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di Elsa Morante
Parte prima 29
I 30
II 45
III 59
IV 82
V 117
VI 128
VII 139
Alla Favola
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
Ai personaggi
PARTE PRIMA
L’erede normanno
CAPITOLO PRIMO
Infanzia e puerizia
fanciullezza e adolescenza
giovinezza e virilità
maturità e vecchiezza
decrepitezza!
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
CAPITOLO SESTO
CAPITOLO SETTIMO
denti stretti, di non altro memore che del suo pianto, co-
me se l’avessero ferocemente battuta. Cesira, tornando a
casa, trovò la figlia supina sul letto: le sue scarpine, ch’el-
la s’era sfilate nella furia, e il suo cappello tinto di nero
giacevano rovesciati a terra. Ella si teneva con le membra
rigide e protese, quasi offrendosi agli assalti del proprio
dolore; e premendosi con le unghie le guance seguitava a
gemere: – No, no, no... – Ah, che hai fatto! – inveí all’en-
trar di sua madre, – vergognati, ah, vergognati! Che cosa
hai fatto! – È strano com’ella non provasse nessun ranco-
re contro la zia che l’aveva umiliata: costei le appariva
tuttora inaccessibile a ogni rimprovero, sospesa negli au-
rei fastigi dei Cerentano. Chi provocava invece il suo ran-
core, e un disprezzo sempre piú forte, era sua madre,
ch’ella aveva veduto, subdola e servile, sottomettersi a
quell’onta che le bruciava. E il cugino Edoardo... – Ah,
non ti perdonerò mai! – proferí Anna.
– Che cosa non mi perdonerai? – rimbeccò Cesira,
rompendo in un riso convulso, – d’averti evitato la fa-
me? è questo che non mi perdonerai? Presuntuosa e
sfrontata! che cosa dunque pretendi? Sei la peggior pi-
gra e ignorante che si sia mai vista, incapace di qualsiasi
lavoro per bastare a te stessa, buona solo a farti servire...
Passi le tue giornate nell’ozio, senza nemmeno pettinar-
ti, e non so di che cosa sempre fantastichi. E ora t’atteg-
gi a regina, perché t’ho procurato ancora una volta i
mezzi per vivere. I suoi degni parenti io li detesto, ah,
non meritano neppure di baciarmi i piedi. In cambio
della loro elemosina, invece d’un ringraziamento si ab-
biano, tutti dove sono, la mia maledizione. Sí, che siano
maledetti in eterno! Se ho finto d’accarezzarli, quest’og-
gi, è stato per farli servire ai miei scopi. E difatti, ecco,
l’importante, per me, è d’aver ottenuto questa busta.
Forse che morde, la busta? E che m’importa di loro! –
Qui Cesira, in un gesto di trionfo che valeva per la pian-
gente Anna quanto un insulto, sventolò nelle dita la bu-
PARTE SECONDA
La cuginanza
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
Anna glorificata.
Dono dell’anello.
Massia, che abita nel Nord... voglio dire, per me, tu sei
l’unico cugino mio. – Oh, che risposta da darsi! – escla-
ma Edoardo, ridendo, sebbene un poco malcerto, – una
risposta cosí potrei aspettarmela da una bambina d’un
anno, oppure da una astuta consumata! Sei forse astuta
fino a questo punto? – ma vedendo il viso di Anna,
d’improvviso egli si pente dei propri sospetti, e l’abbrac-
cia, chiedendole perdono.
Tuttavia, non passano molti giorni, forse neppure
molte ore, ed ecco, egli ha una nuova domanda pericolo-
sa da farle: – Sii sincera, – incomincia, con aria ridente, –
non nascondermi nulla. Quando cadesti nella neve, avre-
sti preferito che, invece di me, ti raccogliesse Sebastiano,
quel mio compagno riccioluto, con le guance paffute. Mi
avvidi che lo guardavi. Non sono indovino? – A una cosí
assurda insinuazione, Anna diventa tutta rossa. – Oh,
come ti sei fatta rossa! – esclama Edoardo ridendo ama-
ramente, e rannuvolandosi in viso, – lo vedi che indovi-
navo –. Sorpresa nella propria innocenza, Anna con vo-
ce debole, disarmata, risponde che, in verità, non ha
neppur veduto quel tale Sebastiano. – Come! Neppur
visto! – ribatte Edoardo, – ecco che ti tradisci, credendo
di salvarti. Ti rammenterò allora ciò che fingi di non
rammentare: mentr’io mi rialzavo dal fango, lui ti porse
una forcina che t’era caduta, e tu gli sorridesti, e lui dis-
se: Prego, mio dovere. Lo vedi, io ricordo ogni parola. –
Certo è vero quel che tu dici, – risponde Anna, – ma io
non m’accorsi di nulla, tanto ero confusa. – Non sapevo,
– commenta Edoardo, – che l’aspetto di Sebastiano po-
tesse già confonderti a questo grado. Ed è strano che tu
affermi di non averlo veduto, considerando ch’egli por-
tava una cravatta orrenda, color arancione, anzi colore di
rosso d’uovo, che solo a guardarla, faceva allegare i den-
ti. Ma già, dimenticavo che tu, poverina, non hai avuto
molte opportunità d’educare il tuo gusto, fino ad oggi!
Solo cosí posso spiegarmi che ti piaccia un tipo simile.
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
La cicatrice.
CAPITOLO QUINTO
diamante e rubino
Luna lunina,
tu che nel cielo splendi
fammi vedere in sogno
con chi vivrò godendo.
Cara cugina,
PARTE TERZA
L’anonimo
CAPITOLO PRIMO
presso Cònsoli
vico Sottoporta 88.
CAPITOLO SECONDO
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
sol, aveva potuto fare la spia. Chi altri, se non lei, poteva
conoscere il segreto dello scrigno, e il nascondiglio dei
gioielli? Certo le, vecchia e finita e non amata da nessu-
no, per gelosia di Rosaria aveva voluto privarla del suo
solo amore. A lei, certo, non piaceva Francesco che non
fruttava sufficienti guadagni alla sua sudicia avidità di
mezzana; perciò aveva voluto toglierlo di mezzo, rive-
landogli quanto aveva saputo in confidenza. A queste
accuse, la padrona aveva risposto giurando di non aver
mai fatto parola ad alcuno dei segreti, ai quali era obbli-
gata soprattutto dalla cortesia d’Edoardo; e, aveva sog-
giunto, se non fosse stato per lui, si sarebbe pentita
adesso della propria discrezione vedendo la gratitudine
che ne riceveva in cambio. Difesasi cosí dalle accuse,
agli insulti di Rosaria aveva risposto con altrettanti insul-
ti; e ne era nato un fiero litigio, chiuso dalla padrona di
casa con l’ordine a Rosaria di lasciare la sua camera quel
medesimo giorno. Lei stessa, piena di rabbia aveva aper-
to i cassetti e gettatane fuori la biancheria della ragazza,
invitandola a fare senza indugio i suoi bagagli. In quel
punto, una vicina l’aveva chiamata ed ella s’era allonta-
nata, lasciando Rosaria sola nella camera, e nello stato in
cui l’aveva trovata Edoardo.
Come Rosaria terminava questo suo convulso raccon-
to, la padrona di casa (che forse origliava dietro l’uscio
chiuso), domandò: – É permesso? – e senza aspettare la
risposta s’introdusse umilmente nella camera. In tono
appassionato e sottomesso, rivolgendosi al giovane, di-
chiarò che non poteva ritardare un minuto di piú a di-
scolparsi delle accuse crudeli gettatele da Rosaria; e ag-
giunse che non avrebbe potuto dormire la notte se il
signorino Edoardo fosse stato soltanto sfiorato dal so-
spetto che la fiducia da lui concessale era stata tradita.
Tutto ciò ch’ella sapeva intorno alla signorina sua pigio-
nante e al signorino Edoardo, secondo gli ordini di lui,
giacerebbe in eterno seppellito nel fondo della sua co-
gli augurî per una pronta guarigione del padre. Poi ri-
masero silenziosi, non sapendo che cos’altro aggiungere.
D’un tratto, il sangue salí violentemente alle guance di
Francesco, gettandovi un rossore scuro; ed egli balbettò:
– Non sono venuto a trovarvi nei giorni scorsi, ma pure
avrete capito che io... avrete capito chi cantava la sera
sotto le vostre finestre –. Anna levò audacemente il ca-
po, e rispose coprendosi a sua volta di rossore: – Sí, me
ne parlò mio cugino.
– Edoardo m’accompagnò le prime due volte, – disse
Francesco rapidamente, – ma poi, venni io solo. A nes-
suno lo dissi –. A queste parole, i tratti di Anna si indu-
rirono, e nei suoi sguardi passarono in un lampo umilia-
zione e rancore. Ripensando alle notti scorse, quando,
malgrado tutto, ella seguitava a vagheggiare un Edoardo
pellegrino sotto le sue finestre, Anna disse a se stessa:
«Ah, sciocca che ero!» e sentí che non riuscirebbe, ades-
so, a vincere l’onda di pianto e di furia che la investiva. –
Lasciatemi sola, vi prego, – mormorò, e le tremò il men-
to. Vedendola cambiar di colore, mentre già il petto le si
sollevava in un rauco singhiozzo, Francesco non indugiò
a cercare i motivi di quella strana ambascia. Ma, dimen-
ticato ogni ritegno, esclamò: – Anna! Perché piangi? –
La passione lo liberò d’un tratto d’ogni timore, sebbene,
stavolta, egli non avesse bevuto vino, avanti di salire
quassú (come spesso faceva per darsi coraggio). Una te-
nerezza mista di venerazione gli fece, tuttavia, tremare le
mani, allorché aggiunse: – Oh, se qualcosa ti rattrista...
fammi la carità, il tuo dolore gettalo su di me, e il mio
onore sarà di portare ogni tuo peso e di poterti consola-
re. Questo son venuto a dirti: che ti amo, e sono tuo.
Dimmi se mi vuoi, se c’è una speranza, e su questa terra
non dovrai piú fare un passo che ti costi fatica. Ti por-
terò io come una piuma, e se anche dovessimo passare il
fuoco, tu non sarai toccata, figlia mia!
All’udire un discorso cosiffatto, Anna dilatò su France-
PARTE QUARTA
Il butterato
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
anche la festa gli stracci che don Nicola gli vedeva ad-
dosso: il cattivo raccolto dell’estate, e la malattia del fi-
gliolo, avevano esaurito i suoi ultimi risparmi. – Eh, via!
– disse Nicola ridendo e battendo sulla schiena al vec-
chio, – a chi vuoi farla credere? Lo sai ch’io non credo
nemmeno alla Santissima Trinità! – Ma Damiano, rad-
doppiando i suoi lamenti, proteste e deplorazioni, si ri-
parava dietro la propria affermazione di miseria come
dietro un intrapassabile scudo. Dal canto suo, Nicola,
celando l’irritazione che quel testardo ipocrita provoca-
va in lui, non rinunciava all’idea di un qualunque suc-
cesso, e si riduceva a diminuire via via la somma richie-
sta, raddoppiando per contro i vantaggi promessi. Ciò,
s’intende, sempre con tono di condiscendenza, come chi
volesse ad ogni costo, e magari a suo dispetto, beneficia-
re Damiano. Il quale, ad ogni nuova proposta, si mostra-
va sempre piú desolato: – Anche un cieco, don Nicola, –
esclamava, – anche un pazzo se avesse un solo centesi-
mo, vedrebbe l’interesse e il vantaggio d’impiegarlo co-
me dite voi. Ma quel centesimo, io non ce l’ho –. Infine,
Nicola dovette rassegnarsi alla sconfitta; e poiché Da-
miano, fermo nella propria negazione, ma tuttavia mor-
tificato sinceramente all’idea di fargli un torto, gli consi-
gliava di proporre l’affare a questo o quel paesano
danaroso, e suggeriva dei nomi, egli esclamò sdegnato: –
Non ho bisogno dei tuoi consigli! Se in questo miserabi-
le villaggio la gente non sa fare i propri interessi, cer-
cherò i miei soci altrove –. Cosí detto, si levò, come per
accomiatarsi; e, premuroso, Damiano chiamò la moglie
e il fanciullo affinché salutassero l’ospite. Ma Nicola, ir-
ritato in cuor suo per essere salito inutilmente fino a
questo barbaro, sudicio paese, non si curava di masche-
rare il proprio umore cupo. Assetato e stanco, risparmiò
ai De Salvi l’affronto di rifiutare il vino che Damiano,
secondo il solito, gli offriva. Ma, nel bere, se ne stette si-
lenzioso e scontroso, pronunciando solo qualche frase
furia, e con voce acuta gli domandò se fosse lui che ave-
va chiamato Francesco per soprannome. Titubante e
smarrito, l’accusato arrischiava una difesa: – Gli ho det-
to cosí perché… –, ma Alessandra incominciò a percuo-
terlo con violenza selvaggia sulla nera testolina dai ricci
impolverati e crespi. E mentre lo sciame dei compagni
fuggiva, con veloce scalpiccío di piedi nudi, ella teneva
stretto l’accusato sotto i duri colpi; ammonendo nel
tempo stesso non solo lui, ma anche i fuggitivi: – Se tu, o
qualcun altro ripetete ancora quel nome, io vi morderò
la testa, e sputerò il vostro sangue, frutti avvelenati! Va’,
va’ pure a dirlo a tua madre! – soggiunse con accento di
sfida, poiché la vittima, libera alfine, correva in gran
pianto verso le scoscese viuzze.
Pochi minuti dopo, si vide che Alessandra aveva in-
dovinato l’intenzione del suo piccolo avversario. Difatti,
mentr’ella preparava la cena, si fece sulla soglia una ma-
trona pugnace, dalla grande capigliatura crespa, dal vol-
to grasso e invecchiato, bruno come quello d’un’araba,
in cui gli occhi accesi e fermi parevano carboni di minie-
ra. Era, non occorre dirlo, la madre del ragazzo percos-
so, venuta a chieder conto dell’oltraggio. Le madri del
paese, infatti, spesso violente o addirittura feroci coi
propri piccoli, si risentivano come per una grave offesa
se questi ricevevano anche un semplice schiaffo da ma-
no estranea. La De Salvi aspettava quella visita; e levò
appena le pupille dal fuoco presso il quale stava inginoc-
chiata e curva, a guardare di sbieco la visitatrice. La qua-
le, i pugni sul busto, scuotendo il battagliero suo capo e
fissando l’altra quasi volesse gettarle un sortilegio, gridò
con voce stridula e teatrale che nessuno doveva provarsi
a malmenare le sue viscere; lei sola, che gli aveva dato il
latte, poteva correggere suo figlio.
Cosí detto, protese il busto e tacque, aspettando la re-
plica dell’altra; ma Alessandra se ne stava severamente
muta, come una giustiziera, concentrando l’intima vio-
CAPITOLO TERZO
dava pena inoltre dei lavori cui non poteva piú presiede-
re lui stesso, della semina, della pressura delle olive, di
questo e di quello: al modo di un malato intorno al qua-
le, nella febbre, si affollano tutti i doveri cui soleva accu-
dire da sano, e lo sollecitano, lo esortano ad accorrere,
se vuole evitare il disordine e la rovina. Certe volte, in
preda a queste inquietudini, Damiano interrompeva il
soliloquio, e levandosi nervosamente, con fatica si spin-
geva fino al frantoio, o alla stanza delle provviste, per il-
ludersi di una fittizia attività. Ma piú spesso, il pensiero
dei suoi lavori passati, e dei còmpiti che la presente sta-
gione soleva, negli altri anni, portare con sé; questo pen-
siero, dunque, ne suscitava altri, che gettavano Damiano
nell’incertezza e lo accasciavano. Egli incominciava allo-
ra a far calcoli sulle dita, ma tali calcoli, a quanto pare,
non arrivavano ad alcun risultato definitivo, o soddisfa-
cente: poiché Damiano, come uno che non vuole arren-
dersi, li riprendeva dal principio cento volte. Pareva
che, cosí facendo, intendesse convincere di errore un av-
versario invisibile e contestare delle pretese accampate
da costui. Qualcosa di simile, almeno, si poteva indovi-
nare da certi discorsi ch’egli alternava ai suoi calcoli, e
dei quali il piú frequente, da lui ritenuto, pare, d’un acu-
me indiscusso e adatto a confondere l’avversario, suona-
va come segue, o pressappoco: “Ottant’anni di lavoro,
compare mio! Mica un giorno, di ottant’anni, si parla! E
tu te li vuoi prendere con una firma? Lo scritto è scritto,
è vero, ma la terra è terra. Una carta scritta non vale la
terra. Tu m’hai dato della carta, e se dài tempo al tempo,
riavrai della carta, amico mio”. Simili frasi allarmavano
Alessandra: ed ella, che avvezzatasi ai soliloqui del vec-
chio per solito non interveniva, all’udirle si accostava e
insisteva per avere qualche spiegazione. Ma Damiano,
come ridestandosi alla voce di lei, si scuoteva, e si rin-
chiudeva nel tirannico riserbo che sempre gli era stato
abituale sull’argomento degli affari. Eludendo le do-
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
tali che il loro comando sarà per tutti, da oggi, una legge:
«Ciò che sia stato congiunto in cielo, nessuno potrà di-
sgiungerlo sulla terra». E i cori d’organo, quali echi di
tuoni e di cascate fra picchi di montagne, risponderebbe-
ro, a riaffermare questo verdetto di sterminata schiavitú.
La brama di un simile rito arse cosí forte in Francesco,
da farlo quasi erompere in singhiozzi di commozione. E
senza esitare, egli decise in cuor suo di sacrificare l’intera
somma in suo possesso pur di celebrare in tal modo le
nozze. Il giorno stesso, arrossendo, egli comunicò ad An-
na le proprie intenzioni di festa e di pompa: domandan-
dole s’ella non pensava a farsi l’abito bianco da sposa. Ma
corrugando i cigli, dispettosa e aspra Anna gli rispose
ch’era una pazzia pensare a cose simili per un matrimonio
come il loro. Non si rendeva, egli, conto che il denaro di
cui disponevano non era neppur bastevole ad apprestare
degnamente un alloggio? E inoltre, proseguí con un sorri-
so cattivo, non le aveva egli detto altra volta di essere un
ateo, e di considerare il matrimonio soltanto un patto,
una scrittura da valersene per le leggi della società presen-
te? Ed ecco, lei pure, Anna, era di questa idea medesima.
Fin dall’infanzia, ella non credeva in Dio, non frequenta-
va la chiesa. La santa cerimonia le sarebbe parsa una com-
media. E quali sarebbero poi gli amici invitati alla grande
festa? Certo la famiglia del vetturino? E i futuri colleghi
delle poste? A questo punto, Anna uscí in una gran risata;
e si rinchiuse la faccia fra le palme, come se il suo riso fos-
se, al pari del pianto, una cosa che ama celarsi.
Sebbene umiliato, Francesco pensò che in fondo Anna
aveva ragione di schernirlo: per cui, soffocati i propri biz-
zarri desiderî, seguí da quel momento la volontà della fi-
danzata. Il piú modesto suggerimento di abbellire il gior-
no delle nozze con qualche segno festivo o solenne la
faceva spazientire e la infastidiva. Non soltanto ella rifiutò
l’abito bianco da sposa, ma dichiarò di non volere nessun
abito nuovo da indossare per la cerimonia: poiché, disse,
Una sola cosa egli le aveva chiesto, fin dai primi gior-
ni del loro fidanzamento: di giurargli che, se non amava
lui, ella non amava, però, nessun altro uomo. E Anna,
dopo un attimo d’esitazione, aveva giurato.
S’è già detto che Francesco raramente saliva dalle
CAPITOLO SESTO
La casa nuziale.
gioie alle statue sacre, cosí gli splendori negati alla sua
propria bruttezza, Elisa li sfoggia nel pensiero, intorno a
bellezze immaginarie).
Dunque, a noi tutte è comune il folle gusto per questi
ninnoli. Pari ad un girasole, la nostra indolenza si gira
verso le loro fredde, incorruttibili fiamme. E se udiamo
le loro voci sonore, se vediamo allo specchio i nostri pal-
lori scintillare fra i loro lampi e iridi, allora la nostra ani-
ma frivola si apre tutta intera, come la ruota d’un pavo-
ne. E il donatore riceve il nostro bacio venduto, eppur
folle e sincero come un bacio d’amante.
Un’immagine m’è rimasta nella memoria, che certo ri-
sale ad uno di quei giorni trionfali. Siamo nella cucina,
io presso il focolare, mio padre e mia madre sull’uscio.
Mia madre si aggancia all’orecchio il fermaglio d’un
orecchino, e mio padre, davanti a lei, sorregge con le
due mani uno specchio perch’ella vi si guardi. Certo
quegli orecchini sono un regalo oggi stesso acquistato,
ella se li prova per la prima volta: la compiacenza di se
stessa la incatena, si direbbe, alla sua propria parvenza.
Ma mio padre le ritoglie lo specchio; e stringendole fra
le due palme il capo la bacia d’un tratto sulle labbra.
PARTE QUINTA
Inverno
CAPITOLO PRIMO
Brava! brava! Di’ alla tua cara nonna che da noi sarà fat-
to secondo il suo desiderio. E Dio voglia, amate figlie,
che la vostra fede sia esaudita –. Non di rado, egli ag-
giungeva pure un saluto particolare, quale: “Addio, la
mia sorelluccia”, o “Agatina”, o “anima mia”, o altro
complimento simile. E la piccola monaca, esperta del
cerimoniale, gli posava sulla mano un bacio. Dopo di
che, riattraversata la chiesa, con una nuova riverenza
prendeva commiato dall’altar maggiore e tornava di fuo-
ri, presso la nonna inginocchiata, per attendere, in piedi
al fianco di lei, ch’ella terminasse l’orazione.
Ciò non era senza sacrificio: non solo per il freddo
che, stando cosí ferma, la fanciulletta avvertiva piú acu-
to (sebbene, sotto la veste di monaca, le avessero fatto
indossare calze e biancheria di maglia pesante); ma so-
prattutto perché simili attese erano la parte meno sor-
prendente e ricca di quell’avventura. Ella nascondeva
tuttavia la propria impazienza; e stringendo sul petto,
con le due mani in croce, la vuota borsa delle elemosine,
si distraeva pensando ai racconti grandi e straordinari, ai
vanti con cui, piú tardi, avrebbe assordato le compagne:
poiché aveva un cuore di pavona, e le piaceva oltremodo
di far mostra. Meditava pure di colorare la propria av-
ventura con qualche variegata frottola. Dicendosi che,
tanto, le bugie dette per gioco non meritano, al pari del-
le bugie vere, sette anni di purgatorio per ciascuna; ma
sono peccato veniale, e basta accusarsene in confessione
per esserne perdonati. Con simili pensieri, la piccola
monaca ingannava l’attesa: finché la nonna, levandosi,
dava il segno di riprendere il pellegrinaggio.
Ma l’edificante pazienza della fanciulletta durò fino al-
la fine? Oppure, avanti che il pellegrinaggio terminasse,
ella tradí, con qualche broncio o subitanea rivolta, il pro-
prio spirito frivolo e immaturo? Su questo punto, io de-
vo lasciarvi nel dubbio. Infatti, già troppo mi sono tratte-
nuta ad ascoltare quest’arietta allegra, nel mezzo della
CAPITOLO SECONDO
in fuoco, infatti lui non era nato per una sorte mediocre,
aveva in sé, ne era certo, quanto bastava per vincere nella
vita, e rendere orgogliosa qualsiasi donna. Tutto ciò, egli
lo dichiarava non con espressioni di risentimento verso
mia madre, ma anzi con una sorta di servile umiltà, quasi
supplicasse Anna a concedergli almeno un simile ricono-
scimento. Ma alle sue parole temerarie mia madre rideva
con durezza, gettando indietro il capo e gli gridava: – Ba-
rone! Cantante! Predicatore da fiera!
L’inverno, anche nel sud, ha giorni rigidi; ma in casa
nostra non v’era alcuna stufa. Per cui non di rado, inti-
rizzita, io scrivevo i miei còmpiti sui mattoni del focola-
re, affinché il fiato delle braci mi riscaldasse un poco le
mani. Al mattino, che piovesse o no, per recarmi a scuo-
la non avevo altro costume che un impermeabile bruno,
lungo fin quasi ai piedi, e un largo cappello d’incerato
nero. Le mie compagne, ricordo, avevano occhiate di
canzonatura per quel mio costume strambo, sempre
uguale dall’ottobre al marzo. Esse erano tutte ricche o
agiate, ma io mi difendevo con la mia solitudine scon-
trosa dal disagio d’esser fra loro diversa. In piú, avevo
un altro ordine di privilegi, per compensarmi dei loro,
che mi mancavano. Nella mia classe, ero io che ottenevo
i voti migliori; ma fra le mie compagne, solo a colei che
considerassi in quel momento la mia prediletta concede-
vo suggerimenti e aiuti, e ciò non senza preghiere da
parte di lei, né dignitosa condiscendenza dalla mia par-
te. In simili occasioni, io vedevo le compagne umiliarsi
al mio cospetto; ma ciò che sopra ogni cosa mi faceva
raggiare d’orgoglio, era il mostrarmi ad esse al fianco di
mia madre.
Come già vi dissi, nessuna madre al mondo mi pareva
reggere al paragone con la mia. Ora, poiché mia madre
non vestiva pelliccia, questo lussuoso vestimento delle
altre signore perdeva ai miei occhi ogni prestigio. E se
altre signore venivano alla scuola in carrozza, o in auto-
CAPITOLO TERZO
che mio padre, con una risata guerresca e fatua del tutto
insolita in lui, ribatteva che, per quanto lo riguardava,
tali donne sprecavano le loro arti. Sebbene, soggiunge-
va, per diverse circostanze, egli avesse talora ceduto alle
seduzioni della dama lentigginosa, l’istante dopo gli era
parso d’essersi contaminato, quella giovane, bella in
realtà, gli appariva deforme, quei capelli sulfurei sul me-
desimo guanciale dove lui posava la testa gli sembravano
i crini d’una cavalla, ed egli non bramava che di fuggire,
preferendo il fumo di carbone alla vicinanza di colei!
Tali discorsi suscitavano sconce risate di consenso nel
gruppo dei nostri vicini. Cosí, io dovevo soffrire che si
sparlasse con tanta villania della mia bella Rosaria (seb-
bene mio padre non la nominasse, non era difficile in-
tendere ch’egli parlava di lei). Né potevo far nulla in sua
difesa, se non imbronciarmi e aggrottare la fronte; ma
queste mute manifestazioni di biasimo passavano inos-
servate, e mio padre sembrava non vedere affatto i bur-
rascosi miei sguardi!
D’altra parte, le sue pupille già si velavano. Era que-
sta l’ora ch’egli incominciava a discorrere nel comune
dialetto della regione, per ingraziarsi, forse, i presenti. E
poi, per adularli, adeguando la propria alla loro misera
sorte, compativa se stesso, lamentandosi del proprio
mestiere, del fumo e della polvere di carbone ch’era co-
stretto a inghiottire ogni giorno, dei freddi notturni,
dell’eterno rumore e via di seguito. Ma coloro non pare-
vano commossi dalle sue confidenze piú di quanto lo
fossero dalle sue millanterie; in pose d’ignavia, udivano
dolori e imprecazione col solito ambiguo sorriso, le soli-
te occhiate sfuggenti. E per qualsiasi discorso avevano i
medesimi cenni di consenso non saprei dire se ipocriti, o
dementi, o schernitori. Come servi d’un automa, fattisi
tetri e senili sotto la strana tirannide, essi parevano giu-
dicare futile e monotono, anche se funesto, ogni vario
movimento del destino; e fanciullaggini, ormai, la sor-
CAPITOLO QUINTO
durti qui. Giacché io, per tua norma, non sono una Gran
Signora, sono una mala femmina, e me ne glorio! Hai ca-
pito? Ma tuo padre, se non fosse un buffone e un furfan-
te, non ti porterebbe in casa d’una mala femmina!
Dopo di che, senza aspettare la replica di mio padre,
il quale s’era alzato a sua volta, gli gridò in viso: – Sí, tu
sei un furfante, un assassino! Sei un disgraziato, servo di
chi ti rifiuta! – Ma, proseguí, forse per riavvalersi voleva
egli fare affronto a lei, Rosaria? o forse per via che si re-
putava un dottore? Ma lei, Rosaria, si teneva da piú di
tanti dottori e di tante gentildonne! Lei conosceva dei
signoroni disposti a riverirla, a correrle dietro, a dichia-
rare fallimento per lei! Dei signori coi quali mio padre,
malgrado il suo dottorato, avrebbe guadagnato molto a
fare il cambio! Lei non era avvezza a sopportare affronti
da nessuno, e non doveva fare inchini a nessuno, a diffe-
renza di certe dame schifiltose, le quali torcono la testa,
sí, e arricciano il naso, ma se han bisogno di quattrini,
non disdegnano di tender la mano di sotterfugio a una
donnaccia come lei!
A queste parole, mio padre s’irrigidí, gli occhi foschi
e bassi, come un gentiluomo sul punto di gettare una sfi-
da a morte. Ma subito dopo, atteggiò i labbri a un sorri-
so sarcastico, e volgendosi a me, disse: – Andiamocene,
andiamocene via, Elisa!
– Guai a te! Non muoverti! – mi gridò da parte sua
Rosaria; e sbarrando l’uscio con la persona incominciò a
proferire ogni sorta di minacce contro mio padre. Gli
promise che avrebbe trovato il nostro indirizzo, e sareb-
be venuta a gridare quel che pensava alla signora. Oppu-
re che avrebbe imparato la strada per recarsi all’ufficio
delle Poste, e avrebbe fatto ivi uno scandalo. E cosí di
seguito, altre minacce e ricatti che non ricordo. Ma mio
padre le rispose duramente: – Se farete una di queste co-
se, lo sapete bene, userete il mezzo piú sicuro per non ri-
vedermi mai piú.
PARTE SESTA
Il Postale
CAPITOLO PRIMO
CAPITOLO SECONDO
zia Concetta, – non vuole nessun altro che me, per vegliar-
lo, nella camera. Ed io, lo affiderei forse a una infermiera
prezzolata? No, non temere, Edoardo, cuore mio prezio-
so, tua madre non ti lascia neppure un momento. Certe
volte soffre d’insonnia, e di tanto in tanto mi richiama:
Concetta! dormi? Io, seppure m’ero assopita, mi scuoto di
soprassalto, e rispondo: Non dormo, no, no, Edoardo mio,
giacché lui s’offende se altri dorme accanto a lui mentr’egli
rimane sveglio. Anche la mattina, vorrebbe che tutta la ca-
sa si risvegliasse insieme con lui. Balza dal suo lettino, e
scuote la governante, poi desta i suoi cuccioli, i suoi gatti,
poi corre da me e mi racconta i propri sogni, e vuol sentire
i miei... rimane lí ad ascoltare, seduto su quella sediolina
vicino al mio letto, con gli occhi attenti, come se udisse chi
sa che belle favole d’autore!
E zia Concetta ci indicò, ai piedi del suo letto nell’al-
cova, un’elegante poltroncina intarsiata, fabbricata
all’incirca sulla mia misura, e che io, devo dirlo, invidiai
non poco al cugino Edoardo.
– Sovente, – riprese ella a raccontare, – sovente, mal-
grado l’insonnia e la malattia (perch’egli, tu sai, fu molto
malato), malgrado tutto, lui, angelo santo e senza pen-
sieri, ha un umore scherzoso: «Concetta, – mi dice, –
non ti pare, a dormire noi due nella stessa camera, d’es-
ser tornati alle notti ch’ero bambino, e volevo dormire
con te, nel letto matrimoniale? Mi pareva chi sa quale
onore!» E ridiamo insieme, rido con lui come fossi tor-
nata ragazza! Ah, benedizione mia, guardatelo, e ditemi
se c’è una donna al mondo che non perderebbe la testa
per lui! E lui lo sa, veramente, d’esser bello: già, se pure
non l’avesse saputo, sua madre non ha fatto che dirglielo
da quando ha incominciato a dargli il latte. Ah, cara
mia, vedesti mai la perfezione delle forme sulla terra?
Cosí è lui; guardate i suoi ritratti, se non son degni di
stare su un altare. E lui lo sa, e gli piace di farsi fotogra-
fare e ritrarre, e sempre si ricorda di sua madre. Da tutti
CAPITOLO TERZO
CAPITOLO QUARTO
CAPITOLO QUINTO
privata cosí della mia compagnia piú cara e del mio piú
grande privilegio.
Fin da quel giorno stesso, mia madre mise in atto le
volontà di Edoardo. Nel dopopranzo, mentr’io, seduta
in cucina, rammendavo certi miei straccetti, ella uscí di
soppiatto e a mia insaputa, certo per recarsi dalla zia.
Quando, prima del tramonto, rincasò, io non fui capace
di leggere sul suo volto trasognato e febbrile se donna
Concetta l’avesse o no perdonata. Ella, poi, di questa sua
visita al Palazzo (dove la sorte, per il volgersi degli eventi,
non doveva dopo di allora condurmi mai piú), non mi
raccontò né mi disse nulla, né quel giorno né in seguito.
Quella sera medesima, si trasferí dalla nostra camera
nella stanzetta della nonna. E da questo punto, la nostra
vicenda familiare si fa nei miei ricordi precipitosa e con-
fusa; le poche scene che ne affiorano, e delle quali fui te-
stimone e partecipe, mi appaiono, se le riguardo con la
mia mente di allora, soltanto dei misteri inumani. Cer-
cherò tuttavia di rievocare, come meglio posso, con
l’aiuto della mia ragione adulta, gli episodi piú notevoli
di quegli ultimi giorni che precedettero l’epilogo.
Mio padre non fu meno stupito e addolorato di me
quando vide mia madre senza piú le sue trecce. Mia ma-
dre gli disse di averle tagliate perché quei capelli troppo
lunghi le davano caldo e la importunavano: e cosí pure
addusse il pretesto del caldo per il cambiamento della
camera, affermando che la stanzetta della nonna era piú
fresca. Ella aveva di nuovo assunto verso mio padre il
contegno chiuso e aspro dei tempi peggiori, ed anche
per me non aveva piú amicizia né confidenza, ma anzi
una specie di avversione. Il suo fervido, incostante e af-
fascinante umore degli scorsi giorni era scomparso:
adesso, ella serbava sempre un’espressione calma e acci-
gliata e sul suo viso c’era quel tristo pallore quasi grigio
ch’io le avevo già veduto entrando in camera, nella fa-
mosa notte di domenica.
CAPITOLO SESTO
rapido, quasi salito col soffio dei suoi respiri. Mio padre
le disse che voleva sapere il nome di colui: – S’io t’ho di-
sonorato, – ella rispose, – vendicati sulla mia persona:
ma il nome del mio amante non lo saprai mai, non te lo
dirò mai –. Nel dir cosí, mi parve, ma forse fu un’illusio-
ne della mia vista, ch’ella mi ammonisse con uno sguar-
do lampeggiante e minaccioso: – Quando cominciò? –
le chiese allora mio padre. Ella rispose d’aver sempre
amato colui, d’esserne stata sempre amata, ma che da
poco erano diventati amanti. Si sarebbe detto ch’ella
provava un piacere gioioso e terribile a ripetere questa
parola, alla quale mio padre trasaliva ogni volta.
– È uno di qui? – insisté egli a domandare, – vive in
questa città? – È di qui, – ella rispose, – ma viaggia –.
D’un tratto una sorta di trista illuminazione stravolse il
viso di mio padre: – È, – diss’egli, – tuo cugino Edoardo?
Mia madre alzò una spalla, e con una voce ridente,
che mi fece correre un brivido per le vene, esclamò: –
Che dici, pazzo! Non sai che mio cugino è morto!
– È morto Edoardo? – disse mio padre, e mia madre,
sempre con la medesima voce, rispose: – Già! non lo
sai? Non sai ch’era malato qui? – e si toccò il petto.
– È morto Edoardo! – ripeté mio padre. E mi avvidi
che il suo volto, contrattosi finora in una durezza volon-
taria e caparbia, si disfaceva, come s’egli pure avesse co-
nosciuto e amato il cugino, e la notizia della sua morte
gli recasse un dolore invincibile: – Non sapevo ch’era
morto... – egli balbettò, – non lo sapevo... E sei tu,. brut-
ta sgualdrina, che mi dài per prima questa notizia!
Mia madre alzò di nuovo le spalle, e atteggiò la bocca
al sorriso. – Che tu sia maledetta per avermi data questa
notizia! – le gridò mio padre, con una impulsività strana
e insensata. Poi, guardandola, proseguí: – Tu ridi! Eb-
bene, gira gli occhi a questi muri, vedi questa casa? Sap-
pi che da questo momento essa è la tua prigione, tu non
ne uscirai che morta. Ma prima di ucciderti, io saprò da
CAPITOLO SETTIMO
CAPITOLO OTTAVO
der i suoi modi feroci e bizzarri ero stata ripresa dallo sgo-
mento, vedendola partire alzai con gesto di supplica le due
mani chiuse a pugno e scossa da singulti esclamai: – No,
non andartene, non andartene, se non vuoi farmi morire!
Ella mi guardò interdetta: – Ah, non lasciarmi sola, ri-
mani qui con me! – ripetei cosí smarrita, come se davve-
ro la sua partenza significasse per me la morte. E poiché
ella impietosita mi si accostò, la afferrai per gli abiti,
quasi volessi costringerla con le mie forze a restare.
– Eh, angelo mio caro, io resterei con te, – ella diceva,
– ma tua madre che dirà? tua madre non mi vuole –.
Neppure questo argomento, però, di solito cosí forte,
valeva oggi contro la mia frenesia, e contro la tristezza
che mi vinceva al pensiero della solitudine. – Rimani, ri-
mani, – ripetevo, e ci stringemmo insieme in uno sfrena-
to abbraccio, e mescolammo il nostro pianto. Persuasa
ad indugiarsi un poco, ella si accosciò di nuovo presso
di me, e in quel punto disse, mirandomi: – Ah, come sei
bella, sei tutta il ritratto di tuo padre!
Pur nella sua compiacenza, tuttavia, ella tentava di con-
vincermi, fra dolci blandizie, della necessità di separarci. E
per consolarmi, favolosamente mi prometteva, con sorrisi
lagrimosi e folli, che mi lascerebbe, sí, ma ritornerebbe
presto, e mi ricondurrebbe mio padre vivo e sano. E che
da quel momento lei stessa, mio padre e io, vivremmo in-
sieme noi tre soli e per sempre. Il giornale che cosa diceva
infatti? Diceva in fin di vita. Ebbene, a quest’ora egli pote-
va essere ancor vivo, anzi lo era di certo, e la Madonna e
santa Rosalia potevano ancora farci il miracolo.
Mentre cosí diceva per tranquillarmi, essa pareva riat-
tingere nuova fiducia e speranza alle sue stesse parole.
Un’espressione esaltata e intenta le apparve sul viso: –
Vedrai, vedrai, – ripeté, – che riceveremo la grazia. Ma
adesso, – seguitò, come ispirata, congiungendo insieme
le mie mani, – prima ch’io esca di qui, tu, che sei un’ani-
ma innocente, devi fare un voto alla Madonna e a santa
CAPITOLO NONO
EPILOGO
seguíto da un «Commiato» in versi
E t’ero uguale!
Uguale! Ricordi, tu,
arrogante mestizia? Di foglie
tetro e sfolgorante, un giardino
abitammo insieme, fra il popolo
barbaro del Paradiso. Fu per me l’esilio,
ma la camera tua là rimane,
e nella mia terrestre fugace passi
giocante pellegrino. Perché mi concedi
il tuo favore, o selvaggio?