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di Giovanni Boccaccio
{Proemio] 1
Giornata prima
Introduzione 4
Novella prima 25
Novella seconda 40
Novella terza 45
Novella quarta 49
Novella quinta 54
Novella sesta 58
Novella settima 61
Novella ottava 67
Novella nona 70
Novella decima 72
Conclusione 76
Giornata seconda
Introduzione 80
Novella prima 81
Novella seconda 87
Novella terza 94
Novella quarta 104
Novella quinta 110
Novella sesta 125
Novella settima 141
Novella ottava 165
Novella nona 183
Novella decima 198
Conclusione 206
Giornata terza
Introduzione 209
Novella prima 213
Novella seconda 221
Novella terza 227
Novella quarta 238
Novella quinta 244
Novella sesta 251
Novella settima 261
Novella ottava 280
Novella nona 292
Novella decima 303
Conclusione 309
Giornata quarta
Introduzione 313
Novella prima 321
Novella seconda 333
Novella terza 344
Novella quarta 352
Novella quinta 358
Novella sesta 363
Novella settima 371
Novella ottava 376
Novella nona 383
Novella decima 388
Conclusione 399
Giornata quinta
Introduzione 403
Giornata sesta
Introduzione 490
Novella prima 493
Novella seconda 495
Novella terza 500
Novella quarta 502
Novella quinta 505
Novella sesta 508
Novella settima 511
Novella ottava 514
Novella nona 516
Novella decima 519
Conclusione 529
Giornata settima
Introduzione 536
Novella prima 538
Novella seconda 543
Giornata ottava
Introduzione 611
Novella prima 612
Novella seconda 616
Novella terza 623
Novella quarta 633
Novella quinta 639
Novella sesta 643
Novella settima 650
Novella ottava 676
Novella nona 682
Novella decima 700
Conclusione 713
Giornata nona
Introduzione 716
Novella prima 718
Novella seconda 725
Novella terza 729
Novella quarta 734
Giornata decima
Introduzione 777
Novella prima 778
Novella seconda 782
Novella terza 788
Novella quarta 796
Novella quinta 805
Novella sesta 811
Novella settima 818
Novella ottava 827
Novella nona 847
Novella decima 867
Conclusione 880
GIORNATA PRIMA
INTRODUZIONE
di leggiere, per ciò che ciascun, quasi non più viver do-
vesse, aveva, sì come sé, le sue cose messe in abbandono;
di che le più delle case erano divenute comuni, e così
l’usava lo straniere, pure che ad esse s’avvenisse, come
l’avrebbe il proprio signore usate; e con tutto questo
proponimento bestiale sempre gl’infermi fuggivano a lor
potere.
E in tanta afflizione e miseria della nostra città era la
reverenda autorità delle leggi, così divine come umane,
quasi caduta e dissoluta tutta per li ministri e esecutori
di quelle, li quali, sì come gli altri uomini, erano tutti o
morti o infermi o sì di famigli rimasi stremi, che uficio
alcuno non potean fare; per la qual cosa era a ciascun li-
cito quanto a grado gli era d’adoperare. Molti altri ser-
vavano, tra questi due di sopra detti, una mezzana via,
non strignendosi nelle vivande quanto i primi né nel be-
re e nell’altre dissoluzioni allargandosi quanto i secondi,
ma a sofficienza secondo gli appetiti le cose usavano e
senza rinchiudersi andavano a torno, portando nelle ma-
ni chi fiori, chi erbe odorifere e chi diverse maniere di
spezierie, quelle al naso ponendosi spesso, estimando
essere ottima cosa il cerebro con cotali odori confortare,
con ciò fosse cosa che l’aere tutto paresse dal puzzo de’
morti corpi e delle infermità e delle medicine compreso
e puzzolente.
Alcuni erano di più crudel sentimento, come che per
avventura più fosse sicuro, dicendo niuna altra medicina
essere contro alle pestilenze migliore né così buona co-
me il fuggir loro davanti; e da questo argomento mossi,
non curando d’alcuna cosa se non di sé, assai e uomini e
donne abbandonarono la propia città, le propie case, i
lor luoghi e i lor parenti e le lor cose, e cercarono l’altrui
o almeno il lor contado, quasi l’ira di Dio a punire le ini-
quità degli uomini con quella pestilenza non dove fosse-
ro procedesse, ma solamente a coloro opprimere li quali
dentro alle mura della lor città si trovassero, commossa
così fatta andata lor tener compagnia. Per che senza più
parole Pampinea, levatasi in piè, la quale a alcun di loro
per consanguinità era congiunta, verso loro, che fermi
stavano a riguardarle, si fece e, con lieto viso salutatigli,
loro la lor disposizione fe’ manifesta, e pregogli per par-
te di tutte che con puro e fratellevole animo a tener loro
compagnia si dovessero disporre. I giovani si credettero
primieramente essere beffati; ma, poi che videro che da
dovero parlava la donna, rispuosero lietamente sé essere
apparecchiati; e senza dare alcuno indugio all’opera, an-
zi che quindi si partissono, diedono ordine a ciò che a
fare avessono in sul partire. E ordinatamente fatta ogni
cosa opportuna apparecchiare, e prima mandato là dove
intendevan d’andare, la seguente mattina, cioè il merco-
ledì, in su lo schiarir del giorno, le donne con alquante
delle lor fanti e i tre giovani con tre lor famigliari, usciti
della città, si misero in via; né oltre a due piccole miglia
si dilungarono da essa, che essi pervennero al luogo da
loro primieramente ordinato. Era il detto luogo sopra
una piccola montagnetta, da ogni parte lontano alquan-
to alle nostre strade, di varii albuscelli e piante tutte di
verdi fronde ripiene piacevoli a riguardare; in sul colmo
della quale era un palagio con bello e gran cortile nel
mezzo, e con logge e con sale e con camere, tutte ciascu-
na verso di sé bellissima e di liete dipinture raguardevo-
le e ornata, con pratelli da torno e con giardini maravi-
gliosi e con pozzi d’acque freschissime e con volte piene
di preziosi vini: cose più atte a curiosi bevitori che a so-
brie e oneste donne. Il quale tutto spazzato, e nelle ca-
mere i letti fatti, e ogni cosa di fiori, quali nella stagione
si potevano avere, piena e di giunchi giuncata, la ve-
gnente brigata trovò con suo non poco piacere.
E postisi nella prirna giunta a sedere, disse Dioneo, il
quale oltre a ogni altro era piacevole giovane e pieno di
motti: – Donne, il vostro senno, più che il nostro avvedi-
mento ci ha qui guidati. Io non so quello che de’ vostri
NOVELLA PRIMA
NOVELLA SECONDA
NOVELLA TERZA
NOVELLA QUARTA
NOVELLA QUINTA
NOVELLA SESTA
NOVELLA SETTIMA
fosse partito, per ciò che accomiatarlo non gli pareva far
bene. Primasso, avendo l’un pane mangiato, e l’abate
non vegnendo, cominciò a mangiare il secondo; il che si-
milmente all’abate fu detto, che fatto avea guardare se
partito si fosse.
Ultimamente, non venendo l’abate, Primasso, man-
giato il secondo, cominciò a mangiare il terzo; il che an-
cora fu allo abate detto, il quale seco stesso cominciò a
pensare e a dire: «Deh questa che novità è oggi che
nell’anima m’è venuta? che avarizia? chente sdegno? e
per cui? Io ho dato mangiare il mio, già è molt’anni, a
chiunque mangiare n’ha voluto, senza guardare se genti-
le uomo è o villano, povero o ricco. o mercatante o ba-
rattiere stato sia, e ad infiniti ribaldi con l’occhio me l’ho
veduto straziare, né mai nello animo m’entrò questo
pensiero che per costui mi c’è oggi entrato. Fermamente
avarizia non mi dee avere assalito per uomo di picciolo
affare, qualche gran fatto dee essere costui che ribaldo
mi pare, poscia che così mi s’è rintuzzato l’animo d’ono-
rarlo».
E, così detto, volle sapere chi fosse, e trovato ch’era
Primasso, quivi venuto a vedere della sua magnificenzia
quello che n’aveva udito, il quale avendo l’abate per fa-
ma molto tempo davante per valente uom conosciuto, si
vergognò; e, vago di fare l’ammenda, in molte maniere
s’ingegnò d’onorarlo. E appresso mangiare, secondo che
alla sufficienza di Primasso si conveniva, il fe’ nobilmen-
te vestire e, donatigli denari e un pallafreno, nel suo ar-
bitrio rimise l’andare e lo stare. Di che Primasso conten-
to, rendutegli quelle grazie le quali potè maggiori, a
Parigi, donde a piè partito s’era, ritornò a cavallo.
Messer Cane, il quale intendente signore era, senza al-
tra dimostrazione alcuna ottimamente intese ciò che dir
volea Bergamino, e sorridendo gli disse:
– Bergamino, assai acconciamente hai mostrati i dan-
ni tuoi, la tua virtù e la mia avarizia e quel che da me di-
NOVELLA OTTAVA
NOVELLA NONA
NOVELLA DECIMA
CONCLUSIONE
GIORNATA SECONDA
INTRODUZIONE
Già per tutto aveva il sol recato colla sua luce il nuovo
giorno e gli uccelli, su per gli verdi rami cantando piace-
voli versi, ne davano agli orecchi testimonianza, quando
parimente tutte le donne e i tre giovani levatisi ne’ giar-
dini se n’entrarono e le rugiadose erbe con lento passo
scalpitando, d’una parte in un’altra, belle ghirlande fac-
cendosi, per lungo spazio diportando s’andarono. E sì
come il trapassato giorno avean fatto, così fecero il pre-
sente: per lo fresco avendo mangiato, dopo alcun ballo
s’andarono a riposare, e da quello appresso la nona leva-
tisi, come alla loro reina piacque, nel fresco pratello ve-
nuti, a lei dintorno si posero a sedere.
Ella, la quale era formosa e di piacevole aspetto mol-
to, della sua ghirlanda dello alloro coronata, alquanto
stata e tutta la sua compagnia riguardata nel viso, a Nei-
file comandò che alle future novelle con una desse prin-
cipio; la quale, senza scusa alcuna fare, così lieta comin-
ciò a parlare.
NOVELLA PRIMA
NOVELLA SECONDA
NOVELLA TERZA
ma vista gli piacque quanto mai alcuna altra cosa gli fos-
se piaciuta e, chiamatolo a sè, con lui cominciò piacevol-
mente a ragionare e domandar chi fosse, donde venisse
e dove andasse. Al quale Alessandro ogni suo stato libe-
ramente aperse e sodisfece alla sua domanda e sé ad
ogni suo servigio, quantunque poco potesse, offerse.
L’abate, udendo il suo ragionare bello e ordinato, e
più partitamente i suoi costumi considerando e lui seco
estimando, come che il suo mestiere fosse stato servile,
essere gentile uomo, più del piacer di lui s’accese e, già
pieno di compassion divenuto delle sue sciagure, assai
familiarmente il confortò e gli disse che a buona speran-
za stesse, per ciò che, se valente uom fosse, ancora Iddio
il riporterebbe là onde la fortuna l’aveva gittato, e più ad
alto; e pregollo che, poi verso Toscana andava, gli pia-
cesse d’essere in sua compagnia, con ciò fosse cosa che
esso là similmente andasse. Alessandro gli rendè grazie
del conforto e sé ad ogni suo comandamento disse esser
presto.
Camminando adunque l’abate, al quale nuove cose si
volgean per lo petto del veduto Alessandro, avvenne che
dopo più giorni essi pervennero ad una villa, la quale
non era troppo riccamente fornita d’alberghi; e volendo
quivi l’abate albergare, Alessandro in casa d’uno oste, il
quale assai suo dimestico era, il fece smontare, e fecegli
la sua camera fare nel meno disagiato luogo della casa; e
quasi già divenuto uno siniscalco dello abate, sì come
colui che molto era pratico, come il meglio si potè per la
villa allogata tutta la sua famiglia chi qua e chi là, avendo
l’abate cenato e già essendo buona pezza di notte e ogni
uomo andato a dormire, Alessandro domandò l’oste là
dove esso potesse dormire. Al quale l’oste rispose:
– In verità io non so; tu vedi che ogni cosa è pieno, e
puoi veder me e la mia famiglia dormir su per le panche;
tuttavia nella camera dello abate sono certi granai, à
NOVELLA QUARTA
NOVELLA QUINTA
NOVELLA SESTA
ciò, e senza dar più indugio alla cosa, comandò che qui-
vi chetamente fosse menata la Spina.
Ella era nella prigione magra e pallida divenuta e de-
bole, e quasi un’altra femina che esser non soleva parea,
e così Giannotto un altro uomo: i quali nella presenzia
di Currado di pari consentimento contrassero le sponsa-
lizie secondo la nostra usanza.
E poi che più giorni, senza sentirsi da alcuna persona
di ciò che fatto era alcuna cosa, gli ebbe di tutto ciò che
bisognò loro e di piacere era fatti adagiare, parendogli
tempo di farne le loro madri liete, chiamate la sua donna
e la Cavriuola, così verso lor disse:
– Che direste voi, madonna, se io vi facessi il vostro fi-
gliuolo maggior riavere, essendo egli marito d’una delle
mie figliuole?
A cui la Cavriuola rispose:
– Io non vi potrei di ciò altro dire se non che, se io vi
potessi più esser tenuta che io non sono, tanto più vi sa-
rei quanto voi più cara cosa che non sono io medesima a
me mi rendereste; e rendendomela in quella guisa che
voi dite, alquanto in me la mia perduta speranza rivoca-
reste –; e lagrimando si tacque.
Allora disse Currado alla sua donna:
– E a te che ne parrebbe, donna, se io così fatto gene-
ro ti donassi?
A cui la donna rispose:
– Non che un di loro, che gentili uomini sono, ma un
ribaldo, quando a voi piacesse, mi piacerebbe. Allora
disse Currado:
– Io spero infra pochi dì farvi di ciò liete femine.
E veggendo già nella prima forma i due giovani ritor-
nati, onorevolmente vestitigli, domandò Giusfredi:
– Che ti sarebbe caro sopra l’allegrezza la qual tu hai,
se tu qui la tua madre vedessi?
A cui Giusfredi rispose:
– Egli non mi si lascia credere che i dolori de’ suoi
NOVELLA SETTIMA
NOVELLA OTTAVA
pur m’è di tanto Amore stato grazioso, che egli non sola-
mente non m’ha il debito conoscimento tolto nello eleg-
gere l’amante, ma me n’ha molto in ciò prestato, voi de-
gno mostrandomi da dovere da una donna, fatta come
sono io, essere amato; il quale, se ’l mio avviso non m’in-
ganna, io reputo il più bello, il più piacevole e ’l più leg-
giadro e ’l più savio cavaliere, che nel reame di Francia
trovar si possa; e sì come io senza marito posso dire che
io mi veggia, così voi ancora senza mogliere. Per che io
vi priego, per cotanto amore quanto è quello che io vi
porto, che voi non neghiate il vostro verso di me e che
della mia giovanezza v’incresca, la qual veramente come
il ghiaccio al fuoco si consuma per voi.
A queste parole sopravennero in tanta abbondanza le
lagrime, che essa, che ancora più prieghi intendeva di
porgere, più avanti non ebbe poter di parlare; ma, bas-
sato il viso e quasi vinta, piagnendo, sopra il seno del
conte si lasciò colla testa cadere.
Il conte, il quale lealissimo cavaliere era, con gravissi-
me riprensioni cominciò a mordere così folle amore e a
sospignerla indietro, che già al collo gli si voleva gittare;
e con saramenti ad affermare che egli prima sofferrebbe
d’essere squartato, che tal cosa contro allo onore del suo
signore né in sé né in altrui consentisse.
Il che la donna udendo, subitamente dimenticato
l’amore e in fiero furore accesa, disse:
– Dunque sarò io, villan cavaliere, in questa guisa da
voi del mio disidero schernita? Unque a Dio non piac-
cia, poi che voi volete me far morire, che io voi o morire
o cacciar del mondo non faccia.
E così detto, ad una ora messesi le mani né capelli e
rabbuffatigli stracciatigli tutti, e appresso nel petto
squarciandosi i vestimenti, cominciò a gridar forte:
– Aiuto aiuto, ché ’l conte d’Anguersa mi vuol far for-
za.
Il conte, veggendo questo e dubitando forte più della
NOVELLA NONA
Disse Ambrogiuolo:
– Messere, io non rido di ciò, ma rido del modo ne
quale io le guadagnai.
A cui Sicuran disse:
– Deh, se Iddio ti dea buona ventura, se egli non è di-
sdicevole, diccelo come tu le guadagnasti.
– Messere, – disse Ambrogiuolo, – queste mi donò
con alcuna altra cosa una gentil donna di Genova chia-
mata madonna Zinevra, moglie di Bernabò Lomellin,
una notte che io giacqui con lei, e pregommi che per suo
amore io le tenessi. Ora risi io, per ciò che egli mi ri-
cordò della sciocchezza di Bernabò, il qual fu di tanta
follia che mise cinquemilia fiorin d’oro contro a mille
che io la sua donna non recherei a’ miei piaceri; il che io
feci e vinsi il pegno; ed egli, che più tosto sé della sua
bestialità punir dovea che lei d’aver fatto quello che tut-
te le femine fanno, da Parigi a Genova tornandosene,
per quello che io abbia poi sentito, la fece uccidere.
Sicurano, udendo questo, prestamente comprese qual
fosse la cagione dell’ira di Bernabò verso lei e manifesta-
mente conobbe costui di tutto il suo male esser cagione;
e seco pensò di non lasciargliele portare impunita.
Mostrò adunque Sicurano d’aver molto cara questa
novella, e artatamente prese con costui una stretta dime-
stichezza, tanto che per gli suoi conforti Ambrogiuolo,
finita la fiera, con essolui e con ogni sua cosa se n’andò
in Alessandria, dove Sicurano gli fece fare un fondaco e
misegli in mano de’ suoi denari assai; per che egli, util
grande veggendosi, vi dimorava volentieri.
Sicurano, sollicito a volere della sua innocenzia far
chiaro Bernabò, mai non riposò infino a tanto che con
opera d’alcuni grandi mercatanti genovesi che in Ales-
sandria erano, nuove cagioni trovando, non l’ebbe fatto
venire; il quale, in assai povero stato essendo, ad alcun
suo amico tacitamente fece ricevere, infino che tempo
gli paresse a quel fare che di fare intendea.
più volte quello che egli vedeva e udiva credette più to-
sto esser sogno che vero. Ma pur, poi che la maraviglia
cessò, la verità conoscendo, con somma laude la vita e la
constanzia e i costumi e la virtù della Zinevra, infino al-
lora stata Sicuran chiamata, commendò. E, fattili venire
onorevolissimi vestimenti femminili e donne che compa-
gnia le tenessero, secondo la dimanda fatta da lei, a Ber-
nabò perdonò la meritata morte.
Il quale, riconosciutola, a’ piedi di lei si gittò piagnen-
do e domandando perdonanza, la quale ella, quantun-
que egli maldegno ne fosse, benignamente gli diede, e in
piede il fece levare, teneramente sì come suo marito ab-
bracciandolo.
Il soldano appresso comandò che incontanente Am-
brogiuolo in alcuno alto luogo della città fosse al sole le-
gato ad un palo e unto di mele, né quindi mai, infino a
tanto che per sé medesimo non cadesse, levato fosse; e
così fu fatto. Appresso questo, comandò che ciò che
d’Ambrogiuolo stato era fosse alla donna donato; che
non era sì poco che oltre a diecimilia dobbre non vales-
se; ed egli, fatta apprestare una bellissima festa, in quella
Bernabò, come marito di madonna Zinevra, e madonna
Zinevra sì come valorosissima donna, onorò, e donolle
che in gioie e che in vasellamenti d’oro e d’ariento e che
in denari, quello che valse meglio d’altre diecemilia dob-
bre.
E, fatto loro apprestare un legno, poi che finita fu la
festa per loro fatta, gli licenziò di potersi tornare a Ge-
nova al lor piacere; dove ricchissimi e con grande alle-
grezza tornarono, e con sommo onore ricevuti furono, e
spezialmente madonna Zinevra, la quale da tutti si cre-
deva che morta fosse; e sempre di gran virtù e da molto,
mentre visse, fu reputata.
Ambrogiuolo il dì medesimo che legato fu al palo e
unto di mele, con sua grandissima angoscia dalle mo-
sche e dalle vespe e da’ tafani, de’ quali quel paese è co-
NOVELLA DECIMA
CONCLUSIONE
GIORNATA TERZA
INTRODUZIONE
NOVELLA PRIMA
NOVELLA SECONDA
lagio era sopra le stalle de’ cavalli, nella quale quasi tutta
la sua famiglia in diversi letti dormiva; ed estimando
che, qualunque fosse colui che ciò fatto avesse che la
donna diceva, non gli fosse ancora il polso e ’l battimen-
to del cuore per lo durato affanno potuto riposare, taci-
tamente, cominciato dall’uno de’ capi della casa, a tutti
cominciò ad andare toccando il petto per sapere se gli
battesse.
Come che ciascuno altro dormisse forte, colui che
colla reina stato era non dormiva ancora; per la qual co-
sa, vedendo venire il re e avvisandosi ciò che esso cer-
cando andava, forte cominciò a temere tanto che sopra
il battimento della fatica avuta la paura n’aggiunse un
maggiore; e avvisossi fermamente che, se il re di ciò s’av-
vedesse, senza indugio il facesse morire. E come che va-
rie cose gli andasser per lo pensiero di doversi fare, pur
vedendo il re senza alcuna arme, diliberò di far vista di
dormire e d’attender quello che il re far dovesse.
Avendone adunque il re molti cerchi né alcuno tro-
vandone il quale giudicasse essere stato desso, pervenne
a costui, e trovandogli batter forte il cuore, seco disse:, –
Questi è desso –. Ma, sì come colui che di ciò che fare
intendeva niuna cosa voleva che si sentisse, niuna altra
cosa gli fece se non che con un paio di forficette, le qua-
li portate avea, gli tondè alquanto dal l’una delle parti i
capelli, li quali essi a quel tempo portavano lunghissimi,
acciò che a quel segnale la mattina seguente il ricono-
scesse; e questo fatto, si dipartì, e tornossi alla camera
sua.
Costui, che tutto ciò sentito avea, sì come colui che
malizioso era, chiaramente s’avvisò per che così segnato
era stato; là onde egli senza alcuno aspettar si levò, e tro-
vato un paio di forficette, delle quali per avventura
v’erano alcun paio per la stalla per lo servigio de’ cavalli,
pianamente andando a quanti in quella casa ne giaceva-
no, a tutti in simil maniera sopra l’orecchie tagliò i ca-
NOVELLA TERZA
NOVELLA QUARTA
Don Felice insegna a frate Puccio come egli diverrà beato fac-
cendo una sua penitenzia; la quale frate Puccio fa, e don Felice
in questo mezzo con la moglie del frate si dà buon tempo.
va, ella era contenta, e che, acciò che Iddio gli facesse la
sua penitenzia profittevole, ella voleva con esso lui di-
giunare, ma fare altro no.
Rimasi adunque in concordia, venuta la domenica,
frate Puccio cominciò la sua penitenzia, e messer lo mo-
naco, convenutosi colla donna, ad ora che veduto non
poteva essere, le più delle sere con lei se ne veniva a ce-
nare, seco sempre recando e ben da mangiare e ben da
bere, poi con lei si giaceva infino all’ora del matutino, al
quale levandosi se n’andava, e frate Puccio tornava al
letto.
Era il luogo, il quale frate Puccio aveva alla sua peni-
tenzia eletto, allato alla camera nella quale giaceva la
donna, né da altro era da quella diviso che da un sottilis-
simo muro; per che, ruzzando messer lo monaco troppo
colla donna alla scapestrata ed ella con lui, parve a frate
Puccio sentire alcuno dimenamento di palco della casa;
di che, avendo già detti cento de’ suoi paternostri, fatto
punto quivi, chiamò la donna senza muoversi, e doman-
dolla ciò che ella faceva.
La donna, che motteggevole era molto, forse caval-
cando allora senza sella la bestia di san Benedetto o vero
di san Giovanni Gualberto, rispose:
– Gnaffe, marito mio, io mi dimeno quanto io posso.
Disse allora frate Puccio:
– Come ti dimeni? Che vuol dir questo dimenare?
La donna ridendo, che e di buona aria e valente don-
na era, e forse avendo cagion di ridere, rispose:
– Come non sapete voi quello che questo vuol dire?
Ora io ve l’ho udito dire mille volte: chi la sera non cena,
tutta notte si dimena.
Credettesi frate Puccio che il digiunare, il quale ella a
lui mostrava di fare, le fosse cagione di non poter dormi-
re, e per ciò per lo letto si dimenasse, per che egli di
buona fede disse
– Donna, io t’ho ben detto, non digiunare; ma, poiché
NOVELLA QUINTA
Per che, acciò che ciò non avvenga, ora che sovvenir
mi potete, di ciò v’incresca, e anzi che io muoia a miseri-
cordia di me vi movete, per ciò che in voi sola il farmi il
più lieto e il più dolente uomo che viva dimora. Spero
tanta essere la vostra cortesia che non sofferrete che io
per tanto e tale amore morte riceva per guiderdone, ma
con lieta risposta e piena di grazia riconforterete gli spi-
riti miei, li quali spaventati tutti trieman nel vostro co-
spetto.
E quinci tacendo, alquante lacrime dietro a profon-
dissimi sospiri mandate per gli occhi fuori, cominciò ad
attender quello che la gentil donna gli rispondesse.
La donna, la quale il lungo vagheggiare, l’armeggiare,
le mattinate, e l’altre cose simili a queste per amor di lei
fatte dal Zima, muovere non avean potuto, mossero le
affettuose parole dette dal ferventissimo amante, e co-
minciò a sentire ciò che prima mai non avea sentito, cioè
che amor si fosse. E quantunque, per seguire il coman-
damento fattole dal marito, tacesse, non potè per ciò al-
cun sospiretto nascondere quello che volentieri, rispon-
dendo al Zima, avrebbe fatto manifesto.
Il Zima, avendo alquanto atteso e veggendo che niuna
risposta seguiva, si maravigliò, e poscia s’incominciò ad
accorgere dell’arte usata dal cavaliere; ma pur lei riguar-
dando nel viso e veggendo alcun lampeggiare d’occhi di
lei verso di lui alcuna volta, e oltre a ciò raccogliendo i
sospiri li quali essa non con tutta la forza loro del petto
lasciava uscire, alcuna buona speranza prese, e da quella
aiutato prese nuovo consiglio, e cominciò in forma della
donna, udendolo ella, a rispondere a sé medesimo in co-
tal guisa:
– Zima mio, senza dubbio gran tempo ha che io m’ac-
corsi il tuo amore verso me esser grandissimo e perfetto,
e ora per le tue parole molto maggiormente il conosco, e
sonne contenta, sì come io debbo. Tutta fiata, se dura e
crudele paruta ti sono, non voglio che tu creda che io
nello animo stata sia quello che nel viso mi sono dimo-
strata: anzi t’ho sempre amato e avuto caro innanzi ad
ogni altro uomo, ma così m’è convenuto fare e per paura
d’altrui e per servare la fama della mia onestà. Ma ora ne
viene quel tempo nel quale io ti potrò chiaramente mo-
strare se io t’amo e renderti guiderdone dello amore il
qual portato m’hai e mi porti; e per ciò confortati e sta a
buona speranza, per ciò che messer Francesco è per an-
dare in fra pochi dì a Melano per podestà, sì come tu sai,
che per mio amore donato gli hai il bel pallafreno; il
quale come andato sarà, senz’alcun fallo ti prometto so-
pra la mia fè e per lo buono amore il quale io ti porto,
che in fra pochi dì tu ti troverai meco e al nostro amore
daremo piacevole e intero compimento.
E acciò che io non t’abbia altra volta a far parlar di
questa materia, infino ad ora quel giorno il qual tu ve-
drai due sciugatoi tesi alla finestra della camera mia, la
quale è sopra il nostro giardino, quella sera di notte,
guardando ben che veduto non sii, fa che per l’uscio del
giardino a me te ne venghi; tu mi troverai ivi che t’aspet-
terò, e insieme avrem tutta la notte festa e piacere l’un
dell’altro sì come disideriamo.
Come il Zima in persona della donna ebbe così parla-
to, egli incominciò per sé a parlare e così rispose:
– Carissima donna, egli è per soverchia letizia della
vostra buona risposta sì ogni mia virtù occupata, che ap-
pena posso a rendervi debite grazie formar la risposta; e
se io pur potessi, come io disidero, favellare, niun termi-
ne è sì lungo che mi bastasse a pienamente potervi rin-
graziare come io vorrei e come a me di far si conviene; e
per ciò nella vostra discreta considerazion si rimanga a
conoscer quello che io disiderando fornir con parole
non posso. Soltanto vi dico che, come imposto m’avete,
così penserò di far senza fallo; e allora forse più rassicu-
rato di tanto dono quanto conceduto m’avete, m’inge-
gnerò a mio potere di rendervi grazie quali per me si po-
NOVELLA SESTA
NOVELLA SETTIMA
sia sano e salvo renduto, della qual cosa spero che avan-
ti che doman sia sera voi udirete novelle che vi piaceran-
no; sì veramente, se io l’ho buone, come io credo, della
sua salute, io voglio stanotte poter venir da voi e contar-
levi per più agio che al presente non posso.
E rimessasi la schiavina e ’l cappello, baciata un’altra
volta la donna e con buona speranza riconfortatala, da
lei si partì e colà se n’andò dove Aldobrandino in prigio-
ne era, più di paura della soprastante morte pensoso che
di speranza di futura salute; e quasi in guisa di conforta-
tore col piacere dei prigionieri a lui se n’entrò, e postosi
con lui a sedere, gli disse:
– Aldobrandino, io sono un tuo amico a te mandato
da Dio per la tua salute, al quale per la tua innocenzia è
di te venuta pietà; e per ciò, se a reverenza di lui un pic-
ciol dono che io ti domanderò conceder mi vuoli, senza
alcun fallo avanti che doman sia sera, dove tu la senten-
zia della morte attendi, quella della tua assoluzione udi-
rai.
A cui Aldobrandin rispose:
– Valente uomo, poi che tu della mia salute sésollici-
to, come che io non ti conosca né mi ricordi mai più
averti veduto, amico dei essere come tu di’. E nel vero il
peccato per lo quale uom dice che io debbo essere a
morte giudicato, io nol commisi giammai; assai degli al-
tri ho già fatti, li quali forse a que sto condotto m’hanno.
Ma così ti dico a reverenza di Dio, se egli ha al presente
misericordia di me, ogni gran cosa, non che una piccio-
la, farei volentieri, non che io promettessi; e però quello
che ti piace addomanda, ché senza fallo, ov’egli avvenga
che io scampi, io lo serverò fermamente.
Il peregrino allora disse:
– Quello che io voglio niun’altra cosa è se non che tu
perdoni a’ quattro fratelli di Tedaldo l’averti a questo
punto condotto, te credendo nella morte del lor fratello
NOVELLA OTTAVA
– O mangiano i morti?
Disse il monaco:
– Sì; e questo che io ti reco è ciò che la donna, che fu
tua, mandò stamane alla chiesa a far dir messe per l’ani-
ma tua, il che Domeneddio vuole che qui rappresentato
ti sia.
Disse allora Ferondo:
– Domine, dalle il buono anno. Io le voleva ben gran
bene anzi che io morissi, tanto che io me la teneva tutta
notte in braccio e non faceva altro che baciarla e anche
faceva altro quando voglia me ne veniva.
E poi, gran voglia avendone, cominciò a mangiare e a
bere; e non parendogli il vino troppo buono, disse:
– Domine, falla trista, ché ella non diede al prete del
vino della botte di lungo il muro.
Ma poi che mangiato ebbe, il monaco da capo il ri-
prese e con quelle medesime verghe gli diede una gran
battitura. A cui Ferondo, avendo gridato assai, disse:
– Deh. questo perché mi fai tu?
Disse il monaco:
– Per ciò che così ha comandato Domeneddio che
ogni dì due volte ti sia fatto.
– E per che cagione? – disse Ferondo.
Disse il monaco:
– Perché tu fosti geloso, avendo la miglior donna che
fosse nelle tue contrade per moglie.
– Ohimè, – disse Ferondo – tu di’vero, e la più dolce;
ella era più melata che ’l confetto, ma io non sapeva che
Domeneddio avesse per male che l’uomo fosse geloso,
ché io non sarei stato.
Disse il monaco:
– Di questo ti dovevi tu avvedere mentre eri di là, e
ammendartene; e se egli avviene che tu mai vi torni, fa
che tu abbi sì a mente quello che io fo ora, che tu non sii
mai più geloso.
Disse Ferondo:
NOVELLA NONA
guardata, per ciò che ricca e sola era rimasa, onesta via
non vedea.
Ed essendo ella già d’età da marito, non avendo mai
potuto Beltramo dimenticare, molti, a’ quali i suoi pa-
renti l’avevan voluta maritare, rifiutati n’avea senza la
cagion dimostrare.
Ora avvenne che, ardendo ella dello amor di Beltra-
mo più che mai, per ciò che bellissimo giovane udiva
ch’era divenuto, le venne sentita una novella, come al re
di Francia, per una nascenza che avuta avea nel petto ed
era male stata curata, gli era rimasa una fistola, la quale
di grandissima noia e di grandissima angoscia gli era, né
s’era ancor potuto trovar medico, come che molti se ne
fossero esperimentati, che di ciò l’avesse potuto guerire,
ma tutti l’avean peggiorato, per la qual cosa il re, dispe-
ratosene, più d’alcun non voleva né consiglio né aiuto.
Di che la giovane fu oltremodo contenta, e pensossi non
solamente per questo aver ligittima cagione d’andar a
Parigi, ma, se quella infermità fosse che ella credeva,
leggiermente poterle venir fatto d’aver Beltram per ma-
rito. Laonde, sì come colei che già dal padre aveva assai
cose apprese, fatta sua polvere di certe erbe utili a quella
infermità che avvisava che fosse, montò a cavallo e a Pa-
rigi n’andò. Né prima altro fece che ella s’ingegnò di ve-
der Beltramo; e appresso nel cospetto del re venuta, di
grazia chiese che la sua infermità gli mostrasse. Il re veg-
gendola bella giovane e avvenente, non gliele seppe di-
sdire, e mostrogliele. Come costei l’ebbe veduta, così in-
contanente si confortò di doverlo guerire, e disse:
– Monsignore, quando vi piaccia, senza alcuna noia o
fatica di voi, io ho speranza in Dio d’avervi in otto giorni
di questa infermità renduto sano.
Il re si fece in sé medesimo beffe delle parole di costei
dicendo: – Quello che i maggiori medici del mondo non
hanno potuto né saputo, una giovane femina come il po-
trebbe sapere? – Ringraziolla adunque della sua buona
NOVELLA DECIMA
CONCLUSIONE
Niuna sconsolata
da dolersi ha quant’io,
che ’nvan sospiro, lassa!, innamorata
GIORNATA QUARTA
INTRODUZIONE
NOVELLA PRIMA
NOVELLA SECONDA
questo patto, che egli non dovesse lasciar lei per la Ver-
gine Maria, che l’era detto che egli le voleva molto bene,
e anche si pareva, ché in ogni luogo che ella il vedeva, le
stava ginocchione innanzi; e oltre a questo, che a lui
stesse di venire in qual forma volesse, purché ella non
avesse paura.
Allora disse frate Alberto:
– Madonna, voi parlate saviamente; e io ordinerò ben
con lui quello che voi mi dite. Ma voi mi potete fare una
gran grazia, e a voi non costerà niente; e la grazia è que-
sta, che voi vogliate che egli venga con questo mio cor-
po. E udite in che voi mi farete grazia: che egli mi trarrà
l’anima mia di corpo e metteralla in paradiso, ed egli en-
terrà in me, e quanto egli starà con voi, tanto si starà
l’anima mia in paradiso.
Disse allora donna Pocofila:
– Ben mi piace; io voglio che, in luogo delle busse le
quali egli vi diede a mie cagioni, che voi abbiate questa
consolazione.
Allora disse frate Alberto:
– Or farete che questa notte egli truovi la porta della
vostra casa per modo che egli possa entrarci, per ciò che
vegnendo in corpo umano, come egli verrà, non potreb-
be entrare se non per l’uscio.
La donna rispose che fatto sarebbe. Frate Alberto si
partì, ed ella rimase faccendo sì gran galloria che non le
toccava il cul la camicia, mille anni parendole che
l’agnolo Gabriello a lei venisse.
Frate Alberto, pensando che cavaliere, non agnolo,
esser gli convenia la notte, con confetti e altre buone co-
se s’incominciò a confortare, acciò che di leggier non
fosse da caval gittato. E avuta la licenzia, con uno com-
pagno, come notte fu, se n’entrò in casa d’una sua ami-
ca, dalla quale altra volta aveva prese le mosse quando
andava a correr le giumente; e di quindi, quando tempo
gli parve, trasformato se n’andò a casa la donna, e in
NOVELLA TERZA
NOVELLA QUARTA
NOVELLA QUINTA
NOVELLA SESTA
NOVELLA SETTIMA
NOVELLA OTTAVA
niente volerne fare, per ciò che egli credeva così bene
come un altro potersi stare a Firenze. I valenti uomini,
udendo questo, ancora con più parole il riprovarono;
ma, non potendo trarne altra risposta, alla madre il dis-
sero. La quale fieramente di ciò adirata, non del non vo-
lere egli andare a Parigi, ma del suo innamoramento, gli
disse una gran villania; e poi, con dolci parole raumilian-
dolo, lo ’ncominciò a lusingare e a pregare dolcemente
che gli dovesse piacere di far quello che volevano i suoi
tutori; e tanto gli seppe dire che egli acconsentì di do-
vervi andare a stare uno anno e non più; e così fu fatto.
Andato adunque Girolamo a Parigi fieramente inna-
morato, d’oggi in domane ne verrai, vi fu due anni tenu-
to. Donde più innamorato che mai tornatosene, trovò la
sua Salvestra maritata ad un buon giovane che faceva le
trabacche, di che egli fu oltre misura dolente. Ma pur,
veggendo che altro esser non poteva, s’ingegnò di darse-
ne pace; e spiato là dove ella stesse a casa, secondo
l’usanza de’ giovani innamorati incominciò a passare da-
vanti a lei, credendo che ella non avesse lui dimenticato,
se non come egli aveva lei. Ma l’opera stava in altra gui-
sa; ella non si ricordava di lui se non come se mai non lo
avesse veduto; e, se pure alcuna cosa se ne ricordava, sì
mostrava il contrario. Di che in assai piccolo spazio di
tempo il giovane s’accorse, e non senza suo grandissimo
dolore. Ma nondimeno ogni cosa faceva che poteva, per
rientrarle nello animo; ma niente parendogli adoperare,
si dispose, se morir ne dovesse, di parlarle esso stesso.
E da alcuno vicino informatosi come la casa di lei
stesse, una sera che a vegghiare erano ella e ’l marito an-
dati con lor vicini, nascosamente dentro v’entrò, e nella
camera di lei dietro a teli di trabacche che tesi v’erano si
nascose, e tanto aspettò che, tornati costoro e andatise-
ne al letto, sentì il marito di lei addormentato, e là se
n’andò dove veduto aveva che la Salvestra coricata s’era,
e postale la sua mano sopra il petto, pianamente disse:
NOVELLA NONA
deva che da lui esser richiesta; il che non guari stette che
avvenne, e insieme furono e una volta e altra, amandosi
forte.
E men discretamente insieme usando, avvenne che il
marito se n’accorse e forte ne sdegnò, in tanto che il
grande amore che al Guardastagno portava in mortale
odio convertì; ma meglio il seppe tener nascoso che i
due amanti non avevano saputo tenere il loro amore, e
seco diliberò del tutto d’ucciderlo.
Per che, essendo il Rossiglione in questa disposizione,
sopravenne che un gran torneamento si bandì in Fran-
cia, il che il Rossiglione incontanente significò al Guar-
dastagno, e mandogli a dire che, se a lui piacesse, da lui
venisse e insieme diliberrebbono se andar vi volessono e
come. Il Guardastagno lietissimo rispose che senza fallo
il dì seguente andrebbe a cenar con lui.
Il Rossiglione, udendo questo, pensò il tempo esser
venuto di poterlo uccidere; e armatosi il dì seguente con
alcuno suo famigliare montò a cavallo, e forse un miglio
fuori del suo castello in un bosco si ripose in agguato,
donde doveva il Guardastagno passare; e avendolo per
un buono spazio atteso, venir lo vide disarmato con due
famigliari appresso disarmati, sì come colui che di nien-
te da lui si guardava; e come in quella parte il vide giun-
to dove voleva, fellone e pieno di mal talento con una
lancia sopra mano gli uscì addosso gridando:
– Traditor, tu se’ morto –; e il così dire e il dargli di
questa lancia per lo petto fu una cosa.
Il Guardastagno, sena potere alcuna difesa fare o pur
dire una parola, passato di quella lancia, cadde e poco
appresso morì. I suoi famigliari, senza aver conosciuto
chi ciò fatto s’avesse, voltate le teste de’ cavalli, quanto
più poterono si fuggirono verso il castello del lor signo-
re.
Il Rossiglione, smontato, con un coltello il petto del
Guardastagno aprì e colle proprie mani il cuor gli trasse,
NOVELLA DECIMA
– E di che?
E la fante, non restando di lagrimar, disse:
– Messere, voi sapete che giovane Ruggieri d’Aieroli
sia, al quale, piacendogli io, tra per paura e per amore
mi convenne uguanno divenire amica; e sappiendo egli
iersera non ci eravate, tanto mi lusingò che io in casa vo-
stra nella mia camera a dormire meco il menai, e avendo
egli sete né io avendo ove più tosto ricorrere o per acqua
o per vino, non volendo che la vostra donna, la quale in
sala era, mi vedesse, ricordandomi che nella vostra ca-
mera una guastadetta d’acqua aveva veduta, corsi per
quella e sì gliele diedi bere e la guastada riposi donde le-
vata l’avea, di che io truovo che voi in casa un gran ro-
mor n’avete fatto. E certo io confesso che io feci male;
ma chi è colui che alcuna volta mal non faccia? Io ne son
molto dolente d’averlo fatto; non pertanto, per questo, e
per quello che poi ne seguì, Ruggieri n’è per perdere la
persona; per che io quanto più posso vi priego che voi
mi perdoniate e mi diate licenzia che io vada ad aiutare,
in quello che per me si potrà, Ruggieri.
Il medico udendo costei, con tutto che ira avesse,
motteggiando rispose:
– Tu te n’hai data la perdonanza tu stessa, per ciò
che, dove tu credesti questa notte un giovane avere che
molto bene il pelliccion ti scotesse, avesti un dormiglio-
ne; e per ciò va procaccia la salute del tuo amante, e per
innanzi ti guarda di più in casa non menarlo, ché io ti
pagherei di questa volta e di quella.
Alla fante per la prima broccata parendo aver ben
procacciato, quanto più tosto potè se n’andò alla prigio-
ne dove Ruggieri era, e tanto il prigionier lusingò che
egli la lasciò a Ruggieri favellare. La quale, poi che infor-
mato l’ebbe di ciò che rispondere dovesse allo straticò,
se scampar volesse, tanto fece che allo straticò andò da-
vanti.
Il quale, prima che ascoltare la volesse, per ciò che
CONCLUSIONE
Lagrimando dimostro
quanto si dolga con ragione il core
d’esser tradito sotto fede Amore.
GIORNATA QUINTA
INTRODUZIONE
NOVELLA PRIMA
NOVELLA SECONDA
NOVELLA TERZA
NOVELLA QUARTA
Disse la madre:
– O figliuola, che caldo fu egli? Anzi non fu egli caldo
veruno
A cui la Caterina disse:
– Madre mia, voi dovreste dire – a mio parere –, e for-
se vi direste il vero; ma voi dovreste pensare quanto sie-
no più calde le fanciulle che le donne attempate.
La donna disse allora:
– Figliuola mia, così è il vero; ma io non posso far cal-
do e freddo a mia posta, come tu forse vorresti. I tempi
si convengon pur sofferir fatti come le stagioni gli dan-
no; forse quest’altra notte sarà più fresco, e dormirai
meglio.
– Ora Iddio il voglia, – disse la Caterina – ma non
suole essere usanza che, andando verso la state, le notti
si vadan rinfrescando.
– Dunque, – disse la donna – che vuoi tu che si fac-
cia?
Rispose la Caterina:
– Quando a mio padre e a voi piacesse, io farei volen-
tieri fare un letticello in su ’l verone che è allato alla sua
camera e sopra il suo giardino, e quivi mi dormirei, e
udendo cantare l’usignuolo, e avendo il luogo più fre-
sco, molto meglio starei che nella vostra camera non fo.
La madre allora disse:
– Figliuola, confortati; io il dirò a tuo padre, e come
egli vorrà così faremo.
Le quali cose udendo messer Lizio dalla sua donna,
per ciò che vecchio era e da questo forse un poco ritro-
setto, disse:
– Che rusignuolo è questo a che ella vuol dormire? Io
la farò ancora addormentare al canto delle cicale.
Il che la Caterina sappiendo, più per isdegno che per
caldo, non solamente la seguente notte non dormì, ma
ella non lasciò dormire la madre, pur del gran caldo do-
lendosi.
NOVELLA QUINTA
NOVELLA SESTA
NOVELLA SETTIMA
NOVELLA OTTAVA
NOVELLA NONA
NOVELLA DECIMA
alle giovani. Che maladetta sia l’ora che ella nel mondo
venne, ed ella altressì che viver si lascia, perfidissima e
rea femina che ella dee essere, universal vergogna e vitu-
pero di tutte le donne di questa terra; la quale, gittata via
la sua onestà e la fede promessa al suo marito e l’onor di
questo mondo, lui, che è così fatto uomo e così onorevo-
le cittadino, e che così bene la trattava, per un altro uo-
mo non s’è vergognata di vituperare, e sé medesima in-
sieme con lui. Se Dio mi salvi, di così fatte femine non si
vorrebbe aver misericordia; elle si vorrebbero occidere;
elle si vorrebbon vive vive mettere nel fuoco e farne ce-
nere.
Poi, del suo amico ricordandosi, il quale ella sotto la
cesta assai presso di quivi aveva, cominciò a confortare
Pietro che s’andasse al letto, per ciò che tempo n’era.
Pietro, che maggior voglia aveva di mangiare che di
dormire, domandava pur se da cena cosa alcuna vi fosse.
A cui la donna rispondeva:
– Sì, da cena ci ha! Noi siamo molto usate di far da
cena, quando tu non ci sé! Sì, che io sono la moglie
d’Ercolano! Deh che non vai? Dormi per istasera: quan-
to farai meglio!
Avvenne che, essendo la sera certi lavoratori di Pietro
venuti con certe cose dalla villa, e avendo messi gli asini
loro, senza dar lor bere, in una stalletta la quale allato al-
la loggetta era, l’un degli asini che grandissima sete avea,
tratto il capo del capestro, era uscito della stalla, e ogni
cosa andava fiutando, se forse trovasse dell’acqua; e così
andando s’avvenne per me la cesta sotto la quale era il
giovinetto.
Il quale avendo, per ciò che carpone gli conveniva
stare, alquanto le dita dell’una mano stese in terra fuor
della cesta, tanta fu la sua ventura, o sciagura che vo-
gliam dire, che questo asino ve gli pose su piede; laonde
egli, grandissimo dolor sentendo, mise un grande strido.
Il quale udendo Pietro si maravigliò, e avvidesi ciò esser
CONCLUSIONE
GIORNATA SESTA
INTRODUZIONE
valea: ella non ristette mai infino a tanto che ella ebbe
detto ciò che le piacque. Ma poi che fatto ebbe alle pa-
role fine, la reina ridendo, volta a Dioneo, disse:
– Dioneo, questa è quistion da te; e per ciò farai,
quando finite fieno le nostre novelle che tu sopr’essa dei
sentenzia finale.
Alla qual Dioneo prestamente rispose:
– Madonna, la sentenzia è data senza udirne altro; e
dico che la Licisca ha ragione, e credo che così sia
com’ella dice; e Tindaro è una bestia.
La qual cosa la Licisca udendo, cominciò a ridere, e a
Tindaro rivolta, disse:
– Occi ben lo diceva io; vatti con Dio; credi tu saper
più di me tu, che non hai ancora rasciutti gli occhi?
Gran mercé, non ci son vivuta invano io, no.
E, se non fosse che la reina con un mal viso le ’mpose
silenzio e comandolle che più parola né romor facesse se
esser non volesse scopata, e lei e Tindaro mandò via,
niuna altra cosa avrebbero avuta a fare in tutto quel
giorno che attendere a lei. Li quali poi che partiti furo-
no, la reina impose a Filomena che alle novelle desse
principio. La quale lietamente così cominciò.
NOVELLA PRIMA
NOVELLA SECONDA
Cisti fornaio con una sola parola fa raveder messer Geri Spina
d’una sua trascutata domanda.
NOVELLA TERZA
Monna Nonna de’ Pulci con una presta risposta al meno che
onesto motteggiare del vescovo di Firenze silenzio impone.
NOVELLA QUARTA
NOVELLA QUINTA
NOVELLA SESTA
nevolezza largo, e tal v’è col naso molto lungo, e tale l’ha
corto, e alcuno col mento in fuori e in su rivolto, e con
mascelloni che paiono d’asino; ed evvi tale che ha l’uno
occhio più grosso che l’altro, e ancora chi l’un più giù
che l’altro, sì come sogliono esser i visi che fanno da pri-
ma i fanciulli che apparano a disegnare. Per che, come
già dissi, assai bene appare che Domenedio gli fece
quando apparava a dipignere; sì che essi sono più anti-
chi che gli altri, e così più gentili.
Della qual cosa, e Piero che era il giudice, e Neri che
aveva messa la cena, e ciascun altro ricordandosi, e
avendo il piacevole argomento dello Scalza udito, tutti
cominciarono a ridere e affermare che lo Scalza aveva la
ragione, e che egli aveva vinta la cena, e che per certo i
Baronci erano i più gentili uomini e i più antichi che fos-
sero, non che in Firenze, ma nel mondo o in maremma.
E perciò meritamente Panfilo, volendo la turpitudine
del viso di messer Forese mostrare, disse che stato sa-
rebbe sozzo ad un de’ Baronci.
NOVELLA SETTIMA
NOVELLA OTTAVA
NOVELLA NONA
NOVELLA DECIMA
CONCLUSIONE
GIORNATA SETTIMA
INTRODUZIONE
NOVELLA PRIMA
NOVELLA SECONDA
NOVELLA TERZA
NOVELLA QUARTA
NOVELLA QUINTA
geloso, che più sofferir non poteva, con turbato viso do-
mandò la moglie ciò che ella avesse al prete detto la mat-
tina che confessata s’era. La donna rispose che non glie-
le voleva dire, per ciò che ella non era onesta cosa né
convenevole.
A cui il geloso disse:
– Malvagia femina, a dispetto di te io so ciò che tu gli
dicesti; e convien del tutto che io sappia chi è il prete di
cui tu tanto séinnamorata e che teco per suoi incantesi-
mi ogni notte si giace, o io ti segherò le veni.
La donna disse che non era vero che ella fosse inna-
morata d’alcun prete.
– Come! – disse il geloso – non dicestù così e così al
prete che ti confessò?
La donna disse:
– Non che egli te l’abbia ridetto, ma egli basterebbe,
se tu fossi stato presente, mai sì, che io gliele dissi.
– Dunque, – disse il geloso – dimmi chi è questo pre-
te, e tosto.
La donna cominciò a sorridere, e disse:
– Egli mi giova molto quando un savio uomo è da una
donna semplice menato come si mena un montone per
le corna in beccheria; benché tu non sésavio, né fosti da
quella ora in qua che tu ti lasciasti nel petto entrare il
maligno spirito della gelosia, senza saper perché; e tanto
quanto tu se’ più sciocco e più bestiale, cotanto ne divie-
ne la gloria mia minore.
Credi tu, marito mio, che io sia cieca degli occhi della
testa, come tu se’ cieco di quegli della mente? Certo no;
e vedendo conobbi chi fu il prete che mi confessò, e so
che tu fosti desso tu; ma io mi puosi in cuore di darti
quello che tu andavi cercando, e dieditelo. Ma, se tu fus-
si stato savio come esser ti pare, non avresti per quel
modo tentato di sapere i segreti della tua buona donna,
e, senza prender vana sospezion, ti saresti avveduto di
NOVELLA SESTA
NOVELLA SETTIMA
NOVELLA OTTAVA
che uno religioso e più onesto che una donzella, son po-
che sere che egli non si vada inebbriando per le taverne,
e or con questa cattiva femina e or con quella rimesco-
lando; e a me si fa infino a mezza notte e talora infino a
matutino aspettare, nella maniera che mi trovaste. Son
certa che, essendo bene ebbro, si mise a giacere con al-
cuna sua trista, e a lei destandosi trovò lo spago al piede
e poi fece tutte quelle sue gagliardie che egli dice, e ulti-
mamente tornò a lei e battella e tagliolle i capegli; e non
essendo ancora ben tornato in sé, si credette, e son certa
che egli crede ancora, queste cose aver fatte a me; e se
voi il porrete ben mente nel viso, egli è ancora mezzo
ebbro. Ma tuttavia, che che egli s’abbia di me detto, io
non voglio che voi il vi rechiate se non come da uno
ubriaco; e poscia che io gli perdono io, gli perdonate voi
altressì.
La madre di lei, udendo queste cose, cominciò a fare
romore e a dire:
– Alla croce di Dio, figliuola mia, cotesto non si vo-
trebbe fare; anzi si vorrebbe uccidere questo can fasti-
dioso e sconoscente, ché egli non ne fu degno d’avere
una figliuola fatta come sétu. Frate, bene sta!; Bastereb-
be se egli t’avesse ricolta del fango. Col malanno possa
egli essere oggimai, se tu dei stare al fracidume delle pa-
role di un mercantuzzo di feccia d’asino, che venutici di
contado e usciti delle troiate, vestiti di romagnuolo, con
le calze a campanile e con ]a penna in culo, come egli
hanno tre soldi, vogliono le figliuole de’ gentili uomini e
delle buone donne per moglie, e fanno arme e dicono:
–I’ son de’ cotali – e – quei di casa mia fecer così. – Ben
vorrei che’miei figliuoli n’avesser seguito il mio consi-
glio, ché ti potevano così orrevolmente acconciare in ca-
sa i conti Guidi con un pezzo di pane, ed essi vollon pur
darti a questa bella gioia, che, dove tu se’ la miglior fi-
gliuola di Firenze e la più onesta, egli non s’è vergognato
di mezza notte di dir che tu sii puttana, quasi noi non ti
NOVELLA NONA
vità del fatto e del miracolo della vista che così si cam-
biava a chi su vi montava.
Ma la donna, che della oppinione che Nicostrato mo-
strava d’avere avuta di lei si mostrava turbata, disse:
– Veramente questo pero non ne farà mai più niuna,
né a me né ad altra donna, di queste vergogne, se io po-
trò; e perciò, Pirro, corri e va e reca una scure, e ad una
ora te e me vendica tagliandolo, come che molto meglio
sarebbe a dar con essa in capo a Nicostrato, il quale sen-
za considerazione alcuna così tosto si lasciò abbagliar gli
occhi dello ’ntelletto; ché, quantunque a quegli che tu
hai in testa paresse ciò che tu di, per niuna cosa dovevi
nel giudicio della tua mente comprendere o consentire
che ciò fosse.
Pirro prestissimo andò per la scure e tagliò il pero; il
quale come la donna vide caduto, disse verso Nicostra-
to:
– Poscia che io veggio abbattuto il nimico della mia
onestà, la mia ira è ita via –; e a Nicostrato, che di ciò la
pregava, benignamente perdonò, imponendogli che più
non gli avvenisse di presummere, di colei che più che sé
l’amava, una così fatta cosa giammai.
Così il misero marito schernito con lei insieme e col
suo amante nel palagio se ne tornarono, nel quale poi
molte volte Pirro di Lidia, ed ella di lui, con più agio
presero piacere e di letto. Dio ce ne dea a noi.
NOVELLA DECIMA
Due sanesi amano una donna comare dell’uno; muore il, com-
pare e torna al compagno secondo la promessa fattagli, e rac-
contagli come di là si dimori.
CONCLUSIONE
GIORNATA OTTAVA
INTRODUZIONE
NOVELLA PRIMA
NOVELLA SECONDA
Il prete rispose:
– Sì facciam noi meglio che gli altri uomini; o perché
no? E dicoti più, che noi facciamo vie miglior lavorio; e
sai perché? Perché noi maciniamo a raccolta; ma in ve-
rità bene a tuo uopo, se tu stai cheta e lascimi fare. Disse
la Belcolore:
– O che bene a mio uopo potrebbe esser questo, ché
siete tutti quanti più scarsi che ’l fistolo?
Allora il prete disse:
– Io non so, chiedi pur tu: o vuogli un paio di scarpet-
te, o vuogli un frenello, o vuogli una bella fetta di stame,
o ciò che tu vuogli.
Disse la Belcolore:
– Frate, bene sta! Io me n’ho di coteste cose; ma se
voi mi volete cotanto bene, ché non mi fate voi un servi-
gio, e io farò ciò che voi vorrete?
Allora disse il prete:
– Di’ciò che tu vuogli, e io il farò volentieri.
La Belcolore allora disse:
– Egli mi conviene andar sabato a Firenze a render la-
na che io ho filata e a far racconciare il filatoio mio; e se
voi mi prestate cinque lire, che so che l’avete, io rico-
glierò dall’usuraio la gonnella mia del perso e lo scaggia-
le dai dì delle feste, che io recai a marito, ché vedete che
non ci posso andare a santo né in niun buon luogo, per-
ché io non l’ho; e io sempre mai poscia farò ciò che voi
vorrete.
Rispose il prete:
– Se Dio mi dea il buono anno, io non gli ho allato;
ma credimi che, prima che sabato sia, io farò che tu gli
avrai molto volentieri.
– Sì, – disse la Belcolore – tutti siete così gran promet-
titori, e poscia non attenete altrui nulla; credete voi fare
a me come voi faceste alla Biliuzza, che se n’andò col ce-
teratoio? Alla fè di Dio non farete, ché ella n’è divenuta
femina di mondo pur per ciò; se voi non gli avete, e voi
andate per essi.
– Deh! – disse il prete – non mi fare ora andare infino
a casa; ché vedi che ho così ritta la ventura testè che non
c’è persona, e forse quand’io tornassi ci sarebbe chi che
sia che c’impaccerebbe; e io non so quando e’ mi si ven-
ga così ben fatto come ora.
Ed ella disse:
– Bene sta; se voi volete andar, sì andate; se non, sì ve
ne durate.
Il prete, veggendo che ella non era acconcia a far cosa
che gli piacesse, se non a salvum me fac, ed egli volea fa-
re sine custodia, disse:
– Ecco, tu non mi credi che io te gli rechi; acciò che
tu mi creda, io ti lascerò pegno questo mio tabarro di
sbiavato.
La Belcolore levò alto il viso e disse:
– Sì, cotesto tabarro, o che vale egli?
Disse il prete:
– Come, che vale? Io voglio che tu sappi che egli è di
duagio infino in treagio, e hacci di quegli nel popolo no-
stro che il tengon di quattragio, e non è ancora quindici
dì che mi costò da Lotto rigattiere delle lire ben sette, ed
ebbine buon mercato de soldi ben cinque, per quel che
mi dice Buglietto d’Alberto, che sai che si conosce così
bene di questi panni sbiavati.
– O, sié? – disse la Belcolore – se Dio m’aiuti, io non
l’averei mai creduto; ma datemelo in prima.
Messer lo prete, ch’aveva carica la balestra, trattosi il
tabarro, gliele diede; ed ella, poi che riposto l’ebbe, dis-
se:
– Sere, andiancene qua nella capanna, che non vi vien
mai persona –; e così fecero.
E quivi il prete, dandole i più dolci baciozzi del mon-
do e faccendola parente di messer Domenedio, con lei
una gran pezza si sollazzò; poscia, partitosi in gonnella,
che fa prego a Dio che voi non pesterete mai più salsa in
suo mortaio, non l’avete voi sì bello onor fatto di que-
sta».
Il cherico se n’andò col tabarro e fece l’ambasciata al
sere, a cui il prete ridendo disse:
– Dira’le, quando tu la vedrai, che s’ella non ci pre-
sterà il mortaio, io non presterrò a lei il pestello; vada
l’un per Bentivegna si credeva che la moglie quelle paro-
le dicesse perché egli l’aveva garrita, e non se ne curò.
Ma la Belcolore, rimasa scornata, venne in iscrezio col
sere, e tennegli favella insino a vendemmia; poscia,
avendola minacciata il prete di farnela andare in bocca
del Lucifero maggiore, per bella paura entro, col mosto
e con le castagne calde si rappattumò con lui, e più volte
insieme fecer poi gozzoviglia.
E in iscambio delle cinque lire le fece il prete rincarta-
re il cembal suo e appiccarvi un sonagliuzzo, ed ella fu
contenta.
NOVELLA TERZA
– Che abbiam noi a far del nome, poi che noi sappiam
la virtù? A me parrebbe che noi andassimo a cercare
senza star più.
– Or ben, – disse Bruno – come è ella fatta?
Calandrin disse:
– Egli ne son d’ogni fatta, ma tutte son quasi nere; per
che a me pare che noi abbiamo a ricogliere tutte quelle
che noi vederem nere, tanto che noi ci abbattiamo ad es-
sa; e per ciò non perdiamo tempo, andiamo.
A cui Brun disse:
– Or t’aspetta; – e volto a Buffalmacco disse:
– A me pare che Calandrino dica bene; ma non mi pa-
re che questa sia ora da ciò, per ciò che il sole è alto e dà
per lo Mugnone entro e ha tutte le pietre rasciutte, per
che tali paion testé bianche delle pietre che vi sono, che
la mattina, anzi che il sole l’abbia rasciutte, paion nere; e
oltre a ciò molta gente per diverse cagioni è oggi, che è
dì di lavorare, per lo Mugnone, li quali vedendoci si po-
trebbono indovinare quello che noi andassimo faccen-
do, e forse farlo essi altressì, e potrebbe venire alle mani
a loro, e noi avremmo perduto il trotto per l’ambiadura.
A me pare, se pare a voi, che questa sia opera da dover
fare da mattina, che si conoscon meglio le nere dalle
bianche, e in dì di festa, che non vi sarà persona che ci
vegga.
Buffalmacco lodò il consiglio di Bruno, e Calandrino
vi s’accordò, e ordinarono che la domenica mattina ve-
gnente tutti e tre fossero insieme a cercar di questa pie-
tra; ma sopra ogn’altra cosa gli pregò Calandrino che es-
si non dovesser questa cosa con persona del mondo
ragionare, per ciò che a lui era stata posta in credenza. E
ragionato questo, disse loro ciò che udito avea della con-
trada di Bengodi, con saramenti affermando che così
era. Partito Calandrino da loro, essi quello che intorno a
questo avessero a fare ordinarono fra sé medesimi.
Calandrino con disidero aspettò la domenica mattina;
NOVELLA QUARTA
Venuta era Elissa alla fine della sua novella, non senza
gran piacere di tutta la compagnia avendola raccontata,
quando la reina, ad Emilia voltatasi, le mostrò voler che
ella appresso d’Elissa la sua raccontasse, la quale presta-
mente così cominciò.
Valorose donne, quanto i preti e’ frati e ogni cherico
sieno sollecitatori delle menti nostre, in più novelle det-
te mi ricorda essere mostrato; ma per ciò che dir non se
ne potrebbe tanto che ancora più non ne fosse, io, oltre
a quelle, intendo di dirvene una d’un proposto, il quale,
malgrado di tutto il mondo, voleva che una gentil donna
vedova gli volesse bene o volesse ella o no; la quale, si
come molto savia, il trattò sì come egli era degno.
Come ciascuna di voi sa, Fiesole, il cui poggio noi pos-
siamo di quinci vedere, fu già antichissima città e grande,
come che oggi tutta disfatta sia, né per ciò è mai cessato
che vescovo avuto non abbia, e ha ancora. Quivi vicino al-
la maggior chiesa ebbe già una gentil donna vedova, chia-
mata monna Piccarda, un suo podere con una casa non
troppo grande; e per ciò che la più agiata donna del mon-
do non era, quivi la maggior parte dell’anno dimorava e
con lei due suoi fratelli, giovani assai dabbene e cortesi.
Ora avvenne che, usando questa donna alla chiesa
maggiore ed essendo ancora assai giovane e bella e pia-
cevole, di lei s’innamorò sì forte il proposto della chiesa,
che più qua né più là non vedea. E dopo alcun tempo fu
di tanto ardire, che egli medesimo disse a questa donna
il piacer suo, e pregolla che ella dovesse esser contenta
del suo amore e d’amar lui come egli lei amava.
La Ciutazza disse:
– Sì dormirò io con sei, non che con uno, se biso-
gnerà.
Venuta adunque la sera, messer lo proposto venne,
come ordinato gli era stato, e i due giovani, come la don-
na composto avea, erano nella camera loro e facevansi
ben sentire; per che il proposto, tacitamente e al buio
nella camera della donna entratosene, se n’andò, come
ella gli disse, al letto, e dall’altra parte la Ciutazza, ben
dalla donna informata di ciò che a far avesse.
Messer lo proposto, credendosi aver la donna sua al-
lato, si recò in braccio la Ciutazza, e cominciolla a baciar
senza dir parola, e la Ciutazza lui; e cominciossi il pro-
posto a sollazzar con lei, la possession pigliando de’ beni
lungamente disiderati.
Quando la donna ebbe questo fatto, impose a’ fratelli
che facessero il rimanente di ciò che ordinato era; li qua-
li, chetamente della camera usciti, n’andarono verso la
piazza, e fu lor la fortuna in quello che far volevano più
favorevole che essi medesimi non dimandavano; per ciò
che, essendo il caldo grande, aveva domandato il vesco-
vo di questi due giovani, per andarsi infino a casa lor di-
portando e ber con loro. Ma come venir gli vide, così
detto loro il suo disidero, con loro si mise in via, e in una
lor corticella fresca entrato, dove molti lumi accesi era-
no, con gran piacer bevve d’un loro buon vino.
E avendo bevuto, dissono i giovani:
– Messer, poi che tanta di grazia n’avete fatto, che de-
gnato siete di visitar questa nostra piccola casetta, alla
quale noi venavamo ad invitarvi, noi vogliam che vi
piaccia di voler vedere una cosetta che noi vi vogliam
mostrare.
Il vescovo rispose che volentieri; per che l’un de’ gio-
vani, preso un torchietto acceso in mano e messosi in-
nanzi, seguitandolo il vescovo e tutti gli altri, si dirizzò
verso la camera dove messer lo proposto giaceva con la
NOVELLA QUINTA
NOVELLA SESTA
vare chi avuto se l’abbia; e per ciò che altri che alcun di
noi che qui siamo non gliele dee potere aver tolto, esso,
per ritrovar chi avuto l’ha, vi dà a mangiar queste galle
una per uno, e bere. E infino da ora sappiate che chi
avuto avrà il porco, non potrà mandar giù la galla, anzi
gli parrà più amara che veleno, e sputeralla; e per ciò,
anzi che questa vergogna gli sia fatta in presenza di tanti,
è forse il meglio che quel cotale che avuto l’avesse, in pe-
nitenzia il dica al sere, e io mi rimarrò di questo fatto.
Ciascun che v’era disse che ne voleva volentier man-
giare; per che Bruno, ordinatigli e messo Calandrino tra
loro, cominciatosi all’un de’ capi, cominciò a dare a cia-
scun la sua, e, come fu per mei Calandrino, presa una
delle canine, gliele pose in mano. Calandrino presta-
mente la si gittò in bocca e cominciò a masticare; ma sì
tosto come la lingua sentì l’aloè, così Calandrino, non
potendo l’amaritudine sostenere, la sputò fuori.
Quivi ciascun guatava nel viso l’uno all’altro, perve-
der chi la sua sputasse; e non avendo Bruno ancora
compiuto di darle, non faccendo sembianti d’intendere
a ciò, s’udì dir dietro: – Eja, Calandrino, che vuol dir
questo? – per che prestamente rivolto, e veduto che Ca-
landrino la sua aveva sputata, disse:
– Aspettati, forse che alcuna altra cosa gliele fece spu-
tare: tenne un’altra –; e presa la seconda, gliele mise in
bocca, e fornì di dare l’altre che a dare aveva.
Calandrino, se la prima gli era paruta amara, questa
gli parve amarissima; ma pur vergognandosi di sputarla,
alquanto masticandola la tenne in bocca, e tenendola
cominciò a gittar le lagrime che parevan nocciuole, sì
eran grosse; e ultimamente, non potendo più, la gittò
fuori come la prima aveva fatto.
Buffalmacco faceva dar bere alla brigata, e Bruno; li
quali, insieme con gli altri questo vedendo, tutti dissero
che per certo Calandrino se l’aveva imbolato egli stesso;
e furonvene di quegli che aspramente il ripresono.
NOVELLA SETTIMA
NOVELLA OTTAVA
NOVELLA NONA
NOVELLA DECIMA
CONCLUSIONE
GIORNATA NONA
INTRODUZIONE
NOVELLA PRIMA
NOVELLA SECONDA
Levasi una badessa in fretta e al buio per trovare una sua mo-
naca, a lei accusata, col suo amante nel letto; ed essendo con lei
un prete, credendosi il saltero de’ veli aver posto in capo, le
brache del prete vi si pose; le quali vedendo l’accusata e fattala-
ne accorgere, fu diliberata, ed ebbe agio di starsi col suo aman-
te.
NOVELLA TERZA
torire, con tutto che elle abbian buon cotal grande don-
de farlo, che io credo, se io avessi quel dolore, che io mi
morrei prima che io partorissi.
Disse il medico:
– Non aver pensiero. Io ti farò fare una certa bevanda
stillata molto buona e molto piacevole. a bere, che in tre
mattine risolverà ogni cosa, e rimarrai più sano che pesce;
ma farai che tu sii poscia savio e più non incappi in que-
ste sciocchezze. Ora ci bisogna per quella acqua tre paia
di buon capponi e grossi, e per altre cose che bisognano
darai ad un di costoro cinque lire di piccioli, che le com-
peri, e fara’mi ogni cosa recare alla bottega, e io al nome
di Dio domattina ti manderò di quel beveraggio stillato, e
comincera’ne a bere un buon bicchiere grande per volta.
Calandrino, udito questo, disse:
– Maestro mio, ciò siane in voi –; e date cinque lire a
Bruno e denari per tre paia di capponi, il pregò che in
suo servigio in queste cose durasse fatica.
Il medico, partitosi, gli fece fare un poco di chiarea e
mandogliele. Bruno, comperati i capponi e altre cose ne-
cessarie al godere, insieme col medico e co’ compagni
suoi se li mangiò.
Calandrino bevve tre mattine della chiarea, e il medi-
co venne a lui, e i suoi compagni, e toccatogli il polso gli
disse:
– Calandrino, tu se’ guerito senza fallo; e però sicura-
mente oggimai va a fare ogni tuo fatto, né per questo
star più in casa.
Calandrino lieto levatosi s’andò a fare i fatti suoi, lo-
dando molto, ovunque con persona a parlar s’avveniva,
la bella cura che di lui il maestro Simone aveva fatta,
d’averlo fatto in tre dì senza pena alcuna spregnare. E
Bruno e Buffalmacco e Nello rimaser contenti d’aver
con ingegni saputo schernire l’avarizia di Calandrino,
quantunque monna Tessa, avvedendosene, molto col
marito ne brontolasse.
NOVELLA QUARTA
NOVELLA QUINTA
Rispose Calandrino:
– Ohimè! sì, ella m’ha morto.
Disse Bruno:
– Io voglio andare a vedere se ella è quella che io cre-
do; e se così sarà, lascia poscia far me.
Sceso adunque Bruno giuso, e trovato Filippo e co-
stei, ordinatamente disse loro chi era Calandrino, e
quello che egli aveva lor detto, e con loro ordinò quello
che ciascun di loro dovesse fare e dire, per avere festa e
piacere dello innamoramento di Calandrino. E a Calan-
drino tornatosene disse:
– Bene è dessa; e per ciò si vuol questa cosa molto sa-
viamente fare, per ciò che, se Filippo se ne avvedesse,
tutta l’acqua d’Arno non ci laverebbe. Ma che vuo’tu
che io le dica da tua parte, se egli avvien che io le favelli?
Rispose Calandrino:
– Gnaffe! tu le dirai imprima imprima che io le voglio
mille moggia di quel buon bene da impregnare; e po-
scia, che io son suo servigiale, e se ella vuol nulla; ha’mi
bene inteso?
Disse Bruno:
– Sì, lascia far me.
Venuta l’ora della cena, e costoro avendo lasciata
opera e giù nella corte discesi, essendovi Filippo e la
Niccolosa, alquanto in servigio di Calandrino ivi si pose-
ro a stare. Dove Calandrino incominciò a guardare la
Niccolosa e a fare i più nuovi atti del mondo, tali e tanti
che se ne sarebbe avveduto un cieco. Ella d’altra parte
ogni cosa faceva per la quale credesse bene accenderlo,
e secondo la informazione avuta da Bruno, il miglior
tempo del mondo prendendo de’ modi di Calandrino;
Filippo con Buffalmacco e con gli altri faceva vista di ra-
gionare e di non avvedersi di questo fatto.
Ma pur dopo alquanto, con grandissima noia di Ca-
landrino, si partirono; e venendosene verso Firenze, dis-
se Bruno a Calandrino:
NOVELLA SESTA
– Ohimè! Odi gli osti nostri che hanno non so che pa-
role insieme.
Adriano ridendo disse:
– Lasciali fare, che Iddio gli metta in mal anno: essi
bevver troppo iersera.
La donna, parendole avere udito il marito garrire e
udendo Adriano, incontanente conobbe là dove stata
era e con cui; per che, come savia, senza alcuna parola
dire, subitamente si levò, e presa la culla del suo figlio-
letto, come che punto lume nella camera non si vedesse,
per avviso la portò allato al letto dove dormiva la figliuo-
la, e con lei si coricò; e quasi desta fosse per lo rumore
del marito, il chiamò e domandollo che parole egli aves-
se con Pinuccio. Il marito rispose: – Non odi tu ciò
ch’e’dice che ha fatto stanotte alla Niccolosa?
La donna disse:
– Egli mente bene per la gola, ché con la Niccolosa
non è egli giaciuto, ché io mi ci coricai io in quel punto,
che io non ho mai poscia potuto dormire; e tu se’ una
bestia che egli credi. Voi bevete tanto la sera, che poscia
sognate la notte e andate in qua e in là senza sentirvi, e
parvi far maraviglie: egli è gran peccato che voi non vi
fiaccate il collo! Ma che fa egli costì Pinuccio? Perché
non si sta egli nel letto suo?
D’altra parte Adriano, veggendo che la donna savia-
mente la sua vergogna e quella della figliuola ricopriva,
disse:
– Pinuccio, io te l’ho detto cento volte che tu non va
da attorno, ché questo tuo vizio del levarti in sogno e di
dire le favole che tu sogni per vere ti daranno una volta
la mala ventura: torna qua, che Dio ti dea la mala notte!
L’oste, udendo quello che la donna diceva e quello
che diceva Adriano, cominciò a creder troppo bene che
Pinuccio sognasse; per che, presolo per la spalla, lo
’ncominciò a dimenare e a chiamar, dicendo:
– Pinuccio, destati; tornati al letto tuo.
NOVELLA SETTIMA
NOVELLA OTTAVA
NOVELLA NONA
NOVELLA DECIMA
CONCLUSIONE
GIORNATA DECIMA
INTRODUZIONE
NOVELLA PRIMA
NOVELLA SECONDA
NOVELLA TERZA
NOVELLA QUARTA
NOVELLA QUINTA
un bellissimo prato vicino alla città con sue arti fece sì,
la notte alla quale il calendi gennaio seguitava, che la
mattina apparve, secondo che color che ’l vedevan testi-
moniavano, un de’ più be’giardini che mai per alcun fos-
se stato veduto, con erbe e con alberi e con frutti d’ogni
maniera. Il quale come messere Ansaldo lietissimo ebbe
veduto, fatto cogliere de’ più be’frutti e de più be’fior
che v’erano, quegli occultamente fe’ presentare alla sua
donna, e lei invitare a vedere il giardino da lei addoman-
dato, acciò che per quel potesse lui amarla conoscere, e
ricordarsi della promission fattagli e con saramento fer-
mata, e come leal donna poi procurar d’attenergliele.
La donna, veduti i fiori e’ frutti, e già da molti del ma-
raviglioso giardino avendo udito dire, s’incominciò a
pentere della sua promessa. Ma, con tutto il pentimento,
sì come vaga di veder cose nuove, con molte altre donne
della città andò il giardino a vedere, e non senza maravi-
glia commendatolo assai, più che altra femina dolente a
casa se ne tornò, a quel pensando a che per quello era
obbligata. E fu il dolore tale, che non potendol ben den-
tro nascondere, convenne che, di fuori apparendo, il
marito di lei se n’accorgesse, e volle del tutto da lei di
quello saper la cagione. La donna per vergogna il tacque
molto; ultimamente, costretta, ordinatamente gli aperse
ogni cosa.
Gilberto primieramente, ciò udendo, si turbò forte;
poi, considerata la pura ìntenzion della donna, con mi-
glior consiglio, cacciata via l’ira. disse:
– Dianora, egli non è atto di savia né d’onesta donna
d’ascoltare alcuna ambasciata delle così fatte né di pat-
tovire sotto alcuna condizione con alcuno la sua castità.
Le parole per gli orecchi dal cuore ricevute hanno mag-
gior forza che molti non stimano, e quasi ogni cosa di-
viene agli amanti possibile. Male adunque facesti prima
ad ascoltare e poscia a pattovire; ma per ciò che io cono-
sco la purità dello animo tuo, per solverti dal legame
NOVELLA SESTA
NOVELLA SETTIMA
ancora più che non era di lei pietoso; e in sull’ora del ve-
spro montato a cavallo, sembiante faccendo d’andare a
suo diporto, pervenne là dov’era la casa dello speziale; e
quivi fatto domandare che aperto gli fosse un bellissimo
giardino il quale lo speziale avea, in quello smontò, e do-
po alquanto domandò Bernardo che fosse della figliuo-
la, se egli ancora maritata l’avesse.
Rispose Bernardo:
– Monsignore, ella non è maritata, anzi è stata e anco-
ra è forte malata; è il vero che da nona in qua ella è ma-
ravigliosamente migliorata.
Il re intese prestamente quello che questo migliora-
mento voleva dire, e disse:
– In buona fè danno sarebbe che ancora fosse tolta al
mondo sì bella cosa; noi la vogliamo venire a visitare.
E con due compagni solamente e con Bernardo nella
camera di lei poco appresso se n’andò, e come là entro
fu, s’accostò al letto dove la giovane alquanto sollevata
con disio l’aspettava, e lei per la man prese dicendo:
– Madonna, che vuol dir questo? Voi siete giovane e
dovreste l’altre confortare, e voi vi lasciate aver male:
noi vi vogliam pregare che vi piaccia, per amor di noi, di
confortarvi in maniera che voi siate tosto guerita.
La giovane, sentendosi toccare alle mani di colui il
quale ella sopra tutte le cose amava, come che ella al-
quanto si vergognasse, pur sentiva tanto piacer nell’ani-
mo, quanto se stata fosse in paradiso; e, come potè, gli
rispose:
– Signor mio, il volere io le mie poche forze sottopor-
re a gravissimi pesi, m’è di questa infermità stata cagio-
ne, dal la quale voi, vostra buona mercé, tosto libera mi
vedrete.
Solo il re intendeva il coperto parlare della giovane, e
da più ogn’ora la reputava, e più volte seco stesso mala-
disse la fortuna, che di tale uomo l’aveva fatta figliuola; e
NOVELLA OTTAVA
NOVELLA NONA
NOVELLA DECIMA
CONCLUSIONE
Se gaia giovinezza
in bello amante dee donna appagare,
o pregio di virtute,
o ardire o prodezza,
senno, costume o ornato parlare,
o leggiadrie compiute,
io son colei per certo in cui salute,
essendo innamorata,
tutte le veggio en la speranza mia.
Se io sentissi fede
nel mio signor, quant’io sento valore,
gelosa non sarei;
ma tanto se ne vede,
pur che sia chi ’nviti l’amadore,
ch’io gli ho tutti per rei.
Questo m’accuora, e volentier morrei,
e di chiunque il guata
sospetto, e temo non mel porti via.
CONCLUSIONE DELL’AUTORE