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In viaggio con Erodoto di Ryszard Kapuściński

Come ho già detto le Storie di Erodoto uscirono in libreria nel 1955, due anni dopo la morte di
Stalin. L'atmosfera si era rassenerata, la gente respirava più liberamente. Era appena uscito un
romanzo di Ehrenburg il cui titolo sarebbe diventato il simbolo dell'era che stava cominciando: Il
disgelo. A quel tempo per noi la letteratura era tutto. Vi cercavamo la forza di vivere, le direzioni da
prendere, la rivelazione.
Terminai gli studi e cominciai a lavorare in un giornale. Si chiamava “Sztandar Młodych”. Nella
mia qualità di principiante, seguivo soprattutto le Lettere al Direttore. Vi si denunciavano torti e
miseria: mucche requisite dallo Stato, villaggi senza corrente elettrica. Ora che la censura era meno
severa non era più vietato dire che nel villaggio di Chodów era stato aperto un negozio dove tuttavia
non c'era mai nulla da comprare. Un bel progresso, rispetto al regime staliniano, sotto il quale era
proibito dire che i negozi erano vuoti: i negozi erano per definizione sempre pieni di merce. Giravo
da un villaggio all'altro, da una cittadina all'altra su carri di legno o su autobus scassati: le macchine
private erano una rarità e anche le biciclette scarseggiavano.
Talvolta, ma di rado, le piste mi conducevano in villaggi di frontiera. Via via che ci si avvicinava al
confine, la terra si faceva deserta e la gente sempre più rara. Un vuoto che aumentava il mistero di
quei paraggi e grazie al quale mi resi conto che nelle zone di frontiera regnava un mistero e un
silenzio dai quali ero attratto e intrigato. Ero sempre tentato di scoprire che ci fosse di là, dall'altra
parte. Mi chiedevo che cosa si provasse nel varcare una frontiera. Che cosa si sentiva? Che cosa si
pensava? Doveva essere un momento straordinariamente emozionante. Cosa c'era dall'altra parte?
Senza dubbio qualcosa di diverso. Ma diverso in che senso? Che aspetto aveva? A che cosa
somigliava? Forse non somigliava a niente di ciò che conoscevo e per ciò stesso era inconcepibile,
inimmaginabile? In fin dei conti il mio massimo desiderio, quello che più mi tentava e attraeva era
di per sé estremamente modesto: la pura e semplice azione di varcare la frontiera. Varcarla per
subito tornare indietro: pensavo che ciò sarebbe bastato a placare quel mio inesplicabile e pur
tuttavia prepotente bisogno psicologico.
Come fare? Nessuno dei miei compagni di scuola e di università era mai stato all'estero. Se
qualcuno aveva un parente oltre frontiera, preferiva non pubblicizzare la cosa. Ce l'avevo con me
stesso per quella strana fissazione, che comunque continuava a ossessionarmi.
Un giorno, nel corridoio della redazione, incontrai la mia caporedattrice. Era una bella bionda dai
folti capelli divisi da una scriminatura e pettinati di lato. Si chiamava Irena Tarłowska. Fece qualche
commento sui miei ultimi pezzi, poi mi chiese che progetti avessi. Dopo aver elencato i villaggi
dove dovevo recarmi e le questioni di cui mi sarei occupato, mi feci coraggio e aggiunsi: "Un
giorno mi piacerebbe anche andare all'estero". "All'estero?" rispose lei, stupita e leggermente
spaventata, visto che a quei tempi le partenze per l'estero non erano certo all'ordine del giorno. "Ma
dove? E a che fare?" chiese. "Pensavo alla Cecoslovacchia" replicai. Londra e Parigi non mi
tentavano, erano realtà che non cercavo di immaginare e che neanche mi interessavano. Quello che
volevo era semplicemente varcare una frontiera, quale che fosse: non mi premevano lo scopo, il
traguardo, la meta, ma il mistico e trascendentale atto di sé di varcare la frontiera.
Passò un anno. Nella stanza dei reporter squillò il telefono. La caporedattrice mi convocava nel suo
ufficio. "Sai", disse quando fui davanti alla sua scrivania, "ti mandiamo all'estero. In India".
Sul momento restai senza fiato. Poi fui preso dal panico: dell'India non sapevo assolutamente nulla.
Cercavo febbrilmente di farmi venire in mente un'associazione, un'immagine, un nome. Invano: non
ne sapevo proprio niente. L'idea di mandarmici dipendeva dal fatto che la Polonia aveva da poco
ricevuto la visita del presidente di un Paese fuori dal blocco sovietico, il leader indiano Jawaharlal
Nehru. Tra i due Paesi era stato gettato un ponte e i miei reportage avrebbero dovuto consolidare i
legami.
Alla fine di quella conversazione che mi informava della mia partenza per il vasto mondo, la
Tarłowska si avvicinò all'armadio, ne estrasse un grosso volume rilegato in tela gialla e me lo
consegnò dicendo: "Questo da parte mia, per il viaggio". Sul frontespizio, impressi a caratteri
dorati, apparivano il nome dell'autore e il titolo: Erodoto, Storie.

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