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Markus Zusak

A 15 anni sei troppo vecchio

Dopo il successo planetario di Storia di una ladra di libri, Markus Zusak torna
nelle librerie italiane con "The Wolfe Brothers", una travolgente, divertente,
commovente storia di formazione articolata su tre romanzi.
In A 15 anni sei troppo vecchio incontriamo per la prima volta i fratelli Cameron e
Ruben Wolfe. I due sono tanto uniti quanto diversi, visto che mentre Ruben, il pi�
vecchio, � forte, bello e brillante, Cameron � invece il pi� classico degli
sfigati.
I due ragazzi passano la maggior parte del loro tempo litigando con i genitori e i
fratelli maggiori, combattendo tra di loro incontri di boxe "a una mano"
(possiedono un solo paio di guantoni), e progettando piani semidelinquenziali, come
derubare il dentista del quartiere, che falliscono miseramente.
Ma quello che Cameron, come tutti gli adolescenti, desidera veramente, � incontrare
una ragazza - una ragazza vera, non una di quelle delle riviste che guarda il
fratello.
Ma la domanda che lo attanaglia �: chi pu� innamorarsi di un perdente come me?

MARKUS ZUSAK � nato in Australia nel 1975, e vive a Sidney con la moglie e i due
figli. Pluripremiato autore di diversi romanzi, ha raggiunto la fama internazionale
grazie all'enorme successo di Storia di una ladra di libri, tradotto in quaranta
lingue, bestseller da otto milioni di copie vendute nel mondo, dal quale � stato
tratto l'omonimo film. Con la trilogia "The Wolfe Brothers" Frassinelli completa la
pubblicazione di tutti i suoi romanzi, tra i quali va ricordato anche il fortunato
Io sono il messaggero.

Markus Zusak

A 15 anni sei troppo vecchio

Traduzione di Chiara Brovelli


Titolo originale The Underdog
Copyright � Markus Zusak, 1999
First published by Omnibus Books a division of Scholastic Australia Pty Limited in
1999
This edition published under license from Scholastic Australia Pty Limited

� 2017 Sperling & Kupfer Editori S.p.A. per Edizioni Frassinelli

COPERTINA || FOTO � GETTY IMAGES | ART DIRECTOR: CECILIA FLEGENHEIMER E FRANCESCO


MARANGON | GRAPHIC DESIGNER: ANDREA BONELLI
"L'AUTORE" || FOTO � PAGE THIRTEEN

Per la mia famiglia

1.

Stavamo guardando la tv quando ci venne l'idea di derubare il dentista.


"Il dentista?" chiesi a mio fratello.
"Certo, perch� no?" rispose lui. "Lo sai quanti soldi passano per un ambulatorio
dentistico in un solo giorno? � scandaloso. Se il primo ministro facesse il
dentista, la situazione finanziaria del Paese non sarebbe cos� catastrofica. Non
esisterebbero disoccupazione, razzismo e sessismi. Ma tanti soldi."
"Ok."
Diedi corda a mio fratello Ruben solo per farlo contento. La verit� � che voleva di
nuovo mettersi in mostra. Era una delle sue abitudini peggiori.
Era una delle due verit� che governavano la nostra esistenza.
La seconda era questa: sebbene avessimo stabilito di ripulire il dentista del
quartiere, non sarebbe mai accaduto. Ci eravamo gi� ripromessi di rapinare la
panetteria, il fruttivendolo, la ferramenta, il negozio che vendeva fish and chips
e l'optometrista. Ma non avevamo mai fatto nulla del genere.
"E questa volta dico sul serio." Rube avanz� con il sedere fino al bordo del
divano. Evidentemente aveva intuito che cosa stavo pensando.
Non avremmo rubato un bel niente.
Eravamo senza speranza.
Pietosi e senza speranza. Patetici, tanto da suscitare sguardi di commiserazione.
Io per un po' avevo avuto un lavoro. Consegnavo i giornali due volte alla
settimana, ma mi ero fatto licenziare dopo aver rotto la finestra della cucina di
un tizio. Non avevo nemmeno lanciato troppo forte. Era successo e basta. La
finestra era mezza aperta, io avevo lanciato il giornale e bam! Il vetro si era
frantumato. Il padrone di casa era venuto fuori, inferocito, e aveva preso a
insultarmi mentre io me ne stavo l�, fermo, con gli occhi colmi di ridicole
lacrime. Lavoro andato� Ma era partito male.
A proposito: mi chiamo Cameron Wolfe.
Vivo in citt�.
Vado a scuola.
Non godo di grande popolarit� tra le ragazze.
Ho un po' di buon senso.
Non molto.
Ho un sacco di capelli e, anche se non sono lunghi, sembrano sempre arruffati e,
per quanto mi sforzi di appiattirli, loro non ne vogliono sapere.
Ruben � mio fratello maggiore, e mi mette sempre nei guai.
Per� io faccio lo stesso con lui.
Abbiamo un altro fratello, Steve, il primogenito, il vincente della famiglia. Lui
di ragazze ne ha avute parecchie, lavora e piace alla gente. Come se non bastasse,
se la cava piuttosto bene pure a football.
Poi ho una sorella, Sarah, che se ne sta sul divano con il suo fidanzato, e
approfitta di ogni occasione per farsi ficcare la lingua in gola. � la
secondogenita.
Nostro padre ripete di continuo a me e a Rube che dobbiamo andare a lavarci, perch�
secondo lui siamo sporchi e puzziamo come due animali della giungla strisciati
fuori dal fango.
("Io non puzzo, cazzo!" gli rispondo. "E mi faccio la doccia regolarmente!"
"Be', hai mai sentito parlare del sapone? Ho avuto anch'io la tua et�, e so che
aspetto hanno i ragazzi che non si lavano."
"Sul serio?"
"Certo. Altrimenti non te lo direi."
Non ha senso andare avanti a discutere.)
Mamma � una che parla poco, ma in casa � lei la vera dura.
Ho una famiglia, s�. Una famiglia che, per funzionare, ha bisogno della salsa di
pomodoro.
Mi piace l'inverno.
Ecco, questo sono io.
Oh, e fino a quel momento - quello di cui vi sto raccontando - non avevo mai rubato
niente. Io e Rube ne parlavamo, come quel giorno in salotto, ma poi finiva tutto
l�.
"Ehi."
Rube diede uno schiaffo sul braccio a Sarah, che stava baciando il suo fidanzato
sul divano.
"Ehi� svaligeremo lo studio del dentista."
Sarah si ferm�.
"Eh?"
"Come non detto." Rube distolse gli occhi. "Che casa inutile, eh? Piena di persone
ignoranti, troppo prese da loro stesse per preoccuparsi degli altri."
"Ah, smettila di frignare", gli dissi.
Lui mi guard�. Mi guard� e basta. E Sarah riprese a fare quello che stava facendo
prima di essere interrotta.
Allora spensi la tv e io e mio fratello uscimmo per un sopralluogo all'ambulatorio
che avremmo dovuto "colpire", per dirla con Rube. (In realt� ci andammo solo perch�
volevamo uscire di casa: Sarah e il suo tipo stavano perdendo il controllo, in
salotto, mentre mamma cucinava e l'odore dei funghi impestava ogni singola stanza.)
"Di nuovo quei maledetti funghi", commentai, mentre camminavamo per strada.
"Gi�." Rube sorrise, compiaciuto. "Li ha annegati nella salsa di pomodoro in modo
da non farci sentire il sapore."
"Fanculo."
Che due lagne.
"Ed eccoci arrivati." Quando imboccammo Main Street, Rube sorrise ancora. Iniziava
a fare buio. Era giugno, ed era inverno qui in Australia. "Dottor Thomas G.
Edmunds. Chirurgia dentale. Bello."
Cominciammo a elaborare un piano.
L'elaborazione di un piano consisteva nella formulazione da parte del sottoscritto
di domande, a cui Rube rispondeva. La conversazione fu pi� o meno questa.
"Non avremo bisogno di una pistola, o roba simile? Di un coltello? La pistola
giocattolo che avevamo � andata persa."
"No, � dietro il divano."
"Sicuro?"
"S�. E in ogni caso non ci servir�. Baster� la mazza da cricket� e poi ne
chiederemo una da baseball ai vicini, va bene?" Rise, sarcastico. "Abbiamo fatto
parecchi lanci con quei poppanti, quindi non possono dirci di no."
"Ok."
Ok.
S�, va bene.
Avremmo agito il pomeriggio seguente. Ci procurammo le mazze, ripassammo tutto
quello che ci saremmo dovuti ricordare, pur sapendo che non l'avremmo mai fatto. Lo
sapevo io come lo sapeva Rube.
Il giorno dopo andammo comunque dal dentista, e per la prima volta - non era mai
accaduto, quando in passato eravamo usciti per commettere un furto - entrammo
davvero nel posto che teoricamente avremmo svaligiato.
Ma ci� che trovammo oltre quella porta ci sciocc�: dietro il banco della reception
c'era l'infermiera pi� bella che avessimo mai visto. Sul serio. Stava scrivendo
qualcosa, e io non riuscivo a toglierle gli occhi di dosso. Mi scordai
completamente della mazza da baseball che avevo tra le mani. Non ci fu nessuna
rapina. Rube e io restammo l� senza fare niente.
Io, Rube e l'infermiera dello studio, insieme nella stessa stanza.
"Sar� da voi tra un secondo", ci disse gentile, senza sollevare lo sguardo. Santo
Dio, quant'era bella. Di una bellezza assoluta. Abbagliante.
"Ehi", le sussurr� Rube, ma in realt� voleva essere sicuro che lo udissi soltanto
io. "Ehi� questa � una rapina."
Lei non sent�.
"Stupida vacca." Mi guard�, e io scossi la testa. "Non si pu� pi� nemmeno rapinare
un dentista. Ges�. Ma in che mondo viviamo?"
"Bene!" esclam� lei, e finalmente alz� gli occhi. "Che cosa posso fare per voi?"
"Ehm�" Ero piuttosto a disagio, ma che altro avrei dovuto dire? Rube rimase muto. E
tocc� a me rompere il silenzio. Sorrisi, e crollai. "Siamo venuti per un
controllo."
Sorrise anche lei. "Per quando vorreste fissarlo?"
"Ehm� domani pomeriggio?"
"Alle quattro?"
"S�." Stavo annuendo, e intanto mi chiedevo che cosa stessi facendo.
Lei mi guard�. Mi guard� dentro. E aspett�. Ansiosa di rendersi utile. "Allora, mi
dite come vi chiamate?"
"Oh, certo", risposi, con una risata piuttosto stupida. "Cameron e Rube Wolfe."
Si appunt� i nostri nomi, sorridendo di nuovo, e poi not� le mazze.
"Stiamo andando ad allenarci", mentii, brandendo la mazza da baseball.
"In pieno inverno?"
"Non possiamo permetterci un pallone da football", ci interruppe Rube. Da qualche
parte, nel cortile dietro casa, ne avevamo uno da football e uno da calcio. Mi
spinse verso la porta. "Torniamo domani."
Lei ci conged� con quel sorriso che voleva dire: sono qui per aiutarvi. "Ok, ciao
ciao", ci salut�.
Io mi trattenni ancora un secondo. "Ciao."
Ciao.
Non mi era venuto in mente niente di meglio?
"Brutto imbecille", mi rimprover� Rube, una volta fuori. "Un controllo",
piagnucol�. "Il vecchio ci vuole profumati come rose, � vero, ma non gli interessa
se abbiamo i denti puliti. Non gliene potrebbe importare di meno!"
"Be', chi � che � voluto entrare in quello studio? Chi ha avuto l'idea grandiosa di
rapinare un dentista? Non io, fratello!"
"Ok, ok." Rube si appoggi� al muro, mentre il traffico scorreva singhiozzando
davanti a noi.
"E poi che diavolo era tutto quel bisbigliare?" Avevo deciso di affondare la lama,
approfittando della posizione in cui si trovava. "Mancava solo che le chiedessi
�per favore'. Allora forse ti avrebbe sentito. �Ehi, questa � una rapina'",
sussurrai, imitandolo. "Assolutamente patetico."
"D'accordo", replic�, secco. "Ho mandato tutto a puttane� Ma non mi pare che tu
l'abbia minacciata con la mazza da baseball." Era tornato su un terreno a lui pi�
congeniale, sottolineando dove io avessi sbagliato. "Non hai fatto proprio niente,
bello� eri troppo occupato a perderti negli occhi azzurri di Blondie, e a fissarle
il seno."
"Non � vero!"
Il seno.
Ma chi voleva prendere in giro?
Quando mai parlava in quel modo?
"Oh, s�", continu�, ridendo. "Ti ho visto, piccolo, sporco bastardo."
"Questa � una balla colossale." Invece no. Passeggiando lungo Main Street, ebbi la
certezza di essermi innamorato di quella splendida e biondissima infermiera. Stavo
gi� fantasticando: mi immaginavo disteso sulla poltrona del dentista, con lei sopra
di me che mi domandava: "Sei comodo, Cameron? Ti senti bene?"
"Da Dio", le rispondevo. "Da Dio."
"Ehi."
"Ehi!" Rube mi diede uno spintone. "Mi stai ascoltando?"
Mi voltai verso di lui. E continu� a parlare. "Allora, perch� non mi dici dove
diavolo troveremo i soldi per quelle visite di controllo, eh?" Ci pens� su un
minuto. Poi riprendemmo a camminare e accelerammo, diretti a casa. "Nah, sar�
meglio cancellarle."
"No", obiettai. "Non esiste, Rube."
"Sporcaccione", mi insult�. "Dimentica l'infermiera. Probabilmente se la sta
facendo con il Signor Dottore, mentre noi siamo qui a chiacchierare."
"Non ti permetto di parlare di lei in questa maniera", lo avvertii.
Rube si ferm� un'altra volta.
E mi fiss�.
"Sei pietoso, lo sai?"
"Lo so." Non potevo negarlo.
"Come sempre."
E riprendemmo a camminare. Di nuovo. Con la coda tra le gambe.
Oh, a proposito: l'appuntamento non lo cancellammo.
Considerammo l'ipotesi di chiedere i soldi ai nostri genitori, ma avrebbero voluto
sapere perch� fossimo andati allo studio dentistico, tanto per cominciare, e una
discussione del genere non era esattamente in cima alla nostra lista delle cose da
fare. Cos� ci pensai io a recuperare il denaro che ci serviva, attingendo al
gruzzolo che tenevo nascosto sotto l'angolo di moquette che si era scollato dal
pavimento, in camera nostra.
E tornammo l�.
Feci di tutto per appiattirmi i capelli. Per l'infermiera.
Il giorno dopo tornammo allo studio.
Non funzion�. Con i capelli, intendo.
Comunque, quando ci presentammo all'appuntamento, trovammo un'infermiera orrenda
che doveva avere una quarantina d'anni.
"Ecco, questa potrebbe essere alla tua portata", mi sussurr� Rube in sala d'attesa.
Aveva il suo ghigno da delinquentello. Mio fratello mi disgustava. Del resto, per�,
mi capitava piuttosto spesso di essere disgustato anche da me stesso.
"Ehi", gli dissi, agitando un dito nella sua direzione, "mi sembra che ti sia
rimasto qualcosa tra i denti, proprio l�."
"Dove?" mi chiese, terrorizzato. "Qui?" Apr� la bocca con una smorfia. "� andato
via?"
"Nah� pi� a destra. Da quella parte." Naturalmente non aveva niente e, quando
guard� il suo riflesso nell'acquario dello studio e lo scopr�, mi diede un ceffone
sulla nuca.
"Uhm", mugugn�, riprendendo il discorso. "Sporcaccione." E ridacchi�. "Ma devo
ammetterlo. Era ok. Anzi, era fantastica."
"Mmm."
"Non come questa cicciona di mezza et�, eh?"
Risi. I ragazzi come noi - i ragazzi in genere - dovrebbero essere la feccia della
Terra. Ma giuro che per la maggior parte del tempo siamo semplicemente disumani.
Abbiamo bisogno di un bel calcio nel posteriore, come dice sempre il mio vecchio.
(Lo dice e ce lo d�.)
Ha ragione.
Ecco l'infermiera. "Bene, chi � il primo?"
Silenzio.
E poi presi coraggio: "Io".
Mi alzai. Meglio farla finita il prima possibile, riflettei.
In realt� non fu poi cos� male. Il dottore mi somministr� un trattamento al fluoro
che non aveva neanche un sapore troppo sgradevole, e mi gratt� un pochino i denti.
Niente trapano. Non per noi. Non c'� giustizia in questo mondo.
O forse s�
Alla fine, fu il dentista a derubare i fratelli Wolfe. Ci chiese una bella somma,
per quel poco che ci aveva fatto.
"Quanti soldi", commentai, dopo che fummo usciti.
"Almeno non ha usato il trapano." Una volta tanto non era Rube a lamentarsi. Anzi,
mi diede un pugno sulla spalla. "Ecco, a casa non mangiamo biscotti al cioccolato.
E questo serve a qualcosa. Va bene per i denti� Nostra madre � un genio."
Non ero assolutamente d'accordo. "� solo tirchia."
Scoppiammo a ridere, ma sapevamo che mamma era eccezionale. Soltanto pap� ci
preoccupava.
A casa non stava succedendo granch�. Sentimmo l'odore dei funghi avanzati messi a
scaldare sul fornello; Sarah stava ancora pomiciando sul divano. Meglio evitare il
salotto.
Entrai nella camera che dividevo con Rube e guardai la citt� che soffiava il suo
alito lurido sull'orizzonte. Dietro, il sole era di un giallo pallido, e gli
edifici sembravano zampe di enormi bestie nere, distese.
Era pi� o meno met� giugno, e cominciava a far freddo sul serio.
Non mi pare che in questa storia succeda chiss� che. No, in effetti no. �
semplicemente una cronaca di come andava la mia vita durante l'inverno passato.
Cio�, ci furono degli avvenimenti, ma nulla di straordinario. Non riottenni il
lavoro. Mio padre mi offr� un'opportunit�. Mio fratello maggiore, Steve, si fece
fuori una caviglia, mi copr� di insulti e alla fine si rese conto di una cosa.
Mamma organizz� una dimostrazione di boxe nella nostra scuola, nell'ufficio
dell'assistente sociale. Una sera perse il controllo e lasci� cadere la spazzatura
ai miei piedi, in cucina. Mia sorella Sarah fu mollata dal fidanzato. Rube cominci�
a farsi crescere la barba e alla fine apr� gli occhi. Greg, che un tempo era il mio
migliore amico, mi chiese di salvargli la vita dandogli trecento dollari. Conobbi
una ragazza e me ne innamorai (ma in quel periodo mi sarei innamorato di qualunque
cosa avesse mostrato un minimo di interesse nei miei confronti). Feci un sacco di
sogni strani, malati, perversi, e qualche volta belli. E riuscii a sopravvivere.
In effetti non successe granch�.
Solo cose piuttosto normali.

Primo sogno
� pomeriggio tardi e sto andando dal dentista, quando vedo qualcuno in piedi sul
tetto. Mi avvicino e noto che � lui, il dottore. Lo riconosco dal camice bianco e
dai baffi. � proprio sul bordo, e pare pronto a gettarsi.
Mi fermo sotto di lui, e grido: "Ehi! Che diavolo sta facendo?"
"A te che cosa sembra?"
La sua risposta mi lascia senza parole.
Non mi resta che entrare di corsa nell'edificio in cui si trova il suo ambulatorio,
un edificio in cui ci sono soltanto studi, uffici e negozi, e avvertire la
splendida infermiera.
"Che cosa?!" esclama lei.
Mio Dio, � cos� bella che per poco non le dico: "Al diavolo il Signor Dentista,
andiamo gi� alla spiaggia, facciamo qualcosa". Ma non aggiungo altro. Corro fino
alla fine di un corridoio, apro la porta e salgo una rampa di scale.
Per qualche motivo, quando arrivo al margine del tetto mi accorgo che lei non �
venuta con me.
Io sono accanto al dottore baffuto, immerso nei suoi pensieri, mentre lei da sotto
cerca di convincerlo a scendere.
"Che cosa ci fai, laggi�?" le chiedo.
"Io non salgo!" urla. "Soffro di vertigini!"
Accetto la sua spiegazione, perch� francamente sono gi� contento di vedere il suo
corpo e le sue gambe, e sotto la pelle sento lo stomaco farsi teso.
"Coraggio, Tom!" tenta di negoziare con il dentista. "Vieni gi�, per favore!"
"E, comunque, che cosa ci fa quass�?" gli chiedo io.
Lui si volta a guardarmi.
Schietto.
E mi dice: "� colpa tua".
"� colpa mia?! Che accidenti ho fatto?"
"Ti ho fatto pagare troppo."
"Ges�, amico, non � stato molto carino", gli rispondo, e d'un tratto, da vero
sadico, lo incito a buttarsi. "Allora salti, coraggio� � quello che si merita,
brutto imbroglione."
Persino la bella infermiera vuole che si butti, adesso. "D�i, Tom", lo esorta da
sotto. "Ti prendo io!"
E succede.
Si butta.
Va gi�. Sempre pi� gi�.
Salta e cade, e la bella infermiera lo afferra, gli d� un bacio sulla bocca e lo
posa delicatamente a terra. Lo abbraccia, addirittura, i loro corpi che si toccano.
Oh, quella divisa bianca che si struscia contro di lui. Mi fa impazzire, e un
attimo dopo, quando dice anche a me di saltare, obbedisco�
Mi sveglio nel mio letto. In bocca sento il sapore del sangue� e ricordo l'impatto
della mia testa sul marciapiede.

2.

Poich� la vicenda del dentista aveva prosciugato le mie finanze, in pratica andai a
supplicare il mio vecchio datore di lavoro di riprendermi. Per� il tizio
dell'edicola non si lasci� impressionare.
"Spiacente, signor Wolfe. Rappresenti un rischio troppo grande. Sei pericoloso."
Ma sentitelo. Come se me ne fossi andato in giro con un fucile a canne mozze.
Maledizione, consegnavo solo giornali.
"Andiamo, Max", lo pregai. "Sono cresciuto, adesso. Sono pi� responsabile."
"Quanti anni hai?"
"Quindici."
"Be'�" Ci pens� su seriamente. E s'interruppe. Era un no. Scosse la testa. "No.
No." Ma l'avevo in pugno. Aveva esitato troppo. Ci stava riflettendo troppo. "A
quindici anni sei troppo vecchio."
Vecchio!
Lasciatemelo dire, amici: non fu affatto bello farsi trattare come un ragazzo dei
giornali ormai finito, licenziato perch� inutile.
"Per favore�" lo implorai. Fu vomitevole. Tutto per un pidocchioso giro di
consegne, mentre altri ragazzi della mia et� stavano facendo soldi a palate nei
fast food, da Maccas e al dannato Kentucky Fried Chicken. Che vergogna. "Andiamo,
Max", insistetti. E poi mi venne un'idea. "Se non mi rid� il lavoro, torner� qui
con questi stessi vestiti" - indossavo un paio di squallidi pantaloni della tuta,
scarpe usurate e un giubbino impermeabile vecchio e sporco - "e porter� anche mio
fratello e i suoi amici. Tratteremo questo posto come una biblioteca. Non causeremo
problemi, badi. Staremo qui, e basta. Qualcuno potrebbe rubare, ma ne dubito. Forse
uno o due�"
Max si fece pi� vicino.
"Mi stai minacciando, brutto schifoso?"
"Sissignore." Sorrisi. Mi sembrava che stesse andando bene.
Sbagliavo.
Sbagliavo perch� il mio vecchio titolare mi afferr� per il colletto del giubbino e
mi costrinse ad abbandonare la sua propriet�.
"E non farti pi� rivedere", mi ordin�.
Non mi mossi.
Scossi la testa.
A me stesso.
Ero uno schifoso. Uno schifoso!
S�.
Il piano che avevo escogitato per riavere il lavoro mi si era miseramente ritorto
contro. Sentivo le pulsazioni nel collo, pesanti, e mi parve di avvertire in fondo
alla gola il sapore di sangue della sera prima.
"Brutto schifoso", ripetei a me stesso, mentre guardavo il mio riflesso nella
vetrina della panetteria accanto, immaginando di indossare un completo blu nuovo di
zecca, con cravatta nera e scarpe nere, e di avere i capelli in ordine. Ma in
realt� ero vestito come un bifolco, e i miei capelli sparavano in tutte le
direzioni. Mi fissai, dimenticandomi della gente che avevo intorno, e feci quel
sorriso� avete presente? Quello che ti critica e ti ricorda quanto tu sia patetico?
Ecco, quello.
"S�", mi dissi. "S�."
Diedi un'occhiata al giornale locale - dovetti mandare Rube in edicola a
comprarmelo -, sperando di trovare un altro lavoro, ma non c'era niente per me. Era
tutto cos� scarno, cos� povero. I posti di lavoro. La gente. I valori. Nessuno
cercava persone o cose nuove. Ero arrivato al punto di valutare di fare
l'impensabile: chiedere a mio padre di lavorare con lui, il sabato.
"Scordatelo", mi liquid�, quando ci provai. "Sono un idraulico, non un clown del
circo o un guardiano dello zoo." Stava cenando. E alz� il coltello. "Ora, se
fossi�"
"E d�i, pa'. Posso aiutarti."
Mamma disse la sua. "Andiamo, Cliff, dagli una possibilit�."
Lui fece un sospiro, che suon� quasi come un gemito.
Poi prese una decisione. "Ok", bofonchi�, agitando la forchetta sotto il mio naso.
"Per� alla prima cazzata, alla prima risposta insolente o alla prima stupidaggine
hai chiuso."
"Ok."
Sorrisi.
Sorrisi a mamma, ma stava cenando anche lei.
Sorrisi a mamma, a Rube, a Sarah e persino a Steve, ma erano tutti intenti a
cenare, perch� la faccenda era chiusa, e non � che suscitasse particolare
eccitazione. L'unico elettrizzato ero io.
Anche al lavoro, il sabato successivo, mio padre non sembr� cos� entusiasta di
avermi con lui. La prima cosa che mi fece fare fu infilare una mano nel gabinetto
di un'anziana, per rimuovere l'ostruzione. La verit�? Per poco non vomitai nella
tazza.
"Oh, al diavolo!" mi lamentai, la voce bassa e stridula, e mio padre si limit� a
sorridere.
"Benvenuto nel mondo degli adulti, figliolo", mi disse, e poi non sorrise pi� per
tutto il resto della giornata. Fece fare a me i lavori pi� duri, come tirare gi� i
tubi dal tetto del furgone, scavare un fossato sotto una casa, aprire e chiudere le
condutture, o raccogliere e pulire gli attrezzi. Alla fine mi diede venti dollari
e, sorprendentemente, mi ringrazi�.
"Grazie dell'aiuto, ragazzo."
Rimasi scioccato, perch� non me l'aspettavo.
Scioccato e felice.
"Anche se devo dirti che sei un po' lento", aggiunse subito dopo, per sminuirmi. "E
fatti una doccia, appena arriviamo a casa�"
La pausa pranzo era stata un po' strana. Ci eravamo seduti su due secchi rovesciati
vicino al furgone di pap�, e lui mi aveva fatto leggere il giornale. Aveva tolto le
pagine centrali e mi aveva lanciato il resto.
"Leggi", mi aveva ordinato.
"Perch�?"
"Perch� non imparerai niente finch� non avrai la pazienza di sederti a leggere. La
tv te la toglie. Ti svuota la mente."
Inutile dire che ficcai la testa in quel giornale e che mi misi a leggere. Avrebbe
potuto tranquillamente licenziarmi perch� non leggevo quando mi veniva imposto di
farlo.
La cosa pi� importante fu che sopravvissi, e che a fine giornata mi ritrovai con
venti dollari in pi�.
"Sabato prossimo?" gli chiesi una volta arrivati a casa.
Lui annu�.
Il fatto � che non potevo immaginare che quel lavoro mi avrebbe portato ai piedi di
una ragazza migliore addirittura dell'infermiera dello studio dentistico. Sarebbe
successo di l� a qualche settimana e, quando fosse accaduto, avrei avvertito un
cambiamento dentro di me.
La sera di quel primo sabato, tuttavia, varcai la porta di casa tutto orgoglioso.
Scesi nel seminterrato, dove c'� la stanza di Steve - Steve esce sempre il sabato
sera -, accesi il suo vecchio stereo e mi misi a ballare. Cantai, come fanno i
poveri sfigati quando sono soli, e mi dimenai. Sembravo uno scemo. Ma non te ne
importa un accidenti, se non ti vede nessuno.
Poi arriv� Rube, senza che me ne accorgessi.
Mi guard�.
"Pietoso." La sua voce mi sciocc�.
Mi fermai.
"Pietoso", ripet�, mentre chiudeva la porta e lentamente, deliberatamente, andava
verso i gradini vecchi e consumati.
Subito dopo entr� pap�. "Ho quattro cose da dirvi. La prima: la cena � pronta. La
seconda: fatevi una doccia. La terza�" e qui si rivolse a mio fratello "�va' a
raderti." Gli lanciai una breve occhiata, e vidi delle chiazze di barba sul suo
viso. Stava diventando folta, gli cresceva con regolarit�, ormai. "E infine la
quarta: stasera guardiamo Il buono, il brutto, il cattivo e, se uno di voi
preferisce qualcos'altro� sfortunatamente il televisore � prenotato."
"Non c'importa", gli assicur� Rube.
"Giusto perch� dopo non vi lamentate."
"Giusto perch� dopo non vi lamentiate", lo corressi. Grosso errore.
"Vuoi litigare?" mi chiese puntandomi un dito contro.
"Per niente."
Allora indietreggi�. "Bene. Comunque, venite di sopra, la cena � pronta", disse e,
quando andammo verso di lui, aggiunse: "Ricordatevi che il vostro vecchio pu�
ancora prendervi a calci nel posteriore, se fate i furbi". Ma stava ridendo, e ne
fui felice.
Sulla porta dissi: "Magari riuscir� a mettere da parte i soldi per comprare uno
stereo, come quello di Steve. Forse anche pi� bello".
Pap� annu�. "Non � una cattiva idea." Sapeva essere molto severo, ma credo
apprezzasse che non gli domandassi mai niente. Capiva che le cose volevo
guadagnarmele.
Ed era cos�.
Non volevo niente, gratis.
E, a casa nostra, d'altronde, non c'era mai niente di gratuito.
Rube era curioso.
"Perch� vuoi uno stereo? Per ballare in camera nostra in quel modo pietoso? Come ti
ho visto fare prima?"
Pap� si ferm�, si volt� a guardarlo e gli diede un buffetto sull'orecchio.
"Almeno tuo fratello ha voglia di lavorare, ed � pi� di quanto possa dire di te."
Si volt� di nuovo e aggiunse: "Adesso venite a tavola".
Lo seguimmo di sopra, e io dovetti andare a chiamare Sarah in camera sua. Era con
il suo ragazzo, stavano pomiciando contro l'armadio.
Quella che segue � la scena di un film, in cui io ho un cappio attorno al collo, e
sto aspettando di essere impiccato. Sono seduto su un cavallo. La corda � legata al
ramo pesante di un albero. Anche mio padre, pi� distante, � in sella a un cavallo,
e ha una pistola.
So che c'� una taglia sulla mia testa, da un po' di tempo, e con pap� ho elaborato
un piano: lui mi consegna, incassa la ricompensa e poi spara alla corda quando sto
per essere giustiziato. In qualche modo riuscir� a farla franca, e continueremo con
questa farsa di citt� in citt�.
Sono seduto con il cappio al collo, e indosso degli oltraggiosi vestiti da cowboy.
Lo sceriffo, il poliziotto o chiunque sia mi sta leggendo la sentenza di condanna a
morte, e tutti quei campagnoli che masticano tabacco esultano perch� sanno che sto
per morire.
"Le tue ultime parole?" mi chiedono, ma all'inizio mi limito a ridere.
E loro, sempre ridendo: "Buona fortuna". E aggiungono, sarcastici: "Che Dio ti
benedica".
Da un momento all'altro udir� lo sparo.
Invece no.
Comincio a innervosirmi.
Mi si contraggono i muscoli, involontariamente.
Mi volto, e lo vedo.
Danno uno schiaffo al mio cavallo per farlo partire, e un attimo dopo sono l� che
penzolo, e mi sento soffocare.
Ho le mani legate davanti, e le sollevo per tentare di togliermi la fune del collo.
Non funziona. Con un orribile rantolo esclamo: "D�i! D�i!"
E finalmente.
Lo sparo arriva.
Niente.
"Sto ancora soffocando!" sibilo, ma adesso mio padre sta cavalcando verso la folla.
Fa fuoco di nuovo, e questa volta la fune si spezza e io cado.
Finisco a terra.
Succhio.
Aria.
Meraviglioso.
I proiettili volano tutt'intorno a me.
Allungo la mano ad afferrare quella di pap�, che mi solleva sul suo cavallo mentre
mi passa accanto come un fulmine.
Grandangolo.
Altra scena.
Adesso regna la calma. Pap� ha in mano una dozzina di banconote da cento dollari.
Me ne d� una.
"Una!"
"Esatto."
"Sai", ragiono, "credo proprio di meritare di pi� Dopotutto, sono io che penzolo
con il cappio al collo."
Pap� sorride, lancia via il sigaro masticato.
E parla.
"S�, ma sono io che ti tiro gi�."
Circondato dal deserto, mi rendo conto di quanto mi faccia male la schiena per la
caduta.
Pap� se n'� andato. Rimasto solo, bacio la banconota e dico: "Che tu sia maledetto,
amico". E m'incammino, diretto da qualche parte, aspettando la volta successiva,
sperando di essere ancora vivo.

3.

Mi ero scordato che fossero l�.


Me ne ricordai solo l'indomani, mentre ero sdraiato sul letto con la schiena a
pezzi per aver scavato tanto il giorno prima. Non so perch� mi vennero in mente;
successe e basta. Le fotografie. Le foto.
Erano nascoste sotto il letto.
"Le fotografie", dissi tra me e me e, senza nemmeno pensarci, mi alzai nella camera
buia, che per� si stava facendo lentamente pi� luminosa, e le tirai fuori. Erano le
immagini di quelle donne che avevo trovato in un catalogo di costumi da bagno,
arrivato per posta a Natale. Che avevo tenuto.
Mi rimisi a letto e le guardai: se ne stavano l� con la schiena inarcata, un
sorriso stampato sul volto, con quei capelli, quelle labbra, quei fianchi e quelle
gambe. E tutto il resto.
In mezzo al gruppo mi parve di vedere anche l'infermiera del dentista� ma non c'era
davvero, � ovvio. La immaginai soltanto. Non avrebbe sfigurato.
"Dio Onnipotente", bisbigliai mentre ne osservavo una in particolare, e provai
un'immensa vergogna perch� non so. Semplicemente, mi parve una cosa meschina da
fare� sbavare su fotografie di donne appena sveglio, mentre in casa dormivano
ancora tutti. Di un catalogo di Natale, niente meno. Natale era passato da quasi
sei mesi. Eppure, continuai a sfogliare quelle pagine con lo sguardo fisso, mentre
Rube russava di brutto dall'altra parte della stanza.
La cosa buffa � che certe foto dovrebbero dare piacere a un ragazzino come me, e
invece io m'infuriai con me stesso. Mi faceva arrabbiare l'idea di poter essere
tanto debole da guardare come un pervertito malato quelle donne, che avrebbero
potuto mangiarmi a colazione. Pensai anche - ma soltanto per un secondo - a come si
sarebbe sentita una ragazza della mia et�, davanti a quelle immagini. Probabilmente
si sarebbe arrabbiata pi� di me: perch� io desideravo solo toccarle, mentre lei
avrebbe desiderato essere loro. S�, sarebbe stata questa la sua aspirazione. Che
terribile pressione avrebbe provato.
Mi lasciai cadere ancora sul letto, senza speranza.
Senza speranza.
"Sporcaccione." Mi parve di udire la voce di Rube; mi aveva detto cos�, dal
dentista.
"S�, sono uno sporcaccione", ammisi ad alta voce e capii che, da grande, non sarei
voluto diventare uno di quegli animali psicopatici che tappezzano le pareti del
garage di donne nude prese da Playboy. Non volevo. In quel momento ero
assolutamente contrario. Cos� tirai fuori il catalogo da sotto il cuscino, lo
strappai a met�, poi in quattro, e via dicendo, sapendo che me ne sarei pentito. Me
ne sarei pentito quando avessi deciso di darci ancora un'occhiata.
Senza speranza.
Quando mi alzai, andai a gettare quelle donne ridotte a brandelli nel cestino della
carta da riciclare, pensando che sarebbero tornate l'anno dopo, in un altro
catalogo natalizio. Di nuovo tutte intere. Era inevitabile.
Un'altra cosa inevitabile era il fatto che, essendo domenica, sarei andato al campo
di football a guardare Rube e Steve giocare. La squadra di Steve era una delle pi�
forti, mentre quella di Rube era una delle peggiori che vi potrebbe capitare di
vedere in vita. Lui e i suoi compagni se le facevano suonare tutte le settimane, e
assistere agli incontri era sempre piuttosto crudele. Rube non era tanto male�
insieme con pochi altri. Ma il resto della squadra non concludeva mai niente.
Pi� tardi, mentre facevamo colazione davanti al programma tv Sportsworld, Rube mi
chiese: "Allora, qual � la scommessa di oggi sul punteggio? Settanta a zero?
Ottanta a zero?"
"Non lo so."
"Magari arriveremo alle tre cifre."
"Magari."
Intanto sgranocchiavamo.
E stavamo ancora sgranocchiando quando sal� Steve dal seminterrato e prese cinque
banane. Era il suo rituale della domenica: se le mangiava tutte mentre ci rivolgeva
un grugnito.
Alla partita, il risultato and� molto vicino al pronostico di Rube. La sua squadra
perse per settantasei a due. Gli avversari erano una potenza. Pi� grossi, pi�
forti, pi� pelosi. Rube e compagni totalizzarono quei due punti al termine
dell'incontro, quando l'arbitro concesse un calcio piazzato. E loro segnarono
giusto per avere dei punti sul tabellone. Non era previsto l'intervento di un
ragazzino che spargesse la sabbia, cos� il giocatore designato si tolse la scarpa,
vi pos� sopra la palla e calci� con il solo calzino. Steve, invece, rimedi� una
bella vittoria - ventiquattro a dieci - e come al solito and� a ubriacarsi.
Alla fine, in tutta la giornata avvennero giusto un paio di cose pi� o meno
interessanti.
La prima fu che vidi Greg Fienni, un ragazzo che fino a poco tempo prima era stato
il mio migliore amico. Cos'era accaduto? A un certo punto, avevamo smesso di essere
amici per la pelle. Non c'erano stati incidenti n� litigi, niente di niente. Era
andata cos� e basta. Probabilmente perch� lui aveva cominciato a interessarsi allo
skateboard, e si era unito a un altro gruppo di amici. A dire la verit�, aveva
anche provato a tirarmi dentro, ma a me non interessava. Greg mi piaceva parecchio,
ma non avevo voluto seguirlo. Adesso faceva parte della cultura skate, mentre io
ero in quella� ecco� non lo so nemmeno io. Me ne andavo in giro per i fatti miei, e
mi piaceva.
Quando raggiunsi il campo, la partita di Rube era gi� iniziata, e nell'angolo in
alto c'erano dei ragazzi che stavano guardando l'incontro. Qualcuno mi chiam� per
nome, mentre passavo. Riconobbi subito la voce di Greg.
"Cam!" grid�. "Cameron Wolfe!"
"Ehi", risposi, voltandomi. "Come butta, Greg." (Lo so, avrei dovuto concludere con
un punto interrogativo, ma non era una domanda. Era un saluto.)
E un attimo dopo lui si stava gi� staccando dai suoi amici per venire da me.
Accadde tutto molto in fretta.
"Vuoi sapere il punteggio?" mi chiese.
"S�, ho fatto un po' tardi." Osservai incuriosito i suoi capelli, decolorati e
ingarbugliati. "A quanto stanno?"
"Venti a zero."
L'altra squadra segn�.
Scoppiammo a ridere.
"Ventiquattro a zero."
"Ehi, sedetevi", grid� qualcuno del gruppo. "Oppure toglietevi da davanti!"
"Ok", dissi, alzando le spalle e facendo un cenno a Greg. Guardai un momento i suoi
amici, e poi aggiunsi: "Ci vediamo dopo". Adesso erano arrivate anche delle
ragazze. Cinque, credo, tutte carine. Un paio erano proprio belle, tipo reginette
della scuola, mentre le altre erano pi� reali. Di una bellezza pi� reale. Ragazze
reali, pensai, che, se sono fortunato, un giorno potrebbero anche rivolgermi la
parola.
"Ok." Greg torn� dai suoi compagni. "Ci becchiamo pi� tardi." Ma sarebbe trascorso
un mese.
Buffo, riflettei mentre costeggiavo il campo, camminando lungo la corda che lo
delimitava. Un tempo eravamo amici per la pelle, e ora non abbiamo quasi nulla da
dirci. Era curioso il fatto che lui si fosse unito a quei ragazzi, mentre io ero
rimasto da solo. La cosa non mi piaceva, per� neppure mi dispiaceva. Semplicemente,
era curioso che fosse andata cos�.
La seconda cosa pi� o meno interessante, quella domenica, fu che verso sera, mentre
ero seduto in veranda a guardare le macchine che passavano, vidi arrivare Sarah e
il suo fidanzato, a piedi. La macchina di lui era parcheggiata davanti a casa
nostra, ma avevano deciso di andare a fare una passeggiata. Quell'auto era il suo
orgoglio e la sua gioia. Una Ford rossa che aveva un motore enorme, nel cofano. Ci
sono persone fissate con le automobili. Personalmente, le ritengo piuttosto
stupide. Dalla mia finestra si scorge l'intera citt� rannicchiata sotto una coperta
di smog creato dai gas di scarico delle auto. E poi ci sono dei tizi che vanno su e
gi� per la nostra via a tutta birra, credendosi dei geni.
Francamente, li trovo dei cretini.
D'altro canto, chi sono io per dirlo?
Io, Cameron Wolfe, che come prima cosa la domenica guardo foto di donne nude?
Quindi.
Erano in fondo alla strada. Sarah e il suo fidanzato. Intuii che erano loro dai
jeans chiari di mia sorella. Li portava spesso. Doveva averne due paia.
La cosa che pi� mi � rimasta impressa � il modo in cui lei e il suo tipo - a
proposito, si chiama Bruce - si tenevano per mano, mentre camminavano. Era una cosa
bella.
Lo capiva anche uno sporcaccione come me.
Io lo capii.
Mentre ero l�, in veranda, mi resi conto che la bellezza era quella: mia sorella
che camminava mano nella mano con Bruce. Insultatemi pure, per questo; non
m'interessa.
La verit� era che volevo proprio quello: quello che avevano loro.
Certo, volevo le donne di quel catalogo, ma non erano� non erano reali. Non erano
una cosa reale. Sarebbero rimaste cos� per sempre� fotografie da tirar fuori e
mettere via.
"Come va?"
"Ok."
Raggiunsero la veranda ed entrarono in casa.
Ho ancora in mente l'immagine di loro due che avanzavano lungo la strada. Li vedo
ancora.
La cosa peggiore � che Bruce non impieg� molto a scaricare Sarah per un'altra. Pi�
avanti, in questo libro, incontro la sostituta, ma riesco a darle solo una rapida
occhiata. Poche parole. Poche parole davanti a una porta�
Mi sembr� una tipa ok, ma cosa posso saperne?
Non so niente, proprio niente.
Io�
Forse so questo: che quel giorno, sulla nostra veranda, mentre guardavo Sarah e
Bruce, sentii qualcosa� e giurai a me stesso che, se mai avessi avuto una ragazza,
l'avrei trattata bene, non sarei mai stato uno stronzo, o un porco, e non le avrei
mai fatto del male. Lo giurai a me stesso, ed ero assolutamente sicuro che l'avrei
fatto.
"La tratterei come si deve", dissi.
"Davvero."
"Sul serio."
"�s�."
Sono a una partita di cricket, e dietro di me c'� un gruppo di ragazzi. Sono in
tanti. Sta piovigginando e i giocatori sono fuori dal campo, quindi l'umore �
pessimo. I ragazzi alle mie spalle non fanno che urlare da tutto il giorno, si
offendono a vicenda, insultano la tifoseria avversaria e chiunque riescano a
trovare.
Prima ce l'avevano con questo tizio di nome Harris.
"Ehi, Harris! Facci vedere la pelata!"
"Harris, sporcaccione!"
Io sono gi�, vicino alla recinzione, e me ne sto buono buono.
Quando c'erano in campo i nostri, hanno criticato pure loro. "Ehi, Lehmann� sei
fortunato a essere in squadra� facci ciao con la mano!" Lui non l'ha fatto e quelli
hanno continuato: "Ehi, Lehmann, maledetto ignorante. Facci ciao con la mano, o ti
rovescio la birra in testa!"
Dopo un po' Lehmann ha obbedito, e tutti hanno esultato; ma adesso, con questo
ritardo a causa della pioggia, la situazione sta diventando insopportabile.
Intorno al campo stanno facendo la ola.
La gente si alza lanciando in aria qualunque cosa, e si lascia andare a un coro di
fischi quando l'onda arriva ai Members, che non si alzano.
A quel punto, i ragazzi alle mie spalle notano un giovane addetto alla sicurezza a
una ventina di metri da noi, sulla destra. � uno dei tanti, e indossa la classica
uniforme con pantaloni e stivali neri e camicia gialla.
� piuttosto massiccio, e ha un'aria da imbecille. Ha i capelli neri, unti, e due
basette enormi che gli scendono fino alla mascella.
Lo incitano. "Ehi, tu! Sicurezza! Facci ciao con la mano!"
Lui ci guarda, ma non risponde.
"Ehi, Elvis. Facci ciao con la mano!"
"Ehi, Bobby Burns. Facci ciao con la mano!"
Sorride e annuisce, da fico, mentre gli piove addosso quella sfilza di richieste.
Ooh, aah, sei un idiota�
Ma i ragazzi non la smettono.
"Ehi, Travolta!"
"Ehi, Travolta. Facci ciao con la mano! E vedi di impegnarti!"
Verso la fine del sogno, d'un tratto mi sento strano, e mi accorgo che sono nudo.
S�, nudo.
"Cristo, stai bene, amico?" chiede qualcuno dietro di me.
E mi sfidano a correre nudo in pubblico.
"D�i, bello. Ti pago la multa, se riesci ad attraversare il campo."
Mi rifiuto, e ogni volta che dico di no un indumento riappare sulla mia pelle.
Questo sogno malato finisce con il sottoscritto seduto, di nuovo vestito. Sono
felice, e sorrido, perch� non ho fatto un'invasione di campo nudo.
Tutto ci� potrebbe suggerire che sono un pervertito, ma non completamente stupido.
"Non mi beccherete senza i pantaloni addosso. Non per molto, comunque."
Non mi sente nessuno.
Poi i giocatori tornano in campo.
E l'addetto alla sicurezza si piglia ancora un sacco di insulti.

4.

La settimana successiva, il freddo si fece pi� intenso. Le mattinate a casa nostra


erano frenetiche, come sempre.
In camera sua, Sarah si truccava per andare al lavoro. Pap� e Steve uscivano
urlando, perch� questo era il loro modo di salutare. Mamma ripuliva il disastro che
avevamo lasciato in cucina.
Il mercoled� Rube mi diede una ginocchiata sulla coscia, vicino all'inguine, e poi
mi trascin� in bagno perch� mamma non mi vedesse mentre mi contorcevo sul pavimento
della nostra camera. E, mentre mi trascinava, io ridevo e piagnucolavo
contemporaneamente.
"Non vorrai che mamma ti senta." Mi tapp� la bocca. "Ricordatelo: se lo dice a
pap�, non sar� soltanto io a prenderle. Le prenderemo tutti e due."
Era questa la regola, da noi. In caso di guai, a pagare erano tutte le persone
coinvolte. Il vecchio avrebbe percorso il corridoio con quello sguardo che
sottintendeva: "Ho avuto una giornata di merda, e non sono tornato a casa per
perdere tempo con voi". Poi ci avrebbe rifilato un manrovescio nelle costole, o su
un orecchio. Non si scherzava affatto: se se lo beccava Rube, me lo beccavo
anch'io. Quindi, non importava con quanta violenza ci azzuffassimo: restava sempre
tutto tra noi due. Ne uscivamo gi� abbastanza doloranti. L'ultima cosa di cui
avessimo bisogno era coinvolgere pap�.
"Ok, ok", gli dissi, cattivo, quando fummo al sicuro in bagno. "Fanculo. Si pu�
sapere perch� mi hai dato una ginocchiata?"
"Non lo so."
"Non ti credo." Guardai quell'idiota di mio fratello. "Me la dai senza un motivo?
Be', � scioccante."
"Lo so." Sulla faccia aveva un ghigno che mi indusse a spingerlo nella vasca per
poi tentare di strangolarlo, ma fu tutto inutile� perch� Sarah stava bussando.
"Uscite dal bagno!"
"Va bene."
"Subito!"
"Va bene, arriviamo!"
Mentre andavamo a scuola, incrociammo alcuni compagni di Rube.
Simon.
Jeff.
Cheese.
Li invitammo per un incontro di quello che in famiglia chiamavamo One Punch, nel
pomeriggio; siccome nel garage abbiamo un unico paio di guantoni, in pratica i due
avversari ne usano uno solo ciascuno. One Punch.
Dopo scuola ci trovammo sul serio per un torneo, e devo dire che eravamo tutti
ansiosi. Gi�. Ansiosi di darle e di prenderle. Ansiosi di farla franca, anche se
questo significava non socializzare con il resto della famiglia. Mi spiego:
rimarreste sorpresi se sapeste quant'� facile nascondere un livido, nell'angolo pi�
buio del salotto.
Rube � mancino, quindi vuole il guanto sinistro. Io prendo l'altro, e la destra �
la mia mano buona. Dopo tre round, viene dichiarato il vincitore. A volte � facile
decretarlo, altre no.
Quel pomeriggio in particolare fu piuttosto brutto per me.
Portammo i guantoni nel cortile sul retro, e i primi a scontrarci fummo io e mio
fratello. I nostri incontri erano sempre i migliori. Senza esclusione di colpi.
Bastava un pugno ben assestato dal sottoscritto e Rube tentava di staccarmi la
testa. Uno ben assestato da lui, e io vedevo le stelle e non respiravo pi�. Cercavo
solo di rimanere in piedi.
"Ding, ding", trill� Cheese senza entusiasmo, e l'incontro cominci�.
Girammo attorno al cortiletto, per met� di cemento e per met� d'erba. Era appena
pi� grande di un vero ring. Non c'era molto spazio per sottrarsi all'avversario. E
il cemento era duro�
"Fatti sotto." Rube mir� alto, per� era una finta e mi fracass� le costole. Poi
punt� realmente alla testa, sfiorandomi un orecchio. Ma in quel momento si apr�, e
io gli piazzai un destro sul naso che and� a segno. Una mossa brillante.
"Wow!" esult� Simon, ma Rube rest� concentrato. Si fece avanti di nuovo, senza
paura, per nulla preoccupato dal mio saltellare arrogante. Si chin� in avanti e
tent� di centrarmi un occhio. Parai e affondai anch'io un pugno verso l'alto, ma
lui scart�, mi costrinse a girare e mi blocc� contro il muro. Poi mi tir� a s�. Mi
spinse indietro. Mi trascin� sull'erba e mi colp� alla spalla. S�, mi prese. Oh,
nessun problema. Fu come se un'accetta mi avesse spaccato l'articolazione, e un
attimo dopo mi moll� un sinistro alla testa, che ciondol� di rimando,
permettendogli di sferrarmi un jab al mento.
Forte.
E accadde.
Il cielo venne gi�.
Inspirai le nuvole.
La terra oscill�.
La terra.
La terra.
Tirai anch'io.
Mancai il bersaglio.
Rube rise, da sotto la barba sempre pi� folta.
Si mise a ridere non appena finii in ginocchio, per poi sollevarmi appena e
rimanere cos�, accovacciato. Cominci� il conteggio. Era Rube, euforico: "Uno, due,
tre�"
Mi rialzai, e le grida esaltate di Simon, Jeff e Cheese si fecero pi� chiare�
Ancora pochi pugni, e il primo round si concluse.
Mi sedetti in un angolo del cortile, all'ombra.
Secondo round.
And� pi� o meno allo stesso modo, ma questa volta fin� al tappeto anche Rube.
Il terzo round fu davvero accanito.
Caricammo entrambi molto forte, e ricordo di avergli colpito le costole sette o
otto volte, e di essermi beccato almeno tre pugni sullo zigomo. Fu brutale. Il
nostro vicino, quello a sinistra, aveva dei pappagallini in gabbia e un cagnolino.
Gli uccelli presero a schiamazzare dall'altra parte della recinzione, e il cane in
miniatura abbai� e si mise a saltare, mentre mio fratello e io ci pestavamo fino a
farci perdere i sensi a vicenda. Il pugno di Rube era una grossa macchia marrone
che continuava a venirmi addosso dal suo lungo braccio e a cantare mentre mi
schiacciava la pelle sulle ossa. Vedevo doppio, ogni cosa intorno a me tremava, era
tutto arancione scuro, e sentivo il sapore metallico del sangue che dal naso mi
scendeva sul labbro, sui denti e poi sulla lingua. O forse stavo sanguinando dentro
la bocca? Non capivo. Non capii niente fino a quando non mi ritrovai di nuovo
accovacciato, intontito e con una gran voglia di vomitare.
"Uno, due�"
Questa volta non badai al conteggio.
Lo ignorai.
Mi limitai a sedermi con la schiena appoggiata alla recinzione del cortile sul
retro, in attesa di riprendermi.
"Sei a posto?" chiese Rube dopo un po', i capelli scompigliati che gli scendevano
sugli occhi.
Annuii.
Ero a posto, s�.
In casa controllai i danni, ed ebbi l'impressione che non andasse troppo bene.
Niente sangue dal naso. Era in bocca, e avevo anche un occhio nero. Un bel livido.
Impossibile da nascondere. Per quel giorno, almeno. Anche se ci avessi provato,
sarebbe stato tutto inutile. Mamma ci avrebbe uccisi.
E lo fece.
Mi guard� e mi domand�: "Che cosa ti � successo?"
"Niente."
Poi not� il labbro lievemente gonfio di Rube.
"Ah, ragazzi", comment�, scuotendo la testa. "Mi disgustate, giuro. Non riuscite a
restare una settimana intera senza che vi facciate male l'uno con l'altro?"
No, non ci riuscivamo.
Ci facevamo sempre male, che fosse un incontro di boxe o una partita di football in
salotto con un paio di calzini arrotolati.
"Be', state separati per un po'", ci ordin�, e noi obbedimmo. Ci sforzammo sul
serio, perch� mamma era una tosta, puliva le case dei ricchi per guadagnare
qualcosa, e si faceva in quattro per tenere in ordine la nostra. Ci dispiaceva
deluderla.
Ma la situazione era destinata a peggiorare.
In effetti, accadde gi� il giorno seguente, perch� alcuni dei miei insegnanti si
preoccuparono per via delle condizioni della mia faccia, e del fatto che una
settimana s� e una no mi presentassi con un livido, una crosta o un graffio. Mi
fecero delle domande assurde su come andassero le cose a casa, sul rapporto con i
miei genitori eccetera eccetera. Io spiegai che non avevo problemi con i miei
genitori, n� con nessun altro, e che a casa andava tutto come al solito. Cio� bene.
"Sicuro?" insistettero. Come se avessi potuto mentire riguardo a una cosa simile.
Forse avrei dovuto dire che ero andato a sbattere contro la porta, o che ero
ruzzolato gi� per le scale del seminterrato. Si sarebbero fatti una risata. Invece,
dissi che praticavo la boxe nel tempo libero, e che non ero ancora molto bravo.
Ma evidentemente non mi credettero, perch� gioved� pomeriggio mia madre ricevette
una telefonata dalla scuola in cui le veniva chiesto di presentarsi a un incontro
con il preside e l'assistente sociale.
Venne venerd�, a pranzo, e volle che fossimo presenti anche io e Rube.
"Aspettate qui finch� non vi chiamo io", ci raccomand� fuori dall'ufficio, prima di
entrare. Annuimmo e ci mettemmo a sedere; dopo dieci minuti apr� la porta: "Dentro�
subito". Ci alzammo e la raggiungemmo.
Il preside e l'assistente sociale ci guardarono con un moderato disgusto, quasi
divertiti. Anche mamma, in effetti; e il motivo divenne piuttosto chiaro quando lei
tir� fuori dalla borsa i nostri guantoni. "Ok, indossateli", ci ordin�.
"Andiamo, mamma", protest� Rube.
"No, no, no", insist� il signor Dennison, il preside. "Siamo molto interessati."
"Su, ragazzi", ci incit� ancora mamma. "Non siate timidi�" Ma era proprio questo il
punto. Voleva farci vergognare. Umiliarci. Non era difficile capire che cosa stesse
succedendo, mentre ci infilavamo un guantone ciascuno.
"I miei figli." Nostra madre si rivolse al preside, e poi a noi. "I miei figli."
Amara delusione: questo c'era sul suo volto. Sembrava sul punto di piangere. Le
rughe intorno ai suoi occhi erano letti di fiumi scuri e asciutti, in attesa di
acqua. Ma l'acqua non arriv�. Si limit� a distogliere lo sguardo. Poi, decisa, lo
rialz� su di noi, quasi volesse sputarci sulle scarpe e ripudiarci. Non la
biasimai.
"Ecco che cosa fanno", disse al preside e alla responsabile. "Mi scuso, mi
rincresce avervi fatto perdere tanto tempo."
"Nessun problema", rispose Dennison, e mamma strinse la mano a tutti e due.
"Scusate", ripet�, e poi usc� senza pi� degnarci di uno sguardo. Ci lasci� l�, con
indosso i guantoni, come due ridicole bestie in inverno.
Non chiedetemi perch�, ma sono in Russia, per la precisione a Mosca. Sto viaggiando
su un autobus.
� pieno di gente.
Avanza lentamente.
Qui dentro si gela.
Il tizio vicino a me, che ha il posto accanto al finestrino, tiene sulle ginocchia
un roditore che soffia se soltanto provo a guardarlo. Lo sconosciuto mi d� un
colpetto con il gomito, dice qualcosa e ride. Quando gli chiedo se siamo davvero a
Mosca (perch� naturalmente non ci sono mai stato), lui si lancia in una
conversazione lunga e noiosa con il sottoscritto. Ed � un miracolo, perch� io non
conosco la lingua e non riesco a spiccicare una sillaba.
� incredibile.
Parla.
Ride. E alla fine scopro che questo tizio mi piace. Rido a tutte le sue battute, in
base alle rughe che disegnano sul suo viso.
"Quest'autobus � una lumaca", affermo, ma ovviamente lui non capisce.
Russia.
Sapete spiegarmi, in nome del cielo, che cosa ci faccio, qui?
Anche sull'autobus si gela� l'avevo gi� detto? S�? Be', fidatevi, fa un freddo
cane, e i finestrini sono tutti appannati.
Tremo.
Tremo sul mio sedile, finch� non ne posso pi�.
Mi alzo.
Almeno ci provo, ma a quanto pare sono incollato. � come se fossi rimasto
appiccicato a causa del gelo.
"Alzati", mi dico. Ma non ci riesco. Non ci riesco!
Poi vedo qualcuno in mezzo alla gente, nel corridoio, che viene verso di me
zoppicando.
No.
Oh, no.
� un'anziana e, da quando sono in Russia, ho capito che queste vecchie donne sono
molto impiccione. E la cosa peggiore � che sta guardando me. S�, me.
"Aiutami ad alzarmi", imploro il tizio che mi siede accanto. Lo supplico, ma lui
non fa niente. Addirittura, si volta dall'altra parte per mettersi a dormire,
schiacciando il roditore contro il finestrino. E quello soffoca.
La vecchia � sempre pi� vicina.
No.
� un incubo.
Fa una smorfia e mi fissa negli occhi, dicendomi silenziosamente di alzarmi.
Alzati! grido nella mia testa.
Non ci riesco, e lei�
Arriva.
"Puah!" comincia. E da quel momento non c'� modo di fermarla. Mi sputa in faccia le
sue imprecazioni russe, mentre mi prende a pugni. Quelle mani piccole e feroci
cercano di sollevarmi afferrandomi per i vestiti, per scaraventarmi gi�.
"Mi dispiace!" piagnucolo, ma questa anziana signora � la furia personificata, e
continua a percuotermi.
Dopo, sono seduto nel corridoio, e il posteriore dei miei pantaloni � ancora
incollato al sedile. Un uomo di mezza et� che parla inglese mi rimprovera: "Non
dovresti offendere la signora, ragazzo".
"Sta scherzando?" esclamo, mentre cerco di tenere la pelle nuda staccata dal
pavimento gelato.
La vecchia mi rivolge un sorriso disgustato.

5.

Questo � un capitolo importante.


Per me, almeno.
I lividi sulla faccia guarirono, e trascorsi i giorni seguenti a ciondolare. Un
avvenimento si profilava all'orizzonte. Era l� fuori, da qualche parte, oltre la
vita appartata e sempre uguale che avevo condotto fino a quel momento. Era l�
fuori; non mi stava aspettando, ma c'era. Forse si stava solo domandando se gli
sarei andato incontro.
Non lo so, � probabile che stia dicendo un mucchio di sciocchezze.
Comunque.
L'avvenimento fu che conobbi questa ragazza mentre ero a lavorare con pap�, un
sabato.
Era davvero carina, parola mia.
Avevo passato l'intera mattinata a scavare un fossato sotto la casa, in un
quartiere a circa otto chilometri dal nostro, ed ero morto. All'ora di pranzo ero
morto.
Ero tutto sporco di terra e avevo il collo rigido e indolenzito per essere stato
piegato a scavare. Quando uscii dalla buca, lei era l�. Era l� con sua madre e suo
padre, ed era cos� reale che per poco il vuoto che avevo in bocca non mi soffoc�.
Era alta pi� o meno come me, il viso calmo, reale. Mi sorrise con due labbra reali,
e con la sua voce reale mi sussurr�: "Ciao".
Mi pulii la mano destra sui pantaloni, e diedi la mano a tutti e tre. Madre. Padre.
Figlia.
"Il mio ragazzo, Cameron", mi present� pap�, mentre cercavo di togliermi la terra
dai capelli. Sembrava addirittura apprezzare vagamente il fatto di avermi intorno.
"'Giorno", salutai quando fui davanti a loro, e poi pap� port� i genitori a vedere
quello che avevamo fatto. Stavano ampliando parecchio la costruzione, e il cortile
si sarebbe ridotto. Ma era una bella casa.
La ragazza.
"Rebecca", mi aveva detto sua madre.
Mentre lei e il marito erano con mio padre, noi due restammo da soli.
Che cosa avrei dovuto fare?
Parlare?
Aspettare?
Sedermi?
Alla fine, rimanemmo l� un momento, e poi andammo a sederci sulle sedie a sdraio.
Io distolsi lo sguardo, lo riportai su di lei e lo distolsi ancora.
Che animale.
Ero un genio con le donne, eh?
Quando ormai era quasi troppo tardi (gli adulti stavano per tornare) mormorai, con
una voce da schizzato: "Mi piace lavorare qui", e dopo qualche istante di silenzio
scoppiammo a ridere tutti e due e pensammo: Che cosa assurda da dire. Mi piace
lavorare qui. Mi piace lavorare qui. Mi piace. Lavorare qui. Mi. Piace lavorare
qui.
Mentre ripetevo quella frase dentro di me, mi domandai se lei capisse che cosa
significava.
Credo di s�.
Rebecca.
Bel nome. La sua espressione tranquilla mi piaceva, ma mi piaceva ancora di pi� la
sua voce. Mi era rimasta impressa, e lasciai che risuonasse nella mia mente.
Soltanto quel "ciao". Patetico, lo so, ma quando la tua esperienza con le donne �
praticamente pari a zero, come nel mio caso, qualunque cosa � ben accetta.
Quel "ciao" rest� con me per tutto il pomeriggio. E lavorare quasi non mi cost�
fatica, perch� adesso avevo lei. Avevo la sua voce, e la realt� di quell'incontro,
che non mi facevano sentire pi� niente, nemmeno le vesciche che si stavano formando
alla base delle dita. Rebecca riusc� addirittura a smussare la lama che da quella
mattina cercava la mia spina dorsale.
"Ciao", aveva detto. "Ciao", e poi aveva riso con me per qualcosa di stupido. In
passato, era capitato che qualche ragazza avesse riso di me, ma era raro per il
sottoscritto ridere con qualcuna. Era raro sentirmi ok con un'intera citt� sopra le
spalle, e con il viso di una ragazza cos� vicino al mio. Respirava, ci vedeva, ed
era reale. Era questa la cosa migliore. Pi� reale dell'infermiera del dentista,
perch� non stava dietro a un bancone, e non era pagata per essere amichevole. Ed
era senz'altro pi� reale delle donne su quel catalogo, perch� non avrei mai potuto
strapparla come una fotografia. Non avrei mai osato farle del male, offenderla o
nasconderla sotto il mio letto.
Occhi. Occhi vivi. I capelli chiari che le scendevano lungo la schiena. Un
foruncolo su un lato del viso, vicino all'attaccatura dei capelli. Bel collo, belle
spalle. Non era una reginetta di bellezza. Non era una di quelle ragazze� sapete a
quali mi riferisco, no?
Lei era reale.
Dopo mise anche un po' di musica, roba che non mi piaceva granch�, ma che serv� a
renderla ancora pi� reale. L'intera situazione mi strapp� addirittura un sorriso
quando pap� mi rimprover� perch� avevo scavato nel punto sbagliato.
"Scusa, pa'."
"Scava l�."
Mi domando se avesse intuito qualcosa. Ne dubito. Non sembr� aver capito, quando
gli chiesi se saremmo tornati la settimana successiva.
"S�, torneremo", fu la sua risposta, concisa.
"Bene", dissi, ma solo tra me e me.
Poco dopo, gli chiesi ancora: "Come si chiamano queste persone?"
"Conlon."
Rebecca Conlon.
La cosa che pi� mi colp� fu il fatto che all'improvviso cominciai a pregare.
Cominciai a recitare delle preghiere per Rebecca Conlon e la sua famiglia. Era come
se non potessi farne a meno.
"Ti prego, benedici Rebecca Conlon", supplicai pi� volte Dio. "Fa' che stia bene,
ok? Fa' che lei e la sua famiglia stiano bene, questa sera. Non desidero altro. Nel
nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo", e mi facevo il segno della croce
come i cattolici, e non lo sono nemmeno. Non so che cosa sono, in effetti.
Per tutta la settimana seguente continuai a pregare, e cercai di ricordarmi il suo
viso e la sua voce.
"Mi comporterei bene con lei", ripetevo al Signore. "Davvero."
Ero lacerato tra l'amore che provavo per il suo viso e il suo corpo, e quello per
la sua voce. Il viso aveva carattere, certo. Forza. L'amavo. Amavo il suo collo e
la sua gola, le sue spalle, le braccia e le gambe. Amavo tutto di lei� e poi c'era
la voce.
Quella voce che veniva da qualche parte, da un cantuccio che era dentro di lei. Da
un luogo che - almeno cos� speravo - non era visibile a chiunque.
La domanda era: quale parte di lei mi interessa di pi�? L'aspetto fisico, o quella
realt� interiore che sentivo scivolare via?
Iniziai a fare lunghe camminate, solo per pensare a lei; solo per immaginare che
cosa stesse facendo, e per chiedermi se per caso mi pensasse.
Divenne una tortura.
"Dio, lei pensa a me?" domandavo al Signore.
Lui non rispondeva, quindi non lo sapevo. Sapevo soltanto che camminavo
parallelamente al traffico urbano, che mi superava e rideva. Folle di persone
scendevano da autobus e treni, e mi passavano accanto ignorandomi. Non m'importava.
Io avevo Rebecca. Tutto il resto contava poco, per me. Anche a casa, quando
litigavo con Rube, non mi preoccupavo. Continuavo a non preoccuparmi, perch� nei
miei pensieri lei era vicina.
Felicit�.
� quello che provavo?
A volte.
Ma in altri momenti venivo preso a spallate dai dubbi, e da una verit� che mi
diceva che lei non aveva pensato affatto a me. Possibile, perch� le cose non vanno
mai come dovrebbero. Era assolutamente probabile che una ragazza dolce come lei
aspirasse a qualcosa di meglio. Poteva puntare a qualcosa di pi� di un tipo che
progettava rapine ridicole con suo fratello, che si faceva licenziare
dall'edicolante e che metteva in imbarazzo sua madre.
Ogni tanto me la immaginavo nuda, ma mai a lungo. Non la volevo solo cos�. Davvero.
Volevo trovare il luogo da cui veniva la sua voce. Questo volevo. Ed essere carino
con lei. Volevo renderla felice, e supplicavo Dio affinch� me ne desse
l'opportunit�. Ma le suppliche non conducono da nessuna parte. Lo sapevo, per� lo
facevo comunque, mentre contavo le ore che mi separavano dal momento in cui l'avrei
rivista.
Durante quella settimana accaddero delle cose che leggerete nei capitoli
successivi, ma adesso dovrei dirvi che cosa successe quando pap� e io ci
presentammo dai Conlon, il sabato seguente.
And� cos�.
Il cuore mi martellava nel petto.
Una � tornata.
Ci credereste?
Che coraggio.
Avete capito di chi parlo? Di una delle donne di quel catalogo di costumi. Viene da
me, in cucina.
Con aria seducente.
C'� poca luce, l'aria � stantia. Sono sudato.
"Ciao, Cameron." Si sta avvicinando, e adesso scosta una sedia dal tavolo e si
accomoda di fronte a me. Le nostre ginocchia si toccano� per farvi capire a che
distanza ci troviamo. Nel suo sorriso deciso c'� qualcosa. Pericolo? Lussuria?
Erotismo?
Come posso fare un sogno del genere, adesso?
Proprio stanotte?
Dopo quello che sta succedendo ultimamente?
Mi sto prendendo in giro da solo.
� una prova, forse?
Be', qualunque cosa sia, lei si china e si passa la lingua sulle labbra. Indossa un
bikini giallo piuttosto striminzito. Ci credete? Con un dito si accarezza il collo,
e l'unghia � abbastanza corta da non graffiarla. La pelle � liscia, e qualcosa mi
dice di approfittarne, di non farla smettere. Poi sento un'altra voce che urla
silenziosamente, dai miei piedi: mi urla che devo ordinarle di fermarsi. Si fa pi�
forte.
Lei � sopra di me.
Sta respirando.
Sento il suo profumo, sono scosso da un fremito quando i suoi capelli morbidi mi
sfiorano.
Le sue mani mi spogliano, la sua bocca mi prende.
La sento.
Mi prende.
Mi spinge.
Preme contro di me.
Poi lei cade, lascia che i suoi denti mi tocchino la pelle della gola. Mi bacia, a
lungo, e la sua lingua mi sfiora�
Io salto.
"Che c'�?"
Sono in piedi.
"Cosa?�" chiede. Ohh�
"Non posso." Le afferro la mano e le confesso la verit�. "Non posso. Proprio non
posso."
"Perch� no?"
I suoi occhi sono di un azzurro infuocato, e per poco non la lascio continuare,
quando comincia ad accarezzarmi la pancia e a cercare il resto di me. La blocco
appena in tempo, e resto stupito da me stesso.
Mi giro dall'altra parte, e le rispondo.
"Ho una persona reale. Una ragazza che non � soltanto�"
"Soltanto che cosa?"
Le dico la verit�: "Soltanto una cosa che desidero sessualmente".
"Io sono solo questo, per te? Una cosa?"
"S�", ammetto, e in quel momento lei cambia. Diventa una specie di fantasma.
Allungo un braccio per toccarla e la attraverso con la mano. "Vedi?" le spiego.
"Guardami. Un ragazzo come me non pu� toccare una come te. � cos� e basta."
Quando svanisce del tutto, mi rendo conto che la mia realt� non � la ragazza del
catalogo o la reginetta di bellezza della scuola; niente del genere. La mia realt�
� la ragazza reale, alla sua sinistra.
La modella di costumi ha lasciato la borsetta sul tavolo. Mi alzo per prenderla, ma
non la apro per paura che mi esploda in faccia.
La reginetta di bellezza: la desidero.
La ragazza reale: desidero farla felice.
Il sogno � completo.

6.

Ricordate quando ho detto che mi era piaciuto guardare Sarah e Bruce che
camminavano lungo la nostra via, quella domenica sera?
Be', durante la settimana successiva, apparentemente cambi� tutto.
Ci fu anche un altro cambiamento, perch� Steve, che di solito non tornava
dall'ufficio prima delle otto di sera, era a casa. Il motivo era che il giorno
precedente si era preso una storta, giocando a football. Nulla di serio, ci aveva
assicurato, ma luned� mattina si era svegliato con una caviglia grossa quanto la
palla che si usa nel lancio del peso. Per il dottore non avrebbe potuto giocare per
sei settimane, per via di un danno ai legamenti.
"Entro un mese sar� di nuovo in campo, state a vedere."
Era seduto sul pavimento con il piede sostenuto da alcuni cuscini, le stampelle l�
accanto. Sarebbe rimasto a casa due settimane, poich� il suo capo gli aveva dato
met� delle ferie anticipate. E Steve era furioso, non solo perch� in estate non
avrebbe avuto tutte le vacanze, ma perch� detestava starsene fermo a far niente.
Il suo malumore non creava una bella atmosfera in salotto, per Sarah e Bruce.
Marted�, anzich� darci dentro avvinghiati l'una all'altro come al solito,
sembravano incollati al divano dalla tensione.
"Annusa questo cuscino", mi istru� Rube a un certo punto, mentre guardavo quei due
nonostante mi stessi sforzando di non farlo.
"Perch�?"
"Perch� puzza."
"Non mi va."
"Fallo." La sua faccia barbuta si avvicin�, minacciosa, e capii che non avrebbe
accettato un no come risposta.
Mi lanci� il cuscino, e io avrei dovuto prenderlo, sbattermelo sul viso e dirgli se
puzzava. Rube mi faceva fare sempre cose del genere, cose apparentemente ridicole e
senza senso.
"Avanti!"
"Ok, ok!"
"Annusalo, e dimmi se non puzza come il pigiama di Steve."
"Il pigiama di Steve?"
"Esatto."
"Il mio pigiama non puzza." Steve lo fulmin� con un'occhiata.
"Il mio s�", scherzai. Nessuno rise alla mia battuta. Cos� mi voltai di nuovo verso
Rube.
"Tu come fai a sapere che odore ha?" gli chiesi. "Te ne vai in giro ad annusare i
pigiami degli altri? Sei un maledetto annusatore di pigiami, o qualcosa del
genere?"
Rube mi fiss�, impassibile. "Lo senti quando ti passa accanto. Adesso annusa!"
Annusai, e dovetti ammettere che il cuscino non aveva la fragranza di una rosa.
"Te l'avevo detto."
"Fantastico."
Glielo restituii, e Rube lo lanci� al suo posto. Questo era mio fratello. Il
cuscino puzzava. Lui lo sapeva ed era preoccupato. Era disposto a parlarne, ma una
cosa era sicura: non l'avrebbe mai lavato. Eccolo l�, di nuovo in un angolo del
divano, puzzolente. Ne avvertivo ancora l'odore, adesso, ma solo perch� Rube aveva
tirato fuori l'argomento. Probabilmente era solo la mia immaginazione. Grazie,
Rube.
A rendere la situazione pi� imbarazzante c'era il fatto che di solito Sarah e
Bruce, se non erano avvinghiati l'uno all'altra, partecipavano alla conversazione,
anche se stupida. Quel giorno, invece, Bruce non disse niente. Rimasero entrambi
seduti a guardare il film che avevano noleggiato. Senza proferire parola.
Sarebbe meglio sottolineare che, mentre accadeva tutto ci�, io pregavo per Rebecca
Conlon e la sua famiglia. E questo mi port� a farlo anche per la nostra. Pregai di
non deludere pi� mamma, pregai che pap� non si ammazzasse di lavoro prima di aver
compiuto quarantacinque anni. Pregai per la caviglia di Steve. Pregai che Rube
combinasse qualcosa, prima o poi. Pregai che Sarah stesse bene, e che tra lei e
Bruce fosse tutto ok. Che fosse tutto ok. Tutto ok. Era un'espressione che usavo
spesso. La usai anche quando cominciai a pregare per l'intera, stupida razza umana,
e per chiunque in quel preciso momento stesse soffrendo, o morendo di fame, o
esalando l'ultimo respiro, o subendo uno stupro.
Fa' che sia tutto ok, chiedevo a Dio. Per le persone che hanno l'AIDS, o roba
simile. E per quei senzatetto con la barba, vestiti di stracci, con le scarpe rotte
e i denti marci. Fa' che sia tutto ok� Ma soprattutto, fa' che sia tutto ok per
Rebecca Conlon.
Questa storia stava iniziando a farmi impazzire.
Sul serio.
Quando ero sicuro che Sarah e Bruce non mi stessero guardando, li osservavo e mi
domandavo com'era possibile che solo pochi giorni, pochi settimane prima fossero
stati avvinghiati l'una all'altro, ogni minuto.
Come poteva succedere?
La cosa mi spaventava.
Dio, ti prego, proteggi Rebecca Conlon. Fa' che sia tutto ok�
Com'era possibile che cambiasse tutto cos�, da un istante all'altro?
Pi� tardi, quando fui di nuovo in camera mia, sentii il brusio delle loro voci al
di l� della parete, in camera di Sarah. La citt� era buia, a parte le luci dei
palazzi che apparivano simili a piaghe a mostrarne la pelle� come se qualcuno o
qualcosa avesse strappato dei cerotti.
L'unica cosa che sembrava non cambiare mai era la citt� stessa, in quel momento di
transizione tra il pomeriggio e la sera. Diventava sempre tenebrosa, distaccata,
ignara di quanto accadeva. C'erano migliaia di case, e in ognuna di esse stava
succedendo qualcosa. In ognuna di esse si stava dipanando una storia, indipendente
dalle altre. Nessun altro sapeva. A nessun altro importava. Nessun altro sapeva di
Sarah Wolfe e Bruce Patterson, n� gli importava della caviglia di Steven Wolfe.
Nessun altro pregava in continuazione per loro, n� per Rebecca Conlon. Nessuno.
Capii di essere l'unico a preoccuparsi di quello che stava avvenendo, entro le
pareti della mia vita. Le altre persone avevano mondi diversi - i loro mondi - di
cui preoccuparsi, e alla fine dovevano badare a se stesse, proprio come noi.
Non stavo concludendo niente.
Pregavo.
Mi preoccupavo per Sarah.
Pregavo come un pazzo farneticante.
Questo capitolo � piuttosto breve, ma se l'avessi allungato sarei stato un
bugiardo.
Ci� che ricordo, di quella sera, sono le preghiere, la discussione sul cuscino
puzzolente, la caviglia di Steve, la tensione tra Sarah e Bruce.
E la citt� che continuava a esistere, l� fuori. S�, ricordo anche quella.
Il futuro.
� ora di rilassarsi.
Siamo al confine della citt�. Siamo vicinissimi, sembra quasi che basti allungarsi
un po' per toccare gli edifici� per infilarvi una mano e spegnere le luci che
tentano di abbagliarci.
Stiamo pescando, io e Rube.
� la prima volta che andiamo a pesca, ma abbiamo deciso di passare la serata cos�.
Le nostre lenze penzolano in un enorme lago azzurro su cui sta calando l'oscurit�,
e su cui si riflettono le stelle nascenti.
L'acqua � calma, ma viva. La sentiamo, si agita sotto la vecchia barca malandata
che abbiamo noleggiato da un imbroglione sulla spiaggia. Di tanto in tanto, si
sposta. All'inizio non abbiamo paura; anche se nulla � mai stato del tutto stabile,
sappiamo dove siamo, e le cose non si stanno muovendo con troppa rapidit�.
Non prendiamo.
Niente.
Assolutamente. Niente.
"Siamo senza speranza", commenta Rube, che parla per primo.
"Te l'avevo detto che non saremmo dovuti andare a pesca. Chi lo sa che cosa c'� in
questo lago?"
"Anime morte della citt�." Rube sorride, e nel suo sorriso c'� una gioia
sarcastica. "Che cosa facciamo se una abbocca all'amo?"
"Abbandoniamo la nave, fratello."
"Hai ragione."
L'acqua si muove ancora, e lentamente cominciano ad arrivare le onde, anche se non
riusciamo a vedere da dove provengano. Si gonfiano e saltano a bordo, e diventano
sempre pi� minacciose.
Sento un odore.
"Un odore?"
"S�, tu non lo senti?" chiedo a Rube, e dal tono suona come un'accusa.
"In effetti s�, ora che me l'hai fatto notare."
L'acqua � troppo alta, adesso, solleva la barca con noi dentro e poi ci lascia
cadere. Un'onda mi investe il viso, riempiendomi la bocca. Il sapore � grottesco,
brucia, e dalla faccia di Rube comprendo che ne ha inghiottita un po' anche lui.
"� petrolio", mi dice.
"Oh, Dio."
Le onde cominciano a calare, e io mi volto verso una barca pi� vicina alla citt�,
vicino alla costa. Sopra c'� un tizio, con una ragazza. Lui scende a terra, e in
mano ha qualcosa.
Qualcosa che� brilla.
"No!" Mi alzo e allargo le braccia.
Ma non serve a niente. Lui si accende una sigaretta.
E poi vedo una persona che gira per la baia, concentrata. Chi �? mi domando, e su
un'altra barca ancora ci sono un uomo e una donna di mezza et�, che stanno remando.
Il tizio getta la sigaretta in acqua.
Fiammate rosse e gialle mi entrano negli occhi.
Oblio.

7.
Il gioved� di quella settimana, Rube mi convinse con l'inganno a partecipare a un
nuovo esodo� ad abbandonare le nostre consuete spedizioni a scopo di rapina.
Cartelli stradali.
Era questo il nuovo piano.
Era ancora pomeriggio quando gli venne l'idea, e mi spieg� quale intendeva rubare.
"Il �dare la precedenza'. In Marshall Street." Sorrise. "Usciamo di nascosto
intorno alle undici, con una chiave di pap� quella che si adatta strofinandoci un
affare sopra�"
"La chiave inglese regolabile?"
"S�, quella� Ci tiriamo su il cappuccio, camminiamo come se niente fosse, tipo Mark
Waugh alla battuta, poi io salgo sulle tue spalle e ci prendiamo il cartello."
"Per farci che?"
"Che cosa significa �per farci che'?"
"A che scopo dovremmo prenderlo?"
"Scopo?" Rube era� qual � l'aggettivo giusto? Esasperato, ecco. Frustrato. "Non ci
serve uno scopo, bello. Siamo minorenni, siamo sporchi, non abbiamo una ragazza,
abbiamo il moccio al naso, la gola in fiamme, siamo coperti di croste, l'acne ci
perseguita, non abbiamo una ragazza - l'ho gi� detto? -, siamo due squattrinati,
mangiamo quasi tutte le sere carne e funghi trifolati affogati nel sugo di pomodoro
per non sentirne il gusto. Serve qualche altra motivazione?" Gett� la testa
all'indietro, sul letto, e fiss� disperatamente il soffitto. "Non chiediamo molto,
santo Dio! Lo sai!"
Dunque era questa.
La missione successiva.
Giuro, quella sera eravamo due selvaggi, esattamente come Rube ci aveva descritti
nel suo sfogo. Rimasi scioccato all'idea che ci conoscesse cos� bene. Come io ci
conoscevo. Ma Rube ne era orgoglioso.
Forse non sapevamo chi eravamo, per� di certo sapevamo che cosa eravamo, e questo
per Rube significava che compiere atti vandalici - come rubare cartelli stradali -
era la cosa logica da fare. Di sicuro non gli andava di pensare che saremmo potuti
finire in cella, se non fossimo stati prudenti.
Ovviamente eravamo consapevoli di non avere nessuna possibilit� di successo.
L'unico problema � che ci provammo comunque.
Ce la svignammo dalla porta sul retro quando mancava un quarto d'ora alla
mezzanotte, con il cappuccio calato sulla fronte e i passi che ci portavano avanti.
Camminavamo piano, addirittura con un atteggiamento da duri, il fiato che formava
una nuvola uscendo dalla bocca, le mani in tasca, e con sussurri di grandezza
infilati nei calzini. Annusando e respirando squarciavamo l'aria davanti a noi, e
io mi sentivo un po' come quel tale, Giulio Cesare, che partiva per conquistare un
altro impero� mentre stavamo solo andando a rubare un penoso triangolo grigio e
rosa che sarebbe dovuto essere bianco e rosso.
Dare la precedenza.
"Io direi piuttosto �dare in beneficenza', visto com'� ridotto", ridacchi� Rube
appena arrivammo sul posto. Poi prov� a montarmi sulle spalle, scivol� e riprov�.
"Ok", sussurr� quando ebbe trovato l'equilibrio. "Chiave."
"Eh?"
"Chiave, stupido." Il suo bisbiglio usc� aspro, e form� del fumo fitto nell'aria
fredda.
"Oh, giusto. Me n'ero scordato."
Gli passai la chiave, e lui cominci� a svitare il cartello all'incrocio tra
Marshall e Carlisle Street.
"Cristo, questo maledetto affare � durissimo", imprec�. "C'� talmente tanta ruggine
sul bullone che resta attaccata al dado. Continua a tenermi, ok?"
"Inizio a essere stanco", accennai.
"Be', devi superarla. La barriera del dolore. Coraggio, ragazzo. Tutti i grandi lo
fanno."
"I grandi che? Ladri di cartelli stradali?"
"No", rispose tagliente. "Gli atleti, teppista!"
E poi giunse un'esclamazione di trionfo.
"S�", annunci� Rube. "Ce l'ho fatta." Salt� gi� dalle mie spalle con il cartello, e
in quel momento si accese una luce in uno degli appartamenti del condominio
fatiscente all'angolo della strada.
Una donna usc� sul balcone e sospirando ci rimprover�: "Ah, ma quand'� che
crescerete?"
"Andiamo." Rube mi stratton� per il maglione. "Andiamo, andiamo, andiamo!"
E corremmo via ridendo, con Rube che teneva il cartello sollevato sopra la testa, e
gridava: "Oh, s�!"
Quando rientrammo in casa, sentivo ancora l'adrenalina scorrermi nelle vene. Poi,
in camera nostra, svan� lentamente. Rube spense subito la luce, fece scivolare il
cartello sotto il suo letto e mi minacci�, tanto per ridere: "Dillo a mamma o a
pap�, e giuro che te lo ficco in gola". Ridacchiai, e poco dopo mi addormentai,
cullato da voci gentili di donne che sospiravano davanti a spettacoli spiacevoli,
nel cuore della notte. Pensai anche a Rebecca Conlon, prima di crollare, e ricordai
che in alcuni momenti, mentre camminavamo per strada e mentre rubavamo il cartello,
avevo finto che lei mi stesse osservando. Difficile dire se le sarei piaciuto, o se
mi avrebbe trovato un perfetto idiota. Pi� probabile la seconda.
"Ah be'", sussurrai tra me e me, sotto le coperte. "Ah, be'." E cominciai a pregare
per lei e per tutte le persone per cui avevo pregato ultimamente. Avevo ceduto al
sonno da poco, quando feci un sogno. Un brutto sogno. Un vero e proprio incubo.
Presto lo vedrete�
L'indomani mattina, Rube tir� fuori il cartello per ammirarlo in tutta
tranquillit�, in camera nostra. Io stavo tornando dal bagno, dove mi ero appena
fatto una doccia.
"Una meraviglia, eh?" mi disse.
"Gi�." Ma non ero troppo entusiasta.
"Che ti prende?"
"Niente." Era colpa dell'incubo.
"Ok." Mise via il cartello e fece capolino in corridoio. "Ehi", esclam�, "hai di
nuovo lasciato aperta la porta del bagno� l'hai fatto apposta, perch� entrasse il
freddo ora che devo lavarmi io?"
"Me ne sono dimenticato."
"Be', vedi di tenerlo a mente, la prossima volta."
Si allontan�, ma io dopo poco lo seguii, con i capelli bagnati che si sollevavano
in tutte le direzioni.
"Aspetta, devo dirti una cosa."
"Ok." Sentii l'acqua della doccia che scorreva, la serratura che si apriva, la
tenda che veniva tirata, e poi la sua voce: "Entra!"
Entrai e andai a sedermi sul water, chiuso.
"Allora?" mi chiese. "Di che si tratta?"
Cominciai a raccontargli il mio brutto sogno, e nel caldo del bagno avvertii un
altro tipo di calore, ancora pi� forte, che sembrava venire da me. Mi occorsero un
paio di minuti per spiegargli tutto.
Alla fine, lui mi disse: "E quindi?" Il vapore si stava infittendo.
"Che cosa facciamo?"
L'acqua della doccia si ferm�.
Rube sbuc� dalla tenda.
"Passami quell'asciugamano."
Obbedii.
Mio fratello si asciug� e usc�, aprendosi un varco nel vapore con questa frase:
"Be', � senz'altro un sogno angosciante, bello".
Non poteva neanche lontanamente immaginare quanto. Ero stato io a farlo. Ero stato
io a credervi. Io a�
Mettere fine.
A tutto questo.
No�
Ero stato io a svegliarmi nell'oscurit� del nostro trionfo, sudato fradicio, con un
urlo silenzioso sulle labbra.
E adesso, in bagno, suggerii: "Dobbiamo rimettere quel cartello al suo posto".
Ma Rube aveva altre idee, al riguardo. O almeno all'inizio.
Si avvicin� e propose: "Possiamo chiamare l'ente che fa manutenzione alle strade e
dire che bisogna sostituirlo".
"Ma ci impiegheranno settimane."
Rube fece una pausa, e poi disse: "S�, giusto". Infelicit�. "Le condizioni delle
strade, da queste parti, sono una vergogna per l'intera nazione."
"Quindi che si fa?" gli chiesi ancora. Ora mi stavo preoccupando sul serio, per la
sicurezza della gente in generale, e anche perch� pi� o meno un anno prima avevo
visto un servizio al telegiornale su dei ragazzi americani che si erano beccati
vent'anni per aver rubato un cartello, causando un incidente mortale. Cercatelo in
internet, se non mi credete. � successo davvero.
"Cosa facciamo?"
Per tutta risposta� Rube non mi rispose subito.
Usc� dal bagno, si vest� e poi si nascose la testa tra le mani, mentre si sedeva
sul mio letto.
"Che altro possiamo fare?" mi domand�, la voce quasi supplichevole. "Lo rimettiamo
al suo posto, suppongo."
"Davvero?"
Eravamo due selvaggi, s�.
Due selvaggi spaventati.
"S�." Era disperato. "S�. Lo rimettiamo al suo posto." Sembrava quasi che avessero
rubato qualcosa a lui� ma che cosa? Perch� aveva bisogno di prendersi ci� che non
gli apparteneva? Voleva solo sapere che cosa si provava a infrangere le regole, e a
godere nel comportarsi male? Forse Rube si sentiva un fallito, e rubando voleva
dimostrare qualcosa a se stesso. Forse voleva essere come l'eroe di quei film
americani che guardiamo in tv. Francamente, non avevo idea di che cosa gli passasse
per la testa, fine della storia.
Prima di andare a scuola, tir� fuori il cartello e gli rivolse un'ultima occhiata,
triste e adorante.
Quella sera, era un venerd�, intorno alle undici andammo a rimetterlo al suo posto,
e grazie a Dio non ci vide nessuno. La situazione sarebbe stata piuttosto ironica:
farci beccare per aver rubato un cartello, mentre in realt� lo stavamo restituendo
alla citt�.
"Bene", disse mio fratello, una volta arrivati a casa. "Siamo tornati a mani vuote,
come al solito."
"Mmm." In quel momento, non mi veniva nemmeno una parola.
Una cosa che non scorder� mai di quella notte � che, quando rincasammo, Steve era
fuori, al freddo. Le stampelle erano poco distanti, perch� la caviglia era ancora
messa male. Era seduto sulla nostra vecchia veranda, con una tazza appoggiata sulla
balaustra.
E, mentre costeggiavamo furtivamente un lato della casa, in pratica ignorandolo,
sentii la sua voce.
E tornai indietro.
"Cosa?" domandai, in tono assolutamente normale, come se m'interessasse quello che
aveva detto.
E lui lo ripet�.
"Non riesco a credere che siamo fratelli."
Scosse la testa.
E poi parl� ancora.
"Siete due perdenti."
Se volete la verit�, a farmi male fu il tono vuoto con cui lo disse. Sembrava quasi
che ci trovassimo talmente in basso, rispetto a lui, che non gli sarebbe potuto
importare di meno di quello che combinavamo. Poi, pensando a ci� che avevamo appena
fatto, riuscii quasi a capire il suo punto di vista. Come poteva Steven Wolfe avere
il nostro stesso sangue? Il nostro e quello di Sarah, del resto.
Ciononostante, mi fermai solo un attimo prima di andare via, mentre un rumore acuto
che sentivo dentro di me mi apriva la testa a met�. Era simile a un piagnucolio,
come se qualcosa nel mio cervello fosse rimasto ferito.
Tornati in camera nostra, chiesi a Rube in che punto della parete aveva pensato di
appendere il cartello. Forse lo feci per dimenticare quello che Steve mi aveva
detto poco prima.
"Qui?"
"Nah."
"Qui?"
"Nah."
"Qui?"
Dovetti aspettare parecchio per avere una risposta, e quella sera la luce rest�
accesa a lungo, mentre Rube rifletteva su cose che non avrei mai saputo. Se ne
stava sdraiato sul letto, ad accarezzarsi con delicatezza la barba, come se non gli
fosse rimasto altro.
Quando mi fui disteso sul letto anch'io, pensai intensamente al fatto che il giorno
dopo sarei tornato a lavorare dai Conlon. Da Rebecca Conlon. Avevo avuto
l'impressione che quel momento non sarebbe mai arrivato, e invece l'indomani sarei
tornato l�. Scordatomi di Rube e di Steve, fui invaso da una bella sensazione: ero
vivo, con la coscienza libera, in attesa di una ragazza per cui valeva la pena di
pregare.
Dopo un bel po', Rube fece un'affermazione.
"Cameron. Quel cartello non l'avrei appeso da nessuna parte."
Mi voltai dalla sua parte. "Perch� no?"
"Lo sai perch�", mi rispose, lo sguardo fisso sul soffitto, muovendo soltanto le
labbra. "Perch�, se l'avesse visto mamma, mi avrebbe ucciso all'istante."
C'� un'auto che vaga per la citt�. � arancione, grande, e fa quel rumore forte e
minaccioso che fanno macchine del genere. Percorre le strade rombando, anche se si
ferma sempre ai semafori rossi, agli stop e simili.
Cambio di scena.
Rube e io stiamo camminando, fuori dal cancello davanti a casa, teoricamente per
andare alla partita di Steve, anche se sono circa le due del mattino. Fa freddo.
Avete presente quel freddo malato? Quel freddo che, non so come, respira. Si scava
una via nella bocca, brusco, nocivo.
Una domanda.
Rube: "Pensi mai di suonarle al vecchio?"
"Al nostro?"
"Certo."
"Perch�?"
"Non lo so� non credi che sarebbe divertente?"
"No, non credo."
Dopo restiamo in silenzio, e continuiamo a camminare. Trasciniamo i piedi, ogni
tanto ci passa accanto una macchina. I taxi ci superano e sbandano, un camion della
nettezza urbana arranca per il peso eccessivo. L'auto arancione sfreccia,
ringhiando.
"Idioti", fa Rube.
"Decisamente."
Mentre lo dice, la macchina sfreccia e la sentiamo allontanarsi� ma un attimo dopo
torna indietro da una strada laterale, e ce la ritroviamo alle spalle.
Cambio di scena.
Rube e io siamo all'angolo tra Marshall e Carlisle Street. Rube si accovaccia. Si
avvicina un'auto che, a giudicare dal motore, non camminer� ancora a lungo. Si
accovaccia, e tiene tra le gambe il cartello che abbiamo rubato. Mi accorgo che il
palo � spoglio. � solo un palo piantato nel cemento.
Ed ecco.
L'auto arancione risale Marshall Street, quasi alimentata dalla sua stessa
velocit�, avida.
Quando ci raggiunge, sta praticamente volando.
Non c'� nessun cartello.
Nessuno.
Ci supera rapidissima e, mentre chiudo gli occhi di colpo, sento un rumore di
metallo che si avvolge attorno ad altro metallo, un urlo, e una pioggia ritardata
di vetri infranti.
Rube � accovacciato.
Io sono in piedi, gli occhi ancora chiusi.
Il silenzio mormora qualcosa.
� dappertutto.
Sollevo le palpebre, e ci avviamo.
Rube lascia cadere il cartello e lentamente, in preda a un panico che ci fa
tremare, andiamo verso le auto che paiono essersi aggredite, mordendosi.
Gli occupanti� � come se fossero stati inghiottiti.
Sono morti, coperti di sangue, mutilati.
Sono morti.
"Sono morti!" urlo a Rube, ma dalla mia bocca non esce niente. La voce non c'�.
Poi, un cadavere si alza.
Quegli occhi sembrano prendermi a pugni e, quando la persona grida, il suono nelle
mie orecchie � insopportabile. Mi costringe a buttarmi a terra, e a premere le mani
contro i lati del viso.

8.

Quando tornai dai Conlon con mio padre, la mattina dopo, il cuore mi batteva cos�
forte che sentivo quasi un dolore fisico. Nella gola mi pompava qualcosa che
favoriva la produzione di saliva. E di domande.
Che cos'avrei detto?
Come mi sarei comportato, quando l'avessi vista?
Sarei stato simpatico?
Calmo?
Indifferente?
Avrei avuto quello stile timido e sensibile che in passato non mi aveva mai
permesso di combinare un accidente?
Non ne avevo idea.
Sul furgone, mentre andavamo l�, temetti di essere sul punto di soffocare. Ecco che
effetto mi faceva quella ragazza. E la sensazione era sempre pi� prepotente via via
che ci avvicinavamo a casa sua. Arrivai addirittura a sperare di trovare un
semaforo rosso, cos� da guadagnare qualche secondo in pi� per riflettere. Buffo.
Avevo avuto l'intera settimana per prepararmi, e adesso che era sabato non sapevo
che fare. Forse ci avevo pensato troppo. Forse avrei dovuto passare meno tempo a
preoccuparmi per Sarah e Bruce, e per Steve, o a rubare cartelli stradali con Rube
per poi rimetterli al loro posto. Allora, forse, la mia situazione personale non ne
avrebbe risentito. E sarebbe andato tutto bene.
Se�
Soltanto�
Ma no, era inutile.
Era tutto perduto.
Quando saremo l�, mi dissi, far� meglio a ficcare la testa nella buca e a scavarne
una per me. Alle ragazze non piacevano quelli come me. Se solo avevano un minimo di
rispetto per se stesse, come facevano anche solo a sopportarmi? Con quei capelli
perennemente in disordine. Le mani e i piedi sporchi. Il sorriso irregolare. La
camminata zoppicante di una persona ansiosa. No, non andava affatto bene. Zero.
Arrivai persino a farmi una ramanzina. Guardiamo in faccia la realt�: tu una
ragazza non la meriti. Giusto. Non la meritavo. Nella migliore delle ipotesi davo
segno di avere un dubbio senso della morale. Mi lasciavo trascinare da mio
fratello. Compivo azioni patetiche, meschine, per una sorta di orgoglio selvaggio
che era talmente ridicolo da sfuggire alla comprensione. Non ero che un ammasso di
cellule disperato e ansimante, che si arrabattava per scovare qualcosa che lo
facesse stare bene�
E poi. All'improvviso.
In un attimo, mi ritrovai a pensare a quanto fosse strano il fatto che non pregassi
mai per me stesso. Forse per me non c'era possibilit� di salvezza? Ero cos� sporco
da non essere degno nemmeno di una preghiera? Forse. Probabile.
Eppure, ho convinto Rube a rimettere a posto il cartello, razionalizzai. Quindi,
forse non ero tanto cattivo.
Ecco, cos� andava un po' meglio� un pensiero positivo, mentre il furgone di pap�
viaggiava rumorosamente per condurmi al mio destino.
Quando ci fermammo davanti alla casa, cominciai addirittura a credere, seppure per
qualche istante fugace, di non essere brutto e pervertito come mi ero considerato
fino a quel momento; e ipotizzai di essere del tutto normale. Mi torn� in mente
quello che mi ero detto il giorno in cui ero entrato nello studio del dentista: che
i ragazzini sono disgustosi, come bestie. Forse, la sfida consisteva nell'elevarsi
al di sopra di quella condizione. Forse era questo che cercavo, con Rebecca Conlon.
L'opportunit� di dimostrare che sapevo essere carino e rispettabile, e non solo un
terribile adolescente fissato con il sesso. Volevo la possibilit� di trattarla
bene, ed ero convinto che non avrei mandato tutto a puttane.
Non potevo.
No, non potevo permetterlo.
"Non mander� tutto a puttane", sussurrai tra me e me, mentre scendevo dal furgone.
Respirai a fondo, come se stessi andando incontro alla cosa pi� importante di tutta
la mia vita. E poi capii. Capii che era davvero la cosa pi� importante della mia
vita.
"Prendi." Mio padre mi pass� un badile, e per tutta la mattina lavorai sodo
aspettando di veder arrivare Rebecca. Poi, da una conversazione tra pap� e sua
madre, scoprii che non c'era. Era rimasta a dormire da un'amica.
"Fantastico", dissi, nello spazio tra la lingua e la gola.
E sapete quale fu la parte peggiore?
Realizzare che, se Rebecca fosse dovuta venire a lavorare da me, io mi sarei
assicurato di esserci, per incontrarla. S�, sarei stato l�. Mi sarei inchiodato al
pavimento due giorni prima, se mi avessero informato del suo arrivo, per essere
sicuro di non perdermela.
"Davvero", confermai a me stesso, senza smettere di lavorare.
E lavorai fino a raggiungere una sorta di torpore. Persino mio padre mi chiese se
stessi bene. Gli risposi di s�, ma sapevamo entrambi che stavo da schifo.
A fine giornata - Rebecca non era ancora tornata - pap� mi diede dieci dollari
extra. "Oggi hai lavorato bene, figliolo", si compliment�. Poi si allontan�, ma
solo per girarsi poco dopo. "Cameron."
"Grazie", dissi e, nonostante gli sforzi, il sorriso che gli rivolsi era
terribilmente infelice.
"L'avrei trattata bene", dissi alla citt� fuori dalla finestra, una volta a casa,
ma non serv� a niente. Alla citt� non importava, e nella stanza accanto Sarah e
Bruce stavano litigando.
Entr� Rube, che si butt� sul suo letto a pancia in gi�. Si mise il cuscino sopra la
testa. "Credo che mi piacessero di pi� quando non facevano che pomiciare", si
lagn�.
"S�, pure a me."
Mi buttai sul letto anch'io, ma supino, e mi coprii gli occhi con le mani. Mi
schiacciai i bulbi con i pollici fino a vedere dei disegni nel buio.
"Che cosa c'� per cena?" chiesi a Rube, e gi� temevo la risposta.
"Salsicce, mi pare. E funghi avanzati."
"Ah, meraviglioso." Mi girai sul fianco, sofferente. "Meraviglioso, cazzo."
Rube si tolse il cuscino dalla testa e afferm�, serio: "E la salsa di pomodoro �
terminata".
"Ancora meglio."
Allora rimasi in silenzio, ma dentro di me i gemiti non si fermarono. Dopo un po',
stanco, mi dissi: Non preoccuparti, Cameron. Ciascuno di noi ha una possibilit�.
Gi�, ma non quel giorno.
(A proposito, a cena mangiammo i funghi. Abbassammo gli occhi per guardarli, poi li
alzammo. E li abbassammo di nuovo. Disgustosi. Inutile tirarsi indietro. Li
mangiammo perch� eravamo noi, e alla fine mangiavamo tutto. Sempre. Mangiavamo
sempre tutto. Se avessimo vomitato l'intera cena, e ci fosse stata riproposta la
sera dopo, probabilmente avremmo buttato gi� anche quella.)
C'� una gran folla, attorno al combattimento. Gridano, urlano, strillano, mentre i
pugni colpiscono il bersaglio, e modellano le facce cambiando i connotati. � una
folla enorme, ci sono almeno otto file di persone, quindi devo faticare parecchio
per aprirmi un varco.
Mi metto in ginocchio.
Striscio.
Cerco dei buchi tra le gambe e mi ci infilo, finch� non arrivo in prima fila. Sono
davanti. La gente ha formato un cerchio gigantesco, fitto.
"Vai!" sbraita il tizio accanto a me. "Picchia duro!"
Ma io guardo la folla. Non il combattimento. Non ancora, almeno.
Ci sono uomini d'ogni genere. Magri. Grassi. Neri. Bianchi. Gialli. Hanno tutti gli
occhi fissi sul centro del ring, e urlano.
Quello pi� vicino a me non fa che strillarmi nell'orecchio, la sua voce mi trapana
il cranio per arrivare al cervello. La sento nei polmoni. Questo per darvi un'idea
del volume. Non c'� niente che lo fermi, nemmeno quelli dietro che lo insultano per
farlo stare zitto. Non serve a nulla.
Provo a zittirlo io, facendogli una domanda - un urlo che si leva al di sopra della
folla. "Per chi tifi?"
Lui tace, immediatamente.
Guarda fisso.
Il combattimento. Poi me.
Passa qualche altro secondo, e poi dice: "Per il perdente� per forza". Fa una
risatina, comprensivo. "Devo tifare per chi sta perdendo."
Solo allora mi giro verso il ring, per la prima volta.
"Ehi."
C'� qualcosa di strano.
"Ehi", dico ancora a quel tipo, perch� al centro del cerchio enorme, chiassoso e
pulsante c'� un solo sfidante. Un ragazzo. Un ragazzo che mena pugni alla cieca, si
sposta, para e colpisce il niente. "Ehi, com'� che c'� un solo sfidante?" Lo chiedo
di nuovo al mio vicino.
Ma questa volta lui non mi guarda. Resta concentrato sul ragazzo, impegnato a
combattere con una tale intensit� che nessuno riesce a togliergli gli occhi di
dosso.
Poi mi parla.
Una risposta.
"Sta lottando contro il mondo." E poi guardo il perdente al centro del cerchio, che
continua a battersi, resta in piedi, cade e si solleva di nuovo, per poi
ricominciare. Continua a combattere, senza badare alle volte che finisce al
tappeto. Si rialza sempre. Qualcuno lo incita. Altri ridono e lo bersagliano di
rifiuti.
Una sensazione nasce dentro di me.
Guardo.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime, mi bruciano.
"Pu� farcela?"
Lo chiedo ad alta voce, e adesso neanch'io riesco a smettere di fissarlo.

9.

La domenica, Rube prese un'altra batosta sul campo di football, la squadra di Steve
perse - senza di lui - e io vagai per le strade della citt�. Non avevo voglia di
andare a casa. Capita. Avete presente, no? Era giunto il momento di fare il
bilancio.
All'inizio lasciai che i tristi eventi del giorno prima offuscassero il mio
cammino. Ero oltre il campo di football, mi stavo addentrando nella citt�, e devo
dirvi che in giro c'erano tante di quelle persone strambe che, quando entrai a
casa, fui davvero felice di esserci tornato.
Indossavo jeans e anfibi, e quella mattina mi ero fatto una doccia e mi ero lavato
i capelli. Li sentivo sollevarsi in quel loro modo incontrollabile, come se
volessero smascherarmi, ma essere pulito mi comunicava una piacevole sensazione.
Forse il vecchio ha ragione, mi dissi. Tutto quel gran parlare del fatto che siamo
sporchi, che siamo una disgrazia� Suppongo sia ok sentirsi puliti.
Mi lasciai alle spalle i soliti negozi. Bar, fish and chips. Superai anche un
barbiere, dove un tizio calvo stava tagliando i ricci di un cliente con una ferocia
che mi spavent�. Mi capita sempre di vedere cose del genere: delicate molestie nei
confronti di un essere umano, che mi fanno inciampare o perdere l'equilibrio per la
sorpresa. Quando non mi fanno agitare, mettendomi in imbarazzo. Quel giorno,
d'impulso provai a schiacciarmi i capelli, che per� tornarono subito a rizzarsi.
Alla fine, quella giornata e quella camminata non portarono al processo di
ringiovanimento in cui avevo sperato.
Proseguii.
L'avete mai fatto?
Avete mai camminato� tanto per farlo?
Senza avere idea di dove state andando?
La sensazione che provavo non era bella, ma nemmeno brutta. Mi sentivo in gabbia e
libero al tempo stesso, quasi che il fatto di non stare n� alla grande n� da schifo
dipendesse soltanto da me. Come sempre, il traffico della domenica mi riecheggiava
intorno, accrescendo la mia impressione di non appartenere a nessun posto. Non
c'era niente di fisso. Tutto era in movimento. Si trasformava in qualcosa.
Esattamente come me.
Da quando provavo dei sentimenti per una ragazza?
Da quando m'importava di mia sorella, e di quello che stava succedendo nella sua
vita?
Da quando mi preoccupavo di ci� che passava per la testa a mio fratello Rube?
Da quando ascoltavo Steve il Vincente, e davo peso al fatto che potesse
disprezzarmi?
Da quando vagavo senza meta? Da quando mi aggiravo per le strade quasi
furtivamente?
E poi capii.
Io ero solo.
Gi�, solo.
Inutile negarlo.
Era cos� di sicuro.
Vedete, in vita mia non avevo mai avuto molti amici. A parte Greg Fienni, non avevo
mai avuto degli amici veri. Me ne stavo per i fatti miei. Odiavo questa cosa, ma ne
andavo anche fiero. Cameron Wolfe non aveva bisogno di nessuno. Non aveva bisogno
di contare su un branco. Non tutti sono uguali, non tutti se ne vanno in giro in
gruppo. No, a lui bastava il suo istinto. Aveva bisogno soltanto di se stesso, e
poteva sopravvivere a incontri di boxe nel cortile dietro casa, a rapine e a
qualunque altra azione vergognosa fosse capitata lungo il mio cammino. Allora
perch� adesso mi sentivo cos� strano?
Siamo onesti.
Doveva essere per via di quella ragazza.
Per forza.
No.
Doveva essere un po' per tutto.
Perch� quella era la mia vita.
E si stava complicando.
La mia vita. Mentre passeggiavo in quella strada dove tutti andavano di fretta,
vedevo il cielo sopra di me. E poi edifici, appartamenti squallidi, un sudicio
negozio di sigari, un altro barbiere, fili elettrici, rifiuti nei canali di scolo.
Un disperato mi chiese qualche spicciolo, ma non ne avevo. La citt� era
tutt'attorno a me, inspirava ed espirava come i polmoni di un fumatore.
Mi fermai quasi all'istante, non appena mi resi conto di non provare pi� nulla di
positivo. Forse la positivit� era sgattaiolata fuori dal sottoscritto ed era finita
nelle mani del derelitto di poco prima. Forse era sparita da qualche parte nella
pancia, e non me n'ero neppure accorto. Adesso c'era solo quest'ansia che non
riuscivo a spiegare. Che brutto spettacolo. Che sensazione tremenda. Era davvero
terribile. Un ragazzino pelle e ossa, che se ne stava l� tutto solo. Era la fine.
Ero solo, e non mi sentivo nemmeno pronto per gestire la situazione.
All'improvviso� esatto, all'improvviso non mi sentivo in grado di gestire quella
sensazione di solitudine.
Sarebbe stato cos� per sempre?
Avrei dovuto convivere per sempre con quel senso di insicurezza? Con quei dubbi
sulla civilt� che mi circondava? Mi sarei sempre sentito tanto piccolo da provare
dolore? Al punto che anche l'urlo pi� fragoroso uscito dalla mia gola sarebbe
suonato come un piagnucolio? I miei passi si sarebbero fermati sempre cos�,
bruscamente, per affondare nel marciapiede?
Sarebbe stato cos� per sempre?
Per l'eternit�?
Eh?
Era una tragedia, ma liberai i piedi che erano sprofondati nel terreno e continuai
a camminare.
Non pensare, mi dissi. Non pensare a niente. Per� anche il niente era qualcosa. Era
un pensiero. S�, era un pensiero, e i canali di scolo erano ancora pieni dei
rifiuti usciti dall'intestino della citt�.
Non credevo di potercela fare, ma andai avanti comunque, cercando di farmi venire
una nuova idea che potesse migliorare le cose.
Non puoi preoccuparti cos�, mi rimproverai pi� tardi, quando ebbi raggiunto la
Stazione Centrale. Ciondolai per un po' nell'edicola, guardando Rolling Stone e
altre riviste. Era una perdita di tempo, ma non mi importava. Se avessi avuto con
me dei soldi, avrei preso il treno fino al molo, solo per guardare il ponte,
l'acqua e le barche. Magari l� ci sarebbe stato un mimo, o qualche altro povero
idiota a cui comunque non avrei potuto dare nemmeno una moneta perch� non ne avevo.
Del resto, se avessi avuto i soldi per il treno, forse li avrei avuti anche per un
umile artista di strada. E magari mi sarei fatto anche un giro in traghetto. Forse.
Forse�
La parola forse stava cominciando a seccarmi, perch� l'unica cosa certa era che mi
avrebbe accompagnato per sempre.
Forse quella ragazza aveva qualcosa per me. Nel suo cuore.
Forse tra Sarah e Bruce si sarebbe sistemato tutto.
Forse Steve sarebbe tornato al lavoro e in campo quanto prima. E forse un giorno
avrebbe smesso di guardarmi con disprezzo.
Forse il mio vecchio sarebbe stato orgoglioso di me, magari una volta finito il
lavoro dai Conlon.
Forse mia madre non avrebbe dovuto stare ai fornelli, la sera, a cucinare salsicce
e funghi, dopo aver lavorato tutto il giorno.
Forse avrei potuto farlo io.
Forse Rube una sera mi avrebbe detto che cosa gli passava per la testa. O forse si
sarebbe fatto crescere la barba fino ai piedi, e sarebbe diventato una specie di
saggio.
Forse a un certo punto mi sarei trovato un paio di buoni amici.
Forse l'indomani mi sarei scordato di tutto questo.
Forse no.
Forse dovrei andare al Circular Quay a piedi, mi dissi, ma poi ci ripensai, perch�
almeno una cosa non era in forse: se fossi arrivato tardi, mamma e pap� sarebbero
andati su tutte le furie.
Dopo aver sentito ripetere cinquanta volte l'annuncio "� in partenza dal binario 17
il treno per MacArthur", o dovunque fosse diretto, mi incamminai verso casa, e
cominciai a vedere i miei dubbi dal punto di vista opposto. Vi � mai successo? � un
po' come quando, durante il viaggio di ritorno da una vacanza, � tutto uguale, ma
sembra leggermente diverso. � perch� lo state guardando al contrario.
Ecco, io mi sentivo cos� e, arrivato davanti a casa, chiusi il cancelletto
d'ingresso, triste e mezzo rotto, entrai e andai a sedermi sul divano. Accanto al
cuscino puzzolente. Di fronte a Steve.
Dopo mezz'ora di repliche di Get Smart e un pezzo di notiziario, ci raggiunse Rube,
che si sedette, guard� l'orologio e disse: "Diavolo, mamma ci sta mettendo un sacco
di tempo a preparare la cena, stasera".
Lo guardai.
Forse lo conoscevo.
Forse no.
Conoscevo Steve perch� era meno complicato. I vincenti sono sempre persone pi�
semplici da capire. Sanno esattamente quello che vogliono e come ottenerlo.
"Purch� non sia la solita", dissi a Rube.
"La che?"
"La solita cena."
"Oh, gi�." Fece una pausa. "Ma non cucina altro, vero?"
Adesso devo ammettere di provare vergogna, quando penso a tutte quelle lamentele
riguardo alla cena, con tanta gente in mezzo a una strada che chiede da mangiare.
Ma ci lamentavamo, e questo � un fatto.
Eppure, ero al settimo cielo appena scoprii che non avremmo avuto funghi quella
domenica.
Forse le cose stavano realmente cominciando a girare per il verso giusto.
O forse no.
Sto correndo.
Sto inseguendo qualcosa che apparentemente non esiste, e continuo a ripetermi che
non sto inseguendo un bel niente. Mi dico che dovrei fermarmi, ma non lo faccio.
Intorno a me la citt� � sferzata dalla luce del giorno, ma in giro non c'� nessuno.
Non c'� nessuno neanche nei palazzi, negli appartamenti, nelle case. Non c'�
nessuno da nessuna parte. Treni e autobus si guidano da s�. Sanno che cosa fare.
Buttano fuori aria, ma sembrano non inspirarne mai. C'� questo unico, costante
sfogo di non-emozione, e io sono solo.
Hanno rovesciato in mezzo alla strada della Coca-Cola, che adesso scorre verso i
tombini come sangue.
Clacson.
Freni che sbuffano, e poi auto che passano oltre.
Io cammino.
Non c'� nessuno.
Proprio nessuno.
Buffo, penso, come tutto possa continuare senza persone. Forse in realt� ci sono,
ma io non le vedo. Le loro vite le hanno consumate, impedendomi di vederle. Forse
le loro anime vuote le hanno inghiottite.
Voci.
Sento delle voci?
A un incrocio un'auto accosta, e ho la sensazione di essere osservato� Ma �
soltanto il vuoto. Quando la macchina riparte, sento una voce, che per� va
affievolendosi.
Mi metto a correre.
Inseguo l'auto, ignorando i semafori per i pedoni che mi mostrano gli omini rossi e
mi martellano le orecchie, nel caso fossi cieco.
Lo sono?
No. Ci vedo.
Continuo a correre, e la citt� intera mi scorre accanto come se fossi spinto da una
forza umano-aliena. Vado a sbattere contro persone invisibili, e continuo a
correre. Vedo� auto, strada, palo, autobus, linea bianca, linea gialla, strisce
pedonali, semaforo verde per i pedoni, che poi lampeggia, semaforo rosso per i
pedoni, smog, canale di scolo, non inciampare, bar, negozio di armi, coltelli da
pochi soldi, musica reggae, disco, spettacolo live di ragazze, manifesto di Calvin
Klein con una donna e un uomo in biancheria intima� enorme. Fili elettrici,
monorotaia, luce verde, arancione, rossa, tutte e tre, vai, fermati, corri, corri,
attraversa, svoltare a sinistra facendo attenzione, vestiti Howard Showers,
tombino, SALVIAMO TIMOR EST, muro, finestra, spirito, SONO ANDATO A PRANZO, TORNO
FRA CINQUE MINUTI.
Non c'� tempo.
Corro, fino a quando i pantaloni non sono a brandelli, finch� le scarpe non si
riducono alle piante dei piedi, con qualcosa intorno alle caviglie. Mi sanguinano
le dita. Entro nelle pozzanghere di Coca-Cola, di birra. Mi schizzano le gambe, poi
scendono gocciolando.
Non c'� nessuno.
Dove sono tutti?
Dove?
Niente volti, solo movimento.
Cado. Sono andato. Mi sono spaccato la testa in un canale di scolo. Riprendo i
sensi.
Pi� tardi.
Le cose sono cambiate, e adesso c'� gente dappertutto. Ovunque dovrebbe essere,
sugli autobus, sui treni, per strada.
"Ehi", esclamo rivolto all'uomo con il completo che aspetta il verde per
attraversare. A vederlo si direbbe che abbia sentito qualcosa ma, quando il
semaforo scatta, parte.
La gente viene verso di me, e giuro che sta cercando di calpestarmi.
Poi capisco.
Mi vengono addosso perch� non possono vedermi.
Adesso sono io quello invisibile.

10.

Lo confesso: durante la settimana che segu�, io e Rube tornammo ai vecchi


giochetti. Gi�. Non potevamo proprio farne a meno.
Basta rapine.
Basta One Punch.
Allora che diavolo ci rimaneva da fare?
Io decisi di passare al calcio, nel cortile sul retro.
Forse chiesi a Rube di unirsi a me perch� era ancora gi� di corda per la disfatta
del cartello stradale. Devo ammettere che era stato piuttosto demoralizzante
riuscire in un'impresa, e poi trovare il modo di fallire ancora. La cosa gli
bruciava, pi� di quanto riuscisse a dire. Il pomeriggio se ne stava seduto e si
accarezzava la mascella irsuta, la mano malinconica e minacciosa. I capelli,
sporchi come sempre, gli scendevano sulle orecchie e arrivavano a toccargli la
schiena.
"E d�i", lo spronai, cercando di convincerlo.
"No."
Andava spesso cos�, tra noi. Io, il fratello pi� piccolo, mi sforzavo da sempre di
fargli fare delle cose, fosse una partita a Monopoli, o una sfida con la palla nel
cortile dietro casa. Rube, il pi� grande� be', era il giudice e la giuria. Se non
gli andava di fare quella cosa, non la facevamo. Forse era per questo che non mi
tiravo mai indietro se mi domandava di accompagnarlo nelle sue scorribande:
semplicemente perch� mi voleva con lui. Da anni, ormai, non facevamo pi� niente con
Steve.
"Avanti." Non intendevo arrendermi. "Ho gonfiato la palla, le porte sono pronte.
Vieni a dare un'occhiata. Le ho disegnate con il gesso sulla recinzione, alle due
estremit�."
"Stessa grandezza?"
"Due metri di larghezza per uno e mezzo circa di altezza."
"Bene, bene."
Sollev� lo sguardo e accenn� un sorriso per la prima volta, dopo giorni.
"Allora?" lo incalzai impaziente.
"Ok."
Cos� uscimmo, e fu stupendo.
Assolutamente stupendo.
Rube cadde sul cemento e si rialz�. Due volte. Quando segnai mi copr� di insulti, e
la storia inizi� a farsi seria. Un tiro in porta fuori controllo vol� verso
l'estremit� superiore della recinzione� trattenemmo il fiato, e poi lo liberammo
appena la palla colp� il bordo e torn� indietro. Ci sorridemmo, addirittura.
Fu bellissimo principalmente perch� Rube era stato parecchio gi� per la sua crisi
d'identit�, e perch� io ero stato divorato dall'angoscia per la faccenda di Rebecca
Conlon. Cos� andava molto meglio. S�. Molto meglio, perch� all'improvviso avevamo
ricominciato a fare quello che ci riusciva proprio bene, cio� correre e spingerci
per tutto il cortile, sporcarci e assicurarci di sudare per bene, tirarla per le
lunghe e, se possibile, offendere i vicini. Ma questo era anche di pi�: era un
ritorno ai bei vecchi tempi.
La palla fin� contro la recinzione, il cane del vicino abbai� e i pappagalli in
gabbia sembravano impazziti. Incassai un colpo negli stinchi. Rube inciamp� di
nuovo e, nel mettere la mano sul cemento per attutire la caduta, si sbucci� il
palmo. Intanto, il cane continuava ad abbaiare, e quei pappagalli parevano usciti
di testa. S�, era proprio come ai vecchi tempi e, come c'era da aspettarsi, Rube
vinse sette a sei. Ma non m'importava, perch� entrambi ridevamo come matti, senza
prendere le cose troppo sul serio.
Sul gradino dell'ingresso sul retro trovammo per� qualcosa di molto diverso da
quello che ci saremmo aspettati.
Sarah, da sola.
Il primo a notarla fu Rube. Mi diede un colpetto sul braccio, e la indic� con un
cenno del capo.
Io guardai.
"Oh no", esclamai in tono sommesso.
Sarah alz� gli occhi, probabilmente mi aveva sentito, e vi giuro che non aveva
affatto una bella cera. Se ne stava l� seduta, raggomitolata, le braccia che
stringevano le ginocchia al petto come se volesse tenere intrappolata l'aria che
aveva nei polmoni. Il viso era bagnato di lacrime.
Disagio.
� questo che provammo, quando ci avvicinammo a lei. La guardammo� dentro di noi
sentivamo qualcosa, ma non sapevamo che fare.
Alla fine, mi sedetti accanto a mia sorella, ma non mi veniva in mente niente da
dire.
E poi fu lei a rompere il silenzio. Il cane del vicino aveva smesso di abbaiare, e
il quartiere intero sembrava attonito davanti a quello che stava succedendo nel
nostro cortile. Come se lo percepisse. S�, sembrava capire che si stava consumando
una tragedia, intuire la nostra impotenza� e ci� mi sorprese. Ero talmente abituato
al fatto che il mondo andasse avanti, sempre e comunque, inconsapevole e ignaro dei
sentimenti delle persone.
Sarah parl�.
"Lui ha un'altra."
"Bruce?" chiesi, e Rube mi guard�, incredulo.
"No", sbrait�, "il re di Svezia. Chi, senn�?"
"Ok, ok."
Poi Sarah si allontan�, e disse: "Credo di voler restare da sola per un po'".
"Ok."
Quando mi alzai e me ne andai con Rube, la citt� intorno a noi pareva di nuovo pi�
fredda che mai, e mi resi conto che, anche se aveva percepito qualcosa, di sicuro
non le importava. Stava andando avanti. Quasi la sentivo ridere, e godersi la
situazione. Vicina. Con gli occhi fissi su di noi. Beffarda. E faceva freddo, tanto
freddo, mentre guardava mia sorella che sanguinava dietro casa.
Dentro, trovai Rube furioso.
"Lo capisci, adesso? Questo rovina le cose."
"Si sapeva che sarebbe finita cos�." Mentre lo dicevo, vidi la sagoma di Steve in
veranda. Lontano da noi.
"S�, ma perch� oggi?"
"Perch� no?"
Dal divano osservai una vecchia foto di noi quattro da bambini, disposti in
formazione per qualche fotografo. Steve sorrideva. Pure Sarah. Sorridevamo tutti,
in effetti. Strano, era sempre stata l�, eppure la notavo adesso per la prima
volta. Il sorriso di Steve� Il sorriso di un ragazzino a cui importava dei suoi
fratelli minori. Quello di Sarah. Bellissimo. Rube e io sembravamo puliti. Eravamo
tutti e quattro giovanissimi, impavidi, e i nostri sorrisi erano talmente potenti
che mi contagiarono anche mentre ero l�, sul divano, con quel senso di perdita nel
cuore.
Dov'� andato a finire ci� che avevamo allora? mi chiesi. Non ricordavo nemmeno
quand'era stata scattata, la foto. Era vera?
In quel momento, Sarah era sul gradino della porta sul retro, in lacrime, Rube e io
eravamo stravaccati sul divano, e non potevamo fare nulla per lei. A Steve pareva
non importare un bel niente, di nessuno di noi.
Dov'� andato a finire? mi chiesi ancora. Com'era possibile che quella foto si fosse
trasformata nella scena che avevo davanti adesso?
Era colpa degli anni?
Ci avevano annientato fino a quel punto?
Erano passati come enormi nuvole bianche, disintegrandosi lentamente, tanto che
nemmeno ce n'eravamo accorti?
In ogni caso, la situazione era terribile, e non avevamo ancora visto il peggio.
Il peggio sarebbe arrivato quella sera: Sarah usc�, e torn� solo diverse ore pi�
tardi.
Se ne and� dicendo: "Ho bisogno di fare due passi", ma rimase fuori per molto
tempo. All'inizio ci comportammo con indifferenza, ma dopo le undici cominciammo
tutti a preoccuparci. Persino Steve.
"Andiamo a cercarla", propose pap�.
E nessuno si oppose.
Io e Rube montammo sul furgone con lui, mentre mamma e Steve rimasero a casa, nel
caso Sarah fosse rientrata mentre noi eravamo fuori. Facemmo il giro dei pub, e
delle case di ognuno dei suoi amici. Andammo persino da Bruce. Ma niente. Sarah
sembrava sparita nel nulla.
A mezzanotte, quando rincasammo, non era ancora tornata. Non ci restava che
aspettare.
Cosa che facemmo ciascuno a proprio modo.
Mamma si sedette, in silenzio, senza guardare nessuno.
Pap� si scolava un caff� dopo l'altro come se non ci fosse un domani.
Steve, l'aria decisa, continuava a mettersi e togliersi un impacco caldo dalla
caviglia.
Rube borbottava sottovoce una frase, che ripet� almeno cinquecento volte: "Io quel
bastardo lo ammazzo. Io quel bastardo lo ammazzo. Quel Bruce Patterson lo ammazzo.
Io quel� s� lo ammazzo".
Quanto a me, digrignai i denti, e mi chinai in avanti appoggiando il mento sul
tavolo.
Rube fu l'unico ad andare a letto.
Noi rimanemmo in piedi.
"Ancora niente?" chiese mamma, all'una; si era svegliata in quel momento dopo
essersi appisolata.
"No." Pap� scosse la testa, e di l� a poco crollammo tutti, sotto la luce bianca e
fastidiosa del lampadario della cucina.
Pi� tardi, stavo iniziando a sognare.
Ma fui interrotto.
"Cam?"
"Cam?"
Qualcuno mi scroll� per svegliarmi.
Sobbalzai.
"Sarah?"
"No, sono io."
Rube.
"Ah, sei tu."
"Gi�", assent� con un sorriso sbilenco. "Non � ancora tornata?"
"No. A meno che non ci sia passata davanti per andare a letto."
"Nah, non c'�."
Fu allora che notammo un'altra cosa: adesso era scomparso anche Steve.
Scesi nel seminterrato a dare un'occhiata.
"Niente", dissi lanciando un'occhiata a Rube, che si era fermato in cima alle
scale. Quindi fummo soltanto noi due a uscire in veranda, e poi in strada. Dove
diavolo si era cacciato?
"Aspetta." Rube si volt� ed esamin� la via con lo sguardo. "Eccolo."
E infatti nostro fratello era seduto con la schiena appoggiata a un palo del
telegrafo. Corremmo da lui. Ci fermammo. "Che succede?" gli chiese Rube.
Steve alz� lo sguardo: non l'avevo mai visto cos� impaurito, cos� teso. In quel
momento mi parve tanto smilzo, ma comunque uomo; l'avevo sempre visto uomo. Sempre�
ma mai cos�. Mai vulnerabile.
Le stampelle erano due braccia morte, di legno, che giacevano accanto a lui.
Lentamente, e teneramente, Steve disse: "Io�" S'interruppe, e ricominci�: "Volevo
solo trovarla, ecco".
Non gli rispondemmo, ma credo che, quando lo aiutammo a rimettersi in piedi e a
tornare a casa, avesse capito a che cosa si erano ridotte le vite di Rube, di Sarah
e del sottoscritto. S�, aveva capito che cosa significava cadere e non sapere se ti
saresti rialzato, e aveva avuto paura. Aveva avuto paura perch� noi ci eravamo
rialzati. Lo facevamo sempre. S�, sempre.
Lo accompagnammo a casa.
E�
Ci ritrovammo di nuovo ad aspettare in cucina, tutti insieme, ma io e Rube eravamo
gli unici svegli. A un certo punto, lui mi sussurr� qualcosa. La stessa frase di
prima.
"Ehi, Cam. Dobbiamo andare a prendere quel Patterson." Sembrava cos� sicuro di s�.
"Lo beccheremo."
Ero troppo stanco per dire qualunque cosa, ma riuscii a pronunciare un "S�".
Poco dopo dormiva anche Rube, come mamma, pap� e Steve. E non ci volle molto perch�
anch'io sentissi le palpebre di cemento, e mi abbandonassi al sonno.
Stavamo dormendo tutti, in cucina.
Io feci un sogno.
Eccolo.
Non fu un incubo.
Quando mi svegliai c'era anche un'altra persona, che dormiva come noi al tavolo
affollato della cucina.
Sono al centro di una porta vuota. Lo stadio � gremito. Ci saranno centoventimila
persone che tengono gli occhi incollati su di me.
Intonano slogan.
"Wolf! Wolf!"
Io guardo tutti quei tifosi sugli spalti, che mi incitano, e sento di amarli. Li
amo, anche se sono dei perfetti estranei. Credo siano sudamericani, o qualcosa del
genere. Brasiliani, forse. O argentini.
"Non vi deluder�", sussurro, pur sapendo che la mia voce non li raggiungerebbe
neppure se mi mettessi a gridare.
Di fronte a me ci sono dei giocatori allineati, ognuno con la divisa dell'altra
squadra.
Sono i personaggi della mia storia.
Pap�, Rube, mamma, Steve, Sarah, Bruce, la nuova ragazza di lui, senza volto, Greg,
l'infermiera dello studio dentistico, Dennison il preside, l'assistente sociale, i
compagni di Rube, Rebecca Conlon.
Io indosso la divisa da portiere: scarpe, calzini tirati su fin sotto il ginocchio,
una maglia verde con dei rombi sul davanti, guanti. � sera, e l'aria nera �
infranta dagli enormi riflettori che si elevano sopra di noi come torri
d'osservazione.
Sono pronto.
Batto le mani e mi accovaccio, pronto a tuffarmi a destra o a sinistra per
afferrare la palla. Ho la sensazione che la porta alle mie spalle sia larga e
profonda diversi chilometri. La rete � una gabbia molle, che ondeggia e sussurra
nella brezza.
Pap� avanza, piazza la palla sul dischetto, urla che si tratta del rigore di una
finale di coppa, e che tutto dipende da me. Poi indietreggia; all'improvviso si
ferma, prende la rincorsa e spara un proiettile alla mia destra. Mi tuffo, ma � al
di l� della mia portata. Lui mi guarda, dopo che la palla � finita nell'angolo
della rete, e sorride quasi volesse dire: "Scusa, figliolo. Ho dovuto farlo".
Tocca a mamma. Poi a Rube. Segnano entrambi, Rube con un sorriso crudele. "Non hai
speranze, Raggio di Sole."
Intanto, dalla folla si leva un brusio; ho come un rumore di sottofondo nelle
orecchie. Quando la palla gonfia la rete e io vengo battuto, prima urlano e poi
sospirano. Sono dalla mia parte. Vogliono che pari almeno un tiro, perch� sanno con
quanto impegno sto lottando. Vedono le mie braccia tanto piccole, e la volont�
sulle mie labbra; non possono sentirlo, ma intuiscono lo schiocco delle mie mani
nell'istante in cui mi preparo a ogni singolo rigore. Ancora slogan.
Gridano il mio nome.
Il mio nome.
Eppure, per quanto mi sforzi, non ne paro neppure uno.
Anche Sarah, triste e disperata, fa goal. Prima di calciare mi dice: "Non provare
ad aiutarmi. � inutile. � una cosa che esula dal tuo controllo".
Tocca a Steve, poi a Bruce. Quindi � il turno dei compagni di Rube. Tirano tutti.
Alla fine, arriva Rebecca Conlon.
Viene verso di me.
Lentamente.
Sorride.
"Se pari, io ti amer�."
Annuisco con aria solenne, pronto.
Indietreggia, prende la rincorsa e calcia.
La palla � alta, e la perdo nella luce dei riflettori. Poi la vedo e salto, a
destra, e in qualche modo, dopo essermi rimbalzata sul polso, mi finisce dritta in
faccia.
Cado.
Quando colpisco il terreno, la palla rotola piano oltre la linea, verso la rete.
Oh, mi tuffo, per� non serve. Non ci arrivo� e un attimo dopo mi ritrovo solo, non
nello stadio, ma nel nostro cortile inondato di sole, seduto contro la recinzione,
con il naso che sanguina.

11.

Il piano era andare a prenderlo in fretta. Perch� lasciar passare una settimana, o
due? Avremmo corso il rischio di veder svanire quel desiderio bruciante di fargli
il culo. E non potevamo assolutamente permettercelo.
Scoprimmo che Bruce Patterson usciva con un'altra tipa da un mese, e che quindi
aveva ingannato nostra sorella continuando a venire da lei. Fu uno schiaffo per
tutti noi sapere di averlo fatto entrare in casa, quando poi se ne andava in giro
con quella troia.
"Dobbiamo spaccargli la faccia?" chiesi a Rube, ma lui si limit� a mettermi in
ridicolo con un'occhiata.
"Sei serio? Guardati! Sembri un chihuahua, e Patterson � tosto, tutto muscoli. Hai
idea di quello che ti farebbe?"
"Be', pensavo che avremmo potuto pestarlo insieme."
"Anch'io sono pelle e ossa", rispose Rube, secco. "S�, mi sta crescendo questa
cavolo di barba, per� Bruce potrebbe ucciderci entrambi."
"Hai ragione."
Quello che accadde dopo era del tutto inaspettato.
Qualcuno buss� alla porta, ma ne usc� un suono come di legno graffiato. Quando
aprii, mi trovai davanti il mio ex migliore amico. Greg.
"Posso entrare?" mi chiese.
"Tu che cosa dici?"
Scostai la zanzariera e lui entr�, dopo aver dato un'occhiata a Steve che era
seduto come sempre in veranda, con la sua faccia torva.
Salut� Rube con un: "Ehi, lupo mannaro", al che mio fratello minacci� di buttarlo
fuori.
"Scusa", gli disse, e poi lo portai in camera nostra.
Si sedette sotto la finestra, contro la parete. In silenzio.
"Be'", feci io dopo un po', sistemandomi sul letto, "se posso, che cosa diavolo ti
porta qui?"
"Ho bisogno di aiuto", fu la risposta, rapida e schietta. Si pass� le mani tra i
capelli, e vidi volare la forfora. Greg aveva sempre avuto quel problema. Gli
piaceva farla cadere sul banco, a scuola.
"Aiuto per che cosa?" domandai.
"Mi servono soldi."
"Quanti?"
"Trecento."
"Trecento! Diavolo, si pu� sapere che cazzo hai combinato?"
"Ah, non chiedermelo. Solo�" Sussult� appena. "Ce li hai?"
"Ges�, trecento� non lo so."
Andai al mio angolo di moquette, che sollevai per tirare fuori i miei risparmi.
Ottanta dollari.
"Be', ho questi." Tirai fuori anche il libretto della banca, e scoprii di averne
altri centotrenta. "Duecentodieci. � tutto ci� che ho."
"Dannazione, amico."
Lo raggiunsi sul pavimento, accanto al mio letto. "Dimmi almeno a cosa servono."
Era restio.
"Dimmelo, o non ti do un bel niente." Era una bugia, e lo sapevamo entrambi.
Sapevamo entrambi che gli avrei dato quei soldi e che non li avrei mai pretesi
indietro. Fine della storia. Ma mi doveva almeno questo. Doveva dirmi dove sarebbe
finito il mio denaro.
"Si tratta di Dale, uno dei miei amici. Lo conosci?" cedette.
Dale Perry.
S�, lo conoscevo bene. Era proprio il genere di persona che odiavo, perch� se ne
andava in giro con l'aria da padrone, ovunque fosse; detestavo la sua spavalderia.
Al corso di Commercio, l'anno prima (materia che personalmente non avrei mai
scelto) aveva preso il suo righello metallico, l'aveva scaldato sul calorifero e
poi me l'aveva messo contro l'orecchio, ustionandomi. Mi aveva fatto un male cane.
Ecco chi era Dale Perry. E inoltre stava nel gruppo numeroso che quel giorno, al
campo, parlava con le belle ragazze.
"Lo conosco", dissi, calmo.
"S� be'� alcuni dei suoi amici pi� vecchi avevano bisogno di qualcuno che ritirasse
dell'attrezzatura. Per trecento dollari."
"Attrezzatura?"
Naturalmente sapevo a che cosa si riferiva, ma pensai di complicargli un po' la
vita. A ben vedere, stavo per dargli tutto quello che avevo, fino all'ultimo
centesimo. Quello che stavo mettendo da parte per comprarmi uno stereo, o
qualcos'altro. Che avevo guadagnato duramente lavorando con pap� i weekend passati.
Stava per finire tutto nel cesso, perch� il mio ex migliore amico si era rivolto a
me, consapevole che ero l'unico che non gli avrebbe detto di no. Nessuno, nel suo
nuovo gruppo, lo avrebbe aiutato, ma il suo primo, vero amico s�.
� strano.
Non credete?
Non � che il tuo vecchio amico sia meglio degli altri. Solo, lo conosci meglio, e
sai che non gli interessa se ti comporti come un povero idiota strisciante. Sa che
faresti lo stesso per lui. E io sapevo che Greg avrebbe fatto lo stesso per me, se
fossi stato io ad avere bisogno.
"Attrezzatura? Di che cosa parli?" gli chiesi.
"D�i che hai capito�"
Non infierii. "S�, ho capito."
"Roba leggera", continu�, "ma parecchia. Erano in dieci a volerla, hanno messo
tutti i soldi, ma non avevano palle di andarsela a prendere." Si lasci� scivolare
un po' di pi� contro il muro. "Non ho avuto nessun problema a ritirarla, il casino
� successo quando ho dovuto tenerla a casa mia una notte."
"Ah ah." Gettai indietro la testa e cominciai a ridere, certo di sapere esattamente
come fossero andate le cose.
"Gi�." Greg annu�. "La mia vecchia l'ha trovata sotto il letto, e mio padre l'ha
buttata nel camino. � stato come firmare una condanna a morte� non riesco a credere
che l'abbia bruciata."
Adesso me la stavo facendo sotto, perch� immaginavo il padre di Greg - un bruto
piccoletto ma tosto, con i capelli ricci, che prorompeva in una sfilza di parolacce
mentre buttava l'erba nel fuoco. Feci ridere anche Greg, che pure continuava a
dire: "Non � divertente, Cam. Non � affatto divertente".
Invece lo era, e fu solo per questo che riusc� a mettere insieme la somma che gli
serviva.
S�, perch� lo raccontai a Rube, che sganci� i novanta dollari mancanti, anche se
minacci� di uccidere Greg se non glieli avesse restituiti nel pi� breve tempo
possibile. Alla fine, decidemmo che io avrei versato a Rube i soldi ricevuti da
pap� durante il mese successivo, e fummo tutti contenti. Poi, Greg mi avrebbe
risarcito.
Quanto a lui, la tensione abbandon� il suo volto. Non era pi� cos� tirato, una
volta avuto in mano il denaro.
Nell'altra stanza, Sarah era sdraiata sul letto, a pezzi.
Per uscire passammo davanti alla sua camera e, raggiunto il cortile, provammo tutti
e tre a fare qualche tiro contro la recinzione.
Stabilimmo dei turni per chi doveva stare in porta. Fu un'idea mia (principalmente
per via del sogno della notte prima), e speravo sul serio di non ritrovarmi con il
naso che sanguinava.
Anche se Rebecca Conlon non c'era, giusto? E quindi mi ritenevo abbastanza al
sicuro.
Ovviamente, il cane del vicino cominci� ad abbaiare, e i pappagalli impazzirono.
A un certo punto Rube chiam� i suoi compagni. Ecco la conversazione:
"Pronto."
"Pronto, Simon? Ruben."
"Ruben. Come stai?"
"Bene. Passi da me?"
"Perch� no� Si pu� fare!"
"Porta pure Cheese e Jeff."
"Ok."
"Ciao."
"Ciao."
Quando arrivarono, organizzammo una partita coi fiocchi.
Continuammo a calciare la palla contro la recinzione, divertendoci un mondo, almeno
finch� mamma e pap� non rincasarono. Avreste dovuto sentire che casino: bam, bam.
Il rumore riecheggiava in tutto il cortile, seguito da strilli e imprecazioni.
Io giocavo con Jeff e Greg, e stavamo vincendo, anche se la nostra squadra era pi�
debole. Ad animarci era la fame.
Quattro a due, e in quel momento il cane del vicino smise di abbaiare.
"Fermi! Fermatevi!" gridai, quando me ne accorsi. "L'avete sentito?"
"Che cosa?"
"Il cane."
"S�. Ha smesso di abbaiare."
Salii in cima alla recinzione e sbirciai dall'altra parte. Non crederete mai a
quello che vidi.
Il cane era morto.
"Cristo, penso che sia morto", esclamai, guardando gli altri.
"Cosa?!"
"Davvero. Date un'occhiata voi stessi."
Rube mi raggiunse.
"Maledizione, mi sa che ha ragione", disse ridendo. "Mi sa che abbiamo fatto venire
un attacco di cuore a quel povero sacco di pulci."
"Ne sei sicuro?"
"O un colpo apoplettico."
"Oh no", gemetti io. "Che cos'abbiamo fatto?"
"Ma che cane �?"
Rube ne aveva avuto abbastanza.
"Non lo so, cazzo!" grid� a Cheese. "Io credo che sia un, un�"
"Un volpino", dissi, al posto suo.
"Che diavolo � un volpino?"
"Uno di quei cani pelosi con il muso da topo", spieg� Cheese. "Secondo me ha
abbaiato fino a non poterne pi�."
Persino i pappagalli in gabbia stavano fissando il cane con aria cupa.
"Dobbiamo fare qualcosa", dissi a Rube.
"Tipo? Fargli la respirazione bocca a bocca?"
"Guardate, sta tremando."
"Oh, magnifico."
Saltai dall'altra parte, mi tolsi la camicia di flanella e la usai per avvolgervi
il cane. Rube mi raggiunse. Gli altri ci guardavano dall'alto della recinzione,
mentre noi due accarezzavamo quel cagnolino peloso domandandoci se stesse davvero
per morire.
Dopo circa un quarto d'ora, il vicino rincas� - un tizio sulla cinquantina pi�
sboccato di tutti noi messi insieme. Devo riconoscere che ebbe un notevole
autocontrollo quando venne fuori di corsa, ci lanci� qualche insulto e prese in
braccio il volpino - che si chiamava Miffy - per portarlo dal veterinario.
"Credete che se la caver�?" ci chiedemmo, a casa nostra.
"Non lo so."
A poco a poco, se ne andarono tutti. Greg per ultimo.
"Accidenti", mormor� scuotendo la testa, mentre usciva. "Mi ero scordato come
fosse, da queste parti."
"Come ai vecchi tempi, eh?"
"Gi�." Annu�. "Il caos."
"Assolutamente."
Era stato davvero come ai vecchi tempi, ma era inutile illudersi che sarebbe
durata. Era chiaro per entrambi che, la prossima volta, sarebbe venuto per
restituirmi il denaro, tutto o in parte. Cos� andava il mondo.
La sera, come immaginavo, qualcuno suon� alla porta. Il vicino.
Venne a dire a mamma e a pap� che non erano in grado di controllarci, e siccome
Rube era l'unico ad avere ancora dei soldi, tocc� a lui pagare la parcella del
veterinario.
A proposito� Miffy, il volpino, stava bene. Aveva avuto solo un piccolo attacco di
cuore. Povero cagnolino con il muso da topo.
Ma per nostra madre fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Inizi� a girare intorno al tavolo della cucina, dove eravamo stati costretti a
sederci, gridando e rimproverandoci. Sembrava una pazza. "Perch� continuate a
comportarvi cos�?" url�. "Vi picchiate, fate venire un attacco di cuore al cane del
vicino. Siete una vergogna� Ancora una volta, devo dirvi che mi vergogno di voi."
Persino pap� non pot� fare altro che starsene seduto nell'angolo, in silenzio. Non
osava aprire bocca per timore che poi si avventasse su di lui.
Alla fine perse davvero la testa, prese la spazzatura e, invece di portarla fuori,
la gett� sul pavimento, la riprese e la gett� di nuovo, questa volta ai miei piedi.
"Siete degli animali!" strill�, a voce ancora pi� alta. E poi pronunci� quelle
parole che sembrano sempre fare pi� male delle altre. "Decidetevi a crescere!"
Inutile dire che tocc� a me e a Rube ripulire quel disastro. Portammo fuori i
rifiuti, e non rientrammo. Non ne avemmo il coraggio.
Dalla finestra della sua stanza, Sarah ci guard� e sorrise scuotendo la testa,
immersa nel suo dolore. Stava ridendo, e questo fece ridere anche noi. E indusse
Rube a ritrovare la sua determinazione: "Andremo comunque a prendere Patterson, su
questo non ci piove".
"Dobbiamo", concordai.
Dopo un po', mi misi a riflettere sugli avvenimenti di quella giornata, perch�
adesso dovevo a Rube anche met� della parcella del veterinario. Giuro, andava
sempre peggio.
"Quel maledetto volpino", dissi.
"Pfff", sbuff� Rube. "Un volpino debole di cuore. Poteva capitare soltanto a noi."
C'� un tipo davanti a me. Sono su una strada sterrata, e sta sorgendo il sole.
Quello mi guarda.
Lo guardo anch'io.
Una decina di metri ci separa. Alla fine mi decido a rompere il silenzio.
"Allora?"
"Allora che?" fa lui. Indossa una veste, si gratta la barba, e tenta di togliersi
un sassolino da un sandalo.
"Be', non lo so." Rispondo cos�, mi pare. "Tu chi diavolo sei, tanto per
cominciare?"
Sorride.
Ride.
Rimane dov'�.
Quando � pronto, ripete la domanda e risponde. "Chi diavolo sono io?" Altra
risatina. "Sono Cristo."
"Cristo? Esisti davvero?"
"Certo che esisto, maledizione."
Lo metto alla prova.
"E io chi sono, quindi?"
"A me non interessa chi sei", replica, e viene verso di me, mentre tenta ancora di
togliersi quel sassolino. "Maledetti sandali." Strascica i piedi, e poi continua:
"In effetti, mi interessa cosa sei".
"E cosa sarei?"
"Un miserabile."
"Gi�." Alzo le spalle, assolutamente d'accordo.
"Io posso aiutarti." Adesso mi aspetto che mi dica quella frase che usano gli
insegnanti delle Sacre Scritture durante il pellegrinaggio annuale nella nostra
scuola. Ma non lo fa.
Invece, mi passa una bottiglia con del liquido rosso e con le mani mi fa segno di
scolarmela.
"Che cos'�?"
"Vino."
"Sul serio?"
"In realt� no. � cordiale rosso� sei troppo giovane per bere."
"Che palle."
"Ehi, non prendertela con me. Non � colpa mia. � stato il mio vecchio a proibirmi
di darti del vino vero. Quindi, prenditela con Lui."
"Ok, ok� e comunque, Lui che problemi ha?"
"Eh, ultimamente � stato molto sotto pressione."
"Il Medioriente?"
"S�, hanno ricominciato." Si avvicina e sussurra. "Detto tra noi, stava per
annullare tutto, la scorsa settimana."
"Per annullare cosa? Il mondo?"
"S�."
"Cristo onnipotente!"
Sembra contrariato dalle mie parole.
"Oh, gi�. Scusa", mormoro. "Esclamazioni del genere non servono a niente."
"Non preoccuparti."
E poi aggiunge: "Adesso ascolta". Ges� ha deciso che � ora di arrivare al dunque.
"Sono venuto per darti questa."
Tira fuori qualcosa da una tasca nascosta nella veste. "Che cos'�?" gli chiedo.
"Oh, � solo una pomata." Me la porge. "Per il sangue dal naso."
"Oh, fantastico. Grazie mille."

12.

Nel caso vi steste chiedendo se poi andammo a prendere il nostro amico Bruce
Patterson, be', la risposta � no. Avevamo pianificato tutto, ma alla fine non lo
facemmo. C'erano questioni pi� importanti, a casa, come la freddezza con cui ci
trattavano mamma e pap�. Chiaramente non erano contenti della vita che facevamo, e
della straordinaria abilit� con cui riuscivamo sempre a metterli in imbarazzo.
Forse penserete che il loro atteggiamento avesse smorzato il nostro entusiasmo
riguardo al progetto di farla pagare a Bruce per come si era comportato con Sarah,
ma non and� cos�. No davvero. Anche Steve ci disse di lasciar perdere. Aveva
ripreso a lanciarci quelle occhiate che volevano dire: "Sono meglio di voi", e ci
dava degli idioti. Tutto questo intimidiva un pochino me, ma non Rube, che era
arrogante come sempre, e anche profondamente convinto che non fossimo responsabili
dell'attacco di cuore del cane del vicino. Mi spieg� che non era colpa nostra se
quello stupido bastardo era una pappamolla.
"Diavolo, non � illegale giocare a calcio nel giardino dietro casa, no?" mi chiese.
"Credo di no."
"Non lo sai?"
"Suppongo che non sia illegale."
Dopo qualche giorno passato a rimuginare, entr� in camera nostra e mi illustr� il
piano, spiegandomi anche ci� che significava. "Questo sar� il mio ultimo lavoro,
Cam", disse. A sentirlo, avreste pensato che a parlare fosse Al Capone, o comunque
un gangster di quel livello. "Dopo quest'ultimo sforzo, mi ritirer� dalle rapine,
dai furti e dagli atti di vandalismo."
"Come puoi ritirarti se non hai mai avuto una carriera?"
"Ah, perch� non stai zitto? Lo ammetto, ho avuto i miei alti e bassi, per� adesso
la cosa finisce qui. Non riesco a credere che dalla mia bocca stiano uscendo queste
parole, ma devo crescere."
Ci pensai su un momento, incredulo, e poi gli chiesi: "Quindi che si fa?"
"Semplice", fu la sua risposta. "Uova."
"Andiamo." Mi voltai. "Possiamo fare di meglio rispetto a qualche stupido uovo."
"No che non possiamo", ed era la prima volta che lo sentivo discutere seriamente
dell'argomento. "La verit�, amico, � che siamo senza speranza."
Fui costretto ad annuire. "D'accordo", dissi poi, e fu deciso che saremmo andati a
casa di Bruce Patterson venerd� sera per bersagliare di uova la sua fiammante auto
rossa. E magari anche la porta d'ingresso e le finestre. Mi rendeva felice sapere
che sarebbe stata l'ultima volta, perch� cominciavo ad avere la nausea.
E poi c'era un fatto innegabile, che rendeva l'intera situazione pi� difficile di
quanto sarebbe dovuta essere. Il fatto che ancora non riuscissi a togliermi dalla
testa Rebecca Conlon. Proprio non ci riuscivo, per quanto mi sforzassi. Pensavo a
lei, e mi chiedevo se quel sabato sarebbe stata a casa, o se sarebbe uscita ancora,
andando avanti con la sua vita senza di me. In alcuni momenti quel pensiero mi
faceva male, mentre in altri cercavo di convincermi che era un rischio troppo
grosso. Guarda Bruce e Sarah, mi dicevo. Scommetto che lui era ossessionato da
Sarah come io lo sono da Rebecca, e scommetto che aveva giurato a se stesso che non
l'avrebbe mai fatta soffrire, come me� e invece guarda che cosa le ha fatto. L'ha
ridotta a uno straccio� ormai se ne sta sempre a letto.
Venerd� sera, probabilmente io e Rube eravamo troppo stanchi per portare a termine
il lavoro. Eravamo nauseati da noi stessi e, nonostante i due cartoni di uova che
avevamo in camera, decidemmo di non andare.
"Lasciamo perdere", disse Rube. "Se devi pensarci tanto, non vale la pena
provarci."
"E cosa ce ne facciamo di tutte queste uova?"
"Possiamo mangiarle, suppongo."
"Cosa? Una dozzina a testa?"
"Credo di s�."
Per il momento le uova rimasero dov'erano, sotto il letto di Rube, ma io mi recai
comunque per conto mio a casa di Bruce.
Ci andai dopo cena, superai la sua auto e mi immaginai a imbrattarla con le uova.
Una fantasia ridicola, per non dire altro.
Mi strapp� una risata mentre bussavo alla porta, anche se il sorriso svan� quando
ad aprirmi venne una ragazza che ipotizzai dovesse essere il rimpiazzo di Sarah. Mi
fiss� attraverso la zanzariera.
"C'� Bruce?" le chiesi.
Annu�. "Vuoi entrare?"
"No, sto bene qui." Aspettai fuori, sulla veranda.
Bruce sembrava piuttosto sorpreso di vedermi. Non � che io e lui fossimo mai stati
buoni amici, o roba simile. Non avevamo un gruppo a cui lui mi aveva presentato, e
non avevamo mai fatto due tiri a calcio insieme. C'eravamo rivolti a malapena la
parola, e intuii che aveva paura fossi l� per dargli una lezione. Ma le mie
intenzioni non erano quelle.
Attesi che uscisse, per parlare. Una domanda e basta. Non avevo nient'altro da
chiedergli, mentre eravamo l� appoggiati alla balaustra, lo sguardo fisso sulla
strada.
E gliela feci.
"Quando hai conosciuto mia sorella� le avevi promesso che non l'avresti mai fatta
soffrire?"
Per un attimo ci fu silenzio, poi mi rispose.
"S�", disse. Pochi secondi dopo, me ne andai.
"Ehi, Cameron", mi richiam�.
Mi voltai.
"Lei come sta?"
Sorrisi e alzai la testa, deciso. "Bene. Sta bene." Lui annu� e io lo salutai: "Ci
si vede".
"S�, ci si vede, bello."
A casa, la serata non era ancora finita. Stava per accadere un atto non vandalico,
ma simbolico.
Intorno alle otto e mezzo Rube entr� in camera nostra. Notai subito qualcosa di
diverso. Ma cosa?
La barba.
Quando gli altri lo videro con quella faccia non pi� da animale, ci furono applausi
e sospiri di sollievo. Niente pi� facce (e comportamenti) da bestia.
Dal canto mio, continuavo a sentire Bruce Patterson che mi diceva di aver promesso
di non ferire mia sorella. Mentre guardavo un film estremamente violento in tv,
quella frase non smise un secondo di perseguitarmi. Sentivo la sua voce, e mi
domandavo se avrei ferito Rebecca Conlon, se mai lei mi avesse permesso di
avvicinarla. Quel tormento dur� tutta la notte.
Mi trovo in una giungla, e lei � con me. Non riesco a vederla in faccia, ma so che
sono con Rebecca Conlon. La tengo per mano e la guido, andiamo veloci, abbassandoci
per passare sotto alberi contorti le cui dita sono rami che si allargano come un
soffitto crepato sotto il cielo grigio.
"Pi� svelta", le dico.
"Perch�?"
"Perch� sta arrivando."
"Chi?"
Non le rispondo perch� non lo so. L'unica cosa di cui sono assolutamente sicuro �
che sento dei passi nella giungla alle nostre spalle. Qualcuno ci sta inseguendo.
"D�i", la incito ancora.
Arriviamo sulla sponda di un fiume e ci immergiamo nell'acqua gelida, guadando fino
a raggiungere la riva opposta.
Spingo lo sguardo a monte, e vedo qualcosa. Le faccio strada. C'� una caverna, in
mezzo a un folto di alberi imponenti, sull'acqua.
Entriamo. Non ci diciamo una parola. Niente "Eccoci qui".
Lei sorride, sollevata.
Non lo vedo.
Ma so che c'�.
Ci sediamo in fondo alla caverna, e sentiamo il rumore dell'acqua che scorre fuori,
meditativa. Il fiume che scende, piano, lento. Reale. Consapevole.
Lei si addormenta.
"� tutto ok", le sussurro, e le mie braccia avvertono il suo peso. Anche i miei
occhi provano a dormire, ma non ce la fanno. Restano spalancati, mentre il tempo
passa ringhiando, e il silenzio cala intorno a noi come un pensiero ritmico.
Non sento pi� nemmeno il fiume.
E poi.
Quella figura fa il suo ingresso nella caverna.
Entra e si ferma.
Ci vede.
S�.
� un uomo ed � armato.
Ci guarda.
Sorride.
Anche se non scorgo la sua faccia, so che sta sorridendo.
"Che cosa vuoi?" gli chiedo. Ho paura, ma cerco di mantenere la calma, per non
svegliare la ragazza che sta dormendo tra le mie braccia.
Lui non dice niente. Continua ad avanzare. Lentamente. Barcollando. No.
Risuona un rumore, come se si fosse spaccato qualcosa, e un filo di fumo si leva
dall'arma che il tizio tiene in mano.
Sale verso il suo viso, e lo avvolge. Mi comunica che � successo qualcosa di
terribile, e Rebecca Conlon si muove sulle mie ginocchia.
Si accende un fiammifero.
Luce.
Guardo Rebecca.
E capisco!
Capisco che�
Lei � ferita, � sicuro, perch� noto delle gocce di sangue che le colano dal cuore.
Lente. Reali.
Alzo gli occhi. La figura regge il fiammifero acceso, che ne illumina il viso. Gli
occhi, le labbra, l'espressione� appartengono a me.
"Ma avevi promesso", lo rimprovero, e poi mi metto a urlare, provando a svegliarmi.
Ho bisogno di svegliarmi e di sapere che non le avrei mai fatto del male.

13.

Sabato, come al solito, pap� e io andammo a lavorare dai Conlon.


Anzich� lasciarvi sulle spine - ammesso che ve ne importi ancora qualcosa -, tanto
vale che premetta che questa volta lei c'era, stupenda come sempre.
Io stavo ancora sgobbando nel fossato, quando venne a salutarmi.
"Ehi, non eri qui la settimana scorsa", le dissi, per poi rimproverarmi
mentalmente: quella frase era cos� ambigua. Cio�, significava solo che mi avrebbe
fatto piacere vederla, o qualcosa del tipo: "Stupida troia, mi hai spezzato il
cuore"? Non sapevo bene che messaggio le stessi inviando. Potei soltanto sperare
che avesse scelto la prima interpretazione. In una situazione del genere non puoi
mostrarti troppo disperato, neanche se il tuo cuore ti sta distruggendo
dall'interno.
"Ecco�" farfugli�, e� Dio, quella voce la rendeva tanto reale. "Era una cosa
voluta. Il fatto di non essere qui."
Cosa diavolo voleva dire?
"Come?" osai chiederle.
"Mi hai sentito", rispose con un sorriso. "L'ho fatto di proposito�"
"Per me?"
Annu�.
Era una cosa positiva o negativa?
Avrei detto negativa. Molto negativa.
Ma anche positiva, da un contorto e perverso punto di vista. Mi stava prendendo in
giro?
"Non volevo essere qui perch�" deglut�, "avevo paura di fare la figura della
stupida, come la volta prima."
"La volta prima?" domandai, confuso. "Ma non ero stato io a dire qualcosa di
stupido?" S�, indubbiamente ero stato io a dire: "Mi piace lavorare qui", e nel
momento in cui me ne ricordai avrei voluto sprofondare.
Eravamo entrambi accovacciati sotto la casa, sotto quelle travi di legno che ci
avvertivano che sarebbe bastata una minima disattenzione per ritrovarci pieni di
lividi. Io badavo a tenere la testa abbassata.
"Almeno hai detto qualcosa", argoment� lei.
E d'un tratto non fui pi� capace di trattenermi.
"Non ti farei mai del male. Be', comunque ci prover� con tutto me stesso. Hai la
mia parola."
"Scusa?" Indietreggi� di un passo. "Che vuoi dire?"
"Che� Hai passato un bel weekend?" Stupidaggini. Dalla mia bocca uscivano soltanto
stupidaggini.
"S�." Annu� e rimase dov'era. "A casa di un'amica." Poi le sfugg�: "E siamo andate
da un tipo� Dale".
Dale.
Perch� quel nome mi era cos� familiare?
Oh, no.
Fantastico.
"Dale Perry?"
Dale Perry.
L'amico di Greg.
Tipico.
Il classico eroe.
Intuii che doveva piacerle parecchio.
Pi� di quanto le piacessi io.
Era un vincente, lui.
Piaceva alla gente.
Piaceva a Greg.
Anche se sapeva che ero io quello su cui poteva fare sempre affidamento.
"Dale Perry, s�", rispose, e il suo sorriso mentre annuiva conferm� le mie peggiori
paure. "Lo conosci, vero?"
"S�, lo conosco." Mi resi conto solo allora che probabilmente Rebecca Conlon era
tra le ragazze che avevo visto al campo di football, quel giorno da cui ormai
sembrava passata un'eternit�. Mi ricordai che l� ce n'erano alcune come lei. Gli
stessi capelli reali. Le stesse gambe reali. Era tutto� Ma s�, aveva assolutamente
senso. Lei era una del posto. Era carina, ed era reale.
Dale Perry.
Fui sul punto di dirle che un anno prima mi aveva quasi ustionato un orecchio, ma
mi fermai in tempo. Non volevo che pensasse che ero uno di quei ragazzi che si
rodevano dalla gelosia, e odiavano chiunque valesse pi� di loro� il che peraltro
era vero.
"La mia migliore amica pensa che io gli piaccia, ma in realt� non lo so�"
Continu� a parlare, ma io non riuscii ad ascoltarla. Proprio non potevo. Perch�
diavolo lo stava raccontando a me? Perch� ero soltanto il figlio dell'idraulico e
frequentavo una vecchia scuola statale, mentre lei con ogni probabilit� studiava in
un istituto privato? Perch� ero il classico ragazzo innocuo che non fa male a
nessuno?
Be', ci andai vicino.
Per poco non la interruppi per dirle: "D�i, vattene col tuo Dale Perry", ma mi
trattenni. L'amavo troppo e non volevo farle del male, per quanto stessi soffrendo.
Invece, le chiesi se conoscesse Greg.
"Greg Fiennes, o qualcosa del genere?"
"Fienni."
"S�. Tu come fai a conoscerlo?"
E per qualche ragione mi si riempirono gli occhi di lacrime.
"Ah", dissi. "Una volta eravamo amici." Mi voltai e mi rimisi al lavoro, per non
farle vedere che stavo piangendo.
"Un buon amico?"
Maledetta!
"Il mio migliore amico", ammisi.
"Oh." Guard� attraverso la mia schiena. Lo avvertii.
Mi domandai se avesse capito la situazione. Forse. Probabile. S�, perch� se ne and�
con un: "Ok, ciao ciao" un po' troppo amichevole. L'avevo gi� sentito? Certo, e il
senso di realt� mi squarci� la gola.
Quel battibecco non mi aiut� ad arrivare a fine giornata come aveva fatto la
delusione del weekend precedente. No, questa volta la superai a stento.
Provavo una sensazione orribile.
Arrancavo.
Pap� se ne accorse e mi richiam� per la mia lentezza, per� non potevo farci nulla.
Non ci credereste se vi dicessi quanto mi sforzai, ma avevo la schiena a pezzi. E
il morale sotto i piedi.
Avevo avuto l'opportunit� di mandarla a farsi fottere.
Di ferirla.
Per� non l'avevo colta.
Non era una gran consolazione.
Mentre lavoravo, mi ripetei costantemente che dovevo darmi una calmata, e fu una
faticaccia. Avevo la sensazione di crollare a ogni singolo passo. Le vesciche sulle
mani cominciarono ad aprirsi, e gli occhi continuavano a riempirsi di lacrime.
Iniziai ad annusare l'aria per farne entrare a sufficienza nei polmoni e, a fine
giornata, uscii a fatica da sotto la casa e aspettai. Sarei voluto collassare l�,
ma tenni duro.
Avevo prurito dappertutto, mi sentivo sporco e malato� perch� ero semplicemente me
stesso. Che cosa c'era che non andava, in me?
Mi sentivo come il cane che si � preso la rabbia, in quel libro che stavamo
leggendo a scuola. Il buio oltre la siepe. Se ne va in giro per strada zoppicando e
sbavando, e Atticus sorprende suo figlio sparandogli.
Sto camminando su una recinzione che sembra allungarsi all'infinito. Ma in qualche
modo so che a un certo punto terminer�. So che durer� quanto la mia vita.
"Continua a camminare", mi dico.
Tengo le braccia allargate per mantenere l'equilibrio.
Accanto a me, da una parte e dall'altra, ci sono aria e terra, e quest'ultima cerca
di convincermi a saltare.
Da che parte salto?
� mattina, ed � presto. � quell'ora in cui � ancora buio, ma il giorno � vicino. Il
blu trasuda dal nero. Le stelle stanno morendo.
La recinzione.
A volte cammino sulla pietra, a volte sul legno, altre sul filo spinato.
Cammino, ma sono tentato di saltare da una parte o dall'altra.
"Salta", mi dicono entrambe. "Salta gi�."
Distanza.
L� fuori, da qualche parte, sento abbaiare dei cani, anche se le loro voci sembrano
umane. Abbaiano e, quando mi guardo intorno, non li vedo. Sento solo i latrati, che
formano un pubblico per il mio viaggio lungo la recinzione.
Il cielo diventa viola.
Mi formicolano le gambe.
Avverto un brivido lungo il lato destro.
Pensieri.
Passi.
Sono solo.
Metto un piede davanti all'altro.
Adesso c'� il filo spinato.
Dove salto?
Chi ascolto?
Il sole � come una margherita, il cielo � marrone.
Prima parte del sole: broncio.
Ultima parte del sole: sorriso.
Giornata cupa.
I pensieri coprono il cielo.
I pensieri sono il cielo.
I piedi sopra la recinzione.
Da un lato c'� la vittoria�
�dall'altro� la sconfitta.
Cammino.
Vado avanti.
E prendo una decisione.
Il sudore. Tanto.
Mi cade addosso, controllato, e mi gocciola lungo il viso.
Vittoria da un lato.
Sconfitta dall'altro.
Le nuvole sono incerte.
Pulsano nel cielo come rulli di tamburo, come battiti.
Prendo una decisione�
Salto.
In alto. Molto in alto.
Il vento mi afferra e mi solleva, so che mi getter� da un lato della recinzione, se
vuole.
Da qualunque parte atterrer�, e accadr� presto, so che dovr� tornare su, e
continuare a camminare, ma per adesso sono ancora in aria.

14.

E adesso?
Che cos'avevo fatto?
Che cos'era successo?
Be', in pratica questa � la fine, quindi le risposte dovrebbero essere nelle
prossime pagine. Dubito che vi sorprenderanno, ma non si sa mai. Non ho idea di
quanto siate intelligenti, o tonti. Potreste essere degli Albert Einstein, per
quello che mi riguarda, o aver vinto dei premi letterari, o magari siete
semplicemente mediocri come me.
Quindi, tanto vale venire al dunque, e dirvi come si concluse quella parte gelida
della mia vita. La fine cominci� cos�: con la mia depressione.
Fui un'anima in pena per tutta la domenica, e poi anche luned�, a scuola. Qualcosa
si stava agitando dentro di me, partiva dallo stomaco e saliva fino ad allungare le
braccia per strapparmi la pelle dall'interno. Bruciava.
Mercoled�, a scuola, scambiai due parole con Greg, principalmente per via del suo
viso malconcio.
"Che ti � successo?" gli chiesi, quando lo incrociai lungo un corridoio.
"Ah, lascia perdere", mi rispose. "Non � niente." Ma era piuttosto ovvio per
entrambi che i tizi per cui era andato a comprare la roba non erano rimasti per
nulla impressionati dai suoi sforzi, nonostante avesse restituito loro tutto il
denaro.
"Ti hanno pestato lo stesso, eh?" Sorrisi, mesto, e sorrise anche lui. Il suo era
un sorriso d'intesa, ironico.
"S�", disse, annuendo. "Hanno deciso di darmi una ripassata per il disturbo che
avevo causato� Il tipo da cui ero andato la prima volta era rimasto a secco, quindi
si sono dovuti rivolgere altrove. I miei sforzi non li hanno impressionati, no."
"Ben ti sta", fu la mia conclusione.
"S�, suppongo di s�."
Ci separammo pochi secondi dopo e, quando mi voltai, guardai Greg e provai a
pregare per lui, come avevo fatto tante volte per altre persone, ma non ne fui
capace. Non ci riuscii, stop. Non chiedetemi perch�. Mi augurai che per lui fosse
tutto ok, ma non trovai la forza di pregare.
E comunque, a cos'erano servite le mie preghiere?
Di sicuro non avevano perorato la mia causa, per�, se ricordate, non avevo mai
pregato per me stesso. Forse era questo il motivo. Cio�, io. D'altronde, forse
avevo cominciato a pregare con l'unico scopo di portarmi fortuna. Davvero? Era
andata cos�? No. Niente affatto. Proprio no.
Forse, invece, le preghiere avevano funzionato sul serio.
A pensarci bene � probabile, perch� a casa Sarah aveva iniziando a ricorrere al
telefono per sostituire le intense sessioni di baci sul divano; Steve stava
riprendendo a camminare, Rube aveva in parte messo la testa a posto, mamma e pap�
sembravano felici, e senza dubbio Rebecca Conlon stava facendo allegri sogni a
occhi aperti su Dale Perry�
Apparentemente stava andando tutto per il verso giusto.
Tranne che per il sottoscritto.
Mi ritrovavo piuttosto spesso a ripetere la parola tristezza, da creatura pietosa
quale ero.
Dentro, ero una lagna continua.
Piagnucolavo.
Piangevo.
Mi graffiavo le viscere.
E poi ridevo.
Di me stesso.
Accadde mentre ero fuori, dopo cena.
Salsicce e funghi si stavano sistemando nel mio stomaco e, in mezzo all'angoscia e
al tormento che mi divoravano, sentii scoppiare dentro di me una risata strana,
inquietante. Mentre sollevavo i piedi, sorrisi, e alla fine mi appoggiai con la
mano al palo del telegrafo, per riposare.
Immobile in quella posizione, lasciai uscire la risata, e la gente che mi passava
accanto dovette pensare che fossi pazzo, o drogato, o qualcosa del genere. Mi
guardavano come per dire: "Cos'� che ti fa tanto ridere?" Ma poi si allontanavano,
veloci, diretti verso le loro vite, mentre io ero in pausa, nella mia.
Fu allora che decisi che era necessario prendere una decisione.
Era necessario decidere che cosa fare, e cosa diventare.
Ero l� fermo, in attesa che qualcuno facesse qualcosa� E poi mi resi conto che la
persona che stavo aspettando ero io.
Dentro di me regnava il torpore, era tutto vagamente vivo, ma sembrava non avesse
il coraggio di muoversi, come se attendesse una mia mossa.
Alla fine espirai e dissi: "Ok".
Non serv� altro.
Bastava una parola. Corsi a casa, con un'idea ben precisa di quello che avrei
fatto. Mi sarei dato una lavata e, sempre di corsa, sarei andato da Rebecca Conlon
- che viveva a cinque chilometri da casa mia - per invitarla a fare qualcosa nel
weekend. A chi importava di cosa pensavano gli altri? Me ne fregavo di quello che
avrebbero detto mamma o pap�, Rube o Steve, Sarah, e me ne frego di quello che
potreste dire voi. Sapevo solo che era la cosa giusta da fare.
"E devo farla adesso", sottolineai mentre correvo, spingendo le spalle avanti. Mi
venne la nausea, come se il cibo che avevo mangiato si stesse trasformando in
acido. Ma accelerai, e varcai il cancello d'ingresso e la porta, per trovare�
�Sarah al telefono.
Al telefono.
S�, al telefono, pensai. Certo. Correre per cinque chilometri e invitarla di
persona mi sembrava piuttosto spaventoso, adesso, quindi modificai il piano, e
decisi di trovare una cabina telefonica, da qualche parte. Presi degli spiccioli
dal cassetto, mi scrissi sulla mano il numero dei Conlon - che copiai dall'agenda
di lavoro di pap� - e uscii di nuovo per raggiungere il telefono pubblico pi�
vicino.
"Ehi!" Una voce mi segu� sul marciapiede. Era Steve, dalla veranda. Non l'avevo
nemmeno notato, quando ero entrato in casa come un razzo. "Dove vai?"
Mi fermai, ma non risposi. Svelto, tornai indietro, perch� all'improvviso mi era
venuta in mente la frase che mi aveva detto l'ultima volta che l'avevo visto l�, la
sera in cui io e Rube eravamo andati a rimettere a posto il cartello stradale.
"Siete due perdenti." Questo aveva detto, cos� salii i gradini e gli puntai un dito
contro, mentre si stiracchiava appoggiato alla balaustra.
"Prova a darmi di nuovo del perdente e ti spacco la faccia." Ero serio, e dalla sua
espressione intuii che l'aveva capito. Sorrise, addirittura, come se sapesse
qualcosa. "Sono un combattente", conclusi, "non un perdente. C'� una certa
differenza."
Lo guardai negli occhi ancora un momento. Ero serio. E convinto. Steve si godette
ogni istante. Io pi� di lui.
La cabina telefonica.
Ripartii, ossessionato da quel pensiero.
L'unico problema del mio piano fu che non ne vidi nessuna. Credevo ce ne fosse una
in un punto ben preciso di Elizabeth Street, ma era stata rimossa. Quindi non mi
rimase che continuare a correre, adesso verso l'abitazione dei Conlon, finch� non
trovai una cabina dopo circa tre chilometri. Altri due, e avrei potuto
chiederglielo di persona.
"Oh, amico mio", mormorai quando finalmente raggiunsi il telefono, le mani sulle
ginocchia. "Amico", ripetei, e all'improvviso capii che la corsa era stata la parte
pi� facile del piano. Adesso dovevo davvero chiamare e parlare.
Le dita erano come artigli mentre componevo il numero e�
Aspettavo�
"Drin."
Stava squillando.
"Drin." Niente.
"Drin." Niente.
"Drin."
Non rispose lei, quindi dovetti spiegare chi ero alla persona che alz� la cornetta.
"Pronto, sono Cameron."
"Cameron?"
"Cameron Wolfe, stupida vacca decrepita!" avrei voluto urlare, ma non lo feci.
Invece, mi presentai con pacata dignit�: "Cameron Wolfe. Lavoro con l'idraulico".
Dopo aver pronunciato quelle parole mi resi conto di essere ancora senza fiato.
Stavo ansimando nel ricevitore, e continuai a farlo anche quando mi passarono
Rebecca.
"Rebecca?"
"S�?"
La voce. La sua voce.
La sua.
Balbettai un po', ma perlomeno non rimasi senza parole. Mi concentrai, e tutto fu
fatto con uno scopo, con desiderio, quasi con orgoglio. Un orgoglio solenne e
sereno. La mia voce strisci� fino a lei. Le rivolse una domanda. Mentre io
stringevo il telefono. Su. Sbrigati. D�i.
"S�, ecco, mi stavo chiedendo�"
Mi faceva male la gola.
"Se�"
Sabato.
Sarebbe stato quello il giorno.
No.
No?
Esatto, no. Mi hai sentito.
Anche se Rebecca Conlon non pronunci� quella parola quando respinse la mia proposta
di vederci sabato. "Non posso", disse, e guardandomi indietro adesso mi domando se
la delusione nella sua voce fosse autentica.
� naturale che me lo chieda, perch� lei cominci� a spiegarmi che non poteva n�
domenica n� il weekend successivo, per via di un impegno di famiglia� o
qualcos'altro del genere. Inutile fingere. Stava cercando un terreno sicuro per
tenermi a bada. Non le avevo nemmeno proposto la domenica come alternativa. N� il
weekend successivo! Sentivo un dolore nelle orecchie. Il cielo nero sembr� cadermi
addosso. Ebbi la sensazione di essere risucchiato dalle nuvole grigie che erano
sopra di me, e lentamente, molto lentamente, la conversazione si fece sommessa,
lontana.
"Be', un'altra volta, magari." Sorrisi, nervoso, in quella lurida cabina
telefonica. Ma la mia voce era ancora allegra, e conservava tutta la sua dignit�.
"S�, sarebbe stupendo." La sua voce era stupenda. Non l'avrei pi� sentita?
Probabile, a meno che non fosse stata tanto stupida da farsi trovare a casa il
weekend seguente, quando io e pap� saremmo andati a finire il lavoro.
La sua voce� Ecco, in qualche modo non ero pi� sicuro che fosse ancora cos� reale,
per me. Era troppo distante, adesso.
"Ok, ci vediamo", mi congedai, ma non ci saremmo visti.
"Ok, ciaooo", fece lei. Oltre al danno la beffa.
Sentirla riagganciare fu brutale. Quel suono mi strazi� il cervello. Lentamente,
molto lentamente, mollai il ricevitore e lo lasciai penzolare.
Beccato.
Processato.
Impiccato.
Lo lasciai penzolare e me ne tornai a casa.
Il tragitto non fu male come potreste supporre, perch� i pensieri che si
scontravano nella mia testa fecero volare il tempo. A ogni passo, sul marciapiede
rimaneva un'impronta invisibile, di cui ero l'unico a percepire l'odore mentre
tornavo al futuro. Buona fortuna.
A met� strada notai un'altra cabina in una via secondaria, che se ne stava l� a
sfottermi, ridacchiando.
"Mmm", gemetti, nient'altro, e continuai a camminare, mentre mi grattavo una spalla
con la mano stanca, il gomito piegato.
Questa volta mi trascinai fino al cancello, ciondolai un po' e andai a letto alle
dieci e mezzo, circa.
Non dormii.
Sudai e tremai. Ero solo.
Vidi delle cose, incollate ai miei occhi.
Scaraventate nei miei occhi.
Vidi tutto. Ogni dettaglio. Mazze da baseball e da cricket, trattamento al fluoro,
un palo senza cartello stradale, sogni, padri, fratelli, madre, sorella, Bruce,
amico, ragazza, voce, era tutto dentro. Dentro di me.
La mia vita stava schiacciando il letto.
Le lacrime, come martelli, mi scorrevano lungo le guance.
Mi rividi mentre camminavo fino a quella cabina telefonica.
Mentre parlavo.
Mentre tornavo a casa barcollando.
Poi, intorno all'una, mi alzai, indossai i jeans e uscii in cortile, scalzo.
Uscii dalla nostra stanza.
Percorsi il corridoio.
Infilai la porta sul retro.
E mi immersi nella notte gelida.
Superai il cemento e arrivai all'erba, dove mi fermai.
Mi fermai e fissai il cielo e la citt� intorno a me. Le mani lungo i fianchi, vidi
quello che mi era successo, e quello che ero, e mi resi conto di come sarebbero
andate le cose per me. Per sempre. � la verit�. Niente pi� desideri, niente pi�
domande. Sapevo chi ero, e cosa sarei stato, per l'eternit�. Ci credevo, mentre
battevo i denti, con gli occhi gonfi di lacrime.
Le labbra si schiusero.
E accadde.
S�, con la testa sollevata verso il cielo, cominciai a gridare.
Con le braccia tese lungo i fianchi, urlai, e buttai fuori tutto. Le immagini mi
salivano in gola, ero circondato da voci del passato. Il cielo mi ascoltava. La
citt� no. Non m'importava. M'interessava soltanto il fatto che stavo urlando tanto
da sentire la mia voce, e da ricordare che quel ragazzo non era affatto
superficiale, e anzi aveva qualcosa da offrire. Urlavo, s�, ed ero disperato, e
stavo dicendo al mondo che c'ero, e che non sarei rimasto l� a subire.
Non quella notte.
Mai.
S�, urlai, e non mi accorsi che la mia famiglia era dietro la porta sul retro, e mi
stava guardando chiedendosi che cosa accidenti stessi facendo.
All'inizio � tutto in bianco e nero.
Nero su bianco.
Ecco dove sto camminando, tra le pagine.
Queste pagine.
Ogni tanto ho un piede sui fogli e sulle parole, e l'altro sul contenuto. Ogni
tanto sono di nuovo l�, dove ordisco piani con Rube, faccio a pugni con lui, lavoro
con pap�, mi faccio dare della bestia da mamma, guardo la vita di Sarah vacillare
per colpa di Bruce, dico a Steve che gli spaccher� la faccia se mi dar� ancora del
perdente. Vedo persino la roba comprata da Greg che brucia e sale su per il camino,
intossicando l'aria sopra il tetto di casa sua.
Un piede mi porta verso l'abitazione di Rebecca Conlon, mi porta a lavorare ancora
l�, a telefonarle. Un piede mi trattiene sull'immagine in cui la cornetta del
telefono pubblico, strangolata, penzola morta, conservando i resti della mia voce.
Quando mi immergo nelle pagine, le lettere di ogni singola parola diventano sempre
un po' come gli imponenti edifici della citt�. Io sto sotto, e guardo in alto.
A volte corro.
O striscio.
Tra le pagine.
Tutte le pagine.
A volte i sogni mi coprono, altre volte mi strappano la carne dall'anima o mi
levano la coperta, lasciandomi solo con me stesso, al freddo.
Le dita toccano i fogli.
Girano me.
Io vado avanti.
Lo faccio sempre.
� tutto grande.
Le pagine e le parole sono il mio mondo, si allargano davanti ai vostri occhi, e si
lasciano toccare dalle vostre mani. Intravedo i vostri volti che guardano dentro di
me, quando mi volto.
Li vedete i miei occhi?
Eppure, continuo a camminare, attraverso un sogno che mi conduce in queste pagine.
Arrivo al punto in cui mi vedo uscire nel cortile, nella notte gelida. Vedo la
citt� e il cielo, e sento il freddo. Sono in piedi accanto a me.
Jeans.
Piedi nudi.
Petto nudo, che trema.
Braccia di ragazzi.
Si allungano verso di me.
Si alza il vento, fogli volano via e cadono attorno a noi, mentre siamo l�. Un
ululato disperato cerca di raggiungere le mie orecchie, e finalmente lo colgo.
Mi aggrappo a quella disperazione, perch�
�ne ho bisogno.
Perch� lo voglio.
Sorrido.
Dei cani abbaiano, lontani, ma i latrati si fanno pi� vicini.
Accanto a me, mi sento ululare.
� un bel sogno, questo.
Ululo. Forte.
Intensamente.
Continuano a cadere fogli, gli ultimi.
Sono vivo.
Non sono mai stato cos�
Abbasso lo sguardo.
Le parole sono la mia vita.
L'ululato continua.
Resto l�, con le pagine sparse intorno alle mie caviglie, e con quell'ululato nelle
orecchie.

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