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Amitav Ghosh

Il cromosoma Calcutta
Un romanzo di febbre, delirio e scoperta.
Titolo originale: The Calcutta Chromosome.
Traduzione di Anna Nadotti.
Copyright 1995 Amitav Ghosh.
Copyright 1996 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino.
New York, in un futuro non lontano: l’egiziano Antar naviga nella rete
telematica alla ricerca
dell’eccentrico studioso indiano Murugan, e la sua vita non sarà mai piú
la stessa. Nel 1995, a Calcutta, Murugan concludeva la propria personale
ricerca su Ronald Ross, premio Nobel per la medicina. Nel 1898
Ronald Ross otteneva il risultato definitivo nella ricerca sulla zanzara
anofele, scoprendo in che modo si trasmette il virus della malaria.
Se affermiamo che la zanzara è stata protagonista dell’esperimento di
Ross, e che Ross è stato protagonista dell’esperimento di Murugan, e
Murugan di quello di Antar, rischiamo di perdere una parte della verità.
Perché si potrebbe anche dire che tutti, Ross, Murugan, Antar e la zanzara,
sono stati protagonisti
dell’esperimento di qualcun altro.
Qualcuno che aveva tutto l’interesse di suggerire agli altri un cammino
possibile, per sviarli da scoperte piú importanti. Qualcuno che stava per
ottenere non la fama e la ricchezza di un premio Nobel, ma un risultato
immensamente piú prezioso. Chi ha mosso i fili di questo thriller
straordinario, tra scienza, fantascienza e filosofia?
Il cromosoma Calcutta è
ambientato in tre diversi momenti storici, che forse sono contemporanei.
Presenta personaggi dai nomi differenti, che forse nascondono lo stesso
individuo. Mette in scena, sotto i nostri occhi fissi sul microscopio, il
viaggio terribile e affascinante di un cromosoma che porta con sé i segreti
piú intimi della personalità: e che ci potrebbe rendere, come gli dèi,
immortali.
Amitav Ghosh è nato a Calcutta nel 1956; ha studiato a Oxford, e vive
da qualche anno a New York. Presso Einaudi ha pubblicato :Le linee
d’ombra (1990) e :Lo schiavo del manoscritto (1993). Recentemente le
Edizioni Linea d’ombra hanno pubblicato il suo reportage Danzando in
Cambogia (1994).
Per Koeli.
Oggi un piú mite Dio Alle mani ha recato Un prodigio; sia lode a Dio.
Per sua volontà Indagando i Suoi segreti con lacrime ed affanno Trovo i
tuoi semi astuti, o Morte, Di moltitudini
assassina.
Sir Ronald Ross,
Premio Nobel
per la Medicina, 1906.
Sono molto grato a Raj Kumar del Dipartimento di Scienze
Informatiche della Columbia University per i suoi consigli su certi
particolari. Ho un debito di riconoscenza nei confronti di Alka Mansukhani,
del Dipartimento di Microbiologia del Medical Center e della New York
University: le sue idee e la sua collaborazione sono state determinanti nella
scrittura di questo libro.
Parte prima:
20 agosto: Mosquito day.
Capitolo primo.
Se il sistema non si fosse bloccato, Antar non avrebbe mai intuito che il
brandello di carta plastificata comparso sullo schermo era il residuo di un
Id, una tessera di
riconoscimento. Sembrava che fosse stata estratta da un incendio: il
rivestimento di plastica era arricciato e sciolto ai margini; la scritta
praticamente illeggibile e la fotografia semicancellata da uno sbaffo di
fuliggine. Ma chissà come era rimasta appesa al documento una catenella
metallica di circa dieci centimetri: un cappio arrugginito che usciva da un
foro nell’angolo in alto a sinistra, come una coda moscia. Era stata la
catenella a inceppare il sistema, non la tessera, che saltò fuori durante uno
di quegli inventari di routine che sfrecciavano intorno al globo con
metronomica regolarità, per ragioni che Antar non riusciva a capire, salvo
che era quanto di meglio sapeva fare il sistema. Quando cominciava,
andava avanti per ore, una successione interminabile di documenti e
oggetti, che s’interrompeva solo di fronte a ciò che esulava dai suoi schemi
d’archiviazione: di solito cose assolutamente banali.
Una volta era stato uno di quei fermacarte di vetro dentro i quali si
scatena una bufera di neve se li si capovolge; un’altra volta una boccetta di
correttore, dall’ufficio del sovrintendente ai canali di irrigazione, poco a sud
del lago d’Aral. In entrambi i casi la macchina era entrata in uno stato di
frenesia controllata, sparando un fuoco di fila di domande.
Antar aveva conosciuto bambini cosí: perché? cosa? quando? dove?
come? Ma i bambini fanno domande perché sono curiosi; in quei sistemi
Ava/
/Iie la ragione era un’altra -
qualcosa che riusciva a qualificare solo come urgenza simulata di
autoperfezionamento. Erano già due anni che usava l’Ava e continuava a
essere sgomento del suo desiderio di migliorarsi. Se non riconosceva
qualcosa, l’isolava sullo schermo, dedicandosi a microscopiche analisi
strutturali, cucendo e ricucendo immagini, adagiandola su un fianco,
evidenziando dettagli sempre piú particolareggiati.
Ava non smetteva finché non le aveva detto tutto ciò che sapeva, quale
che fosse la cosa con cui si stava trastullando sullo schermo. Aveva cercato
di abituarla a usare le enciclopedie di sistema, ma non bastava. Da qualche
parte lungo la rete era stata programmata per scovare informazioni in tempo
reale, e lo faceva con assoluta determinazione.
Dopo aver estorto ad Antar l’ennesimo, insignificante dettaglio, con
vanità curiosamente umana, faceva fare all’oggetto sullo schermo un’ultima
piroetta, prima di lanciarlo nel limbo senza orizzonti della sua memoria.
Quella volta del fermacarte, gli ci era voluto un lungo minuto per capire
cosa stesse succedendo. Antar stava leggendo: gli avevano prestato un
arnese che gli consentiva di proiettare le pagine di una rivista o di un libro
sulla parete in fondo alla stanza. Se non muoveva troppo la testa e premeva
il tasto giusto con un ritmo regolare, Ava non poteva accorgersi di non
avere tutta la sua attenzione.
Naturalmente quel congegno era illegale, proprio perché era fatto per
gente come lui, che lavorava da solo, a casa.
La prima volta Ava non se n’era accorta, ma poi era successo di nuovo
col correttore: lui stava leggendo, gli occhi fissi sulla parete e non si era
accorto di niente per piú di un minuto. A un tratto Ava era diventata
mortalmente quieta, poi sullo schermo avevano cominciato a lampeggiare
avvertimenti. Aveva riposto il libro in fretta e furia, ma Ava aveva già
capito che stava succedendo qualcosa.
A fine settimana, gli era arrivata una comunicazione del suo datore di
lavoro, l’International
Water-Resources Council, in cui lo si informava che la sua paga era
stata decurtata a causa di un «calo di produttività», e lo si avvertiva che un
ulteriore calo poteva comportare una riduzione dell’assegno di pensione.
Dopo quella volta non ci aveva piú riprovato. La sera stessa, uscendo
per la quotidiana passeggiata di un’ora a Penn Station, prese con sé
quell’arnese. Lo portò allo squallido caffè di cui era cliente abituale, giú
dalle parti della biglietteria della Long Island Railroad, e lo restituí al
cassiere sudanese che gliel’aveva prestato. Ormai mancava solo un anno
alla pensione, e se gli abbassavano l’aliquota non avrebbe fatto in tempo ad
alzarla di nuovo. Per anni Antar aveva sognato di lasciare New York e
tornare in Egitto: di andarsene da quell’appartamento ammuffito dove tutto
quello che riusciva a vedere guardando in strada erano file di finestre
sbarrate su facciate di edifici per la maggior parte vuoti come il suo.
Da allora smise di cercare di ottenere il meglio da Ava. Tornò al suo
lavoro, scrutando pazientemente quegli interminabili inventari, chiedendosi
a che diamine servissero.
Anni prima, quando Antar era un ragazzo, in Egitto, un archeologo
aveva raggiunto il piccolo villaggio in cui viveva con la famiglia - su una
striscia di terra strappata al deserto, sulla sponda occidentale del delta del
Nilo. L’archeologo era una donna, una vecchissima profuga ungherese con
la pelle fragile e fitta di vene come una foglia secca di eucalipto. Nessuno
sapeva il suo nome, cosí i bambini del villaggio l’avevano battezzata al-
Magari, l’ungherese.
L’ungherese visitò il villaggio parecchie volte nell’arco di alcuni mesi. I
primi tempi l’accompagnava una piccola squadra di assistenti e operai.
Seduta su una sedia di tela ingiallita dal sole, sotto un enorme cappello,
dirigeva gli scavi con una canna dal pomo d’argento. Qualche volta pagava
Antar e i suoi cugini perché dessero una mano, dopo la scuola, o quando i
padri li lasciavano liberi dal lavoro dei campi. Poi i ragazzini si sedevano in
cerchio e l’osservavano mentre frugava sabbia e terra con spazzole e
pinzette, esaminando lo sporco con lenti d’ingrandimento.
«Cosa fa? - si chiedevano. - Perché fa tutto questo?» Di solito le
domande erano rivolte ad Antar perché era lui quello che a scuola sapeva
sempre rispondere. Il fatto è che Antar non lo sapeva; era stupito quanto gli
altri. Ma aveva una reputazione da difendere, cosí un giorno prese fiato e
annunciò: «So che cosa fanno: contano la polvere; sono dei conta-polvere».
«Cosa!?» dissero gli altri
increduli. Allora lui spiegò che l’ungherese contava la polvere come i
vecchi contano i grani del rosario.
Gli avevano creduto perché era il ragazzo piú intelligente del villaggio.
Quell’episodio gli tornò in mente all’improvviso un pomeriggio,
un’assolata visione di sabbia e fango e norie cigolanti. Era da un po’ che si
sforzava di restare sveglio mentre sullo schermo scorreva un inventario
particolarmente lungo. Veniva da un edificio amministrativo che era stato
messo sotto controllo
dall’International Water Council -
qualche sgangherato piccolo Ufficio per lo Sviluppo Agricolo in
Ovamboland o Barotseland. I funzionari incaricati dell’indagine avevano
passato in rassegna tutto il trovabile tramite Ava, tutti gli innumerevoli
relitti della burocrazia del ventesimo secolo
- graffette metalliche, cartelline, dischetti. Evidentemente pensavano
che ogni cosa che trovavano in posti come quello avesse in qualche modo a
che fare con l’esaurimento delle risorse idriche del pianeta.
Antar non aveva mai capito bene il perché del loro accanimento, ma
quella mattina, pensando all’archeologa, d’un tratto capí. Si vedevano
nell’atto di fare la Storia con i loro vasti esperimenti di controllo delle
acque: volevano registrare ogni minuscolo dettaglio di ciò che avevano e
avrebbero fatto. Non volevano uno storico che passasse al setaccio i loro
detriti polverosi, cercandone il significato, volevano farlo loro: volevano
essere loro ad attribuire un significato ai propri detriti.
Di colpo si drizzò sulla sedia e disse, in arabo: «Ecco cosa sei, Ava, una
conta-polvere, ‘addaad
al-Turaab».
Lo disse sottovoce, ma Ava lo udí ugualmente. Antar era sicurissimo di
averla messa in difficoltà, questa volta: il suo «occhio», una telecamera a
guida laser, si posò su di lui, di colpo, mentre il simbolo di standby
annebbiava lo schermo. Poi Ava cominciò a sputare traduzioni della frase in
arabo, passando in rassegna le lingue del mondo in ordine decrescente di
popolazione: cinese, spagnolo, inglese, hindi, arabo, bengali… All’inizio
era stato divertente, ma quando era passata ai dialetti dell’alto corso
amazzonico Antar era sbottato: «Piantala di dare spettacolo! Non c’è
bisogno che mi dimostri che sai tutto quello che c’è da sapere. Iskuti, sta’
zitta!»
Invece era stata Ava a zittire lui, vomitandogli quietamente addosso
quelle frasi. Antar apprese sbalordito in che modo «sta’ zitta!» si rivestiva
di fiori e foglie dell’alto corso amazzonico.
Capitolo secondo.
Antar era in procinto di chiudere, quando sullo schermo di Ava
comparvero Id e relativa catenella. L’occhio gli correva continuamente
all’orologio nella parte bassa dello schermo Aveva sperato di uscire qualche
minuto prima. La sua vicina di casa, una giovane donna venuta ad abitare lì
accanto qualche mese prima, si era autoinvitata per quella sera. Avrebbe
portato lei il pranzo. Antar aveva bisogno di un po’ di tempo per sé prima
del suo arrivo: voleva fare una doccia e la solita passeggiata serale a Penn
Station. Gli restava ancora mezz’ora prima di staccare, alle sei.
Inquieto com’era, probabilmente non avrebbe degnato d’un secondo
sguardo la tessera; per quanto lo riguardava, l’avrebbe spedita via pigiando
un tasto, l’avrebbe fatta rotolare nelle tenebre sconfinate del cuore di Ava.
Fu solo perché Ava cadde in uno dei suoi trance di mancato
riconoscimento che Antar diede un’occhiata piú da vicino alla catenella.
Fatta di piccolissime sfere metalliche concatenate, era corrosa e
arrugginita, con la nichelatura tutta andata, ma appena la vide Antar capí
cos’era. Ne portava una anche lui, anni addietro, quando lavorava a Life
Watch.
Life Watch era una piccola ma rispettata organizzazione senza fini di
lucro; serviva come centro pubblico di consulenza sanitaria e come archivio
dati epidemiologici. Antar ci aveva lavorato per gran parte della sua vita,
come programmatore e analista di sistemi. In un certo senso ci lavorava
ancora, solo che Life Watch era stata da lungo tempo assorbita, insieme a
molte altre agenzie indipendenti, nell’elefantiaco settore salute pubblica del
neocostituito International Water Council. Come la maggior parte dei suoi
colleghi, Antar era stato destinato a un insignificante lavoro
«a casa» per dargli modo di arrivare alla pensione. Formalmente si
trovava ora sui libri paga dell’Iwc, ma non aveva mai messo piede nei loro
uffici di New York. Non aveva ragione di farlo: si mettevano in contatto
con lui tramite Ava ogni volta che volevano, cosa che accadeva di rado.
Antar ricordava un’epoca in cui quelle catenelle erano una
consuetudine a Life Watch, insieme alle tessere di riconoscimento con
codice a barre. Alcuni preferivano fissare la tessera con una clip, ma lui
aveva sempre amato la catenella.
Gli davano una piacevole sensazione, quelle palline metalliche tra le
unghie; sembravano un rosario in miniatura.
Indugiò per un attimo sulla catenella. Erano un bel po’ di anni che non
se ne vedevano in giro e non ricordava esattamente quando erano state
introdotte per la prima volta: probabilmente intorno al 1980. A quell’epoca
lavorava a Life Watch da oltre dieci anni. Ci era arrivato immediatamente
dopo essersi laureato all’università Patrice Lumumba di Mosca, quando
ancora i Russi assegnavano borse di studio agli studenti dei paesi poveri;
quando Mosca era il posto migliore del mondo per studiare
Programmazione lineare.
Life Watch aveva diffuso un annuncio internazionale per un posto di
analista programmatore, che si occupasse dell’informatizzazione del loro
sistema contabile. Era un lavoro da masticanumeri, non il tipo di lavoro per
cui era stato addestrato.
D’altra parte era un lavoro sicuro, stabile, garantito, con un salario
americano e il visto assicurato. Aveva risposto subito, senza peraltro
aspettarsi di ottenere il posto: sapeva che la concorrenza sarebbe stata forte.
Era risultato terzo nella graduatoria degli aspiranti, ma i due davanti a lui
avevano avuto altre offerte.
Antar si sfregò la punta delle dita, sopraffatto da una nostalgia tattile per
quelle catenelle e quelle tessere plastificate. Le catenelle erano di due
misure: si potevano portare al collo oppure infilate in un’asola. Lui aveva
sempre preferito quelle piú corte.
Gli ci volle del tempo per digitare le risposte alle domande di Ava. Nel
frattempo Ava giocherellava con la tessera, rovesciandola, ingrandendone a
caso i frammenti.
All’improvviso un simbolo attraversò il monitor, catapultandosi in un
angolo, roteando e riducendosi mentre passava. Richiamò l’attenzione di
Antar un attimo prima di filarsela dallo schermo. Antar si buttò sulla
tastiera e lo fece tornare indietro lentamente. Quando l’ebbe riportato al
centro, congelò l’immagine.
Erano anni che non vedeva il logo un tempo familiare di Life Watch,
un’immagine nitidamente stilizzata di due corone d’alloro intrecciate. Ed
eccolo qui, davanti a lui, beccato in fondo a una tessera di riconoscimento
smarrita. Antar capovolse la tessera, sullo schermo di Ava, intrigato alla
vista di quel simbolo, cosí familiare e per tanto tempo dimenticato. La
riportò sullo schermo, a dimensione naturale, e l’ingrandí lentamente. Non
c’erano dubbi: era un Id Life Watch.
La tessera doveva risalire alla metà degli anni ‘80 del ventesimo secolo,
o forse ai primi anni ‘90 - un’epoca in cui passava cosí tante ore sui fogli
elettronici che era arrivato a conoscere il nome di chiunque avesse ricevuto
un assegno dai computer Life Watch. Guardando quella vecchia tessera
consunta che gli stava sospesa davanti cominciò a chiedersi a chi fosse
appartenuta. Di sicuro ne conosceva il nome - come minimo il nome. Forse
ne avrebbe anche riconosciuto la faccia nella fotografia.
Senza riflettere, digitò una serie di comandi. Lo schermo di Ava si
sbiancò temporaneamente, mentre cominciava a ricostruire la tessera,
recuperando l’originale. Antar si rammaricò quasi subito di aver dato
quell’ordine. Il procedimento avrebbe richiesto un po’ di tempo, e adesso
mancavano solo venticinque minuti alla fine della sua giornata. Diede un
colpo alla sedia girevole, irritato con se stesso. Mentre quella girava, si
accorse che sullo schermo era apparsa una parola, sotto una riga che diceva
«Luogo di provenienza». Bloccò la sedia puntando un piede a terra.
D’abitudine non si preoccupava di verificare dove avessero inizio gli
inventari: ne arrivavano cosí tanti che non sembrava rilevante. Ma adesso
era curioso, soprattutto quando vide che la parola sullo schermo era
«Lhasa». Cercò di ripensare agli anni
‘80 e ‘90 e a dove Life Watch avesse un ufficio a quell’epoca. Poi notò
che la parola «Lhasa» era preceduta da un simbolo il quale indicava
semplicemente che l’oggetto era stato inserito in memoria a Lhasa, ma
era stato reperito da qualche altra parte.
Si guardò indietro e scoprí che alle sue spalle, a poca distanza, si stava
materializzando il tenue profilo di un enorme triangolo bianco. Ava aveva
cominciato a creare una proiezione olografica della tessera ricostruita.
Il triangolo lattiginoso rappresentava l’angolo in alto a sinistra,
enormemente ingrandito. Antar prese a tamburellare sui braccioli della
sedia, dubitando di avere l’energia sufficiente, o l’intenzione di chiedere ad
Ava dove fosse stata ritrovata la tessera. Ci voleva del fegato per farle
quella domanda quando qualcosa arrivava via Lhasa.
Lhasa era il centro operativo continentale dell’International Water
Council per l’Asia. I funzionari dell’Iwc la consideravano la capitale di
fatto dell’Asia, perché godeva del privilegio unico di essere il solo centro
operativo al mondo responsabile non di uno bensí di numerosi bacini
imbriferi strategici: quello del Gange-Brahmaputra, quello del Mekong,
quello a sud dello Yangtze, quello del Hwang-Ho. I flussi di informazioni
dell’Iwc per la metà orientale del continente erano tutti instradati via Lhasa,
adesso. Il che significava che la tessera poteva essere stata immessa in rete
in un posto qualsiasi tra Karachi e Vladivostok.
Si guardò di nuovo alle spalle. Ava impiegava piú tempo di quanto
avesse pensato: stava appena cominciando a lavorare sulla fotografia,
nell’angolo in alto a destra della tessera. Diede un’occhiata all’orologio.
Non gli restava davvero molto tempo se voleva fare una passeggiata a Penn
Station prima dell’arrivo della sua vicina, Tara.
Svogliatamente, in attesa che Ava mettesse insieme la fotografia, digitò
un altro ordine, chiedendo un supplemento di informazioni sulla
provenienza della tessera. Ava impiegò piú tempo del solito, e comunque
non piú di un paio di secondi, prima di tirar fuori il nome del luogo in cui la
tessera era stata trovata.
Il nome era Calcutta.
Capitolo terzo.
Mentre aspettava che Ava se la vedesse con la tessera, Antar fece
scivolare indietro la sedia, sulle ruote, quanto bastava per guardare dentro la
cucina attraverso la porta del soggiorno. Sopra il lavandino c’era una
finestra e, allungando il collo, riusciva a vedere il retro dell’appartamento di
Tara, sull’altro lato del cortiletto d’aerazione dell’edificio. Ebbe una
sensazione di sollievo vedendo che non era rientrata: l’appartamento era
ancora buio.
Si allungò sulla sedia con uno sbadiglio. Cominciavano a brillargli gli
occhi al pensiero della tazza fumante di dolce tè scuro che l’aspettava sotto
le luci al neon del caffè a Penn Station; degli altri clienti abituali che ogni
tanto passavano di lì e si sedevano intorno al tavolo col piano di formica - il
cassiere sudanese, l’elegante guyanese che faceva la commessa in un
negozio di abiti usati di Chelsea, il giovane bangladeshi dell’edicola della
metropolitana. Il piú delle volte se ne stavano seduti in amichevole silenzio
intorno al tavolo nel retro del locale, sorseggiando tè o caffè da tazze di
carta mentre guardavano cassette di film arabi o hindi su un piccolo monitor
portatile. Ma di tanto in tanto nasceva una discussione, o ci si scambiavano
informazioni - su un arnese in vendita da qualche parte, o su qualche nuovo
trucco per risparmiare monete sulla
metropolitana.
Antar aveva cominciato a frequentare quel posto perché il titolare era
egiziano, come lui. Non perché sentisse la mancanza dell’arabo, anzi.
Non sentiva altro per tutto il giorno, con Ava. Da quando era stata
programmata per simulare
«localizzazione», Ava gli si rivolgeva con l’appropriato dialetto
contadino del delta del Nilo. Le sue capacità di riproduzione della voce
erano state perfezionate a tal punto che riusciva persino a mutare
intonazione a seconda di chi parlava - giovane o vecchio, maschio o
femmina. Col tempo, il dialetto di Antar si era arrugginito; aveva solo
quattordici anni quando aveva lasciato il villaggio per il Cairo e non ci era
mai tornato. A volte stentava a seguire Ava. Altre volte invece sarebbe stato
in grado di attribuire con sicurezza a un parente da tempo dimenticato la
paternità di un’espressione insolita o di un caratteristico giro di parole.
Era un sollievo fuggire da quelle voci, la sera; uscire da
quell’edificio squallido, freddo, ingabbiato tra le armature arrugginite
delle scale antincendio; allontanarsi dall’eco metallica di scale e corridoi.
C’era qualcosa di allegro, quasi magico, nel camminare da quella strada
battuta dal vento verso i passaggi illuminati a giorno di Penn Station, con la
ressa crescente intorno agli sportelli della biglietteria, il rombo dei treni
sotto i piedi, il ronzio basso profondo del didgeridoo di un suonatore
ambulante che riecheggiava nel cemento come un battito cardiaco
amplificato.
E naturalmente c’era il tè. Lo preparava di persona il proprietario, per sé
e per Antar, in una teiera di smalto sbrecciato, un tè denso e sciropposo, con
un briciolo di menta -
proprio come quello che Antar ricordava dall’infanzia.
Si passò un dito nel colletto umido.
C’era un’aria appiccicosa lì dentro, quel giorno: troppo caldo se
chiudeva la finestra e troppo umido se la lasciava aperta. Di sotto, il portone
d’ingresso si apriva e chiudeva con regolarità: ne sentiva la forza d’urto
ogni volta che si richiudeva sbattendo. La gente che lavorava negli empori e
nei magazzini ai primi tre piani stava andando a casa, un po’
prima del solito per via del lungo weekend. Li sentiva giú in strada, si
scambiavano grida di saluto dirigendosi verso la stazione della
metropolitana sulla Settima Avenue.
Provava sempre un grande sollievo quando quello sbatacchiare cessava
e l’edificio tornava silenzioso.
Un tempo era un edificio solo di appartamenti, tutti affittati a famiglie:
numerose, vocianti famiglie arrivate dal Medio Oriente e dall’Asia centrale
- Curdi, Afghani, Tajiki e perfino alcuni Egiziani. Gli era accaduto spesso di
andare a bussare alla porta dei vicini, chiedendo di abbassare la voce.
Tayseer, sua moglie, era diventata sensibilissima ai rumori quando era
rimasta segregata a letto negli ultimi tre mesi di gravidanza. Prima non ci
aveva mai badato, se i vicini facevano casino chiamandosi dalle finestre, o
se i bambini scivolavano con lo skateboard sul pavimento dei corridoi. Era
cresciuta a un tiro di schioppo dagli ombrosi suq intorno al Bab Zuwayla, al
Cairo: le piaceva il clima da bazaar del caseggiato, dove ci si incontrava
sempre tutti e ci si sedeva sulle scalette esterne nelle sere d’estate, mentre i
bambini giocavano intorno alla pompa antincendio. Le piaceva l’edificio,
anche se la zona la intimoriva, soprattutto per il traffico intenso su entrambi
i lati -
la West Side Highway da una parte e gli accessi al Lincoln Tunnel
dall’altro. Ma aveva voluto trasferircisi ugualmente, pensava che sarebbe
stato piú facile tirare su un bambino in mezzo a tante donne e bambini. Alla
fine non era servito: un’embolia amniotica aveva ucciso lei e il piccolo alla
trentacinquesima settimana di gravidanza.
Ormai se n’erano andati tutti, tutte quelle famiglie allegre e rumorose
che piacevano tanto a Tyseer. Erano state risucchiate una dopo l’altra in
piccole città e sobborghi dagli affari in espansione e dal costante aumento
della famiglia.
In un primo tempo Antar aveva pensato che l’edificio si sarebbe
riempito di nuovo, dopo che i suoi vicini se n’erano andati - era sempre
successo cosí con le generazioni precedenti, quando un’ondata di immigrati
se ne andava un’altra prendeva il suo posto. Ma era intervenuto qualcosa
nel sistema: un cambiamento del piano regolatore aveva spinto i proprietari
a convertire gli appartamenti vuoti in spazi commerciali.
Ben presto gli unici residenti rimasti erano anziani affittuari come lui:
gente che non poteva permettersi di traslocare dai propri appartamenti a
fitto bloccato. L’edificio si svuotava di gente ogni anno di piú, mentre i
grandi magazzini si espandevano.
L’uomo dell’appartamento attiguo viveva lì da quando c’era Antar. Era
un esperto giocatore di scacchi e sosteneva di essere parente di Mikhail Tal.
Antar giocava con lui di tanto in tanto, e ogni volta perdeva malamente.
Poi un’estate - era stato quindici o vent’anni fa? - il giocatore di scacchi
aveva cominciato a perdere colpi. Non riusciva piú a giocare, aveva a
malapena la forza di muovere i pezzi sulla scacchiera. Erano arrivati i suoi
nipoti dalla North Carolina, dove si era sistemato il resto della famiglia,
avevano preso tutto quello che c’era nell’appartamento e l’avevano pigiato
dentro un camion giallo. Prima di andarsene avevano regalato ad Antar un
gioco degli scacchi di bronzo, per ricordo: lo conservava tuttora da qualche
parte.
Antar aveva guardato dalla finestra del soggiorno mentre portavano via
col camion il giocatore di scacchi.
Poi era toccato alla donna
dell’appartamento di sotto. Abitava nel caseggiato dagli anni sessanta,
quando era arrivata in America dall’Azerbaijan. Era invecchiata in
quell’appartamento, ci aveva allevato due bambini; non aveva nessun luogo
dove andare, soprattutto dopo che aveva cominciato a perdere la vista.
In quello spazio familiare riusciva ancora a cavarsela, in qualunque altro
posto si sarebbe sentita perduta. I suoi figli le avevano permesso di restare,
arrendendosi alle sue richieste malgrado il loro diverso parere. Venivano a
trovarla in aereo, ogni due mesi, dalla cittadina del Middle West dove
vivevano. Avevano preso accordi con una gastronomia perché le portassero
da mangiare due volte alla settimana. E un giorno il ragazzo che faceva le
consegne l’aveva ammazzata, colpendola alla testa con una padella di ferro
battuto. Era stato Antar a trovare il corpo. Ormai aveva fatto l’abitudine ai
suoi movimenti, e quando non aveva sentito per tutto il giorno il ticchettio
familiare del bastone sul pavimento, aveva capito che qualcosa non andava.
Era rimasto solo al quarto piano fino a pochi mesi prima, quando Maria,
la guyanese, era arrivata al caffè di Penn Station con Tara e l’aveva
presentata ai clienti abituali. Tara era piccola e somigliava a un uccellino,
con un delicato beccuccio di naso. Era piuttosto giovane - sui trent’anni,
supponeva Antar -
parecchio piú giovane di Maria. Lui aveva capito subito che era indiana:
del resto era ovvio, perché Maria era una guyanese originaria dell’India e
aveva ancora parenti laggiú.
C’era un interessante contrasto tra le due donne, benché sembrassero
molto affiatate. Maria era alta, imponente e, malgrado il suo salario
modestissimo, immancabilmente elegante. Tara invece sembrava cosí a
disagio negli abiti occidentali che si capiva subito che era appena arrivata:
la prima volta che era comparsa a Penn Station indossava un’informe
camicia bianca che le arrivava quasi alle ginocchia e un paio di pantaloni
scuri che le penzolavano sulle caviglie.
Ma non c’era niente di impacciato o da nuova arrivata, nei suoi modi.
Quando li avevano presentati gli aveva rivolto un sorriso e un cenno
vivace, poi si era sistemata nella sedia accanto a lui.
«Cosa stai bevendo?» gli aveva chiesto dando un colpetto sulla tazza.
Tè alla menta, le aveva spiegato, lo preparava apposta per lui il
proprietario, alla maniera egiziana.
«Fantastico! - aveva detto Tara. -
Proprio quello che avevo in mente.
Saresti cosí buono da chiedergli se posso averne un po’ anch’io?»
Antar era rimasto sbalordito dalla sua voce: l’accento affettato e il giro
inaspettato della frase.
Mentre uscivano, diretti verso Broadway, Maria lo prese da parte per
dirgli che Tara cercava casa, aveva trovato un lavoro e aveva bisogno di un
posto in cui vivere, a Manhattan.
«Cosa fa?» chiese Antar.
«Si occupa di bambini», disse Maria.
«Vuoi dire che fa la baby-sitter?»
Antar era stupito. Per qualche ragione Tara non gli era sembrata una che
per mantenersi accudisce bambini.
«Sí». Maria aveva proseguito spiegandogli che Tara era arrivata negli
Stati Uniti con la famiglia di un diplomatico kwaitiano, perché si occupasse
dei bambini. L’accordo non aveva funzionato, cosí adesso Tara aveva
trovato un altro lavoro come baby-sitter, al Greenwich Village. Ma la
famiglia presso cui lavorava non poteva ospitarla.
Sebbene Maria non l’avesse detto, Antar indovinò che il cambiamento
di lavoro rendeva illegale il soggiorno di Tara, che aveva dunque bisogno di
un posto in cui pagare in contanti senza dover dare troppe spiegazioni.
«Mi dispiace, - disse stringendosi nelle spalle. - Non posso aiutarvi».
Maria corrugò la fronte. «Ma ho saputo che ci sono un sacco di
appartamenti vuoti dove stai tu. Non c’è un appartamento libero sul tuo
stesso piano?»
Antar era stupefatto. «Come fai a sapere dove vivo?» disse. Una delle
regole non scritte del caffè era non fare mai domande che interferissero
troppo con la vita privata degli altri.
Maria fece un gesto vago. «Oh, l’ho sentito dire da qualcuno…» le si
era affievolita la voce.
Antar aveva il quarto piano tutto per sé da parecchi anni: l’idea di avere
di nuovo un vicino di casa lo turbava. «Non andrebbe bene per lei, -
disse. - L’edificio è terribilmente degradato, e anche l’appartamento».
Ma quando Maria lo pregò di mostrare la casa a Tara dovette arrendersi:
decise che la zona l’avrebbe dissuasa comunque.
Si sbagliava: a Tara era bastato un attimo per innamorarsi
dell’appartamento e nel giro di un mese ci si era trasferita. Antar
continuava a stupirsi quando andava in cucina e vedeva le luci accese al di
là del cortiletto d’aerazione. Per anni aveva tenuto le tende tirate perché
tutto quello che c’era da vedere nel cortiletto erano topi e piccioni morti.
Adesso gli capitava spesso di indugiare alla finestra piú a lungo del
necessario.
Gli occhi di Antar corsero ancora una volta all’orologio. «Manca solo
un quarto alle sei?» chiese
sovrappensiero, ad alta voce.
Istantaneamente Ava muggí una conferma, gridando l’ora alla maniera
dei guardiani di villaggio egiziani, perfetta in ogni dettaglio, perfino nel
ticchettio di un bastone di legno.
Capitolo quarto.
La fotografia sulla tessera di riconoscimento aveva cominciato a
prendere forma al centro del soggiorno, dall’alto in basso. Il primo dettaglio
fu un ciuffo di capelli accuratamente pettinati, ma piuttosto sottili e
scoloriti: senza dubbio i capelli di un uomo. Poi comparve un paio di occhi
neri. Antar si chiese se potesse essere egiziano, chiunque fosse: sí, era
possibile - ma poteva anche essere pakistano o indiano o latinoamericano.
Ma quando comparvero guance, naso e bocca, Antar non ebbe piú dubbi.
Era sempre stato molto abile nell’individuare l’origine delle persone, e ne
andava orgoglioso, è un talento che si sviluppa quando si passa un’intera
vita a lavorare per un’agenzia mondiale. Quell’uomo era indiano,
impossibile sbagliarsi.
Adesso l’immagine era enorme, e tremolante, come una bandiera al
vento. Il viso era pieno, a forma di luna, le gote gonfie come quelle di un
trombettista, il mento aggressivo e prominente finiva in un pizzetto ben
curato. Fu il naso che fece riflettere Antar - un naso da pugile, col setto
schiacciato. Stonava, in quella faccia ben nutrita, rotonda. Eppure aveva
qualcosa di familiare.
Antar si alzò in piedi e arretrò di qualche passo: era piuttosto
sconcertante guardare un’immagine piatta, bidimensionale, in proiezione
tridimensionale. Si spostò prima da una parte e poi dall’altra, fissando la
bocca. Notò che le labbra erano socchiuse, come a mezza frase. Un ricordo
cominciava a prendere forma nella sua mente - di qualcuno intravisto negli
ascensori e nei corridoi, un ometto tozzo, panciuto, sempre vestito
impeccabilmente - abiti rigati, pantaloni con la piega perfetta, camicie
inamidate, polsini sempre abbottonati, anche nelle piú torride giornate
estive. E un cappello
- portava sempre il cappello. Ecco perché Antar ci aveva messo tanto a
riconoscerlo. Non aveva mai visto i capelli di quell’uomo; di solito era a
capo coperto - e non c’era da meravigliarsi, visti i capelli.
L’immagine divenne piú nitida nella mente di Antar: ricordava di aver
visto l’uomo trottare affaccendato nei corridoi, le scarpe che ticchettavano
sul marmo, con mucchi di cartelline sotto un braccio; ricordò un accento
difficilmente collocabile, né americano né indiano né niente altro, e una
voce alta, stridente, compiaciuta; una voce che riempiva ascensori affollati e
riecheggiava nell’atrio rilucente della Compagnia, lasciandosi alle spalle
una scia di sguardi divertiti e domande sussurrate, «Chi diavolo è quello?» e
«Oh, non lo conosci? è il nostro signor…»
Ricordava un incontro, una
conversazione da qualche parte, anni prima, seduti a tavola uno di fronte
all’altro. Ma cosí come si era profilato, il ricordo svaní.
Il nome: ecco la chiave. Qual era il nome?
Cominciò ad apparire, pochi secondi dopo, lentamente, lettera per
lettera, poi, a un tratto, Antar ricordò. Non aveva davanti che quattro lettere,
e già era balzato sulla tastiera di Ava e lo digitava, insieme a un ordine di
ricerca.
Il nome era L’ Murugan.
La prima ricerca andò a vuoto, allora Antar spinse Ava dentro i vasti
archivi dell’Iwc dove erano conservate tutte le liste delle vecchie
organizzazioni mondiali. Ci vollero dieci minuti buoni prima che i sistemi
d’accesso gli consentissero di entrare nel magazzino dati, ma una volta
dentro fu questione di un attimo.
Sorrise, quando si trovò davanti quel file antiquato: un segnino
minuscolo, la lettera araba ‘ain, gli faceva l’occhiolino dallo schermo, sopra
l’intestazione «L’ Murugan».
Conosceva quel simbolo, ce l’aveva messo lui. Qualcuno nell’ufficio
aveva messo in piedi un gioco, accettando scommesse per vedere chi usava
piú spesso la correzione ortografica.
Ognuno di loro aveva escogitato un simbolo per contrassegnare il
proprio lavoro. Lui aveva scelto la ‘ain perché era la prima lettera del suo
nome, ‘antar.
Ma si stupí vedendo il file: si era aspettato qualcosa di piú lungo e
voluminoso; ricordava di aver immagazzinato un sacco di
informazioni. Gli diede una rapida scorsa, dal principio alla fine.
Arrivato all’ultima riga, si rimise a sedere, strofinandosi il mento.
Adesso ricordava - l’aveva digitato lui, qualche anno prima.
«Soggetto disperso dal 21 agosto 1995, - diceva. - Visto l’ultima volta a
Calcutta».
Capitolo quinto.
Mentre oltrepassava la cattedrale di St Paul, nel suo primo giorno a
Calcutta, il 20 agosto 1995, Murugan fu colto all’improvviso da un
acquazzone monsonico. Era diretto al Presidency General Hospital, in
Lower Circular Road, per vedere il monumento allo scienziato inglese
Ronald Ross.
L’aveva visto in fotografia e sapeva esattamente cosa cercare. Era un
arco, ricavato nel muro perimetrale dell’ospedale, non lontano dal vecchio
laboratorio di Ross. C’era un medaglione con il ritratto e un’iscrizione che
diceva: «Nel piccolo laboratorio sessanta metri a sud-est di questo cancello
il maggiore medico Ronald Ross dell’Indian Medical Service nel 1898
scoprí in che modo la malaria viene trasmessa dalle zanzare».
Non gli restava molta strada da fare quando fu sorpreso dalla pioggia.
Sentí i primi goccioloni sul berretto verde da baseball e si girò per
vedere un opaco muro di pioggia che avanzava verso di lui, attraverso la
spianata verde del Maidan. Affrettò il passo, maledicendo se stesso per aver
lasciato l’ombrello alla pensione. Di fronte al Museo di Belle Arti gli
ambulanti, indaffarati a coprire i loro cesti di cibo con la tela cerata, si
fermarono a fissarlo mentre trottava via, con l’abito kaki e il berretto verde
da baseball.
Naturalmente aveva messo un ombrello nella valigia, una Cadillac di
ombrello, che si apriva al semplice tocco di un bottone: sapeva benissimo
che Calcutta era cosí in quella stagione dell’anno. Ma l’ombrello era
rimasto nella valigia, alla pensione di Robinson Street. Aveva un tale
desiderio di compiere il suo pellegrinaggio al monumento a Ross che si era
dimenticato di tirarlo fuori.
Adesso la pioggia lo incalzava.
Intravvide i cancelli spalancati dell’auditorium in Rabindra Sadan, poco
lontano, e si mise a correre. Un minibus ansimante sollevò uno spruzzo
d’acqua da una pozzanghera, inzuppando i suoi costosi pantaloni di
gabardine kaki. Continuando a correre, Murugan fece un gestaccio al
bigliettaio che si spenzolava fuori dalla portiera del bus, osservandolo. Ci fu
uno scoppio di risa poi il bus si allontanò di gran carriera, sputacchiando
nuvolette di gas grigioverde.
Murugan svoltò in Rabindra Sadan un attimo prima del diluvio e corse
su per le scale. La galleria esterna dell’auditorium era tutta illuminata e
tappezzata di manifesti: sentiva un microfono gracchiare e ronzare
all’interno. Si stava certamente svolgendo un evento importante: la gente si
accalcava davanti alla porta dell’auditorium, spingendo per entrare. Una
troupe della televisione, con cavi e telecamere, gli passò davanti di corsa.
Poi le luci si abbassarono e rimase solo nella galleria.
Distolse lo sguardo e, attraverso una finestra, scrutò i muri del P’G’
Hospital in lontananza, sperando di riuscire a vedere l’arco
commemorativo. Ma proprio in quel momento gli altoparlanti
dell’auditorium si animarono e una voce sottile, roca cominciò a
declamare. Insistente nella sua amplificata solennità, si impose
all’attenzione di Murugan.
«Ogni città ha i propri segreti, -
cominciò la voce, - ma Calcutta, la cui vocazione è l’eccesso, ne ha così
tanti che è piú segreta di qualsiasi altra. Altrove, paradossalmente, i segreti
vivono nei racconti: soffiano vita nella monotonia degli angoli di strada e in
stradoni desolati; sul retro invaso dai rifiuti di casermoni senza finestre e sui
pavimenti anneriti di officine unte di morchia.
Ma qui, nella nostra città dove ogni legge, naturale e umana, resta
capricciosamente in bilico, ciò che è nascosto non ha bisogno di parole che
gli diano vita; come ogni creatura che vive in un elemento anormale, esso si
trasforma per trovare nutrimento esattamente là dove sembra che sia stato
piú radicalmente estirpato - nel nostro caso, nel silenzio».
Colto alla sprovvista, Murugan si guardò intorno nell’atrio dall’ampia
vetrata. Non c’era nessuno. Poi notò due donne che si affrettavano su per le
scale. Si precipitarono dentro e si fermarono accanto all’ingresso,
asciugandosi l’acqua dai capelli e scuotendola dai sari. Una era sui
venticinque anni, una donna sottile dai tratti aquilini nel viso delicato,
indossava un sari cascante, piuttosto logoro. L’altra era piú alta e piú
anziana, agli inizi di una giovanile mezz’età, una bellezza bruna e
sobriamente elegante, in un sari di cotone nero. Aveva una spessa striatura
bianca nei capelli che le arrivavano alle spalle.
Attraversando l’atrio per
raggiungerle, Murugan notò che entrambe le donne portavano fissata sul
sari la targhetta stampa. Quando fu a pochi passi riconobbe un logo
familiare: su entrambe le targhette c’era il nome della rivista
«Calcutta».
Provò una fitta di dolore nel rivedere la testata gotica della rivista di cui
i suoi genitori erano stati fedeli abbonati. Vedendo quei caratteri familiari,
riprodotti in miniatura, ebbe per un attimo una sensazione di intimità con le
due donne.
Allungando il collo vide che la piú giovane si chiamava Urmila Roy;
quella alta, elegante, Sonali Das.
Murugan si fece avanti schiarendosi la voce.
Capitolo sesto.
Urmila stava per chiedere una cosa a Sonali quando venne interrotta. Si
voltò con aria seccata e vide accanto a sé un ometto buffo, che si schiariva
la voce. Sgranò gli occhi davanti al cappellino verde, al pizzetto e ai
pantaloni kaki schizzati di fango. Poi quello disse qualcosa, molto in fretta.
Le ci volle un po’ per capire che parlava inglese: non aveva mai sentito un
accento simile prima di allora.
Lanciò un’occhiata beffarda, a sopracciglio alzato, alla sua amica
Sonali, ma non riuscí a incrociarne lo sguardo. Sonali non sembrava per
niente sorpresa da quel tizio. Anzi gli sorrideva. «Mi scusi, - gli stava
dicendo, - non ho capito».
L’uomo indicò col pollice alle sue spalle, in direzione dell’auditorium.
«Cosa diavolo succede là dentro?»
disse, questa volta po’ piú lentamente.
Urmila anticipò Sonali nella risposta, sperando di liberarsi di lui. «è la
cerimonia per la consegna di un premio, - disse. - Per Phulboni, lo scrittore,
in occasione del suo ottantacinquesimo compleanno».
Invece di togliersi dai piedi, a quel punto l’uomo iniziò le presentazioni,
mormorando un nome che sembrava Morgan. Sonali gli rivolse un sorriso
che si poteva facilmente scambiare per un segno di
incoraggiamento. Impossibile biasimare il suo indugio.
«Phulboni? - disse Murugan, stropicciandosi la barbetta. - Lo scrittore?»
«Sí, - disse Sonali con dolcezza. -
Il nostro maggiore scrittore vivente».
Urmila fece un cenno a Sonali,
«Sonali-di, - disse. - C’è una cosa che vorrei chiederti…»
L’uomo proseguí imperterrito, come se non l’avesse sentita. «Sicuro, -
disse, - credo di averne sentito parlare».
Sonali frugò nella borsetta, prese una sigaretta e cominciò ad
armeggiare con l’accendino. Urmila era vagamente choccata: sapeva che
Sonali fumava, naturalmente, l’aveva vista fumare in ufficio. Ma qui, in
pubblico?
«Sonali-di! - disse sottovoce. - C’è tutta Calcutta, e se qualcuno ti
vede…?»
«Non preoccuparti Urmila, - disse Sonali sbrigativa, indicando l’atrio
deserto. - Nessuno ci guarda». Accese la sigaretta e soffiò il fumo in aria,
con la testa all’indietro.
«Adesso ricordo, - disse a un tratto Murugan. - Phulboni è uno
pseudonimo, giusto?»
«Giusto, - annuí Sonali. - Il suo vero nome è Saiyad Murad Husain.
Cominciò a scrivere sotto pseudonimo perché suo padre minacciava di
diseredarlo se fosse diventato uno scrittore».
«Ma è solo una leggenda», disse Urmila.
«Phulboni sarebbe il primo a confermartelo, - disse Sonali ridendo,
- c’è sempre qualcosa di vero nelle leggende».
All’improvviso si levò la voce dello scrittore, che rimbombava
attraverso un altoparlante. «Sbagliano, quelli che credono che il silenzio sia
privo di vita; che sia inanimato, senza spirito o voce. Non è cosí: in realtà la
Parola è per questo silenzio ciò che l’ombra è per un corpo, ciò che il velo è
per gli occhi, la mente per la verità, la lingua per la vita».
Sonali buttò fuori una nuvoletta di fumo. «Sentitelo! - disse, chinando la
testa per coglierne la voce. - Oggi è davvero al suo meglio. Gli capita
spesso, ultimamente, soprattutto quando parla in inglese. Avreste dovuto
sentirlo l’altro giorno all’Alliance Française».
Urmila notò, con sgomento, che Sonali stava di nuovo sorridendo a
Murugan, quasi volesse sollecitarlo.
Si sentí mancare. Era un’abitudine per Sonali - fermarsi a parlare con gli
estranei, mettersi a conversare in ascensore e saltare il piano e cosí via. Di
solito Urmila non ci badava, anzi le piaceva che una persona famosa come
Sonali Das provasse un cosí evidente piacere nell’intrattenersi con gli
sconosciuti. Ma oggi Urmila aveva fretta: doveva finire un lavoro e aveva
bisogno di parlare con Sonali.
Era passata a prenderla, poco prima, nel suo ufficio al quinto piano; le
aveva proposto di andare insieme alla cerimonia sperando di parlarle lungo
il tragitto. Ma ovviamente erano finite in uno di quei taxi i cui conducenti
sembrano incapaci di trovare la strada tra un capo e l’altro di Chowringhee.
Lei e Sonali avevano passato i venti minuti del tragitto dagli uffici della
rivista in Dharmatola a Rabindra Sadan aggrappate al sedile anteriore,
dandogli istruzioni minuto per minuto: «Giri a destra qui… stia attento…
un autobus davanti… un cane là…
buco…»
E adesso che erano finalmente sole, saltava fuori questo strano ometto
con berrettino e pizzetto.
Urmila esaminò la possibilità di interromperli con piú decisione, ma
preferí evitarlo. Non si sentiva ancora del tutto a suo agio con Sonali: in
realtà non le era stato facile salire nel suo ufficio quel giorno, senza essere
invitata.
Urmila lavorava alla redazione di
«Calcutta» da quando aveva finito le scuole, tre anni prima. Era fiera di
occuparsi di notizie difficili, di essere l’unica donna dei servizi di cronaca.
Non esitava a precipitarsi nell’ufficio del ministro degli Interni
all’associazione degli scrittori, o di porre questioni scottanti alla conferenza
stampa del Primo ministro. Ma quando si trovava al cospetto di Sonali Das
era insolitamente timida e perdeva la lingua. Sonali era un tale
personaggio; il tipo di persona di cui si legge nelle riviste di cinema e
nelle colonne di pettegolezzi dei quotidiani; di cui ci si abitua a sentir
pronunciare il nome da zie e cugine, con un’eguale dose di critica e
ammirazione, di invidia e scandalo.
Era una di quelle persone di cui tutti parlano senza sapere bene perché.
La sua notorietà era in parte dovuta alla madre defunta, famosa attrice di
teatro degli anni Quaranta e Cinquanta. Ma anche Sonali, da ragazza, aveva
interpretato un paio di film prodotti a Bombay. Il primo aveva fatto
scalpore, perché non era la solita storia con musica e ballo. Ma proprio
quando sembrava avviata a una promettente carriera, aveva lasciato
Bombay ed era tornata a Calcutta.
Qualche anno dopo aveva pubblicato un magnifico libretto di memorie,
divertente, eppure malinconico, perfino triste. Parlava soprattutto di sua
madre, ma anche della propria infanzia - degli amici della madre nel mondo
letterario, dei vecchi studios di Tollygunge e Bombay, di quando
accompagnava sua madre nelle tournée con le compagnie jatra che
attraversavano tutto il paese mettendo in scena grandiosi melodrammi
storici.
Un giovane regista sperimentale aveva tratto dal libro una sceneggiatura
teatrale; la commedia, a sua volta, era stata portata sullo schermo con
grande successo di pubblico e di critica. Da allora, la fama di Sonali Das si
era definitivamente
consolidata, anche se non aveva fatto piú niente - o almeno non fino a
quando aveva accettato di lavorare per
«Calcutta» occupandosi, su specifica richiesta del proprietario, del
supplemento femminile della rivista.
Urmila si era incuriosita,
apprendendo che Sonali avrebbe collaborato alla rivista, ma non aveva
immaginato neppure per un attimo che sarebbero diventate amiche. Poi un
giorno si era ritrovata accanto a Sonali in ascensore. L’aveva riconosciuta
immediatamente, benché l’avesse vista una soia volta, anni prima. Era
molto cambiata, ma Urmila decise immediatamente che erano tutti
cambiamenti in meglio: quella striatura bianca tra i capelli per esempio -
faceva bene a mostrarla. Le donava, era un tratto distintivo.
Dopo il primo rapido sguardo, Urmila aveva tenuto gli occhi fissi sulla
porta dell’ascensore, non voleva mostrarsi indiscreta. Invece era stata
Sonali a rivolgerle la parola. Nel giro di pochi minuti erano sedute nel
lurido baruccio del giornale, chiacchierando davanti a una tazza di tè.
Quella mattina Urmila aveva rotto il cinturino dell’orologio, mentre
lottava per tenersi in piedi in un minibus strapieno. Le sembrava sciocco
parlarne: che interesse poteva avere, una come Sonali Das, per un cinturino
strappato? Ma lungi dall’annoiarsi, Sonali si era resa molto utile: le aveva
detto di un negozietto vicino al cinema Metro dove poteva far riparare il
cinturino con un paio di rupie.
Urmila era sbalordita che sapesse cose del genere.
E adesso, con lo stessa
indiscriminata gentilezza, Sonali stava dicendo a quell’estraneo con
pizzetto che il vicepresidente era venuto da Delhi per consegnare un premio
a Phulboni.
Urmila decise che l’unico modo per liberarsi di quell’individuo era
entrare nell’auditorium. «Andiamo, Sonali-di, - disse prendendola per un
braccio. - Sbrighiamoci, o non vedremo niente».
Sonali tirò un’ultima, lunga boccata poi spense il mozzicone ardente in
un posacenere pieno di sabbia. «Temo che dobbiamo andare, - disse
lanciando a Murugan un grande sorriso. - La mia amica è qui per lavorare».
Urmila si avviò verso una porta e l’aprí. L’auditorium era strapieno: file
di teste scivolavano come onde verso il palcoscenico inondato di luci dove
un uomo alto coi capelli bianchi stava in piedi davanti a un leggio;
indossava un paio di antiquati pantaloni a vita alta, di un verde militare
sbiadito. I riflettori stendevano lunghe ombre sul suo viso scavato, ma era
impossibile confondere gli occhi scuri, lampeggianti sotto la fronte
sporgente. Urmila ebbe un brivido: aveva sentito parlare di lui moltissime
volte, aveva letto gran parte di ciò che aveva scritto, ma non l’aveva mai
visto prima, non in carne e ossa.
Esitando, avanzò lungo il corridoio laterale semibuio. Notò
distrattamente che il vicepresidente sonnecchiava sul palcoscenico, alle
spalle di Phulboni.
Lo scrittore stringeva i bordi del leggio, chinandosi in avanti, parlando
con voce bassa, roca. «Il silenzio della città, - disse, - mi ha fatto compagnia
durante tutta la mia vita di scrittore: mi ha tenuto vivo nella speranza che
avrebbe preteso anche me prima che l’inchiostro si seccasse.
Per piú anni di quanti io possa contarne ho interrogato le tenebre di
queste strade, alla ricerca della presenza invisibile che regna su questo
silenzio, ansioso di essere catturato, supplicando di poterlo attraversare
prima che venga la mia ora. Il tempo del trapasso è vicino, lo so, e perciò
sono qui, adesso, qui davanti a voi: per supplicare - fare appello alla signora
di questo silenzio, la piú segreta delle dee, perché mi conceda ciò che cosí a
lungo mi ha negato: si mostri a me…»
Urmila diede un’occhiata alle sue spalle, lungo il corridoio. Notò che
Murugan l’aveva seguita dappresso e le sfiorava il gomito, sgomitando per
farsi strada dentro l’auditorium. Una maschera si avvicinò, con una pila in
mano. Vide la targhetta stampa di Sonali, poi quella di Urmila e le fece
passare. Urmila si voltò di nuovo indietro. Constatò con sollievo che la
maschera stava accompagnando fuori con fermezza Murugan.
Sul palco ci fu un attimo di agitazione: la sonnacchiosa testa
ciondolante del vicepresidente aveva battuto contro lo schienale della sedia.
Capitolo settimo.
Ricorrendo all’apposito codice Dakala-class, Antar inviò un messaggio
al quartier generale dell’Iwc per informarli di aver trovato la tessera di
riconoscimento di un dipendente Life Watch disperso dal 21 agosto 1995.
Poi si riaccomodò sulla sedia e cominciò a scorrere il file reperito da Ava
negli archivi Iwc. Lo rivolevano indietro nel giro di un’ora, e sapeva di
doverlo esaminare per intero, nel caso che il quartier generale esigesse da
lui un supplemento d’indagine. A una prima occhiata stabilí che avrebbe
impiegato circa venti minuti - gli sarebbe rimasto giusto il tempo di una
camminata a Penn Station prima dell’appuntamento con Tara.
Gli bastarono pochi minuti per rendersi conto che il file consisteva per
lo piú in comunicazioni e ritagli di giornale che risalivano all’epoca della
«sparizione» di L’ Murugan. In genere si limitavano a riportare le voci
circolate in ufficio. Al momento, ricordò Antar, tutti avevano dato per
scontato che «sparizione» fosse solo un eufemismo per suicidio.
Alcuni ritagli si riferivano alla ricerca ovviamente senza risultati
condotta dalla polizia indiana subito dopo la «sparizione»: non era difficile
capire che anche loro, al pari dei colleghi di Murugan a Life Watch,
avevano deciso di fare un uso eufemistico della parola.
Fu l’ultima voce del file ad attirare l’attenzione di Antar. Era un articolo
di provenienza inaspettata, il bollettino interno di Life Watch.
Il pezzo aveva il tono commemorativo, sobriamente rispettoso di un
necrologio, sebbene l’autore avesse la cautela di definire Murugan
«disperso»
anziché «morto». Iniziava col consueto tono aneddotico, riferendosi a
lui come «Morgan» - «il nome con cui lo conoscevano gli amici». Lo
descriveva come «un galletto piuttosto vanitoso»; parlava, non senza
affetto, della sua combattività, di come fosse assolutamente incapace di
resistere a una discussione, della sua parlantina apparentemente
inarrestabile; dei suoi molteplici contributi come
capo-archivista di Life Watch.
Accennava alla sua infanzia «globale»
passata vagabondando tra varie capitali del mondo col padre tecnocrate,
infine parlava brevemente del suo amore per i film hollywoodiani di serie B
e i vecchi serial americani
- «unico punto fermo, come per molti altri, di un’esistenza itinerante,
cosmopolita».
All’università di Syracuse dove si era laureato, proseguiva l’articolo,
«Morgan» aveva scoperto la grande passione della sua vita: la storia
clinica della malaria. Aveva insegnato per parecchi anni in un piccolo
college nel nord dello stato di New York, e in quel periodo aveva maturato
un crescente interesse per un aspetto particolare del tema: la storia delle
origini della ricerca sulla malaria.
In seguito, anche quando lavorava per Life Watch, aveva sfruttato ogni
momento libero per proseguire quel percorso di ricerca - spesso a
detrimento della sua carriera. Aveva pubblicato poco o nulla in quegli anni,
ma aveva spesso affermato, con la consueta impertinenza, che godeva della
felice situazione di essere eminente nel suo campo in virtú del fatto di
averlo tutto per sé.
Il suo campo era il poeta,
romanziere e scienziato inglese Ronald Ross.
Nato in India nel 1857, Ross aveva ricevuto il premio Nobel nel 1906
per il suo lavoro sul ciclo di vita del parassita della malaria. A quel tempo si
era convinti che tale scoperta epocale avrebbe portato alla sconfitta
definitiva di quella che era forse la piú antica e diffusa malattia del mondo:
attesa, ahimè, tristemente delusa, come Life Watch aveva scoperto a proprie
spese. Si sapeva che Murugan, nei suoi rari attimi di serietà, aveva
ammesso che l’interesse per quell’argomento piuttosto oscuro era nato in lui
per ragioni biografiche. La fase ultima e cruciale del lavoro di Ross si era
svolta a Calcutta, nell’estate 1898. Anche Murugan era nato in quella città,
benché l’avesse lasciata ancora bambino.
Forse tale connessione biografica aveva qualcosa a che fare con la
natura ossessiva dell’interesse di Murugan per la malaria. Nel 1987
informò alcuni amici di aver finalmente scritto una sintesi delle sue
ricerche in un articolo intitolato
:Alcune discrepanze sistematiche nel rapporto di Ronald Ross sul
Plasmodium B. Malgrado l’interesse dimostrato da alcuni colleghi, nessuno
riuscí mai a vedere l’articolo. Ricevette critiche preliminari cosí negative da
tutte le riviste cui venne sottoposto che Murugan decise di rivederlo prima
di metterlo in circolazione.
Alla fine, però, l’articolo rielaborato non ebbe maggiore fortuna del
primo. Il nuovo pezzo portava lo sfortunato titolo :Una diversa
interpretazione delle ricerche sulla malaria alla fine del Xix secolo: c’è una
storia segreta? L’accoglienza fu ancora piú ostile che per la prima versione,
ed ebbe l’unico risultato di bollare Murugan come un pazzoide eccentrico.
Nel 1989 Murugan scrisse alla Società di Storia delle Scienze
proponendo una ricerca relativa ai primi studi sulla malaria per il prossimo
convegno della società.
Quando tale proposta fu respinta, scrisse messaggi E-mail di pagine e
pagine ai membri del comitato esaminatore, intasandone le cassette postali
elettroniche. Un anno dopo la società prese un’iniziativa senza precedenti:
revocò la sua iscrizione, avvertendolo che avrebbe intrapreso un’azione
legale nel caso avesse cercato di partecipare a futuri incontri e convegni. A
quel punto Murugan rinunciò a discutere pubblicamente il suo caso.
In generale, i colleghi di Murugan a Life Watch consideravano la sua
ricerca un hobby inoffensivo, seppure inconcludente: nessuno pensava
niente di peggio, salvo quando ciò lo distoglieva dal lavoro regolare. Ma
presto fu chiaro a tutti quelli che lo conoscevano bene che l’ostracismo
della comunità scientifica lo aveva ferito. E forse fu proprio quella la causa
scatenante di un comportamento sempre piú eccentrico e ossessivo. Fu
all’incirca in quel periodo, ad esempio, che cominciò a parlare della sua
nozione di una cosiddetta «Altra mente»: la convinzione che una o piú
persone avessero sistematicamente intralciato gli esperimenti di Ronald
Ross per spingere le ricerche sulla malaria in certe direzioni
distogliendole da altre. L’ostinata difesa di tale bizzarra ipotesi lo portò
ad estraniarsi progressivamente da molti amici e colleghi.
Murugan riteneva che gli sviluppi delle ricerche sulla malaria avvenuti
intorno al 1990 - come il lavoro immunologico di Patarroyo, e gli
importanti passi avanti delle ricerche sulle variazioni antigeniche nel
Plasmodium falciparum - fossero le conquiste piú significative dopo il
lavoro di Ross di un secolo prima.
Murugan si convinse (e cercò di convincere altri) che tali progressi
avrebbero reso giustizia al lavoro della sua vita. La svolta avvenne nel
1995, quando cominciò a brigare per farsi mandare a Calcutta, il luogo delle
scoperte di Ross: ci teneva soprattutto ad essere là prima del 20
agosto, giorno scelto da Ross come
«Giornata mondiale della zanzara» per commemorare una delle sue
scoperte.
Purtroppo Life Watch non aveva uffici a Calcutta: né si sarebbe potuta
giustificare la spesa di aprirne uno solo per il capriccio di Murugan.
Tuttavia, quando fu chiaro che Murugan era deciso ad andarci anche a costo
di giocarsi il posto di lavoro, varie persone
dell’organizzazione si misero di buzzo buono e realizzarono un piccolo
progetto di ricerca che gli avrebbe consentito di passare un po’ di tempo a
Calcutta, seppure con un salario pesantemente ridotto. Con grande gioia di
Murugan, il progetto fu pronto giusto in tempo per permettergli di
raggiungere Calcutta il 20 agosto 1995.
In seguito, dopo la «sparizione» di Murugan, ci fu chi biasimò
l’organizzazione per averlo lasciato partire. Dal canto suo
l’organizzazione aveva fatto il possibile per distoglierlo dai suoi
propositi. I rappresentanti dell’ufficio personale, per esempio, lo avevano
incontrato piú volte nel luglio 1995, poco prima della sua partenza, per
convincerlo ad abbandonare quel progetto. Ma a quel punto il progetto era
diventato un’idea fissa per Murugan, e nessuno sarebbe riuscito a farlo
desistere dai suoi propositi.
«Pertanto è fuori luogo, -
continuava l’articolo, - attribuire ai sostenitori di Murugan a Life Watch
la responsabilità dei tristi eventi dell’agosto 1995: meglio sarebbe unirsi al
loro dolore per la perdita di un amico insostituibile».
Capitolo ottavo.
Il torrenziale acquazzone si era assottigliato in una pioggerellina gentile.
Murugan si diresse rapidamente dall’ingresso
dell’auditorium verso la
trafficatissima Lower Circular Road.
Ignorando il poliziotto cinto d’assedio sullo spartitraffico, s’inoltrò nel
flusso d’auto e l’attraversò con decisione, bloccando con una mano alzata le
auto e i bus in arrivo, incurante dello stridere dei freni e dello strombettio
dei clacson.
Il marciapiede opposto era intasato di pedoni. Murugan fu quasi travolto
dalla marea di gente diretta verso Harish Mukherjee Road e il P’G’
Hospital. Era appena riuscito a mettersi al passo della folla quando si
sentí chiamare. Si fermò di botto solo per ritrovarsi spinto avanti
dall’ininterrotto fluire di gente.
Diede una rapida occhiata alle sue spalle mentre veniva sospinto piú
avanti. Udí di nuovo il richiamo:
«Ehi, Mister, dove va?» Ma sí, in mezzo alla fiumana di gente dietro di
lui, ballonzolava su e giú la testa di un ragazzo emaciato e con pochi denti
- un bagarino di non si sapeva bene cosa, che l’aveva già avvicinato una
volta quel giorno, appena uscito dalla pensione.
Murugan affrettò il passo e il ragazzo gridò di nuovo, a voce altissima:
«Aspetti Mister, dove va?»
Indossava una maglietta scolorita con sopra stampata una spiaggia di
palme e la scritta «Pattaya Beach».
Ritrovandoselo cosí vicino, Murugan ci rimase male: qualche ora prima
aveva avuto il suo daffare a toglierselo di torno.
Murugan si conquistò un posticino accanto al muro che fiancheggiava il
marciapiede e attese il ragazzo.
«Stammi a sentire, amico, - disse, prima nel suo ormai incerto bengali,
poi in hindi. - Piantala di venirmi dietro: non caverai niente da uno come
me».
Il ragazzo mostrò i denti in un sorriso. «Cambio dollari? - disse. -
Buon cambio».
Murugan esplose. «Ma lo vuoi capire?
- gridò. - In quanti modi devo dirtelo: no, no, nahin, nyet, niente, nix.
Non voglio cambiare dollari, e se anche volessi, saresti l’ultima persona al
mondo a cui lo chiederei».
S’infilò una mano in tasca e ficcò una manciata di monete in mano al
ragazzino. «Questo è tutto quello che puoi cavare da me. Prendi e togliti dai
piedi».
Tornò a immergersi svelto tra la folla, lasciando il ragazzo a fissare un
pugno di monete. Adesso si trovava all’angolo di Harish Mukherjee Road.
A testa bassa, Murugan svoltò l’angolo e si addossò al muro. Nascosto dalla
folla frettolosa, osservò il suo inseguitore che correva in direzione opposta;
vide che si guardava intorno.
Poi il ragazzo si diede per vinto e si tuffò nel traffico, correndo verso il
Victoria Memorial, in lontananza.
«E che Dio ti abbia in gloria», disse Murugan, riavviandosi.
Girato l’angolo, la folla si diradava. Adesso gli edifici di mattoni rossi
del P’G’ Hospital erano alla sua sinistra, parecchio al di là del muro
perimetrale, quasi ad altezza d’uomo, e dello stretto canale che gli scorreva
accanto. Rallentò, scrutando il muro in cerca dell’arco
commemorativo.
Ed eccolo, di là dal canale, momentaneamente illuminato dai fari di un
camion di passaggio: un arco che incorniciava una cancellata di ferro
battuto arrugginito. All’apice c’era un medaglione, con il profilo barbuto di
Ronald Ross. Sotto, a destra, c’era un’iscrizione: «Nel piccolo laboratorio
sessanta metri a sud-est di questo cancello il maggiore medico Ronald Ross
dell’Indian Medical Service nel 1898 scoprí in che modo la malaria viene
trasmessa dalle zanzare». Sulla sinistra, incise nel marmo, c’erano tre strofe
della poesia di Ross, In esilio.
Murugan scorse con gli occhi quei versi familiari:
Oggi un più mite Dio Alle mie mani ha recato Un prodigio; sia lode a
Dio. Per sua volontà Indagando i suoi segreti Con lacrime ed affanno Trovo
i tuoi semi astuti, o morte, Di moltitudini assassina. Io so che quest’inezia,
L’Umanità può salvare.
Morte, dov’è il tuo scettro? La tua vittoria, o tomba?
Ronald Ross
Murugan scoppiò a ridere. Girando su se stesso a braccia spalancate
prese a declamare, dalla stessa poesia, con voce profonda, allegramente
stentorea: Mi guardo intorno incredulo E vedo una landa di morte - Ossa
morte che camminano E ossa morte sottoterra; Genía di sventurati stretti
Tra le grinfie del bisogno Resi muti dalla consunzione Pula del seme
umano.
Fu interrotto da un battimani che proveniva dalla parte opposta
dell’ampia strada. «Bravissimo, Mister», gridò una voce.
Murugan abbassò le braccia e scrutò l’oscurità fronzuta di fronte a lui.
Intravvide una maglietta stampata e la smorfia sorridente di una faccia
sdentata.
«Continui a seguirmi, pula del seme umano? - gridò con le mani intorno
alla bocca. - Perché? Cosa ci guadagni?»
Il ragazzo rispose con un cenno della mano e sparí nel traffico.
Murugan vide un camion, proveniente dalla zona dell’ippodromo, che
gli si avvicinava rombando. Attese che il camion gli passasse accanto,
sottraendolo alla vista del ragazzo.
Poi si girò, si issò sul muro e si lasciò cadere dall’altra parte, a notevole
distanza dall’arco.
I suoi piedi atterrarono su qualcosa di morbido e cedevole. Sulle prime
pensò che fosse fango; sentiva l’umidità filtrare attraverso il morbido cuoio
dei mocassini nuovi.
Poco dopo l’odore lo colpí. «Merda», disse sottovoce, guardandosi
intorno.
Si trovava in una stretta striscia di terreno abbandonato e coperto
d’erbacce dietro il corpo principale dell’ospedale. Di fronte a lui c’erano
alcune indefinibili tettoie e una piccola struttura in cemento che accoglieva
una pompa d’acqua. Alla luce riflessa dell’ospedale, che incombeva sopra
di lui, Murugan riusciva a vedere un branco di cani che frugavano tra i
rifiuti di una vicina discarica in cerca di cibo.
Facendosi schermo agli occhi con le mani scrutò tra le ombre: non c’era
nessuno in giro tranne un vecchio, accucciato contro il muro, a una certa
distanza, che si sciacquava il sedere.
Davanti a lui, mucchi di mattoni rotti e calcina sui quali si stagliavano
montagnole di escrementi, cinerei sotto le luci al neon dei lampioni stradali.
Murugan si tappò il naso con una mano e si appiattí contro il muro.
Sentí dei passi che si avvicinavano di corsa, dall’altra parte del muro; si
fermarono, arretrarono, si
avvicinarono di nuovo. Udí il ragazzo che borbottava tra sé, poi se ne
andava, in fretta.
Respirando di nuovo, Murugan cominciò a scivolare lungo il muro,
appoggiandovisi col palmo delle mani.
Tastando la parete, la sua mano sinistra capitò sull’orlo di un’apertura
nella ruvida superficie di mattoni. Murugan si sporse per controllare e
scoprí che l’apertura era in realtà una piccola nicchia: o piuttosto un vuoto
nel punto in cui erano stati rimossi alcuni mattoni, proprio dietro l’arco
commemorativo.
Ci infilò una mano con cautela e urtò qualcosa. Le sue dita si chiusero
intorno a un piccolo oggetto. Lo tirò fuori, era una statuina d’argilla.
Allungando il braccio, Murugan l’espose all’incerto luccichio di un
lontano lampione. La figurina era di argilla dipinta, ed era abbastanza
piccola per essere facilmente chiusa nel palmo della mano. Gli ricordava le
piccole immagini degli dèi che sua madre portava con sé nei loro
spostamenti.
Il corpo centrale della figurina era un semplice monticello
semicircolare, rozzamente modellato e informe salvo due grandi occhi
stilizzati, dipinti in contrastante bianco e nero sull’argilla cotta. Fecero
sussultare Murugan; brillavano nella luce fioca del neon e lo fissavano,
sostenendo il suo sguardo; fu costretto a sbattere le palpebre per riuscire a
guardare altrove.
Si rigirava l’oggetto nel palmo della mano. A destra del monticello
c’era un minuscolo uccellino, inconfondibilmente un piccione, modellato
con estrema cura - piume, occhi e tutto. Sull’altro lato del monticello c’era
una piccola protuberanza, come il moncherino di un braccio. Attaccato al
braccio c’era un oggettino metallico; Murugan non avrebbe saputo dire cosa
fosse - ci vedeva solo un piccolo cilindro.
Guardò la figurina piú da vicino, esaminandola attentamente, cercando
di capire cosa rappresentasse l’oggetto metallico.
Poi fu interrotto per l’ennesima volta: «Mister! Ti ho trovato, che ci fai
qui?» Il ragazzo si sporgeva dall’alto del muro, il viso proprio sopra la testa
di Murugan, ridendo.
Murugan perse la pazienza. «Togliti dai piedi, figlio di puttana», gridò.
Il ragazzo fece una smorfia maliziosa e scosse la testa. Poi vide la
figurina. Allungò un braccio e gliela strappò di mano.
Murugan cercò di riacchiapparla, ma la sua mano colpí il polso del
ragazzo e la figurina si frantumò a terra dall’altra parte del muro. Il ragazzo
saltò giú immediatamente e le si inginocchiò accanto.
Allungando il collo, Murugan vide dall’altra parte il ragazzo, carponi,
che raccoglieva i pezzi d’argilla.
Guardò Murugan di traverso imprecando contro di lui.
«Te la sei voluta, - disse Murugan.
- Non è colpa mia». Restando addossato al muro, Murugan cominciò a
muoversi verso sinistra, attento a dove posava i piedi, tra escrementi e
macerie.
Dovette fermarsi davanti a una decrepita casupola di mattoni rossi,
costruita cosí in fondo al terreno da restare quasi completamente nascosta
dal muro di cinta. Sembrava un guscio abbandonato, con rami di peepul che
sbucavano dalle crepe d’intonaco e buchi sogghignanti dove un tempo
c’erano finestre e porte.
Murugan si affacciò cautamente al vano di una finestra. «Salve, - gridò,
- c’è nessuno lì?»
Un flap flap improvviso, un fruscio, poi qualcosa lo colpí in viso. Uno
stormo di piccioni si alzò in volo, sfiorandogli il viso con le piume.
Murugan si tirò indietro
proteggendosi la testa con le braccia.
Un suono gli squillò nelle orecchie; solo dopo qualche minuto si rese
conto di aver gridato. Poi sentí un ciottolo che cadeva a terra, vicino a lui.
Alzò gli occhi e vide il ragazzo, aggrappato al muro di cinta, pronto a
tirarne un altro.
Murugan s’infilò in un passaggio che portava al viale principale e si
diresse di corsa verso i cancelli dell’ospedale. Davanti all’ingresso, in
Gokhale Road, sostavano parecchi taxi. Murugan saltò nel primo e sbatté la
portiera. «Andiamo, - urlò, -
presto, muoviamoci».
Il taxista sikh si girò a guardarlo, senza fretta. «Andiamo dove,
signore?»
«Robinson Street - disse Murugan, ansimando. - Tra Loudon e Rawdon
Street».
L’autista girò la chiavetta d’accensione. La vecchia Ambassador si mise
in moto con un ruggito e si avviò lentamente.
Murugan stava rannicchiato accanto al finestrino e controllava la strada.
Non vedendo alcun segno del ragazzo, si lasciò andare sul sedile.
Abbassò gli occhi sulle scarpe, coperte di macchie scure. Sentì una folata di
cattivo odore e infilò i piedi sotto il sedile anteriore, sperando che l’odore
non arrivasse fino
all’autista. Ma la puzza aleggiava insistente, non riusciva a
liberarsene. Con una mano avvolta in un fazzoletto si tolse le scarpe e le
buttò fuori dal finestrino.
Finalmente sprofondò nel sedile, con un sospiro di sollievo. Ma un
attimo dopo udí un colpo sul parabrezza posteriore. Si voltò giusto in tempo
per vedere la seconda scarpa che volava in aria. Colpí il vetro e rimbalzò,
lasciando una lunga scia marrone sul vetro.
L’autista sporse la testa dal finestrino e coprí di insulti il ragazzo, che
correva verso di loro in mezzo al traffico. Poi il semaforo diede il verde, i
clacson dietro di loro cominciarono a suonare, e il taxi filò via.
Mentre svoltava in Lower Circular Road, Murugan diede un’occhiata
alla facciata piena di luci dell’auditorium Rabindra Sadan. Notò due donne
che scendevano svelte la scalinata, e mise la testa fuori dal finestrino.
Adesso il taxi andava un po’ piú veloce e riuscí a vederle appena, dirette
all’uscita.
Era quasi sicuro che fossero le due donne con cui aveva conversato,
quella sera stessa, all’auditorium.
Capitolo nono.
L’articolo del bollettino interno di Life Watch si sbagliava su una cosa.
C’era stato un unico incontro tra Murugan e un rappresentante
dell’ufficio del personale, prima della sua partenza per Calcutta.
Una mattina, arrivando nel suo cubicolo al quartier generale di Life
Watch sulla 57a West, Antar trovò un file che l’aspettava sul video:
conteneva un elenco completo delle richieste di ri-assegnazione di
Murugan. Antar era certo che il file gli fosse stato instradato per errore:
sebbene facesse formalmente parte del personale, di fatto si occupava quasi
esclusivamente di contabilità. Non perse tempo a spedire una richiesta di
chiarimenti al direttore del dipartimento. Un paio d’ore dopo il direttore gli
inviò un messaggio pregandolo di passare nel suo ufficio.
Il direttore era uno svedese serio e coscienzioso che non perdeva
occasione per ricordare al suo staff che il loro vero mestiere era occuparsi
degli altri. «Lasci perdere il video per un po’, - disse ad Antar. - Oggi ho un
lavoro piú umano da farle fare». Aprí il file relativo a Murugan e lo mostrò
ad Antar. «Veda se riesce a suggerire un po’ di buon senso a questo
Murugan: almeno sul piano strettamente economico. Gli parli di parametri
pensionistici e assistenza medica e questo genere di cose. Potrà verificare di
persona che questo signore spende già un terzo del suo salario in alimenti:
finirà per non guadagnare assolutamente niente se va a Calcutta per dare la
caccia all’oca selvatica».
Quel pomeriggio Antar inviò un biglietto a Murugan.
Due giorni dopo, mancava poco all’intervallo del pranzo, Antar udí
riecheggiare sul piano di uffici modulari del dipartimento una voce forte,
rauca. Benché dal suo cubicolo non potesse vederlo, capí subito chi era.
Murugan stava salutando festosamente le sue conoscenze: «Ehi, voi,
cosa fate in una giornata cosí bella? Vi divertite a contare i pollini?»
Antar e il collega del cubicolo accanto al suo si scambiarono
un’occhiata stupita.
La voce crebbe di parecchi decibel:
«Chi di voi si chiama Ant… Ant…?»
«Da questa parte», gridò Antar, alzandosi in piedi di scatto. Si ritrovò ad
alzare la mano, come uno scolaretto, in modo che sbucasse al di sopra del
divisorio in masonite del suo cubicolo.
«Resta dove sei, Ant, - gridò allegramente Murugan. - Riuscirò ad
arrivare fin lì».
Un minuto dopo comparve davanti al cubicolo di Antar; un piccoletto
vivace, panciuto, azzimato in un tre pezzi scuro e cappello di feltro.
Dovevano essere press’a poco coetanei, giudicò Antar, sulla quarantina.
«Ecco il nostro Ant, - disse Murugan, tendendogli la mano con un
sorriso radioso. - Mica male questo posticino!»
Sconcertato dai modi dell’uomo, Antar replicò con un sorriso e gli
indicò una sedia. Lasciando perdere i convenevoli, passò direttamente al
discorsetto che aveva preparato, spiegando perché un trasferimento a
Calcutta sarebbe stato disastroso per la sua carriera.
Murugan ascoltò in silenzio durante l’intero monologo, stropicciandosi
il pizzetto, con gli occhi arguti e indagatori fissi su Antar. Quando Antar
esaurí il fiato e tacque, gli fece un cenno d’incoraggiamento.
«Prosegui, Ant, - disse, - ti ascolto».
Antar aveva tenuto un asso di riserva. Lo giocò adesso.
«E alle tue spese ci hai pensato?»
cominciò. Bloccato da un repentino imbarazzo s’interruppe per
schiarirsi la gola. «Gli alimenti alla tua ex moglie, voglio dire. Guadagnerai
giusto quanto basta per mantenere te stesso, se insisti con questa cosa».
A un tratto Murugan si chinò verso Antar, guardandolo fisso negli
occhi.
«Sei mai stato sposato, Antar?» disse.
Sorpreso, Antar si lasciò andare all’indietro sulla sedia. Annuí
involontariamente.
«E adesso non piú?»
«No», disse Antar.
«Già!» Murugan increspò le labbra, quasi volesse confermare qualcosa
a se stesso. «Lo immaginavo».
«Come?»
«Cosí, - disse Murugan. - Allora stammi a sentire, Ant: anche tu paghi
gli alimenti? Sembri ferratissimo in materia».
«No! - disse Antar con veemenza. -
Mia moglie è morta, alla prima gravidanza…»
«Oh, mi dispiace, - disse Murugan. -
Stavate insieme da molto?»
«Sí». Quella domanda cosí diretta spiazzò Antar. «Vedi, sono rimasto
orfano, e la famiglia di mia moglie mi ha adottato quando ero ragazzo, in
Egitto. Lei era tutto per me…» Si interruppe, turbato.
Murugan assunse un’espressione comprensiva: «Ne succedono, di
schifezze». Diede un’occhiata all’orologio e spinse indietro la sedia.
«Forza, andiamo a mettere qualcosa sotto i denti».
Ad Antar girava la testa per quel fuoco di fila di domande. «Mettere
qualcosa… sotto… i denti?» disse senza capire.
Murugan scoppiò a ridere: «A mangiare qualcosa, a pranzo!»
«D’accordo, - disse. - Andiamo».
Nel corridoio, mentre si dirigevano verso l’ascensore, Murugan dichiarò
animatamente: «Non dev’essere stato facile per te».
Cercando di distogliere la
conversazione da sé, Antar rispose prontamente: «E per te?»
«Abbiamo divorziato subito», disse Murugan con franchezza mentre si
univano alla coda dell’ora di pranzo davanti all’ascensore. La sua voce
sembrò farsi piú alta quando ci entrarono. «è stato tutto uno sbaglio fin dal
principio, combinato dalle famiglie. è durato solo un paio d’anni. Niente
bambini».
Murugan emise una risata stridula che tintinnò tra le pareti metalliche
dell’ascensore. «Com’è che siamo arrivati a parlare di questo? - disse.
- Ah, già, mi stavi dicendo che diventerò un divorziato straccione se
vado a Calcutta».
Antar intercettò l’occhiata di un conoscente e abbassò gli occhi. Li
tenne abbassati finché uscirono dall’ascensore.
Andarono in un ristorantino thailandese, appena girato l’angolo dalla
sede di Life Watch. Il cameriere prese le ordinazioni poi ci fu un attimo di
silenzio imbarazzato. Fu Antar a interromperlo. «Perché sei cosí deciso ad
andare a Calcutta?»
chiese senza mezzi termini. E subito si rammaricò di averlo fatto; non
era sua abitudine sollecitare le confidenze degli estranei, soprattutto di un
tipo urlone ed esuberante come questo. Eppure, per quanto infastidito dalla
voce e dai modi dell’uomo, non poteva fare a meno di sentire
un’inesplicabile affinità.
Murugan sorrise; «Vuoi proprio che ti dica perché ci devo andare, Ant?
è presto detto: non so quanti anni sono passati da quando me ne sono
andato, e voglio fare qualcosa della mia vita».
«Fare qualcosa della tua vita?»
C’era una nota di scherno nella domanda di Antar. «Non farai altro che
buttar via qualunque prospettiva, perlomeno a Life Watch».
«Perché non provi a vederla in un altro modo? - disse Murugan. -
Potresti trovare mille persone… no, duemila… forse diecimila, capaci
di fare quello che faccio adesso. Ma non troverai un’altra persona viva che
ne sappia quanto me sull’argomento di cui mi sono occupato».
«Vale a dire?» chiese educatamente Antar.
«Ronald Ross, - disse Murugan. -
Batteriologo vincitore del Nobel.
Dammi retta, finché si tratta di Ronald Ross, sono il migliore».
Sul viso di Antar doveva essersi disegnata una smorfia scettica perché
Murugan fu svelto ad aggiungere: «Lo so che può sembrare una spacconata,
ma non è una gran pretesa. Ross non era Pasteur o Koch: non aveva
altrettante frecce al suo arco. Il lavoro sulla malaria è stata l’unica cosa
eccezionale che ha fatto. E anche quella è stata demenziale. Sai quanto ci ha
messo?»
Antar rispose scuotendo garbatamente la testa.
«Per la ricerca effettiva, sul campo, ci sono voluti tre anni giusti giusti;
tre anni passati interamente in India. Si è messo in pista nell’estate del
1895, in uno sperduto buco di campo militare in un posto chiamato
Secunderabad, ed è arrivato al traguardo a Calcutta nell’estate del 1898. E
solo per metà di quel tempo è stato realmente in
laboratorio. Il resto del tempo l’ha passato a curare malattie infettive, a
giocare a tennis e a polo, in vacanza sulle colline, quel genere di cose. Ne
desumo che abbia passato circa cinquecento giorni lavorando seriamente
sulla malaria. E sai una cosa? L’ho seguito passo passo per ognuno di quei
cinquecento giorni: so dove si trovava, cosa faceva, che vetrini guardava; so
cosa sperava di vedere e cosa vedeva per davvero; so chi c’era con lui, e chi
non c’era. è come se avessi guardato da sopra la sua spalla. Se sua moglie
avesse chiesto, «Com’è andata oggi, tesoro?»
avrei saputo risponderle».
«E com’è che hai scoperto tutte queste cose?» disse Antar, alzando un
sopracciglio.
«Sta’ a sentire, - disse Murugan, -
la cosa fantastica con un tipo come Ronald Ross è che scriveva tutto.
Tieni a mente una cosa: questo giovanotto aveva deciso di riscrivere i
libri di storia. Voleva che tutti conoscessero la storia come l’avrebbe
raccontata lui; non intendeva lasciare niente al caso, non un solo minuto.
Aveva previsto che un giorno o l’altro sarebbe saltato fuori un tipo come
me, e sono felice di fargli un piacere. Se ci pensi bene, non c’è molto da
conoscere: cinquecento giorni della vita di un tizio».
«Ma Ross era davvero cosí
interessante?» disse Antar.
«Interessante?» Murugan si mise ridere come un matto. «Sí e no. Era un
genio, naturalmente, ma era anche una testa di cazzo».
«Sí, - disse Antar, - continua, ti ascolto».
«Okay, - disse Murugan, - prova a immaginare la situazione: c’è questo
giovanotto, un perfetto tipo coloniale, tutto caccia e pesca, come nei film;
gioca a tennis e a polo e va a stanare cinghiali; è un bell’uomo, baffi folti,
guance rosee paffute, gli piace passare una notte in città di tanto in tanto;
certe mattine si fa un bicchiere di whisky a colazione; per moltissimo tempo
non sa bene cosa fare della propria vita; forse gli piacerebbe scrivere
romanzi; bene, scrive un paio di romanzi gotici; poi dice a se stesso,
diavolo, non è il lavoro che pensavo, proviamo a scrivere poesie invece. Ma
anche quello non funziona e allora Papà Ross, che è questo grande generale
dell’esercito inglese in India, gli dice, «Cosa cazzo intendi fare, Ron?
La nostra famiglia vive in India da quando questo paese è stato
inventato e non c’è nessun dannato servizio qui dove non ci sia un Ross,
puoi giurarci, Civil Service, Geological Service, Provincial Service,
Colonial Service… Ho sentito parlare di tutti, ma non ho mai sentito
nominare un Poetical Service. Non è il caso che tu ti sprema le meningi,
perché adesso te lo dico io cosa devi fare, dunque apri bene le orecchie. C’è
un posto che è a corto di Ross al momento: l’Indian Medical Service, il
servizio sanitario indiano. C’è sopra il tuo nome, scritto talmente grosso che
puoi leggerlo da una mongolfiera. Perciò, saluti e baci a queste poesie di
merda; con la poesia hai chiuso».
Cosí il giovane Ronnie sventola la manina e fila a Londra a studiare
medicina. Per alcuni anni se la spassa, scrive poesie, strimpella in serate per
dilettanti, abbozza trame per il prossimo romanzo. La medicina è l’ultimo
dei suoi pensieri, comunque riesce a entrare nell’Indian Medical Service e
subito dopo lo ritroviamo in India che armeggia con lo stetoscopio e
massacra veterani. Cosí vivacchia per un altro paio d’anni, gioca a tennis,
va a cavallo, le solite vecchie cose. Poi una mattina si sveglia e scopre di
essere stato contagiato dal morbo della scienza. è sposato, ha dei figli, sta
per affrontare la crisi della mezz’età, dovrebbe risparmiare i soldi per un
falciaerba a motore, e invece cosa fa?
Si guarda allo specchio e si chiede: cosa bolle nel pentolone della
medicina oggi? cosa sta succedendo sull’altro versante del paradigma
scientifico? come potrei mettermi in tasca un Nobel? E cosa risponde lo
specchio? Hai indovinato: malaria -
che all’epoca era al punto in cui era.
Cosí le lampadine esplodono una dopo l’altra nella testa di Ronnie
finché si ritrova lungo disteso come il ponte di Brooklyn in una notte
limpida: sicuro, dice, perché non ci ho pensato prima? Ecco quel che fa al
caso mio: la malaria».
«Aveva anche lui la malaria?» chiese Antar.
«La prese quando era a metà della ricerca, - disse Murugan, rivolgendo
ad Antar uno sguardo di profondo apprezzamento. - Perché me lo chiedi?
L’hai avuta anche tu?»
Antar annuí. «Sí, - disse, - molto tempo fa, in Egitto».
Murugan drizzò la schiena. «Strano,
- disse. - Il tasso di malaria è piuttosto basso in Egitto».
«Sarò stato un’eccezione», disse Antar.
«Ma il tuo è stato un caso isolato, o ci fu una circoscritta epidemia?»
«Non lo so», tagliò corto Antar.
«Mai avuto ricadute?» insistette Murugan.
«Qualcuna», disse Antar.
«è proprio cosí che funziona, -
disse Murugan con un sorriso ironico.
- Si pensa che se ne sia andata per sempre e all’improvviso, dopo un
sacco di tempo, si fa viva».
«Allora l’hai avuta anche tu!» disse Antar, incuriosito.
«Eccome! - rise Murugan. - Ma sai, non mi preoccupa granché.
Probabilmente perché la malaria non è solo una malattia. A volte è
anche una cura».
«Una cura? - disse Antar. - Per cosa?»
«Mai sentito parlare di Julius von Wagner-Jauregg?»
«No».
«Vinse il Nobel anche lui. Per qualcosa che fece con la malaria. Era
nato addirittura lo stesso anno di Ronnie Ross, ma in Austria. Era uno
psicologo: ebbe un paio di seri scontri con Freud. Ma la ragione per cui il
suo nome brilla lassú è che scoprí qualcosa sulla malaria che Ross non si
sognava neppure».
«Cosa?» chiese Antar.
«Scoprí che la malaria
artificialmente indotta poteva curare la sifilide, perlomeno nello stadio
di demenza paralizzante, quando attacca il cervello».
«Sembra incredibile», disse Antar.
«Già, - disse Murugan. - Eppure gli valse il Nobel nel 1927. Fino agli
anni Quaranta, la malaria
artificialmente indotta era il trattamento standard per la paresi sifilitica.
Il fatto è che la malaria produce una reazione nel cervello su cui tuttora
andiamo a tentoni».
«Ma, tornando a Ross, - disse Antar,
- dicevi che si prese la malaria solo quando era già avanti nella ricerca.
Allora da cosa è nato il suo interesse?»
«Fu lo spirito del tempo, - disse Murugan. - La malaria era la fusione
fredda dei suoi tempi; i giornali della domenica si scannavano per metterla
in copertina. E a ragione: la malaria è probabilmente l’assassina peggiore
tra le malattie, in ogni epoca. Parente del comune raffreddore, è
praticamente la malattia piú diffusa sul pianeta. Non stiamo parlando di una
malattia che travolge le statistiche all’improvviso in certi secoli, come la
peste, il vaiolo o la sifilide. La malaria è in circolazione dall’epoca del big
bang o giú di lì, con percentuali relativamente stabili.
Non c’è luogo sulla terra che sfugga alla mappa della malaria: circolo
polare artico, gelide vette montuose, deserti torridi, puoi scommetterci, c’è
stata la malaria. Non stiamo parlando di milioni di casi, piuttosto centinaia
di milioni. Non sappiamo neppure quanti, perché la malaria è talmente
diffusa che non sempre risulta nelle statistiche. E per di piú è un genio nei
travestimenti: è capace di simulare i sintomi di piú malattie di quante tu
possa contarne -
lombaggine, influenza, emorragia cerebrale, febbre gialla. E perfino
quando è diagnosticata con precisione non è detto che il chinino ti rimetta in
sesto. Con certi tipi di malaria puoi farti di chinino tutto il santo giorno e
ritrovarti all’obitorio la sera ancora scosso da brividi gelido-bollenti. Risulta
fatale solo in un modesto numero di casi, ma quando si parla di centinaia di
milioni di persone colpite, una modesta percentuale equivale a un paese di
discrete dimensioni».
«Cosí, quando Ross ha cominciato, -
disse Antar, - si era consapevoli dell’importanza della malaria?»
«Puoi dirlo, - disse Murugan. - La comunità scientifica ha cominciato a
svegliarsi sul problema della malaria a metà Ottocento. Ricordati che è stato
il secolo in cui la vecchia madre Europa stava sistemando gli Ultimi
Sconosciuti: Africa, Asia, Australia, le Americhe, persino certe parti non
colonizzate di se stessa.
Foreste, deserti, oceani, indigeni bellicosi - non è difficile se disponi di
dinamite e fucili automatici; sciocchezze rispetto alla malaria.
Ricordati anche che non era passato molto tempo da quando i piantatori
lungo il Mississippi, tutti senza eccezione, si mettevano in mutua un giorno
sí e uno no per gli attacchi di febbre. Era altrettanto dura nelle paludi
intorno a Roma; o in Algeria, dove i coloni francesi si davano un gran
daffare. E proprio in questo periodo hanno cominciato a far furore in
Europa scienze nuove come la batteriologia e la parassitologia. La malaria è
salita subito in testa alla classifica. I governi hanno cominciato a versare
fiumi di denaro nella ricerca - Francia, Italia, Stati Uniti, tutti eccetto
l’Inghilterra. Ma credi che Ronnie si sia lasciato fermare? Nossignore, si è
messo nudo e si è buttato».
Antar aggrottò la fronte: «Vuoi dire che non aveva alcun sostegno
ufficiale dal governo britannico?»
«Nossignore: l’Impero ha fatto tutto il possibile per mettergli i bastoni
tra le ruote. Inoltre la ricerca d’avanguardia si faceva in Francia e nelle
colonie francesi, in Germania, in Italia, in America - dovunque, ma non
dove c’erano gli Inglesi. Ma credi che Ross ci abbia badato? Bisogna
riconoscerlo, aveva i coglioni, quel figlio di puttana. Ed eccolo lì: ha l’età in
cui la maggior parte degli scienziati cominciano a tenere d’occhio la
pensione; non sa un cazzo di niente sulla malaria (o qualsiasi altra cosa); è
seduto in un posto fuori dal mondo dove non hanno mai sentito parlare di
laboratori; non tocca un microscopio da quando ha lasciato la facoltà di
medicina; lavora in quel sudicio accampamento, l’Indian Medical Service,
che riceve un paio di copie di «Lancet» e niente altro, neppure gli Atti della
Regia Società di Medicina Tropicale, figurati il bollettino della John
Hopkins o gli Annuari dell’Istituto Pasteur. Ma il nostro Ronnie non fa una
piega: si alza dal letto una mattina di sole a Secunderabad o dove diavolo si
trova e dice a se stesso, col suo buffo accentino inglese, «Mio caro, non so
cosa fare di me stesso, oggi, credo che risolverò l’enigma scientifico del
secolo, tanto per ammazzare il tempo». Chi se ne frega di tutti i battitori che
ci sono in campo. Ross se ne infischia di Laveran, di Robert Koch, il
tedesco, che è appena sceso in campo dopo aver fatto un numero sulla
febbre tifoide; se ne infischia del duo russo Danilevskij e Romanovskij, che
ballano il valzer col virus da quando il piccolo Ronald faceva la cacca nella
culla; se ne infischia degli Italiani che hanno messo un’intera dannata
squadra di mangiaspaghetti a lavorare sulla malaria; se ne infischia di W’G’
Maccallum a Baltimora, che sta per sfondare con una scoperta
clamorosa sulle infezioni ematiche degli uccelli; se ne infischia di Bignami,
Celli, Golgi, Marchiafava, Kennan, Nott, Canalis, Beauperthuy; se ne
infischia del governo italiano, del governo francese, del governo americano
che hanno tirato fuori carrettate di soldi per dar la caccia alla malaria; se ne
infischia di tutti. Non si accorgono neanche che sta arrivando Ronnie,
finché lui non taglia il traguardo».
«è cosí che è andata?» disse Antar.
«Proprio cosí. Perlomeno è cosí che è cominciata. E sai una cosa? Ce
l’ha fatta. Batte i Laveran e i Koch e i Grassi e l’intera squadra italiana;
batte il governo di Stati Uniti, Francia, Germania e Russia; li batte tutti. O
almeno quella è la storia ufficiale: il giovane Ronnie, genio solitario,
attraversa il campo come un fulmine e se la svigna con la coppa del
mondo».
«Mi sembra di capire che la storia non ti convince», disse Antar.
«L’hai detto Ant. Io questa non la bevo».
«Perché no?»
Il cameriere sistemò due ciotole di minestra sul tavolo davanti a loro.
Sfregandosi le mani soddisfatto, Murugan immerse la testa nella nuvola
profumata di limone che saliva dalla ciotola.
«Immagino, - insistette Antar, - che tu abbia una versione personale di
come Ronald Ross fece le sue scoperte».
«La si può anche mettere cosí,»
disse Murugan.
«Allora qual è la tua versione della storia?» disse Antar.
«Ti dirò una cosa, Antar, - disse Murugan afferrando il cucchiaio. - Ti
leggerò tutti e tre i volumi, un giorno, quando faremo una crociera intorno
al mondo: ti prometto che parlerò».
Antar rise. «D’accordo, - disse, -
ma che ne diresti di un paio di pagine, tanto per cominciare?»
Con le bacchette, Murugan sollevò una lunga treccia di noodles
gocciolanti. L’inghiottí con un forte rumore di sciacquone e si appoggiò allo
schienale, passandosi un tovagliolo di carta sulla barbetta.
Fece una breve pausa e quando riprese a parlare lo fece con un tono
gentile e pratico.
«Posso sottoporti una questione filosofica, Ant?»
Antar si agitò sulla sedia.
«Provaci, - disse, - ma sappi che non sono portato alle grandi
questioni…»
«Dimmi un po’, Ant, - disse Murugan piantandogli addosso i suoi occhi
indagatori. - Dimmi una cosa, trovi naturale voler girare pagina, essere
curiosi di quello che è accaduto dopo?»
«Be’, - disse Antar, a disagio. -
Non so se ho capito quello che vuoi dire».
«Mettiamola cosí, allora, - disse Murugan. - Credi che ogni cosa che
può essere conosciuta la si debba conoscere?»
«Certo, - disse Antar. - Non vedo perché no».
«Bene, - disse Murugan, immergendo il cucchiaio nella ciotola. - Girerò
qualche pagina per te, ma ricordati, sei stato tu a chiedermelo. è il tuo
funerale».
Capitolo decimo.
Quando furono fuori dall’auditorium Urmila pensò che era l’occasione
che cercava per restare sola con Sonali.
«Hai un minuto?» esordí. Ma Sonali si stava già affrettando lungo il
viale, verso la strada.
Urmila la raggiunse ai cancelli d’ingresso, e proprio in quel momento
dentro l’auditorium scrosciarono gli applausi, segno che Phulboni aveva
finito il suo discorso.
«Mi spiace di essermene dovuta andare cosí presto, - disse Sonali. -
Sarei rimasta volentieri, ma sono le otto passate e devo assolutamente
tornare a casa».
«Oh, - Urmila fece un tiepido sforzo per nascondere la delusione. - Devi
proprio andare, subito?»
Sonali rifletté. «Sí, - disse infine. - Aspetto qualcuno. Perché?»
«Niente, solo che speravo di poterti parlare», disse Urmila.
«Di cosa?»
«Di lui, - disse Urmila, inclinando il capo in direzione dell’auditorium.
- Phulboni».
«A che proposito?»
«Devo scrivere un articolo su di lui, - disse Urmila. - E sono in dubbio
su un paio di cose. Qualcuno mi ha detto che eri la persona giusta a cui
chiedere».
«Io? - Sonali era stupita. - Non so se sarò in grado di dirti granché».
Dopo un momento di indecisione diede un’occhiata all’orologio e disse:
«Perché non vieni a casa mia? Potremmo parlare fino a quando arriva il
mio ospite».
Senza attendere risposta Sonali s’incamminò e fece segno a un taxi.
Ignorando le proteste di Urmila, la spinse dentro e salí dopo di lei.
«Alipore», disse al taxista, e abbassò il finestrino mentre il taxi rotolava
oltre la fredda oscurità
dell’ippodromo.
Poco prima del ponte di Alipore il taxi incappò in un ingorgo e si fermò
con uno stridio di freni. Sonali si rivolse a Urmila. «Cosa mi volevi
chiedere?» disse; la sua voce seguiva il ritmo dell’auto che rallentava.
«Qualcosa a proposito degli inizi di Phulboni», disse Urmila.
Sonali aggrottò la fronte. «Ma perché proprio io? - disse. - Chi ti ha
detto di rivolgerti a me?»
Urmila esitava. «Una persona che conosco».
«Chi?» disse Sonali.
«La conosci anche tu, - disse Urmila. - O almeno la conoscevi. E in ogni
caso lei parla moltissimo di te».
«Ma chi è? - disse Sonali. - Su, dimmelo, mi hai incuriosita».
«La signora Aratounian», disse Urmila con un sorriso dolce.
«La signora Aratounian? - strillò Sonali. - Vuoi dire la signora
Aratounian del vivaio Dutton di Russell Street?»
«Sí, - disse Urmila. - Proprio lei.
Te la ricordi?»
Sonali annuí, ma in realtà erano anni che non vedeva la signora
Aratounian e riusciva a malapena a ricordare una donna molto in ordine,
piuttosto autoritaria, con una gonna nera e occhiali dalla montatura dorata.
Aveva sempre ricordato a Sonali le suore irlandesi della sua scuola: stessa
voce metallica e stesse maniere brusche. Apparteneva a una famiglia
armena che viveva a Calcutta da generazioni, ricordò Sonali. Erano
proprietari del vivaio Dutton da sempre.
«Santo cielo! - esclamò. - Dutton!
Sono secoli che non ci metto piede».
«Ma lo sai, - disse Urmila tutto d’un fiato, - che la prima volta che ti ho
vista, è stato proprio al vivaio Dutton?»
«Da Dutton? - Sonali la guardò stupefatta. - Come mai? Non sapevo che
ci fossimo incontrate prima che io cominciassi a lavorare per
«Calcutta»».
«Non fu propriamente un incontro», disse Urmila, che adesso si sentiva
piuttosto a disagio, pentita di aver accennato a quell’episodio.
Era accaduto anni prima. Urmila frequentava l’ultimo anno di scuola e
quella mattina si trovava da Dutton in veste di rappresentante degli studenti
nel Comitato per campi sportivi e giardini. Era stata condotta lì dai membri
docenti del comitato, col pulmino della scuola.
Era nervosa: la signora Aratounian l’intimoriva con la sua voce dura e
gli occhi taglienti. L’ultima volta che era stata al vivaio aveva allungato una
mano per toccare una rosa quando si era sentita fulminare con lo sguardo da
qualcuno. Si era girata con aria colpevole, ritraendo la mano, e
naturalmente la signora Aratounian la stava osservando dal lato opposto
della stanza. «Quella è una pianta, non un cane, - aveva detto, con uno
scintillio delle lenti bifocali cerchiate d’oro, - e la ragione per cui ha le
spine è che non ama essere vezzeggiata». Urmila si era sentita cosí piccola
che avrebbe voluto sparire, cancellarsi come un segno di gesso da una
lavagna.
Questa volta la visita cominciò bene. La signora Aratounian faceva il
possibile per mostrarsi gentile.
Indicando un banco di crisantemi in vaso le disse: «Scegline uno, cara, e
te lo lascerò portar via. Solo per questa volta».
Urmila stava guardando i crisantemi quando si sentí un improvviso
tramestio alla porta. Si voltò e vide entrare Sonali Das.
Il vivaio era pieno di gente - era il periodo dell’anno in cui tutti
comprano semi e piante. L’arrivo di Sonali fece sensazione: aveva appena
pubblicato il suo libro e si vedevano sue fotografie dappertutto. Indossava
un sari di chiffon verde e bianco, e un grande paio di occhiali scuri tirati
indietro, sopra i capelli, una vera star.
Urmila aveva appena visto uno dei suoi film: la fissò a bocca aperta,
rannicchiandosi dietro i crisantemi, mortificata al pensiero di essere vista
nella severa uniforme scolastica e con quelle treccine striminzite.
Mentre Sonali parlava con la signora Aratounian, la raggiunse un uomo
alto e corpulento, con un viso massiccio dalle mascelle quadrate. Mascelle e
sopracciglia spiccavano vistosamente nella testa quasi completamente
calva.
Evidentemente i due erano arrivati insieme.
Sembrava un po’ vecchio per lei, rifletté Urmila, ma non era brutto, con
quell’aria vagamente da bandito.
Si chiese chi fosse.
Poi l’uomo disse qualcosa alla signora Aratounian, la quale, con grande
orrore di Urmila, puntò il dito nella sua direzione, verso i crisantemi. Colta
alla sprovvista, Urmila non riusciva a muoversi. Quando si riprese era
troppo tardi. Erano in piedi proprio di fronte a lei e Sonali stava allungando
un braccio per raggiungere un vaso.
Urmila si spostò di scatto, per togliersi di torno. Ma nella fretta urtò la
mano di Sonali. Con un fracasso spaventoso, il vaso cadde spargendo sul
pavimento foglie, petali e terriccio.
Urmila si inginocchiò inorridita e cominciò a raccogliere terriccio e
cocci, con gli occhi bassi, incapace di alzare lo sguardo. Era vicina alle
lacrime.
Poi due mani enormi discesero verso il pavimento, davanti a lei,
occupando interamente il suo campo visivo. Erano coperte da peli spessi e
ricciuti e le nocche erano grosse come noci. Benché disperata, Urmila vide
che una delle mani era parzialmente paralizzata, col pollice rigido e piegato
contro il palmo. Poi le mani cominciarono ad aiutarla, ammucchiando
maldestramente il terriccio.
Rialzando la testa Urmila incrociò lo sguardo dell’uomo che aveva
seguito Sonali nel negozio. La guardava - non arrabbiato, anzi, con uno
sguardo fermo e comprensivo. Qualcosa nel suo aspetto spaventò Urmila e
le fece abbassare gli occhi.
Subito dopo Urmila sentí le braccia di Sonali che l’aiutavano a
risollevarsi. «Povera piccola, - stava dicendo alla signora Aratounian. - Non
è colpa sua, pagherò io».
Urmila si prese una tremenda sgridata, tornando a scuola, nel pulmino.
Ma presto gli insegnanti smisero di occuparsi di lei e cominciarono a
spettegolare su Sonali Das e l’uomo che l’accompagnava.
Urmila scoprí con stupore di conoscerne il nome: era Romen Haldar.
Aveva sentito parlare di lui: viveva in un’enorme casa, proprio in fondo
alla strada dove abitava anche lei.
Sapeva che era un ricco costruttore e agente immobiliare, e molto
influente in un club importante. Il fratello minore di Urmila, che sognava di
giocare in serie A, ne parlava spesso.
Adesso, ricordando l’episodio, Urmila riuscí a riderne. «Sono passati
molti anni, - disse a Sonali. - Ti feci cadere di mano un vaso di fiori:
crisantemi».
«Non me ne ricordo», disse Sonali.
«Certo, - disse Urmila. - Ma fosti molto gentile. E anche la signora
Aratounian. Da allora è diventata una vera amica».
«Dunque conosci bene la signora Aratounian?» chiese Sonali.
«Vado a trovarla di tanto in tanto,
- disse Urmila, - nella sua casa di Robinson Street. è sempre stata
gentilissima con me. è molto premurosa, in quel suo modo arcigno. E
poi, il suo appartamento è cosí tranquillo - con tutte quelle piante e
poltrone e divani comodi. Ogni tanto è piacevole scappare dalla redazione.
Ci vado ogni volta che posso».
«Ho sentito dire che la signora Aratounian si è ritirata e ha venduto il
vivaio Dutton, - disse Sonali. -
Deve aver fatto una fortuna, con quel terreno».
«Non lo so, - disse Urmila. - Non gliel’ho mai chiesto. Ma credo che
abbia difficoltà a far quadrare il bilancio, adesso che è in pensione. è
sempre lí che escogita piccoli trucchi per guadagnare qualcosa in piú.
«Sono stata nel mondo degli affari tutta la vita, - dice, conosci il suo modo
di parlare, - e com’è vero che un uovo è un uovo, non smetterò adesso»».
Sonali rise. «E adesso cosa sta escogitando?»
«L’ultima trovata è quella di prendere degli ospiti paganti e trasformare
l’appartamento in una pensione per uomini d’affari».
«No!» esclamò incredula Sonali.
«Sí, - proseguí Urmila. - Ha anche messo una targa sulla porta. Il fatto è
che nessuno la vede, se non si salgono le scale, cosí non ha trovato ospiti,
per ora».
«Come le è venuto in mente?» chiese Sonali.
«Gliel’ho chiesto, - disse Urmila. -
E lei ha risposto che l’idea le è venuta perché un impresario
immobiliare sta trasformando in albergo una vecchia casa sull’altro lato di
Robinson Street. Lei dice:
«Quel mascalzone ha il coraggio di ficcare un’insegna sul prato. In bella
vista come un foruncolo sul naso, «Qui sorgerà il Robinson Hotel». Se può
farlo lui, perché non posso farlo anch’io?»»
In quell’istante Urmila si sentí gelare; assunse un’aria imbarazzata,
coprendosi la bocca aperta con le mani.
Sonali sorrise ed estrasse una sigaretta dalla borsa. «Alludeva a Romen?
- disse seccamente, facendo scattare l’accendino. - L’altro giorno Romen mi
ha mostrato quella casa in Robinson Street. Ne è molto orgoglioso; sta per
iniziare i lavori di ristrutturazione». Soffiò sulla fiamma e lasciò che il fumo
le uscisse lentamente dalle labbra corrucciate.
Urmila si affrettò a mormorare delle scuse.
Sonali sorrise: «Non preoccuparti.
Non me ne importa niente di quello che la gente dice di Romen. Sapessi
quante ne raccontano di lui al suo club.
Naturalmente il Calcutta Wicket Club è l’ultimo posto al mondo dove
sopravvivono dei buffoni che vivono per dire buffonate ancora piú grosse.
Dovresti sentirli quando cominciano a parlare di Romen».
Le diede una pacca rassicurante su un braccio. «Hai mai incontrato
Romen?» disse.
«No. - Urmila scosse la testa. -
Solo quella volta, da Dutton, con te».
«Credo che ti piacerebbe, - disse Sonali. - Ha avuto una vita
straordinaria, lo sai?»
«Davvero?» disse Urmila con tono indifferente. Ricordava di aver
sentito dire che Romen Haldar aveva cominciato dal niente; che era arrivato
alla Sealdah Station di Calcutta senza un soldo in tasca.
Sonali annuí. «Vedrai, - disse. - è molto diverso da quello che dicono.
Stasera lo conoscerai: è lui il mio ospite».
Il taxi si fermò davanti a una cancellata di pesante acciaio. Sonali
cominciò a frugare nella borsetta cercando i soldi per pagare il taxista.
Da un gabbiotto sbucò un portiere in uniforme. Controllò attentamente
prima di lasciar entrare il taxi
nell’esclusivo complesso residenziale.
C’erano quattro edifici di
appartamenti nella proprietà, ben distanziati tra loro, ad angolo l’uno
rispetto all’altro, cosí che ogni veranda si affacciava su una bella porzione
del verde di Alipore.
Mentre il taxi attraversava il complesso residenziale, Sonali diede
un’occhiata a una delle aree di parcheggio. Urmila seguí il suo sguardo fino
a un piccolo cartello discreto appeso davanti a un posto vuoto. Diceva:
«Riservato, R’ Haldar».
Sonali sospirò. «Romen non è ancora arrivato, - disse. - Possiamo
parlare mentre lo aspettiamo».
Capitolo undicesimo.
Scarabocchiata una data sul coloratissimo tovagliolo di carta del
ristorante, Murugan lo piazzò davanti ad Antar.
«Ecco a te, - disse Murugan. -
Maggio 1895. Siamo nell’ospedale militare di Secunderabad, fa
talmente caldo che i pavimenti luccicano, niente ventilatori, niente
elettricità, una stanza zeppa di boccette di vetro, ordinatamente allineate
sugli scaffali, una scrivania e una sedia con lo schienale diritto, un unico
microscopio con vetrini sparsi qua e là, un tipo in uniforme curvo sul
microscopio e uno sciame di inservienti che gli ronzano intorno. Lui è
Ronnie e gli altri sono il coro, o almeno cosí pensa Ronnie.
«Fa’ questo», dice lui, e loro eseguono. «Fa’ quello», dice lui, e loro
corrono. è cresciuto cosí, è cosí che è abituato. Della maggior parte di loro
non sa neppure il nome, a stento ne riconosce le facce: è convinto che non
ce ne sia bisogno.
Quanto a chi sono, da dove vengono e roba del genere, manco a
pensarci, non gli interessa. Potrebbero essere amici, o cugini, potrebbero
essere compagni di cella; non farebbe differenza per Ronnie».
«Aspetta un momento, - lo interruppe Antar. - Maggio 1895? Dunque
Ronald Ross è all’inizio delle sue ricerche sulla malaria, giusto?»
«Giusto. - disse Murugan. - Ronnie è appena tornato da una vacanza in
Inghilterra. A Londra ha incontrato Patrick Manson».
«Patrick Manson? - Antar alzò un sopracciglio. - Vuoi dire Manson,
quello dell’elefantiasi?»
«Proprio lui, - disse Murugan. -
Manson è uno dei grandi di tutti i tempi; ha vissuto in Cina cosí a lungo
che potrebbe scuoiare un pitone con le bacchette; è lui che ha scritto il libro
sulla filaria, il virus che causa l’elefantiasi. Adesso è di nuovo in Inghilterra
dove è diventato il capintesta della regina nella ricerca batteriologica. Il
dottor Manson vuole vincere il premio per la malaria - per l’Inghilterra,
dice, per l’impero:
‘ffanculo tutti quei mangiacrauti e mangiarane e guappi e yankee. Sí, lui
è scozzese, ma è venuto il momento di tifare per la regina e il paese: inutile
cercare di spiegargli che nessuno scozzese ha mai visto un panorama
migliore delle sbarre della prigione di Londra, se ne sbatte».
«Se ricordo bene, - disse Antar, -
Manson riuscí a dimostrare che la zanzara era il vettore della filaria.
è cosí?»
«Proprio cosí, - disse Murugan. -
Adesso si è messo in testa che la zanzara ha a che fare anche con la
malaria. Non ha tempo di occuparsene di persona, cosí cerca qualcuno che
regga la fiaccola per la regina e l’impero. E chi entra in campo? Ronnie
Ross. Il fatto è che al momento Ronnie non è esattamente un campione. In
realtà la maggiore scoperta del secolo nel campo della ricerca sulla malaria
è avvenuta di recente, ma Ronnie non se n’è accorto. Facciamo un passo
indietro, nel 1840 un giovanotto chiamato Meckel ha trovato
microscopici granuli di pigmento nero negli organi dei malati di malaria
-
macchiuzze nere, alcune rotonde, altre a forma di mezzaluna, infilate
dentro masse di protoplasma. Per quarant’anni nessuno riesce a capire che
roba sia.
Lo scoprono nel 1880: Alphonse Laveran, un chirurgo dell’esercito
francese in Algeria, esce un momento a mangiare qualcosa, lasciando un
piatto a cuocere sotto il microscopio. Torna dal suo merguez grigliato su
legno di hickory e indovina cosa trova? Uno di quei granuli a forma di
mezzaluna si muove. Vede che comincia a ballare, trasformandosi in un
polpo in miniatura, allungando i tentacoli, scuotendo l’intera cellula.
Cosí Laveran fa due piú due: ehi, questo coso si muove, è un virus.
Manda un telegramma all’Accademia di medicina a Parigi e dice che ha
trovato la causa della malaria e che è una creaturina, un protozoo - un
parassita animale. Ma Parigi non gli dà credito. Lí comanda Pasteur e ha
speso una fortuna inseguendo batteri.
Nessuno crede al piccolo protozoo di Laveran: è come se dicesse che ha
trovato lo yeti. Alcuni dei piú grossi nomi della medicina si sbracciano a
confutare la «Laveranità». Gli unici a convertirsi sono gli Italiani; diventano
neo-laveraniti. Nel 1886
Camillo Golgi dimostra che il parassita di Laveran cresce dentro i
globuli rossi, divorando il suo ospite e cagando pigmento nero; che il
pigmento si raccoglie al centro mentre il virus comincia a dividersi;
dimostra che l’intermittenza delle febbri malariche è legata a questo schema
di riproduzione asessuata.
Durante questa festa Ronnie fa tappezzeria. è sul versante anti-Laveran.
Ritiene che il microbo di Laveran non esista: ha speso gli ultimi mesi
cercando di dargli un’occhiata ma non ci è riuscito. Ha persino pubblicato
un articolo in cui cerca di provare che Laveran ha le allucinazioni. Quando
vede il virus per la prima volta, Ronnie è nel laboratorio di Manson. Si
converte, e Manson lo rispedisce a tutta velocità in India a cercare il
vettore».
Antar intervenne: «Cosí fu Manson a mettere a fuoco la connessione tra
malaria e zanzare?»
«Non era un’idea del tutto nuova, -
disse Murugan. - La maggior parte delle società che dovevano vedersela
con la malaria sapevano che c’era qualche connessione».
«Ma, - insistette Antar, - stai dicendo che inizialmente fu Manson a dare
l’idea a Ross?»
«Si potrebbe dire che Manson gli forní un’indicazione di massima, -
disse Murugan. - Solo che lo buttò fuori dalla strada principale. Lui
aveva questa teoria delle balle per cui l’uomo si beccherebbe il virus della
malaria dalle zanzare bevendo l’acqua. Intendeva spedire Ronnie a
sgrossare la sua teoria».
«E Ross ci credeva a quella teoria?»
«Puoi giurarci».
«E poi cos’è successo?» disse Antar.
«Okay, siamo di nuovo al 1895, giusto? Ross muore dalla voglia di
mettersi a lavorare sulla teoria del succo di zanzara di Manson. Sbarca a
Madras e prende un treno per raggiungere il suo reggimento, il 19o Fanteria
di Madras. Di guarnigione nel quartiere di Begumpett a Secunderabad.
Durante il viaggio Ronnie infila aghi in tutto quello che si muove.
Quando arriva a Begumpett comincia a offrire soldi per campioni di sangue
malarico
- parecchi soldi, una rupia per un prelievo! Sta’ ben attento, Ant. Siamo
nel 1895; con una rupia una famiglia di quattro persone si comprava riso
per un mese. C’è un casino di malaria nella zona, le zanzare fanno il doppio
turno e ancora non basta. E arriva il nostro Ronnie, pronto a sborsare denaro
sonante per poche gocce di sangue infetto, e non riesce a trovare un solo
donatore. Qualcuno ha messo in giro la voce che è piombato in città un
medico pazzo che butta via soldi mettendo ragazzi nudi a letto con le
zanzare. Nessuno gli si avvicina, attraversano la strada per evitarlo. A un
tratto Ronnie si ritrova protagonista di una pubblicità denigratoria: appena
lui ci mette piede, la strada principale di Begumpett si svuota.
Poi all’improvviso cambia il vento.
Il 17 maggio 1895, proprio quando comincia a perdere le speranze,
trova il primo caso perfetto di malaria - un paziente che si chiama Abdul
Kadir.
Ronnie va su di giri: spoglia Abdul Kadir, lo infila in un letto, gli stende
sopra una zanzariera umida e ci libera dentro una provetta piena di zanzare.
La mattina dopo fa il suo raccolto e tutt’a un tratto il laboratorio di Ronnie
diventa il teatro di Begumpett. Fino a quel momento aveva studiato solo
due delle forme flagellate del parassita. Il 18
maggio Ronnie schiaccia uno dei parassiti di Abdul Kadir (zanzara #18)
e trova sessanta parassiti in un solo campo. è talmente eccitato che continua
a camminare avanti e indietro dalla scrivania. «Ho trovato un caso
fantastico», scrive al dottor Manson.
è solo l’inizio. Il 26 giugno 1895
Ronnie assisterà per la prima volta alla trasformazione della semiluna
del parassita nel sangue di Abdul Kadir.
Durante i due mesi successivi il sangue di Abdul Kadir lo guida
attraverso tutte le fasi critiche della sua ricerca».
«Ma un caso singolo può significare tanto?» disse Antar.
«Ronnie pensava di sí, - disse Murugan. - Era convinto che Abdul Kadir
fosse cruciale per il suo lavoro. Aveva già esaminato parecchi campioni di
sangue ma nessuno gli mostrava ciò che vedeva nel sangue di Abdul Kadir.
Si potrebbe pensare che un virus come il parassita della malaria non si
preoccupi di essere il primo della classe, ma forse non è cosí che funziona.
Forse si lascia vedere piú nitidamente in certi casi.
Sta di fatto che Ronnie la pensava cosí. Si fissò su Abdul Kadir e il suo
sangue. Nei giorni in cui i parassiti di Abdul Kadir andavano in remissione
Ronnie si strappava i capelli. «Ahimè!
il caso fantastico che la fortuna mi ha mandato si sta esaurendo», scrisse
al dottor Manson il 22 maggio.
Quella testa di cazzo aveva un ego cosí gigantesco che pensava che la
Fortuna l’avesse preso sotto la sua ala. Sapeva benissimo che Abdul Kadir
era un caso speciale. Ma non si fermò mai a interrogarsi sul perché quel
ragazzo avesse varcato la sua porta proprio nel momento in cui ne aveva piú
bisogno. Pensava che fosse stato un caso».
«Fammi capire, - disse Antar. -
Vorresti farmi intendere che l’arrivo di Abdul Kadir all’ospedale, quel
17
maggio, non fu una semplice coincidenza?»
«Il meglio deve ancora venire, -
disse Murugan. - Sta’ a sentire: Ross sa che nessuno andrà da lui,
neppure se raddoppierà o triplicherà la tariffa a prelievo; il 17 luglio
scriverà al dottor Manson: «La gente del bazaar non viene sebbene io offra
cifre enormi per loro. Pago 2 e perfino 3 rupie per un buchetto in un dito, e
molto di piú se trovo le semilune - pensano che sia
stregoneria». Ma Ronnie non si sofferma a chiedersi: perché questo
Abdul Kadir è venuto, se non viene nessun altro? Com’è che lui non pensa
che sia stregoneria? Da dove viene?
Cosa ci fa qui? Qual è la sua storia?
Non stiamo parlando di terapia dei profondo, solo di semplice,
quotidiana curiosità. Ma Ronnie riserva la sua curiosità al ciclo di vita del
parassita della malaria; quanto al ciclo di vita di chi la ospita, gli è del tutto
indifferente».
«Dove diavolo vuoi arrivare?» chiese Antar brusco.
«Non intendo arrivare da nessuna parte, - disse Murugan. - Ti sto
semplicemente fornendo fatti e cronologia».
«D’accordo, - disse Antar. -
Prosegui».
«Okay, - disse Murugan. - è passata una settimana dall’arrivo di Abdul
Kadir: 22 maggio 1895. Il dottor Manson pensa che Ronnie stia sbagliando
strada, cosí gli scrive per rammentargli la propria teoria, che
«la bestia dentro la zanzara… arriva all’uomo in forma di polvere di
zanzara». Vuole che Ronnie prepari un cocktail di zanzare morte e lo rifili a
qualcuno.
Ronnie lascia perdere il microscopio e comincia a mescolare. Il
problema è che non ha nessuno a cui propinarlo: non riesce a trovare
nessuno cosí scemo da offrirsi volontario. La solita vecchia storia: Ronnie è
nel suo laboratorio di Begumpett, tutto vestito per uscire, ma non sa dove
andare.
E allora cosa succede? Ronnie ha un altro colpo di fortuna. O forse non
è solo fortuna; forse ha dimenticato sulla scrivania la lettera del dottor
Manson e qualcuno l’ha letta. Forse.
Sta di fatto che il 25 maggio 1895, alle otto di sera precise, un ragazzo
di nome Lutchman entra nella vita di Ronnie. Accetta di bere il cocktail di
Ronnie. Ronnie toglie il tappo e versa un margarita di zanzare.
Questo Lutchman è «un giovanotto dall’aria robusta», annota Ronnie:
proprio il porcellino d’India che gli serviva. Spiega l’esperimento a
Lutchman e gli porge la miscela di zanzare morte. Lutchman si comporta
come se non ne sapesse niente e la manda giú. Ronnie è un po’ preoccupato
ma non lo dà a vedere. Di Lutchman sa solo che è un dhooley-bearer, in
altre parole che il governo britannico lo paga per spalar merda. Ronnie sa
che Sua Altezza Imperiale non si compiacerebbe granché di questo piccolo
esperimento se ne fosse informata, lassú nel suo castello sul ponte di
Londra o dovunque si trovi.
In seguito cerca di cancellarne le tracce scrivendo a Manson: «Per
l’amor del cielo, non faccia parola di Lutchman con l’Associazione dei
medici inglesi… è un dipendente del governo. Sarebbe un crimine
procurare la febbre a un dipendente del governo!»
La mattina dopo Lutchman ha un po’
di febbre: 37,7 alle otto del mattino («Sembra malato», annota Ronnie).
Sembra che questa volta tocchi al dottor Manson saltar fuori dalla vasca
da bagno; forse la malaria si trasmette davvero via zanzare in polvere.
Ronnie è pronto a
festeggiare; sta per chiamare il suo agente. Ma ecco la delusione. Il
giovane Lutchman non ha semplicemente
«l’aria sana», è sano. Solo che è allergico alle zanzare in polvere. Il
giorno dopo sta cosí bene che potrebbe correre la maratona di Begumpett:
nessun segno di malaria nel suo sangue. La teoria delle zanzare in polvere è
morta qui. Ronnie è libero di tornare al suo Abdul Kadir: è stato bloccato in
tempo».
«Ehi, un momento, un momento, - lo interruppe Antar. - Chiariscimi
questo punto. Non vorrai farmi credere che Lutchman fu mandato al
laboratorio di Ross apposta per smentire la teoria di Manson?»
«Non voglio farti credere proprio niente, - disse Murugan. - Solo
guardare i fatti per quello che sono.
E i fatti sono questi: Ronnie stava lavorando sul parassita della malaria
da circa un mese quando entrano nella sua vita Abdul Kadir e Lutchman.
Quello che sta facendo non è un segreto: Ronnie ha messo in giro la
voce che ha bisogno di pazienti con la malaria. Se qualcuno lo teneva
d’occhio - diciamo semplicemente se -
se qualcuno lo teneva d’occhio, se qualcuno cercava uno scienziato per
fare un certo tipo di esperimenti, bene, era quello il momento di beccare il
virus. Cosí questo qualcuno, che controlla da vicino, forse leggendo gli
appunti di laboratorio di Ronnie e le sue lettere al dottor Manson, costui
decide,
okay, è il momento di far scendere in campo un altro giocatore.
Innanzitutto devono accertarsi che Ronnie non trovi pazienti. Cosí mettono
in giro la voce della stregoneria, che circola per il bazaar; e Ronnie diventa
la strega cattiva di Begumpett.
A metà maggio sanno che Ronnie è disperato, niente pazienti, niente
parassiti, niente di niente. Non riesce a capire perché nessuno accetti inviti
alle sue feste. A questo punto gli viene mandato Abdul Kadir, che ha dei
parassiti di dimensioni industriali; accompagnano Ronnie per mano mentre
lui fa due piú due uguale quattro; sono soddisfatti, in perfetto orario, stanno
conducendo Ronnie esattamente dove vogliono loro. E a quel punto Ronnie
riceve la lettera del suo boss Manson; e tutto rischia di andare a catafascio;
Ronnie imbocca il binario sbagliato, con questa cazzata delle zanzare in
polvere.
Quelli sono furiosi: sanno che non c’è niente in fondo a quel binario;
devono trovare il modo di riportarlo nella direzione giusta. Allora cosa
fanno?
Gli mandano Lutchman».
«Ma perché Lutchman?» chiese Antar.
«Mettiamola cosí, - disse Murugan, -
chiunque scelse Lutchman sapeva il fatto suo. E sai perché, perché
sapeva maneggiare un microscopio quanto bastava per sapere con certezza
che nel suo sangue non c’era traccia di parassiti. In questo caso Ronnie è
stato preceduto. Qualcuno aveva previsto cosa sarebbe accaduto se Ronnie
otteneva un risultato positivo dopo aver dato a Lutchman il cocktail di
zanzare. Avrebbe collegato i parassiti alla teoria del dottor Manson e bingo!
al diavolo la tabella di marcia. Potevano passare mesi, forse anni, mentre
Ronnie andava a caccia nei dintorni di Begumpett, facendo bere zanzare
morte a tutto il 19o Fanteria di Madras.
Cosí entrano in scena un’altra volta; gli mandano qualcuno che non ha
nessun parassita. Ricordati che siamo in un paese dove il tasso di malaria
tra la popolazione è cosí alto che sbaraglia qualsiasi statistica. Non è facile
trovare qualcuno nel cui sangue non ci sia traccia del parassita. Ma quelli ci
riescono, trovano un tizio che fa al caso loro, e lo spediscono dal
comandante di Begumpett. Funziona: Ronnie ritrova il binario giusto, è di
nuovo in orario».
«Ma, - disse Antar, - possibile che Ronnie non si accorgesse di una cosa
tanto ovvia?»
«Ronnie? - rise Murugan. - Ronnie non se ne sarebbe accorto nemmeno
se Lutchman ce l’avesse avuto scritto sulla maglietta. Ronnie non c’è per
nessuno, salvo che sia un parassita che bussa alla porta. Per dirla con le sue
parole, Ronnie aveva bisogno di aiuto, a quell’epoca, cosí decide di
assumere Lutchman come
domestico-piú-fattorino. Di lui Ron sapeva soltanto che si chiamava
«Lutchman» e che di mestiere «spalava merda».
Per i successivi trentaquattro mesi
- l’intero periodo in cui Ron lavorò sulla malaria - Lutchman gli sta
appiccicato addosso come un deodorante. A partire dal maggio 1895, fino al
luglio 1898, quando Ron fa la sua scoperta decisiva a Calcutta, Lutchman
non lo perde praticamente mai di vista. Riesce persino a far la parte della
valigia. «Ho lasciato Secunderabad con un bagaglio minimo, -
scrive Ronnie, - il mio microscopio e il fedele Lutchman».
Succede cosí che persino Ron non può evitare di accorgersi che
Lutchman comincia a fare alcune connessioni preziose per lui. Nell’aprile
1897, Ron si concede una breve vacanza sulle colline di Nilgiri. Porta
Lutchman con sé, a Ootacamund - «un pezzo d’Inghilterra piazzato sulle
colline di Nilghiri», scrive Ron. Ma un giorno Ron va alla piantagione di
caffè Westbury in cerca di parassiti e, per la prima volta nella sua vita, si
becca la malaria.
Durante la convalescenza Lutchman riesce a mettergli in testa
un’intuizione fondamentale: che il vettore della malaria possa essere una
specie particolare di zanzara. «Oh, yeah!» dice Ron. è convinto che
Lutchman sia pura merda: ha avuto molti risultati negativi ma non gli è mai
passato per la testa che possano avere a che fare con le differenti famiglie di
zanzare.
«Sai cosa ti dico, Lutchman, - dice Ron, - la prossima volta che mi serve
il tuo aiuto te lo chiederò». Ma dopo che Lutchman ha piantato questo
semino qualcosa comincia a germogliare dal fango; una creatura comincia a
prendere forma nella testa di Ron.
Comincia a strabuzzare gli occhi su ogni diversa specie di zanzare su
cui riesce a mettere le mani. Il problema è che Ron non sa un cazzo di
zanzare: non ha neppure mai sentito la parola anofele. Finisce per inseguire
Culex, Stegomya - muovendosi in tutte le direzioni, salvo in avanti. E
Lutchman è costretto a intervenire di nuovo. Il 15 agosto 1897 si riunisce a
consulto con il resto dell’equipaggio e decidono che bisogna agire al piú
presto.
Sta’ a sentire come la racconta Ronnie «Il giorno dopo, 16 agosto,
quando tornai all’ospedale dopo colazione, il guardiano dell’ospedale (mi
dispiace di aver dimenticato il suo nome) mi ha indicato una piccola
zanzara seduta sul muro con la coda puntata all’infuori». Ronnie l’ammazza
con uno sbuffo di fumo e la taglia in due: niente. Ma se non altro è sul
binario giusto: Lutchman l’ha con vinto a dare la caccia al vero vettore della
malaria. Ron ancora non sa che si chiamano anofele: le battezza «zanzare
dalle ali screziate».
Il giorno dopo Lutchman gliene fa recapitare delle altre uguali: tramite
il solito guardiano gli fa avere un vaso pieno di anofele. «Eccoli qui, -
scrive Ronnie, - proprio loro: una dozzina di grossi esemplari scuri, con
un bel corpo affusolato e ali maculate, che cercano furiosamente di
svignarsela attraverso la reticella che chiude il recipiente che l’Angelo del
destino ha posto nelle mie umili mani! - zanzare dalle ali
screziate…» ‘ffanculo l’Angelo del destino! Per Ronnie deve sempre
esserci qualche grasso gatto in cielo: quello che ha sotto il naso lui non lo
vede.
Il 20 agosto 1897 Ronnie fa la sua prima scoperta fondamentale:
individua gli zigoti del plasmodio nella sacca dello stomaco di
un’Anopheles Stephensii. «Eureka, - scrive nel suo diario, - il problema è
risolto».
«Yuuhhh! - dice Lutchman,
asciugandosi il sudore dalla fronte, -
pensavo che non ci sarebbe mai arrivato!»
Piú tardi Ron gli chiede: «Ehi, Lutch, chi ti ha dato quella fantastica
imbeccata sulle specie di zanzare?» Lutchman fa il tonto: «Oh, dei
contadini su nelle loro colline ne hanno parlato per caso mentre
pascolavano le loro capre». E sai una cosa? Ronnie se la beve. Crede che
Lutchman abbia messo a fuoco questa brillante idea sgambettando su per le
colline con degli indigeni beoti.
Quello che mi affascina in questo scenario è l’ironia. C’è Ronnie,
giusto? Che è convinto di fare esperimenti sul parassita della malaria. E
invece per tutto il tempo è lui l’esperimento sul parassita della malaria. Ma
Ronnie non ci arriva mai; fino alla fine della sua vita».
Capitolo dodicesimo.
Il taxi rallentò nel traffico lentissimo di Chowringhee. Ogni volta che
Murugan si voltava indietro gli sembrava di intravvedere il ragazzo con la
maglietta stampata, che correva a zigzag tra le auto. Invece niente.
Poi il taxi svoltò in Theatre Road. Le dita di Murugan cominciarono a
rilassarsi.
A metà di Theatre Road, Murugan scorse un venditore ambulante di
ciabattine di gomma e fermò il taxi.
Ci mise parecchi minuti a sceglierne un paio e poi si sentí molto meglio.
Saltò nel taxi e fece segno all’autista di ripartire, impaziente di tornare
alla pensione in Robinson Street.
Si congratulava con se stesso per quella pensione. Era proprio in fondo
alla strada dove aveva vissuto Ronald Ross quando stava a Calcutta. Ross
abitava in una pensione «per soli Europei» al numero tre; la Robinson
Guest House, dove alloggiava Murugan, era al quarto piano del numero
ventidue.
Murugan l’aveva trovata per puro caso, in un elenco dattiloscritto
spiegazzato, all’ufficio informazioni dell’aeroporto. La donna dietro il
banco aveva cercato di indirizzarlo verso hotel a cinque stelle come il
Grand o il Taj, e aveva assunto un’espressione dubbiosa quando lui aveva
scelto la Robinson Guest House. L’avevano inserita da poco nell’elenco, gli
disse; non poteva garantirgliela, non conosceva nessuno che ci fosse stato.
Era meglio se andava in albergo.
«Ma è esattamente dove voglio stare io, - replicò Murugan trionfante, -
in Robinson Street».
Naturalmente non aveva idea di come fosse, e si rallegrò scoprendo che
Robinson Street era ricca di verde e piuttosto tranquilla, fiancheggiata da
alcuni grandi condomini moderni e qualche dimora coloniale d’epoca. Il
numero ventidue era uno degli edifici piú vecchi, una massiccia costruzione
a quattro piani, adorna di graziose verande a colonne: probabilmente era
l’edificio piú imponente della strada; adesso la sua facciata dorica era
sbrecciata e sbiadita, con l’intonaco annerito dalla muffa.
Arrivò al quarto piano dentro un cigolante gabbiotto d’ascensore che
saliva al centro di una scala a chiocciola di tek. Quando l’ascensore si
fermò, Murugan posò cautamente i piedi sulle tavole scheggiate di un
pianerottolo di legno. Un raggio di sole, che penetrava attraverso un buco di
una vetrata dipinta, illuminava una piccola insegna accanto alla maestosa
porta alla sua destra. Diceva,
«Robinson Guest House». Sotto c’era la targhetta col nome, «N’
Aratounian».
Trascinandosi dietro la valigia di cuoio, Murugan raggiunse la porta e
suonò il campanello. Dopo parecchi minuti sentí dei passi dall’altra parte.
Poi la porta venne spalancata e Murugan si ritrovò davanti una donna
anziana, di carnagione cinerea, con indosso una vestaglia logora e ciabattine
di gomma. «Salve, - disse Murugan porgendole la mano. - Ci sono camere
libere?»
Ignorando la mano, la donna lo squadrò dall’alto in basso, accigliata
dietro le lenti bifocali cerchiate d’oro. «Cosa vuole?» disse perentoria.
«Una stanza», disse Murugan. Batté un colpetto sull’insegna accanto
alla porta. «è una pensione, vero?»
La signora Aratounian inclinò la testa in modo da poterlo esaminare
attraverso la metà inferiore delle lenti. «Non mi pare che si sia presentato»,
disse.
«Mi chiamo Murugan, ma può chiamarmi Morgan».
La signora Aratounian arricciò il naso. «Sarà meglio che entri signor
Morgan, - disse. - Non ho molto da offrirle al momento ma le mostrerò la
camera che ho libera. Decida lei se le va bene o no».
Fece strada a Murugan attraverso un salotto antiquato, ingombro di
tavolinetti con centrini di pizzo, fotografie in cornici d’argento e statuette di
porcellana. Aprí una porta e lo introdusse in una vasta camera rischiarata
dal sole con soffitti altissimi. Al centro del pavimento di marmo
troneggiava un letto con zanzariera, come una zattera alla deriva. Proprio
sopra, appeso a un gancio di ferro, pendeva dal soffitto un bulboso
ventilatore con lunghe pale.
In fondo alla stanza si apriva un balconcino. Murugan lo raggiunse,
uscí, si sporse dalla balaustra e guardò la strada da un capo all’altro
- dal cimitero alberato in fondo a Loudon Street fino al traffico di
Rawdon Street, alla sua destra.
Schermandosi gli occhi con una mano, diede un’occhiata in diagonale al
numero tre di Robinson Street.
Intravvide una vasta dimora coloniale, protetta da alti muri e circondata
da palme ornamentali. Notò che la facciata della casa era coperta da
ponteggi di bambú e che i viali erano ingombri di mattoni e cemento.
Murugan strinse i pugni soddisfatto: non avrebbe potuto sperare niente
di meglio. «La prendo», disse alla signora Aratounian. Posò la valigia sul
letto, fece una doccia e uscí alla ricerca del monumento a Ross.
Cosí stavano le cose qualche giorno prima, ma adesso Robinson Street
appariva completamente diversa. Era ingombra di automobili per tutta la
sua lunghezza: non le solite Ambassador e Marutis bensí grosse e costose
auto giapponesi e tedesche. Le auto scaricavano uomini in dhoti e khurta
inamidati e donne ingioiellate in sari luccicanti. Nel giardino di un grande
condominio a piú piani si celebrava un matrimonio. Musica a tutto volume
sotto il tendone a scacchi di un vivace pandal. Sopra l’ingresso brillava un
arco luminoso su cui era scritto coi fiori «Neeraj sposa Nilima». Tutta la
strada era illuminata - tutta tranne il numero tre, che per contrasto sembrava
sprofondato in un pozzo di tenebre, sebbene fosse proprio a fianco della
casa del matrimonio.
Camminando verso la pensione Murugan si fermò davanti alla
cancellata del numero tre. Tutto quello che riusciva a vedere dell’edificio
era l’alto muro, impiastricciato di locandine pubblicitarie e graffiti; il
brillare delle luci tutt’intorno rendeva piú fitte le ombre che l’avvolgevano.
Avvicinandosi al cancello di ferro battuto, vide che era chiuso da una
pesante catena. Batté sul cancello, nell’eventualità che ci fosse un custode
disposto a farlo entrare.
Nessuna risposta. Arretrando di un passo, Murugan guardò in su, verso
la silhouette dell’edificio che si profilava nel buio: da vicino era assai piú
imponente di quanto s’aspettasse.
All’improvviso mancò la corrente e le luci si spensero, in tutta la strada.
Seguí un istante di assoluta immobilità; come se ogni cosa si zittisse,
eccetto il frinire di cicale sugli alberi vicini e il trombettio di strombi, in
lontananza. In quel preciso istante, Murugan udí un delicato scampanellare
di cimbali metallici da qualche parte dentro l’antica dimora. Alzò gli occhi
verso le finestre sbarrate e vide materializzarsi nell’oscurità un tremolante
rettangolo arancione.
Sobbalzò, meravigliato, e guardò di nuovo. Era solo la luce di una torcia
elettrica, che filtrava dagli orli sbrecciati della cornice marcia di una
finestra. Poi, con un rumore assordante, nella casa del matrimonio entrò in
funzione un generatore, e l’interrotta canzone da film stridette di ottava in
ottava mentre un giradischi tornava lentamente in vita.
Adesso Murugan sapeva con certezza che la casa non era vuota: stando
al rumore che proveniva dall’interno sembrava vi si stesse svolgendo una
qualche cerimonia. Si riavvicinò al cancello e scosse la catena. Con sua
sorpresa, cadde a terra: qualcuno si era dimenticato di chiudere il lucchetto.
Spinse il cancello ed entrò. Era completamente buio, ma il portachiavi
di Murugan aveva una piccola pila.
L’accese e fece luce davanti a sé. Il raggio illuminò cumuli di mattoni e
cemento, accanto al passo carraio.
Dopo una curva, il viale sfociava in un colonnato coperto da una
staccionata di bambú. Al di là Murugan scorse il vano di una porta che
conduceva nell’interno buio pesto della casa.
Pietrisco e cemento penetrarono nelle suole dei sandali di gomma di
Murugan mentre risaliva il viale. Li scosse via e attraversò il colonnato.
Dava su un atrio spazioso. Puntò la lucina nell’oscurità. Il raggio sfiorò
pile di materassi e zanzariere, ammucchiati ordinatamente negli angoli.
Mise le mani a coppa e gridò: «C’è qualcuno?» La sua voce non poteva
gareggiare con il rumore assordante del vicino generatore. Si guardò
intorno, seguendo le ombre inquietanti che scivolavano sopra la cavernosa
oscurità dell’atrio. Poi le sue orecchie colsero un rumore, un rullio sordo,
simile a un tamburo. Sembrava che provenisse da un luogo dentro la casa,
ma era difficile accertarsene per via del generatore e degli altoparlanti a
tutto volume.
Stava per varcare la soglia quando un secondo raggio di luce apparve
nel vano della porta. Udí una voce arrabbiata che gridava: «Chi è? Kaun
hai? Cosa fa qui?»
Ruotò la torcia e la luce cadde su un uomo con un copricapo nepalese,
che gli veniva incontro gesticolando furiosamente con un bastone da
chowkidar.
Murugan mosse due dita in un cenno di saluto, simulando
un’impudenza che non gli apparteneva. «Davo un’occhiata in giro», disse.
Il custode nepalese agitò il bastone sotto il naso di Murugan, gli girò
intorno e cominciò a spingerlo giú dai gradini del colonnato.
«Davo solo un’occhiata, - disse con garbo Murugan. - Non ho toccato
niente».
Il guardiano si lanciò in una lunghissima tirata di cui Murugan riuscí a
cogliere solo qualche brandello: gli stava dicendo che non era autorizzato a
entrare, c’erano lavori in corso lí dentro.
A metà del viale, il guardiano gli indicò severamente un cartello
metallico. Era inchiodato al tronco di un albero e diceva: «Proprietà privata.
Non superare questo limite.
Costruzione del Robinson Hotel; proprietà e direzione lavori Romen
Haldar Ltd’».
Murugan gli chiese a bruciapelo: «E
chi è? Chi è Romen Haldar?»
Il guardiano non badò alla sua domanda. Lo prese per un braccio, gli si
mise accanto e cominciò a sospingerlo verso il cancello. Murugan
intravvide l’impugnatura di un khukri inguainato, che gli sbucava dalla
cintola.
Mentre il guardiano spalancava il cancello, Murugan si voltò per dare
un’ultima occhiata, puntando il raggio della sua lucina sul giardino invaso
dalle macerie. Illuminò un filo teso tra due tronchi d’albero. Tra dhoti,
biancheria e sari pendeva una maglietta con una spiaggia di palme stampata
sopra.
A quel punto il guardiano gli diede uno spintone e richiuse con violenza
il cancello.
Capitolo tredicesimo.
Antar versò a Murugan un’altra tazza del caldo tè verde del ristorante.
«Hai qualche ipotesi su chi fosse realmente Lutchman?»
«Ho alcuni indizi, - disse Murugan.
- Forse troppi. Per come la vedo io, era onnipresente, con nomi diversi,
mutevoli identità. Sospetto che, chiunque fosse il cervello
dell’operazione, Lutchman fosse l’uomo chiave».
«Mmm, - disse Antar. - Ma hai qualcos’altro su di lui, a parte quello che
ne diceva Ross?»
«Sicuro che ce l’ho, - disse Murugan. - C’è un accenno a lui in un
diario».
«Il diario di chi?» disse Antar.
«Adesso ti spiego, - disse Murugan.
- C’è un tizio di cui sappiamo che passò un fine settimana nella casa in
cui viveva Ron a Secunderabad.
Lutchman faceva parte della servitú, in realtà era quasi uno di famiglia
per Ron».
«Continua».
«Ricorderai, - disse Murugan, - che quando Ron comincia a occuparsi di
malaria è felicemente sposato e ha un paio di frugoletti. Ma è anche un
ufficiale dell’esercito, tenuto a rispettare le regole del servizio militare. Il
che significa che mentre lui friggeva al caldo di Secunderabad, la moglie e i
bambini se ne stavano sulle colline, insieme a un’armata parallela di mogli
di militari inglesi.
Nelle sue Memorie, Ron dedica alla propria vita extrascientifica in quel
di Secunderabad esattamente due frasi:
«Il 23 [aprile 1895] sono partito per Secunderabad… e ho vissuto in un
bungalow en garçon, col capitano Thomas, aiutante di stato maggiore, e il
tenente Hole, due persone di prim’ordine. Ce la siamo spassata, e poi c’era
il club, dove abbiamo giocato a golf e a tennis; ma niente cavalli, perché in
qualunque momento mi aspettavo di essere destinato a compiti specifici
relativi alla malaria».
Non stare a spremerti le meningi cercando di immaginare la
sistemazione di Ron a Secunderabad: sembra uscito da uno di quei serial
che la nostra televisione prende a nolo dalla Bbc: vasti bungalow coloniali,
muri intonacati di bianco, soffitti altissimi, interni freschi e ombrosi,
elefanti parcheggiati nel viale, salaam salaam di servi inturbantati ai loro
sahib, valletti rincoglioniti che smuovono l’aria con foglie di palma, pony
da polo, racchette da tennis, la solita
alu paratha del cazzo.
Lui lo chiama bungalow, ma non lasciarti ingannare: ci sono una
ventina di stanze e mezzo acro di giardino. Poi ci sono gli appartamenti
della servitú, da qualche parte là dietro, dove quasi non si vedono: una
lunga, bassa fila di camere. Sono stanze piccolissime, ma in alcune ci
vivono sei o sette persone e in altre abitano intere famiglie. In una di queste
si stabilisce Lutchman, circa un mese dopo l’arrivo di Ron a Secunderabad.
Ma Lutchman occupa un posto di riguardo nella gerarchia: è stato
selezionato personalmente dal grande dottore sahib. Ha una stanza solo per
sé. Ci porta la sua roba e si sistema mica male.
Per Ron quella schifezza di bungalow è semplice routine; non ci fa
caso: e non c’è da meravigliarsi. Se non vivesse cosí a Secunderabad
vivrebbe allo stesso modo da qualche altra parte. In giro per il mondo ci
sono migliaia di ufficiali dell’esercito che vivono esattamente cosí - in
Sudafrica, Malesia, Singapore, Kenya e cosí via. Per la maggior parte sono
dei coglioni pronti a credere che Plasmodium fosse il secondo nome di
Giulio Cesare. Cosí, in questo particolare bungalow di Secunderabad, c’è
questo giovanotto che fa scienza al massimo livello ed è talmente preso dai
suoi affari che manco s’accorge di quello che gli capita intorno - e ne
succedono di cose, ne succedono un sacco, solo che quello stupido figlio di
puttana è un tale genio del cazzo che non se ne accorge.
E poi un giorno arriva quest’altro tizio per il weekend. Si chiama
J’W’D’
Grigson; è appena uscito da Cambridge e fa parte di un’associazione
chiamata Mappa linguistica dell’India.
Vent’anni dopo scriverà un libro, :A Comparative Survey of the
Phonetic Structures of the Languages and Dialects of Eastern India. Non
sarà un best-seller, ma nel suo campo diventerà l’equivalente della Guida
del consumatore. Questo Grigson è un bel tipo: morirà poco dopo la
quarantina, nella Birmania
settentrionale, cercando di conciliare una contesa tribale.
E dovunque va, prende appunti.
Accidenti, se ne prende: tiene un diario, tiene un calepino. Quando nel
1990 l’Ypsilanti College, su nel Michigan, ha comprato la collezione
completa dei suoi scritti ha dovuto noleggiare un autotreno per farci star
dentro tutta quella roba. Non c’è cosa di cui non prendesse nota: e non basta
ancora. Perché non si occupa solo di lingue, se ne intende anche di
anatomia. è interessato a tutto ciò che si muove: se riesce a sollevare una
gamba vuole vederci sotto.
Dunque, Grigson arriva e va a passare qualche giorno nel bungalow in
cui abita temporaneamente Ron. A quanto pare era andato a scuola con uno
dei coinquilini di Ron, il tenente Hole. I due si detestano, ma le loro
mammine gli hanno detto di darsi una mano. Cosí, quando Hole viene a
sapere che Grigson è arrivato all’improvviso in città, gli chiede se ha
bisogno di un posto in cui stare; pensa di guadagnarsi qualche stelletta a
buon mercato. Grigson dice, sicuro, cos’ho da perdere? E si sistema nella
stanza degli ospiti per un paio di notti.
Grigson non ci mette molto a capire che c’è qualcosa di non
perfettamente ortodosso in quel Lutchman, qualcosa non gli torna, non sa
bene cosa. Le sole frasi che si sono scambiate sono,
«Gradisce del tè, signore?» e,
«D’accordo, Lutch, versa pure», ma Grigson non ci casca. Qualcosa nel
modo di parlare di Lutchman lo incuriosisce: comincia a indagare su quel
ragazzo.
Fa un piccolo esperimento: invece di chiamarlo «cameriere» o
«ragazzo» o
«ehi tu» o non so che altro, all’improvviso lo chiama «Lutchman».
Nel diario annota che Lutchman ci mette solo un attimo in piú a
rispondere: esattamente quel nanosecondo di troppo che uno impiega
quando risponde a un nome che non è veramente il suo. A questo punto
Grigson ha la certezza che non si chiama Lutchman: ha cambiato nome per
farsi passare per uno della regione.
Grigson sa benissimo che è uno dei nomi piú comuni che ci siano, solo
che quello che è «Lutchman» in un posto, in un altro è Laakhan e altrove
Lokhkhon e in un altro posto ancora Lakshman, dipende dalla regione
d’origine.
Quella sera chiede a Ron, «Conosci la storia di questo Lutchman? è di
qui?» Ron è appena arrivato dopo otto ore filate a osservare il rivestimento
dello stomaco delle zanzare. Non è in vena di fare conversazione. Dice:
«Mai saputo. Suppongo che sia di qui».
«Davvero? - dice Grigson. - Eppure, dal modo in cui pronuncia labiali
sorde e dentali retroflesse si direbbe che venga da molto piú a nord».
«Ma guarda un po’! - sbadiglia Ron, chiedendosi da dov’è arrivato quel
primo della classe. - Wow! Mi sa che vado a vedere se riesco a farmi una
partita a tennis». Esce di scena gridando: «Qualcuno vuole giocare a
tennis?»
Ormai Grigson non è interessato solo alle dentali retroflesse di
Lutchman: sta sviluppando un interesse personale ad arrivare dietro le sue
labiali. La mattina dopo, quando Lutchman gli porta il tè, Grigson è ancora
a letto e decide di cogliere l’occasione: okay, dice tra sé, io ci provo.
Indugia con la mano sul braccio di Lutchman mentre prende la tazza del
tè; un istante dopo gli stringe la mano. E si accorge di un ingegnoso
dettaglio della mano sinistra di Lutchman: ha solo quattro dita e manca il
pollice, ma è come se non ne avesse bisogno, l’indice si è rigirato e funge
da pollice.
Il pollice-che-non-c’è lo fa impazzire, Grigson gli dà una sfregatina,
«Ehi, Lutch, - dice, dando una pacca sul letto. - Che fretta hai, siediti qui un
momento e facciamo due chiacchiere». In tutto questo tempo Grigson si
comporta come se sapesse parlare solo in pidgin industano, come tutti gli
Inglesi in India.
Lutchman lo scruta con occhi inquisitori, come se volesse guardargli
dentro. Sembra a posto quel Grigson, e lui sta andando forte, il nuovo
deodorante funziona davvero. Poi si sente Ron che urla dalla sua stanza,
«Ehi tu, cameriere, dov’è finito il mio tè?»
Lutchman salta in piedi e fila fuori. Grigson decide che ritenterà piú
tardi. Tiene d’occhio Lutchman e individua il posto in cui vive: nota che c’è
una grossa lanterna metallica appesa alla finestra della sua stanza, là dietro,
negli appartamenti della servitú.
Quella sera c’è una festa al Secunderabad Club. Grigson ci va, ma se la
svigna presto; dice che ha mal di testa; vuole tornare al bungalow.
Gli trovano un cavallo; torna a casa, sistema un paio di cuscini sotto la
zanzariera e se la svigna un’altra volta.
è buio, non c’è luna. è la
stagione dei monsoni, il cortile è pieno di fango. Grigson sguazza fino
agli appartamenti dei domestici. Tutto quello che riesce a vedere
dell’edificio è una sagoma lunga e minacciosa nell’oscurità. Impreca
sottovoce, ma quando arriva piú vicino vede una luce in una finestra, un
piccolo, luminoso cerchio di luce rossa. Tenendo sollevato l’orlo del
pigiama avanza in punta di piedi fino alla finestra e bussa. Appare il viso di
Lutchman; lo squadra a lungo strabuzzando gli occhi.
«Sono io! - dice Grigson, - ho fatto un salto a vedere la tua collezione
d’arte». Lutchman apre la porta e Grigson entra nella stanza. è piccola,
puzza di vestiti, sudore e olio di senape. In un angolo c’è una brandina, e ci
sono degli abiti appesi a un filo. è molto buio. L’unica luce viene dalla
lampada alla finestra.
Adesso che ha fatto tutta quella strada per arrivare sin lì, Grigson vuole
guardarselo bene quel bellimbusto. Ma quella non è una lampada qualsiasi.
è grossa, robusta, solida, ha un lungo manico e un piccolo schermo rotondo
di vetro rosso. Grigson la guarda e la riguarda stupito e infine capisce cos’è:
è una lampada da segnalazioni, di quelle in dotazione alle ferrovie. Il tipo
usato per fermare i treni nelle stazioni.
Non è il tipo di lampada che si può comprare in un emporio qualsiasi,
anzi, probabilmente è un reato averne una appesa alla finestra.
Adesso Grigson è veramente eccitato; sente che sta per esplodergli la
patta. Ma allo stesso tempo muore dalla curiosità. Di fatto non sa cosa lo
ecciti di piú: farsi una scopata o scoprire la verità.
In pidgin industano, indicando la lampada, dice: «Cos’è quella?»
Lutchman fa il tonto: «Cos’è cosa?»
«Quella lampada là».
«Oh, quella: lo sai cos’è».
«Okay, lo so, ma tu come la chiami?»
dice Grigson.
«Cosa sono tutte queste domande?»
dice Lutchman. Parla pidgin industano anche lui, cosí Grigson fa fatica
a stargli dietro.
«Semplice curiosità», dice Grigson.
«Perché? - dice Lutchman. - Hai fatto tutta questa strada per farmi
queste domande cretine?»
«No, - dice Grigson. - Sono curioso, ecco tutto».
«Curioso di cosa?»
«Delle parole».
«Intendi dire che vuoi sapere come si chiama?»
«Sííí, - dice Grigson. - Proprio cosí».
«Perché non l’hai detto? - dice Lutchman. - Si chiama lanterna».
E allora Grigson capisce. Capisce perché Lutchman pronunciò la parola
in modo diverso da come avrebbe fatto se fosse stato di dove diceva di
essere.
Quello che disse fu «lantelna».
Al che Grigson gli sorride e, rivolgendoglisi nel suo dialetto, dice:
«Dunque in realtà ti chiami Laakhan, non è vero? Non è cosí che dicono nel
tuo paese?»
Nel momento in cui Grigson pronuncia quella parola, sul viso di
Lutchman scende un pallore mortale. Ma Grigson non se ne accorge; è
troppo occupato a congratularsi con se stesso per il proprio infallibile
orecchio. Puntando un dito verso Lutchman, dice:
«Impossibile imbrogliarmi. Vi riconosco tutti, voi indigeni, so
esattamente da dove viene ciascuno di voi. Le parole prese a prestito vi
tradiranno sempre».
Adesso, d’improvviso, è Lutchman che prende l’iniziativa. Afferra la
lanterna e dice: «Vieni con me, seguimi».
«Dove?» chiede Grigson, ma Lutchman è già fuori dalla porta. Anche
Grigson si mette a correre.
Si dà il caso che Secunderabad, come molte città di acquartieramento
inglese, sia un grosso nodo ferroviario. La stazione non dista molto dal
bungalow di Ron: di fatto la zona di smistamento dista un centinaio di metri
dal fondo del giardino. Ma Grigson è appena arrivato in città e lo ignora.
Respira affannosamente; le endorfine gli scoppiettano nel cervello come
bollicine di champagne.
Non è in forma; piú corre veloce piú è disorientato.
Ci dà dentro con tutte le sue forze, ma la lanterna è sempre un pochino
piú avanti, oscilla, ruota, si contorce: sembra che voglia condurlo da
qualche parte. è buio pesto; il luccichio della lanterna è l’unica cosa che
Grigson riesce a vedere. Non sa bene dov’è, ma sa che non sta piú correndo
sull’erba, è ghiaia quella che ha sotto i piedi. La sente tintinnare sul metallo.
Tuttavia non si fida di quello che sente, è esausto, gli ronzano le orecchie.
Poi sente un rumore che quasi gli rompe i timpani: è un fischio. Si volta
indietro e a un tratto è come se avessero già inventato il cinema e lui fosse
seduto in prima fila: una locomotiva gli sta arrivando addosso, sbuffando
nubi di vapore. è terrorizzato e comincia a correre tra i binari; è destinato a
diventare una vittima della strada. Ma all’ultimo istante riesce a saltare;
sfugge ai respingenti di un millimetro.
Adesso la luce rossa è sparita. In qualche modo Grigson riesce a
ritrovare la strada e torna al bungalow. è spaventato: è quasi sicuro che
Lutchman abbia cercato di inscenare un incidente per farlo fuori. Pensa che
dovrebbe mettere in guardia Ross, dirgli che sotto il suo tetto sta
succedendo qualcosa di molto strano. Ma ci rinuncia: non vuole dare
spiegazioni su quello che era andato a fare nelle stanze della servitú. E
cosa fa invece? Scrive tutto nel suo diario.
La mattina dopo Lutchman aspetta al tavolo della colazione, come ogni
giorno, con l’aria di uno che non ha pensieri. è un domestico modello, come
sempre: sorridente, ossequioso, premuroso.
Grigson non intende pranzare mai piú in quella città: è giovane, ha tutta
una vita da vivere. Salta sul primo treno in partenza da Secunderabad».
Capitolo quattordicesimo.
Sonali notò che, entrando nel palazzo, Urmila si era fatta
improvvisamente silenziosa; non aveva detto una parola mentre aspettavano
l’ascensore, si era limitata a guardarsi intorno con un’espressione
corrucciata, registrando ogni particolare. Sonali intuiva che stava cercando
di tenere a bada il bisogno di esprimere la propria
disapprovazione.
Sonali viveva lì ormai da parecchio tempo, abbastanza da aver
dimenticato quanto quel posto le fosse sembrato strano, addirittura
grottesco, all’inizio: pavimenti di marmo, specchiere in cornici dorate alle
pareti, vistose palme negli angoli, in lucidi portavasi d’ottone. Certo non ci
si aspettava di vedere niente di simile a Calcutta, se non negli alberghi a
cinque stelle.
Quando Romen le aveva mostrato il palazzo per la prima volta, gli
aveva detto che non le sembrava un posto adatto per vivere - o comunque in
cui lei, Sonali, potesse vivere. Si rischiava di sprecare un mucchio di tempo
a chiedersi come fare le cose, dove stendere la biancheria, se comprare
mobili nuovi. Ma Romen era scoppiato a ridere. «è solo una questione di
mercato, - aveva detto -
tutto quel marmo, e l’ottone. La gente che compra questo tipo di
appartamenti paga per avere queste cose. Non prenderle troppo sul serio».
Arrivò l’ascensore e Urmila entrò, sempre in silenzio. Sonali avrebbe
voluto dirle qualcosa per
ridimensionare la situazione: che non era quello il tipo di casa in cui era
abituata a vivere, che aveva trascorso la maggior parte della vita con sua
madre passando da un angusto appartamento a un altro, che sua madre era
cosí abituata alla povertà, e allo stesso tempo cosí terrorizzata dalla miseria,
che non si era mai sognata di vivere diversamente, anche quando aveva il
denaro per farlo. Ma in quel momento le porte scorrevoli dell’ascensore si
aprirono e Sonali non ebbe il tempo di parlare.
Aprí la porta e fu sorpresa nel trovare l’appartamento immerso nel buio.
Accese le luci e fece entrare Urmila.
«Non c’è nessuno in casa?» disse Urmila, guardandosi intorno nella
grande stanza con vetrata, tappeti del Kashmir e sedie basse con fodere di
luccicante stoffa del Gujarat intessuta di specchietti.
«C’è un ragazzo che cucina e fa le pulizie… - disse Sonali, invitando
Urmila a sedersi. - Di solito quando rientro lo trovo seduto davanti alla
televisione che canta a squarciagola».
Lasciò cadere la borsetta su una sedia e percorse il corridoio che portava
in cucina, accendendo le luci nel frattempo. La cucina era in ordine, ogni
cosa al suo posto, il piano di marmo lustrato alla perfezione. L’attraversò
velocemente, diretta ad una stanza sul retro dove avvitò la nuda lampadina
che pendeva dal soffitto.
La stanza era vuota: il materasso e le coperte giacevano accuratamente
piegati ai piedi del charpai. Tutto il resto era sparito: la radio sempre
orribilmente chiassosa, i sandali, la maglietta stampata che il ragazzo aveva
sempre addosso. Sonali si avvicinò a una piccola scrivania in un angolo
della stanza e aprí un cassetto. Vuoto anche quello: libri, matite e penne
erano spariti.
«è lì?» gridò Urmila.
«No, - disse Sonali sovrappensiero.
- Credo che se ne sia andato, tutte le sue cose sono sparite». Spense la
luce e tornò lentamente in salotto.
«Era il tuo unico domestico?» chiese Urmila.
Sonali scosse il capo. «Non era proprio un domestico, - disse. - Non mi
piace avere domestici fissi».
«E allora…?»
«Di giorno andava a scuola, - disse Sonali. - Ma la sera cucinava e
puliva, quando se ne ricordava: erano questi gli accordi. è stato Romen a
proporlo. Uno dei suoi clienti o non so chi ha scovato il ragazzo: si
guadagnava da vivere intrattenendo con giochetti matematici i passeggeri
dei treni locali nell’ora di punta. Romen sosteneva che era una specie di
prodigio e lo ha preso sotto la sua ala».
Intanto Sonali apriva le porte distrattamente, guardando nelle camere e
nei bagni, quasi si aspettasse di trovarlo. «Non capisco, - disse. -
Dove può essere andato? Non ha nessun posto in cui andare. Non
conosce nessuno, a parte Romen».
Poi squillò il telefono in salotto.
Sonali lo raggiunse di corsa e sollevò il grigio portatile. Con un cenno
di scuse a Urmila, tolse la catenella a una porta e uscí sul balcone col
telefono.
«Pronto, - disse premendo il pulsante «Talk». Poi sussurrò: -
Romen?»
Il telefono gracchiò e una voce giunse ronzando lungo la linea. Sonali
capí subito che non si trattava di Romen. Si irrigidí, a disagio e anche
piuttosto delusa.
«Saprebbe dirmi, per favore, - disse la voce in un bengali cortese,
formale, - se il signor Romen Haldar è lì?»
«No, non c’è», disse lei, dando alla propria voce un’impronta
volutamente sbrigativa, cercando di cancellare ogni traccia dell’intimità che
c’era in essa un attimo prima. «Chi parla?»
«Ah, non c’è?» fu la replica, di malcelata sorpresa.
«No», rispose Sonali, sorpresa a sua volta: la sola persona che avesse
mai telefonato chiedendo di Romen era la sua segretaria. Era una regola
stabilita da Romen, non da lei, uno dei suoi gesti bizzarri di correttezza
privata. Per proteggere lei, Sonali, era solito dire, dai pettegolezzi.
«Chi parla?» ripeté, non con asprezza, solo un po’ di esitazione.
«Non ha importanza», disse la voce all’altro capo del filo.
«Aspetti, - disse lei di scatto. -
Solo un momento, chi è lei? Chi parla?»
Avevano già riattaccato.
Si lasciò cadere in una poltrona di bambú con il telefono in grembo.
Una tenda ondeggiante attirò la sua attenzione, in un punto imprecisato
dell’edificio di fronte. I suoi sospetti ebbero immediata conferma: i vicini di
casa la controllavano di nuovo. Ebbe una fuggevole visione di un paio di
teste che si sottraevano tempestivamente alla vista.
A volte si chiedeva se si
appostassero alle finestre per tener d’occhio il suo balcone. Si chiese
cosa facessero quando riuscivano a vederla. Si mettevano forse a correre
per l’appartamento gridando: «Sonali Das è di nuovo sul balcone, uscite e
venite a vedere!»
Sembravano cosí timidi, quando li incontrava in ascensore o nel
parcheggio - ricchi cardiochirurghi e dirigenti di banca con le loro mogli in
abiti di chiffon. Le sorridevano e poi abbassavano gli occhi, quasi
temessero di essere colti a fissarla.
A volte dicevano di aver apprezzato i suoi film, o il suo libro. Alcuni
dei piú anziani le parlavano delle interpretazioni di sua madre: le
raccontavano di quella volta che avevano affrontato la lunga strada fino
all’immenso tendone di Narkeldanga e comprato biglietti da quattro anna
pur di veder recitare Kamini-debi in uno dei suoi famosi drammi jatra:
:Maria Antonietta, regina di Francia o Rani Rashmoni.
Sapeva che spettegolavano su lei e Romen; spesso provava una sorta di
pigra curiosità per i loro sentimenti nei suoi confronti: era rammarico?
disprezzo? offesa? Sarebbe stato interessante saperlo, in astratto, non
che gliene importasse molto. Era cresciuta in mezzo ai pettegolezzi: sua
madre aveva dovuto sorbirsene due volte tanti e non se n’era mai curata.
Si alzò in piedi per rientrare, poi, d’impulso, si sedette di nuovo e
compose il numero del Wicket Club. Il telefono squillò parecchie volte
prima che il capocameriere venisse finalmente a rispondere.
«Javed?» disse Sonali.
«Salaam memsaheb, - disse lui, riconoscendola immediatamente. -
Romen-saheb se n’è andato da circa mezz’ora».
«Mezz’ora? - disse Sonali. - Vuoi dire che è stato lì tutta la sera?»
«Sí, - disse il cameriere. - Ha cercato di telefonarle; ho sentito che
chiedeva a qualcuno di chiamarla. Ha aspettato un po’ e poi è uscito».
«Oh», disse Sonali. A un tratto le sembrò di vedere Romen in piedi a
un’estremità del bancone a ferro di cavallo, alto, massiccio e stempiato,
chino sull’apparecchio telefonico del club, reggendo la cornetta con quella
sua strana presa maldestra.
«Sai dove sia andato?» chiese.
«No, - fu la risposta. - Ma so che ha mandato a casa la Sierra con
l’autista».
«E lui con cosa se n’è andato?»
«Ha preso un taxi».
«Un taxi!» Sonali era sbalordita.
«Ma Romen gira sempre con la sua macchina. Dove andava? Lo sai?»
«No», disse il cameriere. Ma poi aggiunse: «Attenda un attimo,
memsaheb». Lo sentí parlare con gli altri camerieri. Poi tornò al telefono e
disse: «Memsaheb? Il durwan di turno all’ingresso ha sentito Romen-saheb
che parlava col taxista».
«L’ha sentito dire dove andava?»
chiese Sonali.
«Sí. Andava in Robinson Street, ma voleva fermarsi lungo la strada, a
Park Circus».
«Oh!» Sonali spense l’apparecchio e rientrò lentamente in casa.
«Cosa sta succedendo? - disse Urmila alzandosi in piedi. - Sembri
spaventata».
Sonali si buttò su una sedia. «A quanto pare Romen sta andando in
Robinson Street», disse, torcendosi le nocche.
«Capisco, - disse Urmila. - Aveva un appuntamento».
«Che io sappia, no. - disse Sonali.
- E strada facendo si fermerà a Park Circus».
«Perché?»
«Non ne ho idea, - disse Sonali. -
L’unica persona che conosco che ci vive è Phulboni. Ma Romen non ha
neppure accennato all’intenzione di fargli visita: ha detto che sarebbe stato
qui intorno alle nove».
Urmila le diede un colpetto su un braccio. «Sono sicura che presto sarà
qui», disse rassicurante.
Sonali fece un gesto distratto. «Non capisco, - disse. - Sembra che oggi
spariscano tutti. Se non arriva, dovrò uscire e cercarlo».
Rise, un po’ nervosamente. «Dunque, cos’è che mi volevi chiedere?»
Urmila si drizzò a sedere con impazienza. «Volevo sapere, - disse, -
se hai mai sentito Phulboni parlare di qualcuno che si chiama Laakhan».
«Qualcuno che si chiama Laakhan? -
Sonali si rannicchiò in un sofà. -
Perché me lo chiedi?»
Capitolo quindicesimo.
La folla nel ristorante cominciava ad assottigliarsi; i tavoli si liberavano
rapidamente mentre la gente tornava al lavoro. Antar gettò un occhio prima
all’orologio poi a Murugan, dall’altra parte del tavolo.
Si stava versando un’altra tazza dalla teiera col manico di bambú,
evidentemente ignaro dell’ora. Antar decise di restare ancora qualche
minuto.
«Cosa c’è di tanto divertente?»
disse Murugan seccamente, con una voce tagliente in mezzo al brusio.
Antar si drizzò sulla sedia, sorpreso: «Scusa?»
«Perché sorridi?»
«Sorridevo?»
«Puoi giurarci!» disse Murugan.
«D’accordo allora, probabilmente sorridevo».
«Trovi assurdo il quadro che ti ho descritto? o che altro?» chiese
Murugan.
«Francamente non so cosa pensare, -
disse Antar. - Ti ho ascoltato con attenzione, e a quanto posso capire
non hai uno straccio di indizio concreto, o prova, o niente che…»
«E se ti dicessi che proprio in questo consiste la prova?»
«Vuoi dire nell’assoluta mancanza di prove?» disse Antar cercando di
non sorridere.
«Voglio dire che la segretezza è il nocciolo della questione: l’assenza di
tracce o prove è calcolata».
Antar si strinse nelle spalle.
«Anche se io fossi d’accordo con te, -
disse, - la tua versione non avrebbe alcun senso. Se ho capito bene, la
tua ipotesi è che quest’altra squadra -
uso parole tue - per alcuni aspetti di questa ricerca era già piú avanti di
Ross. Ma allora perché non hanno continuato per i fatti loro? Perché non
hanno reso noti i loro risultati candidandosi per il Nobel?»
Murugan si strofinò il mento con una mano. «D’accordo, - disse dopo
una lunga pausa. - Lascia che mi spieghi meglio. Non ti sto dicendo che sia
andata proprio cosí, ti sto solo chiedendo di ascoltarmi fino alla fine».
«Va’ avanti», disse cortesemente Antar.
«Mettiamola cosí, - disse Murugan. -
Tu sai tutto su materia e antimateria, giusto? Su camere e anticamere, e
Cristo e anticristo e cosí via? Ora, possiamo ammettere che ci fosse
qualcosa come scienza e controscienza?
In astratto, sei disposto a convenire che il principio cardine di una valida
controscienza dovrebbe essere la segretezza? A mio modo di vedere, non
doveva limitarsi ad essere segreta su ciò che faceva (in ogni caso era un
gioco in cui non poteva sperare di battere gli scienziati); doveva essere
segreta anche in quello che faceva.
Doveva usare la segretezza come tecnica o metodo. Doveva escludere
per principio ogni forma di comunicazione diretta, perché comunicare,
tradurre le idee in parole avrebbe significato pretendere di sapere, che
invece è la prima cosa che una controscienza metterebbe in discussione».
«Non ti seguo, - disse Antar. -
Quello che dici non ha alcun senso».
«Mi hai tolto le parole di bocca, -
disse Murugan. - Non aver senso, proprio di questo si tratta, senso
convenzionale, per la precisione.
Forse quest’altra squadra partí dall’idea che la conoscenza sia
contraddittoria in sé; forse pensavano che conoscere una cosa significhi
cambiarla, pertanto il fatto stesso di conoscere una cosa significa aver già
cambiato quello che si pensa di conoscere, dunque non la si conosce affatto:
se ne conosce solo la storia.
Forse pensavano che non può esserci conoscenza se non si accetta
l’impossibilità di conoscere. Mi segui?»
«Ti ascolto, - disse Antar. - Per quel che serve».
«Forse niente di tutto questo ha senso, - disse Murugan. - Ma
mettiamoci per un momento in quest’ordine di idee. Esaminiamo il tipo di
ipotesi operative che esso sottintende. Eccotene una: se è vero che
conoscere una cosa significa cambiarla, ne consegue che un modo per
cambiare una cosa - diciamo, per compiere una mutazione - è tentare di
conoscerla, del tutto o in parte.
Giusto?»
Antar annuí.
«Okay, - disse Murugan. -
Spingiamoci un pochino più avanti.
Diciamo che proprio quando Ross si mette al lavoro sulla malaria c’è
quest’altra persona - questa squadra -
che sta lavorando anch’essa sul Plasmodium falciparum, ma in modo
diverso; un modo cosí diverso da sembrare privo di senso a chiunque abbia
una formazione ortodossa.
Diciamo anche che per caso o di proposito hanno fatto un certo numero
di passi avanti; sono arrivati a un certo punto del lavoro e poi si sono infilati
in un vicolo cieco: sono bloccati, non possono andare avanti -
per via delle magagne dei loro stessi metodi, o perché gli manca
l’attrezzatura giusta. Non importa perché. Decidono che il nuovo
significativo passo avanti del loro progetto verrà da una mutazione del
parassita. Adesso il problema è: come accelerare tale processo? La risposta
è: devono trovare uno scienziato convenzionale che gli dia una spinta.
Entra in scena Ronnie. Ma cosa possono fare? Non possono dirgli
quello che sanno perché è contrario alle loro convinzioni. Per di piú, mica
possono andare da lui e dirgli,
«Ehi, Ross! Cosa bolle in pentola?»
Tanto per cominciare non riuscirebbero a superare le sentinelle del 19o
Fanteria di Madras. E anche in tal caso, non riuscirebbero a convincere
Ross. Devono trovare il modo di fargli credere che ci è arrivato da solo.
Cosí ci pensano sopra tutti insieme e stabiliscono la mossa successiva.
Non dimenticare che questi giovanotti non hanno nessuno alle spalle: sono
gente qualsiasi, dei marginali; talmente fuori dal giro che non riusciresti a
vederli col cannocchiale. Hanno il vantaggio di essere in parecchi e di
sapere tutto di Ross, mentre né Ross né nessun altro sa niente di loro. Per di
piú sono in possesso della miglior collezione di parassiti della città.
Devono solo giocare bene le proprie carte e sono in grado di farlo».
«Tutto questo va bene, - disse Antar. - Ma la domanda fondamentale
rimane senza risposta».
«Sarebbe a dire?» disse Murugan.
«Perché? Perché uno dovrebbe darsi tanto da fare? è abbastanza chiaro
cos’è in gioco per Ross: gloria, prospettive, promozioni, un Nobel. Ma
questa gente - stando per un momento alle tue ipotesi - cosa può sperare di
guadagnarci?»
«Sapevo che me l’avresti chiesto, -
disse Murugan. - E ancora una volta, non so risponderti. Ma se ho
ragione
- e per come è organizzato il gioco, non hai alcuna possibilità di sapere
se ho ragione o no - ma se ho ragione, anche solo un’infinitesimale frazione
di ragione, allora questi giovanotti stavano mettendo a punto la tecnologia
medica piú rivoluzionaria di tutti i tempi. Lascia perdere il Nobel, lascia
perdere malattie e terapie ed epidemiologia e merde consimili. Quei ragazzi
inseguivano qualcosa di assai piú grosso; inseguivano il premio dei premi,
la piú grossa fottuta partita di pallone che essere umano abbia mai
concepito: la trascendenza ultima della natura».
«E che cos’è mai?» chiese
educatamente Antar.
«L’immortalità», disse Murugan.
Antar diede una manata sul tavolo.
«Oh, adesso capisco, - disse ridendo.
- Vuoi dire come Osiride e Horus e Amun-Ra? Speravano forse di
metter su piccole graziose teste di sciacallo? O
progettavano di farsi spuntare becchi di ibis?»
«Forse ho esagerato un po’, - disse Murugan. - Quello di cui sto
parlando è una tecnologia di transfert interpersonale».
«Interpersonale cosa?» disse Antar.
Prima che Murugan potesse
rispondergli comparve il cameriere e piazzò il conto tra loro due. Era un
uomo di mezz’età, con modi diffidenti, nervosi. Li osservava con un sorriso
esagerato strofinandosi le mani mentre contavano i soldi.
Tutt’a un tratto Murugan si raddrizzò sulla sedia. «Voglio dartene un
esempio», disse. Si alzò in piedi di scatto e poi, muso a muso col cameriere,
gridò con tutta la voce che aveva: «Yo!»
Il cameriere indietreggiò
traballando, a bocca aperta gli occhi dilatati. Il piatto gli sfuggí di mano,
fracassandosi sul pavimento.
Cadde in ginocchio e cominciò a frignare per lo spavento, coprendosi il
volto con le mani.
Antar assistette alla scena ammutolito, incapace di muoversi, mezzo
dentro e mezzo fuori dalla sedia. C’era un silenzio assoluto nel ristorante;
numerose paia di bacchette restarono sollevate in aria mentre ogni testa si
girò verso Murugan.
Murugan guardava il cameriere con malcelata eccitazione,
un’espressione di attesa negli occhi scintillanti.
«Cosa diavolo stai facendo?» chiese Antar.
Di scatto, Murugan girò intorno al tavolo e si avventò su di lui. Col naso
a meno di un centimetro da quello di Antar gridò: «Boo!»
Antar si ritrasse, passandosi il dorso della mano sul viso. «Sei
impazzito?» disse furioso.
Murugan si ricompose, con un sorrisetto dipinto sul viso, «Vedi, -
disse. - Ha funzionato».
Fece un cenno noncurante ai pochi avventori rimasti «Relax, - disse
allegramente. - Non c’è motivo di preoccuparsi. Stavo solo controllando le
variazioni nelle reazioni motorie individuali in situazioni di stress».
Dandogli una pacca sulla spalla, disse: «Vedi, Ant, stesso stimolo,
diversa reazione: lui dice tamatar e tu dici tamatim. Adesso rifletti, cosa
accadrebbe se un qualche congegno permettesse di scambiare la «im» e la
«ar» tra lui e te? Cos’accadrebbe in tal caso? Lo sentiresti parlare, con
la tua voce, o in quell’altro modo o che so io. Non sapresti a chi appartiene
la voce. E non è la cosa piú terrificante che ci sia, Ant?
Sentir dire una cosa, e non sapere chi la sta dicendo. Non sapere chi sta
parlando? Perché se non si sa chi sta dicendo una cosa, non si sa neppure
perché la stia dicendo».
Il silenzio si ruppe e un indignato mormorio di protesta invase il
ristorante. Il cameriere si risollevò lentamente da terra mentre il direttore
avanzava risoluto verso il loro tavolo. Altri tre camerieri lo seguivano a
ruota.
Dopo aver lanciato loro un’occhiata frettolosa, Murugan estrasse il
portafogli. «Adesso cosa ne diresti, Ant, - chiese, - se quell’insieme di
informazioni potesse essere trasmesso per via cromosomica da un corpo a
un altro?» Agitò il portafogli sotto il naso di Antar. «Quanto saresti disposto
a pagare per una simile tecnologia, Ant? Pensaci un momento, un nuovo
inizio: quando il tuo corpo comincia a tradirti, lo lasci, emigri
- tu o quanto meno un’adeguata sintomatologia del tuo sé. Ricominci
tutto daccapo, un altro corpo, un altro inizio. Pensaci: nessun errore, un
nuovo inizio. Cosa daresti per una cosa del genere, Ant: una tecnologia che
ti permette di migliorare te stesso nella prossima reincarnazione?
Credi che una cosa del genere potrebbe valere una piccola parte del tuo
fondo pensione?»
I camerieri si stavano avvicinando e Murugan si apprestò ad affrontarli.
«Va tutto bene, - disse, estraendo dal portafogli un mucchio di
banconote. -
Vi pagherò tutto».
Ignorandolo, lo presero per le braccia e cominciarono a spingerlo
lontano dal tavolo.
«Ehi, ragazzi, - protestava Murugan.
- Vi ho spiegato che era un esperimento! Che fine ha fatto il vostro
desiderio di conoscenza?»
Sollevandolo di peso, i camerieri lo trasportarono rapidamente verso la
porta.
«Capisci perché devo andare a Calcutta, Ant? - gridò Murugan. - Se un
cromosoma Calcutta esiste, io lo devo trovare. Credo di averne piú bisogno
di te».
Capitolo sedicesimo.
«Ho fatto una piccola ricerca, -
disse Urmila a Sonali, - e ho scoperto che da giovane Phulboni scrisse
una raccolta di racconti col titolo Storie di Laakhan. Furono
pubblicati in una rivistina poco diffusa e non sono mai stati ristampati.
Sono riuscita a trovarne una copia alla Biblioteca Nazionale».
«Non ne ho mai sentito parlare, -
disse Sonali. - Probabilmente ero troppo giovane quando uscirono».
«Dunque, sono storie molto brevi e in tutte c’è un personaggio che si
chiama Laakhan, - disse Urmila. - In una è il postino; in un’altra è il
maestro del villaggio; in un’altra un altro ancora».
«Che strano», disse Sonali.
«Strano, vero? - disse Urmila. -
Quando furono pubblicate per la prima volta, i critici pensarono che si
trattasse di una sorta di complessa allegoria, con un personaggio ogni volta
diverso, che però era anche lo stesso, e che in un certo senso si fondessero
tutti in uno. Poi naturalmente sono cadute nel dimenticatoio. Ma io ci ho
riflettuto sopra e ho avuto la netta sensazione che ci fosse qualcosa di piú».
«Di piú? - disse Sonali. - Cosa vuoi dire?»
«Non metterei una mano sul fuoco, -
disse Urmila, - tuttavia un giorno ne ho parlato con la signora
Aratounian…»
«Lei li ha letti?» l’interruppe Sonali, accigliata.
«Oh, no, - rise Urmila. - Non ha molto tempo per gli scrittori. E poi sai
com’è fatta: non sa una parola di bengali benché abbia vissuto qui tutta la
vita. Ma è una persona molto acuta e trovo che è utilissimo parlare con lei.
Nel corso degli anni mi ha dato un sacco di buoni consigli: in realtà è stata
lei a suggerirmi di andare alla Biblioteca Nazionale».
«Ah, - disse Sonali. - Continua».
«Le ho parlato dei racconti e lei è stata subito d’accordo con me.
«Polvere negli occhi, mia cara, - ha detto, - credi a me»».
«Cosa intendeva dire?»
«Riteneva che i racconti
contenessero un messaggio; per ricordare qualcosa a qualcuno - un
qualche segreto condiviso. Sai, come quegli strani messaggi brevi che si
leggono a volte nelle colonne di annunci personali».
Sonali spalancò gli occhi. «Molto interessante, - disse. - è
possibile».
«Allora anche tu sai qualcosa di queste storie?» disse Urmila
impaziente.
Sonali bevve un sorso di tè. «Non so se abbia niente a che fare con le
storie di cui stai parlando, - disse.
- Ma so che quando Phulboni aveva circa vent’anni gli accadde
qualcosa di molto strano. E aveva qualcosa a che fare con un certo
«Laakhan»».
«Davvero?! - Urmila era eccitata. -
Cosa accadde?»
«Cominciò quando mia madre gli chiese perché aveva smesso di
sparare».
«Sparare? - chiese Urmila
stupefatta. - Vuoi dire che Phulboni sapeva sparare?»
«Sí, - Sonali sorrise. - Era un ottimo cacciatore. Voglio raccontarti come
l’ho scoperto». Si raggomitolò su se stessa sprofondando tra i cuscini
allineati lungo il bracciolo del divano, il viso illuminato da un’affettuosa
reminiscenza.
«Quando ero bambina, Phulboni andava e veniva da casa nostra. Era
come uno zio per me: lo chiamavo Murad-mesho.
Vivevamo in un minuscolo appartamento nei pressi di Park Circus, io e
mia madre da sole. L’appartamento era davvero piccolissimo, ma avevamo
sempre un sacco di ospiti -
soprattutto scrittori e artisti: ogni sera c’erano almeno una dozzina di
persone e Phulboni era uno dei piú assidui. Indossava sempre lo stesso
vecchio paio di logori pantaloni kaki, la stessa cintura di cuoio consunta, e
una camicia bianca inamidata. Hai presente il leggero odore che prende
l’amido quando si suda? Ecco, lui aveva quell’odore: un misto di sigarette e
amido un po’ sudato.
Era un uomo bellissimo: alto piú di un metro e ottanta, dritto e snello
come un lampione. A quei tempi era poverissimo e viveva solo: la moglie
l’aveva lasciato ed era tornata dalla sua famiglia. Quando lui arrivava mia
madre sussurrava ai domestici di correre da Shiraz e comprare un po’ di
biryani. Prima aveva un buon lavoro, con una compagnia inglese, la Palmer
Brothers, ma l’aveva lasciato quando aveva cominciato a scrivere. Voleva
guadagnarsi da vivere come scrittore, ma scriveva cose un po’ troppo
difficili per il pubblico: tutte quelle parole in dialetto da lingue che nessuno
aveva mai sentito. Suo padre era al servizio di uno di quei maharaja di
montagna dello stato di Orissa e lui era cresciuto nella giungla, parlando la
lingua della popolazione locale, un’infanzia sfrenata. Ecco perché ha poi
scelto Phulboni come pseudonimo, dalla regione.
Vivendo nella foresta, deve aver imparato a sparare molto presto, ma
non lo ha mai detto a nessuno. è stato per puro caso che ho scoperto che era
un eccellente tiratore.
Una volta, mia madre recitava in un jatra da qualche parte nei dintorni
di Calcutta. Uno di quei posti dove lo spettacolo si svolge sotto un grande
tendone da circo. All’interno c’è un palcoscenico rotondo e
contemporaneamente all’esterno c’è una fiera, bancarelle di cibo,
giostre e tutto il resto.
Io mi ero rannicchiata in un posticino sotto il palcoscenico di legno e
guardavo la folla, facendo le smorfie ai bambini, sai come si fa. Lo
spettacolo era :Maria Antonietta, regina di Francia. Naturalmente mia
madre interpretava la parte di Maria Antonietta: ormai era un’attrice
affermata, e se c’era una regina malvagia o una suocera bisbetica la parte
era invariabilmente sua. La mamma si stava giusto lanciando nel discorso,
sai, il famoso: «Non hanno riso? Che mangino Ledigenis».
A un tratto vidi arrivare Phulboni.
Lo chiamai e gli corsi incontro, facendomi largo tra la folla. Sia io che
lui avevamo sentito quel discorso centinaia di volte. Mi annoiavo, cosí non
gli lasciai vedere lo spettacolo.
Lo convinsi invece a passeggiare tra i banchi della fiera, comprandomi
jhalmuri e mihidana e cose del genere. Poi arrivammo a uno di quei
banchetti con un fucile ad aria e un sacco di palloncini messi in fila.
Cominciai a vezzeggiarlo, a dirgli perché non provi a colpire un
palloncino: voi scrittori siete dei buoni a niente. Lui continuava a dire no,
no, no, ma alla fine si è arreso.
Con mio grande stupore non ha sbagliato neppure un colpo. Gli ho
detto: è stata solo fortuna, vediamo se sei capace di farlo di nuovo. E
lui, d’accordo, e si è allontanato di cinque passi, e anche questa volta
non ha mancato un colpo. Si è spostato ancora piú lontano: intorno a noi
c’era ormai una piccola folla che lo guardava. Ancora tutti a segno. Alla
fine il proprietario della bancarella lo ha pregato di smettere: «Shaheb, mi
perdoni, ma se lei va avanti cosí, cosa mangeranno stasera i miei figli?»
Raccontai a mia madre l’accaduto e ne fu sorpresa quanto me. Phulboni
non aveva mai accennato al fatto di saper sparare o andare a caccia. Glielo
chiese e lui lasciò cadere l’argomento con una risata. Ma mia madre non era
tipo da darsi per vinta. Ricominciò a lavorarselo una volta che aveva bevuto
un sacco di rum e lui le raccontò una storia. Ma il giorno seguente era assai
turbato: le disse che non voleva che quella storia circolasse e le fece
promettere di non raccontarla a nessuno».
«Oh, capisco». Urmila non riuscí a nascondere la delusione.
«In realtà da quella volta cominciò a evitarci, - disse Sonali. - Negli
ultimi anni della sua vita mia madre si preoccupava molto per Phulboni. Il
suo comportamento si era fatto sempre più stravagante man mano che
acquistava notorietà. Si ubriacava e vagabondava per le strade di notte
come se fosse in cerca di qualcosa: ho sentito dire che continua a farlo. Mia
madre voleva che venisse a vivere con noi, ma lui non voleva saperne:
smise di vedere i suoi vecchi amici e non voleva aver a che fare con
nessuno.
Non venne a trovare mia madre neanche quando fu chiaro che stava
morendo.
Lei era convinta che non l’avesse perdonata per avergli estorto quella
storia, e non riuscí mai a farsene una ragione. E devo dire che non ci sono
riuscita neanch’io».
«Dunque tua madre te la raccontò?»
disse Urmila.
«Sí, - disse Sonali. - Poco prima di morire».
Capitolo diciassettesimo.
Dopo tanti anni, Antar si ritrovava ancora a digrignare i denti se
ripensava a quel giorno, al ristorante thailandese, e ricordava com’era
saltato sulla sedia, sotto il peso di una sbalordita mortificazione, cercando di
evitare gli sguardi che convergevano su di lui dai tavoli vicini.
All’uscita, aveva trovato il coraggio di balbettare le proprie scuse al
direttore. «In realtà non lo conosco, - aveva detto, - l’ho incontrato oggi per
la prima volta.
Quest’uomo dev’essere pazzo. Non ho mai avuto niente a che fare con
lui prima, e spero di non vederlo mai piú». Appena rientrato in ufficio
aveva immediatamente caricato sul file tutto quello che sapeva sul caso
Murugan e l’aveva mandato al dirigente svedese. «Se è questo ciò che lei
intende per occuparsi del lato umano delle cose, - ricordava d’aver detto,
- credo sia meglio che me ne torni ai miei conti, grazie».
All’ora in cui era uscito
dall’ufficio, era convinto di essersi lasciato alle spalle l’intera faccenda.
Ma a casa aveva trovato la segreteria telefonica che lampeggiava
furiosamente: c’erano tre messaggi.
Aveva provato un brivido
d’apprensione: già gli capitava di rado di trovarne uno solo; non
riusciva neppure a ricordare l’ultima volta che ne aveva trovati di piú.
L’istinto gli diceva di premere il pulsante di riavvolgimento e ripulire il
nastro. Invece, la sua mano si era protesa in avanti e aveva premuto
«Play» - per sicurezza, si era detto, giusto per sapere chi era. I suoi
peggiori timori si erano avverati.
C’era di nuovo quella voce che urlava dalla segreteria, ancora piú
stridente che nella vita reale: «Stammi a sentire, stronzo d’un
impiegatuccio, tu credi che tutta questa storia sia un’invenzione delle balle,
non è vero?»
Con un colpo di pollice Antar aveva tagliato il primo messaggio per
passare al secondo. «Sono di nuovo io,
- aveva detto la stessa voce, - il tuo amico Morgan: la tua macchina del
culo mi ha interrotto…» Era andato avanti fino al terzo e ultimo messaggio
ed eccola di nuovo, quella voce: «Lo sapevi che la tua segreteria ha la
capacità d’ascolto di un pollo surgelato?»
A quel punto, Antar si era scagliato col dito sul pulsante di
avvolgimento rapido, tenendolo premuto fin quasi a spezzare il nastro.
Ciononostante aveva sentito la frase finale: «…c’è un documento che ti
aspetta, è arrivato proprio adesso, nella tua cassetta della posta
elettronica…»
Antar si era girato a guardare il monitor, dall’altra parte della stanza.
Proprio cosí, quel rompipalle ammiccava dallo schermo. Aveva fissato con
irritazione la superficie ellittica lampeggiante di quella videata obsoleta: era
come piombare addosso a uno scassinatore.
Aveva dovuto fare uno sforzo di autocontrollo prima di poter
raggiungere la tastiera e cancellare l’intero documento senza leggerne
neppure una riga.
Adesso, seduto sull’orlo del letto, Antar cercò di riandare indietro negli
anni fino al 1995. Rammentò d’aver messo a riposo la segreteria telefonica
poco dopo quell’incidente: a Life Watch c’era un interfono e quando era
fuori portava con sé una cicalina, dunque la segreteria non gli serviva. Si
grattò la testa cercando di ricordare cosa ne avesse fatto.
Aveva pensato di venderla o darla via, ma nessuno l’aveva voluta.
Ricordava vagamente di averla ficcata in un sacchetto di plastica e poi
dentro un armadio a muro, insieme a scarpe e vestiti.
L’armadio a muro era in corridoio, tra la cucina e la camera da letto, un
antro pieno zeppo nel quale, anno dopo anno, aveva svuotato la sua vita. Si
alzò e andò a dare un’occhiata meditabonda alla porta dell’armadio.
L’aveva aperto l’ultima volta qualche settimana prima, cercando un
vecchio computer portatile: dai ripiani era rotolata giú una valanga di
oggetti scartati. Appoggiò una mano sul pomo della porta e l’aprí con
delicatezza.
Un tremito percorse l’armadio, ma con suo grande sollievo ogni cosa
rimase al proprio posto.
Cominciò a svuotare gli scaffali, uno ad uno, ammucchiando tutto nel
corridoio: vecchie scarpe, tostapane senza timer, ombrelli rotti, classificatori
a fisarmonica. Poi la vide, nascosta dietro una pila di giornali arabi
ingialliti: una scura sagoma rettangolare avvolta in plastica trasparente.
La prese e la portò in camera da letto, lasciando tutto il resto
ammucchiato nel corridoio. Seduto sull’orlo del letto, la tirò fuori, soffiando
via la polvere. Passò un dito sopra il rettangolo di plastica chiara che
copriva la micro-cassetta e premette il pulsante «Eject». Fu piuttosto
sorpreso nel constatare che il meccanismo sembrava in ordine. La cassetta
scattò fuori e lui la pulí accuratamente con l’angolo della federa.
La rimise al suo posto e accese la macchina. Comparve la lucina
lampeggiante e il nastro cominciò a girare. E allora, punteggiata dagli stridii
delle rotelline impolverate, Antar sentí una voce, smorzata dal passare del
tempo, ma ancora abbastanza udibile. Alzò il volume.
«Stammi a sentire, - disse la voce, esattamente come Antar la ricordava,
-
tu credi che tutta questa storia sia un’invenzione delle balle? Pensi che
non abbia prove? Okay, lascia che ti dica una cosa: non so cosa sia una
prova dove vivi tu, ma so di possedere qualcosa che vale abbastanza per
me.
Ricordi che ti ho parlato di un tale W’G’ Maccallum, medico e
ricercatore scientifico che fece una delle piú grosse scoperte sulla malaria,
nel 1897? Okay, senti questa: quel tizio dimostrò che i «bastoncini» che
Laveran aveva visto venir fuori dalla membrana ialinica del parassita non
erano flagelli, come pensava il grand’uomo. In realtà erano esattamente
quello che sembravano -
ossia sperma - e facevano esattamente quello che fa lo sperma, ovvero
bambini. Non dovrebbe volerci un Galileo per capirlo: voglio dire, cosa
cazzo sembravano, per Dio? Ma il fatto è che Maccallum fu il primo a
capirlo. Non il primo a vederli, ma il primo a capirlo. Laveran l’aveva visto
prima di lui, ma non ci era arrivato: suppongo che il nostro Lav non fosse
un Rodolfo Valentino. Ross li vide circa un anno prima di Maccallum e
credette di aver visto il suo papà.
Non scherzo; pensava che i flagelli fossero dei soldatini che andavano
in guerra come Papà Ross sul suo cavallo bianco. Sul serio, rifletti: Ronnie
vede questa cosa che ha tutta l’aria di un cazzo, nuota a tutta velocità sul
vetrino e comincia a scoparsi un uovo, e cosa ne ricava Ronnie? Pensa che
sia la Compagnia Cavalleggeri. La morale è: acchiappare un ragazzo
dall’Inghilterra della regina, non significa avere la Vittoria in mano (*)».
A questo punto si udiva un bip e la voce si interrompeva bruscamente.
Un attimo dopo riprendeva:
«Sono di nuovo io, il tuo amico Morgan, la tua macchina del culo mi ha
interrotto. Dov’ero rimasto? Oh, sí, (*) Ironia sul nome della regina
Vittoria, che allora regnava sull’impero britannico [N’d’T’].
Maccallum.
Maccallum era solo un ragazzo, e uno yankee, imbottito di robusti
ormoni ai globuli rossi, e sapeva benissimo cos’aveva visto. Scrisse
immediatamente una relazione e la presentò a un importante convegno
medico a Toronto nel 1897. Venne accolta talmente bene che lo invitarono a
fare jogging con mister Germicida in persona, lord Lister.
Cosí Maccallum fu il primo a scoprire la cosa. Ma, tornando agli inizi
della sua ricerca, lavorava con un’intera squadra giú alla John Hopkins di
Baltimora. Gli altri membri della squadra erano Eugene L’ Opie e un
giovanotto di nome Elijah Monroe Farley. Maccallum e Opie erano le teste
d’uovo mentre Farley era una specie di sguattero-fattorino. Non resistette a
lungo. Proprio quando la squadra cominciò a lavorare sulla malaria, a
Farley venne il pallino di vedere il mondo. Si uní come volontario a un
gruppo di missionari di Boston, e poi si seppe che si era imbarcato per
l’India».
Qui c’era un’altra interruzione. Con un commento offeso, la voce di
Murugan riprese:
«Okay, vuoi sapere com’è che so tutte queste cose? è andata cosí: un
paio d’anni fa stavo studiando le carte private di Eugene L’ Opie, giú a
Baltimora. Controllavo i suoi appunti di laboratorio, e sai cos’è saltato
fuori? Una lettera del Dr. Elijah Monroe Farley indirizzata a Opie.
Sembrava che fosse lí ad aspettare me.
Farley la scrisse dopo aver visitato un laboratorio a Calcutta - un
laboratorio diretto da un tal D’D’
Cunningham. Lo stesso laboratorio in cui Ross corse l’ultima tappa
della sua gara, nel 1898. Il suo
predecessore si chiamava D’D’
Cunningham. Ma la lettera in questione era stata scritta nel 1894 e fu
l’ultima cosa che Elijah Monroe Farley scrisse nella sua vita.
Per fartela breve, sai cosa c’era nella lettera? Beh, un sacco di roba
inutile - voglio dire pagine e pagine di schifezze, ma sepolta sotto la
spazzatura c’era una frase che prova che Farley aveva già scoperto il ruolo
del cosiddetto «flagello» nella riproduzione sessuata, molto prima di
Maccallum. Il che significa che sapeva già quello che Maccallum non aveva
ancora scoperto. E controllando le date e tutto il resto, ho capito al volo che
l’unico posto in cui poteva averlo imparato era Calcutta. Ma da chi? D’D’
Cunningham non lo sapeva e comunque a quell’epoca non se ne occupava.
Ronnie Ross era ancora a uno stadio di ricerca equivalente alla Montessori.
Il fatto è che Ronnie non riuscí mai a scoprire da solo i flagelli: non voleva
aver niente a che fare con tutto quel sesso sotto il suo microscopio. Ci
arrivò solo nel 1898, quando il dottor Manson gli inviò per posta una sintesi
delle scoperte di Maccallum.
E non basta. Ti ricordi
dell’aiutante di Ronnie Ross, Lutchman o Laakhan o come diavolo vuoi
chiamarlo? Bene, ho l’impressione che avesse incontrato Farley molto
prima di Ross; anzi forse Farley vide piú di quanto avrebbe dovuto.
Il problema è che la lettera di Farley non era catalogata, e io l’ho vista
solo quella volta. L’ho rimessa a posto, e ho compilato un modulo di
richiesta per fotocopiarla. Ma quando l’ho cercata di nuovo non c’era piú.
Il bibliotecario non mi credeva perché non risultava in catalogo. Non
sono piú riuscito a trovarla, cosí, a rigor di termini, al momento non ho
l’arma in pugno. Ma l’ho vista e l’ho tenuta tra le mani, e quando sono
tornato al motel, quel giorno, l’ho riscritta come la ricordavo. E sai una
cosa?
Puoi vederla in anteprima: c’è un documento che ti aspetta, è arrivato
proprio adesso, nella tua cassetta della posta elettr…»
Capitolo diciottesimo.
Quando Murugan arrivò alla pensione trovò la signora Aratounian che
guardava la Tv bevendo gimlet d’un pallido giallo.
«Perché se ne sta lí in piedi, signor Morgan, - gli disse, dando una pacca
sul logoro divano foderato. - Si sieda. Cominciavo a preoccuparmi per lei.
Gradisce un gimlet? Solo un chhota, una minuscola tazzina che le faccia
fare dei bei sogni».
La signora Aratounian si era tolta la vestaglia di velluto blu che
indossava la mattina, quando Murugan era arrivato; ora indossava una
camicetta bianca e una severa gonna nera. Accanto a lei, bottiglie di gin
Omar Khayyam e di succo di limetta Rose, su un tavolinetto intarsiato quasi
invisibile tra ciuffi di foglie che sporgevano rigogliose da portavasi di
ottone riccamente lavorati.
Seguí ansiosamente lo sguardo di Murugan che si spostava verso il
tavolinetto. «No? - disse, ammiccando al di sopra delle lenti. - Non le piace
l’Omar Khayyam? Da qualche parte dev’esserci anche una bottiglia di gin
Blue Riband, per le occasioni speciali. Se vuole vado a cercarla, so che c’è,
da qualche parte».
«L’Omar Khayyam andrà benissimo, -
disse Murugan - Grazie».
«Bene», disse la signora Aratounian.
Prese un bicchiere e ci versò una parsimoniosa misura di gin, poi ci
aggiunse uno spruzzo di succo di limetta e un cubetto di ghiaccio.
«Allora, signor Morgan, come ha passato la giornata?» disse
porgendogli il bicchiere.
Prima che Murugan potesse
rispondere, dalla televisione esplose una sigla musicale e una voce
suadente annunciò: «E adesso avrà inizio il nostro notiziario speciale…»
«Notizie! - disse con tono sardonico la signora Aratounian, lasciandosi
andare all’indietro sul divano. -
Ricevo piú notizie dalla mia donna delle pulizie che da questo coso».
Sullo schermo, seduto dietro un mazzo di gigli appassiti, comparve un
uomo in kurta che sorrideva mellifluo. «Oggi il vicepresidente è stato a
Calcutta, - annunciò, - per consegnare il Premio Nazionale all’illustre
scrittore Saiyad Murad Husain, meglio conosciuto con lo pseudonimo di
Phulboni». Il viso del conduttore sparí di colpo dallo schermo, rimpiazzato
da quello del vicepresidente, che annuiva insonnolito sul palcoscenico
dell’auditorium Rabindra Sadan.
«Oh, no, - borbottò la signora Aratounian. - è una di quelle cerimonie
spaventose in cui tutti fanno discorsi. Devo proprio comprarmi la Tv via
cavo; ce l’hanno tutti nel palazzo ma io…»
La cinepresa si spostò sul vasto, affollatissimo auditorium zoomando
poi sulla prima fila. Appena visibili in un angolo dello schermo c’erano due
donne in piedi nel corridoio laterale.
Una di loro si voltava per un attimo verso il palco prima di seguire
l’altra lungo il corridoio.
La signora Aratounian si raddrizzò di scatto. «Ehi! - gridò eccitata,
puntando il bastone sul televisore. -
C’è Urmila! Ma guarda te, vedere Urmila in televisione! Sa che la
conosco da quando andava a scuola, al St Mary?»
Si volse confidenzialmente verso Murugan: «Aveva una borsa di studio,
naturalmente, la sua famiglia non avrebbe mai potuto permettersi una
scuola come il St Mary. Era la personcina piú timida che avessi mai visto, e
invece circa due anni fa ha preso il diploma e si è trovata un lavoro alla
rivista «Calcutta». Cosa ne sarà del mondo? le ho detto, se per avere le
notizie devo dipendere da una marmocchia come te?»
La cinepresa fece un’altra
panoramica dell’auditorium e rividero di sfuggita le due donne, una
precedeva l’altra di parecchi metri.
«Ehi! - Murugan si batté un ginocchio. - Io le conosco quelle due…»
«Quella è Sonali Das, - gridò la signora Aratounian. - Anche lei era una
cliente del vivaio Dutton. Ed è anche una celebrità!»
Lanciò a Murugan un’occhiata eloquente e un mezzo sorriso. «Potrei
raccontarle una cosetta o due su di lei», disse.
Con una risatina chioccia, sorseggiò il suo gimlet.
La cinepresa si spostò sul palco e il viso stanco di Phulboni riempí lo
schermo. La signora Aratounian assunse un’aria disgustata, «Oh, no, -
disse.
- Che Dio ci scampi; uno dei soliti, vecchi palloni gonfiati sta per farci
un discorso. è sempre cosí. Devo proprio comprarmi la Tv via cavo; mi
hanno detto che si prende anche la Bbc…»
A un tratto la voce affaticata, rauca, dello scrittore riempí la stanza: «Per
piú anni di quanti possa contarne ho percorso le strade piú segrete di questa
segretissima città, sempre cercando colei che mi ha cosí a lungo evitato: la
signora del Silenzio. Dovunque io vada, vedo segni della sua presenza,
nelle immagini, nelle parole, negli sguardi, ma solo segni, nient’altro…»
La signora Aratounian batté il bastone sul pavimento, seccata.
«L’avevo avvisata, signor Morgan, -
sbottò. - Vuol scommettere due penny che andrà avanti in eterno?»
Adesso gli occhi di Phulboni erano pieni di lacrime: «Ho cercato, piú di
quanto abbia fatto qualsiasi altro uomo, di trovare la mia strada fino a lei, di
buttarmi ai suoi piedi, di unirmi alla cerchia segreta che la circonda, di
coprirmi il capo con la polvere calpestata dai suoi piedi.
L’ho cercata con tutti i mezzi che avevo, l’ineluttabile, sempre elusiva
signora del non detto, l’ho blandita, corteggiata, supplicata di potermi unire
alla cerchia dei suoi iniziati».
La signora Aratounian batté con violenza il bastone sul pavimento.
«Che orrore! Quest’uomo sta facendo un’esibizione assurda. Possibile
che nessuno intervenga?»
«Come un albero distende i suoi rami, - continuò la voce dello scrittore,
- per corteggiare un’invisibile fonte di luce, cosí ogni parola uscita dalla
mia penna è stata scritta per lei. L’ho cercata nelle parole, l’ho cercata nei
fatti, soprattutto l’ho cercata mantenendo in silenzio la fede in lei».
Qui il viso dello scrittore sparí bruscamente dallo schermo e comparve
l’immagine fissa di un tranquillo paesaggio montano. Ma la voce dello
scrittore continuò, bizzarramente disincarnata.
La signora Aratounian scoppiò a ridere: «Ma li guardi, signor Morgan,
sono cosí incompetenti che non riescono neppure a interromperlo».
Ancora quella voce rauca: «Se ora mi trovo qui di fronte a voi, in un
posto che piú pubblico non si potrebbe, è perché sono ridotto alla
disperazione e non conosco altro modo per raggiungerla. So che il tempo
corre -
il mio tempo e il suo. So che il trapasso è vicino; so che
s’approssima…»
Benché il volto dello scrittore non fosse piú visibile sullo schermo, era
evidente che singhiozzava: «…mentre le ore volano, quando forse non
restano che pochi istanti, non conoscendo altri mezzi faccio quest’ultimo
appello: Non dimenticarti di me, ti ho servita meglio che potevo. Soltanto
una volta ho peccato contro il silenzio, in un momento di debolezza, sedotto
da colei che amavo.
Non sono stato punito abbastanza?
Cos’altro rimane? Ti supplico, ti supplico, se davvero esisti, e non ne ho
mai dubitato neppure per un momento
- dammi un segno della tua presenza, non dimenticarmi, prendimi con
te…»
Ci fu un tremolio dello schermo poi riapparve il conduttore,
leggermente sudato. Con un sorriso tirato disse:
«Ci scusiamo con i telespettatori…»
La signora Aratounian si alzò in piedi, si avventò sul televisore e lo
spense.
«Questo è il tipo di sciocchezze che si è costretti a subire se non si ha la
Tv via cavo, - disse disgustata. -
Tutte le sere. Mi dica, signor Morgan, le è mai capitato di sentire simili
porcherie alla Bbc?»
Capitolo diciannovesimo.
Antar bloccò la segreteria
telefonica e si alzò in piedi. Inutile rimpiangere la perdita del
documento che Murugan aveva indirizzato alla sua cassetta della posta
elettronica: se anche non l’avesse cancellato allora, in seguito l’avrebbe
fatto comunque.
Ma forse, forse, non era
irrimediabilmente perduto. Forse Ava poteva rintracciarlo e ricostruirlo:
ipotesi tutt’altro che inconcepibile.
Ava conosceva un sacco di trucchetti.
Antar si diresse verso la porta: c’era un solo modo per scoprirlo.
Proprio quando stava per uscire dalla camera da letto sentí un rumore
- un rumore soffocato, come un trapestio sommesso. Rivolse lo sguardo
alla parete, al di là della quale c’era il soggiorno di Tara, separato solo da
pochi centimetri di cartongesso e una porta murata. C’era qualcosa di
misterioso nel modo in cui i rumori attraversavano quella parete.
Forse Tara era rientrata: Antar era certo di aver sentito qualcuno. Si
avvicinò alla parete e bussò: «Sei tu, Tara?» Non ebbe risposta.
Si precipitò alla finestra della cucina per sbirciare l’appartamento di
Tara, di là dal cortiletto. Le luci erano ancora spente: non sembrava che
fosse in casa. Si strinse nelle spalle: evidentemente era stata una tavola
umida del pavimento di legno, non c’era da stupirsi, in un edificio vecchio e
scricchiolante come quello.
Si appoggiò al lavandino, si rinfrescò la faccia con l’acqua e prese uno
strofinaccio.
Tornò in soggiorno e sedette davanti alla tastiera. Con un colpo di tasto
spedí Ava a rovistare tra le memorie immagazzinate in tutti i suoi vecchi,
obsoleti hard-disk. Non era impossibile che una copia «fantasma»
del perduto messaggio E-mail di Murugan fosse rimasta da qualche
parte dentro il sistema. Bastava una qualsiasi, impalpabile traccia: al resto
avrebbe pensato Ava.
Pochi minuti dopo sullo schermo comparve una mano, gesticolava
risentita, con le dita un po’
divaricate. Ava aveva cominciato da poco a imparare il linguaggio dei
segni - in dialetto egiziano naturalmente - e questo era il suo nuovo modo di
rispondere
negativamente.
Poi il gesto cambiò: le dita si unirono, puntando verso l’alto, con un
piccolo movimento inclinato.
Significava aspetta; c’è
qualcos’altro. Lo schermo rimase vuoto e scattò il meccanismo vocale.
Il messaggio poteva essere
rintracciato, gli disse Ava. Solo che ci voleva un po’ di tempo. Era stato
digitato su una di quelle antiquate tastiere alfabetiche a contatto.
Probabilmente i segnali elettronici emessi dai tasti erano tuttora
rintracciabili. Era solo questione di confrontare le «impronte digitali»
elettroniche del messaggio E-mail di Murugan con ogni segnale
elettronico ancora vivo nella ionosfera.
Antar chiese quanto tempo avrebbe richiesto l’intera procedura.
Ava ci mise un momento a rispondere.
Bisognava setacciare circa
seimilaottocentonovantadue trilioni di Çuñabytes, fu il responso, in altre
parole, approssimativamente ottantacinque bilioni di volte il totale presunto
degli atti
dattilografici compiuti dagli esseri umani. In sostanza almeno quindici
minuti.
Antar inserí due nomi, Cunningham e Farley, e diede via libera ad Ava.
All’improvviso si sentí
stanchissimo. Abbassò gli occhi e si accorse di un leggero tremore alla
mano. Il cuore gli batteva mentre si toccava la fronte e le guance. Erano
calde e sudate: sembrava l’inizio di uno dei suoi attacchi di febbre.
Evidentemente doveva rinunciare alla solita passeggiata a Penn Station.
In un certo senso si sentí
sollevato. Decise di sdraiarsi mentre Ava frugava nei cieli.
Si era quasi addormentato quando Ava cominciò a esigere strillando la
sua presenza, venti minuti dopo. Buttò via le coperte, si rimise in piedi
rabbrividendo e si avvolse in una vestaglia. Poi percorse a ritroso il
corridoio fino al soggiorno.
C’era un messaggio che l’aspettava sullo schermo di Ava: la ricerca
aveva fruttato qualche traccia del perduto messaggio E-mail di Murugan.
Tuttavia i segnali erano deboli e forse anche alterati. Ava aveva ricostruito
una parvenza di storia scandagliando i frammenti recuperati per mezzo di
un algoritmo narrativo. Ma non poteva garantire l’autenticità del testo
restaurato.
Antar digitò una domanda per sapere se Ava era in grado di riprodurre il
testo tramite il programma di Visualizzazione Simultanea. In tal modo per
rivedere il testo non avrebbe dovuto far altro che chiudersi nel suo visore
Sim-Vis. Poteva addirittura mettersi disteso e guardare: Ava avrebbe fatto il
resto. Adesso il tremito alle mani era molto forte, sentiva che non sarebbe
riuscito a esaminare un lungo documento.
Sullo schermo di Ava apparve una mano, in un gesto di rammarico. La
risposta era negativa: il testo era troppo deteriorato per essere convertito in
un’immagine continua. Il meglio che poteva fare era fornirgli un resoconto
verbale.
Antar indietreggiò. Detestava sentire Ava che leggeva con la sua voce
piatta, inespressiva. Ma non era assolutamente in grado di farlo da solo nel
suo stato attuale.
Prese le cuffie e se le sistemò in testa.
Capitolo ventesimo.
Erano le undici passate quando Urmila tornò a casa. L’appartamento era
buio e tutti erano a letto.
Entrò cercando di non far rumore e rimase sulla porta finché gli occhi si
furono assuefatti all’oscurità. Il fratello piú giovane russava in salotto. Quel
pomeriggio aveva giocato una partita di calcio in una squadra di serie B:
uno dei corrispondenti delle pagine sportive era salito a riferirle che aveva
quasi segnato.
Entrò in salotto in punta di piedi e lo trovò disteso sul divano con la luce
accesa. Era seminudo, con indosso solo i calzoncini blu della sua squadra,
un piede a terra e un braccio allungato sullo schienale del divano.
La testa appoggiata sul bracciolo del divano e la lingua che pendeva
fuori dalla bocca aperta, con un filo di bava.
In cucina c’era un piatto che l’aspettava, protetto da una reticella
metallica. La rete sembrò dissolversi quando accese la luce: un nugolo di
scarafaggi sparí nelle fessure e negli angoli. «Possibile che non si possa
dormire? - gridò il fratello maggiore dalla stanza da letto che divideva con
la moglie e tre bambini. - Chi è che accende la luce a quest’ora della
notte?»
Urmila si buttò sull’interruttore, quasi rovesciando il piatto. Di giorno il
fratello maggiore lavorava come rappresentante di una società
d’intermediazione finanziaria. La sera si guadagnava qualche extra dando
lezioni ai ragazzi delle scuole. Di notte era sempre distrutto.
Urmila uscí dalla cucina
incespicando al buio, il piatto in equilibrio tra le mani. Si diresse verso
il bagno, aggirando la brandina in cui dormiva e socchiuse la porta prima di
accendere la luce. Seduta sul bordo del letto cominciò a piluccare il piatto
di dal e chapati freddi.
Udí un fruscio e un rumore di passi sul pianerottolo e alzando gli occhi
vide sua madre, in piedi accanto alla brandina, vestita col sari bianco da
notte. «A che ora sei rientrata? - le disse assonnata. - Ti ho aspettata,
aspettata…»
«Perché? - disse Urmila. - Non dovresti essere ancora in piedi a
quest’ora, ti ricordi cos’ha detto l’omeopata?»
Facendole segno di parlare a bassa voce, la madre si sedette accanto a
lei posandole una mano su un ginocchio.
«Dovevo dirtelo stasera, Urmi, -
sussurrò. - Ci sono buone notizie, veramente buone, ero sicura che ne
saresti stata felice».
«Cosa?» disse Urmila.
«è quello che volevo dirti: alle otto abbiamo ricevuto una telefonata
dalla segreteria del Wicket Club.
Riguarda tuo fratello Dinu. Ho risposto io e, lascia che ti dica che la
prima cosa che ho detto è stata: Oh! se mia figlia fosse qui, sarebbe cosí
felice…»
Il segretario del Wicket Club aveva telefonato, proseguí, per informarli
che l’indomani avrebbero ricevuto la visita di un membro del comitato
direttivo del club, che intendeva discutere le prospettive di Dinu.
«Sai cosa significa Urmi?» disse sua madre, gongolando di piacere per
l’improvvisa fortuna capitata al figlio.
«Cosa?» disse Urmila.
«Significa che vogliono fare a tuo fratello un contratto in serie A. Lo
dicono tutti - se mandano un membro del comitato direttivo significa un
contratto in serie A, non ci sono dubbi».
«Sei proprio sicura? - disse Urmila.
- L’abbiamo sentita tante volte questa storia del contratto in serie A,
eppure sembra che non ne venga mai fuori niente».
«Ma questa volta è diverso», esclamò la madre. Mise un braccio intorno
alle spalle di Urmila e la strinse forte.
«Pensaci, Urmi; un contratto in serie A: soldi, forse un appartamento.
Finalmente potrai lasciar perdere quello stupido lavoro e startene a casa.
Sarà tutto pagato. Forse riusciremo anche a trovarti un marito prima che sia
troppo tardi. Possiamo mettere un annuncio sui giornali…»
«Piantala, Ma», disse Urmila con irritazione, sapendo esattamente che
piega avrebbe preso il discorso: che il tempo passava; i suoi capelli si
facevano piú sottili; sembrava piú vecchia di quello che era; i vicini
spettegolavano sull’ora in cui rincasava…
Urmila bloccò sul nascere la prevedibile litania di sua madre.
«Prima che tu cominci a pianificare il mio matrimonio, - disse, -
aspettiamo di vedere un contratto firmato».
Alla madre non sfuggí il suo tono scettico. «Pensavo che saresti stata
contenta, Urmi, - disse con voce incrinata. - Pensavo che saresti stata felice
della novità. Invece fai il muso. Non ti importa piú niente di noi, pensi solo
a quel tuo orribile lavoro».
«Se non avessi un lavoro, - disse Urmila risentita, - come credi che ce la
caveremmo? Dove arriveresti con la pensione di Baba? Come daremmo da
mangiare ai bambini? Me lo sai dire, Ma?»
La madre non le prestava attenzione; adesso si asciugava gli occhi.
«Non sai pensare ad altro, - disse. -
Soldi, soldi, soldi. Nel tuo cuore non c’è posto per le nostre gioie e
dolori. Avresti dovuto vedere tuo fratello quando gli ho detto della
telefonata: la prima persona a cui ha pensato sei stata tu. Ha detto: Didi
deve cucinare il pesce domani, qualcosa di speciale come un ilish mach,
cosí possiamo invitare a pranzo il rappresentante del club».
Urmila le lanciò un’occhiata incredula. «Non posso cucinare il pesce
domattina, Ma, devo essere a una conferenza stampa alle nove, il ministro
delle Comunicazioni arriva con un volo da Delhi la mattina presto. Ciò
significa che devo uscire di qui al piú tardi alle otto e un quarto. Sai com’è
il traffico a quell’ora».
Dalle labbra di sua madre sfuggirono le prime note di un lamento. «Ma
cosa dici, Urmi? - singhiozzò. - Vuoi dire che il tuo lavoro è piú importante
della vita di tuo fratello? Che qualunque testa d’uovo di ministro che arriva
da Delhi è piú importante di noi?»
Continuò a singhiozzare. Alla fine Urmila mise giú il piatto e chiese
esasperata: «Qualcuno ha comprato il pesce?»
«No, - disse la madre. - Non c’è stato il tempo e nessuno di noi aveva i
soldi. Dovrai comprarlo tu domattina a Gariahat».
«Non posso andare a Gariahat domattina», protestò Urmila. Ma si arrese
nel momento stesso in cui pronunciava quelle parole. Inutile discutere; alla
fine, lo sapeva, ci sarebbe andata lei. Suo padre non ci sarebbe andato per
via degli esercizi mattutini di respirazione; i suoi fratelli non ci sarebbero
andati perché a quell’ora dormivano; sua cognata non ci sarebbe andata
perché nessuno osava chiederglielo. E quanto a sua madre, non ci sarebbe
andata neppure lei, e se Urmila glielo avesse chiesto si sarebbe messa a
piangere dicendo: come puoi chiedermi questo?
Lo sai che l’omeopata ha detto che non devo uscire la mattina presto
con la mia asma?
Urmila avrebbe voluto farle notare che l’asma non le impediva di
recarsi a Dhakuria un giorno sí e uno no per vedere il suo guru che faceva
apparizioni speciali all’alba per mostrarsi ai suoi seguaci alla prima luce del
sole. Tuttavia sapeva che non l’avrebbe detto, per quanto scoppiasse dalla
voglia di dirlo. Invece di dirlo a sua madre, l’avrebbe detto a se stessa,
mentre si precipitava a Dalhousie in minibus, con gomiti che le bucavano la
schiena e il naso schiacciato sotto l’ascella di qualcuno. Per l’ennesima
volta avrebbe tenuto per sé quelle parole, ma se vai dal tuo guru un giorno
sí e uno no, Ma, arrabbiandosi sempre di piú finché avrebbe fatto qualcosa
di terribile, come era accaduto l’altro giorno, quando sua madre l’aveva
costretta a correre giú dallo stiratore per fargli stirare i calzoncini da
football di suo fratello Dinu: le era cresciuta dentro una tale furia, durante il
viaggio in piedi sul bus, rimuginando le proprie lamentele inespresse, che
alla fine aveva sollevato un piede e colpito qualcuno negli stinchi. Non
sapeva neppure perché l’aveva fatto; giusto per sentire il tacco della scarpa
che perforava carne e ossa. E
ci aveva provato gusto, per di piú, a scambiarsi insulti con l’ometto
grasso cui aveva pestato il piede; si erano urlati dietro per tutto il tragitto da
Lansdowne a Lord Sinha Road, finché l’aveva ridotto a un accigliato
silenzio.
Sentí le mani di sua madre che le stringevano la spalla. «Non
addormentarti, Urmila. Dimmi una cosa prima: andrai a comprare il pesce e
lo cucinerai?»
«Forse non sarà necessario, - disse insonnolita. - Forse passerà di qui un
pescivendolo».
«Ma lo farai?» insistette sua madre.
«Sí, sí, - disse Urmila rassegnata.
- Lo farò, ma adesso lasciami dormire».
La madre le diede una pacca sulla spalla. «Lo sapevo, - disse. - Mia
piccola dolce Urmila. Tuo fratello sarà cosí felice. Avresti dovuto vedere
com’era eccitato quando gli ho detto che Romen Haldar sarebbe venuto a
casa nostra…»
Ci volle un momento perché il nome si facesse strada nella sua mente,
poi Urmila si raddrizzò di scatto.
«Chi?» disse stupita.
«Romen Haldar, - ripeté sua madre. -
è lui che viene a farci visita domani, dal club. Sai chi è, vero?»
«Sí, - disse Urmila sempre piú insonnolita. - Sí, lo so. è solo una
coincidenza, ecco tutto».
Capitolo ventunesimo.
Elijah Monroe Farley partí per l’India nell’ottobre 1893 - cominciò Ava
- due anni dopo aver lasciato il laboratorio di ricerca della John Hopkins
University di Baltimora.
Parecchi amici e conoscenti andarono fino a New York per il commiato,
tra essi il suo maestro, l’eminente specialista di malaria W’S’ Thayer e gli
altri due membri del suo vecchio team, W’G’ Maccallum e Eugene L’
Opie. Nell’estate 1894 il giovane reverendo Farley era installato in una
piccola clinica di carità nella remota città di Bareich, sui colli orientali
dell’Himalaya. Il personale della clinica, gestita dalla missione ecumenica
americana, era il solo personale medico della zona.
Farley aveva ventisei anni, era alto, dinoccolato, con capelli rossicci e
occhi verde muschio.
Austero e contemplativo per natura, si adattò facilmente ai rigori della
nuova vocazione. Se in qualche modo gli mancava la precedente attività di
scienziato, non lo dava a vedere: passava in clinica ogni ora del suo tempo.
Farley si trovava nella clinica da cinque mesi quando ricevette la prima
lettera. Veniva dal suo vecchio amico e collega Eugene L’ Opie di
Baltimora.
Conteneva per lo piú banalità relative al tempo e alla vita coniugale e
professionale di molti amici comuni.
Ma Opie accennava anche, seppure di sfuggita, ad un progetto di ricerca
in cui lui e Maccallum si erano imbarcati di recente. Scrivendo con la
distratta noncuranza del ricercatore indaffarato, Opie non si peritava di
chiarire le implicazioni teoriche di tale lavoro. Ma Farley non ci mise molto
a capire che il lavoro di Opie e Maccallum si basava sulle scoperte del
francese Alphonse Laveran.
Quella novità inattesa sprofondò Farley nella perplessità. Come studioso
non si era occupato granché del lavoro di Laveran, dando per scontato che
fosse generalmente screditato. In questo aveva preso esempio nientemeno
che da William Osler, padre spirituale della John Hopkins, il quale aveva
espresso pubblicamente il proprio scetticismo in merito alla «Laveranità».
Farley era partito per l’India assolutamente convinto che la teoria di
Laveran fosse destinata al vasto cimitero delle speculazioni infondate della
medicina, perciò il suo stupore nell’apprenderne l’esumazione non avrebbe
potuto essere piú grande.
Una volta germinati, i timori di riesumazione della Laveranità si
insinuarono gradualmente nella mente del giovane missionario alimentando
dubbi e interrogativi laddove prima regnava la certezza. Col passare dei
giorni i dubbi si fecero strada dentro di lui in modo sottile e imprevisto,
rievocando la vita che un tempo aveva immaginato per sé, risvegliando una
sconfinata nostalgia per le abitudini semidimenticate della vita quotidiana
nel laboratorio. Cominciò a rammaricarsi amaramente dell’impulso che
l’aveva spinto a lasciarsi alle spalle il microscopio, abbandonato nella casa
di famiglia nel New England: altrimenti sarebbe stato fin troppo facile
mettere in piedi un laboratorio improvvisato lí dove si trovava.
Poi, quasi per caso, scoprí, racchiuso tra le pagine di un libro di
preghiere, il biglietto da visita di un medico inglese, tal colonnello medico
Lawrie, dell’Indian Medical Service. Farley aveva conosciuto Lawrie
durante una delle sue occasionali visite alla sede centrale della missione, a
Calcutta. Durante il loro breve incontro, il colonnello medico gli aveva
detto che era in partenza per Hyderabad, dove avrebbe insegnato alla
Scuola di Medicina fondata di recente dal principe di quello stato, il Nizam.
Per fortuna aveva scarabocchiato il nuovo indirizzo sul retro del biglietto da
visita e ora Farley non ci pensò sopra due volte e gli scrisse chiedendogli
notizie sulle opinioni correnti rispetto alle teorie di Laveran.
Non dovette aspettare a lungo: con suo grande sollievo il colonnello
Lawrie gli rispose nel giro di un mese. Ma la lettera non fece che accentuare
lo sconcerto di Farley: il colonnello sembrava tuttora convinto che la
Laveranità fosse priva di fondamento.
Malgrado gli sforzi di taluni suoi accoliti, scriveva il colonnello, restava
vero, almeno dal punto di vista logico, che sul piano sperimentale le teorie
di Laveran erano del tutto infondate. Di recente, lui stesso era stato
testimone di uno spettacolo che costituiva una prova talmente concreta da
essere comica, se non fosse stata drammaticamente umiliante per il
protagonista.
Un presuntuoso e caparbio giovane medico dell’esercito, tale Ronald
Ross, era appena stato assegnato all’ospedale militare di Begumpett, non
lontano da Hyderabad. Avendo malauguratamente troppo tempo libero a
disposizione, Ross si era messo in testa di avviare una ricerca sulla malaria
- malattia di cui non aveva alcuna conoscenza pratica. Al club di
Secunderabad l’avevano sentito, non una ma parecchie volte, vantarsi della
sua familiarità con la chimera di Laveran. E non aveva esitato ad accettare
un invito a dimostrare l’esistenza di tale creatura al cospetto dell’intera
facoltà della Scuola di Medicina del Nizam. A questo scopo aveva caricato
su un carro tirato da buoi un povero disgraziato scosso dai brividi e l’aveva
portato sferragliando fino alla scuola, per undici miglia. Ma naturalmente
quando era venuto il momento, tutti riuniti nell’aula magna della scuola,
non si era riusciti a trovare assolutamente nulla nel sangue del pover’uomo:
neppure la traccia della fantastica creatura di Laveran. Di fronte a una
richiesta di spiegazioni, Ross aveva imbastito una storia senza capo né coda
sul fatto che la creatura fosse temporaneamente in remissione: come se il
parassita fosse uno di quei tipi mediterranei indolenti che ha bisogno della
sua siesta quotidiana.
Per quanto riguardava lui,
colonnello medico Lawrie, quel contrattempo metteva fine alla
discussione una volta per tutte.
Tuttavia, proseguiva il colonnello, capiva benissimo che in casi del
genere uno volesse farsi la propria opinione. Un suo collega del servizio
sanitario, D’D’ Cunningham, Fellow of the Royal Society, uomo
decisamente in gamba e scienziato piuttosto noto, dirigeva un laboratorio a
Calcutta.
Per quanto non fossero paragonabili ai grandi laboratori europei e
americani, le attrezzature di Cunningham erano senza dubbio le migliori
dell’India, e forse dell’intero continente asiatico.
Cunningham era poco persuaso delle teorie di Laveran come chiunque
altro, ma era un uomo di ampie vedute e senza dubbio avrebbe acconsentito
che le sue attrezzature fossero usate per una causa giusta. Se il reverendo
dottore lo desiderava, lui, dottor Lawrie, sarebbe stato lieto di scrivere una
lettera di presentazione a Cunningham, ecc. ecc’.
Farley scrisse immediatamente a Lawrie, accettandone l’offerta, e in
seguito concordarono una sua visita al laboratorio di Cunningham la
prossima volta che sarebbe andato alla sede centrale della missione a
Calcutta.
Farley salí sul treno in uno stato di febbrile aspettativa. Né la sua
eccitazione era diminuita quando arrivò alla stazione Sealdah di Calcutta,
tre giorni dopo.
Il pomeriggio del giorno seguente, alle cinque precise, Farley si
presentò per il tè alla pensione dove viveva Cunningham. Il dottor
Cunningham era un uomo grande e grosso di corporatura florida. Diede a
Farley un chiassoso benvenuto e volle notizie circostanziate sulla salute e la
vita del suo vecchio maestro W’S’ Thayer, di cui conosceva ed
evidentemente ammirava il lavoro.
Conversarono del piú e del meno e presto fu chiaro a Farley che, quali
che fossero i risultati da lui raggiunti in passato, Cunningham aveva ormai
perso interesse per la ricerca.
Non fu dunque particolarmente sorpreso quando Cunningham gli disse
che sarebbe andato in pensione fra tre anni e che, pensando alle sue future
disponibilità di tempo, aveva esplorato la possibilità di avviare un
ambulatorio privato a Calcutta.
Quando infine la conversazione si spostò sull’argomento che gli stava a
cuore, c’era in serbo una delusione per il giovane missionario. Cunningham
lo informò che per cause impreviste avrebbe lasciato Calcutta tra un giorno
o due: lo avevano chiamato da Assam, dove un amico, proprietario di una
piantagione, si era
improvvisamente ammalato.
«Ma non faccia quella faccia afflitta, ragazzo mio, - muggí Cunningham
dandogli una pacca sulla schiena. - Domani potrà vedere tutti i vetrini che
desidera. Mi creda, non le ci vorrà molto tempo per far piazza pulita di
questa storia di Laveran».
Il giorno dopo, i suoi impegni lo trattennero alla missione fino a
pomeriggio inoltrato. Erano dunque già le quattro, e il sole cominciava ad
abbassarsi sulla verde distesa del Maidan, quando Farley arrivò al
Presidency General Hospital. In altre circostanze si sarebbe senza dubbio
trattenuto qualche istante ad ammirare la sobria eleganza degli edifici di
mattoni rossi dell’ospedale, i prati ben rasati e i sentieri all’ombra degli
alberi tutt’intorno. Ma, essendo deciso a far buon uso del poco tempo a sua
disposizione, dopo aver chiesto a un usciere dov’era il laboratorio di
Cunningham, vi si diresse di buon passo.
Dovette addentrarsi parecchio nei terreni spaziosi e fitti di alberi
dell’ospedale, prima di trovare il laboratorio. Un’alta macchia di bambú lo
separava dal complesso ospedaliero, nascondendolo, e quando finalmente lo
vide Farley ne rimase assai colpito.
Non assomigliava a nessuno dei laboratori che gli era capitato di vedere:
certo nulla avrebbe potuto essere piú diverso dai funerei e tetri locali allora
utilizzati come laboratori nella maggior parte delle università europee e
americane. Questo era un normalissimo bungalow, di un tipo assai comune
negli insediamenti militari inglesi in qualunque parte del mondo.
In piedi in quel boschetto ombroso, con i bambú che frusciavano
intorno a lui, Farley si sentiva stranamente a disagio. Voltandosi non vide
nessuno nelle vicinanze, né tra gli alberi né nel bungalow. Eppure aveva la
netta sensazione che la sua presenza non fosse passata inosservata. Dopo
pochi istanti, quasi a confermare tale sensazione, la porta d’ingresso del
bungalow si spalancò e l’alta figura rubiconda del dottor Cunningham uscí
sulla veranda. «Ah è lei, Farley, -
gridò, - mi avevano detto che stava arrivando. Be’, non resti lí impalato,
entri. Sistemiamo questa questione una volta per tutte».
Riscuotendosi, Farley salí i pochi gradini del bungalow e strinse la larga
mano carnosa di Cunningham. Dopo un rapido scambio di saluti, l’anziano
uomo gli mise una mano sulla spalla e lo condusse verso la porta aperta del
laboratorio. Farley entrò, ma solo per bloccarsi di colpo quando si accorse
che una donna in sari e un giovanotto in pyjama e camice da laboratorio lo
stavano esaminando da capo a piedi.
La donna lo scrutava con uno sguardo cosí esplicitamente indagatore
che Farley non riusciva a distogliere gli occhi da lei. Indossava un
modestissimo sari di cotone dai colori vivaci, non era né giovane né
vecchia, forse verso la quarantina. Quando ebbe concluso il suo attento
esame, si sedette per terra, con la fronte contro le ginocchia.
Cunningham doveva aver notato l’imbarazzo di Farley, perché si
affrettò a dire: «Non ci faccia assolutamente caso, le piace fissare la gente».
«Chi è?» chiese Farley a bassa voce.
«Oh, è la donna delle pulizie», fu la risposta sbrigativa. Solo in quel
momento Farley s’avvide che teneva in mano il marchio del suo lavoro, uno
jharu.
«è una specie di cerbero, -
proseguí Cunningham, - è qui da sempre. Sa come sono: ci provano
gusto a esaminare i visitatori. Non si faccia intimorire, non è pericolosa».
Farley notò che scambiava
un’occhiata col giovanotto in piedi accanto a lei ed ebbe la netta
sensazione che tra i due passasse un sorriso e un cenno, un gesto quasi
impercettibile di congedo. Poi la donna si alzò in piedi, gli volse le spalle e
andò nell’angolo piú lontano della stanza, come se volesse indicare che
aveva perso qualunque interesse per lui.
Farley sentí il sangue affluirgli alle guance.
«Non ci faccia caso, - gli disse Cunningham ammiccando, - è un po’
tocca… sa com’è».
Fece cenno al giovanotto di avvicinarsi. «Ed ecco il nostro chhokra-boy,
- sghignazzò
sarcastico, - è un domestico che ho addestrato perché mi aiuti con i
vetrini. Immagino che lo si possa definire mio assistente».
Facendosi strada tra i tavoli del laboratorio, Cunningham si diresse
verso un microscopio. «Può lavorare qui, - disse a Farley. - Il mio
domestico le porterà i vetrini». Si concesse un’altra risata, mentre usciva.
«Le auguro di trovare quello che cerca».
Farley sedette davanti al
microscopio, e per un’ora e mezzo l’assistente gli portò decine di vetrini
da guardare. Dal momento che l’uomo era un umile servo non c’era da
stupirsi che Cunningham non gli avesse detto come si chiamava. Ma
adesso, guardandolo mentre lavorava, Farley fu impressionato dalla bravura
del giovanotto: date le circostanze, la sua efficienza gli sembrò decisamente
fuori del comune.
Ma i vetrini che gli mostrava non presentavano alcuna novità. C’erano
sopra macchie secche, ed erano di un tipo familiare, con le cellule nere
pigmentate di sangue malarico molto in evidenza. Ne aveva viste un sacco
quando era ricercatore a Baltimora.
Nessun segno del parassita di Laveran.
Probabilmente avrebbe presto rinunciato, se non fosse stato per un
curioso piccolo episodio.
Dopo aver guardato nel microscopio per piú di un’ora, gli venne sete, e
chiese un po’ d’acqua al giovane assistente, che si procurò un bicchiere
panciuto e lo piazzò diligentemente di fronte a lui. Bevve metà dell’acqua e,
volendo conservare il resto per dopo, lo sistemò a portata di mano, proprio
dietro il microscopio.
Alcuni minuti dopo, sollevando gli occhi dal microscopio, scoprí che
poteva vedere l’intera stanza alle sue spalle, rispecchiata nella superficie
convessa del bicchiere di vetro. Non vi prestò particolare attenzione, ma
quando distolse nuovamente lo sguardo i suoi occhi furono attratti da una
scena che si svolgeva dietro di lui.
L’assistente, che era andato a prendere un altro cassetto di vetrini, stava
bisbigliando qualcosa alla donna in sari. Era evidente che stavano parlando
di lui: i riflessi distorti delle loro facce sembravano assumere una qualità
speciale e terrificante mentre annuivano indicando il lato opposto della
stanza. Farley fu svelto a chinare nuovamente il capo sul microscopio, pur
continuando a tenere d’occhio il loro riflesso nel bicchiere.
Quello che vide dopo fu ancora piú sorprendente. Concluso quello
scambio di battute bisbigliate, non fu il giovane assistente bensì la donna ad
avvicinarsi alla cassettiera addossata al muro; fu lei a selezionare i vetrini
da sottoporre al suo esame.
Osservandola con attenzione, Farley la vide scegliere con una rapidità
che dimostrava non solo che aveva una grande familiarità coi vetrini ma la
cognizione esatta di ciò che contenevano. Ora Farley moriva dalla curiosità.
La sua mente traboccava di domande: com’era possibile che una donna, per
di piú analfabeta, avesse acquisito una simile competenza? E
com’era riuscita a tenerlo nascosto a Cunningham? E com’era che lei,
evidentemente non istruita e ignara dei principî su cui si basava tale
conoscenza, era arrivata a esercitare una simile autorità sull’assistente?
Piú ci pensava piú si convinceva che gli stava sottraendo qualcosa; che
se avesse voluto avrebbe potuto mostrargli quello che cercava, il parassita
di Laveran; e se aveva deciso di negarglielo era perché, per qualche arcana
ragione, lo giudicava immeritevole.
Farley sarebbe volentieri fuggito da quel posto, da quel sedicente
laboratorio, i cui strumenti fin troppo familiari sembravano votati a scopi
tanto perversi quanto imperscrutabili. Eppure sapeva che se si fosse arreso
sarebbe stato tormentato in eterno da incertezze e dubbi. Non aveva
alternative, doveva continuare la sua indagine, dovunque portasse.
Cosí Farley si costrinse a restare dov’era, fissando senza fiatare gli
insignificanti vetrini che il giovane assistente gli piazzava davanti. Dopo
un’altra mezz’ora abbondante, gli disse: «Non ho visto traccia del parassita
per oggi, ma in realtà ho buone ragioni per credere che esista.
Perciò ne parlerò con Cunningham e, col suo permesso, tornerò domani
a continuare le mie ricerche».
A quelle parole un’espressione profondamente costernata velò il viso
fino a quel momento inespressivo e sorridente del giovanotto. Farley vide
che lanciava un’occhiata alla donna senza nome, il cui sguardo penetrante li
fissava dal lato opposto del laboratorio. Poi si lanciò in una sequela di
balbettanti proteste: era inutile tornare il giorno dopo; non c’era nulla da
vedere, era solo una perdita di tempo, e comunque Cunningham-sahib
sarebbe stato via; meglio che tornasse piú avanti, qualche altro giorno… tra
una quindicina di giorni, o fra un mese, forse allora ci sarebbe stato
qualcosa da vedere…
La veemenza di quelle proteste non fece che confermare i sospetti di
Farley: quell’uomo non avrebbe potuto indicargli piú chiaramente quanto
fosse ansioso, insieme alla sua taciturna compagna in fondo alla stanza, di
liberarsi di lui; e che la sua presenza l’indomani avrebbe rovinato un
qualche piano architettato in precedenza, una o piú iniziative già
programmate, contando sull’assenza di Cunningham.
Sapendo di essere in vantaggio, adesso, Farley congedò il giovane
supplichevole dicendo: «Tornerò domani in ogni caso».
Dopo di che andò in cerca di Cunningham.
L’inglese era nella stanza accanto.
Seduto su una chaise-longue, aspirava con aria sognante da una pipa dal
lungo cannello. Quando Farley gli chiese il permesso di continuare il giorno
dopo, buttò fuori uno sbuffo di fumo dolciastro e gridò: «Certo, ragazzo,
perché no? Se è cosí deciso a insistere nell’inseguimento del fantasma di
Laveran, torni tutte le volte che vuole. Dirò loro di aspettarla».
Sul punto di andarsene, Farley esitò. Con un rapido sguardo intorno si
accertò che fossero soli poi si avvicinò a Cunningham e si chinò verso di
lui.
«Se mi è consentito, signore, - gli sussurrò all’orecchio, - posso
chiederle per quali circostanze ha ammesso quella donna nel laboratorio?»
«Mangala?» disse Cunningham, puntando all’indietro il fornello della
pipa.
«Sí, se è questo il suo nome».
«Se mi sta chiedendo dove l’ho trovata, - disse Cunningham, - la
risposta è che l’ho trovata dove trovo tutti i miei domestici e assistenti: alla
stazione ferroviaria - com’è che la chiamano? - oh, sí, Sealdah».
«Alla stazione, signore?» Farley era sbalordito.
«Proprio cosí, - disse Cunningham. -
è lì che deve andare se vuole un lavoratore volonteroso: è sempre stato
cosí… è pieno di gente che cerca lavoro e un tetto per vivere. Può vederlo
coi suoi occhi la prossima volta che ci passa».
«Ma, signore, - esclamò Farley, -
prendere una persona ignorante e senza alcun tirocinio…»
«E cosa c’è di meglio che addestrare di persona i propri assistenti,
ragazzo mio? - ribatté Cunningham. -
è di gran lunga preferibile, a mio avviso, all’essere circondati da laureati
troppo zelanti e formati a metà. Ci si risparmia lo sforzo di insegnare un
sacco di cose inutili».
«Dunque l’ha addestrata lei quella donna… Mangala?» chiese Farley.
«Certo, - disse Cunningham, indugiando con gli occhi nel vuoto. -
E non ho mai visto un paio di mani e occhi piú svelti dei suoi. Ma…»
Mettendo su una faccia scura, Cunningham si toccò la testa con un dito.
«Ma vede, - disse, - non è del tutto in sé. La sua mente si è guastata…
malattia, dissolutezza, chi lo sa».
«E il giovanotto? - chiese Farley. -
Cosa sa di lui?»
«Non è qui da molto, - disse Cunningham. - Lo ha portato Mangala: ha
detto che è uno delle sue parti».
«E quali sarebbero?»
«Non lontano da dove sta lei, -
disse Cunningham. - Credo sia un posto che si chiama Renupur, forse ci
è passato».
«Ma certo, - disse Farley. - Sono passato da Renupur venendo a
Calcutta».
Farley stava per chiedergli il nome dell’assistente quando udí un rumore
alle sue spalle. Si alzò in piedi e si ritrovò a guardare direttamente la donna,
Mangala. Lo fissava dall’altro lato della stanza, e c’era una tale collera nei
suoi occhi che sentí un brivido corrergli lungo la schiena.
Mentre se ne andava, Farley notò che tra la donna e il giovane assistente
si svolgeva una frenetica
conversazione a bassa voce.
Farley aveva appena raggiunto la macchia di bambú dinanzi al
laboratorio quando udí passi frettolosi alle sue spalle. Pochi istanti dopo
l’assistente lo raggiunse e con voce educata, quasi implorante, gli chiese a
che ora esattamente pensava di tornare l’indomani. Deciso a conservare il
vantaggio della sorpresa, Farley rispose con noncuranza: «Verrò quando mi
troverò a passare da queste parti. Non c’è bisogno che interrompiate il
vostro lavoro quando arrivo».
Detto ciò volse le spalle
all’avvilito assistente e se ne andò.
Senza nessuna ragione precisa, Farley passò gran parte della notte a
pregare. Eppure non riusciva a dare un nome a ciò che l’aspettava né capiva
perché gli incutesse paura. E divenne questa la sua vera paura, non riuscire
a dare un nome a ciò con cui avrebbe dovuto confrontarsi. La mattina dopo
restò nella sua stanza, senza toccare né cibo né acqua, e non emerse dal suo
cubicolo se non molto dopo
mezzogiorno.
Cosí, ancora una volta, era tardo pomeriggio quando arrivò all’ospedale.
Ma, a differenza del giorno prima, ora il cielo era grigio e imbronciato,
e un forte vento soffiava sul Maidan.
Avvicinandosi al laboratorio, Farley ebbe l’impressione che le canne di
bambú che lo separavano dall’edificio dell’ospedale fossero vive, piene di
movimento. E quando s’inoltrò nel boschetto vide che c’erano davvero
ombre davanti a lui, sul sentiero: tre figure, incappucciate e coperte, che
avanzavano incespicando verso il laboratorio. Farley si fermò, sopraffatto
dai presentimenti, poi si fece forza e riprese a camminare.
Quando fu a pochi metri dalle tre figure, vide che il gruppetto era
composto di un uomo in dhoti e una donna avvolta in un sari. In mezzo a
loro trascinavano un terzo essere umano, quasi inerte. Affrettò
baldanzosamente il passo, facendo tintinnare la catenella dell’orologio per
annunciare la propria presenza.
Quelli si fermarono e si voltarono a guardarlo.
Gli occhi di Farley corsero alla figura nel mezzo. Era un uomo, forse
giovane, forse di mezz’età, impossibile dirlo, perché il volto coperto dal
cappuccio era
terribilmente devastato, gli occhi rivolti in su mostravano solo il bianco,
la pelle era macchiata e coperta di croste, i denti nella bocca aperta, bavosa,
scivolavano verso la gola come se avessero ricevuto un pugno. A Farley
bastò una rapida occhiata, la sua sensibilità diagnostica, affinata da mesi di
pratica a Bareich, gli disse immediatamente che l’uomo era all’ultimo
stadio della demenza sifilitica.
Sopraffatto dalla pietà, Farley allungò una mano caritatevole verso
quell’uomo distrutto. Ma appena i compagni dell’uomo si avvidero della
sua presenza, fuggirono svanendo nell’oscurità. Farley li seguí con lo
sguardo poi imboccò il sentiero, diretto al laboratorio.
Quando fu a poca distanza dal bungalow gli giunse alle orecchie un
suono inaspettato: una nenia bassa, cantata all’unisono da un coro di voci.
Rallentando il passo, tese l’orecchio. Fu presto evidente che il canto non
proveniva dal bungalow ma da qualche altra parte. Guardandosi intorno con
circospezione, attraverso gli alberi e le macchie di bambú, Farley vide un
gran numero di persone raccolte intorno a una bassa tettoia, poco distante.
Accovacciati in cerchio, intorno a un fuoco, salmodiavano
accompagnandosi con cembali d’ottone, quasi si
preparassero a un rito o una cerimonia.
Incuriosito, si diresse verso la tettoia, ma in quel momento si spalancò
la porta del bungalow e ne uscí correndo il giovane assistente.
Con l’aria di volergli dare un espansivo benvenuto guidò velocemente
Farley verso il bungalow.
Proprio mentre stava per entrare nel laboratorio, Farley notò che in
un’attigua anticamera c’era un gran fervore di attività. L’assistente cercava
di spingerlo avanti, ma trascinando lentamente i piedi Farley riuscí a
sbirciare dentro la stanza. I suoi occhi videro una scena cosí sconvolgente
che non protestò quando la sua guida lo costrinse a varcare la porta del
laboratorio.
Ed ecco cosa vide: Mangala era seduta in fondo alla stanza, su un
divano basso, ma da sola e in un indiscutibile atteggiamento di comando,
come se fosse su un trono.
Accanto a lei c’erano numerose gabbiette di bambú, e ognuna conteneva
un piccione. Tuttavia non furono gli uccelli in quanto tali a provocare il suo
sbalordimento, bensí lo stato in cui erano. Giacevano infatti sul pavimento
delle gabbie, scossi dal tremito, chiaramente in agonia.
E non era tutto. Per terra, accanto al divano, si affollavano ai piedi della
donna una mezza dozzina di persone in atteggiamento supplice, alcuni le
toccavano i piedi, altri si prostravano davanti a lei. Altri due o tre erano
ammucchiati contro una parete, avvolti in coperte. Benché Farley non
avesse potuto vederne i volti piagati, ciechi, per piú di un attimo, comprese
immediatamente che anch’essi, come l’uomo che aveva visto nel boschetto
di bambú, erano sifilitici, allo stadio finale della tremenda malattia.
Adesso il giovane assistente ricominciò la stessa scena del giorno prima,
consegnandogli vetrini e affrettandosi avanti e indietro nella stanza come se
volesse incitarlo a chissà quale scoperta. Farley non fece obiezioni. Riprese
meccanicamente l’esame dei vetrini che gli venivano sottoposti, mentre la
sua mente restava concentrata sullo
straordinario quadro intravisto lí fuori.
Senza dubbio c’era di che
sbalordirsi, tuttavia quelle strane scene erano perfettamente
comprensibili a Farley, per sua stessa esperienza. Piú di una volta a
Bareich si era trovato suo malgrado depositario delle ultime disperate
speranze di una famiglia affranta e atterrita giunta sulla soglia della clinica
dopo aver trasportato un parente mortalmente malato per foreste e
montagne. Conosceva i visi di quella gente, il tono implorante delle loro
voci, la tenue luce di speranza nei loro occhi. La coscienza lo esortava ad
uscire da quella stanza e dir loro di non sprecare le proprie speranze
affidandosi a quella ciarlatana; a smascherare le false credenze che lei e i
suoi tirapiedi si erano inventati per ingannare quei poveretti. Era suo
dovere, lo sapeva, dir loro che gli umani non conoscevano cure per simili
condizioni e che quella donna era un falso profeta che li derubava del poco
denaro che possedevano.
Invece restava dov’era sperando che con un po’ di pazienza sarebbe
riuscito a venire a capo di tutta la faccenda. Passarono i minuti, passarono le
ore, e lui era sempre lí con gli occhi fissi sul microscopio, fingendo di
esaminare tutto ciò che gli veniva messo davanti. Sentiva intorno a sé una
crescente impazienza; la sentiva nei passi frettolosi; la sentiva negli occhi
che fissavano esasperati la sua schiena, desiderosi che se ne andasse perché
quelli potessero procedere coi propri piani, quali che fossero. Ma Farley
restava al suo posto, senza muoversi, pietrificato, in apparenza totalmente
assorbito da quei vetrini.
Poi, quando già la luce del giorno si era arresa al crepuscolo, Farley
chiamò: «Ragazzo, accendi le lampade, per favore. Ho ancora un sacco di
cose da fare».
Al che l’assistente cominciò a protestare: «Ma signore, non c’è nulla
qui, non vedrà niente, sta
semplicemente sprecando il suo tempo, senza motivo».
Era precisamente il momento che Farley auspicava e attendeva.
Alzando la voce, disse: «Stammi bene a sentire: non lascerò questo
laboratorio finché non avrò visto le trasformazioni descritte da Laveran.
Sono disposto a restare qui tutta la notte. Resterò qui tutto il tempo
necessario».
Ciò detto abbassò di nuovo la testa sul microscopio. Ma intanto aveva
preso la precauzione di piazzare il bicchiere di vetro di nuovo davanti a sé,
e adesso con la coda dell’occhio vide che l’assistente estraeva una serie di
vetrini puliti e scivolava nell’altra stanza.
Dopo che fu uscito, Farley
attraversò silenziosamente il laboratorio. Appiattendosi contro la parete,
scivolò verso la porta finché riuscí a mettersi in una posizione da cui poteva
vedere la stanza attigua senza essere visto.
Farley era pronto a qualsiasi cosa, o almeno cosí pensava, ma era del
tutto impreparato a quello che vide.
Dapprima l’assistente andò dalla donna, Mangala, tuttora regalmente
assisa sul divano, e le toccò i piedi con la fronte. Poi come un cortigiano o
un discepolo le mormorò qualcosa all’orecchio. Lei fece un cenno di
assenso e prese i vetrini puliti che lui le porgeva. Chinandosi verso le
gabbie si soffermò con la mano su ogni uccello, come se stesse cercando di
accertare qualcosa. Poi sembrò prendere una decisione; estrasse da una
gabbia uno di quegli uccelli tremanti e se lo mise in grembo.
Congiunse le mani sopra di esso e cominciò a muovere la bocca come
se pregasse. Poi all’improvviso nella sua mano destra comparve uno
scalpello; sollevando il piccione morente a una certa distanza da sé, con un
unico movimento del polso lo decapitò.
Quando il violento fiotto di sangue diminuí, prese i vetrini puliti, li
passò sopra il collo mozzato e li porse all’assistente.
Farley ebbe la presenza di spirito di precipitarsi al suo posto al
microscopio. Si era appena seduto quando rientrò il giovanotto.
«Per favore esamini questi, adesso, signore, - disse con un largo sorriso.
- Forse la sua ricerca avrà finalmente successo».
Farley osservò i vetrini che teneva in mano. «Ma, - disse, - questi non
sono macchiati nel modo giusto: il sangue è ancora fresco».
«Sissignore, - disse l’assistente risentito. - Forse quello che lei sta
cercando si può vedere solo nel sangue sgorgato di fresco».
Farley piazzò il vetrino sotto la lente e guardò nel microscopio. Sulle
prime non vide nulla di insolito; nulla che potesse indicargli, se non
l’avesse saputo, che quel campione di sangue veniva da un piccione. Notò i
ben noti granuli di pigmento malarico.
Poi però, all’improvviso vide un movimento; sotto i suoi occhi forme
ameboidi cominciarono a contrarsi e muoversi, con un lento movimento
ondulatorio sulla superficie vetrosa.
Tutt’a un tratto ci fu una grande agitazione e cominciarono a
disintegrarsi: fu allora che vide apparire i flagelli di Laveran, a centinaia,
minuscole cose cilindriche, con le loro testine puntute, aguzze, penetravano
il miasma sanguigno.
Gocce di sudore colavano ora sulla fronte di Farley, mentre osservava
quelle creature provviste di corna che s’insinuavano, vibravano, dibattevano
in un’affannosa ricerca. Respirava a fatica; cominciarono a pulsargli le
tempie. Si drizzò a sedere, ansimando, con l’immagine di quelle creature
determinate e bellicose ancora viva negli occhi. Spostò lo sguardo sulla
finestra e vide una fila di facce allineate contro il vetro che lo osservavano
mentre si dimenava sulla sedia, asciugandosi la fronte. I suoi occhi
incrociarono quelli di Mangala; era in piedi davanti a tutti gli altri e lo
fissava sorridendo tra sé.
Stretto in una mano, bene in vista, c’era il cadavere del piccione
decapitato, col sangue che sgorgava ancora dalla macabra ferita.
«Digli, - disse la donna con un sorriso di scherno, - digli che quello che
vede è il membro della creatura che entra nel corpo della sua compagna,
facendo quello che fanno gli uomini e le donne - sempre che sappia di cosa
si tratta».
E qui, a questo punto della rivelazione, che dimostra come Farley fosse
già arrivato alla conclusione che avrebbe reso famoso il suo vecchio team, il
racconto finisce. Farley infatti, incapace di controllarsi piú a lungo, scaglia i
vetrini contro la donna e si allontana a grandi passi dal laboratorio.
Ma prima di affrancare la lettera per spedirla, il mattino dopo, Farley vi
aggiunse poche righe scarabocchiate in margine: «In breve: gran parte di
ciò che temevo ha trovato conferma nelle ultime ore. All’alba hanno
bussato alla mia porta, era il giovane assistente di Cunningham. Mi ha detto
- oh quante cose - vi scriverò tutto a suo tempo. Per il momento basti
dire che ogni cosa è diversa da quello che sembra, un fantasma di se stessa.
Il giovanotto ha promesso di rivelarmi tutto se lo accompagno al suo
villaggio natale. Per fortuna il posto di cui parla non è lontano dal luogo in
cui si trova la mia clinica.
Partiremo domani: ti scriverò di nuovo, e dettagliatamente, caro amico,
appena ne saprò di piú…»
Ma Elijah Farley non arrivò mai a Bareich: scomparve durante il
viaggio e nessuno lo vide piú. La polizia scoprí che era effettivamente salito
sul treno a Sealdah, come previsto, ma ne era sceso prima di arrivare a
destinazione, in una stazione solitaria e poco utilizzata, quella di Renupur,
in piena stagione monsonica.
Si dice che in seguito un poliziotto abbia riferito di aver visto un
giovanotto che trasportava il suo bagaglio.
All’improvviso Ava si interruppe: Seguito indecifrabile, impossibile
continuare…
Capitolo ventiduesimo.
Murugan non riusciva a dormire.
Oppresso dal caldo, giaceva sveglio sotto la zanzariera, guardando il
ventilatore che fendeva la pesante aria monsonica, le pale mozze
lampeggiavano ipnotiche nella sottile striscia di luce che filtrava dalla porta
del balcone, ostinatamente decisa a non chiudersi. Le lenzuola gli si erano
arrotolate all’altezza della vita in pieghe umide, fradice di sudore. Si tolse la
camicia e dopo averla appallottolata la sbatté fuori dalla zanzariera. Era
nudo, adesso, a parte i boxer di cotone.
Alla festa di matrimonio giú in strada il generatore funzionava a pieno
regime. Eppure, malgrado tutto quel baccano, udiva distintamente le
zanzare che ronzavano pazienti intorno al letto, in cerca di varchi,
affollandosi eccitate ogniqualvolta una mano o un piede sporgeva dal
tessuto. Ben presto non fu piú in grado di dire se il ronzio fosse dentro o
fuori dalla zanzariera; se il prurito nelle sue membra fosse causato dai loro
ininterrotti assalti o dall’attrito delle lenzuola umide.
Si appiattí sul materasso e cercò di restare immobile. Attese, braccia e
gambe divaricate - attese per scoprire se erano davvero dentro la zanzariera;
se la sua pelle bruciante gli avrebbe consentito di percepire la sensazione
delle loro punture.
C’era qualcosa di stranamente intimo nel giacere cosí, sulle lenzuola
umide, disteso in quella posizione naturalmente invitante, di abbraccio, di
desiderio. Quando abbassò gli occhi sul proprio corpo, appiattito sul letto,
non avrebbe saputo dire se stava aspettando che gli si mostrassero, o se era
lui a mostrarsi a loro: esponendosi in ogni minuto dettaglio che solo loro
erano abbastanza piccole da vedere, da capire, perché loro soltanto avevano
occhi fatti per vedere non l’intero ma le parti, ciascuna nella sua unicità.
Contrasse involontariamente le spalle, inarcando la schiena, offrendosi,
aspettando di vedere dove lo avrebbero toccato prima, sul petto o sul ventre,
sul muscolo del braccio o sulla saccoccia screpolata del gomito.
Il ventilatore divenne una macchia indistinta; la zanzariera svaní in una
nebbia lattiginosa. Adesso fluttuava all’esterno, vedendoci dentro persone
che conosceva, conosceva benissimo, seppure solo attraverso libri e carte.
E adesso era di nuovo all’interno, sotto la zanzariera; era anche lui uno
di loro, disteso su un duro charpai d’ospedale, spogliato, nudo, osservava il
medico inglese che svuotava sotto la zanzariera una provetta piena di
zanzare. Stringeva ancora in pugno le monete che gli avevano dato
all’ingresso dell’ospedale. Le teneva strette, godendosi quella sensazione
tattile, rassicurante; erano cosí fredde al tocco, cosí affilate ai bordi;
rendevano tutto cosí semplice, cosí pulito: una manciata di monete, una
rupia, per affidare la cosa che viveva nel suo sangue, in custodia, al medico.
Adesso vedeva facce intorno al letto, ondeggianti, come canne di
bambú, oltre la superficie della zanzariera, facce che lo scrutavano,
studiando il suo corpo disteso in una pressante nudità; facce che conosceva,
o riconosceva, una donna dai capelli grigi che sorride attraverso sfavillanti
lenti bifocali; un ragazzo sdentato, che sogghigna girando intorno al letto;
un vecchio con le lacrime agli occhi, che scruta nell’oscurità cercando lui;
una donna giovane, snella, che tiene per mano un’amica. Erano tutti in piedi
intorno al letto, solleciti, come infermieri e aiuti medici, aspettando di
vederlo sprofondare in un oblio anestetizzato.
Ed ecco che ricompare l’inglese barbuto, col suo camice bianco,
fumando un sigaro, armato di una mezza dozzina di provette; allunga sotto
la zanzariera un retino da farfalle, lo tira fuori e con mano esperta
intrappola in provetta una zanzara congestionata, chiudendo l’apertura col
pollice protetto da un fazzoletto.
Solleva la provetta e la mostra agli altri e loro applaudono; sono eccitati,
profondamente partecipi.
L’inglese tira una potente boccata dal sigaro e la soffia nella provetta;
l’insetto muore, la creaturina ronzante che porta dentro di sé il suo sangue.
Tenendola sollevata, il medico la mostra agli altri che si avvicinano
avidamente; vogliono vederla coi propri occhi, quell’estrusione della sua
carne, e nella loro bramosia la provetta gli scivola tra le dita, cade a terra, si
rompe, riempiendo la stanza del delicato tintinnio di vetri in frantumi.
Murugan scattò a sedere, il volto grondante di sudore, non sapendo se
stava ancora sognando o se era sveglio. La zanzariera era tutto un ronzio; le
zanzare danzavano come nottue, nel filo di luce che tagliava il letto a metà.
Tutto il suo corpo era in fiamme, coperto di punture. Nel sonno si era
grattato furiosamente; c’era sangue sotto le sue unghie e sulle lenzuola.
Scese dal letto e si mise a camminare su e giú nella stanza, grattandosi
con forza. Nell’aria c’era l’odore acre del suo stesso sudore.
Aprí la porta e andò sul balcone.
La strada era deserta, adesso, ma il generatore continuava a funzionare
nell’edificio in fondo alla via.
L’arco all’ingresso della festa di matrimonio sembrava ancora piú
luminoso, inondava la strada di luce.
Squadre di operai andavano avanti e indietro, ammucchiando sui loro
carrettini di bambú sedie e tavoli pieghevoli.
All’improvviso, con uno stridere di gomme, un taxi svoltò a tutta
velocità all’angolo di Rawdon Street e andò a fermarsi davanti all’ingresso
della vecchia casa, al numero tre. Ne scese una donna in sari. Era troppo
lontana perché Murugan potesse vederla in viso, ma le luci dell’arco
matrimoniale gli permisero comunque di scorgere una striatura bianca
nei suoi capelli. La donna prese una chiave dalla borsetta, aprí il lucchetto
della catena ed entrò.
Dopo aver atteso un momento per vedere se usciva di nuovo, Murugan
rientrò in camera. Stava per rimettersi a dormire quando udí il clic di una
porta che si chiudeva da qualche parte lí vicino. Saltò giú dal letto e si
affacciò sul corridoio.
L’appartamento era buio e immobile.
Cercò una torcia elettrica e, attraversato il soggiorno, si diresse verso la
camera da letto della signora Aratounian. Piegandosi su un ginocchio,
accanto alla porta chiusa, appoggiò l’orecchio a una fessura. Udí all’interno
un suono delicato, ritmico: come un russare gentile - o forse un ventilatore.
Difficile a dirsi.
Murugan esitò, chiedendosi se fosse il caso di accertarsi che la signora
Aratounian stesse bene. Decise di no e si avviò in punta di piedi verso la
sua camera. Proprio quando ne stava varcando la soglia sentí un dolore
acuto e martellante al calcagno destro.
Imprecando a bassa voce, si chinò a controllare. C’era un taglietto su un
piede. Si era tagliato con qualcosa di aguzzo, qualcosa che era rimasto sul
pavimento, luccicante nella semioscurità.
Lo raccolse e gli diede un’occhiata.
Era una scheggia di vetro sottile, di circa due centimetri, probabilmente
di un qualche vasetto di vetro.
Capitolo ventitreesimo.
Era l’una passata quando Sonali decise di andare a cercare Romen: era
agitatissima, di dormire neanche a parlarne.
Per puro caso, proprio in
quell’istante uno dei suoi vicini rientrò da una festa, in taxi. Sonali
afferrò la borsetta, si precipitò giú e ci saltò dentro, non sapendo in realtà
dove andare. Impulsivamente, ricordando la conversazione di Romen
captata dal portiere del Wicket Club, ordinò al taxista di andare in Robinson
Street.
Non riusciva a immaginare cosa ci facesse laggiú Romen a quell’ora di
notte. Eppure, per qualche ragione, quando il taxi si arrestò davanti ai
cancelli della vecchia casa, ebbe l’inesplicabile sensazione che Romen
fosse lí. Per caso, qualche giorno prima, Romen aveva lasciato un mazzo di
chiavi nel suo appartamento, lei le aveva messe nella borsetta ma si era
dimenticata di restituirgliele.
Riuscí a trovare la chiave del cancello, ma una volta dentro non sapeva
cosa fare. Avanzò sul sentiero di ghiaia, fino al portico, e si affacciò alla
porta. Dentro era tutto buio, non riusciva a vedere molto piú in là. Con le
mani a coppa intorno alle labbra, gridò: «Romen, sei lí?»
Non fu sorpresa di non ricevere risposta: nell’edificio a fianco un
generatore faceva un baccano tremendo.
Quasi non riusciva a sentire la propria voce.
Teneva sempre una torcia elettrica nella borsetta, per quando mancava
la luce. La tirò fuori e illuminò il vasto atrio che le stava davanti. Il raggio
roteò lentamente nel buio, illuminando pile di materassi sparsi qua e là,
charpai e utensili da cucina sfasciati.
Romen aveva condotto Sonali in quella casa una volta, qualche mese
prima, per mostrarle il suo nuovo acquisto. Allora l’ingresso era pieno di
gente che cucinava, mangiava, dormiva, nutriva bambini. L’intera squadra
di operai dell’impresa costruttrice viveva nel guscio svuotato della casa.
Venivano dal Nepal ed erano una trentina, senza contare le vecchie donne
che erano state portate per badare ai bambini.
Cucinavano i pasti in un cortile lastricato sul retro e dormivano
nell’atrio e sotto il portico, stendendo materassi e charpai dovunque. Erano
tutti parenti, le aveva detto Romen, figli, nipoti, nuore, madri delle mogli
dei figli, zie: un intero villaggio in trasferta.
Si guardò intorno un’altra volta, scrutando fra le ombre inquietanti che
sfilavano nella tenebrosa oscurità dell’atrio. Le loro cose erano ancora lí,
esattamente come le ricordava, ma non si vedeva piú nessuno di loro.
Oltrepassata la soglia, avanzò cautamente di qualche passo. Poi le
giunse una folata di uno strano odore e si arrestò di colpo. Sulle prime
sembrava fumo, e per un attimo ebbe paura, dubitando che fosse scoppiato
un incendio. Annusò di nuovo l’aria, e si meravigliò nel sentire il
caratteristico odore di incenso, il dolce, acre odore della canfora che brucia.
Si riversava nell’atrio a fiotti, da qualche stanza piú interna.
Mosse ancora qualche passo nel buio, e adesso le sue orecchie, che si
stavano lentamente abituando al mugghiare metallico lí fuori, colsero un
altro suono: un suono ritmico, profondo che si distingueva appena dal
vibrare del generatore - un rullio, reso familiare da puja e giorni di festa,
quando i tamburi rullavano in segno di devozione in tutta la città.
Il suono aumentava via via che Sonali si avvicinava al grandioso,
solenne scalone in fondo all’atrio. A un tratto si trovò di fronte le ringhiere
ricurve, le loro aste consunte, scheggiate, avvolte nel fumo. Puntando in su
la torcia vide che il fumo si riversava nel vano delle scale dall’alto. Una
massa fitta, sospesa intorno a lei, che dilatava il raggio della torcia in un
baluginio bianco-latte.
Lo scalone era un guscio
arrugginito; l’ultima volta che l’aveva visto gli operai avevano appena
cominciato a denudarlo fino all’armatura di ferro, preliminare
indispensabile per restituirlo al passato splendore, quando svettava verso
l’alto in un’ampia curva di mogano e ferro battuto. «La struttura è ancora in
buono stato», le aveva detto Romen. Lei l’aveva seguito di buon grado,
passando da un appiglio all’altro, e aveva tirato un sospiro di sollievo
quando era arrivata in cima senza cadere. Guardandolo adesso, simile a un
gigantesco viticcio che si arrampicava in mezzo al fumo, si tirò indietro,
asciugandosi gli occhi gonfi. Poi si decise, tenendosi stretta a un’asta della
ringhiera si spinse su per un paio di gradini.
Ferma accanto a un’asta metallica puntò la luce verso l’alto finché non
cadde su un pezzo di metallo arrugginito, che si vedeva sotto una tavola di
legno corroso dai tarli, un paio di gradini piú su. Ecco cosa le aveva detto di
fare Romen, adesso ricordava: non mettere il piede sul legno - tenersi
sempre sulla struttura di ferro. Si protese in avanti e saltò. Il piede scivolò
ma Sonali riuscí a tenersi in equilibrio aggrappandosi alla ringhiera.
Evitando di guardare giú, chiuse gli occhi e trasse un profondo respiro,
lottando per tenersi in equilibrio. Si arrampicò a mo’ di granchio fino
all’appoggio successivo, stringendo la torcia tra i denti, usando mani e
piedi. Salì qualche altro gradino nello stesso modo, seguendo la curva dello
scalone. Dopo alcuni passi si fermò a riprendere fiato e puntò la torcia
avanti. Ormai mancavano pochi metri al pianerottolo in cima allo scalone. Il
rullio sembrava vicinissimo; ne sentiva le vibrazioni riflesse nel metallo,
sotto le mani e i piedi. Quando la sua mano toccò il pianerottolo, si tolse di
bocca la torcia e la piazzò su una sporgenza.
Si tirò su con le braccia e si lasciò ricadere sulle tavole di legno.
Adesso il rullio dei tamburi la circondava, cosí forte e vicino che non
riusciva a capire da dove venisse.
Voltandosi per guardare, il sari urtò la torcia e la fece cadere Rotolò per
qualche centimetro, sfuggendo alla sua mano, e precipitò oltre il bordo del
pianerottolo. La vide precipitare giú dalle scale, il cerchio di luce roteante
nell’atrio finché sbatté sul pavimento e si spense.
Reprimendo un singhiozzo, si mise a sedere. Cominciò a tastare l’assito
intorno a lei, cercando di orientarsi, ruotando su se stessa, battendo con le
mani sulle tavole sbrecciate. Poi si rese conto di non sapere piú da quale
parte era girata, se aveva di fronte lo scalone o il resto: era totalmente
disorientata.
Il petto le doleva. Sapeva che sarebbe caduta in preda al panico se fosse
rimasta ancora lí a terra, muovendosi a tentoni, accecata da sudore e fumo,
assordata dal rumore.
Si alzò in piedi a fatica e vide un incerto bagliore arancione da qualche
parte, piú avanti, in mezzo al vortice di nubi fumose. Si mosse in quella
direzione poi si mise carponi. Non si fidava a camminare sul pavimento
sbrecciato, cominciò dunque a trascinarsi, centimetro dopo centimetro,
verso quel bagliore, chiudendo gli occhi contro il fumo pungente.
Dopo un paio di metri, vide che la luce proveniva da un vano ad arco. A
un tratto capí dove si trovava: di fronte all’ingresso della stanza piú grande
della casa, un immenso salone con le pareti rivestite di legno e specchi che
un tempo serviva per i ricevimenti. Romen aveva insistito per farglielo
vedere - era l’orgoglio della casa, le aveva detto, e lui l’avrebbe restituito
all’antico splendore.
Si spinse piú vicino all’arco e nel luccichio fumoso dinanzi a lei
cominciarono a prendere forma delle figure. Erano sedute a gambe
incrociate sul pavimento, di schiena rispetto a lei. Inizialmente vide un paio
di teste, e poi altre, e altre ancora, finché l’intera stanza le sembrò piena di
gente. Cantavano una qualche nenia e alcuni ritmavano il tempo sui tamburi
mentre altri percuotevano piccoli cembali.
Non era in grado di procedere né c’era modo di tornare indietro; non
sarebbe mai riuscita a ritrovare la strada senza la torcia. Poi si ricordò di
una cosa che le aveva mostrato Romen durante la loro visita: in fondo al
salone dei ricevimenti c’era una piccola balconata, la galleria dei
menestrelli, l’aveva chiamata Romen.
L’aveva condotta lassú, perché vedesse quanto sembrava immensa la
sala dall’alto. Provò a calmarsi, adesso, ripensando a quel giorno, parecchi
mesi prima. Avevano raggiunto la galleria arrampicandosi per una scala
stretta e ripida, simile a una scala a pioli. Sonali si sforzò di star calma per
ricordare dove si trovasse quella scala.
Avanzò carponi per un altro metro e scorse l’accesso ad un piccolo
vestibolo alla sua destra. Muovendosi di traverso, raggiunse la soglia e
sbirciò dentro. Nell’angolo piú lontano vide l’apertura che portava alla
galleria, un luccichio arancione contro l’oscurità vellutata della stanza. A
quanto sembrava, nel vestibolo non c’era nessuno.
Sgusciò sull’angolo e si alzò in piedi. Poi scivolò lungo la parete, un
braccio teso in avanti finché la sua mano incontrò il freddo metallo del
gradino della scala. Fece un passo indietro e guardò l’apertura della
galleria: si trovava proprio sopra la sua testa, adesso. Tutto quello che
riusciva a vedere era lo sfavillare arancione di un fuoco, che si rifletteva
attraverso nuvole di fumo.
Si aggrappò al gradino e salí rapidamente. In cima, il fumo le si addensò
in viso, penetrandole profondamente nei polmoni. Si premette in bocca
l’orlo del sari, nel tentativo di reprimere un colpo di tosse e si affacciò
all’interno.
La stretta galleria da cinemino pulcioso era vuota. Tirò su i piedi e si
lasciò cadere distesa sul pavimento della galleria. Si accorse ora che il fumo
era ancora piú denso che al piano di sotto; intrappolato dal soffitto,
turbinava nella galleria in nubi spesse. Chinando il capo, si premette il sari
sugli occhi inondati di lacrime. Le bruciavano cosí tanto adesso che non
riusciva a tenerli aperti se non per pochi secondi.
Quando il bruciore si fu un po’
attenuato, si sporse e guardò di sotto. Intravide decine di teste, alcune
maschili, alcune femminili, giovani e vecchie, vicinissime l’una all’altra. I
visi erano oscurati dal fumo e dai guizzi delle fiamme, tuttavia riuscí a
individuare un paio di facce nepalesi segnate dalle intemperie che era sicura
di aver già visto, quando Romen l’aveva portata lí. Per il resto sembrava un
assortimento di gente stranamente variopinto: uomini in lungi pieni di
toppe, un gruppo di donne
truccatissime in sari di nylon da quattro soldi, alcuni studenti, numerose
donne di classe media dall’aria per bene - gente che non ci si sarebbe
aspettati di vedere insieme.
Socchiudendo gli occhi per
proteggersi dal fumo, Sonali seguí i loro sguardi puntati sul fuoco che
bruciava in fondo alla stanza: un mucchio di polvere di carbone che
rosseggiava in un braciere ricavato alla bell’e meglio da una ciotola di
cemento scheggiata. Poi trasalí: in mezzo a tutte quelle facce ne riconobbe
una che conosceva. Guardò di nuovo: era uno scheletrico ragazzino in
maglietta. Sonali si sentí mancare: era il ragazzo che negli ultimi mesi
aveva vissuto nella camera della servitú in casa sua, non c’erano dubbi.
Sorrideva, e intanto diceva qualcosa alla persona accanto a lui.
Davanti c’era un piccolo spazio sgombro e di tanto in tanto il ragazzo e
gli altri intorno a lui si chinavano a toccare qualcosa. Sonali non riusciva a
vedere cosa fosse: quell’ammasso di teste le impediva la vista. La folla si
accalcava intorno a quella cosa; sembrava che ogni persona nella stanza
guardasse da quella parte.
Sonali chiuse gli occhi irritati e appoggiò la testa sul pavimento. Il sari
era fradicio e riusciva a muoversi a fatica. Sembrava che il pavimento
ruotasse sotto di lei: era sul punto di svenire, lo sapeva.
Poi ci fu agitazione nella folla e Sonali si costrinse a guardare di nuovo.
Dalle ombre era emersa una figura. Era una donna, ed era vestita molto
semplicemente - un sari inamidato, con una sciarpa bianca intorno ai
capelli. Era piccola di statura e matronale e a Sonali sembrava di mezz’età.
Aveva un’aria assai familiare; Sonali era sicura di averla conosciuta, anche
se non la vedeva da molti anni.
Portava a tracolla una borsa di tela, un’ordinaria jhola di cotone, di
quelle che portano tutti gli studenti dei college. Con la mano sinistra
reggeva una gabbia di bambú.
Sedette accanto al fuoco, con la borsa e la gabbia vicine. Poi frugò
dentro la borsa con movimenti rapidi e sicuri e tirò fuori due scalpelli e un
paio di piatti di vetro.
Dispose scalpelli e piatti di fronte a sé, su un pezzo di stoffa bianca, e
frugò di nuovo nella borsa. Tirò fuori una figurina di gesso e se la portò alla
fronte, prima di sistemarla accanto a sé. Infine si chinò, pose le mani sopra
quel qualcosa che giaceva davanti al fuoco e sorrise - sul suo viso si dipinse
un’espressione di straordinaria dolcezza.
A voce piú alta, la donna disse alla folla, in un arcaico bengali
campagnolo: «L’ora è venuta, pregate perché tutto vada bene per il nostro
Laakhan, ancora una volta».
All’improvviso Sonali fu presa da uno spaventoso presentimento.
Alzando la testa piú su che poteva guardò di nuovo lo spazio sgombro
davanti al fuoco. Intravide un corpo, disteso sul pavimento.
I tamburi rullarono in crescendo: ci fu un lampeggiante guizzo metallico
e una collana di sangue si sollevò e cadde sfrigolando sul fuoco.
La testa di Sonali crollò sul pavimento e tutto si oscurò.
Parte seconda:
Il giorno dopo.
Capitolo ventiquattresimo.
Erano le sette e un quarto del mattino e Urmila era allo stremo dello
forze. Macinava spezie in cucina, con il sudore del viso che le gocciolava
sul sari chiazzato d’unto. Era in piedi da piú di un’ora: aveva preparato la
colazione per i genitori, pulito la cucina, nutrito e fatto il bagno a nipotino e
nipotina; lavato la divisa del fratello minore per la partita di calcio del
pomeriggio. Se voleva arrivare in tempo alla conferenza stampa al Great
Eastern Hotel, doveva essere fuori per le otto. Ma restava quella noiosa
faccenda del pesce, e non c’era ombra di pescivendoli.
Guardò fuori dalla finestra della cucina, calcolando quanto tempo
avrebbe impiegato ad andare e tornare dal Gariahat Bazaar. Sapeva di
essere nei guai, a meno di un impossibile miracolo: ci voleva almeno
mezz’ora solo per andare al mercato, poi bisognava scegliere il pesce, tirare
sul prezzo e tutto il resto - niente da fare.
L’appartamento era al terzo piano, chiuso su ogni lato da altri edifici a
piú piani. La cucina era l’unica stanza con finestra, a parte il balcone.
Imponeva allo sguardo un angolo di città: Urmila vedeva la parte sud di
Calcutta, un profilo miserabile che dal parco sottostante si estendeva
longitudinalmente a perdita d’occhio - un panorama di tetti anneriti dalla
muffa che andava sfocandosi nell’opaca luminescenza di un basso cielo
monsonico.
Di sotto, nel parco, era già iniziata la solita mezza dozzina di incontri di
cricket. Urmila udiva i tonfi sordi del legno sul cuoio e le urla
d’incoraggiamento di alcune voci assonnate. In un altro angolo del parco,
mezza dozzina di uomini si davano da fare con mazze e pesi sotto il tetto di
lamiera di una palestra di body-building. Piú oltre, Rashbehari Avenue si
predisponeva eccitata all’ora di punta. Ma i viali laterali erano ancora
relativamente sgombri, salvo alcuni clienti del Gariahat Bazaar che
tornavano affrettandosi lungo la scorciatoia, con ciuffi di verdure che
sbucavano dalle sporte di plastica.
La scorciatoia per il Gariahat Bazaar deviava dal viale a qualche
centinaio di metri da lí. Si trattava di una stradina lunga e stretta la cui
principale caratteristica era una vecchia dimora sconnessa, con un vialetto
coperto di ghiaia, un porticato e un giardino ben tenuto.
Dalla cucina la si vedeva benissimo: a Urmila capitava spesso di
osservarla mentre trafficava in cucina. Era l’abitazione di Romen Haldar.
Proprio in quell’istante suonò il campanello.
«Suonano, Urmi, - gridò sua madre dalla stanza da letto. - Non senti?»
Suo padre era seduto sul balcone col giornale, immerso nella lettura
delle colonne di «Annunci», passatempo mattutino prediletto. Li leggeva ad
alta voce uno ad uno, sputando i nomi come lische di pesce ripulite con
cura. Si appoggiò il giornale sulle ginocchia e alzò gli occhi. «Chi c’è?
- gridò. - Qualcuno vada a vedere».
Un attimo dopo la voce di sua cognata la raggiunse fluttuando dalla
stanza da letto: stava allattando il bambino e non poteva alzarsi. Il fratello
maggiore era già uscito per prendere un treno del mattino. Il fratello minore
era in bagno, cantava schioccando le dita, Disco Diwana.
Poi di nuovo sua madre, con la sua voce piú dolce e carezzevole: «Va’ a
dare un’occhiata, Urmi, non ci andrà nessuno se tu…»
Sono occupata, avrebbe voluto gridare. Non vedi? Sono occupata qui,
sto cercando di preparare tutto prima di andare a lavorare…
Il campanello suonò di nuovo. Il nipotino di sei anni corse in cucina e
cominciò a tirarla per il sari. «Apri la porta, Urmi-pishi, - canterellò il
ragazzino. -
Urmi-pishi-kirmi-pishi, apri la porta, apri la porta…»
Sbatté il pesante pestello sulla superficie butterata del mortaio, ora tutta
colorata di curcuma e peperoncino, e scavalcò il nipote, che stava lungo
disteso sul pavimento. Il bambino le si aggrappò all’orlo del sari. Urmila lo
trascinò per un paio di metri poi lo costrinse ad allentare la presa con un
colpetto sul pugno chiuso.
Lui scoppiò a piangere e si precipitò nella stanza dei genitori, urlando:
«Mi ha picchiato, mi ha picchiato, kirmi-pishi mi ha picchiato…»
Mentre toglieva il lucchetto alla porta, Urmila sentí lo strillo di sua
cognata: «Come ti permetti di picchiare mio figlio?»
Spalancò la porta. Fuori c’era un giovanotto, in piedi accanto a un
grosso cesto coperto. Non l’aveva mai visto, sembrava molto giovane per
essere un venditore ambulante.
Indossava un lungi e una maglietta lisa.
«Brutta sfacciata, - la voce raggiunse Urmila sulla porta. - Credi che
non sappia cosa combini? Torni a casa tardi tutte le sere! Te la faccio vedere
io, come ti permetti di picchiare il mio bambino…»
Urmila uscí sul pianerottolo sbattendosi rumorosamente la porta alle
spalle. L’imbarazzo scavò un’incrinatura nella sua voce: «Cosa c’è? Cosa
vuoi?»
Il giovanotto le rivolse un sorrisetto allegro, mettendo in mostra un
ampio buco al posto degli incisivi.
Urmila provò un improvviso moto di vergogna, mortificata al pensiero
di aver permesso a sua cognata di provocarla davanti a un perfetto estraneo.
Si passò sbadatamente il dorso di una mano sulla fronte. La polvere di
spezie le disegnò un solco bruciante sul viso e sulla fronte che si
contrassero in una smorfia. Si affrettò a ripulirsi gli occhi con l’orlo del sari.
«Cosa vuoi?» chiese di nuovo, con piú calma.
Adesso il giovanotto si era accovacciato accanto al cesto. Con un altro
sorriso scostò uno strato di carta e plastica rivelando un mucchio di pesci,
che luccicavano argentei nella luce del primo mattino.
«Sono solo venuto a chiedere se per caso hai bisogno di un pesce
stamattina, didi, - disse con un sorrisetto. - Nient’altro».
Capitolo venticinquesimo.
«Non ti ho mai visto da queste parti», disse Urmila, inginocchiandosi
accanto al cesto. Prese ad esaminare il pesce scostandone all’indietro le
branchie - forza dell’abitudine, quel giorno non gliene importava proprio
niente di cosa comprava e quanto pagava.
Il giovane pescivendolo le sorrise, scuotendo la testa. «D’ora in poi
passerò regolarmente, - disse. -
Comprane uno e vedrai, il mio pesce è il migliore del mercato, appena
tolto dall’acqua».
«Lo dicono tutti i pescivendoli, -
disse Urmila. - Non significa nulla».
«Se non mi credi, - disse il giovane risentito, - chiedi in giro. Servo tutte
le case migliori. Conosci la casa di Romen Haldar, qui vicino?»
Urmila lo guardò, alzando un sopracciglio.
«Lascia che te lo dica, - disse lui orgoglioso. - Comprano il pesce solo
da me. Solo da me: va’ a chiederglielo se vuoi».
Chinandosi sul cesto spostò un paio di pesci. «Lascia che ti faccia
vedere una cosa, - disse. - Vedi questo qui, questo grosso ilish? Lo tengo da
parte per loro. è là che sto andando.
Ho promesso che stamattina avrei portato qualcosa di speciale».
«Lo prendo io», disse Urmila.
Il pescivendolo scosse il capo. «No,
- disse con una risatina. - Questo non posso dartelo, è per loro. Ma te ne
darò un altro, guarda qui, è altrettanto buono».
Urmila guardò il pesce di sfuggita.
«D’accordo, lo prendo». Gli disse di tagliarlo a pezzi e andò a prendere
il borsellino. Al suo ritorno trovò un pacco pronto per lei: il pescivendolo
aveva avvolto il pesce nella carta e l’aveva infilato in un sacchetto di
plastica.
Vedendo il pacco Urmila schioccò la lingua infastidita. «Potevi fare a
meno di incartarlo», disse.
Il pescivendolo si mise a contare i soldi mormorando una scusa. Urmila
tornò in cucina di corsa. Non aveva tempo da perdere, adesso. Rovesciò il
contenuto del pacco in un piatto di plastica, nell’acquaio. I tocchi di pesce
caddero con un tonfo, sparpagliandosi qua e là. Urmila li guardò con
espressione torva: la carta in cui era avvolto il pesce era diventata un
impiastro schifoso. Tastò cautamente un pezzo di pesce e un brandello di
carta le rimase incollato sulla punta di un dito. Stentò a liberarsene, si era
dissolto in un grumo appiccicoso.
Arricciando il naso disgustata, sbirciò fuori dalla finestra.
Rashbehari Avenue era intasata di autobus e minibus che
sputacchiavano dense nubi di fumo. Ormai non le restava che mezz’ora, se
voleva arrivare al Great Eastern Hotel in tempo per la conferenza stampa. Si
mise a sfregare furiosamente il pesce.
Dopo qualche istante si rese conto che stava solo peggiorando le cose, la
carta infatti non faceva che penetrare piú profondamente tra le squame.
Lasciò perdere, ormai in preda all’ira, e cercò di staccarsi dalle dita i
pezzetti di carta. Era sottile carta da fotocopie, di qualità scadente: quel
genere di carta che si ammucchia nelle copisterie di Calcutta.
Ecco dove va a finire, borbottò Urmila tra sé.
Riguardando nel sacchetto di plastica vide che era ancora pieno di carta.
Ce n’era qualche pezzo asciutto, non ancora impregnato di sangue.
Rovesciò la carta sul tavolo e col dorso della mano distese un foglio.
Era una fotocopia formato standard di una pagina di giornale inglese
stampata fitta fitta. I caratteri erano insoliti, antiquati: capí al volo che
quella pagina non poteva appartenere a nessuno dei giornali in lingua
inglese che si stampavano a Calcutta. Fece un po’ di spazio su un ripiano e
la distese ben bene.
I caratteri erano cosí fitti che stentava a leggere. Accese la luce e guardò
meglio, correndo istintivamente con gli occhi alla testata del giornale.
Diceva: «The Colonial Services Gazette», in magnifici caratteri gotici.
Accanto c’era una data: «Calcutta, 12 gennaio 1898».
La pagina era divisa in otto colonne, con decine dei soliti annunci, uno
sotto l’altro: «Il signor Attwater è stato trasferito ad Almora in qualità di
funzionario aggiunto, Ufficio delle imposte», «Il tal dei tali sta per lasciare
il suo posto alla Capitaneria di porto di Calcutta, per assumere l’incarico di
vicecomandante del porto a Singapore», e cosí via. Urmila scorse
rapidamente la pagina. Non riusciva a capire chi potesse prendersi la briga
di fotocopiare una cosa del genere, una vecchia rassegna di comunicazioni
burocratiche. Stava per buttarlo nella pattumiera quando notò che uno degli
annunci era stato sottolineato a penna.
Lesse: «Approvato il congedo del colonnello medico D’D’
Cunningham, Presidency General Hospital, Calcutta, 10-15 gennaio…»
Urmila sbirciò la sveglia sul tavolo da pranzo. Non aveva davvero
tempo da perdere; se non preparava il pesce nel giro di dieci minuti avrebbe
fatto tardi.
Avrebbe dovuto mettersi a cucinare, lo sapeva benissimo. Invece si
ritrovò a frugare nel sacchetto di plastica estraendone altri due fogli di carta.
La pagina successiva la sorprese ancora piú della prima. Era la
fotocopia di un elenco di nomi sotto un logo elaborato e inconsueto.
Mettendo il logo controluce, vide che diceva: «Ferrovie sud-
occidentali».
Sotto, scritte a mano, le parole «10
gennaio 1898. Lista dei passeggeri, scompartimento n’ 8». Seguiva una
lista di nomi. Urmila diede una rapida scorsa, sembravano nomi inglesi. Ne
lesse un paio ad alta voce, sillabandoli lentamente: Maggiore Evelyn
Urquhart, Signor D’ Craven, Sir Andrew Acton, Companion of the order of
the Indian Empire… Poi notò che un nome in fondo alla lista era
sottolineato: «Signor C’C’ Dunn».
Strano, rifletté. L’altro nome era D’D’ qualcosa.
Non si preoccupò di controllare. Lo mise da parte e distese l’ultimo
foglio.
Era la copia di un’altra pagina di
«The Colonial Services Gazette». Data: 30 gennaio 1898. Un’altra
lunga lista di trasferimenti, congedi approvati, incarichi assunti. Anche qui
c’era un annuncio sottolineato. Diceva: «Si informa la clientela che il
colonnello medico D’D’ Cunningham è attualmente in congedo in attesa di
pensione. Sarà sostituito dal maggiore medico Ronald Ross dell’Indian
Medical Service».
«Non hai ancora cominciato a cucinare, Urmi? - gridò sua madre dalla
stanza da letto. - Si sta facendo tardi».
Urmila si mise all’opera. Era furiosa con se stessa per aver perso tanto
tempo a guardare fotocopie usate. Tolse di mezzo i fogli e si precipitò
all’acquaio.
Il pesce avvolto nella carta era ormai ridotto a un ammasso puzzolente e
vischioso. Si trattenne a stento dal vomitare dentro l’acquaio.
Capitolo ventiseiesimo.
Urmila fu presa da un improvviso fremito d’indignazione. Sapeva di
essere sul punto di esplodere, come le capitava di tanto in tanto quando era
impegnata con le sue inchieste. Era talmente arrabbiata che smise di
preoccuparsi del tempo - della conferenza stampa al Great Eastern Hotel,
del caporedattore, persino del ministro delle Comunicazioni in arrivo da
Delhi. Ficcò di nuovo i tocchi di pesce dentro il sacchetto di plastica e si
diresse con decisione verso la porta. Uscendo, afferrò i fogli di carta e ne
fece una pallottola che tenne in pugno.
Sua madre, venuta a vedere cosa stesse succedendo, rimase con tanto di
naso vedendola uscire di casa col sari macchiato d’unto, stringendo una
palla di carta e un sacchetto di pesce.
«Dove vai, Urmi?» strillò.
«Vado a restituire questo pesce, -
si sfogò finalmente Urmila. - Non possiamo mangiarlo, ci
avvelenerebbe.
Guarda in che carta schifosa l’ha avvolto quell’uomo. Lo costringerò a
riprenderselo, ho pagato piú di cento rupie per questo pesce. Non sono
disposta a farmi prendere in giro».
La porta d’ingresso si apriva su una stretta veranda che disimpegnava
altri tre appartamenti. Urmila non dubitava che il pescivendolo fosse lí
fuori, che bussava alla porta degli altri appartamenti. Invece la veranda era
deserta: Urmila guardò a destra e poi a sinistra. Nessuna traccia del ragazzo.
Dopo un attimo di indecisione, Urmila premette il campanello del
vicino. Passarono parecchi minuti, poi la porta si aprí e un uomo di
mezz’età in pyjama e camicia di cotone si affacciò sospettoso. «Sí? - disse.
-
Cosa vuoi?»
Urmila non trovò subito le parole: c’era una lunga storia di litigi e beghe
tra quella famiglia e la sua.
Con un sorrisetto forzato, disse: «Ha suonato un pescivendolo,
stamattina?
Un giovanotto con una maglietta e un lungi a quadretti?»
L’uomo la fissò con aria sardonica, spostando gli occhi dal sacchetto di
plastica pieno di pesce al sari spiegazzato e sporco.
Urmila tenne duro. «L’ha visto?»
chiese di nuovo.
«No, - rispose l’uomo. - Dormivamo ancora quando hai suonato il
campanello».
«Cosa? - disse Urmila. - Il pescivendolo non è passato di qui? Col
cesto…»
«Ce le hai le orecchie? - sbottò l’uomo. - Ti ho appena detto che
dormivamo della grossa». Le sbatté la porta in faccia.
Urmila corse all’ultimo piano, il quarto. I piani dell’edificio erano tutti
uguali, ciascuno con quattro appartamenti identici, allineati uno dopo l’altro
lungo una veranda. Nessun segno del pescivendolo neppure al quarto piano.
Fece dietro front e corse giú, fermandosi a ogni piano a controllare le
verande, su e giú in tutta la loro lunghezza. Sembrava che non ci fosse
traccia dell’uomo in tutto l’edificio. Controllò due volte la veranda del
pianterreno, infine corse al chiosco di paan, sul marciapiede accanto
all’ingresso del palazzo.
Il proprietario pregava, seduto sul banco a gambe incrociate, prima di
iniziare il lavoro giornaliero. Urmila dovette aspettare che aprisse un
occhio. «Cosa ti succede? - disse lui stupito fissando i suoi capelli
scompigliati e il sari da notte spiegazzato. - Perché sei uscita di casa in
questo stato?»
Gli chiese notizie del pescivendolo, ma quello scosse la testa: «No, non
ho visto nessuno; come vedi sono appena arrivato».
Urmila girò sui tacchi e s’incamminò decisa lungo la strada».
«Dove vai?» le urlò dietro il paan
—wallah.
«Non ho intenzione di farmi derubare alla luce del sole, - disse Urmila. -
Lo troverò e avrò indietro i miei soldi».
Il paan-wallah fece una risata di scherno. «è inutile, - disse. -
Questi ambulanti sono troppo furbi per quelle come te».
«Staremo a vedere», gli gridò Urmila di rimando.
Rashbehari era intasata dalla consueta folla mattutina di pedoni, alcuni
si dirigevano frettolosamente verso Lansdowne, altri verso Gariahat.
La gente si voltava a guardare Urmila che marciava muovendo avanti e
indietro i pugni serrati. Alcuni fannulloni in piedi accanto alla cancellata o
accovacciati sull’orlo della strada l’apostrofarono con battute pesanti.
Urmila passò oltre, dimentica del proprio sari unto e della sudicia borsa di
pesce.
Svoltò in una stradina, una traversa di Rashbehari, e quasi senza
rendersene conto si ritrovò davanti a un alto cancello in ferro battuto. Un
corpulento chowkidar in uniforme kaki montava la guardia al cancello.
Esattamente sopra la sua testa, su un’elegante targa di marmo incassata
nella parete, era scritto «Romen Haldar» in elaborati caratteri corsivi
bengali.
Il chowkidar la squadrò sospettoso.
«Cosa ci fai qui?» le disse sbarrandole il passo e picchiettandosi
nervosamente la coscia col bastone.
Urmila lo spinse di lato,
rallentando appena. «I miei affari non ti riguardano, - disse. - Resta
dove sei e fatti gli affari tuoi».
Proseguí decisa lungo il viale fino al porticato davanti alla casa. Il
chowkidar la inseguí agitando il bastone e urlando: «Ferma! Non puoi
entrare».
«Dimmi una cosa, - gli gridò Urmila di rimando, senza neppure voltarsi.
-
è venuto il pescivendolo stamattina?»
«Quale pescivendolo? - disse il chowkidar. - Qui non viene nessun
pescivendolo. Sai di chi è questa casa?»
«Sí», disse Urmila.
Con uno scatto improvviso, il chowkidar la superò cercando di
bloccarla. Ma Urmila era abituata a farsi strada oltre portieri e segretarie,
non era un problema per lei. Gli girò intorno, per niente impressionata. Lui
la seguí, brontolando imprecazioni.
Le urla del chowkidar provocarono un certo trambusto dentro la casa.
Nel vano della porta comparve un uomo anziano, penna in mano, con
indosso kurta e dhoti bianchi inamidati.
«Cosa diavolo succede?» chiese, scrutando il cancello con aria
infastidita.
Scorgendo Urmila aggrottò la fronte.
«Sí?» la guardava con aria sprezzante.
«Cosa vuole? Niente appuntamenti oggi, tutti gli appuntamenti sono
stati cancellati».
Urmila lo ignorò. «Voglio vedere il signor Romen Haldar», disse.
Il segretario la fissò in cagnesco, al di sopra delle lenti. «Cosa vuole dal
signor Haldar?» le chiese.
«Voglio chiedergli di un certo pescivendolo che è venuto a casa mia
stamattina», disse Urmila con aria di sfida.
Il segretario impallidí.
«Pescivendolo? - disse. - Quale pescivendolo?»
«Un ragazzo», disse Urmila. Cercò di descriverlo, ma tutto quello che
riusciva a ricordare di lui era una maglietta stinta e un largo sorriso
sdentato. «Mi ha detto che vi vende il pesce regolarmente, e che era diretto
qui».
Sollevò la borsa del pesce e l’agitò sotto il naso del segretario. «Guardi,
mi ha venduto questa roba poco fa».
Il segretario arretrò di un passo.
«Tenga lontano da me quella schifezza,
- gridò, ritraendo il braccio nella manica di cotone immacolato. - Che
stupidaggini dice? In questa casa non si vedono pescivendoli da anni».
«Mi ha detto che vende il pesce al signor Haldar».
«Mentiva», disse il segretario.
Urmila lo fissò, le girava la testa.
«Ma quell’uomo ha detto…»
Spazientito, il segretario le disse:
«Adesso basta, si tolga dai piedi».
La voce di Urmila si indurí. «Niente affatto. Non intendo andarmene
senza aver parlato col signor Haldar in persona».
«Quand’è cosí», disse il segretario.
Fece segno al chowkidar, in piedi accanto alla porta. «Shyam Bahadur, -
disse. - Accompagna la signora all’uscita».
Urmila puntò un dito contro di lui, guardandolo dritto negli occhi.
«Probabilmente lei non sa chi sono io, - disse con tono calmo, freddo. -
Lasci che la informi: il mio nome è Urmila Roy e sono una giornalista
del
«Calcutta». Forse le conviene riflettere prima di agire».
Sempre piú corrucciato il segretario si lanciò in una minacciosa
discussione. Urmila lo ascoltò senza batter ciglio; negli ultimi due anni
aveva fatto l’abitudine a situazioni come quella. In un certo senso ci
provava perfino gusto.
Aspettò impassibile finché quello ebbe finito. «Adesso vuole per favore
condurmi dal signor Haldar? - disse con voce suadente. - In fretta, per
favore, non ho molto tempo. Devo correre al Great Eastern Hotel, per una
conferenza stampa del ministro delle Comunicazioni».
Il segretario prese a imprecare.
«Allora non vuol capire, - disse, asciugandosi la fronte con la manica
del kurta candido. - Non posso condurla dal signor Haldar perché non so
dove sia. è scomparso. Ha già mancato due appuntamenti, stamattina».
Urmila lo fissava stupefatta. «Ma doveva venire a cena da noi stasera, -
prese a spiegare, assurdamente. -
Perciò cucinavo questo pesce, perciò farò tardi alla conferenza
stampa…»
Agitò nuovamente il sacchetto sotto il naso del segretario.
Il segretario sghignazzò. «Lei dev’essere pazza, oppure sogna.
Stasera il signor Haldar ha prenotato un volo per Bombay, ha un
impegno là.
Non aveva intenzione di far visita né a lei né a nessun altro». Con un
gesto di congedo, si volse al chowkidar.
«Accompagna la all’uscita, - disse. -
Non intendo perdere altro tempo con simili sciocchezze».
Urmila si lasciò condurre fuori dalla stanza, ma appena furono sotto il
portico si liberò. «Lei mente, -
gridò, divincolandosi dalla stretta del chowkidar. - Non le credo. Non se
la caverà cosí - gliela farò vedere…»
La mano robusta del chowkidar l’afferrò per un braccio. Nel tentativo di
liberarsi da quella stretta, Urmila inciampò.
All’improvviso si vide venire incontro la ghiaia del sentiero.
Capitolo ventisettesimo.
Quando riaprí gli occhi Urmila giaceva all’ombra del porticato
antistante la dimora di Romen Haldar.
Aveva la vista annebbiata e le doleva la testa. China su di lei c’era una
larga sagoma indistinta, alle spalle della quale una dozzina di visi dai
contorni confusi la fissavano preoccupati. Una voce le urlava all’orecchio;
non capiva cosa le stesse dicendo; aveva un curioso accento. Qualcuno le
faceva aria con un giornale, qualcun altro le offriva un bicchiere d’acqua.
Un po’ piú in là, il chowkidar gesticolava discutendo animatamente con
qualcuno che non riusciva a vedere.
A poco a poco la vista le si schiarí e nella larga nebulosa davanti a lei
riuscí a distinguere una faccia, la faccia di un uomo, un uomo con una
barbetta ben curata. Con qualcosa di stranamente familiare.
«Miss «Calcutta»! - la scuoteva per una spalla. - Su, si svegli. Dove li
ha trovati? Ho bisogno di saperlo».
«Trovato cosa?» le agitava qualcosa davanti agli occhi, ma Urmila non
capiva cosa fosse.
«Questi, - si spazientí lui. -
Questa roba che ha portato con sé, queste carte».
Allontanando il braccio dell’uomo, Urmila si mise a sedere. «Chi
diavolo è lei? Perché mi grida all’orecchio in questo modo?»
La guardò perplesso. «Non si ricorda di me? - disse. - Ci siamo
conosciuti l’altro giorno, all’auditorium».
«Conosciuti? Come sarebbe a dire? -
disse. - Se non so neppure il suo nome, chi è o cosa fa, niente di niente».
«Sono L’ Murugan, - disse. - Lavoro per Life Watch». Estrasse il
portafoglio e le porse un biglietto da visita. «Io la conosco. Non ricordo
esattamente il suo nome, ma so che lavora per la rivista «Calcutta»».
«è piú che sufficiente, - disse Urmila. - Adesso abbia la cortesia di
spiegarmi cosa ci fa qui».
«Io? - disse Murugan. - Volevo chiedere a Romen Haldar il permesso di
visitare la sua proprietà in Robinson Street, cosí ero venuto a
presentarmi».
«E perché urlava a quel modo?»
«Ho bisogno di sapere dove ha trovato questi». Le mostrò i brandelli
stropicciati di carta da fotocopie che aveva trovato nel sacchetto del pesce.
«Me lo può dire?»
«Come si permette?» questa volta fu Urmila a urlare, strappandoglieli di
mano. «Sono miei, appartengono a me».
«Non sono suoi, - disse lui, cercando di afferrarli. - Non hanno niente a
che fare con lei».
«Sono miei e intendo tenermeli», disse Urmila. Strinse i fogli facendone
una pallottolina ben pigiata e se l’infilò nel corpetto.
Murugan digrignò i denti. «Stia a sentire, - disse. - Ha trovato qualcosa
che potrebbe essere la chiave di uno dei misteri del secolo, e si accontenta
di ingaggiare una battaglia per la custodia?»
Urmila si rialzò lentamente. «Perché ci tiene tanto? - disse. - In fondo
sono solo dei pezzi di carta straccia».
«Okay, - disse Murugan. - Facciamo cosí. Le risparmierò il fastidio di
buttarli nel cesso. Li dia a me».
«Non c’è nessun bisogno di
agitarsi», disse lei freddamente. Si alzò in piedi, e rivolse un’occhiata
indagatoria ai visi che la
circondavano. «Dov’è il mio pesce?»
chiese, a nessuno in particolare.
Qualcuno le restituí il sacchetto puzzolente. Tenendolo saldamente in
pugno si avviò lungo il sentiero, verso il cancello.
Murugan la inseguí. «Aspetti, -
disse, cercando di controllarsi. - Mi dica cosa vuole, soldi, o che altro?»
Urmila gli rivolse uno sguardo sprezzante e tirò dritto.
«Allora cosa?» disse Murugan.
«Voglio sapere cosa c’è in quelle carte».
Murugan riuscí ad afferrarle un gomito. «Mi stia a sentire, - disse con la
voce piú pacata che riuscí a tirar fuori. - Non mi ha neppure detto il suo
nome. Tutto quello che so di lei è che lavora al «Calcutta»».
«Il mio nome non la riguarda, -
rispose lei, scrollandosi di dosso la sua mano. - E sia cosí gentile da non
toccarmi».
«Oh, dunque è cosí? - disse Murugan alzando la voce. - Allora come
devo chiamarla, dal momento che non mi è concesso l’onore di una
presentazione?
Miss «Calcutta»? o semplicemente Calcutta, ma non crede che sarebbe
troppo intimo? troppo affettuoso? suo marito potrebbe sospettare qualche
carezzina, qualche gemente toccatina, qualche indebita scopatina…»
«Non sono sposata», disse Urmila freddamente.
«Di bene in meglio, sei fantastica Calcutta! Conterò ogni istante che
separa i sospiri dalle carezze, ma prima di abbandonarci ai gemiti lascia che
ti dica una cosa, Calcutta, lasciami introdurre un piccolo fattoide nel tuo
database, lascia che ti spieghi come funziona questa faccenda: lasciami
mettere le tue priorità un po’ piú in linea col mondo reale. Non sei tu che fai
le domande a me: capisci quello che intendo dire?
è il dottor Morgan che stabilisce cosa meriti di sapere e quando».
Urmila socchiuse gli occhi. «Dunque è cosí?» disse.
«Vuoi una spiegazione, - disse lui.
- L’avrai. Ma sarò io a decidere come e dove».
Corse sulla strada e fermò un taxi.
«P’G’ Hospital, - disse all’autista sikh. - Presto».
Capitolo ventottesimo.
Antar fu scosso da un brivido: adesso si sentiva decisamente male.
Doveva trovare il modo di far sapere a Tara che non era in grado di
cenare con lei.
Per fortuna da qualche settimana Tara portava con sé un teledrin.
Cambiando schermata, digitò poche parole: «Mi dispiace ma devo
annullare la cena; ti spiegherò piú tardi».
Compose il numero e trasmise il messaggio.
Il teledrin era arrivato insieme al nuovo lavoro che Tara aveva trovato
da qualche settimana. La donna che l’aveva assunta era un’agente di borsa
che spesso la sera era impegnata fino a tardi e voleva tenersi costantemente
in contatto col figlioletto di quattro anni, perciò aveva insistito perché Tara
avesse un teledrin.
Era un posto assai migliore di quello che Tara aveva perso; la paga era
buona e, quel che piú contava, il ragazzino aveva un carattere docile e la
madre era relativamente poco esigente. Tara non perdeva occasione per
ringraziare Antar.
Per la verità Antar, se pure l’aveva aiutata, lo aveva fatto in modo
piuttosto indiretto. Una mattina, circa un mese prima, l’aveva vista
bighellonare in casa a un’ora in cui di solito era al lavoro. L’aveva chiamata
dalla finestra di cucina:
«Cosa ti succede? Non vai a lavorare?»
Tara si era affacciata al
cortiletto, rivolgendogli un sorriso smarrito. I suo capelli sottili erano
raccolti in una crocchia disordinata e sembrava che non si fosse preoccupata
di vestirsi dopo essersi alzata.
«Ci andrei, se potessi, - disse. -
Ma non ce l’ho piú, quel lavoro».
«Cos’è successo?»
«Be’, la giustificazione ufficiale è che ho avuto difficoltà a ottenere il
permesso di partire, ma la verità è che hanno bisogno di qualcuno in regola
coi documenti per ottenere una detrazione fiscale». Si strinse nelle spalle
facendo una smorfia.
«Oh, - disse Antar. - Che peccato!»
Gli ci volle un momento per digerire la notizia.
«Non hai ancora trovato niente altro? - disse. - Credevo che le baby-
sitter venissero assunte al volo appena restano libere».
Tara scosse la testa con aria rassegnata. «Le migliori offerte di lavoro si
trovano in Rete, - disse. -
E io non sono in grado di pagarmi un abbonamento. Pensa che
assurdità, non posso permettermi un computer e anche se potessi non avrei
modo di usarlo».
«In Rete? - Antar era stupefatto. -
Richieste di baby-sitter? Stai scherzando?»
«Magari! - disse Tara. - Purtroppo è vero. Ho guardato sull’«Irish Eco»
e su «India Abroad», niente di niente».
Gli rivolse un sorriso mesto: «Devo lasciarti, o il mio tè si raffredderà.
E con questi chiari di luna non credo sia il caso di sprecare una bustina
di tè». Si rifugiò in casa.
Durante la giornata quella
conversazione si riaffacciò piú volte alla mente di Antar, seduto davanti
allo schermo di Ava: la precarietà di Tara lo preoccupava in maniera del
tutto incomprensibile. La mattina dopo andò avanti e indietro dalla cucina
ogni cinque minuti finché la vide gironzolare per casa.
Sporgendosi al di sopra del lavello, le gridò, «Sta’ a sentire, mi è venuta
un’idea».
Lei gli rivolse un sorrisetto pallido. «Sí?» Era evidente che era rimasta
sveglia a tormentarsi fino a tardi.
«Ho un vecchio computer portatile nell’armadio, - disse Antar. - Potrei
collegarlo con Ava e far correre un cavo fino a casa tua. Avresti tutto il
tempo che ti serve sulla Rete. L’ho migliorato un paio di volte e può reggere
il software. L’Iwc mi garantisce venti ore gratis alla settimana, e il piú delle
volte non le utilizzo. Credo di essere in credito di almeno mille ore. Te le
regalo».
Il viso delicato, minuto della ragazza si illuminò. «Davvero? -
disse. - Lo faresti davvero?»
Esitava, come se non potesse credere a tanta fortuna: «Sei sicuro di
poterlo fare? Non voglio crearti problemi per nessun motivo».
Con aria noncurante Antar disse:
«Ovviamente è del tutto irregolare.
All’Iwc hanno la paranoia della sicurezza. Ma credo di poter sistemare
la cosa. Se stai attenta e non fai stupidaggini né tu né io correremo alcun
rischio».
«Starò attentissima, - si affrettò a dire Tara. - Hai la mia parola: non farò
niente che possa metterti nei pasticci».
Piú tardi, quel giorno stesso, Antar sistemò il collegamento.
Provò una fitta al cuore quando consegnò a Tara il suo vecchio portatile:
era un modello coreano dei primi anni Novanta, lucido e nero, con
magnifici bordi arrotondati. Gli era sempre piaciuto sentirne tra le mani
volume e peso, il silenzioso clic clic dei tasti, le antiquate finiture cromate.
Si offrí di darle qualche lezione, ma lei rifiutò. «Ti sei già dato tanto
disturbo, - disse. - Non voglio approfittare troppo di te. Mi insegnerà
Lucky: si intende un po’ di queste cose».
«Lucky?» Era il nome del giovanotto dell’edicola di Penn Station. Antar
cercò di immaginarselo, seduto davanti al portatile, col suo sorrisetto fisso e
quei denti bizzarramente
distanziati, impegnato a condurre Tara in giro per la Rete. Aveva
qualche dubbio, ma lo tenne per sé.
In realtà Lucky si rivelò un buon maestro, perché Tara imparò presto a
muoversi in Rete. I primi giorni Antar la sorvegliò da vicino. Poi si stancò
di seguirla lungo le pagine di annunci per custodia bambini e la lasciò sola.
Nel giro di pochi giorni aveva trovato un nuovo lavoro e da quel
momento gli era stata immensamente riconoscente. «Non sono in grado di
invitarti fuori, - gli aveva detto. -
Ma il meno che posso fare è accertarmi che tu mangi come si deve di
tanto in tanto».
Capitolo ventinovesimo.
In Lower Circular Road, a metà strada verso il P’G’ Hospital, Urmila
leggeva e rileggeva la lucida scritta gialla sulla fiancata di un affollatissimo
minibus, a ridosso del suo finestrino, mentre il taxi indugiava in mezzo al
traffico, bloccato nel consueto ingorgo mattutino di automobili e bus.
Esitando, alzò gli occhi verso i finestrini del minibus: ebbe
l’impressione che dieci paia d’occhi la fissassero di rimando. Distolse
prontamente lo sguardo.
Se fosse stata diretta al lavoro, si sarebbe probabilmente trovata su
quell’autobus. Dovevano esserci tutti, i passeggeri abituali: il vecchio in
dhoti che lavorava alla Ragioneria di Stato e stava sempre scrivendo un
libro su questo e su quello; l’impiegato delle ferrovie che ogni mattina
portava allo Strand un enorme contenitore pieno di cibo; la donna di All
India Radio, che aveva cercato di convincerla a unirsi al «Bbd Bagh
Minibus Passengers Club».
Urmila rabbrividí sul sedile. I pezzi di carta stropicciati le procuravano
uno sgradevole prurito nel delicato avvallamento tra i seni.
Avrebbe voluto tirarli fuori, ma era impossibile, con quel minibus
appiccicato al finestrino.
E se l’avessero vista, i «Bbd Bagh Minibus Passengers Club»? Se
avessero saputo che stava andando al P’G’
Hospital con un perfetto sconosciuto?
Che idea si sarebbero fatti?
Si sentí improvvisamente furiosa.
«Cosa c’entra il P’G’ Hospital con i miei pezzi di carta? - disse
rivolgendosi a Murugan. - Perché mi stai portando là? Cosa intendi fare?»
«Volevi una spiegazione, Calcutta? -
disse Murugan. - Era questo il patto.
E l’avrai, ma comincerò a dartela dove voglio io».
«E intendi cominciare al P’G’
Hospital?»
«Esatto. Ecco perché ti ci porto».
Urmila si accorse che il conducente li stava osservando nello
specchietto retrovisore. Si sporse in avanti e gli agitò il sacchetto del pesce
sotto il naso. «Cos’hai da guardare, testa di cavolo? - sbottò. - Tieni
d’occhio la strada, piuttosto».
A quel rimprovero, il conducente abbassò gli occhi.
«Wow! - disse Murugan. - Cos’è tutto questo chiasso?»
«Quanto a te, - gridò Urmila voltandosi rabbiosamente verso Murugan.
- Si può sapere chi sei, esattamente?» Cominciava a nutrire qualche
sospetto. Le tornarono in mente tutte le storie che aveva sentito su farabutti
stranieri, sequestratori di bambini e giri di prostituzione in Medio Oriente.
«Voglio sapere chi sei e cosa ci fai a Calcutta. Voglio vedere un
passaporto».
«In questo preciso momento non ho con me il passaporto, - disse
Murugan.
- Ma posso darti questo». Estrasse il portafoglio e le porse la tessera di
riconoscimento Life Watch.
Urmila lo osservò attentamente, esaminando i dati e confrontando la
fotografia col suo viso.
Quando arrivarono all’auditorium Rabindra Sadan, Murugan diede un
colpetto sulla spalla dell’autista e gli fece segno di restare su Lower
Circular Road. «Ecco, - gli ordinò. -
Fermati là».
«Qui?» Urmila si ritrovò davanti a un muro di mattoni, al di là di un
piccolo canale. «Perché proprio qui?
Non c’è niente qui, l’ingresso dell’ospedale era laggiú, l’abbiamo
superato».
«L’ingresso non ci serve, - disse Murugan, allungando all’autista una
banconota da cinquanta rupie. - C’è qualcosa che voglio mostrarti proprio
qui».
«Ma qui non c’è niente da vedere, -
disse Urmila sospettosa. - è solo un muro».
«Guarda là», disse Murugan, controllando il resto. Puntò il dito in
direzione del monumento a Ronald Ross. «Gli hai mai dato un’occhiata?»
Urmila spalancò gli occhi per la sorpresa mentre seguiva il dito di
Murugan fino alla targa di marmo sopra un modesto piccolo arco. «No, -
disse.
- Non l’ho mai notata prima». Cominciò a leggere a voce alta: «Nel
piccolo laboratorio sessanta metri a sud-est di questo cancello il maggiore
medico Ronald Ross dell’Indian
Medical Service nel 1898 scoprí in che modo la malaria viene trasmessa
dalle zanzare».
Scosse il capo. «Strano, - disse. -
Ho cambiato autobus in questo punto centinaia di volte. Non sarei
neppure in grado di contare quante volte sono passata di qui, eppure non ho
mai notato quell’iscrizione».
«Nessuno bada piú al povero Ron», disse Murugan. Si diresse a un
cancello poco lontano, facendole cenno di seguirlo. «Vieni. C’è
qualcos’altro che voglio mostrarti».
Dalle colonne del cancello pendeva una catena, larga quanto bastava per
lasciar passare una persona alla volta. Passò per primo Murugan e quando
anche Urmila l’ebbe varcato, le indicò, al di là dell’affollato spiazzo
dell’ospedale, un grazioso edificio di mattoni rossi, molto piú addentro nel
parco.
«Quando Ronald Ross venne a lavorare qui nel 1898, - disse Murugan, -
quell’edificio era tutto quanto esisteva del P’G’ Hospital».
«Come lo sai?» chiese Urmila.
Murugan rise. «Semplice, - disse, -
si dà il caso che tu stia parlando con il maggior esperto vivente di
Ronald Ross».
«E saresti tu?»
«Puoi giurarci». Girò sui tacchi e imboccò un sentiero, in mezzo a un
grande viavai di medici e infermieri in uniforme.
«Guarda là, - disse indicando un complesso di nuovi edifici squadrati,
tutti dipinti nello stesso monotono giallo degli edifici pubblici. - Non c’era
niente di tutto ciò quando Ronnie faceva le sue ricerche sulla malaria a
Calcutta. C’erano solo alberi e bambú e verzura qui intorno -
a parte un paio di laboratori e baracche dove vivevano servi e aiutanti».
Si coprì il naso con un fazzoletto mentre oltrepassavano una sorta di
discarica all’aperto dove corvi, cani e avvoltoi lottavano per brandelli di
cibo e bende macchiate di sangue. Lí accanto, una fila di uomini in piedi
contro un muro, indifferenti al cartello che diceva: «Per favore, non urinare
in questo luogo».
Murugan si fermò in uno spazio aperto, in mezzo a due padiglioni, su
uno dei quali c’era un’iscrizione:
«Alla memoria di Ronald Ross». Indicò un vecchio bungalow di
mattoni rossi incorporato in una delle ali aggiunte all’ospedale in tempi piú
recenti.
«Ecco, guarda, quello era il laboratorio di Ross».
Si avvicinò al bungalow e attirò l’attenzione di Urmila su una placca di
marmo, infissa in alto nel muro.
Sulla placca c’era l’immagine stilizzata di una zanzara, e sotto
un’iscrizione.
«Non si riesce a leggerla, è troppo in alto, - disse Urmila. - Non dice che
fu in questo laboratorio che il maggiore medico Ronald Ross fece la
straordinaria scoperta che la malaria si trasmette attraverso un morso di
zanzara?»
«Qualcosa del genere», disse Murugan.
Urmila assunse un’espressione beffarda. «Che strana casetta, -
disse. - Sembra cosí chiusa in se stessa. Difficile credere che qualcuno
abbia potuto scoprire qualcosa qui dentro».
«Quello che è ancora piú
incredibile, - disse Murugan, - è che questo fosse uno dei laboratori piú
attrezzati di tutto il subcontinente indiano».
«Davvero?» Urmila era stupita.
Murugan annuí: «Proprio cosí. E sai chi l’aveva messo in piedi?»
«E come faccio a saperlo?» disse lei brusca.
«Certo che lo sai, - disse Murugan,
- ce l’hai lí il suo nome». Puntò il dito verso il corpetto nel quale Urmila
aveva infilato la pallottola di carta.
Lei allora gli voltò la schiena e la tirò fuori. «Eccotela, adesso fammi
vedere».
Murugan indicò uno dei nomi che era stato sottolineato in nero.
«Proprio lui. Colonnello medico D’D’
Cunningham».
«Fu lui che mise in piedi questo posto, - disse Murugan. - Era un
medico, e come Ronnie Ross apparteneva all’Indian Civil Service, che era
un reparto dell’esercito britannico in India. Ma Cunningham era per cosí
dire un uomo anziano, di parecchi anni piú vecchio di Ross. Ed era anche
uno scienziato - un patologo. Era membro della Royal Society; poteva
fregiarsi di un Fellow of the Royal Society, uno dei titoli piú prestigiosi a
quell’epoca. Gran parte del suo lavoro a Calcutta Cunningham lo svolse
proprio qui dentro. Ne fece uno dei laboratori di ricerca meglio equipaggiati
di questa parte del mondo. Fu Ron a renderlo famoso, ma non ci sarebbe
riuscito senza il vecchio D’D’».
«Ti credo sulla parola, - disse Urmila. - Ma continuo a non capire
cos’hanno di speciale questi pezzi di carta».
«Abbi pazienza, Calcutta, - disse Murugan. - Siamo soltanto all’inizio.
Vieni con me».
Ripercorsero lo stesso tragitto e, attraverso uno stretto passaggio,
Murugan la guidò verso la striscia di terra ingombra di sporcizia che
separava il reparto in memoria di Ross dal muro di cinta dell’ospedale.
Adesso l’arco dedicato a Ross si trovava a pochi metri da loro, e oltre il
muro si intravedeva l’intenso traffico di Lower Circular Road.
Murugan le indicò un paio di basse baracche sgangherate, col tetto di
lamiera, annidate tra i cumuli di terra e macerie ammucchiati contro il
muro. «Vedi quelle baracche? - disse.
- Ci vivevano i domestici di Ronnie Ross. Uno di loro, un ragazzo di
nome Lutchman, era il braccio destro di Ross. Ed era proprio là che
allevava i piccioni di cui Ross aveva bisogno per le sue ricerche».
«Piccioni? - disse Urmila
distrattamente, lanciando uno sguardo disgustato ai mucchietti di
escrementi umani seminascosti tra i rifiuti. - Mi sembrava di aver capito che
si occupava di zanzare e malaria».
«Be’, diciamo che Ronnie Ross non si limitava a lavorare sulle forme
piú banali di malaria. A Calcutta cominciò a lavorare su un’analoga forma
aviaria, l’halteridium - diciamo che è la versione della malaria negli
uccelli».
«Davvero?» Urmila guardava con diffidenza gli alberi che li
circondavano.
«Sí. E perché avesse sempre materiale disponibile per gli esperimenti, i
suoi aiutanti, Lutchman e gli altri, allevavano un gran numero di uccelli
infetti - proprio là. E
liberarono l’intero stormo, nel settembre 1898, pochi giorni dopo che
Ross ebbe concluso l’ultima serie di esperimenti».
Murugan raccolse una pietra da terra. «Lascia che ti mostri una cosa»,
disse. Scagliò la pietra in direzione della baracca. Cadde sulle macerie e,
dopo qualche istante, uno stormo di piccioni si alzò in volo con un
chiocciare allarmato e un convulso battere d’ali.
Murugan indietreggiò per osservare gli uccelli che volavano in cerchio
sopra di loro.
«Non mi sorprenderei, - disse, - se lassú ci fossero un paio di
discendenti dei piccioni di Lutchman».
Capitolo trentesimo.
Era l’ora di apertura degli uffici; sollevandosi sulle punte dei piedi,
Urmila sbirciò al di sopra del muro di cinta il traffico che defluiva lungo
Lower Circular Road, oltre l’ospedale.
Il bungalow era straordinariamente isolato e protetto, lontano sia dalla
confusione dell’ospedale sia dal rumore del traffico circostante.
«Com’è tutto tranquillo, qui, -
disse, volgendo gli occhi dal monumento a Ross alla vicina baracca.
- Sembra incredibile, eppure passo a pochi metri da qui due volte al
giorno, all’ora di punta».
«Esattamente quello che pensava Ronnie Ross, - disse Murugan. -
Quando ci venne la prima volta, pensò di aver trovato il laboratorio dei suoi
sogni».
Urmila si scostò dal muro. «Dunque com’è che Ross venne qui?» Diede
una scorsa ai fogli lisciati alla meno peggio che teneva in mano. «Fu
invitato dal dottor D’D’ Cunningham?»
«No, no, - disse Murugan. - Al contrario. Cunningham fece tutto ciò che
era in suo potere per tenere lontano Ross. Ogni due mesi Ronnie gli
scriveva lettere supplichevoli, e la risposta di Cunningham era sempre la
stessa, breve e concisa: niente da fare».
«Eppure, - disse Urmila, - Ronnie Ross venne qui, non è vero?»
«Esatto, - disse Murugan. -
Cunningham si difese per piú di un anno. Poi un giorno, nel gennaio del
1898, senza alcun motivo apparente, si arrese. Di fatto presentò le sue
dimissioni e partí per l’Inghilterra cosí in fretta che dimenticò persino di
mettere in valigia le mutande. Il 30 gennaio il governo dell’India approvò
finalmente il trasferimento di Ross a Calcutta.
La spiegazione ufficiale parla di una semplice coincidenza: il vecchio
Cunningham moriva dalla voglia di rivedere i cottage coperti di caprifoglio
della sua cara vecchia Inghilterra. Be’, finí i suoi giorni in una casa d’affitto
nel Surrey con vista sul gasdotto comunale in costruzione. E non mi
vengano a raccontare che lasciò questa piccola, confortevole sistemazione
solo perché aveva nostalgia dei muffin. Io non la bevo, questa storia».
«E allora? - disse Urmila. - Perché credi che se ne sia andato?»
«Non so risponderti, ma
evidentemente intorno alla metà di gennaio del 1898 accadde qualcosa
che gli fece cambiare idea. E non fu un caso: qualcuno si diede un gran da
fare perché si decidesse».
Urmila esaminò ancora una volta i fogli di carta. «Guarda qui, - disse
indicando una riga. - Dice che D’D’
Cunningham ottenne un congedo di cinque giorni a metà gennaio, dal
10
al 15. Dev’essere accaduto allora».
«Giusto, - disse Murugan. - Ora guarda la data su quella prenotazione
ferroviaria: il 10 gennaio 1898 un tale di nome C’C’ Dunn prese un treno
per Madras».
«E chi era?»
«Nessuno, - disse Murugan. - Questo è il punto. Credo che sia un modo
per trasmettere il messaggio che quel giorno D’D’ Cunningham era in
viaggio verso Madras sotto falso nome».
«Madras?» Urmila guardò i fogli accigliata. «Perché Madras? Cos’è
successo laggiú? Immagino che sia impossibile scoprirlo dopo tanto
tempo».
«Infatti, - disse Murugan. - Voglio dire che uno non può mettersi a
cercare nei numeri arretrati del
«Times» quello che successe a Madras nel 1898. Ma si dà il caso che io
sappia di un giovanotto di nome C’C’
Dunn che in quel periodo si trovava a Madras. Solo che non l’ho mai
messo in relazione con D’D’ Cunningham. Non fino a questa mattina,
quando ti ho tolto di mano quei pezzi di carta.
Sono l’anello che mancava, adesso tutto torna».
«E come hai saputo di questo C’C…’
o chi diavolo era?»
«Perché qualcuno ha voluto farmelo sapere, - disse Murugan. - è una
lunga storia. Sei sicura di volerla conoscere?»
Urmila annuí con entusiasmo.
«Qualche anno fa, - cominciò Murugan, - stavo cercando di aggiornare
la documentazione sulla malaria della compagnia per cui lavoro. Dopo tre
mesi passati sui files di Nord Africa e Medio Oriente mi sono imbattuto in
un curioso rapporto su una piccola epidemia, estremamente circoscritta,
nell’Egitto settentrionale, una quarantina di chilometri a sud di Alessandria.
La popolazione di un minuscolo villaggio fu spazzata via nel giro di pochi
giorni. In seguito non ci fu recrudescenza, né ulteriori epidemie.
Il villaggio era stato fondato da una famiglia di cristiani copti emigrata
dal sud. Avevano scarsi rapporti con gli abitanti del villaggio piú vicino, che
si trovava peraltro a notevole distanza. Quando i loro corpi furono scoperti
erano già in avanzato stato di decomposizione».
«Di che tipo di epidemia si trattava?» chiese Urmila.
«Non si sa con certezza, - disse Murugan. - Non furono fatte autopsie.
In realtà, se ne sappiamo qualcosa, lo dobbiamo allo zelo di un ufficiale
dei servizi sanitari Inglesi che stese un breve rapporto. Accadde nel 1950,
subito dopo la guerra, di fatto gli inglesi controllavano ancora il Paese.
A quanto pare quell’ufficiale sanitario sapeva il fatto suo: aveva fatto
tutta la sua carriera in Egitto.
Quando si recò al villaggio i corpi erano già stati divorati dai vermi.
Tuttavia lui riferisce due diversi elementi relativi ai sintomi dei defunti:
ghiandole del collo gonfie e un gran numero di minuscoli fori nella pelle,
simili a morsi d’insetti. Era convinto che potesse trattarsi di un’epidemia di
malaria eccezionalmente violenta, ma non aveva modo di dimostrare la
fondatezza di tale sospetto. La gente dei villaggi circostanti diceva che forse
c’era un sopravvissuto: dal conto delle vittime mancava un ragazzo di
quattordici anni. Pensando che potesse essere la grande occasione,
l’ufficiale sanitario cercò di trovarlo. Forse un attento esame del ragazzo gli
avrebbe fornito la chiave dell’accaduto. Ma non lo trovarono mai».
«Dunque non avevano idea di cosa fosse successo?»
«Fondamentalmente no. L’ufficiale sanitario ammette di non sapere
cosa diavolo fosse successo. E aggiunge di aver sentito parlare di sintomi
analoghi un’unica volta, circa vent’anni prima, o forse di piú, nel sud, a
Luxor. Qualcuno gli aveva detto che Lord Carnarvon, un appassionato
archeologo dilettante, era morto a causa di un morso di zanzara che gli
aveva fatto salire la febbre e gonfiato le ghiandole del collo.
Arriva addirittura a citare una lettera scritta dalla figlia del lord poco
prima che lui ci restasse secco:
«Ricordi quella puntura di zanzara sulla sua [del padre] guancia, che gli
dava fastidio a
Luxor, be’, all’improvviso ieri gli si sono gonfiate tutte le ghiandole del
collo e durante la notte gli è venuta la febbre alta, e ce l’ha tuttora»».
«Non ti seguo, - disse Urmila. -
Stavi parlando di qualcosa che sarebbe accaduto a Madras nel 1898.
Com’è che siamo finiti in Egitto cinquant’anni dopo?»
«è proprio quello che sto cercando di spiegare, - disse Murugan. - Sta’ a
sentire il seguito: quando ho trovato il rapporto dell’ufficiale sanitario, ho
cominciato a chiedere in giro per vedere se qualcuno aveva informazioni in
proposito. Ho persino rivolto qualche domanda a un paio di gruppi di
chiacchiere sulla World Wide Web. Un giorno sono lí che navigo e trovo
questo lungo messaggio che mi aspetta: pagine e pagine. Nessuna
indicazione del mittente, niente di niente, totalmente anonimo. Non ci metto
molto a scoprire che chiunque l’avesse spedito aveva voluto rendersi
irreperibile: si è preso la briga di inoltrare e ri-inoltrare il messaggio in cosí
tanti modi diversi che non potrei neppure tentare di
rintracciarlo».
«E cosa diceva il messaggio?» chiese Urmila.
«Era un estratto da un libro scritto da un cecoslovacco, uno psicologo
del linguaggio. Riguardava una tizia dell’alta società ungherese che divenne
un’archeologa dilettante di un certo valore e un’eccentrica di professione -
tal contessa Pongrácz.
Negli ultimi anni della sua vita si trasferí in Egitto. Fu vista l’ultima
volta nel 1950: era diretta a una zona di scavi nei pressi del piccolo
villaggio dove scoppiò l’epidemia.
Nessuno sa cosa le sia accaduto».
«Continuo a non vedere il legame con Madras nel gennaio 1898», disse
Urmila.
«Ci sto arrivando, - disse Murugan.
- In gioventú la Pongrácz aveva anticipato le abitudini del jet set anni
Sessanta, viaggiando per il mondo e scovando guru e cose del genere. Nel
gennaio 1898 aveva diciannove anni, giusto all’inizio della sua lunga
carriera. E dove credi che fosse?»
«Dove?»
«In India, - disse Murugan. - A Madras, per l’esattezza. Ora penserai
che a quell’epoca, se una ragazza in cerca di guru si trovava in quella parte
del mondo, fosse attratta dalla casa di Madame Blavatsky e dalla Società
Teosofica come un missile all’infrarosso è attratto dal calore.
E qui ti sbagli. La nostra contessa era una buongustaia in fatto di guru e
non voleva saperne di roba precotta.
Si scelse come guru la principale antagonista di Mme Blavatsky - una
tizia finlandese di nome Liisa Salminen che guidava la sua piccola
compagnia, la Società degli Spiritualisti. La contessa Pongrácz era la piú
fedele discepola di Mme Salminen, e prendeva nota di tutto ciò che
accadeva alla sua guru».
Capitolo trentunesimo.
La sera del 12 gennaio 1898, scrive la Grófné Pongrácz, un ristretto
numero di spiritualisti si era riunito, come d’abitudine, in una casa che la
Società affittava per le sedute settimanali con Mme Salminen.
Molteplici fonti testimoniano che tali sedute si svolgevano secondo un
cerimoniale preciso e piuttosto solenne. Generalmente iniziavano con un
piccolo ricevimento, con Mme Salminen che faceva gli onori di casa
offrendo il tè in tazze di porcellana.
Quella sera però la solennità del rito venne bruscamente interrotta da un
intruso tanto sgradito quanto inatteso. A Madras erano in molti a desiderare
ardentemente di far parte della cerchia degli intimi di Mme Salminen. Era
risaputo che c’era chi aveva fatto carte false per infiltrarsi nel gruppo. Non
fu dunque tanto l’arrivo di un ospite non invitato che colse di sorpresa quel
consesso di spiritualisti, quanto il fatto che l’uomo in questione non
sembrava neppure lontanamente il tipo di persona bramosa di unirsi al
gruppo. Al contrario. Va detto che in generale gli spiritualisti, i teosofi e i
loro compagni di viaggio guardavano all’ufficialità britannica civile e
militare con non celato disprezzo - sentimento ampiamente ricambiato. Era
tale la reciproca avversione che in gran parte delle camerate del forte di St
George di Madras, la frase «preferirei essere uno spiritualista», pronunciata
da un cavalleggero, era generalmente considerata l’equivalente, sul piano
connotativo, di affermazioni quali
«preferirei essere morto».
Per converso, l’affermazione
«preferirei essere un tenente colonnello» era altrettanto drastica e densa
di significato se pronunciata da spiritualisti e affini. Eppure, dalla breve ma
vivace descrizione della contessa non c’è dubbio che l’intruso in questione
appartenesse proprio all’ambiente militare. Col suo inimitabile stile
magiaro, la Pongrácz lo descrive come un inglese corpulento e rubizzo,
sulla sessantina, con radi capelli e baffi da ussaro. L’uomo dava segni
manifesti di estrema tensione emotiva, si torceva le mani e si tormentava i
baffi, e aveva occhi gonfi e iniettati di sangue, come se non dormisse da
parecchi giorni. Per quanto fosse esausto, c’era tuttavia qualcosa
d’inconfondibile nel suo portamento: la contessa non esitò a riconoscere in
lui un ufficiale di grado alto o intermedio, forse di un reggimento di
fanteria. Immaginate dunque la sua sorpresa quando l’intruso,
presentandosi, non fece alcuna allusione al proprio grado o reggimento. Lo
prese come uno sgarbo, un affronto alle proprie capacità di osservazione: e
non è forse irrilevante ricordare che la contessa Pongrácz si vantava di
discendere nientemeno che dal grande Attila, il soldato dei soldati, e per di
piú era abituata a godere del posto d’onore tanto nei circoli di corte della
Buda imperiale quanto nelle taverne della soldatesca Pest. Non poteva
sbagliarsi nel riconoscere gli attributi di un militare.
I sospetti degli spiritualisti crebbero quando l’uomo mostrò qualche
tentennamento nel ricordare il proprio nome; infine si presentò (non senza
esitazioni) come C’C’ Dunn. Tuttavia, appena ebbe compiuta tale frettolosa
presentazione, il sedicente signor Dunn si chinò verso l’austera testa di
Mme Salminen e cominciò a bisbigliare.
Ora si dà il caso che la contessa si trovasse proprio lí accanto e, con
l’aria di non prestargli la minima attenzione, ebbe modo di allungare le
orecchie nella sua direzione. Ma per quanto fosse indubbiamente pratica di
tale raffinata arte aristocratica, non riuscí a cogliere che poche parole
sconnesse: «Grande silenzio… ti vedo… sogni… visioni… morte…
ti supplico… pazzia…
annichilimento».
La contessa, al pari di parecchi altri in quella stanza, si aspettava che
Mme Salminen congedasse con decisione l’estraneo, dal momento che
c’erano tanti altri prima di lui. Ma in questo caso sottovalutarono la
formidabile finlandese. Mme Salminen provava un interesse particolare per
le persone che davano segni di incontrollabile emozione: riteneva infatti che
la passione violenta, se opportunamente incanalata, potesse creare le
condizioni per quello che chiamava «sfondamento psichico». Cosí, lungi
dal respingere lo sfinito signor Dunn, gli porse un caloroso benvenuto e,
quando si diressero al tavolo delle sedute, lo invitò a unirsi ai presenti.
Qui è opportuno ricordare che i resoconti delle sedute scritti dalla
contessa Pongrácz mancavano talvolta di coerenza. Spesso buttava giú le
sue impressioni subito dopo le sedute, quando si trovava ancora in uno stato
di notevole eccitazione. Accadeva allora che il suo impeccabile alto tedesco
mostrasse segni di stanchezza; qualche volta anche il suo senso della
sintassi era messo a dura prova, sicché invece di frasi complete buttava giú
serie di sillabe apparentemente sconnesse. Analisi intensive al computer
hanno dimostrato che tali ammassi fonemici erano il risultato di una
mescolanza di dialetti centroeuropei, quali lo sloveno, con alcune rare
varianti carpatiche dell’ungrofinnico (tutte apprese, senza dubbio, nelle
stanze della numerosa servitú dell’avito castello dei Pongrácz).
Ovviamente non possiamo pretendere che la contessa fosse una
testimone attendibile né di ricavare un’accurata narrazione dalle
schematiche associazioni verbali del suo diario.
D’altra parte i suoi racconti sono in molti casi avvalorati dalle
informazioni in nostro possesso su protocolli e procedure delle sedute di
Mme Salminen, sui quali in genere non si discute. Di regola, dopo il tè
Mme Salminen e il suo piccolo gregge passavano in una stanza illuminata
solo da una candela. Seduti intorno a un pesante tavolo di legno, i presenti
si tenevano per mano sforzandosi di mettere a fuoco le proprie capacità di
concentrazione, con Mme Salminen che agiva, per cosí dire, da lente per
l’energia dispersa delle loro menti.
Per essere considerata un successo una seduta doveva produrre alcune
di quelle «manifestazioni» di energia psichica tanto care agli spiritualisti
- fenomeni quali bussamenti, scrittura automatica, voci incorporee e
cosí via. In certe occasioni speciali i pochi privilegiati ottenevano
addirittura la piú preziosa delle cosiddette ricompense psichiche, vale a dire
quella specie di luce definita
«luccicore ectoplasmatico». Che tali
«manifestazioni» si possano ottenere con facilità in circostanze di isteria
collettiva è stato naturalmente dimostrato piú volte e non ha bisogno di
commenti.
D’altra parte va anche detto che il fenomeno del «luccicore» era quanto
mai raro e inusuale. Di solito si manifestava solo verso la fine di una seduta,
ed era immancabilmente preceduto da altre manifestazioni quali
bussamenti, eccetera.
Nel caso specifico di cui ci stiamo occupando, la contessa Pongrácz fu
scelta per sedere a fianco di Mme Salminen e di fronte all’ospite non
invitato - il sedicente C’C’ Dunn. Ora pare che malgrado le precise
istruzioni in senso contrario di Mme Salminen, la contessa avesse
l’abitudine di guardarsi intorno di tanto in tanto durante le sedute. Fu cosí
che, dopo circa venti minuti, si accorse che Mme Salminen e il signor Dunn
sembravano caduti in una sorta di trance, con le teste abbandonate in avanti
fin quasi a toccare il piano del tavolo. Dopo un considerevole lasso di
tempo, di fronte al perdurare della situazione, la contessa cominciò a
valutare l’altrimenti impensabile eventualità di interrompere la seduta
(impensabile perché era convinzione diffusa che un’interruzione avrebbe
intrappolato uno «spirito» in un limbo interplasmatico).
Tuttavia, proprio mentre stava considerando tale possibilità, la testa di
Mme Salminen sbatté all’indietro contro la sedia, all’improvviso e con
violenza, e rimase a fissare il soffitto, i capelli sparsi disordinatamente, la
bocca molle e aperta da cui uscivano rivoli di saliva. Poi il signor Dunn fu
come allontanato di peso dal tavolo e schiacciato contro il muro, con i piedi
a parecchi centimetri da terra.
Subito dopo l’unica candela si spense e la stanza sprofondò
all’improvviso in un’oscurità impenetrabile, uno spesso velluto nero. Il
pesante tavolo si rovesciò con grande fracasso e il signor Dunn cadde a
terra, urlando in una lingua che sembrava hindustano:
«Salvami… da lei… persecuzione…
ti suplico…»
L’aspetto piú strano di tali allucinazioni, riferisce la contessa, è che
perfino in quell’oscurità che non era semplice assenza di luce, piuttosto il
suo opposto, un’antitesi concepibile solo nell’occhio interno della mente,
perfino in quella totale oscurità riuscivano a distinguere nitidamente C’C’
Dunn, sebbene non con il tipo di visione che dipende dalla luce. Lo
vedevano lottare; vedevano le smorfie di dolore sul suo viso; assistevano ai
suoi vani tentativi di scacciare ciò che gli imponeva un simile tormento,
qualunque cosa fosse
- vedevano tutto ciò, ma neppure una volta riuscirono a cogliere o anche
solo immaginare la causa di tanta sofferenza, il braccio o strumento
attraverso il quale quelle pene odiose venivano inflitte. Il viso di Dunn era
livido per il terrore, e lo videro battere violentemente le braccia, lottare
contro qualcosa, una mano o forse un oggetto. Lo videro rannicchiarsi a
terra, prostrato ma non privo di coscienza, finché improvvisamente
mutarono le modalità della lotta, e sembrò che combattesse contro un
animale, lottando per tenere lontane le zanne che stavano per chiuderglisi
intorno alla gola; con ripetute urla di invocazione.
Poi bruscamente cessò ogni rumore e la candela si riaccese, e non
furono piú avvolti nelle tenebre. Aprendo gli occhi videro che il tavolo era
esattamente dove si trovava prima, e tutti sedevano ai loro posti, salvo
l’ospite inatteso, che era
rannicchiato in un angolo,
completamente nudo.
Allora Mme Salminen pronunciò le prime parole, sussurrandole a voce
cosí bassa che praticamente solo la contessa, seduta al suo fianco, riuscí a
udirle. Per tutto quel tempo Mme Salminen era rimasta abbandonata sulla
sedia, la testa all’indietro, gli occhi vacui e fissi nel vuoto. Quando parlò lo
fece senza riacquistare pienamente coscienza. La frase che le uscí dalle
labbra fu: «Non c’è nulla che io possa fare. Il Silenzio è venuto a
reclamarlo».
Poi crollò sul tavolo. Spaventati, i suoi seguaci la portarono
immediatamente nella stanza da letto, dove rimase fino al pomeriggio
inoltrato del giorno dopo. Quando riprese conoscenza, mandò subito a
chiamare la contessa. Le due donne si ritirarono insieme per parecchie ore.
Purtroppo la contessa non si decise mai a mettere per iscritto quella loro
conversazione, ma si sa che in parecchie circostanze la descrisse come il
punto di svolta della sua vita.
Ciononostante sussistono dubbi sull’ascendenza reale del pensiero di
Mme Salminen sulla sua discepola. Per fare un esempio, quando la contessa
attribuiva all’influenza di Mme Salminen la propria pionieristica attività
archeologica negli antichi siti manichei e nestoriani in Asia Centrale, Nepal
e Bengala, gli amici pensavano che fosse solo un modo di dire - una sorta di
omaggio riconoscente. Ma quando si trattava della sua fede negli
insegnamenti di Valentino, filosofo alessandrino della prima era cristiana,
erano piú inclini a crederle. Quando affermava che era stata Mme Salminen
a rivelarle la verità della cosmologia di Valentino, le cui divinità ultime
sono l’Abisso e il Silenzio, maschile il primo, femminile il secondo, l’uno
simbolo della mente, l’altro della verità, pochi osavano dubitare del suo
racconto, poiché chiaramente per tali convinzioni non bastavano
spiegazioni prosaiche.
Eppure, per quanto fossero abituati alle sue stravaganze, i suoi amici si
preoccuparono seriamente quando alla fine degli anni Quaranta la contessa
si trasferí in Egitto alla ricerca del luogo piú sacro dell’antico culto di
Valentino: il tempio perduto del Silenzio. Piú tardi, dopo la sua sparizione,
alcuni avrebbero ricordato che parlava spesso di una descrizione fattale da
Mme Salminen: di un piccolo villaggio al limite del deserto, con palme da
datteri e capanne di fango e norie cigolanti.
Capitolo trentaduesimo.
Malgrado il clima afoso, Urmila rabbrividí.
«Dunque pensi che ci sia un legame tra tutte queste cose? - disse. - Il
messaggio che ti hanno mandato e questi pezzi di carta in cui era avvolto il
pesce…»
«E me lo chiedi? - disse Murugan. -
Sicuro che c’è un legame. La carta del pesce mette insieme tutto.
Guardala in questo modo: quello di Cunningham era l’unico laboratorio di
tutto il continente in cui Ron aveva una remota opportunità di fare una
scoperta clamorosa; Ron lo sapeva e alla fine del 1896 moriva dalla voglia
di trasferire il suo culo a Calcutta. Ma Cunningham non ci stava: aveva
messo su il laboratorio come se fosse il suo giardinetto con barbecue e non
era disposto a farsi rovinare la festa da un ragazzino rompipalle. Ergo: se
Cunningham era il principale ostacolo al trasferimento di Ron a Calcutta, ne
discende che a questo punto - siamo negli ultimi mesi del 1897 - era anche
il maggiore ostacolo alla soluzione dell’enigma malaria. Se in quel periodo
qualcuno teneva d’occhio Ron, non deve averci messo molto a scoprirlo.
Allora cosa fanno? Chiedono un time out, si consultano e quando tornano
sul campo hanno un nuovo schema di gioco: Cunningham deve togliersi dai
piedi. E le cose vanno esattamente cosí: all’improvviso, nel gennaio 1898,
Cunningham cambia idea, molla il gioco e se la squaglia in Inghilterra.
Strada facendo si ferma a far pipí a Madras e incappa in un’imprecisata crisi
psicotica. Quei pezzi di carta, quel messaggio sul mio video - qualcuno sta
cercando di spingermi a fare delle connessioni: vogliono farmi sapere che
ero sulla pista giusta».
«Aspetta un momento, - disse Urmila.
- In che senso «vogliono farmi sapere»? Non li hai trovati tu i pezzi di
carta. Sono stata io, e io ti ho incontrato per caso, solo perché ti trovavi a
casa di Romen Haldar quando… quando sono svenuta».
«Tu dici? - disse Murugan. -
Okay, adesso tocca a te raccontare per filo e per segno come hai
«trovato» quei pezzi di carta, poi vedremo se la tua teoria del caso regge
ancora».
Urmila cominciò la cronaca di quella mattina, e della notte precedente -
la telefonata alla sua famiglia, la sua promessa di cucinare il pesce, e quella
scampanellata provvidenziale alle 7,15. E mentre raccontava tutta la storia,
il racconto si fece sempre piú incerto, e quando arrivò al pescivendolo
sconosciuto la sua voce svaní in un mormorio inintelligibile.
«Ma perché architettare una storia cosí macchinosa? - disse. - Se
vogliono farti sapere qualcosa perché non te la dicono, a te. Perché mettere
di mezzo me e Romen Haldar e…?»
Murugan si grattava la barba pensieroso. «Per la verità, - disse, -
non lo so. Ma un paio di cose sono abbastanza chiare. Qualcuno sta
cercando di metterci sulla buona strada; sta cercando di dirci qualcosa; di
farci fare delle connessioni che loro non vogliono fare, cosí quando saremo
giunti alla fine avremo una storia totalmente nuova».
«Perché? - disse Urmila. - A che scopo? Cosa ci guadagnano se
arriviamo alla fine oppure no?»
«Non sono sicurissimo, - disse Murugan, - ma forse sono in grado di
delineare un possibile scenario».
«Spiegati meglio», disse Urmila.
«D’accordo. Ora supponiamo, limitiamoci a supporre di avere la
seguente convinzione - non chiedermi perché o per come, è solo un gioco di
supposizioni - dunque, se credessimo che conoscere una cosa significhi
cambiarla, saremmo probabilmente altrettanto convinti che far conoscere
una cosa sia un modo di effettuare un cambiamento. O indurre una
mutazione, se preferisci».
Urmila fece un grugnito dubbioso.
«Adesso spingiamoci un passo piú in là. Se tu avessi una simile
convinzione, e volessi provocare uno specifico cambiamento, o mutazione,
potresti farlo in molti modi, uno dei quali sarebbe lasciar filtrare alcune
informazioni. Ma dovresti stare attentissima a come lo fai, perché
l’esperimento non funziona se non porta a qualche scoperta genuina. Ad
esempio, non funzionerebbe se, pescando un tizio qualsiasi tra la folla, gli
dicessi: «Ehi tu, qui c’è questo e qui c’è quello; cosa si ottiene mettendoli
insieme?» Non sarebbe una vera scoperta perché la risposta sarebbe nota in
anticipo.
Bisogna invece spingere le proprie cavie nella giusta direzione e
aspettare che ci arrivino da sole».
«Mi stai forse dicendo, - disse Urmila, - che c’è qualcuno che vuole
comunicare qualcosa a te, tramite me, in questo modo macchinosissimo -
una specie di esperimento - perché stanno cercando di cambiare qualcosa?»
«Non avrei saputo dirlo meglio».
«Cambiare cosa? - gridò Urmila. - E
perché. Cosa vogliono da noi?»
«Non lo sappiamo, - disse Murugan. -
Non sappiamo cosa. Non sappiamo perché».
«Dunque vuoi dire, - disse Urmila, -
che tu ed io siamo intrappolati in un esperimento e non sappiamo a cosa
serve o perché?»
«Esatto, - disse Murugan. - Il fatto è che abbiamo a che fare con una
folla per la quale il silenzio è una religione. Non sappiamo neppure cos’è
che non sappiamo. Non sappiamo chi c’è di mezzo e chi no; non sappiamo
quanta spola hanno a disposizione. Non sappiamo quanti fili vogliono far
tirare a noi due e quanti ne vogliono lasciare per chi verrà dopo, chiunque
sia».
«Intendi dire che può darsi che tengano il resto per qualcun altro,
qualcun altro nel futuro?»
«Potrebbe anche essere, sí, - disse Murugan. - Questi tizi non vanno mai
di fretta. Negli ultimi cent’anni hanno disseminato indizi attentamente
selezionati, e di tanto in tanto, per ragioni che solo loro conoscono,
scelgono di sottoporli all’attenzione di un paio di eletti. Il fatto che tu ed io
siamo stati inclusi nella lista non significa necessariamente che siamo gli
ultimi».
«E dove porta tutto ciò? - disse Urmila. - Dove finirà?»
«Non finisce, - disse Murugan. -
Lascia che ti spieghi come funziona: devono scegliere con grande
attenzione il momento giusto per girare l’ultima pagina. Vedi, scrivere la
parola
«Fine» a questa storia è proprio il modo in cui loro sperano di accendere
la miccia della prossima. Ma perché questo accada devono coincidere con
assoluta precisione due cose: i vantaggi della fine devono saltar fuori
esattamente nell’istante in cui la storia viene rivelata a coloro per i quali la
tengono in serbo, chiunque siano».
«Ma allora cosa aspettano?» disse Urmila.
«Pff, potrebbero essere un sacco di cose, - disse Murugan. - Forse
aspettano di trovare un’epidemia di malaria di cui non si è mai saputo
niente. O forse stanno mettendo a punto una tecnologia che renda piú facile
e rapido consegnare la loro storia a quelli per cui la tengono in serbo: una
tecnologia drammaturgica assai piú efficace di qualunque altra oggi
disponibile. O forse aspettano entrambe le cose. Chissà!»
Fu interrotto dal rombo di un tuono.
Guardandosi intorno, Urmila notò con prontezza un angolo riparato
sotto il tetto sbilenco della baracca abbandonata. Ci si infilò e si sedette per
terra, il mento contro le ginocchia. Murugan la seguí e si rannicchiò accanto
a lei facendo scricchiolare le gambe. Nel giro di pochi minuti la pioggia
scrosciava davanti a loro, oltre l’orlo della tettoia.
Urmila fissava la vetrosa parete di pioggia, abbracciandosi le ginocchia.
Le sembrava tutto cosí confuso, adesso: la chiamata dal club, il
pescivendolo quella mattina, Romen Haldar, Sonali Das. Era cosí difficile
distinguere cosa faceva parte di tutto ciò e cosa no: c’entrava la finestra
della cucina che si affacciava sulla casa di Haldar? E i suoi genitori? suo
fratello? sua cognata? (No, lei no). E
c’entrava il lurido sari che indossava, macchiato di curcuma e sangue di
pesce? E c’entrava che quella mattina avesse bussato alla porta dei
Gangopadhyayas,
svegliandoli? Era cosí strano pensare che fossero accadute tante cose
quando la sua unica preoccupazione era quella di cucinare uno shorshe-ilish
piú in fretta possibile, per riuscire a saltare su un minibus Bbd Bagh e
arrivare al Great Eastern Hotel in tempo per la conferenza stampa del
ministro delle Comunicazioni.
Ripensandoci adesso, le sembrava passato un secolo; stentava a
ricordare perché il ministro delle Comunicazioni e la conferenza stampa le
fossero sembrati tanto importanti, perché avesse tanta fretta di arrivarci,
perché il capocronista avesse insistito tanto: cos’avrebbe detto il ministro,
alla fin fine? Che le comunicazioni funzionavano bene?
che occuparsene era la missione della sua vita? Le sembrava buffa
l’idea di stare seduta davanti a una tastiera, cercando la frase giusta per
cominciare: oggi, durante una conferenza stampa, il ministro delle
Comunicazioni ha annunciato che è profondamente convinto che le
comunicazioni siano la chiave del futuro dell’India. In un certo senso le
sembrava meno strano stare seduta lí, sotto quella tettoia piena di buchi, con
odore di merda dappertutto, che ascoltare un vecchio grasso arrivato da
Delhi che parlava dentro un microfono gracchiante; era facile capire perché
si trovava lí, accovacciata in quell’angolo umido di quella baracca
decrepita, piú difficile capire perché si fosse data tanto da fare a cucinare un
pesce in modo che suo fratello potesse entrare in una squadra di calcio di
serie A; aveva piú senso ascoltare Murugan che congetturava su Ronald
Ross che stare a chiedersi se sarebbe riuscita a saltare su un minibus Bbd
Bagh per non far tardi alla conferenza stampa al Great Eastern Hotel. Anche
se non aveva mai sentito parlare di Ronald Ross prima d’ora, e non aveva
mai incontrato prima quell’uomo, che adesso era seduto appiccicato a lei,
una gamba premuta contro la sua. Non assomigliava a nessuno di quelli che
conosceva, ma non c’era niente di male in tutto ciò, naturalmente, era
carino incontrare qualcuno di nuovo, e anche la sua barba era carina, una
specie di spazzola ispida. Chissà com’era a toccarla - la sua barba -
cominciò a chiedersi, poi con sorpresa si accorse che sí, lo stava toccando,
ma non la sua barba - la coscia di lui toccava la sua, gradevolmente calda,
non umida. Sulla strada i bus ruggivano avanti e indietro sotto la pioggia;
vedeva la gente che si accalcava dietro i finestrini appannati, si affrettava
lungo i marciapiedi, sotto gli ombrelli, cercando riparo nell’edificio del
cinema Nandan e nell’Accademia di Belle Arti. Era buffo pensare che tutto
ciò che li separava da loro era un muretto sbrecciato, solo un muretto,
eppure funzionava come se fosse la grande muraglia cinese, nessuno poteva
vederli, lei e Murugan. In un certo senso era come stare dentro una provetta:
probabilmente ci si sentiva cosí, sapendo che da questa parte del vetro stava
per accadere qualcosa, ma dall’altra no; che c’era un muro tra te e il resto
del mondo, tra te e tutta quella gente dentro bus e minibus che si precipitava
al lavoro da Kakurgachi e Beleghata e Bansdroni, dopo il piatto di riso del
mattino, con l’odore di dal conficcato sotto le unghie; erano cosí lontani,
sebbene fossero solo dall’altra parte del muro; non se ne sarebbero accorti,
se Murugan si toglieva la camicia e lei gli faceva correre le unghie lungo il
petto fino alla pancia; non se ne sarebbero accorti, se lui si abbassava i
pantaloni alle caviglie e lei spostava la mano dal proprio ventre al suo,
indugiando con le dita tra i peli ricciuti del pube; non si sarebbero accorti se
lei si toglieva il corpetto e lui le cingeva le spalle con un braccio, con una
mano le accarezzava il seno e con la punta del pollice le strofinava un
capezzolo; non se ne sarebbero accorti, non ne avrebbero avuto la minima
idea, passando oltre frettolosi diretti al lavoro, e in realtà non era poi
difficile da immaginare, il braccio di Murugan intorno alle spalle e la mano
sul petto. Anche quello sarebbe stato un esperimento; proprio cosí, un
esperimento, sentirlo tra le gambe, le labbra sul collo, la sensazione di
qualcosa di animato dentro di lei.
Quali altre parole potevano esserci per tutto ciò, se non «esperimento»,
qualcosa di nuovo, che l’avrebbe cambiata, ne era sicura, anche se fosse
durato solo pochi minuti, o forse secondi; qualcosa che stava accadendo in
modi che erano al di là della sua capacità di immaginazione, e su cui non
poteva comunque incidere.
Capitolo trentatreesimo.
Dopo essersi accertato che il messaggio per Tara fosse stato trasmesso,
Antar andò in cucina a prendere un bicchiere d’acqua.
L’appartamento di Tara era ancora immerso nel buio ma le tendine di
pizzo bianco danzavano spettrali nella gentile brezza serale. Aveva di nuovo
lasciato aperte le finestre, uno spiraglio di pochi centimetri, in basso. Antar
si morse un labbro: strano che non se ne fosse accorto prima. Si
preoccupava sempre quando le lasciava cosí. Non si era ancora abituato
all’idea che adesso c’era qualcun altro che viveva lí, apriva e chiudeva
finestre e porte.
Già una volta Tara aveva lasciato le finestre aperte e all’improvviso, nel
pomeriggio, era scoppiato un temporale. Interrompendo uno dei suoi
interminabili inventari, Ava lo aveva informato in anticipo che stava
arrivando una perturbazione.
Antar aveva fatto il giro
dell’appartamento, chiudendo le finestre. Cosí si era accorto che Tara
aveva lasciato le finestre aperte -
non completamente, ma due palmi buoni.
Le tendine di pizzo bianco del soggiorno si agitavano al vento.
Mezz’ora dopo aveva controllato di nuovo e le tendine erano sparite: il
vento le aveva strappate dalle asticciole. La pioggia entrava a rovesci,
spinta dal vento. Nelle due ore successive era passato piú volte davanti alla
finestra della cucina. Si sentiva in qualche misura
responsabile, quasi fosse lui il colpevole.
Era troppo buio per vedere cosa stessero provocando dentro
l’appartamento la pioggia e il vento.
Ma non faceva fatica a immaginarlo: l’acqua che scorreva sul
pavimento di legno, raccogliendosi in piccole pozze intorno alle stuoie di
giunco che Tara aveva disteso con tanta cura e precisione.
Quando si era trasferita, qualche mese prima, i suoi amici, Lucky e
Maria, l’avevano aiutata a portare le sue cose su per le scale. Antar si era
meravigliato che avesse cosí poche cose: un futon, qualche lenzuolo e
qualche stuoia e un paio di sedie e tavoli che sembravano raccolti per
strada. Alle pareti erano appese solo alcune pergamene calligrafate. E
adesso le pergamene erano rovinate: sbattevano contro le pareti del
soggiorno, inquieti brandelli di bianco, lacerati dal vento.
E il peggio era che non aveva modo di avvisarla. Tutto ciò risaliva a
prima del teledrin, quando Tara lavorava ancora per l’altra famiglia e lui
non aveva il numero di telefono.
Non aveva potuto far altro che aspettare.
Il temporale era passato da un pezzo quando finalmente si erano accese
le luci. Antar era corso in cucina per spiegarle cos’era successo e aveva
scoperto che non si trattava di Tara, bensí di Lucky, che era rientrato e si
stava già dando da fare. Antar l’aveva tenuto d’occhio discretamente per
piú di un’ora: evidentemente il ragazzo non sapeva che potevano vederlo.
Si era tolto la maglietta e i pantaloni e legato intorno ai fianchi una tovaglia,
come un perizoma. Poi si era messo in ginocchio e aveva asciugato il
pavimento, non una ma due volte.
Antar lo osservava preoccupato, chiedendosi se avrebbe fatto danni.
Lucky era notoriamente maldestro, faceva sempre cadere i vassoi e
rovesciava il tè: «tutto pollici», diceva Tara.
Poco dopo Tara era rientrata sbattendo la porta. Antar era andato in
cucina a vedere se finalmente era lei.
Giusto in tempo per vedere che si liberava stancamente della borsa a
tracolla e la lasciava cadere sul pavimento. Poi dall’altra stanza era arrivato
Lucky - per salutarla, pensava Antar. Invece Lucky fece qualcosa che lasciò
Antar di stucco: si buttò a terra davanti a Tara toccandole i piedi con la
fronte.
Tara aveva reagito istintivamente guardando fuori, verso la finestra della
cucina di Antar. Vedendolo lí in piedi aveva avuto un palese moto di
imbarazzo. Gli aveva lanciato un’occhiata timida e aveva mormorato
qualcosa a Lucky che si era rialzato con un’aria confusa.
Antar era imbarazzato quanto lei, ma era riuscito a sorriderle con un
cenno di saluto. Aveva sempre supposto che fossero solo amici, si era
persino chiesto se fossero amanti - benché Lucky sembrasse un po’ troppo
giovane per lei. In seguito Tara gli spiegò che c’era tra loro una complicata
parentela, ecco le ragioni di quel saluto.
E adesso aveva di nuovo lasciato aperte le finestre. Antar si strinse nelle
spalle: se non altro oggi non pioveva. Mise la faccia sudata sotto il rubinetto
lasciandoci scorrere sopra l’acqua.
Stava tornando in camera da letto quando suonò il telefono. Prese la
chiamata in soggiorno e si lasciò cadere sulla sedia di fronte allo schermo di
Ava.
Era Tara, sembrava un po’ affannata.
«Hai ricevuto il messaggio?» disse Antar.
«Sí, certo, ma avevi un tono cosí misterioso. Volevo sapere cosa ti stava
succedendo».
«Oh, niente, - disse Antar. - Solite cose, solo che richiederà piú tempo
del previsto».
«Davvero? - disse Tara. - Sembra terribilmente importante».
«E poi non mi sento bene».
«Hai bisogno di niente?» Colse subito una nota di preoccupazione nella
sua voce. «Posso fare qualcosa per te?»
«Mi rimetterò presto. Mi è già successo altre volte».
«Potrei venire da te. Non fare complimenti».
«No, grazie». Decise di cambiare argomento. «Da dove chiami?»
«Dai giardinetti coi giochi all’angolo della 97a con Riverside, -
disse. - Il mio mostriciattolo sta dando la scalata a un dinosauro in fibra
di vetro».
«Sei ai giardinetti?» Antar era meravigliato. «Ma non si sentono
bambini».
Tara rise. «Stanno giocando quasi tutti con gli zampilli, bagnandosi fino
al midollo».
Antar tacque, perplesso. C’era qualcosa che non tornava. «C’è un
telefono pubblico ai giardinetti?»
chiese.
«No, - disse lei. - O perlomeno io non lo sto usando. Una delle baby-
sitter mi ha prestato il suo -
com’è che si chiamano? - uno di quegli aggeggi di plastica portatili. Ma
adesso è meglio che ti lasci andare.
Se cambi idea riguardo alla cena fammelo sapere. Posso essere da te in
due minuti».
«Due minuti? - chiese Antar. - Ma ti ci vorrà almeno mezz’ora per
venire qui dalla 97a. Anche in taxi…»
«è un modo di dire…» tagliò corto lei.
In quel preciso momento Ava emise un sonoro ping per avvisarlo che
stava per passare in standby. Un attimo dopo Antar udí lo stesso suono
ritrasmesso lungo la linea telefonica.
«Devo andare», disse Tara.
«Aspetta un momento…» gridò Antar nel telefono. Ma la linea era
caduta.
Antar rimase a fissare la cornetta senza capire cosa fosse accaduto. Per
un attimo aveva avuto l’impressione che Tara fosse nella stanza con lui e
che il suo microfono avesse raccolto il sonoro ping di Ava.
Si portò il dorso di una mano alla fronte e non si stupí di trovarla
bollente. Adesso aveva davvero la febbre alta.
Decise che era ora di mettersi a letto.
Capitolo trentaquattresimo.
Appoggiandosi l’agenda da tasca su un ginocchio, e riparandola dagli
scrosci di pioggia con un braccio protettivo, Murugan si mise a disegnare su
una pagina bianca con una biro. Quando ebbe finito strappò la pagina e la
passò a Urmila. Era lo schizzo di una statuetta, una montagnola
semicircolare con due occhi dipinti. Su un fianco della montagnola c’era un
minuscolo piccione e sull’altro un piccolo strumento, anch’esso
semicircolare.
«Mai visto niente di simile prima d’ora?» disse Murugan.
Urmila esaminò attentamente il disegno, corrugando la fronte per la
concentrazione. «Se anche fosse, probabilmente non l’avrei notata, -
disse. - Assomiglia alle tante statuette che si trovano nei templi, a parte
questa cosina. Cos’è?» Indicò lo strumento.
«La mia ipotesi è che sia una riproduzione di un antiquato
microscopio», disse Murugan.
«E allora, chi o che cosa
rappresenterebbe?»
«Tirando a indovinare, direi che fu l’artefice della scoperta di Ron, -
disse Murugan. - Sono pronto a scommettere che c’era lei dietro tutto
l’esperimento».
«Pensi che fosse una donna?»
Murugan annuí.
«Dove l’hai vista?» chiese Urmila.
«Lassú», rispose Murugan, puntando la biro in direzione del muro:
pioveva cosí forte adesso che la nicchia si intravedeva a stento, benché
fosse a pochi metri da loro. Cominciò a raccontare in che modo aveva
trovato la statuetta la sera prima. Urmila lo ascoltava assorta, e quando ebbe
finito fece un cenno del capo, come a confermare qualcosa a se stessa.
«Strano, - disse Urmila. - Proprio l’altro giorno, stavo leggendo un libro
di saggi di Phulboni, sai, lo scrittore che hanno premiato ieri all’auditorium
Rabindra Sadan? Il tuo racconto mi ha ricordato qualcosa che lui scrisse
molto tempo fa. Ricordo il passo quasi a memoria. «Non ho mai saputo, -
comincia, - se la vita risieda nelle parole o nelle immagini, nei discorsi o
nella vista. Mi chiedo da dove prenda vita una storia. Dalle parole che
estraggo dalla mia mente, o vive già, in qualche luogo, racchiusa nel fango
e nella creta - in un’immagine, ovvero in un’ingannevole imitazione di
vita?»
A quanto sembra, - proseguí Urmila,
- molti anni fa Phulboni scrisse una storia: di una donna che
s’immergeva… - abbassò il tono della voce, imitando quella dello
scrittore:
«…Una donna non diversa dalle centinaia di donne che si vedono ogni
giorno dai finestrini delle auto e dei bus, una donna che lava la sporcizia
quotidiana nell’acqua fetida e ingombra d’alghe di uno stagno, in un parco -
uno dei tanti stagni della nostra città, a Minto Park o Poddapukur, o
qualsiasi altro. La donna si inginocchia nel fango morbido, vischioso,
l’acqua le sale alla gola, una cortina scura che le consente di far scivolare
per un attimo dalle spalle il sari annerito dal fango, di sfiorarsi i seni con la
punta delle dita, raschiando con una scheggia di sapone i capezzoli induriti
dai morsi di bambino, poi la sua mano corre giú, in basso, oltre le pieghe di
un ventre consumato, e ancora piú giú, giú, giú, e con quella scheggia
schiumosa raschia le labbra che hanno vomitato decine di bambini nel letto
del marito, e ancora piú giú nell’umidità vellutata del fango, il sapone le si
appiccica alle dita, poi a un tratto, il suo piede scivola, e lei si ritrova, per
un istante di terrore, aggrappata al fango divenuto improvvisamente
morbido, duttile, cedevole come la morte stessa, le sue mani stringono
quelle tenebre senza fondo, e poi, quando il volto del nulla sembra
guardarla negli occhi senza sorridere, la punta di un’unghia raggiunge
qualcosa di solido, qualcosa che graffia, qualcosa con bordi capaci di
redimere, salvare, restituire vita, qualcosa di benedettamente duro, che le
offre il temporaneo appiglio di cui ha bisogno per risalire in superficie e
cogliere un alito dei fetidi umori che nutrono la nostra città».
«E quando emerge dall’acqua con tutto il busto, i seni nudi, i capelli che
le scendono neri alle ginocchia, le sue braccia schizzano in aria un arco
d’acqua e grida: - Mi ha salvata, lei mi ha salvata -; allora tutte le altre
bagnanti le si fanno intorno, sotto i loro piedi la setosa acqua scura ribolle
in un pantano spumeggiante, la prendono per le braccia e la trascinano a
riva, mentre lei continua a gridare, con la bocca piena d’acqua: - Mi ha
salvata, lei mi ha salvata».
Mentre giace distesa sull’erba, le aprono a forza il pugno e vedono che
stringe un oggetto, una lucida pietra grigia con al centro un ricciolo di
bianco che fissa come un occhio onnivedente. Lei urla, sputacchiando getti
di fango e acqua che ha inghiottito; non si separerà da quella figurina che le
ha offerto l’appiglio di cui aveva bisogno per non affogare, ma le altre
gliela strappano perché sanno che la roccia che l’ha salvata, che il piccolo
grumo di pietra salvatrice altro non è che una miracolosa manifestazione
di… di cosa? Non lo sanno; poiché credono solo nella realtà del miracolo».
Interrompendosi per prendere fiato, Urmila si girò verso Murugan.
«Poi, un giorno, molti anni dopo, -
proseguí, - attraversando un parco, in cos’altro si imbatte Phulboni se
non in un tempietto, adorno di fiori e offerte votive? Si ferma a chiedere,
ma nessuno sa dirgli a chi è dedicato il tempio e perché si trova lí. Deciso a
scoprirlo, va fino a Kalighat, in una di quelle viuzze dove fabbricano le
statuine. E lí trova qualcuno che gli racconta una storia che assomiglia
molto alla sua, eppure quell’uomo non aveva mai sentito parlare di
Phulboni e non aveva mai letto niente di ciò che aveva scritto, e quando
l’uomo conclude la propria storia Phulboni non sa piú quale storia sia
venuta prima, o se siano tutti aspetti del farsi di quell’immagine nel mondo:
la sua presenza nel fango, la storia che ha scritto lui, la scoperta di quella
bagnante o la favola che ha appena ascoltato, a Kalighat».
Murugan si passò un’unghia nel pizzetto, «Non capisco», disse.
Urmila allungò una mano per controllare la pioggia. Ormai si era ridotta
a una pioggerellina sottile.
Gli sferrò un poderoso colpo nelle costole, «Vieni, andiamo».
«Andiamo dove?»
«A Kalighat. Forse riusciremo a scoprire qualcosa sulla statuina che hai
visto ieri sera».
Capitolo trentacinquesimo.
Lungo la strada per Kalighat, scrutando le strade lucide di pioggia dal
finestrino appannato del taxi, Urmila ebbe un ricordo vivissimo del vicolo
cui erano diretti: ricordava una stradina stretta che serpeggiava tra casupole
basse, col tetto di lamiera, marciapiedi sui quali erano allineate file e file di
statuine di terracotta grigioscura, alcune solo dorso, con i seni ma senza
testa, con ciuffi di paglia che sbocciavano dal collo, alcune senza gambe,
altre senza braccia, alcune con braccia curvate in gesti fantasma intorno a
oggetti invisibili: spade, sitar, teschi.
Aveva una zia che viveva da quelle parti, in una grande casa all’antica
che torreggiava sui vicoli
circostanti. Da bambina percorreva spesso quel vicolo, quando andava a
trovarla. Restava a guardare con stupore seni e pance che prendevano forma
tra le mani degli artigiani, meravigliandosi dell’intimità della loro
conoscenza di quei corpi spettrali. In casa della zia andava sul balcone e si
affacciava sul vicolo sottostante con le file di statue di creta, guardando gli
artigiani al lavoro; osservando nei dettagli il diverso modo in cui ognuno
modellava teste e mani; notando come le immagini cambiavano con le
stagioni: in gennaio comparivano schiere di Ma
Shoroshshoti, ciascuna adorna del cigno e del sitar della dea; in autunno
Ma Durga, attorniata dall’intero pantheon della sua famiglia e con
mahishashur che si contorce ai suoi piedi.
Il taxi si fermò all’angolo del vicolo, ed essi scesero nella fine
pioggerellina opalescente. Murugan pagò e Urmila lo condusse svelta verso
le basse botteghe con le pareti di bambú in fondo alla stradina.
Centinaia di volti beatamente sorridenti affiancavano ondeggiando il
loro procedere spedito, alcuni avvolti nella tela cerata, gli occhi senza
pupille, le braccia protese in un gesto immobile di benedizione.
Urmila rise.
«Cosa c’è?» disse Murugan.
«Da bambina facevo spesso un sogno,
- disse Urmila, con una risata in gola. - Sognavo di aprire la porta
d’ingresso del nostro appartamento e fuori c’era un gruppo di dei e dee in
miniatura, che suonavano il campanello con la punta delle piccole dita di
creta. Aprivo la porta e davo loro il benvenuto, a mani giunte, e loro
entravano a cavallo di cigni e topi e leoni e gufi e mia madre li conduceva
al piccolo tavolo col piano di formica dove mangiavamo. Si sedevano sulle
nostre sedie mentre mia madre andava avanti e indietro dalla cucina,
preparando il tè e friggendo luchi e shingara, mentre noi assistevamo
intimoriti, le mani giunte in preghiera. Offrivamo dolci al cigno e al gufo, e
Ma Kali ci sorrideva con i suoi occhi fiammeggianti, e Ma Shoroshshoti
strimpellava qualche nota sul sitar e Ma Lokhkhi si sedeva incrociando le
gambe nella posizione del loto, sollevando una mano, esattamente come fa
nell’etichetta delle lattine di ghee».
Davanti alla porta aperta di una bottega Urmila si fermò. «Proviamo
qui», disse, guidandolo all’interno.
Varcata la soglia, entrarono nella bottega scarsamente illuminata e si
trovarono di fronte a un brulichio di volti.
Urmila scorse una figura in movimento in mezzo a quella folla di statue
immobili. «C’è qualcuno?»
chiese a voce alta.
«Chi è?» la figura svaní rapida com’era apparsa, dietro un Ganesh
danzante.
«Volevamo solo parlarle», disse Urmila.
Un uomo già avanti negli anni si materializzò di colpo davanti a lei,
staccandosi da un tempietto su un piedistallo. Indossava un dhoti e una
casacca chiusa da legacci e il suo viso scarno, stizzoso era teso in una
smorfia torva. Indietreggiando, Urmila rischiò di impalarsi in un’asta che
una serena dea Durga teneva dritta tra le mani.
«Attenta», sbottò l’uomo. La scrutò sospettoso mentre lei si risistemava
il sari umido e inzaccherato. «Cosa vuole? - disse. - Abbiamo molto da fare;
non c’è tempo per parlare».
Urmila si irrigidí, ritrovando immediatamente i suoi modi
professionali. «Sono una cronista del
«Calcutta», - disse seccamente. - E
vorrei farle una domanda».
Il cipiglio dell’uomo si accentuò.
«Quale domanda? Perché? Io non so niente. La politica non ci
interessa».
«La politica non c’entra». Urmila gli mise in mano il disegno di
Murugan. «Mi sa dire che immagine è questa?»
Socchiudendo gli occhi, l’uomo lanciò a Murugan uno sguardo
tagliente. «Non ho mai visto niente di simile in vita mia, - disse restituendo
il disegno. - Conosco tutte le immagini sacre che esistono e non ne ho mai
vista una come questa».
Urmila si girò a tradurre a Murugan, ma lui l’interruppe. «Ho capito, -
bisbigliò. - Ma ho l’impressione che ci nasconda qualcosa».
«Allora non sa niente di questa immagine? - disse Urmila all’uomo in
dhoti. - Ne è sicuro?»
«Mi ha sentito? - disse l’uomo alzando la voce. - Le ho già detto di no.
Quante volte glielo devo ripetere?»
Intanto si erano avvicinati un paio di uomini piú giovani. Urmila porse
loro il disegno ma l’uomo anziano la bloccò.
«Cosa vuole che le dicano? - disse.
- Sono dei ragazzi». Spinse Urmila e Murugan verso l’uscita,
borbottando qualcosa tra i denti. Sulla porta li sollecitò con impazienza:
«Su, su, andatevene, non troverete niente qui».
Li guardò allontanarsi poi scomparve dentro la bottega.
«Bene, - disse Murugan, ripulendosi le mani impolverate. - Immagino
che non possiamo ricavarne niente di più».
Urmila stava per andarsene quando Murugan la tirò per un braccio.
«Guarda! - disse, trattenendo il fiato. - Là». Indicò una bambina di sei o
sette anni, seduta sul ciglio della strada, che giocava con una bambola.
«Cosa c’è?» chiese Urmila.
«Guarda cos’ha appena messo tra le mani della bambola», le sussurrò
Murugan all’orecchio.
Guardando piú da vicino, Urmila notò che la bambina stava cercando di
infilare un minuscolo oggetto semicircolare tra le mani della sua bambola di
gomma priva di occhi.
«Cos’è? - disse. - Non capisco».
«Non vedi? - disse Murugan. - è un minuscolo microscopio, proprio
come quello che ho visto io». Le diede una spintarella, «Forza, va’ a
chiederle dove l’ha preso».
Urmila avanzò di un passo e la ragazzina, scorgendo la sua ombra che
s’avvicinava, alzò gli occhi guardandola con diffidenza. Urmila le rivolse
un sorriso rassicurante e si chinò lentamente, inginocchiandosi accanto a
lei.
«Che bello», disse con dolcezza, in un bengali infantile, indicando il
minuscolo microscopio adesso ben fermo tra le mani della bambola.
«è mio», disse la bimba sulla difensiva, proteggendo istintivamente con
la propria mano le dita della bambola.
«Certo che è tuo, - disse Urmila. -
Te l’ha dato il tuo papà, vero?»
La bimba annuí, muovendo lentamente la testa in su e in giú. Poi con la
testa indicò la bottega. «Mio padre è là, - disse. - Ne ha fatte
tantissime».
«Oh!?» disse Urmila, incoraggiante.
«Le ha fatte per la grande puja di stasera», proseguí la bimba.
«Davvero? - Urmila sorrise. - Non sapevo che ci fosse una puja
stasera».
«Sí che c’è, - la bimba annuí convinta. - Oggi è l’ultimo giorno della
puja di Mangala-bibi. Baba dice che stanotte Mangala-bibi entra in un
nuovo corpo».
«Il corpo di chi?» disse Urmila.
«Il corpo che ha scelto lei, naturalmente, - disse la bimba. -
Nessuno sa di chi sia».
Murugan sibilò all’orecchio di Urmila: «Chiedile di Lutchman». Ma
prima che Urmila potesse dire un’altra parola dalla bottega sbucò un uomo.
Prese in braccio la bambina e la portò dentro. Poi ricomparve il vecchio
in dhoti, con un bastone.
«Siete ancora qui? - gridò a Urmila.
- Perché diavolo parlavate con la bambina? Fuori dai piedi, subito, o
chiamo la polizia».
«Non si preoccupi, - disse Urmila rialzandosi. - Ce ne andiamo». Diede
un colpetto sul braccio di Murugan e si avviò veloce lungo il vicolo.
Capitolo trentaseiesimo.
Antar stava per essere sopraffatto dal sonno quando Ava cominciò a
emettere un appello urgente. Il volume non era alto e prima di udirlo
realmente Antar lo sentí nella pancia, si propagava attraverso il pavimento.
Si precipitò nel soggiorno e scorse la sagoma di un plico nella cassetta
della posta elettronica di Ava. Era una missiva dal terminale riservato del
vicesegretario generale per le risorse umane dell’International Water
Council. Esordiva ringraziandolo del tempo e degli sforzi che aveva
dedicato al caso Murugan. Poi, in un linguaggio cortese quanto
inequivocabile lo informava che dal momento che era già «al corrente
dei dettagli» si era deciso che procedesse a ulteriori indagini. Lo si
autorizzava pertanto ad aprire una linea diretta con la filiale Iwc di Calcutta,
allo scopo di condurre tutti gli accertamenti necessari (seguiva una lunga
serie di codici e chiavi d’accesso).
Nel giro di alcuni minuti, pigiando i tasti a raffica, Antar si trasferí con
Ava a Calcutta. Quando fu pronto andò in cucina a bagnarsi la faccia
d’acqua.
L’appartamento di Tara era ancora buio, tranne una luce nel soggiorno
che lasciava sempre accesa, notte e giorno. Mentre Antar si asciugava la
faccia, qualcosa schizzò su per il cortiletto d’aerazione e prese a battere
furiosamente contro il vetro della finestra. Antar si ritrasse alzando le
braccia: era un piccione, che sbatacchiava contro il vetro. Gli occhietti rossi
luccicanti lo fissarono per un istante, poi scomparve.
Antar si versò un bicchiere d’acqua e se lo portò in camera. Poi
cominciò ad avviare i collegamenti.
Dopo 5,65 secondi esatti, Ava si bloccò davanti al terminale riservato
del direttore dell’Iwc di Calcutta, un peruviano. Andò a sbattere contro una
barriera e cominciò a dimenarsi, come un pesce davanti a una chiusa,
rimandando segnali di panico: nell’ufficio non c’era nessuno e la sola
persona direttamente collegata era il direttore stesso. Il quale si trovava a
casa sua, col proprio sistema di sorveglianza attivato. Ava non sarebbe
riuscita a passarci in mezzo senza un comando ad alta priorità.
Antar controllò il codice nella lista delle chiavi d’accesso e digitò il
comando. Nel giro di un secondo Ava superò l’ostacolo e un istante dopo
comparve nel soggiorno di Antar una proiezione olografica del direttore,
ridotta del cinquanta per cento. Era in piedi sotto la doccia, alto e panciuto.
Teneva gli occhi chiusi e canticchiava grattandosi le palle.
Resistendo alla tentazione di dire
«booo!» Antar si schiarí la gola con un garbato colpo di tosse.
Il direttore aprí un occhio lentissimamente, guardandosi intorno
incredulo. Quando si rese conto di ciò che stava succedendo, si coprí di
scatto i genitali con le mani.
Cominciò a urlare, con una voce che da un brusio soffocato passò a uno
strillo acutissimo. Si mise a quattro zampe e cominciò ad arrancare
sgocciolando schiuma e acqua sul pavimento. Probabilmente stava cercando
un asciugamano, pensò Antar, che non riusciva a vedere il resto della stanza
da bagno: a lui il direttore appariva spaventosamente immobile, nel bel
mezzo del soggiorno, come se avanzasse carponi su un nastro trasportatore.
Finalmente il direttore si rimise in piedi, afferrò un asciugamano e se
l’avvolse intorno ai fianchi. «Brutto figlio di puttana», tradusse Ava in un
giulivo arabo popolare quando il direttore cominciò a berciare contro Antar.
«Non puoi fare una cosa simile!
Te la farò pagare, parola mia! Finirai dentro, vedrai…!»
Antar cercò di spiegarsi, ma quello non gli prestava ascolto. Cosí Antar
escluse dal collegamento la stanza da bagno finché quello non si fu calmato
ed ebbe recuperato i vestiti.
Mentre si vestiva, continuava a borbottare. «Non hai idea di come
vadano le cose qui, - mormorava tirandosi su i pantaloni, - devo fare tutto io
in ufficio».
«C’è molto lavoro?» disse Antar cercando di mostrarsi comprensivo.
«Molto lavoro! - ridacchiò
sarcastico il direttore. - Questo è il punto, non ce n’è per niente, adesso
che il fiume non attraversa piú la città. Devo inventare del lavoro per
l’ufficio. Continuo a fare proposte, ma la gente di qui non lascia toccare
niente all’Iwc: non ho mai visto niente del genere. Nell’ultimo anno ci
hanno lasciato avviare un solo progetto. E sai cos’è?»
«Cos’è?» chiese Antar.
«Un ricovero! - disse il direttore, alzando le mani al cielo. - Un ricovero
per i bisognosi, come li chiamiamo noi. C’è un grande forte qui, si chiama
Fort William. Lo costruirono gli Inglesi nel diciottesimo secolo. L’Iwc l’ha
requisito, ma poi non sapeva cosa farne. L’unica cosa su cui erano tutti
d’accordo era l’idea del ricovero.
Ecco cosa faccio adesso, gestisco un ricovero».
Aveva finito di vestirsi e si era seduto davanti al terminale, controllando
i file. «Okay, cos’è che volevi chiedermi? - disse, voltandosi indietro. - Una
tessera di
riconoscimento durante un inventario?
Niente di piú facile - può venire da un posto solo».
Diede un paio di stoccate alla tastiera. «Sí, - disse. - Proprio come
immaginavo. Faceva parte di un inventario in arrivo dal ricovero di Fort
William».
«Va’ avanti», disse Antar.
«Be’, - disse il direttore, - sembra che sia stato trovato nel reparto
:Stati di alterazione mentale…»
Da sopra la spalla strizzò
l’occhiolino ad Antar. «Quelli che una volta si chiamavano manicomi.
Qui dice che è entrato nel sistema stamattina.
L’hanno trovato durante l’accettazione di un ricoverato. Gli fanno
sempre fare uno spogliarello quando portano dentro qualcuno».
Fissando lo schermo, rivolse ad Antar un sorrisetto malizioso. «Da
quello che vedo qui, si direbbe che il tipo che stai cercando sia in uno stato
mentale che piú alterato non si potrebbe».
«Chi è?» chiese Antar.
«Non ha saputo dare un nome», disse il direttore.
«Dove l’hanno trovato?»
Il direttore si concentrò di nuovo sullo schermo. «Qui dice che si è
presentato in una stazione… un posto chiamato Sealdah».
«Quando gli posso parlare?» disse Antar.
«Vuoi parlargli? - grugní il direttore. - Ti rendi conto che devo portarlo
qui? Questo posto è l’unico servizio di comunicazione protetto dell’Iwc a
Calcutta - in casa mia. E
se cadesse in uno stato di alterazione mentale proprio mentre è qui? Se
fa a pezzi questo posto? Se fa a pezzi il terminale?»
«Verificherò che tu sia assicurato,
- disse Antar. - Ma portalo lí, il piú presto possibile». Interruppe la
comunicazione prima che il direttore potesse protestare.
Poi si ributtò sul letto.
Capitolo trentasettesimo.
Oltre le bancarelle allineate sul marciapiede di Shyama Prasad
Mukherjee Road, Urmila annusò una zaffata dell’irresistibile profumo di
cotolette di pesce e dhakai parotha che si spandeva dal Dilkhusha Cabin.
«Se non mangio qualcosa subito, muoio», disse a Murugan. Detto fatto,
lo spinse dentro il ristorante. Lo guidò verso un séparé chiuso da una tenda,
si lasciò cadere su un sedile e fece segno a Murugan di sedersi di fronte a
lei. Quasi subito comparve un cameriere, con in mano due menú pieghevoli.
Urmila fece le ordinazioni per entrambi, e appena il cameriere si fu
allontanato, tirò la tenda.
«Dimmi una cosa, - disse,
sporgendosi verso Murugan, - chi è questo Lachman di cui parli in
continuazione?»
«Vuoi dire Lutchman, - la corresse Murugan. - Ronnie Ross avrebbe
detto cosí, o comunque era cosí che lo sillabava».
«Ma il nome dev’essere stato Lachman, - disse Urmila. -
Probabilmente Ross lo pronunciava all’inglese».
«Non ha importanza, - disse Murugan.
- Chissà come lo chiamava sua madre.
Comunque, questo Lutchman era un giovanotto che il 25 maggio 1898,
alle otto di sera, entrò nella vita di Ronnie Ross offrendosi come cavia.
Finí per restare e nei tre anni successivi fece di tutto per Ron,
dall’affettargli il pane a colazione a contare i vetrini. Ogni volta che Ron
prendeva la direzione sbagliata, Lutchman lo aspettava e lo rimetteva sulla
retta via. Diceva di essere un dhooley-bearer, ma ci scommetto che menava
Ronnie per il naso».
«Ma, - disse Urmila, - e lui come poteva sapere dove condurre Ronald
Ross?»
«è una lunga storia. Te la faccio breve: qualche anno fa ho trovato una
lettera scritta a Calcutta, da un medico missionario americano che si
chiamava Elijah Farley. Prima di prendere i voti Farley faceva ricerca
medica negli Stati Uniti, alla John Hopkins. Quando era studente aveva
lavorato con alcuni dei nomi piú illustri nel campo della ricerca sulla
malaria.
Bene, l’ultima cosa che scrisse fu questa lettera, in cui descrive una
visita al laboratorio di Cunningham a Calcutta. Lí vide qualcosa che…
boff! era forse tre o quattro anni avanti rispetto allo stato delle cose
nella comunità scientifica
internazionale. Qualcosa che non aveva alcun senso per lui,
naturalmente, perché non aveva niente a che fare con quanto gli era stato
insegnato».
«Calma, calma, - disse Urmila. - Non sono certa di capire quello che mi
stai dicendo. Ti riferisci alle ricerche dello stesso Cunningham?»
Murugan rise: «No, Cunningham non ne aveva la minima idea».
«E allora, chi faceva il lavoro?»
«Per come la vide Farley, - disse Murugan, - era la gente che lavorava
nel laboratorio, inservienti e aiuti di Cunningham».
«Ma, senza dubbio, - disse Urmila, -
Cunningham era informato di ciò che facevano i suoi aiutanti».
«Be’, le cose stavano cosí, - disse Murugan, - gli aiutanti di
Cunningham erano un bizzarro assortimento. Il fatto è che lui non voleva
che gli girassero intorno ragazzini laureati di Calcutta, facendogli domande
e roba del genere. E allora cosa faceva, li addestrava lui stesso, i suoi
aiutanti».
«Chi erano? - chiese Urmila. - E
dove li trovava?»
«Nell’ultimo posto in cui chiunque li avrebbe cercati, - disse Murugan. -
Alla stazione Sealdah. La stazione non esisteva da molto, ma se volevi
cercare della gente abbandonata a se stessa, che gironzolava a vuoto senza
sapere dove andare, be’, era quello il posto in cui guardare. Cunningham
aveva l’abitudine di farci un sopralluogo di tanto in tanto e quando vedeva
un ragazzino adatto gli offriva vitto e alloggio in cambio di lavoro, niente di
particolare, giusto un lavoro a salario minimo al
laboratorio, scopare per terra, dhooley-bearer, schifezze del genere.
Quelli naturalmente coglievano l’occasione al volo, cos’avevano da
perdere? Vivevano in quelle baracche vicino al muro dell’ospedale e
davano una mano in laboratorio. Una sistemazione carina, accogliente».
«E lui gli insegnava? - disse Urmila. - Li addestrava, e cosí via».
«Non proprio. Probabilmente gli insegnava a leggere un po d’inglese e
gli faceva vedere un paio di cose - ma solo stupidaggini da burattini, guarda
questo, portami quello. In ogni caso non ne avrebbe ricavato un cazzo.
C’era però questa persona, una donna, che nel laboratorio si ritrovò
come un’anatra nell’acqua. Sono pronto a scommettere che, grazie alla sua
istintiva comprensione dei fondamenti del problema malaria, nel giro di
qualche anno dava parecchi punti a Cunningham».
«Ma chi era questa donna? - disse Urmila. - Come si chiamava?»
Murugan sorrise. «A sentire Farley,
- disse passandosi la manica sulla fronte sudata, - si chiamava
Mangala».
Urmila rimase di stucco. «Mangala? -
gridò. - Vuoi dire Mangala-bibi, il nome che ci ha detto la bambina?»
«Credo che la si possa considerare un prototipo, - disse Murugan. - E
quanto a chi fosse, chi lo sa? Il solo indizio che sia davvero esistita è la
lettera di Elijah Farley. E anche quella lettera non è piú in circolazione, o
perlomeno non è piú rintracciabile negli archivi».
«Cosa diceva di lei Elijah Farley?»
«Non molto, - disse Murugan. -
Sapeva solo quello che gli aveva detto Cunningham, che l’aveva trovata
alla stazione Sealdah e che probabilmente era affetta da sifilide ereditaria.
Ma qui sta il nocciolo della questione: fu Cunningham a trovarla o fu lei a
trovare Cunningham? In ogni caso, nel laboratorio Farley vide cose che non
gli lasciarono dubbi sul fatto che quella donna sapesse sulla malaria molto
piú di quanto Cunningham poteva averle insegnato».
«Davvero? - disse Urmila, corrugando la fronte incredula. - Possibile
che avesse imparato da sola cose tanto tecniche?»
Murugan si strinse nelle spalle. «è risaputo che cose del genere
succedevano. Pensa a Ramanujan, il matematico, a Madras. Fece un sacco
di strada e reinventò tutto da solo un bel po’ di matematica moderna perché
nessuno l’aveva informato che era già stato fatto. E nel caso di Mangala
non si tratta di matematica: stiamo parlando di un microscopio, che a
quell’epoca era ancora uno strumento piuttosto rudimentale. Un talento
naturale può portarti molto lontano, come dimostra la carriera di Ronnie
Ross. Nel caso di questa donna tuttavia siamo molto al di là del semplice
talento, potremmo definirlo genio. E ricordati che non era intralciata da quel
tipo di cose che talora rallentano quelli che hanno ricevuto una formazione
tradizionale: non aveva un sacco di teorie di merda nella testa, non doveva
scrivere relazioni o costruire prove. A differenza di Ross non aveva bisogno
di leggere un saggio di zoologia per vedere che c’era una differenza tra
Culex e Anopheles: la vedeva e basta, esattamente come tu e io vediamo la
differenza tra un bassotto tedesco e un doberman. Non si preoccupava di
classificazioni formali. Di fatto non si preoccupava neppure della malaria.
Probabilmente è questa la ragione per cui si è messa alle calcagna di Ronnie
Ross e lo ha spinto a tagliare il nastro. Stava lavorando a qualcosa di
completamente diverso, e ormai era convinta che l’unico modo per arrivare
al traguardo fosse spingere Ronnie Ross ad arrivarci. Aveva cose piú grosse
del parassita della malaria a cui pensare».
«Sarebbe a dire?» disse Urmila.
«Il cromosoma Calcutta».
Con un discreto colpo di tosse il cameriere tirò la tenda e sistemò i piatti
sul tavolo. Urmila attese finché se ne fu andato.
«Cos’è che hai detto?»
«Il cromosoma Calcutta, - disse Murugan. - è cosí che chiamo la cosa a
cui stava lavorando quella donna».
«Adesso non ci capisco piú niente. -
disse Urmila. - Ho vissuto qui tutta la mia vita e non ho mai sentito
parlare di una cosa simile».
«E chi sa se ne sentirai mai parlare? - disse Murugan. - La domanda
vale anche per me. Chissà se esiste o è mai esistito. A questo punto anche le
mie sono semplici supposizioni».
«Ma avrai pur qualcosa su cui fondarle», disse Urmila.
Murugan rimaneva zitto.
«Va’ avanti, - lo incalzò Urmila, quasi supplichevole. - Ci siamo di
mezzo tutti e due dopo tutto. Ho il diritto di sapere».
Murugan esitava. «Sei veramente sicura di volerlo sapere?»
Urmila annuí.
«D’accordo allora, ti spiego da dove sono partito, - disse con riluttanza.
- Leggendo la lettera di Farley ho avuto l’impressione che Mangala
usasse il parassita della malaria per curare un’altra malattia».
«Quale malattia?»
«La sifilide, - disse Murugan. - O
per dirla piú precisamente, la paralisi sifilitica, stadio finale della
sifilide. Dal resoconto di Farley sembra che ci fosse una rete sotterranea di
persone convinte che lei conoscesse una cura. Non dimenticare che siamo
intorno al 1890
- molto prima che venisse scoperta la penicillina. La sifilide era una
malattia incurabile, uccideva milioni di persone ogni anno, in ogni parte del
mondo. Quella gente che andava da Mangala forse credeva che fosse una
strega o una maga o una dea o non so che altro, non ha importanza, a
quell’epoca anche le convenzionali terapie mediche per la sifilide non erano
molto piú che abracadabra.
Restiamo al vecchio detto, non c’è fumo senza arrosto. Se un’intera
folla credeva che Mangala conoscesse una cura, o comunque un trattamento
abbastanza efficace, dev’essere stato perché otteneva qualche risultato. La
gente non è stupida: se si
sottoponevano a lunghi spostamenti per vederla, vuol dire che Mangala
offriva loro una certa dose di speranza».
«Che trattamento credi che fosse?»
disse Urmila.
«Sto facendo un’ipotesi folle, okay? ma se proprio mi ci costringi, ti
dirò che ho l’impressione che Mangala fosse incappata in una variante di un
procedimento che nel 1927 valse il Nobel a un certo Julius von Wagner-
Jauregg. Sai di quale terapia sto parlando?»
Urmila sollevò gli occhi dal piatto.
«Sai benissimo che non ne ho la minima idea. Di cosa si trattava?»
Murugan premette con un dito la croccante sommità rotonda della sua
dhakai parotha, liberando uno sbuffo di vapore. «D’accordo, te lo racconto,
- disse. - Ciò che Wagner-Jauregg riuscí a dimostrare fu che la malaria
artificialmente indotta spesso curava, o almeno ridimensionava, la paralisi
sifilitica. Sai cosa faceva? Iniettava un po’ di sangue malarico nel paziente
facendo una piccola incisione. Era un procedimento piuttosto rozzo, ma il
buffo è che funzionava. Di fatto, prima degli antibiotici, il metodo Wagner-
Jauregg era una terapia molto comune: qualunque ospedale per le malattie
infettive aveva la sua stanzetta d’incubazione dove si allevava un gregge di
anofele. Pensa un po’: ospedali che coltivano la malattia! Ma del resto cosa
può esserci di piú naturale che combattere il fuoco col fuoco? Mi dirai che i
vaccini si basano sullo stesso principio, ma in realtà imbottiscono il tuo
sistema immunitario contro se stessi, mentre questo è l’unico caso
conosciuto in campo medico in cui si utilizza una malattia per combatterne
un’altra.
Ancora oggi nessuno sa con
precisione come funzionasse il metodo Wagner-Jauregg. Non che
nessuno ci perda il sonno. Fu uno scandalo scientifico e la medicina fu
quasi lieta di voltargli le spalle quando vennero scoperti gli antibiotici. Del
resto neppure il vecchio Julius si preoccupava granché del funzionamento
del suo metodo. Ricordati che non era un biologo, bensí un clinico e uno
psicologo. Riteneva che funzionasse facendo salire la temperatura corporea
del paziente. A quanto pare non si è mai chiesto perché nessun altro tipo di
febbre ottenesse il medesimo effetto.
Ma è senz’altro possibile che la malaria agisse sulla paralisi per un’altra
via: il cervello, per esempio. Una delle tante conseguenze della sifilide è
l’intorbidamento della membrana sanguigno-cerebrale.
Ora, la malaria agisce sul cervello in vari modi: ecco perché la forma
causata dal Plasmodium falciparum è chiamata anche malaria cerebrale. Ma
anche altri tipi di malaria hanno strani effetti neurologici. Un sacco di gente
che ha avuto la malaria lo sa: può essere piú allucinogena di qualunque
sostanza stupefacente. Ecco perché taluni popoli primitivi la consideravano
una sorta di possessione dello spirito.
Entra in scena Mangala: sembra che anche lei avesse trovato per caso la
stessa terapia, all’incirca nello stesso periodo di Herr Doctor. Ma ci
aggiunse una piccola variante. In base a ciò che sappiamo della sua tecnica,
pare che stesse lavorando su una forma inusuale di malaria - ovvero, da un
qualche metodo primitivo di cura dei cavalli aveva ricavato una forma che
si poteva coltivare nei piccioni. La mia ipotesi è che avesse trovato il modo
di trasferire il parassita, in modo che l’uccello potesse essere usato come
provetta, o base agarica.
E qui succede il casino. Mi ci gioco la reputazione, ma sta’ a sentire.
Potrebbe essere andata pressappoco cosí: a un certo punto dei suoi
esperimenti Mangala si accorge che la terapia spesso produce strani effetti
collaterali - qualcosa che assomiglia a strani disordini della personalità.
Solo che non erano disordini, bensí trasposizioni. Fa due piú due e
scopre che di fatto ciò che ha per le mani è un trasferimento di tratti
caratteriali assortiti a caso, dal donatore di malaria al beneficiario -
tramite il piccione, naturalmente. Dal momento in cui se ne accorge si
dedica con sempre maggiore determinazione a isolare questo aspetto della
cura, per controllare come funzionano questi trasferimenti».
«Non sono sicura di capire, - disse Urmila. - Cosa stai cercando di dire,
esattamente?»
«Cosa sto cercando di dire? Be’, ti sto dicendo questo: io credo che
Mangala sia incappata in qualcosa per cui né lei né Ronnie Ross né
qualunque scienziato del loro tempo aveva un nome. Per semplicità,
chiamiamolo cromosoma: benché, ammesso che sia davvero un
cromosoma, lo è solo per estensione, diciamo cosí - per analogia. Perché
quello di cui stiamo parlando è un esemplare che sta al ben noto pantheon
mendeliano di ventitré cromosomi come Ganesh sta agli dèi; vale a dire che
è diverso,
non-omologabile, unico - e proprio per questa ragione sfugge alle
consuete tecniche di ricerca. Perciò l’ho battezzato cromosoma Calcutta.
Una delle ragioni per cui il cromosoma Calcutta non può essere
individuato coi normali metodi scientifici è perché, a differenza dei
cromosomi standard, non è presente in ogni cellula. O se c’è è talmente
occultato che le tecniche correnti non riescono a isolarlo. E non è presente
in ogni cellula perché, a differenza degli altri cromosomi, non è
simmetricamente appaiato. E non è appaiato perché non si spacca in due
nell’ovulo e nello sperma. E lo sai perché? Te lo dico io: perché si tratta di
un cromosoma che non si trasmette di generazione in generazione con la
riproduzione sessuata. Si sviluppa attraverso un processo di ricombinazione
ed è diverso in ogni individuo. Ecco perché lo si è trovato solo in certi tipi
di cellule: nei tessuti rigenerativi semplicemente non c’è. Esiste solo nel
tessuto non rigenerativo: in altre parole, nel cervello.
Mettiamola cosí: se un cromosoma Calcutta esiste davvero, solo una
persona come Mangala, una che era completamente fuori dal gioco,
scientificamente parlando, poteva scoprirlo - anche se non sapeva cosa
fosse e non aveva un nome da dargli.
Perché qui siamo di fronte a una manifestazione biologica dei tratti
umani che non si eredita direttamente dal patrimonio genetico, né viene
trasmessa in esso. Si tratta proprio di quel tipo di entità che qualunque
scienziato convenzionale fa fatica ad accettare, molta fatica. Oggi i biologi
sono costantemente sotto pressione, la pretesa è che con le loro scoperte si
allineino alla volontà dei politici. I politici di destra gli stanno addosso
affinché trovino geni per qualunque cosa, dalla povertà al terrorismo, cosí
avranno un alibi per castrare i poveri o far saltare in aria il Medio Oriente
col nucleare. Quelli di sinistra vanno fuori dai gangheri ogni volta che
sentono parlare di manifestazioni biologiche dei tratti umani: alla fin fine
dev’essere sempre una questione di coscienza o anima.
Se ci pensi sopra, però, salta fuori che alcuni tratti hanno un
corrispondente biologico. Ma chi ci dice che devono essere per forza
determinati dalla biologia? Forse può valere il contrario, e sono loro che
lasciano la propria impronta sulla biologia. Chi lo sa?
E il fatto che le corrispondenti manifestazioni biologiche non si
trasmettano per riproduzione sessuata, non significa che non possano essere
trasmesse diversamente. E stavolta la battuta tocca a Mangala. Tieni
presente che lei era partita dalla fine, incappando nel processo di
trasmissione, anziché sul cromosoma vero e proprio - dopotutto lei non
sapeva cosa fosse un cromosoma.
Nessuno ne sapeva niente a
quell’epoca. Tieni presente che era stata la malaria a portarcela. Tieni
presente che uno degli aspetti piú straordinari del parassita della malaria è
che sa usare in modo prodigioso il «taglia e incolla» sul proprio Dna -
nessun’altra creatura sa fare altrettanto salvo il tripanosoma. Tieni presente
che è per questa ragione che ci si è messo tanto a mettere a punto un
vaccino per la malaria. Perché quello che ha di speciale il parassita della
malaria è che durante il suo ciclo vitale modifica continuamente il suo
manto proteico. Cosí, mentre il sistema immunitario del corpo impara a
riconoscere la minaccia, il parassita ha tutto il tempo di cambiarsi d’abito
prima del prossimo atto. Ogni volta che si sperimenta un vaccino il
parassita s’inventa un modo per difendersi. C’è solo una cosa di cui si può
essere sicuri con la malaria: mai sottovalutarla.
Tieni presente che Mangala fu condotta al cromosoma Calcutta
dall’osservazione empirica della malaria. Sai in cosa dev’essere incappata?
Nel fatto che il parassita della malaria, grazie alle proprie capacità
ricombinatorie, può effettivamente digerirsi un po di Dna facendolo a pezzi
e
ridistribuendolo. In tal caso, introducendolo in un paziente con una
membrana sanguigno-cerebrale ridotta a spugna, poteva forse restituire
informazioni e ripristinare qualche parziale allacciamento nel magazzino
mentale annacquato dell’ospite.
Probabilmente quando incappò in questo processo decise di lasciar
perdere tutto il resto e si dedicò a metterlo a punto - in due direzioni.
Primo: cercando di scoprire un modo per dribblare il passo della sifilide.
Secondo: cercando di stabilizzare il cromosoma durante il processo di
trasferimento. Perché fino a quel momento era successo che il parassita lo
interrompeva in modi assolutamente imprevedibili, lei invece voleva
riuscire a controllare il tipo di caratteri che venivano trasmessi.
Immagino che intorno al 1897 Mangala fosse a un punto morto, e fosse
arrivata alla conclusione che le forme di malaria esistenti non le avrebbero
piú fatto fare passi avanti. Ecco perché voleva cosí disperatamente che
Ronnie scoprisse tutta la faccenda e la rendesse pubblica. Perché Mangala
si era convinta che il legame tra il parassita e la mente umana fosse cosí
stretto che una volta individuato il suo ciclo vitale, sarebbe mutato
spontaneamente in direzioni che avrebbero spinto la sua ricerca verso la
tappa successiva. Era convinta di questo, immagino: che ogni volta che
arrivava a un punto morto, la strada da seguire fosse provocare un’altra
mutazione».
Allontanando il piatto vuoto, Urmila disse. «Come?»
«Rendendo note alcune cose».
«E ci riuscí?»
Murugan sorrise. «Credo che lo scopriremo».
«Come?»
«Scommetto che questo esperimento ha a che fare con tutto ciò».
«Ma perché cosí? Perché non…?»
«Non l’hai ancora capito, vero? -
disse Murugan. - Lei non si è messa in questa storia perché voleva
essere una scienziata. Ci si è messa perché pensa di essere un dio. Il che
significa che vuole essere la mente che mette in moto le cose. Per come la
vede lei, non dovremo mai conoscerla, lei o i suoi scopi, o niente altro di
lei: l’esperimento può funzionare soltanto se le sue motivazioni restano
assolutamente imperscrutabili per noi, ignote come una malattia. Ma allo
stesso tempo è costretta a provare e dirci qualcosa della storia del suo essere
e divenire, il che fa parte dell’esperimento».
«Perché ne parli come se fosse ancora viva? - disse Urmila. - O stai
cercando di dirmi che lo è? Che in qualche modo è riuscita a…?»
Murugan sorrise. «Tu cosa ne pensi?»
Urmila si strinse nelle spalle incrociando le braccia,
improvvisamente fredda. «Non so cosa pensare», disse tirando la tenda
del séparé.
Nel momento in cui guardò nel locale, sembrò che ogni cosa si
fermasse; era come se tutti nella stanza si fossero voltati a guardarla, gli
altri clienti, i camerieri, gli scapigliati studenti universitari al tavolo vicino -
come se tutti non aspettassero che il momento di guardarla in viso.
Richiuse velocissima la tenda.
«E cosa mi dici di Lutchman? -
chiese. - In quello che mi hai detto finora non c’è niente che dimostri
una qualche connessione tra Mangala e Lutchman. Che ruolo aveva
Lutchman in tutto ciò? Da dove veniva?»
«Mi hai beccato, Calcutta, - disse Murugan. - Su questo punto continuo
a vagare nel vuoto. Non ho che pezzi e brandelli - nessun inizio, niente a
metà e decisamente nessuna fine».
«Fammi degli esempi, - disse Urmila.
- Cosa sono i pezzi e brandelli di cui vai parlando?»
«La lettera di Farley è la mia fonte principale, - disse Murugan. - In essa
Farley dice che c’era anche un ragazzo che lavorava insieme a Mangala al
laboratorio di Cunningham. Età e profilo generale sembrano coincidere con
quelli di Lutchman».
«Non è granché», disse Urmila.
«Hai ragione, - riconobbe Murugan, -
solo che un paio di annotazioni nella lettera fanno pensare che l’aiutante
fosse lo stesso ragazzo che bussò alla porta di Ross il 25 maggio 1895».
«Sarebbe a dire?»
«Be’, una cosa che sappiamo di Lutchman, da un’altra fonte, è che era
menomato nelle dita, ossia che gli mancava il pollice della mano sinistra.
Pare che le sue capacità manuali non ne risentissero.
Probabilmente era nato cosí, perché a quanto pare l’indice era
addestrato a fare le veci del pollice…»
Qualcosa si risvegliò nella mente di Urmila, un ricordo lontano.
«Che ti succede? - disse Murugan. -
Perché quella faccia?»
Si morse un labbro, «C’è qualcosa che mi frulla in mente, ma non riesco
a identificarla. Va’ avanti. Farley dice qualcosa circa la mano
dell’aiutante?»
«Niente di esplicito, - disse Murugan. - Ma c’è una frase tipo:
«Viste le circostanze è
straordinariamente svelto», o qualcosa del genere. Le «circostanze» cui
allude potrebbero avere a che fare con la mano del ragazzo».
«Tutto qui?» disse Urmila delusa.
«C’è un’altra cosa. In fondo alla lettera Farley dice che l’assistente
usava un nome falso».
«E qual era il suo nome vero?»
«Vorrei tanto saperlo, - disse Murugan, - ma non lo so. Farley non lo
dice. Lasciò Calcutta lo stesso giorno in cui spedí la lettera. Fu visto salire
su un treno alla stazione Sealdah e con lui c’era un giovanotto, la cui
descrizione corrisponde a quella dell’aiutante, che gli portava i bagagli. Piú
tardi furono visti anche scendere dal treno in una piccola stazione deserta.
Poi di Farley non si è saputo piú niente.
Qualche mese dopo, nel maggio 1895, Lutchman entrava nel laboratorio
di Ronald Ross a Secunderabad».
«Potrebbe trattarsi di una semplice coincidenza», disse Urmila.
«Potrebbe, - disse Murugan. - Ma c’è un’altra coincidenza di cui tener
conto».
«Cioè?»
«Semplicemente che, in base a un’altra fonte, ho verificato che
Lutchman si faceva chiamare con un nome che non era il suo».
«Che nome era?»
«Laakhan», disse Murugan.
Urmila si coprí automaticamente la bocca con le mani. «Dimmi, presto,
come si chiamava la stazione dove Farley e l’aiutante furono visti insieme
per l’ultima volta?»
«Renupur», disse Murugan.
Urmila lo fissava senza fiatare.
Murugan le prese una mano e la scosse. «Ehi, svegliati. Cosa ti
succede?»
«è solo che penso di poter
completare una parte del quadro».
«Come sarebbe?»
«Ieri sera sono stata a casa di Sonali-di, che mi ha raccontato una cosa:
una storia che le raccontò sua madre, riguardo a qualcosa che accadde a
Phulboni molti anni fa».
Capitolo trentottesimo-
Nel 1933, poco dopo aver ottenuto il suo primo e unico lavoro,
Phulboni fu mandato nella sperduta città di provincia di Renupur.
Phulboni lavorava per la Palmer Brothers, nota ditta inglese che
produceva saponi e olii e altri prodotti per la casa. La compagnia era
famosa per la sua estesa rete di distribuzione, che raggiungeva anche
piccolissime città e villaggi. Ogni nuovo assunto doveva passare un paio
d’anni viaggiando in una regione, visitando i negozi dei villaggi, imparando
a conoscere i commercianti del posto, sedendosi ai baracchini dei venditori
di tè, visitando fiere e spazi fieristici.
Essendo nuovo del mestiere, Phulboni non aveva mai sentito parlare di
Renupur. Dopo essersi informato, fu piacevolmente sorpreso
nell’apprendere che, per quanto piccola, la città vantava una stazione
ferroviaria. Ci passava ogni giorno un treno che collegava Calcutta al
mercato del cotone di Bareich.
In linea d’aria, Renupur non distava da Calcutta piú di trecento miglia,
tuttavia il percorso era lento e piuttosto monotono, con quel suo serpeggiare
attraverso Darbhanga e una vasta fascia dell’estesa pianura di Maithil. Ma,
lungi dal rabbuiarsi al pensiero di passare due giorni in treno, Phulboni ne
fu
soddisfattissimo: adorava tutto ciò che aveva a che fare con le ferrovie -
stazioni, motori, orari ferroviari, l’acre odore di creosoto dei vagoni
letto in legno di tek. Non c’era niente che gli piacesse piú del fantasticare
accanto a un finestrino con l’aria in faccia. In questo caso era
particolarmente entusiasta perché gli avevano detto che i boschi intorno a
Renupur erano ricchi di cacciagione.
Com’era nel suo carattere, aveva speso il primo mese di salario per
comprarsi un fucile nuovo, calibro 303, e non vedeva l’ora di usarlo.
Era metà luglio. La stagione dei monsoni era cominciata e tutta l’India
orientale era battuta dalla pioggia.
Numerosi fiumi della regione, famosi per la loro irrequietezza, avevano
rotto gli argini invadendo le vaste pianure circostanti. Quelle acque, cosí
minacciose per coloro che di esse si alimentavano, mostravano un aspetto
completamente differente al viaggiatore occasionale che le guardava dal
treno, al sicuro sull’alta massicciata. Le acque immobili, distese in grandi
lenzuola d’argento sotto i bassi cieli monsonici, offrivano uno spettacolo
incantevole, affascinante. Phulboni, in posizione elevata tra le colline e le
foreste di Orissa, non aveva mai visto niente di simile prima di allora:
quella piana maestosa, infinita, che rifletteva cieli turbolenti.
Prima di lasciare Darbhanga, Phulboni aveva chiesto al capotreno di
avvisarlo prima dell’arrivo a Renupur.
Era un viaggio di otto ore, ma al giovane scrittore sembrarono una
manciata di minuti. Di certo non aveva ancora soddisfatto la propria fame di
paesaggi, quando il capotreno venne ad avvisarlo che erano quasi arrivati a
Renupur.
Phulboni era sbalordito: guardando fuori dal finestrino non vedeva che
campi allagati, acque immobili interrotte soltanto dall’accurata geometria di
argini e terrapieni. In lontananza, un isolato ricciolo di fumo di legna che si
alzava in volute da una macchia d’alberi faceva pensare a un villaggio o un
gruppo di capanne, ma non scorgeva alcun segno di edifici che, per
dimensioni, facessero pensare a una stazione ferroviaria.
Quando manifestò la sua meraviglia al capotreno, Phulboni apprese, con
qualche preoccupazione, che la città (o piuttosto il villaggio) di Renupur
distava circa tre miglia dalla stazione che portava il suo nome. Di sicuro
Renupur non era abbastanza grande o importante per meritare una
deviazione della linea che univa Darbhanga a Bareich. Ci si aspettava
piuttosto che gli abitanti di Renupur che intendevano avvalersi di quel
servizio coprissero la distanza su un carro trainato da un torello. A dire il
vero la stazione di Renupur doveva la sua esistenza piú a esigenze tecniche
che alle necessità della popolazione locale. Il regolamento ferroviario
stabiliva che le linee a binario unico come quella fossero dotate di un
binario di manovra a intervalli regolari, onde consentire ai treni in arrivo di
superarsi in condizioni di sicurezza. Era stato cosí che Renupur aveva
acquistato fama di stazione: in realtà era poco piú di un cartello segnaletico
e una banchina accanto a un binario morto.
Era una questione di burocrazia e regolamenti, naturalmente, spiegò il
capotreno. Su quella linea non c’era nessun bisogno di un binario di
manovra, era quello l’unico treno che percorreva quel tratto di binario.
Avanzava sbuffando, si fermava dovunque col minimo pretesto, finché
arrivava alla stazione di Bareich. A quel punto invertiva semplicemente la
marcia e tornava indietro. Non era ancora mai capitato che incrociasse un
altro treno prima di Darbhanga.
Il capotreno era un uomo d’aspetto bizzarro. Aveva una faccia
grottescamente contorta: la parte inferiore della guancia cosí poco
allineata con la parte superiore che la bocca restava perennemente aperta in
una smorfia truffaldina e lasciva.
Cominciò a ridere, una risata asciutta, rauca, senza allegria. Poi si
sporse dal finestrino e indicò un tratto di binario che correva parallelo alla
linea principale per circa duecento metri prima di ricongiungersi con essa.
Ruggine ed erbacce rendevano quasi invisibili le rotaie.
«Ecco, quello che vede laggiú è il binario di manovra di Renupur»,
disse accostando il viso a quello di Phulboni e innaffiandolo di spruzzi di
saliva rossa di paan. «Come vede, non viene usato. Dicono che sia stato
usato una sola volta, ed è accaduto molti, molti anni fa».
Phulboni non gli prestava
attenzione: era troppo occupato a ripulirsi il viso dalle macchie di paan.
Il treno si arrestò bruscamente e il capotreno spalancò una porta e scese
precipitosamente reggendo la custodia di tela del fucile e la sacca di
Phulboni. Prima che Phulboni potesse dargli la mancia, era già risalito sul
treno e sventolava la bandierina verde.
«Ehi, un momento», gridò Phulboni, colto alla sprovvista.
Con un fischio acuto il treno si rimise lentamente in moto. Phulboni si
guardò intorno e s’avvide, con meraviglia, di essere l’unica persona scesa a
Renupur. Lanciando un ultimo sguardo al treno scorse il capotreno che lo
osservava da un finestrino, la bocca storta ossessivamente aperta.
Poi il treno emise un altro fischio lancinante e quella strana faccia
contorta svaní in una nube di fumo.
Phulboni rabbrividí e si chinò a raccogliere i bagagli. Era impaziente di
incamminarsi verso il villaggio e istintivamente alzò una mano, per
chiamare un inserviente o un facchino.
Solo in quel momento si rese conto che non si vedevano né inservienti
né facchini.
La stazione era la piú piccola che Phulboni avesse mai visto, piú piccola
persino di quelle stazioncine di villaggio che talvolta occhieggiano
all’improvviso dinanzi al viaggiatore appisolato su un treno in corsa, per
poi sparire di colpo come sono comparse. Di solito, infatti, anche le stazioni
piú piccole hanno almeno una banchina, e spesso perfino qualche panca di
legno. Invece la banchina di Renupur non era che un tratto di terra battuta
coperta d’erbacce con solo qualche lastra di pietra sbrecciata a segnarne i
contorni. Accanto al binario, a un centinaio di metri l’uno dall’altro, erano
appesi due cartelli cigolanti, con la stessa scritta a malapena leggibile:
«Renupur».
All’incirca a metà tra l’uno e l’altro, con funzioni di cabina segnaletica-
piú-stazione, c’era una sgangherata struttura di mattoni col tetto di lamiera,
dipinta nel solito colore rosso delle ferrovie. Non c’erano case o capanne in
vista, né abitanti del villaggio, niente polizia ferroviaria, né contadini
curiosi, né monelli, niente venditori di cibo, né mendicanti, né viaggiatori
addormentati, neppure l’immancabile abbaiare dei cani.
Guardandosi intorno, Phulboni realizzò che la stazione era vuota -
assolutamente vuota. Non c’era nessuno, non un solo essere umano in
vista. Lo spettacolo era cosí sorprendente da provocare
letteralmente incredulità. Le stazioni, nell’esperienza del giovane
scrittore, erano affollate o semiaffollate. Erano semiaffollate quando ci si
poteva circolare senza impedimenti, senza dover dare spintoni alla gente. In
quelle rare occasioni accadeva di esclamare con meraviglia:
«Strano, oggi la stazione è vuota!»
usando il termine metaforicamente, senza tener conto di facchini,
venditori ambulanti, passeggeri insonnoliti e parenti in attesa e cosí via,
che, pur senza impedirti di passare, erano tuttavia innegabilmente presenti.
Per quanto ne sapeva il giovane scrittore, era quello il significato della
parola vuota applicato a una stazione. Ma questa?
Malgrado tutta la sua versatilità, Phulboni non riusciva a trovare una
parola per descrivere una stazione realmente disabitata e deserta.
Contemplando quel luogo solitario il giovanotto ebbe un senso di
mancamento. Non sapeva dove andare né come. Non si vedevano strade né
sentieri. La stazione, abbarbicata alla massicciata ferroviaria, era una
piccola isola in un mare di flutti scintillanti.
Phulboni aveva logicamente
immaginato di trovare qualcuno ad attenderlo alla stazione: il
proprietario di un negozio o un ambulante o qualcun altro che avesse a che
fare coi prodotti Palmer. Invece eccolo lí, a Renupur, e per quanto gli era
dato vedere non c’era anima viva in quella stazione, a parte lui. Prese il
rotolo con materasso e coperte per la notte, si buttò in spalla la custodia del
fucile e si diresse verso la cabina segnaletica in cerca del capostazione.
Aveva percorso solo pochi passi quando sentí una voce alle sue spalle:
«Sahib, sahib!»
Voltandosi, Phulboni vide un ometto con le gambe storte che arrancava
lungo la banchina. Indossava un dhoti sporco di fango e una giacca da
capostazione e reggeva per il becco una brocchetta d’ottone.
Phulboni si sentí talmente sollevato nel vedere un altro essere umano
che l’avrebbe abbracciato volentieri. Ma, memore del proprio status di
rappresentante della Palmer Brothers, irrigidí la schiena spingendo il mento
in avanti.
L’uomo raggiunse Phulboni e gli tolse di mano il rotolo con la roba per
la notte.
«Arrey Sahib, - disse ansimando. -
Che ci posso fare? Ogni volta che comincia a piovere è cosí per me:
avanti e indietro, fuori nei campi e di nuovo dentro. Basta che mangi una
banana, che va giú sparata ed esce di nuovo fuori come una palla di
cannone.
è un tormento. Quella-che-sta-a-casa mi dice sempre, dice, Arrey
Budhhu Dubey, se tu fossi una vacca invece di un capostazione potrei
almeno usare i tuoi escrementi per scaldare la stufa e cucinare. E io le dico,
donna, perché non rifletti prima di parlare.
Pensaci un momento, se io fossi una vacca invece di un capostazione,
che bisogno avresti di cucinare per me?»
Le labbra di Phulboni si tesero, ma essendo nuovo del lavoro non
sapeva bene quale atteggiamento ci si aspettasse da un rappresentante della
Palmer Brothers in circostanze simili.
Avendo colto la sua esitazione, Budhhu Dubey era già il ritratto del
rincrescimento.
«Oh, sahib, - disse. - Budhhu Dubey è uno sciocco, a parlare con un
grande sahib dei propri escrementi. Mi perdoni, mi perdoni…»
Si buttò ai piedi di Phulboni. Lo scrittore non poté far altro che
impedirgli di toccargli le scarpe con la fronte.
Phulboni lo tirò su bruscamente. «La smetta, - disse. - Mi dica piuttosto
come posso fare a raggiungere Renupur».
«Questo è un problema, - disse il capostazione con tono di scuse. -
Nemmeno con una barca ce la farebbe a raggiungere Renupur in
giornata».
Phulboni inorridí. «Ma dove posso stare? - disse. - Come farò?»
«Non si deve preoccupare, sahib», disse il capostazione. Rivolse a
Phulboni un immenso sorriso. «Starà da me». Spiegò che un commerciante
di Renupur gli aveva mandato a dire di prendersi cura di Phulboni.
Phulboni si soffermò a riflettere su quell’affermazione. «E lei dove
vive?»
chiese infine.
«Proprio laggiú, - disse Budhhu Dubey, - dietro quegli alberi». Indicò in
lontananza un boschetto di manghi appollaiato su un’altura. A Phulboni
sembrava che tra la stazione e il boschetto ci fossero almeno due o tre
miglia di pianura allagata.
«Non sarà facile arrivarci, - disse il capostazione. - Lasceremo i suoi
bagagli nella cabina di segnalazione e ci metteremo in marcia. Vedrà, ora
che arriviamo, quella-che-sta-a-casa avrà pronto per lei qualcosa di
speciale».
Prese il rotolo da notte di Phulboni e si diresse verso la cabina,
ondeggiando sulle gambe arcuate.
Phulboni lo seguiva dappresso, portando la custodia di tela col fucile.
Dopo aver aperto la porta con cautela, il capostazione invitò Phulboni ad
entrare. Appena furono dentro, un soffio di vento richiuse la porta di colpo.
All’improvviso furono avvolti in un’oscurità fitta di ragnatele.
La stanza era piccolissima, con quell’unica porta e una sola finestra con
le imposte chiuse. In un angolo, c’era una scrivania polverosa. Per il resto la
stanza sembrava abbandonata e fuori uso.
Solo quando si fu abituato a quelle tenebre, scorse un charpai, chiuso e
appoggiato contro la parete piú lontana. Era una vecchia branda di corde
intrecciate, con sopra una stuoia lacera. Phulboni si avvicinò e diede una
manata sulla stuoia, sollevando un turbinio di polvere. «Di chi è questo?»
chiese.
«Oh, è sempre stato qui, - disse il capostazione con noncuranza. - è il
regno di serpenti e ratti». Spalancò svelto la porta e uscí. «Andiamo adesso,
sahib, presto farà buio».
Phulboni lanciò un’altra occhiata alla stanza. Questa volta il suo
sguardo cadde su una piccola nicchia nella parete. Dentro c’era una lanterna
da segnalazioni. Phulboni si avvicinò per dare un’occhiata piú da vicino e
notò con piacere che la lanterna era stata pulita e lustrata di recente. Il corpo
sottile brillava di pulito e il cerchio di vetro rosso nello schermo mandava
lampi rosso vivo nella luce solare riflessa. Phulboni stava per picchiettare
sullo schermo con un dito, ma il capostazione lo bloccò, precipitandosi
verso di lui e allontanando la sua mano.
«No, no! - gridò. - Non lo faccia».
Phulboni sobbalzò meravigliato, e il capostazione disse con veemenza,
«No, no, non bisogna toccarla».
«Ma lei non la tocca? - disse Phulboni, sempre piú stupito. - E
allora chi la pulisce? Chi la lucida?»
Il capostazione lasciò cadere la domanda con un gesto della mano,
borbottando qualcosa a proposito delle proprietà della ferrovia. «Dovremmo
muoverci, sahib, - disse cercando di trascinare Phulboni verso la porta. -
è quasi buio, adesso dobbiamo sbrigarci».
Lo scrittore si strinse nelle spalle e si chinò a prendere il rotolo da notte.
«No, - disse, buttandolo sul charpai. - Passerò la notte qui».
Il capostazione spalancò la bocca per lo stupore mentre sul suo viso
gioviale, un po’ ottuso, si disegnava un’espressione allarmata. «No, no,
sahib, - disse alzando la voce. - Non può fare una cosa simile… non è
possibile. Non si può».
«Perché no?» chiese lui. Per quanto la stanza fosse malmessa, la
prospettiva di passarci una notte gli sembrava di gran lunga preferibile a
quella di guadare due miglia d’acqua.
«No, no, - urlò il capostazione. -
No, se lo tolga dalla mente». C’era una nota di panico nella sua voce e
aveva la fronte imperlata di sudore.
«Ma ci starò benissimo», disse Phulboni.
«No, sahib, non deve restare qui, -
lo implorò Budhhu Dubey. - Venga a casa mia. Non la lascerò restare
qui tutto solo».
Fu questo che decise Phulboni.
«Starò comodissimo qui, - disse. - Non si preoccupi per me». E prima
che il capostazione potesse replicare si mise a slegare il rotolo da notte.
Come tutti quelli che viaggiavano in treno a quell’epoca, Phulboni era
perfettamente preparato a
un’eventualità del genere: il rotolo da notte conteneva un materasso
sottile, un cuscino e alcune lenzuola e salviette. Appena slegato, il bagaglio
si srotolò come un letto già pronto.
«Guardi, - disse con aria
trionfante, - dormirò comodissimo qui».
«No, - disse il capostazione. - Non può, non è sicuro».
«Non è sicuro? - disse Phulboni. - E
perché? Cosa può accadermi?»
«Molte cose, - disse il
capostazione. - Dopotutto non siamo in città. Può accadere di tutto in
luoghi solitari come questo, ci sono ladri e briganti e dacoit…»
Phulboni scoppiò a ridere. «Con tutta l’acqua che c’è qui intorno, i
dacoit avrebbero bisogno di barche per arrivare fin qui. E nel caso le
avessero, ecco cosa si troverebbero di fronte». Poggiò la mano sulla
custodia del fucile.
«E i serpenti?» disse il
capostazione.
«I serpenti non mi fanno paura, -
disse Phulboni con un sorriso. - Sono cresciuto in un posto in cui la
gente usava i pitoni come cuscino».
Il capostazione lanciò uno sguardo disperato alla stanza, alla scrivania
nera e sudicia e alla massa di ragnatele che pendevano dal soffitto come
luridi alveari. «Ma cosa mangerà, sahib?»
«Visto che la sua casa è tanto vicina, - disse equanime Phulboni, -
spero che non le darà troppo disturbo portarmi qualcosa dalla sua
cucina».
Il capostazione sospirò. «D’accordo, sahib, - disse riluttante. - Faccia
come crede; solo una cosa, però: non se la prenda con Budhhu Dubey,
dopo».
«Non si preoccupi», disse Phulboni.
Si vantava di conoscere la gente dei villaggi, e sapeva che spesso i
contadini erano fissati con certe cose. «Se sarò attaccato da serpenti o
dacoit, - disse sorridendo, - sarò io il solo responsabile».
Il capostazione se ne andò e Phulboni si affrettò a tirar fuori le sue cose
e a sistemarsi. Aprí a forza le imposte della finestra e lasciò spalancata la
porta. Bastarono una spolveratina e una pulita perché la stanza assumesse
un aspetto assai piú gradevole.
Incoraggiato, Phulboni decise di spolverare e ripulire anche il charpai.
Tolse dal letto il suo bagaglio, portò fuori la vecchia stuoia sfilacciata e la
scosse vigorosamente. Si sollevò una nube di polvere e, quando l’ebbe
ripulita, Phulboni notò una strana sagoma sopra la stuoia; una sbiadita
macchia color ruggine. Distese per terra la stuoia e la osservò piú da vicino.
Era l’impronta di due grandi mani, l’una accanto all’altra. Ma avevano
qualcosa di strano, qualcosa che non quadrava del tutto. Phulboni dovette
ruotare piú volte la testa prima di scoprire di cosa si trattava: l’impronta
della mano sinistra aveva quattro dita e mancava del pollice.
C’era un che di bizzarro e
minaccioso in quella strana traccia, impressa sui giunchi ingialliti. Dopo
averla riarrotolata, mise via la stuoia, in modo di non vederla.
Rientrò, sistemò la roba da notte sulle nude corde del charpai e si
preparò un comodo letto. Poi indossò il pigiama e sistemò in bell’ordine
nella nicchia gli oggetti per radersi, accanto alla lanterna, pronti per il
mattino dopo. Infine si guardò intorno: ogni cosa era a posto, adesso, ma
per qualche ragione gli restava un gusto di amaro in bocca.
Decise di fare una passeggiata.
Ormai il pomeriggio stava per finire. Le nuvole se n’erano andate e il
sole splendeva nel cielo lavato dalla pioggia, dando a tutto il paesaggio
intorno una luminosità iridescente. Phulboni camminava lungo i binari,
saltando da una traversina all’altra, scrutando le rotaie parallele che
schizzavano verso l’orizzonte, tagliando di netto i campi allagati e
scintillanti che fiancheggiavano l’alta massicciata.
Quando giunse nel punto in cui il binario si sdoppiava si voltò a
guardare le rotaie coperte d’erbacce.
Notò di sfuggita che gli scambi d’acciaio che collegavano il binario di
manovra alla linea principale erano bloccati e arrugginiti per il disuso.
Poi i suoi occhi si posarono su una famiglia di aironi che utilizzavano le
rotaie coperte di erbacce del binario di manovra come un trespolo, da dove
cacciavano. Affascinato, si avvicinò furtivamente agli uccelli e sedette su
una rotaia, a opportuna distanza. Tra i due binari paralleli si ergeva un
cumulo di terra, forse un tempo era una banchina. Lo scrittore si mise
comodamente seduto, con la schiena appoggiata al cumulo, e passò quasi
un’ora osservando gli aironi intenti a nutrirsi in mezzo alle rane che
sfrecciavano a fior d’acqua sulla superficie dei campi allagati, proprio lí
sotto.
Infine, colmo di una sensazione di pace e benessere, si alzò in piedi
stiracchiandosi. Era doppiamente soddisfatto di aver deciso di restare nella
cabina di segnalazione invece di farsi ospitare dal capostazione: quello era
il tipo di posto in cui la solitudine è di per sé una ricompensa.
Riprese a camminare, in equilibrio su una rotaia. Ormai il sole stava
tramontando, e strisce di rosso scarlatto e magenta fendevano le piatte
nuvole fuggitive. Quando giunse all’altezza del punto di raccordo del
binario di manovra con la linea principale, Phulboni decise di tornare
indietro. Si fermò a guardare un’ultima volta lo spettacolo dei campi
allagati che luccicavano nel crepuscolo. Casualmente, il suo sguardo cadde
sull’impugnatura della leva di scambio. Notò con stupore che il
meccanismo sembrava ben tenuto. Non c’era traccia di ruggine sulla leva,
quanto ai cavi che la collegavano agli scambi non affogavano affatto nelle
erbacce, sebbene corressero quasi a livello del terreno. Anzi, i profondi
solchi nell’erba sottostante testimoniavano una manutenzione e un uso
regolari.
Phulboni nutriva un naturale interesse per i macchinari. Gli piaceva la
sensazione del metallo freddo, si entusiasmava davanti a un pezzo di ferro o
di acciaio utile e ben fatto. Attraversò i binari e tornò a dare un’occhiata
d’apprezzamento alla lucida leva metallica: nel vedere cosí ben tenuto un
elemento di un congegno meccanico in un luogo tanto improbabile, provò
un’oscura soddisfazione.
Mentre si chinava allungando un braccio, udí un grido. Rialzandosi,
vide il capostazione che si affannava su per la massicciata. Gesticolava
freneticamente, facendo segno a Phulboni di tenersi lontano dalla leva degli
scambi. In una mano reggeva un fagotto di tela e nell’altra un recipiente di
terracotta. Phulboni si accorse all’improvviso di essere mostruosamente
affamato. Agitò una mano in segno di saluto poi si affrettò a tornare indietro
lungo i binari.
Il capostazione lo aspettava un centinaio di metri piú in là. «Mi stia a
sentire, - disse allo scrittore. -
Lei sarà anche un grande sahib e non so che altro ma, per il suo bene,
non si impicci di quel che vede qui intorno».
Rifletté un momento, poi aggiunse:
«è tutto proprietà del governo, appartiene alle ferrovie».
Phulboni aveva pensato di
complimentarsi col capostazione per l’eccellente manutenzione della
leva degli scambi della stazione. Ma rimase interdetto, incapace di trovare
una risposta adeguata.
Il capostazione gli mise bruscamente in mano il fagotto di tela e il
recipiente di terracotta. «Li lasci in un angolo, quando ha finito, - disse
sgarbato. - Me ne occuperò io domattina». Poi si trascinò frettolosamente
lungo la massicciata e caracollò giú per il pendio, verso i campi inondati, lí
sotto.
Riavutosi, Phulboni urlò: «Perché non si ferma un momento? Mangi
qualcosa con me prima di andarsene».
«Tornerò domattina», rispose il capostazione senza voltarsi.
C’era qualcosa, in
quell’allontanarsi precipitoso, che inquietava Phulboni. Sporgendosi
dall’alto della massicciata, gridò:
«Masterji, c’è qualcosa che non mi ha detto?»
«Domani, - replicò il capostazione.
- Domani… tutto… è quasi buio». Un plaff plaff frettoloso ne coprí la
voce.
Adesso Phulboni si sentiva
stranamente smarrito, in piedi su quel binario sperduto, nella luce
morente.
Tornò lentamente alla cabina di segnalazione e spalancò la porta.
Dentro era buio, ma un luccichio metallico attirò il suo sguardo verso il
pavimento. Era la lama ricurva del rasoio: lí accanto, per terra, c’erano il
barattolo di crema da barba, la spazzola e la tavoletta di allume chiaro che
aveva sistemato nella nicchia prima della passeggiata.
Phulboni mise il cibo e l’acqua sulla scrivania e si guardò intorno per
capire se si fosse spalancata la finestra provocando una corrente o lasciando
entrare nella stanza un colpo di vento. Ma la finestra era sbarrata come
prima. Non trovando spiegazione migliore, decise che gli oggetti dovevano
essere caduti quando aveva spalancato la porta. Li raccolse e per la seconda
volta li sistemò in bell’ordine nella nicchia, accanto alla lanterna.
Decise di mangiare all’aperto per godersi l’ultima luce. Portò il cibo e
l’acqua sulla soglia, sedette sul pavimento a gambe incrociate e aprí il
fagotto. Dentro c’era una pila di paratha, un’abbondante porzione di
saporita salsa di mango e un mucchietto di patate ben dorate e rivestite da
una spessa crosta di masala. Non riusciva a ricordare cibo con un profumo
altrettanto buono, e ci si buttò sopra con gusto.
Era a metà della terza paratha quando sentí cadere qualcosa, nella stanza
alle sue spalle. Sobbalzò e si girò a guardare. Oltre la porta aperta, vide sul
pavimento il rasoio e le altre cose per radersi. Nulla era entrato nella stanza
e il vento era caduto. Dopo un momento di
inquietudine, il suo appetito ebbe la meglio e riprese a mangiare.
Quando ebbe finito, si lavò le mani, bevve una lunga sorsata d’acqua e
si rimise seduto, ripulendosi soddisfatto i denti con un bastoncino. Provava
di nuovo il senso di benessere di prima, seduto nell’aria frescolina,
ascoltando il coro di rane e grilli che saliva dai campi allagati, lí sotto. Era
tutto cosí pacifico, cosí tranquillo, che ci voleva qualcosa di speciale,
decise: una simile occasione esigeva uno dei suoi rari cheroot.
Phulboni non era un gran fumatore, ma una volta o due alla settimana,
dopo un buon pasto, gli piaceva accendersi un cheroot o un sigaro.
Ricordava di averne impacchettati alcuni per il viaggio, ma non sapeva
esattamente dove li aveva messi.
Adesso nella cabina segnaletica era buio pesto, ma aveva tenuto a
portata di mano una scatola di fiammiferi.
Strofinò un fiammifero e vide immediatamente la lanterna che luccicava
nella nicchia. Gli venne un’idea. La sollevò e la scosse. Il rumore del
petrolio smosso gli confermò che il serbatoio era pieno.
Tolse lo schermo di vetro in cerca della vite che muoveva lo stoppino.
Con un paio di giri riuscí ad allungare lo stoppino di circa un centimetro
e lo accese. Quando rimise a posto lo schermo una vivida luce rossa riempí
la stanza.
Tutto soddisfatto, tornò alla sacca da viaggio e cominciò a frugare nelle
varie tasche cercando la scatola di cheroot. L’aveva appena trovata quando
udí un colpetto metallico dietro di lui e la luce si spense.
Phulboni schioccò la lingua, irritato con se stesso per non aver chiuso la
porta prima di accendere la lanterna.
Tornò alla scrivania e accese un altro fiammifero. Ma quando guardò
piú da vicino scoprí di essersi sbagliato: non era stato un colpo d’aria a
spegnere la fiamma. Al contrario, lo stoppino era stato abbassato e fatto
rientrare nella sua guaina con un giro di vite. Girò e rigirò nervosamente la
vite chiedendosi se fosse spanata.
Difficile accertarsene, cosí alla fine allungò di nuovo lo stoppino e lo
riaccese. Questa volta prese la precauzione di mettere la lanterna in un
angolo ben protetto dal vento.
Finalmente accese il suo cheroot, sedendosi a gambe incrociate sulla
porta, l’orecchio teso verso i mille insetti del monsone. Ne aveva fumata
metà, quando udí la vite della lanterna che girava di nuovo.
Voltandosi, Phulboni vide che la luce si era spenta un’altra volta. Un
brivido di freddo gli attraversò la spina dorsale, ma subito dopo si sentí
rassicurato al pensiero del fucile.
Nulla che lui conoscesse poteva resistere a un 303. Continuò ad aspirare
il suo cheroot.
Fumò lo cheroot fino all’ultimo mozzicone poi si alzò in piedi. In un
certo senso gli costava fatica rientrare nella cabina di
segnalazione, ma a questo punto non aveva scelta. Non sarebbe riuscito
a raggiungere la casa del capostazione, da solo e al buio.
Si preparò per la notte con molta calma e determinazione. Infilò il
pigiama al buio, razionando i fiammiferi. Poi tolse dai pantaloni la robusta
cintura di cuoio e la usò per bloccare la porta. Estrasse il fucile dalla
custodia e lo appoggiò per terra, accanto al letto. Infine si sdraiò, il viso
rivolto verso la porta. Non si sarebbe stupito se il sonno avesse tardato, ma
la giornata era stata lunga ed era stanchissimo: nel giro di pochi minuti
dormiva profondamente.
Fu svegliato dalla pioggia che gli sfiorava il viso. Si mise a sedere, non
capiva, e allungò istintivamente la mano verso il fucile. La porta aperta
sbatteva per la corrente, e la pioggia penetrava nella stanza in grandi
raffiche rigonfie.
Si buttò giú dal letto, maledicendo se stesso per non essersi sincerato
della porta. La cintura giaceva sulla soglia, con la fibbia ancora chiusa.
La raccolse, chiuse la porta, strinse di nuovo la cintura intorno alla
maniglia, piú forte che poteva.
Arretrando, accese un fiammifero per vedere se la cintura teneva.
Fu allora che si accorse che la lanterna non era piú nell’angolo dove
l’aveva messa. Si guardò intorno, sulla scrivania, nella nicchia: nessuna
traccia della lanterna. Era sparita. Phulboni era intontito dal sonno e la
prima cosa che riuscí a pensare fu che fosse tornato il capostazione e avesse
preso la lanterna mentre lui dormiva; probabilmente c’era stata
un’emergenza in qualche punto del binario. Slegò la porta e diede
un’occhiata fuori, nella pioggia battente. Sicuro, eccola là: un piccolo
cerchio di luce rossa, che oscillava in su e in giú, a una cinquantina di metri
lungo il binario.
«Masterji, masterji!» chiamò Phulboni con tutta la voce che aveva in
gola, le mani a coppa intorno alle labbra. Ma la luce proseguí per la sua
strada, e non c’era da meravigliarsi: il vento ululava, spingendo innanzi la
pioggia.
Phulboni non ci pensò sopra due volte. Si infilò le scarpe, si avvolse
intorno al corpo uno spesso asciugamano, e corse fuori. Per un istante prese
in considerazione l’idea di portare con sé il fucile. Ma lasciò perdere,
pensando a come l’avrebbero ridotto la pioggia e il fango. Spalle diritte,
camminò fino al binario, con gli occhi socchiusi contro il vento sferzante.
Solo quando fu a metà del binario di deposito cominciò a chiedersi come il
capostazione avesse potuto entrare nella cabina di segnalazione dato che la
porta era legata dall’interno.
Phulboni inciampò, mentre cercava di adattare il proprio passo allo
spazio tra una traversina e l’altra. Il legno era scivoloso per la pioggia, e
stentava a reggersi in piedi. Faceva fatica a star dietro alla luce rossa, ma
aveva l’impressione che la distanza si fosse accorciata. Ogni volta che
alzava gli occhi per controllare la luce, gli sembrava di essere un po’
piú vicino di prima.
Poi, tra due furiose raffiche di pioggia, vide che la luce cambiava
direzione e svoltava bruscamente a destra. Non era piú sicuro della
direzione, ma supponeva che il capostazione avesse raggiunto la
biforcazione tra binario principale e binario di manovra. Era stupefatto:
cosa mai poteva aver spinto il capostazione a fare tutta quella strada in
mezzo alla tempesta per recarsi al binario di manovra?
Perse di vista la luce e rallentò un po’. In quell’oscurità, teneva gli occhi
fissi sulle rotaie, non voleva perdere di vista il punto di raccordo.
Alla fine, tuttavia, lo riconobbe solo perché gli capitò di inciampare
sulla punta ricurva dell’ago mobile dello scambio. Prese a sondare la
direzione coi piedi, seguendo i binari che svoltavano a destra.
Dopo qualche passo, si fermò a scrutare davanti a sé, proteggendosi gli
occhi con una mano. In un punto indistinto, dentro un mulinello di pioggia
battente, intravide la luce rossa ballonzolante. Adesso sembrava assai piú
vicina e quasi ferma.
Fatto qualche altro passo non ebbe piú dubbi. La luce si era fermata: era
a terra, accanto al binario -
probabilmente molto vicina al posto dove era stato seduto qualche ora
prima, osservando gli aironi che pescavano nell’acqua, lí sotto. Era certo
che il capostazione l’avesse visto e lo stesse aspettando. Con le mani a
coppa intorno alla bocca, lo chiamò un’altra volta, con tutta la voce che
aveva, «Masterji,
masterji!»
Il ballonzolio della luce sembrava ora un incoraggiamento, ed egli prese
a correre veloce, piú veloce che poteva, ansioso di raggiungerla. Poi, a un
tratto, quando la luce ormai non distava che sei o sette metri, inciampò.
Cadde faccia avanti, ma riuscí a proteggersi con le mani, evitando di andare
a sbattere la fronte contro l’acciaio gelido.
Si fermò a riprendere fiato, con sollievo, tirandosi su con braccia
irrigidite, le mani aggrappate alle rotaie. E allora, proprio quando
cominciava a riprendere fiato, sentí un fremito nella rotaia. Poggiò
entrambe le mani sulla rotaia. Nessun dubbio: la rotaia vibrava sotto il peso
di un treno in arrivo.
Phulboni era sbalordito: le probabilità che un treno passasse da quelle
parti erano praticamente zero.
Il treno su cui aveva viaggiato lui non sarebbe tornato da Bareich prima
dell’alba, e non passavano altri treni su quella linea. E in ogni caso, perché
avrebbero dovuto essere deviati sul binario di manovra - e chi poteva
azionare gli scambi? Seguiva il capostazione ormai da parecchi minuti e
sapeva che non si era mai avvicinato alla leva del congegno meccanico.
Eppure non si poteva negare un’evidenza tangibile: le rotaie vibravano
sotto le sue mani, e le vibrazioni diventavano sempre piú forti. Poggiò
l’orecchio sulla rotaia e ascoltò attentamente. Udí il rombo inconfondibile
di un treno in arrivo.
Tuonava nella sua direzione, ormai vicinissimo. All’ultimo momento
Phulboni si buttò di lato, sulla massicciata, e cominciò a rotolare verso
l’acqua.
Stava ancora cadendo quando i fanali del treno guizzarono attraverso i
campi allagati. Aggrappandosi selvaggiamente a un cespuglio, riuscí
finalmente a fermarsi, la testa a pochi centimetri dall’acqua. In quel preciso
istante sentí un grido, un urlo rabbioso, disumano, che lacerò la notte
tempestosa. Ululava nel vento una sola parola, «Laakhan», poi fu coperta
dal rombo del treno in corsa.
Phulboni stava abbarbicato alla massicciata, a testa in giú, il viso rivolto
verso l’acqua. Da quella posizione non riusciva a vedere il binario di
manovra, ma vide le luci del treno, distintamente, che sfioravano la distesa
dei flutti, sentí il peso del treno che scuoteva la massicciata, udí l’ansimare
affannoso del motore e annusò l’odore del carbone nella caldaia. Ma
riusciva a pensare a una cosa soltanto, che era sfuggito alla morte di stretta
misura.
Rimase alcuni minuti sdraiato lí, tremante di paura e sollievo. Era
ancora buio pesto, ma l’uragano si era un po’ attenuato. Quando le sue mani
furono di nuovo ferme si rimise in piedi e cominciò ad arrampicarsi sulla
massicciata.
Sentendo il terreno di nuovo in piano sotto i piedi, urlò: «C’è nessuno?»
nel caso che il tizio che aveva urlato, chiunque fosse, si trovasse ancora a
portata d’orecchio.
Nessuna risposta, allora si mise in ginocchio e cominciò a tastare il
terreno intorno cercando di ritrovare le rotaie. Sapeva che non sarebbe
riuscito a tornare alla cabina di segnalazione senza la guida dei binari. Dopo
parecchi minuti, sfiorò casualmente con una mano qualcosa di freddo. Con
un profondo sospiro di sollievo, strinse la rotaia con entrambe le mani.
Disorientato com’era, gli ci volle un po’ per rendersi conto che la rotaia,
che aveva preso vita cosí vivacemente tra le sue mani pochi minuti prima,
adesso era assolutamente inerte, immobile. Sapeva che i binari trasmettono
il rumore dei treni per miglia e miglia, in entrambe le direzioni. Il treno era
passato su quel binario da pochissimo: poteva aver percorso sí e no un
miglio.
L’orecchio sulla rotaia, si concentrò nell’ascolto. L’unico rumore che
riusciva a sentire era il ticchettio della pioggia sul metallo. In quel momento
sfiorò delle erbacce che crescevano sulle rotaie. Prese a controllare
freneticamente, con le mani, in entrambe le direzioni. Scoprí che la
vegetazione che cresceva sopra i binari, e che aveva osservato nel
pomeriggio, non sembrava in alcun modo alterata dal passaggio di un treno.
Adesso Phulboni era terrorizzato, piú di quanto fosse mai stato nella sua
vita, terrorizzato in un modo che gli obnubilava il cervello, gli offuscava la
vista. In piedi sul binario, si guardava intorno stordito quando rivide la luce
rossa. Era a un centinaio di metri e veniva lentamente verso di lui.
Phulboni l’accolse con un grido di sollievo: «Masterji, masterji, sono
qui…»
Il grido cadde nel vuoto ma la lanterna cominciò ad avanzare piú svelta.
Mentre restava lí fissando la luce, la mente di Phulboni cominciò a
schiarirsi: scrutava nel buio, cercando di vedere la faccia dietro la lanterna.
Non vedeva niente, il viso restava avvolto dalle tenebre.
Phulboni si girò e si mise a correre. Corse piú veloce di quanto avesse
mai corso in vita sua, affannato, cercando di mantenersi in equilibrio sulle
rotaie scivolose. Una volta si guardò indietro e vide la lanterna che lo
rincorreva, riducendo la distanza. Corse ancora piú veloce, incitando se
stesso, gemendo per il terrore.
Finalmente la cabina di segnalazione si profilò davanti a lui
nell’oscurità. Gettò un ultimo sguardo alle sue spalle. Ormai solo pochi
passi lo separavano dalla lanterna; una mano chiaramente visibile sulla
manopola d’acciaio.
Con un ultimo sforzo disperato Phulboni si precipitò incespicando
dentro la cabina di segnalazione. Il fucile era dove l’aveva lasciato, accanto
al letto. Lo prese e si girò, puntandolo verso la porta.
Stava armeggiando con la sicura quando la lanterna apparve nel vano
della porta. Entrò e gli venne piú vicina; si vedeva una mano, inondata dalla
luce rossa della lanterna. La faccia restava avvolta nelle tenebre, ma
all’improvviso quella voce inumana riecheggiò nella stanza, «Laakhan».
Allora Phulboni fece fuoco, mirando allo schermo della lanterna. Il
rimbombo del fucile riempí la stanza come dinamite che esplode in una
caverna: il rinculo della canna colpí al mento lo scrittore scagliandolo
violentemente contro il letto.
Capitolo trentanovesimo.
Poi Phulboni si accorse di un’altra cosa, era l’alba e stava fissando la
faccia sorridente del capostazione.
Non era piú nella cabina di segnalazione: era l’alba e lui era fuori
all’aperto, disteso sulla schiena su qualcosa di soffice.
«Ho detto a quella-che-sta-a-casa, -
disse il capostazione, - le ho detto, vedrai che non c’è bisogno di
preoccuparsi, starà benissimo».
Phulboni chiuse gli occhi. Era tale la sua felicità di ritrovarsi sano e
salvo che tutto il suo corpo si afflosciò.
«è stata una faticaccia tirarla fuori da lí, sahib, - disse il capostazione. -
Si direbbe che la sua robusta persona sia fatta di ottone.
Ho dovuto tirare e tirare e tirare: tutto da solo. Ma mi sono detto,
«Budhhu Dubey, qualunque cosa succeda devi tirarlo fuori da questo
posto orribile, anche dovessi spaccarti la schiena. Finché rimane qui dentro,
non c’è speranza per lui. Devi tirarlo fuori»».
«Cos’è successo? - chiese Phulboni.
- Dov’ero quando mi ha trovato?»
«Sono venuto piú presto che potevo», disse il capostazione.
«Quella-che-sta-a-casa mi ha svegliato che era ancora buio e ha detto,
«Vacci adesso, va’ a vedere se quel pover’uomo sta bene». Sono venuto
correndo piú svelto che potevo. L’ho trovata lungo disteso sul pavimento
con il fucile di traverso sopra il corpo. Subito ho pensato che lei fosse
morto, ma poi ho visto che respirava e l’ho trascinata fuori».
«E la lanterna? - chiese Phulboni. -
Le ho sparato: ha visto dei vetri rotti nella cabina di segnalazione?»
Il capostazione aggrottò la fronte:
«Quale lanterna?»
«La lanterna per le segnalazioni notturne, - disse Phulboni. - Quella che
c’era nella stanza ieri sera».
«Era al solito posto, - disse il capostazione. - Tutta lustra e pulita:
nessuno la tocca mai. è sempre cosí, sempre nello stesso posto: sempre
pulita, senza polvere sopra».
Il capostazione sventolò
vigorosamente una foglia di banano sul viso di Phulboni. «Questa
stazione è un posto terribile, - disse. - La gente dei villaggi qui intorno si
mantiene a distanza di almeno un miglio, dopo il tramonto. Non riuscirebbe
a convincerli a venire fin qui neanche promettendogli tutto l’oro dei cieli.
Ho cercato di avvertirla, ma lei non ha voluto darmi ascolto».
«Adesso ti ascolterò, - disse Phulboni. - Voglio sapere che cosa è
successo».
Il capostazione sospirò. «Non so cosa dirle. Un grande sahib come lei.
Posso solo dirle quello che dice la gente da queste parti, gente semplice
dei villaggi come me…»
Phulboni, che ascoltava con gli occhi chiusi, si passò la mano sulla
fronte. «Cosa dice la gente? Voglio saperlo».
Ma il caso volle che in quel momento una delle sue mani, allungandosi
all’indietro, sfiorasse una rotaia, un pezzo di acciaio freddo e vibrante.
Aprí gli occhi e si ritrovò a fissare un panorama ininterrotto di foglie e
alberi che si stagliavano contro un cielo roseo d’aurora. Non c’era traccia
del capostazione e di nessun altro. Si guardò intorno e scoprí di essere
disteso sul binario di manovra, di traverso sulle rotaie, su un materasso.
Esitando allungò il braccio e toccò la rotaia.
Poi, ancora una volta, Phulboni si buttò giú dai binari. Ma stavolta riuscí
a frenare la caduta cosicché si ritrovò pochi centimetri piú in là quando il
treno passò sferragliando sul binario di manovra, sul materasso sul quale
giaceva poco prima, riducendolo in brandelli. Questa volta il treno era
assolutamente reale: poté vedere le facce orripilate di fuochisti e
macchinisti mentre il treno passava oltre rombando; udí lo stridere dei freni
e il sibilo del fischio.
Si inerpicò fino alle rotaie e si mise a correre. Raggiunse il treno circa
un miglio piú avanti, dove finalmente era riuscito a fermarsi.
Fuochisti e macchinisti stavano esaminando gli aghi mobili e gli
scambi, cercando di capire in che modo i binari fossero stati deviati.
Inspiegabile, stava dicendo il capo macchinista anglo-indiano; quel
binario di manovra non viene usato da decenni, il congegno è stato
disattivato un mucchio di anni fa. Il treno stava per deragliare, è un
miracolo che non sia successo, con tutti quei detriti sulle rotaie arrugginite e
coperte di erbacce.
Allora Phulboni disse al capo macchinista: «Forse il capostazione ha
azionato lo scambio per sbaglio».
Il capo macchinista era un anziano veterano brizzolato, un anglo-
indiano.
Rivolse a Phulboni un sorriso divertito e disse: «Sono piú di trent’anni
che non c’è un capostazione a Renupur».
Poi comparve il capotreno,
ossequioso come al solito, e condusse Phulboni in una carrozza di prima
classe vuota. Piú tardi, quando il treno era ripartito in direzione di
Darbhanga, si accostò allo scrittore e gli sussurrò all’orecchio: «è stato
fortunato; lei almeno è ancora vivo».
«Perché? - chiese Phulboni. - Ci sono stati altri che…?»
«Quando ho cominciato a fare questo lavoro, - disse il capotreno. - Nel
1894 c’è stato un altro, che non è stato altrettanto fortunato: è morto là -
proprio in quel modo disteso sulle rotaie, all’alba. Il cadavere era cosí
malridotto che non si è mai riusciti a stabilire esattamente chi era, ma
correva voce che fosse straniero».
Rivolse a Phulboni un sorriso malinconico. «Nessuno si avvicina mai a
quella stazione di notte», disse.
«Perché non me l’ha detto prima?»
disse Phulboni.
«Ho cercato di farlo, - disse il capotreno, con un sorriso ambiguo. -
Ma lei non mi avrebbe creduto. Si sarebbe messo a ridere e avrebbe
detto, «Questi campagnoli, con la testa piena di fantasie e
superstizioni». Lo sanno tutti che per la gente di città come lei simili
avvertimenti sortiscono l’effetto opposto».
Riconoscendo la verità di
quell’affermazione, Phulboni si scusò e chiese al capotreno di mettersi a
sedere e raccontargli tutto dall’inizio.
Per molti anni, disse il capotreno, la cabina di segnalazione aveva
ospitato un ragazzo di nome Laakhan.
Era arrivato fin lí da qualche posto piú su lungo la linea, subito dopo
che la stazione fu costruita. Era un vagabondo, che la carestia aveva lasciato
orfano, con un corpo scarno e macilento e una mano deforme. A
quell’epoca la cabina di segnalazione era vuota, perché nessun dipendente
delle ferrovie era disposto a vivere in un posto cosí solitario e sperduto.
Cosí Laakhan ne aveva fatto la sua casa. Capotreni e fuochisti di
passaggio gli avevano insegnato a usare la lanterna per le segnalazioni e ad
azionare gli scambi. Si rendeva utile alle ferrovie e le ferrovie gli permisero
di restare.
Era un adolescente quando finalmente venne trovato un capostazione
per Renupur. Il caso volle che questo capostazione fosse un ortodosso, un
uomo di una casta elevata: gli bastò un attimo per prendere in antipatia il
ragazzo, considerandolo come un affronto alla propria dignità. Disse agli
abitanti dei villaggi che Laakhan era peggio di un intoccabile; che
trasmetteva il contagio; che probabilmente era figlio di una prostituta; che
la sua mano deforme era la prova di una malattia ereditaria. Fece del suo
meglio per scacciare il ragazzo dalla stazione, ma Laakhan non sapeva dove
andare. Si costruí una capanna di canne sulle rotaie del binario in disuso e si
tenne alla larga.
Il che fece andare su tutte le furie il capostazione. In una notte di
Amavasya senza luna, durante una tempesta, il capostazione cercò di
uccidere il ragazzo azionando lo scambio in modo che si trovasse sul
percorso del treno. Ma nessuno conosceva la stazione meglio di Laakhan,
che riuscí a fuggire. Fu invece il capostazione che inciampò in una rotaia e
cadde davanti al treno.
Da allora la stazione di Renupur non ha piú avuto un capostazione.
La testa di Phulboni crepitava di domande: essendo sfuggito a una fine
analoga moriva di curiosità rispetto al destino del ragazzo. «Mi racconti
qualcos’altro, - chiese supplichevole al capotreno. - Che ne fu di Laakhan?
Devo saperlo; deve dirmelo».
«Non c’è molto di piú da dire, -
disse il capotreno. - La gente dice che si nascose su un treno e andò a
Calcutta. Dicono che vivesse nella stazione di Sealdah quando una donna lo
trovò e gli offrí una casa».
«Tutto qui? - insistette Phulboni. -
Chi era la donna? Cosa ne fu di Laakhan?»
Il capotreno assunse un’espressione di scuse. «è tutto quello che so, -
disse, - salvo…»
«Salvo cosa?»
«Il mio predecessore, quello che faceva questo lavoro prima di me, una
volta mi raccontò una cosa. Disse che aveva parlato allo straniero - quello
che morí a Renupur. Lui, lo straniero, gli si era avvicinato sulla banchina,
proprio quando stava per dare il via al treno con la bandierina. Diceva che
in viaggio con lui c’era un giovanotto, uno originario di Renupur.
Essendo un sahib, naturalmente, lo straniero viaggiava in prima classe,
mentre quest’altro uomo era in terza.
Ma adesso non riusciva a ritrovarlo, era scomparso. Il mio predecessore
non era in grado di aiutarlo, non aveva visto nessun altro scendere a
Renupur.
Lo straniero era molto seccato e disse che avrebbe aspettato alla
stazione.
Il capotreno, il mio predecessore, gli disse che per nessun motivo
doveva passare la notte alla stazione. Fece del suo meglio per convincerlo a
partire, ad andare da qualche parte, invece il sahib, ridendo, aveva detto,
Oh, voi gente di campagna…»
Capitolo quarantesimo.
«Oh, mio Dio!» gridò Urmila all’improvviso, aggrappandosi alla tenda
di plastica del séparé.
«Cosa c’è?» chiese Murugan.
«Sonali-di, - rispose Urmila. - Mi serve un telefono».
Attraversò di volata il ristorante, aggirò la scrivania del direttore e si
impadroní del telefono. Murugan aspettò di pagare il conto poi la seguí.
Quando la raggiunse, Urmila fissava la cornetta con aria stralunata.
«Sonali-di è scomparsa, - disse. -
In ufficio non c’è, e neppure a casa.
Stamattina c’era una riunione di redazione, non si è presentata e hanno
cercato di mettersi in contatto con lei. Nessuno la vede da ieri sera.
Sembra che sia stata io l’ultima a parlarle».
«Che ora era?»
«Circa le dieci e mezza. Siamo andate a casa sua insieme, e l’ho lasciata
poco dopo - quando ha ricevuto una chiamata da Romen Haldar».
«Ho notizie per te, Calcutta, -
disse Murugan. - Io l’ho vista dopo di te».
«Cosa? - strillò Urmila. - Ma se non la conosci neanche!»
«Eppure l’ho vista, - disse Murugan.
- Ieri notte verso l’una sono uscito sul balcone, e l’ho vista scendere da
un taxi: è entrata al numero tre di Robinson Street…»
Con un gemito di disperazione Urmila lo spinse di lato: «Perché non me
l’hai detto?» corse in strada e bloccò un taxi. «Sbrigati, - gli urlò voltandosi
indietro, - non abbiamo tempo da perdere». Murugan balzò dentro il
taxi e sbatté la portiera.
«Robinson Street, - disse Urmila al conducente. Tra Loudon e
Rawdon».
Poi si girò verso Murugan. «Dobbiamo trovare Sonali-di, - disse. -
Dobbiamo trovarla e avvertirla».
«Perché proprio lei?»
«Ma non capisci? - disse Urmila. -
Perché c’è in mezzo anche lei: è stata lei a raccontarmi quella storia».
Era tardo pomeriggio, quasi l’ora di punta, e il traffico era ormai molto
intenso quando il taxi arrivò a Chowringhee. Seduta sul bordo del sedile
Urmila incalzava l’autista.
Quando Murugan si rivolse nuovamente a Urmila, lo fece con una voce
stranamente calma. «Stammi a sentire, Calcutta, - le disse. - Sei in giro da
stamattina; forse dovresti concederti un intervallo, giusto per pensarci un
momento».
«Pensare cosa?» disse Urmila distrattamente. Si trovavano in Theatre
Road, a lato del Kenilworth Hotel, e nell’aria aleggiava un fragrante odore
di kebab.
«Se vuoi davvero andare piú a fondo in tutta questa faccenda», disse
Murugan.
«Cos’altro potrei fare?» disse lei stupita.
«Potremmo fermare il taxi qui, -
disse Murugan, - e tu potresti tornartene a casa, riprendere a fare le tue
cose, quali che fossero».
Un’ombra velò il volto di Urmila.
«Tornarmene a casa?» disse Urmila a se stessa, sottovoce, indugiando
sui chiari, luminosi edifici del British Council. Se tornava a casa, strada
facendo avrebbe dovuto comprare un pesce. Sua madre non ci avrebbe
creduto, se le avesse detto che era inutile aspettare Romen Haldar a cena,
non sarebbe venuto ad offrire a suo fratello un contratto in serie A. Le
sembrava di sentirla: «Oh, di noi non ti importa niente, la tua famiglia non
significa niente per te; ti preoccupi solo di te stessa e della tua carriera; ecco
perché nessuno ti sposerà; ecco perché la signora Gangopadhyaya l’altro
giorno mi ha detto…»
Urmila si girò verso Murugan scuotendo la testa con decisione. «No,
- disse, - non intendo tornarmene a casa».
«è la tua vita, Calcutta, - disse filosoficamente Murugan. - Sta a te
decidere».
Un ingorgo improvviso all’incrocio con Loudon Road costrinse il taxi a
frenare bruscamente. Urmila distolse lo sguardo dalla boutique Pierre
Cardin, all’angolo. I suoi occhi traboccavano di curiosità mentre si
posavano su Murugan.
«E tu? - disse. - Perché vai avanti?
Cos’è che ti tiene legato a questa storia da tanto tempo?»
«Non l’immagini?» disse Murugan.
Urmila scosse il capo: «No».
Murugan le rivolse un sorriso torvo.
«Non sono io, - disse. - è quello che sta dentro di me».
«Malaria?»
«Sí, anche».
«Cos’altro?»
Seguí un breve silenzio, poi, a voce piú bassa, Murugan disse:
«Sifilide».
Urmila si tirò indietro,
rannicchiandosi senza volerlo. Murugan la guardò, stringendo gli occhi.
«Non preoccuparti, - disse. - Non è contagiosa: sono stato curato e guarito
ufficialmente molto tempo fa».
«Mi dispiace…» Urmila non osava dire niente di piú.
Murugan teneva gli occhi fissi sui negozi, le bancarelle e le agenzie di
viaggio che fiancheggiavano la strada.
Col viso girato dall’altra parte, disse: «Credo che sia cominciata in
qualche posto laggiú». Fece un gesto vago in direzione dell’orizzonte. «In
Free School Street. Avevo quindici anni. Ero andato a vedere un film al
Globe, dopo la scuola. Poco dopo New Market, mentre tornavo a casa, mi si
è avvicinato un tizio e mi ha sussurrato qualcosa all’orecchio. Immaginai
che fosse un magnaccia: avevo letto un sacco di gialli americani. Addosso
avevo i pantaloni corti della scuola macchiati d’inchiostro, e una camicia
col sudore di tutta la giornata, i libri e i quaderni buttati su una spalla. Lui
indossava un lungi verde, a quadretti, e aveva baffetti sottili come una
matita e occhi piccoli, iniettati di sangue. Mi fece l’occhiolino, prima di
sussurrarmi all’orecchio e rivolgermi quel sorrisetto tutto denti. Il suo alito
puzzava di paan e bevande a buon mercato. Fu irresistibile. Avevo solo
cinque rupie, ma bastarono. Mi condusse in uno di quei vicoli intorno a
Free School Street, appena girato l’angolo della scuola armena, dove
nacque William Thakeray. Salimmo per una scala buia, puzzolente, che
sembrava condurre al buco del culo del mondo. Ma arrivati in cima ci fu
come una grande esplosione di luce e rumore e voci e musica: pareva di
entrare in un giardino delle fate - una stanza enorme, con piccoli cubicoli
chiusi da tendaggi tutt’intorno, e ambulanti che vendevano paan e tè, e tutte
quelle donne sedute sulle sedie allineate lungo la parete, con fiori intorno ai
polsi. Non mi sono mai voltato indietro; ero catturato. Mi sono piaciute, mi
è piaciuto tutto di loro, anche il modo in cui hanno riso alle mie spalle dopo,
mentre scendevo a precipizio le scale, con i pantaloni abbottonati a metà».
Tacque, sorridendo tra sé.
«E poi, - disse, - cominciarono ad apparire le lesioni: macchie rosse,
piaghe e denti che ballavano. Ho cambiato modo di vestire; mi mettevo un
vestito sopra l’altro, sempre di piú, perfino in quei giorni di giugno in cui il
caldo sembra un martello pneumatico pronto a colpirti in faccia. Riuscii a
nascondere le piaghe per, oh, non so per quanto tempo, mesi comunque -
sebbene ormai mi facessero male, accidenti se facevano male. E
quando alla fine fu scoperta non c’era piú modo di nasconderla. Ecco
perché la mia famiglia dovette lasciare la città: per la vergogna».
«Ma adesso la sifilide si può curare, non è vero? Con gli antibiotici»,
disse Urmila.
«Sicuro, - disse Murugan. - Fui curato. Adesso la si può curare, tranne
che per ciò che ti fa alla testa».
Capitolo quarantunesimo.
Fu la pioggia, che penetrava all’interno attraverso le persiane malferme,
a svegliare Sonali. Aveva occhi cisposi e gonfi, non riusciva ad aprire le
palpebre. Giaceva su un fianco, lo sguardo fisso su una striscia di polvere
accumulatasi sull’orlo di un pavimento di legno.
Non sapeva dov’era, il muro poteva essere un qualsiasi muro,
dovunque; non sapeva da quanto tempo era lí né cosa ci faceva sdraiata sul
pavimento.
Il suo primo istinto fu di
irrigidirsi, restare assolutamente immobile, come una lucertola, rendersi
invisibile.
Restando immobile sul pavimento, tese l’orecchio, concentrandosi
nell’ascolto. A poco a poco cominciò a percepire i rumori del traffico in una
strada vicina; una cantilena Vividh-Bharati da una radiolina; campanelli di
biciclette, scoppiettii di un motore, i consueti rumori di strada, ma smorzati,
lontani. Nelle sue immediate vicinanze, invece, non si udiva il minimo
rumore; non riusciva a sentire nulla - nulla che l’aiutasse a capire dov’era o
se ci fosse qualcun altro nella stanza.
Infine udí qualcosa, non cosí lontano come i rumori della strada: un
cigolio metallico, un rumore di cardini non oliati, di un pesante cancello che
si apriva lentamente. Un attimo dopo udí dei passi che scricchiolavano sulla
ghiaia: sembrava che si avvicinassero, che venissero verso di lei.
Girò su se stessa, adagio, e scoprí di essere distesa sul pavimento di una
stretta balconata di legno.
Sollevandosi un po’, si avvicinò all’orlo e si sporse a guardare.
Si ritrovò affacciata su un immenso salone vuoto. Un bagliore
evanescente, incerto, filtrava da un lucernario rotto. Al fondo di quel salone
cavernoso scorse un mucchietto di ceneri e bastoncini bruciacchiati.
Ecco, adesso, lentamente si sentiva sommergere dai ricordi: lo scalone,
il rumore, il fumo, la folla riunita intorno a un corpo. Ansimando si affacciò
di nuovo, guardandosi intorno: non c’era anima viva, la stanza era
assolutamente vuota.
Adesso i passi erano dentro la casa; al piano di sotto, probabilmente
nelle vicinanze dello scalone. Sonali riabbassò prontamente il capo e rimase
immobile, il respiro che le entrava e usciva intorpidito dai polmoni.
Si stavano arrampicando su per lo scalone di legno marcio; udiva le
scarpe sulla strutture metallica. Udí una voce - una voce d’uomo, lí fuori.
Poi anche una voce di donna; ancora attutita benché i loro passi
sembrassero proprio sotto di lei, molto vicino al salone dei
ricevimenti.
Sentí i piedi che vi entravano, muovendosi avanti e indietro. Poi non
riuscí a udire altro che il rumore del sangue che le martellava nelle
orecchie. Chiuse gli occhi, mordendosi le labbra, chiamando a raccolta tutte
le sue forze per affacciarsi di nuovo.
«Qui non c’è nessuno», disse una voce. Di donna - una voce familiare,
di qualcuno che conosceva.
Sollevò la testa, adagio, adagissimo e si avvicinò all’orlo. Allora le
sfuggí un grido dalle labbra:
«Urmila!»
«Sonali-di!» Urmila si rigirò su se stessa, senza fiato. Nel medesimo
istante Murugan gridò: «è lassú, vieni, presto».
Rincuorata, Sonali si abbandonò con la testa sul pavimento. Poi furono
accanto a lei, sulla balconata, l’aiutarono a scendere tenendole le mani, e lei
piangeva, respirando affannosamente, e tra i singhiozzi sentí la propria voce
che cercava di parlare, lottando per dire qualcosa di coerente, ma le parole
le uscivano dalla bocca tutte sbagliate, confuse, in un guazzabuglio senza
senso.
«Calmati, Sonali-di, - disse Urmila.
- Va tutto bene, ci siamo noi adesso.
Ma perché sei qui? Quando sei venuta?»
Sonali si aggrappò con piú forza alla mano di Urmila.
«Sono venuta ieri sera tardi, -
disse. - Sono venuta a cercare Romen; non so perché, ma sapevo che
l’avrei trovato qui».
«E l’hai trovato?» chiese Urmila.
Sonali riprese a singhiozzare.
«è questa la cosa strana, Urmila, -
disse, - non lo so».
Sonali cominciò raccontando loro del taxi fino a Robinson Street, di
come si era arrampicata per lo scalone, il fumo, la gente, di come aveva
trovato la balconata, il ragazzo, la donna in sari, il fuoco, il corpo…
«Infine ha allungato le mani e le ha posate sul corpo disteso davanti al
fuoco e lo ha chiamato Laakhan. Un istante prima di svenire sono riuscita a
vedere chi era».
Si sentiva soffocare.
«Chi era?» chiese Urmila.
«Romen».
«E la donna, - intervenne Murugan, -
chi era? La conoscevi?»
Sonali scosse il capo, da una parte all’altra, asciugandosi sulla camicetta
il volto rigato di lacrime.
«Non lo so, - disse. - Sembrava cosí familiare, ma non riesco a
ricordare».
Allora Urmila le prese una mano, allontanando bruscamente Murugan.
«Fa’
uno sforzo, Sonali-di. Cerca di ricordartene. Chi era?»
Sonali sbarrò gli occhi fissando Urmila in faccia. «è qualcuno che tu
conosci, Urmila, - disse. - Ne sono sicura: ecco perché mi sembrava cosí
familiare - qualcuno di cui ti avevo sentito parlare, qualcuno che io non
vedo da anni».
A un tratto Urmila indietreggiò, lasciando andare la mano di Sonali.
«No, - mormorò, coprendosi la bocca con le mani per lo spavento. - No,
non la signora…»
«Sí, - disse Sonali. - Ecco chi era… la signora Aratounian».
Capitolo quarantaduesimo.
Svegliandosi, Antar si ritrovò in un bagno di sudore e con la gola che gli
bruciava. Raggiunse faticosamente la porta e diede un’occhiata nel
corridoio: ebbe l’impressione che la cucina arretrasse, scivolando lontano
da lui. Sentiva le ginocchia talmente deboli che dovette appoggiarsi alla
parete per reggersi in piedi. Si girò a guardarsi il palmo della mano e vide
che tremava, ondeggiando contro il piatto biancore della parete. In preda a
un panico crescente si passò una mano sulle guance, sul petto, sui fianchi,
solo per scoprire che tutto il suo corpo era scosso dai tremiti.
Avanzò di un altro passo verso la cucina, sempre appoggiandosi alla
parete. Ora sembrava un po’ piú facile, si trovava giusto a mezzo metro
dalla porta del soggiorno, a metà corridoio, tra la cucina e la stanza da letto.
Si protese in avanti, cercando di agguantare lo stipite della porta e
trascinarsi fin lí.
Trovato lo stipite, le dita vi si aggrapparono. Poi il suo braccio teso fu
attraversato da un brivido e ritrasse la mano, indietreggiando, come se
avesse toccato qualcosa di inatteso. Sentiva i peli della barba irti sulla
faccia, mentre se ne stava lí appoggiato al muro, mordendosi le nocche: era
come se nella stanza ci fosse qualcuno, una presenza che il suo corpo aveva
sentito prima che lui ne fosse consapevole.
Sporgendosi in avanti, adagio, si staccò di colpo dalla parete e varcò la
soglia. Rimase paralizzato, gli occhi fuori dalla testa. Le ginocchia gli
cedettero e cadde a terra.
Seduto come uno gnomo in mezzo al soggiorno c’era un uomo nudo.
Una coltre di capelli scarmigliati pieni di nodi gli scendeva sul ventre
gonfio, dilatato; la parte superiore del corpo era incrostata di foglie morte e
paglia, e le cosce erano nere di fango ed escrementi. Teneva le mani in
grembo, strette insieme da un paio di manette d’acciaio.
Fissava Antar con gli occhi rossi incrostati di sudiciume; le labbra tirate
in un ghigno che metteva in mostra denti gialli e marci.
«Cos’hai?» gridò all’improvviso una voce, riempiendo la stanza
attraverso gli altoparlanti nascosti di Ava. «Eri tu che volevi vedermi, o
sbaglio? Sono solo un po’ in anticipo, che problema c’è?»
Antar si riscosse e si avvicinò al pannello di controllo di Ava,
lentamente, strisciando lungo i muri della stanza, la schiena contro la
parete, tenendosi piú lontano possibile da quella figura, come se fosse una
presenza reale.
«Dove diavolo sei stato? - gli urlò dietro la figura. - Perché mi hai fatto
aspettare tanto?»
Quando i suoi occhi caddero su quelle cosce coperte di escrementi
rinsecchiti, Antar si girò dall’altra parte, con un fremito involontario.
Chino sulla tastiera di Ava, modificò i vettori dell’immagine.
Ci fu un tremolio, poi il busto dell’uomo svaní. Restava solo la testa,
notevolmente ingrandita, molto piú che a misura d’uomo, in scala gigante,
sembrava un pezzo di una statua monumentale.
«Scommetto che non reggevi un minuto di piú la vista del mio corpo»,
disse l’uomo ridendo.
Adesso gli vedeva i vermi tra i capelli; era una vista cosí grottesca che
Antar premette un tasto sul pannello di controllo e fece sparire la testa. Poi
però, mentre si delineava lentamente la piatta sezione del collo reciso, si
rese conto che Ava aveva fatto un’opera di chirurgia cosí realistica da
rendere visibile ogni arteria e vena. Vedeva distintamente i capillari
pulsanti; persino il fluire del sangue era riprodotto, in movimento, cosí che
il collo sembrava uno squarcio sanguinante.
Antar si sentí mancare: la testa assomigliava incredibilmente a una
visione ricorrente nei suoi incubi notturni; una figura di un dipinto
medievale che aveva visto una volta in un museo in Europa, l’immagine di
un santo decapitato che reggeva la propria testa sotto il braccio con
noncuranza, come se fosse un cavolo appena colto.
L’uomo si mise a urlare mentre la sua testa sfumava sempre più.
«Mettimi giú, bastardo. Guardami negli occhi», gridava.
Antar richiamò l’immagine, con un comando, e i fiammeggianti occhi
rossi gli si inchiodarono addosso. «E cosí vuoi sapere cos’è accaduto a
Murugan?»
«Sí», disse Antar.
L’uomo esplose in un’altra di quelle sue risate maniacali.
«Lascia che te lo chieda di nuovo, -
disse. - Sei proprio sicuro di volerlo?»
Capitolo quarantatreesimo.
Pioveva a dirotto, quando finalmente raggiunsero il porticato della
vecchia dimora in rovina. Le lampade al neon di Robinson Street
emanavano un chiarore sfocato, verdastro, come luci di un acquario. Urmila
e Sonali si coprirono il capo coi sari mentre indugiavano sotto il porticato
scrutando la pioggia scrosciante.
Murugan affrontò di corsa il sentiero coperto di ghiaia. Giunto al
cancello, si voltò a guardare le due donne che aspettavano ancora sotto il
porticato.
«Forza, - gridò con tutta la voce che aveva, incalzandole. - Dobbiamo
muoverci, sbrigatevi».
La sua voce ritornò sotto il porticato, incorporea, ammorbidita dal vento
e addolcita dalla pioggia.
Urmila diede un colpetto di gomito a Sonali e si misero a correre,
dapprima esitanti, poi piú svelte, seguendo Murugan che era scattato giú per
la strada, verso l’ingresso del numero otto.
Svoltando alla cieca oltre il cancello della casa dove viveva la signora
Aratounian, Murugan andò a sbattere in qualcosa che ingombrava lo stretto
passo carraio. Alzò gli occhi e vide due carretti di bambú che bloccavano il
passaggio. Erano coperti da teli d’incerata semitrasparente gonfi come vele,
distesi sopra cumuli di oggetti disparati.
Si stava massaggiando le ginocchia, imprecando, quando Sonali e
Urmila lo raggiunsero. Urmila aggirò i carretti senza difficoltà e proseguí
decisa verso l’ingresso e l’ascensore. A metà dell’atrio scarsamente
illuminato scorse due uomini in lungi e casacca accovacciati ai piedi della
scala, che si fumavano un biri. Accanto a loro c’era un grosso mobile, una
massiccia credenza di mogano.
Urmila si fermò interdetta, spostando lo sguardo dai due uomini alla
credenza e viceversa. Quelli la fissarono a loro volta senza batter ciglio,
mentre il fumo dei biri saliva in volute sempre piú ampie.
Sonali si fermò vicino a lei: «Cosa succede?»
«Quella è della signora Aratounian,
- disse Urmila, indicando la credenza.
- Sono sicura che era nella sua sala da pranzo».
«Hai ragione, - disse Murugan. -
L’ho vista ieri sera».
Rivolgendosi in hindi ai due uomini, Urmila disse: «Dove l’avete
presa?»
Con un pollice volto all’indietro, uno dei due indicò la scala. Un attimo
dopo si udí uno sbatacchiare tremendo seguito da urla e grugniti. Tre
uomini a torso nudo girarono alla curva della scala reggendo un enorme
divano foderato di chintz.
«Ehi! - disse Murugan. - Anche quello è della signora Aratounian; ci
stavo seduto sopra ieri sera, davanti alla televisione».
Alzando la voce, Urmila disse: «Cosa diavolo succede?»
Uno degli uomini prese la mira e scagliò lontano il mozzicone del suo
biri, in un angolo. Poi si alzò in piedi senza fretta, stiracchiandosi.
«Qualcuno che se ne va, - disse con uno sbadiglio, accostando la spalla
alla credenza. - E noi portiamo via i mobili».
«Chi è che se ne va?» disse Urmila.
L’uomo fece spallucce e si abbassò per sollevare la credenza. «Come
faccio a saperlo?»
Urmila corse all’ascensore e spalancò la porta, incitando Murugan e
Sonali a seguirla. Ci si schiacciarono dentro e lei premette il pulsante del
quarto piano. Nessuno aprí bocca mentre l’antico ascensore saliva
lentamente per la tromba delle scale.
Urmila si buttò fuori dall’ascensore appena fu fermo. Vedendo la porta
della signora Aratounian, si sentí gelare il sangue nelle vene.
La porta era spalancata, tenuta ferma con un mattone. La luce si
riversava fuori dall’appartamento, diffondendo un colore dorato sulle logore
tavole polverose del pianerottolo. Sul muro accanto alla porta, dove un
tempo erano appese le targhette coi nomi, c’erano adesso due chiazze
rettangolari scolorite.
I loro occhi furono
irresistibilmente attratti dalla stanza d’ingresso al di là della porta.
Disordine e cianfrusaglie erano spariti. Le pareti erano completamente
nude. Mentre stavano lí a occhi sbarrati, uscirono due uomini con sacchi di
iuta gettati sulle spalle, pieni da scoppiare.
Murugan fu il primo a muoversi.
Attraversando di volata il salotto vuoto si precipitò nella stanza in cui
aveva dormito la notte precedente.
Urmila lo seguí, camminando come in trance, con Sonali che le stava
vicina.
Un attimo dopo dalla stanza di Murugan riecheggiò un ululato. «La mia
roba è sparita. Tutto: il computer portatile, i vestiti, la valigia Vuitton,
tutto…» Murugan tornò indietro di corsa, furibondo. «Persino il letto e la
zanzariera sono spariti… tutto…»
Da qualche parte alle loro spalle risuonarono dei passi, lungo il
corridoio che portava in cucina. Si voltarono tutti e tre insieme e si
trovarono davanti un ometto magro, con occhiali bifocali, camicia e
pantaloni logori. Aveva una matita infilata sopra un orecchio e con una
mano reggeva un portablocco e un fascio di fogli pinzati insieme. Nell’altra
aveva una manciata di noccioline.
Li guardò di traverso, gli occhi enormemente ingranditi dalle lenti.
«Chi siete? - disse sbattendo gli occhi senza capire. - Cosa ci fate qui?»
«Cosa ci fa lei qui? - sbottò Urmila. - E cosa ci fa lei in casa della
signora Aratounian?»
L’uomo si irrigidí aggrottando la fronte. I suoi occhi guizzarono furenti
dalla faccia di Urmila a quella di Murugan. Poi guardò Sonali e
improvvisamente la sua faccia si distese. Un braccio si sollevò lentamente,
tremando, sparpagliando noccioline sul pavimento. Aprí la bocca e spalancò
gli occhi, che strariparono oltre la montatura degli occhiali.
«Ma, - balbettò puntando l’indice dritto verso di lei. - Ma, lei… lei è…
lei è Sonali Das».
Sonali annuí con un sorriso distaccato. Il tizio deglutí convulsamente,
con il pomo d’Adamo che ballonzolava come il sughero di un pescatore.
«Ma lo sapete chi è? - disse rivolto agli altri, sputacchiando per
l’eccitazione, spruzzando verso di loro un sottile zampillo di saliva. -
è Sonali Das… la grande attrice…
e chi si sognava…»
Adesso saltellava sulle punte dei piedi, il viso rosso di soddisfazione ed
eccitamento.
«Oh, signora, - disse a Sonali, -
noi vediamo i suoi film almeno due volte all’anno al cineclub di
Bansdroni. Grazie alla mia
ostinazione, se cosí posso dire - sono tesoriere, co-fondatore e socio
segretario. Può chiederlo a chiunque a Bansdroni e tutti le diranno: Bolai-da
non lascia mai passare un anno senza che ogni film di Sonali Das venga
proiettato almeno due volte. C’è stata persino una mozione di sfiducia sulla
questione, ma…»
S’interruppe, a corto di parole, mentre gli occhi gli si riempivano di
lacrime. «Oh, Madame Sonali, - disse,
- per me lei è piú grande di Anna Magnani in Roma città aperta, piú
grande della Garbo in Camilla, persino piú grande di…»
Deglutí, come per farsi coraggio,
«Sí, - disse infine con aria incurante. - Perché non dovrei dirlo?
perfino piú grande dell’incomparabile Madhabi in Charulata».
Sonali gli rivolse un sorriso imbarazzato.
Murugan non riuscí a controllarsi piú a lungo. «Possiamo rimandare a
piú tardi questa roba da fan-club?»
sbottò, agitando un pugno.
L’uomo arretrò e prese a battersi il cranio con le nocche, come se
volesse svegliarsi da un sogno. «Mi dispiace,
- disse, - non avrei dovuto esaltarmi tanto».
Urmila gli diede una pacca gentile su una spalla.
«Non importa, - disse. - Ha perfettamente ragione riguardo a Sonali-di.
Ma al momento abbiamo altro per la testa. Siamo venuti per vedere la
signora Aratounian. Sa dirci dov’è?»
«La signora Aratounian? - disse l’uomo con aria sognante, mentre i suoi
occhi dietro le lenti bifocali seguivano Sonali. - Se n’è andata».
«Andata dove?» chiese Murugan.
«Andata, semplicemente». L’uomo si strinse nelle spalle, ormai senza
interesse per la conversazione. A un tratto fu catturato da un’idea; si rivolse
di nuovo a Sonali,
illuminandosi in viso. «Chissà se accetterebbe di venire una volta nel
nostro cineclub, - disse. - Sarebbe possibile, Madame?»
Sonali rispose con un gesto piú volte sperimentato, né di conferma né di
rifiuto.
Murugan afferrò l’uomo per un braccio scuotendolo con forza. «Dopo,
dopo, - gridò. - Potrete parlarne dopo. Adesso ci dica: dov’è la signora
Aratounian? E dov’è la sua roba - i suoi mobili, le piante, tutto? E la mia
roba - la valigia, il portatile e tutto il resto?»
L’uomo si liberò della stretta di Murugan con un sospiro di fastidio.
«Lasci che le dica, - disse, - che non c’è bisogno di alzare la voce».
«Mi dispiace, - disse Murugan. -
Volevo solo attirare la sua attenzione prima che scappi di nuovo. Le
stavo dicendo: dov’è finita tutta la roba, la mia e quella della signora
Aratounian?»
L’uomo lo guardò con aria
interrogativa, dietro il baluginio delle lenti. «Non lo sa? - disse. - Ha
venduto tutto. Al New Russel Exchange.
Ecco perché sono qui: sono il capo contabile incaricato della raccolta e
della stima dei beni».
«Ma stamattina era tutto qui, -
gridò Murugan fuori di sé. - Voglio dire, io ero qui ieri sera.
Stamattina, quando sono uscito, ogni cosa era al suo posto. Non può
avere venduto tutto oggi».
Il contabile gli rivolse un sorriso compassionevole. «Certo che no, -
disse. - Non si può stipulare una vendita simile tutta in un giorno.
Anche solo per le formalità legali…
bisogna provvedere alla registrazione, gli affidavit, i bolli».
Sollevando il portablocco in direzione di Murugan, indicò con la matita.
«Ecco, guardi, - disse. -
Eccole il contratto».
Da sopra la spalla dell’uomo, Murugan e Urmila si ritrovarono a
guardare una copia carbone di un lungo documento scritto a macchina.
L’intestazione diceva: «New Russell Exchange, Aste e Valutazioni». Il
margine di ogni pagina era un mosaico di bolli, sigle e firme.
Il contabile scorreva il documento canticchiando. Arrivato in fondo, si
fermò con un grido d’esultanza. «Ecco, vede? Il contratto è stato firmato e
siglato esattamente un anno fa, nella stessa data di oggi. La signora
Aratounian ha venduto tutto ciò che si trovava in questo luogo, con un
contratto che prevedeva la raccolta e la stima sul posto, e soggetto alla
clausola che la raccolta avvenisse esattamente un anno dopo».
Tornò alla prima pagina e tamburellò sul documento con l’estremità
gommata della matita.
«In questo elenco c’è tutto, -
disse. - La signora Aratounian mi ha mostrato personalmente dove si
trovava ogni pezzo indicato nell’elenco, stamattina. Ogni oggetto contenuto
in questo appartamento è stato inserito qui al momento della valutazione,
prima che l’appartamento fosse venduto».
Urmila, incredula, si lasciò sfuggire un grido: «L’appartamento è stato
venduto?!»
«Sí, - disse il contabile. - I nuovi proprietari ne prenderanno possesso
oggi».
Murugan lo fissava incapace di reagire. «Ma, - cominciò a dire, - ma la
mia roba non può essere in quell’elenco: non ero neppure qui».
Il contabile guardò Murugan con aria interrogativa. «Sta forse cercando
di accampare diritti su qualche oggetto?
- disse. - L’avverto che in base a questo contratto noi abbiamo il pieno
diritto legale di asportare tutto, dico tutto ciò che si trova qui dentro».
«Non sto accampando nessun diritto,
- disse Murugan. - Voglio solo sapere cosa ne è stato della mia roba».
«Che oggetti erano? - disse il contabile. - è in grado di
descriverli?»
Murugan annuí: «Una valigia, un portatile modello 486, cose cosí».
Il contabile fece scorrere la matita sulla lista, canticchiando tra sé.
«Ecco! - disse puntando la matita su una riga. - Valigia di cuoio, piú vari
articoli da viaggio e apparecchio elettronico d’importazione».
Murugan divenne silenzioso, fissava il portablocco scuotendo la testa
senza capire. «Ma è pazzesco. Voglio dire, un anno fa non mi sfiorava
neppure l’idea di essere qui oggi».
Il contabile consegnò il portablocco a Murugan e si avvicinò a Sonali.
Estrasse dalla tasca dei pantaloni un pezzo di carta e glielo porse. «Per
favore, signora, - disse, - se potesse farmi un autografo… solo per mostrarlo
al cineclub».
Sonali prese la carta e la matita che le veniva offerta. Scarabocchiò il
proprio nome e restituí il pezzo di carta. L’uomo lo prese con entrambe le
mani, proteggendolo con reverenza.
«Lei non sa cosa significa questo per me, - sospirò, - due persone
famose nello stesso giorno - è piú di quanto avrei mai potuto immaginare».
Un Murugan redivivo s’intromise.
«Devo farle un’altra domanda, - disse.
- La signora Aratounian ha lasciato della carta? Fotocopie, vecchi ritagli
di giornale, qualcos’altro?»
Il contabile inclinò la testa di lato, guardando Murugan con espressione
perplessa. «è
interessante che lei me lo chieda, -
disse. - Di solito, quando sgomberiamo una casa c’è sempre un sacco di
carta in giro. Ma qui non ce n’era. Niente giornali, nessun vecchio libro,
niente. L’ho cercata perché ci volevo mettere dentro queste». Aprendo il
pugno mostrò le ultime noccioline rimaste. «Ma non sono riuscito a
trovarne neppure un pezzetto in tutta la casa. Ecco perché per l’autografo di
Madame ho dovuto usare il foglietto che mi ha dato la signora
Aratounian prima di andarsene».
«Quale foglio?» disse Murugan.
Il contabile aprí le mani con cautela, rivelando il foglietto su cui Sonali
aveva appena scritto l’autografo.
«Quando gliel’ha dato, la signora Aratounian? - chiese Murugan. - E
perché?»
«Ha detto che se veniva qualcuno di dirgli…»
«Dirgli cosa?»
Il contabile sbirciò il foglietto.
«Che andava a prendere un treno alle otto e mezza, per Renupur, da
Sealdah».
«Cosa? - urlò Murugan. - Svelte: che ore sono adesso?»
Agguantando il contabile per un polso, Urmila controllò l’orologio.
«Sette e quarantacinque, - disse. -
Possiamo farcela, se troviamo un taxi subito».
Lasciò andare la mano del contabile:
«Perché non ce l’ha detto prima?»
«Non sapevo, - replicò quello, schermendosi. - Pensavo che si trattasse
di qualcun altro».
«Chi?» chiese Murugan.
«Phulboni», disse il contabile.
«Phulboni?» gridò Sonali.
«Sí! - disse il contabile. - Proprio Phulboni. Il grande scrittore, era qui
fino a poco fa. Ha detto che qualcuno è andato a casa sua ieri sera molto
tardi e gli ha lasciato un biglietto in cui gli si diceva di venire qui.
Guardate…» Girò il pezzo di carta e indicò un altro autografo
frettoloso.
Murugan si diresse alla porta.
«Presto. Muoviamoci».
Urmila e Sonali lo seguirono di corsa, lasciando il contabile
momentaneamente allibito. Erano già a metà delle scale quando lo sentirono
gridare, sporgendosi dalla ringhiera:
«Madame, il mio invito…» Non ebbe risposta.
Una volta giú, Urmila si fermò a riprendere fiato. «Sonali-di, - disse
ansimando. - Perché vieni con noi? Non sei tenuta a venire».
Sonali scoppiò a ridere. «Certo che vengo con voi».
«Ma perché? - disse Urmila. - Non sai niente di questa storia».
«C’è anche qualcosa che non sai tu», disse Sonali.
«Cosa?»
«Che Phulboni è mio padre, - disse Sonali. - Senza Phulboni e Romen,
cosa ci resto a fare qui?»
Una voce attonita fluttuò giú per la tromba delle scale. «Phulboni è suo
padre, Madame? Oh, mio Dio! Cosa diranno al cineclub?»
Udendo i suoi passi precipitosi sulle scale corsero in strada.
Murugan aveva già bloccato un taxi.
«Presto, - disse al conducente. -
Sealdah jaldi, piú svelto che puoi».
Capitolo quarantaquattresimo.
Mentre il taxi svoltava sull’angolo, verso Park Street, Murugan afferrò
la mano di Urmila e la strinse tra le sue.
«Voglio che tu mi prometta una cosa, Calcutta», disse.
«Cosa? - disse Urmila. - Di cosa stai parlando?»
Murugan le premeva con forza la mano. «Promettimi, Calcutta, - disse.
- Prometti che mi farai passare, se non ce la faccio da solo».
Urmila lo guardò con tanto d’occhi.
«Passare dove?»
«Dovunque».
Urmila scoppiò a ridere, gettando la testa all’indietro: «Non so di cosa
stai parlando».
«Promettimelo lo stesso, -
insistette Murugan. - Prometti che mi ci porterai, anche nel caso che
volessero lasciarmi indietro?»
«E perché qualcuno dovrebbe volerti lasciare indietro? Sei l’unico che
sa cos’è successo, e cosa sta succedendo.
L’hai detto tu stesso che qualcuno si è fatto in quattro per aiutarti a
mettere insieme i pezzi».
«è proprio questo il problema, -
disse Murugan. - La parte che mi è stata assegnata in tutto questo
consisteva nel tirare alcuni fili in modo che quelli, prima o poi nel futuro,
possano consegnare un bel pacchetto accuratamente incartato a qualcuno
che stanno aspettando, chiunque sia».
«E come fai a sapere che non sei tu quello che aspettano?»
«Non posso essere io, - disse Murugan avvilito. - Vedi, per loro l’unico
modo di sfuggire alla tirannia della conoscenza è di ribaltarla su se stessa.
Ma perché ciò avvenga devono creare un singolo momento perfetto di
scoperta in cui la persona che scopre è anche quella che viene scoperta. Il
problema con me è che so troppo e troppo poco».
«Ma allora chi è?» disse Urmila.
«Vorrei potertelo dire, - disse Murugan, - ma non lo so. Dovrei
chiederlo a te piuttosto».
«Cosa vuoi dire?» disse Urmila.
«Ancora non ci arrivi?» le chiese Murugan con un mezzo sorriso
afflitto.
«No, - disse Urmila. - Non so di cosa stai parlando».
Murugan la fissò negli occhi. «Non lo vedi? Sei tu quella che lei ha
scelto».
Urmila ansimava. «Per cosa?»
«Per se stessa».
A un tratto, cogliendola di sorpresa, Murugan si buttò ai suoi piedi,
rannicchiandosi nel poco spazio tra i sedili del taxi. Si chinò a toccarle i
piedi con la fronte. «Non dimenticarti di me, - la supplicò. -
Se è in tuo potere di cambiare ciò che è scritto, mettici anche me. Non
lasciarmi indietro. Ti prego».
Urmila rise. Posò una mano sulla testa di Murugan e un braccio intorno
alle spalle di Sonali. «Non preoccupatevi, - disse. - Vi porterò con me,
dovunque io vada».
Poi sorprese l’autista del taxi che allungava il collo, sogghignando
maliziosamente.
«E tu tieni d’occhio la strada, -
gli disse brusca. - Tutto questo non ti riguarda».
Capitolo quarantacinquesimo.
«Scommetto che ti ricordi di me, uh, uh? - disse la Testa ad Antar. - Il
tuo vecchio compagno del ristorante thailandese».
«Murugan!» gridò Antar.
«Ci hai azzeccato, - disse Murugan,
- proprio io».
«Sei davvero tu?»
«Sicuro! è un sacco di tempo che aspetto di mettermi in contatto con te,
alla fine ho deciso che la tessera di riconoscimento era il sistema piú
rapido».
«Ma sono anni che ti cercano, -
disse Antar. - Dove sei stato?»
«Te l’ho già chiesto prima, - disse Murugan. - E te lo chiedo di nuovo.
Sei sicuro di volerlo sapere?»
«Sí», disse Antar.
«Okay Ant, - disse ridendo Murugan.
- è il tuo funerale. Tutto quello che hai da fare è prendere quell’arnese
laggiú».
Il mento disincarnato indicò il casco per la visualizzazione simultanea
di Antar.
«Vuoi dire che è tutto lí dentro? -
Antar ansimava. - Non può essere, nessuno ha accesso…»
«Suppongo che ci siamo entrati quando l’accesso era possibile, -
disse Murugan. - Comunque è tutto lí che aspetta che tu schiacci il
bottone». Con un movimento lento e deciso, Antar prese il casco, se l’infilò
e si sistemò il visore davanti agli occhi. Premette un tasto e
immediatamente comparve un uomo che camminava in un’ampia strada, a
fianco di una grigia cattedrale. Indossava pantaloni kaki e un berretto verde
da baseball. Era Murugan. Si fermava guardandosi alle spalle: oscure nubi
minacciose avanzavano in una vasta distesa verde. Un minibus gli
sfrecciava accanto, sollevando uno spruzzo d’acqua da una pozzanghera.
Murugan si metteva a correre.
Antar lanciò un’occhiata all’icona
«Tempo di conversione», ai piedi dell’immagine tridimensionale.
Diceva: 17,25. Antar si sentí mancare il fiato. Ciò poteva significare una
cosa sola: qualcuno aveva cominciato a caricare il sistema di
visualizzazione simultanea all’incirca all’ora in cui Ava era incappata nel
tesserino di riconoscimento di Murugan.
Adesso Murugan era in piedi nell’atrio di un vasto auditorium e due
donne correvano su per le scale.
Ecco, si avvicinavano. Antar riconobbe subito Tara - solo che indossava
il sari. Stava conversando con Maria, anche lei in sari.
Antar sentí sulla spalla un colpetto leggero e la sua mano fece per sfilare
il casco. Ma adesso c’era una mano che gli stringeva il polso, e una voce
nell’orecchio, la voce di Tara che bisbigliava: «Continua a guardare; siamo
qui; siamo tutti con te».
C’erano voci dappertutto adesso, nella stanza, nella sua testa, nelle sue
orecchie, era come se una folla di persone fosse in quella stanza con lui. E
gli dicevano: «Siamo con te; non sei solo; ti staremo vicini».
Si appoggiò allo schienale della sedia e sospirò, come non sospirava da
anni.
Glossario
alu paratha: Focaccine di pasta ripiene di verdure e spezie.
anna: Moneta ormai in disuso, pari a 1/16 di rupia.
biri: Sottile sigaretta avvolta a mano.
biryani: Stufato di montone o di pollo con spezie e riso pilaf.
chapati: Focaccina di pasta non lievitata.
charpai-charpoi: Brandina di corde intrecciate.
cheroot: Sigaro confezionato nell’India meridionale, con entrambe le
estremità aperte.
chhokra: Giovane domestico, o inserviente nell’esercito.
chowkidar: Sentinella dei villaggi.
dacoit: Briganti nomadi.
dal: Minestra di lenticchie.
dhoti: Telo di cotone lungo fino al ginocchio che si avvolge sui fianchi.
didgeridoo: Strumento musicale a fiato degli Aborigeni australiani. In
legno e di forma tubolare, produce un intenso suono riecheggiante.
durwan: Guardiano, custode.
futon: [dal giapponese] Materasso di cotone trapuntato. Facile da
trasportare, disteso lo si usa come giaciglio, arrotolato per sedersi.
ghee: Burro chiarificato.
gimlet: Cocktail: 1/2 misura di gin e 1/2 di succo di limetta.
jahru: Scopino di saggina.
jaldi: Esortazione.
jhalmuri: Dolciumi.
jatra: Una forma popolare di teatro, di origine religiosa, ma oggi
ampiamente laica.
-ji: Suffisso affettuoso o di rispetto che si può aggiungere a qualunque
nome o epiteto.
khukri: Pugnale.
kurta: Camicia lunga e sciolta, senza colletto.
ledigeni: Dolce bengalese. La parola deriva da lady Canning, moglie di
un viceré britannico, in onore della quale venne battezzato il dolce.
luchi: Focaccina fritta, di farina e semolino.
lungi: Lunga pezza usata come scialle, perizoma o turbante.
Ma-: Madre (appellativo
affettuoso).
maidan: Piazza d’armi.
masala noodles: Spaghettini di riso in salsa piccante.
memsaheb-memsahib: Signora, da madam e saheb-sahib.
merguez: Salsiccia di agnello.
mihidana: Dolciumi.
paan: Mistura di calce, noce di areca e altre spezie che si avvolge in una
foglia di betel [pianta delle Piperacee con un leggero effetto inebriante] e si
ferma con un chiodo di garofano.
paan-wallah: Venditore di paan.
pandal: Tendone per ricevimenti e cerimonie all’aperto.
paratha: Sorta di crêpe impastata col ghee, ripiena di formaggio o
verdure.
pyjama: Ampi pantaloni sorretti in vita da un laccio.
puja: Preghiera o rito religioso.
shingara: Crocchette fritte a base di patate e altre verdure.
sitar: Strumento musicale a corde, il cui numero varia da 3 a 17.

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