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di Alessandro Manzoni
Introduzione 1
Capitolo I 5
Capitolo II 25
Capitolo III 40
Capitolo IV 57
Capitolo V 74
Capitolo VI 91
Capitolo VII 107
Capitolo VIII 128
Capitolo IX 152
Capitolo X 175
Capitolo XI 200
Capitolo XII 221
Capitolo XIII 236
Capitolo XIV 253
Capitolo XV 271
Capitolo XVI 289
Capitolo XVII 306
Capitolo XVIII 323
Capitolo XIX 339
Capitolo XX 355
Capitolo XXI 371
Capitolo XXII 387
Capitolo XXIII 400
Capitolo XXIV 420
Capitolo XXV 448
Capitolo XXVI 464
Capitolo XXVII 481
Capitolo XXVIII 498
per procacciar fede alle cose, alle quali, per la loro stranez-
za, il lettore sarebbe più tentato di negarla.
Ma, rifiutando come intollerabile la dicitura del nostro
autore, che dicitura vi abbiam noi sostituita? Qui sta il
punto.
Chiunque, senza esser pregato, s’intromette a rifar
l’opera altrui, s’espone a rendere uno stretto conto della
sua, e ne contrae in certo modo l’obbligazione: è questa
una regola di fatto e di diritto, alla quale non pretendiam
punto di sottrarci. Anzi, per conformarci ad essa di buon
grado, avevam proposto di dar qui minutamente ragione
del modo di scrivere da noi tenuto; e, a questo fine, siamo
andati, per tutto il tempo del lavoro, cercando d’indovina-
re le critiche possibili e contingenti, con intenzione di ri-
batterle tutte anticipatamente. Né in questo sarebbe stata
la difficoltà; giacché (dobbiam dirlo a onor del vero) non
ci si presentò alla mente una critica, che non le venisse in-
sieme una risposta trionfante, di quelle risposte che, non
dico risolvon le questioni, ma le mutano. Spesso anche,
mettendo due critiche alle mani tra loro, le facevam batte-
re l’una dall’altra; o, esaminandole ben a fondo, riscon-
trandole attentamente, riuscivamo a scoprire e a mostrare
che, così opposte in apparenza, eran però d’uno stesso ge-
nere, nascevan tutt’e due dal non badare ai fatti e ai prin-
cipi su cui il giudizio doveva esser fondato; e, messele, con
loro gran sorpresa, insieme, le mandavamo insieme a
spasso. Non ci sarebbe mai stato autore che provasse così
ad evidenza d’aver fatto bene. Ma che? quando siamo sta-
ti al punto di raccapezzar tutte le dette obiezioni e rispo-
ste, per disporle con qualche ordine, misericordia! veniva-
no a fare un libro. Veduta la qual cosa, abbiam messo da
parte il pensiero, per due ragioni che il lettore troverà cer-
tamente buone: la prima, che un libro impiegato a giustifi-
carne un altro, anzi lo stile d’un altro, potrebbe parer cosa
ridicola: la seconda, che di libri basta uno per volta, quan-
do non è d’avanzo.
CAPITOLO I
CAPITOLO II
CAPITOLO III
CAPITOLO IV
CAPITOLO V
CAPITOLO VI
che fa loro sentire, nelle loro regge; quel Dio le usa ora
un tratto di misericordia, mandando un suo ministro,
indegno e miserabile, ma un suo ministro, a pregar per
una innocente...
– In somma, padre, – disse don Rodrigo, facendo atto
d’andarsene, – io non so quel che lei voglia dire: non ca-
pisco altro se non che ci dev’essere qualche fanciulla che
le preme molto. Vada a far le sue confidenze a chi le pia-
ce; e non si prenda la libertà d’infastidir più a lungo un
gentiluomo.
Al moversi di don Rodrigo, il nostro frate gli s’era
messo davanti, ma con gran rispetto; e, alzate le mani,
come per supplicare e per trattenerlo ad un punto, ri-
spose ancora: – la mi preme, è vero, ma non più di lei;
son due anime che, l’una e l’altra, mi premon più del
mio sangue. Don Rodrigo! io non posso far altro per lei,
che pregar Dio; ma lo farò ben di cuore. Non mi dica di
no: non voglia tener nell’angoscia e nel terrore una po-
vera innocente. Una parola di lei può far tutto.
– Ebbene, – disse don Rodrigo, – giacché lei crede
ch’io possa far molto per questa persona; giacché questa
persona le sta tanto a cuore...
– Ebbene? – riprese ansiosamente il padre Cristoforo,
al quale l’atto e il contegno di don Rodrigo non permet-
tevano d’abbandonarsi alla speranza che parevano an-
nunziare quelle parole.
– Ebbene, la consigli di venire a mettersi sotto la mia
protezione. Non le mancherà più nulla, e nessuno ardirà
d’inquietarla, o ch’io non son cavaliere.
A siffatta proposta, l’indegnazione del frate, rattenuta
a stento fin allora, traboccò. Tutti que’ bei proponimen-
ti di prudenza e di pazienza andarono in fumo: l’uomo
vecchio si trovò d’accordo col nuovo; e, in que’ casi, fra
Cristoforo valeva veramente per due.
– La vostra protezione! – esclamò, dando indietro
due passi, postandosi fieramente sul piede destro, met-
CAPITOLO VII
CAPITOLO VIII
CAPITOLO IX
CAPITOLO X
CAPITOLO XI
CAPITOLO XII
CAPITOLO XIII
le: pensate cosa dovevan dire coloro de’ quali erano. Al-
tri sollevano con le mani il peso morto, vi si caccian sot-
to, se lo mettono addosso, gridando: – animo! andiamo!
– La macchina fatale s’avanza balzelloni, e serpeggian-
do. Arrivò a tempo a distrarre e a disordinare i nemici di
Renzo, il quale profittò della confusione nata nella con-
fusione; e, quatto quatto sul principio, poi giocando di
gomita a più non posso, s’allontanò da quel luogo, dove
non c’era buon’aria per lui, con l’intenzione anche
d’uscire, più presto che potesse, dal tumulto, e d’andar
davvero a trovare o a aspettare il padre Bonaventura.
Tutt’a un tratto, un movimento straordinario comin-
ciato a una estremità, si propaga per la folla, una voce si
sparge, viene avanti di bocca in bocca: – Ferrer! Ferrer!
– Una maraviglia, una gioia, una rabbia, un’inclinazione,
una ripugnanza, scoppiano per tutto dove arriva quel
nome; chi lo grida, chi vuol soffogarlo; chi afferma, chi
nega, chi benedice, chi bestemmia.
– È qui Ferrer! – Non è vero, non è vero! – Sì, sì; viva
Ferrer! quello che ha messo il pane a buon mercato. –
No, no! – E qui, è qui in carrozza. – Cosa importa? che
c’entra lui? non vogliamo nessuno! – Ferrer! viva Fer-
rer! l’amico della povera gente! viene per condurre in
prigione il vicario. – No, no: vogliamo far giustizia noi:
indietro, indietro! – Sì, sì: Ferrer! venga Ferrer! in pri-
gione il vicario!
E tutti, alzandosi in punta di piedi, si voltano a guar-
dare da quella parte donde s’annunziava l’inaspettato
arrivo. Alzandosi tutti, vedevano né più né meno che se
fossero stati tutti con le piante in terra; ma tant’è, tutti
s’alzavano.
In fatti, all’estremità della folla, dalla parte opposta a
quella dove stavano i soldati, era arrivato in carrozza
Antonio Ferrer, il gran cancelliere; il quale, rimorden-
dogli probabilmente la coscienza d’essere co’ suoi spro-
positi e con la sua ostinazione, stato causa, o almeno oc-
CAPITOLO XIV
signori miei, che c’è una mano di tiranni, che fanno pro-
prio al rovescio de’ dieci comandamenti, e vanno a cer-
car la gente quieta, che non pensa a loro, per farle ogni
male, e poi hanno sempre ragione? anzi quando n’han-
no fatta una più grossa del solito, camminano con la te-
sta più alta, che par che gli s’abbia a rifare il resto? Già
anche in Milano ce ne dev’essere la sua parte.
– Pur troppo, – disse una voce.
– Lo dicevo io, – riprese Renzo: – già le storie si rac-
contano anche da noi. E poi la cosa parla da sé. Mettia-
mo, per esempio, che qualcheduno di costoro che voglio
dir io stia un po’ in campagna, un po’ in Milano: se è un
diavolo là, non vorrà esser un angiolo qui; mi pare. Dun-
que mi dicano un poco, signori miei, se hanno mai visto
uno di questi col muso all’inferriata. E quel che è peggio
(e questo lo posso dir io di sicuro), è che le gride ci so-
no, stampate, per gastigarli: e non già gride senza co-
strutto; fatte benissimo, che noi non potremmo trovar
niente di meglio; ci son nominate le bricconerie chiare,
proprio come succedono; e a ciascheduna, il suo buon
gastigo. E dice: sia chi si sia, vili e plebei, e che so io.
Ora, andate a dire ai dottori, scribi e farisei, che vi fac-
ciano far giustizia, secondo che canta la grida: vi dànno
retta come il papa ai furfanti: cose da far girare il cervel-
lo a qualunque galantuomo. Si vede dunque chiaramen-
te che il re, e quelli che comandano, vorrebbero che i
birboni fossero gastigati; ma non se ne fa nulla, perché
c’è una lega. Dunque bisogna romperla; bisogna andar
domattina da Ferrer, che quello è un galantuomo, un si-
gnore alla mano; e oggi s’è potuto vedere com’era con-
tento di trovarsi con la povera gente, e come cercava di
sentir le ragioni che gli venivan dette, e rispondeva con
buona grazia. Bisogna andar da Ferrer, e dirgli come
stanno le cose; e io, per la parte mia, gliene posso rac-
contar delle belle; che ho visto io, co’ miei occhi, una
grida con tanto d’arme in cima, ed era stata fatta da tre
CAPITOLO XV
CAPITOLO XVI
che gli aveva indicato quel paese come il primo che do-
veva attraversare, per arrivare a Gorgonzola.
– Oh! – disse l’amico; come se volesse dire: faresti
meglio a venir da Milano, ma pazienza. – E a Liscate, –
soggiunse, – non si sapeva niente di Milano?
– Potrebb’essere benissimo che qualcheduno là sa-
pesse qualche cosa, – rispose il montanaro: – ma io non
ho sentito dir nulla.
E queste parole le proferì in quella maniera particola-
re che par che voglia dire: ho finito. Il curioso ritornò al
suo posto; e, un momento dopo, l’oste venne a mettere
in tavola.
– Quanto c’è di qui all’Adda? – gli disse Renzo, mez-
zo tra’ denti, con un fare da addormentato, che gli ab-
biam visto qualche altra volta.
– All’Adda, per passare? – disse l’oste.
– Cioè... sì... all’Adda.
– Volete passare dal ponte di Cassano, o sulla chiatta
di Canonica?
– Dove si sia... Domando così per curiosità.
– Eh, volevo dire, perché quelli sono i luoghi dove
passano i galantuomini, la gente che può dar conto di sé.
– Va bene: e quanto c’è?
– Fate conto che, tanto a un luogo, come all’altro, po-
co più, poco meno, ci sarà sei miglia.
– Sei miglia! non credevo tanto, – disse Renzo. – E
già, – e già, chi avesse bisogno di prendere una scorcia-
toia, ci saranno altri luoghi da poter passare?
– Ce n’è sicuro, – rispose l’oste, ficcandogli in viso
due occhi pieni d’una curiosità maliziosa. Bastò questo
per far morir tra’ denti al giovine l’altre domande che
aveva preparate. Si tirò davanti il piatto; e guardando la
mezzetta che l’oste aveva posata, insieme con quello,
sulla tavola, disse: – il vino è sincero?
Come l’oro, – disse l’oste: – domandatene pure a tutta
CAPITOLO XVII
non averle dette la sera avanti; anzi, per dir le sue paro-
le, d’essere andato a dormire come un cane, e peggio.
«E per questo, – soggiunse poi tra sé; appoggiando le
mani sulla paglia, e d’inginocchioni mettendosi a giace-
re: – per questo, m’è toccata, la mattina, quella bella sve-
gliata». Raccolse poi tutta la paglia che rimaneva all’in-
torno, e se l’accomodò addosso, facendosene, alla
meglio, una specie di coperta, per temperare il freddo,
che anche là dentro si faceva sentir molto bene; e vi si
rannicchiò sotto, con l’intenzione di dormire un bel son-
no, parendogli d’averlo comprato anche più caro del
dovere.
Ma appena ebbe chiusi gli occhi, cominciò nella sua
memoria o nella sua fantasia (il luogo preciso non ve lo
saprei dire), cominciò, dico, un andare e venire di gente,
così affollato, così incessante, che addio sonno. Il mer-
cante, il notaio, i birri, lo spadaio, l’oste, Ferrer, il vica-
rio, la brigata dell’osteria, tutta quella turba delle strade,
poi don Abbondio, poi don Rodrigo: tutta gente con cui
Renzo aveva che dire.
Tre sole immagini gli si presentavano non accompa-
gnate da alcuna memoria amara, nette d’ogni sospetto,
amabili in tutto; e due principalmente, molto differenti
al certo, ma strettamente legate nel cuore del giovine:
una treccia nera e una barba bianca. Ma anche la conso-
lazione che provava nel fermare sopra di esse il pensie-
ro, era tutt’altro che pretta e tranquilla. Pensando al
buon frate, sentiva più vivamente la vergogna delle pro-
prie scappate, della turpe intemperanza, del bel caso
che aveva fatto de’ paterni consigli di lui; e contemplan-
do l’immagine di Lucia! non ci proveremo a dire ciò che
sentisse: il lettore conosce le circostanze; se lo figuri. E
quella povera Agnese, come l’avrebbe potuta dimentica-
re? Quell’Agnese, che l’aveva scelto, che l’aveva già con-
siderato come una cosa sola con la sua unica figlia, e pri-
ma di ricever da lui il titolo di madre, n’aveva preso il
CAPITOLO XVIII
CAPITOLO XIX
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CAPITOLO XXI
CAPITOLO XXII
lui fin che visse; dopo, non bastando a quella spesa l’en-
trate ordinarie, furon ristretti a due); e il loro ufizio era
di coltivare vari studi, teologia, storia, lettere, antichità
ecclesiastiche, lingue orientali, con l’obbligo ad ognuno
di pubblicar qualche lavoro sulla materia assegnatagli;
v’unì un collegio da lui detto trilingue, per lo studio del-
le lingue greca, latina e italiana; un collegio d’alunni, che
venissero istruiti in quelle facoltà e lingue, per insegnar-
le un giorno; v’unì una stamperia di lingue orientali,
dell’ebraica cioè, della caldea, dell’arabica, della persia-
na, dell’armena; una galleria di quadri, una di statue, e,
una scuola delle tre principali arti del disegno. Per que-
ste, poté trovar professori già formati; per il rimanente,
abbiam visto che da fare gli avesse dato la raccolta de’ li-
bri e de’ manoscritti; certo più difficili a trovarsi doveva-
no essere i tipi di quelle lingue, allora molto men coltiva-
te in Europa che al presente; più ancora de’ tipi, gli
uomini. Basterà il dire che, di nove dottori, otto ne prese
tra i giovani alunni del seminario; e da questo si può ar-
gomentare che giudizio facesse degli studi consumati e
delle riputazioni fatte di quel tempo: giudizio conforme
a quello che par che n’abbia portato la posterità, col
mettere gli uni e le altre in dimenticanza. Nelle regole
che stabilì per l’uso e per il governo della biblioteca, si
vede un intento d’utilità perpetua, non solamente bello
in sé, ma in molte parti sapiente e gentile molto al di là
dell’idee e dell’abitudini comuni di quel tempo. Pre-
scrisse al bibliotecario che mantenesse commercio con
gli uomini più dotti d’Europa, per aver da loro notizie
dello stato delle scienze, e avviso de’ libri migliori che
venissero fuori in ogni genere, e farne acquisto; gli pre-
scrisse d’indicare agli studiosi i libri che non conoscesse-
ro, e potesser loro esser utili; ordinò che a tutti, fossero
cittadini o forestieri, si desse comodità e tempo di ser-
virsene, secondo il bisogno. Una tale intenzione deve
ora parere ad ognuno troppo naturale, e immedesimata
CAPITOLO XXIII
CAPITOLO XXIV
rare, per que’ pochi giorni, le ospiti che Dio aveva loro
mandate.
– Oh! sì signore, – rispose la donna, con un tono di
voce e con un viso ch’esprimeva molto più di
quell’asciutta risposta, strozzata dalla vergogna. Ma il
marito, messo in orgasmo dalla presenza d’un tale inter-
rogatore, dal desiderio di farsi onore in un’occasione di
tanta importanza, studiava ansiosamente qualche bella
risposta. Raggrinzò la fronte, torse gli occhi in traverso,
strinse le labbra, tese a tutta forza l’arco dell’intelletto,
cercò, frugò, sentì di dentro un cozzo d’idee monche e
di mezze parole: ma il momento stringeva; il cardinale
accennava già d’avere interpretato il silenzio: il
pover’uomo aprì la bocca, e disse: – si figuri! – Altro
non gli volle venire. Cosa, di cui non solo rimase avvilito
sul momento; ma sempre poi quella rimembranza im-
portuna gli guastava la compiacenza del grand’onore ri-
cevuto. E quante volte, tornandoci sopra, e rimettendosi
col pensiero in quella circostanza, gli venivano in mente,
quasi per dispetto, parole che tutte sarebbero state me-
glio di quell’insulso si figuri! Ma, come dice un antico
proverbio, del senno di poi ne son piene le fosse.
Il cardinale partì, dicendo: – la benedizione del Si-
gnore sia sopra questa casa.
Domandò poi la sera al curato come si sarebbe potu-
to in modo convenevole ricompensare quell’uomo, che
non doveva esser ricco, dell’ospitalità costosa, special-
mente in que’ tempi. Il curato rispose che, per verità, né
i guadagni della professione, né le rendite di certi cam-
picelli, che il buon sarto aveva del suo, non sarebbero
bastate, in quell’annata, a metterlo in istato d’esser libe-
rale con gli altri; ma che, avendo fatto degli avanzi negli
anni addietro, si trovava de’ più agiati del contorno, e
poteva far qualche spesa di più, senza dissesto, come
certo faceva questa volentieri; e che, del rimanente, non
CAPITOLO XXV
lettera alla casa del sarto. Questo fu due o tre giorni pri-
ma che il cardinale mandasse la lettiga per ricondur le
donne al loro paese.
Arrivate, smontarono alla casa parrocchiale, dove si
trovava il cardinale. C’era ordine d’introdurle subito: il
cappellano, che fu il primo a vederle, l’eseguì, trattenen-
dole solo quant’era necessario per dar loro, in fretta in
fretta, un po’ d’istruzione sul cerimoniale da usarsi con
monsignore, e sui titoli da dargli; cosa che soleva fare,
ogni volta che lo potesse di nascosto a lui. Era per il po-
ver’uomo un tormento continuo il vedere il poco ordine
che regnava intorno al cardinale, su quel particolare: –
tutto, – diceva con gli altri della famiglia, – per la troppa
bontà di quel benedett’uomo; per quella gran famiglia-
rità -. E raccontava d’aver perfino sentito più d’una vol-
ta co’ suoi orecchi, rispondergli: messer sì, e messer no.
Stava in quel momento il cardinale discorrendo con
don Abbondio, sugli affari della parrocchia: dimodoché
questo non ebbe campo di dare anche lui, come avrebbe
desiderato, le sue istruzioni alle donne. Solo, nel passar
loro accanto, mentre usciva, e quelle venivano avanti,
poté dar loro d’occhio, per accennare ch’era contento di
loro, e che continuassero, da brave, a non dir nulla.
Dopo le prime accoglienze da una parte, e i primi in-
chini dall’altra, Agnese si cavò di seno la lettera, e la pre-
sentò al cardinale, dicendo: – è della signora donna
Prassede, la quale dice che conosce molto vossignoria il-
lustrissima, monsignore; come naturalmente, tra loro si-
gnori grandi, si devon conoscer tutti. Quand’avrà letto,
vedrà.
– Bene, – disse Federigo, letto che ebbe, e ricavato il
sugo del senso da’ fiori di don Ferrante. Conosceva
quella casa quanto bastasse per esser certo che Lucia
c’era invitata con buona intenzione, e che lì sarebbe si-
cura dall’insidie e dalla violenza del suo persecutore.
Che concetto avesse della testa di donna Prassede, non
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CAPITOLO XXVII
CAPITOLO XXVIII
CAPITOLO XXIX
CAPITOLO XXX
CAPITOLO XXXI
CAPITOLO XXXII
CAPITOLO XXXIII
CAPITOLO XXXIV
CAPITOLO XXXV
CAPITOLO XXXVI
che verrò con questa più presto che potrò, e che spero,
spero di trovarla sana.
– Se avete bisogno di danari, – disse Renzo, – ho qui
tutti quelli che m’avete mandati, e...
– No, no, – interruppe la vedova: – ne ho io anche
troppi.
– Andiamo, – replicò il frate.
– A rivederci, Lucia...! e anche lei, dunque, quella
buona signora, – disse Renzo, non trovando parole che
significassero quello che sentiva.
– Chi sa che il Signore ci faccia la grazia di rivederci
ancora tutti! – esclamò Lucia.
– Sia Egli sempre con voi, e vi benedica, – disse alle
due compagne fra Cristoforo; e uscì con Renzo dalla ca-
panna.
Mancava poco alla sera, e il tempo pareva sempre più
vicino a risolversi. Il cappuccino esibì di nuovo al giovi-
ne di ricoverarlo per quella notte nella sua baracca. –
Compagnia, non te ne potrò fare, – soggiunse: – ma
avrai da stare al coperto.
Renzo però si sentiva una smania d’andare; e non si
curava di rimaner più a lungo in un luogo simile, quan-
do non poteva profittarne per veder Lucia, e non avreb-
be neppur potuto starsene un po’ col buon frate. In
quanto all’ora e al tempo, si può dire che notte e giorno,
sole e pioggia, zeffiro e tramontano, eran tutt’uno per
lui in quel momento. Ringraziò dunque il frate, dicendo
che voleva andar più presto che fosse possibile in cerca
d’Agnese.
Quando furono nella strada di mezzo, il frate gli strin-
se la mano, e disse: – se la trovi, che Dio voglia! quella
buona Agnese, salutala anche in mio nome; e a lei, e a
tutti quelli che rimangono, e si ricordano di fra Cristofo-
ro, dì che preghin per lui. Dio t’accompagni, e ti benedi-
ca per sempre.
– Oh caro padre...! ci rivedremo? ci rivedremo?
CAPITOLO XXXVII
CAPITOLO XXXVIII
se, così era divenuto il tempo per lui: prima i minuti gli
parevan ore; poi l’ore gli parevan minuti.
La vedova, non solo non guastava la compagnia, ma
ci faceva dentro molto bene; e certamente, Renzo, quan-
do la vide in quel lettuccio, non se la sarebbe potuta im-
maginare d’un umore così socievole e gioviale. Ma il laz-
zeretto e la campagna, la morte e le nozze, non son
tutt’uno. Con Agnese essa aveva già fatto amicizia; con
Lucia poi era un piacere a vederla, tenera insieme e
scherzevole, e come la stuzzicava garbatamente, e senza
spinger troppo, appena quanto ci voleva per obbligarla
a dimostrar tutta l’allegria che aveva in cuore.
Renzo disse finalmente che andava da don Abbondio,
a prendere i concerti per lo sposalizio. Ci andò, e, con
un certo fare tra burlesco e rispettoso, – signor curato, –
gli disse: – le è poi passato quel dolor di capo, per cui mi
diceva di non poterci maritare? Ora siamo a tempo; la
sposa c’è: e son qui per sentire quando le sia di comodo:
ma questa volta, sarei a pregarla di far presto -. Don Ab-
bondio non disse di no; ma cominciò a tentennare, a
trovar cert’altre scuse, a far cert’altre insinuazioni: e per-
ché mettersi in piazza, e far gridare il suo nome, con
quella cattura addosso? e che la cosa potrebbe farsi
ugualmente altrove; e questo e quest’altro.
– Ho inteso, – disse Renzo: – lei ha ancora un po’ di
quel mal di capo. Ma senta, senta -. E cominciò a descri-
vere in che stato aveva visto quel povero don Rodrigo; e
che già a quell’ora doveva sicuramente essere andato. –
Speriamo, – concluse, – che il Signore gli avrà usato mi-
sericordia.
– Questo non ci ha che fare, – disse don Abbondio: –
v’ho forse detto di no? Io non dico di no; parlo... parlo
per delle buone ragioni. Del resto, vedete, fin che c’è
fiato... Guardatemi me: sono una conca fessa; sono stato
anch’io, più di là che di qua: e son qui; e... se non mi
vengono addosso de’ guai... basta... posso sperare di
– Sì, sì, che vorrà esser lei sola. Anche Agnese, veda;
anche Agnese...
– Uh! ha voglia di scherzare, lei, – disse questa.
– Sicuro che ho voglia di scherzare: e mi pare che sia
ora finalmente. Ne abbiam passate delle brutte, n’è ve-
ro, i miei giovani? delle brutte n’abbiam passate: questi
quattro giorni che dobbiamo stare in questo mondo, si
può sperare che vogliano essere un po’ meglio. Ma! for-
tunati voi altri, che, non succedendo disgrazie, avete an-
cora un pezzo da parlare de’ guai passati: io in vece, so-
no alle ventitre e tre quarti, e... i birboni posson morire;
della peste si può guarire; ma agli anni non c’è rimedio:
e, come dice, senectus ipsa est morbus.
– Ora, – disse Renzo, – parli pur latino quanto vuole;
che non me n’importa nulla.
– Tu l’hai ancora col latino, tu: bene bene, t’accomo-
derò io: quando mi verrai davanti, con questa creatura,
per sentirvi dire appunto certe paroline in latino, ti dirò:
latino tu non ne vuoi: vattene in pace. Ti piacerà?
– Eh! so io quel che dico, – riprese Renzo: – non è
quel latino lì che mi fa paura: quello è un latino sincero,
sacrosanto, come quel della messa: anche loro, lì, biso-
gna che leggano quel che c’è sul libro. Parlo di quel lati-
no birbone, fuor di chiesa, che viene addosso a tradi-
mento, nel buono d’un discorso. Per esempio, ora che
siam qui, che tutto è finito; quel latino che andava ca-
vando fuori, lì proprio, in quel canto, per darmi ad in-
tendere che non poteva, e che ci voleva dell’altre cose, e
che so io? me lo volti un po’ in volgare ora.
– Sta’ zitto, buffone, sta’ zitto: non rimestar queste
cose; ché, se dovessimo ora fare i conti, non so chi avan-
zerebbe. Io ho perdonato tutto: non ne parliam più: ma
me n’avete fatti de’ tiri. Di te non mi fa specie, che sei
un malandrinaccio; ma dico quest’acqua cheta, questa
santerella, questa madonnina infilzata, che si sarebbe
creduto far peccato a guardarsene. Ma già, lo so io chi
a stare sul loro, Lucia, che lì non era aspettata per nulla,
non solo non andò soggetta a critiche, ma si può dire
che non dispiacque; e Renzo venne a risapere che s’era
detto da più d’uno: – avete veduto quella bella baggiana
che c’è venuta? – L’epiteto faceva passare il sostantivo.
E anche del dispiacere che aveva provato nell’altro
paese, gli restò un utile ammaestramento. Prima d’allora
era stato un po’ lesto nel sentenziare, e si lasciava andar
volentieri a criticar la donna d’altri, e ogni cosa. Allora
s’accorse che le parole fanno un effetto in bocca, e un al-
tro negli orecchi; e prese un po’ più d’abitudine d’ascol-
tar di dentro le sue, prima di proferirle.
Non crediate però che non ci fosse qualche fastidiuc-
cio anche lì. L’uomo (dice il nostro anonimo: e già sape-
te per prova che aveva un gusto un po’ strano in fatto di
similitudini; ma passategli anche questa, che avrebbe a
esser l’ultima), l’uomo, fin che sta in questo mondo, è
un infermo che si trova sur un letto scomodo più o me-
no, e vede intorno a sé altri letti, ben rifatti al di fuori,
piani, a livello: e si figura che ci si deve star benone. Ma
se gli riesce di cambiare, appena s’è accomodato nel
nuovo, comincia, pigiando, a sentire qui una lisca che lo
punge, lì un bernoccolo che lo preme: siamo in somma,
a un di presso, alla storia di prima. E per questo, sog-
giunge l’anonimo, si dovrebbe pensare più a far bene,
che a star bene: e così si finirebbe anche a star meglio. È
tirata un po’ con gli argani, e proprio da secentista; ma
in fondo ha ragione. Per altro, prosegue, dolori e imbro-
gli della qualità e della forza di quelli che abbiam rac-
contati, non ce ne furon più per la nostra buona gente:
fu, da quel punto in poi, una vita delle più tranquille,
delle più felici, delle più invidiabili; di maniera che, se
ve l’avessi a raccontare, vi seccherebbe a morte.
Gli affari andavan d’incanto: sul principio ci fu un
po’ d’incaglio per la scarsezza de’ lavoranti e per lo svia-
mento e le pretensioni de’ pochi ch’eran rimasti. Furon