trucco, destinati al nuovo canale di
streaming di «Lollipop», le riprese stanno andando malissimo.
Teodoro Basile, il direttore artistico, è un tipo arrogante e sta
mettendo Emilia sulla difensiva.
Decido di andare a controllare di persona e mi bastano pochi
minuti nella sala per capire che la sta mettendo in difficoltà. La
riprende su delle sciocchezze, la critica in modo sgarbato ogni volta
che apre bocca. Per evitare che la situazione degeneri do l’ordine di
chiudere in anticipo e, per evitare che Emilia, traumatizzata dal
nostro videomaker, scappi da Milano senza tornare mai più, decido
di invitarla di sotto da Prospero per un aperitivo.
Lei accetta e ne sembra felice. Non so se per la mia presenza o,
più probabilmente, perché vuole un attimo di leggerezza dopo una
giornata dura. Mentre percorriamo i corridoi del palazzo conversiamo
del più e del meno. Credo sia abituata a parlare con quelli come me,
e io sono allenato a imbastire una conversazione con chiunque.
Da Prospero ho sempre un tavolo riservato, defilato dalla mischia,
su una pedana più alta, con una balaustra di legno a garantire una
certa privacy. Ordiniamo subito e proseguiamo la conversazione
come se seguissimo un copione, però in lei continuo a scorgere una
scintilla di autenticità. Qualcosa di onesto, che me la rende
simpatica. Realizzo con una punta di sgomento che, nonostante io
stia bene con lei e nonostante sia bellissima, non sto pensando di
portarmela a letto. Tutto questo è maledettamente sbagliato.
Ho qualcosa che non va. Non c’è altra spiegazione.
Ne ho la misura quando lei si allontana per andare verso i bagni.
Credo di essere l’unico maschio etero del locale che non se la sta
immaginando nuda.
Probabilmente vorrebbero essere al posto mio. Quindi, a parte la
promessa fatta a quella lunatica della mia dipendente, che diavolo di
problema ho?
«Alex, abbiamo un problema».
Alzo lo sguardo ma per un attimo non credo ai miei occhi. È
comparsa proprio Alice.
«Alice, ma cosa…».
Scosta la seggiola, si siede. «Quando hai sentito Fosco per
l’ultima volta?».
Incrocio le braccia al petto. «Ciao, Alice, grazie per avermi chiesto
come sto».
Mi scruta perplessa. «Non te lo chiedo perché so la risposta. Tu
stai sempre bene». Ripone la tracolla. «Dobbiamo parlare di Fosco!»
«Devi metterti il cuore in pace».
«No, finché non sarò sicura che sta bene».
«Sei paranoica. Lo sai, vero?»
«Ciao, Alice», Emilia ci ha appena raggiunto.
«Emilia, non è che hai sentito o visto Fosco in questi ultimi due
giorni?», domanda Alice.
«No. Ma mi hai detto che è a casa, in malattia».
«Perché è così che stanno le cose», confermo.
«Non è mai stato malato. Mai in tre anni», obietta Alice.
«Fosco ha il diritto di ammalarsi», proseguo imperterrito.
Emilia prende una terza sedia. Ora sembra preoccupata pure lei.
Che diavolo ha mio cugino da ispirare questo istinto materno nelle
donne?
«Alice, chiamalo e chiedigli se va tutto bene», la esorta Emilia.
«E cosa credi che abbia fatto in questi giorni?», replica,
esasperata. «Ma lui non risponde!»
«Prova con un messaggio», suggerisce Emilia. È evidente che le
paure di Alice la stanno contagiando.
Alice prende il telefono e lo mostra a Emilia. La schermata
riproduce una chat. Emilia la studia con attenzione poi si gira verso
di me. «Alice ha ragione», dichiara, «questi messaggi non mi
convincono».
Ma sono impazzite?
«Vi siete messe d’accordo, voi due?»
«Usa la testa», ringhia Alice, «Fosco non si comporta mai così. Se
sei suo amico, chiama Gaia e fatti dire che sta bene!»
«Non chiamerò Gaia», replico io. «Non voglio assecondarti, Alice.
Anzi fatti un favore e smettila! Smettila di stare addosso a uno che
ha la sua vita e sta con un’altra ragazza!».
Le ho fatto male, ma a guardarla sembra più arrabbiata che ferita.
Regge il mio sguardo con un’aria da ultimatum. Poi fa una cosa
assurda, mi prende il telefono e, con quello in mano, scatta in piedi.
«Ridammelo subito».
«No», dice lei e sta già controllando la rubrica.
Tocca il mio telefono. Fruga tra le mie cose. Lo fa davanti a Emilia!
«Alice, ridammelo, ora».
«Licenziami».
«Azzardati a chiamare Gaia, e sei licenziata».
Alice non mi considera, continua a scorrere la rubrica. Sono fuori
di me, aggiro il tavolo, la raggiungo. E lei? Lei tende la mano per
tenermi a distanza.
Avrei voglia di metterle le mani addosso.
E poi lei lo fa. Fa partire la chiamata.
Alice
La sesta volta

E con questo fanno sei.


Siamo in settembre, e non provavo l’ebbrezza di un licenziamento
dallo scorso capodanno. Nove mesi. Quasi un record.
Questo prova che Alex umanamente non vale niente. Dovrebbe
essere preoccupato per Fosco!
Gaia è l’unica persona che può dirci cosa stia succedendo. Ma a
lui non frega nulla. Lui vuole solo prendere il suo aperitivo
indisturbato.
E lo prende con Emilia, ovvero la persona dalla quale mi ha
giurato di stare alla larga, a riprova di quanto poco valgono le sue
promesse.
Sono troppo agitata per permettere a me stessa di essere anche
delusa.
Comunque, dopo aver rubato il cellulare ad Alessandro ho fatto
partire la chiamata a Gaia, perdendo contestualmente il mio posto di
lavoro.
Tutto questo avviene sotto lo sguardo allibito di Emilia Levoskova.
Ce l’ho con lei, perché è uscita con Alex, ma un po’ mi dispiace
averla coinvolta. Il suo sguardo nocciola in questo momento è per un
terzo stupore, per un terzo disagio e per un terzo preoccupazione.
Pure lei ha capito che la sparizione di Fosco non è normale.
La voce di Gaia mi sorprende al ricevitore, riportandomi alla
presente crisi, ma non faccio in tempo a chiederle nulla: Alex mi
strappa il cellulare dalle mani.
Appena comincia a parlare con Gaia, la sua voce diventa
l’essenza della cordialità. Il suo trasformismo ancora una volta mi
stupisce. È un dissimulatore nato. Mi attraversa il pensiero che, sotto
tutte le maschere che indossa, ci sia il vuoto assoluto.
La telefonata è breve e, quando Alex riattacca, Emilia gli chiede
cosa abbia scoperto.
Alex le risponde evasivo, minimizza, ma ammette che Fosco e
Gaia hanno litigato, e lei non ha idea di dove sia.
Questa ammissione mi manda in paranoia e francamente non ce
la faccio più a stare qui, in compagnia di Alex, e non perché mi ha
licenziato, e neppure perché stava a farsi l’aperitivo con Emilia, ma
perché deve sempre sbattere la faccia contro le cose prima di capire
di avere torto. Perché già so che arriverà un momento in cui il suo
tardi sarà troppo tardi e le sue scuse non basteranno più.
Saluto solo Emilia e me ne vado con il cuore gonfio di angoscia.
Alex
Non sono mai arrabbiato con te

Sono seduto alla mia scrivania quando bussano alla porta. So già
che è Alice. Non mi sorprende quando la vedo, e non mi stupisco
neppure per il modo in cui si è vestita. Ha il talento di indovinare ciò
che mi fa impazzire e la crudeltà di usarlo contro di me. Lo fa proprio
nel momento in cui sono privo di difese. Ecco perché si è messa
quella sottoveste spudorata che le cade sul seno e sul sedere,
assumendone le forme. Cerco di non trovarla bellissima, ma il mio
sangue scorre più veloce.
«Alice, sono molto arrabbiato con te».
«Sono pentita», dice camminando verso di me.
Ogni sillaba è un passo, finché la distanza si azzera.
«Non sei mai davvero pentita», le rinfaccio.
«E tu non sei mai davvero arrabbiato», è così vicina che le sue
parole sono sulle mie labbra, il suo seno mi sfiora il petto. Non devo
toccarla, ma è una battaglia che lacera i nervi. L’ho già combattuta e
persa un milione di volte. Da tre anni vivo sul confine di un desiderio
negato, costruisco argini che sono illusioni. Basta la sua mano sul
mio petto, per spazzarli via.
«Alice, non puoi toccarmi», le intimo. Ma le ho già bloccato i
fianchi. Sto trasgredendo i miei stessi divieti.
E anche lei lo fa. Posa le labbra sulle mie. Io evito il bacio nello
spazio di un respiro, un intervallo in cui rinasco e muoio. Poi la
afferro, la spingo contro il muro. Lei mi dà le spalle, mi offre la
schiena, le sollevo la gonna. La vista del suo sedere è un pugno al
cuore. Sono un oggetto frantumato. Divento le mani che la toccano,
divento la bocca che la bacia, divento il respiro che mi ruba, divento
labbra e pelle. Sono fuori di me, sono dentro di lei.
Poi apro gli occhi.
Affannato, sconvolto. Ansimante. Scatto a sedere. Prendo atto che
sono nella mia stanza. Realizzo di essere solo. Mi abbandono di
nuovo tra i cuscini. Le lenzuola sono un cumulo indistinto. Questo è
il campo di una battaglia che non c’è stata. Una guerra interiore che
perdo ogni volta che sogno Alice. Ed è la terza volta.
La terza, questa settimana.
Mi passo una mano sugli occhi. «No, Alex», dico a me stesso,
«così non va bene».
Sotto la doccia, cerco di nuovo di analizzare la cosa da un punto
di vista razionale. Non faccio sesso e quindi il mio inconscio si sfoga
così. Certo, potrebbe farmi la grazia di materializzare una persona
meno destabilizzante di Alice ma, probabilmente, se sogno lei e
nessun’altra, è perché devo sfogare anche un altro tipo di
frustrazione. Sogno di farci l’amore ogni volta che litighiamo.
Più tardi, attraverso la città, sui sedili posteriori della mia Lancia.
Milano mi passa davanti agli occhi come un film. La vedo, oltre il
finestrino, senza che nessuno possa vedere me. Questa condizione
mi dà le vertigini. Mi porta a dubitare di esistere davvero. Alla guida
della vettura, il mio autista tace, rispettando il mio silenzio. Questa
settimana comincia con un sole smorzato e due pensieri fissi. Il
primo è mio cugino.
Inutile girarci intorno: ora sono davvero preoccupato.
Ho visto Fosco per l’ultima volta cinque giorni fa. Sono stato a
trovare la zia per sondare il terreno, ma lei era all’oscuro di tutto.
L’ho lasciata nell’ignoranza. Cerco di convincermi che un adulto
abbia il diritto di starsene isolato per tutto il tempo che vuole,
soprattutto se sta affrontando una crisi di natura sentimentale, ma
non resisterò, dovrò chiedere aiuto alle forze dell’ordine.
Vorrei che fosse venuto da me. O che fosse andato da Alice.
Eppure nessuno di noi due gli è sembrato all’altezza. Vuole sempre
cavarsela da solo. Lui è uno che mette il cuore in prima linea. Lo
stimo e lo rispetto anche per questo, ma a volte è frustrante avere a
che fare con chi non si lascia aiutare.
Credo che Alice la pensi come me. Ed ecco che arriviamo al
secondo pensiero fisso: la mia Alice. Se metto da parte la rabbia che
mi suscita la sua ottusa devozione per Fosco e se accantono pure i
sogni erotici, quello che resta è la pena che provo per lei. Venerdì
era davvero preoccupata. Non mi piace vederla così scossa. Se una
cosa le fa male, vorrei solo saperla risolvere.
Arrivo a palazzo e nell’atrio scambio un saluto con Omero, il capo
delle guardie giurate. Mi informo sulla salute di sua moglie. È stata
Alice a dirmi che la signora ha affrontato un trapianto di valvola
cardiaca. Alice mi mette al corrente di queste cose e mi esorta a
sembrare attento, gentile e partecipe. Insomma, lei mi fa apparire
migliore di quello che sono.
Alice è sempre più indispensabile, sempre più connessa e sempre
più integrata, e allo stesso tempo è una variabile sfuggente. Il nostro
è un equilibrio precario. È come se fossimo su una lastra di ghiaccio
che si scioglie. Lo spazio si accorcia, siamo costretti a stare più
vicini, ci sembra la scelta migliore per la salvezza di entrambi. Ma è
come se io sotto sotto sapessi che arriverà un momento in cui in due
su quella lastra non ci staremo più. O mi libero di lei, o sarò io a
cadere.
Sto ancora pensando ad Alice quando la porta dorata
dell’ascensore si apre, rivelando Emilia Levoskova in tutto il suo
indiscutibile splendore. Venerdì l’ho invitata all’aperitivo, ma dopo
l’interruzione di Alice non sono stato una buona compagnia. Il che è
stato scortese almeno quanto stupido. Emilia è dolce, divertente e
bellissima. Ed è bellissima anche in questo momento. Sfoggia un
sorriso radioso. Sarei lusingato di esserne la ragione ma quando, in
preda a un’eccitazione quasi infantile, mi rivela di aver appena
incontrato mio cugino è ancora meglio.
«Fosco? Qui? Sei sicura?»
«L’ho appena lasciato in sala mensa».
«E come sta?»
«Bene. Più o meno. Lui e Gaia hanno rotto davvero. Ricordi che,
dopo l’incidente dell’ascensore, hai detto a Fosco di tornarsene a
casa prima?»
«Sì».
«Be’, lui l’ha fatto. E ha trovato un tizio in salotto. Un tizio nudo».
Queste parole sono un pugno. Penso a come deve essersi sentito
mio cugino di fronte a una scena del genere e immagino il suo
dolore.
La cosa strana è che ci riesco. Lo immagino davvero. Riesco
perché se tradissero la mia fiducia io non riuscirei più a perdonare.
«Ha dormito qui la scorsa notte», riprende Emilia.
«In ufficio?».
Annuisce. «È molto confuso. Deve aver passato un brutto
momento», ipotizza. «Non ha voluto chiedere aiuto a nessuno».
«Tipico suo», sospiro, ma poi sorrido. «L’importante è che ora sia
qui. Per tutto il resto troveremo una soluzione».
Su queste ultime parole l’espressione di Emilia cambia.
«Io una soluzione ce l’avrei già. Sai che cerco casa qui a Milano.
Non mi piace stare in albergo».
«Lo so».
«Ho visto un appartamento che sarebbe perfetto».
«Per lui?»
«Per noi», dichiara. La mia espressione deve risultare come
minimo perplessa e lei si affretta a spiegare. «Gli voglio chiedere di
smezzare l’affitto».
La guardo, mi guarda.
«Insomma, non credo gli faccia bene restare da solo, no?»
«No, ma…»
«E quell’appartamento è davvero gigantesco», allarga le braccia.
Come motivazione non regge. Ci sono una marea di case grandi, ma
non per questo cerchiamo qualcuno con cui dividerle. Il mio silenzio
però la sta mettendo in imbarazzo e ho pietà di lei.
«Emilia», scandisco. «È davvero così grande questa casa?»
«Troppo per starci da soli».
«Allora mi sembra una bellissima idea».
Lo è sul serio.
Se questa ragazza vuole prendersi in casa mio cugino, reduce da
una delusione d’amore, io non posso che approvare.
«Gli mostrerò l’appartamento questo pomeriggio. E poi gli
chiederò se vuole smezzare. Spero gli vada a genio».
«Lo spero anche io, Emilia».
Ci salutiamo e io salgo al quarto piano.
In ascensore rifletto su quello che mi ha detto. In condizioni
normali Fosco non accetterebbe mai di vivere con una persona che
non conosce. Ma non c’è nulla di normale nella sua attuale
situazione e, a dirla tutta, non è normale neppure una come Emilia.
Una convivenza tra di loro sarebbe surreale. Ci si potrebbe scrivere
un libro, su una storia così assurda.
Sto ancora cercando di metabolizzare, quando arrivo al quarto
piano. Mi blocco sulla soglia perché rivedo Fosco.
Fosco abbracciato ad Alice.
E realizzo una cosa a cui non avevo ancora pensato.
Tolta di mezzo Gaia, non c’è più niente che li separi. Fosco è
libero e Alice farà tutto il possibile per prenderselo.
Era la cosa più ovvia e ci ho messo un’eternità ad arrivarci.
«Alex?».
Fosco mi ha visto, mi riscuoto, lo raggiungo. Anche io lo abbraccio
e provo a concentrarmi sul sollievo nel rivederlo.
Scambiamo qualche parola, cerco di confortarlo. Alla fine Fosco
dice di voler raccogliere le sue cose dall’ufficio perché tra poco
arriveranno i colleghi e non vuole che trovino un plaid per terra.
Tengo per me che, plaid o no, chiunque vedendolo stamattina con
quei vestiti stropicciati, l’aria derelitta e la barba lunga di sicuro
capirebbe che qualcosa non va.
Fosco se ne va e resto solo con Alice.
Lei fa un sospiro profondissimo.
«Mi sono tolta un peso».
«Già».
Tengo lo sguardo sul pavimento. Sto valutando cosa dirle del
piano di Emilia. Forse è meglio che lo sappia. Forse questa cosa le
dispiacerà. Ma, prima che decida, lei mi precede.
«Comunque, non preoccuparti, capo. Ero passata a prendere le
mie cose, ma adesso vado».
«Dove?»
«Be’, credevo che venerdì mi avessi licenziato», ha un tono di
sfida. Non solo non crede alle mie minacce, ma è diventata
sfrontata.
«Dovrei licenziarti davvero, Alice. Sono molto arrabbiato con te».
Sorride. «E io sono molto pentita».
È la stessa cosa che mi ha detto in sogno. La battuta è mia.
«Tu non sei mai davvero pentita, Alice».
«E tu non sei mai davvero arrabbiato».
Ecco. Ci mancava solo questo. Dovrei uscire di qui e invece faccio
un passo verso di lei. Lo faccio perché nel sogno a questo punto mi
toccava.
E mi sento toccato sul serio, perché sono appena inciampato in
uno di quei momenti in cui i suoi occhi diventano carezze.
«Alex…»
«Sì?»
«Sono licenziata?»
«No».
«Sei veramente arrabbiato?»
«Sì».
«Possiamo aggiustarla?»
«Non lo so… mi hai davvero messo in imbarazzo…»
«Scusa se ti ho preso il telefono».
«Le tue scuse non bastano».
Appoggia la mano sul braccio. Ne esce contatto che mi ridefinisce,
che lascia una scia di esistenza, dove c’era solo pelle.
«Cosa vuoi che faccia?».
Che mi tocchi ancora, Alice…
«Ci penserò», dico, stringo i pugni per non cedere e restituirle la
carezza. «Fino a quel momento vedi di non peggiorare la
situazione».
Poi, non so dove, trovo la forza di staccarmi da lei e andarmene
via.
La lastra di ghiaccio è sempre più stretta.
Alice
Fallo per me

Marilù oggi dovrà fare a meno di me. Le ho detto che sono


impegnata con Alex. Lei mi ha detto di prendermi il pomeriggio.
Questo è l’effetto che le fa il nome del capo.
In verità ho bluffato.
Primo, il piano che ho in mente è lastricato di incertezze. Secondo,
Alex non sa ancora di farne parte.
Nei giorni scorsi, sono stata da Gaia e ho recuperato i vestiti di
Fosco. Ma, quando è stato il momento di accordarmi con lei per
andare a prendere la sua collezione di videogiochi, la stronza si è
messa di traverso. Mi ha detto che deve andarci lui, di persona.
Forse non le basta averlo ferito a morte, portandosi a letto un altro
e facendolo nella casa in cui vivevano insieme. Forse vuole vedere il
suo sangue.
Ed ecco perché ho dovuto mettere a punto Il Piano. Ecco perché
ho dovuto reclutare dei complici.
Uno è Alessandro e l’altra Emilia. E sono entrambi all’oscuro.
Alessandro mi serve perché ha la macchina, Emilia mi serve perché
è la nuova coinquilina di Fosco.
Il fatto che Emilia abbia chiesto a Fosco di dividere un
appartamento potrebbe avere due spiegazioni: o Fosco le ha fatto
pietà, oppure c’è sotto qualcosa. Propendo per la seconda perché,
se vuoi condividere uno spazio ristretto con un mezzo estraneo, può
essere che, sotto sotto, quel mezzo estraneo ti piaccia.
E, se così fosse, non mi dovrebbe certo spiegare perché…
La notizia buona è che non sono gelosa, quella cattiva è che sono
preoccupata. Emilia è un’arma letale, Fosco non è mai stato così
vulnerabile. Questa convivenza potrebbe farlo cadere dalla padella
alla brace.
In sala mensa, neanche a farlo apposta, becco Emilia in
compagnia di Fosco. Mi prendo un attimo e li guardo. Non saprei chi
dei due è messo peggio. Probabilmente la cotta è reciproca. Lui ha
le mani piantate in tasca, le spalle alte come un ragazzino che si
vergogna della propria statura, lei continua a toccarsi i capelli con
un’espressione di assoluta devozione.
Escludo di aver mai riservato a Fosco uno sguardo del genere.
Non ne sono proprio capace.
Però, se c’è una persona che merita di essere guardata così,
quella è sicuramente il mio amico.
Mi dispiace rompere l’idillio ma ho Il Piano da portare a termine. Mi
avvicino, dico a Emilia di venire con me e lei mi segue senza fare
storie.
La reazione di Alessandro mi preoccupa di più. Non so cosa
aspettarmi. È ancora arrabbiato per la questione del telefono. Ci
marcia un po’. Fa il sostenuto. Ma la verità è che questa è la punta
dell’iceberg.
È come se io e lui vivessimo due vite diverse. Una in ufficio e una
fuori. E, anziché arrivare a una fusione, scaviamo un solco sempre
più profondo tra le due.
Mi sta più addosso e allo stesso tempo più lontano. Accorcia le
distanze in privato e poi le raddoppia in pubblico. Ho come la
sensazione di assistere ai risultati di un dibattito interiore di cui non
conosco i termini. E poi mi fissa. Nell’ultima riunione l’ho beccato per
cinque volte. Mi era venuta l’ansia. Pensavo di avere qualcosa in
faccia. Forse il suo bipolarismo deriva dal fatto che non esce con le
ragazze.
Ripenso allo strano, stranissimo patto sottoscritto a inizio mese.
Ma preferisco non chiedermi il vero motivo per cui io lo sto
rispettando e sono felice che lui, apparentemente, lo rispetti…
Alessandro ci aspetta nella strada in cui gli ho dato appuntamento.
E purtroppo ha un’aria ostile. Ne comprendo il motivo. Gli ho
mandato un messaggio lapidario.
“Vediamoci a pranzo. Mi serve la macchina” non è un capolavoro
di diplomazia.
Saliamo tutti sul suo Range Rover e, quando imposto il
navigatore, Alex capisce che stiamo andando a casa di Gaia.
E quando confesso che ci stiamo andando per recuperare le cose
di Fosco lui si arrabbia.
«Dovevo immaginare che se Alice Baker chiede a due persone di
saltare la pausa pranzo c’era di mezzo Pietro Foscarini».
È una battuta da stronzo acido, che fa leva sulla stessa vecchia
accusa.
La discussione potrebbe degenerare ma per fortuna c’è Emilia.
Prima dà ragione a me, perché approva il piano, ma dopo anche ad
Alessandro: non riusciremo mai a convincere Gaia.
È il momento di sganciare la bomba e rivelare la parte illegale.
«Gaia è fuori città e io ho rubato le chiavi a Fosco».
«Tu, cosa?»
«Ho preso le chiavi…»
«Dimmi che è uno scherzo…».
Spiego che non verremo interrotti, che potremo entrare, senza
scassinare la porta, e che svuoteremo l’appartamento indisturbati.
Alex è fuori di sé, si lamenta, protesta, mi accusa di voler
infrangere la legge.
«Dammi una sola ragione, una, per cui dovrei farlo!».
Questa è una domanda stupida. Dovrebbe farlo per Fosco. Io
proprio non capisco questa sua gelosia.
E, nel momento in cui non capisco, allo stesso tempo mi coglie
un’intuizione. Io e lui smettiamo di funzionare ogni volta che c’è un
elemento di troppo. Abbiamo smesso a Capri, quando c’era
Selvaggia, abbiamo litigato per Emilia. Discutiamo da una vita per
Fosco.
Se si tratta di noi, tre non è il numero perfetto.
«Perché dovrei farlo, Alice?», mi domanda ancora.
«Perché te lo sto chiedendo io», gli dico, «e io non ti ho mai
chiesto niente».
Insomma, Alex, fallo per me!, vorrei dirgli.
Mi guarda per un’eternità. Vedo passargli negli occhi sorpresa e
diffidenza. Cerco di mettere nei miei la fiducia che non ho mai avuto.
E forse se ne accorge. Forse afferra l’importanza di questo
momento, perché ingrana la marcia e, benché ribadisca come un
disco rotto: «Io dovrei davvero licenziarti», fa comunque ripartire il
navigatore.
Ci mettiamo in marcia.
Per la prima volta in tre anni ho il sospetto tremendo e bellissimo
di essere davvero l’altra parte del suo noi.
Alex
Non con altre persone

Sono io a girare le chiavi nella toppa. Io a spingere la porta, io il


primo a entrare nell’appartamento di quarantacinque metri quadrati,
balcone incluso, che mio cugino ha diviso con la sua compagna.
Lo faccio perché me l’ha chiesto Alice.
Non sono capace di dirle di no. E lei lo ha capito. Ha capito che
per lei io farei qualunque dannata cosa. Legale e illegale.
Non so come mi sento a riguardo.
Ci basta percorrere il corridoio ed entrare nel salottino per
individuare la refurtiva.
Io, Emilia e Alice contempliamo perplessi lo scaffale mezzo vuoto.
«La stronza ha già cominciato a liberarsi di lui», osserva Alice, ma
sta dando voce ai miei stessi pensieri. Gaia non ha perso tempo: sul
pavimento ci sono tre scatoloni mezzi pieni e altrettanti vuoti. Le
console sono state scollegate dal televisore al plasma. I cavi sono
arrotolati e fermati con le fascette.
«Voleva che Fosco venisse qui a riprendersi tutto», osserva
Emilia, «ma voleva che se ne andasse in fretta».
Anche questo è evidente. Per Gaia la storia è davvero finita, e mi
chiedo perché abbia insistito fino all’ultimo per farlo tornare qui. Se
mio cugino avesse visto questa smobilitazione gli si sarebbe
spezzato ciò che è rimasto del suo cuore.
Ci mettiamo subito al lavoro. Svuotiamo i ripiani, riempiamo una
scatola dopo l’altra.
Alice prepara altri contenitori, assemblandoli con lo scotch, poi
sparisce nella camera di Fosco.
Siamo ufficialmente dei delinquenti e non mi preoccupo che il furto
si estenda ad altre stanze.
Mi rimetto al lavoro. Mentre raccolgo i pezzi della vita di mio
cugino, ciò che lo appassiona, ciò che lo tiene vivo, una domanda mi
martella nella testa.
Cosa tiene vivo me? Cosa fa la differenza?
Emilia dice il mio nome, rompendo il silenzio.
«Alice è molto legata a Fosco, vero?», chiede. Tiene la voce
bassa.
Io sono chinato sulle ginocchia, alle prese con l’ultimo ripiano.
Alzo lo sguardo e lei, in piedi sulla seggiola, mi appare in tutta la sua
abbagliante bellezza. Lo stacco della coscia, una massa di capelli
castani, una bocca da pensieri impuri.
Tuttavia neppure adesso penso di scoparla.
Sono malato. Non c’è altra possibile spiegazione.
Cerco di sembrare un normale eterosessuale adulto e le sorrido.
«Fosco è una bravissima persona», le dico. «Alice ci tiene a lui».
«Okay», abbassa il tono, «ma mi chiedevo se tra di loro ci fosse…
o ci fosse stato… o ci potesse essere…», non chiude la frase,
muove una mano nell’aria, come a suggerire che posso fare uno
sforzo e arrivarci da solo.
Ci sono arrivato da un pezzo ma non so proprio cosa risponderle.
La voce di Alice mi toglie dall’imbarazzo.
«Qualcuno mi aiuti!», sta dicendo.
In un attimo sono nella zona notte, sulla soglia della camera da
letto.
Trovo Alice su una scaletta a muro. È stata messa lì per
raggiungere le scaffalature più alte di questa stanza arredata Ikea.
Alice è in bilico, e regge una scatola nera.
«Forza, prendila, prima che cada!», mi intima.
«Che diavolo è?»
«La scatola dei ricordi di Fosco».
«Tiene una scatola dei ricordi?».
Non ho mai sentito il bisogno di ricordarmi nulla. La mia vita è
stata priva di momenti preziosi.
«Prendila o cado».
Tardo un secondo, lei perde la presa.
Devo scegliere in fretta cosa salvare e non ho il minimo dubbio.
Un attimo dopo mi ritrovo sul letto. Alice è stesa sopra di me. Tutta
sopra di me. Ho attutito la caduta a una ragazza di cinquanta chili,
capace tuttavia di esercitare una singolare pressione. Non riguarda il
peso, ma il valore che lei ha. Mi sta schiacciando con il suo
significato.
Lo sguardo che mi rivolge dà le vertigini, chiudo le mani sulle
lenzuola, in cerca di un appiglio. Se lei è atterrata su di me, io sto
ancora precipitando.
«Dovevi prendere la scatola», protesta, ma la voce è incerta.
«Non ce la fai a dirmi grazie, vero?».
Le scappa un sorriso. «Grazie», apre la mano sul mio petto, la
tiene sul mio cuore.
Scende il silenzio, ma è qualcosa di naturale. Come la notte
precoce durante l’inverno.
È lei a romperlo.
«Grazie anche per essere venuto», mi dice, «è bello che tu sia
qui».
Non credo sia bello. È strano. Nuovo. Stordisce, confonde eppure
è un vizio che non riesco a smettere.
Le afferro la mano, la premo sul mio torace. Voglio la certezza che
non la tolga.
«Comunque, non ti meriti di essere salvata. Mi hai costretto a
violare la legge».
«Però sono felice che tu l’abbia fatto», sorride. «Mi piace la vista
che si gode da qui».
Sta scherzando, è chiaro. Però non ha mai scherzato stesa sopra
di me. E devo riconoscere che ha ragione: la prospettiva
dell’osservatore cambia il significato delle cose.
«La vista piace anche a me», le dico, «ti dona stare sopra».
Quello che diventano i suoi occhi non riesco a esprimerlo a parole.
Il sorriso che mi fa mi mette voglia di baciarla.
«Non farlo, Alex…»
«Cosa?»
«Rispetta la mia intelligenza».
«Non so di cosa parli», le dico, e intanto le piazzo la destra sulla
schiena.
«Stai facendo l’idiota. Con me».
«L’idiota? Io?»
«Sì», annuisce mi tiene inchiodato sotto uno sguardo abissale.
«Sembra che tu ci stia provando».
Tu però non ti sposti. Quindi non ci sto provando. Ci sto riuscendo.
«È un po’ che non sto vicino a una ragazza».
«Ah, chiaro, la sindrome del carcerato. Hai solo bisogno di una
scopata, giusto?».
Parlare di “scopare” mentre la sua gamba è tra le mie e il suo
seno mi marchia il torace è devastante, e se si spostasse un attimo
a sinistra capirebbe quanto è grave la situazione.
«E tu, Alice?», la voce mi esce rotta. «Hai voglia di scopare?»,
scendo di nuovo, verso il basso. Mi fermo a un soffio dal suo
splendido culo. Sapere che è così vicino mi fa esplodere il cuore.
«Non dovresti toccarmi, Alex», ma il suo sguardo è dolcissimo e
smentisce le parole.
«Non dovresti stare sopra di me, Alice», ma la trattengo per
essere certo che resti.
Poi con gli occhi nei miei me lo chiede.
«Il nostro patto sta diventando impegnativo?»
«Troppo», le chiudo i fianchi tra le mani.
«Quindi lo rompiamo e ci togliamo il pensiero?».
La guardo e di nuovo tradisco me stesso.
«Sì. Ma non con altre persone».
Non so afferrare il segno della sua reazione, non so neppure stare
in equilibrio sulle conseguenze di quello che ho detto. È come se
con una sola frase avessi mandato a fanculo le regole su cui si
poggia la mia vita.
Ho appena enunciato una verità di cui avevo tenuto all’oscuro me
stesso.
Non con altre persone.
Ma con te sì.
«Ragazzi, ci siete?».
È la voce di Emilia e cancella il turbamento dal viso di Alice. Ora
essere sdraiati su un letto diventa di colpo una cosa imbarazzante.
Quello che le ho appena detto è una verità scomoda che non
riesco più a ignorare.
Alice si solleva e nell’istante in cui lo fa io mi sento nudo e vuoto.
Come se averla addosso mi avesse vestito per un’occasione
irripetibile.
Non mi guarda più, esce in fretta. Emilia parla di fare una cena a
sorpresa per il compleanno di Fosco, il 25 settembre.
Cerco un commento appropriato, metto insieme una risposta che
suoni entusiasta.
Ma ho la testa da un’altra parte.
«E questa cos’è?»
«È una scatola di ricordi», spiego.
Emilia aggrotta la fronte. «Non saprei proprio cosa metterci
dentro», lo dice e se ne va. È stato il mio stesso pensiero, fino a
pochi minuti fa.
Ora invece ne vorrei una. Ma non per conservare un ricordo. Solo
per metterlo sotto chiave. Segregarlo.
Vorrei chiudere quello che è successo per impedirgli di uscire e
distruggermi.
Alice
Disastri (in)evitabili

Ho un’idea per il prossimo libro che scriverò. Si intitolerà Tre


regole da seguire per non incasinarsi la vita, e sarà un utile manuale
di “autoaiuto” per tutte le ragazze che vivono a stretto contatto con
un capo oggettivamente bellissimo.
Prima regola, non si dovrà mai ammettere che il capo in questione
sia bellissimo. Si dovrà negare perfino l’evidenza. Potrebbero
tornare utili frasi schermo come per esempio “non è il mio tipo” ma in
ogni caso mai si dovrà riconoscere che lui è bellissimo.
Seconda regola, non si dovrà mai raggiungere un grado di
confidenza tale da trovare naturale mangiare a casa sua o finire sul
divano a parlare di lavoro. Se gli darai un dito, lui si prenderà le
mutande. Piuttosto che cadere in questa spirale, denuncialo per
molestie la prima volta che si azzarda a toccarti.
Terza e ultima regola è il divieto tassativo di sbattertelo su un letto,
accarezzarlo, guardarlo negli occhi e parlare di sesso.
Perché lui potrebbe finire per dirti che puoi farlo solo con lui.
Ecco, direi che questa è proprio la cosa da evitare.
Ovviamente parlo con cognizione di causa. Ero su un campo di
battaglia e ho centrato le tre mine, una dopo l’altra.
Potrei dare la colpa ad Alex. Ma sarebbe ipocrita. A me stava
bene.
Ho visto quello che stava facendo e glielo ho lasciato fare.
Conosco Alex da tre anni, so che fa il cretino con tutte, ma finora
questi sottintesi erano restati fuori dal nostro rapporto. Era una sorta
di riconoscimento reciproco alla nostra rispettiva intelligenza.
Ma se io mi spalmo addosso a lui, gli faccio capire che sdraiato è
una meraviglia, mi accorgo che si sta eccitando e non mi sposto di
un millimetro mettendomi pure a fare la cretina è ovvio che lui finirà
per guardarmi come se farsi anche me, dopo tutte le altre, sia la
nuova missione a cui votare l’esistenza.
In questi giorni per fortuna ci siamo visti poco. L’ho evitato e ci
sono riuscita bene perché lui ha evitato me.
Mi sento a un bivio.
La prossima volta che ci troveremo a tu per tu qualcosa
succederà. E la prossima volta è purtroppo stasera.
È il compleanno di Fosco e io e Alex rappresenteremo il cinquanta
percento delle persone presenti alla sua festa a sorpresa.
Dovrei star serena, provare a fare come se niente fosse, invece ho
passato ore pensando a come vestirmi, e ho trascorso un’eternità
davanti allo specchio. Mi dissocio da questa versione cretina di me
stessa, ma allo stesso tempo, anziché rinsavire, sono qui a
perfezionare il disastro.
Arrivo a Brera con i mezzi pubblici. Potrei contare ogni singolo
battito del mio cuore. Anche questa agitazione è fuori luogo.
Davanti al portone ordino a me stessa di calmarmi. Emilia e Fosco
vivono in un appartamento spaziale, arredato da dio e grande come
un campo da calcio. Diciamo che l’universo li sta compensando per
le loro passate sfortune.
Emilia mi dice di salire. La trovo sulla soglia con un grembiule
bianco e un sorriso gigantesco.
«Fosco arriva tra un’ora», mi informa. «Io penso alla cena, ma
bisogna sistemare le sue cose».
È chiaro che ci tiene al risultato. Ed è evidente che tiene a Fosco.
Mentre mi precede verso la cucina, l’occhio mi cade sul fiocco
enorme che le chiude la vita sottile. L’effetto di quell’affare, sul suo
sedere, è piuttosto ammiccante. Penso al mio povero amico che
deve convivere tutti i giorni con questa tentazione e concludo che,
probabilmente, non ne uscirà vivo.
La cosa smette di sembrarmi divertente quando faccio il mio
ingresso in cucina. Pensavo di essere in anticipo io, invece scopro
che Alessandro mi ha preceduto. In polo bianca, con i capelli
arruffati e un semplice paio di jeans mi sembra d’un tratto la persona
più sexy del mondo. Ma sta versando il vino in un paio di calici e
nessuno dei due è per me. La bottiglia, a giudicare dal livello, è stata
stappata da un po’.
«Oh, sei già arrivato», osservo.
«Sì, volevo rendermi utile», annuncia, senza guardarmi. «Ma
Emilia non ha nessun bisogno di me».
Okay. Ho il quadro.
Alex è venuto prima per stare solo con lei. Lo conosco da tre anni,
e dovevo capirlo che il nostro patto era solo un gioco. Quindi non
sono sorpresa. E, soprattutto, non devo rimanerci male.
Non devo rimanerci male…
Non devo… Vaffanculo.
Ci sono rimasta da schifo.
«Io mi arrangio sempre da sola, Alex», dice Emilia sorseggiando
dal suo calice, «ma grazie per la compagnia».
«Grazie a te. Vederti cucinare è un’esperienza ipnotica».
Non ho dubbi che sia rimasto ipnotizzato: dalle gambe slanciate di
Emilia, dalla sua bocca sexy e da quelle tette enormi che si ritrova.
Questo pensiero acido non mi fa onore. Non voglio essere il tipo di
ragazza che accusa le altre di essere più belle eppure mi sembra
che Emilia si stia prendendo qualcosa che non doveva toccare.
Qualcosa di mio.
Questo pensiero è nitido quanto sconcertante.
«Be’, Emi, vedo che sei indaffaratissima», indico la distesa di
pentole e taglieri, «vado a sistemare le cose di Fosco».
«Brava! Voglio proprio vedere la faccia che farà!».
Io invece evito di guardare le loro, di facce. Esco e raggiungo la
sala. Sono davvero piombata nella spirale del ridicolo, in un tunnel di
gelosia per cui dovrei prendermi a sberle. Quella persona bionda e
bellissima che ho lasciato in cucina a flirtare con un esemplare della
sua stessa specie non è uno su cui avere progetti.
Quello è Alessandro Francalanza Visconti, maledizione!
È un investimento a fondo perduto. Lo ripeto come un mantra, ma
serve a poco.
Li sento ridere e sono al punto di partenza.
Passa un’eternità, poi sento dei passi in corridoio. È Alex, lo so
senza girarmi.
«Alice, non hai neppure toccato il vino».
«Ognuno ha le sue priorità», dichiaro senza voltarmi, poi appoggio
a terra una manciata di giochi della PlayStation. Sento Alessandro
entrare nella stanza, mi supera, appoggia il calice sul pavimento e si
inginocchia davanti a me.
Incontro i suoi occhi all’altezza dei miei ed è come ritrovarsi dopo
un minuto che per qualche ragione è durato un secolo.
Il suo sguardo esita. Non credo alla vulnerabilità che vedo, ma mi
provoca un rimescolamento simile al dolore. Appoggia la mano
accanto alla mia.
«Ciao, Alice».
Taccio.
«Va tutto bene?»
«No», rispondo. E indico gli scatoloni. «Fosco arriverà e troverà
questo casino».
«Rilassati, è una festa e lui sarà felicissimo di averci tutti qui».
«Grazie per la tua perla di saggezza», dico, e riprendo a sistemare
le custodie. «Ora perché non torni in cucina a fare quello che ti viene
meglio?»
«E sarebbe?»
«Stappare il vino, parlare di niente, darti agli esperimenti di
ipnosi». Lo dico e me ne pento. Sembra una piazzata. Non ho il
coraggio di guardarlo in faccia ma sento i suoi occhi su di me.
Si allontana in silenzio e con la coda dell’occhio vedo che sta
aprendo la scatola dove abbiamo messo le console di ultima
generazione. Forse il mio rimprovero ha toccato la sua coscienza.
Vorrei ignorarlo ma vederlo armeggiare tra cavi e prese di
alimentazione si rivela presto uno spettacolo penoso. Sta cercando
di dare una mano, ma non ha la più pallida idea di come si
colleghino le console al televisore.
Mi sembra impossibile tanta ignoranza in un maschio adulto.
Quando lo vedo forzare un attacco dentro una presa sbagliata,
capisco che stiamo sfiorando il disastro, lo raggiungo carponi.
Gli strappo il cavo dalle mani. «Questo è l’HDMI», glielo mostro,
poi mi giro verso il televisore, «e va ficcato qui! Mentre questa è la
presa del cavo di alimentazione. E la devi mettere qui», la piazzo nel
muro, poi gli lancio un’occhiata oltre la spalla.
E realizzo che, prima di mettermi a gattonare per la stanza, dovrei
ricordarmi di essere una ragazza che indossa una minigonna.
Sono carponi e gli do le spalle. Ho il fondato sospetto di avergli
inavvertitamente mostrato autoreggenti e mutande.
Il suo sguardo è ingigantito dallo stupore.
Mi ricompongo in un attimo e, poiché mi sono appena resa
ridicola, cerco di ignorare quel mare di argento e parto all’attacco.
«Fammi un favore, Alex. Torna a bere il vino con Emilia. Faccio
molto meglio da sola».
Lui tace, gli occhi ancora fissi su di me.
«Dico davvero, sei inutile».
Tace ancora, e non mi stacca gli occhi di dosso. Merda. Bisogna
prenderla di petto.
«La smetti di fissarmi?».
Finalmente si riscuote. «Io non…»
«Ecco bravo. Tu non», sentenzio. «Lasciami sola».
Lui si impettisce. «Non sei collaborativa», dichiara, ma almeno ha
ripreso l’uso della parola. «Non hai nessuna attitudine al lavoro di
squadra, fatto che oltretutto conferma il profilo emerso dai tuoi test
aziendali».
«Sai dove te li puoi mettere i test aziendali?»
«Puoi evitare di essere così volgare? Sei una ragazza, in teoria».
«E tu un uomo, in teoria. Gli uomini sanno montare le cose,
dovresti essere un drago. E invece…».
La voce di Emilia ci coglie di sorpresa. Non è sola, c’è anche
Fosco.
Il mio amico è fermo sulla soglia. E non crede ai suoi occhi.
Scarico la responsabilità del casino su Alessandro. «Ecco. La
sorpresa è rovinata per colpa dell’unico uomo sulla terra che non ha
idea di come si colleghino i cavi di una PlayStation!».
L’unico uomo sulla terra si irrigidisce. «È molto difficile
concentrarsi con te vicino, Alice».
E per un attimo rivedo lo sguardo di prima. Assomiglia a quello
che aveva sul letto di Fosco.
È lo sguardo di uno che sta conducendo una battaglia impari
contro la voglia di saltarmi addosso. E io, per quanto cerchi di
depistarlo, temo di avere scritto in faccia “accomodati”.
Per evitare che lui lo capisca, mi alzo in fretta e vado ad
abbracciare Fosco.
Alex
Nel tuo appartamento

Io avevo le migliori intenzioni. Io mi sono perfino tenuto alla larga


da lei finché ho potuto. Io ce l’ho messa tutta per non fare una
cazzata.
Il tempo guarisce tutto, no? E io l’ho lasciato passare. Con fiducia.
Guariscimi, Tempo, gli ho detto, fammi rinsavire.
Ma porca miseria questo è troppo!
Alice non doveva farlo. Non doveva fare una cosa del genere a
me. Non in un momento delicato come questo, in cui penso
continuamente a lei, sogno di lei e, a dire il vero, sono con lei anche
quando faccio tutto da solo.
Ora, maledizione, ho l’immagine delle sue mutande impressa nella
retina. Mi è apparsa mentre mangiavo i primi, mentre mi
complimentavo con Emilia per i secondi, mentre tagliavamo la torta,
e perfino adesso mentre Fosco è alle prese con il mio regalo.
Se faccio sogni su di lei, se penso sempre a lei, se la vista
accidentale del suo culo mi manda in paranoia è chiaro che ho un
problema.
Ed è altrettanto chiaro che esiste un’unica soluzione: con mio
grande rammarico dovrò contravvenire alla regola che mi vieta di
sbattermi le mie dipendenti.
Devo rassegnarmi a scopare Alice.
Non è una decisione avventata. No. Ci penso da sempre ma sul
letto di Fosco mi sono arreso.
È stato il punto di non ritorno.
Certo, mi rendo conto che toccare lei non sarebbe mai come farlo
con una qualunque. Perché lei ha valore, perché le sono affezionato,
perché la stimo, perché il mio tempo coincide al novanta percento
con il suo. Ma sono anche sicuro che basterà una volta e mi
tranquillizzerò. Scarico questa tensione sessuale pazzesca, mi
impegno perché sia una scopata meravigliosa e riporto tutto sotto un
livello di sicurezza. E si ricomincia. Che ci vuole?
Quanto alle mie chance di convincerla, a costo di sembrare
presuntuoso, direi che sarà una passeggiata. Io ho la certezza di
non essere solo in questa cosa. È da un po’ di tempo che ci sta
pensando pure lei. Altrimenti non saremmo finiti sul letto di Fosco,
no? So di non essere la sua persona preferita sulla terra, ma
neppure lei è il mio ideale di donna. Abbiamo entrambi un problema
e siamo uno la soluzione dell’altra, tanto vale rassegnarsi.
Io non so se è il vino che ho bevuto, ma mi sembra davvero tutto
logico, lineare. Di una chiarezza abbagliante.
E per tutta la cena gli occhi di Alice mi confermano che ho il
quadro. Che le cose stanno così.
Che il momento è arrivato.
Quando vedo Emilia sbadigliare, colgo la palla al balzo. Dico che è
tardi e che dobbiamo tornarcene a casa.
Propongo ad Alice di accompagnarla in taxi ma lei scuote la testa,
resiste, parla di rincasare con i mezzi pubblici. Fosco cerca di
dissuaderla, Emilia la sconsiglia vivamente. Io sono certo che la
convincerò. All’inizio era di cattivo umore ma poi si è rilassata. Non
mi ha mai sorriso come ha fatto nelle ultime ore. Sta pensando
quello che penso io. Non ci possono essere dubbi.
Siamo sul pianerottolo, ci stiamo infilando i cappotti, quando
Emilia ci saluta e richiude in fretta l’uscio. Ho la sensazione che
Emilia stasera abbia un piano simile al mio e che la sua preda sia
mio cugino. Buon per lui, ma non farei cambio.
Una cosa aspettata per tre anni diventa la somma di mille desideri.
Ne ho la certezza mentre indugio con lo sguardo su Alice che gira
su se stessa alla ricerca della manica del suo cappottino. Lei si
accorge che la guardo e si blocca.
«Alex, smetti di sorridere, per favore».
«E tu smettila di corteggiare il ridicolo. È un cappotto, cristo santo.
Certo, si tratta di un cappotto bruttissimo, ma perfino le bimbe di
cinque anni sanno infilarsene uno».
«Le bimbe di cinque anni non sono mai ubriache», puntualizza, «e
il mio cappotto è bellissimo».
Mi avvicino, lento, senza fretta.
Dopo tre anni non posso averne.
Afferro la manica. Lei si rassegna a infilarsela. Le sfioro il braccio,
il fianco. Sento una scossa passarmi dalla mano al petto. Mi centra il
cuore in pieno.
«E così sei ubriaca…»
«Un po’», ammette.
«Perfetto, domani non ricorderai niente».
Mi mette a fuoco. «Che cosa stai tramando?»
«Voglio vedere il tuo appartamento», dichiaro. «Invitami».
Mi guarda, scoppia a ridere. «Perché vuoi vederlo?»
«Il primo motivo? Voglio guardare dentro il tuo guardaroba. Io ho
una grande ammirazione per la coerenza che dimostri nel
collezionare solo indumenti assurdi».
La sorpresa le attraversa lo sguardo, poi scoppia a ridere e va
verso l’ascensore. Dice che sono un idiota. Ma conosco le donne,
conosco i segnali. E stasera ad Alice piace che io sia una persona
che di base non le piace. La seguo in ascensore, senza fretta. Gli
specchi restituiscono infinite versioni di noi. Ci scambiamo uno
sguardo che non ha riscontri nel nostro passato, ma mi ricorda la
sensazione che ho provato sul letto di Fosco. L’attesa prolunga un
desiderio che mi sento crescere dentro. Mi sta dicendo qualcosa con
quei suoi enormi occhi chiari. E io potrei spingerla contro la parete e
baciarla. Ma devo giocarmela bene. Tiro fuori il cellulare e chiamo il
servizio taxi. Fortunatamente c’è una vettura in zona. Non dovrebbe
metterci più di un paio di minuti. Quando riattacco, Alice nota che
dopotutto non ha voglia di prendere la metro, e che le va bene
smezzarci il taxi.
Per noi il tempo è sempre poco. Vola, scappa. Ma stasera non
corre abbastanza veloce. Stasera vorrei balzare alla fine dell’attesa.
Mi sembra di aspettarlo da una vita.
Sul taxi, dopo un’eternità, le prendo la mano. Mi rivolge
un’occhiata stupita.
«Stasera sei molto, molto strano, Alex», scandisce. «Ho la
sensazione che tu stia davvero tramando qualcosa».
«Voglio vedere il tuo guardaroba», ribadisco e le accarezzo il
dorso della mano.
Alice si avvicina, si piega sul mio orecchio. «Be’, se vuoi metterti
avanti, posso suggerirti un buon punto di partenza».
«Quale?», sussurro tra i suoi capelli.
Si volta, mi guarda. Mi uccide. E muoio ancora quando parla sulle
mie labbra.
«Calze».
Non perde il contatto con i miei occhi, indietreggia lenta verso lo
schienale, solleva la gonna fino alle autoreggenti. Mi prende la mano
e la guida sul bordo di pizzo. Mi sposto piano, per non destare la
curiosità dell’autista, scenderebbe dall’auto se sapesse che questo è
uno di quei momenti da tatuarsi sul cuore.
E finalmente succede. Le abbasso la calza su quella gamba
sottile, lei si muove sotto le mie mani e tiene lo sguardo piantato nel
mio. Io invece non ci riesco. Voglio vedermi mentre la tocco. Voglio
vedere le mie mani su di lei. Accompagno la calza sotto il ginocchio
e lì la abbandono. Anziché scendere, salgo. Le sfioro la pelle, le mie
dita spariscono sotto la sua gonna, lei trattiene il fiato.
«Signori, siamo arrivati».
E su queste parole il taxi si ferma. Deglutisco senza parole
quando mi sorride. È accaldata. L’espressione le dona così tanto che
vorrei imprimerla nelle sinapsi, e allo stesso tempo cancellarla dalla
mente di chiunque l’abbia vista prima di me. Vorrei che fosse tutta
mia. Che non ci fosse stato un solo giorno in cui non lo era.
Cerco di ricompormi.
Ci siamo fermati davanti a una palazzina a otto piani, abbastanza
squallida e quasi fatiscente. Pago la corsa. Lei apre la porta dello
stabile. Attraversiamo l’atrio senza accendere la luce.
«Sei sicuro di poter reggere la vista del monolocale in cui vivo?»,
mi chiede salendo le scale.
«Sono sicuro di reggere quello e molto altro», le dico. Lei si ferma,
due gradini avanti a me. Ci guardiamo, alla stessa altezza.
«Anche il contenuto del mio armadio?»
«Quel poco che ho visto stasera me lo ha fatto rivalutare».
«Okay, allora perché non dai un’altra occhiata?».
E bastava molto meno.
Tra noi ci sono due gradini e una spanna di vuoto. Quattro
centimetri di abisso. Lei è in piedi, davanti a me ed è la cosa più
bella che abbia mai avuto. La prendo per i fianchi, la stringo. Sento
che smette di respirare.
Non respiro neppure io. Le abbasso il cappotto sulle spalle. Le
infilo le mani sotto la maglietta e ridisegno la sua schiena. È
porcellana calda. Lei ancora trattiene il fiato ma non smette di
guardarmi. Mi chiedo se lo faccia per darmi il via libera o se voglia
solo vedere dove arriverò. Le do le risposte che cerca. Trovo il
gancio del suo reggiseno e lo slaccio.
«Vorrei essere nella tua testa», dice in un soffio. È un’ammissione
strana ma la comprendo all’istante. Vorrei essere in quella di Alice.
Per ora mi accontento di avere la sua pelle sotto le dita. Le labbra
sono schiuse. La sua bocca è la sintesi di ogni pensiero eccitante, di
ogni perversione, di ogni consolazione. La sua bocca è il punto
fermo della mia vita.
E sono un vigliacco. Perché “una volta e basta” è solo una bugia
che mi sono raccontato. Perché non ci può essere la conclusione di
una cosa che c’è sempre stata, che è durata a prescindere, che mi
ha assillato, ossessionato, ucciso e fatto rinascere. Ora lo so.
C’era perfino prima che io la incontrassi, perché più che trovarla io
l’ho riconosciuta. E una cosa del genere spaventa a morte. Non c’è
data di scadenza su ciò che sento.
Mi afferra le spalle, il suo seno è contro di me.
«Alessandro», il mio nome sulle sue labbra mi provoca un picco di
eccitazione.
Le restituisco il favore.
«Alice», dico sulla sua bocca.
Si aggrappa alle mie braccia. «Io non resisto più».
Non so se è un via libera, mi sento sparato verso le stelle eppure
precipito. Vedo lo scorcio di un futuro ipotetico dove pagherò sulla
mia pelle ogni centimetro che tocco della sua.
Poi sento una voce.
«Alice?».
Stavolta non sono stato io a dire il suo nome. Ma quella voce si è
abbattuta tra di noi con la violenza di uno schiaffo. Lei alza lo
sguardo verso la tromba delle scale.
«Brando?».
Alice
La posso sistemare

«Oddio. Sei davvero tu?».


Ed è davvero lui.
Stava sulle scale e lo vedo emergere dalla penombra. Quando
passa davanti alla vetrata, la luce dei lampioni lo colpisce. Ha una
giacca di pelle logora, le mani in tasca e i capelli biondi, sparati in
tutte le direzioni.
Sono senza parole!
«Ciao, splendore!», mi saluta. «Scusa per l’improvvisata, ti ho
chiamata, non rispondevi e quindi…», si blocca.
Si rende conto che non sono sola. Vede Alex. E si paralizza.
Cerca di dire qualcosa.
«Ehi, scusa! Ecco. Non sapevo… non avevo capito che…».
Si pianta, ma non so come soccorrerlo. Anche io ho difficoltà a
capire. Ho il cuore a mille. Mi sento ancora le mani di Alex sulla
schiena e ho le labbra marchiate dal desiderio delle sue.
Non riesco a credere che stesse succedendo…
Per fortuna uno di noi si riprende.
«Comunque, ciao. Io sono Brando!», dice e gli porge la mano.
«Brando», ripete Alex, ma non gli stringe la mano e pronuncia il
suo nome come fosse un insulto.
È sulla difensiva.
Cerco di capirne il motivo. Poi ricordo che stava per baciarmi.
Che stavo per baciarlo e, a parte che vorrei tornare indietro,
mettere il tempo in pausa e farlo sul serio, perché ne ho ancora una
voglia feroce, devo cercare di leggere la situazione.
Perché Alex è irritato?
È una faccenda di territorialità?
Posso gestirla.
«Ecco, sì, devi sapere che Brando, qui, è il mio… è uno dei miei
amici di Roma».
«Uno dei tanti», precisa Brando. Credo lo faccia con l’intenzione di
sminuire il suo ruolo, perché pure lui condivide alcune inclinazioni da
maschio alfa, e quindi ha capito che Alex potrebbe essere infastidito
da quella che forse interpreta come un’invasione di campo. Insomma
vuole evitare che Alex fraintenda.
Ma ho la sensazione che abbia appena ottenuto l’effetto contrario.
«Alice, avresti potuto dirmi che avevi ospiti».
«Io ti giuro che non…»
«Ah, ma lei mica lo sapeva», interviene di nuovo Brando. «Pensa
che non lo sapevo neanche io. Non ho nemmeno preso con me le
chiavi per dire…»
«Quali chiavi?», chiede Alex.
Niente panico. Posso gestirla.
«Quelle di casa mia, ma non nel senso che…»
«Non è che ho le sue chiavi», mi viene dietro Brando. «È che sono
un cretino e l’ultima volta che ho dormito qui Alice è uscita prima di
me per andare al lavoro. Che lei è sempre puntuale. Anche per non
dare motivo di lamentele al suo capo che, lo saprai meglio di me, è
una colossale testa di cazzo».
Ecco…
Non la posso gestire.
Alex
La lastra spezzata

Ecco. Sono appena stato insultato da uno a cui, a occhio e croce,


dovrebbero essere revocati il diritto di parola e la cittadinanza. Uno
che non può essere vero. Ha i jeans strappati, gli occhi truccati,
parla con un marcatissimo accento romano. Sarei tentato di replicare
che anche lui ha l’aria di essere una testa di cazzo, ma di sicuro
riporta l’opinione di Alice.
Alice che si arrampica sugli specchi e non riesce a prendere le
misure a questa situazione, quando, molto semplicemente, dovrebbe
liberarsi di lui e darmi quel mezzo milione di spiegazioni che a
questo punto, come minimo, mi deve.
«Comunque scusa, Alice, se avessi immaginato che eri in
compagnia avrei trovato un’altra soluzione…»
«Ma no, tranquillo», gli dice, «dimmi come posso aiutarti».
Se per tutta la sera ho sospettato che Alice fosse ubriaca, ora ne
ho la certezza. Perché sta perdendo tempo con questo caso umano.
Se dovessi giudicare i suoi tanti amici partendo da lui, mi
vergognerei di essere qui. E non vedo l’ora di essere solo con lei per
dirle anche questo.
L’idiota ci mette al corrente di aver “suonato in un locale
underground di Milano” quindi, ne deduco, è un fallito che prova a
sfondare con la musica, ci racconta di avere in seguito “perso il
treno”, pertanto, ne va da sé, è anche un coglione che non sa
neppure leggere un orologio e infine ci dice che sta “al verde”, quindi
aggiungiamoci pure che è un morto di fame. Ma la cosa più
sconvolgente è che alla luce delle sue disgrazie l’idiota dice: «Avevo
pensato di fermarmi qui, ma ovviamente…».
Ovviamente avevi pensato male…
«Va bene, fermati», dice Alice.
Non so chi tra me e il tipo sia più agghiacciato da questa risposta.
«No, Alice», replica lui. «Non voglio rovinarvi la serata».
È così evidente che c’è arrivato perfino lui. Che, se dovessi
scommettere, non è una cima. L’unica che non ci arriva è Alice.
«Scusami… Brando, giusto? Vorrei parlare un attimo con Alice».
Lui alza le mani in segno di resa e ha il buon senso di risalire sul
pianerottolo dove si siede e comincia a battere un ritmo con il piede.
Afferro Alice per un braccio e la porto più lontana che posso.
Incrocio il suo sguardo e mi ritrovo al punto in cui stavo un attimo
prima di lasciarli. Le potrei dire che voglio disperatamente salvare la
serata, le potrei dire che sono disposto a pagare la penthouse suite
del Four Seasons a questo tizio, pur di liberarci di lui e prendere
quello che aspetto disperatamente da anni ma le parole che mi
escono sono diverse.
«Chi cazzo è?».
Lei si irrigidisce. «Te l’ho detto è uno dei miei amici…»
«Uno dei tuoi tanti amici?», la correggo. «Ma toglimi una curiosità,
dormono tutti da te?»
«Guarda, so cosa può sembrare, ma…»
«Ma quanti anni ha?», la interrompo. «Sedici?»
«Ventidue a dicembre e…»
«Cioè, scopi con uno più piccolo di te?».
Stavolta serra le labbra. «Ha solo un anno in meno di me! Tu esci
con ragazze a malapena legali!», protesta.
Sono incredulo, ha risposto sull’età, ma non ha negato il resto.
Non ha detto che non ci scopa…
«E hanno tutti le chiavi?», la incalzo, cerco di parlare piano, ma mi
sento scappare la voce. «Quanti sono di preciso i tanti amici che
dormono da te?».
Lei, non so a che titolo, si stupisce. «Fai sul serio?»
«E tu?».
Un lampo le incendia lo sguardo. «Se vuoi sapere di me e di
Brando, chiedimelo, cazzo! Non fare così, Alex! Non spararmi
addosso i tuoi sospetti, non insinuare», mi intima. «Non darti le
risposte da solo e non estorcermele. Dobbiamo dirci le cose. Ricorda
che ce lo siamo promessi».
Faccio un passo indietro. «Io non ti ho promesso niente».
«Ma perché devi fare lo stronzo? Mi spieghi per quale cazzo di
ragione ti comporti così? Vuoi rovinare tutto?».
E me lo chiedo anche io.
Mi chiedo se voglio rovinare tutto, e cosa sia il tutto di cui parla.
La risposta è davanti ai miei occhi.
È un gioco che lei ha deciso, di cui lei ha dettato le regole, che lei
conduce da sempre. Un gioco che mi porta all’inizio della fine.
Della mia fine.
E mi rendo conto in questo istante che sono io ad averle messo in
mano una pistola carica. Ogni singola parola, ogni cosa perdonata,
ogni passo indietro che ho fatto, ogni ripensamento, scusa o
ammissione di colpa mi hanno portato qui. A un niente dal mettermi
a nudo per qualcuno che non solo ha premuto il grilletto, ma lo ha
fatto mirando al mio cuore.
«E dimmi, Alice, cosa hai in mente di preciso?»
«Alex…»
«Qual è il piano? Saliamo tutti e tre, ci stappiamo una birra e poi ti
scopiamo a turno?».
Serra le labbra, scuote la testa. «Sei davvero un idiota».
«E tu una che si porta a letto chiunque…».
Esita, mi fissa. Annuisce.
«Okay, perfetto», mi dice e con un gesto plateale mi indica la
porta. «Vattene».
E non ha idea di quello che ha appena fatto. Perché eseguirò alla
lettera. Stasera me ne andrò davvero, da questa follia, da lei e da un
noi che non doveva neppure iniziare.
Rimetterò le cose a posto.
Fosse l’ultima cosa che faccio.
Alice
Rancore

Sul dizionario, alla voce “casino”, da oggi sarà ufficialmente citata


la nefasta congiuntura astrale dello scorso sabato. Credo di portarne
ancora addosso i segni. Sono sulla metro e la gente mi tiene a
distanza come se avesse intuito la sfiga che mi perseguita e
temesse il contagio. Resto aggrappata al palo. Stringo le dita al
punto che ho le nocche bianche. Andare al lavoro oggi assume i
contorni di una sfida senza precedenti.
Devo rivedere Alessandro, la stessa persona che mi ha slacciato il
reggiseno e poi, dopo una scena madre degna di un dramma della
gelosia, mi ha accusato di andare a letto con tutti.
Dovrò affrontare la circostanza bizzarra, per non dire assurda, che
a letto ci stavo per finire davvero.
Ma con lui.
Anche se, per come stavamo messi, al letto non ci saremmo
neanche arrivati. Spogliarci senza neppure passare per un bacio
potrebbe sembrare una cosa brutale, ma a questa cosa ci pensavo
da secoli. Non lo ammettevo ma ci pensavo. Ero certa che sarebbe
stato bellissimo.
E invece è finita da schifo.
Quando Brando mi ha visto tornare da lui, sola e incazzata, si è
scusato tantissimo.
«Non preoccuparti», gli ho detto. «Il mio capo è un cretino».
«Oh, cazzo non ci credo! Era il tuo capo».
«Sì».
«Esci con il tuo capo».
«Più o meno».
«E io gli ho dato della testa di cazzo».
«Colossale testa di cazzo», lo correggo. «Tranquillo. Se lo
meritava».
Alla fine ci siamo stappati un paio di birre e gli ho raccontato tutta
la storia.
Quando ho conosciuto Brando era diverso da ora, era
amareggiato e arrabbiato. Ha avuto una vita discretamente
incasinata, ha perso il padre, ha conosciuto una condizione molto
vicina alla povertà, poi si è ritrovato a vivere con il secondo marito di
sua madre, un uomo ricchissimo, che però lui odia. La nostra storia
è finita quando sua madre ha cominciato a frequentare l’uomo che
avrebbe finito per sposare. Brando non si rassegnava. Era difficile
stargli accanto e, visto che nel frattempo ho perso la casa, ho deciso
di partire per Milano. Lui non me ne ha mai fatto una colpa. Ci siamo
aiutati di più a distanza, di quanto avevamo fatto stando vicini.
In questi ultimi tre anni ha cercato di mettere ordine nella sua vita
e di fare progetti. E, sebbene l’amarezza sia rimasta, ha imparato a
gestirla. È una brava persona. Sa ascoltare e ha maturato una certa
forma di saggezza. Ora è capace di dare buoni consigli agli altri per
quanto rimanga un pessimo consigliere di se stesso. Sabato notte mi
è stato parecchio utile. Ha dimostrato una grande lucidità nell’analisi
del mio problema.
«Alice, è appurato che il tuo capo è una testa di cazzo».
«Colossale».
«Colossale», ha confermato. «E stabilito che, se fossi in te, ci
penserei due volte prima di portare la cosa al livello successivo, mi
sono anche accorto che combattere contro certe cose è stupido. Ti
fai più male a evitarle che ad affrontarle. Insomma, se proprio ti
piace, devi accettare che non l’avrai mai tutto intero. Le conosco le
persone come lui, sono così abituate a raccontare cazzate che non
sanno più cosa è vero e cosa non lo è. Quindi, per sbloccare la
situazione, ti resta solo una cosa da fare: devi essere sincera tu, per
tutti e due, e accettare che è fatto così. Nasconderà sempre una
parte di lui».
E porca miseria, ha proprio ragione.
Quindi, dopo aver toccato il fondo della rabbia, ho accettato il
suggerimento di Brando e ho concluso che, purtroppo per me, mi
sono presa una sbandata.
C’è qualcosa tra me e Alessandro.
È cresciuto nonostante i nostri sforzi per ucciderlo. Si è rafforzato
nel quotidiano, è sopravvissuto alle nostre liti, è rimasto lì,
nonostante lui mi licenziasse. Il genere di cosa che ti fa più male
tentando di evitarla che affrontandola.
E quindi ho concluso che, sì, io voglio provarci.
Se Alex è infantile e geloso, io mi sforzerò di essere matura per
entrambi. Mi presenterò davanti a lui e gli dirò: «Scusami,
Alessandro, ho rovinato un momento bellissimo. Perché okay che
sei un cretino egocentrico e mi hai pure insultato, ma quello che ci
stava succedendo aveva qualcosa di magico. E devi ammettere che
le cose magiche non capitano mica tutti i giorni. E non capita
neppure di trovare qualcuno che ci piaccia così tanto da piacerci
anche nel momento in cui non ci piace affatto. Insomma, io devo
levarmi di dosso la curiosità di sapere come sei senza vestiti, anzi,
se vuoi una mano, conta su di me. Ma, per favore, in fretta. Spogliati,
spogliami, abbracciami, perché mi porto il tuo ricordo addosso da
due giorni e se sto così senza averti neppure toccato, non so
immaginarmi come mi ridurrai quando ti deciderai a baciarmi».
Forse non gli dirò proprio così, ma questo sarà il concetto.
La cosa certa è che non voglio giocare con lui, c’è troppo in ballo,
e so che, permaloso com’è, non mi renderà la vita facile. Dovrò
avere molta pazienza.
Arrivo a palazzo e la prima persona che vedo è la perfida Marilù.
Mi passa al volo la bozza di un articolo, che correggo mentre stiamo
in ascensore. E intanto mi dice che abbiamo una riunione alle undici
con il capo e con Erminia Delle Piane della Bonbon Cosmetici.
«Ma non era programmata per domani?»
«È stata anticipata a stamattina. Il capo ha rivoluzionato tutta la
programmazione della settimana», mi rivela. «Aspetto la tua
relazione per le dieci e trenta massimo. Concentrati sull’uso che
abbiamo fatto dei prodotti Bonbon nei redazionali della Levoskova.
Erminia vorrà essere rassicurata».
«Okay, avrai la tua relazione. Ma prima devo passare nell’ufficio di
Alessandro».
«No, evita. Mi ha detto di non disturbarlo fino alle undici. Ha una
marea di questioni che è tassativo chiudere entro oggi».
Le porte si aprono e lei scende al nono. Io ignoro i suoi
avvertimenti e salgo al decimo.
Saluto la receptionist bionda, e le chiedo di avvisare il capo che
sono qui e che ho bisogno di parlare con lui.
«Stamattina è impegnatissimo», mi informa con una gravità
eccessiva, neanche Alex fosse un chirurgo che deve operare a
cuore aperto. «Ha anticipato a oggi tutti gli appuntamenti di domani e
dopodomani», dice confermando la versione di Marilù.
«Okay, ma puoi fare un tentativo, per favore? Digli che sono qui, e
che ho bisogno urgente di parlargli».
Lei mi scruta dubbiosa, poi si decide a sollevare il telefono.
«Scusi il disturbo, dottore, ma è arrivata Alice Baker e chiede
se…», si interrompe, poi annuisce, «sì l’ho avvisata, ma…», si
interrompe di nuovo, «sì è colpa mia. Non succederà più».
Ripone il telefono e nel farlo le trema la mano.
«Si è arrabbiato», dichiara. Ha l’aria di rinfacciarmelo. Mi scuso e
me ne vado.
Per il resto della mattina cerco di lavorare. Cerco di non
arrabbiarmi con lui. Occorre accettare i limiti delle persone e Alex è
così: infantile e vendicativo. Ce l’ha con me e mi tiene a distanza.
Gioca a fare il capo. Gliel’ho visto fare un’infinità di volte.
Tuttavia, se durante la mattina me lo sono immaginata in una
versione tormentata, scostante e di cattivo umore, l’immagine che mi
appare alle undici in sala riunioni è del tutto diversa.
Alex è semplicemente luminoso. Ha optato per un outfit da ufficio
formale, con la camicia di un azzurro discreto, la cravatta blu. È
perfettamente rasato, insolitamente pettinato e decisamente
sorridente. È seduto sulla poltroncina, chino verso Erminia, una bella
ragazza sempre in tiro. I gomiti sulle gambe e le mani giunte
conferiscono alla posa di Alex l’intensità di una dichiarazione.
«E devi assolutamente provare il soufflé di radicchio e alga
rossa», le sta dicendo, mentre entriamo. «Se vai al Bellavista devi
abbandonare i pregiudizi e fare l’esperienza. È un percorso
sensoriale, di degustazione stellata».
«Parlate del Bellavista di Como?», si intromette Marilù. «Quello
appena inaugurato da chef Rupestri?»
«Proprio quello», conferma Erminia. «Alessandro mi stava
raccontando di esserci stato ieri sera».
«Oh, che spettacolo», cinguetta Marilù, «ho visto le foto della villa
e della terrazza. Magnifiche».
«È stato un fuori programma», minimizza lui, «per quanto molto
piacevole», aggiunge, e lo fa con un sorriso che nelle intenzioni
suggerisce che l’esperienza non sia stata solo culinaria.
Cerco di stare calma. Sta mettendo in scena questa recita per
punirmi, ma devo ricordarmi del consiglio di Brando. Alex non sa più
essere sincero, ma ciò non fa di lui un bugiardo.
«C’è una lista d’attesa infinita», continua Marilù. «Ma ovviamente
questo non è un problema per te, Alex».
«Lo studio Gattopardi ha curato gli interni del Bellavista», spiega,
«ed Elisabetta mi doveva una cena».
Eisabetta Gattopardi, certo. L’architetto under trentacinque più
richiesto nel circuito del lusso. Una scopamica di Alessandro che
ciclicamente riappare accanto a lui. Ora il quadro è completo, ha
voluto farmi sapere che ieri sera era sul lago, a stappare bottiglie da
cinquecento euro, in compagnia di una tizia con cui ogni tanto
scopa.
Di nuovo cerco di non perdere la direzione, ma sta diventando
parecchio difficile.
Durante la riunione assisto allo spettacolo dei suoi sorrisi, delle
sue battute, lo vedo flirtare, scherzare, ragionare con serietà. E vedo
le quattro donne attorno al tavolo pendere dalle sue labbra.
Le labbra obiettivamente belle di una persona che tuttavia non
esiste. Questo è il personaggio che Alessandro ha messo a punto
negli anni. La sua maschera più riuscita, la più falsa.
Marilù legge la mia relazione, io posso stare in silenzio a
scarabocchiare parolacce su un foglio.
Spero che, quando saremo da soli, Alessandro riesca a essere se
stesso. Sempre che esista un vero Alessandro, da qualche parte.
Quando la riunione finisce, lui si congeda da Erminia e la invita a
provare il Bellavista insieme a lui.
Io cerco di passare sopra a questa ennesima crudeltà. Rammento
a me stessa che è tutto parte di un copione. So di cosa è capace,
ma so anche di cosa non è capace. Ed escludo categoricamente
che, dopo quello che abbiamo sfiorato sabato sera, lui si sia rotolato
nelle lenzuola con la dottoressa Gattopardi, o mediti di farlo con la
product manager della Bonbon. Semplicemente mi rifiuto di crederlo.
Vuole solo punirmi facendomelo credere.
Quando lo vedo dirigersi verso l’uscita, capisco che non possiamo
più continuare così.
«Alessandro, puoi restare? Ho bisogno di parlarti».
Lui dà un’occhiata all’orologio, poi scuote la testa. «Desolato,
Alice, ma oggi è una giornata molto piena. Se riguarda la rivista,
parlane pure con Marilù, altrimenti rimandiamo a giovedì, quando
rientro».
«Parti?»
«Sì, ho l’aereo alle diciotto. Ora, se vuoi scusarmi…»
«No», dico. «Devi concedermi un minuto. Ho bisogno di parlarti».
Marilù si scandalizza. «Alice, non essere molesta. Alex ha detto di
parlarne con me».
«Non riguarda il lavoro. Marilù, per favore esci», mi impunto. «Io e
Alessandro dobbiamo parlare».
Lei cerca nello sguardo di Alex le indicazioni su come comportarsi,
lui continua a conservare un’espressione moderatamente partecipe,
come se fosse davvero dispiaciuto, ma proprio non potesse.
Alla fine sospira. «D’accordo, come vuoi. Marilù, per cortesia,
lasciaci soli».
Lei esce in fretta. Ma la sala riunioni ha una parete di vetro che dà
sul corridoio e vedo che Marilù richiama una delle ragazze del
licensing e si mette a conversare proprio lì. Ha intuito che c’è
qualcosa sotto e muore dalla voglia di scoprirlo.
Io e Alex siamo soli, ma nell’acquario. Conoscendo Marilù
potrebbe cercare di decifrare il labiale. Devo stare attenta a ogni
segnale, compreso il linguaggio del corpo.
Alex mi esorta con un cenno della mano. «Avanti, Alice, ti
ascolto». È stato gentile ma in quel modo universale che sta bene su
tutto. Bene con tutti.
«Alessandro, volevo parlarti di quello che è successo sabato
sera».
«La cena da Fosco?»
«Più il dopocena», insisto.
Lui continua ad aspettare che aggiunga particolari, come se non
capisse, come se fosse all’oscuro di tutto. Come se fossi stata sola
in tutti quei minuti a cui non smetto di pensare.
«Alessandro, io voglio che tu sappia che, almeno fino a un certo
punto, per me è stata una serata bellissima. E mi dispiace che tu te
ne sia andato, mi dispiace che tu abbia fatto la conoscenza di
Brando in quel modo, perché capisco che puoi aver pensato…»
«È amico tuo», si stringe nelle spalle. «È a te che deve piacere»,
guarda di nuovo l’orologio. «Se questo è quanto, la chiuderei qui,
come ti ho detto sto per partire e non tornerò prima di giovedì».
«Okay, buon viaggio, allora», cerco di adeguarmi. Mi vuole
mettere in castigo e io gli dimostrerò di saperci stare. Nella speranza
che lui capisca quanto è stupido relazionarsi così, quanto è stupido
trasformare ogni conflitto in una guerra. Voglio aver pazienza.
«Ti aspetto lunedì. Non sapevo che dovessi andare fuori città per
lavoro».
«Infatti non vado per lavoro. Mi concedo una pausa».
«Ah».
«Vado a trovare gli Hannover. Ti ricordi di Guglielmo, vero?».
A causa di Guglielmo Hannover non ci siamo parlati per quattro
mesi. A causa di Guglielmo Hannover abbiamo rischiato di perderci
per sempre e lui ha il coraggio di chiedermi se mi ricordo di lui? Di
chiedermelo guardando verso la porta quasi a sottolineare che
siamo oltre tempo massimo e lui non vede l’ora di andarsene?
Non faccio in tempo a rispondere. Squilla il suo telefono. Lui lo
prende e sorride.
«Parli del diavolo… Ciao, Selvaggia».
Selvaggia, la persona che lo baciava davanti a me. La persona
che lo toccava davanti a me.
Ora lui le parla, davanti a me. Lo sento dire che non vede l’ora di
incontrarla, che gli è mancata tanto. Le sue ultime parole sono una
mazzata.
«Te lo prometto, piccola, ci divertiremo». Riattacca. «Dicevamo?».
Mi guarda. I suoi occhi sono glaciali, sotto quello sguardo mi sento
leggera e pesante.
«Niente, Alex. Non stavamo dicendo niente».
Perché niente è quello che siamo, niente quello che abbiamo.
Perché io ci posso mettere coraggio, pazienza e fiducia, ma non
serve. Non si colma un pozzo senza fondo.
Tu sei il nulla senza fondo, vorrei dirgli. Tu sei il niente fatto
persona.
E sei crudele. Perché mi ferisci, e lo sai. Perché io ci ho provato, e
tu te la sei goduta un mondo. Perché ci hai appena cancellato,
ancora prima che esistessimo e l’hai fatto guardando l’orologio.
Vorrei dirglielo invece sorrido.
«Ci vediamo quando torni», gli dico. «Salutami, Selvaggia».
La settima volta
La verità su di noi
God save Only Us
L’autunno milanese inizia sotto il segno della Union Jack! La città
si prepara a ricevere gli Only Us, la popolare boy band britannica
che fa impazzire le teenager, le loro madri e le loro nonne.
Cian, Ronan e Malachi hanno dichiarato che non vedono l’ora di
essere qui, perché amano l’Italia ma Hywell ha battuto tutti i suoi
amici lanciando l’hashtag #pazziperlapizza.
Il concerto al Forum di Assago sarà seguito da un esclusivo vip
party. La location è ancora segreta, così come la lista degli invitati.
Ma una cosa è certa: c’è gente disposta a tutto per mettere le mani
sugli inviti.
Corre voce che la società di eventi incaricata di organizzare il
ricevimento abbia chiesto la preziosa consulenza della nota
trendsetter Carlotta Dei Pinzi Ranieri, che si è personalmente
occupata della vip list.
Ci aspettiamo di vedere alla festa le persone della sua cerchia e
gli amici di sempre come Alessandro Francalanza Visconti (28 anni
nella foto), ma è quasi certo che al suo fianco non ci sarà Eugenio
Della Riva.
Le voci di una rottura tra l’ereditiera e il suo storico fidanzato
circolano già dalla scorsa primavera ma solo quest’estate il sospetto
si è fatto concreto perché la coppia ha trascorso vacanze separate.
Eugenio e Carlotta per il momento non rilasciano dichiarazioni ma ha
fatto molto discutere un post apparso nel profilo Instagram
dell’ereditiera.
Accanto a una foto che ritraeva un anello con brillanti mozzafiato,
dono del fidanzato, Carlotta ha scritto: “Tutte le cose belle finiscono
ma il meglio deve ancora venire”.
Chissà che il “meglio” per la bellissima Carlotta non arrivi proprio
in occasione del party più atteso dell’autunno milanese!
Karisma Bartoletti, Storie2000
Alex
Tutto come prima

L’immagine restituita dallo specchio coincide con me. Un colpo


alla cravatta, uno ai capelli, e poi mi occupo dei gemelli ai polsini.
Sono in un bagno dove trionfano le linee di design e i pensili verde
acido. È una stanza d’albergo, perché almeno questa lezione l’ho
imparata da un pezzo.
Non devi mai portarle a casa tua.
Lei compare sulla porta, avvolta nell’accappatoio.
Ripenso a quello che mi ha fatto nella vasca idromassaggio, un
modo come un altro per darmi il buongiorno, il migliore quando il
buongiorno coincide con un addio.
«Possiamo rivederci per pranzo?»
«Purtroppo no», le dico, aggiungo un sospiro, più di liberazione
che di rimpianto. Sono felice di avere un alibi per non rivederla.
Restare, quando hai già avuto quello che volevi, non ha alcun senso.
Lei si avvicina, si ferma alle mie spalle e mi chiude in un
abbraccio; nel riflesso dello specchio asimmetrico vedo le sue mani.
Una sul petto e una sullo stomaco. La persona alle mie spalle
potrebbe essere chiunque, il sollievo che provo nel constatarlo è
assoluto. Sono mani insignificanti di una persona qualunque, che
smetto di desiderare nell’istante in cui ce l’ho. Ho il conforto di
sapere che non le lascio nulla di me: esco di qui e resto intero.
Mi libero di lei con gentilezza, ma senza esitazioni. Le auguro di
riuscire ad avere la parte da protagonista della fiction per cui ieri ha
fatto il provino e, mentre le parlo, mi allaccio le stringhe delle scarpe.
Poi recupero la mia giacca.
«Alex, mi piacerebbe tanto rivederti».
«Anche a me. Quando torni a Milano, chiama. Magari riusciamo a
combinare», replico e intanto guardo l’orologio. «Ora scusa, ma ho
un impegno davvero molto importante».
Recupero il cappotto che avevo ieri sera, quando l’ho incontrata al
Mag Cafè ai Navigli. Mi avvio verso la porta. Lei mi segue. Vorrei che
non lo facesse. Investire la speranza nell’avventura di una sera è
una cosa che la gente non dovrebbe fare mai.
Mi bacia ancora, ferma sulla soglia.
«Penserò a te tutto il giorno, Alex».
«Anche io, Martina».
Si blocca, mi scruta con i suoi occhi nocciola. Scorgo una nota
delusa che prima non c’era.
«Mi chiamo Clelia», dice. Poi è lei a chiudere la porta.
Dare un nome a persone di cui non mi importa nulla, al contrario,
non ho ancora imparato a farlo.
Mentre spingo la porta rosso fuoco dell’hotel Palazzo Matteotti,
mando un messaggio a Marilù e l’avviso che stamattina potrei
tardare. Mi risponde con un’icona sorridente, un pollice su e un
cuore. Alla fine ci mette anche una torta. Ma credo che quella le sia
scappata nella fretta di ricoprirmi di emoticon. Sta cercando in tutti i
modi di avere un invito per il party che ci sarà tra qualche giorno in
onore degli Only Us. Emilia è fan del gruppo e, a inizio autunno, ho
rimediato alcuni inviti. Quattro, per la precisione. Due erano per lei e
Fosco, due per me e Alice.
Gli inviti ci sono ancora. Io e Alice, invece, non esistiamo più.
Ripeto a me stesso di essermi salvato in extremis.
Alice coincide con una fase oscura della mia vita. Quella in cui non
bastavo a me stesso; in cui, pensando a me, moltiplicavo per due. È
stata una intossicazione lenta e progressiva. Come ogni tossico mi
dicevo: “Smetto quando voglio”. Come ogni tossico, abusavo della
mia droga e rendevo cronica la dipendenza.
E lei? Lei esercitava il suo potere senza legarsi, senza
compromettersi. Io nuotavo contro corrente. Lei mi guardava, in
salvo sulla riva.
Non voglio più sentirmi così irrilevante, non voglio più stare male.
Per nessuno. Mai più.
Il tempo è prezioso, penso in via Pietro Verri, davanti alla vetrina di
Patek Philippe, e io non ne sprecherò più.
Arrivo da Cova, in via Monte Napoleone, con cinque minuti
d’anticipo. Sono qui per incontrare mia madre. Credo voglia
aggiornarmi sui progressi del progetto internazionale. La costruzione
della redazione di Parigi la sta tenendo parecchio impegnata e
ultimamente conduce una vita da pendolare, tra Milano e il nostro
attico nella capitale francese, nel sesto arrondissement. Quando la
vedo varcare la soglia della sala Nabucco, in compagnia di Ermione
Dei Pinzi Ranieri, devo per forza annullare le mie supposizioni e
vedere questa convocazione sotto una luce diversa. Mia madre
voleva semplicemente fare colazione con me.
Con Leonardo Dei Pinzi ora le cose vanno meglio. La svolta è
arrivata due settimane fa, quando gli ho comunicato di essere pronto
ad aprire una trattativa per il pacchetto Hannover.
I nostri legali stanno definendo i dettagli della cessione.
Il mio cda, da sempre scettico in merito all’investimento nel settore
dei libri, ha tirato un sospiro di sollievo e mia madre si è detta molto
soddisfatta della mia scelta.
Quell’acquisizione è stata solo l’atto nostalgico di un idiota che
voleva fare colpo su una ragazza.
Alla luce di questa trattativa, i rapporti con la famiglia di Leonardo
adesso sono distesi come in passato. L’incontro avviene all’insegna
della cordialità più squisita. La signora Ermione era compagna di
scuola di mia madre e hanno ancora molto in comune, la
conversazione è fluida, il luogo è famigliare.
Mi intrattengo con loro poi viene il momento di salutarle e andare
al lavoro. Sono in piedi e sto indossando il cappotto, quando arriva
Carlotta.
«Scusatemi, ho fatto prima che potevo».
I capelli raccolti in una piega studiata, dove ogni ciocca concorre
all’effetto finale, lo smalto carminio sulle unghie perfette, né corte né
lunghe. Un delizioso cappottino aperto su un vestito color caramello.
La vista di Carlotta mi stampa, come sempre, un sorriso sulle labbra.
È, in una parola, impeccabile.
«Ti ho già perdonata», le dico, poi aspetto il suo bacio, che arriva
con la precisione di chi conosce la strada.
«Carlotta, purtroppo sei arrivata troppo tardi», sospira la signora
Ermione, «Alessandro stava andando via».
Mi sfiora il braccio, reclina la testa.
«Allora ti accompagno al lavoro», dichiara. «Sarebbe un dolore
troppo grande aver perso anche te, oltre le boules di cioccolato».
Sorrido di nuovo. È inevitabile.
Questo è sempre stato il potere di Carlotta. L’affinità che sento con
il suo stile di vita e con il suo modo di pensare fa di lei una delle
poche persone di cui non cambierei niente. Con lei mi sento
collocato al posto giusto, e mi sento decontratto, come quando
allenti una cravatta troppo stretta, che tuttavia sai di non poterti
togliere.
Ce ne andiamo consapevoli degli sguardi di approvazione delle
nostre madri.
Si appoggia al mio braccio. «Stai dando loro una speranza, lo
sai?».
Cerco di non ridere. «Probabilmente hanno già scelto il colore
delle partecipazioni per le nostre nozze».
Poi realizzo che magari scherzare così, in questo momento
particolare, non è proprio di buon gusto.
«Come vanno le cose?»
«Il party è sotto controllo. Impazzirò, ma porterò a casa l’evento
dell’anno», ammicca. «Ho visto i nominativi dei tuoi accompagnatori.
Hai confermato il mio sospetto: ti stai divertendo con la Levoskova».
Usciamo dal locale. La giornata è fredda e coperta.
«No, mi dispiace contraddirti», scuoto la testa. «Se guardi bene la
lista, vedrai che accanto al mio nome e a quello di Emilia c’è quello
di mio cugino…».
È una giornata grigia ma Carlotta inforca gli occhiali da sole.
«Pietro? Cosa c’entra Pietro con…?», si sbalordisce. «Cioè, sul
serio? Mi stai dicendo che è tuo cugino che va a letto con…?»
«No», la interrompo, ci ripenso e aggiungo. «O forse sì. Pietro ha
appena chiuso con la sua ex. Credo che tra lui ed Emilia ci sia
qualcosa».
«Dio, non ci credo. Quella poteva scegliere tra voi due, e ha scelto
lui?»
«Anche io avrei scelto lui», dico, e sono sincero. Fosco è mille
volte meglio di me. «Comunque, quando ti ho chiesto come vanno le
cose, non mi riferivo al tuo lavoro, Carlotta».
«C’è qualcos’altro che conti?».
C’è una punta di cinismo nella battuta, ma probabilmente ha
ragione.
Il lavoro è l’unica cosa che conta.
Raggiungiamo la sua berlina, posteggiata in via Sant’Andrea.
L’autista ci apre le portiere.
Appena siamo dentro la vettura, Carlotta riduce le distanze.
Annulla lo spazio che ci separava. Ho il suo seno sul braccio e il suo
naso sulla mia guancia. Respira.
«Ci avevo preso. Non hai il tuo solito profumo».
Mi giro verso di lei, reggo il suo sguardo a una distanza che
potrebbe essere considerata rischiosa e che forse un po’ lo è.
«Non ho dormito nel mio letto».
Lei sorride, tenendo gli occhi nei miei.
«Neanche io».
La cosa, per qualche ragione, ci fa ridere.
Mi ritrovo a stringerle la mano, lei infila il braccio sotto il mio e
appoggia la testa alla mia spalla.
Non c’è niente di strano nello stare vicini e in silenzio. Abbiamo
una confidenza totale. Mi godo ancora la sensazione di sentirmi al
posto giusto.
«Sai, pensavo che mi sarebbe mancato».
«Parli di Eugenio, vero?»
«Già», sospira. «Siamo stati insieme quattro anni, Alex. E non l’ho
rimpianto neppure un giorno».
«Carlotta, detto tra noi, era tempo di farla finita. Lui era troppo
innamorato e tu troppo poco».
«L’amore è solo storytelling, Alex», decreta. «E tale deve restare.
Non si può rispettare un uomo che ama qualcuno più di se stesso.
Però speravo di provare almeno un po’ di nostalgia».
«Vuoi la mia opinione?»
«Mi piacerebbe».
«Considerati fortunata».
Ride appena. «Povero Eugenio…»
«Non per lui. Dico in generale. È sciocco rammaricarsi di non aver
sofferto. Non c’è niente di interessante nel dolore. Sei stata fortunata
ad averlo evitato. Lui? Come sta?».
Scuote la testa. «Non l’ha presa bene. E la sta gestendo in modo
pessimo. La settimana scorsa ero a fare un minibreak alle terme di
Villa dei Cedri. Non ero sola. Lui è comparso alla reception
chiedendo di vedermi. Urlando. Una piazzata indecente».
«Vedi? A che ti serve il dolore, Carlotta?».
Non replica. Credo di averla convinta.
Cerco comunque di alleggerire.
«Sai, è un pezzo che non vado a Villa dei Cedri», riconosco.
«Allora bisogna che ti ci porti».
«Dici sul serio? Tu e io alle terme?»
«Hai paura che Eugenio faccia una piazzata anche a te?»
«Non ne avrebbe motivo».
«Ma lui non lo sa».
Si gira verso di me.
Le restituisco lo sguardo.
Sospira.
«Mi dici che ti è capitato, Alex?»
«Quando?»
«Nelle ultime settimane».
Ora mi sento scomodo. Vorrei scappare fuori dai suoi occhi.
«Perché me lo chiedi, Carlotta?»
«Perché sei diverso», si stringe al mio braccio, «e non parlo solo
del fatto che non hai messo il tuo solito profumo».
«Sono sotto pressione», le dico. «Sono molto impegnato per la
redazione internazionale e nella trattativa con tuo padre».
«Hai resistito per quindici mesi, senza cedere il pacchetto
Hannover. Respingendo ogni offerta, correndo il rischio di
inimicartelo a vita. E poi? Quando lui si rassegna, quando hai portato
a casa il punto, tu che fai? Ti liberi di quella cosa che hai difeso. Te
ne liberi come se non la volessi più intorno. Come se ti ricordasse
qualcosa a cui non vuoi pensare…».
L’autista parcheggia davanti al palazzo. E sono davvero felice di
poter troncare questa conversazione. Parlare di una cosa la fa
diventare vera. Ha sfiorato i veri motivi per cui mi voglio liberare della
Hannover. E io non voglio pensarci.
Le chiedo se posso sperare di vederla stasera al party di
compleanno di Tiberio Degli Innocenti.
«No. Festeggiare due volte il compleanno è troppo anche per lui.
E poi non voglio correre il rischio di incontrare gli Hannover»,
risponde.
«Problemi con Selvaggia?»
«Con Guglielmo, a dire il vero», indossa un nuovo sorriso, e
capisco che non ha voglia di dirmi altro. «E tu? Andrai con
qualcuno?»
«Da solo», ammetto.
«E come mai?».
Perché da solo io ho il controllo, vorrei dirle, perché da solo non
corro alcun rischio. Perché l’unica volta che ho ceduto alla
tentazione di non essere solo, ho capito anche cosa significhi essere
abbandonati.
«Vado da solo», le dico, «perché tu non ci sarai».
Lei ride. È lusingata, ma troppo intelligente per darmi credito. Non
si farebbe mai ingannare da me e io non avrei bisogno di farlo.
«Possiamo rimediare in settimana».
«Assolutamente».
Mi bacia. Un lungo contatto tra la sua bocca e la mia pelle.
Respiro il suo profumo. Si scosta e mi ritrovo nei suoi occhi.
«Comunque non lascerei mai scegliere alle nostre madri i colori
delle partecipazioni».
Un ultimo sorriso e scendo dall’automobile.
Ripenso alla faccenda delle terme. E alla domanda di Carlotta.
Che ti è capitato?
Non mi infastidisce la domanda. Mi spaventa che io porti addosso
il fatto che mi è capitato qualcosa.
Nell’atrio incontro Marilù. Saliamo insieme in ascensore. Mi chiede
di fermarmi al nono per vedere i gadget dei numeri che usciranno nel
periodo di Natale. Ma so che ha un altro scopo.
«Alex, mi è parso di vedere che sei arrivato con Carlotta Dei
Pinzi», dice mentre stiamo salendo. «So per certo che lei ha in mano
la lista per gli inviti al party di…»
«Mi dispiace», la interrompo, «è una lista chiusa da settimane».
«Okay, però forse ho trovato una soluzione: prendo il posto di
Alice».
«In che senso?»
«Nel senso che io vengo e lei sta a casa. Ha detto che non le
importa».
Non sono sorpreso. Dovevo aspettarmi che Alice cercasse di
svignarsela. E invece dovrà venire. Dovrà venire e passare la serata
a guardarmi mentre io vivo al massimo. Perché io voglio che lei
sappia che ho voltato pagina. Che quando mi ha detto di andarmene
io me ne sono andato davvero.
«Mi dispiace, Marilù. Ma Alice non può decidere», chiarisco.
«Alice fa quello che voglio io».
E su queste parole la portiera dell’ascensore si apre e io la
precedo fuori dalla porta.
Alice
Sogni spezzati

«Ho sentito Marilù che lo diceva a una ragazza del quarto piano!
Stamattina il dottor Francalanza e la Dei Pinzi sono arrivati insieme».
«Si conoscono. Sono amici da quando erano bambini».
«Secondo me non sono solo amici».
«Lei ha lasciato il fidanzato».
«Io sono certa che il dottor Francalanza aspettasse questo
momento».
«Giacomino delle risorse umane esce con la Baraldi dell’ufficio
legale e si lamentava perché lei sta facendo gli straordinari. L’ufficio
è impegnatissimo con le pratiche di una cessione importante. Il
compratore è il gruppo di Dei Pinzi Ranieri. Per me non è un caso».
«Cosa stanno cedendo a Dei Pinzi?».
Le mie tre colleghe, che stanno facendo una pausa gossip a due
metri dal mio cubicolo, si girano verso di me.
«Si parlava del dottor Francalanza», dice Carolina Basso.
«Questo l’ho capito, ma voglio sapere a quali pratiche di preciso
lavora l’ufficio legale del gruppo».
Carolina ci pensa. «Credo si tratti della cessione di una divisione
editoriale. Qualche marchio relativo ai prodotti da libreria; se vuoi mi
informo e…»
«Tranquilla», mi alzo in piedi. «Ho capito».
Loro riprendono a parlare e io scambio un’occhiata con il mio
unicorno. Ci scommetto la sua coda arcobaleno che Alessandro si
prepara a cedere la Hannover.
Lo sguardo torna alla mail che ho ricevuto ieri mattina.
È strano come una cosa tanto desiderata possa perdere parecchio
del suo fascino, se arriva nel momento sbagliato.
La rileggo. Per essere certa del suo contenuto.

Gentilissima Dottoressa Baker,


siamo felici di informarla che il colloquio da lei sostenuto in data 5
ottobre presso la nostra sede ha avuto un buon esito. La Visconti
Santi le offre quindi il posto di junior editor e un periodo formativo di
dodici mesi. Siamo anche in grado di accogliere la sua richiesta di
posticipare l’inizio dello stage. I dodici mesi decorreranno dalla data
da lei indicata, per permetterle di portare a termine i suoi precedenti
incarichi lavorativi.
Le alleghiamo il contratto, alle condizioni previste per legge, e la
invitiamo a leggerlo con attenzione e a rimandarcelo firmato in tutte
le sue parti.

Cordialmente,
Dott.ssa Lucrezia Ferguson
Senior Editor per Visconti Santi

Okay, è un segno.
Un segno che, sommato a tutti gli altri, dovrebbe farmi capire che
chiusa una porta si spalanca un portone.
Sono arrivata a Milano perché volevo lavorare in una casa
editrice. Sono inciampata in un bastardo e ho perso di vista
l’obbiettivo.
Ora però la strada è di nuovo davanti a me chiara e senza bivi.
Mi hanno preso. E non in una casa editrice qualunque. Mi hanno
preso alla Visconti Santi.
Mi sono concessa un giorno per metabolizzare, o forse aspettavo
che il destino si muovesse dandomi l’ennesima prova che non c’è
nessun motivo per restare. Quindi ci siamo. Devo salire al decimo
piano, bussare all’ufficio di Alessandro e dirgli che me ne vado.
E non perché ora si vede con Carlotta, lei è solo l’ultima di una
lista infinita di ragazze che Alessandro esibisce senza pietà, lo faccio
perché si sta liberando della Hannover Press. Questa è la prova che
vuole cancellare tutto quello che siamo stati.
Mi sta colpendo in tutti i modi in cui una persona può essere
colpita. Mi castiga sul lavoro, mi sbatte in faccia le sue scopate con
allusioni accidentali e ora mi sta dicendo che quello che abbiamo
fatto insieme non conta più un cazzo.
E perché?
Perché durante una serata in cui sembravamo invincibili abbiamo
trovato un mio amico sul pianerottolo di casa.
Alex mi ha dichiarato guerra, ha scatenato una rappresaglia senza
precedenti per una cosa che avremmo potuto sistemare parlandone
cinque minuti. Mi sento ancora stupida per aver creduto di farlo
ragionare. Non posso stare accanto a una persona che porta la
vendetta a questo livello.
Sono le cinque quando mi decido a salire al decimo piano. Informo
la segretaria che trovo all’accoglienza che vorrei parlare con Alex e
lei solleva il ricevitore e riferisce la cosa.
Alessandro le risponde che posso accomodarmi in sala d’attesa.
Avviserà appena si libera. La segretaria mi fa sapere che sarà
questione di qualche minuto.
E così, a mano a mano che i minuti passano, lei diventa sempre
più perplessa. Dopo quaranta minuti di attesa richiama il capo per
sincerarsi di aver capito bene.
Alex risponde che ha capito benissimo e che, a breve, sarà in
grado di ricevermi.
Sono le sei e un quarto, a ridosso dell’orario di chiusura degli
uffici, quando al desk si presenta una ragazza bellissima. Alta,
elegante, con una massa perfetta di ricci rossi sparsi sulla schiena e
un paio di occhi nocciola. Ha un marcato accento straniero, dice di
chiamarsi Maya Sunrise e di essere attesa dal dottor Francalanza
Visconti.
La segretaria guarda prima lei poi me, poi si decide a fare la
telefonata. Spiega la situazione e poi la sento balbettare.
«È sicuro, dottore? Le ricordo che c’era Alice Baker che… sì
certo… ci mancherebbe… io pensavo solo… lo faccio subito».
Riattacca. E poi si rivolge a Maya.
«Il dottore la aspetta nel suo ufficio, signorina Sunrise».
Lei si avvia per il corridoio con il suo passo da indossatrice e il
poncho calato sulla spalla con la noncuranza di chi sa che presto i
vestiti non le serviranno più. La povera segretaria è esterrefatta. Si
scusa con me ammettendo di non aver proprio capito che cosa sia
successo. Io, al contrario, ho capito benissimo. Alessandro sta solo
portando umiliazione e mortificazione a un altro livello. Mi fa
aspettare, come se fossi indegna del suo tempo e per suggerire che
può disporre del mio. Chiama una delle sue amiche e le dice di
raggiungerlo in ufficio, perché io sappia che vede altre persone.
E tutto questo ostentare sufficienza, distacco e indifferenza non fa
che dirmi quanto sia ancora arrabbiato con me.
E tutto perché il suo ego del cazzo non ha saputo gestire la
presenza di un mio amico sul pianerottolo del mio appartamento…
Sto per andarmene quando la porta dell’ufficio si apre, sento la
risata di Maya e, più bassa e impostata, quella di Alessandro.
Escono parlando in inglese.
Alessandro indossa uno sguardo distante e un sorriso crudele. La
sua eleganza è assoluta, la sua bellezza è spietata. Fa male vedere
che, nonostante tutto, la prima cosa che penso trovandomelo
davanti è che resterei a guardarlo per ore.
«Buonasera Marta, a domani», dice passando davanti alla
segretaria. A me riserva il sorriso di chi neppure sa chi sei, ma
prende atto che sei lì, nel suo stesso corridoio.
Non si scusa per avermi fatto aspettare, non si giustifica per
quanto accaduto.
Ma non sono sorpresa. Non mi aspetto più nulla da lui. Direi che
abbiamo toccato il fondo.
«Alessandro», lo richiamo.
«Scusa, ma sono davvero di fretta…», dice senza voltarsi.
«Okay, volevo solo farti sapere che ho ricevuto un’offerta di
lavoro», parlo alla sua schiena, «e l’ho accettata. Passa una buona
serata».
Lo supero e imbocco il corridoio. Sono sulla prima rampa di scale
quando sento i suoi passi. Ma non mi procura nessuna emozione.
Solo un picco di rabbia. È così prevedibile da risultare ovvio. Mi
supera prima che io arrivi al pianerottolo.
«Alice, cos’è questa storia?»
«Ero venuta per spiegartelo».
«Sai benissimo che non puoi lasciare la redazione. Siamo nel
pieno di un trimestre di collaborazione con una celebrità a cui sono
legati migliaia di euro di contratti. Non hai più la penale da diecimila
euro, ma posso comunque farti causa».
«E non dubito che lo faresti», replico. «Ma, tranquillo, non dovrai
pagare i tuoi avvocati. Durante il colloquio ho detto di avere un
impegno morale con la tua redazione. Loro hanno capito e mi
aspetteranno. Finirò il lavoro iniziato con Emilia. Poi a gennaio inizio
a lavorare alla Visconti Santi».
La sua espressione interdetta si dilegua nella sorpresa.
«Visconti Santi?»
«Già. Ora torna dalla tua amichetta, Alex. Se è mediamente
intelligente non ci metterà molto a capire che deve starti alla
larga…».
Faccio per superarlo, ma lui mi blocca.
«C’è stato un errore», dice. «Quel contratto ti è arrivato per
sbaglio».
«Ma di cosa stai parlando?»
«Ti è stato mandato per errore», insiste.
«Ma come fai a dirlo? Neppure sapevi che avevo fatto il colloquio.
Io sono la persona informata dei fatti, non tu!»
«E io sono la persona che detiene un pacchetto azionario della
Visconti Santi. Non tu».
Questa affermazione mi spiazza. Ma peggio fanno i suoi occhi.
Tutta la rabbia di prima ha lasciato il posto a un’espressione
implacabile. L’espressione di chi prepara una contromossa.
«Che diavolo significa, Alex?»
«Se dico che ti è arrivato per sbaglio, ti è arrivato per sbaglio. Ma
non perché sia vero. Solo perché io posso farlo diventare vero».
«Tu non…».
Mi interrompo, ha preso il suo telefono dalla tasca del cappotto.
Compone un numero. Sento il riverbero di un paio di squilli, poi
Alex sorride.
«Ciao Vittorio, come stai?», dice tenendo gli occhi fissi nei miei.
«Ti rubo un minuto soltanto. Credo che il vostro ufficio selezione
personale abbia commesso un errore. È stato mandato per sbaglio
un contratto a una certa Alice Baker. Sì. Esatto, è una mia
dipendente. Sì, mi fa piacere che il colloquio sia andato bene, ma io
preferisco resti in azienda. Ecco sì. Te lo chiedo come favore
personale. Grazie. Ah, un’ultima cosa: avvisatela subito. Non vorrei
che si facesse illusioni».
Riattacca.
Il primo pensiero è che sia uno scherzo. Una recita beffarda fatta
per mettermi paura. L’ostentazione di un potere che sa di avere ma
che non potrebbe mai usare, una prepotenza fine a se stessa.
Perché un conto è avere la possibilità di compiere un gesto ignobile,
un conto è compierlo.
Solo che sento vibrare il mio telefono nella tasca dei jeans.
Rispondo.
«Signorina Baker?»
«Sì… sono io».
«Sono Tabata, ufficio personale Visconti Santi, la volevo avvisare
che le è stato erroneamente inviato un contratto di…».
Chiudo la chiamata.
Incontro lo sguardo di Alessandro e mi chiedo come possa tenerlo
fisso nel mio. Dove trovi il coraggio di guardarmi in faccia dopo
quello che mi ha appena fatto.
«Bene. Direi che l’abbiamo sistemata», si aggiusta il cappotto.
«Ah, e ricorda che dopodomani io e te andiamo a una festa, cerca di
trovare un abbigliamento adeguato e, già che ci sei, di rinnovare il
guardaroba. Gradirei che in futuro ti vestissi meglio di come hai fatto
finora».
Alex
Gli occhi di tutti

La musica è altissima, le luci battenti. La pedana del privé, rialzata


e piantonata dai bodyguard, consente di rifiatare senza perdersi
nella folla. Tipico di Tiberio. Organizza uno dei suoi due compleanni
in un locale, lo riempie dei suoi ospiti ma non lo chiude agli estranei.
Le feste a invito fanno troppa selezione. E lui vuole che entrino le
persone che non fanno parte della sua cerchia. Lui vuole essere
guardato.
Quarant’anni, nessun senso per gli affari e nessuna attitudine per
il lavoro, il mio amico vive sui social, immortalandosi mentre balla
con ragazze seminude sul suo jet privato. Un uomo senza talento a
cui il cda della sua stessa azienda passa un vitalizio purché se ne
stia lontano dagli affari. Preferiscono riempirlo di soldi che vederlo
seduto al tavolo di una trattativa. Gli sono amico per abitudine come
accade con le persone del nostro ambiente che mi aspetto di vedere
in una serata come questa: frenetica, sovraesposta, eccessiva.
Chiamo un brindisi dopo l’altro, come se volessi esattamente questo.
Come se non mancasse niente per essere felice. Le feste mi
servono. Avverto il bisogno di perdere coscienza.
Oggi soprattutto. Non voglio pensare ad Alice.
Sono furioso con lei. Ha osato fare un colloquio con un’altra
azienda. E, al di là del fatto che sono riuscito a sventare la cosa, ora
dovrò fargliela pagare anche per questo.
Guglielmo Hannover mi chiede di aiutarlo a maneggiare una
magnum di Cristal e io non mi tiro indietro. Alla fine usa lo
champagne per fare l’idiota e bagnare la camicetta dell’amica con
cui si è presentato, una ragazza con il caschetto nero e una vaga
aria da dominatrice. Il litro e mezzo contenuto nella bottiglia Louis
Roederer serve a malapena per quattro bicchieri. Il resto finisce per
terra.
I camerieri del catering entrano subito in azione. Si adoperano per
ripulire, nella confusione generale.
Io però resto a guardarli, come ipnotizzato. Questo spreco mi fa
venire in mente una domanda.
Quanto costa la bottiglia che hai appena stappato?
Le sinapsi innescano una corsa a ritroso. Sbatto contro il ricordo di
Alice. Stavolta focalizzo anche la situazione.
Due anni fa. Natale. L’azienda aveva assunto un manager per
ottimizzare le spese. Alice si schierò contro i licenziamenti.
Mi chiese quanto costava la bottiglia che avevo stappato nel
giorno in cui tante persone erano rimaste a casa…
Chiudo gli occhi un istante, la musica ora è violenta e io lascio che
entri, me ne servo per ancorarmi al presente.
Maya, un’amica con cui ogni tanto esco, mi abbraccia da dietro, mi
abbassa il colletto della camicia e mi deposita un bacio sulla nuca.
Devo mantenere il controllo. Tenere a bada la nostalgia. Sto
recuperando la mia vita e la mia autonomia. Per affrancarmi devo
anche punire chi me le aveva tolte. La vendetta è una parte
necessaria del processo. La mia catarsi è possibile solo se colpisco
Alice. Devo sacrificare lei per salvare me stesso.
La lastra di ghiaccio alla fine era davvero troppo piccola per tutti e
due.

Sono rimasto in camicia, porto la cravatta allentata, e mi chiedo


quanto alcol posso bere. Cerco di capire che margine ho, perché
voglio fermarmi prima di perdere il controllo. Verso per la mia
vecchia amica Maya e per la mia nuova amica Fiona alla quale
abbiamo esteso l’invito. Ancora non ho deciso quale delle due mi
voglio scopare e quindi gioco su entrambi i campi. Però sospetto che
loro potrebbero decidere di giocare tutte sullo stesso.
Tanto è solo sesso ed è comunque senza significato, sia in due sia
in tre.
Mi accorgo tardi della vibrazione del telefono e non riesco a
prendere la chiamata.
Leggo il nome di mio cugino e provo a richiamarlo ma è occupato.
Sospetto che stia parlando alla segreteria. È uno dei pochi a farlo.
Non riesce a essere maleducato neanche con una voce registrata
che gli chiede di lasciare un messaggio.
Mi apparto per quel che riesco e ascolto.
«Ehi ciao, scusa l’ora. Non è che sia proprio urgente ma è
importante. Si tratta di Alice e della Visconti Santi…».
Lo dice e io mi immagino cosa deve essere successo. Alice si è
sfogata con Fosco e ora mio cugino pensa che io sia un bastardo
che abusa del proprio potere.
«Mi ha detto che il contratto le era stato spedito per errore! Io ti
giuro che sono basito. Cioè non voglio criticare l’operato
dell’azienda, però, porca miseria, è stato un colpo. Ieri era così felice
per quella proposta. Diceva: “Finalmente una cosa buona in un
periodo brutto”… cioè, lei non diceva “brutto”, diceva “di merda”, sai
come è fatta Alice. Allora io mi sono detto: “Magari Alessandro può
darle una mano”. Perché in fondo quella casa editrice è un po’ tua,
no? Cioè, se chiedi tu, magari la assumono davvero. E so che ti
domando tanto. Perché lei è bravissima e ti dispiace perderla e
magari alla Visconti Santi non hanno bisogno, però devi dirgli che in
realtà a loro Alice serve! Lei è proprio il genere di persona di cui
nessuno di noi, prima di conoscerla, sapeva di avere bisogno!
Insomma devono darle fiducia. Quindi, vedi quello che puoi fare. Ah,
e ti prego: acqua in bocca con Alice che, se sa che ho chiesto il tuo
aiuto, mi ammazza».
Spengo l’apparecchio e lo infilo in tasca.
Alice non ha detto a Fosco come sono andate le cose. Forse per
proteggerlo da una delusione. O forse per proteggere me…
Comunque non voglio sentirmi in colpa. Alice non se ne può
andare.
Devo sbatterle in faccia quanto sono felice senza di lei. È l’unico
modo per sentirmi meno infelice.
Caccio il pensiero. Conta solo il presente. Fiona beve e tiene lo
sguardo nel mio. Maya mi avvicina, mi accarezza il torace e scende
senza vergogna.
Si rivolge a me in inglese. Mi dice che ha qualcosa che potremmo
dividere, per dare una svolta alla serata. Per un attimo credo parli
proprio di Fiona, ma poi aggiunge un particolare. Dice di averlo nella
borsetta.
Il vino, il frastuono e la situazione un po’ calda mi confondono. Lei
forse lo capisce, si avvicina al mio orecchio, lo prende un istante tra
le labbra e poi dice una sola parola.
Cocaina.
La stessa roba che ha ucciso mio padre e una ragazzina di
diciassette anni, così sfortunata da averlo incontrato. Scambio con
lei un’occhiata ravvicinata, poi scuoto la testa.
«Non mi faccio, Maya», le dico in italiano.
«Okay, io faccio sola. Tu mi aspetta?».
In quel momento alzo lo sguardo e la vedo. Si sta facendo
scortare da un paio di ragazzi della sicurezza mentre passa in
mezzo a una folla di curiosi.
Ha un vestito dorato di cui non saprei dire la lunghezza ma si
intona con l’oro dei suoi capelli, sciolti sulle spalle.
È la persona che non doveva venire. Ma è venuta.
«Allora mi aspetta?», insiste Maya. Io le prendo i polsi e mi libero
delle sue mani. Affronto il suo sguardo nocciola.
«No. Non ti aspetterò», le dico.
E la pianto lì, con il suo sguardo sbalordito e le sue mille
domande.
La pianto lì, perché è arrivata Carlotta e stasera non mi basta una
qualsiasi. Stasera ho bisogno di una vera alleata. Ho bisogno di lei.
E scendo dalla breve rampa di scale che separa il privé dal locale.
Mi faccio largo, le vado incontro.
Le capito davanti. Mi sorride come se mi aspettasse.
Mi bacia la guancia. Mi piazza una mano sul fianco.
«Alla fine sei venuta», le accarezzo i capelli.
«Mi dispiaceva troppo lasciarti solo».
Le prendo la mano e così, tenendola stretta, la porto di nuovo nel
nostro esclusivo circolo privato.
Appena i nostri amici la vedono, la accolgono con un’ovazione.
Perché in serate come questa, finché Carlotta non arriva, è come se
mancasse la musica ma quando lei c’è la festa acquisisce un altro
passo.
Carlotta è fatta per mettersi al centro ed essere guardata. Il suo
vestito le arriva sotto il ginocchio ma la gonna ha quattro spacchi che
regalano interessanti prospettive sulle sue gambe perfette. È
bellissima, trascinante come una luce che oscura le altre. Saluta
tutti, anche Guglielmo e concludo che, qualunque fosse il dissapore,
l’hanno superato. Sembra che il riflettore della festa si sia spostato
da Tiberio a lei. E indirettamente a me.
Perché non smette di tenermi per mano.
Cosa stiamo dicendo a chi ci vede, cosa stiamo suggerendo a noi
stessi, con questo gesto che non vuole dire niente e vuole dire tutto?
La festa è al culmine. Siamo appoggiati alla balaustra. Sotto di noi
la pista è piena, le luci strobo tolgono ogni realtà alla scena.
Carlotta ancora mi tiene la mano.
E di nuovo un lampo mi squarcia i ricordi. Il tempo si riavvolge di
dieci mesi.
Una stanza d’albergo di Cortina. Una strana versione di me
stesso, in pace con il mondo, una bellissima versione di Alice che
stava nei miei occhi come un pulcino starebbe in una mano.
Mi rivedo mentre le do le chiavi. Mentre le prendo la mano e la
stringo. E mi torna in mente Alice che sorride e mi restituisce la
stretta…
«Alex».
«Sì?»
«Sai cosa vorrebbero tutte le persone là sotto», indica la massa
che balla, che ci vede ma resta distante, «quelle che fingono di
guardare altrove ma guardano noi?»
«Cosa?»
«Vorrebbero vedere un bacio».
Mi giro verso di lei. Le guardo la bocca. Mi piacerebbe. Ma c’è un
limite da imporre a tutti i giochi. «Finirebbe male», le dico.
«Paparazzi o no, tutti lì sotto hanno un telefonino. Le nostre foto
sarebbero ovunque».
«Un buon motivo per farlo».
«Essere visti da tutti? Compreso tuo padre?»
«Essere visti da tutti», ripete, «comprese le persone a cui questo
bacio farà male. E si meritano di stare male».
Mi blocco su quelle parole, sono disorientato, ma allo stesso
tempo illuminato. Un bacio, destinato a diventare virale, punirebbe le
persone a cui non lo diamo. Ma chi vuole punire lei? Il suo ex?
Qualcun altro? E io ho qualcuno da punire, qualcuno a cui
dimostrare che non sono morto ai suoi piedi, ma sono vivo e lontano
da lei?
La risposta arriva con la violenza di uno schiaffo.
Afferro i fianchi di Carlotta, entro nei suoi occhi e poi la bacio.
Un incontro perfetto di labbra, un sapore che diventa mio, la lingua
di Carlotta, per la prima volta.
Lo vedi, Alice?
Lo vedi fino a che punto me ne sono andato?
Lo vedi fino a che punto ti ho superato, dimenticato e cancellato?
Sì, lo vedo. Mi risponde una voce nella testa. E tu, Alex, lo vedi il
vero significato di ciò che fai? Lo vedi fino a che punto sei mio?
Io sono ovunque. Io sono perfino nel bacio che stai dando a
un’altra.
Alice
Nice to meet you

La metro mi strapazza, trapassando le viscere della città, diretta


verso la mia destinazione, io resto ferma con il telefono in mano.
Cerco ancora le foto che oggi sono state al centro di ogni
conversazione.
Dovrei smettere di guardarle.
Non so neanche perché mi ci stia fissando. Forse spero di vedere
un particolare rivelatore. Qualcosa che mi faccia dire: “No, questa
persona che bacia Carlotta Dei Pinzi non è Alessandro. È solo uno
che ci somiglia”.
Ma c’è poco margine al dubbio: il bacio tra Alessandro e Carlotta è
stato più documentato della finale del campionato mondiale di calcio.
Ci sono pure i video caricati dagli utenti. Così a occhio mezza
Italia era lì ad assistere, o in ogni caso ha potuto assistere dopo.
Però, se anche fosse stata una foto piccola, sgranata e presa da
lontano io avrei riconosciuto la schiena di Alex e la camicia nera che
indossava, i suoi capelli stupendi e quella loro natura mossa che
emerge sempre, a fine giornata, e avrei riconosciuto quel profilo
perfetto, perché lo vedo anche quando chiudo gli occhi.
Sono così cretina che mi viene da piangere.
Non so perché questo bacio faccia più male degli altri. Ma è un
dato di fatto. Mi fa stare da schifo.
Cerco di ricordarmi che è un bastardo. Penso alla sua ultima
azione indecente.
Ha preso la mia opportunità alla Visconti Santi e l’ha cancellata.
L’ha fatto guardandomi negli occhi. Mi concentro su questo nella
speranza di portare quello che provo per lui a un livello di
saturazione.
E poi ci aggiungo tutto il resto.
In queste ultime quattro settimane mi ha umiliata, mortificata,
ferita.
Non posso piangere per lui. Dovrei piuttosto cominciare a restituire
qualcosa.
Vorrei il potere di farlo star male come lui fa star male me.
Vorrei vederlo a pezzi.
La metro si ferma a Montenapoleone e le porte si aprono con un
risucchio angosciante. Sistemo cappotto e tracolla e insieme a
decine di sconosciuti mi dirigo verso le scale.
All’uscita mi aspetta un freddo feroce. Tutti conoscono questa
zona di Milano dove perfino respirare sembra un lusso che non
posso permettermi.
Il Baglioni Hotel Carlton è in via Senato. È una struttura di lusso ed
è stata scelta per le interviste individuali concesse alla stampa dagli
Only Us. All’ingresso privato in via della Spiga ci sono una marea di
ragazzine isteriche che piantonano l’hotel, e caso vuole che Hywell
Stockton si affacci e le saluti proprio mentre cerco di superare il
cordolo di sicurezza. Lui si agita mentre io spiego ai tizi della
sicurezza che non sono una terrorista e neppure una fan. Sono solo
una che svolge uno sporco lavoro. L’urlo delle ragazzine mi
atterrisce e lancio un’occhiata piena di rancore ad Hywell, ma nel
controluce del lampione vedo solo la sua morbida chioma modellata
in un ciuffo ridicolo.
Il personale della security si convince che non sono pericolosa e
un signore in nero mi scorta nella sala congressi, denominata
Stanza del Senato. Qui vedo una serie di facce note, redattori delle
riviste concorrenti, giornalisti di quotidiani. Ci sono piramidi di
pasticcini e tazze di caffè. Molti redattori stanno già scrivendo il
pezzo, perché sono reduci dai loro sette minuti di intervista con uno
dei membri della band.
Un ragazzo secco come un chiodo e obiettivamente agitatissimo
mi viene incontro.
«Hello darling, welcome aboard! I’m Alfred», dice con un chiaro
accento britannico, poi si qualifica come membro del press
management degli Only Us, io ricambio la sua stretta e mi presento
come Alice di «Lollipop».
Lui in uno svolazzare di fogli cerca il mio nome e intanto borbotta:
«I’ll have a look inside your mind and tell where you belong!», poi
finalmente decide a quale Only Us posso essere assegnata.
«You are with Malachi, lucky girl!», poi veleggia verso una nuova
arrivata da smistare.
Sono alla ricerca di un caffè, tra tovaglie bianche e poltroncine
candide, quando sento vibrare il telefono nella tasca.
È Fosco. Mi chiede se va tutto bene, se sono arrivata sana e
salva. Ci sono quattro giornalisti prima di me, per intervistare
Malachi. Posso contare su una mezz’ora buona. Mi infilo in una
stanzetta e per fortuna c’è un divano, pieno di cuscini.
In un battibaleno sono sdraiata e chiacchiero con il mio migliore
amico.
«E così ti è toccato Malachi? Che ragazza fortunata!»
«La stessa cosa che ha detto Alfred».
«Il maggiordomo di Batman?»
«Meglio ancora. Alfred recitava le battute del Cappello Parlante».
«Direi che ha colto nel pieno il significato della predestinazione».
«Infatti. Io dentro la mia testa dicevo: “Non Hywell, non Hywell”, e
lui mi ha ascoltato e mi ha dato Malachi».
Fosco ride. «Povero Hywell, cos’hai contro di lui?»
«Hywell ha contribuito a corrompere la scena musicale
internazionale, sono tre anni che me lo trovo sulle pagine del
magazine e aggiungici che si pettina come un cretino».
«Le ragazzine impazziscono».
«Hai usato il termine giusto: impazziscono. Perché sono
obiettivamente assurdi. Se lo becco gli ficco le mani in mezzo ai
capelli e mi tolgo il gusto di incasinarglieli, ancora e ancora e…».
E taccio.
Taccio perché ho buttato la testa all’indietro, oltre il bracciolo del
divanetto, e mi è apparso un tizio. Deve essere entrato dalla
seconda porta. Nonostante la visuale capovolta è chiaro che il
ragazzo magro e slanciato, blazer di feltro e sciarpa al collo, o è un
sosia di Hywell Stockton, oppure è Hywell Stockton.
«Porca puttana…».
Chiudo la chiamata in fretta, scatto in piedi, con un sorriso che
trasuda terrore ed eseguo un ampio gesto della mano, che traccia
un semicerchio nel vuoto: il saluto meno disinvolto nella storia
dell’umanità.
«Hi», risponde lui, imitando il mio gesto, con una lentezza
studiata, quasi a sottolineare il ridicolo.
«Hello, mister Stockton, how are you?».
Lui risponde un ponderato: «I’m very fine, thank you for asking».
Poi ecco la porta di servizio che si apre, spinta da Alfred, che
prima implora Hywell di seguirlo parlando di ritardi come un novello
bianconiglio, poi mi redarguisce con una certa severità. «Miss Alice,
you are with Malachi».
Prende Hywell per il braccio e se ne va.
Respiro.
Ho il cuore in picchiata. Ho davvero rischiato una figura epocale
ma, onestamente, quante possibilità ci sono che un ventunenne di
Bristol, che dopo aver vinto un talent a diciassette anni ha passato
l’esistenza a cantare in una boy band, sappia l’italiano?
Nessuna. Obiettivamente nessuna. Quindi anche ammettendo che
fosse lì da qualche secondo, non può aver capito che insultavo la
sua musica o i suoi capelli. In caso contrario non mi avrebbe
salutato. Sarebbe andato a piangere da Alfred e io avrei perso il
lavoro.
Sono sicura che quella frase cretina che impazza sui giornali,
“sono pazzo per la pizza”, è l’unica che ha imparato.
Quando viene il mio turno, due ragazze in rosa mi scortano alla
Montenapoleone Terrace, una suite galattica. Vengo accompagnata
nel terrazzo protetto da un gazebo e riscaldato dai caloriferi. L’effetto
è un paradossale microclima temperato.
Malachi, gambe larghe e braccia larghe, è seduto su uno dei
divanetti. Non appena Alfred se ne va, io mi siedo, saluto e mi
presento.
Gli dico di aver preparato tre domande e, se lui è d’accordo,
intendo farle tutte subito. Lui potrà decidere a quale rispondere e
quanto tempo dedicare a ciascuna, nei nostri sette minuti. Dico che
appena sarà pronto farò leggere l’articolo al suo ufficio stampa per
approvazione e ringrazio dal profondo del cuore a nome mio e della
redazione per la splendida opportunità.
Scende il silenzio, rotto solo da una sottile melodia hip hop, che
proviene da un amplificatore accanto a lui. Quindi Malachi alza una
spalla e parla.
«Sure».
È un capolavoro di economia verbale.
Mi riprendo da questo sfoggio di eloquenza e mi preparo a
registrare.
«Well, the first question is…»
«Hi, lad…»
Merda.
È comparso Hywell. Chissà da quanto tempo era fermo alle mie
spalle.
Raggiunge il suo amico e scambia con lui uno di quei saluti super
elaborati. Registro la sequenza: pugno, cinque alto, pugno.
Poi, maledizione, si siede di fianco a Malachi, in quel mezzo metro
che rimane visto che Malachi sta cercando di riprodurre l’uomo
vitruviano sul divanetto della suite Montenapoleone Terrace.
Provo a fare come se nulla fosse.
«So, my first question is…»
«No», mi interrompe Hywell, «prima domanda faccio io», si porta
la mano al petto e poi rivolge uno sguardo a Malachi. «If you don’t
mind, lad».
Malachi storce la bocca allarga ancora le braccia, scuote il capo
quindi pronuncia un «No», che mi condanna. Anche perché si alza e
se ne va.
Hywell si mette al suo posto. «Vorrei fare io tre domande a te», su
“io” si indica il petto e su “te”, indica me. «La prima è come ti
chiami».
Quello che non dice, ma io leggo tra le righe, è: così, quando
saprò come ti chiami, dirò ad Alfred di telefonare al tuo capo e
chiederò la tua testa perché mi hai deriso, e hai parlato male dei miei
capelli, e ora la devi pagare, e devi morire di fame sotto un ponte.
«Ma ciao», deglutisco, «che bravo, che parli l’italiano», cerco la
strada della lusinga, «comunque sono Alice».
«Solo Alice?»
«Baker».
«Nome italiano?»
«No. Francese. È il cognome di mio nonno. Padre di mio padre.
Nato a Brest. Bella città. Sono stata tante volte, d’estate», mi rendo
conto che gli sto parlando come se fosse idiota, e cerco di
correggere il tiro. «Era francese. Un archeologo francese, lavorava
per il Louvre. Venne a Roma, negli anni Settanta, per curare una
mostra, e lì ha incontrato mia nonna. E sai come vanno queste
cose», mostro l’anulare. «Matrimonio. Incastrato per sempre».
Un angolo delle labbra punta verso l’alto e gli compare una
fossetta. Sta sorridendo. Okay, a parte che è sexy, questa reazione
mi consiglia di proseguire con la linea comica. Devo farlo ridere. Chi
è tanto crudele da spedire sotto un ponte un simpatico giullare?
Quando mi fa la seconda domanda però capisco che la linea comica
non è consigliabile.
«Perché non ti piacciono i miei capelli, Alice?»
«Non è che non mi piacciono», minimizzo, e fingo di essere
perfino stupefatta all’idea che lui possa averlo pensato, «li trovo
molto interessanti…»
«No, non ti piacciono. Volevo sapere perché. Prima volta che mi
dicono faccia a faccia. O quasi».
Potrei mentire all’infinito, ma non servirebbe. Oppure potrei
arrendermi. E poiché sono indifendibile, opto per la seconda.
«Ti chiedo scusa», esordisco. «Sono mortificata, davvero molto
dispiaciuta. I tuoi capelli non sono affatto male, e dico davvero, solo
che ci ho scherzato su per far ridere Fosco».
Aggrotta appena le sopracciglia. «Chi è Fosco?»
«Il mio migliore amico. Lui c’è sempre stato per me, ma in questi
giorni credo sia preoccupato. Secondo me si è preso una sbandata
spaziale per Emilia…»
«Emilia?»
«Sì, la sua coinquilina. Una modella. Una ragazza molto, molto
bella».
«Come te?».
Forse mi sta sfottendo, ma preciso: «Infinitamente più bella!
Domani verrà alla vostra festa, potrai vederla con i tuoi occhi e,
anche se immagino che lo standard delle ragazze con cui esci sia
pazzesco, dovrai ammettere che è una bomba. E infatti Fosco si è
preso una cotta. E anche a Emilia piace Fosco. Ma c’è
Alessandro…»
«Chi è Alessandro?»
«Una persona indecente, veramente, veramente cattiva».
«E Alessandro vuole Emilia? Giusto?»
«Non mi sorprenderebbe».
«Ma Emilia vuole Fosco?».
Lo indico con un gesto trionfale. «Io ci spero. Non so cosa stanno
combinando, ma…».
Alfred si materializza come lo spirito di Mefistofele. Ha il sorriso
tirato e un tic evidente all’occhio sinistro. Deve essere a un passo da
una crisi di nervi. Mi fa cenno di chiudere, il gesto universale, quello
con la mano di piatto, all’altezza della gola.
Taglia o ti taglio la testa.
Hywell se ne accorge e interviene, dice ad Alfred che non ci sono
problemi, che possiamo anche sforare un po’.
E sforiamo in effetti. Gli racconto tutta la storia, e lui mi interrompe,
fa domande e sembra perfino che gliene freghi sul serio. Superiamo
indenni tre richiami di Alfred e alla fine quando il poveretto, sull’orlo
delle lacrime, annuncia che i nostri sette minuti sono diventati
mezz’ora ho pietà di lui e mi alzo.
«Davvero grazie», porgo la mano ad Hywell. «È stata una
chiacchierata bellissima. E ancora scusa per quello che ho detto.
Non collego bocca e cervello e tu invece sei stato un amore».
Mi prende la mano e stringe. Una presa calda, piacevole. E chi
l’avrebbe detto? Mi piange il cuore a lasciargliela, questa mano di
velluto.
«Erano tre domande, però», mi fa notare. «Ho ancora l’ultima…».
Mi coglie di sorpresa ma annuisco. «Certo chiedimi quello che
vuoi».
Non lascia la mia mano e sorride, di nuovo sbuca la fossetta
carina, che chiama i baci come una calamita. Poi mi fa la domanda
che non mi sarei mai aspettata.
«Vieni a cena con me?».
Alex
Colto di sorpresa

Non mi ha sorpreso il messaggio di Carlotta, né la convocazione


in sé, e neppure che mi abbia dato appuntamento in un posto come
il Morgante Cocktail & Soul, vicino alla darsena di Porta Ticinese.
Era chiaro che dopo il caos mediatico di queste ore, che abbiamo
scatenato con troppa leggerezza, io e lei dovevamo concordare una
linea di difesa.
Vederci in privato però sarebbe stato troppo intimo, sarebbe stato
come ammettere implicitamente che ci fossero conseguenze alle
nostre azioni. Vederci in un luogo frequentato al contrario ci avrebbe
esposto al rischio di essere di nuovo fotografati, e direi che è bastato
ieri sera.
Quindi il provvidenziale rifugio di vicolo dei Lavandai fa davvero al
caso nostro.
È un luogo pubblico fatto per nascondersi. Un giardino
accogliente, ma ritirato, un posto che non sembra possa esistere.
Perché è un luogo in cui si rallenta proprio al centro delle notti che
vanno veloci.
Ancora una volta la mia amica si dimostra perfetta.
Nel giardinetto interno trovo Carlotta. Il divano a dondolo su cui è
adagiata sembra inserito nella siepe, così come Carlotta è
incastonata tra i cuscini verde acqua.
Il verde del suo vestito, molto più intenso, declina quello della
tappezzeria, conquistando tutta la mia attenzione.
È proprio bellissima, ed è bellissimo quel senso di controllo della
vita che traspare anche da sciocchezze come questa: sedersi su
cuscini che le mettano in risalto il vestito.
Tuttavia sono sorpreso di trovarla in compagnia.
Seduto di fianco a lei, su una seggiola di legno un po’ shabby chic,
c’è Tiberio e con loro la stessa ragazza che ieri era venuta alla festa
in compagnia di Guglielmo. Quella che, nonostante sembri
giovanissima, mi ricorda certe icone sadomaso. Una tipa un po’
androgina sul cui viso pallidissimo risalta un rossetto di un rosso
violento. Carlotta si rivolge a lei.
«Astrid, da brava chiedi ad Alfredo di preparare un tamarindo e
tonica per Alex».
Astrid esegue e io mi procuro una sedia, mentre aspetto il cocktail
che Carlotta ha scelto per me. Mi fanno un breve riassunto di quanto
stavano dicendo. L’argomento è il nuovo toyboy di Selvaggia
Hannover, un certo Ivanohe Delacroix, che ieri sera ho visto solo di
sfuggita. Un artista concettuale francese che quest’anno ha esposto
nei padiglioni della Biennale.
«Non arriveranno a Natale».
«Non ci arriverà neppure il mezzo chilo di coca che si sono portati
in camera», aggiunge Tiberio.
Ridono tutti, io sento il bisogno di un altro drink. Stavolta vado a
prendermelo.
Un modo per defilarmi e per permettere a Carlotta di
raggiungermi. Ma lei resta tra i suoi cuscini a ridere con Astrid e
Tiberio e io mi prendo un attimo per ricaricarmi.
La mia vita è sempre stata un’orchestra sinfonica dove ogni
strumento era stato perfettamente accordato. Ora qualche strumento
è fuori fase. Devo capire quale sia. Ci vuole solo un po’ di tempo.
Stasera, per esempio, cos’è che stona?
Con il bicchiere in mano mi avventuro verso il portone d’ingresso.
Il posto è piccolo, faccio due passi. Non so esattamente da cosa ho
sentito il bisogno di scappare.
Fisso alla mia destra, lungo il marciapiede, e quasi non credo ai
miei occhi. Ferma di spalle c’è Alice.
Chiudo e apro le palpebre. C’è davvero.
Staziona davanti alla porta di una trattoria che conosco. L’aspetto
rustico può ingannare, in realtà è gestita da un cuoco stellato.
Lei non mi ha visto. Potrei andarmene ma la raggiungo.
Mi fermo alle sue spalle. Sono spalle delicate, gracili. Il cappotto è
così sottile che si vede la linea della scapola. Potrei disegnarla con
un dito o spezzarla. Per una manciata di secondi sto fermo e basta.
Come se cercassi una tregua. Ma non saprei dire se da lei o da
me stesso.
Poi Alice si gira e per poco non grida. La tregua si infrange come
un cristallo.
«Se stai scegliendo un posto in cui cenare da sola, evita questo»,
le dico, e indico la porta del ristorante. «Escludo che tu te lo possa
permettere».
Mi guarda e non parla.
«Perfino se rinunci al vino, ti costerebbe un quarto del tuo
stipendio».
Tace ancora.
«Che c’è, Alice? Non sarai ancora arrabbiata».
«Ho smesso da un pezzo di provare qualcosa per te», ma lo
sguardo e l’espressione dicono un’altra cosa.
«Mi dispiace per la faccenda della Visconti Santi», ammetto. «Ma
non dovevi neanche farlo, il colloquio. È un gesto ingrato nei
confronti dell’azienda. Abbiamo investito nella tua formazione».
Tace. Ma i suoi occhi tagliano.
«Okay, senti, archiviamo tutto. Se volevi provare La teglia d’oro»,
indico il ristorante, «vai e lascia sul mio conto. Una cena te la pago
volentieri. Giusto per dimostrarti che io non serbo rancore».
«Ti ringrazio, Alex, ma abbiamo già cenato».
«Abbiamo?», la interrogo. «Tu e il tuo amico invisibile?»
«Sono con un amico reale», si decide. «Sta firmando autografi alle
cameriere. Il minimo, visto che la direzione è stata molto disponibile.
Ci ha riservato una stanza intera».
Strano, non sembra ironica.
«Ah okay. Sei con quel tizio di Roma, giusto? Il grande musicista
che perde i treni e viene a dormire da te. Pensavo che la sua
popolarità non andasse oltre Rebibbia».
«Non ho cenato con Brando», chiarisce. E su quelle parole, la
porta del locale si apre. Ne esce un ragazzo magro, fasciato in un
cappotto attillato, chiuso da una sfilza di bottoni, ha un berretto di
lana in testa e una sciarpa avvolta intorno al viso. Tutti indumenti di
ottima fattura.
Ci raggiunge, si abbassa la sciarpa.
«Scusa, Alice», dice, poi guarda me. «Hi, lad».
«Lui è il mio capo», dice Alice, indicandomi, «e lui è il mio amico
Hywell», conclude indicando lui. Non che avessi bisogno di sentirlo
dalle sue labbra. L’avevo riconosciuto.
Hywell Stockton degli Only Us. Che diavolo ci fa con Alice?
Non mi sono ripreso dalla sorpresa quando lui mi porge la mano,
sorride e cerca di avviare una conversazione in italiano. Ogni tre
parole chiede conferma ad Alice. Dice di aver mangiato «Muy
bene», mi consiglia il locale, mi chiede quali sono i posti da vedere a
Milano, si offre di procurarmi gli inviti per il party di domani e, quando
Alice dice che li ho già, mi chiede se me ne servono altri.
Poi Hywell mi stringe di nuovo la mano e invita Alice a raggiungere
l’autista. Lei mi saluta e poi se ne va con lui.
Io resto con lo sguardo sulla sua schiena. Sono confuso, poi, nella
nebbia di cose che mi sforzo di provare, ne emerge una
semplicissima.
Non esiste.
Non può farlo.
E io non posso lasciarla andare.
Le corro dietro. La chiamo. Si ferma. Le chiedo un minuto. Hywell
dice che la aspetterà in macchina.
La portiera si chiude e io esplodo.
«Alice, ma sei impazzita?», la voce mi esce ruvida, fuori controllo.
«Si può sapere che diavolo stai cercando di fare?»
«Ho un dejà vu, Alex: tu che mi becchi con un amico e mi fai il
terzo grado. Pensavo fosse una fase superata».
«Alice, sia chiaro: tu non puoi…»
«Cosa?»
«Non puoi e basta!».
Una voce chiama il mio nome. È Carlotta. Deve avermi visto
venire in questa direzione. Alice si accorge di lei e accenna un
sorriso privo di gioia.
«Si vede che ieri sera non le è bastato», commenta piano.
«Okay, so cosa sembra», scatto sulla difensiva. E sono il primo a
non capire perché mi stia difendendo. «Ma non è che io e
Carlotta…».
Mi rivolge un’occhiata tremenda.
«Non ti ho chiesto niente, Alex».
«…Alice».
«Ci si vede in ufficio».
Si gira in fretta e se ne va. E stavolta non ho la forza di correrle
dietro.
Alice
Ciò che rende veri i baci

Mi prendo il mio bacio.


Entro nella limousine e sono a cavalcioni sulle gambe di Hywell,
prima che abbia il tempo di dire il mio nome.
Gli afferro il colletto della camicia e sono sulla sua bocca prima
che possa respirare.
Me lo prendo, o forse è lui che prende me.
Può farlo. Gli ho appena dato il via libera.
Modello le mie labbra sulla sue, per ricordare a me stessa di
saperlo fare, di saper pretendere i baci.
Posso averli, restituirli, e rubarli e rifiutarli.
E posso prolungarli, e godermeli e farli sempre più belli.
Posso colorarli di tenerezza o tingerli di rabbia.
Eppure non riesco a renderli veri.
Mi aggrappo alla nuca di Hywell, e ci provo con più convinzione.
Lui non ha niente in contrario.
Le labbra e le mani parlano di un desiderio che cresce da una
parte ma si spegne dall’altra.
Non funziona.
Manca qualcosa.
Manca qualcuno.
Quanto è stupido volere chi ci ha aperto il cuore in due?
Quanto è stupido pensare a lui anche in un momento del genere?
Ma la cosa più stupida di tutte è illudersi che un bacio che non
vogliamo possa farci dimenticare quelli che desideravamo fino a star
male.
È Alessandro che manca. È lui che rende veri i miei baci.
Alex
Quello che non posso fare

Carlotta mi afferra per i bordi della giacca e mi spinge contro il


muro prima che possa dire il suo nome.
Mi allenta la cintura ed è dentro i miei boxer prima che possa
respirare.
Modella le sue labbra sulle mie, per ricordarmi che lo sappiamo
fare.
I suoi baci sono miei. Posso accettarli, renderli, e pretenderli e
negarli.
Posso dar loro la forma di un ordine o di una preghiera.
Ma non posso far finta che sia lei la persona che voglio.
«Carlotta», le afferro le spalle, recupero lo spazio.
«Corro troppo?», sembra le manchi il fiato.
«Sì… no… insomma, forse non è il caso di…»
«A me sembra il caso», obietta, mi accarezza. Ha un incendio
negli occhi. «È decisamente il caso».
Devo fermare la sua mano. Devo levarmela di dosso.
Non se l’aspettava.
«Perché fai così, Alex?»
«Non è una buona idea…».
Si prende un attimo. Riflette. Poi si decide.
«Chi era la ragazza con cui parlavi?»
«Lei è… nessuno», scuoto la testa, cerco di recuperare.
«Parliamo di noi, Carlotta. Ieri sera è stato…»
«Un gioco», finisce la frase al posto mio.
Annuisco, felice che su questo punto siamo d’accordo.
«Un gioco molto divertente che ho tanta voglia di rifare», chiarisce.
«Carlotta, io non credo…»
«E non parlo solo di baci», insiste e piazza ancora una mano sotto
la cintura, «perché sinceramente quel poco che so della tua bocca
mi ha messo la voglia di sentirmela dappertutto».
Mi accarezza, ma non riesco a farmi catturare. Non riesco a
cedere.
«Carlotta. È un errore. Lo sai anche tu. C’è un motivo per cui non
è mai successo niente tra di noi».
Annuisce. «L’aspettativa delle nostre famiglie».
«Esatto», confermo cercando di tenere a bada il pensiero di Alice,
di parare il colpo, di proteggere il cuore da questa rabbia infernale.
«Possiamo frequentare mille persone senza che la cosa abbia
importanza», proseguo. «E possiamo pure baciarci per gioco in una
serata in cui abbiamo bevuto, per poi dichiarare che l’abbiamo fatto
solo per prendere in giro i giornalisti. Ma non possiamo cominciare a
uscire insieme, sarebbe come sottoscrivere un futuro che altri hanno
deciso per noi».
«Io parlavo solo di scopare, Alex».
Ammutolisco.
«Mi va di scopare con te», ribadisce. «Sono solo curiosa. E poiché
non meditavo di farlo nudi in piazza Duomo, l’idea di base era
tenercelo per noi».
«Carlotta, io non avevo…»
«Quindi», mi interrompe, «quando emergi da questa deriva
sentimentale, valuta l’offerta e vieni da me».
«Quale… quale deriva sentimentale?»
«Quella che ti si legge negli occhi, Alex», mi accarezza il viso.
«Quella di cui parli anche quando taci».
Mi appoggia un bacio sulla guancia, poi gira le spalle e se ne va.
Alice
Le ragazze come te

Stamattina ero indecisa. Non sapevo se fosse prevalente


l’imbarazzo, per essere saltata addosso a un mezzo estraneo, o il
senso di colpa per aver baciato un ragazzo per vendicarmi di un
altro.
Non ci saltavo fuori e mi sono detta che forse dovevo
semplicemente rassegnarmi a non etichettare quello che provavo.
Mi sbagliavo.
Mi è bastato vedere la faccia lievemente pallida di Alex e il suo
sguardo liquido, quasi irrequieto per capire che un’etichetta ce la
posso mettere eccome.
Ed è una soddisfazione.
Quel tipo di soddisfazione che origina da un vaffanculo rivolto a
chi se lo merita.
Per la prima volta dopo più di un mese sono riuscita a farlo
incazzare.
Per qualche ragione, vedermi con Hywell ha fatto uscire fuori di
testa Alessandro.
Poiché un mese fa la nostra Non Storia si concludeva con l’invito
di Alessandro a portarmi a letto Brando e, poiché da quel momento
non ha fatto che escogitare modi diversi per colpirmi, non speravo
che potesse mostrarmi un punto debole.
La sua gelosia è un regalo inaspettato, anche se non origina da
qualcosa che prova per me, ma piuttosto dall’amore per se stesso.
Nel suo mondo Alex-centrico è inconcepibile che io mi sia rimessa
in careggiata.
Solo l’idea di avere un’arma in mano mi fa venire voglia di usarla.
Da quando sono arrivata, lui ha tentato un certo numero di volte di
parlare con me. Da stamattina assaporo la gigantesca soddisfazione
di essere “troppo impegnata” per lui.
Certo, è chiaro che non posso scappare per sempre. Lo capisco
quando rientro dal comparto grafico e trovo Alex con Marilù, sulla
soglia della nostra redazione.
«Alice! Presto, vieni!», mi esorta lei. «Alessandro ti deve parlare».
Li raggiungo, mi fermo, mi do giusto il tempo di registrare che il
suo colorito resta pallido e di assaporare quella tensione evidente,
che cerca di tenere a bada ma che preme dall’interno. Poi guardo
l’orologio e sospiro.
«Desolata, capo, ma non riesco. Oggi è un casino. Non ho tempo
per te».
Marilù tace, paralizzata dalla sorpresa. So che non dovrei
rivolgermi così al mio capo. Ma la verità, quella che lei non conosce,
è il dolore nel dettaglio. Lei non sa di quanti secondi sono fatte le
settimane infernali, non sa cosa mi è costato stare accanto a lui,
certe mattine, e sentirgli addosso un profumo non suo. Volersene
fregare e non riuscirci. Sentirsi defraudati di un regno che non
abbiamo mai avuto, di un ruolo che non è stato nostro.
Vederlo cancellare il mio futuro nel tempo di una telefonata.
Perché a lui dei miei sogni non frega proprio nulla. E lo ha
dimostrato quella sera stessa baciando una persona in
mondovisione.
Per essere sicuro che io vedessi.
Trattarlo di merda, ora, è proprio il minimo.
«Alice», insiste lui. «Stasera c’è il party! Dobbiamo parlare. Lo
sai».
Lo so. E proverò a scaricarti addosso tutto l’arsenale che ho.
«D’accordo, capo. Facciamolo».
Alex mi precede nel corridoio, verso gli ascensori. Si ferma,
controlla che Marilù sia sparita dalla sua vista.
«Alice, ti chiedo tre favori», esordisce. «Ascoltami senza
pregiudizi, fidati di me», conta sulle dita, «e infine dimostrami che sei
la ragazza intelligente che io conosco».
Tutto – dalle parole declamate come fossero parti di un testo
preparato in precedenza, all’impostazione teatrale, alla lusinga finale
– concorre a confermarmi che Alessandro è il dio dei manipolatori.
Non gli concedo la soddisfazione di una replica, non gli accordo né
gli nego quello che chiede. E lui si sente autorizzato a proseguire.
«So di essere stato scostante nell’ultimo periodo…».
Scostante è un eufemismo.
«Ma ho mille pensieri. Il processo per costruire una redazione
francese è in una fase preliminare ma cruciale, e devo lottare contro
i membri del consiglio. Mi hanno perfino costretto a vendere la
Hannover».
Non sono stati loro. Sei stato tu. Perché quel progetto l’avevamo
fatto insieme. E l’hai buttato via, nello stesso modo in cui hai buttato
via noi.
«Quindi veniamo al punto due: fidati di me. Ho preso informazioni
su Hywell e non è una persona affidabile».
Mi sono affidata a te. A te che sei il re dei bastardi. Nessuno può
farmi più male di quello che mi hai fatto tu.
«I giornali gli attribuiscono continui flirt. Ora, fermo restando che
non condanno lo stile di vita degli adulti consenzienti, tuttavia ho il
dovere di metterti in guardia. E se stai pensando che sia una
intromissione nella tua vita privata…».
Non ti sei intromesso nella mia vita: l’hai cancellata. Mi hai tolto
tutto. Compresa la speranza. Compreso il futuro.
Compreso quel maledetto bacio che non mi hai mai dato!
«Ti assicuro che la mia motivazione è squisitamente
professionale. Tu sei uno dei pilastri di “Lollipop” e “Lollipop” è la
rivista di punta del mio settore. Lo sai, ti ho chiesto di rinunciare a
Visconti Santi proprio perché il gruppo non può rinunciare a te…».
Non me l’hai chiesto. Hai annullato il mio contratto con una
telefonata. E ci hai goduto un mondo.
«E quindi veniamo al punto tre…»
«Che se non sbaglio mi accredita come persona intelligente,
giusto?», lo precedo. «Per cui, lasciami indovinare, poiché sono
intelligente non posso fare cose stupide come uscire con un ragazzo
famoso?»
«Non puoi maneggiare una persona del genere, Alice».
«Quale genere? Figo, sexy, popolare e ricco?».
Serra la mascella. «Disinteressato».
Stringo i pugni. «Ma tu che cazzo ne sai?», lo incalzo. «Hai preso
informazioni anche su questo?»
«Certo che no, ma è ovvio che…»
«Che, trattandosi di me, non potrebbe mai essere interessato?».
Cerca di pesare le parole e poi fatalmente sceglie le più sbagliate.
«Non sei il tipo di ragazza a cui puntano quelli come lui».
«E a chi puntano quelli come lui? A persone come Arabella Smith,
Selvaggia Hannover, Elisabetta Gattopardi o Carlotta Dei Pinzi?».
Si irrigidisce.
«Non farla diventare una cosa personale, Alice».
«Hai cominciato tu», replico. «Tu l’hai trasformata in una cosa
personale. Mi stai rovinando la vita perché non hai saputo gestire il
grande affronto di trovare una persona sul pianerottolo di casa mia».
«Non voglio parlare di quella sera».
«Ipocrita», lo accuso. «Tu sei rimasto bloccato a quella sera! Ne
parli tutte le volte che non mi parli, tutte le volte che mi sbatti in
faccia le tue donne, tutte le volte che mi tratti di merda. Ma non lo
ammetti. Preferisci tormentarmi e vendicarti. E per cosa? Per aver
creduto che tra di noi poteva funzionare? Per essermi fidata di te,
per aver desiderato di fare l’amore con te?».
Questa è una bomba, me ne rendo conto appena la sgancio. Ma il
genere di bomba che deflagra nel silenzio.
Ho desiderato di essere tra le sue braccia.
Le mie parole hanno cancellato la rabbia negli occhi di
Alessandro.
«Non… non serve a niente parlare di questo», è confuso,
combattuto.
«Serve, invece. Perché dovremmo riconoscerlo entrambi, Alex».
«Io non ho niente da dirti, Alice…»
«Sì, invece!»
«No!», ribatte. «E, almeno stavolta, evita di farti illusioni».
Almeno stavolta…
Come dire che con lui mi sono illusa.
Lo sapevo già da prima ma sentirlo dalla sua bocca è tremendo.
Lo pianto in asso e me ne vado.
Ho un solo pensiero che mi rimbomba in testa. Devo trovare il
modo di fargli male. Devo restituirgli un po’ di dolore, perché non ce
la faccio a tenerlo tutto per me.
Alex
Non puoi

Questa sarà una notte lunghissima.


Alla fine è arrivato anche questo momento.
Sto andando al party degli Only Us.
Guido verso casa di Fosco, e cerco di fare ordine.
C’erano tre diversi approcci per affrontare questa dannata
situazione. Il primo era l’indifferenza, ma è un sentimento troppo
lontano da quello che provo per riuscire a fornirne una versione
convincente. Il secondo sarebbe stato legare Alice a una sedia, e
tenerla rinchiusa, ma è, purtroppo, un metodo impraticabile.
Il terzo l’ho messo in pratica in ufficio. Mi sono mostrato
preoccupato, premuroso e fraterno. Ma non ha funzionato.
Era da dire. Dopo quello che è successo tra noi ho perso ogni
credibilità.
Ormai ho fallito e devo aspettare che questa tempesta passi.
Hywell partirà domani e noi non sentiremo più parlare di lui. Gli
resta giusto stasera per starle addosso.
O per scoparla.
Gratto malamente la frizione, stavolta lo stridore è così acuto e
brutale che ho la certezza di avere spezzato qualche ingranaggio del
cambio. Il motore in qualche modo si riprende. Spero di riuscire a
fare lo stesso.
Emilia è con Alice, e così prima passo a prendere Fosco e poi
attraverso la città, per recuperare le ragazze.
Sotto casa di Alice cerco di non pensare a come mi sono sentito
un mese fa, quando ho oltrepassato quella porta tenendole la mano.
Alla voglia che avevo di infilarmi sotto i suoi vestiti.
Lei desiderava fare l’amore con me.
Io ero oltre. Facevo l’amore con lei ogni volta che mi sorrideva.
Non hai saputo gestire una persona sul pianerottolo di casa…
È questo che pensa.
Ma si sbaglia, la questione era molto più seria. Più grave. Il modo
in cui mi ha fatto stare quella “persona sul pianerottolo” è stata la
prova che lei mi aveva in pugno.
Che io ero suo, mentre lei non era mia. E non si può essere soli, in
un cosa del genere. Non si può cedere il comando a un’altra
persona.
Alice monta sull’auto, accanto a me.
Devo trattenere lo stupore. Ha un soprabito nero più corto del
solito cappotto, da cui escono le sue gambe nude, non vedo il bordo
della gonna che, in teoria, indossa. Ma, se le gambe mi hanno
procurato un languore idiota, il viso è un vero colpo allo stomaco.
Deve averla truccata Emilia. Il make-up provocante è, per una volta,
magistrale. Fornisce una versione di lei sfacciata e terribilmente
sexy. Sono nervoso, provato e pure un po’ incazzato ma la prima
cosa che penso vendendo il suo viso è che vorrei baciarla.
Baciarla dopo un mese di battaglia, come un reduce che torna nel
posto che gli appartiene. Cambiato dentro e fuori, ma mosso dagli
stessi motivi di sempre.
Mi sforzo di non guardarla, mi rivolgo a Emilia, avvolta in un abito
rosa, e mi complimento per il suo aspetto, le dico che sembra una
principessa.
Alice piega la bocca in un sorriso assoluto, crudele e bellissimo
poi dice che questa è una fortuna perché, in quanto principessa, io
potrò fare il principe e salvarla.
Mi sta provocando. È incazzata.
Mi viene in mente come farla tacere, impegnando la sua bocca in
un altro modo. Il solo pensiero di farglielo sul serio mi fa perdere
direzione. Devo sterzare e riprendere il controllo della macchina.
Resto in uno stato di rabbia assoluta. Alice mi legge come fossi un
libro aperto. Vede come sto e si vendica.
Mi dico di stare calmo. Questa partita va vinta sulla distanza. È
una gara di resistenza e devo solo resistere. Resistere stasera,
convivere con questa idea inaccettabile.
Resistere finché la serata non finirà. Caricherò Alice in macchina e
la riporterò a casa, e da lunedì sarò di nuovo io in vantaggio. Da
lunedì gliela farò pagare per ogni cosa che ha fatto o ha pensato di
fare.
Da lunedì.
Ma prima devo affrontare stasera.
Questa sarà una notte lunghissima.
Alice
Guardami

Questa sarà una notte lunghissima.


Il locale affittato dalla produzione per la festa è un castelletto del
Seicento, riqualificato per eventi mondani privati. L’edificio antico è
stato profanato dalle luci stroboscopiche. Ci leviamo i cappotti
nell’atrio sormontato da una cupola affrescata.
Le persone notano il mio vestito. Ma non per il solito motivo. Non
perché lo reputino strano, ma perché lo trovano estremo. Non vedo
l’ora di osservare la reazione di Alex, ora preso in ostaggio dai
fotografi che vogliono immortalare il suo arrivo.
E non perderò una sola occasione per colpirlo.
Intorno a noi sciamano gli invitati. Individui che sono l’essenza
dell’eccesso. Un turbinio di outfit dai colori eccentrici e abiti che
scintillano.
Ma l’unica scintilla che cerco è quella della rabbia di Alex.
E la vedo non appena i suoi occhi si appoggiano su di me.
Guardami. Gli dico senza parlare. Guardami. E fatti male, come
me ne faccio io, ogni volta che guardo te!
Questa sarà una notte lunghissima.
Alex
Punto di rottura

Io ed Emilia ci prestiamo per i fotografi, tra i flash che abbacinano


osservo il nulla che mi circonda poi, di colpo, vedo una schiena
nuda. È uno scivolo, dalla nuca fino al sedere. E sarà perché è
perfetto, sarà perché è coperto da una striscia di stoffa che non
posso definire gonna, ma è proprio lì che si pianta lo sguardo.
Conficcato su quella meraviglia.
E anche se è di spalle, riconosco la mia Alice, ma so anche che
non è affatto mia.
Mi avvicino a lei e faccio in tempo a vedere lo stupore sul volto di
Fosco, scorgo anche quell’altra cosa che da uomo riconosco.
«Alice», balbetta lui, «cioè sei…»
«Nuda», intervengo. E lo dico come se glielo stessi rinfacciando.
Alice non si scuote. So che il vestito lo ha scelto Emilia, ma Alice
l’ha messo per mandare un messaggio sia a me che ad Hywell. Solo
che sono messaggi diversi.
A me dice “guarda”, a lui “accomodati”.
«Alex!», sulla voce di Carlotta mi distraggo un attimo, e Alice ne
approfitta per dileguarsi con Emilia. Cerco di mettere insieme un
sorriso, mentre prendo atto di quanto è incredibilmente bella.
Ha un miniabito color argento che risplende più di tutto il resto.
Pure il make-up, i sandali e gli accessori declinano la luce e le
conferiscono un’aria preziosa. È come un diamante. Splendida in
senso letterale.
Ieri sera mi sono comportato come un cretino dissociato.
Se una così, che oltre a essere bellissima, ti è vicina in mille modi,
ti è amica in mille modi e ti confessa di voler solamente scopare,
senza una traccia di impegno, non c’è che un’unica risposta
possibile.
Quel sì che non sono riuscito a dirle.
Ma lei sembra non ricordarsene nemmeno. Bacia prima me e poi
mio cugino, ci ragguaglia su alcuni piccoli disguidi che hanno
richiesto interventi in extremis, è affabile, brillante, adeguata. Ci
saluta dicendo di goderci la festa e di approfittare degli open bar.
E questo conferma che le cose con Carlotta sono sempre facili. È
come se andassero a posto da sole. Una condizione che non
sperimento da un pezzo.
Decido di accettare il suo suggerimento e cerco un bar.
Rammento a me stesso il piano: resistere, tenere il conto degli
affronti di Alice e poi restituirle tutto.
Al terzo giro di alcolici, consumati al bancone, realizzo che, se
Fosco ora mi chiedesse come va, io vuoterei il sacco. Gli racconterei
la trama di questo disastro, a partire dalla crepa che ho
sottovalutato, finché non è stata uno squarcio, del male che mi sono
fatto e di quello che farò ad Alice appena questa storia sarà finita.
Parliamo di tutto, ma per la prima volta in vita nostra non ci
diciamo nulla.
Qui nei pressi del bancone, irradiato da una luce strategica, sono
in vetrina, sono visibile. La processione di conoscenti è un flusso che
non conosce pause. Sono amiche, in gran parte. E questo mi porta a
farmi una serie di domande che sarebbe meglio non porsi mai.
Quante donne hanno fatto di me l’uomo che sono? Quante hanno
finito le mie frasi? Quante hanno rivelato desideri che ignoravo?
Quante mi hanno messo spalle al muro, urlandomi in faccia le verità
per cui non ero pronto? Con quante di loro ho discusso senza
parlare? Quanti sono stati i silenzi importanti? E quanti baci non ho
dato per la paura di uscirne devastato?
Queste sono le domande che un uomo non dovrebbe farsi mai,
perché la risposta potrebbe essere: «È accaduto con una donna
soltanto. E l’hai appena persa».
E, quasi per confermare la conclusione, vedo Alice.
È ai piedi di una scala, ferma davanti ad Hywell Stockton. Solo
che c’è un errore in questa scena.
Lui la tocca e non può. Non ne ha diritto.
E non posso aspettare lunedì per dirglielo.
Perché è adesso che sto morendo.
Alice
Indelebile

Che diavolo ci faccio qui?


Qui in un privé insieme a quattro star del pop e alle loro amiche
stordite?
Cosa ci faccio seduta accanto a una persona che mi sta
ricoprendo di attenzioni che non posso ricambiare?
Cosa ci faccio con questo vestito provocante, quando l’unica
persona che vorrei provocare mi ha chiuso fuori dalla sua vita e mi
riserva solo il peggio di se stessa?
Semplice!
Bevo Calvados e spio Alessandro.
Il Calvados è una trovata di Hywell per onorare le mie origini
bretoni. Ho evitato di precisare che questo distillato di sidro in realtà
è prodotto dalle mele della Bassa Normandia.
Mi sbronzo in un silenzio scontroso, da vecchia alcolizzata e
grazie alla posizione sopraelevata tengo d’occhio la persona che mi
ha spezzato il cuore pensando a quanto vorrei spezzarglielo io.
Giusto per restituire il favore. E penso anche a quanto il pensiero sia
ridicolo, perché non si può spezzare il cuore a qualcuno che non ne
possiede uno.
«Alice, scusa mi stai ascoltando?».
Le parole di Hywell, che stasera conversa in inglese, mi arrivano
solo perché mentre mi parla mi scuote il braccio. Incontro i suoi
grandi occhi verdi e non so cosa dire. Alla fine opto per una mezza
verità.
«Mi ero distratta», ammetto in inglese, «rifammi la domanda».
«Malachi», e indica il suo amico, sdraiato sul divanetto con una
biondissima miss qualcosa avvinghiata al braccio, «ha detto che se ti
va, potresti venire a Berlino».
Se davvero Malachi ha detto una cosa del genere si tratta
probabilmente della frase più lunga che ha pronunciato durante la
serata. Ma di sicuro non faceva sul serio. E non fa sul serio Hywell
mentre mi ripete la domanda.
Non credo che mi stia davvero chiedendo di seguirlo a Berlino. È
impossibile.
«Allora ci vieni con me a Berlino?».
O forse no. Merda.
Se davvero Hywell pensa che io possa partire con lui dal giorno
alla notte, significa che ci è proprio rimasto dentro. So di averlo
confuso. I miei segnali sono stati contradditori. Ieri sera l’ho baciato
poi gli ho impedito di andare oltre. Ho accettato di seguirlo qui ma,
quando ha provato a baciarmi ancora, l’ho murato con un laconico
“non mi sembra il caso”. Forse è confuso. Forse pensa che lo faccia
per essere più interessante. Forse pensa di conquistarmi in un modo
o nell’altro. Non mi sembra il tipo da mettere la droga dello stupro nel
mio Calvados. È più probabile che creda che sia una questione di
tempo. Devo mettere in chiaro che non lo è.
«Non mi sembra il caso», ripeto.
Stavolta non si rassegna.
«Hai detto di non esserci mai stata…»
«Non sono mai stata neppure in Groenlandia, ma non partirò
domani per colmare la lacuna».
«Sei una tipa troppo tesa. Troppo negativa», dice Cian, «devi
imparare a rilassarti, divertirti», conclude mentre, in piedi al centro
dei divanetti, per ragioni ignote sta ballando da solo.
Che diavolo ci faccio qui?
Cerco di far ingelosire qualcuno a cui non frega nulla di me. Cerco
di attirare l’attenzione di un bastardo il cui ultimo passatempo è farmi
a pezzi. Qualcuno che si infastidisce appena mi allontano, ma non si
fa scrupoli a tenermi a distanza.
Me lo dimostra anche adesso. Lo vedo che parla con una ragazza.
Impossibile stabilire chi sia. Ma è diversa da quella con cui parlava
cinque minuti fa. Lei si sente autorizzata a sistemargli il colletto della
camicia coreana. Mi fa male che si lasci toccare. Mi fa male non
poterlo toccare.
Mi fa definitivamente male bere Calvados. Ma vuoto comunque il
bicchiere.
Hywell chiama uno del catering, gli infila una banconota arrotolata
in mano e quello un minuto dopo arriva con una bottiglia intera di
distillato di sidro. Ho il sospetto che Hywell ne abbia fatta portare
una cassa intera in cantina.
Che diavolo ci faccio qui?
A fingere che una persona gentile possa davvero colpirmi, quando
è chiaro che non può. A fingere che lui mi piaccia, quando invece mi
piace troppo un altro per riuscire a fare la cretina con lui.
Dirigo lo sguardo nell’ultimo posto in cui ho visto Alessandro.
Non c’è più.
Non so dare un nome all’angoscia che provo. Immagino sia
andato via.
«Ho bisogno di una boccata d’aria».
Mi alzo e mi dirigo in fretta verso le scale.
Ho necessità di respirare. È come se l’aria fosse rarefatta. Per
quanto io riempia i polmoni non arriva l’ossigeno.
«Alice, fermarti per favore».
È Hywell, siamo quasi in fondo alla scalinata. Siamo a ridosso
della pista, vicino al cuore del caos.
«Qualcosa non va, vero?», mi chiede. Urla perché io lo senta. Non
rispondo e lui annuisce. «È per la faccenda di Berlino, vero? Ti
sembra che io stia correndo troppo?»
«No, tranquillo», anche io urlo sul frastuono. «Figurati! Mica penso
che mi hai invitato per…».
Mi afferra la testa e mi piazza le labbra sull’orecchio.
«Ma io l’ho fatto», dice. «Io corro troppo perché ho una vita che va
velocissima», parla tra i miei capelli. «E non posso dar tempo alle
cose. Ma c’è una ragazza che ho conosciuto ieri, che è sexy da
morire», mi stringe con un’urgenza che mi commuove, «che vorrei
davvero conoscere meglio, ma so già di non poterla vedere domani.
A meno che la ragazza non accetti di venire a Berlino con me».
«Hywell, credimi io sono lusingata», vorrei accarezzarlo anche io,
perché c’è qualcosa di terribilmente dolce in una persona che vuole
vedermi anche domani, nonostante io mi sia comportata di merda.
Ma è tutto davvero troppo sbagliato.
Non faccio in tempo a parlare. Qualcuno mi afferra fortissimo per il
braccio.
Mi sbilancia e finisco con la schiena contro un petto di marmo. Mi
giro atterrita e vedo Alessandro.
«Dobbiamo parlare», dice.
Hywell è sbalordito. «Scusa, ma cosa…?»
«Alice, muoviti».
«Lei è con me!».
Alex lo ignora e mi strattona per portarmi via, e allora anche
Hywell mi prende il braccio. Si scambiano un’occhiata di sfida.
Sfioriamo la farsa. Cerco di mantenere la calma. Non diventerò il
pretesto per i titoli cretini dei giornali di domani: “Ragazza mezza
nuda contesa tra la pop star e l’erede”.
Mi libero di entrambi e piazzo una distanza di sicurezza.
Raggiungo Hywell. «Scusalo», gli dico, «credo che il mio capo sia
ubriaco. Sistemo e torno».
Non gli do tempo di replicare. Nel suo sguardo sbigottito vedo la
delusione farsi strada. Ma alla fine annuisce e se ne va.
Torno dall’idiota, ma non faccio in tempo a dire una parola. Quello
mi afferra ancora, e stringe. Mi fa male. Male sul serio.
«Ma sei impazzito?»
«Chiudi la bocca e muoviti», mi spintona. «Stavolta mi hai fatto
davvero incazzare!».
Lo capirei anche se non me l’avesse detto. Mi spinge, inciampo e
lui mi strattona ancora, mi intima di stare in piedi e di muovermi. Mi
sta trattando in un modo indecente. Cerco di raccogliere la lucidità
che a lui evidentemente manca, per evitare di dare spettacolo qui.
Nell’atrio sento che affonda di nuovo le dita nel mio braccio. È
disumano. Il dolore è intenso, stringo i denti.
Alex è arrabbiato e crede che questo lo autorizzi a punirmi. Ma di
che mi sorprendo? È stato sempre così. E io gliel’ho permesso,
glielo permetto ancora.
Usciamo. Il freddo mi coglie come uno schiaffo, mentre
Alessandro implacabile mi trascina via. Questo vestito maledetto mi
fa sentire nuda. Inciampo ancora sulla ghiaia, il tacco cede, e finisco
a terra. Sono sbigottita, in preda a un dolore atroce. Mi sfioro il
ginocchio. Sanguina.
Questo dovrebbe fermarlo. Dovrebbe fermarci. Dovrebbe essere il
danno collaterale che ti fa tornare la ragione.
Ma non succede.
Alessandro mi prende per la spalla ma stavolta mi sottraggo. La
spallina del mio vestito rimane nelle sue dita. Riesco a evitare per
miracolo che il vestito mi scivoli via.
Gli rivolgo uno sguardo di fuoco.
«Ma che cazzo fai, Alessandro?», ringhio.
Ma la vera domanda che dovrei farmi sarebbe che cazzo ci faccio
io, Alice, a terra, ferita, con un vestito lacerato e una scarpa rotta, ai
piedi di un uomo come questo?
«Alzati», ha il respiro in affanno, i pugni chiusi. Lo sguardo folle.
Chi è questa persona? Chi diavolo è?
«Ma vaffanculo, Alex».
Lo vedo serrare le labbra, mi sembra di scorgere un barlume di
consapevolezza. Ha capito di essersi fatto sfuggire la cosa di mano.
E infatti, quando trova la lucidità per parlare, cerca di cambiare il
tono della voce. Quello che esce è un inquietante compromesso, in
cui lo sforzo di sembrare accomodante si accartoccia sui resti di una
rabbia troppo grande. È come se mi assicurasse che non mi farà del
male, mentre affonda il pugnale.
«Mi dispiace per il vestito, okay?», esordisce. «Lo ricomprerò. Ora
alzati».
«Secondo te basta pagare e le cose si aggiustano, vero?», afferro
la scarpa rotta e me la infilo. Mi faccio forza e mi rimetto in piedi.
Con una mano devo reggermi il vestito.
«Alice, la colpa è tua!»
«No, cazzo, è tua!», gli urlo in faccia. «Tu hai un ego grande come
un pianeta e non hai saputo gestire la presenza di un mio amico sul
pianerottolo di casa…»
«Un amico che aveva le chiavi di casa tua!», parla poi serra le
labbra come a trattenere le parole. Anche questo conferma che ho
ragione.
«Io voglio bene a Brando ma…».
Distoglie lo sguardo, io gli afferro il viso e lo obbligo a guardarmi.
«Voglio bene a Brando, ma non significa nulla che lui avesse…»
«Significa tutto», scandice. «Io ti ho dato le chiavi di casa mia. E
significava tutto!»
«Tutto cosa?»
«Tutto…», abbassa la testa.
«No, adesso me lo dici, cazzo. Adesso mi dici la verità su di noi».
Un lampo di paura si fa largo nella rabbia.
E capisco che devo affondare il coltello.
«Alex, io domani mattina parto. Ho l’aereo per Berlino!»
«Quale aereo per Berlino?», irrompe, poi arriva da solo alla
risposta. «Non puoi dire sul serio».
«Sì invece».
«Lo conosci da ventiquattr’ore! È un estraneo».
«Conosco te da tre anni e ancora non so chi ho davanti».
Di nuovo vedo la paura, di nuovo si chiude sulla difensiva.
Cosa teme di lasciare sul campo?
Cosa sta difendendo?
«Alice, non puoi», scandisce. «Hai degli obblighi verso l’azienda».
«Me ne sbatto dell’azienda. Voglio provare l’esperienza di scopare
con una celebrità». Su queste parole, lo vedo chiudere gli occhi
come in presenza di un dolore troppo forte.
«Ti avverto», scandisce. «Se lo fai sei licenziata».
«Se mi scopo Hywell?».
Vedo di nuovo quell’espressione di sofferenza acuta.
«Ti licenzio, se sali su quell’aereo», precisa, e la voce gli trema di
rabbia. «Se pianti la rivista senza preavviso, se dimostri di non avere
etica del lavoro, se manchi di rispetto ai tuoi colleghi e ai tuoi
superiori non meriti di lavorare nella mia azienda».
Lavoro, etica, rispetto, azienda.
Ciascuna di queste parole è un alibi per depistarmi, il pezzo di una
maschera. È una menzogna dalla coerenza disarmante. E capisco
che ci crede. Lui è la prima vittima delle sue bugie. Non riesce a
essere sincero neppure con se stesso.
E io arrivo al punto di rottura.
Non si sa perché, a un certo punto della sua vita, un chiodo
conficcato in un muro si sfila e il quadro cade.
Il peso del quadro era sempre lo stesso, ma in un giorno come un
altro il chiodo non ce la fa più.
Sono ferma davanti ad Alessandro immobile. E lo colpisco.
Uno schiaffo, sul viso.
È un gesto così risolutivo, così liberatorio che non gli do il tempo di
replicare. Lo colpisco ancora, più forte. E lo farei per la terza volta se
lui non me lo impedisse. Mi blocca il polso e poi afferra anche l’altro.
Stringe forte e mi fa male, ma è una sofferenza condivisa. E deve
stare male, malissimo, perché quel dolore lì non riesce a tenerlo
negli occhi.
Me lo appoggia sulle labbra.
Quello che ne esce non è un bacio.
È come il primo respiro dopo che hai rischiato di affogare.
È la fede disperata in un noi che sopravvive.
È la scoperta di un sentiero che ci porta a casa.
Siamo io e Alex, in forma di bacio.
Mi sta dicendo resta, mi sta dicendo vattene per sempre. Sono gli
estremi di una corda sulla quale abbiamo provato a stare in
equilibrio.
E sono trascorsi tre anni prima di sentire la sua bocca sulla mia e
capire che è qui, sulla sua bocca, che vorrei morire.
E so che lui non lo merita, tutto quello che provo, ma non conta un
cazzo.
Cercherò sempre di tornare da lui, lo so mentre affondo una mano
nei suoi capelli, e lui troverà sempre un modo per tornare da me, me
lo stanno dicendo i suoi morsi sulle labbra, e ricominceremo mille
volte, e ogni inizio sarà destinato a una fine. Esattamente come
questo bacio, che ho sognato mille volte di dargli, ma darglielo
davvero è come morire mille volte.
Non smetto di cercare una strada, lo so mentre trovo il sentiero
per il suo cuore che mi esplode sotto le mani.
Non smette di cercare una strada, lo so mentre mi solleva la
gonna e mi ritrovo le sue mani tra le gambe. Il suono che mi esce
dalla gola è un gemito.
«Alex».
«Zitta e baciami».
E, per chiarire come, mi afferra per i fianchi e mi sbatte sul cofano
di una macchina. Ho di nuovo la sua bocca sulla mia. È un bacio che
non conosce tregua. E il suo corpo contro il mio è come un marchio.
È marmo e fuoco.
«Io sto zitta per sempre», dico sulle labbra. «Ma prima rispondi,
dimmi la verità su di noi, Alex».
«Dilla prima tu, Alice. Dimmi la verità su di noi».
E c’è qualcosa nei suoi occhi che prima non c’era. E forse è
questo ciò a cui mi devo aggrappare. C’è la speranza e il terrore che
la mia verità coincida con la sua.
«Ma è Alex, quello?»
«Sì, è lui! È Alessandro!»
«Ehi, Alex, che combini?».
Lo sento sussultare tra le mie gambe. Si gira di tre quarti.
Mormora un’imprecazione, la voce gli esce spezzata dall’affanno.
Ora vedo due ragazze in verde che si fanno largo tra le macchine
parcheggiate e si sbracciano nella sua direzione. Sono chiaramente
ubriache.
Lo chiariscono sia il modo sconnesso in cui si muovono sia il fatto
che lo chiamino in un momento come questo. Lui mi copre con il suo
corpo, ma è chiaro che non è solo.
Si allontana appena.
Il tempo di scorgere i suoi occhi liquidi come l’argento fuso.
«Non ti muovere di qui», mi dice.
«Alex…»
«Le sistemo e torno».
Fa per andarsene ma torna subito indietro. Il tempo di
appoggiarmi le dita sulle labbra e di sfiorarmi la fronte con la fronte.
La cosa che più mi strazia è vedere che, mentre lo fa, tiene gli
occhi chiusi. Poi si gira e se ne va.
Lo guardo allontanarsi.
Cerco di respirare e di dare un nome a quello che è appena
successo. Poi abbasso lo sguardo sul ginocchio. Sanguina ancora.
Mi sfioro la spallina del vestito. È ancora strappata.
Vedo le due ubriache che lo accolgono come una divinità.
Una delle ragazze guarda verso di me. Scendo dal cofano e cerco
di proteggermi dietro la vettura. Ma non mi sono nascosta
abbastanza. Ho bisogno di farlo meglio. Di mettere più spazio, o
forse solo di pensare. E quindi dimentico quello che mi ha chiesto e
me ne vado in fretta. Senza voltarmi indietro.
Alex
Impossibile

Ho baciato Alice.
Lo penso mentre due amiche di amici di cui non ricordo neppure il
nome reclamano la mia attenzione.
Hanno interrotto il momento più importante della mia vita.
Ho baciato Alice.
Me lo ripeto mentre sorrido e cerco di liberarmi di loro.
Ho baciato Alice.
Scandisco ossessivamente e, poiché la devo assolutamente
baciare ancora, alla fine mi congedo dalle due e mi giro.
Ho baciato Alice.
Ma Alice è sparita.
La cosa mi procura uno strano smarrimento. La cerco tra le
macchine. Ma non la trovo. Le telefono, ma l’apparecchio è
irraggiungibile, le mando comunque un messaggio. Poi rientro nel
castello dove la festa prosegue.
Cerco Hywell, e vedo che è con i suoi amici. Di Alice neanche
l’ombra.
Mi aggiro senza tregua, schivando le persone che conosco con
modi sempre più scontrosi. Mio malgrado sento crescere l’ansia.
Perché ho baciato Alice.
Ma non la trovo più.
E in questo momento comincia la discesa all’inferno.
Perché continuo a cercarla e riempio prima i minuti e poi le ore
chiedendomi dove diavolo sia.
Sono le tre di notte quando mi trovo a suonare al citofono di casa
sua, senza che nessuno risponda.
Sono le quattro e mezzo quando mi ritrovo con il telefono in mano.
Nella mia testa rimbalza quella parola, “Berlino”, come fosse una
biglia impazzita. Controllo a che ora partono i voli.
Malpensa, ore sei e un quarto.
Ci arrivo alle cinque e mezza. Mollo la macchina ed entro nella
struttura.
Non può essere qui. Posso accettare l’idea che mi abbia baciato e
che poi se ne sia andata, perché tutto quello che è accaduto prima di
quel bacio è stato tremendo.
Ma non posso credere che dopo quel bacio lei mi abbia piantato
per scappare a Berlino.
È impossibile che sia qui, penso mentre percorro i corridoi
dell’aeroporto. Mi sento spettatore della mia stessa follia.
Però forse è vero che non tutto si aggiusta. Che alcuni disastri
sono irreversibili. Se bruci un fiammifero, puoi scordarti per sempre
di riaverlo indietro.
Il nostro bacio è stato irreversibile?
In parte mi rispondo da solo quando la vedo.
Il cuore si pianta nel costato. Vuole disertare. Non ce la fa più.
Alice è nell’area destinata all’imbarco. Ha un paio di jeans e il suo
solito cappottino. Deve essere passata da casa.
E in questo momento ho nostalgia di tutto, perfino del male che ci
siamo procurati.
Mi avvicino alla guardia giurata, qualcosa racconterò, ma devo
entrare in quell’area senza carta d’imbarco. Ma, prima che possa
raggiungerlo, vedo lui. Hywell Stockton. È arrivato con due sacchetti
e due caffè.
Le ha portato la colazione.
E questa intimità che lei riesce ad avere con un estraneo mi
sembra il tradimento definitivo.
La mia determinazione non è mai esistita. Basta un caffè per farmi
fare un passo indietro.
Perché ci sarà sempre qualcuno sul pianerottolo.
Qualcosa che non riesco a gestire.
Perché la mia verità su di noi non è uguale alla sua.
Perché io la amo e lei no.
Sento il telefono squillare.
Quando leggo il nome sul display provo un sollievo che non
credevo possibile.
«Carlotta…»
«Alex, ma dove sei finito?»
«Storia lunga».
«Ora me la racconti. Sono al bar Iago, vicino a casa tua».
Guardo Alice per l’ultima volta. Poi chiudo gli occhi.
Abbasso la testa.
«D’accordo, Carlotta», le dico, «vengo da te».
Alice
La verità su di noi

«…Ed è per questo che non posso partire, Hywell».


Siamo all’aeroporto, Hywell è in piedi davanti a me, e non solo ha
fatto in modo che entrassi in quest’area riservata a chi sta partendo,
ma mi ha pure offerto la colazione. Ha ascoltato tutta la storia e per
essere sicura che capisse parliamo in inglese. A pensarci bene è
quasi un miracolo. Al posto suo non avrei dato udienza a una cretina
che in ventiquattro ore ha, nell’ordine, deriso i suoi capelli, tentato
un’aggressione a sfondo sessuale salvo poi dire che “non era il
caso”, e che infine l’ha piantato in asso a una festa.
Ma forse, in quanto pop star, una cosa del genere non gli capita
tutti i giorni ed è solo incuriosito dall’esperienza.
«Credo di aver capito», annuisce, «tu provi qualcosa per il tuo
capo».
Scuoto la testa. «Non sono molto a mio agio con le etichette, ma
dico che…»
«Che sei innamorata», finisce la frase al posto mio.
Mi esce una risata nervosa. Cerco di attenuare il concetto.
«Escludo che la situazione sia a questi livelli di gravità, tuttavia…»
«Tuttavia sei innamorata di lui», insiste. «Non mi hai chiesto un
consiglio, ma te lo do lo stesso. Quando una cosa è inevitabile, va
affrontata. Non vale la pena nascondersi. Non avere paura delle
parole. Le tue restano vere a prescindere dalle sue. Digli tutto.
Alcune cose sono più pericolose se le eviti che se le affronti».
«Non ci credo! Parli come Brando».
«Chi?»
«Un tuo collega. Pure lui è un musicista», taglio corto. «Io però
non sono convinta che vuotare il sacco sia una buona idea...»
«Lo è. Fallo subito, Alice».
Mi abbraccia, un gesto dal sapore di addio. Raramente mi è
capitato di incontrare qualcuno che mi abbia lasciato così tanto, in
un così breve arco di tempo.
All’uscita dell’aeroporto ripenso alle sue parole.
Guardo il telefono. Ieri notte Alex mi ha cercato. Mi ha lasciato un
messaggio.
Mi ha scritto “dove diavolo sei finita?”.
Un po’ lapidario, ma almeno significa che mi ha cercata.
Ora ho preso le distanze da ieri e, poiché l’unica cosa da cui non
prendo le distanze è il suo bacio, mi sa che devo rassegnarmi e
affrontarlo.
Forse è un po’ ottimista pensare di far chiarezza su qualcosa che
non comprendo. L’unica verità sull’amore è un riscontro empirico e
comparativo: paragoniamo le nostre storie tra di loro e ascoltiamo la
risposta del cuore.
Cosa so di Alessandro?
Che è una persona egocentrica e spietata, ma è la più importante
della mia vita.
Che significa questo?
Che forse lo amo.
Che è molto probabile che lo ami e non perché lui sia la miglior
persona della terra, non lo è, ma perché sono inciampata nei suoi
occhi e non ne esco più.
E quindi, sì, bisogna chiarire.
E devo farlo subito. Lo troverò di sicuro a casa sua.
Ho con me le chiavi.
Prendo l’ennesimo taxi delle ultime ore e mi faccio portare
all’appartamento di Alessandro.
Alex
L’interruttore del cuore

Arrivo al bar indicato da Carlotta. La vedo attraverso i vetri. La


trovo che fa colazione, come mi aveva detto che avrebbe fatto, per
ingannare l’attesa.
È ancora nei suoi abiti da sera e riesce a essere unica e
adeguata.
Ci sono persone che si vestono in base al contesto, e persone,
poche in verità, che riescono a piegare il contesto alle loro esigenze.
Che sono comunque perfette.
Carlotta appartiene di sicuro alla seconda categoria.
Alza lo guardo e mi vede. Solleva la mano.
Rispondo sollevando la mia.
Mentre la raggiungo vedo che parla con un cameriere. Lei fa cenni
garbati, lui la guarda con una posizione curva, deferente. Come se
fosse al cospetto di una regina e si vergognasse di sovrastarla.
Arrivo al tavolo mentre lui se ne va.
«Ciao, Carlotta».
«Ciao, Alex. Ti ho appena ordinato un infuso energizzante».
Annuisco, e poi mi siedo; mi sembra di avere nelle gambe la
stanchezza di una vita.
«Stai male come sembra?», domanda, poi sparisce dietro la tazza
del suo tè, per darmi il tempo di rispondere.
«Non lo so, Carlotta. Non so come sto», perché oltre la cappa di
delusione e sconforto, io avverto anche il bisogno di farla finita.
Voglio smettere di soffrire. Spegnere il cuore. Una volta per tutte.
«Chi è lei, me lo vuoi dire?»
«Non importa. Se n’è andata».
Annuisce. Le ho detto pochissimo, ma lei ha compreso. Chi ti
conosce sul serio è in grado di capire il colore degli spazi che tu lasci
vuoti.
«Secondo me dovresti farlo anche tu», suggerisce.
«Devo andarmene?»
«Sì, suggerisco le terme. Con me».
Scuoto la testa, lei mi blocca.
«Se stai pensando che sfrutterò l’occasione per cercare di
scoparti, tranquillo, andrà proprio così».
Cerco di non ridere, mentre lei annuisce.
«Ci proverò in tutti i modi», insiste, «ma saprò accettare un no», il
suo sguardo diventa una carezza. «Voglio solo vederti tornare te
stesso».
Mi premo la sua mano sulla guancia.
«Carlotta, non sarei una buona compagnia».
«E allora chiamiamo anche qualche amico. Guglielmo, la piccola
Astrid, Tiberio… fai tu la lista».
Ho esaurito le obiezioni.
E poi, perché dovrei oppormi? Perché evitare di essere aiutato in
un momento in cui non so aiutarmi da solo?
Da solo mi distruggerei di rabbia. Non farei che pensare ad Alice.
Finirei per fare una cosa che non devo fare. Prenderei l’aereo per
Berlino. Mi metterei sulle loro tracce. Mi coprirei di ridicolo, una volta
per tutte.
Come ha potuto baciarmi in quel modo, e poi staccare la spina?
Come ha potuto girare le spalle a un bacio così, a un momento
così.
Non riesco a capirlo.
E non posso passare la vita a chiedermelo.
Devo decidermi a passare oltre anche io.
«Okay, Carlotta. Recupero un cambio da casa mia e poi ce ne
andiamo alle terme».
Alice
Fuori da casa tua

Quando avvisto la casa di Alex mi sento come se stessi tornando


nella mia. Il senso di famigliarità che provo sembra capace di
scavalcare questo ultimo periodo e cancellarlo.
Qui torno indietro al momento in cui cenavamo con il takeaway
vegetariano e io sistemavo sul suo letto le camicie che avrebbe
indossato.
Qui c’è ancora il ricordo della sua voce che mi dice che un giorno
avremmo vissuto nella stessa casa, perché eravamo destinati a
stare insieme per sempre.
Col senno di poi, le cose che ci siamo detti sembravano superare i
limiti stessi del nostro rapporto.
Li scavalcavano e alludevano a qualcosa che non c’era.
Che ancora non c’era.
Forse era il nostro modo di esprimere un desiderio ad alta voce.
Procedo spedita sul marciapiede.
Vedo il portone, mi sembra di guardare la speranza. Stringo le
chiavi che Alex mi ha dato. Le chiavi di un posto in cui potevamo
trovarci. Io potevo conoscerlo e lasciarmi guardare da lui. Un rifugio
dal mondo esterno, lontani dalle maschere che lui deve indossare,
da un ambiente di lavoro in cui i ruoli ci hanno trasformato in
qualcosa che non eravamo.
Mi basterà dirgli la verità. Quella che fa più male se la nascondi
che se la dici ad alta voce.
Il portone però si apre. L’anta imponente invade il marciapiede e
un secondo dopo io riconosco Carlotta. Indossa lo stesso abito
argento che aveva ieri sera alla festa, cammina su un paio di sandali
tempestati di strass con la sicurezza di chi ha il mondo ai suoi piedi.
È di una bellezza irreale. Divina.
L’istinto mi soccorre, oltre la confusione. Mi nascondo in una
strada laterale.
Ho il respiro corto. Ho paura di guardare. Cerco un alibi per
Alessandro, perché il primo pensiero è quello di salvarlo. Mi dico che
Carlotta è sola. Che è passata a casa di Alex di sua iniziativa. Che
forse lui nemmeno c’era. Quasi ci credo. Piazzo una scommessa su
me e Alex, lo faccio per l’ultima volta.
E perdo la sommessa.
Perché Carlotta non è sola. C’è anche Alessandro.
Lui ha sul viso i segni di una notte insonne. L’aria cupa. A
differenza di Carlotta, si è cambiato d’abito. Indossa un paio di jeans
e un piumino informale, regge tra le mani una sacca nera. Un piccolo
bagaglio a mano. Sta partendo. Con lei.
Il portone si richiude con un tonfo, ma è la mano di Alex sulla
schiena di Carlotta a farmi trasalire.
Entrano nella macchina di Alex e se ne vanno. Il rumore del
motore
È una pietra tombale che schiaccia le mie speranze.
Mi chiedo come abbia potuto baciare me e finire la serata con
un’altra. Come abbia potuto staccare la spina.
Come abbia potuto girare le spalle a noi e al nostro primo bacio.
Un bacio che è stato anche l’ultimo.
Vorrei scappare ma non riesco a muovere un passo. Non so come
liberarmi di questa atroce sofferenza. Mi accorgo che sto stringendo
le sue chiavi, quando il dolore alla mano diventa insopportabile.
Mi prendo un minuto per fare una cosa che non avrei mai voluto
fare.
Entro dal portone, raggiungo la sua elegante cassetta delle lettere
e ci lascio cadere dentro il mio mazzo di chiavi.
Avrei dovuto aprirci tutto, ma era un mazzo difettoso e sono
riuscita solo a chiudere il mio cuore.
E ora non lo aprirò mai più.
Mi allontano dalla casa di Alessandro. Più cammino e più il dolore
sale. Più mi allontano più l’angoscia mi afferra, mi stringe. E mi
ritrovo a piangere. A piangere senza freni.
Piango perché non mi resta altro da fare.
Perché ho perso l’ultima scommessa.
Perché ho appena scoperto di essere innamorata di lui.
E dovrò passare il resto della vita cercando di togliermelo dal
cuore.
Epilogo
Otto mesi dopo
Giugno

«…E i report del trimestre sono già sulla scrivania, dottore».


«Grazie, Rosa».
«Ah, c’è il signor Maurice in videochiamata».
La cosa non mi sorprende. Passo a Milano tre giorni a settimana,
ma Maurice riesce comunque a chiamarmi almeno una volta al
giorno.
«Passamela sul terminale».
«Subito, dottore».
Rosa, una cinquantenne efficiente e infaticabile, è la mia
segretaria personale. Da quando faccio il pendolare tra Parigi e
Milano mi sono rassegnato a prenderne una.
Non posso lamentarmi ma ancora non mi sono abituato ad averla
intorno.
Sullo schermo compare il volto ossuto, cavallino di Maurice
Lautrec. Indossa una camicia di un violentissimo giallo limone che
aderisce al suo busto magro. Mi parla, com’era prevedibile, dal
palazzo di vetro nel sesto arrondissement, la sede francese della
nostra divisione editoriale dove gli architetti e le maestranze sono
all’opera per poter rendere tutto perfetto. A breve dovremo essere in
grado di accogliere i membri delle quattro nuove redazioni.
Maurice, in quanto “collaboratore personale” di madame Blanche,
la quotatissima direttrice editoriale che abbiamo chiamato a dirigere
«Aplomb France», considera un obbligo morale dire la sua su
ciascuna scelta degli arredatori.
«Dottore, spero di non averla disturbata», inizia Maurice. Il
francese nella sua bocca sembra un flusso implacabile, senza pause
sintattiche. «Sa che non oserei se non fosse questione di vita o di
morte».
Ieri la questione di “vita o di morte” riguardava il tipo di lino usato
per i cuscini nella sala d’attesa di «Macaron», la rivista per ragazzine
che vareremo ad agosto. Mi aspetto che il problema di oggi sia allo
stesso livello di gravità.
«Sono rammaricato e non so come dirglielo, ma le tende
giapponesi che sono state montate nell’open space di “Internal” non
seguono la declinazione cromatica dell’open space di “Yacht and
more”. E, poiché non ci sono pareti ma solo un corridoio, la cosa è di
una disomogeneità quasi offensiva».
Sospiro. «Appena rientro a Parigi, parliamo con l’architetto».
Lui sospira di sollievo e si porta una mano al petto.
«Dottore, mi toglie un peso. Perché le confesso che quando non
c’è», agita le mani e sospira a simulare un mancamento, «insomma
la sua mancanza si sente».
«Andrà tutto bene, Maurice, saremo operativi entro i primi di
settembre. Tende in gradazione di colore comprese».
Chiudo la chiamata e con essa la mia lunga giornata lavorativa.
Saluto Rosa e finalmente esco dall’ufficio dove ho passato le
ultime dodici ore.
Sto scendendo in ascensore quando le porte si aprono e compare
Marilù, borsa al braccio e spolverino lilla. Sembra che sia appena
tornata da un pomeriggio di shopping e non da una giornata di
lavoro.
«Oh, Alex, ormai vederti a palazzo è un evento. Come procede la
selezione del personale per la divisione francese?».
È difficile riassumere in poche parole il complicatissimo stato dei
lavori.
«Siamo a buon punto con le tre riviste del segmento Luxory &
Lifestyle».
Sorride. «Che colpo hai messo a segno! Hai rubato la leggendaria
Madame alla concorrenza! Lei è una vera icona nel mondo della
moda! Oltre a essere un punto di riferimento indiscusso dei salotti
parigini».
E questi sono i motivi per cui ho messo sul piatto della
“leggendaria” Blanche Marceaux, nota negli ambienti come
Madame, un’offerta che non poteva rifiutare.
«Ci siamo assicurati i migliori anche per la rivista di interni e per il
magazine sugli yacht e i prodotti di lusso», faccio presente. Ma
ometto di dire che non abbiamo trovato ancora nessuno che imposti
«Macaron», la rivista per ragazzine.
Squilla il telefono, è un messaggio di Fosco.
“Sono arrivato”
Mi ha dato appuntamento in un bar a Brera, sotto casa sua. Visto
che sono ancora a palazzo è evidente che mi dovrà aspettare.
Alla fine arrivo in via Fiori Chiari, con circa venti minuti di ritardo.
Ma mi basta vedere mio cugino, con il sorriso sul viso e la mano
alzata, per capire che, se anche fossi stato in ritardo di venti ore, lui
mi avrebbe perdonato.
È dimagrito parecchio ma sul suo viso, da qualche settimana, è
ricomparso il sorriso.
Per la precisione è ricomparso quando Emilia, dopo essere
rimasta sei mesi negli Stati Uniti, si è decisa a tornare a Milano e,
per fortuna, se lo è ripreso.
Non è stata una faccenda da poco perché dallo scorso Natale
Fosco, pur animato dalle migliori intenzioni, ha scelto di raccontarle
parecchie bugie e le bugie sono bastarde. Anche quelle dette per
proteggere chi amiamo, alla fine, lasciano un segno.
Inoltre non era scontato che Emilia si riprendesse mio cugino
perché farlo ora significa prendersi anche il piccolo Ulisse.
Il figlio che Fosco ha avuto da Gaia.
Il figlio di cui Fosco ha dovuto occuparsi da solo, poiché Gaia non
lo voleva.
Il bimbo è qui con noi, sul petto di suo padre. È nato a gennaio ed
è ancora molto piccolo, perché è nato prematuro; se ne sta
imbragato in un marsupio, bloccato nei movimenti, ma ancora una
volta resto stupefatto dalla consapevolezza del suo sguardo.
I suoi incredibili occhi blu sembrano contenere una strana
saggezza.
Fosco mi chiede come sto e io noto che tiene una mano sulla
testa bionda del bambino e gli offre l’altra per farlo giocare.
È bravo a fare il papà, Fosco. È bravo in tutto quello che fa.
«Non prendermi per un sentimentale, Alex, ma mi manchi».
«Tu sei un sentimentale, Fosco», dico mentre richiamo un
cameriere con un cenno. «Ma anche a me manca non vederti
spesso come prima».
Da quando c’è Ulisse, Fosco fa un part-time e io sono spesso fuori
città.
Lui ordina una birra e io un prosecco con il maraschino.
«Come vanno le cose con Emilia? Siete riusciti a ripartire?»
«Be’, la convivenza di adesso non è proprio come la convivenza di
prima», ammette, «e, forse, non smetterò mai di pensare di averle
imposto un figlio non suo».
«Non glielo hai imposto», lo blocco. «Levatelo dalla testa. Emilia è
il tipo che fa solo quello che vuole fare».
Non aggiungo che avrebbe dovuto dirle subito del bambino,
quando lo scorso dicembre ha scoperto che Gaia era incinta. Non
glielo dico perché è una di quelle cose su cui Fosco non può
cambiare idea.
Tornasse indietro mille volte ripeterebbe quello sbaglio mille volte.
A volte sembriamo affezionati ai nostri errori.
Il cameriere porta le ordinazioni.
«Io credo che tuo figlio le piaccia sul serio», riprendo dopo una
sorsata. «E questo perché le piaci sul serio tu».
«E tu come stai? Come vanno le cose?»
«Benissimo», ammetto.
«Ho notato che ultimamente hai fatto coming out. Tu e la donna
misteriosa siete usciti allo scoperto. Vi vedo sulle copertine di tutti i
giornali».
«Abbiamo pensato che non avesse più senso nasconderci».
Lui annuisce. «Se ti piace una persona, vuoi poterla baciare alla
luce del sole. Vuoi che il mondo sappia che la ami e che è tua».
Gli do ragione solo per la convinzione che mette nelle sue parole.
«Comunque, Alex, non ti ho fatto venire solo perché avevo voglia
di vederti. Ho una notizia da darti».
«Non mi dire che lasci il lavoro, Fosco. Anche solo quelle poche
ore, ma devi potermele garantire fino a novembre, perché…»
«No, non lo lascio», mi rassicura. «Ho chiesto a Emilia di
sposarmi».
«Tu, cosa?»
«Lo so, è folle», annuisce. «Ci siamo appena ritrovati. La mia vita
è totalmente cambiata», stringe la mano di suo figlio, «però, se c’è
una cosa che ho imparato è che la vita è fatta di occasioni uniche.
Non posso rischiare di essere frainteso, Alex. Le ho dovuto dire
chiaramente “sei la donna della mia vita” perché, se non sei chiaro
su cose del genere, sai come finisce?»
«Come?»
«Che la donna della tua vita se la sposa un altro».
Le sue parole sono così vere da essere quasi insostenibili. La vita
è fatta di occasioni irripetibili.
«Fosco, sono immensamente felice per voi».
Lo abbraccio, includendo nella stretta anche il piccolo Ulisse.
«Anche io», ammette, «ma perché la felicità sia perfetta, devo
averti con me. Vuoi essere il mio testimone, Alex?»
«E me lo chiedi? Non vedo l’ora, Fosco. E, per favore, lascia che ti
regali gli anelli. Io ci tengo davvero moltissimo, e se avevi
pensato…»
«Okay, Alex», acconsente. «Agli anelli ci pensi tu. Ora però
bisogna che io sia totalmente sincero con te. Non sei la sola persona
a cui io ed Emilia non possiamo rinunciare».
Faccio più fatica a sorridere.
«È comprensibile», annuisco. «E credo anche di sapere chi è
l’altra. Sappi che per me non è un problema».
Lo sarà sempre.
«Io sono del tutto a mio agio».
Io non riuscirò a starle accanto.
«Sono felice di sentirtelo dire, Alex», sospira.
«Anzi sai cosa, Fosco? Dille di chiamarmi».
«Alex…»
«Anzi no, dammi il suo numero nuovo. Di sicuro ci dovremo
coordinare e…»
«Non posso. Mi ha detto di non dartelo».
«Non riesco a credere che sia così infantile».
«Credici invece. Questa situazione va avanti da mesi e non
cambierà».
«Allora fammi un favore. Se ti do un messaggio da riferirle, tu
potresti…?»
«Alex, io lo faccio sempre», mi blocca. «In questi mesi le ho riferito
un’infinità di messaggi da parte tua. Però, bisogna che ti soffermi su
una cosa, che è antipatica e scomoda ma è anche molto evidente».
«Quale cosa?»
«Non è mai successo il contrario. Chiediti perché continuo a
riferire i tuoi messaggi ma non capita mai che io riferisca i suoi a te».
Esito e alla fine annuisco.
«Fate questa cosa per me ed Emilia», riprende lui. «Cercando di
andare d’accordo almeno quel giorno».
Vorrei chiedergli di dirmi almeno come se la passa. Se è felice, se
le piace il suo nuovo lavoro. O anche quale sia il suo nuovo lavoro.
Ma lo so da un pezzo che è tutto inutile. Sorrido e cerco di rifugiarmi
in un pensiero felice.
«Sono davvero contento per te ed Emilia».
Lascio Fosco e dico all’autista di portarmi a casa di mia madre.
Durante il viaggio rifletto su quanto sia cambiata la vita di mio cugino
e su quanti passi abbia fatto verso la maturità e le responsabilità. Ha
avuto un figlio di cui si è fatto carico da solo e ora si sposa. Di colpo
mi sento come se avesse accelerato, lasciandomi indietro. Come se
mi avesse distanziato nelle tappe fondamentali della vita.
Squilla il cellulare. Leggo il messaggio.
“Stasera apericena vegana nel nuovo locale dell’architetto
Righetti. Ti va?”
“Ci sono”
A seguire ricevo due foto uno con un abito color caramello e uno
con un vestitino blu.
“Quale preferisci togliermi stasera?”
Mi stampa un sorriso sulla faccia. È sempre stato questo il suo
potere. Rispondo.
“Prima quello blu. Poi l’altro”
Perché levarle i vestiti è una distruzione a cui sarebbe stupido
rinunciare.
Mia madre abita nella villa di famiglia, un edificio liberty immerso in
un enorme giardino, poco prima di Cinisello.
Passo da lei, perché devo firmare alcuni documenti che domani
porterà con sé a Dubai, dove sono ancora in corso le trattative per
ottenere un finanziamento al nostro progetto.
La cameriera che mi apre il portone mi avvisa che posso trovare
“la signora” nella biblioteca.
Percorro un lungo corridoio affrescato finché non arrivo sulla
soglia della stanza. Mia madre ha un dolcevita beige e un paio di
pantaloni di lino, ed è sdraiata sulla chaise-longue. Tiene sulle
gambe un vassoio d’argento, sul quale riconosco alcuni piccoli
astucci per gioielli. Forse è solo un gioco di luci, ma mi sembra di
colpo invecchiata. Di nuovo penso al tempo che passa.
«Sei in ritardo», mi fa presente. Non alza neppure lo sguardo.
Deve avermi sentito arrivare.
«Sono passato a Brera a salutare Pietro».
«Ah, caro ragazzo», sospira, senza nascondere una punta della
solita condiscendenza. «E come sta?»
«Bene, direi. Mi ha detto che si sposa».
«Be’, coraggioso da parte sua», commenta, «e chi sarà la
fortunata? Mi pareva che la madre del bambino si fosse dileguata».
Mi avvicino e prendo uno sgabello, per sedermi accanto a lei.
«Si sposa con una brava ragazza. Lei si chiama Emilia», le
rispondo. «Pietro è molto felice. Credo che lei sia il suo grande
amore».
Alza le sopracciglia.
«Il che non depone a favore di questo matrimonio», nota. «Non ci
si sposa con i grandi amori, perché l’amore finisce. Bisogna basare
le unioni su qualcosa di più concreto. Un’affinità di intenzioni, per
esempio», prende un astuccio e me lo porge. Mi invita ad aprirlo e io
lo faccio. Dentro c’è uno smeraldo grandissimo.
«Questo è lo smeraldo Romanov, conosci la sua storia?».
Annuisco. Lo smeraldo taglio marquise era su un diadema di
proprietà di un nobile russo. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre passò a
un titolato tedesco, che sul finire degli anni Trenta si trovò nel mirino
dei nazisti. Dovette vendere molte cose preziose per scappare negli
Stati Uniti.
Il mio bisnonno lo comprò per una manciata di spiccioli. Mio nonno
lo fece incastonare su un anello e lo diede a mio padre, affinché
facesse la sua proposta a mia madre.
«Era il pezzo più importante di tutta la collezione Francalanza
Visconti», precisa. «Tuo padre sapeva che non mi sarei scomodata
per un oggetto inferiore a questo».
Mia madre non ha sposato il suo grande amore. E neppure mio
padre. Ma forse la scelta è più semplice quando non ne hai avuto
uno.
È più facile rinunciare a qualcosa che non si è mai sperimentato.
Io purtroppo non sono stato così fortunato.
Io ho avuto Alice.
Dopo la sua fuga a Berlino, il divario tra di noi si è fatto immenso.
Lei ha completato il lavoro con Emilia e poi ha lasciato la redazione.
E ha lasciato me, in via definitiva.
Lo scorso inverno, dopo la partenza di Emilia e la nascita di
Ulisse, Alice ha vissuto un po’ con Fosco, per aiutarlo. Ma anche in
quel periodo, nonostante io fossi spesso da mio cugino, è riuscita a
evitarmi.
Ha pure cambiato numero di telefono.
È uscita dal mio orizzonte.
Lei era il mio grande amore. L’ho persa un milione di volte, ma
avevo sempre la presunzione di riuscire ad aggiustarla. La certezza
che saremmo ripartiti. Che le nostre volte insieme non sarebbero
finite mai.
Finché non sono finite.
Una storia di tre anni e un solo bacio, che vorrei ridarle ogni giorno
ma sarebbe stato meglio non averle dato mai.
Mi è toccata perfino la condanna di un bacio nato morto.
Nato ultimo.
Non passerò la mia vita con il mio grande amore.
«Alessandro», mi richiama mia madre.
«Sì?»
«Credo che sia giunto il momento di trovare una nuova
proprietaria per questo anello».
«Hai ragione», ammetto. Prendo la scatola e la metto in tasca.
«Lo farai, Alessandro?»
«Lo farò, mamma», prendo un ultimo respiro, e poi lo dico.
«Chiederò a Carlotta di sposarmi».
Speciale Matrimoni da sogno
L’attrice e modella Emilia Levoskova (22 anni, nella foto) si
appresta a dire il magico sì al suo fidanzato Pietro, programmatore
informatico, figlio minore del noto opinionista Priamo Arturo
Foscarini. Una fonte molto vicina alla coppia ha dichiarato che la loro
relazione è stata segreta per circa un anno, e nonostante un periodo
di separazione, coinciso con gli impegni hollywoodiani di Emilia, i
due si sono ritrovati e infine decisi al grande passo. La data scelta è
il 25 settembre, compleanno dello sposo, e pensiamo non ci possa
essere un regalo migliore per un uomo innamorato che trovarsi
all’altare la splendida Emilia. L’evento si svolgerà in una location
mozzafiato, una tenuta antica sul lago di Como, ma per volontà degli
sposi avverrà nel totale riserbo. Le porte resteranno chiuse a
giornalisti e fotografi. Il testimone dello sposo è nientemeno che
Alessandro Francalanza Visconti, cugino dello sposo. Lo abbiamo
intervistato all’aeroporto di Malpensa, mentre si apprestava a
prendere il volo per Dubai, da solo, nonostante ultimamente sia stato
spesso avvistato con la nota trendsetter Carlotta Dei Pinzi Ranieri.
«Sono felice per Pietro ed Emilia, felicissimo», ha detto. «Sono la
prova vivente che l’amore, inteso come un affetto devoto, ricambiato
da un sentimento analogo, capita davvero. C’è la concreta possibilità
di essere amati da coloro che amiamo. Certo, questa coincidenza ha
qualcosa di miracoloso e non tocca a tutti. La maggior parte di noi
non è così fortunata, orientiamo male il nostro cuore, non riceviamo
nulla in cambio e ci dobbiamo rassegnare a una felicità imperfetta.
Nel mio caso, mi farò bastare quella delle persone a cui voglio
bene». Parole molto profonde, e forse un po’ amare, che
sicuramente toccheranno il cuore delle numerose fan del noto
imprenditore. Ma, visto che i matrimoni sono galeotti, può accadere
che il lieto evento cambi le carte in tavola. Noi ci auguriamo che
proprio il dottor Francalanza Visconti possa presto cambiare idea
sull’amore e che, in un futuro prossimo, ci sia qualcosa di bello in
serbo per lui. Se succederà, noi saremo lì. A raccontarvelo.
Karisma Bartoletti, Storie2000
Ringraziamenti
È una verità universalmente riconosciuta che le storie non ti
chiedono il permesso.
Sono maleducate, arrivano senza invito e si piazzano in casa tua
finché non ti arrendi e le scrivi.
All’inizio del 2017 ero alle prese con il primo capitolo di un
romanzo dal titolo Instagirl. Raccontava la storia d’amore tra una
super modella e un eroe in incognito. Il setting sarebbe stato un
fantomatico edificio di proprietà di un gruppo editoriale, leader nei
periodici. Così nasceva palazzo Francalanza Visconti.
Perché questo contesto fosse credibile, e la vita redazionale
venisse rappresentata a dovere, occorreva piazzare alcuni
personaggi in certi ruoli chiave. E così mi venne in mente
Alessandro, il giovane direttore editoriale, destinato a prendere le
redini dell’azienda, legato a Fosco da una vaga parentela e da una
sincera amicizia, e Alice Baker, una copywriter di talento, idealista,
determinata e con alcuni lati un po’ bizzarri.
Nel primo capitolo di quel libro era Alice a presentare Alessandro.

«Fosco, pensi davvero che ti permetterò di portare questa


lettera al dottor Stranamore?»
«Alice, non chiamare Alessandro “dottor Stranamore”!».
«Preferisci “Sciupamodelle”?».
Le tappo la bocca. «Ehi, ma la smetti? Ti sente».
Si libera. «A lui non frega nulla di come lo chiamo».

Solo che le storie non ti chiedono il permesso. Davvero a questo


Alessandro non fregava niente di questa Alice? Ho voluto sentire
cosa aveva da dire.

«Non so perché ti sono amico, Alice», le dico.


«Be’, Fosco», si accoda Alex, «io non so perché non l’ho
ancora licenziata».
«Mi hai licenziato», lo corregge Alice. «Cinque volte».
Lui alza appena le sopracciglia. «Speriamo che la sesta sia
quella buona».

E da quel preciso momento Alex e Alice hanno avuto tutta la mia


attenzione. Chiuso Instagirl, e dato il lieto fine a Emilia e Fosco, ho
quindi messo a fuoco loro, i due secondari. Volevo conoscere il loro
prima, il loro durante e soprattutto il loro dopo. Sentivo il bisogno di
sapere che diavolo aveva combinato Alice per farsi licenziare le
prime cinque volte. Volevo capire cosa c’era dietro all’ultimo
licenziamento, la fuga a Berlino e la frattura insanabile con il suo
capo. Volevo assolutamente sapere se Alex ce l’avrebbe fatta a
rimettere a posto le cose.
E questa è la prova che tutte le storie che voi leggete partono
dalla curiosità di un povero cristo che nella sua solitudine “deve
assolutamente sapere” e quando lo sa, quando è scritto nero su
bianco, poi lo racconta a chi vuole ascoltare.
La risposta a “che diavolo è successo prima?” è questo libro: Le
nostre prime sette volte.
La risposta a “che diavolo succederà dopo?” è nel sequel intitolato
L’ultimo bacio.

Il primo ringraziamento è a coloro che, sostenendo il mio lavoro


dallo scorso luglio, mi stanno permettendo per la prima volta di
vivere di questo lavoro. Coloro che mi supportano e mi regalano ogni
giorno il privilegio di fare il mestiere più bello del mondo.
Il secondo grazie alla famiglia. A Christian, che mi fornisce la sua
visione maschile, a mia figlia e alle sue prospettive sovversive, a
Marco che ha l’intelligenza di accettare ogni aiuto che gli viene
offerto. Ai miei genitori a cui ho dedicato questo libro.
Il terzo grazie va alle persone che hanno messo mano al testo
lasciando tra le pagine una parte delle loro competenze e dei loro
pensieri. Grazie a Valentina Crimella per l’attenzione con cui svolge
il suo lavoro. Grazie a Bianca Ferrari, che ha dosato la violenza su
Alessandro. Perché fa più rumore uno schiaffo solo dato nel
momento giusto, di una raffica di ceffoni. Grazie a Denise Aronica,
per avermi, ancora una volta, regalato una prova della sua amicizia.
Grazie ad Alessandra Angelini, che riesce sempre a capire l’origine
delle insicurezze. Fai bene al cuore degli altri perché ne hai uno
gigantesco. Grazie a Ester Sardo che chiaramente ha sbagliato
mestiere. Ecco.

Il quarto grazie arriva in ritardo ed è per Raffaella De, Anna Perillo,


Cristiana Pergolari e Gaia Varalli per aver fatto un proof reading su
Un maledetto per sempre. Siete state meravigliose.

Il quinto grazie, con buona pace di Serpieri, è per chi rende più
facile il mio lavoro. Scrivere è inevitabile ma è anche una pratica
solitaria. Ma poi arriva il messaggio di un’amica che ti dice
buongiorno, il post di qualcuno che ti ha letto, una recensione onesta
ma rispettosa del tempo che hai impiegato e del lavoro svolto, e tutto
va a creare un contesto che annulla la sensazione di essere soli.
Perché quando alzi lo sguardo dal foglio è come se vedessi tutti e
non c’è solitudine più affollata di quella che sperimenta uno scrittore
che ha la fortuna di avere lettori come voi.

Alla prossima, per il gran finale di Alex e Alice.

Reggio Emilia
8 ottobre 2018
ANTEPRIMA

L’ultimo bacio
Il volume conclusivo della storia di Alex e Alice
L’ultimo bacio
Bianca Marconero
Prologo
L’Unico Anello

È una serata di fine estate, ma sembra primavera. Sono nella


distesa di un locale del centro, per un aperitivo tra uomini e per fare
la prima delle due cose importanti di stasera.
Chi vedesse la scena potrebbe pensare che il gruppo sia insolito.
Ci sono io, calato nel mio Corneliani grigio e pronto per una serata di
alto profilo, c’è mio cugino Fosco, in t-shirt gialla e pantaloni della
tuta. E infine c’è un bambino vestito da unicorno.
Lui è Ulisse, suo figlio.
Va precisato che Ulisse ha nove mesi. La responsabilità del suo
abbigliamento ricade quindi sugli amici spiritosi e sui genitori distratti.
Conosco abbastanza Fosco per essere certo che è lui il colpevole.
Ha infilato a Ulisse la prima cosa che ha trovato. Mio cugino, un
programmatore geniale che divide il suo tempo tra il game designing
e il lavoro da redattore per le riviste che dirigo, non ha mai badato
all’apparenza. Ulisse, con un corno arcobaleno che gli esce dal
cappuccio di spugna, ne sta pagando le conseguenze.
Ulisse è un tipo di bambino piuttosto raro. La maggior parte degli
individui dagli zero ai sette anni sono un forte deterrente alla
procreazione, ma basta stare con Ulisse una manciata di minuti per
concepire il desiderio di riprodursi, in fretta, con chiunque, pur di
avere un esemplare di quel tipo da portarsi a spasso.
Lui è perfetto. Ha una bellezza quasi commovente, è sempre
quieto e del tutto silenzioso. Forse troppo quieto e silenzioso,
secondo alcuni.
È nato prematuro e ha avuto parecchie complicazioni nelle prime
settimane di vita. I medici hanno fornito un quadro di possibili
conseguenze, con vari livelli di gravità. Non hanno escluso che,
crescendo, potrebbe manifestare disturbi cognitivi e
dell’apprendimento.
Se dovessi giudicarlo dal modo in cui mi guarda, gli attribuirei
l’intelligenza di suo padre e la saggezza di un viaggiatore. Ho la
sensazione che taccia ma capisca tutto. E che capisca me.
Mi decido a fare la prima delle due cose importanti che devo fare
stasera e appoggio la scatola rossa al centro del tavolino, tra la
Guinness di Fosco e il mio Franciacorta. Il bambino segue il mio
gesto con lo sguardo.
«Il mio regalo per te ed Emilia», preciso sfiorando il logo di Cartier.
Ne avevamo già parlato, per cui Fosco sa di cosa si tratta. Anche
lui tocca la scatola, ma poi ritira la mano.
«Forse non dovrei aprirla senza Emilia. Qui dentro c’è l’Unico
Anello».
«Veramente sono due».
«È un anello che non si replica, Alex, questo lo rende unico»,
precisa agitato. «Dovrei vederlo con Emilia. E non posso indossarlo,
Cassandra ha detto che porta male».
L’animo romantico di mio cugino mi sconcerta.
«Fosco, rilassati e dagli un’occhiata. Emilia non può essere qui. È
alle terme per l’addio al nubilato».
Chiude gli occhi, come in presenza di un pensiero disturbante.
«Non me lo ricordare».
«Perché no? È una visione interessante. Tutte quelle ragazze in
costume da bagno», lo provoco.
Si inquieta, o perlomeno lo fa nella misura concessa da un
carattere come il suo. «Alex ti chiedo la cortesia di non ricordarmi
che sta in costume da bagno».
«E cosa cambia, Fosco?», bevo un sorso dal mio calice. «Gli
uomini possono guardare, ma sono le donne che scelgono. Ed
Emilia sceglierà sempre te. Aveva il mondo in mano. Aveva una
carriera nel cinema. E ha preferito te». Guardo Ulisse e mi correggo.
«Ha preferito voi».
È la verità. Quella ragazza ha rinunciato a tutto per stare con mio
cugino, accettando il fatto che, prendendo lui, avrebbe dovuto
prendersi il figlio che Fosco ha avuto da un’altra.
«La gelosia non riguarda la sfera della fiducia», ribatte Fosco.
«Non sono la stessa cosa. E comunque ora fai il filosofo perché la
tua Carlotta in questo momento non è alle terme, in costume da
bagno!»
«Le dispiace molto non esserci».
In realtà non le dispiace affatto. Considera Emilia una sprovveduta
perché ha rinunciato alla carriera per stare con un ragazzo padre. Il
fatto che Carlotta non abbia nessuna inclinazione romantica, nessun
istinto materno e non riesca a concepire un affetto totalizzante come
quello che Emilia prova per Fosco e per Ulisse è una delle ragioni
per cui io sto così bene con lei. Nessuno di noi due rischia di dare
più di quanto riceve.
«Insomma, Fosco, non per metterti fretta, ma vuoi vederli oppure
no?».
Serra le labbra. Piazza i pugni sulle gambe e annuisce. Sembra
che abbia dodici anni.
Con un gesto teatrale apro la custodia rossa.
Gli anelli scintillano. Sono uno accanto all’altro. Due cerchi di platino.
Non sono due parti della stessa cosa, no. Sono una promessa unica,
vista da due angolazioni diverse.
Sono le fedi di Fosco ed Emilia.
«Io… non so come dirti grazie», gli trema la voce, è a un passo
dal commuoversi.
«Non ringraziarmi, è un onore».
«Ti ringrazio, invece», insiste. «E grazie anche per quello che hai
detto al giornalista di quel rotocalco. L’ho letto a Emilia e ha pianto
come una bambina».
Ecco. Si preannuncia un matrimonio in cui gli sposi non faranno
che commuoversi. Cerco di non sorridere troppo e rilancio: «Emilia
non ha ancora sentito il mio discorso del testimone. Conto di farla
piangere ancora».
«Vinci facile», riconosce Fosco. «Alice invece è giù di corda, dice
che non sa cosa scrivere», sull’ultima parola realizza di aver
trascurato un dettaglio importante.
Ha nominato l’innominabile Alice Baker.
Io e Alice Baker non ci parliamo più.
Ma, a essere sinceri, ormai abbiamo smesso di fare tutto,
compreso parlare con gli amici dei motivi per cui abbiamo smesso di
parlare tra di noi.
«Scusami, Alex…»
«Tranquillo».
«So che ti dispiace per come è finita tra di voi».
Non commento. Non c’è niente da dire.
Chiudo la custodia e la rimetto in tasca.
«Comunque, pensa alla parola che vuoi incidere nell’anello di
Emilia, e ti avverto che “ti amo” in elfico non è un’opzione», mi
sistemo la giacca. «Ora, vado. Carlotta mi aspetta».
«Ti sarà mancata», dice, «vi siete visti così poco».
Ha ragione. In queste ultime settimane ho trascorso metà del mio
tempo a Parigi. Il Gruppo Francalanza Visconti si appresta a
inaugurare la propria divisione francese, con sede nella capitale.
«Recupereremo il tempo perso».
«Spero che i paparazzi vi lascino in pace», scherza. «Le vostre
foto sono ovunque».
È vero, siamo il santo Graal dei giornaletti di gossip, siamo il
programma più ambizioso delle nostre famiglie, siamo l’argomento di
conversazione delle donne che si fanno la piega dal parrucchiere.
Tutti ci vogliono insieme.
E noi li accontentiamo.
Abbraccio Fosco. Abbasso il cappuccio da unicorno al piccolo
Ulisse, con la scusa di sistemargli i capelli, poi lo lascio sulle sue
spalle. Recupero la scatola rossa e me la infilo in tasca. Nel farlo
controllo con le dita che ci sia anche l’altra.
Quella che mi serve nella seconda cosa importante che devo fare
stasera.
Alice
Quel cretino del mio capo

Sdrai a bordo vasca, accappatoi profumati, l’armonioso stile liberty


del solarium e un’ottima compagnia: questa la ricetta di un
pomeriggio da gran signora, in attesa di una serata che si
preannuncia delirante, in una discoteca di Sirmione.
Siamo a Villa dei Cedri, uno stabilimento termale dalle parti del
lago di Garda, per una due giorni di addio al nubilato.
La mia amica Emilia finalmente si sposa con il mio amico Fosco e
la cosa va davvero festeggiata. Tra separazioni e riconciliazioni
questi due mi hanno fatto soffrire oltre l’umana sopportazione.
Questo weekend è stato organizzato da due amiche della sposa.
La prima è Jessica, una bionda dalle forme provocanti, parrucchiera
professionista con cui Emilia ha lavorato per diversi servizi di moda,
e la seconda è Estella. Estella è una ragazza di origine argentina
che ha dichiarato di fare “l’animatrice”, ma l’ha detto con un’aria da
“ci siamo capite” che in effetti ha allargato lo spettro delle possibilità
riguardo a ciò che fa davvero per vivere.
Jessica e Estella hanno reclutato le altre sette ragazze che sono
con noi, tutte persone che fanno parte dell’ambiente di Emilia: un
paio di modelle, una ex velina, due PR e infine due personal trainer.
Loro nove, tutte insieme, sono una specie di sogno da paginone
centrale di «Playboy».
E poi ci sono io che mi difendo ancora, per quanto sia dimagrita e
porti sul viso i segni di un periodo obiettivamente di merda.
Ho recentemente perso due dei miei tre lavori. Mi hanno dato il
benservito sia il capo del salone di bellezza dove i fine settimana
raccoglievo capelli con la scopa e sterilizzavo i pettini, sia il direttore
editoriale di «QuiGossip», la peggior rivista scandalistica d’Italia. Ho
lavorato per loro un intero trimestre di prova, con la paga al minimo
sindacale, prima che capissero che non facevo al caso loro.
Ora la mia unica fonte di reddito è la birreria Sunday Spleen, un
posto in centro in cui lavoro cinque sere a settimana ma mi pagano
una miseria in nero. Mi sono appena trasferita da un affittacamere
che però mi ospita senza contratto. Il che significa che potrebbe
sbattermi fuori da un momento all’altro.
Ma, nonostante sia un po’ giù di forma, c’è un cameriere carino
che mi sorride di continuo. Credo di piacergli anche perché il mio
bicchiere è sempre pieno.
«Io non lo sposo più. Giuro che lo pianto sull’altare».
Interrompo il gioco di sguardi con il cameriere, perché una frase
del genere merita la mia attenzione. Sono la testimone dopotutto,
credo sia una mia responsabilità evitare di far saltare il matrimonio.
Interrogo Emilia e lei mi mostra il suo smartphone. È la finestra di
una chat con Fosco.
«Ultimo accesso alle 12:00», dice, «è a casa da solo con Ulisse e
spegne il telefono! Perché? Lo sa che mi preoccupo».
Mi abbandono sul lettino, con un gemito di sofferenza.
«Emi, continua così e quando verrà il giorno del matrimonio e il
prete chiederà se qualcuno è a conoscenza di un buon motivo per
mandare tutto a monte mi farò avanti io».
«E perché, scusa?»
«Perché più di così lui non può amarti, non può, capisci? Già gli
scoppia il cuore. Vuoi che Fosco muoia? È questo che vuoi?».
Si addolcisce e scuote la testa.
«E allora smettila. Ti preoccupi troppo. Te lo dico onestamente:
Fosco sa badare a suo figlio. Quei due se la sono sempre cavata
alla grande».
«Anche senza di me…».
Dice così solo perché non ha visto com’era Fosco quando stava
senza di lei. Ma forse, se si ama tantissimo, si diventa anche insicuri.
Sto per ribadirle che deve smetterla di crearsi i problemi, quando
siamo distratte da un ululato di Jessica.
«Ragazze! Qui si parla del matrimonio del secolo!». Tiene un
rotocalco alto sulla testa, come fanno quelle ragazze a bordo ring
che reggono il numero del round. In copertina c’è Emilia.
La mia amica forse riconosce il giornale, perché si illumina.
«Quell’articolo è così bello che fa piangere».
«Anche lui è così bello che fa piangere», commenta Jessica e, a
scanso di equivoci, apre la rivista mostrandoci di chi parla.
Sorriso da infarto, una gloriosa testa di ricci biondi e un paio di
occhi grigi, aperti su un’anima nera, il riassunto di una persona che
conosco fin troppo bene.
«Alessandro Francalanza Visconti», annuncia Jessica, «l’uomo
più scopabile d’Italia».
Per poco non perdo il bicchiere.
Grazie per avermelo ricordato, Jessica…
Svuoto in un sorso il Calvados e faccio cenno al cameriere di
portarmene un altro.
«Alessandro è una persona stupenda», commenta Emilia,
trascurando di fare commenti su quanto sia “scopabile”. «Lo
dimostra la dichiarazione che ha rilasciato su quel rotocalco. Mi ha
spezzata a metà».
«Oh, andiamo! Che avrà mai detto?», mi stizzisco. «Quello è un
bastardo senza cuore».
Emilia prende il giornale e me lo mette in mano.
«Leggi, e poi vediamo chi tra voi due è senza cuore».
«Sì, dài leggi», mi esorta Jessica e si siede accanto a Emilia.
Aspetto di avere il bicchiere pieno di liquore di sidro. So che mi
servirà.
«Allora, sentiamo questa perla. “Il testimone dello sposo è
nientemeno che Alessandro Francalanza Visconti”,» comincio, con
un tono un po’ pomposo, «“amico di vecchia data della coppia. Lo
abbiamo intervistato all’aeroporto di Malpensa, mentre si apprestava
a prendere il volo per Dubai, da solo, nonostante ultimamente sia
stato spesso avvistato con la nota trendsetter Carlotta Dei Pinzi
Ranieri”», e su questo la voce un po’ cala. Fanno coppia fissa,
ormai. Mi devo bere una sorsata di liquore. Poi riprendo. «“Sono
felice per Pietro ed Emilia, felicissimo” », leggo questa frase e il mio
pubblico si abbandona a sospiri fuori luogo, «“Loro sono la prova
vivente che l’amore, inteso come un affetto devoto, ricambiato da un
sentimento analogo, capita davvero” oh, andiamo!», mi interrompo.
«Emilia, davvero ti bevi queste cretinate?»
«Vai avanti», mi intima lei, il tono perentorio.
Scuoto la testa. «“C’è la concreta possibilità di essere amati da
coloro che amiamo. Certo, questa coincidenza ha qualcosa di
miracoloso e non tocca a tutti. La maggior parte di noi non è così
fortunata, orientiamo male il nostro cuore, non riceviamo nulla in
cambio e ci dobbiamo rassegnare a una felicità imperfetta. Nel mio
caso, mi farò bastare quella delle persone a cui voglio bene”».
Scende un certo silenzio, poi mi accorgo che Emilia sta
singhiozzando.
Mi sforzo di giudicare il discorso tenendo conto di chi lo ha
pronunciato. Alessandro ha un credito nullo quando parla di
orientare il suo cuore.
Non ne possiede uno.
Tutte le ragazze si affrettano a consolare Emilia, chi l’abbraccia,
chi la prende in giro. Estella le porge un fazzoletto. Io sono basita.
«Non capisco cosa ci trovi di così commovente…»
«È che lui mi fa pena, Alice», dice tenendo gli occhi bassi. «Tanta
pena».
«Alessandro? Un milionario pieno di donne a cui non frega nulla di
nessuno? Lui ti fa pena? Non i bambini africani? Non la foca monaca
del mediterraneo? O chi gestisce i canili e non ha abbastanza soldi
per comprare il cibo in scatola per i cuccioli?»
«Ma che c’entra?», protesta. «Possiamo provare compassione per
una cosa senza escluderne un’altra, Alice», si asciuga le lacrime. «Io
voglio bene ad Alex e lo so che sta male. Sta a terra a causa del
matrimonio di Fosco».
«Ma di cosa stai parlando?»
«Quanti anni ha Fosco?», mi interroga.
«Ne compirà ventisei il giorno in cui vi sposerete».
«Esatto, e quanti anni ha Alessandro?»
«Ventinove a novembre», rispondo anche se è uno smacco
saperlo senza doverci neppure pensare, «ma non capisco dove vuoi
andare a parare».
«Alex è più vecchio», risponde Emilia. «Per lui Fosco è sempre
stato un fratello minore, giusto? Solo che Fosco ha avuto un figlio e
Alessandro no; Fosco si sposa e Alessandro no! Lui è felice per noi,
ma questa cosa lo obbliga a un bilancio della sua vita e, parliamoci
chiaro, un bilancio in questo momento Alex non se lo può
permettere».
«Perché?»
«Perché ne uscirebbe malissimo! Io ho paura che lui non riesca a
gestire il confronto che vada in paranoia, che senta l’orologio
biologico…»
«L’orologio biologico è una cosa da donne».
«Balle! Un uomo desidera sempre proiettarsi nel futuro. E i figli
sono il futuro e io ho paura».
«Di cosa? Che cada in depressione?».
Emilia mi scruta. Poi si decide.
«Ho paura che commetta un errore».
Estella la richiama. Io resto sola con il bicchiere in mano.
Ho sentito un brivido. Una parte di me dà ragione a Emilia. L’altra
parte invece decide di bere il Calvados e non pensarci più.

Continua…

Estratto da L’ultimo bacio.


Disponibile a partire dal 15 novembre.
Testo senza correzioni definitive.
© Tutti i diritti riservati.

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