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PROMETEO LIBERO
carceri, giustizia e politica

LE INTERVISTE IL PROGETTO CONTATTI E INFO VARIE

24 GENNAIO 2020 / GIACOMO DI STEFANO / LASCIA UN COMMENTO

Riti pagani, servizi segreti e


neonazisti: i retroscena di Piazza
Fontana raccontati dal giudice Salvini
La strage di Piazza Fontana è uno degli eventi più dolorosi della storia del nostro
Paese. Un episodio che, dopo oltre 50 anni, suscita ancora dibattiti, curiosità e una
produzione letteraria sterminata. Un filo rosso che collega la Guerra Fredda con la
libertà operativa delle forze armate, i servizi segreti con la manovalanza di
estremisti sospesi tra intenti rivoluzionari e connivenze con lo Stato. Al centro c’è la
debolezza strutturale dell’Italia del 1969, con le sue piazze ribollenti di
rivendicazioni sociali, con i suoi centri vitali ancora lontani da una piena fedeltà
alla democrazia costituzionale.

Perché il nostro Paese non è riuscito a resistere alle spinte eversive?

Cosa si sarebbe potuto fare di diverso dal punto di vista giudiziario?

In cosa differivano i terroristi neri rispetto a quelli di estrema sinistra?

Che mondo era quello dell’eversione nera del Nord Italia ai tempi della strage di
Piazza Fontana?

Prometeo Libero ne ha parlato con il giudice Guido Salvini, il magistrato milanese


che negli anni ’90 ha riaperto le indagini su Piazza Fontana e ha contribuito a
ricostruire i fatti più rilevanti e oscuri della strategia della tensione. Anche grazie al
libro appena uscito “La Maledizione di Piazza Fontana”, scritto insieme ad Andrea
Sceresini e documento prezioso per scoprire le indagini mancate, i testimoni
dimenticati e le tante dinamiche ancora oscure di quegli anni.

Una delle particolarità del suo lavoro è che è stato svolto a distanza di tanti anni
dalla strage di Piazza Fontana, anche per ragioni anagrafiche, visto che lei nel
1969 era un adolescente. Se lei avesse svolto le indagini all’inizio degli anni ’70,
quali ostacoli avrebbe trovato sulla sua strada e cosa di diverso avrebbe fatto
rispetto agli inquirenti di quegli anni?

Sicuramente avrei messo in sicurezza la bomba trovata inesplosa alla Banca


Commerciale di Milano il pomeriggio del 12 dicembre, uno scrigno di informazioni
che dovevano essere analizzate. Una prova di cui, tuttavia, il Procuratore Generale
dell’epoca ha causato la perdita dando mandato agli artificieri di farla subito
esplodere. Eppure era la firma degli attentatori. Fu un danno enorme, irreparabile.
Quando, nell’istruttoria degli anni ‘90, Carlo Digilio descrisse il tipo di esplosivi di
cui lui e il suo gruppo disponevano, non fu possibile confrontare il suo racconto
con quanto c’era all’interno della cassetta lasciata alla Banca Commerciale. Così non
fu possibile un riscontro decisivo.

Poi avrei cercato di capire chi avesse nel proprio bagaglio ideologico il movente di
azioni simili, e in qualche modo lo faceva comprendere anche attraverso le
pubblicazioni che giravano più o meno clandestinamente. Non vi è dubbio che solo
la destra radicale potesse considerare, nei suoi programmi farneticanti, la strage
come strumento per destabilizzare il sistema democratico. Le ricordo un fatto poco
conosciuto che ha riguardato lo scrittore veneto Ferdinando Camon. Camon era
entrato alcune volte in incognito nella libreria padovana di Freda e Ventura. Lì ha
trovato e comprato una loro pubblicazione in cui si faceva esplicito riferimento a
bombe senza nome e senza rivendicazione, fantasmi usciti dal nulla, che avrebbero
provocato la “disintegrazione” delle istituzioni democratiche. Camon ha ben
descritto le caratteristiche del gruppo Freda, anche sul piano psicologico, nella sua
componente razzistico-gerarchica, nel libro Occidente, uscito nel 1975. Se fossi stato
un inquirente dell’epoca, avrei sicuramente dato importanza anche a testimonianze
letterarie per capire da dove venissero le bombe.

Bisogna anche rilevare come il ruolo dei pubblici ministeri di adesso sia molto
diverso da quello dei primi anni ‘70

Con l’attuale Codice di procedura penale le indagini vengono dirette dai Pubblici
Ministeri e la Polizia giudiziaria, cioè polizia e carabinieri seguono le indicazioni
della magistratura. All’epoca era il contrario: la Polizia confezionava i rapporti,
stabiliva su quali punti e su quali piste insistere e alla fine portava tutto il
magistrato, che agiva quasi alla stregua di un semplice esecutore. Una dinamica che
aiuta a capire bene come avvenne l’immediata direzione delle indagini di piazza
Fontana sulla pista anarchica di Valpreda. Oggi non sarebbe possibile.

Una delle cose che risalta agli occhi nello studio della strategia della tensione è
l’impotenza della magistratura, schiacciata tra una politica interessata al
mantenimento della collocazione italiana nella sfera atlantica e la pervasività di
un mondo militare, dei servizi e delle questure che andava ben oltre
l’auspicabile o il lecito. Pensiamo a giudici Stiz e Calogero, i primi che hanno
approfondito la pista nera di Piazza Fontana e che sono stati costretti a tenerla
nascosta per non compromettere le indagini. A distanza di anni si può dire che è
mancato un supporto all’autonomia della magistratura da parte dei presidenti
della Repubblica di quegli anni?

All’epoca la sensibilità della Presidenza della Repubblica era molto diversa rispetto
a quella di oggi, a quella del presidente Mattarella, ad esempio. Prevalevano il
conservatorismo e l’allineamento con il Patto atlantico e con le forze più moderate
del Paese. A prescindere dalle valutazioni politiche, che non sono mio compito, è
un fatto storico che il presidente Saragat sia stato uno degli artefici della scissione
del Partito Socialista per creare una formazione marcatamente filoamericana come
il PSDI, intimorita da qualsiasi innovazione o svolta progressista. E questo avvenne
proprio pochissimi mesi prima del 12 dicembre.

È dunque una forzatura dire che l’atlantismo abbia fatto dimenticare a presidenti
come Segni e Saragat alcune prerogative costituzionali?

È una domanda cui è difficile rispondere. Voglio ricordarle solo una cosa. Nei
lunghi memoriali che l’on. Moro scrisse quando era prigioniero delle Brigate Rosse
indicò chiaramente nell’estrema destra i responsabili della strage di Piazza Fontana.
Ma non solo. Scrisse anche che quella strategia era stata in qualche modo protetta
dai Servizi segreti e ispirata da una certa politica atlantica.

A proposito di prerogative costituzionali, militari e servizi segreti militari hanno


dovuto dichiarare fedeltà alla Costituzione solo nel 1978. Questo ritardo quanto
ha inciso nel rapporto tra mondo militare ed eversione?

Ha inciso molto, basti pensare al golpe Borghese, dove l’ex comandante della X
MAS ha ottenuto l’appoggio di alti ufficiali dell’Esercito. A prescindere dalla
realizzabilità concreta del progetto di Borghese, l’adesione del mondo militare e dei
Servizi segreti è stata più rilevante di quanto si pensasse. Parlo di quel mondo
militare cui il gruppo di Freda e Ventura, anni prima, nel 1966, aveva mandato
attraverso il volantino firmato Nuclei a Difesa dello Stato, l’appello a entrare in
azione e diventare la guida del paese ritenendolo l’unica diga contro il dilagare
della “sovversione rossa” favorita, secondo loro, dall’acquiescente sistema
democratico. Un altro esempio di infedeltà è la fuga di Marco Pozzan organizzata
dal SID. Pozzan era un uomo del gruppo di Freda che avrebbe potuto cedere di
fronte a un interrogatorio e che fu stato fatto espatriare con falsi documenti nella
Spagna di Franco, al tempo un rifugio sicuro.

Spagna che ha accolto anche il principe Borghese

Ci sono passati tutti in Spagna, compreso il personaggio più importante: Guido


Giannettini. Un giornalista romano con grandi collegamenti con il mondo militare,
nonché uomo di raccordo tra il SID e la cellula ordinovista di Padova nei mesi
precedenti la strage. Il fatto più grave non è solo che Giannettini fu fatto fuggire,
ma anche che i governi dell’epoca negarono a lungo che fosse un agente del SID.
Quando la controinformazione dell’epoca su Piazza Fontana faceva riferimento alla
“Strage di Stato” si riferiva proprio alla figura di Giannettini e alle coperture di cui
ha goduto.

Lei ha mai conosciuto personalmente Guido Giannettini?

L’ho interrogato solo una volta, ha ammesso poche cose, tra questa una che non
aveva mai detto prima. Un uomo freddo, che avrebbe retto a qualunque pressione,
impensabile che una spia di altissimo livello come lui potesse fare rivelazioni
importanti. Mi ha dato l’impressione di un uomo che sapesse tutto ma che non
potesse in alcun modo rivelare le proprie conoscenze.

Qual è la cosa inedita che le ha detto Giannettini?

Confessò che, una volta in difficoltà, per giungere a Roma e incontrare uomini del
SID che l’avrebbero fatto espatriare era stato accompagnato Massimiliano Fachini,
uno dei fedelissimi di Freda che è stato coinvolto in tutta l’attività della cellula
padovana. I rapporti tra quest’ultima e il SID quindi erano strettissimi. In quel
momento erano presenti i due lati dello stesso scenario: Servizi segreti e neonazisti,
due mondi “cobelligeranti” contro quello che si veniva definito il pericolo
comunista.

In un appunto dal carcere di Opera in cui è tutt’ora detenuto, Vincenzo


Vinciguerra fa una riflessione su Pietro Valpreda e sugli anarchici dell’epoca:
quello anarchico, spiega, era un mondo mosso da un forte anticomunismo,
estremamente permeabile dai servizi segreti a causa della sua organizzazione un
po’ sui generis. Inoltre, dice Vinciguerra, Valpreda uscì da 48 ore di
interrogatorio alla Questura di Milano con una sola dichiarazione verbalizzata,
questura che si mostrò invece molto più dura nei confronti di altri anarchici.
Vinciguerra conclude la sua disamina alludendo a un rapporto tra fascisti ed
anarchici non ancora indagato a sufficienza, ritendendo – testuale – quella di
“Pietro Valpreda la nota dolente di una storia che non si vuole ancora scrivere”.
Cosa pensa di questa riflessione?

È un argomento molto delicato che ormai è molto difficile approfondire. Quello


anarchico era un mondo molto confuso e fluttuante, i rapporti di conoscenza e gli
spostamenti da un’area ad un’altra erano molto frequenti. Non sono in grado di
confermare una collaborazione inconsapevole degli anarchici con i neonazisti in
quegli anni, l’unico dato certo è che Mario Merlino sia sempre rimasto un fascista
di Avanguardia Nazionale ma che, a un certo punto, abbia deciso di mettersi
eskimo e basco per costituire un gruppo anarchico al fine di spiare e segnalare i
movimenti degli anarchici alla Polizia. Quello che certamente si può dire è che
un’infiltrazione tra le fila anarchiche era più facile che altrove, vista la permeabilità
di molti gruppi di quel mondo dovuta al rifiuto di una vera e propria
organizzazione.

Lei nella sua lunga carriera da magistrato ha interrogato tanti terroristi rossi e
tante persone legate all’eversione nera. Quali sono le differenze umane e di
appartenenza ideologica che lei ha riscontrato, per esempio, tra un ordinovista e
un militante di Prima Linea?

Io ho interrogato tantissimi neofascisti, soprattutto del Veneto, ma anche tanti


militanti delle BR, di Prima Linea e di altri gruppi di estrema sinistra. Gli
appartenenti ai gruppi di estrema sinistra erano più comprensibili, avevano un’idea
precisa dei propri obiettivi, spesso venivano dalle lotte operaie e generalmente
erano piuttosto simili tra loro, parlavano la stessa lingua, un marxismo-leninismo
libresco, semplificato. La crisi interna dei gruppi terroristi di estrema sinistra e la
consapevolezza dell’impossibilità di prendere il potere attraverso l’innesco in Italia
di una guerriglia di stampo vietnamita hanno generato alla fine il pentitismo o la
dissociazione che riconoscevano il fallimento di un progetto. Molto spesso la
detenzione e un progressivo ritorno alla vita normale è coinciso con un sostanziale
abbandono delle velleità rivoluzionarie di un tempo. Per questo, senza concedere
alcuna attenuante a quel fenomeno, molti di loro sono stati recuperati e i tassi di
recidiva sono stati molto bassi.

E i personaggi dell’estrema destra?

Completamente differenti e tutti diversi tra loro. Ogni personaggio di quel mondo
ha la sua storia, la sua singolarità. C’è il filonazista, il fanatico del mondo militare, il
cattolico conservatore, l’adepto del paganesimo, il seguace dell’esoterismo, c’era chi
apprezzava Israele come avamposto dell’Occidente e chi da filo-musulmano voleva
distruggere gli ebrei. Un coacervo di idee bizzarre e di posizioni del tutto
antistoriche, fuori dal tempo. Io credo che ad unirli ci fosse l’azione a prescindere
da un progetto organico, un vitalismo guerriero fuori da ogni schema razionale che
li rende figure davvero particolari. Tra tutti, come intelligenza, autocontrollo e
carisma prevaleva Franco Freda, un uomo in grado di imporsi sugli altri.

Freda aveva un effetto magnetico sugli altri esponenti del suo gruppo?

Si, un tratto magnetico rafforzato da una cultura molto forte. Tra l’altro Freda
tuttora dirige una casa editrice nemmeno disprezzabile, prescindendo ovviamente
dalle idee che essa esprime. Un altro elemento interessante è il legame cameratesco,
quasi fisico, una specie di patto di sangue tra i componenti di questi piccoli gruppi
neonazisti formati da non più di 10-15 persone. Un rapporto umano diretto e molto
stretto che ha reso molto più difficile la dissociazione o la collaborazione con la
giustizia rispetto ai gruppi di estrema sinistra, perché collaborare voleva dire
tradire nella forma più intensa della parola

Più irriducibili rispetto ai terroristi rossi?

Più irriducibili mentalmente e con una mentalità quasi impossibile da cambiare.


Pensi ad alcune stranezze: gli ordinovisti veneti festeggiavano il 21 dicembre, il
solstizio d’inverno, il momento in cui la notte più lunga dell’anno anticipa il ciclo
del sole in cui le giornate si allungano di nuovo. Questi militanti si dedicavano a
rituali notturni, accendevano, tra canti, falò in onore del sole in luoghi isolati. Una
specie di rito pagano che, con quel fuoco, simboleggiava la vita che si rinnovava.
Ecco, in ambienti di questo genere alcuni settori dello Stato hanno trovato terreno
fertile da utilizzare per le proprie manovre eversive. Probabilmente questi militanti
neonazisti pensavano di sfruttare lo Stato per i propri disegni, ma è stato
esattamente l’opposto.

Verso qualcuno di loro è riuscito ad avere un particolare rapporto di stima?

Quando fai lunghe indagini e interagisci con tante persone, parli con loro, è
normale che si crei un rapporto umano. Lei consideri che in tutta la mia indagine
non ci sono stati mandati di cattura, era un rapporto alla pari in cui io interrogavo
per ricostruire il passato e convincere i mei interlocutori a far tornare alla luce
alcuni fatti. Vincenzo Vinciguerra è ancora un ergastolano e lo è solo per sua
volontà. Ha spontaneamente rivendicato la sua responsabilità perl’attentato di
Peteano, non ha fatto appello contro l’ergastolo e tutto sommato è rimasto un
rivoluzionario coerente con le proprie idee, che continua a opporsi allo Stato
dall’interno del carcere. Vinciguerra, in questo, l’ho percepito come una persona
rispettabile, consapevole delle proprie responsabilità che non chiede premi o sconti.
E per questo quanto racconta diventa anche più credibile.

Ci sono stati casi umanamente toccanti e imputati poi caduti in miseria?

Il caso di militanti di destra che abbiano fatto fortuna, diversamente da quanto si


può pensare, è piuttosto raro. Tra questi c’è sicuramente Delfo Zorzi, ordinovista di
Mestre, protagonista di tanti processi e da molto tempo residente in Giappone. È un
ricco e famoso imprenditore internazionale nel campo della moda italiana. Ma per
tanti quell’esperienza ha consumato le loro vite. È il caso di Martino Siciliano, che è
rimasto bruciato dalla propria militanza, senza lavoro e ridotto in miseria è uno dei
tanti sconfitti di quel mondo. Infine vorrei ricordare il caso di Gianni Casalini,
militante del gruppo padovano di Ordine Nuovo. A metà degli anni ‘70 aveva
deciso di “scaricarsi la coscienza” ed era divenuto una fonte preziosa di
informazioni per il SID di Padova. Ma. a Roma, il vicecapo del SID Gianadelio
Maletti decise di “sganciare” la fonte probabilmente perché quello che poteva
emergere avrebbe potuto far venire alla luce complicità imbarazzanti. Poi Casalini,
già anziano e malato, ha deciso, a processi conclusi, di contattarmi di sua spontanea
volontà. Così, sul finire della sua vita, sono andato a trovarlo tante volte nella Casa
di riposo in cui viveva. Abbiamo parlato per ore, sia degli attentati del 1969 che
avevano preceduto quello di piazza Fontana, sia del suo passato, quello di un
giovane padovano che tanti anni prima aveva deciso di abbracciare la destra
radicale come forma estrema di ribellione alla Padova cattolica, borghese e
conformista. Non era un violento, anche a lui non era rimasto più nulla. Se negli
anni ‘70 il suo racconto fosse stato ascoltato forse anche l’esito del processi sarebbe
stato diverso.

(in copertina, Franco Freda al processo di Catanzaro)

Postilla

La comprensione di tutti i passaggi dell’intervista a Guido Salvini implica alcune


conoscenze di base sulla storia della strategia della tensione e della strage di Piazza
Fontana. L’intervista – ma non potrebbe essere altrimenti – dà per scontati fatti e
dinamiche che, tuttavia, è possibile approfondire attraverso le tante pubblicazioni
che sono state scritte a riguardo.

Ecco una lista di libri che aiutano a capire il contesto storico, le premesse e le verità
ancora da scoprire sulla strage di Piazza Fontana

Guido Salvini, Andrea Sceresini – La maledizione di Piazza Fontana, Chiarelettere,


2019

Mirco Dondi – L’eco del boato. Storia della strategia della tensione, 1965-1974,
Laterza 2015

Benedetta Tobagi – Piazza Fontana. Il processo impossibile, Einaudi, 2019

Paolo Morando – Prima di Piazza Fontana. La prova generale, Laterza, 2019

Paolo Cucchiarelli – Il segreto di Piazza Fontana, Ponte alle Grazie, 2012

Gianni Barbacetto – Piazza Fontana: il primo atto dell’ultima guerra italiana,


Garzanti, 2019

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Pubblicato da Giacomo Di I grandi casi nazionali,


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