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Informazioni legali

L’Istituto Superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA) e le persone che


agiscono per conto dell’Istituto non sono responsabili per 'uso che può essere fatto
delle informazioni contenute in questo quaderno.

ISPRA - Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale


Via Vitaliano Brancati, 48 - 00144 Roma
www.isprambiente.it

ISPRA, Quaderni Natura e Biodiversità n. 8/2017


ISBN: 978-88-448-0833-4
Riproduzione autorizzata citando la fonte

Elaborazione grafica
ISPRA
Grafica di copertina: Sonia Poponessi

Coordinamento tipografico: Daria Mazzella


ISPRA – Area Comunicazione

Amministrazione: Olimpia Girolamo


ISPRA – Area Comunicazione

Distribuzione: Michelina Porcarelli


ISPRA – Area Comunicazione

Impaginazione :
Gabriele Piazzoli ARPAE (FC)

Stampa:
La Pieve Poligrafica Editore Villa Verrucchio s.r.l.

Finito di stampare nel mese di Giugno 2017

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A cura di: Sergio GUIDI (ARPAE Emilia Romagna), Pietro Massimiliano Bianco (Ispra),
Vanna FORCONI (ex ISPRA), con la collaborazione di Miriam D’ANDREA (Ispra).

Autori:
Immacolata BARBAGIOVANNI M. (ARSIAL), Pietro Massimiliano BIANCO (Ispra), Rita
BIASI (Dipartimento per la Innovazione nei Sistemi Biologici, Agroalimentari e Forestali
(DIBAF) - Università della Tuscia), Antonella CANINI (Università di Roma Tor Vergata),
Lorena CANUTI (Università di Roma Tor Vergata), Giorgio CASADEI (ARSIAL), Miria
CATTA (ARSIAL), Paola CIRIONI (ex ARSIAL), Alfio CORTONESI (Università della Tu-
scia), Mariateresa COSTANZA (ARSIAL), Valerio CRISTOFORI (Dipartimento di Scienze
Agrarie e Forestali (DAFNE) - Università della Tuscia), Elena CURCETTI (Parco Nazio-
nale del Gran Sasso e Monti della Laga), Giorgio DAVINI (Parco Nazionale del Gran
Sasso e Monti della Laga), Salvatore DE ANGELIS (ARSIAL), Matteo DELLE DONNE
(Dipartimento Asia, Africa e Mediterraneo, Università di Napoli "L'Orientale"),
Silvia DE PAULIS (Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga), Mirella
DI CECCO (Parco Nazionale Majella) Sandra DI FERDINANDO (ARSIAL), Gabriele
DI MARCO (Università di Roma Tor Vergata), Luciano DI MARTINO (Parco
Nazionale Majella), Marco DI SANTO (Parco Nazionale Majella), Angelo GISMONDI
(Università di Roma Tor Vergata), Giorgio GRASSI (ex CRA-FRU Caserta, Roma),
Sergio GUIDI (ARPAE), Stefania IMPEI (Università di Roma Tor Vergata), Aurelio
MANZI (Etnobotanico), Giu-seppe MARCANTONIO (Parco Nazionale della Majella),
Emanuela MARIANI (Giardino di Lucoli), Massimo MUGANU (Dipartimento di
Scienze Agrarie e Forestali (DAFNE) - Università della Tuscia), Rosario MULEO
(Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali (DAFNE) - Università della Tuscia), Sergio
NATALIA (Esperto Marketing-territoriale), Maurizio ODOARDI (Regione Abruzzo),
Antonio ONORATI (ex ARSIAL), Michela PALLADORO (architetto paesaggista),
Maria Antonietta PALOMBI (CREA-FRU), Saverio PANDOLFI (CNR-IBBR), Sara PAO-
LETTI (ARSIAL), Renato PAVIA (ex CRA-FRU), Mario PELLEGRINI (CISDAM),
Giovanni PICA (ARSIAL), Luciano POLLASTRI (Regione Abruzzo), Gino PRIMAVERA
(Chef), Gian-franco ROSATI (Civiltà Contadina - Rete Semi Rurali), Donato SILVERI
(Regione Abruz-zo), Massimo TANCA (ARSIAL), Paola TAVIANI (ARSIAL).

Tutta la nostra gratitudine va agli agricoltori che hanno conservato


le vecchie varietà dell'Abruzzo:
Antonella CAVICCHIA, Arcangelo DI CENSO, Bruno DI MARCO, Virginia DI PAOLO,
Sergio DI RENZO, Mauro FULVIMARI, Antonio LA GATTA, Alessandro GIANGIULIO,
Pietro GIANGIULIO, Lucia MORETTI, Tito Nunzio PERINETTI, Luciano PETRELLA,
Quintino SEVI.

e del Lazio:
Rolando AURELI, Luigi BIANCHINI, Maria BISTI, Fiorella CAPOZZI, Giuseppe
e Rosina CAPRIOLI, Antonio COLAIACOMO, Gabriele FLORIANO, Pietro
GROSSI, Vittorio IACOVACCI, Maurizio MACALI, Camillo MANCINI, Celio
MASCIOCCHI, Gianpaolo MONTELLANICO, Dante PETRUCCI, Gabriele
PICIACCHIA, Fabrizio RASTELLO, Alfredo RICCI, Benito TONELLI,

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INDICE

Presentazione 5

Introduzione 6

1 . CASO DI STUDIO: ABRUZZO 7

1.1 Le origini della frutticoltura in Abruzzo 8

1.2 Il paesaggio degli alberi da frutto 21

1.3 Normativa regionale in merito alla biodiversità 46


1.4 La biodiversità delle colture arboree nelle aree protette abruzzesi e le
51
iniziative per la conservazione e la valorizzazione
1.5 La frutta nei dolci e liquori tradizionali abruzzesi 64

1.6 Alcuni frutti antichi rappresentativi dell’Abruzzo 68

2. CASO DI STUDIO: LAZIO 102

2.1 Cenni storici della viticoltura e frutticoltura nel Lazio 104


2.2 Le colture arboree da frutto nel paesaggio laziale 120
2.3 “Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario” Legge
142
regionale 1 marzo 2000 n. 15 (ARSIAL)
2.4 Prodotti tipici e tradizionali 167

2.5 Alcuni frutti antichi rappresentativi del Lazio 171

Glossario 204

Bibliografia citata 208

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PRESENTAZIONE
Questa serie di quaderni, giunta ormai al 6° volume, raccoglie esperienze regionali
incentrate sulla riscoperta e la valorizzazione delle cultivar selezionate per secoli dai
contadini locali contribuendo al recupero dell’elevatissima biodiversità agricola del
nostro territorio, risultato di una complessa e millenaria evoluzione storica. I frutti
“antichi”, in equilibrio per secoli con le condizioni ambientali locali, rappresentano un
presidio e un riferimento per la tutela dell’agrobiodiversità e per lo sviluppo di un ade-
guata filiera biologica in quanto portatori di germoplasma di qualità e per le loro eleva-
te caratteristiche nutraceutiche.
Le convenzioni e gli strumenti normativi a livello internazionale, comunitario e naziona-
le incentivano sempre di più politiche funzionali alla conservazione della biodiversità
nel settore agricolo, al miglioramento della sicurezza alimentare, alla sostenibilità
ambientale e alla salute delle popolazioni. Inoltre nell’opinione pubblica si sta sempre
più diffondendo la richiesta di cibi stagionali genuini ad alto valore nutrizionale e biolo-
gici.
L’iniziativa, sviluppata in piena autonomia in occasione dell’anno internazionale della
biodiversità (2010), è in assoluta coerenza con gli indirizzi di politica agricola e salva-
guardia ambientale quali Piano Nazionale della Biodiversità di interesse agricolo,
Protocollo di Cartagena, Trattato internazionale sulle risorse genetiche vegetali per
l’alimentazione e l’agricoltura e il recente Protocollo di Nagoya sull’accesso e la condi-
visione dei benefici derivanti dall’uso della biodiversità. Anche Direttive e Regolamenti
europei sui pesticidi e l’agricoltura di qualità (Direttiva 91/414/CEE, Direttiva 2009-
/128/CE, Reg. CE n. 1107/2009, PAC 2014/2020) mirano a garantire la
massima diffusione di cultivar locali di specie eduli resistenti alle patologie, all’aridità e
in grado di crescere su suoli svantaggiati.
Il ”Piano strategico per l’innovazione e la ricerca nel settore agricolo alimentare e
forestale” favorisce il passaggio a un’agricoltura sostenibile citando espressamente,
come fondamenti per costruire un sistema agricolo competitivo, la conservazione
delle risorse naturali e della biodiversità, l’erogazione di servizi agroambientali per la
mitigazione dei cambiamenti climatici, la produzione di cibi sani, salutari e di elevata
qualità, la valorizzazione e la salvaguardia di varietà e razze locali e delle risorse gene-
tiche.
La protezione e la diffusione di queste preziose varietà rivestono un ruolo fondamen-
tale anche nell’ambito del Piano d’azione Nazionale per l’uso sostenibile dei pesticidi,
con particolare riferimento all’eliminazione delle sostanze dannose all’ambiente.
La loro diffusione permette di favorire l’ecocompatibilità delle attività agricole nelle
aree protette che, in quest’ottica, potrebbero essere individuati come laboratori spe-
rimentali viventi. L’associazione di varietà adatte alla gestione integrata e biologica
con opportuni marchi di qualità, finalizzati alla compatibilità ambientale, può rappre-
sentare, inoltre, un’occasione economica, insieme al turismo.

Dr.ssa EMI Morroni


Direttore del Dipartimento Monitoraggio
e Tutela Ambiente e Conservazione
Biodiversità, ISPRA

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INTRODUZIONE
L’ISPRA ha già pubblicato cinque quaderni dedicati ai frutti antichi ed alla biodiversità
recuperata relativi alla Puglia e Emilia Romagna, Calabria e Trentino Alto Adige, Lom-
bardia e Sicilia, Molise e Friuli Venezia Giulia, Piemonte e Sardegna. La presente pubbli-
cazione si rivolge alle regioni Abruzzo e Lazio, due realtà vicine e ricchissime di biodi-
versità. Il successo dei primi quaderni ci consente di formare con queste pubblicazioni
una collana organica e coerente che completerà il quadro della situazione delle regioni
italiane. Lo scopo è di far conoscere l’agrobiodiversità legata al territorio, alle attività
umane, al loro impatto sulla natura, tutti fattori che hanno inciso sul processo evolutivo.
Si tratta di informazioni urgenti e necessarie per salvare questo tipo di biodiversità
vincolata ad aziende agricole tradizionali dal futuro incerto in quanto legate al lavoro e
alla dedizione degli agricoltori anziani che fanno sopravvivere i frutti antichi. La memo-
ria è fondamentale se vogliamo recuperare il sapere contadino che rappresenta la
metà del valore della biodiversità, perché se anche riusciamo a salvare dall’estinzione
un’antica varietà, ma di questa non sappiamo come si coltivava, come si conservava e
come poterla impiegare al meglio in cucina è come averla persa per sempre.
I frutti antichi sono espressione di un valore che può racchiudersi in un concetto: la
biodiversità, l’agrobiodiversità nel caso in esame, intesa come il risultato del processo
evolutivo che ha generato la molteplicità di animali e vegetali addomesticati. Questa
collana di quaderni dedicati ai frutti dimenticati e alla biodiversità recuperata ha fra i
suoi meriti quello di aver contribuito al recupero e alla valorizzazione delle risorse ge-
netiche a rischio di estinzione e di avere messo in rete gli agricoltori, custodi che con
caparbietà e lungimiranza hanno conservato il germoplasma di quelli che potrebbero
essere addirittura i frutti del futuro perché hanno ampiamente dimostrato nel tempo
di sapersi adattare alle avversità climatiche e parassitarie, resistendo per secoli e
millenni.
Ci auguriamo che questo quaderno possa dare un valido contributo conoscitivo sui
frutti antichi e dimenticati, sul ruolo che le varietà tradizionali hanno avuto dalla lettera-
tura alla storia agronomica italiana; il contesto produttivo al quale sono legati
(rapporto tra agricolture storiche e industriali. Premesse, queste, necessarie per in-
quadrare i frutti antichi nei loro aspetti più caratterizzanti (diversità biologica e cultura-
le, potenzialità agronomiche e commerciali) senza dimenticare lo stato di criticità in cui
talvolta versano. Nel presente quaderno si illustrano due casi di studio che raccolgono
esperienze dirette degli autori e dei collaboratori in due regioni italiane cariche di sto-
ria, cultura e biodiversità. La scelta delle schede non è stata facile, dovendo limitarne il
numero, ma si è dato come criterio di selezione l’elevato rischio di erosione genetica,
cioè quelle varietà talmente ridotte nel numero degli esemplari (in alcuni casi si tratta
di singole piante), quindi ad alto rischio di estinzione. L’altro criterio usato è quello lega-
to alle caratteristiche agronomiche della coltura e organolettiche dei frutti che magari
potrebbero prestarsi per un rilancio soprattutto nelle aziende ad agricoltura sostenibi-
le come la biologica o biodinamica, negli agriturismi e fattorie didattiche. Infine si è
considerato anche l’aspetto della rusticità di questi frutti, che potrebbero essere adat-
ti per il rilancio della loro coltivazione in aree tutelate come i parchi e le riserve, in
quanto colture rispettose dell’ambiente che non danneggiano l’integrità degli ecosistemi.

Sergio Guidi - ARPAE


Pietro Massimiliano Bianco - ISPRA
Vanna Forconi- ex ISPRA

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1. CASO DI STUDIO ABRUZZO
PRESENTAZIONE
La Regione Abruzzo può vantare un considerevole numero di specie e varietà autocto-
ne, patrimonio della nostra agricoltura e delle nostre genti, patrimonio che, generato
dalle mille sfaccettature climatiche e pedologiche delle vallate appenniniche fino al
mare, dona alla regione una forte identità ed una connotazione di accoglienza e di
condivisione. Le montagne però, se da un lato accentuano le diversità, dall’altra crea-
no ambienti contigui, versanti simili per molti aspetti, comunicanti tramite i numerosi
valichi che ne consentono l’attraversamento. Tale condizione porta all’identificazione
di un ambiente omogeneo definito come “dorsale appenninica” che va al di là dei
confini amministrativi regionali e nel quale non è difficile ritrovare le stesse specie e le
stesse varietà, diverse magari solo per il nome e per talune sfumature di gusto.
E’ quindi, nell’ottica di vicinanza territoriale, che nasce l’idea di questa pubblicazione,
nella quale sono raccolte quelle che sono da considerare le più autentiche espressio-
ni della cultura contadina dei due versanti appenninici nel campo delle colture
frutticole. Il desiderio e l’auspicio, che si nasconde dietro la pubblicazione delle mille
storie delle varietà di frutta autoctona, non è tanto quello di conservarne la memoria,
quanto quello di stimolare la loro rinascita, la creazione di nuovi impianti in modo da
riproporle sulla tavola dei consumatori più attenti e curiosi, desiderosi di andare oltre
il gusto stereotipato della frutta del supermercato.
La Regione Abruzzo sta operando fattivamente in tal senso e conta di giungere alla
fine del quadriennio di programmazione dell’attuale PSR, alla definizione di un quadro
completo del patrimonio genetico autoctono in campo frutticolo e delle colture
erbacee. Sarebbe quindi un grande risultato poter dare conto, tra alcune stagioni, di
un certo numero di ettari impiantati in varietà autoctone, in modo da dare, ai nostri
concittadini prima di tutto e, perché no, ai turisti in visita nella Nostra Regione,
la possibilità di apprezzarla non solo per le bellezze paesaggistiche ma anche per il
sapore dei suoi frutti.

Con affetto ed amicizia.

Dino Pepe
L’Assessore alle Politiche Agricole e di Sviluppo Rurale,
Caccia e Pesca, Economia del Mare, Demanio Marittimo,
Cicloturismo, Contratti di fiume della Regione Abruzzo

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1.1 Le origini della frutticoltura in Abruzzo
Aurelio Manzi

Caratteristiche ambientali
L’Abruzzo è una regione per buona parte montuosa. Proprio qui si localizzano le mon-
tagne più elevate ed impervie dell’Appennino centrale come il Gran Sasso, la Majella o
il Velino che sfiorano i 3000 m di quota. Si tratta di rilievi per la maggior parte di natu-
ra calcarea con suoli di tipo basico o sub-basico, con scarsa disponibilità idrica in su-
perficie per via del carsismo. A nord si localizzano i Monti della Laga, un complesso
orografico costituito da arenarie e marne. La natura arenacea di queste montagne
determina la presenza di suoli acidi, inoltre una notevole disponibilità di acque superfi-
ciali, nonché una morfologia totalmente diversa dai rilievi carbonatici. Le catene mon-
tuose presentano una disposizione parallela da nord verso sud, delimitano numerose
conche interne con caratteristiche climatiche sub-continentali. La fascia collinare,
invece, è costituita da argille: plioceniche nel settore settentrionale, ben più antiche
quelle meridionali rappresentate da argille “varicolori” dell’Oligocene che manifestano
una maggiore salinità. Rare, invece, le aree pianeggianti localizzate lungo le principali
aste fluviali in prossimità della foce, oppure nelle conche interne, come quella un tem-
po occupata dal lago Fucino bonificato nella seconda metà del XIX secolo, la Conca
Aquilana o la Conca Peligna, le prime due localizzate ad altitudini maggiori. Inoltre, i
grandi altopiani, ampie fosse di origine tettonica come il Piano delle Cinquemiglia, gli
Altipiani delle Rocche o Campo Imperatore sul Gran Sasso, aree di scarso valore
agronomico in quanto localizzate ad altitudini superiori a 1300 m, strategiche però
per l’allevamento.
La regione, in considerazione della sua orografia e posizione geografica, presenta
diversi tipi di bioclimi: quello mediterraneo che si riscontra nel settore costiero meri-
dionale, temperato in gran parte del territorio e, nelle conche interne, un clima di tipo
subcontinentale. La presenza di differenti tipi climatici si evidenzia non solo attraverso
i dati relativi ai valori delle precipitazioni e temperature, ma anche dalla distribuzione e
corologia delle specie vegetali ed animali. La regione, in considerazione delle sue
caratteristiche orografiche, geografiche e climatiche, costituisce un vero e proprio
paradosso biogeografico in quanto segna il limite distributivo meridionale di molte
specie floristiche con distribuzione artico-alpina, contemporaneamente il limite setten-
trionale di piante mediterranee, inoltre segna il limite occidentale per numerose
entità a distribuzione balcanico-asiatica.

Raccolta zafferano in Abruzzo fra i ruderi della città


romana di Peltuinu (A.Manzi)
8
L’origine della frutticoltura
I primi insediamenti neolitici nella regione risalgono ad oltre 6500 anni fa e sono stati
inquadrati nell’ambito della cultura della “Ceramica impressa” (Radmilli, 1998). I primi
agricoltori si insediarono sui terrazzi fluviali, caratterizzati da suoli profondi e fertili
facili da lavorare, e intorno ai bacini lacustri, in particolare al lago Fucino oggi prosciu-
gato. Essi giunsero, probabilmente, dall’Italia meridionale oppure dall’opposta sponda
adriatica grazie al ponte insulare costituito dalle isole di Pelagosa, Curzula e Tremiti.
Le prime colture furono quelle erbacee, essenzialmente cereali e legumi. Tra i primi: i
farri (Triticum dicoccum, T. monococcum), il grano tenero (T. aestivum), l’orzo
(Hordeum vulgare). Tra i legumi: il pisello (Pisum sativum), la lenticchia (Lens culina-
ris), le cicerchie (Lathyrus sp. pl.); successivamente fu introdotta la coltivazione della
fava (Vicia faba), del cece (Cicer arietinum), dei mochi (Vicia ervilia) e via di seguito
(Manzi, 2006, 2012a).
Nelle prime fasi dell’agricoltura non è segnalata la presenza di specie legnosa, seppu-
re possiamo supporre che le popolazioni raccogliessero sistematicamente i frutti
di alcune specie spontanee come mele e pere selvatiche, sorbe, corniole, nocciole,
nespole, more di rovo, nonché le ghiande di diverse specie quercine per l’alimentazio-
ne, oppure i frutti carnosi da cui ottenere, per fermentazione, una bevanda alcolica
(Manzi,1999). Alcuni ritrovamenti archeo-botanici lasciano supporre anche un uso
cultuale dei frutti selvatici, in particolare mele e pere, sepolte in buche scavate nel
pavimento di grotte destinate al culto, forse in funzione di riti propiziatori della fertilità
(Manzi, 2003).
La coltivazione dei primi alberi da frutto in Abruzzo sembra abbia avuto inizio verso il
periodo finale dell’Età del Bronzo, circa 3500 anni fa. Tra la fine dell’Età del Bronzo e
l’inizio dell’Età del Ferro si collocano i primi ritrovamenti archeologici che attestano la
coltivazione dell’olivo e della vite. Le prime testimonianze della coltivazione della pianta
sacra ad Atena si riferiscono al bacino del Fucino (Cosentino, 1998) e, in modo parti-
colare, alla fascia collinare adriatica, nello specifico al sito archeologico di Fonte
Tasca, tra i comuni di Archi ed Atessa (Di Fraia, 1995, 1996). In quest’ultima località
sono venuti alla luce, oltre ai noccioli di oliva, le cui forme e dimensioni testimoniano
un processo di addomesticamento e selezione della specie, i resti di doli utilizzati per
conservare l’olio, forse in funzione della commercializzazione del prezioso liquido.
L’inizio della viticoltura è databile anch’essa tra la fase finale dell’Età del Bronzo e quel-
la iniziale dell’Età del Ferro. La prova è costituita dai vinaccioli rinvenuti nel sito archeo-
logico di Campo Fiera a Teramo che presentano la tipica morfologia dei semi apparte-
nenti alla forma addomesticata di vite (Agostini et al. 1999). Testimonianze coeve di
viti coltivate provengono anche dall’area fucense (Manzi, 2010).
È molto probabile che, prima dell’addomesticamento e coltivazione, ci fosse una qual-
che forma di protezione delle viti selvatiche da cui venivano raccolti i piccoli grappoli
per la vinificazione. D’altronde in Abruzzo, lo sfruttamento per la vinificazione delle viti
selvatiche, labruscas o uvas rusticas negli antichi documenti, è testimoniato per il
periodo medievale e sembra che questa pratica si sia mantenuta anche in tempi più
recenti (Manzi, 2010).
All’Età del Bronzo si riferiscono anche i numerosi resti di castagne carbonizzate
segnalate in Val di Varri, località a cavallo tra Lazio e Abruzzo (Barker, 1984).
Questo ritrovamento depone a favore dell’indigenato del castagno nel centro Italia e,
probabilmente, segna anche l’inizio del processo di addomesticamento e coltivazione
in loco. Successivamente, nell’Età del Ferro e nel periodo romano, la presenza della
specie è testimoniata anche da numerosi reperti pollinici segnalati in differenti località
dell’Italia centrale a riprova di una diffusione ormai ampia della pianta e del radicarsi,

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già in tempi remoti, della civiltà appenninica del castagno a ragione individuato come
“l’albero del pane” (Manzi, 2006).
La prima testimonianza relativa all’uso dei frutti del fico nell’alimentazione umana e,
probabilmente, anche della sua coltivazione in Abruzzo, è relativa all’Età del Ferro e fa
riferimento ad un insediamento italico venuto alla luce su Monte Pallano
(Tornareccio), scavato dal team dell’archeologa americana Susan Kane.
È probabile, però, che la coltivazione di questa specie di grande interesse economico
e culturale, fondamentale nella frutticoltura mediterranea, sia da ricondurre all’Età del
Bronzo, come è stato riscontrato per l’olivo e la vite, anche in considerazione della
facilità di riprodurre per talea la pianta.
Possiamo ipotizzare che nell’Età del Ferro fosse diffuso nella regione anche il
melograno, il cui frutto, simbolo della fertilità, era stato consacrato dalle popolazione
sannitiche alla dea Mefite. Forse anche il cotogno doveva essere noto presso le genti
italiche così come il mandorlo e il noce, queste ultime due specie basilari in
quell’economia dei frutti secchi che tanta importanza ha avuto tra le popolazioni del
passato.

Il periodo romano
I Romani si insediano stabilmente nella regione intorno al 300 a.C., introducono nuovi
fruttiferi in precedenza del tutto sconosciuti come il pesco, di cui sono venuti alla luce
numerosi semi nell’insediamento romano-bizantino di Crecchio, l’albicocco, l’azzeruo-
lo, l’amareno, il moro (Morus nigra) e forse il giuggiolo. I primi resti archeobotanici
della coltivazione del susino in area abruzzese sono relativi al periodo romano, indivi-
duati sempre dal team di Susan Kane nell’area di Monte Pallano. È probabile, però,
che questa specie, in considerazione della distribuzione dei suoi progenitori selvatici,
sia stata coltivata anche in epoche precedenti.
I Romani, esperti delle tecniche colturali più avanzate, in modo particolare dell’innesto
e delle modalità di riproduzione vegetativa, selezionano e diffondono specie e varietà
colturali provenienti da tutto il loro vasto impero. Perfezionano la coltivazione del pero
e del melo selezionando nuove varietà.
Famose sono le mele prodotte nel Piceno, la regione storica che comprendeva anche
la parte settentrionale dell’Abruzzo, decantate sia da Orazio che Giovenale. Introduco-
no alcune varietà di fichi nella colonia di Alba Fucens, in prossimità del Fucino,
dall’Asia in particolare dalla Caria, regione oggi in Turchia. Da questa varietà di fichi,
coltivata per i frutti che si prestano alla conservazione allo stato secco, è presumibile
sia derivata l’espressione dialettale abruzzese carracine per indicare proprio i fichi
secchi (Manzi, 2006). È probabile anche che la varietà uttane, una delle cultivar mag-
giormente diffuse nella regione, sia la stessa di quella conosciuta a Roma come cotta-
nus e nella Grecia classica sotto la voce di kottanon.
Anche il nome della varietà renecelle è probabile derivi dal termine greco erineos che
ha il significato di fico selvatico; inoltre un’altra varietà locale nota come brigiotte
potrebbe avere una qualche relazione con i fichi brigindarides decantati dal poeta
greco Ateneo.
Nel periodo romano, i fichi prodotti nelle campagne intorno a Chieti sono ritenuti dai
buongustai dell’Urbe secondi per bontà solo a quelli provenienti dalle Isole Baleari,
stando alla testimonianza di Plinio il Vecchio.

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Piantagione di fichi a Sant’Eusanio del Sangro (CH) (A. Manzi)

La colonia romana di Alba Fucens è citata da Plinio anche per la sua varietà di man-
dorlo tra le più famose nell’Italia antica. Ancora oggi il comprensorio, specialmente la
fascia pedemontana sotto il Velino, si caratterizza per la presenza di estesi mandorle-
ti, così come la limitrofa Vallelonga, il cui impianto è presumibile possa risalire all’età
classica. I Romani diffondono capillarmente la coltivazione del noce, probabilmente già
presente in epoche precedenti. I frutti sono molto apprezzati sulla tavola ma rivestono
anche un grande interesse cultuale connesso al mondo dei morti. In Abruzzo, i resti
dei frutti sono venuti alla luce in diverse necropoli romane sia nell’Aquilano che
nell’area urbana di Teramo. Abbondanti resti di noci carbonizzate sono segnalati
anche nel sito tardo romano di Crecchio (Manzi, 2006).
I Romani diffondono anche la coltivazione del castagno, selezionando diverse varietà
tra cui la salariana, cultivar a frutto piccolo secondo quanto riportato da Plinio, proba-
bilmente distribuita sulle pendici dei Monti della Laga a ridosso della via Salaria.
Ovviamente, migliorano la viticoltura introducendo metodiche di allevamento ancora
presenti nonché nuovi vitigni. Nei territori attualmente ricadenti nella regione, nel
periodo romano venivano coltivate le seguenti varietà: pumula, vinaciola, hirtiola, bana-
nica, aminnea (Manzi, 2010). L’olivicoltura subisce un forte incremento e viene
praticata in tutti i comprensori territoriali che presentano caratteristiche ambientali
idonee. Ne sono un’attestazione eloquente i resti di frantoi oleari rinvenuti un po’ ovun-
que nella regione, nonché le testimonianze letterarie ed artistiche del tempo che con-
fermano l’ampia diffusione dell’olivo nella regione, anche intorno al bacino del Fucino,
dove la presenza del lago mitigava le basse temperature invernali attenuando le
caratteristiche continentali del clima locale. A Roma e in altre regione dell’impero,
godono di grande considerazione le olive da tavola del Piceno, sia quelle in salamoia
che disseccate, esportate anche fuori dall’Italia all’interno di contenitori con tanto di
scritte indicanti la provenienza del ricercato prodotto (Fortini, 1991). Il modello di
torchio descritto da Plinio il Vecchio, in alcune aree marginali dell’Abruzzo, è stato in
uso fino al secondo dopoguerra nei frantoi oleari nella versione originale illustrata dal
grande erudito latino.

11
Il Medioevo
La riorganizzazione dell’agricoltura e delle altre attività economiche nei secoli che
seguono la caduta di Roma e le invasioni barbariche è opera essenzialmente dei mo-
nasteri e delle grandi abbazie, sia esterne alla regione che autoctone come nel caso
di San Clemente a Casauria o San Liberatore a Majella. I monaci diffondono nuova-
mente la coltivazione dell’olivo abbandonata nel periodo barbarico, introducono nuove
varietà di vitigni e cultivar di altre specie fruttifere. Probabilmente, la diffusione di cer-
te varietà di alberi frutticoli o di altre essenze coltivate ricalca la geografia dei possedi-
menti terrieri di qualche grande abbazia come nel caso della varietà di mela limoncel-
la la cui distribuzione nell’Italia centro-meridionale sembra coincidere con i possedi-
menti prediali del grande monastero molisano di San Vincenzo al Volturno. Il poeta
Giovanni Boccaccio in una sua novella del Decamerone, facendo riferimento ad una
donna così la descrive: “fresca bella e ritondetta che pareva una mela casolana.
È molto probabile che il letterato toscano, che visse per diversi anni a Napoli e che
ebbe frequentazioni in Abruzzo, si riferisca proprio alla mela di Casoli, in provincia di
Chieti, anziché ad altre località toscane o campane. D’altronde la mela di Casoli è ben
conosciuta come varietà locale tra la popolazione ed è citata anche in altri scritti dei
secoli scorsi.
Le novità frutticole del Medioevo sono però gli agrumi e il gelso. La coltivazione dei
primi si radica lungo la costa meridionale della regione a partire, probabilmente, dal
secolo XIV. Lungo la costa di Vasto si diffonde la coltivazione degli aranci, inizialmente
di quelli amari (Citrus aurantium), localmente noti come cetrangoli, successivamente
di quello dolce (Citrus sinensis) diffuso dai Portoghesi a partire dal Cinquecento e per
questo individuato con il termine di partogallo, voce ampiamente diffusa nel bacino del
Mediterraneo (Manzi, Vitelli, 2016). Agli aranci si affiancano i limoni e i cedri. I giardini
d’agrumi si diffondono anche più a nord, lungo la costa tra Fossacesia e Francavilla al
Mare. I duchi d’Acquaviva impiantano giardini d’agrumi a Giulianova agli inizi del XVI
secolo acquistando le piantine nel vicino stato di Fermo, nelle Marche, area in cui
l’agrumicoltura risulta ben avviata ed organizzata fin dal 1300 (Manzi, 2006; Manzi,
Vitelli, 2006). Le basse temperature connesse al raffreddamento climatico della
Piccola Età Glaciale che ha avuto il suo culmine nel corso del ‘600, ebbero però effetti
devastanti sull’agrumicoltura abruzzese, specialmente per la coltivazione dei limoni e
cedri che resistono meno alle gelate invernali e primaverili. Le basse temperature e,
nei secoli successivi, l’affermarsi dell’agrumicoltura siciliana e l’avvento dei moderni
mezzi di trasporto, in primo luogo della ferrovia, decretarono lo stato di abbandono e
di crisi dell’agrumicoltura abruzzese così come di quella marchigiana poste al limite
dell’areale ecologico di produzione.
Il gelso (Morus alba), invece, fu introdotto per favorire l’allevamento dei bachi da seta.
Inizialmente i bruchi di questa farfalla vennero allevati con le foglie del moro (Morus
nigra), la cui coltura nella regione era presente, con molta probabilità, già dal periodo
romano. La seta prodotta dai bachi alimentati con il moro, però, risultava di qualità
inferiore. Nella regione la produzione di seta è documentata già nel XIV secolo quando
le sete “sermontine”, ossia quelle provenienti da Sulmona, nel corso del Trecento
godevano di grande considerazione nei mercati toscani. Probabilmente, il gelso fece
la sua comparsa in Abruzzo già tra i secoli XIV-XVI, anche se l’uso di alimentare i
bachi con le foglie del moro è sopravvissuto in alcune aree abruzzesi fino all’Ottocento
(Manzi, 2006). Questo spiega una presenza ancora radicata del moro in alcuni conte-
sti territoriali, nonché l’esistenza di qualche individuo monumentale.
Il secolo d’oro dell’agricoltura regionale è il Cinquecento, periodo in cui si registra un
deciso aumento demografico e un trend economico positivo. Molte aree costiere e

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collinari vengono deforestate e bonificate per essere coltivate, grazie anche all’arrivo
di immigrati dall’opposta sponda adriatica che fondano anche villaggi e comunità.
Oltre alla coltivazione dei cereali, viene dato un grande impulso alla viticoltura e
all’olivi-coltura per assecondare le necessità di una popolazione in crescita e,
soprattutto, per soddisfare le richieste di esportazioni verso Venezia, ormai
padrona assoluta dell’Adriatico dopo la sconfitta dei Turchi a Lepanto.
L’olivicoltura, probabilmente, nel corso del Cinquecento torna ad interessare le grandi
estensioni terriere coperte nel periodo romano. Anche la coltivazione dei fichi subisce
un forte incremento in funzione del consumo interno ma, soprattutto, delle esporta-
zioni verso Venezia, le città dell’Italia settentrionale e quelle dalmate.
Le case di campagna si dotano di forni per l’essiccamento dei fichi, in particolare della
varietà reale o utanne, di gran lunga la migliore per la produzione delle carracine e dei
prodotti derivati. Alcuni statuti comunali abruzzesi impongono, ope legis, ai nuclei fa-
migliari di piantare fichi ed olivi allo scopo di incrementarne la coltivazione. Nei dintorni
dell’Aquila crescono le superfici coltivate a vigneto così come quelle interessate ai
mandorleti (Sabatini, 1995). Le mandorle vengono ampiamente utilizzate per la pro-
duzione di olio ad uso alimentare, nei settori montani in cui l’olivo non cresce, e per la
produzione dei confetti che proprio a Sulmona hanno la loro patria di origine. Si diffon-
de anche la coltura del noce intorno al Fucino e in altri contesti territoriali.
Dai suoi frutti si ottiene un olio di pregio impiegato in cucina. Nelle aree montane, spe-
cialmente nella conca aquilana e nella valle dell’Aterno, si moltiplicano i frantoi,
spesso ipogei, per spremere noci, mandorle e, ovviamente, olive per la produzione di
olio. L’olio per le lampade o per la produzione dei saponi viene estratto anche da
piante selvatiche: dai frutti del faggio e, nelle zone costiere, da quelli del lentisco.

Oliveto sulle pendici orientali della Majella (A. Manzi)

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Alcune innovazioni agronomiche, nel corso del Cinquecento, vengono apportate da
alcuni tra i casati nobiliari più avveduti. Gli Acquaviva di Atri diffondono l’agrumicoltura
sulla costa teramana; Margherita d’Austria nei suoi possedimenti aquilani e montani
sostiene l’allevamento vaccino, sull’esempio padano, finalizzato alla produzione di
formaggi e burri. Costruisce persino una cascina modello nei pressi delle mura
dell’Aquila tuttora esistente, seppure con diversa destinazione d’uso.
I D’Avalos, signori di Vasto e Pescara, introducono una varietà di ciliegio proveniente
dai loro possedimenti nell’isola d’Ischia, diffondono nuovi tipi di agrumi e, probabilmen-
te, introducono dalla Spagna anche l’uva San Francesco, l’uva da tavola che poi sarà
nota a Napoli sotto la denominazione di uva del Vasto, forse il vitigno che ha dato origi-
ne al pergolone.(Manzi, 2010, 2012a). Si arricchisce la varietà ampelografica regio-
nale, nel corso del Cinquecento è documentata la presenza dei seguenti vitigni:
moscatello, pergolo, uva pane, uva donnole, precoccio, malvasia, trebulane, uva
S. Franceso. Tra i secoli XVII e XVIII si registrano le prime testimonianze relative al
montepulciano, indubbiamente il vitigno di maggior successo della viticoltura abruzze-
se (Cercone, 2000, 2008). Invece sembra scomparso il vitigno lagrima che dava
ottimi vini nel corso del Settecento nel territorio di Tollo (Cercone, 2004).
Nel corso del Cinquecento nella regione è documentata la varietà di pere moscardelle
e di quella papa. Nel Settecento abbiamo le prime attestazioni letterarie relative alle
varietà angeliche, bergamotto, butiro, buon cristiano, cannelle o cosce di monache,
carmisino, spadoni, spinocarpio, trentatrè once, verdelungo (Manzi, 2006).

Mandorleti nella conca di Ofena (AQ) sulle pendici meridionali del Gran Sasso (A.Manzi)

Le innovazioni ottocentesche
Il secolo XIX ha apportato grandi cambiamenti nell’agricoltura, conseguenza di alcune
importanti riforme nel Regno di Napoli, in primo luogo la promulgazione della legge
per l’abolizione della feudalità (1806) che favorì la formazione della proprietà privata.
Inoltre l’abolizione delle aree di pascolo invernali lungo la costa abruzzese, in particola-
re quella teramana, favorì l’appoderamento e la messa a coltura di un’ampia fascia
territoriale dalle grandi potenzialità agronomiche, in precedenza riservata al pascolo

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invernale delle greggi e alla risicoltura, almeno le aree pianeggianti facilmente inonda-
bili (Manzi, 2012a).
Anche l’introduzione delle specie di origine americana, in primo luogo mais e patata,
ebbero grosse ripercussione sull’assetto agricolo della regione.
La frutticoltura fu influenzata in maniera determinante dalle Società Economiche che
operarono dall’inizio del secolo fino all’Unità d’Italia. Questi sodalizi scientifici, con sede
nelle singole città capoluogo delle province, molto si prodigarono per il progresso eco-
nomico, in modo particolare dell’agricoltura. Attraverso l’impianto degli “orti agrari”,
orti botanici ben organizzati e gestiti localizzati a Teramo, L’Aquila e Chieti, introdusse-
ro e acclimatarono tante varietà di frutticoli provenienti essenzialmente dalla Francia,
Spagna e dalle regioni dell’Italia settentrionale, nonché innumerevoli cultivar di specie
erbacee. Sperimentarono nuove colture, in particolare piante esotiche appena sco-
perte o descritte nei viaggi di esplorazione e colonizzazione di nuove terre che man
mano affluivano in Europa. Oltre a tante nuove varietà, in particolare di meli, peri, viti,
olivi e susini, furono introdotte nuove specie di fruttiferi, anche se non tutte ebbero
successo nell’acclimatazione. Tra quelle di maggior impatto agronomico il nespolo del
Giappone (Eryobotrya japonica) che ben presto soppiantò la coltivazione del nespolo
indigeno (Mespilus germanica) e del mandarino. Fu tentata anche la diffusione di due
moracee: il gelso da carta (Broussonetia papyrifera) e la maclura (Maclura pomifera)
in sostituzione dei gelsi per l’alimentazione dei bachi da seta, senza però il successo
sperato. Sempre nel corso dell’Ottocento, le Società Economiche introdussero e dif-
fusero la coltivazione del sommacco (Rhus coriaria) per la produzione del tannino,
anche allo scopo di evitare la distruzione delle querce ampiamente sfruttate per
l’estrazione del prezioso prodotto dalla corteccia (Manzi, 2012a). Dopo l’Unità d’Italia,
grazie all’impegno dei Comizi Agrari che si sostituirono alle Società Economiche,
furono apportate decisive innovazioni agronomiche specialmente per quanto riguarda
la viticoltura e l’enologia. Tra i nuovi fruttiferi introdotti, prima del tutto sconosciuti,
per il loro interesse economico ed agronomico vanno citati il kaki (Diospyros kaki)
e il kiwi (Actinidia chinensis), entrambe specie asiatiche ormai entrate a pieno titolo
nella frutticoltura regionale.

Terrazzamenti e insediamenti temporanei sulla Majella realizzati nel


corso del XIX secolo (A.Manzi)

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I progenitori degli alberi da frutto
Aurelio Manzi

L’Abruzzo è una regione che si caratterizza per la straordinaria ricchezza e diversità


della sua flora che ammonta a 3363 entità floristiche (specie e sottospecie) di cui
molte endemiche ed esclusive della regione (Conti, Frattaroli, Bartolucci, 2012). Oltre
100 di queste piante risultano specie progenitrici di quelle coltivate (con finalità ali-
mentari) oppure loro affini sotto l’aspetto sistematico (Manzi, 2012b). Questo dato
rilevante era attendibile poiché la regione si colloca al centro del Bacino del Mediter-
raneo, comprensorio annoverato tra le 7 aree mondiali ritenute dal grande agrono-
mo e genetista russo Nicolay Vavilov (1992) i “Centri di origine delle piante coltivate”.
Tra le piante della flora regionale, alcune sono ritenute le progenitrici di fruttiferi colti-
vati o, comunque, specie molto affini.
Nella regione è stata riscontrata, caso unico in ambito italiano insieme alla Toscana,
la presenza di ben tre specie di pero selvatico: Pyrus communis (sin.P. pyraster), P.
spinosa (sin. P.amygdaliformis) e P.cordata, quest’ultima specie la più rara in ambito
italiano, nella regione segnalata solo nei comprensori della Majella e del Parco Nazio-
nale d’Abruzzo (Pirone, 2015). Gli agricoltori spesso innestavano le varietà di pere
coltivate su quelli selvatici, in particolare su Pyrus communis nel settore montano e P.
spinosa, nell’area collinare argillosa. Peraltro, la presenza di queste specie veniva fa-
vorita all’interno dei boschi, specialmente di quelli destinati a “difesa”, ossia pascolo
riservato agli animali da lavoro (Manzi, 2012c) per fornire al bestiame un alimento
integrativo costituito dai frutti delle piante, regolarmente raccolti e consumati anche
dagli uomini nei secoli passati. Nella zona collinare il pero mandorlino (P. spinosa),
invece, delimitava i percorsi dei grandi tratturi diretti verso la Puglia. Frequente, nei
boschi della fascia collinare e montana, è il melo selvatico (Malus sylvestris), specie
molto vicina al melo coltivato che però sembra abbia avuto origine da meli selvatici
(Malus sieversii) delle repubbliche centro asiatiche, anche se non si escludono proba-
bili ibridizzazioni con il melo selvatico europeo (Malus sylvestris) (Juniper, Mabberley,
2006).

Frutti di melo selvatico (Malus sylvestris) (A. Manzi)

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I frutti del melo selvatico, in Abruzzo, sono stati utilizzati sia per l’alimentazione del
bestiame che di quella umana. Nelle aree montane, con i piccoli pomi si produceva un
primitivo sidro, in alcuni contesti territoriali conosciuto come cacce e mitte, spesso
tinto di rosso con le bacche del sambuco (Sambucus nigra). Va rilevata la presenza
anche del melo fiorentino (Malus florentina) pianta di probabile origine ibridogena tra
specie dei generi Malus e Sorbus. Questa entità risulta estremamente rara nella
regione, solitamente localizzata all’interno di boschi su substrato acido nel settore
montano. Anche in ambito nazionale la specie presenta una distribuzione limitata a
poche regioni. Il ciliegio selvatico (Prunus avium) risulta, invece, piuttosto comune nei
boschi pedemontani, in modo particolare in quelli su suoli acidi o subacidi come sui
versanti dei Monti della Laga ove si riscontano, non di rado, individui di dimensioni
rilevanti. Anche il ciliegio selvatico veniva ampiamente utilizzato come portainnesto
per le varietà coltivate di maggior pregio.
I ciliegi coltivati venivano anche innestati sul ciliegio canino (Prunus mahaleb), pianta
di cui in passato si consumavano i piccoli e neri frutti. Forse, in virtù dell’uso alimenta-
re dei frutti e dell’impiego del legno per particolari arnesi, la pianta è stata diffusa in
uno stato di semi-domesticazione nei pressi degli insediamenti stagionali montani,
come nel caso delle Pagliare di Tione sulle pendici del Sirente.
La specie è stata favorita anche all’interno di antiche “difese”, come nel caso della
Difesa di Opi ove sono presenti grandi esemplari di ciliegio canino, probabilmente tra
gli individui di maggiori dimensioni lungo l’intero arco appenninico, nelle ampie radure
aperte nel bosco per favorire il pascolo degli animali.

Gruppo di ciliegi canini (Prunus mahaleb) di grandi dimensioni nella difesa (pascolo
arborato) di Opi (AQ) (A. Manzi)

Per quanto riguarda il susino (Prunus domestica), nella regione si annoverano le spe-
cie Prunus spinosa, ossia il prugnolo, e Prunus domestica subsp. insititia, quest’ultima
una sottospecie selvatica o rinselvatichita di susino (Zohary, Hopf, 200; Manzi, 2006),
presente nella forma coltivata per la realizzazione di siepi, nonché selvatica o
spontaneizzata nel sottobosco o nel mantello di boschi di caducifoglie. Entrambe
potrebbero aver contribuito, insieme al mirabolano (Prunus cerasifera) specie

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presente in Abruzzo solo come entità coltivata o rinselvatichita, alla nascita del susino
domestico. Rimanendo nell’ambito della famiglia delle Rosacee, va segnalata la pre-
senza di una popolazione selvatica di nespolo (Mespilus germanica) nei boschi intorno
ad Oricola. La specie risulta ben inserita, sotto l’aspetto ecologico, all’interno dei
boschi di latifoglie su suoli acidi. La sua collocazione ecologica depone a favore
dell’indigenato di questa pianta in Abruzzo, in passato comunemente coltivata. Il sorbo
(Sorbus domestica), invece, è una specie ampiamente diffusa allo stato selvatico, di
preferenza si insedia nei boschi di caducifoglie, soprattutto querceti. La pianta è pre-
sente anche allo stato domestico nella fascia collinare e sub-montana ove risultano in
uso due distinte varietà colturali una a frutti globosi, l’altra piriformi. I frutti, in passato,
venivano regolarmente raccolti, conservati essiccati, ed impiegati sia nell’alimentazio-
ne umana che per curare alcune disfunzioni dell’organismo; il legno del tronco utilizza-
to per la realizzazione della vite degli antichi torchi vinari ed oleari. Va rilevata la
presenza di esemplari dal portamento monumentale isolati nelle campagne, tra que-
sti due individui: uno ad Arsita alle pendici del Gran Sasso e uno a Pizzoferrato,
sui Monti Pizzi, quest’ultimo probabilmente l’esemplare di maggiori dimensione
in ambito nazionale.

Frutti di due distinte varietà di sorbo (Sorbus domestica) coltivate (A. Manzi)

Di recente in Abruzzo è stata rinvenuta una popolazione di vite selvatica (Vitis vinifera
subsp. sylvestris), in un bosco ripariale presso la lecceta di Torino di Sangro (Conti,
Manzi, 2012). La piccola popolazione segnalata è costituita da pochi individui maschi
e femmine oggetto di un progetto di conservazione ex situ, in considerazione dell’inte-
resse genetico, floristico e culturale, nonché della sua vulnerabilità (Gily et al., 2016).
Nei secoli passati, le viti selvatiche, erano ben più diffuse nella regione, all’interno dei
boschi ripariali e planiziali, nonché sulle rive del lago Fucino. I suoi grappoli venivano
raccolti per la vinificazione ed è probabile che ci fosse una qualche forma di tutela e di
domesticazione delle viti selvatiche (Manzi, 2010). Esemplari di fico si rinvengono di
frequente rinselvatichiti in diversi ambiti regionali. Sul versante orientale della Majella,
nel vallone di Santo Spirito e all’ingresso del vallone del Fossato, si localizza una popo-
lazione di fichi in cui si riscontrano sia individui maschili che femminili con caratteristi-
che morfologiche ben definite che lasciano ipotizzate una loro origine selvatica (Manzi,
2006). Sul letto del torrente Fossato, entro una forra tanto spettacolare quanto

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selvaggia, questi fichi danno vita anche a un piccolo boschetto sul greto del
torrente, una formazione vegetale del tutto insolita per le nostre latitudini. Sulle
pareti, invece, si insediano regolarmente all’interno di nicchie e sgrottamenti
caratterizzati dalla presenza di acqua. Comunque, tracce fossili del fico sono state
segnalate nei traverti-ni lungo la valle del Tronto, risalenti al Pleistocene, raccolti dal
naturalista ascolano Antonio Orsini. Lo stesso ha collezionato anche travertini,
risalenti allo stesso periodo, con impronte fossili di castagno.
Questi ritrovamenti, sempre lungo la vallata del Tronto, lasciano supporre
l’indigenato “dell’albero del pane” nella regione, tesi rafforzata dal ritrovamento di
castagne carbonizzate riportate alla luce dagli archeo-logi presso un insediamento
umano dell’Età del Bronzo in Val di Varri. È probabile che le valli profonde ed incassate
dei Monti della Laga, durante i periodi glaciali dell’ultima era geologica, abbiano avuto
un ruolo di rifugio per alcune specie forestali, tra queste il castagno che poi è
tornato a ridiffondersi nelle zone circostanti quando le condizioni climatiche lo hanno
permesso.
Nella regione va segnalata la presenza di ben quattro specie di Ribes , due di
Vaccinium , nonché innumerevoli entità del genere Rubus (Conti, 1998), piante da cui
sono stati selezionati molti frutti minori coltivati (ribes, uva spina, mirtillo, lampone,
ecc.). E’ probabile che in passato vi sia stata qualche forma di domesticazione o di
attenzione verso gli individui selvatici di corniolo (Cornus mas ), arbusto di cui si con-
sumavano i frutti.

Corniolo in uno stato di semi domesticazione lungo le mura di recinzione


di un campo oggi abbandonato (Palena - CH) (A. Manzi).
La specie, ampiamente diffusa allo stato selvatico, veniva regolarmente pian-
tata nei pressi delle capanne in pietra a secco, oppure a ridosso delle mura
di recinzione dei campi allo scopo di disporre dei ricercati frutti e delle
pertiche ricavate dai lunghi rami. In passato, l’attenzione rivolta verso le
specie legnose selvatiche che producono frutti appetiti dagli uomini e dal
bestiame era notevole, tanto che il loro “status giuridico”, codificato negli
statuti comunali medievali e rinascimentali di molte comunità regionali, era
paragonabile a quello dei “frutti gentili”, ossia le piante da frutto coltivate.

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Persino quando si procedeva al disboscamento dei territori per ottenere campi da
coltivare, venivano risparmiate le essenze forestali con frutti eduli (Manzi, 2012).
Non solo querce per la produzione di ghiande per l’allevamento dei suini, ma anche
meli e peri selvatici, nonché sorbi ed altre essenze.
Venne così a delinearsi il paesaggio dei seminativi arborati, ossia dei campi punteg-
giati da alberi di specie diverse, che nei secoli passati caratterizzava le campagne
abruzzesi e di buona parte della Penisola. Un paesaggio agrario complesso e diver-
sificato in cui le piante coltivate, in particolare i cereali, si inserivano ed integrava-
no tra alberi ed arbusti selvatici verso cui l’uomo attuava una forma di domestica-
zione dolce, forse la stessa messa in pratica nei confronti di molte specie di frutti-
feri agli albori dell’agricoltura.

Boscaglia di fichi selvatici nel Vallone del Fossato (Maiella) (A.Manzi)

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1.2 Il paesaggio degli alberi da frutto
Donato Silveri
La caratteristica fondamentale delle coltivazioni frutticole in Abruzzo è sempre stata
quella di essere consociate ad altre colture, sia erbacee che arboree, e il luogo di
elezione dei fruttiferi consociati è sempre stato la vigna. In antico e sino all’affermarsi
della moderna viticoltura specializzata, il vigneto è sempre stato il luogo dove si anda-
vano a collocare i fruttiferi più pregiati o quelli a cui si era legati da un particolare lega-
me affettivo: la mela che prediligeva il nonno, l’innesto che aveva fatto il padre o quel
tale parente, il frutto che maturava in precise e definite fasi della stagione dei lavori
ed il cui consumo andava ad alleviare il peso e la fatica di quella particolare operazio-
ne. E così c’erano le ciliegie che maturavano quando alla vigna si facevano la sfeminel-
latura e la legatura, le mele di San Giovanni arrivavano quando si iniziava la mietitura, i
fichi, le mele e le pesche quando si vendemmiava, non c’era fase della vita contadina
nel corso dell’intera annata che non fosse caratterizzata dalla presenza di un frutto
che proveniva dai propri campi. Persino quando la stagione era ferma, in inverno, i
frutti raccolti continuavano a segnare la vita di tutti i giorni: alcune varietà di mele e
pere, ad es. le mele Limoncelle (dette “Franzesi”o “Melalice” o “Meloncelle”) e le pere
cosiddette “demmièrne”(d’inverno) si conservavano fino a Natale e per tutto l’inverno,
noci e mandorle erano “glorificate” nei dolci natalizi, i grappoli di uva più belli erano
appesi ad appassire, conservati per i pranzi delle feste. Le cotogne, che si cuocevano
unitamente ad alcune pere dure che non maturavano mai, in un paese della Valle
Subequana (Castelvecchio Subequo ) assumevano un carattere rituale, era usanza
infatti che i ragazzini maschi facessero il giro dei parenti e del paese intero portando
l’augurio di Buon Anno in tutte le case. La cantilena rituale era : “Bongiorne, Boncape-
danne, mille de quiste juorne, cacce ‘nu petecugne appulmunète” che tradotto suona
così: -Buongiorno, Buoncapodanno, mille di questi giorni, tira fuori un melocotogno
ben maturo-. Era quindi d’obbligo che la casa che riceveva l’augurio disponesse di
melocotogne da dare ai ragazzi unitamente a qualche dolciume e a qualche spicciolo.
A fine mattinata ci si confrontava per vedere chi avesse ricevuto di più.
Nel parlare quotidiano o all’atto del consumo del frutto si associava a questo il nome
del toponimo del luogo dove era collocata l’albero o la vigna da dove questo proveniva:
le ciliegie di “Rio Capo”, il moscatello appassito di “Dietro le vigne”, le noci delle
“Renicce”... A ciascun frutto, di ciascuna località, era collegato un preciso sapore e
spesso qualche aneddoto che a sua volta rimandava ad un genitore, ad un nonno, ad
un personaggio paesano o a specifici episodi.
Era questo il modo di creare e tramandare le storie della famiglia e del paese, ed era
anche il modo in cui i piccoli imparavano la “geografia” e “l’antropologia” del posto.
Qual era dunque l’effetto di tale impostazione sul paesaggio delle campagne
abruzzesi? La non specializzazione delle colture rendeva il paesaggio quanto mai
vario, con seminativi alternati alle colture legnose, prevalentemente vite che, a sua
volta, pur essendo una coltura specializzata, non lo era in modo totalizzante ma conte-
neva al suo interno una ampia gamma di alberi da frutto. Si trattava quindi di una sor-
ta di consociazione verticale in cui i volumi di spazio prossimi al suolo erano occupati
dalla coltura della vite allevata “ad alberello”, la parte più alta, da petto d’uomo in su,
era occupata dagli alberi da frutta.
La diversificazione delle colture era inoltre accentuata dall’incredibile frazionamento
fondiario tipico delle zone interne: più si saliva di quota e più la proprietà fondiaria
si spezzettava. Lo stesso discorso di consociazione era evidente anche per i seminati-
vi che in alcune zone erano punteggiati da fruttiferi, generalmente mandorlo o olivo,

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tenuti in sesti di impianto molto ampi (8x8-10x10 o più) con il terreno che era oc-
cupato, come coltura principale, da un cereale, da una foraggiera (generalmente lupi-
nella) o leguminose da granella, in genere fave, ceci, lenticchie, “ervi”.
La regione, in quelle parti in cui si è maggiormente conservato l’impianto agricolo
tradizionale (soprattutto la zona collinare pedemontana, e quella delle vallate e egli
altopiani interni) ha mantenuto un paesaggio agricolo vario in cui si è andato però
accentuando l’aspetto “selvatico” della natura che si è rimpossessata di vaste porzio-
ni di territorio, mentre in quelle dove l’agricoltura ha assunto carattere di specializza-
zione, (collina costiera con la viticoltura e vallate fluviali con le coltivazione ortive e in-
dustriali di pieno campo) il paesaggio è estremamente mutato diventando più unifor-
me. Un fenomeno che ha avuto un notevole impatto sul paesaggio della regione è
stato quello derivante dall’elevato frazionamento fondiario: i fogli catastali dei Comuni
di montagna arrivano a contenere ciascuno anche qualche migliaio di particelle la cui
superficie si riduce talvolta a 50-70 mq! All’epoca in cui la popolazione agricola era
molto più numerosa, tutte le particelle erano coltivate e con colture diverse, con ovvi
riflessi sulla diversificazione paesaggistica.
Allo stato attuale si è assistito ad una sorta di riforma fondiaria di fatto che ha visto
gli agricoltori, rimasti sempre meno numerosi, coltivare appezzamenti man mano più
grandi, diventando veri e propri “trattoristi esclusivi” che mal sopportano l’intralcio
che danno gli alberi da frutto al lavoro delle macchine.
L’amore per la meccanica ha sostituito l’amore per l’albero da frutta (questa dopotut-
to è più comodo comprarla dal fruttivendolo) per cui, specialmente tra le nuove gene-
razioni, il contadino moderno ne sa più di motoristica che di potature di innesti di frut-
ta. Il risultato è un paesaggio più uniforme e meno ricco di variabilità che si traduce
anche in monotonia di sapori.
Malgrado la non-specializzazione produttiva su colture frutticole specifiche, ugualmen-
te si venivano a caratterizzare alcune zone sommariamente dedicate alle colture ar-
boree: Raiano, in provincia dell’Aquila, si era costruita una solida fama come produtto-
re di ciliegie, alle quali si collega, già dal secondo dopoguerra, una delle più antiche
sagre a tema della regione: la Maggiolata, sagra delle ciliegia, arrivata alla 57° edizio-
ne. È ancora vivo, nei raianesi più anziani, il ricordo del paesaggio “imbiancato” dalla
fioritura dei ciliegi in primavera e come questo aspetto quasi “nuziale” si fermasse
in modo evidente ai confini del territorio del paese, proprio in virtù del fatto che vi
era una maggiore concentrazione di alberi di ciliegio. Allo stato attuale tale caratteriz-
zazione del paesaggio è ancora visibile, anche se con minore evidenza rispetto al pas-
sato. Altri ambiti regionali sono invece caratterizzati dalla precoce fioritura dei man-
dorli. Parliamo ad esempio dell’Altipiano di Navelli, della Valle del Tirino, della zona di
Alba Fucens alle pendici del Monte Velino. Questi diversi ambiti della regione sono
ancora oggi caratterizzati dalla presenza di vetusti esemplari di mandorlo. In primave-
ra il paesaggio di queste vallate è vestito a festa. Si tratta di alberi, in molti casi cente-
nari, che erano stati a suo tempo seminati (non innestati) quindi frutto di ricombina-
zione genica, dotati cioè di una straordinaria biodiversità in quanto tutti individui diver-
si l’uno dall’altro. Abbiamo oggi gli strumenti tecnici e concettuali per apprezzare
e valorizzare tale diversità, alla ricerca di possibili espressioni fenotipiche di particola-
re pregio che altrimenti rischierebbero di perdersi, con l’inevitabile depauperamento
di tale patrimonio dovuto a cause innanzitutto naturali quali il progressivo invecchia-
mento degli esemplari.
In alcune specifiche zone della regione, le Vallate interne del Tirino, l’Altopiano di
Navelli, la Valle Peligna, la Valle Roveto, è da rimarcare la presenza di colture di olivo
caratterizzate dalla predominanza di varietà locali di particolare pregio: la Rustica, la
Gentile e la Monicella in provincia dell’Aquila, la Toccolana, l’Intosso, etc.

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Altre zone della regione sono caratterizzate da una presenza di alberi di melo e pero
abbastanza diffusa. Parliamo della Valle del Giovenco e della Valle Subequana in
provincia dell’Aquila, delle zone pedemontane dell’entroterra chietino e teramano,
dove la frutta è sempre stata connessa alla vita quotidiana delle popolazioni residenti.
Fino alla fine degli anni ’50 del secolo scorso e stando ai ricordi degli anziani, la colti-
vazione delle pere era più estesa di quella delle mele, non esistevano ancora gli
impianti di refrigerazione e la frutta, soprattutto le pere, si conservava nelle cantine
del paese in attesa di essere caricate sul treno e portate, con principalmente a Roma
nel corso dell’inverno. E’ facilmente intuibile il gran lavorio che si doveva fare per
evitare che si generassero fenomeni di marciume con gravi perdite di prodotto.
Il pero si adatta anche a quote più alte rispetto al melo e ancora oggi si ritrovano
esemplari di pero di notevolissime dimensioni, che danno sovente l’idea di essere
secolari punteggiando qui e là il paesaggio.

Distribuzione delle principali colture legnose in Abruzzo (da: ISPRA, Carta della Natura Abruzzo)

Il paesaggio della vite


Maurizio Odoardi
La millenaria storia della vite e del vino, raccontata dai babilonesi, dai greci, dagli etru-
schi e poi dai romani ha avuto quasi certamente origine nell’areale caucasico o più
ampiamente euroasiatico e, nel tempo, la coltivazione della vite si è spostata verso il
mediterraneo e l’Italia, soprattutto ad opera dei greci e dei romani. Infatti già in que-
st’ultima epoca la coltura della vite risultava ben presente nell’Italia centro-
meridionale ed anche nell’attuale territorio abruzzese. Numerosi scritti storici ne do-
cumentano la lunga coltivazione in Abruzzo e con più vitigni: Ovidio nel I° secolo A.C.
cita Sulmona “terra cara a Cerere e molto fertile per le uve” a dimostrazione della
presenza di variatà di vite nella zona della Valle Peligna - Plinio il vecchio nella Natura-
lis Istoria esalta il vino petruziano ottenuto dai vigneti dell’Adriatico e dalle uve Apiane

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- Annibale “fermo con i suoi uomini a gustare vini nell’attuale territorio teramano”.
Queste citazioni testimoniano addirittura una tangibile vitivinicoltura nelle colline
costiere della provincia di Teramo soprattutto di uve bianche. Dopo questa antica
epoca, passando al periodo intorno all’anno mille e a quello medioevale, invece, non
abbiamo significative testimonianze storiche dello sviluppo viticolo, probabilmente
come per gli altri territori vi è stata una certa decadenza dall’interesse per la coltura.
Comunque, ricerche condotte negli archivi ecclesiastici del Benedettini riportano di
una significativa presenza di più varietà di uve in zone pedemontane anche l’attuale
valle Subequana. Percorrendo il tempo verso la storia più recente, invece, lo storico
M. Torcia nella sua opera “in viaggio per il paese dei peligni” nel 1792 parla del Mon-
tepulciano e altri vitigni in Valle Peligna – da qui l’attribuzione dell’autoctonia per
l’Abruzzo a questo vitigno. Ancora più recentemente Silone nei suoi scritti cita di vini
autoctoni che variano da paese a paese nell’aquilano, ad evidenziare la presenza in
coltura di diversi vitigni da cui la produzione familiare di vini apprezzati. Testimonianze
importanti delle vinificazioni dell’epoca sono rappresentate dai numerosi “palmenti”
ritrovati nel comune di Pietranico nell’entroterra pescarese ed altri territori - trattasi
di vasche in pietra, scolpite a mano da un unico grande masso, anche di notevoli
capacità, fino ad alcune decine di ettolitri.
Quest’ultima viticoltura dell‘800 e fino a metà ‘900, è quella più definibile tradizionale
per l’Abruzzo. E’ la coltivazione della vite ad alberello, con investimenti per ettaro an-
che di diecimila ceppi, prevalentemente sostenuti dalle canne, mentre la gestione del
suolo veniva eseguita con arnesi a mano. In alcune zone interne dell’aquilano e del
teramano invece si ricorda la presenza delle viti maritate ad olmi e fruttiferi , mentre
un po’ ovunque subito dopo la seconda guerra mondiale sono stati introdotti i primi fili
a sostegno delle piante. Le produzioni realizzate, considerato che non venivano anco-
ra praticate le concimazioni intensive, ma solo limitati apporti di letame erano di
50-70 quintali per ettaro, infatti con la potatura secca si lasciavano solo due o tre
gemme per vite. Questa viticoltura è stata praticata largamente soprattutto nelle
zone collinari interne e pedemontane abruzzesi in piccoli appezzamenti da cui
per oltre un secolo sono stati prodotti vini quasi esclusivamente dedicati a consumi
familiari. I vitigni di cui si ha certezza di coltivazione sono i trebulani, le malvasie e i
moscati.
Nei primi decenni del ‘900, a seguito dell’invasione fillosserica, nel territorio abruzze-
se come di altre regioni, si sono diffusi i vitigni ibridi francesi ottenuti appunto da
incroci che hanno dato origine a soggetti resistenti agli attacchi radicali dell’insetto,
che avevano decimati i vigneti e le varietà italiane e europee.

Queste immagini testimoniano paesaggi di vecchi vigneti dell’ultimo secolo presenti nella
zona della Valle Peligna e nell’area Sub-equana della provincia dell’Aquila – comuni di
Vittorito e Acciano. (M.Odoardi)

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Immagini di territori vitati montani abruzzesi . (M. Odoardi)
La viticoltura della seconda metà del XX secolo
Il primo importante cambiamento è stato quello della ricostruzione della viticoltura
dopo la fillossera, con la tecnica dell’innesto di vitigno europeo su piede americano già
avviata prima della seconda guerra mondiale. Inizialmente eseguendo l’innesto sul
posto e poi impiantando direttamente le barbatelle innestate.
Una più importante e notevole rivoluzione viticola in Abruzzo è invece avvenuta proprio
negli anni ’50 e ’60 del XX secolo, a seguito dell’importazione dalla vicina Puglia della
vite da mensa e della sua forma di allevamento orizzontale a “tendone”. Questa tecni-
ca viticola introdotta si è rapidamente diffusa e la viticoltura si è fortemente spostata
verso la costa, sia quella da vino che da mensa. Man mano seguendo il corso della
modernizzazione generale si è passati ad una gestione intensiva degli impianti viticoli,
con le concimazioni chimiche, la difesa fitosanitaria intensa e con le rese produttive
balzate ad alcune centinaia di quintali per ettaro coltivato. Negli ultimi decenni gli studi
vitivinicoli hanno portato a modifiche dell’allevamento della pianta ed è stata perfezio-
nata la “pergola abruzzese” per i vitigni da vino.
Questa modalità di allevare la vite, spesso criticata negli anni ‘80, si mostra invece
molto idonea con gli innalzamenti termici che si registrano in questi anni, e consente
di realizzare notevoli qualità dei vini attraverso oculati interventi di gestione del vigneto
che contengono la produzione entro i cento-centocinquanta quintali per ettaro.
Comunque, rispetto a soli vent’anni fa le forme di allevamento praticate in Abruzzo
sono aumentate, con un certo calo della pergola e incremento delle spalliere, più
meccanizzabili. Conseguenza dei cambiamenti descritti, è stato il notevole mutamento
del paesaggio viticolo abruzzese, determinato dalla nuova viticoltura intensiva e spe-
cializzata – la dimostrazione è nelle immagini a confronto riportate di vecchi e nuovi
vigneti abruzzesi e relativi scorci panoramici.

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Significativa immagine di pergola abruzzese con Montepulciano nero, gestita con razionalità
per ottenere produzioni di vini di alta qualità. (M. Odoardi)

La vitivinicoltura recente ed attuale


La superficie vitata da qualche migliaio di ettari di un secolo fa, proprio con la viticoltu-
ra intensiva da metà ‘900, ha raggiunto molto presto oltre 20 mila ettari negli anni
’80 comprendenti 4-5000 di vite da mensa. La motivazione basilare oltre che negli
interessi economici dei viticoltori è da riferire alla forte vocazionalità pedoclimatica
regionale, infatti numerosi studi hanno dimostrato la presenza di molteplici ambienti
climatici e podologici in grado di soddisfare le esigenze di tanti vitigni per produrre vini
di media e alta gamma. Tra le varietà da tavola la maggiore presenza è stata quella
della Regina dei vigneti e della Regina bianca, soprannominata “pergolone” in provin-
cia di Chieti. Da ricordare la coltura protetta nell’ortonese e tollese, con la copertura
dei vigneti con teli di plastica, soprattutto per anticipare la raccolta e favorire il com-
mercio. Negli ultimi vent’anni invece le uve da mensa si sono molto ridotte, oggi sono
circa 500 ettari con forte incremento dei vigneti da vino. Attualmente si contano oltre
32.000 ettari vitati, abbastanza costanti negli ultimi anni, così diffusi nel territorio:
82% in provincia di Chieti, 10% su Pescara, 7% su Teramo e meno dell’1%
nell’aquilano. La vite quindi occupa in maniera anche molto esclusiva gran parte delle
dolci colline costiere e dell’entroterra delle province della costa disegnando paesaggi
diversi con le sue forme di allevamento a totale copertura del suolo o con le file più
o meno allungate.

Moderno vigneto a spalliera nelle colline teatine. (M. Odoardi)

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La piattaforma ampelografica delle varietà da vino è stata basata per molti anni su
pochi vitigni. A farla da padrone è stato soprattutto il Montepulciano nero che fino agli
anni ’80 ha avuto riconosciuti dal Ministero alcuni sinonimi quali “Cordisco”,
“Montepulciano d’Abruzzo” e “Torre de’ Passeri” a dimostrazione dell’autoctonia.
Anche oggi, pur avendo l’Abruzzo ben 60 vitigni “idonei alla coltivazione” il Montepul-
ciano ne rappresenta più di 17.000 ettari circa (oltre il 50%), seguito dal Trebbiano
toscano con oltre 4.000, poi il Trebbiano abruzzese con 2.500, a seguire il Pecorino
che supera i mille ettari, lo Chardonnay, il Cabernet, il Sangiovese, la Malvasia b., e
un’altra decina con minori superfici dedicate. E’ il caso di ricordare che in Abruzzo
l’evoluzione dei vitigni è stata particolare, con quelli internazionali di qualità soprag-
giunti a fine anni ’80 che si sono poco diffusi, mentre molto importante è stato il recu-
pero, lo studio e la diffusione in coltura delle varietà autoctone che erano in estinzione.
Le produzioni enoiche regionali oscillano mediamente negli ultimi anni dai 3 ai 3,6
milioni di ettolitri di vino, che pongono l’Abruzzo tra la sesta e settima regione italiana.
I vini sono rappresentati da 1 DOCG, 8 DOC e 8 IGT – la DOC Montepulciano d’Abruz-
zo, tipologia producibile con deroga comunitaria, ha anche 5 Sottozone che potranno
assurgere a qualità superiore nella categoria dei DOCG nei prossimi anni. Queste
categorie di vini in base ai 17 disciplinari vigenti che ne regolano la produzione con-
sentono di produrre fino a 800 tipologie di vino compresi gli spumanti. Con gli sviluppi
delle moderne tecniche viticole ed enologiche i vini abruzzesi hanno conseguito un
significativo salto in avanti per la qualità percepita dal consumatore. Oggi, le
più importanti enoteche e ristoranti sono forniti di vini regionali che trovano molti
apprezzamenti anche all’estero, soprattutto il Montepulciano d’Abruzzo e il Pecorino
Abruzzo. La vitivinicoltura che come visto ha in Abruzzo un ruolo molto importante,
con il suo valore economico di oltre 300 milioni di euro, incide per oltre un quarto
sull’intera Produzione Lorda Vendibile agricola regionale (una tra le maggiori fra tutte
le regioni). La gestione della coltivazione è nelle mani di circa 18.000 conduttori vitico-
li, mentre la produzione è concentrata per oltre l’80% in 38 cantine sociali, le cantine
superano le 300 unità. Molto determinanti nell’evoluzione del settore sono state le
azioni di studio, recupero, selezione, sperimentazione e diffusione condotte negli ultimi
trent’anni dall’ex Arssa, ente strumentale tecnico della Regione. L’obiettivo principale
è stato quello di modernizzare nell’ottica del rispetto delle tradizioni storiche e cercan-
do di incrementare e consolidare la qualità delle produzioni legata ai valori del territo-
rio. Sono stati individuati diversi vitigni la cui coltivazione era stata abbandonata per
svariati motivi, soprattutto per le basse rese e difficoltà di attuazione della difesa
fitosanitaria. Alcune di queste varietà recuperate in via di estinzione, sono già molto
diffuse, come il Pecorino e la Passerina, altre stanno riscuotendo crescenti interesse
nell’ottica dello sviluppo delle produzioni tipiche.

Vigneti in pseudo-vallate e colline provincia Chieti . (M. Odoardi)

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Conoscenza e tutela della vite selvatica (Vitis vinifera L. subsp. sylvestris
(C.C. Gmel.) Hegi) in Abruzzo.
Luciano Di Martino

La vite selvatica (Vitis vinifera ssp. silvestris), una liana un tempo ampiamente diffusa nel
bacino mediterraneo e del Mar Nero ove cresceva rigogliosa all’interno dei boschi ripa-
riali, è considerata il progenitore della vite coltivata (Zohary, Hopf, 2000; Failla, 2011).
La caratteristica principale che la differenzia dalla vite coltivata è la sua natura di pianta
dioica, con fiori maschili e femminili su individui separati (fanno eccezione alcune varietà
coltivate che conservano il carattere ancestrale dioico, come il Lambrusco di Sorbara).
Inoltre, i grappoli appaiono di dimensione ridotte; gli acini risultano piccoli, poco zuccheri-
ni e generalmente di colore violaceo. I vinaccioli sono più corti rispetto a quelli della vite
coltivata e, spesso, senza becco.
In Italia, le popolazioni di vite selvatica sono ormai pochissime poiché fortemente rarefat-
te a seguito della distruzione dei boschi che vegetano lungo le rive fluviali o nella pianura
alluvionale. Nuclei di viti selvatiche sono stati segnalati essenzialmente in Toscana, Lazio,
Basilicata, Calabria, Sardegna e lungo il Po (Biagini, 2011).
In Abruzzo, nei secoli passati, la vite selvatica doveva essere una specie piuttosto diffusa.
Nel periodo romano, alcuni scritti di autori classici fanno riferimento all’abbondanza di
questa liana nei boschi intorno al Fucino.
Nel Medioevo, le uvas rusticas o lambrusca, ossia le uve da vite selvatica, venivano rac-
colte e vinificate nel territorio di Atri (TE). Sembra perfino che ci fosse anche una qualche
forma di coltivazione o quantomeno di cura ed attenzione verso i nuclei di viti selvatiche
(manuscule) per aumentarne la produttività, come si evince dallo statuto cinquecentesco
di Campli (TE) (Manzi, 2006).
Queste popolazioni residuali della vite ancestrale godono di una grande considerazione
tra agronomi e viticoltori. Infatti, le viti selvatiche possono ancora oggi tornare utili alla
moderna viticoltura poiché portatrici di geni che possono conferire ai moderni vitigni
resistenze a malattie o verso particolari condizioni ambientali. Inoltre, possono costituire
il materiale genetico di partenza per la selezione di nuovi vitigni. Accurate indagini geneti-
che stanno dimostrando che alcuni vitigni europei sono stati selezionati sul posto, a parti-
re dalle locali viti selvatiche, come nel caso dei lambruschi o dell’asprinio.
Attualmente, nella regione è stato rinvenuto solo un piccolo nucleo (una decina di esem-
plari) di vite selvatica, ai margini della riserva regionale “Lecceta di Torino di
Sangro” (Conti, Manzi, 2012), nei pressi di una risorgiva: qui le viti crescono rigogliose
abbarbicate a cerri e farnie.
Nel 2013 uno dei pochi individui femminili in grado di fruttificare è purtroppo venuto a
mancare causa il taglio abusivo di una grande farnia a cui era abbarbicato.
Ciò ha spinto soggetti pubblici e privati, ognuno per le proprie competenze e professiona-
lità, in un connubio sinergico esemplare, ad intraprendere specifiche azioni di conserva-
zione in situ ed ex situ per la salvaguardia dell’unico popolamento accertato di vite selva-
tica in Abruzzo, nel progetto denominato “Paleovite d’Abruzzo”:

− la Cantina Frentana di Rocca San Giovanni (CH) ha coordinato le attività di cara-


tere agronomico e di promozione dell’iniziativa: in particolare dall’analisi di nove
loci microsatelliti del DNA di materiale vivo, è stata accertata dal Centro per la
Protezione Sostenibile delle Piante del CNR di Torino-Grugliasco l’appartenenza
della vite di Torino di Sangro al ceppo selvatico (Gyli et al., 2016) ;

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− il Parco Nazionale della Majella, con il Giardino Botanico “Michele Tenore” di
Lama dei Peligni (CH) e la Banca del Germoplasma, ha avviato la riproduzione
da talea e la conservazione dei pochi semi raccolti dall’esemplare crollato al
suolo dopo il taglio abusivo della grande farnia che lo sosteneva;

− le riserve regionali “Lecceta di Torino di Sangro” e “Bosco di Don Venanzio”


hanno individuato i siti, rispettivamente, di rafforzamento della popolazione
esistente e di creazione di una nuova popolazione, secondo i criteri forniti dal
Ministero dell’Ambiente con le “Linee guida per la traslocazione di specie vege-
tali spontanee” (2013), mentre presso la Cantina Frentana è stato realizzato un
sito di coltivazione in un vigneto produttivo di proprietà della cantina.

Nel 2014 e nel 2015 le prime azioni concrete sono state il rafforzamento della popola-
zione nella Riserva di Torino di Sangro (CH) con esemplari femminili, e la messa a messa
a dimora di alcuni esemplari maschili e femminili nella Riserva Regionale “Bosco di
Don Venanzio” a Pollutri (CH), dove è stata creata una nuova popolazione: la vite è torna-
ta a popolare l’ultima selva di pianura d’Abruzzo, un evento di forte coinvolgimento
emotivo e di grande valenza simbolica.

Esemplare femmina di vite selvatica abbarbicata su


una farnia, presso la Riserva Regionale “Lecceta di
Torino di Sangro”. (Gily M.)

Grappolo di uva da vite selvatica. (M. Pellegrini)

Vite selvatica riprodotta da talea e coltivata a pieno campo


presso un vigneto della Cantina Frentana a Rocca
San Giovanni (CH). (Gily M.)

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Il paesaggio dell’olivo
Luciano Pollastri

L’olivo rappresenta in Abruzzo una delle essenze arboree più importanti poiché
coltivazione strategica per l’economia agricola regionale.
Questa pianta, come poche altre, racchiude in sé, elementi di rusticità, longevità
e bellezza che ne fanno un elemento ormai inscindibile della caratterizzazione del
paesaggio, capace di evocare ricordi e testimoniare avvenimenti della vita rurale
abruzzese. L’areale olivicolo abruzzese si riferisce a un ambito geografico inserito
strettamente in una situazione mare-montagna così ricco di ambienti diversi per
esposizione, altitudine, clima e terreno dove l’olivo è stato oggetto di una lenta e pro-
gressiva selezione naturale. Questo pianta, forte di una differente capacità di adatta-
mento delle singole varietà, è stato guidato profondamente dal comportamento
dell’uomo che ha cercato un’ottimizzazione ambientale con le sue scelte e valutazioni
personali. Non è da escludere, quindi, che nel tempo siano andate perdute molte
di quelle varietà locali non più rispondenti alle esigenze colturali del momento o che,
com’è avvenuto negli ultimi decenni, siano state oggetto di forte concorrenza
da parte di cultivar provenienti da altre regioni olivicole.

Tipica collina litoranea olivetata (L.Pollastri) Aree olivicole pedemontane (L.Pollastri)


La storia
Sebbene la presenza dell’olivo è testimoniata in epoca latina e successivamente
nel medioevo, soprattutto ad opera degli ordini monastici benedettini cistercensi,
questa coltura ha ricevuto un impulso all'espansione seguendo l'evoluzione economica
e sociale che si è realizzata tra la fine dell'ottocento e la prima metà del novecento.
Testimonianze più recenti indicano, che a partire dal 1960, in particolare
dopo la gelata del 1956, anche con il progressivo affrancamento della comunità con-
tadina dalla mezzadria si assistesse ad una rilevante azione di recupero dell’ambiente
rurale e la riscoperta delle produzioni agricole tipiche di questo territorio
(vino, olio, formaggio).
L’olivicoltura abruzzese ha mostrato negli ultimi anni un progressivo e costante
processo di miglioramento della qualità grazie ad un attento controllo dei processi
produttivi ed alla valorizzazione di tutte quelle varietà locali, importanti per l’ottenimen-
to di produzioni tipiche di pregio. Sta nascendo così, con forza, l'identità olivicola di una
regione per troppo tempo nascosta.
L'olivo è da sempre, pianta della cultura agricola dal mare fino alle pendici della mon-
tagna. Egli rappresenta uno stabile elemento del paesaggio ed una risorsa vegetale di
incredibile fascino.

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Il contesto produttivo
Estesa su una superficie di 44.000 ettari con una produzione media di 200.000 q.li
di olio in gran parte extravergine. Questi, sono alcuni dei dati di una carta di identità
che pone l’olivicoltura abruzzese al sesto posto tra le regioni olivicole italiane.
Nello specifico dell’incidenza del settore nelle varie province abruzzesi emerge, per
importanza, la provincia di Chieti che copre più del 50% dell’intera quota olivicola
regionale sia in termini di olive prodotte sia di olio estratto.
Seguono altre due zone di produzione, quelle di Pescara e di Teramo, dove non man-
cano località di grande interesse produttivo come l’areale vestino nel pescarese che
include comuni di grande tradizione olivicola (Pianella, Moscufo e Loreto Aprutino)
Infine l’olivicoltura nella provincia dell’Aquila, assume, chiaramente, per le limitazioni di
natura pedoclimatica, entità di basso peso statistico seppur notevole è la potenzialità
di quest’area olivicola in termini di qualità del prodotto.

Il paesaggio olivicolo abruzzese


Una regione l’Abruzzo l’olivo, spesso, si accompagna alla vite, creando, un tipico e-
sempio di geometria di paesaggio, dove file di olivi fanno da cornice ai vigneti a tendo-
ne. L’agro ortonese è caratterizzato da questa struttura produttiva. Nel teramano
invece, retaggio di una passata azienda mezzadrile, la nota cromatica è data dai semi-
nativi arborati. Dove, tra il verde del grano appena nato, o tra il giallo di quello ormai
maturo, spunta il verde scuro delle fronde di olivo.
Nelle zone a forte specializzazione questa pianta diventa vera risorsa ambientale; così
come a Pianella, a Loreto Aprutino, a Moscufo, o a Lanciano tanto per citarne alcune,
l’olivicoltura è l’elemento principale di un paesaggio agrario tanto importante da consi-
derarsi indissolubilmente legato ad esso. Appena, però, ti muovi più nell’interno, salen-
do anche di quota. L’olivo comincia a farsi rado, più piccolo e sporadico. Questa è la
zona pedemontana abruzzese, compresa tra i 450 ed i 600 metri sul livello del mare,
dove l’olivo trova l’ultimo spazio di vita. In queste frontiere, la pianta viene coltivato per
piccoli nuclei, le varietà sono poche e di quelle più rustiche, comunque testimoniano,
anche qui, l’attaccamento dell’uomo a questa coltura. Anzi, spesso, i piccoli appezza-
menti sono ricavati dove possibile, autentiche nicchie tra essenze forestali, prati pa-
scolo e rocce affioranti. Questa è la visione tipica delle aree interne della regione,
dell’olivicoltura dell’alto vastese, dell’alto Sangro, della fascia pedemontana pescarese,
dell’alto teramano. In tutte queste aree l’olivo ha come scena il cielo e le cime in un
quadro ricco di tinte e di suggestioni.
L’olivicoltura aquilana, possibile solo in nicchie riparate dal vento freddo e di buona
esposizione, trovabili soprattutto nella conca peligna, nella zona di Capestrano, Ofena
ed in quella più appartata Valle Roveto. Tutte piccole aree, ma espressione antica del
rapporto atavico tra l’uomo e la pianta di olivo che continua ancora oggi in un rappor-
to spesso basato solo sulle emozioni, senza valenze economiche..
Questo è l’Abruzzo olivicolo, una scacchiera di spazi, colorazioni e fragranze, dove,
l’olivo, rimane testimone dell'evoluzione del tempo e della vita di queste genti che
hanno fatto di questo albero storia e cultura.

Il germoplasma olivicolo
Con la coltura dell’olivo, quando il paesaggio si articola e si diversifica molto, si assiste
ad una presenza di numerose varietà frutto dell’influenza del contesto agro climatico.
Così, in Abruzzo, possono essere rintracciate ben 22 varietà locali, frutto della
selezione naturale e dell’uomo nei tempi e tutte iscritte al registro nazionale delle
varietà del MIPAF.

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Questa ricchezza si traduce non solo in una fonte preziosa di germoplasma ma anche
in una offerta di profumi e sapori originali riscontrabili negli oli prodotti.
Di conseguenza, lo studio varietale e la conoscenza di ciascuna varietà è importante
anche ai fini della caratterizzazione della produzione olearia, influendo sulla tipicità del
prodotto e di conseguenza sulla possibilità di una sua valorizzazione.
Tra le varietà caratteristiche vale ricordare la Dritta e la Toccolana, entrambe tra
l’altro importanti al fine della costituzione della produzione olio a D.O.P. “Aprutino
Pescarese”.

Oliveto di Dritta (L.Pollastri) Oliveto di Toccolana (L.Pollastri)


In provincia di Chieti incidenti sono invece le varietà Gentile di Chieti, pianta longeva e
resistente, dalle olive a lungo cangianti. La varietà Nebbio, ben presente nell’areale
olivicolo vastese. Non meno importante è l’Intosso, pregiata cultivar abruzzese a dupli-
ce attitudine particolarmente apprezzata per l’olio profumato ed erbaceo tipica
dell’areale pedemontano di Casoli loc. Piano La Roma, in provincia di Chieti.
Tra le piante di olivo teramane più particolari è certamente da annoverare il Tortiglio-
ne, imponente e ben individuabile grazie al tipico tronco tortile. La pianta, dalle olive
resistenti al distacco e capricciosa nella fruttificazione, vanta uno dei più alti valori di
sostanze fenoliche (antiossidanti) contenute nell’olio da essa prodotto, con innegabili
riscontri positivi in sede nutrizionale.
Altra varietà antichissima è la Cucco, diffusa soprattutto nella fascia collinare tra
Chieti e Pescara. E’ pianta caratterizzata dai grossi tronchi e dalle chiome scure e
fitte e frutti grossi e tondi a maturazione decisamente precoce.
Non può essere infine dimenticata la produzione olivicola aquilana, che, seppur mode-
sta in quantità, presenta punte di grande originalità. Assolutamente distinguibili dal
panorama dei profumi degli oli abruzzesi con spiccati ed unici sentori di pomodoro
verde ed erba. Questo, grazie alla presenza di varietà diffuse localmente quali la Rusti-
ca e la Gentile dell’Aquila.
Questa ricchezza varietale ben si ritrova nello stesso olio extravergine di oliva abruz-
zese che mostra profumi e sapori diversi, tanto da giustificare la presenza di tre
Denominazioni di Origine Protette (D.O.P.), " Colline Teatine”, ‘’ Aprutino Pescarese"
e Pretuziano delle Colline Teramane.
I profumi di questi prodotti sono sempre delicati ma netti, oscillando dal fruttato
erbaceo al lieve sentore di carciofo o mandorla verde, fino alle note di pomodoro
verde, caratteristiche testimoniate da numerosi studi dell’allora Istituto Sperimentale
per l'Elaiotecnica di Pescara.

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Il paesaggio del castagno: da pane dei poveri ad attrattore territoriale
Sergio Natalia
Le montagne abruzzesi sono generose di castagne. I castagneti crescono fino a
1100 metri s.l.m. e in certi luoghi assumono aspetti imponenti. In località Morrice, nei
pressi di Valle Castellana (TE), si trova il castagno di Nardò, tra i più grandi d’Italia, con
la circonferenza record di 14 metri. La superficie coltivata a castagno da frutto nella
regione è pari ad ha 1.350 (dati ISTAT 2013) con una produzione, rilevata dall’ISTAT
nel periodo 1999 – 2007, pari a q.li 2.750 di marroni di buona qualità. Le aree
castanicole abruzzesi, che insistono principalmente su unità arenaceo-marnose del
miocene medio-inferiore, sono cinque, localizzate nel territorio dei comuni di Valle
Castellana e Crognaleto (Teramo, Monti della Laga); nella Valle Roveto (in provincia
dell’Aquila, a ridosso tra Lazio e Abruzzo, ai piedi dei maestosi Simbruini-Ernici);
nel comprensorio di Cagnano Amiterno-Montereale (alto aquilano) e nel comune di
Ocre; a Sante Marie-Carsoli-Tagliacozzo (L’Aquila, Monti Carseolani). Ognuna delle
citate aree si caratterizza per la coltivazione di specifici ecotipi di marrone fiorentino:
• il marrone di Valle Castellana;
• il marrone di Crognaleto e la castagna «Pacifica», coltivata sempre nel comune di
Crognaleto (1);
• la «Roscetta» tipica nella Valle Roveto;
• il marrone di Antrodoco, con presenze sporadiche nel comprensorio Cagnano
Amiterno Montereale dove prevalgono, soprattutto, cedui castanili per la produzio-
ne di paleria;
• la castagna «Lombardesca», presente nel comprensorio Sante Marie-Carsoli-
Tagliacozzo.
I citati marroni hanno caratteristiche organolettiche pregevoli ma difettano un po’
di pezzatura (variabile fra 50 – 130 frutti per chilo), soprattutto nelle annate in cui
l’estate ha un andamento climatico asciutto. La disponibilità di acqua condiziona forte-
mente sia la produzione che la pezzatura dei frutti e la mancanza di piogge regolar-
mente distribuite può causare stress idrico alle piante.
Il castagno, addomesticato in Armenia nel primo millennio a.C., attraverso l’Anatolia,
la Grecia e la Magna Grecia, arrivò ai romani che lo diffusero sistematicamente nel-
l’Impero, anche nella Valle Roveto. Qui le folte selve furono popolate sin dal periodo
imperiale da castagni, come testimoniano alcune iscrizioni rinvenute nel territorio di
Antinum, oggi Civita D’Antino, suggestivo comune rovetano - fino al terremoto del
1915 luogo di soggiorno di una folta schiera di pittori danesi – all’epoca, uno dei
quattro municipi romani della Marsica.
Più diffusamente il castagno arriva in Abruzzo in età medievale, dove già dall’IX sec.
alcuni patti agrari obbligano i concessionari a piantare castagneti. Anche se non ci
sono fonti scritte, in questo periodo sono soprattutto i monaci benedettini a piantare
e ad incitare le popolazioni rurali a piantare castagni. E’ tra il 1200 ed il 1300, come
in tutta l’Europa latina (Francia, Spagna, Italia, Portogallo), che in Abruzzo si diffonde la
coltura del castagno e nel contempo si consolidano le tecniche colturali: le castagne
sono gradualmente sostituite dal marrone, molto più pelabile e sapido.
Documenti ne attestano la diffusione nel territorio di Valle Castellana, nel teramano,
già dal XIII secolo.
D’altra parte, la vita dell’uomo, specialmente nelle aree appenniniche più eccentriche,
è da sempre strettamente legata alla presenza del castagno nel paesaggio agrario.
Durante il Medioevo, spesso si fondava un nuovo villaggio solo laddove il castagno

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poteva crescere e dare legname e frutti, indispensabili per le esigenze quotidiane
(alimentazione, riscaldamento, costruzioni). L’importanza dei castagneti in Abruzzo nel
passato è dimostrata anche dall’ampia legislazione comunale ad essi dedicata.
I forestali dovevano sorvegliare, come da giuramento prestato, almeno due volte a
settimana, i boschi di castagno e denunciare tempestivamente alle autorità municipali
tutte le infrazioni. I castagneti anche in Abruzzo raggiungono la loro massima esten-
sione alla fine del 1800. Nel XX secolo inizia la decadenza del castagno. Le cause
sono diverse: la concorrenza di altre piante alimentari, l’accresciuta domanda di
tannino, prodotto dal legno di castagno, la diffusione di alcune malattie.
La castagna ha costituito per secoli un’importante fonte di sussistenza per i residenti
dei comuni abruzzesi dove erano presenti selve castanicole. Ma la castagna, ”il pane
dei boschi”, oltre a costituire un importante elemento di sussistenza, ha rappresenta-
to sino alla fine degli anni’60 del ‘900 una significativa fonte di reddito, veniva, infatti,
largamente esportata. Fiorente era un tempo anche il commercio del legno di casta-
gno, utilizzato come legna da ardere, per fabbricare mobili, botti e soprattutto
nell’edilizia.
Le travi che sorreggono i tetti di molte case abruzzesi sono quasi tutte di castagno e
molti vecchi mobili sono costruiti con legno di castagno. I fili del telegrafo, che per la
prima volta collegarono molti comuni abruzzesi al mondo, poggiavano su solidi pali di
castagno, analogo discorso vale per i cavi elettrici e telefonici.
Pur non essendo un combustibile eccezionale, in periodi in cui il legno era un
bene prezioso e scarso, il legno di castagno veniva utilizzato anche per alimentare
le carbonaie.
Tracce di carbonaie di castagno sono rintracciabili in tutti i boschi abruzzesi. Il casta-
gno costituiva la fonte principale di sostentamento per i maiali, un tempo fondamenta-
li per l’economia contadina. E’ nella raccolta delle castagne che trovava occupazione
una manodopera esuberante addetta prevalentemente all’agricoltura. Oggi i castagni
si prestano, sotto molteplici aspetti, ad una valorizzazione turistica. Basta inoltrarsi
all’interno dei boschi di castagno per vedere quanto sono varie le potenzialità di
sfruttamento turistico. Sentieri dal colore rosso sanguigno, che corrono lungo tutti i
boschi, possono costituire interessanti itinerari di trekking.
Nel bosco di castagno razionalmente diradato possono essere valorizzate le pazienti
opere che hanno segnato la storia millenaria della civiltà appenninica: i sentieri, le
scalette, i canaletti per l’irrigazione, le fontanelle, i seccatoi, gli argini, le formelle,
i muriccioli di pietra a secco, molti dei quali coperti di muschio, che ancora oggi defini-
scono i limiti dei campi di cereali e di patate che una volta crescevano sotto i casta-
gneti. Oggi il sottobosco di castagno, libero dalle colture e dal pascolo degli animali,
è ricco di fragole e funghi.
Non esiste comparto forestale in Europa che più del castagno offre ai funghi un
habitat ideale: tra le rigogliose felci esplodono dopo le piogge estive porcini, ovuli, latta-
ri, ecc. Inoltre i boschi di castagno costituiscono un habitat favorevolissimo per diversi
animali. Al castagno sono legate usanze, leggende, tradizioni. Il frutto ha originato una
fiorente cultura folcloristica, lo testimoniano motti, leggende, proverbi, tramandatisi
fino a noi.Il castagno è considerato simbolo di provvidenza in quanto il suo frutto,
seccato ed immagazzinato, può servire di nutrimento durante la stagione invernale.
La castagna, protetta dal riccio, secondo i vecchi rappresenta la virtù in generale e la
castità in particolare, circondata come è da spine che non la pungono, ma che
costituiscono un baluardo contro la tentazione.
Alle castagne si attribuiscono anche virtù terapeutiche ed una volta anche di
cosmesi: l’acqua di cottura della buccia era utilizzata dalle donne per esaltare
i riflessi dorati dei capelli biondi. I boschi di castagno sono l’habitat di riferimento

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di favole e novelle. Le nonne rovetane ancora oggi ritengono i boschi di castagno
abitati da «pantasime» fantasmi di donne, incubo dei bambini, terrorizzati dai racconti
di queste vecchie e mostruose creature, frutto della fantasia popolare.
Romanzate, ma più veritiere, risultano le storie dei briganti i quali, dopo aver compiuto
le loro scorrerie, si nascondevano nei fitti boschi di castagno, molti dei quali ubicati a
ridosso dell’antica frontiera tra il Regno delle due Sicilie e lo Stato Pontifico. Il brigan-
te, come il castagno, costituisce uno dei miti del mondo contadino meridionale. Secon-
do molti racconti popolari, sotto vecchi alberi di castagno sono custoditi i favolosi
tesori dei briganti.
Come scrive Carlo Levi «i briganti misero tesori reali dove la fantasia contadina aveva
sempre favoleggiato la loro esistenza» (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli).
La veridicità della presenza dei briganti nei folti boschi di castagno è dimostrata da
un’ampia toponomastica, ad esempio il toponimo rovetano «Rava dei quatrini», indica
una radura ubicata in mezzo ad un folto bosco di castagno, dove si ipotizza che i
briganti nascondessero il loro bottino.
Oggi anche in Abruzzo ambiente, economia, antropologia del castagno si vanno pro-
gressivamente orientando, sulla scia della multifunzionalità dell’azienda agricola,
su nuovi paradigmi. Accanto all’esigenza sempre più avvertita di forme associative e
di originali forme di valorizzazione da offrire al turista, portandolo a consumare nel
luogo di produzione, si consolida la tendenza a proporre non solo il frutto ma il territo-
rio di riferimento nel suo complesso.
Ciò ha portato anche nella regione un rinnovato interesse verso le castagne da parte
dei consumatori e delle istituzioni. Tale fenomeno è attribuibile ad un atteggiamento di
rivalutazione delle tradizioni culinarie, delle proprietà nutritive attribuite a questo
frutto ma anche all’interesse «culturale» che suscitano la castagna ed il suo habitat di
riferimento. La crescente sensibilità dei cittadini verso l’ambiente, le produzioni tipiche
e verso la tipicità ed autenticità delle tradizioni alimentari costituiscono elementi di
forza per una nuova vitalità del castagno e delle sue produzioni. Ieri il frutto era base
dell’alimentazione delle popolazioni montane, oggi si configura come prodotto tipico e
salutistico, elemento del paesaggio e dell’identità locale, riferimento per attività
ricreative, didattiche e culturali e quindi primario attrattore turistico.
La castagna, grazie all’alto potere ”evocativo” del frutto, trasferisce valore al territorio
in quanto ne esalta le valenze ambientali, arricchisce il paesaggio attibuendogli valori
estetici (la foresta di castagno è stata riconosciuta come habitat naturale di interes-
se comunitario), lo connota sotto l’aspetto sociale e culturale in virtù dello stretto
legame tra frutto e valori tradizionali, dà risalto alle sedimentazioni storico-culturali
rinvenibili degli elementi antropici caratterizzanti. E, infatti, uno degli obiettivi prioritari
del Piano Castanicolo Nazionale, fatto proprio dal nuovo PSR della regione Abruzzo, è
di valorizzare e riconoscere la dimensione sociale e culturale dei castagneti, tenuto
conto del forte legame tra il castagno e l’identità territoriale. Pertanto, la multifunzio-
nalità del castagno, intesa come somma di potenzialità produttive, protettive, naturali-
stiche, paesaggistiche, turistico-ricreative e, non ultime, didattiche, nonché sedimento
di cultura e di distinzione, fa del frutto un importante attrattore attorno a cui definire
l’immagine di un territorio, in virtù del forte valore simbolico ed evocativo.
La castagna, quindi, prodotto agroalimentare di qualità che comunica sapore, gusto,
emozione, tradizione, rafforzando la visibilità, la distintività e l’identità del territorio, ne
diventa, come tutti i prodotti tipici, sempre più un ambasciatore efficacissimo per
la promozione dello stesso. Il cibo e le connesse valenze territoriali connotano sem-
pre più l’Abruzzo e la castagna, pur se prodotto di nicchia, è ormai parte integrante
di questo virtuoso processo, come testimonia il successo delle numerose e
sempre più attrattive sagre che nel mese di ottobre costituiscono appuntamento fisso

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di visitatori sempre più numerosi che oltre a degustare le castagne riscoprono non
solo l’ambiente, ma la storia e la cultura del territorio abruzzese.
per gli ecotipi dei due comuni teramani cfr. Breviglieri N., 1955 – Indagini ed osservazioni sulle
migliori varietà italiane di castagno (Castanea sativa Mill). CNR – Centro di studio sul castagno,
pubblicazione n. 2. Firenze).

La regina dei castagni della Valle Roveto: la castagna «roscetta».


Sergio Natalia
La Valle Roveto, remota zona di confine tra Abruzzo e Lazio, un tempo teatro
delle gesta di famosi briganti, solcata dal fiume Liri e incassata tra alte montagne
- a destra l’imponente catena dei Simbruini-Ernici, a sinistra le propaggini montuose
del Parco Nazionale d’Abruzzo - si caratterizza da sempre per la presenza di maesto-
se foreste. Alexandre Dumas, che visitò a metà ‘800 la valle, tappa obbligata dei
ricchi e colti europei che iniziavano il Gran Tour da Napoli e risalivano la penisola, scri-
veva: «Dopo circa una lega ci si addentra nei magnifici boschi della Val Roveto, dove
ho potuto osservare alberi secolari dal tronco così imponente che otto uomini, a ma-
lapena, riuscirebbero a circondarlo». La regina dei folti e rigogliosi boschi rovetani è
senza dubbio la castagna «roscetta», varietà autoctona di castagna, inserita tra i
prodotti agroalimentari tradizionali abruzzesi. La “roscetta”, grande e rotondeggiante
con superficie liscia, di colore bruno rossastro - rosso vivo appena colta (da qui il no-
me «roscetta»- appartiene alla varietà del “Marrone Fiorentino”.
Le caratteristiche distintive di questo singolare marrone sono rappresentate da una
pezzatura medio-grande 80-90 frutti per Kg. di prodotto raccolto, da una forma ovoi-
dale o globosa, con torcia sull’apice abbastanza pronunciata, carne bianca, brillante e
croccante. La «roscetta», dal sapore delicato e dolce, è ricca di amidi (quasi il 60%),
contiene carboidrati, proteine, vitamine A, B e C, sali minerali, cloro, magnesio ed ha
un alto potere calorico. Per le elevate caratteristiche di sapidità, fragranza e sorbevo-
lezza, tutta la produzione della “Roscetta”, considerato tra i migliori marroni prodotti
nell’area di mercato del centro Italia, viene utilizzata totalmente allo stato fresco.
Per promuoverne la valorizzazione ed estenderne le colture, nel 2001 è stata costi-
tuita l’Associazione Castanicoltori della Valle Roveto, che raggruppa attualmente 150
produttori (Sito web di riferimento/laroscetta.it).
La roscetta cresce nella zona fitoclimatica del castanetum, alla destra del fiume Liri,
nella fascia compresa tra i 300 e i 1100 m. s.l.m., soprattutto nell’alta Valle Roveto,
ed è coltivata in terreni derivati in massima parte da rocce arenacee e flysh marnoso-
arenacei, oltre che nelle terre rosse decalcificate, che conferiscono al prodotto la sua
tipica qualità organolettica. Oltre che dalla particolarità dei suoli, lo sviluppo dei casta-
gneti in Valle Roveto è stato favorito dalle peculiari condizioni climatiche, caratterizza-
te da temperature non eccessivamente basse e da piogge abbondanti.
La densità di piante ad ettaro è compresa tra un minimo di 60 ed un massimo di 160
piante. I castagni sono gli attori primari del suggestivo paesaggio naturale della Valle
Roveto e protagonisti dello spettacolo di natura e colori della Valle: in estate il bosco
diventa di un verde intenso, mentre in autunno si accende ed assume variopinte tinte
cromatiche. Essi hanno un'età variabile e numerosi esemplari, con diametro superio-
re ai due metri e altezze rilevanti (30/35 metri), superano sicuramente i 200 anni.
La raccolta della «roscetta», rimasta inalterata nei secoli, comincia in settembre con
le operazioni di pulitura del bosco e la successiva bruciatura sul luogo delle felci.
E’ usuale a fine settembre vedere numerosi flussi di fumo che si alzano dai castagneti.
Verso la prima decade di ottobre si effettua la raccolta, rigorosamente a mano, come

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centinaia di anni fa. Le castagne vengono raccolte nei tradizionali cesti, grande per gli
adulti, piccolo per i bambini, e poi riversate in sacchi di juta e portate a spalla fino alla
strada più vicina. Da qui vengono trasportate a casa e selezionate. Una volta, tutta la
famiglia partecipava alla «capata» (cernita), in cui si separano le castagne buone da
quelle marce, che venivano utilizzate per l’alimentazione dei maiali.
Le castagne vengono conservate seguendo un trattamento particolare, tramandato
di generazione in generazione: tenute in acqua per circa 15 giorni, vengono poi mes-
se ad asciugare al sole: fino a qualche anno fa era spettacolo consueto nelle calde
mattine di fine ottobre vedere, nei pressi delle porte delle case rovetane, le castagne
stese ad asciugare su vecchie coperte. Appena asciugate, le castagne vengono con-
servate in luoghi non umidi. Un altro sistema per conservarle consisteva nell’abbru-
stolirle (“infornatelle” ), così da mantenerle morbide fino a Natale. Oggi, l’arrivo del
congelatore ha messo fine ai tradizionali ed originali trattamenti.
Il periodo di raccolta delle castagne è concentrato nel mese di ottobre. Un tempo, a
partire da una specifica data, orientativamente il 4 novembre, i castagneti, da sempre
tutti di proprietà privata, venivano dichiarati aperti a tutti. Tale consuetudine, nel solco
del comunitarismo abruzzese, consentiva anche ai più poveri, che non avevano
nessuna proprietà, di fare piccole provviste di castagne.
Alcune iscrizioni romane attestano la presenza dei castagneti nella Valle già nel
periodo imperiale. Ma è nel medioevo che la coltivazione delle castagne, grazie ai nuo-
vi innesti impiantati dai laboriosi monaci benedettini, fa un salto di qualità.
Lo storico marsicano Febonio, alla metà del '600, indica le castagne tra i prodotti che
le donne rovetane portavano ai mercati romani dentro i famosi "canistri" (cesti realiz-
zati con giunchi di vimini, lavoro che un tempo costituiva la principale attività degli abi-
tanti di Canistro). Dalla lettura delle statistiche murattiane, pubblicate nel 1811, si
evince che nella Valle Roveto erano abbondanti i raccolti di castagne, che allora costi-
tuivano «spesso l’unico cibo della popolazione, accanto alle ghiandaie ed ai semi di
faggio». Lo scrittore inglese E. Lear, nel libro Viaggio attraverso l’Abruzzo pittoresco,
meta del Gran Tour, mette in risalto la massiccia presenza del castagno nelle zone
della Valle Roveto esaltando anche la bellezza naturale dei luoghi.
Nell’alta Valle Roveto fino alla fine degli anni ‘50 si può sicuramente parla-
re di una «civiltà del Castagno», in virtù del rilevante impatto che l’alimento
ha avuto nei rapporti sociali, nell’immaginario, nel mito, negli usi e nell’eco-
nomia. In effetti la castagna ha segnato la storia, l’economia, il paesaggio e
la cultura rovetana.
Il prodotto viene ancora oggi largamente esportato, soprattutto nei merca-ti
della Marsica, del sulmontino e del frusinate.
Nel rovetano le castagne, base di numerosi e prelibati dolci, marmellate e mine-
stre, vengono ancora oggi cotte come un tempo. Alle rinomate «caldarroste»,
le “caciole” in dialetto, che ormai si vendono nelle grandi città a prezzi da gioiel-
liere, cotte nel camino su vecchie padelle in cui si facevano friggere gli alimenti,
si affiancano le «infornatelle», perché infornate nella stufa, le castagne «bollite», i
cosiddetti «vallani», cotte in acqua con tutta la buccia, e le «remonne», poiché
prima di cuocerle in acqua, con una foglia di alloro, le castagne ancora fresche
vengono sbucciate («remonnare» in dialetto rovetano significa appunto sbuccia-
re).Un tempo in Valle Roveto le castagne riempivano le calze della befana insieme
alla frutta secca. In alcune località della valle, fino a mezzo secolo fa, nei matrimoni,
invece che i confetti, cosa considerata ancora da ricchi, si lanciavano
e distribuivano noci, mandorle e soprattutto castagne.
Oggi nella Valle la castagna «roscetta» è valorizzata nelle tante sagre che si
svolgono nel mese di ottobre, occasione per tornare per i tanti rovetani che

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risiedono in altri luoghi - in fondo la sagra, come scrive Melania Mazzucco, è una
sorta di «allegoria del ritorno» - e appuntamento fisso di sempre più visitatori che
giungono in Valle Roveto in macchina o in treno, percorrendo la panoramica linea
Avezzano-Roccassecca, tra le più suggestive d’Italia.
Ogni sagra ha le sue specifiche peculiarità: «Lungo le Antiche Rue» a Civitella Roveto,
«Sapori d'Autunno» a Canistro Superiore, la «Sagra della Castagna» a Canistro,
Morino, Grancia, Castronovo, Rendinara.
Ogni borgo rovetano celebra a suo modo, ad ottobre, la regina della valle, la castagna
«roscetta» che a novembre abbraccia il re della valle, «l’ulivo», che cresce rigoglioso a
San Vincenzo e Balsorano, nella assolata e mite bassa Valle Roveto, ai piedi delle bo-
scose montagne del Parco Nazionale d’Abruzzo, popolate di orsi e di lupi.

Senarica, un castagneto da leggenda


Giorgio Davini

Il curioso passato di Senarica resta ancora oggi in bilico tra realtà storica e fantasia.
Di fatto però, come spesso accade, la fantasia supera di gran lunga la realtà dei fatti.
Pare che la stessa regina di Napoli Giovanna I abbia concesso, per ringraziarli del grande
coraggio dimostrato in guerra, agli abitanti di questo piccolo paese e del vicino Poggio
Umbricchio di autogovernarsi con una normativa autonoma senza vincoli di vassallaggio
se non nei confronti della corona.
Così, la repubblica di Senarica pare fosse esistita per oltre 400 anni tra queste monta-
gne della Laga, ora in provincia di Teramo. Sembra inoltre che, in virtù dell'antico diritto
longobardo sulla successione della proprietà, gli abitanti di Senarica si considerarono
tutti baroni di loro stessi ed eleggevano un doge e tutti i funzionari.
Gli abitanti del villaggio si fregiano tuttora dell'appellativo di baroni concesso da Venezia
alla Serenissima sorella in occasione di un presunto sodalizio per cui Senarica le inviava
due militi, in caso di guerra e venti ducati per assicurarsi la sua protezione.
Sulle facciate delle antiche case permangono ancora le scritte esentasse, l'iscrizione
"R. di Senarica" con lo stemma del leone rampante che tiene tra gli artigli un ferro di
cavallo, come pure il sigillo su vecchi attestati o nel libro dei morti della chiesa dei Santi
Proto e Giacinto, sede delle adunanze del popolo, dell'insediamento del doge.
Gli abitanti di Senarica, uomini liberi, eleggevano il doge che, secondo lo statuto del
1357, doveva essere un galantuomo che non sapesse leggere e scrivere. La repubblica
disponeva di un piccolo esercito: alcuni soldati costituivano la guardia dogale, con funzioni
di protezione, altri avevano mansioni di guardaboschi e vigilavano sul borgo, enclave del
regno di Napoli.
Con l'arrivo dei Borbone di Napoli, il re Ferdinando IV, non credendo all'esistenza
nel regno della singolare repubblica, vi inviò un gruppo di funzionari per opportuni
accertamenti. Nel 1797 Gioacchino Murat, abolì definitivamente l'antica repubblica.
Oggi in quello che resta dell'antico paese, risiedono pochi abitanti e si ritrovano diverse
testimonianze della secolare storia, scolpita nella pietra di qualche architrave o nei
davanzali torniti di quelle finestre che si affacciano sui boschi che ricoprono le montagne
nell'alta valle del Vomano.
Proprio di fronte a Senarica, si estende per circa 70 ettari il famoso "Castagneto
di Senarica", dove imponenti castagni secolari producono "lu 'Nzite", una delle migliori

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qualità di marroni di tutto il centro Italia. L'economia senarichese era infatti basata, oltre
ai proventi incamerati dal doge per sostare ed attraversare il territorio o proteggere
malviventi ricercati altrove, sul legno dei castagni grigi. Questo veniva usato come com-
bustibile per riscaldamento nei gelidi inverni, per cucinare, per realizzare sedie impaglia-
te e madie senza uso di chiodi (le arche), mentre il frutto è importante anche oggi nella
gastronomia locale.
Vero e proprio patrimonio boschivo di alberi da frutto, sembrerebbe essere li già dal
1500, come dimostrato dalla presenza di numerosi alberi vetusti con un diametro
di oltre 3 m.
L’intero bosco raccoglie ben quattro diverse coltivazioni di prodotto: la castagna,
il marrone, la castagna non coltivata ed il marrone non coltivato.
La scarsa manutenzione e l’abbandono degli ultimi decenni lo hanno degradato ed
esposto ai forti attacchi delle principali malattie del castagno cui si sta tentando di porre
rimedio attraverso interventi di recupero come potature, innesti, regimazione delle
acque e, non ultimo, la valorizzazione di questi pregiati frutti.

Gli ultimi aranceti della costa abruzzese


Aurelio Manzi

L’inizio della coltivazione dell’arancio in Abruzzo, o quantomeno la commercializzazio-


ne delle arance nella regione, probabilmente, è da collocare nei secoli XIII-XIV. Infatti,
la prima citazione storica è contenuta nei “Capitoli del dazio” in vigore nella città di
Sulmona, approvati dal re Roberto nel 1320. Nel punto 14° di questo documento si
legge: “Item pro qualibet salma … malorum aranciorum, citrangulorum … solvantur
denarii duo a venditore tam cive quam estero”. Entrambi i termini malorum arancio-
rum e citrangulorum individuano i frutti dell’arancio, il secondo ancora in uso in Abruz-
zo con il significato di arancio amaro. Anche il poeta aquilano Buccio da Ranallo, nel
1350, cita l’arancia sotto il nome di aragno. In alcune carte relative all’ormai scom-
parsa abbazia di Santa Maria di Cinquemiglia presso Castel di Sangro, datate 1482,
si citano le arance sotto la denominazione di melarange. Curioso è l’episodio narrato
dai biografi del Beato Angelo da Furci, vissuto a cavallo tra il XIII e XIV secolo, il quale
nel suo paese natale, localizzato nell’entroterra vastese, operò un miracolo facendo
spuntare sul pulpito della chiesa un ramoscello d’arancio con i frutti. Il Beato Angelo
nelle raffigurazioni statuarie e pittoriche viene rappresentato con un’arancia in mano
a ricordo dell’evento miracoloso.
Tra primi documenti noti che attestino in maniera inequivocabile la presenza in terri-
torio abruzzese di agrumeti specializzati, ossia giardini d’aranci (iardenum cum aran-
cis), va annoverato un rogito notarile del 1442 riferito al territorio vastese. La coltiva-
zione degli agrumi, in modo particolare degli aranci, in Abruzzo si diffuse in maniera
decisa nel corso del Rinascimento, grazie anche all’interessamento di alcune impor-
tanti casati feudali, soprattutto gli Acquaviva e i D’Avalos, oltre ad altre famiglie aristo-
cratiche e borghesi, nonché enti ecclesiastici. A Vasto, lo statuto comunale, probabil-
mente redatto nei primi anni del XVI secolo, stabiliva che la piantumazione, sia degli
olivi che delle melaragne, fosse subordinata alla “licenza” del sindaco. Una norma fina-
lizzata al controllo di queste due colture vitali per l’economia della città rivierasca.
Ad Ortona a Mare la presenza di un ciardino con piante di acrumi, localizzato nel cen-
tro storico, è attestata nell’anno 1649, come si desume da un atto notarile.
Comunque, la coltura delle arance doveva essere diffusa nella cittadina portuale anche

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nel corso del secolo precedente. Infatti, in occasione della festa di San Tommaso
(il 21 dicembre), sul finire del XVI secolo, le autorità della città portuale distribuivano
ai devoti del santo citrangole, ossia arance amare. (Cercone, 2009). L’agrumicoltura,
almeno nel settore settentrionale della costa abruzzese, certamente ha risentito an-
che dei benefici influssi delle coltivazioni diffuse nel limitrofo territorio piceno, quantun-
que la città di Fermo cercasse in ogni modo di impedire l’esportazioni di piante di
“pomarance per la via verso lo Apruzzo”, come si desume da un documento del
1487, allo scopo di mantenere l’esclusività e il monopolio della produzione di frutti
così preziosi, nonché delle piantine da vivaio. Solo qualche decennio più tardi, nella
prima metà del Cinquecento, diversi documenti notarili attestano una maggior tolle-
ranza da parte della città marchigiana, che controllava gran parte della produzione
agrumicola picena, nel permettere l’esportazione di piante d’arancio verso il confinan-
te Abruzzo (Manzi, Vitelli, 2016). Al Duca di Atri furono concesse, nell’anno 1509,
ben duecento piantine di arancio per il suo nuovo vivaio impiantato a Giulianova.
L’agrumicoltura nel settore meridionale della regione, invece, è stata influenzata vero-
similmente dalla forte tradizione agrumicola del Gargano, tuttora viva e con forti segni
di ripresa. Emblematica è la testimonianza del frate Serafino Razzi di passaggio a
Vasto sul finire del Cinquecento che ebbe a scrivere: “Abbonda ancora il Vasto di olio,
e di aranci, tenendone negli boschetti d’ogni intorno, e massimamente verso la mari-
na”. Comunque, diverse sono le testimonianze storiche, soprattutto rogiti notarili, che
attestano la presenza, ormai diffusa, della coltivazione dei citanculis e melaragne a
Vasto nel corso del XVI secolo, all’interno di pomari o giardini. Nicola Alfonso Viti rife-
rendosi sempre alla città dei D’Avalos scriveva nella prima metà del XVII secolo
(Marchesani, 1838): “Le melarancie ne’giardini sono tali, che non cedono a quelli di
Puglia”. Da un documento del 1742, siamo a conoscenza che a Vasto erano presenti
ben 30 “giardinieri” probabilmente lavoratori specializzati nella coltivazione degli agru-
meti (Felice, 2001). Tuttora a Vasto con l’espressione citranghele vengono individua-
te le arance amare, l’espressione melaragne, invece individua quelle dolci, termine
ormai desueto poiché sostituito con quello di portuhalle, una varietà di arancio dolce
più apprezzata che si è diffusa in tempi più recenti grazie ai Portoghesi che l’introdus-
sero dalla Cina in Europa nel XVI secolo e che si è diffuso negli agrumeti adriatici sul
finire del XVIII secolo (Manzi, Vitelli, 2016).
La coltivazione degli agrumi lungo la costa adriatica, sia nel settore meridionale della
costa marchigiana che in quella abruzzese, ebbe un forte contraccolpo con la crisi
climatica del’600 nota come Piccola Età Glaciale (Manzi, 2012; Manzi, Vitelli, 2016).
Le basse temperature invernali, ben al di sotto dei -5°C che costituisce un fattore
limitante per gli aranci, e soprattutto le strizze, ossia le gelate primaverili, portarono
alla quasi totale distruzione dei giardini di agrumi litoranei. A tale proposito il Marche-
sani (1838) per la costa vastese scriveva: “Il gentil Melarancio, oggi raro e di difficile
conservazione, spesseggiava cotanto nelle nostre campagne, specialmente in Vigno-
la, da farsene imbarcazioni nel porto della Meta; ma giusta il pensar di alcuni, per de-
solanti brinate accadute ne’ primi anni del secolo diciassettesimo quella pianta perì, e
da allora le cure si volsero alla propagazione degli ulivi”. In un rogito notarile datato 6
aprile 1612, trascritto dal Marciani (2003), si denuncia il mancato rispetto di un ac-
cordo stipulato tra un produttore di agrumi di Vasto con un armatore di Chioggia, il
quale si era impegnato nel dicembre del 1611 a trasportare 120/125 migliaia di
arance e limoni da Vasto a Venezia. Il padrone della barca non tenne fede al contratto
così che i frutti rimasero sugli alberi e furono danneggiati dalle abbondanti nevicate.
Le gelate seicentesche comportarono la scomparsa pressoché totale della coltivazio-
ne del cedro lungo il litorale di Vasto, in località Vignola, come annotato dallo stesso
Viti. Il cedro, così come i limoni, risultano gli agrumi più sensibili alle gelate.

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Nel corso del’700 i D’Avalos reintrodussero il cedro quale pianta ornamentale e vero
e proprio status-symbol, nelle loro residenze rurali.
La coltura dell’arancio, nei periodi successivi, a seguito del generale miglioramento
delle condizioni climatiche, si diffuse nuovamente lungo la costa abruzzese interessan-
do, oltre alla fascia litoranea vastese, quella di Rocca San Giovanni, San Vito, Ortona,
Francavilla al Mare, e sporadicamente, Giulianova (Manzi, 2006). Nel 1844 l’arcipre-
te E. Aloè riferendosi al territorio di San Vito Chietino scriveva: “Le sue campagne
interamente vestite producono grani, grani d’India e legumi in poca quantità ma
abbondantissime ed eccellenti sono le frutte, gli agrumi, i vini e gli olii” (Cupido, 2007).
L’agrumicoltura abruzzese, come quella marchigiana, risentì drasticamente dei rigidi
inverni del 1929 e del 1956. Ancora di più è stata penalizzata dalla costruzione della
rete ferroviaria che, invece, ha favorito l’esportazione delle arance e di altri prodotti
dell’agrumicoltura siciliana in fortissima espansione che si è imposta repentinamente
sui mercati tradizionali, quelli dell’Italia ed Europa settentrionale nonché della costa
dalmata, fino ad allora appannaggio della debole agrumicoltura abruzzese e marchi-
giana. Nelle vicine Marche, aranci e limoni venivano coltivati all’interno di strutture
murarie, denominate “aranciere o giardini”, costituite da mura di recinzione segnati
da fastosi portali di ingresso. Inoltre terrazzamenti e nicchie in mattoni ricavate
all’interno delle mura per allocare i limoni che d’inverno venivano protetti con struttu-
re mobili in legno, vetro e tela; complessi sistemi di captazione e distribuzione delle
acque irrigue. Non di rado, le strutture più complesse ed importanti disponevano di
grandi locali costruiti specificamente per riparare le piante di agrumi in vaso nella
stagione fredda (Manzi, Vitelli, 2016).
In Abruzzo, però, la coltivazione degli agrumi era ed è tuttora praticata in campi aper-
ti senza l’ausilio di strutture murarie. La regione segna, quindi, il limite settentrionale
della coltivazione degli agrumi in pieno campo sul versante adriatico della Penisola.
Le ultime testimonianze dell’agrumicoltura abruzzese si localizzano sulla costa di
Vasto e sulla fascia litoranea tra Rocca San Giovanni e San Vito Chetino, spingendosi
a settentrione fino ad Ortona. A Vasto i “giardini” degli aranci sono impiantati nelle
vallecole che si aprono sul mare, esposte a sud e meglio riparate dai gelidi venti set-
tentrionali, oppure a ridosso dell’antico abitato, in particolare sotto il poderoso palaz-
zo D’Avalos. Nel territorio di Rocca San Giovanni, gli agrumeti residuali si concentrano
nella contrada Vallevò, area riparata dai venti di tramontana e caratterizzata dalla
disponibilità di abbondanti acque sorgive indispensabili per la coltivazione degli agrumi.
Gli aranceti sono protetti da folte ed alte siepi di alloro e canne, a cui sono frammisti
anche ulivi ed olmi, localmente chiamate “frattoni”, utilizzate come frangivento e per
proteggere le piante dalla salsedine, essendo le coltivazioni localizzate a poche decine
di metri dal mare. In generale, questi impianti si localizzano in aree ricche di risorgive,
che normalmente scaturiscono nel piano di contatto tra i conglomerati e sabbie per-
meabili e le sottostanti argille impermeabili. L’acqua viene raccolta in piscine e
peschiere, successivamente canalizzata per irrigare sia le piante di agrumi che le
colture orticole diffuse al loro interno. Nel mezzo degli aranci, spesso, vengono coltiva-
te anche altre specie fruttifere come olivi, fichi, nespoli giapponesi e finanche limoni,
cedri, mandarini e pompelmi. La coltura del mandarino (Citrus nobilis) si è diffusa solo
sul finire dell’Ottocento, mentre il pompelmo (Citrus paradisi) in tempi molto più
recenti (Manzi, 2006).
Dai contratti notarili relativi all’affitto di giardini d’aranci si evincono l’attenzione
e le cure colturali riservate a queste preziose e delicate piantagioni. Intorno ai singoli
alberi venivano scavati i “bacili”, cavità circolari per contenere e conservare le acque
d’irrigazione. Inoltre si fissavano le quantità di letame che, per contratto, dovevano
essere somministrate ad ogni singola pianta. La raccolta delle arance sul litorale

41
Dai contratti notarili relativi all’affitto di giardini d’aranci si evincono l’attenzione e le
cure colturali riservate a queste preziose e delicate piantagioni. Intorno ai singoli
alberi venivano scavati i “bacili”, cavità circolari per contenere e conservare le acque
d’irrigazione. Inoltre si fissavano le quantità di letame che, per contratto, dovevano
essere somministrate ad ogni singola pianta.
La raccolta delle arance sul litorale abruzzese, ha inizio nella prima metà di dicembre:
solitamente i giorni dedicati all’Immacolata Concezione o a Santa Lucia individuano
l’inizio della raccolta che si protrae per tutto l’inverno e finanche a primavera inoltrata
quando i frutti diventano dolcissimi.

Aranceti lungo la costa abruzzese nel territorio di Rocca san Giovanni (CH) (A.Manzi)

La vecchia varietà di arancio dolce diffusa sulla costa abruzzese è nota come “bionda
di San Vito”, probabilmente simile alla “bionda del Gargano” diffusa sull’omonimo pro-
montorio pugliese ove, peraltro, si coltivano altre varietà quali il “melangolo dolce” e la
“duretta” oltre a diverse cultivar di limoni. Le arance del litorale abruzzese, fino alla
seconda guerra mondiale, costituivano una preziosa merce oggetto di un lucroso
commercio ed esportazione con le regioni del nord Europa, dell’Italia settentrionale e
con quelle della sponda opposta dell’Adriatico come, d’altronde, avveniva per le aran-
ce pugliesi e per quelle marchigiane.
Gli agrumeti residuali della costa abruzzese rappresentano la testimonianza ultima di
una coltivazione storica che costituisce uno straordinario patrimonio agronomico e
culturale. D’inverno, attraversare e sostare nei giardini d’agrumi di Vallevò costituisce
un’esperienza difficile da dimenticare, inusuale per noi abruzzesi, montanari che vivia-
mo al margine del mondo mediterraneo. Si è colpiti dal colore forte delle arance e dei
limoni che spiccano nel fogliame di un verde acceso; dietro, a fare da sfondo oltre i
“frattoni” di canne ed alloro, infiammati dai frutti rossi dello stracciabrache
(Smilax aspera), l’azzurro del mare segnato dai trabocchi, enormi ragni lignei protesi
nel mare ma saldamente ancorati agli scogli conglomeratici della costa. Nell’aria,
l’odore pungente della salsedine si mischia al profumo esotico dei frutti maturi e alla
delicata fraganza delle lattee zagare che cominciano a sbocciare sugli alberi. Aranci,
limoni, fichi, ulivi, mandarini, nespoli, pompelmi e tante altre piante fruttifere ben ordi-
nate. Sul terreno, insalate, cicorie ed altri ortaggi, inoltre peschiere e fontane, un luo-
go di piacere, pace e serenità, oltre che di lavoro. La parola giardino di certo è la più
appropriata per indicare questa forma di coltura in cui le esigenze produttive ed eco-
nomiche, almeno per una volta, si coniugano con la bellezza e l’armonia.
Ci auguriamo vivamente che queste isole agrumarie della costa adriatica, fredda ed
arida, non scompaiano, non vengano abbandonate e distrutte dopo quasi sette secoli
di vita, ma anzi possano riprendere vigore. Qualche segnale positivo timidamente
comincia a intravedersi, specialmente nel territorio di Rocca San Giovanni. Diversi
aranceti sono tornati a vivere e produrre, gli alberi secchi sostituiti, gli aranci amari

42
innestati con le varietà dolci, i “frattoni” curati e mantenuti. Tra Ortona e Fossacesia
esistono ancora 26 ettari di aranceti puri o consociati ad uliveti, rispetto ai 344 ettari
di qualche decina di anni addietro (Cupido, 2005). La sopravvivenza e la continuazione
dei giardini d’aranci è legata alla consapevolezza del loro valoro storico e paesaggisti-
co, oltreché agronomico e culturale, che conferisce uno straordinario valore aggiunto
ed una identità forte alla Costa dei Trabocchi, nonché ai centri storici litoranei in parti-
colare Vasto, un tempo circondata dalla pianta dai frutti di una bellezza solare.

La conca del Fucino, il paesaggio ai tempi del lago.


Michela Palladoro

La Piana del Fucino è un'estesa pianura situata tra i 650 e i 680 metri s.l.m., circon-
data dagli imponenti rilievi dell'Appennino abruzzese e caratterizzata da un paesaggio
agrario geometrizzato, con prati e campi coltivati. Le coltivazioni tradizionali, erano
patate, barbabietole e mais cui si sono aggiunte o sostituite le colture orticole di caro-
ta, radicchio rosso, finocchio e cavolfiore, ormai principale fonte di reddito nell’econo-
mia agricola. Ma quella che oggi potrebbe essere considerata la terra più fertile del
centro Italia, non ha sempre avuto questa vocazione agricola, infatti, fino a più di un
secolo fa, l'area era occupata dal Lago del Fucino, il più grande lago carsico della
penisola e il terzo lago d’Italia per estensione.
L'esigenza di prosciugare il lago è sorta fin dai tempi dei romani quando veniva alimen-
tato da numerose sorgive e dai corsi d'acqua di tutta la conca, mentre non presenta-
va nessun emissario: unico sfogo naturale erano una serie di inghiottitoi situati nella
località “Petogna”. Tale caratteristica rendeva la portata del lago molto irregolare,
causando frequenti inondazioni che si riversavano sulle abitazioni e i terreni agricoli.
Il primo a tentare il prosciugamento fu Cesare, seguito da Augusto. L'unico a riuscirci
fu Claudio, impiegando 30,000 persone per 11 anni. Il risultato fu un canale di 5,6 km
che attraversava il Monte Salviano e sfociava nel Fiume Liri. Con il tramonto dell'Impe-
ro, i lavori di manutenzione del canale vennero abbandonati e il lago tornò alla sua
portata originaria.
A riprendere in mano il progetto e riuscire definitivamente nell'impresa fu il banchiere
romano Alessandro Torlonia. Nel 1855 iniziarono i nuovi lavori e il 1° ottobre 1878 fu
dichiarato ufficialmente il prosciugamento. Torlonia, dopo tale impresa, ottenne il tito-
lo di principe dal re Vittorio Emanuele e divenne unico proprietario delle terre emerse
e bonificate. Le vere conseguenze di tale cambiamento furono affrontate dagli
abitanti della regione Marsica che fu completamente trasformata: dove prima era
un'immensa distesa d'acqua, ora troviamo una maglia di rette ortogonali disegnata
da canali e strade, che accoglie 16,507 ettari di terreno agricolo. Tutto ciò sconvolse
l'assetto sociale, economico, demografico e insediativo nonché paesaggistico e clima-
tico dell'intera regione. Dal punto di vista climatico si è avuto un abbassamento della
temperatura media di 1-1,5°C in inverno e un pari innalzamento in estate, andando
così a definire un clima continentale a scapito di quell'insolita realtà mediterranea.
Altri effetti climatici negativi sono la nebbia, un tempo inesistente, e la tramontana
che, senza più l'azione mitigatrice del lago, soffia asciutta e gelida.
La realtà che si trovava nella conca del Fucino prima del prosciugamento era una
vera e propria eccezione della natura. Infatti incastonato tra le montagne sorgeva
un luogo dalle caratteristiche mediterranee, ricordato per l’aria salubre, il delizioso
paesaggio e l’abbondanza di prodotti della terra. A causare la radicale trasformazione
di questa realtà, furono proprio le alterazioni climatiche, che ne determinarono

43
un stralcio delle “Escursioni illustrate negli abruzzi” di Edward Lear: “Gruppi di contadi-
ni in cammino per il mercato di Avezzano ravvivavano la via e ci davano un saluto al
passaggio. Più in basso, alla nostra destra , campi coltivati a vigne e a granturco si
estendevano fino al lago; […] fin quando non è stata nascosta dalla collina di Paterno,
sui pendii della quale, i più assolati e fertili della Marsica , cresce abbondante l'ulivo,
insolito in tali parti”.
Come leggiamo, fra i vari esemplari di vegetazione mediterranea che caratterizzava-
no l'area prima del prosciugamento, c'era l'olivo che un tempo ammontava a circa
12000/15000 unità. La sua presenza in questo tipo di zone è anomala in quanto di
solito la soglia fisiologica dell'olivo è 500 metri, mentre lungo i bordi del Fucino questo
prosperava fino agli 850 metri, grazie alla sua azione mitigatrice.
Unica fonte reperita riguardo la varietà presente è quella di Columella, che nel
De Rustica afferma possa essere la Sergia o Sergiana, vista la sua alta resistenza al
freddo. Altra pianta indicatrice delle avvenute trasformazioni è la vite, la cui diffusione
nel territorio ci viene testimoniata dalle numerose fonti che parlano del vino marsico.
Caratteristiche della pianta sono la sua termofilia e la sua scarsa adattabilità alla
rigidità invernale, quindi la sua presenza era legata a quella di un clima più mite e
favorevole. Seppur con minori testimonianze, vi sono altre due piante che un tempo
caratterizzavano l'antica mediterraneità fucense: il leccio e la salvia.
Del primo troviamo ancora testimonianza in forma cespugliosa a Casale d'Aschi,
Trasacco, le Gole di Celano e Collelongo. La sua maggiore diffusione nel passato è
accertata da uno studio sui pollini di Magri e Follieri del 1989.
Anche la salvia, che un tempo insieme all'ulivo era considerata il simbolo della regione,
oggi risulta quasi del tutto scomparsa se non per alcune stazioni localizzate sul
Monte Salviano, che non a caso ne porta il nome.
Le piante fin qui esposte sono quelle con particolare predilezione termofila che ci han-
no aiutato, con la loro scomparsa, a comprendere le conseguenze del prosciugamen-
to dal punto di vista climatico. Per poter avere però un quadro generale del paesaggio
agricolo marsicano della prima età moderna, è necessario avere una visione anche
delle altre colture.
A sostenere la parte più consistente del fabbisogno alimentare locale c'è la coltura
dei cereali, particolarmente adatta e quasi esclusiva nelle zone più impervie. Primo fra
tutti è sicuramente il grano, poi l'orzo, il farro e il miglio.
Accanto a questi troviamo i legumi tra cui fagioli, ceci e lenticchie. Gli ortaggi, viste le
loro maggiori necessità irrigue, sono un genere più legato alla vicinanza dei villaggi e
delle cittadine. Come coltivazioni pregiate vi sono il finocchio di Scurcola e lo zafferano
di Pescina, Massa e Magliano.
Tra le colture arboree si possono distinguere gli alberi da frutto meno robusti quali
melo, pero, ciliegi e sorbi collocati in zone con microclima più favorevole, come i Piani
Palentini e la Valle del Giovenco; mentre nei terreni più difficili, dove emerge il calcare
e la pendenza si fa più viva, compaiono le colture più resistenti, primo fra tutti il
mandorlo, con il noce, l'olivo e il fico, diffuse per lo più nella zona ai piedi del Velino.
Dal punto di vista della produzione agricola, c'è stato un grande sviluppo che ha porta-
to, dopo la riforma agraria, gli abitanti a trasformarsi da pescatori ad agricoltori
a piccoli imprenditori, ma la perdita subita in termini di paesaggio rimarrà sempre
incolmabile, in linea con il pensiero di Ferdinando Gregorovius in Passeggiate per
l'Italia “..Sarà distrutta una grande opera naturale e l'Italia sarà vedova per sempre di
una meraviglia della natura”.

44
Dipinto del lago prima del prosciugamento (Joseph Bidauld, il lago del Fucino e i monti d’Abruzzo
1789 New York, MET)

La pianura del Fucino oggi (E. Di Berardino)

45
1.3 Normativa regionale in merito alla biodiversita’
Donato Silveri, Gianfranco Rosati

La parola BIODIVERSITA’ è un neologismo coniato recentemente; la sua prima utilizza-


zione risale infatti al 1986 in occasione del Forum Nazionale sulla BioDiversità di
Washington. Da quel momento essa si è progressivamente affermata e diffusa assu-
mendo un rilievo crescente, sino a diventare sinonimo di VITA, anzi, rispetto a quest’ul-
tima locuzione, assume una accezione di maggiore ricchezza in quanto si comprende
in essa la molteplicità delle forme viventi e degli ambienti in cui esse si collocano. La si
ritrova ormai in una lunga serie di testi normativi e legislativi, oltre che in tantissimi
lavori scientifici e nel parlare quotidiano..
Il problema della Conservazione della Biodiversità è entrato quindi nel dibattito tecni-
co-politico internazionale e, nel 1992, ha assunto una collocazione centrale nella
Convenzione sulla Diversità Biologica (CBD) di Rio de Janeiro. La Convenzione, che è
stata ratificata da 193 paesi, stabilisce alcuni principi fondamentali: la biodiversità,
intesa come risorse genetiche e saperi ad esse collegati, 1) cessa di essere Patrimo-
nio Comune dell’Umanità e diventa di proprietà delle nazioni dove la singola risorsa ha
avuto origine; 2) può essere utilizzata solo seguendo i canoni della sostenibilità, nel
senso più ampio del termine; 3) il suo utilizzo viene ad essere regolato dal Previo
Consenso Informato che l’utilizzatore deve ottenere dal detentore.
La legislazione, sia internazionale che nazionale e regionale, ha rispecchiato tale evolu-
zione storica ed in particolare nella Regione Abruzzo sono stati adottati provvedimenti
normativi di salvaguardia delle risorse naturali pur senza utilizzare la terminologia
specifica che ancora non esisteva. Il primo provvedimento legislativo di tutela della
flora naturale e spontanea dell’Abruzzo (che non prendeva in considerazione le piante
coltivate) risale alla fine degli anni ‘70 (L.R. 11 settembre 1979 n°45, Provvedimenti
per la protezione della flora in Abruzzo poi modificata dalla L.R. n°66 del 1980).
Successivamente con la Legge quadro sulle aree protette (L.R. 21 giugno 1996
n°38) vengono definiti i cd. “Monumenti naturali regionali” (Titolo VI, art. 25) sottopo-
sti a vincolo per la conservazione e tutela, che su richiesta del Presidente della Giunta
regionale va trascritto nei Registri immobiliari. Tra tali monumenti naturali rientrano
“esemplari vetusti di piante“, che con successivo decreto presidenziale del 14 settem-
bre 2012 vengono individuati dettagliatamente nell’ambito del territorio regionale.
La Regione Abruzzo si occupa poi con la legge 9 aprile 1997 n°35 (Tutela della biodi-
versità vegetale e la gestione dei giardini ed orti botanici) di una generica tutela della
biodiversità riconoscendo, disciplinando e finanziando i giardini e gli orti botanici
di interesse regionale (Giardino Botanico Alpino “Vincenzo Rivera” di Campo Imperato-
re, Giardino Botanico “Michele Tenore” di Lama dei Peligni, Orto Botanico della
Riserva Naturale “Lago di Penne”, Giardino Botanico delle Gole del Sagittario, Orto
Botanico di Collemaggio, Giardino Botanico Mediterraneo di S. Salvo, Giardino Botani-
co dei Semplici di Chieti, Giardino Botanico di Campo Felice).
Si tratta ancora di una tutela indiretta perché si limita ad affidare in termini abbastanza
generici ai giardini e agli orti botanici di interesse regionale la sola coltivazione “… di piante
… tradizionalmente appartenenti a specie o cultivar in via di scomparsa” (art. 2).
Tale patrimonio ambientalistico viene tutelato negli anni attraverso l’istituzione di
numerose Aree naturali Protette e l’inclusione di molti siti nella rete Natura 2000,
istituita ai sensi della Direttiva 92/43/CEE “Habitat” per garantire la conservazione
delle specie di flora e fauna minacciati o rari. Nello specifico campo della tutela della
Biodiversità di interesse agricolo la Regione antesignana in Italia è stata la Toscana
con la legge n° 50 del 1997 “Tutela delle risorse genetiche autoctone”, sostituita
nel 2004 dalla L.R. n°64, che dispone dettagliatamente in materia individuando razze

46
e varietà locali, promuovendone la tutela e valorizzazione, creando repertori e registri
regionali, definendo la figura del “coltivatore custode” che coltiva (in situ) e diffonde le
risorse genetiche, istituendo “banche del germoplasma” utili alla conservazione ex
situ del materiale genetico.
Trattasi in sostanza della trasposizione della fondamentale distinzione tra le due tipo-
logie di conservazione delle specie minacciate di erosione genetica prevista dagli artt.
8 e 9 della legge nazionale 14 Febbraio 1994 n° 124 (Ratifica ed esecuzione della
Convenzione sulla Diversità Biologica di Rio de Janeiro del 1992). La prima (in situ) è
un meccanismo di protezione connesso all’ambiente naturale dove è presente una
determinata varietà. La seconda, cd. conservazione ex situ, consiste nel conservare la
diversità genetica e degli organismi in maniera artificiale al di fuori dei propri ambiti
naturali (laboratori, giardini botanici, etc.). In seguito sono numerose le regioni che
hanno legiferato in materia (o hanno dovuto farlo (come l’Abruzzo) in ottemperanza
ad obblighi comunitari. In campo agricolo la Regione Abruzzo ha svolto sin dalla metà
degli anni ’90 una azione di ricerca e recupero della biodiversità agraria ancora
presente sul territorio. Sono state così individuate numerose accessioni di varietà
locali ancora in uso presso le aziende agricole regionali, particolarmente in zone
marginali montane dell’Abruzzo interno, nei diversi settori dell’attività produttiva
agricola: dalla cerealicoltura alla viticoltura, alla frutticoltura.
Questa attività, avviata nel 1995 con fondi di finanziamento europeo POM, è prosegui-
ta poi negli anni anche con finanziamenti autonomi regionali e, da ultimo, con fondi
appositi predisposti dal Mipaaf. Da sottolineare il fatto che la Regione Abruzzo è stata
tra le prime ad avviare tale attività in campo nazionale, unitamente alla Regione
Toscana i cui tecnici hanno collaborato al progetto abruzzese in diverse occasioni, sia
fornendo una sorta di consulenza, sia tenendo dei veri e propri incontri formativi con i
tecnici regionali dell’Agenzia Regionale per i Servizi di Sviluppo Agricolo (ARSSA) che
si occupavano dell’argomento. Tale attività ha portato alla individuazione di circa 300
popolazioni locali: 250 erbacee e circa 60 arboree. Le prime sono raccolte sotto
forma di semi nella banca refrigerata del seme, istituita presso la sede di Sulmona;
le seconde sono impiantate in numerosi campi catalogo (oltre 20) per una superficie
complessiva di circa 7-8 ha, variamente localizzati sul territorio regionale. Queste
ultime azioni sono state realizzate in collaborazione con alcune delle aree protette
regionali. La Regione grazie a questa attività è stata inserita come “caso studio” nelle
Linee Guida Nazionali per la conservazione della biodiversità (vedi nota 3).
E’ stato sviluppato molto lavoro, in particolare con il Parco Majella e con il Parco
Sirente Velino con i quali sono state stipulate convenzioni ancora in essere, mentre
con il Parco Gran Sasso la collaborazione è stata di volta in volta collegata a specifi-
che azioni come nel caso della individuazione del genotipo originale della lenticchia di
Santo Stefano di Sessanio. Alcune delle varietà locali rinvenute sono state reinserite
nei circuiti commerciali raccogliendo notevole interesse a livello nazionale: ad esem-
pio, il frumento tenero Solina con il quale si producono pane e pasta, la lenticchia
suddetta, l’Aglio Rosso di Sulmona, le mele Limoncelle, Zitelle, Casolane, etc.
Sostanzialmente il lavoro in Abruzzo è stato avviato in assenza di un quadro
normativo ben definito, contribuendo in tal modo allo sviluppo del settore che
successivamente ha visto in Italia, con l’adozione del Trattato Internazionale Fao(1),

1
(1) Legge 6 aprile 2004 n°101 "Ratifica ed esecuzione del Trattato internazionale sulle risorse
fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura, con Appendici, adottato dalla trentunesima
riunione della Conferenza della FAO a Roma il 3 novembre 2001".
2
(2) DM 28672 del 14/12/2009

47
, la definizione e l’implementazione del Piano Nazionale Biodiversità() e la conseguente
()

stesura ed adozione delle “LINEE GUIDA per la conservazione e la caratterizzazione


della biodiversità vegetale, animale e microbica di interesse per l’agricoltura ”().
Nel novembre 2012 si è così arrivati -prima nazione in Europa e probabilmente al
mondo- alla presentazione di queste ultime, dando così un senso concreto al lavoro
portato avanti per circa un decennio dalle Regioni congiuntamente al Mipaaf, e ad
uno strumento di lavoro accurato e condiviso a livello nazionale.
Per una serie di vicissitudini politico-amministrative interne, la Regione Abruzzo ha
però perso, negli anni, l’abbrivio che inizialmente possedeva sull’argomento, superata
da numerose altre realtà regionali nelle quali sono state adottate (anche se non
sempre operativamente attive) delle leggi specifiche in tema di biodiversità().
Anche l’attuazione della Politica Agricola Comunitaria è indirizzata al conseguimento
di obiettivi di salvaguardia ambientale e di valorizzazione e ripristino del notevole
patrimonio di biodiversità regionale.Gli stessi Programmi di Sviluppo Rurale (il PSR è
principale strumento di programmazione e finanziamento per gli interventi nel settore
agricolo, forestale e rurale sul territorio regionale) prevedono il pagamento di misure
agroambientali volte al sostegno di metodi di salvaguardia delle risorse genetiche
animali e vegetali di interesse agricolo a rischio di estinzione; di conservazione, mante-
nimento e valorizzazione degli ecosistemi di alta valenza naturale e paesaggistica e
di habitat semi-naturali associati ad un’agricoltura estensiva.
Il recente PSR 2014-2020 è attento a sostenere obiettivi di tutela della biodiversità
con una considerevole allocazione di risorse. Nell’ambito della Priorità 4 è prevista
l’attività di preservare, ripristinare e valorizzare gli ecosistemi in agricoltura e silvicol-
tura.Con le Misure 4.4.1 “Corridoi e connettori ecologici per la salvaguardia della bio-
diversità”, 7.6.1 “Attività di studio dello stato di conservazione della biodiversità”,
10.1.5 “Tutela degli habitat semi-naturali per la conservazione della biodiversità”,
10.2.1 “Conservazione e uso sostenibile delle risorse genetiche vegetali in agricoltu-
ra” si avvalora, in particolare, quel ruolo centrale di salvaguardia e tutela ambientale
che indubbiamente ricopre l’agricoltura nel suo complesso. Nel complesso, il PSR
Abruzzo è stato predisposto in modo molto oculato per portare a compimento il lavo-
ro che si è detto precedentemente avviato. Nello specifico, in particolare con la
Misura 10.2 si dovrà completare la caratterizzazione morfologica, agronomica e da
ultimo genetica, delle risorse già note e cercare di completare la ricerca sul territorio
di quelle non ancora individuate.
Per quelle già individuate ed avviate alla ridiffusione commerciale dovranno essere
posti in essere degli opportuni strumenti di tutela per preservarle da fenomeni nuovi
di erosione genetica fino a che, pur non comportando la sparizione in toto di quello
specifico patrimonio, comporti una rilevante perdita di alleli (specifiche espressioni di
geni) dipendenti dal mutare delle condizioni ambientali e di coltivazione.
Il discorso deve essere impostato quasi da zero riguardo alla salvaguardia del
patrimonio zootecnico autoctono regionale. Sono noti alcuni casi di razze animali a
rischio di estinzione e delle quali sono rimasti alcuni sparuti nuclei: della pecora
Pagliarola, della Sopravvissana, della Gentile di Puglia, della capra di Teramo, ma com-
pletamente assenti sono azioni in questo settore; ad esempio è certamente vitale
l’attenzione sul patrimonio avicolo, quello caprino, quello degli equidi, ma tutto deve
ancora essere avviato. Pur se nell’attuale PSR sono previste misure genericamente
dedicate alla zootecnia, non ci si può semplicemente limitare ad attribuire i premi
ad UBA(Unità di Bestiame Adulto) né ci si può limitare ad una spesso imprecisa
inclusione nei Libri/Registri genealogici delle razze da proteggere. Per ciò che
riguarda la biodiversità microbica il discorso è collegato a due ambiti diversi: da una

48
la biodiversità propria del terreno inteso come suolo coltivato, dall’altro la biodiversità
connessa alle trasformazioni agroalimentari: in particolare vino, latte, cereali, salumi.
La prima è totalmente da indagare e sarebbe fondamentale capire come e quanto si
stia impoverendo in relazione alle pratiche agronomiche, confrontando ad esempio la
vita intesa come quantità e numerosità delle forme viventi presenti nei suoli coltivati in
biologico o in convenzionale, la seconda è più direttamente percepibile in quanto stret-
tamente connessa ai sapori che arrivano al nostro palato sotto forma di vino, formag-
gi, pane e così via. Il PSR 2014/2020 offre alla Regione Abruzzo l’opportunità di in-
dagare in questi specifici settori e tale azione ricognitiva assume una particolare va-
lenza in ottica di conservazione in senso lato.
Nell’ultimo scorcio del 2012 la Regione Abruzzo ha approvato la legge regionale
n°64 il cui Titolo III è dedicato al recepimento obbligatorio di due Direttive Comunitarie
sulla normativa sementiera per le varietà autoctone. Con l’occasione è stato anche
affrontato l’argomento biodiversità nel suo complesso, delineando le funzioni, i modi e
le azioni che la Regione Abruzzo intende sviluppare in tema di tutela di varietà vegetali
minacciate di erosione genetica autoctone . (5)

Questa legge è stata però in diversi punti superata dalla promulgazione, a fine 2015,
della Legge quadro nazionale sull’argomento ,alla luce della quale dovrà essere rivi-
(6)

sta. Ciò non toglie tuttavia che si possa procedere nella sua applicazione per quelle
parti in cui non contrasta con la suddetta Legge Nazionale, in modo da evidenziare i
punti che necessiteranno di un opportuno adeguamento. Così come è scritto nella
Carta Costituzionale, l’agricoltura è materia di competenza delle Regioni, nel comples-
so, pur se diverse tra di loro, le leggi regionali italiane in tema di salvaguardia
della biodiversità autoctona collegata all’agricoltura sono contraddistinte dalla comune

5
(5) Legge Regionale 18 dicembre 2012 n°64 “Disposizioni per l’adempimento degli obblighi della Regio-
ne Abruzzo derivanti dall’appartenenza dell’Italia all’Unione Europea. Attuazione delle direttive 2006/54/
CE, 2008/62/CE, 2009/145/CE, 2007/47/CE, 2008/119/CE, 2008/120/CE, 2009/54/CE,
2004/23/CE, 2006/17/CE, 2006/86/CE, 2001/83/CE, 2002/98/CE, 2003/63/CE, 2003/94/
CE, 2010/84/UE, 2006/123/CE e dei regolamenti (CE) 1071/2009 E 1857/2006” (Legge europea
regionale 2012). (Pubblicata sul Bollettino Ufficiale Telematico della Regione Abruzzo Speciale 21-
/12/2012 n°92). Più nel dettaglio: si individua la Direzione regionale delle politiche agricole come organo
intermedio all’iscrizione delle varietà da conservazione nei registri nazionali tenuti dal Ministero competen-
te (art. 6); la Regione svolge istituzionalmente attività di promozione e salvaguardia delle risorse genetiche
con varie azioni e modalità (artt. 7 e 9); si definiscono le risorse genetiche indigene (art. 8); è istituito il
Repertorio volontario regionale in cui sono iscritti varietà, popolazioni, ecotipi e cloni di interesse regionale
(art. 10); viene istituita la Commissione tecnico-scientifica sulle risorse genetiche indigene vegetali che
esprime pareri (vincolanti) sulle richieste di iscrizione al Repertorio regionale (art. 12); è istituita la Banca
regionale del germoplasma quale deposito o raccolta ex situ di semi allo scopo di preservare la varietà
biologica e, parimenti, la figura dell’Agricoltore custode (artt. 13 e 14). Figura tra l’altro già adottata da
singoli interventi di recupero effettuati in autonomia dagli Enti parco regionali. E’ altresì prevista la Rete di
conservazione, tutela e salvaguardia del germoplasma composta dalla Banca del germoplasma e dagli
Agricoltori custodi oltre che da diversi soggetti pubblici e privati (art. 15).

49
consapevolezza dell’importanza della salvaguardia del patrimonio genetico delle
singole Regioni e della loro grande biodiversità, quest’ultima percepita come fonda-
mentale per la sopravvivenza del genere umano sul pianeta oltre che come interes-
sante opportunità di sviluppo per i territori ai quali le risorse genetiche autoctone
sono legate.

(4) Leggi regionali sulla biodiversità


BASILICATA - L.R. 14 ottobre 2008 n. 26 “Tutela delle risorse genetiche autoctone vegetali ed animali
di interesse agrario”.
EMILIA ROMAGNA - L.R. 29 gennaio 2008 n. 1 “Tutela del patrimonio di razze e varietà locali di
interesse agrario del territorio emiliano-romagnolo”.
FRIULI VENEZIA GIULIA - L.R. 22 aprile 2002 n. 11 "Tutela delle risorse genetiche autoctone di
interesse agrario e forestale".
LAZIO - L.R. 1 marzo 2000 n. 15 "Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario".
LIGURIA - L.R. 10 luglio 2009 n. 28 “Disposizioni in materia di tutela e valorizzazione della biodiversità”.
MARCHE - L.R. 3 giugno 2003 n. 12 "Tutela delle risorse genetiche animali e vegetali del territorio
marchigiano".
PIEMONTE - L.R. 29 giugno 2009 n. 19 "Testo unico sulla tutela delle aree naturali e della biodiversità".
PUGLIA - L.R. 11 dicembre 2013 n. 39 "Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario,
forestale e zootecnico".
SARDEGNA - L.R. “7 agosto 2014 n. 16 “Norme in materia di agricoltura e sviluppo rurale: agrobiodi-
versità, marchio collettivo, distretti”.
TOSCANA - L.R. 16 novembre 2004 n. 64 “Tutela e valorizzazione del patrimonio di razze e varietà
locali di interesse agrario, zootecnico e forestale”, che sostituirà completamente la L.R. 50/97 al mo-
mento dell'approvazione del regolamento di attuazione.
UMBRIA - L.R. 4 settembre 2001 n. 25 "Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario".

6
(6)Legge n°194 del 1 dicembre 2015 “Disposizioni per la tutela e la valorizzazione della biodi-
versità di interesse agricolo e alimentare”.2003/94/CE, 2010/84/UE, 2006/123/CE e dei regolamen-
ti (CE) 1071/2009 E 1857/2006” (Legge europea regionale 2012). (Pubblicata sul Bollettino Ufficiale
Telematico della Regione Abruzzo Speciale 21/12/2012 n° 92). Più nel dettaglio: si individua la Direzione
regionale delle politiche agricole come organo intermedio all’iscrizione delle varietà da conservazione nei
registri nazionali tenuti dal Ministero competente (art. 6); la Regione svolge istituzionalmente attività di
promozione e salvaguardia delle risorse genetiche con varie azioni e modalità (artt. 7 e 9); si definiscono le
risorse genetiche indigene (art. 8); è istituito il Repertorio volontario regionale in cui sono iscritti varietà,
popolazioni, ecotipi e cloni di interesse regionale (art. 10); viene istituita la Commissione tecnico-scientifica
sulle risorse genetiche indigene vegetali che esprime pareri (vincolanti) sulle richieste di iscrizione al Reper-
torio regionale (art. 12); è istituita la Banca regionale del germoplasma quale deposito o raccolta ex situ di
semi allo scopo di preservare la varietà biologica e, parimenti, la figura dell’Agricoltore custode
(artt. 13 e 14). Figura tra l’altro già adottata da singoli interventi di recupero effettuati in autonomia dagli
Enti parco regionali. E’ altresì prevista la Rete di conservazione, tutela e salvaguardia del germoplasma
composta dalla Banca del germoplasma

50
1.4 La biodiversità delle colture arboree nelle aree protette
abruzzesi e le iniziative per la conservazione e valorizzazione
Giuseppe Marcantonio, Marco Di Santo, Giorgio Davini, Elena Curcetti
La Regione Abruzzo, in passato assai poco conosciuta e “percepita” dall’opinione
pubblica il cui interesse si è in genere rivolto - fin dai tempi del Grand Tour - verso
direttrici più classiche del territorio italiano, ha in tempi relativamente recenti assunto
una propria ben definita caratterizzazione quale “Regione verde d’Europa”, grazie alla
presenza di vaste aree naturali o seminaturali che, senza nulla togliere al suo
ragguardevole patrimonio storico-culturale, rappresentano un carattere veramente
distintivo nell’ambito regionale italiano.
In questo contesto è pertanto del tutto naturale che l'Abruzzo si collochi al primo
posto in Italia per percentuale di superficie protetta, pari al 36% del territorio regio-
nale, con tre Parchi Nazionali, un Parco Regionale, circa 30 Riserve Naturali tra Sta-
tali e Regionali e varie altre aree tutelate di diversa tipologia. Non di meno, l’uomo vive
in questa regione fin dalla più remota preistoria, ed ha imparato ad utilizzarne le risor-
se dal mare fino alle vette più elevate, dando origine ad una realtà in cui gli scambi e
le relazioni tra ambiente naturale ed attività antropiche sono praticamente inestrica-
bili.
La Legge che regola la gestione ed il funzionamento della aree protette italiane,
n. 394/91, considerata all’epoca della sua promulgazione - ma nei suoi aspetti fonda-
mentali lo è ancora oggi - particolarmente avanzata anche a livello europeo in tema di
salvaguardia dell’ambiente, ha tenuto nella dovuta considerazione questo aspetto,
infatti, tra le sue finalità esplicite indica la “applicazione di metodi di gestione o di
restauro ambientale idonei a realizzare una integrazione tra uomo e ambiente natura-
le, anche mediante la salvaguardia dei valori antropologici, archeologici, storici
ed architettonici e delle attività agro-silvo-pastorali e tradizionali”.
Per questo la difesa ed il sostegno delle attività agricole tradizionali e la conservazione
della diversità agricola non sono un optional che gli organi gestori delle aree protette
adottano quale corollario alla superiore necessità di conservazione della biodiversità
naturale o semplicemente per andare incontro alle esigenze delle popolazioni locali,
ma un preciso compito istituzionale cui essi sono chiamati ad adempiere.
Di conseguenza, nelle aree protette abruzzesi sono state sviluppate ormai da molti
anni varie iniziative che vanno in questa direzione, alcune delle quali vengono descritte
in questo capitolo.

“Coltiviamo la diversità”: la tutela e la valorizzazione delle varietà


agricole autoctone nel Parco Nazionale della Majella.
Il territorio del Parco Nazionale della Majella, essendo tipicamente montuoso, è inte-
ressato solo marginalmente (7% circa del proprio territorio, esteso in totale per oltre
74.000 ettari) da aree agricole.
Tuttavia, la presenza di attività agricole tradizionali estensive è di fondamentale impor-
tanza anche ai fini della conservazione di habitat e specie di interesse prioritario, tra
cui lo stesso Orso bruno marsicano.
Peraltro, la marginalità del territorio e le difficili condizioni pedoclimatiche hanno
comportato il mantenimento non solo di tecniche agricole, ma anche di stili di vita
maggiormente ancorati alla tradizione, che hanno consentito la conservazione, a
volte anche solo a livello amatoriale, di varietà agricole locali altrove scomparse

51
L'Ente Parco ha ritenuto di farsi carico di promuovere la tutela e la diffusione di
queste varietà per varie motivazioni:

− contrastare l'erosione genetica che interessa il prezioso patrimonio di va-


rietà agricole locali, risultato di una lunga ed equilibrata coevoluzione tra
uomo e ambiente naturale;
− tutelare le tradizioni e l'identità del territorio, scopo istituzionale per un'area
protetta al pari della conservazione del patrimonio naturale;
− offrire alle popolazioni locali una possibile fonte di reddito dall'elevato valore
aggiunto, vista la maggiore consapevolezza che l'acquisto di prodotti legati
al territorio si sta diffondendo tra l'opinione pubblica.

Paesaggio olivicolo a Tocco Casauria (Pe) (G. Marcantonio)

Per questo nel corso degli anni ha dato vita a diverse iniziative a sostegno di agricoltu-
ra ed allevamento. Tra queste, il progetto COLTIVIAMO LA DIVERSITA', avviato nel
2002 in collaborazione con l'ex ARSSA.
Si tratta di un'iniziativa ambiziosa, avente l'obiettivo di recuperare, conservare e valo-
rizzare un patrimonio di indubbio valore biologico la cui perdita potrebbe determinare
anche un irrimediabile impoverimento in termini sociali ed economici. Non a caso il
lancio del progetto è avvenuto anche attraverso lo slogan SE MI MANGI MI SALVI,
nella convinzione della necessità di promuovere la salvaguardia delle antiche varietà
agricole autoctone ancora coltivate nel territorio dell’area protetta, risultato di una
lunga ed equilibrata coevoluzione attuata nel lungo periodo di tempo e determinata
dall’uomo agricoltore e dall’ambiente naturale, non solo relegandole in “musei all'area
aperta” quali sono i giardini botanici (senza comunque dimenticare che la conserva-
zione ex-situ rappresenta comunque un cardine importante delle attività di conserva-
zione) ma anche rinnovandone ed incentivandone il loro utilizzo.
Le ricerche condotte sul territorio hanno portato alla riscoperta ed alla catalogazione
di numerose varietà locali ancora gelosamente custodite dagli agricoltori; alcune
sono ancora diffuse su ampi territori altre invece sono coltivate da pochi o in alcuni

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casi da un singolo agricoltore. Naturalmente le attività di ricerca, catalogazione hanno
riguardato anche le specie fruttifere: tra le varietà più significative ricordiamo la pera
trentatrè once citata in alcuni scritti del 1700, la mela paradiso già conosciuta nel
1800 il cui nome dimostra l’alta considerazione acquisita grazie alle caratteristiche
organolettiche, la pesca testa rosce e tante altre.
In sostanza, il progetto si è articolato su vari
filoni di attività:
−Indagini sul territorio: il primo passo è sta-
to quello di raccogliere, mettere insieme ed
approfondire le conoscenze sul varie-gato
patrimonio di diversità agricola
presente sul territorio del Parco: opera-
zione solo apparentemente semplice
vista la morfologia del Parco, suddiviso in
vari versanti geograficamente ben
distinti e separati che, pur in presenza di
continui interscambi commerciali, han-no
mantenuto identità culturali e tradi-zioni
ben distinte fra loro (non a caso nella
toponomastica di tutta l'area figu-rano
ancora moltissimi riferimenti alla
Il logo del progetto “Coltiviamo la Diversità suddivisione preromana del territorio).
Sono state dunque compiute indagini alla ricerca di piante da frutto che potessero
suscitare interesse in quanto storicamente presenti da lungo tempo sul territorio ma
in via di rarefazione a causa del fatto che la loro coltivazione ha progressivamente
perso di interesse, e tuttavia meritevoli di un recupero o quanto meno di conservazio-
ne come testimonianza storica ed eventualmente riserva genetica;
− Costituzione del registro delle varietà: l'attività sopra descritta ha portato alla
redazione di un “registro delle varietà”, pubblicato per la prima volta nel 2004 e
costantemente aggiornato;

Particolare del laboratorio della banca del germoplasma di Lama


Paligni (Ch) (M. Di Santo)

53
In questo modo, questi frutteti, oltre ad avere la funzione di conservazione,
rappresentano una “vetrina della biodiversità” messa a disposizione dei ricerca-
tori e dei visitatori. In alcuni casi il recupero ha interessato anche cultivar o
specie rare presenti al di fuori del territorio del Parco;

− Conservazione ex-situ, possibile grazie alla presenza nel Parco di strutture


come i giardini botanici “D. Brescia” di S. Eufemia a Maiella e “M. Tenore” di
Lama dei Peligni, il quale dispone anche di una Banca del Germoplasma.
Qui il Parco svolge un’attività di conservazione ex situ operando, per quanto
riguarda le spe-cie fruttifere, un'attività di riproduzione e di conservazione di
alcuni esemplari nei cosiddetti “campi catalogo”. In questo modo, questi
frutteti, oltre ad avere la funzione di conservazione, rappresentano una
“vetrina della biodiversità” messa a disposizione dei ricercatori e dei visitatori.
In alcuni casi il recupero ha interes-sato anche cultivar o specie rare presenti al
di fuori del territorio del Parco;
− Creazione della rete degli agricoltori custodi: un aspetto particolarmente qualifi-
cante del progetto è stato il coinvolgimento degli agricoltori locali, che si sono
impegnati a mantenere in coltura e propagare le varietà individuate. A questi,
il Parco ha fornito assistenza in vari modi: sostegno per la realizzazione di nuovi
impianti fruttiferi con varietà locali, sostegno alla trasformazione, commercializ-
zazione e valorizzazione delle produzioni, sostegno per l’avvio delle procedure
necessarie all’ottenimento della certificazione biologica, assistenza tecnica ecc.;

− Attività didattiche e promozionali, mediante l'incentivazione dell’utilizzo di prodotti


ottenuti da varietà locali nelle mense scolastiche, l'attivazione di percorsi didattici
specifici, la redazione di testi ed opuscoli divulgativi, ricettari, eventi tematici
e altro;

− Creazione di una “rete dei ristoratori”: con quest'azione si è cercato in pratica di


“chiudere il cerchio”, almeno per quelle varietà ancora potenzialmente in grado
di suscitare un certo interesse commerciale, dando loro uno sbocco di mercato.
I ristoratori si sono impegnati ad inserire nei loro menu anche prodotti ottenuti
da varietà locali (inclusa la frutta trasformata e non), ad elaborare apposite
ricette, a partecipare a specifici eventi tematici;

− Attraverso questo progetto dunque il Parco Nazionale della Majella si propone


quale strumento per la valorizzazione delle produzioni tradizionali nella loro
espressione più autentica e quale punto di incontro di interessi diversi ma non
contrastanti, tra la necessità di assicurare la conservazione dell’ambiente natu-
rale e l’esigenza di garantire progetti credibili di sviluppo sostenibile e condivisi
con le popolazioni residenti.

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La biodiversita’ agricola per il Parco Nazionale del Gran Sasso
e Monti della Laga
Il Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga si estende per oltre 150.000
ettari, un territorio vasto che attraversa le regioni Abruzzo, Lazio e Marche. Le due
formazioni montuose che ne costituiscono l'ossatura principale, l'una arenacea e
l'altra di natura calcarea, fanno da cornice alla vetta più alta dell’Appennino, il Corno
Grande (2.912 m), che custodisce il ghiacciaio più meridionale d’Europa, il Calderone.
All’interno del Parco è compreso anche l’altopiano più esteso del continente europeo,
Campo Imperatore, dove si concentrano numerose specie endemiche.
Questa particolare conformazione geomorfologica determina una notevole diversifica-
zione climatico-vegetazionale, che ha permesso lo sviluppo di una elevata varietà di
paesaggi agrari, quali, ad esempio, i vigneti rupestri della Laga, gli orti lungo il fiume
Tirino, i vigneti nella conca di Ofena, i mandorleti nel versante meridionale aquilano e
gli uliveti di quello pescarese.
Il Parco, consapevole del proprio ruolo in difesa dell'agricoltura tradizionale e del
corretto mantenimento della montagna, ha promosso diverse iniziative in favore
dell'agricoltura che hanno portato alla costituzione di una preziosa Rete di Agricoltori
Custodi, contadini locali che hanno contribuito a censire il patrimonio agricolo in via
di estinzione mantenendo in vita la ricchezza genetica recuperata attraverso la
coltivazione.

Mandorli in fiore (M. Anselmi /Archivio Ente Parco Gran Sasso Laga)
Elemento essenziale da cui è dipeso il successo di questi progetti è stato senza
dubbio il coinvolgimento degli agricoltori locali ma, soprattutto, il profondo attacca-
mento che questi mostrano nei confronti della loro terra, dei loro paesi e delle tradi-
zioni che gelosamente custodiscono e cercano di tramandare alle nuove generazioni
Qui infatti, nonostante lo spopolamento delle aree interne registrato negli ultimi
decenni, si osserva un positivo ritorno ai mestieri antichi ed alle professioni dei padri.
Così gli agricoltori custodi sono quei preziosi “strumenti sul territorio” che hanno
consentito al Parco di collezionare le antiche varietà colturali ancora disponibili, di

55
ridistribuirle a nuovi agricoltori e di mantenerle in vita. Forte di questi risultati e con il
supporto concreto degli agricoltori che operano sul territorio, il Parco è diventato un
punto di riferimento per le antiche varietà colturali ed è costantemente in attività per
raccogliere segnalazioni, informazioni storiche e campioni di tante tipicità colturali
locali che necessitano di essere mantenute in vita. Tali informazioni sono andate a
costituire un catalogo informatico delle risorse genetiche del Parco, costantemente
aggiornato ed arricchito. Gli aderenti ai progetti del Parco, agricoltori giovani ed e-
sperti, si ritrovano al singolare appuntamento annuale di Seminlibertà.
In occasione dell’Estate di San Martino, nel periodo in cui tradizionalmente si conclu-
de l'annata agraria, si tiene da anni questo evento, il momento più adatto per lo scam-
bio dei semi, incontrarsi e condividere aspetti e problematiche legate alla ruralità.
Qui sono in mostra anche gli usi e costumi della tradizione locale raccontati e traman-
dati dagli stessi custodi. Seminlibertà affonda quindi le proprie radici nella tradizione e
nei riti popolari come momento di aggregazione e per propiziare il raccolto, ma guar-
da al futuro come strumento di trasmissione e condivisione dei saperi.
In questo contesto, la tradizione e la cultura popolare locale si sono consolidate ed
hanno consentito, tra le altre cose, il mantenimento fino ad oggi di alcune particolari
tipologie storiche di coltivazione di fruttiferi.
Da qui si è partiti per estendere la ricerca ed approfondire ulteriormente l’indagine su
tutto il territorio protetto, alla riscoperta degli ultimi esemplari di fruttiferi risparmiati
dall'abbandono, dall’incuria dell’uomo o dall’inclemenza della natura.
Il recupero di questi fruttiferi, chiamati “minori” o “dimenticati”, noti anche come anti-
chi od autoctoni, ha interpretato il forte sentimento degli operatori del Parco ed il
loro profondo attaccamento al territorio, alle loro storie e tradizioni, ma ha risvegliato
anche i ricordi dell’infanzia non troppo lontana e i sapori mai dimenticati.

Il logo del progetto “Fruttantica”


Il progetto Fruttantica quindi ha inteso recuperare le antiche varietà di piante da
frutto un tempo coltivate ed oggi tendenzialmente abbandonate oltre che rilanciarne
la coltivazione per finalità produttive, didattiche ed educative. Per antiche varietà si
intendono infatti quelle varietà selezionate nei secoli dagli uomini nelle zone collinari e
montane, che erano un tempo coltivate vicino ad ogni podere proprio per le loro
caratteristiche di adattabilità al clima ed al territorio, frugalità e rusticità, peculiarità
di produrre frutti lungo una stagione prolungata e, soprattutto, conservabili per lunghi
periodi. Il progetto ha messo in luce, anche attraverso testimonianze storiche, la
straordinaria ricchezza di varietà locali di alberi da frutto diffusi nel territorio.

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Il progetto, avviato nel 2010, si è sviluppato per fasi partendo da un iniziale censimen-
to sul territorio delle antiche varietà ancora esistenti grazie al contributo ed alle indi-
cazioni fornite dagli agricoltori del Parco che hanno raccolto e messo a disposizione
le marze dei fruttiferi autoctoni. Gli innesti e la successiva moltiplicazione sono stati
affidati alle cure di un vivaista locale particolarmente esperto e attento alle piante
autoctone.
Con l'obiettivo di recuperare anche i saperi e le conoscenze di carattere tecnico, sono
stati quindi realizzati diversi incontri formativi per la divulgazione delle tecniche di inne-
sto e potatura.
Successivamente, il Parco ha distribuito 40 giovani piantine innestate ad oltre 30
aderenti al progetto, per un totale di oltre 1200 nuovi alberi e, per ciascun nuovo
frutteto realizzato, è stata anche finanziata la realizzazione di una recinzione e, ove
necessario, l’impianto di irrigazione per il sostentamento idrico dei primi anni di svilup-
po.
L’iniziativa ha permesso di realizzare anche altri frutteti con finalità educative presso
l’Istituto professionale Di Poppa di Teramo e presso il giardino del “Parco in miniatu-
ra” nel Comune di Amatrice (RI).
Il progetto si è posto altresì l'obiettivo di sensibilizzare l’opinione pubblica ed il consu-
matore sul tema della conservazione delle tradizioni, sulla coltivazione degli alberi da
frutto, come pure di valutare le condizioni opportune per il reinserimento produttivo di
alcune vecchie varietà da immettere nuovamente sul mercato. Le speranze infatti
sono riposte in un possibile recupero di questa biodiversità coltivata, non solo in ter-
mini scientifici ed agronomici o di memoria storica del nostro recente passato ma,
soprattutto, anche nell'offrire un’opportunità di sviluppo di economie locali e di piccola
scala basate sulla compatibilità ambientale, la valorizzazione del territorio ed il ritorno
ad antichi sapori.
Ultimo ma non meno importante anello di tutte le iniziative sin qui promosse è rappre-
sentato dai trasformatori per eccellenza del patrimonio agricolo tutelato, ovvero i
ristoratori locali ai quali il Parco ha conferito un compito essenziale riconoscendogli il
ruolo di Ristoranti Custodi. Sono questi infatti gli ambasciatori del territorio cui sem-
pre più spesso è demandato il compito di trasmettere i saperi del luogo ed emoziona-
re il visitatore attraverso i piatti della tradizione ed una straordinaria varietà di mate-
rie prime.

Le Iniziative Del Parco Regionale Del Sirente Velino


Il Sirente-Velino è l’unico Parco Regionale nell’Abruzzo cuore verde d’Europa. Il suo
territorio ha una superficie di 50.400 ettari e comprende tre aree ben distinte:
la Valle dell’Aterno, disseminata di borghi agricoli dalle ricche tradizioni popolari,
l’altopiano delle Rocche a vocazione principalmente turistica e la Marsica dagli elevati
valori naturalistici.
L’Ente Parco sin dal 1999 ha avviato, con la supervisione dei tecnici dell’ex Agenzia
Regionale di Sviluppo Agricolo, delle ricerche per dotarsi di una banca dati sulla
biodiversità agricola del territorio. Questa iniziativa si inserisce all’interno dell’accordo
quadro regionale attraverso il quale si sono potute ricavare le risorse necessarie allo
sviluppo di una serie di azioni concrete quali:

− l’affidamento ad agricoltori locali di alcune aree da sottoporre a coltura al fine


di realizzare una serie di impianti produttivi, organizzati in rete con l’obiettivo di
valorizzare la biodiversità autoctona;

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− l’organizzazione di Fiere per la promozione e la commercializzazione delle antiche
produzioni;
− la creazione di campi catalogo di fruttiferi dislocati in diversi ambiti territoriali;
− la pubblicazione del “Repertorio delle varietà autoctone del Parco Naturale Regio-
nale Sirente Velino”, realizzato sotto forma di schede in grado di essere costante-
mente aggiornato ed incrementato.
Sempre all’interno del progetto, è stato inoltre creato il “Giardino delle Piante Officina-
li” a Fontecchio, uno dei Comuni del Parco.

Il ruolo fondamentale dei “Custodi della Memoria (M. Di Santo)

Il Giardino della Memoria di Lucoli (AQ): il ricordo delle vittime del terremoto
del 2009 attraverso il recupero di frutti dimenticati
Emanuela Mariani
Il Giardino della Memoria di Lucoli (AQ), dedicato alle vittime del sisma d’Abruzzo del
2009, vive in un terreno a 1000 m sul livello del mare, situato nella Frazione di Collimen-
to e prospicente all’Abbazia di San Giovanni Battista. Questo importante sito religioso,
amato dai lucolani, è stato edificato nel 1077 dal conte Odorisio di nazione Franca, ap-
partenente ad un ramo della famiglia dei conti dei Marsi.Fino al 1978 in quel terreno
c’erano stati degli orti, successivamente fu lasciato a prato. Oggi vi vegetano, invece, una
settantina di piante da frutto appartenenti a 17 specie botaniche. Ciliegi, meli, peri e

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susine sono rappresentati con un buon numero di antiche varietà, alcune rare e in molti
casi salvate da terreni dismessi dall’agricoltura. Il Giardino nasce dalla vocazione ambien-
talista dei soci di NoiXLucoli Onlus, dal profondo dolore scaturito all’indomani del terre-
moto del 2009 e dall’esperienza di due persone fondamentali: Enzo Sebastiani, vivaista,
erede di due generazioni di vivaisti forestali, e di Rafael Ovadia, Procuratore del Keren
Kayemeth LeIsrael Italia. Il Giardino della Memoria è stato, infatti, realizzato in collabora-
zione con l’Associazione ecologista israeliana che voleva dimostrarsi solidale con le terre
colpite dal sisma e, nello stesso tempo, riconoscente verso la Comunità aquilana per i
tanti ebrei salvati dalle deportazioni durante la seconda guerra mondiale. Il progetto del
Giardino è della Società Agros Realizzazioni di Roma del Dott. Agronomo Franco Monti.
Gli alberi hanno i nomi di un passato lontano, di un mondo contadino che sbiadisce: Melo
zitella, Melo Striata Inverno, Melo Poggio Santa Maria, Melo antico Gelata d’Abruzzo,
Melo Limoncella, Melo Cipolla, Pero Bianco del frate, Pero Coscia, Albicocco di Rocca
Calascio ecc. Le vecchie cultivar che sono state impiantate nel Giardino oggi costituisco-
no una piccola collezione del germoplasma frutticolo di Lucoli e dintorni. Il progetto, infat-
ti, voleva salvaguardare le risorse genetiche vegetali locali sia perché si è consapevoli
della loro importanza ecologica sia per conservare e condividere questo prezioso mate-
riale genetico. Non va dimenticata la finalità culturale del Giardino che intende ricreare
paesaggi ricchi di agro-biodiversità attraverso il recupero di sapori ed emozioni perdute.
Il frutteto occupa circa 2000 mq ed è incastonato ai piedi della maestosa Abbazia di
San Giovanni Battista, a sua volta circondata da vigorosi querceti. Il contesto è di grande
spiritualità.

Il frutteto riporta ai tempi passati, quando i frigoriferi ancora non c’erano e la frutta di
diverse specie e varietà maturava a scaglioni in quasi tutti i periodi dell’anno, perfetta-
mente funzionale all’alimentazione delle famiglie contadine. Come accadeva una volta,
varietà diverse della stessa specie oggi convivono a pochi metri di distanza. Qualcuna
affronta meglio il gelo. Qualcun’altra è capace di resistere comunque alla siccità
(l’appezzamento non ha sorgenti d’acqua e l’irrigazione è manuale). Altre ancora soprav-
vivono meglio alle malattie. Il custode di questa esperienza è Enzo Sebastiani che cura
le piante con la sua maestria professionale e con vero affetto. Il Giardino della Memoria

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di Lucoli è forse un laboratorio della biodiversità e del paesaggio rurale, costruito sulle
esperienze degli ultimi testimoni della civiltà contadina dell’aquilano, specificatamente
delle zone di Montereale, Capitignano, Farindola, Tornimparte, ecc., dove ancora si pos-
sono trovare i resti viventi degli antichi frutteti. Coltivando queste piante NoixLucoli Onlus
insegue frammenti di memoria di una cultura intessuta sul rispetto per la natura e la
sua stagionalità, quando c’era tempo per tutto e per ogni cosa. La nostra tenacia è stata
sostenuta dall’amore per la nostra terra, ma a questo sentimento abbiamo voluto unire
il “senso della memoria”, un’occasione per non dimenticare le 309 vittime del terremoto
e le migliaia di persone che continuano a portare dentro il dolore per la perdita dei propri
cari. Il Giardino ad oggi è l’unico luogo nell’aquilano ove sono scritti e ricordati in un
monumento tutti i nomi delle vittime del sisma.
Gli alberi del frutteto si adottano. Molte persone hanno scelto di associare il loro nome
ad alcune piante. Alcune tra le tante: l’Astronauta Paolo Nespoli che ha adottato un
“Pero Spadona Invernale”, lo scrittore statunitense Don Cushman che ha adottato un
“Melo imperatore”, Lee Briccetti, General Manager della “Poets House” di New York che
ha adottato un “Melo Rosso d’Estate”, i Volontari della Protezione Civile della Valle
d’Aosta che hanno adottato una “Pesca tabacchiera”, L’Associazione Pro Natura l’Aquila
che ha adottato un “Sorbo domestico” e molti altri.

I progetti di conservazione nelle riserve naturali


Mario Pellegrini
La Riserva Naturale Regionale "Lago di Serranella", sorta alla fine degli anni '80 per
la tutela di un ambiente palustre lungo la bassa vallata del Sangro, tra i comuni di
Altino, Casoli e Sant'Eusanio del Sangro nella provincia di Chieti, include al suo
interno e soprattutto nella fascia di rispetto ampi territori agricoli. Nel Piano di
Gestione dell'area protetta erano stati previsti interventi volti al recupero e alla con-
servazione di antiche cultivar, delle tradizioni e delle tecniche di coltivazione.
Nell'ambito del Progetto per la tutela del patrimonio vegetale e del paesaggio rurale
a partire dal 2006, con il coinvolgimento anche del locale Centro di Educazione
Ambientale, sono state avviate la realizzazione e la ricostruzione dei caratteristici
ambienti rurali delle vallate fluviali all'interno della Riserva e dei territori limitrofi,
patrimonio divenuto ormai raro e in via di scomparsa.
In questo ambito è stato realizzato presso il centro visite della Riserva l'Orto medie-
vale (con pagliaio, vivaio, rola e concimaia) per un’azione di tutela del germoplasma
sia di specie arboree che erbacee coltivate prima della scoperta dell’America, ed
un’azione di ricerca scientifica e documentazione di sostegno volta principalmente
alla sensibilizzazione dei privati.
È stata inoltre realizzata un'esclusiva carpoteca con la raccolta di numerosi semi di
antiche varietà locali e abruzzesi di frutti, cereali, ortaggi, legumi, piante officinali e
tintoree. Collegato a questo sistema anche il Giardino dei legumi di montagna pres-
so la Riserva Naturale Regionale "Abetina di Rosello" (CH), dove vengono coltivati i
caratteristici legumi delle aree interne abruzzesi, spesso ormai in disuso. È invece in
fase di realizzazione presso un'altra riserva naturale, quella del Bosco di Don
Venanzio a Pollutri (CH) la reintroduzione della vite selvatica e la ricostruzione di un
vigneto storico d'Italia in cui verranno raccolti antichi vitigni nonché tutte le antiche
tecniche di coltivazione a partire dall'epoca italica.
A Serranella sono stati realizzati il Giardino di Pomona, nel territorio di Sant'Eusanio
del Sangro nei pressi del centro visite, e il Giardino degli Ulivi nella Contrada Taverna
Nova nel territorio di Casoli.

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Il giardino di Pomona
Pomona era l’antica dea preposta alla cura e salvaguardia dei frutteti degli antichi
Romani. Per questo abbiamo voluto indicare con la denominazione di “Giardino di Po-
mona” il frutteto che accoglie le piante fruttifere dimenticate e le antiche varietà or-
mai abbandonate. Questa struttura si estende su una superficie di circa mezzo etta-
ro, all’interno del più ampio Giardino botanico mediterraneo, e ospita diverse piante
fruttifere non più in uso, oggi considerate frutti minori, ma che un tempo erano tenute
in ben altra considerazione. È il caso dell’azzeruolo, un biancospino dal frutto edule,
del melo cotogno, del giuggiolo, del sorbo domestico, del nespolo germanico, soppian-
tato in tempi recenti dal nespolo giapponese, del visciolo, del corniolo, pianta presente
anche allo stato selvatico ma che in epoche antiche fu coltivata per i suoi frutti. Se-
guendo una tradizione millenaria, forse risalente ai Sanniti, sono stati piantati alberelli
di sambuco lungo i confini.
Inoltre nel Giardino vengono coltivate diverse varietà di piante fruttifere dell’Abruzzo e
in particolare della vallata del Sangro. Si tratta di cultivar tradizionali del territorio,
selezionate nel corso dei secoli e che oggi rischiano di scomparire nel volgere di pochi
anni. Qui si possono osservare le tante varietà di mele, tra cui la mela casolana canta-
ta dal Boccaccio nel XIV secolo, la tinella, la gelata, la mela mangione dell’area monta-
na, consumata essenzialmente cotta, e tante altre. Lo stesso per le pere, le ciliegie e
le pesche. Quest’ultima specie oggi costituisce una risorsa agronomica di grande
rilevanza per la bassa vallata del Sangro ed in particolare nel territorio di Atessa, nelle
località di Piazzano e Saletti a ridosso del fiume, dove si estendono i principali pescheti
della regione. Nel Giardino sono state raccolte alcune cultivar di pesche antiche; più
ricca è, invece, la raccolta delle antiche varietà di fichi, dalle più pregiate, come il fico
reale, cuore, callare, turco e brisciotto, a quelle di minor interesse economico, come
la rinicella, la palazzo, la traianelle, la lattarola, oppure la rossa o pacentrana.
Il progetto prevede inoltre azioni di collaborazione con gli agricoltori locali, recupero e
valorizzazione delle cultivar, interventi didattici con le scuole per la realizzazione di orti
didattici e collegamento con la rete nazionale per la tutela dei frutti dimenticati.

Il giardino degli ulivi


La scelta di realizzare un piccolo Giardino degli ulivi nei pressi di uno dei principali
accessi della Riserva di Serranella e nel territorio di Casoli, nonché nei paesi limitrofi,
si deve all'estensione di vasti uliveti la cui coltivazione è documentata da quasi 4000
anni. La presenza di alcune di queste varietà è documentata in zona almeno dal XVIII
secolo grazie alla loro menzione in rogiti notarili o altri documenti scritti: indosso,
olivastro, crognalegno, ghiandaro, gentile, cerregno.
Nel territorio si possono osservare olivi secolari con dimensioni straordinarie nella
regione Abruzzo. Molti di questi patriarchi arborei si localizzano proprio nei dintorni
della Riserva di Serranella, in particolare nelle contrade Taverna Nova, Guarenna e
Selva di Altino.

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Altri colossi arborei, tra i più grandi della regione, si localizzano in località Fara d’Archi
e Valle Cupa di Bomba. Si tratta di olivi appartenenti principalmente alle varietà oliva-
stro o di vecchie cultivar oggi sconosciute. Sui tronchi enormi, contorti e cariati il tem-
po ha lasciato le sue tracce. Veri e propri monumenti della natura e del lavoro dei
contadini, meritevoli del nostro rispetto e della nostra ammirazione.
Nel Giardino sono state già trapiantate alcune delle varietà più diffuse: gentile, cucco,
crognalegno, indosso, cerregno, olivastro, ghiandaro, scioreva, dolce.

L'Abruzzo, regione del fico


Mario Pellegrini

In Abruzzo la presenza del fico è antichissima e la sua distribuzione è coincidente con


quella dell'ulivo, in modo particolare nell'area costiera, collinare ma anche nelle zone
interne, in particolare nelle conche montane, quella Peligna e di Capestrano, in
misura minore in quella aquilana e del Fucino. Probabilmente la coltivazione del fico
nella regione è da ritenersi già praticata nella tarda Età del Bronzo insieme al man-
dorlo e soprattutto all'olivo e alla vite. Infatti nell'epoca romana questo frutto era già
ampiamente diffuso e alcuni comprensori si erano specializzati nella sua produzione,
commercializzazione ed esportazione. Proprio all'area del Fucino risale la prima
notizia di questa specie in Abruzzo. Plinio tramanda un’informazione preziosissima
sulla introduzione nel suolo abruzzese delle qualità di fichi denominati cottani
(cottanus) dalla Siria e i fichi pregiati della Caria (caricae), importati direttamente da
Lucio Vitellio, console in Siria fino al 37 d.C. Al suo rientro introdusse in una sua tenu-
ta abruzzese, nel territorio di Alba Fucens, i fichi sopra menzionati, un prodotto diffuso
poi nell’intera regione e conosciuto come li caracine o li carracini o li carracine o
li carricini, termini tutti che designano i fichi secchi nelle varianti dei dialetti locali e la
cui etimologia probabilmente ha origine dall'antica regione Caria nel settore sudocci-
dentale dell'attuale Turchia. L'Abruzzo ospita anche popolazioni di fichi probabilmente
selvatici, mai addomesticati, come ad esempio quelle che crescono abbarbicate sul
versante orientale della Maiella all'interno dei valloni e in particolare nella forra del
Fossato di Fara San Martino.
Anche il territorio di Atessa, oggi riconosciuto presidio Slow Food per i fichi secchi,
vanta un'antica tradizione nella produzione, essiccazione e commercializzazione insie-
me a pochi altri paesi della provincia di Chieti; non a caso gli atessani vengono appella-
ti con l'epiteto di "squacciafichere" proprio per la specializzazione nello schiacciamen-
to dei fichi per l'essiccazione. Qui, a seguito di scavi archeologici condotti in località
Acquachiara nell'area di Monte Pallano, nell'isola amministrativa del comune di Ates-
sa, un'équipe di archeologici coordinati dalla prof.ssa Susan Kane dell'Università di
Oberlin (USA) ha rinvenuto, in un insediamento probabilmente riferibile a una villa
rustica risalente al I secolo d.C., un deposito con resti carbonizzati di fichi, uva e susi-
ne. La coltivazione dei fichi nel territorio di Atessa vanta antiche e prestigiose tradizio-
ni, sia sotto il profilo botanico, con la coltivazione di numerose e diversificate varietà di
gran pregio, sia per le implicazioni folcloriche, gastronomiche e linguistiche che si
possono ancora rintracciare nel tessuto socio-culturale e toponomastico della città.
Solo nel territorio di questo Comune sono state catalogate circa venti diverse varietà,
tra le oltre cinquanta diffuse in tutta la regione, tra queste quelle denominate
"renicella", probabilmente i fichi (erinas) citati dal poeta greco Ateneo. Probabilmente
anche la varietà "dottato", diffusa non solo in tutto Abruzzo ma anche in altre regioni,
ha la stessa origine da "uttane" dal latino "cuttanus" derivato a sua volta dal greco
"kottanun".

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Gli atti notarili ed i documenti archivistici, gli Statuti Municipali ed i Chronica dei mona-
steri e delle abbazie testimoniano il radicamento della pianta di fico in modo capillare
nel territorio abruzzese, essi riportavano altresì ferrei regolamenti nella preparazione
dei fichi secchi. Lo storico D. Romanelli riporta un dato documentario di rilevante
spessore: «Ha parimenti questa Regione un esteso commercio interno, ed esterno a
cagione delle molte comode spiagge, e imboccature di fiumi, che servono di porto a’
Navigli, cioè Aterno, Sangro, Trigno, e Fortore, e in esse in ogni anno si caricano le
derrate della Provincia per farne smercio in Venezia, in Trieste, in Ferrara, oltre l’Alba-
nia, e i Regni bagnati dal Mediterraneo. Queste derrate sono gli olj, i grani, i vini, i gra-
ni d’India, l’aceto, i fichi secchi, e qualche altra»
Agli inizi del XIX secolo, nella Descrizione del Regno delle due Sicilie di G. Del Re
(1835), si ribadisce che gli alberi da frutto producono frutti copiosi: «i fichi sono in tale
e tanta abbondanza che molti comuni de’ Distretti di Chieti e di Lanciano ne seccano
al sole ed al forno una quantità così eccessiva, che oltre il consumo interno ne vendo-
no una parte alle genti di montagna, ne imbarcano un’altra per la Dalmazia, Fiume,
Trieste, Venezia, e ne traggono circa 15000 ducati l’anno. Di luogo in luogo si appas-
siscono anche le prugne nere, le pesche, le mele, le uve e le amarasche comunemen-
te dette amarene, le quali non formano oggetti di vendita ma di consumo interno alle
famiglie.»
I primi decenni del XX secolo continuano a registrare ottimi produzioni di fichi secchi
per tutto il territorio regionale, ma la produzione va scemando progressivamente
negli ultimi decenni del secolo e rimane confinata prevalentemente al consumo inter-
no, tuttavia l’Abruzzo, in tutte le pubblicazioni di riferimento, compare sempre ai primi
posti delle classifiche tra le regioni italiane che si segnalano e si affermano nel pano-
rama nazionale per la coltivazione, essiccazione e commercio dei fichi, nonché in tutti
gli utilizzi accessori a quelli culinari, soprattutto in ambito salutistico per una lunga
serie di preparazioni ‘salutifere’ di matrice popolare, a base di fichi, soprattutto sec-
chi, per una serie di affezioni diverse.

Essiccazione di fichi su graticci di canne nel centro stori-


co di Fara S. Martino. Immagine realizzata nel 1925 dal
Fichi selvatici nella forra del fotografo Paul Scheuermeier, durante le ricerche etno-
Vallone Fossato a Fara S. Martino linguistiche svolte in Abruzzo tra il 1923 e il 1930, insie-
(CH)nel Parco Nazionale della me al linguista Gerhald Rohlfs
Majella. (M. Pellegrini)

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1.5 La frutta nei dolci e liquori tradizionali abruzzesi
Mirella Di Cecco

Il paesaggio agricolo Abruzzese, soprattutto nelle aree collinari della regione, è essen-
zialmente caratterizzato dalla presenza di vigneti e oliveti eppure la diversità di
ambienti e la morfologia di questa regione prevalentemente montana, basti pensare
che si passa dal mare alla montagna in poche decine di chilometri, ha permesso la
coltivazione anche di una grande diversità di varietà fruttifere, dalle pesche nelle valla-
te, alle arance sul litorale o alle mandorle nelle conche aquilane. Nella stragrande
maggioranza dei casi, gli alberi da frutta non sono però la coltura dominante delle
aziende agricole ma costituiscono un elemento di contorno dove questi vengono colti-
vati per lo più per il proprio autoconsumo. Un caso a sé è rappresentato dall’uva che
poi è infatti alla base di molte ricette come prodotto trasformato.
Quando però si parla di ricette tradizionali realizzate con la frutta si fa fatica a pesca-
re nei ricordi, forse perché in passato questa veniva mangiata fresca e non si faceva
ricorso alle celle frigorifere, come al giorno d’oggi, che permettono una lunga
conservazione e un consumo in ogni periodo dell’anno. La frutta invece veniva per lo
più trasformata in confetture e liquori, o semplicemente seccata per poi essere utiliz-
zata nella preparazione di dessert o consumata in quei periodi dell’anno in cui la terra
è più avara di frutta fresca.
Nel tempo comunque, in Abruzzo, grazie anche alla presenza di un territorio comples-
so ed articolato ed all’influenza di elementi culturali diversificati, i dolci della tradizione
si sono sviluppati in una specificità e varietà estremamente ampia ed a volte lo stesso
dolce si presenta con numerose varianti a seconda del paese.
La frutta pertanto non è l’elemento dominante nei dolci della tradizione, ma trasfor-
mata, viene utilizzata in una disparità di dessert, come la “sfogliatella di Lama” dei
Peligni, in provincia di Chieti, ideata all’inizio del secolo XX da una nobildonna locale
che ispirandosi alla tradizione napoletana, rielaborò la ricetta adattandola ai suoi gusti
ed alla disponibilità di ingredienti di facile reperibilità nel territorio. Questo dolce, la
cui ricetta rimase segreta per lungo tempo, ha una base di pasta sfoglia che con
l'ausilio dello strutto diventò più morbida, con una farcitura costituita da marmellata
d'uva Montepulciano e di amarena, mosto cotto e noci. La delicatezza della sfoglia e il
sapore più deciso della farcitura caratterizzano la sfogliatella lamese che oggi è
a pieno titolo inserita nell'elenco dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali della regione
Abruzzo. Accanto alla sfogliatella non possiamo non citare le ferratelle, conosciute
anche come neole, coperchiole o pizzelle, un dolce tipico abruzzese, simile ad una cial-
da, di spessore e forma variabile da quella rettangolare, a ventaglio, a rombo o roton-
da. Questo dolce in alcune zone dell’Abruzzo viene riempito con la “scrucchiata” una
marmellata di uva Montepulciano, dove gli acini d’uva vengono “scrocchiati” tra le dita
per eliminare i vinaccioli. Il liquido ottenuto un tempo veniva fatto cuocere nei paioli di
rame e ridotto di volume fino ad ottenere la consistenza di una marmellata densa.
Il ripieno a base di marmellata d’uva con diverse varianti, quali ceci, castagne, noci,
cacao e mosto cotto viene utilizzato anche per i “ceci ripieni o celli”, dolci natalizi simili
a dei fagottini. Se tra i frutti consideriamo anche le noci e le mandorle, una delle pre-
parazioni dolciarie caratteristiche dell’Abruzzo interno in particolare delle conche
aquilane, dove era diffusa la coltura delle mandorle, è proprio la “malterrata o man-
dorle atterrate”. E’ una preparazione, tipica del periodo natalizio, dove le mandorle
vengono tostate e caramellate nello zucchero o rivestite da cioccolato amaro a seconda

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dell’usanza del paese. Le mandorle sono poi un ingrediente diffuso nella tradizione
culinaria più disparata. Nel teramano sono l’ingrediente principale per la preparazione
dei “pepatelli”, biscotti che ricordano il pan pepato, mentre nella zona Lanciano nel
chietino costituiscono un ingrediente importante per la farcitura del “bocconotto”
dolce citato nel "Vocabolario abruzzese" di Domenico Bielli (1930).
Quando poi si parla di frutta conservata ci viene in mente anche la cotognata, realizza-
ta appunto con le cotogne, che non è altro che una confettura più densa, un dolce “a
lunga conservazione” che d’inverno serviva anche a curare i mali di stagione. Veniva
confezionata sotto forma di uno strato spesso seccato in forno su carta oleata.
Una nicchia a se è formata dai frutti selvatici come i frutti di bosco che in alcune aree
interne vengono utilizzati per essere trasformati in liquori, come il “fragolino” realizza-
to con le fragole di bosco mentre i ribes, in alcuni paesi come Civitella Alfedena nel
Parco Nazionale d’Abruzzo, Lazio e Molise venivano e vengono tutt’oggi trasformati in
confetture e sciroppi o gelatine, quest’ultimi ottenuti dalla parte liquida del prodotto
in cui viene aggiunta una maggior quantità di zucchero. Anche con le amarene si rea-
lizzano marmellate o lo sciroppo che viene utilizzato per la preparazione di bevande.
In alternativa ricoperte di zucchero e poste per quaranta giorni al sole si ottiene un
liquido denso utilizzato per diverse preparazioni come le macedonie di frutta o le
creme. Tra i prodotti della tradizione è necessario citare anche il mosto cotto, una
produzione che accomuna tutto l’entroterra abruzzese. Tradizionalmente le uve utiliz-
zate sono quella di Montepulciano e nel chietino quelle della Cococciola. Per ottenerlo,
si sottopone il mosto fiore ad accurato filtraggio ed a successiva cottura. In passato
la cottura avveniva in paioli di rame in cui, raggiunta l’ebollizione, il mosto veniva lascia-
to addensare per circa tre ore ottenendo un volume di circa un quarto di quello di
partenza. Una volta imbottigliato può essere conservato per due o tre anni. Il mosto
cotto è un ingrediente impiegato da sempre nella preparazione di dolci tipici.
Un capitolo a parte meritano poi i liquori della nostra tradizione realizzati con la frutta
tra cui spicca il vino cotto, un prodotto tipico della tradizione agroalimentare abruz-
zese, riconosciuto dal Ministero delle Politiche Agricole. È prodotto con l’uva di Monte-
pulciano d’Abruzzo, il cui succo viene cotto a fuoco lento per varie ore fino ad ottenere
la riduzione del volume anche oltre il 50%, inseguito questo mosto concentrato è
messo a riposare (a volte ed a esso viene mescolato molto lentamente del mosto di
prima spremitura), in botti di legno dove avviene la fermentazione. Spesso viene effet-
tuato il rimbocco con vino cotto di nuova produzione. L’invecchiamento può durare
anche oltre 30-40 anni. Si tratta di un vino che nella tradizione abruzzese è utilizzato
per celebrare le occasioni importanti capace di durare a lungo. La tradizione vuole
che nei banchetti nuziali, il padre dello sposo offra agli invitato il vino cotto preparato
nell’anno della nascita del figlio e conservato fino al giorno del suo matrimonio.
Non possiamo inoltre non citare l'”aurum”, liquore tipico dell'Abruzzo, risalente al
periodo romano ottenuto distillando agrumi, in cui predomina la nota tipica dell’aran-
cia amara e vino. Oltre che come bevanda, viene utilizzato anche come ingrediente
per i dolci e per bagnare le fette di pan di spagna. L’arancia anticamente era quella
coltivata sul litorale abruzzese.
Accanto all’aurum merita una menzione la “ratafià”, prodotto con l’utilizzo di vino
Montepulciano in cui vengono macerate le amarene al sole. La parola ratafià proviene
dall’espressione latina ut rata fiat, ovvero sia ratificato l’atto steso. La tradizione popo-
lare abruzzese infatti, vuole che questa fosse offerta dai notai, alla conclusione di un
accordo notarile pronunciando tale espressione e brindando con un bicchiere di
liquore a base di vino e ciliegie.

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Frutti e riti di Natale nel Parco Nazionale della Majella
Gino Primavera

Nelle tavole imbandite del Natale non può mancare la frutta, almeno per rinfrescare lo
stomaco surriscaldato da abbuffate e generose libagioni: ma bando all’esotico ananasso
e relativi manghi e papaya.
A chilometri zero c’è la nostra frutta antica: mele gelate, tinelle, rose, verdoline, zitelle,
ruggine, paradiso; pere “coccia d’asine”; sorbe e giuggiole; cachi e fichi secchi; uva
“appesa” appassita e noci nostrane. Scelgo la mela gelata, fredda e ghiacciata, che rie-
sce a trasformare un difetto, un dismetabolismo delle piante, in pregevole gusto: ebbene,
la marezzatura della polpa della mela gelata, simile a ghiaccio succoso e dolce, è dovuta
ad uno scompenso metabolico che si accentua nelle zone più fredde; le migliori sono
quelle coltivate nelle zone pedemontane della Maiella che reagiscono alle avverse condi-
zioni ambientali con profumi e succhi ineguagliabili, da addentare.
Eccellenti le mele tinelle (dette anche rosa o piane), che arricciano la buccia con le gela-
te. Scostando la neve che è caduta loro addosso nelle cassette per la conservazione, le
possiamo mangiare in pieno inverno.
E poi d’inverno c’è la zucca gialla, la “checucce”, ingiustamente considerata nel passato
buona solo a riempire la pancia, poco nutriente, tanto che si diceva che “sangue nen tè,
sangue nen mette e fije nen fa fà” (non ha sangue, non lo mette e non fa fare figli). Le
varietà più antiche si chiamano corritrici per le lunghe ramificazioni. Per lo più veniva
data come alimento ai porci e alle mucche o quella a fiasco, opportunamente svuotata
ed essiccata, si usava come contenitore. Oggi la “checucce” è stata rivalutata dal punto
di vista nutrizionale ed è ritenuta un buon ingrediente della nostra cucina: povera di calo-
rie, ricca di vitamine e sali minerali, molto digeribile, può essere utilizzata dagli antipasti
al dolce. Ha belle forme, da soddisfazione a chi la coltiva ingrossando a vista d’occhio,
dura per tutto l’inverno!
La torta di mele, emblema delle nostre infanzie, “che la più buona è quella della nonna”, la
prepariamo con mele antiche a pasta dura, selezionate tra le più sode: particolarmente
indicate la mela “ruzze”, la renetta ruggine, la mela “muso di bove” o calvilla bianca”, e
per un sapore più arcaico la mela piana o rosa.

Torta di mele “le due Carmele”

Ingredienti per 6 persone:


− 4 uova
− 300g di zucchero
− 350 g farina di grano “Solina”
− 1 bicchiere di olio ev di oliva
− 1 bicchiere di latte
− 1 bustina di lievito per dolci
− succo e buccia grattugiata di un limone non trattato
− 1kg di mele antiche
Procedimento:
− sbucciare e tagliare le mele a fettine e unire ad esse il succo del limone;
− sbattere i tuorli con lo zucchero, la farina, l’olio, la buccia grattugiata del limone e due
terzi del latte (l’altro terzo, intiepidito, si usa per sciogliere il lievito);

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− montare gli albumi a neve; mescolare insieme i tuorli sbattuti, gli albumi montati e il
latte tiepido con il lievito;
− in una teglia capiente porre della carta da forno, su di essa spalmare metà dell’impa-
sto sul quale disporre uniformemente le fettine di mele, ricoperte poi dall’altra metà
dell’impasto. Spolverare la superficie con zucchero a velo e cuocere in forno caldo a
180° per un’ora.

Torta di mele (G. Primavera)

Nel giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre, era usanza regalare alle bambine le pupe e ai
bimbi i cavalli, costruiti con i fichi secchi. I “carracìni”, seccati al sole, si infilzavano in
stecche ricavate dalle canne, foggiate in modo da formare lo scheletro del dono; le pupe
e i cavalli poi venivano vestiti con tessuti o carte colorate, addobbati con fiocchi, le facce
dipinte, a volte un po’ strane quasi da mettere paura o sorridenti nonostante li aspettas-
se il destino di essere mangiati. Le bambine partecipavano anche alla costruzione dei
giocattoli e con il dono imparavano anche il mestiere della creazione; invece i maschietti,
più privilegiati, avuto il regalo, dovevano solo disfarlo e mangiarlo.
Il rispetto per il regalo ricevuto voleva, però, che pupe e cavalli non venissero mangiati
subito, ma che si aspettasse qualche giorno per disfarli e questo aumentava il desiderio
della gola e dilatava il tempo del gioco fino al Natale.
I giocattoli erano belli da costruire ma forse ancora di più da distruggere: la distruzione
per questi incredibili giocattoli coincideva con un atto quasi di cannibalismo dolce, veniva-
no non distrutti ma recepiti dalle papille gustative e trasformati in energia e materia
umana in un ciclo di eterno rinnovo.

Cavallo di fichi secchi (G. Primavera) Pupa di fichi secchi (R. Auriti)

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1.6 Alcuni frutti antichi rappresentativi dell’Abruzzo
Sergio Guidi

Vengono di seguito descritte alcune cultivar scelte fra le più tradizionali dell’area esa-
minata, con maggiore attenzione per quelle a più elevato rischio di estinzione. In alcuni
casi si tratta di poche piante superstiti spesso in fase di senescenza per cui il rischio
di erosione genetica è molto elevato. Le schede riportano in modo sintetico le infor-
mazioni che permettono di identificare una cultivar e come riconoscerla, segnalando
dove è diffusa, elencando le caratteristiche pomologiche, agronomiche e organoletti-
che, nonché l’uso nella tradizione popolare. Inoltre è riportato il luogo di conservazio-
ne, le conoscenze legate al frutto e il referente, cioè la persona, l’ente o l’associazione
che ha fornito le informazioni. Sui frutti descritti non sono state eseguite caratterizza-
zioni genetiche, per cui non è escluso che lo stesso frutto possa essere presente in
luoghi diversi con nomi diversi o, viceversa, che cultivar diverse possano essere cono-
sciute con lo stesso nome. Nella descrizione dei frutti ci siamo basati sulle informazio-
ni acquisite, tenendo presente che si tratta quasi sempre di frutti ormai non più colti-
vati per i quali rimangono i ricordi delle persone anziane. In sintesi abbiamo voluto
sollevare il problema affinché si possano approfondire le conoscenze sui frutti della
memoria e si possa così arrestarne l’erosione genetica.

Albicocco Precoca Pero Campana


Fico Pacentrano Pero Ficora
Mandorlone Pero Perelle
Marrone di Valle Castellana Pero San Francesco
Melo Caina Pero San Giovanni
Melo Granettone Pero Testa d’Asino
Melo Limoncella Pero Trentatrè Once
Melo Mangione Pesco Giallona
Melo Mora Pesco Pomo di Renzo
Melo Panaia Pesco Testa Rossa
Melo Paradiso Vite Gallioppa
Melo Piane Vite Moscatello di Castiglione
Melo Roscetta Vite Moscato di Frisa
Melo San Giovanni Vite 0’ Bijje (Il Bello)
Melo Tinella Vite Rosciola
Olivo Carpinetana Vite Uva Nera Antica
Pero Acritte

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ALBICOCCO PRECOCA Prunus armeniaca L.

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio-piccola, di forma
ovale (sezione laterale) e rotonda (sez. fron-
tale). La linea di sutura è profonda. La buc-
cia, sottile, è di colore arancio chiaro con
tendenza ad intensificare l’intensità a com-
pleta maturazione.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


Varietà storicamente presente nel territorio
di Corfinio in Valle Peligna.
Il frutto maturo della Precoca (M. Di Santo)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La pianta è di media vigoria e portamento espanso. I fiori sono rosa chiaro tendente al bian-
co (faccia inferiore). Le foglie hanno forma oblata con margine crenato. La polpa è arancio-
ne chiaro. Il sapore è molto buono con aroma marcato di moscato.
Uso nella tradizione
Fino agli anni 60’ del 900’ Corfinio era
nota per la produzione di albicocche che
venivano piantate in consociazione con
le vigne. La prima vendemmia era dedica-
ta alle albicocche che godevano di fama
anche fuori regione. Per la raccolta era
impiegata manodopera locale specializ-
zata. Sezione del frutto maturo (M. Di Santo)
Luogo di conservazione
Quasi scomparsa nelle campagne. Alcuni esemplari sono presenti in campi vetrina del
Parco nazionale della Majella.
Natura e livello di conoscenza
Varietà dalla scarsa conservabilità ma poco suscettibile ad attacchi fungini.
L’epoca di raccolta avviene nella seconda metà di giugno.
Referenti
Marco Di Santo Mirella Di Cecco
Ente Parco Nazionale della Majella Ente Parco Nazionale della Majella
marco.disanto@parcomajella.it mirella.dicecco@parcomajella.it

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FICO PACENTRANO Ficus carica L.

Caratteri di riconoscimento
Varietà che produce frutti di piccole dimensio-
ni. La forma è piriforme, mentre la buccia è di
colore verde con sovraccolore porpora localiz-
zato prevalentemente alla base. Le lenticelle,
poco numerose, sono di grandi dimensioni e le
costolature sono evidenti.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


Varietà fino a questo momento rinvenuta nella
valle Peligna e nel versante orientale del mas-
I frutti maturi (M. Di Santo) siccio della Majella.

Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche


La pianta ha una vigoria media ed un portamento semi eretto; sono presenti rami seconda-
ri piangenti. Le foglie per ramo sono in numero di 10 con forma predominante a cinque lobi.
Alla base del picciolo sono presenti i lobi laterali. La forma della base è codiforme.
La polpa di colore porpora è aderente alla buccia, poco succosa, zuccherina e dal
retrogusto resinoso.
Uso nella tradizione
È una varietà con basso tenore in acqua e che
per questo è destinata soprattutto all’essicca-
zione.

Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in campi
vetrina del Parco nazionale della Majella.

Natura e livello di conoscenza

Varietà conosciuta anche con il nome di


La sezione dei frutti (M. Di Santo)
Roscioletto che nonostante le piccole dimen-
sioni del frutto è stata mantenuta in coltiva- Referenti
zione per l’elevato contenuto di zucchero
Marco Di Santo
e la conseguente attitudine ad essere essic-
Ente Parco Nazionale della Majella
cato e conservato.
marco.disanto@parcomajella.it
Mirella Di Cecco
Ente Parco Nazionale della Majella
mirella.dicecco@parcomajella.it

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MANDORLONE Prunus dulcis (Mill:) D.A. Webb

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio-grande, di forma
ovoidale-schiacciata con guscio di colore mar-
rone non scuro, di durezza media.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Presente in provincia dell’Aquila, è stata ritro-
vata a Capestrano, Carapelle Calvisio, Navelli,
Collarmele. In quest’ultima località viene detta
Mandorlone, detta anche Mandorla di “Mandorla di Santa Caterina” ma non è noto il
Santa Caterina (Del Monaco-DeCola) motivo di tale denominazione.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La vigoria della pianta ed il portamento dipendono da quella del portainnesto. Frutto di
durezza media, con mandorla dal sapore non molto spiccato. Fioritura ed allegagione
abbondanti con cascola dei frutticini in accrescimento variabile e seconda delle annate.
Produttività media, talvolta abbondante.
Uso nella tradizione
Il frutto si consuma fresco, prima che sia iniziato l’indurimento del nòcciolo. E’ in assoluto il
primo frutto che può essere raccolto e consumato, tradizionalmente in maggio, come frut-
ta fresca. Questo tipo di utilizzo è l'unico possibile perché la mandorla matura non è pregia-
ta e spesso è atrofizzata. Il frutto acerbo, dal sapore piacevolmente asprigno, tagliato a
fette sottili, si mangia in insalata.
Luogo di conservazione
Si conservano esemplari singoli presso
agricoltori o semplici appassionati nelle
zone dove è tradizionalmente conosciuto.
Natura e livello di conoscenza
Varietà poco diffusa, somiglia alle albicocche
rispetto alle quali è più precoce.
Referenti
Donato D. Silveri - Regione Abruzzo
donato.silveri@regione.abruzzo.it Mandorlone, frutti (Del Monaco-DeCola)
Marco Di Santo
Ente Parco Nazionale ella Majella
marco.disanto@parcomajella.it
Ente Parco Nazionale del Gran Sasso
e Monti della Laga

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MARRONE DI Castanea sativa Miller
VALLE CASTELLANA

Caratteri di riconoscimento
Il marrone ha forma ellittica e buccia di colore
marrone lucido con striature rossastre,
pezzatura variabile.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


La cura dei castagneti e la raccolta dei relativi
frutti era pratica diffusa nel territorio già dal
XIII secolo. Attualmente, la minaccia è rappre-
sentata da un imenottero, il Cinipide galligeno
del castagno che impedisce al frutto di
Marroni di Valle Castellana (P.N. Gran Sasso Laga) formarsi.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Prodotto agricolo tradizionale della Regione Abruzzo, presenta un frutto dalla forma ovale-
ellittica con polpa particolarmente gradevole al gusto. Normalmente la raccolta si effettua
nel tardo autunno e avviene attraverso la battitura dei ricci con successiva costituzione
di ricciaie per la successiva apertura.
Uso nella tradizione
Per le popolazioni locali dei Monti della Laga, isolate e marginali, il castagno ha rappresenta-
to nei secoli la principale fonte di sostentamento, non a caso era chiamato l’albero
del pane.
Luogo di conservazione
Estesi castagneti sono presenti nella fascia
altitudinale dei Monti della Laga compresa tra
i 600 e i 1000 m.
Natura e livello di conoscenza
La presenza dei castagni sui Monti della Laga
si fa risalire a prima dell’arrivo dei Romani.
Referente
Ente Parco Nazionale del Gran Sasso
e Monti della Laga.
Marroni di Valle Castellana (P.N. Gran Sasso Laga)

72
MELO CAINA Malus Domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio-piccola, di forma
ellissoidale. Buccia ruvida al tatto con colore di
fondo giallo biancastro senza sovraccolore e
con lenticelle grandi. La cavità calicina è poco
profonda e di media ampiezza.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà fino a questo momento rinvenuta
esclusivamente nella valle peligna e coltivata
Mela Caina a maturazione (M. Di Santo) da un singolo agricoltore.

Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche


Le foglie sono medio piccole poco tomentose e con margine dentato. La polpa di colo-
re bianco giallastro è leggermente acidula e aromatica.

Uso nella tradizione


È una varietà di media conservabilità.
Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in frutteti
inseriti nella rete degli agricoltori custodi
del Parco nazionale della Majella.
Natura e livello di conoscenza
Varietà il cui nome “cajina” è la traduzione
in dialetto del termine “gallina” è probabil-
mente da imputare alla rugosità della buc- La sezione del frutto maturo (M. Di Santo)
cia che ricorda la pelle di una gallina.
Referenti
Donato D. Silveri - Regione Abruzzo Marco Di Santo
donato.silveri@regione.abruzzo.it Ente Parco Nazionale della Majella
marco.disanto@parcomajella.it

73
MELO GRANETTONE Malus Domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio-grande, di forma
sferico-schiacciata. Buccia con colore di fondo
giallo e sovraccolore rosa sfumato e con po-
che lenticelle. La cavità calicina è poco profon-
da e larga.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà con una diffusione sporadica nelle
zone interne della regione.
Frutti pronti per la raccolta (M. Di Santo)

Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche


La pianta è di media vigoria e con portamento aperto. La fruttificazione avviene general-
mente su zampa di gallo. Le foglie sono mediamente tomentose e con margine bidentato
irregolare. La polpa di colore bianco–giallo è leggermente farinosa, aromatica e complessi-
vamente di buona qualità.
Uso nella tradizione
È una varietà di media conservabilità che viene
utilizzata per la preparazione di dolci.
Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in frutteti inse-
riti nella rete degli agricoltori custodi del Parco
nazionale della Majella.
Natura e livello di conoscenza Mela Granettone matura (M. Di Santo)
Varietà chiamata anche Ranettona per similitudine con il gruppo delle renette, di cui sem-
bra far parte. La sua introduzione nell’areale sembra essere recente.
Referenti
Donato D. Silveri - Regione Abruzzo Marco Di Santo
donato.silveri@regione.abruzzo.it Ente Parco Nazionale della Majella
marco.disanto@parcomajella.it

74
MELO LIMONCELLA Malus domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio, medio-piccola, allun-
gata, cilindrico-conica o tronco-conica, quasi
sempre asimmetrica.
Peduncolo: medio-corto, grosso, inserito in
una cavità profonda e stretta, quasi acuta.
Cavità calicina: semi-aperta, poco profonda e
pieghettata.
Buccia di colore giallo a maturità, leggermente
ruvida, con poche lenticelle emerse.
Frutto mela Limoncella (I. Dalla Ragione)
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà ritrovata nell’aquilano, molto conosciuta ed apprezzata in tutta la regione, Adatta
alle zone collinari e pedemontane, anche su terreni poco fertili.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Il frutto si raccoglie in ottobre, molto serbevole, si consuma da novembre a marzo anche se
conservata a temperatura ambiente (comunque fresco). Caratteristico è il suo progressivo
appassimento durante l’inverno che la rende man mano più dolce e meno acida, senza
diventare farinosa.
Uso nella tradizione
La varietà è conosciuta con nomi diversi a seconda delle località: Melalice a Castel di
Ieri, “Mile Franzaise” (Melo Francese) a Castelvecchio Subequo, due località della Valle
Subequana (AQ), Meloncella o Limoncella nella Valle del Giovenco (AQ), i nomi sono comun-
que riferiti al suo gradevole gusto acidulo capace di ricollegare il consumatore che già la
conosce, ai sapori ad alle atmosfere dell’inverno.
Luogo di conservazione
Si conserva nei campi catalogo della biodiver-
sità frutticola della regione, oltre che presso
diversi agricoltori in varie località.

Natura e livello di conoscenza


Varietà tra le più caratteristiche e di immedia-
ta riconoscibilità, dalla marcata identificazione
con il territorio. Fiore melo limoncella (I. Dalla Ragione)
Referenti
Donato D. Silveri - Regione Abruzzo donato.silveri@regione.abruzzo.it
Marco Di Santo - Ente Parco Nazionale della Majella
marco.disanto@parcomajella.it
Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga

75
MELO MANGIONE Malus Domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio-piccola, di forma
generalmente ellissoidale. Buccia con colore di
fondo giallo e sovraccolre rosso striato molto
esteso e lenticelle bianche. La cavità calicina è
mediamente profonda e larga.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà diffusa con sporadici esemplari spora-
dici nel versante meridionale del Parco Nazio-
La mela Mangione matura (M. Di Santo) nale della Majella.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La pianta è di media vigoria, con vigoria elevata e portamento tendenzialmente assur-
gente. Le foglie sono piccole poco tomentose e con margine dentato. La polpa di
colore bianco – verdastro è croccante, di media consistenza e dal sapore gradevole.
Uso nella tradizione
È una varietà che viene raccolta in autunno
apprezzata per l’abbondante fruttificazione e
l’ottima conservabilità.
Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in frutteti inse-
riti nella rete degli agricoltori custodi del Parco
nazionale della Majella.
Natura e livello di conoscenza Le caratteristiche striature dei frutti (M. Di Santo)
Varietà ben adattata ad ambienti montani fin sopra i 1000 metri quota. Il nome dovrebbe
derivare dalle elevate qualità organolettiche attribuitegli nel territorio di conservazione.

Referenti
Marco Di Santo Mirella Di Cecco
Ente Parco Nazionale della Majella Ente Parco Nazionale della Majella
marco.disanto@parcomajella.it mirella.dicecco@parcomajella.it

76
MELO MORA Malus Domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura media, di forma rotondeg-
giante , leggermente asimmetrica. Peduncolo:
medio-corto, inserito in una cavità profonda e
stretta. Cavità calicina: aperta, quasi inesisten-
te. Buccia spessa di colore rosso brillante,
rosso cupo a maturità. Ricoperta di una legge-
ra cerosità, poche lenticelle poco evidenti.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà ritrovata solo in zona di Aielli (AQ), non
La mela Mora (M.Di Santo) è nota la sua origine.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Il frutto si raccoglie in Ottobre, di elevata serbevolezza. E’ nominata nei trattati di frutticoltu-
ra di inizio ‘900 come buona varietà locale per la sua rusticità e per la conservazione.
Appare resistente alla ticchiolatura.
Uso nella tradizione
Varietà adatta anche al consumo immediato
dopo la raccolta. Molto ricercata dai ragazzi
del tempo che si organizzavano in bande per
rubarle negli orti del paese. Si presenta bene
e lascia intravedere ottime potenzialità di
commercializzazione.
Luogo di conservazione La mela Mora (M.Di Santo)
Conservata dal sig. Maccallini Luigi di Aielli (AQ), reinnestata in diversi campi catalogo
della regione.
Natura e livello di conoscenza
Se trova traccia bibliografica in A. Vivenza, 1930 ma è stata ritrovata solo in una sola
località.
Referenti
Donato D. Silveri Marco Di Santo
Regione Abruzzo Ente Parco Nazionale della Majella
donato.silveri@regione.abruzzo.it marco.disanto@parcomajella.it

77
MELA PANAIA Malus Domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio-grande, di forma
rotondeggiante, molto schiacciata, non sim-
metrica. Peduncolo: medio, inserito in una
cavità grande, profonda e molto aperta. Cavi-
tà calicina: media, semiaperta e profonda.
Buccia con colorazione di fondo giallo verde
con sovraccolore rosso brillante diffuso.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà ritrovata solo ad Aielli in provincia
Mela Panaia (I. Dalla Ragione) dell’Aquila.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
l frutto si raccoglie in ottobre e si conserva fino alla primavera successiva. Polpa bianca,
leggermente acidula, aromatica, non spiccatamente croccante, di buona qualità.
Uso nella tradizione
Varietà adatta al consumo immediato dopo la
raccolta, di buona conservabilità.
Luogo di conservazione
Esemplari conservati in situ presso aziende
del luogo.
Natura e livello di conoscenza
Descritta dal Tamaro (1935) tra le mele locali
abruzzesi, chiamata anche Mela Gaetana
o Panaia Piccola, della famiglia delle Mele Esemplare di Melo Panaia in Aielli (AQ)
Striate. Foto (D.Silveri)
Referenti
Donato D. Silveri - Regione Abruzzo Marco Di Santo
donato.silveri@regione.abruzzo.it Ente Parco Nazionale della Majella
marco.disanto@parcomajella.it

78
MELO PARADISO Malus Domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio-piccola, di forma
sferica appiattita, irregolare (frutti asimmetri-
ci). Buccia con colore di fondo giallo, con leg-
gera untuosità e poche lenticelle rugginose.
La cavità calicina è ampia e profonda.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà con una diffusione localizzata nella
valle dell’Aventino in cui si rinviene con esem-
Mele Paradiso sul ramo (M. Di Santo) plari sparsi.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La pianta è di media vigoria e con portamento assurgente e sviluppo piuttosto ampio.
La fruttificazione avviene generalmente su lamburde. Le foglie sono debolmente tomentose
e con margine crenato. La polpa di colore bianco – verdastro è croccante e soda, dal sapo-
re dolce e gradevole.
Uso nella tradizione
È una varietà con buona conservabilità.
Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in frutteti inse-
riti nella rete degli agricoltori custodi del Parco
nazionale della Majella.

Natura e livello di conoscenza


La sezione del frutto (M. Di Santo)
Varietà la cui caratterizzazione e origine è
ancora da approfondire. Nell’areale di presen- Referenti
za, in alcune località con lo stesso nome ven- Marco Di Santo
gono indicate altre tipologie con caratteristi- Ente Parco Nazionale della Majella
che distinte. marco.disanto@parcomajella.it
Mirella Di Cecco
Ente Parco Nazionale della Majella
mirella.dicecco@parcomajella.it

79
MELO PIANE Malus Domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura media, di forma sferico-
appiattita. Buccia con colore di fondo giallo-
verde e sovraccolore rosso marezzato, untuo-
sa e con poche lenticelle. La cavità calicina è
poco profonda e larga con debole rugginosità.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà diffusa nelle zone collinari e pede-
montane della regione.
Mele Piane mature (I. Dalla Ragione)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La pianta è di media vigoria e con portamento assurgente. La fruttificazione avviene gene-
ralmente su lamburde. Le foglie sono discretamente tomentose e con margine crenato. La
polpa di colore bianco è croccante, aromatica e leggermente acidula. I frutti sono molto
profumati.
Uso nella tradizione
È una varietà che si raccoglie ad ottobre e
si conserva a lungo fino alla primavera suc-
cessiva.
Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in frutteti
inseriti nella rete degli agricoltori custodi del
Parco nazionale della Majella. Frutto sezionato (M. Di Santo)
Natura e livello di conoscenza
Varietà che potrebbe essere inserita nel gruppo delle mele rosa di cui ha le caratteristiche
principali. In alcuni areali regionali è indicata con il sinonimo di mela casolana; con questo
nome è molto conosciuta e diffusa in passato, già citata dal poeta Gianbattista Marino nel
1500 e dal Belli che nel 1939 parla di “mela casolana”. Un esplicito riferimento a questa
mela è attribuito da alcuni autori al Boccaccio che, nella novella di Frate Puccio, tratta dal
Decamerone, accennando ad una donna, scriveva “…fresca bella e rotondetta che pareva
una mela casolana”.
Referenti
Donato D. Silveri Marco Di Santo
Regione Abruzzo Ente Parco Nazionale della Majella
donato.silveri@regione.abruzzo.it marco.disanto@parcomajella.it

80
MEL A ROSCETTA Malus Domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento
Di dimensioni medie, forma piuttosto tondeg-
giante, con buccia color rosso vivo con la par-
te adiacente al picciolo leggermente più chia-
ra, tendente al giallo.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Si trovano non molti esemplari nell’Alta
Valle dell’Aterno, tra Montereale e Capiti-
Fiore di mela roscetta (P.N. Gran Sasso Laga) gnano in provincia di L’Aquila.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La raccolta è tardiva, tra ottobre e novembre. Ha una buona resistenza alle gelate.
I frutti risultano piuttosto duri per essere consumati subito, devono essere conservati
per molto tempo semplicemente al freddo di una cantina, tra la paglia. La polpa è
bianca e subito sotto la buccia può presentare striature rosse. Il sapore è deciso
ma non troppo dolce, mentre il profumo è intenso. La colorazione della polpa può
tendere al giallino a maturazione inoltrata.
Uso nella tradizione
La mela roscetta rappresentava la garanzia
di disponibilità di frutta fino alla primavera
successiva.

Luogo di conservazione
Esemplari antichi sono attualmente conser-
vati a Capitignano ma esemplari singoli
o riuniti a piccoli gruppi si possono trovare
un po' ovunque nelle zone limitrofe.
Frutto di mela roscetta (P.N. Gran Sasso Laga)
Natura e livello di conoscenza
Referente
Deriva dal Malus domestica B. e la segna-
lazione della presenza di questa varietà si Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e
fa risalire al 2006. Monti della Laga.

81
MELA S. GIOVANNI Malus Domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento

La mela è piccola e tondeggiante con


buccia color verde quando è matura.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


Attualmente è presente un solo esempla-
re nella zona di Arsita (TE).
Albero di melo di S. Giovanni (P.N. Gran Sasso Laga)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Ha maturazione precoce, intorno al 24 giugno, di qui il nome mela di San Giovanni. E' parti-
colarmente dolce e succosa contrariamente a quanto si potrebbe pensare guardando
il colore della buccia verde. La polpa è di colore bianco e compatta. Viene consumata
appena raccolta .

Uso nella tradizione


Rappresenta la primizia, il primo frutto disponi-
bile della stagione, gradita ai più piccoli per il
suo sapore dolce.

Luogo di conservazione
Tutte le famiglie un tempo avevano una pianta
o due di queste mele per diversificare e per
garantire un frutto all’inizio dell’estate .

Natura e livello di conoscenza


Questo melo deriva dal Malus domestica B.
e la segnalazione della presenza di questa
varietà si fa risalire al 2010 da parte del
gestore dell’unico esemplare nella zona
di Arsita. Frutto melo San Giovanni (P.N. Gran Sasso Laga)
Referente
Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.

82
MELO TINELLA Malus Domestica Borkh

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio-piccola, di forma
appiattita simmetrica. Buccia con colore di
fondo giallo e sovraccolre arancio sfumato
e con poche lenticelle. La cavità calicina è
mediamente profonda e larga.

Luogo, livello e condizioni di diffusione

Varietà diffusa e conosciuta nella valle


dell’Aventino.
Mela Tinella ormai matura (M. Di Santo)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La pianta è di media vigoria e con portamento assurgente. Le foglie hanno forma
ellittico–allargata con margine dentato. La polpa di colore bianco è soda e croccante
con acidità equilibrata. Maturazione nel mese di ottobre.
Uso nella tradizione
È una varietà ad alta conservabilità coltiva-
ta generalmente ai margini di orti irrigui.

Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in frutteti
inseriti nella rete degli agricoltori custodi del La sezione del frutto (M. Di Santo)
Parco nazionale della Majella.
Natura e livello di conoscenza
Referenti
Varietà con caratteristiche simili al
Marco Di Santo
gruppo delle mele piane da cui si distin-
Ente Parco Nazionale della Majella
gue per la forma più schiacciata.
marco.disanto@parcomajella.it
In alcuni paesi viene distinta anche
Mirella Di Cecco la tipologia “fine” con diversa tessitura
Ente Parco Nazionale della Majella della polpa.
mirella.dicecco@parcomajella.it

83
OLIVO CARPINETANA Olea europaea L.

Caratteri di riconoscimento
Le dimensioni della drupa sono piccole e
di forma ellissoidale, base tronca e apice ap-
puntito. E’ conosciuta anche con il nome di
Femminino e Pizzutella ad indicare rispettiva-
mente una pianta produttiva e la forma tipica
della drupa.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Ulivi di varietà carpinetana (P.N. Gran Sasso Laga)
Gli oliveti di carpinetana sono situati nell’area
pescarese del Parco, ad un’altitudine che varia dai 400 ai 750 m in un contesto agro-
nomico al limite della coltivazione di ulivi. Tale varietà, adattata al clima, mostra una
straordinaria resistenza agli agenti atmosferici e la capacità di condurre a termine la
maturazione dei frutti.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La maturazione è medio-tardiva, scalare, con invaiatura piena di colore nero corvino.
L’epoca di raccolta è intorno alla terza decade di ottobre. L’olio presenta un colore
che varia dal giallognolo al verde e con un sapore mediamente fruttato con sentore di
mandorla verde.
Uso nella tradizione
E' destinata alla produzione di olio, a livello
familiare le olive vengono essiccate e cospar-
se di sale per una decina di giorni per rendere
meno amaro il prodotto e stabile la conserva-
zione.
Natura e livello di conoscenza
Il nome carpinetana compare nei testi
scientifici solo dopo il 1900 ma è presumi-
bilmente assimilabile, per identità territoria-
le e caratteristiche, all’antica pianta chia- Giovani drupe di carpinetana (P.N. Gran Sasso Laga)
mata “Nibbio di Montagna” riportata in nu- Luogo di conservazione
merosi testi. La sua presenza nel territorio
è testimoniata anche nel Chronicon Casau- La carpinetana è circoscritta ad alcuni
riense. Il nome è sicuramente ascrivibile al comuni dell’alto pescarese: Brittoli, Carpi-
toponimo di Carpineto della Nora nella cui neto della Nora, Civitella Casanova, Civita-
area la pianta è ampiamente diffusa. quana, Vicoli. Nel comune di Carpineto
della Nora è attiva dal 2005 una coope-
Referente rativa che raccoglie le olive dei tanti picco-
Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti li agricoltori locali.
della Laga.

84
PERO ACRITTE Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento

Frutto di pezzatura piccola, schiac-ciata, sim-


metrica. Peduncolo: lungo, grosso, inserito in
una cavità poco profonda, larga. Cavità calici-
na: piccola, poco profonda. Buccia di colore
giallo a maturità, con sovraccolore rosso
sulla parte esposta al sole, liscia con
sporadiche lenticelle rosse

Pero acritte (S. Travaglini) Luogo, livello e condizioni di diffusione


Varietà ritrovata in Comune di Casoli in Provincia di Chieti. Una volta molto diffusa,
attualmente si ritrova in pochi esemplari. Il frutto si raccoglie in fine ottobre.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Pianta molto rustica, usata anche come portainnesto per il pero su terreni argillosi,
siccitosi molto calcarei, tipici della collina pedemontana abruzzese. Epoca di fioritura
media ed abbondante, come l’allegagione; se non raccolti in tempo i frutti cadono fa-
cilmente verso la maturità. Polpa croccante, acidula (da cui il nome), chiara, legger-
mente granulosa. Buccia spessa, conferisce al frutto un’ottima resistenza alle malat-
tie più comuni quali la ticchiolatura.
Uso nella tradizione
La varietà non viene consumata alla raccolta ma
soprattutto in inverno cotta a vapore oppure con-
servata sottaceto unitamente ai cetrioli per fare
da contorno ai piatti di carne.
Luogo di conservazione
Si conserva nel campo-catalogo regionale della bio-
diversità del pero di Scerni (CH) e in esemplari
sparsi, anche nei vigneti abbandonati.
Natura e livello di conoscenza
Varietà un tempo molto diffusa soprattutto nella
zona del Sangro-Aventino, si ricordano esemplari Pera Acritte cotta a vapore, tipico piatto
alti fino a 10-12 metri. invernale. (S. Travaglini )
Referenti
Donato D. Silveri - Regione Abruzzo Lino Travaglini - Regione Abruzzo
donato.silveri@regione.abruzzo.it spadolino.travaglini@regione.abruzzo.it

85
PERO CAMPANA Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio grande, di forma
medio conica, asimmetrica con posizione
del massimo diametro nella parte basale.
Buccia con colore di fondo verde-giallo con
sovraccolore arancio nella parte esposta al sole.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


Varietà presente con esemplari sparsi in
vari ambiti regionali: nel versante meridiona-
le del Parco Nazionale della Majella e nella
Il frutto ormai maturo (M. Di Santo) zona attorno a L’Aquila.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Appartenente al gruppo delle Spadone invernali. La pianta è di media vigoria e con por-
tamento assurgente. Le foglie sono glabre, coriacee e con margine dentato acuto. La
polpa è bianca ed aromatica, mediamente zuccherina, soda, con tessitura grossolana
e granulosità media.
Uso nella tradizione
È una varietà a maturazione autunnale ma
anticipata rispetto ad altre varietà coltivate
localmente.

Luogo di conservazione

Alcuni esemplari sono presenti in campi


vetrina del Parco nazionale della Majella e
nel campo catalogo regionale di Scerni (CH).
La sezione del frutto (M. Di Santo)
Natura e livello di conoscenza
Varietà caratterizzata da una forma particolare a cui probabilmente è da attribuire il
nome.
Referenti
Donato D. Silveri - Regione Abruzzo Marco Di Santo
donato.silveri@regione.abruzzo.it Ente Parco Nazionale della Majella
marco.disanto@parcomajella.it

86
PERO FICORA Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento
Ritrovata a Poggio Valle, Torricella Sicura (TE).
Frutto di pezzatura piccola, ovoidale o conica,
molto corta.
Peduncolo corto e grosso, inserito simmetrica-
mente all’apice della cavità peduncolare.
Cavità calicina semiaperta, quasi, superficiale.
Buccia spessa di colore verde brillante, lucida
e liscia, senza rugginosità, leggermente arros-
sata dalla parte del sole.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà presente nel solo luogo di rinvenimen-
Pera Ficora (I. Dalla Ragione) to, non è stata segnalata altrove.

Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche


Polpa bianca, poco succosa. E’ la classica “peruccia” (piccola pera) senza ambizioni com-
merciali ma un tempo molto importante come riserva di cibo fresco durante l’inverno, sia
per uso umano che zootecnico.
Uso nella tradizione
Il frutto si raccoglie in novembre, si lascia
maturare in fruttaio fino all’ammezzimento.
In virtù della sua durezza, tradizionalmente,
si portava in tasca per un po’ di tempo fin-
ché con il calore corporeo non si ammorbi-
diva e si mangiava sbucciandola come
un fico, da cui il nome.
Luogo di conservazione Pera Ficora alla raccolta (I. Dalla Ragione)
Si conserva presso il Campo-vetrina della biodiversità di pero della Regione Abruzzo,
Scerni (CH).
Natura e livello di conoscenza
Pera non conosciuta al di fuori della zona di ritrovamento anche se è possibile
accomunarla a dei tipi similari presenti in vari ambiti regionali.
Referenti
Donato D. Silveri - Regione Abruzzo Lino Travaglini - Regione Abruzzo
donato.silveri@regione.abruzzo.it spadolino.travaglini@regione.abruzzo.it

87
PERO PERELLE Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento
Di dimensioni medio piccole e forma ton-
deggiante leggermente schiacciata, con
buccia color marrone chiaro e macchiette
tendenti al giallo-verde.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Non si trovano molti esemplari, quelli attual-
mente presenti sono stati innestati negli
anni '80 nella zona di Marana di Montereale
(AQ). I pochi esemplari censiti sono innesti
di pera perella sul pero franco (selvatico
Fiore di pera perella (P.N. Gran Sasso Laga) preso in natura).
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Le pere perelle sono piccole a differenza degli alberi che sono piuttosto produttivi e
con una buona resa annua. Un tempo questa varietà è stata importante dal punto di
vista commerciale, utilizzata come merce di scambio nei baratti. Si raccolgono dalla
metà di ottobre. Ha polpa granulosa, simile a quella della pera spina. Per la raccolta a
volte si aspettava che le pere cadessero dall’albero. Si conservano a lungo e bene; an-
che se ammaccate non marciscono facilmente.
Uso nella tradizione
Sono pere destinate al consumo dopo la cot-
tura, da sole o insieme alle castagne. A volte si
usava cuocere le pere nel mosto appena pro-
dotto. La buccia è sottile e una volta cotta, si
spella facilmente. Il sapore delle pere cotte è
dolciastro. Perelle e castagne hanno rappre-
sentato per anni il pasto di tutti i giorni.
Si conservano nella paglia.
Luogo di conservazione
Albero e frutto Pera Perella (P.N. Gran Sasso Laga)
Esemplari antichi sono attualmente nei
pressi di Marana di Montereale. Referente
Natura e livello di conoscenza Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e
Monti della Laga.
Derivano dalla Pera Spina granulosa e
la segnalazione della presenza di questa
varietà è avvenuta nel 2006 da parte del
gestore che attualmente le cura.

88
PERO S. FRANCESCO Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio-piccola, piriforme.
Ritrovata a Castel di Ieri (AQ). Peduncolo me-
dio-lungo, inserito all’apice, talvolta in maniera
asimmetrica. Cavità calicina superficiale.
Buccia di colore verde chiaro, brillante, lucida
e liscia, senza lenticelle evidenti.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà presente nel solo luogo di rinvenimen-
Pera San Francesco (I. Dalla Ragione) to in pochissimi esemplari.

Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche


Questa varietà ha una storia particolare in quanto l’attuale agricoltore testimonia di
averla ricevuta dal nonno che a sua volta aveva colto i frutti 70-80 anni prima, da un
albero spontaneo (non coltivato) nella selva, in comune di Castel di Ieri (AQ). Presa e
trapiantata come pollone nella vigna dove è ancora presente, è stata propagata trami-
te innesto. Polpa bianca di media granulosità, leggermente acidula, aromatica e croc-
cante, di buona qualità.
Uso nella tradizione
Il frutto si raccoglie in settembre ed è esclusi-
vamente da consumo fresco. E’ probabile che
sia stata così battezzata vista la coincidenza
della sua epoca di maturazione con la festività
delle Stimmate di San Francesco (17 settem-
bre), celebrata nel vicino paese di Castelvec-
chio Subequo.

Luogo di conservazione Pera San Francesco (I. Dalla Ragione)


Si conserva in diversi campi catalogo della biodiversità frutticola della regione, oltre che
presso alcuni agricoltori della zona di origine.
Natura e livello di conoscenza
Non conosciuta al di fuori della zona di origine.

Referenti
Donato D. Silveri - Regione Abruzzo Lino Travaglini - Regione Abruzzo
donato.silveri@regione.abruzzo.it spadolino.travaglini@regione.abruzzo.it

89
PERO S. GIOVANNI Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento
Frutti di pezzatura piccola, piriforme, dotati di
un peduncolo di media lunghezza.
La cavità calicina è di profondità ed ampiezza
medie. La buccia ha colore di fondo verde-giallo
con localizzati arrossamenti e lenticelle grigie.
Polpa di colore bianco-giallo con tendenza ad
imbrunire a piena maturazione, sapore gradevole.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Pera San Giovanni di Casoli (L. Travaglini)
Si contano 5 accessioni ritrovate: di Casoli,
Palmoli, Guastameroli (CH), Civitella d.T. (TE), diffusa dalle zone pedemontane fino alle
aree costiere. Riprodotta generalmente da franco.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Quello delle San Giovanni è un gruppo di pere accomunate da una spiccata precocità. Il por-
tamento è variabile da assurgente ad espanso. Il vigore è comunque elevato. Si tratta di una
varietà apprezzata per la precocità di maturazione e per la costante ed elevata produttività,
matura dalla metà di giugno primi di luglio in prossimità della ricorrenza di San Giovanni
(24 Giugno). Scarsa conservabilità, alcune accessioni hanno apprezzato aroma di moscato.
Uso nella tradizione
Pere e mele San Giovanni rappresentano, la
prima frutta che si raccoglie nell’annata, sono
quindi l’annuncio della nuova stagione che avan-
za e per questo accolte festosamente dalla
cultura contadina, anche se non sempre dotate
di particolare pregio.
Luogo di conservazione
Si conserva nel campo catalogo della biodiversità
del pero della Regione, e presso alcuni agricoltori
Pera San Giovanni di Casoli. (L. Travaglini)
della zona di origine.
Natura e livello di conoscenza
Conosciute ed apprezzate nelle zone di ritrovamento delle diverse accessioni.
Referenti
Donato D. Silveri - Regione Abruzzo Lino Travaglini - Regione Abruzzo
donato.silveri@regione.abruzzo.it spadolino.travaglini@regione.abruzzo.it

90
PERO A TESTA D’ASINO Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento

Dal nome si possono intuire le grandi


dimensioni del frutto e la consistenza consi-
derevole, alcuni frutti possono raggiunge il
peso di 1 kg. La buccia ha colore verde ma
vira al giallo quando matura.

Luogo, livello e condizioni di diffusione

Sono stati rinvenuti solo pochissimi esem-


plari nell’area di Arsita (TE) e la sua diffusio-
ne, un tempo ben più ampia, si è quasi
del tutto persa.
Albero di pera a testa d’asino (P.N. Gran Sasso Laga)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La raccolta avviene in autunno ma si consuma dopo una lunga conservazione nella
paglia che ne permette la maturazione. La particolare caratteristica di resistenza
all’inverno ha garantito alle popolazioni locali la presenza di frutta sulle tavole anche
nei periodi meno favorevoli.
Uso nella tradizione
Il suo consumo era legato al saporito pecorino
che in qualche modo ne celava le limitate
caratteristiche organolettiche.
Luogo di conservazione
Pochi esemplari sono presenti ad Arsita (TE)
e nel suo areale.
Natura e livello di conoscenza
Questo pero deriva dal Pyrus communis e la
segnalazione della presenza di questa varie-
tà si fa risalire al 2010 nell’ambito delle
ricerche effettuate dal Parco per il progetto
FRUTTANTICA. Pera a testa d’asino (P.N. Gran Sasso Laga)
Referente
Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e Monti della Laga.

91
PERO TRENTATRE ONCE Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento

Frutto di pezzatura molto grossa, di forma


ovoidale corta, simmetrica. Buccia con colo-
re di fondo verde con rugginosità distribuita
su quasi tutta la superficie con numerose
lenticelle grandi. La cavità calicina è profon-
da e mediamente larga.

Luogo, livello e condizioni di diffusione

Varietà presente con pochi esemplari


nel versante meridionale e nell’alta valle
La caratteristica forma del pero dell’Orta del Parco Nazionale della Majella.
Trentatrè Once (M. Di Santo)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La pianta è di media vigoria e con portamento assurgente. Le foglie sono glabre e con
margine crenato quasi liscio. La polpa è di colore bianco – verdastro, di consistenza tenera
e tessitura grossolana, sapore gradevole. La pianta è di media vigoria e con portamento
assurgente. Le foglie sono glabre e con margine crenato quasi liscio. La polpa è di colore
bianco – verdastro, di consistenza tenera e tessitura grossolana, sapore gradevole.
Uso nella tradizione
È una varietà poco serbevole.
Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in campi
vetrina del Parco nazionale della Majella.
Natura e livello di conoscenza
Varietà già conosciuta per il territorio nel 170-
0. Il nome è probabilmente da attribuire al
notevole peso del frutto. La sezione del frutto (M. Di Santo)
Referenti
Marco Di Santo Mirella Di Cecco
Ente Parco Nazionale della Majella Ente Parco Nazionale della Majella
marco.disanto@parcomajella.it mirella.dicecco@parcomajella.it

92
PESCO GIALLONA Prunus persicae B.

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura media, di forma asim-
metrica con mucrone moderatamente ap-
puntito con linea di sutura molto prominen-
te. Buccia di colore giallo e tomentosa.
Polpa aderente al nocciolo.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


Varietà segnalata in Valle Peligna.
Pesche Giallone mature (M. Di Santo)

Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche


La pianta ha una vigoria elevata e un portamento espanso. I fiori pur presentando una
variabilità all’interno della popolazione sono generalmente del tipo campanulaceo peta-
li di forma stretta-ellittica. Le foglie hanno forma lanceolata con margine poco dentato
poco profondo. La polpa è di colore giallo ed è soda, non molto zuccherina ed aderente
al nocciolo.
Uso nella tradizione
È una varietà ascrivibile al gruppo delle
pesche cotogne ed è molto adatta per la
sciroppatura.
Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in campi
vetrina del Parco Nazionale della Majella.
Ancora coltivata in Valle Peligna, i frutti si
trovano al mercato locale di Sulmona.

Natura e livello di conoscenza


Varietà riconducibile nell’ambito di una
popolazione con caratteristiche variabili.
Pesca giallona sezionata (M. Di Santo)
La maturazione avviene alla fine di set-
tembre. Localmente è conosciuta anche con il nome Pesca Paqnotta.
Referenti
Donato D. Silveri Marco Di Santo
Regione Abruzzo Ente Parco Nazionale della Majella
donato.silveri@regione.abruzzo.it marco.disanto@parcomajella.it

93
PESCO POMO DI RENZO Prunus persica (L) Batsch

Caratteri di riconoscimento

Frutto di pezzatura medio-piccola, di forma


ellittico-larga. Buccia con colore di fondo
giallo ed evidenti arrossamenti marezzati
estesi su una piccola superficie, mediamen-
te tomentosa. Nocciolo di forma ellittica.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


Varietà segnalata nella bassa valle del
Il frutto pronto per la raccolta (M. Di Santo) Sangro.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La pianta è di media vigoria e con portamento aperto.. Le foglie hanno forma lanceola-
ta con margine crenato, picciolo lungo circa 1 cm e stipole assenti. La polpa è di
colore bianco–crema, di media consistenza e aderente al picciolo. I frutti risultano
molto profumati.
Uso nella tradizione
È una varietà che in passato era molto pro-
babilmente più diffusa ma che ancora oggi
riceve interesse per la tardiva epoca di
maturazione.
Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in campi
vetrina del Parco nazionale della Majella.
Natura e livello di conoscenza
Varietà conosciuta per l’Abruzzo già alla fine
del XIX secolo come testimoniato da alcuni
autori.
Referenti
Marco Di Santo
Ente Parco Nazionale della Majella
marco.disanto@parcomajella.it
Mirella Di Cecco La sezione del frutto (M. Di Santo)
Ente Parco Nazionale della Majella
mirella.dicecco@parcomajella.it

94
PESCO TESTA ROSSA Prunus persica (L) Batsch

Caratteri di riconoscimento
Frutto di pezzatura medio-piccola, di forma
sferico-schiacciata. Buccia con colore
di fondo non visibile con sovraccolore este-
so su tutta la superficie di colore rosso
scuro-vinato striato con pubescenza densa.
Nocciolo di forma ellittica.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà con segnalata per la valle dell’Aventino.
Gruppo di frutti sulla pianta (M. Di Santo)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La pianta è di media vigoria e con portamento semi eretto. I fiori presentano un’ampia
variabilità all’interno della popolazione con tendenza al tipo rosaceo e petali in numero
di 5 di colore rosa ad intensità media e forma ellittica. Le foglie hanno forma lanceola-
ta con margine dentato stretto-crenato. La polpa di colore bianco–crema presenta
un’evidente pigmentazione antocianica che può interessare l’intera superficie.
Uso nella tradizione
.È una varietà che in ambito familiare è uti-
lizzata per la conservazione in sciroppo gra-
zie alla buona consistenza della polpa e
all’interessante effetto cromatico.
Luogo di conservazione
Alcuni esemplari sono presenti in campi
vetrina del Parco nazionale della Majella.
Natura e livello di conoscenza
Varietà riconducibile nell’ambito di una po-
polazione con caratteristiche non ancora
ben definite. Il contenuto in antociani deter-
minato dall’esposizione al freddo al termine
della maturazione (che avviene alla fine
di settembre-ottobre), sembra essere un La caratteristica colorazione della polpa
elemento di rilevante interesse. (M. Di Santo)
Referenti
Marco Di Santo Mirella Di Cecco
Ente Parco Nazionale della Majella Ente Parco Nazionale della Majella
marco.disanto@parcomajella.it mirella.dicecco@parcomajella.it

95
VITE GALLIOPPA Vitis vinifera L.

Caratteri di riconoscimento
V. Vinifera L.Foglia adulta piccola, pentagonale,
quinquelobata, elevata bollossità, a coppa, seno
peziolare semi aperto o chiuso a lira, a forma di
U+V, seni laterali superiori a U+V, tomentosità
della pagina inferiore forte, nervature verdi, a volte
con punto peziolare rosato, denti di media grandez-
za a margini prevalentemente rettilinei convessi a
base stretta, picciolo medio-corto. Il grappolo a
maturità è grande, regolare, piramidale-cilindrico,
più spesso con piccole ali, mediamente spargolo,
peduncolo medio; acino medio-grande, appena ovoi-
dale, di colore blu-nero.
I grappoli maturi (M. Odoardi)
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Il vitigno nero è in via di estinzione accertata e ne esistono pochi ceppi in zone collinari medio-interne
della provincia di Pescara. Oggi è oggetto di studio che deve accertare l’eventuale omonimia con il
Gaglioppo calabrese, dal quale sembra comunque ben differenziarsi.

Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche


Vitigno di media vigoria. Produttività medio-alta, fertilità medio-bassa prevalentemente mediana. Grap-
polo grande di peso variabile tra i 300 e 4000 grammi. Il germogliamento e le altre principali fasi
fenologiche appaiono regolari e nella media dei periodi, compresa la maturazione. Accumulo zuccheri-
no di livello buono-elevato.
Uso nella tradizione
Solo a memoria di qualche anziano sono state tra-
mandate pochissime notizie, comunque positive per
le caratteristiche del vino da vinificazioni familiari di
mezzo secolo fa.
Luogo di conservazione
Il vitigno è conservato nel campo regionale di Casa-
canditella - solo qualche ceppo isolato nell’areale
citato.

Natura e livello di conoscenza Vite Gallioppa sovrainnestata (M. Odoardi)


Sono stati avviati studi ampelografici e genetici Referente
che faranno le prime luci su questo presunto Odoardi Maurizio Regione Abruzzo
vitigno autoctono abruzzese.

96
VITE MOSCATELLO Vitis vinifera L.
DI CASTIGLIONE
Caratteri di riconoscimento
L’apice del germoglio colore verde e po’ ramate, densità dei peli
orizzontali debole, foglioline bronzate. La foglia adulta medio-
piccola. Lembo pentagonale, con 5 lobi. P.superiore verde,
nervature verdi, poco bollosa. Profilo a coppa a margini involuti.
Denti rettilineo o rettilineo-convesso, lunghezza media.
Seno peziolare chiuso a V o U + V; seni laterali sup a lira. Pag inf
poco tomentosa. Picciolo pari alla nervatura mediana. Grappolo a
maturità è di taglia medio-piccola, lunghezza media. Forma
cilindrico-conica, alata. Struttura poco compatta. Peduncolo di
media lunghezza, di colore verde. Acino colore verde-giallo
buccia sottile pruinosa, forma rotonda, sapore tipico.
I grappoli (M. Odoardi)
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Moscato bianco po’ diffuso nell’area di Casauria almeno dal 1600 denominato
“Moscatello”, come da libri storici “delle esazioni” e “degli affitti”, allevato in piccoli ap-
pezzamenti ad alberello basso. Indagine archivistica di A. Varraso: ‘Il moscatello di Ca-
stiglione a Casauria. Elementi di storia del vitigno tipico e della produzione vinicola ’;
Varraso A.A., 1998 - Il moscatello di Castiglione a Casauria. Storia e valorizzazione
di un tipico prodotto locale. Atti Convegno di Studi, Ed. Vecchio Faggio, Chieti.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Epoca di germogliamento medio-precoce, fioritura media epoca, l’invaiatura è media a
fine luglio mentre la maturazione è medio-precoce nella prima decade di settembre.
Presenta una media sensibilità nei confronti delle principali malattie crittogamiche.
Soddisfacente il contenimento della muffa grigia, grazie al grappolo non troppo compat-
to con dimensione medio-piccola dell’acino. Buona e non eccessiva la vigoria, è poco
produttivo, con grappoli di peso medio-basso (~ 150 g) e acini piccoli. La composizione
qualitativa del mosto risultata equilibrata.
Uso nella tradizione
Le uve del vitigno Moscato bianco locale sono utilizzate tradizionalmente per la produ-
zione di vini bianchi secchi e più spesso, previo appassimento, di vini dolci da dessert.
Tali vini “familiari” sono da sempre posti all’assaggio abbinati ai tipici taralli locali nella
festività di San Biagio a Castiglione a Casauria.
Luogo di conservazione
Conservato nel campo regionale di Casacandi-
tella, e nell’areale tipico citato. Storia importan-
te o anche precedente secondo taluni. Le indagi-
ni condotte lo ascrivono ad una tipologia di
Moscato bianco.
Referente
Odoardi Maurizio - regione Abruzzo Moscatello di Castiglione (M. Odoardi)
Maurizio.odoardi@regione.abruzzo.it
Ente Parco Nazionale del Gran Sasso e
Monti della Laga
97
VITE MOSCATO DI FRISA Vitis vinifera L.

Caratteri di riconoscimento
Foglia di media dimensione, pentagonale, irregola-
re, spesso quinquelobata, ma anche con sette o
tre lobi poco marcati, poco bollosa, a coppa e
margini revoluti, seno peziolare chiuso a U+V,
seni laterali superiori poco profondi tomentosità
della pagina inferiore debole, nervature verdi, den-
ti po’ radi, medio-grandi a margini rettilinei con-
vessi, picciolo medio uguale alla foglia. Grappolo
a maturità medio-grande, regolare, piramidale e
po’ conico, mediamente compatto, frequente ala
piccola, peduncolo medio verde chiaro-giallastro;
acino medio-grande, sferoidale, di colore verde-
giallastro, vinaccioli uno o due medio-grandi.
Grappolo vite moscato (M. Odoardi) Luogo, livello e condizioni di diffusione
Questo presunto vitigno autoctono bianco è da molti anni in via di estinzione, tuttavia
alcuni agricoltori dell’omonimo comune in provincia di Chieti lo hanno conservato in
piccolissimi e vecchissimi vigneti. In uvaggio con altri moscati bianchi è entrato nella
produzione del vino moscato locale molto apprezzato.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Media vigoria e produttività, fertilità medio-bassa prevalente mediana. Germogliamento di
epoca medio-tardiva e altre principali fasi fenologiche regolari abbastanza contemporanee
del trebbiano toscano, con la maturazione che avviene nella prima metà di settembre.
Il grappolo di peso variabile tra i 200 e 300 grammi. L’accumulo zuccherino è discreto e
non elevato. Riscontrata una certa sensibilità agli attacchi di botrite nelle annate umide.
L’intensità aromatica tipica appare moderata.
Uso nella tradizione
L’utilizzo storico si riferisce alla produzione di
vini fermi e frizzanti molto apprezzati dai consu-
matori che l’hanno conosciuto.
Luogo di conservazione
Conservato nel campo regionale di Casacandi-
tella, presente con poche piante sparse in
alcuni vecchi vigneti locali.
Natura e livello di conoscenza
Oggetto di studio per accertarne l’apparte-
nenza a qualche Moscato bianco oppure,
come sembrerebbe, potrebbe trattarsi di un
ceppo autonomo e originale.
Referente
Odoardi Maurizio Regione Abruzzo. Particolare della foglia (M. Odoardi)

98
VITE O’ BIJJE (IL BELLO) Vitis vinifera L.

Caratteri di riconoscimento
Foglia adulta di media dimensione, pentagonale, con
cinque lobi poco marcati, media bollossità, a coppa,
seno peziolare semi aperto o chiuso a lira, a forma
di U+V, seni laterali superiori a V o U+V, tomentosi-
tà della pagina inferiore medio-forte, nervature ver-
di, a volte con punto peziolare rosato, denti irregola-
ri, di media grandezza a margini prevalentemente
rettilinei convessi a base stretta, picciolo medio-
corto. Il grappolo a maturità è medio, abbastanza
regolare, cilindrico-piramidale - più spesso con pic-
cole ali, mediamente compatto, peduncolo di media
compattezza; acino medio-piccolo, sferoidale, di
colore verde-giallastro.
I grappoli maturi (M. Odoardi) Luogo, livello e condizioni di diffusione
Questo presunto vitigno bianco, presunto autoctono è da moltissimi anni in via di estinzione
ed è sporadicamente presente solo con vecchi esemplari nel territorio della Valle Roveto,
in provincia dell’Aquila. Infatti solo in tali zone persiste in piccoli vigneti di qualche centinaio
di metri quadrati come ceppi isolati tra gli incolti e boscaglie.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Vitigno di media vigoria e produttività, fertilità media prevalentemente mediana. Il germo-
gliamento è di epoca medio-tardiva e le altre principali fasi fenologiche appaiono regolari
abbastanza contemporanee del trebbiano toscano, con la maturazione che avviene nella
prima metà di settembre. Grappolo grande di peso medio, variabile tra i 200 e 300
gram-mi. L’accumulo zuccherino è discreto e non elevato. Riscontrata una certa sensibilità
agli attacchi di botrite.
Uso nella tradizione
In loco è apprezzato per i vini che qualcuno ricor-
da con piacere. Non si producono vini in purezza
per la scarsissima disponibilità delle uve ma nei
pochissimi conoscitori c’è interesse al recupero.
Luogo di conservazione
Il vitigno è conservato nel campo regionale di
Casa-canditella e, come detto, in piante sparse e
nei pic-colissimi vigneti locali dell’areale citato.
Natura e livello di conoscenza
Oggi è oggetto di studio che deve accertare
l’eventuale appartenenza a vitigno noto oppure,
co-me sembrerebbe, potrebbe trattarsi di un
ceppo autonomo e originale.
Referente
Odoardi Maurizio Regione Abruzzo Particolare della foglia (M. Odoardi)

99
VITE ROSCIOLA Vitis vinifera L.

Caratteri di riconoscimento
Foglia adulta grande, forma pentagonale ten-
dente orbicolare, con 3 o 5 lobi poco profondi,
abbastanza liscia, profilo a margini involuti, den-
ti medi rettilineo-convessi, seno peziolare chiu-
so a U, seni laterali superiori a U piccoli, pagina
inferiore con molti peli lisci, picciolo medio-
corto. Il grappolo medio-grande, media lunghez-
za, piramidale-cilindrico, spesso con due ali
grandi, mediamente compatto, peduncolo
corto; acino medio-grande, forma rotondo e
po’ ellittica, di colore blu-nero con sfumature
Grappoli (M. Odoardi) rossastre, pruinoso.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Questo vitigno a bacca nera, presunto autoctono nelle zone montane della provincia di
Teramo (Valle Castellana e d’intoni) è una vera lacrima in via di estinzione. Solo qualche
esemplare sparso è ancora presente nell’areale citato.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Vitigno di media vigoria e produttività, fertilità bassa prevalentemente prossimale e media-
na. Il germogliamento è di epoca medio-tardiva, la maturazione avviene nella prima
metà di settembre. Grappolo grande di peso medio, variabile tra i 250 e 300 grammi.
L’accumulo zuccherino è nella norma. Limitata sensibilità agli attacchi di botrite e altre ma-
lattie crittogamiche.
Uso nella tradizione
Apprezzato da pochissimi anziani che ne
ricordano il buon vino tra le due guerre.
Luogo di conservazione
Solo in pochissimi esemplari in agro di Valle
Castellana (600-700 mslm).
Natura e livello di conoscenza
E’ oggetto di studio in fase iniziale per accer-
tarne l’eventuale appartenenza a vitigni noti,
oppure, se trattarsi di un ceppo autonomo e
originale come ritenuto in loco. Particolare della foglia (M. Odoardi)
Referente
Odoardi Maurizio Regione Abruzzo.

100
VITE UVA NERA ANTICA Vitis vinifera L.

Caratteri di riconoscimento
Foglia adulta medio-grande, pentagonale po’
cordiforme, 5 lobi, a volte con tre soli lobi o
sette, abbastanza liscia, a coppa con margini
involuti, seno peziolare chiuso a U+V, seni late-
rali superiori a U; pagina inferiore glabra, ner-
vature verdi, denti di media grandezza a margi-
ni rettilinei e convessi, picciolo medio-corto.
Il grappolo medio-grande, abbastanza regola-
re, conico-piramidale, spargolo, con una o due
ali, peduncolo medio-corto; acino medio-
grande, rotondo, colore bluastro-nero, fino a
completa maturazione rosa-violaceo.
Grappolo uva nera antica (M. Odoardi)
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Questo vitigno a bacca nera, presunto autoctono, è una vera lacrima in via di estinzio-
ne. Qualche esemplare è ancora presente nell’areale del versante est della Maiella tra
Gessopalena e Torricella Peligna in provincia di Chieti.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Vitigno di media vigoria e produttività, fertilità medio-bassa prevalentemente mediana.
Germogliamento medio-tardivo e principali fasi fenologiche regolari abbastanza contempo-
ranee al trebbiano toscano, maturazione entro settembre, Si conserva bene per la vendem-
mia anche in ottobre inoltrato. Grappolo grande di peso medio, variabile tra i 200 e 300
grammi. L’accumulo zuccherino è discreto e non elevato. Molto limitata la sensibilità agli
attacchi di botrite.
Uso nella tradizione
Apprezzato per i vini che pochi ricorda con
piacere. No vini in purezza. Forte interesse al
recupero tra i pochissimi anziani conoscitori.
Luogo di conservazione
Il vitigno è conservato nel campo regionale di
Casacanditella e in piante sparse dell’areale
indicato.
Natura e livello di conoscenza
Studi in corso per accertarne l’appartenenza
a vitigni noti, oppure, come sembrerebbe, Particolare della foglia (M. Odoardi)
potrebbe trattarsi di un ceppo autonomo
originale. Referente
Odoardi Maurizio Regione Abruzzo.

101
2. CASO DI STUDIO: LAZIO
PRESENTAZIONE
La pubblicazione di un volume sui fruttiferi della biodiversità agraria del Lazio, in colla-
borazione con ISPRA e nella cornice di una collana nazionale, è un’occasione impor-
tante, non solo per rendere testimonianza del ruolo conservativo esercitato dall’agri-
coltura familiare nelle aree marginali della Regione, ma anche per fare il punto sulle
strategie dispiegate dalle istituzioni dopo la Conferenza di Rio de Janeiro (1992).
ARSIAL, in particolare, è chiamata dalla LR 15/2000 e dal PSR Lazio 2014/2020
ad un ruolo particolarmente impegnativo di soggetto attuatore delle politiche di con-
servazione della biodiversità agraria: la prima fase, che si chiude idealmente con la
pubblicazione di questo volume, si è necessariamente concentrata su una impegnati-
va ricognizione storica e territoriale, sviluppata in collaborazione con gli enti di ricerca
(in particolare CREA-FRU di Roma e Università degli Studi della Tuscia che ha portato
all’iscrizione al Registro Volontario Regionale di 138 risorse genetiche autoctone
arboree oggetto della presente pubblicazione.
Questo grande potenziale varietale, in gran parte relitto, è in primo luogo un importan-
te indicatore delle diverse zone vocate dei territori regionali, oscurate negli ultimi 50
anni da una frutticoltura fortemente specializzata, che nel Lazio vede nel kiwi e nel
nocciolo la massima espressione, in ambito nazionale, dei distretti produttivi di frutti-
coltura intensiva, produttori di commodities per i mercati globali, che già mostrano la
corda per le criticità indotte dalla semplificazione colturale e dal ricorso a modelli
irrigui non più sostenibili su scala territoriale.
Ancor più urgente risulta, pertanto, attribuire alle risorse frutticole della biodiversità il
ruolo che a loro compete nelle aree agricole ad alta valenza naturalistica (cosidette
aree HNV), che rappresentano la matrice delle Aree Naturali Protette e delle SIC ZPS
della Regione Lazio, ed occupano oltre il 30% della SAU regionale.
Rivitalizzare le risorse frutticole autoctone, nel più generale panorama della biodiversi-
tà agraria, è una sfida che sembrerebbe antistorica al cospetto del grado
di integrazione verticale delle filiere frutticole in mercati dominati da processi di stan-
dardizzazione, ma che invece è una sfida decisiva in primo luogo per restituire valore
alla componente agricola, che già inizia a dar luogo a piccole comunità di prodotto
negli ambiti territoriali più dinamici nel recupero delle varietà locali.
In questo scenario complesso, fatto di grandi minacce ed opportunità, la legge nazio-
nale 194/2015 colloca la biodiversità agraria in percorsi di diversificazione
(comunità del cibo ed itinerari della biodiversità agraria), che chiamano ad un ruolo
attivo la cittadinanza urbana ed il valore altamente politico delle scelte di consumo e
degli stili di vita.
In questo senso, Roma ed il Lazio si candidano ad alfieri di quella “economia della bel-
lezza” per la quale la riscoperta dei gusti, la sostenibilità ambientale ed i modelli pro-
duttivi a forte integrazione orizzontale (multifunzionalità, diversificazione) trovano nella
biodiversità agraria e frutticola un peculiare ambito di elezione: basti pensare a quan-
te risorse, tra quelle autoctone, affondano le loro radici nella storia di Roma e del
Papato, nei territori ex Regno di Napoli o più semplicemente nella vita di comunità,
come quelle della Sabina Romana, che avevano nella frutticoltura la loro ragion
d’essere fino al dopoguerra.
La biodiversità frutticola raccolta in questo volume ci chiama pertanto ad un esercizio
di responsabilità verso quel capitale immateriale, che spesso non trova adeguata

102
valorizzazione, non tanto per fattori intrinseci quanto per carenze nelle funzioni di
responsabilità verso quel capitale immateriale, che spesso non trova adeguata
valorizzazione, non tanto per fattori intrinseci quanto per carenze nelle funzioni di
impresa, che sono di più difficile rivitalizzazione nelle aree interne, senilizzate e depau-
perate di risorse umane, dove la biodiversità è una sorta di infrastruttura per la
costruzione di nuovi modelli di sviluppo, aperti al ruolo della comunità, tutti da costrui-
re, in primo luogo con l’apporto di nuove competenze specialistiche, per rafforzare le
quali, l’Agenzia è chiamata a concorrere dalla legge insieme alla ricerca, al sistema
scolastico e a quello associativo.
L’anno in corso è stato, pertanto, l’occasione di raccogliere a fattor comune i prodot-
ti, nel primo Repertorio Regionale delle aziende e dei prodotti della biodiversità
agraria; a valle degli strumenti di legge della Rete di Conservazione e Sicurezza del
Registro Volontario Regionale delle Risorse genetiche autoctone a rischio di erosione;
l’auspicio è che, in occasione del 18° anno della LR 15/2000, si possa misurarne
compiutamente la transizione da frutti dimenticati a biodiversità recuperata.

Antonio Rosati
Amministratore unico ARSIAL

103
2.1 Cenni storici della viticoltura e frutticoltura del Lazio
Caratteristiche ambientali della Regione Lazio
Pietro Massimiliano Bianco
Il territorio del Lazio è estremamente vario e questo, associato ai gradienti di
altitudine e mediterraneità ne favorisce un elevata ricchezza floristica e vegetazionale
che si riflette nell’elevata biodiversità agricola e nella presenza di importanti aree
naturali. Si tratta di una regione prevalentemente collinare: il 54% del suo territorio è
occupato da zone collinari, il 26% da zone montuose ed il restante 20% da pianure.
Le temperature sono relativamente miti anche se d’estate, soprattutto a bassa quo-
ta, si possono spesso suprare i 30°. Le medie mensili sono quasi ovunque superiori
allo zero durante tutto l’anno se si eccettuano le zone montane dove si possono avere
precipitazioni nevose anche cospicue, che hanno portato nel passato all’installazione
di importanti stazioni turistiche legate agli sport nordici (Terminillo, Campo Livata,
Campo Catino).

I Tipi fisiografici di Paesaggio nel Lazio (da ISPRA, Carta dei tipi e delle unità fisiografiche
d’Italia” scala 1:250.000).
La piovosità è abbondante rispetto ad altre aree a clima Mediterraneo. Aumenta da
nord verso sud e dalle zone costiere verso le zone montuose, con l’eccezione di alcu-
ne vallate interne. I minimi si riscontrano nella pianura Maremmana, dove la piovosità
è attorno ai 600 mm, mentre le zone più piovose si riscontrano sui rilievi confinanti
con l’Abruzzo, sull’Antiappennino Laziale e nel Basso Lazio, dove la vicinanza della
catena Appenninica alla costa rende efficace la cattura dell’umidità apportata dalle
depressioni Atlantiche e Tirreniche. Qui cadono fino ad oltre 1500 mm di pioggia con
punte di 2000 mm sui rilievi del Basso Lazio. Le restanti zone del Lazio che includono
gran parte del litorale Laziale l’Agro Romano, la Valle del Tevere e la parte interna

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della Provincia di Viterbo registrano quantitativi tra 800 e 1200 mm annui. La mitez-
za del clima, associata alla fertilità dei terreni, rende questa regione potenzialmente
vocata a vari tipi di agricoltura.
In particolare circa un terzo della regione è caratterizzata da estese coltri vulcaniche
appartenenti principali ai sistemi Vulsino, Sabatino, Cimino e Albano caratterizzati dai
tipici laghi vulcanici e, localmente, da profondi canyon scavati nel tufo. I terreni sono
caratterizzati da suoli fertili e sono da millenni sede di intense attività agricole anche
per il clima particolarmente mite. Numerose le aree protette di interesse comunita-
rio, che comprendono i laghi e i loro emissari.
Poco meno estesi sono i complessi carbonatici dell’Appennino centrale, caratterizzati
da estesi pascoli e boschi di faggio, e del Preappennino (Ausoni, Aurunci, Lepini). An-
che qui troviamo estese aree protette quali la porzione laziale del parco d’Abruzzo,
Lazio e Molise (monti della Meta) e importanti parchi regionali. Soprattutto nelle zone
collinari preappenniniche, dove lo spessore del suolo è sufficiente, sono ancora signifi-
cative le colture intensive, ma diventa in particolare caratteristica la coltura dell’olivo.
I complessi terrigeni sono sviluppati soprattutto nella parte orientale della Regione e
comprendono principalmente la porzione laziale del Parco Nazionale Gran Sasso-
Monti della Laga (dove si raggiungono i 2458 metri a monte Gorzano, il punto più alto
della regione) e i monti Carseolani. Anche queste unità paesistiche sono caratterizzati
da estese coltri forestali ed elevate condizioni di naturalità.
Altri complessi terrigeni di modesta altitudine sono presenti nella valle del Sacco
presso Bellegra, Anagni, valle Latina e intorno a Fosinone e sono anch’essi in buona
parte coltivati. Anche le colline di prevalente natura argillosa di Tarquinia, della valle
del fiume Fiora e della bassa Sabina sono prevalentemente caratterizzate da agricol-
tura intensiva.Estese le pianure costiere nella parte meridionale della regione
(pianura Pontina e piana di Fondi) particolarmente vocate all’agricoltura dopo le inten-
se bonifiche del secolo scorso. Il paesaggio storico sopravvive ormai solo nel Parco
Nazionale del Circeo e in una manciata di piccole riserve naturali sparse lungo una
costa intensamente urbanizzata.

La formazione storica del Lazio


Massimo Tanca

Il Lazio come oggi risulta è da annoverare tra le regioni più eterogenee dal punto
di vista geografico, risultato di vicende storiche e decisioni politico-amministrative
recenti. La molteplicità di aspetti fisici e antropici ha contribuito a generare diversi
paesaggi rurali ed espressioni variegate del “capitale sociale” relativo a quelle comuni-
tà che nel Lazio si sono sviluppate. L’interazione tra questi due fattori naturali ed
umani nel corso del tempo ha permesso la selezione di varietà e razze animali locali.
Ai fini della ricostruzione della formazione storica del Lazio, dobbiamo partire dalla
considerazione che l’Italia, dopo il crollo dell’impero romano e fino alla metà del 1800,
non è stata mai unita dal punto di vista politico. Con l’unificazione d’Italia, il nuovo
Regno, ereditando le suddivisioni territoriali degli Stati preunitari, decise di darsi
un nuovo assetto in merito all’organizzazione amministrativa attraverso il decentra-
mento nelle provincie. Quando il 17 marzo 1861 il XXIV° re di Sardegna, Vittorio Ema-
nuele II, proclama la nascita del Regno d'Italia, il territorio risulta essere suddiviso in
58 amministrazioni provinciali. Successivamente il regime fascista decise di articola-
re le circoscrizioni territoriali dello Stato su due livelli: quello comunale e quello provin-
ciale. Nel 1927 si aggiungono altre 17 Province. Viene soppressa la provincia di
Caserta. Si passa in questo modo dalle 68 province del 1870 alle 92 province del 1931.

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I confini delle Province vengono ancora modificati nel 1934 attraverso la costituzione
della Provincia di Littoria (oggi Latina) e, nel 1935, della provincia di Asti.
La storia del Lazio è stata sempre condizionata dalla presenza di Roma. Prima del
1870 la regione veniva geograficamente identificata con la provincia romana. La
stessa parola Lazio veniva poco usata tanto da essere considerata da alcuni autori
come una regione artificiale (Guida d’Italia del Touring Club Italiano, Lazio, 1981) e
storicamente introvabile (Volpi R., 1983).
Dopo il 1870 Roma divenuta capitale d’Italia, costituì un polo di attrazione per chi,
proveniente in prevalenza da territori limitrofi, era in cerca di occupazione causando
lo spopolamento delle aree montane e collinari. La prima importante opera di bonifica
fu quella di Ostia nel 1884 ad opera di 500 braccianti ravennati organizzati nella pri-
ma cooperativa nella storia d’Italia.
In epoca fascista a seguito della bonifica delle paludi Pontine che interessò un’area di
80.000 ettari, con 5.000 poderi gestiti dall’Opera Nazionale Combattenti si ebbe un
primo grande movimento migratorio costituito da Romagnoli, Veneti e Friulani. Un
secondo grande movimento migratorio si ebbe negli anni ’50 con la riforma agraria
che interessò la Maremma laziale fino allora gestita da un regime fondiario impernia-
to sul latifondo e sulla grande proprietà terriera assenteista.
Furono espropriati 62.628 ettari (32.944 in provincia di Viterbo e 29.684 in provin-
cia di Roma) da 262 proprietari latifondisti e riassegnati 57.684 ettari sui quali l’En-
te Maremma realizzò 2.844 poderi assegnati a famiglie di braccianti provenienti da
varie zone d'Italia. Il criterio adottato fu quello del reddito e del numero di figli e alla
fine il sorteggio fra gli aventi diritto.
Per ridurre il peso relativo di Roma, i confini regionali vennero nel tempo modificati ed
ampliati fino ad arrivare agli attuali 1.722.740 ettari dai 1.208.000 ettari del 1861.
Furono accorpati popoli e territori diversi, tanto che ancora oggi siamo portati a nomi-
nare gli abitanti di alcune zone del Lazio in base alla loro regione storica di provenien-
za (i Ciociari, i Sabini).

La formazione delle provincie laziali nel periodo post-unitario


I comuni del Lazio entrarono a far parte dello stato unitario in tempi differenti.
Quelli provenienti dal Regno di Napoli, annessi nel 1860, vennero inquadrati:
− per la parte a sud dello Stato pontificio, nella nuova provincia di Terra di Lavoro,
poi provincia di Caserta, con i due circondari di Gaeta e di Sora;
− per la parte ad est dello Stato pontificio, oggi ricondotto nella provincia di Rieti,
si istituì il circondario di Cittaducale nella provincia di Abruzzo Ulteriore, poi
dell’Aquila.
Sempre nel 1860 furono annessi i territori della Sabina che furono aggregati nel cir-
condario di Rieti come suddivisione della provincia di Perugia.
Con la caduta dello Stato Pontificio (2 ottobre 1860) venne istituita la provincia di
Roma che ricalcava nelle grandi linee le suddivisioni amministrative papali.
Nel 1923 alla provincia di Roma venne aggregato il Circondario di Rieti con i suoi 56
comuni staccati dalla provincia di Perugia. Nel 1927 con l’abolizione dei circondari e
delle sottoprefetture, il territorio della provincia di Roma venne suddiviso in quattro
provincie: Roma, Viterbo, Rieti e Frosinone.

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Con la soppressione delle circoscrizioni, dei mandamenti e dei circondari.
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Aosta, Vercelli, Varese, Savona, Bolzano, Gorizia, Pistoia, Pescara, Rieti, Terni, Viterbo, Frosinone, Brindisi,
Matera, Ragusa, Castrogiovanni (ora con il nome di Enna), Nuoro.

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La provincia di Roma comprendeva i comuni degli ex circondari di Roma, Velletri e
Civitavecchia, più 15 comuni già appartenenti alla soppressa provincia di Caserta e
all’ex circondario di Gaeta, entrambi già provincia di Caserta.
La provincia di Rieti comprendeva i comuni dell’ex circondario, a cui si aggiunsero i 17
comuni del soppresso circondario di Cittaducale staccato dalla provincia dell’Aquila.
La provincia di Viterbo comprendeva infine i comuni del soppresso omonimo circon-
dario. Sempre nel 1927 la provincia di Roma subiva un’ulteriore diminuzione con la
perdita di alcuni comuni aggregati alle provincie di Frosinone e di Viterbo.
Tra il 1927 e il 1928, infine 25 tra le comunità minori del Lazio di scarsa consistenza
demografica vennero soppresse ed aggregate ai comuni maggiori.
Nel 1934, con il RDL del 4 ottobre, le provincie del Lazio divennero 5 con la creazione
della provincia di Littoria (dal 1944 Latina) comprendente 27 comuni distaccati dalla
provincia di Roma (compresi quelli dell’ex circondario di Gaeta, già provincia di Caser-
ta), più Ponza e Ventotene staccati dalla provincia di Napoli. A questi comuni si ag-
giunsero i 4 creati a seguito della bonifica dell’Agro pontino (Latina, Sabaudia, Ponti-
nia, Aprilia). Attualmente il Lazio include 378 comuni.

I fruttiferi nel Lazio dalla preistoria all’età romana: l’apporto dell’archeobotanica


Matteo Delle Donne

La cospicua documentazione archeobotanica, relativa a resti di semi e frutti, disponi-


bile per numerosi siti archeologici laziali ha reso possibile tracciare una storia dello
sfruttamento degli antichi fruttiferi nelle comunità umane del passato, dalla preistoria
fino all’età romana. Le indagini condotte su semi e frutti antichi consentono, infatti, di
attestare il consumo umano di determinate specie, mentre lo studio di altre tipologie
di resti archeobotanici, quali carboni, legni o pollini indicano all’interno di un sito la
presenza di certe essenze o un loro sfruttamento non alimentare.
Nel Lazio, la realizzazione di indagini archeobotaniche, volte al recupero e all’analisi di
antichi resti di semi e frutti provenienti da scavi archeologici, è sostenuta, al contrario
che in altre aree d’Italia, da una lunga tradizione di studi iniziata nel dopoguerra con le
indagini del pisano Ezio Tongiorgi che operò nell’ambito delle ricerche paletnologiche
di Ferrante Rittatore nella Maremma tosco-laziale. A questi primi studi seguirono
quelli del danese Hans Helbaek, considerato uno dei fondatori della moderna paletno-
botanica, che analizzò i resti provenienti dagli scavi condotti dall’Istituto Svedese di
Studi Classici a Roma in vari siti di Roma antica e di Luni sul Mignone e San Giovenale,
nel viterbese. In seguito, numerose analisi archeobotaniche sono state realizzate, in
particolare, nei Laboratori dell’Università di Roma La Sapienza e nel Laboratorio di
Bioarcheologia del Museo Nazionale di Arte Orientale di Roma su resti provenienti da
numerosi siti archeologici riferibili a un ampio arco cronologico compreso tra il Neoli-
tico e l’età romana (tab. 1). Nonostante il Lazio si configuri, quindi, come una delle
regioni italiane più esplorate dal punto di vista archeobotanico, anche nei siti di questa
regione, bisogna registrare che le indagini condotte sono state, in alcuni casi, perlopiù
occasionali, vale a dire non derivanti da una progettualità condivisa tra archeologi e
archeobotanici. Questo non ha impedito, tuttavia, di poter ben delineare il più antico
rapporto tra le comunità umane del passato e il proprio ambiente, in particolare ri-
guardo la raccolta dei frutti selvatici: fin dalle più antiche fasi del periodo neolitico,
compreso tra VI e IV mill. a.C., è attestato, infatti, uno sfruttamento variegato di oltre
venti essenze arboree e arbustive. Nell’unico sito del Neolitico antico indagato dal
punto di vista archeobotanico, La Marmotta di Anguillara Sabazia (RM), un sito
sommerso nel Lago di Bracciano, è attestata la presenza di un gran numero di frutti,

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tra i quali corniole, sanguinelle, nocciole, fichi, fragole, alchechengi, ghiande di quercia,
more di rovo, lamponi, castagne d’acqua, uva, oltre a mele, pere, susine e prugnole
tutte di varietà selvatiche e bacche di diverse piante, quali ebbio, sambuco, alloro e
biancospino. Tale ricchezza di attestazioni è da correlare alle dinamiche deposizionali
e postdeposizionali del sito, infatti, nei siti sommersi, come in quelli umidi, la condizio-
ne di anaerobiosi, ovvero senza ossigeno, favorisce la conservazione di tutta la mate-
ria organica. Ciò non avviene, invece, nei siti asciutti, dove la presenza di resti di frutti
è dettata, in genere, da una carbonizzazione accidentale, che consente di preservare
nel deposito archeologico solo una parte delle specie sfruttate nel passato. Tale mo-
dalità ha favorito la conservazione dei resti di frutti negli altri siti neolitici indagati dal
punto di vista archeobotanico, quali il sito del Neolitico medio di Casale del Dolce (FR)
e quelli del Neolitico finale di Quadrato di Torre Spaccata (RM) e Poggio Olivastro (VT):
a Casale del Dolce sono attestati frutti di sambuco e vite selvatica, di ebbio a Quadra-
to di Torre Spaccata e nuovamente di vite selvatica a Poggio Olivastro. La documenta-
zione archeobotanica relativa al Neolitico proviene, quindi, da siti ubicati in aree diffe-
renti della regione, dalla Tuscia al Lazio meridionale, passando per la campagna ro-
mana e restituisce, quindi, un campione geografico alquanto differenziato; bisogna,
però, considerare che in rapporto all’ampia distribuzione dei siti neolitici sul territorio,
i dati disponibili, eccezione fatta per La Marmotta, sono alquanto scarsi e non consen-
tono di ben chiarire le modalità di raccolta, trattamento e immagazzinamento dei
frutti. Queste attestazioni, però, forniscono utili informazioni sulla continuità dei siste-
mi di raccolta preagricoli e indicano degli elementi interessanti che sembrano carat-
terizzare questo importante periodo della preistoria: un comune denominatore tra le
attestazioni di frutti in questi siti, oltre alla presenza dell’ebbio e del sambuco, è la
presenza di vinaccioli di vite selvatica, i cui frutti furono, quindi, oggetto di raccolta,
analogamente agli altri frutti spontanei, già durante il Neolitico, a testimonianza di un
antico interesse delle comunità preistoriche verso questa pianta.
Per il successivo periodo eneolitico (fine IV- fine III mill. a.C.), le attestazioni di frutti
sono alquanto scarse, infatti solo poche specie sono documentate in due siti dell’Agro
romano indagati alquanto recentemente: a Casetta Mistici è attestato il corniolo,
mentre a Pantano Borghese un frammento carbonizzato di ghianda di quercia.
Le attestazioni di corniolo e ghiande, già registrate a La Marmotta, sono molto
frequenti anche in molti altri siti dell’Italia centromeridionale e attestano una continua-
zione dell’interesse umano verso queste piante: il corniolo, è un frutto naturalmente
presente nella flora italiana, che poteva essere consumato sia fresco che secco e
probabilmente veniva utilizzato nella preparazione di bevande fermentate. Le ghiande
di quercia, invece, potevano essere impiegate nell’alimentazione animale, oltre che in
quella umana. Durante l’età del bronzo (fine III mill. a.C. - inizi I mill. a.C.), in Italia centro-
meridionale la raccolta dei frutti spontanei sembra conoscere un’intensificazione che,
però non sempre è riscontrabile nei siti laziali, nei quali presenze quasi costanti sono
esclusivamente nòccioli di corniolo e ghiande di quercia. Questi sono attestati, infatti,
non sempre simultaneamente, nei livelli del Bronzo antico e medio di Grotta Vittorio
Vecchi (LT) e Villaggio delle Macine (RM), del Bronzo medio di Grotta Misa (VT) e in
quelli del Bronzo recente e finale di Luni sul Mignone (VT), Narce (RM) e Sorgenti della
Nova (VT). In tutti i siti dell’età del Bronzo laziale le attestazioni di fruttiferi riguardano
solo poche specie per ogni sito indagato, eccetto che per Villaggio delle Macine, un
sito sommerso del lago di Albano, dove le favorevoli condizioni di giacitura hanno
consentito anche la conservazione di resti di sanguinella, nocciole, fichi, fragole, mele
selvatiche, prugnoli, more, bacche di biancospino, di sambuco e di ebbio, attestate
queste ultime, peraltro anche a Narce. In questo periodo si registrano nuovamente
attestazioni di resti di vite, a testimonianza di un continuo e probabilmente crescente

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crescente interesse nei confronti di questa pianta, ben attestata perlopiù in altri siti
dell’Italia centromeridionale: vinaccioli di vite sono documentati nella regione, nei livelli
del bronzo antico e medio di Villaggio delle Macine, del bronzo medio del Lago di Can-
terno (FR) e in quelli del Bronzo finale di Tarquinia (VT). Questi rinvenimenti potrebbe-
ro essere attribuiti ad azioni di raccolta di frutti spontanei o a primi episodi di coltiva-
zione, ma non è possibile, allo stato attuale, definire meglio la presenza di tali resti,
analogamente a quelli di olivo, attestati, peraltro in via dubitativa, nei livelli del bronzo
antico e medio di Grotta dello Sventatoio (RM) e del Bronzo medio di Vicarello (RM).
Una minore incertezza, in merito alla sempre crescente presenza della vite e dell’oli-
vo, si riscontra invece durante il successivo periodo dell’età del Ferro (X - prima metà
VIII sec. a.C.). Nel corso di questa fase, infatti, le attestazioni relative all’uva aumenta-
no progressivamente: numerosi resti di questo frutto sono attestati nei siti di Gran
Carro nel Lago di Bolsena (VT), Sant’Antonio di Cerveteri (RM), oltre che nei livelli dell’-
VIII sec. a.C. indagati sul pendio settentrionale del Palatino e in quelli dell’VIII-VII sec.
a.C. di Cures Sabini (RI). La documentazione relativa all’olivo, ancora alquanto lacuno-
sa, proviene dai livelli di VIII sec. a.C. di Tarquinia e dell’VIII-VII sec. a.C. di Cures Sabini
(RI). Se questi resti di olivo non consentono ancora di chiarire i modi e i tempi dell’ini-
zio della coltivazione dell’olivo nel Lazio, i numerosi vinaccioli rinvenuti, in alcuni casi
riferibili a varietà di vite coltivata, come a Gran Carro, consentono invece di affermare
che in questo periodo è ormai praticata la coltivazione e conseguentemente avviata la
domesticazione di questa pianta la quale, tuttavia, continua a sopravvivere anche nella
sua varietà selvatica: probabilmente l’uva delle due varietà, quella domestica e quella
selvatica, poteva essere utilizzata ciascuna con finalità verosimilmente differenti co-
me, ad esempio, per il consumo delle bacche fresche, secche o per il loro utilizzo nella
preparazione di bevande, come il temetum. Con questo termine, le fonti antiche indi-
cavano l’antico nome del vino indigeno della penisola italiana, differente da quello im-
portato dai Greci, e ottenuto probabilmente con tecniche vinificatorie primitive, trami-
te la fermentazione di grappoli d’uva, probabilmente coltivata, ma ancora non del tut-
to addomesticata, o di altri frutti, come ad esempio le corniole o le sorbe. È da rileva-
re, però che se, come visto, le corniole sono variamente diffuse nei siti protostorici
laziali, anche in questo periodo, resti di sorbe sono, invece, attestati esclusivamente
tra le offerte votive deposte nelle sepolture del Foro Romano, databili tra IX e VIII sec.
a.C. La produzione di un vino da viti non del tutto addomesticate dovette, probabilmen-
te, essere una delle attività svolte anche nei periodi successivi, tanto da concorrere
alla formazione di una viticoltura intensiva, in particolare nelle aree di influenza etru-
sca. Altre specie di frutta consumate durante l’età del Ferro sono attestate in partico-
lare dalla ricca documentazione del Gran Carro, dove abbondavano prugnole, susine,
ghiande di quercia, more di rovo e corniole, attestate queste ultime anche a Cures
Sabini, mentre altri resti di fichi, prugnole/susine e bacche di sambuco provengono
dai livelli di VIII sec. a.C. del pendio settentrionale del Palatino.
Durante il periodo arcaico (fine VIII-VI sec. a.C.), resti di vite sono attestati in diversi
luoghi della città di Roma, nel Foro, sul Palatino, a Sant’Omobono, Centocelle, oltre
che a Pyrgi (RM), Sant’Antonio di Cerveteri (RM) e Tarquinia (VT), le cui attestazioni
sono, inoltre, riferibili anche al V sec. a.C.: l’ampia diffusione di resti di questa pianta
nei depositi laziali dimostra come la coltivazione della vite sia ormai ampiamente diffu-
sa e come, in questo periodo e probabilmente anche in quello precedente, abbia con-
tribuito alla formazione del tipico paesaggio mediterraneo.
Questo poteva essere caratterizzato da campi con colture promiscue, nei quali convi-
vevano viti, ulivi e cereali o contraddistinto da aree con colture specializzate, nelle qua-
li ai campi di cereali si alternavano aree destinate alla coltivazione dell’olivo e del fico,
altre tipiche colture mediterranee. Resti di queste piante, infatti, cominciano a essere

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maggiormente presenti nei siti laziali: nòccioli di olivo, rinvenuti verosimilmente già nel
corso dell’età del Bronzo antico, e acheni di fico, documentati a partire dal Neolitico
antico, sono attestati, infatti, da una più ampia documentazione nei depositi del Palati-
no e di Sant’Omobono, mentre a Tarquinia di queste due specie è attestato solo il fico.
Naturalmente ci sono per questo periodo anche numerose attestazioni, non sempre
simultanee, di altre varietà di frutta, quali more o lamponi di rovo, bacche di sambuco
e talvolta prugnolo, nei siti del Foro Romano, del Palatino, di Sant’Omobono, Centocel-
le e, inoltre, a Pyrgi e Tarquinia. In quest’ultimo sito, è anche documentato il consumo
di meloni o forse cetrioli, di mele e probabilmente ciliegie, oltre a gelsi, bacche di ebbio
e nocciole documentate anche a Sant’Omobono.
Per i successivi periodi, la documentazione archeobotanica risulta limitata solo a po-
chi siti, tra i quali emerge naturalmente Roma. La scarsità di indagini
archeobotaniche è purtroppo dettata dal fatto che le informazioni relative allo
sfruttamento dei frutti e, analogamente, alle altre materie prime di origine vegetale
sono state generalmente tratte dalle fonti classiche, che, in ogni caso, sarebbe
opportuno leggere alla luce del riscontro ottenuto anche dallo studio dei resti
rinvenuti nei depositi archeologici. Solo cinque siti riferibili al periodo repubblicano
(fine VI-I sec. a.C.) sono stati indagati dal punto di vista archeobotanico e due di questi
sono ubicati nell’antica città di Roma. Resti di vinaccioli di vite e nòccioli di olivo sono
stati rinvenuti nei siti de Le Pozze (VT) e del Palatino, ulteriori attestazioni di vite
provengono da Sant’Antonio di Cerveteri, mentre altri resti di nòccioli di olivo sono
quelli del Foro Romano e di Pyrgi, siti nei quali è documentato anche il consumo di
pinoli.
Nei livelli del Foro Romano è stato recuperato un frammento di guscio riferibile proba-
bilmente a una mandorla, mentre da Pyrgi provengono resti di bacche di biancospino
e ghiande di quercia. Il deposito de Le Pozze è quello che ha restituito una più cospi-
cua documentazione archeobotanica, oltre ai resti già citati, infatti, in questo sito so-
no stati identificati frutti di corniolo, nocciolo, fico, pero, rovo e quercia.
Nel Foro Romano, nell’area del Carcer Tullianum, in un contesto votivo databile tra II
sec. a.C. e I sec. d.C., tra la fine del periodo repubblicano e gli inizi di quello
imperiale, sono stati ritrovati i più antichi resti riferibili verosimilmente al limone,
non ancora utilizzato per scopi alimentari. Alquanto scarsi sono i siti di età imperiale
(fine I sec. a.C. - fine V sec. d.C.) indagati per il recupero e lo studio di semi e frutti
antichi: a Priverno compaiono i pri-mi nòccioli di pesche, associati a gusci di pinoli, a
Mola di Monte Gelato (RM) è atte-stato probabilmente solo l’olivo, mentre i
rinvenimenti più numerosi per questo perio-do sono quelli del Colosseo, nel quale sono
stati ritrovati gusci di noci, nocciole e pinoli, oltre a frammenti di pigne, nòccioli di
olivo, ciliegie, prugne e pesche, acheni di fico, semi di melone, more, sambuco e uva,
questi ultimi attestati, peraltro, anche nei livelli tardo imperiali della Schola Paeconum,
a Roma. Malgrado la documentazione archeobotanica relativa al periodo romano sia
alquanto carente, molti autori, vissuti nel periodo compreso tra III sec. a.C. e I d.C.,
quali Catone, Varrone, Virgilio, Columella e Plinio, riportano numerosissime infor-
mazioni riguardo il mondo agricolo a loro contemporaneo e spesso ben più antico:
ad esempio Plinio riporta che il re Numa (fine VIII-Inizi VII sec. a.C.) fu colui che
trasformò i Romani in coltivatori di vite.
Al contrario, diverse attestazioni archeologiche, quali i pennati con taglien-te sul
dorso, idonei per la viticoltura, il vasellame da mensa connesso all’uso del vino, i semi
di vite domestica indicano che la viticultura dovette iniziare, come visto, in un
periodo ben più antico rispetto a quello attribuito dalla tradizione al regno di Numa su
Roma. A partire dall’età medio repubblicana, invece, le informazioni relative
all’utilizzo dei fruttiferi nella vita quotidiana, sembrano trovare riscontro anche
nella cultura materiale restituita dagli scavi archeologici.
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L’olivo, ad esempio, veniva coltivato non solo per i suoi frutti eduli, ma
soprattutto per la preparazione dell’olio da utilizzare in cucina, come elemento
basilare nella cosmesi, come medicamento o per l’illuminazio-ne: a tal fine era
considerato adatto l’olio africano, ritenuto invece meno idoneo per altri scopi, quali
quello alimentare o cosmetico. Il patrimonio di informazioni sui fruttiferi contenuto
nelle fonti classiche dovrebbe, quindi, essere sempre letto alla luce dei dati
archeologici e concorrere in questo modo alla restituzione di uno spaccato di un
mondo, quello romano, che rappresenta il risultato di una lunga evoluzione avviata
secoli prima, nel corso del periodo protosto-rico, per il quale la maggior parte dei
dati disponibili sono solo quelli derivanti dagli scavi archeologici.

Fig. 1. Siti archeologici laziali con resti archeobotanici di frutti: 1. Sorgenti della Nova, Farnese (VT); 2. Gran
Carro, Bolsena (VT); 3. Grotta Misa, Ischia di Castro (VT); 4. Poggio Olivastro, Canino (VT); 5. Tarquinia (VT);
6. Luni sul Mignone (VT); 7. Le Pozze, Blera (VT); 8. Narce, Mazzano Romano (RM); 9. Mola di Monte Gela-
to, Mazzano Romano (RM); 10. Vicarello, Bracciano (RM); 11. La Marmotta, Anguillara Sabatia (RM); 12.
Cures Sabini, Fara in Sabini (RI); 13. Pyrgi, Santa Marinella (RM); 14. Sant'Antonio, Cerveteri (RM); 15.
Grotta dello Sventatoio, S. Angelo Romano (RM); 16. Roma (necropoli del Foro Romano; Via Sacra/Atrium
Vestae; Carcer Tullianum; Palatino N; Palatino SW; Sant'Omobono; Colosseo; Schola Praeconum); 17. Cen-
tocelle, Roma; 18. Casetta Mistici, Torre Angela (RM); 19. Pantano Borghese, Montecompatri (RM); 20.
Quadrato di Torre Spaccata (RM); 21. Villaggio delle Macine, Castel Gandolfo (RM); 22. Casale del Dolce,
Anagni (FR); 23. Lago di Canterno (FR); 24. Grotta Vittorio Vecchi, Sezze (LT); 25. Domus della Soglia niloti-
ca, Priverno (LT).

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Tab. 2.1. Distribuzione dei resti di frutti nei siti archeologici laziali oggetto di analisi
archeobotaniche.

Periodo Sito Frutti Riferimento


bibliografico
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avellana, Crataegus sp., Ficus carica, Fragaria Rottoli 1993;
vesca, Laurus nobilis, Malus sylvestris, Malus Rottoli 2000-
Neolitico La Marmotta, sp., Physalis alkekengi, Prunus domestica 2001;
antico Anguillara Sabatia (RM) subsp. insititia (wild form), Prunus spinosa, Rottoli 2014;
Prunus spinosa/domestica, Pyrus sp., Quer- Rottoli Pessina
cus sp., Rubus fructicosus, Rubus idaeus, 2007
Sambucus ebulus, Sambucus nigra, Trapa
natans, Vitis vinifera sylvestris
Neolitico Casale del Dolce, Sambucus sp., Vitis vinifera ssp. silvestris Coubray 1997
medio Anagni (FR)
Anzidei et al.
Quadrato di 2002; Celant
Neolitico Torre Spaccata (RM) Sambucus ebulus 1995; Celant et
finale al. 1996
Poggio Olivastro, Vitis sp. Bulgarelli et al.
Canino (VT) 1993
Casetta Mistici, Cornus mas Anzidei et al.
Torre Angela (RM) 2011
Eneolitico
Pantano Borghese, Quercus sp. Angle et al. 201-
Montecompatri (RM) 5
Grotta Vittorio Vecchi, Costantini,
Sezze (LT) Cornus mas, Quercus sp. Costantini Biasini
2007
Grotta dello Sventatoio, Costantini,
Bronzo cf. Olea europaea Costantini Biasini
antico- S. Angelo Romano (RM) 2007
medio
Cornus mas, Cornus sanguinea, Corylus Angle et al.
Villaggio delle Macine, avellana, Crategus sp., Ficus carica, Fragaria 2002;
vesca, Malus sylvestris, Prunus spinosa,
Castel Gandolfo (RM) Carra et al.
Quercus sp., Rubus fructicosus, Sambucus 2007
ebulus, Sambucus nigra, Vitis vinifera
Lago di Canterno (FR) Vitis vinifera Angle, Gianni
1986
Bronzo Vicarello, Bracciano cf. Olea europaea Fugazzola Delpi-
medio (RM) no 1983-84
Grotta Misa, Cornus mas, Quercus ilex Tongiorgi 1947
Ischia di Castro (VT)
Bronzo Luni sul Mignone (VT) Quercus sp. Helbaek 1967
recente
Bronzo
recente, Narce, Mazzano
Bronzo Romano (RM) Cornus mas, Sambucus ebulus Jarman 1976
finale
Sorgenti della Nova,
Farnese (VT) Quercus sp. Follieri 1981
Bronzo
finale
Tarquinia (VT) Vitis Rottoli 1997

X-VIII Sant'Antonio, Cerveteri


Vitis sp. Izzet 2000
sec. a.C. (RM)

IX-VIII Roma, necropoli del Sorbus aria L. Helbaek 1956


sec. a.C. Foro Romano
Costantini, Biasi-
Cornus mas, Corylus avellana, Prunus insititia, ni Costantini
IX Gran Carro, Bolsena
sec. a.C. (VT) Prunus spinosa, Quercus sp., Rubus sp., Vitis 1987; Iidem
vinifera 1995; Iidem
1997

112
Tarquinia (VT) Olea Rottoli 1997
VIII sec.
a.C. Ficus carica, Prunus sp., Sambucus sp., Vitis
Roma, Palatino N vinifera Motta 2002
Costantini, Co-
stantini Biasini
VIII-VII sec.a.C. Cures Sabini,
Fara in Sabina (RI) Cornus mas, Olea europea, Vitis vinifera 1985; Iidem
1987; Iidem
1988
Costantini, Giorgi
VIII-VI sec. a.C. Roma, Foro Romano, Ficus carica, Rubus fruticosus/idaeus, Sam- 2001; Iidem
Via Sacra/Atrium Vestae bucus sp., Vitis vinifera 2009
Pyrgi, cf. Prunus, Rubus fruticosus, Rubus sp., Sam- Kodýdková et al.
VIII-I sec. a.C. Santa Marinella (RM) bucus sp., Vitis vinifera 2013
Sant' Antonio,
Cerveteri (RM) Vitis sp. Izzet 2000

VII sec. a.C. Roma, necropoli del


Vitis vinifera Helbaek 1956
Foro Romano
Ficus carica, Fragaria sp., Olea europaea,
Roma, Palatino N Motta 2002
Prunus sp., Sambucus sp., Vitis vinifera
La Rocca, Celant
VII-IV sec. a.C. Centocelle, Roma Sambucus nigra, Vitis vinifera
2004
Roma, Foro Romano,
VII-II sec. a.C. via Sacra Ficus carica, Rubus sp., Sambucus sp. Giorgi 1988

Corylus avellana, Ficus carica, Olea europaea, Costantini,


Roma, Sant' Omobono Costantini Biasini
Rubus sp., Vitis vinifera 1989
VI sec. a.C.
Roma, Palatino N Olea europaea, Sambucus sp., Vitis vinifera Motta 2002
Ficus carica, Olea europaea, Prunus cf. spino- Costantini, Giorgi
Roma, Palatino SW sa, Rubus fructicosus/idaeus, Sambucus sp. ,
2001
Vitis vinifera
VI-V sec. a.C. Corylus avellana, Cucumis melo/sativus, Ficus
carica, Malus sp., cfr. Morus nigra, Prunus Rottoli 2001;
Tarquinia (VT) spinosa/domestica, Prunus tipo avium, Vitis Idem 2005
vinifera, Sambucus nigra/ebulus
Cornus mas, Corylus avellana, Ficus carica,
Le Pozze, Blera (VT) Olea europaea, Pyrus sp., Rubus sp., Quercus Ricciardi et al.
sp., Vitis vinifera 1987
IV-III sec. a.C.
Coletti et al.
Roma, Palatino SW Olea europaea, Vitis vinifera 2006
Sant' Antonio,
IV-I sec. a.C. Cerveteri (RM) Vitis sp. Izzet 2000

II sec. a.C. Roma, Foro Romano, Pagnoux et al.


Citrus cf. x limon
I sec. d.C. Carcer Tullianum 2013
Ficus carica, Olea europea, Pinus pinea, Pru- Costantini, Giorgi
Roma, Atrium Vestae nus cf. amygdalus 2009
I sec. a.C.
Pyrgi, Olea europaea, Crataegus monogyna, Pinus Gismondi et al.
Santa Marinella (RM) sp., Quercus petraea 2013
Sadori et al.
2006; Sadori et
Domus della Soglia nilotica, al. 2007; Sadori
I sec. d.C. Priverno (LT) Pinus pinea, Prunus persica et al. 2009;
Sadori et al.
2010
Mola di Monte Gelato,
II-IV sec. d.C. Mazzano Romano (RM) cf. Olea europaea Giorgi 1997
Corylus avellana, Cucumis melo, Ficus carica,
Juglans regia, Olea europaea, Pinus pinea, Follieri 1975;
IV sec. d.C. Roma, Colosseo Prunus avium, Prunus domestica, Prunus Celant, Follieri
persica, Rubus fruticosus, Sambucus nigra, 1992
Vitis vinifera
V sec. d.C. Roma, Schola Praeconum Vitis vinifera Costantini 1985

113
Note sull’arboricoltura nel Lazio medievale
Alfio Cortonesi

L’espansione agraria che caratterizza i secoli del medioevo centrale e tardo interessa
in Italia, accanto ai settori della produzione di maggiore rilevanza (cerealicoltura e
viticoltura), anche la pratica arboricola.
Per quanto concerne gli alberi a frutto dolce e gli agrumi, ciò sembra principalmente
dovuto al diffondersi, specialmente a partire dal Duecento, del consumo di frutta nella
dieta dei ceti benestanti (di radicamento principalmente urbano) e al conseguente
dinamizzarsi dei commerci, locali e di medio e lungo raggio, indotto da tale fenomeno.
Chi veicolò l’indubbio incremento degli impianti arborei nel periodo di riferimento?
Da chi venne la spinta a moltiplicare la presenza delle piante?
Se non credo si possa in tutto trascurare l’iniziativa dei piccoli e medi proprietari fon-
diari, propensi a valorizzare la superficie di qualche modesto appezzamento (non
esclusi fazzoletti di terra interstiziale entro le mura urbane), a dare impulso alla frutti-
coltura dovettero essere soprattutto i detentori dei più vasti patrimoni terrieri,
impiantando alberi tanto nei seminativi, nelle vigne e negli orti di proprietà quanto
in parcelle a dominante arboricola e nei giardini a ridosso delle residenze cittadine
di maggior prestigio.
L’obiettivo era quello di vedersi garantito il rifornimento di buona frutta-notoriamente
simbolo di signorilità e agiatezza- con la quale orgogliosamente imbandire la mensa
domestica (specialmente in presenza di ospiti di riguardo e in circostanze festive), di
poterne far uso per donativi, di riversare all’occasione sul mercato produzioni redditi-
zie: senza trascurare il fatto che le piante costituivano -per dirla con i governanti sene-
si- “el vestimento et l’ornamento de le possessioni”, rendendo più gradevole il soggior-
no estivo dei padroni presso le dimore di campagna.
Chiese e monasteri, dal canto loro, erano tutt’altro che estranei all’interesse per l’in-
cremento dell’arboricoltura, cui si ricorreva sovente, oltre che per la mensa, per la
realizzazione di cortine protettive intese a delimitare zone di rispetto, di silenzio, adat-
te alla meditazione, alla lettura, ai conversari.
All’iniziativa dei singoli proprietari e coltivatori o di enti di varia connotazione (laici ed
ecclesiastici) non tardò ad affiancarsi quella di comunità cittadine e rurali che, pren-
dendo atto del ruolo acquisito dalla frutta nel regime alimentare del tempo, giunsero
ad incentivare quando non ad imporre la coltivazione degli alberi.
Dal Piemonte alla Toscana, dall’Emilia al Lazio lo attestano le disposizioni statutarie
indirizzate nello specifico alla materia, cui si aggiungono, più numerose, quelle volte a
tutelare l’integrità delle piante, la proprietà dei frutti, e a disciplinare il commercio di
quest’ultimi.La sempre più larga affermazione -a partire dal XIII secolo- delle locazioni
fondiarie di breve durata offrì anch’essa, attraverso il frequente inserimento delle
prescrizioni padronali sulle colture da praticare, l’occasione di rafforzare la presenza
delle piante entro le terre locate: ciò che diffusamente accadde, ad esempio, in area
mezzadrile.Anche per l’ambito laziale, non mancano testimonianze tardomedievali
dell’incremento della pratica arboricola.
Il fico è, fra le varie essenze a frutto dolce, forse la più menzionata nei documenti.
Significativo il fatto che gli statutari di Alatri facciano obbligo di coltivarlo, unitamente
all’olivo, “in plagiis de Basciano”, mostrando in tal modo il loro apprezzamento per
questo prodotto; di speciale protezione il fico gode, inoltre, nelle campagne reatine,
dove vige il divieto di tagliare la pianta anche quando sia di danno al confinante.
Non di rado in Sabina è fissato in fichi il canone di locazione per seminativi e vigneti.
Quanto alle piante a frutto oleoso (noci, mandorli, nocciòli), si ricorderà come alla
metà del Quattrocento sia attestata l’esistenza di vasti noceti in prossimità del lago di

114
Nemi, dove crescono anche, in buon numero, castagni e nocciòli. Del noce si apprez-
zava, oltre l’olio, anche il legno, di rara compattezza. Nella già citata Rieti, lo statuto
cittadino dispone che tutti i proprietari di terre residenti in città e nel contado debba-
no, nei luoghi più adatti, sistemare almeno “duodecim posturas amandularum”.
Anche gli agrumi non mancano di segnalare la loro presenza nel panorama della
frutticoltura laziale. Utile soprattutto per i ragguagli che se ne ricava circa le operazio-
ni necessarie per la coltivazione in serra è la testimonianza di un registro vaticano in
cui sono annotate le spese sostenute per la sistemazione del giardino pontificio
(1368) in vista del ritorno dei papi da Avignone. Ulteriori attestazioni dell’agrumicoltu-
ra sono proposte, nello stesso ambito regionale, da taluni statuti cittadini: riferimenti
a cedri e aranci amari (melangulae) si hanno nella normativa tiburtina e reatina; lo
statuto di Bagnoregio, dal canto suo, prende in considerazione l’eventualità che si
esportino arance: la forte consistenza del dazio imposto mostra, peraltro, quanto
fossero rare e ricercate. Dagli statuti degli ortolani di Corneto (odierna Tarquinia) è
testimoniata la produzione di “cedri, lommoni, cetrangoli e lommiie”. Restando nella
Tuscia viterbese è anche da segnalare una cospicua presenza di arance amare sulla
tavola dei rettori provinciali in occasione dei grandi conviti con cui gli stessi salutavano
l’inizio del mandato; sembra improbabile che potesse essere sufficiente, in questo
caso, il ricorso alla produzione locale; l’importazione di arance dal Mezzogiorno è,
d’altronde, documentata per la Roma del tardo Quattrocento.
Nell’Italia dei secoli XII-XIV l’olivicoltura conosce un incremento rilevante che ribadisce
nei tratti essenziali la complessa geografia di questa presenza colturale. Per quanto
concerne il Lazio, non v’è dubbio che tale pratica venga assumendo nei secoli del
tardo medioevo un rilievo crescente. La sua presenza, attestata in questa fase ben al
di là della fascia ottimale dei 150-500 m. d’altitudine -entro la quale è ai tempi nostri
perlo più ricondotta interessava diverse forme e livelli di sfruttamento del suolo.
Coltivato, in associazione o meno con altri alberi, all’interno delle clausurae ortive,
delle canapaie o dei ‘ferraginali’, l’olivo si trovava ancor più frequentemente a dividere
la stessa parcella con la vite, ora giustapponendosi ad essa, ora proponendosi ciò
che, invero, accadeva di rado- come albero tutore.
La pianta non mancava, altresì, di punteggiare, specialmente nelle contrade periferi-
che dell’aridocoltura, i terreni a destinazione cerealicola, come pure di presidiare,
talora, in formazione compatta appezzamenti di varia estensione e collocazione, votati
appunto esclusivamente all’olivicoltura. Lazio; anch’esso, infatti, vede crescere sensi-
bilmente, nei secoli del medioevo centrale e tardo, la sua diffusione, ciò essenzialmen-
te per il contributo che poteva trarsene per il sostentamento delle popolazioni in pre-
senza di una rilevante espansione demografica.
Nel Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, il castagno ombreggiava per larghi tratti la
montagna cimina, secondo quanto attestano documenti che vanno facendosi più
numerosi a partire dal XIII secolo; nel Quattrocento, lo statuto (1447) e il catasto di
Soriano testimoniano con chiarezza il rilievo che la pianta assumeva per l’economia
locale. Anche per altri territori dell’alto Lazio, ad esempio quello di Bagnoregio, è
documentata una presenza significativa del castagno da frutto e da taglio; alla fine del
medioevo, silve de castaneis sono attestate in prossimità del lago di Bolsena.
Procedendo nella regione verso sud, potrà riscontrarsi un’ampia coltivazione della
pianta sui Colli Albani, presso le comunità della catena prenestino-ernica, sui Monti
Lepini. La documentazione sublacense, dal canto suo, ne attesta, a partire dal XIV
secolo, una diffusa presenza nell’alta valle dell’Aniene.
Può osservarsi, nell’insieme, come prosegua nel pieno e tardo medioevo quell’espan-
sione del castagneto laziale più debolmente testimoniata per i secoli precedenti e avve-
nuta, come sembra, tanto a spese del Quercetum ilicis che di specie a foglie caduche.

115
Il castagno monumentale di Capranica Prenestina (RM) (A. Gulminelli)

116
Le colture legnose in età moderna e contemporanea
Valerio Cristofori

La struttura produttiva, in età moderna, appare basata su un’agricoltura promiscua


(colture e allevamento) non accompagnata, fino all’Unità d’Italia, da particolare svilup-
po agronomico. La gestione dei territori rurali del Lazio si caratterizzava per lo sfrut-
tamento dei terreni agricoli e dei castagneti sulla base di usi civici, secondo una rete
di vincoli e diritti che appare, ancora alle soglie del XIX secolo, di marcato contenuto
feudale. Alla fine del Medioevo e con l’inizio dell’età moderna in particolare l’olivicoltura
assurge nel Lazio a elemento connotativo del paesaggio agrario a seguito della rapida
espansione, stimolata dalla vicinanza a un forte centro di commercio e consumo rap-
presentato dalla città di Roma.
Nel corso del XV secolo la coltura dell’olivo si spinge oltre la fascia altimetrica ottima-
le per dar vita a un mosaico di paesaggi su aree vaste e in luoghi singoli, in coltura
specializzata o consociato con la vite, in pochi o singoli esemplari negli orti-frutteti, a
segnare i confini di vigneti e orti.
Oltre che nel territorio tiburtino e nella Sabina, l’olivo si espande nel Viterbese e nel
Lazio meridionale, colonizzando gradualmente tutti quegli ambienti in cui lo si ritrova
ai giorni nostri (Biasi & Rugini, 2009).
La coltivazione della vite continua a predominare nelle zone collinari dei colli Albani,
ma assume grande importanza in tutta la regione, incluse zone montuose e
parecchie località della pianura. I principali vitigni del Lazio a bacca bianca erano il
Trebbiano giallo ed il Trebbiano verde, mentre per quelli a bacca rossa dominava il
Cesanese, assai stimato nella regione, per lo speciale e gradevole profumo che
impartisce al vino.
Nella seconda metà dell’Ottocento, considerato spartiacque dell'età contemporanea,
la liquidazione degli usi civici sulle terre latifondistiche e la vendita della vasta proprie-
tà fondiaria della Chiesa portano ad un impoverimento dei contadini, che reagiscono
creando associazioni locali per contrastare l’usurpazione e l’eversione dei diritti delle
popolazioni rurali. Si tratta di antichi benefici feudali che avevano fino ad allora assicu-
rato un’economia di sussistenza a decine di migliaia di famiglie. La loro violenta aboli-
zione, nel nome della libertà d’impresa le gettava nella miseria.
Come conseguenza nascevano nel Lazio le prime società di mutuo soccorso per
iniziativa di socialisti e repubblicani e, più raramente, per l’interessamento degli stessi
proprietari terrieri di formazione liberale. Le terre strappate, dopo battaglie anche
sul piano giudiziario, furono assegnate a rotazione ai contadini. Assunsero particolare
importanza le Università agrarie, riconosciute come associazioni con diritto di
amministrare i beni ottenuti. L’assegnazione avveniva con diritto di miglioramento
agrario, attraverso la messa a dimora di vigneti, uliveti, alberi da frutto espandendo
spesso di fatto l’areale di cultivar tramandate per secoli spesso a livello familiare. Per
la prima volta era affermato il diritto alla terra, anche se sotto forma di concessione
amministrativa, aprendo e porte al successivo diritto di proprietà, acquisito sulla base
delle opere di miglioramento e trasformazione fondiari, grazie alla legge per la liquida-
zione degli usi civici del 1927 (ARSIAL, 2008).
Alla fine dell’800 in particolare la viticoltura laziale era diventata l’economia trainante
e si estendeva su 224 comuni su 226 totali, soprattutto con forme di allevamento
basse, sostenute da canne o fili di ferro. In provincia di Frosinone dove la vite era ma-
ritata agli alberi, in primis all’acero, poi al frassino e all’olmo, mentre nella provincia di
Viterbo prevaleva un sistema misto.
A partire dalla fine del ‘800 si verifica un notevole aumento nelle piantagioni di viti
nella provincia di Roma lungo il litorale marittimo e specialmente presso Civitavecchia,

117
Nettuno e Terracina (Mondini, 1899). A partire dalla fine del ‘800 si verifica un note-
vole aumento nelle piantagioni di viti nella provincia di Roma lungo il litorale marittimo
e specialmente presso Civitavecchia, Nettuno e Terracina (Mondini, 1899).
Nei primi decenni del ‘900 i cambiamenti più imponenti hanno riguardato le pianure
costiere laziali, un tempo costituite da ambienti naturali di stagni, lagune e foreste,
oggetto, in particolare negli anni ’30, di imponenti interventi di bonifica. Queste grandi
opere idrauliche, furono accompagnate da grandi spostamenti di popolazioni che
trasformarono luoghi di pascolo stagionale per greggi e mandrie di bufale in campi,
canali, casali e centri aziendali dedicati ad un’agricoltura moderna e meccanizzata
comprensiva di estese coltivazioni di frutta, uva e anche, nelle zone più secche, olivi.
Durante il fascismo il Lazio subì le conseguenze della rivalutazione della lira sulla sterli-
na; i danni maggiori colpirono viticoltori e olivicoltori i cui prodotti non era più possibile
esportare. Il fallimento di alcune banche trascinò nel disastro molti agricoltori
(ARSIAL, 2008). Dopo la guerra la Riforma agraria, la cui legge venne varata nel
1950, determinò una ulteriore distribuzione delle terre fino ad allora rimaste a
latifondo determinando sostanzialmente l’assetto agricolo odierno.
Attualmente l’olivicoltura è l’attività tradizionale dell’agricoltura laziale maggiormente
diffusa sul territorio regionale e raggiunge quasi il 7 % dell’estensione nazionale. Com-
plessivamente, le aziende interessate dalla produzione di olive, secondo il dato cen-
suario 2010, sono pari a 67.996, circa il 69% di tutte le aziende agricole laziali.
Nella provincia di Viterbo si producono due oli DOP, l’Olio extravergine Canino e l’Olio
extravergine Tuscia, mentre nelle province di Rieti e di Roma l’Olio extravergine
Sabina. Nel corso della seconda metà del novecento è stato naturalmente valorizzato
anche il patrimonio viticolo: il Lazio è la terza regione per numero di DOC, dopo
Piemonte e Toscana, contando su un totale di 26 DOC, oltre a 4 IGT. Allo stato
attuale è in fase di riconoscimento la DOC Moscato di Terracina.
L’adozione del disciplinare biologico in viticoltura è poco diffusa e riguarda solo il 2,4%
delle aziende vitivinicole regionali. Tuttavia a fronte dell’elevata qualificazione della pro-
duzione a partire dagli anni ’80 il comparto vitivinicolo regionale si caratterizza per un
forte ridimensionamento sia in termini di numerosità aziendale che di superfici.
Nell’ultimo decennio si è, inoltre, registrato un significativo incremento della dimensio-
ne media delle aziende, mentre la superficie vitata si è nel complesso contratta pas-
sando da 29.533,41 ettari del 2000 a 16.822,28 ettari nel 2010.
Anche la produzione di vino nel Lazio presenta un andamento decrescente dal 2000,
anno di massima produzione con 3,7 milioni di ettolitri, al 2010, anno di minima con
1,2 milioni di ettolitri, determinando una flessione pari al 66%.
Negli ultimi decenni estese coltivazioni di alberi da frutta sono state sviluppate oltre
che nei territori collinari storicamente vocati, in ampie aree costiere dove, oltre alle
tradizionali colture frutticole recentemente si è aggiunto l’esotico kiwi la cui coltura
interessa in particolare la fascia costiera (Kiwi Latina).
A partire dall’approvazione della Legge Regionale L.R. n. 15 del 1/03/2000 “Tutela
delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario” un particolare impegno,
tramite l’ARSIAL è stato condotto per la salvaguardia dell’ingente patrimonio
di “cultivar” frutto della millenaria storia laziale che rischiava di scomparire con il
progredire dell’agricoltura intensiva basata su poche varietà particolarmente adatte
al commercio.

118
Negli ultimi decenni le sagre dedicate ai frutti locali hanno permesso la
loro conoscenza delle loro qualità a un vasto pubblico (R. Pavia).

119
2.2 Le colture arboree da frutto nel paesaggio laziale
Immacolata Barbagiovanni M., Pietro Massimiliano Bianco, Sandra Di Ferdinando,
Maria Antonietta Palombi, Renato Pavia

Il Lazio, come dimostrano i dati disponibili già a partire dalla fine del XIX secolo, non è
mai stato una regione a vocazione frutticola spinta, anche se diverse specie
(castagno, gelso, fico, melo, pero, ciliegio, pesco e albicocco, oltre a vite e olivo) erano
censite sul territorio regionale, senza però esserlo in coltura specializzata, ad eccezio-
ne della vite e dell’olivo. Ancora all’inizio del XX secolo la frutticoltura è caratterizzata
da una coltivazione promiscua, in orti e frutteti familiari. Solo alla fine della seconda
guerra mondiale in alcune aree regionali la frutticoltura assume un carattere di mag-
giore specializzazione e gli ultimi dati disponibili (Censimento Generale dell’Agricoltura,
2010) parlano di 36.750 ha coltivati a frutta fresca ed in guscio.
Oltre ai tradizionali sistemi vitivinicoli (Colli Albani), oleicoli (Sabina, Preappenino) e
castanicoli (sistemi vulcanici e Appennino) sono identificabili paesaggi agricoli che si
sono caratterizzati produttivamente solo in tempi recenti quali i sistemi di noccioleti
del vulcano Cimino e le colture frutticole della pianura Pontina.
Grandi estensioni di territorio in ambito collinare e submontano sono ancora dominati
da sistemi agricoli complessi, mentre nelle terre di pianura ancora liberi dalla specu-
lazione edilizia dominano sistemi intensivi altamente specializzati di cerealicole, ortive
e altre erbacee. Molte attività agricole insistono su importanti aree protette sia a
livello comunitario che regionale, è il caso dei noccioleti nel SIC/ZPS Lago di Vico, i
vigneti nel Parco Regionale dei Colli Albani, gli oliveti in Sabina (SIC Fiume Farfa) e i
vigneti alternati ad oliveti nei monti Vulsini (SIC Lago di Bolsena, SIC Alto corso del
fiume Marta). In tali aree protette, l’utilizzo di fruttiferi tradizionali rustici e di elevate
qualità organolettiche, consente di preservare la biodiversità e valorizzare economica-
mente le attività agricole locali.
Per quanto riguarda i fruttiferi tradizionali, ad esclusione della vite e dell’olivo, alla fine
del XVIII e fino agli inizi del XIX secolo erano censite diverse specie da frutto quali
castagno, melo, pero, fico, susino, ciliegio, pesco e altri prugni. Questa grande variabi-
lità frutticola era presente soprattutto nelle aree del Cimino, nelle vallate del Tevere,
nella campagna attorno alla città di Roma e nell’area dei Colli Albani.
Tra la fine del XVIII secolo e la metà del XIX la richiesta di legname fece diminuire sia
la superficie coperta a boschi che le aree frutticole; solo in seguito, incoraggiati sia
dalla legge (jus lignandi) che dalle nuove scoperte tecniche in fatto di agronomia, si
ricominciò a piantare e a curare il patrimonio arboreo esistente.
L’inchiesta sullo stato dell’agricoltura del Lazio nel 1870 (M. A. I. e C, 1876-1879),
parla di aree frutticole, seppure non specializzate, “…a Cave, Genzano, Velletri, Tivoli,
Olevano e nelle tenute dei Borghese, oltre che in mille altri orti e frutteti intorno
all’Urbe.” (Caroselli, 1977). Non si faceva menzione di un’industria legata alla
conservazione della frutta, ma le produzioni frutticole della campagna erano presenti
sui banchi dei mercati. A partire dal dopoguerra e dopo la bonifica dell’Agro Pontino,
la situazione dell’agricoltura nella regione cambia e acquista maggiore specificità,
soprattutto nelle aree di pianura. Per questo le zone più ricche di biodiversità agricola
rimangono localizzate soprattutto nella fascia collinare e montana. Nelle aree dell’en-
troterra, dove non è stato possibile introdurre un sistema agricolo avanzato, è so-
pravvissuta un’agricoltura di tipo tradizionale legata alla coltivazione di vecchie varietà
frutticole perfettamente adattate all’ambiente e resistenti o tolleranti ai patogeni locali.

120
Cittareale (RI) (P. Taviani).

Al contrario, la presenza di materiale genetico da tutelare, si riduce nelle zone di pia-


nura a causa dell’introduzione di un’agricoltura intensiva cha ha determinato la sosti-
tuzione di numerose varietà locali con poche varietà commerciali più produttive.
La conseguenza è stata la perdita di materiale genetico autoctono. Tuttavia alcune
cultivar locali hanno trovato in questi ambiti la possibilità di essere preservate attra-
verso produzioni anche intensive e di elevato valore commerciale. E’ il caso dell’uva da
tavola Pizzutello di Tivoli che attualmente è poco diffusa nell’areale originale mentre è
largamente coltivata nei comuni di Cisterna e Latina.
Estese coltivazioni di fruttiferi che danno una significativa impronta al paesaggio si
ritrovano nell’alta pianura pontina, alla base dei Colli Albani, sulle colline di Anzio e nel-
la pianura di Fondi. Si tratta in genere di paesaggi di recente formazione originati da
terre bonificate soprattutto negli anni ’30.
Significative dal punto di vista della biodiversità sono quelle emergenze locali che, pur
situate in contesti di agricoltura estensiva di tipo complesso e poco rappresentanti
del paesaggio regionale, rappresentano significative realtà sia a livello economico che
di tutela del germoplasma locale. Nel viterbese, lungo i rilievi collinari di origine vulcani-
ca a nord del comune di Viterbo, tra il bacino vulcanico di Bolsena e la Valle del fiume
Tevere si è sviluppata la cerasicoltura. Il comune di Celleno e la frazione di Viterbo
Sant’Angelo di Roccalvecce costituiscono l’areale cerasicolo più rilevante di tutta la
provincia, con produzioni medie annue che si attestano intorno alle 900 - 1.000 ton-
nellate. I primi di aprile, le campagne di Celleno e Sant’Angelo di Roccalvecce diventa-
no un autentico spettacolo paesaggistico con migliaia di ciliegi in fiore. Di seguito
verranno descritti i più importanti paesaggi arborei che caratterizzano oggi il territo-
rio laziale, ma non sono da trascurare tante piccole realtà di cui oggi rimane solo
qualche traccia ma che hanno rappresentato in passato importanti realtà produttive
e di sostegno economico per le comunità locali. La coltivazione del Pero (Pyrus com-
munis L.) si estende su circa 540 ha, principalmente in provincia di Latina (56%)
e Roma (28%). Oggi il panorama varietale è ridotto, ma dalla fine del XIX secolo e fino

121
al 1940 numerose erano le varietà coltivate. In Sabina nei territori di Palombara,
Marcellina e Castel Madama si coltivava diffusamente la Pera Spadona la cui produ-
zione, che riforniva intorno agli anni ’50 il mercato di Roma è ormai notevolmente
ridotta. A memoria di questa varietà locale che in passato ha fornito importanti
produzioni, dal 1958 ad oggi, ogni terza domenica di luglio, viene organizzata la Sagra
della Spadona di Castel Madama. Altre varietà di pero un tempo diffuse sono la
Pera Angina e la Rossa di Maenza tipiche di alcuni areali delle provincie di Latina e
Frosinone e la Pera Spina diffusa un po’ in tutto il Lazio.
Il Pesco (Prunus persica Batsch) è attualmente coltivato su circa 600 ha per lo più in
provincia di Roma (60%). Alla fine del XIX secolo i comuni interessati alla coltura
erano Velletri, Roma, Nettuno, (RM); Canepina, Tarquinia e Bomarzo (VT); Sezze e
Terracina (LT) dove si coltivavano sia varietà di pesche (Pesche della maddalena,
Moscadelle) che di nettarine.
Sempre in Sabina venivano coltivate un tempo su estese superfici anche due varietà
di Pesca, la Reginella I e II successive l’una all’altra come epoca di maturazione.
I pescheti di Reginella oggi risultano rari perché definitivamente estirpati o sostituiti
da varietà ritenute più interessanti sotto il profilo commerciale. Alcuni ecotipi di netta-
rine selvatiche nominate Crasiommolo sono presenti nell’Agro di Velletri per lo più in
orti famigliari.
La melicoltura laziale in coltura specializzata si estende oggi su circa 1.000 ha, tra le
provincie di Roma (21%), Viterbo (13%) e Latina (66%), Un tempo molto ricca per
numero di varietà, oggi è limitata a poche cultivar più produttive sia del gruppo delle
Golden delicious e Red delicious a discapito delle varietà tradizionali un tempo diffuse
in tutto il territorio regionale.
In Sabina e nell’alto Reatino, dove sussistono ancora forme di agricoltura tradizionale,
si sono tramandate numerose varietà di mele antiche che caratterizzano il paesaggio
soprattutto nei comuni di Amatrice, Cittareale e Cittaducale. Tra queste ricordiamo
oltre a vari tipi di mela Rosa, la mela Cerina, la Limoncella, la ‘Mbriachella e la Bebè.
Nel frusinate erano parecchio diffuse alcune varietà di melo come la Francesca
di Castelliri e molte mele Rosa tra cui la Rosa Piatta Ciociara mentre nella Valle
Dell’Aniene si trovava la mela Sublacense.
La cerasicoltura laziale conta su circa 990 ha ed è concentrata soprattutto nella
provincia di Roma (68%) nei comuni di Palombara Sabina, Monterotondo e Velletri,
nel viterbese (9%) nel comune di Celleno e nella Sabina reatina (19%).
Le varietà più diffuse rimangono Ravenna precoce e tardiva, ma erano anche coltiva-
te anche altre varietà. In particolare nel territorio della Sabina, sia romana che reati-
na si conservano importanti nuclei di ciliegi autoctoni delle varietà Petrocca, Lingua
de Fori, particolare per la produzione di frutti gemellati, il Graffione e le già citate
Ravenna precoce e tardiva. Venivano coltivate anche la Moretta e la Saccoccia. Oltre
al ciliegio dolce (Prunus avium L.) nelle aree collinari e montane della regione sono
presenti anche visciole e marasche, i cui frutti sono impiegati sia per la produzione di
marmellate che di un liquore tipico detto “Ratafia”, ottenuto dalla fermentazione, al
sole, dei frutti snocciolati a cui successivamente si aggiunge del vino. Nell’area dei
Castelli Romani è stata individuata una varietà di visciola detta “Nana dei Castelli”,
iscritta al Registro Varietale Regionale.La coltivazione dell’albicocco (200 ha) è con-
centrata nelle province di Roma (59%) e Latina (39%) (ISTAT, 2002). La varietà più
nota e tuttora coltivata è la Monteporziana, individuata nel comune di Monteporzio
Catone (RM) e già descritta nel 1962 da Scaramuzzi. In passato era parecchio dif-
fusa, tant’è che dal 1970 al 1996 ogni anno veniva anche organizzata una Sagra.
Il Comune di Monteporzio ha compiuto qualche tentativo per reintrodurre questa
varietà sul territorio cercando di coinvolgere la comunità locale, ma i risultati non sono

122
stati soddisfacenti. Altre varietà reperite nella regione sono la Santa Maria in Gradi
(VT) e un semenzale molto produttivo e organoletticamente interessante, denominato
Velletri e reperito nel comune omonimo.
Il susino nel panorama regionale occupa una superficie di 929 ha (Istat, 2002) divisa
tra le provincie di Roma (21%), Latina (67%), Viterbo (11%) e Frosinone (1%). Oltre a
varietà popolazione di (Prunus domestica) e di P. insititia (susino del gruppo dei siria-
ci), diffuse nei boschi, negli orti e frutteti familiari si trovano le varietà Regina, già de-
scritta da Gallesio nella “Pomona Italiana”, la Coscia di Monaca di Ponzano Romano
un tempo diffusa nell’Agro della Valle del Tevere, la Prugna di Gallinaro, diffusa nella
Val di Comino, la Recinella e la San Giovanni tipiche del frusinate.

Distribuzione delle principali colture legnose nel Lazio (da: ISPRA, Carta della Natura Lazio)

La notevole diversificazione del territorio laziale già rappresentata è ampiamente


documentata anche dalla distribuzione delle superfici frutticole biologiche.
In Regione Lazio su oltre 111.000 ha di SAU biologica complessiva, che rappresenta
oltre il 18% della SAU totale regionale, le coltivazioni arboree biologiche, pari a oltre
15.000 ha, rappresentano il 14% della SAU biologica e oltre il 13% della SAU a frutti-
feri regionale (SINAB - Bio in cifre 2016).
La rappresentatività e la distribuzione dei diversi sistemi colturali segue di fatto quella
prevalente del territorio regionale con in primis l’olivicoltura, a seguire la frutta a
guscio, meno presenti la frutta in genere, con la netta prevalenza dell’actinidia, e la
viticoltura. Nelle cartine che seguono sono rappresentate l’incidenza della SAU
biologica sulla SAU totale comunale, l’incidenza della SAU a fruttiferi su quella biologi-
ca totale per comune e la distribuzione delle diverse coltivazioni frutticole biologiche
per comune.

123
Incidenza della SAU biologica comunale sulla Incidenza della SAU a fruttiferi biologici sulla
SAU totale comunale (PSR 201–CGA 2011) SAU biologica totale per comune (PSR 2011)

Coltivazione frutticola biologica prevalente Incidenza della SAU ad oliveti biologici sulla
(PSR 2011) SAU biologica totale del comune (PSR 2011)

I paesaggi dell’olivo
Rita Biasi
I sistemi agricoli dominati dall’olivo sono piuttosto diffusi nel Lazio su suoli quanto mai
differenziati. La coltura dell’olivo si è espansa nel tempo sia in ambienti facilmente
coltivabili, dove sono concentrati gli impianti specializzati e intensivi, che in quelli natu-
ralmente e storicamente difficili, ma pedoclimaticamente vocati, come gli ambienti
dell’alta collina e bassa montagna, dove resistono ai cambiamenti del paesaggio olive-
ti marginali di gran pregio.
Le più estese coltivazioni sono presenti in Sabina, su sabbie e conglomerati, nelle zone
collinari alle falde dei monti Cimini, Vulsini, su suoli subacidi di origine vulcanica e nei
complessi preappenninici su suoli basici o neutri.
In Sabina le varietà più diffuse (che concorrono all’olio DOP) sono Carboncella,
Leccino, Raja, Frantoio, Olivastrone, Moraiolo, Olivago, Salviana e Rosciola.
I sistemi oliveticoli preappenninici si sviluppano in particolare nei versanti meridionali
e sud occidentali dei monti Tiburtini, Ausoni, Lepini e Ernici e delle fascie collinari
adiacenti, su calcari organogeni del cretacico e, più raramente, giurassico.
Un’area ad alta diversità di cultivar è rappresentata dai monti Lucretili e Tiburtini dove
sono registrate le varietà Oliva dei Monti, Palmuta, Rappaiana, Romana, Roscetta
Gagliarda Rosciola Nostrana, Rotonda di Tivoli, Sbuciasacchi. La fascia pedemontana

124
e collinare dei monti Lepini, Ausoni ed Aurunci ha in particolare sviluppato attorno alla
cultivar Itrana un significativo sistema produttivo che comprende un olio extravergine
di oliva di alta qualità e le famose olive in salamoia dette di Gaeta. In queste zone si
produce anche il DOP “Colline Pontine” nel cui disciplinare, oltre alla locale Itrana, pos-
sono essere presenti le varietà Frantoio e Leccino in misura al massimo uguale al 50
%. Nel contesto preappenninico un particolare tipo paesistico è rappresentato dagli
oliveti terrazzati di Vallecorsa, riconosciuto come paesaggio rurale storico dalla rete
rurale nazionale (http://www.reterurale.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/14368)

Oliveto con piante della varietà locale Marina, Val di Comino (FR) (R: Rea).

Il “paesaggio di pietra” di Vallecorsa (R. Pavia)

125
L'area, estesa per circa 1314 ettari, è costituita da una serie di oliveti terrazzati rica-
vati dal modellamento di blocchi calcarei.
Si tratta di un "paesaggio di pietra" con notevoli caratteristiche di integrità, dove il
modellamento carsico dei calcari affioranti è stato assecondato dal lavoro contadino
creando un reticolo di muri a secco per il sostegno di terrazze e terrazzine su cui
sono state insediate le piante d'olivo.
I muri a secco, chiamati "macere" sono particolarmente imponenti con uno spessore
in media di 1 metro e un'altezza dai 2 ai 3,5 metri. I blocchi di pietra calcarea sono
sovrapposti l'uno sull'altro senza l'impiego di materiali leganti.
Altre aree caratterizzate da estensioni significative di oliveti sono le pendici occidentali
a bassa pendenza dell’apparato vulsinio e di quello cimino su suoli di origine vulcanica.
In queste aree si produce l'olio extravergine d'oliva DOP Tuscia (Regolamento n. 162-
3/05 della Commissione Europea), ricavato dalle olive delle varietà Frantoio, Canino
(la sola locale) e Leccino, con ammissione di altre varietà in percentuale massima del
10%. Le analisi più recenti riguardanti il cambiamento degli assetti del paesaggio
rurale nella regione Lazio evidenziano un’espansione delle aree olivicole e, quindi, il
consolidarsi di una tipologia paesaggistica dove questa specie predomina e di tante
tradizioni locali legate alla produzione e all’utilizzo dell’olio (Biasi & Rugini, 2009).

Gli olivi monumentali del Lazio


Saverio Pandolfi

Il germoplasma negletto è spesso associato ad olivi secolari, olivi che hanno avuto una
diffusione ed importanza in un lontano passato e che oggi rivestono il ruolo di testimoni,
ma anche di possibili protagonisti futuri. Questi ultimi rappresentanti di varietà del passa-
to (rappresentati da uno o pochi alberi), possono assurgere a nuova vita grazie alle cono-
scenze scientifiche, al controllo sistematico di ogni fase di lavorazione delle olive e al
miglioramento delle tecnologie estrattive che permettono di avere oli molto più ricchi in
aromi, antiossidanti, serbevoli ecc.
Il germoplasma olivicolo laziale è stato oggetto di alcuni studi finalizzati sia alla determi-
nazione dell’età attraverso la tecnica del C14, sia alla identificazione varietale con i marca-
tori microsatellitari SSR (Simple Sequence Repeats) e successivo confronto con la
banca dati relativa al DNA di olivo (circa 2000 genotipi diversi) del CNR – IBBR di Peru-
gia.Nella cartina che segue sono riportate le ubicazioni degli alberi finora censiti e datati.
Per conoscere l’età e le caratteristiche delle piante si rimanda alle pubblicazioni del
Dott. Giorgio Pannelli.

126
GENOTIPO LOCALITA' LATITUDINE LONGITUDINE

1 Primutica Mompeo (RI) 42 14,765N 12 44,419E

2 Sconosciuto Coltodino (RI) 42 12,249N 12 42,580E

3 Sconosciuto Canneto Sabino (RI) 42 11,053N 12 43,468E

4 Sconosciuto Moricone (ROMA) 42 7,0600N 12 46,126E

5 Sconosciuto Palombara (ROMA) 42 03,107N 12 46,185E

6 Sconosciuto Palombara - San Pietro (ROMA) 42 03,442N 12 45,208E

7 Sconosciuto Tivoli - Villa Adriana (ROMA) 41 56,342N 12 46,495E

8 Sconosciuto Cori (LT) - Cantina Cincinnato 41 38,106N 12 53,912E

9 Sconosciuto Cori (LT) - Az. Marchionni 41 38,412N 12 54,159E

10 Sconosciuto Ninfa (LT) – Az. Rapaci 41 34,983N 12 57,801E

11 Sconosciuto Sermoneta (LT) – Agrit.. l'Usignolo 41 33,538N 12 58,882E

12 Sconosciuto Sermoneta (LT) – Az. Milani 41 33,525N 12 58,894E

13 Sconosciuto Sermoneta (LT) – Az. Poli Elena 41 32,696N 12 59,372E

14 Sconosciuto B Sermoneta (LT) – Az. Poli Elena 41 32,666N 12 59,339E

15 Sconosciuto A Sermoneta (LT) - parcheggio 41 32,642N 12 59,346E

16 Sconosciuto B Sermoneta (LT) - parcheggio 41 32,631N 12 59,371E

Olivi secolari, a sinistra Villa Adriana, Tivoli (RM), a destra cimitero di Palombara Sabina
(RM) (S. Pandolfi).

127
Questa fonte di variabilità è talmente importante che sarebbe auspicabile tutelarla mag-
giormente e le cure per questi esemplari dovrebbero essere eseguite da personale
addestrato specificatamente per la cura dendrologica degli alberi antichi di olivo.
Alcuni esemplari sono stati curati con l’intervento di operatori specializzati sotto la guida
esperta del Dr. Giorgio Pannelli, tra questi quello di Villa Adriana a Tivoli nell’ambito del
programma delle attività ai sensi del regolamento (CE) n. 867/2008
E’ doveroso aggiungere che nel Lazio, ma anche nelle altre regioni olivicole, il ritrovamen-
to di genotipi negletti è continuo, le segnalazioni provengono da operatori del settore,
comunità locali ma anche da cittadini particolarmente sensibili. Alle segnalazioni seguono
alcune visite in campo per raccogliere testimonianze, foto, materiale vegetale da sot-
toporre ad analisi. Alla fine viene redatta una scheda che contiene tutte le informazioni,
morfologiche, genetiche ed agronomiche, relative all’esemplare in questione. Questi
dati servono sia per la conoscenza sia per una migliore conservazione in situ che, e
questo è auspicabile, per la propagazione su scala locale. Associare la produzione di oli
monocultivar “artigianali” di pregio derivati da esemplari storici è un settore commercia-
le ancora poco esplorato che potrebbe dare benefici in termini economici e di sviluppo
turistico-gastronomico, alle piccole realtà olivicole.

Il paesaggio del vigneto


Giorgio Casadei, Giovanni Pica
La configurazione orografica del Lazio è molto varia ed è caratterizzata dalla monta-
gna Appenninica (Monti della Laga, Monti Reatini, le catene dei Simbruini e degli
Ernici, i Monti Carseolani, Sabini, Tiburtini e Prenestini, dagli anti-Appennini che com-
prendono le catene dei Lepini, degli Ausoni, degli Aurunci e dai rilievi vulcanici
Vulsini, Cimini, Sabatini e Colli Albani, dal corso dei fiumi Tevere e Aniene e dalle
pianure: Maremma Laziale, Campagna Romana, Agro pontino e dalle piane di Fondi
e Minturno. Di conseguenza la variabilità bioclimatica è molto grande con caratteristi-
che che passano da fenomeni tipici delle regioni alpine o sub-alpine (alto reatino e
frusinate), a quelli delle regioni temperate (pianure interne e rilievi collinari dei Colli
Albani e della Tuscia), per finire con quelle proprie delle regioni mediterranee riscon-
trabili lungo la costa centro-meridionale laziale. Ciò è dovuto principalmente alla
posizione della regione al centro della penisola, all’ampia fascia costiera aperta sul
mar Tirreno e all’altimetria dei rilievi che dalla costa s’innalzano fino ai 2.455 m del
Monte Gorzano. Le montagne spesso si trovano a breve distanza dal mare (Aurunci,
Lepini, Cimini e Vulsini) per cui l’azione mitigatrice del Tirreno si attenua rapidamente
verso l’interno: di conseguenza i fondovalle (ad esclusione della valle del Tevere) e le
conche interne (Leonessa e Amatrice) sono caratterizzati da escursioni termiche
considerevoli. Il Lazio presenta quindi una netta separazione tra i settori settentriona-
le e meridionale e quelli occidentale (litoraneo) e orientale (interno): a Nord-Est
prevale la Regione Temperata, a Sud-Ovest quella Mediterranea.
I fattori che influenzano la coltivazione della vite sono profondamente legati all’anda-
mento morfologico del territorio ed al clima: essa assume svariate forme, in stretta
relazione alle caratteristiche orografiche e climatiche dell’ambiente di accoglienza.
Questa estrema adattabilità, unita alla plasticità vegetativa, ne ha consentito la
diffusione anche in condizioni pedoclimatiche critiche.
La coltivazione della vite era particolarmente estesa nel Lazio ed ha contribuito
a plasmare l’aspetto del paesaggio agrario, permeando il territorio, nel corso dei se-
coli,della storia, cultura, esperienza e professionalità di tanti abili produttori.

128
I Paesaggi dei vigneti attuali sono presenti principalmente nel territorio del Colli Albani
dove si sviluppano, alla base e sulle pendici dei rilievi, su lave e piroclastiti del ciclo qua-
ternario: predominano le pozzolane (localmente dette "terrinelle"), che danno luogo a
terreni di medio impasto, profondi, permeabili all'acqua e senza ristagni né superficiali
né profondi. Fin dall’epoca dei Romani il suolo vulcanico dell’antico vulcano laziale è
stato ampiamente sfruttato per la produzione di vino.
Le più importanti ville situate nell’area dei Colli Albani, possedevano grandi spazi dedi-
cati alla viticoltora e alla vinificazione e molti vini famosi nell’epoca Classica proveniva-
no dai Colli Albani. Alcune estensioni a vigneti dei Castelli romani, indicate dai classici
tra quelle atte a produrre i migliori vini dell’epoca (Tusculum, Albano, Aricinum), sono
giunte fino a noi. Purtroppo, il ricco patrimonio ampelografico, che caratterizzava un
tempo la viticoltura regionale, ha subito negli anni 50-60 del secolo scorso, un notevo-
le depauperamento che lo ha privato della sua originale eterogeneità e biodiversità: la
Malvasia di Candia ed il Trebbiano toscano hanno preso il sopravvento sui vitigni come
la Malvasia del Lazio, il Bellone, il Trebbiano giallo ed il Trebbiano verde, anche se negli
ultimi anni sempre più vini sono ottenuti da queste varietà autoctone.
Il tendone, forma di allevamento predominante, negli ultimi anni sta cedendo il passo a
forme meno espanse e più vocate alla qualità come le spalliere semplici. I Colli albani
restano sempre la maggiore realtà viticola regionale nonostante l’elevata antropizzazio-
ne del territorio che ha portato ad una notevole diminuzione dei vigneti. Sono presenti
sul territorio sette DO, tra cui spiccano per notorietà la DOCG Frascati e le DOC Marino
e Velletri. Il paesaggio delle colline di Cori, poste alle pendici occidentali dei Monti
Lepini, a poca distanza dal complesso dell’antico vulcano laziale, presenta un suolo
composto da terre rosse con struttura argillo-limosa unitamente a cineriti originate
dal vulcanismo albano che danno luogo a suoli ricchi di scheletro, in particolare tufo
nelle zone più basse e a base calcarea nelle zone più alte. La viticoltura presenta ca-
ratteristiche simili a quella dei Colli Albani ed è caratterizzata dalla presenza dei vitigni
autoctoni Nero buono e Bellone, localmente noto come Arciprete.
Nell’Alto Lazio, l’areale dei monti Vulsini è interessato da una significativa presenza della
viticoltura che prospera su terreni di origine vulcanica costituiti in prevalenza da tufi
leucititici grigiastri, con alternanza di ceneri, sabbie vulcaniche e lapilli. L’azione mitiga-
trice del clima del lago di Bolsena, permette alla Malvasia bianca lunga ed al Rossetto
coltivati sulle pendici dell’antico vulcano, di maturare perfettamente dando origini a vini
famosi come l’Est! Est!! Est!!! di Montefiascone.
Particolarmente importante è la zona dei Cesanesi (Affile, Olevano Romano, Piglio) tra
i monti Ernici, monte Scalambra e le colline di Anagni, in un contesto di colline e
montagne carbonatiche con terreni riconducibili alle terre rosse con tessitura argillo-
limosa che presentano, in genere, limitato spessore ed un sottosuolo coerente con
un limitato contenuto di elementi nutritivi che li rendono idonei ad una vitivinicoltura di
qualità, con basse rese produttive, conferendo ai vini particolare vigore e complessità.
In questo territorio il Cesanese comune e soprattutto il Cesanese di Affile, grazie alla
maturazione prolungata sulla pianta ed alla elevata escursione termica, acquisiscono
caratteristiche tali da rendere particolare ed inconfondibile il bouquet del vino
prodotto. Altri nuclei significativi meno caratterizzati dal punto di vista paesaggistico
sono presenti nella Pianura Pontina e di Anzio e Nettuno, nelle pianura e nelle colline
litoranee di Ladispoli e Cerveteri e nel Basso Lazio.
Il paesaggio della Pianura Pontina, di Anzio e Nettuno e di Ladispoli e Cerveteri, è
caratterizzato dalla formazione geologica denominata Duna Antica che costituisce una
fascia pressoché continua e si estende lungo le coste toscane, laziali e anche campane
spingendosi all'interno per estensioni variabili, fino a 10 km. . È compresa tra due dune
recenti verso il mare e altre formazioni più antiche verso l'interno. Il terreno superficiale

129
è sabbioso con contaminazione vegetale, seguito da un terreno alterato da sabbie argil-
lose limose marnose. Sono presenti anche terreni riconducibili ai calcari, ai calcari
dolomitizzati, ai calcari marnosi e marnoso – arenacei.
Nell’areale sono presenti due viticolture ben distinte: la prima, caratterizzata da tendoni
e da varietà altamente produttive, è presente nelle aree rese coltivabili dopo la bonifica
delle paludi e nella zona di Ladispoli e Cerveteri ed è in continua contrazione a causa
dell’aumento della coltivazione dell’actinidia e della richiesta di vini di maggiore qualità.
La seconda, basata sui vitigni autoctoni Bellone e Moscato di Terracina vanta origini
antiche. Il Moscato di Terracina, varietà a duplice attitudine ed utilizzata un tempo quasi
esclusivamente come uva da mensa, è coltivato almeno da 500 anni nei terreni dell’en-
troterra di Terracina e nelle valli interne delle propaggini meridionali dei monti Lepini:
nell’ultimo trentennio, grazie alle moderne tecniche di vinificazione, se ne ricavano vini di
elevata qualità.

Filari di vite Pampanaro


maritate con olmo, Val di
Comino (FR) (R. Rea).

L’eccessiva frammentazione fondiaria e la progressiva urbanizzazione del territorio


hanno determinato il trasferimento della coltivazione di alcuni vitigni, un tempo diffusi
nella fascia collinare e pedemontana, in ambiti di pianura. Ne è un esempio il Pizzutel-
lo di Tivoli, attualmente coltivato in modo significativo solamente nella parte settentrio-
nale della Pianura Pontina.
Il Bellone, noto anche come Cacchione, antichissimo vitigno autoctono (l’Uva pantastica
di Plinio), ha trovato nel territorio di Anzio e Nettuno il pedoclima ideale, rilanciando la
viticoltura della zona.
Nel Basso Lazio il paesaggio viticolo è caratterizzato da vigneti a macchia di leopardo
che si snodano nella bassa Valle del Liri e nella Val di Comino, su terreni calcareo
marnosi con abbondante scheletro, ricchi di carbonato di calcio, con la presenza di
frazioni argillose, e con presenza di arenarie, calcari marnosi e tessitura limosa in
quelli alluvionali o sedimentari delle zone più pianeggianti. Sono coltivati i vitigni autoc-
toni Maturano, Pampanaro, Lacinaro e Capolongo, e quelli alloctoni come il Carbernet
sauvignon, il Carmenere, il Merlot ed il Semillon presenti nel territorio fin dal 1850.

Pianta secolare (a sinistra) e filari di vite Pecorino (a destra) presso azienda agricola di
Accumoli (RI) (P. Taviani).

130
La ricchezza del germoplasma viticolo laziale: il caso del Frusinate.
Stefania Impei, Angelo Gismondi, Lorena Canuti, Gabriele di Marco, Antonella Canini.

Il patrimonio vitivinicolo del Frusinate può considerarsi collegato ad un gruppo di vitigni


autoctoni da sempre presenti nell’area. I vitigni vengono classificati e censiti in più pubbli-
cazioni che mostrano come le caratteristiche qualitative di notevole pregio dei differenti
ecotipi siano fortemente legate al territorio di produzione.
D’altra parte, negli ultimi decenni, si è osservata una marcata tendenza alla selezione
di cultivar omologate e standardizzate che hanno velocemente soppiantato molte delle
nostre varietà locali. Da questa consapevolezza, maturata in sinergia tra Istituzioni
e produttori locali, è nata l’esigenza di tutelare e conservare questo importante patrimo-
nio. In tale contesto si inserisce il Progetto Integrato di Filiera (cod. RL058, Misura 124)
promosso dalla Regione Lazio, nell’ambito del Piano di Sviluppo Rurale 2007-2013. Que-
sto studio si è attuato attraverso le competenze della Cattedra di Botanica del Diparti-
mento di Biologia dell’Università degli Studi di Roma “Tor Vergata” in collaborazione con il
GAL Versante Laziale del Parco Nazionale d’Abruzzo che ha coordinato l’interazione tra i
vari protagonisti della filiera vitivinicola del Frusinate.
Nel laboratorio di Botanica Molecolare associato all’Orto Botanico dell’Università di Ro-
ma “Tor Vergata”, si è provveduto ad una caratterizzazione genetica, morfologica e bio-
chimica di cultivar di vite fornite da Aziende Agricole del Frusinate.
Le moderne tecniche di biologia molecolare, affiancate alle più tradizionali metodologie di
descrizione morfologica, hanno permesso di identificare, in modo univoco, le diverse
accessioni analizzate, risolvendo casi di denominazione non corretta.
In particolare, dagli studi genetici, condotti attraverso il confronto con il database mole-
colare del CRA-VIT di Conegliano Veneto, è emersa la presenza di antiche varietà autoc-
tone Laziali, come ad esempio le cultivar Lecinaro, Maturano, Capolongo e Pampanaro, e
profili genetici mai riscontrati precedentemente che potrebbero essere riconducibili a
antiche varietà rimaste isolate, nel tempo e nello spazio, perché non più utilizzate.
La caratterizzazione biochimica delle cultivar, condotta con la più nota strumentazione
analitica d’avanguardia, ha consentito di utilizzare i diversi profili metabolici ottenuti come
marker per la caratterizzazione e l’identificazione delle diverse varietà di vite.
Sono stati identificati numerosi metaboliti secondari, tra questi: gli antociani, che conferi-
scono alle uve rosse la caratteristica colorazione; il resveratrolo, uno stilbene che la
letteratura scientifica riporta avere un ruolo essenziale nella prevenzione di patologie
cardiovascolari e differenti acidi fenolici e flavonoli.
Inoltre diversi saggi di laboratorio hanno mostrato l’elevata potenzialità antiossidante e le
peculiari attività biologiche degli estratti dei semi e delle bucce dei campioni d’interesse.
La finalità principale del progetto è stata l’individuazione delle cultivar autoctone e la
conservazione della loro variabilità genetica. Ciò è stato possibile con la costituzione di
banche del germoplasma, l’utilizzo delle colture vegetali in vitro e di metodi di taleaggio al
fine di propagare il materiale d’interesse in modo rapido e senza alterarne il patrimonio
genetico. L’analisi genetica affiancata a quella morfologica e biochimica ha permesso
d’identificare cultivar autoctone del Frusinate.

131
Il paesaggio del nocciolo
Rita Biasi, Valerio Cristofori

ll paesaggio del nocciolo è tipico del territorio vulcanico viterbese e si sviluppa soprat-
tutto nei Cimini e nella parte settentrionale del complesso Sabatino. Rappresenta un
ambiente di formazione relativamente recente per quanto le nocciole risultano da
sempre coltivate nell’area e presenti allo stato spontaneo nelle forre che caratterizza-
no questi paesaggi.
Il nocciolo (Corylus avellana L.) è dunque una presenza antica nel Lazio e viene citato
da molti Autori latini. Norme tecniche di propagazione e coltivazione erano conosciute
fin dal IV secolo a.C., ma l’epoca della domesticazione non è certa. Catone, narrando
dell’assedio di Annibale a “Preneste”, oggi Palestrina, racconta che gli abitanti di que-
sta città, assediati, dovettero alimentarsi per lungo tempo esclusivamente di “nux
praenestina”. Anche se la specie era evidentemente assai diffusa, dalle citazioni di
Virgilio nelle “Bucoliche” (Egloga V) sembra non fosse coltivata, ma rappresentava una
componente comune dei boschi misti. Il Martinelli, in Carbognano illustrata, scrive che
il nocciolo era coltivato sin dal 1412.
Nel 1513 pare che il consumo di “Nocchie”, così venivano già allora chiamate nel
dialetto locale le nocciole, rallegrasse le mense dell’allora Papa Leone X. Nel catasto
del 1870 risultavano già censiti, a Caprarola, alcune decine di ettari di noccioleto,
sotto la dizione di “Bosco di Nocchie”. La coltivazione razionale del nocciolo nel com-
prensorio cimino iniziò verosimilmente agli inizi del XX secolo partendo da una mode-
sta base produttiva e di superficie coltivata, almeno secondo quanto riportato dal
Carpentieri nel 1906.

132
Uno scorcio della corilicoltura nella caldera del lago di Vico. La monocoltura caratterizza
ampi tratti del paesaggio viterbese. (V. Cristofori)

Il paesaggio del castagno


Valerio Cristofori, Massimo Muganu,

Nel Lazio il castagno è diffuso in contesti sub-temperati su suoli da acidi a subacidi. I


paesaggi del castagno maggiormente significativi sono nei colli vulcanici Albani, Cimini
e Sabatini, su substrati vulcanici, ma estensioni significative sono presenti nei monti
Carseolani e nel territorio di Amatrice, su unità geologiche arenaceo-marnose del
Miocene medio inferiore.
Attualmente la castanicoltura da frutto nel Lazio interessa circa 5.500 ha e la piatta-
forma varietale presente è il risultato di un processo di selezione su popolazioni spon-
tanee durato secoli. Il castagno era presente nel territorio che oggi costituisce il Lazio
in epoche remote, prima come pianta spontanea nelle selve, quindi come specie colti-
vata (Stefani, 1932), e la presenza di piante secolari, sopravvissute ad avversità ed
alle alterne vicende della castanicoltura, testimonia la lunga tradizione di utilizzazione
di questa specie (Giusti, 2001).
Nel Viterbese, la castanicoltura è concentrata nei Monti Cimini dove circa 2.800 ha e
quasi 2000 aziende sono coinvolte nella castanicoltura. La produzione media annua,
in condizioni normali, può essere stimata sulle 5000 tonnellate. Il patrimonio varietale
è rappresentato da poche cultivar, di cui due, Castagna e Marrone Fiorentino, rappre-
sentano oltre il 90% negli impianti. Dal 1930 ad oggi, l'assortimento varietale si è
modificato, per l'aumento della produzione di marroni, che costituivano allora poco
meno di un terzo della produzione complessiva (Stefani, 1932) e sono ora circa il

133
50%. Una terza cultivar, il Marrone primaticcio o Premutico, Primotico, Pelusiello, è
tradizionalmente coltivata e apprezzata per qualità e precocità di maturazione, ma la
sua presenza si è consistentemente ridotta, a favore del Marrone Fiorentino, a causa
dei problemi agronomici e di conservabilità del frutto. Nel Reatino, Marrone di
Antrodoco e di Borgovelino, appartenenti alla tipologia del Marrone Fiorentino o
Casentinese, costituiscono la dominante varietale della produzione locale.
Realtà castanicole di limitata estensione, ma comunque importanti per l’economia
locale, sono presenti in provincia di Roma (Cave e Segni, Allumiere e Tolfa) e nel
Frusinate (Castagnone di Terelle) e (Patrica).

Estensione della castanicoltura del Lazio (Elaborazione e Courtesy ARSIAL e Ce.F.A.S.)

Castagnone di Terelle (R. Pavia)

134
.
Le varietà di Castagno nel Lazio
Giorgio Grassi

La storia millenaria della castanicoltura nel Lazio ha determinato la distinzione di un gran


numero di ecotopi in tutto l’areale di distribuzione concentrato in prevalenza su suoli
acidi vulcanici e arenacei, i primi particolarmente diffusi nella regione. Poche varietà,
importate da altre regioni, sono qui state attentamente selezionate nei secoli.
Per quanto ormai entrate nelle tradizioni locali con sagre dedicate, alcune “varietà locali”
sono in realtà sinonimie.
Vengono distinte Castagne e Marroni secondo la distinzione di cui al D.M. 19 luglio
1939 su G.U. 165 del 17 luglio 1939, e aggiornamenti 1951, ICE 1963, ICE 1979).
Sono citati tutti i marroni riscontrati in regione, quasi tutti ecotipi del “marrone
casentinese” definito da Breviglieri N. 1955, tra loro corrispondenti e non ancora
differenziati geneticamente.

Nome Comune Note Rif. Bibl.


Barbagiovanni & Pavia,
Ecotipo a se stante, dolce
Camisella o Camiselle Patrica (FR) 2012; Breviglieri, 1955;
piccolo pelabilissimo)
Fideghelli et al. 2009
Barbagiovanni & Pavia,
Castagna di
Fiuggi (FR) 2012; Breviglieri, 1955;
Fiuggi o Enzeta
Fideghelli et al. 2009
Insiti Patrica (FR) Breviglieri, 1955
Barbagiovanni & Pavia, 2012;
Pelosello o Pelosella
Bounous (a cura di), 2014;
o Pelusella
Terelle (FR) Fideghelli et al., 2009;
o Polesella
Minotta & Bassi, 1998;
Vigiani, 1943.
Lanaccio o Porcino Frosinone (FR) Vigiani, 1943
Luciano Frosinone (FR) Vigiani, 1943
Bounous (a cura di), 2014;
Pizzottella
Terelle (FR) Fideghelli et al., 2009;
o Pizzutella o Conca
Minotta & Bassi, 1998.
Amatrice, Castagna che ricorda, ma
Castagna Bionda Accumoli, solo in parte, il marrone di Fideghelli et al., 2009
Posta (RI) tipo casentinese, dolce
Bounous (a cura di), 2014;
Pescorocchiano,
Fideghelli et al., 2009;
Castagna del Cicolano Marcetelli, Borgorose, Produce frutto in piante
Galluzzo, 2005;
o Rossa del Cicolano Varco Sabino, Rocca con ottimo legno
Grassi & Forlani, 1992;
Sinibalda, Turania (RI)
Minotta & Bassi, 1998
Barbagiovanni & Pavia,
Castagna Lombarda Pescorocchiano (RI)
2012
Barbagiovanni & Pavia,
Castagna Radicara Pescorocchiano (RI)
2012
Castagna Rustica Posta, Borbona (RI) Fideghelli et al., 2009

135
Nome Comune Note Rif. Bibl.
Castagna molto dolce,
Castagna Zuccherina, Amatrice, Posta (RI) triangolare, piccola, Fideghelli et al., 2009
diffusa alle quote alte
Castagna di Allumiere
Molto simile alla castagna Stefani, 1932b; Tamaro,
o Castagna della Tolfa Monti della Tolfa (RM)
dei Monti Cimini) 1940; Muganu et al 2005

Castagna Bounous (a cura di), 2014;


Capranica Confermato come
di Capranica Fideghelli et al., 2009;
Prenestina (RM) ecotipo a sestante
Prenestina Minotta & Bassi, 1998
Segni, Artena,
Castagna di Segni Montelanico, Impollina il Marrone
Fideghelli et al., 2009
o Castagna di Artena Colleferro, Carpineto di Segni
Romano (RM)
Castagna
Rocca di Papa (RM) Fideghelli C. et al., 2009
Rocchicianella
Bastarda grossa o Finto
Monti Cimini (VT) Grossa castagna tardiva Fideghelli et al., 2009
Marrone
Barbagiovanni & Pavia,
2012; Bignami, 1990,
Ha molti sinonimi locali:
1998;
Castagna Castagna di Canepina,
Monti Cimini (VT) Bounous (a cura di), 2014;
dei Monti Cimini Castagna di Soriano
Fideghelli et al., 2009;
del Cimino,
Grassi & Forlani, 1992;
Castagna di Vallerano
Minotta G., Bassi, 1998;
Muganu M. et al. 2005;

Castagn nera Monti Cimini (VT) Bignami C, 1998

Nome attribuito ad un tipo


Loccolo Monti Cimini (VT) Fideghelli C. et al., 2009
selvatico
Luciana Monti Cimini (VT) Dolcissima, apice appunti- Bignami, 1998
to, si pela facilmente Fideghelli et al., 2009
San Martino Castagna da impollinazio-
Maschio
al Cimino (VT) ne, spesso coincidente con Fideghelli et al. 2009
la castagna dei M. Cimini
E’ forse introduzione di
coltivazione fatta in Viterbe- Breviglieri 1955;
Velletrana Caprarola (VT) se da Velletri. Castagna Bignami, 1998;
grossa e di medio sapore Fideghelli et al. 2009;
simile alla Castagna Muganu et al., 2005
dei Cimini.
Tipo di castagna poco
Zagana Monti Cimini (VT) diffusa e meno pregiata Fideghelli et al., 2009
gustativamente

A Fiuggi è stato importato


Marrone di Fiuggi o Segni Fiuggi (FR); Fideghelli C. et al., 2009
da Segni.

Corrisponde al marrone
Marrone di Morolo Morolo (FR) Breviglieri, 1955
casentinese tipico

136
Nome Comune Note Rif. Bibl.
Marrone di tipo avellinese,
Marrone di Ronciglione Ronciglione, località diverso dal casentinese,
Breviglieri, 1955
“I Fontaniletti” (VT) quasi certamente cor-
rispondente al Primotico
Barbagiovanni & Pavia, 2012;
Marrone di Antrodoco Breviglieri, 1955;
o M. di Borgovelino Antrodoco, Borgovelino (RI) Fideghelli et al. 2009;
o Marroncino di Antrodoco Grassi & Forlani, 1992;
Minotta & Bassi, 1998

Marrone di Amatrice, Accumoli, Amatrice (RI), Fideghelli C. et al. 2009

Primotico, o Premutico, Importante per produzione


o Marrone primaticcio, precoce e perché, essendo Barbagiovanni & Pavia, 2012;
o Perusiello, probabilmente il Marrone Bignami, 1998;
Viterbo e Monti Cimini (VT)
o Pelusiello. Avellinese, funge anche da Fideghelli et al. 2009;
A S.Martino al Cimino è impollinatore al Marrone Muganu et al., 2005
detto Castagna fiorentino
Gentile o Marrone Gentile
Corrisponde al Marrone
di Allumiere Allumiere (RM) Muganu et al. 2005
Fiorentino dei Monti Cimini

Marrone di Arcinazzo
Arcinazzo Romano (RM) Barbagiovanni & Pavia,
Romano
2012

Marrone di Cave Cave (RM) Ottimo tipo casentinese


Fideghelli et al. 2009
ma molto localizzato

Marrone di Segni, Segni (RM) Ottimo tipo casentinese Fideghelli et al. 2009;
o Marrone Segnino coltivato estesamente Grassi & Forlani 1992

È il Marrone Fiorentino Barbagiovanni & Pavia,


Marrone di Latera Latera (VT)
dei Monti Cimini 2012

Barbagiovanni & Pavia, 2012;


Marrone Fiorentino,
Ottimo marrone Bignami & Mastrantonio, 1988;
o Fiorentino, o Fiorentina,
casentinese Breviglieri, 1955; Fideghelli
o Marrone Fiorentino Monti Cimini (VT)
coltivato in vari comuni et al., 2009; Grassi &
dei Cimini
dei Monti Cimini Forlani, 1992; Muganu et
al., 2005

137
Il paesaggio del ciliegio
Valerio Cristofori, Renato Pavia, Rosario Muleo

La presenza di ciliegio nel territorio laziale ha avuto una buona notorietà sin dall’epoca
romana, quando Varrone e Plinio il Vecchio dedicarono pagine alla sua coltura, citan-
do alcune varietà di diversa provenienza.
Oggi la coltivazione laziale di ciliegio dolce (Prunus avium L.) si concentra prevalente-
mente nella provincia di Roma nei territori di Palombara Sabina e Velletri, nel Viterbe-
se nei territori di Celleno e nelle frazioni di Sant’Angelo e Roccalvecce, e nella provin-
cia di Rieti. Attualmente la superficie regionale a ciliegio è di circa 940 ettari, e rap-
presenta il 3,2% di quella nazionale. Tra le province spicca decisamente Roma, con il
69,8% della superficie regionale, seguita da Rieti (17,0%) e Viterbo con quasi il 9,0%.
A fronte di una limitata estensione superficiale, il viterbese incide sulla produzione
regionale di ciliegio dolce per oltre il 25%, di gran lunga superiore a quella della pro-
vincia di Rieti che incide per meno del 10%.
La coltivazione del ciliegio nelle aree vocate del Lazio interessa prevalentemente ter-
reni collinari solitamente declivi e si basa ancora in buona parte su criteri tradizionali
di conduzione, con limiti di carattere agronomico ed economico. Ancora limitato è
infatti il numero di aziende di dimensione medio-elevata che adottano sistemi di im-
pianto ad alta densità e altamente meccanizzabili, generalmente con impiego di varie-
tà autofertili di affermata valenza commerciale.
Tali aspetti hanno favorito la preservazione della piattaforma varietale regionale tradi-
zionale, conservando l’interesse a mantenere e valorizzare il patrimonio varietale esi-
stente, senza comunque trascurare del tutto gli approcci innovativi finalizzati alla riso-
luzione di problemi di carattere agronomico che alcune cultivar locali presentano.
Alcune varietà tipiche delle aree cerasicole laziali sono caratterizzate da un solido
legame col territorio, come dimostrano tra l’altro le sagre organizzate annualmente
nelle diverse località (Palombara Sabina, Sant’Angelo di Roccalvecce, Celleno).
Nel viterbese, la coltivazione di ciliegio, concentrata prevalentemente a nord del co-
mune di Viterbo e compresa tra il bacino vulcanico di Bolsena e la Valle del fiume Te-
vere, si sviluppa lungo i rilievi collinari di origine vulcanica caratterizzati da una confor-
mazione altimetrica, esposizione, struttura dei suoli e clima favorevoli, che rendono
questa area uno degli ambienti più caratteristici della Tuscia, dove la coltivazione del
ciliegio è da sempre patrimonio culturale dell’area, in particolare nelle campagne del
comune di Celleno e delle due frazioni di Viterbo, Sant’Angelo e Roccalvecce.
Il comune di Celleno e la frazione di Sant’Angelo presentano la porzione provinciale di
territorio coltivata a ciliegio più rilevante, con produzioni medie annue di comprenso-
rio che si attestano intorno alle 900-1.000 tonnellate. Ciò nonostante, lo scarso ri-
cambio generazionale non ha permesso una adeguata modernizzazione degli impianti,
e solo sporadicamente si è assistito alla realizzazione di ceraseti specializzati, mentre
rimangono ancora numerose le piante coltivate in promiscuità e lungo le bordure
aziendali (Figura 1).
Anche la componente commerciale necessita di miglioramenti e di forme di aggrega-
zione in quanto ancora oggi una rilevante porzione di prodotto ritrova collocazione
presso il piccolo dettaglio locale, mentre scarsa è l’attenzione rivolta alla media e
grande distribuzione ortofrutticola.A fronte di ciò, positiva appare la forma aggregan-
te di “Comitato” (Comitato per la Tutela e la Valorizzazione della Ciliegia di Celleno)
che, costituito nella primavera del 2008 sulla spinta di un primo nucleo di produttori
locali, tenta di offrire un approccio organizzativo e servizi per il miglioramento degli
standard produttivi La cerasicoltura viterbese presenta buone prospettive di mercato
sia a livello locale che extraregionale. Tale aspetto, insieme all’iscrizione della “Ciliegia

138
di Celleno” tra i Prodotti Tipici Tradizionali identificati su base nazionale dal Ministero
delle Politiche Agricole e Forestali, può svolgere un ruolo di traino tra i frutticoltori
locali per aumentare la produzione.
La maggior parte della produzione proviene da piccoli produttori che mantengono
ancora una gestione famigliare dell’azienda. La presenza di una moltitudine di piccoli
appezzamenti e di piante isolate o coltivate in promiscuità rende difficile la razionaliz-
zazione della tecnica colturale in particolare in ceraseti adulti (Figura 2), spesso loca-
lizzati in aree declivi a difficile meccanizzazione. Inoltre, anche se la produzione del
comprensorio assume una discreta importanza sia per qualità che per quantità, è
tuttavia ancora difficile effettuare una stima precisa delle produzioni e degli ettari col-
tivati: va inoltre sottolineato che una quota rappresentativa della produzione totale
non viene venduta, ma consumata nell’ambito famigliare o alienata attraverso canali
informali.
La forma di allevamento più diffusa nell’area è il vaso medio-alto, con un’impalcatura
delle branche principali ad un’altezza di 1m-1,5m da terra. I sesti d’impianto variano
da 5 m x 6 m a 8 m x 8 m, anche se sono presenti tentativi di intensificazione coltura-
le in nuovi impianti e rari casi di allevamento a palmetta. Il portinnesto più diffuso è il
franco e solitamente l’innesto è fatto direttamente in azienda dall’agricoltore con va-
rietà e tecniche tradizionali. L’irrigazione degli impianti è pressoché assente cosi co-
me la gestione della concimazione e della difesa fitosanitaria sono ancora praticate in
maniera empirica o addirittura omesse.
La gestione della raccolta delle ciliegie, essendo la più dispendiosa delle operazioni, è
anche il fattore limitante allo sviluppo di questa coltura nella zona. Spesso la gestione
famigliare permette alla piccola azienda agricola di ottenere una adeguata remunera-
zione, che altrimenti, vista la variabilità dei prezzi di mercato e l’alternanza delle produ-
zioni, potrebbe mancare.
L’invecchiamento della popolazione e il mancato ricambio generazionale del compren-
sorio espongono gli impianti al rischio di abbandono. Oltre alla perdita di una coltura,
dal punto di vista tecnico, l’abbandono della cerasicoltura comporta anche un più diffi-
coltoso controllo di alcuni patogeni, come ad esempio la mosca del ciliegio, che trova-
no nelle piante non adeguatamente curate un ambiente idoneo alla successiva diffu-
sione (fonti di inoculo).

Consociazione arborea di ciliegio e vite: la coltivazione in promiscuità


del ciliegio è ancora una presenza forte presso la campagna viterbe-
se. (V. Cristofori)

139
La provincia romana presenta nei suoi comprensori cerasicoli alcune entità varietali
particolarmente interessanti per caratteristiche produttive e agronomiche.
Tra queste si distingue la "Ciliegia progressiflora", presente in alcuni areali pedemon-
tani di Velletri e Lariano. Si tratta di un Prunus cerasus var. semperflorens Koch.
Gli esemplari, alti 3-4 m, hanno un tronco piccolo ed un portamento piangente.
Le caratteristiche peculiari di questa specie sono la fioritura e la maturazione prolun-
gate e progressive da giugno a settembre. Frutto con peduncolo molto lungo, polpa
acquosa, amarognola e acidula. I frutti sono utilizzati anche per le confetture. E’ stata
descritta da G. Gallesio sulla “Pomona Italiana”.
Si segnalano inoltre due varietà locali di Prunus avium nominate "Cerasa a sacco di
Lariano" la cui maturazione dei frutti avviene scalarmente a partire dal 10 giugno e si
protrae per due settimane, e la "Cerasa a sacco di Cisterna" che si raccoglie all’inizio
di giugno e il frutto alla raccolta si distacca facilmente dal peduncolo senza provocare
lesioni alla cavità peduncolare.
Particolarmente interessante è la "Visciola nana dei Castelli". E’ diffusa ai bordi delle
vigne e dei viali di molte aree dei Castelli romani.
La specie è particolarmente pollonifera e la moltiplicazione avviene quasi esclusiva-
mente per pollone autoradicato. Gli alberi sono di piccola taglia ma vigorosi, i rami
hanno internodi molto ravvicinati rispetto ad altre visciole e conferiscono alla chioma il
tipico aspetto nanizzante.
Anche nella Sabina Romana e Reatina si segnalano entità varietali locali interessanti
come la "Crognolina di Marcellina" a maturazione tardiva, la "Lengua de fori", che
presenta una piccola percentuale di frutti gemellati, ed il "Graffione" a maturazione
precoce. Tra le realtà cerasicole del Lazio meritano menzione alcune produzioni locali
che ancora oggi tutelano la valorizzazione di varietà autoctone come la "Patrei nera" e
la "Patrei rossa", individuate e caratterizzate a Maenza, in provincia di Latina. Di que-
ste e altre varietà locali come la “Crognalina di Maenza”, “Cerasa della Madonna”,
“Pomponia” e “Maggiolina” ne esistono numerosi esemplari sparsi lungo i terrapieni ai
bordi di orti e frutteti famigliari.
Fino agli anni ’60 la raccolta delle ciliegie nelle aree rurali di Maenza (LT) era un
sostentamento economico per le famiglie contadine; i frutti raccolti erano conferiti in
centri di raccolta e ritirati da intermediari per le industrie di trasformazione di Napoli.
Nella prima domenica di giugno a Maenza si festeggia la sagra delle ciliegie, arrivata
nel 2016 alla 43a edizione.
A Sud della provincia di Frosinone nel comune di Pastena sono presenti alcune varie-
tà locali di ciliegio utilizzate per il consumo fresco e marmellate. La produzione e
commercializzazione di ciliegie nel Pastenese è documentata fin dal 1936; l’abbon-
dante produzione del frutto nel paese garantiva annualmente un economia dovuta alla
vendita nei mercati dei paesi limitrofi in particolare nel comune di Ceprano e lo scam-
bio delle merci tra il paese e il mare. Ancora oggi, nella prima decade di maggio, si
tiene la famosa "Sagra delle Ciliegie" arrivata alla 70a edizione, che viene associata ai
festeggiamenti dedicati alla Madonnina di Lourdes da sempre venerata dagli abitan-
ti.Nelle aree pedemontane non irrigue della Sabina romana viene ancora utilizzato
come portinnesto il Prunus mahaleb. (Magaleppo).
Alcune varietà di Magaleppo sono presenti spontanee anche sui monti Lucretili, la
migliore è la “Typica” che si distingue dalla corteccia più chiara; molti esemplari adulti
si incontrano anche sui monti Ausoni nel territorio di Lenola (LT).

140
Frutti di Magaleppo "Typica" (R. Pavia).

Diffuse in molte aree collinari e montane del Lazio sono anche le visciole e le amare-
ne. Le piante sono dotate di particolare rusticità, sono molto pollonifere e in alcune
aree incolte assumono caratteristiche da “gradita” infestante per il contenimento dei
terreni e la produzione dei frutti. La moltiplicazione avviene esclusivamente per
pollone radicale. I frutti sono molto ricercati per la produzione di marmellate da
crostata e per la produzione di una bevanda alcolica tipica “Ratafià” che si ottiene
facendo fermentare al sole per alcune settimane i frutti snocciolati e non e succes-
sivamente con l’aggiunta di vino.

Impianto adulto specializzato condotto in maniera tradizionale. L’eccessiva


mole delle piante, spesso potate sommariamente, rende difficili le operazioni
colturali e di raccolta. (V. Cristofori)

141
2.3 “Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse
agrario” Legge regionale 1 marzo 2000 n. 15 (Agenzia
Regionale per lo Sviluppo e l’Innovazione dell’Agricoltura
del Lazio) - ARSIAL
Immacolata M. Barbagiovanni, Giorgio Casadei, Paola Cirioni, Mariateresa Costanza,
Salvatore De Angelis, Antonio Onorati, Sara Paoletti, Massimo Tanca, Paola Taviani
(Arsial) e Maria Pia Gigli (Regione Lazio)
Con l’approvazione della LR 1 marzo 2000 n.15 “Tutela delle risorse genetiche
autoctone di interesse agrario” vengono affidate ad Arsial sia l’applicazione della
Legge e il coordinamento di tutte le attività ad essa collegate, sia la gestione dei due
strumenti operativi attraverso i quali viene attuata la tutela: il Registro Volontario
Regionale (RVR) e la Rete di Conservazione e Sicurezza (Rete). Nel Registro
Volontario Regionale, previo parere delle due Commissioni Tecnico Scientifiche,
una per il Settore Vegetale e una per il Settore Animale, vengono iscritte le risorse
genetiche vegetali ed animali, autoctone del Lazio e a rischio di erosione genetica.
Le predette risorse genetiche, vengono conservate in situ/on farm e moni-torate da
ARSIAL, tramite la Rete di Conservazione e Sicurezza alla quale possono aderire
tutti coloro che conservano, coltivano o allevano le risorse genetiche tutelate e cioè:
agricoltori e allevatori, singoli o associati, che mantengono attivamente sul
territorio le predette risorse genetiche; comuni, comunità montane, istituti di ricerca,
parchi, università agrarie e associazioni d’interesse.
Va però evidenziato che, relativamente all’attività di ricerca, studio e valorizzazione
della biodiversità d’interesse agrario, l’Agenzia già dagli anni ’80 aveva avviato
ricerche sul patrimonio olivicolo e viti-vinicolo presenti sul territorio laziale.

Intervista ad Antonio Onorati sul contesto in cui nasce la Legge


Regionale del Lazio
- Quale era lo scenario regionale, nazionale e internazionale di fine anni “90 sul tema
della biodiversità agricola/sementi?
Alla fine degli anni ’90 si dibatteva ancora sulla natura della biodiversità agricola con un
grande divario tra lo scenario internazionale e quello italiano. Nello scenario internazionale
si era già affermata la Convenzione sulla Biodiversità (CBD), adottata a Rio de Janeiro ed
aperta alla firma il 5 giugno 1992, entrata in vigore il 29 dicembre 1993. Con la CBD si
stabiliva il principio che la biodiversità é sotto la responsabilità e sovranità degli Stati. Ma
già nel 1983, l’assemblea generale della FAO aveva adottato la Risoluzione 8/83
“International Undertaking on Plant Genetic Resour-ces” (Adozione dell’Impegno
Internazionale sulle Risorse Fitogenetiche). In quel momento questo era l’unico strumento
internazionale che regolava le questioni relative alle risorse genetiche per l’agricoltura e
l’alimentazione. Con l’entrata in vigore della CBD, la Risoluzione 8/83 sarà rinegoziata
per dar vita ad un trattato di uguale livello giuridico della CBD (obbligatorio per gli stati che
lo adottano e/o lo ratificano). Il Trattato Internazionale sulle Risorse Genetiche per
l’Alimentazione e l’Agricoltura (ITPGRFA), frutto di diversi anni di negoziato, è stato
adottato a Roma il 3 novembre 2001 dalla trentunesima riunione della Conferenza della
FAO ed è stato ratificato dal Parlamento Italiano con legge n. 101 del 6 aprile 2004.
Elemento fondamentale del trattato è il riconoscimento dei diritti degli agricoltori
sulle risorse genetiche per l'agricoltura e l'alimentazione di cui già esistevano
elementi sia per la risoluzione 8/83 che nella CBD, in particolare nel ITPGRFA,
l'art.9 e soprattutto i paragri 9.2 e 9.3

142
- Perché si è deciso di dotare la Regione Lazio di una legge per la tutela della biodiversità
agricola, e quale era la situazione delle altre Regioni italiane?
La necessità di proteggere, sostenere e valorizzare la biodiversità agricola, che si trova-
va e si trova ancora nei campi degli agricoltori del Lazio, è dovuta sia alla ricchezza di tale
diversità, sia ai processi molto rapidi di erosione genetica causati dal continuo processo
di “modernizzazione” dell’agricoltura regionale avviato a partire dagli anni ‘80 e ’90.
Valori come territorialità, qualità dei prodotti, specificità, conservazione in situ ed on
farm, produzione aziendale delle sementi, che oggi sono considerati da tutti come fonda-
mentali anche a livello economico, in quegli anni erano ritenuti come velleità che niente
avevano a che vedere con lo sviluppo dell’agricoltura regionale.
Grazie alla ferma volontà politica dell’Assessore all’Agricoltura a quel tempo in carica,
Maurizio Federico, le capacità personali di alcuni funzionari dell’assessorato ed il suppor-
to di organizzazioni della società civile, come CROCEVIA che portavano competenze e
relazioni di livello internazionale, la Legge regionale n. 15 “Tutela delle risorse genetiche
autoctone di interesse agrario” venne approvata dal parlamento regionale il 1 marzo del
2000. Molti sono gli aspetti innovativi caratterizzanti la Legge regionale del 1 marzo
2000 n. 15, anche rispetto alla Legge della Regione Toscana approvata nel 1997,
prima esperienza normativa italiana nel settore delle tutela della biodiversità agraria.
Di sicuro quello che per lungo tempo resterà esclusivo della legge del Lazio è quanto
previsto dall’art.5 che, molto prima dell’approvazione del ITPGRFA, afferma che “Fermo
restando il diritto di proprietà su ogni pianta od animale iscritti nel Registro (Volontario
Regionale, n.d.r.) di cui all'articolo 2, il patrimonio delle risorse genetiche di tali piante od
animali appartiene alle comunità indigene e locali, all'interno delle quali debbono essere
equamente distribuiti i benefici, così come previsto all'articolo 8j della Convenzione di Rio
sulle Biodiversità (1992), ratificata con legge 14 febbraio 1994, n. 124”.
La natura collettiva di questi diritti attribuiti alle comunità locali consente di contestare
qualunque azione intrapresa da singoli o persone giuridiche al fine di imporre una
privativa (DPI) su queste risorse.
- Puoi evidenziare le principali differenze tra la legge del Lazio e quella della Toscana,
specificando il ragionamento che ha guidato le diverse scelte?
La legge del Lazio, in definitiva, stabilisce la creazione di repertori di varietà da conserva-
zione senza limitarne il riconoscimento ai soli “agricoltori custodi”, ma estendendolo a
tutti quegli agricoltori che conservano, usano o riusano varietà locali, consentendo così,
una più ampia e continua circolazione dei materiali di riproduzione attraverso la Rete di
Conservazione e Sicurezza, tra quanti vogliono recuperare l’uso e scambiare le cono-
scenze sulle predette varietà. Va notato, purtroppo, che nel corso del tempo la legislazio-
ne nazionale relativa alle sementi ed alla biodiversità, negando il valore economico che
l’uso della biodiversità agricola ha nelle aziende, in particolar modo in quelle di piccola
dimensione e collocate in aeree “difficili”, ha spinto ad una interpretazione molto simile a
quella delle oasi conservazioniste. Allo stesso tempo, attraverso operazioni di mapping
genetico dei materiali raccolti nei campi degli agricoltori si è prodotta una massa gigan-
tesca di informazioni genetiche che – private di ogni protezione giuridica – sono nella
libera disponibilità dell’industria sementiera e dei laboratori di ricerca che ne possono
fare sementi certificate o OGM brevettati.
- Perché viene scelta ARSIAL come ente attuatore della LR 15/2000?
Sembrava normale ed automatico legare la difesa ed il supporto alla biodiversità agricola
alle azioni di assistenza tecnica e di promozione dello sviluppo rurale ad una istituzione
pubblica regionale. Quindi l’ARSIAL rappresentava una scelta obbligata, anche perché
questa poteva facilmente e più rapidamente dotarsi delle opportune competenze e agire
efficacemente sul territorio.

143
Germoplasma olivicolo
In collaborazione con il C.R.A. - Istituto Sperimentale per l'Olivicoltura - Sez. di Spoleto
(attualmente CREA-OLI), ARSIAL aveva avviato, a partire dal 1984, un vasto lavoro di
selezione e caratterizzazione delle principali cultivar e cloni di olivo presenti nei diversi
areali della regione, finalizzato al miglioramento quali-quantitativo delle produzioni.
La ricerca, condotta nell’ambito delle “cultivar-popolazioni” diffuse nelle zone vocate ad
olivo e caratterizzate da alta e costante produttività, rusticità e resistenza alle avversi-
tà biotiche ed abiotiche, aveva permesso l’identificazione di circa n. 50 accessioni tra
varietà locali, cultivar e cloni particolarmente interessanti; furono condotti studi
di natura agro-bio-carpologica e di caratterizzazione. Il materiale selezionato fu propa-
gato e furono costituiti campi sperimentali dimostrativi e di valutazione nelle diverse
zone olivicole laziali; nel 1985 vennero scelti, con opportuni sopralluoghi, appezzamen-
ti di terreno idonei per ogni zona olivicola laziale interessata alla selezione di cloni,
in modo da realizzare i primi campi sperimentali e d’orientamento regionali. Successi-
vamente, nel 1990, per fini di studio e catalogazione, emerse l’esigenza di realizzare
in un unico sito, un campo per la conservazione del germoplasma olivicolo selezionato.
Si giunse così alla realizzazione dell’Azienda Dimostrativa di ARSIAL di Montopoli
in Sabina, su terreni messi a disposizione dalla locale Amministrazione.

Pianta storica (sinistra) e pianta in pieno sviluppo (destra) di olivo Marina, Val di Comino (FR) (R. Rea).

Per alcune selezioni e varietà locali furono realizzate schede elaiografiche per appron-
tare un apposito catalogo e per richiedere la certificazione volontaria delle piantine di
olivo al MiPAF. In una prima fase furono inserite nel sistema di certificazione volonta-
ria n° 9 selezioni. Su n° 30 varietà, tra quelle maggiormente diffuse nel territorio
laziale, coltivate in areali tipici (areale principale) o in areali di recente introduzione
(areali secondari), nonché su alcune varietà locali di particolare pregio, furono
effettuate valutazioni dei profili sensoriali e dei macro e micro componenti.
Per quanto riguarda l’analisi genetica, lo studio del polimorfismo del DNA fu condotto
inizialmente con marcatori molecolari RAPD.
Con l’attivazione della LR n.15/2000, n.5 varietà locali tra quelle studiate, furono
ritenute a rischio di erosione genetica e nel 2004 furono iscritte al Registro Volonta-
rio Regionale (vedi tabella n.1).
Con l’avvio del “Censimento”, funzionale alla LR n.15/2000, fu ripresa l’attività di ri-
cerca sul territorio, anche a partire da ricerche bibliografiche, storiche e da segnala-
zioni giunte da specifici areali. L’attività di censimento, di caratterizzazione morfologi-
ca e genetica, ha permesso l’individuazione di altre varietà locali, di cui n.8 sono state
riconosciute a rischio di erosione genetica, iscritte al RVR e inserite nel corso degli

144
anni, nell’elenco delle risorse genetiche autoctone da tutelare, oggetto di contributi
attraverso l’Azione 214.9 del Piano di Sviluppo Rurale (PSR) del Lazio 2007-2013. Di
recente sono state censite e caratterizzate altre varietà locali (tabella n.2.2). Tutte
le varietà caratterizzate, (tutelate e non dalla LR n. 15/2000) sono state iscritte
alla lista B del Registro Nazionale delle Varietà di piante da frutto ammesse alla
commer-cializzazione (D.Lgs. 124/2010).

Tabella. n.2.2 Varietà locali di olivo e loro stato di tutela ai fini della LR 15/2000.
Denominazione Rischio di erosione Areale di Stato di tutela
risorsa genetica genetica conservazione ai fini della LR
(e sinonimi) (al 2015) in situ 15/2000
Itri, Priverno
Minutella Casarè Alto
e Sonnino (LT)
Fara in Sabina (RI), Monte-
Salvia cl.
Alto libretti, Moricone, Nerola
Montelibretti 6
e Palombara Sabina (RM)

Civitella San Paolo, Fiano Iscritte al RVR il


Romano, Filacciano, Nazza- 19/05/2004
Sirole cl. Soratte 1 Medio no, Ponzano Romano,
Rignano, Sant'Oreste,
Torrita Tiberina (RM)

Itri, Priverno
Vallanella Medio
e Sonnino (LT)
Marcellina, San Polo dei
Oliva dei Monti Alto Cavalieri, Tivoli (RM)
e oro comuni confinanti

Palmuta Alto

Rappaiana Alto

Marcellina, Iscritte al RVR il


Romana Alto
Palombara Sabina, 03/04/2009
Roscetta Gagliarda Alto San Polo dei Cavalieri,
Tivoli (RM)
Rosciola Nostrana Medio e loro comuni confinanti

Rotonda di Tivoli Medio

Sbuciasacchi Alto

Blasi da stimare
Provincia di Viterbo
Riminino da stimare

Oliva Doce da stimare


Caratterizzate, in corso
Tivoli, Marcellina (RM)
Pallinara da stimare di iscrizione al RVR
e comuni limitrofi
Procanica da stimare

145
Denominazione Rischio di erosione Areale di Stato di tutela
risorsa genetica genetica conservazione ai fini della LR
(e sinonimi) (al 2015) in situ 15/2000

Roccasecca (FR)
Fugge da stimare
e comuni limitrofi

Piglio (FR)
Sugghiacciana da stimare
e comuni limitrofi
Vallecorsa (FR)
Vallecorsana da stimare
e comuni limitrofi Caratterizzate,
in corso di iscrizione
Fusella da stimare
al RVR
Mezza Spagna da stimare

Primutica da stimare Alta Sabina (RI)

Nebbia da stimare

Olivacitto da stimare

Ottobratica da stimare Roccasecca (FR)


Frattese da stimare e comuni limitrofi
In fase di
Amaseno (FR) caratterizzazione
Lorenziana da stimare
e comuni limitrofi
Rabbiel da stimare Arpino (FR)

Leoncino da stimare Roccasecca (FR)

Rioncella da stimare Velletri (RM)


Ritornella da stimare e comuni limitrofi Censite da
caratterizzare
Rotondella da stimare Valcomino (FR)
Tivoli (RM)
Montanese da stimare
e comuni limitrofi

Nel corso delle attività di censimento, gli incontri con anziani olivicoltori locali ha
permesso sia l’individuazione di vecchie piante appartenenti a varietà non ancora
conosciute, sia una maggiore conoscenza della storia delle varietà locali attualmente
tutelate. L’attività di censimento e caratterizzazione è continua ed attualmente è con-
centrata sulla caratterizzazione morfo-fisiologica di 11 nuove accessioni (tabella 2.2)
e nell’individuazione sul territorio delle provincie di Roma e Frosinone, di piante relati-ve a
varietà locali di cui si conosce solo il nome: Vernina, Nerella, Borsona, Verdina, Uggiana,
Marsella.
Il lavoro di caratterizzazione morfo-genetica (con marcatori molecolari nucleari SSR) e
agronomica delle varietà locali di olivo individuate nel corso del censimento è attual-mente
svolto da ARSIAL in collaborazione con il CNR – Istituto di Bioscienze e Biori-sorse, U.O.S.
di Perugia.

146
Germoplasma viti-vinicolo
Sin dal 1996 ARSIAL aveva avviato, con la collaborazione del C.R.A. - Istituto Speri-
mentale per la Viticoltura di Conegliano e Istituto Sperimentale per l’Enologia di Velle-
tri (oggi CREA Viticoltura ed Enologia), un programma di ricerca e recupero del ger-
moplasma viticolo laziale finalizzato all’individuazione di cloni dei vitigni autoctoni regio-
nali. Le aree oggetto dell’indagine furono quelle delle produzioni enologiche tipiche del
Lazio: Castelli Romani, alto Viterbese, Cesanese, basso Frusinate, Sabina Romana.
Furono individuati circa 620 biotipi di 35 vitigni rossi e 48 vitigni bianchi, sui quali furo-
no successivamente effettuati i test ELISA per verificarne lo stato fitosanitario. Furo-
no inoltre determinati i patterns isoenzimatici (isoenzimi GPI e PGM) per l’identificazio-
ne dei vitigni.
I diversi biotipi, risultati esenti dalle principali malattie da virus, furono successivamen-
te propagati su Kober 5BB e Rupestris du Lot e con le piantine ottenute furono realiz-
zati, nel biennio 1999-2000, due vigneti di confronto allo scopo di giungere all’omolo-
gazione dei cloni.
In seguito all’attivazione della LR n. 15/2000, delle 83 varietà individuate e studiate,
furono ritenute a rischio di erosione genetica ed iscritte al Registro Volontario
Regionale quelle dei vitigni appartenenti alle 32 varietà riportate in tabella n.
2.3. Di queste, n. 20 varietà sono state iscritte al Registro Nazionale e Regionale
delle varietà di vite idonee alla produzione di uve da vino (in tabella 2.3 riportate con
un asterisco *) mentre il vitigno “Pizzutello bianco b.” è stato iscritto al Registro
Nazionale delle varietà di vite idonee alla produzione di uva da tavola (** in
tabella 2.3). Alcune delle varietà iscritte sono conservate nel campo catalogo
presso l’azienda ARSIAL del Centro Vitinicolo di Velletri (RM).

Grappoli di vite Pamapanaro in Val di Comino (FR) (R. Rea)

Attualmente sono state caratterizzate altre 5 varietà locali, rinvenute nelle province di
Frosinone e Rieti, e sono in fase di caratterizzazione altri 6 vitigni i cui areali di
ritrovamento sono riportati in tabella 2.3.

147
Tabella n.2.3 Varietà locali di vite e loro stato di tutela ai fini della LR 15/2000.
Denominazione Rischio di erosione Areale di Stato di tutela
risorsa genetica genetica conservazione ai fini della LR
(e sinonimi) (al 2015) in situ 15/2000
comuni di Capodimonte, Iscritta al RVR il
Cannaiola di Marta* Medio
Marta e Tuscania (VT) 19/11/2001
Iscritta al RVR il
Rosciola r.* Medio provincia di Roma
09/07/2003
provincie di Latina, Roma,
Abbuoto n.* Medio
Viterbo e Frosinone
provincie di Latina, Rieti,
Aleatico n.* Basso
Roma e Viterbo
Bombino bianco b.* Basso Lazio
provincie di
Bombino nero n.* Medio
Frosinone e Roma

Capolongo b.* Medio provincia di Frosinone

Greco b.* Medio Lazio


provincie di Latina,
Greco bianco b.* Medio
Roma e Viterbo
provincie di Latina,
Greco nero n.* Medio
Roma e Viterbo Iscritte al RVR il
19/05/2004
Lecinaro n.* Medio provincia di Frosinone

Maturano b.* Medio provincia di Frosinone


provincie di Latina e
Nero buono n.* Basso
Roma

Olivella nera n.* Medio provincia di Frosinone

Pampanaro b.* Medio provincia di Frosinone


provincie di
Passerina b.* Basso
Frosinone e Roma
Pecorino b.* Medio provincia di Rieti e Roma

provincie di Rieti
Verdello b.* Medio
e Viterbo
Moscato di provincie di Frosinone,
Basso
Terracina* Latina e Roma

Pellegrino (Pellegrina) Medio Lazio Iscritte al RVR il


07/07/2005
Pizzutello bianco b.
provincie
(Pizzutello di Tivoli, Basso
di Latina e Roma
Dito di Donna)**

148
Denominazione Rischio di erosione Areale di Stato di tutela
risorsa genetica genetica conservazione ai fini della LR
(e sinonimi) (al 2015) in situ 15/2000
comuni di Agosta, Cantera-
no, Cervara di Roma, Gera-
Nerone Alto
no, Marano Equo, Rocca
Canterano, Subiaco (RM) Iscritte al RVR il
03/04/2009
Nostrano Alto comune del Piglio (FR)

provincie di
Pizzutello nero Medio
Latina e Roma
comune di
Albarosa Alto
Grottaferrata (RM)
Angelica Alto provincia di Frosinone
Cesenese nero n.*
(Cesenese Medio provincia di Rieti
di Castelfranco)
provincia di
Maturano nero Alto
Frosinone Iscritte al RVR il
25/09/2009
comune di
Pedino Medio
Montefiascone (VT)
comune di
Romanesco Alto
Montefiascone (VT)
comune di
Uva dei vecchi Alto
Montefiascone (VT)
comune di Pescosolido
Uva Mecella Alto
(FR)
Olivello da stimare

Foiana da stimare provincia


di Frosinone Caratterizzate, in corso
d’iscrizione al RVR
Reale bianca da stimare

Tostella da stimare provincia di Rieti


Testareglio
da stimare
Capolongo rosso
Uva Giulia da stimare

Calamaro da stimare provincia di Frosinone


In fase
Petroveccia da stimare di caratterizzazione

Corapecora da stimare

provincie
Empibotte da stimare
di Viterbo e Roma

149
Approvazione della Legge Regionale 1 marzo 2000 n. 15
Con l’approvazione della LR “Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse
agrario” e delle “Modalità per la tenuta e il funzionamento del Registro Volontario
Regionale delle risorse genetiche autoctone vegetali ed animali” (DGR n.146 del 30
gennaio 2001), l’Agenzia assume il compito istituzionale di provvedere alla tutela e
alla valorizzazione del patrimonio genetico d’interesse agrario, autoctono del Lazio.
La Legge regionale, è diventata effettivamente operativa a partire dall’ottobre 2001,
con l’insediamento delle due Commissioni Tecnico Scientifiche.
Come primo atto, ARSIAL ha provveduto all’iscrizione di n.30 varietà locali (n. 20
arboree e n. 10 erbacee) e n.10 razze animali locali che, sulla base della documenta-
zione scientifica comprovante la loro autoctonia e il rischio di erosione genetica, era-
no state già approvate dall’UE ed inserite nel Piano di Sviluppo Rurale (PSR) Lazio 20-
00-2006. Nel predetto PSR, tramite le Azioni F.8 e F.9, era prevista la corresponsio-
ne di aiuti a favore degli agricoltori e degli allevatori che si impegnavano a conservare
in situ o a coltivare/allevare tali risorse genetiche nell’ambito della propria azienda.
In particolare, le varietà locali di specie arboree da frutto erano state censite e studia-
te dal Dipartimento di Produzione Vegetale dell’Università degli Studi della Tuscia di
Viterbo. L’indagine aveva consentito di identificare, caratterizzare e valutare
per aspetti morfologici, pomologici ed agronomici numerose accessioni di melo, ma
anche di nocciolo e castagno.
Nel 2001 sono state quindi iscritte al RVR: n.19 varietà di melo individuate in diversi
areali regionali (tabella n. 2.4) e n.1 di azzeruolo (tabella n. 2.6).
Nelle successive riunioni della Commissione Tecnico Scientifica vegetale vennero pro-
poste le iscrizioni delle varietà locali a rischio di erosione di olivo e vite, già individuate
e studiate da ARSIAL, come descritto nei precedenti paragrafi.
Nel biennio 2002-2003, è stato avviato il progetto “Individuazione, recupero e carat-
terizzazione del germoplasma frutticolo autoctono laziale a rischio di erosione geneti-
ca” svolto dal C.R.A. - Istituto Sperimentale per la Frutticoltura di Roma in collaborazio-
ne con il Dipartimento di Produzione Vegetale dell’Università degli Studi della Tuscia di
Viterbo e con il finanziamento del Programma Triennale di Ricerca Agricola, Agroam-
bientale, Agroindustriale della Regione Lazio (PRAL).
La ricerca portò all’individuazione e alla caratterizzazione di oltre cento accessioni di
fruttiferi (melo, pero, pesco, nettarine, ciliegio, susino, albicocco, melograno, casta-
gno, nocciolo e uva da tavola). Dette accessioni, caratterizzate in situ, vennero molti-
plicate per la costituzione di campi collezione ex situ di fruttiferi e n.58 varietà locali
vennero iscritte nel 2005 al RVR ai fini della loro tutela (tabelle n. 2.4, 2.5 e-2.6).
Successivamente nell’ambito della collaborazione tra ARSIAL e CRA-FRU (2006-
2010) sono state censite, caratterizzate e iscritte al RVR n. 12 varietà locali di
fruttiferi. Molte di queste varietà sono presenti in collezione presso il Campo
Nazionale di Conservazione Germoplasma Frutticolo del CRA-FRU (CREA- FRU).
Attualmente sono in fase di caratterizzazione accessioni appartenti a diverse specie
quali: arancio, mandarino, fico e castagno, che insieme alle varietà locali iscritte al
RVR, sono state inserite nella lista B del Registro Nazionale delle Varietà di piante da
frutto ammesse alla commercializzazione (D.Lgs. 124/2010).
Numerose accessioni, appartenenti a diverse specie (melo, pero, ciliegio, albicocco e
susino), ritrovate nel corso degli anni nei diversi ambienti e a diverse altitudini, sono in
caratterizzazione al fine di verificare sinonimie ed omonimie con varietà locali già
individuate. In questi anni si avviano incontri tra le Regioni che si erano dotate di una
legge di tutela della biodiversità agraria (Toscana, Lazio, Emilia Romagna,
Friuli Venezia Giulia, Marche, ecc.) a cui i tecnici ARSIAL partecipano ed emerge

150
ed emerge la necessità di trovare descrittori e linee comuni di azione che hanno
contribuito alla realizzazione del Piano Nazionale Biodiversità Agricola (PNBA) e a
redigere delle linee guida nazio-nali condivise.
Ai fini della conservazione ex situ delle risorse genetiche autoctone arboree descritte
nelle tabelle n. 2.3, 2.4 e n. 2.5, ARSIAL ha realizzato due campi catalogo presso
due proprie aziende situate rispettivamente a Montopoli di Sabina (RI) e Alvito (FR).

Campo catalogo specie arboree, Azienda Dimostrativa Sperimentale ARSIAL di


Montopoli di Sabina (RI) (I. Barbagiovanni).

Tabella n. 2.4 Varietà locali di pomacee e loro stato di tutela ai fini della LR 15/2000
Nome comune Denominazione Rischio di erosio- Areale di Stato di tutela ai
della specie risorsa genetica ne genetica conservazione fini
(e sinonimi) (2015) in situ della LR
15/2000
Agre di Sezze Alto

Agre di Viterbo Alto

Appia Medio

Capo d’Asino Alto


Iscritte al RVR
Melo Cocoine Alto Lazio il
19/11/2001
Dolce di Sezze Alto

Fragola Medio

Francesca Medio

Gaetana Alto

151
Tabella n. 2.4 Varietà locali di pomacee e loro stato di tutela ai fini della LR 15/2000
Nome comune Denominazione Rischio di erosione Areale di Stato di tutela ai fini
della specie risorsa genetica genetica (2015) conservazione della LR 15/2000
(e sinonimi) in situ
Maiolina Alto

Nana Medio

Paoluccia Medio

Paradisa Medio

Pontella Medio Iscritte al RVR


Lazio il
Prata Medio 19/11/2001
Rosetta o Rosone Alto

S. Agostino Alto

Tonnorella Medio

Zuccherina Medio

Calvilla Medio
Cerina
Medio Lazio
(Zitella, Gelata)
Cipolla Medio
Francesca di Provincia
Melo Alto
Castelliri di Frosinone
Limoncella Medio Lazio

Provincia
'Mbriachella Medio
di Rieti e Roma
Pianella (Rosa) Alto
Lazio
Rosa Medio

Provincia Iscritte al RVR


Rosa gentile Alto il
di Roma
Provincia 07/07/2005
Rosa piatta
Alto
ciociara di Frosinone
S. Giovanni Medio
Lazio
Spugnaccia Alto

Sublacense Alto Provincia


Velletrana Alto di Roma

Verdona Alto Provincia


Verdonica Alto di Rieti

Baccelli Alto
Provincia
Pero Barocca di Roma
Alto
(Invernale di S. Vito)

152
Tabella n. 2.4 Varietà locali di pomacee e loro stato di tutela ai fini della LR 15/2000
Denominazione Areale di
Nome comune Rischio di erosione Stato di tutela ai fini
risorsa genetica conservazione
della specie genetica (2015) della LR 15/2000
(e sinonimi) in situ
Bottiglia Medio
Lazio
Campana Medio
Provincia
Cannella Alto
di Rieti
Cocozzola
Provincia
(Cucuzzara, Alto
Zucchina) di Roma
Provincia Iscritte al RVR
Del Principe Alto
di Viterbo
il
Di Posta Alto Provincia 07/07/2005

Di S. Cristina
Alto Provincia
Pero (Peruzza)
di Viterbo
Monteleone Alto
Spina (Spinacarpi,
Coccia d'Asino, Medio Lazio
Casentina)
Trentonce Alto provincia di Rieti
Angina (Ancina) Alto Lazio
Biancona Alto
Castrese Alto Iscritte al RVR
Provincia il
Fegatella Alto
di Roma e Latina 07/03/2006
Pero-melo Alto
Tunnella Alto
Poggio Mirteto (RI)
Melo Bebè Alto
e comuni confinanti
Provincia
Abitir Alto
di Frosinone
Provincia
De lu Prete Alto
di Rieti Iscritte al RVR
Provincia il
Pero Rossa di Maenza Alto di Frosinone, 03/04/2009
Latina, Roma
Provincia
Sellecca Alto
di Frosinone
Spadona di Provincia
Medio
Castel Madama di Roma
Coppana da stimare
Melo
Rossa di Carpineto da stimare
Agostina da stimare Caratterizzate,
in corso
Ceppetto da stimare
Pero d’iscrizione al RVR
Cannellina da stimare
Invernale di Fondi da stimare

153
Tabella n. 2.4 Varietà locali di pomacee e loro stato di tutela ai fini della LR 15/2000
Denominazione Areale di
Nome comune Rischio di erosione Stato di tutela ai fini
risorsa genetica conservazione
della specie genetica (2015) della LR 15/2000
(e sinonimi) in situ
Moscarola da stimare
Caratterizzate,
Pero Ruzza di Alvito da stimare in corso
Spadona di Alatri da stimare d’iscrizione al RVR

Varietà locali di mele coltivate presso Cittareale (RI): Calvilla bianca, Limoncella, Piana e
Pontella (da sinistra a destra) (I. Barbagiovanni M.).

Tabella n. 2.5 Varietà locali di drupacee e loro stato di tutela ai fini della LR 15/2000
Nome comune Denominazione Rischio di erosione Areale di Stato di tutela ai
della specie risorsa genetica genetica (2015) conservazione fini
(e sinonimi) in situ della LR
15/2000
Albicocco di provincia
Monteporzio Alto di Roma
Albicocco
S. Maria Provincia
Medio di Viterbo
in Gradi -AL1
Bella di Pistoia Medio

Biancona Medio Iscritte al RVR il


7/07/2005
Buonora Alto provincia di
Ciliegio Rieti, Roma
Core (Durona) Medio e Viterbo
Crognolo Alto

Graffione Alto

154
Tabella n. 2.5 Varietà locali di drupacee e loro stato di tutela ai fini della LR 15/2000
Nome comune Denominazione Rischio di erosio- Areale di Stato di tutela ai
della specie risorsa genetica ne genetica conservazione fini
(e sinonimi) (2015) in situ della LR
15/2000

Maggiolina Medio

Morona Medio
provincie di Rieti,
Ravenna a
Alto Roma e Viterbo
gambo corto
Ciliegio Ravenna a
Alto
gambo lungo
provincie di
Ravenna precoce Medio
Rieti e Roma
provincie di
Ravenna tardiva Medio
Rieti e Roma Iscritte al RVR il
Reginella Pesca 7/07/2005
provincie di
Uovo (Early Alto
Pesco Roma e Viterbo
Crawford)
provincie di
Reginella II Medio
Roma e Viterbo
Coscia di Monaca
di Ponzano Medio
Romano
Susino Lazio
Di Gallinaro Alto

S. Giovanni Alto

Lingua de Fori Alto provincie di


Ciliegio
Petrocca Alto Rieti e Roma

Ala Alto provincia di Roma


Pesco Iscritte al RVR il
Tardiva di
Alto provincia di Roma 3/04/2009
San Vittorino
provincia di
Susino Recinella Alto
Frosinone
Visciolo Nana dei Castelli Alto Lazio
Albicocco Velletri da stimare Caratterizzate, in
Pesco Cuore da stimare corso d’iscrizione
Susino Rosina di Velletri da stimare al RVR

155
A sx: C iliegio varietà locale Graffione, Moricone (RM), a dx Ciliegio varietà locale
Lingua de Fori, Moricone (RM) (L. Lelli).

Tabella n. 2.6 Varietà locali di altri fruttiferi e loro stato di tutela ai fini della LR 15/2000
Nome comune Denominazione Rischio di erosione Areale di Stato di tutela ai
della specie risorsa genetica genetica (2015) conservazione fini
(e sinonimi) in situ della LR 15/2000
Iscritte al RVR il
Azzeruolo Azzeruolo Rosso Medio Lazio
19/11/2001
Marrone Premutico
Viterbo e
Castagno (Primatico, Alto
Primaticcio) Manziana (RM)

Di Formia MG3 Alto provincia di Latina

Melograno Di Formia MG4 Alto provincia di Latina

Di Gaeta MG1 Alto provincia di Latina


Iscritte al RVR il
Di Gaeta MG2 Alto provincia di Latina
07/07/2005
provincia di
Barrettona Alto
Viterbo
Casamale
provincia di
Nocciolo o nostrale Alto
(Comune di Sicilia) Viterbo

Rosa provincia di
Medio
(Nocchia Rosa) Viterbo

Calcolo del rischio di erosione genetica


Per poter definire il livello di rischio di erosione genetica a cui ogni risorsa tutelata è
soggetta, ARSIAL ha provveduto a fissare, per i vegetali, alcuni parametri (presenza
sul mercato, presenza nei listini dei vivaisti, numero di agricoltori, superficie interessa-
ta, tendenza alla realizzazione di nuovi impianti), che permettono di calcolare il relativo
grado di rischio di erosione genetica (alto, medio, basso). Il grado di rischio di erosio-
ne attribuito a ciascuna risorsa genetica (Porfiri et al., 2009, Costanza et al., 2011) è
determinato dalla somma dei valori e classificato come basso se < = 9, medio se
compreso tra 10-13, alto se >=14 (come riportato in tabella n. 2.7). Relativamente
a tutto il patrimonio censito e tutelato, si evidenzia complessivamente un alto grado
di rischio di erosione genetica. Infatti, delle 138 risorse attualmente tutelate, il
55,8% è ad alto rischio di erosione, il 39,9% è a medio rischio e solo il 4,3% è a
basso rischio.
156
Tabella n. 2.7 Parametri per la stima del rischio di erosione genetica di specie arboree
Grado
Parametro Descrizione dei parametri di rischio Valore

cooperative di produttori
Basso 1
Settore: varietà principali in qualche doc, dop, igp, igt
A
Presenza Nicchia: disponibile in piccole superfici a livello locale.
Medio 2
del prodotto Segmento: varietà secondarie in qualche doc, dop, igp, igt
sul mercato
Disponibile qualche frutto per autoconsumo o a scopo
Alto 3
di studio. Non disponibili
Frutticole: in lista varietale A, B e C;
Basso 1
Vite:iscritte albo regionale
B
Vite: in corso di iscrizione all’albo regionale
Presenza Medio 2
Materiale disponibile presso pochi riproduttori e vivaisti
nei listini
Vivaisti Frutticole: non inserite nelle liste varietali;
Vite: non iscritte all’albo regionale Alto 3
Nessuna riproduzione per distribuzione extraziendale
Maggiore di 100 Basso 1
C
Numero Compreso fra 30 e 100 Medio 2
Coltivatori
Minore di 30 Alto 3
Sup. > 5 % Basso 1
D
Superfici 5 %> Sup.> 1% Medio 2
(% su superfi-
Sup. < 1 % , o superfici inferiori
cie regionale
Presenza di impianti/colture segnalata da tecnici agricoli. Alto 3
del settore)
Piante isolate o coltivazioni in orti e giardini familiari.
E Presenza nuovi impianti Basso 1
Trend nuovi
Impianti Assenza nuovi impianti Alto 3

Divulgazione e formazione
A partire dal 2001, ARSIAL ha provveduto a predisporre ed inviare alle varie istituzio-
ni pubbliche e private, materiale divulgativo sulla LR n.15/2000 al fine di metterle a
conoscenza delle finalità della stessa e per coinvolgerle nell’attività di censimento del-
le risorse genetiche autoctone presenti nei loro territori.
Sono state organizzate numerose giornate divulgative nelle province del Lazio per
incontrare sindaci, agricoltori e studiosi locali al fine di divulgare la nuova legge,
le attività ad essa collegate, ma anche per raccogliere notizie ed indicazioni dalle co-
munità locali. Gli incontri si sono dimostrati molto faticosi, ma utili poiché si è comin-
ciato ad interloquire con gli agricoltori locali entusiasmati dall’idea che gli ortaggi e gli
alberi da frutta che avevano custodito per anni nei loro orti, potessero avere di colpo
una valenza scientifica oltreché storica.
Nel gennaio 2002, è stato organizzato un primo seminario, con lezioni in aula
e sessioni pratiche in azienda, per la formazione di trenta tecnici sia di ARSIAL
che regionali. I corsi vertevano sulle metodologie utilizzate per la caratterizzazione e la

157
conservazione delle risorse genetiche animali e vegetali sul riconoscimento di quelle
inserite nel PSR Lazio 2000-2006; la formazione è stata svolta avvalendosi delle
competenze specifiche dei membri delle due Commissioni Tecnico Scientifiche e di
esperti del settore. In seguito gli stessi tecnici cominciarono, sulla base delle loro co-
noscenze personali del territorio nel quale lavoravano, ad attivarsi per censire le
risor-se genetiche autoctone di loro conoscenza e per incontrare anziani agricoltori e
stori-ci locali, fornendo così un primo grosso contributo all’individuazione di
numerose va-rietà e razze animali locali.
Un successivo momento formativo rivolto ai tecnici è avvenuto con un corso, organiz-
zato da ARSIAL e l'associazione Semina, sul recupero e il mantenimento delle risorse
genetiche autoctone. Gli incontri erano volti ad un approfondimento sia dell’inquadra-
mento giuridico relativo alla tutela dell’agrobiodiversità sia del concetto di valorizzazio-
ne economica delle risorse genetiche, sulla base di varie esperienze e soprattutto di
quella sviluppatasi per la conservazione e la valorizzazione della patata “Quarantina
Bianca Genovese”, ad opera di una comunità di agricoltori liguri.

Censimento
Nel 2001, come prima accennato, ARSIAL aveva provveduto ad elaborare il Progetto
di censimento delle risorse genetiche di interesse agrario, autoctone del Lazio. Fu
necessario predisporre due modelli di schede (tuttora in uso): una “scheda di censi-
mento” ad uso dei tecnici ARSIAL, necessaria per la raccolta di dati sulle risorse ge-
netiche e sulle aziende agricole e zootecniche, e una “scheda di segnalazione” da invia-
re ad aziende agricole e zootecniche, vivai, agriturismi ed a tutti i comuni del Lazio,
invitando a fornire notizie su eventuali risorse genetiche autoctone in loro possesso o
di loro conoscenza. La risposta alla richiesta d’informazioni tramite scheda di segnala-
zione, ebbe ottimi risultati innescando quella ricerca “porta a porta” che ha permesso
ai tecnici ARSIAL, di instaurare un rapporto di amicizia e di stretta collaborazione con
le comunità locali di agricoltori e allevatori, custodi della biodiversità autoctona del
Lazio.
In questa prospettiva, era emersa la necessità di affiancare l’attività di censimento e
caratterizzazione agronomica, con quella che potremmo definire azione di “recupero
della memoria storica” attinente alle risorse genetiche autoctone sia vegetali che
animali, presenti sul territorio laziale, allo scopo di avere a disposizione un attendibile
repertorio documentario, acquisito attraverso la sistematica ed analitica esplorazione
delle fonti storiche e l’interrogazione delle fonti orali.
D'altronde la ricerca storica si rendeva necessaria al fine di verificare l’autoctonia
delle risorse genetiche individuate nel corso del censimento, anche relativamente
all’art. 1 della LR 15/2000 che riporta: “possono considerarsi autoctone anche spe-
cie, razze, varietà e cultivar di origine esterna, introdotte nel territorio regionale da
almeno cinquanta anni e che, integratesi nell'agroecosistema laziale, abbiano assunto
caratteristiche specifiche tali da suscitare interesse ai fini della loro tutela”.
Si avviarono ricerche storiche presso archivi e biblioteche comunali, con l’ausilio di
storici locali e anziani agricoltori. Le ricerche storiche sono state avviate in molti casi
su input degli allevatori e agricoltori locali come ad esempio quella effettuata per il
Comprensorio dei Monti Lepini e Ausoni, dove i tecnici di ARSIAL avevano individuato
numerose risorse genetiche, tanto animali quanto vegetali, alle quali è legato un ricco
patrimonio culturale locale.
Nel settore frutticolo, un’importante ricerca storica è quella realizzata sul vitigno autoc-
tono “Pizzutello Bianco di Tivoli”, svolta in collaborazione con la comunità di agricoltori

158
locali, ai fini dell’iscrizione del “Pizzutello Bianco di Tivoli” al Registro Volontario
Regionale e per la richiesta del riconoscimento del marchio DOP nell’ambito del
Progetto Agricoltura Qualità.
Nel 2006 l’attività di censimento in località Settare presso Colle S. Magno (FR), una
zona raggiungibile solo a piedi od a cavallo, porta all’individuazione di numerose vec-
chie piante di ciliegio, pero, noce, susino e melo.

Colle S. Magno (FR) (M. Tanca)

Dai rilievi effettuati da ARSIAL con il prezioso contributo della dr.ssa Isabella Dalla
Ragione, furono identificate piante centenarie di ciliegio e di pero, in stato di abbando-
no, che presentano tipologie varietali diverse per forma della foglia e frutto (ciliegio),
epoca di maturazione (pero), e portamento (ciliegio).

Esemplare di Ciliegio quasi secolare Colle


S. Magno (FR) (M. Tanca)

Dalle piante identificate e georeferenziate sono state prelevate marze per la costitu-
zione del campo catalogo presso l’Azienda Sperimentale ARSIAL di Alvito (FR) .
Il Censimento, in 10 anni di attività, ha permesso, di individuare, caratterizzare, tutela-
re e porre a contributo nelle programmazioni di sviluppo rurale che si sono sussegui-
te, ben n. 213 risorse genetiche autoctone, di cui n. 27 animali, n. 48 varietà locali di
specie erbacee e n. 138 varietà di specie arboree.

159
Campo catalogo presso l’Azienda Dimostrativa Sperimentale ARSIAL di Alvito (FR).
(R.Rea)
La Rete di conservazione e sicurezza
La Rete, come già detto, riunisce tutti i detentori delle risorse genetiche tutelate, allo
scopo di favorire la conservazione attiva e la moltiplicazione in situ/on farm delle ri-
sorse, coordinare e controllare lo scambio di materiale di propagazione, promuovere
progetti di Rete e offrire assistenza tecnica. Il sistema di Rete comprende attualmen-
te n. 496 agricoltori e n. 661 allevatori che rispettivamente coltivano/allevano le
186 varietà e le 24 razze animali locali tutelate.
Una parte degli aderenti alla Rete sono beneficiari del contributo a sostegno della
“Tutela della biodiversità agraria vegetale” previsto dall'Azione 214.9 della passata
programmazione del PSR Lazio 2007-2013, che per le colture arboree era pari a
800 €/ha per le domande a superficie o, in alternativa, a 70 €/pianta per un massi-
mo di 5 piante per varietà coltivate nell’area in situ.

Provincia Numero
FROSINONE 115
LATINA 20
Tabella 2.8. Numero aderenti alla Rete ripartiti per provincia
RIETI 30
ROMA 80
VITERBO 105

160
L’attuale PSR Lazio 2014-2020 prevede un intervento a sostegno degli agricoltori
che attuano una “Conservazione in azienda e in situ della biodiversità agraria vegeta-
le” con l’Operazione 10.1.8 e per l’attività svolta da ARSIAL, di conservazione delle
risorse genetiche vegetali e animali in agricoltura, è prevista l’Operazione 10.2.1.
La distribuzione sul territorio regionale dei detentori delle risorse genetiche arboree
iscritte al RVR è riportata nella tabella n. 2.8.
Per far fronte alle richieste di giovani piante ARSIAL ha coordinato l'organizzazione di
una “Rete di vivai moltiplicatori” per la produzione di materiale vivaistico che dia garan-
zie sia dal punto di vista sanitario che genetico.
Attraverso la Rete di Conservazione e Sicurezza vengono promossi anche eventi di
animazione locale volti a rafforzare o favorire l’aggregazione tra gli agricoltori, anche
mediante lo scambio di esperienze maturate da soggetti di altre regioni d’Italia.
Nell’ambito di questa attività sono stati organizzati, per il settore frutticolo, corsi di
tecni-che di coltivazione del ciliegio e del visciolo per gli agricoltori di Celleno e di Alvito,
tenu-ti dai tecnici ARSIAL e del CRA-FRU.
Nella primavera 2015 ARSIAL, in collaborazione con la Rete Semi Rurali, ha organiz-
zato nelle 5 provincie del Lazio giornate tecnico dimostrative direttamente in campo
dedicate alle tecniche di coltivazione e ai sistemi di potatura e innesto delle varietà
locali di fruttiferi e rivolte ad agricoltori, tecnici e studenti del territorio.

Giornate tecnico dimostrative sull’innesto e la potatura Castelliri (FR) (P. Taviani)

Sulla base delle proprie esperienze nella gestione dell’agrobiodiversità regionale,


ARSIAL nell’ambito del progetto interreg IVc Reverse (REgional exchanges and policy
making for protecting and valorizing biodiVERsity in Eeurope, 2010-2012), ha parteci-
pato ai seminari interregionali di scambio di buone pratiche sulla conservazione della
biodiversità in Europa, presentando l’applicazione della LR 15/2000 ed evidenziando
la necessità delle azioni di “rete” tra le comunità locali di agricoltori custodi, come
strumento di conservazione dinamica della biodiversità d’interesse agrario.

Patrimonio immateriale e biodiversità


L’esperienza pluriennale di ARSIAL nella gestione della LR n.15/2000 ha evidenziato,
negli anni, l’importanza dell’approccio interdisciplinare sia nelle azioni di conoscenza,
che in quelle di tutela e valorizzazione della biodiversità. La Convenzione UNESCO
del 2003 (ratificata con legge 27 settembre 2007 n. 167) già da tempo individuava
il “capitale sociale” degli agricoltori custodi di agrobiodiversità, come patrimonio
culturale immateriale dell’umanità alla stregua dei patrimoni culturali classici, ricono-
scendone il diritto di salvaguardia in quanto minacciato da una cultura globalizzata

161
che tende ad omologare le differenza tra culture, e le conoscenze locali tradizionali
sono soggette ad un continuo processo di erosione che in alcuni casi ha portato alla
loro estinzione. Per rispondere a queste esigenze l’ARSIAL, nelle attività territoriali
previste dalla LR n.15/2000, si è fatta promotrice del progetto di ricerca dal titolo
“Capitale sociale in agricoltura: sistemi locali di produzione agricola e conoscenze
tradizionali”, svolto in convenzione con la cattedra di Antropologia della Università
degli Studi di Roma “La Sapienza”.
La ricerca parte dal presupposto che i “saper fare tradizionali” sono a tutti gli effetti
“beni immateriali” demoetnoantropologici ed in quanto tali da schedare ed interpreta-
re in modo scientifico. Sono stati elaborati tre prototipi di schede (due per i vegetali
ed una per gli animali), che tramite il metodo etnografico, il più idoneo per questo tipo
di analisi, permettono di riconoscere più facilmente la vitalità culturale delle comunità
locali oggi più che in passato esposte a flussi globali a volte devastanti. Inoltre il meto-
do etnografico documenta dall’interno i modi di vita locali, individuando i saperi ed i
commenti degli stessi attori spesso incorporati nelle azioni.
Le informazioni contenute nelle schede contribuiscono ad elaborare un quadro inter-
pretativo centrato sul campo semantico riferibile alla nozione di “capitale simbolico”
fino a rilevare potenzialità inespresse, rischi e fragilità di una azienda locale custode di
saperi legati alla biodiversità. Nel 2010 prende avvio il primo progetto di ricerca la cui
area di studio è la piana di Fondi ed i Monti Ausoni con due casi studio: sulla capra
Bianca Monticellana e sul frutteto di Valle Imperiale e Piana di Fondi.
Le predette schede sul “saper fare” sono state riportate nelle “Linee guida nazionali
per la conservazione in situ, on farm ed ex situ, della biodiversità vegetale, animale e
microbica di interesse agrario” approvate con DM del MiPAAF del 6 luglio 2012.

Giardini storici e biodiversità frutticola


Rita Biasi

Fonte di alimentazione che, in virtù della bellezza delle loro chiome e portamento, una
fonte di piacere tanto nei giardini, quanto nel paesaggio, manifestando pertanto la dupli-
ce funzione di utilità e bellezza, le piante da frutto sono sempre state utilizzate come
piante ornamentali in quasi tutte le tipologie di giardini, piantate a terra o, se poco adatte
all’ambiente, in vasi disposti in luoghi d’elezione. L’albero da frutto accompagna la storia
del giardino nel divenire delle sue forme. Brolo, verziere, pomario, hortus sono solo e-
sempi di spazi del giardino in cui le piante da frutto rappresentano i principali tratti costi-
tutivi, miniaturizzazioni di un paesaggio rurale di prossimità o anche molto lontano.
I giardini storici, rappresentano autentici hotspot di varietà storiche e permanenze di
paesaggi tradizionali delle colture arboree. Infatti, in ragione della loro natura di spazi
circoscritti, spesso anche ben conservati e resilienti, rappresentano luoghi per la conser-
vazione in situ di germoplasma frutticolo o di particolari sistemi di coltivazione tradizionali
– a tal proposito basta ricordare la presenza nei giardini storici di quelle forme di alleva-
mento geometriche degli albero da frutto come i candelabri, i sistemi a bandiera o altri,
oggi totalmente alieni dai sistemi arborei moderni – diventando pertanto luoghi in cui si
concentrano valori botanici, ecologici, culturali, storici e estetici. Più spesso, tuttavia, nei
progetti di restauro dei giardini storici, le aree produttive sono tralasciate o non rappre-
sentano certo una priorità di intervento. Al contrario, alberi da frutto, viti, agrumi, olivi di
orti e giardini storici costituiscono un patrimonio di multiplo valore che necessiterebbe di
essere catalogato, salvaguardato e valorizzato. Una loro conservazione o ripristino con
progetti di restauro vegetazionale consentirebbe la salvaguardia del loro significato non

162
solo botanico (conservazione della biodiversità) e culturale (salvaguardia di storia, cultura
e tradizione agricola), ma anche sociale (luoghi di partecipazione e inclusione sociale).
Nella regione Lazio, dai giardini dell’antica Roma a quelli delle residenze patrizie
peri-urbane, alla miriade di orti monastici e orti-frutteti medioevali, fino ai pomari e
arboreti dei giardini rinascimentali, gli alberi produttivi hanno rappresentato elementi
connotativi e identitari del luogo.
La loro scomparsa per abbandono o assenza di manutenzione ha portato all’irrimediabi-
le perdita di importanti spazi presenti nel disegno originario del giardino o risultanti dalle
stratificazioni temporali. In questo contesto si inserisce il caso del giardino rinascimenta-
le di Palazzo Giustiniani Odescalchi a Bassano Romano (VT), con il suo residuale
pomario che è stato caratterizzato per consistenza, natura e stato di conservazione al
fine di individuare una strategia di recupero funzionale di questo spazio produttivo.
Il parco della villa, esteso su una superficie di 45 ettari, presenta una struttura comples-
sa possedendo un ninfeo, un giardino all’italiana, il pomario, spazi aperti, aree a bosco
e una fitta rete di viali e sentieri. Antichi manoscritti (1600) riportano la presenza
all’interno del giardino anche di piante di pero e nocciolo.
Il giardino aveva originalmente diverse aree produttive, che riproducevano il paesaggio
agrario circostante, che fin dal Medioevo era coltivato a grano, vite, fruttiferi e olivo,
come stilato negli antichi registri comunali (1779) in cui sono riportati usi del suolo
come “...vignato, pomario, fruttifero, vignato arborato, boscato, olivetano, tufarino a
boscaglie…”.
L’evoluzione del paesaggio del pomario del giardino di Palazzo Giustiniani Odescalchi è
stata studiata attraverso la comparazione multi-temporale della cartografia storica e di
immagini aeree e/o satellitari di diverse epoche, evidenziando una graduale perdita di
elementi arborei a vantaggio dell’espansione dell’area boschiva e dell’incolto, accentuata-
si a partire dalla seconda metà del secolo scorso (1961). Dell’antico pomario oggi
sopravvivono sette esemplari di melo (Malus domestica Bork.), due di ciliegio
(Prunus avium L.) e una pianta di melo cotogno (Cydonia oblunga Mill.).
Il germoplasma valutato attraverso osservazioni fenologiche e indagini pomologiche con
descrittori morfologici dei frutti e del portamento ha confermato il proprio valore biologi-
co. Infatti, le sette accessioni di melo caratterizzate apparterrebbero alle varietà locali
cvs ‘Pontella’, ‘Mela agre’, ‘Calvilla’ e ‘Renetta’, dimostratesi interessanti anche sotto
il profilo organolettico.
Il recupero funzionale del pomario reintroducendo queste varietà autoctone consentireb-
be di effettuare un intervento nel rispetto dell’unicità e identità storico-culturale e del
genius loci. Il giardino di Palazzo Giustiniani Odescalchi, e l’area del pomario in particola-
re, è stato oggetto di un masterplan secondo i principi della conservazione della
biodiversità autoctona e degli elementi strutturali storici del giardino.

163
Una delle accessioni di melo (Malus domestica) caratterizzate nel pometo del
giardino di Palazzo Giustiniani Odescalchi (Bassano Romano, Viterbo) e la
graduale invasione del bosco negli spazi di presenza delle piante da frutto
riportati nelle mappe storiche dal 1985 (sinistra, cerchi blu), dal 1961
(centro) al 2000 (destra).

Uso sostenibile delle risorse genetiche e conservazione del pae-


saggio laziale
Rita Biasi
La conservazione in situ in azienda (on farm) delle varietà autoctone appartenenti alle
diverse specie legnose è considerata una strategia di primaria importanza per preve-
nire l’erosione genetica, e generalmente è complementare alla conservazione ex-situ.
In quasi tutti i paesi europei, le risorse genetiche autoctone stanno alla base di econo-
mie marginali e di sistemi agricoli tradizionali il cui mantenimento assicura la sopravvi-
venza di prodotti tipici che esprimono la cultura del territorio e la salvaguardia di
paesaggi ad alto valore ecologico-ambientale.
Il mantenimento di sistemi agricoli tradizionali basati sull’uso di risorse genetiche au-
toctone rappresenta una strategia di conservazione ad alta sostenibilità sociale ed
ecologica basata sulla resilienza dei sistemi colturali.
In particolare, essa si configura come un uso sostenibile delle risorse genetiche basa-
to su pratiche agricole tradizionali che comportano l’uso di specifico materiale di pro-
pagazione, di particolari tecniche di impianto, di gestione della crescita della pianta, di
trasformazione dei suoi prodotti e modalità del loro consumo, secondo modelli tipici di
forme socio-economiche e culture tradizionali.
Le specie legnose del Lazio, come in molte altre aree frutticole italiane, sono soggette

164
a fenomeni di erosione sia a livello delle superfici investite, sia a livello di diversità
genetica e complessità degli agro-ecosistemi. L’uso sostenibile delle risorse genetiche
autoctone consente, di contro, di contrastare questi fenomeni di semplificazione e
impoverimento di diversità genetica e ambientale. Infatti, la conservazione in situ on-
farm presenta numerosi benefici: dal mantenimento dei processi di adattamento e
evoluzione di una specie nel suo ambiente nativo, alla realizzazione di produzioni soste-
nibili essendo i genotipi autoctocni meglio adattati all’ambiente e, conseguentemente,
non solo in grado di contrastare l’effetto dei cambiamenti climatici, ma anche di
presentare una minor dipendenza da fattori di produzione sussidiari esterni.
Spesso gli ambienti nativi delle specie tradizionali e delle varietà autoctone ricadono in
aree sensibili soggette a fattori di rischio ambientale multipli per lo più di natura
antropogenica, come ad esempio il consumo di suolo, il degrado del terreno, la saliniz-
zazione, il compattamento, l’erosione o le frane. In queste aree il mantenimento delle
colture tipiche, basate sull’uso del germoplasma autoctono, comporta un’azione di
presidio del territorio contro l’abbandono o il degrado e, nel contempo, il mantenimen-
to di paesaggi multifunzionali.
Uno dei tratti distintivi dei sistemi agricoli tradizionali, infatti, è il mantenimento di un
paesaggio in grado di dispensare diversi servizi ambientali – i cosiddetti servizi
eco-sistemici – rappresentati dalla salvaguardia della diversità di habitat e ecosistemi,
della fertilità del suolo inclusa quella fisica, lo stoccaggio del carbonio, la complessità
dell’eco-mosaico paesaggistico, contro l’omologazione e la semplificazione degli usi
del suolo.
Molte colture tradizionali laziali sono presenti in aree a forte pendenza e terrazzate.
Spesso si tratta di autentici hotspot di biodiversità vegetale e animale. Nelle aree
montane, la crisi dell’agricoltura tradizionale e il conseguente abbandono dell’agricol-
tura ha portato a una intensificazione dei fenomeni di deterioramento del suolo –
anche a causa dell’intensificarsi e del concentrarsi dei fenomeni di precipitazione con
conseguente erosione degli strati superficiali più fertili – ed ha rappresentato un
elemento chiave del deterioramento ambientale, della perdita di paesaggi e di
biodiversità.
Qui il degrado del suolo e la perdita di paesaggio potrebbe essere contrastato solo
attraverso il mantenimento delle colture permanenti di interesse agrario o forestale.
L’industrializzazione dell’agricoltura e la conseguente semplificazione e omologazione
di diversità genetica e ambientale hanno interessato anche il Lazio nelle aree meno
declivi o nelle pianure, a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Molte nuove
colture sono state introdotte, come la coltivazione dell’actinidia (Actinidia deliciosa e
chinensis) nella pianura pontina, altre sono quasi scomparse, come la coltivazione
degli agrumi (Citrus spp), che compaiono per l’ultima volta come uso del suolo di que-
sta regione nella carta del TCI/CNR degli anni sessanta.
La superfice viticola nel Lazio si è erosa del 46% nel periodo 2000-2010, assieme
alla superfice occupata dai frutteti (-7%) e dagli agrumi (-36%), a fronte delle superfici
ad oliveto piuttosto stabili. L’ISTAT ha restituito una istantanea tragica della situazio-
ne della frutticoltura attuale in Italia: nello stesso periodo si è persa una pianta da
frutto su tre. Altri sistemi arborei si sono profondamente trasformati nel loro assetto
– questo è il caso della corilicoltura dell’alto.
Lazio (Corylus avellana) - sotto l’effetto della Politica Agricola Comune (PAC) fino a
pochi anni fa orientata ancora alla promozione del solo mercato.
Nonostante tutto, il territorio laziale è ancora caratterizzato da diffusi, se pur
frammentati, paesaggi complessi per conformazione e funzione dove una preziosa
diversità genetica e ambientale continua ad essere preservata.

165
La complessità dell’eco-mosaico ambientale è un valore intrinseco dei paesaggi agrari
tradizionali. La nuova PAC (2014-2020) influenzerà marcatamente il futuro paesag-
gio dei sistemi arborei: le necessarie continue trasformazioni verranno infatti ad
essere accompagnate dalla promozione di strategie di conservazione di aree di pros-
simità degli agro-ecosistemi ad alto interesse ecologico come gli spazi naturali
rappresentati dai residui di formazioni boschive, gli alberi fuori foresta, i filari, le siepi,
la vegetazione ripariale, i muretti a secco, oltre dalla promozione di azioni
volte alla salvaguardia dell’agro-biodiversità, in accordo con i principi enunciati dalla
Convenzione Europea del Paesaggio (CEP, Firenze 2000).

166
2.4 Prodotti tipici e tradizionali
Miria Catta

I prodotti di qualità riconosciuti a livello comunitario del Lazio includono i vini DOCG,
DOC, IGT, i prodotti agroalimentari DOP, IGP ed STG e ad essi possono essere aggiun-
te le produzioni agroalimentari tradizionali, che vengono censite per documentare le
metodiche e i locali di lavorazione tradizionali. Le tecniche di lavorazione, gli areali di
produzione, la valenza socio economica e soprattutto storica, di questi prodotti, testi-
moniano l’origine e il profondo radicamento con la cultura e le tradizioni del nostro
territorio. Le produzioni agroalimentari tradizionali rappresentano quell’insieme di
prodotti da cui spesso sono emerse le produzioni di qualità riconosciute con marchi
DO/IG.

Nel dettaglio, in regione Lazio, abbiamo:


29 prodotti agroalimentari con indicazione geografica, di cui 16 DOP, 11 IGP e 2 STG;
36 vini ad indicazione geografica, di cui 3 DOCG, 27 DOC e 6 IGT;
394 prodotti agroalimentari tradizionali.

Questi prodotti sono la sintesi di una terra, di una tradizione produttiva artigianale,
legata alle tante realtà locali, che anche attraverso l’enogastronomia tipica esprimo-
no la loro identità. Usi e costumi secolari tramandati di padre in figlio, di generazione
in generazione, che devono essere tutelati e protetti in un contesto agricolo sempre
più globalizzato, attento più alla standardizzazione delle produzioni che alla qualità e
alla sicurezza dei prodotti. Valorizzare le nostre tradizioni, i nostri prodotti tipici, signifi-
ca migliorare anche il nostro stile di vita, riappropriandoci di alcuni piaceri e riabituan-
do il nostro palato a profumi e sapori a volte assopiti. Significa anche insegnare ai
nostri figli il gusto “di una volta”, la salubrità di un prodotto, a valorizzare il nostro terri-
torio e a migliorare l’economia di una regione.
L’importanza del recupero e della tutela di una “cultura agroalimentare” è stata ben
compresa dal legislatore europeo e nazionale che, grazie all’emanazione di normative
comunitarie e nazionali sulla qualità regolamentata e sulla sicurezza alimentare (DOP,
IGP, STG, biologico, biodiversità, “pacchetto igiene”), ha pensato di fornire alle istituzio-
ni locali e ai produttori, efficaci strumenti di caratterizzazione e valorizzazione com-
merciale attraverso i quali poter recuperare, qualificare e tutelare i prodotti del terri-
torio. Arsial, in questo contesto normativo e di politica agraria regionale, oramai da
circa 15 anni ha messo in campo una serie di attività e azioni volte a qualificare e
valorizzare le produzioni agricole e alimentari del Lazio, dando un supporto concreto
ai produttori regionali.
In particolare, l’Agenzia, oltre che a lavorare sui dossier per nuove caratterizzazioni di
vini DOCG/DOC/IGT, sulla revisione dei disciplinari dei vini già riconosciuti, sulla iscri-
zione di vitigni autoctoni nel Registro Nazionale delle uve da vino, sull’informazione e
divulgazione in materia di etichettatura, sicurezza alimentare e tracciabilità dei pro-
dotti agroalimentari regionali, da anni supporta le associazioni dei produttori nei per-
corsi di caratterizzazione DOP/IGP/STG delle produzioni agroalimentari tipiche regio-
nali ai sensi dei Reg. UE 1151/2012 e svolge attività di ricognizione sul territorio dei
prodotti agroalimentari tradizionali (di cui al D.M. 350/99), con approfondimento
tecnico dei punti critici, ai fini del riconoscimento delle deroghe igienico-sanitarie per
salvaguardare la microflora specifica.
A tale proposito nel novero dei prodotti agroalimentari tradizionali, che si possono
collocare tra i frutti dimenticati, si contano ben 23 frutti (alcuni dei quali tutelati anche

167
dalla L.R. 15/2000) che sono di seguito elencati: arancio biondo di Fondi, castagna di
Terelle, castagna rossa del Cicolano, ciliegia di Celleno, ciliegia ravenna della Sabina,
fallacciano di Bellegra, fichi di Sonnino, fragola di Terracina, fragolina di Nemi, marro-
ne dei Monti Cimini, marrone di Cave, marrone di Antrodoco, marrone di Arcinazzo
Romano, marrone di Latera, marrone Segnino, mosciarella di Capranica Prenestina,
nocciola dei Monti Cimini, pera spadona di Castel Madama, olive da mensa bianca di
Itri, prugna pizzutella di Picinisco (afferente alla varietà locale susina di Gallinaro), vi-
sciolo dei Monti Lepini, uva da tavola pizzutello di Tivoli.
Ai suddetti prodotti tradizionali, così come per tutti gli altri prodotti inseriti nell’elenco
regionale, viene data, da parte degli Stati Nazionali europei, particolare rilevanza so-
cio-culturale anche con il riconoscimento formale del loro valore culturale: in Italia è
stato emanato il DM MIPAAF/MIBAC 09 aprile 2008 relativo alla “Individuazione dei
prodotti agroalimentari italiani come espressione del patrimonio culturale italiano”.

Fragola di Terracina (LT) (Foto M. Catta) Uva da tavola Pizzutello di Tivoli (RM) (Foto M. Catta)

Inoltre tra i prodotti frutticoli che hanno ottenuto il riconoscimento europeo DOP/IGP,
possiamo ricordare: la Castagna di Vallerano, riconosciuta DOP nel 2009, la cui zona
di produzione, rappresentata solo dal territorio del comune di Vallerano (VT), è parti-
colarmente vocata per le caratteristiche dei terreni, che denotano la presenza di sub-
strati tufacei di origine vulcanica ricchi in sostanza organica, profondi, ben drenati,
freschi, quindi dotati di buona fertilità, che favoriscono l'apporto di potassio al frutto,
oltre che di lipidi e carboidrati; la Nocciola Romana DOP, caratterizzata da una tessi-
tura compatta e croccante, sapore ed aroma finissimo e persistente che è coltivata
nel comprensorio Cimino e Sabatino dove la presenza del nocciolo e in particolare
della varietà locale, ma non a rischio di erosione, Tonda Gentile Romana risale a tem-
pi antichissimi (sembra che esistesse prima dei romani allo stato selvatico nel sotto-
bosco). Altra DOP della regione Lazio, che interessa anche parte del territorio Campa-
no, è stata recentemente attribuita dalla UE all’Oliva di Gaeta DOP (Reg. UE 2254 n.
del 1 dicembre 2016). L’oliva di Gaeta DOP si ottiene dalle olive da mensa della varie-
tà “Itrana” (detta anche Gaetana), varietà locale non a rischio di estinzione, trasforma-
ta in salamoia secondo il tradizionale “sistema all’Itrana”. L’Oliva di Gaeta si caratteriz-
za per la consistenza della polpa morbida, sapore lievemente amaro, acetico e/o
lattico, colore della polpa da rosa intenso a violaceo; perfetto equilibrio tra gusto
e aroma, maggiore quantitativo di polifenoli e tocoferoli totali rispetto ad altre olive
in salamoia e presenza di α-tocoferolo in forma acetata, assente nelle altre olive in

168
salamoia. La denominazione Oliva di Gaeta può storicamente essere ricondotta al
nome. Tutti i prodotti di qualità del Lazio si possono consultare sul data-base
www.arsial.it/portalearsial/prd_tipici/default.asp.
Con le attività di qualificazione dei prodotti agroalimentari (DOP, IGP e Tradizionali) e di
tutela delle risorse genetiche a rischio di erosione, il lavoro svolto da ARSIAL in questi
anni è stato condotto con l’obiettivo di conservare e valorizzare il patrimonio agroali-
mentare tradizionale e il germoplasma autoctono laziale. Tutto questo patrimonio,
oltre a rappresentare un’ottima base per lo sviluppo di programmi di ricerca relativi
alle valutazioni agronomiche delle cultivar più interessanti, allo studio delle resistenze
agli agenti patogeni e agli stress ambientali, alla selezione e al vivaismo, merita di es-
sere anche studiato dal punto di vista nutrizionale.
Lo studio delle caratteristiche nutrizionali e salutistiche intrinseche delle diverse varie-
tà locali potrebbero fornire informazioni interessanti per la nutrizione umana che do-
vrebbero essere messe a disposizione delle comunità di agricoltori e trasformatori,
affinché possano utilizzarle nell’etichettatura e nella presentazione delle loro produzio-
ni al fine di ben differenziarle e valorizzarle rispetto alle cultivar commerciali normal-
mente reperibili sul mercato.
Un obiettivo che ARSIAL si è da sempre posta è quello di individuare adeguati percor-
si di valorizzazione anche per quelle varietà di fruttiferi di un certo pregio che per
generazioni sono state coltivate e custodite da piccole comunità di agricoltori e che
ormai caratterizzano localmente sia la cultura che il paesaggio.

Oliva di Gaeta (LT) (M. Catta)

169
Alcune ricette culinarie particolari
Miria Catta

MARMELLATA DI CASTAGNE DI TERELLE

Si presta non solo nella preparazione della crostata ma anche per preparare un ottimo
gelato artigianale, mescolandola nella gelatiera con una crema tipo pasticcera.

INGREDIENTI: 1 kg di Castagne di Terelle mondate, 800 g di zucchero, 1 bicchiere di


acqua, rhum da pasticceria o un bicchiere di Marsala, 50 g di cacao amaro e una punti-
na di vaniglia.
PROCEDIMENTO: Lessare le Castagne di Terelle, privarle della pellicina e passarle al
setaccio. In una pentola fare cuocere lo zucchero con l’acqua, fino ad ottenere uno sci-
roppo non molto denso. Aggiungere il passato di castagne con un’altra piccola quantità
di acqua, se necessario, e continuare la cottura fino ad ottenere la confettura desidera-
ta, mescolando continuamente con un cucchiaio di legno. Versarla ancora tiepida in
vasetti di vetro e, quando è fredda, ricoprirla con uno strato di rhum da pasticceria.
L’aggiunta del cacao amaro e della vaniglia è facoltativa.

FARAONA ALLE CILIEGIE RAVENNA DELLA SABINA

INGREDIENTI: 1 faraona; 750 g di Ciliegie Ravenna della Sabina. Sugo: 1/2 l di vino ros-
so, 1 dl di aceto, 1/2 l di fondo bruno di cacciagione, 2 carote, 2 cipolle, 2 spicchi di
aglio, 10 g di timo, 3 foglie di alloro, 30 g di prezzemolo, 20 cl di Kirch.

PROCEDIMENTO: In un tegame versare 40 g di olio e rosolare le carote, le cipolle e l'a-


glio tagliuzzati, aggiungere le spezie. Versarvi l'aceto, lasciar ridurre e spolverare 6 g di
farina; mescolare e bagnare col vino ed il fondo di cacciagione.
Abbassare la fiamma appena bolle e far cuocere per 1 ora e 30. Filtrare il sugo. In una
padella con 40 g di burro, cuocere le ciliegie per 10 minuti. A fuoco vivo, snocciolarle e
rimetterle in padella col Kirch. Tagliare la faraona in quattro parti e cuocerla in un tega-
me con 100 g di burro, condire con sale e pepe. Aggiungere, dopo 40 minuti di cottura,
le ciliegie ed il sugo e far cuocere per altri 15 minuti. Servire con verdure alla griglia.

170
2.5 Alcuni frutti antichi rappresentativi del Lazio
Renato Pavia, Maria Antonietta Palombi

L’evoluzione del comparto frutticolo in Italia ha determinato un profondo rinnovamen-


to varietale con l’abbandono delle cultivar locali e la conseguente erosione genetica
del patrimonio frutticolo regionale.
Tuttavia, vista la peculiarità della Regione Lazio, forse dovuta alla mancanza di uno
sviluppo frutticolo regionale di tipo industriale, se non in alcune aree particolari
(principalmente Sabina, Colli Albani e Piana di Fondi), ha determinato la conservazione
di numerose varietà locali per le diverse specie da frutto, soprattutto in aziende agri-
cole ubicate in aree collinari e montane della Regione.
Con la LR 1 marzo 2000 n. 15, “Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse
agrario” si è avviato un programma di recupero del patrimonio frutticolo regionale
che ha portato al reperimento di numerose varietà locali, ora iscritte nel Registro
Volontario Regionale. Per quanto riguarda questo patrimonio, esclusi Olivo e Vite,
attualmente sono iscritte al Registro Varietale 36 varietà di melo, 24 di pero, 14 di
ciliegio, 4 di pesco e altrettante di susino, 2 di albicocco, 4 di melograno, 1 di visciole
e di azzeruolo, 3 di nocciolo ed, infine, 1 di castagno.
In questo ambito verranno descritte solo alcune di queste varietà, giudicate significati-
ve sia perché interessanti da un punto di vista organolettico e/o fitosanitario, sia
perché trattasi di individui isolati, conservati in particolari siti.
Ogni varietà è presentata con una scheda che riporta, in modo sintetico, le peculiarità
utili al suo riconoscimento, la zona di diffusione in ambito regionale, le principali carat-
teristiche pomologiche, agronomiche e organolettiche, nonché l’uso nella tradizione
popolare e gli eventuali sinonimi. E’ inoltre riportato il luogo di conservazione e il
referente, cioè la persona, l’Ente o l’associazione che ha fornito le informazioni.
.
Albicocco S. Maria in Gradi Mela Zuccherina
Albicocco di Monte Porzio Nettarine Crasiommolo
Castagna Inseto Olivo Sbucciasacchi
Castagna Rossa del Cicolano Olivo Sirole
Castagne Pelusella e Pizzutella di Terelle Olivo Vallanella
Ciliegia Core-Durona Pera Angina
Ciliegia Maggiolina Pera Cocozzola
Ciliegie Patrei Nera e Rossa Pera de Lu Prete
Ciliegia Ravenna Precoce Pera Monteleone
Coscia di Monaca di Ponzano Pera Rossa di Maenza
Marrone Premutico Pera Santa Cristina
Mela Bebè Pera Spadona di Castel Madama
Mela Calvilla Susina Recinella
Mela Coppana Susina Regina
Mela Rosa di Alatri Uva Pellegrina di Velletri
Mela Rosetta Visciola Nana dei Castelli

171
ALBICOCCO Prunus armeniaca L.
S. MARIA IN GRADI
Caratteri di riconoscimento
Frutti di pezzatura piccola, (g 18,6), di forma
oblunga leggermente ovata, a punta, buccia
di colore arancione e sovraccolore rosso
a faccetta.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
La pianta è stata individuata in un vecchio frut-
teto presente nel complesso di S.Maria in Gra-
di, originario del ‘300. A metà del XX secolo il
complesso fu dato in concessione come carce-
re comunale, e venne impiantato un frutteto
che doveva fornire frutta fresca per la mensa
del carcere.
Albicocca S. Maria in Gradi matura (UNITUS)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
L’albero ha vigoria elevata e portamento procombente. I frutti si raccolgono nella prima
decade di luglio. La polpa è arancione chiaro, soda, non aderente al nocciolo, poco succosa,
dolce, molto aromatica e di ottimo sapore. Il nocciolo non aderisce alla polpa ed il sapore
del seme (o mandorla) è dolce.
Uso nella tradizione
Viene utilizzata prevalentemente per il consu-
mo fresco.
Luogo di conservazione
Campo collezione Università della Tuscia e
presso i campi di conservazione del germopla-
sma ARSIAL di Montopoli in Sabina.
Referenti
Università della Tuscia (VT) – DAFNE
(Cristofori Valerio, Rosario Muleo, Massimo Albicocca S. Maria in Gradi in sezione (UNITUS)
Muganu, Eddo Rugini)

172
ALBICOCCO Prunus armeniaca L.
DI MONTE PORZIO

Caratteri di riconoscimento
Frutti di pezzatura media, (g 52), di forma
oblata, buccia di colore giallo intenso con
sovraccolore rosso intenso, sfumato sul 30-40
% della superficie.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
E' una delle albicocche più antiche del
Lazio, tipica della zona di Monte Porzio Catone
e da qui il nome. Fino agli anni ’90 si organiz-
Albicocca Monteporziana matura in pianta (R.Pavia) zava a Monte Porzio la Sagra dell’albicocca.

Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche


L’albero ha uno sviluppo limitato, di vigoria media e a portamento espanso; sensibile alla
Monilia . Produce su tutti i tipi di rami. La fioritura è tardiva, si raccoglie tra la seconda e la
terza decade di giugno. La polpa è giallo chiaro, quasi bianca, soda, non aderente al noccio-
lo, tessitura grossolana, di sapore buono, R.S.R.: 13,3 °Brix; pH 3,14. Il nocciolo è piccolo,
globoso con carenatura poco o mediamente pronunciata, mandorla di sapore amarognolo.
Uso nella tradizione
Viene utilizzata prevalentemente per il consu-
mo fresco.
Luogo di conservazione
In situ: proprietari della pianta e presso i
cam-pi di conservazione del germoplasma
frutticolo del CRA FRU di Roma e ARSIAL di
Montopoli in Sabina.

Natura e livello di conoscenza


Una delle poche citazioni bibliografiche risale
al 1962 (Scaramuzzi, Frutticoltura 1 e 2).

Referenti
Proloco comune di Monteporzio Catone
CREA- FRU (Roma) Particolare della polpa e del fiore (R.Pavia)

173
CASTAGNA INSETO Castanea sativa Miller

Caratteri di riconoscimento
La forma allungata ovoidale con punta pronun-
ciata caratterizza questa varietà.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
La varietà è diffusa in diverse aree del Lazio
utilizzata soprattutto per la impollinazione del
Marrone pregiato coltivato nei Monti Lepini nei
comuni di Segni, Carpineto Romano e Gorga, in
genere è associata ad un’altra varietà impollina-
trice locale la “Narea” che produce poco e frutti
Castagna Inseto (R.Pavia) di minore qualità.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Matura a partire dalla fine di settembre. Albero vigoroso a portamento semi assurgente.
Frutto piccolo di forma ovoidale-allargata, cicatrice ilare media, colore epidermide marrone,
aderenza del tegumento alla polpa assente, pubescenza torcia assente. Polpa bianca, pene-
trazione del tegumento nella polpa (settatura) presente, di sapore buono.
Uso nella tradizione
Il consumo è limitato per la preferenza di altri marroni più pregiati. Nella III decade di ottobre
si tiene una importante sagra del Marrone segnino arrivata nel 2015 alla 58° edizione.
Luogo di conservazione
Comune di Segni (RM).
Natura e livello di conoscenza
Non è noto ma probabile che le varietà meno pregia-
te Inseto e Narea fossero già presenti nelle aree
castanicole lepine prima del sec XVI, risale a quel
periodo, infatti, l'introduzione dei marroni nei Monti
Lepini, quando, in occasione del matrimonio di Mario
Sforza e Fulvia Conti, vennero introdotte a Segni
piante di castagno prelevate a Santa Fiora, posta
sulle pendici dell’Amiata. Una leggenda, invece, attri-
buisce al pontefice segnino Vitaliano (657-672) l'in-
troduzione del castagno nel territorio lepino. Pierre
Toubert, nella sua opera dedicata al Lazio meridiona- I n a l t o : infiorescenza maschile della
le ed alla Sabina tra il IX ed il XII sec, dice testual- varietà impollinatrice “Narea” a sinistra e
mente che i castagneti più rimarchevoli per compat- del Marrone segnino a destra.
tezza e bella disposizione sono quelli di Patrica, Se- In basso: Frutti del Marrone segnino e
di una delle due varietà impollinatrice
gni, Norma e Morolo che si iscrivono come l'ultima “Inseto” (R.Pavia).
tappa della conquista agraria. Gli statuti segnini, la
cui stesura originale si può far risalire al sec XII, do- Referente
cumentano la presenza di castagneti e tutte le varie
operazioni collegate a questa pianta ed ai suoi frutti. Comune di Segni (RM)

174
CASTAGNA Castanea sativa Miller
ROSSA DEL CICOLANO

Caratteri di riconoscimento
Si caratterizza per Il pericarpo di colore mar-
rone rossiccio.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
La coltivazione si sviluppa lungo la Valle del
Salto e del Turano, nella parte sud-orietale
della provincia di Rieti in cui è presente la
Riserva Naturale dei Monti Navegna e Cervia.
Rossa del Cicolano (R.Pavia)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
La raccolta del frutto si protrae per circa 30 giorni a partire da metà ottobre. Albero
molto vigoroso e molto assurgente. Frutto grosso, n. 1-2 per riccio, forma rotondeg-
giante e globosa, ilo ampi, contorno curvilineo, Il pericarpo è di colore marrone rossic-
cio che si scurisce dopo la “curatura”, aderente, apice provvisto di tomento con torcia
anch'essa tomentosa. Episperma e aderente con introflessioni più o meno estese al-
l'interno della polpa. La polpa è bianca croccante, non dolce. Una IGP “Rossa del
Cicolano” è in formulazione.
Uso nella tradizione
E' consumata fresca, bollita o trasformata: secca in guscio, sgusciata intera o sfarinata,
marmellata e crema di castagne ottenute con la tecnica tradizionale locale.
Luogo di conservazione
Associazione Provinciale Castanicoltori Castagna reatina – Pescorochiano (Rieti).
Natura e livello di conoscenza
La castagna rossa del Cicolano nel passato, é stata
fortemente legata l'economia dell'area. All'età del
bronzo risalgono i resti carbonizzati di castagne
ritrovati in località Val di Vani, nel comune di
Pescorocchiano. Dall'VIII secolo diviene una compo-
nente principale, se non l'unica, della dieta delle
popolazioni montane, integrando o sostituendo i
cereali invernali e primaverili caratterizzati da basse
rese. In parallelo anche il castagno da legno viene
Rossa del Cicolano:
utilizzato come elemento fondamentale delle struttu- particolari morfologici dei frutti (R.Pavia)
re degli edifici: dal Cicolano si importano pali di ca-
stagno, legnami lavorati a mano, vasi vinari e, oggi, il Referente
comune di Marcetelli conserva tale tradizione. Associazione Provinciale
Anticamente le castagne si "scuravano" lasciandole Castanicoltori Castagna reatina
in acqua, nelle bigonce, per 8 giorni, asciutte, poi, si Pescorochiano (Rieti)
portavano nelle cantine e si rivoltavano 2 volte al
giorno con una pala di legno.

175
CASTAGNE
PELUSELLA E PIZZUTELLA Castanea sativa Miller
DI TERELLE

Caratteri di riconoscimento
La Pelusella si distingue dalla torcia lunga e dalla
peluria estesa alla sua base, colore marrone scuro e
forma globosa. Matura dai primi di ottobre.
La Pizzutella si raccoglie 10 giorni dopo; da alcuni
è detta “Conca” (i frutti “conche” sono infatti un po’
convessi nella parte inferiore).
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Pelusella e Pizzutella di Terelle (R.Pavia) Terelle (FR), situata su un costone del Monte Cairo
(1669m), rivolta a Nord Est ad altezza di m. 950 slm,
dove, appena sotto l’abitato, si estende un castagneto di circa 70 ettari con molti esemplari
pluricentenari. Il castagno più grande ha una circonferenza di oltre 10 metri.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Pelusella: comincia a cadere nella prima settimana di ottobre. Albero di vigoria media a porta-
mento semi assurgente. Frutto piccolo di forma globosa, cicatrice ilare media, colore marrone
scuro, si sbuccia meno facilmente della Pizzutella perché ha il pericarpo (buccia esterna) ed
episperma (pellicina interna) più aderenti al seme, pubescenza torcia elevata. Polpa bianca, pene-
trazione del tegumento nella polpa (settatura) presente, di sapore dolce, adatta per caldarroste.
Pizzutella: matura a partire dal 15 ottobre. Albero di media vigoria e portamento semi-assurgente.
Frutto piccolo di forma ovoidale-allargata, cicatrice ilare media, colore epidermide marrone chiaro,
aderenza del tegumento alla polpa assente, pubescenza della torcia scarsa. Polpa bianca, la percen-
tuale di semi doppi entro lo stesso frutto è bassa (meno del 4%), di ottimo sapore.
Uso nella tradizione
Consumo fresco e caldarroste. Dalla lavorazione della castagna si trae ancora oggi la pregiatis-
sima farina. Ogni anno nella prima settimana di novembre si tiene la sagra delle castagne ora
alla XXXIII edizione.
Luogo di conservazione
Comune di Terelle.
Natura e livello di conoscenza
Una varietà minore, detta “Narea”, produce poco e
frutti di minore qualità: ha funzione di impollinatore
secondario. La coltivazione è presente nel comune
di Terelle da tempi remoti. Le testimonianze orali Pizzutella con assenza di aderenza del tegu-
dei residenti di Terelle, fanno risalire la diffusione mento alla polpa.
del castagno intorno al 1350, con lo sviluppo de- Esemplare di castagno centenario nel territorio
mografico del paese. La gente dell'epoca, viste le di Terelle (R.Pavia).
avverse condizioni pedoclimatiche della zona per la
coltivazione di specie erbacee, spinse verso l'im- Referente
pianto di castagneti da frutto da cui utilizzare la Comune di Terelle.
farina per l'ottenimento del pane.

176
CILIEGIA Prunus avium L.
CORE-DURONA

Caratteri di riconoscimento
La forma cuoriforme la rende inconfondibile
dalle altre.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
E’ stata individuata e caratterizzata nel
Comune di Viterbo in località S. Angelo di
Roccalvecce, è coltivata in orti famigliari
anche negli areali cerasicoli di Celleno (VT).
Oggi è una varietà a rischio di estinzione,
superata da nuove cultivar che trovano la
Mazzetto di maggio della Ciliegia Core in
maturazione (R.Pavia) preferenza dei consumatori.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero di vigoria medio-elevata e portamento aperto. Fiorisce a fine marzo-inizio aprile
e matura i primi di giugno. Frutto di pezzatura medio-piccola (p.m. 5g), presenta un
buon rapporto polpa/nocciolo (91,5%) ed un peduncolo medio (3,07 cm), di forma
cordiforme (da cui il nome), con buccia di colore rosso su sfondo giallo. Polpa color
crema, croccante, con succo incolore.
Uso nella tradizione
Consumo fresco, marmellate e confetture. I frutti più grossi si conservano in alcol e zucchero.
Luogo di conservazione
Campo collezione Università di Viterbo
e agricoltori di Celleno e S. Angelo
Roccalvecce (VT).
Natura e livello di conoscenza
Differisce per caratteristiche morfologiche e
organolettiche da altre cultivar toscane a de-
nominazione simile, Cuore o del Cuore, descrit-
te nell’Indagine sulle cultivar di ciliegio diffuse
in Italia (Baldini et al., 1973).

Referente
Università della Tuscia (VT) – DAFNE In alto: Core, particolare della forma del frutto.
(Cristofori Valerio, Rosario Muleo, Massimo In basso: confettura di ciliegie prodotta a Celleno (VT)
Muganu, Eddo Rugini)

177
CILIEGIA Prunus avium L.
MAGGIOLINA

Caratteri di riconoscimento
La buccia assume a maturazione una colorazio-
ne rosso scuro - nero.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
E’ stata individuata e caratterizzata nel Comu-
ne di Viterbo in località S. Angelo di Roccalvec-
ce, all’interno dell’azienda agricola A. Ruchini.
E' coltivata principlamente negli areali cerasi-
coli di Celleno (VT). Particolarmente apprez-
zata dai consumatori locali, e per la produzione
Ciliegie di Maggiolina mature (Unitus) di confetture.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero di vigoria media e portamento aperto. Fiorisce a fine marzo-inizio aprile e matura
nella seconda decade di maggio. Frutto di pezzatura medio-piccola (p.m. 3,9 g), presenta
un buon rapporto polpa/nocciolo (92,8%) ed un peduncolo lungo (4,5 cm), di forma
sferoidale appiattita, con buccia di colore rosso scuro-nero. Polpa color rosso scuro,
tenera, con suc-co di colore rosso scuro.
Uso nella tradizione
Consumo fresco per precocità di maturazione, produzione di confetture di “ciliegia
maggiolina” apprezzata per il suo aroma pronunciato.
Luogo di conservazione
Campo collezione Università di Viterbo e
agricoltori di Celleno e S. Angeloo Rocca
lvecce (VT).
Natura e livello di conoscenza
In letteratura si trova la varietà toscana
"Maggiola" molto simile per i carsatteri morfo-
logici e qualitativi (Baldini et al ., 1973).
La varietà è stata descritta da Garuti (1989) e
viene indicata come dotata di ottima resisten-
za ai fitofagi.
Referenti
Università della Tuscia (VT) – DAFNE
(Cristofori Valerio, Rosario Muleo, Massimo
Muganu, Eddo Rugini)
In alto: Pianta di Maggiolina conservata on-farm.
In basso: confettura di ciliegie prodotta a Celleno (VT)

178
CILIEGIE
PATREI NERA Prunus avium L.
PATREI ROSSA
Caratteri di riconoscimento
Buccia scura per la Patrei nera e chiara per la
Patrei rossa. La polpa è saporita e dolce ma
leggermente molle al tatto.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Queste due varietà sono state individuate
e caratterizzate a Maenza (LT), di queste e
altri ecotipi locali come la “Crognalina
di Maenza”,“Cerasa della Madonna”,
“Pomponia”e “Maggiolina” ne esistono nu-
merosi esemplari sparsi lungo i terrapieni
Frutti di Patrei nera (R.Pavia) ai bordi di orti e frutteti famigliari.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Patrei nera: albero di taglia e vigoria media, chioma a portamento espanso, fiorisce nella pri-
ma decade di aprile, matura nella prima decade di giugno , produttività medio-elevata, maturazio-
ne uniforme e fruttificazione prevalente sui dardi. Frutto medio (g 7,0), forma reniforme, buccia
di colore rosso scuro, rapporto polpa/nòcciolo (93,3%), peduncolo lungo 44,6 mm. Polpa e
succo di colore rosso scuro, di buona qualità gustativa, consistenza medio-scarsa, semiaderen-
te al nocciolo.
Patrei rossa: albero di taglia e vigoria media, chioma a portamento espanso, produttività me-
dio-elevata, fiorisce nella prima decade di aprile e matura nella prima decade di giugno, produtti-
vità medio-elevata, maturazione a scalare e fruttificazione prevalente sui dardi. Frutto medio
(g 6,9) di forma sferoidale, buccia di colore rosso su sfondo giallo, rapporto polpa/nòcciolo
(94,4.%), peduncolo lungo 40,3 mm, polpa e succo di colore rosa, leggermente molle al tatto,
di buona qualità gustativa, consistenza scarsa, non aderente al nòcciolo. Rispetto alla Patrei
Nera Il frutto è leggermente molle al tatto ma dolce e di buon sapore.
Uso nella tradizione
Consumo fresco. Fino agli anni ’60 la raccolta delle ciliegie a era un sostentamento economico
per le famiglie contadine, i frutti raccolti erano conferiti in centri di raccolta e ritirati da interme-
diari per le industrie di trasformazione di Napoli. Nella prima domenica di giugno a Maenza si
festeggia la sagra delle ciliegie, arrivata nel 2016 alla 43a edizione.
Luogo di conservazione
In situ: territorio di Maenza (LT).
Natura e livello di conoscenza
Varietà di origine sconosciuta, provenienti da
seme, propagate in genere per pollone radicale.
Grazie ad un dipinto del ‘400, trovato in una chie-
sa di Maenza, raffigurante la Madonna e il bam-
bin Gesù con le ciliegie tra le mani, si è potuto
risalire al periodo in cui risale la coltivazione del
ciliegio a Maenza. Frutti di Patrei rossa (R.Pavia)
Referente
CREA CRA-FRU Roma, Renato Pavia pavia.renato@tin.it

179
CILIEGIA Prunus avium L.
RAVENNA PRECOCE
Caratteri di riconoscimento
La forma reniforme e la polpa di colore
aranciato, succo rosa-rosso.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
E’ diffusa nella zona pedemontana del Monte
Gennaro, il clone descritto è stato individuato
nei comuni di Montelibretti e Moricone. In que-
ste aree la cerasicoltura trova le condizioni
pedoclimatiche ideali per esprimere ottime
potenzialità produttive. Tra le altre varietà tipi-
che della Sabina romana la più nota e apprez-
zata è la Ravenna tardiva e altre meno coltivate
come il Graffione, Lingua de Fori e Crognalina
Ravenna precoce (R.Pavia) di Marcellina.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero di taglia media, chioma a portamento espanso quasi procombente. produttività medio-
elevata, maturazione uniforme e fruttificazione prevalente su dardi. Fiorisce a inizio aprile e ma-
tura a fine maggio.
Frutto medio-grosso (p.m. 8,53g), di forma reniforme o sferoidale appiattita, buccia
di colore rosso scuro, polpa di colore aranciato, succo rosa-rosso, di buona qualità gustativa.

Uso nella tradizione


Consumo fresco. Per le caratteristiche organolettiche e la precocità di maturazione
i frutti sono molto apprezzati e richiesti sul mercato di Roma.

Luogo di conservazione
Centro Nazionale del Germoplasma Frut-
ticolo presso CREA CRA-FRU, Roma.

Natura e livello di conoscenza


Cultivar di origine locale, già coltivata nello
Stato Pontificio con il nome di Ravenna del
Papa. I frutti sono simili ad un’altra varietà
locale denominata Graffione che matura
nello stesso periodo ma ha la polpa chiara.
Frutti sensibili alla Monilia e soggetti a
spaccature.
Referente In alto: esemplare di Ravenna precoce in piena
fioritura.
CREA CRA-FRU Roma, ARSIAL Regione Lazio. In basso: particolare di un mazzetto fiorale e
l’interno della polpa del frutto (R.Pavia )

180
COSCIA DI MONACA Prunus domestica L.
DI PONZANO

Caratteri di riconoscimento
Buccia giallo dorato e pruinosa a piena ma-
turazione, polpa non aderente al nocciolo.
Elevata conservabilità.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Cultivar popolazione diffusa nell’Agro della Val-
le del Tevere; il clone descritto è stato reperito
nel Comune di Ponzano Romano. Nel Lazio
esistono diversi cloni con maturazione dalla
fine di giugno (denominate San Giovanni) alla
fine di agosto. La produzione delle piante avvie-
Coscia di Monaca di Ponzano matura in pianta
ne prevalentemente per pollone radicale.
(R.Pavia)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero di medio vigore, portamento intermedio, produttività medio-elevata. Fiorisce nella 3a
decade di marzo, matura nella prima decade di luglio. Frutto medio, peso medio 26,2 g;
forma ovata (mm 47x31x31), peduncolo lungo, buccia sottile, di colore giallo chiaro,
sovraccolore giallo oro sul 15 % della superficie, mediamente pruinosa; polpa gialla
opaco, soda, non aderente al nocciolo, tessitura medio-fine, succosità medio-elevata,
sapore buono, di media dolcezza, uniformità di maturazione media; nocciolo appiattito,
ellittico–allungato, apice appuntito e base rastremata. R.S.R. 16,4 °Brix, pH 3,43,
acidità titolabile (0/00 ac. malico) 20,54.
Uso nella tradizione
Veniva consumata prevalentemente per il
consumo fresco.
Luogo di conservazione
In situ: Ponzano Romano. Ex situ CREA CRA-
FRU, Roma e Collezione ARSIAL di Montopoli.
Natura e livello di conoscenza
Si tratta di una popolazione di Prunus siriaca,
famiglia delle Damaschine ovoidali o oblunghe,
(D. Tamaro), molto diffusa nelle regioni centro
meridionali e nel Nord, varietà molto simili in Coscia di Monaca di Ponzano con particolare
della polpa e nocciolo (R.Pavia)
Liguria e Piemonte sono conosciute con il nome
Varietà scritta al Registro Volontario Regionale
di “Buon Boccone” o “Ramassin”, in Toscana con in attuazione della L.R. n. 15 del 2000 “Tutela
il nome di “Catalana”. Per la loro particolare delle risorse genetiche autoctone di interesse
rusticità, sono utilizzate da sempre come piante agrario”.
colonizzatrici nei terreni più impervi e difficili.
Ha fioritura piuttosto tardiva, e quindi caratteri- Referente
stica molto apprezzabile per la coltivazione in CRA-FRU Roma, ARSIAL Regione Lazio,
luoghi freddi. Altra dote di questa varietà è la Renato Pavia (pavia.renato@tin.it)
scalarità di maturazione.

181
MARRONE PREMUTICO Castanea sativa Miller

Caratteri di riconoscimento
La precocità di maturazione.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


E’ coltivato in provincia di Viterbo nei comuni
di Canepina e Manziana. Oggi il Marrone
Premutico è a rischio di estinzione a causa
della scarsa conservabilità.
Marrone premutico (Pelusiello) (UNITUS)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Matura a metà settembre, in genere la caduta si completa in due settimane. Pezzatura
medio-grossa, 1-2 frutti per riccio, forma globosa, cicatrice ilare ampia, epidermide di colo-
re marrone scuro, pericarpo facilmente distaccabile, scarsa pubescenza alla base della
torcia, episperma distaccabile, la superficie dei cotiledoni presenta alcuni solchi profon-
di. Percentuale di frutti settati bassa. Dolce, con buone caratteristiche organolettiche.

Uso nella tradizione


I frutti sono tradizionalmente utilizzati in ogni forma di consumo possibile, famigliare e indu-
striale; spesso si accompagnane negli utilizzi dolciari, alle locali nocciole.
Luogo di conservazione
Comune di Canepina (Viterbo).
Natura e livello di conoscenza
IL suo inserimento nei castagneti del viter-
bese è precedente a quello del Marrone
Fiorentino. Alcune caratteristiche del frut-
to, nonché uno dei sinonimi utilizzati
(Pelusiello), fanno pensare ad una possibi-
le origine campana. Probabilmente corri-
sponde al Marrone di Viterbo descritto dal
Breviglieri (1955), che egli paragona ai
marroni dell'avellinese. La precocità di Marrone premutico nel riccio (UNITUS)
maturazione e le buone caratteristiche
organolettiche sono elementi favorevoli ad Referente
u n a v a l o r i z z a z i o n e d i q u e s t a c u l t i v a r . Università della Tuscia (VT) – DAFNE
Rispetto alle altre cultivar è più sensibile al (Cristofori Valerio, Rosario Muleo, Massimo
cancro (forse perché un tempo si usava Muganu, Eddo Rugini)
battere i suoi rami per anticiparne la cadu-
ta e la commercializzazione). (G.Grassi).

182
MELA BEBE’ Malus Domestica Borkh.

Caratteri di riconoscimento
Colore brillante, cavita peduncolare e calicina.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Di origine sconosciuta, individuata a Poggio Mirteto
(Rieti) presso l’azienda del Sign. Rolando Aureli dove
ne esistono varie piante innestate negli ultimi 50
anni. E’ diffusa anche in altri areali della Sabina
romana e reatina consociata con oliveti ed in pros-
simità degli orti famigliari. Recentemente, alcuni
agricoltori e aziende agrituristiche della Sabina
hanno impiantato piccoli meleti di Bebè utilizzando
Mela Bebè in pianta (R.Pavia) portinnesti clonali nanizzanti.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
L’albero è di grossa taglia, mediamente vigoroso, a portamento aperto, produttività elevata e
prevalente sulle lamburde, produzione alternante, fiorisce nella seconda decade di aprile e si
raccoglie nella seconda metà di ottobre. Frutto medio- piccolo, forma globoso-conica, sezione
trasversale costoluta; peduncolo corto, di medio spessore, cavità peduncolare profonda, asim-
metrica, di media ampiezza, con rugginosità assente, cavità calicina grande, profonda, asimme-
trica, calice chiuso, buccia liscia, di colore giallo-verde con sovraccolore rosso striato per l’85%
della superficie, di spessore sottile, lenticelle medie, rugginose, areolate. Polpa bianca, non im-
brunisce facilmente all’aria, consistenza soda, croccante, asciutta, durezza media kg 4,1, tes-
situra media, sapore molto zuccherino e gradevole, mediamente profumata; torsolo medio, n.
medio
n. di semi 8. R.S.R. 14,0 °Brix; pH 3,98; acidità titolabile (0/00 ac. malico) 3,67.
Uso nella tradizione
Consumo fresco durante l’inverno o cotta sbuc-
ciata e tagliata a fette, oppure essiccata a fette
non sbucciate, la maturazione avviene dopo 2-3
settimane di conservazione in fruttaio ed il
consumo si protrae fino a febbraio-marzo.
Luogo di conservazione
In situ in aziende private della Sabina romana
e reatina. Ex situ presso il Centro Nazionale
del Germoplasma Frutticolo, CREA CRA-FRU,
Roma. Collezione presso azienda ARSIAL di Mon-
topoli in Sabina. Mela bebè con sfondo della cupola di
San Pietro in Vaticano (R.Pavia)
Natura e livello di conoscenza
Frutto molto attraente per la colorazione brillan- Referenti
te e le caratteristiche organolettiche. CREA CRA-FRU Roma,
È stata osservata in campo, in assenza di tratta-
ARSIAL Regione Lazio.
menti con agrofarmaci, una importante resi-
stenza dei frutti e delle foglie alla ticchiolatura
rispetto ad altre varietà note.

183
MELA CALVILLA Malus Domestica Borkh.

Caratteri di riconoscimento

Frutto con forma appiattita e costoluta di colo-


re giallo e sopraccolore rosso mattone, a trat-
ti striato o a faccetta. Presenza di rugginosità
attorno alla cavità peduncolare.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


Diffusa in provincia di Rieti, dove sono stati
individuati diversi esemplari più o meno giovani,
Mele di Calvilla a maturazione (Unitus) isolati o recuperati in orti familiari.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero con portamento aperto e vigoria medio-elevata. Produttività elevata, raccolta
verso metà Ottobre; a maturazione invernale. I frutti sono di pezzatura media (peso me-
dio dei frutti 149,3 g); forma appiattita, costoluta, buccia di colore giallo e sopraccolore
rosso mattone, a tratti striato Polpa: tenera, fondente e succosa, di colore bianco-
crema. Dotata di un gusto particolarmente aromatico, con un buon equilibrio fra acidi e
zuccheri. Succo: pH 3,93; RSR 15,5 °Brix; acidità titolabile (‰ acido malico) 7,73.
Uso nella tradizione
Consumo crudo durante l’inverno, partico-
larmente apprezzata per il gusto particolar-
mente aromatico. Buona conservabilità.
Luogo di conservazione
Ex situ presso il Centro Nazionale del
Germoplasma Frutticolo, CREA CRA-FRU,
Roma.
Natura e livello di conoscenza
Le Calville sono cultivar note da secoli, rag-
gruppate dai pomologi del secolo XIX in una
famiglia omonima. Esistono diverse Calville a
buccia rossa, come Calvilla rossa d’inverno,
Calvilla rossa d’autunno, Calvilla rossa di
Pasqua,etc. (Molon, 1901). Rispetto a que-
ste ultime, l'accessione laziale presenta una
forma più appiattita, ma ha analoghe peculia-
rità aromatiche. Pianta e fiore di mela Calvilla (Unitus)
Referenti
Università della Tuscia (VT) – DAFNE (Cristofori Valerio, Rosario Muleo, Massimo Muganu,
Eddo Rugini)

184
MELA COPPANA Malus Domestica Borkh.

Caratteri di riconoscimento
Colore giallo verde della buccia, gialla a
matu-razione completa, con assenza di
sovraccolore.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Di origine sconosciuta, individuata negli areali
agricoli collinari del Comune di Magliano
Sabina. Varietà proposta per l’iscrizione al
Registro Volontario Regionale delle varietà al
rischio di erosione genetica. Legge regionale
Mela Coppana appena raccolta (R.Pavia) n. 15 del 2000.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
L’albero è di media taglia e vigoria medio-elevata, a portamento semi assurgente,
produttivi-tà elevata e prevalente sulle lamburde, fiorisce nella seconda decade di aprile e
si raccoglie nella seconda decade di ottobre. Frutto piccolo, forma appiattita, peduncolo
lungo, di me-dio spessore, cavità peduncolare di media ampiezza e poco profonda,
simmetrica, con rug-ginosità assente, cavità calicina piccola, mediamente profonda,
simmetrica, calice chiuso, buccia liscia, di colore verde-giallo con sovraccolore assente,
di spessore sottile, lenticelle medie e non rugginose. Polpa bianco crema, imbrunisce
facilmente all’aria, consistenza soda, poco croccante, sapore mediamente dolce, poco
profumata, torsolo medio.
Uso nella tradizione
Consumo crudo durante l’inverno o cotta
sbucciata e tagliata a fette per preparare e
guarnire torte e crostate, la maturazione
avviene dopo 2-3 settimane di conservazio-
ne in fruttaio ed il consumo si protrae fino a
febbraio.
Luogo di conservazione
In situ in aziende private di Magliano
Sabina in provincia di Rieti. Collezione
presso azienda ARSIAL di Monto-poli in Mela Coppana stratificata nel melaio in
Sabina. attesa della maturazione per il consumo
(R.Pavia)
Natura e livello di conoscenza
Frutto poco attraente ma serbevole e grade-
Referente
vole a piena maturazione che avviene quando
la buccia diventa gialla. I frutti ritratti qui a de- ARSIAL Regione Lazio.
stra, raccolti nel 2013, provengono da piante
sparse innestate su franco da oltre 20 anni e
non hanno subìto alcun trattamento anticritto-
gamico nel corso della stagione.

185
MELA ROSA DI ALATRI Malus Domestica Borkh.

Caratteri di riconoscimento
Forma tronco conica e maturazione tardiva.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Origine non nota. Diffusa ad Alatri ed in provincia
di Frosinone con caratteristiche del frutto, a vol-
te, leggermente differenti. Esistono ancora solo
esemplari sparsi, alcuni di oltre 60 anni di età.
Solo recentemente, in attuazione della Legge
Regionale n. 15 del 2000, alcuni vivaisti ac-
creditati hanno messo in produzione questa
Mela Rosa di Alatri in pianta (R.Pavia) varietà insieme a molte altre considerate
a rischio di erosione genetica e iscritte al Registro Volontario Regionale, al fine di sod-
disfare le richieste degli agricoltori interessati alla conservazione del germoplasma
attraverso le azioni previste dal Piano di Sviluppo Rurale (PSR).
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero mediamente vigoroso, a portamento assurgente, fruttificazione elevata e prevalente su
lamburde, produzione molto alternante. Fiorisce nella seconda decade di aprile e matura nella
terza decade di ottobre. Il consumo dei frutti avviene 30-40 giorni dopo la raccolta e si protrae
fino ad aprile. Frutto medio-piccolo, peso medio g 125,5, circonferenza media cm 20,79,
forma tronco conica, sezione trasversale costoluto, peduncolo medio, medio-spesso, cavità
peduncolare simmetrica, mediamente profonda, poco rugginosa, cavità calicina simmetrica,
medio-grande, mediamente profonda, calice semiaperto, buccia liscia e pruinosa, di colore ver-
de-giallo chiaro con sovraccolore rosso, striato, marezzato per il 40-70% della superficie, di
me-dio spessore, lenticelle scarse, grandi, bianche, areolate. Polpa bianca, non imbrunisce
facilmen-te all’aria, consistenza soda, croccante, succosa, durezza media kg 3,97, tessitura
fine; sapore molto zuccherino e leggermente acido, gradevole, aromatica; torsolo medio, n.
medio di semi 5; R.S.R.: 13,5°Brix; pH 3,82, acidità titolabile (0/00 ac. malico): 5,43.
Uso nella tradizione
Consumo fresco durante l’inverno o cotta sbuc-
ciata e tagliata a fette, oppure essiccata a fette
non sbucciate, la maturazione avviene dopo 2-3
settimane di conservazione in fruttaio ed il con-
sumo si protrae fino in primavera.
Luogo di conservazione
In situ presso coltivatori diretti della
Ciociaria. Ex situ presso il Centro Nazionale
del Germo-plasma Frutticolo, CREA CRA-FRU,
Roma. Collezione presso azienda ARSIAL di
Montopoli. Mela Rosa di Alatri in sezione (R.Pavia)
Natura e livello di conoscenza Referente
Varietà apprezzata in Ciociaria per la serbevolez- CREA CRA-FRU Roma, ARSIAL Regione Lazio,
za ed il buon sapore dei frutti anche quelli di Renato Pavia (pavia.renato@tin.it)
piccola pezzatura.

186
MELA ROSETTA Malus Domestica Borkh.

Caratteri di riconoscimento
Forma sferico-appiattita e colore rosso sfumato.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Diffusa in provincia di Viterbo, comune di Ronci-
glione ed in provincia di Rieti. Attualmente esisto-
no poche piante sparse. Solo recentemente, in
attuazione della Legge Regionale n. 15 del 2000,
alcuni vivaisti accreditati hanno messo in produ-
zione questa varietà con il nome “Rosetta/
Mela Rosetta in pianta 3 settimane prima Rosone”.
della raccolta (R.Pavia)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero mediamente vigoroso, a portamento semi-assurgente, produttività media e prevalente su
lamburde, fioritura tardiva, epoca di raccolta tardiva (fine ottobre). I frutti sono di pezzatura me-
dio-piccola, forma sferico-appiattita, in sezione trasversale costoluta, buccia spessa, liscia di
colore verde con sovraccolore rosso sfumato su 0-50% della superficie, cavità peduncolare
am-pia e piuttosto profonda; rugginosità lenticellare e della cavità peduncolare; cavità calicina
ampia e poco profonda, solcata. Polpa: soda, croccante e succosa, di colore bianco, ricca di
zuccheri e acidi in rapporto equilibrato, sapore buono, ottima serbevolezza. Durezza della
polpa 10,92 kg. Succo: pH 3,65; RSR 15,8 °Brix; acidità titolabile (‰ acido malico) 3,84.
Uso nella tradizione
Consumo crudo durante l’inverno o cotta sbucciata e tagliata a fette, oppure essiccata a fette
non sbucciate, la maturazione avviene dopo 2-3 settimane di conservazione in fruttaio e se tenu-
ta in ambienti idonei mantiene a lungo le proprietà organolettiche ed il consumo si protrae fino a
febbraio-marzo.
Luogo di conservazione
In situ presso coltivatori aziende diretto coltivatrici di Ronciglione. Ex situ presso
il Centro Nazionale del Germoplasma Frutticolo, CREA CRA-FRU, Roma.
Collezione presso azienda ARSIAL di Montopoli in Sabina.
Natura e livello di conoscenza
Varietà mediamente resistente alla ticchiolatura, gradi-
ta per la serbevolezza ed il buon sapore dei frutti an-
che quelli di piccola pezzatura; viene distinta dalla culti-
var Rosone, di maggiori dimensioni e meno serbevole.
Nel Viterbese la mela Rosa in genere rappresentava il
50% della produzione locale nel 1929 ed il 45 % nel
1948; nel reatino contribuiva per il 35 % nel 1929 e
per meno del 5% nel 1948 (Breviglieri, 1950).
Referente
Fiore di Mela Rosetta (UNITUS)
Università della Tuscia (VT) – DAFNE
(V. Cristofori, R. Muleo, M. Muganu, E. Rugini)

187
MELA ZUCCHERINA Malus Domestica Borkh.

Caratteri di riconoscimento
Frutto di buone dimensioni con polpa particolar-
mente dolce, da cui deriva il nome "Zuccherina".
Presenta maturazione autun-nale, nel mese di
Ottobre. Caratterizzata da bassa produttività.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


Diffusa principalmente in provincia di Latina, in
orti familiari.
Mele di Zuccherina a maturazione (Unitus)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero presenta taglia modesta e vegetazione compatta. Produce prevalentemente su lambur-
de. Epoca di fioritura tardiva, epoca di raccolta autunnale (prima metà di ottobre). I frutti sono di
forma sferico-appiattita o appiattita, leggermente costoluta in sezione trasversale; cavità pedun-
colare mediamente ampia, profonda, solcata; peduncolo corto, medio-sottile, tomentoso, diritto e
raramente obliquo; cavità calicina ampia e piuttosto profonda, con solchi abbastanza evidenti;
calice medio. la buccia è liscia, cerosa, opaca, di colore verde-giallastro, che diviene giallo intenso
durante la conservazione, con sovraccolore rosato sullo 0-30% della superficie; lenticelle me-
diamente numerose, medie o grandi, rugginose, areolate; pezzatura medio-elevata. La polpa è di
colore bianco, soda, croccante e succosa, ricca di zuccheri, povera di acidi, sapore buono, buo-
na serbevolezza, presenta vitrescenza della polpa. Durezza della polpa: 8.88 kg. Succo: pH
4,94; RSR 13,3 °Brix; acidità titolabile (‰ acido malico) 1,11.
Uso nella tradizione
Cultivar interessante per aspetto e qualità del frutto e per l'habitus spur della pianta.
Presenta sensibilità a ticchiolatura.
Luogo di conservazione
Ex situ presso i campi collezione dell'Università
della Tuscia.
Natura e livello di conoscenza
Le caratteristiche pomologiche e qualitative corri-
spondono a quelle della mela Gelata, diffusa nel
centro e sud Italia e citata dai pomologi Gallesio
(1817-39, Molon (1901), Tamaro (1929). Una
mela Diacciata, di caratteristiche simili, è raffigura-
ta nei quadri del Bimbi alla fine del XVII° secolo e
viene descritta dal Micheli, che ne riporta la carat- Fiore di Mela Zuccherina (Unitus)
teristica vitrescenza del frutto: 'maculis vitreis foris
et intus notato' (Bignami e Rosati). La mela Gelata Referenti
rappresentava fino al 1964 il 20% della produzio- Università della Tuscia (Viterbo)
ne in Abruzzo e Molise ed il 9% di quella siciliana. Dipartimento di Scienze Agrarie e Forestali
Probabile sinonimo è anche 'Iaccia', denominazione (Cristofori Valerio, Rosario Muleo, Massimo
ancora oggi utilizzata in Molise. Muganu, Eddo Ruggini).

188
NETTARINE Prunus persica (L) Batsch
CRASIOMMOLO
Caratteri di riconoscimento
Sono tre tipi di nettarine selvatiche denominate
anche “Crisomolo”, a polpa bianca e fiore campa-
nulaceo, diversi per tipologia ed epoca di matura-
zione. Il Crasiommolo A è più rosso, matura la
Ia decade di agosto ed è spiccagnolo, il Crasiom-
molo B è più grosso, spiccagnolo, meno colorato
di rosso e matura dopo la metà di agosto, Il
Crasiommolo C maura a fine agosto, ha buccia
Crasiommolo “A” e Crasiommolo “B” (R.Pavia) bianco crema, polpa soda e aderente al nocciolo.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Si tratta di un selvatico di Prunus persica laevis (nettarina) diffuso negli orti famigliari
dell’agro di Velletri da moltissimi anni. Ne esistono numerosi cloni a polpa aderente e spic-
cagnola, di dimensioni molto piccole o piccole e con varie sfumature di colore della buccia.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Crasiommolo “A” - Matura nella IIa decade di agosto, Frutto piccolo, peso medio 27,4 g, forma
ovata, apice umbonato, buccia di colore giallo-verde, sovraccolore rosso intenso, sfumato
sul 50-60% della superficie, polpa bianco-verdastro, rossa al nocciolo, spicca, di sapore medio-
scarso. Crasiommolo “B” - Matura la IIIa settimana di agosto. Frutto piccolo, peso medio 65,1
g, forma rotonda, apice sporgente; buccia giallo-biancastra, sovraccolore rosso vivo,
marezzato e punteg-giato sul 40% della superficie, polpa bianca, rossa al nocciolo e legg.
nella polpa, spicca, di sapore discreto, presenza di callo al nocciolo.
Crasiommolo “C” – Fiorisce nella seconda decade di marzo con fiore campanulaceo (come
Crasiommoli A e B), matura la IIIa decade di agosto. Frutto piccolo, peso medio 56,2 g, forma
rotonda, apice incavato; buccia verde chiaro-biancastro con il 20-25 % di sovraccolore
rosso vivo, marezzato, presente solo sulla superficie di alcuni frutti esposti al sole. polpa
bianca, consi-stenza soda, tessitura fine, aderente al nocciolo, di sapore dolce, molto buono.
Uso nella tradizione
Viene consumato esclusivamente fresco ed è
venduto nei mercatini locali. Il Crasiommolo C se
raccolto poco maturo è molto gradevole anche
dopo alcuni giorni di conservazione in frigo.
Natura e livello di conoscenza
Alcuni cloni, propagati per seme, sono simili alle
varietà Madonna di luglio, Madonna di Agosto,
Merendella ecc. diffuse e in Calabria. Altre netta-
rine simili, ma molto più profumate, sono apprez-
zate sui mercati a Sud della Sicilia orientale con Crasiommolo “C” in pianta (R.Pavia)
il nome di “Sberge”.
Luogo di conservazione
In situ comune di Velletri. Ex situ presso CREA CRA-FRU, Roma, Azienda ARSIAL di Montopoli.
Referente
CREA CRA-FRU Roma, ARSIAL Regione Lazio, Renato Pavia (pavia.renato@tin.it)

189
OLIVO Olea europaea L.
SBUCIASACCHI
Caratteri di riconoscimento
Varietà molto vigorosa, chioma espansa me-
diamente densa, portamento dei rametti frutti-
feri pendulo, internodi lunghi, foglie ellittico
lanceolate, talvolta con lamina elicata.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


Cultivar molto antica, oggi relitto di coltivazioni
antiche. in passato diffusa nella campagna
romana, oggi sopravvive a Marcellina alle
pendici dei Monti Lucretili.
I frutti maturi di Sbuciasacchi (S. De Angelis)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Olio fruttato verde, profilo aromatico tipicamente di erba verde, erbe aromatiche e mandor-
la amara, olio molto fluido in virtù dell’alto contenuto in acido oleico. La ricchezza in biofenoli
ne fanno un olio a lunga conservazione.
Uso nella tradizione
Produzione di olio.
Luogo di conservazione
Vecchio albero sito alle pendici dei
monti Lucretili in località Marcellina. Az.
agraria di Pierino fornari Marcellina (RM)
Infiorescenze (S. Pandolfi)
Referenti

Saverio Pandolfi (CNR IBBR Perugia)

Drupe e noccioli (S. Pandolfi)

190
OLIVO SIROLE Olea europaea L.

Caratteri di riconoscimento
Albero di media vigoria, con portamento
assurgente e chioma densa. rami fruttiferi
tendenzialmente eretti, con internodi di me-
dia lunghezza. foglie di forma ellittico-
lanceolata, profilo della lamina fogliare piatto,
larghezza massima in posizione centrale.
Drupe ovoidali di media grandezza, caratte-
rizzate da invaiatura precoce, epoca di mas-
sima inflizione tardiva.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Cultivar tipica delle pendici del Monte Sorat-
te, ma presente anche in altri luoghi con
diversi sinonimi: Capena, Bianchella di Um-
bertide, talvolta Nebbia.
I frutti maturi di Sirole (S. De Angelis)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
L’olio è caratterizzato da un buon fruttato con sentori di erba fresca e mandorla, erbe
aromatiche e pomodoro, dotato di buona armonia, self life lunga per il buon quantitati-
vo di biofenoli. Cultivar mediamente sensibile alle maggiori avversità dell’olivo.
Uso nella tradizione
Produzione di olio.
Luogo di conservazione
Vecchio albero sito alle pendici del Monte
Soratte, conservato anche in altri campi di
confronto nel Lazio e in Umbria. Infiorescenze (S. Pandolfi
Arsial azienda dimostrativa Montopoli (RM).

Natura e livello di conoscenza


Diversi esemplari risalgono alla fine del 1700.

Referente
Saverio Pandolfi (CNR IBBR Perugia). Drupe e noccioli (S. Pandolfi

191
OLIVO VALLANELLA Olea europaea L.

Caratteri di riconoscimento
Caratterizzata da elevato vigore, portamento
della chioma assurgente e chioma densa.
Foglie ellittico-lanceolate, sostanzialmente a
lamina piana, frutti grandi, maturazione
tardiva.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Cultivar diffusa in provincia di Latina, presenta
elevata suscettibilità alla mosca delle olive, per
I frutti maturi di Sbuciasacchi (S. De Angelis) le altre patologie presenta sensibilità media.

Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche


Olio fruttato verde, profilo aromatico mandorla dolce, pomodoro, erbe aromatiche. Gli indi-
catori della qualità, durezza della polpa, indice di pigmentazione, contenuto in olio, collocano
la raccolta verso la metà di dicembre. Contenuto in acido oleico e biofenoli elevati, ne fanno
un olio ad alto valore biologico.

Uso nella tradizione


Produzione di olio e come oliva da mensa.

Luogo di conservazione
Diversi alberi alle pendici dei Monti Lepini, ma
anche in pianura.

Natura e livello di conoscenza


La varietà è molto conosciuta, ma attualmente,
in molti areali, è stata sostituita, a torto, dalla
cultivar Itrana.

Referente
Infiorescenze, drupe e noccioli (S. Pandolfi)
Saverio Pandolfi (CNR IBBR Perugia).

192
PERA ANGINA Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento
Maturazione precoce e forma turbinata. E’ deno-
minata in modi diversi a volte di fantasia, ricorre il
nome “Pera uncino”, “’Ngineglio”, “Pera Uncinara”
per la forma del peduncolo un po’ ricurvo e inseri-
to obliquamente su l frutto, oppure “Campanella”
per la forma a campana.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà di origine sconosciuta, individuata in
tre località nelle provincie di Latina, Frosinone
Pera Angina (R.Pavia) ed al limite Sud della provincia di Roma, le
caratteristiche dei frutti sono molto simili per epoca di maturazione, forma e sapore. Esistono
ancora diversi esemplari sparsi, alcuni di oltre 60 anni di età. Solo recentemente, in attuazione
della Legge Regionale n. 15 del 2000, alcuni vivaisti accreditati hanno messo in produzione
questa varietà insieme a molte altre considerate a rischio di erosione genetica e iscritte al
Registro Volontario Regionale.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero vigoroso, portamento assurgente-espanso, produttività elevata. Fiorisce all’inizio di
aprile, matura nella seconda decade di luglio. Frutto molto piccolo, peso medio g 96,0 circon-
ferenza media cm 17,2; forma turbinata, peduncolo lungo, spesso, ricurvo, generalmente
inserito obliquamente, cavità peduncolare assente o molto superficiale, cavità calicina grande,
aperta, torsolo medio, forma dei semi allungata; buccia di colore verde-giallo, di spessore
sottile e superficie liscia, rugginosità assente. Polpa bianca, con tessitura mediamente grosso-
lana, molto succosa , di sapore intermedio, gusto buono.
Uso nella tradizione
Apprezzata per il consumo fresco oppure
essiccata a spicchi al sole in reticelle di vimini.
Luogo di conservazione
In situ presso coltivatori diretti della
Ciociaria, val Comino e Monti Lepini.
Ex situ presso il Centro Nazionale del
Germo-plasma Frutticolo, CREA CRA-FRU,
Roma. Collezione presso azienda ARSIAL di
Montopoli in Sabina. Frutti di Angina con polpa ammezzita (R.Pavia)
Natura e livello di conoscenza
Soggetta all’ammezzimento se raccolta troppo matura o se conservata in frigo per alcuni
giorni. I frutti, se leggermente ammezziti alla raccolta hanno un sapore più dolce e gradevole.
Frutti e foglie tolleranti agli attacchi di Psilla e Ticchiolatura.
Referente
CREA CRA-FRU Roma, ARSIAL Regione Lazio, Renato Pavia (pavia.renato@tin.it)

193
PERA COCOZZOLA Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento
Varietà precoce poco suscettibile alla ticchio-
latura, con una caratteristica forma piriforme
allungata, buccia arrossata, polpa fine e sapo-
re gustoso.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Pochi alberi di Cocozzola sono presenti sponta-
nei solo in alcune vigne dei comuni di Velletri e
Segni da almeno 3 generazioni dove si propa-
ga, in genere, per pollone radicale. I polloni
Pera Cocozzola (R.Pavia) vengono utilizzati anche come portinnesto.
La varietà è stata iscritta al Registro Volontario Regionale in attuazione della Legge Regio-
nale n. 15 del 2000 “Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario”.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero rustico, Vigoria elevata, portamento assurgente, produttività medio elevata. Fiorisce
nella prima settimana di aprile e matura nella terza decade di luglio. Frutto molto piccolo,
peso medio g 54,7, circonferenza media cm 12.7; forma piriforme allungato, peduncolo
medio, di medio spessore, dritto; cavità peduncolare assente , cavità calicina superficiale,
grande e aperta; buccia liscia, di colore verde, con rosso soffuso all’insolazione sul 20-40
%, di spessore sottile, rugginosità assente. Polpa bianca, croccante, con tessitura medio
fine, succosa, di sapore buono; durezza media kg 6,3; R.S.R.11,0 °Brix; pH 4,40 acidità tito-
labile (0/00 ac. malico) 1,62.
Uso nella tradizione
Consumata prevalentemente cruda anche se
leggermente ammezzita dopo breve conservazione.
Luogo di conservazione
In situ presso coltivatori di Velletri.
Ex situ presso CREA CRA-FRU, Roma.
Collezione azienda ARSIAL di Montopoli in Sabina.
Natura e livello di conoscenza
L’origine di questa pera è sconosciuta.
Se il frutto viene raccolto a piena maturazione Particolare del corimbo fiorale di Pera
Cocozzola (R.Pavia)
tende ad ammezzire.
Da informazioni riferite dagli agricoltori le Referente
foglie ed i frutti sono scarsamente attaccati da CREA CRA-FRU Roma,
Psilla e ticchiolatura. ARSIAL Regione Lazio,
Renato Pavia (pavia.renato@tin.it)

194
PERA DE LU PRETE Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento
Il colore verde della buccia con assenza di
sovraccolore, la forma doliforme ed il
peduncolo lungo la rendono distinguibile
dalle altre pere invernali locali. Ha foglie di
forma ellit-tica-allungata, con margine liscio,
angolo retto alla base e acuto all’apice,
stipole assenti. Non sono state riscontrate
nei frutti caratte-ristiche assimilabili ad altre
varietà nazionali e locali note.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Pera De lu prete in pianta (R.Pavia)
Varietà di origine sconosciuta, individuata ad
Accumoli-Frazione Grisciano (Rieti) presso un’azienda agricola specializzata in zootecnia e viticol-
tura, si tratta di un solo albero di piccola taglia di oltre 50 anni di età innestato dal proprietario.
La varietà è stata iscritta al Registro Volontario Regionale, in attuazione della Legge Regionale
1 marzo 2000, n. 15 “Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario”. Le piantine
innestate sono reperibili presso alcuni vivaisti accreditati dalla Regione Lazio che l’hanno messa
in produzione insieme a molte altre varietà laziali considerate a rischio di erosione, al fine di sod-
disfare le richieste degli agricoltori della provincia di Rieti interessati alla conservazione del
germoplasma attraverso le azioni previste dal Piano di Sviluppo Rurale (PSR).
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero di vigoria media, portamento espanso, produttività medio-elevata. Fiorisce tra la II e la III
decade di aprile, i petali sono accostati, di forma ovata, si raccoglie nella II decade di ottobre,
matura gradualmente dopo 2-3 settimane di conservazione. Frutto piccolo, peso medio g 77,1,
circonferenza media cm 16,8; forma doliforme breve, peduncolo lungo, medio spesso, legg. ri-
curvato, cavità peduncolare superficiale, cavità calicina di media grandezza, semi aperta, torsolo
medio, forma dei semi allungata; buccia di colore verde, sovraccolore assente, di spessore
medio e superficie liscia, rugginosità assente o assai modesta. Polpa bianca con tessitura
grossolana, poco succulenta, di sapore dolce e buon gusto; durezza media kg 4,33; R.S.R.
13,6 °Brix; pH 4,02; acidità titolabile (0/00 ac. malico) 4,23.
Uso nella tradizione
Apprezzata soprattutto per il consumo fresco
dopo alcune settimane di maturazione in fruttaio.
Luogo di conservazione
In situ presso l’azienda agricola del Sig. Piciac-
chia Gabriele di Accumoli-Frazione di Grisciano
(Rieti). Ex situ presso il Centro Nazionale del
Germoplasma Frutticolo, CREA CRA-FRU, Roma.
Natura e livello di conoscenza
Varietà innestata agli inizi degli anni 50 dal Sig.
Piciacchia Palminio con marze provenienti da una
vecchia pianta di pero coltivata nell’orto di una Unico esemplare di pianta di De lu prete
canonica, e da cui deriva il nome (Pera del Prete). in situ a Grisciano (RI) (R.Pavia)

Referente
CREA CRA-FRU Roma, ARSIAL Regione Lazio, Renato Pavia (pavia.renato@tin.it)
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PERA MONTELEONE Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento
In alcuni paesi dell’area di coltura viene chiamata
anche pera Papera forse per il modo in cui è
inserito il peduncolo, che ricorda un becco d’oca,
o forse anche per il colore giallo intenso. Detta
‘bistecca del villano’ per sottolineare il suo valore
nutritivo, era molto preziosa per la sua serbevo-
lezza. Veniva consumata molto spesso cotta,
anche insieme alle castagne, per una zuppa
Pera Monteleone (UNITUS) dolce. Ottima anche al forno.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà di origine genetica sconosciuta, reperita in provincia di Viterbo, comuni di Castiglio-
ne in Teverina, Bolsena, Acquapendente. Questa pera era diffusa anche in Umbria e deve
probabilmente il suo nome alla località di Monteleone di Orvieto. Nell'orvietano è stata indi-
viduata e descritta da Cherubini et al. (2001), che la definiscono "il frutto dei patriarchi".
La varietà è stata iscritta al Registro Volontario Regionale in attuazione della Legge Regio-
nale n. 15 del 2000 “Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario”.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero è rustico, di vigoria elevata e portamento aperto, produttività elevata. Si raccoglie ad
ottobre-novembre e si lascia maturare e sovramaturare in fruttaio. Frutto di forma tra sferoida-
le e turbinata breve, pezzatura medio-piccola, peso medio 136,88 gr, buccia di colore giallo
e sovraccolore aranciato, peduncolo lungo e sottile, con inserzione asimmetrica,
leggermente incurvato. Polpa di colore bianco, consistenza dura, legnosa, granulosa per
la presenza di sclereidi. Di gusto delicato se non sovramatura. Sulla polpa alla raccolta: pH
4,5; R.S.R.: 15,4° Brix; acidità titolabile (‰ di acido malico): 22,4.
Uso nella tradizione
Date le caratteristiche della polpa si consuma dopo
cottura, in crostate o marmellate; a Bolsena si utilizza,
con le cotogne, nel dolce locale chiamato Torciglione.
Localmente viene consumata cruda anche dopo
sovramaturazione, ossia quando la polpa diviene
imbrunita e assume un sapore fermentato e vinoso.
Luogo di conservazione
In situ presso coltivatori delle province di Viterbo e
Grosseto. Ex situ presso il Centro Nazionale del
Germoplasma Frutticolo, CREA CRA-FRU, Roma.
Collezione azienda ARSIAL di Montopoli in Sabina.

Natura e livello di conoscenza


Tra gli esemplari individuati, due piante, nel Comu- Pianta madre di Monteleone in situ
ne di Castiglione, hanno circa 200 anni di età. (R.Pavia)
Referente
Università della Tuscia (VT) – DAFNE (V. Cristofori, R. Muleo, M. Muganu, E. Rugini)

196
PERA ROSSA Pyrus communis L.
DI MAENZA

Caratteri di riconoscimento
Varietà estiva poco suscettibile alla ticchiolatu-
ra, attraente per la colorazione rossa della
buccia il peduncolo lungo ed il sapore gustoso.
Le foglie sui dardi sono di forma rotonda, con
margine dentato, angolo ottuso alla base
e retto all’apice, stipole assenti, dimensioni
medie pari a 8,8 cm2.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
La varietà è presente in molte zone dei Monti
Pera Rossa di Maenza (R.Pavia) Lepini, gli esemplari sono stati individuati nei
versanti Est ed Ovest, in un orto famigliare a Giuliano di Roma dove è nominata “Pera
cocomero”, a Maenza , Carpineto Romano e altre zone pedemontane interne dei Lepini
è diffusa con il nome di “Pera rossa” e viene ancora innesta su piante di perastro spon-
tanee nei pascoli pedemontani per integrare la dieta degli animali presenti. La varietà è
stata iscritta al Registro Volontario Regionale in attuazione della Legge Regionale n. 15
del 2000 “Tutela delle risorse genetiche autoctone di interesse agrario”.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero rustico, di vigoria media e portamento espanso, produttività media. Fiorisce nella
prima decade di aprile, matura tra luglio e agosto. Frutto piccolo, peso medio g 73,2,
circonferenza cm16,2, forma doliforme breve, peduncolo lungo, di medio spessore, legger-
mente ricurvo, cavità peduncolare assente, cavità calicina media, chiusa, torsolo grande,
buccia liscia, di colore verde-giallo, con sovraccolore rosso soffuso sul 40% nella
parte esposta al sole, di spessore sottile, rugginosità assente. Polpa bianca, con
tessitura granulosa, succulenza media, di sapore legg. acidulo, di ottimo gusto.
Sulla polpa alla raccolta: R.S.R. 15 °Brix, pH 3,19, acidità titolabile (0/00 ac. malico) 5,89.
Uso nella tradizione
Localmente viene utilizzata per il consumo fre-
sco domestico anche dopo sovramaturazione,
ossia quando la polpa diviene imbrunita e assu-
me un sapore fermentato e vinoso.
Luogo di conservazione
In situ presso coltivatori dei Monti Lepini.
Ex situ presso CREA CRA-FRU, Roma. Collezione
azienda ARSIAL di Montopoli in Sabina.
Paesaggio di pascolo dei Monti Lepini
Natura e livello di conoscenza con esemplari sparsi di Pera Rossa
(R.Pavia)
Varietà di origine ignota, diffusa da sempre
nei Monti Lepini ed areali limitrofi. I frutti sono Referente
graditi anche presso i mercati tradizionali CREA CRA-FRU Roma, ARSIAL Regione
dell’area metropolitana di Roma. Lazio, Renato Pavia (pavia.renato@tin.it)

197
PERA SANTA CRISTINA Pyrus communis L.

Caratteri di riconoscimento
Il suo nome deriva dall’epoca di maturazione,
che grosso modo coincide con la festa della
patrona di Bolsena, S. Cristina, il 24 luglio.

Luogo, livello e condizioni di diffusione


Diversi esemplari sono stati individuati presso
orti famigliari del comune di Bolsena (VT).
Frutti maturi di Pera di Santa Cristina (UNITUS)

Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche


Albero di vigoria medio-elevata e portamento aperto. Ha maturazione estiva precoce e si
raccoglie verso metà-fine luglio. Frutto di forma piriforme, leggermente irregolare, pezzatu-
ra piccola, peso medio 42 gr, buccia di colore giallo-verdastro priva di sovraccolore, pedun-
colo lungo e obliquo, lenticelle mediamente rugginose. Polpa di colore bianco crema, succo-
sa e dolce. A maturazione va soggetta ad ammezzimento. Sulla polpa alla raccolta: pH 5,1;
R.S.R.: 16,6° Brix; acidità titolabile (‰ di acido malico): 1,4.
Uso nella tradizione
Questa piccola pera estiva viene consumata preva-
lentemente a livello familiare, trovandosi raramente
sui mercati a causa della scarsa serbevolezza e
per la rarità. Viene mangiata intera, privata solo del
peduncolo, e viene apprezzata nonostante l’ammez-
zimento, per il sapore particolare.
Luogo di conservazione
Diffusa In situ presso coltivatori del comune
di Bolsena. Ex situ presso i campi collezione
dell'Università della Tuscia.
Natura e livello di conoscenza
Localmente ne esiste qualche pianta isolata ai
margini dei campi, o in prossimità di abitazioni Pianta di pero di Santa Cristina
rurali. Viene conservata per il consumo familiare,
anche a causa della scarsa serbevolezza.
Si riscontra una somiglianza con la "pera gentile"
descritta da Morettini et. al. (1967), antica cultivar
già descritta dal Micheli.
Referenti
Università della Tuscia (Viterbo) – Dipartimento di
Scienze Agrarie e Forestali (Cristofori Valerio,
Fiore di pero di Santa Cristina
Rosario Muleo, Massimo Muganu, Eddo Rugini)

198
PERA SPADONA
Pyrus communis L.
DI CASTEL MADAMA

Caratteri di riconoscimento
La forma piriforme allungata ed il colore
completamente verde con assenza di
sovrac c olore. Sapore un po’ acidulo. I frutti sono
sensibili all’ammezzimento dopo alcuni giorni di
conservazione, pertanto, se raccolti maturi,
devono essere consumati in breve tempo.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Varietà di origine genetica sconosciuta, molto
Pera Spadona di Castel Madama (R.Pavia) nota e diffusa in piante sparse nelle aziende
frutticole e orti famigliari dell’Agro di Castel Madama e nella zone pedemontane della
Sabina romana. La varietà è stata iscritta al Registro Volontario Regionale in attuazione
della Legge Regionale n. 15 del 2000 “Tutela delle risorse genetiche autoctone di
interesse agrario”, è stata collocata, inoltre, nell’elenco nazionale dei prodot-
ti agroalimentari tradizionali.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero di vigoria media, portamento espanso, produttività medio-elevata. Fiorisce all’inizio di apri-
le, matura nella IIa decade di luglio. Frutto piccolo, peso medio g 69,5, circonferenza cm 43,9;
forma piriforme- allungata, peduncolo lungo, dritto, cavità peduncolare assente, cavità calicina
superficiale, aperta, torsolo medio; buccia liscia, con lenticelle piccole e numerose, di colore
verde chiaro, verde giallastro in piena maturazione, mediamente spessa, rugginosità assente.
Polpa bianca, tessitura medio fine, di sapore buono, gusto un poco acidulo. Sulla polpa alla rac-
colta: durezza media kg 3,94; R.S.R. 11,6 °Brix; pH 3,66; acidità titolabile (0/00 ac. malico) 4,81.
Uso nella tradizione
Da sempre molto apprezzata come pera precoce anche sui
mercati romani per il consumo fresco subito dopo la raccolta.
Recentemente l’Orto dei Cuochi di Slow Food Tivoli ha proposto
inedite ricette a base di ‘Pera Spadona’ abbinata ad altri
prodotti del territorio.
Luogo di conservazione
In situ presso agricoltori di Castel Madama.
Ex situ presso CREA CRA-FRU, Roma.
Collezione azienda ARSIAL di Montopoli in Sabina.
Natura e livello di conoscenza
L’origine della varietà a Castel Madama è remota ed incerta,
Allestimento in occasione
sembra fosse presente sulla tavola del Granduca di Toscana
della prima sagra della Pera
Cosimo III da citazioni in proposito del Micheli. I frutti sono sen-
sibili alla ticchiolatura in annate favorevoli allo sviluppo della Spadona di Castel Madama
malattia. istituita nel 1959 (R. Pavia)

Referente
CREA CRA-FRU, Centro Nazionale di Conservazione del germoplasma
frutticolo, Roma. R. Pavia (pavia.renato@tin.it).

199
SUSINA RECINELLA Prunus domestica L.

Caratteri di riconoscimento
I frutti sono piccoli, molto pruinosi con buccia
verde-giallastra e assenza si sovraccolore, dol-
ci e gradevoli, il nocciolo si stacca dalla polpa.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Individuata a Giuliano di Roma (FR) ma è dif-
fusa anche in altri comuni limitrofi, è una susi-na
molto generosa per la elevata fertilità e
fruttificazione costante. Si propaga quasi
esclusivamente per pollone radicale. Nominata
localmente con vari nomi: “Lecina” oppure
“Mirabella” o “Zuccarina”. Sono stati osservati
Recinella in pianta con abbondante cloni della stessa varietà a maturazione più
fruttificazione (R.Pavia) precoce a partire dalla metà di luglio.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero di vigoria medio-elevata, portamento intermedio, produttività elevata. Fiorisce nella
2a decade di marzo, matura nella 3a decade di agosto. Frutto molto piccolo, peso medio
7,6 g, di forma ellittica (mm 25 x 22 x 22), peduncolo lungo, buccia sottile, di colore
verde-giallo chiaro, pruina elevata, polpa giallo-verde, tenera, non aderente al nocciolo,
tessitura fine, succosità media, sapore buono, di media dolcezza, uniformità di maturazio-
ne media; nocciolo semi globoso, ellittico–allargato, apice appuntito e base ottusa. Sui
frutti raccolti: R.S.R. 18,4 °Brix, pH 3,9, acidità titolabile (0/00 ac. malico) 15,6.
Uso nella tradizione
E’ utilizzata per il consumo fresco, oppure per confetture, marmellate ed essiccati.
Luogo di conservazione
In situ: comuni Ceccano e Giuliano di Roma (FR). CREA CRA-FRU-Roma presso il Centro
di Conservazione del Germoplasma Frutticolo, collezione ARSIAL di Montopoli in Sabina.
Natura e livello di conoscenza
Varietà di tipo europeo, si trova spontanea in
piante raggruppate lungo le siepi, negli orti
famigliari, ai bordi di terrapieni e lungo strade
poderali. Appartiene al gruppo di susini siriaci
Prunus insititia L., originaria della Lorena
in Francia con il nome di Mirabella di
Nancy, diffusa anche in Spagna, Inghilterra e
Germa-nia, (D. Tamaro), (E. Baldini, F.
Scaramuzzi). Varietà scritta al Registro
Volontario Regiona-le in attuazione della
L.R. n. 15 del 2000 “Tutela delle risorse
genetiche autoctone di interesse agrario”.
Referente
ARSIAL Regione Lazio, Recinella essiccata e appena raccolta con
Renato Pavia (pavia.renato@tin.it) particolare polpa, foglie e nocciolo (R.Pavia)

200
SUSINA REGINA Prunus domestica L.

Caratteri di riconoscimento
I frutti sono rotondi, molto pruinosi con buccia
verde e assenza si sovraccolore, molto dolci
e gradevoli a piena maturazione, il nocciolo
si stacca dalla polpa.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Cultivar popolazione presente spontanea nel
Lazio ed in altre regioni italiane, il clone de-
scritto è stato reperito nel Comune di Fumone
Regina in pianta con abbondante fruttificazione (FR). La propagazione delle piante avviene
(R.Pavia) prevalentemente per pollone radicale.
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero di medio vigore e portamento intermedio, produttività elevata. Fiorisce nella 1a deca-
de di aprile, e matura tra luglio-agosto. Frutto medio (g 31,6), forma sferoidale, peduncolo
medio, buccia sottile, di colore verde, verde-giallastro a maturazione, sovraccolore
assente, a volte punteggiata di rosso nella parte esposta al sole, molto pruinosa, polpa
verde chiaro, soda, non aderente al nocciolo, tessitura medio-fine, succosità media, sapore
molto buono; nocciolo medio, arrotondato, globoso, apice arrotondato e base ottusa.
Uso nella tradizione
Da sempre consumata prevalentemente per il
consumo fresco oppure essiccata al sole.
Luogo di conservazione
In situ : comuni della Ciociaria.
Collezione ARSIAL di Montopoli in Sabina.
Natura e livello di conoscenza
Varietà di tipo europeo, si trova spontanea in
piante sparse negli orti famigliari ed ai bordi di
terrapieni, lungo strade poderali anche nelle Regina con particolare della polpa e nocciolo
zone di media montagna a volte associata al (R.Pavia)
altre susine tipo P. siriaca. Non ha un colore
attraente ma è molto apprezzata per la ab- Referente
bondante e costante fruttificazione e la dolcez- ARSIAL Regione Lazio,
za del frutto. Descritta nella “Pomona di Galle- Renato Pavia (pavia.renato@tin.it)
sio” con il nome di Claudia.

201
UVA PELLEGRINA Vitis vinifera L.
DI VELLETRI

Caratteri di riconoscimento

Acini di colore rosso violetto e grappolo spargolo.

Luogo, livello e condizioni di diffusione

Segnalata dall’azienda Fiorella Capozzi di


Velletri e iscritta al Registro Volontario Regio-
nale in attuazione della Legge Regionale
n. 15 del 2000 “Tutela delle risorse genetiche
autoctone di interesse agrario”. Esistono
poche piante presso viticoltori appassionati.
Grappoli di Pellegrina in una pergola (R.Pavia)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Grappolo medio-grosso (peso medio g 400), spargolo, acino di media grandezza, sferico, di
colore rosso violetto e di facile distacco, buccia spessa, pruinosa, consistente, contiene 3-4
vinaccioli medio-grandi, polpa carnosa, dolce, di colore rosato. Matura nella terza decade di
agosto, prima del Pizzutello bianco. Sugli acini alla raccolta: R.S.R. 18,8 °Brix.
Uso nella tradizione
Consumata esclusivamente come uva da tavola.
Luogo di conservazione
In situ: comune di Velletri. Collezione
ARSIAL di Montopoli in Sabina.
Natura e livello di conoscenza
E’ stata importata a Velletri da un pellegrino,
e da qui il suo nome. E’ un’uva molto appari-
scente. Poco resistente alle manipolazioni ed
ai trasporti, i grappoli si conservano molto
bene in pianta. Descritta e illustrata sulla
Rivista Italia Agricola di agosto del 1927.
Referente
ARSIAL Regione Lazio,
Renato Pavia (pavia.renato@tin.it) Esemplare “patriarca” di vite Pellegrina di oltre 50 anni.
Grappoli di uva Pellegrina in mostra a Velletri (R.Pavia)

202
VISCIOLA Prunus cerasus L.
NANA DEI CASTELLI

Caratteri di riconoscimento
Habitus nanizzante con internodi molto
ravvici-nati.
Luogo, livello e condizioni di diffusione
Questa specie è diffusa ai bordi delle vigne e
dei viali di molte aree dei Castelli Romani.
Visciola nana dei Castelli (R.Pavia)
Rilievi, osservazioni agronomiche, commerciali, organolettiche
Albero vigoroso, chioma a portamento assurgente, produttività medio-elevata, maturazio-
ne uniforme e fruttificazione mista. Fiorisce nella seconda decade di aprile e matura nella
seconda decade di giugno. Frutto piccolo, Peso medio (g 2,9), forma reniforme, buccia di
colore rosso scuro, polpa rosso scuro, succo nero-rosso, di buona qualità gustativa, ade-
rente al nocciolo, peduncolo corto.
Uso nella tradizione
I frutti sono da sempre utilizzati per confetture di marmellate e la produzione di una tipica
bevanda alcolica “Ratafià”.
Luogo di conservazione
In situ, aziende private di Monteporzio
Catone e altri comuni dei Castelli Romani.
Centro Nazionale del Germoplasma Frutticolo
presso CREA CRA-FRU, Roma.
Natura e livello di conoscenza
La specie è particolarmente pollonifera e la
moltiplicazione avviene quasi esclusivamente
per pollone radicale. Gli alberi sono di piccola
taglia ma vigorosi, i rami hanno internodi mol-
to ravvicinati rispetto ad altre visciole e confe-
riscono alla chioma il tipico aspetto nanizzante.
Referente
CREA CRA-FRU Roma, ARSIAL Regione Visciola nana dei Castelli: giovane albero con
Lazio. Renato Pavia (pavia.renato@tin.it) particolare dell’habitus nanizzante della chio-
ma fitta e rami con internodi ravvicinati
(R.Pavia)

203
GLOSSARIO
Accessione: termine usato genericamente per indicare ciò che viene acquisito e si
aggiunge ad una raccolta. Nel caso delle risorse genetiche si tratta di un’entità indivi-
duata, reperita e/o collezionata, identificata in modo univoco da un nome, un numero
o un codice. Un’accessione può essere una pianta selvatica oppure una pianta appar-
tenente ad una cultivar o ad un ecotipo locale.

Agrobiodiversità: è l’insieme della diversità delle forme viventi (varietà, razze, ecotipi,
genotipi, ecc.) relative ad un agro-ecosistema, ovvero ad un habitat finalizzato alla pro-
duzione agricola.

Apireno: detto di un frutto senza semi o con semi rudimentali; esempi di frutti apireni
si hanno in agrumi, banano, vite e kaki.

Assurgente: rivolto verso l’alto.

Biodiversità: è la variabilità fra gli organismi viventi d'ogni tipo nonché fra i complessi
ecologici di cui fanno parte. Include diversità entro specie, fra specie e fra ecosistemi.

Caprifico: fico selvatico (Ficus carica var. caprificus), pianta arborea appartenente
alle Moraceae con frutti solo raramente commestibili, comune nell’area Mediterrane-
a. E’ utile per l'impollinazione entomofila del fico coltivato (caprificazione).

Clone: gruppo di individui originati da un singolo individuo e ottenuti mediante propa-


gazione vegetativa (innesto, talea, margotta, stolone, pollone radicale, coltura in vitro
di tessuti somatici). Tutti gli individui di un clone sono geneticamente identici tra loro e
all'originale, salvo il verificarsi di mutazioni durante i ripetuti cicli di propagazione.

Conservazione in situ: conservazione di una specie, cultivar, biotipi o ecotipi nel luogo
originale di reperimento e/o selezione.

Conservazione on farm: mantenimento e coltivazione (di una cultivar, biotipo od ecoti-


po generalmente di cultivar ed ecotipi locali), da parte degli agricoltori.

Conservazione ex situ: conservazione al di fuori degli ambiti e dei luoghi di reperimen-


to e/o selezione. Nel caso dei fruttiferi la conservazione ex situ riguarda generalmen-
te campi collezione ove le accessioni sono trasferite dopo propagazione vegetativa,
oppure collezioni in vitro, banche di germoplasma, ecc..

Cultivar: termine adottato internazionalmente dalla sintesi delle parole


cultivated e variety. Termine utilizzato indistintamente per varietà
migliorate o locali, purché coltivate.

204
Dardo: corto rametto presente nelle drupacee (pesco, susino, ciliegio, mandorlo,
albicocco) che presenta in posizione terminale una gemma a legno (d. vegetativo)
o una gemma a legno circondata da gemme a fiore (d. fiorifero; es. i “mazzetti di
maggio” del ciliegio).

Denti fogliari: sono le sporgenze più meno appuntite del lembo fogliare situate lungo
il margine della foglia.

Dioica: specie con piante recanti fiori o solo maschili o solo femminili.

Ecotipo: è una popolazione spontanea adattata a un determinato ambiente (di solito


geograficamente limitato e caratteristico di clima e suolo) indipendentemente
dall’intervento umano.

Erosione genetica: perdita di variabilità genetica all'interno di un area geografica o


di un ecosistema, di una specie o di una popolazione. Può essere dovuta a fattori
naturali (es.: cambiamenti climatici, avvento di parassiti) o all’azione dell’uomo
(es.: sostituzione delle varietà locali con cultivar selezionate più produttive). L'esaspe-
razione dell'erosione genetica può portare alla modifica di ecosistemi o alla scompar-
sa di specie o di genotipi, con conseguenti perdite di geni e di forme geniche (alleli) e
quindi di risorse genetiche ed adattative.

Fico fiorone: frutto del fico coltivato che matura a tarda primavera inizio estate ed è
portato da rami dell’anno precedente ed è solitamente un fico di dimensioni maggiori
rispetto al fornito.

Fico fornito: frutto di tarda estate che matura sul ramo nuovo, è detto anche fico vero.

Foglia incisa: una foglia che ha lembo fogliare con seni fogliari (vedi) profondi.

Fruttaio: luogo attrezzato per la conservazione della frutta.

Gene: sequenza di DNA che rappresenta l'unità fisica funzionale recante l'infor-
mazione genetica. Questa viene trascritta in una molecola intermedia,
l’RNA messaggero, a sua volta tradotto in proteina.

Genotipo: l’insieme delle informazioni genetiche di un individuo, da cui dipendo-


no le caratteristiche ereditabili.

Fenotipo: l'insieme dei caratteri osservabili in un organismo. Il fenotipo dipende


dal genotipo ma anche dall’interazione di questo con l’ambiente.

Invaiatura: fase fenologica della maturazione dei frutti in corrispondenza della


quale avviene il viraggio di colore dell'epicarpo (buccia).

Lamburda: tipica del melo e del pero è costituita da un corto rametto derivato
dallo sviluppo vegetativo degli anni precedenti, recante una gemma terminale
a legno (lamburda vegetativa) o mista (lamburda fiorifera).

205
Nesto: detto anche marza o gentile, è la parte di pianta che con la pratica
dell'innesto andrà a costituire la chioma.

Mutazione genetica: variazione ereditaria, spontanea o indotta, del materiale geneti-


co di un organismo.

Parente selvatico: una specie selvatica (diversa dal progenitore selvatico) affine a
quella coltivata.

Patrimonio genetico: l'insieme delle informazioni genetiche di un individuo che si


trasmettono tra generazioni.

Portainnesto: detto anche soggetto o ipobionte, è la parte inferiore di una pianta


moltiplicata con la tecnica dell'innesto che fornisce la parte basale del tronco e l'ap-
parato radicale.

Progenitore selvatico: specie selvatica da cui è derivata una specie coltivata attraver-
so un processo di domesticazione, è detta anche specie ancestrale.

Risorse Genetiche Vegetali (RGV): qualsiasi materiale genetico di origine vegetale


che abbia un valore effettivo o potenziale per l’alimentazione e l’agricoltura.

Selezione: processo naturale o artificiale (es. scelta operata dall’uomo) che favorisce
l’affermarsi di certi genotipi o gruppi di genotipi a discapito di altri.

Seni fogliari: sono le rientranze del margine fogliare tra i lobi della foglia. Possono
essere più o meno pronunciati, ovvero più o meno profondi.

Seno peziolare: è la rientranza del margine fogliare in corrispondenza dell’inserzione


del picciolo.

Serbevole: detto di prodotto che si conserva a lungo.

Spargolo: riferito alla vite, si tratta di un grappolo con acini dotati di lunghi pedicelli e
pertanto ben staccati gli uni dagli altri.

Specie: categoria sistematica di base caratterizzata in linea generale da un insieme


di individui che incrociandosi tra loro danno origine ad una progenie illimitatamente
fertile.

Specie spontanee: (wild species) specie che non hanno subìto un processo di dome-
sticazione e messa in coltura che si propagano in modo autonomo (ad esempio molte
piante medicinali, forestali e foraggere).

Talea: porzione di organo (ramo, radice, foglia) asportata da una pianta ed utilizzata
nella propagazione per radicazione diretta. La talea produce piante che sono cloni
della pianta di origine (pianta-madre).

206
Varietà: termine generalmente utilizzato (anche se un po’ impropriamente) per
indicare la cultivar (= varietà coltivata). Per varietà botanica, invece, si intende una
popolazione che differisce per alcuni caratteri da quelli che sono le caratteristiche
tipiche di una determinata specie.

Varietà locale: è una cultivar che non deriva da un programma organizzato di


miglioramento genetico, ma è stata seleziona nel corso dei secoli per le sue caratteri-
stiche agronomiche e produttive, estrinsecate al meglio nello specifico ambiente di
selezione. La varietà locale ha spesso un nome popolare ed è associata con gli usi, le
conoscenze, le abitudini, i dialetti e le ricorrenze della popolazione che l’ha sviluppata e
ne continua la coltivazione.

Vitigno: è un termine usato per indicare una cultivar (o varietà) di vite.

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