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Dopo il successo planetario di Storia di una ladra di libri, Markus Zusak torna
nelle librerie italiane con "The Wolfe Brothers", una travolgente, divertente,
commovente storia di formazione articolata su tre romanzi.
In A 15 anni sei troppo vecchio incontriamo per la prima volta i fratelli Cameron e
Ruben Wolfe. I due sono tanto uniti quanto diversi, visto che mentre Ruben, il pi�
vecchio, � forte, bello e brillante, Cameron � invece il pi� classico degli
sfigati.
I due ragazzi passano la maggior parte del loro tempo litigando con i genitori e i
fratelli maggiori, combattendo tra di loro incontri di boxe "a una mano"
(possiedono un solo paio di guantoni), e progettando piani semidelinquenziali, come
derubare il dentista del quartiere, che falliscono miseramente.
Ma quello che Cameron, come tutti gli adolescenti, desidera veramente, � incontrare
una ragazza - una ragazza vera, non una di quelle delle riviste che guarda il
fratello.
Ma la domanda che lo attanaglia �: chi pu� innamorarsi di un perdente come me?
MARKUS ZUSAK � nato in Australia nel 1975, e vive a Sidney con la moglie e i due
figli. Pluripremiato autore di diversi romanzi, ha raggiunto la fama internazionale
grazie all'enorme successo di Storia di una ladra di libri, tradotto in quaranta
lingue, bestseller da otto milioni di copie vendute nel mondo, dal quale � stato
tratto l'omonimo film. Con la trilogia "The Wolfe Brothers" Frassinelli completa la
pubblicazione di tutti i suoi romanzi, tra i quali va ricordato anche il fortunato
Io sono il messaggero.
Markus Zusak
1.
Primo sogno
� pomeriggio tardi e sto andando dal dentista, quando vedo qualcuno in piedi sul
tetto. Mi avvicino e noto che � lui, il dottore. Lo riconosco dal camice bianco e
dai baffi. � proprio sul bordo, e pare pronto a gettarsi.
Mi fermo sotto di lui, e grido: "Ehi! Che diavolo sta facendo?"
"A te che cosa sembra?"
La sua risposta mi lascia senza parole.
Non mi resta che entrare di corsa nell'edificio in cui si trova il suo ambulatorio,
un edificio in cui ci sono soltanto studi, uffici e negozi, e avvertire la
splendida infermiera.
"Che cosa?!" esclama lei.
Mio Dio, � cos� bella che per poco non le dico: "Al diavolo il Signor Dentista,
andiamo gi� alla spiaggia, facciamo qualcosa". Ma non aggiungo altro. Corro fino
alla fine di un corridoio, apro la porta e salgo una rampa di scale.
Per qualche motivo, quando arrivo al margine del tetto mi accorgo che lei non �
venuta con me.
Io sono accanto al dottore baffuto, immerso nei suoi pensieri, mentre lei da sotto
cerca di convincerlo a scendere.
"Che cosa ci fai, laggi�?" le chiedo.
"Io non salgo!" urla. "Soffro di vertigini!"
Accetto la sua spiegazione, perch� francamente sono gi� contento di vedere il suo
corpo e le sue gambe, e sotto la pelle sento lo stomaco farsi teso.
"Coraggio, Tom!" tenta di negoziare con il dentista. "Vieni gi�, per favore!"
"E, comunque, che cosa ci fa quass�?" gli chiedo io.
Lui si volta a guardarmi.
Schietto.
E mi dice: "� colpa tua".
"� colpa mia?! Che accidenti ho fatto?"
"Ti ho fatto pagare troppo."
"Ges�, amico, non � stato molto carino", gli rispondo, e d'un tratto, da vero
sadico, lo incito a buttarsi. "Allora salti, coraggio� � quello che si merita,
brutto imbroglione."
Persino la bella infermiera vuole che si butti, adesso. "D�i, Tom", lo esorta da
sotto. "Ti prendo io!"
E succede.
Si butta.
Va gi�. Sempre pi� gi�.
Salta e cade, e la bella infermiera lo afferra, gli d� un bacio sulla bocca e lo
posa delicatamente a terra. Lo abbraccia, addirittura, i loro corpi che si toccano.
Oh, quella divisa bianca che si struscia contro di lui. Mi fa impazzire, e un
attimo dopo, quando dice anche a me di saltare, obbedisco�
Mi sveglio nel mio letto. In bocca sento il sapore del sangue� e ricordo l'impatto
della mia testa sul marciapiede.
2.
Poich� la vicenda del dentista aveva prosciugato le mie finanze, in pratica andai a
supplicare il mio vecchio datore di lavoro di riprendermi. Per� il tizio
dell'edicola non si lasci� impressionare.
"Spiacente, signor Wolfe. Rappresenti un rischio troppo grande. Sei pericoloso."
Ma sentitelo. Come se me ne fossi andato in giro con un fucile a canne mozze.
Maledizione, consegnavo solo giornali.
"Andiamo, Max", lo pregai. "Sono cresciuto, adesso. Sono pi� responsabile."
"Quanti anni hai?"
"Quindici."
"Be'�" Ci pens� su seriamente. E s'interruppe. Era un no. Scosse la testa. "No.
No." Ma l'avevo in pugno. Aveva esitato troppo. Ci stava riflettendo troppo. "A
quindici anni sei troppo vecchio."
Vecchio!
Lasciatemelo dire, amici: non fu affatto bello farsi trattare come un ragazzo dei
giornali ormai finito, licenziato perch� inutile.
"Per favore�" lo implorai. Fu vomitevole. Tutto per un pidocchioso giro di
consegne, mentre altri ragazzi della mia et� stavano facendo soldi a palate nei
fast food, da Maccas e al dannato Kentucky Fried Chicken. Che vergogna. "Andiamo,
Max", insistetti. E poi mi venne un'idea. "Se non mi rid� il lavoro, torner� qui
con questi stessi vestiti" - indossavo un paio di squallidi pantaloni della tuta,
scarpe usurate e un giubbino impermeabile vecchio e sporco - "e porter� anche mio
fratello e i suoi amici. Tratteremo questo posto come una biblioteca. Non causeremo
problemi, badi. Staremo qui, e basta. Qualcuno potrebbe rubare, ma ne dubito. Forse
uno o due�"
Max si fece pi� vicino.
"Mi stai minacciando, brutto schifoso?"
"Sissignore." Sorrisi. Mi sembrava che stesse andando bene.
Sbagliavo.
Sbagliavo perch� il mio vecchio titolare mi afferr� per il colletto del giubbino e
mi costrinse ad abbandonare la sua propriet�.
"E non farti pi� rivedere", mi ordin�.
Non mi mossi.
Scossi la testa.
A me stesso.
Ero uno schifoso. Uno schifoso!
S�.
Il piano che avevo escogitato per riavere il lavoro mi si era miseramente ritorto
contro. Sentivo le pulsazioni nel collo, pesanti, e mi parve di avvertire in fondo
alla gola il sapore di sangue della sera prima.
"Brutto schifoso", ripetei a me stesso, mentre guardavo il mio riflesso nella
vetrina della panetteria accanto, immaginando di indossare un completo blu nuovo di
zecca, con cravatta nera e scarpe nere, e di avere i capelli in ordine. Ma in
realt� ero vestito come un bifolco, e i miei capelli sparavano in tutte le
direzioni. Mi fissai, dimenticandomi della gente che avevo intorno, e feci quel
sorriso� avete presente? Quello che ti critica e ti ricorda quanto tu sia patetico?
Ecco, quello.
"S�", mi dissi. "S�."
Diedi un'occhiata al giornale locale - dovetti mandare Rube in edicola a
comprarmelo -, sperando di trovare un altro lavoro, ma non c'era niente per me. Era
tutto cos� scarno, cos� povero. I posti di lavoro. La gente. I valori. Nessuno
cercava persone o cose nuove. Ero arrivato al punto di valutare di fare
l'impensabile: chiedere a mio padre di lavorare con lui, il sabato.
"Scordatelo", mi liquid�, quando ci provai. "Sono un idraulico, non un clown del
circo o un guardiano dello zoo." Stava cenando. E alz� il coltello. "Ora, se
fossi�"
"E d�i, pa'. Posso aiutarti."
Mamma disse la sua. "Andiamo, Cliff, dagli una possibilit�."
Lui fece un sospiro, che suon� quasi come un gemito.
Poi prese una decisione. "Ok", bofonchi�, agitando la forchetta sotto il mio naso.
"Per� alla prima cazzata, alla prima risposta insolente o alla prima stupidaggine
hai chiuso."
"Ok."
Sorrisi.
Sorrisi a mamma, ma stava cenando anche lei.
Sorrisi a mamma, a Rube, a Sarah e persino a Steve, ma erano tutti intenti a
cenare, perch� la faccenda era chiusa, e non � che suscitasse particolare
eccitazione. L'unico elettrizzato ero io.
Anche al lavoro, il sabato successivo, mio padre non sembr� cos� entusiasta di
avermi con lui. La prima cosa che mi fece fare fu infilare una mano nel gabinetto
di un'anziana, per rimuovere l'ostruzione. La verit�? Per poco non vomitai nella
tazza.
"Oh, al diavolo!" mi lamentai, la voce bassa e stridula, e mio padre si limit� a
sorridere.
"Benvenuto nel mondo degli adulti, figliolo", mi disse, e poi non sorrise pi� per
tutto il resto della giornata. Fece fare a me i lavori pi� duri, come tirare gi� i
tubi dal tetto del furgone, scavare un fossato sotto una casa, aprire e chiudere le
condutture, o raccogliere e pulire gli attrezzi. Alla fine mi diede venti dollari
e, sorprendentemente, mi ringrazi�.
"Grazie dell'aiuto, ragazzo."
Rimasi scioccato, perch� non me l'aspettavo.
Scioccato e felice.
"Anche se devo dirti che sei un po' lento", aggiunse subito dopo, per sminuirmi. "E
fatti una doccia, appena arriviamo a casa�"
La pausa pranzo era stata un po' strana. Ci eravamo seduti su due secchi rovesciati
vicino al furgone di pap�, e lui mi aveva fatto leggere il giornale. Aveva tolto le
pagine centrali e mi aveva lanciato il resto.
"Leggi", mi aveva ordinato.
"Perch�?"
"Perch� non imparerai niente finch� non avrai la pazienza di sederti a leggere. La
tv te la toglie. Ti svuota la mente."
Inutile dire che ficcai la testa in quel giornale e che mi misi a leggere. Avrebbe
potuto tranquillamente licenziarmi perch� non leggevo quando mi veniva imposto di
farlo.
La cosa pi� importante fu che sopravvissi, e che a fine giornata mi ritrovai con
venti dollari in pi�.
"Sabato prossimo?" gli chiesi una volta arrivati a casa.
Lui annu�.
Il fatto � che non potevo immaginare che quel lavoro mi avrebbe portato ai piedi di
una ragazza migliore addirittura dell'infermiera dello studio dentistico. Sarebbe
successo di l� a qualche settimana e, quando fosse accaduto, avrei avvertito un
cambiamento dentro di me.
La sera di quel primo sabato, tuttavia, varcai la porta di casa tutto orgoglioso.
Scesi nel seminterrato, dove c'� la stanza di Steve - Steve esce sempre il sabato
sera -, accesi il suo vecchio stereo e mi misi a ballare. Cantai, come fanno i
poveri sfigati quando sono soli, e mi dimenai. Sembravo uno scemo. Ma non te ne
importa un accidenti, se non ti vede nessuno.
Poi arriv� Rube, senza che me ne accorgessi.
Mi guard�.
"Pietoso." La sua voce mi sciocc�.
Mi fermai.
"Pietoso", ripet�, mentre chiudeva la porta e lentamente, deliberatamente, andava
verso i gradini vecchi e consumati.
Subito dopo entr� pap�. "Ho quattro cose da dirvi. La prima: la cena � pronta. La
seconda: fatevi una doccia. La terza�" e qui si rivolse a mio fratello "�va' a
raderti." Gli lanciai una breve occhiata, e vidi delle chiazze di barba sul suo
viso. Stava diventando folta, gli cresceva con regolarit�, ormai. "E infine la
quarta: stasera guardiamo Il buono, il brutto, il cattivo e, se uno di voi
preferisce qualcos'altro� sfortunatamente il televisore � prenotato."
"Non c'importa", gli assicur� Rube.
"Giusto perch� dopo non vi lamentate."
"Giusto perch� dopo non vi lamentiate", lo corressi. Grosso errore.
"Vuoi litigare?" mi chiese puntandomi un dito contro.
"Per niente."
Allora indietreggi�. "Bene. Comunque, venite di sopra, la cena � pronta", disse e,
quando andammo verso di lui, aggiunse: "Ricordatevi che il vostro vecchio pu�
ancora prendervi a calci nel posteriore, se fate i furbi". Ma stava ridendo, e ne
fui felice.
Sulla porta dissi: "Magari riuscir� a mettere da parte i soldi per comprare uno
stereo, come quello di Steve. Forse anche pi� bello".
Pap� annu�. "Non � una cattiva idea." Sapeva essere molto severo, ma credo
apprezzasse che non gli domandassi mai niente. Capiva che le cose volevo
guadagnarmele.
Ed era cos�.
Non volevo niente, gratis.
E, a casa nostra, d'altronde, non c'era mai niente di gratuito.
Rube era curioso.
"Perch� vuoi uno stereo? Per ballare in camera nostra in quel modo pietoso? Come ti
ho visto fare prima?"
Pap� si ferm�, si volt� a guardarlo e gli diede un buffetto sull'orecchio.
"Almeno tuo fratello ha voglia di lavorare, ed � pi� di quanto possa dire di te."
Si volt� di nuovo e aggiunse: "Adesso venite a tavola".
Lo seguimmo di sopra, e io dovetti andare a chiamare Sarah in camera sua. Era con
il suo ragazzo, stavano pomiciando contro l'armadio.
Quella che segue � la scena di un film, in cui io ho un cappio attorno al collo, e
sto aspettando di essere impiccato. Sono seduto su un cavallo. La corda � legata al
ramo pesante di un albero. Anche mio padre, pi� distante, � in sella a un cavallo,
e ha una pistola.
So che c'� una taglia sulla mia testa, da un po' di tempo, e con pap� ho elaborato
un piano: lui mi consegna, incassa la ricompensa e poi spara alla corda quando sto
per essere giustiziato. In qualche modo riuscir� a farla franca, e continueremo con
questa farsa di citt� in citt�.
Sono seduto con il cappio al collo, e indosso degli oltraggiosi vestiti da cowboy.
Lo sceriffo, il poliziotto o chiunque sia mi sta leggendo la sentenza di condanna a
morte, e tutti quei campagnoli che masticano tabacco esultano perch� sanno che sto
per morire.
"Le tue ultime parole?" mi chiedono, ma all'inizio mi limito a ridere.
E loro, sempre ridendo: "Buona fortuna". E aggiungono, sarcastici: "Che Dio ti
benedica".
Da un momento all'altro udir� lo sparo.
Invece no.
Comincio a innervosirmi.
Mi si contraggono i muscoli, involontariamente.
Mi volto, e lo vedo.
Danno uno schiaffo al mio cavallo per farlo partire, e un attimo dopo sono l� che
penzolo, e mi sento soffocare.
Ho le mani legate davanti, e le sollevo per tentare di togliermi la fune del collo.
Non funziona. Con un orribile rantolo esclamo: "D�i! D�i!"
E finalmente.
Lo sparo arriva.
Niente.
"Sto ancora soffocando!" sibilo, ma adesso mio padre sta cavalcando verso la folla.
Fa fuoco di nuovo, e questa volta la fune si spezza e io cado.
Finisco a terra.
Succhio.
Aria.
Meraviglioso.
I proiettili volano tutt'intorno a me.
Allungo la mano ad afferrare quella di pap�, che mi solleva sul suo cavallo mentre
mi passa accanto come un fulmine.
Grandangolo.
Altra scena.
Adesso regna la calma. Pap� ha in mano una dozzina di banconote da cento dollari.
Me ne d� una.
"Una!"
"Esatto."
"Sai", ragiono, "credo proprio di meritare di pi� Dopotutto, sono io che penzolo
con il cappio al collo."
Pap� sorride, lancia via il sigaro masticato.
E parla.
"S�, ma sono io che ti tiro gi�."
Circondato dal deserto, mi rendo conto di quanto mi faccia male la schiena per la
caduta.
Pap� se n'� andato. Rimasto solo, bacio la banconota e dico: "Che tu sia maledetto,
amico". E m'incammino, diretto da qualche parte, aspettando la volta successiva,
sperando di essere ancora vivo.
3.
4.
5.
6.
Ricordate quando ho detto che mi era piaciuto guardare Sarah e Bruce che
camminavano lungo la nostra via, quella domenica sera?
Be', durante la settimana successiva, apparentemente cambi� tutto.
Ci fu anche un altro cambiamento, perch� Steve, che di solito non tornava
dall'ufficio prima delle otto di sera, era a casa. Il motivo era che il giorno
precedente si era preso una storta, giocando a football. Nulla di serio, ci aveva
assicurato, ma luned� mattina si era svegliato con una caviglia grossa quanto la
palla che si usa nel lancio del peso. Per il dottore non avrebbe potuto giocare per
sei settimane, per via di un danno ai legamenti.
"Entro un mese sar� di nuovo in campo, state a vedere."
Era seduto sul pavimento con il piede sostenuto da alcuni cuscini, le stampelle l�
accanto. Sarebbe rimasto a casa due settimane, poich� il suo capo gli aveva dato
met� delle ferie anticipate. E Steve era furioso, non solo perch� in estate non
avrebbe avuto tutte le vacanze, ma perch� detestava starsene fermo a far niente.
Il suo malumore non creava una bella atmosfera in salotto, per Sarah e Bruce.
Marted�, anzich� darci dentro avvinghiati l'una all'altro come al solito,
sembravano incollati al divano dalla tensione.
"Annusa questo cuscino", mi istru� Rube a un certo punto, mentre guardavo quei due
nonostante mi stessi sforzando di non farlo.
"Perch�?"
"Perch� puzza."
"Non mi va."
"Fallo." La sua faccia barbuta si avvicin�, minacciosa, e capii che non avrebbe
accettato un no come risposta.
Mi lanci� il cuscino, e io avrei dovuto prenderlo, sbattermelo sul viso e dirgli se
puzzava. Rube mi faceva fare sempre cose del genere, cose apparentemente ridicole e
senza senso.
"Avanti!"
"Ok, ok!"
"Annusalo, e dimmi se non puzza come il pigiama di Steve."
"Il pigiama di Steve?"
"Esatto."
"Il mio pigiama non puzza." Steve lo fulmin� con un'occhiata.
"Il mio s�", scherzai. Nessuno rise alla mia battuta. Cos� mi voltai di nuovo verso
Rube.
"Tu come fai a sapere che odore ha?" gli chiesi. "Te ne vai in giro ad annusare i
pigiami degli altri? Sei un maledetto annusatore di pigiami, o qualcosa del
genere?"
Rube mi fiss�, impassibile. "Lo senti quando ti passa accanto. Adesso annusa!"
Annusai, e dovetti ammettere che il cuscino non aveva la fragranza di una rosa.
"Te l'avevo detto."
"Fantastico."
Glielo restituii, e Rube lo lanci� al suo posto. Questo era mio fratello. Il
cuscino puzzava. Lui lo sapeva ed era preoccupato. Era disposto a parlarne, ma una
cosa era sicura: non l'avrebbe mai lavato. Eccolo l�, di nuovo in un angolo del
divano, puzzolente. Ne avvertivo ancora l'odore, adesso, ma solo perch� Rube aveva
tirato fuori l'argomento. Probabilmente era solo la mia immaginazione. Grazie,
Rube.
A rendere la situazione pi� imbarazzante c'era il fatto che di solito Sarah e
Bruce, se non erano avvinghiati l'uno all'altra, partecipavano alla conversazione,
anche se stupida. Quel giorno, invece, Bruce non disse niente. Rimasero entrambi
seduti a guardare il film che avevano noleggiato. Senza proferire parola.
Sarebbe meglio sottolineare che, mentre accadeva tutto ci�, io pregavo per Rebecca
Conlon e la sua famiglia. E questo mi port� a farlo anche per la nostra. Pregai di
non deludere pi� mamma, pregai che pap� non si ammazzasse di lavoro prima di aver
compiuto quarantacinque anni. Pregai per la caviglia di Steve. Pregai che Rube
combinasse qualcosa, prima o poi. Pregai che Sarah stesse bene, e che tra lei e
Bruce fosse tutto ok. Che fosse tutto ok. Tutto ok. Era un'espressione che usavo
spesso. La usai anche quando cominciai a pregare per l'intera, stupida razza umana,
e per chiunque in quel preciso momento stesse soffrendo, o morendo di fame, o
esalando l'ultimo respiro, o subendo uno stupro.
Fa' che sia tutto ok, chiedevo a Dio. Per le persone che hanno l'AIDS, o roba
simile. E per quei senzatetto con la barba, vestiti di stracci, con le scarpe rotte
e i denti marci. Fa' che sia tutto ok� Ma soprattutto, fa' che sia tutto ok per
Rebecca Conlon.
Questa storia stava iniziando a farmi impazzire.
Sul serio.
Quando ero sicuro che Sarah e Bruce non mi stessero guardando, li osservavo e mi
domandavo com'era possibile che solo pochi giorni, pochi settimane prima fossero
stati avvinghiati l'una all'altro, ogni minuto.
Come poteva succedere?
La cosa mi spaventava.
Dio, ti prego, proteggi Rebecca Conlon. Fa' che sia tutto ok�
Com'era possibile che cambiasse tutto cos�, da un istante all'altro?
Pi� tardi, quando fui di nuovo in camera mia, sentii il brusio delle loro voci al
di l� della parete, in camera di Sarah. La citt� era buia, a parte le luci dei
palazzi che apparivano simili a piaghe a mostrarne la pelle� come se qualcuno o
qualcosa avesse strappato dei cerotti.
L'unica cosa che sembrava non cambiare mai era la citt� stessa, in quel momento di
transizione tra il pomeriggio e la sera. Diventava sempre tenebrosa, distaccata,
ignara di quanto accadeva. C'erano migliaia di case, e in ognuna di esse stava
succedendo qualcosa. In ognuna di esse si stava dipanando una storia, indipendente
dalle altre. Nessun altro sapeva. A nessun altro importava. Nessun altro sapeva di
Sarah Wolfe e Bruce Patterson, n� gli importava della caviglia di Steven Wolfe.
Nessun altro pregava in continuazione per loro, n� per Rebecca Conlon. Nessuno.
Capii di essere l'unico a preoccuparsi di quello che stava avvenendo, entro le
pareti della mia vita. Le altre persone avevano mondi diversi - i loro mondi - di
cui preoccuparsi, e alla fine dovevano badare a se stesse, proprio come noi.
Non stavo concludendo niente.
Pregavo.
Mi preoccupavo per Sarah.
Pregavo come un pazzo farneticante.
Questo capitolo � piuttosto breve, ma se l'avessi allungato sarei stato un
bugiardo.
Ci� che ricordo, di quella sera, sono le preghiere, la discussione sul cuscino
puzzolente, la caviglia di Steve, la tensione tra Sarah e Bruce.
E la citt� che continuava a esistere, l� fuori. S�, ricordo anche quella.
Il futuro.
� ora di rilassarsi.
Siamo al confine della citt�. Siamo vicinissimi, sembra quasi che basti allungarsi
un po' per toccare gli edifici� per infilarvi una mano e spegnere le luci che
tentano di abbagliarci.
Stiamo pescando, io e Rube.
� la prima volta che andiamo a pesca, ma abbiamo deciso di passare la serata cos�.
Le nostre lenze penzolano in un enorme lago azzurro su cui sta calando l'oscurit�,
e su cui si riflettono le stelle nascenti.
L'acqua � calma, ma viva. La sentiamo, si agita sotto la vecchia barca malandata
che abbiamo noleggiato da un imbroglione sulla spiaggia. Di tanto in tanto, si
sposta. All'inizio non abbiamo paura; anche se nulla � mai stato del tutto stabile,
sappiamo dove siamo, e le cose non si stanno muovendo con troppa rapidit�.
Non prendiamo.
Niente.
Assolutamente. Niente.
"Siamo senza speranza", commenta Rube, che parla per primo.
"Te l'avevo detto che non saremmo dovuti andare a pesca. Chi lo sa che cosa c'� in
questo lago?"
"Anime morte della citt�." Rube sorride, e nel suo sorriso c'� una gioia
sarcastica. "Che cosa facciamo se una abbocca all'amo?"
"Abbandoniamo la nave, fratello."
"Hai ragione."
L'acqua si muove ancora, e lentamente cominciano ad arrivare le onde, anche se non
riusciamo a vedere da dove provengano. Si gonfiano e saltano a bordo, e diventano
sempre pi� minacciose.
Sento un odore.
"Un odore?"
"S�, tu non lo senti?" chiedo a Rube, e dal tono suona come un'accusa.
"In effetti s�, ora che me l'hai fatto notare."
L'acqua � troppo alta, adesso, solleva la barca con noi dentro e poi ci lascia
cadere. Un'onda mi investe il viso, riempiendomi la bocca. Il sapore � grottesco,
brucia, e dalla faccia di Rube comprendo che ne ha inghiottita un po' anche lui.
"� petrolio", mi dice.
"Oh, Dio."
Le onde cominciano a calare, e io mi volto verso una barca pi� vicina alla citt�,
vicino alla costa. Sopra c'� un tizio, con una ragazza. Lui scende a terra, e in
mano ha qualcosa.
Qualcosa che� brilla.
"No!" Mi alzo e allargo le braccia.
Ma non serve a niente. Lui si accende una sigaretta.
E poi vedo una persona che gira per la baia, concentrata. Chi �? mi domando, e su
un'altra barca ancora ci sono un uomo e una donna di mezza et�, che stanno remando.
Il tizio getta la sigaretta in acqua.
Fiammate rosse e gialle mi entrano negli occhi.
Oblio.
7.
Il gioved� di quella settimana, Rube mi convinse con l'inganno a partecipare a un
nuovo esodo� ad abbandonare le nostre consuete spedizioni a scopo di rapina.
Cartelli stradali.
Era questo il nuovo piano.
Era ancora pomeriggio quando gli venne l'idea, e mi spieg� quale intendeva rubare.
"Il �dare la precedenza'. In Marshall Street." Sorrise. "Usciamo di nascosto
intorno alle undici, con una chiave di pap� quella che si adatta strofinandoci un
affare sopra�"
"La chiave inglese regolabile?"
"S�, quella� Ci tiriamo su il cappuccio, camminiamo come se niente fosse, tipo Mark
Waugh alla battuta, poi io salgo sulle tue spalle e ci prendiamo il cartello."
"Per farci che?"
"Che cosa significa �per farci che'?"
"A che scopo dovremmo prenderlo?"
"Scopo?" Rube era� qual � l'aggettivo giusto? Esasperato, ecco. Frustrato. "Non ci
serve uno scopo, bello. Siamo minorenni, siamo sporchi, non abbiamo una ragazza,
abbiamo il moccio al naso, la gola in fiamme, siamo coperti di croste, l'acne ci
perseguita, non abbiamo una ragazza - l'ho gi� detto? -, siamo due squattrinati,
mangiamo quasi tutte le sere carne e funghi trifolati affogati nel sugo di pomodoro
per non sentirne il gusto. Serve qualche altra motivazione?" Gett� la testa
all'indietro, sul letto, e fiss� disperatamente il soffitto. "Non chiediamo molto,
santo Dio! Lo sai!"
Dunque era questa.
La missione successiva.
Giuro, quella sera eravamo due selvaggi, esattamente come Rube ci aveva descritti
nel suo sfogo. Rimasi scioccato all'idea che ci conoscesse cos� bene. Come io ci
conoscevo. Ma Rube ne era orgoglioso.
Forse non sapevamo chi eravamo, per� di certo sapevamo che cosa eravamo, e questo
per Rube significava che compiere atti vandalici - come rubare cartelli stradali -
era la cosa logica da fare. Di sicuro non gli andava di pensare che saremmo potuti
finire in cella, se non fossimo stati prudenti.
Ovviamente eravamo consapevoli di non avere nessuna possibilit� di successo.
L'unico problema � che ci provammo comunque.
Ce la svignammo dalla porta sul retro quando mancava un quarto d'ora alla
mezzanotte, con il cappuccio calato sulla fronte e i passi che ci portavano avanti.
Camminavamo piano, addirittura con un atteggiamento da duri, il fiato che formava
una nuvola uscendo dalla bocca, le mani in tasca, e con sussurri di grandezza
infilati nei calzini. Annusando e respirando squarciavamo l'aria davanti a noi, e
io mi sentivo un po' come quel tale, Giulio Cesare, che partiva per conquistare un
altro impero� mentre stavamo solo andando a rubare un penoso triangolo grigio e
rosa che sarebbe dovuto essere bianco e rosso.
Dare la precedenza.
"Io direi piuttosto �dare in beneficenza', visto com'� ridotto", ridacchi� Rube
appena arrivammo sul posto. Poi prov� a montarmi sulle spalle, scivol� e riprov�.
"Ok", sussurr� quando ebbe trovato l'equilibrio. "Chiave."
"Eh?"
"Chiave, stupido." Il suo bisbiglio usc� aspro, e form� del fumo fitto nell'aria
fredda.
"Oh, giusto. Me n'ero scordato."
Gli passai la chiave, e lui cominci� a svitare il cartello all'incrocio tra
Marshall e Carlisle Street.
"Cristo, questo maledetto affare � durissimo", imprec�. "C'� talmente tanta ruggine
sul bullone che resta attaccata al dado. Continua a tenermi, ok?"
"Inizio a essere stanco", accennai.
"Be', devi superarla. La barriera del dolore. Coraggio, ragazzo. Tutti i grandi lo
fanno."
"I grandi che? Ladri di cartelli stradali?"
"No", rispose tagliente. "Gli atleti, teppista!"
E poi giunse un'esclamazione di trionfo.
"S�", annunci� Rube. "Ce l'ho fatta." Salt� gi� dalle mie spalle con il cartello, e
in quel momento si accese una luce in uno degli appartamenti del condominio
fatiscente all'angolo della strada.
Una donna usc� sul balcone e sospirando ci rimprover�: "Ah, ma quand'� che
crescerete?"
"Andiamo." Rube mi stratton� per il maglione. "Andiamo, andiamo, andiamo!"
E corremmo via ridendo, con Rube che teneva il cartello sollevato sopra la testa, e
gridava: "Oh, s�!"
Quando rientrammo in casa, sentivo ancora l'adrenalina scorrermi nelle vene. Poi,
in camera nostra, svan� lentamente. Rube spense subito la luce, fece scivolare il
cartello sotto il suo letto e mi minacci�, tanto per ridere: "Dillo a mamma o a
pap�, e giuro che te lo ficco in gola". Ridacchiai, e poco dopo mi addormentai,
cullato da voci gentili di donne che sospiravano davanti a spettacoli spiacevoli,
nel cuore della notte. Pensai anche a Rebecca Conlon, prima di crollare, e ricordai
che in alcuni momenti, mentre camminavamo per strada e mentre rubavamo il cartello,
avevo finto che lei mi stesse osservando. Difficile dire se le sarei piaciuto, o se
mi avrebbe trovato un perfetto idiota. Pi� probabile la seconda.
"Ah be'", sussurrai tra me e me, sotto le coperte. "Ah, be'." E cominciai a pregare
per lei e per tutte le persone per cui avevo pregato ultimamente. Avevo ceduto al
sonno da poco, quando feci un sogno. Un brutto sogno. Un vero e proprio incubo.
Presto lo vedrete�
L'indomani mattina, Rube tir� fuori il cartello per ammirarlo in tutta
tranquillit�, in camera nostra. Io stavo tornando dal bagno, dove mi ero appena
fatto una doccia.
"Una meraviglia, eh?" mi disse.
"Gi�." Ma non ero troppo entusiasta.
"Che ti prende?"
"Niente." Era colpa dell'incubo.
"Ok." Mise via il cartello e fece capolino in corridoio. "Ehi", esclam�, "hai di
nuovo lasciato aperta la porta del bagno� l'hai fatto apposta, perch� entrasse il
freddo ora che devo lavarmi io?"
"Me ne sono dimenticato."
"Be', vedi di tenerlo a mente, la prossima volta."
Si allontan�, ma io dopo poco lo seguii, con i capelli bagnati che si sollevavano
in tutte le direzioni.
"Aspetta, devo dirti una cosa."
"Ok." Sentii l'acqua della doccia che scorreva, la serratura che si apriva, la
tenda che veniva tirata, e poi la sua voce: "Entra!"
Entrai e andai a sedermi sul water, chiuso.
"Allora?" mi chiese. "Di che si tratta?"
Cominciai a raccontargli il mio brutto sogno, e nel caldo del bagno avvertii un
altro tipo di calore, ancora pi� forte, che sembrava venire da me. Mi occorsero un
paio di minuti per spiegargli tutto.
Alla fine, lui mi disse: "E quindi?" Il vapore si stava infittendo.
"Che cosa facciamo?"
L'acqua della doccia si ferm�.
Rube sbuc� dalla tenda.
"Passami quell'asciugamano."
Obbedii.
Mio fratello si asciug� e usc�, aprendosi un varco nel vapore con questa frase:
"Be', � senz'altro un sogno angosciante, bello".
Non poteva neanche lontanamente immaginare quanto. Ero stato io a farlo. Ero stato
io a credervi. Io a�
Mettere fine.
A tutto questo.
No�
Ero stato io a svegliarmi nell'oscurit� del nostro trionfo, sudato fradicio, con un
urlo silenzioso sulle labbra.
E adesso, in bagno, suggerii: "Dobbiamo rimettere quel cartello al suo posto".
Ma Rube aveva altre idee, al riguardo. O almeno all'inizio.
Si avvicin� e propose: "Possiamo chiamare l'ente che fa manutenzione alle strade e
dire che bisogna sostituirlo".
"Ma ci impiegheranno settimane."
Rube fece una pausa, e poi disse: "S�, giusto". Infelicit�. "Le condizioni delle
strade, da queste parti, sono una vergogna per l'intera nazione."
"Quindi che si fa?" gli chiesi ancora. Ora mi stavo preoccupando sul serio, per la
sicurezza della gente in generale, e anche perch� pi� o meno un anno prima avevo
visto un servizio al telegiornale su dei ragazzi americani che si erano beccati
vent'anni per aver rubato un cartello, causando un incidente mortale. Cercatelo in
internet, se non mi credete. � successo davvero.
"Cosa facciamo?"
Per tutta risposta� Rube non mi rispose subito.
Usc� dal bagno, si vest� e poi si nascose la testa tra le mani, mentre si sedeva
sul mio letto.
"Che altro possiamo fare?" mi domand�, la voce quasi supplichevole. "Lo rimettiamo
al suo posto, suppongo."
"Davvero?"
Eravamo due selvaggi, s�.
Due selvaggi spaventati.
"S�." Era disperato. "S�. Lo rimettiamo al suo posto." Sembrava quasi che avessero
rubato qualcosa a lui� ma che cosa? Perch� aveva bisogno di prendersi ci� che non
gli apparteneva? Voleva solo sapere che cosa si provava a infrangere le regole, e a
godere nel comportarsi male? Forse Rube si sentiva un fallito, e rubando voleva
dimostrare qualcosa a se stesso. Forse voleva essere come l'eroe di quei film
americani che guardiamo in tv. Francamente, non avevo idea di che cosa gli passasse
per la testa, fine della storia.
Prima di andare a scuola, tir� fuori il cartello e gli rivolse un'ultima occhiata,
triste e adorante.
Quella sera, era un venerd�, intorno alle undici andammo a rimetterlo al suo posto,
e grazie a Dio non ci vide nessuno. La situazione sarebbe stata piuttosto ironica:
farci beccare per aver rubato un cartello, mentre in realt� lo stavamo restituendo
alla citt�.
"Bene", disse mio fratello, una volta arrivati a casa. "Siamo tornati a mani vuote,
come al solito."
"Mmm." In quel momento, non mi veniva nemmeno una parola.
Una cosa che non scorder� mai di quella notte � che, quando rincasammo, Steve era
fuori, al freddo. Le stampelle erano poco distanti, perch� la caviglia era ancora
messa male. Era seduto sulla nostra vecchia veranda, con una tazza appoggiata sulla
balaustra.
E, mentre costeggiavamo furtivamente un lato della casa, in pratica ignorandolo,
sentii la sua voce.
E tornai indietro.
"Cosa?" domandai, in tono assolutamente normale, come se m'interessasse quello che
aveva detto.
E lui lo ripet�.
"Non riesco a credere che siamo fratelli."
Scosse la testa.
E poi parl� ancora.
"Siete due perdenti."
Se volete la verit�, a farmi male fu il tono vuoto con cui lo disse. Sembrava quasi
che ci trovassimo talmente in basso, rispetto a lui, che non gli sarebbe potuto
importare di meno di quello che combinavamo. Poi, pensando a ci� che avevamo appena
fatto, riuscii quasi a capire il suo punto di vista. Come poteva Steven Wolfe avere
il nostro stesso sangue? Il nostro e quello di Sarah, del resto.
Ciononostante, mi fermai solo un attimo prima di andare via, mentre un rumore acuto
che sentivo dentro di me mi apriva la testa a met�. Era simile a un piagnucolio,
come se qualcosa nel mio cervello fosse rimasto ferito.
Tornati in camera nostra, chiesi a Rube in che punto della parete aveva pensato di
appendere il cartello. Forse lo feci per dimenticare quello che Steve mi aveva
detto poco prima.
"Qui?"
"Nah."
"Qui?"
"Nah."
"Qui?"
Dovetti aspettare parecchio per avere una risposta, e quella sera la luce rest�
accesa a lungo, mentre Rube rifletteva su cose che non avrei mai saputo. Se ne
stava sdraiato sul letto, ad accarezzarsi con delicatezza la barba, come se non gli
fosse rimasto altro.
Quando mi fui disteso sul letto anch'io, pensai intensamente al fatto che il giorno
dopo sarei tornato a lavorare dai Conlon. Da Rebecca Conlon. Avevo avuto
l'impressione che quel momento non sarebbe mai arrivato, e invece l'indomani sarei
tornato l�. Scordatomi di Rube e di Steve, fui invaso da una bella sensazione: ero
vivo, con la coscienza libera, in attesa di una ragazza per cui valeva la pena di
pregare.
Dopo un bel po', Rube fece un'affermazione.
"Cameron. Quel cartello non l'avrei appeso da nessuna parte."
Mi voltai dalla sua parte. "Perch� no?"
"Lo sai perch�", mi rispose, lo sguardo fisso sul soffitto, muovendo soltanto le
labbra. "Perch�, se l'avesse visto mamma, mi avrebbe ucciso all'istante."
C'� un'auto che vaga per la citt�. � arancione, grande, e fa quel rumore forte e
minaccioso che fanno macchine del genere. Percorre le strade rombando, anche se si
ferma sempre ai semafori rossi, agli stop e simili.
Cambio di scena.
Rube e io stiamo camminando, fuori dal cancello davanti a casa, teoricamente per
andare alla partita di Steve, anche se sono circa le due del mattino. Fa freddo.
Avete presente quel freddo malato? Quel freddo che, non so come, respira. Si scava
una via nella bocca, brusco, nocivo.
Una domanda.
Rube: "Pensi mai di suonarle al vecchio?"
"Al nostro?"
"Certo."
"Perch�?"
"Non lo so� non credi che sarebbe divertente?"
"No, non credo."
Dopo restiamo in silenzio, e continuiamo a camminare. Trasciniamo i piedi, ogni
tanto ci passa accanto una macchina. I taxi ci superano e sbandano, un camion della
nettezza urbana arranca per il peso eccessivo. L'auto arancione sfreccia,
ringhiando.
"Idioti", fa Rube.
"Decisamente."
Mentre lo dice, la macchina sfreccia e la sentiamo allontanarsi� ma un attimo dopo
torna indietro da una strada laterale, e ce la ritroviamo alle spalle.
Cambio di scena.
Rube e io siamo all'angolo tra Marshall e Carlisle Street. Rube si accovaccia. Si
avvicina un'auto che, a giudicare dal motore, non camminer� ancora a lungo. Si
accovaccia, e tiene tra le gambe il cartello che abbiamo rubato. Mi accorgo che il
palo � spoglio. � solo un palo piantato nel cemento.
Ed ecco.
L'auto arancione risale Marshall Street, quasi alimentata dalla sua stessa
velocit�, avida.
Quando ci raggiunge, sta praticamente volando.
Non c'� nessun cartello.
Nessuno.
Ci supera rapidissima e, mentre chiudo gli occhi di colpo, sento un rumore di
metallo che si avvolge attorno ad altro metallo, un urlo, e una pioggia ritardata
di vetri infranti.
Rube � accovacciato.
Io sono in piedi, gli occhi ancora chiusi.
Il silenzio mormora qualcosa.
� dappertutto.
Sollevo le palpebre, e ci avviamo.
Rube lascia cadere il cartello e lentamente, in preda a un panico che ci fa
tremare, andiamo verso le auto che paiono essersi aggredite, mordendosi.
Gli occupanti� � come se fossero stati inghiottiti.
Sono morti, coperti di sangue, mutilati.
Sono morti.
"Sono morti!" urlo a Rube, ma dalla mia bocca non esce niente. La voce non c'�.
Poi, un cadavere si alza.
Quegli occhi sembrano prendermi a pugni e, quando la persona grida, il suono nelle
mie orecchie � insopportabile. Mi costringe a buttarmi a terra, e a premere le mani
contro i lati del viso.
8.
Quando tornai dai Conlon con mio padre, la mattina dopo, il cuore mi batteva cos�
forte che sentivo quasi un dolore fisico. Nella gola mi pompava qualcosa che
favoriva la produzione di saliva. E di domande.
Che cos'avrei detto?
Come mi sarei comportato, quando l'avessi vista?
Sarei stato simpatico?
Calmo?
Indifferente?
Avrei avuto quello stile timido e sensibile che in passato non mi aveva mai
permesso di combinare un accidente?
Non ne avevo idea.
Sul furgone, mentre andavamo l�, temetti di essere sul punto di soffocare. Ecco che
effetto mi faceva quella ragazza. E la sensazione era sempre pi� prepotente via via
che ci avvicinavamo a casa sua. Arrivai addirittura a sperare di trovare un
semaforo rosso, cos� da guadagnare qualche secondo in pi� per riflettere. Buffo.
Avevo avuto l'intera settimana per prepararmi, e adesso che era sabato non sapevo
che fare. Forse ci avevo pensato troppo. Forse avrei dovuto passare meno tempo a
preoccuparmi per Sarah e Bruce, e per Steve, o a rubare cartelli stradali con Rube
per poi rimetterli al loro posto. Allora, forse, la mia situazione personale non ne
avrebbe risentito. E sarebbe andato tutto bene.
Se�
Soltanto�
Ma no, era inutile.
Era tutto perduto.
Quando saremo l�, mi dissi, far� meglio a ficcare la testa nella buca e a scavarne
una per me. Alle ragazze non piacevano quelli come me. Se solo avevano un minimo di
rispetto per se stesse, come facevano anche solo a sopportarmi? Con quei capelli
perennemente in disordine. Le mani e i piedi sporchi. Il sorriso irregolare. La
camminata zoppicante di una persona ansiosa. No, non andava affatto bene. Zero.
Arrivai persino a farmi una ramanzina. Guardiamo in faccia la realt�: tu una
ragazza non la meriti. Giusto. Non la meritavo. Nella migliore delle ipotesi davo
segno di avere un dubbio senso della morale. Mi lasciavo trascinare da mio
fratello. Compivo azioni patetiche, meschine, per una sorta di orgoglio selvaggio
che era talmente ridicolo da sfuggire alla comprensione. Non ero che un ammasso di
cellule disperato e ansimante, che si arrabattava per scovare qualcosa che lo
facesse stare bene�
E poi. All'improvviso.
In un attimo, mi ritrovai a pensare a quanto fosse strano il fatto che non pregassi
mai per me stesso. Forse per me non c'era possibilit� di salvezza? Ero cos� sporco
da non essere degno nemmeno di una preghiera? Forse. Probabile.
Eppure, ho convinto Rube a rimettere a posto il cartello, razionalizzai. Quindi,
forse non ero tanto cattivo.
Ecco, cos� andava un po' meglio� un pensiero positivo, mentre il furgone di pap�
viaggiava rumorosamente per condurmi al mio destino.
Quando ci fermammo davanti alla casa, cominciai addirittura a credere, seppure per
qualche istante fugace, di non essere brutto e pervertito come mi ero considerato
fino a quel momento; e ipotizzai di essere del tutto normale. Mi torn� in mente
quello che mi ero detto il giorno in cui ero entrato nello studio del dentista: che
i ragazzini sono disgustosi, come bestie. Forse, la sfida consisteva nell'elevarsi
al di sopra di quella condizione. Forse era questo che cercavo, con Rebecca Conlon.
L'opportunit� di dimostrare che sapevo essere carino e rispettabile, e non solo un
terribile adolescente fissato con il sesso. Volevo la possibilit� di trattarla
bene, ed ero convinto che non avrei mandato tutto a puttane.
Non potevo.
No, non potevo permetterlo.
"Non mander� tutto a puttane", sussurrai tra me e me, mentre scendevo dal furgone.
Respirai a fondo, come se stessi andando incontro alla cosa pi� importante di tutta
la mia vita. E poi capii. Capii che era davvero la cosa pi� importante della mia
vita.
"Prendi." Mio padre mi pass� un badile, e per tutta la mattina lavorai sodo
aspettando di veder arrivare Rebecca. Poi, da una conversazione tra pap� e sua
madre, scoprii che non c'era. Era rimasta a dormire da un'amica.
"Fantastico", dissi, nello spazio tra la lingua e la gola.
E sapete quale fu la parte peggiore?
Realizzare che, se Rebecca fosse dovuta venire a lavorare da me, io mi sarei
assicurato di esserci, per incontrarla. S�, sarei stato l�. Mi sarei inchiodato al
pavimento due giorni prima, se mi avessero informato del suo arrivo, per essere
sicuro di non perdermela.
"Davvero", confermai a me stesso, senza smettere di lavorare.
E lavorai fino a raggiungere una sorta di torpore. Persino mio padre mi chiese se
stessi bene. Gli risposi di s�, ma sapevamo entrambi che stavo da schifo.
A fine giornata - Rebecca non era ancora tornata - pap� mi diede dieci dollari
extra. "Oggi hai lavorato bene, figliolo", si compliment�. Poi si allontan�, ma
solo per girarsi poco dopo. "Cameron."
"Grazie", dissi e, nonostante gli sforzi, il sorriso che gli rivolsi era
terribilmente infelice.
"L'avrei trattata bene", dissi alla citt� fuori dalla finestra, una volta a casa,
ma non serv� a niente. Alla citt� non importava, e nella stanza accanto Sarah e
Bruce stavano litigando.
Entr� Rube, che si butt� sul suo letto a pancia in gi�. Si mise il cuscino sopra la
testa. "Credo che mi piacessero di pi� quando non facevano che pomiciare", si
lagn�.
"S�, pure a me."
Mi buttai sul letto anch'io, ma supino, e mi coprii gli occhi con le mani. Mi
schiacciai i bulbi con i pollici fino a vedere dei disegni nel buio.
"Che cosa c'� per cena?" chiesi a Rube, e gi� temevo la risposta.
"Salsicce, mi pare. E funghi avanzati."
"Ah, meraviglioso." Mi girai sul fianco, sofferente. "Meraviglioso, cazzo."
Rube si tolse il cuscino dalla testa e afferm�, serio: "E la salsa di pomodoro �
terminata".
"Ancora meglio."
Allora rimasi in silenzio, ma dentro di me i gemiti non si fermarono. Dopo un po',
stanco, mi dissi: Non preoccuparti, Cameron. Ciascuno di noi ha una possibilit�.
Gi�, ma non quel giorno.
(A proposito, a cena mangiammo i funghi. Abbassammo gli occhi per guardarli, poi li
alzammo. E li abbassammo di nuovo. Disgustosi. Inutile tirarsi indietro. Li
mangiammo perch� eravamo noi, e alla fine mangiavamo tutto. Sempre. Mangiavamo
sempre tutto. Se avessimo vomitato l'intera cena, e ci fosse stata riproposta la
sera dopo, probabilmente avremmo buttato gi� anche quella.)
C'� una gran folla, attorno al combattimento. Gridano, urlano, strillano, mentre i
pugni colpiscono il bersaglio, e modellano le facce cambiando i connotati. � una
folla enorme, ci sono almeno otto file di persone, quindi devo faticare parecchio
per aprirmi un varco.
Mi metto in ginocchio.
Striscio.
Cerco dei buchi tra le gambe e mi ci infilo, finch� non arrivo in prima fila. Sono
davanti. La gente ha formato un cerchio gigantesco, fitto.
"Vai!" sbraita il tizio accanto a me. "Picchia duro!"
Ma io guardo la folla. Non il combattimento. Non ancora, almeno.
Ci sono uomini d'ogni genere. Magri. Grassi. Neri. Bianchi. Gialli. Hanno tutti gli
occhi fissi sul centro del ring, e urlano.
Quello pi� vicino a me non fa che strillarmi nell'orecchio, la sua voce mi trapana
il cranio per arrivare al cervello. La sento nei polmoni. Questo per darvi un'idea
del volume. Non c'� niente che lo fermi, nemmeno quelli dietro che lo insultano per
farlo stare zitto. Non serve a nulla.
Provo a zittirlo io, facendogli una domanda - un urlo che si leva al di sopra della
folla. "Per chi tifi?"
Lui tace, immediatamente.
Guarda fisso.
Il combattimento. Poi me.
Passa qualche altro secondo, e poi dice: "Per il perdente� per forza". Fa una
risatina, comprensivo. "Devo tifare per chi sta perdendo."
Solo allora mi giro verso il ring, per la prima volta.
"Ehi."
C'� qualcosa di strano.
"Ehi", dico ancora a quel tipo, perch� al centro del cerchio enorme, chiassoso e
pulsante c'� un solo sfidante. Un ragazzo. Un ragazzo che mena pugni alla cieca, si
sposta, para e colpisce il niente. "Ehi, com'� che c'� un solo sfidante?" Lo chiedo
di nuovo al mio vicino.
Ma questa volta lui non mi guarda. Resta concentrato sul ragazzo, impegnato a
combattere con una tale intensit� che nessuno riesce a togliergli gli occhi di
dosso.
Poi mi parla.
Una risposta.
"Sta lottando contro il mondo." E poi guardo il perdente al centro del cerchio, che
continua a battersi, resta in piedi, cade e si solleva di nuovo, per poi
ricominciare. Continua a combattere, senza badare alle volte che finisce al
tappeto. Si rialza sempre. Qualcuno lo incita. Altri ridono e lo bersagliano di
rifiuti.
Una sensazione nasce dentro di me.
Guardo.
Gli occhi mi si riempiono di lacrime, mi bruciano.
"Pu� farcela?"
Lo chiedo ad alta voce, e adesso neanch'io riesco a smettere di fissarlo.
9.
La domenica, Rube prese un'altra batosta sul campo di football, la squadra di Steve
perse - senza di lui - e io vagai per le strade della citt�. Non avevo voglia di
andare a casa. Capita. Avete presente, no? Era giunto il momento di fare il
bilancio.
All'inizio lasciai che i tristi eventi del giorno prima offuscassero il mio
cammino. Ero oltre il campo di football, mi stavo addentrando nella citt�, e devo
dirvi che in giro c'erano tante di quelle persone strambe che, quando entrai a
casa, fui davvero felice di esserci tornato.
Indossavo jeans e anfibi, e quella mattina mi ero fatto una doccia e mi ero lavato
i capelli. Li sentivo sollevarsi in quel loro modo incontrollabile, come se
volessero smascherarmi, ma essere pulito mi comunicava una piacevole sensazione.
Forse il vecchio ha ragione, mi dissi. Tutto quel gran parlare del fatto che siamo
sporchi, che siamo una disgrazia� Suppongo sia ok sentirsi puliti.
Mi lasciai alle spalle i soliti negozi. Bar, fish and chips. Superai anche un
barbiere, dove un tizio calvo stava tagliando i ricci di un cliente con una ferocia
che mi spavent�. Mi capita sempre di vedere cose del genere: delicate molestie nei
confronti di un essere umano, che mi fanno inciampare o perdere l'equilibrio per la
sorpresa. Quando non mi fanno agitare, mettendomi in imbarazzo. Quel giorno,
d'impulso provai a schiacciarmi i capelli, che per� tornarono subito a rizzarsi.
Alla fine, quella giornata e quella camminata non portarono al processo di
ringiovanimento in cui avevo sperato.
Proseguii.
L'avete mai fatto?
Avete mai camminato� tanto per farlo?
Senza avere idea di dove state andando?
La sensazione che provavo non era bella, ma nemmeno brutta. Mi sentivo in gabbia e
libero al tempo stesso, quasi che il fatto di non stare n� alla grande n� da schifo
dipendesse soltanto da me. Come sempre, il traffico della domenica mi riecheggiava
intorno, accrescendo la mia impressione di non appartenere a nessun posto. Non
c'era niente di fisso. Tutto era in movimento. Si trasformava in qualcosa.
Esattamente come me.
Da quando provavo dei sentimenti per una ragazza?
Da quando m'importava di mia sorella, e di quello che stava succedendo nella sua
vita?
Da quando mi preoccupavo di ci� che passava per la testa a mio fratello Rube?
Da quando ascoltavo Steve il Vincente, e davo peso al fatto che potesse
disprezzarmi?
Da quando vagavo senza meta? Da quando mi aggiravo per le strade quasi
furtivamente?
E poi capii.
Io ero solo.
Gi�, solo.
Inutile negarlo.
Era cos� di sicuro.
Vedete, in vita mia non avevo mai avuto molti amici. A parte Greg Fienni, non avevo
mai avuto degli amici veri. Me ne stavo per i fatti miei. Odiavo questa cosa, ma ne
andavo anche fiero. Cameron Wolfe non aveva bisogno di nessuno. Non aveva bisogno
di contare su un branco. Non tutti sono uguali, non tutti se ne vanno in giro in
gruppo. No, a lui bastava il suo istinto. Aveva bisogno soltanto di se stesso, e
poteva sopravvivere a incontri di boxe nel cortile dietro casa, a rapine e a
qualunque altra azione vergognosa fosse capitata lungo il mio cammino. Allora
perch� adesso mi sentivo cos� strano?
Siamo onesti.
Doveva essere per via di quella ragazza.
Per forza.
No.
Doveva essere un po' per tutto.
Perch� quella era la mia vita.
E si stava complicando.
La mia vita. Mentre passeggiavo in quella strada dove tutti andavano di fretta,
vedevo il cielo sopra di me. E poi edifici, appartamenti squallidi, un sudicio
negozio di sigari, un altro barbiere, fili elettrici, rifiuti nei canali di scolo.
Un disperato mi chiese qualche spicciolo, ma non ne avevo. La citt� era
tutt'attorno a me, inspirava ed espirava come i polmoni di un fumatore.
Mi fermai quasi all'istante, non appena mi resi conto di non provare pi� nulla di
positivo. Forse la positivit� era sgattaiolata fuori dal sottoscritto ed era finita
nelle mani del derelitto di poco prima. Forse era sparita da qualche parte nella
pancia, e non me n'ero neppure accorto. Adesso c'era solo quest'ansia che non
riuscivo a spiegare. Che brutto spettacolo. Che sensazione tremenda. Era davvero
terribile. Un ragazzino pelle e ossa, che se ne stava l� tutto solo. Era la fine.
Ero solo, e non mi sentivo nemmeno pronto per gestire la situazione.
All'improvviso� esatto, all'improvviso non mi sentivo in grado di gestire quella
sensazione di solitudine.
Sarebbe stato cos� per sempre?
Avrei dovuto convivere per sempre con quel senso di insicurezza? Con quei dubbi
sulla civilt� che mi circondava? Mi sarei sempre sentito tanto piccolo da provare
dolore? Al punto che anche l'urlo pi� fragoroso uscito dalla mia gola sarebbe
suonato come un piagnucolio? I miei passi si sarebbero fermati sempre cos�,
bruscamente, per affondare nel marciapiede?
Sarebbe stato cos� per sempre?
Per l'eternit�?
Eh?
Era una tragedia, ma liberai i piedi che erano sprofondati nel terreno e continuai
a camminare.
Non pensare, mi dissi. Non pensare a niente. Per� anche il niente era qualcosa. Era
un pensiero. S�, era un pensiero, e i canali di scolo erano ancora pieni dei
rifiuti usciti dall'intestino della citt�.
Non credevo di potercela fare, ma andai avanti comunque, cercando di farmi venire
una nuova idea che potesse migliorare le cose.
Non puoi preoccuparti cos�, mi rimproverai pi� tardi, quando ebbi raggiunto la
Stazione Centrale. Ciondolai per un po' nell'edicola, guardando Rolling Stone e
altre riviste. Era una perdita di tempo, ma non mi importava. Se avessi avuto con
me dei soldi, avrei preso il treno fino al molo, solo per guardare il ponte,
l'acqua e le barche. Magari l� ci sarebbe stato un mimo, o qualche altro povero
idiota a cui comunque non avrei potuto dare nemmeno una moneta perch� non ne avevo.
Del resto, se avessi avuto i soldi per il treno, forse li avrei avuti anche per un
umile artista di strada. E magari mi sarei fatto anche un giro in traghetto. Forse.
Forse�
La parola forse stava cominciando a seccarmi, perch� l'unica cosa certa era che mi
avrebbe accompagnato per sempre.
Forse quella ragazza aveva qualcosa per me. Nel suo cuore.
Forse tra Sarah e Bruce si sarebbe sistemato tutto.
Forse Steve sarebbe tornato al lavoro e in campo quanto prima. E forse un giorno
avrebbe smesso di guardarmi con disprezzo.
Forse il mio vecchio sarebbe stato orgoglioso di me, magari una volta finito il
lavoro dai Conlon.
Forse mia madre non avrebbe dovuto stare ai fornelli, la sera, a cucinare salsicce
e funghi, dopo aver lavorato tutto il giorno.
Forse avrei potuto farlo io.
Forse Rube una sera mi avrebbe detto che cosa gli passava per la testa. O forse si
sarebbe fatto crescere la barba fino ai piedi, e sarebbe diventato una specie di
saggio.
Forse a un certo punto mi sarei trovato un paio di buoni amici.
Forse l'indomani mi sarei scordato di tutto questo.
Forse no.
Forse dovrei andare al Circular Quay a piedi, mi dissi, ma poi ci ripensai, perch�
almeno una cosa non era in forse: se fossi arrivato tardi, mamma e pap� sarebbero
andati su tutte le furie.
Dopo aver sentito ripetere cinquanta volte l'annuncio "� in partenza dal binario 17
il treno per MacArthur", o dovunque fosse diretto, mi incamminai verso casa, e
cominciai a vedere i miei dubbi dal punto di vista opposto. Vi � mai successo? � un
po' come quando, durante il viaggio di ritorno da una vacanza, � tutto uguale, ma
sembra leggermente diverso. � perch� lo state guardando al contrario.
Ecco, io mi sentivo cos� e, arrivato davanti a casa, chiusi il cancelletto
d'ingresso, triste e mezzo rotto, entrai e andai a sedermi sul divano. Accanto al
cuscino puzzolente. Di fronte a Steve.
Dopo mezz'ora di repliche di Get Smart e un pezzo di notiziario, ci raggiunse Rube,
che si sedette, guard� l'orologio e disse: "Diavolo, mamma ci sta mettendo un sacco
di tempo a preparare la cena, stasera".
Lo guardai.
Forse lo conoscevo.
Forse no.
Conoscevo Steve perch� era meno complicato. I vincenti sono sempre persone pi�
semplici da capire. Sanno esattamente quello che vogliono e come ottenerlo.
"Purch� non sia la solita", dissi a Rube.
"La che?"
"La solita cena."
"Oh, gi�." Fece una pausa. "Ma non cucina altro, vero?"
Adesso devo ammettere di provare vergogna, quando penso a tutte quelle lamentele
riguardo alla cena, con tanta gente in mezzo a una strada che chiede da mangiare.
Ma ci lamentavamo, e questo � un fatto.
Eppure, ero al settimo cielo appena scoprii che non avremmo avuto funghi quella
domenica.
Forse le cose stavano realmente cominciando a girare per il verso giusto.
O forse no.
Sto correndo.
Sto inseguendo qualcosa che apparentemente non esiste, e continuo a ripetermi che
non sto inseguendo un bel niente. Mi dico che dovrei fermarmi, ma non lo faccio.
Intorno a me la citt� � sferzata dalla luce del giorno, ma in giro non c'� nessuno.
Non c'� nessuno neanche nei palazzi, negli appartamenti, nelle case. Non c'�
nessuno da nessuna parte. Treni e autobus si guidano da s�. Sanno che cosa fare.
Buttano fuori aria, ma sembrano non inspirarne mai. C'� questo unico, costante
sfogo di non-emozione, e io sono solo.
Hanno rovesciato in mezzo alla strada della Coca-Cola, che adesso scorre verso i
tombini come sangue.
Clacson.
Freni che sbuffano, e poi auto che passano oltre.
Io cammino.
Non c'� nessuno.
Proprio nessuno.
Buffo, penso, come tutto possa continuare senza persone. Forse in realt� ci sono,
ma io non le vedo. Le loro vite le hanno consumate, impedendomi di vederle. Forse
le loro anime vuote le hanno inghiottite.
Voci.
Sento delle voci?
A un incrocio un'auto accosta, e ho la sensazione di essere osservato� Ma �
soltanto il vuoto. Quando la macchina riparte, sento una voce, che per� va
affievolendosi.
Mi metto a correre.
Inseguo l'auto, ignorando i semafori per i pedoni che mi mostrano gli omini rossi e
mi martellano le orecchie, nel caso fossi cieco.
Lo sono?
No. Ci vedo.
Continuo a correre, e la citt� intera mi scorre accanto come se fossi spinto da una
forza umano-aliena. Vado a sbattere contro persone invisibili, e continuo a
correre. Vedo� auto, strada, palo, autobus, linea bianca, linea gialla, strisce
pedonali, semaforo verde per i pedoni, che poi lampeggia, semaforo rosso per i
pedoni, smog, canale di scolo, non inciampare, bar, negozio di armi, coltelli da
pochi soldi, musica reggae, disco, spettacolo live di ragazze, manifesto di Calvin
Klein con una donna e un uomo in biancheria intima� enorme. Fili elettrici,
monorotaia, luce verde, arancione, rossa, tutte e tre, vai, fermati, corri, corri,
attraversa, svoltare a sinistra facendo attenzione, vestiti Howard Showers,
tombino, SALVIAMO TIMOR EST, muro, finestra, spirito, SONO ANDATO A PRANZO, TORNO
FRA CINQUE MINUTI.
Non c'� tempo.
Corro, fino a quando i pantaloni non sono a brandelli, finch� le scarpe non si
riducono alle piante dei piedi, con qualcosa intorno alle caviglie. Mi sanguinano
le dita. Entro nelle pozzanghere di Coca-Cola, di birra. Mi schizzano le gambe, poi
scendono gocciolando.
Non c'� nessuno.
Dove sono tutti?
Dove?
Niente volti, solo movimento.
Cado. Sono andato. Mi sono spaccato la testa in un canale di scolo. Riprendo i
sensi.
Pi� tardi.
Le cose sono cambiate, e adesso c'� gente dappertutto. Ovunque dovrebbe essere,
sugli autobus, sui treni, per strada.
"Ehi", esclamo rivolto all'uomo con il completo che aspetta il verde per
attraversare. A vederlo si direbbe che abbia sentito qualcosa ma, quando il
semaforo scatta, parte.
La gente viene verso di me, e giuro che sta cercando di calpestarmi.
Poi capisco.
Mi vengono addosso perch� non possono vedermi.
Adesso sono io quello invisibile.
10.
11.
Il piano era andare a prenderlo in fretta. Perch� lasciar passare una settimana, o
due? Avremmo corso il rischio di veder svanire quel desiderio bruciante di fargli
il culo. E non potevamo assolutamente permettercelo.
Scoprimmo che Bruce Patterson usciva con un'altra tipa da un mese, e che quindi
aveva ingannato nostra sorella continuando a venire da lei. Fu uno schiaffo per
tutti noi sapere di averlo fatto entrare in casa, quando poi se ne andava in giro
con quella troia.
"Dobbiamo spaccargli la faccia?" chiesi a Rube, ma lui si limit� a mettermi in
ridicolo con un'occhiata.
"Sei serio? Guardati! Sembri un chihuahua, e Patterson � tosto, tutto muscoli. Hai
idea di quello che ti farebbe?"
"Be', pensavo che avremmo potuto pestarlo insieme."
"Anch'io sono pelle e ossa", rispose Rube, secco. "S�, mi sta crescendo questa
cavolo di barba, per� Bruce potrebbe ucciderci entrambi."
"Hai ragione."
Quello che accadde dopo era del tutto inaspettato.
Qualcuno buss� alla porta, ma ne usc� un suono come di legno graffiato. Quando
aprii, mi trovai davanti il mio ex migliore amico. Greg.
"Posso entrare?" mi chiese.
"Tu che cosa dici?"
Scostai la zanzariera e lui entr�, dopo aver dato un'occhiata a Steve che era
seduto come sempre in veranda, con la sua faccia torva.
Salut� Rube con un: "Ehi, lupo mannaro", al che mio fratello minacci� di buttarlo
fuori.
"Scusa", gli disse, e poi lo portai in camera nostra.
Si sedette sotto la finestra, contro la parete. In silenzio.
"Be'", feci io dopo un po', sistemandomi sul letto, "se posso, che cosa diavolo ti
porta qui?"
"Ho bisogno di aiuto", fu la risposta, rapida e schietta. Si pass� le mani tra i
capelli, e vidi volare la forfora. Greg aveva sempre avuto quel problema. Gli
piaceva farla cadere sul banco, a scuola.
"Aiuto per che cosa?" domandai.
"Mi servono soldi."
"Quanti?"
"Trecento."
"Trecento! Diavolo, si pu� sapere che cazzo hai combinato?"
"Ah, non chiedermelo. Solo�" Sussult� appena. "Ce li hai?"
"Ges�, trecento� non lo so."
Andai al mio angolo di moquette, che sollevai per tirare fuori i miei risparmi.
Ottanta dollari.
"Be', ho questi." Tirai fuori anche il libretto della banca, e scoprii di averne
altri centotrenta. "Duecentodieci. � tutto ci� che ho."
"Dannazione, amico."
Lo raggiunsi sul pavimento, accanto al mio letto. "Dimmi almeno a cosa servono."
Era restio.
"Dimmelo, o non ti do un bel niente." Era una bugia, e lo sapevamo entrambi.
Sapevamo entrambi che gli avrei dato quei soldi e che non li avrei mai pretesi
indietro. Fine della storia. Ma mi doveva almeno questo. Doveva dirmi dove sarebbe
finito il mio denaro.
"Si tratta di Dale, uno dei miei amici. Lo conosci?" cedette.
Dale Perry.
S�, lo conoscevo bene. Era proprio il genere di persona che odiavo, perch� se ne
andava in giro con l'aria da padrone, ovunque fosse; detestavo la sua spavalderia.
Al corso di Commercio, l'anno prima (materia che personalmente non avrei mai
scelto) aveva preso il suo righello metallico, l'aveva scaldato sul calorifero e
poi me l'aveva messo contro l'orecchio, ustionandomi. Mi aveva fatto un male cane.
Ecco chi era Dale Perry. E inoltre stava nel gruppo numeroso che quel giorno, al
campo, parlava con le belle ragazze.
"Lo conosco", dissi, calmo.
"S� be'� alcuni dei suoi amici pi� vecchi avevano bisogno di qualcuno che ritirasse
dell'attrezzatura. Per trecento dollari."
"Attrezzatura?"
Naturalmente sapevo a che cosa si riferiva, ma pensai di complicargli un po' la
vita. A ben vedere, stavo per dargli tutto quello che avevo, fino all'ultimo
centesimo. Quello che stavo mettendo da parte per comprarmi uno stereo, o
qualcos'altro. Che avevo guadagnato duramente lavorando con pap� i weekend passati.
Stava per finire tutto nel cesso, perch� il mio ex migliore amico si era rivolto a
me, consapevole che ero l'unico che non gli avrebbe detto di no. Nessuno, nel suo
nuovo gruppo, lo avrebbe aiutato, ma il suo primo, vero amico s�.
� strano.
Non credete?
Non � che il tuo vecchio amico sia meglio degli altri. Solo, lo conosci meglio, e
sai che non gli interessa se ti comporti come un povero idiota strisciante. Sa che
faresti lo stesso per lui. E io sapevo che Greg avrebbe fatto lo stesso per me, se
fossi stato io ad avere bisogno.
"Attrezzatura? Di che cosa parli?" gli chiesi.
"D�i che hai capito�"
Non infierii. "S�, ho capito."
"Roba leggera", continu�, "ma parecchia. Erano in dieci a volerla, hanno messo
tutti i soldi, ma non avevano palle di andarsela a prendere." Si lasci� scivolare
un po' di pi� contro il muro. "Non ho avuto nessun problema a ritirarla, il casino
� successo quando ho dovuto tenerla a casa mia una notte."
"Ah ah." Gettai indietro la testa e cominciai a ridere, certo di sapere esattamente
come fossero andate le cose.
"Gi�." Greg annu�. "La mia vecchia l'ha trovata sotto il letto, e mio padre l'ha
buttata nel camino. � stato come firmare una condanna a morte� non riesco a credere
che l'abbia bruciata."
Adesso me la stavo facendo sotto, perch� immaginavo il padre di Greg - un bruto
piccoletto ma tosto, con i capelli ricci, che prorompeva in una sfilza di parolacce
mentre buttava l'erba nel fuoco. Feci ridere anche Greg, che pure continuava a
dire: "Non � divertente, Cam. Non � affatto divertente".
Invece lo era, e fu solo per questo che riusc� a mettere insieme la somma che gli
serviva.
S�, perch� lo raccontai a Rube, che sganci� i novanta dollari mancanti, anche se
minacci� di uccidere Greg se non glieli avesse restituiti nel pi� breve tempo
possibile. Alla fine, decidemmo che io avrei versato a Rube i soldi ricevuti da
pap� durante il mese successivo, e fummo tutti contenti. Poi, Greg mi avrebbe
risarcito.
Quanto a lui, la tensione abbandon� il suo volto. Non era pi� cos� tirato, una
volta avuto in mano il denaro.
Nell'altra stanza, Sarah era sdraiata sul letto, a pezzi.
Per uscire passammo davanti alla sua camera e, raggiunto il cortile, provammo tutti
e tre a fare qualche tiro contro la recinzione.
Stabilimmo dei turni per chi doveva stare in porta. Fu un'idea mia (principalmente
per via del sogno della notte prima), e speravo sul serio di non ritrovarmi con il
naso che sanguinava.
Anche se Rebecca Conlon non c'era, giusto? E quindi mi ritenevo abbastanza al
sicuro.
Ovviamente, il cane del vicino cominci� ad abbaiare, e i pappagalli impazzirono.
A un certo punto Rube chiam� i suoi compagni. Ecco la conversazione:
"Pronto."
"Pronto, Simon? Ruben."
"Ruben. Come stai?"
"Bene. Passi da me?"
"Perch� no� Si pu� fare!"
"Porta pure Cheese e Jeff."
"Ok."
"Ciao."
"Ciao."
Quando arrivarono, organizzammo una partita coi fiocchi.
Continuammo a calciare la palla contro la recinzione, divertendoci un mondo, almeno
finch� mamma e pap� non rincasarono. Avreste dovuto sentire che casino: bam, bam.
Il rumore riecheggiava in tutto il cortile, seguito da strilli e imprecazioni.
Io giocavo con Jeff e Greg, e stavamo vincendo, anche se la nostra squadra era pi�
debole. Ad animarci era la fame.
Quattro a due, e in quel momento il cane del vicino smise di abbaiare.
"Fermi! Fermatevi!" gridai, quando me ne accorsi. "L'avete sentito?"
"Che cosa?"
"Il cane."
"S�. Ha smesso di abbaiare."
Salii in cima alla recinzione e sbirciai dall'altra parte. Non crederete mai a
quello che vidi.
Il cane era morto.
"Cristo, penso che sia morto", esclamai, guardando gli altri.
"Cosa?!"
"Davvero. Date un'occhiata voi stessi."
Rube mi raggiunse.
"Maledizione, mi sa che ha ragione", disse ridendo. "Mi sa che abbiamo fatto venire
un attacco di cuore a quel povero sacco di pulci."
"Ne sei sicuro?"
"O un colpo apoplettico."
"Oh no", gemetti io. "Che cos'abbiamo fatto?"
"Ma che cane �?"
Rube ne aveva avuto abbastanza.
"Non lo so, cazzo!" grid� a Cheese. "Io credo che sia un, un�"
"Un volpino", dissi, al posto suo.
"Che diavolo � un volpino?"
"Uno di quei cani pelosi con il muso da topo", spieg� Cheese. "Secondo me ha
abbaiato fino a non poterne pi�."
Persino i pappagalli in gabbia stavano fissando il cane con aria cupa.
"Dobbiamo fare qualcosa", dissi a Rube.
"Tipo? Fargli la respirazione bocca a bocca?"
"Guardate, sta tremando."
"Oh, magnifico."
Saltai dall'altra parte, mi tolsi la camicia di flanella e la usai per avvolgervi
il cane. Rube mi raggiunse. Gli altri ci guardavano dall'alto della recinzione,
mentre noi due accarezzavamo quel cagnolino peloso domandandoci se stesse davvero
per morire.
Dopo circa un quarto d'ora, il vicino rincas� - un tizio sulla cinquantina pi�
sboccato di tutti noi messi insieme. Devo riconoscere che ebbe un notevole
autocontrollo quando venne fuori di corsa, ci lanci� qualche insulto e prese in
braccio il volpino - che si chiamava Miffy - per portarlo dal veterinario.
"Credete che se la caver�?" ci chiedemmo, a casa nostra.
"Non lo so."
A poco a poco, se ne andarono tutti. Greg per ultimo.
"Accidenti", mormor� scuotendo la testa, mentre usciva. "Mi ero scordato come
fosse, da queste parti."
"Come ai vecchi tempi, eh?"
"Gi�." Annu�. "Il caos."
"Assolutamente."
Era stato davvero come ai vecchi tempi, ma era inutile illudersi che sarebbe
durata. Era chiaro per entrambi che, la prossima volta, sarebbe venuto per
restituirmi il denaro, tutto o in parte. Cos� andava il mondo.
La sera, come immaginavo, qualcuno suon� alla porta. Il vicino.
Venne a dire a mamma e a pap� che non erano in grado di controllarci, e siccome
Rube era l'unico ad avere ancora dei soldi, tocc� a lui pagare la parcella del
veterinario.
A proposito� Miffy, il volpino, stava bene. Aveva avuto solo un piccolo attacco di
cuore. Povero cagnolino con il muso da topo.
Ma per nostra madre fu la goccia che fece traboccare il vaso.
Inizi� a girare intorno al tavolo della cucina, dove eravamo stati costretti a
sederci, gridando e rimproverandoci. Sembrava una pazza. "Perch� continuate a
comportarvi cos�?" url�. "Vi picchiate, fate venire un attacco di cuore al cane del
vicino. Siete una vergogna� Ancora una volta, devo dirvi che mi vergogno di voi."
Persino pap� non pot� fare altro che starsene seduto nell'angolo, in silenzio. Non
osava aprire bocca per timore che poi si avventasse su di lui.
Alla fine perse davvero la testa, prese la spazzatura e, invece di portarla fuori,
la gett� sul pavimento, la riprese e la gett� di nuovo, questa volta ai miei piedi.
"Siete degli animali!" strill�, a voce ancora pi� alta. E poi pronunci� quelle
parole che sembrano sempre fare pi� male delle altre. "Decidetevi a crescere!"
Inutile dire che tocc� a me e a Rube ripulire quel disastro. Portammo fuori i
rifiuti, e non rientrammo. Non ne avemmo il coraggio.
Dalla finestra della sua stanza, Sarah ci guard� e sorrise scuotendo la testa,
immersa nel suo dolore. Stava ridendo, e questo fece ridere anche noi. E indusse
Rube a ritrovare la sua determinazione: "Andremo comunque a prendere Patterson, su
questo non ci piove".
"Dobbiamo", concordai.
Dopo un po', mi misi a riflettere sugli avvenimenti di quella giornata, perch�
adesso dovevo a Rube anche met� della parcella del veterinario. Giuro, andava
sempre peggio.
"Quel maledetto volpino", dissi.
"Pfff", sbuff� Rube. "Un volpino debole di cuore. Poteva capitare soltanto a noi."
C'� un tipo davanti a me. Sono su una strada sterrata, e sta sorgendo il sole.
Quello mi guarda.
Lo guardo anch'io.
Una decina di metri ci separa. Alla fine mi decido a rompere il silenzio.
"Allora?"
"Allora che?" fa lui. Indossa una veste, si gratta la barba, e tenta di togliersi
un sassolino da un sandalo.
"Be', non lo so." Rispondo cos�, mi pare. "Tu chi diavolo sei, tanto per
cominciare?"
Sorride.
Ride.
Rimane dov'�.
Quando � pronto, ripete la domanda e risponde. "Chi diavolo sono io?" Altra
risatina. "Sono Cristo."
"Cristo? Esisti davvero?"
"Certo che esisto, maledizione."
Lo metto alla prova.
"E io chi sono, quindi?"
"A me non interessa chi sei", replica, e viene verso di me, mentre tenta ancora di
togliersi quel sassolino. "Maledetti sandali." Strascica i piedi, e poi continua:
"In effetti, mi interessa cosa sei".
"E cosa sarei?"
"Un miserabile."
"Gi�." Alzo le spalle, assolutamente d'accordo.
"Io posso aiutarti." Adesso mi aspetto che mi dica quella frase che usano gli
insegnanti delle Sacre Scritture durante il pellegrinaggio annuale nella nostra
scuola. Ma non lo fa.
Invece, mi passa una bottiglia con del liquido rosso e con le mani mi fa segno di
scolarmela.
"Che cos'�?"
"Vino."
"Sul serio?"
"In realt� no. � cordiale rosso� sei troppo giovane per bere."
"Che palle."
"Ehi, non prendertela con me. Non � colpa mia. � stato il mio vecchio a proibirmi
di darti del vino vero. Quindi, prenditela con Lui."
"Ok, ok� e comunque, Lui che problemi ha?"
"Eh, ultimamente � stato molto sotto pressione."
"Il Medioriente?"
"S�, hanno ricominciato." Si avvicina e sussurra. "Detto tra noi, stava per
annullare tutto, la scorsa settimana."
"Per annullare cosa? Il mondo?"
"S�."
"Cristo onnipotente!"
Sembra contrariato dalle mie parole.
"Oh, gi�. Scusa", mormoro. "Esclamazioni del genere non servono a niente."
"Non preoccuparti."
E poi aggiunge: "Adesso ascolta". Ges� ha deciso che � ora di arrivare al dunque.
"Sono venuto per darti questa."
Tira fuori qualcosa da una tasca nascosta nella veste. "Che cos'�?" gli chiedo.
"Oh, � solo una pomata." Me la porge. "Per il sangue dal naso."
"Oh, fantastico. Grazie mille."
12.
Nel caso vi steste chiedendo se poi andammo a prendere il nostro amico Bruce
Patterson, be', la risposta � no. Avevamo pianificato tutto, ma alla fine non lo
facemmo. C'erano questioni pi� importanti, a casa, come la freddezza con cui ci
trattavano mamma e pap�. Chiaramente non erano contenti della vita che facevamo, e
della straordinaria abilit� con cui riuscivamo sempre a metterli in imbarazzo.
Forse penserete che il loro atteggiamento avesse smorzato il nostro entusiasmo
riguardo al progetto di farla pagare a Bruce per come si era comportato con Sarah,
ma non and� cos�. No davvero. Anche Steve ci disse di lasciar perdere. Aveva
ripreso a lanciarci quelle occhiate che volevano dire: "Sono meglio di voi", e ci
dava degli idioti. Tutto questo intimidiva un pochino me, ma non Rube, che era
arrogante come sempre, e anche profondamente convinto che non fossimo responsabili
dell'attacco di cuore del cane del vicino. Mi spieg� che non era colpa nostra se
quello stupido bastardo era una pappamolla.
"Diavolo, non � illegale giocare a calcio nel giardino dietro casa, no?" mi chiese.
"Credo di no."
"Non lo sai?"
"Suppongo che non sia illegale."
Dopo qualche giorno passato a rimuginare, entr� in camera nostra e mi illustr� il
piano, spiegandomi anche ci� che significava. "Questo sar� il mio ultimo lavoro,
Cam", disse. A sentirlo, avreste pensato che a parlare fosse Al Capone, o comunque
un gangster di quel livello. "Dopo quest'ultimo sforzo, mi ritirer� dalle rapine,
dai furti e dagli atti di vandalismo."
"Come puoi ritirarti se non hai mai avuto una carriera?"
"Ah, perch� non stai zitto? Lo ammetto, ho avuto i miei alti e bassi, per� adesso
la cosa finisce qui. Non riesco a credere che dalla mia bocca stiano uscendo queste
parole, ma devo crescere."
Ci pensai su un momento, incredulo, e poi gli chiesi: "Quindi che si fa?"
"Semplice", fu la sua risposta. "Uova."
"Andiamo." Mi voltai. "Possiamo fare di meglio rispetto a qualche stupido uovo."
"No che non possiamo", ed era la prima volta che lo sentivo discutere seriamente
dell'argomento. "La verit�, amico, � che siamo senza speranza."
Fui costretto ad annuire. "D'accordo", dissi poi, e fu deciso che saremmo andati a
casa di Bruce Patterson venerd� sera per bersagliare di uova la sua fiammante auto
rossa. E magari anche la porta d'ingresso e le finestre. Mi rendeva felice sapere
che sarebbe stata l'ultima volta, perch� cominciavo ad avere la nausea.
E poi c'era un fatto innegabile, che rendeva l'intera situazione pi� difficile di
quanto sarebbe dovuta essere. Il fatto che ancora non riuscissi a togliermi dalla
testa Rebecca Conlon. Proprio non ci riuscivo, per quanto mi sforzassi. Pensavo a
lei, e mi chiedevo se quel sabato sarebbe stata a casa, o se sarebbe uscita ancora,
andando avanti con la sua vita senza di me. In alcuni momenti quel pensiero mi
faceva male, mentre in altri cercavo di convincermi che era un rischio troppo
grosso. Guarda Bruce e Sarah, mi dicevo. Scommetto che lui era ossessionato da
Sarah come io lo sono da Rebecca, e scommetto che aveva giurato a se stesso che non
l'avrebbe mai fatta soffrire, come me� e invece guarda che cosa le ha fatto. L'ha
ridotta a uno straccio� ormai se ne sta sempre a letto.
Venerd� sera, probabilmente io e Rube eravamo troppo stanchi per portare a termine
il lavoro. Eravamo nauseati da noi stessi e, nonostante i due cartoni di uova che
avevamo in camera, decidemmo di non andare.
"Lasciamo perdere", disse Rube. "Se devi pensarci tanto, non vale la pena
provarci."
"E cosa ce ne facciamo di tutte queste uova?"
"Possiamo mangiarle, suppongo."
"Cosa? Una dozzina a testa?"
"Credo di s�."
Per il momento le uova rimasero dov'erano, sotto il letto di Rube, ma io mi recai
comunque per conto mio a casa di Bruce.
Ci andai dopo cena, superai la sua auto e mi immaginai a imbrattarla con le uova.
Una fantasia ridicola, per non dire altro.
Mi strapp� una risata mentre bussavo alla porta, anche se il sorriso svan� quando
ad aprirmi venne una ragazza che ipotizzai dovesse essere il rimpiazzo di Sarah. Mi
fiss� attraverso la zanzariera.
"C'� Bruce?" le chiesi.
Annu�. "Vuoi entrare?"
"No, sto bene qui." Aspettai fuori, sulla veranda.
Bruce sembrava piuttosto sorpreso di vedermi. Non � che io e lui fossimo mai stati
buoni amici, o roba simile. Non avevamo un gruppo a cui lui mi aveva presentato, e
non avevamo mai fatto due tiri a calcio insieme. C'eravamo rivolti a malapena la
parola, e intuii che aveva paura fossi l� per dargli una lezione. Ma le mie
intenzioni non erano quelle.
Attesi che uscisse, per parlare. Una domanda e basta. Non avevo nient'altro da
chiedergli, mentre eravamo l� appoggiati alla balaustra, lo sguardo fisso sulla
strada.
E gliela feci.
"Quando hai conosciuto mia sorella� le avevi promesso che non l'avresti mai fatta
soffrire?"
Per un attimo ci fu silenzio, poi mi rispose.
"S�", disse. Pochi secondi dopo, me ne andai.
"Ehi, Cameron", mi richiam�.
Mi voltai.
"Lei come sta?"
Sorrisi e alzai la testa, deciso. "Bene. Sta bene." Lui annu� e io lo salutai: "Ci
si vede".
"S�, ci si vede, bello."
A casa, la serata non era ancora finita. Stava per accadere un atto non vandalico,
ma simbolico.
Intorno alle otto e mezzo Rube entr� in camera nostra. Notai subito qualcosa di
diverso. Ma cosa?
La barba.
Quando gli altri lo videro con quella faccia non pi� da animale, ci furono applausi
e sospiri di sollievo. Niente pi� facce (e comportamenti) da bestia.
Dal canto mio, continuavo a sentire Bruce Patterson che mi diceva di aver promesso
di non ferire mia sorella. Mentre guardavo un film estremamente violento in tv,
quella frase non smise un secondo di perseguitarmi. Sentivo la sua voce, e mi
domandavo se avrei ferito Rebecca Conlon, se mai lei mi avesse permesso di
avvicinarla. Quel tormento dur� tutta la notte.
Mi trovo in una giungla, e lei � con me. Non riesco a vederla in faccia, ma so che
sono con Rebecca Conlon. La tengo per mano e la guido, andiamo veloci, abbassandoci
per passare sotto alberi contorti le cui dita sono rami che si allargano come un
soffitto crepato sotto il cielo grigio.
"Pi� svelta", le dico.
"Perch�?"
"Perch� sta arrivando."
"Chi?"
Non le rispondo perch� non lo so. L'unica cosa di cui sono assolutamente sicuro �
che sento dei passi nella giungla alle nostre spalle. Qualcuno ci sta inseguendo.
"D�i", la incito ancora.
Arriviamo sulla sponda di un fiume e ci immergiamo nell'acqua gelida, guadando fino
a raggiungere la riva opposta.
Spingo lo sguardo a monte, e vedo qualcosa. Le faccio strada. C'� una caverna, in
mezzo a un folto di alberi imponenti, sull'acqua.
Entriamo. Non ci diciamo una parola. Niente "Eccoci qui".
Lei sorride, sollevata.
Non lo vedo.
Ma so che c'�.
Ci sediamo in fondo alla caverna, e sentiamo il rumore dell'acqua che scorre fuori,
meditativa. Il fiume che scende, piano, lento. Reale. Consapevole.
Lei si addormenta.
"� tutto ok", le sussurro, e le mie braccia avvertono il suo peso. Anche i miei
occhi provano a dormire, ma non ce la fanno. Restano spalancati, mentre il tempo
passa ringhiando, e il silenzio cala intorno a noi come un pensiero ritmico.
Non sento pi� nemmeno il fiume.
E poi.
Quella figura fa il suo ingresso nella caverna.
Entra e si ferma.
Ci vede.
S�.
� un uomo ed � armato.
Ci guarda.
Sorride.
Anche se non scorgo la sua faccia, so che sta sorridendo.
"Che cosa vuoi?" gli chiedo. Ho paura, ma cerco di mantenere la calma, per non
svegliare la ragazza che sta dormendo tra le mie braccia.
Lui non dice niente. Continua ad avanzare. Lentamente. Barcollando. No.
Risuona un rumore, come se si fosse spaccato qualcosa, e un filo di fumo si leva
dall'arma che il tizio tiene in mano.
Sale verso il suo viso, e lo avvolge. Mi comunica che � successo qualcosa di
terribile, e Rebecca Conlon si muove sulle mie ginocchia.
Si accende un fiammifero.
Luce.
Guardo Rebecca.
E capisco!
Capisco che�
Lei � ferita, � sicuro, perch� noto delle gocce di sangue che le colano dal cuore.
Lente. Reali.
Alzo gli occhi. La figura regge il fiammifero acceso, che ne illumina il viso. Gli
occhi, le labbra, l'espressione� appartengono a me.
"Ma avevi promesso", lo rimprovero, e poi mi metto a urlare, provando a svegliarmi.
Ho bisogno di svegliarmi e di sapere che non le avrei mai fatto del male.
13.
14.
E adesso?
Che cos'avevo fatto?
Che cos'era successo?
Be', in pratica questa � la fine, quindi le risposte dovrebbero essere nelle
prossime pagine. Dubito che vi sorprenderanno, ma non si sa mai. Non ho idea di
quanto siate intelligenti, o tonti. Potreste essere degli Albert Einstein, per
quello che mi riguarda, o aver vinto dei premi letterari, o magari siete
semplicemente mediocri come me.
Quindi, tanto vale venire al dunque, e dirvi come si concluse quella parte gelida
della mia vita. La fine cominci� cos�: con la mia depressione.
Fui un'anima in pena per tutta la domenica, e poi anche luned�, a scuola. Qualcosa
si stava agitando dentro di me, partiva dallo stomaco e saliva fino ad allungare le
braccia per strapparmi la pelle dall'interno. Bruciava.
Mercoled�, a scuola, scambiai due parole con Greg, principalmente per via del suo
viso malconcio.
"Che ti � successo?" gli chiesi, quando lo incrociai lungo un corridoio.
"Ah, lascia perdere", mi rispose. "Non � niente." Ma era piuttosto ovvio per
entrambi che i tizi per cui era andato a comprare la roba non erano rimasti per
nulla impressionati dai suoi sforzi, nonostante avesse restituito loro tutto il
denaro.
"Ti hanno pestato lo stesso, eh?" Sorrisi, mesto, e sorrise anche lui. Il suo era
un sorriso d'intesa, ironico.
"S�", disse, annuendo. "Hanno deciso di darmi una ripassata per il disturbo che
avevo causato� Il tipo da cui ero andato la prima volta era rimasto a secco, quindi
si sono dovuti rivolgere altrove. I miei sforzi non li hanno impressionati, no."
"Ben ti sta", fu la mia conclusione.
"S�, suppongo di s�."
Ci separammo pochi secondi dopo e, quando mi voltai, guardai Greg e provai a
pregare per lui, come avevo fatto tante volte per altre persone, ma non ne fui
capace. Non ci riuscii, stop. Non chiedetemi perch�. Mi augurai che per lui fosse
tutto ok, ma non trovai la forza di pregare.
E comunque, a cos'erano servite le mie preghiere?
Di sicuro non avevano perorato la mia causa, per�, se ricordate, non avevo mai
pregato per me stesso. Forse era questo il motivo. Cio�, io. D'altronde, forse
avevo cominciato a pregare con l'unico scopo di portarmi fortuna. Davvero? Era
andata cos�? No. Niente affatto. Proprio no.
Forse, invece, le preghiere avevano funzionato sul serio.
A pensarci bene � probabile, perch� a casa Sarah aveva iniziando a ricorrere al
telefono per sostituire le intense sessioni di baci sul divano; Steve stava
riprendendo a camminare, Rube aveva in parte messo la testa a posto, mamma e pap�
sembravano felici, e senza dubbio Rebecca Conlon stava facendo allegri sogni a
occhi aperti su Dale Perry�
Apparentemente stava andando tutto per il verso giusto.
Tranne che per il sottoscritto.
Mi ritrovavo piuttosto spesso a ripetere la parola tristezza, da creatura pietosa
quale ero.
Dentro, ero una lagna continua.
Piagnucolavo.
Piangevo.
Mi graffiavo le viscere.
E poi ridevo.
Di me stesso.
Accadde mentre ero fuori, dopo cena.
Salsicce e funghi si stavano sistemando nel mio stomaco e, in mezzo all'angoscia e
al tormento che mi divoravano, sentii scoppiare dentro di me una risata strana,
inquietante. Mentre sollevavo i piedi, sorrisi, e alla fine mi appoggiai con la
mano al palo del telegrafo, per riposare.
Immobile in quella posizione, lasciai uscire la risata, e la gente che mi passava
accanto dovette pensare che fossi pazzo, o drogato, o qualcosa del genere. Mi
guardavano come per dire: "Cos'� che ti fa tanto ridere?" Ma poi si allontanavano,
veloci, diretti verso le loro vite, mentre io ero in pausa, nella mia.
Fu allora che decisi che era necessario prendere una decisione.
Era necessario decidere che cosa fare, e cosa diventare.
Ero l� fermo, in attesa che qualcuno facesse qualcosa� E poi mi resi conto che la
persona che stavo aspettando ero io.
Dentro di me regnava il torpore, era tutto vagamente vivo, ma sembrava non avesse
il coraggio di muoversi, come se attendesse una mia mossa.
Alla fine espirai e dissi: "Ok".
Non serv� altro.
Bastava una parola. Corsi a casa, con un'idea ben precisa di quello che avrei
fatto. Mi sarei dato una lavata e, sempre di corsa, sarei andato da Rebecca Conlon
- che viveva a cinque chilometri da casa mia - per invitarla a fare qualcosa nel
weekend. A chi importava di cosa pensavano gli altri? Me ne fregavo di quello che
avrebbero detto mamma o pap�, Rube o Steve, Sarah, e me ne frego di quello che
potreste dire voi. Sapevo solo che era la cosa giusta da fare.
"E devo farla adesso", sottolineai mentre correvo, spingendo le spalle avanti. Mi
venne la nausea, come se il cibo che avevo mangiato si stesse trasformando in
acido. Ma accelerai, e varcai il cancello d'ingresso e la porta, per trovare�
�Sarah al telefono.
Al telefono.
S�, al telefono, pensai. Certo. Correre per cinque chilometri e invitarla di
persona mi sembrava piuttosto spaventoso, adesso, quindi modificai il piano, e
decisi di trovare una cabina telefonica, da qualche parte. Presi degli spiccioli
dal cassetto, mi scrissi sulla mano il numero dei Conlon - che copiai dall'agenda
di lavoro di pap� - e uscii di nuovo per raggiungere il telefono pubblico pi�
vicino.
"Ehi!" Una voce mi segu� sul marciapiede. Era Steve, dalla veranda. Non l'avevo
nemmeno notato, quando ero entrato in casa come un razzo. "Dove vai?"
Mi fermai, ma non risposi. Svelto, tornai indietro, perch� all'improvviso mi era
venuta in mente la frase che mi aveva detto l'ultima volta che l'avevo visto l�, la
sera in cui io e Rube eravamo andati a rimettere a posto il cartello stradale.
"Siete due perdenti." Questo aveva detto, cos� salii i gradini e gli puntai un dito
contro, mentre si stiracchiava appoggiato alla balaustra.
"Prova a darmi di nuovo del perdente e ti spacco la faccia." Ero serio, e dalla sua
espressione intuii che l'aveva capito. Sorrise, addirittura, come se sapesse
qualcosa. "Sono un combattente", conclusi, "non un perdente. C'� una certa
differenza."
Lo guardai negli occhi ancora un momento. Ero serio. E convinto. Steve si godette
ogni istante. Io pi� di lui.
La cabina telefonica.
Ripartii, ossessionato da quel pensiero.
L'unico problema del mio piano fu che non ne vidi nessuna. Credevo ce ne fosse una
in un punto ben preciso di Elizabeth Street, ma era stata rimossa. Quindi non mi
rimase che continuare a correre, adesso verso l'abitazione dei Conlon, finch� non
trovai una cabina dopo circa tre chilometri. Altri due, e avrei potuto
chiederglielo di persona.
"Oh, amico mio", mormorai quando finalmente raggiunsi il telefono, le mani sulle
ginocchia. "Amico", ripetei, e all'improvviso capii che la corsa era stata la parte
pi� facile del piano. Adesso dovevo davvero chiamare e parlare.
Le dita erano come artigli mentre componevo il numero e�
Aspettavo�
"Drin."
Stava squillando.
"Drin." Niente.
"Drin." Niente.
"Drin."
Non rispose lei, quindi dovetti spiegare chi ero alla persona che alz� la cornetta.
"Pronto, sono Cameron."
"Cameron?"
"Cameron Wolfe, stupida vacca decrepita!" avrei voluto urlare, ma non lo feci.
Invece, mi presentai con pacata dignit�: "Cameron Wolfe. Lavoro con l'idraulico".
Dopo aver pronunciato quelle parole mi resi conto di essere ancora senza fiato.
Stavo ansimando nel ricevitore, e continuai a farlo anche quando mi passarono
Rebecca.
"Rebecca?"
"S�?"
La voce. La sua voce.
La sua.
Balbettai un po', ma perlomeno non rimasi senza parole. Mi concentrai, e tutto fu
fatto con uno scopo, con desiderio, quasi con orgoglio. Un orgoglio solenne e
sereno. La mia voce strisci� fino a lei. Le rivolse una domanda. Mentre io
stringevo il telefono. Su. Sbrigati. D�i.
"S�, ecco, mi stavo chiedendo�"
Mi faceva male la gola.
"Se�"
Sabato.
Sarebbe stato quello il giorno.
No.
No?
Esatto, no. Mi hai sentito.
Anche se Rebecca Conlon non pronunci� quella parola quando respinse la mia proposta
di vederci sabato. "Non posso", disse, e guardandomi indietro adesso mi domando se
la delusione nella sua voce fosse autentica.
� naturale che me lo chieda, perch� lei cominci� a spiegarmi che non poteva n�
domenica n� il weekend successivo, per via di un impegno di famiglia� o
qualcos'altro del genere. Inutile fingere. Stava cercando un terreno sicuro per
tenermi a bada. Non le avevo nemmeno proposto la domenica come alternativa. N� il
weekend successivo! Sentivo un dolore nelle orecchie. Il cielo nero sembr� cadermi
addosso. Ebbi la sensazione di essere risucchiato dalle nuvole grigie che erano
sopra di me, e lentamente, molto lentamente, la conversazione si fece sommessa,
lontana.
"Be', un'altra volta, magari." Sorrisi, nervoso, in quella lurida cabina
telefonica. Ma la mia voce era ancora allegra, e conservava tutta la sua dignit�.
"S�, sarebbe stupendo." La sua voce era stupenda. Non l'avrei pi� sentita?
Probabile, a meno che non fosse stata tanto stupida da farsi trovare a casa il
weekend seguente, quando io e pap� saremmo andati a finire il lavoro.
La sua voce� Ecco, in qualche modo non ero pi� sicuro che fosse ancora cos� reale,
per me. Era troppo distante, adesso.
"Ok, ci vediamo", mi congedai, ma non ci saremmo visti.
"Ok, ciaooo", fece lei. Oltre al danno la beffa.
Sentirla riagganciare fu brutale. Quel suono mi strazi� il cervello. Lentamente,
molto lentamente, mollai il ricevitore e lo lasciai penzolare.
Beccato.
Processato.
Impiccato.
Lo lasciai penzolare e me ne tornai a casa.
Il tragitto non fu male come potreste supporre, perch� i pensieri che si
scontravano nella mia testa fecero volare il tempo. A ogni passo, sul marciapiede
rimaneva un'impronta invisibile, di cui ero l'unico a percepire l'odore mentre
tornavo al futuro. Buona fortuna.
A met� strada notai un'altra cabina in una via secondaria, che se ne stava l� a
sfottermi, ridacchiando.
"Mmm", gemetti, nient'altro, e continuai a camminare, mentre mi grattavo una spalla
con la mano stanca, il gomito piegato.
Questa volta mi trascinai fino al cancello, ciondolai un po' e andai a letto alle
dieci e mezzo, circa.
Non dormii.
Sudai e tremai. Ero solo.
Vidi delle cose, incollate ai miei occhi.
Scaraventate nei miei occhi.
Vidi tutto. Ogni dettaglio. Mazze da baseball e da cricket, trattamento al fluoro,
un palo senza cartello stradale, sogni, padri, fratelli, madre, sorella, Bruce,
amico, ragazza, voce, era tutto dentro. Dentro di me.
La mia vita stava schiacciando il letto.
Le lacrime, come martelli, mi scorrevano lungo le guance.
Mi rividi mentre camminavo fino a quella cabina telefonica.
Mentre parlavo.
Mentre tornavo a casa barcollando.
Poi, intorno all'una, mi alzai, indossai i jeans e uscii in cortile, scalzo.
Uscii dalla nostra stanza.
Percorsi il corridoio.
Infilai la porta sul retro.
E mi immersi nella notte gelida.
Superai il cemento e arrivai all'erba, dove mi fermai.
Mi fermai e fissai il cielo e la citt� intorno a me. Le mani lungo i fianchi, vidi
quello che mi era successo, e quello che ero, e mi resi conto di come sarebbero
andate le cose per me. Per sempre. � la verit�. Niente pi� desideri, niente pi�
domande. Sapevo chi ero, e cosa sarei stato, per l'eternit�. Ci credevo, mentre
battevo i denti, con gli occhi gonfi di lacrime.
Le labbra si schiusero.
E accadde.
S�, con la testa sollevata verso il cielo, cominciai a gridare.
Con le braccia tese lungo i fianchi, urlai, e buttai fuori tutto. Le immagini mi
salivano in gola, ero circondato da voci del passato. Il cielo mi ascoltava. La
citt� no. Non m'importava. M'interessava soltanto il fatto che stavo urlando tanto
da sentire la mia voce, e da ricordare che quel ragazzo non era affatto
superficiale, e anzi aveva qualcosa da offrire. Urlavo, s�, ed ero disperato, e
stavo dicendo al mondo che c'ero, e che non sarei rimasto l� a subire.
Non quella notte.
Mai.
S�, urlai, e non mi accorsi che la mia famiglia era dietro la porta sul retro, e mi
stava guardando chiedendosi che cosa accidenti stessi facendo.
All'inizio � tutto in bianco e nero.
Nero su bianco.
Ecco dove sto camminando, tra le pagine.
Queste pagine.
Ogni tanto ho un piede sui fogli e sulle parole, e l'altro sul contenuto. Ogni
tanto sono di nuovo l�, dove ordisco piani con Rube, faccio a pugni con lui, lavoro
con pap�, mi faccio dare della bestia da mamma, guardo la vita di Sarah vacillare
per colpa di Bruce, dico a Steve che gli spaccher� la faccia se mi dar� ancora del
perdente. Vedo persino la roba comprata da Greg che brucia e sale su per il camino,
intossicando l'aria sopra il tetto di casa sua.
Un piede mi porta verso l'abitazione di Rebecca Conlon, mi porta a lavorare ancora
l�, a telefonarle. Un piede mi trattiene sull'immagine in cui la cornetta del
telefono pubblico, strangolata, penzola morta, conservando i resti della mia voce.
Quando mi immergo nelle pagine, le lettere di ogni singola parola diventano sempre
un po' come gli imponenti edifici della citt�. Io sto sotto, e guardo in alto.
A volte corro.
O striscio.
Tra le pagine.
Tutte le pagine.
A volte i sogni mi coprono, altre volte mi strappano la carne dall'anima o mi
levano la coperta, lasciandomi solo con me stesso, al freddo.
Le dita toccano i fogli.
Girano me.
Io vado avanti.
Lo faccio sempre.
� tutto grande.
Le pagine e le parole sono il mio mondo, si allargano davanti ai vostri occhi, e si
lasciano toccare dalle vostre mani. Intravedo i vostri volti che guardano dentro di
me, quando mi volto.
Li vedete i miei occhi?
Eppure, continuo a camminare, attraverso un sogno che mi conduce in queste pagine.
Arrivo al punto in cui mi vedo uscire nel cortile, nella notte gelida. Vedo la
citt� e il cielo, e sento il freddo. Sono in piedi accanto a me.
Jeans.
Piedi nudi.
Petto nudo, che trema.
Braccia di ragazzi.
Si allungano verso di me.
Si alza il vento, fogli volano via e cadono attorno a noi, mentre siamo l�. Un
ululato disperato cerca di raggiungere le mie orecchie, e finalmente lo colgo.
Mi aggrappo a quella disperazione, perch�
�ne ho bisogno.
Perch� lo voglio.
Sorrido.
Dei cani abbaiano, lontani, ma i latrati si fanno pi� vicini.
Accanto a me, mi sento ululare.
� un bel sogno, questo.
Ululo. Forte.
Intensamente.
Continuano a cadere fogli, gli ultimi.
Sono vivo.
Non sono mai stato cos�
Abbasso lo sguardo.
Le parole sono la mia vita.
L'ululato continua.
Resto l�, con le pagine sparse intorno alle mie caviglie, e con quell'ululato nelle
orecchie.