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Copertina
L’immagine
Il libro
L’autore
Frontespizio
Le regole del gioco
Introduzione
Esserci, sempre
PARTE PRIMA. LA GUERRA CONTRO IL TERRORISMO DI SINISTRA E DI DESTRA
Capitolo 1. Il brigatista in bicicletta
Capitolo 2. Il covo dei brigatisti
Capitolo 3. Sbirri e boia
Capitolo 4. Sirio: la canna della mia pistola sulla nuca
Capitolo 5. Scalzone e l’antiquaria di Parigi
Capitolo 6. La Vedova con i capelli rossi e la fine dei Colp
Capitolo 7. L’ascensore e la bomba alla sinagoga di Milano
Capitolo 8. Sparano anche da destra: Cavallini e Soderini e la storia mai raccontata di via Betti
PARTE SECONDA. LE GUERRE FREDDE E QUELLA CONTRO IL TERRORISMO ISLAMICO
Capitolo 1. Dai carabinieri al Sismi
Capitolo 2. Primi passi. Come reclutare un «amico»
Capitolo 3. L’intelligence russa
Capitolo 4. Come impedimmo un 11 settembre italiano
Capitolo 5. L’intelligence e la fuga dell’Occidente dall’Afghanistan
Capitolo 6. Un piatto di schifosi tortellini a San Pietroburgo
Capitolo 7. Il controspionaggio della prima divisione del Sismi
PARTE TERZA. FINE FORZATA DI UNA CARRIERA
Fuoco amico
Capitolo 1. La Corte Costituzionale mi ha proclamato innocente
Capitolo 2. Il sospetto e le certezze di Nicola Calipari
Capitolo 3. L’arresto e il computer con le Barbie
Capitolo 4. E l’Alto Papavero mi disse: «Tu sei fuori». La vera storia dell’autogrill
Capitolo 5. Babbi e spie
Lettera aperta
Copyright
Il libro
“L a canna della Smith & Wesson .38 special che sfiora la nuca di Sergio Segio. L’irruzione momento per
momento nei covi delle Brigate Rosse. Lo sguardo del terrorista di al-Qaida che incrociai a pochi metri
dall’ambasciata italiana a Beirut, mentre stava cercando il punto giusto per farla esplodere piazzandoci
400 chili di esplosivo. L’azione di contrasto nei confronti di servizi segreti russi che tentavano di penetrare l’Italia.”
Tutto questo grazie al “controspionaggio offensivo”: un metodo affinato dall’agente segreto italiano Marco Mancini
che lo ha messo in pratica con successo per molti anni. Mancini ha partecipato a operazioni cruciali per la sicurezza
del nostro Paese fin dai suoi esordi nella Sezione speciale anticrimine dei carabinieri di Milano fondata dal Generale
Carlo Alberto dalla Chiesa per combattere il terrorismo e poi come agente segreto dello spionaggio e del
controspionaggio in Africa, nei Paesi dell’Est Europa e nel Medioriente allargato. Ha costruito un sistema clandestino
di spie nei teatri di guerra per acquisire informazioni utili alla liberazione degli ostaggi. Il risultato è una storia d’Italia
inedita, raccontata da chi ha vissuto in trincea il grande gioco dei servizi segreti internazionali, dedicando ogni energia
a sventare attentati e impedire conflitti. Perché sono tante le guerre che Mancini ha combattuto per proteggere gli
italiani da rischi ben peggiori. Alcune di queste attività sono giunte alla ribalta della cronaca, altre, come il sequestro
di Abu Omar, sono ancora misteriosamente coperte dal segreto di Stato.
L’autore
Marco Mancini, carabiniere dal 1979, ha fatto parte della Sezione speciale anticrimine di Milano fino al 1984. Agente
segreto poi, ha partecipato alle più importanti azioni di controspionaggio del Sismi e dell’Aise a contrasto del
terrorismo fino al 2014. È stato responsabile amministrativo al Dis per il comparto intelligence fino al luglio 2021.
Marco Mancini
Questo non è un libro di riflessioni, ma di fatti, cose, azioni, intrighi vecchi e ancora in corso. La morale la
ricaveranno i lettori. Interessano: l’osservazione, il controllo e il pedinamento (in gergo OCP ); lo
spedinamento. La canna della Smith & Wesson .38 special che sfiora la nuca di Sergio Segio, killer
dell’organizzazione terroristica Prima Linea. Due colpi di Trident calibro .38 special (se ti prende ti stacca
la testa) che un tale, a cui chiesi i documenti, mi sparò addosso mancandomi di qualche centimetro.
L’irruzione momento per momento nei covi delle Brigate Rosse. O quando, camminando sulla riva del
fiume Neva, a San Pietroburgo, mi accorsi di essere circondato da agenti segreti che parlavano russo, e
dovetti capire come uscirne. Lo sguardo del terrorista di al-Qaida che incrociai a pochi metri
dall’ambasciata italiana a Beirut, mentre stava cercando il punto giusto per farla esplodere piazzandoci
400 chili di esplosivo. L’azione di contrasto nei confronti di servizi segreti russi che tentavano di
penetrare l’Italia. I risultati ottenuti dall’attività di controspionaggio e quelli raggiunti a seguito della
ricerca informativa condotta clandestinamente all’estero (che si chiama spionaggio). I tradimenti di
colleghi. Le vessazioni e le umiliazioni subite per aver applicato norme e regole di buon senso nella
gestione amministrativo-finanziaria della nostra intelligence. Il caso dell’imam Abu Omar, all’anagrafe
Hassan Mustafa Osama Nasr, sequestrato a Milano nel febbraio 2003 e i segreti di Stato che circondano
quella vicenda. L’incontro all’autogrill di Fiano Romano con Matteo Renzi, e, pure lì, segreti di Stato. E
altro, molto altro ancora.
Esserci, sempre
Secondo il piano di lavoro, e la tempistica del racconto, dovrei partire dagli inizi, dall’ingresso nell’Arma
dei carabinieri, rievocando tutte le azioni compiute nella lotta contro il terrorismo rosso e nero, sotto la
guida e l’insegnamento del generale dalla Chiesa, e quindi parlare del passaggio ai servizi segreti, con la
convocazione segretissima e un po’ comica di un prete americano, vero o finto che fosse. Già, del resto la
vita è dramma e qualche volta commedia, guai a prendersi troppo sul serio.
Il fatto è che appena provo a concentrarmi sulla mia iniziazione al Sismi, la memoria percorre in un
lampo i primi giorni-mesi-anni, un tappeto volante che atterra sul presente. Poi viaggerò a ritroso e
tornerò a fatti, appostamenti, al tempo dei telefoni satellitari e della cybersecurity, alle spie inseguite e ai
mitra alla tempia.
Negli ultimi tempi – Cornovaglia, Afghanistan, 2021; quindi Ucraina, 2022 – si è consumato lo
sperpero del patrimonio sviluppato dall’intelligence italiana, che rivendico la necessità di recuperare e
mettere al servizio del mondo. Non una scatola chiusa di nozioni e neppure una specie di algoritmo
applicabile a freddo. Ma un metodo: il «controspionaggio offensivo». Non c’è alcun bisogno di trovare un
equivalente linguistico americano perché non esiste.
Il controspionaggio offensivo usa qualsiasi strumento che la scienza e la tecnica mettono a
disposizione, ma il primato è il fattore umano. Si fonda su alcuni postulati che stabiliscono il discrimine
tra poliziotti e agenti segreti. Prevenire i guai invece di arrivare dopo a constatare i danni. Impedire
l’esplodere delle bombe e dei conflitti armati, perché non è compito primario dell’intelligence raccogliere
tra i cadaveri di nostri fratelli gli indizi di chi è stato ad ammazzarli.
Dai tempi di Moro e del suo lodo con i palestinesi e gli israeliani (1976), le nostre agenzie spionistiche,
a dispetto persino del periodo oscuro della direzione piduista e nonostante tanti cascami di inefficienza,
hanno accumulato una sapienza operativa capace di esprimersi nei quadranti sensibili con un’efficacia e
uno stile umanistico che non hanno paragoni al mondo.
Ho detto metodo, non ricettario. Non esiste il manuale dell’intelligence perfetta, e neppure un
prontuario per i giovani agenti infallibili, anche se di sicuro – ma non è questo il libro – bisognerà pure
che qualcuno che ha vissuto questa esperienza sul campo ne metta insieme i punti teorici e tecnici in un
confronto con altre teorie e prassi di spionaggio (anglosassone nelle varie declinazioni, russa, israeliana,
turca ecc.).
La caratteristica identitaria del controspionaggio offensivo italiano è un modo di puntare gli occhi e
applicare testa e memoria là dove tutto pare calmo, per scorgere quello che nemmeno i satelliti o gli
strumenti cibernetici (utili, persino indispensabili) sanno scorgere. Perché guardano ma non vedono.
Il metodo del controspionaggio offensivo è «intus legere», da cui «intelligenza» = intelligence: leggere
tra le righe, negli spazi bianchi tra le righe. I satelliti e gli algoritmi, dato che tra le righe non c’è scritto
niente, leggono ma non fanno intelligence. Bisogna esserci! Essere lì, uomini e donne tra gli uomini e le
donne! Nascosti, invisibili, ma sul posto, sentire le pulsazioni di un popolo, conoscere il miserabile
tugurio dove un leader terrorista si inchina nella preghiera, i rumori anomali di una città araba che va a
dormire ma non dorme. Sono cose che i droni non sanno, e che se si resta perennemente a far flanella nel
perimetro del grande raccordo anulare romano, o nei dintorni del Tamigi e del Potomac, mai si sapranno.
Il metodo italiano per affrontare i pericoli latenti e palesi si è sviluppato in un contesto di lavoro
comune e di responsabilità talvolta solitaria e senza la corazza della protezione in alto loco, ma sempre in
obbedienza e riferimento all’Autorità politica (il presidente del Consiglio). Ne sono stato testimone e, in
certi casi che racconterò, co-protagonista.
Che peccato veder dissipare questo tesoro. È un groppo che sale alla gola, un crampo dell’anima. Non
sarei onesto con il lettore se non rivelassi questo cruccio. Non solo nell’interesse nazionale: l’apporto alla
pace che l’Italia ha dato costantemente, da De Gasperi in poi, è passato da una diplomazia a doppio
livello, e quello profondo (deep diplomacy) è stato curato dai servizi segreti, che hanno saputo stringere
legami impensabili, con amicizie oltre i confini delle alleanze. E sempre in dipendenza creativa dal
governo.
Dal settembre 1979 al luglio 2021, data del mio pensionamento, ho servito il mio Paese prima come
carabiniere della Sezione speciale anticrimine e poi come agente segreto nei servizi di intelligence, fino a
diventare capo del controspionaggio (Sismi).
Nelle pagine che seguono c’è il racconto del mio passato, recuperato con il solo ausilio della memoria.
Perché chi fa un mestiere come il mio non si porta a casa fogli o fotocopie, ma nella mente tutto è
catalogato e ordinato. È sorprendente come mi si parino davanti con nitidezza le azioni compiute
nell’esercizio del mio dovere.
Tuttavia ho dovuto strappare molte pagine dal libro interiore dei ricordi per non fare del male al mio
Paese, rivelando segreti che potrebbero metterne in pericolo ancora oggi la sicurezza, o che esporrebbero
a vendette chi ha accettato di cambiare fronte per ideali di libertà, per denaro o, più spesso, per tutt’e due
le cose insieme.
Ne risulta una storia d’Italia inedita, raccontata da me, che forse non conto niente ma c’ero ed ero lì in
trincea. Dico trincea perché c’è stata una guerra, anzi ce ne sono state tre, e una è ancora in corso, in forme
diverse rispetto a quelle immaginate guardando i Tg e seguendo i social.
Qui si troveranno frammenti di queste tre guerre, distinte ma connesse tra loro, che mi sono passate
non davanti agli occhi ma sulla pelle. In ogni episodio che racconterò – attacchi del nemico e contrattacchi
dei «nostri» – si concentra qualcosa di più che un aneddoto personale. Mi rendo conto però che senza
queste brevi note di lettura trascinerei il lettore in un mondo fuori dal mondo, con un suo alfabeto
incomprensibile.
Ciò che è lontano nel tempo e nello spazio non è meno reale del presente. Eppure tanti neppure sanno.
Prima ancora del dovere della memoria, ci sarebbe il diritto di apprendere, di avere chi ti insegna.
A me è capitato di raccontare cosa accadeva negli anni Settanta e poi nei primi anni Ottanta nelle città
italiane. Anni di piombo, lotta armata, terrorismo rosso e terrorismo nero, Brigate Rosse, e via Fani. Era
come se evocassi vicende leggendarie, avvolte nella nebbia di un passato remoto da cui emergevano
personaggi sconosciuti, e i miei ascoltatori si stupivano che osassi distinguere il bene e il male. Non in
generale o per sommi capi, ma quel giorno, a quell’ora precisa, a Milano in via Vallazze o a Beirut davanti
all’ambasciata italiana.
Ho molto da raccontare della storia d’Italia dei decenni di fine secolo e di inizio millennio, non tanto
perché ho studiato documenti, ma perché come Hegel a Jena ho visto «l’anima del mondo» attraversare a
cavallo la città. Solo che per lui era l’imperatore Napoleone, e il genio dell’idealismo si ritirò nelle sue
stanze a studiarci sopra, mentre io, con il lavoro di gente preparata e coraggiosa, ho lottato per impedire
che le successive incarnazioni dell’«anima del mondo» travolgessero con gli zoccoli dei destrieri la vita
sociale del mio Paese. E che con il loro abbraccio dominatore ne minassero la sostanza democratica,
lasciandolo in balia di desideri di potenze nemiche o forestiere che hanno cercato e tuttora provano a
destabilizzare le istituzioni e a rovinare la vita delle brave persone.
Racconterò le guerre a cui ho partecipato e che hanno interessato l’Italia negli ultimi quarant’anni.
Schematizzando:
1. La guerra contro il terrorismo interno di sinistra e di destra, che ho combattuto nell’avamposto della
Sezione speciale anticrimine dei carabinieri del generale dalla Chiesa (1981-1984).
2. La guerra contro il terrorismo islamico, che si è intrecciata, soprattutto a partire dal 2001, con il terzo
conflitto, Oriente contro Occidente.
3. La guerra fredda tra Ovest ed Est, che nella sua prima fase – fino cioè alla caduta del Muro di Berlino, il
9 novembre 1989 – ha visto il confronto tra Nato e Patto di Varsavia. Quindi, senza soluzione di
continuità, è proseguita in forme meno conclamate tra l’Occidente e la galassia di Stati ancora
dipendenti da Mosca, i cui servizi segreti non sono mai stati disarmati (1989-2008). La terza fase della
guerra fredda è quella dell’accelerazione (iniziata nel 2008, continua ancora oggi), che ha avuto i suoi
prodromi con l’invasione putiniana della Georgia, poi interrotta a 30 chilometri da Tbilisi (agosto
2008); quindi è andata avanti nel 2014 con la presa di possesso russa della Crimea e la creazione delle
repubbliche autonome nel Donbass (in Ucraina); infine il 24 febbraio 2022 si è trasformata in guerra
fredda totale.
Poi c’è un’altra guerra, certo meno cruenta, senza un nemico dichiarato. Un conflitto sporco che si è
combattuto dietro porte chiuse, architettato da persone senza volto. L’obiettivo? Privilegiare interessi
personali e di carriera, anche a costo di colpire un’eccellenza italiana e depauperare il Paese di un
patrimonio messo insieme con abilità e pazienza.
Questa quarta guerra, piccola e sordida, è stata una guerra civile, perché vittime e carnefici sono tutti
italiani. Mentre una parte attaccava, l’altra non sapeva nemmeno chi ci fosse da combattere. Ed è una mia
grande colpa: non mi sono accorto per tempo del tradimento che si stava compiendo. Ne ho pagato il
prezzo, lo pago tuttora.
Posso promettere che mi impegnerò a non sollevarmi troppo dai fatti e dalle cose, mantenendomi a livello
di verbalizzatore della realtà. Sono o non sono stato un carabiniere che a vent’anni già lavorava nella
Sezione speciale anticrimine del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, nel cuore della lotta agli eversori
sanguinari di sinistra e destra? E, subito dopo, non sono forse stato un operativo dell’intelligence in
scenari estremi, da agente segreto dello spionaggio e del controspionaggio italiano?
Le pagine a seguire non avranno pertanto niente a che fare con la filosofia del dilettante o con i
pensierini della sera del guerriero nostalgico.
Ne uscirà – confido – qualcosa di somigliante ai racconti di Le Carré o ai momenti cult di Fauda, la serie
di Netflix sulle operazioni speciali contro i jihadisti in Medio Oriente. Con la differenza che io non ho
bisogno di lavorare di fantasia. Mi basta la memoria.
Nel 2021 sono stato spinto fuori dai servizi, volendo usare un eufemismo. Alcuni cronisti, informati in
presa diretta di quanto stava accadendo nelle stanze apicali da cui non dovrebbe trapelare un solo
bisbiglio, mi hanno assimilato ai congedati «con disonore» («la Repubblica», 4 giugno 2021). Quella
parola, disonore, non è mai stata pronunciata da alcuno davanti a me, e ci mancherebbe, ma serviva fosse
propalata perché funzionale a togliere credibilità a qualsiasi mia futura testimonianza. Era un modo per
seppellirmi da vivo, il culmine della character assassination. Be’, l’impresa non è riuscita.
Non ho il dente avvelenato con nessuno. Ho parlato pochissimo in questi anni. Una frase, detta
all’Ansa, riconosco come sintesi dell’accaduto: «Ho perso il posto di lavoro, immagino con grande
soddisfazione dei servizi segreti russi» (23 aprile 2022). Si capirà presto perché la mia estromissione dopo
quarant’anni al servizio del Paese ha fatto contenti i russi e ha fatto tirare un sospiro di sollievo ai loro
complici, negli apparati penetrati dai loro servizi segreti.
Questo strano castigo potrebbe far pensare che io abbia lavorato per il nemico. Il lettore ha il diritto di
porsi la domanda: Marco Mancini ha servito la Patria o l’ha tradita? Garantisco sulla mia vita che vale la
prima.
Ma se i miei liquidatori avevano acquisito elementi tali da ritenermi compromesso con il nemico, o
ancora peggio venduto a chi voleva e vuole fare del male all’Italia, allora avevano il dovere di legge della
denuncia alla Procura della Repubblica di Roma. Perché non è accaduto?
Sono portato a credere che i riflettori su di me siano stati accesi da alcune persone infide, più invidiose
che competenti, forse appartenenti a quel manipolo di gentaglia che mi ha minacciato di morte
recapitando missive a casa perché le leggessero i miei cari, e che prima ancora aveva avviato il motore
delle ingiustizie e dato il via alla leggenda nera con cui sperano tuttora di schiacciarmi la testa.
Sono convinto ogni giorno di più che l’innesco e la progressione dell’odio contro di me siano stati,
nell’ordine:
1. l’aver palesato nel 2003 i miei dubbi circa il possesso, da parte di Saddam Hussein, di armi di
distruzione di massa;
2. aver diretto la struttura del Sismi che il 17 settembre 2004 a Beirut catturava, insieme ai servizi segreti
libanesi, Ahmad Miqati, capo di al-Qaida in Libano e latitante da oltre dieci anni, proprio mentre era
in procinto di colpire l’ambasciata italiana nel Paese dei Cedri con 400 chili di esplosivo;
3. le mie missioni in Iraq per la liberazione degli ostaggi, non solo italiani, e senza pagare riscatti agli
islamisti, con una accelerazione delle calunnie da quando nel 2005 il governo mi incaricò di riportare
in Italia la giornalista del «Manifesto» Giuliana Sgrena, sequestrata da criminali in Iraq e liberata a
prezzo della vita di Nicola Calipari, collega del Sismi;
4. le «informazioni operative acquisite sul campo» nell’ambito di azioni sviluppate in Afghanistan,
Pakistan, Somalia e Libia;
5. i risultati ottenuti a seguito di attività di counter-intelligence poste in essere nei confronti di
spregiudicate spie dei più agguerriti servizi segreti del mondo, russi e iraniani compresi.
1. per il sequestro di Abu Omar, sono stato indagato e incarcerato a San Vittore per diversi giorni. Sulla
vicenda è stato apposto il segreto di Stato, confermato da ben sette presidenti del Consiglio. Segreto
all’interno del quale sono custodite le prove della mia innocenza. Risultato: prosciolto dopo circa
dieci anni di processi nelle aule giudiziarie – quelli mediatici non si sono mai fermati;
2. per il caso Telecom-Sismi, sono stato indagato e arrestato, ho passato sei mesi di custodia cautelare
nel carcere di Pavia, in isolamento, e, dopo essere uscito di prigione, altri sei mesi fra domiciliari e
obbligo di firma. Risultato: prosciolto in udienza preliminare dal Gup di Milano. Ovvero, niente
rinvio a giudizio ma molta galera;
3. per l’affaire autogrill, cioè la consegna di una scatola di biscotti a Matteo Renzi per un augurio
prenatalizio, il 23 dicembre 2020, governo Conte due in corso. Dopo sei mesi, giugno 2021, con il
nuovo governo presieduto da Mario Draghi, che si era dotato di Franco Gabrielli come Autorità
delegata all’intelligence, mi vengono richieste per iscritto formali delucidazioni e spiegazioni
sull’incontro con l’ex presidente Renzi a Fiano Romano da parte del nuovo direttore del
Dipartimento delle Informazioni per la Sicurezza (Dis) Elisabetta Belloni, insediata da pochi giorni.
Risultato: immediato pensionamento coattivo. Anche in questa vicenda è stato opposto dal direttore
Belloni uno sciame di segreti di Stato all’Autorità giudiziaria che sta indagando, a seguito della
querela da me presentata presso la Procura della Repubblica di Ravenna, in relazione alla
ricostruzione mandata in onda dalla trasmissione di Rai3 Report.
Così il mio curriculum è finito nella pattumiera un pomeriggio di giugno del 2021. Il problema è che
attaccato a quel curriculum ci sono io e, a prescindere dallo spregio nei miei confronti, la rottamazione
della mia trascurabile persona ha disperso un patrimonio di conoscenze e di capacità operative e
strategiche che emergeranno nel prosieguo del libro.
Non è da tutti – ed è tanto meno frequente tra i miei liquidatori – essere considerato dagli Stati canaglia
e dai capi dei rispettivi servizi segreti una seria minaccia ai loro disegni di penetrazione nei gangli vitali
della nostra Repubblica. Perciò l’invidia nei miei confronti. Il fatto è che io ho fatto pesare anche
l’incompetenza, e loro l’hanno trasformata in un problema per me, ma temo soprattutto per l’Italia.
Nel 2014 ero in servizio in sedi estere, quando fui richiamato a Roma sul più bello, dopo che il gioco si era
fatto duro in Siria e in Ucraina. Mi era stato anticipato, da chi ne aveva il potere, che sarei stato impegnato
a dirigere un settore operativo. A sorpresa ma non troppo – avevo già sperimentato la scarsa sincerità dei
miei interlocutori – pensarono bene di chiudermi in un ufficio al Dis. Importante scrivania, mi fu detto:
ora sei un alto dirigente amministrativo. D’accordo. Ma non doveva andare così. Potevano trovare un
altro per quel ruolo. Quando ci sono soldi da contare e distribuire non mancano certo pretendenti.
Per anni sono stato così relegato alla funzione di ragioniere-capo. Secondo la magistratura
amministrativa, deputata al controllo dell’attività che svolgevo, me la stavo cavando molto bene. La Corte
dei Conti l’ha messo per iscritto. I colleghi e io in effetti stavamo portando avanti un buon lavoro.
Purtroppo per i miei detrattori, io ho il vizio dell’onestà e l’esperienza necessaria per scremare spese
inutili e tagliare costi superflui. Loro, invece, hanno tagliato me e altri colleghi difettosi: invidia e
incompetenza hanno eliminato l’anomalia di quelli bravi. Costoro imbarazzano gli incapaci con la loro
sola presenza. Dà fastidio l’inevitabile paragone tra i propri galloni (non so quanto meritati) e le abilità di
chi da un dettaglio invisibile è in grado di avvertire Palazzo Chigi che sta per venire giù il mondo. Non è
mitologia ma storia. Peccato: pensione punitiva, l’ho già detto.
Presunzione da mitomane, la mia? Me lo sono domandato cinque minuti dopo essere stato rottamato
come un vecchio arnese.
La risposta l’ho trovata compilando l’indice di questo libro: accidenti quanta roba. E dire che ho
escluso dal racconto le operazioni di intelligence la cui rivelazione violerebbe la legge ed esporrebbe a
pericoli di veleni, e di altri simpatici modi per morire, gente che ho convinto a stare dalla nostra parte,
con il mio Paese. La loro assicurazione sulla vita è il mio silenzio.
No che non ero, e non sono, un bluff. Sono stato silurato, mettendo a rischio – tuttora – la mia vita, con un
uso da falsari delle immagini. Contraddicendo ogni minima cognizione che si impara all’asilo
dell’intelligence.
Mi riferisco al pretesto menzognero della mia cacciata. Le fotografie, mi hanno insegnato sin da
quando avevo vent’anni, non sono oggettive. Ritagliano la realtà. Incorniciano il particolare. Guai a
fissarsi schiacciando gli occhi sulla pennellata di un quadro di Raffaello: si crede di vedere l’essenza del
dipinto, ma non si vede niente. Per comprendere occorre allargare lo sguardo.
Non c’è bisogno di aver frequentato corsi di semio-logia per smagare la truffa di tredici minuti di
filmati nebulosi, girati in un autogrill con la pretesa di demolire la reputazione di un servitore dello Stato.
Su quei fotogrammi hanno lavorato, detto e scritto cose peggiori della bufala raccontata da Colin Powell
per invadere l’Iraq. Hanno proiettato la diapositiva di un augurio natalizio tramutandola nella pistola
fumante per il mio supplizio.
Lo Stato mi costringe a mettere me stesso sotto interrogatorio esistenziale, dopo che «chi di competenza»
ha deliberato non fossi degno di appartenere – neppure per un giorno ancora, un’altra ora, minuto,
secondo – al comparto più delicato e sensibile per la sicurezza delle istituzioni e della vita di ciascun
cittadino italiano.
Ma io, chi sono davvero?
Il lettore ha diritto di saperlo. Non pretendo un atto di fede preventivo, ma che si leggano queste
pagine senza pregiudizio. Fate come se non aveste mai sentito parlare di me.
Forse chiedo troppo. Ma vorrei che provaste a immedesimarvi con quel tizio che sono io, mentre
affronta l’imprevedibile, facendo irruzione in un covo delle Brigate Rosse a Cinisello Balsamo; mentre
cattura terroristi latitanti e armati per le vie di Milano; mentre scrive su un pezzo di carta, circondato da
talebani armati, informazioni utili a liberare un ostaggio che uno di loro, reclutato come fonte, sussurra;
mentre, sdraiato a terra e minacciato da undici fucili kalashnikov (AK-47) imbracciati da guerriglieri
iracheni, inghiotte la scheda SIM del proprio cellulare per evitare che cada nelle mani dei terroristi,
mettendoli in condizione di ricostruire, identificare e quindi localizzare le fonti reclutate dall’intelligence
italiana in Iraq; mentre impugna una Smith & Wesson .38 e vede accendersi davanti a sé brevi lampi di
fuoco che annunciano piombo.
Parte prima
La guerra contro il terrorismo di sinistra e di destra
Capitolo 1
Il brigatista in bicicletta
C’è sempre, sempre!, un istante in cui decidi chi sei. Non è una cosa che si apprende tormentandosi nelle
notti insonni (ci sono state, eccome, nella mia come nella vita di qualsiasi uomo, qualsiasi donna), ma
nell’azione.
Anche se ci sono ordini precisi, regole di ingaggio inesorabili, esiste lo spazio della libertà dove ci sei tu
e hai davanti persone come te, criminali o no, e non puoi fingere di stare davanti allo schermo di una
Playstation.
Ho imparato che le circostanze non corrispondono mai ai manuali, c’è sempre qualcosa che tracima
rispetto a tutti i modelli preventivati e preventivabili. Non c’è intelligenza artificiale che possa sostituire
la coscienza. Nel momento della prova, in quell’infinitesimo spazio di tempo, accade qualcosa di
immenso. Appare ai nostri stessi occhi il vero «sé» che stava nascosto in noi. Prima della prova non lo
conosciamo ancora, ma un attimo dopo ci costituisce nel profondo. Non sempre gli saremo fedeli nelle
circostanze della vita quotidiana, inciamperemo, ci tireremo su, qualcuno ci aiuterà a rialzarci. Ma non
possiamo fuggire dall’ideale che ha marchiato il nostro cuore.
Fino a un minuto prima, l’ideale era una stella lontana, un punto prediletto del firmamento, una
luminescenza nella cupola blu del planetario. Incontrarlo è tutta un’altra storia. È l’avvenimento che ti
rende adulto; si squarcia il cielo, la stella adesso è qui. Puoi rifiutarla oppure accogliere quel che ti
suggerisce, una operatività semplice, generosa e senza calcoli. Vedi con chiarezza cosa sia l’onore,
verrebbe da dire. So bene che questa parola è stata sfregiata dal comportamento di alcuni funzionari dello
Stato ed è pure sconsigliata dagli esperti di comunicazione. Sa di retorica, fa scappare la gente. Ma io la
dico lo stesso, ho dalla mia gli articoli 52 e 54 della Costituzione: Patria, Dovere, Disciplina, Onore.
Bernardino Pasinelli stava al secondo piano, un appartamentino, la bicicletta bellissima appesa a dei ganci
fuori dall’uscio, quasi l’avesse messa a dormire su un’amaca, sollevata da terra per non affaticare i
tubolari. I servizi consistevano nel cesso comune in fondo al balcone, una turca con dietro un piccolo
specchio. Ce n’era uno per piano, sulla destra. O forse no, mi viene un dubbio, troppo leccato e smaltato
questo posto. Manca quell’odore là, di povertà proletaria. Ne devono essere cambiate di cose, se un
monolocale di ringhiera è in vendita, dice la pubblicità su Internet, a 149.000 euro.
Qualche casamento più avanti, mi imbatto in un altro cortile a ringhiera, gemello monozigote del
precedente. Questo è il luogo giusto. Conserva le stimmate di allora.
Un signore anziano, vedendo la mia faccia da forestiero interessato attraversare il portone di metallo
violaceo, si rivolge a me con una parlata siciliana, cerca di avviare discorso. Nessuno ha mai tempo di
scambiare due parole con calma, ma forse con me ce la può fare. «Che ci fa in via Arquà? Non c’è un buco
libero da affittare… Qui è tutto proprietà di un solo padrone, magari venderà in blocco e ci cacceranno.
Ma le pare giusto?» No, signore, no che non è giusto. «Ma qui, proprio in via Arquà, come ci è arrivato?
Lo sa che nessuno conosce questa strada?» Be’, io la conosco, amico.
Ha ragione il guardiano del cortile e della strada: che ci faccio qui? Sto provando a immedesimarmi nel
carabiniere-ragazzino che fui. Sono passati quarant’anni e tre mesi da quei momenti. L’alba era lontana, la
sorte di due uomini, io e Bernardino, si sarebbe giocata in cinque secondi.
Mi ricordo. Lui – lo rivedo – intanto stacca la bici come se tirasse su un neonato dalla culla, se la mette
in spalla, ignaro e circospetto prende le scale. Io vado via liscio, con il solito, ben nascosto, fiato in gola
verso via Padova. Cammino agile stando dalla parte dei numeri civici pari, ben visibili anche in periferia.
L’amico e collega detto «Tavola» si muoveva in parallelo dalla parte dispari verso via Leoncavallo.
Qualsiasi direzione avesse preso Pasinelli, appena sbucato fuori dal portone di via Arquà, avrebbe
incontrato o Tavola o me.
Il brigatista con la bici uscì e venne dalla mia parte. Toccava a me.
Recupero la data: 6 dicembre del 1982, un lunedì. Bernardino Pasinelli non poté pedalare quel giorno
per i suoi cinque chilometri mattutini a tutta birra per arrivare puntuale ai cancelli della Breda di viale
Sarca, a Sesto San Giovanni, dove faceva l’operaio.
Alle cinque di mattina, con il ricordo di una domenica d’ansia svanito nella bruma, sapevo cosa ci
facevo in quel luogo e perché: c’era da arrestare un «irregolare» (la definizione di chi era un combattente
a pieno titolo ma non ancora entrato in clandestinità), che era già tra i capi delle Br nella colonna Walter
Alasia.
Lo sapevo allora, e lo so meglio ancora adesso, mentre rivedo quei cortili, che c’era di mezzo qualcosa di
più di un’azione standard: stavo inseguendo gli ideali puri della mia giovinezza. Gli stessi che mi
avevano spinto a diciotto anni a farmi carabiniere con l’obiettivo di mettermi al servizio operativo del
Generale, che per me quegli ideali incarnava in modo formidabile. Ce l’avevo fatta, ero lì dove dovevo
essere, dalla Chiesa, dovunque fosse, mi stava senz’altro guardando.
L’arresto
Ho bisogno di ricalcare quei passi, con lo stesso ritmo di respiro, la stessa apparente noncuranza.
Sapevo che era la cosa giusta da fare. E bisognava farla bene. C’era un’edicola, ricordo, che adesso non
c’è più. Pasinelli uscì dal portone, in direzione via Padova, verso di me.
Aveva percorso pochi metri con la bicicletta. Riesco a urtarlo. Estraggo la pistola: «Bernardino,
carabinieri!». Si mette a urlare: «Brigate Rosse… mi dichiaro prigioniero politico!». Incurante del revolver
con il cane armato puntato a 20 centimetri dal viso, il ciclista brigatista mi prende a cazzotti, mi riempie di
pugni e sputi.
Mentre mi sembra di impugnare ancora tra le mani il mio revolver, ripenso a tutta la mia carriera. Prima
tra i carabinieri e poi nei servizi segreti, fino alla strana vicenda del forzato pensionamento nel luglio del
2021. Mi chiedo: ho tenuto la barra dritta, ho conservato quella scintilla incandescente? Nell’aria fresca e
concitata della periferia di Milano, paragono quel lontano mattino del 1982, pensiero e sentimenti,
muscoli e testa, con le operazioni condotte nei decenni successivi nelle periferie di Baghdad, Beirut,
Tirana, Mogadiscio, Tripoli, Damasco, Kabul e cento altre… Ma sì, non c’è soluzione di continuità tra via
Arquà e la moschea di Umm al-Qura in Iraq. Tutto è tenuto insieme dal senso profondo di una missione
che prende l’intera esistenza.
Mi rimetto a camminare verso via Padova. Cerco di ripetere antiche movenze. L’invisibilità, imparata
dai colleghi più anziani di Milano. Non puoi far parte della Sezione speciale anticrimine del generale
Carlo Alberto dalla Chiesa se non conosci le tecniche investigative.
Usavamo la stessa camminata che i brigatisti adottavano durante quella che loro chiamavano
«inchiesta», cioè lo studio approfondito dell’obiettivo umano da colpire. Registravamo abitudini, bar
aperti o chiusi intorno al covo, al domicilio, edicole nei pressi (allora c’erano ancora, e aprivano alle
cinque), suoni, rumori, militarizzazione della zona, vicini che potevano intralciare o favorire la nostra
azione o la loro reazione, insomma fattibilità e rischi.
Lo ammetto, quel tipo che abitava in cortile di ringhiera mi aveva colpito, pensavo che qualcosa gli
rodesse dentro. Forse per la sua partecipazione all’assassinio del maresciallo Valerio Renzi, comandante
della stazione carabinieri di Lissone, in Brianza, abbattuto da raffiche di mitra e finito a colpi di pistola
sull’auto di servizio. Come tutte le mattine, il sottufficiale era andato nell’ufficio postale a ritirare la
corrispondenza della caserma. Settanta colpi, gli avevano rovesciato addosso. Maledetti assassini.
Grido: «Bernardino, carabinieri!». E quando mi salta addosso, con una furia bestiale, mi trovo davanti a
un bivio. Devo decidere. Un decimo di secondo. Non ho dubbi: non si spara a un uomo che usa solo le
mani e che, anche se ti sta spaccando la faccia, non è armato. Anche se lui è un assassino, io sono un
carabiniere! Rimetto la pistola in fondina, un paio di secondi che mi costano una gragnola di pugni. Sì,
rimetto il revolver in fondina, ovviamente tento di non farmelo strappare, che è la prima cosa di cui
preoccuparsi in questi casi. Lo sbatto giù e gli sono sopra, in quella che nei verbali si chiama colluttazione.
Cioè botte da orbi. Al punto che una passante, vedendo che io sto prevalendo di brutto e non sapendo
nulla del contesto, mi tira una borsettata in faccia. La sciura pensava che volessi rubare la bici a Pasinelli,
del resto era proprio bellissima, da far invidia. In dialetto milanese mi dice: «Sta se dre fa? Fermes», «Cosa
stai facendo, fermati».
Dopodiché arriva l’auto dei colleghi, proprio la classica alfetta degli sbirri così da non sputtanare
quelle che utilizzavamo nei pedinamenti. Lo ammanettiamo, lo carichiamo, e andiamo in caserma.
Altri carabinieri della Sezione speciale anticrimine salgono nel suo appartamentino, una stanza senza
riscaldamento, da vero asceta rivoluzionario. Vi trovano Daniela Rossetti, brigatista latitante, e
l’arrestano. Questo spiega perché gridava tanto e faceva chiasso e si era messo a menarmi, il Bernardino:
prendeva tempo perché la ragazza terrorista capisse e se la svignasse.
Dopo diversi giorni dall’arresto, mi impegno a dialogare con lui in modo assiduo. Aveva ancora la faccia
gonfia: nello scontro fisico non avevo scherzato neppure io, e Pasinelli ne era uscito con la mascella rotta.
Non sono mai esistite, tra i militari dell’Anticrimine, tecniche di persuasione, tantomeno ricattatorie o
violente: il semplice confronto alla pari voleva dire tanto, aveva creato un legame. Sapevo che era iscritto
all’università, che aveva fatto il liceo classico, acquisendo una discreta cultura. Sentivo e capivo il suo
tarlo interiore, così mi adoperai per farlo uscire dall’oscurità. Alla fine ottenni da lui una collaborazione
totale, e credo anche un pentimento e una contrizione profondi, non opportunistici. Bernardino Pasinelli
non si dava pace, parlava sempre del danno che aveva provocato al maresciallo Renzi e alla sua famiglia.
Forse aggredendomi sperava che io gli sparassi. Ma non si pareggiano i conti così.
Ripasso davanti al portone, entro per guardare la ringhiera del secondo piano. Il vegliardo è ancora lì e lo
saluto: ho lasciato l’auto in via Leoncavallo, dovevo ripassare per forza. «Abito qui da più di
quarant’anni» sospira lui. Non oso chiedergli se ricorda qualcosa di un mattino d’inverno e del brigatista
con la bicicletta.
Era il 3 settembre 1982. Eravamo una decina di colleghi, armati con fucili a pompa, mitra e pistole.
Indossavamo giubbotto e casco antiproiettili, tutti. Eravamo partiti nel pomeriggio, senza sapere che
sarebbe stato un giorno maledetto.
Obiettivo: il greto di un fiume che separa l’Italia dalla Svizzera, su un piccolo ponte dal quale, diceva
un’informativa del Sisde, sarebbe dovuto transitare un gruppo di terroristi dei Nar, fra cui Gilberto
Cavallini e Stefano Soderini.
Quella notte eravamo stesi con le armi in pugno, in un silenzio assordante, sotto la luna piena e le
stelle, con il volto e le mani scuriti con il carbone, per non riflettere con il biancore della pelle la luce
sull’acqua corrente, tradendo così la nostra presenza.
Il «silenzio radio obbligatorio», che è una procedura di rito per non creare turbative alle operazioni, fu
interrotto da una brevissima comunicazione del collega rimasto in ufficio: «Ehm… [silenzio]… hanno
ucciso il Generale a Palermo».
Ci crollò il mondo addosso, ma non potevamo abbandonare la missione. Restammo lì, impietriti,
nell’attesa dei terroristi che non arrivarono mai. Cavallini e Soderini, comunque, non la fecero franca:
catturammo quegli assassini a Milano alcuni mesi dopo.
Prima dell’alba eravamo già rientrati in caserma. Notte schifosa, quella, per noi orfani del Generale.
Non so se esistano cambiamenti spirituali che soffiano come venti improvvisi. So che da quella data il
tempo si mise a correre per me. Nei mesi successivi alla morte tremenda di questo mio maestro, divenni
davvero quello che sono.
L’omicidio del Generale è stato per noi carabinieri della Sezione speciale anticrimine un tornante
decisivo. Bisognava scegliere se fare gli orfani per l’eternità o diventare grandi. Era una decisione per
l’esistenza che ciascuno doveva prendere nel proprio silenzio interiore, dove nessun altro ha la chiave per
entrare (è la grande legge dell’«io»); ma, contemporaneamente, questa scelta implicava gli altri, aveva
conseguenze per tutti, poiché eravamo un corpo (e questa è la regola del «noi»). Da soli si perde e ci si
perde; insieme, e non come massa amorfa ma in quanto squadra di personalità complementari, vinciamo.
Non c’è uno standard preconfezionato, una scheda da infilare nella macchina, perché non siamo
macchine. Non siamo stati mai programmati come soldatini automatici. Poi, come scriveva Eugenio
Montale, «l’imprevisto è la sola speranza».
Non esiste l’agguato brigatista perfetto, per fortuna. Neppure quello di via Fani, esercitato con
«geometrica potenza» (copyright Franco Piperno, sodale di Oreste Scalzone) lo fu! Ma questa è un’altra
storia… Del resto io nel 1978 non ero ancora arruolato nei carabinieri. E così neanche l’irruzione in un
covo di terroristi va esattamente come preordinato, anche se tutto è stato studiato al millimetro e al
centesimo di secondo. È la legge della natura e della piccola o grande storia degli uomini, che ho
imparato nel corso degli anni.
La dialettica tra l’io e il noi non è mai definita una volta per tutte. Ogni volta riaccade in modo nuovo,
magari c’è una differenza solo di una virgola, ma quella virgola tolta o aggiunta cambia tutto. Questo vale
per i brigatisti: devono fare i conti con le ambizioni di comando e la pretesa di qualcuno di essere più
puro, meno spontaneista e sentimentale degli altri, e con il sospetto del tradimento o della leggerezza di
un nuovo arrivato. Nel nostro collettivo non funziona così, non c’è guerra per il potere, non vige il soviet
tra i carabinieri, eppure non è detto che sia facile amalgamarsi al meglio: intervengono altri fattori.
Ciascuno è una ricchezza di pari dignità, l’empatia però va riguadagnata ogni giorno, nella chiarezza
delle gerarchie militari.
Esiste uno spazio mai esplorato nell’animo di ciascuno, una parte rischiosa, imprevedibile. È la polarità
da cui scaturiscono energia, coraggio, scintille, luce nei momenti della prova. Ma se uno dei due poli vuol
sottomettere e umiliare l’altro, o si resta bruciati dalla folgore dell’individualismo o ci si affloscia
delegando la responsabilità al gruppo. Nei limiti delle umane possibilità, con una caterva di imperfezioni,
noi tenemmo; le Brigate Rosse e le altre formazioni della galassia armata di sinistra o di destra, si
frantumarono. Non del tutto, come sperimentarono sulla loro pelle Tarantelli, Ruffilli, D’Antona, Biagi,
Petri e purtroppo altre vittime.
Dopo quel 3 settembre, noi ragazzi di dalla Chiesa elaborammo il lutto. Non scappò nessuno.
Restammo uniti. Nessuna esaltazione però, anzi chi aveva atteggiamenti un po’ fuori dalle righe, e
mancava di rispetto ai terroristi o dileggiava le loro dottrine, che conoscevamo come le nostre tasche,
veniva emarginato: o si raddrizzava o cambiava aria. Crescemmo in determinazione, studio,
affiatamento. Umiltà nei più giovani, con totale disponibilità ad assorbire gli insegnamenti dei vecchi
(«vecchi» per modo di dire); pazienza in quelli con maggiore esperienza, sempre disponibili a chiarire,
correggere, rivelare quegli accorgimenti pratici che non si troveranno in nessun manuale, ma che salvano
la vita. Sentivamo come rabdomanti che il lavoro certosino cui ci stavamo dedicando con intensità
assoluta (il citato OCP ) avrebbe dato risultati clamorosi, come già avvenuto in passato.
Carabinieri, aprite!
Risalgo dopo quarant’anni e tre mesi le stesse scale. Al settimo piano mi rivedo di fronte alla porta, io e
Tavola davanti, con gli altri colleghi dell’Anticrimine formiamo una sorta di cintura umana, collocandoci
fuori dall’asse di tiro dei brigatisti.
Equilibrare l’ansia che agita il respiro con il pensiero di essere lì per fare la cosa giusta. Nervi saldi,
niente sangue, bisogna portare la pelle a casa (e in quei due decimi di secondo li vidi davvero, i volti della
fidanzata che volevo sposare, della mia mamma e del mio babbo).
Dobbiamo coglierli di sorpresa, quelli della colonna Walter Alasia, che tanta brava gente hanno
ammazzato. Ma non abbiamo la certezza matematica che dentro ci siano i terroristi. Magari è
l’appartamento sbagliato e ci sono solo probi cittadini che dormono il sonno dei giusti. Dobbiamo
presumere anche questa possibilità. Ce lo siamo detti mentre senza correre attraversavamo la periferia
nord di Milano. La calma e la razionalità devono vincerla sull’istinto.
Ma adesso bisogna farla corta. Busso, due-tre colpi secchi, toc toc. «Carabinieri, aprite!» Avevo appena
compiuto 22 anni, rivivo quei brividi. Non si sente alcuna voce, nessuno che metta i piedi giù dal letto.
Solo il rumore tipico di chi sta mettendo la pallottola in canna a una pistola o a un fucile. Si mette male.
Ci ritiriamo dietro gli stipiti della porta esterna, restando sul pianerottolo. Abbiamo tutti chiaro cosa
sta accadendo oltre l’uscio. Il silenzio taglia a fette le nostre gole. Le pupille si dilatano, il battito del cuore
aumenta precipitosamente, la salivazione, al contrario, è pressoché azzerata. Ci guardiamo in faccia, io e
Tavola adesso siamo certi, il covo è caldo. Non possiamo buttarci dentro sparando sulla base
dell’interpretazione di uno scatto metallico e per il solo desiderio di sparare: non sappiamo chi siano,
quanti siano, ci tocca decidere se irrompere subito o attendere.
D’incanto dall’interno si sente: «Ok, ci arrendiamo». Una voce maschile, impaurita, dice: «Adesso
apriamo». Contemporaneamente a queste parole sul pianerottolo sentiamo il rumore di un colpo di
pistola. Ci disponiamo per reagire al fuoco, credendo che sia un attacco proveniente dall’alloggio. Un
istante più tardi sono investito dall’odore di zolfo… non può aver attraversato l’uscio chiuso, vuol dire
che a sparare è stato qualcuno sul pianerottolo, uno di noi.
Si tratta di decidere in frazioni di secondo: d’accordo, sono terroristi, ci ammazzerebbero volentieri, ma
hanno appena detto «Ci arrendiamo». Hanno il diritto di essere arrestati, e di non subire violenza. Il
proiettile è partito inavvertitamente da chi sta dietro di me. Forse l’emozione, la paura, la voglia di
strafare, di abbreviare il tempo dell’incertezza. Tutto quello che noi eravamo addestrati a tenere sotto
controllo prende il sopravvento in un singolo, e tocca alla squadra non lasciarsene contagiare.
Indico lo stipite dove si è infilato il piombo, il segno di bruciatura sul mio giubbotto antiproiettile.
Qualcuno da dentro gira la chiave. Mentre la porta si sta aprendo, il collega alla mia destra, contro il
mio invito alla calma, tira una tremenda mazzata sull’ingresso, per sveltire le cose. Risultato: confusione, i
cardini si inceppano, l’accesso è bloccato. Inesperienza, foga, troppo zelo. Al debriefing (la riunione per
esaminare criticamente a posteriori le azioni di tutti e di ciascuno) ci sarà materiale su cui lavorare. Se la
scampiamo, però.
Ma ecco, siamo finalmente dentro, e ci troviamo davanti, proprio davanti quella faccia lì. Quella della
fotografia che tutti i giorni, mattino, pomeriggio e sera, guardavamo appesa in ufficio, alla Sezione
speciale anticrimine. Si tratta di Daniele Bonato, un terrorista dalla pistola molto facile, che aveva già
ucciso.
«Tu sei Bonato?»
«Sì. Mi dichiaro prigioniero politico» dice.
Entro in una stanza dove trovo una donna, non la riconosco, ma riconosco invece il tritolo, in gran
quantità, posato sopra un comò, e due fucili d’assalto AK-47 (più noti come kalashnikov), e ancora 14
pistole, 5 mitra, bombe. La ragazza infila la mano all’interno di un cassetto, io le sono addosso col mitra, il
Beretta M12 con sicura premuta e otturatore armato glielo punto alla gola: «Non ti conviene fare quello
che stai facendo». Aveva già impugnato un’arma, gliela faccio mollare. Dice: «Ok, mi dichiaro prigioniera
politica» e alza le mani. Scopriremo essere l’infermiera Ettorina Zaccheo, caposala al Policlinico di
Milano, responsabile della Brigata ospedalieri. Era lei che aveva fornito informazioni ai compagni della
Walter Alasia per uccidere, il 17 febbraio 1981, il direttore sanitario Luigi Marangoni, con il quale fingeva
di collaborare.
Conduco Ettorina all’angolo della stanza, metto in sicurezza l’arma che avevo in mano, le applico ai
polsi una fascetta da idraulico, quella che si usa per le grondaie, e la ammanetto. La perquisisco, in
maniera molto delicata essendo una donna, per controllare se ha armi addosso: ma il buon Dio mi ha
aiutato anche in questo caso, e sono qui a raccontarlo.
Non faccio in tempo a tirare un sospiro di sollievo che da fuori rimbombano colpi di mitra. Mi sporgo
dalla finestra e vedo giacere nel cortile un corpo inanimato. Maurizio Biscaro si chiamava, non era
ricercato, di lui non sapevamo neppure l’esistenza. Non ci eravamo neanche accorti che fosse lì. Si era
appeso alla ringhiera, dondolando per calarsi forse nel balcone del piano di sotto. I carabinieri in divisa
avevano visto questo povero acrobata che tentava la fuga come nei film e avevano esploso un paio di
colpi in aria per dissuaderlo. Gli era mancato l’appiglio ed era precipitato a terra. Aveva appena
venticinque anni, aveva studiato al famoso liceo Berchet di Milano.
Dentro il covo
Quel 13 novembre 1982 rappresentò un clamoroso successo, una svolta fatale per l’unica branca delle
Brigate Rosse ancora intatta, la milanese e operaista colonna Walter Alasia. E non soltanto per la cattura
di due dei tre leader del gruppo (il terzo era Bernardino Pasinelli, il ciclista di via Arquà) ma soprattutto
per l’importanza del materiale documentale e per l’arsenale ritrovato nel covo. Successivamente, nel
corso delle indagini, scoprimmo che quelle armi erano già state impiegate per diversi delitti e sarebbero
servite per una serie di rapine di autofinanziamento già progettate dall’organizzazione terroristica.
Restammo chiusi per settimane, 24 ore su 24, 7 giorni su 7, a spulciare, a trascrivere, a dialogare specie
con Bonato, che tra i capi dell’Alasia era quello militarmente più preparato. «L’Unità» del 7 dicembre
notò che da quella nostra azione era partita una «enorme inchiesta». Ma la morte di quel ragazzo,
Maurizio Biscaro, mi pone degli interrogativi. Perché ci è sfuggito? Forse se avessimo sfondato l’uscio
senza aspettare la resa…
I componenti della colonna Walter Alasia avevano ucciso il vice capo delle guardie di custodia di San
Vittore Francesco di Cataldo (20 aprile 1978), il direttore del personale della Ercole Marelli di Sesto San
Giovanni Renato Briano (12 novembre 1980), il direttore tecnico della Falck Manfredo Mazzanti (29
novembre 1980) e il direttore sanitario del Policlinico di Milano Luigi Marangoni (17 febbraio 1981). Con
questi e altri efferati delitti, uccidendo e gambizzando dirigenti di fabbrica, appartenenti alle forze
dell’ordine e giornalisti, l’Alasia aspirava, a differenza del nucleo storico originario delle Brigate Rosse,
quello di Curcio e Moretti, a far proseliti e conquistare solidarietà tra operai e carcerati.
Trovammo molti documenti con indizi determinanti per le indagini. Arrestammo tutti, e di lì inizia
un’altra storia. La si potrebbe riassumere in un numero: 123. Sono i membri della colonna Walter Alasia
portati a processo.
Subito dopo aver messo in sicurezza quella santabarbara, con armi ed esplosivo in grado di
fronteggiare abbondantemente il fuoco che potevamo sviluppare noi, ci accertammo che nel covo non
fossero state predisposte trappole esplosive per farci saltare per aria nel corso della perquisizione. Quindi
cominciò la fase delle «carte».
La prima pubblicazione che cercammo e trovammo in via Terenghi in quel novembre 1982 si chiamava
Cub, sigla che sta per Comitati Unitari di Base, un testo spesso presente nei covi delle Br. Sequestrammo e
repertammo l’intera attività documentale elaborata dalla «direzione strategica» della colonna Alasia.
Recuperammo un’ingente quantità di fogli dattiloscritti e manoscritti: innumerevoli documenti con
obiettivi da colpire, elenchi di appartenenti alle forze di polizia, numeri di targhe e modelli di autoveicoli
sospettati di essere in uso alla «controrivoluzione», pile di quaderni con elaborati, resoconti, riflessioni
rivoluzionarie, rivendicazioni di attentati, volantini a firma Brigate Rosse con stella a cinque punte,
rapporti di sopralluoghi, ricognizioni e inchieste su vittime passate, presenti e future. Su uno dei
quaderni era segnato il nome del «Maestro». Era un collega eccezionale, lo chiamavamo così perché
insegnava – ma è ancora in gambissima – a noi giovani a redigere gli atti di polizia giudiziaria. In
quell’appunto a lui dedicato si diceva che usciva di casa in borghese, ma era un carabiniere di dalla
Chiesa: avevano ragione!
Guerra di specchi
Trovammo anche un manuale aggiornato, con vere e proprie regole e istruzioni ad personam contro i
«servi dello Stato repressivo», che eravamo noi. Veniva fatto leggere ai militanti regolari e irregolari per
individuare e neutralizzare gli «agenti controrivoluzionari». Leggerlo fu molto istruttivo. Ne riporto
alcuni esempi che mi sono rimasti stampati nella mente.
Come individuare un’auto del nemico (cioè le nostre)? Di solito sono utilitarie senza segni particolari,
nessuna decalcomania; chi le parcheggia non le piazza mai in seconda fila o in divieto di sosta, bollo e
assicurazione sono ben esposti. Tutto vero. Soprattutto bisogna osservare il comportamento dei due
giovani a bordo: se parlano tra loro oppure no. Se tacciono, significa che stanno gironzolando da più di
un’ora, che è il limite fisiologico dopo il quale si smettono le chiacchiere finte e i convenevoli, e si sta zitti.
Il vertice della colonna Alasia, per verificare se qualcuno dell’organizzazione fosse seguito da noi,
inviava per le strade di Milano e dell’hinterland staffette di brigatisti irregolari che si muovevano,
seguendo un tragitto concordato, utilizzando tram, metro, corriere, auto private o a piedi.
Contemporaneamente altri terroristi si appostavano lungo il percorso stabilito con l’incarico di verificare
e rilevare l’eventuale presenza di pedinatori, trascrivendo o fotografando numeri di targa e volti. Questa
verifica di sicurezza, definita dalle Br «coda», si protraeva per alcuni giorni della settimana. Iniziava
verso le sette del mattino e si concludeva alla sera tardi, ma mai la domenica. Diverse volte nel corso
dell’OCP ci accorgevamo, quasi subito, che la persona da noi attenzionata ci stava portando a spasso, e a
quel punto interrompevamo il pedinamento. Ognuno di noi conosceva molto bene le regole da seguire
prima di rientrare in ufficio. Occorreva gironzolare per diversi chilometri in auto, moto o a piedi, per
escludere di essere pedinati dai terroristi. Avuta questa certezza, Titti, il capo dei pedinatori, ordinava il
rientro alla «base».
Insomma, le Br dimostravano di conoscere perfettamente le nostre tecniche di pedinamento, e per
contrastarle usavano a specchio i nostri accorgimenti, elaborando minuziose regole di comportamento. Se
tu, compagno comunista, temi di essere pedinato, girati rapido e vedi se qualcuno non resiste e ti guarda
negli occhi; se sei in tram e vedi qualcuno che non ti quadra perché è troppo anonimo, non scendere alla
fermata prevista, fai due o tre giri da capolinea a capolinea.
In realtà avevamo già studiato tutte le contromosse, e pur senza avere ancora sequestrato le loro
dispense avevamo messo a fuoco le consuetudini dei guerriglieri per garantirsi una serena vita da
clandestini. A nostra volta perciò agivamo specularmente. Qui (e altrove) ho scritto «guerriglieri» perché
servono definizioni alternative a «terrorista»: se non fossimo entrati nella loro mente di «rivoluzionari»,
se non li avessimo valutati come «combattenti» che ci credevano sul serio, non avremmo condotto tanti al
pentimento o alla dissociazione. Le tecniche investigative e di pedinamento sarebbero state inutili, senza
la conoscenza di tutta la cultura del «nemico». Perciò leggevamo con scrupolo i volantini, studiavamo
giorno e notte le loro rivendicazioni, ci esercitavamo a ripetere le parole del loro vocabolario,
immedesimandoci, acquisendo la loro mentalità, assimilando persino la loro postura tipica.
Capitolo 3
Sbirri e boia
Dopo un po’ di tempo nella Sezione speciale anticrimine, io e Tavola ci eravamo guadagnati la fiducia
«operativa» dei colleghi più anziani, condizione indispensabile per appartenere a pieno titolo al reparto,
oltre che motivo di orgoglio.
Tutti lì avevano un nome di battaglia: il capo era Zerotrenta, poi c’erano Titti, Kaimano, Maestro,
Bortolon, Polverina, Cavallo Pazzo, Chirico, Dannato, Visiera, Cimabue, Riki, Pluto, Zagor (e altri che non
ricordo). Come si sarà capito, anche «Tavola» è un nome di battaglia.
Ci sono agenti che ottengono degli pseudonimi che incutono rispetto, se non addirittura paura. E
invece a me toccò… «Tortellino». Non il massimo della bellicosità, me ne rendo conto.
Spesso eravamo io e Tavola in prima fila durante le irruzioni. Bussavamo dicendo: «Carabinieri,
aprite!», e in risposta non ci aspettavamo certo un «Prego, entrate pure, però ricordatevi di togliere le
scarpe e mettere le pantofole» bensì una raffica di mitra. Eravamo i più giovani, non avevamo mogli e
figli, era ovvio che dovessimo esporci più degli altri.
Dato che dovevamo frequentare ambienti operai, ci addestrammo a usare la cadenza della gente del
Sud anche quando parlavamo tra noi, camuffando l’accento e pure la camminata: non c’erano immigrati
romagnoli alla Breda o alla Pirelli, e neppure bergamaschi delle valli (quelli tutt’al più facevano i
muratori o i piastrellisti). Dovevamo anche infilare degli errori di sintassi nel discorrere. Per esempio, mai
dire: «Comandi», intercalare tipico dei carabinieri, e mai usare tra colleghi il lei, ma solo il tu, per non
palesare alcuna gerarchia.
Ai controlli sull’autobus esibivamo sempre il biglietto timbrato, senza mai tirar fuori la tessera di
riconoscimento dell’Arma che consente libero accesso ai mezzi e ai luoghi pubblici. Per non sbagliarmi,
evitavo di portarmi i documenti, altrimenti in caso di sequestro sarei stato individuato subito come
carabiniere. È un po’ lo stesso motivo per cui a ciascuno di noi era stato affidato un nome di battaglia: la
goliardia di certo non c’entrava niente.
Ancora: se passavamo da un casello autostradale, durante un pedinamento con l’auto di servizio,
evitavamo di compilare i moduli per i rimborsi dovuti alle forze dell’ordine: eravamo consapevoli che fra
i casellanti potevano esserci fiancheggiatori. Le nostre auto, anonime utilitarie, esibivano rigorosamente la
targa della provincia in cui svolgevamo l’operazione.
Posteggiavamo per giorni nei dintorni del presunto covo, un po’ qui, un po’ là, così da diventare una
presenza consueta, annotavamo nuovi arrivi, ampliavamo l’album Panini di regolari e irregolari,
affittavamo un appartamento nei pressi, fotografavamo il loro andirivieni. Che era sempre
prudentissimo, ma neanche i fantasmi sono invisibili.
D’estate, sarebbe stato inverosimile che ci vestissimo con indumenti pesanti dovendo occultare le armi.
Il nostro escamotage era quello di tenere una pistola che occupasse poco spazio e che fosse maneggevole.
Usavamo perciò la «bodyguard», ovvero una Smith & Wesson due pollici, che stava nella tasca dei jeans.
Bisognava studiare le varie ed eventuali, lasciare poco o nulla all’imprevisto funesto. Rientrati in
ufficio compilavamo il rapporto che descriveva minuziosamente il pedinamento appena concluso, e lo
firmavamo solo e soltanto con il nome di battaglia.
Dovevamo tutelare la nostra invisibilità. Peccato che la controparte avesse escogitato forme di
investigazione altrettanto raffinate.
Metodi, valori
Per evitare spiacevoli incontri con gli agenti della controrivoluzione, anche i terroristi si impegnavano a
essere metodici.
Uscivano presto la mattina e rientravano alla sera, senza tardare, utilizzando solo mezzi pubblici; non
frequentavano le zone ad alto tasso criminale, e dunque a rischio di posti di blocco; evitavano come ragni
velenosi le piazze dove all’epoca furoreggiavano le bische clandestine, perché soggette a retate
sistematiche.
In ogni spostamento coniugavano grande capacità di mimetizzazione e circospezione. Per un
appuntamento alle 13 partivano da casa alle 8, facevano due ore a piedi, poi salivano su un tram. E che si
fa se sale un sospetto, uno che potrebbe essere un «servo dello Stato imperialista delle multinazionali»? Il
manuale del latitante brigatista dettava regole precise: osservando la postura dello sbirro in incognito era
impossibile sbagliare, perché non è solo il volto a identificarti, ma anche il modo di deambulare, che è
preciso quasi come l’impronta digitale.
Secondo lo stesso principio, anche noi dell’Anticrimine riuscivamo a pedinare per giorni interi dei
sospetti, in giro per l’Italia, senza vederli in volto ma riconoscendoli dalla camminata. Eravamo diventati
talmente bravi in questa vera e propria arte che il linguaggio del corpo ci rivelava persino dove tenevano
l’arma.
Se gli sguardi si incrociavano, cominciava un gioco psicologico per stabilire chi avesse più coraggio. In
quel caso, era l’agente ad abbassare il capo e scendere alla prima fermata. A quel punto il brigatista
poteva stare tranquillo: l’agente in borghese non si sarebbe mai più fatto vedere. Bruciato.
Altri elementi essenziali grazie ai quali il brigatista valutava la potenziale minaccia: la mimica facciale,
il modo di vestire, il taglio dei capelli e la parlata.
E anche qui la simmetria era paradossale. In sostanza agivano esattamente come noi.
Per individuarci e mappare la presenza degli agenti controrivoluzionari, si erano infiltrati in luoghi che
a un esame superficiale nessuno considererebbe mai strategici. I caselli autostradali, tanto per cominciare,
come ho già detto. I fiancheggiatori si aggiudicavano piccoli contratti per monitorare i passaggi di
autorità e auto civetta.
Ma l’arma spionistica di maggior successo fu farsi assumere tra gli addetti al censimento. Così
potevano entrare in qualsiasi casa e chiedere di tutto. Nessuno si faceva remore a rispondere. La gente si
fida: in fin dei conti, sono i bravi ragazzi dello Stato. Capimmo questo espediente quando, dopo
l’irruzione nel covo di via Terenghi, trovammo documenti che attestavano la modalità con cui la colonna
Walter Alasia aveva identificato uno dei nostri: un vicino, familiarizzando con l’impiegato dotato di
questionario, aveva detto che «Sì, quello è sempre in borghese, ma è un carabiniere». Da quel momento
probabilmente lo pedinarono, si domandarono perché non mettesse mai la divisa e il nome non
comparisse mai nei verbali. Così dedussero che doveva far parte del gruppo di dalla Chiesa, e che quelli
come lui conducevano una vita e avevano metodi paralleli ai loro.
Nella Sezione speciale rispettavamo una disciplina ferrea e ci comportavamo in modo «criptico» anche
nella vita privata. Che poi più che privata per forza di cose era privatissima, direi quasi da clandestini.
Mai lasciarsi sfuggire quale lavoro facevamo e dove abitavamo – mai, né all’università, né al ristorante e
neppure in discoteca.
Ti capitava di incontrare un conoscente o un parente, magari per strada o in un locale pubblico, e
iniziava a chiederti che ci facevi a Milano, dove lavoravi e se abitavi da quelle parti? Be’, dovevi sempre
avere pronto un raccontino credibile.
Qualcuno ti cercava con il nome anagrafico alla sede dei carabinieri di via Moscova? Il centralino
rispondeva: questo nome è sconosciuto.
La disciplina e il comportamento criptico erano le colonne portanti anche dei rapporti tra noi della
Sezione anticrimine: con i colleghi la riservatezza doveva essere assoluta, a costo di passare per primi
della classe maleducati. Mai al bar o in mensa con loro nel tempo libero. Persino a calcio giocavamo tra
noi e i magistrati.
Ordine perentorio poi era quello di essere del tutto impeccabili al volante o in sella. Automobilisti e
biker modello. Non passare con il rosso e neppure con il giallo, non invadere le corsie riservate (per non
destare sospetti in casuali e incognite presenze brigatiste), assicurazioni e bollo in regola, non
parcheggiare in divieto o fuori dalle righe, figuriamoci in seconda fila o sul marciapiede. Tutte cose
normali, ma quando hai vent’anni questo civismo intransigente faceva scappare le ragazze… Quanto al
posteggio sotto casa, neppure a pensarci, andava evitato nella maniera più assoluta. Bisognava lasciare il
veicolo almeno a mezzo chilometro dal portone del condominio.
Anche fuori dall’ambiente di lavoro, se proprio bisognava accettare inviti a pranzo in case private, non
si doveva mai usare il gergo da sbirri, e anzi era indispensabile camuffare sotto ogni aspetto la propria
vita, per tutelare se stessi e gli altri. Una chiacchierata ingenua con l’interlocutore sbagliato poteva
trasformarsi in un problema serio per la sicurezza del nostro ospite.
A dire il vero un’eccezione c’era: a un amico fidato potevamo chiedere di reggere il sacco e soltanto a
lui potevamo dare indicazioni sul nostro vero domicilio. Gli si spiegava la necessità della riservatezza, e
gli si chiedeva: «Posso dire che abito qui, a casa tua?». E mettevamo il nostro nome e cognome accanto al
suo nella campanelliera, stornando i sospetti di chi ci aveva puntato gli occhi addosso.
Adesso sembra impossibile, ma i brigatisti nuotavano in un mare, non in una piccola pozzanghera.
Come squali, si muovevano nel loro ambiente, senza temere di essere fiocinati.
Nel corso di investigazioni complesse avevamo ottenuto diversi mandati di cattura dall’Autorità
giudiziaria nei confronti di militanti delle Br colonna Walter Alasia.
All’alba di un mattino del 1983 arrestammo i presunti terroristi. Uno di loro, in particolare, lo
rintracciammo tramite accertamenti scaturiti a seguito di dichiarazioni di pentiti. Lo catturammo nella
sua abitazione, condivisa con la madre gravemente malata. Avevamo verificato in modo scrupoloso
affermazioni, indicazioni e particolari vari. Sapevamo che era membro del CAI (Club Alpino Italiano);
aveva prestato servizio di leva in un comando militare ben preciso del nord Italia, occupando una branda
al secondo piano della caserma; sua madre si sottoponeva alle terapie per un tumore; possedeva un’auto
Fiat; era ragioniere, nonché fumatore accanito di Marlboro. Gli elementi investigativi e l’identificazione
fotografica risultavano in tutto e per tutto sovrapponibili alla vita del giovane uomo che stavamo
andando ad arrestare.
Dopo lo portammo in caserma, e subito proclamò la propria innocenza. Non voleva mangiare né bere,
piangeva ininterrottamente. Io e Tavola tentammo di convincerlo a rivedere le proprie affermazioni, gli
suggerimmo di pentirsi e di ammettere le proprie responsabilità, anche perché non risultava che avesse
commesso delitti di sangue. Niente, non indietreggiava di un passo. «Sono innocente… state
sbagliando… non sono un brigatista.» Continuava a piangere disperato.
Predisponemmo rapidamente un confronto tra il ragioniere e i due pentiti che ci avevano messo sulle
sue tracce. Attimi di tensione. Il primo lo guardò negli occhi e confermò l’accusa.
Glielo disse proprio in faccia: «Sei tu!».
«Lei si sta sbagliando» rispose quello, proprio come se stesse parlando a un cliente maleducato allo
sportello della banca.
Toccava all’altro pentito. Più discreto, si rivolse a noi: «È proprio lui».
Al termine di quel confronto, sconsolato, il ragioniere ci comunicò che da lì a pochi giorni avrebbe
dovuto sposarsi con una collega. Allora ci precipitammo a casa della futura sposa e, quando le
chiedemmo un po’ di vestiti e le sigarette del fidanzato, ricevemmo questa risposta: «Il mio fidanzato è
innocente, e non ha mai fumato…».
Usciti dall’abitazione, io e Tavola avevamo più domande che certezze. A entrambi la donna era
apparsa sincera, i suoi occhi non avevano lasciato trapelare né incertezza né dubbio. Le sue parole e
soprattutto il suo tono ci indussero a esaminare ancora più a fondo la posizione dell’accusato.
Decidemmo di ritornare in banca (quella mattina la perquisizione era stata estesa anche al posto di
lavoro). A questo punto cominciammo a sospettare che i pentiti si fossero confusi nell’identificazione.
Forse davvero non era lui. Chiedemmo informazioni e notizie a chi condivideva la stanza con l’arrestato.
Alla nostra banale domanda: «Che sigarette fuma?», il vicino di scrivania rispose: «Il mio collega non ha
mai fumato».
Rientrammo in caserma e offrimmo al presunto brigatista una Marlboro. Lui affermò di essere
contrario all’uso di tabacco.
Lo liberammo, e dopo pochi giorni si sposò.
Nello stesso pomeriggio identificammo il vero brigatista, che aveva svolto il servizio obbligatorio di
leva nello stesso periodo e nella stessa caserma frequentata dal ragioniere innocente ed era come lui
iscritto al CAI, e infine assomigliava in modo notevole al bancario. Con la sola differenza che fumava
come un turco.
Non ho raccontato questa storia per elogiare i nostri scrupoli, ma solo allo scopo di mostrare quanto sia
facile cadere nell’equivoco cedendo alla tentazione di sbattere in cella e in prima pagina chi a un primo
esame sembra combaciare perfettamente con l’identikit del colpevole. Penso a quanti sono finiti in carcere
solo sulla base di indizi non adeguatamente verificati, quando sarebbero stati sufficienti onestà e
professionalità da parte degli investigatori per evitare ferite non rimarginabili all’inquisito e ai familiari.
La prima volta
Il mio primo pedinamento di un brigatista è stato nel settembre-ottobre del 1981. Avevamo individuato
gli spostamenti di Vittorio Alfieri, un latitante di spicco, uno dei leader della colonna Walter Alasia: cosa
stava organizzando? Mappammo i suoi contatti tenendolo per un invisibile guinzaglio. Il fatto di essere
omonimo del drammaturgo astigiano del Settecento, di cui tutti ricordiamo il «volli, e volli sempre, e
fortissimamente volli», forse lo aveva condannato a un’ambizione smisurata.
Alfieri saliva il mattino presto sulla corriera Milano-Torino, usata prevalentemente da operai. Si
piazzava in fondo, dove c’era una specie di lungo schienale multiposto, proprio al centro, per non avere
sedili a ostacolargli la vista. Osservava tutti quelli che salivano. Teneva le mani in grembo, e sotto la
pistola, al caldo.
Lo seguivamo da un bel po’, ma prima di catturarlo bisognava individuare la sua rete tra Lombardia e
Piemonte. Chi vedeva, cosa faceva. Ciascuno di noi doveva fare un solo «viaggio» in sua presenza. Quella
volta scese nei pressi di Settimo Torinese, entrò in uno dei palazzoni infiniti dove alloggiavano molti
operai.
Il mio contributo fu minimo, come si conveniva ai pivelli. Lo vidi in volto, cosa che era inevitabile per
tutti, dato che se ne stava assiso in trono a dominare la scena. Però non lo fissai negli occhi, neanche per
mezzo secondo. Dopo che fu entrato nel condominio-alveare, gli altri colleghi furono d’accordo a spedire
me in esplorazione. Solo io avevo dato parere contrario.
Uno con il mio aspetto non avrebbe destato sospetti, dicevano. Ero uno studente universitario, un
ragazzo coi capelli lunghi e «il Manifesto» in tasca. Del resto già mi mandavano a svolgere accertamenti al
pensionato universitario di viale Romagna a Milano, proprio con quella stessa tenuta e postura da
militante extraparlamentare. Ancora oggi, conservo l’immagine incorniciata.
Mi affacciai al bugigattolo del portiere. Gli dissi che avevo bisogno di un idraulico, un’urgenza –
caldaia rotta, casa allagata – lo avevo visto passare di lì un minuto prima…
Lui mi guardò con l’occhietto complice. Con parlata abruzzese mi disse: «Niente niente che tu facisse
parte della polizia travestita».
Se mi aveva beccato un portinaio, e subito, dovevo ancora farne di strada per perdere la postura e il
modo di fare degli sbirri.
«Carabiniere dell’Antidroga» mentii, seppur di poco. «E tu, sei stato carabiniere o poliziotto?»
Era stato agente della stradale. Mi disse a che piano era salito «l’idraulico». E a quale appartamento lo
avremmo potuto trovare.
Vittorio Alfieri fu catturato da noi della Sezione speciale anticrimine in quell’autunno 1981, a Settimo
Torinese. Quel giorno sulla corriera salirono i colleghi anziani, io rimasi con Tavola in coda al pullman, a
bordo di un’auto a copertura dell’operazione.
In caserma Alfieri tacque. Non gli torcemmo un capello, ovviamente. Lo specifico perché altrove non
funzionava così. Dopo l’arresto fu tradotto nel carcere di massima sicurezza di Cuneo. Per due anni fece il
duro, l’irriducibile, con funzioni di boia. Lo riconobbe lui stesso, dopo che nel 1983 si dissociò dalla lotta
armata, una condizione che implicava la confessione dei propri delitti ma senza coinvolgere altri
compagni. Infine parlò del più ignobile dei crimini, che mi auguro lo tormenterà ogni notte della sua vita.
L’esecuzione
Il 10 dicembre del 1981 Vittorio Alfieri, aiutato da Giorgio Semeria, anche lui dell’Alasia, aveva
strangolato nel bagno attiguo al refettorio della prigione un ragazzo grande e grosso di vent’anni, Giorgio
Soldati, in esecuzione della sentenza emessa nei confronti del «verme» che si era consegnato ai brigatisti
per essere giustiziato, versando «lacrime di coccodrillo». Le parole tra virgolette sono testuali.
Il comunismo si ripete sempre uguale. Come alla Lubjanka di Mosca, così nel super carcere di Cuneo;
come Stalin e Berija, così Alfieri e Semeria. Mi rendo conto che il paragone ci fa precipitare dall’Himalaya
alla Montagnetta di San Siro, ma la malvagità in nome dell’ideologia è identica: i capi e capetti della
rivoluzione uccidono e umiliano con gusto i comunisti, piuttosto che gli oppositori borghesi. Verme,
coccodrillo infame, merda: così viene definito Giorgio nel dispositivo di condanna con le relative
motivazioni paranoiche, letto a Radio Popolare 18 giorni dopo l’omicidio.
Si sentono inferiori moralmente a chi ha dato il corpo per un sacrificio umano ingiusto. Devono perciò
sfregiarne la memoria, vilipenderlo, tirargli calci, senza nemmeno la pietà che si deve anche a un cane
morto.
La storia è molto istruttiva. Soldati si era messo nelle mani dei compagni brigatisti per essere giudicato
e punito da coloro che erano il suo mito, e nel cui novero ambiva a entrare. Confessò per iscritto di aver
cantato, gli dispiaceva tanto, ma lo aveva fatto perché costretto, e aveva rivelato nomi e indirizzi, causato
arresti e portato alla demolizione di basi. Nessuna di queste informazioni sarebbe risultata a verbale: lui
aveva ritrattato subito, non c’era nulla da fargli firmare. La faccenda doveva restare nella zona grigia, era
evidente. Il papà, Mario Soldati, disse di aver visto in Questura il volto del figlio sfigurato dalle percosse,
«irriconoscibile».
Venne recluso nel super carcere di Cuneo. Perché proprio lì? C’erano già stati altri delitti e poco tempo
prima vi era stato aggredito Mario Moretti, sospettato da compagni di essere un infiltrato. Era la gabbia
delle tigri vendicatrici! Soldati non fu protetto dallo Stato italiano, che lo estradò nelle mani infami delle
Brigate Rosse. Fu messo nell’ala del carcere cuneese dominata dalle cinque punte.
Era stato arrestato fuori dalla stazione centrale di Milano, apparteneva ai Colp, dopo essere transitato da
Prima Linea: un suo complice aveva ucciso pochi minuti prima – era il 13 novembre 1981 – l’agente della
Digos Eleno Aniello Viscardi, 25 anni, che aveva chiesto i documenti a due tizi che non gli quadravano.
Aveva ragione. I due estrassero le armi, lo liquidarono senza pietà.
Furono presi subito. Poi si appurò che Soldati, nome di battaglia «Tommy», non aveva sparato. Questo
di sicuro non lo assolve. Non dimentico che era un assassino. Ma lo Stato non fa così, non deroga mai
dall’habeas corpus, neanche coi terroristi che hanno ammazzato un collega. Sarò noioso, ma è la lezione che
mi hanno insegnato i vecchi della Sezione speciale anticrimine di Milano. Con la conseguente prassi di
rispetto e dialogo da pari a pari con chi combatte per ideali sbagliati: molti si sono alla fine arresi alla loro
coscienza risvegliata anche grazie a noi, ragazzi come loro.
Tanti terroristi credevano davvero alle loro spaventose allucinazioni. Maltrattarli, oltre a essere un
reato, sarebbe stato persino controproducente. Nel caso di Soldati si è palesata una differenza di metodi
radicale. Di certo, la descrizione che Alfieri rende al processo sull’omicidio, nel novembre del 1986, dello
sventurato compagno «Tommy» mentre si affida docile a lui, suo boia, è impressionante. A Giorgio viene
comunicata la pena di morte, lui ritiene giusta la sentenza, domanda ai carnefici di non fargli troppo male
e di agire in fretta.
Non si contorce, non domanda salvezza mentre Vittorio Alfieri gli stringe il collo.
Capitolo 4
Sirio: la canna della mia pistola sulla nuca
Canna-nuca-Segio. Ricordavo di aver letto sulla «Repubblica», parecchi anni fa, il racconto che Sergio Segio
fece della propria cattura. Quelle tre parole mi erano rimaste in testa. Le verso nel motore di ricerca
Google. Mi compiaccio della mia buona memoria: «canna nuca Segio» è il codice giusto per aprire un
mondo rimasto intatto, onorato, incensato su pagine e pagine di Google.
Sergio Segio, conosciuto nella galassia terrorista come «Sirio». Lui sostiene di aver ereditato il nome di
battaglia dal padre partigiano: sarà, ma per me resta un tantino da megalomane.
Il fondatore di Prima Linea comincia con quell’episodio la propria autobiografia, Una vita in Prima
Linea (Rizzoli, 2006). 1 Alcuni giornalisti ne sono ipnotizzati, si fanno specchi devoti dell’epica del
terrorista, tutti i loro articoli cominciano come il libro, scegliendo di mettere in primo piano il film di quei
momenti. Sirio e la pistola, la sua nuca. Ne sono abbagliati, in fondo Sirio è l’astro più luminoso del
firmamento.
Contano solo i sentimenti del povero assassino, nient’altro. Azzerati i pensieri che come frecce proprio
in quegli stessi minuti trapanavano il cuore di vedove e figli, di mariti e padri che Segio aveva consegnato
di sua mano alla tomba. Basterà qui fare tre nomi: il pubblico ministero Emilio Alessandrini, il giudice
istruttore Guido Galli e il vice comandante delle guardie di San Vittore, brigadiere Francesco Rucci. Nel
2005 Sirio raccontò l’esecuzione di quest’ultimo. Esecuzione decisa da lui, eseguita insieme a tre
compagni, e rivendicata da un «Nucleo comunista» in cui aveva raccolto frammenti di Prima Linea: «In
settembre abbiamo colpito…». La fotografia ne mostra il corpo, coperto da un lenzuolo bianco, fuori dalla
sua utilitaria con la portiera aperta.
Scattare al rosso
Milano, 15 gennaio 1983. Sergio Segio è latitante e super ricercato dalle forze di polizia italiane. Viene
considerato in quel momento il più attivo e pericoloso terrorista rosso in circolazione. Proviene da Lotta
Continua, quindi ha fondato Prima Linea. Ha ideato e partecipato in prima persona a diversi omicidi, in
quei giorni sta preparando l’assalto al carcere di massima sicurezza di Fossombrone per liberare dei
compagni.
Ha bisogno di perfezionare un contatto operativo con le Brigate Rosse per verificarne le vere
intenzioni. Non vuole più essere ingannato all’ultima ora, come era accaduto quando aveva organizzato e
diretto l’azione militare per far evadere la sua donna, Susanna Ronconi, dalla prigione femminile di
Rovigo.
Quella fu un’altra operazione «militare» preparata nei minimi particolari con l’uso di bombe, fucili,
pistole e blocchi stradali. Il gruppo di fuoco era composto da otto guerriglieri: lo stesso Segio, Diego
Forastieri, Gianluca Frassinetti, Giulia Borelli, Rosario Schettini, Lucio Di Giacomo, Pasquale Avilio e
Massimo Carfora. Oltre a Susanna Ronconi furono liberate tre terroriste: Federica Meroni, Marina Premoli
e Loredana Biancamano. Un innocente pensionato, Angelo Furlan, rimase ucciso (danno collaterale, che
importa?) e sette persone furono ferite. Sul luogo dell’attentato vennero repertati dagli investigatori circa
70 bossoli, 70 colpi esplosi tra fucili, mitra e pistole. L’assalto al carcere venne rivendicato da due gruppi
terroristici, il Nucleo Comunista e i Colp.
In quel giorno d’inverno del 1983, alle ore 13:15, Sirio se ne stava al fianco di una irregolare delle Brigate
Rosse, Daniela Figini, studentessa di Giurisprudenza all’università di Milano, incensurata. Aspettavano il
verde per attraversare a piedi viale Monza, tra via dei Transiti e via Sauli, 600 metri a nord di piazzale
Loreto. Non si erano accorti di avere alle spalle due professionisti invisibili della Sezione speciale
anticrimine.
Nel 2006, Sirio rievocò così l’accaduto: «Vedo con la coda dell’occhio la canna lunga di un revolver
appoggiarsi sulla mia nuca». Dietro quella canna c’ero io, carabiniere di 22 anni, e al mio fianco il collega
Tavola. A parte la ridicola spacconata di un uomo che riesce a vedere la propria nuca – ma sì, certo, è un
supereroe, ha poteri di cui in natura sono dotati solo i camaleonti – per il resto confermo, andò proprio
così.
La mia Smith & Wesson .38 special era in effetti del tipo a canna lunga (4 pollici). Mi chiedo: perché
quest’uomo pensa alla sua nuca (lo scrive chiaro e tondo, «la mia nuca», accidenti), e non a quelle degli
altri, bucate dai suoi proiettili? Non si ricorda la nuca del giudice istruttore Galli, sfondata dal suo
piombo? Sono passati 23 anni da quella lieve pressione di una pistola sull’occipite, dal quel momento così
importante da dedicarci l’incipit della sua autobiografia: non si è mai domandato che cosa accadde
nell’animo di quel carabiniere, che poi ero io? Non vuole sapere perché invece di tirargli un colpo in testa,
magari due per sicurezza, come avrebbe fatto lui a parti inverse, quel carabiniere si fermò?
Segio non ha cercato ancora una risposta a queste domande, e anzi neppure se le è poste.
Inconfondibile per il loden blu, la camminata con la mano destra in tasca e la testa inclinata verso
destra, avrei potuto stenderlo dieci volte e lasciarlo lì morto, standogli alle spalle lungo via dei Transiti.
Invece abbiamo voluto pedinarlo (io e Tavola), dissimulandoci con la tecnica appresa meticolosamente
dai vecchi della Sezione speciale anticrimine, in aggiunta alla nostra naturale intraprendenza.
Trenta metri, la distanza minima per impedire che il terrorista ci fissasse in volto, anche qualora si
fosse girato di 180 gradi. Mani bene in vista fuori dalle tasche, per non destare il sospetto di impugnare
armi occultate negli abiti. Una precauzione che ci esponeva al rischio massimo. Sirio – lo assicuravano
tutti i pentiti, lo confermava il suo curriculum di gelido killer – non avrebbe esitato a sfruttare tutta la
terrificante potenza di fuoco di cui era armato se si fosse accorto di presenze sospette. Era inoltre sua
consuetudine avere sempre intorno a sé, invisibili, delle guardie del corpo, cioè dei terroristi latitanti
armati fino ai denti e pronti a sparare al primo segno di agenti della controrivoluzione. Anche quel 15
gennaio erano lì a proteggerlo, ma si eclissarono a causa di quell’imprevedibile apparizione di una pistola
proprio sulla nuca del Comandante. L’aveva estratta un tipo che pareva in tutto e per tutto un passante,
un ragazzo che bighellonava da quelle parti, come raccontano alcune cronache…
In quel momento il loro mondo venne giù all’improvviso.
A leggere quel che Segio scrive dei carabinieri di dalla Chiesa in Miccia corta 2, anche io, come tutti gli
agenti controrivoluzionari, avrei dovuto essere caricato a molla per torturare e ammazzare. Perché allora
non sparai? E perché non sparò neppure Tavola, che stava al mio fianco con un mitra Beretta M12? Perché
non tirarono un colpo neppure gli altri colleghi sopraggiunti?
In base al suo teorema, non ci poteva essere alternativa all’immediata esecuzione. Nove grammi di
piombo, meglio diciotto o ventisette. Sirio si vanta persino di aver avuto delle soffiate riguardo al
trattamento che avremmo dovuto riservargli. Scrive che alcuni magistrati avevano dato alla Digos la
consegna di liquidarlo sul posto, qualora fosse stato individuato. E quindi? I magistrati si dimenticarono
di dirlo ai carabinieri? È così che Sirio spiega la sua mancata soppressione? Un errore di programmazione
dei robot?
Secondo il suo persistente pregiudizio noi eravamo nutriti di odio e odio sprizzavamo da tutti i pori;
mentre lui e i suoi compagni erano tutta un’altra cosa, come si legge sempre su Miccia corta, per la
precisione a pagina 172: «l’amore ci muove e motiva ma poi… lo perdiamo facilmente di vista». Ah sì?
Spiegatelo alle famiglie Alessandrini, Galli e Rucci, ditelo a loro che i proiettili per Emilio, Guido e
Francesco erano mossi dall’amore, solo che poi l’amore, chissà come, era fuggito chissà dove.
In compenso Sirio sfugge alle domande sui pensieri e le emozioni che agivano in me e in tanti altri
come me: perché non lo uccidemmo? Sa bene che non era in ossequio a regole astratte. E allora che cosa?
Magari scoprirebbe che il vero pupazzo meccanico era lui.
Neppure per un istante, in realtà, nemmeno quando attraversando viale Monza arrivai a trenta
centimetri da lui e l’alito di paura e caffè mi sbatté sulla faccia, ebbi non dico l’idea ma anche solo l’istinto
di «annientarlo», per usare un termine caro a Prima Linea. Un brivido mi percorse da capo a piedi mentre
il leader in elegante loden blu si girò appena verso destra, con il respiro affannato, mostrandomi il suo
profilo (era davvero lui!), in attesa del semaforo verde. Toccai, non un secondo prima né un secondo
dopo, i suoi capelli rossicci con l’acciaio della mia Smith & Wesson, e gli dissi: «Sirio, carabinieri! Fermo!
Alza le mani!». Le alzò.
Come mai Segio non si chiede il perché della mia non-violenza? Gli regalo la risposta che mi do io.
Furono i morti da lui ammazzati a guidarmi. No, nessun misticismo. Ma esiste anche la potenza della
testimonianza: il sangue versato non finisce nei tombini. La mia mente, in quel camminare lungo via dei
Transiti, in quel rallentare, quel domandarsi: che fare? percorse la galleria della memoria con le fotografie
dei magistrati e del brigadiere che aveva macellato. Rividi il dottor Alessandrini con la testa reclinata sul
volante, perforato di colpi: lo avevano ucciso (per primo fece fuoco Segio e di seguito Marco Donat-
Cattin) mentre l’auto era ferma al semaforo.
Anche l’assassino adesso era fermo al semaforo… Ma io sapevo che dovevo somigliare ad
Alessandrini, non a Sirio. Era un omicida, sì, ma prima e soprattutto era un uomo, e dovevo prenderlo
incolume (possibilmente, restando incolume a mia volta). Perché non si spara a chi non ti sta sparando: è
una persona, può cambiare. Desideravo sul serio dialogare con lui, sentire le sue follie, ribaltargliele
addosso come un treno alla massima velocità, per convincerlo a invertire il senso di marcia della sua vita.
Aveva funzionato con il brigatista in bicicletta, aveva funzionato con altri casi.
Ingenuità di ragazzo? Presunzione? Fatto sta che Sirio dopo qualche tempo si è dissociato dalla lotta
armata. Ha finito di scontare la pena in carcere e ora è impegnato nel gruppo Abele di don Ciotti.
Confessa i suoi errori, ma avvolge persecutori e perseguitati nella nebbia del sogno, dove non si capisce
chi siano le vittime e chi i carnefici. In fondo – è la morale di Segio – nessuno è innocente. Ma esistono atti
che gridano vendetta al cospetto di Dio. E la decenza pubblica dovrebbe spingerlo a non impancarsi a
giudice del bene e del male.
Mi indigna che Segio abbia insistito nel propagandare l’epica memoria di se stesso e della sua compagnia,
e non quella del martire, che non nomina mai. Persino quando ammette di aver sbagliato risale subito sul
piedistallo del suo monumento a cavallo, forse per il riflesso narcisistico tipico di chi uccide il prossimo
per un’ideologia.
Un esempio? Nel 2005, due anni dopo aver ricevuto il premio internazionale intitolato a Rosario
Livatino (il giudice-ragazzino assassinato in Sicilia dalla mafia e fatto beato da papa Francesco), pubblica
un libro, il già citato Miccia corta. Un bel titolo, non è vero? Evoca l’innesco dell’esplosivo con cui il
commando da lui guidato abbatté il muro del carcere di Rovigo, liberando anche la sua compagna
Susanna Ronconi, ma ammazzando un inerme cittadino che passava di lì per caso con il suo cane. Che
cosa porta a casa Segio di questa vicenda, pur dolendosene a parole? La miccia corta! Un souvenir del
crimine: come usano i serial killer.
Un’altra cosa mi ha disgustato in questo volume. Beve champagne ogni tre pagine. Non sono un
moralista, affari suoi, ma quando arriva a scrivere: «quella notte abbiamo bevuto un numero spropositato
di bottiglie di Veuve Clicquot, lo champagne della vedova che preferisco», io penso a chi vedova lo è
diventata a causa sua, e be’… non credo ci sia bisogno di essere campioni di sensibilità per provare
ribrezzo.
È il caso di raccontare come andò davvero: Segio quel giorno venne ridicolizzato militarmente. Fece la
figura del pivello, piuttosto codardo per giunta. Due carabinieri che messi insieme non arrivavano a 45
anni furono sufficienti a mettere nel sacco il mitico, invincibile Comandante.
Ma la vera umiliazione, che in tutti questi anni ha tentato di occultare giocando con le parole e con i
sentimenti, non è stata la sconfitta militare, ma quella umana. È evidente che c’è uno scarto, un gap, uno
spread – non voglio parlare di superiorità, ma certamente è una diversità – tra due modi di concepire
«l’altro».
Se cioè esso sia qualcosa di unico e di irriducibile a una categoria, una classe sociale, uno schieramento,
se la sua dignità e la sua vita siano beni indisponibili, persino per lo Stato; o se al contrario sia una
semplice escrescenza da piallare per rendere più spedito e sicuro il cammino verso la vittoria.
Il fatto oggettivo, storico, di non aver premuto il grilletto, e neppure avergli torto un capello né
spiegazzato il loden blu, è stata la mia vittoria, che non ha bisogno di medaglie. Una vittoria dei miei
genitori e dei valori che mi hanno testimoniato, una vittoria di dalla Chiesa, e – voglio dirlo – dello Stato,
che mi ha dato l’occasione e gli strumenti per servirlo. Non è un merito, ma un dovere e un onore. E sono
contento che Segio sia vivo per sparlare di me e di quelli come me, perché ogni parola che dice o scrive
rende onore a chi ha coscientemente scelto di non ammazzarlo.
Altri hanno incarnato e incarnano in modo diverso l’idea di Stato, lo so anche troppo bene e l’ho
scoperto a mie spese: ma ho imparato a distinguere tra Stato e Potere.
Per la cronaca: fermando Sirio, noi carabinieri abbiamo impedito, bloccando così una spirale di morte,
l’assalto già programmato al carcere di Fossombrone, nella Valle del Metauro, in provincia di Pesaro e
Urbino, per far evadere altri terroristi.
I personaggi
Daniela Figini.
Ai tempi era una ragazza di Como che frequentava Giurisprudenza all’università, adesso è un
avvocato di successo. Veniva da una buona famiglia, agiata, quindi si era potuta permettere un
bell’appartamento a Milano, in via Tolstoj, zona Lorenteggio, sudovest rispetto al centro. Per lei e i
compagni niente tende fuori sede nel giardinetto di via Festa del Perdono, davanti alla Statale: il
campeggio dimostrativo contro il caro affitto non era un’opzione contemplata dalle Brigate Rosse.
Da settimane avevamo raccolto indizi sulla sua presunta appartenenza alle Br. Avevamo appena
catturato, i primi di gennaio, diversi terroristi dei Colp. Indagando su di loro eravamo arrivati a «casa
Figini». La ragazza l’aveva trasformata in base-rifugio, un appartamento sicuro per gli adepti della lotta
armata, luogo di riposo e di discussione: era lì, chez Daniela, che alcuni terroristi evolvevano verso le
ambite file delle Brigate Rosse, dopo esser stati catechizzati ed esaminati.
La decisione investigativa era di non arrestare la Figini, ma di pedinarla. Forse gli elementi acquisiti
nel corso delle indagini non erano sufficienti per fermarla, ma sospettavamo che fosse lei il perno della
logistica della colonna Alasia e ci aspettavamo che potesse portarci da qualche figura eminente della
costellazione comunista armata.
I pedinamenti però non avevano dato grandi risultati. Magari non era il pezzo grosso che si
supponeva… o magari aveva mangiato la foglia e se ne stava ben ritirata (congelata, in gergo). Pertanto la
sorveglianza si era allentata quasi fino a cessare. Quel mattino del 15 gennaio 1983 dalle parti di via
Tolstoj non c’era nessuno di noi a controllare l’andirivieni di un covo forse diventato «freddo».
Batman.
C’era uno dei nostri, invece, dall’altra parte di Milano. Nickname Batman, si stava spostando in
motocicletta per raggiungere una caserma a nordest della città, dove un guerrigliero dei Colp, che
avevamo arrestato non molto lontano da via Tolstoj, era in predicato di pentimento.
Batman guidava seguendo le regole dell’invisibilità – 30 chilometri all’ora, 40 al massimo, nessun
rombo di motore eccetera – e scorse una che aveva già visto in viso e di cui aveva studiato il modo di
vestire. Ma sì, era lei, la Figini. Perché stava immobile alla fermata del tram in piazza Durante, zona
Leoncavallo-via Padova? Una sospetta brigatista in un’area di Milano opposta a dove abitava. Strano,
molto strano.
Mancavano 5 minuti alle 13. Era il classico appuntamento collaudato delle Br… si arrivava 5 minuti
prima dell’ora tonda, quindi si aspettava per altri 5 minuti, poi si andava via se il «contatto» (cioè l’altro
terrorista) non si presentava. Ma chi stava aspettando, la Figini?
Batman accostò piano, scese, da un bar telefonò al nostro ufficio.
Il pedinamento «a scatola»
La sequenza era quella di scuola: segnalazione attendibile, spostamento immediato sul luogo, aggancio
visivo, riconoscimento. Adesso si trattava di seguirla, dividendoci per non dare nell’occhio, mantenendo
la distanza al massimo di 40 metri.
Io, Tortellino, avanzai dietro di lei mentre percorreva il marciapiede di sinistra – numeri civici dispari –
di via Cecilio Stazio, verso ovest, in direzione via Padova, indi viale Monza.
Tavola era sull’altro marciapiede. La strada era stretta e corta, procedemmo con una sorta di
pedinamento «a scatola». In gergo si dice così quando il pedinatore uno (nel caso in questione: io) si
muove in sincronia con il pedinatore due (Tavola), rallentando e accelerando per inscatolare
l’«attenzionato/a» (nell’occasione: la Figini) facendo sì che in nessun caso si perda il contatto visivo ed
evitando nel contempo di allarmare il soggetto. Questa tecnica – sulla carta è facile ma nella pratica è
complicata, può persino farti rischiare la pelle se la applichi nei confronti di esperti di guerriglia cittadina,
per giunta sul loro territorio – credo sia stata decisiva per la sconfitta militare del comandante Sirio.
La tavola fredda
Daniela Figini attraversò via Padova e imboccò via dei Transiti. Aveva il suo solito passo, noi le
lasciammo la lenza lunga. Non capivamo se fosse in attesa di qualcosa o qualcuno che magari sarebbe
arrivato da un momento all’altro. Passò davanti al bar. E dalla porta, venti metri dopo l’angolo, uscì un
tale. Oddio, sembrava impossibile, ma era lui. Era saltato fuori quasi subito, il tempo necessario per
capire se lei fosse seguita: il grande stratega dei colpi alla nuca agli inermi doveva aver pensato di avere
via libera.
Tavola e io ci fissammo, istintivamente ci ricongiungemmo sullo stesso marciapiede dietro di loro e
scandimmo entrambi, in silenzio: S-i-r-i-o. Alto, elegante, il loden blu ben scampanato, la camminata
decisa, la mano destra in tasca, proprio come ci avevano detto i pentiti, la testa rossiccia ciondolante verso
destra, non aveva i baffi… Accelerò e senza pronunciar parola prese sottobraccio la compagna brigatista.
La Figini ebbe un moto di spavento. Si girarono l’uno verso l’altra. Lei riconobbe il suo mito. Tavola e io
ci scambiammo uno sguardo. Dovevamo agire insieme, ma la prima mossa toccava a me. Ero io ad avere
le armi giuste, Tavola aveva l’M12 sotto il giaccone da marinaio, a tre quarti. Forse aveva anche la radio
per avvertire i nostri.
Quattro minuti, trecento metri. Rivedo quel bar. Non so quante gestioni ha cambiato in quarant’anni.
Adesso sull’insegna azzurra c’è scritto «Bar-Tavola fredda – Panini alla Piastra». Mi torna in mente ogni
istante di quei quattro minuti: sentimenti, parole e pensieri.
Accelerai il passo, mi avvicinai. Daniela Figini era intimorita e felice quando con Segio si guardarono
in viso. Erano concentrati sul loro incontro. Sirio si sentiva sicuro. Aveva la sua scorta che lo tutelava dai
cattivi incontri. Non intervennero perché noi fummo bravi: non avevano compreso che fossimo
carabinieri in azione, ci avevano evidentemente preso per ragazzi svagati. Avevamo passato l’esame degli
sbirri: a finir male, molto male, sarebbero stati tutti loro.
Agimmo rapidissimamente, come se ci fossimo preparati da una vita e avessimo studiato a memoria il
piano perfetto. Invece no, quel che stava accadendo non era in alcun modo prevedibile. Neanche una
goccia di sangue versata: fu quasi miracoloso.
Fortuna? Noi ci mettemmo studio, metodo e desiderio di giustizia impastati tra loro. Ma non sta a noi
guidare la storia, piegare il destino.
Anche se Sirio credeva il contrario.
Appoggiai la pistola alla sua nuca, sentii il suo alito. Il caffè che aveva bevuto pochi minuti prima, la
paura della morte.
Il killer era in mia balia.
Ma era una persona, e la sua vita da terrorista sanguinario non era mia.
Dissi: «Carabinieri, Sirio! Alza le mani».
Lui aveva sentito lo scatto del cane della mia pistola: un solo fremito e mi sarebbe partito un colpo, lo
sapeva bene. E lo sapevo anch’io. Quando conduceva le azioni militari si diceva che la sua voce fosse
ferma, chiara, scandita. Adesso invece tremava. Sirio non ostentava la spietatezza che si deve avere
quando si commettono delitti spaventosi. Aveva più paura di me, aveva capito che non poteva fare
alcuna mossa, altrimenti sarebbe stata l’ultima.
«Ok! Sono disarmato, non sparare!» sussurrò alzando le mani. Intervenne immediatamente Tavola, che
gli puntò il mitra sotto la gola.
Gli mettemmo le fascette ai polsi e arrivarono altri colleghi. Ricordo Titti, il più anziano, e Zampa.
Fermammo una R4, proprio come capita di vedere nei film americani, per requisirla. Vi caricammo Segio.
Il conducente non si impaurì. Anzi, la scena era talmente western che ci chiese a quale film stessimo
lavorando, orgoglioso di essere stato un attore per caso. Sembra incredibile, ma è vero.
Ho scritto che nessuno si fece male. Io sì, in realtà, anche se poco. Sirio si era arreso, trascurai la Figini.
La quale, incurante del fatto che fossi armato ma comprendendo che non correva rischi, mi tirò un pugno
che mi fece volare gli occhiali da sole Lozza. Non si ruppero, ma ci tenevo, mi erano costati una settimana
di paga. Urlava: «Brigate Rosse! Brigate Rosse! Ditelo: stanno arrestando le Brigate Rosse!». La portai in
caserma.
Quando arrivò sua madre, una donna energica, si disse convinta che la figlia fosse una perla luminosa
di ogni virtù. Chiese di vederla. Le disse: «Tu non c’entri, lo so, dichiara ai carabinieri che non hai nulla a
che fare con quei delinquenti». Credeva davvero, la poveretta, all’innocenza di Daniela. E lei invece la
stroncò: «Mamma, io sono una prigioniera politica, mi dichiaro prigioniera politica!». La signora piombò
a terra svenuta.
I magistrati arrivarono subito, stupiti di quel colpo clamoroso. Non si seppe nulla, allora, dei protagonisti
dell’operazione, del ruolo giocato da Batman, Tavola, Tortellino, Titti e Zampa e altri ancora. Non si
poteva ovviamente dirlo in giro, avrebbe contraddetto tutta la filosofia e i metodi di dalla Chiesa. Ma alla
Sezione speciale anticrimine studiammo insieme, nel corso di una serie di debriefing, i comportamenti di
ciascuno e come avevano retto alle emozioni. Fu una sorta di macchina della verità.
Tutto questo è diventato parte del mio bagaglio interiore, fondamento della mia vita di agente e
dirigente dei servizi segreti del mio Paese.
1. Sergio Segio, Una vita in Prima Linea, Rizzoli, Milano 2006.
2. Sergio Segio, Miccia corta, DeriveApprodi, Roma 2005
Capitolo 5
Scalzone e l’antiquaria di Parigi
Nella Sezione speciale anticrimine, non so come, si erano messi in testa che fossi un fuoriclasse in lingua
francese. In effetti me la cavavo. Ma esagerazioni e complimenti servivano a imbarcarmi senza preavviso
sui treni per Parigi. E non erano viaggi di piacere.
La Francia era diventata il refugium peccatorum per terroristi o presunti tali. Soprattutto per i brigatisti
milanesi andare Oltralpe era come una gita fuori porta, un modo per prendersi un po’ di riposo, lucidare
la canna del fucile e ricaricare le batterie ideologiche.
Nei primi anni Ottanta era entrata in vigore la cosiddetta dottrina Mitterrand, dal nome del presidente
socialista rimasto al potere per due settennati. L’Eliseo, sulla base di una pretesa superiorità morale
(grandeur etica, addirittura), offriva protezione, o meglio impunità, a tutti coloro che fossero perseguiti in
Italia per reati politici, compresa l’appartenenza a banda armata. Con una clausola, però: l’asilo era
riservato solo a chi non fosse coinvolto in crimini di sangue e rigasse dritto, da bravo ospite. Questa
seconda parte della dottrina in realtà non fu rispettata mai, era solo pro forma, allora come oggi. Consente
di imbastire un beffardo teatrino politico-giudiziario che umilia il nostro orgoglio – e fin qui reggeremmo
il colpo – ma soprattutto calpesta la dignità della nostra Repubblica, che viene trattata come uno Stato
incivile che calpesta le regole basilari del giusto processo, e per di più da un Paese che si proclama amico.
La burla si ripete costantemente, e ci caschiamo ancora, dopo quarant’anni. Lo definirei un vaudeville, se
non ci fossero di mezzo lacrime e sangue di innocenti.
Il copione non ha mai guizzi. Il livello politico francese concorda con l’omologo italico sul fatto che
effettivamente si debba rimediare all’ingiustizia di un asilo immeritato, e quindi venga dato rapido corso
alla richiesta di estradizione per tradurre nelle carceri italiane gli assassini giudicati tali in via definitiva
dai tribunali italiani. La police, di concerto con i nostri carabinieri, procede agli arresti su mandato
internazionale e tiene sotto custodia i latitanti per un’oretta, non di più. A quel punto sono considerati
innocui e rispediti in famiglia, in attesa del benestare del giudice all’estradizione. Benestare che viene
sistematicamente negato, ogni volta con molta fantasia. Il ministero della Giustizia italiano è sommerso
da richieste relative a verbali, atti, timbri e masse di documenti che non bastano mai. Nel frattempo i
giornali, non solo di sinistra e non solo francesi, si mobilitano al guinzaglio di quei signorini. La gauche
caviar parigina, che ha per riferimento logistico e mitologico i sopravvalutati caffè del quartiere latino,
scandisce perentoria: «Non toccate i nostri ospiti guerriglieri, sono brave persone condannate in Italia con
processi da regime fascista; per di più sarebbe un inveire contro dei signori anziani».
È successo anche nel 2022. Macron e il suo governo hanno fatto ponti d’oro a Draghi e al suo ministro
Marta Cartabia per risolvere definitivamente il vecchio problema dell’estradizione dei latitanti italiani
condannati definitivamente per reati di terrorismo. Nonostante gli sforzi del presidente francese, però,
siamo ancora nella palude della giustizia perduta.
Negli anni Ottanta era pure peggio. Brigatisti e affini furono accolti in eleganti palazzi lungo la Senna
come fratelli intellò da tutelare, e io fui spedito da quelle parti parecchie volte. A parte la stima e la
comprensione dei magnifici colleghi della Sûreté, con i quali la collaborazione è stata splendida, come del
resto con la Prefettura, l’aria stessa di Parigi, le idee che vagavano per i boulevard, erano contro di me.
Non dico personalmente, non mi monto a posteriori la testa: ero un nessuno, e nessuno del mondo che
conta mi conosceva. Ma la nostra lotta contro l’eversione terrorista non era accettata e sostenuta negli
ambienti «giusti».
In quanto carabiniere incaricato di rintracciare latitanti per far eseguire il mandato di cattura, mi
sentivo addosso l’alito acido del pregiudizio anti-italiano. Al primo arresto che avessi reso possibile, alla
prima richiesta di estradizione che avessi trasmesso, sarei stato trattato come un invasore, da respingere
dal combinato disposto di stampa e magistratura. Per loro ero, a prescindere da tutto, un agente della
controrivoluzione.
Resta il fatto che collaborare con gli investigatori francesi sull’altro versante delle Alpi è stato molto
istruttivo. Ho imparato a muovermi in territorio straniero navigando senza neppure increspare le acque,
ho affinato nel confronto con i colleghi dell’Esagono le tecniche apprese nella nostra Sezione speciale
anticrimine milanese. Ho scoperto che nessuno aveva perfezionato l’arte del pedinamento invisibile e
impossibile da eludere come noi carabinieri.
French job
Sin dalla stazione centrale di Milano cominciava il mio French job. I brigatisti e gli altri della galassia non
si muovevano in aereo, non avevano prenotazioni e biglietti nominativi che li avrebbero esposti a
controlli rischiosi. Di solito si spostavano in treno. A sorpresa, preparandosi all’ultima ora. Sospettando
di essere intercettati, di sicuro non si salutavano al telefono, per non dare adito a sospetti. E allora
dovevamo intuire le loro intenzioni da come si vestivano in quel dato giorno, dal borsone che magari
decidevano di mettersi in spalla.
Durante tutto il periodo di quel particolare incarico, mi ero attrezzato per portarmi sempre una sorta di
zaino con due jeans, scarpe e maglie, per essere in condizioni di salire al volo sul treno per Parigi. Cosa
che succedeva decisamente spesso.
Mi bastava sapere quale fosse la destinazione del sospetto o, a volte, dei sospetti. La regola era di non
viaggiare nel loro stesso scompartimento – precauzione fin troppo ovvia – e neppure nel medesimo
vagone. E non camminare avanti e indietro per tenere d’occhio i loro movimenti: ho già spiegato che i
brigatisti avevano il loro manuale per garantirsi da intrusioni dell’antiguerriglia.
Quando il treno correva ancora nel tratto italiano, spiegavo al capotreno che passava per controllare i
biglietti che ero un carabiniere dell’Antidroga e che dovevo sapere in quale stazione sarebbe sceso il
pusher che stavo sorvegliando. Capitava anche che fossimo in due in missione. La reazione del capotreno
era spesso euforica: ci eravamo fidati di lui, lo avevamo messo a parte del segreto, avevamo bisogno della
sua collaborazione. Gli bastava verificare il biglietto del tizio, ordinaria amministrazione, e potevamo star
sicuri che non avremmo smarrito il nostro caro sospetto brigatista.
Scoprii che c’era un luogo dove si ritrovavano. Così, senza preavviso, mica erano scemi. Era una
trattoria, una taverna frequentata da terroristi e latitanti italiani. Durante i miei soggiorni operativi
francesi, divenni un habitué anch’io. Il cibo era discreto.
Quando entravo nel locale occultavo la Tessina, cioè la minuscola macchina fotografica, categoria
«subminiature», con reflex biottica, pellicole 35 mm da 25 foto: niente a che fare con la tecnologia odierna,
certo, ma pesava 168 grammi ed era affidabile. La nascondevo all’interno di un pacchetto di Marlboro,
anche se io non fumo: da quei tempi non sono proibizionista al riguardo. Grazie a un piccolo foro dentro
al pacchetto, premendo nel punto giusto, fotografavo gli avventori. Prima o poi da lì passavano tutti i
terroristi rifugiati a Parigi. Molti li ho fotografati proprio con la Tessina.
Eravamo in corso Garibaldi a Milano. L’uomo che pedinavamo era sospettato di essere un
fiancheggiatore delle Br. Noi dell’Anticrimine lo avevamo soprannominato «il ciclista». Io e un collega
eravamo a bordo di una delle cinque auto coinvolte nell’operazione.
Quello smonta dalla bici, telefona da una cabina, ed ecco che pedala svelto percorrendo via Victor
Pisani in direzione della stazione centrale. Dopo un’ora sono un paio di carrozze dietro di lui, sul treno
per Parigi, via Domodossola. Per fortuna avevo la borsa pronta.
Ho un presentimento su quello che andrà a fare, chi incontrerà. Ha lasciato la bici appoggiata al
muretto della fermata della metropolitana, chiusa con il lucchetto. Deve consegnare e raccogliere
messaggi, non ha l’aria di uno che va per restare. Le mie aspettative non saranno deluse.
Intanto il mio ufficio di Milano allerta i colleghi francesi. Li trovo già presenti e ben defilati appena
scendo dal treno alla Gare de Lyon. Lo seguiamo insieme. Passa dalla solita trattoria, poi si avvia verso
Montmartre. Mi tengo a distanza, vedo che si ferma con un tale, allora balzo in fretta dai gradini per
restare coperto ma abbastanza vicino da capire con chi si sta intrattenendo. Il prezzo della mia rapida
torsione è salato, calcolo male il balzo, mi rompo una caviglia. Riesco a fatica a non urlare. Vedo che sta
discorrendo con l’inconfondibile avvocato Sergio Spazzali, nome di battaglia «Pino». Adesso sappiamo
chi tiene i rapporti tra le Brigate Rosse milanesi e la loro mente giuridica.
Non c’era da arrestare nessuno, ma era stato un successo lo stesso. Mi fasciai con la garza adesiva. Mi
ingessarono a Milano.
Era l’estate del 1982, se la memoria non mi inganna. Spazzali – da non confondere con il fratello Giuliano,
anche lui avvocato, e di estrema sinistra, ma senza aver mai messo piede fuori dal recinto della legalità –
era stato il difensore in tribunale e giureconsulto dentro e fuori dalle aule giudiziarie delle Brigate Rosse.
Ma detto così è riduttivo. Pino era sospettato di essere l’anima di Soccorso Rosso, l’organizzazione di
legali fondata per garantire tutela giuridica a chiunque avesse guai tra i militanti dell’ultrasinistra. Non lo
faceva come dopolavoro caritatevole: ovunque ci fossero guerriglieri bisognosi di patrocinio sotto il
manto di un qualsiasi pretesto sovversivo, c’era anche lui. Era rimasto coinvolto nel traffico
internazionale di armi degli anarchici svizzeri (caso Petra Krause, con mine e granate rubate ai depositi
militari elvetici e trasferite alle Br in Italia e alla Red Army Faction, la Raf, in Germania occidentale) ed era
finito in cella, ma ne era uscito presto. Nel marzo del 1982, ribaltando la sentenza del tribunale, la Corte
d’Appello di Milano lo aveva condannato a quattro anni di carcere, giudicandolo colpevole di aver agito,
coperto dalla qualifica di difensore, da ufficiale di collegamento tra terroristi detenuti e latitanti. Era
fuggito in Francia, senza chiedere però protezione a nessuno: se l’era data da sé.
Trascrivo questo elogio ancora rintracciabile su Internet, ricamato per lui dai compagni d’arme subito
dopo la sua morte da imprendibile e solitario guerrigliero a Miramas, sulle Bocche del Rodano, vicino a
Marsiglia, nel gennaio 1994: «Pino è animatore di Soccorso Rosso prima e del comitato per la difesa dei
detenuti politici in Europa, a fianco dei compagni Greci e Spagnoli e nel Sud del mondo con l’MPLA
dell’Angola, è parte attiva nel percorso del movimento rivoluzionario degli anni Settanta, avvocato degli
operai, degli inquilini, avvocato militante al servizio delle avanguardie comuniste combattenti. Sino alla
scelta della clandestinità in Francia, dove rifiuta ogni tipo di patteggiamento con lo Stato francese e si
dedica totalmente a ricostruire una presenza comunista combattente in Italia e in Europa».
Insomma, Spazzali se ne fregava della dottrina Mitterrand, non fingeva di essere un quieto cittadino al
riparo del sistema capitalistico francese. Anzi, riteneva che andasse travolto dalla lotta armata, come
quello italiano.
A proposito, in tutti questi anni mi sono dimenticato di ritirare dall’antiquaria il regalino che avevo
acquistato con i miei pochi risparmi. Magari la gentile signora della bottega di rue Charles V alla fine
gliel’avrà pure recapitato, al professor Oreste.
In fondo gli spettava.
Capitolo 6
La Vedova con i capelli rossi e la fine dei Colp
Sergio Segio si lamenta che gran parte della pubblicistica autobiografica arrivata nelle librerie, nonché gli
studi sociologici dedicati alla lotta armata degli anni Settanta e Ottanta, e pure i docufilm e le fiction,
privilegino le Brigate Rosse, confinando in un ruolo marginale Prima Linea. È una gara francamente
molto triste.
I Colp (Comunisti organizzati per la liberazione proletaria), che pure discendono dai lombi del
comandante Sirio, quasi non esistono. Hanno più spazio persino i Nar e i Nap (rispettivamente Nuclei
armati rivoluzionari e proletari). Sono spariti dalla memoria e non figurano tra i primi della classe del
terrorismo – anzi, non sono neppure nel campionato di serie A – per due ragioni. Primo, non ebbero tra
loro personaggi che siano stati accolti, causa la scarsa raffinatezza delle loro teorie, come intellettuali e
capiscuola nell’album del terrorismo italiano. La seconda e più decisiva ragione è che nel febbraio del
1984 furono sgominati, andando incontro all’estinzione: li catturammo tutti (o quasi, e comunque chi ci
sfuggì sparì). Nell’azione decisiva che determinò la capitolazione del gruppo, io ebbi la parte del
frontman.
È il caso di capire chi fossero costoro e come si stessero espandendo non solo in Italia ma all’estero,
specie in Francia, dove continuavo il mio lavoro di inviato della Sezione speciale anticrimine dei
carabinieri. Lo scopo non è di scrivere un pezzo di storia del terrorismo rosso a uso di qualche tesina per
la maturità, ma di fornire un quadro per mettere a fuoco la qualità tecnica e morale del nostro operato,
volto a sradicare con azioni simultanee e invisibili chi voleva distruggere in modo cruento la democrazia
e la convivenza civile.
Marzo 1981. A Barzio, in Valsassina, oggi provincia di Lecco, si ritrovano per una specie di seduta di
autocoscienza numerosi miliziani cui era sparita la terra sotto i piedi dopo lo scioglimento di Prima Linea.
A decidere di chiudere Pl era stato Segio, per nascondersi meglio. I guerriglieri, sedotti e abbandonati,
si costituiscono in un «Polo organizzato». In realtà nessuno tra i capi e capetti di Prima Linea aveva
intenzione di smettere, e ciascuno – nel frattempo – si era messo a radunare militanti fedeli sviluppando
nuove sigle, per continuare a sparare e a uccidere.
Su questa decomposizione e ricomposizione vegliava il leader carismatico e sanguinario, Sergio Segio,
defilato e pronto a utilizzare a spizzichi e bocconi, prendendoli a noleggio come fossero taxi o squadre di
ventura a cottimo, questo o quel gruppo di guerriglieri per le sue azioni.
Il Polo, che si trasformerà presto in Colp, ha per programma la realizzazione di una rete di sostegno ai
militanti clandestini e la liberazione dei prigionieri politici. Troppo poco per alcuni di loro, che ritengono
minimalista questa visione della lotta armata: sono quelli che ambiscono a essere «ammessi»
nell’organizzazione ritenuta regina della lotta armata, ovviamente le Br, e intendono mostrarsi all’altezza
del sospirato reclutamento.
Che fatica stare insieme e decidere il da farsi, quando il Comandante si occulta in un covo (con tutti i
comfort) e fa mancare il suo verbo. Difatti non sono ancora formalmente nati i Colp e però già c’è chi se
ne va. Nell’agosto del 1981 circola il documento di dissenso e fuoriuscita di alcuni. Ho raccontato la
vicenda del terrorista Giorgio Soldati, che il 28 novembre di quell’anno uccide, con un compagno in
fuoriuscita dai Colp, il poliziotto Eleno Viscardi, alla stazione centrale di Milano, durante un controllo di
routine. Questi erano i Colp: un misto di violenza atroce e di complesso di inferiorità, che li rendeva
imprevedibili e perciò più pericolosi.
La sigla si era palesata per la prima volta pochi giorni prima, precisamente il 4 ottobre 1981, con
l’assalto al carcere di Frosinone e la liberazione di due prigionieri (tra cui Cesare Battisti). Il 3 gennaio
1982 i Comunisti organizzati partecipano, orfani di Soldati ma mobilitati da Segio e dai suoi Nuclei
Comunisti, alla liberazione dal carcere di Rovigo di quattro militanti di Prima Linea, tra cui Susanna
Ronconi, in procinto di cambiare maglia per passare alle Br, prima di essere catturata da noi
dell’Anticrimine a Milano.
L’evasione di 4 donne militanti di Prima Linea dal carcere di Rovigo rivendicata dai Colp provoca
un’ondata d’urto in una strada, la morte di un pensionato. Nessuna scusa rivolta ai familiari, il volantino
parla della cosa come un incidente, cose che capitano. Politicamente questa è la cosa più rilevante fatta
dai Colp. Poi è morto un compagno a Parigi durante un esproprio, Ciro Rizzato. Il gruppo viene sconfitto
militarmente dai CC nel 1984 e muore un compagno a Milano, Gaetano Sava [in realtà Sava muore in uno
scontro a fuoco nel 1983, N.d.A.]. All’ergastolo finisce Gloria Argano. In carcere con lei, Michele Pegna e
Bruno Ghirardi (compagno ora condannato per il PCPM ).
PCPM sta per Partito comunista politico-militare, parte delle nuove Brigate Rosse, ala movimentista.
Ghirardi, arrestato nel 2007, fu condannato a 8 anni in via definitiva.
Catturare la Vedova
Per ricostruire i fatti e rivivere quei giorni sono salito su un taxi e ho ripercorso l’itinerario di quel 6
febbraio 1984. Emergono dal fondo del fondo della memoria sguardi, sentimenti e pensieri. Riscopro che
la mia vita somigliava nelle sue dinamiche quotidiane – nascondersi, agire – a quella dei nostri
antagonisti. Meno su un punto: non avevo nessun desiderio assassino. Avevo letto centinaia di
documenti delle Br, parlato in cella con decine e decine di «rivoluzionari», da Bernardino Pasinelli a
Daniele Bonato, da Marco Barbone a Patrizio Peci (quest’ultimo un brigatista molto semplice: se mai ci fu
un pentito nel senso più totale, è lui). Che cosa scattò in alcuni di loro, cosa li spinse a puntare l’arma e
colpire a freddo, alle spalle, una persona come loro? Dev’essere una decisione misteriosa che prende
forma nella penombra della coscienza, si somma all’educazione ricevuta e non so a cos’altro, e porta a
silenziare la voce dentro di te che dice: questo è male, non uccidere.
Era tutto pronto per chiudere la partita, quando mi mandarono in Francia. Dovevo riconoscere un
terrorista italiano appena arrestato, uno di loro, Vincenzo Spanò. Questo accadeva la mattina del 6
febbraio. Chiesi che mi aspettassero per qualche ora, il pomeriggio stesso ero di ritorno.
A Linate, appena atterrato da Parigi, trovai ad attendermi Pluto, dell’Anticrimine, con l’A112. Mi
avvertì che i colleghi stavano pedinando la Vedova e altri dei Colp. Era stato dato il via all’operazione
multipla, che prevedeva l’arresto del gruppo terroristico. I guerriglieri si stavano muovendo a piedi tra
Castello Sforzesco e piazzale Cadorna, controllati e pedinati dai nostri. Pluto mi fece trovare una delle
mie pistole nel cruscotto dell’auto.
Mentre percorrevamo corso Ventidue marzo per raggiungere la caserma di via Moscova, mi chiese:
«Vuoi andare in ufficio, o prima catturiamo la Vedova?». Non dovetti neanche rispondergli. Presi la
Smith & Wesson 2 pollici e cominciai a immaginare le possibili reazioni della Arcidiacono all’arresto.
La conoscevo, l’avevo pedinata per mesi, sempre in sicurezza. Conoscevo i suoi scatti improvvisi, le
giravolte sul marciapiede per rincorrere qualche dubbio, sempre vestita di nero, riconoscibile da lontano
per la sua camminata sulle punte, come una velocista ai blocchi di partenza.
Un giorno – ricordo adesso, mentre percorro le vie della Milano liberty in taxi – avevo rischiato di
restare compromesso e di rovinare il lavoro di tutta la squadra. Camminavo dietro di lei, lungo via
Scarpa, una piccola strada che porta a corso Vercelli. Di colpo, chissà cosa le sarà saltato in mente, l’Elvira
si gira e mi viene incontro.
Che potevo fare? C’era un negozio di abbigliamento maschile, entrai. Mi si fece incontro il titolare, una
persona di classe, distinta, garbata e molto elegante. «Buongiorno, mi dica» mi interpellò affabile. Io
farfugliai: «Avete cose bellissime… Vorrei, ecco, vorrei una giacca». Mentre improvvisavo l’esigenza di
una giacca scorsi con la coda dell’occhio la Vedova passare davanti alla vetrina senza voltarsi: non si era
accorta di niente. Restai nella bottega a palpare i tessuti. Alla Sezione speciale anticrimine di Milano
vigeva un precetto inderogabile: meglio perdere il contatto che essere bruciati. La Vedova sarebbe passata
sotto il controllo visivo dei colleghi con cui stavo lavorando «a scatola». Tergiversai. Avevo due pistole
con me, non potevo mettermi davvero a provare la giacca.
Ma a cose fatte tornai e ne acquistai davvero una, e presi pure calzoni, camicie, cravatte e scarpe, fino a
diventare un cliente fisso di quel negozio meraviglioso. A Lino Ieluzzi, così si chiama il proprietario di Al
Bazar di via Antonio Scarpa, confessai solo dopo tre mesi di essere un carabiniere, e lui mi mise a mio
agio rivelando di essere figlio di un militare della guardia di finanza pugliese. Oggi Lino è un mito della
moda milanese e non solo, ha mezzo milione di follower, ed è uno dei miei amici per la vita.
Quando nel 2006 mi arrestarono per la seconda volta, in carcere a Pavia faceva un freddo da
assideramento, e molti cattivi pensieri mi ronzavano in testa sul mio destino di servitore dello Stato:
attraverso i miei avvocati Lino mi mandò un maglione. Quel regalo lo indosso ogni anno e lo conservo
come un tesoro, tepore della memoria negli inverni della vita.
Oggi quel luogo è dominato da Ago, filo e nodo, la scultura a colori squillanti in vetroresina e acciaio
voluta da Gae Aulenti e realizzata dallo scultore svedese Claes Oldenburg con la moglie Coosje van
Bruggen, a simboleggiare la Milano che lavora, la capitale della moda e dell’eleganza, la città che sa
tenere insieme vivacità e ordine. Ma in quel 1984 Milano era solo caos: la stazione Nord ingoiava
pendolari, la metro li sputava fuori, le auto che sciamavano ovunque cercavano di non investirli.
Io e Pluto arrivammo a Cadorna, i colleghi erano lì ad aspettarci per dare il via alle catture. A me toccò
proprio la Vedova.
Il manipolo dei Comunisti proletari si sparpagliò, ma Tavola, Kaimano e gli altri dei nostri non si
scomposero, continuando a pedinarli uno per uno. Li avrebbero arrestati tutti dopo mezz’ora.
La Vedova stava giusto per attraversare in fretta sulle strisce pedonali, bloccando il flusso incessante
del traffico. Io ero già dietro di lei. Doveva essersi appena rifatta la tinta, i capelli rossi erano impeccabili,
emanava un profumo di lavanda. Le misi la canna della Smith & Wesson sul collo: «Elvira, sei in arresto,
carabinieri. Non muoverti, dove hai la pistola?». La presi per i capelli e la feci stendere per terra sulle
strisce. Lei con voce tremante disse: «Non mi sparare, la pistola è carica, l’ho infilata sul davanti». La
guardai finalmente in volto. Ma gli occhi erano rabbiosi, furenti, le spostai la giacca a vento nera e sollevai
il maglione. Infilata nei jeans, sulla pancia, trovai una pistola Beretta con il cane armato. Se avessi
mancato l’attimo sarei morto, non starei scrivendo questa cronaca, ma non credo neppure che un altro
scriverebbe di me, carabiniere anonimo caduto in missione, che avrebbe fatto meglio a stare più attento. E
invece ero stato attento, e pure bravo. Appartenevo a quel piccolo nucleo di carabinieri capace di
controllare le emozioni. Non che non mi sconvolgessero il petto, unite a un fondo di paura, ma il nostro
mestiere imponeva di saperle dominare, sottometterle alla legge.
Caricammo la Vedova sull’A112 per portarla in caserma in via Moscova.
Noi carabinieri avevamo ancora da fare quel lunedì. In un’altra zona di Milano i colleghi stavano
arrestando Gloria Argano nella base di via Astesani (Affori, zona nordovest della città), in rigorosissimo
silenzio stampa. Restava il covo di via Vallazze all’angolo con viale Lombardia, trecento metri a est di
piazzale Loreto. Avevamo scoperto che era lì che abitava la Vedova. Sorvegliavamo quel luogo già da
parecchio. Ci avevamo piazzato davanti la Balena, il furgone popolato di carabinieri della Sezione
speciale anticrimine, con l’attrezzatura del caso. Ormai sapevamo tutto, anzi quasi tutto. Quel «quasi»
racchiudeva il margine del rischio ragionevole.
Nelle settimane precedenti avevamo individuato un appartamento che ci permetteva di controllare le
finestre del covo e l’ingresso del condominio. Il proprietario ci aveva concesso di utilizzarlo
gratuitamente, sembrava tutto a posto. C’era un problema, però. La splendida cornice di alberi che
ombreggia viale Lombardia. Meravigliosi, i bagolari, ma ci negavano la vista. Che fare? Non c’erano
alternative, bisognava potare quelle piante gigantesche. Chiedemmo la collaborazione del Comune. Non
si poteva però intervenire solo sui due bagolari che ostacolavano le indagini, avremmo dato troppo
nell’occhio. Fu potato quindi l’intero viale, con grande soddisfazione dei residenti.
Ci risultava che la Arcidiacono si fosse integrata bene. Aveva detto ai vicini che aveva un’azienda
commerciale da portare avanti, quindi dovevano scusarla se di notte disturbava con il ticchettio della
macchina per scrivere.
Per chiudere la partita di pesca mancava un pesce grosso, uno squalo. Bruno Gherardi era un ragazzo
palestrato, faccia da duro. Brutto carattere, rissoso. Massimo rischio.
Tavola si era piazzato dentro al covo – avevamo recuperato le chiavi dalle tasche della Vedova – caso
mai qualcuno fosse riuscito a salire. Fuori restavo io con Pluto, il Mago (un collega dell’Anticrimine di
Firenze) e un altro che non ricordo. Ci appostammo nei pressi, in circolo, intorno a un taxi con il cofano
sollevato, fingendo di discutere sul da farsi. Passavamo per tassisti, recita perfetta: «Ma quando arriva
’sto maledetto carro attrezzi?».
Si fece tardi, quasi le dieci di sera. E poi il Mago mi disse sottovoce: «Sta arrivando, quando metto la
sigaretta sulle labbra, girati e puntagli la pistola». Al segnale convenuto mi voltai di scatto, era a un metro
da me. Gli misi la punta della canna sul naso e dissi: «Bruno, sei in arresto, carabinieri». Gli balzammo
addosso.
Quando gli portai via l’arma scoprii il maniaco che era in lui. Aveva una Browning HP 9x21 mm a 15
colpi, con le guancette che stanno sull’impugnatura intarsiate, personalizzate. Quella pistola con le
finiture in nichel era la sua continuazione fisica e morale. Fu poi condannato in via definitiva a 22 anni di
carcere.
Non sapeva nulla degli arresti del mattino e del pomeriggio.
I Colp, con capi e capetti, erano stati sgominati.
Capitolo 7
L’ascensore e la bomba alla sinagoga di Milano
I Comunisti organizzati per la liberazione proletaria ambivano a liberare i compagni dalle carceri
utilizzando l’esplosivo, che avevano imparato a maneggiare dai colleghi baschi dell’Eta durante corsi
estivi di cui era stato privilegiato ospite, ai tempi di Prima Linea, Sergio Segio. Ma avevano anche un altro
obiettivo: liberare l’Italia dalla presenza, per loro odiosa, degli ebrei. Non stupisce. L’antisemitismo,
mascherato da antisionismo, è da sempre un trait d’union che congiunge estrema sinistra ed estrema
destra.
Da Marx a Trotsky (picconato in testa a Città del Messico), i fondatori e i più geniali rivoluzionari
comunisti sono stati ebrei, ma questo non è mai servito a salvaguardare i figli di Israele. Dopo un po’,
rispetto ai meriti prevale il sospetto, quindi il desiderio di neutralizzazione, da intendersi come
soppressione. Stalin è stato un maestro dell’orrore anche in questo campo, ed eliminò con nove grammi
di piombo nella nuca migliaia di ebrei, compresi i suoi medici, tutti considerati cospiratori in nome del
cosmopolitismo.
In Italia, presso gli estremisti di sinistra, la faccenda si spiega più banalmente con il desiderio di
ripagare il sostegno e di conquistare la fiducia dei terroristi palestinesi.
Un esempio? Oggi non se lo ricorda quasi più nessuno, ma il 9 ottobre 1982 alle ore 11:55 il Fronte
popolare di liberazione della Palestina (Fplp) di Abu Nidal compì un attentato di gravità estrema, che
comportò il martirio di un piccolo innocente. All’uscita della sinagoga di Roma, cinque fedayyin
bersagliarono i fedeli con bombe e raffiche di mitra: rimase ucciso il piccolo Stefano Gaj Tachè, di due
anni, altri 37 furono feriti. E forse a convincerli che in Italia potevano agire indisturbati, portando a
termine senza incontrare particolari ostacoli il programmato assalto al principale luogo di culto ebraico
del nostro Paese, era stato un altro attentato, firmato stavolta dal terrorismo italiano e perpetrato pochi
giorni prima, la notte del 29 settembre 1982, a Milano.
Un’azione pensata ed effettuata proprio per scalare posizioni nella hit parade degli amici palestinesi.
Ne scrivo perché noi carabinieri dell’Anticrimine di Milano abbiamo avuto un ruolo decisivo nel
consegnare alla giustizia i membri dei Colp che attentarono con un ordigno alla sede della Comunità
israelitica di via Eupili.
A quei tempi i luoghi di culto e di cultura ebraici non erano protetti, cosa che rese facile il compito dei
criminali.
Era notte, non ci furono feriti, data l’ora, ma la palazzina che comprendeva anche la sinagoga fu
devastata dalla bomba.
I Colp rivendicarono l’attentato con la sigla «Gruppo di fuoco Olmo». Volevano dimostrare a quel
mondo disperso e magmatico che prima faceva capo a Prima Linea che c’era chi persisteva a organizzare
la lotta armata, ed era aperto all’arruolamento di nuove reclute. Ma perché questo nome? Chi era
«Olmo»?
Nell’autunno dell’82 stavamo addosso a un tale del quartiere Giambellino di Milano, un tizio che non
ritenevamo di immediata pericolosità ma che avrebbe potuto condurci da qualche pesce grosso, dato che
gli aspiranti gregari cercano costantemente il brivido di un saluto da parte del capo branco. Il mattino
presto uscì di casa e cercò invano di far partire il motorino, ingolfato. Non ebbe pazienza, qualcosa
evidentemente gli bruciava dentro. Buon segno per noi. Salì allora imprecando sul filobus che passava
proprio in quel momento. Tavola salì dopo di lui. Dietro il bus si muoveva la Balena, che fotografava e
fotografava.
Alla fermata di piazzale Lotto il tipo saltò giù e si unì a un gruppo di ragazzi, in chiara posizione
subordinata. Il pedinamento continuò, mentre la Balena rientrava nel nostro occulto parcheggio, per
capire chi si potesse identificare nelle foto scattate. Noi non riconoscemmo nessuno, ma un pentito
identificò Sacco Lanzoni, il pluriassassino, già Prima Linea a Torino, passato ai Colp.
Nel pomeriggio scattò l’ordine di catturare LSD . Tavola e altri colleghi, che avevano continuato il
pedinamento, lo sorpresero in una latteria. Gli balzarono addosso, ma dovevano stare attenti: c’era gente
intorno, bisognava evitare il conflitto a fuoco. Nella colluttazione ebbe la peggio il killer dei nostri giovani
colleghi di Siena: perdeva sangue dalla testa e in seguito si sarebbe beccato 13 punti, ma non era niente di
grave.
L’eroe dei Colp però si spaventò, perché stavolta il sangue era il suo, mentre lui era abituato solo a
quello delle sue vittime. Si pentì subito. In preda all’agitazione, volle mostrarsi collaborativo dicendo che
aveva appuntamento nel primo pomeriggio in un bar di via Bondi con Susanna Ronconi, la moglie di
Sergio «Sirio» Segio, passata da Prima Linea ai Colp (quella che era stata fatta evadere dal commando
guidato dal marito dal carcere di Rovigo il 3 gennaio 1982).
I miei colleghi si sedettero ai tavolini del bar come normalissimi clienti. Oltre a Susanna, si
presentarono Maria Grazia Grena e altri due della banda: furono tutti arrestati.
Le indagini proseguirono. Pedinammo un altro manipolo di terroristi dei Colp, verificammo una serie
di indizi, informammo l’Autorità giudiziaria. Alla fine identificammo i responsabili che piazzarono
l’ordigno la notte fra il 29 e 30 settembre 1982 per colpire la sede israelita di via Eupili a Milano. A me
viene affidata la cattura del più scivoloso del gruppo. Graziano Bianchi. Aveva partecipato materialmente
all’attentato che distrusse una parte degli uffici della comunità ebraica.
Studente di Giurisprudenza, 23 anni. Amante della bella vita, aperitivi, vestiti alla moda, amiche à
gogo nella Milano da bere. Oltre a shakerare Martini e Negroni, aveva l’abitudine di mescolare esplosivi
per mettere bombe in nome del comunismo proletario. Dietro le vesti del simpatico agnellino si
nascondeva una iena. Il suo arresto venne affidato proprio a me. Dopo gli ultimi accertamenti, io avevo in
mano l’ordine di cattura, in contemporanea altre squadre agivano contro i complici che a vario titolo
avevano partecipato all’ideazione dell’attentato.
È importante – almeno, lo è per me – aver assicurato alla giustizia chi ha attentato all’emblematico luogo
di studio e culto dei nostri «fratelli maggiori». Questo legame sarà un punto fermo anche affettivo di tutta
la mia attività nei decenni che seguiranno.
A proposito di Graziano Bianchi: uscì di prigione, dopo una condanna a quattro anni; poi, negli anni
Novanta, conformemente al suo profilo, si è dedicato ad attività nel ramo dei night club. Ha avuto
frequentazioni ben poco limpide, che lo hanno rimandato in carcere per favoreggiamento di Cosa nostra.
Capitolo 8
Sparano anche da destra: Cavallini e Soderini e la storia mai raccontata di via Betti
Non ho mai ragionato in termini di destra o sinistra. Uso la prima persona al singolare, perché non sono il
portavoce di nessuno, ma so di interpretare il sentimento dei miei colleghi del tempo. Ciascuno aveva le
sue idee politiche, e preferibilmente se le teneva per sé. Quanto ai terroristi, a qualunque sigla
appartenessero, volevamo soltanto sapere quale mano usavano per sparare: l’unica distinzione tra destra
e sinistra che ci interessasse davvero.
Non ho mai adoperato occhiali con lenti ideologiche, né da carabiniere né da agente segreto, altrimenti
non si serve lo Stato o il bene comune ma il proprio diavolo interiore.
Se noi della Speciale – come ci chiamavano nel giro delle forze dell’ordine, sostantivando un aggettivo
che non ci dispiaceva – abbiamo condotto in prevalenza azioni contro i gruppi armati comunisti è perché
a Milano e hinterland erano loro il nemico dominante. Si erano insediati e crescevano nelle grandi
fabbriche di Sesto San Giovanni, veri e propri santuari dove le falangi rosse arruolavano sempre nuovi
adepti.
Il bollettino finale dice che la Sezione speciale anticrimine dei carabinieri – ovviamente di concerto con
la Procura – ha sgominato la colonna Walter Alasia delle Br, decapitato Prima Linea e liquidato i Colp.
Ma non certo perché preferissimo combattere l’eversione rossa lasciando in pace quella nera.
Il fatto è che la destra terrorista a cavallo degli anni Settanta e Ottanta non aveva la sua tana e il suo
campo d’azione privilegiato in Lombardia, che era piuttosto luogo di scorribande e di succursali
estemporanee, ma preferiva mantenere la propria direzione vicino alla culla, e cioè Roma, eternamente
caput mundi.
Quando però individuavamo presenze assassine che attingevano alla mistica pagana nazi-fascista di
Terza Posizione (poi trasmigrata nei Nuclei d’azione rivoluzionaria, i Nar), agivamo con la medesima
determinazione messa in campo con i loro dirimpettai rossi.
Applicammo ai neri lo stesso metodo di osservazione e studio, consapevoli che andava adeguato a
soggetti con teste e storie diverse. Studiammo le basi ideologiche, analizzammo le rivendicazioni,
constatammo che nella scelta dei bersagli privilegiavano le forze dell’ordine e i camerati sospettati di
delazione.
Le Brigate Rosse ci consideravano agenti della controrivoluzione, da eludere o rimuovere, ma non
eravamo noi l’obiettivo finale della loro guerra, eravamo solo un odioso ostacolo da superare per poter
colpire «il cuore dello Stato».
Per i Nar era diverso. Uccidere magistrati, poliziotti e carabinieri non era una tappa intermedia ma il
traguardo. Per loro tattica e strategia coincidevano, tutto si consumava nel momento di gloria
dell’assassinio, per poi cercare un altro da eliminare. Quindi sapevamo bene cosa dovevamo aspettarci in
caso di scontro: proiettili e bombe a mano. Le Brigate Rosse, potendo, evitavano i conflitti a fuoco,
accettandoli come extrema ratio. Se venivano individuati, i loro militanti preferivano darsi alla fuga.
Tutt’altra antropologia criminale caratterizzava Terza Posizione.
Quando attaccavano inseguivano la «brutta morte», attaccando alle spalle e sparando anche a chi era a
terra – in questo peraltro non erano diversi dai colleghi comunisti. Ma per se stessi, nel caso di scontri, i
fascio-nazisti adoravano la bella morte: sparare, mirare, irrorarsi con il sangue e con il sangue purificare il
mondo.
Me ne frego di morire e di chi ammazzo.
L’esteta armato era il loro ideale, la bellezza di sentirsi schizzare il sangue di magistrati sulla faccia o di
versarlo senza chiedere pietà, senza mai arrendersi.
Mescolati al flusso dei passanti che ingorga i marciapiedi assolati di corso Genova, i carabinieri in borghese, circa una
trentina [in realtà erano una decina, N.d.A.], si ammassano a piccoli gruppi sulla piazzola antistante il Golden bar, tra il
corso e via Sapeto, dove dallo spioncino di un innocuo furgone in sosta [la Balena, N.d.A.] altri militi scrutano e
fotografano i movimenti di tre giovani attorno a uno dei tavolini liberty, fuori dal locale. Sono le 14:30 di lunedì. Dal giorno
prima, domenica, erano scattati gli ultimi preparativi della trappola, costruita in cinque mesi di indagini, per catturare i
terroristi più sanguinari di Terza posizione.
Continua:
A portare i carabinieri sulla pista giusta era stato Andrea Calvi, 21 anni, incensurato studente di legge alla Cattolica, noto
per le sue spiccate simpatie per l’estrema destra eversiva: nel marzo ’81 gli addetti all’Azienda tranviaria l’avevano
sorpreso a imbrattare il mezzanino della metropolitana sotto la stazione Centrale con scritte inneggianti ai Nar. E a
confermare che il Calvi era, per i latitanti, un punto prezioso di riferimento per le loro scorribande milanesi, era giunta più
tardi la rivelazione di uno dei pentiti dell’eversione neofascista. Il giovane Calvi era un frequentatore del bar di Corso
Genova: ecco perché da tempo era tenuto discretamente d’occhio dai carabinieri assieme ad altri luoghi pubblici, indicati
fra i probabili punti di contatto frequentati dai terroristi neri. Alle 16:15, i militi sparpagliati dentro e fuori il Golden hanno
ricevuto l’ordine di intervenire.
L’assoluta rapidità era nella logica dell’azione perfetta, per questo era indispensabile muoversi come api
qualsiasi dello sciame che investiva Milano la domenica pomeriggio. Non sollevare il minimo sospetto,
non dare neppure la più vaga impressione di essere fuori posto. E quando, come un sol uomo, si doveva
balzare addosso ai due, non bisognava concedergli neanche quel decimo di secondo per farsi esplodere
insieme ai carabinieri e alla gente innocente ai tavolini accanto.
«L’Unità» prosegue spiegando che i nostri nel frattempo per quasi due ore avevano potuto ascoltare
perfino le conversazioni dei tre giovani.
Davanti a un bicchiere di whisky e a succo di pompelmo i due feroci killer si sono rivelati sospettosi solo quando sul corso
è passata una volante della polizia a sirena spiegata. «Si innervosivano, occhiate febbrili tutt’attorno», hanno rivelato ieri
gli inquirenti. Forse anche spazientiti per una attesa troppo prolungata: a intervalli quasi regolari Andrea Calvi ha fatto
quattro o cinque telefonate. Forse i tre stavano per contattare altri complici. La trappola è scattata fulminea, ha colto di
sorpresa Soderini e Calvi. Cavallini ha tentato di afferrare una delle due pistole di cui disponeva. «Stai fermo, ti conviene»,
gli ha detto un carabiniere disarmandolo. «Si dibatteva, con violenza, per liberarsi da quegli uomini che lo avevano
bloccato per le braccia», dice una donna che ha assistito alla scena. «Poi l’hanno caricato sulle auto, lui e gli altri due».
Mistica dell’assassino
Alcuni giorni dopo mi chiesero di provare a dialogare con Cavallini. L’obiettivo era ottenere il
«pentimento». Non è un caso se uso questa parola tra virgolette. Dal punto di vista giudiziario, e
giornalistico, pentirsi vuol dire riferire tutti i reati commessi in proprio e quelli di cui si conoscono gli
autori, rivelare i luoghi di ritrovo, gli attentati in preparazione. Questo pentimento ha una doppia utilità:
frutta a chi indaga e alla nazione intera, poiché limita il male futuro e facilita il corso della giustizia per i
delitti passati; ma consente anche a chi fornisce notizie di ottenere importanti riduzioni di pena.
Questo però non è pentirsi. Nel senso che non ha niente a che vedere col significato più vero di
pentimento. Non modifica in nulla la montagna di male compiuta, non è un inginocchiarsi e chiedere
perdono.
Ho imparato da un prete romagnolo, don Isidoro – lo incontreremo più avanti – che il pentimento che
cambia il mondo, e muta persino il passato, è la contrizione: il dolore per il male fatto, il desiderio di
rimediare, la decisione di chiedere perdono a chi lo ha subito, senza pretenderlo. Per questo ho sempre
cercato di pormi nei dialoghi con i terroristi da un punto di vista che superasse la pura convenienza
reciproca. Altrimenti il mondo resta uguale.
Non mi va di fare graduatorie, non ho la licenza per giudicare, ma, tra tutti i «pentiti» con cui ho
instaurato un rapporto umano, mi hanno sorpreso per intelligenza e sincerità Patrizio Peci, cui le Br
uccisero per punizione il fratello Roberto, e Bernardino Pasinelli, che non si dava pace per le sofferenze
causate. Peci era stato uno dei primi delle Br a rinnegare la lotta armata: i miei colloqui con lui furono
successivi al pentimento e di questo non ho meriti. Ho visto fino a che punto può cambiare una persona,
forse per un intervento dall’Alto. Misteri che non è nelle competenze di un giovane carabiniere, e
neppure di un maturo agente segreto, risolvere.
Con Cavallini ebbi un confronto da solo a solo. Iniziai chiedendogli quale professione svolgesse, lui
rispose: «Soldato politico», assumendo la posizione militare di attenti. Non ho ancora capito cosa
significasse.
Respinse, spregiandolo, qualsiasi argomento proponessi. Soprattutto compresi che non mi riconosceva
come persona. Ero solo un carabiniere da uccidere. Uno scopo in più nella sua vita. Mi ricordo che in uno
di quei tentativi di comunicazione si accorse del mio accento e pretese di localizzarmi.
«Tu sei sicuramente di Bologna. E quindi, la prossima volta che evado, vengo a cercarti lì, per
ucciderti. Mettilo nel rapporto. Evado, ti riconoscerò e riuscirò a ucciderti.»
Replicai: «Non sai niente, vengo dalla Romagna. Non sei neanche capace di localizzare gli accenti, sei
superficiale, non sei un rivoluzionario serio ma un dilettante da strapazzo, un vigliacco».
Restò interdetto.
«Se evadi, e vieni dalle mie parti, magari sarò io a riconoscerti e a piantarti una pallottola in testa.»
Gli prese una paura del diavolo che gli iniettassimo qualche sostanza per farlo parlare o magari
avvelenarlo. Proprio coraggioso. Mi parve disturbato psichicamente.
Con Cavallini siamo alla mistica dell’assassino, Soderini invece era silenzioso, molto meno appariscente.
Ma catturarli vivi, e restare vivi, e tutti in buona salute (quella mentale dei neri era già compromessa) è
stata un’operazione fantastica dei miei colleghi.
Sento il dovere di inchinarmi alla memoria di magistrati e membri delle forze dell’ordine da loro
assassinati.
L’appuntato Franco Evangelista (detto Serpico), ucciso a Roma il 28 maggio 1980 da Cavallini con
Valerio Fioravanti e altri dei Nar.
Il sostituto procuratore Mario Amato, ucciso a Roma il 23 giugno 1980 alle 8:05, mentre aspettava
l’autobus 391 per recarsi al lavoro, alla fermata di viale Jonio. Cavallini lo raggiunse alle spalle e gli sparò
alla nuca. Come disse lui stesso, euforico: «Ho visto il soffio della morte», rievocando la vampata della
pistola, i capelli della vittima che si aprivano volando via. 1
Il brigadiere dei carabinieri Ezio Lucarelli, ucciso, e il maresciallo Giuseppe Palermo, ferito, a Milano il
26 novembre 1980. In una carrozzeria della periferia, Cavallini e Soderini, durante un controllo dei
documenti di routine, spararono e si diedero alla fuga.
I carabinieri Enea Codotto di 25 anni e Luigi Maronese di 23 anni, uccisi a Padova il 5 febbraio 1981 da
Cavallini in concorso con Valerio Fioravanti e altri dei Nar.
Il capitano della Digos Francesco Straullu e l’agente Ciriaco Di Roma, uccisi ad Acilia il 21 ottobre 1981
da Cavallini, Soderini e altri.
Gli agenti Antonio Galluzzo, ucciso, e Giuseppe Pillon, ferito, a Roma il 24 giugno 1982 da Cavallini e
altri.
Passai la domenica in Romagna. Sapevo che dovevo muovermi alle 2 di notte e arrivare in caserma per le
5. Ero incaricato di eseguire un mandato di cattura emesso dall’Autorità giudiziaria nei confronti di
Mario Mari. Non era certo una faccenda ordinaria, se in alto avevano deciso di affidarla a noi della
Sezione speciale. In realtà aveva l’aria di essere un arresto tranquillo, purché ben preparato. E io l’avevo
preparato bene. Avevo controllato a mente cento volte, mentre filavo in moto sull’autostrada, di aver
sistemato linee generali e dettagli minimi, secondo i criteri della massima sicurezza.
Lasciata la moto, equipaggiati a dovere, io e Pluto andammo a ritirare la A112 in un’officina dov’era
parcheggiata come un’auto qualsiasi, senza che nessuno sapesse, neppure tra i carabinieri, che fosse una
vettura «coperta» della Speciale.
Ecco il piano. Una volta giunti nei pressi del domicilio di Mari, e verificato non ci fossero impicci, avrei
dovuto chiamare la pattuglia di carabinieri in divisa e un equipaggio con due colleghi dell’Anticrimine
per supportarmi nella cattura. Sospettavamo che il Mari potesse fuggire e fare perdere le sue tracce. Una
brutta storia.
Lo avevamo pedinato nei giorni precedenti e fotografato. Alto quasi due metri, fisico possente, un
marcantonio: se pensi a un mercenario in Africa ti viene in mente uno così.
A quell’ora non ci doveva essere vita nella fungaia di quegli edifici di periferia, il più alto dei quali
aveva quattordici piani, gli altri sette. Non avrebbero dovuto esserci sorprese malsane. Avevamo fatto
ogni accertamento possibile. Sapevamo che viveva solo, avevamo immagini a iosa per non sbagliare
l’identificazione. Le avrei mostrate all’ultimo istante ai colleghi in divisa insieme al mandato di cattura.
Accidenti, qualcosa non andò come era previsto. Ci inoltrammo nel dedalo di straduzze, che
conoscevamo a memoria, e del resto eravamo mappe ambulanti. Ecco che qualche decina di metri davanti
a noi riconoscemmo il Mari che confabulava con un tizio mai visto, davanti all’ingresso dello stabile dove
abitava, accanto a una Mercedes verde.
Che fare? Bisognava decidere in un istante. Misi insieme in fretta le conoscenze che avevo sui
comportamenti quasi meccanici dei guerriglieri di destra. Non avrebbero cercato riparo, non avrebbero
alzato le mani. Avrebbero cercato lo scontro a fuoco.
Decisi di deviare, allora, ma senza manovre brusche, come chi si accorge di aver sbagliato strada.
Richiesi via radio la presenza immediata dei colleghi dell’Anticrimine.
Dissi a Pluto di svicolare a sinistra, non conveniva avvicinarsi. Meglio fare il periplo del piccolo quartiere
e tentare di sorprenderli arrivando da un’altra parte, e intanto controllare chi fosse lo sconosciuto. Forse
era uno dei capi o comunque un pezzo grosso dell’organizzazione. Ci riaffacciammo con l’auto nel
vialetto. Mari era risalito in casa. Il tale in Mercedes stava percorrendo la strada nel senso opposto al
nostro, girò in un viottolo. Non potevamo lasciare che fuggisse, bisognava bloccarlo, identificarlo,
controllarlo e portarlo in caserma.
Pluto viaggiava piano, come per farsi da parte e lasciarlo passare. Poi repentinamente gli parò l’A112
davanti, pronto per un frontale. Gli andammo addosso.
Io scesi con la Smith & Wesson .38 spianata. Gli urlai: «Carabinieri! Scendi dalla macchina e dammi i
documenti». Il tizio per tutta risposta innestò la retromarcia e accelerò.
Sparai due colpi per aria e correndo a piedi mi lanciai all’inseguimento. Dopo 50-60 metri la Mercedes
andò a sbattere contro due panettoni e si bloccò.
A quel punto tutto diventa velocissimo. Rallentando la corsa, abbassandomi istintivamente sulle gambe
in posizione di tiro, riduco la sagoma come mi hanno insegnato. Grido ancora: «Carabinieri, esci con le
mani in alto».
Ed ecco che l’uomo, che scoprirò essere Fabio Galesi, scivola fuori dall’abitacolo parzialmente riparato
dalla portiera.
Ma non ha alcuna intenzione di arrendersi e consegnarsi. È a 40 metri da me, mi sta sparando, vedo le
due mani congiunte che impugnano la grossa pistola, con postura da professionista. Quelle due fiammate
ce le ho davanti agli occhi ancora oggi.
Mi butto sull’asfalto e mi allungo per ridurre al minimo l’esposizione al fuoco. Rispondo con due colpi,
con uno buco uno pneumatico della Mercedes, l’altro trapassa la portiera, forse lo colpisce a una gamba.
Lo vedo scappare per i prati alla mia sinistra. Prendo l’M12 Beretta, che avevo lasciato nell’auto, e sparo
una raffica di mitra.
1. Riferito da Giovanni Bianconi in A mano armata, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2007.
Parte seconda
Le guerre fredde e quella contro il terrorismo islamico
Capitolo 1
Dai carabinieri al Sismi
Avevo deciso. Quello non era più il mio posto. Non che mi trovassi male alla Sezione speciale anticrimine
dei carabinieri, ma ormai non aveva nulla di speciale. Tanto che poi le hanno cambiato persino il nome, a
simboleggiare una normalità, un ripristino della bonaccia sociale che percepivo più come decisa a qualche
potente tavolino che corrispondente alla realtà. Dopo l’operazione che aveva annientato i Comunisti
organizzati per la liberazione proletaria (Colp), dopo l’arresto degli assassini dei Nuclei di azione
rivoluzionaria (Nar), l’idea che circolava era che il cancro terroristico fosse stato estirpato. Il prestigio
della nostra bella squadra restava intatto, veniva agitato il turibolo dinanzi alle nostre gesta, ma io non mi
ero arruolato per il prestigio.
A 23 anni non mi andava di campare di rendita, seduto intorno alle ceneri calde di un fuoco ormai
scemato e che nessuno avrebbe riattizzato.
Nei primi mesi del 1984, successivi agli arresti di via Vallazze e di Affori, si era diffusa nelle menti e negli
animi la convinzione fasulla che i terroristi di sinistra e di destra fossero stati annientati, che si stesse
aprendo una nuova epoca, che il lavoro di punta dovesse ormai concentrarsi prevalentemente nelle aule
dei tribunali.
Io non ne ero affatto convinto. Avevamo inflitto colpi mortali ai vertici e alle truppe dell’eversione
terrorista, ma non dovevamo ritirarci come Annibale negli ozi di Capua. Non che ci fossero direttive in tal
senso, è solo che certe idee si respiravano nell’aria. Mi basavo sull’osservazione della realtà. Avevo
studiato documenti, passato giornate a dialogare con capi e gregari della lotta armata in caserma e in
appartamenti segreti, e avevo maturato la certezza interiore che aver promulgato una serie di leggi
speciali non poteva essere sufficiente per far sparire il contagio della violenza rivoluzionaria e il suo
fascino perverso. Avevo constatato sul campo – a Parigi e per tutta la Francia – che esistevano ambienti
predisposti a tenere in vita quel virus, anzi a nobilitarlo come espressione di libertà e di giustizia.
Lo documenta il sangue degli omicidi che negli anni seguenti videro la puntuale applicazione dei
metodi da noi identificati e simmetricamente combattuti: l’assassinio dell’economista di area riformista
Ezio Tarantelli il 27 marzo 1985 all’università di Roma; quindi il 10 febbraio 1986 quello dell’ex sindaco di
Firenze, il repubblicano Lando Conti; e ancora l’uccisione del costituzionalista Roberto Ruffilli, a Forlì,
nella mia Romagna, il 16 aprile 1988. Le Br non avevano imitato il nostro tacito passaggio dall’«Attenti» al
«Riposo» se non addirittura al «Rompete le righe»…
Esagero? Ammazzato il generale dalla Chiesa, abbandonato a Palermo, durarono poco anche le sue
sezioni speciali! Fu un errore strategico. Il male non è mai a compartimenti stagni, cerca e trova nuovi
nidi. Pensi di aver tagliato via il tumore e così sconfitto il cancro: ti illudi. L’organismo-nazione necessita
di nuclei anti-cancro che abbiano quel tipo di preparazione e insieme di spirito democratico, come quelli
infusi dal Generale. Invece…
Non so chi abbia iniettato sottopelle tale quietismo anche tra noi della caserma di via Moscova. Di certo
il Generale non l’aveva costituita per l’ordinaria amministrazione, questa sezione (non più così) speciale.
Lo sto scrivendo quasi quarant’anni dopo, e sarebbe piuttosto comodo e abbastanza vile, alla luce dei
decenni successivi, autoincoronarmi come profeta. «Calma, ragazzo» direi al Marco di allora.
Ho imparato nel frattempo, sull’esperienza mia e di tanti colleghi, che c’è tanto eroismo nel dovere
quotidiano speso umilmente, quanto nelle azioni estreme compiute sull’orlo dell’abisso. Umiltà dunque,
prima di parlare a vanvera.
Di sicuro però non avevo, e neppure in seguito avrei acquisito, le skills, come le chiamano ora, da
militare in servizio permanente. Sono allergico alle parate. Intendiamoci, la presenza di forze dell’ordine
riconoscibili è utile, e anzi essenziale alla coesione sociale, e in esse pullulano delle vere eccellenze. Ma
non era questo il destino cui intendevo consegnarmi.
D’altra parte non intendevo neppure congedarmi per trasferire le mie ambizioni in una dignitosa
professione borghese, tenendomi in tasca la memoria dei momenti di gloria per esibirli pubblicamente,
come i reduci del Vietnam nei film.
Doveva pur esserci una strada giusta per me.
Marzo 1984. Prendo qualche giorno di ferie, li passo dai miei genitori in Romagna, studio come un matto,
tengo fede al mio programma. La primavera incipiente mi induce a una pausa, mi riposo in piazza con la
moto, che avevo acquistato da poco, un’Honda Custom 500 lucida e fiammante.
Sono lì con il casco in mano per salutare un amico d’infanzia quando mi vede don Isidoro, il mio
insegnante di religione alle medie. Tira fuori la testa dalla sua R4 verde. Mi fa segno di restare lì. È un
po’che non ci vediamo, due chiacchiere con il prete non fanno male.
Scende dalla Renault e mi dice in dialetto romagnolo: «A sìt incòra a Milan cun i sciòp a ciape’ i
terurèsta?». Traduco: «Sei ancora a Milano con il fucile a prendere i terroristi?». Gli dico di sì, mi guarda in
faccia, mi legge dentro. Gli confido le mie intenzioni, l’idea di congedarmi. «Ho un amico che va bene per
quello che mi hai detto. Adesso tu alle due vieni in canonica a Mandriole, poi andiamo insieme in chiesa e
ti confessi.»
Mi confesso. Poi mi riaccompagna in canonica. Mi spiega che lui e il generale Ninetto Lugaresi,
direttore del Sismi, si conoscono da quando erano bambini, sono amici per la vita. Mi annuncia senza
ammettere discussioni: «A mio giudizio tu sei adatto per fare l’agente segreto. Se permetti, telefoniamo a
Ninetto». Compone il numero, con uno di quei telefoni vecchi, grigi, con la ruota. «Sono don Isidoro,
volevo parlare con Ninetto.» «Il direttore dice che la richiama subito.» Mi sembrava di essere in un film.
Dopo un attimo, arriva la telefonata di Ninetto. Battute scherzose. Rievocazioni dell’infanzia,
dell’adolescenza e degli scherzi da ragazzi. Ed ecco che don Isidoro parla di me, dice di avere lì vicino un
suo studente, che adesso stava nei carabinieri, quelli che a Milano eccetera. «Te lo voglio presentare, ci dai
udienza?» Il generale ci fissa un appuntamento di lì a qualche giorno, nella tal data, a mezzogiorno, in via
XX Settembre, ufficio del direttore: annunciarsi ed entrare.
Ero appena rientrato a Milano e mi tocca chiedere due giorni di ferie – all’epoca si diceva licenza –, per
motivi seri e personali. Lì per lì me li concedono. Poi invece no. Contrordine: «Tortellino, alt!». C’è un
pentito, un uomo che avevo seguito per mesi, che finalmente è pronto per individuare un «nasco», cioè
un deposito di armi delle Brigate Rosse a Pineto degli Abruzzi, e dice che ci va solo con me.
Sono disperato, spiego a Zerotrenta che proprio non posso, devo accompagnare la mia fidanzata a una
visita medica molto delicata, ma non c’è niente da fare, viene prima il servizio. Il capo è convinto che
Ravenna e l’Abruzzo siano a una sassata di distanza, secondo lui in qualche modo posso mettere insieme
le due cose. Spiego tutto a Tavola, che per fortuna ha seguito con me il pentimento del guerrigliero, e lui
si offre di sostituirmi. Il pentito non ha obiezioni, Zerotrenta mi guarda storto ma accetta. (Quando
lascerò la Speciale si arrabbierà per il mio «tradimento» all’Arma, ma dopo alcuni anni entrerà anche lui
al Sismi).
Torno a casa rapidamente, la mia fidanzata mi presta la sua auto, recupero don Isidoro e parto con lui
per Roma. Arriviamo la sera. Alloggiamo dai suoi parenti, un po’ fuori dall’Urbe. Alle 6:30 del mattino
picchia sulla porta della mia stanzetta, poche storie, andiamo a San Pietro. Sono gli ultimi giorni del
giubileo straordinario della redenzione. Mi spiega che dirà lì diverse messe, io mi dovrò confessare, c’è
l’indulgenza plenaria, «ci vale per emendare i peccati» e così saltare le pene del Purgatorio. Insomma, mi
fa tutta la storia. Sono le 7:30, quando parcheggio vicino al colonnato. Mi dice: «Dopo che attraversiamo
la Porta Santa tu vai a confessarti e sentir messa, io passo dalla sacrestia, ci vediamo alle 11 alla
macchina…».
Confessione, messa, comunione, messa di nuovo, e poi la terza messa. Arrivo accanto all’auto in
leggero anticipo. Lui no. Fremo. Don Isidoro non arriva. Si fanno le undici e mezza. Non c’è. Un direttore
del Sismi mica resta lì ad aspettarci, mi riterrà un coglione inaffidabile. Manca un quarto d’ora a
mezzogiorno quando arriva. Tutto serafico, riesce pure ad avere ragione lui: «Svelto su, che si va».
Ma dove? «Io non so dove andare e lei non conosce Roma…».
«Tu non ti preoccupare, il Signore è con noi.»
Apre lo stradario e segna con il dito le strade che percorriamo. A mezzogiorno meno cinque siamo in
via XX Settembre, sotto l’ufficio del Sismi. Ai tempi si poteva parcheggiare lì e proprio in quel momento si
libera giusto giusto un posto.
«Vedi che il Signore è con noi? Anche il parcheggio…»
L’avrei strozzato.
Mezzogiorno meno due minuti. «Sono don Isidoro» annuncia al militare all’ingresso.
«È con il suo amico?»
«Sì, è questo qui» mi indica. Ci accompagnano nell’ufficio del generale Lugaresi.
Io vengo trattenuto dal segretario del direttore, un colonnello dell’esercito. Per circa un’ora discorro
con lui, prendiamo il caffè, mentre don Isidoro parla col generale.
Il colonnello mi chiede: «E tu allora vuoi entrare nei servizi segreti…».
Io dico: «Mah, guardi, non lo so, sono qui, dico la verità, non di mia iniziativa, ma portato da questo
sacerdote…».
«Be’, se ti riceve, sei molto avanti» mi dice.
Mi riceve! Vado a colloquio col generale. Mi dà del lei: «È un sottufficiale dei carabinieri? Be’, come
militare dovrei punirla perché lei doveva chiedere l’autorizzazione ai suoi superiori per venire a parlare
con me». Io cerco subito di giustificarmi, invoco la causa di forza maggiore: don Isidoro mi ha portato via,
«Provi lei a resistergli».
Lui si mette a ridere: «Sto scherzando, voi dell’Anticrimine siete la crema dell’Arma. Il tuo comandante
generale è un mio carissimo amico, però quando gli si chiedono persone che hanno la tua esperienza, lui
non è molto contento a lasciarle andare via».
Lugaresi mi chiede a questo punto quali sono le mie aspirazioni. E io saprei bene cosa dire, però scelgo
la prudenza: «Se lei ritiene, gradirei entrare nell’intelligence e continuare a servire il mio Paese. Per
l’esperienza che ho fatto nella lotta al terrorismo, con Brigate Rosse, Prima Linea e Nar, insomma, don
Isidoro dice che sono adatto a fare l’agente segreto. Mi piacerebbe. Se questo lavoro è compatibile con le
mie caratteristiche… Mi vedrei bene in una nuova avventura» eccetera eccetera.
Ho l’impressione di aver rovinato tutto, passando dall’ossequio titubante alla voglia matta di venire
arruolato, e lui mi rivolge uno sguardo lievemente ironico, come se dicesse tra sé e sé: «’sti ragazzi…».
Poi, però: «A mio giudizio tu sei adatto…». Attimi di sospensione. «…ad andare in Nicaragua. Tieniti
pronto» Io biascico dei ringraziamenti, mi balenano davanti agli occhi visioni di giungla e di rivoluzione.
Esco. Don Isidoro è raggiante, io non ci credo ancora.
Pochi giorni dopo mi arriva una lettera a casa: un foglio di convocazione per le visite mediche, senza
mittente, ovvio, e senza firma. Non devo dir niente a nessuno. Vado e supero le visite e gli esami psico-
attitudinali; studio con impegno e mi laureo; nel frattempo, però, Lugaresi è sostituito da Martini.
Partecipo a un concorso, per titoli ed esami, per diventare funzionario. Siamo in tanti, e non è l’arbitrio
«delli superiori» né l’incrocio di cordate a determinare l’esito e la carriera dei candidati. Come prevede la
lettera della Costituzione (art. 97 comma 3) per i posti della pubblica amministrazione si concorre, «salvo
i casi previsti dalla legge» – che meno sono meglio è –, e comunque non è prevista la cooptazione
clientelare. Occorreva aver conseguito un certo tipo di laurea, avere determinati anni di servizio, con note
di merito ottime e abbondanti, e avere già svolto attività operative sul campo. Io ho tutti i requisiti. Poi:
due scritti, in italiano e in lingua straniera, e dieci orali. Siamo in pochi a passare. Credo di aver fatto un
buon tema a proposito della funzione della Nato nei Balcani e di come poteva essere applicata
l’intelligence in quel teatro. Insomma: vinco il concorso, divento funzionario.
Il Comando generale dell’Arma informa i miei superiori della caserma di via Moscova che vado al Sismi.
Ma nessuna cordialità da parte dei colleghi alla Sezione speciale dei carabinieri.
Per due anni fu il gelo, di speciale restava solo l’incazzatura che si erano presi per il mio trasferimento.
Tempo dopo, però, mi sarei ritrovato a sostenere la candidatura di alcuni di loro, dopo che avevano
ricominciato a salutarmi e chiamarmi. Tutta gente di valore, quindi trovarono le porte aperte, anche se
qualcuno si portava ancora dentro un discreto tasso di acidità per l’inversione dei ruoli gerarchici. Così va
il mondo.
Sono in treno da Milano a Roma. Nella lettera di convocazione immediata è indicato un indirizzo,
segnalato come ultra-segreto, e che ultra-segreto deve restare. Primo rebus: raggiungo il numero civico,
peccato che sia condiviso da una chiesa e da un palazzetto a essa congiunto. Quindi, dove devo andare?
Opto per la chiesa, mi sembra più da servizi segreti. Anzi, mi sento persino molto intelligente. Ci trovo un
prete che mi viene incontro e mi saluta in inglese. Penso: è lui, l’abito talare è la sua copertura. Mi sembra
finalmente di essere entrato nel favoloso mondo delle spie, dove nessuno è quello che sembra.
Nel mio inglese alquanto rudimentale gli dico come mi chiamo e che mi presento per entrare nella
struttura. Lui fatica a celare dietro il sorriso un certo compatimento misto a comprensione. Il reverendo,
non ritenendomi certo un seminarista, mi spiega che devo aver sbagliato porta: l’ufficio che cerco è lì
accanto. «Non si preoccupi, capita spesso che vengano a mettersi a rapporto da me» ride. Quindi quel
sacerdote sapeva tutto, altro che arcisegretezza. Oppure faceva parte della messinscena? Non l’ho mai
saputo. Mi congeda dicendomi: «Non si faccia idee strane, sono proprio un prete». Risultato: sono più
confuso di prima.
Busso infine alla porta giusta. Ci sono pratiche aperte a mio nome e fogli da compilare. Definita la
parte amministrativa mi viene indicata la struttura da raggiungere. Dopo circa un’ora ci sono. Vengo
ricevuto da un signore distinto, il quale mi comunica che non andrò più in Nicaragua. A Managua – così
mi dice – la situazione è cambiata, e quindi invece che all’estero mi inviano in un centro operativo di
controspionaggio sul territorio nazionale.
La mia avventura ricomincia.
Sono divenuto direttore del Sismi il 12 agosto 1981. Il precedente direttore, generale Giuseppe Santovito lo trovai in carica
il giorno in cui lo sostituii. Del ruolo che aveva avuto in precedenza il dr Francesco Pazienza venni a conoscenza intorno
alla metà di ottobre. Il generale Pietro Musumeci rientrò in servizio, dopo la licenza di 60 giorni, il 14 settembre. Lo
ricevetti alla presenza di D’Eliseo all’epoca ancora capo dell’ufficio del direttore, per informarlo che fin dal 4 settembre
scorso ne avevo proposto il rientro alla Forza armata al presidente del Consiglio e che pertanto, in attesa della
formalizzazione del provvedimento, si doveva considerare a mia disposizione senza incarico. In tale occasione Musumeci
fece delle rimostranze e alla fine andò via dicendo con tono minaccioso: «Chi di spada ferisce, di spada perisce».
Come è noto i generali Santovito e Musumeci risultarono iscritti alla P2. Peraltro Santovito lasciò la direzione del servizio
per raggiunti limiti di età, mentre Musumeci fu restituito all’Arma con provvedimento del presidente del Consiglio
Spadolini a seguito di una mia proposta. Simile proposta la inoltrai per tutti i sette ufficiali iscritti alle liste di Gelli e in
servizio al Sismi. Va tenuto conto che si trattava di ufficiali dirigenti di livelli direttivi, per cui ho motivo di ritenere che
con il loro allontanamento il collegamento organico della loggia P2 col servizio, e quindi di Gelli Licio con i singoli ufficiali,
si interruppe.
[…] L’attività del servizio, nel periodo inizio 1980-1981, è sempre stato più accentrato nelle mani del binomio Musumeci-
Pazienza, tanto più che il generale Santovito denunciava decadimento psicofisico a causa della malattia che lo condurrà a
morte il 6 febbraio del 1984. Il progetto che faceva capo ai tre prevedeva, tra l’altro, la nomina di Pazienza a direttore
generale del «Corsera»; di Musumeci a direttore generale della Eskino, società di vigilanza privata che avrebbe dovuto
costituire il servizio informativo del Banco Ambrosiano, tanto che noi sospettammo che dietro questa iniziativa si volesse
creare un surrogato del Sismi; e la nomina del generale Santovito a direttore generale della società di Pazienza, Ascofin.
Ho più volte espresso nei miei rapporti interni la convinzione del permanere una attività antiSismi e in genere
anticostituzionale in episodi che sono stati diretti contro le attività del servizio; l’attacco che subii personalmente in
parlamento da parte dell’onorevole Cosentino Belluscio che chiese espressamente il mio esonero dall’incarico; la costante
denigrazione e calunnia messa in opera, in coordinazione, dall’agenzia Repubblica di Lando Dell’Amico e da «Tutta
Roma», il quotidiano romano, e poi proseguita sul «Borghese»; la mafia di New York che inviava lettere anonime contro di
me dirette al ministro della difesa Lelio Lagorio; le intimidazioni contenute in una lettera proveniente dallo studio
Morrison di New York, legale di Pazienza, che mi invitava energicamente a desistere dall’interessarmi del loro cliente
poiché altrimenti avrebbero rivelato notizie compromettenti per l’attività del governo italiano […]. Si trattava di attacchi
contro il Sismi e contro la mia persona aventi come obiettivo la mia sostituzione allo scopo di attenuare l’offensiva che il
Sismi da me diretto stava conducendo nel quadro di un impegno dello Stato per superare l’emergenza morale. Era poi
notorio che i colpi diretti contro di me sarebbero rimbalzati contro il presidente del Consiglio Spadolini e il presidente
della Repubblica Pertini che avevano avallato la mia nomina. […]
Si può dire che la capacità operativa di queste forze cresce progressivamente fino alla primavera del 1981, allorché
l’indagine della magistratura di Milano porta alla ribalta il potere P2. Si profila quindi il crollo del sistema prodotto dal
potere P2 e comincia la nuova fase dell’emergenza morale che, per quanto riguarda i servizi informativi si afferma
nell’estate 1981, con le nuove nomine.
Il 28 maggio 1981, una settimana dopo la pubblicazione delle liste, in Uruguay la polizia locale fa irruzione nella residenza
di Gelli a Carrasco, nei pressi di Montevideo, e sequestra, in una stanza occultata da una finta parete, il grande archivio che
il Venerabile aveva trasferito oltreoceano nel 1978. Si tratta di oltre 500 dossier. […]Poco dopo, il nuovo capo del Sismi, il
generale Ninetto Lugaresi, avvia la cosiddetta «Operazione Minareto» per cercare di riportarli in Italia; guarda caso alcuni
democristiani e socialisti chiedono al Quirinale anche la sua testa, oltre a quella della Anselmi, e si muove pure la Cia,
preoccupata che Gelli disponga di documenti riservati Nato (17 marzo 2021).
Il reclutamento di carabinieri giovani, bravi e puliti era parte di questa strategia di sradicamento delle
cellule tumorali introdotte nel cuore del Sismi dal trio piduista Santovito-Musumeci-Pazienza. E io, tra
loro, una piccola pedina sulla grande scacchiera dove si giocavano le sorti della democrazia: dalla parte
giusta, direi.
Proprio tenendo conto delle mie origini si può capire quanto sia inverosimile l’idea stessa che io possa
essermi legato a qualcosa di deviato, di anticostituzionale. È un’ipotesi totalmente estranea alla mia
natura e alla mia storia, e offende la memoria del mio mentore Lugaresi (perseguitato). È come se,
scientemente e scientificamente, si fosse cercato, con ossessione ormai ventennale, di deformare la mia
personalità.
Il generale Pasquale Notarnicola, braccio destro di Lugaresi, e capo della prima divisione del Sismi, lo
stesso ruolo che avrò io nel 2003, il 6 dicembre 1991 depose a Palazzo San Macuto davanti alla
Commissione parlamentare d’inchiesta sul terrorismo. Ovviamente la deposizione non è incentrata sulla
mia modesta persona, tuttavia le parole di Notarnicola permettono di capire che cosa ci facesse
nell’ufficio del direttore anti-P2 del Sismi uno come me.
C’era dell’altro personale, circa venti-trenta persone, affluito fra fine ’79 e l’inizio dell’81, reclutato tra militari di leva delle
brigate paracadutisti di Livorno e della Scuola di Pisa. Queste persone erano state reclutate dall’Ufficio controllo e
sicurezza diretto da Musumeci (P2). Questo personale venne addestrato e per un certo periodo di tempo rimase
concentrato a Roma. Per me si trattava di un’anomalia in quanto sarebbe stato più appropriato reclutare carabinieri, come
normalmente avveniva. Tra l’altro avevamo bisogno di carabinieri, mentre non comprendevo l’utilità di personale
proveniente dal servizio di leva. Credo che anche il generale Lugaresi condividesse il mio punto di vista, tanto è vero che
allorquando assunse la direzione del Servizio sciolse questo gruppo e lo ripartì fra le divisioni operative. Fece questo
contemporaneamente allo scioglimento dell’Ufficio controllo e sicurezza. Non so quale uso abbia fatto il colonnello
Musumeci di queste persone…
Non appena ebbe inizio il mio addestramento, cominciai a guardare con occhi da spia.
Sì, spia. Non sono di quelli che hanno paura di questo termine. È considerato sinonimo di traditore, di
persona insincera, un po’ schifosa. Nei giochi dell’infanzia è forse il peggiore tra gli insulti. Ma il verbo
spiare viene dal latino specere, guardare.
Questo guardare-spiare è la struttura permanente di qualsiasi formazione umana che sia consapevole
del fragile assetto del mondo, e della lotta che in esso da sempre si svolge tra i popoli confinanti, alternata
a periodi di pace. Neanche nella pace, però, si smette di osservare le mosse del vicino.
La questione morale e il giudizio popolare negativo cedono poi fatalmente il passo all’ammirazione,
quando qualcuno che fa parte della comunità, e per il bene della comunità, s’incunea nelle file nemiche
per spiare (cioè «guardare»), e riesce a fornire informazioni utili a prevenire le mosse dell’oppressore o a
sventare una strage.
Non è affatto facile agire in questo modo. Comporta un sacrificio enorme di se stessi. Non si può
aspirare a un qualche riconoscimento pubblico del proprio lavoro, fosse anche solo un attestato di stima.
Spesso si mette a rischio la vita. Come capita in qualsiasi attività umana, poi, ci sono individui ignobili,
che alimentano strutture che si reggono sulla tortura e sulla violenza. Ed è precisamente per tutelare la
mia gente contro questa tipologia di organizzazioni che mi sono ritrovato a servire il mio Paese nel cuore
del comparto intelligence, quello del controspionaggio, di cui alla fine sono diventato capo.
Dai colleghi appresi l’importanza del fattore umano nell’intelligence, ma mi resi anche conto che
occorreva far fare un salto di qualità ai servizi segreti italiani. Non potevamo più accontentarci di
constatare le attività del fronte nemico e agire a cose fatte per evitare che gangli vitali strategici fossero
penetrati da servizi ostili. Non solo: non potevamo più accodarci alle valutazioni di servizi collegati, come
la Cia, il Mi6, il Mossad o altre agenzie. Non potevamo continuare a essere, insomma, le forze sussidiarie
dei primi della classe.
Collegati sì, succubi no.
Il mondo si stava muovendo. Erano ancora gli anni della guerra fredda, e alcune città italiane erano
luoghi privilegiati del confronto con i servizi segreti dell’Unione Sovietica e del Patto di Varsavia. Se c’è
chi pensa che dall’avvento di Gorbaciov i servizi russi avessero adottato una linea simpaticamente
dialogante, be’, si sbaglia: restavano il nerbo duro. Nel frattempo stavano crescendo i servizi iraniani.
Erano già molto forti, ma noi non avevamo una conoscenza approfondita dall’interno.
Non era possibile nemmeno che il punto apicale del nostro controspionaggio fosse tenere sotto
controllo il telefono di una presunta spia o terrorista. Magari chi ci interessava monitorare non parlava
affatto al telefono. Senza considerare poi che se al telefono avesse detto delle fesserie, io avrei riportato
fesserie. E se invece avesse parlato di cose che non erano di interesse istituzionale, ma che riguardavano
solo la sua vita privata, non avrei fatto intelligence: avrei fatto soltanto gossip.
Ci servivano fonti autorevoli. Non il portinaio che ti dice che dentro l’ambasciata o il consolato è
entrato uno o è uscito quell’altro. Niente di tutto ciò avrebbe aiutato il presidente del Consiglio a
prendere decisioni politiche.
Si doveva ribaltare l’agenda, capovolgere la narrativa. Essere noi a invadere gli altri, inserendo fonti
attive nei loro meccanismi. Adattare ad altri soggetti la filosofia d’intervento che avevamo adottato per
scardinare le Brigate Rosse e Prima Linea a Milano. Metterci a specchio dei nemici, anticiparne le mosse.
Entrare nelle loro scarpe prima che le calzassero. Usare la loro forza, applicandogliela contro. In poche
parole: il controspionaggio attivo, o meglio il controspionaggio offensivo.
Cominciai a pensare che fosse necessario avvicinare persone che potessero fornire importanti
informazioni di intelligence e farle diventare «prima «amici» e poi «fonti» dell’Italia.
Anni di duro lavoro mi aspettavano. Prima di essere promosso (con concorso) funzionario, e poi
dirigente, dovevo mangiarne di appuntamenti inutili, di rifiuti da incassare con sportività. Quando ti
trovavi davanti una porta chiuse a chiave, non potevi far altro che spostarti a un altro uscio, sempre
agendo con naturalezza, senza mai lasciare in giro scorie di sospetto adescamento.
Avevo studiato i fascicoli dedicati ai grandi agenti del KGB che avevano soggiornato in Italia. Allora
c’era un treno che partiva da Bologna e arrivava a Mosca: quindi sotto le due torri arrivava il mondo. Un
interscambio continuo di visite, turismo, affari, amori. E l’intelligence doveva sfruttare questa centralità,
nuotare in questo fiume così ricco di occasioni.
Avevamo ben chiaro che, perestrojka o no, caduta dell’Urss o no, i servizi russi erano rimasti tali e
quali. In particolare quello militare, il Gru.
Avevano ancora la stessa cattiveria dei tempi d’oro del regime sovietico. Come contrastarli
efficacemente?
In Italia c’erano istituti di studi superiori, dove le famiglie più ricche di molti Paesi stranieri (tra cui gli
Stati del Patto di Varsavia) mandavano i figli. Incominciai a frequentare gli studenti più brillanti che
provenivano da zone altrimenti difficilmente penetrabili. Diventavano prima contatti, poi amici, senza
fretta. Lavoravo in prospettiva, per ritrovarli alcuni anni dopo a ricoprire ruoli chiave nei loro Paesi. Un
obiettivo di lungo termine, della massima importanza.
E proprio questo io facevo: andavo nelle università e costruivo rapporti d’amicizia. Del resto studiavo
giurisprudenza, mi amalgamavo in maniera naturale, non fingevo, ero me stesso.
Il criterio per selezionare i soggetti interessanti non era il rancore né il disprezzo che potevano provare
verso il loro Paese – sapevamo già quanto quei regimi fossero ingiusti e corrotti –, ma la simpatia per il
nostro modo di vivere, l’ammirazione per la bellezza. Le spy-stories insistono solo ed esclusivamente su
belle donne che seducono la risorsa forestiera di turno, ma sono panzane, utili a mantenere vivo lo
stereotipo, intriso di machismo e sessismo, della «femme fatale senz’anima».
No, la vera arma di seduzione era l’Italia in sé. Dunque il target avvicinabile era la gente colta che
veniva da noi a studiare e lavorare, ma anche i diplomatici e tutti quelli che avevano il pallino del Bel
Paese…
Aver predisposto, costituito e portato a regime nel Paese di interesse una «rete di amici», cioè un sistema
relazionale imperniato sul «rapporto umano», consentiva di ottenere risultati concreti ed efficaci.
Qualche esempio? In Russia o in Bielorussia riuscivamo a ottenere numeri telefonici riservati altrimenti
inaccessibili. Venivamo informati del luogo di residenza o del nuovo domicilio di un determinato
soggetto. Addirittura capitava di entrare in possesso della cartella clinica di membri di apparati di
sicurezza. Tramite queste vie riuscivamo a identificare i funzionari dell’intelligence di quei Paesi,
ricostruire la mappa delle vaste aree del mondo in cui erano dislocati, Italia compresa.
Prima era sempre stata un’utopia. Un progetto impossibile.
Invece è così che l’intelligence italiana è entrata nell’Olimpo del controspionaggio. Un altro esempio?
Quando un gruppo terroristico opera in teatri di guerra o in Paesi difficili (Afghanistan, Iraq, Iran,
Libano, Libia, Somalia, Niger, Mali e altri) può diventare un obiettivo informativo e un bersaglio per la
Nato. Il controspionaggio offensivo consente di monitorare tali gruppi, mettere loro il fiato sul collo,
infiltrarsi con idonee fonti umane – e ovviamente con l’ausilio della cyber, cioè delle tecnologie
informatiche. Non solo, può accertarne eventuali collegamenti con milizie paramilitari (come il gruppo
Wagner, per citarne uno dei più famosi).
Se ritieni di interesse istituzionale un soggetto che gravita in queste aree (e vuoi sapere chi incontra,
dove lavora, quali sono le sue amicizie e frequentazioni), non puoi inviare sul campo solo personale di
intelligence italiano. Gli agenti verrebbero scoperti e identificati nel giro di quattro minuti. Devi piazzare
sulla scia del tuo uomo persone nate e cresciute sul posto. Ma prima devi reclutarle, lasciandole nel loro
habitat. Poi istruirle alla raccolta clandestina di informazioni, e solo a quel punto impiegarle secondo le
tue esigenze informative. E pagarle bene.
Questa prassi sono stato io a introdurla al Sismi. Mettevo a parte del lavoro la mia scala gerarchica e
arrivavano i primi risultati. Così allargai le mie attenzioni ai Paesi arabi e all’Iran.
Studio, osservazioni, lezioni all’università e chiacchiere al bar. La sera, discussioni politiche. Io ero Marco
Mancini, non fingevo, mi limitavo a non dire quale fosse il mio lavoro.
Intanto un’amicizia cominciava, un’altra cresceva, in certi casi si arrivava a mettere in gioco l’uno per
l’altro i beni più preziosi. Non erano ragazzi ingenui che si potessero prendere per il naso. Pervenivano
da Stati dove la pervasività di polizia e agenzie informative era assoluta. E sapevano di essere membri
della classe dirigente in boccio, destinati a giocarsela per un ruolo di comando, qualunque evoluzione o
sconvolgimento avessero avuto i regimi sopra di loro.
Se capivo che il tale era a corto di grana – magari me lo faceva sapere quasi per caso – trovava pagato
l’affitto dello studentato o le rate della moto con cui scorrazzava per la città. Pure il contratto di luce,
acqua, gas, o le vacanze, perché no. Voleva andare a vedere Venezia? Gli trovavo un hotel, due settimane
per lui e la fidanzata.
Sto parlando degli anni Ottanta: erano investimenti sul futuro. Non mascheravo niente, capivo che loro
capivano, e le discussioni sulla politica e sull’ideologia non erano finte. La spia che simula non funziona
quando si tratta di reclutare fonti, ha più presa la verità di sé e dei propri convincimenti, l’accettare anche
le piccole miserie di ciascuno.
Un giorno di venti e più anni fa mi arriva una telefonata a Ferragosto. Un «amico» mi comunica che
sua moglie sta male, è gravissima, ha cercato di uccidersi, mi chiede aiuto. Lì ci si gioca tutto, lì si vede
quanto vale il patto che è stato stretto – e non intendo solo il patto tra lui e un agente segreto che è
diventato un amico, ma il patto di mutuo soccorso per un bene comune tra un rappresentante di questa
schiera silenziosa di nostri compatrioti adottivi e l’Italia. Lui si è assunto il rischio supremo di essere
considerato un traditore, qualora fosse stato scoperto; io quello molto concreto di essere considerato un
quaquaraquà, insieme alla mia Patria. Non lasciamo uno dei nostri e dei suoi cari ferito sul campo,
sappiamo riconoscere e corrispondere a una necessità vitale. Non è solo una questione morale, bisogna
anche essere capaci e pratici. Riesco ad avere l’ok dall’alto, a trovare un aereo, un medico donna, un kit di
medicinali idoneo dopo la diagnosi a distanza, e infine a ottenere un via libera per attraversare zone del
cielo complicate. Il tutto a Ferragosto.
Non è buon cuore, è parte del metodo, e il metodo include il buon cuore. Il bene, alla fine, è realpolitik.
Puoi compartimentare come vuoi, puoi fare in modo che nessuna fonte sappia dell’esistenza dell’altra, ma
ci sono messaggi che arrivano dovunque. Una specie di risonanza magnetica. E ti rendono un
interlocutore affidabile.
Posso dire che tra loro ho ancora amici o è un’eresia?
Negli anni in cui frequentai le università conobbi molti iraniani, molti libanesi (cristiani ma anche
Hezbollah, dunque sciiti filo-iraniani), molti siriani. Mi posi l’obiettivo di analizzare la presenza degli
studenti stranieri in Emilia Romagna e altrove in Italia, classificandoli sia per nazionalità sia per
tendenza. Quanti siriani c’erano? Quanti palestinesi? Quanti iraniani? Questi ultimi si suddividevano in
antikhomeinisti a Bologna, filoayatollah a Modena e Catania. Perché un Paese dittatoriale spediva proprio
da noi i suoi studenti promettenti? Per assecondare quali interessi? E in quali facoltà? Perché l’Iran
mandava frotte di iscritti a ingegneria? L’idea più probabile era che si attrezzassero per sviluppare in
seguito la produzione di armi di distruzione di massa. Vista lunga.
L’Emilia Romagna e le Marche erano una miniera di possibilità per l’intelligence. Poi si insediò, negli
anni Novanta, una folta comunità di albanesi. Tra di loro c’erano professionisti di valore, medici,
magistrati, geologi, veterinari, insegnanti, poliziotti. E quel Paese a noi tanto vicino in tanti sensi rischiava
di trasformarsi in un’appendice della Turchia.
Intanto, a Bologna, i turchi intessevano legami forti con gli iraniani.
La mia carriera ebbe un punto di svolta quando, nel 1986, mi arrivò dalla segreteria del direttore una
convocazione in un sito Sismi in Italia. Eravamo una ventina di agenti segreti. Martini ci comunicò che
eravamo stati investiti di una missione impossibile e urgente dal direttore di un servizio alleato
occidentale di primaria importanza: consegnare un messaggio in codice destinato a una fonte inserita ai
massimi livelli di una potenza ostile.
Non ci furono grandi discorsi, niente dichiarazioni enfatiche. Martini ci disse che il successo della
missione avrebbe avuto un risvolto triplice: 1) sarebbe stato di aiuto alla pace e alla solidità della nostra
democrazia; 2) avrebbe accresciuto il prestigio del nostro Paese nell’alleanza; 3) avrebbe determinato un
salto in alto nella considerazione delle capacità operative a livello internazionale del Sismi, facilitando il
nostro lavoro.
Breve e conciso. Meno solenne di quanto io sia riuscito a spremere dalla mia memoria.
Ci diedero la fotografia del destinatario per farcela studiare. Era in visita insieme a una delegazione in
un Paese europeo. Sapevamo in quale hotel alloggiava, ma era ritenuto inavvicinabile. Be’, fui proprio io
a trovare il modo di consegnare brevi manu il messaggio in codice. Escogitai uno stratagemma, sfruttando
la creatività del controspionaggio offensivo. Mi ritrovai nella hall di un albergo insieme a un gruppo di
diplomatici stranieri, individuando quasi nell’immediatezza chi fosse la persona a cui consegnare il
messaggio che mi aveva delegato l’ammiraglio Martini. Riuscii a distrarre alcuni di questi diplomatici con
due signore che avevo conosciuto poco prima di entrare nella hall. Così facendo rimase solo la persona,
ovvero la fonte, del servizio alleato. Sessanta secondi sono stati sufficienti per presentarmi, salutarlo,
consegnare il messaggio sul suo palmo. Ci capimmo immediatamente come si fa tra agenti segreti che
stanno operando clandestinamente e ricevetti in cambio un «Thank you».
Ottenuto il successo, l’ammiraglio mi volle vedere e mi invitò al ristorante. Durante la cena mi disse:
«Avrai un grande futuro da agente segreto». Mi avrebbe convocato ancora, e più avanti mi avrebbe
autorizzato a compiere la prova del nove del metodo del controspionaggio offensivo e delle pratiche
spionistiche connesse.
Capitolo 3
L’intelligence russa
C’era un certo numero di posizioni che, nelle ambasciate e nei consolati dei Paesi autocratici o tirannici,
non erano destinate a diplomatici in carriera, che quindi avevano studiato e subito selezioni a due livelli,
di competenza e di affidabilità ideologica. Posti riservati ad altri soggetti. Ad esempio, l’ambasciata e i
consolati dell’Urss avevano un’elevata percentuale di personale con immunità diplomatica. Se li
accaparravano uomini del Kgb e del Gru che godevano di privilegi di ogni tipo. Il che scatenava un
risentimento che arrivava fino all’odio nei diplomatici di carriera. E non solo di quelli spediti all’estero,
ma anche di chi restava a Mosca e non poteva far altro che starsene lì a vagheggiare chissà quale futura
occasione. Gente che non vedeva l’ora di vendicarsi.
E allora, da parte nostra, dovevamo sempre distinguere feluche-spie e feluche-incazzate. Occorreva
facilitare loro la vita. Trovare la scuola desiderata per i figli, lasciando che fosse un benefattore a saldare
la retta. Vacanze. Biglietti per viaggi. Indicare un istituto di credito per l’acquisto o la ristrutturazione del
proprio appartamento (molti avevano colleghi e amici in Patria, anch’essi incazzati, perché a Mosca gli
toccava vivere in locali angusti). Come ho già detto, questa pratica non era circoscritta a un Paese preciso.
Incunearsi nelle vite di determinate persone per farsele amiche è uno dei caposaldi del controspionaggio
offensivo.
La messa in pratica concreta di questi principi mi aiutò a procurarmi un incontro con un grande
diplomatico russo, ormai in onorata pensione. L’appuntamento era per le sette del mattino, in uno di
quegli hotel dove habitué e turisti costituiscono due popolazioni diverse che si mescolano di rado, tenute
ben divise dal vestiario e dall’istinto.
Fino a quel momento tutto era filato più liscio del previsto. Sin dal primo abboccamento telefonico di
un mese prima. Intendevo verificare le mie tesi sulla fattibilità del controspionaggio attivo ad alto
impatto.
Se prima ho potuto raccontare le irruzioni e i pedinamenti di quand’ero carabiniere alla Sezione speciale
anticrimine nella lotta al terrorismo, adesso mi tocca dissimulare: non posso mettere a rischio vite altrui.
Per ricordare meglio non solo fatti e parole ma anche il moto dei pensieri e dei sentimenti, sono tornato
sul luogo in cui portai il cavallo proprio sotto l’ostacolo e glielo feci saltare.
Non ho mai tenuto diari o memorie scritte o vocali. Mi sono affidato sempre e solo alla mia mente,
anche durante lo svolgersi dei fatti. Mai conservato nessun foglietto, a meno che non lo dovessi
consegnare. Bisogna sapersi imprimere nella mente numeri, volti, suoni, il con-tatto (il trattino spiega di
che parlo). Neppure un codice va trascritto nel computer o su un quadernetto a futura memoria: te lo
decifrano.
Fidatevi, se qualche spia ha lasciato in giro memorie, o non era una spia o si tratta di un depistaggio. Se
hai una scheda telefonica, mangiatela. Fa male allo stomaco, ma salva la vita a te e ad altri. L’informativa,
poi, va scritta un momento prima del suo inoltro e trasferita in modo che, se è importante o addirittura
vitale, arrivi intatta nelle mani del direttore e poi passi al capo del governo. L’agente sul campo fa quello
che deve. Dopo di che, accada quello che può.
L’hotel ha cambiato nome, l’arredamento si è fatto più fané, ma dopo alcuni decenni la poltrona in velluto
damascato conserva la sua essenza che non inganna al tatto.
Prendo un caffè seduto sul divano damascato dell’hotel e ricordo l’audacia della prima divisione del
Sismi, «la nostra audacia». Non esiste per un agente serio l’«io», salvo quando sbaglia. Esiste il «noi».
Esiste la condivisione del rischio con chi sta ai tuoi comandi, e a sua tutela deve sapere il meno possibile.
Esiste la comunione informativa e operativa con chi è al vertice e, rappresentando l’autorità di governo,
deve sapere tutto.
Siete arrivati tardi. Quella frase era un giudizio molto chiaro sullo stato dei nostri servizi segreti, sulla
necessità di un cambio di metodo. Perché non eravamo arrivati prima? Avevamo considerato impossibile,
troppo rischioso, ambire a diventare «amici» di personaggi del livello di C.K.
Io invece ci ero arrivato partendo dal mio lavoro, capendo che alcuni avevano questo desiderio di non
restare prigionieri del regime che li aveva inviati da noi perché si facessero le ossa, al fine di rientrare in
Patria e alzare il livello scientifico e culturale della nomenklatura al potere grazie a raffinate competenze
di tipo ingegneristico, economico e umanistico.
Quella che era stata una mia intuizione personale diventò un salto di qualità per l’intero
controspionaggio italiano. Basta col catenaccio difensivo, che puntava solo a impedire che il nemico – sì, il
nemico, nei servizi non si va tanto per il sottile con le definizioni di chi viene a casa tua a farti guerra – si
infiltrasse nei gangli strutturali dello Stato. Era ora di passare al controspionaggio offensivo, di attacco
non violento alle potenze ostili.
Siete in ritardo di vent’anni, ora sono in pensione, non vi servo a nulla. Dovevate cercarmi prima. Vero. Ma anche
non tanto vero: l’ex diplomatico e altri come lui potevano metterci in condizione di apprendere da un
punto di osservazione nuovo quali fossero state ai tempi le tecniche adottate per sfuggire alle nostre
precauzioni. Quali i nostri punti di debolezza, quali i loro.
Soprattutto maturammo la certezza di un fatto che avevamo già osservato, in chiara dissonanza con
quanto affermava l’universo intero dei mass media, non solo nazionali. La guerra fredda non si era affatto
scongelata, né allora né in seguito, salvo una breve parentesi – subito prima e subito dopo l’incontro Nato
di Pratica di Mare del maggio 2002, suggellato dalla stretta di mano tra George Bush jr e Vladimir Putin,
fortemente voluta da Silvio Berlusconi, giunto a questo risultato anche grazie al lavoro del Sismi e di
Gianni Letta, sottosegretario alla presidenza con la delega ai servizi. Ma l’incantesimo sfiorì presto.
I tentativi di penetrazione sotterranea nei Paesi della Nato e il potenziamento della presenza di spie a
qualsiasi livello in Medio Oriente, soprattutto in Siria, Libano ed Egitto, nel tentativo di modificare i
confini delle zone di influenza occidentale, ebbero solo una pausa riorganizzativa: altro che fine della
storia e nova pax augustea, sognata con l’ammainabandiera del drappo sovietico dalle guglie del Cremlino
alla fine del 1991.
Vanità
L’«amico» C.K., del resto, confermò i movimenti percepiti e segnalati in molte città italiane e nel vasto
mondo dal 1985 in poi, senza soluzione di continuità: tante cose erano cambiate, ma sotto le belle parole,
sotto la pelle, la colonna vertebrale del potere coincideva ancora e sempre con gli apparati di intelligence
sovietici o post-sovietici. Nessuna differenza di coloritura ideologica ed etica.
E tra le agenzie di spionaggio, dentro e fuori dai confini dell’ex (ma non tanto ex) Impero del Male, in
posizione dominante c’era ancora il Gru, soprattutto il Gru, il Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie,
Direttorio generale per le informazioni militari. L’ex diplomatico quasi soffriva a dirlo, ma non c’era
alcun dubbio sulla preminenza e sull’indipendenza di questa agenzia rispetto prima al Pcus e poi al post-
Pcus. Più forte del potere politico, impermeabile. Non manovrabile, neppure dallo stesso zar Vladimir
Putin. Che forse credeva, proprio come i vecchi zar a cui si ispirava, di gestire le Russie modellandole con
le sue mani. Ma il dispotismo orientale trova migliore espressione nei poteri sotterranei delle polizie
segrete.
Agli occhi dell’opinione pubblica informata Putin ha un passato da grande dirigente del Kgb,
attraverso il quale ha raggiunto il governo. Kgb, appunto: ma in quell’ambito la cima la vide solo da
lontano. A provarlo è un’incredibile manifestazione di debolezza narcisistica.
Il 9 maggio 1988 il presidente Usa Ronald Reagan fu invitato da Gorbaciov, dopo la firma del trattato
per la riduzione degli armamenti nucleari, a fare un improvvisato giro in mezzo alla gente qualunque. E
in mezzo alla gente qualunque c’era un turista di bella presenza, biondo e di gentile aspetto. Che non era
un turista. Putin al tempo era capo dell’intelligence del Cremlino di Dresda nell’allora Ddr, con il grado
di maggiore. Che ci faceva dunque a Mosca? Cosa lo spinse a proporsi come figurante?
In realtà i servizi segreti erano perfettamente consci che Ronald sarebbe stato avviluppato da agenti di
seconda fila del Kgb in gita premio. Un’ottima occasione per l’Nsa e la Cia di schedarli. In particolare
Putin fu immortalato dal reporter ufficiale al seguito della Casa Bianca, Peter Souza, mentre se ne stava in
posa, addirittura con due macchine fotografiche al collo, goffa dissimulazione iperrealista, dietro un
bimbo a cui il presidente americano stringe la mano…
A che pro compromettere i propri quadri? Evidentemente erano stati selezionati come poco importanti
e comunque non destinati a carriere irresistibili. Probabile che Putin abbia contraddetto uno dei postulati
elementari dell’agente operativo o sotto copertura, proponendosi egli stesso per questo servizio: voleva
sentire l’odore del nemico, sfiorarlo senza essere riconosciuto. Se non dopo: 17 anni più tardi, nel 2005,
arrivò a Souza una lettera anonima, scritta in un buon inglese, in cui gli si chiedeva di osservare con
attenzione quel frammento piuttosto insipido del suo album, apparso anche in volume.
Quella foto ritraeva lui, lo zar in persona: nella psicologia narcisistica di Vladimir, quella esposizione
imprudente esprimeva il bisogno di dire a se stesso che non aveva paura di niente.
Senti chi parla, direte voi: anche tu, Marco Mancini, sei stato fotografato mentre a Ciampino avvolgevi in
un abbraccio protettivo Giuliana Sgrena che, ferita, scendeva dalla scaletta del Falcon proveniente da
Baghdad, il 5 marzo 2005. Appunto, erano saliti a salutarla a bordo le massime autorità. Scesero dopo i
convenevoli privati per accoglierla formalmente. Allora io eseguii un ordine legittimo. C’erano altri
agenti intorno a me, miei collaboratori. Nessuno di loro è stato però identificato.
Forse un collega ha segnalato il mio nome e cognome a qualche giornalista? Una défaillance clamorosa,
è come scrivere squola con la q all’esame di Stato. O sei scemo o qualcuno ti vuole fottere, anzi ti ha già
fottuto. Ma di questo punto parlerò poi, quando passerò al famoso autogrill…
Ricordo che un direttore, oggi scomparso, mi rimproverava perché non mi fidavo di Gru, Svr e Fsb,
servizi serbi e turchi, e mantenevo un salutare scetticismo verso i servizi alleati.
«Sei il solo che porta ancora il colbacco.» O anche come a dire: sei l’ultimo scalcagnato giapponese in
armi nelle foreste birmane. Mi hanno fatto fuori per questo, facendo un gigantesco piacere a russi e soci.
E quando sostenevo che toccava a noi italiani, con la nostra capacità di penetrazione culturale e il
nostro controspionaggio offensivo, prenderci la responsabilità dell’intelligence in Afghanistan: «Credi di
essere la Cia? Noi non siamo la Cia!». La Cia? Con i suoi satelliti copriva il mondo, ma non l’intimità dei
pensieri, degli affetti, il processo delle decisioni che quasi mai obbedisce a un algoritmo. C’è la variabile
della libertà. «La libertà è immortale» come scrisse un grande scrittore russo, Vasilij Grossman.
Volete una controprova? Ce la dà la testardaggine della realtà. La Cia, l’Fbi, l’Nsa e le quattordici
agenzie americane di intelligence hanno incamerato tutti, ma proprio tutti i dati, le parole, i messaggi,
l’iscrizione a corsi di volo avanzati, l’acquisto di pizze con salame e lo strano riferimento a superalcolici
da parte di islamici radicali, autorizzati alla dissimulazione da Bin Laden: vi risulta per caso che questo
abbia consentito di impedire l’11 settembre? Ex post, o a babbo morto, come si dice al bar, si è dimostrato
che Cia & Co. avevano stipato nei loro computer, a disposizione di analisti sopraffini, ogni informazione
necessaria e superflua. Ma non erano «dentro» quel magma umano. Intercettavano tutto, ma non erano in
grado di sedersi a bere una Coca-Cola con l’autista dello sceicco. Dotati di mille satelliti rotanti, non
avevano la Humint (Human Intelligence). Tanta cyber e niente fattore umano.
Io non sono della vecchia scuola. Sono la scuola di ieri oggi domani. Si può anche usare il latino: et et
contro aut aut. Humint & cyber; non: Humint versus cyber, o viceversa.
Il controspionaggio offensivo ha diverse componenti intelligence. Una, quella umana, è tesa a prevenire il
tradimento di soggetti fragili che hanno accesso a notizie strategiche. In che modo si opera?
Fase uno: incastrare le spie che provano a reclutare cittadini italiani assisi in posizioni tali da poter
destabilizzare il sistema, al fine di trasformarli in agenti di potenze straniere e influenzare così le scelte
politiche del nostro Paese (a tal proposito si veda il «caso Surov», più avanti).
Fase due: ribaltare la missione dell’agente nemico. Non si tratta di far arrestare in flagranza l’ufficiale o
i funzionari infedeli, o di espellere subito dopo il diplomatico spia. Sarebbe comunque una sconfitta:
l’obiettivo è diventare noi i suoi reclutatori, usando l’arma del nemico a nostro vantaggio.
Per funzionare, il controspionaggio o è offensivo o non è. Metterlo in pratica comporta un impegno
sistematico e totale per costruire nell’ombra articolate reti di fonti umane non collegate e non collegabili
tra loro, così da penetrare servizi segreti ostili, gruppi terroristici e organizzazioni criminali
transnazionali. Reti di questo genere sono l’unico modo per potersi muovere liberamente nei teatri di
guerra e nei Paesi dove sono in gioco nostri interessi vitali, il tutto senza destare alcun sospetto tra la
popolazione e gli apparati di sicurezza.
Durante la guerra fredda i sovietici piazzarono loro uomini (e donne) persino sulle ginocchia di capi di
governo. Basti pensare a Willy Brandt. Oggi come allora il controspionaggio offensivo è, anzi sarebbe,
insostituibile per la sua sperimentata efficacia. Uso il condizionale perché, almeno in Italia, ritengo non si
faccia più, in nome di una sorta di totalitarismo cibernetico.
Si tende ad assolutizzare gli investimenti nella cyberintelligence, cedendo al parere di influenti esperti
di questo settore, specialisti più che altro nel cyberoziare, i quali ritengono la Humint inutile e persino
dannosa, quasi fosse una sorgente di confusione e di guai giudiziari. Chi si intende davvero di web
intelligence sa che non basta l’algoritmo giusto per vincere una guerra di informazioni e
controinformazioni. Come ho già scritto Humint e Cyber devono integrarsi a vicenda. Sono i concetti base
per il successo che da anni promuove Umberto Rapetto, generale della guardia di finanza in pensione, un
fuoriclasse assoluto, riconosciuto come tale in America nel settore delle reti digitali e nell’uso difensivo e
offensivo del web.
Capitolo 4
Come impedimmo un 11 settembre italiano
Nessuno ricorda la battaglia epica che contrappose il Sismi e al-Qaida. Nessuno ne parla. Non c’è traccia
di quel che facemmo nel settembre del 2004, di tutto ciò che per mano nostra accadde affinché non
accadesse un bel nulla. Nessuno ha composto canzoni per il festival di Sanremo sull’operazione di
micidiale efficacia che ha bloccato i terroristi di Osama.
Ma siamo stati noi del Sismi, prima divisione controspionaggio, a scongiurare l’11 settembre italiano.
Poche ore ci dividevano a Beirut da un’imminente strage, pianificata e finanziata da Osama Bin Laden
attraverso una catena di comando che passava dall’Arabia Saudita e dalla Siria: 390 chilogrammi fra
tritolo e il potentissimo C4 avrebbero potuto di lì a qualche giro di orologio divellere e far sparire dalla
faccia della terra l’ambasciata italiana in Libano, annientando centinaia di vite lì dentro e in un vasto
raggio intorno. Di quel giorno non c’è traccia negli annali della storia, qualcuno deve aver strappato il
foglietto del calendario e deve averlo infilato nel tritadocumenti. Be’, allora provo io a incollarne i
frammenti, evitando con cura e dissimulando qua e là per rendere irriconoscibili le tracce di colleghi
italiani e di amici diversamente italiani.
Vi sembra di cascare dalle nuvole? Non avete mai sentito parlare di tutto questo? C’è una ragione, anzi,
ce ne sono due. La prima, certo la più importante, attiene alla felice circostanza che non c’è stato nessun
11 settembre italiano. Difficile si tramandi quel che non è successo. Potreste chiedere per conferma a
sociologi e psicologi delle masse. La seconda ragione, certo molto minore dal punto di vista di chi non è
morto e dei suoi parenti, è che su questa battaglia epica e vittoriosa è stato steso, con la precisione dei
professionisti che ripuliscono la scena di un delitto, un manto di invisibilità e di oblio. I protagonisti sono
stati cancellati, liquefatti nell’acido dell’inesistenza.
Lo stesso trattamento è stato riservato a me e al ruolo che ho svolto. Ne sono onorato, ma non merito di
essere considerato così importante. Questa azione di sbianchettamento è parte decisiva di un’operazione
di damnatio memoriae. E tuttavia, portare a conoscenza di questa impresa, renderla parte della narrazione
popolare intorno a quel periodo storico, non impedirà la deliberata estinzione con disonore della nostra
intelligence. La quale avrebbe avuto il torto, secondo strani poteri intersecantisi in Italia e all’estero, di
affermarsi come egemone dopo il disastro americano di Torri Gemelle e Pentagono. Ma è meglio lasciare
che siano i fatti a parlare.
L’attentato doveva avvenire in agosto. Doveva colpire l’ambasciata italiana a Beirut. Tutto era pronto ma il Sismi ha
filmato gli appostamenti dei terroristi.
Tg3 (direttore Antonio Di Bella),
22 settembre 2004, ore 19,
conduttrice Giovanna Botteri
Le indagini prendono avvio due mesi fa. Una fonte del Sismi, molto vicina al gruppo terrorista, avverte: è in preparazione
un attentato contro l’ambasciata italiana a Beirut. Scattano i pedinamenti, le intercettazioni. Il filmato che state vedendo,
girato l’11 agosto, mostra un uomo che gira con fare distratto in Place de l’étoile, dove c’è la sede della nostra ambasciata.
L’immagine elaborata al computer rivela che si tratta di Ahmed Mikati, il leader di un gruppo salafita già ricercato dalle
polizie di mezzo mondo per reati di terrorismo. Gli agenti del Sismi avvertono i servizi di intelligence libanese. Si scopre
che è già pronta un’auto con 300 chilogrammi di esplosivo, guidata da un kamikaze che farà saltare l’ambasciata italiana
provocando una strage. In preparazione anche un attentato contro una sede diplomatica statunitense. Si stringe il cerchio
intorno a Mikati. Qui vediamo il momento della sua cattura. Un’azione veloce che non gli lascia il tempo di reagire. Poco
dopo saranno arrestati altri nove componenti del gruppo terrorista.
Rita Mattei, inviata
Terroristi di al Qaeda contro l’ambasciata italiana a Beirut. Hanno ammesso di far parte di una cellula dell’organizzazione
di Bin Laden, le dieci persone arrestate in Libano. Preparavano una strage, sventata grazie all’intervento dei nostri servizi
segreti.
Tg1 (direttore Clemente Mimun), conduttore David Sassoli, 22 settembre 2004, ore 20
Una strage evitata per un soffio, quando il progetto terroristico era in una fase avanzata. Queste sono le immagini
dell’ultimo sopralluogo, il percorso della morte, che un’auto bomba guidata da un kamikaze doveva effettuare fino a
schiantarsi contro l’ambasciata italiana a Beirut. Un documento eccezionale che arriva dal Libano. Le immagini sono girate
dagli stessi terroristi, in particolare da Ismail Mohamed al Khatib, più conosciuto come Abu Omar, esperto di esplosivi e
reclutatore di giovani suicidi, da tempo ricercato dalle polizie di tutto il mondo. Grazie a una serie di intercettazioni il
gruppo legato ad al Qaeda è stato individuato prima dell’attentato. Sono stati arrestati tutti, dieci complessivamente,
libanesi, palestinesi, guidati da un altro terrorista tristemente noto, già condannato per strage, Ahmed Mikati, 36 anni,
l’uomo dai mille volti. Eccolo aggirarsi la mattina dell’11 agosto sotto l’ambasciata italiana, convinto di non essere scoperto
dopo il taglio della lunghissima barba. Ma gli investigatori avevano già elaborato le sue foto al computer e lo hanno
riconosciuto. L’operazione è stata portata a termine dagli agenti del Sismi in collaborazione con gli agenti segreti libanesi e
siriani. La trappola è scattata venerdì scorso in un giardino vicino all’ippodromo. Khatib è stato bloccato, non ha fatto
neppure in tempo a reagire. Gli uomini del Sismi hanno recuperato nel rifugio del leader del gruppo referente libanese di
al Qaeda 100 chilogrammi di esplosivo e numerosi detonatori.
Un’operazione brillante che ha evitato secondo il ministro dell’interno di Beirut Alì Asmour molti altri attentati già
progettati dal gruppo, che si intitola a Ziad Jarrah, uno dei dirottatori schiantatosi sulle Torre Gemelle [in realtà il libanese
Jarrah fu il pilota dell’United 93, l’aereo fatto cadere dai passeggeri per impedire si schiantasse sul Campidoglio, N.d.A.].
Sicuramente nei piani c’erano anche attacchi all’ambasciata ucraina e l’uccisione di funzionari libanesi che lavoravano in
altre sedi diplomatiche occidentali in Libano.
Pino Scaccia, inviato
Questa efficienza e questa altissima professionalità dei servizi dimostra come il fenomeno sia seguito con assoluta e
grandissima attenzione. Abbiamo ricevuto congratulazioni da parte di tutti gli Stati che hanno ottenuto benefici da questa
operazione.
Pasquale Giuliano, senatore (Forza Italia),
membro del Comitato parlamentare
controllo servizi segreti (Copaco)
Per combattere il terrorismo lo strumento essenziale è quello della prevenzione. La guerra, i bombardamenti su Falluja e
altre città aiutano i gruppi terroristici a reclutare nuovi militanti. Non servono a isolare il terrorismo e a distruggerlo.
Massimo Brutti, senatore (Ulivo),
membro del Copaco
Quante vite abbiamo salvato, non per quel giorno soltanto, ma bloccando il commando dei serial bombers?
Andrebbe chiesto a un programma di intelligenza artificiale. Gli americani l’11 settembre avevano
intercettato tutto, avevano usato parole chiave, i big magic data, per filtrare le comunicazioni. Dovevano
cercare tra i frequentatori di corsi per piloti. Avevano gli elenchi. Insieme a quelli dei giocatori indiani di
cricket, e degli appassionati di falconeria.
Da tempo eravamo sulle tracce del numero uno islamista in Medio Oriente, consacrato capo di al-Qaida
nella Terra dei Cedri. Ahmad Salim Mikati (o Miqati) alias Abu al Moda alias Abu Baker, nato a Tripoli
del Libano nel 1968. Ricercato dai servizi segreti siriani sin dal 1986 come membro di Jamaat-e-Islami,
gruppo terrorista sunnita. Nel 1999 era tra i capi del gruppo salafita «Donia», che combatteva in Libano
contro gli sciiti Hezbollah, sostenuti dai siriani. Inseguito e ferito, si rifugiò nel campo profughi
palestinese Ain al-Hilweh, dove diventò capo operativo del gruppo terroristico Jund al-Sham. Fu lui a
organizzare tra il 2001 e il 2003 attentati contro McDonald’s e supermercati Spinneys in Libano.
L’invasione dell’Iraq lo proiettò alla testa di al-Qaida nel Paese dei Cedri.
Era ovvio che a manovrare le leve per colpire l’Italia sarebbe stato lui. Bisognava fare in modo che i
colleghi libanesi con cui eravamo in buoni rapporti lo fermassero. Dopo alcuni contatti informali ci
dissero: «Forse è nascosto in un campo profughi. Sicuramente non passeggia per Beirut». Noi invece non
ne eravamo così sicuri.
Dov’era Mikati? Inafferrabile, con agganci pazzeschi, stimato come organizzatore ed esecutore
infallibile, leader con la fama di profonda religiosità. Non era una diceria propalata dalla propaganda, la
sua aura leggendaria di mistico non era una patacca per i creduloni. Lo vidi (e non dico come): lui, solo
nella misera casupola, in preghiera, si batteva la fronte duramente, il volto trasfigurato come fosse rapito
verso l’alto. Era un assassino animato dal fuoco mistico che contagiava parenti, figli, seguaci, capaci nel
momento dell’azione di essere gelidi, professionali, tecnici della morte: non kamikaze, però. Ai vari Abu
toccava rimandare il martirio, limitarsi a spianare la via ai prescelti, rendendogli facile e massimizzando il
loro sacrificio per aggiudicarsi per l’eternità le 72 vergini del Paradiso. Avevamo potuto vedere, in un
quartiere palestinese, un’altra casa dove Mikati si nascondeva. I vicini lo ammiravano per la sua condotta.
Quando ebbi le immagini capii il suo fascino.
Un attacco a espressioni dell’Italia in Libano era probabile, quindi bisognava accelerare. Consegnare
prove inoppugnabili dell’identificazione. Farlo arrestare. Preso lui, magari per un po’ potevamo
considerarci al sicuro, prima che ricrescesse la coda omicida del drago.
In qualità di capo della prima divisione del Sismi non intendevo combattere stando dietro la scrivania
con computer e telefono criptati. Avevamo degli indizi, ma bisognava essere certi che fosse proprio lui
quel tale che con l’immensa barba nera talvolta si spostava a Beirut e passava vicino alla nostra
ambasciata. Un modo c’era. Prendemmo le sue impronte dal bicchiere lasciato su un tavolino dove si
fermava a guardare in giro e a sorbire lentamente tè. Occorreva il confronto con impronte già schedate
come sue. Le recuperammo grazie ad amici. In Libano si vota lasciando l’impronta invece della firma, e la
si archivia.
Corrispondeva, era lui.
Nel frattempo, venimmo a scoprire che l’esplosivo era in arrivo da un Paese arabo, l’azione prevedeva
un’autobomba con kamikaze sauditi. L’attentato plurimo era concertato, con l’ok di Osama Bin Laden,
dal capo di al-Qaida in Arabia Abu Hajar e da quello in Iraq Abu Musab al-Zarqawi. La mappa del potere
terroristico ci indicava che il tramite viaggiante era l’assistente di Abu Hajar, cioè Fahed al Maghamsi
alias Abu Jaafar, che a sua volta arrivava a Mikati tramite il suo vice Ismail al Khatib, Abu Omar (non
quello sequestrato a Milano). Arrivarono anche i 200.000 dollari utili per acquistare circa 390 chilogrammi
di esplosivo. Ci risultava che fossero pronti per l’operazione, che sarebbe stata multipla. Avrebbe
riguardato anche sedi diplomatiche ucraine, tedesche, uffici centrali delle agenzie libanesi antiterrorismo.
C’era anche l’ambizione di prendere ostaggi per scambiarli con prigionieri, antichi commilitoni di Mikati
in Al Dania. Ma la madre di tutte le bombe doveva essere riservata all’Italia.
Chiedo di essere ricevuto dal capo dell’intelligence libanese, ottenendo un’accoglienza tiepida. Spiego
l’impostazione del controspionaggio che dirigo, avendo il sostegno pieno del governo Berlusconi. Mostro
le fotografie, fornisco riscontri, chiedo di poter agire insieme, con prudenza, simpatia, senza
condiscendenza, ma da alleati.
La conversazione si fa dura, corretta ma tesa.
«Insieme a noi, insegnandoci come si fa, a casa nostra?»
Ribatto: «Le chiedo, generale, di autorizzare la presenza in Libano dell’intelligence italiana».
Stavano dando la caccia a Mikati quasi tutti gli agenti del mondo, Cia e Mossad, francesi e siriani, di
sicuro anche la Gru russa e le spie di Teheran (Beirut del resto è una capitale mediorientale dello
spionaggio da un secolo). Loro ne sono al corrente, e sanno anche dei buchi nell’acqua dei loro mitici 007.
Penso a questo punto che andrà male, che prevarrà il puntiglio dell’orgoglio ferito. Mi metto nelle sue
scarpe, capisco che i piedi devono faticare a starci dentro. «Neanche noi sappiamo» dico. «Abbiamo
indizi, ci fidiamo del giudizio che ci darete: abbiamo un interesse comune.» Il clima si addolcisce. Sono
stato sincero, ci siamo intesi.
Circostanze favorevoli ci hanno permesso di filmare Mikati e Abu Omar, il primo vicino alla nostra
ambasciata, il secondo – tecnico delle bombe e istruttore dei kamikaze – intento a perfezionare il tragitto
dell’autobomba. Mostro il tutto al capo dell’intelligence libanese. Qualche ora dopo, non di più, è il capo
delle spie di Beirut che mi convoca con urgenza. Certe cose non si possono dire al telefono. Mi conferma
che è proprio lui, Mikati. Mi ringrazia e finalmente lavoriamo insieme. Noi condividiamo le informazioni
raccolte, ma a operare saranno loro. Gli dico che è ciò che desidera il nostro governo, sto agendo con
totale consenso e appoggio del premier Berlusconi, gli domando di confermare su una linea sicura a
Pollari quanto mi aveva detto, sia le notizie che la disponibilità alla cooperazione. Pollari riferisce
all’Autorità delegata Gianni Letta. Di tutto parlo al telefono con Nicola Calipari, che dirige la divisione
sorella della mia. Condivide apprensione ed entusiasmo. Sarà il primo a chiamarmi e a complimentarsi
mentre sono ancora a Beirut.
Il giorno X arriva presto. Abbiamo notizia della presenza di Ahmad Mikati vicino alla moschea: i
terroristi sono nella fase in cui pregano, prima di ammazzare cristiani ma se capita anche musulmani
sciiti. Gli agenti libanesi mi hanno voluto simbolicamente vicino. Ci sto. Il filmato che mostra la cattura di
Mikati alias Abu Baker è realizzato dal Sismi e consegnato ai colleghi locali. I miei occhi incrociano quelli
fiammeggianti di Mikati, mentre ci guardiamo mi si avvicinano i colleghi libanesi e insieme gli balziamo
addosso, perché è alta la possibilità che indossi un giubbotto esplosivo. Dobbiamo tenergli ferme le mani.
Ci riusciamo.
Il generale libanese, il potentissimo capo della Sûreté Génerale (Direzione generale della sicurezza), è
raggiante. Jamil El Sayed – questo il suo nome, poi reso noto dalla stampa internazionale – verrà arrestato
l’anno seguente come presunto complice nell’attentato del 14 febbraio del 2005 che uccise, insieme all’ex
premier Rafiq Hariri, altre 22 persone. Dopo quattro anni di carcerazione preventiva verrà scarcerato,
senza che gli fosse mai stata formulata alcuna accusa. Il 18 agosto 2020, il Tribunale speciale
internazionale per il Libano, che in Olanda individuò un colpevole filo-siriano, sentenziò che la sua
detenzione era stata «illegale» e «in violazione del diritto internazionale». Ora è deputato del suo Paese.
Mikati poté godere nel 2009 di un’amnistia e ricominciò a frequentare compagnie di assassini. Il Daesh (o,
come si usa scrivere, l’Isis) lo incardinò alla testa della regione libanese. Radunò un esercito dalle parti di
Tripoli. Fu sconfitto dall’esercito di Beirut e Hezbollah insieme a una squadra di 200 guerrieri con la
bandiera nera. Mikati fu di nuovo arrestato a Dinnieh nell’ottobre 2014. Con lui combattevano il figlio
Omar e il nipote Bilal, tristemente noto per essersi esibito nel video in cui veniva tagliata la testa al
soldato libanese Ali al Sayyed. Il 6 luglio del 2015, Maurizio Molinari, attuale direttore di «Repubblica»,
scrisse in un articolo molto informato che «l’intelligence di Beirut – libanesi ed Hezbollah – lo considera
uno degli uomini “più importanti dell’Isis”» e che è riuscita, con i metodi che si possono immaginare, a
fargli rivelare il piano del Califfo: «penetrare nel Nord del Libano» per «creare un Emirato nella città di
Tripoli». Uno sbocco sul mare.
Molinari scrive tutto giusto, il suo è un vero scoop, sarà ripreso dai giornali di tutto il mondo. Mi
domando come sia possibile che un giornalista di grande scrupolo e dotato di un archivio che è un
arsenale e di una memoria da Pico della Mirandola non abbia ricordato l’antecedente colossale. Non sarà
che rammentare quel ciclopico pericolo scampato dall’Italia avrebbe implicato riconoscere i meriti del
controspionaggio? Chissà perché ho idea che a nessuno dei capi dell’intelligence italiana sia venuto in
mente di far presente allo stesso Molinari e a tutti i giornalisti che hanno ripreso la notizia che quel tale
noi lo conosciamo bene. Ma a quel punto sarebbe stato inevitabile richiamare l’epica battaglia condotta
con successo dal Sismi per salvaguardare la sicurezza nazionale.
Dopo 19 anni mi permetto di togliere dall’oblio e ripulire dalle croste calunniose un pezzetto della storia
patria che merita di brillare. E spero che possano menarne vanto gli uomini e le numerosissime donne
della mia divisione che il loro non tanto vecchio dirigente ringrazia. Siete stati bravi, ragazzi.
Che gente italica in gamba. Hanno acquisito informazioni, le hanno verificate, sempre,
quotidianamente, ogni ora, ogni minuto. Non era mai routine, essendoci di mezzo la sicurezza di popolo
e istituzioni. E quando capitava che uscissero dalla fortezza, non si sono mai riparati.
Hanno lavorato con me dei fuoriclasse. Non posso nominarli. Ma il mio vice sul campo, almeno lui,
posso indicarlo con il nickname: Aquila. Un alto dirigente, oggi generale dei carabinieri in pensione: ci
teniamo ancora in contatto, ci vogliamo bene.
Ti ricordi cosa ci si diceva, Aquila? La forza di un servizio segreto è prevenire gli agguati, tendendoli
noi all’avversario che ci vuole colpire, occupando anche la loro metà del campo. L’attività della prima
divisione in Libano è stata la partita perfetta, giocata con un metodo di cui non pretendo il brevetto: si
chiama Humint, c’era prima che io nascessi. Mi spiace però che sia stato buttato via. Andrebbe ripreso,
applicato in Libia, in Tunisia, in Somalia, in Niger, in Mali. Siamo ancora in tempo, forse, ma di tempo ce
n’è poco.
Gli agenti segreti in territori di guerra vanno armati bene, devono avere idee chiare e un sistema tecnico-
logistico già consolidato sul posto. Noi avevamo dimore sicure e amici. Una rete di amici. Individuati,
selezionati e addestrati sul posto nella ricerca informativa clandestina. Per la prima divisione questa non
era un’attività straordinaria: acquisire informazioni nel corso di un conflitto e portare a casa ostaggi era il
nostro lavoro.
Già prima di atterrare prendemmo contatti con chi ci avrebbe aiutato sul campo. Non erano persone
dei servizi, non basta infatti che un italiano parli bene, benissimo, ultra bene l’arabo: verrebbe individuato
lo stesso. Deve essere qualcuno che ha l’accento e la parlata del luogo, del quartiere, indistinguibile da chi
ha intorno. I nostri referenti erano tutti «dentro» l’Iraq, ex militari o funzionari del Baath (il partito di
Saddam), membri di gruppi islamici: erano loro a costituire il sistema di sicurezza, continuamente
verificato con controlli incrociati, di nostri connazionali e di altre intelligence, nel cui ambito era noto
fossimo i soli capaci di risolvere casini.
In volo, per arrivare a destinazione, si esorcizzava la paura della morte, una eventualità neppure tanto
remota, con la quale avevamo imparato a fare i conti. Ognuno di noi sceglieva un oggetto sacro o profano,
uno scampolo di vita per ricordarci chi eravamo e da dove venivamo. Io facevo scorrere tra le dita i grani
bianchi del rosario, benedetto da san Giovanni Paolo II , che tenevo nella tasca del giubbotto. C’era chi
saliva a bordo ricordando le preghiere affidate alla santa madre, altri esibivano un corno rosso
napoletano. Lo spirito di squadra, però, superava le ritualità del singolo.
Nell’aria, adrenalina pura. Viva e costante. Io l’alimentavo con la grinta necessaria al leader, sempre
consapevole che, in ogni caso, avrei anteposto la loro sopravvivenza alla mia. E i miei colleghi di questo
non hanno mai dubitato.
All’arrivo occorreva aver pazienza, santa e orientale pazienza, adeguandosi a una concezione del
tempo con orologi che funzionano a ritmi diversi da quelli svizzeri. La permanenza a Baghdad si
protrasse a lungo. Le settimane passavano, scandite quotidianamente dall’appuntamento alla moschea di
Umm al-Qura, un centro di culto sunnita strategico. Lì avevo stabilito un rapporto, che oso dire amicale,
molto delicato e anche molto personale, basato sulla assoluta lealtà e trasparenza.
Il mio interlocutore privilegiato era Al-Qubaisi, un personaggio pubblico che di fatto faceva da
portavoce degli ulema di quella moschea, il cui raggio di influenza e di relazioni copriva ogni ambito di
potere formale e informale in Iraq. Il suo volto era noto non solo in Medio Oriente ma in tutto il mondo, a
seguito delle continue interviste e presenze televisive durante la guerra in Iraq. Per Al-Qubaisi ero un
funzionario della presidenza del Consiglio e parlavo per conto del governo italiano.
Dal punto di vista informativo non dipendevo certo solo dal portavoce degli ulema. Guidato da fonti,
esploravo altri canali. Ma Al-Qubaisi era un viatico che dava garanzie anche a chi potevamo incontrare
alla moschea previo suo consenso. Ed erano personaggi di ogni tipo.
Ci voleva un’ora di macchina per arrivare alla moschea di Umm al-Qura. Eravamo armati e attenti a
non fare mosse false, circondati invisibilmente dalle fonti della nostra rete per creare recinti mobili di
sicurezza. Attraversavamo quella specie di checkpoint entrando nella moschea, accompagnati da persone
di mia fiducia. Per diversi giorni si ripeté questo pellegrinaggio, con la medesima liturgia e puntualità:
eccetto il venerdì. Tutti i giorni si andava là per chiedere spiegazioni, verificare informazioni da noi
ottenute attraverso i nostri contatti. Domandavamo come stavano i sequestrati, se erano ancora in vita.
Nessuna formale risposta. Giunti a qualche chilometro dalla meta si intravedevano molti Abrams, i carri
armati americani, incrociavamo militari di svariati eserciti e pure gruppi armati di iracheni. L’ingresso
della moschea era vigilato da una quarantina di mujaheddin in armi. Ci disarmavano. All’apparenza un
noioso tran tran, in realtà la tensione che vivevamo era tremenda. Ma bisognava apparire al di sopra di
tutto.
Poi però qualcosa si ruppe.
Tè bollente e pane
Dopo la solita trafila sono in moschea. Non mi riceve Al-Qubaisi, con la consueta eleganza, ma un tipo
mai visto prima, che in maniera sgarbata e dura mi impone di stare fermo e se ne va. Poi mi conduce in
una stanza. Vedo che i miei interlocutori si passano dei quotidiani, il mio interprete mi riferisce la notizia
che stanno leggendo e commentando: c’è stato un bombardamento in cui sono stati uccisi dei bambini. Io
tento di chiedere notizie sull’esistenza in vita di qualche sequestrato. Ricontrollano il passaporto, faccio
quello che devo fare. Provo a domandare. Non ascoltano, mandano via l’interprete, parlano in modo
concitato. Mi spingono in una stanza più grande.
Mi offrono un tè bollentissimo, nei tipici loro bicchieri di vetro con la maniglietta metallica. Mi scotto le
labbra, mi brucio lo stomaco. Ero abituato a vedermeli intorno con i kalashnikov, ma stavolta questi
sconosciuti mi puntano i mitra proprio addosso, mi fanno stendere a terra. Obbedisco. Del resto, che altro
posso fare?
Il tempo si fa lentissimo. Quanto sarà durata quella minaccia muta e senza alcun movimento? Quindici
minuti? Non lo so. Come reagire? Sarà stato un atto irrazionale – qualcuno mi dovrebbe spiegare cosa
accade nella mente di un uomo in situazioni del genere – ma mi metto a contare le canne pronte a
cacciarmi proiettili in faccia. Sono undici, guardo chi le impugna: undici. Uno per uno. Non mi fate paura,
dico con gli occhi. Il sangue mi gorgogliava dentro, freddo. Undici mitra, undici uomini, e io! Quel
numero me lo ricorderò per sempre. Il numero e i kalashnikov. Mi lasciano lì, escono per decidere che
fare di me.
Mi avevano perquisito minutamente, sapevano che non avevo aggeggi pericolosi, non mi sequestrano
il telefonino perché me lo hanno fatto spegnere all’ingresso. Ma dentro è inserita la scheda telefonica con
la quale contattavo le fonti, i miei colleghi e la direzione del Sismi. Ci sono in ballo la vita e la sicurezza di
tanti.
Sono sorvegliato soltanto da un mujaheddin, faccio segno di dover andare in bagno. Mi accorgo che c’è
del pane duro lasciato su una sedia, forse dal giorno prima. Me lo metto in tasca. Ritorno nella stanza
della prigionia. Faccio capire che sto troppo male di stomaco per il tè bollente, il mio guardiano sorride,
dietro la porta spezzo la scheda con un chiodo attaccato al muro del cesso, ne infilo i due pezzi nel tozzo
secco di pane. L’operazione mi costringe, per evitare lungaggini sospette, ad andare e venire e poi ancora
ritornare: tre volte! Sempre seguito dall’angelo custode di turno e con la porta aperta, ma ero certo non si
sarebbe messo a curiosare. Mando giù il pane e la scheda.
Poi, faccia giù sul pavimento. Però sono sereno. Magari mi ucciderete, ma non toccherete i miei
compagni, la mia gente, quelli che avevano scelto, a rischio della vita e per pochi soldi, di mettersi al
servizio dell’Italia.
Non è stato uno sforzo della volontà, era giusto agire così. Non sono stato coraggioso, non è un merito.
Ma ero finalmente in pace.
Non nego che prima di pensare quel piano e di metterlo in atto, ho pregato per mia figlia, per mia
moglie e per i miei genitori. Per me ovviamente c’era poco da pregare, mi doveva solo salvare il Signore e
basta. Non so da dove mi venisse la certezza che ne sarei uscito, che il buon Dio mi avrebbe aiutato.
Passano le ore, cambia il custode, senza che nessuno mi rivolga verbo. Ritornano gli undici del mitra. Non
faccio nulla per metterli in agitazione. Mi alzo con calma per non sfidarli, ma anche per mostrare che non
c’è paura, a questo punto, dentro di me. Non abbasso gli occhi. Sto facendo una cosa giusta. Il duro del
gruppo mi dà l’ordine di mettermi giù, a brutto muso, mi spinge perché mi stenda per terra con il calcio
del kalashnikov, mi resterà l’ecchimosi alla spalla per diversi giorni. In un inglese stentato mi dicono che
a Nassiriya noi italiani abbiamo ucciso bambini. Dico che non ci credo, nego, «Datemi la possibilità e vi
mostrerò chi siamo noi italiani, non siamo nemici dei bambini».
Dopo un’ora di attesa mi cacciano, dicendo: «Non farti più vedere in Iraq». Gli dico che resterò in Iraq,
non ho nulla da farmi perdonare. Ringrazio e saluto anche chi mi aveva maltrattato.
Sono fuori dalla moschea. Libero.
Analizzo la questione. E decido qual è la prima cosa da fare: acquistare e far arrivare medicine, ogni
genere di medicinali per curare i bambini. Attraverso canali sicuri nelle cittadine bombardate faccio
arrivare camion di aiuti sanitari.
700 euro
Ho ricostruito i comportamenti di questo gruppo jihadista, in combutta con delinquenti comuni che
facevano la manovalanza nelle organizzazioni criminali presenti a Baghdad. Erano pronti alla battaglia:
avevano due o tre caricatori infilati nella cintura. Uno solo aveva un telefono satellitare. Se ne usciva dalla
stanza per chiamare e poi tornava spifferando qualcosa all’orecchio del tizio che mi accusava e che in
seguito mi aveva comunicato di andarmene.
Telefonai a casa, ringraziando il cielo di udire la voce dei miei cari. Informai il direttore Pollari.
Noi italiani del Sismi eravamo stati gli unici a creare le condizioni per frequentare luoghi estremi. In quel
periodo, alcune importanti agenzie di intelligence vennero a chiederci come eravamo riusciti ad avere
questo ruolo all’interno dell’Iraq. Rispondevo sempre che avevamo applicato il controspionaggio
offensivo.
Nonostante la nostra capacità informativa in quel Paese fosse molto alta e penetrante, a volte i terroristi
sono riusciti a colpirci duramente. Ricordiamo tutti il gravissimo attentato di Nassiriya del 12 novembre
2003, in cui persero la vita 19 italiani, tra cui 12 carabinieri, 5 militari dell’esercito e due civili, e 9 iracheni.
Su disposizione del direttore Pollari, qualche ora dopo l’efferato crimine accompagnai con Nicola
Calipari il ministro della Difesa Antonio Martino in Iraq.
Cinquantasettesimo posto
Quando l’intelligence ha elementi sufficienti per capire che in una determinata area del mondo sono a
rischio interessi italiani e della Nato, si predispone una «rete». Le procedure per prendere contatto e
trasmettere le informazioni acquisite sul campo di battaglia dai singoli elementi della struttura
clandestina vengono concordate e stabilite all’inizio del rapporto fiduciario. Con le fonti si stabilisce un
patto di civiltà, a rischio della vita. Perdendola, talvolta: noi e loro.
Grazie a questi nostri amici per la pelle, abbiamo evitato diversi attentati contro i soldati della nostra
missione, ma abbiamo anche potuto scongiurare una rappresaglia contro una tribù ritenuta prona allo
straniero. Non sempre abbiamo avuto successo, ma era un rapporto che funzionava per ambo le parti.
Eravamo in condizioni di accertare se quel corteo di pick-up confluiva sotto il grande albero solitario
per un rito nuziale o per un’adunanza guerresca. Noi italiani non abbiamo mai bombardato funerali, feste
o cerimonie religiose. Il nostro addestramento di soldati e poliziotti afghani funzionava nella fiducia
reciproca. Chi ci passava informazioni – chiamiamole pure spie, purché sia chiaro che non è affatto un
termine offensivo – non è mai stato convocato nei nostri compound, altrimenti sarebbe stato identificato
dagli informatori dei talebani e dunque consegnato a sicura decapitazione.
Altre intelligence presenti, invece, avevano questo incredibile costume: vieni da noi a ritirare la paga,
perché noi non siamo in grado di consegnartela. Quanti cittadini stranieri presi in ostaggio abbiamo
liberato grazie ai nostri rapporti «privilegiati», costruiti con il metodo del controspionaggio offensivo.
Purtroppo negli anni successivi al 2006, con la mia assurda detenzione da innocente per i casi Abu
Omar e Telecom (li vedremo), si è disfatta la rete delle nostre amicizie e sono state tradite le promesse
fatte alle risorse umane locali, con un danno enorme per la nostra credibilità internazionale, che ancora
oggi paghiamo. Oltretutto è stata assegnata l’esclusiva attività di intelligence alla Cia, con la teorizzata
trascuratezza – almeno in quel quadrante – della Human Intelligence, ritenuta troppo rischiosa. Meglio
lavorare dalla base sotterranea di Tampa, senza mescolarsi con chi si porta addosso odore di capra e di
rosmarino, confidando negli algoritmi per l’analisi satellitare, le intercettazioni elettroniche e quelle
astrattamente geopolitiche.
Risultati? Quanti morti lì. Quanti disastri per l’Occidente e per i Paesi che ne hanno accettato
l’ombrello. Non è lo spionaggio in sé la causa del male, ma la sua assenza, o – che è lo stesso – la
corruzione dei suoi capi.
Siamo all’11 giugno 2021, al G7 in Cornovaglia. I sette Paesi più importanti del mondo sono rappresentati
dai loro presidenti o capi di governo. Ciascuno ha con sé la relazione sullo stato del mondo della propria
agenzia di informazione e sicurezza. Stati Uniti d’America, Regno Unito, Francia (le tre potenze nucleari),
Germania, Giappone, Italia e Canada sono alleati. Dovrebbero sapere che cosa sta per accadere.
Certo, il Covid, il riscaldamento globale, le strategie per rimediare a entrambe le sciagure. Ma si sta per
staccare una slavina enorme dal punto di vista fisico e metafisico, militare e geopolitico, umano e
disumano: un particolare che era sfuggito, scivolato giù giù, non considerato nemmeno come un possibile
bullone allentato nella macchina perfetta dell’ordine mondiale.
Non fu neppure ipotizzato il fattore P, dove P sta per possibilità. Gli americani avevano deciso di
andarsene da Kabul, e Biden la considerava una faccenda minore. Ad assisterlo aveva le massime
intelligenze analitiche del pianeta, leader, colleghi e consiglieri, quelli del cerchio maggiore (anglosfera) e
di quello minore, con tutti i loro fogli.
A sorpresa, ma non più di tanto, trattano l’argomento come in un’assemblea di condominio si
annuncia lo spostamento di un vaso di fiori che non piace a nessuno. E dire che l’Afghanistan almeno
alfabeticamente dovrebbe farsi avanti, pretendere la precedenza. Forse sarebbe pretendere troppo, ma
almeno K come Kabul, undicesima lettera dell’alfabeto latino…
Invece no. L’Afghanistan è al 57° posto nel comunicato finale, nella sintesi delle preoccupazioni dei
leader della civiltà occidentale. Stralcio il capitolo dal penoso elenco. Punto 57 (su 70: gli altri 13 temi si
saranno offesi?).
57. We call on all Afghan parties to reduce violence and agree on steps that enable the successful implementation of a
permanent and comprehensive ceasefire and to engage fully with the peace process. In Afghanistan, a sustainable,
inclusive political settlement is the only way to achieve a just and durable peace that benefits all Afghans. We are
determined to maintain our support for the Afghan government to address the country’s urgent security and humanitarian
needs, and to help the people of Afghanistan, including women, young people and minority groups, as they seek to
preserve hard-won rights and freedoms.
In sintesi:
57. Invitiamo tutte le parti afghane a ridurre la violenza e a concordare passi che permettano l’efficace attuazione di un
cessate il fuoco permanente e completo e a impegnarsi pienamente nel processo di pace. In Afghanistan, una soluzione
politica sostenibile e inclusiva è l’unico modo per raggiungere una pace giusta e duratura che porti benefici a tutti gli
afghani. Siamo determinati a mantenere il nostro sostegno al governo afghano perché affronti le urgenti necessità
umanitarie e di sicurezza del Paese, e perché aiuti il popolo afghano, comprese le donne, i giovani e i gruppi minoritari,
che cercano di preservare i diritti e le libertà duramente conquistati.
Nei mesi in cui persi il lavoro, chi avrebbe dovuto fornire per il G7 in Cornovaglia notizie serie
dall’Afghanistan, sfruttando i lasciti del controspionaggio offensivo (che, seppure a brandelli e grazie a
persone coraggiose, resisteva), era impegnato in quel periodo a sbattermi fuori con il pretesto di un
incontro in autogrill sotto Natale con il «fondatore di Italia Viva», il senatore Matteo Renzi. Occhi di falco
puntati su Fiano Romano, quindi, non sui talebani che a piedi e in bicicletta stavano rioccupando Kabul.
Eppure che gli Usa intendessero abbandonare l’Afghanistan era un fatto noto. Barack Obama aveva
promesso che avrebbe ritirato tutte le truppe entro il 2016, alla fine del secondo mandato. La bugia
grande come una casa (bianca) era che l’avrebbe fatto a vittoria compiuta. E così se la sono bevuta gli altri
leader, e forse lo stesso Biden ha convinto se stesso di questa tragica millanteria.
A giugno, in Cornovaglia, si conosceva la data di questo addio, e tutti hanno accettato la tesi che si
sarebbe trattato di un cambio della guardia sereno, non certo una fuga ingloriosa come nel 1974 in
Vietnam. Invece è stato anche peggio.
È da questo fiasco che nasce la decisione di Putin di rompere gli indugi e aggredire, pochi mesi dopo,
l’Ucraina. Questa mossa era già nella testa del capo del Cremlino almeno dall’agosto del 2008, quando
colonne di blindati russi poterono penetrare in Georgia procedendo fino alla periferia di Tbilisi. Credo
che allora per disinnescare l’apocalisse sia stato decisivo l’intervento personale di Berlusconi. Per il
Nuovo Zar fu la prima presa d’atto dell’inerzia delle potenze occidentali dinanzi al fragoroso infrangersi
del diritto internazionale. Ma è stato il G7 in Cornovaglia a far luccicare gli occhi di Vladimir. La
manifesta disinformazione sul quadrante orientale e la susseguente e rapidissima e indisturbata marcia
dei talebani su Kabul, con il discredito morale connesso al tradimento delle promesse da parte dei Paesi
occidentali dopo vent’anni di presenza militare, hanno funzionato da semaforo verde per il blitz russo del
24 febbraio 2022.
Facili le conclusioni di Putin.
Alla Nato non funziona l’intelligence.
Sono predisposti a cedere, davanti a forze ostinatamente resistenti.
In realtà, Cia e Mi6 – cioè americani e inglesi – sapevano quasi tutto dei preparativi della Federazione
Russa per incamerare l’Ucraina. Forse hanno voluto far la figura degli allocchi per gabbare Mosca e
indurla a schiantarsi.
Ma di sicuro i servizi segreti, e di conseguenza i leader d’Italia, Francia e Germania non avevano capito
nulla né della débâcle in Afghanistan (imprevista o preordinata che fosse) né – a differenza dei Paesi
dell’Anglosfera – di quel che stava per accadere sopra le nostre teste.
Capitolo 6
Un piatto di schifosi tortellini a San Pietroburgo
Il mio lavoro è sempre stato trovare informazioni e agire di conseguenza. Questo comportava una
sotterranea e crudele lotta senza quartiere, che io ho toccato, palpato, assaggiato. Sono stato circondato da
ufficiali dei servizi segreti russi del Gru forse poco preparati nell’arte del pedinamento e nel condurre
servizi di OCP «a scatola», e qui ne offro il racconto, almeno per quanto si può narrare senza nuocere
all’interesse nazionale e alla sorte, per me altrettanto decisiva, dei singoli. Anche quando non sono
incoronati di alloro.
In questo 2023, in cui sto scrivendo di eventi a me accaduti, e/o da me fatti accadere, avevo stabilito di
tornare a San Pietroburgo, per rivivere sul posto, e anzi sui posti – hotel, bar, ristorante, taxi, ponti sulla
Neva attraversati di corsa – una «vacanza di lavoro» clamorosa condotta nel 1999, un episodio
entusiasmante in terra ostile.
Alla fine però ho preferito non intraprendere la trasferta. Perché? Innanzitutto per lo stato delle nostre
agenzie di informazioni e sicurezza: al loro interno, infatti, continua ad agire «qualche mano solerte» che
lavora contro l’Italia. La definizione di «mano solerte», purtroppo più solerte di quelle che non hanno mai
preso sul serio questa presenza aliena, è stata coniata il 10 giugno 2022 dal sottosegretario di Stato Franco
Gabrielli, nel corso della conferenza stampa in cui bollò come «gravissima» la diffusione sulla stampa di
un documento classificato sui putiniani d’Italia. Ha promesso di individuare quella mano e tagliarla. Non
pare ci sia riuscito: forse il traditore è ancora acquattato, sereno e vispo, nella pancia dei nostri servizi?
Sono poi consapevole che la mia gita in Russia, in tempi di guerra perdurante, avrebbe rischiato di
essere segnalata, tramite «mano solerte», agli apparati moscoviti. E i russi non dimenticano.
Avevo studiato come compiere il viaggio da turista. Ci sono restrizioni, certo: per scivolare il meno
osservato possibile tra i valichi di frontiera non era il caso di arrivarci in aereo. Ma alcuni amici di buon
senso mi hanno fatto notare che San Pietroburgo non è città che mi convenga frequentare: arrivarci non
sarebbe stato un problema, ma uscirne sì.
Non avevo e non ho nessuna intenzione di fare il «fenomeno», con il rischio di causare danni all’Italia.
E al minimo incidente posso immaginare quali sarebbero stati i commenti sul pensionato che non ne vuol
sapere di starsene seduto sulla panca dei giardinetti e va a rovinare il lavoro dei professionisti.
Ci ho ripensato, pertanto. Non per paura di diventare la sagoma perfetta per proiettili di fango – in
attesa, magari, di quelli di piombo –, ma applicando il principio di precauzione, che vieta di esporsi al
colpo nemico.
La talpa e il Verme
Come ha scritto il giornalista Gianni Cipriani (consulente della commissione Mitrokhin sullo spionaggio
russo) su Globalist.it il 20 maggio 2022, precedendo di venti giorni la furibonda ammissione di Gabrielli,
sarebbe stata presente nei gangli interstiziali del Sismi una talpa sovietica mai debellata, neppure dopo la
fine della prima guerra fredda. L’esperto di intelligence sostiene che questo traditore sia stato battezzato
«Il Verme».
Oltre alla dichiarazione dell’Autorità delegata, certi strani fatti dimostrano che l’ex Kgb e il Gru sanno
muoversi in Italia con la sicurezza degli ospiti d’onore. Un caso per tutti: l’esfiltrazione di Artem Uss,
molto caro a Vladimir Putin, che dagli arresti domiciliari a Milano è arrivato in Russia, passando forse per
la Serbia, il 22 marzo 2023.
Artem Uss era inseguito da un mandato di cattura statunitense per traffico d’armi e di petrolio a favore
del suo Paese, ed era stato arrestato quando si trovava di passaggio in Italia, dove vanta vasti interessi,
specie in Sardegna. I giudici italiani hanno valutato nella loro indipendenza – bene o male, non sta a me
giudicare – che fosse sufficiente la detenzione domestica con controllo assicurato dal braccialetto
elettronico e dai passaggi dei carabinieri della locale caserma. Diverse ore dopo la sparizione, ecco Uss in
Russia, con il padre, dirigente governativo, che ringrazia Putin e gli amici.
È una nostra sconfitta, e va in capo ai servizi segreti, cioè al governo da cui dipendono politicamente
ed esecutivamente. I giornali riferiscono che l’Aisi, l’Agenzia informazioni e sicurezza interna, cui dopo la
riforma della legge sui servizi del 2007 tocca il controspionaggio interno, si difende dalla débâcle
rivendicando di non essere stata informata dalle autorità competenti (la magistratura, la polizia
giudiziaria, il ministero di Giustizia, quello degli Esteri) della presenza, in stato di restrizione domiciliare,
di un tizio sul quale gravava un’accusa degli americani, nostri alleati, per ipotesi di reati che in tempo di
guerra hanno una rilevanza eccezionale.
Il nome è Agenzia di informazioni: non credo vada inteso nel senso che l’agenzia debba essere
informata da altri organi dello Stato, ma che sia essa a dover dare notizie di minacce alla sicurezza
nazionale e a provvedere.
Il governo ha provato a nascondere la falla nel muro di carta velina che dovrebbe difenderci da
incursioni del nemico in situazioni di conflitto, individuando la responsabilità nella sciatteria e
negligenza della magistratura.
Spero che personalità di intelligenza acuta, ma forse di incolpevole inesperienza sul campo (e sulla
materia), come Giorgia Meloni e la sua Autorità delegata per l’intelligence Alfredo Mantovano, non si
siano accontentate di tali giustificazioni né dell’inclusione ai vertici di figure che non credo abbiano
spaventato i russi. So per certo che nell’Aise e nell’Aisi (le agenzie informazioni e sicurezza
rispettivamente esterna e interna) ci sono colleghi validissimi, ma qualcuno deve aver staccato i fili dello
spinterogeno collegandoli al tubo di scappamento. Risultato: fumo!
Ricordo l’encomiabile sforzo che produssero i servizi coordinati dal Dis per identificare personaggi
ritenuti megafoni degli interessi russi. Copasir mobilitato, riunioni ad altissimo livello. Poi il documento,
francamente fiacco, che era classificato come riservato, e la cui pubblicazione è dunque reato secondo
l’articolo 262 del codice penale, è stato declassificato con l’intenzione di dimostrare che non meritava
nessun livello di segretezza, tant’era sciapo. Ho il sospetto che la divulgazione sia stata voluta dalla
«solerte mano», appunto per far sapere ai russi che in Italia non corrono pericoli di vedersi individuata e
sradicata la succursale… Del resto è curioso che a essere stato fatto fuori, con sollievo della «mano
solerte» e dei suoi mandanti, sia stato uno dei loro più tenaci avversari.
Dopo alcuni clamorosi successi della prima divisione del Sismi, che avevano meritato gli elogi da parte
della comunità di intelligence occidentale, ebbi via libera per dare colpi di acceleratore al
controspionaggio offensivo. La precedente attività di ricerca informativa, svolta in clandestinità, ci aveva
permesso di consolidare contatti molto interessanti. Il colpo da maestro era stato conoscere un «tecnico»
(ex Urss) e diventarci amico. Ci davamo appuntamento in tutte le parti d’Europa (rigorosamente: mai in
Italia), adottando metodi e canali ogni volta nuovi.
Era una persona colta, parlava con piacere. Grazie a lui stavamo acquisendo informazioni molto
importanti sia sulla struttura statale, che non corrisponde per nulla ai diagrammi ufficiali, sia sulle
gerarchie (gli interna corporis, com’è scritto nei manuali di intelligence) di Paesi a noi avversi. Un giorno
mi fece sapere che avrebbe voluto parlare del suo hobby preferito: l’insonorizzazione dei sommergibili di
stanza a Kaliningrad.
Ecco: l’intelligence esiste (o almeno esisteva) anche per questo, per tutelare le ricerche scientifiche del
proprio Paese o per acquisirne di nuove, potenzialmente utili per sventare eventuali attacchi. Non è un
gioco tra spie che si annullano. Serve alla pace: uno sta meglio, se apprende. Un servizio segreto efficiente
deve essere in grado di far sapere all’autorità politica che, con un alto grado di attendibilità, un Paese sta
impegnando risorse in un dato settore. Già una semplice notizia del genere sarebbe importantissima.
La pianificazione dell’appuntamento avvenne in un Paese europeo da cui il mio amico doveva passare
(che non nominerò per le ben note ragioni di sicurezza). Decidemmo insieme l’hotel di San Pietroburgo
per lui (due notti) e quello per me (cinque notti). Non potevo permettermi scherzi, perciò presi una
precauzione ulteriore: cambiai il mio albergo all’ultimo momento, a sua insaputa. Mai rinunciare a una
certa dose di sfiducia.
Preso possesso della stanza, con addosso l’odore dell’italiano in cerca di svago, mi misi a girare per la
città, respirando l’aria e l’architettura del Quarenghi. Il terzo giorno cominciai a percorrere i luoghi dove
sapevo di poter contare su alcuni amici già conosciuti nel tempo e che avevo fatto convergere lì per
definire il perimetro di sicurezza del mio soggiorno. Avevo individuato un possibile punto di incontro: la
Neva, e più precisamente la nave museo, l’incrociatore Aurora, che galleggia sulla sua riva. Questo però lo
tenevo di riserva. Ne avevo predisposti altri due: un ristorante e un bar.
Sapevo che il mio amico adorava mangiare italiano, e gli chiesi perciò di scegliere il ristorante.
All’ultimo minuto, però, lo informai che avevo prenotato da un’altra parte, una trattoria che avevo visto il
giorno prima – specialità: tortellini.
Avevo condotto un sopralluogo sui percorsi che avremmo dovuto fare nell’allontanarci. Presso
l’Aurora c’era un ponte con un’ottima visibilità, da cui si potevano individuare eventuali presenze di
servizi stranieri offensivi. Sulla riva c’erano molti pescatori, così acquistai le canne da pesca (ne presi due,
per dare l’aria dell’appassionato vero), i mulinelli e le esche, e invitai un altro amico a mettersi lì, a
pescare tutto il giorno, vicino all’incrociatore.
Giriamo tutta la mattina, indipendentemente uno dall’altro, per visitare San Pietroburgo. Le idee
nell’aria hanno sempre un odore di asfalto diverso da città a città, ma io riesco a muovermi con
tranquillità, creandomi una mappa mentale, dove in seguito poter collocare i ricordi. Conoscevo quali
fossero i quartieri belli da vedere ma dove non sostare.
Venne il momento dell’incontro con l’amico, nel bar che avevo scelto. Tutto a posto. Ci parlammo lì per
un’oretta. Poi prendemmo un taxi insieme, e lui restò meravigliato dell’indirizzo che diedi al tassista,
perché non sapeva ancora del cambio di locale. Scelsi io il tavolo e dove sedermi: di lato, in modo da
poter vedere chi entrava, chi usciva, e come giravano gli occhi avventori e camerieri. A un altro tavolo,
due donne stavano già mangiando.
Il mio amico ordinò «tortellini alla bolognese». Mi associai. Arrivarono i tortellini, ed erano una vera
schifezza. Proprio in quel momento entrò uno che non c’entrava nulla con l’ambiente di quel ristorante.
Un ragazzo di 26 o 27 anni, capelli corti, vestito sportivo, jeans, scarpe da runner e camicia: per il mio
istinto era inconfondibilmente la divisa di chi non vuol far capire di essere in divisa. Non aveva
assolutamente l’aria del cliente di un ristorante; e uno di quel genere, poi, che non aveva niente di
giovanilistico.
Il ragazzo mangiò qualcosa al volo, quindi si spostò e si piazzò all’uscio, rimase lì per circa dieci
minuti, in piedi, incazzato, in attesa della ricevuta. Il caro giovane, presa la sospirata notula (per il
rimborso, ça va sans dire), balzò via. Feci in tempo a notare che andava verso destra.
Dopo cinque o sei minuti uscii anch’io, lasciando l’amico al tavolo.
Il ristorante era ubicato in un lungo vicolo che consentiva due sole vie di fuga. Il giovanotto era tutto
fiero di se stesso. È una sensazione indescrivibile la certezza di essere nella tana del lupo, quando il lupo
si è accorto di te, e ti vuol mangiare. Adrenalina pura.
Chiamai al cellulare mia moglie, le dissi: «…ho molto caldo, mi raccomando, fa’ quello che devi fare
con nostra figlia, con tutto, sappi che magari è l’ultima volta che ci sentiamo. Tu sai che io servo il mio
Paese…». La compagna di un agente segreto non deve sapere che cosa sta facendo, deve aprire il sistema
interiore antipanico. E così fece mia moglie, rincuorandomi come al solito. Chiusi la telefonata.
L’arte dell’improvvisazione
Ma la cultura della spia consiste anche nel saper inventare quando si è dimenticato tutto.
Il giovane russo arrivò alla fine del vicolo, salì su una Lada Niva, e si piazzò sul sedile del passeggero.
Afferrò una sorta di telefono radio all’interno della macchina. Io mi ero intanto celato precariamente in
una rientranza del muro, per poter vedere senza essere visto.
La Lada Niva era piena di quegli sbirri maledetti: lo aspettavano in tre, uno alla guida, gli altri dietro.
Se il tipo che era entrato al ristorante aveva parlato alla radio, dedussi in fretta, era per chiedere a un suo
collega di chiudere l’altra parte del vicolo. Quindi corsi nel senso opposto, saranno stati 150 metri. Mi
fermai al riparo di una sorta di gabbione di legno. Stavano rifacendo la facciata del palazzo. Da quella
baracca si innalzavano impalcature, tutte in legno e chiodi, così mi tirai su quel tanto che bastava per
vedere sotto un’altra Lada Niva color caffellatte, con altre tre persone a bordo, con uno sportello aperto,
come fanno gli sbirri quando hanno caldo.
Rientrai nel ristorante e dissi all’amico: «Guarda, ci vediamo fra quattro ore. Fuori, forse, c’è qualcuno del
Kgb». L’amico fece per parlare ma vomitò. Il mio compito era rasserenarlo. Appoggiai la mano sulla sua,
che era gelida. «Non ti preoccupare, non ti succede niente se dai retta a me. Chiama il taxi e vai in giro per
San Pietroburgo. Fai quello che ti pare, vai anche in un altro ristorante italiano, mangia un altro primo,
così fai vedere che sei andato a San Pietroburgo per un giro gastronomico, e se ti chiedono qualcosa di
me, di’ che sono un tizio incontrato per caso, te lo sei ritrovato lì, e avete fraternizzato tra solitari,
discutendo su quale fosse meglio tra gli Uffizi di Firenze e l’Hermitage.»
Lui svicolò verso destra, io uscii dopo mezz’ora che era uscito lui e andai a sinistra. Mi resi conto che a
seguirmi c’era un nugolo di agenti, che si alternavano dietro e accanto al presunto pollo (io). Prima di
qualsiasi altra cosa volevano vedere da chi sarei andato, con chi mi sarei incontrato. Fingendo di essere
davvero il coglione che credevano, mi misi a telefonare a chiunque mi veniva in mente. Così potevo
fermarmi, guardare il telefono, e intanto valutare la piega che stava prendendo la caccia al turista italiano.
Saltai al volo su un taxi, scesi gli scalini della metro, ma in realtà finsi di entrare: uscii da un altro sbocco,
zigzagai per la città a piedi, salendo e scendendo da metro e bus.
Dopo due ore di questo lavoro andai in quella che nella mia mente avevo prefigurato come comfort zone
estrema. L’avevo individuata discorrendo con alcuni amici: un andito sotterraneo, a ridosso dei tornelli
della metropolitana, dove quasi duecento persone giocavano a scacchi. Lì potei verificare di aver eluso il
pedinamento con successo.
Altre due ore dopo, l’amico si presentò puntuale e mi «relazionò» sul suo hobby preferito.
Il soggiorno turistico era andato a buon fine. Ma dovevo ancora accertarmi che lui rientrasse a casa nel
suo Paese senza noie.
La sera, nella hall dell’albergo mi ritrovai accolto da uno sciame di persone, mi dissero di essere della
security, mi salutarono deferenti, contraccambiai. Salii in camera e compresi che, oltre a quella prevista
per il riordino della stanza, avevo avuto un’altra visita.
Al mattino, prima di andare in aeroporto, feci ancora la parte del bravo «turista» in trasferta. Finché, in
fila per il volo di rientro, si avvicinarono due persone della security aeroportuale, mi dissero di uscire
dalla fila per la partenza e di consegnare loro la borsa da viaggio e lo zaino. Io glieli diedi, e mi dissero
che potevo ripartire. Non ci fu bisogno di spiegazioni. Del resto, i miei documenti erano regolari, mai
usate patacche da cinematografo.
Dopo due mesi borsa e zaino rientrarono in Italia, non mancava nulla.
Qual è la mia piccola morale?
Dai satelliti si possono mettere a fuoco i pacchetti di sigarette leggendo marca e tipo; certi strumenti
spaziali riescono a dar nome, trasformando il ritmo del cuore in una sorta di impronta, al proprietario di
quel muscolo che batte nel petto, e poi a fulminarlo con un drone. Ma in questo modo non si costruisce
niente, si distrugge e basta.
Lo spionaggio come lo intendo io, invece, usa tutto. Perché per costruire una città armoniosa occorre
qualcosa di più della tecnica. Ad esempio la Primavera di Botticelli e la forza degli affetti. Tutto qui?
Dimenticavo: intelligenza e culo.
Capitolo 7
Il controspionaggio della prima divisione del Sismi
Il già citato Gianni Cipriani, consulente della commissione Mitrokhin racconta, in un articolo pubblicato
da Globalist.it il 2 maggio 2022, un’operazione a contrasto dello spionaggio russo in Italia, realizzata dal
controspionaggio del Sismi. Scrive:
Nel corso degli anni le attività di controspionaggio contro la Russia si sono affievolite. Mosca è stata percepita come
alleata. […]
[…] l’ultimo capitolo di una guerra di spie e di spionaggio tra Mosca, Washington e le principali capitali europee – Roma
tra queste – che va avanti dagli anni immediatamente successivi al crollo del Muro di Berlino […].
L’Italia se ne accorse molto presto perché all’inizio degli anni Novanta (quando il capo del Sismi era lo scomparso generale
Pucci) fu scoperta l’attività di un diplomatico accreditato presso il Consolato russo di Milano – un ufficiale della linea
tecnologica dell’Svr (erede del Kgb) di nome Surov – che cercava di trovare il modo di impossessarsi delle lenti di un carro
armato di fabbricazione italiana all’epoca tecnologicamente molto avanzato. […]
Del resto i sospetti e alcune certezze di attività di spionaggio militare e industriale avevano molti riscontri.
Proprio per questo l’intelligence italiana diede il via ad una grossa operazione di controspionaggio che partendo da Roma
ha via via raggiunto altre capitali europee e anche altri territori. Una operazione durata molti anni.
In pratica si trattò di identificare reti spionistiche russe in Europa, Medio Oriente e anche Oltreoceano. Le spie identificate
furono moltissime. Si parla di centinaia.
In quell’occasione emerse un dato molto interessante: una fortissima penetrazione dei servizi segreti russi in Ucraina e
anche – e soprattutto – una grande penetrazione russa all’interno degli stessi servizi segreti ucraini, cosa che è andata
avanti – presumibilmente – fino all’inizio dell’invasione.
Sempre Cipriani, il 2 settembre 2023, a distanza di un anno, ritorna sulla spia Surov:
All’epoca fu scoperta una attività dell’Svr russo che avveniva attraverso agenti segreti accreditati come diplomatici in
Italia. […]
In particolare si trattava di un diplomatico russo […] di nome Surov […].
L’operazione che venne condotta dal controspionaggio dell’epoca, ossia la prima divisione del Sismi […] ha avuto tratti
romanzeschi. […] gli agenti italiani riuscirono a sostituirsi alla ‘fonte’ dei russi […]. Questo consentì non solo di scoprire a
cosa dessero la caccia i russi ma anche di capire quali erano le altre spie di Mosca utilizzate da Surov fino a identificare
l’intera rete.
Poi l’epilogo, […] i russi avevano chiesto che la consegna delle sospirate lenti per i carri armati e i documenti relativi
fossero consegnati in un giorno vicino Natale 1992 tramite un pony express, per mascherare la consegna ed evitare un
contatto diretto tra la fonte (ossia l’impiegato infedele che in realtà era un agente sotto copertura) e Surov. L’appuntamento
era all’ingresso posteriore del Consolato. Così al momento della consegna il finto fattorino si presentò con il pacco al cui
interno però c’era solo un calendario del Sismi con gli auguri per le feste.
Il gruppo fu espulso dall’Italia in maniera discreta senza peraltro che ci fosse un caso diplomatico e senza che […] ci
fossero espulsioni russe di diplomatici italiani.
Il caso Surov
Era il 1992, e a dirigere il Sismi era il lucchese generale Cesare Pucci (scomparso nel 2016), quando
osservammo il lavoro assai fine di un diplomatico in servizio al Consolato generale russo di Milano:
Surov. Ci risultava essere un colonnello dell’Svr. Aveva conosciuto in Italia, con lusinghe e complimenti
da scienziato a scienziato, e in nome della pace, un amico. Cioè una fonte. E noi riuscimmo a trasformarlo
in un boomerang contro gli aggressori.
La faccenda fu gestita dai vertici della prima divisione del Sismi che mi chiesero di coadiuvare due
colleghi, più anziani e più esperti di me, per mettere fine all’azione di spionaggio di Surov.
Per due notti, notti in cui la temperatura scese a -7° C, tenemmo d’occhio discretamente il consolato, in
un quartiere residenziale della zona ovest della città, dalle parti dello stadio di San Siro.
Silenzio, gelo, adrenalina.
Sorvegliavamo nell’ipotesi ci fossero movimenti di servizi segreti ostili per mettere in sicurezza le
pertinenze. Sapevamo che il colonnello avrebbe messo fuori il naso alle nove e mezza dall’ingresso
posteriore, dove c’era il passo carraio. Avrebbe ritirato un pacco che gli sarebbe stato consegnato da un
corriere alla guida di un Ape da pony express.
Eccoci. Lui uscì, e dall’Ape scesi io, tenendo tra le mani un magnifico pacco sovrastato da un fiocco
natalizio. Dentro non ci sarebbe stata né la lente per carrarmati, di cui fa cenno il giornalista Cipriani nel
suo articolo, né un floppy disk e neppure altri documenti con formule e algoritmi, ma il calendario per
l’anno nuovo del Sismi, con gli auguri del controspionaggio.
Surov era in territorio italiano.
Mi vide, e fece la mossa di rientrare nel cancello, indicandomi a gesti e cenni di deporre il tesoro
spionistico sulla soglia. Ma non poteva andare così. Feci il finto tonto, lo salutai con la testa e con la mano,
mentre tenevo sull’altro palmo il pacco. Era la vigilia del nostro Natale, e tra fratelli cattolici e ortodossi,
dediti alla pace, occorreva manifestare un po’ di calore.
«Salve, buongiorno. Buon Natale.»
«Buongiorno» replicò, gentile e frettoloso.
«Che freddo fa oggi.»
Lui ribatté che a Mosca con questa temperatura nessuno avrebbe detto che era freddo.
Mi venne una battuta spiritosa: «Per noi oggi è una bella giornata».
Vidi che lui ci rimase di stucco, però ebbe la prontezza di stare al gioco: «Anche per me oggi è una
bella giornata». Era il suo modo di ringraziarmi.
«Bene, sono contento che per lei sia una bella giornata.» Avevo superato l’esame, prese la scatola di
cartone ben confezionata. Lo sguardo era sereno, non aveva capito con chi stesse parlando.
Lo accompagnai per quei pochi metri. Disse: «Grazie, grazie, grazie», respirava l’aria glaciale come
fosse la brezza dell’Eden.
E poi, quando ebbe messo un piede, due piedi, e infine fu con tutto il corpo dentro il territorio della
Federazione Russa, gli dissi ad alta voce: «Colonnello, guardi che io sono funzionario del
controspionaggio del Sismi, dell’intelligence italiana. Apra il pacco, e guardi cosa c’è».
La porta carraia era ancora aperta. Lui capì tutto finalmente, si girò e mi salutò ancora: aveva perso ma
era un buon perdente. Chiuse il cancello, senza dire più nulla.
Venne informato immediatamente il direttore Cesare Pucci, che riferì al premier Giuliano Amato.
Fu convocato l’ambasciatore russo. Il filmato era inoppugnabile, le prove incontrovertibili. Dopo
qualche giorno un bel gruppo di diplomatici, non solo Surov, fu espulso dall’Italia. Nessuna conseguenza
sui nostri rapporti con la Russia. Con intelligenza il governo aveva deciso di non usare la grancassa.
Surov rientrò in Patria, dove fu promosso generale perché aveva rischiato grosso.
Non ci fu nessuna ritorsione contro i nostri diplomatici a Mosca.
Avevamo agito senza arrestare nessuno, sostituendoci alla fonte che Surov pensava di aver reclutato,
facendogli solo sentire l’odore ma senza mostrargli neanche l’ombra di quel che era oggetto degli appetiti
stranieri, piazzandogli in mano una patacca, consentendo inoltre di individuare l’intero nucleo operativo
che armeggiava per impossessarsi dei nostri segreti tecnologici e militari. Un’operazione pulita,
tranquilla, serena. Un caso da manuale, che però qualcuno deve avere in questi anni rottamato.
Rileggo i quotidiani e noto la competizione – viva la concorrenza – tra i reporter, detti in gergo pistaroli, e
la straordinaria armonia dell’insieme – viva il pensiero unico. Le due cose stanno insieme magicamente.
Le varie testate esibiscono chi («La Stampa») fotografie esclusive, chi («Il Sole 24 Ore») il riepilogo
gustoso dei «cinque mesi» di appostamenti e il materiale di prova raccolto dall’Aisi. Ciascuno dei cronisti
di rango impegnati sul tema è omaggiato da una «mano solerte» di una o più tessere di un mosaico che si
compone da sé, come per incantamento, e il cui soggetto è la glorificazione fasulla di un fallimento
dell’intelligence italiana, trasformato in trionfo dall’umanità acritica dei consensi mediatici e politici.
Nel caso Biot davvero nessuno ha provato almeno a ipotizzare il possibile reclutamento dell’avversario?
Parrebbe di no. Ma com’è possibile, mi domando, che giornalisti esperti, politici del Copasir adusi a
maneggiare argomenti di questo genere, non abbiano rovesciato il tavolo dei pasticcini scoprendo
l’altarino dell’incompetenza? Quando quel disgraziato presunto traditore si è seduto come imputato in
custodia cautelare nell’aula del carcere di Santa Maria Capua Vetere, è stata un’altra pioggia di petali di
rosa in forma di articoli sulla nostra intelligence. Ehi, c’erano 181 documenti nella microscheda Sd Hc
Kingston, con fotografie di atti segreti. Quanti ne avesse venduti prima, non è dato sapere.
Preferisco quel gelo di Milano, in una mattinata silenziosa e ghiacciata del 1992, con Surov e i suoi
colleghi agenti segreti fuori dall’Italia.
Questioni di metodo
Mi dà pena la situazione del nostro Paese, che in piena guerra è senza difesa dalla penetrazione
spionistica del nemico. Detesto fare paragoni, ma proprio negli anni del governo Berlusconi, tra il 2001 e
il 2006, mentre ero a capo della prima divisione del Sismi, era stato il controspionaggio italiano ad aprire
come una scatola di tonno – per usare una ben nota metafora – l’apparato di penetrazione russa non solo
nel nostro Paese ma negli altri Stati della Nato, Usa compresi.
Trascrivo da un video postato il 28 ottobre 2021 da Jacopo Iacoboni, sul sito della «Stampa»:
Secondo il nostro controspionaggio negli anni della stagione trionfante dei populisti, Lega e Movimento 5 Stelle al potere
in Italia, si è talmente intensificato lo spionaggio russo da arrivare ad una cifra di spie incredibile: 87 operativi russi censiti
in Italia dalla nostra intelligence. Una cifra enorme se si pensa che negli Stati Uniti di Obama ne erano stati espulsi 60 dopo
l’avvelenamento di Sergej Skripal’. Proprio sull’avvelenamento di Skripal’ c’è una storia incredibile che ha a che fare con
l’Italia, perché il commando che è accusato di averlo avvelenato, composto da tre uomini, è transitato ripetutamente in
Italia in questi anni, sia dagli aeroporti di Roma che di Milano. Il capo di questa cellula si chiama Denis Sergeev, risulta
atterrato a Fiumicino il 4 marzo del 2018, proprio il giorno delle elezioni politiche, e tra l’altro il giorno immediatamente
successivo all’avvelenamento di Skripal’. Anche gli altri due, che sono accusati di essere gli esecutori materiali, Alexander
Mishkin e Anatoly Chepiga, risultano avere usato gli aeroporti italiani come base logistica nel Nord Europa. Facevano base
a Chamonix poi a Ginevra e ad Annemasse e i loro telefoni risultano agganciati anche nelle celle della zona del Monte
Bianco, di Courmayeur in Italia. È presumibile pensare che si muovessero da Milano a Ginevra abbastanza indisturbati. La
cosa fa chiedere come mai l’Italia sia diventata un territorio di pascolo così facile per le spie russe. Storie come queste fanno
pensare che l’Italia sia stata un terreno fertile non solo di spie ma anche un terreno di grandi operazioni economiche
attraverso le quali la Russia ha conquistato influenze.
Come già scritto, questo video è stato caricato in rete il 28 ottobre 2021 da Jacopo Iacoboni, e nel testo di
accompagnamento sulla rete si specifica persino che l’operazione dell’avvelenamento è stata condotta
dall’«Unità 29155» dei servizi segreti militari di Mosca (Gru), che atterrava serenamente in Italia e si
spostava comodamente da lì per tutta l’Europa. Iacoboni indica numeri precisi di spie russe identificate
dal controspionaggio italiano. Per rivelarne il numero, ottenuto non so come, Iacoboni avrà le sue fonti,
ma di certo questo non è indice di un buon lavoro di controspionaggio.
Aver identificato l’esistenza di una rete spionistica in Italia è sicuramente molto importante, ma non
basta sapere: occorre impedire che la rete russa operi. Se si fosse fatta attività capillare ci si sarebbe accorti
dell’uso, da parte di questa unità del Gru, degli aeroporti di Milano e Roma. Se fosse stata fatta un’attività
reale, concreta, a livello invasivo sulle attività delle spie in Italia, quelli non se ne sarebbero andati
tranquillamente ad avvelenare a Londra il loro «target».
Il commando bucava i confini del nostro Paese usando passaporti falsi. Satelliti e big data consentono
di sapere tutto un istante dopo il necessario, non di prevenire: che l’attività informativa sia avvenuta a
cose fatte ricorda un po’ il lavoro svolto da Fbi, Cia e dalle altre agenzie americane dopo l’11 settembre.
Appunto, dopo il misfatto.
Insomma, quello che racconta Iacoboni parrebbe significare che non ha funzionato l’attività di ricerca
informativa clandestina all’estero, anzitutto. Come è stata ordita questa trama e deciso il passaggio da
Linate e Fiumicino? Possibile che l’intelligence non avesse una fonte affidabile a Mosca o San Pietroburgo
che potesse avvisare Roma?
Tutto questo significa che si è affievolito, spompato, si è fatto catatonico il controspionaggio, sia in
Italia che all’estero. Ma c’è anche una questione di metodo.
I tre del commando russo andavano agganciati alla loro partenza da Mosca e intercettati al loro arrivo
in Italia. Per poter realizzare questo è necessario un lavoro sul campo, essere sul pezzo, vedere,
trasmettere. Invece si è persa la grande tradizione italiana di controspionaggio. E per tradizione non
intendo la preistoria, ma il metodo operativo, con conseguenti azioni per salvare vite in pericolo e
sradicare la minaccia di altri colpi mortali da parte del nemico.
I numeri e le date forniti da Iacoboni avvertono che al momento del passaggio del commando targato
Gru esisteva una base logistica di accompagnamento formidabile. La scelta della data – quella delle
elezioni, 4 marzo 2018 – dice che c’è stata una valutazione sul campo, la consapevolezza che in quei giorni
l’attenzione della nostra intelligence sarebbe stata sviata e occupata in tutt’altro. Un po’ come quando i
Paesi arabi scatenarono la guerra del Kippur (6 ottobre 1973). Molto più in piccolo ovviamente, ma il
concetto è lo stesso. E i russi, allora come oggi, ne erano perfettamente a conoscenza.
Brutta storia. Che fa il paio e inquadra benissimo l’inerzia spaventosa che ha reso facile, anzi
elementare, l’evasione di Artem Uss nel marzo del 2023 dal suo appartamento a Basiglio (Milano).
Nessuno sapeva nulla a Mosca o almeno sospettava? E quando è scattato l’alert dell’arresto in Italia di
Artem Uss, perché non sono state controllate le celle telefoniche, non sono stati piazzati uomini e donne
in qualche appartamento a Basiglio attiguo a quello di Uss, per individuare eventuali contatti del
cittadino russo?
Se il Gru nel 2018 sceglie di far passare dal nostro Paese un commando di spie incaricate di uccidere un
russo a Londra, significa che è perfettamente certo di non essere infiltrato dai nostri.
A questo disarmo ha di sicuro contribuito anche la legge 124 del 3 agosto 2007: riformando in tutta
fretta i servizi – e per punire il controspionaggio del Sismi di colpe presunte e che in realtà mostrerò non
avesse – ha innaturalmente tagliato il due il controspionaggio, che in capo alla prima divisione
funzionava eccome. Lo ha spaccato in interno (Aisi) ed esterno (Aise). È stato come tagliare in due un
organismo, tirar su uno sbarramento di plastica nell’aorta, una specie di diga che interrompe la
circolazione sanguigna. Certo, nella legge 124 ci sono le paratie che dovrebbero aprirsi per consentire il
flusso vitale. Ma gelosie, burocrazie, catene di comando aggrovigliate sono un piacere fatto ai russi.
Non andò così negli anni che precedettero la demolizione dei servizi sull’onda del sequestro Abu Omar.
A dispetto della vulgata che ricava dall’amicizia tra Berlusconi e Putin una sorta di accomodamento tra
gli apparati di intelligence, mai come allora il controspionaggio fu efficace. Centinaia di nomi furono
trasmessi, con il consenso attivo del governo, agli alleati. In particolare agli Stati Uniti e a Israele.
Tutto questo è documentato, agli atti allora del Copaco e oggi del Copasir. Eravamo bravi.
Oggi tocca constatare che sono gli americani a darci il biscotto inzuppato con una certa compiacenza.
Sulla «Repubblica» è Paolo Mastrolilli – sotto l’occhio vigile di un esperto del ramo come il direttore
Maurizio Molinari – ad aprirci gli occhi. Ci ha informati il 28 agosto 2023 dell’identificazione da parte
dell’Fbi di Natalia Burlinova come agente dell’intelligence russa a Roma, con tanto di foto segnaletica con
scritto «Wanted». Il suo cliché è tanto ovvio da passare inosservato, secondo l’antica regola illustrata da
Edgar Allan Poe nel racconto La lettera rubata: non c’è nulla di più invisibile dell’evidenza; se vuoi
nascondere qualcosa, esibiscila. Natalia Burlinova è l’elegante, bella, colta quarantenne russa che
frequenta il nostro Paese, partecipa a conferenze di alto livello sulla politica estera e ospita a Mosca
studiosi o giovani leader italiani interessati a coltivare il dialogo tra il nostro Paese e la Russia. Quello che
(forse) ci era sfuggito, però, è che di mestiere lavorasse con e per i servizi di intelligence Fsb (Fsb è
l’agenzia che insieme all’Svr ha ereditato metodi, strumenti e reti del Kgb).
Natalia Burlinova ha praticato contro l’Italia esattamente quel tipo di azione spionistica, con la
creazione di reti, fonti, ancoraggi, impiantato in tutto il mondo dal Sismi. Reclutava gente di alto rango,
senza neanche bisogno di contrattualizzarli o di far sapere che erano inquadrati come risorse russe.
Io l’ho detto e fatto, approvato e qualche volta ostacolato dai capi, più di 35 anni fa. Ora avvelenano la
nostra pappa e ce la fanno trangugiare.
Rifletto. Ha cercato – spero con nessun risultato – di adescare l’Ispi (Istituto per gli studi di politica
internazionale). Non è un istituto da poco. I suoi esperti sono ascoltati e consultati dai Tg della Rai e dai
conduttori di talk show, e credo anche dalla nostra intelligence.
Ha capito tutto, la Burlinova, e con lei i suoi danti causa. Inserirsi in alto, che più in alto non si può,
così da applicare la regola di Edgar Allan Poe. Essere inavvertibili come pericolo. Sia chiaro: sono certo
che l’Ispi sia specchiato, non abbia assorbito fake news nelle sue analisi. Fa però un po’ sorridere che si
possa ancora leggere l’illustrazione del convegno «Russian foreign policy: facing international turbulence» del
13 maggio 2023, con la partecipazione di Natalia Burlinova, qualificata come esperta di «creative
diplomacy» sul sito dell’Italian institute for international political studies, che si trova digitando
ispionline.it. Con la saggezza del giorno dopo, la battuta viene amaramente da sé, non c’è bisogno di
anagrammare: i-spion-line.it. Mi chiedo: e il nostro controspionaggio? Un po’ di antica creatività anche da
parte di Aise e Aisi sarebbe stata gradita.
Morale finale. Io temo che si sia tentato di affievolire qualsiasi competenza all’interno dei servizi segreti.
E temo pure che i grandi consulenti per la annunciata riforma dei servizi non riusciranno a risollevarne le
sorti. Sono state fatte scelte per neutralizzare la prima divisione del Sismi da me diretta, che combinava
controspionaggio interno ed esterno, disponendo un’astrusa compartimentazione geografica.
Di fatto sono stati tagliati testa e piedi a un organismo detestato dai nemici ma scomodo anche per gli
alleati, che mal digerivano la nostra superiorità sul campo nello scacchiere mondiale.
È stata una decisione punitiva presa nel clima del sequestro di Abu Omar.
Punizione di chi e di che, allora? Di innocenti? Sì, lo eravamo. Lo siamo. Il segreto di Stato – lo
vedremo – non fu un espediente per consentire a noialtri di sfangarla, ma un vincolo da cui chiedo di
essere slegato.
La legge 124 già citata, approvata quasi all’unanimità dal Parlamento nell’agosto del 2007, è stata
espressione di un clima di presunzione assoluta di colpevolezza, al punto che sono stati imposti nomi
nuovi ai servizi segreti italiani. Cia e Mossad hanno fatto cose buone e buonissime, ma anche cose cattive
e cattivissime. Rinunciare al nome ha funzionato come atto di ripudio. Ma sanno chi eravamo noi?
Parte terza
Fine forzata di una carriera
Fuoco amico
La mia vita è sempre stata declinata al plurale. Da carabiniere, da agente segreto: eravamo sempre «noi» i
protagonisti, l’«io» doveva necessariamente scivolare in secondo piano.
Allo stesso modo ragionavano i colleghi che ho incontrato, quasi tutti, come gran parte dei vertici. Ci
siamo sempre sentiti una comunità che viveva in funzione di un’altra comunità, più grande, che tutti
servivamo: il Paese.
Per quanto la classica figura della spia sia ammantata di un fascino solitario e spesso scostante, come se
fosse una sorta di scheggia impazzita pronta a farsi beffe delle regole, la realtà delle cose è che non esiste
nessuna fase del lavoro che non sia studiata, organizzata, gestita e anche eseguita in squadra.
Persino quando ti trovi in fondo a un vicolo in una città straniera, inseguito da agenti nemici armati,
non sei solo. Neanche quando sei a terra con undici fucili puntati addosso. Sai che la tua salvezza dipende
dal lavoro e dall’abilità dei colleghi. Sai che il tuo estremo sacrificio, nel caso, varrà a salvare la vita ad
altri.
È stato questo uno dei cardini del successo delle prassi del controspionaggio che ho contribuito a
modellare. Spirito di corpo, affinità di intenti, condivisione di identici valori.
Mi chiederete: che fine fa il singolo in tutto questo? L’identità personale dev’essere sacrificata? Non
rischia di essere messa in secondo piano?
La risposta a tutte queste domande è no. La scelta consapevole di sacrificare una parte preziosa della
propria vita per il bene del Paese è anzi una delle espressioni più profonde del proprio essere. Io l’ho
fatto, sempre. A volte persino in modo inconsapevole.
A poco più di vent’anni combattevo le organizzazioni terroristiche di destra e sinistra, e a prima vista
ero in tutto e per tutto uguale agli altri ragazzi che facevano tardi la sera, uscivano, discutevano e
litigavano. Io vivevo come loro, ma in più ero anche al servizio del mio Paese. Nessuna finzione: se
l’identità è formata da tanti strati sovrapposti, io ne avevo semplicemente uno in più, che tutti gli altri
ricopriva.
Ho seguito questi principi per tutti gli anni in cui mi è stato permesso di portare avanti il mio lavoro.
Non rimpiango i giorni, le settimane lontano da casa. Non rimpiango le telefonate che non ho fatto, le
notizie che non ho potuto dare a chi aspettava ansiosamente di sapere se stessi bene, i segreti che sono
stato costretto a mantenere. Non rimpiango nemmeno tutte le volte in cui mia figlia mi avrebbe voluto al
suo fianco e io non ci sono stato, non ho potuto esserci.
Sopportare le fatiche e le rinunce è la parte più facile. Ma la vita di un agente segreto comporta
profonde e continue sofferenze anche per tutti coloro che gli vogliono bene e gli sono vicini. È questa la
parte difficile.
Non ho raccontato che una frazione infinitesimale delle operazioni in cui sono stato coinvolto, ed è
giusto così, perché gran parte della mia attività è e dev’essere tuttora coperta dal più rigoroso riserbo.
Non ho raccontato neppure la mia vita privata, per lo stesso motivo, ma anche per una ragione molto più
semplice: fin da quando ero ragazzo, ho sempre scelto di lavorare, ho scelto di lavorare sempre. La mia
vita non è scindibile dall’impegno. La mia vita è l’impegno.
E fino alla fine sarei stato più che felice di continuare a servire il mio Paese.
Non mi è stato possibile. Me l’hanno impedito. Quello che segue è il racconto della quarta guerra che
ho visto combattere e che ho combattuto. La più infida. Non posso dire di aver sempre vinto, nelle guerre
precedenti, ma di sicuro questa l’ho persa.
Anche perché non è stata combattuta in modo leale. Non ci si difende dal fuoco amico.
Capitolo 1
La Corte Costituzionale mi ha proclamato innocente
Un dirigente apicale dei servizi segreti è, inevitabilmente e per sempre, una memoria vivente di trattative,
operazioni, scambi, nomi di personalità compromesse o di funzionari di basso o piccolo rango ricattabili,
e perciò a rischio di manipolazione di apparati ostili agli interessi nazionali. Questi ricordi, e non ci posso
fare niente, non sono stati cancellati con la decisione di spedirmi a casa in quiescenza. Non sono ancora
riusciti ad annullare l’incantesimo della memoria.
E poi mi sarebbe impossibile, anche volendo, mettere in stand by il cervello e sottrarmi, perciò, a
intuizioni di intelligence: non nascono sotto i cavoli, o spremendo i libri come agrumi, bensì sorgono
dall’esperienza sul campo, dal contatto fisico amicale o «nemicale» (si scusi il neologismo) con ambienti
infimi e puzzolenti e circoli inaccessibili odoranti di tabacchi rari. Io l’ho fatto pur di impedire che da lì
partissero progetti per fare del male all’Italia, o per portare alla morte a pochi metri dalle rive italiane
innocenti creature in fuga dai tiranni e dai loro aguzzini.
Del resto, però, le schede su di me sono vive e vegete nei computer e negli schedari cartacei dell’universo
dei servizi segreti, amici e nemici. Specie questi ultimi, e penso in particolare a quelli russi e iraniani.
Molte intelligence, non solo dei Paesi atlantici, mi vogliono bene e mi hanno dato pubblici attestati di
stima; il problema sono quelli che non mi vogliono tanto bene, e che hanno in un cassetto tutte le
informazioni eventualmente utili per spedirmi al Creatore.
Ho scelto di raccontare la mia storia, quindi, anche per mostrare che tutti i dubbi sulla mia
professionalità e integrità, che si è cercato ostinatamente di sollevare e portare in tribunale, sono stati
fugati nelle stesse aule di tribunale. E per riportare sotto la giusta luce quelle che continuano ad apparire
manipolazioni della verità, operate ad arte a mio danno, al solo scopo di screditarmi e chiudere con me
un capitolo glorioso nella storia dei servizi segreti italiani, mettendo in pericolo la mia incolumità e quella
dei miei familiari.
È appunto il contenuto a escludere qualsivoglia mia partecipazione a ideazione, esecuzione e consenso nel
rapimento e coatto trasferimento illegale in Egitto di Hassan Mustafa Osama Nasr, alias Abu Omar, il 17
febbraio 2003. Non il semplice timbro apposto sul segreto di Stato da nove presidenti del Consiglio
(nell’ordine: Prodi, Berlusconi, Monti, Letta, Renzi, Gentiloni; quindi Conte, che lo ha esteso per altri 15
anni, e poi Draghi, che lo ha riconfermato, e infine Meloni, che tuttora lo mantiene).
Che cosa sanno, i non addetti ai lavori, infatti, di cosa indichi quella dicitura? Il vincolo di segretezza
imposto dai governi, e comunicatomi ripetutamente e ufficialmente dall’autorità competente (esibirò poi
la lettera del prefetto Gianni De Gennaro), ha impedito di far conoscere le prove della mia innocenza nel
corso del dibattimento. E ancora oggi consente di dipingermi come un mascalzone che l’ha fatta franca. In
realtà ha danneggiato la mia reputazione, impedendomi di difendermi durante il processo.
Non serve essere giureconsulti per afferrare il concetto. I giudici della Corte Costituzionale che hanno
imposto alla Cassazione di prosciogliermi non hanno deciso in base a delle teorie o a congiunzioni astrali:
conoscono i segreti, hanno studiato ed esaminato il fatto-reato e hanno ritenuto la decisione dei presidenti
del Consiglio pienamente legittima e tutelante il bene superiore della sicurezza nazionale. Se hanno
perciò ritenuto valido il segreto significa che esso non copre un fatto-reato commesso dagli imputati.
Fatto sta che la Corte Costituzionale il 14 gennaio 2014 ha annullato una sentenza della Cassazione –
primo caso nella storia repubblicana – decretando il mio irrevocabile proscioglimento. I 15 giudici
costituzionali hanno usato questa potenza inedita per la mia bella faccia? Per coprire una vergogna
indicibile per ragioni di Stato, sfregiando la morale e la decenza?
Ribadisco il punto, che è dirimente. Il segreto serve a difendere il bene comune o a garantire l’impunità
di un criminale mascherato da agente segreto, che nel caso sarei io?
Non ci sono spazi stavolta per qualcosa che tra il bianco e il nero somigli al grigio.
Sergio Mattarella nel 2014 era uno dei giudici costituzionali. Il 27 dicembre del 2018 il presidente della
Repubblica Sergio Mattarella mi ha conferito l’onorificenza di Grande Ufficiale al Merito della Repubblica
italiana: qualcuno ha il coraggio di sostenere che possa aver assistito impassibile alla consumazione di un
misfatto giuridico e morale? Il tutto senza dare le dimissioni dall’Alta Corte?
Non avrebbe fatto dunque nulla per impedire lo scempio di un’orribile licenza di rapire e trasferire in
catene un cittadino tutelato dalla nostra Costituzione?
Io suggerirei di prendere in considerazione la mia innocenza.
Ho detto «mia». Be’, non solo mia. Ho finora usato pronomi e aggettivi quasi fossi l’unico soggetto
destinatario delle varie pronunce. Era per rendere palese che non sono portavoce di nessun altro. Ma
torniamo dall’io al noi. Le ragioni esposte non cambiano neppure per quei miei antichi colleghi del Sismi,
tra cui il direttore generale Nicolò Pollari, imputati con me della cosiddetta «extraordinary rendition».
Un rumoroso silenzio
La Consulta non ha semplicemente corretto, modificato, raddrizzato la sentenza della Cassazione datata
19 settembre 2012, che aveva imposto alla Corte d’Appello di Milano un nuovo processo. È stata ben più
radicale: ha sancito l’azzeramento, l’annichilimento, la dichiarazione di non diritto a esistere della
sentenza della Cassazione da cui è discesa per gemmazione gerarchica la (inesistente, mai esistita)
condanna della Corte d’Appello di Milano, che rifiutò di aspettare la pronuncia della Corte
Costituzionale e procedette a marchiarci, dichiarando colpevoli Pollari (dieci anni di carcere), il
sottoscritto (nove) e altri tre miei colleghi (sei anni di reclusione per ciascuno).
Mi chiedo ancora: perché questa volontà punitiva? Ma non bisognerebbe, secondo la Costituzione,
collaborare lealmente tra istituzioni? Dov’erano finiti «decoro e onore» (secondo l’articolo 54 della
Costituzione)?
Nel corso del processo Abu Omar, il direttore generale del Dis, l’ex prefetto Gianni De Gennaro, il 22
maggio 2009 invia una lettera su carta intestata della presidenza del Consiglio, con cui mi si obbliga ad
apporre il segreto di Stato. Scrive: «Faccio riferimento alla lettera del 21 maggio 2009 con la quale ha
comunicato al presidente del Consiglio ed al Sottosegretario di Stato Autorità delegata… che il prossimo
27 maggio è fissato il suo esame innanzi al Tribunale di Milano… Al riguardo… desidero ricordare che
l’obbligo di astenersi dal deporre su fatti coperti dal segreto di Stato ha oggi portata generale e si estende
anche alla figura dell’imputato così come sostenuto dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 106/2009,
recentemente intervenuta nella vicenda oggetto del procedimento penale in questione».
Traduzione: la legge mi vieta di rispondere a qualsivoglia domanda su temi coperti dal segreto di
Stato. Se parlo e rispondo a pm, giudice e avvocati, commetto un reato più grave rispetto al sequestro di
persona per il quale sono imputato.
Nota linguistica: il presidente del Consiglio e lui solo appone il segreto di Stato. Il testimone o
l’indagato lo oppongono all’Autorità giudiziaria, la quale può ricorrere contro l’apposizione del segreto
sollevando un conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale, la quale a suo insindacabile giudizio
stabilisce chi ha ragione e chi torto tra istituzioni dello Stato confliggenti.
Chiudo il preambolo.
Abu Omar ha subito certo un trattamento ignobile. Trascrivo da ilfattoquotidiano.it dell’8 ottobre 2015:
«La Cassazione ha confermato la condanna a sei anni di reclusione per terrorismo internazionale nei
confronti di Abu Omar, l’ex imam della Moschea di Milano rapito dalla Cia e attualmente contumace in
Egitto, suo paese d’origine. La suprema corte ha reso così definitiva la sentenza emessa dalla Corte
d’Appello di Milano il 3 marzo 2015, conforme alla decisione pronunciata dal gip il 6 dicembre 2013 con
rito abbreviato».
Mi chiedo se qualcuno al ministero della Giustizia abbia mai chiesto l’estradizione all’autorità del
Cairo. Perché? Un altro perché, abbastanza supplichevole: perché Giorgia Meloni non toglie il velo da
quei segreti di Stato su circostanze e documenti della «extraordinary rendition»? Ormai sono passati
vent’anni anzi, quasi ventuno, dal sequestro di Abu Omar.
Adesso passo al sodo. Racconterò quello che so sul segreto di Abu Omar e dintorni, senza infrangere
alcun segreto di Stato.
Confido che sarà molto istruttivo.
Capitolo 2
Il sospetto e le certezze di Nicola Calipari
Sono innocente, ho detto. E non posso rivelare fatti e legami, e neppure le testimonianze e le carte che li
documentano. Eppure la verità ha bucato con piccoli strappi e infine con uno squarcio imprevedibile la
coltre dell’omertà.
L’imam Hassan Mustafa Osama Nasr, alias Abu Omar, lunedì 17 febbraio del 2003 si sta recando
placidamente alla moschea di viale Jenner a Milano. È un predicatore molto richiesto, e perciò assai
soddisfatto della piega che stanno prendendo le sue faccende. Coltiva in modo dinamico le sue attitudini
apostoliche, al punto che deve dividere il proprio zelo tra il centro islamico più frequentato e noto di
Milano (viale Jenner, appunto) e quello di via Quaranta. E non basta. In Lombardia e in Emilia il
quarantatreenne mullah egiziano è ritenuto un fuoriclasse del ramo: è invitato a Varese, Como, Cremona,
Parma, ovunque ci sia bisogno di attizzare il fuoco jihadista che nessuno meglio di lui sa trasmettere ai
fedeli.
Magari si limitasse allo zelo dei sermoni. Porta manifesti, raduna chi vuole fare di più. È un tipo che
organizza l’odio, lo tramuta in azione di guerra. Questa ormai è la verità acquisita su Abu Omar e
confermata dalla Cassazione. È sicuro, però, che neppure gli intenti terroristici possono autorizzare
legalmente e moralmente rapimenti e torture.
Ed ecco che, mentre Abu Omar cammina per via Guerzoni, gli si avvicina il maresciallo dei carabinieri
Luciano Pironi, in forza al Ros di Milano. Sarà tra i protagonisti operativi del sequestro: forse perché la
sua appartenenza all’Arma avrebbe costituito la possibile garanzia di legalità nel caso in cui fosse passata
una pattuglia di polizia proprio mentre qualcuno gli metteva le mani addosso?
Faccio parlare le carte del processo. In particolare, traggo alcuni stralci della trascrizione che
cristallizza in 207 pagine la deposizione del militare del Ros.
Congiungo coi puntini i vari passi, salvaguardando la testualità del parlato. All’atto della deposizione,
il 30 settembre 2006, ricordo che Pironi è semplicemente indagato. (Patteggerà poi la pena – alquanto
modesta per un pesante crimine commesso nelle vesti di pubblico ufficiale – di un anno, nove mesi e dieci
giorni, senza dover abbandonare l’Arma dei carabinieri).
Dal verbale dell’incidente probatorio risulta tra l’altro quanto segue:
PM Armando Spataro: Lei ha chiesto i documenti ad Abu Omar prima che venisse sequestrato?
Pironi: Confermo…
Spataro: Chi era Bob Lady, quale ruolo aveva? […]
Pironi: Bob Lady era […] il referente della Cia, il servizio di intelligence in Milano […]. Aveva strettissimi rapporti in
particolare con i colleghi della Digos, con i quali svolgeva all’epoca attività di contrasto al fenomeno del terrorismo
islamico […] Abu Omar era il target principale della Digos, […] era una specie di mito, […] io avrei dovuto fermarlo e
chiedergli i documenti. Io ho detto: «Ma come è possibile? Questa persona è sotto controllo della Digos». E lui [Bob Lady,
N.d.A.]: «Vai tranquillo, lui non sarà pedinato».
Salto di 21 mesi, sempre nel processo Abu Omar. All’udienza dell’11 giugno 2008 avviene il controesame
del teste Bruno Megale, dirigente della Digos di Milano.
In sintesi, l’avvocato Luigi Panella (mio difensore) è sorpreso dal fatto che siano stati sospesi i
pedinamenti a partire dal 31 gennaio, proprio il giorno in cui un furgone, con a bordo Abu Omar e un
personaggio nordafricano non identificato, aveva attraversato gli incroci con il rosso. Una tecnica anti-
pedinamento, che dovrebbe spingere a rafforzare le misure.
Invece, dal verbale dell’udienza dibattimentale risulta tra l’altro quanto segue:
E poi a seguire:
L’avvocato Panella domanda allora se il comportamento di Abu Omar non avesse consigliato di
continuare l’attività di pedinamento per capire se «qualcosa bolliva in pentola».
Megale: Bollire in pentola non lo so. Sicuramente ci siamo dedicati a fare altri pedinamenti […].
Panella: Io le chiedo quale è la ragione precisa per cui il 31 gennaio 2003 è stato l’ultimo giorno di pedinamento di Abu
Omar […] è stato pedinato qualcun altro?
Spataro: Giudice! Ha già risposto il teste!
Megale: Perché magari stavamo pedinando altre persone […]
Panella: In termini di certezza.
Giudice Magi: Ha già risposto.
Panella: Perché a me era parso di sentire «magari stavamo».
E ancora, di seguito:
Spataro: Il teste non ha mai parlato di sospensione dei pedinamenti. Ha parlato di una attività che si dirada […]
Panella: Questa è una sua valutazione. […]
Panella: L’informativa del 31 gennaio, alla quale poi non hanno fatto seguito altre informative, è stata oggetto di una
discussione con magistrati di Milano oppure è stata una decisione della Digos quella di dirottare le indagini su altre
persone? […]
Panella: Io vorrei cercare di evidenziare le ragioni per cui il 31 gennaio 2003 per un motivo o per l’altro sono cessati i
pedinamenti nei confronti di Abu Omar.
Di quell’incontro, avvenuto a Roma, da Ciampini in piazza San Lorenzo in Lucina, riferimmo i contenuti
a viva voce al vice direttore dell’Aise, Paolo Scarpis (già questore a Milano al tempo in cui la Digos
svolgeva indagini su di noi del Sismi). Scarpis immagazzinò quanto da noi riportato in apparenza con
molto interesse. Noi friggevamo. Si era in tempo a far qualcosa per impedire quella scontata sentenza
d’Appello che puntava a condannare dirigenti e funzionari del Sismi per offrire elementi negativi al
pronunciamento della Corte Costituzionale, e comunque marcando sulla nostra pelle la parola
«sequestratore criminale».
Dopo alcuni giorni, Scarpis chiese un’urgente relazione scritta: doveva servire a dare più forza al
governo davanti alla Consulta. Le presentammo, ciascuno la sua, alla segreteria dell’altro vice, Alberto
Manenti. Entrambi diventeranno poi, uno dopo l’altro, direttori dell’Aise.
Anche in queste relazioni c’è la prova della nostra innocenza. Ne posso parlare perché di questi
rapporti consegnati ai superiori, ma da essi mai trasmessi all’autorità politica, c’è traccia nell’indagine
penale aperta dalla Procura di Ravenna per le reiterate minacce di morte che mi sono state indirizzate.
Ritengo che dalle verità contenute in quelle relazioni discendano in combinato disposto insabbiamento e
minacce.
Che queste relazioni esistano è stato confermato alla magistratura romagnola dal dottor Alberto Manenti.
Dopo averne confermato l’esistenza, questi afferma: «Non ricordo se fui proprio io a chiedere a Mancini e
Ditroia di redigere le relazioni in questione».
Ricordo io: le chiese l’altro vice, il dottor Paolo Scarpis.
Manenti continua, attorcigliandosi: «Voglio precisare che proprio per questo motivo, ovvero il fatto di
non ricordare con precisione i fatti, atteso il decorso di un considerevole lasso di tempo che ho utilizzato
eccetera».
Ma che c’entra chi le ha chieste? Perché immerge la realtà in parole burocratiche? Cos’è che gli rode? Il
pm di Ravenna gli chiede se ne nacque un’indagine interna.
Lui minimizza: «C’è stato un riscontro».
Scarpis, invece, lo contraddirà e risponderà al magistrato: «Sì. È stata fatta questa inchiesta interna da
me e dal dottor Manenti, entrambi all’epoca vice direttori…».
Verso la fine di aprile 2013, mentre sono in un centro operativo all’estero, mi chiama Scarpis chiedendomi
di raggiungerlo a casa sua a Roma il primo maggio successivo. Rispondo che è la festa dei lavoratori. Lui
insiste dicendomi che la convocazione non è a titolo di amicizia ma per lavoro, in qualità di vice direttore
dell’Aise.
Sono nella sua abitazione il giorno stabilito, mi offre il caffè. Si comporta in modo carino, suadente. È
una vita che faccio l’agente segreto, so leggere facce, occhi e voci, sotto la piuma della carineria. Butta lì:
«Ma perché non ritiri quelle dichiarazioni?».
Dato che la lettera è protocollata dovrei formalmente annullarla. Mi chiede di domandarlo anche a
Ditroia.
«Perché dovremmo ritirarle, le hai chieste tu! Ci sono le prove dell’innocenza di noialtri. Perché mi stai
chiedendo questo?»
Conclude e sospira: «Non farmi questo, Marco».
Sospiro anch’io. Assumo l’aria penosa e condiscendente, andandomene. Fingo di aderire alla richiesta.
Io ricordo che l’inchiesta interna sia stata fatta prima della condanna, senza che fossero tenute in
considerazione le nostre relazioni scritte, che restano chiuse nel cassetto: scottavano chiunque le tenesse
in mano perché costringevano a rivedere l’impianto accusatorio nei nostri confronti.
L’inchiesta è segretata. Perché? Per fottere me. E salvare chi?
A quel punto, magari temendo che Ditroia e io esponessimo i nostri panni puliti in pubblico, ci furono
richieste relazioni scritte a posteriori, a brocca infranta e latte versato.
Quando mi fu chiesto da Scarpis di rimangiarmi la lettera (il primo maggio del 2013), il governo di
Enrico Letta (detto delle larghe intese) aveva ottenuto da un giorno la fiducia al Senato. Non bisognava
che quella carta arrivasse al presidente del Consiglio? È mai arrivata?
Io e Ditroia non abbiamo ritirato un bel nulla.
Le carte depositate ed estraibili a Ravenna arrivarono al Copasir. Cosa accertò l’inchiesta interna?
Alla fine Scarpis dichiarò al pm quanto segue: «Quest’inchiesta che si risolse in un pomeriggio è
consistita nell’audizione di appartenenti ai servizi impegnati da tempo nei servizi di osservazione,
controllo, pedinamento, avente a oggetto gli estremisti islamici presenti sul territorio italiano, al fine di
dimostrare che l’attività di cui erano stati accusati Mancini e gli altri imputati in realtà non era altro che
una prosecuzione di servizi da tempo in corso».
Allora, a questo punto, il filo del discorso finisce in mano a chi non ti aspetti: Rosa Villecco, vedova
Calipari.
Qui però serve capire se davvero Nicola Calipari abbia riferito alla moglie le sue certezze e i suoi dubbi su
quel che interessa di più alla storia di questo Paese (e alla mia personale, direi): Abu Omar!
A pagina 41 del suo libro, Polo attribuisce queste parole a Calipari: «…Ripensa alla riunione di qualche
giorno prima con tutti i centosessanta membri del suo dipartimento: troppa gente, troppi burocrati,
qualcuno a cui piace “giocare a fare il cowboy”. Tutti affidabili? Oppure nel caso Abu Omar la
partecipazione di alcuni dei suoi non si è limitata a pedinamenti e rapporti?».
Un attimo. Dal punto di vista grammaticale, la proposizione è un’interrogativa: finisce con punto
interrogativo. Ma è un interrogativo retorico, che porta nella sua pancia un’affermazione senza dubbi.
Calipari insomma sa (saprebbe, lascio per ora il condizionale) che i suoi uomini di sicuro hanno
pedinato e scritto rapporti su Abu Omar. Con questa confessione sofferta (forse alla moglie) mostra di
esserne al corrente, è un fatto per lui assodato. Il dubbio, che si trasforma in angosciato quesito, nasce dal
timore che possano anche non essersi fermati lì.
Calipari si riferirebbe (ribadisco ancora il condizionale) a «suoi» agenti, uomini e donne della divisione
da lui diretta, che si chiama «Ricerca».
Nulla a che vedere con la divisione da me guidata, che si chiama «Difesa» (o prima divisione).
Il giudice le chiede: «È vero che subito dopo il rapimento del mullah Abu Omar, avvenuto nel febbraio
del 2003, il dottor Nicola Calipari le ha detto di sospettare che all’interno del dipartimento Ricerca da lui
diretto vi potessero essere degli agenti non affidabili e che alcuni di loro potessero aver avuto un ruolo
nel rapimento del mullah Abu Omar?».
L’onorevole Rosa Villecco Calipari risponde: «Mio marito diffidava di molti all’interno del
dipartimento e si fidava di pochi, e mi disse con tono sarcastico, con riferimento al rapimento del mullah
Abu Omar, che sospettava che qualcuno del dipartimento avesse giocato allo 007».
Si può togliere il condizionale, a questo punto. L’onorevole sostanzialmente conferma il virgolettato
attribuito al marito, nel libro scritto da Polo.
Onoro l’onestà intellettuale dell’onorevole Villecco.
Mi chiedo però perché non sia corsa in Procura a Milano e non abbia chiesto di testimoniare al
processo per il sequestro Abu Omar. Magari – in ipotesi – avrebbe potuto dire, accompagnata da Gabriele
Polo che nel suo libro ha virgolettato le parole, «Signori, non sono costoro gli agenti del Sismi che hanno
pedinato Abu Omar a uso degli americani della Cia. Me lo ha confidato mio marito». E invece non l’ha
fatto.
Nota finale. Parolisi sostiene davanti al giudice di Ravenna di non aver mai spifferato nulla a Polo sul mio
conto: «No, non ho riferito al giornalista Polo degli argomenti di cui ai capitoli (quesiti) precedenti,
perché non sono argomenti da trattare al di fuori del servizio».
Ah sì? Invece per identificarmi, alcuni anni dopo, deve avere avuto una deroga.
Capitolo 3
L’arresto e il computer con le Barbie
Ho ritrovato un appunto nella mia testa. Era il 5 luglio del 2006, l’alba dopo la partita Germania-Italia 0 a
2. Verso le cinque numerosi poliziotti e carabinieri, uomini e donne, dopo aver suonato a lungo il
campanello entrarono in casa di mia moglie. C’erano anche una signora di novant’anni che stava
dormendo, mia suocera, e – oltre alla mia signora e me – mia figlia.
Esibirono l’ordine di custodia cautelare e il decreto di perquisizione.
Avevo già pronta una borsa con dentro la roba che ci si può portare dietro quando si viene arrestati.
Maglie a maniche lunghe, due paia di sneakers, sapone per lavarmi, due asciugamani, due libri, la corona
del rosario e un vangelo di quelli piccoli. Me l’aveva regalato don Franco per la cresima.
Attendevo questo momento. Troppi segnali lo facevano prevedere, tra cui le rivelazioni asfissianti e
concentriche di alcuni articoli di stampa.
Insomma, ero il classico cadavere che cammina.
Avevo perciò dato le dimissioni da capo della prima divisione del Sismi, rendendomi conto che non
potevo esercitare serenamente la mia funzione di responsabile del controspionaggio, controterrorismo e
contrasto della criminalità organizzata transnazionale. Avevo consegnato la lettera formale di dimissioni
irrevocabili due mesi prima di quel 5 luglio, e intanto aspettavo.
Perquisirono tutta la casa da cima a fondo. Non trovarono niente. Perché non c’era nulla da trovare.
Sequestrarono il computer di mia figlia. E lì era effettivamente installato qualcosa. Due giochi di Barbie.
Dovevo andare in bagno, un poliziotto voleva seguirmi fin dentro. «Dove sta andando?» gli domandai.
E lui: «Allora, dottore, lasci la porta aperta».
I vicini si erano svegliati per il trambusto, piangevano.
La perquisizione andò avanti per due ore. Chiamai l’avvocato Luigi Panella a Roma.
Baciai mia moglie, abbracciai mia figlia. Poi ci stringemmo, tutti e tre, insieme. Afferrai la valigia.
«Ciao, famiglia» dissi.
Mi portarono via.
Una cosa mi offese. Sentii un investigatore che parlava al telefono: disse a non so chi che all’atto
dell’arresto non avevo opposto resistenza. E come poteva essere altrimenti? Io ho sempre accettato i rigori
della legge italiana, non l’ho mai aggirata, mai ho usato scappatoie. Sono sempre quello che non ha
sparato in testa al capo di Prima Linea.
Dopo tre ore e mezza di silenzio in auto, in Questura a Milano mi accolse, per dir così, un dirigente della
Digos, inappuntabile. Chiesi di andare in bagno, mi accompagnò una persona in borghese. Mi disse:
«Dottore qui sappiamo che lei è innocente e il questore [Paolo Scarpis, pro tempore questore di Milano,
N.d.A.], vedendo la sua foto con la giornalista Sgrena l’ha definita un delinquente con i capelli lunghi».
Non sapevo se fosse una provocazione. Mi comportai da agente segreto. In stato di pericolo si deve
essere asettici. Non chiesi nulla. Ringraziai, punto e a capo.
Anni dopo chiesi conto di quelle parole al già questore di Milano Paolo Scarpis, poi nominato vice
direttore dell’Aise. Lui le confermò, dicendo che erano state pronunciate per ironia.
Nei momenti drammatici della vita, bisogna essere razionali, freddi più che si può, senza lasciarsi andare.
Se sei innocente, se la coscienza ti permette di essere sereno, è più facile.
Mi hanno chiesto in seguito se esiste una preparazione per gli agenti su come reagire a un arresto. No.
Ne avevo fatti di corsi, ma questo no. Però avevo imparato sul campo. Mi era capitato a Baghdad, ero
finito in ostaggio, l’ho già raccontato. Pensavo: me la sono cavata allora, ce la farò anche qui. Anche se
essere messo in carcere su ordine ingiusto da giudici del tuo Paese è peggio che essere afferrato in terre
ostili da mani straniere.
Arrestato
Avevo quasi nostalgia della moschea di Baghdad: lì c’era più lealtà, forse. Almeno le parti erano chiare. Il
ricordo di quell’episodio mi dava forza, insieme alla certezza di non aver commesso nessun reato.
In Questura a Milano mi misi a sedere, mi volevano offrire qualcosa, non accettai niente e poco dopo
fui rinchiuso in carcere, a San Vittore. Mi trattarono benissimo. Ero senza orologio, una guardia mi prestò
il suo: «Se no qui dentro impazzisce».
Mi esaminò una psichiatra molto gentile, sapeva tante cose di me. Mi fece una serie di domande, forse
voleva scoprire se avessi propositi suicidi. Le dissi: «Non sono io quello che si suicida. Sa perché? Perché
sono innocente! Io combatterò!».
Mi resi conto che il sequestro Abu Omar era una questione politica, non giuridica.
Dopo qualche giorno, il responsabile della polizia penitenziaria si presentò nella mia cella, disse che
c’era il presidente Cossiga che mi voleva salutare. Io rimasi basito. Era venuto apposta da Roma a
trovarmi a San Vittore, e rimase lì con me tutta la mattina, anche con le guardie naturalmente. Parlammo
di tutto. Pure in gallurese (l’idioma di chi abita la Sardegna nordorientale). Mi portò una Bibbia in inglese
e un libro che avevo letto quand’ero ragazzo, Il giovane Holden. La Bibbia era per conto di un vescovo che
conoscevo, e di cui non faccio il nome.
Per me fu una grande gioia, una festa. Il presidente mi disse, tra l’altro, che appena uscito di lì avrebbe
telefonato a mia moglie e a mia figlia, ne ricordava il nome, e sarebbe andato a denunciare a Brescia gli
inquirenti del caso Abu Omar, perché sapeva per tabulas che io non c’entravo niente.
Sulla porta blindata della mia cella c’era un foglietto bianco, cinque centimetri di lunghezza per mezzo
centimetro di altezza. Tre righe, in blu e in rosso:
DET. APPOGGIATO
Una sorta di «carta di identità» del detenuto. Chiesi agli agenti il permesso di staccarlo. Lo offrii a
Cossiga. Non avevo nulla da dargli se non la mia umana condizione. Si commosse.
Venne a mancare il 17 agosto 2010. I funerali si tennero due giorni dopo, il 19. Io partecipai. Era
mattina presto, mi si avvicinò un carabiniere della sua scorta: «Dottor Mancini, il presidente mi ha
incaricato di riconsegnarglielo come ricordo della vostra amicizia». E mi diede il foglietto. Lo tengo
ancora con me nel portafoglio.
Ricevetti anche la visita di un politico. «È della Lega» mi informarono gli agenti della penitenziaria.
Era Matteo Salvini, all’epoca consigliere regionale lombardo. Mi ricordo il calore del conforto.
Dopo pochi giorni fui rilasciato. I miei avvocati, Luigi Panella e Luca Lauri, dopo l’interrogatorio di
garanzia – quello che l’arrestato svolge davanti al giudice – avevano chiesto subito e con forza la
scarcerazione. Marcia indietro. Un agente della polizia penitenziaria disse a Panella: «Sono qui da tanti
anni, avvocato, e non ho mai visto nessuno entrare in carcere per sequestro di persona il mercoledì e
uscire il martedì successivo».
Mi attendevano i miei difensori, mi riportò a casa in auto mio fratello con Panella. Avevo solo un
desiderio: abbracciare mia moglie e mia figlia.
Nel 2014 sono stato prosciolto definitivamente da tutte le accuse legate a questo caso.
Il 20 settembre 2011, la sesta sezione penale della suprema Corte di Cassazione, cinque anni dopo il mio
secondo arresto, confermò il mio proscioglimento.
Un anno circa di detenzione «gratuita», tra carcerazione preventiva in carcere, arresti domiciliari e
obbligo di firma. Perché?
Capitolo 4
E l’Alto Papavero mi disse: «Tu sei fuori». La vera storia dell’autogrill
Avanti veloce. Passano gli anni, il mondo cambia, la mia vita e la mia carriera cambiano con lui. Il carcere
è una ferita che ha smesso di sanguinare ma non di fare male. Una cicatrice che non si rimarginerà mai.
Però sono ancora in piedi. Lavoro, affronto le sfide di una professione in perenne mutazione.
È il 2021. Sono in ufficio al Dis (Dipartimento informazioni per la sicurezza), a Roma, sommerso da
pratiche e circondato da colleghi e colleghe perbene, intelligenti, competenti e capaci. Come al solito,
stiamo lavorando alacremente per risolvere e dare risposte ai mille problemi che giorno dopo giorno si
presentano. Il telefono squilla, rispondo, riconosco la scivolosa voce dell’Alto Papavero che mi convoca.
Il palazzo è grande. La sua stanza è a circa quaranta metri dalla mia, sono subito da lui. Busso, entro.
Lo trovo seduto dietro la scrivania – al suo fianco il capo del personale –, fa cenno di accomodarmi. Con
tono compiaciuto, esclama: «Sei fuori dal comparto!». Si ferma un attimo per vedere l’effetto che fa il suo
sorriso sarcastico. Aggiunge: «Presenta la domanda di pensione».
Dico di no. Chiedo di essere trasferito in altra amministrazione dello Stato, mantenendo il mio status di
dirigente, voglio continuare a lavorare.
Se pretendi questo, ti rimando nei carabinieri, mi viene risposto. Lo dice con disprezzo, come fosse
un’umiliazione, e ripete: «Presenta la domanda di pensione». Il capo del personale elenca alcuni dati
amministrativi relativi alla mia posizione di dirigente: liquidazione, pensione ecc. Capisco che tutto è
stato preparato minutamente per non lasciarmi scampo.
Rientrato nel mio ufficio, sento bussare alla porta: entra la coppia dei liquidatori richiedendomi
perentoriamente, davanti ad alcuni membri del mio staff, l’immediata presentazione della domanda di
pensione. Ormai è tutto chiaro. Avevano ordito un piano perverso alle mie spalle. Sembrava una scena di
un mediocre film di spionaggio, e magari chi mi ha sibilato quelle sprezzanti parole si era pure esercitato
davanti allo specchio, come Jack Nicholson in Codice d’onore. Mi stava conficcando un pugnale nella
schiena, gustando il momento di gloria del burocrate.
Un secondo di incredulità. Ho ripensato per un istante a quando mi sequestrarono nella moschea
Umm al-Qura a Baghdad, mentre trattavo la liberazione di ostaggi. Era più pericoloso l’uomo
impomatato che mi stava davanti dei barbuti e sciamannati mujaheddin con gli undici kalashnikov
spianati.
Lo Stato che avevo servito come fosse mio padre adesso si rivelava patrigno, armando la mano di quel
tipo agghindato per la fucilazione.
La mia carriera finì così nella pattumiera un pomeriggio di giugno nel 2021: pensione punitiva.
Alcuni giorni prima della convocazione per il patibolo si erano succeduti come in una staffetta due
avvenimenti inediti, quasi un work in progress per sbattermi fuori. Il primo fu la richiesta, per iscritto, di
spiegazioni sull’incontro privato con il senatore Matteo Renzi, portato alle cronache con gran clamore da
Report su Rai3. Il secondo è la propalazione anticipata, da parte di un quotidiano, della disarticolazione
totale delle misure di sicurezza riguardanti la mia persona e la mia famiglia: in tal modo s’informava
indirettamente chiunque ambisse ad attentare alla mia incolumità che la strada era sgombra da ostacoli.
Insomma, ero stato lasciato solo.
Cominciamo dalla sospensione della protezione. La notizia la lessi sul giornale, circa una settimana prima
(prima!) che me ne arrivasse la notifica ufficiale. Il 14 maggio 2021 «la Repubblica» si prestò a fare da
fedele portavoce dell’istituzione, un po’ come il famoso cane accanto al fonografo dell’etichetta dei dischi:
«…il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Franco Gabrielli ha disposto l’interruzione del servizio
di scorta… allo 007 che si vede con Renzi». La firma era di Carlo Bonini. Mi dissi: «la Repubblica» stavolta
esagera a trasformare in realtà i desideri, non può essere vero. Rilessi e mi convinsi che fosse un’illazione,
come si dice nei comunicati ufficiali, destituita di fondamento. Una balla insomma. A bordo dell’auto di
servizio blindata, custodito dagli uomini incaricati di proteggermi, lessi ad alta voce il presunto motivo
della scelta: tolta la «scorta di cui godeva [godeva, scrive proprio così il giornalista. Pazzesco, N.d.A.] e di
cui nessuno è stato in grado di giustificare le ragioni.»
No, Gabrielli doveva per forza saperle, le ragioni, e anche al Copasir erano pienamente informati. La
Procura della Repubblica di Ravenna aveva inviato al predetto Comitato gli atti di indagini relativi alle
minacce di morte recapitate al sottoscritto. Dopotutto chi aveva disposto la tutela nei miei confronti era
stato il Dis.
Avevo avuto al fianco tutti i giorni, da sei anni, ottimi professionisti, anche per le festività di Natale e
Capodanno. Non mi abbandonavano mai.
Continuammo a viaggiare velocemente per raggiungere l’ufficio, in un silenzio surreale. Il volto dei
miei custodi me lo ricordo: esprimeva imbarazzo.
A seguito di quella famosa puntata di Report, furono revocati sia il servizio di scorta istituzionale,
assegnato dagli organi centrali, sia quello di vigilanza dinamica all’esterno del mio domicilio, disposto
dalla Prefettura.
Per ricostruire per bene il filo di una vicenda complessa e tortuosa sarà necessario fare un po’ avanti e
indietro nel tempo, saltando tra uffici, capitali e incarichi, nell’arco di una decina d’anni.
Non temete, sarà tutto molto chiaro. E documentabile. I materiali che citerò sono depositati presso il
Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica (Copasir), e tutto era (ed è) a disposizione di
Gabrielli e della Belloni, allora rispettivamente sottosegretario di Stato con delega all’intelligence e
direttore del Dis.
Nessuno avrebbe dovuto sapere del mio rientro in Italia, se non chi lo aveva deciso. Ed ecco cosa accadde.
Qualcuno non mi voleva a Roma e minacciò torvamente il sottoscritto e la mia famiglia perché restassi
dov’ero, all’estero, e comunque non mi azzardassi a mettere piede nel mio Paese. All’indirizzo di casa, in
Romagna, il postino recapitò una busta senza mittente. Notai subito la malizia di attaccare il francobollo
che ritraeva papa Luciani, il papa che «sorrise solo 33 giorni». Gli autori, che avevano già inviato sms di
avvertimento irrintracciabili al mio cellulare, garantirono il proprio anonimato con il sistema tipico dei
molestatori sessuali di una volta: il normografo. Cito, tutto in minuscolo, con una sfilza di puntini:
continui a non capire un cazzo, sei un cadavere che cammina!!! tu e pollari siete dei bastardi sequestratori (…) come siete
ridicoli insieme. per te abbiamo già una bara vuota e pronta che ti aspetta qui a roma. tua moglie e tua figlia troveranno un
cadavere con una fucilata in testa (…) sei un porco sequestratore morto. non sei degno di stare a questo mondo. rimani a
vienna…… ti conviene!!!
All’arrivo delle lettere anonime presso la mia residenza riferii tutto al direttore Paolo Scarpis che informò
delle minacce contro di me la polizia giudiziaria. Pochi mesi dopo Scarpis andò in pensione lasciando la
direzione dell’Aise a Manenti. Ecco una nuova lettera. Evoluzione ortografica: stesso normografo, ma
tutto in maiuscolo e nessuna punteggiatura:
BASTARDO E SPORCO SEQUESTRATORE TI AVEVAMO DETTO DI RIMANERE A VIENNA QUANDO TORNI IN ITALIA TI FACCIAMO
SECCO!!!!
Il primo agosto 2014 rientrai in Italia, ma non – come è prassi – alla mia casa madre (Aise): fui trasferito al
Dipartimento informazione e sicurezza. Io venivo esiliato al più burocratico Dis.
D’accordo con Manenti presentai formale denuncia ai carabinieri di Ravenna. Interrogato a novembre
2014 dai magistrati della Procura di Ravenna, interessati al caso per competenza territoriale, Scarpis
ammise «che vi erano ostilità nei confronti del dottor Mancini da parte di altri soggetti appartenenti
all’Aise.» Paolo de Miranda e Luigi Panella, miei difensori nell’inchiesta sulle minacce, nel corso delle
indagini difensive domandarono a Scarpis: «Quindi lei è a conoscenza di situazioni di astio nei confronti
del dottor Mancini nell’ambito del suo ambiente di lavoro?». Scarpis rispose: «Sì, ne sono a conoscenza,
metà Aise lo adorava e metà lo odiava […] secondo me […] le minacce possono provenire solo
dall’interno dell’agenzia». L’indagine è stata poi archiviata dall’Autorità giudiziaria di Ravenna, non
avendo individuato i responsabili delle minacce.
Questa gente la fece franca: sapeva tutto di me, indirizzo, moglie e figlia. Erano riusciti nel loro scopo.
Non mi volevano in casa. Invece di cercarli e cacciarli, si diede loro partita vinta, impedendomi di
rimanere nell’Aise. Qualcuno di quella banda è ancora in servizio? Qualcun altro sarà in pensione?
GIORGIO MOTTOLA (fuori campo): Ed eccole le immagini inedite di questo misterioso incontro, girate con il telefonino dalla
nostra testimone. Nella piazzola autostradale di Fiano Romano, Matteo Renzi parla appartato con uomo brizzolato e molto
elegante.
SIGFRIDO RANUCCI (in studio): […] Non sappiamo se quelli che si sono scambiati Matteo Renzi e l’uomo all’autogrill siano
segreti, però lo diciamo subito: quell’uomo è un importante agente segreto, uno 007 italiano. Ecco, come siamo arrivati a
questo incontro? Dopo aver indagato sui finanziamenti della Segreteria di Stato vaticana e in particolare sul ruolo del
sostituto della Segreteria di Stato, il cardinale Angelo Becciu, che è stato in quel posto dal 2011 al 2018, è lui che ha gestito
le centinaia di milioni di euro provenienti dalle donazioni dei fedeli. Ad un certo punto al suo fianco spunta una donna
misteriosa: Cecilia Marogna, che diventa una sorta di servizio segreto parallelo al servizio del cardinale. Lei gioca a fare un
po’ la Mata Hari e a un certo punto però che cosa c’entra con l’incontro tra Matteo Renzi e l’agente segreto? È che la
Marogna a un certo punto poteva diventare lo strumento per delegittimare i vertici dei servizi di sicurezza nominati dal
governo Conte e a beneficiarne sarebbe stato proprio l’uomo che incontra Renzi nell’autogrill. Ora, le due storie per una
curiosa coincidenza si intrecciano nello stesso periodo, quando si sta per aprire la crisi del governo Conte. Questo filo, che
parte da un faccendiere vicino alla P2, lambisce la Segreteria di Stato vaticana, uomini dei servizi segreti, fino ad arrivare ai
protagonisti della caduta del governo Conte […].
GIORGIO MOTTOLA (fuori campo): In ogni suo [di Renzi, N.d.A.] intervento la questione della delega ai servizi segreti viene
sollevata con sempre maggiore enfasi.
MATTEO RENZI, LEADER DI ITALIA VIVA (L’aria che tira del 23/12/2020): Secondo me i servizi segreti devono essere guidati da
un esperto tecnico che non è il presidente del Consiglio: quando c’era Berlusconi c’era Letta, quando c’era Monti c’era De
Gennaro, quando c’era Renzi c’era Minniti. Tutti noi abbiamo sempre delegato, perché Conte accentra? Che c’ha? Bisogna
che anche su questo ci siano dei segnali di novità.
GIORGIO MOTTOLA (fuori campo): Matteo Renzi fa queste dichiarazioni il 23 dicembre del 2020, un giorno particolarmente
fitto di appuntamenti per l’ex premier. Dopo la trasmissione, infatti, Renzi va al carcere di Rebibbia per fare visita a Denis
Verdini, l’ex coordinatore di Forza Italia, che qui è recluso da novembre, dopo la condanna per bancarotta. Dato conforto a
Verdini, il leader di Italia Viva imbocca l’autostrada verso Firenze e fa tappa in questo autogrill a nord di Roma, Fiano
Romano, dove tiene un incontro riservato. Nessuno si accorge però che alla scena assiste anche una testimone, che si trova
lì per caso. Dopo la puntata di Report del 12 aprile scorso ha inviato una mail alla nostra redazione.
Sigfrido Ranucci il 7 luglio 2021 riferirà alla Digos di Roma: «[…] la donna ha dichiarato che il colloquio
ha avuto una durata di circa 30 minuti, che è deducibile dall’orario impresso sulle fotografie […]».
La donna il 13 aprile 2021 ha inviato due e-mail a report@rai.it.
La prima, delle 13:28, recita:
Gentilissimi […] queste foto forse a voi possono dire qualcosa… risalgono al 23 dicembre 2020 […] all’area di servizio di
Fiano Romano […] arriva una Audi con vetri oscurati che si avvicina ad una Giulietta già precedentemente parcheggiata.
Dall’Audi scende Renzi che saluta affettuosamente il signore nelle foto e si dirigono in disparte a parlare. Sono stati circa
venti minuti a parlare… dopodiché la Giulietta ha ripreso il viaggio per Roma e l’Audi ha imboccato a tutta velocità
l’autostrada in direzione Firenze. […] dopo pochi giorni dell’incontro di Renzi con questo tipo è caduto il governo… io non
credo sia una coincidenza […].
Gentilissima Redazione, vi invio delle foto scattate da me il giorno 23 dicembre 2020 presso l’area di servizio di Fiano
Romano. […] mi ha solo insospettito questo incontro fra Renzi arrivato su di un’Audi con i vetri oscurati e questo tipo che
era nell’area di servizi su una Giulietta… anch’esso con al seguito una sorta di scorta. Entrambi si sono appartati e hanno
parlato per circa venti minuti […] dopo pochi giorni da quest’incontro è caduto il governo…
Ricapitoliamo.
Mottola – giornalista di Report – afferma che l’incontro fra me e Renzi è durato 40 minuti.
Ranucci – conduttore di Report – dichiara che l’incontro è durato 30 minuti: «[…] che è deducibile
dall’orario impresso sulle fotografie […]».
La testimone scrive a Report – due e-mail – precisando che l’incontro è durato 20 minuti.
Ebbene la perizia tecnica Analisi integrità foto e video digitali, richiesta dall’avvocato Paolo de Miranda al
consulente dottor Massimo Iuliani, farà emergere – pag. 11 – un dato incontrovertibile: «[…] le foto
risultano acquisite nel pomeriggio del 23 dicembre 2020 in un arco temporale di circa 13 minuti […]».
Molta confusione? O c’è dell’altro, dietro queste palesi contraddizioni?
La testimone dichiara alla Digos di Roma, il 3 marzo 2022: «Voglio precisare che la mia macchina era
parcheggiata a poco più di 4 metri dalla Giulia di colore bordeaux».
Sempre la testimone, l’8 novembre 2022, depone in termini perentori alla Digos di Roma: «A questo
punto sento l’esigenza di precisare che questa mia particolare attenzione ai dettagli e capacità di
memorizzare taluni particolari deriva da una sorta di deformazione professionale, conseguente a miei
studi specialistici sul ramo diagnostico della storia dell’arte e conservazione dei beni culturali. Grazie a
questo mio percorso accademico riesco a memorizzare e a riconoscere da un piccolo particolare un’opera
artistica o il materiale di cui è composta».
Sintesi.
La testimone invia due e-mail a Report e fa altrettante dichiarazioni alla Digos, indicando il sottoscritto
a bordo di una Giulia o Giulietta di colore bordeaux metallizzato il 23 dicembre 2020 all’autogrill di Fiano
Romano.
Ebbene, quel giorno io viaggiavo con una Volkswagen Passat grigia.
La testimone, nonostante i suoi percorsi accademici, sbaglia colore e modello dell’auto pur essendo a
soli quattro metri di distanza.
La testimone, sentita dalla Digos il 3 marzo 2022, mette a verbale: «[…] ho udito Renzi dire tanto per
qualsiasi cosa sai come (dove) trovarmi».
La testimone quindi nella sua dichiarazione alla polizia inverte i soggetti rispetto a quanto riferito nel
corso della trasmissione Report.
GIORGIO MOTTOLA (fuori campo): Il misterioso uomo brizzolato che parla appartato con Renzi […] è uno 007 […] Si tratta
infatti di Marco Mancini, ex agente del Sismi, come ci conferma un suo ex collega.
L’ex agente Sismi che mi identifica ha il viso travisato. Io no. Indosso la protezione perché è in corso la
pandemia Covid. Sarà un articolo de «La Verità» a svelarne il nome: Carlo Parolisi. Lo stesso Carlo
Parolisi che nel 2018 è stato chiamato a testimoniare da Gabriele Polo per accreditare in tribunale i
passaggi per cui gli ho dato causa a Ravenna per il libro Il mese più lungo.
Domanda semplice: com’è che per identificarmi Ranucci e Mottola si rivolgono proprio a costui?
Aggiungo che dai tabulati, esito delle indagini, risultano molte telefonate tra giornalisti di Report e
l’agente in pensione Parolisi. La prima in particolare colpisce. È effettuata il 27 aprile 2021: ma non è
l’autore e conduttore Sigfrido Ranucci che chiama la sua fonte con un passato nella Digos e nei servizi
segreti, come sarebbe logico pensare. No, magicamente è Parolisi a intuire che Ranucci ha bisogno di lui e
lo chiama. Proprio sei giorni prima della puntata del 3 maggio, ore 21, di Report, intitolata Babbi e spie. In
quei pochi giorni antecedenti la messa in onda si intrecceranno 18 chiamate tra la redazione di Report, in
particolare Giorgio Mottola, e l’uomo travisato che nel programma risulterà ex agente del Sismi.
Domanda: perché Carlo Parolisi – ex Digos, ex Sismi, ex Aise – il 27 aprile 2021 alle ore 11:28, sua
sponte, ha cercato al telefono Ranucci? Ha rivelato l’identità di un agente segreto in servizio, che viveva
sotto scorta perché minacciato di morte. E poi? Ha riferito altro?
GIORGIO MOTTOLA (fuori campo): Oggi Marco Mancini è un alto dirigente del Dis, il dipartimento dei servizi segreti che
coordina e controlla le attività di Aisi e Aise.
Il 3 maggio 2021 Report dà in pasto al pubblico la tesi del complotto, fatta passare per teorema dimostrato
con immagini e disvelato fortuitamente da una passante: è una menzogna sesquipedale.
Nego risolutamente ora, perché prima non mi è stato dato. Ho potuto farlo al Copasir un giorno prima
del pensionamento. Direi che c’è molto su cui riflettere.
Nell’estate 2021 ho presentato querela contro Report per diffamazione al Tribunale di Ravenna. Nel corso
delle indagini difensive i miei legali, Paolo de Miranda e Luigi Panella, hanno posto domande al direttore
del Dis Elisabetta Belloni, per acquisire elementi investigativi su eventuali responsabilità di terzi in
relazione alla vicenda autogrill. La Belloni ha opposto una serie di segreti di Stato.
Il contenuto del verbale e dei temi sui quali è stato opposto il segreto di Stato è stato segretato dalla
Procura della Repubblica di Ravenna.
Non 40 minuti, né 30, neppure 20, ma 13 minuti. Il tempo minimo che l’educazione richiede per dare e
ricevere gli auguri di Natale, dopo che l’ex presidente del Consiglio mi aveva chiesto di celebrare il
piccolo consueto rito della consegna dei wafer in un luogo fuori mano e francamente scomodo per me.
Un piccolo dono, i Babbi, qualcosa di normalissimo, cui tengo molto e che riserbo a conoscenti e amici.
Non sono regali di rappresentanza, ma pensieri miei e pagati perciò di tasca mia, come ho tenuto a
dimostrare presentando la ricevuta di pagamento al Copasir.
All’autogrill, nell’attesa che arrivasse il senatore, lasciai la scatola di wafer nell’auto di servizio, la
Volkswagen Passat grigia. Avevo affidato la scatola di biscotti alla mia scorta così che la passasse ai
colleghi che scortavano Renzi.
Di che discutemmo? L’ex presidente parlò del figlio, che avrebbe presto giocato un’importante partita
di calcio o forse era sul campo proprio allora, di dove avrebbe passato il Natale e faccende così, anche di
carcere e condizioni dei detenuti: era stato poco prima a visitare in cella a Rebibbia Denis Verdini,
usufruendo della prerogativa dei parlamentari che lo consente. «So bene cosa significa passare il Natale
in prigione» gli dissi, e nel mio caso non per una condanna definitiva, ma in custodia cautelare per poi
essere prosciolto in udienza preliminare – anche se in quei giorni la pena più grande era per la mia
famiglia…
Ci salutammo, buon Natale e buone feste.
13 minuti.
13.
Ma certo.
Prima che fotografie e filmato dell’incontro fossero resi pubblici, non credo siano rimasti appesi a
frollare. Certe cose hanno il dono della bilocazione.
Il 23 dicembre 2020 ero in pectore ai vertici dell’intelligence nominato da Conte. Perché avrei dovuto
rovinarmi da solo?
Il 22 gennaio 2021 il presidente Conte fece le sue nomine. Tre nuovi vice direttori: Massagli e Della
Volpe all’Aise e De Donno all’Aisi. Contro ogni anticipazione ero stato escluso. Che è accaduto?
Ipotesi: hanno fatto bere come oro colato al presidente del Consiglio l’interpretazione distorta di quel
fatto banale dell’autogrill?
Rita Cavallaro, il 6 dicembre del 2022 su «L’identità», scrive che «più di una fonte» conferma che il 15
gennaio Conte ha visionato il materiale. Lui smentisce, ma parlando con la cronista si confonde, e alla fine
dice: «I servizi non mi hanno fatto vedere nulla, non mi sono impicciato con loro di questa questione,
anche perché non ricordo bene quando esplose il caso tramite Report, ma stavo andando via». Non stava
affatto «andando via» il 3 maggio 2021, quando Report trasmise le scene dell’autogrill. Draghi aveva
giurato al Quirinale più di due mesi prima, il 21 febbraio. Il lapsus rivela innanzitutto che esisteva «una
questione» di cui Conte non si voleva «impicciare», e poi che quando stava «andando via» quel filmato
era scoppiato sul suo tavolo. Non c’è bisogno di essere parenti di Freud per arrivare a questa spiegazione.
Non è certo una prova forense.
Ho invece sul mio cellulare alcuni indizi interessanti.
a) Mi arrivò il 30 aprile, alle 20:31, un messaggio WhatsApp. «Dottor Mancini, buonasera, sono Giorgio
Mottola di Report Rai3. Avrei bisogno di parlare di alcune vicende che la riguardano, di cui daremo conto
nella prossima puntata del programma. Quando posso disturbarla? Mi scusi per l’orario.» Molto gentile,
io ovviamente non richiamai, ma rimasi basito per il fatto che Giorgio Mottola avesse il mio numero
telefonico. Numero telefonico che è privato e intestato a me… brutta storia…
b) Il messaggio di Mottola mi arrivò alle 20:31. Alle 20:33 lo girai a Gennaro Vecchione, scrivendo:
«Buonasera Direttore, mi è arrivato questo WhatsApp». Vidi le spunte, l’aveva letto ma non mi chiamava.
Al che lo chiamai io e lui mi confortò, disse di non preoccuparmi, di pensare alla salute e che era tutto a
posto. Io sono un agente segreto, lui no. Dal tono della voce intuii quello che state intuendo anche voi
lettori. Qualcosa non andava: reticente e condiscendente? Decisi di mandargli un messaggio su
WhatsApp per farmi attestare per iscritto la sua solidarietà. Alle 20 e 40 scrissi a Vecchione: «Ti ringrazio
sono molto confortato dalle Tue parole, Tuo Marco!». Usai il Tu con la T maiuscola, per esercitare una
piccola pressione su di lui. Ed ecco che alle 20:41 Vecchione rispose: «Ecco… passerà anche questo… ma
bisogna riflettere sulla situazione un abbraccio e buona serata».
Passerà anche questo? Che cosa era «questo»? Cosa intendeva per «questo»?
Mi scervellai per capirci qualcosa. Cosa poteva sapere lui della trasmissione? E se nel programma
avessero parlato male di lui, ad esempio? O avessero puntato a delegittimare l’intero comparto? Bisogna
riflettere sulla situazione, diceva. Quale situazione? L’11 maggio 2020 alle 16:56 mi aveva richiesto il
curriculum per promuovermi (ho conservato il suo WhatsApp). Com’è che la promozione era diventata
«questa situazione»? Forse conosceva cose che io non conoscevo?
Gli risposi subito: «Certamente bisogna riflettere, tenendo ben presente che io sono la vittima e non da
ora, grazie ancora».
Da quella sera Vecchione non mi ha più rivolto la parola.
Alle 15:00 dell’11 maggio 2021 venne sentito al Copasir. Leggendo i giornali sembra che non abbia
spiegato nulla. Non credo abbia mostrato al Comitato i nostri messaggi WhatsApp del 30 aprile 2020.
Non esibì le lettere di minacce di morte recapitate al mio domicilio e per le quali il Dis mi aveva imposto
la tutela. Né informò il Comitato parlamentare che il servizio di scorta, a me assegnato da oltre 6 anni,
veniva prorogato per un ulteriore anno dal presidente del Consiglio Giuseppe Conte.
Vecchione verrà rimosso e sostituito da Elisabetta Belloni.
La verità deve essere ancora appurata e l’accertamento può essere ancora condotto, se si vuole. Il
presidente del Consiglio Giorgia Meloni può disporre il riscontro.
Lavorano per i servizi segreti anche molti che non sono fonti e non sono dei servizi segreti.
La vicenda è stata il pretesto per liquidarmi, diciamo meglio, per spingermi al pensionamento
«volontario». Le virgolette sull’aggettivo sono ironiche e vogliono significare ovviamente il contrario. A
usarle è Carlo Bonini, sulla «Repubblica» del 4 giugno 2021, quando in presa diretta annuncia «la resa
senza condizioni di “doppio Mike” Marco Mancini, la spia pret-a-porter [mancano l’accento circonflesso e
quello grave sulla a, prêt-à-porter, ma nessuno è perfetto, N.d.A.]» con «l’umiliazione della destituzione»
e lo «smaltimento delle ferie arretrate».
Che dire: bravo! Sarei andato in pensione il 16 luglio successivo e il giornalista conosceva il mio
residuo di ferie ancora da fruire. Anche questa volta, chi l’ha informato?
Con pregevole coerenza, direi, nel giugno 2023 (leggo da fonti aperte) il citato giornalista è stato
incaricato dal direttore Elisabetta Belloni della conduzione, nella sede centrale del Dis, di un incontro con
magistrati, in vista dei lavori di modifica della legge 124 del 2007 sugli apparati di sicurezza.
L’Autorità delegata a seguito dell’ampia eco riservata dagli organi di stampa all’incontro tra un alto dirigente del
Comparto con un noto esponente politico, ha richiamato all’attenzione il rispetto delle norme comportamentali,
sottolineando come condotte ordinariamente prive di disvalore e di interesse mediatico quando attuate dagli appartenenti
agli OO.II. [organismi informativi, N.d.A.], possono essere caricate di significati e piegate alle più disparate chiavi di
lettura ed interpretazioni. Pertanto ha dato indicazioni affinché ogni tipologia di incontro con esponenti del mondo
politico, giudiziario e, più in generale, suscettibile di esporre il Comparto alle citate criticità [riferimento al mondo
giornalistico, deduco, N.d.A.], sia preventivamente autorizzata e gli esiti documentati per gli eventuali e successivi
riscontri. Quanto sopra premesso, dispongo che gli incontri in argomento, da tenere sempre in coerenza con le previsioni
degli artt. 44 e 45 del DPCM 1/2011, siano sottoposti alla mia preventiva autorizzazione e che gli esisti degli stessi siano
documentati secondo le modalità e le procedure in vigore. La mancata ottemperanza delle presenti disposizioni configura
motivo di grave profilo disciplinare.
La circolare è sovrapponibile a quella da me sottoscritta al Dis. Ricordo che non poteva essere divulgata.
Per indurmi all’autolicenziamento (eufemismo), senza diritto di difesa, è bastata – carta canta –
l’esposizione mediatica. Un bel precedente: non importa che l’incontro sia stato innocente (come pur
lascia intendere la direttiva di cui sopra), basta che qualcuno per scopi propri riproduca dieci, cento, mille
volte una fotografia infilandoci dei sospetti, per sgozzare la vittima designata.
Io non avevo subito alcuna sanzione disciplinare, salvo quella per aver inghiottito la scheda del
telefono mentre ero ostaggio in una moschea di Baghdad.
Ero stato assolto da tutto. E allora perché sono stato eliminato grazie all’applicazione retroattiva di una
circolare?
Franco Gabrielli, a Mix delle cinque, Rai Radio1, lunedì 21 marzo 2022, rispondendo a Giovanni Minoli che
gli chiedeva: «Perché Mancini è stato invitato ad andarsene in pensione per l’incontro con il senatore
Matteo Renzi?», disse: «Non è stato invitato con riferimento a quella vicenda ma per tutta una serie di
altre questioni che non è il caso di approfondire».
La richiesta di spiegazioni, pervenuta al sottoscritto nel maggio 2020 dal direttore generale del Dis
Elisabetta Belloni – a cui ho dato immediata riposta –, riguarda l’incontro all’autogrill fra il senatore Renzi
e me. Della lettera non ricordo altro che un riferimento al «fondatore di Italia Viva». Le «altre questioni»,
cui fa cenno l’Autorità delegata Franco Gabrielli nell’intervista radiofonica sopracitata, non sono state a
me contestate.
sono rimasto colpito dalla Sua onestà cristallina quando, parlando in Senato il 21 marzo 2023 a proposito
del naufragio di migranti a Cutro e di quelli al largo delle coste libiche, ha detto: «La mia coscienza è
perfettamente a posto, io sono una madre». Dopodiché ha aggiunto: «Non esistono prove che il governo
italiano avrebbe potuto fare di più». Ebbene, forse non è così.
Se ho scritto questo libro e ora mi rivolgo direttamente a Lei, è perché ritengo che alcune istituzioni
avrebbero potuto e dovuto fare di più. Ho le prove segnate sulla mia pelle, e sono depositate nella storia
recente di questo Paese da ben prima che Lei si insediasse a Palazzo Chigi, senza però che vi sia stato
alcun segno di cambiamento strategico e operativo nel comparto intelligence dopo l’inizio del Suo
governo.
Solo a Lei, Presidente, potrei riferire segreti di Stato che non posso comunicare in forma di lettera
aperta. Ma del resto ragionare non è vietato. E dico allora che è nelle nostre possibilità ed è nostro dovere
storico, geografico, politico e morale, in quanto l’Italia è il principale dirimpettaio dell’Africa e dell’Asia
mediterranea, guidare con coraggio la liberazione di quei luoghi dalla lebbra della schiavitù e dalla peste
terroristica usando gli strumenti dell’intelligence, intesa come legittima forza democratica, a fronte delle
atrocità visibili e invisibili.
Dopo la strage di Cutro, Lei ha dettato la linea del Suo governo: «[…] combattere la schiavitù del Terzo
millennio rappresentata da queste organizzazioni criminali. Io non intendo e noi non intendiamo
replicare l’approccio di quanti hanno negli anni lasciato che i trafficanti di morte agissero sostanzialmente
indisturbati, noi faremo tutto quello che va fatto […] quello che vuole fare questo governo è andare a
cercare gli scafisti lungo tutto il globo terracqueo».
In sostanza Lei ha puntato il dito, giustamente, contro le «organizzazioni criminali», ma ne ha
identificato il cuore, il centro, il nemico supremo negli «scafisti indisturbati». Mi chiedo: chi Le ha fornito
queste informazioni superficiali? Gli scafisti sono la parte sacrificabile, vendibile, tenuta a contratto da
cottimista, in un ruolo che prevede il rischio di cattura. Spesso sono adescati all’ultimo momento tra i
pescatori, vessati dalla guardia costiera proprio per indurli a «collaborare». Ci sono disgraziati istruiti
sommariamente per guidare i barchini, ragazzini che non sanno neppure nuotare, tirati fuori dalle
spaventose segrete e spediti su gommoni da capi e sottocapi libici, spesso in rapporto d’amorosi sensi con
i servizi e i funzionari dei loro governi. Chi sta al timone è un criminale di certo, ma è l’ultima ruota del
carro infame.
Nelle prigioni italiane, dati aggiornati al marzo del 2022 (fonte BBC News) erano 952 le persone
accusate di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, delle quali 562 avevano già ricevuto una
condanna. In grandissima parte (non ci sono dati ufficiali) sono scafisti. Il loro arresto ha determinato
intoppi nella mostruosa macchina del commercio umano? Dai numeri non pare proprio. Infatti funziona
una specie di welfare dello scafismo. Nel contratto dei traghettatori «alla Caronte» è considerata l’ipotesi
della prigione per il timoniere che «batte col remo qualunque s’adagia»: in quel caso scatta la garanzia del
mantenimento della famiglia, assicurandosi così consenso e complicità di tribù e popolazioni beneficate
da questo traffico disumano.
Non riesco a credere che nessun direttore o vice direttore dei servizi segreti Le abbia rappresentato che
gli scafisti sono un problema, ma è un problema che le organizzazioni criminali hanno risolto
serenamente. Gli scafisti ce li vendono a poco prezzo. Ne incarceriamo trecento? Ne torneranno seicento.
Il passaparola è che la peggiore delle carceri italiane è meglio dei lager libici: da noi danno persino da
mangiare, la Caritas offre il dentifricio e c’è addirittura l’ora d’aria.
La mia proposta? Insieme a tutti i piani messi in atto per sostenere l’Africa, è indispensabile l’impegno
strategico, penetrante dell’intelligence. Cosa aspettiamo a muoverla nei gangli profondi e decisivi delle
milizie, e liberare i disgraziati torturati, violentati, umiliati, dopo che sono state spremute tutte le risorse
dei loro parenti che vivono nelle viscere dell’Africa?
Sto parlando del lavoro tipico dell’intelligence. A Lampedusa, dove si è recata con il sostegno di
Ursula von der Leyen (17 settembre 2023) o all’Onu (quando è intervenuta in assemblea generale il 20
settembre 2023), ho sperato fino all’ultimo che estraesse fotografie, indicasse prove di collusione,
riportasse una lettura non generica dei due recenti golpe che hanno cambiato nel lasso di qualche mese la
geopolitica africana.
Da 14-15 anni, in Africa ci hanno soppiantato la Wagner di Putin, i turchi e soprattutto i cinesi. Questi
ultimi acquistano i debiti degli Stati africani e poi se li fanno pagare in preziose materie prime,
acquistandole a due soldi, e riempiendo questi Paesi di infrastrutture di scarsa qualità, costruite da
detenuti dei Laogai (i gulag cinesi), insediati come coloni privilegiati purché mettano su famiglia con
donne locali. Ma dobbiamo e possiamo ridiventare quello che siamo stati: i migliori, i più bravi ad
acquisire le notizie, a identificare i gruppi criminali e a farli catturare, come abbiamo fatto in Libano con i
leader di al-Qaida nel 2004.
Io credo che questa dovrà essere la lotta democratica dei servizi segreti, con un’attività rivoluzionaria
che porti all’identificazione e allo smantellamento delle strutture criminali che sfruttano e fanno business
con l’immigrazione clandestina. Il compito dell’intelligence, e Lei, Presidente, lo pretenda, è farLe avere
sulla scrivania un elenco di nomi e cognomi, prove inconfutabili idonee a inchiodare chi in Africa e in
Europa organizza e gestisce la mostruosa macchina di adescamento, raccolta, organizzazione della tratta
di persone.
Non è utopia quella che ho rappresentato in questo libro e che Le propongo, Signor Presidente. I
respingimenti e il blocco marittimo funzionano come il proibizionismo con l’alcol nell’America di Al
Capone: ingrassano gli affari dell’internazionale schiavista e di chi progetta un dominio globale tirando i
fili dell’immigrazione (a cui lasciano volentieri opporre un anti-immigrazionismo altrettanto
insostenibile). Il blocco dei mari, peraltro impossibile, con il respingimento sistematico dei migranti
avrebbe per risultato la cancellazione del senso di umanità che è un patrimonio della nostra identità.
Come potrebbe una persona che si definisce cristiana dormire sonni tranquilli se affondasse o
rispedisse nelle carceri dei negrieri i suoi simili che non sono nemici? Non sono loro ad averci dichiarato
guerra.
Dobbiamo contrastare soprattutto con l’intelligence le organizzazioni criminali dedite al traffico di
esseri umani. Chi se non l’intelligence può andare in Ciad, nel Sudan, in Somalia? Occorre portare nei
consessi europei, nelle assise mondiali, i documenti frutto di queste attività. È un problema mondiale, e
l’Italia è piccola, ma abbiamo il dovere e la necessità (e siamo anche in grado) di dare colpi forti alle
strutture del male. Di sicuro lo eravamo e l’abbiamo fatto a contrasto dei gruppi criminali transnazionali.
Innanzitutto, Presidente Meloni, è il caso di accertare se l’intelligence sia o no all’altezza di poter
fornire indicazioni specifiche sul tema che preme. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi non ne pare
convinto. Davanti alla moltiplicazione degli sbarchi ha offerto una dichiarazione, non smentita, che ha
dato modo a «La Stampa» di fare un titolo a tutta pagina: Piantedosi: «I servizi segreti facciano di più». 1
Come verificare, quindi? C’è un termometro. Lei deve circondarsi di persone che sappiano fornire
informazioni complete.
Lo scorso 20 settembre, all’Onu, Lei aveva un dossier con i nomi e con le ramificazioni delle
organizzazioni criminali nel mondo e con l’indicazione dei porti della Tunisia, della Libia e della Turchia
da cui nelle ultime quarantotto ore erano partite le barche che avevano raggiunto le nostre coste; e lungo
quali itinerari e con quali soste e in che condizioni erano state imbarcate, e che cosa si stesse muovendo in
quel preciso momento in Mali, Niger, Sudan, Eritrea. Lei aveva tutte queste notizie: le ha mostrate
all’Onu? Le ha illustrate alla Presidente della Commissione Europea von der Leyen?
Quel che si deve assolutamente fare è permettere all’intelligence di fare l’intelligence, rivederne
l’organigramma e monitorare le qualità dei dirigenti apicali dei servizi. Ho appreso dalla stampa di
egregi manager di Asl (sì, Asl: Azienda sanitaria locale) promossi a gestire il personale dei servizi segreti:
mon dieu, qual è la ratio? Perché non premiare questi professionisti assegnando loro la direzione di un
reparto di ostetricia? Forse perché l’ostetricia è una cosa seria e comporta competenze specifiche, invece
l’intelligence è una sinecura, da poter godere senza alcuna conoscenze del settore?
La prego, misuri Lei chi abbia facoltà e esperienze. Il riscontro non è difficile da ottenere.
Da mesi stanno partendo a migliaia e migliaia dalla Tunisia e ancora dalla Libia. Possibile che non
abbiamo una rete di fonti che dia modo ai capi dei servizi segreti di farLe sapere quanti saranno i
migranti in arrivo? E se invece si sapeva, e se i servizi glieL’hanno riferito, perché non sono state prese
delle precauzioni con iniziative di accoglienza? Da tempo si doveva creare un servizio segreto dentro
l’Africa, come quello che avevamo in Medio Oriente, non troppi anni fa. Mi permetto di ricordarLe che
l’unica tra le grandi nazioni occidentali a non avere un 11 settembre è stata la nostra…
La ricetta è semplice: si chiama controspionaggio offensivo. Questa è la strada per una vittoria
possibile. Se sbaglio, mi faccia sapere dove e in che cosa.
Signor Premier, Lei ha ideali, coraggio e credibilità. Ci aggiunga, La prego, la forza del
controspionaggio offensivo dei servizi segreti.
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