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La nave di Teseo +

Giulio Ferroni
L’Italia di Dante

Viaggio nel paese della Commedia


L’Editore ringrazia la Società Dante Alighieri
per il sostegno alla pubblicazione.

© 2019 La nave di Teseo + editore, Milano


ISBN 978-88-9395-551-5

Prima edizione La nave di Teseo / Baldini+Castoldi dicembre 2019


Sommario

Introduzione
Napoli: tomba di Virgilio
ROMA
Dante e Roma
San Giovanni in Laterano
Verso il Vaticano
Cortile della Pigna e Musei Vaticani
Ponte Sant’angelo e monte Giordano
Campidoglio
Tempio di Giano
Monte Aventino
Monte Mario
Foce del Tevere
Basilica di San Pietro: la Veronica
Grotte Vaticane
FIRENZE
Denuncia, passione, desiderio
La città dell’Arno
Battistero: il bel San Giovanni
L’ultimo sesto e Porta San Piero
Verso la Porta Peruzza
Nel sito del Gardingo: tra piazza San Firenze e piazza della
Signoria
Borgo Santi Apostoli
Santa Maria del Fiore, già Santa Reparata
Piazza della Repubblica (Mercato Vecchio)
Ponte Vecchio
Ponte alle Grazie, Monte alle Croci e San Miniato al Monte
La Badia
Dentro da la cerchia antica e altri luoghi danteschi
Lasciare Firenze
SUD DEL LAZIO E SANNIO
Monte Circeo
Gaeta e il Garigliano
Benevento
Montecassino
Aquino
Ceprano
Monte Caccume
Castel Gandolfo
Anagni
Palestrina
UMBRIA E NORD DEL LAZIO
Monte Soratte
Acquasparta
Assisi
Monte Subasio, fiume Topino, Nocera Umbra, Gualdo Tadino,
fiume Chiascio
Perugia: Porta Sole
Gubbio
Monte Ingino (Sant’ubaldo)
Chiusi
Orvieto
Bagnoregio
Bolsena
Bullicame
PUGLIA
Brindisi
Bari
Canne della Battaglia
DA TAGLIACOZZO ALLA ROMAGNA E AL CASENTINO
Tagliacozzo
Fiume Tronto
Fiume Castellano
Da Urbisaglia a Senigallia
Fano
Fiorenzuola di Focara e Cattolica
Urbino
Monte Catria
Santa Croce di Fonte Avellana
Carpegna
San Leo
Verucchio
Rimini
Rubicone
Cesena
Bertinoro
Cervia
Ravenna
Pineta di Classe
Santa Maria in Porto Fuori
Sant’Alberto (Marcabò?)
Dal Reno al Po
Giustiniano a Ravenna
Prada
Bagnacavallo e Barbiano (Cunio)
Medicina
Imola
Faenza e oltre (Modigliana e Dovadola)
Castrocaro
Forlì
Fiume Montone e San Benedetto in Alpe
Presso le sorgenti dell’Arno: sotto il Falterona
Tra il Pratomagno e il gran giogo
L’alta valle dell’Arno: Poppi
L’Arno a Ponte a Poppi
Campaldino
Romena
Il Torrente Archiano, presso Bibbiena
La Verna
Confluenza dell’Archiano nell’Arno
Eremo di Camaldoli
Monte Fumaiolo e sorgente del Tevere
Ferrara
Bologna: la Garisenda
Bologna universitaria
Bolognesità culturale
Bologna: tra Sàvena e Reno
SARDEGNA
L’isola d’i Sardi
La Barbagia
La Gallura
Bocche di Bonifacio
Il gallo di Gallura
Il Logudoro
SICILIA E CALABRIA
La bella Trinacria
A Palermo
Palermo: la cattedrale
Lago di Pergusa
Pachino
Siracusa
L’Etna
Golfo di Catania
Peloro
L’onda là sovra Cariddi
Catona
Cosenza
NORDEST
San Giovanni in Fiore
L’Alpe che serra Lamagna e il castello di Tirolo
Venezia: l’Arsenale
Il conio di Vinegia
Venezia: Rialto e Santa Lucia
Treviso
Treviso e i da Camino
Verso il Friuli: il Tagliamento
Intorno al Piave
Romano d’Ezzelino
Feltre
Fiume Brenta
Trento
Ruina di Marco
Verona
Gli Scaligeri
Verona: San Zeno
Vicenza
Lago di Garda. Garda e Peschiera
Mantova
Pietole
Governolo: il Mincio e il Po
Reggio Emilia e oltre
Brescia
Val Camonica
Este
Oriago e Mira
Sant’Andrea di Codiverno
Padova
Gli Scrovegni
Pola e il Carnaro
SUL VERSANTE TIRRENICO
Viterbo
Viterbo: Chiesa del Gesù (San Silvestro)
Viterbo: Palazzo dei Papi
Tarquinia (Corneto)
Talamone
Sovana
Santa Fiora
Campagnatico
La Maremma e il castello della Pietra
Montaperti e fiume Arbia
Siena
Gente vana a Siena
Siena: la Diana
Siena: piazza del Campo
Monteriggioni
Colle Val d’Elsa
Fiume Elsa
Lucca
Gli Antelminelli
Lucca: Santa Zita in San Frediano
Lucca: dal Volto Santo al Serchio
Caprona
Monte Pisano
Nelle Alpi Apuane (Pietrapana e Tambernicchi)
Le cave di marmo e Carrara
Lerici
Fiume Magra
Luni
Val di Magra
Chiavari, Lavagna, Sestri Levante e Sarzana
Cecina
Pisa
Bocca d’Arno
Capraia e Gorgona
NORDOVEST
Partendo da Torino
Da Alessandria al Monferrato
Casale Monferrato
Vercelli
Da Novara al monte Rubello
Ivrea e il Canavese
Il passaggio di Annibale
Il Monviso e la sorgente del Po
La Turbie
Noli
Genova
Verso Pavia
Pavia: San Pietro in Ciel d’Oro
Cremona
Bergamo
Milano nell’Expo 2015
Milano: dal Castello Sforzesco al Gabinetto dantesco del Poldi
Pezzoli
INTORNO A FIRENZE E APPENNINO TOSCO-EMILIANO
Valdichiana
Asciano
Pieve al Toppo
Arezzo
Aretini nell’oltretomba
Figline Valdarno
Gaville
In Val di Greve: Greve in Chianti
Tra la Val di Pesa e la Val d’Elsa (Aguglione)
Semifonte
Certaldo
Verso il Galluzzo
Fiume Ema
Signa
Campi Bisenzio
Trespiano
Fiesole e le bestie fiesolane
Fiesole antica
Acone
Cascata dell’Acquacheta
Dal Lamone alla Badia di Susinana
Gli Ubaldini nel Mugello
Mangona e l’alta valle del Bisenzio
Parma
La Pietra di Bismantova
Modena
Prato
Pistoia
Serravalle Pistoiese (Campo Piceno)
Montemurlo
Firenze vista dall’Uccellatoio
Ringraziamenti
Introduzione

O de li altri poeti onore e lume,


vagliami ’l lungo studio e ’l grande amore
che m’ha fatto cercar lo tuo volume.
(Inf., I, 82-84)

Da tempo pensavo di fare un viaggio dantesco: tornando ogni volta


alla lettura della Commedia o al semplice ricordo mentale di qualche
verso o terzina, venivo ogni volta catturato dal modo in cui essi
danno evidenza ai luoghi, li fissano in un’assoluta presenza che è
tanto più urgente quanto più è data da una voce che reca in sé il
segno della distanza; voce lontana, in cui si addensa un altro tempo,
l’eco di ciò che era il mondo quando essa si pronunciava. Pensavo
ai luoghi detti da Dante e a ciò che essi sono oggi: divenuti, pieni di
vita o di disgregato silenzio, rinnovati o franati, tra persistenti tracce
di ciò che era allora e segni di tutto ciò che è passato su di essi nel
tempo. Luoghi d’Italia, di questa Italia che ho attraversato e vissuto
nei miei anni, con la sua bellezza e il suo sfacelo; luoghi della vita e
della poesia, la cui consistenza e il cui stesso habitat si sono
coniugati con tanta poesia e letteratura, che li ha toccati nel corso
del tempo, che ne ha interrogato il carattere, che li ha fatti
riconoscere, comprendere, amare. Luoghi che Dante ha
direttamente conosciuto e toccato nella sua vita o di cui soltanto ha
sentito parlare o ha letto, ma di cui sa comunque far percepire tutta
la concreta, resistente realtà.
Per tanto tempo ho sognato questo viaggio, per tanto tempo esso
è per me rimasto solo un desiderio. Solo ora, finalmente, arrivato a
un’età ben più avanzata di quella a cui giunse Dante, lasciate le
stanze sfatte e disordinate dell’Università Sapienza, cariche ormai di
imposte elucubrazioni burocratiche, compilazioni su schermi e su
carte, verbosi e vani consigli, riunioni, commissioni, mi trovo a dar
corpo a questo desiderio, anche grazie al sostegno della Società che
proprio da Dante prende il nome: Società Dante Alighieri, con il
compito di promuovere la cultura e la lingua italiana nel mondo, e,
quando fu fondata per iniziativa di Giosuè Carducci, apparve cosa
spontanea e naturale che tale compito si inscrivesse sotto il nome di
Dante. Nel nome di Dante la cultura e la lingua italiana segnano il
loro incardinarsi nei luoghi d’Italia, si pongono come un dato vitale
che ha animato nel tempo l’ambiente e il paesaggio d’Italia, le sue
bellezze naturali e gli infiniti splendori dell’arte, dell’architettura,
dell’urbanistica, del vario e contraddittorio fare umano.
Tornare a Dante e sui luoghi danteschi (non tanto e non soltanto
quelli in cui lui è stato, ma soprattutto quelli detti dalla sua grande
poesia, tutti quelli anche solo incidentalmente nominati nella
Commedia) è anche un confrontarsi con la letteratura come totalità,
con la densità avvolgente di quella parola poetica, sgorgata così
forte per la prima volta in un volgare italiano. Una totalità che mi è
accaduto di intravvedere già nell’adolescenza, quando nell’incontro
scolastico con Dante mi sembrò di riconoscere il senso della poesia,
come qualcosa di assolutamente distante che si imponeva come
assolutamente vicino, parola lontana (di una “lingua che più non si
sa”) che mi toccava come fosse presente, con la sua tensione
espressiva, con il suo ritmo e la sua intrecciata recursività (le terzine
a rima incatenata!): e con le passioni e i desideri di quel mondo
lontano, con quel precipitare e con quell’ascendere, con quella
volontà di dire l’essenziale, di toccare fino in fondo il senso e le
ragioni dell’esistere. Dante fu (non solo per me) la poesia: nella sua
impossibile aspirazione alla totalità, a una parola definitiva, certo mai
raggiunta e mai raggiungibile, ma insistentemente e testardamente
cercata. Tornare a Dante è anche un po’ sfuggire alla inessenzialità
e all’inconsistenza di tanta letteratura di oggi, alla sua subalternità al
mercato, ai modelli mediatici; ed è un ritrovare le vere ragioni della
grande letteratura, di contro alla sua attuale marginalizzazione, alla
lotta contro di essa condotta da tanti officianti della pedagogia,
dell’economia, delle tecnologie vecchie e nuove; e in particolare
della grande letteratura e della lingua italiana, sempre più trascurata
nella scuola e schiacciata negli usi correnti dal dominio imperiale
dell’inglese. Seguire i percorsi dell’Italia di Dante è poi anche un
affermare la reale riconoscibilità dell’Italia, già in quei lontani tempi,
prima che si desse ogni concetto di nazione e nazionalità, contro
certi negatori dell’identità storica dell’Italia (ancora variamente
ascoltati in occasione della ricorrenza del centocinquantenario della
sua unità): nel momento in cui fonda la sua lingua letteraria, Dante
individua nettamente l’Italia nella sua turbinosa consistenza,
linguistica, geografica, politica, morale, nelle sue speranze e nei suoi
fallimenti: l’“umile Italia”, nominata subito nel canto I dell’Inferno, il
“bel paese là dove ’sì suona”, la “serva Italia, di dolore ostello”,
dispiegata in alcuni formidabili scorci panoramici, che avrò modo di
seguire in questo viaggio (come Purgatorio, XXX 85-90, Paradiso,
VIII 61-63, e XXI 106-111). Un’Italia così nettamente definita, tanto
più che, dal punto di vista del destino oltremondano, se ne indica la
provvisorietà, comune a tutte le cose terrene, quando nella cornice
degli invidiosi il pellegrino chiede se c’è qualche anima che sia
“latina” e uno spirito, che si saprà poi essere Sapia senese, risponde
che lì “ciascuna è cittadina/ d’una vera città” e che piuttosto lui abbia
voluto dire “che vivesse in Italia peregrina” (Purgatorio, XIII 91-96).
Pellegrinando per l’Italia in questo tardo scorcio della mia vita sulla
scorta dell’immensa poesia di Dante, misurerò la sua distanza
storica, nella provvisoria consistenza di questo effimero presente,
ma nel contempo la concretezza del suo spazio geografico attuale,
sulle carte e sulle mappe: certo con mezzi di trasporto la cui velocità
è del tutto incongrua con quella dei tempi di Dante, ma toccando
comunque la difficoltà di misurare la concretezza dei luoghi, che oggi
troppo spesso viene fatta svanire dall’uso dei navigatori satellitari,
che danno un’immagine illusoria degli spazi da attraversare, che
fanno muovere nel mondo senza che più si sappia dove si è. La
geografia come conoscenza dei luoghi, della loro specifica
collocazione, è qualcosa che si sta perdendo: in effetti essa si
collega a scienze e tecniche sempre più determinanti nel mondo
contemporaneo, riservate a pochi scienziati e programmatori, mentre
le grandi masse e i giovani sembrano sempre più ignorarla e tanti
intellettuali si lasciano prendere da fantasie di alleggerimento dello
spazio, di una sua presunta simultaneità, trasversalità, ubiquità
disegnata dalla sua virtualizzazione informatica. Percorso dai mezzi
più veloci e disegnato sugli schermi che sembrano cancellarne la
consistenza, lo spazio continua a persistere in una fisicità che
impone di toccare e di andare: nella poesia di Dante sentiamo
ancora la materialità di questo andare nei luoghi e attraverso i
luoghi; del resto, come scrisse Dino Campana percorrendo il
dantesco Appennino, “Tutta la sua poesia è poesia di movimento”.

NOTA PER IL LETTORE


Il racconto/diario di questo viaggio è diviso in sezioni che corrispondono alle diverse tappe,
distinte per aree geografiche, e alla loro successione: è un ordine cronologico, come
mostrano le date registrate. Si vedrà che la maggior parte delle tappe si sono svolte nel
2014, ma altre due piuttosto ampie nel 2015 e un’ultima nel 2016. Non manca però qualche
leggera sfasatura: così la visita a Firenze della sezione 2 è di poco successiva al viaggio
della sezione 3, ma non ho voluto rinunciare a mettere vicine Roma e Firenze, le due città
diversamente emblematiche per Dante (e per il sottoscritto); e le sezioni 1, 3, 6 e 9
contengono dei supplementi (parti del viaggio effettuate successivamente in zone dell’area
in questione). In alcuni casi, inoltre, si fa cenno a eventi e situazioni successive alla data in
cui il viaggio è stato effettuato, fino a questo 2019. Per il testo della Divina commedia
seguo, scostandomene in pochissimi casi, quello recentemente curato da Enrico Malato,
nel piccolo “Diamante” in due volumi (il primo con testo e note, il secondo con un agile e
prezioso Dizionario della Divina Commedia, Salerno editrice, Roma 2019).
Napoli: tomba di Virgilio

Vespero è già colà dov’è sepolto


lo corpo dentro al quale io facea ombra;
Napoli l’ha…
(Purg., III 25-27)

Perché cominciare da Napoli, città in fondo così poco presente


nell’esperienza e nell’opera di Dante? È vero che non vi mancano
richiami geografici, storici, linguistici al regno di cui Napoli era
capitale: ma alla città si allude solo nel De vulgari eloquentia I IX 4,
menzionando napoletani e caietani (abitanti di Gaeta) come esempio
di diversità di linguaggio tra genti di stirpe affine, nel Convivio IV XXIX
3, dove la città Napoli è ricordata in quanto patria di una famiglia di
antica nobiltà (i Piscicelli), mentre nella Commedia viene nominata
un’unica volta, in questo richiamo di Virgilio alla propria sepoltura.
Virgilio, appunto, “maestro” e “autore” di Dante, prima apparizione,
primo determinante incontro di tutto il poema, guida morale e
modello letterario assoluto.
Nel segno di Virgilio prende avvio e si svolge la scrittura del
poema, in quella “classica” continuità su cui nel secolo scorso tanto
hanno insistito Ernst Robert Curtius e Thomas Stearns Eliot. Per
questo cominciamo da Napoli e da quel sepolcro di Virgilio su cui
tante suggestioni si sono accumulate nei secoli, tra la fama del poeta
sapiente e mago e il misterioso richiamo delle grotte e degli antri
presso Mergellina, che ha continuato ad agire a lungo, fino a tempi
più vicini. È anche il caso a portarmi a Napoli lunedì 14 aprile 2014,
anche per presentare, allo storico Caffè Gambrinus, un libretto,
Caffè a Toledo, che raccoglie brevi testi sui caffè napoletani di
scrittori napoletani e stranieri: libretto pubblicato da una piccola casa
editrice di qui, Compagnia dei Trovatori, di cui si occupa un
appassionato amatore di cultura, Piero Antonio Toma.
Certo un giorno qualunque questo 14 aprile: ma mentre scorre
veloce la FrecciaRossa che di buon’ora mi porta a Napoli mi accorgo
che nella data c’è qualcosa di strano: essa mi spinge a un gioco
numerologico, forse gratuito, che in questo orizzonte dantesco non
riesco a reprimere, forse come ironico antidoto agli eccessi
numerologici di certi interpreti della Commedia. In fondo con i numeri
si può fare di tutto: e 14-4-2014 mi incanta con gli incastri del 4 e del
14, con la replicata epifania del 4. Se poi vengo a sommare le
singole cifre diverse da 4 (1+2+1) ottengo un altro 4; se faccio la
somma di tutte le singole cifre (1+4+4+2+0+1+4) mi viene un bel 16,
quadrato di 4 che dà un senso di rotondità e di scansione, come lo
dà l’esito della successiva moltiplicazione per 4, quel 64, quadrato di
8, che mi fa pensare a libri costruiti in 16 paragrafi distribuiti in 4
capitoli di 4 paragrafi ciascuno, o a poemi/racconti in 64 lasse.
Questa numerologia di struttura autoavvolgente a base binaria è
comunque del tutto opposta a quella dantesca, ascensionale a base
ternaria, con i suoi 3, i suoi 9 e i suoi 33, le sue diversioni verso il 7,
la chiusura risolutiva affidata a 100: è vero però che al di là
dell’originario progetto di Dante, almeno il Convivio è rimasto
segnato dal 4: ne restano 4 trattati, anche se ancora solo tre sono
quelli che commentano le canzoni (ma nel piano originario 15 trattati
dovevano commentare proprio 14 canzoni!). La numerologia del 4 e
del 16, proiettabile verso il 64, numero delle caselle della scacchiera,
che un po’ per gioco ricavo da questo 14-4-2014, ha comunque un
sapore tra moderno e postmoderno, sembra richiamare una cultura
che si riavvolge su se stessa, su equilibri combinatori, su scarti
intertestuali, sull’eterno ritorno dello stesso, sulla definitiva
impraticabilità dell’esperienza: e mi vengono in mente la scansione
in sessantaquattro caselle, bianche e azzurre, di una tela-scacchiera
del pittore americano Ellsworth Kelly, e certi libri del mio amico
Franco Cordelli scanditi in 64 lasse o capitoletti.
Arrivato a Napoli, al suo brulicante caos, tralascio le possibili
elucubrazioni sull’eventuale passaggio dalla numerologia antica e
medievale a quella moderna e postmoderna, scarto ogni rilievo sul
peso che il cosiddetto pensiero digitale o computazionale assume
nella nostra vita quotidiana (vanità delle teorie e degli infiniti attestati
sociologici, semiologici, psicopedagogici, su questa nostra era
digitale!), e mi immergo nello splendore primaverile di questo 14
aprile 2014. Un gentile autista, comunque tutto preso da squilli,
messaggi, colloqui telefonici, mi porta subito a Mergellina: poi a piedi
scantono tra la chiesa di Piedigrotta e la stazione di Mergellina
(approdo tante volte in passato di treni chiamati rapidi, che non
esistono più, e per me di incontri col grande amico Giancarlo
Mazzacurati, che abitava a Posillipo) e mi inoltro solitario a fianco
della chiesa sullo stretto marciapiede che passa sotto il viadotto
della ferrovia e porta verso la galleria Quattro Giornate: prima della
galleria c’è l’ingresso del Parco virgiliano (ma Parco virgiliano viene
chiamato anche quello comunemente più noto e frequentato che si
trova sulla punta della collina di Posillipo).
Non c’è nessuno: solo il guardiano nella garitta, e qui tutto il brusìo
di Napoli sembra attutito, distanziato, sospeso. Si procede subito sul
vialetto contornato da varia vegetazione, soprattutto da piante
virgiliane: un vero orto botanico, dove le singole piante sono
accompagnate da cartigli che alle denominazioni corrente e
scientifica aggiungono riferimenti e citazioni dai testi virgiliani. Si
comincia dal pungitopo, ruscus aculeatus, con Bucoliche VII 41-42, e
molto presto scorgo il faggio, fagus sylvatica, col suo valore di
emblema iniziale della poesia virgiliana, almeno col ricordo
scolastico di Bucoliche I 1, “Tytire tu patulae recubans sub tegmine
fagi”. Ma ecco un po’ più in là la ginestra, spartium junceum, con la
citazione da Georgiche II 12, “lenta genista”, ma chissà perché non è
nominata la corrispondente “lenta ginestra” di Leopardi (La ginestra),
proprio qui dove un po’ più in alto si vede la mole della tomba di
Giacomo. In realtà di una vera e propria tomba di Virgilio non c’è né
ci può essere traccia, ma solo una serie di segni, suggestioni,
richiami, lapidi, tardi monumenti, tra il colombario, l’antica galleria, la
Crypta neapolitana dove passava la strada per Pozzuoli: e c’è
invece questa presenza di Leopardi, di questa tomba installata qui
nel 1939, quando fu demolita la chiesa di S. Vitale a Fuorigrotta,
dove i resti di Giacomo erano stati collocati da Antonio Ranieri. Così,
in questo avvio del mio percorso dantesco, sulle tracce di Virgilio,
che “tenet nunc Parthenope”, “Napoli l’ha”, torno anche a Leopardi,
come toccando il vertice di quello che con termine pedestre
chiamiamo il nostro canone, letterario e scolastico: anche Leopardi
come punto d’arrivo di tutta una tradizione classica, che egli ha
proiettato così intensamente, dolorosamente, appassionatamente,
nel moderno, nella pronuncia del desiderio insoddisfatto, della fragile
persistenza dell’esistere, dell’inafferrabilità della giovinezza e della
bellezza, tutto sostenuto da una radicale coscienza critica, che
lacera mistificazioni e ideologie di un “secol superbo e sciocco” che
è ancora e più tale, due secoli dopo.
Ma intanto sono a Napoli: salgo in questo parco, come
precariamente e miracolosamente abbarbicato tra gli antichi squarci
del monte, tra i misteriosi ricettacoli che ancora in esso si celano, e
le fitte costruzioni, gli incastri delle strade, delle gallerie. Salgo oltre
la tomba di Leopardi, dopo aver sostato evocando i versi su Dante
della canzone Ad Angelo Mai e notando il contrasto tra l’ara
classicistico-imperiale del 1939 e la vecchia lapide di Ranieri con
l’epigrafe di Pietro Giordani (“scrittore di poesia e di filosofia
altissimo/da paragonare solamente coi Greci”) e l’altra lapide che
viene da San Vitale, quando per decreto del re Umberto I la tomba di
Leopardi fu dichiarata monumento nazionale (1897). Ecco su una
colonna entro un’ampia nicchia un moderno e poco espressivo busto
di Virgilio (col naso acciaccato, ma riparato), offerto da “iuvenes
ohienses” (sì, dell’Ohio), singolari cultori del latino, nel 1930, per il
bimillenario della nascita del poeta (70 a.C). Porto lo sguardo più
dentro possibile nell’ombra del colombario e della galleria, di cui è
barrato l’accesso, afferrando le tracce più varie di quegli
indeterminati misteri e sogni virgiliani: forse un primo ingresso
all’Averno, un tempio per riti iniziatici (mitraici?), una primitiva
chiesetta cristiana, miracoli per la salvezza di Napoli. E segni più
concreti di un culto del luogo: un’epigrafe a nome del re Alfonso
d’Aragona (1455), una dei Canonici Lateranensi (1544), una più
tarda molto fitta che indica la destinazione della Crypta, conducente
alle virtù curative dei bagni puteolani e dei Campi Flegrei, e parla dei
lauri spontaneamente nati “VIRGILI MARONIS SUPER HANC RUPEM
SUPERSTITI TUMULO”, riportando il celebre distico, “Mantua me genuit,
Calabri rapuere, tenet nunc/ Parthenope, cecini pascua, rura,
duces”, prolungato in altri due distici che appunto esaltano l’alloro
che su questi “tumulantia saxa” è rampollato dai “lauriferi cineres”
del poeta. L’alloro è naturalmente tra le piante del parco, però con
cartiglio non virgiliano ma leopardiano, e citazione della canzone
All’Italia, al verso 5 “non vedo il lauro” (con singolare refuso, che
indica la canzone giovanile come composta nel 1918: certo di quei
refusi su cui volentieri avrebbe ricamato Alberto Savinio!).
Una scala porta più in alto, oltre il colombario e oltre l’apertura
della galleria: dal pianerottolo in cima alla scala si scende di nuovo
per entrare dentro il vano di una sorta di cupola con parete in opus
incertum, al centro del quale c’è un tripode che sembra il residuo di
qualche perduto rito misterico. Risalgo poi verso il più alto
pianerottolo e, appoggiato al suo parapetto, mi fermo a guardare a
lungo “tutta quanta Napule”. Solcato dal vicino volo di un gabbiano,
ecco il quadro con in fondo il Vesuvio e i brulicanti paesi vesuviani e
più prossima la riviera di Chiaia con Castel dell’Ovo, il mare che
splende, a sinistra l’agglomerato dei quartieri occidentali su su fino al
Vomero e alla Certosa di San Martino. Una visione tanto celebre,
tanto consunta da una piccola retorica ormai demodée, affidata a
cartoline oggi quasi desuete: eppure lo sguardo diretto da qui, da
questa postazione virgiliana e leopardiana, sembra darmi
un’illusione di totalità, mentre il sole d’aprile mi brucia le spalle,
mentre una vicina pianta di limoni espone i suoi frutti maturi. In
questo luogo solitario addensato in mezzo all’affollata costipazione
delle strade e degli edifici di Napoli, sembra che per un momento
ogni lacerazione sia cancellata e che tutta la vita pullulante che si
svolge là, davanti, a me, in questa fitta cartolina, sia come sospesa,
attutita, sollevata dalla sua violenza, dal suo rumore, da quei mali
eterni che affliggono la città e il suo territorio e che continuamente
ritornano nella cronaca, nei referti sociologici e giornalistici, nelle
perorazioni politiche. Per un provvisorio incanto sembra come
ricostituirsi quell’“armonia perduta” che è stata tanto interrogata da
Raffaele La Capria. Questo è in fondo l’incanto perpetuo di Napoli, il
richiamo che essa suscita, verso un possibile equilibrio del mondo,
in un sentimentale abbandono, forse corrivo, invadente, ricattatorio
(le sue meravigliose canzoni, d’altri tempi ormai, che si dispiegano
tra una esplosiva marina solarità e una lunare attutita malinconia,
“Quanno sponta la luna a Marechiare…”), ma anche in un ostinato
rigore di pensiero, in una tensione a disegnare ipotesi di mondo con
ragione e passione.
Grande capitale caduta e fatiscente, coacervo di miserie, di piccole
vite fatte di quotidiani espedienti: dove ci si imbatte in modi di
atteggiata riservata dignità e in opposte disposizioni a un subalterno
e cieco piegarsi. Bellezza e violenza, intelligenza e ignoranza,
decoro e degrado, impegno razionale e volgarità camorristica. E poi
questa luce e questa eco di voci e di luci antiche, di sole e mare
d’altri tempi, di magie segrete, di esistenze, popoli, linguaggi che
sembrano traspirare dal fondo della terra, dalle stesse minacciose
esalazioni vulcaniche: Napoli come passione per la vita che si
consuma, che forse più di ogni altro luogo espone la persistenza alla
lacerazione, la perfezione alla disgregazione, l’armonia al rumore, la
bellezza allo sfacelo. Non si può non continuare a contemplare
questo panorama, che offre l’illusione che quel tutto continui a
resistere, che ogni atto sia giustificato, che non ci siano insidie e
rovine, che si dia conciliazione tra natura e civiltà. Da tutto questo e
forse anche dalla segreta presenza di Virgilio è sgorgata una grande
letteratura: qui, nella Napoli angioina, già pochi anni dopo la morte di
Dante il toscano Boccaccio ha coltivato la sua passione per il mondo
e per la scrittura che gli dà voce, la sua disposizione a seguire vite in
movimento nello spazio e nel tempo; qui ancora nel Novecento si è
avuta una vitalissima letteratura, tra amore e odio per la città, tra
misura civile e viscerale risentimento. Ma troppe cose è Napoli,
spesso tanto distanti da Virgilio, da Dante, da Leopardi: eppure in
questo luogo mi sembra di ritrovare lo spirito di tutti e tre i poeti,
fraterni nella loro inconcepibile grandezza.
Ancora da questo parapetto volgo lo sguardo in basso, dove si
vede la stazione con l’insegna Napoli Mergellina; i binari del treno e
oltre di essi il campanile della chiesa di Piedigrotta addossata al
monte. Passa col suo sferragliare un treno della antica metropolitana
(la nuova, che ha un diverso percorso, è ultramoderna, di estrema
perfezione tecnologica e architettonica), che entra nella galleria
verso Campi Flegrei e Pozzuoli. Sale sul viale verso la tomba di
Leopardi una coppia di visitatori: lei strappa qualche foglia da una
siepe; ma sembrano comunque persone delicate e gentili, forse due
amanti di mezza età venuti a parlarsi in questo luogo senza
presenze indiscrete. Mentre si disegna qualche volo di volatili che
non riesco a identificare, si levano da un viale in basso due piccioni
che planano verso le siepi più in alto: “Quali colombe dal disio
chiamate…”? Ma Napoli è una città che, forse più di tante altre,
suscita desideri, nostalgie, speranze, ritorni di qualcosa di perduto.
Ora lascio questo parco solitario: ma tornando verso Mergellina,
oltre la chiesa di Piedigrotta (la cui sola presenza evoca i concorsi
canori della famosa festa, che negli anni ottanta dell’Ottocento
videro i trionfi delle più belle canzoni del giovane Salvatore Di
Giacomo), al di là delle pizzerie e poco oltre il porticciolo, si affaccia,
su di un piano rialzato a cui si accede con una scala, una chiesa il
cui fianco destro è addossato a un invadente palazzo, mentre la sua
sinistra è aperta verso la luce del golfo: chiesa dalla semplice ma
singolare geometria (tra l’altro sulla sua rossa facciata si affacciano
alcune finestre/oblò di diverse dimensioni incorniciate da piccole
ruote giallastre), che sollecita un pellegrinaggio letterario. È infatti la
chiesa di Santa Maria del Parto, fatta costruire da Jacopo Sannazaro
presso il podere avuto in dono dall’ultimo re aragonese di Napoli,
accanto al quale visse forse i malinconici anni di un quasi esilio in
patria, tra il dolore per lutti lontani e la stesura del De partu Virginis:
chiesa donata poi dal poeta prima della morte ai Servi di Maria.
Forse è davvero cosa unica, senza nessun riscontro in nessuna
parte del mondo, quella di una chiesa col nome dell’opera che colui
che l’ha fatta costruire stava scrivendo. Il parto di Maria e la natività:
di Dante, dalla sua poesia così vigorosamente creaturale e corporea,
ma poco incline a disegnare idilliche Natività, sorge la memoria
dell’incipit dell’ultimo canto, “Vergine madre, figlia del tuo figlio”, e
soprattutto di quella terzina che invita a riconoscere i limiti della
conoscenza umana: “State contenti, umana gente, al quia:/ ché, se
potuto aveste veder tutto,/ mestier non era parturir Maria”
(Purgatorio, III 35-39: parole di Virgilio, e dello stesso canto da cui
ha preso avvio questo prologo napoletano).
Questa chiesa del Sannazaro, costituita in realtà di due ambienti
diversi (uno inferiore, ma come inglobato nella sottostante via
Mergellina, dedicato alla Natività, e uno superiore, dedicato a San
Nazario) è del resto tutta tramata della vita e della letteratura del suo
poeta instauratore: è chiusa la parte inferiore, che è comunque priva
di interesse, mentre trovo aperta nel primo pomeriggio la parte
superiore (che è la chiesa vera e propria), dopo che vi si è svolto un
funerale. Eccomi qui, dopo le tombe di Virgilio e di Leopardi, davanti
a quella del Sannazaro, che è nell’abside, dietro l’altare maggiore,
col busto e il nome di Actius Sincerus, che evoca subito la sua opera
maggiore, quell’Arcadia che ha rifondato in chiave moderna
l’orizzonte della pastorale antica. Tomba solo supposta e svanita
quella di Virgilio, tomba approdata solo tardi nel parco di Mergellina
quella di Leopardi (non senza dubbi sulla reale presenza dei resti del
poeta), tomba invece quasi certamente ideata dallo stesso autore
quella di Sannazaro, realizzata dopo la sua morte, a partire dal
1536, con una serie di figurazioni classiche (in primo luogo le statue
di Apollo e Minerva di Bartolomeo Ammannati, che i pii frati hanno
trasformato, con una scritta, in Davide e Giuditta…). E si affaccia
anche la traccia di un altro protagonista letterario del Rinascimento,
il cardinal Pietro Bembo, vissuto in più fervida attività per vari anni
oltre il Sannazaro (ma era di quindici anni più giovane) e autore
dell’epigrafe qui apposta:

Da sacro cineri flores:


hic ille Maroni
Sincerus Musa
proximus ut tumulo.

In questo modo Bembo riconnette la poesia e la tomba di Sannazaro


a quelle di Virgilio: si chiude così il cerchio di questo Prologo
virgiliano al viaggio dantesco, che qui a Mergellina ha chiamato in
causa le vite ulteriori di Sannazaro e Leopardi.
Ma c’è un ultimo segno che mi viene incontro procedendo dalla
chiesa di Santa Maria del Parto verso via Posillipo, dopo che un
prete mi ha parlato della pietà del Sannazaro, davanti al dipinto di
San Michele che atterra il drago di Leonardo da Pistoia, che la
leggenda vuole miracoloso antidoto a demoniache passioni erotiche
rappresentate nell’aspetto della donna-drago. Sulla vicina piazza
Sermoneta si distende una rotonda verso il mare, con la bella
fontana secentesca del Sebeto, di Cosimo Fanzago, qui approdata
dopo varie vicissitudini e spostamenti. Il Sebeto è il fiume che
sfociava in questi paraggi, ricordato dallo stesso Virgilio (Eneide, VII
734), variamente collegato alla mitica origine di Napoli, anche se mai
facilmente identificato e ora quasi completamente interrato (c’è però
da qualche parte il residuo di un fetido rigagnolo a cui si dà ancora
questo nome). Proprio Sannazaro, alla fine dell’Arcadia, fa
approdare per via sotterranea il suo Azio Sincero, accompagnato da
una ninfa, alle “picciole onde di Sebeto”, alle “chiare e freddissime
acque” che irrigano la sua “bella patria”. Associazioni mitiche,
proiezioni preziose di Napoli e della sua origine verso la luce di
un’incontaminata bellezza.
Su questa rotonda di Mergellina, davanti alla fontana del Sebeto e
sui parapetti verso il mare alcuni ragazzi stanno fotografando
accuratamente una ragazza vestita con un corto abito nero, biondina
di media bellezza, ma non senza una certa rozzezza. Mi sembra che
si tratti di un servizio fotografico autopromozionale, forse chiesto
dalla ragazza come presentazione di sé a qualche agenzia
pubblicitaria o a qualche concorso televisivo; e i fotografi sembrano
muoversi con un certo impegno professionale (non manca il
necessario schermo/paravento solare per gestire la luce della
fotografia). A un certo punto si avvicina, parlando animatamente con
la ragazza e con quanti le armeggiano intorno, quella che
certamente deve essere la mamma di lei. Poi tutti riprendono a
muoversi tra la fontana e il parapetto, cercando per la ragazza pose
diverse, sorrisi e disposizioni diverse del volto, delle braccia e delle
gambe, evocazione di gesti di dive e modelle, spostando l’apparato
e variamente scattando le foto. Mi domando cosa divinasse Azio
Sincero, quando, nell’ultima ecloga dell’Arcadia, così si rivolgeva al
Sebeto ora defunto e inabissato, ma qui fissato nella fontana su cui
aleggia un placido vento nel caldo pomeriggio d’aprile:

Dunque, miser, perché non rompi e scapoli


tutte l’onde in un punto et inabissiti,
poi che Napoli tua non è più Napoli?
Ma ora mi reco al caffè Gambrinus percorrendo a piedi tutta la riviera
di Chiaia e poi risalendo per via Chiaia dopo aver toccato entro le
interne viuzze chiese poco note, ma sempre suggestive come Santa
Maria in Portico e Ascensione a Chiaia. Vive nelle strade la vita di
Napoli, frenetica e quieta, agitata e indifferente, di fronte a quei muri
scrostati, a quell’incessante mostrarsi di scenografie dilavate, di
scaduti tabernacoli.
Roma
Dante e Roma

Vieni a veder la tua Roma che piagne


vedova e sola, e dì e notte chiama:
“Cesare mio, perché non m’accompagne?”
(Purg., VI 112-114)

Forse il prologo napoletano mi ha portato fuori strada: è in fondo


Napoli che porta fuori strada, che invita a diversioni, che propone
desideri, rimpianti, nostalgie di un assoluto tutto terreno, insieme
pagano e barocco; l’ho sempre amata, con tutto quello che tiene in
sé, struggente amore di cose sempre perdute. Ma Roma è la mia
città: e il viaggio vero e proprio non può non cominciare da Roma,
anche perché quello di Roma è il primo nome di città fatto nella
Commedia, nella presentazione di sé che fa Virgilio appena apparso,
“e vissi a Roma sotto il buono Augusto”. Certo è la Roma antica e
imperiale, la città per eccellenza, il centro di misura e controllo di un
mondo pacificato, per Dante condizione determinante
dell’incarnazione di Cristo e dell’avvento del Cristianesimo, modello
civile per ogni terreno governo, eletta a sede del papato, ma punto di
riferimento per l’atteso risorgere dell’impero, a cui spetta il potere
temporale, distinto da quello spirituale che solo tocca al papato. Se
in questo orizzonte politico il nome di Roma si affaccia
insistentemente nel Convivio e soprattutto nella Monarchia, nel
girone purgatoriale degli iracondi la necessità della distinzione e
della collaborazione tra i due soli, responsabili del bene terreno e di
quello spirituale è così sintetizzata nell’ampio discorso del penitente
Marco Lombardo:
Soleva Roma, che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
(Purg., XVI 106-108)

Roma è l’origine e il ritorno: del resto anche Firenze, la Firenze


autentica e originaria, la Firenze perduta non è altro che “bellissima
e famosissima figlia di Roma” (Convivio, I III 4) e, nonostante la sua
degenerazione, i suoi figli migliori (Dante ovviamente tra essi)
costituiscono la “pianta” in cui rivive ancora “la sementa santa / di
que’ Roman che vi rimaser quando / fu fatto il nido di malizia tanta”
(Inferno, XV 74-78).
La grandezza perduta di Roma, il sogno impossibile del suo ritorno
costituiscono un assillo per tanta cultura medievale, un emblema
inarrivabile di potenza pacificatrice, di giustizia, di equilibrio civile. La
città, già “donna de’ mortali un tempo” (come la chiamerà Leopardi
ne La ginestra) richiamava da tutta Europa i pellegrini, detti appunto
romei, diretti a visitare il luogo del martirio di Pietro e sede del
papato. Proprio il nemico di Dante, Bonifacio VIII, collegando nella
propria aspirazione teocratica l’orizzonte religioso all’esibizione del
potere, aveva indetto l’eccezionale evento del Giubileo del 1300, a
cui il poeta aveva assistito, arrivando poi a fissarvi la data del suo
viaggio oltremondano.
Quanti giubilei nella storia successiva! Ricordo ancora quello che
ebbe luogo quand’ero bambino, nel 1950: giubilei resi poi più
frequenti, accelerati per tenere desta la fede e il rilievo internazionale
di Roma cristiana, tra conflitti di ogni sorta; intrecciati e seguiti dal
moltiplicarsi di altre celebrazioni ed eventi, che dalla destinazione
cittadina si allargano sempre più al mondo, urbi et orbi. E quale
prolungata storia di Roma, caduto il progetto politico dantesco, eluso
ogni sogno di rilancio imperiale, nel percorso dei secoli, fino alla
sospirata unità d’Italia, a quella che fu chiamata la terza Roma,
all’impero straccione e stracciato della Roma fascista, alla Roma
della Resistenza, del neorealismo, della dolce vita, di Sordi e di
Pasolini, dei funerali di Togliatti e di quelli di Berlinguer, del potere
democristiano e della speculazione edilizia, dei sindaci di sinistra e
degli oltraggi leghisti (“Roma ladrona!”), di mafia capitale e del
degrado quotidiano. E ancora gli eventi religiosi, il concilio Vaticano
II, la secolarizzazione, la persistenza e il rilancio della Chiesa,
l’appeal mediatico dei papi, fino a eventi di questi giorni in cui mi
imbatterò in questo viaggio (e non solo a Roma). Quanto è difficile, e
insieme indifferentemente semplice, portare questo carico di storia,
confrontarsi con le mille definizioni del carattere di Roma e dei
romani!
Roma è stata la città per eccellenza, se si considera che da essa,
dalla sua consistenza e dalla sua lingua, è nato il concetto stesso di
città come civitas, in cui si dispone un consorzio civile: ma si può
essere romani anche senza accorgersene, anche (ahimè, succede
spesso) comportandosi in modi molto poco “civili”. D’altra parte si
vive nella propria città come in qualunque altra città: la vita scorre
con le sue occupazioni, i suoi percorsi quotidiani, i suoi intoppi, i suoi
fastidi e le sue pause. Eppure può capitare di pensare alla strana
combinazione che ci ha fatto nascere e vivere a Roma: come frutto
del caso, certo, e in seguito a tutto ciò che ha portato qui avi e
genitori. Se non c’è nulla che ci distingue da tutti coloro che si sono
trovati a nascere in qualunque altro posto del mondo, resta
comunque singolare la congiuntura che ci ha condotto proprio qui,
da dove si è irradiato l’Occidente, dove testardi e rocciosi coltivatori
impiantatisi sul Palatino si sono poi lentamente propagati sui colli
circostanti e poi sul Lazio e poi sempre oltre, con un ostinato senso
dell’organizzazione collettiva, con la forza compatta e feroce delle
loro legioni, con una formidabile capacità di aprire e percorrere le
strade del mondo, di imporre dappertutto la loro sicurezza spietata, il
loro senso del dominio e del possesso. E, quando ci muoviamo
freneticamente o passeggiamo per la città, ci sembra cosa normale,
quasi non ce ne accorgiamo, il fatto di dare un colpo d’occhio al
Colosseo, sfiorare i Fori repubblicani e imperiali, scantonare sul retro
del Pantheon… Ma poi la Roma cristiana e medievale, quella
rinascimentale, controriformistica e barocca, quella neoclassica… E
tutto ciò che Roma ha lasciato alla lingua, alla cultura, alle arti, alle
tecniche del mondo… Mentre la assillano i problemi che sono
dell’Italia tutta, ma qui si riavvolgono nella fitta costipazione della
burocrazia e sembrano dilatarsi nella così continua esposizione al
mondo, nella gamma di presenze internazionali e nei loro livelli
contrastanti, dal lusso sofisticato alla più degradata miseria:
diplomatici, preti, turisti, migranti (e all’altezza del 2019 si avrà ormai
l’impressione che le difficoltà e il degrado abbiano raggiunto un
punto di non ritorno).
Più che in tanta letteratura (circolano oggi molti libri e libretti sulla
città, su come la sentono scrittori più o meno giovani, o comunque a
Roma ambientati), l’immagine attuale di Roma sembra fissata da
due film molto diversi del 2013, tutti e due adeguatamente premiati,
Sacro GRA di Gianfranco Rosi, sulla vita larvale che dentro e
accanto al Grande Raccordo Anulare ruota intorno alla città, nel giro
interminabile delle auto, tra gli scarti di una natura espunta e di
un’industria senza obiettivo, e La grande bellezza di Paolo
Sorrentino, sul consumo che un dinoccolato snobismo intellettuale
continua a fare degli splendori di una città che la macchina da presa
depura dalle sue folle e dai suoi abitanti più dimessi e “normali”.
In fondo, però, questi due film non sono arrivati a dire davvero
Roma, il groviglio, il rumore, l’aria svolazzante, il mobile quotidiano
spettacolo, la stessa bruttezza cresciuta intorno alla sua bellezza, il
suo indifferente e accidioso solcare la responsabilità attribuitale dalla
sua lunga storia. Per me romano la mia città resta un enigma; la vivo
come tutti, nell’apparente normalità del flusso del tempo, ma ogni
tanto mi trovo a interrogare la singolarità del fatto di essere proprio
qui, di passare tra queste pietre, di toccare la bellezza qui
accumulata (che, come tutte le bellezze, non si può non sentire
perduta), la storia dimenticata che ci ha fatto, che ha dato le
fondamenta di tanta cultura dell’Occidente e del mondo, di tante
pretese di potenza, crolli e cadute, sogni letterari e artistici. Tra
questi sogni seguo ora quello di Dante, prendo le mosse dalla mia
casa di via Leopardi (il caso fa sorgere ancora il nome dell’altro
grande poeta, come a Napoli) per toccare particolari siti della città
menzionati nella Commedia. Si parte attraversando Roma in una
bella giornata di primavera, 18 aprile 2014, Venerdì Santo, come, tra
le ipotesi più credibili, si immagina la partenza di Dante, nel Venerdì
Santo del 1300, che quell’anno cadeva l’8 aprile (e chissà se nella
realtà di quel giorno egli non fosse veramente a Roma…).
Mi dirigo verso singoli luoghi, cominciando dalla più vicina basilica
di San Giovanni in Laterano. Ma non dimentico che il rilievo di Roma
nella Commedia si risolve, oltre lo stesso richiamo a specifici luoghi,
nella stessa forza evocatrice del suo nome, nel suo darsi come
totalità: totalità che mette in gioco sia lo sguardo verso quel passato
antico, entro il senso più generale del rapporto di Dante col mondo
latino e pagano, sia l’ideale imperiale così distesamente motivato
nella Monarchia. Questo orizzonte di totalità del nome di Roma, del
suo essere emblema di perfetta civitas, conduce peraltro oltre i limiti
dell’orizzonte mondano, storico e politico, in cui di per sé si inscrive.
Nell’ottica dantesca e nella tensione ascensionale della Commedia,
la città terrena, pur nella sua piena, fondata e fondante legittimità, è
inevitabilmente superata dal definitivo passaggio nel regno divino,
nella città celeste (la civitas Dei di Agostino). Ma nello spazio del
Paradiso terrestre, prima di iniziare il volo verso il Paradiso, Beatrice
prefigura il destino celeste di Dante con una trasposizione
metaforica che designa la stessa città divina come Roma e il suo
sovrano Cristo come romano:

Qui sarai tu poco tempo silvano;


e sarai meco sanza fine cive
di quella Roma onde Cristo è romano.
(Purg., XXXII 100-102)
San Giovanni in Laterano

Se i barbari, venendo da tal plaga


che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
rotante col suo figlio ond’ ella è vaga,

veggendo Roma e l’ardüa sua opra,


stupefaciensi, quando Laterano
a le cose mortali andò di sopra…
(Par., XXXI 31-36)

È vero che con Laterano Dante si riferisce qui per metonimia a


Roma tutta: ma ciò non mi esime da un’escursione verso il Laterano,
il palazzo Lateranense e la basilica di san Giovanni, per me uno dei
luoghi più familiari di Roma: nella mia adolescenza abitavo non
lontano da lì, fuori delle mura e percorrevo e percorro ancora infinite
volte la grande piazza che dà verso la porta (il cui nome ufficiale è
piazza di Porta San Giovanni). Lì prendevo il tram per andare
all’università: era l’ED, Esterna Destra o ES, Esterna Sinistra, a
seconda delle direzioni, che i romani chiamavano Circolare Rossa,
per il colore dell’insegna, che la distingueva dalla Circolare Nera,
quella Interna, che girava la città entro un anello più breve (oggi lo
stesso percorso dell’Esterna, ma non più totalmente circolare, è
affidato a un tram segnato con il più elementare numero 3). La
piazza era quella dei grandi comizi e manifestazioni della sinistra e
dei sindacati: tante volte sono stato lì in mezzo alla folla e alle
bandiere rosse… (ma ricordo perfino, bambino, un grande comizio
del PNM, Partito Nazionale Monarchico, ai tempi in cui uno dei suoi
capi, l’armatore Achille Lauro era anche presidente della squadra di
calcio del Napoli). Tutto ciò, e soprattutto la tensione, la speranza,
l’umanità, le vitali contraddizioni del vecchio PCI, di quella sinistra e
della sua gente sembra come svanito.
Ora raggiungo Laterano, propaggine del colle del Celio, sul
versante opposto a quello della grande piazza, sbucando sull’altra
piazza, quella dove è l’ingresso posteriore della basilica, affiancato
alla sua destra dal palazzo Lateranense e alla sua sinistra dal
Battistero, dietro cui si profila un cortile con altri vari edifici
ecclesiastici. Ma qui vicino, sulla via Matteo Maria Boiardo, c’è
anche un luogo che reca singolari segni danteschi: accerchiato da
più tardi e anonimi palazzi è il Casino Massimo Lancellotti, sorto nel
Seicento come casino di caccia della famiglia Giustiniani e poi
acquistato nel 1803 dal marchese Carlo Massimo, che lo fece
ristrutturare e nelle sale a pianterreno fece impiantare un ciclo di
affreschi dedicato a grandi poeti italiani, per opera di un gruppo di
pittori tedeschi che operavano a Roma, detti Nazareni (per lo spirito
storico e religioso della loro pittura): insieme a stanze di Ariosto e di
Tasso, c’è la stanza di Dante, a cui lavorò a partire dal 1818 Philip
Veit e poi soprattutto, dal 1825 al 1827, Joseph Anton Koch,
appassionato ammiratore di Dante, a cui aveva già dedicato tra il
1800 e il 1805 una grande serie di disegni, che si trovano in diverse
sedi austriache e tedesche, e che qui dispose un sontuoso e
aggrovigliato insieme di scene, soprattutto dall’Inferno e dal
Purgatorio, in quello che si direbbe un manierato e assorto
classicismo romantico.
Ora comunque mi dirigo verso l’ingresso posteriore della basilica,
che dà sulla parte della piazza che ha al centro un grande obelisco
egiziano, già portato a Roma nell’antichità e fatto sistemare lì dal
papa Sisto V, che è responsabile anche della loggia per le
benedizioni che sovrasta il portico dell’ingresso (dal lato del transetto
destro). Questa parte della piazza ha avuto recentemente il nome di
piazza Giovanni Paolo II; sulla destra di chi guarda, oltre la strada
che scende verso Porta Metronia, c’è la parte antica dell’ospedale di
San Giovanni, attivo nel grande edificio moderno che si trova dietro.
A sinistra si distende il grande palazzo Lateranense, dove la piazza
ha mantenuto il vecchio nome di piazza San Giovanni in Laterano;
oltre di esso, separato dal varco stradale che si apre su piazza di
Porta San Giovanni, c’è l’edificio della Scala Santa, entro cui è
incorporata la presunta scala percorsa da Cristo nel palazzo di
Pilato. Molto seguíto un tempo (molto meno oggi) era l’uso devoto,
foriero di indulgenze, di ascendere la scala in ginocchio e in
preghiera: lo seguiva mia madre, e nell’infanzia mi è capitato varie
volte di farlo con lei.
Benché si tratti per me di un luogo consueto, resto ogni volta
ammirato dalla formidabile e asimmetrica scenografia di questa
piazza ora con due nomi: certo ben la previde Sisto V quando fece
mettere su da Domenico Fontana la loggia (“ad benedictiones
instruxit”), l’obelisco, il palazzo, l’edificio della Scala Santa, aprendo
due rettifili, rivolti scenograficamente, uno più stretto tutto in discesa
verso il Colosseo (via di San Giovanni in Laterano) e l’altro, prima in
discesa poi in salita, verso la basilica di Santa Maria Maggiore.
Sono sbucato sulla doppia piazza proprio dal rettifilo che viene
dall’altra grande basilica, la via Merulana del Pasticciaccio e del suo
immaginario “palazzo degli ori”, dove all’altro capo, quasi all’inizio,
vicino a Santa Maria Maggiore, c’è una lapide piuttosto recente che
ricorda il romanzo di Gadda, ma sulla facciata di un piccolo edificio, il
più modesto dell’intera via. Venendo da via Merulana, dopo un
difficoltoso attraversamento pedonale, entro dal portico sotto la
Loggia delle benedizioni nella sontuosa basilica a cinque navate, di
cui sempre mi hanno impressionato le potenti statue degli apostoli
sulle edicole della navata centrale. Senso di ampiezza e di potenza,
in questa che è la basilica cattedrale di Roma, senso di ricchezza,
splendore e anche dispersione per i troppi splendori, che danno
luogo a un inevitabile insistente stornarsi dell’attenzione. Questo
giorno di Venerdì Santo evoca il lutto divino: e da Dante la memoria
conduce all’avverso Petrarca, “Era il giorno ch’al sol si scoloraro /
per la pietà del suo fattore i rai”. Ma, a parte il fatto che siamo in una
splendida giornata di sole, dentro la basilica non si avverte nessun
pianto per la morte di Cristo (né la gioia per la sua prossima
resurrezione), sì invece il confuso brusìo dei turisti che vagano in più
direzioni: più che guardare e ammirare, gestiscono i loro cellulari in
fotografica inflazione (ma cose del genere dovrò notarle più volte in
questo viaggio come in tutti i viaggi possibili).
Vado a cercare ciò che direttamente evoca Dante, quel frammento
di affresco di Giotto con Bonifacio VIII che indice il Giubileo e
benedice proprio da una precedente loggia lateranense. In quel
1300 il papa risiedeva ancora in Laterano: e da san Giovanni fu
indetto il Giubileo (il luogo andò poi in abbandono dopo il
trasferimento del papato ad Avignone: e al ritorno la sede papale si
stabilì in Vaticano). Il frammento giottesco è inquadrato in un’edicola
e protetto da un vetro sul primo pilastro della navata intermedia
destra. Eccolo là (Inferno, XXVII 85-87), il “prencipe de’ novi Farisei”,
che, prima di celebrare il Giubileo, aveva condotto “guerra presso a
Laterano”, cioè non tanto lontano dalla sua sede (la guerra di
Palestrina, “e non con Saracin né con Giudei”, contro i Colonna e i
loro alleati, risolta dall’inganno di Guido da Montefeltro, per questo
punito nella bolgia dei consiglieri di frode).
Varie volte ai tempi del liceo ho fatto rapide visite alla basilica per
stare un po’ a guardare il papa Caetani. Una lapide dice tra l’altro
che proprio la gens Caietana nel 1786 ha fatto mettere la copertura
in vetro, per proteggere il frammento; già da tempo questo era stato
trasportato lì, dopo essere stato posto nel chiostro, quando nel 1586
per la nuova loggia fu demolita quella di Bonifacio, insieme
all’affresco giottesco di cui fu salvata solo questa piccola parte. In
quelle mie visite liceali mi veniva di rivolgere al papa affacciato alla
loggia e ben ritto nella sua posa ieraticamente benedicente la
domanda rivolta a Dante da Niccolò III (o meglio dalle sue gambe
guizzanti) dal foro papale della bolgia dei simoniaci: “Se’ tu già così
ritto, / se’ tu già costì ritto, Bonifazio?” (Inferno, XIX 53-54), sempre
sorprendendomi dell’incredibile viluppo psicologico per cui Dante si
espone al pericolo di farsi scambiare con il suo grande nemico e
viene addirittura invitato a prendere il suo posto infernale (tanto più
urgente e preoccupata allora l’ingiunzione di Virgilio: “Dilli tosto: /
‘Non son colui, non son colui che credi’”, 61-62). Bonifacio resta
comunque lì, su questo superstite frammento di affresco, ritto
affacciato alla loggia che non è più quella. Nella pittura un tappeto
dalla fitta trama è dispiegato sul davanzale della loggia: il papa ha la
mano destra scoperta, levata e benedicente e la sinistra nascosta,
assistito da un cardinale e da un chierico, ben compresi nel loro
ruolo. Chissà se invece si affacciò da qualche parte e fu acclamato
dal popolo l’imperatore Enrico VII, quando si fece imporre la corona
imperiale proprio in San Giovanni in Laterano il 29 giugno 1312.
Tra i tanti turisti che si aggirano e fotografano nessuno prende in
considerazione questo affresco, mentre sul pilastro antistante, quello
che divide questa navata intermedia da quella estrema, c’è un
mendicante sdraiato in terra, che mi chiede elemosina farfugliando
parole che non capisco: mi dà un senso di angoscia, mi sembra
quasi che si rivolga a me con quelle stesse parole, “Se’ tu già costì
ritto…” e che per salvarmi io debba rispondere come suggerito a
Dante da Virgilio. Nelle mie frequentazioni delle chiese fino a poco
tempo fa non mi era mai accaduto di imbattermi in accattonaggio
interno (piuttosto poteva passare qualcuno delegato alla questua
destinata a vantaggio della chiesa): mendicanti alle porte delle
chiese ci sono sempre stati, ma mi pare che al loro interno, entro la
sacralità del tempio, questo non accadeva. Che ora accada (e
proprio qui, in questa suprema basilica) è segno forse della miseria
sempre più disperata, chiusa nella propria lacerazione, indifferente e
ostile a ogni traccia di sacro, su cui si proiettano i nostri anni. Ed è
strano che questo si manifesti proprio davanti a Bonifacio VIII, con la
presenza di questo mendicante che certo non sa nulla di lui, di
Dante, di Giotto e di tutta la trama delle nostre storie e dei viaggi che
le attraversano.
Un po’ turbato, esco dal grande portico anteriore della basilica,
dove a destra (sinistra per chi entra) c’è una antica statua
dell’imperatore Costantino, che alla sua conversione eresse qui la
prima basilica cristiana, proprio lui che nello stesso canto XIX,
nell’invettiva contro i papi simoniaci, viene chiamato in causa da
Dante per la sua donazione:

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,


non la tua conversion, ma quella dote
che da te prese il primo ricco patre!
(Inf., XIX 115-117)

Fuori, tra i viali e le aiuole del prato antistante al sagrato, sulla fronte
della grande piazza di Porta San Giovanni, dove si suole mettere il
palco per le grandi manifestazioni, sono appostati vari venditori
vaganti, tra foulard (con immagini varie di Roma e della Roma),
occhiali da sole, fodere di telefonini e finti telefonini, braccialetti (che
un indiano fa roteare intorno a un’asta su cui li tiene infilati), cappelli
multicolori… Mi allontano dalla chiesa procedendo verso la porta,
guardando, al di là dell’intreccio di corsie e semafori dove passano le
auto, il monumento a San Francesco innalzato nel 1926 per il
settimo centenario della sua morte. Volgendomi indietro, le grandi
statue che coronano la balaustra superiore della basilica, con al
centro un Cristo possentemente benedicente, fanno quel singolare
effetto che si può provare spesso a Roma, quando le si scorgono da
lontano, queste stesse o quelle che coronano le altre grandi
basiliche, dalle terrazze dei palazzi privati (dove ancora si usa
“stendere i panni” ad asciugare), come librate in una misteriosa
evanescenza: santi di epoche diverse, avvolti nelle loro tuniche
svolazzanti, mitriati o a capo scoperto, con barba o senza, che
gesticolano lassù, quasi salutando romani e forestieri, come da una
proiezione petrosa del Paradiso, ben piantati sul quel fastigio
ecclesiastico, eppure con un singolare effetto di precarietà, come se
dovessero prima o poi precipitare fuori dall’Empireo, pur non avendo
nessuna intenzione di precipitare. Mi pare di vedere in loro uno dei
tanti emblemi di Roma, della sua precaria ma resistente persistenza,
durissima e leggera nello stesso tempo.
Mi avvio poi verso la stazione della metropolitana, passando sul
marciapiede sotto il fornice della porta. Lì, prima dell’arco, con le
spalle rivolte alla piazza, guardando verso il piazzale esterno alle
mura, è piantato un mendicante. L’ho visto tante altre volte e ogni
volta la vista è lacerante: sta accucciato a terra (forse non è in grado
di muoversi) e gli manca completamente il braccio sinistro; certo per
impietosire i passanti, ha sempre, anche d’inverno, la spalla sinistra
scoperta, che mostra la ferita dell’amputazione, mentre nella mano
destra tiene un bicchiere di carta per raccogliere le pietose monete.
Quasi nessuno si ferma a notarlo, né tanto meno a dargli qualcosa.
Passano romani e turisti, ragazze prorompenti e ragazze
mingherline, impiegati e studenti, gente che va e viene da negozi,
magazzini, bancarelle che sono oltre la porta (subito a destra c’è
anche il mercato popolare di via Sannio). Ma ben pochi notano
questo uomo, che dovrebbe avere poco più di quarant’anni, che
passa gran parte della sua povera vita fissato e rannicchiato là con
la sua menomazione, al servizio di qualcuno che lo piazza al mattino
e poi lo riporta chissà quando in qualche tugurio premiandolo con un
po’ di cibo o forse piazzandolo ancora davanti a un televisore. Lui
qui in basso non vede i santi lassù: cosa gli importa di quel saluto e
di quel Paradiso, della grande bellezza e della disperazione di
Roma?
Scendo nella stazione di San Giovanni e mi dirigo verso quella di
Ottaviano.
Verso il Vaticano

Ma Vaticano e l’altre parti elette


di Roma che son state cimitero
a la milizia che Pietro seguette,

tosto libere fien de l’avoltero.


(Par., IX 139-142)

Ottaviano: anche questa stazione della metropolitana mi suggerisce


un segno dantesco, col nome di colui che ebbe il titolo di Augusto,
menzionato da Virgilio quando, presentandosi a Sordello, gli dice di
essere morto prima che il Purgatorio entrasse in attività, cioè prima
del sacrificio del Redentore: “Anzi che a questo monte fosser volte /
l’anime degne di salire a Dio, / fur l’ossa mie per Ottavian sepolte”
(Purgatorio, VII 4-6). Si esce a Ottaviano per andare al Vaticano, ai
Musei e a San Pietro: come a sottolineare ancora il nesso tra
l’impero romano (il suo fondatore) e il destino della Chiesa.
Se ai tempi di Dante il Vaticano non era la residenza dei Papi, in
esso si riconosceva comunque il luogo inaugurale della Roma
cristiana, il luogo centrale della Cristianità: luogo del martirio e della
tomba del principe degli apostoli la basilica di San Pietro, meta dei
pellegrini romei, ai piedi del colle difeso già nel IX secolo dalle mura
leonine. Lì c’era e c’è quel cimitero che nel passo qui in epigrafe
Folchetto di Marsiglia, che Dante incontra nel terzo cielo, vede
prossimo a liberarsi dall’avoltero (adulterio perpetrato dal papa e dai
cardinali, che hanno congiunto il Vangelo al fiorino, “il maladetto
fiore”) e che nell’ottavo cielo san Pietro dirà ridotto a cloaca. Lì su
quella tomba era nata la grande basilica, che nei secoli successivi
ha cambiato completamente aspetto da quella che vide Dante, con
la lunga attività della “fabbrica di San Pietro” (formula che fino a
qualche anno fa veniva molto usata per indicare i lavori interminabili,
che non giungono mai a fine). Ormai da tanti secoli il Vaticano si
identifica col papato: con i suoi splendidi palazzi, soprattutto
rinascimentali, con il suo aspetto tanto lontano da quello dei tempi di
Dante. Un papato molto diverso da quello di Bonifacio VIII, che dopo
la presa di Roma proprio in Vaticano si è rinserrato e ne ha fatto la
propria città-stato, punto di irradiazione del suo potere spirituale (non
sempre scevro di attenzione alle moderne incarnazioni del fiorino).
Dalla loggia di san Pietro sono state impartite le benedizioni urbi et
orbi, dalle finestre dell’adiacente palazzo suole affacciarsi il papa per
preghiere, allocuzioni, benedizioni festive sulla folla multiforme e
sempre più multietnica che gremisce la grande piazza.
Da romano ho visto passare un buon numero di papi, posso
misurare quanto si sia ormai distanti dal primo che mi è capitato di
vedere da bambino. All’inizio era Pio XII, con quell’incedere sacrale
e regale, con quell’aria aristocratica che sembrava impedirgli ogni
dolcezza e collocarlo lontano, come se la sedia gestatoria che lo
portava in alto sulla folla non fosse altro che l’immagine apparente,
offerta alla debole vista dei mortali, di un’entità superiore, impiantata
in realtà nell’Empireo (un po’ come i beati del Paradiso, che
appaiono a Dante nei vari cieli, ma la cui sede è oltre, nel cielo non
cielo di tutti i cieli). Mi ero abituato a identificare l’essenza papale in
Pio XII, in tutte le sue ruvidezze e nel suo clericale conservatorismo,
sostenuto in modi diversi da due miei zii, uno dei quali, pur
svolgendo il suo normale lavoro “borghese”, faceva parte del corpo
di quelle guardie palatine che prestavano servizio in occasione di
particolari cerimonie papali (e spesso la domenica si faceva vedere
con quella divisa un po’ ottocentesca). Ma poi è arrivato il riformatore
Giovanni XXIII, con la sua cordialità bonaria, con il suo più frequente
muoversi fuori dal Vaticano, con la sua affabile corporeità, come di
un nonno a cui è bello affidarsi. E poi il rigoroso e turbato Paolo VI,
così cosciente della contraddizione della presenza della Chiesa e
della sua tradizione con un mondo in subbuglio, sempre più
secolarizzato: lui così compreso della sfida necessaria alla “morte di
Dio”, sfida che sembrava votata alla sconfitta. E ancora l’effimera
apparizione di papa Luciani, Giovanni Paolo I, seguita
dall’esuberante vitalità, dalla lucida capacità di coniugare un legame
fortissimo con la tradizione (anche nei suoi aspetti più conservatori)
con l’orizzonte mediatico, con l’espansione della società di massa: il
papa polacco Giovanni Paolo II, che ha contribuito a far crollare il
comunismo, quel grande e terribile nemico storico che aveva creduto
di cancellare ogni religione dalla faccia della terra (e ricordo da
ragazzo quel vezzo stalinista di fantasticare sul futuro arrivo dei
cavalli cosacchi, destinati ad abbeverarsi nelle fontane di piazza san
Pietro). E poi l’elegante e dubbioso papa teologo, il filosofo tedesco
Benedetto XVI, giunto all’esito inaudito di un “gran rifiuto” tanto
diverso da quello di Celestino V, e ora rimasto in Vaticano a coltivare
la sua pietà e la sua cultura, mentre le redini della Chiesa sono
tenute dal nuovo papa argentino che ha assunto il mai usato nome
di Francesco: nella dolcezza del suo italiano da hispanohablante,
egli fa sentire la sua voce intensa, attenta in nuovi modi all’orizzonte
mediatico, ma carica di sollecitudine sociale: pronta a denunciare
l’egoismo dei ricchi, le storture di finanza e capitalismo, la
distruzione in atto dell’ambiente naturale, e a offrire solidarietà ai
poveri e ai disperati di tutto il mondo.
Ripercorrevo rapidamente, nel breve tragitto della metropolitana, la
memoria di questi papi, che qualche volta ho visto dal vivo, molto più
spesso nel vario svolgersi delle cronache televisive, pensando
anche alla strana combinazione della compresenza attuale di un ex
papa e di un papa in funzione. Ma uscendo dal treno vengo a notare
che nei prossimi giorni, subito a ridosso di Pasqua, avrà luogo la
grande cerimonia di santificazione di due dei papi in questione,
Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. E tra l’altro la santificazione del
più vicino fu già richiesta a gran voce alla sua morte (“Santo subito!”,
sembra che molti abbiano gridato). Per la verità questa questione
delle santificazioni sembra quasi riavvicinarci ai tempi di Dante. Aver
vissuto mentre nel mondo agiva qualcuno destinato in breve a esser
fatto santo! Aver visto durante la propria vita in carne e ossa
qualcuno e saper poi che è stato santificato! Ce n’è un altro, la cui
santità è stata per gran tratto controversa, ma che poi si è imposto
vittoriosamente e le cui immagini e statue proliferano e appaiono non
solo nelle chiese, ma in case, cortili, giardini, San Pio da Pietrelcina
(ma installato a san Giovanni Rotondo), che io continuo a chiamare
Padre Pio, ricordando i tempi in cui le sue iniziative apparvero
controverse anche alla Chiesa e la devozione superstiziosa che
suscitava in persone a dir poco difficili, come uno dei due zii sopra
ricordati (non la guardia palatina, ma quell’altro).
“Lo avrebbero fatto santo”, si dice del protagonista di Nostra
Signora dei Turchi, che vede sorgere nella sua casa un vero e
proprio concilio di vescovi, riuniti “per decidere la sua santità”: e in
fondo il miscredente sarcasmo di Carmelo Bene rende conto della
santità, del rilievo del sacro, molto più dell’orizzonte mediatico e
pubblicitario in cui ora tutto si proietta, anche questo, i papi e i santi,
San Pietro e il Vaticano, Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. Qualche
ora prima, quando imboccavo via Merulana diretto a San Giovanni,
ho notato che al teatro Brancaccio si dà un musical proprio sul papa
Wojtyla, Karol Wojtyla – la vera storia, di Duccio Forzano, con
colonna sonora nientemeno che di Noa. Ora la “vera storia” dei papi
si fa in musica, con tutte le tecniche, le tecnologie, le modalità
dell’apparire contemporaneo. E se questa vera storia si svolge in un
orizzonte adeguatamente spettacolare, in un teatro che negli ultimi
anni tende perlopiù a rivolgersi alla più corriva massa televisiva,
l’impressione può essere corretta dall’altro spettacolo di cui ho visto
il manifesto nelle stazioni della metropolitana, Non abbiate paura,
altro musical, di don Giuseppe Spedicato, che però verrà dato
all’Auditorium di via della Conciliazione (luogo più austero e poi così
presso al Vaticano) e con ingresso libero fino a esaurimento dei
posti, solo dal 21 al 24 aprile: saprò poi che, tra i tanti musical su
Wojtyla (pare che ce ne siano anche altri) questo è quello ufficiale,
benedetto anche da papa Francesco. Qui a Roma nei prossimi giorni
due papi santi, due papi viventi (anche se uno ex), due musical
papali (anche se centrati su uno solo dei papi, forse perché l’altro, un
po’ lontano nel tempo, è più difficilmente catturabile dalle giovani
menti che proiettano la musica più pop sull’antico ceppo dei riti
cattolici).
Resto impigliato da laiche considerazioni su questo universo
papale e sulla proiezione del più ufficiale cattolicesimo verso le
modalità anche più viete della cultura di massa: ne avrò più tardi
altre dirette prove televisive, anche con lo spettacolo di una suora
cantante in un talent show, che, tra bellone plastificate e trainer
tatuati, vincerà la gara e, a coronamento, inviterà il set e il pubblico a
recitare il Padre nostro. “Lo avrebbero fatto santo”: questo castigato,
anerotico avoltero mediatico a cui si costringe l’odierno
cattolicesimo, a suo modo secolarizzato (e del resto gli sembrano
ormai ignoti inferno, purgatorio e paradiso), troppo mi allontana dal
mio obiettivo dantesco.
All’uscita della stazione Ottaviano sento come una strana
immobilità nell’aria affollata di via Giulio Cesare, sotto il sole
bruciante di questa trasparente luce d’aprile, strana per questa via
percorsa da molte auto, pur tra gli ampi marciapiedi, in cui una varia
folla interroga affastellate bancarelle. Ecco una mendicante dalla
gobba molto pronunciata, al punto di sembrarmi finta, appoggiata a
un bastone. Ma mi avvio verso i Musei Vaticani, dove sul
marciapiede che costeggia le mura leonine e che conduce
all’ingresso c’è già una notevole coda. Per fortuna ho prenotato
tramite Internet l’ingresso alle dodici e posso procedere verso
l’entrata riservata ai detentori di questo elementare privilegio.
Cortile della Pigna e Musei Vaticani

La faccia sua mi parea lunga e grossa


come la pina di San Pietro a Roma…
(Inf., XXXI 58-59)

Occorre procedere nei vari passaggi oltre l’ingresso dei Musei


Vaticani per raggiungere il cortile dove è stata collocata molto più
tardi la pina che Dante deve aver visto nell’atrio della vecchia
basilica: si tratta del cortile detto appunto della Pigna, che è divenuto
tale dopo la divisione in due del grande cortile del Belvedere, con
l’inserzione intermedia di un’ala della biblioteca. Eccola lì la pigna di
bronzo, che si trova sulla sinistra appena entrati sul cortile, nel suo
lato nord, sulla scalinata davanti al nicchione costruito da Pirro
Ligorio (ma detto del Bramante, ideatore originario del cortile del
Belvedere): pigna in effetti lunga e grossa, non di quelle pigne più
arrotondate, ma quasi oblunga, la cui parte in alto si svolge quasi in
puntuta forma conica. È un oggetto che viene da lontano, da una
fontana presso le terme d’Agrippa, dove gettava acqua dalle punte,
passato poi in un quartiere medievale, detto proprio della Pigna: nel
centro di Roma c’è infatti ancora una piazza della Pigna, ma senza
nessuna pigna (in passato c’è stata la sede del Vicariato di Roma).
Posata su un antico capitello, che le fa da base, come una sorta di
gigantesco portauovo, ora la pigna troneggia scenograficamente
sulla doppia scalinata, assistita da altri resti scultorei. Subito sotto il
capitello che la sorregge, e sopra un mascherone che getta acqua,
una lastra riporta quei due versi di Dante, con la similitudine che
evoca la testa del gigante Nembrot, confitto, insieme ai suoi
consimili, nel ghiaccio di Cocito. Nembrot proferisce fonemi senza
senso, come si conviene a chi aveva ideato la costruzione della torre
di Babele: egli è colui “per lo cui mal coto / pur un linguaggio nel
mondo non s’usa” (Inferno, XXXI 77-78), origine della confusione e
moltiplicazione delle lingue. Qui certo, davanti alla pigna e
nell’affollato vagare dei visitatori nelle sale dei Musei, si può avere
un po’ la verifica del nostro essere “dopo Babele”, nell’aggrovigliato
serpeggiare di suoni e parole, mozziconi di frasi, di tante lingue
diverse: pensando ai giganti danteschi non si può non guardare a
questa pigna senza pensare alla Babele turistica, a questa aria
plurilinguistica, in parte resa meno babelica dall’universale dominio
dell’inglese. E non è detto che oggi anche Nembrot, con questa sua
faccia a forma di pigna, non sappia farfugliare qualche parola in
inglese, utile per accogliere qualcuno dei tanti traditori che
continuano a piovere in Cocito.
A questa pigna che viene da tempi remoti fa da riflesso, da
moderno contrappeso, una grande sfera collocata al centro di questo
cortile, sfera in lucidissimo bronzo (ben diverso da quello ingrigito
della pigna), quattro metri di diametro, sul cui guscio ben levigato,
che risplende sotto il sole caldo e accecante di questa giornata, si
aprono ampi squarci che lasciano scorgere tutta una varia e
complessa dentatura e scanalatura interna: è la tecnica ben nota di
Arnaldo Pomodoro, che si può ammirare in tanti esterni, in Italia e
non solo. Questo pezzo, donato dall’artista, risale al 1990, e un
dispositivo elettrico gli permette di girare su se stesso: emblema di
qualche gigante moderno, corroso dentro ma splendente all’esterno,
dotato di una relativa, forse illusoria mobilità, opposta comunque
all’immobilità assoluta della pigna (quale similitudine si potrebbe ora
mettere in opera? O forse questa sfera, nel cuore del Vaticano, non
è un emblema del nostro mondo corroso, che non può più evitare di
esporre le sue lacerazioni, non può del tutto nascondersi nella lucida
apparenza dei suoi artificiali simulacri?). Intorno alla sfera, come
davanti alla pigna, sostano e si aggirano i visitatori: c’è un prete (mi
pare sudamericano) che accuratamente la esalta e la descrive ai
pellegrini di cui è guida, mentre l’apparato la fa girare, in senso
antiorario.
Lasciato il cortile della Pigna, mi addentro nei Musei: e certo la
varietà estrema di forme artistiche, il contesto architettonico, con le
molteplici stratificazioni storiche su cui si sono disposti i palazzi
Vaticani, il loro essere interni a una istituzione così particolare come
la Chiesa cattolica, i tanti capolavori non acquisiti da fuori, ma
germogliati all’interno, organizzati in una forma che non è e non può
essere quella della semplice esposizione/ostentazione, fanno sì che
l’insieme costituisca indiscutibilmente il museo più bello e singolare,
più carico di storia, dell’intero mondo. Ci sono certo anche segnali
danteschi, in tanta materia biblica e cristiana che fa da soggetto alle
opere più diverse: e a un certo punto appare la stessa immagine di
Dante nelle stanze di Raffaello, che si raggiungono nel lungo
percorso che porta dalla parte opposta al cortile della Pigna, oltre il
fronte sud del cortile del Belvedere, molto vicino al sagrato della
basilica.
Queste stanze sembrano troppo strette per contenere i turisti, che
spesso si trovano a scorrere troppo velocemente le pareti, senza
discriminare gran che. Dante appare due volte nella stessa stanza,
quella della Segnatura (dove si firmavano, “segnavano”, gli atti
ufficiali), sempre di profilo ma, curiosamente, da due prospettive
diverse. Nell’affresco sulla Disputa del Sacramento, che copre
un’intera parete, egli sta nel gruppo all’estrema destra (per chi
guarda), subito dietro al papa Sisto IV, e guarda a sinistra, verso
l’altare dove è esposto il Sacramento; coronato d’alloro, mostra con
spavalda fierezza il lato sinistro del suo profilo arcigno, dal mento
molto pronunciato verso il basso. Qui la sua presenza mostra il suo
spirito dottrinale e teologico (tra i suoi vicini c’è del resto san
Tommaso), mentre la sua identità di poeta trova campo nell’affresco
del Parnaso, sulla lunetta sopra una finestra che dà sul cortile del
Belvedere, dove egli si colloca sulla sinistra, al fianco sinistro del
cieco Omero, ma un po’ più in basso di lui (mentre sul suo fianco
destro, ma un po’ arretrato e un po’ meno in basso si colloca
Virgilio). Data la sua posizione, qui del suo volto si vede il lato
destro: sempre coronato d’alloro (ma qui praticamente lo sono tutti,
come Apollo), appare, più che spavaldo, come segnato da un’ombra
di malinconia, come troppo assorto nei propri pensieri, quasi
estraneo alla scena di cui pure fa parte.
Difficile contemplare adeguatamente i capolavori di Raffaello tra la
folla dei turisti, alcuni attenti ed esitanti, la maggior parte indifferenti
e frettolosi. Devo procedere, ma, visto che sono qui, non posso
evitare di sfiorare almeno rapidamente la Cappella Sistina, dove del
resto c’è molto di “dantesco” (e tanti hanno usato l’aggettivo per
qualificare, certo un po’ corrivamente, i grandi affreschi di
Michelangelo). La volta e la parete del Giudizio comportano del resto
tutta una serie di richiami a situazioni, vicende, temi, personaggi del
poema dantesco. È vero tutto questo: ma la visita alla Sistina è di
quelle che mostrano in modo estremo qualcosa che per i grandi
capolavori, quelli più celebri, quelli che hanno una particolare fama
mediatica e turistica, va molto al di là della “perdita dell’aura”. Non so
se dipende da questo giorno di Venerdì Santo, da questa particolare
costipazione del turismo pasquale: ma una anche modestamente
autentica visione della Sistina reale (non fotografica o
cinematografica) è praticamente impossibile. Qui si può entrare solo
seguendo una coda e solo per pochi minuti, ma la vera bolgia è
all’interno. Si sta pressati, sfiorando continuamente chi è vicino; molti
guardano in alto, di qua e di là, ignorando ovviamente le pareti non
michelangiolesche, ma tanti consultano Internet sul loro cellulare,
magari cercando le necessarie informazioni di guida, o guardano nel
tablet le foto degli stessi affreschi che hanno davanti. C’è un cartello
all’ingresso No foto no film e c’è un invito al silenzio: ma la cappella
è percorsa da un divagante brusio, solcato periodicamente dalle
grida dei guardiani che ribadiscono, appunto, Attenzione. No foto no
film e Silenzio/Silence. Ma molti ignorano il divieto e fanno
abusivamente scattare la loro camera dal potente obiettivo (zoom
sulle braghe del Braghettone!) o il più modesto cellulare; qualcuno si
farà anche l’adorato selfie, ma non riesco a orientarmi in questo
mare di desideri realizzati, di appropriazioni personali della superba
bellezza del luogo dove peraltro vengono scelti i papi.
La maggiore sensazione che provo è quella di stare in mezzo a
un’incorreggibile folla, rispetto alla quale sono preso
dall’irrealizzabile desiderio di correggere i vari trasgressori vocali e
visivi. Michelangelo sfuma in lontananza; la storia sacra della volta,
che costringe a piegare faticosamente la testa verso l’alto, confonde
i suoi riquadri, mischia confusamente profeti e sibille; il Cristo
minacciante del Giudizio ci precipita tutti giù, pur con i nostri
variopinti prêt-à-porter, con le nostre Nikon e i nostri Samsung, in
quell’accatastato inferno. So che, in questo contesto e di fronte al
brand ricoperto da simili capolavori, non c’è via d’uscita alla
condizione del turismo di massa. Ma mi chiedo fino a quando delle
bellezze così grandi ma così fragili resisteranno a questo insistente
consumo, a questo volerle prendere e portarsele con sé. Sapranno
davvero conservarsi, non si altererà irrimediabilmente il loro tessuto,
a forza di subire questi assalti di folla, di raccogliere gli aliti di questi
corpi che sfilano così davanti a esse?
Quando esco dai Musei, trovo tanti altri prossimi visitatori in
paziente coda lungo le mura leonine, coda ora ben più lunga di
quella che ho visto qualche ora fa: essa arriva anche oltre l’acuto
angolo delle mura che svolta da viale Vaticano su via Leone IV. Su
questo lato la folla procede tra venditori svariati, delle più varie ed
evanescenti merci, delle molteplici “carabattole” (come sono abituato
a chiamarle), vendute da immigrati, le solite cose banali e povere,
distintivi di tutte le possibili immaginarie identità, portachiavi con tutti
i gadget probabili e improbabili, cappellini e pantofole, minicucitrici e
minipiedistalli per fotocamere, fodere per telefonini e foulard,
souvenir magnetici da mettere sul frigorifero, e poi le letterine di
legno da comporre (un venditore tiene in evidenza, ben appropriata
al luogo, la composizione FRANCESCO). Cose viste e da rivedere
infinite volte, emblemi di desolazione turistica, come i cellulari, i
selfie, la quasi universale cura di fotografare per non vedere, per
rimanere sempre dove si è. Cose e atti che trovo dappertutto e che
tante volte troverò nel mio viaggio: da me come da tanti tante volte
sono state riprovate e tanti altri a queste deplorazioni hanno mosso
accuse di intellettuale snobismo.
Decido di non occuparmene più nel prosieguo del viaggio: ma qui
che sono a Roma, nel cuore della Cristianità, nella fucina del sacro,
in uno dei luoghi che più miracolosamente hanno saputo coniugare il
sacro con il bello, nella città che è anche la mia, sento più forte il
dolore di questa contaminazione, di questa mediocre e povera
sciatteria che contorna la bellezza, che si rivolge a tutti coloro che
quella bellezza vengono distrattamente a consumare. E poi qui,
proprio tra coloro che muovono verso piazza San Pietro, da piazza
Risorgimento a via di Porta Angelica, in questo miscuglio risulta più
forte la secolarizzazione consumatrice del sacro, quel trionfante e
dimesso avoltero che ho poco fa notato. Tanto più che oggi sarebbe
il giorno di Venerdì Santo e questa gente, magari presa da sincera,
fervente, ingenua pietà religiosa, si avvia verso il colonnato, la
grande piazza e la chiesa. E del resto queste onde del turismo di
massa e del turismo religioso, con tutto il cattivo gusto che le
accompagna e condisce, costituiscono per Roma una determinante
risorsa economica: non si può che continuare a procedere per
questa via.
Ai margini esterni del colonnato del Bernini e su Borgo
Sant’Angelo ci sono opportunamente dei cessi biologici, di un colore
rosso acceso. Ma alla basilica non si può accedere: c’è un cartello
che dice che sarà riaperta alle quindici, ma già c’è una lunga coda,
instradata a un certo punto tra transenne che conducono
all’ingresso. Sotto il sole ombrellini, bottiglie di plastica, gente che
mangia all’ombra del colonnato. Credo proprio che in un giorno
come questo dovrò rinunciare a entrare nella basilica e decido di
dirigermi, come un dantesco romeo in ritirata, verso Castel
Sant’Angelo. Svoltando da via della Conciliazione per via
dell’Inferriata, sul fianco del palazzo Torlonia, trovo una ventina di
giovani neri che discutono intorno a varia merce ammassata per
terra: sembra ci sia di tutto, ma soprattutto borse falsamente griffate
e occhiali da sole. Si tratta certo di uno smistamento delle solite
merci distribuite dai racket che controllano questo mercato,
lasciando briciole di incassi a questi giovani che qui son venuti dal
loro mondo disperato per cercare un pane che davvero “sa di sale”.
Ponte Sant’angelo e monte Giordano

…come i Roman per l’essercito molto,


l’anno del giubileo, su per lo ponte
hanno a passar la gente modo colto,

che da l’un lato tutti hanno la fronte


verso ’l castello e vanno a Santo Pietro,
da l’altra sponda vanno verso ’l monte.
(Inf., XVIII 28-33)

Ecco il castello, con i prati dei suoi fossati e qualche piccolo spazio
di verde, che fa pensare a quelli che erano i Prati di Castello, che
sono stati completamente cancellati dal quartiere
primonovecentesco denominato appunto Prati. L’afflusso turistico di
questi giorni porta intorno al castello quei figuranti, uomini/statua e
donne/statua che ormai costituiscono una specialità internazionale,
variante organizzata e mascherata del mendicare: statua della
Libertà, Leonardo da Vinci redivivo, papa Wojtyla, una bianca e
drappeggiata immagine di qualche virtù (forse è la Carità di Giotto a
Padova, a cui nel primo libro della Recherche Swann assomiglia la
povera fille de cuisine di Combray?), un indiano in levitazione
sorretto da un nascosto congegno metallico, qui anche un grigio
pistolero, cow boy disteso a terra, con due abnormi pistolone. C’è
movimento di turisti: visitatori che entrano nel castello, gente che
semplicemente passeggia o mangia il gelato; c’è anche più in là,
quasi addossato al bastione destro (detto di san Giovanni) uno di
quei chioschi mobili “Bibite-Gelati-Ice Cream-Cold Drinks”.
Nelle tante stratificazioni che l’hanno costituito, come castello
questo è davvero un unicum mondiale, per la sua storia, la sua
forma, la sua destinazione. Il fatto che la struttura di castello sia
sorta sulla base del sepolcro dell’imperatore Adriano ha dato luogo
alla sua singolarità architettonica, al curioso effetto che fa a chi lo
guarda dai più diversi punti di osservazione: si ha come
l’impressione che il corpo circolare che si eleva sulla cinta quadrata
sia in realtà di forma ovale; e questo ovale che sembra affacciarsi
sul Tevere sembra davvero un pezzo fuori tempo, caduto dentro
l’assetto della Roma antica, rinascimentale, barocca. Come castello,
potrebbe avere qualcosa di medievale, ma la misura del suo
paramento superiore, con i suoi scanditi beccadelli, reca piuttosto un
effetto di bellicismo rinascimentale: rocca non rocca, tramite tra il
centro della città e il Vaticano, carcere e fortezza, poi anche
asserragliata residenza papale, teatro di scontro e contesa tra
turbolente fazioni baronali e poteri ecclesiastici, memoria di eventi
catastrofici, come il sacco di Roma del 1527. È anche luogo
letterario, prima di tutto per il corrusco racconto di Benvenuto Cellini,
attestato alla sua difesa in quel 1527 (con il vantato esito di aver
fatto fuori col proprio archibugio addirittura il conestabile di Borbone),
ma più tardi, per la malevola ostilità del papa Paolo III, lì prigioniero,
non senza un avventuroso tentativo di fuga; e luogo letterario-
musicale con la vicenda della Tosca, prigione di Mario Cavaradossi
(L’ora è fuggita) e precipizio per il suicidio di Floria Tosca.
Ma nel Giubileo del 1300 e nei versi di Dante il castello non è altro
che un segnacolo per il procedere dei pellegrini da e verso San
Pietro: procedere nel doppio senso, da e verso la città, identificata
con la sua zona più vicina, che è il monte, cioè monte Giordano, sul
ponte su cui ancora si accede davanti all’ingresso del castello.
Struttura tutta particolare doveva avere il camminamento che dalla
basilica di San Pietro conduceva al castello e al ponte, ora detto
Ponte Sant’Angelo (e i papi più tardi avrebbero avuto un loro
percorso protetto e fortificato). Certo è impossibile ricollocarsi
davvero dentro quel procedere, dato che l’assetto del ponte è mutato
radicalmente: nella superba scenografia barocca gli angeli con i
simboli della passione che ne coronano il parapetto (su bozzetti di
Gian Lorenzo Bernini) sembrano ora come accompagnare chi lo
attraversa, mentre la creazione dei muraglioni del Tevere alla fine
dell’Ottocento ha portato all’allargamento del letto del fiume e
all’allungamento del ponte stesso, con modificazione delle sue
rampe di accesso. Colpisce comunque ancora oggi quella cura per
la gestione del traffico dei pellegrini testimoniata dai versi di Dante:
testimonianza della tecnica del doppio senso di marcia. L’essercito
molto doveva essere proprio straripante, almeno in occasione delle
grandi celebrazioni: e fu proprio la ressa dei pellegrini a far crollare
le spallette del ponte il 19 dicembre del 1450, durante il Giubileo,
causando poco meno di duecento vittime.
È perlomeno strano che il modo concepito dai Roman per la sacra
occasione del 1300 (e ci dovevano essere degli addetti a regolare
questo traffico, vigili urbani del tempo) serva a Dante proprio per
connotare un’occasione infernale, quel circolare in senso inverso dei
dannati della prima bolgia, controllati e sferzati da vigili diavoli,
ruffiani da una parte e seduttori dall’altra: il poeta, che con Virgilio
procede verso sinistra sul margine della bolgia, ha addirittura modo
di precisare che la schiera a lui più vicina (che percorre il lato
esterno della bolgia) muove verso di lui e che quelli della schiera
interna muovono nella direzione opposta. Ciò significa che, come nel
nostro uso moderno (non seguito dagli inglesi), le schiere dei dannati
tengono la destra: e viene da pensare che anche le schiere dei
pellegrini sul ponte procedessero tenendo la destra, quelli che
andavano verso il castello dalla parte a monte del fiume, quelli che
andavano verso il monte, dalla parte a valle. Mi metto allora a
percorrere il ponte tenendomi a destra, ma mi capita prima di dare
uno sguardo dalla parte della spalletta sinistra: e giù in fondo, sulla
sponda del fiume, vedo tre ragazze in pantaloncini che prendono il
sole sulla piccola striscia di sabbia sotto il ponte (il resto delle
sponde è coperto dai marciapiedi in pietra). Hanno addirittura
appoggiato le loro borse lì accanto e due di loro si avvicinano al
fiume e bagnano i piedini nell’acqua non molto allettante (non
mancano lì intorno sterpaglie, carte galleggianti, altri indefiniti rifiuti).
Straniere o italiane, certo ingenuamente indifferenti, con una svagata
leggerezza che esclude ogni cura, ogni riserva igienica verso il fiume
biondo e malsano: dove certo Dante non avrà visto bagnarsi
pellegrine a gambe nude.
Passare il ponte per andare verso il monte significa approdare al
rione detto appunto Ponte, procedere per una via sistemata da
Paolo III, ma un tempo malfamata, via di Panico (il protagonista d’Er
fattaccio di Cesare Pascarella dice del fratello Giggi che “se cambiò,
se fece amico / de li più peggio bulli de’ Rione, / lassò er lavoro,
bazzicò Panico”), dove ora c’è qualche antiquario, tra vari luoghi di
ristorazione. Poi in leggera, leggerissima salita, si raggiunge il rilievo
del monte Giordano (altura appena pronunciata, sorta probabilmente
dall’accumulo di detriti fluviali), dove al tempo di Dante erano
saldamente insediati gli Orsini; e forse il suo nome vien dal cardinale
Giordano, fratello di quel papa Niccolò III che nella bolgia dei
simoniaci scambia Dante per Bonifacio VIII e così dice di sé:

…sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;

e veramente fui figliuol de l’orsa,


cupido sì per avanzar li orsatti,
che sù l’avere e qui me misi in borsa.
(Inf., XIX 69-72)

Orsatti qui sul mons Ursinorum, fortezza degli Orsini, poi con
vicende e costruzioni varie, ora palazzo Taverna, il cui ingresso, che
immette su un ampio cortile con una fontana secentesca, si trova
alla sommità della quasi impercettibile salita. Tra i vari passaggi,
questo luogo è stato dimora del cardinale ferrarese Ippolito II d’Este,
quello della Villa d’Este di Tivoli, che qui ha ospitato i due Tasso
padre e figlio, Bernardo e Torquato (ed è curioso il fatto che i due più
grandi poeti del Cinquecento, Ariosto e Tasso, abbiano avuto a che
fare con due diversi Ippoliti d’Este: certo il secondo più munifico e
signorile del primo, che poco si compiacque della dedica
dell’Orlando furioso). Ma non si trascurino più recenti frequentazioni:
un cartello della serie Mirabilia che si trova poco oltre l’ingresso del
palazzo ci dice che negli anni novanta palazzo Taverna è stato set
per parte del film di Jane Campion Ritratto di signora (1996), con
Nicole Kidman come signora; e si tralascia il fatto che il film sia tratto
da uno dei maggiori romanzi di Henry James.
Nello scendere dal monte il nome di James mi allontana da Dante
e a pochi metri di distanza mi conduce sulla piazza dell’Orologio,
dove hanno sede sia il più accademico Istituto storico italiano per il
Medioevo che la più “militante” e contemporanea Casa delle
letterature, creata nel 2000 in uno dei pochi momenti magici
dell’amministrazione comunale romana, per iniziativa di un
assessore pieno di passione, di misura, di apertura culturale, a cui
sono stato amico e con cui per alcuni anni mi è toccato di fare
insieme tante cose, cercando di mettere in circolo la letteratura più
autentica: Gianni Borgna, uno di quegli ex comunisti dalla grande
dignità e intelligenza, estraneo ai giochetti politici di bassa lega,
scomparso precocemente nel febbraio 2014. Ben appropriata a
questo mio viaggio è una sosta in questa Casa delle letterature,
diretta da Maria Ida Gaeta, nei suoi spazi tra la sala incontri, la
biblioteca, il giardino, l’atrio con piccole mostre, gli uffici. Qui è
davvero piacevole sedere su una panca per riflettere un po’ e
cominciare a sistemare gli appunti di questa giornata. Il giardino di
aranci, che è in un cortile del grande palazzo dei Filippini (nel cui
blocco è inserita la Casa delle letterature), offre dolce ombra e
squarci di sole, tra ragazzi che conversano e prendono pausa dallo
studio in biblioteca: mentre scrivo tra l’ombra della parete e quella di
un arancio, su una panca vicina due studentesse con le belle spalle
al sole stanno leggendo un po’ distrattamente.
Nell’atrio c’è una mostra fotografica che mi riconduce all’orizzonte
papale oggi percorso: la Casa delle letterature partecipa alle
canonizzazioni dei prossimi giorni esponendo una serie di foto sulla
scomparsa (2 aprile 2005) e sui funerali (8 aprile) di Giovanni Paolo
II, celebrati con gran concorso di folla in piazza San Pietro, eventi
che, si dice, hanno fatto confluire a Roma circa tre milioni di persone
da tutto il mondo. Giovanni Paolo II, il grande uomo, mostra
fotografica di Fazio Gardini: belle le foto, 45 scatti, molto espressivi,
che fanno percepire in tutta evidenza il rilievo visivo dell’evento. Un
pannello esplicativo inscrive direttamente questa dimensione visiva
in un orizzonte di spettacolo massmediatico: singolare
compiacimento traspare dalla notazione secondo cui “questo evento
mediale è stato divulgato dai mass media” (con lapsus legato forse
alla mia ottica dantesca, avevo inizialmente letto medievale invece
che mediale). Ma più esemplare è la clausola dell’esaltante
esplicazione: “Un applauso lungo e commosso, è stato il vero a Dio
del popolo al suo pastore”. Applauso che non si sente nelle foto, ma
che in tale frangente ha confermato la sempre più diffusa abitudine
ad applaudire anche nelle circostanze più tragiche, più definitive, che
più evocano il sacro o ne fanno balenare la traccia o l’assenza:
applausi ormai generalizzati nei funerali, non solo degli attori e dei
santi, ma anche delle vittime più disgraziate. E ancora qui
un’immagine dell’evoluzione mediatica e spettacolare del
cattolicesimo.
Campidoglio

E quando fuor ne’ cardini distorti


li spigoli di quella regge sacra,
che di metallo son sonanti e forti,

non rugghiò sì, né si mostrò sì acra


Tarpëa, come tolto le fu il buono
Metello, per che poi rimase macra.
(Purg., IX 133-138)

Lo stridore dell’apertura della porta del Purgatorio per far passare il


pellegrino e la sua guida viene paragonato a quello dei battenti del
tempio di Saturno, dove era custodito il tesoro romano, quando fu
aperto, per volere di Cesare, dopo l’allontanamento dell’oppositore
Metello, lasciando vuoto il tesoro. La rupe Tarpea indica qua il
Campidoglio in genere e il tempio del tesoro sul Campidoglio,
seguendo il racconto di Lucano (Pharsalia, III 153-155), per cui
“abducto patuerunt templa Metello” (“allontanato Metello il tempio fu
aperto”) e “rupes Tarpeia sonat magnoque reclusas / testatur stridore
fores” (“la rupe Tarpea risuona e col suo stridore indica che le porte
sono dischiuse”). La rupe sul versante sud-sud est (detto monte
Tarpeo) del Campidoglio recava il suo nome dalla vicenda di Tarpea,
lì uccisa, ma per motivi e in situazioni che avevano dato origine a
leggende diverse, riferite a un suo tradimento a favore dei sabini che
assediavano Roma (versioni diverse ne dà Livio, I XI 6-9). Anche
Virgilio, in un passo (Eneide, VIII 652-656) citato da Dante in
Monarchia, II IV 8, parla della Tarpeiae arx per indicare il punto più
alto del Campidoglio, a proposito della leggenda delle oche che
avrebbero messo in guardia i romani dall’arrivo dei galli. Prima, nello
stesso libro VIII 347-358 Evandro aveva condotto Enea “ad
Tarpeiam sedem et Capitolium”,
nel loro semplice puro essere “prima” del sontuoso splendore di
Roma (“aurea nunc, olim silvestribus horrida dumis”, “ora d’oro,
allora ispido di cespugli selvatici”); e Dante nell’Epistola VII 5,
indirizzata all’imperatore Enrico VII, parla di veneranda signa
Tarpeia, per indicare le insegne romane finalmente riportate in Italia.
Salgo sul Campidoglio: al di là della scenografia della scalinata
sorvegliata dalle grandi statue dei Dioscuri e della piazza
michelangiolesca, al di là delle più frequentate viste dalla parte
opposta, sul foro e sul Colosseo, qui ci sono molti angoli che hanno
un carattere particolare, che in certi momenti appaiono quasi
appartati, non raggiunti dai grandi flussi turistici, edifici e giardini che
si aprono su altre viste romane, toccati da percorsi leggermente
devianti. La scalinata sulla destra della piazza, oltre il palazzo dei
Conservatori, porta su di un portico alla cui sinistra si accede alla
sala della Protomoteca, luogo di molteplici celebrazioni culturali
(chissà perché mi viene in mente un convegno per il centenario
leopardiano del 1997, in cui mi capitò di presiedere una seduta in cui
uno dei nostri maggiori filosofi menzionò L’infinito come un “sonetto”,
suscitando la giusta ma repressa ira del leopardista Luigi Blasucci).
Il portico è aperto dalle due parti e dalla parte opposta alla scalinata
si raggiunge la zona più appartata del colle, più direttamente
identificata come il monte Tarpeo: qui c’è il piccolo giardino col
belvedere Tarpeo, che dà proprio sulla rupe. Questo giardino fu una
delle scoperte della mia adolescenza, ai tempi del ginnasio, quando,
in certe mattine in cui capitava di uscire presto dalla scuola (il vicino
liceo Visconti, nei locali dell’antico Collegio romano dei Gesuiti), si
veniva qui in dinoccolato passeggio: uno dei panorami più belli di
Roma, aperto dal Quirinale all’Aventino, con la torre dei Mercanti, i
fori tutti, i fastigi di basiliche e chiese, il Colosseo, il Palatino con
quelle due palme solitarie. Panorama contemplato su quelle
panchine da giardinetto o appoggiati al rozzo parapetto, con accanto
la cartella di pelle piena di libri, come allora si usava, nel soffuso e
come attutito splendore di qualche romana “ottobrata”, senza
sospettare nemmeno che proprio su quella rupe continuarono a
lungo a perpetrarsi esecuzioni capitali, non solo nell’antica Roma,
ma anche nella Roma papale (almeno fino al Cinquecento).
Cerco invano di tornare al giardino, di fissare lo sguardo su quella
vista che da quel punto non misuro da tempo: il giardino è
irrimediabilmente chiuso e dalle inferriate traspaiono confuse e
accavallate tracce di lavori in corso, senza che ci sia nessuno
effettivamente al lavoro; del panorama non si vede quasi nulla e
solo, all’estremo, si riconosce il limite del vecchio parapetto. Con
disappunto devo procedere sulla via del tempio di Giove, dove mi
imbatto in un impiegato comunale che esce dall’edificio ottocentesco
in restauro dell’ex ospedale Teutonico (chissà perché stava proprio
qui). Gli chiedo notizia del giardino belvedere e mi informa di scavi
archeologici in atto: certo in un posto come questo quanti strati e
quanti universi potranno svelarsi, fino a interrogare le radici della
leggenda di Tarpea e del suo tradimento, fino magari a sapere
qualcosa delle famose oche del Campidoglio. Tantissime cose,
insomma, ma è certo, conclude, che le vedremo alla prossima vita.
Scendo attraverso gli intrecciati viali del giardino di monte Caprino,
che ai tempi della mia giovinezza era un luogo innocentemente
aperto e che recentemente è stato per alcuni anni ricettacolo di
notturne frequentazioni, soprattutto gay, su cui si possono avere
varie notizie su Internet, anche con un interessante campionario
linguistico, che vede in primo piano termini come cruising, battuage,
scopatoio. Ora sembra che tutto sia sfumato e dirottato altrove: il
giardino è circondato da inferriate e chiuso di notte.
Ma questa discesa mi porta giù, verso l’incrocio che immette nella
depressione del Velabro, dove, tra le tante vestigia antiche, furono
impiantati gli edifici fascisti dell’Anagrafe comunale (oggi non più
destinati a questa funzione); giro poi a destra, verso la chiesa di
Santa Maria della Consolazione che, al margine del foro romano,
domina un eccezionale quartiere per poche felici residenze,
incassato tra il Foro Boario, il Campidoglio, il Foro Romano e il
Palatino. Qui il lato del Campidoglio è proprio quello del mons
Tarpeius: visto dal basso mantiene la sua natura di rupe scoscesa,
che delle inferriate a punta proteggono al livello della strada, mentre
in alto sono in piena evidenza i muri di rinforzo che culminano in quel
parapetto che non ho potuto raggiungere. A destra c’è una scala che
porta su, verso la strada asfaltata destinata a sola discesa, al cui
imbocco c’è una piccola garitta con un vigile che impedisce indebiti
accessi. Nella piazza e nelle strade del quartiere in basso ci sono
auto in sosta dappertutto; dalla parte del Foro Romano, seguo la via
di San Teodoro, che si affaccia sulle tante multiformi affastellate
pietre, quelle pietre di Roma di cui così dice Dante:

Certo di ferma sono oppinione che le pietre che ne le mura


sue stanno siano degne di reverenzia, e lo suolo dov’ella
siede sia degno oltre quello che per li uomini è predicato e
approvato.
(Convivio, IV V 20)
Tempio di Giano

…con costui puose il mondo in tanta pace,


che fu serrato a Giano il suo delubro.
(Par., VI 80-81)

Nella storia dell’aquila imperiale che Giustiniano fa nel VI canto del


Paradiso un punto centrale è costituito dalla pax Augusti, voluta da
Dio per accogliere la nascita di suo figlio Gesù: con Augusto la pace
che l’impero pose nel mondo, in una raggiunta “plenitudo temporis”
(secondo la definizione di San Paolo citata da Dante in Monarchia, I
XVI 2) permise la chiusura del delubro di Giano, le cui porte
dovevano essere sempre aperte in tempo di guerra. Il tempio di
Giano bifronte e la sua funzione erano ben noti a Dante e alla sua
cultura (anche attraverso l’Eneide, VII 601-615), ma non facile ne
era l’individuazione topografica: oggi si sa che ce n’era uno nel Foro
Romano e un altro nel Foro Olitorio, sotto il Campidoglio, dalla parte
di monte Caprino e accanto al teatro di Marcello, all’inizio della
depressione del Velabro, la palude dove secondo la leggenda il
pastore Faustolo avrebbe trovato i gemelli Romolo e Remo. Ma
mentre del primo tempio sembrano perse le tracce, il secondo
sarebbe da identificare con uno dei tre templi variamente incorporati
nella chiesa di San Nicola in carcere, che si affaccia isolata sul
quadrivio dell’Anagrafe sopra ricordato e dà le spalle al rilievo
medievalmente denominato monte Savello, che fa come un argine
tra la depressione del Velabro e il Tevere, sul quale si affaccia
davanti all’isola Tiberina.
Per antica consuetudine nella topografia romana viene però
ancora chiamato Arco di Giano l’arco quadrifronte che si trova più in
là, oltre l’Anagrafe, nella cavità più interna del Velabro: un arco che
al tempo d’Augusto proprio non c’era e che non ha nulla a che fare
con Giano. Cerco di muovermi tra queste indeterminate ed
eterogenee identificazioni, tra questo aprirsi e chiudersi bifronte
trifronte o quadrifronte: e in omaggio alla natura bifronte di questo
dio delle porte e dei passaggi, dell’alterna vicenda di pace e guerra,
enigmatica e particolarissima figura del doppio, Menecmo di se
stesso, cerco di muovermi tra ciò che è probabilmente nascosto
nella chiesa di San Nicola in Carcere e l’Arco che abusivamente a
Giano si richiama. Sul fianco sinistro della chiesa, dalla parte
dell’Anagrafe, sono incorporate ben sei colonne doriche di travertino,
che le guide indicano appartenenti al tempio di Giano, mentre resti di
un altro tempio si vedono dalla parte del teatro di Marcello (in mezzo
c’è uno spazio ora chiuso dove ai tempi del liceo si veniva a sostare
in attesa di prendere l’autobus dalla fermata dell’Anagrafe, dove
costava 10 lire meno che da quella di piazza Venezia).
Elevata appunto su tre templi antichi, la chiesa di San Nicola in
carcere si è poi sviluppata, a partire dall’alto Medioevo, tra varie
ulteriori stratificazioni, fino a interventi del Valadier e alla successiva
demolizione delle case che stavano a essa addossate. Roma è
anche questo groviglio, residui di tempi diversi intrecciati, incorporati,
sovrapposti l’uno sull’altro, a strati che spesso è impossibile
districare, con effetti e suggestioni visive che risultano proprio da
queste mescolanze, come nella creazione di opere che smentiscono
la nostra abitudine all’identificazione di una volontà ordinatrice, di
una proprietà tutta individuale e individuabile della creazione
artistica. Come il cinema (ma anche il teatro) risulta, al di là della
prerogativa autoriale del regista, dall’attività di più creatori, dalla
collaborazione di più tecniche o arti, così tanta architettura romana
risulta dalla sovrapposizione di più strati, per giunta allestiti in tempi
spesso tra loro incommensurabilmente lontani. Le stratificazioni
sono collegate anche alla eterogeneità degli usi degli edifici: e ne ho
qui davanti un esempio che mi ha sempre sorpreso, fin dalle
frequentazioni adolescenziali di questi luoghi. Si tratta appunto del
teatro di Marcello (da Augusto dedicato alla memoria di quel
Marcello celebrato da Virgilio nel libro VI dell’Eneide, con una
formula “Manibus date lilia plenis”, ripresa da Dante per l’apparizione
di Beatrice in Purgatorio, XXX 21), che offre una singolare
stratificazione dalle ampie arcate in basso alla disposizione dei piani
superiori, con finestre di abitazioni private ancora in uso; e prima
delle demolizioni in epoca fascista il groviglio e l’intreccio di
destinazioni e di sovrapposizioni doveva essere più nettamente
inestricabile.
Nonostante la mia antica consuetudine con questi luoghi, non ero
mai entrato in San Nicola in carcere (ma mi pare che al tempo del
mio liceo si trovasse sempre chiusa, inagibile). Ora l’interno, a tre
navate, mi colpisce (come capita spesso, all’entrare in tante chiese
poco frequentate) per la sua misurata semplicità, dove si
armonizzano silenziosamente le colonne di varia origine, con la loro
levigatezza ancora paleocristiana, con resti medievali e
rinascimentali e ulteriori esiti ottocenteschi, mentre tutto converge,
all’incrocio del corto transetto, verso il semplice tabernacolo
poggiante su quattro colonne. Mi sorprende la spazialità di questa
chiesa, che, vista distrattamente da fuori, mi è sembrata sempre
piccola e insignificante, come caduta per caso tra l’imperiale teatro di
Marcello e la fascista Anagrafe. Oggi, Venerdì Santo, c’è nella
chiesa un certo movimento: una signora mi dice che alle 18 ci sarà
una ben organizzata Via Crucis figurata. Nella cripta (dove vorrei
vedere i resti di qualcuno degli antichi templi) non si può ora entrare,
perché si stanno preparando e vestendo i vari figuranti della Via
Crucis. Due di queste figuranti, già vestite, evidentemente da “pie
donne”, escono dalla cripta, si muovono per la chiesa sistemando
qualcosa dell’addobbo e poi escono da una porta laterale, che dà sul
lato destro. Dopo un po’ esco anch’io da quella parte, su una piccola
terrazza a fianco di quattro colonne incorporate nel muro esterno:
una delle pie donne, nella sua grigia tunica e sotto l’esotico turbante,
accanto alla porta sta sommessamente parlando al suo cellulare.
Ma non assisterò a questa Via Crucis (che in questo giorno
precede quella ben più celebre e risonante che condurrà il papa,
quando sarà scesa la sera, davanti al Colosseo). Per tener fede alla
memoria, per quanto deviata e inaffidabile, del delubro di Giano, mi
dirigo verso l’Arco quadrifronte, oltre gli edifici dell’Anagrafe. Negli
anni cinquanta questo arco si poteva ancora attraversare, con
l’illusione di passare sotto le porte del dio bifronte: da tempo esso
non è praticabile, chiuso com’è da quelle inferriate che circondano
ormai tanti luoghi un tempo aperti, per tener lontana la più varia
disperata e malintenzionata umanità. In tutta questa zona,
comunque, in tutti i percorsi tra il Campidoglio e il Velabro, tra
l’incrocio dell’Anagrafe, la prima parte di via del Mare ribattezzata via
Luigi Petroselli (a ricordo del primo sindaco comunista di Roma),
l’ampio piazzale dov’era il Foro Boario, tra Santa Maria in Cosmedin
e questo Arco indebitamente attribuito a Giano, le vicine residenze al
limite del Palatino, del Foro e di Santa Maria della Consolazione,
sembra restare ancora quasi un’eco, un sogno, un’illusione di una
Roma prima di Roma, di quei boschi frondosi, di quell’umido
freschissimo territorio ai margini del Tevere e dei colli, che rivive nel
sogno poetico e augusteo di Virgilio, nell’archeologia fantastica del
libro VIII dell’Eneide e dei primi capitoli della storia di Livio. Roma
prima di Roma nonostante il grande movimento di auto, gli edifici
moderni, i lucidi sampietrini stradali, anche con il tornare di alcuni dei
nomi che in Virgilio e in Livio ci vengono incontro con la strana
significazione di un inarrivabile “prima”: dove la ninfa Carmenta
cantava il futuro di Roma, l’Asilo, il Lupercale, l’Argileto, il Fico
Ruminale, l’Ara Massima di Ercole. Roma di pietra e d’oro che pensa
se stessa come una fresca umidissima boschiva Roma senza Roma,
abitata da ninfe, da isolati pastori, da vaganti fuggiaschi, da nature
sospese tra l’umano, l’animale, il vegetale, il divino, Roma di
solitudini, di cacce selvagge e di pesche silenziose, di gelosie, stupri,
delitti, di sanità e culti agresti, di visite di dèi e di eroi.
Girando intorno alla struttura che circonda l’arco, raggiungo subito
la chiesa medievale, romanica con semplicità paleocristiana, di San
Giorgio in Velabro, la cui semplice bellezza fu nel luglio del 1993
oggetto di un attentato, sembra di origine mafiosa, coordinato con
altri attentati di cui il più micidiale ebbe luogo a Firenze, contro la
sede dell’Accademia dei Georgofili, vicinissima a Palazzo Vecchio.
Qui ebbe gravissimi danni il portico, ora tornato nella sua semplice
originaria bellezza: attualmente meta di pochi turisti, a differenza
della vicina chiesa gemella di Santa Maria in Cosmedin, che invece
attira folle che vi approdano non per la chiesa stessa, ma per la
famosa Bocca della Verità, addossata all’interno del portico, sul
muro laterale di sinistra. Mentre nel portico di Santa Maria c’è una
calca che preme verso quel mascherone a cui si deve offrire la mano
per certificare la propria veridicità, qui a San Giorgio giunge un
piccolo gruppo, forse di americani di entrambi i sessi, che ho
incontrato già sulla piazza del Campidoglio, che si muove su quelle
strane motobici a ruote parallele, tutte nere, su cui si procede ritti in
piedi, che ogni tanto si vedono nelle strade cittadine. Guardano in
fretta il portico della chiesa: con i caschi in testa, e qualcuno anche
con la stessa motobici, entrano nella chiesa e si approssimano
all’altare, soddisfatti di consumare questa bellezza con la loro
sportiva sufficienza.
Monte Aventino

“Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco…”
(Inf., XXV 25-27)

Santa Maria in Cosmedin, ai margini del Velabro e ai piedi


dell’Aventino, fu costruita proprio sopra l’Ara Massima di Ercole: e
del resto la strada che, sul retro dell’isolato in cui si trova la chiesa,
costeggia il Circo Massimo da uno dei suoi lati minori, si chiama via
dell’Ara Massima di Ercole. Vari resti dell’Ara e del suo tempio
dovrebbero essere dentro la Chiesa: il blocco di tufo della cripta e
forse alcune colonne incorporate al suo interno e nella sagrestia.
Secondo la leggenda, Ercole innalzò quest’ara già prima dell’arrivo
di Enea, dopo aver ucciso il mostruoso ladro semihomo Caco, che
gli aveva rubato alcuni dei buoi sottratti a Gerione, in una vicenda
raccontata sia nell’Eneide, VIII 190-275, che da Livio, I VII. Dante ha
trasformato il Caco virgiliano, che vomitava fuoco dalla bocca (“atros
/ ore vomens ignis”) e faceva stragi di ogni sorta sotto l’Aventino, in
un centauro che ha sulla groppa tante bisce e un drago che vomita
fuoco: lo ha separato dagli altri centauri, custodi del fiume
Flegentonte, ponendolo nella bolgia a lui appropriata dei ladri,
insieme custode e dannato. Esso vi appare come inseguendo Vanni
Fucci: ed è Virgilio a presentarlo nei versi sopra riportati, seguiti da
due terzine in cui riassume la sua vicenda, in termini abbastanza
diversi da quelli del racconto dell’Eneide, che descrivono, per bocca
di Evandro, l’antro sotto l’Aventino in cui Caco si nasconde con i buoi
depredati, chiudendo la sua entrata con una guglia aguzza, acuta
silex, di gigantesca misura, altissima visu, che incombe verso
sinistra sul fiume Tevere “laevom incumbebat ad amnem”. Con la
spinta della sua forza smisurata Ercole svelle questa pietra, facendo
rimbombare l’etere, sussultare le ripe, rifluire il fiume atterrito:
“impulsu quo maximus intonata aether, / dissultant ripae refluitque
exterritus amnis”. Così stanato, Caco reagisce invano col fuoco che
vomita, riempiendo l’antro di caligine, ma non può sfuggire alla
stretta vittoriosa di Ercole. Il Virgilio dantesco dice invece che Caco
morì non per strangolamento, ma “sotto la mazza d’Ercule, che forse
/ gliene diè cento, e non sentì le diece” (Inferno, XXV 32-33), come
racconta proprio Livio (Caco “ictus clava… occubuit”, “cadde colpito
dalla mazza”), anche se sembra che Dante non avesse modo di
leggere Livio (ma la clava c’è anche in Ovidio, Fasti, I 575-576).
Eccomi allora, lasciato il luogo allora boscoso dove Ercole innalzò
l’Ara Massima (“Hanc Aram luco statuit, quae maxuma semper /
dicetur nobis et erit quae maxuma semper”, “Eresse nel bosco
questa Ara che per noi si dirà sempre massima e che sempre sarà
massima”, Eneide, VIII 271-272), a cercare l’antro di Caco dove
Aventino aggetta sul Tevere. La via di Santa Maria in Cosmedin
segue il corso del fiume, oltre la chiesa e l’incrocio con semaforo;
sulla destra modeste aiuole (impraticabili, per il convulso traffico che
le contorna) la separano dal Lungotevere Aventino, mentre sulla
sinistra, dopo una chiesa di scarso interesse (San Vincenzo de’
Paoli), si apre, cominciando con una breve scalinata, il Clivo di
Rocca Savella, poco frequentato da romani e da turisti, che conduce
su all’Aventino. Qui intorno, costeggiando il limite della rocca
medievale che controllava il Tevere dall’Aventino, si sfiora l’antro di
Caco: il Clivo, lastricato a sampietrini con le commessure tramate di
erba, sale, tra due muri d’orto, a tratti con dolce pendenza, sfiorando
la base del palatium fatto costruire dall’imperatore che voleva far
rinascere Roma, Ottone III, poi Rocca Savella, ora coperta dal parco
Savello, generalmente noto come Giardino degli aranci.
Salendo e volgendosi ogni tanto indietro, si apre sempre più la
vista di porzioni di Roma: prima, appena appena, tra fitte fronde di
cedri del Libano e querce, le vette, come tra loro sovrapposte, del
campanile di Santa Maria in Cosmedin, della torre del Campidoglio,
di uno dei due corpi esterni del Vittoriano; poi mano mano, la vista si
allarga al Vittoriano tutto intero, a destra fino alla Torre dei Mercanti,
a sinistra fino alla Sinagoga. Poi il Clivo sterza a sinistra, in zona più
ombrosa e coperta, dove sostano due coppie con quattro bambini (e
due passeggini): uno degli uomini accompagnandosi con una
chitarra canta qualcosa di modernamente sacro, qualcosa sulla
Passione di Cristo, leggendo il testo da fogli che l’altro uomo gli tiene
davanti (si tratta, mi pare di vedere, di solo testo, non c’è partitura).
Riesco a capire solo qualche parola: “domani sarai con me in
Paradiso… Padre mio, perché mi hai abbandonato…” Le donne
sembrano molto comprese dall’impegno dei loro compagni, mentre i
bambini girano intorno un po’ indifferenti (ma quello più piccolo
guarda sorpreso dal passeggino).
Arrivo subito al Giardino degli aranci, che, a differenza del Clivo, è
molto affollato: il viale che percorro, verso il Belvedere, ha il nome di
un attore simpaticamente romano scomparso qualche anno fa, Nino
Manfredi; ad altri uomini di spettacolo sono dedicati altri viali del
piccolo parco. Il Tevere è là sotto, svelando il suo percorso; e gran
parte di Roma, da tutti i lati, si mostra a chi passeggia, a chi sosta, a
chi è in osservazione turistica, nel dispiegato groviglio delle pietre,
dei templi sovrapposti e affastellati, di quella bellezza imponente e
slabbrata. Sulla sinistra, alle spalle, c’è l’abside di Santa Sabina, la
chiesa più bella tra le tante su questo colle, dove i domenicani si
stanno apprestando ai riti di questo Venerdì Santo.
Tra i sette colli di Roma l’Aventino è il meno affollato e costipato,
quasi completamente immune da movida serale, tra chiese,
conventi, giardini, discrete e signorili dimore residenziali, che si
diffusero solo a partire dal 1931, dopo che gran parte dell’area era
rimasta a lungo come terreno agricolo. Si sa che il nome di questo
colle è diventato quasi un nome comune, emblema politico e sociale,
di secessione, di rifiuto di partecipare ad assemblee e a decisioni
manipolate: dalla secessione della plebe romana, secondo il celebre
racconto di Livio, all’abbandono della Camera da parte dei deputati
antifascisti dopo il delitto Matteotti, a vari meno rilevanti casi
contemporanei, da cui è scaturito l’aggettivo aventiniano.
Al di là delle vicende politiche, che indirettamente e forse
indebitamente lo chiamano in causa, questo colle continua a dare,
nonostante la presenza, comunque mai straripante, dei turisti, un
senso di separazione: sembra come attutire in sé tutto il rumore e il
brusìo della città, quasi oasi imprevista di pace, tra le strade che
salgono e scendono e culminano nella singolare piazza del Piranesi,
piazza dei Cavalieri di Malta, sorta di prospetto/omaggio
all’archeologia, esposizione di emblemi e simulacri, eco urbana di
segni perduti. Qui, sul complesso del Sovrano Ordine di Malta, c’è
un ben noto portale con un foro, dove si pone l’occhio per scoprire,
inquadrata da una cornice di fronde e fiori che ornano un silenzioso
inaccessibile giardino, la cupola di San Pietro.
Monte Mario

Non era vinto ancora Montemalo


dal vostro Uccellatoio, che, com’è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.
(Par., XV 109-111)

La visita all’interno della basilica di San Pietro, che non sono riuscito
a fare nel Venerdì Santo, penso di compierla finalmente il 14 agosto,
nel cuore profondo dell’estate, verso la sua fine. Questo non tanto
per riavvolgermi ancora nella numerologia del 4, manipolando il 14-
4-2014 con l’inserimento dell’8 (14-8-2014), cosa che, toccando una
posizione diversa, avevo già fatto quel Venerdì Santo (18-4-2014),
con un esito della somma globale delle singole cifre che è uguale sia
per quel precedente Venerdì Santo che per questo giorno
preferragostano: 1+4+8+2+1+4 = 20, con un bell’effetto di totalità.
Ma, al di sopra e al di là di tutto questo, c’è una più banale ragione
personale: il 14 agosto non è altro che quello del mio compleanno,
anniversario che mi rincorre in questo cuore cadente dell’estate, tra
le festive dilatazioni della sua maturità, tra i tripudi vacanzieri
minacciati dall’incombere degli imminenti rientri (“Bientôt nous
tomberons dans les froides tenèbres!”), anche se poi negli ultimi anni
i tempi delle vacanze e dei rientri hanno assunto per tutti forme e
caratteri diversi.
Ma insomma oggi penso di recuperare questo punto cruciale del
viaggio romano, accompagnandolo con due luoghi ai margini di
Roma, che quasi la inquadrano da due punti e su due livelli diversi,
Monte Mario e la foce del Tevere. Comincio dal monte, l’altura più
alta della città, su cui al tempo di Dante viaggiatori e pellegrini che
giungevano da Nord sulla via Trionfale (qui in funzione di
Francigena) scoprivano la città, il vicino serpeggiare del Tevere e in
lontananza le sue chiese e i resti del suo perduto splendore. È
Cacciaguida a tirare in ballo Monte Mario, Montemalo come allora si
chiamava, ma nel quadro della sua polemica contro il lusso e la
corruzione della Firenze contemporanea, opposti all’austera
semplicità della “Fiorenza dentro da la cerchia antica”. Ai tempi
austeri di Cacciaguida, Firenze, che si scorge venendo da nord sul
monte Uccellatoio, era ben lungi dal voler superare lo splendore di
Roma (doppia sineddoche: Montemalo indica Roma, l’Uccellatoio
Firenze), come pretende al tempo di Dante. La Roma che Firenze
crede di superare è quella antica, poi rovinosamente crollata: ma
nella sua ascesa, nel montar sù, Firenze è rimasta comunque
inferiore alla grandezza di Roma, mentre la vincerà presto proprio
nella decadenza, nel calo. La grandiosità della Firenze
contemporanea contiene già in sé l’annuncio della sua caduta, come
la grandiosità della Roma antica ha avuto come esito l’attuale
decadenza. Anche in questo nesso si ripropongono rapporto e
paragone, similarità e opposizione che legano per Dante Roma e
Firenze.
In un giorno come questo è molto piacevole procedere in auto per
le strade di Roma, libere dalla solita congestione, anche se non si ha
più quell’effetto di vuoto totale che a Ferragosto si aveva ancora
qualche anno fa: e questo non per un moderno evolversi delle
abitudini e per una più intelligente distribuzione delle vacanze, ma
per uno dei tanti risvolti della crisi che ci avvolge, a cui quest’anno si
aggiunge anche un clima sotto tono, un’estate continuamente
turbata, che non ha mai mostrato i morsi della canicola. Siamo
comunque molto lontani dal consueto affollamento: si procede senza
intoppi, si scorge ogni tanto qualche spazio vuoto nei parcheggi che
fiancheggiano le strade e ci si sente un po’ vicini al più bell’episodio
del film del 1993 di Nanni Moretti, Caro diario, con la passeggiata
per Roma in vespa la mattina di Ferragosto. È bello salire su Monte
Mario prendendolo direttamente di petto, da piazzale Clodio (siamo
tra l’attuale sede del Tribunale e la vecchia sede della RAI di via
Teulada). Giunti su via Trionfale, si svolta subito passando sotto un
arco per salire verso la vetta del monte, attraversando una parte del
parco in cui resiste varia vegetazione, con percorsi in più direzioni,
anche se intorno sono abbarbicati o diffusi edifici di ogni sorta.
Diversi gli ambienti sulla vetta: l’Osservatorio astronomico e
meteorologico, sul luogo della quattrocentesca Villa Mellini (nella
villa, allora proprietà dei Falconieri, fu ospitato il pittore amico di
Goethe, Philipp Hackert, che da lì dipinse una delle sue vedute di
Roma; e ne parla anche Henry James in Ore italiane). Adiacente,
una zona militare con l’ottocentesca torre del Meridiano (qui era
stato fissato nell’Ottocento il Meridiano di Roma, come Meridiano
zero d’Italia, oggi ormai desueto); e poi un traliccio che accoglie una
inestricabile selva di antenne paraboliche (e non è certo il solo
traliccio: luogo di antenne per eccellenza Monte Mario). Da una
piazzola si giunge al Belvedere accanto al Ristorante Caffè Lo
Zodiaco, approdo frequente, specie per coppie in uscita serale, con
l’ampio panorama romano agevolmente esposto davanti.
Per coloro che sono già amanti (o, se si vuole innamorati), è qui in
uso la pedestre e ormai universale pratica dei lucchetti, promessa di
vincolo eterno, che il bar offre anche in vendita. Ma nel parapetto
metallico sul Belvedere non ce n’è un gran numero, diversamente da
quanto ho visto in una precedente foto del sito: evidentemente la
bruttura viene periodicamente rimossa, senza per questo inibire la
pratica metallicamente dolciastra, del resto assai conveniente per
negozi di ferramenta e qui per lo stesso bar. Non sembrano invece
rimossi i rifiuti, non molto fitti ma subito evidenti, che ornano lo
spazio erboso subito sotto il parapetto: residui di amanti appoggiati,
bicchieri cartacei per caffè con asticciole/cucchiaino, fazzoletti di
carta, una bottiglietta di plastica, qualche scontrino e anche una
penna biro. Montemalo, per questo: Mons Malus per ben altre
ragioni – si dice per l’esposizione del corpo di Giovanni Crescenzi,
fatto giustiziare da Ottone III, nel più cupo Medioevo romano, alla
fine del primo millennio: ma chissà se il nome non venga da prima –,
anche se c’era chi per contrasto lo chiamò o lo volle chiamare Mons
Gaudii. Ci sono del resto versioni diverse anche nella trasformazione
da malo a mario: semplice deformazione eufemistica o riferimento a
uno dei più autorevoli esponenti dei Mellini, il Mario che tenne la villa
alla fine del Quattrocento?
Nell’infanzia quel nome Monte Mario mi suonava come qualcosa di
stranamente familiare, anche se mi capitava di guardarlo solo da
lontano (quasi sempre dall’opposto ben più basso belvedere del
Pincio), senza mai che mi capitasse di raggiungerlo: come se fosse
legato a qualcuna di quelle tante persone che si chiamano Mario, se
avesse a che fare con qualche strambo signor Mario che conoscevo
(singolare tra gli altri era un negoziante pugliese che, dal banco del
suo piccolo e sempre buio negozio di ferramenta, indugiava in
crucciate lamentele politiche, in recriminanti divagazioni
nostalgicamente fasciste: in quegli anni nella piccola borghesia
romana si usava chiamare semplicemente nostalgici i persistenti
fascisti). Ma ora improvvisamente mi sovviene il cognome di quel
“sor Mario”, che addirittura era Lucchetta: incredibile impensata
intermittenza con il parapetto lucchettato di questo belvedere.
Ma qui sono per abbracciare la vista di Roma, come i pellegrini dei
tempi di Dante: la sua grande bellezza, che nelle alterne vicende dei
secoli, è certo risalita dal calo in cui pareva allora precipitare. Non ha
solo ridato lustro alle sue rovine antiche, ma ha moltiplicato in sé
chiese ed edifici pubblici e privati, di tutti i secoli e gli stili successivi,
fino alle evidenze novecentesche e contemporanee da qui molto
vicine, che l’occhio individua nitidamente, in questa mattina di pallida
estate, che è iniziata con una breve pioggia e che da qui lascia ora
immerso il centro della città in una vaga bruma da cui si distinguono
chiaramente solo gli edifici più imponenti. Qua sotto, in perfetta
evidenza, lo snodarsi del Tevere, da ponte Milvio (incunabolo della
moda dei lucchetti, scaturita da un romanzo sentimentale
postmoderno) ai vari ponti che collegano i quartieri di Roma Nord,
tra i quali il recentissimo ponte pedonale del famoso onnipresente
Calatrava, però tuttora chiuso al passaggio per sue supposte
imperfezioni; quasi addossati al monte gli edifici sportivi di epoca
fascista del Foro Italico e, oltre di essi, uno spicchio della facciata del
Palazzo della Farnesina, sede del ministero degli affari esteri,
mentre del tutto nascosto dalla vegetazione del parco resta il vicino
Stadio Olimpico; dall’altra parte del Tevere, le grandi tettoie del
vitalissimo e sempre affollato Auditorium di Renzo Piano. Poi Roma
si allarga nel verde delle ville: le grandi macchie di Villa Ada e di Villa
Borghese, e poi campanili, cupole, terrazze, riflessi del sole sorto a
Nord Est tra la foschia che man mano si apre, mentre in questa
distanza (un particolare effetto che si ha sempre negli sguardi a
distanza) anche le cadute di stile, gli scempi urbanistici, il degrado, il
rumore, la tensione, l’eccesso delle cose e delle vite sembra come
evaporare, aprirsi e comporsi sul proprio spazio, miracolosamente
conciliando compressione e distensione, occlusione e dilatazione.
Da questo belvedere non si arriva a vedere il cupolone di San Pietro,
che sulla destra è coperto dall’edificio dell’Osservatorio, ma basterà
poi riscendere un po’ nel viale che mi ha portato qui e sostare su
certi viottoli del parco per scoprire perfettamente, come se fossero
quasi davanti, la cupola e le mura Vaticane, con edifici e ambienti
sottostanti. Abbraccio Roma così, anche con i colli più in là,
ritrovando questo abbraccio anche nei versi di Marziale, che sono
iscritti in una stele proprio davanti al belvedere dello Zodiaco,
accanto al parapetto dei lucchetti:

Hinc septem dominos videre montes


et totam licet aestimare Romam,
Albanos quoque Tusculosque colles
et quodcumque iacet sub urbe frigus,
Fidenas veteres brevesque Rubras
(Epigrammata, IV 64 11-15)

Marco Valerio Marziale contemplava questa vista (“Da qui si


possono vedere i sette colli sovrani e abbracciare tutta Roma, e
anche i colli Albani e Tuscolani, e tutti i luoghi freschi che stanno
vicino all’urbe, l’antica Fidene e la piccola Rubre”) dalla villa di Giulio
Marziale, certo da questi paraggi. Nei versi successivi
dell’epigramma si nota la gioia di vedere da qui passare chi
percorreva la Flaminia e la Salaria senza udire il rumore del carro e
di poter dormire senza essere disturbati dalle varie grida della
navigazione sul vicino Tevere. Ora i rumori giungono attutiti, con echi
vari che ronzano nell’aria, anche se qui appaiono come avvolti
nell’inglobata disarmonia del mondo. Sulle più vicine strade, di cui è
visibile il manto d’asfalto (ma non la pur vicina Flaminia, né
tantomeno la Salaria), si nota il muoversi delle auto, oggi non fitto e
caoticamente incolonnato come nei giorni normali, senza che si
avverta il rumore dei motori, certo ben diverso da quello delle ruote
dei carri. Su questo cielo di Roma passa ogni tanto qualche aereo,
che sembra percorrerlo lentamente, tranquillo e indifferente; poi c’è
tutto ciò che viaggia nell’etere, con le onde varie che si propagano e
accavallano ricevendo e trasmettendo da queste molteplici antenne
(e del resto a Nord si può tentare di identificare le breves Rubrae
oggi ben note come Saxa Rubra, dov’è il grande centro di
trasmissioni della RAI).
Senza poter fare paragoni con la vista dall’Uccellatoio (dove
ancora non sono stato), scendo dal Monte: percorro la via Trionfale,
diretto a San Pietro; e solo perché è il 14 agosto non ho difficoltà a
parcheggiare a pochi passi dalla basilica, tra via del Mascherino e
Borgo Angelico, restando solo un po’ seccato dal ricordo che su
queste strade c’è l’abitazione di un tal palidromo considerato un
grande intellettuale. Libero da tempo da ogni rapporto con costui,
entusiasticamente mi avvio su via di Porta Angelica, verso il
colonnato, tra fitti drappelli di turisti in marcia nella stessa direzione.
Ma, tagliando il colonnato, ogni mio entusiasmo è costretto a
crollare: alla basilica si accede attraverso un incolonnamento entro
la piazza, di una lunghezza che proprio non mi aspettavo. La folla
dei turisti si instrada nelle transenne che sono sul lato destro del
colonnato, ma la coda è lunghissima: comincia addirittura dal fianco
sinistro della basilica, vicino all’uscita, all’inizio di quel lato del
colonnato, che cinge tutto dal suo interno.
Mi muovo sul pavimento della piazza, in mezzo ai tanti che non si
sono messi in coda: tra la varia mondiale umanità che, in fila o no,
tende verso questo centro della Cristianità, per sfiorare qualcosa,
per entrarci secondo il doveroso fine di questa destinazione di estiva
vacanza: le magliette di uomini, donne, bambini (pochissimi vecchi),
un padre e due figli con maglia a righe giallorosse verticali e nomi di
calciatori (c’è anche Neymar: ma perché non blaugrana, se Neymar,
a che io sappia, è ora del Barcellona?), altre maglie calcistiche,
maglie con scritte fantasiose, ridicole, provocatorie, le cui intenzioni
spesso sono sicuramente ignote a chi le porta (e questo sulle cui
spalle c’è scritto Saltatio Mortis?), eleganti sari indiani e cortissimi
gonnellini pieghettati svolazzanti, sciatti infradito e stivali neri e
bianchi, jeans blu e bianchi, aderentissimi e lisci, oppure stravaccanti
e strapazzati da strappi e strappetti, cappelli a tese larghe di paglia e
di lino, a punta o con visiera, giapponesi con ombrellini contro il sole,
supercamere con teleobiettivi, microcamere e tablet fotografanti,
campionario del mondo, che nella sua esibizione e nella varietà dei
colori e delle stampe sulle stoffe renderebbe improbabile il
moralismo di Cacciaguida: “Non avea catenella, non corona, / non
gonne contigiate, non cintura / che fosse a veder più che la persona”
(Paradiso, XV 100-102). Molte cinture, molte catenelle, collane,
bracciali, borchie, spille, orecchini anche da naso, non gonne
contigiate ma micropantaloncini detti shorts, qualche volta
deprimenti, spesso molto attraenti (qualche decennio fa venivano
anche chiamati hot pants, ma il termine ormai è desueto). Mi
domando solo se faranno entrare nella basilica qualcuna di queste
belle ragazze in pantaloni più che corti, se anche il costume
ecclesiastico e vaticano si è adeguato in questo al giovanile senso
comune internazionale (ma un tempo venivano respinti dalla visita a
certe chiese, come poco rispettosi del luogo sacro, perfino i maschi
in bermuda). Ma non risolverò questo problema: restio alle code e
troppo pigro per procacciarmi ingressi privilegiati decido di rinviare la
visita alla basilica, alla “Veronica nostra” e alla tomba di Pietro, a
occasione più propizia, magari tra le pieghe di un prossimo inverno.
Do un ultimo sguardo, nel sole che sale ormai più in alto, a quelle
statue sospese in cima agli edifici: qui, oltre a quelle appoggiate,
come a San Giovanni, sulla balaustra in cima alla facciata della
chiesa (ma qui fanno un effetto del tutto diverso, per l’imponente
levarsi, subito dietro, della grande cupola), ce ne sono tantissime
altre, sospese sulla balaustra che è in cima al lungo colonnato.
Stanno lassù, santi di ogni sorta (sono 140: e verrebbe la voglia di
mettersi a dialogare con essi, almeno di identificarli uno per uno),
che guardano queste folle che passano, quelli che vengono solo
questa volta, quelli che tornano e quelli che spariscono, fedeli e
miscredenti, bigotti e bestemmiatori, ingenui e smaliziati, belli e
brutti, tutti noi che continuiamo a passare. Stanno e resteranno a
lungo, come sembra che siano sempre stati, anche se non erano
ancora lì quando Dante si trovò a passare anche lui. Pur
nell’apparente volatilità della loro posizione, sorvegliano noi che
passiamo, indifferenti alla nostra inconsistenza.
Foce del Tevere

Ond’io, ch’era ora a la marina vòlto


dove l’acqua di Tevero s’insala,
benignamente fu’ da lui ricolto.

A quella foce ha elli or dritta l’ala,


però che sempre quivi si ricoglie
qual verso Acheronte non si cala.
(Purg., II 100-105)

Torno all’automobile, per dirigermi da un’altra parte, a quella foce del


Tevere dove l’angelo raccoglie tutte le anime che imbarca per la riva
del Purgatorio, le anime di coloro che sono destinati alla salvezza e
non precipitano “su la trista riviera d’Acheronte”. Sulla vicina piazza
Cola di Rienzo, davanti a un cinema, mi aspetta Laura, che mi
accompagnerà in questa piccola escursione e ora sta facendo
qualche acquisto tra i saldi che ancora proliferano nei negozi di
abbigliamento aperti nella zona (impensabile che il 14 agosto ci
fosse un negozio aperto trenta o quaranta anni fa…). Arrivo prima di
lei: e nello spazio su cui aspetto vedo il piccolo monumento, un
semplice busto, dedicato al grande Antonio De Curtis, Totò, che
entra così anche lui in questo viaggio dantesco. Come non pensare
ora a quella comicità grottesca e rasserenante, cordiale e diabolica,
ammiccante e stralunata, degli inserti danteschi, omaggio e parodia,
di 47 morto che parla e di Totò all’inferno?
Ma eccoci partiti: prendo la via Portuense, più o meno sul tracciato
dell’antica strada che conduceva a Portus, il grande porto di Roma
che in età imperiale venne a sostituire quello fluviale di Ostia,
sempre più insabbiato. La via inizia all’uscita delle mura Aureliane
attraverso la Porta Portese, vicinissima alla riva destra del Tevere,
accanto al piacentiniano ponte Sublicio (quello antico di questo
nome si trovava un po’ più a monte). Il primo tratto della Portuense è
quello dove la domenica si svolge il famoso mercato di Porta
Portese, luogo di occasioni e sorprese d’ogni genere, di rigatteria, di
merce a buon mercato (noto anche attraverso una canzone di
Claudio Baglioni, del 1972): i locali attorno a cui si accampa quel fitto
mercato mobile sono pieni di magazzini, ora quasi tutti aperti, che
espongono merci di vario genere, bici e moto, accessori di ogni
sorta, reti e materassi, canottini e attrezzi da pesca, ombrelloni e
mobili da giardino, ecc. Poi, oltre il cavalcavia della ferrovia accanto
alla stazione Trastevere e oltre il piazzale della Radio, la Portuense
devia a sinistra, con alcuni giri tortuosi, dopo i quali si allarga e sale
leggermente, affiancata sulla destra da tutta una serie di ampi spazi
ospedalieri di primo Novecento, San Camillo, Forlanini, Spallanzani,
circondati da giardini (oltre i muri di cinta se ne intravede la
vegetazione). E ancora si procede a lungo tra incroci su cui
sboccano strade di quartieri più o meno recenti, periferie proiettate
sempre più oltre, centri commerciali, stazioni di servizio, centri
estetici, palestre e sale giochi, anche un European Hospital. Quando
tra le costruzioni si affacciano sempre più spazi di verde e la strada
comincia un po’ a restringersi, si scorge la massiccia e oblunga mole
di Corviale, frutto architettonico e urbanistico di una delle tante
incongrue utopie degli anni Settanta: uno di quei disegni mentali, di
quelle illusioni sulla giusta direzione dell’esistere, progettazioni di
felici orizzonti comuni, che hanno dato tanti esiti rovinosi. Qui tutto si
è risolto in un isolato mastodonte, che nel suo stesso modo di
occupare spazio cova in sé i segni del degrado, di uno slabbrarsi
della vita, del disagio dello stare insieme, negazione vivente di ogni
utopia e di ogni illusorio comunitarismo. Ne ha dato un’immagine di
eccezionale densità, come gravata da una allucinata e desolata
necessità, il mio amico Franco Cordelli, nel suo romanzo del 1999,
Un inchino a terra, portando qui il faccendiere socialista Clemente, in
un brumoso mattino in cui egli avverte il crollo del suo mondo, del
compromesso vissuto tra utopie intellettuali e disinvolta gestione di
poteri politici e amministrativi.
Lasciato sulla destra Corviale, la Portuense si restringe come
strada tra la campagna, circondata spesso da alte canne palustri;
ogni tanto cave, magazzini, segreti parchi signorili, pacchiane
pizzerie, fino a un’improvvisa ripida discesa che, più vicino al Tevere,
vede convergere via della Magliana, nella località di Ponte Galeria.
Qui ci si intreccia con l’autostrada e la ferrovia per Fiumicino e ha
inizio un rettifilo che viene presto interrotto da svincoli vari legati agli
ampi spazi, piuttosto recenti, della Fiera di Roma; poi un
recentissimo quartiere residenziale che, nella vicinanza
dell’aeroporto intitolato a Leonardo da Vinci, ha avuto il nome di
Parco Leonardo, inscritto in grossi caratteri su un edificio che dà
proprio sulla Portuense: varia epifania di un avanzatissimo
postmoderno, frammenti di città non città, che viene da chiamare
postcittà, assimilazione di ogni possibile habitat al modello del centro
commerciale (qui ci dev’essere anche un multicinema con oltre 20
sale), né città né periferia, postluogo e non luogo, qui anche per
attrazione del vicino aeroporto, al primo posto nella categoria dei
nonluoghi.
Proseguendo si sfiora sulla destra, dopo il cimitero di Fiumicino,
l’Oasi di Porto, dove è l’esagonale lago di Traiano, mentre a sinistra
c’è il canale che poco prima si stacca dal Tevere; resti, questi,
dell’antico porto imperiale (mentre subito oltre l’Oasi comincia a
dispiegarsi il grande aeroporto). Tra sparsi e non sempre ben
reperibili antichi vestigi, si arriva a costeggiare direttamente il canale,
fino al centro di Fiumicino. Ecco qui la foce non del Tevere vero e
proprio, ma del canale, che nella sua parte finale forma più che altro
una darsena: tra questo braccio del canale e il corso centrale del
Tevere c’è un’isola, la cosiddetta Isola Sacra, variamente e
disordinatamente urbanizzata. Ci si passa superando il ponte
mobile: svoltando poi sulla destra e costeggiando la sponda sinistra
del canale si giunge alla zona balneare di Fiumicino, che qui
somiglia a uno dei tanti posti di vacanza marina, con pensioni, bar,
ristoranti, stabilimenti. Percorrendo il lungomare si vede in
lontananza il vecchio faro, a cui poi si giunge rientrando per la via
del Faro.
Ora siamo sullo spiazzo davanti al faro dismesso, alla sua mole
scrostata, al suo spazio recintato, con disordinate tracce di lavori
(scavi addirittura, dice un cartello). Qualche auto parcheggiata, un
camioncino che scarica bottiglie di fronte a un bar trattoria, che però
non sembra attivo. A sinistra il mare, abbastanza agitato, lancia
spruzzi addosso ai massi che proteggono la riva, subito sul margine
della strada: qua e là, sui massi e fin sulla strada, detriti vari portati
dalle onde. Laura raccoglie rami secchi, lunghi e storti, venuti da
chissà dove e nel loro viaggio ridotti così dal mare, a questa
tortuosità quasi fantastica. Questo è il mare che tende, oggi con un
po’ di furia, a “insalare” il Tevere, la cui foce però da qui ancora non
si vede.
Ma basta procedere all’interno, in una stretta stradina asfaltata:
dopo qualche breve giravolta ci si trova subito a costeggiare quello
che già è il fiume. Immediatamente sulla riva, protette solo dai soliti
massi, ci sono varie casette di casuale e arrangiata architettura; solo
ogni tanto qualche breve spazio aperto, perlopiù usato come
parcheggio, che si affaccia sul fiume. Ora vediamo bene il punto
“dove l’acqua di Tevero s’insala”. Il mare grosso fa oggi particolare
pressione, portando le sue onde ben avanti dentro la foce. C’è come
una faticosa gara tra la corrente del fiume che scende giù e quella
del mare che la rintuzza. Sull’altra riva si affacciano altre casette tra
vari rottami; più verso l’interno qualche capannone per rimessaggio
barche. Intanto una barca a vela ammainata risale il fiume per forza
di motore: unica traccia oggi del battello angelico che veniva qui a
prendere le anime, in questo paesaggio slabbrato, dove la stessa
forza delle onde sembra sovraccaricata di scarti e residui
dell’ininterrotto ciclo della produzione e del consumo e dove sembra
svanita ogni possibile o impossibile sacralità. Risalendo da questa
parte la riva, dove ormai il fiume non subisce più la spinta opposta
del mare, alle sparse casette succedono hangar e approdi per
imbarcazioni anche di lusso, centri velici esclusivi, mentre sempre
più il fiume assume un carattere di darsena, ininterrotta serie di
approdi per barche di diporto di ogni stazza. Solo a un certo punto
appare, in mezzo al fiume, un piccolo isolotto coperto da
vegetazione, oasi naturale senza costruzioni, piccola selva incassata
in mezzo alla selva di barche addossate all’interminabile approdo
fluviale. Superata la vista di questa isoletta sacra, più sacra di quella
di cui stiamo percorrendo la sponda, giungiamo al ponte che ci porta
sulla riva sinistra del Tevere, ormai nel territorio di Ostia.
Tra i primi palazzi dell’ampia zona urbana del Lido di Roma
tocchiamo la via dell’Idroscalo, che conduce di nuovo, da questa
sponda, verso il punto in cui si mescolano le acque del fiume e
quelle del mare, dove fu impiantato l’Idroscalo, uno dei vanti
dell’aeronautica fascista (qui approdò Italo Balbo col suo S-55, dopo
la roboante trasvolata atlantica del decennale nel 1933). Alla destra
della via dell’Idroscalo si estende per un certo tratto un’area di
recente bonificata, dove approda il pellegrinaggio di Nanni Moretti in
Caro diario. Ancora al tempo del film tutto era diverso: l’area era
recintata, ma c’erano ancora tutti i segni del degrado, in mezzo a cui
si levava una piccola stele tutta scrostata, tra aggrovigliati reticoli e
ancora i pali di una rete da calcio. Ora c’è un’area verde chiusa da
recinto, che si estende tra la strada e quello che attualmente è il
porto turistico di Roma, aperto su di un viale con edifici dal corrente
look commercial-postmoderno. Quest’area verde è del CHM della
LIPU, cioè del Centro Habitat Mediterraneo della Lega Italiana
Protezione Uccelli: il luogo già in gran parte sterrato, infernale
discarica, passaggio all’Acheronte lì presso all’imbarco per le anime
del Purgatorio, ha subìto una bonifica, contigua alla sistemazione del
Porto turistico di Ostia. Qui la mattina del 2 novembre 1975 fu
ritrovato il cadavere sfigurato di Pier Paolo Pasolini, in mezzo a un
ammasso di rottami, deiezioni, cartacce e ferraglia, gomme
scoppiate, materassi sfondati. Ora, poco prima che la strada svolti
leggermente a sinistra, verso l’ingresso del porto, c’è un cancello
che si apre direttamente sulla zona del CHM che costituisce il Parco
letterario Pier Paolo Pasolini, inaugurato nel 2005: è proprio il posto
del suo martirio, allora luogo infernale, ora misuratamente curato,
pur accanto a spazi del tutto estranei (davanti, prima che possa
affacciarsi la visione della vicina foce del fiume, c’è una fabbrica di
materassi e reti, Oriflex). Dal cancello, su cui è apposto un piccolo
cartello che indica appunto trattarsi del parco Pasolini (aperto solo
un giorno a settimana o su prenotazione), si vede bene, oltre il prato,
uno sghembo vialetto, pochi cespugli, qualche masso appuntito
inserito sul terreno, la stele dello scultore Mario Rosati (ripristinata
dopo che era stata danneggiata e rimossa quando ancora libero era
l’accesso alla zona). Tra due panchine, a terra sono anche
appoggiate delle lapidi che recano vari brani di Una disperata vitalità
(dalla raccolta del 1964 Poesia in forma di rosa), una delle poesie
dove più esemplarmente il poeta offre un’immagine di sé e del
proprio rapporto col mondo. Sono tutti brani tratti dalla sezione VIII
della poesia, che nel libro è definita, in un esergo tra parentesi,
Conclusione funerea: e qui, sotto il sole, in un’aria in cui si mischiano
polvere dei secchi terrapieni vicini, residui della salsedine spruzzata
dal vicino mare arrabbiato, dolci effluvi della vegetazione del parco
bonificato, davanti al cancello sulla strada dove ora non passa
nessuno, si può credere che Pier Paolo trovi una pacificata
solitudine, quella da cui invano cercava di uscire raggiungendo
luoghi come questo, ora così totalmente irriconoscibilmente mutato
(ma è facile ritrovare le angoscianti terribili foto di allora).
Proprio Una disperata vitalità iniziava mettendo in scena se stesso
“di ritorno dall’aeroporto”, il proprio procedere “come in un film di
Godard…/…al volante / per la strada”, toccando “il canale del porto
di Fiumicino” e il “castello…/…bestione papalino” che anche noi
abbiamo sfiorato sulla Portuense; e quella sezione VIII si concludeva
con un’immagine del proprio disfarsi, del proprio offrirsi alla morte,
proprio da queste parti, qui vicino al mare o in un posto come
questo, e per giunta con una citazione dantesca (da Inferno, XXX
136):

Io me ne starò là,
qual è colui che suo dannaggio sogna
sulle rive del mare
in cui ricomincia la vita.
Solo, o quasi, sul vecchio litorale
tra ruderi di antiche civiltà,
Ravenna
Ostia, o Bombay – è uguale –
………………………………
………………………………
comincerò piano piano a decompormi
nella luce straziante di quel mare,
poeta e cittadino dimenticato.

Qui ha scelto di tornare quell’ultima volta o vi è stato condotto dal


caso, dalla sua sempre più ossessiva percezione del crollo, della
riduzione a discarica della sua sognata umile Italia, dall’angoscia di
un mondo che sentiva in balìa di tipi equivoci come quello che si era
affacciato tra le pagine del suo inconcludibile Petrolio e a cui aveva
dato il secco nomignolo di Merda. Qui, in questo luogo di un martirio
tante volte prefigurato nella sua scrittura, si dissolvono polemiche e
blaterazioni, inchieste e controinchieste, sospetti ritardati su trame
occulte, su oscuri mandanti, su furti di carte e segreti di mafia e di
stato, appropriazioni della sua figura da destra e da sinistra, da tutti
coloro che pretendono di farne un’icona mediatica, officiante della
trasgressione o devoto della tradizione. Essere dimenticato,
rimanere in questo piccolo spazio dove oggi non c’è nessuno, dove
certo non si consumano più, dirottati altrove, quegli incontri che
l’hanno portato alla morte, “qual è colui che suo dannaggio sogna”.
Andiamo avanti sulla via dell’Idroscalo per raggiungere l’altro
versante della foce, per avvicinarci da quest’altra parte, accanto al
rinnovato moderno Porto di Ostia, al punto “dove l’acqua di Tevero
s’insala”. Lasciato sulla sinistra il porto, avanziamo verso la punta
estrema. A una via polverosa chiamata dei Piroscafi segue una
piazzola non tanto diversa da quella accanto al vecchio Faro che
abbiamo visto dall’altra parte: ma intorno ci sono casette più
malridotte, molto provvisorie all’aspetto, e più vicine al mare
baracche con alle porte oggetti di scarto affastellati, in forte contrasto
con le auto modeste ma ben tenute che parcheggiano sul davanti.
Un parapetto divide l’asfalto da una zona sterrata oltre la quale sono
disposti i massi che riparano dalle onde del mare. In mezzo a questo
sterro, le solite varie immondizie, ma abbastanza vicino al parapetto,
una sorta di monumento-installazione, attorno a una pertica
inanellata e velata con il resto di una rete da pesca, contornata da
un fittissimo grappolo che aggrega tutta una serie di riccioli di
plastica trasparente, evidentemente ricavati dal sezionamento di
bottiglie d’acqua o bibite varie, mentre teli lacerati e integre bottiglie
di vetro di vari colori fanno da tappeto. Parodia dell’arte corrente ed
emblema della invisibile sempre più visibile città che Calvino ha
chiamata Leonia; tentativo di far capire all’angelo che ormai qui non
si ricoglie un bel niente.
Ma forse qualcuno aveva creduto di rassicurare quel “celeste
nocchiero” impiantando qui un altro piccolo monumento, che si trova
un po’ più indietro, segno di scalcinata devozione: c’è un ampio
piedistallo in muratura, su cui poggiano due statue di proporzioni
diverse, alle cui spalle c’è una parete diroccata di quella che doveva
essere una nicchia. A destra, con i piedi su un doppio strato di
pietra, una madonnina dal volto un po’ tumefatto e con un mantello
azzurro tutto scrostato. Accanto a lei, alla sua destra (a sinistra per
noi che guardiamo), uno dei proliferanti Padre Pio / San Pio, di
dimensione quasi doppia, per non superare in altezza quella
madonna piccolina, poggia direttamente sul piedistallo di base, molto
più in basso di lei. Slabbrato residuo, piccolo emblema di ciò che
della luce divina può restare qua giù, in questa dislocazione estrema
di Roma e del suo fiume.
Basilica di San Pietro: la Veronica

Qual è colui che forse di Croazia


viene a veder la Veronica nostra,
che per l’antica fame non sen sazia,

ma dice nel pensier, fin che si mostra:


“Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace,
or fu sì fatta la sembianza vostra?”;

tal era io mirando la vivace


carità di colui che ’n questo mondo,
contemplando, gustò di quella pace.
(Par., XXXI 103-111)

Un buon momento per raggiungere l’interno della basilica di San


Pietro mi si presenta molto più tardi rispetto a quei giorni del 2014, in
una mattina ancora invernale che sa già di primavera.
Sono le 7,30 del 3 marzo 2016, quando scendo nella
metropolitana, diretto verso la stazione Ottaviano, da cui di solito,
ma ben poco a quest’ora, sbucano turisti di ogni sorta diretti a San
Pietro. Il passaggio tra tornelli, scalinate, banchine, vetture,
comporta il consueto incontro con i volti assorti dei viaggiatori
mattutini, che si lasciano meglio osservare quando il treno non è
completamente costipato e si riesce anche a stare seduti. Ben pochi
leggono il quotidiano pubblicitario disponibile all’ingresso,
schiacciante è la maggioranza di quelli che manovrano il cellulare,
mentre ce n’è solo uno impegnato con un tablet molto grande e
ingombrante. Nei volti fissati sugli schermi traspaiono diverse
modalità di impegno, come ad anticipare le incombenze verso cui
ciascuno è diretto: assorta serietà o compiaciuto sorriso di fronte alle
immagini zampillanti. Ma mi sorprende, tra le stazioni Termini e
Spagna, una donna che potrebbe essere quarantenne, che sgrana
una bianca corona di rosario, tiene in mano un librettino semiaperto
e ascolta qualcosa da auricolari la cui fonte è nascosta sotto un
modesto soprabito: a un certo punto si fa il segno della croce, chiude
il libretto e lo mette in una tasca da cui contemporaneamente tira
fuori il cellulare e comincia a cliccare; gli auricolari restano incollati
alle orecchie, mentre viene fuori anche un fazzoletto di carta che,
nell’atto di pulire il naso, rischia di far cadere il cellulare. Nel
corridoio che mi porta fuori della stazione passano ben tre persone
che parlano tenendo l’apparecchio in tasca e danno l’impressione di
parlare a se stesse, come sempre più frequentemente capita nel
corrente panorama umano. Vedo poi un cartellone che sembra
collegare questo consueto e banale luogo sotterraneo a più
inquietanti catabasi: FUNUS VI PRESENTA / IL FUNERALE 2.0 / SCOPRITELO
SU...
Sulla strada c’è gente diretta al lavoro e già qualcuno, pellegrino o
turista, che punta verso la basilica. Al semaforo di piazza
Risorgimento un frate cinquantenne, con un mantello marrone,
sandali senza calzini, ha in mano una corona: recita il rosario
muovendo le labbra sottovoce e continua a recitare e a muovere le
dita tra i grani della corona anche quando, superato il semaforo,
procede sulla via di Porta Angelica. Da qui, attraverso il lato destro
del grande colonnato, mi affaccio sulla piazza San Pietro, la cui
distesa è tutta transennata, solcata da una intersecata geometria di
stecconate, di limiti lignei e metallici, mentre un’ampia porzione
antistante ai gradini che conducono al sagrato è occupata da
un’ordinata distesa di grigie sedie di plastica, disposte per le tante
funzioni e celebrazioni che hanno luogo quest’anno, entro il Giubileo
straordinario della Misericordia. Altre sedie sono ammucchiate più
disordinatamente sopra il sagrato. Oltre l’imponente facciata e il
colonnato vigilato dalle statue dei santi schierati, il cielo azzurro del
mattino si distende tra leggeri svolazzi di nubi bianche e grigie.
Si accede alla basilica sul lato destro del colonnato superando i
controlli di sicurezza: ci sono varie postazioni aperte, con piccole
code regolate da transenne. Mi precedono una trentina di persone:
quattro o cinque preti che intanto conversano serenamente, due
suore malesi, altri uomini e donne perlopiù con giacconi e cappucci,
anche qualche zaino in spalla, prevalenti aspetti occidentali, ma
anche quattro o cinque giapponesi.
L’ingresso nel tempio fa subito sfiorare, dopo il portico e la Porta
Santa, nella prima cappella a destra, la più celebre Pietà di
Michelangelo: protetta da un cristallo, si vede a una certa distanza,
non più dalla balaustra della cappella, ma da una sorta di loggia
cordata che delimita lo spazio tra l’ingresso alla basilica e la
cappella, mentre da una parte c’è un sacerdote che sembra
discretamente sorvegliare. Molti di coloro che sono entrati insieme a
me fissano immediatamente il gruppo scultoreo con i loro cellulari o
con qualche più complessa macchina fotografica. Questa Pietà è del
resto una sorta di emblema della basilica e del Vaticano, certamente
il più noto tra tutti i formidabili tesori che sono accolti nella chiesa:
moltiplicata in infinite riproduzioni, proprio per la sua celebrità ha
attirato in passato aggressioni, che costringono a proteggerla con il
cristallo e a distanziarla ulteriormente con quei cordami, che
comunque non la riparano dall’indiscreta moltiplicazione delle inutili
foto e degli eventuali selfie. Strano pensare a quante volte mi era
invece capitato di vederla da molto vicino, fin quasi a sfiorarne il
marmo rilucente, in tante mie visite a San Pietro negli anni
dell’infanzia e della giovinezza.
L’immenso spazio della basilica, il suo stratificato sfarzo
rinascimentale, barocco, classicistico, amplificato da tante
celebrazioni che vi hanno avuto luogo, suscita ancora meraviglia,
certo una meraviglia ben diversa da quella che provavano i pellegrini
evocati da Dante, come quello che “forse” di Croazia veniva qui a
vedere la Veronica: del resto la basilica di allora aveva tutt’altro
aspetto e carattere, è stata cancellata da questa nuova basilica che
si è definita e si è arricchita nel tempo come manifestazione di
potenza e potere, non soltanto spirituale, da parte della chiesa di
Roma, nell’età dell’assolutismo e dei conflitti religiosi. Insomma San
Pietro, nel suo splendore, è segnata da una sorta di ostensione
celebrativa, sembra come risuonare nelle sue dispiegate preziosità,
nella lucentezza dei marmi, nel brillio degli ori, dei metalli e dei
colori: e, nonostante lo spirito evangelico ed ecumenico del
cattolicesimo postconciliare, che si espande nella cura sociale ed
ecologica di papa Francesco, San Pietro mantiene questo respiro
secolare e temporale, come a inquadrare ancora il cattolicesimo
entro una tensione assolutizzante, in una residua aspirazione a
imporsi sullo spazio mondano, a prendere possesso del mondo: la
cattedrale del mondo, The world’s cathedral, come la definisce
Nathaniel Hawthorne nel capitolo 39 del suo romanzo “romano”, Il
fauno di marmo (The Marble Faun, 1860). Questa chiesa non era
così ai tempi di Dante, ma nella sua più tarda imponenza sembra
quasi voler ribadire le scelte ideologiche dei suoi nemici, del papa
Bonifacio VIII e di tutti i propugnatori di un papato teocratico. Ma è
anche vero che tutto ciò non mi inquieta: e forse è soprattutto la
traccia sotterranea di tante visite effettuate nell’infanzia, condotto per
mano da mia madre o da mio nonno, tanto sicuri nel loro
cattolicesimo ingenuo e popolare, a fare per me di questo luogo così
imponente, così superbamente incombente sulla città, qualche cosa
di familiare, di consuetudinario, e in cui i grandi emblemi del potere e
della religione sembrano quasi potersi accordare con la più semplice
e fragile vita quotidiana.
Ma stamattina c’è un singolare effetto di alacrità: oltre ai pochi
turisti, la maggior parte di coloro che sono entrati in queste prime ore
del giorno sembrano rivolti alla preghiera, anche se tra i devoti
inginocchiati si incontra ogni tanto qualcuno che tiene in mano il
cellulare. La cappella del Sacramento, al centro della navata destra,
col cancello in ferro del Borromini, è riservata alla preghiera; e in
molte altre cappelle si accede solo per pregare o per seguire le
messe in corso di celebrazione. Un prete in paramenti sacri, che
tiene in mano il calice per la celebrazione, attraversa la navata
centrale. Tra la navata destra e il transetto si trova il sepolcro di papa
Giovanni XXIII, il cui corpo è stato trasferito qui, dopo la sua
santificazione, dalla precedente collocazione nelle Grotte Vaticane
ed è ora ben visibile, imbalsamato negli abiti pontificali, col capo
coperto dal rosso camauro: lo contemplano pregando sei anziane
signore inginocchiate.
Ma qui vengo per la Veronica, il velo col volto di Cristo, che vi
sarebbe rimasto impresso quando una donna di nome Veronica
venne a tergerlo dal sangue mentre saliva verso il Calvario: si tratta
di una leggenda che prese corpo in scritti apocrifi risalenti
probabilmente al VI secolo, con l’attribuzione di un nome che
potrebbe essere una corruzione del greco Berenice (Βερενίκη) e che
è stato interpretato come riferimento a una vera icon, vera icona,
vera immagine di Cristo. Sulla presenza di questo velo in San Pietro
non si hanno notizie storiche prima del XII secolo: ma si sa che il suo
culto, con l’abitudine di ostenderlo nella domenica dopo l’ottava
dell’Epifania, nella Settimana Santa e nella festa dell’Ascensione,
ebbe ampio rilievo nel XIII secolo. Particolare cura ne ebbe proprio
Bonifacio VIII, che ne fece variamente ostensione durante il Giubileo
del 1300. È molto probabile che la similitudine del canto XXXI del
Paradiso, con cui Dante paragona la propria meraviglia alla vista di
san Bernardo a quella di un pellegrino che contempla la Veronica
(venuto da luoghi lontani, come poteva essere la Croazia), sia stata
originata dalla memoria di questa ostensione in occasione del
Giubileo. Dante d’altra parte aveva già fatto cenno a questo velo
nella Vita nuova, XL 1, a proposito del passaggio a Firenze dei
pellegrini diretti a Roma, “in quello tempo che molta gente va per
vedere quella imagine benedetta la quale Jesu Cristo lasciò a noi
per esemplo de la sua bellissima figura”.
Come capita per tutte le reliquie, di Veroniche ce ne sono altre,
almeno sette in diversi luoghi d’Europa, da Vienna a Genova ad
Alicante: e d’altra parte, dopo varie vicende (tra cui una probabile
distruzione della reliquia durante il sacco di Roma del 1527), la
presenza della Veronica in San Pietro è rimasta nell’ombra. Se ne sa
molto poco e quasi non viene più ricordata tra le reliquie credibili
(come invece accade per il diverso caso della Sindone di Torino).
Sembra comunque che qui ci sia qualcosa nella cappella che è
dietro uno dei grandi pilastri che sorreggono la cupola, quello sud-
occidentale: un pezzo di stoffa dentro una cornice che viene
mostrato dalla balconata sopra il pilastro (ma sembra che non si
veda quasi nulla) dopo il Vespro serale della domenica di Passione,
due settimane prima di Pasqua.
Non assisterò certo a un’ostensione dell’evanescente reliquia, né
potrò individuare il luogo preciso dove viene accuratamente celata.
Della Veronica resta soprattutto una grande statua, entro la grande
nicchia sulla fronte di quel pilastro sud-occidentale: è una donna
muscolosa col volto tirato e a bocca aperta che si piega in avanti con
le vesti aggrovigliate dall’agitazione o dal vento, tendendo tra il
braccio destro disteso e il sinistro piegato un velo anch’esso un po’
sgualcito su cui sono incisi i tratti del volto di Cristo. Sul piedistallo è
la scritta SANCTA / VERONICA / IEROSOLYMITANA: è opera dello scultore
toscano Francesco Mochi, compiuta nel quarto decennio del
Seicento, contemporaneamente alle statue degli altri tre pilastri, tutte
volute dal papa Urbano VIII, la sant’Elena di Andrea Bolgi (lato nord-
occidentale), il san Longino del Bernini (nord-orientale), il
sant’Andrea di François Duquesnoy (sud-orientale), tutti santi che in
modi diversi hanno a che fare con la croce. Devo accontentarmi di
contemplare la Veronica e le altre statue a una certa distanza,
perché tutta la crociera sotto la grande cupola, in mezzo alla quale è
il sontuoso baldacchino bronzeo di Gian Lorenzo Bernini, che copre
l’altare papale, è transennata, secondo la ripartizione delle varie
zone della basilica dovuta alle funzioni del corrente Giubileo. Questa
Veronica turbata sembra peraltro quasi in contrasto con la spazialità
così assoluta della cupola di cui abita un essenziale pilastro, con la
potente e pacificante tensione cosmica che si svolge nella sua
ariosa circolarità.
Grotte Vaticane

“Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché, dicend’io,
vedrai trascolorar tutti costoro.

Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio,


il luogo mio, il luogo mio che vaca
ne la presenza del Figliuol di Dio,

fatt’ha del cimitero mio cloaca


del sangue e de la puzza; onde ’l perverso
che cadde di qua sù, là giù si placa”.
(Par., XXVII 19-27)

All’inizio del canto XXVII del Paradiso, nel cielo delle stelle fisse,
dopo che nei canti precedenti Dante è stato sottoposto ai tre esami
sulle virtù teologali, “tutto ’l paradiso” prorompe in un tripudio festivo
di voci e di luci a gloria della Trinità; poi, quando la luce di san Pietro
si fa più intensa (“incominciò a farsi più vivace”, 12), un silenzio
voluto dalla “provedenza” introduce l’invettiva con cui il santo si
scaglia contro il papa presente, che usurpa il luogo del suo martirio e
della sua tomba, il suo cimitero (come abbiamo visto, p. 45, già
ricordato nel canto IX da Folchetto di Marsiglia), trasformandolo in
una cloaca, con il compiacimento del demonio, il perverso confitto
nell’inferno dopo la sua caduta dal paradiso.
Lasciando lo spazio della chiesa mi dirigo verso il punto più interno
di questo luogo di Pietro, le Grotte Vaticane, il cuore sotterraneo
dove è il suo cimitero. In questo periodo giubilare si entra all’esterno
della chiesa, nello stretto cortile che è sul suo fianco destro: devo
sostare a lungo in coda in attesa dell’ora di apertura, scendendo poi
sotto il piano di calpestio della chiesa attuale, che fu elevata di circa
tre metri rispetto alla precedente basilica costantiniana, del cui muro
perimetrale nello scendere si sfiorano i resti. Subito nel corridoio,
poco dopo l’ingresso, quasi a evocare per contrasto la condanna
dantesca, si presentano, uno di fronte all’altra, i sepolcri di Niccolò III
e di Bonifacio VIII. Niccolò III, cioè Giovanni Gaetano Orsini (1215
circa-1280, papa dal 1277), sta in un sarcofago paleocristiano
insieme a un membro della sua famiglia, di cui una scritta indica i
titoli, Rinaldo Orsini (cardinale dal 1350 al 1374), trasferito qui da
Avignone. Anche se non è un nipote diretto di Niccolò III, con la sua
presenza qui il cardinale Rinaldo sembra indicare la continuità della
famiglia e l’impegno nepotistico del papa condannato da Dante tra i
simoniaci (ho già ricordato la sua cupidigia “per avanzar li orsatti”,
con i versi di Inferno, XIX 69-72).
Davanti a lui il nemico di Dante, Bonifacio VIII (Benedetto
Caetani), giace scolpito da Arnolfo di Cambio, con un volto crucciato
calzato dalla mitra papale, su un sarcofago che ha alla base un
fregio cosmatesco. Sul pavimento antistante è una lapide sotto cui è
sepolto un suo nipote, anche lui Benedetto Caetani, Benedictus
Caetanus Ss. Cosmae et Dam. Diac. Card. Bonifacii VIII Nepos,
cardinale dalla più breve vita, nominato dallo zio nel 1295, quasi a
ridosso della sua ascesa al papato, e morto poco dopo, nel 1296,
con gran dolore dello stesso Bonifacio.
Quasi nessuno dei visitatori e dei pellegrini appena entrati in
queste Grotte fa caso alle tombe così affrontate di questi due papi,
ciascuno accompagnato per giunta da un esponente della rispettiva
famiglia. E certo nessuno pensa alla paradossalità di questo
accostamento, in cui sembra echeggiare la battuta, a cui già mi è
capitato di accennare, che Niccolò III, confitto a testa in giù nel foro
infuocato della bolgia, quasi che parlasse attraverso le piante dei
piedi, rivolge a Dante, scambiandolo proprio per Bonifacio VIII:

“Se’ tu già costì ritto,


se’ tu già costì ritto, Bonifazio?
Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio


per lo qual non temesti tòrre a ’nganno
la bella donna, e poi di farne strazio?”
(Inf., XIX 52-57)

Tra i tanti papi i cui sepolcri si trovano in queste Grotte, non


mancano altri predecessori di Bonifacio: il primo papa tedesco
Gregorio V (Brunone di Carinzia, eletto a soli 23 anni nel 996, morto
nel 999); l’unico papa inglese Adriano IV (Nicholas Breakspear),
papa dal 1154 al 1159, implicato in un viluppo dantesco, dato che è
possibile che Dante abbia attribuito al successivo Adriano V
(Ottobono dei Fieschi) notizie circolanti invece sull’avarizia e la
brama dei beni mondani di questo Adriano IV, che se ne sarebbe
pentito proprio dopo la sua elezione al soglio papale. E ci sono non
solo altri celebri papi successivi (come Urbano VI, Bartolomeo
Prignano, papa dal 1378 al 1389, che riportò il papato a Roma dopo
la “cattività” avignonese, Niccolò V, Tommaso Parentucelli, papa dal
1447 al 1455, fondatore della Biblioteca Vaticana, Pio VI,
Giovannangelo Braschi, papa dal 1775 al 1799, morto in esilio in
Francia nel periodo rivoluzionario, e tanti papi del Novecento), ma
anche personaggi diversi legati alla chiesa, come la regina Cristina
di Svezia (1626-1689), che abdicò nel 1654, convertendosi al
cattolicesimo e stabilendosi poi a Roma, dove favorì l’attività di quei
poeti e letterati che, l’anno dopo la sua morte, fondarono
l’Accademia dell’Arcadia.
Nell’addentrarsi nel punto più interno delle Grotte, nella zona detta
delle Grotte Nuove, in quanto sistemate in epoca più recente, si
raggiunge la cappella di San Pietro, il cui assetto di fondo è dovuto
all’iniziativa del papa Clemente VIII (Ippolito Aldobrandini, papa dal
1592 al 1605). A essa non si accede, ma si contempla da un’ampia
apertura l’altare con un’icona di Cristo, oltre il quale è quella che
viene considerata la tomba dell’apostolo, in un punto che
corrisponde perfettamente al soprastante altare maggiore della
basilica: scavi e ricerche voluti dal papa Pio XII hanno condotto a
un’identificazione di ossa che, non senza dubbi e riserve, vengono
considerate appartenenti proprio all’apostolo, fissate ora in una
piccola teca in plexiglas che si trova proprio a filo sotto l’asse
centrale della cupola. Intorno alla cappella un corridoio ricurvo
percorre lo spazio corrispondente al perimetro della base della
cupola: in fondo, al limite occidentale, ci si trova sul retro della tomba
di Pietro, di contro alla semplice e massiccia tomba di Pio XII.
Proseguendo nel corridoio si trova la cappella di santa Veronica,
collocata proprio sotto al grande pilastro con la statua della stessa
Veronica: nell’altare è un mosaico secentesco con la scena della
Veronica che porge il velo per asciugare il volto di Cristo, e intorno ci
sono affreschi del pittore manierista Giambattista Ricci (1537 circa-
1627) con le varie fasi della leggenda relativa. Proseguendo sulla
parete del corridoio si trova un affresco con il papa Innocenzo VIII
(Giovambattista Cybo), che conduce in processione da Santa Maria
del Popolo a San Pietro, il 31 maggio 1492, la lancia che infilzò
Cristo sulla croce, atto che secondo una tradizione fu compiuto da
quel soldato Longino che poi si convertì al cristianesimo e finì
martirizzato, ed è rappresentato sopra, sul pilastro della crociera,
nella statua già vista del Bernini. Viene da domandarsi dove sia
custodita questa ulteriore reliquia, che fu donata dal sultano turco
Bajazet II, in segnale di distensione in un momento in cui il papa
auspicava ostilità nei suoi confronti, approfittando anche della rivalità
con Bajazet del fratello minore Djem, tenuto in ostaggio a Roma.
D’altra parte, come per tutte le reliquie, di lance di Longino ce ne
sono in giro altre, anche attestate prima di quella di Bajazet, che
chissà come abbia reperito questo cimelio e chissà se in cuor suo
non si sia burlato della credulità dei cristiani e del loro papa…
Dalle Grotte risalgo comunque, sbucando direttamente dentro la
basilica, sul retro del pilastro di sant’Andrea, toccando da vicino le
perfette corrispondenze architettoniche tra le singole zone delle
Grotte e quelle della superiore basilica, tra ciò che è sotto e ciò che
è sopra, come se in fondo si trattasse di due universi paralleli, dei
due volti diversi in cui si dispiega il luogo di Pietro, quello più ctonio,
funebre, notturno e quello più sontuoso, luminoso, celeste. Tanti
d’altra parte sono i papi sepolti anche qui sopra, nei tanti monumenti
accolti tra le navate della basilica. Prima di uscire alla luce dell’ormai
tarda mattina di marzo, sulla navata sinistra trovo di nuovo
Innocenzo VIII e la lancia, nel superbo monumento di Antonio del
Pollaiolo, con la doppia immagine bronzea del papa, su uno sfondo
di bassorilievi bronzei e dorati: in basso c’è il cadavere giacente e in
alto la severa animata figura seduta (ma in origine la posizione delle
due statue era inversa). Il papa seduto leva in alto e in avanti la
destra benedicente, mentre con la mano sinistra regge proprio la
punta della famosa lancia… Una lapide avvisa che questo sepolcro
fu traslato qui dalle Grotte nel 1621per opera del principe di Massa
Alberico Cybo-Malaspina, discendente del papa, e ricorda anche il
dono della lancia da parte del turco Bajazet.
Firenze
Denuncia, passione, desiderio

…La tua città, ch’è piena


d’invidia sì che già trabocca il sacco,
seco mi tenne in la vita serena.
(Inf., VI 49-51)

Così nel grande poema viene evocata per la prima volta la città, la
patria di Dante, amata e vissuta, dolorosamente abbandonata,
riprovata e maledetta per le colpe dei suoi cittadini, guardata da
lontano nel lungo esilio, minacciata e desiderata senza remissione,
sino alla fine. A questa apostrofe di Ciacco, che giace sotto la
pioggia infernale che punisce i golosi, il pellegrino replica chiedendo
con inquietudine quale sarà il prossimo esito della discordia che
investe la città:

Io li rispuosi: “Ciacco, il tuo affanno


mi pesa sì, ch’a lagrimar mi ’nvita;
ma dimmi, se tu sai, a che verranno

li cittadin de la città partita;


s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ha tanta discordia assalita”.
(Inf., VI 58-63)

È l’occasione della prima tra le tante profezie post eventum che si


susseguiranno nel poema: qui Ciacco allude agli scontri del
vicinissimo Calendimaggio (dello stesso 1300 in cui si svolge il
viaggio oltremondano) e agli altri eventi in cui Dante fu direttamente
coinvolto, fino all’ingresso in città di Carlo di Valois, con la cacciata
dei Bianchi (novembre 1301); e lega tutto ciò al vuoto di giustizia
(“Giusti son due, e non vi sono intesi”), mentre nei “cuori” dominano
“superbia, invidia e avarizia” (vv. 73-75). Numerosi poi nell’Inferno gli
incontri con concittadini e i richiami a vicende fiorentine, che
direttamente o indirettamente coinvolgono Dante: dallo scontro con
lo “spirito bizzarro” di Filippo Argenti nel fiume Stige (canto VIII) a
quello con Farinata e Cavalcante nel cerchio degli eretici (canto X), a
quello con il maestro Brunetto Latini (canto XV) e con i tre sodomiti
fiorentini (canto XVI), alle apparizioni dei non nominati usurai (canto
XVII), dei cinque ladri (canto XXIV), dei seminatori di discordia
Mosca dei Lamberti (XXVIII 101-111) e Geri del Bello (questi parente
di Dante, XXIX 27), del traditore Bocca degli Abati (XXXII 73-123).
Questa Firenze lacerata sarà sempre più investita di un
risentimento, che nell’Inferno si dispiega intensamente nella celebre
invettiva dell’incipit del canto XXVI (“Godi, Fiorenza, poi che se’ sì
grande…”), che si svolge in un’indeterminata profezia di distruzione,
di fronte alla quale l’esule esita tra soddisfazione e dolore,
augurandosi che si avveri prima possibile (vv. 10-12):

E se già fosse, non saria per tempo.


Così foss’ei, da che pur esser dee!
ché più mi graverà, com’ più m’attempo.

L’accorata invettiva del VI canto del Purgatorio sulla “serva Italia” in


preda ai tiranni e alle lotte di fazione viene conclusa da una
sarcastica allocuzione a Firenze, che si ritiene esente da ogni male,
compiaciuta di sé (“tu ricca, tu con pace, e tu con senno!” v. 137),
ma che, per il suo continuo mutare “legge, moneta, officio e
costume” (v. 146), viene assomigliata a “quella inferma / che non
può trovar posa in su le piume, / ma con dar volta suo dolore
scherma”, (vv. 149-151). Nel cupo bestiario in cui nel canto XIV
Guido del Duca fissa quelli che vivono sulle rive dell’Arno, i fiorentini
vengono identificati come lupi (v. 50). Poi il ricordo che Forese
Donati fa della sua devota “vedovella” si svolge in una sprezzante
denuncia della corruzione delle donne fiorentine (“ché la Barbagia di
Sardigna assai / ne le femmine sue più è pudica / che la Barbagia
dov’io la lasciai”, XXIII 94-96); mentre, congedandosi da Forese, è lo
stesso Dante ad affermare che Firenze “di giorno in giorno più di ben
si spolpa”, pronta a precipitare nella “ruina” (XXIV 80-81).
Nell’insistente denuncia della corruzione di Firenze, della
degradazione dei suoi costumi, di quei vizi che trovano la loro sintesi
nel dominio del denaro, della sua prestigiosa moneta, il fiorino,
“maladetto fiore” (Paradiso, IX 130), si svolgerà poi il grande quadro
della severa dignità della Firenze “dentro da la cerchia antica”,
tracciato da Cacciaguida nei canti XV e XVI del Paradiso, in diretto
contrasto con il malcostume contemporaneo, originato prima di tutto
dalla “confusion de le persone” (XVI 67). Il susseguirsi di minacce
profetiche toccherà il culmine nell’Epistola VI del 31 marzo 1311 (qui
più volte ricordata: vedi pp. 222, 1024, 1101, 1128) rivolta agli
scelleratissimi fiorentini (“scelestissimis florentinis”), per il loro
atteggiamento ostile verso l’imperatore Enrico VII: in essa si
prefigura una tremenda punizione, con il crollo e l’incendio dei
sontuosi palazzi, la spoliazione delle chiese, l’esilio, la prigionia e la
morte per i cittadini. Ma lo sdegnato risentimento dell’esule non
cancellerà la nostalgia, il senso del proprio essere fiorentino, il
desiderio di un onorato ritorno in patria, di un esito pacificante del
proprio destino di uomo e di poeta: fino al sublime avvio del canto
XXV del Paradiso, dove si dispiega il sogno di un ritorno a Firenze
per forza di poesia, con l’assunzione del cappello, la corona di
poeta, nel luogo del proprio ingresso nel mondo, presso il fonte del
proprio battesimo.
La città dell’Arno

…I’ fui nato e cresciuto


sovra ’l bel fiume d’Arno a la gran villa,
e son col corpo ch’i’ ho sempre avuto.
(Inf., XXIII 94-96)

Tutta immersa entro la civiltà fiorentina era stata del resto, fino
all’esilio, l’esistenza di Dante: la sua poesia, l’impegno intellettuale,
le amicizie e le occasioni festive, gli incontri con i più vari
personaggi, la diretta partecipazione alle istituzioni cittadine. L’opera
che l’autore stesso avrebbe poi definito “fervida e passionata”, la
Vita nuova, è come animata dal vibrare dell’aria di Firenze, inscrive
la vicenda d’amore, l’apparire e lo sparire della salvifica Beatrice,
entro lo spazio della cittade, il cui nome non è mai fatto
esplicitamente: sospiri e angosce nel partire dalla città, usanze
festive e funebri, ritorno alla città dopo il cammino lungo “uno rivo
chiaro molto”, desolazione della città per la morte di Beatrice, fino
all’allocuzione ai pellegrini (Deh peregrini che pensosi andate) che
passano “per lo suo mezzo la città dolente”, che “ha perduto la sua
Beatrice” (XL).
E ancora alle soglie della Commedia, l’esule guarda a Firenze
nella sua ultima canzone d’amore, quella che lui stesso chiama
montanina: uno strano amore, per una donna “sbandeggiata” dalla
corte d’Amore, lo tormenta tra le montagne del Casentino, nella valle
dell’Arno, quella valle dove sempre Amore lo ha signoreggiato, ma
dove ora non c’è nessuno a cui poter comunicare il proprio “male”,
nessuna brigata di “donne” e di “genti accorte” come quelle di
Firenze. Il poeta lascia allora partire la sua canzone, pensando che
essa potrà forse vedere la sua città, che lo serra, lo tiene lontano da
sé, “vota d’amore e nuda di pietate”; e chiede ai propri versi di dire a
Firenze che egli non è più in grado di farle guerra, perché ora è
prigioniero di questa catena d’amore che così strettamente lo serra,
gli toglie ogni possibile libertate di tornare, nemmeno se i suoi
concittadini lo richiamassero in patria, rinunciando alla loro
crudeltate verso di lui:

O montanina mia canzon, tu vai:


forse vedrai Fiorenza, la mia terra,
che fuor di sé mi serra,
vota d’amore e nuda di pietate;
se dentro v’entri, va dicendo: “Omai
non vi può far lo mio fattor più guerra:
là ond’io vegno una catena il serra
tal che, se piega vostra crudeltate,
non ha di ritornar qui libertate”.
(Rime, CXVI 76-84)

Dal diverso rilievo che Firenze ha avuto nelle diverse fasi della vita di
Dante, dall’immagine conflittuale che egli ne ha trasmesso, si
dispiegano le altre immagini che essa ha dato di sé nella storia
successiva, tutto quello che ha costruito nei secoli, ciò che essa
significa per l’Italia passata e presente, per la sua lingua, la sua
poesia, le sue arti, il suo artigianato, la sua ricchezza e la sua
decadenza, splendori e sfaceli. Emblema determinante dell’essere
italiano: dalla resistenza e l’espansione nei difficili frangenti del
Trecento (in cui si affermava il magistero umanistico di Petrarca,
fiorentino fuori di Firenze, e di Boccaccio), ai grandi esiti culturali e
artistici del Quattrocento e della signoria medicea, ai conflitti di primo
Cinquecento, con la strenua difesa della propria minacciata identità
municipale, al fissarsi di un regime principesco accompagnato da
fitta operosità letteraria, artistica, scientifica, musicale, alle aperture
moderne della dinastia dei Lorena nel Settecento, alle vicende del
Risorgimento (fino ai brevi anni in cui Firenze ebbe il ruolo di capitale
d’Italia), alla sua grande vitalità culturale del primo Novecento, alla
sua assolutizzazione a emblema turistico e richiamo internazionale
nel secondo Novecento, alle fragili ambizioni della Firenze
“renziana”.
E, dopo i grandi trecentisti, Brunelleschi e Masaccio, Lorenzo e
Poliziano, Ficino e Botticelli, Leonardo e Michelangelo, Machiavelli e
Guicciardini, Cellini e Galileo, fiorentini o toscani cresciuti a Firenze,
in alcuni casi approdati altrove, ma perlopiù rimasti fortemente legati
alla città. Tante immagini di Firenze, diverse nel diverso risalire a
questi e ad altri nomi, ai segni umani, alle configurazioni morali che
essi designano. Così in Francia florentin è stato spesso usato per
qualificare personaggi dotati di astuta e “machiavellica” abilità
politica: eredità addirittura cinquecentesca, tra le manovre politiche
della regina Caterina de’ Medici e dei suoi cortigiani e la
demonizzazione degli scritti di Machiavelli; giunta a toccare nel tardo
Novecento il presidente François Mitterrand, da molti
soprannominato proprio le florentin.
Qui comunque, nel centro di questa città, a ogni passo ci si
imbatte in una traccia storica, sempre più imbrigliata dentro gli
ingranaggi turistici: apparati per la visita di monumenti e musei,
luoghi di accoglienza turistica, luoghi di refezione, boutiques di super
lusso e negozi, negozietti, bancarelle per tutti gli usi e le borse; salvo
che in sempre più rare pause stagionali, folle internazionali che
percorrono il lastricato, che sostano, guardano, fotografano,
mangiano, con un ritmo infinito, abbracciato alla resistente bellezza
dei luoghi, nelle strade strette, nelle piazze ampie e distese, nei
trionfanti slarghi del paesaggio che si apre sui Lungarni.
Figlia di Roma, la Firenze dantesca: ma molto più di Roma la città
sembra qui risolversi nella fruizione turistica, sembra costretta a
esibire il turismo come la prima ragione della sua esistenza e
persistenza, della sua resistente e ammaccata prosperità. Come se
nel suo centro fossero concentrate tutte le ragioni passate di quella
che qualcuno chiama l’eccellenza italiana, nella sua cultura e nella
sua arte (soprattutto l’arte del Rinascimento): la consistenza di un
passato riconosciuto ormai solo in quanto esposto al consumo, con
le necessarie e sempre più auspicabili ricadute economiche.
Passato inteso ormai come “bene” produttivo, “volano” di sviluppo e
crescita, più che di esperienza umana ed estetica.
Arrivo comunque a Firenze l’8 maggio 2014, in treno come tante
volte: quante volte ci sono stato, dopo quella prima volta che,
adolescente, restai qui solo una breve giornata, in parte mangiata
dal viaggio, che allora da Roma durava tre ore e mezzo! Quella volta
percorsi senza soste tutti i luoghi possibili, in preda all’emozione,
specie per chiese e palazzi di cui avevo letto nei libri di scuola. Oggi
mi dirigo subito al secondo piano di Palazzo Strozzi, all’Istituto di
studi sul Rinascimento, per partecipare a un convegno su Progetti,
forme ed istituzioni della politica in Toscana: da Dante a Guicciardini.
Devo parlare di Machiavelli e del suo uso di categorie come
ambizione, riputazione, onore e gloria: e potrei anche risalire all’uso
che di questi termini viene fatto da Dante, nella sua poesia e nel suo
pensiero politico. Del resto, da buon fiorentino, Niccolò aveva un
vero e proprio culto della poesia di Dante, che lascia molteplici
risonanze del suo linguaggio.
Sto pensando, prima che la seduta abbia inizio, al rapporto tra
Machiavelli e Dante, quando mi vengono incontro due persone, che
dal lontano passato politico-letterario mi fanno precipitare in una
delle pieghe più brucianti, deprimenti, irrisolte del recente passato
italiano: uno è anche relatore a questo convegno, Enrico Fenzi,
autorevole studioso di Dante e di Petrarca, già professore
universitario, ma noto anche come reduce dai cosiddetti “anni di
piombo”, già condannato come membro della colonna genovese
delle Brigate Rosse. Non so se sia stato protagonista in prima
persona di specifici fatti di sangue: ma è certo che, nei confronti del
passato terroristico egli si è collocato nella categoria dei “dissociati”,
ben diversa da quella dei “pentiti”. Mi lascia sempre perplesso
questa terminologia, sia per il suo uso giuridico che per la proiezione
distorta che essa dà di un passato comunque irrevocabile, per il
modo in cui, attraverso di essa, i soggetti vengono a operare uno
stacco da quel passato, come a smentire, sospendere, cancellare,
rovesciare la propria responsabilità: “né pentere e volere insieme
puossi / per la contradizion che nol consente” (Inferno, XXVII 119-
120: da questi versi danteschi potrebbe forse sorgere qualche
spunto per una considerazione critica di queste formule, della loro
contraddittorietà, della loro pretesa di fissare a posteriori il senso di
azioni passate).
Proprio nel ricordo di questo passato, di tutta l’inutile violenza, di
tutto l’assurdo dolore che ci si è dato, la presenza di Fenzi mi dà
sempre un certo disagio, nonostante le perorazioni di coloro che
sostengono che ormai quell’epoca è finita e che i conti vanno chiusi
definitivamente. Ma insieme a lui c’è ora un altro ex brigatista, che
nell’ambito terroristico ha avuto ruoli più determinanti e che è anche
cognato di Fenzi: riconosco bene Giovanni Senzani, che ho
incontrato parecchi anni fa, nel carcere romano di Rebibbia, quando
lì mi sono recato presiedendo la commissione universitaria d’esame
di Letteratura italiana. Da detenuto in carcere di massima sicurezza
Senzani si era iscritto alla Facoltà di Lettere di Roma e, secondo le
complesse procedure carcerarie, era stato trasferito
temporaneamente a Rebibbia dalla sua casa di detenzione proprio
per sostenere quell’esame. Eravamo in tre a interrogarlo, dopo aver
superato controlli e strati diversi di sbarramenti. Parlando a lungo di
Leopardi, egli rivelò una ampia conoscenza delle sue opere, su di un
fondo culturale sostenuto in tutta evidenza dalla tradizione marxista,
dal linguaggio politico che tra gli anni sessanta e settanta aveva
alimentato le diverse anime della sinistra, con quelle formule e quelle
sue sicurezze che egli sapeva dominare in modo problematico, con
una sua intelligenza: e con particolare attenzione ai risvolti sociali e
politici del pensiero leopardiano, che esponeva con paziente
costanza nell’argomentare, nel ribadire, nel precisare. Lì, pur nella
costrizione dell’orizzonte carcerario, attraverso Leopardi egli
sembrava prolungare la convinzione di sé, della propria ipotesi di
mondo, di quella prospettiva “rivoluzionaria” che pure aveva visto
sfuggirgli: certo non la esibiva esplicitamente di fronte alla
commissione d’esame, ma era evidente che essa sorreggeva le sue
parole, che non l’avrebbe mai riconosciuta come erronea e che, se ci
fossero state le condizioni, per essa avrebbe fatto di nuovo
qualunque cosa. Si prolungava in lui all’estremo, in quella
separazione dal mondo, l’illusione che aveva dominato a lungo il
Novecento: ma da essa sembrava espunto ogni tratto utopico, ogni
residuo di speranza e di passione, mentre vi si sentiva persistere
ostinazione, determinazione, assolutizzazione del proprio punto di
vista, entro un’indifferenza alle vite, a ogni occasionalità
dell’esperienza, al breve respiro del vivere (in questo quanto poco
leopardiano, pur in un adeguato trattare di Leopardi, a cui non si
poté negare un voto massimo, un meritato 30). Ce ne andammo,
uscendo nell’assolato mattino su quella allucinata periferia romana,
con una sorta di inquieto malessere, un turbamento che non riusciva
a dissolversi: la luce di fuori, dopo il tempo passato nell’interno del
carcere, appariva distorta, accecante, irreali i rumori del traffico sulla
Via Tiburtina, il disordinato disporsi di officine, distributori,
supermercati, bancarelle ai margini del carcere.
Ora eccolo qua, che mi viene incontro col cognato dantista e
petrarchista, che mi saluta e ricorda sorridendo l’esame su Leopardi:
mi stringe la mano e nota con compiacimento che parlerò di
Machiavelli, autore che ci dice tante cose su quello che accade nel
mondo. Ricordiamo che della commissione facevano parte anche
Novella Bellucci e Nicola Longo e ci salutiamo, come lasciando
evaporare questo passato, di cui io ho sfiorato solo dall’esterno
quell’esito carcerario, ma che lui ha creduto rovinosamente di
sommuovere e che ora si trascina con sé, nella sua sconfitta
ostinazione, nel suo rimanere a parte di fronte a un mondo che
aveva presunto di cambiare, credendo che a tutto fosse autorizzato
da questa sua presunzione. Ora se ne va e, nonostante il
compiacimento manifestato per il mio tema machiavellico, non
ascolterà la mia relazione.
Battistero: il bel San Giovanni

…e ne l’antico vostro Batisteo


insieme fui cristiano e Cacciaguida.
(Par., XV 134-135)

Il Battistero è in fondo il cuore originario della Firenze medievale.


L’edificio ottagonale campeggia al centro dell’area compartita tra la
piazza del Duomo e quella che reca il nome del Battista. La sua
forma esterna è ancora in linea di massina quella che era ai tempi di
Dante, ma non certo a quelli più remoti del suo avo Cacciaguida. Ma
in questi giorni non la si vede: è tutta ingabbiata entro ponteggi
metallici, su cui sono disposti grandi teli che la riproducono in
perfetto facsimile; e ciò dà come l’impressione di una sorta di
evanescenza della mole architettonica, di un suo tremolante
alleggerirsi. Un alleggerimento che sembra corrispondere alla
destinazione ormai turistica dell’edificio: non la sua antica funzione di
ingresso nella comunità cristiana e cittadina, di immersione nelle
proprie radici, ma luogo da percorrere, vedere, ammirare, perlopiù in
totale indifferenza.
Dopo aver contemplato le celebri porte (ma quella di Ghiberti a
est, detta del Paradiso, è stata sostituita da una copia), chi entra
all’interno non ritrova più il fonte battesimale originariamente
collocato al centro. Ce n’è uno trecentesco, addossato a una parete,
forse opera di un allievo di Andrea Pisano. Ma non c’è traccia di quel
sistema di vaschette a cui accenna Dante in un passo molto
controverso, che ha suscitato una varia esegesi. In esso i fori che
bucano la pietra livida della bolgia dei simoniaci, vengono paragonati
a quelli che si trovavano qui, nel suo bel San Giovanni:

Io vidi per le coste e per lo fondo


piena la pietra livida di fóri,
d’un largo tutti e ciascun era tondo.
Non mi parean men ampi né maggiori
che que’ che son nel mio bel San Giovanni,
fatti per loco d’i battezzatori;

l’un de li quali, ancor non è molt’anni,


rupp’io per un che dentro v’annegava:
e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.
(Inf., XIX 13-21)

Interpretazione affidabile è quella di chi intende che i fori avessero la


diretta funzione di fonti battesimali (appunto battezzatori) o che
comunque dentro di essi fossero inseriti i fonti stessi: mentre la
rottura da parte di Dante di uno di essi (che qualcuno doveva aver
criticato) sarebbe stata determinata dalla necessità di estrarre
qualcuno che era rimasto incastrato dentro. L’episodio e la
situazione restano comunque misteriosi: ma non mi convince
l’eruditissima interpretazione di chi, allegando vari testi biblici,
attribuisce al gesto di Dante un’intenzione e un valore profetico,
come se con esso egli pretendesse di proporsi come pescatore
salvifico. D’altra parte sembra ben lontana da ogni prospettiva
profetica l’evocazione che Dante fa di questo fonte del suo stesso
battesimo, nel cielo delle stelle fisse, dopo essere stato esaminato
da san Pietro a proposito della fede. Sentendo avvicinarsi la fine del
poema, egli dà voce al suo sogno di tornare a Firenze e immagina
che possa realizzarsi proprio grazie all’eccezionale esito del poema.
L’effetto di questa invenzione inaudita potrebbe valere a richiamare
l’esule in patria, addirittura a farlo incoronare poeta nel luogo stesso
della sua origine, presso il fonte stesso del suo battesimo, dove è
entrato nella fede di cui ha dato prova nell’esame approvato dal
santo (non a caso qui ritornano proprio le laceranti parole in rima
terra / serra / guerra, che così colpivano nel congedo della canzone
montanina che sopra ho citato):

Se mai continga che ’l poema sacro


al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,

vinca la crudeltà che fuor mi serra


del bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello;

però che ne la fede, che fa conte


l’anime a Dio, quivi intra’ io, e poi
Pietro per lei sì mi girò la fronte.
(Par., XXV 1-12)

In questo vertiginoso incipit si riannodano inizio e fine: inizio della


vita di Dante e suo ingresso sia nella civitas cristiana che nella sua
città (terra); conclusione del poema sacro, teso verso la visione
finale e assoluta di Dio; suprema ambizione cosmica e figura di sé
come agnello che dorme nella città ovile (che proprio di fronte a
Cacciaguida aveva chiamato ovil di San Giovanni, Paradiso, XVI
25).
Ora qui, all’interno del Battistero, in un momento in cui non troppo
fitta è la calca dei turisti, posso sedermi su un banco, sotto l’effetto
della perfetta geometria che scandisce il marmo listato delle pareti e
del pavimento. E volgo lo sguardo in alto, verso i mosaici della
cupola, compartiti in gironi che ruotano attorno alla finestra centrale:
sono stati elaborati proprio al tempo di Dante, che forse, chissà, avrà
saputo qualcosa del programma visivo, avrà seguito i lavori, avrà
visto qualche riquadro compiuto. Ecco in alto Cristo tra Serafini e
Cherubini e poi, disposte in successione sullo stesso girone, le altre
gerarchie angeliche, con i loro nomi: girando in senso orario, Troni,
Virtutes, Principatus, Angeli (che si trovano sul fronte opposto a
quello in cui è Cristo), Arcangeli, Potestates, Dominationes. Poi nella
vela, sotto quella prima figura del Redentore, c’è un più grande
Cristo giudicante, entro un ampio cerchio, sospeso sui sette cieli. Tre
gironi ruotano al suo fianco, i cui spicchi a lui più vicini contengono le
scene del Giudizio universale: gli angeli con le trombe, le schiere dei
beati, la risurrezione di corpi (e qui, in basso sulla destra, l’inferno
con Lucifero che tiene azzannati dei peccatori nelle sue tre
teste/bocche). Negli altri spicchi questi tre gironi contengono quattro
diverse serie di storie bibliche, tra cui quelle di san Giovanni Battista.
Mi ostino a tenere a lungo la testa rivolta verso l’alto, con qualche
cervicale disagio, per decifrare le scene disposte nei diversi gironi:
qui bisogna farlo insistendo fino in fondo, perché tra tutti i cicli in cui
si affacciano figurazioni dell’universo, questo è quello più vicino a
Dante, più legato ai suoi giorni e al suo spazio vitale. Lo scatto
inventivo del poema sacro, la sua figurazione dell’universo, avrà
avuto qui qualche pur parziale e occasionale corrispettivo: e se il
poema lo avesse davvero ricondotto a prendere il cappello qui, sul
fonte del suo battesmo, egli avrebbe per un attimo potuto
riconoscere in questa tanto più semplice figurazione la scintilla che
aveva dato origine a quella sua, tanto più assoluta e complessa.
Certo è strano trovarsi qui a guardare in su, a considerare le
gerarchie angeliche e il numero dei cieli, che qui sono sette, come
sette sono le intelligenze a essi deputate (Serafini e Cherubini qui
sono a parte, nel superiore ruolo di diretti supporti della gloria
divina). Mentre il cappuccio del pennarello con cui prendo appunti
cade infilandosi tra le fitte maglie di una grata che si apre sul
pavimento, dal mosaico della volta dell’abside sembrano guardarmi
con aria di rimprovero i quattro telamoni che reggono la ruota con al
centro il Cristo agnello circondato dai profeti: proiezioni pittoriche di
quelle cariatidi in pietra evocate in Purgatorio, X 130-135, per
connotare la pena dei superbi, che procedono schiacciati sotto
pesanti massi.
Ma qui, di fuori, tutto sembra leggero e sfuggente, nel muoversi di
turiste e turisti, nel dinoccolato sostare tra il Battistero e il Duomo di
indifferenti fanciulle, quanto diverse, nei loro abbigliamenti, nei loro
ridotti pantaloncini, nella loro femminilità così liberamente e
agevolmente moderna e postmoderna, da quelle cantate nella dolce
poesia d’amore. Impossibile cercare qualche segno o traccia, timida
persistenza, di una Beatrice o di una Giovanna Primavera: forse è
meglio così, forse nel nostro tempo liberato e secolarizzato non è il
caso di evocare la perdita di quelle fascinazioni inafferrabili,
sfuggenti, pronte a dileguare. Siamo per fortuna liberi dall’orizzonte
repressivo che allora dominava la vita quotidiana, da quegli
implacabili interdetti, da quella durezza dell’esistenza, da quel suo
terribile gravare sulle donne, chiuse nel loro silenzio, condannate a
tanto precoce soffrire e sparire. Forse è bene che non ci siano più
Beatrici e Primavere, che tutto si riduca ormai a nomi comuni
singolare (“beatrice dal verbo beare / nome comune singolare”,
Giovanni Giudici, Alla beatrice): eppure resta un richiamo segreto,
quasi un desiderio impossibile di veder librare nell’aria, qui accanto
al campanile di Giotto, qualche presenza assoluta, di cui un giovane
scrittore possa credere di poter dire “quello che mai non fue detto
d’alcuna”.
L’ultimo sesto e Porta San Piero

Li antichi miei e io nacqui nel loco


dove si truova pria l’ultimo sesto
da quei che corre il vostro annual gioco.
(Par., XVI 40-42)

Sovra la porta ch’al presente è carca


di nova fellonia di tanto peso
che tosto fia iattura de la barca,

erano i Ravignani, ond’è disceso


il conte Guido e qualunque del nome
de l’alto Bellincione ha poscia preso.
(Par., XVI 94-99)

Lascio la facciata del Duomo e, girando intorno alla cupola del


Brunelleschi, mi dirigo verso la zona dove doveva essere l’ultimo
sesto, il sestiere di Porta San Piero. Nel punto in cui i cavalli in corsa
del palio di San Giovanni entravano all’inizio del sestiere, dovevano
trovarsi le case della famiglia di Cacciaguida, probabilmente sul
Corso, che oggi prende avvio da via dei Calzaioli verso est.
Nell’impossibilità di identificare quelle case, mi limito a percorrere il
sestiere, dirigendomi verso la zona dove si trovava la Porta di San
Piero. Sugli stretti marciapiedi sfioro la piazza di Santa Maria Nuova,
dove è l’Arcispedale e, poco più avanti, la Biblioteca delle Oblate:
sulla piazza sbuca la via che ha il nome del padre di Beatrice Folco
Portinari, fondatore dell’ospedale. Attraverso questa via,
immaginando che qui da qualche parte si muoveva nella sua breve
vita l’amata di Dante, scendendo in strada “benignamente d’umiltà
vestuta”, sbuco su via dell’Oriuolo.
Dopo aver notato la scritta murale LIBERTÀ DI SABOTÀ, incontro sul
marciapiede opposto Franco Contorbia, lo studioso che più di ogni
altro conosce la concreta vita letteraria del Novecento, le situazioni
in cui hanno operato scrittori e giornalisti, la storia delle riviste, la
sostanza quotidiana, il quadro istituzionale del mondo culturale. Vive
a Firenze e insegna a Genova: ora viene da una biblioteca, dove ha
fatto dei controlli per l’edizione da lui curata degli scritti giornalistici di
Bernardo Valli, uno dei grandi inviati dell’ultimo Novecento, a lungo
corrispondente da Parigi. Questo libro è ormai pronto: è il libro di un
giornalista che, a differenza di tanti suoi colleghi, non ha mai
pubblicato libri; è uno squarcio vivacissimo su una storia appena
trascorsa, quanto più interessante di tanti inutili libri di narrativa (e di
tanti inutili libri di giornalisti, spesso in testa alle classifiche). Allora,
tra Dante e Bernardo Valli, ci scambiamo qualche considerazione
sconsolata sugli attuali rapporti tra narrativa e giornalismo, sulla
sempre più grama vita dell’autentico giornalismo culturale e sulla
defunta critica “militante”, e anche sulle mosse del governo Renzi,
da pochi mesi insediato: con Firenze che si propone come modello
per l’Italia, con la nuova spavalda aria di fiorentinità che sembra
distendersi sull’intero paese… (ma tutto si dissolverà in brevissimo
tempo).
Ci salutiamo, procedendo in senso opposto: e alla fine di via
dell’Oriuolo, dove fa angolo con la via Sant’Egidio, si apre la bassa
volta di San Piero, occupata in parte dai tavoli di una trattoria e da
biciclette in sosta. Attraverso questa volta si esce sulla piazza di San
Pier Maggiore, su cui approda il borgo degli Albizi, prosecuzione del
già ricordato Corso. Sulla piazza di San Pier Maggiore si aprono tre
arcate, tardo residuo dell’antica chiesa del convento di San Pier
Maggiore. Le due arcate laterali sono chiuse, mentre quella centrale
immette nella via di San Pier Maggiore. La Porta di San Piero
doveva trovarsi più indietro, all’incirca all’attuale incrocio tra il Corso
e la via del Proconsolo (da cui appunto si diparte il borgo degli
Albizi), al Canto de’ Pazzi, dove è la lapide che la ricorda, con i versi
qui sopra trascritti di Paradiso, XVI 94-96. Nel menzionarla
Cacciaguida ricorda che ai suoi tempi lì presso erano le case dei
Ravignani (famiglia da cui era venuto Bellincione Berti, capostipite
dei conti Guidi), mentre ai tempi di Dante era carica di nuova fellonia
(qui nel senso di perfidia), dato che vi avevano luogo i Cerchi, nuovi
nobili venuti da fuori e tra i maggiori responsabili delle feroci lotte di
fazione, causa della iattura della barca, della prossima rovina di
Firenze.
Torri varie intorno, mentre nel percorrere tutta la zona direttamente
si percepisce il senso di un ambiente ottocentesco sovrappostosi e
intrecciatosi a tracce e residui della stratificata Firenze antica, con in
più l’inserirsi delle forme del consumo e del commercio
contemporaneo, specie i tanti piccoli ristoranti, pizzerie, bar, vinerie,
birrerie, gelaterie. Resta comunque una certa animazione popolare,
che si avverte bene nel procedere verso l’esterno, certamente ormai
al di là del sito dell’antica Porta San Piero, verso la via Pietrapiana,
su cui si apre a un certo punto la piazza dei Ciompi, dove è stata
ricostruita la Loggia del Pesce, che il Vasari aveva costruito per il
Mercato Vecchio e che fu smantellata nel nuovo assetto di Firenze
capitale. La loggia ospita un mercatino delle pulci che in realtà in
questo pomeriggio sembra non molto attivo.
Verso la Porta Peruzza

Io dirò cosa incredibile e vera:


nel picciol cerchio s’entrava per porta
che si nomava da quei de la Pera.
(Par., XVI 124-126)

In questa zona di Firenze, nella forma delle strade, nella vita che vi
si svolge, negli stessi caratteri dei bar, delle trattorie, dei negozietti,
sembra restare qualche traccia del tempo precedente l’espansione
turistica, qualche residuo barlume “popolare”. I turisti arrivano anche
qui, ma in minor numero, quasi sembrano assorbiti nel consueto
ritmo quotidiano. Così, oltre il mercatino della Loggia del Pesce, la
via Pietrapiana conduce alla chiesa di Sant’Ambrogio, che quasi
nessuno visita, ma in cui si trova la cosiddetta Cappella del miracolo:
vi è esposto un calice miracoloso (nel 1230 sarebbe stato trovato
pieno di sangue), davanti a un tabernacolo quattrocentesco con
rilievi marmorei di Mino da Fiesole (per giunta sepolto là sotto). Un
affresco sulla parete accanto, opera di Cosimo Rosselli, mostra una
scena di esposizione del calice sulla piazza antistante, con vari
gruppi di personaggi della Firenze laurenziana: c’è lo stesso pittore,
con un berretto nero, e in un altro gruppo Pico della Mirandola.
Lasciata la chiesa si arriva al tardottocentesco Mercato di
Sant’Ambrogio; e poi da lì si può girare con vari andirivieni per le
strade che conducono verso Santa Croce, da via de’ Macci a via
dell’Agnolo, a via dei Pandolfini, a via Ghibellina, a via dell’Isola delle
Stinche. Gli incroci tra le strade recano spesso nomi che avevano in
passato una ben definita funzione di identificazione urbanistica: sono
i canti, tanto spesso evocati come luoghi di incontro, di eventi, di
sorprese, dall’antica letteratura fiorentina. Qui il Canto alle Stinche,
segnato da uno stinto tabernacolo, evoca l’antico carcere così
chiamato, costruito proprio all’inizio del Trecento, tanto spesso
ricordato nella letteratura del Rinascimento (anche come carcere per
i debitori): al suo posto c’è ora il Teatro Verdi. Oltre via dell’Isola delle
Stinche, interrotta dalla piazza San Simone, ci sono stradine che
sfiorano edifici con facciate ricurve, che sembrano avvolgersi e
rincorrersi nel gioco dei loro nomi/percorsi, anche se la zona appare
ormai turisticamente lucidata: via della Burella, via dell’Acqua, via
dell’Anguillara, via Filippina, via Borgognona.
La ricurva via dei Bentaccordi, attraversato borgo dei Greci (che
collega direttamente Palazzo Vecchio a Santa Croce) porta sulla
irregolare piazza dei Peruzzi. Qui c’è il prospetto in curva del
Palazzo Peruzzi, costruito a fine Duecento mentre Dante qui intorno
si aggirava: per quei Peruzzi, allora grandi banchieri, che
probabilmente discendevano da quei de la Pera di cui parla
Cacciaguida, che abitavano da queste parti o forse un po’ più in là,
quasi a ridosso di quello che poi fu Palazzo Vecchio. Un arco che
dalla piazza dei Peruzzi dà su via de’ Benci mi fa pensare alla porta
di cui parla Cacciaguida, la Porta Peruzza, che per l’appunto doveva
essere più in là. Siamo comunque in quello che era il sestiere di San
Pier Scheraggio, che continuo a percorrere seguendo i vari tracciati
dei vicoli, in un continuo alternarsi tra sistemazioni turistiche ed echi
del passato “popolare”. Su via de’ Benci l’incrocio con via dei Neri ha
il nome di Canto agli Alberti, poi c’è la via dei Vagellai e, girando a
destra e riattraversata via dei Neri, la piazza San Remigio e
l’improvvisa immersione, come un ritorno in un passato non
lontanissimo, nella Firenze di Vasco Pratolini. Ecco via del Corno,
quella dove Pratolini ha vissuto per qualche anno e dove si svolgono
le sue Cronache di poveri amanti, con gli amori delle quattro
ragazze, dette Angeli Custodi, sotto gli occhi di una vecchia Signora
affacciata alla finestra, in mezzo all’animazione e ai rumori delle
botteghe sulla strada. Cornacchiai erano chiamati gli abitanti e i
lavoranti della strada, solida e fragile umanità di una Firenze che non
c’è più: non ne restano tracce in questa via del Corno in totale
silenzio, nessuna bottega aperta, nessun turista che passa, nessuno
che cerchi la lapide che ricorda il romanzo di Pratolini.
Basta poi andare poco più in là e immergersi nella ressa turistica,
così incredibilmente vicina, di piazza della Signoria e della Galleria
degli Uffizi. Via del Corno sbuca su via dei Leoni (tante volte evocata
nel romanzo), su cui aggetta il fronte posteriore di Palazzo Vecchio.
Girando a sinistra, si trova sull’altro lato del Palazzo la via della
Ninna. Sulla facciata opposta al Palazzo, nel corpo integrato nella
Galleria degli Uffizi, si trovano i resti della chiesa di San Pier
Scheraggio: tre colonne con capitelli sotto due arcate. Una lapide
designa questi “avanzi e vestigia” e ricorda che tra le mura della
chiesa NEI CONSIGLI DEL POPOLO SONÒ LA VOCE DI DANTE. Se qui era la
chiesa (il cui nome Scheraggio sembra riferito a un fosso che
passava accanto per confluire nel vicino Arno), la porta “che si
nomava da quei de la Pera” doveva essere dalla parte opposta,
presso l’angolo sudest di Palazzo Vecchio, sull’attuale piazza San
Firenze. E qui, mentre seggo sull’ampia scala di ingresso al
complesso di San Firenze, ora adibito soprattutto a Tribunale
Ordinario della città, scorgo l’immancabile lapide dantesca sul
palazzo d’angolo tra il borgo dei Greci e via dei Leoni, con in versi di
Cacciaguida qui messi in esergo. Certo se qui era la porta, “cosa
incredibile e vera”, le dimensioni di questa Firenze dell’XI secolo
erano davvero ridottissime.
Nel sito del Gardingo: tra piazza San Firenze e
piazza della Signoria

“…io Catalano e questi Loderingo


nomati, e da tua terra insieme presi,

come suole esser tolto un uom solingo,


per conservar sua pace; e fummo tali,
ch’ancor si pare intorno dal Gardingo.”
(Inf., XXIII 104-108)

Sempre qui intorno doveva essere il Gardingo, di cui dicono i due


Frati Gaudenti bolognesi che Dante incontra nella bolgia degli
ipocriti: Catalano dei Malavolti e Loderingo degli Andalò furono
inviati dal papa Clemente IV a Firenze dopo la battaglia di
Benevento, con una funzione di rettori col compito ufficiale di
pacificare la città per il rientro dei Guelfi esiliati dopo Montaperti: ma
la loro azione ebbe come esito, forse su mandato dello stesso papa,
una serie di violenze che portarono alla cacciata dei Ghibellini e alla
distruzione delle case degli Uberti (proprio le vicende a cui si allude
nel dialogo tra Dante e Farinata nel X dell’Inferno). Tra San Pier
Scheraggio e la chiesa di San Firenze si levava il Gardingo, che
doveva essere una antica torre di guardia, accanto alle case degli
Uberti: nel 1300 erano ancora visibili le rovine di quelle case, nella
zona in cui era in costruzione il nuovo Palazzo della Signoria. Dalla
piazza San Firenze guardo l’angolo più vicino del grande Palazzo
Vecchio, verso cui si muovono e verso cui vanno turisti di varie
fogge, tra cui ragazze dalla bianchissima carnagione che solcano
leggere gli scuri lastroni dell’impiantito: il loro sereno muoversi
sembra come sospendere quell’inestricabile e contraddittorio
intreccio tra bellezza e sessualità di cui sono portatrici, in maniera
tanto più esplicita e invadente delle stilnovistiche donne gentili. Loro
non lo sanno: ma nonostante le loro banalissime vesti prodotte in
serie, che così poco le coprono, resiste ancora in loro qualche
barlume di tenerezza, piccolo paradiso che annunzia e accetta la
sua prossima o già avvenuta violazione.
Ma ora lascio la scala del Tribunale e mi volgo a destra, sulla via
del Proconsolo, dove da una parte c’è il Palazzo del Bargello e in
faccia a esso uno dei due ingressi della Badia, la più importante tra
quelle fondate dal marchese Ugo di Toscana, il gran barone
(Paradiso, XVI 128), di cui è qui il sepolcro. Attraverso il portico
interno entro nella chiesa, ma trovo che in essa sta parlando un
predicatore molto vigoroso, davanti a un gruppo di persone
inginocchiate coperte da bianchi mantelli e ad altri numerosi fedeli in
abito consueto, seduti sui banchi. Non è ora possibile avvicinarsi al
sepolcro del gran barone: ma posso seguire la predica, rendendomi
conto molto presto che il predicatore è un personaggio molto noto,
anche nell’universo mediatico. Si tratta in effetti del priore di Bose,
Enzo Bianchi, che sta toccando temi affrontati da un suo libro uscito
proprio in questi giorni, Dono e perdono. Prima che dalla sostanza di
quello che dice sono attratto dal timbro e dalla forza in perpetua
espansione della sua voce, che sembra contenere una
imprescindibile proposta di sé; di essa Alfonso Berardinelli ha detto
che “ha un suono strano e attira di per sé l’attenzione, qualunque
cosa dica: sempre scandita con troppa energia, è una specie di
ruggito, un ruggito però che rassicura invece di spaventare”. Ora
parla della vicinanza all’altro e del valore del dono, interpretando la
parabola del buon Samaritano e rinviando a ciò che del dono si dice
per bocca di san Paolo negli Atti degli Apostoli. Confronta
l’autenticità del dono rivolto all’altro con la chiusura nel cerchio della
famiglia dei nostri consumistici regali di Natale. Ricorda il valore
della Grazia, termine oggi troppo trascurato, da intendere come
“amore di Dio nei miei confronti”. Ma Dio mi ama perché io ami
l’altro. L’autentico amore non può essere mai ripagato: nel dare
occorre aprirsi alla fiducia, accettare l’incertezza. Dio non è custode
della Legge. E oggi l’arte del dono non può e non deve consistere
solo in uno scambio tra persone, ma deve essere praticata
comunitariamente tra i popoli. È necessario che la pratica del dono
entri nelle istituzioni. Al dono è legato il perdono: occorre perdono tra
stati, occorre il condono dei debiti dei poveri. Calorosi applausi alla
fine del discorso.
Ora ritorno su piazza San Firenze, toccando il canto dei Cartolai
(c’erano botteghe e officine di cartolai e stampatori: nel Cinquecento
ci furono gli editori Lorenzo Torrentino e Giorgio Marescotti) e poi
raggiungo piazza della Signoria, che verso le 20 comincia a
diventare un po’ meno affollata. Accanto alla fontana del Biancone ci
sono macchine della Rai e di Sky per qualche servizio di telegiornali.
Nel cielo, sulla Loggia dei Lanzi, ma all’altezza della torre del
Palazzo della Signoria, splende la luna, in semplice primo quarto,
che certo non lascia riverbero sulla piazza, ma sembra indicare
comunque una ferma misura, una rassicurazione, certo inaffidabile,
sulla continuità cosmica, sulla persistenza della storia, di tutto quello
che questa città ha assestato, assettato e riassettato dai tempi di
Dante, da quelli dell’avo Cacciaguida, per offrirlo al nostro
affastellato consumo.
Borgo Santi Apostoli

Già eran Gualterotti e Importuni,


e ancor saria Borgo più quïeto
se di novi vicin fosser digiuni.
(Par., XVI 133-135)

Lascio piazza della Signoria attraverso il Chiasso dei Baroncelli e la


via Lambertesca, sfiorando l’edificio dell’Accademia dei Georgofili,
che nella notte tra il 26 e il 27 maggio 1993 subì un terribile
attentato, organizzato dalla mafia, con un’esplosione che fece
crollare l’antica Torre dei Pulci (che fu abitata da Luigi Pulci, l’autore
del Morgante): oltre ad altri danni qui e in edifici circostanti, causò la
morte di cinque persone e molti feriti. Ora tutto è tranquillo: e non
credo ci sia in giro qualcuno che sia a conoscenza di quell’evento o
possa domandarsi qualcosa su di esso. Nulla, non certo il tripudio
festivo, né l’entusiasmo di quanti affollano i vicini ristoranti, nulla
potrà dare un senso all’inutile, certo mai prima sospettata e
paventata, morte delle cinque persone, i quattro della famiglia
Nencioni (la custode Angelamaria, il marito Fabrizio, la figlia di otto
anni Nadia e la neonata Caterina, nata appena il 6 aprile!) e lo
studente Dario Capolicchio, che forse si trovava lì a caso per la
strada. Morti per un intreccio della perversità e del caso, per
qualcosa che non aveva nulla a che fare con la loro esistenza: la
mafia contro il cuore civile dell’Italia. E perché proprio quel luogo, il
luogo della vita di quella famiglia? Non c’è riscatto, non c’è possibile
giustizia che possa riparare alla vita che è stata negata, che non
potrà mai più essere vissuta.
La vita continua naturalmente a scorrere con tranquilla
indifferenza, tra l’eccitata vitalità di turisti e clienti dei ristoranti. Ne
L’antico fattore, proprio qui sulla via Lambertesca, mi è capitato di
cenare non molto tempo fa con i consueti e sempre allettanti piatti
della cucina toscana, che ora però ricordo per un improvviso
intermezzo dantesco: nei ristrettissimi spazi tra i tavoli apparecchiati
è apparso a un certo punto un giovane allampanato abbigliato in
abito dantesco, con il regolare cappuccio, chiedendo agli avventori
attenzione e benevolenza e dicendosi giovane attore senza lavoro
che gira recitando versi del divino poeta; premessa cui è seguita una
atteggiata dizione dell’episodio di Francesca. Così la bocca mi baciò
tutto tremante mentre bocche di americani con ben scarsa familiarità
con i personaggi danteschi e con la lingua italiana ingurgitavano
ribollite e pappe col pomodoro o coscienziosamente masticavano
sanguinolente fiorentine.
Domandandomi se anche stasera questo giovane fantasma
dantesco si aggiri nei paraggi, attraverso l’affollata via Por Santa
Maria, entro nel Borgo, quel borgo Santi Apostoli di cui Cacciaguida
ricorda gli antichi abitatori Gualterotti e Importuni, lamentando il
danno fatto dai novi vicin (i Buondelmonti, al cui scontro con gli
Amidei veniva attribuita l’origine delle violente lotte tra le famiglie
fiorentine). Questa strada è tra quelle (come la parallela via delle
Terme) che più conservano tracce di antica disposizione e di antichi
edifici, con i vari Chiassi che sbucano su di essa e la riconnettono da
una parte a via delle Terme, dall’altra al Lungarno degli Acciaiuoli.
Svoltando variamente tra via delle Terme e borgo Santi Apostoli, si
tocca il Palazzo di Parte Guelfa, che fu sede dell’Accademia della
Crusca: una lapide, sull’angolo di via Pellicceria, ricorda che qui dal
1590 al 1612 fu compilato il primo Vocabolario della Crusca. Ecco,
incassate tra case più tarde, una torre dei Buondelmonti tra via delle
Terme e il Chiasso delle Misure, e un’altra (passata poi agli
Acciaiuoli) tra quello stesso Chiasso e borgo Santi Apostoli.
Qui, oltre la vista, sono anche i nomi delle strade a proiettare verso
altri tempi e modi di vita: e assume un effetto di mistero la piazza del
Limbo, su cui si trova la chiesa di Santi Apostoli. Nome tardo, questo
della piazza (che precedentemente aveva il nome della chiesa), ma
legato al fatto che nella zona esisteva un cimitero davvero singolare,
quello dei bambini morti senza battesimo. Nei rumori della città che
si levano sul margine della sera mi pare quasi di sentire gli
indeterminati lamenti di questi bambini che non hanno fatto in tempo
ad apprendere una lingua, che l’antica teologia, trascorrendo da
Agostino a Tommaso, considerava segnati dal peccato originale,
relegandoli appunto al margine (limbo è appunto limbus, orlo,
margine dell’inferno); bambini trascurati da Dante, che al Limbo
dedica il IV dell’Inferno. Lì i bambini vengono fuggevolmente evocati
ai versi 29-30 (si parla delle “turbe, ch’eran molte e grandi, / d’infanti
e di femmine e di viri”), mentre si insiste sui giusti dell’antichità, spiriti
magmi, eroi, poeti e filosofi, non senza concessione ai giusti
dell’Islam (Avicenna, Averroè, il Saladino). Nella mia infanzia
pensavo spesso a questi bambini del Limbo, al loro non sapere
perché confinati lì, e alla necessaria tempestività di battesimi
d’emergenza che potevano sottrarre i neonati a quel destino. Tendo
le orecchie, come se potessi sentire flebili lamenti che sono soltanto
echi della mia infanzia e delle ingenue credenze di allora,
fermamente sostenute, allora, dalla Chiesa cattolica che negli anni
successivi le ha man mano sospese e poi cancellate: e il Limbo, ora
non esiste più, è stato esso stesso ridotto ai margini, confinato nel
limbo delle esauste illusioni. Liberi di credere che anche i giusti del
Limbo dantesco siano ora in Paradiso e che magari oggi Dante si
trovi a conversare con Virgilio nella candida rosa dei beati.
Lascio la piazza del Limbo e percorro borgo Santi Apostoli che alla
fine sbuca sulla piazza Santa Trinita. Qui subito, sulla sinistra, c’è
quel Palazzo Spini-Feroni, la cui forma originaria risale alla fine del
XIII, ma di cui dal XVII secolo è stata proprietaria una famiglia di
fresca e forse equivoca nobiltà con cui ho qualche parentela, almeno
onomastica (e qualcuno, del resto, scrive anche Ferroni). Ora è di
proprietà di una celebre casa di moda, Ferragamo, e ospita tra l’altro
il Museo Salvatore Ferragamo. Il Palazzo Buondelmonti, che è
subito a fianco, reca due lapidi che evocano presenze letterarie:
quella di Gian Pietro Vieusseux che qui, nel 1819, aprì il suo
Gabinetto scientifico-letterario, che oggi accoglie in diverse sedi un
ricchissimo archivio di documenti di scrittori del Novecento; e quella
più lontana indicata con le parole IN QUESTA CASA / DI / ZANOBI
BUONDELMONTI / PIÙ VOLTE / EBBE GRATA DIMORA / LUDOVICO ARIOSTO.
Durante uno di quei soggiorni, nel giugno del 1513, Ariosto dichiarò il
suo amore a quella che fu la donna della sua vita, Alessandra
Benucci, in mezzo al tripudio collettivo della festa di San Giovanni,
che egli ricorda nella festosa canzone Non so s’io potrò mai chiudere
in rima.
Qui accanto, peraltro, c’è il Ponte Santa Trinita, dove, secondo una
tradizione o invenzione, molto cara ai Preraffaelliti, ci sarebbe stato
uno degli incontri tra Dante e Beatrice (così nel quadro del 1883 di
Henry Holiday alla Walker Art Gallery di Liverpool). E sul Lungarno
che prosegue verso il Ponte alla Carraia si dispongono altre
vicinissime presenze letterarie; subito c’è il Palazzo Gianfigliazzi, ora
chiamato Alfieri, perché, come dice una lapide, Vittorio Alfieri vi abitò
con la contessa Luisa d’Albany nei suoi ultimi anni e vi morì nel
1803; segue poi un secondo Palazzo Gianfigliazzi, dove (ancora una
lapide) abitò Alessandro Manzoni nel 1827, in quel soggiorno in cui
provava a “risciacquare i panni in Arno”, in modo da mettere mano
alla revisione della lingua dei Promessi sposi, di cui era appena
apparsa la prima edizione (e a Firenze gli capitò anche di incontrare
il più giovane e allora poco celebre Leopardi). Soggiorni di scrittori
diversi e per ragioni diverse, non fiorentini ma variamente attirati da
questa città: quante volte si saranno affacciati sul fiume che scorre
tranquillo Manzoni, Alfieri, Ariosto.
Ritorno alla piazza Santa Trinita, davanti al familiare Palazzo
Feroni (del resto qualche volta sono divenuto anch’io Feroni,
subendo certa tendenza romanesca a scempiare la doppia r): e mi
seggo vicino al soggiorno dell’Ariosto, sull’angolo destro del borgo
Santi Apostoli, per una frugale cena alla Trattoria Le Antiche
Carrozze. Poi potrei anche andare a curiosare nell’effervescente
cortile del vicino Palazzo Strozzi: qui sono in azione i workshop dei
Creativi in cortile, i Caratteri al Quadrato, che organizzano i Giovedì
al Quadrato, Thursday of the Square (“Thursdays Squared a new
way to enjoy Thursday evenings at Palazzo Strozzi”): oggi ci sarà un
concerto live di folk blues del polistrumentista Stella Burns, cow-boy
con un nome femminile, tra i due Caffè che danno sul cortile e che
ora, dato che nel Palazzo c’è una mostra su due grandi manieristi
fiorentini, si chiamano Caffè Pontormo e Caffè Rosso. Come
scegliere? A quale dei due è più appropriata la dispiegata misura del
folk americano?
Santa Maria del Fiore, già Santa Reparata

Tempo futuro m’è già nel cospetto,


cui non sarà quest’ora molto antica,

nel qual sarà in pergamo interdetto


a le sfacciate donne fiorentine
l’andar mostrando con le poppe il petto.
(Purg., XXIII 98-102)

Forese Donati, che Dante incontra nel girone purgatoriale dei golosi,
esprime gratitudine per l’amata vedovella, che tanto ha pregato per
lui, e oppone alla sua pietà la diffusa corruzione delle donne
fiorentine: con una profezia certo “minore”, rispetto alle tante sparse
nel poema, allude alla dura reprimenda che sarebbe stata fatta nel
1310 dal vescovo di Firenze Antonio d’Orso Biliotti a proposito
dell’abbigliamento femminile (Constitutio de consuetudine), con il
divieto alle donne di scoprire le parti del corpo: ingiunzione, con vera
e propria scomunica, comminata dal pergamo, dal pulpito. È il primo
pomeriggio del 9 maggio, quando mi dirigo verso l’interno del
Duomo, da cui fu lanciato questo interdetto; e per strade e piazze il
flusso turistico mostra quanto siamo distanti da quegli interdetti e
dalla misogina pruderie di Forese, di Dante, del vescovo di allora.
Variegata esibizione di nudità, che peraltro, pur senza trascurare le
poppe e il petto, privilegia piuttosto gli arti inferiori, qualche volta
scopre l’ombelico: segno di libertà, di gioia del corpo e di se stesse,
da parte di queste ragazze svettanti su tacchi alti o scivolanti su
pianelle e infradito. Il paradosso è che ora, oltre all’emancipazione
da ogni ingiunzione dal pulpito, così scoperte e munite di biglietto
possono perfino entrare nel Duomo, indifferenti e innocenti visitatrici
venute da ogni parte del pianeta. Ora varie ragazze in pantaloncini
che si affollano all’ingresso si trovano casualmente accanto a un
paio di castigatissime islamiche dalle lunghe gonne, col velo che
nasconde anche il collo e i capelli, per giunta vigilate dai soddisfatti
mariti.
Nell’ombroso interno del Duomo si espande la musica dell’organo,
che sembra quasi insistere su di una nota costante, mentre i
visitatori si muovono disordinatamente, salvo quelli aggruppati
intorno a una guida, e convergono soprattutto verso la cupola e
l’affresco vasariano del Giudizio universale. Ben pochi si soffermano
a guardare i due formidabili affreschi con le immagini di condottieri
superbamente in arcione su possenti cavalli rampanti, Giovanni
Acuto di Paolo Uccello e Niccolò da Tolentino di Andrea del
Castagno. Non c’è nella chiesa un pergamo dei tempi di Dante, ma
c’è una delle più celebri e riprodotte immagini dantesche, quella di
Domenico di Michelino, esposta per le celebrazioni del secondo
centenario della nascita (1465), alla cui base sono vergati versi in
lode del poeta. Di prospetto al centro del dipinto, ma spostata
leggermente a sinistra, è la sua figura: con la mano sinistra mostra
un libro aperto, in cui si legge l’incipit della Commedia. A sinistra
verso il basso schiere di dannati procedono nell’inferno; indietro si
staglia la montagna del Purgatorio, con le sue cornici, mentre in alto
si incurvano gli archi dei cieli. A destra del poeta, una sommaria
immagine di Firenze, in cui si riconosce bene la cupola del
Brunelleschi, che ovviamente al tempo di Dante non c’era.
Nulla del Duomo attuale riconduce alla forma del tempo di Dante:
qualche traccia se ne può cercare negli scavi dell’antica cattedrale di
Santa Reparata, che proprio alla fine del XIII secolo si decise di
abbattere e sostituire con la nuova più ampia Santa Maria del Fiore.
L’8 settembre del 1296 fu posta la prima pietra della nuova
costruzione e si può anche pensare che Dante fosse presente. La
vecchia Santa Reparata continuava comunque ancora a funzionare:
e per più di un secolo i fiorentini continuarono a usare la sua
denominazione anche per il nuovo assetto. Dallo stesso interno del
Duomo si scende ora negli scavi di Santa Reparata: qui,
muovendosi tra le pedane che proteggono i vari strati dell’antica
pavimentazione, si può avere addirittura l’illusione di osservare
qualche frammento di pavimento calcato dal poeta. Qualche altro
lacerto dei tempi danteschi si può poi trovare nel vicino Museo
dell’Opera del Duomo: e tra questi proprio una statua di
BonifacioVIII, attribuita ad Arnolfo di Cambio, risalente ai primi anni
del pontificato e certo vista da Dante, quando ancora non era
maturata la sua implacabile inimicizia per quel “principe d’i novi
Farisei” (Inferno, XXVII 85).
Intanto, risalendo dagli scavi di Santa Reparata, sulla parete
all’inizio della navata destra del Duomo, osservo un tondo marmoreo
con l’immagine di Giotto. È opera tardo quattrocentesca di
Benedetto da Maiano con un epitaffio del Poliziano che comincia:
“Ille ego sum, per quem pictura extincta revixit” (“Sono quello grazie
al quale la pittura morta rivisse”). E allora non si può non pensare
alle parole di Oderisi da Gubbio in Purgatorio, XI 94-96:

Credette Cimabue ne la pittura


tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.

Fuori, isolato alla destra del Duomo, si slancia verso l’alto, nella sua
prodigiosa elevazione, come controbilanciata da un effetto di solidità,
di radicamento in una terrena e scultorea consistenza, il campanile
di Giotto, di cui Dante nulla ha saputo, dato che la progettazione e
l’inizio della costruzione da parte dell’artista ebbe luogo solo nei suoi
ultimi anni, prima della morte (1337) e che il tutto fu concluso solo
nel 1359, certo sotto gli occhi di Giovanni Boccaccio.
Piazza della Repubblica (Mercato Vecchio)

Già era ’l Caponsacco nel mercato


disceso giù da Fiesole, e già era
buon cittadino Giuda e Infangato.
(Par., XVI 121-123)

Famiglie ghibelline queste, Caponsacchi, Guidi e Infangati, che


Cacciaguida ricorda come ben piantate nella Firenze dei suoi tempi.
I Caponsacchi erano venuti da Fiesole e dimoravano nel quartiere
del Mercato Vecchio. Ora all’antica piazza di Mercato Vecchio si può
pensare solo recandosi, non lontano dal Duomo, sulla grande piazza
della Repubblica. Questa è molto più grande della piazza antica ed è
risultata dalle vastissime demolizioni e dalle nuove costruzioni del
1885-1895, uno dei più ambiziosi e incongrui interventi urbanistici
dell’Italia umbertina, sistemata allora col nome di piazza Vittorio
Emanuele II. La parte verso Palazzo Strozzi (lato ovest della piazza)
è porticata: in essa si apre un arco trionfale (che introduce su via
degli Strozzi) con una scritta che esalta l’intervento: L’ANTICO CENTRO
DELLA CITTÀ DA ANTICO SQUALLORE A VITA NUOVA RESTITUITO. Il Mercato
Vecchio era proprio qui: e si possono vedere le foto precedenti alle
demolizioni, dalla parte dei portici e a destra, sul fronte nord dalla
piazza attuale, dove sono i grandi Caffè Paszkowski e Gilli. Verso
sud si entrava in quello che era il ghetto; e c’era la torre dei
Caponsacchi, vittima di quelle demolizioni umbertine. Da quel lato ci
sono altri caffè, tra cui il celebre Le Giubbe Rosse, che nella prima
metà del Novecento fu centro dell’allora vivace vita letteraria
fiorentina, punto di incontro, di sosta e di scontro degli scrittori che
animavano le riviste, le avanguardie, le istituzioni d’allora, da Papini
e Soffici, a Palazzeschi e Quasimodo, a Montale, a Gadda e
Landolfi.
Ora comunque gran parte dell’ampio spazio della piazza è
occupato dai cosiddetti dehors dei vari caffè: e anche l’ingresso de
Le Giubbe è nascosto da uno di questi giganteschi gazebo, pedane
ricoperte di legnami, plastiche, metalli, vetri e plexiglass, in
prevalente effetto di bianco sporco o leggermente sfumante verso il
rosa o il grigio. È tutto un proiettarsi di caffè all’esterno. In questi
giorni questo impero dei caffè, che sembra come voler punire la
piazza per quegli scempi tardo ottocenteschi da cui è nata, è
ulteriormente amplificato da più episodici gazebo disposti al suo
centro, in cui si celebra un sedicente PAUSA CAFFÈ FESTIVAL - PERCORSO
DEL GUSTO 7/8/9 MAGGIO. Turisti stravaccati sui lastroni dell’impiantito,
turisti seduti nei vari dehors dei caffè, turisti e fiorentini che
curiosano entro l’alloggiamento del provvisorio festival: in questa
animazione un po’ sciatta e plastificata, tra i pur gradevoli aromi del
caffè, risuona forse qualche eco distorta di quella che doveva essere
l’animazione del defunto Mercato Vecchio.
Comunque ristorazione e cibo dominano tutto l’orizzonte. Sotto i
portici, al posto di un vecchio cinema, c’è ora la Feltrinelli Red,
libreria certo, a più piani, dove a pian terreno vedo la scritta CUCINA:
ora c’è un bar in piena attività, con in mostra eleganti e anche
preziose bottiglie di vini di diverse regioni italiane. Poi, di sopra, ecco
due piani per i libri; salgo al secondo, dedicato alla saggistica, ma
con assoluta prevalenza di libri di cucina e di viaggio. Ci sono buoni
scaffali per la filosofia, ma invano cerco la critica letteraria: sarà in
qualche sottoscala o subscaffale, ma proprio non riesco a trovarla
(non si dice del resto che è ormai esaurita, estinta, defunta più o
meno in eutanasia?). Sopravvivono alcuni libri di politica, lasciti,
persistenze, sogni di un’evaporata sinistra; e mi viene da pensare
che, pur in questa configurazione tra cucina e supermercato,
qualificandosi come RED, rossa, Feltrinelli voglia qui esibire la fedeltà
alle sue radici. Ma solo al momento di uscire, scorgo dietro la cassa
la vera natura di questo Red: non è che un acronimo, sciolto da un
cartello bene in vista… RED va inteso come RED EAT DREAM. Preferisco
sognare altrove, sorseggiare un caffè alle vecchie Giubbe Rosse,
dopo aver aggirato e superato il pesante dehors che vi si proietta
davanti: sognando gli svaniti ozi e le bruciate passioni di letterati che
qui passavano il loro tempo, evocando soprattutto i due più grandi,
Eusebio e l’Ingegnere, a come poteva accadere di incontrarli qui,
distinti e riservati signori, poco disposti a sentimentali effusioni, tanto
lontani dal nostro commercializzato sognare.
A sud della piazza, ma dal lato opposto a quello su cui dà Le
Giubbe Rosse, si apre via Calimala (dove era la bottega di barbiere
del Burchiello, in cui risuonava la sua poesia capace di affastellare
nomi, oggetti, merci e fantasie, l’evaporata normalità, la disinvoltura
di un senso privo di senso), che mi conduce verso la Loggia del
Mercato Nuovo, piena di banchi di artigianato offerto ai turisti: loggia
cinquecentesca, come quella del Pesce (ho già detto che questa fu
collocata proprio in Mercato Vecchio e dopo le demolizioni è stata
ricostruita, ma molto più tardi, nel 1951, da tutt’altra parte, nella
piazza dei Ciompi, vedi p. 119).
Ponte Vecchio

I’ fui de la città che nel Batista


mutò ’l primo padrone; ond’ei per questo

sempre con l’arte sua la farà trista;


e se non fosse che ’n sul passo d’Arno
rimane ancor di lui alcuna vista,

que’ cittadin che poi la rifondarno


sovra ’l cener che d’Attila rimase,
avrebber fatto lavorare indarno.
(Inf., XIII 143-150)

Ma conveniesi, a quella pietra scema


che guarda ’l ponte, che Fiorenza fesse
vittima ne la sua pace postrema.
(Par., XVI 145-147)

Tra la Loggia del Mercato Nuovo e la fontana detta del Porcellino, la


folla è sempre più fitta e trovo addirittura un intoppo all’inizio di Por
Santa Maria per l’intasamento dei turisti che procedono verso Ponte
Vecchio: qui, poco prima del ponte, sul passo d’Arno si trovavano i
resti di una statua equestre identificata come idolo pagano, del dio
Marte. I versi del canto XIII dell’Inferno sono posti in bocca al suicida
fiorentino, piantato nell’albero danneggiato dalla corsa di uno
scialacquatore e dai cani che lo inseguono. Questo dannato, non
ben identificabile, indica la sua patria Firenze richiamando la
leggenda secondo cui la città, fondata originariamente, sotto il segno
di Marte, dopo essere stata distrutta da Attila, sarebbe stata
ricostruita sotto il segno di san Giovanni Battista, collocando il
Battistero proprio sulle rovine di un tempio di Marte. La violenza che
grava su Firenze sarebbe quindi dovuta a una vera e propria
vendetta del dio della guerra, suo primo padrone tralasciato: una
parziale attenuazione dell’ostilità del dio (che, se portata all’estremo,
avrebbe portato la città alla distruzione) sarebbe dovuta alla
presenza della statua di Marte, sul passo d’Arno. La statua che era
qui al tempo di Dante sparì poco dopo la sua morte, nell’inondazione
del 1° novembre 1333. Era lì ben presente il giorno di Pasqua del
1216: è la “pietra scema / che guarda il ponte” evocata nelle parole
di Cacciaguida nel canto XVI del Paradiso, in un contesto che parte
dall’evocazione dell’onore in cui era tenuta la famiglia degli Amidei,
dal cui giusto disdegno per l’oltraggio subìto dai Buondelmonti
nacque il fleto, il pianto di Firenze, cioè l’insieme dei lutti e delle
sciagure protrattisi fino agli anni più recenti. Era consuetudine far
risalire il violento scontro tra le fazioni fiorentine allo sfregio di
Buondelmonte de’ Buondelmonti che, invece di sposare come
promesso una ragazza della famiglia degli Amidei, nel giorno stesso
delle nozze previste aveva sposato una Donati, suscitando l’ira degli
stessi Amidei, che lo uccisero su Ponte Vecchio quella mattina di
Pasqua del 1216. E nella terzina qui riportata Cacciaguida dice che
conveniesi, era necessario che Firenze, al limite estremo della sua
vita pacifica, offrisse una vittima a quella statua mutila. Uno dei
responsabili di quella violenza era stato Mosca dei Lamberti,
ghibellino legato agli Amidei, che aveva dato il parere decisivo per
l’uccisione del Buondelmonti, con una frase divenuta proverbiale
(“Capo ha cosa fatta”), che Dante gli fa ripetere incontrandolo tra i
seminatori di discordia nella nona bolgia infernale, e rispondendogli
aggressivamente che quel mal seme, l’origine della rovina di
Firenze, condusse anche alla fine della stirpe dei Lamberti (Inferno,
XXVIII 106-111).
Ora su questo passo non più protetto dall’idolo di Marte si danno
intoppi variabili e fortunatamente non violenti. Occorre comunque
procedere a zig zag, tra le botteghe degli orafi e le loro vetrine, su
cui si posano innumerevoli sguardi curiosi, entusiastici, meravigliati,
diffidenti, mentre viene ignorato il busto dell’orafo Benvenuto Cellini
che si affaccia sull’apertura al centro del ponte. L’attraversamento di
Ponte Vecchio non può essere che sotto il segno dell’oro, come se
gli orafi prolungassero nei loro lussuosi monili la gloria del fiorino,
della prestigiosa moneta fiorentina, col suo prezioso conio d’oro.
Allora, di fronte all’eleganza delle gioie più belle e costose, ai loro
prezzi vertiginosi, possono venire in mente le durissime parole con
cui nel cielo di Venere Folchetto di Marsiglia evoca Firenze, pianta di
Satana:

La tua città, che di colui è pianta,


che pria volse le spalle al suo fattore
e di cui è la ’nvidia tanto pianta,

produce e spande il maladetto fiore


c’ha disviate le pecore e li agni,
però che fatto ha lupo del pastore.
(Par., IX 127-132)

Lasciando tutto l’esposto brillio dell’oro (capita peraltro che l’intero


Ponte Vecchio venga talvolta affittato per cene ed eventi esclusivi, in
genere destinati a chi l’oro può tranquillamente permetterselo),
lascio anche la folla e i suoi intasamenti, procedendo al di là del
ponte, oltrarno, verso sinistra, superando la via de’ Bardi (banchieri
che di fiorini erano ben edotti) e sbucando sul Lungarno Torrigiani,
che mi conduce verso il vicino Ponte alle Grazie. Quasi all’inizio di
questo Lungarno c’è un garage che espone gadget della Fiorentina
(la squadra di calcio) e della Ferrari, in vetrine separate, che
colpiscono l’occhio per il viola della squadra (detta appunto, anche
nelle incitazioni dei tifosi, la viola) e il rosso dell’auto da corsa.
Ponte alle Grazie, Monte alle Croci
e San Miniato al Monte

Come a man destra, per salire al monte


dove siede la chiesa che soggioga
la ben guidata sopra Rubaconte,

si rompe del montar l’ardita foga


per le scalee che si fero ad etade
ch’era sicuro il quaderno e la doga;

così s’allenta la ripa che cade


quivi ben ratta da l’altro girone;
ma quinci e quindi l’alta pietra rade.
(Purg., XII 100-108)

La scala che conduce dalla prima alla seconda cornice del


Purgatorio viene paragonata a quella con cui si sale dalla riva d’Arno
al monte alle Croci, dove si trova una delle chiese più antiche e più
belle, di suggestione assoluta anche quando la si guarda da lontano,
magari dalle spallette d’Arno su cui si affaccia la Galleria degli Uffizi:
dolcemente posata lassù, come a voler proiettare verso il cielo con
la geometria libera e perfetta della sua facciata tutta Firenze, come
dissolvendo il suo affollato e ininterrotto brulichio, la chiesa di San
Miniato al Monte fu impiantata ben prima dei tempi di Dante e a lui si
presentava con un aspetto non lontanissimo dall’attuale, anche se
più nudo e selvoso era certo il Monte alle Croci. Chiesa che
soggioga, cioè sovrasta, Firenze (che qui Dante designa
ironicamente come ben guidata, città ben governata) subito sopra il
Ponte alle Grazie, che allora veniva indicato col nome del podestà
milanese Rubaconte da Mandello, che nel 1237 aveva provveduto
alla sua costruzione. Nell’evocazione delle scalee che alleviavano la
fatica del salire al monte, Dante inserisce uno dei tanti spunti
polemici contro la corruzione fiorentina: dice infatti che esse furono
costruite in un tempo in cui non si davano malversazioni come quelle
recenti (ben identificate poi dagli studiosi), a cui alludono i riferimenti
al quaderno e alla doga, cioè falsificazione degli atti comunali
(quaderno) e alterazione fraudolenta della misura del sale (con la
modificazione del misurino fatto di doghe di legno). Queste scalee
costituiscono comunque termine di paragone per quelle che portano
dal primo al secondo girone del Purgatorio, anche se Dante nota
pure un’essenziale differenza, dato che, ben diversamente da quelle
del monte fiorentino, le scale purgatoriali sono strettamente
incassate tra la roccia, che quasi sfiora chi procede.
Ecco intanto il Ponte alle Grazie, che fu chiamato così per la
presenza di una cappella miracolosa dedicata alla Madonna: in
corrispondenza dei pilastri del ponte si trovavano in effetti
tabernacoli, poi ampliati in veri e propri casotti, cappelle e botteghe,
demoliti nel 1876 per permettere il passaggio del tram. La forma
attuale, certo lontanissima da quella progettata da Rubaconte, risulta
poi da una costruzione successiva alla distruzione che il ponte subì
durante la seconda guerra mondiale: lo percorro, notando che in
questo punto il letto dell’Arno è più ampio e disteso, rispetto al suo
restringersi poco dopo, a valle, verso Ponte Vecchio e i successivi
ponti a Santa Trinita e alla Carraia. Ritornando subito oltrarno,
procedo sul Lungarno Serristori, dove a un certo punto si apre una
piazza con giardino e monumento al conte Nicola Demidoff, nobile
russo innamorato di Firenze e benefattore del vicino popolo di San
Niccolò (il borgo addossato sul pendio retrostante) all’inizio
dell’Ottocento. Seduto su una panchina del giardino, guardo i palazzi
schierati sull’altra riva dell’Arno, poi Ponte Vecchio a sinistra, e più in
là l’addossarsi, una dietro l’altra, delle parti svettanti degli edifici più
celebri: il campanile di Santa Croce, la torre del Palazzo della
Signoria, la cima del cupolone, mentre più vicina e avanzata verso il
fiume, quasi dirimpetto, la facciata primonovecentesca della
Biblioteca Nazionale Centrale. Qui mi pare di sentire meglio il respiro
di Firenze, tra pochi passanti (qualcuno che porta a spasso il cane) e
una sola persona seduta su una panchina più in là.
Lasciato il giardino, raggiungo rapidamente l’ampio spazio dov’è la
grande Porta San Niccolò, costruita poco dopo la morte di Dante; da
qui inizia l’ascesa al Monte, che comporta varie possibilità, scale,
viali, deviazioni di vario tipo, scale di pietra e viali lastricati, viali
ghiaiosi, ringhiere, muri di sostegno, contrafforti e sporgenze,
tangenze con la strada asfaltata percorsa dalle auto, cespugli e
anfratti, aiuole variamente circoscritte. Chissà dove erano quelle
scalee fatte nel tempo ch’era sicuro il quaderno e la doga, che ora
percorriamo in tempi in cui falsificazioni e malversazioni possono
prescindere da oggetti così concreti, affidarsi all’evanescenza
digitale, all’incontrollabile velocità dei flussi finanziari.
Salgo e modero la foga del salire sostando nel piacevolissimo
Giardino delle rose, dove sono esposte sculture di Jean-Michel
Folon, tra le quali mi colpisce Partir, del 2002 (uno degli ultimi anni di
vita dell’artista), una sorta di bronzea valigia, consistente in un’ampia
cornice rettangolare il cui interno contiene alla base uno stilizzato
piroscafo navigante sui flutti ma che è per il resto del tutto vuota e
inquadra una perfetta vista fiorentina dall’alto. In fondo si vedono le
sfumate e digradanti colline a nord della città, mentre una gru
meccanica è in azione sopra gli edifici che si addensano sulla
destra, poi più in là Palazzo Vecchio, la cupola di San Lorenzo, il
campanile di Giotto, e ciò che c’è dietro, mentre un vicino cipresso
impedisce la vista del cupolone del Brunelleschi.
Salendo ancora e seguendo con lo sguardo il distendersi e quasi
muoversi del panorama, come un disporsi della bellezza di Firenze a
livelli sempre diversi, un suo continuo combinarsi e ricombinarsi,
sotto il sole che anima i giardini, le piante del Monte, le ville della
vicina collina, sorge l’eco del grido di Foscolo:

Te beata, gridai, per le felici


aure pregne di vita, e pe’ lavacri
che da’ suoi gioghi a te versa Apennino!
(Dei Sepolcri, 165-167)
Bellezza distesa, di assoluta evidenza ma inafferrabile come ogni
bellezza, che persiste al di là e oltre tutto ciò che brulica in mezzo a
quei fitti edifici, a tutto ciò che la costipa, che la consuma e la
degrada. Arrivo all’ultima scalinata, al cui limite si scopre il frontone e
la cuspide della chiesa, che poi rivela lentamente l’insieme della sua
facciata, man mano che si superano i gradini. A metà di questa
ultima scalinata un ragazzo e una ragazza variamente si baciano,
seguendo i suggerimenti di un amico che li filma, facendoli
variamente muovere, da un gradino all’altro e continuando a filmare.
Poi, raggiunto il sagrato della chiesa, i misurati contrasti di colore
(bianco e verde del marmo), la geometria di curve, rettangoli, rombi,
il replicato inquadrarsi della superficie in segmentazioni, aperture e
aggetti illusori e insieme reali, le varie sfumature che la pietra riceve
dall’azione del sole, tutto conduce al massimo livello di una bellezza
senza carne, come può essere un paradiso, che proprio nel suo
eccesso di purezza, nella sua compartizione, tocca un assoluto, che
evoca ciò che è assente, che suscita perfino un impalpabile richiamo
di eros divino. Penetrando nell’interno questo effetto viene come a
ripiegarsi su di sé, in ombroso segno di silenzio: sulla parete della
navata destra, subito dopo l’ingresso, mi colpisce un grande san
Cristoforo, che sulle spalle porta un piccolo Gesù e sembra voler
condurre anche noi, piccoli esseri moderni e postmoderni, verso un
impossibile approdo, verso quell’incontro con lo spirito divino che ci
è negato, da noi stessi e per noi stessi negato.
Nella sagrestia le storie di san Benedetto di Spinello Aretino ci
riconnettono all’origine della vita monastica. Scendo nella cripta,
dove quattro monaci (qui hanno stanza benedettini olivetani)
cantano l’ufficio, con la suggestione di un canto che sembra venire
da un altro tempo e da un altro mondo. I pochi turisti che sostano in
questo interno sono attratti da questo canto, seggono sui banchi
affascinati, come nella nostalgia di una vita che non può essere la
nostra (quanto diverso è tutto questo dal chiassoso gesticolare che
ho trovato ad Assisi, davanti alla tomba del santo!). Tre dei monaci
sono vestiti di bianco e uno è vestito di nero (mentre di pelle nera è
uno dei tre bianchi). Dentro questa cripta, sotto le volte del
presbiterio con le vele affrescate da Taddeo Gaddi, con figure varie
di santi, profeti, evangelisti su fondo dorato, si ha una strana
sensazione di profondità: e anche se ci sono finestrelle dietro
l’abside e ce n’è una in fondo a una navata, si dà un effetto di
contrasto con la luce accecante dell’esterno, e anche con la stessa
spinta ascensionale in cui la chiesa è librata per la sua posizione,
per il modo in cui la si scorge dal centro della città. Si percepisce
appena improvviso il suono dell’organo che accompagna, per una
breve serie di note, il canto dei quattro monaci, mentre altri si
aggiungono a essi, scendendo nella cripta.
Ascesa e discesa, salire e scendere, alto e basso, sono come
commisurati, integrati, messi a contrasto in questa pur impossibile
suggestione paradisiaca di San Miniato. Risalendo dalla cripta
osservo in tutto il pavimento della chiesa molte lapidi che sembrano
ricondurci alla vita della terra, a tante dolorose situazioni di vita
consumata dalla morte. Si tratta perlopiù di tombe: e del resto siamo
nel cuore del Monte alle Croci, detto così proprio per la sua antica
destinazione a cimitero. Molte tombe hanno epigrafi ottocentesche,
non più in latino come le più antiche, ma in un italiano molto
letterario: alcune sono come struggenti tentativi di lasciare qualche
esile traccia della vita che non c’è più, del dolore con cui si è
consunta, di quello che ha lasciato in chi è rimasto. Disperazione
che si dispiega pur entro la proiezione consolatoria nel destino
ultraterreno. Anche nei loro eccessi, nel loro turgore retorico, queste
parole appaiono scandite nel ritmo del dolore, specie quando
lamentano vite troppo brevi, fanciulle in fiore distrutte da un morbo
improvviso, bambini che cominciavano a scoprire il mondo e che ne
sono stati scacciati da qualche inconcepibile male: LA MORTE /
DONANDO UN ANGELO AL CIELO / TRONCÒ SULLA TERRA / LA GIOIA DI QUATTRO
ANNI D’AMORE; a ROSA NERI MOGLIE DI TUTO ZENNI / MODELLO DI CRISTIANE E
DOMESTICHE VIRTÙ / DONNA PRUDENTE RELIGIOSA E CRISTIANA / MADRE
INCOMPARABILE DI FAMIGLIA DI OTTO FIGLI / AFFATO SCEVRA DI FASTO / CHE
L’INDIGENTE E L’INFELICE SOLLEVÒ E COMPIANSE / NEL 22 GENNAIO DELL’ANNO
1861 QUARANTESIMO DELL’ETÀ SUA / DOPO PENOSO ED OPERATO PARTO RAPITA
AI CONIUGALI E FILIALI AFFETTI...
Sulla parete interna della facciata vedo la tomba del poeta
Giuseppe Giusti, voce satirica del Risorgimento, morto di tisi a
quarantuno anni nel 1850, un tempo ben noto agli scolari italiani, che
già alle elementari imparavano a memoria Sant’Ambrogio o Il brindisi
di Girella. Si tratta di un vero e proprio monumento, con la statua del
poeta, ammantato in paludamento classico, che sovrasta il
sarcofago, su cui è l’iscrizione di semplice ed elegante misura: in
essa tra l’altro si indica che il defunto DALLE GRAZIE DEL NOSTRO VIVO
IDIOMA / TRASSE UNA FORMA DI POESIA / PRIMA DI LUI NON TENTATA; ma mi
colpiscono soprattutto le parole poste come in basso, come in
esergo: IL CAV. DOMENICO GIUSTI PADRE INFELICISSIMO giusti / DEPONEVA IN
QUESTO SEPOLCRO / L’UNICO FIGLIO MASCHIO / SOSTEGNO E GLORIA DEL SUO
NOME.
Il sole che comincia a scendere penetra all’interno della chiesa
dalla porta d’ingresso che è sulla sinistra della facciata e lascia delle
liste di luce in questo interno che così strettamente lega un’eco di
paradiso alla rovinosa persistenza della morte. Provo un singolare
turbamento uscendo dalla chiesa e rivedendo improvvisamente
Firenze, là sotto: mentre il sole scende sulla sinistra, tra leggere
foschie in lontananza, dalle torri e dagli edifici più elevati la città
proietta ombre alla propria destra, su se stessa e sui propri tetti. È il
tripudio della luce che così nell’annunciare il tramonto sembra allo
stesso tempo procrastinarlo più possibile.
L’ottocentesco cimitero monumentale, sulla destra di chi ha alle
spalle la chiesa, accoglie ancora vari personaggi di rilievo, tra cui
due scrittori in cui si incarnano due caratteri opposti della fiorentinità,
Giovanni Papini e Vasco Pratolini, e soprattutto Carlo Lorenzini,
l’autore di uno dei libri italiani più celebri al mondo: e fa uno strano
effetto pensare qui, in questo silenzioso e a suo modo sontuoso
luogo della morte, a quanto la morte sia presente in Pinocchio, ai
turbamenti e terrori di morte a cui danno voce le vicende
dell’inestinguibile burattino.
Ma ora scendo per la prima scalinata, al cui margine in basso vedo
ancora due giovani (non gli stessi che ho visto nel salire) che si
baciano senza mai staccarsi e restano così immobili a lungo, mentre
il ragazzo appare quasi sul punto di precipitare sugli ultimi gradini.
Scendendo ancora, la suggestione della visita a San Miniato si
dissolve nel chiassoso brulichio di piazzale Michelangelo: auto
malamente parcheggiate, venditori vari su furgoni, casotti,
baracchini. Tanta gente, soprattutto giovani, che da qui ammirano il
panorama di Firenze e che probabilmente non hanno nessuna
intenzione o interesse a salire a San Miniato. L’ampia scalinata che
scende dal piazzale si è trasformata in una sorta di gradinata
teatrale: vi è appollaiata una folla giovanile internazionale, che
ascolta un cantante di foggia sudamericana che si accompagna con
la chitarra e cantando sale e scende per i gradini, avvicinandosi ai
ragazzi seduti che variamente applaudono e fotografano. In basso
Firenze e l’Arno che scorre verso nordovest e da qui sembra muto e
pulito. Non mancano naturalmente, qua e là, sulla scala, e sulla
strada in basso, lattine di birra e di Coca-Cola, bottigliette di plastica.
Scendo con un percorso diverso da quello della salita, sempre
nell’illusione di trovarmi sul sito delle antiche scalee. Davanti alla
Porta San Niccolò sul letto dell’Arno si avanza una striscia di sabbia
praticabile, come una vera e propria spiaggia, dove si muove
qualcuno e a un certo punto è installato anche un baracchino di
legno, bar o posto di ristoro, ora affollato di gente in tripudio, sotto la
luce radente del sole che si avvia a tramontare a nordovest. Ritorno
poi su Rubaconte, il Ponte alle Grazie, e passo dalla parte opposta,
raggiungendo la piazza di Santa Croce. Qui e nelle strade intorno si
moltiplicano voci, rumori, smanie, gesti e passi della sera di venerdì
che si prepara alla sua animazione notturna.
Tace Dante nel suo monumento, a sinistra della basilica
francescana, la cui costruzione iniziò proprio negli ultimi anni della
permanenza del poeta a Firenze: e certo Dante ebbe a frequentare i
teologi francescani attivi nel convento. All’interno della chiesa il ciclo
giottesco delle storie di san Francesco nella cappella Bardi
riconduce ad alcuni momenti del canto XI del Paradiso. Ma di Dante
qui c’era un ritratto poi svanito, dipinto tra gli astanti a un miracolo di
san Francesco. Ne parla Leonardo Bruni, nella sua Vita di Dante,
dicendo che si vedeva “quasi al mezzo della chiesa dalla mano
sinistra andando verso l’altar maggiore, e ritratta al naturale
ottimamente, per dipintore perfetto del tempo suo”. Il Vasari, nelle
edizioni delle sue Vite, indica trattarsi di un affresco di Taddeo Gaddi,
dove, entro la rappresentazione di un miracolo di san Francesco,
posta “sotto il tramezzo che divide la chiesa”, il pittore “ritrasse
Giotto suo maestro, Dante Alighieri e Guido Cavalcanti, de’ quali
sempre fu amicissimo” (così nell’edizione Torrentino, 1550). Ma molti
dubbi persistono su queste identificazioni, a parte il fatto che poi, in
una ristrutturazione della chiesa voluta da Cosimo I, fu lo stesso
Vasari a distruggere l’affresco.
Ci sono poi le tombe dei grandi italiani, cantate da Foscolo nei
Sepolcri, mentre nel 1829, una ventina d’anni dopo la pubblicazione
dei Sepolcri (che pure non trascurano di ricordare Dante come il
“ghibellin fuggiasco” di cui Firenze ascoltò per prima “il carme”), fu
elevato il cenotafio rigidamente neoclassico di Dante, di Stefano
Ricci, portando a termine quel progetto che aveva suscitato nel 1818
uno dei primi canti del giovane Leopardi, Sopra il monumento di
Dante che si preparava in Firenze. Centro dantesco quanti altri mai,
Santa Croce, per le varie vicende che collegano e oppongono il
monumento che è dentro la chiesa con quello che è fuori, innalzato
per le celebrazioni del centenario dantesco del 1865 e collocato
originariamente al centro della piazza. Solo dopo l’alluvione del 1966
esso è stato spostato a fianco della chiesa, liberando l’ampia piazza
per attività ludiche, giochi e spettacoli di vario tipo, con l’erezione di
tribune e palchi, come quelli che negli anni scorsi hanno ospitato le
letture dei canti danteschi di Roberto Benigni, col suo Dante
entusiastico ed entusiasmato, qualche volta ammiccante,
esuberante e carico di ricordi e tracce di fruizione popolare e
contadina, ma commisurata all’attuale orizzonte mediatico, a
quell’apparenza televisiva che l’attore tenta di neutralizzare con gli
scatti del suo corpo, con la consistenza fisica della propria passione
per il divino poeta, per quei versi di cui ambisce a percepire la
sostanza biologica.
Ma qui, sul muro di una delle strade che danno sulla piazza di
Santa Croce, vedo una scritta tracciata in neri e disuguali caratteri:
BASTA CON LA POLITICA DEL DECORO! RIPIGLIATEVI!
La Badia

Ciascun che de la bella insegna porta


del gran barone il cui nome e ’l cui pregio
la festa di Tommaso riconforta,

da esso ebbe milizia e privilegio;


avvegna che con popol si rauni
oggi colui che la fascia col fregio.
(Par., XVI 127-132)

La mattina del 10 maggio mi dirigo verso la Badia, dove due giorni


prima il sermone di Enzo Bianchi mi aveva impedito di vedere da
vicino la tomba del marchese Ugo di Toscana, che Cacciaguida
ricorda per aver attribuito l’ordine cavalleresco (milizia e privilegio)
alla fine del X secolo ad alcune famiglie fiorentine (di cui non dice i
nomi, che sono Giandonati, Pulci, della Bella, Neri, Giangalandi e
Alepri), che per questo portavano come parte del loro stemma la sua
bella insegna (sette bande rosse in campo bianco). Nemmeno del
marchese l’avo di Dante dice direttamente il nome, indicandolo con
una perifrasi come il gran barone celebrato a Firenze nel giorno della
festa di san Tommaso apostolo (21 dicembre), che era lo stesso
giorno della sua morte. La concessiva dei vv. 131-132 precisa poi
che, rispetto alle altre famiglie insignite dal marchese, quella dei
della Bella (il cui stemma inquadrava quella bella insegna entro un
fregio dorato) ai tempi di Dante tendeva a separarsi dalla nobiltà per
allearsi col popolo: si tratta di un’allusione a Giano della Bella che
nel 1293 aveva promosso gli Ordinamenti di Giustizia, che
escludevano dalle cariche pubbliche i magnati e i non iscritti alle Arti
(il che costrinse Dante a iscriversi all’Arte dei medici e degli speziali).
Nell’apprestarmi a uscire dal piacevole albergo Palazzo del Borgo
in cui pernotto, in via della Scala, noto nella hall un cartello che
ricorda che nel 1957, quando era una piccola pensione, vi soggiornò
per poche settimane Thomas Stearns Eliot: incorniciato e protetto da
vetro c’è anche un foglietto con la sua firma e il suo indirizzo privato,
sotto alcune parole-emblemi della celebre Terra desolata: “weilala
leia wallala leilala damyata shantih”. Emblemi diversi da quelli
danteschi, che si proiettano verso un’origine, quasi un misterioso
saluto da parte del poeta americano e inglese che nel suo toccare il
cuore scisso della modernità ha sentito in profondità la suggestione
della poesia di Dante. Del resto proprio alla fine della Terra desolata,
poco prima degli emblemi finali “Datta. Dayadhvam. Damyata. /
Shantih shantih shantih”, si affaccia una citazione da Purgatorio,
XXVI 148, “Poi s’ascose nel foco che li affina” (l’ultimo verso del
canto dei lussuriosi, che segue quelli in lingua provenzale messi in
bocca al trovatore Arnaut Daniel).
Sotto la suggestione di quegli emblemi eliotiani, mentre mi ripeto
quel finale shantih, segno di pace che conclude le esoteriche
Upaniṣad, torno alla Badia, il cui interno è ora immerso nel silenzio:
una zona della chiesa è comunque riservata alla preghiera, con un
altare su cui è esposto il Ss. Sacramento. Mi avvicino alla tomba del
fondatore e benefattore della Badia, morto nel 1001: sepolcro
quattrocentesco, in splendida misura, in compartita disposizione di
tutti gli elementi architettonici e scultorei, dovuto a Mino da Fiesole.
Ma l’opera che mi colpisce di più, in questo interno della chiesa, è
una tavola di Filippino Lippi, sulla parete accanto all’ingresso, con
l’Apparizione della Vergine a san Bernardo: tanti dati simbolici e
richiami letterari sono qui presenti, che mi riconducono al ruolo
“finale” che san Bernardo assume nel Paradiso, proprio per la sua
devozione alla Vergine.
In questa tavola, tra la figura del Santo e quella della Madonna,
l’una dirimpetto all’altra, sono disposti vari libri chiusi e, totalmente
aperte al capitolo dell’Annunciazione, due pagine del Vangelo di
Luca, mentre sul leggio del Santo, che impugna nella destra la
penna, è disposto un codice: sono le Omelie (Homiliae o Sermones)
che sta scrivendo, in cui appunto si invoca Maria, la cui figura ha la
mano destra delicatamente poggiata sulla pagina su cui Bernardo
sta scrivendo. È lei che lo ispira ed è lei che viene cantata dal santo;
quelle lì vergate sono sicuramente le quattro omelie De laudibus
Virginis Matris, che si svolgono proprio a partire dai passi del
Vangelo di Luca sull’Annunciazione. In quelle omelie si trova già
qualche segno di “Vergine madre, figlia del tuo figlio”: ma tanti altri
sono i Sermones di Bernardo dedicati alla Madonna e tanto
essenziale è il suo culto mariano, che Dante viene a far di lui la sua
ultima guida, quel sene che gli si presenta “in atto pio / quale a
tenero padre si convene”, dopo che Beatrice è ritornata al suo
seggio nella candida rosa dei beati. Il quadro di Filippino, sullo
sfondo del quale le figure di quattro monaci simboleggiano la vita
attiva e la vita contemplativa, riconduce così, con la schiva
semplicità di quella Madonna fissata nel delicato e lineare profilo del
volto, nei gesti sospesi delle mani candide e affusolate, a quegli
ultimi canti del Paradiso, come sospendendoli in una sorta di diffusa
attesa, nella cautela che sembra leggersi nel volto del Santo, nel
gesto delle sue mani, disposte quasi a specchio inverso di quelle
dell’apparsa Maria.
Mentre contemplo questo quadro di Filippino Lippi, noto su di un
piccolo tavolo, lì vicino all’ingresso della chiesa, due cesti di vimini,
che due cartelli designano l’uno come DIO TI ASCOLTA e l’altro come
DIO TI PARLA, con questa precisazione, in italiano e in inglese:

Se vuoi, puoi scrivere un’intenzione di preghiera e lasciarla nel


cesto DIO TI ASCOLTA; puoi anche prendere una Parola dal cesto DIO TI
PARLA

Accanto ci sono anche dei foglietti pronti per ricevere scrittura da


inserire nel cesto DIO TI ASCOLTA, che già ne contiene tanti,
accuratamente piegati, mentre nell’altro cesto ce n’è uno solo,
anch’esso doverosamente piegato. Una naturale discrezione mi
impedisce di curiosare nei messaggi inviati a Dio, ma prendo, con
l’intenzione di leggerlo successivamente, il biglietto DIO TI PARLA.
Vorrei entrare, a destra della chiesa, nel Chiostro degli Aranci di
Bernardo Rossellini, che però adesso non è visitabile: apro allora il
biglietto, in cui però Dio non mi dice proprio nulla; si tratta
semplicemente di un equivoco, dato che si tratta di un biglietto
destinato all’altro cesto e messo per errore in quello divino. Il
biglietto dice così (e mi scuso per l’estensore, che certo non saprà
mai di questa mia involontaria violazione):

Che il Signore mi aiuti sempre a rivolgere a Lui il mio sguardo


nel momento della tentazione. Stefano

(sotto, in caratteri più piccoli, c’è un’aggiunta)

Gesù aiuta anche Patrizia e Giulia che dà

Insomma Dio non mi ha parlato, ma mi ha fatto affacciare sulle certo


frequenti lotte di questo Stefano con la tentazione (e chissà in che
modo Patrizia e Giulia vi sono implicate): ripiego il biglietto e lo
deposito nel cesto che gli compete, considerando come quello dove
DIO TI PARLA resti sconsolatamente vuoto, senza nemmeno una
Parola. Ma mi accorgo che forse tutto ciò mi si presenta sotto un
segno combinatorio, quasi in un nascosto intreccio: il nome Stefano
mi ricorda che qui, accanto, negli ambienti collegati alla chiesa, c’era
la chiesetta di Santo Stefano di Badia, dove il 23 ottobre 1373
Giovanni Boccaccio iniziò la sua Lectura Dantis, interrotta al canto
XVII dell’Inferno per la sua malattia. Sul portico antistante alla chiesa
maggiore, accanto alla porta sulla via del Proconsolo, si apre ora la
Cappella Pandolfini, risultante da una trasformazione dell’antica
chiesetta, di cui resta qualche traccia: ma certo è difficile, nell’arredo
della cappella, di fronte alla tavola secentesca di Giovanni Bilivert
con la Lapidazione di santo Stefano, sentir risuonare la voce del
Boccaccio, quelle sue appassionate e talvolta romanzesche
interpretazioni che possiamo leggere nelle edizioni delle Esposizioni
sopra la Comedia.
Dentro da la cerchia antica e altri luoghi
danteschi

Fiorenza dentro da la cerchia antica,


ond’ella toglie ancora e terza e nona,
si stava in pace, sobria e pudica.
(Par., XV 97-99)

Esco dalla porta della Badia, che dà proprio su via Dante Alighieri: e
lì trovo subito una lapide con questi versi, in cui Cacciaguida ricorda
l’austera vita di Firenze entro la cerchia antica.
Il mio percorso mi conduce oggi verso i luoghi originari di Dante e
della sua famiglia, verso la sua presenza e verso la sua stessa
immagine. Qui ci si può sentire quasi alla ricerca del suo volto: e
infatti basta tornare su via del Proconsolo, sul versante opposto a
quello su cui dà la Badia, all’angolo con la via dei Pandolfini, per
trovare il Ristorante delle Murate, dentro il restaurato Palazzo
dell’Arte dei Giudici e dei Notai. Il ristorante (che più tardi assumerà
la più trendy denominazione di Fishing Lab alle Murate) è disposto
sotto l’ampia volta affrescata della sala maggiore dell’Arte, entro cui
è stato ricavato anche un ambiente rialzato, con una passerella che
fiancheggia la lunetta su cui sono i resti di un affresco dove erano
raffigurati quattro poeti, Dante, Petrarca, Boccaccio e Zanobi da
Strada.
Dai frammenti dell’affresco emergono due volti, sulla destra quello
che dovrebbe essere di Dante e sulla sinistra quello di Boccaccio.
L’ipotesi corrente (grazie allo studio di Monica Donato) è che qui si
possa riconoscere il “vero volto di Dante”: fissato in un profilo
allungato, non con il tradizionale naso arcuato, ma con una foggia
che sembra rispondere al ritratto fatto da Boccaccio nel Trattatello in
laude di Dante. Così nel locale (il cui proprietario ha il merito di aver
finanziato il restauro e di ammettere alla visione dell’affresco anche
chi non intende mangiare) si può prendere un pasto, semplice ma di
buona fattura, sotto gli occhi di Dante, in un ambiente forse un po’
freddo, in un allestimento dominato da legno e vetro. E mi capiterà di
farlo più tardi, in una successiva sosta a Firenze, nel giugno 2015:
solo io e più in là una giapponese che armeggia sul suo iPad e parla
al telefono in perfetto italiano (certo una manager operante in Italia),
accanto all’apertura della cucina a vista, dove è in azione un cuoco
forse coreano con cappello da chef stranamente multicolore.
Ma qui vicino c’è un altro ritratto di Dante, in una cappella che si
trova all’interno del Museo Nazionale del Bargello. La costruzione
del palazzo, allora del Capitano del Popolo, iniziò poco prima della
nascita di Dante e variamente proseguì durante la sua vita e oltre;
solo nel 1574, da sede di varie istituzioni cittadine, divenne sede del
Bargello (la polizia dell’epoca) ed ebbe anche funzione di prigione.
Ora il museo accoglie grandi capolavori della scultura fiorentina, tra
cui spiccano quelli di Donatello e di Michelangelo.
Intorno a un pezzo famoso, San Giovannino già della famiglia
Martelli, tradizionalmente attribuito a Donatello, ma ora assegnato al
suo allievo Desiderio da Settignano, vedo dei giovani intenti a
studiarlo, uno su di una scaletta che più lo avvicina alla statua, con
strumenti sofisticatissimi, computer e attrezzi elettronici di vario
genere puntati variamente sul marmo. È certo uno studio con
particolare autorizzazione, che darà importanti risultati, forse anche
attributivi, su questo piccolo gioiello: qui esso attira davanti alla
statua molti visitatori, che sembrano mostrare insistente curiosità
non tanto verso di essa, ma verso quella strumentazione e verso la
perizia di chi ne fa uso. Mi domando ancora, come altre volte, se non
c’è qualcosa di incongruo, rispetto a opere come queste e al mondo
da cui sono scaturite, nella nostra sempre più attrezzata messa a
punto di mezzi di indagine, conoscenza, misurazione,
segmentazione tecnologica: intanto questo giovane Giovanni
Battista, imbambolato e imberbe, sembra assistere impotente a
queste analisi che vengono fatte sul suo corpo esile e slanciato (un
po’ come capita a noi quando sottoponiamo a screening i nostri corpi
reali, nella speranza di salvaguardarli, di farli resistere più a lungo).
Sono comunque qui per Dante, per la sua immagine nella
Cappella di Santa Maria Maddalena (che è stata la cappella del
Podestà), nell’affresco di scuola giottesca fatto intorno al 1340. Qui,
sulla parete di fondo, ci sono i resti di un Paradiso fitto di beati in
gloria: in basso ecclesiastici e devoti in preghiera e tra di essi in
buona evidenza, di profilo, in ieratica posa, il ritratto di Dante,
scoperto il 20 luglio 1820 dopo varie ricerche indette dal governo
granducale dei Lorena, sulla scorta di notizie del Villani, del Ghiberti,
del Vasari (che lo attribuisce direttamente a Giotto), e poi tratto alla
luce con un restauro che fu molto discusso. Questo ritratto è stato un
po’ ritoccato, ma è comunque precedente a quello che ho appena
visto al Ristorante delle Murate, né da quello troppo dissimile. È un
Dante che se ne sta tranquillo a mani giunte, ben compreso nel suo
ruolo di partecipe della celeste beatitudine: il suo manto rosso
intenso sembra distinguerlo dall’insieme (ma questo forse è frutto del
restauro), anche se non gli tocca quella posizione di protagonista
che ha nel suo Paradiso. Come quello visto pocanzi, è un Dante ben
diverso da quello crucciato e sdegnoso della successiva tradizione
(ricordo quello già incontrato nelle stanze di Raffaello in Vaticano,
vedi p. 52). Con qualche difficoltà riesco a individuare delle carte che
la figura tiene sotto il braccio sinistro: certamente la Commedia.
Pittorico Paradiso su cui si specchia l’Inferno, nell’affresco molto
rovinato che si trova sulla parete opposta della cappella.
Lasciato così Dante, lì, nella cappella del Palazzo che ai tempi del
Bargello di cose infernali deve averne viste davvero molte, mi aggiro
in quella che più o meno è la zona delle case Alighieri e dei loro
vicini, tra andirivieni e giravolte segnate da non poche lapidi con i
versi della Commedia, evocanti edifici e abitatori. Riprendendo la via
Dante Alighieri si arriva fino alla piazza di San Martino e alla Torre
della Castagna, dove dal 1282 si riunivano i Priori, che usavano le
castagne per le loro votazioni (e non dimentichiamo che Dante
ricoprì la carica tra il 15 giugno e il 15 agosto 1300). Qui si affaccia
anche ciò che resta della facciata duecentesca della Badia, mentre
procedendo poco più avanti per la via Dante Alighieri si trova la
cosiddetta Casa di Dante, curiosa e fittizia invenzione messa su nel
1910 (falso turistico che quasi mi fa pensare alla casa di Giulietta a
Verona o a quella di Rigoletto a Mantova): dentro c’è un piccolo
museo non privo di interesse, con varie curiosità, utili tavole
didattiche e qualche arrischiata identificazione. Un pugnale datato
alla fine del XIII secolo viene presentato in una teca come PUGNALE DI
DANTE, trovato nella piana di Campaldino (dove Dante combatté l’11
giugno 1289). Tra le altre curiosità una Tavola con PIANTE E PIETRE
NELLA COMMEDIA (abbastanza poche per la verità: ulivo, alloro, rosa le
piante, cristallo, topazio, elitropia le pietre…: e lascio al lettore il
ritrovamento delle specifiche citazioni, lì coscienziosamente
indicate).
Poi uscendo da questa finta Casa di Dante e svoltando sulla
sinistra si è invitati a visitare quella che un cartello indica come la
chiesa di Dante. È la chiesetta di Santa Margherita dei Cerchi, su cui
si accumulano ipotesi senza fondamento e invenzioni varie: vi si
sarebbe celebrato il matrimonio di Dante con Gemma Donati, Dante
vi avrebbe incontrato Beatrice, la quale vi sarebbe addirittura stata
sepolta (e si sono inventati anche il luogo della tomba, con lapide
annessa). La chiesetta, semplicissima a una sola navata, ospita
varie figurazioni otto-novecentesche dedicate a Dante, tra cui un
incontro preraffaellita con Beatrice e, in pose da vecchio
fotoromanzo, al limite del trash, una scena indicata con grande
iscrizione, interna al dipinto, come DANTE E BEATRICE RICEVONO LA
BENEDIZIONE DAL PRIORE TASSI.
Ma qui intorno l’universo dantesco risuona soprattutto nei nomi
delle strade e in edifici con facciate più o meno medievali. Il Corso,
già toccato l’altro ieri, è una delle strade centrali dell’antica Firenze:
qui si trova la facciata non medievale, ma rinascimentale, di un
palazzo già Portinari, poi Salviati e infine da Cepparello, che evoca
la presenza di Beatrice, con un’epigrafe che reca la terzina che la
descrive al suo apparire a Dante nel Paradiso terrestre, con i colori
del suo abbigliamento (bianco, verde e rosso: e c’è chi vi ha visto
una prefigurazione del tricolore italiano):

sovra candido vel cinta d’uliva


donna m’apparve, sotto verde manto
vestita di color di fiamma viva.
(Purg., XXX 31-33)

Sul Corso, si trova anche la Torre dei Donati (e una lapide evoca
Corso, il nemico di Dante, e la sua morte, con i versi in bocca al
fratello Forese in Purgatorio, XXIV 70-84). Si può poi girare per la via
dei Cerchi (proprio gli acerrimi rivali dei Donati), toccando una
piccola piazza chiusa, detta piazza dei Cerchi; la via dei Cerchi fa
poi angolo con via dei Cimatori, segnalata come “già Via dei Cerchi”.
Qui c’è anche un’osteria-taverna Divina Commedia, con in mostra un
bel busto di Dante, che si apre su un altro spiazzo anch’esso
denominato piazza dei Cerchi: e certo non posso evitare di
mangiarvi una buona tagliata all’aceto balsamico con un semplice
bicchiere di Chianti. Dopo varie giravolte tra Cerchi e Donati, prendo
la via dei Magazzini (già Braccio di San Giorgio), che mi riporta alla
Firenze popolare del primo Novecento: anche questa strada evoca
la vita e la scrittura di Vasco Pratolini, che vi ha abitato prima e più a
lungo che sulla già incontrata via del Corno, rappresentandola a tinte
semplici e intense nel suo primo romanzo, appunto intitolato Via dei
Magazzini. Nulla, ovviamente (salvo la lapide che ricorda Pratolini,
assolutamente indifferente a chi passa) di quella Firenze popolare e
povera nella strada tutta turistica di oggi, sempre più affollata di
trattorie e ristoranti, specie nel tratto che si avvicina a piazza della
Signoria, dove essa conduce.
Attraverso la grande piazza e riprendo via dei Calzaioli, la più
battuta in assoluto di tutte le strade di Firenze, in un affastellarsi di
presunte eleganze e di deprimenti sciatterie: il palazzo che incrocia
la via di Porta Rossa (già via dei Cavalcanti) è quello dei Cavalcanti,
dove è la lapide che ricorda Guido con i versi di Inferno, X 58-63.
Poi, procedendo su via dei Calzaioli, si tocca la chiesa di
Orsammichele, nell’incrocio in cui da una parte, al canto de’ Fiascai,
sbuca via della Condotta (“già Via del Garbo”), dall’altra l’attuale via
di Porta Rossa: prendendola e costeggiando Orsammichele si trova
a destra, un po’ sghemba, in leggera salita, la via dell’Arte della
Lana, dove era lo Sdrucciolo de’ Cavalcanti, che mi fa pensare, più
che allo sdrucciolare, all’agilità di Guido, alla sua vantata leggerezza,
non solo nella misura leggera e piana della sua poesia, ma in quel
salto tra le arche disposte tra Santa Reparata e il Battistero, narrato
nella novella del Boccaccio, Decameron, VI IX. Nel Palazzo dell’Arte
della Lana ha sede la Società dantesca, istituzione fiorentina ricca di
storia, che nel secolo scorso ha ricevuto notevole impulso da
Francesco Mazzoni e poi è stata teatro di un singolare conflitto
accademico, ormai risolto: vi si sono sempre tenute letture e
conferenze e varie altre iniziative dantesche, come quelle indicate da
un manifesto affisso accanto alla porta. Qualche anno fa vi ho fatto
una lettura del XXX del Purgatorio, invitato da Guglielmo Gorni, che
allora era presidente della Società, studioso raffinato e spigoloso,
pungente e paradossale, che la malattia ha troppo presto portato via
nel 2010.
La Società dantesca è istituzione tutta fiorentina, cosa diversa
dalla Società Dante Alighieri, per conto della quale io sto compiendo
questo viaggio: la Società Dante Alighieri è comunque articolata in
Comitati locali, tra cui proprio quello di Firenze è stato recentemente
rilanciato, con una nuova sede, che si trova da un’altra parte della
città, nell’antico Oratorio di San Pierino, in via Gino Capponi, nei
pressi della piazza della Ss. Annunziata e a fianco di una strada il
cui nome è carico di suggestioni, via Laura, che ha dato il titolo
anche a un libro di memorie di Marino Moretti, del 1931. Oggi
l’Oratorio è chiuso, ma ricordo il singolare ciclo di affreschi
cinquecenteschi del chiostro, con ossessive e replicate immagini di
martiri.
La basilica e la piazza dell’Annunziata (il cui impiantito
pedonalizzato è ora occupato dalle tende di un mercatino di piccolo
artigianato) offrono un ambiente affascinante, con una formidabile
concentrazione di opere d’arte (Brunelleschi, della Robbia, Andrea
del Sarto, Pontormo, Rosso, Giambologna, Pietro Tacca ecc.), che
comunque non chiamano direttamente in causa questo mio viaggio.
Non posso però trascurare l’albergo insediato entro una parte
dell’antico edificio che è sulla destra di chi volta le spalle alla
basilica, il Loggiato dei Serviti, costruito su disegno di Antonio da
Sangallo il Vecchio e di Baccio d’Agnolo, a specchio dell’antistante
brunelleschiano Ospedale degli Innocenti (la cui facciata è ora
coperta con figure in facsimile, per i lavori di costruzione del nuovo
museo). L’albergo era molto amato da uno dei maggiori anglisti
italiani, Agostino Lombardo, che quando veniva a Firenze chiedeva
sempre di essere ospitato qui: una magnifica residenza d’epoca,
piena di corridoi, passaggi, stanze disposte a più livelli, arredate con
grande discrezione. Anglista e americanista, Agostino, grande
“barone” accademico, ma di rigorosa onestà, mai disposto a falsare
la verità per esigenze accademiche; uomo di sinistra all’antica,
contrario a ogni capzioso uso politico della cultura; pieno di passione
per la grande letteratura, chiuso in una sua immedicabile malinconia,
sempre più lacerante negli ultimi anni, specie dopo il suicidio della
moglie Luciana Frezza, poetessa e traduttrice di grande valore.
Ricordo i molti incontri con lui, la frequentazione quotidiana a
Cambridge, Massachusetts, in quel semestre autunnale del 1985 in
cui doveva essere con noi Italo Calvino, morto improvvisamente nel
settembre, mentre si apprestava a partire per l’America; ricordo la
sua attenzione per territori culturali diversi e lontani da quelli da lui
più praticati. Studioso di Shakespeare e traduttore di tante sue
opere, non ricordo se con lui è capitato di parlare di Dante e
Shakespeare, di confronti, paragoni, definizioni canoniche, di
eventuali presenze, tracce, riferimenti a Dante rinvenibili tra le
pieghe delle opere shakespeariane. Pensando che certo non sarà
ipotizzabile una conoscenza di Dante da parte di Shakespeare,
credo che sarebbe interessante percorrere gli scarsi riferimenti a
Firenze disseminati nelle sue opere, soprattutto in All’s Well That
Ends Well, dove tra i personaggi c’è anche un duca di Firenze (è
strano, comunque che, tra i tanti luoghi italiani veri e fittizi, chiamati
in causa nel teatro del Bardo, Firenze sia uno dei meno praticati).
Ma ora devo trascurare il Loggiato dei Serviti e la bellissima
piazza, come tanti altri luoghi importanti di Firenze: la piazza di San
Marco, con il convento affrescato dal pittore domenicano detto Beato
Angelico, la vicina Galleria dell’Accademia (con la formidabile
presenza di capolavori di Michelangelo), la via Cavour con la
Biblioteca Marucelliana, e poi Palazzo Medici Riccardi con la
Biblioteca Riccardiana, poi piazza San Lorenzo con la grande
basilica dalla facciata incompiuta (ma so che qualcuno vorrebbe
dargliene una moderna) e la Biblioteca Laurenziana Medicea. Ora
dalla via dell’Arte della Lana scantono verso la piazza della
Repubblica e Palazzo Strozzi, raggiungo la via dei Cerretani, dove,
poco prima della chiesa di Santa Maria Maggiore, scorgo un’epigrafe
con le parole che Dante rivolge a Brunetto Latini:

…’n la mente m’è fitta, e or m’accora,


la cara e buona imagine paterna
di voi quando nel mondo ad ora ad ora

m’insegnavate come l’uom s’etterna


(Inf., XV 82-85)

Nella chiesa di Santa Maria Maggiore era infatti sepolto l’autore del
Tresor: nella cappella Carnesecchi, a sinistra dell’altare maggiore è
ciò che resta della sua tomba, una colonna che in alto reca il suo
nome e il suo stemma, mentre una lapide posta più in alto informa
del ritrovamento e della collocazione lì nel 1751.
È ancora una bella combinazione questa, che mi fa concludere la
mia breve escursione fiorentina nel nome del maestro di Dante, di
questo patrizio fiorentino, che la lapide settecentesca indica come
“eloquentiae et poeseos restaurator” e “Dantis Aligherii et Guidonis
Cavalcanti magister incomparabilis”.
Lasciare Firenze

Qual si partio Ipolito d’Atene


per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
(Par., XVII 46-48)

Nessuna noverca (matrigna) mi impone questa partenza: nel nostro


universo demitizzato, secolarizzato, non può toccarmi nulla di simile
al destino di Ippolito (ingiustamente accusato dalla noverca,
matrigna Fedra) o a quello di Dante. Ma mi si affaccia la sensazione
(che ora, quando rivedo questi appunti, sta divenendo sempre più
acuta) che questa quiete possa presto rivelare la propria natura
illusoria: e non vorrei proprio che ciò fosse, per i miei figli, e per quel
bimbo piccolissimo che mi si avvicina mentre seggo un momento,
prima di lasciare l’albergo, sulle panche di pietra disposte sulla
pedonalizzata piazza di Santa Maria Novella, davanti alla basilica
domenicana che anch’essa era in costruzione ai tempi di Dante, ma
che egli tante volte raggiunse, specie nella sua frequentazione di
teologi e filosofi domenicani (e qui nella cappella Strozzi, aperta sul
transetto sinistro, è stato individuato un suo probabile ritratto tra i
beati di un Giudizio Finale, affresco di Nardo di Cione di poco
successivo al 1350). Non so come dar voce alla luce e alla bellezza
raccolta e pacificata di questa piazza, con le presenze umane che
ora appaiono tanto discrete, quasi convergenti con la nuda
semplicità di un’ora in cui la storia e lo stesso chiassoso flusso
turistico sembrano come sospendersi. Il bimbo guarda curioso il
quadernetto e la penna che ho in mano e sorride guardandomi
scrivere, poi si allontana. Più in là, su un’altra panca, c’è una donna
certo nordica che allatta tranquilla il suo neonato. Ancora su un’altra
panca c’è una ragazza abbastanza bella sdraiata pancia in giù, con
accanto un libro chiuso che forse si appresta a leggere. Cerco di
spiare il titolo: e lo vedo bene, è George Orwell, 1984.
A meno di un mese da questo viaggio, il 23 maggio, mi capiterà di
ascoltare alla televisione un comizio del Presidente del Consiglio, già
sindaco di Firenze, a sostegno del candidato sindaco, prossimo suo
successore, nella città che la sua frenetica attività dovrebbe aver
reso caput mundi (“Firenze caput mundi” il titolo che campeggiava
sul supplemento Sette del Corriere della sera l’11 aprile 2014). E se
Dante è sempre presente a Firenze, se Stendhal dice che in mezzo
all’architettura fiorentina credeva di “vivre avec le Dante” “vivere con
Dante” (Rome, Naples et Florence, 1826, appunto datato 23 gennaio
1817), non sorprende che anche in questo comizio venga a spuntare
a un certo punto il suo nome. Ricorderà Matteo Renzi, con il piglio
sicuro e frizzante del suo eloquio, che Firenze ha fatto ai suoi tempi
“la bella finanza” e che quella finanza ha fatto avere a Dante una
“borsa di studio”: senza gli esiti garantiti dalla bella finanza fiorentina
Dante non avrebbe scritto la Commedia e nemmeno ci sarebbe stata
la cupola del Brunelleschi. Tal di Fiorenza partir ti conviene.
Sud del Lazio e Sannio
Monte Circeo

“Quando

mi diparti’ da Circe, che sottrasse


me più d’un anno là presso a Gaeta,
prima che sì Enëa la nomasse…”
(Inf., XXVI 90-93)

La mattina del 25 aprile 2014 mi muovo verso Sud, oltre i Castelli


romani, verso l’Appia e poi la Pontina, attraversando la bonifica e la
geometrica cittadina in stile Novecento fascista di Sabaudia. Già da
lontano il monte Circeo appare svincolarsi, come un blocco isolato
sulla pianura, quasi un profilo disteso orizzontalmente (tanto è vero
che da bambino sentivo dire che era ancora in uso identificare quel
profilo con quello disteso del volto del duce Mussolini!).
Da questo luogo di Circe parte il racconto che fa Ulisse, avvolto
dalla “fiamma antica”, del suo ultimo viaggio: la sua menzione è
collegata al racconto dell’Eneide, all’inizio del libro VII, 1-24, e più
ancora a quello delle Metamorfosi, XIV 158-451. Nei versi di Virgilio
le spiagge della maga vengono sfiorate e superate dalle navi troiane
subito dopo il rapido accenno alla morte di Caieta, la nutrice di Enea,
e alla sua sepoltura nel luogo che prende il suo nome, Gaeta,
appunto vicino alle dimore di Circe. Più ampia e distesa la
narrazione di Ovidio, che riassume la vicenda del soggiorno di Ulisse
“più d’un anno” presso Circe attraverso il racconto di Macareo, un
compagno di Ulisse che non lo ha seguito dopo la sua partenza da
Circe ed è rimasto nei paraggi, lì dove lo incontra Enea, proprio
quando si appresta a seppellire la nutrice Caieta e a dare il suo
nome al luogo: e Ovidio riporta addirittura l’epitaffio, il breve carmen
apposto su di un’urna marmorea (vv. 441-444).
I due poeti latini, che ben conoscevano il libro X dell’Odissea,
suggeriscono, pur se in modi diversi, tutto il fascino misterioso e
minaccioso della maga e di questi suoi luoghi, di questo monte
isolato che dal mare appare come un’isola, insula come la chiama
Macareo, 245 (e che proprio un’isola doveva essere in tempi
antichissimi, come suggerisce anche il commento virgiliano di
Servio). Il fascino erotico di canti, di profumi, di luci notturne, di rapidi
e guizzanti movimenti si espande nei versi in cui Virgilio rapidamente
descrive la vita interna dei boschi della figlia del Sole:

dives inaccessos ubi Solis filia lucos


adsiduo resonat cantu tectisque superbis
urit odoratam nocturna in lumina cedrum
arguto tenuis percurrens pectine telas.
(Eneide, VII 11-14)

Il bosco inaccessibile e la casa superba (“dove la ricca figlia del Sole


fa risuonare i boschi inaccessibili del suo assiduo canto e tra i tetti
superbi fa bruciare cedro odoroso per le luci notturne percorrendo le
tele leggere con il garrulo pettine”): mondo di Circe che per una
vertiginosa trasformazione ha lasciato eco in quello tanto diverso di
Silvia (a lei si rivolge la voce di Giacomo rivedendosi in ascolto del
suo “perpetuo canto”: “porgea gli orecchi al suon della tua voce, / ed
alla man veloce / che percorrea la faticosa tela”, A Silvia, 9, 20-22).
La fragile dolcezza di Silvia si affaccia così sulla dolcezza
inaccessibile e mortale dell’immortale Circe, minaccia alla natura
umana, sua riconduzione al mondo animale: e se Ulisse è riuscito a
far restituire la natura umana ai suoi compagni, tanti sono ancora
coloro che la maga, dea saeva, tiene prigionieri sotto le sembianze,
entro cui invano fremono e smaniano, di leoni, cinghiali, orsi, lupi…
Trasformazioni simili a quelle di cui, secondo la descrizione che nella
seconda cornice del Purgatorio Guido del Duca fa della valle
dell’Arno, sono vittime i contemporanei abitanti della Toscana:
“hanno sì mutata lor natura / li abitator de la misera valle, / che par
che Circe li avesse in pastura” (Purgatorio, XIV 40-42).
Mi avvicino al Circeo pensando all’attrazione mitica di questi luoghi
(e mi potrei far accompagnare dal libro di Maurizio Bettini e Cristiana
Franco, Il mito di Circe. Immagini e racconti dalla Grecia a oggi,
Einaudi 2010). Venendo da Sabaudia, un tratto della strada litoranea
procede tra il mare e il lago di Sabaudia, fino a toccare la sponda
occidentale del monte, dopo aver superato il ponte sull’emissario del
lago, che qui sbocca in mare. Subito davanti, c’è una massiccia ma
poco elevata torre cilindrica, la torre Paola (dovuta al
cinquecentesco papa Paolo III), che dà sul mare, alle falde del
monte. Su una piazzola asfaltata cominciano a disporsi le auto dei
gitanti di questo giorno di festa: ci sono già dei sub tutti bardati nelle
loro mute che si apprestano a scendere a mare; passano sull’asfalto,
dirette verso nord sulla litoranea, alcune cavalcature con su eleganti
dame e cavalieri che sembrano venire da altri tempi. Un viottolo
conduce direttamente a una specie di piccolo molo (l’emissario si
dispone qui come una specie di porto canale, il porto papale, ancora
a lode di Paolo III), su cui già vari gitanti si stanno affacciando. Non
ci sono strade che portano oltre la torre, sulla roccia del monte a
piombo sul mare, dove c’è una grotta detta di Circe; la strada
prosegue invece alla base del versante interno del monte, tutto
fittamente boscoso (inaccessos lucos). Dopo un tratto in pianura (a
destra il monte, a sinistra, un po’ più in là, il lago) si può salire verso
San Felice Circeo, da dove parte la strada per raggiungere una delle
vette (quella detta del monte Circello).
Vicini alla vetta si tocca la zona dell’antica acropoli, luogo
fortificato, utilizzato in situazioni di emergenza, ora aperto alle visite.
Si può proseguire per una stradina molto stretta che giunge,
attraversando selve di antenne su tralicci diversi, antenne filiformi
assemblate a rete, tonde antenne satellitari, piccole e grandi, esili e
tozze, fino a una zona militare con antenne forse ancor più
specializzate. Prigioniera delle antenne, questa vetta non permette
una serena contemplazione dei punti cardinali a cui è esposta e
verso cui si irradiano le sue molteplici intersecate onde che
raccolgono e propagano la babele sonora e visiva del mondo. Ma un
panorama formidabile si può ammirare, partendo dall’altra parte, da
torre Paola, e arrampicandosi a piedi verso la vetta più alta del
promontorio, il Picco di Circe.
Mi libero rapidamente dalla stretta presa delle antenne e della
stradina asfaltata in cui l’auto è costretta a varie manovre per
permettere il passaggio di chi si trova a procedere in senso
contrario: cerco qualche altra traccia o suggestione della maga
scendendo verso il mare sul fianco del monte, per la strada che si
diparte da San Felice verso ovest, verso il Faro e la Punta Rossa.
C’è un parco popolato da una fitta serie di villette e di edifici da
vacanza sul fianco del monte e giù, lungo le sponde del mare.
Misteri sembra che circolino su per la montagna: sul web ho letto di
un palazzo disabitato dove sarebbe in agguato il fantasma o
l’immortale persistenza della figlia del Sole, che farebbe sparire i
ragazzi che si avventurano fin là (e c’è chi sostiene che ci sarebbero
stati davvero casi di giovani del luogo spariti nel nulla). Ma ora la
strada del parco prosegue in un assolato silenzio (sarà certo diversa
la situazione nel trambusto dell’estate marina): e sembra arrestarsi a
un bed and breakfast che ha assunto proprio il nome omerico della
dimora di Circe, l’Isola di Eea. Si può sognare di perdersi nel parco
per raggiunger Circe: ma sarebbe il caso, specie d’estate, di
aggirare in barca meno pericolosamente il promontorio e sfiorare le
varie grotte, fino a raggiungere di nuovo per questa via, la torre
Paola e l’emissario. Ma ora faccio come Enea: evito i dira litora,
lascio i vada fervida, dirigendomi però in direzione opposta alla sua,
verso quella Gaeta che egli lasciò subito dopo averla nomata.
Passo attraverso Terracina, sulla strada che nel primo tratto è fitta
di ville, villette, casette, magazzini, distributori, centri commerciali.
Dopo Terracina, ricca di vestigia romane e medievali, seguo la via
Flacca che, dopo aver superato Sperlonga, ha un bellissimo
percorso sul mare: ma, prima di raggiungere Gaeta, c’è un punto
che impone una sosta, per il legame con Ulisse dato dai resti delle
sculture trovate nella vicina Grotta di Tiberio, esposte nel piccolo
Museo Archeologico Nazionale di Sperlonga, proprio sulla via
Flacca. Il Museo è inserito entro un sistema di parchi naturali, gestiti
dall’Ente Parco Riviera di Ulisse: qui siamo nel parco del
Monumento Naturale Villa di Tiberio e Costa Torre Capovento –
Punta Cetarola; segue poi sul promontorio di Gaeta il Parco di Monte
Orlando, e oltre Formia il Parco di Gianola e Monte di Scauri.
Raccolto e ben curato l’ambiente del piccolo museo, in cui sono
ricomposti secondo la disposizione originaria i molti frammenti dei
due grandi gruppi di Ulisse e Scilla (questo reca, su una tavoletta
che sporge dal castello di poppa della nave, le firme dei tre scultori,
nell’ordine Atanodoro, Agesandro e Polidoro) e dell’accecamento di
Polifemo (di cui c’è anche un calco / ricostruzione in resine
epossidiche che ne dà un’immagine completa, ma certo un po’
illusoria). Dante conosceva la vicenda di Polifemo dal racconto di
Achemenide, il greco superstite che Enea raccoglie presso l’Etna
(Eneide, III 588-654 e Metamorfosi, XIV 167-220) e di Scilla aveva
notizia ancora dall’Eneide, III 410-432 (dove Eleno invita Enea a
evitare l’antro di Scilla) e dalle Metamorfosi, XIV 51-77. Qui ci sono
anche resti, molto esigui, di un altro gruppo che riguarda anche il
compagno di pena e di colpa di Ulisse, “corno” minore e silenzioso
della “fiamma antica”, Diomede: è il gruppo del Palladio, di cui
restano la testa di Diomede e il suo braccio possente che ghermisce
la statuetta di Atena sottratta dal tempio di Troia (Eneide, II 163-170
e Metamorfosi, XIII 99-100: passi che hanno dato spunto a Dante
per indicare una delle colpe dei due eroi dannati: “e del Palladio
pena vi si porta”, Inferno, XXVI 63). E resta anche una bella statua
acefala di Ulisse, che aveva la spada sguainata (di questa rimane
solo l’impugnatura), rivolta proprio contro il compagno Diomede,
impossessatosi prima di lui della statuetta (e chissà se i due
continuano a litigare anche per questo nella fiamma che li avvolge lì
nell’ottava bolgia).
Davvero emozionante questo piccolo museo, che fa come toccare
nella pietra, nella sorpresa delle sculture ritrovate nella grotta sul
mare, la sostanza mitica e magica, la meraviglia e l’orrore, del
viaggiare di Ulisse, capace di resistere ai mostri e ai poteri divini, di
sconfiggerli, attraversarli, entrare nel loro cuore: portato sempre a
divergere dalle strade del ritorno, a seguire il richiamo dell’ignoto.
Percorriamo così nella sorprendente evidenza materiale della pietra
qualcosa che ha agito sull’immaginazione di Dante solo grazie alle
parole della poesia antica, in primo luogo a quell’Eneide che lui
sapeva “tutta quanta”. Nel considerare le vicende narrate da Virgilio
e da Ovidio, egli si è trovato a cancellare per Ulisse ogni ritorno, lo
ha precipitato nel finale richiamo di un “oltre” impossibile, in quel
“folle volo” verso l’ignoto piano divino del cosmo, che non poteva
non risolvere in una definitiva sconfitta le sue tante eroiche vittorie.
Dopo questo sguardo al cuore dei miti mediterranei, procedo sulla
costa raggiungendo Gaeta, di cui appare a est la parte moderna, con
la spiaggia di Serapo e, oltre, il monte Orlando col Santuario della
Montagna Spaccata. Mi dirigo verso la piazza XIX Maggio, aperta
sul porto, dov’è il Municipio. Ma oggi non è possibile raggiungere in
auto il centro storico, bloccato da transenne.
Gaeta e il Garigliano

………………………………
e quel corno d’Ausonia che s’imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
(Par., VIII 61-63)

Nel De vulgari eloquentia, I IX 4, si distinguono per la parlata i


Caetani dai Neapoletani, pur assegnati entrambi alla medesima
stirpe. Gaeta era una delle fortezze in cui s’imborgava, si serrava in
castelli, il regno meridionale, conquistato dagli Angioini; al loro
rampollo Carlo Martello, da Dante incontrato nel cielo di Venere, ne
sarebbe spettata la corona, se per la sua morte prematura non fosse
passata al fratello Roberto. Carlo menziona il regno non avuto
indicandolo come quel corno dell’Italia (Ausonia) che avanza sul
mare, distendendosi grosso modo verso Bari a est, verso Gaeta a
ovest, verso Catona a sud, mentre i confini del suo territorio verso le
terre a nord sono indicate da due fiumi, il Tronto a nordest e il Verde
a nordovest (ma si veda qui più avanti e poi alle pp. 307-310). La
città vecchia di Gaeta è tuttora dominata dal Castello, la cui parte più
bassa è proprio quella angioina, contornata appunto dalla via
Angioina. Avamposto nordoccidentale del regno, al di là del limite
fluviale segnato da questa parte dal Verde, l’attuale Garigliano (il
nome Viride è attestato in carte dell’XI secolo, riferito al Liri, il corso
d’acqua più a monte che confluisce nel Garigliano), il castello ha
avuto una lunga storia, fino a essere stato l’ultimo rifugio dei
Borbonici assediati col loro re Francesco II dalle truppe sabaude
dopo la spedizione dei Mille; poi a lungo, fino a pochi decenni fa, è
stato carcere militare. Ora una parte di esso (la Caserma Mazzini,
così detta perché vi fu prigioniero Giuseppe Mazzini dall’agosto
all’ottobre del 1870) è destinata alla Scuola Nautica della Guardia di
Finanza.
Proprio a un evento nautico sono destinate le transenne che
bloccano ora il passaggio delle auto verso il centro storico:
procedendo a piedi da piazza XIX Maggio (intitolata al giorno della
liberazione di Gaeta, con l’arrivo degli americani il 19 maggio 1944)
per il lungomare comincia presto a profilarsi lo Yacht Med Festival,
fiera internazionale dell’economia del mare. C’è tutto ciò che
interessa per l’equipaggiamento marino, tutte le informazioni e i
contatti per l’industria navale, per le istituzioni pubbliche e private
che si occupano della navigazione (in primo piano la Lega Navale
italiana), per gli sport, le vacanze, l’alimentazione marina. Sono
impiantati sul lungomare stand di paesi diversi, di varie regioni
italiane e straniere: e molto affollati sono quelli che offrono pesce
cucinato espresso. A fianco del lungomare e nel porto sono
attraccate imbarcazioni di ogni tipo, alcune anche visitabili, come un
bel tre alberi che sovrappone l’aspetto di antico veliero a una
evidente modernità costruttiva. Qui in ogni modo capita di constatare
immediatamente la mutazione delle pratiche marine, l’abisso che ci
separa dalla navigazione mitica e avventurosa di Ulisse, tra
efficienza tecnica, sicurezza programmatrice, funzionalità industriali
e turistiche. E proprio al nostro navigare turistico, che procede
leggero, fra aspirazione all’agio, alla comodità e al piacere,
rispondono i produttori di yacht e natanti vari, mentre nella
navigazione industriale, tra petroliere e navi da carico, persiste (solo
in parte alleviata dalla tecnologia) la fatica e la rude durezza della
vita marinara.
È vero poi che l’espansione turistica della nautica, come
l’espansione di tutto il resto, non può tranquillizzare: si immettono
sempre più in mare navi gigantesche, da trasporto e da crociera,
battelli d’ogni sorta che intasano i porti, che nelle stagioni estive
assediano le coste, senza contare tutte le forme di inquinamento,
piccolo e grande, puntiforme o catastrofico, che infestano i mari del
mondo. Sappiamo peraltro che la cantieristica navale ha una grande
importanza per la stessa economia italiana: ma si può pensare a
un’espansione senza fine, a uno sviluppo mirante inevitabilmente a
riempire ancora i mari e le coste di metalli naviganti, di espurgazioni
di motori, di scorie inestinguibili e infinite?
L’allestimento del festival marino sembra ora mascherare l’antica
città, mettere in ombra i suoi vicoli e le sue chiese, suggerire pensieri
proiettati dalla parte del mare, di tutto ciò che lo ha percorso a partire
dalle origini mitiche, dalle antiche guerre e avventure, a naufragi,
crociere, regate, escursioni, intasamenti dei nostri tempi. Resta in
ombra la Gaeta di Enea, dei romani, degli Angioini e degli
Aragonesi, lo stesso castello in cui s’imborgava il regno, e più su il
monte Orlando con il faro e il mausoleo di Munazio Planco, il
console romano che fu fedelissimo di Cesare e che fu tra i promotori
dell’attribuzione a Ottaviano del titolo di Augusto: nell’iscrizione che
si trova sulla porta del mausoleo viene detto tra l’altro che egli “agros
divisit in Italia Beneventi”, cioè espropriò le terre di Benevento per
assegnarle ai reduci della battaglia di Filippi.
Proprio verso Benevento mi appresto ora a muovermi, toccando
prima la foce del Garigliano. Lasciato lo Yacht Med Festival (che si
concluderà qui il 1° maggio), mi dirigo verso Formia, sulla litoranea
fitta di edifici di ogni sorta: anche alcuni che dalla collina sembrano
come inclinarsi, quasi precipitare sulla strada. Tra le varie insegne,
come sempre arcinote o peregrine, non posso evitare di notare
quella che sta su un palazzo a sinistra, ormai presso il porto di
Formia e che così reclamizza qualche scuola privata, certo destinata
ad ampliare, tra latino, inglese e radicamento territoriale, l’orizzonte
mentale degli studenti: FORM(I)A MENTIS SCHOOL.
Lasciata rapidamente la località marina di Scauri, si nota bene
sulla vicina collina la città di Minturno, e seguendo il tracciato della
Via Appia, si giunge finalmente al Garigliano, subito dopo aver
superato sulla destra l’area archeologica dell’antica Minturnae. Tante
cose convergono su questo fiume, il Verde: confine del regno, anche
se il regno aveva varie appendici di qua, sulla costa, fino a Gaeta e
oltre; dappertutto ci sono tracce della storia e degli insediamenti
romani, fino appunto alla distrutta Minturnae (tra le rovine ha forte
suggestione il teatro, ben visibile anche dall’Appia), i cui abitanti si
rifugiarono sul colle dell’attuale Minturno, il cui nome classico fu
fissato solo nel 1879, mentre prima aveva un nome legato proprio
all’importanza del vicino Garigliano, Traetto, cioè traghetto sul fiume.
Questa zona del fiume vide la battaglia del 1503 che, con la sconfitta
dei francesi, portò alla definitiva conquista del napoletano da parte
degli spagnoli, mentre molto più tardi, in epoca borbonica, fu
costruito il ponte di ferro sospeso, distrutto durante l’ultima guerra e
recentemente restaurato, conservato come capolavoro di
archeologica industriale (lo si vede subito a fianco dell’attuale ponte
sull’Appia), che pare sia oggetto di culto per alcuni nostalgici
borbonici. Prima di superare il fiume, prendo comunque una strada a
destra, che lo costeggia, sul fianco delle rovine di Minturnae.
Raggiungo così la foce del Garigliano / Verde, qui sul versante
laziale. Scendo sulla riva sabbiosa, dove un pescatore in piedi è
intento alla sua lenza. Con grande leggerezza, come in un sottile
dialogo, si svolge ora qui l’incontro tra il fiume e il mare; solo
un’appena percepibile risacca marina entra per poco tratto entro la
foce. Di qua, più verso la parte del mare, c’è un vero e proprio
accampamento libero di caravan, disposti quasi con cura
geometrica, mentre sull’altra riva, che appare meno frequentata, ci
sono un paio di pescatori festivi, ma sullo sfondo di sparsi detriti e
cartacce che sembrano ben fissate sulla sabbia.
Strano è pensare che questo limite dovrebbe essere il limite nord
dell’Italia Meridionale, al di là del quale peraltro si apre subito una
delle zone più lacerate e difficili, oppresse dalla malavita, di tutto il
Sud: anche se più d’uno ha ritenuto che con Verde in Paradiso, VIII
63, Dante non intendesse il Garigliano né questo confine (indicato in
effetti già nel verso precedente da Gaeta), ma che con “da ove
Tronto e Verde in mare sgorga” si riferisse specificamente a un
quarto limite del corno d’Ausonia, dopo i tre costituiti da Bari, Gaeta
e Catona, quello che a Nord separa il Regno dalle Marche; Tronto e
Verde sarebbero un insieme, costituito dal ben noto Tronto e da un
suo affluente (il Castellano) che in esso si getta più a monte e che
Verde veniva chiamato. Su questa questione e questo nome capiterà
di tornare toccando quei luoghi: ma intanto, lasciata la foce
comunque carica di ricordi e presenze manifeste e nascoste, passo
sulla riva campana, sfiorando il ponte borbonico, che è alla destra di
quello sull’Appia.
Lasciata l’Appia, inizio a risalire il corso del fiume, su di una strada
che lo affianca, lo lascia solo per pochi tratti (specie nella parte più
bassa, quando si avvolge in alcune anse) e lo segue fino alla
confluenza tra Gari e Liri (il punto in cui diventa effettivamente
Garigliano) e all’imbocco autostradale di San Vittore. Il percorso si
apre tra vasti campi e tra zone di fitta vegetazione, passando dalla
pianura a varie modeste alture sotto cui si divincola il fiume.
Sorprende a un certo punto, nella parte iniziale, la centrale nucleare
del Garigliano, presso San Castrese, la cui attività è stata fermata
nel 1982, ma che lascia molti dubbi e conflitti sulla destinazione
attuale e su ciò che veramente accade al suo interno. Si ha
comunque una certa inquietudine nel vedere da lontano le sue
strutture, quel che di lucido, levigato e sinistro che esse inseriscono
nell’ambiente, con la minaccia dei cartelli col divieto di accesso e
l’indicazione di sorveglianza armata, nel silenzio di questa
campagna fuori dei percorsi consueti. Poco più avanti, sull’altra riva
del fiume, le terme di Suio, e infine di qua, quasi a guardia del punto
di confluenza tra Gari e Liri, su di una rupe, con un imponente
castello, il paese di Rocca d’Evandro, il cui nome (pur avendo una
diversa origine, forse da una vicina antica località di nome Vandra)
non può non ricordare il re degli Arcadi che abitavano i luoghi futuri
di Roma all’arrivo di Enea.
Benevento

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia


di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia,

l’ossa del corpo mio sarieno ancora


in co del ponte presso a Benevento,
sotto la guardia de la grave mora.

Or le bagna la pioggia e move il vento


di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
(Purg., III 124-132)

Dopo un breve tratto d’autostrada, all’uscita di Caianello si prende la


Telesina, strada statale molto trafficata, che per un buon tratto risale
dolcemente la valle del Volturno: proprio non lontano da Telese c’è la
confluenza nel Volturno dell’affluente Calore e lì la strada si insinua
nella valle del Calore (procedendo in senso opposto al corso del
fiume), fino a raggiungere Benevento. Questi fiumi furono
variamente toccati dagli eserciti che il 26 febbraio 1266 si
scontrarono nella famosa battaglia detta di Benevento: lo svevo
Manfredi con i suoi stava attestato intorno a Benevento, al di là del
Calore, difeso da quel fiume e dal suo affluente Sabato, che insieme
facevano una sorta di penisola a nord ovest della città, mentre gli
eserciti di Carlo avevano seguito il corso del Volturno, provenendo
da nordovest, dopo aver sconfitto qualche giorno prima parte delle
truppe di Manfredi che difendevano il fronte del Liri, al confine tra gli
Stati della Chiesa e il regno meridionale (ma toccherò quei paraggi
domani). Sfiduciato e ansioso per il precedente rovescio, Manfredi
decise di attaccare Carlo, attraversando il Calore: e molto
probabilmente la battaglia ebbe luogo ai piedi del colle San Vitale,
oltre il Calore a nord di Benevento.
Ho prenotato un alloggio proprio su di un poggio sul pendio di
questo colle: un piccolo bed and breakfast, tenuto da giovani che
hanno risistemato una villetta familiare, con un giardino che guarda
verso la città. Ci si arriva dopo aver faticosamente scavalcato gli
svincoli della locale tangenziale, prendendo la strada per Vitulano,
che a un certo punto sale nella campagna fitta di strade e stradine,
di costruzioni di ogni sorta, finite e non finite, di segnali e cartelli
stradali: chissà, forse la villetta è sorta proprio dove stavano
inizialmente attestati i cavalieri provenzali della prima linea di Carlo,
oppure quelli della seconda schiera, di varia provenienza, tra cui
c’erano circa quattrocento guelfi toscani, allora comandati da quel
Guido Guerra che Dante incontra tra i sodomiti (Inferno, XVI 34-39).
A parte la trasformazione radicale che ha subito il paesaggio, qui e
in tanti siti di battaglia resta perlopiù dubbia l’identificazione dei
luoghi e dei movimenti: come, vista da dentro, ogni battaglia appare
confusa e senza logica (come Waterloo per Fabrizio Del Dongo),
così le ricostruzioni dei movimenti, le identificazioni dei terreni,
l’evocazione dei fantasmi dei combattenti, della loro necessaria
implacabile violenza, restano evanescenti, indecidibili, dai margini
incerti e confusi. Si può evocare, raccontare, descrivere, far muovere
le varie pedine, riprodurre strategie e tattiche: sono sempre
razionalizzazioni, a cui quell’hic et nunc, quei corpi che calcarono
fisicamente il terreno, quel cieco balenare dello scontro
inevitabilmente sfuggono. È vero del resto che questa indecidibilità
non riguarda solo le battaglie: ciò accade per ogni sorta di luogo
fisico, per gran parte delle identificazioni che noi crediamo di fare,
tanti secoli più tardi, senza contare il fatto che gli stessi toponimi
tante volte si sono spostati o addirittura sono svaniti. Così il
viaggiatore dantesco può trovarsi più volte a fare i conti con queste
incertezze, con toponimi spariti o con indicazioni troppo generali che
è difficilissimo far combaciare con siti precisi, con luoghi e pietre da
fissare nello sguardo, da toccare e da percorrere, da memorizzare in
immagini fotografiche (ma poi la fotografia, su cui oggi tanto
facciamo affidamento, cosa fissa effettivamente della realtà? cosa
resta in essa della consistenza dei luoghi, della fisicità del loro
attraversamento? e potrà mai dirci, anche di siti sicuramente
identificati, che stanno ancora lì dove sempre sono stati, come e
cosa erano effettivamente quando intorno c’era un’aria tanto lontana
da quella che respiriamo, quando sopra vi si muovevano corpi e
oggetti ormai cancellati per sempre?).
Così ora dal colle di San Vitale, sotto un poderoso pino, guardo in
basso la città di Benevento, il sistema delle strade che la circondano,
l’agglomerato delle case, che da qui sembra ancora più confuso di
quanto effettivamente sia; riesco solo a sospettare la presenza dei
fiumi che scorrono silenziosi, il Calore che scende da est e scivola
tra varie anse a nord del centro della città, il Sabato che viene da
sud per gettarsi nel Calore un po’ a ovest.
Beschreibung eines Kampfes, “Descrizione di una battaglia”,
anche se nella battaglia del più antico racconto di Kafka non ci sono
eserciti schierati, ma solo individui desolati che mettono in dubbio la
consistenza della realtà: ora seguo alcune tracce per questa
battaglia che fu reale e che forse cambiò la storia d’Italia, o forse è
stata solo irrilevante, perché l’essenziale era già successo prima e
Manfredi era già uno sconfitto e la Chiesa e gli Angioini avevano già
vinto (e ancor più vano e illusorio il successivo tentativo di recupero
del povero Corradino). Forse questa battaglia non fece altro che
chiudere i conti: importante anche per Dante, per far tornare a
Firenze i Guelfi scacciati dopo Montaperti, solo sei anni prima. Ma
strano che i conti fossero chiusi proprio qui a Benevento, nel cuore
interno dell’Italia sannita, già pulsante prima che se ne
impadronissero i romani, che qui sconfissero Pirro (anche questa
una battaglia cruciale per la storia futura) e dedussero la loro colonia
rovesciando il nome Maleventum in Beneventum; poi capitale del
ducato longobardo, altera signora dell’Italia meridionale, con i suoi
Arechi e soprattutto Landolfi, fino agli scontri con la Chiesa dell’XI
secolo e all’ultima pallida resistenza di Landolfo VI, sovrano “finale”,
emblema di estinzione che ha abitato il nome e la mente di un tardo
e laterale rampollo della sua schiatta, il nobile scrittore della ciociara
Pico, Tommaso Landolfi, che a Landolfo VI e alla sua fine ha
dedicato un dramma in versi (dove il duca ripiega “in ombra”,
convinto che “la morte è perfezione della vita”). E poi dopo tutti i
rovesci successivi, la città longobarda (del cui severo orgoglio di
capitale medievale resta appena qualcosa nell’aria, tra le scarse
tracce nella struttura urbana e nel più tardo castello) è rimasta come
enclave pontificia entro il regno di Napoli, fino al definitivo passaggio
all’Italia del 1860. Stratificazione e storia particolarissime, di cui poco
percepisco se, come tento di fare, mi immetto in auto nella giravolta
dei sensi unici e nel fitto traffico del pomeriggio festivo che converge
verso il centro. Parcheggiata faticosamente la macchina, procedo sul
corso Garibaldi affollato di famiglie a passeggio: e da qui non posso
non fare una leggera diversione “romana”, verso l’arco di Traiano,
con la sua fitta serie di consunti rilievi che celebrano le più varie
imprese, soprattutto civili e amministrative, dell’imperatore. Le
immagini dell’arco mi fanno pensare ai rilievi con gli esempi di umiltà
che Dante ammira nel primo girone del Purgatorio, tra i quali c’è la
scena dell’incontro e del dialogo tra Traiano e la vedovella, istoriata
in un visibile parlare (Purgatorio, X 73-96); e anche al fatto che,
proprio per la sua benignità verso la vedovella, Traiano viene poi
collocato, lui pagano, addirittura in Paradiso, apparendo nel ciglio
dell’aquila nel cielo di Giove (Paradiso, XX 43-48) e suscitando poi
da parte della stessa aquila una giustificazione invero peregrina del
suo essere tra i beati (dopo la sua morte sarebbe stato richiamato
surrettiziamente in vita per le preghiere di papa Gregorio, in modo
che, così “tornata ne la carne, in che fu poco”, la sua anima potesse
credere nella vera fede, ibidem, 100-117).
Ma non sono qui per Traiano: a Benevento, oltre il ricordo
inafferrabile del violento teatro di quel 26 febbraio 1266, si impone
un luogo più particolarmente definito: il ponte dove fu in un primo
momento, “sotto la guardia della grave mora” (sotto un pesante
mucchio di pietre), sepolto Manfredi, che, “biondo era e bello e di
gentile aspetto”, ma nell’Antipurgatorio appare a Dante con le sue
ferite mortali, col colpo che divide “un de’ cigli” e con “una piaga a
sommo ’l petto”. Carlo d’Angiò, nella lettera mandata al papa
Clemente IV il successivo 1° marzo, dice del ritrovamento, del
riconoscimento e della sepoltura non religiosa del nemico, senza
indicare nessuna collocazione: “Ego itaque, naturali pietate inductus,
corpus ipsum cum quadam honorificentia sepulture, non tamen
ecclesiastice, tradi feci” (“Io quindi, indotto dalla naturale pietà, feci
dare il suo corpo a sepoltura con qualche onore, ma non secondo il
rito della chiesa”).
Ma per il ponte si moltiplicano le ipotesi, le difficoltà, i contrasti, in
una lotta di identificazioni condotta in primo luogo da eruditi e
appassionati locali. Se non si tiene conto di questo e si va a intuito,
viene naturalmente da dirigersi verso il ponte più importante, quello
che attraversa il Calore a nord del centro (sulla continuazione del
corso che proviene dal Duomo) in direzione della stazione
ferroviaria: è il ponte Vanvitelli, già progettato dal grande architetto
settecentesco sul luogo di un ponte precedente, ma ricostruito in
forma diversa nel 1960, dato che le sue sei arcate (ora sono tre)
impedivano un adeguato flusso delle acque. Ora, tra queste
stratificazioni, mentre il traffico procede fitto sul ponte, guardo da tutti
i lati le più vicine sponde del fiume fitte di vegetazione, per
immaginare la posizione della “grave mora” e vedere poi all’opera,
per portare via il corpo martoriato del re, gli scherani del “pastor di
Cosenza” (l’arcivescovo Bartolomeo Pignatelli, che era legato del
papa presso Carlo d’Angiò). Qui c’è anche una lapide ufficiale che
adeguatamente ricorda la vicenda e i versi danteschi: ma è anche
probabile che non fosse questo il ponte o che allora qui non ci fosse
un ponte. Se, passati sulla riva destra del fiume, lo si risale un po’
verso monte, sulla via Manfredi di Svevia, si possono notare alcuni
ruderi che dovrebbero essere quelli di un più antico ponte, detto
della Maurella, che molti considerano più probabile luogo di quella
prima sepoltura.
Ma, se si seguono le varie piste e attribuzioni (su Internet se ne
può trovare un campione), si rischia di dover procedere anche molto
fuori Benevento, verso una zona industriale a est, la contrada Ponte
Valentino, dove c’è appunto sul Calore questo ponte Valentino di
origine romana: ma qui siamo verso il paese di Paduli, troppo
lontano da quello che doveva essere il luogo della battaglia. Può
invece sembrare più credibile un ponte rotto, rovina del romano
Pons Maior, verso ovest, che qui chiamano ponte Fratto verso la
contrada Pantano, dove, proprio sotto San Vitale, dovrebbe essersi
svolta la battaglia. Posso cercare i resti di questo quarto ponte
seguendo il corso del fiume dopo il ponte Vanvitelli (dalla parte
opposta al ponte della Maurella), percorrendo la via Grimoaldo re,
dove però si è richiamati dal sorprendente Giardino dell’incontro,
piccolo parco ben attrezzato e dedicato alla poetessa Alda Merini (ci
sono varie foto e cartigli con suoi versi); proprio non avrei pensato di
trovarla qui. A un certo punto il lungofiume non è più praticabile e
sono costretto ad abbandonare la ricerca di questo ponte Fratto:
chiedo anche a qualcuno che passa, ma nessuno sa dirmi nulla. In
realtà se vado di nuovo dall’altra parte del Calore posso raggiungere
la riva del Sabato e un ponte romano abbastanza ben conservato, il
ponte Leproso, poco prima della confluenza col Calore… Chissà se
non sia da pensare anche a questo ponte, sul Sabato e non sul
Calore, ma comunque nei paraggi della battaglia e davvero molto
“presso a Benevento”. Senza contare il fatto che c’è anche chi pensa
di dirottarci ancora oltre, quando il Calore piega un po’ verso Nord,
sotto il paese di Castelpoto, dove da qualche parte c’è un altro
antico ponte, quello delle Maurelle (qui al plurale): in fondo siamo
ancora sotto il colle di San Vitale…
Quel che è certo è che il pastor di Cosenza non volle sapere di
ponte e di grave mora e fece portar via le ossa di Manfredi, pure a
lume spento, per supremo sfregio e per volontà papale, per poi
buttarle via. Ma come? Come è possibile che, dopo trentaquattro
anni, la bionda ombra dello sventurato re dica “Or le bagna la
pioggia e move il vento”? e perché gliele hanno portate così
lontano? Ulteriore sfregio portarle fuor del regno: perché insomma il
regno non doveva avere più nulla a che fare con gli Svevi! Le
ricoprirono in qualche modo con un mucchio di anonima terra? O le
hanno disperse al vento, o lasciate trascinare dal fiume, come
accadrà a Buonconte da Montefeltro, da Dante incontrato poco
dopo, più su sulla costa dell’Antipurgatorio?
Ed eccoci di nuovo all’identificazione del Verde; è il Castellano o il
Garigliano? Valutando le cose dal punto di vista di un ponte
(presunto) di Benevento, sembra troppo strano che il turpe corteo
del Pignatelli (ma c’era anche lui, per godersi lo spettacolo, o
soltanto i suoi addetti, a profanare lo scomunicato?) sia arrivato fino
al limite delle Marche, percorrendo impervi territori di Sannio e
Abruzzo e per giunta nell’entroterra dove scorre il Castellano
(cercherò prossimamente di andare a vederlo: pp. 307-310). Più
logico che si sia diretto al più vicino limite del Verde, che nella sua
più flebile identità di Gari tocca Cassino (lì vicino gli Angioini,
qualche giorno prima di Benevento, avevano dato il primo duro colpo
agli Svevi) e poco più a sud confluisce con il Liri (c’è anche una
località che prende nome dalla vicinanza dei due fiumi, Pignataro
Interamna): in fondo poteva essere un ulteriore sfregio, dato dal
ricordo della precedente battaglia. Ma si può anche pensare che
Dante, con quel quasi (“quasi lungo il Verde”) abbia voluto indicare
un più generico spostamento delle povere ossa di Manfredi verso il
fronte degli scontri precedenti, su cui del resto (Liri/Gari) erano
attestate le sue precedenti difese, e che anche quel fuor del regno
sia da intendere in modo molto generico. Quel che è certo è che
Manfredi fu abbandonato alla pioggia e al vento oltre Benevento,
verso gli Stati della Chiesa, senza che sia mai possibile sapere dove
e come, né se Dante abbia recepito una voce corrente su un suo
possibile pentimento in articulo mortis o sia stato lui stesso a
inventarlo con la sua folgorante immaginazione (ma se ne riparlerà
anche a proposito del ponte di Ceprano, vedi pp. 191-193).
Montecassino

Quel monte a cui Cassino è ne la costa


fu frequentato già in su la cima
da la gente ingannata e mal disposta;

e quel son io che sù vi portai prima


lo nome di colui che ’n terra addusse
la verità che tanto ci soblima;

e tanta grazia sopra me relusse,


ch’io ritrassi le ville circunstanti
da l’empio cólto che ’l mondo sedusse.
(Par., XXII 37-45)

La mattina del 26 aprile lascio il colle di San Vitale e mi dirigo verso


Cassino non attraverso la Telesina, ma per la strada che,
sovrapponendosi al tracciato di diverse vecchie strade statali,
attraversa il cuore del Sannio, tra i monti del Matese a destra e quelli
del Sannio a sinistra, e raggiunge Isernia: lì svolto a destra toccando
di nuovo la valle del Volturno, lasciandola verso Venafro e
raggiungendo Cassino. È una rapida immersione, accompagnata da
un cielo scuro e da una monotona pioggia, nell’Italia più interna e
profonda, già abitata dalle rudi popolazioni che resistettero a lungo ai
romani: un’Italia che fa poco parlare di sé, che sembra affidarsi
ancora a una sua dimessa rusticità, pur se intrecciata con gli sparsi
esiti della modernità industriale. Si passa a Boiano e si gustano le
sue pregiate mozzarelle e scamorze; si passa a Isernia e si
inseguono le tracce dell’homo aeserniensis (forse il primo homo
erectus d’Europa), nel giacimento paleolitico de La Pineta.
Nell’avvicinarsi a Cassino viene a infittirsi, sulla strada statale, il
consueto paesaggio industriale e commerciale: ma, prima di entrare
nella città moderna (totalmente riedificata dopo il disastro della
grande battaglia dell’ultima guerra) si attraversa un ponte su di un
fiume che si vede appena, anche se è abbastanza ricco di acque ed
è accompagnato da un doppio lungofiume e da una pista ciclabile.
Anche questo è uno dei rami che portano al Garigliano: si tratta del
Rapido, che poco più a valle si nasconde sotto terra, dove si
confonde col Gari, che sbuca fuori poco più giù e in questa zona è
stato teatro della più violenta battaglia di Cassino, attraversato dagli
alleati l’11 maggio del 1944 (e poco più giù, presso il paese di
Sant’Angelo in Theodice, c’è un monumento commemorativo).
Pensando ancora al trafugamento notturno della salma di Manfredi,
si può credere di identificare qui il dantesco Verde, anche perché tra
i punti ipotizzabili, questo (come quello della confluenza col Liri, che
si trova poco oltre) è geograficamente quello più vicino a Benevento.
Qui del resto, come già si è accennato, intorno a Cassino (che allora
veniva chiamata San Germano), Carlo d’Angiò aveva inflitto una
prima grave sconfitta agli eserciti di Manfredi attestati sui confini del
Regno.
Non è in nessun modo possibile toccare Cassino senza trovare
segni dell’altra ben diversa battaglia, quella iniziata già alla fine nel
novembre 1943 e conclusa davvero solo nel maggio del 1944:
distruzione e morte, fuoco, fumo e orrore, disagi e violenze di ogni
sorta subite su questo fronte dalla popolazione civile. La città nuova
risorta e sviluppatasi anche con una sua università è segnata da
questo essere “dopo”, dall’effetto del suo faticoso tornare alla vita
dopo la guerra. I resti della vecchia città e la stessa zona
archeologica, con le tracce della città romana, sembrano come irreali
residui di quella distruzione (ricordando altre distruzioni che la città
romana aveva subito nell’alto medioevo). Intorno, dislocati e separati
per nazioni, ci sono diversi cimiteri di guerra. E proprio sulla celebre
abbazia che sta lassù sul monte, aggettante subito a ovest della
città, grava il segno più manifesto, più storicamente inquietante di
quella battaglia, delle sue lunghe fasi: colpita in pieno e distrutta già
il 15 febbraio 1944 e poi punto nevralgico negli scontri dei mesi
successivi.
Non si può non pensarci quando si salgono i tornanti per
raggiungere l’abbazia, mentre si apre lo sguardo sull’ampia pianura
sottostante: e si pensa a san Benedetto e ai suoi monaci, a tutti
coloro che si sono succeduti nei secoli, alle incredibili difficoltà
superate per impiantare quassù dei possenti edifici, per trasportare
materiali, attrezzi, strumenti di lavoro, arredi, con una eccezionale
perizia tecnica. Seguendo il racconto di Gregorio Magno, Dante
collega la grande azione del santo, determinante fondatore del
monachesimo medievale (che, nel cielo di Saturno, appare come “la
maggiore e la più luculenta” delle “margherite” degli spiriti
contemplanti), all’intenzione di portare la parola divina tra i superstiti
abitanti della romana Cassino, distrutta dai barbari; quelli, rifugiatisi
sul monte, praticavano ancora il paganesimo. E insiste sull’effetto
propagante dell’iniziativa di san Benedetto, capace di cancellare la
presenza dell’“empio cólto” dalle “ville circunstanti”. Davanti al
pellegrino, lì nel cielo di Saturno, è il santo stesso a denunciare il
traviamento del monachesimo contemporaneo:

Le mura che solieno esser badia


fatte sono spelonche, e le cocolle
sacca son piene di farina ria.
(Par., XXII 76-78)

Ora la comoda strada asfaltata, con i suoi ampi tornanti, su cui


scendono e salgono torpedoni dai vivaci colori (e su più di un
tornante le automobili vengono fermate da uomini che consegnano
volantini che magnificano qualche ristorante giù in basso), conduce
su verso le mura imponenti della badia, esito della sistematica
ricostruzione, iniziata subito dopo la fine della guerra, che ha
restituito gli edifici al loro aspetto precedente, più fedelmente
possibile.
Ma quanti sono in Europa i centri storici che sono stati
alacremente ricostruiti dopo il disastro bellico? Alcuni grazie a una
attenta filologia restauratrice (sostenuta da documenti e immagini del
“prima”), altri con fantasiosa e modernizzante disinvoltura. Questa
abbazia – da cui nel VI secolo dopo Cristo prese avvio la
particolarissima rinascita che fu il monachesimo, vera e propria
difesa, recupero e rilancio del cristianesimo, proiettata nel cuore
dell’età barbarica, formidabile associazione di spiritualità e di
operosità, di cultura e di economia –, questa abbazia è proprio
l’emblema dell’ostinazione a ricostruire, dell’impegno a non veder
cancellate le testimonianze del passato, a recuperarne la vita,
nonostante tutte le più terribili falle che in esso periodicamente si
aprono.
L’abbazia ricostruita, d’altra parte, non è e non vuol essere solo un
monumento, ma aggrega intorno a sé varie attività, insiste a
prolungare i fondamenti del monachesimo nel presente, certo
adattandoli alla nostra slabbrata modernità. A raggiungerla oggi
sfugge un po’ questa carsica continuità, che è comunque affidata
alle varie attività che vi si svolgono. Si finisce per subire più
esplicitamente il suo uso di monumento, l’effetto inevitabilmente
turistico, che si impone subito quando si parcheggia sul vasto
piazzale esterno in pendenza: tanti i pullman, che in grande
maggioranza recano gruppi di quella nuova entità che sono i turisti /
pellegrini. Sono polacchi (c’è anche qualcuno con la bandiera e molti
recano al collo un fazzoletto patriottico): certamente sono qui in un
giro di visite di luoghi sacri, per poi assistere domani, 27 aprile, in
San Pietro a Roma, alla cerimonia di santificazione del loro
connazionale Wojtyla, papa Giovanni Paolo II. Per loro questo luogo
alla destinazione cattolica associa strettamente quella patriottica:
proprio di fronte all’abbazia, sul pendio del vicino monte Calvario, c’è
il cimitero di guerra polacco, che si vede bene, nella sua geometrica
disposizione, con alle spalle un giardino a forma di croce, dalla
terrazza del chiostro centrale, quello davanti alla scalinata che
conduce alla chiesa. Ed è giusto che i polacchi, che combattevano
così per la nostra liberazione, lontani dalla loro patria martirizzata,
siano nel cimitero più vicino all’abbazia, loro che furono i primi a
entrare tra le sue rovine alla ritirata dei tedeschi.
Nella struttura della basilica, ricostruita secondo l’impianto
cinquecentesco e settecentesco (certo tanto diverso da quella del
tempo di Dante), colpisce il legame tra i vari chiostri
intercomunicanti, che, esposti alla pianura sottostante, danno
l’impressione di una grande specola intrecciata: e un ulteriore
intreccio è dato dalla scalinata che conduce al chiostro superiore,
detto dei benefattori, a cui si passa attraverso un atrio vigilato dalle
statue di san Benedetto e di santa Scolastica. Dopo aver osservato
le statue settecentesche dei vari benefattori, a partire da
Abbondanza, madre di Benedetto e Scolastica, il passaggio nella
chiesa, troppo affollata da pellegrini vocianti, fa seguire alla
suggestione della ricostruzione la constatazione del suo limite, di
quanto essa non è riuscita a recuperare. Se le forme barocche
dell’architettura sembrano restituite comunque alla loro identità, ciò
non può accadere per la decorazione pittorica: affreschi e quadri,
Luca Giordano e Francesco Solimena, sono senza scampo spariti,
frantumati e polverizzati insieme ai muri bombardati, e sostituiti da
tele di diversa provenienza, come un San Benedetto che accoglie
due fanciulli, futuri santi suoi seguaci, attribuito a Nicola Malinconico,
e da degne pitture novecentesche, soprattutto di Pietro Annigoni con
la sua scuola e di molti altri artisti contemporanei. Opere degne,
certo, ma che fanno quell’effetto di improbabilità che spesso fa la
pittura sacra nel tempo della crisi semantica delle arti,
dell’evaporazione degli stili figurativi, del trionfo della fotografia.
Forse nel nostro universo fitto di immagini desacralizzate, dove la
visività ci insegue in ogni momento della giornata, anche quando si
sta al computer a riflettere su queste cose, gli echi del sacro
possono farsi autenticamente sentire solo se si danno come
qualcosa che viene da lontano, da un altrove del tempo, che rechi in
sé uno di quei segni di stile da cui la modernità artistica, frantumata
e secolarizzata, si è allontanata per sempre (e banalmente illusori
sono i remake postmoderni, le repliche alla maniera di). Insomma
davvero difficile la strada di un’arte sacra, e tanto più in questa Italia
così carica di grande arte dei secoli passati: nonostante le buone
intenzioni di artisti e committenti, non riesco a commuovermi per il
grande affresco di Pietro Annigoni sulla parete d’ingresso, con una
Gloria di San Benedetto a cui, tra sfumati guizzi visivi, in una
tripudiante affollata ressa ecclesiastica, irta di mitrie vescovili,
partecipano il cardinale Schuster, l’abate Rea, il papa Paolo VI e,
come si conveniva in alcune tavole rinascimentali, lo stesso autore
dell’opera.
Lasciata la chiesa, si visita il museo, che tra i materiali di epoche
diverse, ha anche un tondo del Botticelli, una Natività donata molto
recentemente (2006) dalla famiglia Masi. Ma l’oggetto che di più
attrae è certamente un manoscritto, tra quelli salvati durante la
guerra perché fatti riparare a Roma prima della battaglia, il famoso
placito capuano, che nel museo è adeguatamente illustrato. Come
siamo all’origine del monachesimo medievale, qui siamo anche
all’origine della lingua italiana, con la testimonianza rilasciata a
Capua al giudice Arechisi nel 960 a proposito di certe terre di
proprietà benedettina:

Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le
possette parte Sancti Bendicti

Proprio negli anni di questo placito (e di altri tre successivi con


formule simili) l’abbazia tornava a Montecassino, dopo la distruzione
operata dai saraceni nell’883 (con l’uccisione dell’abate Bertario),
che l’aveva costretta a un “esilio” a Teano e poi a Capua: e i
successivi tre secoli, fino al tempo di Dante, la videro al centro dei
conflitti in quella zona di confine tra il patrimonio della Chiesa e il
regno meridionale, dagli ultimi longobardi di Benevento ai normanni
agli Svevi, fino all’occupazione da parte di Federico II, a cui accenna
anche l’Ariosto nelle stanze Per la storia d’Italia destinate al Furioso,
ma poi nel poema non inserite (“Spoglia Monte Cassino e dà di piglio
/ e mette taglia a’ monachi e agli abati”). Fino alla sua sconfitta
Manfredi mantenne la sua protezione sull’abbazia: e il papa
scomunicò l’abate Riccardo, che aveva partecipato a Palermo
all’incoronazione dello svevo come re di Sicilia, mentre dopo la
battaglia di Benevento il suo successore Teodino, la cui elezione era
stata annullata dal papa, fu allontanato dall’abbazia.
In quei secoli qui passarono tanti personaggi in cui ci si imbatte
nella Commedia: ai tempi del grande abate Desiderio, futuro papa
Vittore III (1086-1087), san Pier Damiani che appare a Dante anche
lui nel cielo di Saturno, nel canto precedente a quello di san
Benedetto, fu qui nel 1064 e nel 1069; e così Ugo di Cluny, Matilde
di Canossa, Ildebrando di Soana (poi papa Gregorio VII). E nel XIII
secolo ci studiò, come oblato, san Tommaso d’Aquino (ma qui è
conservata la sua ultima lettera), mentre proprio negli anni vissuti da
Dante vi si fermò Celestino V subito dopo la sua abdicazione e in
seguito il suo aggressivo successore Bonifacio VIII. Lo scriptorium e
lo studio furono d’altra parte essenziali punto di riferimento per lo
sviluppo della più preziosa ars dictandi: e certamente saranno stati
frequentati dai cancellieri di Federico II e dallo stesso Pier delle
Vigne. Poi tra Trecento e Quattrocento sarebbero passati gli
umanisti, dal Boccaccio al suo amico Zanobi da Strada, fino a
Poggio Bracciolini e a Flavio Biondo, traendone manoscritti e testi di
autori antichi rimasti ignorati nei secoli precedenti.
Resta il dubbio se ci sia stato anche Dante, in occasione di sue
probabili ma non certe ambascerie a Napoli (tarda notizia trasmessa
dal Filelfo), passando, come si usava allora, per la Via Latina (ora
Casilina). Ma certo questo luogo, così audacemente impiantato su
questo monte che guarda la piana, che ha alle spalle altri monti ma
che, rispetto a essi appare quasi solitario, è uno di quelli che più
addensano in sé i fondamenti della cultura dantesca: il primo e
originario tra i luoghi che nei secoli avevano salvato, imprimendovi il
nuovo segno cristiano, pur tra conflitti e rivalità implacabili, la
continuità culturale dell’occidente. Certo noi che lo visitiamo, con
tutte le macchine, i dispositivi, gli oggetti che ci accompagnano,
possiamo avere la misura di quanto lontano siamo andati:

e se guardi ’l principio di ciascuno,


poscia riguardi là dov’è trascorso,
tu vederai del bianco fatto bruno.
(Par., XXII 91-93)
Aquino

…e io Thomas d’Aquino.
(Par., X 99)

Ad inveggiar cotanto paladino


mi mosse l’infiammata cortesia
di fra Tommaso e ’l discreto latino…
(Par., XII 142-144)

Scendendo da Montecassino si incontrano ancora distributori di


volantini dei ristoranti in basso; ma poi, superati quei ristoranti e
procedendo nella pianura sulla Casilina, diventa difficile trovarne uno
praticabile: quei pochi aperti che hanno un bell’aspetto non ricevono
clienti di passaggio, perché sono tutti riservati a pranzi di nozze.
Lascio comunque abbastanza presto la Casilina per fare una breve
puntata su Aquino, luogo dantesco solo indirettamente, in quanto
nome di famiglia comitale del doctor angelicus, il leader della prima
corona degli spiriti sapienti nel cielo del Sole, che presenta se stesso
nella rassegna dei membri di quella sua corona. Anche se Aquino
era il centro dei luoghi di cui la potente famiglia era titolare, i conti si
trovavano a risiedere perlopiù altrove: e sembra certo che,
nonostante rivendicazioni in proposito da parte della città di Aquino,
Tommaso sia nato a Roccasecca, in quel 1226 che è lo stesso anno
della morte di san Francesco, che egli elogia nell’XI del Paradiso (al
suo elogio di Francesco corrisponde quello che il francescano
Bonaventura fa poi di san Domenico, concludendolo con i versi
sopra riportati, che riconducono il suo lodare, inveggiar, quel
paladino della fede che è stato Domenico, a una restituzione alla
cortesia e al chiaro linguaggio con cui Tommaso, domenicano, ha
elogiato Francesco).
Forse Aquino Tommaso non l’ha frequentata quasi per niente,
mentre il suo maggiore rapporto con località dei paraggi l’ha avuto
con Montecassino. Qui ci potrà essere passato durante i suoi viaggi:
ma chissà se lo fece nell’ultimo, quando, partito da Napoli, si
dirigeva a Lione per il concilio, e, ammalatosi, si fermò all’abbazia
cistercense di Fossanova, a monte delle paludi pontine, e vi morì nel
marzo 1274 (lì c’è ancora la cella della sua morte). Circolò la diceria
che egli fosse stato avvelenato da un medico per conto di Carlo
d’Angiò, nemico dei conti d’Aquino, che erano di tradizione
ghibellina: e Dante la raccoglie sarcasticamente mettendola in bocca
a Ugo Capeto, che ricorda che Carlo, dopo aver fatto fuori Manfredi
e Corradino “ripinse al ciel Tommaso per ammenda” (Purgatorio, XX
69).
Ad Aquino, comunque, non si notano grandi tracce del frate e
filosofo domenicano: nella piazza San Tommaso, che trovo
silenziosa e quasi deserta, del palazzo dei conti d’Aquino ci sono
solo sparse vestigia, resti di mura, di finestre e di torri; più in là, ai
limiti di un vallone, c’è una sola torre e vicino il piccolo museo della
cosiddetta Casa di San Tommaso. La cattedrale di San Costanzo e
Tommaso, distrutta nell’ultima guerra (sempre in quella terribile
battaglia intorno a Montecassino), è stata ricostruita in fredda
architettura sul lato della piazza opposto a quello in cui
originariamente si trovava (e davanti c’è un moderno monumento a
san Tommaso). Sulla piazza, comunque, c’è anche un Ristorante
Divina Commedia!
Mi avvicino di più ai tempi di Tommaso raggiungendo la chiesa di
Santa Maria della Libera, eretta nel XII secolo, che, nonostante
interventi successivi, conserva gran parte delle sue forme
romaniche. Ma Aquino ci può portare ancora più indietro,
nell’antichità romana: di questa si trovano tracce nelle rovine un po’
fuori città, che si raggiungono percorrendo anche la pavimentazione
antica della Via Latina, che qui passava. Questa antica Aquinum
peraltro ha un rilievo non trascurabile per la storia della letteratura: vi
nacque il satirico più amaro e risentito, più acremente moralista che
ci sia mai stato, Decimo Giunio Giovenale, che probabilmente Dante
conosceva. Ne fa il nome, del resto, in Convivio, IV XII 8 e IV XXIX 4-
5, in Monarchia, II III 4, in Purgatorio, XXII 14 (Virgilio dice a Stazio
che ha sentito parlare di lui quando Giovenale è sceso al Limbo): e
ci sono altri passi danteschi in cui sembrano affacciarsi citazioni da
Giovenale (il caso più diretto sembra quello di Purgatorio, XXI 88, in
cui il “dolce… vocale spirto” con cui Stazio indica la propria passione
per la poesia permetterebbe un richiamo a Satire, VII 82-84).
Ceprano

…e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie

a Ceperan, là dove fu bugiardo


ciascun Pugliese…
(Inf., XXVIII 15-17)

Sulla scorta del dolce vocale spirto di Stazio (che appunto


deriverebbe da vocem iucundam e da tanta dulcedine captos di
Giovenale) lascio Aquino e riprendo la Casilina verso Ceprano.
Proprio all’ingresso della città (che è stata uno dei poli dello sviluppo
industriale della zona) si attraversa il Liri, su di un ponte con una
ringhiera per parapetto dopo il quale subito c’è uno spazio un po’
abbandonato, a terra pezzi di asfalto rimosso, segni di lavori rimasti
in sospeso: addossata ancora alla ringhiera, al limite del ponte, c’è
una lapide con due passi danteschi, quello in cui è menzionato
Ceperan e l’altro sulla sepoltura di Manfredi del III del Purgatorio.
Queste lapidi e questo luogo mettono così insieme le due fasi del
micidiale scontro tra Carlo d’Angiò e Manfredi: sulla linea del Liri, al
confine del regno erano infatti attestate le difese dello svevo, cadute
per il tradimento di alcuni baroni del regno (ciascun Pugliese). La
linea di difesa era in realtà costituita da un triangolo Ceprano-Rocca
d’Arce-San Germano (cioè Cassino) e sembra che gli Angioini
passarono senza incontrare resistenza su questo ponte sul Liri, per
prendere poi Rocca d’Arce e Aquino: la battaglia ci fu, ma a San
Germano. Non avendo documentazione di scontri a Ceprano, alcuni
storici hanno addirittura pensato che Dante confondesse Ceprano
con Benevento: ma la cosa è priva di senso e sarà semmai da
intendere che con Ceperan Dante indichi sinteticamente la defezione
di molti baroni meridionali dalla causa di Manfredi e l’intero orizzonte
dello scontro tra Angioini e Svevi, da Ceprano a Benevento, il che
sarebbe congruo anche con la similitudine entro cui il richiamo si
inscrive. L’ossame e le stragi dell’evento sono infatti messi insieme a
quelli dell’antica battaglia di Canne, della conquista normanna del
Meridione e della battaglia di Tagliacozzo: sempre esiti di ferite
mortali, di mutilazioni e scempi dei corpi, che se tutti si adunassero
insieme non riuscirebbero comunque a dare un’immagine del “modo
della nona bolgia sozzo” (e si vedano pp. 289-294, 297-303).
Ma se a Ceprano non ci fu nessun combattimento, durissimo
certamente fu quello di San Germano, con una vera e propria strage
dei saraceni al servizio di Manfredi: il cronista Saba Malaspina dice
addirittura che i loro corpi “prae vulnerum confusione crudelium in
campo discerni non poterant, in escam rapacium animalium iacebant
exposita super terram” (“sul campo non si potevano distinguere per
la confusione data dalle crudeli ferite, giacevano in terra esposti
come cibo per gli animali rapaci”). Dante non confuse certo Ceprano
con Benevento (del resto il Malaspina dice anche che quelli che
fuggendo raggiunsero Benevento si trovarono a riferire della strage
di San Germano miranda et terribilia). Pare più verisimile comunque
che nel XXVIII dell’Inferno egli dia un’immagine sommaria
dell’insieme dello scontro tra Carlo e Manfredi, notando il tradimento
dei baroni a partire dal primo momento in cui esso dovette risultare
evidente, cioè la defezione dei baroni a Ceperan. Più tarde fantasie
campanilistiche hanno poi portato qualcuno a pensare addirittura
che il ponte presso a Benevento fosse in realtà questo qui o che in
ogni modo Manfredi fosse stato portato o sepolto qui, sui pilastri o
sulle fiancate di questo ponte, se non gettato qui, tra le anse che qui
fa il fiume a cui si soleva dare anche il nome di Verde. Si ha anche
notizia che nel 1614 qualcuno credette di trovare le ossa di Manfredi
in una cassetta murata sul pilone di questo ponte: e ho trovato
anche una notizia secondo cui nel 1930, durante la ricostruzione del
ponte di Ceprano, sarebbe stato rinvenuto un sepolcro di travertino
con la scritta: Qui iace lo corpo dell’alto re Manfredi Lancia (cosa
comunque priva di qualsiasi attendibilità).
Ora il Liri tace sotto il ponte, anche se poco più in là fa un piccolo
salto, quasi una cascatella, su un leggero rialzo del suo fondo: nel
suo letto si affaccia qualche residuo di cemento armato, resti di
chissà quali precedenti rinforzi del ponte. Oltre la vegetazione sulle
sponde e il leggero argine, subito alle spalle della lapide, si nota un
edificio industriale abbandonato con una ciminiera inattiva.
Procedendo oltre il ponte sul corso Vittorio Emanuele dopo un po’ si
ritrova il fiume, che ha girato in un’ansa, su un piacevole Lungoliri, la
cui freschezza primaverile fa dimenticare il cupo orizzonte di quel
febbraio 1266 tra Ceprano e Benevento. Continuando si giunge
all’ingresso dell’autostrada, che percorro fino alla successiva uscita,
Frosinone.
Monte Caccume

…montasi su in Bismantova e ’n Cacume


con esso i piè; ma qui convien ch’om voli.
(Purg., IV 26-27)

Non vado verso Frosinone, ma nella direzione opposta,


attraversando il fiume Sacco (siamo ora nella valle di questo
affluente del Liri, che confluisce in esso proprio poco a sud di
Ceprano e dell’autostrada). Procedo ora verso un luogo dantesco
dubbio, che c’è e non c’è, un luogo di ripida ascesa, un cacume su
cui si monta, che appunto potrebbe essere il monte Caccume che
ora, sulla superstrada che conduce da Frosinone a Latina (e da cui
con una breve deviazione si può raggiungere Fossanova), mi si
staglia davanti. Può darsi che a questo monte si riferisca Dante per
far percepire la difficoltà della salita su per le rampe del Purgatorio,
proprio subito dopo l’incontro con Manfredi: egli evoca i ripidi pendii
di San Leo, di Noli, di Bismantova e forse di questo Cacume /
Caccume, anche se molti leggono: “montasi su in Bismantova in
cacume”, cioè “a Bismantova proprio sulla vetta”, eliminando questo
monte Caccume, che comunque Dante potrebbe almeno aver visto
da Anagni, sul versante opposto della valle del Sacco. A vantaggio
di questa vetta qualcuno allega la simmetria (due città, San Leo e
Noli, due montagne, Bismantova e Caccume), ma qualcun altro
esclude ogni congruenza tra le ripide balze di San Leo, Noli e
Bismantova e il più dolce e lungo percorso che porta al Caccume
(1095 metri la vetta).
Non intendo ora salire sul cacume del Caccume, ma solo
avvicinarmi di più: tento di raggiungere una strada che costeggia il
monte dirigendosi verso Patrica, base per le escursioni su di esso,
girando a destra dalla superstrada poco prima di Giuliano di Roma
(che è invece sulla sinistra). Ma, non trovando questo imbocco della
strada per Patrica, chiedo informazioni a un gentile signore che trovo
a Giuliano, da un punto dove si vede anche, e ben acuminata nella
sua ben tornita forma conica, la vetta del Caccume. Vengo così a
sapere che la strada che voglio prendere è interrotta per qualche
frana: e allora devo tornare indietro e raggiungere Patrica non dalla
costa del Caccume, ma dalla strada che viene da Frosinone e
prende il paese da sotto, arrampicandosi, prima di raggiungerlo, in
tortuosi giri.
Nella mia memoria il nome di Patrica è legato al solo terribile
momento che è venuto alla ribalta della cronaca ed è diventato noto
a livello nazionale. Un evento di cui forse oggi a ben pochi è rimasta
memoria: la strage di Patrica, l’agguato terroristico al procuratore
capo di Frosinone Fedele Calvosa, che a Patrica abitava. L’8
novembre 1978, mentre una Fiat 128 con due agenti lo conduceva,
come ogni mattina, da Patrica e Frosinone, veniva attaccato da un
commando delle cosiddette Formazioni Comuniste Combattenti, che
uccidevano lui e i due agenti Giuseppe Pagliei e Luciano Rossi,
mentre anche un terrorista rimaneva ucciso nello scontro, forse
colpito per errore dai suoi stessi compagni nella confusione del loro
sparare all’impazzata. Anche su questi luoghi apparentemente
appartati esplodeva il terrore di quell’anno in cui così insistenti sul
suolo d’Italia si ripetevano gli scempi che per tanti secoli l’avevano
percorsa: quel terrorismo così ottusamente convinto di muoversi
verso una trionfante rivoluzione, e in realtà abbarbicato nella più
aggrovigliata aggressività, nel più tortuoso narcisismo, nella più
altera presunzione (uno dei terroristi veniva da una nobile famiglia di
origini lombarde trasferita a Roma), attaccava senza discriminazione
chi era comunque segnato dall’appartenenza a qualche istituzione
pubblica, e qui insieme al magistrato meridionale, calabrese che si
era fatto da sé col lavoro paziente e sistematico, cadevano quei due
poveracci, semplici paesani di questi luoghi, proprio di due paesi
vicini a Patrica, uno di Giuliano, l’altro di Sgurgola. Con la fulminea
efficienza dei mitra, i cui colpi molto spesso arrestavano sull’asfalto
la marcia di un motore, inchiodando sul volante il corpo dell’autista e
gli altri nelle disperate posture dell’abitacolo, in questa truce
inquadratura automobilistica tornavano le rabbie faziose, gli
inseguimenti, i tranelli, gli implacabili scempi, le funebri scene della
sconvolta e lacerata Italia di Dante, l’immedicabile crudeltà che in
quei tempi lontani procedeva per più lento e artigianale orrore.
Proprio sulla strada che sto percorrendo scendeva quell’8
novembre la macchina del procuratore, che magari stava
scambiando qualche battuta con i suoi agenti, qualche domanda
sulle loro famiglie, qualche commento sul campionato di calcio. E
penso all’insieme di quelle vicende degli anni settanta, a quale livello
di follia e di rovina siamo potuti arrivare, in una miscela di abiezione,
di perverse illusioni, di cupa e viscerale biologia, che è stata vissuta
nel nostro paese e su cui le vicende successive, i vari rovesci politici,
economici, sociali, culturali, non hanno fatto mai autentica luce: e
luce non sarebbe semplicemente ricostruire i fatti, i movimenti reali
di protagonisti e partecipanti, ma fare davvero i conti su come quegli
eventi hanno agito sulla sostanza dei luoghi, sull’essere delle
persone nel mondo (anche di chi allora ancora non c’era), fare i conti
con il precipitare della vita nel tempo, che mai si riscatta e mai si
cancella, anche se tutto cade nell’oblio. Del resto, se quell’inferno
degli anni settanta si è allontanato dal nostro orizzonte, altri nuovi
impensati orrori si affacciano oggi sulla scena del mondo: crediamo
di esserne immuni, anche se vi siamo sempre più coinvolti, mentre
da noi sembrano prevalere gli orrori privati e quotidiani, chiusi
nell’ottusità delle piccole vite, senza più nessuna illusoria proiezione
su ostentate speranze future, e sempre più si impone la paura del
diverso, il piglio duro dell’esclusione, la chiusura testarda entro il
proprio confine.
Intanto arrivo a Patrica: dopo casette e villette abbastanza recenti
adagiate ai piedi del paese, giungo sul suo costone roccioso, aperto
da tutte le parti: da una loggia, accanto alla semplice e solida chiesa
di San Pietro, si vede ancora la vetta del Caccume (poco prima,
all’imbocco di una stradina sotto un arco, ho visto istoriata sulla
pietra l’indicazione di un sentiero che vi conduce). Qui essa si vede
spuntare dietro l’altura che la precede e appare meno arditamente
conica, un po’ arrotondata al sommo, su cui campeggia una ben
visibile croce. Percorro la strada centrale del paese, su cui sbucano
vari vicoli con scalinate che salgono verso la parte più alta: prevale
dappertutto un nero tufaceo, ma spesso inquadrato da mattonature
rosacee o da pietre bianche. Da un altro belvedere, al centro del
paese si scorge in basso tutta la piana del fiume Sacco, con i
brulicanti agglomerati di Frosinone. Nelle stradine circostanti ci sono
moltissime auto parcheggiate, con un gran movimento di gente
vestita a festa: si recano verso la chiesa di San Giovanni, dove il
vescovo impartirà la cresima a folti gruppi di ragazzi.
Comincia a scendere la sera di questo 26 aprile e mi avvio ormai a
valle: prima di raggiungere l’autostrada passo su strade provinciali
che si intersecano con l’autostrada stessa e con la ferrovia dell’alta
velocità Roma-Napoli, su cui a un certo punto mi sfreccia davanti il
rosso scuro treno Italo. Trovo più volte sui muri tra Supino e Morolo
la scritta NON SOLO FAVOLE. Prima di imboccare l’autostrada, presso la
stazione ferroviaria di Sgurgola, accanto a uno stabilimento
farmaceutico, vedo un grande tir, che sul dorso rivela il suo strano
carico di budella per insaccati che, chissà perché, dall’Andalusia
giungono fin qui: TRIPAS NATURALES DE JAÉN.
Castel Gandolfo

Tu sai ch’el fece in Alba sua dimora


per trecento anni e oltre, infino al fine
che i tre a’ tre pugnar per lui ancora.
(Par., VI 37-39)

Nella storia dell’aquila imperiale fatta da Giustiniano nel VI del


Paradiso si dice che essa ebbe sede ad Alba Longa, per più di tre
secoli, fino al momento in cui passò a Roma, in seguito alla guerra
con Alba, decisa dal duello tra gli Orazi e i Curiazi, tre fratelli romani
contro tre fratelli albani, vinto dal romano Orazio, solo superstite. Alla
vicenda, narrata in primo luogo da Livio, Dante si riferisce in termini
analoghi nella Monarchia, II IX 15, insistendo sul contrasto per
l’insegna dell’aquila dei due popoli, il romano e l’albano, tutti e due
discesi dalla radice troiana (“ex ipsa troiana radice”). Ma prima vi
aveva accennato anche nel Convivio, IV V 18, riconducendo l’esito
del duello alla volontà divina:

E non puose Iddio le mani proprie a la battaglia dove li Albani con


li Romani, dal principio, per lo capo del regno combattero, quando
uno solo Romano ne le mani ebbe la franchigia di Roma?

Dante sapeva da Virgilio, Eneide, I 267-271, VIII 42-48, che Alba


Longa era stata fondata dal figlio di Enea, Ascanio (e il nome della
città veniva fatto risalire a una mitica scrofa bianca, alba, che
allattava trenta porcellini). Da Alba e dagli Albani patres, ricordati già
all’inizio dell’Eneide (I 7) trae la sua origine Roma; da lì viene la
madre di Romolo e Remo, Rea Silvia, figlia del re Numitore. Sotto il
segno dell’origine di Roma sono i colli vulcanici a sud della città, detti
appunto colli Albani, con i diversi centri che costituiscono i Castelli
romani e con i due laghi di Albano e di Nemi. La città di Albano
Laziale è quella, tra i Castelli, che direttamente nel proprio nome,
reca la traccia della originaria Alba Longa: ma sembra che l’antica
città fosse piuttosto sul sito dell’attuale Castel Gandolfo, molto vicino
del resto ad Albano Laziale.
Muovo verso questa originaria sede dell’aquila in una successiva
ripresa del percorso nel Lazio, la mattina del 1° settembre dello
stesso 2014: uscendo da Roma sulla Via Appia nuova, dopo
l’aeroporto di Ciampino si sfiorano, a sinistra, le località di Santa
Maria delle Mole e delle Frattocchie: qui intorno il percorso dell’Appia
nuova si ricongiunge con quello dell’Appia antica, non lontano dalle
rovine di un’antica città latina, Bovillae, legata ad Alba Longa, di cui,
quando i romani la distrussero, ereditò i sacerdoti. Sulla destra si
nota a un certo punto un massiccio e corroso rudere cilindrico, il
Torraccio, ciò che resta di un antico sepolcro, ora addossato a una
costruzione moderna. Sono luoghi quasi sommersi nel vario
frastuono di attività commerciali e artigianali, nel confuso rumore
della strada, che fanno pensare a una sorta di disseminazione e
sparpagliamento di quei miti dell’origine, quasi una loro bislacca
contaminazione con i mille brandelli di una periferica modernità. Al
prolungarsi, qui in questi luoghi marginali, nel loro brulicante
movimento, delle tracce del mito, ha dato voce il Pasticciaccio di
Carlo Emilio Gadda, nelle diversioni periferiche fuori dal cuore di
Roma, imposte dalle indagini per il delitto di via Merulana, alla
ricerca delle gioie rubate e degli assassini, tra le Frattocchie, il
Torraccio e il tabernacolo ora introvabile de Li Due Santi, il cui luogo,
subito dopo il Torraccio e prima del bivio per Castel Gandolfo,
dovrebbe corrispondere all’incrocio tra l’Appia e l’attuale via
Spinabella.
In un vorticoso giro mentale tra Virgilio e Gadda salgo la breve
salita che porta a Castel Gandolfo: raggiungo subito la piazza della
Libertà, che ha al suo fondo il secentesco palazzo papale, piccola
enclave vaticana dei Castelli romani, che è stata a varie riprese
residenza estiva dei papi e che, specialmente a partire dal papato di
Pio XII, ha dato a Castel Gandolfo un’aura particolare, con i risvolti
turistici delle visite di fedeli e pellegrini, benedetti nelle domeniche
estive dallo ieratico pontefice all’Angelus officiato nel cortile del
palazzo. Pochissimo movimento c’è ora sulla piazza: è ancora
presto in questo mattino di tarda estate, botteghe di souvenir e bar
sono aperti da poco; ma i visitatori saranno certo ben pochi, ora che
il nuovo papa Francesco, contraddicendo l’uso consueto, non
villeggia più a Castel Gandolfo, che ormai è un po’ come un orfano,
privato delle papali benedizioni. Oltre la piazza, un passaggio sulla
destra del palazzo conduce a una loggetta che si affaccia sul lago di
Albano, questo lago vulcanico quasi circolare in cui sembra sepolta
l’origine latina e troiana di Roma, lago chiuso a cui non dà più
sbocco il sotterraneo emissario artificiale costruito dai romani, ridotto
a tunnel secco e fangoso, percorribile da avventurosi escursionisti
(come un mio amico abituato ad atletici exploit, che sostiene di aver
attraversato tutta questa natural burella, fino ad approdare
dantescamente “a riveder le stelle” in un campo nei pressi di Santa
Maria delle Mole).
La costa di fronte, un po’ più rilevata di quella da cui guardo, è
coperta in parte dalla nebbia, come lo è il fondo stesso del lago: si
intravvede appena, dirimpetto, tra la fitta boscaglia, il convento di
Palazzolo e, in alto, qualche tratto della città di Rocca di Papa. Il
nuvolone si muove un po’ e poco dopo comincia una pioggia, che mi
spinge a lasciare il belvedere e a riparare, sulla piazza, dentro la
chiesa di San Tommaso di Villanova, opera del Bernini. Diverse
lapidi lodano la munificenza verso questa chiesa di papi diversi, dal
fondatore Alessandro VII a vari restauratori, fino ai più recenti
Giovanni XXIII, Paolo VI, Giovanni Paolo II. Intanto un sagrestano
sta allestendo l’addobbo per un matrimonio, mentre fuori continua a
piovere. La pioggia non cessa e allora tiro fuori l’ombrello, uscendo
dalla chiesa proprio mentre cominciano ad arrivare, un po’ contrariati
dalla pioggia, gli invitati del matrimonio. Giro sulla piazza
affacciandomi dentro i negozi di souvenir papali e devoti (imperano,
come ormai sempre in questi luoghi, le immagini di san Pio, Padre
Pio…), mentre a un certo punto vedo arrivare l’auto della sposa, che
ne esce fuori col suo bianco vaporoso vestito bagnato, suscitando
nel vicino bar vari commenti intorno al diffusissimo adagio sulla
fortuna della sposa bagnata.
Lasciata la piazza, attraverso la piazzetta Chateauneuf du Pape
(che suscita il desiderio dell’ottimo vino prodotto in quel centro della
Provenza papale) e raggiungo l’auto, parcheggiata davanti al fianco
del giardino del palazzo pontificio. Il giardino è nel sito dell’antica
villa di Domiziano, poi Villa Barberini, intrecciata con altre ville
acquisite dal Vaticano. Qui, sul muro esterno del giardino, c’è un
opera in mosaico che, come dice la lapide che la affianca, intende
celebrare IL TRIONFO DELLA VITA DALLE ORIGINI / ATTRAVERSO ALBA-LONGA
SITO NELL’ODIERNA CASTELGANDOLFO / FINO AL GRANDE EVENTO GIUBILARE /
DEL TERZO MILLENNIO: è opera donata da un maestro nativo di qui,
Ildebrando Casciotta, detto “Brando”, in cui un’immagine dell’Adamo
michelangiolesco (quello della Creazione della Cappella Sistina)
sembra indicare lo svolgersi trionfale del tempo del mondo,
culminante in quel giubileo del 2000.
Rientrato nell’auto lascio questo piccolo simulacro del Vaticano e
salgo lungo la dorsale sul ciglio del lago, mentre la pioggia si attenua
sempre più. Sul lato destro della strada appare a un certo punto la
chiesa dell’Assunta, fatta costruire nel 1634 da Francesco Peretti,
abate di santa Maria di Chiaravalle, che fu poi cardinale legato alla
fazione filospagnola della curia ed ebbe modo di accogliere a Roma
il grande pittore Diego Velázquez. Poi sul punto più alto della dorsale
si affaccia il belvedere Miralago, da cui mi affaccio sulla riva, a
sinistra aperta su un piano pieno di edifici, di ritrovi, di approdi per
natanti, qua sotto più scoscesa e boscosa, mentre più vicini e non
più nascosti dalla nebbia appaiono il convento di Palazzolo, la
svettante città di Rocca di Papa, la punta del monte Cavo solcata da
una fitta selva di antenne.
Non piove più e procedo nella strada che attraversa il bosco, dove
si apre qualche triste piazzola in cui sono ammucchiate immondizie.
Questa strada confluisce nella via dei laghi, dopo che questa ha
compiuto la sua salita sul ciglio opposto del lago: prosegue senza
toccare la vicina Nemi e il suo lago, a cui sono dirette due stradine
che sbucano alla destra, e poi si dirige verso Velletri: ma io la lascio
per attraversare la distesa dei Pratoni del Vivaro, ampia valle che si
stende tra il monte Cavo e il monte Artemisio, e raggiungo il
percorso dell’antica Via Latina, che mi porta a toccare Artena, città
come spalmata su di un colle, vigilata in alto da una chiesa barocca
con bassi campanili, e a sbucare, alla periferia di Colleferro e nei
pressi di Segni, sulla Via Casilina. Nel percorso, in un alternarsi tra
brevi acquazzoni e brillanti schiarite, prostitute nere sul bordo della
strada: due di esse non guardano la strada, ma espongono a chi
passa il loro posteriore quasi completamente nudo; più avanti ce ne
sono alcune che si guardano allo specchio, una che pettina
accuratamente la sua nerissima e lunga capigliatura. Poco dopo
ecco un centro per cani, che prospetta l’insegna spiritosa
MERAVIGLIOSA VITA DA CANI. All’entrata di Colleferro, sulla destra un
campo molto vasto, recintato da una fitta rete metallica, entro cui
sono disposti vari capannoni. In piena evidenza la scritta minacciosa
PROPRIETÀ PRIVATA LIMITE INVALICABILE SORVEGLIANZA ARMATA: è il sito
della multinazionale Avio, che produce qui motori per lanciatori
satellitari. Azienda già tutta italiana che sorge dalla trasformazione di
Fiat Aviazione e che qui si è sovrapposta all’attività della Bombrini
Parodi Delfini, in primo luogo chimica e poi meccanica, intorno a cui
è sorta nel primo Novecento la città di Colleferro, che reca nel suo
nome il proprio crisma industriale. Nelle trasformazioni subite da
Colleferro e negli intrecci di questa azienda, tra espansioni e crisi, si
riconosce una vicenda esemplare delle acquisizioni e delle sconfitte
dell’industria italiana. La multinazionale Avio, con i suoi motori e
propellenti chimici, per esplosioni e lanci verso il cielo, offre certo
materia per moderni viaggi ultraterreni, strumenti e guide per
attraversare cieli da cui sono stati espulsi i beati e in cui mai più
potrà accompagnarci il sorriso di Beatrice.
Anagni

Perché men paia il mal futuro e ’l fatto,


veggio in Alagna intrar lo fiordaliso,
e nel vicario suo Cristo esser catto.

Veggiolo un’altra volta esser deriso;


veggio rinovellar l’aceto e ’l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.
(Purg., XX 85-90)

Dopo un breve tratto di autostrada, raggiungo Anagni, Alagna, la cui


parte antica è tutta distesa lungo una strada in salita, al cui culmine
c’è la cattedrale. È la città dello schiaffo, la patria di Benedetto
Caetani, Bonifacio VIII, che qui subì l’affronto dei partigiani ed
emissari del re di Francia Filippo il Bello, per il quale intendeva
promulgare l’8 settembre 1303 la bolla di scomunica Super Petri
solio: tenuto prigioniero due giorni nel suo palazzo, dal 7 settembre
1303, e secondo tradizione aggredito addirittura da Sciarra Colonna
con uno schiaffo. Nella rassegna delle colpe dei re di Francia, che il
loro antenato Ugo Capeto fa nel girone purgatoriale degli avari e
prodighi, si denuncia duramente questa aggressione a quello che
pure era stato uno dei maggiori nemici di Dante: l’aggressione al
papa con l’ingresso in Anagni del fiordaliso, emblema dei re di
Francia, viene equiparata alla passione di Cristo. Nel suo vicario è
Cristo stesso a essere catturato (catto): il gesto dei francesi ne
rinnova la passione; di nuovo deriso e schernito, di nuovo gli viene
offerto l’aceto e ’l fiele, come sulla croce; e di nuovo sulla croce si
trova in mezzo ai ladroni (ma questi sono vivi: i partigiani di Filippo il
Bello che lo scherniscono).
Questo passo sembra farci quasi dimenticare che Bonifacio è
atteso nella bolgia dei simoniaci e che il pellegrino Dante, dopo
essere stato addirittura preso per lui dal già dannato Niccolò III
(Inferno, XIX 52-117), si è scagliato irosamente contro di lui e contro
i papi simoniaci. Anagni, dove il Caetani è nato e dove ha subito
l’oltraggio che l’ha portato poco dopo alla morte (liberato dai suoi
concittadini, sarebbe morto poco dopo a Roma il successivo 11
ottobre), ci mette per un momento nel punto di vista di Bonifacio,
anche lui caduto, anche lui vittima, in quel crollo improvviso della sua
ambiziosa politica teocratica.
Entrando in basso, dalla porta Cerere, si prende la Strada Vittorio
Emanuele II che in un primo momento sale quasi impercettibilmente;
molto presto si incontra sulla destra la chiesa di Sant’Andrea, dalla
facciata settecentesca, fiancheggiata dal ben squadrato campanile
romanico. Qui c’è un bel dipinto trecentesco, il cosiddetto Trittico del
Salvatore, con le tre parti staccate: il Salvatore sta nello scomparto
centrale, in quello di destra c’è la Madonna, in quello di sinistra due
santi, uno grande designato come Gregorius e uno piccolo come
Franciscus. Fino agli anni cinquanta il Trittico si muoveva in due
opposte processioni estive: veniva portato in salita fino alla
cattedrale il 14 agosto e poi ne scendeva il 24 novembre: “Santi a
monte e a balle” era la formula che sintetizzava questo passaggio,
che si dice ratificato proprio da una bolla di Bonifacio VIII, che
garantiva particolari indulgenze ai visitatori della chiesetta, bolla
ideata durante il suo soggiorno ad Anagni tra il maggio e l’ottobre del
1300, quando egli si era sottratto alle celebrazioni romane del
Giubileo da lui stesso convocato.
Senza l’indulgenza di Bonifacio procedo sulla Strada Vittorio
Emanuele II: trovo l’ampia piazza Cavour, con un belvedere aperto
sulla valle del Sacco, su cui incombono nuvole che promettono una
ripresa della pioggia. C’è qui un monumento ai caduti che si affaccia
sul sottostante Parco delle Rimembranze: con la solita
impressionante sequela dei nomi dei caduti, perlopiù in
combattimento, della guerra 1915-1918. Una piccola lapide
sovrapposta ricorda, a cinquanta anni di distanza, i caduti del
bombardamento subito dalla città il 19 marzo 1944 (negli attacchi
intorno alla battaglia di Cassino). Ma c’è uno scempio alla base del
fianco destro del monumento: la pietra di travertino è graffiata, incisa
forse da un coltellino, col disegno di un cuore e due nomi,
RODA+STEFAN, tracciati a caratteri molto più grossi rispetto a quelli dei
dimenticati caduti: queste le rimembranze dei nostri anni, sfregi
senza memoria, senza ricordo, senza misura di vita.
Poco dopo la piazza, lascio un momento la lunga strada passando
sotto gli archi possenti del Palazzo Comunale, oltre i quali si affaccia
la piazzetta interna con la loggetta detta del Banditore; ritorno sulla
strada, che ora sale molto di più, curvando a sinistra tra case
medievali ben conservate, ma non messe troppo a lucido, come
invece capita in luoghi più battuti dai turisti. Supero la piazza Dante,
su cui prospetta la chiesa di San Giovanni Evangelista ma chiamata
San Giovanni de Duce (accanto c’è la “libera scuola” della diocesi,
cioè l’istituto paritario Bonifacio VIII, con tutti gli ordini di scuole), e
poi arrivo sulla quadrata piazza Bonifacio VIII: qui c’è un pozzo,
davanti a un ristorante/pizzeria/wine bar che si chiama proprio
Bonifacio VIII. Girando ad angolo retto verso destra si percorre la
breve via Maggiore che porta sullo slargo del quartiere dei Caetani,
su cui dà il cosiddetto Palazzo di Bonifacio VIII, che ai Caetani era
passato solo nel 1295, essendo prima appartenuto ai conti di Segni
e ai papi della loro famiglia. Nell’interno del palazzo sono allestite
molteplici testimonianze sul papa e sullo schiaffo, perlopiù copie di
opere che si trovano altrove: la statua monumentale del papa
attribuita ad Andrea Pisano, che si trova al Museo dell’Opera del
Duomo di Firenze, ricostruzioni dell’affresco giottesco di Bonifacio
benedicente che si trova nella basilica di San Giovanni a Roma e del
monumento funebre che si trova nelle Grotte Vaticane (si vedano pp.
40-42 e 97). La Sala dello Scacchiere, con i geometrici affreschi alle
pareti, viene indicata come quella dello schiaffo: ed è come se qui
Bonifacio continuasse perpetuamente a prendere lo schiaffo, nel
busto che è un calco di quello che si trova nel museo Petriano in
Vaticano. Vicino alla statua monumentale c’è anche Dante, in una
copia dell’immagine di Andrea del Castagno che è agli Uffizi: e ci
sono quei versi sullo sfregio subito dal suo nemico.
Qui del resto lo schiaffo, reale o metaforico che esso sia stato,
domina la scena, è come un emblema dei luoghi: uscendo dal
palazzo trovo un cartello che annuncia, per il prossimo 7 settembre
(proprio l’anniversario dell’aggressione), un evento/spettacolo
organizzato dal Quartiere Caetani, che si svolgerà nelle sale del
Palazzo, Documenti e testimonianze. L’oltraggio dello schiaffo, di
Velia Viti; poi fuori, più vicino alla cattedrale, troverò il Ristorante Lo
schiaffo, purtroppo chiuso, oggi che è lunedì.
Oltre il palazzo si apre la grande piazza Innocenzo III, su cui
prospetta l’ampio fianco della cattedrale, con accanto il battistero, in
un disporsi di vari corpi in cui sembra disegnarsi l’impegno papale a
occupare lo spazio, la determinata aspirazione a sentire la chiesa
come potere, come controllo del mondo: il tozzo torrione su cui si
apre un arco ogivale; l’alto e quasi minaccioso transetto, sotto cui si
addensa un severo e squadrato edificio, che nasconde le tre absidi
che si scorgono girando a sinistra; l’arcata sul fianco della navata
destra, sovrastata da una loggia, a sua volta dominata da un
nicchione marmoreo entro cui è ben piantato, seduto in trono,
proprio lui, Bonifacio. Un diverso effetto di misura e di raccoglimento
ricevo dall’interno della cattedrale, col bellissimo pavimento
cosmatesco: effetto che si ripete in modo più intenso nella cripta,
con gli affreschi duecenteschi, in cui le figure della storia sacra
sembrano come disposte entro un misterioso richiamo d’Oriente,
forse strano per questo luogo, per il roccioso orizzonte delle famiglie
che qui hanno dominato, dei papi duecenteschi che qui hanno
esercitato il loro potere.
Esco dalla chiesa sulla piazza anteriore, quasi scavalcando un
gatto dal foltissimo pelo rosso che è sdraiato su un tappetino che
copre il pavimento interno di uno dei portali d’ingresso. La chiusura
settimanale del Ristorante Lo schiaffo mi obbliga a cercare un altro
posto per mangiare. Mentre riprende a piovere trovo una trattoria
lungo la strada, ormai in discesa: sulle pareti sono esposte foto di
vecchi contadini e sono incorniciati utensili e attrezzi di altri tempi.
Imperversa comunque un televisore, che chiedo invano di spegnere:
viene solo abbassato il volume, mentre un tizio corpulento,
probabilmente il padrone, su un tavolo vicino al mio, fa dei conti
insieme a un altro.
Sta smettendo di piovere, quando lascio Anagni e questo suo
universo papale: la momentanea condiscendenza per Bonifacio VIII,
l’immagine dell’offesa a lui recata dal fiordaliso e lo scatto di
commiserazione che quel suo crollo micidiale può aver suscitato,
tutto ciò si cancella ripensando alla sua destinazione alla bolgia dei
simoniaci, che del resto Dante ribadisce addirittura in un punto finale
del Paradiso, quando Beatrice gli mostra il seggio destinato
all’imperatore Enrico VII e ricorda l’atteggiamento ambiguo che nei
suoi confronti assumerà il papa Clemente V, che comunque morirà
poco dopo e sarà detruso, gettato giù nella bolgia, nel foro destinato
ai papi, facendo scendere più in basso il predecessore di pena, cioè
proprio Bonifacio VIII, designato in modo spregiativo come quel
d’Alagna (e sono proprie le ultime parole che Beatrice pronuncia nel
poema scritto per lei):

“…Ma poco poi sarà da Dio sofferto


nel santo officio; ch’el sarà detruso
là dove Simon mago è per suo merto,

“e farà quel d’Alagna intrar più giuso.”


(Par., XXX 145-148)
Palestrina

E’ poi ridisse: “Tuo cuor non sospetti:


finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti.

Lo ciel poss’io serrare e diserrare,


come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care”.
(Inf., XXVII 100-105)

Proprio di quel d’Alagna sono le parole che riferisce Guido da


Montefeltro, parlando a Dante (senza sapere che tornerà al mondo
dei vivi) del peccato che lo ha portato a dannazione, nonostante il
suo ritiro in convento dopo la violenta vita di “uom d’arme”, le cui
opere “non furon leonine, ma di volpe” (v. 75). È stato Bonifacio VIII,
“principe d’i novi Farisei”, a chiedergli il consiglio fraudolento che gli
ha permesso di prendere Palestrina, in cui erano asserragliati i
Colonna con i loro seguaci (tra cui anche Jacopone da Todi): un
peccato di cui il papa lo ha assolto preliminarmente, ritenendosi
dotato del potere di chiudere e di aprire, in terra come in cielo
(secondo la prerogativa che Cristo attribuisce a Pietro in Matteo, 16
19), sancito dalle due chiavi simbolo del papato (che il predecessore
di Bonifacio, Celestino V non ha avuto care, avendo a esse
rinunciato).
Ora da Anagni mi dirigo proprio verso Palestrina, che Bonifacio
volle distrutta dopo la sua presa, ma che molto presto fu ricostruita
dai Colonna: città dislocata su più livelli, che si dispone come in un
insieme di terrazze, dominate in alto dal palazzo già Colonna, poi
sistemato nel Seicento nella forma attuale dai nuovi padroni, i
Barberini. Salgo in alto, seguendo strade che più volte si curvano in
strettissimi gomiti, fino alla piazza della Cortina, davanti alla doppia
gradinata alla base della facciata concava del palazzo, come rivolta
ad abbracciare i diversi strati della città e l’ampia distesa della valle
retrostante, che si espande in una sorta di varco verso la
depressione di Velletri e di Cisterna, aperta a ovest fino al mare,
oltre i rilievi dei colli Albani a nord e dei monti Lepini a sud. Il cielo è
ancora solcato da nuvole, ma ci sono amplissimi squarci di sereno e
si scorge bene la striscia del mare lontano; il sole ha già cancellato
le tracce della pioggia recente.
Il palazzo ospita il Museo Nazionale Archeologico Prenestino, che
raccoglie molteplici tracce dell’antica Prenestae: tra le tante sculture
colpisce la grande statua forse di Iside, di una maternità insieme
accogliente e respingente (“superba” come la madre rimproverante a
cui Dante in Purgatorio, XXX 79 paragona Beatrice appena
apparsa). In passato questa statua veniva identificata con quella
della Fortuna primigenia, a cui era dedicato il tempio le cui vaste
rovine sono disposte ai piedi del palazzo. Ma il più formidabile
gioiello del museo è il grande mosaico del Nilo, del I secolo a.C., che
costituiva il pavimento dell’abside di un’aula del Foro prenestino e
ora è esposto verticalmente: singolare animatissima carta del corso
del fiume, con templi e presenze umane in basso, mentre in alto si
infittiscono animali (il cui nome è tracciato in greco) e cacciatori.
Dante chiama in causa il Nilo e i popoli circostanti nel baratro più
fondo dell’inferno, per il colore nero di una delle facce di Lucifero (“la
sinistra a vedere era tal, quali / vegnon di là onde ’l Nilo s’avvalla”,
Inferno, XXXIV 44-45). Un richiamo di tipo storico è poi quello che si
affaccia nella storia dell’aquila romana fatta da Giustiniano nel cielo
di Mercurio: si accenna all’intervento di Cesare in Egitto dopo la
vittoria di Farsalo nella guerra civile: “Inver’ la Spagna rivolse lo
stuolo, / poi ver’ Durazzo, e Farsalia percosse / sì ch’al Nil caldo si
sentì del duolo” (Paradiso, VI 64-66). Nel contesto purgatoriale, il
Nilo viene nominato invece in una similitudine dedicata all’affrettarsi
delle schiere delle anime purganti della cornice dei golosi:
Come li augei che vernan lungo ’l Nilo,
alcuna volta in aere fanno schiera,
poi volan più a fretta e vanno in filo,

così tutta la gente che lì era,


volgendo ’l viso, raffrettò suo passo,
e per magrezza e per voler leggera.
(Purg., XXIV 64-69)

Anche in questo mosaico si vedono molti uccelli, che volano sopra le


rocce più in alto. È un grande bestiario di animali reali, consueti,
esotici, immaginari: si vedono anche sfingi e un onocentauro. Va
comunque notato che i vari restauri hanno dato luogo a modificazioni
e integrazioni, specie nelle parti ora in alto. Ma anche per il modo in
cui il grande pannello è disposto, non sul pavimento, ma sulla
parete, è bello indugiare sui più minuti particolari, che proiettano il
grande fiume africano verso una sorta di pullulante fantasia.
Lasciato il museo, scendo dalla parte opposta della piazza,
entrando nell’area del Santuario della Fortuna: la “general ministra e
duce” degli “splendor mondani” (Inferno, VII 77-78) era qui venerata
in un vorticoso succedersi di sei terrazze che ne scandivano gli
alloggiamenti sulla costa scoscesa del colle: scendere le scale che
dalla terrazza più alta porta alla più bassa procura uno strano senso
di vertigine, come in un precipitare del passo verso la città disposta
in basso, verso la puntuta cuspide del campanile del Duomo, verso
tutta la valle circostante. E ora mi accorgo che verso nordovest, al di
là del gruppo dei colli Albani, si scorge Roma nel suo ampio
distendersi e oltre ancora il mare e i rilievi che da quella parte
fiancheggiano la riva. Si scende e si sale tra esedre, archi, fornici, tra
pareti fittamente scandite dalla muratura a opus reticulatum.
Torno sulla piazza della Cortina e dà lì per un lungo giro di strade,
opposto a quello da cui sono venuto, raggiungo la parte bassa della
città: il Duomo, sotto il Santuario della Fortuna, che col campanile
romanico dal basso si ricollega in perfetta linea retta alle gradinate
del Palazzo Barberini, si apre sulla piazza Regina Margherita, che
ha al centro il monumento a Giovanni Pierluigi, il grande musicista
cinquecentesco nato proprio a Palestrina; accanto all’ingresso del
Duomo è invece una statua del papa Giovanni Paolo II, a ricordo di
una sua visita pastorale.
La mia visita deve tralasciare l’aula absidata dell’antico Foro, che
si trova all’interno del rustico edificio che un tempo ospitava il
seminario. Su una casa della vicina piazza Garibaldi trovo una lapide
che la designa come quella in cui l’eroe dormì la notte precedente la
battaglia contro i Borboni a difesa della Repubblica romana (è la
battaglia di Velletri del 19 maggio 1849). Quando poi in un vicino
vicolo raggiungo la casa natale (o ritenuta tale) di Giovanni Pierluigi,
in cui ha sede la Fondazione a lui dedicata, comincia a scendere la
sera: e mi pare di sentire un’eco lontana della polifonia palestriniana.
Non sarà il VeXIlla regis, sull’inno di Venanzio Fortunato, il cui incipit
è stato adattato da Dante per segnare il suo avvicinarsi a Lucifero,
principe del male, all’inizio dell’ultimo canto infernale: da “VeXIlla
regis prodeunt / fulget crucis mysterium” (“Avanzano le insegne del
re del cielo, rifulge il mistero della croce”) al sinistro endecasillabo
VeXIlla regis prodeunt inferni (“Avanzano le insegne del re
dell’inferno”, Inferno, XXXIV 1).
Umbria e Nord del Lazio
Monte Soratte

Ma come Costantin chiese Silvestro


d’entro Siratti a guerir de la lebbre…
(Inf., XXVII 94-95)

Secondo una diffusa leggenda, il papa Silvestro, che aveva fama di


taumaturgo, era rifugiato in qualche grotta sul monte Soratte,
quando l’imperatore Costantino lo chiamò per farsi guarire dalla
lebbra. La conseguente guarigione avrebbe convinto l’imperatore a
convertirsi al cristianesimo e a far poi la famosa donazione con cui si
giustificava il potere temporale della Chiesa: Dante la credeva
autentica, denunciandone l’illegittimità sia in Inferno, XIX 115-117,
che in Monarchia, III X. A nominare il Soratte nella Commedia è però
Guido da Montefeltro, che paragona la chiamata di Silvestro da parte
di Costantino a quella che egli stesso, che si era ritirato in un
convento francescano, aveva avuto da Bonifacio VIII, che aveva
bisogno di un suo consiglio per sconfiggere i suoi nemici Colonna,
arroccati in Palestrina: la similitudine viene così a fare di quella
chiamata del papa contemporaneo una delle tante tarde
conseguenze dell’esito disastroso della chiamata di Costantino
(evocata più direttamente nel canto XIX dell’Inferno, nel contesto
della bolgia dei simoniaci, in cui proprio Bonifacio VIII era atteso
come prossimo dannato).
Il Soratte si profila come un singolare massiccio, che emerge quasi
isolato nella campagna romana: lo vedo ben distinto procedendo da
Roma verso Nord, evocando subito la sua più famosa e antica
menzione letteraria, quella di Orazio (Carmina, I 9), in cui la visione
del monte si carica di una pungente luminosità, nel distante
splendore della neve e del gelo:

Vides ut alta stet nive candidum


Soracte nec iam sustineant onus
silvae laborantes geluque
flumina constiterint acuto?

“Vedi come si leva bianco di spessa neve il Soratte e i boschi


affaticati non ne sostengono il peso e i fiumi son rappresi in se stessi
per il rigido gelo?” Orazio guardava il Soratte dalla sua villa in
Sabina: ma ai nostri tempi la visione di questo monte innevato è
cosa quasi impossibile, troppi sono gli anni da aspettare in attesa
che si verifichi qualche rigido inverno. Oggi è il 29 aprile 2014, una
tiepida giornata primaverile, anche se non ha l’intensità accecante di
certi aprili davvero “crudeli”. Giungo al Soratte attraverso suggestive
strade provinciali e sfioro il paese di Sant’Oreste, adagiato a mezza
costa, alle falde del monte. Lascio l’auto su una piazzola quasi
all’ingresso della Riserva naturale del Soratte, dove comincia il
percorso per salire verso la cima. C’è un breve tratto ancora
asfaltato, poi un tratto di ghiaia cementata, con strisce oblique che la
solcano, poi finalmente una semplice ma ampia mulattiera. Il parco
appare ben tenuto: e non mancano indicazioni su sentieri e viottoli
diversi. Io prendo quello più diretto per la vetta e procedo in totale
solitudine, circondato da un bosco non fitto, in cui si aprono molti
squarci verso la pianura, tra echi indefiniti di rumori lontani,
autostrada, ferrovia, aerei che solcano il cielo, altri frammenti sonori
della vita che pullula laggiù. Nel salire, dopo aver superato una
cappellina con un’immagine in rilievo della Madonna, incontro una
sola persona, un romano in pensione che si è ritirato nella vicina
Civita Castellana e che ora sta già scendendo: conosce bene il
luogo e mi descrive il percorso, i suoi punti più interessanti. Mi parla
anche dei gruppi di escursionisti che frequenta e con grande civiltà
mi saluta.
Non c’è ora nessun altro. A un certo punto, lasciata la mulattiera,
mi inoltro un po’ nel bosco, scendendo leggermente sul fianco del
monte, per raggiungere la vecchia carbonaia: qui si può vedere una
catasta di legna, disposta secondo l’antico uso delle carbonaie, con
un cartello accanto che descrive la tradizione ormai abbandonata di
ottenere il carbone attraverso una pratica complessa, soprattutto con
leccio, terebinto, cerro e carpino nero, coperti da strati di foglie e di
terra e alimentati per sette giorni da tizzoni ardenti, il tutto seguito,
dopo un giorno di raffreddamento, dalla scarbonatura fatta da tre
persone, con l’esito di un carbone privo di zolfo e ideale per la
cucina, per la sua capacità di assorbire sostanze tossiche.
Lasciata la carbonaia e il ricordo, ormai con funzione solo
didattica, di attività che solo fino a pochi decenni fa erano tanto
essenziali per il mondo contadino – qui per i vicini abitanti di
Sant’Oreste – ricomincio a salire. In un punto in cui la mulattiera si
svolge in varie curve, appare l’edificio dell’eremo di Santa Maria
delle Grazie, con una breve scalinata che conduce alla chiesa-
santuario. C’era già nel XVI secolo: il cardinale Alessandro Farnese,
nipote del papa Paolo III e molto potente da queste parti, lo assegnò
ai Cistercensi; poi passò ai Trappisti e ai Teatini e ora se ne occupa
la curia di Civita Castellana, che ne ha dato la responsabilità a un
suo sacerdote. Ma ora non c’è nessuno; è tutto chiuso. È chiaro che
il luogo viene aperto solo per occasioni particolari, per escursioni di
gruppi di scout e simili, come mostra un singolare pannello in
mattonelle di ceramica che si trova sul muro al fianco della chiesa,
dedicato a MARIA REGINA DEGLI SCOUT. Una semplice madonnina in
piedi a mani giunte, ma con i piedi nudi che schiacciano un generico
serpentello, riceve le preghiere di due scout in divisa, un maschietto
in pantaloncini inginocchiato, ma con un solo ginocchio a terra, e
una femminuccia in piedi in castigato gonnellino: insieme reggono,
lui con la sinistra, lei con la destra, l’asta di uno stendardo su cui è
semplicemente scritto Estote parati. Sotto l’immagine c’è il testo di
una preghiera a Maria per gli scout, “valorosa milizia di cuori senza
macchia e senza paura”, firmata dal papa Pio XII, 14 ottobre 1954.
Ma salendo ancora per pochi minuti arrivo finalmente alla vetta:
sono solo 691 metri, ma si apre lo sguardo, soprattutto sulla sinistra,
a sudovest verso il lago di Bracciano, a nordovest verso Civita
Castellana e il lago di Vico, mentre sulla destra, a est è la valle del
Tevere, al di qua dei monti della Sabina. Quassù si leva l’eremo di
San Silvestro, in pietra, sulla destra rinforzato in cemento, preceduto
da una torre-campanile parzialmente diroccata. L’edificio appare in
stato di non totale abbandono, con un ingresso chiuso da un
cancello di ferro (so che all’interno ci sono anche degli affreschi che
risalgono al più profondo Medioevo): sulla sinistra dell’ingresso una
lapide riporta i versi di Dante, con la firma IL POPOLO DI S. ORESTE 30
APRILE 1922.
Nell’assoluta solitudine in cui mi trovo, posso fantasticare qui del
rifugio di papa Silvestro, di qualche centurione che lo raggiunge col
messaggio di Costantino. È probabile che su questo sito fosse
originariamente un tempio di Apollo, su cui poi è stata edificata una
prima chiesa (VI secolo?). Ma il monte è ricco di altri eremi, cappelle
rupestri, grotte, e forse Silvestro era nascosto in una grotta, come
quella di cui scorgo più tardi l’ingresso, scendendo giù piuttosto
rapidamente, anche perché c’è un minaccioso addensarsi di nuvole
nere a est, sui monti della Sabina. Nei punti in cui il bosco si apre si
scorge ogni tanto sul fondo valle il corso del Tevere e la linea
dell’Alta velocità: anche un treno che alla distanza sembra procedere
lentamente. Mi vengono incontro tre cagnolini di razza dalmata, il più
piccolo dei quali viene a festeggiarmi; appare poi più indietro il
padrone che li porta a passeggio; ancora più giù incontro un uomo di
mezza età che porta in mano un monociclo. Salutandolo gli dico che
mi sembra che salire con quella bicicletta dimezzata deve essere
molto faticoso; lui come un po’ imbronciato mi risponde
laconicamente: “Per scendere” (tra a me e me penso che dovrebbe
essere un po’ pericoloso: certo bisogna avere buone doti di
equilibrio).
Ormai uscito dal parco, noto ancora come Sant’Oreste si adagi su
una sorta di sperone che sporge dal fianco della mole del Soratte.
Più in là si vede l’agglomerato di uno di quei cosiddetti Outlet,
impiantato abbastanza di recente nei pressi della vicina uscita
dell’autostrada (ma perché sorgono questi blocchi così nella
campagna, su crocevia, su luoghi di intersezione, con invito sempre
più insistente ad abbinare shopping e traffico automobilistico? Quali
orizzonti ci promettono per un benessere futuro?). Mi accorgo poi
che la linea dell’Alta velocità entra con una galleria proprio nel fianco
della montagna sotto al paese: certo quando ci passiamo sui comodi
treni, presi dalle occupazioni e distrazioni che ci portiamo con noi nel
viaggio, non notiamo mai la stranezza di questo ingresso nel corpo
profondo della montagna, di questo nostro provvisorio passare sotto,
mentre sopra c’è la vita piccola o grande che scorre nel suo solito
ritmo, con gente che nemmeno avverte questo movimento che ronza
nelle sotterranee viscere, indifferente a noi come noi siamo a lei.
Grotte non naturali, scavate a forza di pericoloso lavoro (quasi
sempre con qualcuno che su quel lavoro cade per sempre). Ed è
strana la compresenza, nel corpo della stessa montagna, tra questa
grotta là in basso, tecnologica levigata elettrificata solcata da
scorrevole metallo, e quegli squarci nella pietra più su, abitati un
tempo da pallidi eremiti, nella lenta macerazione di una fede
abbracciata alla silenziosa durezza della natura.
Ma ora riprendo la macchina e scendo sul versante ovest del
monte, percorrendo la Via Flaminia e attraversando fresche zone
campestri (un rimorchio alto più di tre metri, che a lungo mi precede,
sfiora, carezza, pettina continuamente le fronde che sporgono dai
margini della strada) e poi agglomerati commerciali e industriali. Mi
fermo solo a notare qualche insegna o attività che mi sembra strana
o bizzarra: nei pressi di Civita Castellana un allevamento di rottweiler
e una residenza per anziani che ostenta la denominazione illusoria
LA SECONDA GIOVENTÙ.
Una piccola sosta è dovuta a Civita Castellana, ricordata
incidentalmente in De vulgari eloquentia, I XIII 3, per il volgare simile
a quello dei romani e degli spoletini: davanti al Duomo ammiro il
portico cosmatesco dell’inizio del Duecento.
Acquasparta

…ma non fia da Casal né d’Acquasparta,


là onde vegnon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge e altro la coarta.
(Par., XII 124-126)

Se si continua sulla Flaminia si giunge a Narni, vera e propria porta


dell’Umbria, di grande importanza e di vivace autonomia ai tempi di
Dante, che però non ne fa mai menzione: ma con Narni ebbe a che
fare quel cardinale Matteo nato proprio qui vicino, ad Acquasparta,
luogo della mia prossima tappa. Per breve tempo ministro generale
dei frati minori, dal 1288 cardinale, nel 1292 si occupò di un’azione
militare contro Narni; dopo aver sostenuto Celestino V, divenne poi
uno dei più attivi e fedeli collaboratori di Bonifacio VIII, che lo inviò a
Firenze nel maggio del 1300 con un incarico di pacificatore che non
ebbe gran seguito; vi tornò poi nel dicembre 1301, quando già Carlo
di Valois stava mettendo in atto l’espulsione dei Bianchi, e nel 1302
si trovò a presiedere l’assemblea dei Guelfi toscani per l’azione
contro i Bianchi e i Ghibellini. Nel suo sostegno a Bonifacio VIII fu
convinto assertore della doppia potestà, temporale e spirituale del
papa e collaborò alla stesura della bolla temporalista Unam
sanctam, pubblicata nel novembre del 1302, poco dopo la sua morte
(è sepolto in una magnifica tomba nella basilica di Santa Maria in
Aracoeli, sul Campidoglio). Dante lo aveva certamente conosciuto e
certo non poteva nutrire nessuna simpatia per le sue posizioni
politiche: nella sua attività e nel fasto che certo accompagnava la
sua funzione cardinalizia (di cui abbiamo prova postuma nello
splendore del suo sepolcro) doveva sentire un tradimento degli ideali
francescani. Così nel XII del Paradiso san Bonaventura, nel
denunciare la degenerazione dell’ordine francescano nota che la
regola originaria viene tradita sia dai rigoristi estremi, come Ubertino
da Casale (chi la coarta), sia da chi non ne fa conto, come il nostro
cardinale (chi la fugge).
Eccomi comunque vicino alla patria di Matteo: la raggiungo
rapidamente sotto un cielo incerto e a tratti piovoso, dopo aver
lasciato Narni e la Flaminia. Preso il percorso dell’antica Tiberina,
supero San Gemini, città in Italia celebre per le sue acque purissime,
che, quando le acque minerali non erano commercializzate così
massicciamente come adesso, era una delle più raccomandate, per
la sua purezza universalmente destinata a malati e a neonati. Il
centro di Acquasparta sembra in realtà disporsi in una misura del
tutto opposta a quella della potestas papae tanto cara a Matteo: è
dominato dal palazzo cinquecentesco della famiglia Cesi, che
acquistò il sito da Pier Luigi Farnese (figlio del papa Paolo III e padre
del cardinale Alessandro) e costruì l’imponente palazzo, dove
Federico Cesi fece operare l’Accademia dei Lincei, costretto dagli
ostacoli che aveva avuto già poco dopo la sua fondazione a Roma.
Un luogo insomma proiettato in un orizzonte scientifico e
culturalmente “laico”, animato da quell’impegno verso le “sensate
esperienze”, che trovò in Galileo il suo maggiore maestro, ma vide la
collaborazione di personaggi diversi, in un vivace scambio
internazionale: qui nel 1624 fu ospite Galilei, qui e nel suo feudo il
Cesi compì ricerche ed esperimenti, anche insieme ad altri
scienziati.
Il pavimento della bella piazza Federico Cesi, davanti al palazzo
(ora proprietà dell’Università di Perugia) è lastricato con mattonelle
entro cui si aprono vari tondi in pietra con nomi di diversi accademici
Lincei, ospitati dal Cesi: in posizione centrale il tondo a lui dedicato,
con le sue attribuzioni: coelivagus / institutor et princeps / utrumque.
Scritte riferite al valore dell’attività scientifica sono disposte anche
sulla pavimentazione delle strette strade che convergono sulla
piazza. Così sulla via San Giuseppe queste parole di Galileo nella
Lettera a Cristina di Lorena: “L’intenzione dello Spirito Santo essere
d’insegnarci come si vadia al cielo, e non come vadia il cielo”. Qui si
avverte ancora quell’opposizione tra pensiero scientifico e dottrina
della Chiesa, che è stata ridimensionata solo di recente. E l’orizzonte
laico si scorge ancora più nettamente se si procede per il corso
Umberto, dove, sulla facciata del palazzetto del Municipio, proprio
dirimpetto a una chiesa, c’è una lapide dedicata a Giordano Bruno, il
cui volto si affaccia severo entro un piccolo medaglione, con accanto
questa scritta: ARDENDOLO E SPARGENDO LE CENERI / VOLEANO DISPERSO IL
NOME / CHE PIÙ FULGIDO RIMASE / COME IL PENSIERO IMMORTALE / 3 MAGGIO
1908 / PER CURA E SOTTOSCRIZIONE DI CITTADINI. Testimonianza dell’Italia
laica e anticlericale di quegli anni, così polemicamente opposta a
quei soggetti non nominati ma ben individuabili che “voleano
disperso” quel nome (nome che certo, a differenza di quello di
Galileo, la Chiesa non può ancora pensare ad assolvere, né tanto
meno a farlo proprio, pur facendo ammenda dell’iniqua condanna).
Invece un buon riscatto, rispetto alla stilettata di Dante, tocca al
nostro cardinale, la cui ombra si affaccia fuori dal centro della
cittadina. Ai margini di un piazzale alberato, c’è la piccola chiesa di
San Francesco, sulla cui parete laterale destra c’è la lapide con i
versi di Dante, mentre a sinistra si delinea l’edificio del convento,
dove, in seguito a un recente restauro, è stato aperto un Centro
Cultura, intitolato proprio a Matteo d’Acquasparta: mi affaccio sul
chiostro, tra varie indicazioni sulle prossime attività del Centro.
Raggiungo poi la superstrada sul tracciato della Tiberina, diretto ad
Assisi. Penetro così nel cuore dell’Umbria, regione che grosso modo
corrisponde a quello che nel De vulgari eloquentia, I X 5-6 viene
indicato come il Ducato di Spoleto, sul versante destro
dell’Appennino. Lì Dante nota la diversità del linguaggio degli
spoletini rispetto a quello dei finitimi romani, che in I XI 3 viene
scartato dalla ricerca del volgare illustre (anche con citazione di una
canzone del fiorentino Castra in cui si scherniscono forme
linguistiche romanesche, marchigiane e spoletine). Ancora in I XIII 3
si fa riferimento alla somiglianza dei linguaggi di varie città tra Lazio
e Umbria con quelli dei romani e degli spoletini. La città di Spoleto
viene menzionata più specificamente nell’epistola ai fiorentini del 31
marzo 1311: Dante ricorda loro minacciosamente la distruzione della
città da parte del Barbarossa avvenuta nel 1155 (Epistole, VI V 20:
ma per questo passo si veda anche p. 1024).
Assisi

Di questa costa, là dov’ella frange


più sua rattezza, nacque al mondo un sole,
come fa questo talvolta di Gange.

Però chi d’esso loco fa parole,


non dica Ascesi, ché direbbe corto,
ma Orïente, se proprio dir vuole.
(Par., XI 49-54)

Nel suo l’elogio di san Francesco il domenicano san Tommaso non


chiama subito il santo col suo nome, ma lo indica metaforicamente
come un sole, direttamente paragonato a questo che nasce
dall’Oriente (cioè al pianeta nel cui cielo appaiono a Dante la corona
degli spiriti sapienti di cui Tommaso fa parte): continuando la
metafora, dice che al luogo di nascita di Francesco, che si trova
dove la costa del monte Subasio diventa più dolce, sarebbe
appropriato il nome Oriente, piuttosto che quello di Assisi (che nella
forma Ascesi ha comunque una connotazione di ascensione, di
elevazione verso l’alto). Eccomi allora che, dopo aver superato i
complicati svincoli delle superstrade intorno a Perugia, vedo
delinearsi Assisi proprio verso est, protetta e guardata dalla grande
mole della basilica e del convento di San Francesco, appoggiata sul
suo sprone che si prolunga nelle arcate che sorreggono la loggia
d’ingresso e che sembrano superbamente sottomettere il terreno
sottostante, l’uliveto e la folta vegetazione che lo circonda; più dietro
si delineano le case, i tetti, campanili e architravi delle altre chiese, in
quella pietra bianca che sembra raccogliere entro di sé il sole, quasi
mondarlo delle sue irradiazioni estreme, ricondurre la sua luce a una
purezza diafana ma non priva di qualcosa di rude, di sassoso, di
aspro e ingrato.
In questo effetto visivo di Assisi, di questo Orïente che appare da
lontano e lentamente si avvicina, si sovrappone qualcosa di
guerresco, di duro e incondito, con una dolcezza rude e pungente:
castello guarnito, di dominio e di difesa, e sacello dello spirito;
insieme altera potenza e generosa umiltà. Come di fronte a
pochissime altre situazioni, questa visione dà l’illusione di afferrare la
sostanza del mondo che chiamiamo medievale, quel che di eroico
c’è nella sua tensione verso l’assoluto: un mondo nello stesso tempo
nudo e corazzato, esposto e protetto, depresso e superbo, in un
intreccio tra corporeità e spiritualità, tra immersione nella vita e
onnipresenza della morte, tra radicamento nella terra e disprezzo del
mondo.
Poi, quando si giunge alle mura della città e si procede verso
sudest, sul viale di circonvallazione, si rientra nel presente, nel ben
organizzato assetto turistico, tra parcheggi vari intorno alle mura,
dove si lasciano le auto per accedere ai percorsi pedonali del centro.
Mi dirigo a un piccolo albergo che si trova oltre la porta Nuova
(l’ingresso della città che è sul lato opposto a quello dov’è il
convento), sulla strada che scende verso Spello: sulla facciata che
dà su un bel giardino, aperto sulla pianura sottostante, c’è una lapide
che ricorda che qui la notte dell’8 novembre 1969 fu ospite, insieme
a tre vescovi suoi connazionali, il cardinale Karol Wojtyla, allora
arcivescovo di Cracovia, poi papa Giovanni Paolo II.
Mentre prendo possesso della piccola stanza, mi viene da pensare
che forse è una di quelle dove fu lui o uno dei suoi accompagnatori,
in modo perfettamente congruo con questo pellegrinaggio dantesco
ad Assisi. Ma è tempo di cominciare la visita della città, di muovere
verso il convento, con il primo obiettivo di sostare a lungo davanti
agli affreschi di Giotto nella Chiesa superiore. Lascio l’auto in un
parcheggio presso la porta Nuova e attraverso tutto il centro, l’asse
che taglia longitudinalmente tutta la città: nel punto mediano c’è la
piazza del Comune, dov’è la fronte del cosiddetto tempio di Minerva,
la sola cosa che di tutta Assisi abbia interessato Goethe. L’interno
del tempio è stato trasformato nella chiesa di Santa Maria sopra
Minerva, dove vedo alcuni pellegrini, che dovrebbero essere
polacchi, intenti a venerare una generica statua di Santa Rita
(dell’umbra Cascia). Mi incuriosisce una giovane suora (polacca
certamente) che prega devotamente in ginocchio, ma poi si leva
quasi a scatto e fotografa fulmineamente la statua con una piccola
camera: poi in modo altrettanto fulmineo bacia con grande trasporto
il lembo della veste della santa istoriata. Spunta poi un omone con
un fazzoletto giallo al collo a baciare anche lui la statua.
Mi avvio sulla via San Paolo e sulla via Metastasio, dove si
incontra la casa di Felice Trapassi, padre del poeta melodrammatico,
e il piccolo Teatro degli Instabili, segni di un orizzonte culturale che
non tutto coincide col francescanesimo. Alla fine di questo percorso
leggermente in basso mi appare la basilica. C’è un grande
movimento di visitatori e pellegrini: entrando nella chiesa superiore
mi scontro con un grande gruppo di pellegrini polacchi che portano
scapolari gialli e sul petto un badge con l’immagine di papa Wojtyla;
qui ne incontrerò dappertutto, certo anch’essi, come quelli incontrati
a Montecassino, venuti a Roma per la cerimonia di santificazione del
27 aprile e ora sulla via del ritorno. Su un muro ci sono dei pannelli
che celebrano i due santi, con le immagini di Giovanni XXIII e di
Giovanni Paolo II, uniti nel nome di Francesco, e due brevi frasi,
dell’uno e dell’altro, sull’assoluto rilievo di Francesco per la Chiesa e
per il Paradiso.
Ma qui nella chiesa superiore domina solo l’incanto degli affreschi
di Giotto, che non è del tutto agevole contemplare tra un muoversi
piuttosto fitto di turisti e pellegrini impegnati, più che a guardare e a
comprendere, a fotografare. Tra i vari riquadri si delineano, con
quella così stagliata volumetria in cui il colore, spesso intensamente
marcato, fa davvero corpo, fa come aggettare le figure nello spazio,
quasi tutti gli snodi della vita di Francesco che Dante ripercorre per
bocca di Tommaso: davanti al padre le nozze con la povertà, la
prima approvazione della regola da parte del papa Innocenzo III, la
definitiva approvazione da parte di Onorio II (qui esemplata con la
scena della predicazione davanti al papa), l’audace puntata verso
l’Oriente, “ne la presenza del Soldan superba”, il ricevimento delle
stimmate, la morte sulla nuda terra. È probabile che Giotto lavorasse
ad Assisi proprio negli ultimi anni del XIII secolo, magari ponendo
fine al lavoro negli stessi giorni in cui Dante colloca il suo viaggio
nell’aldilà. Ed è anche possibile che, prima della redazione del
Paradiso, Dante si sia trovato a visitare Ascesi e a vedere quei
capolavori giotteschi.
Ma certo resta sospeso, difficile e affascinante, ogni confronto tra il
pennello di Giotto e la penna di Dante. Confronto topico, che oggi ha
sollecitato la curiosità di un celebre e molto mediatico filosofo e
politico, Massimo Cacciari, sempre più preso da curiosità religiose.
Ho con me il suo libretto Doppio ritratto. San Francesco in Dante e
Giotto, sempre proiettato, secondo lo stile cacciariano, verso assoluti
tracciati epocali, che fanno di Dante e Giotto due diversi
fraintendimenti dell’identità di Francesco: chiave giudicante e
polemica quella di Dante, chiave pacificante e conciliatrice quella di
Giotto, due strade determinanti per la storia futura, ma lontane dal
senso della paupertas francescana, che il filosofo proietta entro i più
vertiginosi orizzonti del pensiero negativo: esperienza della povertà
come kénosis, svuotamento del Sé, amore come accoglienza
dell’altro che “lascia essere”, perfezione in-audita che trionfa della
propria condizione, attingendo nel proprio vuoto alla vera potenza.
Miscela nietzschiana e heideggeriana sostenuta da riferimenti
teologici e di verifiche erudite: dove le più intelligenti notazioni
particolari sono orientate verso l’aspirazione a toccare, attraverso la
storia e la figura di Francesco, un simulacro di esperienza oltre
l’esperienza, un emblema di vita nuda, Cristo e Zarathustra nella
letizia di un attingimento del fondo cieco della realtà.
Dalla radicale esperienza di Francesco, sbocciata in quel mondo
incommensurabilmente distante dal nostro, entro una realtà
materiale e biologica che nel nostro universo tecnologico e mediatico
non riusciamo nemmeno a concepire, scaturisce la nostra illusoria
sovranità dell’interpretare, il ripetuto brivido di sguardi e spiegazioni
dell’inconcepibile: che si svolgono per giunta dall’interno delle nostre
istituzioni, con gli strumenti e le tecniche da esse offerti e garantiti.
Oggi sembra del resto che sia in atto una corsa, da parte di certa
cultura laica e per così dire “di sinistra”, verso san Francesco e il suo
universo religioso, anche per il potente richiamo costituito da papa
Francesco, dai suoi nuovi e originali modi di intervento sul mondo.
Scrittori e intellettuali sembrano attratti quasi da una “moda”
francescana, cercano eco pubblica toccando questa materia che
appare così all’ordine del giorno, spesso ribaltando tutto sul
presente, con antistorica disinvoltura: e lo fanno in modi certo più
banali e terra terra rispetto alla vertiginosa hubris interpretativa
cacciariana. Ma è vero che anche molto prima dell’avvento di papa
Francesco ci sono stati molteplici tentativi di trascinare il santo verso
linee “rivoluzionarie” di ogni sorta, buone e cattive, autentiche ed
equivoche. Ne è stata addirittura proposta un’appropriazione da quel
singolare residuo del truce narcisismo intellettuale degli anni settanta
che è Toni Negri, riciclatosi dalle teorie dell’autonomia operaia a
quelle della moltitudine sovversiva. Nel libro scritto insieme a
Michael Hardt, che ha incantato tanto verboso estremismo
americano e francese, Empire (2000), costui ha creduto di vedere in
Francesco un’immagine della “vita futura della militanza comunista”:
la sua scelta della povertà sarebbe una scoperta della “potenza
ontologica di una nuova società”, il suo amore gioioso delle creature
indicherebbe l’opposizione della “gioia di essere alla miseria del
potere”, prefigurazione dell’“innocenza” e della “gioia incontenibile di
essere comunisti”.
Una sua misurata dignità ha comunque la proiezione
protofemminista della francescana santa Chiara nel libro di Dacia
Maraini, Chiara d’Assisi. Elogio della disobbedienza. Ben diverso il
caso che le fa pendant, dall’orizzonte maschile, il libro di Aldo Nove
(un ex-cannibale!) Tutta la luce del mondo (solo nella sovraccoperta
il sottotitolo Il romanzo di San Francesco), che si svolge in una
insistente espansione paratattica, con assorte illuminazioni di stile
nominale, costellazioni di assorti versetti, in successione di
meraviglie, di trasgressioni, di eccessi inzuccherati dall’allibito
linguaggio. Ma basterà leggere l’incipit del libro per sentirne tutto
l’affettato candore, tutta l’incantata vanità: “Nel Medioevo tutto era
stupendo”; rincalzato dalla frase successiva: “Nel senso che era
pieno di stupore”. Come Dante alla visione della candida rosa, “di
che stupor dovea esser compiuto!” (Paradiso, XXXI 40) questo
scrittore già giovane che vuole essere anche lui un nove!
Prima che scenda la sera discendo nella basilica inferiore: qui il
ciclo pittorico è ancora più vario e frastornante, con tante opere di
alcuni dei maggiori pittori del Duecento e del Trecento, oltre che
dello stesso Giotto e dei suoi aiuti: ci si perde nell’identificare le
allegorie delle vele della volta, Povertà, Castità, Obbedienza e poi,
nella vela dalla parte dell’abside, la Gloria di san Francesco. Si dice
che tra queste allegorie si affaccerebbe un giottesco ritratto di Dante:
sarebbe là, a destra, nella vela della Castità, in quel terziario in
basso a sinistra che viene invitato da Francesco a entrare nel
castello (dietro di lui un frate e una clarissa). A me per la verità
questo terziario mi pare un po’ melenso: se il copricapo è del tipo di
quello consueto di Dante, il profilo di questo devoto con l’occhio
sgranato, il nasetto a punta e la bocca sdolcinata mi pare molto poco
dantesco; senza contare il fatto che la castità non è una delle virtù
più consone a Dante, anzi è in fondo quella da lui più lontana, e che
comunque nell’elogio dantesco di Francesco di castità non è proprio
questione.
Ma la maggior parte dei pellegrini appare ben poco attenta a
questi affreschi (e tanto meno a questo presunto affacciarsi di
Dante): quasi tutti danno uno sguardo rapido e preferiscono
scendere nella cripta, dove è il sepolcro del santo, lì posto da frate
Elia e scoperto solo nel 1818. Recente è tutto l’arredo della cripta: la
tomba è al centro, in un’edicola di pietre possenti, in gran parte
ingabbiate in una grata di ferro intrecciato in quadrati. Vicino ci sono
le tombe dei suoi più stretti seguaci: Leone, Masseo, Angelo, Rufino.
“Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte corporale”. Un
cartello avverte che siamo in luogo di preghiera: e quasi mi domando
se dovrei anche io pregare, risalendo alle formule delle preghiere
dell’infanzia che mi balenano nella mente.
Prendo posto nella fila dei seggi con inginocchiatoio, mentre c’è
gente che viene e che va. Un frate accanto alla tomba sembra
essere lì per controllare il flusso, attento all’osservanza del rispetto
necessario per il luogo. Ci sono molti ragazzi inginocchiati sul
pavimento intorno alla tomba: ma poi ecco un altro frate che li
fotografa col flash. Qui si prega e si fotografa con insistenza, mentre
un canto di laudi indeterminato che non riesco bene a distinguere
(“dolce tintinno / a tal da cui la nota non è intesa”, Paradiso, XIV 119-
120) viene da sopra, dalla zona d’ingresso della chiesa inferiore,
dove è in atto una funzione serale, un po’ confuso con il rumore
dell’impianto di aerazione che è in moto qua sotto. Mi inginocchio
anch’io, sull’inginocchiatoio, in un momento in cui sembra che
l’affollamento si sia ridotto: ma poi subito il movimento ricomincia.
Ecco una famiglia: due giovani sposi con tre piccoli bimbi biondi (la
femminuccia più piccola col ciuccio in bocca). Si inginocchiano
devotamente (salvo la bimba) e il frate di guardia si accuccia
accanto ai bimbi, quasi scherzando con loro. Quando si levano
stringono tutti la mano al frate. Ecco poi un foltissimo gruppo di neri,
guidati da un donnone ben piantato che spavaldamente avanza
fotografando o filmando col suo cellulare; ne arrivano altri ancora,
moltiplicando le foto, non solo con cellulari, ma con fotocamere
piccole e grandi e con tablet. C’è uno che si fa anche il selfie con la
tomba del santo. Non mi devo meravigliare: ho visto sui giornali che
nelle fasi della cerimonia di santificazione dell’altro ieri si sono fatti
moltissimi selfies (esiste il plurale?) col papa Francesco sullo sfondo;
e del resto qui uno dei più accaniti fotografanti è un prete.
Torno indietro per la via San Francesco, dove nell’edificio del
Monte Frumentario c’è una mostra NO MORE WALLS, con 48 frammenti
del muro di Berlino, interpretati da artisti di tutto il mondo:
interpretazioni che per lo più sono sviluppi materici di generici
concetti, secondo la tendenza di tanta arte contemporanea a
ricavare configurazioni di oggetti da semplici pointes concettuali, da
articolate acutezze. È una modalità che ha toccato anche Dante: al
Museum für Moderne Kunst di Francoforte ho visto il mese scorso
un’ampia mostra dantesca, Die Göttliche Komedie. Himmel Hölle
Fegefeur con tutta una serie di opere di cinquanta artisti africani,
divise secondo le tre cantiche, che si presentavano come ispirate o
riferite a episodi, situazioni, citazioni, orizzonti danteschi,
interpretazioni e proiezioni del mondo di Dante nel contraddittorio
moderno, fatte soprattutto di installazioni che aspiravano a tradurre
ogni volta dei concetti piuttosto semplici e perlopiù legate a una
media di pensiero alternativo internazionale (anche con provocazioni
e trasgressioni piuttosto ovvie, ma affidate ai più vari allestimenti di
figure, di dati plastici, colori e svolazzi di stoffe, maschere e reticoli,
motori e specchi, pertiche e sacchi, rottami arrugginiti e lucidi ottoni).
Diversamente dalla mostra di Francoforte, qui le cose sono molto più
semplici: non ci sono grandi installazioni e ci sono anche, come del
resto a Francoforte, soluzioni molto intelligenti, di buon effetto visivo:
ma si resta inevitabilmente entro questa condizione dell’arte attuale,
costretta sempre a far leva su rinvii concettuali, a trasformare
semplici concetti, semplici istanze culturali, morali, sociali, in
assemblaggi di cose (secondo la linea di quella che il mio amico
Mario Perniola, nel libro che uscirà l’anno prossimo, chiamerà L’arte
espansa).
Lasciato il monte Frumentario, poco più avanti, sul vecchio
fontanile, campeggia, sopra l’avviso ACQUA NON POTABILE, un’epigrafe
minacciosa, chissà se risalente ai tempi del dominio papale: PENA UN
SCUDO / E PERDITA DE PANNI / PER CHI LAVA / IN QUESTO FONTE. Poi si
riaffaccia ancora Metastasio, con il teatro che reca il suo nome, che
però appare tutto orientato in senso francescano: infatti vi si dà ogni
giorno uno spettacolo destinato proprio all’edificazione dei visitatori
di Assisi, ancora un musical, messo in scena già nel 2004, Chiara di
Dio, di Carlo Tedeschi (e nell’atrio c’è anche una mostra dedicata a
questo uomo di teatro).
Procedendo, vedo tra i libri in vetrina nella piccola libreria davanti
al tempio di Minerva la nuova edizione di un libro di Sergio Quinzio,
Cristianesimo dell’inizio e della fine. Lo acquisto dal gentilissimo
libraio e noto subito che la prima edizione risale al 1967: passerò la
sera leggendolo, preso dal rigore, dalla tensione, dal lucido sguardo
alle derive del mondo, di quel cristiano così atipico che fu Quinzio,
con la sua parola radicale, ma tanto lontana da quella dei nostri
filosofi dell’estremo.
La mattina che segue, 30 aprile, mi immergo nel fresco e luminoso
mattino ripensando a un’essenziale notazione di Quinzio, che mette
in guardia dai limiti dell’interpretazione, dalla trionfale fiducia della
corrente cultura nelle sue variegate strumentazioni: cosa che vale
anche per i nostri studi danteschi e per questo mio stesso inseguire i
luoghi danteschi, la loro sfuggente essenza (e tanto più per questo
luogo francescano): “non è possibile comprensione senza
partecipazione. È solo un’utopia della cultura moderna ritenere che i
suoi strumenti e metodi critici, analitici, scientifici possano applicarsi
a oggetti radicalmente diversi – come la religione, il mito e l’arte –
con altri risultati che non siano puramente distruttivi” (p. 54).
Visito le altre splendide chiese di Assisi: Santa Chiara, più vicina
alla porta Nuova, la cattedrale di San Rufino, un po’ in alto, Santa
Maria Maggiore, ancora in basso: accanto a quest’ultima c’è un
piccolo museo con una domus romana, detta casa di Properzio. Il
nome del poeta elegiaco latino, nato proprio ad Assisi, apre uno dei
pochi squarci fuori dell’orizzonte francescano, ancora più fuori di
quanto possa fare il nome di Metastasio, già incontrato due volte:
una Assisi laica e pagana, a cui del resto fa omaggio anche la locale
Accademia properziana del Subasio, le cui origini risalgono al 1516
e che ha preso il nome di Properzio fin dal 1774 (dopo essere stata
anche Accademia degli Eccitati). Alla fine di maggio è qui in
programma anche un convegno su Le figure del mito in Properzio,
con presenze di tanti importanti studiosi: Cinzia, l’amore, le sue
pene, le sue incertezze e deliri, le brame d’assoluto che lo
travagliano, il mito che ne disegna la più dispiegata fisicità. Tutto
così lontano dall’amore e dalla vera letizia di Francesco, da quella
castità sostenuta da una continua macerazione e umiliazione del
corpo.
Ma stamattina ritorno ancora al Francesco di Giotto, insisto ancora
a contemplare il ciclo della chiesa superiore, e poi passo qualche ora
nella Biblioteca del Sacro Convento, dove è custodito il manoscritto
(segnato 338) che contiene vari documenti sul santo e sull’ordine
trascritti nella seconda metà del XIII secolo, tra cui l’attestazione più
antica del Cantico delle Creature, Laudes Creaturarum, Cantico di
frate Sole: “Altissimu onnipotente bon Signore”, qui si ha la
sensazione di essere nel luogo d’origine della poesia italiana, che
qui nasce come poesia religiosa. È vero che è stato trovato qualche
testo poetico in volgare un po’ più antico di questo: ma l’eccezionale
tensione di questo canto e l’assoluto rilievo del suo autore (che
dovette intonarlo in uno degli ultimi anni della sua vita) gli
attribuiscono un carattere inaugurale, fondativo, come se da lì
scaturisse tutta la storia della nostra letteratura, recandone il segno
anche là dove da Francesco essa è abissalmente lontana. Così a
stare in questa semplice biblioteca, nelle sue sale accoglienti e ben
organizzate, sembra di toccare il filo di continuità tra quella voce
poetica così lontana, quella prima voce letteraria italiana, e la lingua
dei nostri libri, tutto ciò che in essa leggiamo e scriviamo ancora ai
nostri giorni, pur essendo in ansia per la sua fragilità, per il suo
corrompersi e degradarsi, sempre più “guastata nei futili suoni / di
vacue clausole / e perfide commozioni” (come si conclude la
bellissima Ballata della lingua di Giovanni Giudici).
Ai tavoli della biblioteca, tra qualche suora e vari studenti
universitari, consulto libri e saggi su Assisi al tempo di Dante e su
Dante e il francescanesimo. Leggo tra l’altro un saggio di Ferruccio
Ulivi, Il “magnanimo” San Francesco di Dante, che giustamente
mette in luce il carattere “eroico” che la figura del santo assume
nell’XI del Paradiso: un santo “volitivo, intraprendente, coraggioso,
imperativo”, di cui Dante coglie la “stigma provvidenziale”,
l’esorbitanza, la “serafica iperbole”, esaltando la sua povertà non in
senso pauperistico, ma in polemica contro la cupidigia, suo costante
bersaglio nella Commedia (facendone qualcosa di ben lontano
dall’orizzonte dell’“umiltà”).
All’uscita della biblioteca, nel cortile antistante, a fianco della
chiesa, ho un breve colloquio col padre Maurizio Bazzoni, che fino al
2009 è stato direttore del Centro dantesco dei Frati minori
conventuali di Ravenna: mi parla delle varie iniziative del convento di
Assisi per visite guidate da parte delle scuole, che egli si trova
spesso a condurre, e delle Lecturae Dantis promosse dalle varie
diocesi. Molto forte è la presenza di Dante nell’universo francescano
(a parte la dubbia presenza del ritratto di Dante nella vela della
Castità). Ma la poesia di Dante non sembra tanto nota ai giovani che
vengono a visitare la basilica: al padre è accaduto più volte, nelle
sue spiegazioni, di collegare i rosoni sulle facciate delle chiese alla
“candida rosa” dell’Empireo dantesco, e di constatare poi la generale
impraticabilità del riferimento, la totale assenza di qualsiasi nozione
in proposito da parte dei giovani. Forse, dico, all’Empireo dantesco
giungono soltanto alla fine dell’ultimo anno delle superiori, e qui
vengono certamente prima: ma non credo che sia una
giustificazione, e col padre scambio alcune riflessioni sulla distanza
dei giovani (anche dei cattolici praticanti) non solo da un autore
come Dante, ma da tutta la cultura religiosa, dai suoi essenziali
orizzonti narrativi, dalle sue figure e dalle sue storie, che invece un
tempo erano di dominio comune, riferimento culturale di base anche
per i più spregiudicati anticlericali; le storie della Bibbia non le
conosce più nessuno, come del resto accade per i miti classici e per
le vicende della storia greca e romana. Sarà allora sempre più
difficile per i nostri cittadini futuri decifrare le tante opere d’arte, sacra
e non, di cui il nostro paese è pieno. Come si pongono di fronte a
questi orizzonti istituzioni così saldamente ancorate nella tradizione
come il francescanesimo? Non sentono di perdere qualcosa della
loro stessa presenza, della loro stessa presa sul mondo cattolico? È
anche questa la secolarizzazione? Sono domande senza risposta,
riflessioni che si scambiano mentre davanti alla chiesa continua il
flusso di pellegrini e turisti pronti a fotografare. Saranno solo le foto e
i musical a trasmettere frammenti e residui della cultura religiosa? E
Dante sarà quello dei videogiochi e di Dan Brown?
Non ho chiesto al padre come mai, nella città dell’ordine
mendicante, non abbia visto finora nemmeno un mendicante, tanto
meno all’ingresso delle chiese (come invece capita in tante altre
città). Tornando indietro verso la piazza del Comune, comunque a
notevole distanza dal convento, mi viene però incontro una di quelle
mendicanti che per suscitare caritatevoli offerte credono di avvalersi
di unzione religiosa: questa distribuisce santini, proprio di san
Francesco. Devo quindi ricredermi su quello a cui avevo pensato,
cioè a una totale cura-bonifica dei frati già mendicanti nei confronti
dell’accattonaggio. E ormai, molto vicino alla piazza del Comune c’è
anche uno che fa la statua vivente: qui in studiata congruenza con il
luogo, in veste da frate, anche col volto pittato dello stesso colore del
saio. Resto comunque sorpreso, a parte i mendicanti, per l’assenza
assoluta, in tutta Assisi, dei vari venditori ambulanti e abusivi delle
cose più diverse, di quelli che sono un po’ dappertutto nei luoghi
turistici, con varia merce smistata da qualche racket. Sarà certo
dovuto a una cura particolare del comune, a particolari modi di
dissuasione da esso impiegati.
Intanto sulla strada che mi riconduce all’albergo noto i molti negozi
di ceramiche e di vari gadget che espongono girasoli e ceramiche
con rosse facce ridenti del sole, aureolate di gialli raggi. Non
potevano mancare qui, dove “nacque al mondo un sole”.
Monte Subasio, fiume Topino, Nocera Umbra,
Gualdo Tadino, fiume Chiascio

Intra Tupino e l’acqua che discende


del colle eletto dal beato Ubaldo,
fertile costa d’alto monte pende,

onde Perugia sente freddo e caldo


da Porta Sole; e di rietro le piange
per grave giogo Nocera con Gualdo.
(Par., XI 43-48)

Tommaso giunge a indicare il luogo di nascita di Francesco, questa


Ascesi / Orïente, dopo aver circoscritto con ampia perifrasi
geografica la posizione dell’alto monte sulla cui costa (sulla sua
parte meno ripida) Assisi si colloca: è il monte Subasio, la cui massa
potente si profila alle spalle della città, circoscritta dalle valli di due
diversi fiumi, a est e a sud il Topino, a nord e a ovest il Chiascio, il
quale ultimo nasce dal monte Ingino, che sovrasta Gubbio, scelto
come luogo di preghiera dal beato Ubaldo Baldassini. Con la sua
netta misura dello spazio geografico, la perifrasi, sviluppata per due
terzine, viene come a ritardare la menzione di Assisi, a sospenderla
in un’aura di attesa: dopo l’indicazione dei fiumi (solo il primo
direttamente nominato) aggiunge nella seconda terzina i nomi delle
città di Perugia, di Nocera e di Gualdo.
Per toccare questi luoghi io prendo invece Assisi come punto di
partenza (e di ritorno). Comincio dal centro di questa carta, salendo
sulla costa del monte, sulla strada che giunge fin quasi alla vetta. Il
percorso verso il Subasio sfiora un altro luogo francescano, l’Eremo
delle carceri, così detto perché in esso Francesco e i suoi si
isolavano dal mondo, come in un carcere. Carceri di salvezza e di
amore divino, che per opposizione mi fanno pensare al cieco carcere
che è invece l’inferno, non solo nelle parole di Cavalcante (“Se per
questo cieco / carcere vai per altezza d’ingegno”, Inferno, X 58-59),
ma anche in quelle di Virgilio (“nel primo cinghio del carcere cieco”,
Purgatorio, XXII 103). Dall’ingresso sulla carrozzabile una strada
contornata da muretti a secco porta all’eremo, arroccato sopra un
fosso che si apre nella costa del Subasio: su di esso nel secolo XV è
stato costruito un convento. Tutto è immerso in un senso di
freschezza, che si espande e si accoglie nella folta vegetazione, che
mi dà l’impressione di essere davvero in un ambiente remoto, in un
altrove (e forse l’impressione è favorita dal tempo un po’ incerto,
dall’ombra delle nuvole che si combina con le ombre del monte e
delle piante).
C’è comunque un certo numero di turisti, che ignorano il cartello
che raccomanda SILENZIO: tutti parlano, in varie lingue, anche
scherzando e ironizzando non si sa su che cosa. C’è anche un
gruppo di americani che, ben fedeli alle modalità in uso nel meeting
da cui probabilmente fanno pausa, recano al collo le targhette con i
loro nomi. In basso, dentro l’edificio, si raggiunge la grotta e il
giaciglio di san Francesco, spazio in profondità che evoca la
profondità della preghiera, il suo collocarsi nei recessi più interni
della natura. Fuori dall’edificio, superato il ponte sul fosso, si aprono
vari percorsi nel bosco, qui quasi completamente di lecci, che
toccano luoghi di preghiera, ora davvero nel silenzio e nell’assenza
di visitatori. Ci sono sentieri che conducono alle grotte di diversi
beati; c’è anche la grotta dei tre compagni, che fa pensare ai
presunti autori della Legenda trium sociorum, Leone, Rufino e
Angelo, la più importante delle biografie non ufficiali del santo.
Il silenzio è rotto dal rumore di tuoni in lontananza, che annunciano
un temporale e mi consigliano di lasciare il bosco e di tornare
all’automobile. La strada verso la vetta perde presto l’asfalto: si
procede su ghiaia e sassi, ma la vista sparisce, siamo dentro le
nuvole. Si affaccia qualche squarcio aperto che mi illudo di
raggiungere presto, ma che non raggiungo mai. Arrivo finalmente al
punto più alto, dove posso parcheggiare, riuscendo a vedere un
cartello che indica la vetta del Subasio, 1290 metri, da raggiungere a
piedi in soli 200 metri. Procedo un po’ sul prato, in mezzo alla
nebbia, ma non riesco a vedere nulla: le cose più vicine e la stessa
auto poco in là diventano subito azzurrognole e poi spariscono. Per
fortuna non piove, ma è impossibile procedere così a tentoni: devo
rinunciare alla vetta, da cui, dicono le guide, si apre un immenso
panorama sulle cime dell’Appennino; e del resto oggi non si
saprebbe dove guardare, solo di nebbia e umidità si resterebbe
avvolti.
Non mi resta che scendere, ma sul versante opposto da quello
della salita. Procedo lentamente nella discesa, quasi alla cieca; solo
a un certo punto vedo affacciarsi al margine della strada il fantasma
di un cavallo. Penso intanto al particolare evanescente rapporto che
si ha con i luoghi che si attraversano senza poterli ben vedere, dove
si passa senza poter identificare davvero l’aspetto e la
configurazione, i limiti di quel dove: e ciò accade non solo in casi
come questi, in cui si resta avvolti nella nebbia, ma in tutto il nostro
veloce passare, entrare negli spazi senza vederli e senza misurarne
i limiti. Così per me questa vista del Subasio è come perduta per
sempre, la perdevo e la perdo nell’atto stesso in cui percorro
lentamente questa strada in mezzo alle nuvole. Ma questa è forse la
“verità” di ogni nostro rapporto con i luoghi che, turisti o viaggiatori,
crediamo di visitare. Mi ripeto quei versetti di Giorgio Caproni
(Esperienza, ne Il muro della terra) che ho molto cari:

Tutti i luoghi che ho visto,


che ho visitato,
ora so – ne son certo:
non ci sono mai stato.

A un certo punto della discesa, al di là di un’ampia curva, quando la


vista si è abbastanza ampliata, si vede sulla sinistra una sorta di
casale, dietro il quale la nebbia ha come un fondo di luce, traccia del
sole che dovrebbe scoprirsi a valle. Ma non è un casale, è l’eremo,
oratorio, rifugio della Madonna della Spella, ben disposto su di un
ampio prato. Scendendo ancora, quando ormai si è sulla strada
asfaltata, si trova un altro eremo, detto della Trasfigurazione, e poi il
piccolo borgo medievale di Collepino, in cui si entra da una piccola
porta e dove tutto sembra disporsi in perfetto equilibrio tra il lastrico
dei vicoli e i muri delle case: come in una continuità delle pietre, che,
percorrendo il tempo, si sono affrancate dell’antica rudezza, sono
entrate nell’agio della modernità, rimanendo sempre se stesse, qui
senza che si avvertano le sovrapposizioni e gli scarti dati dalla
presenza turistica.
Dopo aver invano tentato di raggiungere l’alta valle del Topino
attraverso le falde del Subasio, passando per il borgo di Arenzano –
strade e borghi remoti, dove non passa nessuno –, torno indietro
superando Spello e Foligno, ai cui margini il Topino scorre; risalendo
la Flaminia verso nord mi fermo a Valtopina, dove è possibile toccare
direttamente le rive del fiume. Basta entrare a piedi tra le case, sulla
destra del vecchio percorso della Flaminia, passare sotto la ferrovia,
in uno stretto sottopasso, e trovarsi in un piccolo parco alle sponde
del fiume, che si può costeggiare su un vialetto protetto da una
staccionata. Poco ampio il letto del fiume, che scorre verso valle con
una certa velocità; più veloci le auto che passano sulla superstrada,
che scorre su un poco rilevato viadotto, subito al di là del fiume:
intersezione tra movimenti diversi e tra loro incongrui ma come
combinati, la superstrada, il fiume, qui un bambino che passa in
bicicletta sul vialetto del parco, più in là il treno e poi ancora le auto
che percorrono la vecchia Flaminia all’interno del paese.
Tra percorso vecchio e nuovo della Flaminia ecco poi Nocera
Umbra, che, insieme alla successiva Gualdo Tadino, Dante vede
piangere alle spalle del Subasio per grave giogo. Questo pianto
viene interpretato in due modi diversi, sia in senso geografico-
climatico (da questo più ombroso versante del Subasio il clima
sarebbe più freddo che dall’altra parte), sia in senso politico (le due
città, originariamente ghibelline, subivano il duro dominio della guelfa
Perugia). Nocera in realtà sembra piangere ancor oggi per i gravi
danni del terremoto del 1997: all’animazione che c’è in basso, dove
si è trasferita gran parte della vita cittadina, fa riscontro, salendo
nella città vecchia, un quasi totale silenzio, tra edifici ricostruiti, che
però non sembrano abitati, e locali ancora in restauro, tracce di
lavori sospesi, interrotti, rinviati. Gli edifici più importanti del centro
storico appaiono tutti adeguatamente restaurati, ma in questo
pomeriggio appare tutto chiuso e deserto: così quelli della piazza
Grande, così più avanti il palazzo comunale e il palazzo vescovile.
Non incontro nessuno: vuota è la piazza davanti al Duomo; ma
dentro la chiesa, in una cappella a sinistra dell’entrata, vari frati
celebrano una funzione serale, davanti a quattro o cinque fedeli.
Davanti alla facciata del Duomo si innalza la Torre civica, chiamata
il Campanaccio, che era crollata per il terremoto e ora è stata
rimessa in piedi. Siamo nel punto più alto della città, accanto ai pochi
resti della rocca medievale: si apre la vista sulla sottostante vallata,
con lo snodarsi dei viadotti della superstrada ora percorsi da scarso
traffico. Echi dei motori laggiù: ma qui è solo silenzio, a cui fa da
sottofondo il tubare dei piccioni. Mi sembra di sentire il pulsare di
un’Italia triste, il pianto muto di queste vestigia di un passato
municipale corroso non solo dal tempo, dalle vicende storiche, dallo
sviluppo economico, ma qui dall’inquietudine dell’indifferente natura,
da un casuale scarto delle insondabili viscere della terra, di quanto
sta sotto questo colle, sotto il terreno su cui disponiamo costruzioni e
conflitti, municipi e santuari, luoghi della civitas umana.
Scendendo vedo sulla facciata del municipio una lapide che
ricorda due carabinieri medaglie d’oro, Augusto Renzini e Fulvio
Sbarretti, eroi della Resistenza (il primo catturato, torturato e ucciso
dalla polizia nazi-fascista, il secondo fucilato dai tedeschi, a cui si
era consegnato, per salvare la vita di dieci ostaggi). Poi più giù, dopo
un monastero di Clarisse, c’è una bella piazzetta circolare con case
dai colori vivaci, frutto di intelligente restauro, con segni di qualche
vita interna. Ma l’animazione del pomeriggio di provincia, in un
giorno come oggi prefestivo, si trova solo in basso, nel nuovo
quartiere, sorto perlopiù dopo il terremoto.
All’altezza di Nocera si lascia la valle del Topino e si prende quella
del torrente Caldognola, che qui nel Topino affluisce. Poco dopo,
mentre il paesaggio si allarga e si distende in una conca di dolce
ampiezza, un cartello indica il percorso della Strada Clementina,
costruita da papa Clemente XII come raccordo dalla Flaminia verso
Ancona. Ora la Flaminia sembra adagiarsi sulla distesa della valle,
come a farsi accogliere dal suo spazio dilatato, tra coltivazioni,
boschetti e insediamenti industriali. Entrando a Gualdo Tadino, lascio
l’auto sul punto più alto, dove mi sorprende la mole della Rocca
Flea, che nella sua varia storia ebbe anche un importante restauro
da parte di Federico II, a protezione della città ghibellina, che proprio
dopo la sua morte passò sotto il giogo perugino. Al mondo
dell’imperatore svevo mi fa pensare anche il nome Gualdo, che
certamente risale a Wald, bosco, selva, tedesco e qui già
longobardo, che accostato a Tadino, nome umbro e poi romano del
distrutto centro originario, situato nella vicina pianura, fa un singolare
effetto bellico, di germanico e militare avamposto di guardia su
questa conca.
Scendo, ora tra la pioggia, giù dalla rocca, verso la città che
dall’originario assetto romanico ha subito varie trasformazioni per i
terremoti succedutisi nel tempo. Anche qui ha pesato il terremoto del
1997, ma in misura minore rispetto a Nocera: il centro è abbastanza
vivace, nonostante la pioggia. Oltre alle belle facciate delle chiese di
San Francesco e di San Benedetto, mi colpisce, sulla piazza Martiri
della libertà, la lapide che ricorda quaranta cittadini fucilati dai
tedeschi sulla piazza stessa il 1° luglio 1944, proprio quando qui gli
invasori erano in ritirata, pressati dall’avanzata degli alleati. Dolorosa
continuità tra questa lapide e quella vista poco prima a Nocera:
emergere in questo viaggio, in ogni viaggio nell’Italia
centrosettentrionale (e quante volte mi capiterà nei miei percorsi)
delle tracce di quei terribili scempi, di una guerra e di una violenza
che non si sono date solo su fronti di scontro tra eserciti, ma hanno
toccato tutte le pieghe di questo paese, i borghi silenziosi, le strade e
le piazze di antiche città, le pietre che avevano visto glorie, scempi,
passioni lontane; e ha toccato la piccola vita quotidiana, tanti esseri
umani, semplici persone che erano fuori dai percorsi della storia e
dalle ambizioni del potere, che non ne erano stati mai nemmeno
sfiorati. Vorrei trascrivere questi nomi, come ho fatto per quelli dei
due carabinieri, tanti altri nomi che incontrerò, nomi ormai
dimenticati, persone che forse qualcuno della mia generazione può
ancora ricordare, ma che presto saranno cancellate per sempre da
ogni memoria, resteranno solo lì, inerti nelle lapidi; ma poi chissà
fino a quando? E chissà quanti altri disastri, quante memorie e
quanti oblii sono segnati sul perverso orologio della storia. E certo
non basta, non è bastato dire “mai più”.
Sotto la pioggia che continua più leggera ritorno alla Rocca Flea e
all’automobile, per rientrare ad Assisi: come a snebbiare la mente
dall’ansia per questo dolore del passato e per gli orizzonti del futuro,
ascolto guidando un CD con le classiche canzoni di Mina, la più
grande e più amata delle cantanti italiane. Ho un sussulto quando,
all’altezza degli svincoli intorno a Foligno, spunta una delle
canzoncine più sciocche, in cui la voce squillante di una Mina allora
giovanissima canta a un certo punto: “Dante s’ispirò a Beatrice. / Chi
sarà la nostra ispiratrice?” (Una zebra a pois).
La mattina del 1° maggio scendo da Assisi nella sottostante Valle
Umbra, verso i luoghi dove il Topino si incontra col Chiascio:
percorso che mi fa toccare la basilica di Santa Maria degli Angeli,
che si disegna nella sua mole quasi emergendo dalla nebbia
mattutina, che lentamente si dirada. Se l’incongruità che si può
avvertire tra lo spirito francescano e l’impianto delle due chiese e del
convento di Assisi viene in qualche modo superata dall’effetto
dell’insieme, dai modi in cui si legano alla città, sembrando quasi
farla convergere verso se stessi, qui invece si sente di più la
sproporzione tra quella che doveva esser l’umiltà del luogo in cui
Francesco scelse di morire e la grande mole della chiesa, il suo
collocarsi in quello che era un luogo campestre e boscoso e che poi
ha visto sorgere intorno un borgo, con esercizi e funzioni legate al
pellegrinaggio. La sproporzione si avverte nella stessa struttura
architettonica, tra manieristica e barocca, tra l’ambiziosa misura
spaziale della cupola del Vignola (“quanto d’aere abbraccia”, come
dice un non eccelso sonetto di Carducci) e l’aggetto superbo della
facciata porticata con loggia per le benedizioni davanti al vastissimo
piazzale. L’effetto di sproporzione è ancora più forte all’interno, per il
modo in cui vi è inglobata la Porziuncola, l’antica chiesetta
restaurata da Francesco, a lungo suo luogo di devozione e di
preghiera, la cui umiltà è del resto impreziosita dalle singolari pitture
di epoche diverse che ne decorano i muri esterni. Ci sono tanti
pellegrini inginocchiati e altri che entrano ed escono dall’interno della
chiesetta. Ma, nonostante la folla, non senza emozione si sosta
dentro il piccolo abitacolo, tra le nude pareti, davanti alla tavola
trecentesca di fra Ilario da Viterbo. E più emozionante, nonostante le
ornamentazioni che la fasciano, è la cappella del transito, collocata
sulla destra del presbiterio (ma chissà dove era originariamente): qui
il santo, raccomandò ai suoi frati “la donna sua più cara”, Povertà, “e
del suo grembo l’anima preclara / mover si volle, tornando al suo
regno, / e al suo corpo non volle altra bara” (Paradiso, XI 115-117).
Anche qui, di fronte a questi luoghi che conservano dopo tanti
secoli la traccia di qualcosa di assoluto, di un’eccezione che si è
voluta solidale col tutto, di un così determinato accoglimento della
morte (ancora “Laudato si’, mi’ Signore, per sora nostra morte
corporale”), si avverte comunque quanto lontana ne sia la stessa
devozione attuale, certo anche ingenua, anche sincera, ma
inevitabilmente sovrapposta al turismo, a un’organizzazione che vi
imprime su di essa il proprio carattere. E stridono alcuni moderni
prolungamenti di modalità antiche, come quello che noto in una
cappella laterale della basilica: vi sono esposte le foto dei due papi
santificati in questi giorni, venerati insieme al beato Jerzy
Popiełuszko, il sacerdote polacco ucciso dalla polizia comunista
nell’ottobre del 1984. Insieme alle foto, entro edicole dorate, sono
esposti tre reliquiari ingemmati, nei cui tondi centrali coperti da vetro
e inquadrati da dorate raggiere sono le reliquie indicate dai cartigli:
Ex sanguine S. Ioannis Pauli II, Ex ossibus B. Jerzy Popiełuszko, Ex
corpore S. Ioannis Pp. XXIII. Ci sono suore che baciano
intensamente le foto e in ginocchio pregano davanti alle reliquie.
Uscendo dalla basilica si può visitare il roseto, presunto luogo di
uno dei tanti eventi leggendari della vita del santo, che per sfuggire
alla tentazione e al dubbio si sarebbe gettato ignudo sopra uno
spinoso roseto che, nell’accoglierlo in sé, avrebbe miracolosamente
cancellato le spine, dando vita alla rosa canina assisiensis, qui
coltivata, nel giardino sul fianco dell’abside, accanto a una apposita
cappella. Ma in tutto il sito si affacciano vari segni dei leggendari
miracoli del santo, tra manufatti di vario genere: mentre nel Museo
della Porziuncola, che custodisce una delle più antiche immagini del
santo, sarà inaugurata dopodomani la mostra Santo Francesco del
futurista perugino Gerardo Dottori (1884-1977), che suggerisce un
singolare connubio tra futurismo e arte sacra. Dottori, tra gli ideatori
dell’aeropittura, viene ora preso come testimonial per la candidatura
di Perugia e dei luoghi francescani a capitale europea della cultura
per il 2019 (altra sua mostra più importante, The Futurist View, sarà
alla Estorick Collection di Londra a partire da luglio). Resto però
pieno di dubbi su ogni arte sacra futurista, su ogni san Francesco
aerodinamico: e mi sembra davvero patetico e subdolamente
ipocrita il Manifesto dell’arte sacra futurista redatto da Marinetti e
Fillia nel 1932, che comunque tributa un adeguato riconoscimento a
Dottori. Inferno e Paradiso sono tra gli obiettivi di quel Manifesto: che
fa un lungo elenco di “artisti futuristi elettrizzati di ottimismo colore e
fantasia”, tutti in grado di “precisare in un’opera d’Arte Sacra la
beatitudine del Paradiso, superando nei nervi dei combattenti
cattolici la infinita gioia paradisiaca della nostra immensa Vittoria di
Vittorio Veneto” (ma in Dante ci sono solo “li mal protesi nervi” di un
vescovo “trasmutato d’Arno in Bacchiglione”, Inferno, XV 113-114).
Lascio l’ampio piazzale della basilica, andando alla ricerca dei
fiumi. Prima di attraversare una località dal curioso nome di
Passaggio, ritrovo ancora il Topino, che scorre verso destra,
costeggiato da un dolce vialetto, verso la vicina confluenza col
Chiascio. Subito dopo Passaggio procedo per stradine vicinali
cercando il punto di confluenza, a cui però queste carrozzabili non
riescono a condurmi: per non farla troppo lunga devo tornare sulla
strada provinciale che sfiora Bettona, dove a un certo punto mi viene
incontro, preceduto da vigili in moto, un folto gruppo di ciclisti di tutte
le età. Qualcuno in tenuta sportiva, altri vestiti nei modi più vari: non
è una corsa, ma una specie di passeggiata collettiva, nella festosa
allegria di quest’Italia nella mattina del primo maggio, festosa
specialmente nei sorrisi dei bambini che sulle loro piccole bici
seguono genitori e zii in blanda pedalata, mentre ormai ogni nebbia
si è diradata e un sole squillante illumina il tiepido e umido orizzonte
primaverile. Ecco finalmente, ormai nei pressi di Torgiano (il cui
nome nella mia mente è stato sempre associato al rosso vino
Rubesco), un altro ponte su un fiume: questo è finalmente il
Chiascio, quello che viene dal colle del beato Ubaldo, che qui ha già
ricevuto e fatte proprie le acque del Topino. Affacciato sulla spalletta
metallica di sinistra guardo indietro, verso la zona, ormai non
vicinissima, della confluenza.
Ma, se non ho toccato quel punto, posso ora toccare un’altra
confluenza in fondo più rilevante, quella dove finisce il Chiascio,
immettendosi nel Tevere: ai piedi di Torgiano c’è infatti un bellissimo
Parco dei due fiumi. Dopo una breve ripida discesa, giù dal colle su
cui il paese è adagiato, lascio l’auto su di un apposito spiazzo (dove
c’è un tizio che porta a spasso un minaccioso cagnone nero) e mi
avvio per un ampio sentiero che ha sulla destra il Tevere e sulla
sinistra un campo erboso, oltre il quale si leva la bassa collina di
Torgiano. Ecco finalmente l’abbraccio tra i due fiumi, l’“acqua che
discende” da monti diversi, il fiume di cui seguirò oggi parte del
percorso, fino a Gubbio, e l’altro che mi è molto più familiare, che
viene da più su ed è così carico di miti e di storia: oggi il loro incontro
sembra davvero pacifico, senza scosse, come un naturale
mescolarsi di acque, senza che il fiume più autorevole pretenda di
far valere la propria superiorità. Posso spiare a lungo la continuità di
questo mescolarsi, oltre le fronde che in parte ne nascondono la
vista, seduto su una delle panchine che sono state poste qui, nel
punto estremo di questo parco. Non c’è per ora nessuno: solo
quando torno indietro si avvicina una signora a passeggio, che mi
sfiora con quello sguardo crucciato che spesso assume chi incontra
sconosciuti con cui non vuole aver nulla a che fare.
Perugia: Porta Sole

Di quel che fé col baiulo seguente,


Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente.
(Par., VI 73-75)

………………………………
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole;
(Par., XI 46-47)

Prima della menzione di Perugia e di Porta Sole nella perifrasi su


san Francesco, un rapido cenno a essa viene fatto entro la storia
dell’aquila imperiale, per bocca dell’imperatore Giustiniano nel cielo
di Mercurio: viene ricordato l’assedio e il saccheggio di Perugia
(insieme al ben diverso assedio di Modena) da parte di Ottaviano
(baiulo seguente dell’aquila, cioè suo portatore dopo Giulio Cesare),
contro Lucio Antonio, fratello di Marco Antonio, e la moglie di questi,
Fulvia. Ancor più di sfuggita Perugia era stata ricordata nel De
vulgari eloquentia, I XIII 3, insieme a Orvieto, Viterbo e Civita
Castellana, per la somiglianza del loro linguaggio a quello dei romani
e degli spoletini.
Arrivo rapidamente a Perugia: lasciata l’auto nel parcheggio di
piazzale dei Partigiani, mi avvio vero il centro attraverso il funzionale
sistema di scale mobili, brevi passaggi, brevi rampe di gradini, che
passa dentro la Rocca Paolina, dove ferve un vivace mercato
artigianale, in cui spiccano prodotti alimentari umbri. Poi sul corso
Vannucci (nel nome del pittore detto per l’appunto il Perugino) c’è un
fitto passeggiare festivo, cittadini giovani e vecchi, ragazzi e
ragazze, turisti e curiosi: sulla piazza IV Novembre, davanti alla
cattedrale, è allestito il palco dei sindacati per il comizio odierno. Ma
io sono diretto a Porta Sole, da dove, esposta al Subasio, “Perugia
sente freddo e caldo”: anche se dovrò distinguere tra la porta vera e
propria, di origine etrusca, rivolta verso est, che è piuttosto una sorta
di sottopasso ogivale che si apre su di una breve scalinata, e il più
ampio quartiere detto di Porta Sole, che culmina nel belvedere
esposto a nord e ai più freddi venti invernali, e costituisce il punto più
alto della città.
Per raggiungere la porta vera e propria passo sulla piazza
Piccinino, in parte contornata a semicerchio da edifici che si levano
in alto, sostenuti da un muraglione, mentre su un lato si erge
minacciosa la chiesa cinquecentesca della Compagnia della Morte,
in fondo esorcizzata dalle auto fittamente parcheggiate sulla piazza.
La via Bontempi conduce allo scuro andito della Porta, detta anche
Arco dei Gigli (perché all’esterno c’è lo stemma con i gigli dei
Farnese), mentre attraverso la via Raffaello si giunge alla piazza
Raffaello, che si colloca in alto, sullo stesso asse del sottostante
Arco, con la vista che si apre proprio dalla parte del Subasio. Qui
non a caso è stata posta l’epigrafe con i versi di Dante, dirimpetto
alla chiesa di San Severo, dove era un affresco del giovane
Raffaello, spostato in realtà in una cappella laterale, a cui si accede
dall’ingresso dell’ex-convento, che ora ospita l’Istituto Tedesco.
Nella cappella c’è una mezza dozzina di visitatori, che
contemplano l’affresco, anche seduti: la Trinità (ma è sparito il
Padre, perduta la parte in alto) con quattro angeli volanti e sei santi
monaci seduti sulle nuvole ai due lati del Figlio, sul cui capo vigila
ferma la colomba dello Spirito Santo, è di mano di Raffaello giovane
(data segnata 1505), mentre in basso stanno in piedi altri sei santi
diversi, questi compiuti dal vecchio Perugino, quando il suo allievo
Raffaello era già morto (intorno al 1521). Giovinezza e vecchiaia,
maestro e allievo si trovano qui come confrontati, il giovane nella sua
prima disinvolta sperimentazione (in cui possiamo credere di
scorgere perfino un tratto di esitante ironia); il vecchio nel suo stanco
ritorno, quando ormai la sua fama era stata eclissata da quella
portentosa generazione a cui il suo allievo apparteneva, intento a
fissare sotto le figure un tempo tracciate dal giovane già scomparso
dopo il fulminante successo i propri santi un po’ manierati, tutti con
qualche oggetto in mano (mentre libere di gesticolare erano le mani
di quelli di sopra), come seccati di stare fermi là sotto.
Dalla piazza Raffaello, dopo aver superato una scalinata che
procede entro un sottopasso e svoltato su di una silenziosa
piazzetta, si giunge al belvedere di Porta Sole, esposto a nord: qui,
nel sito di un tempio etrusco dedicato al sole (donde il nome del
luogo), sorgeva la fortezza papale poi distrutta. Sulla piazzetta ci
sono delle panchine sotto dei lecci, mentre a sinistra una scalinata
scende giù verso i quartieri settentrionali in basso. Tetti e campanili,
mura e torri, i colli a ovest e a nord, il cielo solcato da nuvole che
vanno infittendosi. Al parapetto vari giovani guardano il panorama e
indicano i luoghi: sento in particolare un ragazzo che indica a due
amiche un tetto, “Quella è la casa di Meredith”. Ma non si tratta di un
monumento storico, ma di una semplice casa dove fu uccisa nel
2007 Meredith Kercher, studentessa inglese dell’università per
stranieri (la sede, palazzo Gallenga, si trova subito qua sotto):
vicenda di cronaca nera di cui molto si è parlato negli ultimi anni, per
il suo intreccio di amori e gelosie, per l’incerto percorso processuale,
e per l’appeal mediatico di una ragazza americana in un primo
momento accusata e poi assolta, pur tra molti dubbi, anche con
l’esito di uno squallido film televisivo che ne è stato ricavato, rivolto a
sollecitare la “bassa voglia” dello spettatore.
Tutto ciò non corrisponde in nessun modo all’immagine che di
Porta Sole aveva lasciato nella mia mente il mio maestro Walter
Binni, perugino, che ricordava spesso Porta Sole e che ha lasciato
questo ricordo in un testo dal titolo La tramontana a Porta Sole, dove
in questo panorama e nel suo aspetto invernale individuava i
caratteri più autentici della città, la sua severità “che più la disgiunge
da città più accoglienti, più agevoli, meno impegnative”: all’orizzonte
invernale di Perugia, alla sua etrusca rusticità, all’impeto della sua
tramontana Binni attribuiva la propria “educazione naturale” alla
“disperata tensione alla stessa poesia come intensità e forza”. E
Binni è rimasto legato a questo luogo, perché il meglio della sua
biblioteca è ospitato nel palazzo che dà proprio su questa piazza,
oltre la chiesa cinquecentesca di Sant’Angelo della Pace. Si tratta
del palazzo secentesco Conestabile della Staffa, che è sede della
Biblioteca Comunale Augusta; quei suoi libri sono in una stanza che
guarda di qua, verso il nord esposto alle tramontane.
Nel tepore della festiva giornata primaverile, non c’è traccia di
venti dal nord. Nella città ci sono segni di effervescenza giovanile,
con tanti giovani che recano distintivi e casacche gialle, che indicano
la loro partecipazione a un evento culturale: ne trovo alcuni in un
piccolo ristorante che è poco oltre la biblioteca, La Fontanella di
Porta Sole. Poi, avviandomi a partire, trovo, accanto al Giardino
Carducci e di fronte a un grande albergo, il palco e gli stand del
Festival Internazionale del Giornalismo, che ha luogo proprio in
questi giorni. Dallo stand di Rai News è in corso una trasmissione in
continua connessione. Movimento di ragazzi, nel giardino e
nell’albergo, dove è il centro organizzativo e l’ufficio stampa, dove ci
sono sale per incontri di vario genere: chi corre da una parte e chi
dall’altra, chi porta in giro manifesti e incartamenti, chi sta davanti
allo schermo di uno dei tanti computer, fissi e portatili. Raggiungo un
tavolo dove mi viene consegnato il programma, con tutte le
indicazioni di orari, sale, workshop, dibattiti e lezioni più o meno
“magistrali”. Non mancano certo incontri interessanti; ma, nel quadro
di questo mio viaggio, devo per forza notare quello che avrà luogo
sabato 3 maggio, dal programmatico titolo La fine del libro non è la
fine del mondo: si sentono certo partecipi di questo non apocalittico
futuro i tre officianti, tutti ben noti, Daria Bignardi, Francesco Piccolo,
Marino Sinibaldi.
Ma non li ascolterò: sotto il peso malinconico di questi annunci di
fine proseguo sulla via del grande libro dantesco, che ha dentro di sé
inscritta la fine, ogni fine possibile: lasciata Perugia, prendo il
tracciato della strada statale in trasformazione come superstrada
Perugia-Ancona, tra gallerie viadotti, cantieri, che portano ancora a
sfiorare il Chiascio. Il percorso si interseca a un certo punto con il
Sentiero francescano della pace, sul tracciato da Assisi a Gubbio
spesso frequentato da san Francesco, meta poi di devoti
pellegrinaggi. Incontro il Chiascio prima di Valfabbrica: e subito dopo
passo il fiume in un punto chiamato la Barcaccia, perché lì lo si
attraversava in una chiatta, che sta ancora lì, sotto una tettoia, come
documento storico e turistico, con un piccolo parco intorno, accanto
a edifici che fungevano da ospizio per i pellegrini, che qui sostavano
prima o dopo aver passato il fiume: località a suo modo nevralgica,
contesa a lungo tra Perugia, Assisi e Gubbio. Un pescatore regge
pazientemente la sua lenza, sul fiume che scorre verso sud. Più in
là, a circa due / trecento metri di distanza c’è la piccola chiesetta
campestre di San Benedetto e San Paolino (santo benedettino,
questo, della famiglia dei Bigazzini signori del vicino castello di
Coccorano, vissuto nella prima metà del Duecento).
Qui per risalire il corso del Chiascio occorre prendere una strada
che conduce a una grande diga di terra (diga di Valfabbrica), che
ferma la discesa del fiume e chiude un lago formato dalle acque del
fiume stesso: i lavori della diga sono stati iniziati nel 1981,
interrompendosi a un certo punto, tra polemiche varie, con uno
scontro tra chi lamenta il non completamento dell’opera, da cui
attende un grande contributo per l’alimentazione idrica, e chi invece
ne denuncia i pericoli ambientali, data la sismicità della zona. I lavori
saranno poi ripresi, con l’ipotesi di far entrare l’invaso in attività nel
2017, tra entusiasmi e proteste, in quell’eterno dilemma tra identità
dei luoghi e loro alterazione foriera di sviluppi, lavoro, benessere,
che non trova e non può trovare soluzioni e vede perlopiù
schieramenti dogmatici, basati su convinzioni a priori, che non
vogliono confrontarsi con la contraddizione di cui si è prigionieri.
Procedo nella strada che supera la diga e costeggia il lago non
ancora a regime: ma c’è a un certo punto il divieto di proseguire
verso Biscina. Tornando indietro una piccola deviazione in salita
conduce a un’altra chiesetta campestre, in cima a un poggio nella
località Sambuco: è dedicata a san Martino e santa Lucia e ora è la
sede dell’Associazione Amici del Sentiero francescano della pace,
che organizza varie attività e percorsi nel sentiero. Sono appena
giunte quattro camminatrici nordiche, cariche di zaini e dotate di
adeguati bastoni da marcia: e già nei paraggi ho incontrato altri
viandanti, anche con bambini, ma tutti venuti dall’Europa del nord.
Qui sembra che a lungo abbia soggiornato il san Paolino della vicina
Coccorano: leggenda vuole che, non avendo cibo da offrire al suo
maestro Silvestro (santo anche lui), vide qui improvvisamente
spuntare da un pero, in mezzo al gelo e alla neve, dei gustosissimi
frutti.
Tornato alla Barcaccia, riprendo la strada /superstrada lasciando il
corso del Chiascio, che ritrovo brevemente e attraverso più avanti, a
una ventina di chilometri da Gubbio.
Gubbio

…non se’ tu Oderisi,


l’onor d’Agobbio e l’onor di quell’arte
ch’alluminar chiamata è in Parisi?
(Purg., XI 79-81)

Molto affollato l’ingresso in Gubbio in questa giornata festiva:


impossibile parcheggiare sulla piazza Quaranta Martiri – il cui nome
fa balenare ancora il ricordo dell’occupazione e delle stragi naziste,
come già a Nocera e a Gualdo: qui l’uccisione di 40 cittadini per
rappresaglia il 22 giugno 1944 – che è alla base della città
medievale. Devo allontanarmi un po’ dal centro e lasciare l’auto in un
parcheggio, comunque affollatissimo, davanti al Teatro Romano, le
cui rovine sono come adagiate tra il verde denso dei prati, che
appare a momenti luminoso, a momenti scuro, secondo il vario
scoprirsi del sole, tra le nuvole che ora si addensano più fitte sul
colle sul cui dorso è abbarbicata la città: è il “colle del beato Ubaldo”,
il fianco del monte Ingino, dal cui versante opposto sorge il Chiascio.
Da questa parte si vede, come a far capolino tra gli abeti, la chiesa
del santo vescovo Ubaldo Baldassini, signore della città nell’XI
secolo, taumaturgo in vita e morte, primo grande motore della sua
espansione.
Entrare nella città, attraversarla, percorrere le strade in salita,
toccare i quartieri laterali e il suo centro storico, con la grande
terrazza della piazza Grande, tra il Palazzo dei Consoli e il Palazzo
Pretorio, dà un singolare effetto di perfezione: le vecchie pietre
sembrano aver perduto ogni durezza, aver superato le alterne
vicende della storia, gli entusiasmi e le violenze, i trionfi e le derive, il
potere e la sottomissione, le angosce e la miseria di tanti che ci sono
passati sopra e accanto nei secoli, per giungere a questa apparenza
perfetta, levigata ma ancora carica di memoria, offerta allo sguardo,
al piacere, all’ozio dei visitatori, dei turisti, dei cittadini a passeggio in
un pomeriggio come questo. In fondo qui anche le botteghe per lo
shopping turistico e per la varia alimentazione si inseriscono
nell’ambiente antico con relativa discrezione. Ci sento quasi l’onor
d’Agobbio in questa perfezione: come un esito su vasta scala di
quell’arte di Oderisi, come se quell’alluminar, quel tessuto di carte
miniate, sia uscito dalla piana superficie delle pagine e si sia
materializzato nello spazio della città, nell’assetto dei suoi edifici e
delle sue strade, nella densità dei muri disposti su più livelli sulla
costa del monte. Una perfezione che forse non si è mai rivelata con
tanta misura come negli ultimi decenni, dove ogni frammento, ogni
sito e ogni edificio, si dispone con agio, si offre a un ammirato
consumo, in una presente evidenza che sembra come far svanire la
dura traccia di un difficile passato. Eppure questa perfezione è
risultato del lavoro lento e paziente di intere vite e al di là delle
singole vite: un lungo, faticoso e amorevole, ma per molti anche
ingrato e lacerante, costruire pietra su pietra, organizzare, sistemare
tutto ciò che ora nei nostri viaggi semplicemente sfioriamo, facciamo
nostro nel nostro breve percorso di spazio e di vita, attraversiamo
perlopiù con sguardo “straniero” rispetto a quella storia, alla bellezza
e all’abiezione dei secoli. Al di là delle migliori intenzioni,
inevitabilmente tocchiamo e fuggiamo via.
Dagli antichi umbri, la cui lingua è documentata dalle celebri
Tavole Eugubine, custodite nel Palazzo dei Consoli, ai romani ai
bizantini all’espansione e alle lotte dei secoli XI-XIII, sotto il segno
del beato Ubaldo, al successivo inserimento nel ducato di Urbino,
fino alla sua annessione nello Stato pontificio, Gubbio si è creata in
questa forma che a un certo punto doveva essere comunque piena
di falle e di squarci e che un’intelligente politica del secondo
Novecento ha condotto allo stato perfetto che ancora oggi appare,
nonostante la crisi che grava sull’Italia e sul mondo. Non so se di
questa perfezione Gubbio vada un po’ superba, come Oderisi della
sua arte, di cui sconta l’orgoglio nel primo girone del Purgatorio. Ma
si sa che nella penitenza di Oderisi (che nella cornice purgatoriale
procede sotto il peso di un macigno) Dante metteva in scena anche
un atto di contrizione per il proprio stesso orgoglio di poeta, che però
ribadiva nell’atto stesso di indicarne l’inanità: Oderisi dice che alla
propria fama è subentrata ormai quella di Franco Bolognese, come
alla fama di Cimabue quella di Giotto, a quella di Guido Guinizelli
quella dell’altro Guido, il Cavalcanti. Ma poi aggiunge (Dante glielo fa
aggiungere) che “forse è nato / chi l’uno e l’altro caccerà del nido”
(Purgatorio, XI 97-99); così nell’atto stesso di denunciare la vanità
della fama, il poeta allude alla propria superiorità sui predecessori.
Ma, a parte Oderisi, che Dante comunque doveva aver conosciuto
intorno al 1287 proprio a Bologna, dove il miniatore aveva passato
gran parte della vita, per lui Gubbio doveva avere un sapore un po’
amaro, perché da qui veniva Cante de’ Gabrielli, più volte podestà a
Firenze, che come tale gli comminò le due sentenze di condanna del
27 gennaio e del 10 marzo 1302 (la seconda a morte, “igne
comburatur, sic quod moriatur”).
Il piccolo fiume, piuttosto torrente, che bagna Gubbio, non è d’altra
parte il Chiascio, che sorge dall’altro versante del monte su cui la
città è appoggiata, ma il Camignano, attraversato da tre piccoli ponti,
detti ponti dell’Abbondanza, nel suggestivo quartiere così chiamato,
già sede di un mulino ad acqua e di due forni comunali (da cui il
nome). Girando oltre il quartiere dell’Abbondanza, si giunge alla
chiesa di San Domenico, con la strana facciata incompiuta, divisa in
due parti separate da una linea obliqua, metà a nudo mattonato e
metà a paraste su intonaco bianco che inquadrano le tre porte. Qui,
come già mi è capitato di vedere ad Acquasparta, ma in modo ancor
più mirato, l’orizzonte laico cittadino si sovrappone con determinata
scelta a quello ecclesiastico: la piazza su cui è San Domenico ha il
nome di un ex-domenicano tutto particolare, l’eretico e condannato
Giordano Bruno.
Sulla piazza Grande, nel brusio pomeridiano alcuni bambini
giocano con un attrezzo di carattere singolarmente locale: si tratta di
un simulacro della corsa dei ceri, riprodotti in miniatura. È il grande
rito che qui ha luogo ogni anno il 15 maggio, vigilia della festa di
Sant’Ubaldo, quindi tra pochi giorni. E ora muovo verso il colle, verso
il santuario del santo, sorto sul luogo da lui eletto per la sua vita di
preghiera, prima della sua nomina a vescovo di Gubbio. Lassù i tre
ceri sono custoditi, per essere portati domenica prossima qua giù nel
palazzo dei Consoli e tornare su di corsa alla fine della giornata del
15. Sto per lasciare la piazza, quando sento urla che
improvvisamente rompono il brusio. C’è una donna che grida contro
due tizi; uno di questi, che ha una barbetta mefistofelica e un sacco
a tracolla, tiene stretto un libro, una verde guida turistica che la
donna sostiene essere sua e le sarebbe stata da lui rubata. Lei si
attacca furiosamente al libro e cerca di strapparlo al barbuto, che lo
stringe forte, mentre il suo compagno cerca di trattenere la donna,
prendendola per le spalle. Un altro si avvicina perplesso, a sostegno
della donna, ma non sa che fare. Strepiti da tutte le parti. Lei
continua a gridare che la guida le è stata rubata. L’altro dice che
invece è sua e che lei è una pazza. Spintoni e minacce di pugni e
schiaffi. Guardo i tetti a monte in questo strano pomeriggio italiano,
tra la folla tranquilla che assiste sorpresa alla scena, il cui esito più
violento è interrotto dall’arrivo di un vigile urbano. Le urla però
continuano, fino al momento in cui la donna, sempre più
scarmigliata, rinuncia, desolata, pur confermando al vigile, con
ragioni che sembrano buone, che sua è quella guida, che gliel’hanno
sottratta quei due che ora si allontanano impuniti ma con una certa
gioia proterva nei loro volti, quei volti di chi è convinto del proprio
diritto di stare qui, di occupare questo e tutti gli spazi nel mondo.
Monte Ingino (Sant’ubaldo)

…del colle eletto dal beato Ubaldo,


(Par., XI 44)

Lasciata la scena, salgo su, oltre il Duomo, uscendo dalla Porta


Sant’Ubaldo e prendendo il ripido viale sterrato, ma con ottimo
fondo, con gli otto tornanti che si snodano sotto il monte Ingino, sul
“colle eletto dal beato Ubaldo”, e portano al suo santuario: è la
strada della corsa dei ceri, che qui avanzano nella sera del 15
maggio, in tumultuosa salita. Non conosco bene la distanza e ho
qualche apprensione: temo di essere sorpreso dalla sera o, peggio,
dalla pioggia, per le nuvole che vedo muoversi pur lasciando squarci
sempre più ampi e facendo affacciare il sole che si avvia al
tramonto. Non è caldo, ma la faticosa salita mi fa un po’ sudare, tra
la fresca umidità della sera, mentre si incontrano ogni tanto persone
che scendono in tutta tranquillità. In basso si profilano sempre più
distintamente i palazzi, le chiese, i tetti di Gubbio, la città storica così
“perfetta”, abbarbicata sulla costa del monte, e anche la città
moderna distesa nella piana, con a destra i prati su cui si disegnano
le rovine del Teatro romano; tutta la valle Eugubina intorno e, oltre, la
sommità del Subasio e forse, a sinistra, il monte Catria.
Quasi all’inizio del viale ancora un ricordo dello scempio nazista, di
uno dei tanti semplici e inconsapevoli eroi: la lapide con la foto di un
militare qui, Umberto Paruccini, COLPITO DA PIOMBO TEDESCO, / QUI
CADEVA FERITO A MORTE / VITTIMA DEL DOVERE, il 5 luglio 1944. Su un
tornante si incontra il monastero delle Clarisse Cappuccine, che
qualche anno fa è stato al centro di una strana vicenda giudiziaria,
con denuncia di furti di gioielli antichi mossa alla badessa da novizie
fuggite e vari pettegolezzi annessi (se ne è occupato addirittura un
celebre avvocato nonché deputato, Carlo Taormina, anche prediletto
dall’allora premier Silvio Berlusconi). Ad un altro tornante c’è la
cappella di Santa Maria delle Grazie; e ancora la Fonte del lavello o
di Sant’Ubaldo, che una lapide collega a una apparizione miracolosa
del santo, che qui si sarebbe manifestato il 6 marzo 1419 ad alcuni
cittadini in fuga dall’assalto di Braccio da Montone, rassicurandoli e
tracciando un segno di croce sulla città sottostante: tornati indietro,
questi videro che Braccio con la sua soldataglia si stava ritirando.
Attraverso queste tappe raggiungo un po’ stanco, quando ancora il
sole ormai sta nascondendosi dietro le alture a occidente, il
santuario, che conserva in gran parte l’impianto cinquecentesco
curato dai signori di Urbino: una scalinata porta in un chiostro da cui
si accede alla chiesa, dove, all’altare maggiore, è il sepolcro
sontuoso del santo, traslato qui fin dal 1194 (ma la tomba è
cinquecentesca), imbalsamato e disteso nella teca, con il volto
macabramente carbonico. Qui a quest’ora (sono le 19,30) silenzio,
solo due o tre persone nella chiesa: quanto diverso questo luogo
dalla affollata cripta di Assisi! Sulla navata interna destra sono levati
i tre grandi ceri a doppio prisma ottagonale: e proprio mentre li
guardo arrivano una decina di uomini, abbastanza giovani, che ne
sollevano delicatamente uno e lo portano fuori della chiesa, in un
locale sottostante: sono naturalmente i ceraioli di una delle tre
corporazioni addette a ciascuno dei ceri. Si apprestano a controllare
e a sistemare il loro cero, in vista della prossima traslazione in città,
preliminare alla corsa del 15.
Ma il cielo comincia a imbrunire, anche se ancora l’occidente si
imporpora di riflessi d’oro: pensavo di scendere con la funivia che
sale e scende su Porta Romana, ma ormai le corse sono chiuse, e
allora provo a prendere una scorciatoia. Ecco un sentiero che parte
sotto l’impianto della funivia e tortuosamente scende in mezzo al
boschetto, a volte su terreno scivoloso e sassoso, mentre non
sempre la vegetazione permette di orientarsi sulla direzione. Scendo
e scivolo, mentre da giù giungono le ondate bronzee e intensamente
sonore delle campane del Duomo e solo a tratti si affaccia la visione
della città. Ho qualche dubbio su dove veramente mi possa far
sbucare questa discesa, ma poi, ecco finalmente il viale dei ceri,
proprio sul tornante dov’è la cappella di Santa Maria delle Grazie.
Arrivo rapidamente alla Porta Sant’Ubaldo e attraverso le strade del
centro storico ormai un po’ svuotate. Prima di tornare ad Assisi
cenerò al ristorante Federico da Montefeltro, in omaggio al più
prestigioso dei duchi di Urbino, signori di questa perfetta città.
Chiusi

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia


come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia…
(Par., XVI 73-75)

Lasciando Assisi il 2 maggio mi dirigo verso Chiusi, oltre il limite


occidentale dell’Umbria: Dante la nomina per bocca di Cacciaguida,
insieme ad altre località un tempo gloriose e al suo tempo decadute
o abbandonate, esempio del destino che conduce le città a
“termine”. Scendendo sotto il colle di Assisi incontro il convento di
San Damiano, dove Francesco variamente soggiornò e dove
avrebbe scritto il suo meraviglioso Cantico: in tutta l’area i soliti
cartelli ricordano la necessità del silenzio, contraddetta in realtà da
un gruppo di anziani visitatori piuttosto inquieti, che addirittura
urlano, due coppie al limite di un aggressivo litigio. Ed è ovvio
osservare ancora che, nella sua proiezione turistica, nelle forme del
pellegrinaggio contemporaneo, di cui tanti segni capita di scorgere
ad Assisi, il cattolicesimo viene a compromettersi non solo con il più
generico orizzonte mediatico e tecnologico, ma anche con altre
forme più banalmente esteriori, come quella del rumore (che dire,
del resto, dell’uso degli applausi, dell’applauso in chiesa e magari
entro gli stessi riti funebri?).
Silenzio o rumore, ha comunque qualcosa di commovente il
Crocifisso che si trova in una piccola cappella: opera di frate
Innocenzo da Petralia, datata 1637, presenta un Cristo
particolarmente patiens, sanguinoso e dal volto stravolto, emblema
disperato di sofferenza, che sembra lasciare come un dubbio sulla
possibilità della redenzione, sul peso di una redenzione pagata a
tanto caro sangue.
Fuori comunque, si può procedere verso un altro vicino luogo
sacro, il santuario di Rivotorto, un falso gotico ottocentesco, costruito
al posto di un altro edificio che ricopriva il “tugurio” (presso il
ruscelletto chiamato appunto Rivotorto), dove Francesco avrebbe
redatto la prima Regola (“hic primordia Fratrum Minorum”). Questo
avvicendarsi di luoghi francescani, questo procedere dall’uno
all’altro, dà un singolare effetto di moltiplicazione e disseminazione:
come se la santità di Francesco si fosse ogni volta radicata in un
luogo, avesse fermato lì un proprio segno, per poi cercarne altri,
offrendoli tutti all’uso che ne avrebbe fatto chi vi fosse poi passato,
dimorandovi in spirituale contemplazione, con devota commozione o
con sciatta indifferente curiosità, vivendoli o soltanto consumandoli.
Ma certo un senso diverso questi luoghi assumevano per il
viandante d’altri tempi, a cui offrivano punti di riferimento e di
accoglienza, misure dello spazio sulla cui stessa densità fisica
aleggiava il senso del divino. Il nostro rapido passare da un luogo
all’altro, con mezzi meccanici e con supporti turistici, viene
inevitabilmente a mutare il senso di questo moltiplicarsi e dislocarsi
di chiese e conventi: senso qui modificato e stravolto anche dalle
sculture all’aperto disposte accanto alla chiesa, donate dallo scultore
inglese Harry Marinsky (1909-2008), che sembrano proiettare
Francesco in un orizzonte dolcemente fiabesco (così una predica
agli uccelli, col santo circondato da un gruppo di bambini). Ma certo,
dopo aver scorso, dentro la chiesa, l’umile mole del tugurio (che
comunque sembra frutto di una sistemazione quattrocentesca), più
paradossale e straniante appare un cartello sulla strada che
annuncia la prossimità del bed and breakfast Il Tugurio!
Ma ormai lascio definitivamente questi luoghi francescani,
volgendomi ogni tanto indietro, verso la “fertile costa” del Subasio e
verso il grande convento di Assisi, che tanto più, allontanandosi, dà
con la sua struttura una forse incongrua impressione di potenza,
quasi di fortilizio feudale a difesa e protezione di quella fede che
resiste adattandosi al moderno, secolarizzandosi a suo modo,
persistendo nel tempo della sua evaporazione. Attraverso
rapidamente gli svincoli intorno a Perugia, cercando la vecchia
strada Pievaiola, che da Perugia porta a Piegaro e a Città della
Pieve, che è proprio dirimpetto a Chiusi. Sotto Perugia, nella zona
industriale di Sant’Andrea delle Fratte, c’è un vortice di rotonde e di
confuse indicazioni stradali, allietate da un cartello che a un certo
punto indica Quelli della libreria – gli estremisti dell’amore per i libri.
Poi un curioso nome di località, Strozzacapponi, e finalmente la
meno affollata Pievaiola, che sfiora Fontignano, dove è la cappella
dell’Annunziata con la tomba e affreschi del Perugino, nato proprio a
Città della Pieve (è rimasta solo la Madonna col bambino, mentre gli
altri affreschi furono staccati e venduti: uno è al Victoria and Albert
Museum di Londra).
Eccomi poi a Città della Pieve, che ai tempi di Dante si chiamava
Castel della Pieve e dove, durante il suo priorato, furono inviati in
esilio i partigiani più faziosi dei Donati, mentre quelli dei Cerchi, tra
cui Guido Cavalcanti, venivano mandati a Sarzana. Città della Pieve
nella mia mente è stata sempre strettamente collegata a Chiusi, dato
che tante volte nella mia infanzia vi sono andato col treno
scendendo alla stazione di Chiusi e salendo poi sull’autobus che,
superato il passaggio a livello della ferrovia, raggiungeva
rapidamente il paese. Chiusi e la Pieve avevano questa presenza
nella mia vita grazie alla pievese signora Jenny Bonomini, che
viveva a Roma e aveva affittato una stanza del suo appartamento
alla mia famiglia: vi abbiamo abitato per qualche anno in quattro,
diventando presto da affittuari amici, il che ci ha portato poi a vari
soggiorni estivi a Città della Pieve presso i parenti della Jenny, in un
ambiente ancora contadino, tra modi e funzioni di vita, di
organizzazione della casa, che oggi non ci sono più (il granaio in
soffitta, la cucina al focolare con i grandi paioli, i fornelli con la brace,
il cesso alla turca…). Vado un po’ a cercare le case dei Bonomini,
nel vicolo parallelo al corso, dove c’erano anche le stalle e un
rumoroso giocare dei bambini. Oggi solo silenzio, porte e finestre
chiuse; qui avverto più da vicino quell’effetto che si prova
attraversando tutti i luoghi storici, tutti gli ambienti che hanno
ospitato modi di vita tanto diversi dai nostri e che oggi conserviamo
anche nel modo migliore, ma come mettendoli sotto vuoto,
igienizzandoli e nettandoli dalla loro originaria fisicità, dal brulicare di
vita che era stato.
Non solo le abitazioni, ma tutto l’insieme di questa città così ben
tenuta, così levigata: ecco la cattedrale, dove allora erano arroccati i
preti, in duro e perpetuo scontro con i comunisti che gestivano il
comune; ecco la rocca, visitabile e ben allestita per attività culturali,
che, quando venivo qui da bambino, era usata ancora come carcere
locale, anche magari per insignificanti misfatti (ricordo che i carcerati
si affacciavano alle finestre non troppo sbarrate e conversavano con
i passanti); ecco la passeggiata alberata verso il monastero delle
Clarisse di Santa Lucia, breve passeggiata che allora mi sembrava
portare verso qualcosa di misterioso… Nelle accese sere d’estate si
andava “pe’ le monache”, in un continuo procedere e rivolgersi,
andare e venire: si intrecciavano gruppi di ragazze con i loro sogni di
marito, di approdi a nuovi mondi, identificati perlopiù nella quieta
misura di una borghese vita cittadina. Queste ragazze accoglievano
me bambino con il loro profumo di femminilità, con un annuncio di
eros prima dell’eros: e mi lasciavano carpire i loro ingenui discorsi, le
loro indeterminate speranze, le loro mascherate allusioni a chi
passava o sostava lì intorno. E che dire di quei sogni che a loro
modo si sono realizzati, portando molte di queste ragazze fuori di
qui, nella vita cittadina, a Roma o altrove, negli anonimi quartieri
impiegatizi, con tutto il precipitare delle vicende del Novecento? Ma
ora non sono nemmeno più vecchie signore e solo qualcuna è
tornata di nuovo qui, nel cimitero.
Lasciata Città della Pieve, scendo verso Chiusi Scalo, più esteso
ormai della città storica che è oltre, sul colle: si supera il limite tra
Umbria e Toscana, che un tempo era evidenziato da due torri
avverse, comicamente denominate, la Torre Béccati questo, dalla
parte senese, innalzata già ai tempi di Dante, e la Torre Béccati
quello (o quell’altro), eretta in risposta dalla parte perugina. Per
attraversare la ferrovia ora non c’è più il passaggio a livello, ma un
trafficatissimo cavalcavia, dopo il quale, lasciato l’eterogeneo
agglomerato che occupa questa zona della piana, risalgo poi verso
Chiusi, certo non più chiusa in quell’emblema di “fine” in cui la
inscriveva Cacciaguida, sì invece serrata dentro l’equilibrata cura
turistica del proprio centro storico. La desolazione a cui allude l’avo
di Dante era subentrata peraltro a una relativa prosperità di cui
l’antica città etrusca e poi romana godeva ancora nell’alto Medioevo:
era stata determinata, a partire dall’XI secolo, dall’impaludamento
della Valdichiana.
Ma certo, se si pensa all’origine etrusca della città, sorge subito la
traccia della fine, del venire a “termine” dei luoghi e delle civiltà. Gli
etruschi dormono sotto il tessuto presente di Chiusi, tra le sue
pieghe e le sue stratificazioni. Echi di mondi cancellati si captano
visitando i cunicoli scavati sotto il centro, che vengono
surrettiziamente denominati Labirinto di Porsenna, con tracce di
antiche cinte murarie e gallerie per il drenaggio delle acque: è un
suggestivo percorso sotterraneo in cui nel tempo erano stati
accumulati detriti di ogni genere e che è stato ripulito e aperto grazie
alla passione e al lavoro di gruppi di giovani di Chiusi. Più ancora il
riflesso di quel mondo morto, di quella civiltà che a un certo punto si
è come chiusa nel proprio silenzio e nella propria fine, si percepisce
visitando il Museo Etrusco (Museo archeologico nazionale), che
raccoglie un fitto e ben disposto materiale ritrovato nella zona:
diversi tipi di ceramica di varia origine, buccheri di produzione
chiusina, statue-cinerario (risalenti specialmente al VI o V secolo
a.C.), urne in pietra fetida con figure in bassorilievo, sarcofagi in
travertino e in alabastro, già di età romana, anche un mosaico con
caccia al cinghiale da una villa romana del I secolo d.C. Ecco il
bellissimo skyphos a figure rosse (460-450 a.C.) con la scena di
Telemaco che parla a Penelope della sua partenza alla ricerca del
padre e con quella di Euriclea che riconosce Odisseo. Ecco un
sarcofago in alabastro dal colle del Vescovo, con una testa rifatta nel
XIX secolo, che sembra guardarmi un po’ atteggiata, quasi
interrogarmi. È uno di quei musei in cui si raccoglie in perfetta
misura tutto il perdersi di una intera civiltà, nel suo radicarsi e
disseminarsi in luoghi più o meno limitrofi, qui testimoniato dalla
dislocazione delle tombe, dalle carte topografiche in cui si fissano i
diversi punti da cui questo materiale proviene, materiale che poi
rinvia ad altri luoghi, o la stessa Chiusi dove è stato prodotto, o più
lontani centri di produzione da cui con percorsi mercantili a noi ignoti
è giunto fin qui, destinato ad accompagnare i morti di questa civiltà
così esposta al silenzio e alla morte. Tornati alla luce, sono qui i
segni di una impossibile persistenza affidata alle tombe, agli oggetti
che accompagnavano i defunti nella chiusura del sepolcro, nello
stare sotto terra: persistenza che il tempo e le nuove civiltà hanno
impunemente violato, servendosene poi, come noi facciamo, come
occasione di conoscenza storica, di compiacimento estetico, di
esibizione turistica. Ed è in fondo strano che a proteggere ancora e a
esporre alla nostra vista indifferente tutto ciò che accompagnava
nella morte quei notabili, le cui tombe sono state variamente
scoperte e violate, sia la misurata facciata neoclassica del piccolo e
ben curato museo. Lo lascio passando davanti al più recente Teatro
comunale Mascagni, così detto perché inaugurato da Pietro
Mascagni nel 1938, quando non si poteva prevedere che esso
sarebbe stato teatro di una dura battaglia tra tedeschi e alleati
nell’estate del 1944.
Orvieto

Vieni a veder Montecchi e Cappelletti,


Monaldi e Filippeschi, uomo sanza cura:
color già tristi, e questi con sospetti!
(Purg., VI 106-108)

Lasciata Chiusi, prendo l’autostrada verso sud, mentre comincia


leggermente a piovere. Superata l’uscita di Fabro (ricordi di fermate
di vecchi treni alla vicina stazione di Fabro-Ficulle…), dopo alcuni
chilometri comincia a delinearsi il colle di Orvieto, la città adagiata
sul costone tufaceo, che da ogni parte lascia intravvedere le
svettanti guglie del Duomo. Ho già accennato alla menzione che ne
fa il De vulgari eloquentia, I XIII 3, per la somiglianza della sua lingua
al romanesco e allo spoletino; nella Commedia, invece, non viene
nominata direttamente, ma si fa soltanto riferimento alle feroci lotte
che vi avevano luogo tra i guelfi Monaldi e i ghibellini Filippeschi,
entro l’invettiva del VI canto del Purgatorio, che chiama in causa
l’imperatore Alberto e la sua indifferenza per la lacerazione d’Italia.
Entrando in Orvieto, dopo aver parcheggiato nel piazzale Cahen,
accanto alla Rocca (dove approda anche la funicolare, che sale dalla
stazione ferroviaria), una diversa, novecentesca immagine di
violenza cittadina mi viene incontro mentre percorro la via Postierla:
qui una lapide ricorda che lì, accanto a una muraglia in rustici
mattoni, GIOVANNU CIUCO / VENNE BARBARAMENTE UCCISO / PER CIECA VIA DI
PARTE L’11 NOVEMBRE 1921. Era un contadino che procedeva su un
piccolo camion e fu assalito da una banda di fascisti che
scorrazzavano per Orvieto dopo esser saliti su dalla stazione
ferroviaria: delitto tra i tanti di quella iniziale fase di squadrismo,
rimasto per sempre impunito.
L’ombra di questa cupa vicenda, che così direttamente si ricollega
a quella “serva Italia, di dolore ostello” agitata da Monaldi e
Filippeschi, non può turbare la serenità pur inzaccherata della piazza
del Duomo, l’ariosità paradossalmente meridionale della gotica
facciata. A fianco della chiesa, del resto, c’è un gazebo, in cui si
celebra La festa dei gelati d’Italia, che si espande anche in altri
luoghi della città, con stand in cui si possono degustare gelati delle
diverse regioni d’Italia (qui sulla piazza ci sono gelati di regioni
settentrionali, anche di quella che accoglieva i veronesi Montecchi,
nel passo dantesco appaiati ai Cappelletti e agli orvietani Monaldi e
Filippeschi).
Dante, d’altra parte, abita Orvieto con più netta figurata evidenza,
nella celebre cappella che tanto attrae all’interno di questo Duomo,
la cappella di San Brizio. È il ciclo di affreschi di Luca Signorelli che,
nelle lunette della parte superiore delle pareti, rappresenta le
situazioni della vita dopo la morte, trattate con formidabile realismo,
con plastica evidenza corporea: Inferno e Paradiso, Antinferno e
chiamata degli Eletti, Fine dei tempi, Resurrezione della carne. Sono
quelli che un tempo venivano chiamati i Novissimi, mentre oggi
questo superlativo aleggia soltanto tra studiosi e studenti di
letteratura italiana contemporanea, come titolo dell’antologia che nel
1961 manifestò le intenzioni della cosiddetta neoavanguardia (e il
primo dei poeti lì antologizzati, Edoardo Sanguineti, non mancava di
richiami danteschi, senza contare il fatto che a Dante dedicava
anche non trascurabili studi). Ai grandi affreschi fanno poi da
contorno, nella parte bassa delle pareti, riquadri con ritratti di
scrittori, circondati da tondi in monocromo con scene delle loro
opere. Sono tutti scrittori antichi, salvo Dante, che è in un riquadro
della parete sinistra della cappella: coronato d’alloro, addossato su
una tavola con un libro aperto su cui poggia la mano sinistra, mentre
la destra si rivolge verso un altro libro che sta a sinistra, disposto
verticalmente con le pagine dispiegate, appoggiato sopra altri libri; il
volto, piegato verso sinistra, sta guardando verso questo libro.
Intorno al ritratto ci sono quattro scene dei canti iniziali del
Purgatorio; ma altre scene purgatoriali sono disposte in altri tondi
della parete sinistra e di quella di fondo, conducendoci fino al canto
XI, all’incontro con i superbi, tra i quali si distinguono le tre figure di
Omberto Aldobrandeschi, Oderisi da Gubbio, Provenzan Salvani.
Nel trascorrere con lo sguardo su tutto l’insieme della cappella, la
mente viene continuamente a muoversi tra il più ampio sgomento
prodotto dai grandi affreschi, dal loro plastico esporsi ed esporci
verso l’assoluto della fine, e l’esitante tentativo di riconnettere le
piccole figure dei tondi in monocromo ai testi che vi sono visualizzati:
e se, sulla scorta di qualche guida, posso riconoscere abbastanza
agevolmente gli episodi danteschi, più difficile è individuare gli altri
(anche perché ci sono dubbi su alcuni degli altri poeti effigiati nei
riquadri: ma ben riconoscibili sono tra l’altro i tondi con alcune fatiche
di Ercole). Nella perplessità della mente si impone l’effetto
dell’intreccio tra questo “finale” orizzonte cristiano e le figure
classiche, tra l’imponente annuncio della dissoluzione dei tempi e la
trama di figure e immagini letterarie, con le loro balenanti figurine
monocrome, con la particolarità degli episodi e delle storie a cui esse
richiamano. Ed è singolare il fatto che della Commedia il pittore
abbia scelto proprio l’avvio del Purgatorio, dove più forte è il rilievo
del tempo, dell’attesa, dove si è più lontani da un fissarsi
dell’esperienza in uno stato definitivo e finale (come invece accade,
in modo diverso, nell’Inferno e nel Paradiso); e che questi dati
danteschi si intreccino e si sovrappongano con figure del mito
pagano, in una evidente proiezione umanistica. In pochi cicli pittorici
convergono tante tensioni e tanti modelli culturali. Signorelli lavorò
qui tra il 1499 e il 1504: e si possono probabilmente trovare
convergenze tra il suo uso di Dante e il grande commento
umanistico alla Commedia del platonico Cristoforo Landino.
Sulla piazza del Duomo i palazzi papali e sul lato sud il palazzo
detto di Bonifacio VIII (la cui costruzione prese avvio nel 1297
proprio come omaggio a quel papa) evocano un ambiente già in
parte sistemato ai tempi di Dante, che, se si è trovato a passare di
qui, avrà assistito anche ai primi allestimenti dei cantieri da cui
doveva sorgere, dopo molti decenni, il corpo del Duomo: ed è certo
suggestiva questa convergenza tra gli anni della Commedia e quelli
di progettazione e primo svolgimento dei lavori del Duomo.
Quanto alle famiglie nominate da Dante, non molto lontano dal
Duomo, passando accanto alla facciata duecentesca di San
Francesco, trovo il sito della residenza dei guelfi Monaldi, su cui si
trova il cinquecentesco palazzo Monaldeschi della Cervara, fatto
mettere su da un militare al servizio dei Farnese: ora è sede di una
scuola, l’Istituto statale d’Arte. Districandomi poi tra le strette vie,
passando per la Loggia del Mercanti, raggiungo la via Filippeschi e
la via Malabranca, dov’è il palazzo Filippeschi-Simoncelli, questo
quattrocentesco, ma comunque sul sito che era stato dei ghibellini
Filippeschi. È curioso constatare che, se dopo tanti secoli i palazzi di
tutte e due le famiglie sono stati presi in carico da altri, nella
toponomastica gli sconfitti Filippeschi l’abbiano in fondo avuta vinta
sui vincitori Guelfi: sono loro ad avere una bella strada col loro
nome, cosa ai Monaldi negata.
Bagnoregio

Io son la vita di Bonaventura


da Bagnoregio, che ne’ grandi offici
sempre pospuosi la sinistra cura.
(Par., XII 127-129)

Lasciando il colle di Orvieto per la strada statale già 71 (umbro-


casentinese) si scende sulla piana e poi si risale con alcuni tornanti
sul versante opposto: e nel salire, ora sotto la pioggia, appare in
tutta la sua ampiezza la vista della città, là sul costone di tufo, come
una costruzione fantastica, in svettante lontananza con le guglie del
suo Duomo, tanto più fantastica quanto più questa pioggia
s’infittisce, precipita sui vetri della vettura e sul disteso paesaggio.
Devio poi per Porano e Bagnoregio, incontrando a un certo punto
una strada sterrata che conduce a Settecamini e che varie volte ho
preso in passato per raggiungere la casa orvietana di Luigi Malerba,
villa che era stata del vescovo di Orvieto, disposta su di un poggio,
aperto sulla vista della città. Questo luogo resta per me legato alla
presenza e alla voce di questo scrittore, alla misurata discrezione
della sua conversazione, che poteva sembrare tanto distante dai
paradossi, dalle folli distorsioni, allucinazioni, misteri e combinazioni
micidiali che il suo narrare ha variamente inseguito: ma forse in
questa distanza si nascondeva qualche più sottile legame, la
disposizione di uno sguardo che proprio nella sua calma razionale
limpidezza metteva a fuoco la bizzarra stranezza e l’incontrollabilità
dell’esistenza e dello stesso linguaggio. E Malerba lo ha fatto anche
con varie escursioni in mondi storici lontani, tra cui anche quello
medievale, che ancora continua ad abitare questi luoghi: e forse
proprio nel percorso tra Orvieto e Bagnoregio sembrano proiettarsi le
carnevalesche e stravolte vicende del suo libro del 1978, Il pataffio.
Sempre più fitta è la pioggia mentre procedo verso Bagnoregio,
sulla strada a fianco della quale si aprono grotte nelle cavità del tufo.
Entrato in Bagnoregio, attraverso la via Roma raggiungo la piazza
Cavour, dov’è la cattedrale di San Nicola e San Donato, in origine
chiesa del solo San Nicola, che ha assunto anche il nome di San
Donato e il ruolo di cattedrale dopo che nel terremoto del 1695 era
crollata la cattedrale di San Donato, nell’abitato della vicina Civita,
nucleo originario di Bagnoregio. A questa doppia denominazione si
aggiunge poi la dedica a San Bonaventura, con la presenza,
all’interno, di una cappella a lui dedicata, di un codice del XIII secolo
detto Bibbia di San Bonaventura e del reliquiario d’argento detto il
Santo Braccio, che conterrebbe resti del santo.
Oltre la piazza della cattedrale il doctor seraphicus, che guida nel
cielo del Sole la seconda corona di beati, quella dei sapienti mistici,
si staglia in un bronzeo monumento datato 1897, che sta sulla
successiva piazza Sant’Agostino, davanti all’omonima chiesa. Oggi
la scura materia della statua appare come ulteriormente scurita
dall’incessante pioggia, che devo ancora sfidare per raggiungere il
belvedere che prospetta su Civita e da cui si può scendere per
raggiungere quella che viene definita “la città che muore”, che attira i
visitatori proprio per il suo progressivo sfaldarsi, sulla coltre di tufo,
quasi emblema di un turismo della disgregazione, messa in scena
reale e tuttora in atto di quell’approdare delle città alla fine che
Cacciaguida esemplifica con la già toccata Chiusi e con altri luoghi
che vedrò prossimamente. Fatico, sotto questa interminabile pioggia,
a trovare un parcheggio sul belvedere, un tempo detto di San
Francesco, e ora intitolato ai due giudici martiri, Falcone e
Borsellino. Uscendo dall’auto non basta a proteggermi l’ombrello
che, come quello di altri visitatori, entra in conflitto con le portiere
delle auto parcheggiate e parcheggiande.
Solo quando la pioggia un po’ rallenta posso affacciarmi sulla vista
di Civita, il borgo che appare laggiù, tra forre e calanchi, disteso
verso altre forre e calanchi, nello striato paesaggio che sotto l’oscuro
cielo piovoso sembra più insondabile e misterioso, come
naturalmente disposto ad accogliere un luogo morto o votato a una
lentissima morte: luogo raggiungibile dal viadotto pedonale,
stranamente levato sopra il friabile terreno, che qualcuno sta
percorrendo sotto capaci ombrelli.
Laggiù si trovano anche gli slabbrati resti della casa dove il santo
nacque, col nome di Giovanni da Fidanza, tra il 1217 e il 1221. Qui,
accanto al belvedere, una lapide ricorda Bonaventura nel V°
CENTENARIO DELLA CANONIZZAZIONE (1482-1982), ESEMPIO E VANTO DI
BAGNOREGIO E PETALO DELLA MISTICA ROSA: certo davvero tarda quella
sua canonizzazione se confrontata col suo rilievo francescano e col
posto che gli assegna Dante: e tanto più se paragonata con la
tempestività della canonizzazione del simmetrico capo dei sapienti
filosofi, Tommaso d’Aquino (1323). Sotto il belvedere, c’è il luogo più
strettamente legato alla vicenda francescana di san Bonaventura, la
grotta a lui intitolata. Vi si accede con una scaletta sotto il parapetto
del belvedere. La sua cavità è aperta nel tufo, semplice e spoglia:
solo una piccola base in pietra, come un microaltarino, sotto una
semplicissima effigie a rilievo addossata alla parete e qualche fiore
un po’ appassito. In origine doveva essere una tomba etrusca, ma lo
stesso santo racconta che qui alloggiò san Francesco quando venne
a Bagnoregio, per fondare il locale convento dei frati minori, di cui
pochi resti sono proprio qui accanto al belvedere, in un sito che
ospita il Centro Studi Bonaventuriani. Francesco fu allora chiamato a
guarire da una malattia e a benedire il piccolo Giovanni da Fidanza
(vi accenna lui stesso nel prologo della sua biografia di Francesco, la
cosiddetta Leganda maior); lo avrebbe accolto nella grotta e qui
miracolosamente guarito, augurandogli la Bona ventura, che restò
come nome del bimbo, assunto poi da lui al suo ingresso nei frati
minori.
La grotta è come la traccia, il segno in cui questa storia resta
sospesa tra realtà e immaginazione, tra l’effettiva potenza guaritrice
del santo e la sua proiezione miracolistica e leggendaria. Qui poi,
accanto al belvedere, si affaccia anche il ricordo di un altro
Bonaventura di Bagnoregio: una stele reca l’immagine di
Bonaventura Tecchi, scrittore e germanista, che si iniziò alla
letteratura tedesca durante la prigionia a Cellelager, dove fu insieme
a Carlo Emilio Gadda e a Ugo Betti. Quando ero studente, Tecchi
insegnava ancora letteratura tedesca all’Università di Roma: e lo
ricordo che scendeva la scalinata della Facoltà di Lettere e Filosofia
col suo passo stanco, appoggiato a un bastone. Non leggevo i suoi
libri, non frequentavo le sue lezioni, ma sentivo qualcosa di
venerabile nella sua figura, in cui sembrava di scorgere la
testimonianza di un altro tempo, con quel suo nome che così
strettamente lo collegava al suo santo e alla sua Bagnoregio, con un
crisma di religiosità conservatrice e con una pensosa severità, che lo
opponevano a un giovane scalpitante e brillante germanista che si
aggirava da quelle parti, il comunista non troppo simpatico Paolo
Chiarini, che alla sua morte, nel fatidico 1968, sarebbe passato alla
sua cattedra.
Bolsena

…e quella faccia
di là da lui più che l’altre trapunta

ebbe la Santa Chiesa in le sue braccia:


dal Torso fu, e purga per digiuno
l’anguille di Bolsena e la vernaccia”.
(Purg., XXIV 20-24)

Mentre la pioggia lentamente rallenta, riattraverso il centro di


Bagnoregio e mi dirigo poi verso Bolsena. Tra squarci improvvisi e
incostanti di sereno, a un certo punto comincia a scorgersi il lago,
che Dante ricorda in riferimento al papa Martino IV (1281-1285), il
francese Simon de Brion, successore di quel Niccolò III piazzato con
le gambe in su in uno dei fori della bolgia dei simoniaci. Eletto col
favore di Carlo d’Angiò nel conclave di Viterbo (che in quegli anni
era vera e propria sede papale; molte volte vi si era tenuto il
conclave, oltre a importanti eventi politici, che avevano coinvolto vari
potentati europei), Martino IV fu molto subalterno alla sua politica,
suscitando forti reazioni da parte ghibellina. Evitò di soggiornare a
Roma, dove la notizia della ribellione antifrancese dei Vespri siciliani
suscitò violenti tumulti, e preferì risiedere soprattutto a Orvieto, a
Perugia e a Montefiascone, proprio nei pressi di questo lago, e nella
vicina Viterbo. Probabilmente ai tempi di questo soggiorno nacque la
voce della golosità del papa, riportata dal Chronicon di Francesco
Pipino, secondo cui gli piacevano molto le anguille, fino ad
ammalarsi, tanto che alla sua morte sarebbe stato composto questo
epitaffio: “Gaudent anguillae, quia hic iacet ille / qui quasi morte reas
escoriabat eas” (“Esultano le anguille, perché qui giace quello che le
scorticava quasi fossero ree di morte”). Tra le varie curiose chiose
che gli dedicano i commenti danteschi ricordo questa di Iacomo della
Lana: “facea torre l’anguille del lago di Bolsena, e quelle facea
annegare e morire nel vino della vernaccia, poi fatte arrosto le
mangiava; ed era tanto sollicito a quel boccone che continuo ne
volea, e faceale curare e annegare nella sua camera. E circa lo fatto
del ventre non ebbe né uso né misura alcuna, e quando elli era bene
incerato, dicea: O sanctus Deus, quanta mala patimur pro Ecclesia
sancta”.
In questo passo del XXIV del Purgatorio, nel girone dei golosi, che
tutti smunti ed emaciati scontano il loro peccato, è l’amico Forese a
presentare a Dante alcuni dei suoi compagni di espiazione: dopo
aver nominato Bonagiunta da Lucca, indica Martino IV, che come
papa resse la chiesa, accennando alla sua faccia, che appare
ancora più assottigliata di quella degli altri, e al suo legame con la
città francese di Tours, non perché vi sia nato, ma per esservi stato
canonico; con pungente ironia, la pena purgatoriale viene equiparata
a un digiuno che purga quelle indigestioni di anguille alla vernaccia.
Scendo verso Bolsena e il suo lago cercando di schivare
insorgenti desideri di condividere la passione gastronomica di
Martino IV: il centro medievale è disposto sul pendio del colle che si
affaccia sul lago, scendendo giù fino alla piana, mentre la parte
moderna e turistica si espande in basso, sulla riva del lago. Nella
discesa si incontra per prima cosa lo scuro e ben piazzato castello
tufaceo, che ai tempi di Dante era sotto il fermo possesso degli
orvietani Monaldeschi. Tutto il borgo medievale si presenta come un
bel paese tufaceo, di una densità minerale che è come accentuata
dall’umidore della tanta pioggia caduta. Ormai in basso ecco la
collegiata di Santa Cristina, dove avvenne, due anni prima che
nascesse Dante, nel 1263 (quando la facciata della chiesa era del
tutto diversa da quella attuale), un famoso miracolo: da un’ostia
consacrata da un prete boemo che era scosso da dubbi sulla
presenza reale in essa del corpo di Gesù stillarono gocce di sangue,
cosa subito riconosciuta dal papa Urbano IV, che per l’occasione
istituì la festa del Corpus Domini.
Nella chiesa c’è la cappella del miracolo e le pietre che
conserverebbero ancora le tracce delle gocce di sangue su di esse
stillate. Tappa essenziale della Via Francigena, variamente battuto
da quanti da nord si recavano a Roma – e certo ci sarà passato
anche Dante, nei suoi viaggi da Firenze a Roma –, questo luogo è
stato a lungo e in parte continua a essere meta di pellegrinaggi. E
naturalmente la città tiene molto al suo miracolo: sulla Via Cassia,
all’ingresso del paese, si presenta come “città del miracolo
eucaristico”, mentre nelle sue piazze si vedono cartelli e striscioni
che ricordano la celebrazione, proprio ora in atto, del GIUBILEO
STRAORDINARIO, 6 GENNAIO 2013 – 9 NOVEMBRE 2014, a 750 anni dal
miracolo. Ma certo l’immagine per me definitiva di questo miracolo, il
miracolo artistico da esso scaturito, è l’affresco di Raffaello nella
Stanza detta di Eliodoro in Vaticano, in splendente proiezione, che
alla turbata e drammatica scena del miracolo, sulla sinistra, oppone,
sulla destra, l’atteggiata unzione del burbero Giulio II inginocchiato in
preghiera e contornato da cardinali, guardie e sediari, nel vanitoso
rilievo del loro abbigliamento che espande trionfali colori, delle loro
pose e dei loro volti compiaciuti di esserci, di osservare da dopo la
rievocazione del miracolo e di essere osservati.
Continua comunque a piovere, e lascio Bolsena sulla Cassia
costeggiando il lago, mentre scorgo altri squarci di sereno e
d’azzurro, verso occidente. Salendo poi verso Montefiascone, vedo
riapparire il lago da più punti di vista, si scorgono le due isole, e
soprattutto la più grande, la Martana, dove fu prigioniera e uccisa
Amalasunta, la figlia di Teodorico. La città di Montefiascone,
dominata dalla grande cupola secentesca, è carica di medievali
memorie, tra cui quella piuttosto comica a cui si collega il nome del
vino locale, bianco secco, Est Est Est, che in fondo ci riconduce alla
cornice dei golosi. Dopo aver superato il centro, sul ciglio del cratere
che circonda il lago, ed essere sceso sul pendio opposto a quello
che dà sul lago, raggiungo la formidabile chiesa di San Flaviano
(uno dei più suggestivi e inquietanti intrecci tra romanico e gotico,
che dà un effetto di muta e implacabile severità). Qui c’è una pietra
tombale con un epitaffio molto strano: “Est Est Est propter nimium
est hic Joannes De Fulk dominus meus mortuus est” (“Per troppo
Est Est Est qui è morto il mio padrone Giovanni De Fulk”). A questo
epitaffio è collegata la storiella secondo cui nel 1111 un servo
avrebbe preceduto quel vescovo De Fulk nel viaggio verso Roma al
seguito dell’imperatore Enrico V, per segnalargli con un semplice est
(“c’è”) i posti dove si poteva trovare vino buono. Il vino di
Montefiascone gli sembrò tanto buono da riprodurre est per tre volte:
con un esito disastroso, per le bevute che poi vi avrebbe fatto il De
Fulk (o Fugger), fermandosi prima di andare a Roma e poi nel
viaggio di ritorno, che si sarebbe chiuso lì, con una morte dovuta
proprio a quel troppo bere. Insomma, anche se con questa storiella
Dante non c’entra nulla, c’è una comune traccia carnevalesca che
lega la storia della gola di Martino IV (di stanza proprio a
Montefiascone) e quella dell’ubriacatura del vescovo tedesco, e i
loro singolari epitaffi.
Bullicame

Quale del Bulicame esce ruscello


che parton poi tra lor le peccatrici,
tal per la rena giù sen giva quello.

Lo fondo suo e ambo le pendici


fatt’era ’n pietra, e ’ margini da lato…
(Inf., XIV 79-83)

Scendo verso Viterbo, rinviando ad altra occasione la visita della


città e prendendo la superstrada per Tuscania. Come capita in simili
frangenti, il tracciato della superstrada è tale da rendere difficile
l’individuazione dei siti che essa sfiora e che si trovano ai margini: si
rischia sempre di superare l’uscita giusta e di procedere troppo oltre,
specie se le segnalazioni sono poco chiare o assenti e se le carte
non ne rendono conto in maniera totalmente precisa. Esco
comunque in direzione “Terme” e sfioro le Terme di Niccolò V, molto
frequentate nel Quattrocento, che sembra usino anche le acque del
Bullicame. Poi prendendo una strada laterale, che ritorna verso la
superstrada, appare finalmente il parco del Bullicame: è recintato, a
ridosso di altri recinti che circoscrivono una zona militare, per uso
aeroportuale. Dovrebbe essere il territorio per cui da tempo si parla
della sistemazione in aeroporto civile, da destinare soprattutto ai voli
low cost in sostituzione di Ciampino, troppo piccolo e troppo vicino
all’abitato di Roma: ma chissà se il nostro destino continuerà a
essere segnato dal proliferare di aeroporti, nel progressivo affollarsi
dei cieli.
Qui comunque, un cancello immette nel parco: c’è anche un
guardiano, ma l’ingresso è libero. Entrando e camminando sul
terreno incrostato dalle esalazioni sulfuree, penso ai versi di Dante,
che, evoca il Bulicame o Bullicame per indicare il rosso “fiumicello” in
cui le acque infernali precipitano dal Flegetonte (la cui ribollente
massa liquida due volte nel canto XII 117 e 128 era stata indicata
proprio col termine bulicame) al Cocito. E riconsidero le due diverse
lezioni che comportano per queste acque funzioni tra loro ben
diverse: peccatrici, che fa ipotizzare una disposizione di vasche
usate da prostitute (c’è un documento che parla di un “bagno detto
delle femine” vicino al Bullicame), o pettatrici, pettinatrici (addette
alla lavorazione della canapa, importante manifattura della Viterbo
medievale). Si vedono vasche e ruscelletti, proprio col fondo, le
pendici e i margini da lato in pietra, che portano nelle vasche l’acqua
caldissima che sgorga da una fonte fumante. Qua e là tra i ruscelli ci
sono cespuglietti della vegetazione che abita questo ambiente, con
cartigli che ne indicano il nome. Fiori di acino, camefite, elicrisio…
Mentre procedo, sotto il cielo carico di nuvole, tra squarci di cielo
libero e minacce di un ritorno di pioggia, oltre l’ingresso sento delle
risa e delle voci squillanti e mi accorgo, subito dopo, che nella vasca
più grande c’è un gruppo di bagnanti, tre ragazze che sguazzano
insieme a un paio di compagni. “Le peccatrici!”, non posso non
pensare dentro di me, dando definitivamente soluzione al problema
posto dal testo dantesco (so del resto che peccatrici è la lezione
preferita dalla maggior parte degli editori, anche se a veder bene
può sembrare più probabile pettatrici). Peccati innocenti questi degli
attuali bagni nel Bullicame, dove accanto alla vasca vedo anche una
cabina spogliatoio e i panni dei bagnanti appoggiati lì per terra, su
alcune pietre incrostate: piacevoli e gratuite cure del corpo nel nostro
mondo secolarizzato, che ai tempi di Dante, in questa esposizione
pubblica, sarebbero stati considerati peccati. Simpatiche peccatrici,
a cui, meravigliato da questa interferenza tra la loro gioia di bagnanti
e il testo dantesco, chiedo subito se l’acqua è abbastanza calda; mi
risponde subito la più carina e la più squillante: “Certo!… vuole
tuffarsi anche lei?” Rispondo scioccamente che non ho vesti
adeguate: sto lì a guardare, sotto il mio impermeabile, questi
bagnanti immersi nel calore, mentre io sono investito dal vento un
po’ freddo che si leva a tratti.
Distratto comunque dal richiamo dell’invitante peccatrice del
Bullicame, finisco per mettere un piede dentro uno dei ruscelletti che
serpeggiano fuori dalla fonte: la scarpa resta tutta inzaccherata di
acqua sulfurea. Lascio allora le peccatrici al loro solforoso
divertimento; e mentre vedo entrare nel recinto un paio di altri rari
visitatori, mi avvicino alla fonte che fumosamente sgorga entro
un’ampia vasca, ben protetta da una palizzata a vetri. Un cartello del
comune di Viterbo avvisa trattarsi di “Concessione mineraria
Sorgente Bullicame Acqua sulfureo-solfato bicarbonato-
alcalinoterrosa fluorata temperatura 58°”. Accanto alla fonte c’è una
grossa stele tufacea con i versi di Dante, che si dice apposta nel
secentenario dantesco (1921, evidentemente), “per iniziativa del
Touring Club Italiano a cura dei soci residenti di Viterbo”. E
naturalmente i versi recano senza ombra di esitazione la lezione
peccatrici!
Puglia
Brindisi

…e da Brandizio è tolto.
(Purg., III 27)

Eccomi a Brindisi, sbarcato dal vicino aeroporto la mattina del 18


giugno 2014: Virgilio ricorda il luogo della sua morte quando si trova
a spiegare a Dante le ragioni per cui i raggi del sole trapassano il
suo corpo aereo, che non fa ombra, a differenza del suo corpo fisico,
sepolto a Napoli, dopo essere stato appunto trasportato da Brindisi,
Brandizio (forma, questa, che forse risale all’influsso del francese
Brandis). Brindisi, centro antico della Puglia e punto d’approdo della
romana Via Appia, porto ufficiale per la traversata verso la Grecia: e
non ci dobbiamo meravigliare se nel celebre epitaffio su Virgilio,
questa morte a Brindisi (avvenuta nel 19 a.C., appunto di ritorno da
un viaggio in Grecia) è indicata con la formula Calabri rapuere (“mi
rapirono i Calabri”), dato che nella geografia antica questo sperone
della penisola italiana avanzato verso oriente aveva, oltre il nome di
Apulia, anche quello di Calabria, mentre per quella che noi
conosciamo come Calabria si usava piuttosto il termine Brutium. Ai
tempi di Dante si usava ormai il nome Puglia, come fa anche lui in
Inferno, XXVIII 9 (lo vedremo più avanti) e come si può già vedere
nel Tresor, I 123, di Brunetto Latini, che parla del “regne de Puille”,
dov’è la città di Otranto, mentre nel Paradiso, XII 140, l’abate
Gioacchino da Fiore è conseguentemente designato come
calavrese. Ma a una sovrapposizione tra Apulia e Calabria ci
riconduce il De vulgari eloquentia, I X 5-6, dove il termine Apulia
viene usato per tutto il regno meridionale, anche con una distinzione
tra un versante destro e un versante sinistro rispetto alla dorsale
appenninica (secondo lo schema geografico di cui Dante si serve):
così viene distinto il volgare dell’Apulia di destra (la parte occidentale
del regno, dalla Campania alla Calabria) da quello dell’Apulia di
sinistra (la vera e propria Puglia, grosso modo); ma poi i parlanti di
questa lingua, ultima del versante sinistro d’Italia, distinta da quella
dei confinanti Anconitani, vengono designati come Calabri,
seguendo l’uso antico, forse proprio per memoria del già menzionato
Calabri rapuere. Poi, ancora nel De vulgari, I XII 7-8, si riprova il
parlare rozzo e osceno degli Apuli, senza più distinguere quelli
occidentali da quelli orientali, e notando però che non vi mancano
poeti che sanno usare un linguaggio raffinato e degno della curia; e
ancora in I XIX 1, gli Apuli sono inseriti in un elenco in cui si
accomunano gli abitanti delle regioni i cui poeti hanno usato un
volgare designabile come latium, italiano.
Dalla stazione ferroviaria di Brindisi, dove mi lascia l’autobus
dell’aeroporto, prendo il corso Umberto, il cui bianco lastricato, su cui
si riflette il sole, è contornato da due file di palme: c’è un accogliente
calore animato da qualcosa di fresco, perfettamente pulito, come se
ogni scoria fosse stata spazzata via dal sole, dalla leggera aria
marina che comincia a venirmi incontro, e tanto più dalla piazza del
Popolo, su cui, affiancata e come riparata da belle magnolie, si erge
una moderna statua bronzea di Augusto, che mi fa ricordare che al
suo seguito Virgilio era qui giunto in quel suo ultimo ritorno. Il corso
Umberto finisce su questa piazza, incrociandosi col corso Garibaldi,
che, piegando a sinistra, conduce al mare, dove, accanto alla
Capitaneria di Porto, ci sono dei giardini in cui è stato eretto nel 1985
un monumento a Virgilio, dello scultore Floriano Bodini: con le
braccia mozze, il poeta sta in cima a una colonna, alla cui base si
accalcano varie figure con intento simbolico, soprattutto animali, tra
cui particolarmente si distinguono un cane e un pezzo di cavallo,
culminante nel muso e nella criniera. Questo Virgilio guarda il mare
su cui sbarcò in cattive condizioni, approdando in qualche alloggio
dove visse i suoi ultimi giorni, forse agitato da quella disillusa
riflessione su di sé e sulla propria opera che lo spinse a chiedere agli
amici Vario e Tucca di distruggere l’Eneide: il romanzo di Hermann
Broch, La morte di Virgilio, segnato anche dal turbato riflesso degli
orrori della seconda guerra mondiale, segue il lungo intenso
angosciato ripiegarsi del poeta su di sé, quegli ultimi giorni prima
della fine.
Il mare è ora calmissimo, di un azzurro luminosamente immobile,
che viene come a tappezzare il bacino dell’eccezionale Porto
interno, che sembra del tutto chiuso, piegandosi verso i due seni di
levante e di ponente, senza che qui dalla riva si possa vedere
l’uscita dello stretto canale che conduce all’esterno. Il lungomare è
stato sistemato recentemente in un’ampia e luminosa passeggiata,
contornata da palme e limitata, dalla parte della riva, da cubi in
marmo bianco. Dopo averlo percorso per breve tratto, si apre verso
l’interno una scalinata, che porta su un terrazzo su cui sono disposte
due colonne romane, che ai turisti sono spesso presentate come
pietre terminali della Via Appia, ma che certo avevano destinazione
differente: una è alta circa 19 metri e ha un capitello ornato di figure
di divinità, mentre dell’altra c’è solo la base, per la curiosa vicenda
che ne fece donare il fusto crollato alla città di Lecce, che l’ha eretta
nella sua piazza centrale, installandovi in cima la statua del
protettore Sant’Oronzo.
All’immagine di termine e di limite, sullo sfondo del mare, data da
queste colonne, si collega la lapide apposta su una casa a sinistra
del terrazzo, che ricorda la morte in loco di Virgilio, IL SUPREMO
CANTORE DEI CAMPI E DELL’IMPERO, e dice che qui, nel momento
supremo, egli adunò intorno alla sua luce GLI SPIRITI IMMORTALI DA LUI
CANTATI / A GUARDIA DELLA POTENZA RINNOVANTESI / DI ROMA: scritta
evidentemente di epoca fascista, con quella “rinnovantesi potenza di
Roma”, ma a cui è apposta la data MCM, 1900. Il bello è che quel MCM
risulta semplicemente dalla cancellazione delle successive lettere
XXIX VII EF: era il 1929, settimo della cosiddetta era fascista. Nel 1945,
nell’Italia ormai libera, per disposizione del sindaco antifascista, si
provvide a cancellare quel VII EF, ma togliendo di mezzo anche il XXIX
e facendo così arretrare tutto al 1900: tutto è rimasto così ancora
nelle incipienti ere del nuovo millennio.
Sia o no questo il luogo della morte di Virgilio, sia o no il punto
terminale della Via Appia, punto di partenza per il corteo che
condusse il suo corpo a Napoli, penso all’impossibilità di
“compimento” che angustia il Virgilio di Broch. E certo condizione di
non compimento è anche quella del Virgilio dantesco, la cui
sapienza, che pure ne garantisce il ruolo di guida assoluta e sicura
per il pellegrino attraverso l’inferno e il purgatorio, è esclusa dal
raggiungimento del vertice supremo dell’esperienza: condannato a
sparire improvvisamente dall’orizzonte del poema, nel Paradiso
terrestre, proprio quando appare Beatrice, destinata a condurre
Dante fino all’Empireo, al cielo al di fuori dei cieli.
Preso da questi pensieri, dalla terrazza delle colonne penetro
verso l’interno della città vecchia, tra i vicoli lastricati e perfettamente
puliti. Si scoprono i tesori di Brindisi, che occupano lo spazio urbano
quasi con riservata discrezione: il Duomo, con la facciata
settecentesca scandita verticalmente in tre ordini, nella sua pietra
che sembra avere il colore del sole; a sinistra c’è il campanile, sotto
cui è aperto un grande arco praticabile; e ancora a sinistra il portico
trecentesco dei cavalieri Templari o Gerosolimitani. Un equilibrato
carattere barocco ha, sulla stessa piazza, il palazzo del seminario,
con la perfetta misura di otto pilastri, ciascuno dei quali culmina con
una statua, appoggiata su una loggia che percorre tutto il piano
superiore. Procedendo verso l’interno della città vecchia ecco il
tempio normanno, a pianta circolare, di San Giovanni del Sepolcro,
che fu dei Templari e poi dei Gerosolimitani: sulle pareti del
bellissimo interno ci sono frammenti di affreschi che, proprio nella
loro frammentarietà, sembrano trasfondere i soggetti religiosi in
qualcosa di fantastico, di indefinitamente divagante. E ancora la
grande chiesa di San Paolo e quella di San Benedetto, con il
campanile romanico e con il chiostro a quadrifore dell’XI secolo,
semplice e raccolto, che percorro nel più totale silenzio. Non c’è
quasi nessuno nell’accendersi del meriggio, nell’ombra dello stretto
corridoio interno del chiostro. Torno indietro, alla terrazza delle
colonne, e scendo sul lungomare, sedendo all’aperto, sotto
l’ombrellone di in un ristorante dove mi accoglie un cameriere molto
spiritoso, ma in modi di discreta urbanità. Qui dopo il pasto, come da
accordi telefonici, incontrerò Laura e gli amici con cui da alcuni giorni
sta visitando la Puglia: i due heidelberghiani Barbara Wachter e
Gunther Fesenbeckh (detto Fesi), con la compagna francese di
questi, Hélène Perrier.
Proseguo il resto del viaggio in auto con loro. Nella giornata
ancora lunga si tocca Ostuni, con le sue bianche case, il compatto
effetto di bianco che offrono a chi le vede apparire a distanza, e
l’assetto verticale del centro, a partire dalla guglia di Sant’Oronzo,
fino alla facciata tardogotica della cattedrale. Ci coglie una pioggia
improvvisa, mentre saliamo a piedi verso la cattedrale; e poi piove
ancora a dirotto quando in auto, ci dirigiamo verso Martina Franca,
dove è bello aggirarsi per le stradine tortuose, dal Palazzo Ducale
alla sontuosa basilica di San Martino (il nome della città è quello del
santo vescovo e martire francese, che qui, sopra il portale, dà il suo
mantello al povero), con vari andirivieni tra nobili palazzetti, fino alla
terrazza davanti alla villa del Carmine, da cui si apre la vista
sull’ampio squarcio della valle d’Itria, sull’aspetto di magico remoto
castello che da qui sembra assumere il vicino Locorotondo, su altri
centri più lontani, e i trulli sparpagliati per la campagna.
Bari

e quel corno d’Ausonia che s’imborga


di Bari e di Gaeta e di Catona
(Par., VIII 61-62)

Dopo la notte passata a Martina Franca, la mattina del 19 muoviamo


verso Bari, che Dante fissa come uno dei punti estremi, con la sua
fortezza (borgo), del triangolo costituito dal corno d’Ausonia (e si
veda p. 169). Ci fermiamo rapidamente ad Alberobello, inevitabile
per il suo richiamo turistico, e giriamo un po’ nel quartiere dei trulli,
dove l’esposizione turistica ha quasi totalmente cancellato il senso
dell’habitat originario: passiamo in mezzo a qualcosa, che certo ha il
suo fascino, la sua attrazione pittoresca, con un compiaciuto sapore
etnico, ma che ha totalmente perduto la propria ragione interna, è
come svuotato e riempito di altro, lustrato in funzione dello sguardo
estraneo. Parliamo di questo, mentre risaliamo verso la parte alta del
quartiere, ai cui margini abbiamo lasciato l’auto: in un intreccio tra i
nostri tre punti di vista, diversamente europei. Nel percorso verso
Bari si passa vicino a Putignano e a Castellana, dove sono le
famose grotte carsiche, obbligatoria meta turistica, che comunque i
miei compagni di viaggio non sono interessati a visitare, anche se
dico che per me quelle discese nel ventre della terra (comunque
prive di pericoli) potrebbero avere qualche congruità col mio viaggio
dantesco, come neutro assaggio del mondo di sotto, prime
propaggini di una possibile discesa “in parte ove non è che luca”.
Comunque attratti dalla solarità e dal disteso paesaggio delle Puglie
/ Apulien, dalla varietà delle città storiche, dalla sontuosa cucina
mediterranea, dalla discrezione con cui qui resta la traccia di un
profumo d’Oriente, i nostri compagni di viaggio stranieri sembrano
cercare e riconoscere qui anche qualcosa che può loro apparire più
familiare: per la francese gli echi normanni e poi angioini, i passaggi
dei Tancredi e dei Roberti, sparsi qua e là nell’architettura romanica
e nell’assetto dei centri più antichi; per i tedeschi il passaggio più
breve, ma più intenso e determinato, del “vento di Soave”, degli
Svevi e soprattutto l’imperatore Federico II, con i suoi ambiziosi
disegni politici e amministrativi, con i suoi castelli e le sue
fortificazioni (e all’inizio del loro viaggio hanno già toccato l’assoluta
geometria di Castel del Monte, dove il regista Matteo Garrone ha
girato alcune formidabili sequenze del suo film bellissimo Il racconto
dei racconti, basato su alcune novelle de Lo cunto de li cunti di
Giambattista Basile).
Proprio a Federico II ci riconduce il castello a base trapezoidale
che domina il Bacino Grande del porto di Bari e, introducendo alla
città vecchia, sembra imborgare, limitare e custodire da nord, sul
versante del mare, la varia geometrica disposizione delle strade
della città nuova, che si espande al di là. Costeggiando l’ampio
fossato del castello e percorrendone il perimetro dal marciapiede
esterno sembra quasi di seguire il ritmo con cui sono scanditi gli
archetti pensili che solcano tutto il muro esterno della fortezza; e
quasi ci sentiamo punti dagli acutissimi spigoli di una delle torri
angolari. Seguendo il lato più lungo del trapezio, sull’ampia piazza
Federico II di Svevia, entriamo nella città vecchia e, sulla piazza
Odegitria, troviamo subito la cattedrale, dedicata a san Sabino, la cui
lunga costruzione attraversò gran parte del XIII secolo, fino alla
consacrazione del 1292. La facciata svetta col suo alto rosone e
protende sulla piazza il suo biancore, che ora appare totalmente
nell’ombra. Alla luce calma che domina l’interno fa da riscontro la
varietà degli elementi geometrici che si intersecano all’esterno sul
fianco sinistro, con le grandi arcate e la Trulla, edificio circolare che
aggetta in avanti. Proprio qui, accanto alla Trulla, bambini del
quartiere giocano accanitamente a pallone, in mezzo ai turisti,
gridando i nomi dei più noti tra i campioni che in questi giorni
partecipano ai campionati del mondo di calcio in Brasile.
Bari vecchia, pur affollata di turisti, mantiene in realtà tutta
l’animazione della vita popolare che continua a prolungarsi, nei vicoli
fittamente abitati, che in parte cominciano a uscire da un secolare
degrado (fino a poco fa poteva anche essere pericoloso attraversarli,
per certa spicciola criminalità che ancora non è del tutto svanita).
Muovendosi tra i vicoli nel percorso che conduce dalla cattedrale alla
più o meno coeva basilica di San Nicola si ha comunque
l’impressione di una brulicante e accesa vitalità, di cui sono prova
anche piccole botteghe, luoghi di ristorazione senza pretese, vendita
di semplici prodotti locali: il tutto appare ben diverso dagli
standardizzati e globalizzati negozi turistici che sono dovunque e
che pure non mancano nemmeno qui.
San Nicola (che fu consacrata nel 1197) è ancora più
impressionante della cattedrale, già per il modo in cui vi si giunge,
attraverso uno dei cortili che la circondano: tracce della corte del
Catapano, governatore bizantino e poi funzionario normanno, dove
si cominciò a innalzare la chiesa alla fine dell’XI secolo, per
accogliere i resti del santo vescovo e forse martire di Mira (nell’Asia
Minore, oggi Demre, in Turchia), che furono trafugati da marinai
baresi e portati qui nel 1087. Molteplici leggende e usanze, culti e
superstizioni di ogni genere scaturirono da quel trafugamento, in un
intreccio tra occidente e oriente, tra devozione cattolica e devozione
ortodossa: a questo avvento di san Nicola furono collegati vari eventi
miracolosi e prospettive politico-religiose. Intorno alla sua tomba, tra
l’altro, si eccitò la tensione bellica dei cavalieri normanni proiettati
verso la prima crociata, con la predicazione di Pietro l’Eremita e con
il concilio tenuto nel 1098 dal papa Urbano II. Tra miracoli spesso
paradossali, san Nicola è diventato anche il buon vecchio che nel
giorno della sua festa, il 6 dicembre, porta regali ai bambini: e come
tale ha subito una varia evoluzione nei paesi nordici, fino a
trasformarsi in Santa Claus e nell’attuale Babbo Natale, ormai non
più santo né vestito da vescovo, ma con il look della Coca-Cola (e
anche in Puglia i bambini ne aspettano i doni e lo conoscono meglio
di san Nicola). Nel mondo ortodosso, d’altra parte, san Nicola
mantiene ancora un forte rilievo religioso: patrono della Russia, ha
trovato rinnovato seguito e celebrazioni dopo il crollo del
comunismo.
Una luce assoluta si espande sulla bianca facciata e sulle fiancate
della basilica, attenuata dall’ombra scura delle varie aperture
(l’occhio presso la cuspide, le bifore, le monofore, i portali), ma
replicata nei muri delle altre costruzioni che danno sul cortile, il
Portico dei pellegrini e la bella chiesa romanica di San Gregorio.
Scendendo nella cripta della basilica, dove è la tomba di san Nicola,
trovo un fitto assembramento di fedeli: sono pellegrini serbi, che
assistono alla celebrazione tenuta da un pope, accanto all’altare che
ha alle spalle l’icona con san Nicola donata nel 1319 dal re di Serbia;
le donne coprono tutte i capelli con leggeri veli, mentre altri pope si
aggirano tra la folla. Sulla destra della cripta, protetta da
un’inferriata, c’è una colonna miracolosa, dalla pietra rossiccia un po’
corrosa, a cui sono attribuiti vari prodigi: come dice un cartello, il
primo documento su di essa risale al testamento di quel Niccolò
Acciaiuoli, gran siniscalco del regno di Napoli, che fu in contatto e
corrispondenza con Petrarca e Boccaccio. La leggenda, inventata,
pare, piuttosto tardi, dice che questa magica colonna avrebbe quasi
spontaneamente accompagnato il santo in situazioni particolari della
sua vita e sarebbe apparsa in mare, quando si stava costruendo la
cripta: la notte in cui al suono delle campane, si stavano deponendo
i resti del santo in questo luogo, si sarebbe manifestato tra due
angeli san Nicola, per collocare qui di propria mano la colonna.
Molte donne stanno pregando intorno all’inferriata che la protegge;
vedo che vari fogli, con preghiere e richieste di miracoli, sono stati
depositati al di là dell’inferriata, e stanno adagiati in cima alla
colonna. Dopo aver variamente pregato e dato baci all’inferriata, una
signora abbastanza giovane, con una lunga gonna a fiori e con in
testa un bianco fazzoletto ricamato, tira fuori dalla borsetta un
telefonino e fotografa colonna e inferriata.
Lasciando Bari e procedendo verso nordest si resta sempre
sorpresi dal fitto succedersi di città medie e grandi, quasi tutte di
origine medievali, città marinare o città dell’interno, tutte alimentate
dal rigoglioso retroterra agricolo: e sorprende e affascina la
presenza, in ognuna, di qualche bella chiesa, soprattutto alcune
formidabili cattedrali romaniche. Bitonto, Molfetta, Ruvo, Corato,
Bisceglie, Trani: in ogni nome l’eco di una svettante facciata,
espansione di un romanico luminoso e solare, che marca di
impossibile leggerezza un protendersi verso l’oriente, mentre intorno
disordinata ma alacre brulica la vita contemporanea, con quel
dinoccolato dinamismo che sembra caratterizzare tutta la parte della
Puglia detta Terra di Bari. Passeremo qualche giorno a Trani, la cui
cattedrale impone teatralmente la sua marmorea bellezza sul
paesaggio marino: alle sue spalle il lungo molo e l’imboccatura del
porto e davanti a essa la grande piazza con il terrazzo sul mare e
poco oltre il quadrato castello, anche questo impiantato da
Federico II: e certo, tra tutte queste meravigliose cattedrali pugliesi,
questa è quella che più affascina, da cui mai ci si vorrebbe
allontanare, continuando a girare intorno alla sua mole, salire e
scendere le scale che portano alla chiesa superiore, contornare le
absidi esterne, alte e slanciate come torri, e la torre del campanile,
mentre ci si sente contornati dalla luce e dall’azzurro del mare che è
dappertutto.
A Trani, prima in un bed and breakfast davvero bello su un vicolo
della città storica, e poi passeggiando tra la cattedrale e il porto
variamente discutiamo dei rapporti tra Italia e Germania: quanto
complicati siano stati dai tempi degli imperatori medievali, come
Dante esule abbia guardato sempre più con ammirazione alla
politica degli Svevi, che precedentemente il suo guelfismo lo aveva
spinto a considerare avversi, e come abbia seguito con
appassionata speranza il tedesco Enrico VII di Lussemburgo, la sua
cura per il “giardin dell’impero”, trascurato dal predecessore Alberto.
Ma poi quante cose dopo, dalla Riforma protestante (Fesi ha anche
studiato teologia, in ambiente luterano) agli orrori del nazismo, di cui
è stato vilmente complice il nostro fascismo, alla lacerante
autoanalisi che la Germania è stata capace di farne, al nuovo vigore
economico della Germania unificata, con il suo ostinato liberismo; e
non si può non parlare del famoso spread che negli ultimi anni ha
assillato la politica e l’economia italiana. Poco sappiamo per ora
della questione greca e dell’aggravarsi del flusso dei migranti, che
esploderà nel passaggio tra 2014 e 2015 e oltre, mostrando il volto
ottuso del liberismo e il più devastante risorgere dei più chiusi
egoismi nazionali (quello che sarà chiamato “sovranismo”), che
ostacoleranno in nuove forme la prospettiva di una vera unità
europea. Queste considerazioni storico-politiche evaporano
comunque nell’attualità sportiva, vista la concomitanza con i Mondiali
di calcio in corso in Brasile: conveniamo sul fatto che la Germania
sia tra i più accreditati favoriti, mentre siamo incerti sulle condizioni e
le possibilità dell’Italia. Ma proprio davanti allo schermo televisivo di
un affollatissimo, vociante e sempre più deluso bar di Trani, con la
baia del porto alle spalle, nel tardo pomeriggio del 20 giugno
assisteremo alla sconfitta dell’Italia con il Costarica, con uno spento
gioco, annuncio della prossima eliminazione (proprio la Germania,
invece, vincerà di forza il campionato).
Canne della Battaglia

S’el s’aunasse ancor tutta la gente


che già, in su la fortunata terra
di Puglia, fu del suo sangue dolente

per li Troiani e per la lunga guerra


che de l’anella fé sì alte spoglie,
come Livïo scrive, che non erra,

con quella che sentio di colpi doglie


per contastare a Ruberto Guiscardo;
e l’altra il cui ossame ancor s’accoglie

a Ceperan, là dove fu bugiardo


ciascun Pugliese, e là da Tagliacozzo,
dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;

e qual forato suo membro e qual mozzo


mostrasse, d’aequar sarebbe nulla
il modo de la nona bolgia sozzo.
(Inf., XXVIII 7-21)

Molto presto al mattino del 20 giugno lascio la compagnia e mi dirigo


verso Canne della Battaglia, nei cui paraggi avvenne la celebre
battaglia del 2 agosto 216 a.C., la più bruciante e terribile sconfitta
subita dai romani durante l’invasione di Annibale, nella seconda
guerra cartaginese. Mi guidano naturalmente le terzine del XXVIII
dell’Inferno, che inseriscono il riferimento a questa battaglia entro un
richiamo più vasto a un insieme di diverse stragi belliche che hanno
avuto a che fare in diversi tempi col regno meridionale, indicato
generalmente come terra di Puglia (come nel De vulgari eloquentia:
qui fortunata nel senso di “travagliata dalla fortuna”). Il poeta vuol
dirci che l’orrore delle membra lacerate dei dannati della nona bolgia
è ben superiore a quello di uno spettacolo che mettesse insieme la
massa dei caduti della lunga guerra sostenuta dai romani (chiamati
Troiani in riferimento alla loro origine) contro i cartaginesi, di quelli
della conquista normanna (condotta contro la resistenza bizantina,
con le violente imprese di Roberto il Guiscardo e la presa di Bari, del
1071), e di quelli delle guerre che portarono alla sconfitta degli Svevi
(le battaglie del 1266, che videro la sconfitta di Manfredi, designate
sinteticamente col nome della località di Ceprano, Ceperan, e quella
di Tagliacozzo del 1268, con la sconfitta di Corradino); in questo
contesto Dante ha anche modo di chiamare ancora in causa la
Puglia, accennando a un presunto tradimento dei baroni meridionali
(ciascun Pugliese) nei confronti di Manfredi (per queste varie
vicende si vedano pp. 191-192, 297-302).
In questa intricata similitudine multipla, la battaglia di Canne,
senza che ne sia fatto il nome, è evocata come momento cruciale
della lunga guerra cartaginese, attraverso un’allusione a quello che
dice Livio, storico considerato infallibile, che non erra, a proposito
dell’immenso bottino costituito dagli anelli dei caduti: a questo Dante
accenna anche nel Convivio, IV V 19, dicendo che i cartaginesi
portarono in Africa “tre moggia” di anelli di romani caduti. È vero,
peraltro, che la citazione di Livio non dovrebbe essere diretta: c’è il
fatto che, nell’indicare, nel libro XXIII XII 1, questa misura degli anelli
raccolti nel bottino da Annibale inviato in Africa, lo storico romano la
presenta come opinione di altri autori, rinviando a quella più
verisimile che si trattasse di non più di un moggio (“haud plus fuisse
modio”). È opinione corrente che, per questo riferimento alle anella,
Dante tenesse più direttamente presente un autore cristiano
tardoantico, che aveva per suo conto utilizzato Livio, cioè Paolo
Orosio (Historiae adversus paganos, IV XVI 5-6). Di non facile
soluzione è comunque la questione della conoscenza da parte di
Dante del testo di Livio, diretta, indiretta o mediata da altri scrittori:
resta il fatto che non poche volte egli si trova a citarlo nella
Monarchia.
Davvero avvincente e impressionante è il racconto della battaglia
di Canne in Livio, XXII XLI-LII: con gli errori del console Terenzio
Varrone, i diversi movimenti delle truppe, i numeri tremendi della
disfatta romana; uccisi quarantamilacinquecento fanti,
duemilasettecento cavalieri, sul campo che la mattina successiva,
all’alba, apparve terribile anche ai nemici (mentre Polibio parla
addirittura di settantamila morti). Cavalieri e fanti gli uni sugli altri alla
rinfusa, i feriti rimasti nel mucchio che al mattino tentano di alzarsi e
vengono finiti dai nemici, quelli con le gambe fratturate che offrono il
capo e la gola per farsi uccidere, quelli trovati con le teste in una
buca, che certamente avevano scavato da sé per farsi soffocare
dentro, fino alla visione del Numida con il naso e le orecchie lacerate
tirato fuori vivo sotto un romano che con ira rabbiosa, non avendo
più forza nelle mani per usare un’arma, era spirato dilaniando il
nemico con i denti: “Praecipue conuertit omnes subtractus Numida
mortuo superincubanti Romano uiuus naso auribusque laceratis,
cum manibus ad capiendum telum inutilibus, in rabiem ira uersa
laniando dentibus hostem exspirasset” (XXII LI 9). Accumulo di
masse immense di esseri umani dilaniati e frantumati, di sangue, di
viscere, di orrori insopportabili non solo per la vista, ma per l’insieme
dei sensi: e Dante amplifica tutto ciò immaginando di riunire insieme
i corpi lacerati di tante diverse battaglie nel “modo de la nona bolgia
sozzo”. Nessun pittore di battaglie, nessun film di guerra, nessun
gioco di effetti speciali, può riuscire a far percepire davvero
l’evidenza di una simile moltiplicazione dell’orrore, dello scempio
delle vite e dei corpi: un orrore che contiene un’interrogazione su ciò
che ha messo in moto tanti esseri umani verso la morte; sulla lunga
costruzione di vita da cui essi sono venuti; sulle tante funzioni
quotidiane, gli sviluppi biologici e psicologici che hanno portato i
singoli a nascere, a crescere, a formare se stessi; sul loro lavoro
prolungato nel tempo e sul lavoro che ha creato armature e oggetti
che portavano con sé; sull’insieme sociale e naturale che li ha portati
fino a quello scempio. Forse oggi solo certe fotografie di Sebastião
Salgado riescono a dare l’immagine dell’orrore e della lacerazione di
massa: fotografie intollerabili, che fanno percepire l’eccesso del
male, che sembrano quasi negare ogni possibilità di vita, mettendoci
dentro situazioni intollerabili del nostro tempo (e per le quali lo
stesso fotografo, nel film asciutto e severo che gli ha dedicato Wim
Wenders, Il sale della terra, evoca l’Inferno dantesco).
Ma quanto sereno e lontano da orrori appare il mattino che da
Trani mi conduce, dopo aver superato Barletta, al parco
archeologico di Canne, disposto intorno alla bassa collina oltre la
quale, a nord, si stende la piana dell’Ofanto, dove appunto avvenne
la grande battaglia. Dopo aver percorso una strada che si snoda tra
fittissimi ulivi e qualche vigna, lascio l’auto ed entro nella zona
archeologica quando ancora non c’è nessun altro visitatore. Presso
l’ingresso c’è l’Antiquarium, anche con reperti che vengono dalla
piana della battaglia, a proposito della quale ci sono adeguati cartelli
informativi. Ma c’è anche una serie di pannelli sul ruolo giocato dai
gatti di casa nell’antica città: alcuni ritrovamenti farebbero pensare
che qui i gatti venivano normalmente mangiati (e ci sono anche
indicazioni su come venivano cucinati…).
Salgo verso la cittadella, la cui parte antistante è chiusa dalla
muraglia di quello che era un castello aragonese, percorrendo un
terreno fitto di papaveri; mentre mi muovo tra i vari scavi, sistemati in
modo da poter riconoscere il sito di edifici di epoche diverse,
incontro un solo visitatore, piuttosto giovane, che scatta
continuamente foto. Seggo su una panchina nella zona in cui era
una basilica cristiana: sotto il piccolo colle si apre la vastissima
pianura, teatro della battaglia, col suolo compartito dalle diverse
coltivazioni. Si vede bene a nord il promontorio del Gargano e, più
vicina, una bianca città che dovrebbe essere Trinitapoli. C’è un
fresco vento di maestrale che fa leggermente fremere il silenzio,
interrotto soltanto da qualche eco di motori lontani. Nella distesa dei
coltivi, non riesco a distinguere il corso del fiume Ofanto, presso cui
erano attestati gli accampamenti e che fu attraversato prima
dell’inizio degli scontri. Subito sotto il colle si scorge il percorso della
ferrovia, a un solo binario, e, appena a sinistra, una piccola stazione;
sulla stretta strada che sfiora la ferrovia sta passando un
camioncino.
Girando per le rovine noto una colonna di granito segnata A.XVI E.F.,
che riporta alla base due frasi sulla battaglia, una latina da Livio,
XXII LI 1, e una greca, da Polibio, III CXI 11; ma ci sono anche
colonne e cippi antichi, tra cui quelli che segnano le miglia della Via
Traiana, che andava da Benevento a Brindisi passando da qui.
Posso solo immaginare in quale stato fosse la città quando là sotto
infuriò la battaglia, ricordando quello che dice Livio, XXII XLILX 13, dei
duemila uomini che dopo la sconfitta “in uicum ipsum Cannas
perfugerunt, qui extemplo a Carthalone atque equitibus nullo
munimento tegente uicum circumuenti sunt” (“si rifugiarono nel
villaggio stesso di Canne e subito furono circondati da Cartalone e
dai suoi cavalieri, dato che nessuna fortificazione proteggeva il
villaggio”).
Lasciando la cittadella e uscendo dall’Antiquarium, si risale per
una bella strada panoramica tra fichi d’india, ulivi e pinastri, verso
una collinetta più a sud, dove ci sono i resti di un sepolcreto e di vari
insediamenti apulo-dauni (forse c’erano già al tempo della
battaglia?) e bizantini, oltre ad altri resti di insediamenti diversi
(anche quelli di una fornace). Secoli di vita e di morte
silenziosamente trascorrono su questo terreno; ma una pianta
d’alloro, da cui strappo un rametto, mi riporta per un attimo dalla
storia al mito, alla sua persistenza, a Dafne, in fuga anche qui non
da Apollo, ma da disastri e rovine della storia.
Scendo poi verso la stazione ferroviaria, avvistata prima dall’alto
della cittadella; salendo un po’, alle spalle della stazione, si trovano
resti di una villa romana, mentre un percorso conduce alla presunta
tomba di Paolo Emilio (il console eroicamente morto in battaglia,
mentre Varrone riuscì a rifugiarsi a Venosa con cinquanta cavalieri).
Ma quella che mi incuriosisce di più è questa piccola stazione di
Canne della Battaglia, deserta, con tutta la malinconia delle
postazioni che resistono nelle linee abbandonate o dismesse. Siamo
sulla linea Barletta-Spinazzola. L’edificio sembra ancora in buone
condizioni: e così l’unico binario. Sulla banchina c’è anche una
mezza colonna antica, su di un piedistallo, con una piccola lapide in
cui è scritto COLONNA ROMANA / ERETTA NEL 1894 / DA MICHELE PIZZUTO /A
RICORDO DELLA BATTAGLIA. In quel 1894, come indica un cartello in
buone condizioni, messo su da un Comitato italiano pro Canne della
Battaglia per il 110° anniversario della ferrovia, la tratta fu
inaugurata, certo ben funzionante (mentre la stazione risale al 1954):
ora invece tutte le porte sono chiuse e non ci sono segni di
celebrazioni per l’attuale 120° anniversario. Altri cartelli evocano
iniziative turistiche, di per sé molto belle, che non devono aver avuto
un grande seguito: un Treno storico dell’Archeologia e dell’Ambiente
che ha viaggiato per il 115° anniversario della ferrovia il 28 giugno
2009, mentre restano poco decifrabili le indicazioni su altre iniziative.
Non so se c’è stato qualche altro viaggio di questo tipo: ma ora che
tutto tace, resto preso nella suggestione, tardo moderna (opposta a
ogni orizzonte postmoderno) della stazione desueta, pensando al
contrasto tra quello che all’origine deve essere stato l’incremento di
vita dato da questa linea, dal vario muoversi di gente su di essa, e il
suo attuale svuotarsi, come se anche la ferrovia si sia fatta catturare
dalle rovine qui intorno, dagli echi lontani della battaglia che dà
nome a questi luoghi e alla stessa stazione.
Lasciata la silenziosa stazione, percorro in auto la strada che
costeggia la ferrovia: probabilmente mi avvicino al sito vero e proprio
della battaglia, dirigendomi verso il mare, con l’intento, soprattutto, di
toccare da qualche parte l’Ofanto. Prima di un incrocio, vedo ai
margini della strada una solitaria prostituta nera, che sembra
guardare per terra, con la testa piegata verso il basso. Poi, prima
dell’incrocio con la statale Adriatica, altre prostitute in gruppo, di
diverso aspetto; ce n’è una bionda, che quasi cerca di venire
incontro alla mia auto. Quando vede che non mi fermo, cammina per
un po’ dietro la macchina. Mi immetto nell’Adriatica, svoltando in
direzione di Foggia; ma mi accorgo a un certo punto di essere
andato troppo avanti; il ponte sull’Ofanto mi è certo sfuggito. Quando
posso, svolto per tornare indietro, verso Barletta-Bari e, dopo un
paio di chilometri, lo scorgo finalmente, che passa quasi inavvertito
sotto la strada, piccolo corso d’acqua marrone…
Da Tagliacozzo alla Romagna e al Casentino
Tagliacozzo

…e là da Tagliacozzo,
dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;
(Inf., XXVIII 17-18)

Mentre il 1° luglio 2014 mi dirigo verso Tagliacozzo noto


improvvisamente che la città abruzzese è menzionata nello stesso
passo che ho toccato alla fine del breve viaggio pugliese, di poco
precedente: sono i versi del XXVIII dell’Inferno sul sanguinoso
scempio di diversi campi di battaglia: dopo Canne (vedi pp. 289-291)
e dopo gli scontri tra l’esercito di Carlo d’Angiò e quello di Manfredi
(indicati col richiamo a Ceperan: vedi pp. 191-192), ulteriore termine
di paragone per “il modo della nona bolgia sozzo” è dato dalla
battaglia del 23 agosto 1268 tra Carlo d’Angiò e Corradino di Svevia,
che Dante considera vinta dall’abilità del cavaliere Alardo di Valéry,
che riuscì a ribaltare l’esito dello scontro, in un primo momento
favorevole agli Svevi e ai loro alleati Ghibellini, che peraltro
disponevano di forze maggiori. Da Canne a Tagliacozzo, un effetto
del caso mette in rapporto questi due viaggi con lo scenario della
nona bolgia, con quelle sue “ombre triste smozzicate” (come le
chiama poi Virgilio all’inizio del canto successivo, Inferno, XXIX 6).
Mentre penso a questa combinazione, mi trovo a uscire
distrattamente dall’autostrada e a fermarmi nel centro di Carsoli,
presso un ponte sul fiume Turano, alla sua confluenza con un altro
corso d’acqua: qui, nel piano, è disposta la città moderna, mentre
quella medievale è appollaiata su un colle dominato da un castello, e
più lontano ci sono le rovine della città antica, già colonia romana.
Da Carsoli, dopo aver sfiorato una piazza intitolata proprio a
Corradino, procedo per la vecchia via Valeria, che sale verso il valico
di monte Bove, poco dopo il quale si apre una strada che conduce
alla stazione sciistica di Marsia, messa in opera alla fine degli anni
sessanta, che ora in realtà si trova in stato di quasi abbandono. E se
il nome riconduce a questa zona tra il Lazio e l’Abruzzo, detta
Marsica (dall’antica popolazione dei marsi), viene comunque in
mente il satiro che sfidò Apollo in una gara musicale e,
soccombendo, fu dal dio scorticato, vicenda a cui allude Dante
all’inizio del Paradiso, invocando il “buono Appollo” perché lo assista
nel difficile compito della terza cantica:

Entra nel petto mio, e spira tue


sì come quando Marsïa traesti
de la vagina de le membra sue.
(Par., I 19-21)

Ma questa strada tortuosa, che sfiora piccoli borghi, tra vari boschi di
castagni, emergenze di rocce, distese di prati, in cui si addensano
fitte ginestre, con la vecchia, ormai abbandonata casa cantoniera nei
pressi del valico, evoca un passaggio e una fuga novecentesca,
quella del 9 settembre 1943. La mia auto che lentamente procede
segue in effetti il percorso del corteo automobilistico che quel giorno
si arrampicò quassù, dirigendosi verso Pescara, con il re Vittorio
Emanuele III e il maresciallo Badoglio, che avevano abbandonato
Roma in mano ai tedeschi: fuga vergognosa, emblema di insipienza,
di vergogna nazionale e di vergogna della monarchia tanto a lungo
connivente col fascismo. Il ricordo di questa fuga, avvenuta quando
io non avevo ancora compiuto il primo mese di vita, mi riconduce
d’altra parte a un cognome per me diventato familiare, quello del
primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele, il generale Paolo
Puntoni, che accompagnava allora il re su questa strada. Negli anni
del liceo, insieme al mio amico e compagno di banco Alfonso
Berardinelli, ho avuto un formidabile professore di italiano e latino,
Alberto Puntoni, che era figlio del generale (ma allora non lo
sapevamo), eppure aveva fama di comunista (una volta mi capitò di
incontrarlo a un comizio antifascista a piazza Tuscolo), anche se non
parlava mai direttamente di politica: si immergeva con passione e
misura nei grandi autori e nei grandi testi, ci spiegava Dante, i
classici italiani e latini, con rigore esegetico e in una salda
prospettiva storica, esigeva chiarezza e precisione nello studio, in
rapporti di dignitosa riservatezza.
Credo di aver imparato davvero tanto da lui, anche se allora forse
non lo avrei ammesso: era un grande professore, di una scuola di
cui si sono perdute le tracce. E penso in fondo di dovere a lui tutto
quello che poi nella mia vita ho fatto nella letteratura e per la
letteratura. Mi dispiace di non averlo visto praticamente mai, dopo i
tempi della scuola: solo un affettuoso ma fuggevolissimo incontro, un
breve colloquio tra la calca di un autobus romano; e poi il progetto
sempre rinviato di andare a trovarlo nei suoi ultimi anni… È strano
che mi capiti di pensare ora a lui, tra gli avvolgimenti della vecchia
via Valeria, sulle tracce di quel passaggio di suo padre, mentre cerco
i luoghi di Dante, di altre fughe e di altri disastri: la fuga contraria di
Corradino, che, dopo la sconfitta, fuggì verso Roma, con esito molto
più fatale, per lui quasi un ragazzo, di quello del vecchio Vittorio
Emanuele III, dato che, tradito da Giovanni Frangipane, fu
consegnato a Carlo d’Angiò, che lo fece decapitare a Napoli, sulla
piazza del Mercato, il successivo 29 ottobre (la sua tomba è ora
nella vicina chiesa di Santa Maria del Carmine).
Così Dante denuncia la crudeltà di Carlo d’Angiò, nella terzina già
ricordata (vedi p. 189) in cui adombra anche la sua responsabilità
per la morte di san Tommaso d’Aquino:

Carlo venne in Italia e, per ammenda,


vittima fé di Curradino; e poi
ripinse al ciel Tommaso, per ammenda.
(Purg., XX 67-69)

Ecco comunque, in fondo alla discesa, Tagliacozzo: la battaglia si


svolse sulla piana, poco più in là, come indica anche Dante (là da
Tagliacozzo). Ora la cittadina ha singolari segni di freschezza, di
misura, di civiltà, a partire dall’ampia piazza Duca degli Abruzzi, con
i suoi ben curati giardinetti, con un bar sul cui banco sorride una
bella barista.
Attraverso una porta ogivale, la Porta dei Marsi, fiancheggiata da
una fontana con cinque bocche e vasche sottostanti, si penetra
all’interno della vecchia città, con l’ariosa piazza dell’Obelisco, su cui
danno alcune belle case di varia fattura. Salendo oltre la piazza
raggiungo il convento di San Francesco e la vicina chiesa. Nel
chiostro del convento, che risale al primo Seicento, mi sorprendono
le lunette affrescate da pittori di cui non sembra noto il nome,
risalenti anch’esse al XVII secolo, con vari episodi della vita di san
Francesco, che seguono i modelli dell’agiografia francescana, con
una sorta di misurata ingenuità, quasi commovente. E poi nella
chiesa, che si trova un po’ più su rispetto al convento, c’è l’urna con
le spoglie del beato Tommaso da Celano, traslate qui nel 1516:
eccolo lì, disteso nel suo saio francescano, l’autore della Vita di san
Francesco e del Dies irae (testi che Dante probabilmente
conosceva), morto in un altro convento non lontano da qui, qualche
anno prima della tremenda battaglia.
A Tommaso e a Tagliacozzo dedica alcune pagine Carlo Emilio
Gadda in uno dei pezzi del libro del 1939, Le meraviglie d’Italia, che
– dopo aver ricordato la menzione che di Tagliacozzo fa l’Ariosto
nella Satira II 217-219, accennando alla rapacità del papa
Alessandro VI, che l’aveva strappata agli Orsini per darla al figlio
Cesare Borgia – si conclude col richiamo alla battaglia del 1268:

E dove il Duca di Cosenza era caduto portando le vesti del


signor suo, e donde era stato volto, lo Svevo, negli amari
passi di fuga, si apre oggi la valle alle immagini insopprimibili:
ivi ripetono ancora quel verso, quasicché la nobile storia della
città ne vada più che da ogni altra ventura nobilitata. Cioè il
verso di Dante.

Ai tempi della traslazione delle spoglie del beato (che sono anche
quelli della Satira ariostesca, che è del 1517) qui dominavano gli
Orsini, che più tardi costruirono il Palazzo Ducale, che si trova un
poco più su e che passò poi ai Colonna e ai Barberini; vicino c’è
anche un grazioso teatrino ottocentesco, il Teatro Talia, e ancora il
monastero delle Benedettine.
Tutto sembra sommerso in un silenzio modulato dalla luce del
sole, che qui lambisce le varie facciate con misurata dolcezza:
discendo su una gradinata e poi su una stretta strada entro un
silenzio ritmato soltanto da qualche voce di donna che viene
dall’ombrosa profondità delle case. È l’accento degli interni urbani
della più interna provincia italiana, la cava risonanza di una
quotidianità civile, appartata, ancora non sfiorata dal turismo
standardizzato e plastificato: civilissima Tagliacozzo!
Mi appresso al campo della battaglia percorrendo i Piani Palentini
e raggiungendo la vicina Scurcola Marsicana, addossata su un colle
su cui svetta il castello Orsini, sorto proprio nel tempo della battaglia:
accanto alle sue possenti muraglie c’è la chiesa, di origine
cinquecentesca, a cui si accede con doppia scalinata, di Santa Maria
della Vittoria, che venne a sostituire il santuario e l’abbazia
cistercense voluti da Carlo d’Angiò e costruiti sulla piana per
celebrare la vittoria nella battaglia. Qui c’è anche una scultura lignea
di scuola gotica francese, la Madonna detta appunto della Vittoria,
che sembra provenga proprio dalle rovine dell’abbazia-santuario. A
Scurcola c’è anche un Centro studi culturali CarloI d’Angiò, che
organizza un premio D’Angiò, con vari riconoscimenti (nel 2015
quello più importante sarà assegnato addirittura al papa). Tutto ciò
mi sconcerta, anche perché, in sintonia con Dante, la mia simpatia
non può non andare a Corradino…
Devo comunque cercare le rovine dell’abbazia cistercense voluta
da Carlo e consacrata dieci anni dopo la battaglia, il 12 maggio
1278. Scendendo da Scurcola, procedo nella pianura e sulla sinistra,
dopo aver attraversato un ponte sul fiume Imele e prima di un nuovo
ponte sul fiume Salto, di cui l’Imele è affluente, scorgo queste rovine:
solo blocchi sassosi in parte recintati, puntellati da travi di legno,
accanto a una casa colonica che sembra abitata, anche se ora non
c’è nessuno; intorno a uno spiazzo, alcuni capanni con attrezzi,
immondizie, stracci, sacchi abbandonati forse di concime o di
cemento, vari giochi per bambini sulla soglia di un’altra casetta. Sullo
sfondo il castello che domina Scurcola e “la valle delle immagini
insopprimibili”, la valle del Salto che si apre tra imponenti montagne,
su cui spicca il massiccio monte Velino, e il vicino centro di Magliano
de’ Marsi.
Siamo in quell’intreccio fluviale che ebbe un rilievo non
trascurabile nella battaglia: oltre l’Imele e il Salto, poco più in là c’è
un altro affluente del Salto, il Rafia. Qui in mezzo ci si può sentire nel
vortice della battaglia, mentre sfrecciano auto sul rettifilo accanto.
Ma un più definito colpo d’occhio su questi Piani Palentini mi si apre
da un belvedere ai margini del centro di Magliano de’ Marsi, paese
che profuma di tigli e in cui, su di una luminosa piazzetta, si presenta
alla vista la bellissima facciata della chiesetta romanica di Santa
Lucia (dove sulle zampe di un leone si affaccia la scritta palindroma
SATOR AREPO TENER OPERA ROTAS). Sotto c’è l’autostrada e verso
nordovest si apre la valle del Salto, da dove sembra che inizialmente
si sia mosso Corradino, scendendo poi su questa piana e
appostandosi sulla riva destra del Salto, proprio qui sotto Magliano
de’ Marsi. Ma è vero che nessuna immaginazione, nessuna carta e
nessuna topografia, con la radicale trasformazione avvenuta nel
paesaggio (nella piana, lungo la Tiburtina Valeria, ci sono vari
insediamenti industriali), può darmi il vero effetto della battaglia, può
far affiorare i fantasmi di quella tremenda giornata.
Ed è vero anche che lo stesso assetto dei centri urbani ha subito
particolari trasformazioni, ricostruzioni e riadattamenti, dopo il
terremoto del 1915, che ha danneggiato rovinosamente la Marsica e
la piana del Fucino. Così il vicino centro di Massa d’Albe, anch’esso
toccato dalla battaglia, è frutto di una totale ricostruzione dopo il
terremoto; attraverso le strade geometricamente squadrate tra
villette e piccoli condomini e, passando oltre, sfioro i resti della
vecchia Albe, che aveva già subito una distruzione da parte di Carlo
d’Angiò, per essersi schierata dalla parte di Corradino, e che è stata
definitivamente distrutta e abbandonata per il terremoto del 1915 (tra
le rovine, resta in piedi il castello degli Orsini). La nuova Albe si trova
più in là: è stata ricostruita accanto agli scavi archeologici di Alba
Fucens, città prima degli equi e poi colonia romana, disposta su un
colle a tre cime ai piedi del monte Velino.
Antica e popolosa città montana, a 1000 metri di altezza, Alba
Fucens ebbe un ruolo non trascurabile nelle guerre civili del I secolo
a.C. Sorprendente è il percorso degli scavi, che permette di
abbracciare il tracciato della città, con l’intreccio geometrico delle
strade (con il tratto urbano della via Valeria), che delimitavano gli
edifici nella valletta alla base delle cime. A poche centinaia di metri
più oltre si distingue il colle con le già ricordate rovine della vecchia
Albe e il castello Orsini. Sotto il sole del meriggio sono il solo a
visitare questi scavi, in un assoluto silenzio solcato solo dall’attutito
rumore del traffico su strade prossime o lontane: e salgo su una
delle tre cime, ai piedi della quale sono addossati i resti
dell’anfiteatro romano. Sulla vetta c’è la chiesa benedettina di San
Pietro, costruita sui resti del tempio di Apollo nel XII secolo, con vari
interventi successivi. Nell’interno si impone la geometria luminosa e
squillante della decorazione cosmatesca, che sembra invitare a una
serenità senza tempo, a un dialogo con l’immobile silenzio della
pietra. Percorro la fiancata esterna della chiesa, fino all’abside che si
affaccia su un leggero strapiombo; qui si apre, verso sud, la visione
della piana del Fucino e, ancora, di quello che fu il campo della
battaglia di Tagliacozzo. Proprio nei pressi di questo colle di San
Pietro si era appostata, secondo il disegno del “vecchio Alardo”, una
schiera scelta dell’esercito di Carlo che irruppe improvvisamente e
risolse l’esito della battaglia, quando gli imperiali credevano già di
avere in pugno la vittoria.
Dopo aver percorso il sentiero lastricato che scende da San Pietro,
lascio nel silenzio Alba Fucens e raggiungo Avezzano, centro della
piana del Fucino e della Marsica: cerco un bar per mangiare
qualcosa nel centro della città, quasi totalmente ricostruita in forma
moderna dopo il terremoto del 1915 e dopo i bombardamenti del
maggio 1944. Mi fermo in un caffè sul corso della Libertà, davanti a
un piccolo largo, dove, accanto a una cabina telefonica, c’è un busto
installato di recente: è quello dello scrittore Mario Pomilio, nato a
Orsogna, non lontano da Avezzano, e vissuto soprattutto a Napoli:
scrittore che troppo genericamente viene etichettato come
“cattolico”, ma che è una delle voci più intense di un cristianesimo
inquieto e problematico. Il suo grande romanzo Il quinto evangelio,
del 1975, è davvero un’opera totale, disposta su molteplici piani,
interrogazione radicale sulla necessità e sull’incompiutezza della
parola divina, sulla sua proiezione nella storia e nelle sue rovine,
sulla ricerca infinita e dolorosa di un’impossibile conciliazione.
Questo fortuito incontro con la sua effigie, con questo “largo” a lui
dedicato, mi fa avvertire, più di quanto non mi sia capitato prima di
fare, il senso dell’ostinato confronto della sua opera con una “verità”
sempre cercata e sempre sfuggente: in fondo in dialogo con le
certezze della fede dantesca e in un illimitato allontanarsi da essa,
nell’aspirazione a una compiutezza che fa i conti con l’inevitabile
imporsi della differenza e dell’irresoluzione.
Forse in questo lembo d’Italia una così lacerante e lacerata
tensione può essere ricondotta anche alla suggestione di una figura
contraddittoria come l’eremita Pietro del Morrone, il papa Celestino
V, chissà se veramente identificabile con “colui / che fece per viltade
il gran rifiuto” di Inferno, III 59-60: ben presente la sua traccia nel
quinto evangelio e nell’opera di un altro abruzzese della Marsica,
Ignazio Silone, autore tra l’altro di un dramma proprio sulla vicenda
di Celestino, L’avventura di un povero cristiano. Silone era di
Pescina, a pochi chilometri da qui, al limite del versante nordest del
bacino del Fucino: e si può dire che, sulle orme di Celestino V,
l’orizzonte del “rifiuto” e dell’“uscita” da intricate situazioni abbia
segnato variamente la sua vita e la sua opera. Diverse generazioni
quelle di Silone (1900) e di Pomilio (1921), mentre ad altra
generazione, alla stessa mia, appartiene Renzo Paris (1944), nato
anche lui qua vicino, a Celano, centro che guarda da nord il bacino
del Fucino: scrittore anche lui di “uscite”, ma di scatti focosi, tra
rabbie e passioni, in fuga da questi “paesi mondo” ma non senza
richiami per il loro fondo segreto, per le radici contadine, che egli fa
esplodere sull’orizzonte urbano, sulla Roma intellettuale,
sessantottina, moraviana e pasoliniana, in mistioni tra realtà “povere”
e dilatate surrealtà.
Subito mi dirigo a Celano, senza la scorta di Renzo, ma sulle
tracce del francescano Tommaso, nato qui tanti secoli prima, di cui
ho appena visto il sepolcro a Tagliacozzo. Vittima anche Celano di
varie traversie, da una distruzione da parte di Federico II fino al
terremoto del 1915, ora ci accoglie con un ampio piazzale, aperto
sulla sottostante conca del Fucino. Quasi all’ingresso della città
storica c’è la chiesetta di San Francesco, sulla cui facciata ci sono
due lapidi dedicate a Tommaso. Una, più vecchia e di ridotte
dimensioni, afferma recisamente una cosa manifestamente falsa: IN
QUESTA CHIESA / SONO CONSERVATE LE SACRE SPOGLIE / DI FRA TOMMASO DA
CELANO (ma per fortuna all’interno non ci sono tracce di questa
presunzione: c’è solo un cartello che avvisa correttamente che la
tomba del beato è altrove, “nel convento di San Francesco”, senza
però precisare che si tratta di quello di Tagliacozzo). L’altra lapide,
più recente, ricorda Tommaso come fondatore della chiesa insieme a
san Francesco, come suo compagno e biografo, AUTORE DEL DIES
IRAE. A DANTE ISPIRATORE / DEL DIVINO POEMA / A MICHELANGELO DEL GIUDIZIO
UNIVERSALE: responsabilità un po’ esagerate, queste ultime, ma
comunque suscitate dall’empito escatologico del Dies irae.
Un rapido giro per Celano mi conduce ai piedi del castello, che è
stato adeguatamente ricostruito: è il più ampio e complesso
dell’Abruzzo e al suo interno sono ospitati interessanti musei di
archeologia e di arte locale; ha una sua minacciosa imponenza,
come attutita dalla bella passeggiata alberata che è stata allestita ai
suoi piedi. Dies irae, dies illa, lascio Celano pensando al turbamento
che da bambino mi suscitò l’ascolto di questo inno, con l’assolutezza
davvero “finale” del suo implacabile ritmo. Più tardi fu eccezionale
l’emozione suscitata dal film del 1943 di Carl Theodor Dreyer Dies
irae, uno dei grandi classici del cinema, oggi quasi dimenticato.
Raggiungo l’autostrada e attraverso l’Abruzzo, superando il
costone dei monti della Marsica ed entrando sul versante opposto,
nella valle del Gizio e poi del Pescara. Si scorgono pale eoliche e si
intravvede a destra Sulmona, patria di Ovidio, poeta tanto essenziale
per Dante, il “terzo” della “bella scola” dei poeti incontrati nel Limbo,
che lo accoglie come “sesto tra cotanto senno”. Una nuova versione
delle Metamorfosi ovidiane viene presentata proprio oggi a Roma, in
Campidoglio: è stata appena pubblicata da Vittorio Sermonti,
appassionato ed elegante esecutore della grande poesia, che
proprio su Dante ha tanto lavorato, come lettore e interprete, capace
di spiegarne i passaggi più ardui rendendoli vivi nel presente, cruciali
pur nella loro inarrivabile distanza (purtroppo Sermonti ci lascerà nel
novembre del 2016).
Fiume Tronto

…da ove Tronto e Verde in mare sgorga.


(Par., VIII 63)

Mentre procedo verso l’Adriatico e verso i confini dell’Abruzzo,


oltrepassando la bellissima chiesa di San Clemente a Casauria, poi
Chieti e Pescara, nel lettore CD dell’auto c’è un disco con esecuzioni
varie di Arturo Benedetti Michelangeli; a un certo punto si affaccia la
Totentanz per pianoforte e orchestra R.457 (o S.126), di Franz Liszt,
che fa ritornare più volte le minacciose variazioni dalla sequenza
gregoriana del Dies irae… Sull’onda angosciosa di questo ritmo,
mentre più volte l’autostrada si apre su squarci dell’Adriatico, mi
appresto a raggiungere il limite nord dell’Abruzzo, quello che ai
tempi di Dante e poi per tanti secoli segnava il confine del regno del
sud, quel fiume Tronto che nel cielo di Venere Carlo Martello nomina
proprio per indicare quei confini. L’ultimo centro abruzzese,
addossato al versante sud della foce del Tronto, è la località
balneare di Martinsicuro, che raggiungo, lasciando l’autostrada e
perdendomi un po’ nel giro di viuzze tra bar, negozi e case di
vacanza e nella difficoltà di raggiungere il lungomare, che in questo
periodo estivo è pedonalizzato. Ma, districandomi a più riprese,
raggiungo lo spiazzo al limite nord del lungomare, dove si può
parcheggiare e raggiungere la vicinissima foce.
Ecco il Tronto che in mare sgorga: al punto di confluire nel mare, il
letto del fiume è per gran parte ostruito da una striscia di sabbia, su
cui stanno tre pescatori che armeggiano con delle reti in parte
immerse nel breve tratto in cui l’acqua passa direttamente a mare;
c’è anche uno che sta passando a guado quel breve squarcio
aperto. Si sente uno strano odore sulfureo: ma forse è l’acqua che
qui scorre quasi lentamente, che porta con sé qualche maleodorante
detrito. Da questo punto risalgo un po’ indietro, verso monte,
percorrendo l’argine destro del fiume, ben rialzato e protetto da
grossi massi, su una base di terra battura ben praticabile; dalla parte
del fiume si infoltiscono grovigli di canne, mentre dall’altra parte si
aprono terreni abbandonati, una specie di pantano, mentre più in là
si vede il recinto di un grande vivaio. Viene giù un vecchio bruciato
dal sole che mi chiede se si passa verso il lungomare e si lamenta
sull’inerzia del comune, che non sistema adeguatamente questa
foce, che meriterebbe di essere disposta in un vero e proprio parco
attrezzato. Qualche nuvola che si addensa a ovest crea degli effetti
sull’acqua del Tronto, che a tratti sembra colorarsi di un pallido
verde, mentre a est, dalla parte del mare calmissimo, l’azzurro
sembra fissarsi in qualcosa di più fermo e definitivo.
Nel percorrere in uscita le strade di Martinsicuro, mi imbatto in una
via Castellano, che mi richiama al fiume, affluente del Tronto, che
qualcuno identifica col Verde di Dante, allegando il fatto che così
veniva in effetti chiamato (anche Boccaccio lo nomina così nel De
fluminibus, dicendo che segna il confine tra il Piceno e l’Abruzzo).
Come ho già notato visitando Gaeta e il Garigliano (vedi p. 172),
qualcuno pensa che qui nell’VIII del Paradiso la coppia Tronto e
Verde non indichi Tronto e Garigliano, ma il nesso fluviale dato dal
Tronto e dal Castellano, confine nordest del regno del sud. In ogni
modo non posso evitare di cercare il Castellano.
Fiume Castellano

Or le bagna la pioggia e move il vento


di fuor dal regno, quasi lungo ’l Verde,
dov’e’ le trasmutò a lume spento.
(Purg., III, 130-132)

Riporto di nuovo le parole con cui Manfredi ricorda lo scempio del


proprio cadavere, trasportato lontano dal ponte presso Benevento in
cui era stato sepolto, indicando un luogo di fuor dal regno: ed è
verisimile, come ho già notato (vedi pp. 179-180), che questo luogo
non sia lontanissimo da Benevento e che tocchi i confini più prossimi
tra il regno e lo Stato pontificio, in Ciociaria, anche se c’è chi chiama
in causa il Castellano, Verde detto per le sue acque. Anche se mi
sembra improbabile che i resti di Manfredi siano stati dispersi dalle
sue parti, eccomi comunque all’ingresso di Ascoli Piceno, città che fu
anche sotto il dominio di Federico II e di Manfredi: giungendo da est,
poco dopo la stazione ferroviaria, ci si trova abbastanza vicini al
punto in cui il Tronto riceve il Castellano, a cui ci si avvicina
percorrendo la via di Porta Tufilia. Il primo ponte sul Castellano,
incassato giù, molto in basso tra folta vegetazione è il Ponte
Maggiore, che immette nel centro di questa città abbracciata dalle
volute dei due fiumi, così fiera della sua bellezza che si espone in
una sua pacata discrezione, in cui ciò che è antico sembra svolgersi
in una non lacerata continuità con il presente.
Subito al di là del Ponte Maggiore si trova, sulla destra, il forte
Malatesta, davanti al quale si apre un altro ponte sul Castellano: un
ponte antico, percorribile solo a piedi, detto ponte di Cecco, che una
leggenda dice costruito in una notte da Cecco d’Ascoli, con l’aiuto
del diavolo. Proprio Cecco, Francesco Stabili, lo strano ed
enigmatico astrologo, medico, poeta, autore del poema allegorico
Acerba, in cui si affacciano alcune pesanti frecciate contro Dante e
la sua Commedia. Variamente sospettato di eresia, Cecco finì sul
rogo a Firenze nel 1327, condannato da un inquisitore, il
francescano Accursio Bonfantini, che, già poco dopo la morte di
Dante, aveva avuto l’incarico di commentare la Commedia nel
Duomo di Firenze (deve essere stato proprio il primo a fare una
lettura pubblica di Dante: e qualcuno ha anche pensato abbia
condannato Cecco anche per il suo disprezzo verso Dante). Sembra
comunque che questo ponte sia molto più antico dei tempi di Cecco
e di Dante: dovrebbe risalire a epoca romana (ci passava la Via
Salaria) ed è probabile che la sua denominazione non risalga certo
alla presunta opera diabolica dell’astrologo poeta, ma a una
ristrutturazione operata nel Trecento dal maestro Cecco Aprutino.
Tornando poi indietro e sfiorando la mole del Duomo di Ascoli si può
raggiungere ancora il corso del torrente, sul Lungo Castellano Sisto
V, fino all’edificio della Cartiera papale, che, con diverse funzioni e
diversa struttura, era già in opera ai tempi di Dante e di Cecco.
Ma anche se si crede all’improbabile identificazione del Verde
dantesco col Castellano, non si può immaginare certo che il corpo di
Manfredi sia stato trasportato in questo spazio urbano: devo cercare
di toccare il corso del Castellano in spazi più solitari, meno legati a
così determinate suggestioni storiche e culturali. Uscendo in auto da
Ascoli vengo però depistato da tangenziali e svincoli e non riesco a
identificare la strada che risale il corso del fiume, verso i monti della
Laga, toccando il borgo di Castel Trosino, presso cui c’è un piccolo
lago artificiale. Mi trovo sulla Salaria, in direzione di Roma, e mi
accorgo di essere andato troppo avanti rispetto all’imboccatura della
strada del Castellano. Dopo un paio di chilometri vengo attratto da
una stretta strada che sale a sinistra, diretta verso Talvacchia, borgo
che la carta mi dice addossato al Castellano. È una strada che si
avvolge in spire, dentro un bosco, e poi diventa sempre più stretta; si
aprono prati e squarci verso i monti Sibillini a nordovest.
Dopo tanti aggiramenti giungo a Talvacchia, distesa in piccoli
gruppi di semplici case, in un silenzio totale. Non vedo nessuno,
anche se c’è qualche auto parcheggiata; entro in un passaggio tra
due case e arrivo a un poggio che si affaccia sull’ampio lago
artificiale del Castellano. Talvacchia è su un alto costone che si
avanza tra la valle del Tronto e quella del Castellano: nell’acqua del
lago incassato laggiù, nel suo verde pallido e sfuggente, si
specchiano i riflessi più diversi, dall’azzurro del cielo che accenna
vagamente al prossimo arrossarsi del tramonto, al grigio delle poche
nuvole in movimento, al verde intenso dei boschi sulle rive scoscese.
Le fronde di un ciliegio e una rete di protezione fanno parzialmente
da limite al mio sguardo, che si apre verso il monte dell’altro
versante, che dovrebbe essere il monte Piselli, già in territorio
abruzzese.
Tornando indietro mi accorgo di essere spiato da due bei gatti
siamesi accucciati; e sulla parete di una casa noto un cartello in
ceramica a colori che, sotto la dizione BENVENUTI A TALVACCHIA e sopra
un bucolico disegno, riporta una fitta serie di versi in lode del luogo,
che cominciano così: “Quasi tocchi un lembo di cielo / sola e
disadorna / sentinella di due valli / ancorata alla roccia e al tufo / e
alla caparbietà della tua gente…”; e c’è anche il nome dell’autore,
PAOLO D’ISABELLA “ROCCIA DEL CUORE”, 2008. Accompagnato da questi
semplici versi, torno indietro nella strada stretta e tortuosa;
attraverso ancora il Tronto, ma lascio quasi subito la Salaria,
volgendomi a nord, sull’ex S.S.78, che all’inizio risale il corso di un
altro affluente del Tronto, il Fluvione. Nella sera che scende sfioro
piccole città dell’interno delle Marche, sotto i monti Sibillini:
Amandola, Sarnano, San Ginesio.
Da Urbisaglia a Senigallia

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia


come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia…
(Par., XVI 73-75)

Arrivo quando è ormai buio a Urbisaglia, lasciando la strada statale e


salendo sul modesto colle dove è il centro storico, con gli edifici in
cotto e la tranquilla misura civile tipica di tanti borghi delle Marche:
nella sera d’estate poche persone circolano sulla centrale piazzetta
Garibaldi, dominata dalla Collegiata di San Lorenzo e dalla rocca col
suo maschio merlato. Qualcuno si muove attorno a un bar che ha
esposto tra i suoi tavoli uno schermo televisivo per la prossima
partita dei mondiali di calcio. I passi risuonano sulle stradine
silenziose, ma sotto i portici di quello che dovrebbe essere il corso
centrale c’è una locanda caffè, in cui trovo un’ottima cena.
Lontanissimo è quell’effetto che Cacciaguida attribuisce al nome di
Orbisaglia, emblema di decadenza, tra le città distrutte e giunte alla
fine, minaccia e avvertimento per il destino di Firenze. Qui c’è
piuttosto un senso di equilibrata continuità, di un presente
saggiamente vissuto ai margini dell’assordante rumore del mondo.
Ma questa è la piccola Urbisaglia medievale: Cacciaguida si
riferiva in realtà alla Urbs Salvia, fiorente città romana distrutta da
Alarico nella sua discesa verso Roma (409 / 410 d.C.). Le sue rovine
sono giù in basso, sulla piana, tra i dolci colli circostanti, accanto alla
strada statale e alla chiesetta quattrocentesca della Maestà: c’è un
bel parco archeologico, che raggiungo la mattina successiva. Molto
ben conservati sono l’anfiteatro e il teatro. Prima dell’ingresso del
parco un massiccio blocco, residuo pilastro di un distrutto edificio,
reca una lapide con i versi danteschi: e certo ai tempi di Dante non si
poteva pensare che quelle rovine potessero essere così sistemate e
indagate, potessero approdare a un parco così ordinato,
attraversando il quale si ha l’illusione di ritrovare la forma dell’antica
città.
In quel XVI del Paradiso Orbisaglia è appaiata a Luni come antica
città distrutta, a specchio dell’altra coppia Chiusi e Sinigaglia, che
considera città ridotte “a termine” in tempi più recenti. Proprio verso
Senigallia ora mi dirigo, vedendo apparire su vari colli alcuni dei
bellissimi centri delle Marche, che sfioro rapidamente, cittadine
raccolte nei loro edifici di mattoncini, in quell’attutito calore rossastro
delle loro facciate, nella civile urbanità delle loro piazze e piazzette,
dove si affacciano piccole chiese, minuscoli e accoglienti teatri, echi
di tante presenze religiose, artistiche e letterarie. Poco dopo
Urbisaglia si incontra l’abbazia cistercense di Chiaravalle di Fiastra;
e poi, più o meno vicine, Macerata, Recanati, Loreto, Osimo…
mentre poi l’autostrada mi porta velocemente a Senigallia, anch’essa
distrutta da Alarico, ma poi vitalissima nel Medioevo, fino a vari
disastri che le toccarono nel XIII secolo: città ghibellina diventata
guelfa, distrutta da Manfredi, e poi ulteriormente schiacciata da una
violentissima azione di Guido da Montefeltro.
Ma Senigallia non ebbe termine e rifiorì nel Quattrocento,
passando poi sotto il dominio dei Della Rovere e infine sotto il diretto
controllo della chiesa. Nei vari passaggi storici le toccò anche la
signoria del figlio del papa Alessandro VI, Cesare Borgia duca
Valentino, nel breve periodo in cui tenne il ducato di Urbino: qui il
Valentino diede prova della sua violenta spregiudicatezza,
disfacendosi a tradimento dei suoi nemici, con quell’azione a cui si
trovò ad assistere Niccolò Machiavelli nel capodanno del 1503,
rendendone conto nello scritto Descrizione del modo tenuto dal duca
Valentino nello ammazzare Vitellozzo Vitelli, Oliverotto da Fermo, il
Signor Pagolo e il duca di Gravina Orsini in Senigaglia. Per me il
nome di Senigallia, almeno dai tempi del liceo, è stato sempre legato
a questo orizzonte “machiavellico”, anche se già allora sentivo
parlare di Senigallia come prediletto luogo di vacanza, da gente che
ne frequentava le spiagge.
Nel visitare la città qualche eco di quel truce evento si può credere
di riconoscere solo costeggiando la grande rocca Roveresca, con i
suoi quattro possenti torrioni: di essa gran parte doveva essere in
piedi durante l’azione del Valentino, che qui dentro fece strangolare
Vitellozzo e Oliverotto (gli altri due furono in realtà uccisi a Città della
Pieve). Ma certo la luminosa mattinata estiva, che si fissa
sull’abbagliante chiarore della pavimentazione in travertino della
piazza antistante alla rocca, ci porta molto lontano da quel truce
inverno del cosiddetto Rinascimento.
L’assetto della città, per il resto, è tutto sette-ottocentesco, ben
conservato e ripristinato nonostante le distruzioni di un terremoto del
1930 e dei bombardamenti della successiva guerra. Ecco la bella via
Portici Ercolani, che costeggia il versante destro del fiume Misa, che
poco più avanti si getta in mare, con i vari ponti che attraversano il
fiume, uno dei quali conduce, sull’altro versante, alla bianca Porta
Lambertina, eretta nel 1751 in onore del papa Lambertini, Benedetto
XIV. L’insieme urbanistico sette-ottocentesco è veramente di grande
equilibrio, percorso per giunta da una vita molto animata, ma in un
tono di discrezione e quasi di grazia. Nello spazio circolare,
fiancheggiato dal neoclassico colonnato del Foro annonario, ci sono
le bancarelle del mercato di frutta e verdura. Sulla piazza Roma,
dove è il municipio, si affacciano i tavolini dei bar. Seduto al bar La
Meridiana osservo la mole del nobile Palazzo Fagnani: una delle
lapidi apposte sotto le finestre celebra un certo Raffaele Ferroni
Frati, che fu presidente dell’Associazione di mutuo soccorso… Poco
più in là si trova il Palazzo Mastai, della nobile famiglia che diede i
natali nel 1792 a Giovanni Maria, che fu poi papa Pio IX, prima
speranza e poi nemico del Risorgimento italiano, difensore accanito
del vecchio potere temporale e di dogmi fuori tempo. Qui c’è anche
un museo a lui dedicato, che saluto col verso di Carducci che
conclude il suo Canto dell’amore, “Cittadino Mastai, bevi un
bicchier!”. Tra i tanti motivi di interesse di Senigallia c’è poi il Teatro
La Fenice, che fu glorioso nell’Ottocento e nel primo Novecento, e
vide tra i direttori delle opere rappresentate alcuni tra i loro maggiori
autori: era di grandi dimensioni, con imponente assetto ottocentesco,
ma il suo crollo nel terremoto del 1930 ha dato luogo a una
ricostruzione in geometriche forme moderne, un po’ spigolose
all’esterno, più sfumate e ariose all’interno.
Girando per Senigallia mi colpiscono poi altre lapidi. Ce n’è una
che ricorda i primi morti della prima guerra mondiale: qui ben nove
vittime di un bombardamento navale austriaco dello stesso 24
maggio 1915 in cui l’Italia entrava in guerra. Un’altra, sul lungofiume,
ricorda altre vittime di un altro conflitto, i soldati della Divisione Acqui
massacrati dai tedeschi a Cefalonia nel settembre 1943 (e si
riportano le parole del presidente Azeglio Ciampi sullo scontro di
Cefalonia come PRIMO ATTO DELLA RESISTENZA, DI UN’ITALIA LIBERA DAL
FASCISMO). Questa lapide mi colpisce particolarmente, perché lì era
mio padre, che si salvò per un insieme di coincidenze, prima di
essere avviato come prigioniero in un campo di concentramento in
Slesia, dove restò fino alla fine della guerra (rimase invece ucciso il
padre di Luigi Ballerini, che alla vicenda ha dedicato il libro di poesia
Cefalonia, 2005).
Fano

Ond’io, che solo innanzi a li altri parlo,


ti priego, se mai vedi quel paese
che siede tra Romagna e quel di Carlo,

che tu mi sie di tuoi prieghi cortese


in Fano, sì che ben per me s’adori
pur ch’i’ possa purgar le gravi offese.
(Purg., V 67-72)

Lasciata Senigallia, la vecchia strada statale 16, l’Adriatica, vede un


susseguirsi di edifici, con siti industriali e commerciali quasi senza
interruzione: le attività che si affacciano sulla strada lasciano nello
spazio antistante molteplici materiali in lavorazione o scarti e rifiuti,
tutti oggetti destinati a essere continuamente spostati o rimossi, nel
procedere senza fine del più eterogeneo fare. Viene da pensare, qui,
come in tanti altri passaggi simili sulle strade d’Italia, a quanto siano
diversi i resti delle attività dei tempi di Dante da quelli infiniti di oggi:
allora si accumulavano in spazi molto ridotti scarti e sporcizie più o
meno di origine organica, senza particolare cura d’igiene; nei rifiuti
attuali domina l’inorganico, che si inserisce dappertutto, che scaccia
e riduce ai margini l’organico.
La strada mi conduce ora a Fano, nominata due volte nella
Commedia (Inferno, XXIX e Purgatorio, V), sempre in riferimento a
personaggi barbaramente uccisi. Nel Purgatorio è un autorevole
notabile di Fano, il guelfo Jacopo del Cassero – che si trova tra gli
spiriti di coloro che attendono nell’Antipurgatorio in quanto pentiti dei
propri peccati solo in punto di morte – a chiedere a Dante di
sollecitare preghiere in suo suffragio nei suoi concittadini, in modo
che possa abbreviare il periodo di attesa nell’Antipurgatorio e
passare all’espiazione dei propri peccati nei vari gironi della
montagna. Dopo questa preghiera, egli parla dell’agguato subito in
Veneto da parte di Azzo VIII d’Este: era stato podestà di Bologna e,
in quella funzione, aveva duramente resistito alle pretese del
marchese estense; i suoi sicari lo uccisero poi, quando si stava
recando a Milano, di cui nel 1298 era stato nominato podestà.
Di Fano questi versi sottolineano la collocazione nella Marca, il
paese al cui limite nord si trova la Romagna e a sud il regno di
Napoli, di cui era allora re Carlo II d’Angiò. Qui termina una delle
strade consolari romane, la Via Flaminia. Giungendo invece
dall’Adriatica, io entro nella città storica sfiorando il potente bastione
cinquecentesco di Luca da Sangallo; lascio l’auto lungo le mura che
da esso si dipartono, percorrendo poi le strade della città,
geometricamente scandite secondo l’originario impianto romano (alla
foce del Metauro, Fano fu dai romani impiantata attorno a un tempio
della Fortuna, Fanum Fortunae, da cui il suo nome, per alcuni legato
alla memoria della vittoria su Asdrubale nella battaglia del Metauro,
207 a.C.).
Tra la centrale piazza XX Settembre, dominata dal Palazzo della
Ragione (eretto nel 1299) e le strade circostanti, stanno smobilitando
un grande mercato: il movimento di bancarelle, carri, merci, sembra
come piegare verso una dimessa frenesia il tessuto storico della
città, che anche nei nomi delle strade è piena di segni romani,
medievali, rinascimentali. Davanti a un ordinato giardino splende nel
sole del meriggio il travertino dell’arco di Augusto, a cui sono
addossati gli edifici rinascimentali di San Michele e delle sue logge;
edifici e chiese in laterizi si affacciano su strade e giardini nel cuore
della città. Sulla facciata della chiesa trecentesca di San Domenico,
ora sede di una pinacoteca, una lapide riporta i versi danteschi su
Jacopo del Cassero, che nella chiesa era sepolto. Della sua tomba
resta un’epigrafe, addossata a un muro tra un pilastro e una
colonna, in una scrittura gotica bolognese di non facile lettura, che
ricorda la sua morte e il tradimento, chiedendo la vendetta contro il
cane traditore e affermando anche che, se i venti avessero portato
Jacopo verso Padova, non sarebbe morto (e anche Dante fa dire a
Jacopo che, se nel suo cammino avesse preso una direzione
diversa, sarebbe sfuggito all’aggressione: si veda pp. 719, 724).
L’epigrafe ricorda anche la data del ritorno del corpo in patria: 1298,
non molto dopo la sua morte.
Fiorenzuola di Focara e Cattolica

E fa saper a’ due miglior da Fano,


a messer Guido e anco ad Angiolello,
che, se l’antiveder qui non è vano,

gittati saran fuor di lor vasello


e mazzerati presso a la Cattolica
per tradimento d’un tiranno fello.

Tra l’isola di Cipri e di Maiolica


non vide mai sì gran fallo Nettuno,
non da pirate, non da gente argolica.

Quel traditor che vede pur con l’uno,


e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno,

farà venirli a parlamento seco;


poi farà sì, ch’al vento di Focara
non sarà lor mestier voto né preco.
(Inf., XXVIII 76-90)

Jacopo del Cassero era autorevole esponente della famiglia guelfa


che nel XIII secolo contendeva il potere sulla città alla famiglia
ghibellina dei Carignano. Dello scempio subito più tardi da quelli che
dovevano essere gli esponenti più autorevoli delle due famiglie-
fazioni (i due miglior da Fano) Dante aveva parlato già nell’Inferno, in
forma di profezia, per bocca di Pier da Medicina. Per questo evento
(collocabile intorno al 1310) mancano altre testimonianze storiche
oltre quella dantesca: i due notabili, Guido del Cassero e Angiolello
da Carignano, si recavano da Fano per via mare verso Cattolica e
Rimini. Mentre procedevano sulla loro imbarcazione furono assaliti a
tradimento e gettati in mare (mazzerati) presso Cattolica, per ordine
di Malatestino Malatesta (che vede pur con l’uno, cieco d’un occhio),
signore di Rimini – città che un altro dannato della stessa bolgia,
Curione, non vorrebbe aver mai visto – che li aveva convocati per
una trattativa, forse in vista di una pacificazione tra le loro fazioni. I
Malatesta ambivano in realtà alla signoria di Fano, dove in effetti si
insediarono più tardi, tenendola a varie riprese fino al 1463. A Fano
la loro presenza è tuttora testimoniata da vari edifici, tra cui in primo
luogo la Rocca malatestiana e le Arche che si trovano sotto il portico
della distrutta chiesa di San Francesco: a Guido del Cassero invece
tocca il nome di una strada che sbocca accanto all’arco di Augusto,
mentre Angiolello è ricordato solo nel nome di una strada nella vicina
località termale di Carignano.
La profezia di Pier da Medicina, d’altra parte, oltre a proiettare quel
misfatto marino sull’intero orizzonte mediterraneo (“il mare non ha
visto mai un simile delitto in tutta l’estensione da Cipro, oriente, a
Maiorca, occidente”), ne ricollega l’esito ai pericoli di quello specchio
di mare, dove chi navigava tra Pesaro e Cattolica doveva guardarsi
dal vento che soffiava dal colle di Focara, sulla costa antistante.
Eccomi allora a seguire, ma dalla costa per via terra, il percorso
fatto dai due sventurati fanesi: non mi tocca un incontro pericoloso,
ma quello con un gentile scrittore, Paolo Teobaldi, che mi aspetta a
Pesaro, dove vive. Di recente mi è capitato di recensire un suo
romanzo dedicato alla strada, a questa stessa strada Adriatica che
percorro, e alla vita di un ultimo responsabile di quelle case
cantoniere, che avevano la funzione di curare l’assetto delle strade
statali e che sono state ormai dismesse. Macadàm è il titolo di
questo romanzo “stradale”: è il nome che indicava il pavimento
stradale solido e nel romanzo è soprannome del protagonista
cantoniere, emblema di un’Italia del lavoro e della concretezza, della
solidarietà e dell’impegno per le cose fatte bene, un’Italia che non si
lascia attrarre da miti e illusioni, e che cura lo spazio che le è
affidato, come questa strada, che Macadàm tiene sempre pulita (ma
chi può farlo adesso?).
Teobaldi arriva in bicicletta nel punto di Pesaro in cui l’Adriatica fa
una svolta di 90 gradi a sinistra, un curvone che è proprio quello che
il suo romanzo affida alle cure di Macadàm: ha insegnato italiano
nelle scuole e ora è in pensione, animato da una passione per la
letteratura che non si espande mai in chiassoso narcisismo, ma si
offre all’interlocutore con civilissima discrezione. È subito evidente,
nel suo modo di porgere, nella sua schiettezza, il suo radicamento in
questo squarcio d’Italia, al limite tra Marche e Romagna, come
sospeso tra una malinconica riservatezza marchigiana e una più
esplosiva corposità romagnola. Mi parla di varie iniziative che ha
curato qui a Pesaro, destinate anche alle scuole, con il gruppo di cui
lui è uno dei più impegnati animatori, “Il gusto dei contemporanei”,
che dal 1980, a partire da un memorabile incontro con Leonardo
Sciascia, ha cominciato a organizzare incontri con scrittori e artisti,
accompagnati da uno studio delle loro opere: incontri al di fuori di
ogni ufficialità, radicati nella passione per la presenza viva della
letteratura nella scuola. L’iniziativa ha dato luogo anche a eleganti
Quaderni (ne sono usciti dieci) e anche a un DVD, che mi offre, sulla
giornata di Primo Levi a Pesaro (una delle ultime uscite pubbliche
dello scrittore, 5 maggio 1986): ma ora tutto tace, anche perché mi
dice, “la scuola italiana e la società nel suo complesso hanno preso
una direzione che non ci piace per niente, proprio quella direzione
che noi col nostro lavoro abbiamo cercato umilmente di contrastare.
Da un po’ di tempo circolano, come grandi verità, parole d’ordine
fasulle: ‘scuola-azienda’, ‘insegnante-erogatore’, ‘preside-manager’.
E intanto a uno a uno sono scomparsi gli scrittori che erano stati
importanti punti di riferimento culturale e morale (Sciascia, Calvino,
Levi, Volponi…), mentre è entrata in scena una nuova genia di
scrittori molto prolifici e molto attenti all’autopromozione, capaci di
muoversi abilmente tra nuovi mezzi e nuove occasioni: talk-show,
premi e festival letterari, reading, kermesse”.
Non so se ormai la deriva sia inarrestabile: ma concordo
pienamente con il mio interlocutore. Parliamo dei pericoli che
sempre più gravano sulla scuola, sul suo orizzonte umano e
umanistico, dell’ottusa insistenza con cui oggi si impongono le parole
d’ordine aziendalistiche e tecnologiche, della subalternità dei modelli
correnti all’orizzonte del mercato, della diffusa irresponsabilità verso
il futuro. Tutto ciò rischia di condurre il nostro colloquio dal tono
pacato che emana dalla discreta urbanità di questo scrittore-
professore, che dà voce a ciò che resta di questa “umile Italia”, a
momenti di irata indignazione, quasi a scatti che ironicamente
diciamo “danteschi”.
Teobaldi mi accompagna al promontorio di Focara: l’auto sale sulla
tortuosa strada panoramica che si stacca a destra dell’Adriatica. Una
deviazione porta a un certo punto alla Villa dell’Imperiale, messa su
a più riprese a partire dal Quattrocento e passata tra vari architetti e
padroni; in essa si impone la parte cinquecentesca, voluta dal duca
Francesco Maria Della Rovere e dalla moglie Eleonora Gonzaga.
Nel Settecento fu assegnata dal papa Pio VI alla famiglia Albani: e a
proposito di restauri e ampliamenti ottocenteschi da parte degli
Albani circola, come mi dice Teobaldi, un esagerato racconto,
secondo cui, per la difficoltà di trovare a Pesaro mattoni di cotto,
questi furono fatti venire dalla Fornace Volponi di Urbino, con
passaggi di mano in mano tra contadini appostati lungo il percorso.
Lasciata la villa, che è in un sito in cui forse ai tempi di Dante c’era
già qualche costruzione dei Malatesta, continuiamo a salire fino a
giungere a Fiorenzuola di Focara, il piccolo borgo affacciato sul
mare, dove sembra che nel Medioevo si accendessero fuochi per
avvisare i naviganti del pericolo del vento contrario, quel vento a cui
Dante si riferisce come metafora della violenza del tiranno fello
Malatestino.
I versi del XXVIII dell’Inferno sono adeguatamente riportati sulla
lapide che sovrasta la porta che immette nell’antico borgo.
All’esterno di questo nucleo antico ci sono bar e ristoranti la cui
cucina è ben nota a Teobaldi, che conversa amichevolmente con
una vivace barista che lo conosce come cliente. Uno dei ristoranti
avanza verso il mare con un belvedere, che dà su un muraglione
che sovrasta il pendio scosceso, ai piedi del quale c’è una breve
striscia di sabbia davanti al mare aperto; ma lo specchio d’acqua più
prossimo alla riva è protetto da una lunga striscia sassosa. Una
strada carrozzabile con una stecconata come parapetto, con una
serie di curve a gomito, porta dal paese alla spiaggia; la circolazione
è vietata alle auto, ma c’è un piccolo autobus che porta su e giù i
bagnanti. Scendiamo a piedi conversando, fino a raggiungere la
spiaggia, per avvicinarci più possibile per via terra allo sventurato
percorso fatto dal vasello di Guido e di Angiolello. Ci sono pochi
bagnanti pomeridiani, tra baracchini e armature di legno, mentre
qualche barchetta è ancorata di là dalla striscia che delimita lo
specchio di mare protetto. Verso destra la spiaggia è subito interrotta
dalla costa scoscesa, che appare franosa, come mostrano detriti
caduti ai suoi piedi e vari cartelli che interdicono il passaggio come
pericoloso. Cominciamo poi a risalire, con una certa lena, ma
incontriamo a un certo punto il piccolo autobus che ci carica al
prezzo di un modico biglietto.
Lasciata Focara e il suo vento, continuiamo a seguire il percorso
dei due miglior da Fano: la strada panoramica prosegue sul
promontorio di Gabicce, in continuità con quello di Focara, ultimo
tratto rilevato sulla costa prima della lunga piana alle spalle delle
spiagge romagnole. Si scende su Gabicce Mare, tra edifici che si
dispiegano senza soluzione di continuità fino a Cattolica, ben noto
luogo di soggiorno marino, avamposto delle vacanze di Romagna. Ci
fermiamo all’ingresso della città, superato il piccolo fiume Tavollo,
che la divide da Gabicce: davanti alla darsena, al porto affollato di
imbarcazioni, in fronte al quale brulicano bar e ristoranti e oltre il
quale inizia la spiaggia attrezzata di fitti ombrelloni. Beviamo un
cocktail tra i tavoli abbastanza affollati di un bar posto al limite tra il
fronte della darsena e la spiaggia. Teobaldi parla ancora della sua
distanza dalla società letteraria di oggi, del suo legame con la scuola
e dei pericoli a cui essa oggi sembra irrimediabilmente esposta. Ma
tra nomi di personaggi contemporanei si affaccia anche quello del
truce Malatestino: ci domandiamo se si trovò personalmente ad
assistere alla liquidazione dei due fanesi, se era sulla nave che
aggredì il loro vasello, se era lì quando furono mazzerati proprio sul
mare qua davanti, presso a la Cattolica. E ricordiamo la truce
immagine che di Malatestino dà Gabriele D’Annunzio, nella sua
Francesca da Rimini, mettendolo come terzo incomodo tra i fratelli
Paolo e Gianciotto. Che dire poi di quell’agghiacciante verbo
mazzerare, che secondo il commentatore Francesco da Buti
significa “gittare l’uomo in mare in uno sacco legato con una pietra
grande, o legate le mani e i piedi e uno grande sasso al collo”: e
viene dall’arabo ma’sara, macina, pietra da mulino (riferendosi alle
pietre messe nel sacco).
L’evocazione di Francesca da Rimini ci ricorda che sulla collina
alle spalle di Cattolica si trova la rocca di Gradara, il cui primo
impianto avvenne nell’XI secolo e di cui nel XIII secolo si
impossessarono i Malatesta, che la ampliarono, anche se poi ci
furono vari ampliamenti successivi, sotto gli Sforza e i Della Rovere.
Secondo una tradizione su cui non esiste nessuna documentazione
in essa si sarebbe consumato l’amore e l’assassinio di Paolo e
Francesca: il suo assetto attuale è dovuto a una ricostruzione
avvenuta nel primo Novecento, secondo un modello di architettura
rinascimentale. Ma il richiamo turistico di questa rocca (il suo
complesso museale è attualmente il più visitato della regione
Marche) si concentra soprattutto su proiezioni, dilatazioni, invenzioni
a proposito della vicenda dei due amanti danteschi, tra tardi effluvi
romantici, decadenti e imagerie mediatica.
Urbino

ch’io fui d’i monti là intra Orbino


e ’l giogo di che Tever si diserra.
(Inf., XXVII 29-30)

Accompagno Paolo Teobaldi al curvone dell’Adriatica e alla sua


bicicletta e mi dirigo da Pesaro verso Urbino, che Dante nomina per
bocca di Guido da Montefeltro, come limite della regione montuosa
da cui proviene la famiglia del dannato e il cui limite opposto è
costituito dal monte Fumaiolo, quello da cui sorge il Tevere. Non è
certo se proprio al Montefeltro Dante alludesse già all’inizio del
poema, a proposito del Veltro, “e sua nazione sarà tra feltro e feltro”
(Inferno, I 105), che secondo molti interpreti fisserebbe il luogo
d’origine di quel salvatore tra Feltre, sotto le Alpi venete, e il
Montefeltro, cioè genericamente entro l’Italia padana.
Urbino, di cui Guido aveva tenuto la signoria, è la maggiore città
del Montefeltro: era in potere della famiglia fin dal XII secolo, pur tra
interruzioni e alterne vicende. Insigniti del titolo di duchi nel XV
secolo, i Montefeltro ebbero il loro momento di splendore con
Federico III, che alla città diede l’eccezionale emblema architettonico
del Palazzo Ducale di Luciano Laurana, con i due torricini affacciati
verso sudovest. Ho sempre sentito un’attrazione particolare per
questi torricini, emblema della duplicità, di una misura binaria, la cui
affascinante evidenza ha lasciato traccia nella commedia
rappresentata nel 1513 qui nel Palazzo, la Calandria del Bibbiena,
futuro cardinale, e fatta allestire da Baldassar Castiglione, che
proprio nel Palazzo ambientava la conversazione del Cortegiano,
che allora stava redigendo.
E in effetti Urbino evoca soprattutto memorie e riflessi
rinascimentali: il Montefeltro di Federico e del successore
Guidubaldo, ultimo della stirpe, è certo molto lontano da quello del
Guido dantesco. È un Montefeltro che proietta dal perfetto e
luminoso aplomb del suo palazzo una misura ideale, di calibrato
equilibrio (la scansione binaria dei torricini!), di superiore respiro
culturale, che copre una realtà dura e violenta certo quanto quella
dei tempi di Guido: all’inizio del Cinquecento il ducato del resto
passò in mani molteplici, spesso micidiali, tra azioni non certo
dissimili da quelle di Guido. Se le opere di costui, come dice lui
stesso in Inferno, XXVII 75, “non furon leonine, ma di volpe”, certo
dello stesso tipo furono quelle di Cesare Borgia (chissà come fece
uso del palazzo, nei pochi anni in cui tenne il ducato sotto il suo
giogo), e così più o meno anche quelle di Francesco Maria Della
Rovere, successore di Guidubaldo (dopo un intermezzo mediceo).
È vero d’altra parte che, a differenza dei signori rinascimentali, il
ghibellino Guido non trovò nessuna proiezione ideale di sé, non
lasciò monumenti di arte e di cultura, restando paradossalmente
fissato entro il fuoco di cui lo avvolge Dante e nella vicenda che gli fa
raccontare, lasciandolo per giunta nell’illusione che possa rimanere
sconosciuta nel mondo dei vivi: il pentimento delle sue azioni e il suo
farsi francescano, la chiamata di Bonificio VIII, il consiglio
fraudolento, l’assoluzione preventiva da lui garantita, la disputa della
sua anima tra il diavolo e san Francesco, che credeva di portarlo
verso la salvezza, la compiaciuta ironia con cui lo stesso diavolo gli
si rivolge quando lo ghermisce per portarlo all’inferno (vv. 122-123):

“Forse
tu non pensavi ch’io löico fossi!”

Nel Convivio, IV XXVIII 8, invece, Dante aveva menzionato “lo


nobilissimo nostro latino Guido montefeltrano” (e anche qui Virgilio
qualifica Guido come “latino”), per la sua esemplare decisione di
calare per tempo “le vele delle mondane operazioni” dandosi alla vita
religiosa: e può certamente sorprendere il fatto che poi nell’Inferno
abbia finito per condannarlo così duramente, per quell’atto in
combutta con l’odiato Bonifacio, che avrebbe cancellato il valore del
suo proposito religioso (lì nella bolgia ricordato con parole
abbastanza simili a quelle usate nel Convivio: “calar le vele e
raccoglier le sarte”, 81). Non convincono del tutto le motivazioni
politiche che si possono avanzare su questo vero e proprio
rovesciamento di prospettiva su un personaggio che era stato uno
dei più importanti esponenti del ghibellinismo del secondo Duecento:
e comunque, al di là di queste motivazioni, si impone il formidabile
rilievo espressivo di una confessione affidata alla voce del dannato,
inconsapevole del fatto che Dante la riferirà nel suo poema.
Eccomi allora in Urbino, la città dove si sale e si scende sulle
ripide strade che si intersecano sulla centrale piazza della
Repubblica. Lascio l’auto in basso, appena fuori della Porta Valbona,
nel parcheggio dell’ampio piazzale Mercatale, su cui aggettano
sostruzioni sopra le quali svetta il Palazzo Ducale con i suoi torricini.
Ma ora tutto il palazzo, investito dalla luce del sole che comincia a
scendere, è intabarrato entro fitte impalcature, per giunta protette da
una sorta di rete o di plastica trasparente: visto così, anche per il
modo in cui sono coperti i torricini, sembra come piegarsi verso
un’esotica distorsione, stranamente orientaleggiante, forse pagoda
plastico-metallica. Certo questa protezione, necessaria per la sua
conservazione, lo restituirà più splendente, perché possa continuare
a farsi indorare dal sole che nei pomeriggi d’estate piega dolcemente
verso ovest. Più in là, alla destra del palazzo, il sole lambisce la
cupola e il campanile del vicino Duomo, ben visibili e senza
impalcature: di sotto si accavallano i tetti di case urbinati già
immerse nell’ombra. Volto le spalle a questa vera e propria facciata
esterna della città e guardo, dalla parte verso sud e dalla parte del
sole, la distesa dolce dei colli marchigiani, che qui, come in quasi
tutta la regione, sembrano come generarsi l’uno dall’altro, svolgersi
in una sorta di verde matassa: e al di là di questo intreccio di colli si
impone più dura e acuminata la vetta del monte Catria.
Penso alla conclusione del Cortegiano, quando i dialoganti si
affacciano da una delle finestre che dà dalla parte del Catria e
vedono “già esser nata in oriente una bella aurora di color di rose e
tutte le stelle sparite, fuor che la dolce governatrice del ciel di
Venere”. Ma ora si fa tardi e il Sole scende a occidente, lasciando in
ombra la parte a me visibile del colle più vicino, dove era un
convento dei Cappuccini e che è detto dell’Aquilone, dato che vi si
svolse la vicenda del poemetto di Giovanni Pascoli L’aquilone, che
alla scuola dei miei tempi si imparava a memoria, con quell’attacco
che fa balenare il paesaggio come sfuggente possibilità, “C’è
qualcosa di nuovo oggi nel sole / anzi d’antico”, e con lo sguardo a
Urbino da quel vicino colle, animato dai festosi svolazzi degli
aquiloni:

Or siamo fermi: abbiamo in faccia Urbino


ventoso: ognuno manda da una balza
la sua cometa per il ciel turchino.

Sono i ragazzi del Collegio Raffaello usciti sul colle dei Cappuccini in
“una mattina / che non c’è scuola”. Il Collegio Raffaello – dove
Pascoli studiò dal 1862 al 1871 – si trova nella piazza centrale della
città ed è ora una delle sedi dell’università, mentre addossati al colle
dei Cappuccini, senza che da qui siano visibili, ci sono gli edifici a
schiera del Collegio universitario detto appunto il Colle, dove tante
volte sono stato ospitato, in qualcuno degli incontri che vi hanno
avuto luogo, specie nell’epoca d’oro del Centro internazionale di
Semiotica e Linguistica, di cui era appassionato animatore Pino
Paioni, da poco scomparso. C’era l’illusione di una disposizione
scientifica verso tutto l’orizzonte culturale, si intrecciavano
variamente le più diverse scienze umane, non senza qualche
sussulto “rivoluzionario” e postsessantottesco, in una espansione di
modelli strutturali, di grafici e coordinate, in costruzioni teoriche che
talvolta si risolvevano in decostruzioni: Eco e Derrida, Segre e
Fabbri, Genette e Deleuze. Così anche la letteratura veniva presa in
carica dal “loico” demonio della teoria, mentre dal cuore centrale
dell’università aleggiava il nume di Carlo Bo, suo rettore a vita, il cui
solo nome evocava la persistenza di un altro Novecento, di una
letteratura e di una critica ancora immuni da quella allora scanzonata
e avventurosa furia teorica. Oggi, del resto, l’avventura si è dissolta,
si è come ribaltata su se stessa: la semiotica e tutto ciò che la
circondava hanno perso ogni mordente, ogni pretesa di spiegare il
groviglio della cultura e del mondo.
Comunque a Urbino si sale e si scende: c’è un ascensore che dal
Mercatale porta su, sopra le aggettanti sostruzioni, sul corso
Garibaldi, sui giardini sotto la facciata del Palazzo Ducale; e c’è la
ripida strada che sale dalla Porta Valbona, accanto alla quale una
lapide riporta un passo del Journal de voyage di Montaigne, che
nota che la città è “sur le haut d’une montaigne de moïene hautur,
mais se couchant de toutes parts selon les pantes du lieu, de façon
qu’elle n’a rien d’esgal, et partout il y a à monter et à descendre” (“al
sommo d’un colle di media altezza, ma scendendo da ogni parte
secondo i suoi pendii: di modo che non v’è un sol luogo piano, e
dappertutto bisogna salire e scendere”: era il 1581). Ora salgo per
questa ripida via Mazzini: e nel salire passo lentamente dalla
silenziosa sera del Mercatale a un brusio sempre crescente, che è
quello della centrale piazza della Repubblica, con i tavoli dei bar
affollati, con studenti riuniti in vari gruppi, anche sotto i portici del
Collegio Raffaello. Sulla strada che sale verso il Duomo e il Palazzo
si affacciano piccoli locali. Ma mi sorprende un vicolo stretto che si
apre sulla destra, sotto una volta scura: bene in evidenza è la targa
che ne reca il nome, via Volta della Morte, che conduce al
cinquecentesco Oratorio della Morte: ne è stato suggestionato
Aurelio Picca, scrittore che sempre più cerca eccessi atipici, durezze
coltivate entro tenere passioni, pubblicando nel 2006 un romanzo
intitolato proprio Via Volta della Morte. E non so se il vicolo che si
apre dalla parte opposta, proprio dirimpetto, denominato via Balcone
della Vita, che dopo breve percorso si affaccia sui colli a nord, abbia
la funzione di bilanciare questa cupa denominazione.
Tra i tanti richiami culturali e letterari che suscita Urbino, si impone
però alla mia mente il ricordo di Paolo Volponi, lo scrittore che ha
dato voce al cuore stesso della città, al suo palpitare quotidiano,
all’intreccio tra il suo fondo popolare, spigolosamente anarchico, e il
suo aprirsi verso una civile bellezza, verso una misura di ragione: tra
la rocciosa asperità di quel salire e scendere e il sogno
rinascimentale di una convergenza tra potere e cultura, cultura
dell’operare, del fare, del creare mondi abitabili, Raffaello,
Castiglione… Voce di un’Italia operosa e severa, ma anche
turbinosamente inquieta, dalla cui humus è sembrata scaturire a un
certo punto del dopoguerra la via di un moderno vitalissimo sviluppo.
Erano ipotesi anche politiche sorte, più che da svolgimenti ideologici,
proprio dall’orizzonte di città come queste, dalle forme del vivere da
esse alimentate. Tutto ciò si è in fondo perduto già nel volgere degli
anni settanta e poi nel vario succedersi di assestamenti e lacerazioni
economiche, finanziarie, antropologiche, tecnologiche, geopolitiche.
Volponi ha vissuto questo sogno e questo precipitare, con una sua
intensa, corporale generosità: la disillusione che si espande nel suo
ultimo romanzo, Le mosche del capitale (1989), nella sua persona
sembrava essersi risolta in una cordiale e dimessa tenerezza, nella
dolcezza di un malinconico sorriso. Questo almeno mi è sembrato di
sentire quando a Urbino venne ad ascoltare una mia conferenza: era
già malato, ma mi venne incontro con affettuosa solidarietà, con quel
suo sguardo che sembrava associare curiosità e riservatezza. In
ogni ritorno a Urbino mi viene incontro quello sguardo, quel breve
ma intenso lampo della sua umanità: cordiale, con quell’esito –ale
che Volponi ha usato come una sorta di segno di sé, nei titoli di gran
parte delle sue opere, Memoriale, La macchina mondiale, Corporale,
Il sipario ducale, Le mosche del capitale, Nel silenzio campale.
Aggiro il sipario ducale e mi fermo a mangiare in una piccola
osteria, che dispone i suoi tavoli sulla via Garibaldi, poco al di là
della parte sormontata dallo svettante palazzo. Il ristoratore mi
guarda con una strana curiosità e mi chiede se io non sia un celebre
nutrizionista che è molto presente in tv; devo precisare che quello
non sono e rassegnarmi a subire questa imprevista somiglianza.
Pasto ottimo e semplice, condito dalla conversazione ormai
intavolata col ristoratore, che, indicandomi una vecchia signora che
su un tavolo vicino mangia davvero di buon gusto, mi dice che ha
ben 98 anni. A lei comunque fa da contrappeso, in altri tavoli più in
là, la squillante giovinezza di studenti e studentesse che conversano
animatamente.
Lasciata l’osteria, dalla piazza centrale mi arrampico sulla ripida
via Raffaello, su cui si affaccia la casa del grande pittore: qui a un
certo punto abitava un vecchio professore di cui non riesco a
ricordare il nome, che incontrai, malandato ed esitante, davanti
all’uscio di casa, in una mia passeggiata di tanti anni fa. Nella
penombra serale la via mi conduce nel punto più alto della città, fuori
delle mura: c’è un giardino che al centro ha il monumento
tardoottocentesco a Raffaello. Nel viale che circonda il giardino ci
sono i busti in marmo di illustri personaggi, urbinati o in qualche
modo legati a Urbino: Girolamo Genga, Polidoro Virgilio, Bramante,
Pascoli, Giusto di Gand, Torquato Tasso, Francesco di Giorgio,
ancora Raffaello. Di bronzo, più recente, il busto di Volponi, accanto
a quello di Piero della Francesca. Nel fresco giardino la luce dei
lampioni lascia zone d’ombra tra il rigoglio delle piante e la solenne
immobilità degli imbustati personaggi: uno strano effetto di mistero
emana qui dal passaggio delle poche persone, dall’eco delle loro
voci leggere, dalle pause di chi sosta e dal rapido svanire di chi si
allontana. C’è una sorta di sospensione e attesa del tempo: passano
senza guardare quei busti, velocemente sulle nude agilissime
gambe come aerei trampoli, due graziose ragazze, mentre un uomo
dalla folta criniera bianca, sceso da un furgoncino parcheggiato ai
margini del giardino, mangia qualcosa, forse della pizza, su una
panchina, accanto a Giovanni Pascoli, che, assorto nella sua
malinconia, vagheggia i perduti aquiloni.
Monte Catria

Tra ’ due liti d’Italia surgon sassi,


e non molto distanti a la tua patria,
tanto che ’ troni assai suonan più bassi,

e fanno un gibbo che si chiama Catria,


di sotto al quale è consecrato un ermo,
che suole esser disposto a sola latria.
(Par., XXI 106-111)

Lascio Urbino la mattina del 3 luglio, dirigendomi verso il monte


Catria, che Dante ricorda nel cielo di Saturno per bocca di san Pier
Damiani, entro uno sguardo panoramico ai sassi appenninici, come
un gibbo sotto il quale si trova l’eremo di Santa Croce di Fonte
Avellana, già consacrato a sola latria, al puro culto divino. Ai piedi di
Urbino la cittadina di Fermignano mi ricorda una coppia che,
emigrata da qui a Roma nel dopoguerra, abitava nel palazzo della
mia famiglia: lui tramviere e lei sarta, senza figli, esemplari di una
piccola Italia chiusa nel proprio semplice lavoro, nella cura del
proprio fare e del proprio risparmio, messo insieme nella prospettiva
di tornare nella vecchiaia dalla grande città al proprio paese, in una
casetta tutta nuova. Avevano percorso La strada per Roma molto
prima dei giovani del primo romanzo scritto da Volponi, così
intitolato, e certo con ben più scarsa intelligenza e ben più scarse
intenzioni. Ricordo il loro bicamere tutto pieno di pezze di sartoria, di
aghi spille spilloni, il paziente lavorare della signora (denominata
direttamente come la sarta), la banale limitatezza dei suoi discorsi e
delle sue vedute sul mondo, che già irritava me bambino, e la
semplice dimessa generosità del marito, che evidentemente subiva il
dominio della moglie. Poi andarono in pensione e tornarono a
Fermignano nella accogliente casetta che si erano fatti costruire
grazie ai risparmi romani: ma ho saputo che poco assaporarono il
piccolo piacere di questa retraite, per malattie che presto insorsero,
tra l’occhiuta attenzione di nipoti certo pronti a contendersi l’eredità.
Piccolo universo piccolo borghese questo della sarta di Fermignano,
estraneo e indifferente verso ogni orizzonte artistico, ostinato nella
riproduzione di se stesso: ma certo l’Italia degli anni del boom, l’Italia
come poi è diventata, è stata costruita e caratterizzata anche da
questa così limitata umanità, da queste esistenze che ci appaiono
senza respiro, consumate ostinatamente al di fuori di ogni storia. E
certo ora non resta più nessuna traccia di loro.
Pensieri poco danteschi che vado ruminando mentre percorro un
tratto della vecchia Flaminia per affacciarmi sulla gola del Furlo.
Costeggio il fiume Candigliano, incassato tra incombenti pareti
rocciose e a un certo punto bloccato da una chiusa, e raggiungo la
stretta e breve galleria, un tempo attraversata da cauteloso e fitto
traffico, ora percorsa a piedi dai pochi visitatori, mentre le auto
passano sulla nuova variante. Poi, dopo aver percorso un tratto di
questa variante, mi addentro verso Frontone e Serra Sant’Abbondio,
ai piedi del Catria, fino al monastero camaldolese, incassato con i
suoi bianchi mattoni tra i boschi del monte, di cui appare come una
silenziosa e vigile sentinella, blocco di edifici che si espande tra la
vegetazione, sotto il tozzo campanile che ha doppie finestre su tutti e
quattro i lati. Grande silenzio regna nella zona antistante al
monastero, nel parcheggio e nei vari locali con funzione turistica:
quando arrivo sembra che non ci sia nessuno.
Dato che all’interno si potrà accedere solo più tardi, a orario
previsto, seguo la strada che costeggia il Catria a mezza altezza,
toccando i borghi di Caprile e Foce; poi raggiungo di nuovo Frontone
e prendo la stretta strada che sale verso l’alto tra i boschi e qualche
distesa erbosa. Man mano che si sale il cielo si oscura e si entra a
tratti tra le nuvole, non senza improvvisi squarci di cielo scoperto:
località Valpiana, località Gorghe, si gira intorno alla vetta del monte
Acuto, su una località detta Infilatoio, a metri 1378. Qui su un prato
scoperto, non lontano da una baita, si ergono due pali giganteschi.
Incontro un giovane che fa trekking solitario e conosce bene il luogo:
mi dice che si tratta di ciò che resta di due pale eoliche impiantate
qui negli anni ottanta, ma poi fermate, con asportazione delle eliche,
che producevano un attrito eccessivo. Restano questi totem,
monumenti al nulla, residui della nostra insaziabile brama
energetica, così provvisoriamente scacciata da questi antichi sassi
erbosi. Nel percorrere questo prato scorgo del resto altri più banali
residui: l’involucro di un pacchetto di sigarette Camel blu, una
bottiglia di vetro senza etichetta… Poi oltre Infilatoio un’altra strada
sterrata mi avvicina alla vetta del Catria, ai suoi 1701 metri, accanto
alla croce segnacolo dell’altezza, immersa ora nella nebbia che
cancella ogni vista dei due liti d’Italia.
Scendendo sul versante sud del monte, si giunge alla strada 360,
che tra i piccoli borghi di Valdorbia e di Isola Fossara penetra in una
gola abbastanza stretta, sotto lo strapiombo roccioso del Catria, in
cui scorre il torrente Sentino, che viene dai monti dietro Gubbio
(grosso modo dal “colle eletto dal beato Ubaldo”). Poco oltre la
strada e il torrente toccano il sito della romana Sentinum, luogo della
battaglia del 295 a.C., in cui Roma sconfisse sanniti, galli e loro
alleati, concludendo la terza guerra sannitica, che fissò il suo
dominio sull’Italia centrale. Lascio la strada e piego verso nord,
passando all’abbazia di Sitria, che è sotto la diretta gestione dei
monaci di Fonte Avellana e di cui è in piedi solo la chiesa, a navata
unica, di spoglia e suggestiva semplicità. Nella cripta, dalla volta
molto bassa, si apre la cella oblunga che si dice abbia accolto san
Romualdo, fondatore dell’abbazia e vissuto qui sette anni,
probabilmente tra il 1014 e il 1021: entrare qui dentro, mentre non
c’è nessuno, dà come l’illusione di compiere un improvviso salto nel
tempo, ripercorrere per un attimo la misura dei mille anni trascorsi
(mille anni precisi, dal 1014 al 2014).
Santa Croce di Fonte Avellana

“Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,

che pur con cibi di liquor d’ulivi


lievemente passava caldi e geli,
contento ne’ pensier contemplativi.

Render solea quel chiostro a questi cieli


fertilemente; e ora è fatto vano,
sì che tosto convien che si riveli.

In quel loco fu’ io Pietro Damiano…”


(Par., XXI 113-121)

Romualdo, fondatore dell’ordine camaldolese, di cui proprio Pier


Damiani scrisse la Vita, è direttamente ricordato tra gli spiriti
contemplanti del cielo di Saturno dallo stesso san Benedetto
(Paradiso, XXII 49). A lui si deve anche la fondazione o comunque
l’inserimento entro l’ordine camaldolese dell’eremo di Fonte
Avellana, alla cui porta ritorno dopo il giro del Catria. Mi viene ad
aprire il padre Cesare, che non veste il tradizionale abito monastico,
ma semplice pantalone e maglia grigioazzurra. Mi conduce
attraverso l’atrio e vari passaggi interni nella zona delle celle, che
danno su di un ampio corridoio, assegnandomi quella che sopra la
porta reca la scritta S.WALFARDUS C., in memoria di un santo
camaldolese di origine germanica, Gualfardo, morto nel 1127 nel
monastero di San Salvatore di Corteregia in Verona.
Sotto il segno dell’a me ignoto Gualfardo mi sistemo nell’ampia
cella, con una finestra che dà sul retro dell’edificio, affacciata sulla
vegetazione boscosa che si arrampica fino a uno sperone di roccia.
Mi reco alla preghiera del vespro, prevista per le 19, che non si tiene
nella chiesa, ma in una cappella: mentre mi seggo accanto a quattro
uomini e a una donna rivestiti di saio e a un altro in abito laico, uno
dei monaci mi dà un Salterio monastico. È appena iniziata la lettura
e il canto, quando giunge una giovane coppia di ospiti della
foresteria, che vengono a partecipare alla preghiera, l’uomo un po’
tozzo e tarchiato, la donna piccola, dai capelli rossi e un po’
lentigginosa, con un suo sguardo tenero, ingenuo e come impaurito.
Vengono letti e in parte cantati, tra l’altro, in italiano, i Salmi 110 e
111 e il Magnificat. Canto e preghiera si dispiegano con dimessa
semplicità; e anche se le mie labbra esitano a proferire direttamente
le parole dei testi, che pure posso seguire nel libretto che mi è stato
fornito, mi sento comunque partecipe, accolto per partecipare, per
un po’ spogliato dalle scorie e dai rumori del vagare quotidiano.
Resto come sospeso: e questa sensazione si isola in se stessa,
tanto che di quei testi sacri finisco per percepire solo il suono, mi
sfugge il loro ordine di significati. Capisco appena che tutto si
conclude con la lettura di un’epistola di san Paolo, ma non riesco a
comprendere di quale si tratta, né il suo senso.
Quando il consesso si è sciolto, posso girare un po’ per l’intero
cenobio, tra la chiesa, la cripta, residuo della chiesa più antica,
dell’XI secolo, la bellissima sala dello scriptorium, con la sua volta a
sesto acuto, il piccolo chiostro su cui indugia ancora qualche riflesso
del sole ormai al tramonto: poi, in fondo all’ampio corridoio inferiore,
la cella che secondo una tradizione tutt’altro che certa avrebbe
ospitato Dante nel 1318 (c’è il suo busto e una lapide
cinquecentesca). Eccomi poco dopo a cena con i monaci, nel locale
dell’antirefettorio (troppo grande ormai il refettorio vero e proprio). Si
mangia con i pochi monaci, vestiti perlopiù in laica semplicità, salvo
uno vecchio e malato che giunge in una carrozzella, che un altro
spinge; c’è poi un altro religioso anche lui molto anziano ma ben ritto
sulle gambe, che veste un abito talare, da prete secolare. Il cibo è
semplice e genuino, ma non fa certo pensare ai “cibi di liquor d’ulivi”
di Pier Damiani, somiglia piuttosto a quelli che si consumavano nelle
modeste famiglie dei nostri anni cinquanta: riso in brodo leggero,
formaggio fresco, verdure, pasticcio di carne, frutta, con un buon
vinello rosso.
Faccio domande sui luoghi d’origine dei monaci e parlo di questo
mio viaggio dantesco: mi sorprende la presenza di una donna, quella
che officiava il vespro vestita di saio e ora è abbigliata in una
semplice maglia e una severa gonna, con i capelli grigi raccolti in
coda di cavallo. Non credevo che nello stesso monastero potessero
essere presenti monaci di entrambi i sessi: lei mi dice che è
bergamasca, suora camaldolese del cenobio femminile di
Sant’Antonio a Roma, che si trova sull’Aventino, presso il roseto
comunale, e qui è soltanto in visita, come ospite. A un certo punto
della cena arriva il priore, Gianni Giacomelli, circa cinquant’anni, ma
con un’aria da ragazzo: giunge solo adesso, perché era in viaggio,
veniva dal bellunese, sua terra d’origine, dove aveva fatto una visita
al padre malato. Nei suoi modi di grande gentilezza sembra come
trasparire un impegno fiducioso nei confronti dell’esistenza, una
piena disponibilità a operare, a mettersi in comune.
Conversiamo sulla fatica del viaggio in auto, sulle strade italiane,
sul rapporto con i genitori, sulla vita del cenobio, sul rilievo e le
condizioni della vita monastica nel mondo di oggi (non è del tutto
vano questo chiostro?). Forse un po’ maliziosamente chiedo ai
monaci cosa pensano della suora che recentemente si è imposta in
una gara canora televisiva: mi risponde il silenzio e la smorfia
turbata di un giovane monaco, che mi è parso del resto sempre
imbronciato e di poche parole. Ricevo informazioni e chiarimenti
sulla struttura dell’ordine camaldolese e sulle sue complesse
vicende, che nel Cinquecento videro la soppressione della
congregazione degli Avellaniti, e la formazione della congregazione
più rigoristica degli eremiti di Monte Corona, detti Coronesi (la cui
casa madre si trova ora nel Sacro Eremo Tuscolano, sopra Monte
Porzio Catone).
Dopo la cena, il priore mi conduce nella biblioteca Dante Alighieri,
dagli alti e foltissimi scaffali. Vi troviamo già la suora, impegnata ad
armeggiare con un computer. Don Gianni (così vuol essere
chiamato) mi fa la storia della biblioteca e mi mostra alcuni preziosi
libri danteschi. Sfogliamo varie edizioni secentesche e
settecentesche; e indugio più a lungo su una lussuosa edizione di
primo Ottocento, con neoclassiche tavole in rame, della Tipografia
All’insegna dell’ancora, 1817-1819. Ecco Paolo e Francesca che
volano sotto la bufera infernale, ma avvolti in eleganti drappi e
panneggi… Non solo le edizioni: anche la critica dantesca è qui ben
rappresentata, pur rimanendo scoperti molti dei suoi fittissimi sviluppi
degli ultimi decenni (certo per le inevitabili difficoltà finanziarie). Ma
c’è tutta una letteratura religiosa, teologica, monastica, che dalla
spiritualità medievale risale ai padri della Chiesa e alla Bibbia: e per
ciò che riguarda il Nuovo Testamento, il priore, che conosce bene il
greco, mi parla della necessità di risalire alle fonti greche originarie,
facendomi esempi precisi dei travisamenti e delle correzioni
necessarie che lo studio della forma greca impone nella lettura delle
Lettere di san Paolo. E, dato che questo è il loco di Pietro Damiani,
mi parla con passione della spiritualità del santo, del suo rapporto
col divino, del modo in cui esso si manifesta nei suoi numerosi scritti.
Il colloquio nella biblioteca è fasciato dal silenzio della sera e sembra
come trasportarmi verso il sogno impossibile di una felicità fatta di
soli pensier contemplativi, in una separazione dal mondo: sogno
impossibile e lontano, di cui si affaccia qui qualche impalpabile
barlume, che comunque non resta chiuso tra questi chiostri, viaggia
sulla rete e sugli intrecci del mondo, come testimonia la presenza
della suora che silenziosa continua a toccare la tastiera con gli occhi
rivolti allo schermo del computer.
Lascio il priore a sbrigare delle pratiche urgenti e ripercorro i
corridoi del convento nella scarsa luce notturna. In un atrio incontro
quel vecchio con abito di prete secolare che era a cena; mi fa
qualche gentile domanda sulla mia età e sulla mia famiglia e, con
dolce accento marchigiano, ricorda la sua famiglia contadina, la
povertà dell’infanzia, gli studi in seminario, il suo impegno in vari
luoghi d’Italia, fino alla funzione di parroco nel paese qui più vicino,
Serra Sant’Abbondio, e alla scelta di ritirarsi qui, di darsi alla vita
monastica in questi suoi ultimi anni. Benché anche io sia ormai
vecchio, sembra rivolgersi a me come se fossi un ragazzo, un bravo
ragazzo che egli loda con una modestia come sostenuta da quel
tanto di autorità clericale che deve aver nutrito la sua vita: loda la
mia passione letteraria e dantesca, questo essere venuto qui a
cercare le orme di Pier Damiani. Gli auguro una buona notte, questa
silenziosa notte d’estate conventuale, e, rientrato nella cella sotto il
nome di san Gualfardo, mi affaccio alla finestra aperta sul buio della
folta vegetazione, che ora è assolutamente immobile, nel fresco
senza vento della notte d’estate. Mentre i miei pensieri vagano tra il
presente e il passato, il buio tra le piante si accende in un fitto
vagare di lucciole.
Carpegna

Ov’è ’l buon Lizio e Arrigo Mainardi?


Pier Traversaro e Guido di Carpigna?
Oh Romagnuoli tornati in bastardi!
(Purg., XIV 97-99)

Il 4 luglio, di buon mattino, dopo una colazione insieme ai monaci,


con grandi tazze di caffellatte, marmellate e miele di bosco, scendo
da Fonte Avellana per dirigermi verso il cuore del Montefeltro.
Risalgo la Flaminia, da dove avvisto un ponte romano di età
augustea sul fiume Burano e tocco Cagli, cittadina di perfetta misura,
che mi ricorda un non trascurabile letterato cinquecentesco di cui è
patria, Bernardino Pino, autore tra l’altro della commedia Gl’ingiusti
sdegni. La breve sosta a Cagli mi fa ammirare la rustica mole del
Palazzo Pubblico, il suo balcone con ringhiera in ferro battuto su cui
si affaccia una nicchia con una statua di Madonna col bambino,
sovrastato da un orologio sotto cui è inscritta la data MDLXXV
(erano proprio i tempi di Bernardino Pino) e oltre il quale c’è un
piccolo campanile. La forma del palazzo deriva da molteplici
rifacimenti e ampliamenti (tra cui un intervento quattrocentesco per
volere di Federico da Montefeltro): ma la sua fondazione risale
comunque a tempi danteschi (1289), mentre quattrocentesco e
feltresco è l’imponente torrione della rocca, ai margini del nucleo
antico della città. Ma certo ogni centro anche piccolo delle Marche
attrae con qualche suggestione storica, con qualche lascito di
misurata bellezza, pur tra il vario insediarsi, nel cuore delle valli e tra
le pieghe dei rilievi montuosi, di stabilimenti industriali.
Ripercorro in parte la Flaminia, che lascio ad Acqualagna,
prendendo a sinistra e raggiungendo, poco prima di Urbania, la
strada ex 73 bis, che si dirige verso la valle del Tevere, valicando
l’Appennino sulla Bocca Trabaria, il cui nome era ben noto nello
studio scolastico di una geografia che non si studia più, come
confine tra l’Appennino tosco-emiliano e quello umbro-marchigiano.
Anche Urbania è città di grande interesse, per la sua storia e la
varietà dei suoi edifici (su cui si impone il Palazzo Ducale): fu
impiantata proprio negli anni danteschi, col nome di Casteldurante,
raccogliendo i superstiti di un centro guelfo precedentemente
distrutto dai ghibellini Montefeltro. Dal Quattrocento entrò nel
dominio dei Montefeltro della vicina Urbino e finì per far parte del
ducato urbinate: ma si sbaglia se si pensa che il suo nome sia
giocato proprio a specchio fonico con quello della più celebre città,
dato che continuò a chiamarsi Casteldurante fino al Seicento,
quando divenne Urbania in onore del papa Urbano VIII, che le diede
il titolo di città e di diocesi.
Non mi fermo a Urbania, ma non posso evitare di sostare
brevemente, oltre la città, nel Parco Ducale o Barco, che si affaccia
tra folti campi di girasoli e di grano da poco mietuto: fu luogo di
caccia e di delizia dei duchi di Urbino, dai Montefeltro ai Della
Rovere, ora in avanzato stato di restauro. L’edificio, come disteso e
abbracciato dal dolce paesaggio campestre, incorpora una chiesa
che quasi sembra sorta dal suo interno, innalzata ed espansa in una
tumefazione della sua struttura: il suo frontone, il campanile e uno
svettante fastigio a torricino fuoriescono dal corpo centrale del
palazzo. Qui doveva raccogliersi nelle occasioni venatorie la corte
urbinate: e certo ci passarono gli ospiti della corte, forse l’Ariosto,
certo il Castiglione e più tardi il Tasso, che al vicino fiume Metauro
rivolse una canzone che, pur se incompiuta, è una delle sue più
belle e celebri. Mentre l’interno è chiuso per i restauri, percorro il
viale del parco, sul retro dell’edificio, respirando l’aria ancora fresca
del mattino, che sembra volermi portare un’eco di quei tempi distanti,
dei silenzi e del brusio della caccia, mentre un mezzo agricolo in
movimento in un campo vicino scoppietta allegramente e cancella
ogni traccia dei fantasmi ducali.
La strada ex 73bis, sfiorando il percorso del Metauro e a un certo
punto attraversandolo, si dirige verso Sant’Angelo in Vado: ma poco
prima di raggiungere questa città, la lascio girando verso destra;
sbucando da una galleria mi affaccio sul nucleo industriale di
Lunano-Piandimeleto. Nello scendere tra vari stabilimenti e capanni,
la vista si apre sul monte Carpegna, che copre ampio margine
dell’orizzonte. In breve dallo schematico e ripetitivo disporsi degli
edifici delle fabbriche si passa al paesaggio montano, con la strada
che sale sulle falde del monte e mi conduce alla località che ha il
nome stesso del monte e che ne costituisce il centro turistico.
Carpegna è dominata da un palazzo di armonica misura,
tardosecentesco ma di aspetto più rinascimentale che barocco, il cui
portone è inquadrato da due rampe di scale che convergono verso di
esso: ultima impresa architettonica dei discendenti della famiglia
feudale a cui apparteneva quel Guido di Carpigna, che nel XIV del
Purgatorio Dante fa menzionare da Guido del Duca come
rappresentante di una nobiltà romagnola che non c’è più, dedita
all’esercizio di “amore e cortesia”, che i “Romagnoli, tornati in
bastardi”, hanno ormai abbandonato.
La piazza e i viali vicino al palazzo sono immersi nella quiete del
mattino, da tranquillo luogo di vacanza estiva: Carpegna si presenta
come “paese dello scoutismo” (invita a escursioni varie sul monte) e
come paese di nostalgie ciclistiche. Sull’asfalto e in alcuni manifesti
campeggia il nome di Marco Pantani, il campione romagnolo
tragicamente scomparso qualche anno fa, formidabile scalatore
passato dalla gloria al crollo per mai chiarite vicende di doping,
morto per un’overdose di cocaina nel 2004, di cui si ricordano
molteplici imprese, prime fra tutte le vittorie del Giro d’Italia e del
Tour de France nel 1998. Sulle strade del monte Carpegna, il più
vicino alla sua Cesenatico, soleva allenarsi: e qui si affacciano vari
ricordi delle sue scalate, di quell’ostinato e aggressivo spingere sui
pedali che pure sembrava avere qualcosa di malinconico, come un
segno di sproporzione, di arrembaggio al nulla (del resto era
soprannominato il Pirata). Qui, disteso sulla strada, c’è ancora lo
striscione del passaggio dell’ottava tappa del Giro d’Italia di
quest’anno, Foligno-Montecopiolo, sfilata proprio davanti al Palazzo
Carpegna, per salire poi sul monte, al Gran premio della montagna,
a metri 1358, in memoria di Pantani.
Per fermarmi un po’ accanto al palazzo, cerco di parcheggiare in
uno spazio strettissimo e mi accorgo solo dopo una lunga manovra
che sto per sfiorare un palo metallico, senza riuscire più a
districarmi. Mentre resto un po’ interdetto al volante, passa una
ragazza bruna di piccola statura, accompagnata da un adolescente:
subito tutti e due si danno da fare per seguire i miei movimenti,
aiutandomi a far sì che l’auto non venga danneggiata dal palo. Sono
molto gentili: la ragazza, dall’aspetto molto giovanile, dice di essere
milanese e che quello è suo figlio. Ma non sono in vacanza: si sono
trasferiti qui già da una decina di anni, lasciando le difficoltà
economiche della vita milanese. Qui certo si trovano molto meglio,
anche se nemmeno qui c’è lavoro. Lei va avanti facendo pulizie nella
casa di due anziani, mentre il figlio frequenta il quarto anno delle
superiori, a Sassocorvaro, a poco più di quindici chilometri da qui.
La breve conversazione con loro, nei giardinetti nei pressi del
palazzo, mi dà un’immagine di semplice esistenza, di una
spontanea, dimessa civiltà. Un’esistenza dislocata per effetto della
crisi economica, come sottrattasi al vortice impetuoso della grande
città, rifugiatasi così in questo luogo “a parte”, tra le braccia di questo
monte che forse la protegge dalla paura della lotta per la vita: luogo
che, pur tra tante difficoltà, sembra aver accolto madre e figlio in una
misura civile, che certo ha alimentato la stessa gentilezza con cui
sono venuti incontro alla mia difficoltà automobilistica. Li saluto
augurando loro una buona fortuna e una vita felice: ma so bene
come il mio augurio sia insufficiente, forse incongruo con il loro
essersi ritirati qui, con il loro essere a parte, certo provvisorio e
insoddisfacente per il ragazzo che chissà cosa pensa del suo futuro,
chissà quali altri mondi cerca quando siede tra i banchi là, nella
scuola di Sassocorvaro.
San Leo

Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,


montasi su in Bismantova e ’n Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch’om voli…
(Purg., IV 25-27)

Sono rapidamente salito sul monte Carpegna, oltre il cippo innalzato


in epoca fascista, fin nei pressi della vetta, dove cartelli e scritte
varie ricordano Pantani, davanti all’ampio belvedere aperto su uno
sfondo luminoso che su un parapetto viene esaltato come “il cielo
del pirata”. Poi scendo su Pennabilli, che mi si annuncia come “città
degli artisti di strada”: ne osservo da lontano il colle chiamato Rupe
(già Billi), con le rovine di una rocca dei Malatesta. Dopo il piccolo
borgo di Maciano sulla destra si incontra la chiesa e convento
dell’Olivo, fronteggiata da un breve portichetto. Sono sulla valle del
Marecchia, circondata da colli tra cui in un profluvio verde si
disseminano esili campanili. Qui si affacciano sette comuni che fino
a qualche anno fa facevano parte della regione Marche e che, in
seguito a un referendum, sono passati nel 2009 all’Emilia Romagna.
Tra questi Pennabilli e San Leo, che così sono rientrati anche a
livello istituzionale in quella che è la loro regione storica: con un
passaggio che sembra innocuamente riecheggiare l’irrequietezza
che ai tempi danteschi agitava questi territori, con le continue
mutazioni di regimi, di poteri, di fazioni.
Dopo aver costeggiato per breve tratto il fiume, piego sulla destra
verso San Leo, che variamente appare con la sua rocca addossata
sulla rupe, che sembra sporgere come uno strano puntello del
paesaggio, appostata sentinella dell’orizzonte, abbarbicata
sull’escrescenza rocciosa, in sguardo vigile sulla pianura e sui colli
all’intorno. La strada variamente si avvolge, sale e scende facendo
apparire San Leo da più direzioni, visivamente sottolineando la sua
eccezionalità, mutandone più volte l’effetto, facendo rimbalzare il
detto popolare che si ripeteva Felice Orsini quando vi veniva
condotto come prigioniero. “Sol un Pepa, sol un De’, sol un forte de
San Le’” (“Solo un Papa, solo un Dio, solo un forte di San Leo”).
Eccomi allora all’ingresso della piccola città che è alla base della
rupe: dopo aver trovato un comodo parcheggio, eccomi al centro,
sulla bella piazza Dante, dov’è anche la lapide che il popolo leontino
ha dedicato al poeta nel centenario del 1921; un’altra lapide ricorda il
passaggio di san Francesco, che qui, ospite dei Montefeltro, l’8
maggio 1213, incontrò il conte Orlando di Chiusi, che gli donò il
monte della Verna. Subito accanto ci sono i due edifici romanici della
Pieve e del Duomo, con il rustico effetto dei mattoni disposti in
geometrica misura. La città, che originariamente aveva il nome
assunto poi dalla regione circostante e dalla famiglia dei signori
feudali, Mons Feretrius, Montefeltro, è tenuta in modo perfetto,
piccolo gioiello per i turisti in visita breve, con negozi, negozietti,
ristoranti, disposti però con discrezione, integrati senza danno
nell’ambiente originario.
Questa perfezione ha subito però una minaccia recente, di cui
finora non ho visto tracce: nel febbraio di quest’anno c’è stata una
caduta di massa rocciosa, proprio dallo sperone della rocca sul
versante adriatico (dalla parte opposta a quella da cui sono arrivato),
che ha danneggiato da quel lato lo spazio intorno alla rocca, anche
con l’evacuazione di alcune case. Ciò ha portato alla chiusura della
strada carrozzabile che conduce al piazzale d’ingresso della rocca:
si sale quindi soltanto su di un sentiero che attraversa il boschetto
che riveste il pendio. Vassi in Sanleo, ma questa salita a piedi non è
particolarmente faticosa: non prende di petto il pendio che conduce
dalla città alla rocca, ma lo alleggerisce con varie giravolte. Nel salire
non si può non pensare all’instabilità dei luoghi, alla fragilità dei
territori, alla precarietà degli stessi siti che si credono più stabili,
come questa formidabile rupe, che ha avuto quella improvvisa falla,
proprio da una delle parti del suo scoscendimento più imponente e
minaccioso (che tra l’altro ha suscitato interessi e pratiche
alpinistiche, anche con l’installazione di una via chiodata).
Senza sforzi alpinistici raggiungo comunque la rocca, dove è
anche un museo dei più orribili strumenti di tortura: e di fronte al
brivido di orrore, non privo per molti di certo compiacimento pulp,
che oggi si può provare alla vista di questi attrezzi, ci si può
domandare con quali impressioni considerasse Dante quelle terribili
pratiche, in quei suoi tempi così duri e impietosi, e in che modo
agissero sulla sua immaginazione di pene e torture infernali,
prolungate all’infinito e senza remissione. La curiosità turistica si
impunta qui su tali strumenti e più ancora sulla prigionia del conte di
Cagliostro, l’avventuriero settecentesco condannato dalla Chiesa
come eretico e massone e rinchiuso qui dal 1791 fino alla morte
(1795). Si visita la terribile cella detta del pozzetto, a cui allora si
accedeva solo da una botola aperta sul soffitto. Si trovano omaggi al
prigioniero come “martire dell’intolleranza, del sospetto e del
pregiudizio”, anche mazzi di fiori sul tavolaccio che riproduce quello
su cui egli giaceva nelle sue dolorose giornate percorse da incubi,
ossessioni, deliri. Si visita anche la cella di Felice Orsini, il patriota
che fu qui per cinque mesi nel 1844 (e che poi nel 1858 organizzò a
Parigi il fallito attentato contro l’imperatore Napoleone III, che lo
condusse alla ghigliottina): e molti altri furono i patrioti qui
imprigionati nella varia repressione dei moti che ebbero luogo in
Romagna e negli Stati pontifici.
Ma, prima che carcere, questa fu una fortezza dei Montefeltro, dei
Malatesta e di altri, sistemata nella forma attuale nel Quattrocento da
Francesco di Giorgio Martini: e se ne vede bene la funzione nei
potenti torrioni, nei ben muniti spalti e nelle piazze d’armi. Da
quassù, dalla terza piazza d’armi, si sente un vento forte che a un
tratto si arresta in un assoluto silenzio solare: pochi turisti, tra cui
una bella coppia di neri, lei bellissima con un azzurro foulard
svolazzante, guardano il panorama. Davanti a noi, vicinissimo verso
nordest, è il monte Titano, dove è appollaiata, distesa in salita fino al
culmine turrito, la Repubblica di San Marino, che sembra come
protetta dalla fascia boscosa che, ai piedi del folto abitato, circonda
le falde del monte.
Verucchio

E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio,


che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio.
(Inf., XXVII 46-48)

Da San Leo, tornando sulla strada della Valmarecchia, si raggiunge


rapidamente Verucchio, considerato luogo d’origine dei Malatesta, in
cui si insediò il loro capostipite Giovanni della Penna dei Billi detto
Malatesta. La menzione che Dante fa di Verucchio è riferita
direttamente ai due Malatesta signori di Rimini, nel quadro politico
della Romagna, in risposta alla domanda di Guido da Montefeltro
(“dimmi se i romagnuoli han pace o guerra”, Inferno, XXVII 28)
nell’ottava bolgia. L’efferatezza dei due Malatesta padre
(Malatesta II, morto in età molto avanzata nel 1312) e figlio
(Malatestino, quello “che vede pur con l’uno” che abbiamo già
incontrato tra Fano e Focara), già sottolineata dal comune
appellativo di mastin, vecchio e nuovo, viene amplificata dalla
formidabile attrazione fonica del toponimo Verucchio, che, nella rima
con succhio, prolunga in una postura illimitata la morsa feroce dei
denti dei due mastini. Emblema e gesto assoluto di una violenza
come in se stessa rappresa, di cui nel verso interno della terzina
viene indicata una delle prove, il mal governo di Montagna, cioè la
sconfitta dei Ghibellini di Rimini, con l’uccisione del loro capo,
Montagna dei Parcitadi (dicembre 1295).
Nell’assoluta solarità del primo pomeriggio, Verucchio appare
come un borgo tranquillo e addormentato, in cui echi lontani della
violenza della crudele famiglia evaporano nelle insegne di locali che
variamente attingono a mastini e Malatesta. Dall’ampia piazza
Malatesta, in assetto ottocentesco, si passa alla scalinata che
conduce alla Rocca, naturalmente Malatestiana, dominata da una
torre detta del Mastin vecchio (anche se di origine più antica). Nelle
sale della rocca sono in mostra i più eterogenei oggetti, tra cui mi
colpiscono allegri e patetici giocattoli di primo Novecento, che
introducono un tocco di grazia infantile nella dura rudezza
militaresca e tirannica dell’edificio, tra le ombre aleggianti dei perfidi
mastini. Dalla parte della torre, sul versante sudest della rocca, sono
disposte le case della cittadina, oltre le quali, anche qui vicinissimo,
è San Marino, che mostra in piena evidenza la sua piega svettante.
Tutta la rocca, in parallelo con quella di San Marino, sembra porsi
come un ultimo baluardo che dalla piana si protende verso il vicino
mare: quasi una posizione di controllo totale sulla costa tra
Romagna e Marche, di cui si scorge la lunga trafila, quasi
ininterrotta, di edifici lungo le spiagge, città grandi e piccole, da
Cattolica a Rimini e oltre. Si riconosce bene anche il promontorio di
Focara, quello che per opera di Malatestino soffiò vento di morte per
i “due miglior da Fano”.
Rimini

Quel traditor che vede pur con l’uno,


e tien la terra che tale qui meco
vorrebbe di vedere esser digiuno…
(Inf., XXVIII 85-87)

Eccomi finalmente a Rimini, la città (terra) ricordata come possesso


di Malatestino nel discorso di Pier da Medicina che mette in guardia i
“due miglior da Fano” sul loro destino (vedi pp. 317-318): città che
un dannato che sta lì accanto vorrebbe non aver mai visto. Come
spiega poco dopo lo stesso Pier da Medicina, quel suo compagno di
pena è il tribuno romano Caio Scribonio Curione, seminatore di
discordia, perché, secondo il racconto di Lucano (Bellum civile, I
266-295), cacciato da Roma, avrebbe raggiunto Cesare a Rimini e lì
lo avrebbe convinto a rompere gli indugi dando inizio alla guerra
civile, dicendo che chi è pronto (fornito) ha sempre avuto danno
dall’aspettare rinviando l’azione (l’attender), con diretta ripresa del v.
281 di Lucano, “tolle moras, semper nocuit differre paratis” (“rompi
gli indugi: sempre a coloro che sono pronti ha nuociuto il rinvio”):

Questi, scacciato, il dubitar sommerse


in Cesare, affermando che ’l fornito
sempre con danno l’attender sofferse.
(Inf., XXVIII 97-99)

Ma non sono questi i riferimenti su cui in genere si appoggia


l’associazione tra Dante e Rimini: in chiave dantesca il nome di
Rimini suole evocare immediatamente la prima e la più celebre delle
donne che s’incontrano nell’oltretomba, Francesca, detta appunto
solitamente da Rimini, anche se in realtà la sua patria (“la terra dove
nata fui”, Inferno, V 97) è Ravenna e a Rimini ella è approdata nel
nesso familiare dei Malatesta, tra due dei figli del mastin vecchio,
moglie di Gianciotto, amante di Paolo, uccisa con lui, e non si sa con
quale partecipazione del terzo più giovane, il mastin nuovo,
Malatestino dall’occhio, a cui nella sua tragedia D’Annunzio
attribuisce delle spudorate avances verso di lei.
L’impronta malatestiana di Rimini, del suo centro storico, non viene
da Paolo e Gianciotto, né dal morso dei denti dei mastini che a quei
tempi ne facevano succhio: è affidata principalmente al più tardo
sogno umanistico di Sigismondo Malatesta e della sua corte, che
trova il suo cuore nel Tempio Malatestiano impiantato da Leon
Battista Alberti, il cui marmoreo splendore sembra proiettare
l’intenzione della famiglia signorile, al di là della dura materialità del
suo esercizio del potere e della violenza, in un misurato equilibrio, in
una atteggiata scansione spaziale, in una sorta di ideale persistenza.
Qui si è fissato uno specchio della corte malatestiana, nel
rispondersi tra interno ed esterno: all’interno della chiesa, le arche
dei Malatesta e il rilievo particolare che tocca al sepolcro di
Sigismondo e della moglie Isotta degli Atti; fuori, sul fianco destro, le
arcate con le tombe degli “intellettuali” malatestiani, Basinio Basini,
Giusto de’ Conti, Giorgio Gemisto Pletone, Roberto Valturio, Gentile
e Giuliano Arnolfi. È una chiesa dedicata a san Francesco, che in
fondo si pone come un tempio laico, in cui tra esterno e interno
sembra riecheggiare il Liber Isottaeus, con cui Basinio cantò gli
amori di Sigismondo e Isotta (e che ebbe una ripresa in chiave
sontuosamente e morbosamente estetizzante nell’Isotteo di
D’Annunzio).
Il centro storico di Rimini ha tanti altri motivi di interesse e di
fascino, come la centrale piazza Tre Martiri, il cui nome evoca tre
partigiani impiccati qui dai nazisti il 16 agosto 1944: essa si trova nel
sito dell’antico foro, dove Cesare avrebbe arringato la XIII legione
dopo aver varcato il Rubicone (a questo evento fanno riferimento un
cippo cinquecentesco e una statua bronzea di Cesare installata dai
fascisti nel 1933). La città storica, assestata sulla foce del
Marecchia, è come limitata dalla ferrovia, che la separa dalla città
balneare, affollata e brulicante nell’estate, con la spiaggia colorata
dai variopinti tessuti degli ombrelloni, che quasi occultano la base
sabbiosa, mentre sui viali si affacciano da una parte gli ingressi degli
stabilimenti e da tutte e due le parti bar, ristoranti, negozi di ogni
sorta: e poi pista ciclabile, attrezzi ludici per grandi e per bambini,
andirivieni di bagnanti sotto il sole, costipate folle e follie serali e
notturne. Città delle vacanze, vacanze organizzate e urbanizzate,
mare non più mare, artificio, manufatto, costruzione, residuo di
natura allontanata dalla natura, frastuono e divertimento, sballo
moltiplicato, invadente e invaso. È la Rimini che si è imposta già nei
primi anni del boom, con le piccole pensioni, i soggiorni a buon
mercato, per famigliole proletarie e per facili incontri, piccoli effimeri
amori, balere e rotonde sul mare, e poi variamente allargatasi tra
crisi e sviluppi della società dello spettacolo, come capitale di una
Romagna edonistica, piccolo borghese, richiamo per un consumo di
massa, nazionale e internazionale, crogiolo di culture giovanili, di
vite votate a spendersi, a dilapidarsi, a specchiarsi nel vuoto. A
questo sono approdati “le donne e’ cavalier, li affanni e li agi / che ne
’nvogliava amore e cortesia” (Purgatorio, XIV 109-10) della
Romagna rimpianta da Guido del Duca? Romagna e romagnoli
ricordati più volte per la specificità del loro volgare nel De vulgari
eloquentia, I X 5-6, XIV 2-3, XIX 1. Qui, in questo affollato brulicare e
disgregarsi dell’esistere si manifesta la cultura e lo spirito di un
nostro tempo che si prolunga da più di cinquant’anni, e di cui dà
un’immagine, forse parziale e limitata, il romanzo del 1985 di Pier
Vittorio Tondelli, che proprio Rimini s’intitola.
Ma ora a Rimini, nel nome di Francesca, parteciperò alle Giornate
internazionali Francesca da Rimini, che vengono organizzate già da
vari anni per iniziativa di Ferruccio Farina, appassionato cultore di
Francesca e della sua storia, collezionista di documenti e cimeli sulla
lunga fortuna del personaggio nell’arte, nella letteratura,
nell’immaginario diffuso (specie in ambito risorgimentale). Le
Giornate si svolgono con varia attività, tra cui una mostra dal titolo
Divina Passione, che presenta vari cimeli della collezione di Livio
Ambrogio, imprenditore torinese che con grande passione ha
raccolto un’amplissima serie di edizioni e oggetti danteschi, e il
convegno Italian Passion, in cui farò una breve relazione sulla
Romagna di Dante, insomma sul tema stesso di questa porzione del
viaggio che sto compiendo.
Ora nel pomeriggio assisto all’inaugurazione di queste Giornate,
nel Museo di città: e ascolto il sindaco di Rimini, Andrea Gnassi,
elogiare Francesca come ambasciatrice nel mondo della bellezza di
Rimini, collegando questi eventi al nuovo modello di sviluppo della
città nel tempo della crisi: modello che intende puntare non solo sul
consumo dell’ambiente (prolungatosi per tanti anni sulla strada del
turismo vacanziero), ma sulla specificità culturale, in una necessaria
integrazione tra alto e basso. Ne scaturisce una Francesca pop,
come del resto mostra l’intento programmatico fissato nel dépliant di
queste Giornate, che alludono alla specificità della “passione
italiana” espressa dai due amanti cognati, entro la “nostalgia della
vita passata”, in collegamento con La notte rosa, celebrazione del
capodanno dell’estate, che prende avvio proprio oggi 4 luglio, con
tanta musica dal vivo sul mare a Rimini e sulla riviera romagnola.
Qui è esposto un manifesto di questa notte rosa, anche questa come
Italian Passion, realizzato da Marco Morosini, con un bel bacio
sostenuto da citazioni pittoriche e contaminazioni ultrapop, la
fanciulla in abito per così dire rinascimentale (Francesca o Isotta
degli Atti?), con una mano sul libro galeotto, ma con sul capo una
bianca cuffia per ascolto di mp3, il giovane a torso nudo e jeans, e
sull’omero tatuato un cuore legato da un cartiglio su cui è scritto
Francesca e sotto la scritta Amor, ch’a nullo amato amar perdona. In
questa notte di passione ci saranno anche fuochi d’artificio dedicati a
questa e a tutte le passioni da consumare elencate nel programma
dell’evento roseo. Se la vicenda di Paolo e Francesca è assoluto
emblema critico del desiderio mimetico, che si svolge per azione di
un mediatore (secondo la prospettiva di René Girard), questa
Francesca pop si inquadra entro una catena di mimesi sovrapposte,
incastrate l’una dentro l’altra, in cui ogni bacio è determinato dalla
mimesi di altri baci, ogni amore è specchio di altri amori, cartiglio,
tatuaggio, musica in cuffia, consumo e scarto comunicativo: sei lui, ti
credi te.
La notte rosa si svolgerà comunque soprattutto di là, nella Rimini
al di là della ferrovia: noi convegnisti internazionali saremo di qua, in
un albergo della città storica, non lontano dal Tempio Malatestiano,
officiando nel bello e accogliente Museo di città, dove ora viene
inaugurata la mostra dei vari cimeli: più di sessanta stampe
dantesche, a partire dalla princeps di Foligno della Commedia
(Johann Neumeister, 1472), passando per la prima stampa illustrata,
quella col commento del Landino (Brescia, Bonino de’ Bonini, 1487).
Nelle teche in cui sono esposte, quasi tutte le preziose edizioni sono
aperte sul canto V e sui versi del bacio. Ci sono poi tanti altri cimeli e
pezzi curiosi, della collezione di Farina e di diversa origine, anche
qualcosa dallo studiolo dantesco del Museo Poldi Pezzoli di Milano,
di cui è presente qui l’intelligente e gentile direttrice Annalisa Zanni.
Spigolando tra i pezzi esposti si trovano cose strane, curiose,
sorprendenti. Presenze dantesche, di cui non sapevo, nella cultura
latino-americana: il racconto Francesca nel Lunario sentimental di
Leopoldo Lugones, 1909 (viaggio alla ricerca di notizie sui due
amanti, con la scoperta a Forlì di un palinsesto che ne narra la vera
vicenda), Victoria Ocampo, De Francesca a Beatrice, degli anni
venti, Alejo Carpentier, El derecho de asilo, 1972. Tra le curiosità più
bizzarre ricordo almeno il libro del medico riminese Nicola Santi,
pubblicato a Fossombrone nel 1861, col lungo titolo Riflessi sulla
morte di Francesca da Rimino e di Paolo il Bello: accagionati
d’incestuoso adulterio dalla brutale tirannide dello stesso uccisore,
marito e fratello, la cui fama invendicata restò dal settembre 1289
epoca della catastrofe sino al giorno presente. Ferruccio Farina mi
riassume la trama, in cui si nega come mai avvenuto l’adulterio, che
sarebbe stato simulato da Gianciotto, per coprire le vere ragioni di
un assassinio determinato dalla sua brama di potere… Ma quante
storie, quante accuse e stravolgimenti nei molteplici racconti sulla
vicenda, nelle combinazioni infinite che ne sono state date, già dal
commento di Boccaccio e poi nelle invenzioni romantiche e
postromantiche, dalla Francesca da Rimini di Pellico a quella di
D’Annunzio. D’Annunzio è poi ben presente in queste Giornate con
un omaggio all’opera che Riccardo Zandonai musicò su una
riduzione del testo della tragedia, di cui proprio quest’anno ricorre il
centenario (la prima ebbe luogo al Teatro Regio di Torino il 19
febbraio 1914): ne parla il bravissimo musicologo Antonio Rostagno,
mentre una mostra con vari documenti ne segue la fortuna nel corso
del Novecento, fino alla rappresentazione dell’anno scorso al
Metropolitan di New York (e ce ne fu anche una al Teatro Vittorio
Emanuele di Rimini dell’agosto 1923: e ce ne sarà una alla Scala nel
marzo 2018, come inaugurazione delle celebrazioni del prossimo
centenario dantesco del 2021).
Piacevole la fresca mattina del 5 luglio nel centro di Rimini, che si
sveglia nel torpore del sabato estivo, dopo la notte punteggiata dal
pirotecnico tripudio. Fastidiosa la lettura delle notizie culturali sui
giornali, con le varie elucubrazioni sul Premio Strega, assegnato la
sera del 3 luglio a un libro di Francesco Piccolo che nel titolo proietta
la letteratura verso la mediocrità dell’esistere (Il desiderio di essere
come tutti), e i necrologi per l’attore Giorgio Faletti, diventato negli
ultimi anni autore di noir, esaltato come grandissimo talento. Trionfo
generale del pop, in cui si rispecchia la nostra Francesca pop, che
dà varie prove di sé anche nel convegno a cui partecipo, dove, oltre
a ben calibrati interventi storici e critici, si affacciano discorsi che
dalla vicenda dei due cognati estraggono pappe filosofico-
esistenziali o sdolcinature da eros pubblicitario.
Nel pomeriggio una docente del liceo classico illustra l’attività del
laboratorio didattico che gestisce nella sua scuola e che confronta e
collega la storia di Francesca con la chick lit. Confesso la mia
ignoranza, ma non so proprio cosa sia la chick lit: mi soccorre però
Internet, che subito mi illumina su quello che pare essere un vero e
proprio genere letterario (chick literature, letteratura da pulcinette o
pupe, per pupe / pollastre e su pupe / pollastre?), evidentemente
sorto negli anni novanta, che mette in scena la vita delle “nuove
ragazze” immerse nella quotidianità consumistica, emancipate e
spregiudicate. Come leggo in un sito, “la donna chick lit è descritta
come agente sessuale attivo, indipendente, dotato di una propria
autonomia; può fare sesso con più uomini e parlarne con le proprie
amiche in maniera anche esplicita” (uno degli incunaboli di tale
letteratura sarebbe Il diario di Bridget Jones di Helen Fielding, 1995).
Erudito dall’informazione su queste sperimentazioni scolastiche, di
quelle che, come si dice oggi, “motivano” gli studenti a rivolgere un
po’ lo sguardo ai classici, così precipitati nel consumo del presente
sotto l’impero del desiderio mimetico, ho una più diretta percezione
del rapporto di ragazzi e ragazze di oggi con Francesca in un
simpatico spettacolo, che viene dato a sera nel cortile di una
singolarissima casa in stile preraffaellita che si trova su corso
Augusto, nel centro di Rimini. Sono liceali che studiano anche
musica e che suonano, cantano, recitano: un giovane canta una
curiosa canzone in cui Gemma Donati, moglie di Dante troppo
trascurata, rivendica i propri diritti; un piccolo gruppo con pianola,
arpa, flauto traverso, due violini, esegue vari pezzi novecenteschi
(Satie tra gli altri); poi voci diverse, maschili e femminili, recitano una
composizione che mette insieme versi del canto V (ben quattro volte
vengono variamente pronunciate le prime due terzine che
cominciano con Amor, vv. 100-105) e della Francesca di
D’Annunzio. E piace davvero la partecipazione e l’entusiasmo dei
ragazzi, l’impegno che hanno messo nella costruzione di questo
spettacolo.
Mi congratulo con i ragazzi e saluto i convegnisti; poi, conversando
con Antonio Rostagno e Paolo Fasoli, pescarese che insegna
all’Hunter College di New York, mi dirigo verso l’albergo. Passiamo
davanti al Tempio Malatestiano, dove sosta un piccolo gruppo di
turisti russi, alcuni dei quali fotografano il monumento con i loro
cellulari. Ma, un po’ in disparte rispetto agli altri, due si stanno
teneramente baciando, certo senza pensare a Francesca e al suo
bacio.
Rubicone

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna


e saltò Rubicon, fu di tal volo,
che nol seguiteria lingua né penna.
(Par., VI 61-63)

Lascio Rimini nella mattina del 6 luglio, attraversando il ponte del


fiume Marecchia, alla ricerca dell’altro fiume, quel Rubicone reso
celebre dal salto di Giulio Cesare, che appunto approdò a Rimini
dopo averlo attraversato. Nella storia dell’aquila romana messa in
bocca a Giustiniano nel VI canto del Paradiso, si insiste molto sulle
azioni di Cesare, che, preso in mano il sacrosanto segno, conquista
la Gallia e poi, uscendo da Ravenna (il cui nome sta qui in effetti a
indicare il limite della Gallia Cisalpina), passa il Rubicone, dando
inizio, con la guerra civile, a tante gesta fulminee, la cui velocità non
può essere seguita né dal parlare né dallo scrivere. Nel contesto
“imperiale” del Paradiso di questo passaggio del Rubicone viene
messo in evidenza l’aspetto provvidenziale, a differenza di quanto
avveniva nel XXVIII dell’Inferno, dove, come si è visto a proposito
dell’evocazione di Rimini, veniva collocato come seminatore di
discordia quel Curione che proprio aveva convinto Cesare a rompere
gli indugi. Il Rubicone è inoltre ricordato nell’Ecloga IV (la seconda
delle Ecloghe indirizzate a Giovanni del Virgilio), come uno dei limiti
del ravennate, in cui si trova Dante / Titiro, alla destra del Po e a
sinistra del Rubicone (“litora dextra Pado… a Rubicone sinistra”, 67).
Non è comunque per niente certo quale sia il fiume che Cesare
allora saltò: o meglio non si sa a quale dei corsi d’acqua che
scendono dall’Appennino verso la Romagna corrisponda davvero
l’originario nome di Rubicone, con una contesa che è stata risolta
d’autorità nel 1933 con una attribuzione ufficiale, che però non è da
tutti accettata. Questi dubbi, complicati dal fatto che l’idrografia di
questa zona è variamente mutata nei secoli trascorsi, non
ostacolano certo il mio proposito di affacciarmi su un corso d’acqua
che evochi il salto di Cesare, così come ebbe modo di concepirlo
Dante, che certo si trovò ad attraversarlo nei suoi spostamenti in
Romagna. Risalgo verso nord sulla litoranea che segue
l’interminabile successione di località balneari, talvolta
allontanandosi dalla spiaggia, altre volte costeggiandola tra
stabilimenti, alberghi, ristoranti. In questa mattinata domenicale il
traffico è già piuttosto sostenuto; e il procedere delle auto trova
molteplici intoppi, anche per il vario muoversi dei bagnanti già
seminudi che in lungo e in largo attraversano la strada.
Chiusa tra case, casette, chioschi, alberghi, la strada attraversa
Viserba, patria del poeta Elio Pagliarani, che nella sua autobiografia,
Pro-memoria a Liarosa, dà una viva immagine di quanto questi
luoghi marini fossero diversi prima della metà del Novecento, di
quanto allora il rapporto col mare avesse un carattere assai lontano
da quello attuale. Legato a questi luoghi marini, Pagliarani sentiva
precipitare su di essi qualcosa come una “fine”, un appassire del
mare (così nella sua Ballata di Rudi). Eccolo questo mare adibito a
mezzo di vacanza e consumo, allestito e assettato, in via di
appassimento, pur nella luce accecante del mattino, pur nell’agio
con cui vi attingono gli esseri umani che ora si muovono tra la strada
e la spiaggia, con le loro infinite posture. C’è chi attraversa carico di
attrezzi da spiaggia, bambini riottosi strattonanti il papà o la mamma,
uomini in costume da bagno in bicicletta con lentissima pedalata,
anche uno che fuma in bici, donne magre e grasse, discinte,
qualcuna già in bikini, un tizio ben compreso nel suo pancione che
aggetta enormemente fuori dallo slip; c’è chi si trascina stancamente
e chi procede con rapida agilità. Ma andiamo, tutti vanno in fondo,
almeno apparentemente, convinti di sé, uomini e donne (essere
come tutti!), tutti vanno a prendersi la vita nella domenica di sole.
L’urbanizzazione totale di questo lungomare si prolunga senza
respiro tra edifici di ogni genere. Solo verso Igea Marina si apre a
sinistra qualche straccio di prato, qualche zona alberata, spesso
adibita a parcheggio. Entrando a Igea Marina, ecco un fiume
possibile, che placidamente scorre verso il mare: però non si tratta
del Rubicone, ma del torrente Uso. Il Rubicone, adeguatamente
segnalato, lo si trova finalmente prima dell’ingresso a Gatteo a Mare:
qui il corso d’acqua che ha ricevuto la denominazione ufficiale di
Rubicone (e che fino al 1933 veniva designato come Fiumicino)
confluisce in un altro fiume che, secondo gli oppositori di questa
identificazione sarebbe il vero Rubicone, il Pisciatello. La loro acqua
comune si getta nel mare, mentre poco prima nel Pisciatello
confluisce un altro torrente, la Rigossa.
Evitando di perdermi nella confusione tra questi possibili Rubiconi,
decido di seguire il richiamo di quello ufficiale, anche perché si può
risalire il suo corso percorrendo una strada che lo costeggia, da
Gatteo a Mare verso Gatteo, passando anche in una località che ha
mantenuto il nome di Fiumicino, quello vecchio del fiume. Tra i
parapetti in ferro o in muratura, tra la vegetazione sfiorata dall’acqua,
che a tratti si infoltisce, a tratti dirada, tra stretti ponticelli e piccole
case che si affacciano sulla riva, si può fantasticare sul punto non
identificabile dove Cesare avrebbe fatto il suo salto.
Ma un nuovo motivo di interesse di questo percorso che si
addentra nella pianura e si allontana dal mare è dato dal fatto che,
lasciando Fiumicino senza entrare nel centro di Gatteo, una piccola
diversione fuori dal corso del fiume conduce a San Mauro, la patria
di Giovanni Pascoli, ora denominata appunto San Mauro Pascoli. Il
centro della piccola città ha tutta l’aria di un ben curato borgo
agricolo, con la piazza assolata su cui prospetta il municipio
imbandierato, accanto a un ampio edificio ottocentesco che reca la
scritta ALL’EDUCAZIONE DEL POPOLO. Poco discosto dalla piazza
centrale, anche se appare del tutto appartata e chiusa nel silenzio, è
la casa di Pascoli, dove la famiglia andò a vivere dopo l’assassinio
del padre (10 agosto 1867), lasciando la Torre della Villa Torlonia,
dove era precedentemente alloggiata. È il nido curato dalla madre
rimasta vedova, per il breve tempo che sopravvisse al padre,
struggente e doloroso paradiso perduto per sempre dal poeta, luogo
di ritorno intensamente impossibile per tanta sua poesia, centro della
sua Romagna poetica, “il paese ove, andando, ci accompagna /
l’azzurra vision di San Marino”:

Romagna solatìa, dolce paese


cui regnarono Guidi e Malatesta;
cui tenne pure il Passator cortese,
re della strada, re della foresta.
(Romagna, 57-60, in Myricae)

Visito allora questa casa di Pascoli, che tanto insistentemente si è


rivolto alla Commedia dantesca, con i suoi saggi, i tre libri Minerva
oscura, Sotto il velame, La mirabile visione, che ne interrogano
l’orizzonte simbolico, collocandosi entro le pieghe più difficili, risvolti
segreti e misteriosi, come in una sfuggente e ostinata moltiplicazione
di significati oscuri e velati. Ma quanto lontano il mondo personale e
poetico di Pascoli da quello dantesco! E quanto diversa questa sua
Romagna, distesa nell’orizzonte campestre, percepita nell’intimità
del folto paesaggio in cui vibra nella sua concretezza la vita vegetale
e animale, e su cui si proiettano i dolori familiari, i sogni e i desideri,
l’inappagabile dell’esistenza! Le stanze della casa (che era stata
danneggiata dai bombardamenti della seconda guerra mondiale)
sono sistemate con cura, con la ricostruzione di alcuni ambienti e
con una buona documentazione sul poeta e sulla sua famiglia: non
mancano manoscritti pascoliani, tra cui quello della prima redazione
di Romagna (che aveva come titolo Colascionata). Nonostante le
attuali difficoltà finanziarie, il piccolo Museo svolge varie attività e
davvero meritorio è il lavoro della direttrice Rosita Boschetti, che mi
accompagna nella visita e mi offre un suo libro molto recente,
Omicidio Pascoli. Il complotto (Mimesis Edizioni), con una nuova
ipotesi sull’assassinio del padre del poeta.
Nel giardino, oltre al busto di Giovanni / Zvanì, ci sono vari resti
della vegetazione originaria, tra cui quella mimosa nominata proprio
in Romagna, dove si ricorda l’estate dell’adolescenza, le letture
piene di sognanti fantasie effettuate tra le piante (vv. 25-29):

Già m’accoglieva in quelle ore bruciate


sotto ombrello di trine una mimosa,
che fioria la mia casa ai dì d’estate
co’ suoi pennacchi di color di rosa…

Nel manoscritto della Colascionata, che Pascoli inviò all’amico


Severino Ferrari (a cui Romagna resta dedicata, anche nelle stesure
di Myricae), questi versi sono accompagnati da un pennacchio di
questa mimosa rosa, che l’autore staccò dalla pianta e incollò sulla
carta che allora spedì.
Cesena

E quella cu’ il Savio bagna il fianco,


così com’ella sie’ tra ’l piano e ’l monte,
tra tirannia si vive e stato franco.
(Inf., XXVII 52-54)

La sosta pascoliana potrebbe prolungarsi in una breve puntata verso


la Villa Torlonia, ai margini di San Mauro, con la Torre prima abitata
dalla famiglia, e verso ciò che resta del torrente Rio Salto, con i suoi
pioppi evocati anche nella Cavallina storna: e del resto la poesia di
Pascoli è una poesia di luoghi, in cui i toponimi si disegnano con
un’evidenza che sembra sollecitare a ritrovarli, a percorrerli
amorosamente. Nel mio percorso dantesco devo però procedere
verso Cesena, ricordata nella rassegna sulla situazione della
Romagna che Dante fa a Guido di Montefeltro nella bolgia dei
consiglieri di frode: città il cui fianco viene toccato dal fiume Savio e
che, come sta al limite tra la pianura e le propaggini dell’Appennino,
così si trova in bilico tra il dominio dei Montefeltro e lo stato libero
(con situazioni incerte, fino al passaggio a un regime popolare
guelfo, che ebbe luogo nel maggio 1301).
Muovendo da San Mauro verso Cesena mi imbatto ancora nel
Rubicone ufficiale, che tocca Savignano, città che per decreto
mussoliniano del 1933 ebbe aggiunta al nome la dizione sul
Rubicone. Ecco allora il ponte romano sul fiume, forse di epoca
augustea (quindi non può essere quello su cui passò Cesare nella
sua discesa verso Rimini e la guerra civile), distrutto dai tedeschi
durante l’ultima guerra e ricostruito negli anni sessanta. Qui a
Savignano, su un’edicola, vedo copia del giornale locale, Il Resto del
Carlino, con un titolo che mi rinvia alla festa riminese, “In oltre due
milioni alla notte rosa…”
A Cesena entro dalla Barriera Cavour, aperta dopo l’unità sulle
antiche mura: da qui procedo verso il luminoso e semplice edificio
neoclassico che al suo interno, resto di un convento nel tempo
variamente modificato, ospita la Biblioteca Malatestiana, fondata
verso la metà del Quattrocento da Malatesta Novello. Nel cuore di
questa biblioteca, tra le navate della grande aula e i suoi ombrosi
recessi, si è alimentata una passione per la concretezza della
parola, per il suo fisico depositarsi nei libri, coagularsi in oggetti:
erudizione e cura dello stile, per le più evanescenti perfezioni della
lingua, classicismo del particolare, capace di catturare le pieghe e le
fratture di ogni equilibrio e di ogni armonia. È come la dimora di una
inconcepibile continuità tra l’originario umanesimo quattrocentesco e
le sue propaggini carducciane, la cui sostanza si riconosce nel più
celebre dei suoi bibliotecari, Renato Serra, direttore dal 1909 al
1915, quando partì volontario per la guerra, senza ritorno. Oggi la
biblioteca è chiusa: mi limito a evocare la vita silenziosa di libri e
manoscritti, davanti al busto di Serra, che si trova sulla piazza
antistante. E Serra operava in questa biblioteca quando Marino
Moretti, dalla vicina Cesenatico, veniva a trovare la sorella e ne dava
conto in quella sua poesia che sembrava tendere a una silenziosa
nullificazione dell’esperienza:

Piove. È mercoledì. Sono a Cesena,


ospite della mia sorella sposa,
sposa da sei, da sette mesi appena.
(A Cesena, in Il giardino dei frutti)

A fianco della biblioteca c’è il tardosettecentesco Palazzo del


Ridotto, con al centro la statua del papa Pio VI, il papa Braschi,
cesenate. Percorro il centro della città, silenzioso e poco battuto nel
meriggio d’estate, addentrandomi tra portici di ben composta misura.
Dalla severa mole della Cattedrale escono pochi fedeli, reduci
dall’ultima messa del mattino. Qualcuno passeggia sull’ampia piazza
del Popolo. Un fotografo si dà da fare con due sposi in posa lungo i
portici della piazza. Poco più in là si erge l’ampia e potente Rocca
Malatestiana, anche questa di impianto soprattutto quattrocentesco.
Non manca, sulle mura della Rocca, la lapide con la terzina
dantesca.
Ma naturalmente devo raggiungere il fiume, che sfiora il centro
storico sul lato ovest: eccomi al ponte del Risorgimento, che porta
verso Forlì. Prima del ponte, mi affaccio sul corso piuttosto debole
del Savio da una semplice palizzata di legno. Risalendo poi il corso
del fiume, tocco il Ponte Vecchio, già romano e poi malatestiano e
infine in forma settecentesca, per iniziativa del papa Clemente XIII
(chiamato allora Ponte Clemente).
Bertinoro

O Bretinoro, ché non fuggi via,


poi che gita se n’è la tua famiglia
e molta gente per non esser ria?
(Purg., XIV 112-114)

Devo comunque passare il Savio sulla Via Emilia, lasciandola dopo


un po’ per volgermi dalla parte dell’Appennino, toccando subito il
colle dove è adagiata Bertinoro, che Dante fa menzionare da Guido
del Duca, nel suo accorato discorso sulla decadenza delle città
romagnole: Guido si rivolge addirittura alla città, come
meravigliandosi che non sia fuggita da se stessa, non si sia estinta,
dato che in essa non c’è più, è venuta meno la nobile famiglia dei
suoi conti (gli Onesti e poi i Mainardi: e lo stesso Guido, che a
Bertinoro aveva dimorato a lungo nel primo ventennio del XIII
secolo, evoca poco prima un Arrigo Mainardi come uno di quei
signori cortesi che non sono più).
Lascio l’auto sulla parte più alta della città, presso la rocca quasi in
cima al colle, e scendo nel borgo medievale, fino alla piazza centrale
(piazza della Libertà), distesa di fianco e aperta sulla immensa
pianura, in una posizione che fa attribuire a Bertinoro l’appellativo di
“balcone della Romagna”. Nella discesa mi imbatto in una colonna
col busto di uno dei più prestigiosi e “classici” attori del tardo
ottocento, Ermete Novelli (1851-1919), di famiglia bertinorese. Poi
sulla piazza, davanti al Palazzo Comunale (eretto dagli Ordelaffi dal
1306, negli anni in cui Dante può essere passato da qui), una
colonna piuttosto recente ricorda quella eretta qui proprio da Guido
del Duca e Arrigo Mainardi come segno di pacificazione tra le fazioni
locali e diventata, secondo una tradizione che ha dato luogo a vari
aneddoti, la Colonna dell’ospitalità, con dodici anelli per legare le
cavalcature di chi arrivava: ogni anello apparteneva a un signore
locale, che si impegnava a ospitare chi aveva legato il cavallo al suo
anello.
Così Bertinoro si presenta come simbolo dell’ospitalità romagnola,
certo non più legata a quegli orizzonti “cortesi”, ma disposta sul
versante delle attività turistiche e dei piaceri della tavola: ecco allora
che non posso trattenermi dall’assaggiare, anche se fuggevolmente,
questa ospitalità. Per questa ha operato un infaticabile operatore
culturale e turistico, Alteo Dolcini, creatore nel 1962 di un ente per la
tutela dei vini romagnoli e poi delle Ca’ de Bè, osterie specializzate
nei prodotti romagnoli: ne vengo informato dai cartelli che
introducono proprio all’osteria Ca’ de Bè, inaugurata nel 1971. Dalla
piazza si scende sulla terrazza dell’osteria, dove è una fitta distesa
di tavoli, affollatissimi nell’ora del pranzo domenicale.
Faticosamente, ma sostenuto dalla gentilezza di giovanissimi
camerieri, trovo un piccolo tavolo, affacciato sulla pianura, che brilla
nel sole, fino all’Adriatico: abbraccio la Romagna solatia con un
bicchiere di squillante sangiovese, con tagliolini allo scalogno e con
un piatto che evoca la figura leggendaria del bandito ottocentesco
evocato anche nella poesia di Pascoli, la Cartucciera del Passatore
(e peraltro proprio Alteo Dolcini aveva fondato nel 1969 la Società
del Passatore). Gustosa, succosa, forse non adatta al clima estivo
(che però oggi è abbastanza dolce, carezzato da un leggerissimo
vento), questa Cartucciera consiste in strisce di maiale cucinate a
freddo per sedici ore e poi fritte, disposte in una sorta di cintura,
proprio come cartucce di una cartucciera.
Questa imprevista evocazione del Passator cortese, “re della
strada, re della foresta”, non mi impedisce di rimettermi subito in
moto, lasciando Bertinoro, culla della cultura del vino romagnolo, per
addentrarmi un po’ verso l’interno, tra la dolcezza dei colli, tra
l’ordinato verdeggiare delle vigne che sembrano come pettinarli.
Raggiungo la piccola e semplice chiesa di Polenta, che si affaccia su
una curva della strada costeggiata da folti cipressi. Qui, secondo
tradizione, evocata da apposite lapidi, si sarebbe fermato Dante,
vicino al castello originario della famiglia che lo ospitò a Ravenna: e
a questa tradizione si ricollegò Carducci, per una sua poesia del
1897, La chiesa di Polenta (in Rime e ritmi), originata dalle
discussioni sul restauro della chiesa, ma legata anche al ricordo di
qualche visita che vi aveva fatto. Poeta-visitatore, Carducci, che nel
toccare i luoghi d’Italia cercava di farne rinascere come forza per il
presente il respiro storico, in tutta la sua determinata tensione: tante
cose, in un asfissiante percorso storico, egli volle mettere in questa
poesia, che trascorre tra una domanda su Francesca (“Forse
Francesca temprò qui li ardenti / occhi al sorriso?”, vv. 3-4) e una sul
suo poeta (“Forse qui Dante inginocchiossi?”, v. 25). Eccolo lì,
davanti al fulvo mattonato dell’edificio che affianca la chiesa, col
volto crucciato piegato verso sinistra in un’erma marmorea, il
vecchio ostinato Giosuè.
Cervia

Ravenna sta come stata è molt’anni:


l’aguglia da Polenta la si cova,
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni.
(Inf., XXVII 40-42)

Il nome dei da Polenta mi conduce a Ravenna, che la dominavano


con l’insegna della loro aquila, come Dante stesso dice a Guido da
Montefeltro, specificando che il loro potere si estende sulla vicina
Cervia. Nel muovermi verso Ravenna sfioro di nuovo Cesena,
seguendo in parte il corso del Savio e svoltando poi verso Cervia,
che raggiungo dalla parte delle sue Saline, ora attrezzate a riserva
naturale, con una produzione di sale di alta qualità e annesso Museo
del sale. Le Saline furono una delle fonti di ricchezza per la Chiesa,
quando ne ebbe il controllo; ed è curioso che nel commento
dantesco di Benvenuto da Imola si nota che “habet haec civitas
praerogativam salis; unde cardinalis Ostiensis dominus Bononiae et
Romandiolae erat solitus dicere: Plus habemus de Cerviola parvula
quam de tota Romandiola” (“questa città ha la prerogativa del sale;
per cui il cardinale Ostiense signore di Bologna e della Romagna era
solito dire: Abbiamo più dalla piccola Cervia che da tutta la
Romagna”).
Ora non si scorgono tracce dell’assetto medievale della città, al
centro delle saline: nel Seicento essa fu totalmente abbandonata per
la malaria e spostata di qualche chilometro, dove è ora il centro, con
struttura di borgo settecentesco, ben squadrato e regolare, che ha il
suo cuore nell’ampia e lunga piazza Garibaldi, dove, a ridosso dei
portici, è disposto un palco per spettacoli serali. Procedendo dal
centro storico verso il mare la città assume sempre più l’aspetto di
luogo di vacanza marina, fino al Lungomare Grazia Deledda,
chiamato così perché la scrittrice sarda soggiornò qui a lungo: e
rientrando leggermente verso l’interno si trova il villino
primonovecentesco color biscotto da lei abitato. Tra alberghi e
pensioni sorge l’immagine che della nostra vacanza piena di oggetti
dà il romanzo appena uscito di Giorgio Falco, La gemella H, dove
proprio a Cervia un tedesco dal passato nazista mette su una
pensione che si proietta nel boom della vacanza romagnola, in una
vita che scorre e si espande nell’appropriazione delle cose,
nell’acquisizione di merci, nella coltivazione di uno spazio sempre
più affollato di prodotti, di macchine, di cose e case: un romanzo che
cerca di interrogarci sul rischio di una continuità tra un passato
distruttivo e l’apparente scorrevolezza della vacanza e del consumo
di massa.
Cervia ha una propaggine particolare, a nord, oltre il canale delle
Saline, sorta a partire dal 1912: è Milano Marittima, artificiale centro
di villette e palazzine, di alberghi e pensioni, di costipazione
vacanziera: mi aggiro senza fine tra gli edifici e i sensi unici, tra le
automobili parcheggiate dovunque, cercando invano di lasciare la
mia auto e di poggiare il piede su questa spiaggia non più spiaggia.
Molto ben attrezzata, anche con percorsi per cavalli e siti didattici, è
la pineta che si estende alle spalle di Cervia e Milano Marittima,
ultima propaggine della grande pineta di Classe.
Ravenna

Siede la terra dove nata fui


su la marina dove ’l Po discende
per aver pace co’ seguaci sui.
(Inf., V 97-99)

Guido Novello da Polenta, l’ultimo ospite del Dante esule, era nipote
di Guido detto il Vecchio, il vero fondatore della potenza della
famiglia, che nel 1275 aveva espulso da Ravenna i Ghibellini e
aveva dato in sposa la figlia Francesca al guelfo Malatesta di Rimini.
Francesca ravennate insomma – sorella di Ostasio, padre di Guido
Novello e quindi sua zia – che presentandosi a Dante indica
Ravenna come sua città (terra) natale, senza farne direttamente il
nome, ma con quella perifrasi che è come un ampio colpo d’occhio
sul territorio del delta del Po, sulla fascia marina dove il grande fiume
si versa, come raccogliendo e portando a un compimento di pace
tutto il vario fluire dei suoi affluenti (i seguaci sui) e delle acque che
raccoglie. La critica naturalmente ha notato che questa immagine
della pace delle acque è come un corrispettivo della pace che per la
dannata è impossibile, ma che ella ha poco prima augurato,
impossibilmente appunto, a Dante (“se fosse amico il re de
l’universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi c’hai pietà del
nostro mal perverso”, 91-93). Ravenna non è propriamente, né lo
era ai tempi di Dante, sul delta del Po, ma entro una rete di acque
che sono variamente a esso collegate e che rientrano attualmente
nel Parco del Delta del Po: e si trovava in origine entro un sistema
lagunare dove giungeva a mare l’estremo ramo meridionale del Po,
la Padusa.
Quando Dante si trovò a scrivere il V canto dell’Inferno, facendo di
Francesca da Polenta la prima dei dannati a rivolgergli la parola, non
poteva prevedere che avrebbe concluso la sua vita proprio a
Ravenna; di Ravenna poi, per bocca di Guido del Duca, nel XIV
Purgatorio, egli elenca due casate del buon tempo antico (Traversari
e Anastagi). E al suo soggiorno ravennate si riferisce l’Ecloga IV,
indicando, sotto l’abito pastorale di Titiro, come già ricordato a
proposito del Rubicone, il proprio collocarsi alla destra del Po e a
sinistra del Rubicone, e menzionando Ravenna sotto lo schermo
bucolico del siciliano Peloro (46 e 73), mentre il corrispondente
Giovanni del Virgilio si era rivolto a lui presentandolo all’ombra del
lido Adriatico (litoris Adriaci…umbra), tra pini eretti al cielo e pascoli
profumati, bagnati dal fiume Montone, “quaque nec arentes Aries
fluvialis arenas / esse sinit, molli dum postulat equora villo” (“dove il
fluviale Ariete non lascia inaridire le arene, mentre col suo molle
vello va alla ricerca del mare”).
Il fiume Montone scorre in effetti a sud della città, dove procede
poi verso il mare confluendo insieme a un altro fiume, il Ronco, nel
canale detto dei Fiumi Uniti. L’idrografia è variamente mutata nel
corso dei secoli ed è cambiato anche il rapporto della città con il
mare: la terra ha guadagnato terreno, ha acquisito nuova struttura
l’intreccio di corsi d’acqua con i loro approdi al mare, mentre il porto
si è un po’ spostato verso est. Il paesaggio circostante si è infittito di
manufatti umani, di insediamenti e scarti industriali. Avvicinandosi
alla città l’affollatissima statale Adriatica passa tra luoghi artificiali di
ogni genere: superata Milano Marittima, attraversato il fiume Savio e
poi il torrente Bevano, si trova sulla sinistra il parco di divertimenti
più grande d’Italia, Mirabilandia, che moltiplica le sue meraviglie
metalliche e plastificate, le frenesie dello stupore energetico,
utilizzando adeguatamente anche bacini e percorsi acquatici.
Attraversato poi il Fosso Ghiaia, lascio la ex statale 16 e prendo la
strada Romea, che, ormai ai margini della città, attraversa un ponte
sui Fiumi Uniti, poco a est del loro punto di formazione con la
confluenza del Ronco nel Montone. L’ingresso verso il cuore della
città, nella sera della domenica, dà un ben diverso effetto di calma
rallentata, rispetto all’affollata costipazione della strada prima
percorsa. Le zone pedonali sono piene di un’animazione estenuata,
sorvegliata dalle persistenze della lunghissima storia che la città
accoglie senza esibizione, quasi in modo raccolto e meditato.
Prendo alloggio in un piccolo bed and breakfast in pieno centro e
mi dirigo subito verso la zona dantesca. Sulla piazza del Popolo
l’ultimo sole ancora illumina da nordovest la facciata settecentesca
del Palazzo della Prefettura, già sede del legato pontificio, mentre
quasi vuoti sono i tavoli di un bar, già nella zona in ombra, davanti ai
portici del Palazzo comunale, tra due colonne veneziane,
campeggianti come lascito del breve dominio della Serenissima, tra
secondo Quattrocento e 1509. La vicina piazza Garibaldi è dominata
da una statua dell’eroe eretta nel 1892; una lapide recente, eretta
nel 2011, ricorda le 946 vittime civili che la città ebbe nella fase più
terribile dell’ultima guerra, tra il 1943 e il 1945.
Già dalla piazza Garibaldi, in fondo alla via Dante Alighieri, si vede
la semplice e bianca mole della tomba del poeta, con il suo piccolo
timpano e la cupoletta toccata ancora dal sole calante. Percorrendo
la via, si affacciano sulla sinistra i due chiostri francescani, restaurati
dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, entro cui sono
ospitati il Museo dantesco e il Centro dantesco dei Frati conventuali,
già proprietari dei chiostri, connessi alla vicina chiesa di San
Francesco. All’ingresso del primo dei chiostri è affissa su un
cavalletto la locandina della Maratona infernale. In viaggio con
Dante, l’insieme di filmati realizzati per conto della Società Dante
Alighieri da Lamberto Lambertini, in cui la lettura di ogni canto
dell’Inferno si svolge su immagini di luoghi e ambienti diversi d’Italia:
viaggio in cui si toccano soprattutto luoghi del lavoro e
dell’esperienza artigianale italiana, di per sé non direttamente
correlati con un riferimento dantesco. È un viaggio in Italia diverso
da quello che io sto svolgendo: un viaggio in cui le parole di Dante si
dispongono sulla trama visiva di un animato “fare” italiano, di
situazioni scelte per la loro particolare evidenza, per le loro luci e le
loro ombre, per i processi di continuità e di trasformazione che vi
appaiono in atto. Questa galleria dell’Italia di oggi sostenuta dai versi
di Dante è stata proiettata per intero qui proprio nei giorni scorsi, tra
il 3 e il 5 luglio: e mi dispiace che con essa non si sia potuto
incontrare il mio viaggio. Lambertini da parte sua ha già in fase di
avanzata realizzazione i filmati delle letture dei canti del Purgatorio,
che toccano i più diversi luoghi montani d’Italia e usciranno presto
sotto il titolo Montagna infinita. Più problematica certamente sarà la
scelta dei diversi set per le letture del Paradiso, che poi si svolgerà
in un confronto col “diverso” e sarà completata nel 2016, col titolo
Senza principio senza fine.
A quest’ora è chiusa la porta della cappella, che immette davanti
alla tomba, che ha avuto una travagliata storia e che è stata onorata
col tempietto attuale, opera di Camillo Morigia, solo alla fine del
Settecento: storia di nascondimenti e di trafugamenti, dato che dal
sarcofago posto originariamente nel giardino del convento
francescano, i frati stessi asportarono i resti del poeta fin dal
Cinquecento, per impedire che fossero traslati a Firenze, come nel
1519 aveva richiesto il papa mediceo Leone X; poi, nel periodo
napoleonico, al tempo della soppressione dei conventi, furono
nascosti in una porta murata della vicina edicola-oratorio (dove sono
ora due antichi sarcofagi) e ritrovati casualmente solo nel 1865. Un
più recente nascondimento è avvenuto durante l’occupazione
nazista, come si può vedere in un cespuglio nel giardinetto che è alla
destra della cappella, dove è inciso, su una piccola lapide: SOTTO
QUESTO TUMULO / LE OSSA DI DANTE / EBBERO SICURO RIPOSO / DAL 23 MARZO
1944 / AL 19 DICEMBRE 1945.
Ma poi saranno state veramente quelle di Dante? Nella varia
necrofilia scientifica, dotata di strumenti sempre più sofisticati, illusa
dalle verifiche dei DNA e potenziata sempre più dall’informatica,
sempre più a vuoto quanto più potente, sono state fatte molteplici
esumazioni, ricerche, ricostruzioni: e il tutto si è variamento colorato
di “giallo”, con complicazioni come quella costituita da certe “ceneri”
che si trovano in una busta nella Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze e su cui si fece un po’ rumore quando furono ritrovate nel
1999 (sembra che siano state trafugate dalle spoglie ravennati
quando si fece la ricognizione del sepolcro nel 1865, dallo scultore
autore del monumento a Dante in piazza Santa Croce: ma chissà di
che polvere si tratta…“O insensata cura de’ mortali…”). Quanto è
lontana l’insulsa curiosità mediatica che si avvolge attorno alle
spoglie del poeta (e che trova svolgimenti ridicoli, come le
ricostruzioni, grazie a programmi di computer, del suo volto, della
sua statura e struttura corporea), dall’appassionato sguardo che a
questa tomba rivolse Jacopo Ortis, nel vorticoso viaggio in Italia che
precedette il suo suicidio:

Sull’urna tua, Padre Dante! Abbracciandola, mi sono prefisso


ancor più nel mio consiglio. M’hai tu veduto? m’hai tu forse,
Padre, ispirato tanta fortezza di senno e di cuore, mentr’io
genuflesso, con la fronte appoggiata a’ tuoi marmi, meditava e
l’alto animo tuo, e il tuo amore, e l’ingrata tua patria, e l’esilio,
e la povertà, e la tua mente divina? e mi sono scompagnato
dall’ombra tua più deliberato e più lieto.

Dalla cappella dantesca (per cui vedi anche p. 386) la strada piega
ad angolo retto sulla via Guido da Polenta, che a sua volta sbocca
sulla via Corrado Ricci, col nome dello studioso ravennate cultore di
storia dell’arte e di erudizione dantesca (suo proprio uno studio su Il
sepolcro e le ossa di Dante, apparso nel 1889), poi fascistissimo e
senatore del regno. A questo punto della via Corrado Ricci si trova il
palazzo fascista della Fondazione Casa Oriani, dedicata al
tumultuoso scrittore di Faenza che i fascisti considerarono loro
precursore e di cui Mussolini curò (almeno nominalmente) l’Opera
omnia. Sul sito di questo palazzo era una più antica casa, dove,
come attesta una lapide, nel 1819 soggiornò George Gordon Byron,
“amico dei patrioti ravennati”.
Foscolo, Byron, Oriani: ma alla mia mente sorge il nome di un
poeta non particolarmente legato a Ravenna, che però intensamente
evoca Ravenna in una delle sue poesie più celebri, Eugenio
Montale. Decido allora di andare a cercare le orme di Dora Markus
nei luoghi circostanti, proprio in quello nel cui nome si apre la poesia
(vv. 1-4):

Fu dove il ponte di legno


mette a Porto Corsini sul mare alto
e rari uomini, quasi immoti, affondano
o salpano le reti.
Quando ormai l’ultima luce declina e scende la notte, pur così tarda
per effetto dell’ora legale, mi dirigo allora verso Porto Corsini,
superando il solito difficile districarsi di strade all’uscita della città: la
strada che seguo si incunea, avvicinandosi e allontanandosi, tra il
più ampio Canale Candiano a destra e il Canale Magni a sinistra,
che poi si amplia in una sorta di specchio lagunare, dove a un certo
punto si trova il cosiddetto Capanno Garibaldi, dove il generale in
fuga si rifugiò il 6 agosto 1849, tornando indietro dalle Valli di
Comacchio dopo la morte di Anita.
Ma il passaggio notturno lascia evanescente ogni ricordo storico,
tra gli stabilimenti che separano la strada dai canali, in un procedere
allucinato tra raffinerie, fumi densi o vagamente svolazzanti,
luminarie, compatti capanni e giganteschi edifici, reti di protezione,
tubi, ferrami, camion e container, effetti ingigantiti dall’accensione
della notte, dall’aggettare delle insegne e dei cartelli, tra indicazioni,
ingiunzioni, divieti. Cabot Italiana, Cementerie Barbetti, Marcegaglia,
Yara, Alma Petroli. Il percorso è abbastanza breve, ma sembra
lunghissimo: è il Deserto rosso del film di Michelangelo Antonioni
(1964), forse da noi troppo lontano per lo sfumato languore in cui
dispone l’alienazione privata, ma tanto vicino per il suo assetto
infernale (che resta tale, nonostante le più recenti cure di impatto
ambientale). Ma ecco che, superato un ponte sul canale Baiona,
giungo a Porto Corsini e mi fermo sul punto estremo in cui l’ampio
canale tocca il mare.
Cammino dove il poeta credette di passeggiare con Dora, protesa
verso la ravennate “ansietà d’Oriente”: mi domando dove possono
essere passati, cosa c’era allora sulla riva che percorrevano. È vero
però che Dora non c’era: di lei Montale vide solo le gambe, in una
foto inviatagli nel 1928 da Bobi Bazlen, ma proprio in questa
assenza, disposta su questa bassura acquatica, si trovò a dare voce
all’indefinibile irrequietudine della donna novecentesca, al lago
d’indifferenza del suo cuore, immaginando l’amuleto che forse le
permette di resistere e di esistere (“un topo bianco, / d’avorio; e così
esisti!”). Dal parapetto cerco di guardare le luci dell’altra riva, dove è
Marina di Ravenna; di qua e di là ci sono trattorie e locali
abbastanza frequentati, ma tutto sembra come avvolto in un interno
silenzio su cui si impone il rumore dei battelli, il palpito dei motori,
che variamente percorrono il canale: c’è anche un traghetto che si
muove tra una sponda e l’altra e ora si avvicina, approdando e
scaricando tre o quattro persone.
Torno indietro attraversando di nuovo la zona industriale: e certo
sarebbe troppo lungo (e non credo che ci sarebbe un passaggio
pedonale) seguire il grande canale come il poeta sogna di aver fatto
con Dora (vv. 7-10):

Poi seguimmo il canale fino alla darsena


della città, lucida di fuliggine,
nella bassura dove s’affondava
una primavera inerte, senza memoria.

La passeggiata non è possibile: anche se poi, oltre la zona


industriale, lucida di fuliggine, districandosi tra le strade e
avvicinandosi alla città, si può passare un ponte sul canale Candiano
o costeggiare il punto più interno della darsena della città, fino al suo
chiudersi, alle spalle della stazione ferroviaria. Molto vicino, fuori dei
margini del centro storico, è qui il mausoleo di Teodorico, dove nel
XIII secolo furono sepolti membri di quella famiglia Traversari
ricordata in Purgatorio, XIV 107.
Rientro nel mio bed and breakfast un po’ inquieto, pensando ai
versi conclusivi della seconda parte di Dora Markus, che, sotto
l’infuriare del nazismo, evocano la vita della donna ebrea che si
svolge e precipita là, nella sua Carinzia (vv. 57-61):

Ravenna è lontana, distilla


veleno una fede feroce.
Che vuole da te? Non si cede
voce, leggenda o destino…
Ma è tardi, sempre più tardi.

Ora è il banale tardi di una calda sera d’estate, particolarmente calda


nella mia stanza, per il mio rifiuto dell’aria condizionata. Ma c’è
sempre l’ansia di un tardi dell’esperienza, di qualcosa che come
allora può precipitare nel mondo, senza che si possa fare nulla per
resistere. E in fondo, come mi suggerisce un titolo di Antonio
Tabucchi, Il tempo invecchia in fretta.
Pineta di Classe

Un’aura dolce, sanza mutamento


avere in sé, mi feria per la fronte
non di più colpo che soave vento;

per cui le fronde, tremolando, pronte


tutte quante piegavano a la parte
u’ la prim’ombra gitta il santo monte;

non però dal loro esser dritto sparte


tanto, che li augelletti per le cime
lasciasser d’operare ogne lor arte;

ma con piena letizia l’ore prime,


cantando, ricevieno intra le foglie,
che tenevan bordone a le sue rime,

tal qual di ramo in ramo si raccoglie


per la pineta in su ’l lito di Chiassi,
quand’Ëolo scilocco fuor discioglie.
(Purg., XXVIII 7-21)

Ho deciso di dedicare il 7 luglio a muovermi “su la marina dove ’l Po


discende” e mi dirigo di buon’ora verso la pineta di Classe, che
Dante evoca come immagine del Paradiso terrestre, con quell’aura
all’inizio della citazione, che spira costante in contrappunto tra il
leggero movimento delle fronde mosse e il canto degli uccelli. Qui è
davvero necessario venire ne l’ore prime, anche se non è facile
ascoltare il canto degli augelletti, tra il rumore delle strade e delle
attività umane circostanti, già variamente in atto nella ancor fresca
mattina estiva. Oltre il ponte sui Fiumi Uniti raggiungo la basilica di
Sant’Apollinare in Classe, il cui mosaico absidale ha al centro una
croce gemmata da cui secondo qualcuno Dante avrebbe tratto
spunto per la croce su cui si muovono le luci dei beati nel cielo di
Marte (ma lì, Paradiso, XIV 100-102, si tratta di una croce greca,
mentre questa di Sant’Apollinare è una croce latina). Il sole che sale
si affaccia dietro il tondo campanile isolato, punteggiato su più piani
da fitte aperture di trifore. Sull’ampio prato antistante il recinto della
chiesa sono attestati alcuni neri bufali, in posizione di avanzata e di
attacco: ma sono sculture / installazioni del bolognese Davide
Rivalta, ossessivamente attratto da corpi slabbrati di animali in
cammino.
Protetta da un piccolo recinto, sullo fondo del campanile, sembra
contrastare con l’artista contemporaneo una bronzea statua di epoca
fascista di Cesare Augusto, nella sua classica posa, voluta qui da
Mussolini a ricordo del porto costruito dall’imperatore romano (col
nome nautico di Classis, flotta). In un bar già aperto dietro la chiesa
ricevo da un gruppo di ciclisti informazioni sul modo di percorrere la
dantesca pineta. Ma non è facile trovare la strada giusta girando in
auto tra la Romea, l’Adriatica e le varie uscite non sempre
chiaramente visibili: quasi mi perdo tra le case della località di Fosso
Ghiaia, dove però due signore, piene di gentilezza romagnola, dalla
loro casa mi indicano il passaggio per entrare nel Parco pubblico 1°
Maggio, proprio dopo aver superato il canale di Fosso Ghiaia.
Imboccata la stradina, c’è un passaggio a livello chiuso: dopo il
passaggio del corto treno regionale che percorre la Rimini-Ravenna,
raggiungo un parcheggio sotto i pini, presso una cappella in
restauro, detta la Betonica, e poi seguo, dopo aver sfiorato
caseggiati che appaiono abitati, un percorso nella pineta che viene
indicato come Le Quercie di Dante.
Ricca è comunque la vegetazione del parco: i pini ne sono solo
una delle componenti, spesso in un groviglio di cespugli e di altre
piante mediterranee. Il percorso mi porta a sfiorare e anche
attraversare il Fosso Ghiaia, che più avanti dovrebbe convergere
con un corso d’acqua che scorre più a sud, il Bevano, quello che
sfiora Mirabilandia. Non c’è nessuno: l’aura è forse senza
mutamento, come quella del Paradiso terrestre, e qualche canto di
uccelli si fa strada ogni tanto tra gli echi non troppo lontani della
mobilità umana. Difficile immaginare l’apparizione di una Matelda.
Passo un ponte sul fosso. Trovo un approdo per canoisti. Un albero
col tronco spezzato è a terra. Intrico di fossi e canali in più direzioni.
Resti di un manufatto, nominato “delle botole”, distrutto negli eventi
del 1944. Molti pini appaiono aggrediti da fittissimi rampicanti, di
vario tipo, non solo edere. Il parco si arresta a un certo punto e la
pineta cede il posto a coltivi, per riprendere più in là, davanti al mare,
dopo la confluenza col Bevano.
Santa Maria in Porto Fuori

In quel loco fu’ io Pietro Damiano,


e Pietro Peccator fu’ ne la casa
di Nostra Donna in sul lito adriano.
(Par., XXI 121-123)

Ci vorrebbe tutta la giornata a percorrere ciò che ora resta,


smembrato, dell’antica pineta: senza trascurare il fatto che, per
preservare l’ambiente dalla folla vacanziera, d’estate solo pochi
percorsi sono pubblicamente praticabili. Torno allora indietro e, dopo
aver sfiorato di nuovo Sant’Apollinare in Classe e superato i Fiumi
Uniti, giungo alla vicina chiesa di Santa Maria in Porto Fuori, distrutta
dai bombardamenti nel 1944 insieme al suo campanile e ricostruita
già nel 1952: è “la casa / di Nostra Donna in sul lito adriano”, fondata
nell’XI secolo, menzionata nel cielo di Saturno da san Pier Damiani,
in questa terzina molto controversa, che ha suscitato discussioni
infinite. A rileggerla si resta sempre in dubbio se il santo, dopo aver
parlato del suo soggiorno a Santa Croce di Fonte Avellana, intenda
identificare se stesso con quel Pietro Peccator che qui ha
soggiornato (alludendo a un momento diverso della propria vita) o
invece voglia distinguersi da lui, smentire ogni disinvolta
identificazione (e Dante potrebbe averne avuto notizia nel suo
soggiorno ravennate). Eccolo qui, nella cappella a sinistra, il
sepolcro di Pietro Peccatore, in un bel sarcofago paleocristiano
rimasto intatto sotto i bombardamenti, sovrastato da una lapide
settecentesca, la cui prima riga dice: HIC SITUS EST PETRUS PECCANS
COGNOMINE DICTUS ricordando la data della sua collocazione nel
sepolcro (1119). L’erudizione locale (Corrado Ricci in primis) ha
creduto di identificare questo Petrus peccans, come fondatore della
chiesa, con un ravennate Pietro degli Onesti: e certo se sta qui non
può in nessun modo essere identificato con Pietro Damiano.
Se proprio si intende che nel testo di Dante con Pietro Peccator
Pier Damiani si riferisca a un momento della propria vita passato qui,
si può essere confortati dal fatto che egli aveva l’abitudine di firmare
molte lettere come Petrus peccator: quindi sarebbe stato qui qualche
decennio prima del monaco che giace in questo sarcofago (morì
infatti nel 1072). Intricata situazione, che si complicherebbe se si
desse credito a chi ritiene che con “la casa / di Nostra Donna in sul
lito adriano” si indichi qualche altra abbazia nei paraggi. Sostando a
lungo davanti al sarcofago su cui si affacciano nitide le figure del
Redentore e di alcuni apostoli, mi si para davanti in tutta evidenza
l’inafferrabilità e la relatività del nostro vario affacciarci sul passato,
delle nostre ricostruzioni e identificazioni, del nostro ostinato
interrogare la memoria perduta, le vite svanite, anche quelle di
coloro che hanno lasciato tracce nella storia. E fuori della chiesa
trovo la memoria di coloro che, a differenza di Pietro Damiano e
dello stesso Pietro Peccator, tracce non ne hanno lasciate: una
lapide sul retro del campanile ricorda i nomi di quanti morirono sotto
il campanile nel bombardamento del 5 novembre 1944.
Evidentemente lo credevano sicuro, se, come la stessa lapide
ricorda, ai suoi piedi ebbero la prima sepoltura le vittime del
precedente bombardamento del 31 ottobre: SUL RISORTO CAMPANILE
DELLA CASA DI NOSTRA DONNA IN SUL LITO ADRIANO SI VOGLIONO SCOLPITI I
NOMI DELLE VITTIME INNOCENTI PERCHÉ SIANO MONITO E SPRONE A CRISTIANA
CONCORDIA.
Il centro abitato di Porto Fuori, vicino alla chiesa, non è ancora sul
mare (nonostante il nome), che è arretrato rispetto ai tempi di Pier
Damiani: ora dista circa cinque chilometri, che, percorsi, conducono
alla località che ha assunto proprio il nome di Lido Adriano e ha tutto
l’aspetto di luogo di vacanza marina: vantata come “Bandiera blu”;
tra villette e palazzetti di vacanza c’è anche un bagno Sabbie d’oro.
Allontanandomi da questo breve lungomare, su una strada interna
attraverso di nuovo i Fiumi Uniti e giungo su un’altra località di
vacanza marina che dev’essere abbastanza recente e che si chiama
Lido di Dante, a fronte della quale si incontra di nuovo la pineta. Qui
le strade percorse da dinoccolati bagnanti, da mamme e bambini
turbolenti, hanno nomi che invitano a un vero e proprio percorso
nella Commedia: ecco via Guido del Duca, via Catone, via Piccarda,
perfino via Paolo e Francesca ecc.
Sant’Alberto (Marcabò?)

…se mai torni a veder lo dolce piano


che da Vercelli a Marcabò dichina.
(Inf., XXVIII 74-75)

Tornando sulla Romea, mi dirigo verso nord, alla ricerca di Marcabò,


il luogo che il dannato Pier da Medicina indica come uno dei limiti
della Valle Padana, con l’augurio al pellegrino (che da dannato crede
impossibile) di tornare a rivederlo: era un castello, al limite nord del
territorio ravennate, costruito dai veneziani e distrutto dai Guelfi di
Romagna nel 1309, tra Sant’Alberto e il ponte sul Po di Primaro,
che, uscito dal letto grande del Po dalle parti di Ferrara, scorreva a
sud delle Valli di Comacchio. Anche qui l’idrografia è mutata
fortemente rispetto ai percorsi fluviali e alle sacche paludose del
Medioevo; ora siamo immersi in un paesaggio agricolo piatto, di cui
non si scorgono confini se non quelli segnati dalle strade, tagliato da
questa Romea trafficatissima, percorso da acque che hanno mutato
nome e direzione. Sulla Romea attraverso il fiume Lamone e,
qualche chilometro più avanti, svolto a sinistra verso Sant’Alberto, al
fianco del canale di bonifica del Reno. Il Reno è più in là, oltre la
campagna a destra, che si dirige verso la sua foce, mentre ai tempi
di Dante (che lo nomina altrove insieme al suo affluente Sàvena per
indicare Bologna: vedi pp. 468-469) era un affluente del Po.
Impaludatosi in seguito, fu immesso nel Settecento in una parte nel
corso del Po di Primaro, che nel frattempo si era essiccato (esiste
ancora presso Ferrara il ramo del Po morto di Primaro).
Semplice e silenzioso borgo agricolo è Sant’Alberto, dove in un
giardinetto che dà sulla piazza centrale trovo un cippo in muratura
con la scritta A O.GUERRINI IL COMUNE DI RAVENNA. In effetti si tratta di un
piedistallo per il busto del poeta tardo ottocentesco (che fece un po’
di rumore pubblicando versi sotto il nome di Lorenzo Stecchetti),
nato a Forlì da famiglia originaria di Sant’Alberto e che qui aveva
una casa, che si trova poco prima sullo stradone (dove è la
Biblioteca comunale decentrata, a lui intitolata). Ma sul piedistallo
non c’è nessun busto: un vecchio seduto su una panchina lì accanto
mi dice che è stato rubato e aggiunge con aria di minaccia rivolta
lontano: “Qui ai ladri dovrebbero tagliare le mani! In Italia ci vorrebbe
Stalin!”. Fingo di concordare e mi avvio oltre, passando davanti al
cosiddetto Palazzone, costruito nel Trecento dagli Estensi come
fondaco, che oggi ospita il Museo ravennate di Scienze naturali,
intitolato al naturalista Alfredo Brandolini. Più avanti incontro
finalmente il Reno, che percorre il limite sud delle Valli di Comacchio:
qui c’è un traghetto che attraversa le valli, diretto ad Anita e a
Comacchio. Mentre il battello si avvicina, salgo sull’argine del fiume,
seguendone con l’occhio il percorso verso il mare, tra gli argini folti di
disordinata vegetazione. Nell’ampio paesaggio assolato, tra i coltivi
in cui sembra preminente il granturco, giro lo sguardo intorno,
pensando che da qualche parte doveva pure trovarsi il distrutto
castello di Marcabò.
Tornando indietro mi addentro di poco nel borgo di Mandriole,
dove su un prato è un piccolo cippo dedicato ad Anita Garibaldi, con
una scultura di Valfranco Luzi, con la figura del generale che tiene in
braccio la moglie morta. Qui intorno infatti Anita incinta morì il 4
agosto del 1849, durante la fuga dopo il vano tentativo di
raggiungere Venezia; e procedendo verso la Romea si trova la
fattoria Guccioli, la casa dove Anita morì e che ora è museo in
memoria della donna brasiliana e dell’evento. Sul piazzale antistante
c’è un sacello con varie lapidi e col busto di lei: e viene da pensare
al rilievo che nell’immaginario risorgimentale ha avuto la donna
dell’eroe (questa, per giunta, incontrata tanto lontano e venuta con
lui a morire quaggiù) e alla partecipazione delle donne al
Risorgimento. Mi domando se si può fare un confronto tra Anita e
qualche donna dantesca, almeno quelle che assumono su di sé il
proprio destino, come Francesca e soprattutto, in modo ben diverso,
Cunizza da Romano: ma in fondo perfino la Beatrice della
Commedia, tanto diversa ormai da quella della Vita nuova, ha un
piglio tanto attivo e propositivo, quasi una spregiudicata
autorevolezza nel rimbrottare Dante, nel sostenerlo, nel guidare la
sua ascesa.
Tali pensieri chiamerebbero in causa tutta l’attuale riflessione sul
ruolo storico delle donne, le immense bibliografie dei feminist studies
e dei gender studies, che naturalmente toccano anche Dante, specie
nel fervore un po’ autoreferenziale dei campus americani. Tali
pensieri vengono subito sospesi dall’osservazione di una frenetica
attività che è in atto sul piazzale davanti alla casa di Anita e nella
fattoria che si trova poco più in là. È un’attività in cui sono impegnati
vari giovani dall’aspetto possente, perlopiù biondi, e che viene
indicata peraltro da vari striscioni, cartelli, avvisi organizzativi,
macchine agricole in movimento, grosse balle di fieno accatastate: si
tratta di un evento della New Holland Agriculture, azienda leader nel
campo dei trattori e delle macchine agricole. Grande è il movimento
e perfetta appare l’organizzazione: ci sono indicazioni sui diversi
workshop, sugli orari e i siti del lunch, sulla collocazione delle toilette
ecc. Qui, nella luce solare della campagna ravennate, ai margini del
Reno, nei luoghi garibaldini, si distende e brulica una ben definita
immagine dell’agricoltura moderna, del suo nesso sempre più stretto
con l’orizzonte industriale.
Dal Reno al Po

E non pur lo suo sangue è fatto brullo,


tra ’l Po e ’l monte e la marina e ’l Reno,
del ben richesto al vero e al trastullo;

ché dentro a questi termini è ripieno


di venenosi sterpi, sì che tardi
per coltivare omai verrebber meno.
(Purg., XIV 91-96)

Nelle parole di Guido del Duca, i limiti della Romagna, come luogo
non solo privato del suo sangue più nobile, ma anche pieno di
venenosi sterpi che impediscono ogni umana cura, sono tracciati tra
il Po a nord, l’Appennino a sud, la marina a est e il Reno a ovest.
Ma, come si è visto, il Reno ora non si getta nel Po, ma, piegando a
est, costituisce il limite nord della provincia di Ravenna, al confine
con quella di Ferrara. D’altra parte, possiamo anche convenire che
la forza di macchine agricole simili a quelle della New Holland
abbiano fatto davvero venir meno quei venenosi sterpi.
Tornato sulla Romea, passo il ponte sul Reno e, tra un traffico che
sempre più s’infittisce, sfioro Comacchio e Porto Garibaldi (già
Magnavacca, ora così chiamato perché l’eroe vi approdò nella sua
fuga, ancora viva Anita, prima di inoltrarsi verso le Valli di
Comacchio). E giungo, attraversato il Po di Volano, ai limiti del
Bosco della Mesola, all’abbazia di Pomposa. Dante non la nomina,
ma è tradizione che ci si fosse fermato in qualche suo viaggio e
certamente, nell’ultimo, di ritorno dall’ambasciata a Venezia per
conto dei Polenta, che lo portò alla morte per la malaria contratta qui
nei malsani territori attraversati.
La zona intorno all’abbazia è variamente attrezzata turisticamente,
anche se ora non ci sono molti visitatori. Il campanile in cotto si
staglia come un’insegna solare nel cielo azzurro: è come un vessillo
fissato nella pianura, mentre il corpo della chiesa e i vari edifici
abbaziali sembrano distendersi, come a creare una conformazione
misteriosa sul terreno un tempo circondato dalle acque. Nell’interno
della chiesa, basilica di Santa Maria, credo di seguire le tracce della
presenza non solo di Dante, ma ancora di Pier Damiani, che qui
soggiornò per due anni, dal 1040 al 1042. Tra gli affreschi
trecenteschi della navata mediana mi colpiscono le scene
apocalittiche, figure di angeli minacciosi, e in particolare tra un arco
e l’altro sopra una colonna, un san Michele che schiaccia sotto i
piedi un diavolo un po’ spaventato, colpito peraltro anche dalle lance
di altri angeli intorno schierati.
Ma devo raggiungere il corso maggiore del Po. Procedo nella luce
accecante e nel traffico, sulla lucida striscia della Romea. Poco dopo
Mesola, superato il Po di Goro, svolto a destra, dalla parte di Porto
Tolle e delle bocche del Po. A un certo punto la strada sembra
tingersi totalmente di giallo: un camion ha disseminato su di essa
una gran parte del suo carico di farina di mais, polenta. Ora ci sono
uomini che con una bandierina invitano le auto a rallentare, mentre
altri cominciano a pulire la strada. Lentamente procedo su questo
imprevisto tappeto di polenta. Passato poi il ponte su un altro ramo
del grande fiume, il Po della Donzella, giungo a Ca’ Tiepolo, centro
del disseminato comune di Porto Tolle, sull’isola della Donzella. Ca’
Tiepolo, come tanti altri toponimi della zona, mi ricorda che siamo in
zona veneziana, già nel dominio dell’antica Serenissima. Qui sulla
piazza centrale, davanti alla torretta del municipio, c’è il monumento
al rivoluzionario romano Ciceruacchio, Angelo Brunetti, che gli
austriaci fucilarono da queste parti con il figlio tredicenne e vari
compagni il 10 agosto 1849, mentre, in fuga da Roma, come
Garibaldi, cercava di raggiungere Venezia.
Qui sfioro finalmente in un punto avanzato questo corso maggiore
del Po, detto Po di Venezia, che più avanti si ramifica nel Po delle
Tolle a destra e nel Po della Pila a sinistra. Salgo sull’argine che è
immediatamente alle spalle del municipio, e sotto il sole meridiano
guardo scorrere verso est il fiume leggermente increspato. Passa
controcorrente un bianco battello. Pali sono infissi nell’acqua qua
sotto, intorno a un piccolo attracco. L’acqua che passa è miscela di
acque molteplici, confluita dalle infinite sorgenti, dai tanti fiumi che si
raccolgono nel Po, da corsi d’acqua casuali, da scoli, tra scorie,
detriti, insetti, corpi vivi e morti: campione indecifrabile, composito,
minimo e potente, di tutto ciò che si raccoglie nel dolce piano.
Il Polesine, tutto il territorio qui intorno, nelle sue terre e nelle sue
acque diramanti è come un collettore della brulicante vita del nord
d’Italia, suo approdo che si intrica nel folto dei rami del fiume, dei
canali e delle lagune, verso il mare, per aver pace co’ seguaci sui.
Questo andare dell’acqua nel sole è quello di una totalità che
sfugge, di una liquida disseminazione che cerca un’impossibile pace
nel gorgoglìo incessante, irremissibile, di quell’entità inconcepibile
che chiamiamo natura, che identifichiamo con un nome che non può
corrispondere alla sua cieca entità, alla sua estraneità a ogni nome.
Occorrerebbe attraversare tutto questo territorio, immettersi nel
cuore di luoghi e di siti, specie quelli più riposti, incontrarsi da vicino
con le presenze e i lavori umani, per capire come questo mondo in
fondo laterale, ai margini, esito estremo del più grande fiume d’Italia,
convogli in sé quasi il senso segreto della natura d’Italia, il suo
essersi svolta, arricchita e alterata nel tempo, la sua storia e il suo
presente: un oltre senza oltre, qualcosa che tende più in là.
Qualcosa se ne afferra in qualcuna delle prose di Verso la foce di
Gianni Celati (1989) e nel film di Ermanno Olmi Lungo il fiume
(1992), e ancora nella trilogia filmica di Elisabetta Sgarbi, Uomini del
Delta, che sarà completata nel 2015.
Ma ora, mentre questo centro di Porto Tolle è quasi deserto, vado
a mangiare qualcosa in un piccolo bar, dove ci sono quattro persone
con cui si parla molto di calcio e dove ci sono cimeli, informazioni,
striscioni degli ultra della locale squadra, Delta, che milita in serie
C2.
Giustiniano a Ravenna

Quel che fé poi ch’elli uscì di Ravenna…


(Par., VI 61)

Torno a Ravenna, girando ancora tra i tanti edifici che risalgono al


suo passato imperiale e bizantino: il complesso di San Vitale, con la
basilica e il mausoleo di Galla Placidia ne costituisce il cuore, un po’
decentrato verso ovest, non lontano dalla Porta Adriana, che un
tempo era il principale ingresso da terra della città. Dal mio alloggio
presso la chiesa di San Giovanni Battista, barocca ma con il più
antico caratteristico campanile cilindrico, con tetto a cono, raggiungo
San Vitale, già attraverso un segno dantesco, la silenziosa via Pietro
Alighieri, che mi conduce a fianco della recinzione, alle spalle del
mausoleo di Galla Placidia e davanti alle chiese di Santa Croce e di
Santa Maria Maggiore (anche questa col campanile cilindrico, ma
con tetto piatto).
Eccomi dentro la grande basilica, pensando a quante volte Dante,
certo autorevolmente accompagnato, si trovò a visitarla, muovendosi
tra le possenti volte e contemplando i mosaici, illuminati come ora
dalla luce naturale, pensando al canto VI del suo Paradiso, forse
allora già scritto o forse proprio qui ideato, di fronte al corteo
dell’imperatore, che, sulla parete laterale sinistra del presbiterio,
sembra come fissare chi guarda, da una illimitata insondabile
distanza, dal suo silenzio dorato affondato nell’oltretempo.

Cesare fui e son Iustinïano,


che, per voler del primo amor ch’i’ sento,
d’entro le leggi trassi il troppo e ’l vano.
(Par., VI 10-12)

Ravenna è un punto di passaggio determinante nella storia


dell’aquila romana che Dante affida alla parola di Giustiniano, a cui
offre senza pausa tutto lo spazio di quel canto VI: perché proprio dal
momento in cui quel sacrosanto segno con Giulio Cesare uscì di
Ravenna inizia la vicenda dell’impero, con la sua missione
universale. Mi domando se tra le figure dei dignitari che circondano
Giustiniano, tra i quali è menzionato con una ben evidente scritta
soltanto il vescovo Massimiano, ci sia anche il generale Belisario, a
cui lì nel canto VI 25-27, Giustiniano dice di aver affidato le sue armi
(“e al mio Belisar commendai l’armi, / cui la destra del ciel fu sì
congiunta, / che segno fu ch’i’ dovessi posarmi”). E guardo sulla
parete di fronte il corteo di Teodora, dove, rispetto al bianco delle
vesti dei dignitari imperiali, si impongono i ricami preziosi e
multicolori delle vesti femminili (anche i re magi si muovono sul
lembo inferiore del manto dell’imperatrice). Ecco sulle lunette varie
vicende bibliche, Abele e Melchisedec, Abramo e Isacco; ecco nel
catino absidale il Redentore e il vescovo Ecclesio che gli offre il
modello stesso della chiesa da lui fondata. Ecco evangelisti, angeli
volanti, monogrammi, orizzonti emblematici che nel contesto delle
tessere musive sembrano come sfondare le pareti, portare la loro
superficie verso un inconcepibile oltre. Lo sguardo si perde tra le
decorazioni di pareti e soffitti, nell’intreccio armonico tra i marmi delle
colonne, dei capitelli, dei pavimenti, e il brillio illimitato dei mosaici.
C’è un continuo rispondersi tra la circolare maestà dell’architettura e
il suo riflettersi sulla pavimentazione, dove si disegnano sfuggenti
figure di volatili. Muoversi dentro la basilica, far circolare lo sguardo
tutto intorno, sui suoi irradianti splendori, viene come ad avvicinarci,
in un effetto fisico e mentale che si impone al di là della parola, alla
circolarità del cosmo dantesco, all’armonia che lo anima, nel giro
della “circulata melodia” (Paradiso, XXIII 109).
All’effetto circolare, di dilatazione celeste dato da San Vitale,
sembra fare come da contrappunto la raccolta compressione del
mausoleo di Galla Placidia: entrare dentro il piccolo edificio è come
ricevere una singolare protezione da parte dei mosaici, un affidarsi ai
colori squillanti, un immergersi nell’indaco, in un’accogliente
azzurrità. Ecco nell’azzurro cervi che guardano verso una sorta di
paniere, racemi e cerchi concentrici; apostoli biancovestiti, due a
due, con corrispondenze sottili, nelle quattro lunette del tamburo; il
buon pastore sull’interno della facciata; san Lorenzo alla graticola
sull’abside; nella calotta della cupola stelle d’oro affoganti
nell’azzurro, cielo e mare allo stesso tempo, e al centro una dorata,
come navigante, croce latina. Ancora qui, del resto, secondo alcuni,
Dante avrebbe trovato suggestioni per qualcuna delle sue visioni
paradisiache, per quei movimenti metamorfici di immagini con cui
cerca di figurare il paradiso (Paradiso, XXIII 61). Si affaccia quasi un
desiderio di essere accolti in questo piccolo luogo, nel sogno di un
senso del vivere risolto nello stare qui: che però viene ostacolato,
sospeso, negato, da una sorta di rabbia, che monta e si ripete senza
fine di fronte ai turisti che qui dentro scattano foto, che con i loro
cellulari risolvono il loro indifferente appropriarsi di questa
insondabile bellezza.
Torno all’aperto nel tardo pomeriggio ravennate, nelle strade
centrali, ora molto animate, e poi di nuovo raggiungo il sepolcro di
Dante: la cappella è ora aperta e posso avvicinarmi di più ai marmi
abbracciati da Jacopo Ortis, alla tomba con l’epitaffio scritto da
Bernardo Canaccio nel 1366 e al bassorilievo del 1483 dello scultore
Pietro Lombardo, con il poeta di profilo, chino e quasi perplesso
verso il leggio alla sua sinistra, braccio sinistro piegato con la mano
appoggiata sotto il mento. Passano solo due turisti francesi, con
civilissima attenzione; qui davanti non c’è nessun altro, ma giunge il
brusio animato della sera d’estate, sera che si protende. Proprio di
fronte alla tomba sento improvvisamente un po’ di tristezza: come
per l’effetto del vibrare nell’aria di qualcosa di immobile e sospeso,
mentre il cielo leggermente si annuvola. Oltre il tumulo dove Dante
fu nascosto durante la guerra, raggiungo il sagrato della chiesa di
San Francesco, dove furono celebrate le sue esequie: sul pavimento
sono incisi gli ultimi quattro versi del Purgatorio. Semplicissimo
l’interno della chiesa, con la ritmica scansione delle colonne di
marmo greco che dividono le navate.
È l’ora della cena e, proprio nella zona dantesca, nella via Corrado
Ricci, c’è una delle migliori osterie di prodotti romagnoli, della catena
con cui mi sono già incontrato a Bertinoro: è la Ca’ de Vèn, molto
affollata, ma con alcune sale completamente libere, dove non si può
accedere, perché mi dicono che è in arrivo un gruppo che ha
prenotato. Riesco a trovare un posto su un tavolo comune, vicino
all’ingresso, e, mentre sto gustando un bel piatto di tagliatelle al ragù
con un ottimo sangiovese, arriva un folto gruppo di giovani,
soprattutto biondi, che non finisce mai di attraversare l’ingresso del
corridoio che dà accesso alle sale loro riservate. Mi sembra di averli
già visti da qualche parte: e poi, dalla scritta che uno porta sulla
maglietta, mi accorgo che sono quelli della New Holland Agriculture,
che già ho visto all’opera stamattina vicino alla casa di Anita, e ora
sono in effervescente escursione serale.
Poi, dopo la cena, passeggio verso i monumenti a est della città,
quelli più antichi, che c’erano già al tempo di Dante: San Giovanni
Evangelista, Sant’Apollinare Nuovo, il cosiddetto Palazzo di
Teodorico, e la più tarda, costruita a più riprese, Santa Maria in
Porto, con l’attigua Loggetta Lombardesca, del primo Cinquecento.
Prada

Non ti maravigliar s’io piango, Tosco,


quando rimembro, con Guido da Prata,
Ugolin d’Azzo che vivette nosco…
(Purg., XIV 103-105)

Decido di proiettare tutta la giornata dell’8 luglio in un rapido giro tra


tutti i luoghi di Romagna che non ho finora toccato: soprattutto quelli
nominati nelle due digressioni da cui già tante volte ho preso spunto,
del XXVII dell’Inferno e del XIV del Purgatorio. L’idea di passare
quasi senza sosta da un centro all’altro equivale in fondo a una
presa in carico della fitta geografia della Romagna, del suo singolare
intrecciato policentrismo, del vario disporsi sul suo territorio di vite
abbarbicate in città di varie dimensioni, ciascuna con un suo orgoglio
di sé, una sua dispiegata identità, un’articolata organizzazione civile,
entro la fertile pianura misurata dai fiumi che scendono
dall’Appennino. Nella situazione che Dante presenta a Guido da
Montefeltro nel XXVII dell’Inferno su questo universo policentrico si
impone un peso di selvaggia tirannide, nell’irredimibile disposizione
bellica che alberga “ne’ cuor de’ suoi tiranni”, come rappresa in uno
strascico di persistente violenza. Nel discorso nostalgico di Guido
del Duca nel XIV del Purgatorio sembra invece prospettarsi
un’irrimediabile perdita, come una sorta di evanescenza di tutto ciò
che faceva bella e degna, abitabile questa terra. Oggi siamo
naturalmente lontani da tutto questo: ma procedendo nella pianura
romagnola, entrando nei centri storici sempre ben curati e ospitali,
osservando le distese della campagna coltivata e il vario
accumularsi di costruzioni industriali, ci si sente accolti dal “dolce
paese” e insieme si percepisce l’eco di una guerra sopita, di antiche
violenze sepolte nel fondo delle campagne o tra le torri delle città, di
spinte incontenibili a imporsi sul mondo, a schiacciare il territorio
sotto imperiose determinazioni. Sangue romagnolo, rivolta ideale,
figlio del fabbro, ossessione.
Lasciando Ravenna al mattino dell’8 luglio, devo sostituire una
delle luci posteriori dell’auto: e, contrariamente a quanto accade di
solito per interventi come questi, trovo un’assistenza incredibilmente
gentile in una stazione di servizio alle porte della città, dove una
gentilissima signora, una quarantenne dai capelli rossi, trova subito
la lampadina adatta e la sostituisce quasi entusiasticamente, mentre
mi fa tante domande sul mio viaggio, sul percorso che ho fatto per
venire da Roma, non senza commenti sulla generale situazione
economica. Procedo poi attraverso il centro di Russi, e, nel territorio
del comune di Faenza, tocco Prada, piccolissimo borgo agricolo
disposto lungo una strada laterale, dove non c’è nessuna traccia di
qualche dimora di quel Guido da Prata rimpianto da Guido del Duca,
insieme al faentino Ugolin d’Azzo. C’è una trattoria che sembra
promettente, nonostante si chiami La miseria, poi si apre la distesa
spoglia dei campi, su cui si espande il ronzio dei camion che
percorrono la strada. Ecco poi uno spiazzo e una chiesetta (Santa
Maria in Prada) con una semplice ma decorosa facciata: costruzione
ottocentesca, ma con origine documentata fin dal 1185, quindi
sicuramente nota al nostro Guido da Prata / Prada.
Bagnacavallo e Barbiano (Cunio)

Ben fa Bagnacaval, che non rifiglia;


e mal fa Castrocaro, e peggio Conio,
che di figliar tai conti più s’impiglia.
(Purg., XIV 115-117)

Seguo vari bivi e diramazioni, che mi portano anche ad attraversare


il fiume Lamone, stretto come un fosso tra i cespugli (è il fiume che
scorre a Faenza, come vedrò più tardi): e giungo a Bagnacavallo, al
cui proposito Guido del Duca nota la quasi estinzione dei conti
Malvicini, che viene a sottrarli alla decadenza contemporanea (ma si
deve ricordare che un’ultima discendente dei Malvicini fu sposa di
Guido Novello da Polenta: Dante dovette aver modo di conoscerla
nel suo soggiorno ravennate, comunque quando già questa parte del
Purgatorio era stata scritta).
Lo strano nome della città sembra derivi dalla presenza, in epoca
romana, di una fonte di acque curative, particolarmente propizie per i
cavalli: e secondo una leggenda avrebbe curato un cavallo
particolarmente caro all’imperatore Tiberio. Ci sono belle strade
porticate, un’ampia piazza centrale, biciclette in movimento, un’aria
da grasso borgo agricolo, ben accogliente, come sperimento in uno
dei bar sulla piazza. Non manca la lapide con questa terzina
dantesca, apposta per il centenario del 1921 dall’Università
popolare. Osservo i molti edifici di austera misura, tra cui la
medievale squadrata torre dell’orologio. Uscendo dalla città, tocco la
pieve di San Pietro in Sylvis, sul modello ravennate, risalente al VII
secolo; qui ci sono affreschi del primo Trecento, in uno dei quali, mi
dicono, si riconoscerebbe il volto di Dante. Non sarà il caso di
verificare, anche perché attualmente la porta della chiesa, che provo
a spingere, è irrimediabilmente chiusa.
Fuori da Bagnacavallo tocco ancora la località di San Potito (che
mi fa venire in mente un misero luogo napoletano, a cui è dedicato
un breve libro di uno scrittore poco noto, Scala a San Potito, di Luigi
Incoronato, 1950) e sfioro la città di Lugo, sostando per un po’
davanti al possente torrione della rocca. Seguendo la terzina
dantesca, passerò più tardi a Castrocaro: ma ora cerco di toccare il
luogo da cui provenivano i conti di Conio o Cunio, che Guido del
Duca rimprovera perché continuano a figliare: Cunio non esiste più,
non c’è in nessuna carta, ma in questi paraggi c’è il paese di
Barbiano, nel comune di Cotignola, dove era il castello dei conti di
Cunio, distrutto all’inizio del Quattrocento. Patria del condottiero
Alberico da Barbiano (1349-1409), signore di Lugo, ha anche una
via Conti di Cunio. Del tempo di questi conti resta l’appartata Pieve
di Santo Stefano, del XIII secolo, in laterizi, che si trova, quasi
nascosta, dietro il corpo settecentesco della Collegiata di Santo
Stefano, in uno spazio aperto tra ampi prati.
Medicina

“O tu cui colpa non condanna


e cu’ io vidi su in terra latina,
se troppa simiglianza non m’inganna,

rimembriti di Pier da Medicina…”


(Inf., XXVIII 70-73)

Prendo l’autostrada e mi dirigo rapidamente, mentre il cielo


improvvisamente si oscura, oltre il limite della Romagna. Esco dal
casello di Castel San Pietro Terme raggiungendo Medicina, patria
del personaggio di difficile identificazione che Dante incontra nella
bolgia dei seminatori di discordia, facendogli accennare a qualche
incontro avuto con lui in vita e dandogli occasione di riprovare il
futuro tradimento di Malatestino Malatesta contro i due notabili di
Fano. Secondo Benvenuto da Imola, questo Pier da Medicina
avrebbe seminato discordia anche all’interno del campo guelfo, tra
Guido da Polenta e Malatesta da Verucchio, mentre Dante sarebbe
stato ospite dei signori di Medicina (e certo lì avrebbe incontrato
Piero).
La città in cui entro sotto uno scosciante acquazzone ha una sua
ben articolata struttura, da ricco borgo agricolo: tanti portici, ampi
spazi, molte chiese, tra cui la grande parrocchiale di San Mamante,
di antica origine, ma in forma settecentesca; una buona biblioteca
nel Palazzo della Comunità, dove una lapide ricorda Pillio da
Medicina, giurista e docente a Bologna nel XII secolo. Non manca la
lapide con i versi danteschi, mentre altra lapide molto grande ricorda
la visita di Garibaldi del 23 settembre 1859, SECO PORTANDO DA
RAVENNA / AI TARDI ONORI DEL SEPOLCRO / LE CENERI DELLA SUA ANNITA
(scritto così). Storia e storie, edifici e strade, ora quasi vuote sotto la
pioggia: un dislocarsi e intrecciarsi continuo della vita d’Italia in
questi percorsi, in questo susseguirsi di tanti centri urbani, a ridosso
l’uno dell’altro, ognuno ben identificato, inconfondibile, solo se
stesso: e insieme fanno la rete che è l’Italia, il suo disporsi nel
mondo con la sostanza della storia, con il suo riconoscersi attraverso
le tracce del suo passato.
Imola

Le città di Lamone e di Santerno


conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
(Inf., XXVII 49-51)

Leone azzurro in campo bianco era lo stemma di Maghinardo


Pagani di Susinana, capo ghibellino disposto secondo convenienza
a mutare partito e a schierarsi con i Guelfi (sempre sostenuto dai
fiorentini, combatté insieme a loro a Campaldino ed entrò a Firenze
a sostegno dei Neri nel novembre 1301): Dante lo indica a Guido da
Montefeltro come signore delle città di Faenza e di Imola, designate
con i nomi dei fiumi che le bagnano (e a lui allude anche Guido del
Duca, accennando alla non completa estinzione della famiglia dei
Pagani, dopo la morte di quel loro “demonio”, Purgatorio, XIV 118-
120).
Da Medicina raggiungo per prima la più vicina delle due, Imola, la
città di Santerno, il cui linguaggio viene ricordato nel De vulgari
eloquentia, I XV 2-3, per il contributo che dà al volgare bolognese,
soprattutto con la sua lenitas, dolcezza, e la sua mollities, mollezza.
Procedo verso il centro sull’antico percorso della Via Emilia, che
taglia longitudinalmente la città, puntando verso sudest: sulla destra
trovo la casa Rambaldi, che la tradizione, come indica una lapide
sulla facciata che conserva tracce di un impianto quattrocentesco,
ritiene abitata da Benvenuto Rambaldi da Imola, uno dei maggiori e
più affidabili commentatori della Commedia. Poco più avanti,
svoltando leggermente a destra, si accede al piazzale Duomo,
davanti alla facciata ottocentesca della cattedrale di San Cassiano:
non ci sono tracce della sua forma più antica, salvo parte del
campanile quattrocentesco, ma quello che mi incuriosisce è il fatto
che protettore della città, fissato nel suo martirio sull’altar maggiore
nel dipinto settecentesco di Pietro Tedeschi, sia San Cassiano, santo
intellettuale, maestro di scuola martirizzato proprio a Imola (allora
Forum Cornelii) all’inizio del IV secolo, con un supplizio affidato ai
suoi scolari, che, per vendicarsi della sua severità, ebbero il compito
di ucciderlo scagliandogli addosso le tavolette di scrittura e
pungendolo con i calami, come racconta Prudenzio nel suo
Peristephanon. Un martirio, questo, che mi fa pensare al destino dei
maestri e della scuola nel mondo di oggi…
Tornando sulla Via Emilia, ci si addentra tra portici di diversa
epoca e fattura; si affaccia, su di un angolo, la squadrata struttura
della Casa del fascio, eretta nel 1933, con l’ambiziosa geometria
della Torre littoria e le pareti su ciascuna delle quali sono disposti tre
fasci a rilievo sul laterizio, da una parte con la scritta XI ANNO,
dall’altra X LEGIO. Poi, dopo la piazzetta dell’Orologio, la strada è
sormontata da un arco che immette nella piazza Matteotti, la piazza
maggiore e centrale, con due lati porticati, a forma di trapezio, dove
si fronteggiano il Palazzo comunale e il Palazzo Sersanti, già
Palazzo della Signoria, impiantato da Girolamo Riario, il signore che
a fine Quattrocento fissò questa piazza come centro della città,
provvedendo a una razionale sistemazione urbanistica. Qui tra le
tante lapidi (ce n’è un’altra sul nostro commentatore Benvenuto)
eccone una molto semplice, in bianchissimo marmo recente: SU
QUESTA PIAZZA / IL GIORNO 29 APRILE 1944 / LIVIA VENTURINI / E / MARIA ZANOTTI
/ CADDERO VITTIME / DELLA FEROCIA NAZI FASCISTA / / A PERENNE MEMORIA.
La più imponente traccia che resta a Imola dei tempi di Dante e
della signoria del “demonio” Maghinardo è comunque la Rocca, già
in piedi a metà Duecento, che ebbe poi le cure del cardinale
Bertrando del Poggetto (quello che fece bruciare in pubblico la
Monarchia) e un’ultima sistemazione durante la signoria di Girolamo
Riario. Il Riario era nipote del papa Sisto IV e aveva avuto la signoria
di Imola come dote della moglie Caterina, figlia del duca milanese
Galeazzo Maria Sforza: alla morte violenta del marito (14 aprile
1488), Caterina tenne la signoria di Imola e Forlì, muovendosi tra
turbinose vicende con un coraggio che le procurò l’appellativo di
“tigre”, fino al 1500, quando fu scalzata e fatta prigioniera dal duca
Valentino. Giungendo alla rocca proprio attraverso la via Caterina
Sforza, girando sull’ampio prato intorno al fossato, di fronte alla mole
possente che brilla sotto il sole che sta ormai definitivamente
fugando le nuvole del recente temporale, si affollano le immagini dei
personaggi che qui si sono affacciati, nella loro ostinata e imperiosa
durezza, dal “demonio” Maghinardo alla “tigre” Caterina.
Tornato sulla Via Emilia, procedo verso sudest, fino ai margini
della città storica, fino al corto ponte sotto cui scorre il Santerno (qui
l’antica strada assume il nome di viale Carlo Pisacane). Il placido
letto del fiume è qui circondato da un tranquillissimo parco ed è
facile avvicinarsi alle acque che ora sembrano quasi immobili. Se poi
si segue la strada che costeggia il fiume, piegando verso ovest, si
giunge a un altro ponte, sbocco del viale Dante, al di là del quale si
disegna un rosso e geometrico recinto: davanti è installata una
scultura in materiali metallici intrecciati e inarcati in sghemba
attitudine. Oltre il recinto altre varie impalcature di rosso si affacciano
tra qualche pianta verde cupo: è l’Autodromo internazionale Enzo e
Dino Ferrari, che dal 1981 al 2006 è stato sede del Gran Premio di
San Marino, per il Mondiale automobilistico di Formula 1. Dopo un
necessario ammodernamento e ristrutturazione, la pista è ora
perfettamente funzionante, ma non è più tornata ai fasti della
Formula 1. Accanto all’ingresso c’è comunque il Museo Checco
Costa, dedicato ai motori e alle loro tecnologie, su un piazzale
interno intitolato al pilota Ayrton Senna da Silva.
Faenza e oltre (Modigliana e Dovadola)

“…Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia.”
(Inf., XXXII 122-123)

quando in Faenza un Bernardin di Fosco,


verga gentil di picciola gramigna?
(Purg., XIV 101-102)

Il “demonio” Maghinardo divenne podestà e capitano del popolo a


Faenza e a Forlì nel 1286: ma nell’Inferno Faenza viene chiamata
ancora in causa nel ghiaccio dell’Antenora, dove tra i traditori della
patria si trova Tebaldello Zambrasi, di famiglia guelfa in perpetuo
contrasto con l’altra famiglia guelfa dei Manfredi, padre della
Zambrasina che andò in sposa a Gianciotto Malatesta dopo la morte
di Francesca. Tebaldello si trovava nella sua città, da cui era stata
scacciata la famiglia rivale e in cui, col sostegno di Guido da
Montefeltro, erano stati accolti i ghibellini Lambertazzi, esiliati da
Bologna: nella notte del 13 novembre 1280 aprì le porte della città ai
rivali dei Lambertazzi, i guelfi Geremei, con esito di tremende
violenze e distruzioni (alla vicenda fu poi dedicato il popolare
Sirventese dei Lambertazzi e dei Geremei).
Poco dopo Tebaldello un altro faentino, proprio della famiglia rivale
dei Manfredi, si affaccia nel cupo fondo dell’inferno, alla fine del
canto XXXIII, 109-150, nella Tolomea, destinata ai traditori degli
ospiti: è frate Alberigo, frate gaudente e capo guelfo, più avanti
qualificato addirittura come il “peggiore spirto di Romagna” (v. 154),
che fece uccidere dei parenti rivali alla fine di un convito, nella pieve
di Cesato il 2 maggio 1285 (un po’ fuori da Faenza, presso la strada
per Ravenna, non lontano da Prada). Si raccontava che all’atto di
chiamare in tavola la frutta, costui avesse fatto uscire i suoi scherani
a fare a pezzi i malcapitati e che dalla vicenda avesse avuto origine
un detto molto noto, frutta di frate Alberigo. Da questo detto, in
fondo, Dante ricava la sarcastica prosopopea del dannato, che fissa
la propria pena nello scambio tra dattero e fico (“I’ son frate Alberigo;
/ i’ son quel da le frutta del mal orto, / che qui riprendo dattero per
figo”, vv. 118-120), nella paradossale situazione che egli stesso
presenta come “vantaggio” della Tolomea (qui, nel ghiaccio del
Cocito, l’anima precipita già al momento del delitto, mentre il corpo è
ancora in vita). Quella del mal orto è una metafora suscitata dal
rilievo che il riferimento alle frutta ha nella fama della vicenda: ma
non manca chi, come il commentatore Benvenuto da Imola, intende
per mal orto la stessa città di Faenza: “Appellat Faventiam ‘malum
hortum’, quae produxit aliquando tam malos fructus in nobilibus suis”
(“Chiama Faenza ‘mal orto’, dato che produsse talvolta tanto cattivi
frutti nei suoi nobili”: interpretazione che forse è anche frutto della
malevolenza del vicino imolese).
Del resto, non tutto è mal orto nella Faenza dantesca. A questi
traditori faentini fa infatti da contraltare la memoria dei nobili
personaggi del buon tempo antico, ricordati da Guido del Duca:
Bernardino di Fosco (nobile non identificato, forse di origine plebea,
come sembra indicare l’espressione di picciola gramigna), a cui
seguono subito i nomi di altri personaggi che devono aver avuto a
che fare con Faenza, come il già ricordato Guido da Prata e il non
meglio identificato Ugolin d’Azzo (vv. 104-106). Poi riguardano
ancora variamente Faenza i Pagani, della stirpe del “diavolo”
Maghinardo (vv. 118-120), e Ugo de’ Fantolini da Cerfugnano (o
Zerfognano), che, divenuto cittadino di Faenza, vi ebbe grande
influenza e fu podestà nel 1252; ma il suo nome non può essere
contaminato da discendenti che non ci sono (vv. 121-123):

O Ugolin de’ Fantolin, sicuro


è ’l nome tuo, da che più non s’aspetta
chi far lo possa, tralignando, scuro.
Questo è l’ultimo dei personaggi enumerati nell’excursus di
Purgatorio, XIV. Ma ad altri faentini Dante aveva accennato nel De
vulgari eloquentia, I XIV 3, cioè al giudice Tommaso da Faenza e a
Ugolino Bucciola, capaci di allontanarsi da quella che a lui pareva la
mollezza delle varie parlate romagnole (nell’ambito delle quali aveva
distinto, come parlanti linguaggi diversi, pur entro una medesima
stirpe, i faentini dai ravennati: “non convenientes in eodem genere
gentis, ut… Ravennates et Faventini”, I 9 4). E il bello è che
quell’Ugolino Bucciola, di cui ci rimangono due sonetti, non è altro
che un figlio del traditore frate Alberigo, per giunta suo complice nel
tradimento di Cesato, e strettamente alleato al tante volte già citato
Maghinardo.
Questo groviglio di personaggi, di mosse tra Guelfi e Ghibellini, di
tradimenti e confusioni di campo, sembra venirmi incontro quando mi
addentro verso il centro di Faenza, sulla Via Emilia, che traccia il
decumano, come a Imola. Tra vari nobili palazzi, con il nome di
corso Mazzini, questa sbuca nella ariosa e allegra doppia piazza
centrale, la piazza della Libertà, che si allarga verso la piazza del
Popolo. Subito a sinistra c’è il Portico dei Signori, in cui si affacciano
segni della ceramica, nei secoli vanto artigianale di Faenza (e in
alcune lingue, un po’ anche in italiano, Faenza è diventato addirittura
nome comune, sinonimo di ceramica, maiolica: francese faience,
tedesco Fayence, portoghese faiança ecc.: e non è certo da
trascurare, non lontano dalla stazione ferroviaria, il Museo
internazionale delle Ceramiche, fondato nel 1908).
Ma un altro personaggio, ben diverso, già tante volte incontrato,
cancella tutti i vari faentini sopra nominati: è un santo, e quale santo,
san Pier Damiani. Sulla facciata della cattedrale, incompiuta, con i
laterizi scoperti disposti in modo da darle un aspetto butterato, sono
fissati i versi del canto XXII del Paradiso, su una lapide a fianco del
portone. Proprio a Faenza Pier Damiani morì il 22 febbraio 1072, nel
monastero di Santa Maria Foris Portam, mentre era sulla via del
ritorno verso Fonte Avellana o qualche altro eremo, dopo la
decisione di lasciare l’attività curiale e tornare alla vita eremitica: e
veniva da una ultima missione, il tentativo di riportare all’obbedienza
la chiesa ravennate, che nella lotta per le investiture parteggiava per
l’antipapa Benedetto X; ora la sua sepoltura è qui, nella cattedrale, in
un cappella sulla navata sinistra.
Oltre la piazza della Libertà, su quella del Popolo (la torre
campanaria della cattedrale fa da limite tra le due) si fronteggiano,
con aria luminosamente festante due porticati a doppio ordine
(nell’ordine superiore il colonnato è sovrastato da semplice
architrave, in quello inferiore si dispone sotto archetti su cui sono
sospesi bianchi tendaggi), mentre in fondo, sul punto diagonalmente
opposto alla torre della cattedrale, si affaccia la più modesta ma
spigolosa torre del Palazzo di Giustizia (già delle Poste).
Fascistissimi nello stile, il palazzo e la torre, che su una grande
lapide, lunga e stretta, recano, in ben incise maiuscole, una
rombante e quanto mai incongrua citazione da La rivolta ideale del
faentino Alfredo Oriani, che ne proietta lo spirito prefascista:

…salire a tutte le bellezze, credere a tutte le virtù, consentire


tutti i sacrifici, offrendosi intero alla vita e accettando la morte
come un premio: ecco la rivolta ideale…
…accendete dunque tutte le fiaccole, perché la marcia è già
cominciata nella notte, e non temete del fumo: l’alba è vicina…
…il suo rossore somiglierà forse a quello del sangue. Ma è
sorriso di porpora, che balena dal manto del sole…

Dante e Pier Damiani sono certo più vicini a noi di questi deliri che
restano iscritti sulla pietra, che continuano a cantare sulla
dinoccolata indifferenza di questa piazza animata dalla luce
fermissima del pomeriggio estivo, dal leggero soffio di vento che fa
appena vibrare i tendaggi dei porticati, tra i tavoli dei bar su cui
siedono ancora pochi clienti.
Lascio questa doppia piazza e, prendendo per la via di Santa
Maria dell’Angelo, mi addentro fino alla chiesa di Santa Maria
Vecchia, nome corrente di quella Santa Maria Foris Portam nel cui
monastero Pier Damiani morì. In fondo a una piazzetta stretta e
chiusa, la chiesa ha forma tardocinquecentesca, ma si distingue alla
sua destra il campanile, che risale al IX secolo ed è ancora quello
che vide il santo, con un corpo ottagonale, sulla cui parte inferiore si
affacciano alcune bifore, e in alto due piani aperti da trifore su tutti i
lati. Qui, sotto la cella campanaria, è il luogo dove il santo fu sepolto,
prima di essere traslato nella cattedrale.
Mentre torno indietro, sul corso Mazzini, sotto la Loggia dei Fantini
(detta anche Portico della Carità: dove era un antico ospedale),
accanto a un bar, trovo una lapide su un antifascista qui ucciso,
Clemente Ghirlandi: e mi sorprende la data della morte, 25 luglio
1943 (una vendetta fascista proprio il giorno della caduta del
fascismo?). Poi muovo verso il limite sudest del centro storico, dove
trovo finalmente il fiume Lamone, la cui posizione rispetto alla città è
quasi simile a quella del Santerno rispetto a Imola. Anche qui l’acqua
sembra scorrere molto lentamente, ma il corso del fiume è più
strettamente incassato tra folta vegetazione e le sue sponde non
sembrano facilmente praticabili.
In auto risalgo proprio parte del corso del fiume, sulla strada ex
302, che conduce verso Marradi e l’Appennino, ma la lascio a
Brisighella; svoltando verso sinistra attraverso il Lamone. Salendo e
scendendo attorno a un ampio colle in cui sono disposte bellissime
vigne, raggiungo Modigliana. Feudo dei conti Guidi, di un ramo
saldamente ghibellino della famiglia, che comunque aveva molti
rapporti con Firenze e che in occasione della discesa di Enrico VII fu
naturalmente dalla parte dell’imperatore: uno di loro, Gualtieri, era
titolare del Palazzo di San Godenzo, dove nel giugno 1302 fu
ospitato il convegno dei fuorusciti Bianchi e Ghibellini a cui partecipò
Dante, per garantire la casata degli Ubaldini dai danni che potevano
derivarle dalla guerra contro Firenze. È molto probabile che, nei suoi
passaggi tra Casentino e Romagna, Dante abbia soggiornato a
Modigliana.
La piccola città si presenta subito al visitatore come patria del
pittore Silvestro Lega (1826-1895) e del prete patriota don Giovanni
Verità (1807-1885). Sorprendente è l’ingresso nella città vecchia,
con una Tribuna, torrione delle mura dal solido corpo convesso su
cui svettano due campaniletti e un’edicola, a cui si accede da un
ponticello, sul fiume Tramazzo. Dentro c’è una vera città-castello,
molto ben conservata. Percorro le stradine ben lastricate, sosto sulla
piazza Pretoria, dove è il palazzo già dei conti Guidi, con un nucleo
duecentesco e poi variamente trasformato come Palazzo del
Pretorio (qui è la Pinacoteca Comunale, naturalmente intitolata a
Silvestro Lega). Poi salendo in curva tra ben tenuti palazzetti si esce
fuori dell’abitato e si sale alla Roccaccia, resti sconnessi dell’antica
rocca, con un corpo di sassi e mattoni che si erge verso l’alto, sullo
sfondo delle colline. Non c’è proprio nessuno, tra i sassi muti, tra
cespugli e fronde appena agitate dal vento, nei luoghi percorsi un
tempo dal ghibellino Gualtieri.
Lasciata Modigliana salgo di nuovo su un colle che fa da
spartiacque tra la valle del Tramazzo e quella del Montone, toccando
il passo di Trebbio, dove c’è un cippo marmoreo con una scritta che
ricorda come qui don Giovanni Verità trasse in salvo Garibaldi
durante la sua fuga da Roma nel 1849. Poco più avanti si trova, in
cima al colle, un monumento al ciclista, con questi versi di Olindo
Guerrini:

Sovra il ferreo corsier passo contento


Come a novella gioventù rinato
E sano e buono e libero mi sento.

La discesa dal colle conduce a Dovadola, sul fiume Montone: altro


feudo dei Guidi, ramo questo saldamente guelfo e sempre alleato di
Firenze, anche con personaggi direttamente integrati nell’ambiente
fiorentino, come il Guido Guerra che è nella schiera dei tre nobili
fiorentini che corrono del sabbione dei sodomiti, presentato così dal
suo compagno Jacopo Rusticucci:

Questi, l’orme di cui pestar mi vedi,


tutto che nudo e dipelato vada,
fu di grado maggior che tu non credi:

nepote fu de la buona Gualdrada;


Guido Guerra ebbe nome, e in sua vita
fece col senno assai e con la spada.
(Inf., XVI 34-39)

Il nipote di questo Guido Guerra, Guido Salvatico (figlio del fratello


Ruggero) avrebbe ospitato più volte Dante nei primi anni dell’esilio,
come suggerisce anche il Boccaccio nel Trattatello: e certamente
Dante sarà stato qui a Dovadola (il cui strano nome viene da Duo
Vadora, cioè paese tra due guadi del fiume Montone). C’è una bella
piazza e un borgo medievale abbastanza ben conservato, dove si
distingue un palazzetto sulla stretta viuzza, che conduce alla rocca
imponente sul fiume, che ora è in restauro. Ben conservata la torre,
nettamente squadrata, circondata da impalcature, mentre le svetta
accanto più alta una gru metallica: solo in parte in piedi, con la sua
terrazza merlata, è invece il corpo del castello, il cui effettivo
restauro sarà certamente lungo e complesso.
Castrocaro

…e mal fa Castrocaro,
(Purg., XIV 116)

Da Dovadola, scendendo sulla valle del Montone, tocco Castrocaro,


che nel discorso di Guido del Duca è indicato, insieme a Cunio,
come luogo di una famiglia che ha perduto ogni prestigio e che
continua indebitamente a figliare. In effetti i conti di Castrocaro,
sempre precedentemente schierati tra i Ghibellini, verso la fine del
Duecento, per rivalità con la vicina Forlì, avevano venduto il loro
castello ai rappresentanti papali insediatisi in Romagna.
Superata la parte moderna della città, entro dentro il Voltone
dell’Orologio, che mi immette nel borgo medievale. Mi arrampico tra
silenziosi edifici molto ben conservati, fino alla base della Rocca,
fermandomi sotto il rozzo e possente torrione sulla cui terrazza
sventola la bandiera italiana. Ma la vita di Castrocaro è di fuori, nella
combinazione turistica e termale del suo centro moderno: è
Castrocaro Terme, con le sue varie attrezzature e la sua
disposizione allo spettacolo di massa, che ha l’espressione più
popolare nel festival Voci Nuove Volti Nuovi Castrocaro Terme,
dedicato alle voci nuove della canzone, che si svolge a fine agosto e
che nel 2014 giunge alla 57a edizione.
C’è poi un singolare dato storico, che ha condotto a dare al
comune una denominazione doppia: si chiama infatti Castrocaro
Terme e Terra del Sole, perché alla Castrocaro medievale e
moderna si aggiunge, a pochissima distanza verso nord, una
singolare cittadella, di perfetta concezione urbana e di mirabile
equilibrio architettonico, Terra del Sole, appunto. Nell’intricata storia
e geografia della Romagna, questo territorio, nei pressi di Forlì, ma
sulla strada di Firenze, ebbe la chance di essere sottratto ai domini
della Chiesa e di passare nel 1403 sotto il dominio fiorentino. E più
tardi Cosimo I de’ Medici, granduca di Toscana (era nipote della già
incontrata Caterina Sforza!), impiantò questa formidabile cittadella,
chiamandola Eliopoli, città del sole alla misura del potere
principesco: città fortificata e insieme città ideale, manieristicamente
inquadrata e squadrata (tra gli architetti anche Bernardo
Buontalenti).
Nell’avvicinarsi si vede la cinta muraria, rettangolo che ai quattro
angoli ha ben muniti bastioni e casematte. Ma un boschetto di pini
occhieggia dentro le mura. Entrando nel cuore di questa solare città,
colpisce la piazza di perfetta misura: vi si distende la bassa facciata
del Palazzo Pretorio, su cui si apre un portico a tre archi, mentre
dalla parte opposta si leva la chiesa fiorentinamente intitolata a
Santa Reparata. Nell’insieme un singolare effetto di architettura
toscana traslocata, eco romagnola di ville e villaggi medicei. La
strada taglia in due la cittadella, dall’ingresso meridionale, dove era
la Porta Fiorentina, a quello settentrionale, dove era la Porta
Romana (di Roma come Romagna e come territorio papale): qui si
staglia ancora, sulla destra, il solido Castello del Capitano di piazza.
Supero questo vecchio confine tra il granducato e lo Stato della
Chiesa e mi dirigo ormai verso la vicinissima Forlì.
Forlì

La terra che fé già la lunga prova


e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova.
(Inf., XXVII 43-45)

Vidi messer Marchese, ch’ebbe spazio


già di bere a Forlì con men secchezza,
e sì fu tal, che non si sentì sazio.
(Purg., XXIV 31-33)

Nelle parole di Dante a Guido da Montefeltro Forlì viene designata


attraverso il riferimento a un sanguinoso evento di cui proprio il
ghibellino Guido era stato protagonista: il lungo assedio che la città
subì da parte delle forze papali, risolto vittoriosamente il 1° maggio
1282 con una strage, soprattutto di francesi, presi in trappola dopo
essere riusciti a entrare dentro le mura (si parlò addirittura di ottomila
uccisi: tra essi anche il Tebaldello Zambrasi già ricordato). Lo
stemma con un leone verde (branche verdi) rampante in campo
d’oro si riferisce alla signoria degli Ordelaffi che in realtà non si era
ancora affermata alla data a cui il testo si riferisce (1300): essa si
impose solo nel 1302, alla morte di Maghinardo Pagani, comunque
in una continuità del potere ghibellino. Dante fu peraltro in rapporto
con il signore Scarpetta degli Ordelaffi, che dovette ospitarlo a Forlì
nel 1303, quando Scarpetta fu “capitaneus partis Alborum
extrinsecorum civitatis Florentiae”, capitano del partito dei Bianchi
fuorusciti da Firenze, nell’alleanza tra Bianchi e Ghibellini che ebbe il
centro proprio sull’asse dei feudi dei Guidi nelle valli appenniniche.
In quella circostanza l’alleanza guidata dall’Ordelaffi, per la quale è
testimoniato un incontro a cui partecipò Dante, a San Godenzo,
sull’altro versante dell’Appennino (vedi pp. 414-415), finì per essere
sconfitta dai Neri fiorentini, guidati da un altro forlivese, Fulcieri de’
Calboli, nipote peraltro del Ranieri de’ Calboli che tra gli invidiosi del
Purgatorio si accompagna a Guido del Duca.
Estraneo a queste vicende sembra invece il messer Marchese,
della famiglia degli Orgogliosi, che nel sesto girone del Purgatorio
sconta la pena dei golosi: nella terzina del canto XXIV la città di Forlì
è citata come luogo che ha accolto senza ristrettezze la sua
insaziabile passione del bere. Non senza una punta di sarcasmo
Dante sembra prender spunto da un aneddoto riferito da Benvenuto,
secondo cui, a uno che gli aveva ricordato che di lui si diceva che
non faceva altro che bere (“Domine, dicitur quod numquam facitis
nisi bibere”), messer Marchese aveva risposto: “Et quare numquam
dicunt quod sempre sitio?” (“E perché non dicono mai che ho
sempre sete?”). (Può essere comunque che l’aneddoto sia stato
inventato proprio a partire dai versi di Dante).
A Forlì Dante accenna anche nel De vulgari eloquentia, I XIV 3, a
proposito dell’effeminata mollezza del volgare romagnolo; insiste sul
rilievo della città, come vero e proprio centro della Romagna, pur
nella sua posizione relativamente periferica (questo dovrebbe essere
qui il senso dell’aggettivo novissima), quasi ai margini della regione:

Hoc Romandiolos omnes habet, et presertim Forlivienses,


quorum civitas, licet novissima sit, meditullium tamen esse
videtur totius provincie: hii deuscì affirmando locuntur, et oclo
meo et corada mea proferunt blandientes.

(Questo volgare l’hanno tutti i Romagnoli, e specialmente i


Forlivesi, la cui città, sebbene periferica, sembra tuttavia il
centro di tutta la regione: questi dicono deuscì per affermare,
e per blandire oclo meo e corada mea).

Arrivo a Forlì ormai a sera, ma ho il tempo di attraversare il suo


centro, che appare quasi deserto, con i negozi ormai chiusi e
pochissimi locali aperti. La città ha un aspetto composito, frutto di
vari strati, interventi molteplici che l’hanno allontanata totalmente da
quello che doveva essere il suo assetto ai tempi del sanguinoso
mucchio. Di particolare intensità, in un vero e proprio piano di
ridefinizione del volto della città, sono stati gli interventi in età
fascista, per la cura particolare di Mussolini, nativo della vicina
Predappio e variamente vissuto a Forlì nei suoi anni giovanili. Resta,
nel contrasto tra i vari volti urbanistici e architettonici, una traccia dei
contrasti e degli scontri antichi, dello sprizzante vigore delle fazioni in
lotta, della durezza dei poteri che qui si sono abbarbicati, quasi
paradossale contrappunto di quella mollezza muliebre che Dante
attribuisce al volgare romagnolo. Contrasti implacabili, che
sembrano tracciare un filo unico dagli scontri tra Guelfi e Ghibellini a
quelli novecenteschi tra fascismo e anarchismo, che hanno avuto
esiti estremi in questa zona della Romagna.
Sulla centrale piazza Aurelio Saffi la statua del patriota
repubblicano (triumviro con Mazzini nella repubblica romana del
1849), sul bianco monumento, nella posa perplessa del braccio
sinistro piegato, con la mano chiusa che sfiora il mento, sembra
come voler incedere sull’aria della sera, quasi proiettandosi sui
laterizi del campanile della chiesa di San Mercuriale. Da una parte
della piazza il massiccio palazzo fascista delle Poste e Telegrafi;
dall’altra, in posizione sghemba, il Palazzo del Municipio, dalla
travagliata vicenda architettonica, su cui si indica una finestra da cui
nel 1488 sarebbe stato gettato il corpo del già ricordato Girolamo
Riario, vittima di una congiura.
Passeggiando per la silenziosa città, tra i vari intrecci di stili e di
forme, passo sotto la facciata del Palazzo Albicini, sul corso
Garibaldi, sul sito di quello che fu il Palazzo degli Ordelaffi. Qui una
lapide chiama in causa Dante, che vi sarebbe stato ospitato come
ORATORE DEI FIORENTINI DI PARTE BIANCA PROSCRITTI, e anche Carducci,
ospite dei marchesi Albicini. Nella sera che scende finisco per
mangiare una frittura di pesce in una specie di self-service,
conversando col proprietario e con due commensali sul dilagare
della crisi e sulle difficoltà delle trattorie.
Sono in un albergo al di fuori della vecchia cinta muraria (che in
parte è stata abbattuta, ma non da questa parte), presso l’imponente
e pretenziosa piazza della Vittoria, che si estende per longitudine sul
tracciato della Via Emilia, all’uscita dal centro verso sudest – dove è
stata abbattuta l’antica porta urbica – e continua nell’ampio viale
Roma. Ma non sono le illusioni imperiali a tenere campo stasera:
nell’albergo ci sono vari clienti che aspettano di seguire alla TV la
partita Brasile-Germania, semifinale dei campionati mondiali di
calcio, dallo Stadio Mineirão di Belo Horizonte. Vorrei vederla nella
stanza, ma la linea non funziona: dopo varie inutili manovre e
telefonate con la reception, scendo nella hall, quando la partita è già
cominciata e vedo già in vantaggio la Germania: ma il vantaggio
crescerà rapidamente, tra la sorpresa e il divertimento di noi
spettatori, fino all’incredibile 7-1 (anche con un gol
dell’immarcescibile Miro Klose, il maggior goleador di tutti i mondiali),
smacco e disperazione per la celebre Seleção, per il calcistico
Brasile, che in questi mondiali a casa sua era partito convinto di
avere in mano la vittoria. Così questo evento calcistico (il cui amaro
ricordo in Brasile sarà registrato con il termine Mineiraço, emblema
di crollo senza remissione) resta per me legato alla sera di Forlì.
Uscendo da Forlì la mattina del 9 luglio mi dirigo verso la punta
sud della cerchia muraria, al piazzale di Ravaldino; e passo accanto
alla grande Rocca, costruita forse su qualche antico minore fortilizio
(Ravaldino dovrebbe essere una deformazione di rivellino), ma che
in questa forma non esisteva ai tempi del ghibellino Guido: si è
variamente sviluppata nel Trecento e ha assunto un assetto stabile
sotto Girolamo Riario. Qui sua moglie Caterina Sforza nella
primavera del 1488 resistette ai nemici che la assediavano dopo
l’uccisione del marito; guardando il massiccio torrione non posso non
pensare al racconto di Machiavelli, sulla determinazione di Caterina,
giunta a esibire sfrontatamente il proprio sesso per respingere i
nemici che avevano preso i figli come ostaggi:

Ammazzarono alcuni congiurati Forlivesi il conte Girolamo loro


signore, presono la moglie, e i suoi figliuoli, che erano piccoli;
e non parendo loro potere vivere sicuri se non si insignorivano
della fortezza, e non volendo il castellano darla loro, Madonna
Caterina (che così si chiamava la contessa) promisse ai
congiurati, che, se la lasciavano entrare in quella, di farla
consegnare loro, e che ritenessono a presso di loro i suoi
figliuoli per istatichi. Costoro, sotto questa fede, ve la
lasciarono entrare; la quale, come fu dentro, dalle mura
rimproverò loro la morte del marito, e minacciogli d’ogni
qualità di vendetta. E per mostrare che de’ suoi figliuoli non si
curava, mostrò loro le membra genitali, dicendo che aveva
ancora il modo a rifarne. Così costoro, scarsi di consiglio e
tardi avvedutisi del loro errore, con uno perpetuo esilio
patirono pena della poca prudenza loro.
(Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, III VI)

Machiavelli aveva conosciuto direttamente questa donna vigorosa e


spregiudicata: in uno dei suoi primi incarichi diplomatici, l’ambasceria
fatta a Forlì nel luglio 1499, aveva discusso con lei sulla sua
richiesta di sostegno da parte di Firenze contro le minacce dei
francesi, del papa e dei veneziani e sul rinnovo del soldo del figlio di
lei Ottaviano Riario al servizio di Firenze. Machiavelli si era mosso
sulla valle del Montone, attraverso i possedimenti fiorentini, che
giungevano allora proprio a ridosso di Forlì, sull’avamposto di
Castrocaro: e nelle trattative la contessa aveva fatto riferimento al
proprio legame con Firenze, dato che dopo la morte del Riario aveva
sposato don Giovanni di Pierfrancesco (detto Giovanni il Popolano),
di un ramo laterale della famiglia de’ Medici. Quando Machiavelli
venne a Forlì Giovanni era morto da poco, ma c’era certamente suo
figlio piccolino, Ludovico, nato proprio dentro questa Rocca. Alla
morte del padre Caterina aveva deciso di mutargli il nome in quello
del padre, Giovanni: e fu il celebre e sfortunato condottiero Giovanni
delle Bande Nere (padre, a sua volta, del futuro duca e poi granduca
Cosimo I, che forse proprio in omaggio a queste radici forlivesi
avrebbe poi impiantato qui vicino Eliopoli / Terra del Sole). Rimasta
sola sotto l’attacco del papa Alessandro VI e del figlio di lui Cesare
Borgia, Caterina, nonostante la sua determinata resistenza, dovette
soccombere: Cesare Borgia prese la rocca il 12 gennaio 1500 e la
contessa, dopo essere stata portata a Roma, visse l’ultima parte
della sua vita proprio a Firenze (morì nel 1509), seguendo
l’educazione del figlio Giovanni, senza rinunciare a vani tentativi di
riavere il suo stato.
Ormai sconfitta dal duca Valentino Caterina non si affaccia
minacciosa dalla Rocca di Ravaldino: ma nel punto in cui per
tradizione Cesare Borgia avrebbe aperto la breccia vittoriosa c’è
ancor oggi il suo stemma. Dal vicino piazzale di Porta Ravaldino una
strada si addentra nel quartiere esterno e raggiunge un ampio parco
che costeggia il fiume Montone: è il Parco urbano Franco Agosto,
che ha il nome del primo sindaco di Forlì dopo la Liberazione, ben
attrezzato, con tanti siti piacevoli, con ameni percorsi tra i prati e
lungo il fiume.
Fiume Montone e San Benedetto in Alpe

Come quel fiume c’ha proprio cammino


prima dal Monte Viso ’nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,

che si chiama Acquacheta suso, avante


che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,

rimbomba là sovra San Benedetto


de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovea per mille esser recetto;

così, giù d’una ripa discoscesa,


trovammo risonar quell’acqua tinta,
sì che ’n poc’ora avria l’orecchia offesa.
(Inf., XVI 94-105)

Il Montone mi accompagna variamente nel risalire la strada ex 67


fino a San Benedetto in Alpe: lo percorro a ritroso, risalendo verso la
cascata dell’Acquacheta di cui Dante segue la discesa, il divallarsi,
appunto con il nome di Montone. A quei tempi questo doveva essere
il primo verso est dei fiumi sorgenti dall’Appennino a non confluire
nel Po (prima dal Monte Viso ’nver’ levante: ma va ricordata la
lezione Monte Veso, che secondo Enrico Malato non indicherebbe la
sorgente del Po, ma un monte di quella zona appenninica, da cui
nascerebbe il Montone): allora anche il Reno confluiva nel Po,
mentre oggi, come abbiamo visto toccandolo, si getta in mare per
proprio conto, al limite sud delle Valli di Comacchio.
Passo di nuovo a Dovadola, dove mi fermo a guardare da un
ponte lo scorrere del Montone verso Forlì. Poi la strada che sale si
incassa tra i boschi: il fiume si vede scorrere in basso, come
inviluppato in un fosso. Giungo infine a San Benedetto in Alpe, dove
un tempo era un castello dei Guidi di Modigliana, tappa essenziale
nel percorso dalla Toscana verso Forlì. In un ampio piazzale si può
lasciare l’auto e scendere sulla riva del torrente che qui vicino
confluisce con altri due torrenti formando appunto il Montone: questo
è il ramo che viene da nordovest, dalla sinistra costa d’Apennino e
ha appunto il nome di Acquacheta. Non manca la lapide con i versi
danteschi: sotto di essa c’è una testa bronzea con bocca d’acqua,
chiusa da un rubinetto.
Un cartello indica il percorso per raggiungere la cascata dantesca
dell’Acquacheta, su un sentiero ben curato tra la vegetazione che
costeggia il fiume (e che in parte dovrebbe seguire l’antico percorso
che collegava Toscana e Romagna, certamente toccato da Dante
nei convulsi movimenti dell’esilio). Tra piante abbastanza folte
percorro un po’ il sentiero, mi avvicino all’acqua, facendo strusciare
le scarpe sulla fanghiglia: ma, oltre la cortina delle piante, si affaccia
un cielo sempre più pieno di nuvole, in un movimento che annuncia
un temporale. E in effetti dopo un po’ comincia anche a piovere. Non
posso incamminarmi nell’escursione verso la rimbombante cascata,
che richiederebbe più di tre ore tra andata e ritorno: devo rinviarla ad
altra occasione (vedi pp. 1110-1113).
Ora posso solo riprendere la vettura e salire alla località di Poggio,
dove si trova ciò che resta di un’antica abbazia, che dall’alto domina
la confluenza dei tre torrenti. Da qui comunque la cascata non è
visibile: e mi domando se Dante si riferisca a questa abbazia quando
parla del cadere dell’acqua “ad una scesa / ove dovea per mille
esser recetto”, cioè fino a un luogo che “dovea essere recettacolo e
abitazione per mille abitanti”, secondo la chiosa dell’ottimo
commento. Boccaccio precisa d’altra parte di aver visitato l’abbazia
e di aver saputo dall’abate che i conti Guidi, signori del sito,
avrebbero voluto (cosa che poi non ebbe effetto) “assai presso di
questo luogo, dove quest’acqua cade, sì come in luogo molto
commodo agli abitanti, fare un castello, e riducervi entro molte villate
datorno di loro vassalli”. Ma c’è anche una lezione diversa, riportata
da alcuni manoscritti e da alcuni editori di oggi, in cui il v. 102 suona
“ove dovria per mille esser recetto”, riferendosi non all’abbazia, ma
alla grande portata dell’acqua, che farebbe meno rumore se, invece
di scendere su una sola cascata, si disperdesse in più cadute
separate. Ma certo quest’ultima interpretazione sembra un po’
cervellotica, nonostante il credito che le danno alcuni recenti
commentatori: e tutto sommato, è meglio pensare a un riferimento
all’accogliente abbazia, che comunque non può identificarsi con
questa, che ha dimensioni e spazio intorno molto ridotti e che si
profila, su un poggio rilevato, aperto verso i più alti rilievi a ovest, con
un semplice campanile incorporato al centro della facciata. Non ci
sono certo mille visitatori, ma un folto gruppo di ragazzi che
sciamano nei piccoli edifici intorno alla chiesa e al ben curato
giardino. All’aspetto campestre dell’esterno in scuri mattoni fa
riscontro l’impianto settecentesco dell’interno, a navata unica. Sotto
c’è una cripta che conserva parte dell’originaria struttura medievale.
La pioggia è cessata, ma minaccia di riprendere: mi inoltro oltre il
poggio sulla strada che conduce a Marradi, salendo su un versante
sotto cui scorre l’Acquacheta. Il fiume però non si vede, né si vede,
sul versante opposto, la dantesca cascata. Torno indietro e di nuovo
mi addentro un po’ nel sentiero che vi conduce: ma comincia di
nuovo a piovere e devo desistere.
Presso le sorgenti dell’Arno: sotto il Falterona

…un fiumicel che nasce in Falterona,


(Purg., XIV 17)

In auto riprendo la strada ex 67, salendo al passo del Muraglione,


metri 907, limite tra Romagna e Toscana, che non era aperto ai
tempi di Dante (il percorso allora era a monte della cascata
dell’Acquacheta): e che si chiama così per un grande e ricurvo
muraglione che fiancheggia la strada, fatto innalzare dal granduca
Leopoldo II nel 1838. Piove sul passo, ma il cielo a ovest si sta
squarciando e il sole illumina la valle in basso, in parte sommersa
dalla nebbia; dirimpetto si vede bene un tozzo rilievo, che penso
subito di identificare col Falterona, il monte da cui nasce l’Arno.
La strada scende poi con rapidi giri di curve su San Godenzo, il
luogo del convegno del giugno 1302: a San Benedetto, del resto,
avevo anche visto un manifesto con il programma di una festa,
appena celebrata a San Godenzo (il 6 luglio), intitolata Dante
ghibellino. In un alternarsi di sole e di pioggia, San Godenzo è
immersa in un bagnato silenzio: vorrei mangiare un panino, ma
nessuno dei due bar ne dispone e mi accontento di patatine e
salatini con bottiglietta d’acqua, che consumo davanti alla scalinata
che immette nella chiesa dell’ex abbazia, restando un po’ dentro
l’auto per sfuggire alla pioggia intermittente.
Su un muro c’è la lapide che ricorda il passaggio di Dante esule, al
di sopra di un’altra lapide che ricorda la ricostruzione del 1945, dopo
i danni di guerra, con dedica AI MILITARI ED AI CIVILI, TUTTI, / “…ALLE
CINQUE DI SERA…” / UNITI NELLA PACE. Non c’è nessuno, ma la chiesa,
rusticamente arroccata sulla scalinata, è aperta. L’interno mi
sorprende per i pilastri massicci che dividono le navate e per il coro
sopraelevato dietro l’altare. Qui dentro una lapide ricorda i
benemeriti che hanno contribuito alle nuove opere (tra cui una
CAMPANA DI DANTE), create per il nono centenario dell’abbazia, nel
1928: e ben in evidenza, a caratteri molto più grandi PRIMO FRA TUTTI /
– S.E. IL DUCE BENITO MUSSOLINI.
Da San Godenzo mi avvicino al Falterona, toccando il borgo di
Castagno d’Andrea, remota frazione, patria del grande pittore
Andrea del Castagno, autore tra l’altro del ciclo sugli uomini e donne
illustri per la Villa Carducci di Legnaia (1455), ora agli Uffizi, con un
ritratto di Dante incorniciato a pieno corpo in piedi, che regge un
grosso libro con la mano destra e tiene la sinistra aperta e fuori dalla
cornice, come a concionare, con un volto che sembra abbronzato,
un po’ segaligno ma meno arcigno del solito (tra gli altri ritratti ci
sono anche Petrarca e Boccaccio, in pose più o meno analoghe). Mi
addentro nel piccolo villaggio, come a cercarvi l’equilibrio rude e
pungente, la razionalità acre del tratto del pittore: “Castagno, casette
di macigno disperse a mezza costa, finestre che ho visto accese”,
dice Dino Campana nel diario intitolato La Verna dei suoi Canti orfici,
che prende avvio proprio da Castagno, sotto il Falterona. Al centro
del paese, con tranquilla misura, si affaccia la chiesetta ottocentesca
di San Martino, distrutta nella seconda guerra mondiale e ricostruita
tale e quale, con la facciata aperta da un piccolo portico a tre arcate.
Non ci sono le ragazze di cui parla Campana:

Mi colpisce il tipo delle ragazze: viso legnoso, occhi cupi


incavati, toni bruni su toni giallognoli: contrasta con una così
semplice antica grazia toscana del profilo e del collo che
riesce a renderle piacevoli! forse.

Senza fare incontri procedo oltre, proprio sotto il Falterona, fin dove
la strada si interrompe per una frana, accanto a una fonte di acqua
freschissima.
Tocco di nuovo San Godenzo, notando che qui i passaggi di
Mussolini non dovettero essere né casuali né episodici, sulla strada
per la sua Romagna. Ora percorrerò per un tratto la strada che il
duce si preoccupò di innestare qui presso, sotto il passo del
Muraglione: la nuova strada nazionale di Predappio, numerata 9ter,
per raggiungere direttamente il suo luogo natio. Questa si avvolge
tra curve eterogenee, che mi portano al Valico Tre Faggi (metri 908,
perfettamente allineato sul vicino Muraglione), di nuovo in area
romagnola, da dove ancora molto bene si vede il Falterona. Ma non
raggiungo la mussoliniana Predappio: lascio la 9ter svoltando a
destra verso Fiumicello, che fa parte di un comune dal nome
ambiguamente suggestivo, Premilcuore. Dopo Fiumicello una stretta
strada sale nella più assoluta solitudine, tra ampi squarci sui monti e
improvvisi restringimenti della visuale, toccando il passo della
Braccina (960 m.), sulle falde del monte Guffone.
Figure infernali improvvisamente giungono sul passo: cinque o sei
centauri dalle moto lucidamente metalliche, bardati di nero, che si
fermano un attimo e a capofitto si gettano sulle curve della ripida
discesa. Con l’occhio colpito dalle infinite sfumature del verde
boschivo, scendo poi sul paesino di Corniolo, alle cui porte è un
parco intitolato al papa Pasquale II, Rainerio Raineri, nato nel vicino
castello di Bleda, pontefice dal 1099 al 1118. Sono nel comune di
Santa Sofia, nel fondovalle del fiume Bidente, che si incunea con
altri rami in altre prossime valli: e da qui risalgo su una strada più
ampia, che sale sulle propaggini del Falterona, fino a Campigna, tra
boschi caratterizzati dalla presenza dell’abete bianco.
Località di caccia granducale e ora luogo di vacanza è Campigna,
nel cuore del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte
Falterona e Campigna, disteso tra Romagna e Toscana, luoghi dei
tanti passaggi medievali, dei signori feudali e dei percorsi dell’esule
Dante. Cerco il viale dei tigli di cui parla Dino Campana nel diario dei
Canti orfici:

Dal viale dei tigli io guardavo accendersi una stella solitaria


sullo sprone alpino e la selva antichissima addensare l’ombra
e i profondi fruscíi del silenzio.

I cartelli che danno informazioni sul Parco fanno pensare, come


capita sempre di fronte alle zone naturali “protette”, alla singolarità di
questa natura, protetta perché in parte addomesticata, misurata e
regolata dalla cura umana. E penso alla difficoltà e in fondo
all’incongruenza di ogni protezione, rispetto all’ininterrotto e agitato
volgersi e stravolgersi della produzione mondiale, al respiro mozzo
del pianeta, all’arrabattarci di tutti noi che ci muoviamo dove nulla è
protetto e dove qui si cerca di proteggere, agli scarti che alimentiamo
anche attraversando nel modo più rispettoso possibile questi parchi.
Nel fresco boschivo di Campigna, ormai a 1068 metri, si affaccia una
chiesetta ornata da ceramiche di tipo robbiano: e in breve la strada
mi porta al passo della Calla, 1296 metri, altro limite, spartiacque tra
Romagna e Toscana.
Tra il Pratomagno e il gran giogo

Indi la valle, come ’l dì fu spento,


da Pratomagno al gran giogo coperse
di nebbia; e ’l ciel di sopra fece intento…
(Purg., V 115-117)

Qui siamo in mezzo al gran giogo, a quel sistema montuoso che


delimita l’alta valle dell’Arno, sul suo versante sinistro: vi fa
riferimento Buonconte da Montefeltro, a proposito dell’addensarsi
sull’intera estensione della valle (tra il Pratomagno da una parte e
questo gran giogo dall’altra) della nebbia che prepara la tempesta
mossa dal demonio che fa trascinare via il suo corpo. Anche se
qualcuno ha identificato il gran giogo con un monte particolare di
questo versante, credo che abbia ragione l’Anonimo commento: “il
gran giogo, ciò è l’alpe di monte Appennino, che sono sopra l’ermo
di Camaldoli”. Qui dal passo della Calla ci si può dirigere verso
destra per una strada che porta al passo Piancancelli (1488 m.),
proprio sotto il Falterona: la strada procede tra altissimi faggi, che in
un buio inquietante tengono lontano il sole che pure ha ripreso a
splendere sul cielo ormai quasi libero da nuvole.
Giungo su un piazzale oltre il quale non si può procedere in
macchina: se si andasse avanti si raggiungerebbe quel punto della
strada sopra Castagno d’Andrea dove mi sono dovuto fermare. In
poco più di un’ora si può arrivare comunque alla vetta del Falterona
o a quella del vicinissimo Monte Falco. Torno indietro al passo della
Calla, dove un sentiero a sinistra attraversa la Giogana, toccando la
vetta di Poggio Scali e giungendo fino all’eremo di Camaldoli:
qualcuno ha voluto intendere il gran giogo di Purgatorio, V come più
specifica indicazione di questa Giogana, il cui nome deriverebbe
comunque dalle antiche vie dei legni, su cui i buoi aggiogati
trasportavano i tronchi di abete delle foreste casentinesi.
Nel tratto iniziale di questo sentiero su un sasso c’è un piccolo
cartiglio, con accanto un nastro tricolore e ciò che resta di un mazzo
di fiori che quasi si confonde con le fronde dei cespugli circostanti:
PIO CAMPANA / MEDAGLIA D’ARGENTO / CADDE IL 13 APRILE 1944 / PER UN’ITALIA
LIBERA Qui fu fucilato alla fine degli scontri durante il rastrellamento
tedesco operato dalla divisione Hermann Goering su tutta la zona
del Falterona, tra la valle del Bidente e la valle dell’Arno a ridosso
della Pasqua del 1944.
L’alta valle dell’Arno: Poppi

“Non so; ma degno


ben è che ’l nome di tal valle pèra;
………………………………
ond’hanno sì mutata lor natura
li abitator de la misera valle,
che par che Circe li avesse in pastura.

Tra brutti porci, più degni di galle


che d’altro cibo fatto in uman uso,
dirizza prima il suo povero calle.”
(Purg., XIV 29-30, 40-45)

Scendo dal passo della Calla sul Casentino, su questo primo tratto
della valle dell’Arno: curve e tornanti mi portano sulla piana, a Stia e
poi scendo sulla ex statale verso sud, mentre sempre più ampio si
profila, sulla destra, il corpo del Pratomagno. Poi, alla località di
Ponte a Poppi, lascio la statale e, attraversato l’Arno, salgo sul
poggio in cima al quale è il nucleo storico di Poppi, che i cartelli
annunciano come CITTÀ DEL GUSTO DEI GUIDI (si tratta in realtà di un
festival del vino, che qui ha luogo ogni anno a fine agosto).
Svetta su tutto il castello con la sua slanciata torre. Singolare e di
perfetto equilibrio è il borgo, di impianto secentesco e mediceo, che
giace ai piedi del castello, con al centro la chiesa a pianta centrale,
porticata su tre lati, di Santa Maria del Morbo. Su una strada più in là
c’è la casa di Tommaso Crudeli, l’elegante poeta settecentesco, uno
dei primi affiliati italiani della Massoneria, che per questo subì la
prigione e la condanna dall’Inquisizione, fino a essere confinato qui,
nella sua casa, dove morì nel 1745: varie targhe lo ricordano.
Oltre la chiesa di Santa Maria, sulla sinistra, in leggera salita, una
porta immette sul viale che conduce al castello, davanti al quale si
apre un’amplissima piazza, in gran parte aperta sulla valle e, oltre di
essa, alcuni edifici, tra cui quello del vecchio albergo ristorante
Casentino, dove trovo subito un’ottima stanza, di quasi rustica
semplicità. Grande gentilezza dappertutto, in perfetta opposizione
all’immagine così crudamente negativa che Guido del Duca dà degli
abitator di questi paraggi, ritenendo giusto che il nome stesso della
valle e del suo fiume pèra, venga cancellato, considerandone gli
abitanti bestie, appartenenti a diverse specie animali, simili ai
compagni di Ulisse mutati dalla maga Circe. Quelli che vivono su
questa parte alta della valle (cioè nel Casentino), su questo primo
tratto del povero calle del fiume, vengono designati come brutti porci,
degni più di galle, ghiande, che di cibo di uso umano. E anche nel
De vulgari eloquentia Dante non dà un’immagine lusinghiera dei
casentinesi; li cita come esempio di parlanti loquele montanare e
rustiche, “montaninas omnes, et rusticanas loquelas” (I XI 6).
Umano più che umano è comunque il cibo che qui si gusta, sia nel
ristorante davanti al castello che nel più raffinato L’antica cantina, in
una strada del borgo storico: dalle più tradizionali tagliatelle al ragù
alle tagliatelle ai ceci con pancetta croccante, dalle più semplici carni
alla griglia ai crostini con fegatelli, ai bocconcini di coniglio con lardo
e grappa ecc., per non parlare dei vini.
Il castello, costruito da Simone da Battifolle nel XIII secolo, è uno
di quelli meglio conservati di tutta la Toscana: ed è di particolare
suggestione il cortile interno, con la solida scala quattrocentesca e i
vari stemmi disposti sulle pareti. Qui Dante fu ospite di Guido da
Battifolle: oggi c’è qualche dubbio che da qui fosse inviata l’Epistola
IV (che comunque allude a una situazione “iuxta Sarni fluenta” “in
riva alla corrente dell’Arno”) al marchese Moroello Malaspina, tra
1307 e il 1308, con la canzone detta “montanina”. Ma certamente
era qui quando nella primavera del 1311 inviò altre epistole, in
occasione della discesa dell’imperatore Enrico VII, la VI ai fiorentini
(con la data 31 marzo), la VII all’imperatore (17 aprile), la VIII, IX e X
a Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore, a nome di
Gherardesca, figlia del conte Ugolino e moglie di Guido da Battifolle.
Queste ultime tre sono varianti di una lettera di ringraziamento a un
messaggio ricevuto dalla dama; ed è probabile che sia stata spedita
solo l’ultima, che reca la data 18 maggio e l’indicazione precisa di
Poppi:

Missum de Castro Poppii XV Kalendas Iunias, faustissimi


cursus Henrici Cesaris ad Ytaliam anno primo.
(Inviata dal Castello di Poppi il 18 maggio, nel primo anno del
faustissimo passaggio in Italia di Enrico Cesare)

Non so se qualche studioso abbia mai notato la singolarità del fatto


che qui Dante abbia dato voce a uno scambio tra donne, due donne
particolari come la destinataria, moglie dell’amato imperatore
(l’aveva seguito nella sua discesa in Italia e sarebbe presto morta,
prima di lui, per un’epidemia, a Genova il 13 dicembre dello stesso
1311: vedi pp. 980, 985), e la mittente, figlia del conte punito tra i
traditori dell’Antenora, disperato narratore della morte dei propri figli
nella torre pisana. È vero peraltro che, proprio sulla suggestione di
queste lettere, è sorta una tradizione secondo cui proprio in questo
castello sarebbe stato scritto il canto di Ugolino, il XXXIII dell’Inferno.
Dante comunque, una sua grande testa bronzea (messa qui nel
settimo centenario della sua morte), guarda determinato chi passa,
accanto al parapetto che circonda l’ampio spazio accanto al castello:
nella piega della bocca, che mi ricorda qualcuno che certamente mi
è noto, ma che ora non riesco a riconoscere, mi sembra avvertire
una specie di ironico sussiego.
Da qui, girando sulla piazza e affacciandosi ai parapetti aperti in
varie direzioni, si scorge ampio tratto della valle casentinese, verso
nord la piana di Campaldino, verso sud il letto dell’Arno che scorre.
Sotto il castello si leva, entro un tondo colonnato, un baldanzoso
sacello per la vittoria del 1918, in fondo sproporzionato rispetto alle
dimensioni del colle e così stilisticamente contraddittorio con
l’austera severità del castello.
La sera è ormai scesa, quando la piazza si anima, soprattutto
intorno a un capanno-bar che espone un grande schermo televisivo:
arrivano ragazze e ragazzi, qualche famiglia e qualche signore più
anziano; si dispongono sedie, con una lotta ad accaparrarsi le
postazioni migliori. Anche io riesco, a fatica, a trovare posto: con le
spalle rivolte al castello, nell’aria piacevole della sera d’estate,
assisto alla seconda semifinale del campionato del mondo di calcio,
Olanda-Argentina, che procede stancamente, conclusa solo ai rigori,
tra birre e gelati consumati a ripetizione davanti al capanno, con la
vittoria dell’Argentina.
L’Arno a Ponte a Poppi

“Se ben lo ’ntendimento tuo accarno

con lo ’ntelletto”, allora mi rispuose


quei che diceva pria, “tu parli d’Arno”.

E l’altro disse lui: “Perché nascose


questi il vocabol di quella riviera,
pur com’om fa de l’orribili cose?”.
(Purg., XIV 22-27)

Questo scambio di battute tra Guido del Duca e Ranieri de’ Calboli
sorge a commento del modo in cui Dante si era presentato come
nato accanto all’Arno, senza nominarlo, ma chiamandolo, come già
si è visto, “un fiumicel che nasce in Falterona”; e dà avvio alla
digressione di Guido sopra evocata sui popoli animaleschi che
abitano sul corso del fiume.
Nel fresco mattino del 10 luglio scendo dal castello di Poppi verso
la piana, per un incontro ravvicinato con il fiume, che scorre qui
sotto: proprio alla fine della discesa, una svolta della strada immette
sul ponte sull’Arno, che conduce alle case di Ponte a Poppi. Lascio
l’auto e mi affaccio sul parapetto col fronte rivolto verso sud, al cui
centro è un’edicola chiusa da un cancelletto di ferro, che custodisce
un’immagine mariana. Il fiume scorre tra folta vegetazione, ma
l’acqua lascia scoperto, specie alla destra, gran parte del greto
sassoso. Vengo sfiorato dalle poche auto che passano: ho saputo
però che ci sono progetti per la realizzazione di una passerella
pedonale, che renda più agevole il passaggio a piedi su questo
ponte (e in effetti i lavori sono poi cominciati all’inizio del 2016).
Campaldino

corridor vidi per la terra vostra,


o Aretini…
(Inf., XXII, 4-5)

E io a lui: “Qual forza o qual ventura


ti travïò sì fuor di Campaldino
che non si seppe mai tua sepultura?”
(Purg., V 91-93)

Superato Ponte a Poppi, riprendo la ex statale verso nord e molto


presto incontro sulla destra la chiesa e il convento di Certomondo,
con semplice facciata e a destra un piccolo campanile a vela:
costruita dai Guidi ghibellini dopo la battaglia di Montaperti, vi fu
sepolto dopo la battaglia di Campaldino uno dei capi ghibellini
sconfitti, il vescovo Guglielmo degli Ubertini. Siamo infatti sulla piana
di Campaldino e basta procedere ancora un poco per trovare, al
centro di un ampio verdissimo prato, una colonna che ricorda la
battaglia, nel punto dove si apre un bivio che separa la ex statale 70,
che conduce verso Firenze attraverso il passo della Consuma, da
quella per Stia e il passo della Calla da cui sono sceso ieri.
La battaglia dell’11 giugno 1289 vide schierati Guelfi fiorentini
contro Ghibellini aretini, ma con grande partecipazione di alleati dei
due schieramenti, specialmente dei feudatari di queste zone tra
Casentino e Romagna: e come feditore vi prese parte Dante, che ne
lascia un diretto ricordo nel XXII dell’Inferno, a proposito dei segnali
con cui gli scorridori (con compiti di esplorazione o di incursione)
venivano fatti muovere all’azione. Avvenuto proprio non lontano dalla
chiesa di Certomondo, consacrata alla vittoria ghibellina di
Montaperti, lo scontro si risolse in una grande vittoria guelfa, che
segnò un arretramento delle fortune ghibelline in gran parte della
Toscana: e tra i ghibellini periti in battaglia ci fu il figlio di Guido da
Montefeltro, Buonconte, il cui corpo non fu mai ritrovato.
Incontrandolo nell’Antipurgatorio, tra gli spiriti dei peccatori pentitisi
in punto di morte, Dante lo interroga a proposito di questa sparizione
del suo cadavere.
Allora la piana doveva essere quasi totalmente sgombra, tra varia
vegetazione, radure, coltivi, tra lo sfondo del gran giogo da una parte
e del Pratomagno dall’altra e il levarsi a varia distanza di borghi e
castelli, tra cui più vicino quello di Poppi. Ora tutto intorno c’è il
movimento del traffico mattutino, auto e camion nelle varie direzioni
e un fitto dislocarsi di edifici di vario uso, tra campi di grano da poco
mietuto. Insediamenti agricoli, commerciali, industriali. Oltre lo
spiazzo della colonna, il campo di grano si incurva leggermente
scendendo fino a un affoltirsi di piante che costeggiano il fiume, il cui
letto non riesce a scorgersi. Sul piedistallo della colonna sono incisi
da una parte i versi di Inferno, XXII, dall’altra una più ampia scritta
che afferma l’intenzione di Firenze e Arezzo, scontratesi in questo
luogo, di consacrare LE NEFASTE MEMORIE / DELLE GUERRE FRATRICIDE / IL
PATTO DELL’ITALIANA FRATERNITÀ / LA FEDE GIURATA / DELLA NAZIONE
CONCORDE.
Procedendo sulla strada ex 70 salgo dopo un paio di chilometri
verso un piccolo borgo: vi si entra da una porta che si apre sotto un
palazzetto in mattoni marroni, trasformazione certo dell’ingresso
dell’antico castello. Si tratta di Borgo alla Collina, già castello dei
conti Guidi, che poi i Medici donarono al segretario della repubblica
Cristoforo Landino, originario della vicina Pratovecchio. Qui c’è il suo
sepolcro nella chiesetta di San Donato, sistemato in un monumento
marmoreo per volontà del Granduca Leopoldo II, come indica la
lapide con data 1848. Anche questo è un incontro dantesco, dato
che, come ricorda la stessa lapide, egli fu DELLA DIVINA COMMEDIA /
INTERPRETE SOMMO (è scritto proprio interpetre, con la metatesi che ho
sentito tante volte in bocca toscana, perfino in tempi lontani da un
raffinatissimo studioso come Ranuccio Bianchi Bandinelli). Lussuosa
la stampa del commento landiniano, il primo commento dantesco a
essere stampato, con la data 30 agosto 1481, presso Niccolò di
Lorenzo della Magna.
Borgo della Collina fa parte del comune di Castel San Niccolò:
centro adagiato lungo il torrente Solano, uno dei tanti ruscelletti che
scendono verso l’Arno, nella piana sotto il colle in cui c’è il castello
che gli dà nome. Qui c’è la pieve di San Martino in Vado (così
chiamata forse perché accanto al guado del torrente), di cui è molto
bello e raccolto l’interno, su tre strette navate separate da colonne
con capitelli variamente scolpiti. Attraversato il torrente posso salire
su verso il castello, che dal basso appare come fasciato da una folta
vegetazione e che si trova in buono stato, frutto di un recente
restauro, circondato da un piccolo borgo. Era castello di un ramo dei
Guidi di Battifolle, che fu preso dai fiorentini a metà Trecento e nel
secolo successivo fu espugnato dalle milizie al soldo dei Visconti.
Uno dei tanti castelli del Casentino, che chissà perché mi sembrano
meno minacciosi di quelli romagnoli, meno tozzi, meno rudi e meno
imponenti: ma forse è solo un’impressione illusoria.
Romena

Li ruscelletti che d’i verdi colli


del Casentin discendon giuso in Arno,
faccendo i lor canali freddi e molli,

sempre mi stanno innanzi, e non indarno,


ché l’imagine lor vie più m’asciuga
che ’l male ond’io nel volto mi discarno.

La rigida giustizia che mi fruga


tragge cagion del loco ov’io peccai
a metter più li miei sospiri in fuga.

Ivi è Romena, là dov’io falsai


la lega suggellata del Batista;
per ch’io il corpo sù arso lasciai.

Ma s’io vedessi qui l’anima trista


di Guido o d’Alessandro o di lor frate,
per Fonte Branda non darei la vista.
(Inf., XXX 64-78)

Nella bolgia dei falsari, condannati febbricitanti a malattie diverse,


secondo il tipo di falsificazione da ciascuno operato, maestro
Adamo, consunto dall’idropisia e dalla sete, evoca nostalgicamente i
ruscelletti del Casentino e il suo soggiorno a Romena, dove, per
conto dei conti Guido, Alessandro e Aghinolfo, falsificò la lega del
fiorino d’oro (su cui era impressa l’immagine di san Giovanni
Battista, protettore di Firenze), per cui fu arso vivo a Firenze nel
1281. Il suo risentimento per i signori che si servirono della sua
opera lo porta a dire che, per la gioia di vederli puniti all’inferno,
rinuncerebbe a soddisfare la sua sete (e a tal proposito evoca Fonte
Branda, una fonte che si trovava presso il castello di Romena, anche
se alcuni commentatori intendono la celebre Fonte Branda di Siena).
I conti di Romena avevano certamente ospitato Dante nei primi
anni del suo esilio: egli indirizzò l’Epistola II ai conti Oberto e Guido,
figli di Aghinolfo, rivolgendo loro le condoglianze per la morte dello
zio Alessandro (avvenuta probabilmente nel 1304), che era stato
capitano dei Bianchi esuli: e del defunto esaltava la “magnificentia” e
la mente amante delle virtù e nemica dei vizi, giungendo a vederlo in
gloria tra i beati della reggia celeste. Davvero sorprendente appare il
rovesciamento di prospettiva tra quanto detto in quella lettera, con i
buoni rapporti da essa testimoniati (e la convenzionale
amplificazione che conduce addirittura a collocare Alessandro in
Paradiso), e l’opposto auspicio attribuito a maestro Adamo, di un
approdo infernale per tutti e tre questi signori di Romena.
Muovendo verso Romena, prima che al castello giungo alla Pieve
di San Pietro, che certamente Dante avrà frequentato. Alla rustica
facciata sembra come opporsi l’abside, disposta su due ordini di
arcate, con una trifora e due bifore in alto. Nell’interno il sole che
entra dalle finestre dell’abside dà particolare suggestione a tutto lo
spazio dietro l’altare, in contrasto con la relativa oscurità in cui sono
immerse le navate, separate da solide colonne con ben lavorati
capitelli. C’è un certo movimento intorno alla Pieve: non solo turisti,
ma gruppi legati alla Fraternità di Romena, fondata nel 1991, che
gestisce un complesso di edifici che si trovano dirimpetto alla chiesa,
sul versante opposto della strada orlata di cipressi. Qui si svolgono
corsi di spiritualità, accompagnati da varie iniziative: c’è un bar, c’è
uno spaccio di prodotti alimentari, una biblioteca, sale di riunione.
Ma vuol essere soprattutto un centro di accoglienza per ogni tipo di
viandante che voglia riscoprire la bellezza della semplicità e del
colloquio con Dio; è un’istituzione laica, ma ne è responsabile don
Luigi Verdi, già viceparroco di Pratovecchio, che dopo un periodo di
crisi e di viaggi nel mondo, tornato al sacerdozio, è stato appunto
assegnato alla Pieve di Romena. Girando per questi locali della
Fraternità si avverte il persistente fervore di un cattolicesimo che
punta sull’accoglienza, sull’incontro con il diverso, che non chiede
credenziali e crede nello scambio, nel valore dell’esperienza,
nell’adesione al respiro naturale del mondo. Forse qui si può
davvero avere la sensazione di essere accolti, sfuggendo a ogni
pretesa di assolutezza e di verità, pur rivolgendo lo sguardo verso la
possibilità del vero, verso un desiderio di assoluto che può risolversi
nell’umiltà, nel silenzio, nello spazio silenzioso della Pieve, lontani da
ogni potere e da ogni pretesa di controllare il mondo.
Ma io devo dirigermi verso il castello, verso questo baluardo del
potere comitale. Mi allontano dalla Pieve e prendo la strada che sale
al castello, di cui si intravvede la torre imbandierata. Lascio l’auto in
un punto della salita dove un cartello indica il sentiero per Fonte
Branda: e dopo un breve percorso, addossata al pendio del colle,
appare la fonte, entro una nicchia sotto un arco in mattoni. C’è una
piccola vasca e una bocca da cui scende un filo sottilissimo di
acqua: non manca la lapide con i versi danteschi.
Procedo oltre la fonte, costeggiando le mura esterne del castello e
giungo all’ingresso, dove un avviso informa che si tratta di proprietà
dei conti Goretti de’ Flamini, che lo acquistarono nel Settecento. C’è
una biglietteria in una piccola garitta, dove la ragazza che fa i biglietti
sta leggendo un libro di Mordecai Richler: mi dice che ha studiato
letteratura angloamericana a Bologna e che ama particolarmente la
narrativa anglocanadese, anche se ora deve accontentarsi di questo
piccolo, provvisorio lavoro.
Con la modesta cifra di tre euro, il biglietto mi dà l’accesso al
castello, dove ora non c’è nessuno. Seguo l’articolarsi delle diverse
cinte murarie e delle torri superstiti. In alto c’è la piazza d’Armi,
pavimentata da un tappeto erboso. Nella torre che si leva al suo
fianco c’è un piccolo museo, con cimeli danteschi e dati storici sui
conti Guidi di Romena e su Campaldino. Non manca una testa del
poeta, né una lapide con tutti i versi di maestro Adamo. Vengo a
sapere che Gabriele D’Annunzio mise le tende sulla piazza d’Armi
per scrivere qualche poesia di Alcyone, in vista della Verna. Gabriele
passò gran parte dell’estate 1902 a Romena, ospite nella Villa dei
Goretti, a scrivere molte delle liriche dell’Alcyone, in una delle quali, I
tributarii, passa in rassegna tutto il corso dell’Arno, anche se dal
punto di vista della foce, appropriandosi del dettato dantesco (“e i rivi
freddi e molli / del Casentino giù pe’ verdi colli”, vv. 29-30),
piegandosi verso la sorgente del fiume (“Solingo è un fonte sulla
Falterona”, v. 50) e dedicando le ultime due strofe
(vv. 51-70) all’effetto dello scender della sera tra “la Verna cruda” e
“il lungo / dorso del Pratomagno”, tra i fuochi delle carbonaie e lo
scorrere dell’acqua del fiume. Amplissima, dal castello, si apre la
vista su tutto l’alto Casentino, sui monti, sui borghi, sugli altri castelli
baluginanti in lontananza.
Scendo poi sulla tortuosa via della Scarpaccia su Pratovecchio,
guardando ancora l’Arno dal ponte che immette nella città. Da Stia
risalgo poi ancora la valle del fiume, sulla strada già 556, che
costeggia il Falterona da sudovest. A destra si leva subito il Borgo di
Porciano, con un altro castello dei Guidi: vi si sale sotto l’effetto della
massiccia torre, la più grande tra quelle dei castelli casentinesi. Del
castello, perfettamente in vista con quello vicino di Romena, quasi a
specchio l’uno dell’altro, resta quasi soltanto questo grosso corpo a
sei piani, con la terrazza a merlatura guelfa; i rossi mattoni sono in
parte coperti (ma lo è totalmente una costruzione laterale alla torre)
dal verde di vari rampicanti. Anche questo è di proprietà privata, con
la torre ben restaurata, che, abitata da Martha Specht Corsi,
discendente dei Goretti, ospita anche un piccolo museo, aperto solo
nei giorni festivi.
Circolano fantasie sul soggiorno di Dante qui a Porciano:
l’indicazione di luogo della clausola delle Epistole VI e VII, “sub
fontem Sarni”, ha fatto pensare a qualcuno che esse fossero state
scritte non a Poppi, ma qui, nel castello dei Guidi più vicino alla
sorgente dell’Arno. Poi qualcuno ha pensato che nell’indicare nel
XIV del Purgatorio come porci gli abitanti del Casentino, Dante
intendesse riferirsi proprio ai Guidi di Porciano (“quos appellat
porcos propter foedam luxuriam”, “che chiama porci per la loro
immonda lussuria”, nota Benvenuto; ma ai Guidi si riferisce anche
Pietro Alighieri): e che, lo intendesse o no, i Guidi di Porciano se la
sarebbero presa a male, addirittura imprigionandolo per qualche
giorno nel castello…
Lasciata Porciano, risalgo ancora il corso dell’Arno, che affianca la
strada, fino a un ponte che lo attraversa e lascia il suo corso. La
parte alta viene da destra, dalle sorgenti del Falterona. Ci sono
sentieri che portano a Capo d’Arno, dove converge l’acqua del
Falterona. Ma anche qui, ai margini della strada, si vedono i
ruscelletti che confluiscono nel fiume, tra il fresco della boscaglia. E
il fiume scende saltellando, tra sassi scoscesi e cascatelle artificiali,
che regolano l’impeto dell’acqua. È una zona a salmonidi e c’è
divieto di pesca.
Torno leggermente indietro e mi inoltro su una strada sterrata
diretta a Vallucciole, dalla parte del Falterona. Il nome del luogo mi
ricorda un bellissimo scritto di Carlo Levi, Pasqua di Vallucciole,
racconto partecipe, accorato e terribile, della strage perpetrata qui
dai nazisti durante il rastrellamento intorno alla Pasqua del 1944, di
cui ho già trovato traccia sul passo della Calla. Avanzo a lungo nel
bosco, su cui si apre qualche sparuta radura. Mi fermo poi davanti a
un oratorio con un sacrario che ricorda le vittime della strage del 13
aprile: 103 uccisi, uomini donne e bambini, tirati fuori dal piccolo
borgo incendiato e dai casolari. Ma ora si percorre qui il Sentiero
della libertà, come indica un cartello che informa sulla strage. Oltre
l’oratorio trovo una radura più ampia, con cataste di legna da poco
tagliata e alcune mucche al pascolo. Ma la strada peggiora, è
immersa nel fango e non mi pare sicuro procedere con la mia auto.
Non c’è nessuno e nel silenzio sembra come risuonare l’eco terribile
di quei giorni lontani: come se tutto fosse ancora abbandonato,
affidato solo alla muta presenza degli animali. La passione e il peso
della memoria si riavvolgono qui in un ambiguo segno di morte.
Procedo un po’ a piedi e vedo finalmente un casale con ampie stalle
e un altro casale più grande con due macchine parcheggiate
davanti. Eppure tutto mi sembra abbandonato, remoto, Vallucciole
un nome cancellato nell’eco del dimenticato orrore di allora, che
forse risuona più terribile perché dimenticato.
Mi prende un’angoscia, quasi una paura del silenzio avvolgente
del bosco, del pendio del monte che si leva sopra di esso. Torno
indietro per mangiare qualcosa in una piccola trattoria sulla strada ex
statale, al centro di Stia.
Il Torrente Archiano, presso Bibbiena

… “a piè del Casentino


traversa un’acqua c’ha nome l’Archiano,
che sovra l’Ermo nasce in Apennino…”
(Purg., V 94-96)

Il torrente Archiano, un ramo del quale (oggi chiamato Fosso di


Camaldoli) scende dai monti sopra l’Eremo di Camaldoli, si muove
trasversalmente all’Arno e confluisce sul suo versante sinistro
presso Bibbiena, che Dante considera il limite meridionale del
Casentino (almeno così sarebbe da intendere l’espressione a piè del
Casentino). Sono solo pochi chilometri dal luogo della battaglia,
cinque soltanto da Poppi. Attraverso velocemente l’Archiano sulla
variante veloce della strada ex 70, ma poi lo ritrovo tornando indietro
alla periferia di Bibbiena, sotto un ponte del vecchio percorso della
strada, vicino alla sua convergenza nella più lunga strada ex 71 (la
umbro-casentinese, diretta a Cesena). Verso questa zona pensava
di muovere ferito Buonconte da Montefeltro, forse pensando di
raggiungere la Romagna ghibellina attraverso il passo dei Mandrioli
(più o meno il percorso della strada ex 71). Scendo dal ponte sulla
riva dell’Archiano, calcando il terreno sabbioso, seguendo lo
scorrere sul letto poco profondo punteggiato di sparsi sassi che ben
levigati emergono dall’acqua.
È vero però che la confluenza dell’Archiano nell’Arno si trova
abbastanza oltre e non può essere raggiunta su questa strada:
proverò a cercarla più tardi. Ora visito brevemente il centro storico di
Bibbiena: mi fermo accanto alla medievale torre dei Tarlati, ma poi
raggiungo il Palazzo Dovizi, bel palazzetto di primo Cinquecento con
una allure ancora quattrocentesca, voluto da Bernardo Dovizi,
fedelissimo dei Medici, vescovo e poi cardinale con il papa mediceo
Leone X, ben noto alle storie letterarie come il Bibbiena, autore di
una delle prime, più fortunate e scatenate commedie del
Cinquecento, la già ricordata (vedi p. 323) Calandra o Calandria,
scritta per la corte di Urbino per il carnevale del 1513 (l’anno in cui
poco dopo da Leone X fu nominato cardinale). Personaggio faceto e
spregiudicato il Bibbiena, a cui nel Cortegiano del suo amico
Castiglione è assegnata la trattazione delle facezie, e che fece
impiantare in Vaticano una stufetta, bagno privato decorato da scene
mitologiche sotto il segno di Venere e Cupido, certo un po’ troppo
paganeggianti per un cardinale. Qui comunque, di fronte al Palazzo
Dovizi, c’è la chiesa di San Lorenzo, precedente di qualche anno,
con due belle pale robbiane. E tra le strade di Bibbiena non ne può
mancare una intitolata a Francesco Berni, poeta faceto e capofila di
una poesia giocosa detta appunto bernesca, ma poco fortunato in
una travagliata esistenza, che in giovinezza lo vide proprio al
servizio del cardinal Dovizi.
La Verna

…nel crudo sasso intra Tevero e Arno


da Cristo prese l’ultimo sigillo,
che le sue membra due anni portarno.
(Par., XI 106-108)

Muovere da Bibbiena verso La Verna può dare l’impressione di


connettere due orizzonti estremi e opposti della storia della chiesa
cattolica: dalla figura del cardinal Dovizi, dalla sua goduriosa stufetta
e dalla sua scintillante commedia, alla povertà di Francesco, al suo
casto affidarsi alla nudità della terra, al suo rifiuto di ogni agio e di
ogni cura terrena.
Man mano che la strada sale si impone sempre meglio la visione
del crudo sasso, dove nel settembre del 1224 Francesco prese le
stimmate, l’ultimo sigillo che portò nelle sue mani negli ultimi due
anni della sua vita (come racconta Tommaso d’Aquino nel grande
elogio del canto XI del Paradiso). In gran parte coperto dai boschi, il
monte lascia intravvedere solo a tratti la sua sostanza di pietra: ma
la impone comunque il suo protendersi come uno sperone, come un
felino in attesa, pronto a uno scatto in avanti che non avverrà mai.
Dalla strada che sale si scorge sempre meglio, nel cuore della
montagna, sulla destra, quasi all’opposto dello sperone che si
protende, il convento francescano, arroccato sopra il sasso
scosceso.
Ormai in alto, la strada penetra nel bosco: e nel cuore del bosco,
tra tronchi recentemente tagliati, c’è un ombroso parcheggio, dove
occorre lasciare l’auto, per procedere sul viale che immette tra le
costruzioni del santuario. Tra il bosco e il viale incontro una famiglia
belga, padre, madre e due figli non ancora adolescenti; mi chiedono
informazioni sul sito e la madre parla del loro viaggio nel Casentino:
proprio stamattina sono stati a Camaldoli. Ma ecco l’ingresso del
complesso sistema di edifici che i frati hanno costruito sull’umile
ospizio del santo: ad arrivarci dal bosco non si ha la sensazione che
l’insieme sia arroccato sul crudo sasso, sembra quasi di essere su
un tranquillo pianoro.
Superato un passaggio a volta, si apre il piazzale panoramico
aperto su tutto il Casentino. Entro subito nel corridoio delle
Stimmate, tra mediocri affreschi dedicati a tutta la vita del santo; e
giungo alla Cappella delle Stimmate – dove Francesco avrebbe
ricevuto quel misterioso sigillo – fatta originariamente costruire nel
1263 da Simone da Battifolle, proprio ai tempi in cui faceva erigere il
castello di Poppi. Ci sono delle splendide opere robbiane: sulla porta
un tondo con Madonna col bambino di Luca della Robbia; sulla
parete in fondo una grande crocifissione di Andrea della Robbia. Ai
lati della cappella ci sono degli stalli lignei, su cui sono sedute varie
persone: quasi tutti pregano, pur in modi diversi, con visi in cui si
distinguono tante possibili maniere di essere assorti, espressioni
facciali di un interno meditare, che le figure delle tarsie sopra i sedili
sembrano discretamente accompagnare. C’è uno con un abito
dotato di cappuccio (ma non è un frate) e i piedi totalmente scalzi. A
terra, al centro della cappella, c’è una teca, sul luogo preciso delle
stimmate, che trasformarono Francesco in figura visibile di Cristo.
Nella Legenda maior di san Bonaventura si racconta che il santo
avrebbe sentito la sua carne incisa dalle stimmate dopo l’apparizione
di un serafino che tra le sue ali aveva la figura di Cristo crocifisso
(Legenda maior, XIII III 10-13):

Statim namque in manibus eius et pedibus apparere


coeperunt signa clavorum quemadmodum paulo ante in effigie
illa viri crucifixi conspexerat. Manus enim et pedes in ipso
medio clavis confixae videbantur, clavorum capitibus in
interiore parte manuum et superiore pedum apparentibus, et
eorum acuminibus exsistentibus ex adverso; erantque
clavorum capita in manibus et pedibus rotunda et nigra, ipsa
vero acumina oblonga, retorta et quasi repercussa, quae de
ipsa carne surgentia carnem reliquam excedebant. Dextrum
quoque latus quasi lancea transfixum, rubra cicatrice
obductum erat, quod saepe sanguinem sacrum effundens,
tunicam et femoralia respergebat.

(Subito, infatti, nelle sue mani e nei suoi piedi, cominciarono


ad apparire segni di chiodi, come quelli che poco prima aveva
osservato nell’immagine dell’uomo crocifisso. Le mani e i
piedi, proprio al centro, si vedevano infitte di chiodi; le
capocchie dei chiodi sporgevano nella parte interna delle mani
e nella parte superiore dei piedi, mentre le punte sporgevano
dalla parte opposta. Le capocchie nelle mani e nei piedi erano
rotonde e nere, le punte, invece, erano allungate, piegate
all’indietro e come ribattute, e uscivano dalla carne stessa,
sporgendo sul resto della carne. Il fianco destro era come
trapassato da una lancia e coperto da una cicatrice rossa, che
spesso emanava sacro sangue, imbevendo la tonaca e le
mutande.)

Passo attraverso altre cappelle. Poi esco sopra la scala che sul
fianco del monte conduce al Precipizio: precipizio per eccellenza, da
cui il demonio avrebbe fatto precipitare il santo, accolto invece in un
abbraccio dal sasso stesso suo salvatore. Qui, in queste che
dovevano essere le parti del soggiorno di preghiera e di penitenza
del santo, si avverte come il santuario sia davvero sospeso sul
sassoso precipizio, arroccato quasi miracolosamente, con le sue
muraglie che si levano sulla roccia, ma senza dare quella
sensazione di forza e di potere che sogliono dare i castelli. Si
manifestano comunque ancora tanti segni di potere spirituale, anche
di un potere caduto quasi in oblio come quello delle indulgenze: sul
luogo del precipizio c’è un cartello che garantisce duecento giorni
d’indulgenza a chi dice un Pater e un’Ave. Una volta si trattava
davvero di uno sconto di pena purgatoriale: ma la teologia cattolica
non tratta più queste questioni e sulle indulgenze ormai c’è una sorta
di velo, un silenzio imbarazzato o una loro coniugazione in chiavi
solo simboliche o metaforiche. Un ambito che evapora solo
parzialmente è poi quello delle reliquie, che anzi, in certi contesti, sta
avendo perfino una sorta di rilancio. Qui c’è proprio una cappella
delle reliquie, con varie teche, in una delle quali vengono presentati
addirittura pezzi del legno della Santa Croce… Forse più credibile e
comunque davvero impressionante è invece l’abito che san
Francesco avrebbe portato in quel 1224, al momento di ricevere le
stimmate: è disteso su una teca piatta, molto grande, sul pavimento
al centro della cappella, davanti all’altare.
Improvvisamente il cielo comincia a oscurarsi, anche se il sole che
cala appena verso occidente illumina ancora gran parte del
Casentino. Non è ancora il tramonto visto da Dino Campana nella
prosa La Verna:
Strie minacciose di ferro si gravano sui monti prospicienti
lontane. Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente sola
cerca un appoggio una fede nella triste ora. Lontano si vedono
lentamente sommergersi le vedette mistiche e guerriere dei
castelli del Casentino.

Torno sul piazzale panoramico, per visitare la Basilica, con la sua


architettura stratificata nel tempo, che custodisce ancora bellissime
terrecotte robbiane, poi l’altra chiesa, Santa Maria degli Angeli, che è
leggermente più in basso, a destra della Basilica. Ancora magnifico,
qui, il grande dossale in terracotta di Andrea della Robbia, sopra
l’altare; c’è l’Assunta, tra gli angeli, che dona una cintola a san
Tommaso, accanto a cui sono i santi Gregorio, Francesco e
Bonaventura. È una vicenda su cui mi informerò più tardi: verrò a
sapere che l’immagine risale a una leggenda secondo cui la
Madonna salendo al cielo avrebbe lasciato la sua cintola in segno di
benevolenza all’apostolo Tommaso (quello incredulo e diffidente per
natura), leggenda variamente rappresentata soprattutto nell’arte
quattrocentesca. Nulla a che fare con la “corda intorno cinta” con cui
Dante aveva pensato “alcuna volta / prender la lonza a la pelle
dipinta” e che Virgilio gli fa togliere per gettarla sull’abisso infernale
come segnale per il mostro Gerione (Inferno, XVI 106-114). A
proposito di reliquie, verrò a sapere che la presunta cintola è
custodita nel duomo di Prato (vedi p. 1149), anche se altre chiese in
varie parti d’Europa ne detengono altri esemplari, rivendicandone
l’autenticità: ma è certo che della cintura di Dante, finita nel fondo
dell’inferno, non esistono reliquie.
Mentre ammiravo il dossale robbiano, ho avvertito uno scroscio
potente, di cui ho visto l’effetto uscendo all’aperto: piove molto forte
e devo restare sotto il portico della chiesa. Si vedono visitatori che
corrono qua e là per ripararsi; ce ne sono due con l’ombrello; arriva
anche una monaca col nero velo tutto fradicio. Non ho l’ombrello e
l’auto è nel parcheggio, abbastanza lontano. Solo dopo una decina
di minuti la pioggia parzialmente si attenua e decido di fare una
corsa per raggiungere il parcheggio. Uscito dal santuario, vengo in
parte schermato dal folto degli abeti e dei faggi, che attenuano la
penetrazione della pioggia. Quando raggiungo l’auto sono
comunque totalmente infradiciato: per fortuna ho con me un ricambio
di scarpe e di camicia e posso un po’ asciugarmi con la ventilazione
dell’auto.
Appena iniziata la discesa, la pioggia si ferma: le nuvole nere si
spostano rapidamente verso il Pratomagno e quando giungo sulla
piana è tornato il sole che, volgendo sempre più verso nordovest,
fuga le ultime nubi rimaste sopra il Pratomagno.
Confluenza dell’Archiano nell’Arno

Là ’ve ’l vocabol suo diventa vano,


arriva’ io forato ne la gola,
fuggendo a piede e sanguinando il piano.
………………………………
Lo corpo mio gelato in su la foce
trovò l’Archian rubesto; e quel sospinse
ne l’Arno, e sciolse al mio petto la croce

ch’i’ fe’ di me quando ’l dolor mi vinse;


voltòmmi per le ripe e per lo fondo,
poi di sua preda mi coperse e cinse.
(Purg., V 97-99, 124-129)

Tornato nei pressi di Bibbiena, cerco allora di avvicinarmi più


possibile alla confluenza tra l’Archiano e l’Arno, lì dove il vocabol del
primo diventa vano e dove, fuggendo dal campo di battaglia,
Buonconte perse “la vista e la parola”, cadendo con le braccia in
croce nel raccomandarsi a Maria. Vistasi sottratta l’anima del
Ghibellino per la “lagrimetta” che l’aveva salvata, il demonio si
scatenò contro i suoi resti corporei, suscitando una tempesta sul
Casentino, che fece traboccare le acque che scendevano dai vari
fossati verso i diversi rivi e da questi verso il fiume real. Così
l’Archian rubesto (impetuoso) trascinò il cadavere nell’Arno, che lo
rivoltò e lo coprì con le sue acque.
Visto che la confluenza del torrente nell’Arno si trova ben oltre il
ponte su cui mi ero fermato prima di dirigermi a La Verna, prendo
una strada che piega verso ovest, in direzione di Ortignano, che
attraversa l’Arno in un punto abbastanza vicino alla confluenza. Mi
allontano un po’ dal fiume, ma poi trovo una strada che piega a
sinistra (verso sud) in direzione di alcuni casali. Dopo un po’ un
ponte supera un torrente che viene dal Pratomagno e che da questa
parte si getta sull’Arno, appena a monte del gettarsi dall’altra parte
dell’Archiano. Lascio l’auto e procedo lungo l’argine di questo
torrente, a fianco di un folto campo di mais; dopo un po’ c’è una
frana nell’argine e devo scendere infangando le mie scarpe non
troppo appropriate al percorso. Ma posso procedere nello
strettissimo spazio sotto l’argine ai margini del campo, a ridosso
della fitta coltivazione delimitata da un sottile filo forse in plastica. E
trovo davanti a me il punto in cui l’argine del torrente si intreccia con
quello dell’Arno. Posso risalire su quest’ultimo, molto ampio e
praticabile, coperto da varie piante.
Dopo una decina di metri sono davanti al fiume real, proprio sulla
riva destra, vicinissimo alla confluenza del torrente che vien da
ovest. Si vede già da qui, oltre l’altra riva dell’Arno, l’alberatura
d’argine dell’Archiano, che scende e piegandosi in curva verso sud
entra nell’Arno. Avanzando verso sud, sull’ampio argine dell’Arno,
vedo mischiarsi le acque dei due fiumi; immagino che proprio qui le
acque d’altri tempi e d’altre fantasie, turbate dal demonio, si
mischiarono violentemente trascinando via Buonconte, che forse era
caduto lì, su quella punta che fa il terreno dove l’Archiano piega
verso sud per entrare nell’Arno. Devo dimenticare per un istante ogni
ragionevole dubbio sul diverso configurarsi dell’idrografia di questi
luoghi nel Duecento; e ogni ancor più ovvio dubbio sull’invenzione di
Dante, suscitata probabilmente dall’incontro con la figlia di
Buonconte, Manentessa, moglie di Guido Salvatico dei conti di
Dovadola. Chissà su quali basi Dante fa dire a Buonconte che né la
vedova né altri si curano di pregare per lui (“Giovanna o altri non ha
di me cura”, v. 89); chissà se ne ha avuto l’impressione proprio da un
incontro con Manentessa, non solo a Dovadola, ma forse anche da
queste parti. Qui nel Casentino Manentessa si fa vedere in una
novella del Sacchetti, che potrebbe aver tratto qualche spunto dalla
realtà (Trecentonovelle, CLXXIX): vi si racconta che lei e la
Gherardesca figlia di Ugolino e moglie di Guido da Battifolle fanno
insieme una passeggiata a Certomondo, scambiandosi pungenti
battute, dai due punti di vista opposti, guelfo e ghibellino.
Torno indietro con le scarpe inzaccherate, mentre il tramonto si
avvicina. Ma una luce d’oro mi accompagna nella strada interna che
conduce a Poppi, che, sfiorando il piccolo Borgo di Buiano, mi fa
fermare per pochi istanti davanti alla semplicissima Pieve di Santa
Maria, che risale al XII secolo. È come una casetta di campagna,
con la facciata in mattoni scoperti su cui si apre soltanto una bassa
porta rettangolare e, sotto la punta del tetto, un piccolo lucernaio.
Chissà perché tra il lucernaio e la porta sul muro è fissata una
cometa di lampadine elettriche, certo residuo di luminaria natalizia
mai rimossa.
Eremo di Camaldoli

…che sovra l’Ermo nasce in Apennino.


(Purg., V 96)

Il mattino dell’11 luglio prendo una strada che dal Ponte a Poppi sale
verso Camaldoli, aprendo bellissimi squarci della piana di
Campaldino e di tutto il Casentino, investito dal sole che si è
affacciato dalla Giogana. Dante nomina l’Eremo solo per indicare
l’Archiano, che sovra l’Ermo nasce, ma altrove non trascura di
ricordare, tra gli spiriti contemplanti, il suo fondatore Romualdo
(Paradiso, XXII 49).
A un certo punto la strada immette nella fitta foresta e conduce al
monastero, costruito sul castello di Fontebuona, donato a san
Romualdo dal conte Maldolo d’Arezzo (da lui, secondo tradizione,
deriverebbe il nome Camaldoli, Ca’ Maldoli). Siamo all’altezza di 816
metri e c’è un senso di mattutina freschezza, che dal bosco si
trasmette all’architettura degli edifici conventuali. Qui soggiornò il
casentinese Landino e qui ambientò le sue Disputationes
Camaldulenses.
Attraverso un cortile porticato accedo alla chiesa dalla semplice
facciata, ma dal sontuoso arredo barocco interno, con varie pitture
commissionate dai monaci, tra cui tavole del giovane Giorgio Vasari,
che qui lavorò a lungo con una fitta serie di opere, tra il 1537 e il
1540. Mi colpisce la tavola con la coppia dei santi Romualdo e Pier
Damiani, di profilo con lunghissime barbe, e, soprattutto, la
ultramanieristica Deposizione sopra l’altar maggiore. Al manierismo
di Vasari sembra fare da provvisorio contrappunto, nella vicina
cappella dello Spirito Santo, una mostra di contemporanee sculture
di Luca Cavalca, dal titolo Nella materia l’invisibile, in cui la
corrosione della materia, l’impasto poroso e pungente della creta,
tende come a interrogare ciò che sfugge alla conoscenza, andando
al di là della stessa superficie del pur esibito visibile: c’è una
figuratività sempre eterogenea, come rappresa e contestata,
abissalmente lontana dalla ostinata torsione figurativa del Vasari. Ma
resto comunque perplesso sulle possibilità e sul senso dell’arte
sacra del nostro tempo.
In uno spiazzo ai limiti del monastero c’è l’Antica Farmacia, nel cui
interno l’antico assetto sembra come levigato, adattato ai più asettici
modelli commerciali e turistici: al banco non ci sono monaci, ma laici
in camice bianco, tra cui una elegante ragazza che mi mostra i
diversi prodotti. Elisir, profumi e saponi naturali, miele e confetture:
ma non ci sono quasi più prodotti del lavoro dei monaci; si tratta in
genere di articoli prodotti da imprese della zona e appositamente
confezionati per il convento. Accanto alla Farmacia un parapetto fa
affacciare sulla frescura di un gorgogliante fiumicello, che rapido
scende: ancora l’Archiano, naturalmente.
Mentre salgo verso l’Eremo, tra gli alti e slanciati fusti di faggi e di
abeti bianchi, un capriolo attraversa improvvisamente la strada
inoltrandosi nel bosco in alto. Poi lascio l’auto davanti all’ingresso
dell’Eremo, aspettando il turno per la visita. Si è creato un piccolo
gruppo di visitatori, scortato da un monaco abbastanza loquace, che
ci indirizza verso quella che sarebbe stata la cella di San Romualdo,
tutta fasciata di rivestimento ligneo. Non si visita la zona riservata
agli eremiti, che è aperta oltre un cancello, con le piccole celle
disposte ai due lati di un vialetto lastricato, in fondo al quale si
scorge parte dell’abside e il piccolo campanile di una chiesetta.
Oggi, dice il monaco che fa da guida, ci sono otto eremiti, mentre
trenta, in tutto il complesso di Camaldoli, sono i cenobiti.
Si visita la chiesa del Salvatore, più volte ricostruita fino all’attuale
assetto barocco, realizzato, dopo un incendio del 1693, per volontà
di un priore che, come ci dice il monaco che ci guida, in quanto
napoletano, scelse di dare alla chiesa le forme esuberanti del
barocco napoletano. Nell’abside c’è comunque la presenza
manieristica del Bronzino, con una sua Crocifissione.
Prima di lasciare l’eremo visito la libreria: tra i libri di devozione, di
storia, illustrazione artistica e turistica, trovo l’edizione di una
traduzione italiana de La Scala di Giovanni Climaco (monaco del
Sinai del VI o VII secolo), a cura di Luigi d’Ayala Valva, per le
edizioni Qiqajon della Comunità di Bose: un libro di ascesi, sui trenta
gradini per raggiungere Gesù, che circolò anche in traduzione latina
come Scala Paradisi e che forse può lasciarci qualche suggestione
in rapporto all’ascesa paradisiaca di Dante (e soprattutto alla scala
della contemplazione di Paradiso, XXII). Non so se venga mai
evocata dai dantisti, alcuni dei quali invece sogliono dare un rilievo
non sempre affidabile al Liber Scalae, la versione latina del Libro
della Scala di Maometto.
Lascio l’Eremo, salendo ancora nel bosco, verso il passo dei
Fangacci, su una strada che a un certo punto non è più asfaltata.
Nello scendere poi dal passo la strada è accompagnata da un
torrente la cui poca acqua fluisce precipitosamente, ogni tanto
raccoglie altri piccoli rivi che scendono dai fianchi e salta su
cascatelle, create da stratificazioni orizzontali della roccia, come fogli
disposti l’uno sull’altro. È anche questo un ramo dell’Archiano,
diverso da quello che ho visto a Camaldoli: viene chiamato Archiano
d’Isola e mi accompagna a valle, dove è il paese di Badia Prataglia,
da cui risalgo immediatamente verso un altro passo, quello del
Mandrioli, che immette di nuovo in Romagna, nell’alta valle del
Savio, un ramo del quale nasce proprio qua sotto e che ho già
incontrato a Cesena e a Cervia.
Monte Fumaiolo e sorgente del Tevere

…e ’l giogo di che Tever si diserra.


(Inf., XXVII 30)

La discesa dal passo del Mandrioli fa apparire in profondità in pieno


sole il fondo valle del Savio e dirimpetto il tozzo massiccio coperto di
boschi interrotti da chiazze e striature rocciose del monte Fumaiolo,
il giogo da cui verso sud scende il Tevere e verso nord il ramo
principale del Savio. In fondo alla discesa si distende Bagno di
Romagna, oggi stazione termale, con molti alberghi. Fu feudo dei
conti Guidi, del ramo a cui apparteneva la contessa Bianca
Giovanna, considerata destinataria della canzone di Dante Doglia mi
reca ne lo core ardire (scritta durante l’esilio, ma probabilmente non
in questo luogo). Nell’animazione del tardo mattino della località
termale è in atto un vivace mercatino alimentare: in mezzo
all’esposizione di salumi, formaggi, vini, resta quasi tra parentesi la
traccia medievale, di cui del resto si notano poche testimonianze.
C’è un cosiddetto Palazzo dei Guidi, che in realtà è il Palazzo
Pretorio impiantato più tardi dal dominio fiorentino; ci sono
fortificazioni e resti di un torrione.
Ciò che resta di quel mondo è affidato al paesaggio, a rovine non
sempre identificabili di castelli sparsi sui rilievi che accompagnano la
valle, al fiume che scorre al margine. Così da qualche parte qui
intorno, nel territorio di Bagno, era il castello di Valbona, feudo e
luogo d’origine del “buon Lizio” ricordato tra i romagnoli cortesi del
buon tempo antico in Purgatorio, XIV 97. Questo Lizio da Valbona,
d’altra parte, mi è più noto attraverso l’invenzione del Boccaccio,
Decameron, V IV. Forse proprio per la suggestione del verso di
Dante (dove Lizio è associato ad Arrigo Mainardi), Boccaccio narra
dell’amore che sorge tra Caterina, figlia di Lizio, “cavaliere assai da
bene e costumato”, e un giovane “che era de’ Manardi da Brettinoro,
chiamato Ricciardo”, amico di famiglia. Col pretesto di voler sentir
cantare un usignolo nella notte estiva Caterina si fa sistemare il letto
su una terrazza, dove di nascosto accoglie l’amante. Ma i due
vengono sorpresi dal padre, “ignudi e iscoperti dormire abbracciati”,
in un atto che chiama in causa l’usignolo come metafora sessuale; il
buon Lizio comunque non va sulle furie, ma, scherzando ancora con
la metafora dell’usignolo, benignamente accetta di unirli in
matrimonio.
Lasciata Bagno di Romagna, piego verso sud sulla Via Tiberina,
fiancheggiata e spesso fagocitata dalla superstrada per Perugia e
Roma. Tocco Verghereto, nel cui territorio è il borgo di Corneto, da
cui quasi sicuramente proveniva un personaggio ricordato tra i
violenti del Flegetonte, Rinier da Corneto:

La divina giustizia di qua punge


quell’Attila che fu flagello in terra,
e Pirro e Sesto; e in etterno munge

le lagrime, che col bollor diserra,


a Rinier da Corneto, a Rinier Pazzo,
che fecero a le strade tanta guerra.
(Inf., XII 133-138)

Quasi tutti i commentatori identificano i due Rinieri in due predoni


che infestavano le strade (“fecero a le strade tanta guerra”),
riconducendo il primo alla più nota Corneto, cioè l’odierna Tarquinia,
al margine della Maremma. Ma è più probabile (come ha
documentato Umberto Carpi) che in entrambi i casi si tratti di
Ghibellini che compivano azioni varie di disturbo contro i Guelfi
toscani e che Rinieri da Corneto vada identificato con un
personaggio proveniente proprio da questa Corneto appenninica,
della stirpe dei Faggiolati, padre del ben più noto Uguccione della
Faggiuola, con cui secondo Boccaccio Dante ebbe rapporti nei primi
anni dell’esilio. In un celebre falso, la lettera di frate Ilaro in cui si
parla di una prima redazione latina della Commedia, si attribuisce a
Dante l’intenzione di dedicare l’Inferno proprio a Uguccione: questi
comunque, dopo essersi insignorito per alcuni anni di Pisa e di
Lucca e avere sconfitto la Firenze guelfa a Montecatini (1315), fu al
servizio di Cangrande della Scala tra il 1316 e la morte, avvenuta a
Vicenza nel 1319.
Tralascio questa Corneto dell’Appennino romagnolo e i possibili
richiami a Uguccione e finalmente mi dirigo verso la sorgente del
Tevere. Superato il valico di Montecoronaro, la strada si distende in
tortuosi giri, senza mai pendenze troppo forti, verso la vetta del
Fumaiolo, tra boschi e radure, con improvvise aperture della vista.
Lascio l’auto e procedo a piedi fino a uno spiazzo molto ampio dov’è
il Rifugio Biancaneve, molto vicino alla vetta: qui un cartello indica il
sentiero per la sorgente, con solo 15 minuti di percorso. Si deve
scendere tra esili e fitti fusti di faggi, anche con ripidi balzi: ed ecco,
a livello di 1268 metri c’è una piazzola attrezzata con dei sedili in
legno, tra aceri e faggi, in fronte a un vero e proprio monumento. C’è
un pilastro in travertino al centro di una sorta di vasca recintata,
sormontato da un’aquila bronzea. Su tutti i suoi lati ci sono delle
teste di lupo che stringono anelli; e sotto il pilastro c’è la scritta QUI
NASCE IL FIUME / SACRO AI DESTINI DI ROMA. A fianco dell’assetto del
monumento c’è una bocca aperta da cui sgorga l’acqua, inquadrata
da un mattonato in parte coperto di muschio e fatta convergere su
un canale in mattoni per poi scendere saltando nel suo corso oltre la
piazzola. Fu il romagnolo Mussolini a volere che questa zona, che
prima apparteneva alla Toscana, fosse inserita nella provincia di
Forlì; e fu lui a volere questo monumento, che un cartello della
Comunità Montana dell’Appennino Cesenate dice inaugurato il 15
agosto 1934 con la musica di ben dodici bande e fanfare musicali.
La scritta del cartello si conclude con una strana affermazione: “Il
fiume Tevere ufficialmente non nasceva più dal Falterona” (ma sulle
ultime due parole c’è una sorta di cancellazione).
Un singolare segno di omaggio, diverso e quasi opposto alla
pomposa esaltazione fascista dei destini di Roma, è quello affidato
ad apposita lapide, che reca in corsivo due versi, La libbertà d’un
popolo è compagna / all’acqua che viè giù da la montagna e poi in
maiuscolo I POETI DI ROMA AL LORO FIUME / CENTRO ROMANESCO TRILUSSA /
XXI – V – MCMLXXII. Mi domando come mai siano venuti il 21 maggio e
non il 21 aprile, Natale di Roma e perché proprio quell’anno: e
comunque questo affollarsi di poeti qua davanti mi fa un po’
sorridere. Mi piego comunque sulla bocca della sorgente e bevo
quassù, dove è tanto diversa da quella che sarà sotto i ponti di
Roma, l’acqua del Tevere.
Quando sono arrivato non c’era nessuno: ma ora si avvicina,
salendo dal basso, da direzione contraria alla mia, un anziano
signore un po’ panciuto, dall’evidente accento romagnolo, che mi
spiega come si può lasciare l’auto poco là sotto, facendo un
percorso molto più breve di quello che ho fatto io. Commentiamo
insieme l’incongruità di quell’aquila sul pilastro e consideriamo la
relatività dell’identificazione della sorgente: in fondo come sorgente
avrebbe potuto essere designato uno qualunque dei ruscelli che
scendono da questa montagna e, del resto, designazioni e
identificazioni risalgono solo all’intenzione umana di misurare lo
spazio, di orientarsi in esso, magari di impadronirsene. In natura non
esiste nessun Tevere: ma gli uomini, le loro intenzioni, la storia, la
civiltà, hanno dato tale nome alle acque che sgorgano da questa
parte e poi man mano si convogliano in un corso che mantiene ben
presto la sua continuità, la sua superiorità verso i vari tributari che in
lui confluiscono, fino ad attraversare Roma e a gettarsi in mare.
Anzi, si può dire che si sia designato come Tevere, dio Tiber, a
partire da Roma e che si sia riconosciuto come tale risalendo il suo
corso, fino ad arrivare qui: e pensando a qualcosa di romano e di
molto antico, mi viene in mente che da queste parti, poco a nord del
Fumaiolo e sulla riva del Savio, c’è Sarsina, la patria di Plauto, il
commediografo dell’italum acetum, quasi archetipo latino della
comicità, dal cui ritorno quattrocentesco è sorta la forma moderna
della commedia. Dante non conosceva le sue commedie, ma lo
ricorda per bocca di Stazio, che a Virgilio, loro compagno nel Limbo,
chiede dove siano lui e altri scrittori latini:

dimmi dov’è Terrenzio nostro antico,


Cecilio e Plauto e Varro, se lo sai:
dimmi se son dannati, e in qual vico.
(Purg., XXII 97-99)

Saluto il simpatico romagnolo e, preso da questi pensieri sulle


sorgenti e su quanto Dante sapeva della commedia antica, comincio
ad allontanarmi. Ma solo dopo pochi passi mi rendo conto di aver
lasciato su una delle panche della piazzola il mio nero libretto di
appunti. Torno indietro in ansia, ma lo vedo là ben visibile sul
marrone del legno. Mi tocca percorrere tutto il sentiero in salita, un
po’ a fatica, anche perché comincio a sentire la fame. Per fortuna,
appena giunto in cima, mi accoglie il Rifugio Biancaneve, col
ristorante nel suo grande salone, dove sono ai tavoli un paio di
famiglie con bambini inquieti che ogni tanto lasciano le sedie
facendo slalom tra i tavoli. Crespelle ai tartufi e carne grigliata: poi
un giro verso la vicina vetta, abbracciando il panorama, fino al
Falterona da una parte, con i monti che circondano il Casentino e, in
piena luce, dalla parte del mare, la vetta del Carpegna, con la sua
parte rocciosa, come dentata e arroccata in attesa di un castello che
non c’è.
Torno all’auto e scendo sul versante opposto da quello su cui sono
salito; la strada solca terreni che scivolano tra balze di arenarie e di
calcari dolomitici (proprio Le Balze, in dialetto, si chiama la località
più vicina, Balze di Verghereto). In breve, sono sulla Tiberina, ritrovo
il Tevere già divenuto se stesso e mi immetto sulla superstrada che
lo fiancheggia, lasciandolo raramente apparire alla vista, e taglia
longitudinalmente tutta l’Umbria.
Ferrara

Troppo sarebbe larga la bigoncia


che ricevesse il sangue ferrarese,
e stanco chi ’l pesasse a oncia a oncia,

che donerà questo prete cortese


per mostrarsi di parte; e cotai doni
conformi fieno al viver del paese.
(Par., IX 55-60)

Due giornate a parte dedico a Ferrara e a Bologna, rimaste fuori dal


precedente itinerario. Sono a Ferrara il 4 marzo 2016, giorno
centenario della nascita di Giorgio Bassani, nel quadro di una serie
di attività organizzate dal Comitato nazionale istituito dal Ministero
dei beni ambientali, culturali e del turismo (che si suole designare
con l’acronimo MiBACT): sono presidente di questo Comitato e
come tale, oltre a dirigere la programmazione delle varie attività,
devo fare i conti con una serie di vincoli burocratici, di quelli che
sempre più pesano su organismi di questo tipo, e con una serie di
questioni pratiche per cui non ho nessun aiuto dal Comune di
Ferrara, a cui spetta la segreteria del Comitato, tanto più che altre
difficoltà sorgono continuamente per i conflitti tra i vari componenti
del Comitato stesso. Farò così la prova di quanto nei nostri anni sia
diventato difficile gestire anche le più semplici forme pubbliche della
cultura: e la situazione diventerà talmente intollerabile che alla fine
dell’anno deciderò di dimettermi dall’incarico…
Ferrara è una delle città il cui prestigio urbanistico e artistico è più
strettamente legato a un orizzonte letterario: la grande letteratura
della Ferrara estense afferma i propri caratteri proprio attraverso il
suo radicamento nella città e nei suoi luoghi. E le ricorrenze di
questo 2016 vengono a ricollegare la memoria della Ferrara
rinascimentale (cinquecento anni dal 1516, quando apparve la prima
edizione dell’Orlando furioso) a quella della Ferrara novecentesca,
entro il cui tessuto l’opera di Bassani (nato il 4 marzo 1916) ha
ritrovato segni delle più tremende lacerazioni del Novecento.
Ariosto e Bassani: forme e mondi storici lontanissimi da quelli
danteschi. Ferrara del Rinascimento e Ferrara del Novecento,
universi a loro volta tanto distanti dalla Ferrara a cui risalirebbe la
genealogia di Dante, secondo Boccaccio e vari commentatori
trecenteschi, ma anche con l’avallo di molti studiosi attuali. Nel
Trattatello in laude di Dante, Boccaccio dice che Cacciaguida, l’avo a
cui Dante dedica i canti XV-XVII del Paradiso, avrebbe sposato “una
donzella nata degli Aldighieri di Ferrara” (è del resto lo stesso
Cacciaguida a dire in Paradiso, XV 137 “mia donna venne a me di
val di Pado”, dalla Valle Padana; e la presenza di un Aldighiero degli
Aldighieri è in effetti attestata a Ferrara nel 1083).
Nel secolo XIII comunque, ancora retta da ordinamenti comunali,
la città vide affermarsi il potere della famiglia estense, originaria di
Este nel padovano (vedi pp. 719-721), che all’inizio del secolo con
Azzo VI (che ebbe dal papa il titolo di marchese della Marca
Anconitana) si era già intromessa nelle lotte di fazione della città (in
contrasto con i ghibellini Torelli).
Nelle alterne vicende delle lotte di fazione fu Obizzo II d’Este ad
assumere ormai ufficialmente la signoria di Ferrara (1264): Dante lo
condanna tra i tiranni immersi nel Flegetonte, riportando la voce
secondo cui egli sarebbe stato ucciso dal figlio Azzo VIII (“e
quell’altro ch’è biondo, / è Opizzo da Esti, il qual per vero / fu spento
dal figliastro su nel mondo”, Inferno, XII 110-112). Azzo VIII, che era
succeduto al padre nel 1293 e sarebbe morto nel 1308, viene
chiamato qui figliastro per disprezzo o anche alludendo a un
eventuale concepimento adulterino da parte della madre. Già nel De
vulgari eloquentia, I XI 5 egli viene elencato tra i signori
contemporanei che non si curano di nobili imprese, e poi in II VI 4
citato con velata ironia. In Purgatorio, V 77-78 viene accusato
dell’assassinio di Jacopo del Cassero, mentre nel successivo canto
XX, 79-81, si allude, senza fare esplicitamente nomi, al suo
matrimonio (1305) con la giovanissima Beatrice, figlia di Carlo II
d’Angiò, detto lo Zoppo, che gliela avrebbe praticamente venduta
per una grande somma, “come fanno i corsar de l’altre schiave”. A
Obizzo II (il marchese) si allude peraltro per l’azione a suo favore del
ruffiano bolognese Venedico Caccianemico, nel luogo del XVIII
dell’Inferno di cui si parlerà a proposito di Bologna (vedi p. 468). E va
notato che in questa condanna così dura dei due Estensi, padre e
figlio, agisce, oltre l’intenzione di denunciare i loro modi efferati,
anche il loro opportunistico guelfismo.
Nel passo del Paradiso sopra riportato il sangue ferrarese viene
chiamato in causa entro le profezie di Cunizza da Romano, a
proposito del tradimento perpetrato nel 1312 dal vescovo di Feltre
Alessandro Novello (questo prete cortese) ai danni di quattro
fuorusciti ferraresi, rifugiatisi presso di lui e da lui consegnati, per
esibire un posizione filoguelfa (per mostrarsi di parte), al vicario
angioino Pino della Tosa, che li fece decapitare: lo scempio del
sangue degli assassinati viene sarcasticamente presentato come un
dono che, conformemente al costume corrotto che secondo Cunizza
domina nel Veneto, sarà offerto dal prete cortese: ma per raccogliere
tutto quel sangue ci vorrebbe un recipiente (bigoncia) troppo grande;
e si stancherebbe chi volesse pesarlo a once, cioè a misure di
modesta quantità.
Di Ferrara e dei ferraresi aveva fatto menzione il De vulgari
eloquentia: in I X 7 ferraresi e piacentini venivano indicati come
esempio delle variazioni interne tra i volgari di Lombardia, mentre in I
XV 2-4, parlando del volgare dei bolognesi, si notava come essi
prendessero qualcosa da volgari vicini e in particolare dalla
garrulitas, la chioccia rudezza, di ferraresi e modenesi, che Dante
considera caratteristica dei lombardi, lascito della mescolanza con i
longobardi: e si aggiungeva che proprio per quella garrulitas
ferraresi, modenesi e reggiani non avevano avuto veri poeti, capaci
di avvicinarsi al volgare aulico.
È stato notato che, nonostante l’immagine duramente negativa che
Dante dà degli Estensi, dopo l’assestamento del loro potere, seguito
a un periodo di confusione successivo alla morte di Azzo VIII (1308)
e formalizzato nel 1332 con la concessione da parte papale del
vicariato di Ferrara, molto viva è stata la presenza della Commedia
presso la corte estense, al punto che proprio al marchese Niccolò II
dedicò il suo grande commento Benvenuto da Imola (che a Ferrara
morì tra il 1387 e il 1388). E se non si può certo dire che Ariosto sia
un poeta “dantesco”, è vero però che la presenza di Dante traspare
intensamente dentro lo stile e il linguaggio del suo grande poema,
dove del resto si inscrive addirittura nel celebre incipit:

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,


le cortesie, l’audaci imprese io canto…

Si tratta di una ben nota citazione e variazione dei due versi del
discorso di Guido del Duca sulla condizione della Romagna in
Purgatorio, XIV 109-110:

le donne e’ cavalier, li affanni e li agi


che ne ’nvogliava amore e cortesia…

Nella prima edizione, del 1516, Ariosto aveva scritto:

Di donne e cavallier li antiqui amori


le cortesie, l’audaci imprese io canto…

Proprio nel Liceo Ariosto ha luogo il primo incontro in ricordo di


Bassani nella mattina del 4 marzo: è una scuola molto ben
organizzata, che vitalizza la didattica con tantissime dinamiche
iniziative. Si trova in un edificio moderno e ben attrezzato, ai margini
della zona dell’Addizione Erculea, l’ampliamento a nordest della città
voluto dal duca Ercole I: e qui vicino, in contrada Mirasole, ora via
Ariosto 67, il poeta si sistemò, in una casetta dei suoi ultimi anni,
ancora in piedi nelle sue mura e aperta come piccolo museo, anche
se nelle sue stanzette ci sono ben poche tracce dell’assetto
originario.
Alcuni locali di questa Casa dell’Ariosto sono stati recentemente
assegnati alla Fondazione Giorgio Bassani, creata nel 2002, di cui è
presidente la figlia dello scrittore Paola. Ma la cura della memoria e
dell’opera di Bassani a Ferrara si divide in due, dato che è stato
istituto, col diretto sostegno del Comune, un Centro studi bassaniani,
promosso dalla compagna degli ultimi anni dello scrittore, Portia
Prebys. Nella tarda mattinata si passa nella parte più antica della
città, nei pressi di Palazzo Paradiso (sede, questo, della Biblioteca
Comunale Ariostea), in via del Giuoco del Pallone, dove viene
inaugurata la sede di questo Centro studi bassaniani, nell’edificio
storico di Palazzo Minerbi, recentemente restaurato: in alcune delle
sue sale c’è ora un grande archivio dello scrittore e la ricostruzione
del suo studio degli ultimi anni, con tutti gli arredi originali donati
dalla signora Prebys. Palazzo Minerbi, che ospita ora anche la sede
dell’Istituto di studi rinascimentali di Ferrara, è di origine trecentesca,
fu dimora della famiglia Dal Sale: vi si trovano affreschi della
seconda metà del XIV secolo, raffiguranti I Vizi e le Virtù. Sulla
stessa via del Giuoco del Pallone si trovano altre case
trequattrocentesche, tra cui quelle degli Ariosto, acquistate dalla
famiglia fin dal 1471, dove abitò il poeta prima di acquistare la casa
in contrada Mirasole e dove certamente scrisse gran parte della
prima redazione dell’Orlando furioso.
Ai tempi di Dante, che forse non ha mai visitato la città (come
mostra la sua evidente ostilità verso gli Estensi), la città era
attraversata dal Po di Volano, che ora scorre sul fronte sud e
sudovest delle mura ed era di portata molto maggiore di adesso,
anche se non costituiva più il corso principale del fiume, come era
stato fino al 1152, quando un alluvione lo deviò più a nord, verso il
Po di Venezia. La primitiva cattedrale di San Giorgio, forse risalente
al VII secolo, si trovava al di là del fiume, a sud, dove ora è una
chiesa dedicata al santo e un convento di impianto quattro-
cinquecentesco. A partire dal XII secolo la città si spostò sempre più
a nordest del fiume, oltre l’attuale Porta Reno, verso cui mi dirigo
procedendo in un primo momento lungo la via Giuoco del Pallone,
oltre la casa degli Ariosto, fino a toccare la via delle Volte, che
risalgo per un gran tratto, passando sotto le basse volte che
collegano gli edifici tra i due lati della strada e che sembrano dare di
più l’immagine della città medievale.
Da Porta Reno mi affaccio sulla darsena attestata sul percorso del
Po di Volano (che qui assume il nome di Canale di Burana) e poi
procedo indietro verso il centro, dove si affaccia la Cattedrale,
davanti al Palazzo Comunale, tarda ricostruzione di quella che era
stata la prima residenza ferrarese degli Estensi, e al passaggio a
volta detto Volto del cavallo, davanti a cui sono due colonne che
hanno in cima le statue bronzee di due signori quattrocenteschi,
Niccolò III a cavallo e Borso seduto, statue che per Ariosto furono
emblema del suo muoversi in città. Le nomina infatti quando dice
che sarebbe morto se non avesse interrotto le sue forzate assenze
dalla città tornando ogni tanto a passeggiare in questi paraggi:

E s’io non fossi d’ogni cinque o sei


mesi stato uno a passeggiar fra il Domo
e le due statue de’ Marchesi miei…
(Satira, VII 151-153)

Marchesi erano Niccolò III e il figlio Borso, che nel 1452 ebbe il titolo
di duca: ma le statue che sono qui non sono originali, sono
ricostruzioni novecentesche, dato che i Marchesi che vedeva Ariosto
furono distrutti dai francesi nel 1796.
Qui comunque il solo edificio rimasto di quelli che occupavano il
sito nel XIII secolo è la Cattedrale di San Giorgio e della Vergine,
con la sua facciata a tre cuspidi, sistemata proprio nel corso di quel
secolo, dopo il primo impianto a una sola capanna installato nel
secolo precedente. La fitta serie di finestre e di logge, complicata
dalla loggia e dal corpo avanzato del portale centrale, fa un effetto di
accurato e moltiplicato brulichio, in un affollarsi e prolungarsi di
aperture e di affacci. Di grande effetto sono le sculture firmate di
Niccolò, allievo di Wiligelmo e responsabile del primo disegno della
facciata. Ma Niccolò mi ricorda uno di quegli abili falsi che a lungo
sono stati considerati autentici, l’iscrizione che ancora quando io
andavo a scuola veniva considerata uno dei primi documenti del
volgare italiano, ma che è appunto un falso di un erudito ferrarese, il
settecentesco Girolamo Baruffaldi (1675-1753), posta sopra l’arco
dell’altar maggiore con la data di fondazione del tempio e i nomi del
finanziatore Guglielmo degli Adelardi e dello scultore Niccolò:
Li mille cento trenta cenqe nato
fo questo templo a San Gogio donato
da Glelmo ciptadin per so amore
e mea fo l’opra. Nicolao scolptore

L’interno del duomo e il suo fianco destro risultano da vari interventi


più tardi: e di grande eleganza è soprattutto all’esterno la loggia
quattrocentesca che si espande sul fianco aperto sul lungo fronte
della piazza Trento e Trieste. Oltrepassando questa piazza si può
ulteriormente percorrere la parte più antica della città, toccando
edifici che comunque hanno subito molteplici trasformazioni. Ma non
posso non fermarmi su una strada che mi è capitato di toccare tante
altre volte nelle mie visite a Ferrara, la via Mazzini, che attraversa il
quartiere del ghetto: al numero 95 c’è l’edificio della comunità
ebraica, con le sue sinagoghe, sulla cui facciata ci sono le due
grandi lapidi che ricordano gli ebrei ferraresi vittime della shoah; e
una di esse elenca tutti i loro nomi. Proprio da questa seconda
lapide e dalla vicenda di un reduce da un campo di sterminio,
Giorgio Bassani ha tratto lo spunto per una delle sue Cinque storie
ferraresi, Una lapide in via Mazzini, sull’ostilità che nei buoni
borghesi della città suscita Geo Josz, personaggio che mantiene
viva con la sua presenza una memoria che essi preferiscono
cancellare.
Mi perdo tra gli andirivieni delle strette strade ferraresi, per gli
infiniti percorsi estensi che toccano soprattutto l’arco dal XIV al XVI
secolo, fin quando, per l’estinzione della successione diretta del
duca Alfonso II, nel 1598 la città dovette entrare direttamente nello
Stato della Chiesa (secondo quanto previsto dalla già ricordata
concessione papale del 1332), mentre al ramo superstite degli
Estensi fu lasciato il ducato di Modena e Reggio, che risaliva invece
a una investitura imperiale. La vivace cultura estense ebbe allora il
proprio centro a Modena e Ferrara rimase a lungo ai margini sul
fronte economico e culturale, fin quando non riprese una grande
energia dopo l’unità d’Italia, con un’eccezionale fioritura,
specialmente nel campo delle arti, con pittori come Giovanni Boldini
e Filippo de Pisis e con presenze essenziali come quella di Giorgio
de Chirico.
Devo tralasciare i tanti affascinanti luoghi della Ferrara estense
quattrocentesca e cinquecentesca: ma come non ricordare il perfetto
taglio urbanistico dell’Addizione Erculea, il cui cuore è costituito da
quel palazzo che ha meritato di essere chiamato come un gioiello,
Palazzo dei Diamanti? E come non ricordare il convento / ospedale
di Sant’Anna, dove fu rinchiuso Torquato Tasso dal 1579 al 1586? E
come trascurare il Palazzo di Schifanoia, un po’ defilato, non lontano
dalle mura a sud della città, con gli affreschi quattrocenteschi del
Salone dei mesi, in cui i dati astrologici e mitologici si intrecciano con
smagliante precisione alla celebrazione della vita di corte e ai dati
del più umile lavoro e della vita quotidiana?
Ma prima di partire ritorno davanti alla Cattedrale e percorro il
corso Martiri della Libertà, che conduce di fronte al castello,
circondato dal suo fossato: segno determinato del potere estense, di
cui peraltro non va trascurata la durezza persistente, pur tra gli
splendori cortigiani e i grandi esiti artistici e letterari (e tanti truci
eventi toccarono la stessa famiglia estense, con conflitti, congiure,
viluppi di amore e morte che lasceranno tracce nell’immaginario
romantico e decadente). Anche il castello, così come si presenta
nella sua compattezza, è risultato di una serie di interventi protrattisi
soprattutto tra Trecento e Cinquecento: sembra che nel secolo XIII
esistesse solo la torre dei Leoni, torre di guardia sulle mura nord
della città, su un fossato collegato direttamente con il Po. Ora il
castello è incardinato entro un sistema di quattro torri, tra cui quella
a nord occupa il posto e reca il nome di quella torre primitiva: essa si
affaccia sull’angolo che dà verso il corso Ercole d’Este, dorsale
centrale dell’Addizione Erculea, ed è stata tempestivamente
restaurata dopo le lesioni subite dalla sua torretta superiore in
seguito al terremoto del 20 maggio 2012.
Un brivido di angoscia senza scampo mi prende, superato lo
spiazzo dov’è il monumento a Girolamo Savonarola, sul corso Martiri
della libertà, ora come altre volte, quando mi capita di passare lungo
il parapetto che delimita il fossato del castello. È la presenza delle
due lapidi apposte sul muro, che ricordano gli undici cittadini di
Ferrara che lì davanti o nei paraggi caddero sotto il piombo fascista,
nell’eccidio del 15 novembre 1943, a cui Bassani ha dedicato un
altro suo eccezionale racconto, Una notte del ’43 (e nel 1960 il
regista ferrarese Florestano Vancini ne trasse un film altrettanto
eccezionale, La lunga notte del ’43). Nel racconto e nel film, in forme
diverse, la tragedia è osservata e cancellata dal farmacista Pino
Barilari, che assiste non visto dalla finestra dell’appartamento
soprastante alla farmacia e che poi nega di aver visto. L’invenzione
che Bassani costruisce su quell’evento reale colloca proprio lì, sopra
il portico che percorre il corso (che allora si chiamava corso Roma),
dirimpetto alla spalletta del fossato, la finestra di Barilari, emblema
dell’accecamento di fronte al male e all’orrore, della disposizione a
negarlo e ad assolvere i colpevoli.
Bologna: la Garisenda

Qual pare a riguardar la Carisenda


sotto ’l chinato, quando un nuvol vada
sovr’ essa sì, ched ella incontro penda:

tal parve Antëo a me che stava a bada


di vederlo chinare, e fu tal ora
ch’i’ avrei voluto ir per altra strada.
(Inf., XXXI 136-141)

Sono a Bologna sul far della sera e avvisto le due torri procedendo
da via Rizzoli verso lo spazio di piazza di Porta Ravegnana, dove
esse si levano solitarie: da qui è ben visibile la più alta torre degli
Asinelli, mentre la più bassa Garisenda si scopre solo più tardi,
quando si raggiunge la piazza, con l’area pedonale intorno alle torri.
Fino al 1286 le torri, certo innalzate nel secolo precedente, si
appoggiavano ad altri edifici: ma in quell’anno il Comune decise di
liberarle, aprendo lo spazio della piazza, che divenne così uno dei
punti centrali della città, in asse con lo spazio vicino e molto più
ampio della piazza Maggiore, definitasi con i suoi più importanti
edifici nel corso del XIII secolo. Alla Garisenda Dante fa riferimento
già nel sonetto giovanile Non mi poriano già mai fare ammenda
(Rime, LI), trascritto nel 1287 dal notaio bolognese Enrichetto delle
Querce in un Memoriale: vi si parla di occhi che hanno mirato la
Garisenda, ma non hanno visto qualcos’altro; non è però chiaro cosa
sia quello che non hanno visto, se lo spazio circostante (magari
l’altra torre) o qualche presenza femminile. Al senso di
indeterminatezza dato dal sonetto fa riscontro l’opposta evidenza
figurativa della similitudine infernale, in cui l’effetto che la torre
pendente fa su chi, trovandosi dalla parte dove è inclinata, vede una
nuvola passarci sopra, serve da termine di paragone per lo
sgomento creato dal piegarsi del gigante Anteo, confitto nel ghiaccio
del Cocito, per portare Dante e a Virgilio dall’ultima bolgia al cerchio
dei traditori.
Il sonetto mostra bene come Dante avesse familiarità con questo
luogo: quasi certamente scritto a Bologna in quello stesso 1287,
quando la vista della torre era già resa possibile dalla demolizione
delle case a essa addossate (anche se poi altri edifici furono
addossati alla sua base, definitivamente demoliti a fine Ottocento). Il
soggiorno bolognese fu in ogni modo occasione di un contatto con il
mondo universitario (pur senza compiere un regolare corso di studi)
e soprattutto con la prestigiosa scuola di retorica, mentre doveva
essere vivo il ricordo di Guido Guinizelli, riferimento essenziale per la
nuova poesia stilnovistica. Poi è possibile che Dante abbia
soggiornato a Bologna nei primi anni dell’esilio, quando la città
sembrava aver parzialmente superato il tradizionale conflitto tra i
guelfi Geremei e i ghibellini Lambertazzi e il Comune, orientato verso
posizioni di Guelfismo moderato, aveva riammesso in città questi
ultimi, che erano stati esiliati nel 1280. Ma certamente non vi avrà
messo più piede dopo il 1306, quando i Lambertazzi furono cacciati
di nuovo e la città passò su posizioni di Guelfismo intransigente: e
quando poi il maestro bolognese Giovanni del Virgilio lo invitò a
recarsi a Bologna, declinò la proposta entro l’allegoria pastorale
dell’Ecloga IV (in cui la città viene indicata come “litus Ethneo
pumice tectum”, “lido coperto di pomice dell’Etna”, v. 54),
sostenendo di temere la presenza di Polifemo (probabile riferimento
al fatto che podestà di Bologna era allora Fulcieri de’ Calboli, quello
stesso che come podestà di Firenze era stato uno dei maggiori
responsabili della condanna di Dante del 1303).
La Garisenda che guardava Dante era comunque più alta di quella
sotto cui ora mi colloco: nel corso del XIV secolo essa fu
notevolmente abbassata per i pericoli causati dal cedimento del
terreno. Sono sotto ’l chinato, che si piega verso la adiacente chiesa
secentesca di San Bartolomeo, sul lato dove inizia la via San Vitale:
sul muro della torre è l’immancabile lapide con i versi dell’Inferno.
Guardo in alto, verso il cielo che si stacca dal sommo della torre e
comincia a impallidirsi verso il crepuscolo, ma su cui comunque non
c’è traccia di nuvole in movimento. Girando sulla piazza e intorno a
tutte e due le torri si hanno diverse visuali del loro sovrapporsi e
intersecarsi, del gioco di tangenze creato dalla loro vicinanza, dalla
loro diversa altezza, in uno scambio di posizioni tra quella più alta e
quasi verticale (ma una piccola pendenza ce l’ha anch’essa) e
questa più bassa e perigliosamente pendente. Qui intorno è pieno di
panche e di blocchi di pietra: seduto su una panca, dalla parte del
palazzo d’angolo tra via Zamboni e via de’ Giudei mi fisso su una
visuale in cui la pendente sembra quasi confondersi con quella più
grande. Intorno, tra le panche e i blocchi di pietra, davanti e dentro i
locali della grande libreria Feltrinelli, c’è quell’animarsi sospeso e
quasi incerto che mi pare di ritrovare in tante sere italiane:
soprattutto giovani, studenti, signore di passaggio, turisti, qualcuno
che ciondola senza meta, venditori di oggettini (braccialetti,
orecchini, collanine, su teli stesi a terra o su banchetti pieghevoli),
biciclette parcheggiate, ragazze in abiti dark, una con una cresta
azzurra; e si sente molto parlare inglese. Davanti alle torri la statua
secentesca di San Petronio, patrono di Bologna, assiste al
dinoccolato movimento e sembra approvarlo con la sua mano
benedicente.
Bologna universitaria

“Frati godenti fummo, e bolognesi;


io Catalano e questi Loderingo
nomati, e da tua terra insieme presi

come suole esser tolto un uom solingo,


per conservar sua pace; e fummo tali,
Ch’ancor si pare intorno dal Gardingo”.
………………………………

E ’l frate: “Io udi’ già dire a Bologna


del diavol vizi assai, tra ’ quali udi’
ch’elli è bugiardo e padre di menzogna”.
(Inf., XXIII 103-108, 142-144)

Nella sesta bolgia, quella degli ipocriti, che procedono chiusi entro
cappe di piombo, Dante incontra due bolognesi, Catalano dei
Malavolti e Loderingo degli Andalò, che si presentano come
appartenenti a un singolare ordine religioso, i frati della Milizia della
Vergine, approvato da papa Urbano IV nel 1261: esso aveva una
funzione di controllo e sostegno della religiosità pubblica, e ne
potevano far parte sia chierici che laici, che molto presto ne fecero
uno strumento di solidarietà reciproca, lo utilizzarono come una sorta
di lobby, attirandosi la denominazione di Frati Gaudenti. I due
bolognesi furono tra i fondatori dell’ordine: e Catalano aveva
comandato parte della fanteria bolognese nella battaglia della
Fossalta (26 maggio 1249), in cui fu catturato il re Enzo, figlio
naturale dell’imperatore Federico II. Essi ebbero poi dal papa
Clemente IV il mandato di restaurare il potere guelfo a Firenze nel
1266, dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento. Secondo Dante,
questo avrebbe dovuto essere un compito di pacificazione, che
invece si risolse con la cacciata dei Ghibellini, la confisca dei loro
beni e la distruzione delle loro case: ed è lo stesso Catalano a
indicare, come prova della parzialità e della colpa sua e del suo
collega, quanto nel 1300 ancora si vedeva a Firenze nei pressi della
torre del Gardingo, cioè le rovine delle case distrutte degli Uberti
(vedi p. 123).
Nello sviluppo del canto XXIII dell’Inferno Catalano arriva a colpire
con pungente ironia il disappunto di Virgilio, che aveva creduto a ciò
che gli aveva detto il diavolo Malacoda, sulla possibilità di
attraversare il ponte della sesta bolgia, che è invece crollato: gli fa
notare che non è certo necessario andare a studiare a Bologna per
rendersi conto di cosa banalissima e universalmente nota, come la
falsità del demonio!
Più antica università d’Europa, per la cui fondazione è stata
indicata la data convenzionale del 1088, Bologna ha mantenuto nei
secoli la sua grande fama di centro universitario, in primo luogo per il
diritto e la medicina: e particolarmente vivace era la vita universitaria
nel XIII secolo, quando non c’era una vera e propria sede centrale,
ma studi sparsi in diversi luoghi della città, con fortissima presenza
di studenti provenienti da diversi centri italiani ed europei. Con le
varie modificazioni che si sono date nel corso dei secoli, la presenza
dell’università e della popolazione studentesca si è insediata, in
modo più evidente che in molte altre sedi accademiche, nel cuore
della città, proprio a partire dalla piazza delle due torri: intorno alla
porticata via Zamboni (ma i portici sono una determinante costante
del centro storico bolognese), che da qui si diparte verso nordest,
hanno sede vari dipartimenti, biblioteche, laboratori, istituzioni
collegate. È una strada in cui brulica e si disperde nei vari edifici
tutta una popolazione universitaria, studenti agguerritissimi e
studenti perdigiorno, scienziati e burocrati accademici,
amministratori e contestatori.
Percorro il porticato un po’ su una sponda un po’ sull’altra, tra i
tanti edifici storici, di origini ed epoche diverse, ma tutti sorti tra il XVI
e il XVIII secolo, nel tempo in cui la dotta Bologna continuava a
svilupparsi e a produrre una sua originale cultura scientifica,
giuridica, erudita, all’ombra del dominio della Chiesa. Molto presto
sulla via Zamboni si apre la piazza Rossini, con la chiesa di San
Giacomo Maggiore, iniziata dagli Eremitani Agostiniani nel 1267 e
provvisoriamente conclusa nel 1315: e se le trasformazioni
successive hanno modificato radicalmente quasi tutto il suo
impianto, la facciata, con la sua spinta ascensionale come rattenuta
e ancorata a terra dalle nicchie sepolcrali e dal portale, resta molto
vicina all’aspetto che stava assumendo quando Dante si trovò in
questi paraggi. Sulla fiancata sinistra della chiesa, sulla via Zamboni,
come a proseguire e a variare la successione delle nicchie
sepolcrali, si sviluppa un portico quattrocentesco che conduce fino
alla successiva piazza Verdi, su cui, proprio alla fine del portico,
prospettano i resti delle mura del XIII secolo (qui al limite della
seconda cerchia). Dall’altra parte della piazza s’affaccia il
settecentesco Teatro Comunale, costruito sulla base di un progetto
di Antonio Galli Bibiena. La piazza brulica di studenti e studentesse
che sostano in piedi o su panche disposte qua e là, alcuni con un
bicchiere in mano, davanti a un bar molto affollato: conversazioni e
risate che riecheggiano nella sera, sotto il segno di un’allegra
indifferenza allo stesso spazio frequentato. Intorno, sulla stessa
piazza Verdi e a vari livelli di via Zamboni, striscioni con scritte,
graffiti e disegni, veri e propri murales, qualcuno anche ben fatto.
All’aspetto quietamente edonistico di quelli che ora sostano sulla
piazza fanno riscontro i segni antagonistici, gli scatti polemici delle
scritte, perlopiù legate alle iniziative del Cua, Comitato universitario
autonomo, che in questi giorni ha fatto molto parlare di sé per aver
interrotto una lezione del politologo Angelo Panebianco, loro
bersaglio già altre volte e ora attaccato per un articolo sul Corriere
della sera in cui si domandava se l’Italia sarebbe preparata per un
eventuale intervento militare in Libia. Il 22 febbraio scorso questi
contestatori sono entrati nell’aula dove Panebianco teneva la lezione
del corso su Teorie della pace e della guerra, con uno striscione con
la scritta “Fuori i baroni dall’università”, facendo risuonare una
registrazione con rumori di bombe e scoppi di guerra.
Tra le scritte minacciose e i sommari murales antagonistici e
antirazzistici (uno è sostenuto dalla grossa scritta BOLOGNA METICCIA)
giungo sui portici che fronteggiano Palazzo Poggi, grande dimora
cardinalizia cinquecentesca, che divenne sede dell’università in
occasione della sua ristrutturazione napoleonica (1803) e che ora
ospita il Rettorato e il Sistema museale universitario. Sul muro
accanto all’ingresso, spicca la scritta tracciata in rosso SABOTIAMO I
SAPERI DI GUERRA. Nel portico dirimpetto a Palazzo Poggi, c’è un
murale ben diverso dagli altri, tracciato con grande forza figurativa
entro una accurata struttura. Non è uno di quelli sorti di recente, ma
risale addirittura al 1988: è il Mural latino, commissionato all’artista
Luis Gutierrez dallo stesso Ateneo per la ricorrenza dei suoi 900
anni: è stato appena restaurato, con squillanti colori in un affollarsi di
figure che rappresentano la travagliata storia dell’America latina.
Poi, verso la fine, via Zamboni si apre sulla triangolare piazza
Vittorio Puntoni, che ha il nome del grecista (1859-1926) che come
rettore dell’università di Bologna (carica che tenne in due riprese) si
adoperò per l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a
Giosuè Carducci e che nei suoi ultimi anni fu senatore del regno. Via
Zamboni termina sull’ampio spazio della piazza di Porta San Donato.
Poco avanti è la porta, massiccia e isolata, che sotto un torracchione
si estende in un corpo in muratura, attraverso cui si passa dal
prospetto verso l’interno a quello verso l’esterno della città: uno dei
residui della cerchia muraria (la terza cerchia) che fu impiantata tra il
XIII e il XIV secolo, in seguito alla grande espansione della città
rispetto ai limiti delle cerchie più antiche, e che fu demolita all’inizio
del Novecento.
Bolognesità culturale

“Frate”, diss’elli, “più ridon le carte


che pennelleggia Franco Bolognese;
l’onore è tutto or suo, e mio in parte…”
(Purg., XI 82-84)

Quando in Bologna un Fabbro si ralligna?


(Purg., XIV 100)

A parte i due Frati Gaudenti e il ruffiano Venedico Caccianemico (per


cui si veda più avanti), Dante trova nell’oltretomba altri due
bolognesi: il giurista e insegnante nello studio bolognese, figlio del
più celebre giurista glossatore Accursio, Francesco d’Accursio
(1225-1293), citato da Brunetto Latini tra i suoi compagni di pena; e
il poeta Guido Guinizelli, incontrato e ascoltato nella cornice dei
lussuriosi, in cui il pellegrino riconosce “il padre / mio e de li altri miei
miglior che mai / rime d’amor usar dolci e leggiadre” (Purgatorio,
XXVI 97-99), e che del resto aveva citato più volte nel De vulgari
eloquentia (dove aveva avuto modo di citare anche altri poeti
bolognesi). Nel girone dei superbi Oderisi da Gubbio, di fronte
all’ammirazione con cui gli si rivolge Dante, mostra la natura effimera
della propria gloria ricordando che ormai sono considerate di
maggior prestigio le opere di un miniatore che egli designa come
Franco Bolognese, evidentemente molto attivo intorno al 1300, ma
sfuggito finora a ogni tentativo di identificazione. Proseguendo la sua
riflessione sulla caducità della gloria artistica, Oderisi arriva anche a
chiamare in causa Guinizelli, come il Guido la cui fama viene
sopravanzata da un altro Guido, cioè Cavalcanti (che probabilmente
sarà superato da un altro già nato: naturalmente da identificare con
lo stesso Dante, XI 97-99):

Così ha tolto l’uno a l’altro Guido


la gloria de la lingua; e forse è nato
chi l’uno e l’altro caccerà del nido.

Un bolognese delle precedenti generazioni viene poi ricordato da


Guido del Duca nell’amara considerazione del XIV del Purgatorio
sulla decadenza delle famiglie di quella parte d’Italia “tra ’l Po e ’l
monte e la marina e ’l Reno”: egli si domanda quando mai a Bologna
potrà rinascere uno come Fabbro de’ Lambertazzi, capo in città della
fazione ghibellina, morto nel 1259.
Pensando ai tanti personaggi importanti della storia di Bologna,
alle grandi tradizioni intellettuali, scientifiche, e artistiche che in essa
si sono sviluppate anche nel lungo periodo della sua integrazione
nello Stato della Chiesa, in cui, pur sotto il vigile controllo delle
istituzioni religiose, ha resistito una vivace cultura laica, mi domando
se è possibile trovare una formula per riconoscere la specificità
dell’essere culturale bolognese. Chissà se si può capire cosa lega
quella storia passata con l’humus di quella che è stata la Bologna
comunista e con i contraddittori sviluppi culturali del secondo
Novecento: quando intorno alla rivista e alla casa editrice Il Mulino si
è sviluppata una cultura problematica, rivolta a interventi concreti sul
presente, capace di integrare prospettiva umanistica e scientifica,
laicità e tradizione cattolica, con particolare sollecitudine “civile”;
mentre su un fronte diverso è sembrata imporsi una bolognesità
avanguardistica, antagonistica, desiderante. Chissà se in tutto ciò ha
agito sotterraneamente anche quel dispiegato edonismo che si
espande nella cucina tradizionale bolognese, col trionfo di tortelli,
bolliti, mortadelle, o in certa forse ingannevole e sensuale
disponibilità tratteggiata da un’esclamazione del Boccaccio: “O
singular dolcezza del sangue bolognese!” (Decameron, VII VII 21).
Per ciò che riguarda la letteratura di tempi relativamente più
prossimi, è certo difficile ritrovare una linea di continuità tra la voce
dei due maggiori poeti professori italiani, che hanno avuto cattedra
proprio a Bologna, Carducci e Pascoli, il corposo realismo di un
narratore bolognese un tempo molto letto e ora quasi dimenticato
come Riccardo Bacchelli (1891-1985), le suggestioni alternative di
vario genere che si sono affermate intorno a Bologna sull’onda del
Sessantotto e dei movimenti successivi, dalla prima narrativa comica
di Gianni Celati, al disgregato giovanilismo a cui ha dato voce il
giovane Enrico Palandri in Boccalone (1979), a più recenti
ibridazioni, svolgimenti rizomatici, miscele dark e queer.
Ma per la mia esperienza personale l’immagine della cultura
bolognese, della sua complessità e della sua apertura, si affida
soprattutto al ricordo della voce e dell’opera instancabile di Ezio
Raimondi, il professore di letteratura italiana al cui nome è ora
dedicata la Biblioteca del Dipartimento di Filologia classica e
italianistica, che si apre su via Zamboni 32. Raimondi (1924-2014) è
stato un eccezionale “uomo dei libri”, ha ininterrottamente ascoltato
le voci degli autori più diversi e dei libri delle più varie discipline
(anche con una formidabile curiosità per le scienze della natura), in
una disposizione a estrarne possibilità di dialogo, in una dinamica
etica ed esistenziale: nei suoi grandi studi ha interrogato con
passionata inquietudine il contraddittorio costruirsi di un’umanità
possibile, di un’universalità radicata nella concretezza. Studioso
totale in quanto storico, critico, filologo della letteratura, sempre
immerso nella biblioteca come totalità vitale, pluralità aperta,
animata dal respiro delle voci che parlano nei libri e dagli stessi
“margini d’ombra e di silenzio dell’enunciazione testuale” (Il senso
della letteratura, il Mulino 2008, p. 68), egli ha sempre prestato
grande attenzione al rapporto dei libri e delle vite con i luoghi, al
radicarsi della lettura e della scrittura in luoghi specifici. Ed è
evidente che il tono della sua voce e il suo stesso orizzonte
intellettuale hanno trovato la loro qualità, direi la loro stessa grana,
nella stessa consistenza fisica di Bologna, nel respiro di queste
strade e di questi muri.
Bologna: tra Sàvena e Reno

I’ fui colui che la Ghisolabella


condussi a far la voglia del marchese,
come che suoni la sconcia novella.

E non pur io qui piango bolognese;


anzi n’è questo loco tanto pieno,
che tante lingue non son ora apprese

a dicer ’sipa ’ tra Sàvena e Reno;


e se di ciò vuoi fede o testimonio,
rècati a mente il nostro avaro seno.
(Inf., XVIII 55-63)

Nella prima bolgia Dante riconosce tra i ruffiani un bolognese che gli
doveva essere ben noto, Venedico Caccianemico, notabile guelfo
nato intorno a 1228, che egli credeva già morto nel 1300, ma di cui
si sa che morì nel 1303. Costui fu in stretto rapporto con gli Estensi:
ma non si hanno altre notizie sull’azione che egli stesso confessa a
Dante, cioè di aver spinto la sorella Ghisolabella a concedersi al
marchese Obizzo II. D’altra parte, il dannato, quasi a estendere la
taccia di ruffianesimo all’intera città di Bologna, viene a dire che sulla
terra non ci sono tante persone che parlino bolognese come ce ne
sono lì nella bolgia: e indica come prova e giustificazione di ciò
l’avaro seno degli stessi bolognesi, cioè il loro animo avido di
denaro.
L’insieme dei bolognesi vengono qui indicati come le tante lingue,
tutti i parlanti che sono ammaestrati a dire sipa, forma della particella
affermativa del loro dialetto (che Dante suole identificare attraverso
la particella affermativa, come fa a proposito delle lingue di sì, d’oc,
d’oïl), tra Sàvena e Reno, i corsi d’acqua che scorrono
immediatamente a est e a ovest di Bologna. Nel De vulgari
eloquentia, I XV 2-6 il bolognese veniva indicato come dotato di
pronuncia abbastanza dolce rispetto ai dialetti circostanti, dolcezza
derivata dalla mescolanza con la lentezza e la mollezza (lenitatem
atque mollitiem) dell’imolese e con il chioccio stridore (garrulitatem)
del ferrarese e del modenese: sarebbe proprio questa commistione
di opposti a temperarsi in una lodevole soavità (ad laudabilem
suavitatem); rispetto a questi rilievi si precisava però che il volgare
bolognese non poteva essere preso come modello assoluto, come
mostra il fatto che gli illustri poeti bolognesi (Guido Guinizelli, Guido
Ghisilieri, Fabruzzo e Onesto, i primi tre citati anche in II XII 6), per
avvicinarsi a un volgare aulico e illustre, si sono spesso allontanati
dalla lingua che si parla nel centro di Bologna.
Venedico ha fatto riferimento alla sua città, indicando il suo
collocarsi tra Sàvena e Reno, con espressione che certo era
corrente, tanto che la usa anche Giovanni del Virgilio all’inizio
dell’ecloga in cui invita Dante a Bologna (“Forte sub inriguos colles,
ubi Sarpine Rheno / obvia fit”, “sotto gli irrigui colli dove la Sàvena va
incontro al Reno”, Ecloga, III 1-2, termini ripresi poi nella risposta di
Dante, Ecloga IV 41). Nella mattinata del 5 marzo decido allora di
attraversare Bologna, sul percorso dell’antica Via Emilia, con una
camminata da un fiume all’altro. Si tratta in fondo solo di una decina
di chilometri, completamente in pianura. Dall’albergo nel centro,
vicino alle due torri, ripercorrendo ancora via Zamboni, raggiungo
allora, fuori della Porta San Donato, il viale disposto sul tracciato
della cerchia muraria abbattuta, dove passa un autobus, il 19, diretto
a San Lazzaro di Sàvena, il borgo che si trova subito oltre Bologna,
sul versante est della Sàvena.
Eccomi dopo poco più di mezz’ora sul ponte del fiume che
procede verso nord su un letto piuttosto modesto: prima del ponte
esso scorre tra un fitto groviglio di cespugli completamente privi di
fogliame e poi si allarga sotto il ponte, sboccando da esso su una
sorta di cascatella artificiale, per restringersi ulteriormente, con
aspetto più di torrente che di fiume, dirigendosi verso un altro fiume,
l’Idice, a sua volta tributario del Reno. In realtà tutta questa parte del
suo corso è frutto di una deviazione creata nel XVIII secolo, per
proteggere Bologna dalle inondazioni, dato che prima esso scorreva
direttamente a fianco della città, nella zona di Porta San Vitale e di
Porta San Donato. Qui, accanto alla riva sinistra, quella dalla parte di
Bologna, c’è un parco attrezzato oltre il quale si scorgono bene a
sud le propaggini dell’Appennino. Sempre su questa riva, dal lato
opposto della strada, cioè a nord, si scorgono le bianche croci del
Cimitero militare polacco, il cui ingresso è subito sulla strada: esso
accoglie i caduti del 2° Corpo d’armata polacco, soprattutto coloro
che hanno combattuto nell’Appennino tosco-emiliano nell’ultima fase
della guerra, prima della liberazione di Bologna (in cui quello polacco
fu il primo reparto alleato a entrare, il 21 aprile 1945). Un piccolo
sacello all’interno del cimitero ricorda le varie fasi del contributo
polacco alla liberazione d’Italia, collegando questo agli altri cimiteri
militari polacchi (Montecassino, Loreto, Casamassima). Varie targhe
si riferiscono a situazioni ed eventi diversi: ce n’è una che riporta le
parole del papa Giovanni Paolo II, qui in visita il 18 aprile 1982; su
altri orizzonti si affaccia una lapide bilingue che dice in italiano: AI
MILITARI POLACCHI SCOMPARSI / NELLE PRIGIONI SOVIETICHE, / NEI GULAG E IN
ESILIO / IN UNA TERRA DISUMANA / QUESTA MEMORIA È DEDICATA / DAI
COMPAGNI D’ARME.
Mentre commosso mi muovo tra le croci, leggendo quei nomi così
lontani, noto che presso l’ingresso del cimitero, entro una sorta di
piccolo vano, è seduta una donna di grossa corporatura, vestita di
nero, con accanto una valigia distesa a terra e una coperta
appoggiata su un sedile di pietra. Quando mi appresto a uscire, mi
viene incontro e comincia a parlarmi in un italiano molto confuso: mi
dice che vive qui dentro perché ha perduto il lavoro e l’alloggio.
Sembra slava, forse ucraina, ma non sopporta i giardinieri che
hanno cura del parco e vorrebbero che se ne andasse: forse sono
polacchi o addirittura russi, del resto non sopporta in genere né russi
né polacchi. Ha lavorato per 25 anni per una società di pulizia e ha
avuto solo 2000 euro di liquidazione: vorrebbe sapere da me come
fare per avere una maggiore liquidazione. Quando le chiedo se si è
rivolta al sindacato dice che è in causa con il datore di lavoro; mi
parla di una sua amica di cui non capisco il nome. Mi dice che non si
sta male a vivere tra le croci, che qua dentro può anche cucinare,
ma ripete che viene infastidita dai giardinieri russi… Mi saluta senza
chiedermi nulla, quasi nascondendosi tra la bianca pietra del vano in
cui è alloggiata, quasi custode di questo lembo di un est europeo
che non coincide con il suo, ignara della guerra passata e forse
perfino delle ragioni per cui lì ci sono tutti quei morti di un paese che
lei considera addirittura avverso, a cui guarda con ostilità.
Vicinissimo, quasi accanto, su questo stesso lato della Via Emilia,
c’è un altro più piccolo cimitero militare, meno appariscente dalla
strada: è il cimitero dei caduti del Commonwealth britannico, soldati
di vari continenti al comando degli inglesi, dove una scritta sulla
soglia avvisa: IL SUOLO DI QUESTO CIMITERO È / STATO DONATO DAL POPOLO
ITA / LIANO PER L’ETERNO RIPOSO DEI / MARINAI SOLDATI E AVIATORI ALLA / CUI
MEMORIA È QUI RESO ONORE.
Dopo queste soste comincia davvero la mia camminata, nella
ripetitiva varietà del percorso suburbano, nella mattinata del sabato,
in cui le attività, soprattutto commerciali, sembrano decollare più
lentamente degli altri giorni e poi diventare man mano più
effervescenti, quasi frenetiche. Prima c’è il percorso suburbano, sulla
Via Emilia di levante. Poco dopo i due cimiteri una strada tra il verde,
come dice uno striscione sopra un cancello aperto, conduce a un
Museo memoriale della libertà; poco oltre, un cartello indica la
direzione per andare a MODELBO MODELLISMO 05 06 MARZO, un altro
invece indica la direzione per una MOSTRA SCAMBIO DI MILITARIA 9-10
APRILE. Segue la lunga serie dei negozi, molti chiusi per il sabato, ma
molti già in gran movimento: le insegne, le vetrine, la molteplicità
degli esercizi e dei loro addobbi, nomi, cognomi, sigle, cartelloni
pubblicitari, edicole e garitte, incroci e semafori, una curiosa edicola
a capanna aperta su cinque arcate con le vetrine di un grande
fioraio, centri del mobile e centri della telefonia mobile, il cavalcavia
della ferrovia, aiuole alberate. Il cielo che fino a poco fa mostrava
grossi nuvoloni comincia in parte ad aprirsi. Poco dopo il cavalcavia
ferroviario la Via Emilia assume caratteri sempre meno periferici,
prendendo il nome di via Mazzini. Ben visibile, in fondo alla strada,
quasi a interromperne la continuità, appare la torre degli Asinelli. A
un certo punto su via Mazzini si aprono dei portici pieni di negozi di
alimentari. Ora percorro questi portici, sul lato sinistro della strada. A
un certo punto scorgo un uomo dal volto che mi è noto, che avanza
in direzione contraria guardando verso terra, a guardia delle buste
della spesa che regge con le due mani; mi passa accanto senza
vedermi e io stesso non riesco a guardarlo bene in volto, ma capisco
poi che si trattava proprio del professor Panebianco, chiamato in
causa dal percorso di ieri sera. Mi dispiace di averlo
inavvertitamente sfiorato senza scambiarci parola.
La via Mazzini conduce sulla piazza su cui dà la Porta Maggiore,
isolata al suo centro, con i due semplici archi ogivali che immettono
sulla Strada Maggiore, quasi completamente porticata da tutti e due i
lati: la porta costituiva una sorta di ingresso ufficiale in Bologna, dal
lato sudest della Via Emilia, che all’interno assumeva appunto il
nome Strata Maior, contornata di importanti palazzi residenziali.
Questa strada viene anche menzionata nel De vulgari eloquentia, I IX
4, nel quadro di una notazione sul fatto che differenze linguistiche ci
possono essere addirittura tra coloro che abitano in una stessa città,
“sub eadem civilitate morantes, ut Bononienses Burgi Sancti Felicis
et Bononienses Strate Maioris”: c’è insomma una discrepanza
linguistica tra i bolognesi di Borgo di San Felice e quelli di Strada
Maggiore, cioè tra quelli che abitano a ovest e quelli che abitano a
est del centro, sui versanti opposti del percorso che sto facendo e
che mi porterà poi proprio al Borgo di San Felice.
Nei paraggi di Porta Maggiore sarebbe da visitare la casa dove il
Carducci ha vissuto nei suoi ultimi anni, a partire dal 1890: si trova a
pochi passi più a sud, tra il viale Carducci e la via Dante. Ma
procedo sotto i portici di Strada Maggiore, toccando il neoclassico
Palazzo Hortolani, dov’è la sede della Scuola già Facoltà di Scienze
politiche, proprio con l’aula delle lezioni di Panebianco. Poi sulla
sinistra il portico della strada coincide con un lato del quadriportico
aperto davanti alla chiesa di Santa Maria dei Servi, dell’ordine di
origine fiorentina che si stabilì a Bologna già nell’anno della nascita
di Dante, anche se poi la chiesa fu costruita a metà Trecento, con
vari interventi successivi, tra cui la costruzione del quadriportico
dalle graziose colonnine, svoltasi in varie fasi in secoli diversi.
Poi sono di nuovo tra gli Asinelli e la Garisenda: e oltre la via
Rizzoli tocco finalmente il cuore centrale, civile e religioso di
Bologna, con gli edifici disposti intorno alla piazza Maggiore, aperta
all’inizio del Duecento. Dalla parte di via Rizzoli si accede alla piazza
Maggiore attraverso due piazze intermedie, separate da due palazzi,
il Palazzo del Podestà e il Palazzo di re Enzo, tra loro affiancati,
collegati dalle arcate del Voltone del Podestà. Il primo palazzo è
sorto alla fine del Quattrocento, quando Bologna era sotto la signoria
dei Bentivoglio, sul sito del più antico Palatium Comunis Bonomiae,
di cui rimane la torre dell’Arengo, sorta originariamente in legno nel
1212, poi in muratura dopo la metà del XIII secolo e modificata
ancora nel 1453, con la collocazione di una grande campana,
designata a Bologna come il Campanone. Il Palazzo detto di re
Enzo, costruito prima della metà del XIII secolo, per altre funzioni di
governo, viene chiamato così perché vi fu tenuto prigioniero dalla
battaglia della Fossalta (1249) alla morte (1272) il figlio naturale di
Federico II, re di Sardegna senza regno: le mura merlate e con
diversi ordini di finestre danno un’aria di gotica prigione dorata, ma
forse si tratta solo di un’illusione suscitata dall’immagine “cortese”
dello sfortunato re (a cui sono attribuiti anche non spregevoli
componimenti poetici).
Delle due piazze comunicanti, tra loro separate dal corpo dei due
palazzi, quella a est ha il nome di piazza di Re Enzo, mentre quella a
ovest è la piazza del Nettuno, creata quando nel secondo
Cinquecento vi fu sistemata la fontana manieristica del Nettuno,
opera del Giambologna. Su questa piazza, sul fronte opposto a
quello su cui dà il Palazzo di Enzo, è il Palazzo comunale, che si
estende anche su tutto il fronte ovest della piazza Maggiore, e che è
detto anche Palazzo d’Accursio, perché nella sua prima forma sorse
dopo il 1287, sul sito delle case della famiglia del giurista Accursio,
acquistate dal comune, forse proprio dal Francesco d’Accursio che
corre sul sabbione infuocato del terzo girone del settimo cerchio
infernale.
L’insieme di questi edifici, sulla piazza Maggiore, sembra come
sorvegliato e regolato dalla mole della cattedrale di San Petronio,
con la sua facciata incompiuta che prospetta sul suo lato
meridionale. Essa è sorta sul sito di precedenti edifici medievali, con
lavori prolungatisi nel corso dei secoli, a partire dalla posa della
prima pietra, che avvenne il 7 giugno 1390. Accanto alla chiesa, oltre
il suo fianco destro, prospetta infine il Palazzo dei Notai, costruito a
fine Trecento sul sito di edifici appartenenti alla corporazione dei
Notai già nella seconda metà del XIII secolo: notai che hanno svolto
ruoli importanti nella vita civile di Bologna e che hanno anche dei
singolari meriti danteschi, per il loro uso di trascrivere nei loro
Memoriali testi poetici a margine dei contratti, per impedire
manipolazioni e giunte successive. Già ho ricordato il notaio che ha
trascritto il sonetto dantesco sulla Garisenda: e proprio dalla
trascrizione di un notaio operante a Bologna, Pier degli Useppi da
San Gimignano, si ha la prima attestazione ufficialmente datata della
diffusione dell’Inferno (trascrive nel 1317 la terzina III, 94-96), mentre
al 1324 risale uno dei primissimi commenti alla cantica, opera del
notaio bolognese Graziolo de’ Bambaglioli.
Intorno a piazza Maggiore e agli edifici storici del centro di Bologna
c’è un vivace movimento, che dà l’impressione che essi siano vissuti
ancora come parte della quotidianità cittadina, percorribili e
praticabili senza la distanza incantata dei turisti, ma come pezzi della
propria vita, attraversabili e penetrabili come occasioni quotidiane,
forse perché non hanno quell’imponenza scenografica e
spettacolare di altri monumenti più celebri e preziosi o anche perché
sopravvive ancora una sensuale aderenza bolognese all’ambiente,
che quasi sa estrarre dalle pietre dei luoghi una sostanza corporea,
sa ricavarne un palpito d’esistenza (“O singular dolcezza del sangue
bolognese!”), che si comunica anche a chi bolognese non è, agli
studenti qui convenuti, agli stessi turisti che pure non mancano, ma
certo non hanno quell’invadenza che grava su altre troppo costipate
città.
Comunque, dopo una breve diversione su piazza Maggiore
proseguo il percorso su via Ugo Bassi, che ha il nome del barnabita
emiliano che nel 1849 combatté in difesa delle repubbliche di
Venezia e di Roma e che fuggendo da Roma con Garibaldi, fu
catturato dagli austriaci a Comacchio e fucilato a Bologna: dal suo
monumento guarda chi passa e con la destra tesa sembra additare
qualcosa, quasi invitare a un impegno che non siamo più capaci di
identificare.
Al termine di via Ugo Bassi si apre l’ampia piazza Malpighi, al
limite di quella che era la seconda cerchia delle mura bolognesi: su
di essa sono disposti i sepolcri cuspidati dei glossatori, risalenti al
XIII secolo, tra cui c’è anche quello di Accursio. Alle loro spalle si
affaccia la composita abside della chiesa di San Francesco, costruita
a metà Duecento: ed è singolare l’aspetto della facciata, che dà sulla
opposta piazza San Francesco, scandita in tre settori che si elevano
in altezza, con al centro due lunghe e strette finestre che paiono
quasi appoggiate a una finestra oblò. Ma supero rapidamente questa
breve diversione e, seguendo la mia direzione, imbocco la via San
Felice, lunga e stretta, ma completamente porticata, con un
susseguirsi di negozi, molti dei quali hanno ancora una certa aria
popolare. Eccomi insomma nel Borgo di San Felice distinto del De
vulgari eloquentia: qui a un certo punto si incrocia la via Riva di
Reno, dove nel XIII secolo e poi fino al XVIII passava un canale
ricavato dal Reno, che alimentava vari mulini. Più oltre, la via San
Felice si allarga, giungendo alla Porta San Felice, isolata col suo
torracchione in mezzo a una grande piazza.
Fuori della porta inizio il percorso sulla via Aurelio Saffi, attorniata
perlopiù da palazzoni moderni, talvolta porticati: qui la strada è molto
meno animata di quella che mi portava da San Lazzaro verso la
Porta Maggiore; meno frequenti sono i negozi e i bar. Ma non mi
sono di molto dilungato da Porta San Felice, quando all’interno di
uno dei portici sul lato destro trovo questa lapide: NELL’ANNO MCCCXV / I
MODENESI / DAL POZZO ORA COPERTO NELLA STRADA / RAPIRONO LA SECCHIA /
CHE ALESSANDRO TASSONI / CELEBRÒ CON IMMORTALE POEMA, inserita nel
650° annuale, evidentemente del rapimento della secchia, cioè nel
1975.
Più avanti si riducono i palazzi e un lato della strada si allarga; poi
quando la denominazione di via Aurelio Saffi viene sostituita da
quella di Via Emilia Ponente, le costruzioni sono più rade; si incontra
l’ampio spazio dell’Ospedale Maggiore e gli edifici si alternano a
zone di verde, a parcheggi, a centri commerciali. A destra si trova lo
spazio verde dei Prati di Caprara, un tempo pista di corse ippiche e
poi campo d’aviazione. Poi si è nel quartiere di Santa Viola, tra
vecchie villette e nuovi palazzi e centri commerciali: su una bassa
casetta, accanto alla porta un po’ malridotta, una lapide avvisa che
fu dimora dal 1975 al 1984 dell’“artista Andrea Pazienza”, il
disegnatore e fumettista marchigiano (1956-1988) che, con grande
verve, disposizione ludica e maestria grafica, nella sua breve vita ha
incarnato originalmente lo spirito della Bologna alternativa degli anni
settanta.
Ma si avvicina ormai il Reno; ecco il ponte ornato di figurazioni
mitologiche, sirene un po’ malandate che vengono incontro a chi vi
accede, piazzate sui due lati, e si ritrovano all’uscita. Sono quattro
statue dello scultore bolognese Carlo Monari (1831-1918), collocate
qui nel 1880, quando fu ultimato il nuovo Pontelungo, poggiante su
quindici arcate di rossi mattoni: si affacciano verso l’esterno del
ponte esibendo i ventri prominenti, mentre i viluppi delle code si
avvolgono verso l’interno. Non tentatrici sirene, ma il diavolo in
persona appare nel prologo del romanzo di Riccardo Bacchelli, Il
diavolo a Pontelungo (1927): si fa incontro all’arciprete di Borgo
Panigale alla vigilia di san Giovanni in un anno imprecisato di primo
Ottocento, minacciando di rovinare il raccolto, pericolo sventato dalle
campane fatte poi suonare dall’arciprete. Poi nel corso del romanzo
è l’anarchico Michail Bakunin che passa sul ponte in una vigilia di
san Giovanni del 1874, ascoltando il suono delle campane, che ogni
anno si ripete in quel giorno per mettere in fuga la grandine; egli si
dirige a Bologna con un proposito rivoluzionario, destinato anch’esso
ad andare in fumo, come le minacce del diavolo (II, III):

Quando furono a metà del ponte, Bakùnin si fermò a guardar


la città affocata e i colli.
– È venuto davvero, – disse appoggiandosi alla spalletta
bollente, – il diavolo al Pontelungo! E questa volta di qui
Satana spiccherà il volo di liberazione per tutto il mondo.

La narrazione del conservatore Bacchelli allontana a suo modo, con


un po’ di malevola ironia, i sogni rivoluzionari del diavolo anarchico,
poi in realtà raccolti e disciplinati, trasformati in operosa saggezza
amministrativa dalla Bologna comunista, che ha dato il meglio di sé
con i grandi sindaci del dopoguerra.
Oltre il ponte si estende un ampio parco lungo la riva sinistra del
fiume: lo percorro, nella zona a monte, tra prati fitti di margherite
marzoline, tra varie persone che portano a spasso i loro cani; c’è
anche un mendicante, come tanti che ne ho incontrati attraversando
il centro della città. Accanto al sentiero che percorre il prato della
riva, le acque del Reno scorrono al di là del groviglio di secchi
cespugli ancora quasi del tutto senza fogliame. Dall’altra parte del
fiume si scorgono i vari palazzoni oltre la riva destra e in alto, sul
colle della Guardia, leggermente più a destra, il santuario della
Madonna di San Luca, la cui vista è un po’ ostacolata dai tralicci
della linea elettrica che si levano presso la riva: santuario nato nel
XII secolo da una leggendaria immagine di Maria, nel Medioevo
considerata opera di san Luca, l’evangelista pittore. La posizione
rilevata della chiesa sembra come voler attirare verso l’alto
l’effervescenza che anima la piana tra i due fiumi, saggiare le
possibilità della salita (del resto la Madonna di San Luca è consueto
banco di prova per ciclisti bolognesi). Del grande edificio barocco si
riconosce da quaggiù l’ampio tiburio ellittico da cui si leva la più esile
cupola.
Compiuto il percorso, torno indietro sul bus numero 13, su cui man
mano salgono persone che convergono dalla periferia verso il
centro: bolognesi vecchi e giovani, e anche nuovi come un nero con
la testa rasata, un grosso naso prominente, un pizzetto puntuto, che
ha in braccio un bimbo che avrà poco più di un anno, con uno
zucchetto a strisce bianche e azzurre e un giubbetto blu, che
avidamente succhia qualcosa da un bastoncino bianco.
Sardegna
L’isola d’i Sardi

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna,


fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,
e l’altre che quel mare intorno bagna.
(Inf., XXVI 103-105)

Nel percorso di Ulisse nel Mediterraneo occidentale, verso le


colonne d’Ercole, l’isola d’i Sardi viene ricordata insieme agli estremi
continentali della Spagna e del Marocco, unica nominata tra le isole
di quel mare: e indicata col nome del popolo che le ha dato nome,
quel popolo che era lì prima della storia, nella civiltà che noi
chiamiamo nuragica. Isola toccata nei secoli da diversi dominatori,
ma rimasta quasi chiusa e isolata nella sua arcaica petrosità, nel suo
scontroso fondo originario, anche se ai tempi di Dante veniva
contesa tra i più vicini dominatori del mare, pisani e genovesi. Nel
De vulgari eloquentia, I X 5-6 la Sardegna viene ricordata insieme
alla Sicilia, come associata al lato destro d’Italia (secondo la
prospettiva con cui Dante guarda alla penisola). Poi nel capitolo
successivo si dice che i Sardi non hanno un proprio volgare, ma
imitano il latino come le scimmie imitano gli uomini (“soli sine proprio
vulgari esse videntur, gramaticam tanquam simie homines
imitantes”) (I XI 7), cioè fanno un uso diretto e distorto delle forme
latine: e allega come esempio domus nova e dominus meus, che in
realtà non corrispondono perfettamente alla lingua sarda, ma
evocano comunque la forte presenza in essa di desinenze
latineggianti.
Il particolare carattere della lingua sarda (lingua e non dialetto, a
parte tutti i dubbi che si possano avere sulla distinzione tra lingua e
dialetto) è un altro dei segni della particolarità della regione, che è
tale anche a livello geologico, anche per la fauna e per la flora, oltre
che per la distribuzione dei suoi insediamenti. Nei secoli la Sardegna
è come sfuggita all’Italia, pur essendo stata sottoposta a dominatori
italiani e stranieri (stranieri comunque perlopiù installati anche sulla
penisola); ed è rimasta fuori dal circuito del viaggio in Italia. Solo nel
Novecento si sono affacciati su di lei particolari viaggiatori, mentre
romanzi e novelle di Grazia Deledda diffondevano l’immagine del
suo mondo arcaico e primigenio, dei suoi conflitti e delle sue
passioni. Forse per questo, nell’atto di partire per una breve vacanza
aperta verso suggestioni dantesche, mi vengono in mente alcuni libri
di viaggio: echeggiano i titoli di Sea and Sardinia di David Herbert
Lawrence (sul viaggio di nove giorni del gennaio 1921), di Sardegna
come un’infanzia di Elio Vittorini (1936, ma il suggestivo titolo
apparve più tardi, nella riedizione del 1952), di Tutto il miele è finito
di Carlo Levi (1964, viaggio del dicembre 1962). Ma poi ce ne sono
di più recenti, presi per così dire dall’interno, come Viaggio in
Sardegna di Michela Murgia (2008); e nel 2015 ne verrà fuori uno di
scintillante entusiasmo, di Massimo Onofri, Passaggio in Sardegna.
Certo si tratta di libri piuttosto estranei al mio obiettivo dantesco, in
fondo abbastanza limitato, data la particolare natura dei richiami di
Dante all’isola, che certamente egli non aveva avuto modo di
visitare, anche se ne aveva sentito parlare per varie vicende pisane
e per bocca del suo amico Nino Visconti, il “giudice Nin gentil”,
incontrato poi nella valletta dei principi negligenti dell’Antipurgatorio.
Non porto quei libri con me, ma la loro eco mi segue ancora quando
con Laura mi imbarco a Civitavecchia; e mi segue durante il
passaggio notturno, accompagnata al ricordo di tanti viaggi in
Sardegna, per nave e per aereo, dell’ormai frequente rapporto con
un’isola che non è più remota, così insistentemente e facilmente
raggiungibile, anche per effetto di un turismo che sempre più la
allontana dal suo arcaico e indecifrabile silenzio.
La mattina del 18 luglio 2014, dopo la tranquilla navigazione
notturna tra mare e cielo, appare sulla destra della nave l’isola dei
Sardi, sulla sua costa sudovest, col capo Carbonara e le isolette
circostanti, accanto a Villasimius. Si entra nel golfo di Cagliari,
seguendo da lontano la costa e puntando verso la città, dopo aver
superato la punta del capo Sant’Elia. All’ingresso in porto, la città
appare come disposta su due piani: in alto la città vecchia, in cui si
stagliano nettamente la cupola della Cattedrale e la Torre
dell’elefante (fatta impiantare ai primi del Trecento dai giudici pisani),
sembra come sostenuta e murata dai sottostanti palazzi moderni
della via Roma, sul lungomare. Chissà quale era l’effetto degli arrivi
sul mare nel Medioevo: cosa appariva ai dominatori pisani, come
apparve al conte Ugolino e allo zio Gherardo della Gheradesca,
quando nel 1257 assediarono Cagliari, che era stata presa dai
genovesi, e restaurarono il dominio pisano?
Ma ora non ci addentriamo nella piacevole mattina di Cagliari,
nell’ampio e accogliente movimento dell’ampio largo Carlo Felice,
che si spinge verso l’interno e la città vecchia: sbarchiamo
direttamente con l’auto e subito ci dirigiamo verso il Sulcis, per
raggiungere Portovesme, da cui si traghetterà per l’isola di San
Pietro. Sfiorata da lontano Iglesias, la strada piega verso Carbonia,
attraversando il paesaggio minerario, in cui si affacciano ingressi,
aperture di gallerie, percorsi di miniere dismesse, edifici di supporto
o di lavorazione del minerale, ancora in piedi o parzialmente
diroccati, ciò che resta di un’attività che per più di un secolo ha
caratterizzato la zona, scavando nel cuore della terra. Ciò che si
vede, le colline traforate e succhiate, fa trasparire la traccia dei
camminamenti sotterranei, dell’oscuro labirinto in cui tante vite si
sono consumate, del lavoro e dell’energia che vi si è spesa,
moltiplicata e intrecciata natural burella, malebolge contemporanee
che oggi fanno parte del Parco Geominerario, Storico e Ambientale
della Sardegna, istituito nel 2001.
Lasciata la strada per Carbonia si procede in mezzo al verde
acceso della macchia mediterranea, per raggiungere Portovesme,
da cui si salpa rapidamente per l’isola che è dirimpetto. Al porto di
Carloforte ci aspetta Amedeo Quondam, che qui ha una casa
campestre che cura con grande passione; vi resteremo qualche
giorno, tra conversazioni, incontri, formidabili serate conviviali,
passeggiate nei luoghi più belli dell’isola, come la splendida
scogliera di Capo Sandalo e la vicina Cala Fico. Luce del mare che
si avvolge sulle scogliere, profumo del mirto, in quest’isola nell’isola,
con la sua cittadina e i suoi abitanti sardi che non sono sardi, ma di
origine genovese, con usi e linguaggio ancora genovesi: fondata nel
1736 da Carlo Emanuele III di Savoia, che la assegnò a liguri
riscattati o fuggiti dalla schiavitù ottomana, soprattutto dalla città
tunisina di Tabarka. Frequentazione per noi anche letteraria, a casa
del mio amico Amedeo, con cui ci affacciammo insieme alla
storiografia letteraria, frequentando i primi seminari romani di Walter
Binni, nel 1964. Qui ha casa anche il comparatista Mario
Domenichelli con la compagna Mariacarla Papini; poi arriva anche
Marco Santagata con la moglie Cristina Cabani. Si intersecano
strade dantesche, con Amedeo che, come tante volte, si fa paladino
di Petrarca contro Dante (argomentò il tutto con paradossali scatti
polemici in un libro del 2004 Petrarca, l’italiano dimenticato), e
Santagata che da petrarchista principe è passato a dantista
polivalente, che oscilla tra studi scientifici, divulgazione attualizzante
e diversioni narrative (nei prossimi mesi verrà fuori anche un suo
cosiddetto romanzo sugli amori del giovane Dante, Come donna
innamorata…). Ma mi diverte notare come il dantismo di Santagata
depisti un po’ l’antidantismo di Quondam, che con Santagata
condivide molte cose e in genere si trova con lui in perfetta sintonia.
Passano rapidamente queste giornate marine carlofortesi, tra
porceddu, tonno di Carloforte, farinata genovese, vermentini di alta
qualità. La querelle tra Dante e Petrarca è contornata dai discorsi
spesso stucchevoli sul canone (c’è cosa più insopportabile di tanto
scolastico discorrere sul canone e le categorie canoniche?) e dai
rilievi condivisi, con sfumature varie e anche tra loro opposte,
sull’evaporazione dei grandi modelli letterari e sui destini digitali. Ma
la mattina del 22 luglio salutiamo tutti e cominciamo la traversata
della Sardegna, tornando a Portovesme e procedendo verso il nord.
La prima sosta è a Iglesias, che chiama in causa il conte Ugolino
della Gherardesca: a lui, dopo la conquista pisana del Giudicato
(indicato in genere come regno) di Cagliari, era stata assegnata la
città (Villa Ecclesiae allora denominata) col territorio circostante,
corrispondente alla sesta parte del Giudicato. Qui il conte soggiornò
soprattutto nei primi anni del suo possesso, con particolare
attenzione per le miniere d’argento e con vari rapporti con gli altri
giudicati sardi. Quello di Gallura era in mano alla famiglia pisana dei
Visconti, imparentati con Ugolino, che successivamente si trovò in
primo piano nella politica pisana, tra vari rivolgimenti (in un periodo
in cui Pisa subì il grave colpo della sconfitta della Meloria), che lo
portarono alla carica di potestà e a una posizione di potere, da cui fu
scalzato dalle trame dell’arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, di cui
rode il capo nella ghiaccia infernale.
Nonostante la crisi, che qui si è fatta sentire in modo particolare
per la dismissione delle miniere, Iglesias si presenta con una sua
riservata dignità. Difficilissimo è parcheggiare nel cuore del centro
storico, in mezzo al dedalo delle strade pedonali, in cui l’auto resta
quasi prigioniera, costretta a un certo punto a districarsi con una
lunga retromarcia in salita. Riesco comunque a fermarmi molto
vicino alla linda piazzetta in cui si fronteggiano l’ottocentesco
Municipio e la cattedrale di Santa Chiara, costruita proprio per
volontà del conte Ugolino tra il 1284 e il 1288: forme pisane, ma in
una versione “povera”, di grande semplicità, come ritmata, a
mezz’altezza della facciata, da due ampie monofore cieche che
inquadrano una semplice rosa-lucernaio. A destra del portale è una
lapide, copia di un originale conservato nell’Archivio comunale, che
si riferisce proprio alla costruzione della chiesa e al momento della
maggiore fortuna di Ugolino, quando era podestà di Pisa, prima che
nel luglio 1288 cadesse sotto i colpi dell’arcivescovo e dei suoi
alleati: LO MAGNIDICO SIGNORE MESSER PIETRO CANINO PODESTA P(ER) LO
SIGNOR RE ET DOMINO CONTE UGOLINO DI DONERATICO SIGNORE DE LA SEXTA
PARTE DE LO REGNO DI KALLARI E ORA P(ER) LA DIO GRATIA PODESTA DI PISA
EXISESTENTE PIETRO DI BERNARDO OPERAIO.
Dalla piazza della cattedrale si scende rapidamente sul corso
Matteotti, che è la strada principale della città, parata a festa con una
copertura di ombrelli colorati sospesi a fili tesi tra le facciate dei
palazzetti. Tutti i passanti sembrano muoversi con riservata
tranquillità: c’è qualche vecchia signora con la capigliatura ordinata
con misura antica, ma non c’è traccia di costumi tradizionali. Del
resto le donne sarde, nell’aspetto e nell’abbigliamento, sono ormai
lontanissime dalla arcaica e lugubre severità che teneva campo
ancora qualche decennio fa; e ormai circolano anche delle giovani in
disinvolti ridottissimi calzoncini. Ma nello stesso tempo sembra che
tutte portino in sé qualcosa di riservato, come il lascito di un’antica
difesa dall’esporsi, dell’abitudine a sottrarsi a ogni espansione
spettacolare, a ogni esibizione di sé.
Lasciata Iglesias, nella strada che porta verso nord, fino a
Fluminimaggiore, si attraversano fitte distese di sugheri, che ci
accompagnano con la lunga successione di tronchi denudati in parte
o totalmente della loro scorza, con la loro singolare esibizione di
spoliazione e nudità di corpi vegetali. Si procede ancora tra colli ben
coltivati e tra brulli rilievi, per scendere poi in un’ampia piana, su
strade poco percorse, immerse in una accecante solarità, in cui si ha
a tratti l’impressione che lo spazio si distenda verso percorsi illimitati
e senza meta. Gùspini, San Gavino Monreale, Sanluri, Villamar,
Barumini, Gèsturi, Nurallao: i toponimi sardi si insinuano nella mente
nella loro evidenza fonica, con la loro sonorità antica, che sembra
evocare posture e figure inabituali.
La Barbagia

Tanto è a Dio più cara e più diletta


la vedovella mia, che molto amai,
quanto in bene operare è più soletta;

ché la Barbagia di Sardigna assai


ne le femmine sue più è pudica
che la Barbagia dov’io la lasciai.
(Purg., XXIII 91-96)

Ecco che si delinea a nordest il blocco dei monti del Gennargentu, a


cui man mano ci avviciniamo. È la Barbagia, o meglio le Barbagie,
centro della Sardegna, della più remota vita pastorale, di una
irriducibile chiusura, di ferree arcaiche abitudini entro una natura
ispida e selvaggia. Barbagia come emblema di barbarie (come del
resto dice il suo stesso nome), di costumi mai raggiunti dalla civiltà.
Forese Donati nel girone purgatoriale dei golosi, nel ricordare la
pietà della propria vedova, si scaglia contro l’impudicizia delle donne
fiorentine: e in una vera e propria invettiva le paragona a quelle della
barbarica Barbagia, affermando che sono di esse più pudiche e
chiamando Barbagia la stessa Firenze (vedi p. 104). In questa
qualificazione di impudicizia delle donne barbaricine, Dante non
faceva che raccogliere immaginazioni favolose sugli abitanti di quei
territori quasi inaccessibili, mediate soprattutto da una lettera di
Gregorio Magno, che nel VI secolo bollava quelle popolazioni come
pagane e immerse in forme di vita bestiale.
Saliamo ormai sotto il Gennargentu, tra boschi e improvvise
aperture su ampi panorami e su abissi: è ormai la Barbagia Belvì, di
cui raggiungiamo il cuore, fermandoci nel paese di Aritzo, molto
vicino al più piccolo centro di Belvì, da cui questa Barbagia ha preso
il nome. Sul panorama, che si apre ampio verso ovest, si disegna
non lontana la vista di una singolare escrescenza rocciosa, come un
tacco, che emerge da un clivo boscoso: è il singolare cocuzzolo
denominato Texile. Aritzo, in cui un tempo si preparava la neve
pressata, poi venduta dagli ambulanti, è disposto a vari livelli su di
un pendio, attraversato dalla strada ex 295. La facciata della chiesa
di San Michele presenta delle tracce di romanico pisano, frutto in
realtà di un restauro novecentesco; semplicissima invece la facciata
della chiesa campestre di Sant’Antonio da Padova, un po’ appartata,
ai piedi del paese. Girando per Aritzo si trovano case barbaricine in
pietra scistosa con balconate di legno; e mi colpisce il tozzo edificio
dell’antico carcere spagnolo, detto “prigione di Aritzo”, anche esso in
pietra scistosa sotto cui c’è un passaggio ad arco ogivale che porta a
una scalinata che riconduce al centro del paese: a passarci sotto si
ha quasi la sensazione di essere punti dalle acuminate schegge
della pietra. Alle case tradizionali fa da curioso contrappunto
architettonico un edificio del Novecento, il Castello Arangino,
residenza privata che mischia stili vari in eclettica composizione,
merlature, archi ogivali, un balcone barbaricino camuffato in chiave
rinascimentale…
Vicino alla strada centrale si apre un cortile, chiuso da un cancello,
che dà accesso alla Casa Devilla, che un cartello indica come casa
padronale, nel cui cortile interno fu assassinato nel 1838 il poeta
Bachisio Sulis. Non sapevo nulla di lui: è quasi figura leggendaria,
“poeta bandito”, in polemica con il clero e con i maggiorenti del
paese. Era nato da famiglia benestante di Aritzo nel 1795 e aveva
compiuto studi a Cagliari. La sua poesia in lingua sarda toccava le
corde più diverse, collocandosi nel cuore della vita popolare, mentre
con i suoi comportamenti egli infastidiva prepotenti e signorotti locali.
Accusato ingiustamente dell’assassinio di uno di questi signorotti, fu
costretto per dodici anni alla latitanza, che lo portò a diretto contatto
con i banditi; scagionato e tornato alla vita civile, fu ucciso certo per
vendetta, con l’intento di fermare la sua voce pungente e polemica.
E gran parte dei suoi manoscritti furono bruciati dalla sorella, istigata
dal clero.
In Aritzo si affaccia qua e là la memoria di questo poeta
assassinato: c’è il Vico del Poeta (S’Orruga ’e Bachis Sulis: le strade
hanno il nome sia in italiano che in sardo), ci sono murales folclorici
in uno dei quali egli è dipinto a cavallo, il berretto sardo e il fucile in
spalla, e sotto c’è un cartiglio con alcuni versi con cui si rivolge alle
fideles montagnas perché lo accolgano. Non manca nemmeno Su
tzilleri de su poeta, l’osteria del poeta. Poesia della Barbagia, poesia
del paesaggio e del mondo pastorale, della dura vita popolare e
della prepotenza dei signorotti, quella di Bachisio Sulis è anche
poesia d’amore: vi si affacciano immagini di donne certo
lontanissime dalla selvaggia impudicizia di quella immaginaria
Barbagia dantesca, immagini di silenzio, di riservatezza, di un
malinconico sognare, chissà se perfino con qualche suggestione
della poesia d’amore di Dante. Tra le poche notizie che raccolgo
sulla vita di questo poeta, c’è anche quella di un amore non
realizzato, di una donna a lungo amata senza mai davvero
raggiungerla. E penso alle donne di Grazia Deledda, alle loro
passioni inesaudite, a tutto ciò che esse subiscono dagli intrecci
familiari e dagli implacabili costumi sociali, ai loro silenzi e alle loro
sconfitte, alle loro ostinate fedeltà e alle loro impossibili
trasgressioni.
Qui per le strade si incontrano donne simili a tutte le altre donne
d’Italia. Entrando nella chiesa di San Michele, vedo poche vecchie
che recitano il Rosario con grande passione: è ciò che resta, attutito,
semplificato, della severa religiosità tradizionale. Le sorveglia una
bella statua lignea di san Cristoforo, col bambinello sulle spalle.
Statue di semplice devozione, poste lì in attesa della prossima
processione, tacciono nella sacrestia. Sulla strada centrale
passeggia un gruppo di giovani neri in tuta, con aria curiosamente
spavalda: sono certamente giocatori di qualche sport, qui per
qualche gara o più probabilmente per un loro ritiro.
Mentre Laura resta in albergo, scendo in auto sulla vicina Belvì;
più avanti trovo la stazione di Tonara-Dèsulo, sulla ferrovia montana
che più volte si interseca con la strada: è una ferrovia che da sud
sale verso la Barbagia di Belvì, con giri tortuosi tra i boschi e i pendii.
Viene da Mandas, a sud, innestandosi da un ramo che conduce a
Cagliari e finisce qui, poco più su, alla prossima stazione, quella di
Sorgono: ormai è usata soprattutto per il Trenino Verde, con
funzione turistica.
Da qui prendo la strada che sale verso Dèsulo, arrampicandosi su
un clivo boscoso: il paese sembra come maldestramente arroccato
su uno stretto burrone, guardando il fitto fronte boscoso che è sul
versante opposto. Dèsulo è articolato in tre rioni, che si susseguono
sull’asse della strada che sale: ma poco rimane della loro struttura
originaria. Un Museo Etnografico è insediato nella Casa Montanaru,
casa natale di un altro poeta in lingua sarda, Antioco Casula (1878-
1957). Questo, che come poeta assunse il nome di Montanaru, fu
per alcuni anni carabiniere: e poi, in età fascista, difese il valore e la
praticabilità della lingua sarda. La sua poesia ha avuto una certa
risonanza nel primo Novecento, anche con traduzioni fuori d’Italia.
Inserito nell’antologia del 1952 della Poesia dialettale del Novecento
di Pasolini e Dall’Arco, ha suscitato un certo interesse tra gli studiosi
della poesia dialettale. Qui trovo suoi versi sotto una grande stele
dedicata ai caduti, impiantata dal comune nel 2013 (più oltre c’è un
meno recente monumento ai caduti):

Addio Sardigna mia


ca parto a morrer in gherra
non penses o sarda terra
chi m’intret sa timoria.

Ma mi colpisce, sulla stele, la fittissima serie dei nomi dei caduti


nella prima guerra mondiale, quasi ottanta per un paese così piccolo
(tredici quelli della seconda guerra)! E poi il ripetersi più volte nel
primo gruppo di uno stesso cognome, quattro Casula, nove Floris,
cinque Frongia, e altri ancora moltiplicati, Garau, Gioi, Peddio,
Pintore, Zanda…
La mattina del 23 luglio lasciando Aritzo procediamo verso Tonara,
ben visibile anche da Aritzo, adagiata com’è su una sorta di passo
tra due monti, esposta su più piani verso sud. Il suo nome sembra
derivare dai tòneri, i torrioni calcarei presenti nella zona (come il
Texile ben visibile da Aritzo). Dai torrioni si passa al torrone, dato
che Tonara è la città del torrone sardo, prodotto con l’antico metodo
artigianale, con le nocciole degli ampi noccioleti circostanti. Tonara è
anche patria di un altro poeta sardo, Peppino Mereu, coetaneo e
amico di Montanaru, ma morto giovane nel 1901. Avvicinandoci a
questa città, troviamo una fonte, sistemata sotto una tettoia e con un
muro di fondo in parte dipinto di azzurro; c’è uno spiazzo davanti,
con un sedile, e una rozza statua di donna che tiene in grembo una
brocca, a cui è stata staccata la testa. È una delle tante fonti di
Tonara, tra cui spicca, dentro il paese, nella sua parte bassa, la ben
curata fonte di Galusè, cantata anche da Peppino Mereu. C’è una
sua lunga poesia, in stanze di canzone perfettamente regolari, che si
intitola appunto Galusè, e fa parlare la stessa fontana, che indica i
diversi tipi umani che sono venuti ad abbeverarsi da lei e invita i
passanti, e in particolare una ragazza a cui la poesia è dedicata, a
rinfrescarsi:

Eo so Galusé,
logu delissiosu de incantu,
fiem’inoghe su pe
o pasizzeri, cust’est logu santu:
deo confid’ in te,
zelt’has accurrer a mi dare vantu,
cun bellas cumpagnias,
a t’infriscare de sa abbas mias.
(Io sono Galusè, / luogo delizioso d’incanto, / ferma qui il tuo
piede / o passante, questo è un luogo santo: / io confido in te,
/ certo accorrerai a darmi vanto, / con belle compagnie, / a
rinfrescarti delle mie acque).

Superiamo Tonara e passiamo su un altro versante, lasciandoci alle


spalle questo tratto di Barbagia in cui dai tre paesi disposti sul fianco
dei monti, Aritzo, Dèsulo, Tonara, echeggiano le voci indistinte di tre
poeti di questa lingua arcaica e severa, poeti che prima ignoravo del
tutto, Mereu, Montanaru e il più misterioso Bachisio Sulis. Dopo aver
attraversato Tiana e Ovodda, salendo e scendendo tra boschi,
giungiamo sul lago artificiale di Gusana, che si addentra in volute
serpentose riempiendo il fondo di valli su tutti i punti cardinali. Dal
ponte che piega verso nord vediamo Gavoi, che si distende sul
crinale boscoso, levando verso il cielo il suo semplice campanile.
Siamo ormai nella Barbagia Ollolai e saliamo quindi a Gavoi,
cittadina che ha acquisito una sua risonanza per il suo festival
letterario, L’isola delle storie, di cui troviamo tracce e manifesti già
all’arrivo, dato che si è svolto pochi giorni fa, tra il 3 e il 6 luglio. Ci
aggiriamo tra le case barbaricine in granito: c’è una certa
animazione davanti alla facciata della parrocchiale di San Gavino,
dove a un bel portale di tipo rinascimentale e a un ampio rosone
tardogotico fa riscontro in alto a sinistra uno strano orologio
appiccicato là. Accanto c’è la sala di un centro estivo per bambini,
alcuni dei quali sono usciti fuori e giocano a pallone davanti alla
chiesa. Incontriamo delle mamme che hanno appena portato lì i loro
figli e prendiamo un caffè in un piccolo bar con una sua simpatica
dimessa eleganza. Poi salendo più su oltre la parrocchiale si
attraversa uno spazio davanti alla chiesetta secentesca del Carmelo,
con piccola suggestiva facciata, con un frontone dolcemente ricurvo
su cui si apre un campaniletto a vela. Vicino a questa c’è l’Università
della terza età, Universidade Libera de sos Anzianos. Poi ancora più
su, disposta su un’ampia terrazza, aperta sui tetti, sui boschi e sul
lago di Gusana, la bianca chiesetta di Sant’Antioco, con un tetto a un
solo spiovente, sulla sommità del quale sembra fare contrasto, in
scuri mattoni, un campanile a vela a due finestrelle. C’è un senso di
misura e di equilibrio, come se questa cittadina abbia conservato in
sé l’eco dell’antica vita del mondo pastorale e ne abbia come
depurato le implacabili durezze, l’abbia salvata nel suo bene
allontanando il suo dolore e la sua violenza. Tornando indietro e
visitando l’interno severamente gotico della parrocchiale troviamo
però ancora una traccia di antichi mali: c’è un foglio per raccolta di
firme di solidarietà a un cittadino che ha subito intimidazioni. Non
riusciamo a sapere bene di che si tratta e qual è l’oggetto delle
intimidazioni. Ma lasciando il paese troviamo ai suoi margini alcuni
striscioni con varie scritte di tenore più o meno simile: ce n’è una che
dice IL SILENZIO È MAFIA; ALZA LA VOCE.
Si risale un po’, sfiorando Ollolai, il centro che dà nome a questa
zona della Barbagia, ma poi, superato il passo della Ianna Caguseli,
cominciamo a scendere, mentre il paesaggio si apre e si espande
col giallo di ben mietuti campi di grano. Appaiono in vista gli impianti
chimici di Ottana, ormai in gran parte dismessi, retaggio di una
politica industriale che ancora all’inizio degli anni settanta appariva
totalmente indifferente al contesto ambientale: cattedrali nel deserto,
che hanno avuto momenti di illusoria vitalità, di sviluppo cieco
rapidamente arenatosi, anche con conseguenze sulla salute di
abitanti e operai, con malattie determinate dai processi di produzione
di fibre sintetiche e materie plastiche, mentre adesso ci sono voci e
minacce di utilizzazione di questi luoghi per deposito di scorie
nocive. Con il rischio di accogliere qui mali moderni e insidiosi, ma
tremendi come quelli di cui Dante parla per gli spedali della
Sardegna, che mette insieme a quelli di Valdichiana e di Maremma,
come termini di paragone per i dannati dell’ultima bolgia:

Qual dolor fora, se de li spedali,


di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali

fossero in una fossa tutti ’nsembre…


(Inf., XXIX 46-49)

Ottana si trova in basso, in una sorta di bacino, particolarmente


caldo d’estate (ci sono le temperature più alte della Sardegna): ma
oggi non è molto caldo e non si sentono miasmi di nessun genere.
C’è un vento leggero e piacevole, che quasi ci accarezza, quando,
prima del paese, sostiamo presso la chiesa romanica di San Nicola,
già cattedrale dell’antica diocesi di Ottana, isolata su di un poggio,
che mostra su tutti i fronti il sottile lavorio che armonicamente intaglia
i suoi conci di trachite nera e violacea. Un misterioso ricettacolo
oscuro, una sorta di ombra emanante dalla pietra nella solare
evidenza della piana circostante: saliamo sul poggio, giriamo intorno
all’abside, seguiamo sulla facciata la replicata misura di arcate,
lesene, losanghe, la bifora centrale, l’alternarsi delle diverse
sfumature di colore dei conci. E nel semplice interno, dalle spoglie
pareti, un bellissimo polittico trecentesco, in cui storie di san
Francesco e di san Nicola brillano in un oro che qui è in singolare
contrasto con la scura ombrosità dell’edificio.
La Gallura

Ed ei rispuose: “Fu frate Gomita,

quel di Gallura, vasel d’ogne froda,


ch’ebbe i nemici di suo donno in mano,
e fé sì lor, che ciascun se ne loda.”
(Inf., XXII 81-84)

Siamo ormai fuori della Barbagia e ci avviamo verso la Gallura, il


nordest della Sardegna, la zona più vicina al continente, che nei
tempi danteschi costituiva il Giudicato più ambito da pisani e
genovesi. Dalla Gallura viene frate Gomita, punito nella bolgia dei
barattieri insieme al logudorese Michele Zanche, che fu vicario del
Giudicato di Gallura per conto del titolare Nino Visconti,
governandolo molto male. Dante allude a un episodio su cui non si
hanno chiare informazioni: Gomita avrebbe catturato alcuni nemici
del suo signore (donno, termine sardo), probabilmente Ghibellini
nemici di Nino Visconti, ma li avrebbe lasciati facilmente liberi,
intascando adeguate somme di denaro; in ogni modo, il Visconti gli
tolse la carica e lo fece impiccare.
In direzione della Gallura sfioriamo Macomer e puntiamo verso
nord sulla superstrada Cagliari-Sassari, che lasciamo all’altezza di
Codrongiános, dirigendoci verso Perfugas. Attraversiamo un brullo
paesaggio di basse montagne di roccia corrosa costellata di ampi
tratti di bassa vegetazione. Superata Perfugas, ci dirigiamo verso la
costa, su un percorso che è sulla stessa direttrice del fiume
Coghinas, limite sudoccidentale della Gallura; qui il fiume si apre in
un piccolo lago artificiale, detto lago di Casteldoria. Siamo nella zona
di un castello dei genovesi Doria, che risale al XII secolo, le cui
rovine si vedono poco più avanti. Ecco poi il Borgo di Santa Maria
Coghinas, dal quale si scende sulla piana, in vista del mare.
Procediamo per una trentina di chilometri sulla litoranea, che scorre
a una certa distanza dal mare, fino a una piccola baia, dove è la
località balneare di Vignola, che prende nome da un torrente che
scende dalle colline retrostanti. Sul mare, oltre l’ampia spiaggia
sabbiosa, c’è una torre spagnola, ma per il resto solo piuttosto
recenti insediamenti turistici, in uno dei quali soggiorneremo.
Nella zona circostante, tra la boscaglia mediterranea, c’è un
nuraghe che decidiamo di visitare prima di sera: è il Nuraghe
Tuttusoni. Lo si raggiunge addentrandosi in un sentiero circondato
da muretti a secco e coperto da una galleria di folti arbusti; se ne
esce su uno spiazzo in cui appare questo nuraghe a una sola torre,
tra cespugli di pitosfori e qualche olivastro. Oltre lo spiazzo, bianchi
massi possenti sembrano come proteggere questo resto, in fondo
marginale e trascurabile rispetto ai tanti, ai veri e propri villaggi
nuragici, disseminati in tutta la Sardegna; e subito oltre c’è il mare, il
cui azzurro a quest’ora sembra divenuto più intenso e assoluto. I
massi che costituiscono questa torre isolata sembrano reggersi
miracolosamente, per una sorta di forza interna, anche se la
struttura non sembra completamente in piedi, presenta delle falle e
delle irregolarità che mi dispensano dal tentare di entrare
nell’interno. Alle spalle il giallo dei campi di grano, i cespugli e i
lacerti di macchia mediterranea, sullo sfondo le rocce scure dei
monti più vicini, sui quali è adagiato il capoluogo comunale di
Aglientu.
Bocche di Bonifacio

La luna, quasi a mezza notte tarda,


facea le stelle a noi parer più rade,
fatta com’un secchion che tuttor arda;

e correa contra ’l ciel per quelle strade


che ’l sole infiamma allor che quel da Roma
tra ’ Sardi e ’ Corsi il vede quando cade.
(Purg., XVIII 76-81)

Scende la sera sulla spiaggia di Vignola e, anche se non c’è la luna,


mi vengono in mente questi difficili versi di Dante, che indicano un
cielo notturno in cui la luna scemando (per questo tarda) sembra un
secchione lucente e si trova in Sagittario. Questo essere della luna
in Sagittario viene indicato con una faticosa perifrasi: per la
posizione della luna in Sagittario si evoca il periodo in cui il sole
stesso è in Sagittario, infiamma le stesse strade (fine novembre),
cioè quando tramonta (cade) a sudovest, sulla direzione che da
Roma conduce alle Bocche di Bonifacio, lo stretto che divide la
Sardegna e la Corsica. Peraltro qui siamo abbastanza vicini allo
stretto, e già da questa spiaggia la costa della Corsica si vede molto
bene, nell’ultima luce del tramonto.
Questa evocazione delle Bocche di Bonifacio si inserisce insomma
in una perifrasi artificiosamente costruita su deviazioni interne, in cui
si intrecciano come termini di paragone diversi modelli astronomici:
per l’aspetto della luna che sta scemando pochi giorni dopo l’inizio
del viaggio oltremondano, dopo il plenilunio primaverile, Dante arriva
a chiamare in causa la posizione del sole in autunno; per questa
posizione autunnale del sole menziona il suo tramontare a sudovest;
per questo tramontare del sole a sudovest traccia una linea
geografica da Roma alle Bocche di Bonifacio, designando un sole
che, visto da Roma, cade in mare in direzione di questo stretto tra la
Sardegna e la Corsica. Cose difficili per il lettore di oggi, che ha
perduto la conoscenza e la visione del cielo, ma anche un po’ difficili
per i commentatori antichi, che fanno varie confusioni nell’individuare
la costellazione che Dante indica in quei termini.
Più direttamente sulle Bocche di Bonifacio ci affacciamo la mattina
del 24 luglio, raggiungendo Santa Teresa Gallura, borgo fondato nel
1808 dai Savoia, che nel periodo napoleonico erano riparati in
Sardegna: il suo nome è un omaggio alla moglie del re Vittorio
Emanuele I, Maria Teresa d’Asburgo-Este. Ora è un affollato centro
di convergenza turistica del nord della Gallura, per i numerosi villaggi
e residence che sono disseminati intorno. Percorriamo la strada
pedonale centrale, dove è tutto un succedersi di trattorie, pizzerie,
bar, negozietti di articoli vari, soprattutto turistici. Ci affacciamo sul
belvedere dalla parte del promontorio dove svetta il torracchione di
Longosardo, che esisteva già nel Cinquecento. A destra comincia ad
aprirsi la stretta baia di Longone, che si insinua profondamente
verso sud, ospitando il porto turistico. Ma scendiamo a sinistra, sulla
bella spiaggia di Rena Bianca, quasi spiaggia di città, dove si può
fare il bagno guardando la Corsica.
Siamo proprio davanti alla punta meridionale della Corsica, alla
sua costa scoscesa: il Capo Pertusato e la Pointe de Sperono,
alcuni isolotti sovrapposti, il Borgo di Bonifacio, mentre il promontorio
a destra ci impedisce di vedere gli isolotti sul versante italiano, che
fanno parte dell’arcipelago della Maddalena. Qui penso
naturalmente a Bonifacio VIII, anche se non è lui che ha dato il nome
al borgo corso e allo stretto, ma un Bonifacio II di Toscana, che ebbe
la prefettura di Corsica dall’imperatore Ludovico il Pio (IX secolo). E
mi chiedo comunque per chissà quale combinazione un ristorante
che è poco più su, alle spalle della spiaggia, si chiami proprio Dante.
Il mare è calmissimo e c’è solo un vento docile e leggero: si vedono
navi che procedono tranquille attraverso le Bocche, di cui è celebre
la pericolosità in tempo di burrasca (non sono mancati tremendi
naufragi). La spiaggia è affollata, la sua rena bianca è quasi
cancellata da teli e accappatoi distesi, dai bagnanti sdraiati, dalle
borse di tutti i colori e le fogge. Ma pochi fanno il bagno: sull’acqua
limpidissima appaiono ogni tanto piccole meduse rossicce che
scoraggiano chi procede oltre la battigia, chi lentamente si immerge
e imprende a nuotare.
Allora, lasciamo Rena Bianca e Santa Teresa e ci dirigiamo verso
il promontorio che, come una grossa testa, aggetta verso ovest ed è
denominato proprio Capo Testa. Su di esso immette una stretta
striscia di terra su cui si apre una baia il cui nome risale ai dominatori
pisani, che qui riparavano le loro navi: Santa Reparata. Il Capo Testa
sembra come affidare allo spazio marino, alla vista lontana della
Corsica, i propri luccicanti graniti, variamente ammassati e fratturati:
ci sono tracce molteplici di antiche cave, sfruttate già dai romani e
poi dai pisani, che qui estrassero pietre utilizzate anche per il loro
Duomo e il loro Battistero.
Il gallo di Gallura

Non le farà sì bella sepultura


la vipera ch’e’ Melanesi accampa,
com’avria fatto il gallo di Gallura.
(Purg., VIII 79-81)

Tra i personaggi di maggior rilievo tra quelli conosciuti


personalmente da Dante è il giudice Nino, cioè Ugolino della famiglia
guelfa pisana dei Visconti, nipote del conte Ugolino della
Gherardesca (di cui suo padre Giovanni aveva sposato una figlia),
giudice in quanto signore dal 1275 del Giudicato di Gallura, esiliato
da Pisa nel 1288 e impegnato con la parte guelfa (anche in stretto
contatto con Firenze, dove certo frequentò Dante) sul continente e in
Sardegna, nel tentativo di tornare in patria, fino alla morte avvenuta
nel 1296. Nella valletta dei principi negligenti dell’Antipurgatorio,
Nino chiede a Dante che ricordi alla figlia Giovanna di pregare per
lui, mentre è convinto che la vedova Beatrice d’Este non se ne curi
più, dal momento che ha abbandonato lo stato vedovile ed è passata
in seconde nozze con un Visconti di diversa famiglia, Galeazzo, figlio
di Matteo, signore di Milano (il matrimonio avvenne in realtà solo
nell’estate 1300, qualche mese dopo la data immaginaria del viaggio
dantesco). Non senza risentimento, il giudice Nino proietta
l’immagine della sua ex moglie verso il comune destino mortale,
dicendo che la vipera dello stemma dei Visconti di Milano non farà
alla sua tomba lo stesso onore che le avrebbe fatto il gallo, rosso in
campo giallo, stemma della Gallura. Nel contrasto tra i due emblemi,
tra gli opposti Visconti, tra Milano e la Gallura, l’orgoglio familiare si
carica di un forte valore simbolico: il biscione, la vipera (che fa
accampare i milanesi, è il vessillo del loro campo di battaglia) è ben
nota immagine di violenza e di frode, mentre il gallo lo è di solerzia e
operosità mattutina.
Oggi la Gallura appare perlopiù riversata sulle sue coste, sul
contraddittorio orizzonte turistico, sull’azzurro delle distese marine,
sui colori squillanti dei promontori, sui contorni luminosi delle sue
isole, sugli artificiosi villaggi turistici che hanno deformato
inesorabilmente tanti paesaggi. Nelle loro forme più lussuosamente
“esclusive”, questi villaggi hanno trascinato molta vipera, molto
milanese biscione sulle coste già sotto il segno del gallo: Porto
Cervo, Costa Smeralda, Billionaire ne sono l’emblema. Luoghi fuori
di questo percorso dantesco; e fuori ne resta anche il luogo in cui è
rimasto il segno di un’altra storia, di un’umanità e di una moralità che
sembrano scomparse dal nostro orizzonte, la Caprera di Garibaldi,
con la casa segnata dalla sicura, operosa, modesta razionalità laica
dell’eroe, resistenza di un’antica virtù sotto un moderno ardore di
giustizia e libertà. Porto Cervo contro Caprera? Forse ancora
scontro simbolico tra vipera e gallo?
Una traccia del gallo di Gallura pensiamo di trovarla comunque
nell’interno della regione, risalendo verso la città di Tempio
Pausania, che sorge sul sito della romana Gemellae, che nel
Medioevo si trovava dentro la curatoria di Gèmini, una delle zone
amministrative in cui era diviso il Giudicato di Gallura. Dalla costa
all’altezza di Vignola mare si sale verso Aglientu e si attraversano
rilievi granitici, zone boscose, tratti pianeggianti: Tempio (a cui
all’inizio del Novecento è stato aggiunto Pausania, nome della più
antica diocesi di Gallura, di origine comunque non ben identificabile)
appare con la sua ordinata struttura, di impianto perlopiù
settecentesco, anche se con altre tracce, soprattutto del periodo
aragonese. Il centro è dominato dal grigio della pietra granitica, nelle
facciate delle case e nel pavimento delle strade. Hanno una loro
raccolta dignità la cattedrale di San Pietro e il vicino oratorio del
Rosario, col suo timpano ricurvo dentato che ha al centro il solito
campaniletto a vela.
Difficile trovare qualche traccia medievale, ma dalla piazza di
Gallura, dove è l’edificio del Municipio, si può prendere la via Nino di
Gallura, dove si trovano i resti della facciata di una casa fatta in gran
parte di pietre di concia, con una porta e due finestre contornate da
mostre in blocchi di granito (sopra il tetto, più indietro, sono come
appollaiate altre costruzioni più recenti). Una tradizione locale, certo
immotivata e improbabile, vuole che sia proprio la casa del giudice
Nino di Gallura, che comunque dovette risiedere qui per tempo ben
breve. Vediamo che non lontano al suo Gallo di Gallura è comunque
dedicata l’insegna di un bed and breakfast; e troviamo infine una
piccola trattoria piacevole, La gallurese, che offre i piatti della cucina
tradizionale, tutta basata su prodotti locali.
Il Logudoro

Usa con esso donno Michel Zanche


di Logodoro; e a dir di Sardigna
le lingue lor non si sentono stanche.
(Inf., XXII 88-90)

Il Giudicato di Torres o di Logudoro occupava il territorio a ovest e a


sud di quello di Gallura: e la denominazione di Logudoro
(probabilmente logu de Ore, luogo di Ore, altro nome di Torres) nel
XIII secolo toccava comunque quasi tutta la Sardegna
nordoccidentale, un territorio molto più esteso di quello che
attualmente è così chiamato. La mattina del 25 luglio, scendendo
verso sud da Vignola mare, superiamo il territorio dal nome così
sontuosamente risonante di Trinità d’Agultu e Vignola; varcando il
fiume Coghinas, entrando così nel vicino Giudicato, in cui operava il
dantesco Michele Zanche, nobile logudorese, di una delle maggiori
famiglie di Sassari, che sta insieme a frate Gomita (usa con esso)
nella bolgia dei barattieri e con lui non smette mai di parlare della
Sardegna. Nel Giudicato conteso tra pisani e genovesi, Michele si
mosse con abilità in stretto collegamento col partito filogenovese,
accumulando ricchezze con le sue malversazioni. Due sue figlie
sposarono dei nobili genovesi, ma il marito di una di esse, Branca
Doria, aiutato da un suo parente (prossimano), uccise Michele a
tradimento durante un convito e per questo Dante lo colloca nella
Tolomea tra i traditori degli ospiti, dove l’anima del dannato giunge
quando il corpo è ancora in vita, abitato da un diavolo. Così frate
Alberigo, suo vicino di dannazione, presenta Branca Doria a Dante:
“Nel fosso sù”, diss’el, “de’ Malebranche,
là dove bolle la tenace pece,
non era ancor giunto Michel Zanche,
che questi lasciò il diavolo in sua vece

nel corpo suo, e d’un suo prossimano


che ’l tradimento insieme con lui fece…”
(Inf., XXXIII 142-147)

Qui la piana oltre il Coghinas, risanata con una bonifica già negli
anni cinquanta, ha proprio il nome di Valledoria: siamo in un contesto
genovese, sotto il segno della grande famiglia a cui apparteneva il
genero e uccisore dello Zanche; e del resto già l’altro ieri abbiamo
incontrato, lungo il Coghinas, i resti di Casteldoria. È il territorio
dell’Anglona, questo che attraversiamo, fino a Sassari: si succedono
insediamenti turistici, fino al centro più interessante e più
chiaramente “genovese”, che è Castelsardo. Presto appare la città,
arrampicata su un costolone trachitico che avanza sul mare, in cima
al quale è il castello; di qua e di là dall’aggettante promontorio, che
sembra quasi un tozzo isolotto, si disegnano le dolci ondulazioni di
belle spiagge sabbiose. Borgo e castello furono quasi certamente
fondati dai Doria all’inizio del XII secolo, col nome di Castegenovese:
nel 1282 il sito, insieme a Casteldoria, fu oggetto di una transazione
di cui fu protagonista il Corrado Malaspina che Dante incontra nella
valletta dei principi del Purgatorio (lo acquistò dai Doria e poi glielo
rivendette); nel XV secolo gli Aragonesi cambiarono il suo nome in
Castellaragonese; e diventò finalmente Castelsardo nel 1767, sotto i
Savoia.
Mi arrampico oltre i bastioni della cittadella costruiti dagli spagnoli,
su cui a un certo punto una lapide bianca reca i nomi dei tanti caduti
in guerra della città (al solito tremendamente più numerosi quelli del
1915-18). L’interno della cittadella è tutto compartito da vicoletti in
salita, sistemati con vari ritrovi, bar, ristoranti, negozietti; in alto i resti
del castello, dove forse si trovò a sostare per i suoi traffici Michele
Zanche e dove forse si intrattenne con il genero traditore. Ma al cupo
orizzonte infernale in cui sono precipitati questi personaggi, che è
come assorbito dalle mura sassose del castello, dai suoi bui
camminamenti, si oppone la luce azzurra che si espande nella vista
marina, nell’ondulazione delle insenature e delle spiagge vicine là in
basso, nell’apertura verso sud del golfo di Torres, nell’avanzare
lontano della costa dell’Asinara.
Percorriamo ancora la costa che piega verso sudovest e poi risale
leggermente verso Porto Torres, dove sono varie rovine dell’antica
Turris e soprattutto la splendida chiesa romanica di San Gavino. Ma
siamo diretti a Sassari, dove incontreremo uno scrittore, un vecchio
scrittore di cui amo la voce autentica e appartata, la passione per la
verità e l’attenzione alla ingannevole contraddittorietà
dell’esperienza. Ci fermiamo prima nel centro della città, riuscendo
faticosamente a parcheggiare in una piazza che è risultata da uno
sventramento incompiuto del periodo fascista, la piazza Monsignor
Mazzotti, che però tutti chiamano piazza delle Demolizioni: che dà
una impressione di provvisorietà prolungata, insediata nel cuore
della città, a cui impone il segno dell’incompiuto, come se qualcuno
l’abbia sottratta a una cura totale di sé; come se qualcosa fosse
scoppiato quasi al centro di un centro storico che per il resto mostra
molto chiaramente i suoi antichi contorni, le tracce della sua struttura
medievale. Molto vicino a questa piazza delle Demolizioni è il
Duomo, con la ricca decorazione della sua facciata barocca, molto
spagnoleggiante e non senza somiglianze con il lontano barocco
leccese, in cui dalla pietra sembrano scaturire effetti pittorici, quasi
un evanescente sogno di colore. A differenza della facciata, le
fiancate del Duomo hanno un’aria di svettante severità, mentre poi,
procedendo tra vicoli di varia foggia fino al corso Vittorio Emanuele,
in leggera salita, si trovano lacerti di nobile architettura, facciate, con
portali e finestre di taglio aragonese, di fattura rinascimentale. Dal
corso raggiungiamo la piazza Castello, dove il castello non c’è più,
demolito totalmente dopo l’unità d’Italia: sul suo sito c’è ora la
Caserma Lamarmora, sede della celebre Brigata Sassari e del suo
Museo Storico, fanteria ora meccanizzata, che ha compiuto varie
azioni di rilievo nelle guerre del Novecento e tuttora costituisce uno
dei maggiori corpi operativi dell’esercito italiano.
Lasciato il centro storico, raggiungiamo, davanti alla sua casa, che
è in una palazzina in una tranquilla zona residenziale, Salvatore
Mannuzzu, che è stato magistrato fino al 1976, poi deputato in
alcune legislature, ma che per me è soprattutto lo scrittore che si è
fatto conoscere nel 1988 con Procedura e che ha poi pubblicato
molti libri in cui nell’orizzonte di una Sardegna borghese e
intellettuale si svolge una intensa interrogazione di destini, inchieste
su segreti che sfuggono ai loro stessi depositari, esperienze che si
perdono e si cancellano. Ci viene incontro con una sua cordialità
venata di malinconia: e ci conduce a pranzo con lui, da Gianni e
Amedeo, ristorante davvero eccellente e che sorprende di trovare in
una strada immersa in un anonimo grigiore. Ci regala subito un suo
libretto di qualche anno fa, Cenere e ghiaccio. Undici prove di
resistenza, che non conoscevo (ho invece recensito l’anno prima il
suo romanzo estremo, pieno di accorata tensione, Snuff o l’arte di
morire): e non posso non notare che il ghiaccio del titolo mi riporta
ancora all’assassino di Michele Zanche, quel Branca Doria, la cui
anima è immersa nel ghiaccio del Cocito mentre il suo corpo sta
ancora sulla terra, “e mangia e bee e dorme e veste panni” (Inferno,
XXXIII 141).
Allora parliamo di Dante e della Commedia. Mannuzzu mi dice di
averla letta due volte integralmente, una prima volta nella vecchia
BUR, nei volumetti di quell’edizione che avevano il privilegio di
essere rilegati in verde bordato d’oro, e poi in una più recente
edizione, quella rinnovata del classico commento di Natalino
Sapegno. Comunque il titolo Cenere e ghiaccio non ha nulla a che
fare con Dante: è scaturito da un raccordo tra Gramsci (le sue
ceneri) e il ghiaccio artico, suscitato dal riferimento che lo stesso
Gramsci fa in una lettera dal carcere del 18 aprile 1927
all’esploratore norvegese Nansen, che mosse verso il Polo Nord
facendosi trascinare lentamente dai ghiacci. Di lui Gramsci fa un
emblema di resistenza, della durezza, costanza, lentezza necessaria
del resistere. Sotto il segno del resistere Mannuzzu proietta lo
sguardo verso il presente, di fronte alla crisi che attanaglia più
gravemente la Sardegna (e ci dà un quadro della difficile situazione
economica), di fronte al confuso scadere della politica nazionale e
internazionale, allo sfaldarsi della sinistra, allo stesso destino della
letteratura, oggi piegata verso le più esteriori brame dell’attualità e
sempre più incapace di interrogare le contraddizioni dell’esistere.
Dinanzi a tutto ciò l’ostinato resistere tende spesso a piegare
verso la disperazione. Anche con essa occorre fare i conti, nella vita
quotidiana del vecchio, che ora si trova a convivere con la malattia
della moglie Nannetta, mentre una figlia medico, che aveva avuto
notevoli successi professionali in America, si è sentita un certo punto
oppressa da quel mondo di scatenata competitività ed è tornata,
abbandonando tante promettenti prospettive (nel 2016 avremo a
breve distanza notizie della morte della moglie e della figlia). Dal
modo stesso in cui Mannuzzu parla della sua vita attuale, dai suoi
sguardi e dai suoi giudizi sul presente, traspare in piena luce la
riservatezza, la civiltà, il senso dell’esistere, che animano la sua
letteratura, su cui agisce sottilmente la sua coscienza giuridica, la
sua disposizione a sentire l’esperienza come un processo, come
proiezione verso un giudizio (e aleggiano i nomi dell’amato Kafka e
quello del grande giudice scrittore di Nuoro, Salvatore Satta, l’autore
de Il giorno del giudizio). Anche la politica, del resto, la sente come
ricerca della giustizia: cosa che oggi sembra sconfitta, distorta,
impossibile. È convinto che il rapporto più autentico con la letteratura
non possa essere che quello di un amore non corrisposto, di un
desiderio che non può essere appagato, di un “tendere verso”,
insomma (non è quello che fa insistentemente Dante, in tutto il suo
percorso, sempre rivolto a tendere verso l’impossibile dicibilità della
bellezza di Beatrice?). La delusione per la letteratura
contemporanea è data anche dalla generale mancanza di questa
tensione, dalla presunzione di molti che tutto si risolva nel corrivo
adattamento ai target dell’attualità: facendo parte dell’ampia giuria
del Premio Strega (i cosiddetti Amici della domenica), lui ogni volta
legge coscienziosamente i dodici finalisti. Ma ci domandiamo: chi ha
vinto quest’anno? Preferisce letture di classici, che ultimamente sta
facendo con una certa comodità sul supporto informatico, proprio lui
tanto legato alla cultura “cartacea”. Su Kindle in questi mesi ha letto
o riletto I promessi sposi, Guerra e pace, ben due romanzi di
Dostoevskij…
Parliamo di questo e di tante altre cose davanti a un tavolo su cui
un cameriere gentile ci porta deliziosi piatti di pesce: e c’è un
vermentino con un suo particolarissimo aroma, ben diverso dai
troppi vermentini che circolano nel continente, è il Tuvaoes di
Giovanni Cherchi, produttore di grande perizia, che tra l’altro ha
quasi riscoperto e rilanciato un antico vitigno, il Canularis, che dà un
formidabile vino rosso. Così trascorre il pasto, la conversazione con
questo giudice scrittore, nel cui stile civile, nella cui scrittura di
rigorosa e pungente riservatezza mi pare di riconoscere un carattere
profondamente radicato in quest’isola e in questa stessa città, anche
con le sue delusioni, i suoi rimpianti, la sua interrogazione delle
possibilità che non si sono attuate; e mi resterà un crudo rimpianto,
alla notizia della sua morte in un ospedale di Sassari (10 settembre
2019), per non averlo più incontrato negli anni intercorsi e per non
aver potuto realizzare la promessa che gli avevo fatto di andare a
trovarlo per donargli questo resoconto dantesco, una volta stampato.
Ma, accomiatatici da Mannuzzu, in quell’estate del 2014 ci siamo
diretti verso il centro del più limitato Logudoro attuale: avevo
prenotato un bed and breakfast a Mores, borgo agricolo senza edifici
rilevanti, che appare immerso in un accidioso silenzio estivo, ma il
cui territorio è ricco di tracce prestoriche: e da qui comunque si
possono raggiungere varie tracce del passato medievale, del tempo
del Giudicato. Al bed and breakfast Il giardino degli aranci si giunge
svoltando tra silenziose stradine, tra le quali non ci si aspetterebbe
un luogo così accogliente e simpatico, tenuto da due giovani che
hanno convinto le loro famiglie a sostenere la piccola impresa, che è
anche una scelta di vitalità, di amore per il territorio, nell’intento di
accogliere un turismo colto e civile, in fondo ben lontano dalla
chiassosità delle vacanze marine.
Da qui partiamo per un ampio giro pomeridiano, che ci porta, tra le
alture del Meilogu (denominazione questa che deriva da medius
locus e indicava l’area centrale del Giudicato di Torres / Logudoro),
alla chiesa romanica di San Pietro di Sorres, che si eleva isolata su
un colle (accompagnata da un più recente convento addossato al
suo fianco). Risale alla fine del XII secolo e la sua struttura pisana,
con cinque grandi arcate in basso, sette più piccole nel secondo
ordine, tre pensili nel frontone in alto, presenta un gioco di variazioni
tra losanghe e tondi, nell’intreccio tra il calcare chiaro e la trachite
nera, arricchito dall’effetto pittorico di contorni in cui la pietra sembra
lavorata a bulino. Mentre leggere nubi in movimento fanno cadere
sull’ampio piazzale un po’ di pioggia, la piana giù sotto (dove è
Mores) appare invece in pieno sole: non ci sono visitatori, ma
nell’interno della chiesa, tutto compartito in fasce bicolori, c’è una
monaca in preghiera.
Scendiamo da San Pietro di Sorres e attraversiamo Thiesi, intorno
a cui ci sono vari stabilimenti di produzione e vendita di formaggi e
prodotti locali: non ci si può trattenere dal visitarne uno, ammirando
la varietà di formaggi, freschi e stagionati, di pecora, di capra, di
mucca, pepati, aromatizzati, semicotti, giglio, peperino, fiore sardo,
canestrino, montanaro… Con buona scorta di formaggi, che
lasceremo al fresco a Mores fino alla partenza, giungiamo poi al
vicino nuraghe Santu Antine, imponente sulla piana, oltre la quale si
leva un rilievo di modesta altezza violentato da una fitta selva di pale
eoliche. Ci sono sparse rovine e corpi sassosi intorno al nuraghe,
costituito da un grande bastione centrale su cui sono addossate tre
torri minori: è detto anche Sa domo de su Re, reggia, che
curiosamente la tradizione popolare attribuisce all’imperatore
Costantino, considerato protettore della Sardegna e addirittura santo
(Santu Antine non è altro che san Costantino). Che dire di questa
santificazione se invece Dante nel XIX dell’Inferno lo rimprovera per
aver fatto la famosa presunta donazione al papa Silvestro (e ne
nega la validità in Monarchia, III X), oltre a mostrare implicitamente
riserva, all’inizio di Paradiso, VI, sul suo trasferimento della sede
dell’impero a Bisanzio? E se poi Petrarca addirittura lo relega
all’inferno nel sonetto Fontana di dolore, albergo d’ira (Canzoniere,
138)?
Risalendo poi un po’ verso nord, in questo cuore del Logudoro, si
tocca Árdara, che si affaccia su di un modesto costolone sulla piana
e tra l’XI e il XIII secolo fu capitale e reggia del Giudicato (chiamato
Su Rennu, il regno). Si affacciano i ruderi del castello e, direttamente
sfiorata dalla carrozzabile, la basilica detta appunto di Santa Maria
del Regno, elevata tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, il cui stile
pisano si impone sullo sfondo dell’accesa pianura con pietra di nero
basalto e con un campanile basso e tozzo. Qui si celebrarono i riti
che collegavano il Giudicato alla politica del continente, come il
matrimonio nel 1238 della giudicessa Adelasia di Torres (che proprio
ad Árdara era nata, nel 1207) con il bel figlio naturale dell’imperatore
Federico II, Enzo di Svevia, che assunse il titolo di re di Sardegna,
ma poco rimase nell’isola, chiamato dal padre a varia attività
nell’Italia settentrionale, fin quando nel 1249 fu fatto prigioniero dai
bolognesi nella battaglia di Fossalta (e a lungo rimase prigioniero a
Bologna: vedi p. 473). Intanto il papa aveva annullato il matrimonio
tra Adelasia e lo scomunicato svevo: e il bello è che alcuni
commentatori parlano fantasiosamente di un suo nuovo matrimonio
(che sicuramente non ci fu) proprio col nostro Michele Zanche.
Immagino comunque il barattiere dantesco percorrere queste
strade, indipendentemente da Adelasia (che finì i suoi giorni in un
altro castello), trafficare variamente con nobili e clero locali,
attraversare queste campagne su cui ora ci muoviamo per
raggiungere, ad alcuni chilometri da Árdara, poco prima del
tramonto, un’altra chiesa logudorese, Sant’Antioco di Bisarcio. Si
prende una strada tra i campi, mentre intorno si sparpaglia un
gruppo di mucche tranquillamente al pascolo; si sentono vari suoni
di campanacci; poi un gregge di pecore attraversa la strada. La
chiesa è lì su un piccolo poggio, circondata dai resti di una cinta
muraria: risale al XII secolo e, a differenza delle altre chiese
romaniche che abbiamo visto in Sardegna, ha una facciata costituita
da un avancorpo che immette nel nartece, con qualcosa di
sorprendentemente asimmetrico, effetto, questo, accresciuto
dall’aspetto del campanile mozzo (sembra per effetto di un fulmine).
Nella solitudine della sera risuona soltanto la vicinanza degli
animali e qualche eco di motori che passano sulla strada di maggior
scorrimento: qui c’è anche un’edicola, alloggiamento turistico per
informazioni e biglietteria, ma a quest’ora è tutto chiuso, non c’è più
nessuno. Il sole è appena tramontato a nordovest, tra i bassi rilievi
del Meilogu, e aleggiano intorno gli indeterminati profumi della
campagna; sembra di essere in un mondo fuori dal mondo,
sensazione che forse non avevano i signori del Giudicato, quando a
cavallo percorrevano queste terre, quando forse si trovò a passare di
qui Michele Zanche, senza sapere ancora che sarebbe prima o poi
caduto in una rete tesagli dal genero genovese.
Quando ormai è buio, siamo a Mores e dovremmo cenare, non
certo col formaggio comprato a Thiesi; c’è qualche bar, ma sembra
difficile trovare qualcosa da mangiare. Scopriamo però, in una
stradina nel centro del paese, il ristorante-pizzeria Le Arcate: cucina
semplice e gustosissima, dalla fregola sarda con ragù di maiale, alle
seadas con un miele dagli aromi sottili, ma il bello è la simpatia dei
gestori, fratello e sorella, lei che ci serve e lui, Mario Mulas, che
dall’altro capo della sala nei pressi di un forno a legna prepara le
pizze palleggiando abilmente la pasta. Tra le girandole di pasta
scherza allegramente con noi e con vari compaesani che vengono a
ordinare pizze da portare a casa; ci racconta un po’ della sua vita,
dal tempo passato da emigrante in Canada alla decisione di tornare
e rimanere per sempre qui, in questo silenzioso cuore dell’isola.
Sicilia e Calabria
La bella Trinacria

E la bella Trinacria, che caliga


tra Pachino e Peloro, sopra ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga…
(Par., VIII 67-69)

Dante non è mai stato in Sicilia: e l’immagine della bella Trinacria


data da questi versi messi in bocca a Carlo Martello d’Angiò (sui
quali ci capiterà di tornare più volte, nel percorso tra i luoghi che vi
sono menzionati) è certamente di origine letteraria (in primo luogo
Ovidio, Metamorfosi, V 346-353, e Virgilio, Eneide, III 570-574). Ma,
già prima della Commedia, la Sicilia costituisce per lui l’essenziale
matrice della poesia volgare italiana: nel De vulgari eloquentia dopo
aver distinto la Sicilia come una delle regioni della lingua di sì (I VIII 6,
X 5-6), ricorda (XII 3-4) che “quicquid poetantur Ytali sicilianum
vocatur” (“tutta la poesia che si fa in Italia viene chiamata siciliana”);
questo è dovuto al fatto che nessun regnante delle altre regioni ha
saputo emulare gli “illustres heroes” sovrani di Sicilia, l’imperatore
Federico II e suo figlio Manfredi, che hanno tenuto accanto a sé,
nella loro aula, tutti i nobili di cuore e dotati di qualità personali
(“corde nobiles atque gratiarum dotati”). Proprio perché la Sicilia era
sede del loro trono (“quia regale solium erat Sicilia”), questo nome di
siciliano è toccato all’orizzonte poetico volgare: “factum est ut
quicquid nostri predecessores vulgariter protulerunt, sicilianum
vocetur”, e Dante propone di mantenere questa qualificazione anche
per il futuro.
Il ricordo della liberale disponibilità di Federico e di Manfredi in
questo punto del De vulgari eloquentia suscita per converso una
improvvisa dura riprovazione dell’ipocrisia e dell’avarizia dei sovrani
contemporanei, incapaci di sostenere la poesia: e tra essi si
menziona anche l’ultimo Federico, cioè il re di Sicilia Federico II
d’Aragona, criticato duramente anche nel Convivio, IV VI 20, e
ancora, insieme al fratello Giacomo II, in Purgatorio, VII 119-120, e
in Paradiso, XIX 127-135 (qui indicato come “quei che guarda l’isola
del foco”) e XX 63. Costui (chiamato anche Federico III, per indicare
la sua continuità dinastica con lo svevo Federico II, che peraltro
come re di Sicilia era stato un Federico I) con la pace di Caltabellotta
(31 agosto 1302) – che sanciva una fine precaria alle ostilità fra
Angioini e Aragonesi per il possesso dell’Italia meridionale – aveva
mantenuto il dominio sulla Sicilia, ma con il titolo particolare di re di
Trinacria, e con l’impegno a farlo confluire, alla sua morte, sotto il
regno angioino. Impegno disatteso perché nel 1313 recuperò il titolo
di re di Sicilia e proclamò successore il figlio Pietro.
Per Dante, come dice ancora nel De vulgari, I XII 6, comunque, la
lingua dei poeti siciliani, iniziatrice della nuova nobile poesia volgare,
non coincide direttamente con il volgare siciliano, così come è
parlato dai nativi: questo non è affatto migliore di altri dialetti, anche
perché si pronuncia con una certa lentezza, quasi strascicato (“quia
non sine quodam tempore profertur”); e come esempio cita il v. 3 del
Contrasto di Cielo d’Alcamo (“Tragemi d’este focora se t’este a
bolontate”). Il siciliano dei primi poeti, invece, è qualcosa di nobile,
che va nella direzione di quel volgare illustre (“nihil differt ab illo quod
laudabilissimum est”, “non differisce per nulla da quel volgare che è
più degno di lode”): quello che Dante considera appropriato all’ideale
curia d’Italia, a quel volgare che egli chiama latium (“italiano”). Della
illustre poesia siciliana il De vulgari ricorda poi direttamente alcune
poesie, ben due di Guido delle Colonne di Messina (I XII 2; II V 4; VI
6), e una (senza nominarlo) del Notaro Giacomo da Lentini (I XII 8),
che invece sarà direttamente menzionato in Purgatorio, XXIV 56;
ricorda inoltre due volte una canzone di un rimatore non
propriamente siciliano, ma attivo nella scuola poetica siciliana,
Rinaldo d’Aquino (I XII 8 e II V 4).
Con tutta la sua lunga storia, con i molteplici strati etnici, linguistici,
culturali, che l’hanno costituita e l’hanno travagliata fin dalla più
remota antichità, la Sicilia si è trovata insomma a essere la culla
originaria della letteratura italiana: per spinta di un sovrano di origine
germanica, lo svevo Federico II, e con una sorta di accorto
“trapianto” di forme liriche provenzali. Questa origine poetica, con la
caduta della dinastia sveva, è come evaporata, fino a dissolversi,
lasciando spazio a esperienze locali e marginali, che non hanno
trovato eco nel più ampio quadro letterario italiano. Quasi un silenzio
secolare da cui, dopo l’unità d’Italia, è scaturita una nuova
grandissima letteratura, che si è posta davvero come la più
essenziale del quadro italiano. Tra il secondo Ottocento e tutto il
Novecento la Sicilia ha dato esiti eccezionali, più di qualunque altra
regione o area geografica, con una acuminata forza critica, con una
vibrante e risentita tensione, capace di vedere fino in fondo le falle e
le lacerazioni dell’isola, dell’Italia e del mondo: da Verga a De
Roberto a Pirandello a Brancati a Lampedusa a Sciascia a Consolo,
e ancora Capuana, Vittorini, Quasimodo, Piccolo, Cattafi, D’Arrigo,
Bonaviri, Bufalino, certo più prosatori che poeti, ma con quanta
vivace disponibilità ad agire sulla lingua, a sforzarne i limiti o a
ridurla all’essenziale!
È una letteratura che scende nel cuore delle vite e delle cose e
che non potrebbe essere se non ci fosse un paesaggio eccessivo,
nei suoi assoluti splendori e nella sua misteriosa oscurità, su cui le
più diverse civiltà hanno impresso manufatti sapienti, meraviglie di
città, di edifici, di giardini, di templi, ville, verzure, particolari tessiture
di rapporti e scambi interumani. È la terra che ammalia con la sua
solarità dispiegata, la “terra dove fioriscono i limoni”, das Land, wo
die Zitronen blühn, ma che nella sua accesa sensualità è percorsa
da immedicabili violenze e follie, dove una passione ostinata per la
verità e la bellezza, per un naturale essere civile, si espone
all’azione di poteri ciechi e ottusi, alla protervia del male e
dell’inganno, di ramificati e rapaci egoismi. Terra dei contrasti, più di
ogni altra terra: dove la contraddizione si fa percepire nello stesso
espandersi degli spazi e dei volumi che li compongono, abitati da
tripudi sontuosi e da tagliente dolore.
Questa estrema appendice d’Italia, che si proietta avanti nel
Mediterraneo, verso l’Africa da cui oggi continuamente la
raggiungono disperati migranti (a cui poi, in anni successivi,
qualcuno penserà ottusamente di chiudere i porti), nel suo essere
estremo appare come un emblema dell’Italia, una sua espansione
dilatata, assoluta, che attrae e respinge, con un fascino a cui è
difficile resistere. Nel pensare alla Sicilia, nel muoversi verso di essa,
sembra sentire come un richiamo dei luoghi, di quel che di
inafferrabile e segreto emana dagli spazi del mondo, dall’aria
dell’ambiente e del tempo, da un possibile e impossibile dispiegarsi
della vita, che da lì sembra annunciarsi, offrirsi in un reciproco
realizzarsi e annullarsi; è un dove si è stati e dove si sarà, ma dove
non si può mai davvero essere, appunto Kennst du das Land, wo die
Zitronen blühn?
Nelle sue origini greche questa terra ha accolto in sé la proiezione
della dura vita dei pastori in freschi disegni di paesaggio, in
cadenzate misure di vita, in utopica comunione con la natura: qui è
felicemente prosperato il modello poetico dell’Arcadia, sull’onda delle
ecloghe del siracusano Teocrito. Sicelides Musae (Muse Siciliane)
quelle della poesia bucolica, come le chiama Virgilio all’inizio
dell’Ecloga IV. E anche Dante, quando assume la veste pastorale
rispondendo all’invito del maestro bolognese Giovanni del Virgilio, si
dispone in un orizzonte bucolico siciliano. Infatti nella sua Ecloga IV
(la seconda da lui scritta), nascondendosi sotto la figura di Titiro, egli
declina la proposta di recarsi a Bologna usando tutta una serie di
maschere siciliane: invitato sul litorale etneo, Titiro dice di non voler
lasciare il Peloro e l’erba del monte trinacrio (“herba / Trinacride
montis”, vv. 70-71), soprattutto per timore di Polifemo, che abita tra i
sassi dell’Etna (e nella veste allegorica dell’ecloga, Peloro indica
Ravenna, il lido etneo Bologna, e Polifemo probabilmente quello che
allora era il capitano del popolo di Bologna, Fulcieri dei Calboli,
guelfo già feroce persecutore dei Bianchi e dello stesso Dante,
quando nel 1303 era stato podestà di Firenze).
Del resto Polifemo (insieme ai Ciclopi e a tutto ciò che riconduce
alla minacciosa potenza dell’Etna) rappresenta il volto duro e feroce
di questa isola del foco, di cui altre tracce traspaiono nella
Commedia, e non solo nell’immagine dell’Etna che si svolge nel
seguito di quei versi del canto VIII del Paradiso, che avremo modo di
considerare nel corso del viaggio. Si ricordi allora la similitudine che,
per indicare il confuso timbro con cui le parole escono dalla fiamma
che, tra i consiglieri di frode, avvolge Guido da Montefeltro, evoca il
“bue cicilian”, cioè il supplizio del toro metallico del tiranno di
Agrigento Falaride, supplizio che per la prima volta toccò al suo
stesso costruttore, Perillo:

Come ’l bue cicilian che mugghiò prima


col pianto di colui, e ciò fu dritto,
che l’avea temperato con sua lima,

mugghiava con la voce de l’afflitto,


sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto;

così, per non aver via né forame


dal principio nel foco, in suo linguaggio
si convertian le parole grame.
(Inf., XXVII 7-15)
A Palermo

…se mala segnoria, che sempre accora


li popoli suggetti, non avesse
mosso Palermo a gridar: “Mora, mora!”.
(Par., VIII 73-75)

Vedo avvicinarsi l’isola del foco sulla nave che mi porta a Palermo la
mattina del 21 settembre 2014: è domenica e, appena sbarcato, la
città pare quasi addormentata, non ancora accesa nel suo solare e
caotico brulichio. Un bar vicino al porto con primi clienti domenicali;
in qualche strada più all’interno una piccola edicola che non pare
molto fornita, mentre il gestore sta ancora estraendo i giornali dal
pacco. Raggiungo l’albergo vicino alla piazza Marina, lo sbocco nord
del Cassaro (l’antica strada ora chiamata Corso Vittorio Emanuele
che taglia la città storica da sud a nord), prima della Porta Felice,
davanti al mare. Dato che la stanza non è ancora pronta, scendo
subito sulla piazza, dove, come ogni domenica, c’è il mercatino
dell’antiquariato, variamente disposto sui marciapiedi intorno al
giardino e sullo stesso lastricato della piazza. Proliferante mercato,
perlopiù di cose curiose, residui di scarso valore, oggetti desueti di
ogni sorta, cose vecchie e rovinate del secolo scorso, ma anche di
fattura piuttosto recente.
Molte bancarelle sono già assestate in buon ordine, altre si stanno
formando, ma molti sono i venditori che dispongono la loro merce
semplicemente a terra, sul lastricato. Come in tutti i mercatini di
questo tipo, ma qui con qualcosa di più esuberante, con un
espandersi delle cose che appare insieme eccessivo e dimesso, si
incontrano gli oggetti più vari, tanti manufatti che a un certo punto
della loro vita hanno perduto la loro funzione e il loro uso, ma che
attendono di essere rimessi in funzione da qualche compratore,
quasi mai nel loro impiego originario, ma il più delle volte come
oggetti da collezione, da esposizione o ornamento casalingo.
Attraversare il mercato è come stare dentro una enumerazione
caotica, in una dilapidata costipazione barocca; la spinta a
distinguere e identificare gli oggetti che possono interessare (o che
eventualmente si cercano) ha come corrispettivo il disgregarsi
dell’attenzione, il suo serpeggiare verso i bordi estremi
dell’incontrollabilità del mondo, dell’indeterminatezza della quantità:
caos di oggetti consunti e svuotati di sé, che pure è tanto piccola
cosa nei confronti del più vasto caos di questa città, di questa isola,
di tutta la nostra “aiuola che ci fa tanto feroci”.
Telefoni vecchi, neri, bianchi, grigi, con filo ma anche cordless, e
inoltre custodie per cellulari e simulacri dei primi telefonini, pentole in
alluminio di ogni dimensione e destinazione, ma anche in rame e
smaltate, scrigni metallici e d’osso, microteiere, mattarelli in legno e
un leone di legno, accanto a un altro di pietra, stantuffi per
insetticida, libri, libroni e libretti, ritratti di sconosciuti con cornici
dorate, quadri con sommarie vedute di Palermo, icone bizantine e
statuette di sant’Antonio da Padova e di santa Rosalia, pupazzi
d’ogni genere vecchi e nuovi, da presepio, da soprammobile, da
teatro dei burattini, collane e idoli africani, biancheria intima maschile
e femminile, anelli per ogni dito, d’argento, d’acciaio, d’ottone, di
peltro, occhiali con tutte le possibili montature. Ecco un gioco di
dama in porcellana, bambole, calzini e soldatini di piombo e di
coccio, grandi statuette di soldati borbonici, pannelli dipinti per i pupi
siciliani, Orlando, Angelica e Rodomonte, orsetti e cagnolini di
peluche, semi e spezie in vari assortimenti, radio di marche defunte,
forni a microonde e fornelli a gas, figure di madonne e di briganti,
santini con santa Rita, con l’Addolorata, con l’Immacolata
Concezione.
Ascolto un’animata discussione tra due venditori sulla partita della
sera prima, Milan-Juventus 0-1, mentre il mio occhio scorre su una
delle tante bancarelle di libri, che espone molte vecchie
pubblicazioni locali. Sorpreso e divertito scopro un libretto di poco
più di cento pagine, privo di copertina, il cui titolo mi spinge subito
all’acquisto (solo 5 euro): La delinquenza nelle Facoltà di Lettere /
Denuncia corredata di leggi e documenti / di / Giuseppe Pantaleone /
Palermo / Tipografia “La Sicilia” / Via Alloro N. 147 / 1910. Un titolo
che viene subito la voglia di trasferire al presente, che può dar luogo
a una serie di associazioni, allusioni, combinazioni scherzose ma
non troppo, e che poi leggerò scoprendo che si tratta delle angherie
subite dall’autore, sballottato tra diverse università e ostacolato a
ogni livello istituzionale nel suo diritto a laurearsi, per aver
pubblicato, studente ancora, nel 1904, una nota critica
sull’interpretazione che il professore di letteratura italiana di
Palermo, Giovanni Alfredo Cesareo, aveva dato dell’Estetica di
Croce (nota che aveva avuto l’approvazione dello stesso Croce). Un
caso davvero curioso, di quelli che farebbero la gioia di certi desueti
cultori di curiosità erudite, e che qualcuno potrebbe ricostruire,
anche andando a cercare i documenti successivi (quale esito ebbe
la denuncia, formalmente presentata dal Pantaleone?), ma che,
anche solo a sfogliare il libretto, fa erompere tutto un campionario di
piccineria accademica, di formalismi burocratici, di piccole ipocrisie
professorali, cose che in modi diversi continuano a prosperare nel
pletorico mare della nostra università sempre più burocratizzata,
anche nel nuovo orizzonte di burocratizzazione informatica e
postmoderna. Qui c’è, anche da parte del denunciante, un di più di
ostinazione, una particolare cura delle forme legali, il cui tono mi
sembra davvero molto siciliano e molto legato a quel 1910 da noi
così lontano. Ma fa un po’ impressione leggere nella premessa Al
lettore che l’autore intende “far conoscere al pubblico a che sorta di
persone è affidata in Italia l’educazione e l’avvenire dei giovani e
quanto marcio vi sia nel ministero e nel Consiglio Superiore della
Pubblica Istruzione” (si legga e si adatti come si vuole, ora che
possiamo credere che queste cose non accadano più…).
Ma il libretto mi ha per un po’ distratto da questo universo
dispiegato, enumerato ed enumerabile, di cui il mio occhio riesce a
sfiorare solo una piccola parte: ecco ora altre icone quasi nuove,
cuscinetti a sfera, seghe e ruote dentate, treni di latta e grosse chiavi
di ferro, telecomandi di molteplici fogge, Barbie e Asterix, scatole
targate Gucci e Vuitton, la serie dei fascicoli dei Maestri del colore,
vecchi dischi a 78 giri, ma anche a 33, Giacomo Rondinella e
Giorgio Consolini, vecchi orari ferroviari (Pozzo editore), lampadine e
lampadari di cristallo in flessuosi svolgimenti, gatti semoventi, foto di
bellezze d’altri tempi, con appeal sessuale affidato al sorriso o alla
piega delle labbra, una macchina da scrivere Underwood e una
Olivetti lettera 22, bilance a due piatti, ferri da stiro manuali, padre
Pio tra forchette di peltro, carta della Sicilia e pianta di Milano, libretti
di devozione (tra cui L’anima riparatrice), Garibaldi e Cavour, qui
esposti Gli originali occhiali da vista contro la Cina e le sue sostanze
tossiche. Foto del Quartetto Cetra e Marilyn in moltissime pose,
carretti siciliani grandi e piccoli, dal micro soprammobile al carretto
praticabile, ventaglioni e cassapanche. Una donna espone bambole
e i loro vestiti, mentre ne sta vestendo una con un abitino di bianca
organza, Renoir e Veronese tra conchiglie, biciclette, pialle da
falegname, automobiline da collezione, vasche e acquasantiere,
busto di Petrarca ed elmetti militari, un efebico san Sebastiano e
cappelli da cowboy, Budda e orchidee di carta. Ma è come se non
avessi visto né registrato quasi niente, di questo catalogo del mondo
sfasciato, sottratto alla spazzatura, delle cose sopravvissute a coloro
che le hanno costruite, usate, toccate.
Non è piacevole pensare che in questi mercatini, tra la loro
pullulante vitalità, tra l’impegno degli espositori che cercano il loro
giusto o meno giusto guadagno, aleggia la morte, la morte delle
cose qui momentaneamente salvate e la morte di quelli che le hanno
viste nuove.
Nella mattina di settembre in cui il sole espande sempre più il suo
calore, lascio la piazza che pure, tra i tanti oggetti morti, è così piena
di vita, di voci, di contrattazioni, di alterchi scherzosi, e vado alla
ricerca di un luogo nel cui nome è inscritta la morte, dalla violenza
assassina, tra quelli che più cupamente sono stati segnati dalla
guerra di mafia. Ripeto il verso del Paradiso, “mosse Palermo a
gridar: ‘Mora, mora!’”, quando cerco via Mariano D’Amelio, dove
abitava la madre del giudice Paolo Borsellino, che lì davanti un
potente ordigno fece saltare in aria con la sua scorta il 19 luglio
1992. Dopo aver svoltato tra varie strade soprattutto con nomi di
militari (ma D’Amelio era un giudice e senatore, primo presidente del
Corte di Cassazione durante il fascismo), tra palazzi eterogenei e
residui di insediamenti industriali, trovo questa strada, abbastanza
ampia ma breve e senza via d’uscita, tra palazzoni a dieci piani,
proprio sotto il monte Pellegrino. Sulla sinistra, davanti al cortile
d’ingresso di un palazzo, certo nel luogo dove è esplosa la bomba,
c’è un grande olivastro che sporge da un piedistallo in pietra, su cui
è appoggiata una lapide in pietra scura con una piccola foto e incisi
a grandi caratteri i nomi dei morti (Paolo, Agostino, Claudio,
Emanuela, Vincenzo, Walter: c’era anche una donna nella scorta di
Borsellino, la prima poliziotta morta per terrorismo).
Oltre alla lapide c’è una varia e confusa serie di segni di omaggio,
quasi laiche offerte votive, soprattutto drappi, vessilli, bandiere o
quasi brandelli di stoffa che pendono dai rami dell’olivastro;
affastellati tra il tronco e la base vari cartigli con scritte appassionate,
cordicelle e oggetti indeterminati, anche una coroncina di rosario dai
bianchi granelli, un cartello azzurro con la scritta “nave della
legalità”. Si vede sul vicino muro che cinge uno spazio vuoto sulla
strada perpendicolare, quella da cui si entra in via D’Amelio, la
grande scritta, 19/7/1993 PAOLO VIVE. Tornando alla mia auto
parcheggiata all’imbocco della strada, penso alla vita quotidiana del
giudice, in una tranquilla domenica come questa (era domenica quel
19 luglio).
Ho in mente di salire sul monte Pellegrino: nella piazza da cui
inizia la salita, che si chiama piazza Antonio Sellerio, c’è una grande
animazione, gente che procede a piedi, verso il sentiero del
santuario di Santa Rosalia, che parte da qui, o aspetta l’autobus per
salire. Dato che oggi è il giorno finale della grande festa di settembre
della santa, in cui si fa l’acchianata (la salita a piedi), la strada è
chiusa alle auto private: a un bivio che si trova poco oltre questa
piazza, ci sono dei vigili che bloccano la direzione verso il monte.
Rinuncio all’eventuale acchianata e, costretto a procedere dalla
parte del mare, decido allora di dirigermi verso la località balneare di
Mondello. Percorrendo la strada alla base del monte Pellegrino si
passa davanti al cimitero, molto visitato in questo giorno festivo, e
poi si attraversa la località dell’Addaura, piena di tracce del nucleo
preistorico di Palermo, con grotte che si aprono alla base rocciosa
del monte e che contengono incisioni rupestri, con figure umane e
animali.
Ma l’Addaura (nome in vario modo interpretato, anche se circola il
significato di alloro), oltre a queste grotte che fanno arretrare in un
passato indicibilmente lontano, evoca ancora la più vicina e cupa
cronaca della Palermo di fine Novecento, cioè un fallito attentato al
giudice Giovanni Falcone: di fronte alla villa da lui affittata, qui sulla
riva del mare, la mattina del 21 giugno 1989 fu trovata una grande
quantità di esplosivo non esploso, su cui poi si ebbe una fitta serie di
ipotesi, di rivelazioni, di depistaggi. Si trattava comunque di un
attentato mafioso fallito, tra i tanti segni che prepararono quello
riuscito tre anni dopo (la strage di Capaci del 23 maggio 1992, che
uccise Falcone con la moglie e con la scorta, pochi mesi prima che
la stessa sorte toccasse in via d’Amelio all’amico e collega
Borsellino). Turbato dalla coincidenza che in questa mia mattina
palermitana mi fa evocare a breve distanza i due giudici uccisi, mi
domando come sia stato possibile che, così poco tempo dopo
l’assassinio del primo, sia potuto avvenire quello del secondo, come
sia stata possibile, tra indagini, scorte, apprensioni, cautele, questa
terribile ripetizione: mentre mi affaccio qui su un belvedere verso il
mare, in uno slargo della strada, pullulante di immondizie di vario
genere e origine.
Ma Mondello è ben tenuta, raggiante nel sole festivo, affollata di
gitanti domenicali, un po’ costipata dal traffico, ma accogliente nei
suoi bar e ristoranti. Ma ormai mi perseguita l’ombra di quel
dantesco “Mora, mora!” e, mentre cerco un posto dove mangiare, mi
balena il ricordo di un buonissimo ristorante di pesce che ho avuto
modo di frequentare più di una volta una trentina d’anni fa, tenuto da
un gestore con una bella barba grigia e con un intenso enigmatico
sorriso siciliano, che veniva chiamato “il greco”. Ora non trovo
traccia di quel ristorante, ma ricordo di averne una volta chiesto
notizia e di aver saputo che il gestore era stato ucciso.
Nel pomeriggio, preso finalmente possesso della stanza,
attraverso il quartiere della Vucciria, tra facciate dalle mura corrose,
porte sprangate o dalla precaria chiusura, finestre murate, sfondate,
spalancate, ma anche piccoli locali con esposti economicissimi
menu: qui più tardi ci sarà vario movimento e brusio, soprattutto di
giovani, quella che da un po’ di tempo è invalso uso di chiamare
spagnolescamente movida. Nella sconsacrata e restaurata chiesa
cinquecentesca di Sant’Eulalia dei Catalani, c’è la sede dell’Istituto
Cervantes, cuore spagnolo e spagnolesco della Vucciria. Sull’ordine
superiore della facciata quattro ghirlande con busti di re spagnoli,
mentre in un’edicola su una parete della vicina piazzetta del Garraffo
la statua quattrocentesca del Genio di Palermo (Palermo lu Grandi),
sistemata lì, come dice una lapide che lo sovrasta, sotto il regno del
re Filippo IV (III di Sicilia). Il Genio, barbuto e coronato, abbracciato
a un grosso serpente che si nutre dal suo petto, sembra quasi
ridotto, nella statua un po’ slabbrata, a una figuretta bonaria e
benevola.
Dopo aver notato un’altra lapide, che riconduce al settecentesco
Carlo III di Borbone, raggiungo la piazza centrale del mercato
eponimo della Vucciria, in questo pomeriggio quasi vuota: c’è, su
uno dei lati della piazza, una bassa costruzione di un solo piano,
corpo avanzato dell’edificio alle spalle. Su di essa c’è una terrazza,
che mi ricorda una formidabile pasta con le sarde mangiata nel mio
primo viaggio a Palermo (era il 1971). L’oste era di grossa
corporatura e parlava con un suo tono pieno di passione, quasi
accorato, come se ogni parola lo esponesse a un’espansione di sé,
accompagnata dal gesticolare delle sue mani bianche e grassocce;
e gli piaceva cantare, con voce un po’ sguaiata ma abbastanza
intonata, davanti ai clienti, tanto che ci cantò qualche vecchia
canzone napoletana, forse O surdato ’nnammurato!. Ma ora la
trattoria non c’è più e la terrazza è deserta: dal basso vi si scorgono
mucchi affastellati di legname sfasciato. Qualche anno fa, tornando
alla ricerca di quella pasta alle sarde, avevo saputo che anche
questo oste canoro era stato ucciso.
Ma il tardo pomeriggio domenicale sembra escludere ogni
reminiscenza delle tante violenze che hanno turbato questa città:
superata la grossa statua metallica di san Cristoforo accanto al
grande palazzo fascista delle Poste e Telegrafi, già più animato
appare il quartiere dell’Olivella, tra la superbarocca chiesa di
Sant’Ignazio e la facciata del Museo archeologico, un tempo
Nazionale (come indica ancora la scritta incisa sull’architrave), ma
ormai da tempo Regionale. E poi la via Ruggiero Settimo, pedonale
nel giorno festivo, con i negozi, soprattutto di abbigliamento, aperti
per lo shopping. Dove ora c’è uno dei tanti prêt-à-porter con sigle
internazionali (o forse un Disney Store dagli abbaglianti colori) c’era
fino a poco tempo fa la grande libreria Flaccovio, la più bella di
Palermo, sfrattata come tante vecchie librerie dei centri storici delle
nostre città (dove semmai resistono o si propagano quelle atteggiate
come supermercati, libri e non solo…).
Nel fitto muoversi pedonale di questa strada viene voglia di
interrogare i diversi volti, il diverso procedere, la multiforme sostanza
di tutti coloro che passano, famiglie con seguito di bimbi recalcitranti
e pensionati solitari, benestanti abbigliati con classica cura e giovani
sciamannati, tacchi a spillo e corazzate scarpe sportive; una bella
ragazza bruna, accompagnata da un nero cagnone, vende gioielletti
disposti su un piccolo banchetto, mentre poco più in là c’è una di
quelle mendicanti inginocchiate con la schiena piegata, il volto fino a
terra e le mani giunte, che ormai si trovano in tutte le città e
sembrano allestite come delle maschere tutte uguali, prodotte in
serie da una criminale impresa sfruttatrice. La via Ruggiero Settimo
sbocca sulla piazza Politeama, dove c’è il monumento allo stesso
Ruggiero Settimo: il patriota, che fu capo del governo provvisorio
istituito dalla rivoluzione del 1848, volge le spalle al trionfale edificio
del Teatro Politeama e, chiuso in un pesante cappotto, sembra
guardare corrucciato la brulicante folla che gli passa davanti, specie
quelli che siedono sulle panche di pietra della piazza. Qui sostano, in
questa porzione del loro riposo domenicale, molti lavoratori stranieri,
uomini e donne: noto dei filippini che stanno discutendo
animatamente e, più in là, un gruppo di sorridenti indiane vestite di
sgargianti e multicolori sari, con veli rossi di varie sfumature, che
guardano una piccola bimba che ha appena imparato a camminare e
zampetta felice seguita dal padre. Ma intanto passa e si ferma un
gruppo di adepti a qualche setta religiosa: ostentano cartelli con
varie scritte bibliche e intonano monotoni canti.
Nel suo brulichio la sera che scende mi porta altri segni di religiosa
pietà: davanti al Teatro Massimo due ragazzi muovono una singolare
edicola, su cui, tra corone di fiori, poggia la statuetta di una madonna
Addolorata, e chiedono offerte per un’apposita confraternita: lascio
qualche moneta e ne ottengo un santino con inscritta la doverosa
preghiera. Procedendo poi nella via Maqueda, che taglia
perpendicolarmente la strada del Cassaro, che mi riporterà
all’albergo, prima di arrivare all’incrocio dei Quattro Canti (con le loro
facciate di scenografico arredo barocco) entro nella chiesa di Santa
Ninfa dei Crociferi, richiamato dalla musica che altoparlanti interni
fanno riecheggiare fin sulla strada. Qui, al centro del transetto
sinistro, c’è l’altare di san Camillo De Lellis (1550-1614), fondatore
dell’ordine dei Crociferi, patrono degli ospedali, dei malati e del
personale sanitario: sotto l’altare c’è un’ampia teca con le reliquie del
santo (che è sepolto a Roma), la sua maschera mortuaria, due panni
bianchi, il suo bastone, dei calzettoni da lui usati, e, come dice un
cartiglio, una particella del suo cuore (il cui resto si trova nel suo
paese natale, a Bucchianico in Abruzzo).
A Palermo, dal 22 al 24 settembre si svolge il convegno della
SILFI (Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana),
organizzato dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani,
presieduto dall’attivissimo dialettologo Giovanni Ruffino, nell’aula
magna del Palazzo Steri, dove ora c’è il rettorato dell’università: è
l’antico Palazzo dei Chiaramonte, la cui costruzione fu iniziata
proprio quando Dante cominciava a scrivere l’Inferno, e che poi, con
la sconfitta dei Chiaramonte, passò ai viceré di Sicilia e dal 1601 al
tribunale del Sant’Uffizio (con le carceri dell’Inquisizione, sulle cui
mura si vedono ancora scritte e disegni dei prigionieri). Quest’aula
magna è coperta da un bellissimo soffitto ligneo dipinto con storie
bibliche e cavalleresche, figure relativamente piccole che è difficile
identificare a occhio nudo lì dal basso, ma che nell’insieme danno la
fantastica suggestione di un mondo fiabesco, disseminato in
avventurose luminescenze, tra scontri sovrumani e avventurosi
intrighi di “donne antiche” e “cavalieri”. Quasi controcanto a questo
fantastico soffitto, all’ingresso della sala, esposta su di un grande
cavalletto, c’è una celebre tavola di Renato Guttuso, coi suoi densi e
fulminanti colori, con l’accumulo assoluto di cose, di carni, di volumi
corporei, senza spiragli d’aria, senza nessuna possibilità di distanza:
è proprio la Vucciria, nel suo brulicante e assoluto affastellato
affollamento degli anni settanta.
Durante il convegno, pensando ad “affanni”, “agi”, “amore” e
“cortesia” dei Chiaramonte, presto scalzati (e sanguinosamente) da
questo palazzo, volgo più volte lo sguardo, torcendo il collo, verso il
soffitto, in un tentativo di decifrare le figurine lassù, che incalza
anche mentre tengo la mia relazione (Scelte linguistiche e
percezione del mondo nella modernità italiana, dove non possono
non avere campo scrittori siciliani: prelevo campioni da otto scrittori,
e quattro sono siciliani, Pirandello, Brancati, Sciascia, Consolo).
Relazioni e comunicazioni di bravi linguisti mi riconducono
comunque a riflettere, come tante volte mi è capitato, sui caratteri
del loro tecnicismo, su quanto di illusorio e di evanescente c’è nella
loro stessa precisione, nel loro inscrivere dati di lingua e di
comunicazione in parametri classificatori, nella loro fiducia in schemi
che si vogliono scientifici.
La sera del 22 sono a Bagheria, a cena a Villa Palagonia, la più
celebre delle molte ville nobiliari presenti nella zona, che raggiungo
in auto con grande difficoltà districandomi nella tortuosa topografia
delle strade, tra sensi unici che impongono andirivieni tra viuzze
scalcinate, piazzole, incroci, intoppi, talvolta semafori. Vengo dal mio
vecchio amico Natale Tedesco (che purtroppo ci lascerà il 13 ottobre
2016), fino a pochi anni fa docente di letteratura italiana all’università
di Palermo, immerso nella letteratura siciliana, di cui frequenta tutte
le pieghe e che sostiene con un suo esuberante entusiasmo, con
una passione che sempre più si anima, che si protende nel
manifestarsi. Natale ha vissuto a lungo in una parte più ampia della
villa, che ora ha lasciato: si è trasferito poco oltre Bagheria, a Santa
Flavia, ma ha mantenuto un appartamento in perfetta funzione nella
parte bassa della villa, dove stasera ceniamo. Natale non discende
dal bizzarro principe di Palagonia, che ricevette la visita di Goethe,
poco disposto ad apprezzare quella bizzarria, a cui guardò con
sprezzante sussiego. La villa è giunta a lui per via dei D’Alessandro,
nonno e nonna materna, con una serie di passaggi che oggi mi
ricorda. Mentre aspettiamo le pietanze, che giungono dalla vicina
cucina di Don Ciccio (formidabile trattoria, la cui autentica cucina
siciliana si avvale della totale esclusione di ogni tipo di frittura),
passeggiamo nei viali del giardino, lungo il muro di cinta sul quale
sono appollaiate le statue allestite dal principe settecentesco, che
appunto non piacquero a Goethe: mostri, figure fantastiche, dalle
improbabili pose, sommariamente scolpite, che nella sera, sotto il
riverbero vario delle luci della villa o delle strade vicine, si delineano
nell’ombra, quasi fantasmi che ne stanno dubitosamente
emergendo. Col diverso disporsi dell’illuminazione più o meno vicina
e dell’orientamento del muro, qualcuna di queste figure proietta la
sua ombra sui muri o sulla ghiaia del viale che percorriamo, dove si
muovono mutando anche le nostre ombre che procedono. La calda
sera di settembre sembra così espandersi in una stralunata
configurazione dello spazio e del tempo, crea un circuito tra quelle
statue bislacche e noi che attraversiamo il viale, ci lega insieme e
quasi ci confonde. Siamo nel mondo del bizzarro principe di
Palagonia, ma ne estraiamo effetti per lui impossibili e impensati,
con questi giochi di luci e di ombre determinati dall’illuminazione
elettrica, dai riverberi vari che su questo viale e lungo il muro su cui
si appoggiano i mostri lasciano le luci delle finestre della villa e dei
lampioni che sono al di là dello stesso muro.
Nel presente, nella sua agevole disponibilità alimentare, ci fa
tornare la cena, con i pezzi forti della cucina di don Ciccio, pasta con
le sarde, caponata di melanzane, involtini di pesce spada, tipica
cucina bagherese, ma chi sa quanto lontana da quella del principe
che qui viveva. Insieme a Natale e alla moglie Mimì (Domenica
Perrone, che insegna letteratura italiana contemporanea
all’università ed è presidente del Comitato di Palermo della Società
Dante Alighieri) è a cena con noi un autentico bagherese, il linguista
Franco Lo Piparo, che mi parla dei suoi recenti studi su Gramsci, dei
suoi vari rilievi sulla struttura dei Quaderni, sul quaderno che ritiene
perduto e distrutto, sui contrasti di Gramsci con la dirigenza del Pci,
sulla possibile suggestione del suo pensiero linguistico su quello di
Wittgenstein. Nell’immagine di Gramsci che ne scaturisce, nella
distanza dal modello che ne disegnarono i comunisti del dopoguerra,
sento come uno specchio della stessa distanza della Bagheria di
oggi da quella che nel Novecento ha alimentato tanta infuocata
passione comunista, come in due più celebri bagheresi, il poeta
Ignazio Buttitta e il pittore Renato Guttuso.
Il 23 settembre il convegno della SILFI mi porta a pensare alle
attuali difficoltà della poesia, alla sua pericolosa evanescenza, in cui
si riconosce il più generale stato della lingua italiana: Enrico Testa,
linguista ma anche poeta, mostra, con dovizia di dati tecnici, come in
Italia oggi la lingua della poesia segua il destino dell’uniformarsi e
del parallelo contaminarsi di un italiano medio, proiettandosi come
“lingua della lingua”. Una lingua che si ribalta su se stessa, che non
sembra poter attingere a un’essenzialità espressiva, ma disporsi
piuttosto entro una sorta di neutralizzazione dell’esperienza.
Al cinquecentesco Pietro Bembo è dedicato l’intervento di tre
giovani studiosi (Fabio Massimo Bertolo, Marco Cursi e Carlo
Pulsoni), sul ritrovamento, in una collezione privata, di un’esemplare
della prima edizione delle Prose della volga lingua (1525), con
postille autografe dell’autore: tra le varie notazioni, si ricorda che tra
gli autografi bembiani ce n’è uno che riguarda direttamente Dante; si
tratta del manoscritto Vaticano latino 3197, che contiene (oltre alle
poesie volgari del Petrarca) il testo della Commedia preparato da
Bembo per l’edizione di Aldo Manuzio del 1502.
Ancora vicino a Dante mi riconduce la presentazione di un’opera
davvero capitale, giunta a conclusione dopo un lungo lavoro: è il
Vocabolario Storico-Etimologico del Siciliano di Alberto Vàrvaro, due
formidabili volumi, che allegano 600 lemmi (ma ognuno di essi
contiene moltissime parole), che variamente riconducono fino al
siciliano delle origini, quello considerato da Dante nel De vulgari
eloquentia. Il primo lemma, abbintári (riposare) esibisce subito
citazioni dai duecenteschi Guido delle Colonne (ben noto a Dante) e
Rinaldo d’Aquino: “Amor mi sbatte e smena, che no abento”; “io non
posso abentare / la notte né la dia”, e poi il successivo lemma
abbéntu (quiete, riposo) allegano subito Giacomo da Lentini e Cielo
d’Alcamo. Tante spigolature dantesche potrebbero farsi percorrendo
questo Vocabolario: il suo rigore, la sua precisione e ricchezza di
riferimenti sono il frutto di un vario sapere dispiegatosi nel corso dei
secoli, di tante voci che hanno lasciato traccia nelle più varie
scritture, che la sapienza dello studioso (ovviamente con l’ausilio di
tante altre sistemazioni precedenti) ha saputo reperire, interpretare,
organizzare. Grandi opere come questa sono come l’esito finale, la
sistemazione istituzionale, di quel proliferante sapere, delle vite
molteplici da cui esso è scaturito: le risultanze dei nostri studi, con
strumenti di lavoro come questo, sembrano come fissare da dopo
quella realtà pullulante su cui si trovano a operare. In tutto ciò c’è
come uno squarcio esistenziale, che crea un circolo tra le vite
perdute del passato di cui si raccolgono le tracce e la vita presente
di chi le raccoglie, esposta comunque alla precarietà, alla finitudine.
Ora l’autore, che doveva partecipare alla presentazione, è assente:
vive a Napoli e il suo stato di salute gli impedisce di venire a
Palermo. Pochi mesi più tardi arriverà la notizia della sua morte.
La tarda mattinata mi porta a una rapida visita, non lontano dallo
Steri, a Palazzo Abatellis, sede della Galleria regionale della Sicilia,
dove è l’affresco quattrocentesco del Trionfo della morte,
proveniente dal Palazzo Sclàfani. Lo scheletro che avanza su di uno
scheletro di cavallo regge un arco di cui non si vedono bene le
frecce, che è pronto a scagliare contro un gruppo di giovani
gaudenti. Sulla destra si espande una vita di immemore
piacevolezza, intorno a una strana fontana circondata da amene
verzure, mentre nel bosco scuro che si disegna dietro il cavaliere un
famiglio conduce dei cani al guinzaglio. Accanto alla fontana c’è un
suonatore d’arpa, mentre più giù c’è uno che suona un liuto, poi un
gruppo di eleganti dame tra loro intrecciate, ma più in basso un
gentiluomo sfarzosamente vestito è colpito alla gola da una freccia,
mentre un altro gli sorregge la mano e poco a sinistra anche una
dama è caduta, colpita sempre al collo, anch’essa con una vicina
che la sorregge e sembra comunque mantenere un atteggiato
contegno. Poi ancora a sinistra un mucchio di prelati, tra cui c’è
anche un barbuto con un turbante saraceno: tutti disposti sotto lo
scheletrico cavallo e definitivamente trapassati da frecce, mentre
affiancati alla sinistra del mortale cavaliere restano vivi degli umili e
storpi in atto di preghiera, tra cui c’è lo stesso pittore. Mentre
contemplo il quadro, una ragazza dello staff mi invita a visitare una
piccola mostra in una stanza lì accanto, che sta per essere chiusa:
documenta l’inaugurazione di questa stessa Galleria, che ha avuto
luogo il 23 giugno 1954; vi sono esposte molte foto della cerimonia,
galleria di tanti personaggi dell’epoca, politici, giornalisti, notabili.
L’effetto della vicina visione del grande affresco si riverbera sui
vestiti, le posture, la misura corporea, il senso di padronanza dello
spazio che le loro foto sembrano registrare: chissà se ce ne sia in
vita ancora qualcuno, nella Palermo di oggi.
Ma non sono qui solo per quel Trionfo della morte: tra queste mura
si dispiega nel tempo l’immobile esistenza di due donne piene di
fascino segreto. Ecco la prima, in una vicina sala, fissata in un
marmo prezioso: è il busto di Eleonora d’Aragona di Francesco
Laurana, che una signora più o meno quarantenne sta
contemplando con estatico sorriso, seduta sulla panca di pietra che
è disposta nel vano della finestra. L’affilato profilo della contessa di
Caltabellotta, morta già da molto tempo (1405), quando l’artista la
scolpì (1468), si modifica man mano che le giro intorno, seguendo i
vari effetti del dolce posarsi della luce sul mento, al centro della
fronte, sull’attacco del naso. La perfezione del suo capo, coperto
dallo stretto caschetto, una sorta di leggero velo zigrinato che
nasconde i capelli, è come definita da una sua leggera diversione
verso sinistra: e quando la guardo dalla sua sinistra (dalla mia
destra, mentre mi pongo dalla parte della finestra) la luce che viene
da fuori si posa sullo zigomo e lascia qualche riflesso sul collo, dove
il marmo mostra particolari venature.
L’altra è una donna che fa erompere luce direttamente dal piccolo
quadro che la fa apparire, in una dimessa, quasi timida ma sicura
bellezza: è la Annunziata di Antonello da Messina, col libro dalle
pagine aperte sul leggio e le mani che sembrano come muoversi in
avanti, sospese dal gioco delle ombre. Non capisco se l’esitante
sospensione del suo sguardo, con la lieve sporgenza dello zigomo
destro, si pieghi leggermente verso il basso, mentre la bocca di
dolce impossibile fanciulla siciliana sta per dire qualcosa. La mano
destra sembra dire “fermati!”, mentre la sinistra regge e tiene chiuso
l’azzurro variamente picchiettato e corroso del velo. La guardo un
po’ da lontano, seduto su una panca di legno, e poi in piedi molto da
vicino: ma sempre sul mio sguardo agisce un effetto di lontananza. È
una presenza che sta per allontanarsi, è la purezza inafferrabile
della bellezza, che l’artista ci ha lasciato qui mentre si è dileguata
ogni consistenza della bellezza da lui vista, toccata, ritratta, mentre
egli stesso è sparito dal mondo. E mi sembra che ci sia qualcosa
che collega queste due donne tra loro contemporanee, tanto diverse,
la nobile signora di pietra e la madonna popolana colorata d’azzurro
e di luce: lo sguardo che si posa su di esse ne afferra la consistenza
nel suo stesso perdersi, viene a toccare nel darsi presente e fisico
della scultura e della pittura lo svanire degli attimi di vita che esse
hanno fissato, con i loro mezzi tanto diversi. Così vive qui una
bellezza da sempre perduta.
Uscendo dalla Galleria, sfioro la chiesa della Gancia e poco oltre
vedo una grande stele di marmo, che ingloba una finestra inferriata e
più in basso la traccia di una sghemba apertura ora richiusa: è la
Buca della salvezza, attraverso cui, come dice l’epigrafe, il 9 aprile
1860 fuggirono due patrioti, Gaspare Bivona e Filippo Patti, scampati
all’eccidio perpetrato dai soldati borbonici qualche giorno prima,
nascondendosi tra i cadaveri.
Ma il pomeriggio mi porta, con tutti i convegnisti, a Monreale,
uscendo da Palermo per l’interminabile corso Calatafimi, attraverso
una periferia che sembra voler estendere la città fin verso la base
del colle che porta su a Monreale, il cui Duomo appare davvero
come qualcosa di irreale, tempio cristiano dalle forme saracene e
normanne, che si affaccia sulla Conca d’oro, in cui brulica Palermo
con il suo entroterra, fitto di case, di costruzioni finite e non finite,
che tolgono spazio alla sontuosa vegetazione, tanto che ormai
verrebbe da chiamarla Conca di cemento. Ma l’oro, e quanto oro, è
rimasto all’interno della cattedrale, nelle mura adorne di quei mosaici
splendenti (circa 3400 metri quadrati): entriamo mentre il suono del
potente organo (inserito nel 1968) invade l’ampio spazio e quasi
sembra toccare la superficie dei mosaici, mentre lo sguardo severo
del Cristo Pantocrator ci guarda dall’abside. Quando la musica tace
un dotto sacerdote descrive l’immenso ciclo, le storie del Genesi, dei
Vangeli, dell’Apocalissi; parla delle immagini come litteratura
laicorum, esalta la bellezza come manifestazione del divino, insiste
sul valore dell’orientamento della basilica a Oriente, sui significati del
vario riflettersi del sole su punti particolari del mosaico. Cristo come
Oriente: e l’oro dei mosaici come luce, lux nome primo di Dio. Luce
ricorre 67 volte nella Commedia “O luce etterna che sola in te sidi, /
sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!”
(Paradiso, XXXIII 124-126).
In un altro universo ci trasporta la serata, con una cena in un
ampio ristorante oltre Monreale, preceduta dall’esibizione di un
gruppo di musica popolare siciliana, guidato da Mario Incudine,
musicista di Enna, pieno di eccezionale vitalità, tra i più attivi
esponenti della cosiddetta world music italiana; capace sia di
raccogliere canti dell’antica musica popolare che di contaminarne i
modelli con personali soluzioni contemporanee. Ecco un canto
luciota (cioè di Santa Lucia del Mela, nel messinese), Spunta lu soli,
di cui mi restano impressi questi versi:

Chiudirimi ’nte so manu iu mi vurria


bedda sai chi ti dicu dammi na vasata

Dammi na vasata dammi na vasata


sai chi ti dicu e dammi na vasata.

Sono canti accompagnati anche da strumenti popolari, come un


doppio zufolo e uno scacciapensieri di cui ci vengono sciorinati molti
nomi siciliani. Ecco canti di carcere; ecco un canto che riproduce
quello registrato dalla viva voce popolare dall’antropologa Elsa
Guggino (l’amante dice: “scannami / ammazzami / cu te voju murì”);
ecco un Cunto de l’Immacolata. È un’esplosione di passioni che
affondano nella notte di sentimenti estremi e assoluti, in cui
un’umanità dalla vita dura e irredimibile esprimeva il proprio bisogno
di un oltre, di una impossibile, violenta, implacabile pienezza
dell’esistere. Noi ora la viviamo come spettacolo, come ricordo,
come filologia, grazie alla perizia, alla passione, all’intelligenza vitale
di un artista che con entusiasmo ne insegue le tracce.
Palermo: la cattedrale

Quest’è la luce de la gran Costanza,


che del secondo vento di Soave
generò ’l terzo e l’ultima possanza.
(Par., III 118-120)

Se il giorno passato mi ha allontanato un po’ da Dante e dal suo


mondo, ci torno subito la mattina del 24 settembre, visitando i
sepolcri dei re di Sicilia, tra cui domina quello di “Federigo di Soave”,
Federico II di Svevia, il grande imperatore. Che nel Convivio, IV III 6,
è detto “ultimo imperadore delli Romani” (quando Dante scriveva il
Convivio non era ancora sorto sul suo orizzonte Enrico VII) e che
poi, pur senza smentire la sua ammirazione per lui, viene collocato
nel cerchio infernale degli eretici, dove è lo stesso Farinata a
indicarne la presenza (“Qui con più di mille giaccio: / qua dentro è ’l
secondo Federico / e ’l Cardinale; e de li altri mi taccio”, Inferno, X
118-120).
Le due cappelle comunicanti, all’inizio della navata destra, si
visitano passando per la biglietteria vicino all’ingresso della chiesa.
Subito si nota il potente sepolcro in porfido dell’imperatore, stupor
mundi, con la lapide che dice HIC SITUS EST ILLE MAGNI NOMINIS
IMPERATOR ET REX SICILILIAE FRIDERICUS II OBIIT FLORENTINI IN APULIA IDIBUS
DECEMBRIS ANNO MCCL (“Qui è deposto l’imperatore di gran nome e re
di Sicilia Federico II morì a Fiorentino in Puglia il 13 dicembre
1250”). Accanto c’è una varia documentazione sulle aperture della
tomba: un disegno di F. Daniele sull’apertura del 1781-1801, e poi, al
passo con i nostri tempi, un video che variamente giustifica la
recente apertura (1998), in cui i resti dell’imperatore sono stati
analizzati con metodi ormai considerati scientifici. Nel video gli
addetti ai lavori giustificano la loro impresa come utile in primo luogo
per la adeguata conservazione di quelle spoglie. Eppure ho
l’impressione che questo voler studiare i cadaveri sia uno dei segni
più lugubri della programmatica indiscrezione della nostra cultura: le
nostre pretese di conoscenza (di che poi? e a quali fini?) ci portano a
violare questi miseri resti, a puntare i nostri strumenti sulla disfatta
materia di una vita che non c’è più, che non sa né può difendere la
propria intima persistenza. Qualcuno fa programmaticamente cose
del genere con la pretesa di ricostruire così le fattezze, il Dna, il
modo di morire ecc., del grande personaggio che capita sotto le sue
grinfie. E c’è anche chi diseppellisce migliaia di cadaveri
pretendendo di ritrovare quello di qualcuno di cui si ignora la tomba
(è successo anche per Caravaggio…).
Ora Federico è comunque nel suo massiccio sepolcro (che
condivide con Pietro III, primo re aragonese di Sicilia), sul cui
piedistallo sono appoggiati dei mazzi di rose bianche e rosse,
omaggio devoto a questo terzo e ultimo vento di Soave (vento come
fulminea potenza, che si avventa e si dilegua come il vento; Soave è
forma italiana di Schwaben, la casa di Svevia). Dietro la sua tomba
c’è quella del nonno normanno Ruggero II e poi nell’altra cappella
(che è la prima della navata) quella del secondo vento di Soave, il
padre di Federico, Enrico VI, morto a Messina nel 1197. Dietro
Enrico c’è la moglie Costanza d’Altavilla, ultima della stirpe
normanna: è la gran Costanza la cui luce risplende nel cielo della
Luna, come indica lo spirito di Piccarda Donati nella parte finale del
III canto del Paradiso (dove Dante dà credito a una falsa leggenda,
diffusa in ambito guelfo, secondo cui, prima di sposare Enrico VI,
Costanza sarebbe stata suora, sottratta poi a forza dal convento).
Sulla parete di fondo, c’è un sarcofago romano, dove è tumulata
un’altra Costanza, la prima moglie di Federico II, Costanza
d’Aragona, figlia di Alfonso II d’Aragona (è grazie a questo
matrimonio che più tardi gli Aragonesi rivendicarono il trono di Sicilia,
quando ne furono scacciati gli Angioini, con la guerra del Vespro).
Due Costanze, quindi, che raccordano variamente la casa di Soave
con quella precedente e quella successiva dei re di Sicilia: raccordo
rafforzato e prolungato da una terza Costanza, la figlia di Manfredi,
che lo spirito del padre ricorda a Dante nell’Antipurgatorio,
chiedendogli di informarla della sua condizione di penitente:

Poi sorridendo disse: “Io son Manfredi,


nepote di Costanza imperadrice;
ond’io ti priego che, quando tu riedi,

vadi a mia bella figlia, genitrice


de l’onor di Cicilia e d’Aragona…”
(Purg., III 112-116)

Madre dell’“onor di Cicilia e d’Aragona”, questa terza Costanza,


sposa a Pietro III d’Aragona e madre del re di Sicilia Federico III e di
quello d’Aragona Giacomo II (tutti e due duramente criticati da
Dante, come si è visto, pp. 513-514): indicata così, senza ripetere il
suo nome (dopo che è stato fatto quello della nonna), all’inizio del
discorso di Manfredi e di nuovo (stavolta col nome) nel suo
congedarsi da Dante, perché le sue preghiere abbrevino il divieto
che costringe gli scomunicati a sostare nell’Antipurgatorio trenta
volte il tempo in cui è durato il loro distacco dalla Chiesa:

Vedi oggimai se tu mi puoi far lieto,


revelando a la mia buona Costanza
come m’hai visto, e anco esto divieto:

ché qui per quei di là molto s’avanza.


(Purg., III 142-145)

C’è un certo contrasto tra la severa postura di queste tombe e


l’assetto tardosettecentesco di questo interno della cattedrale
(quando esse furono sistemate qui, spostate dall’originaria
collocazione alla destra del presbiterio): questo è molto meno
suggestivo dell’esuberante esterno, delle sue alberature arabo-
normanne persistenti tra gl’intarsi di altri stili e di altre epoche.
Quasi opposta alle tombe, alla destra del presbiterio, proprio dove
esse dovevano prima trovarsi, c’è la cappella di santa Rosalia, in cui
i resti della santa vengono venerati in una teca d’argento
dall’avvolgente ornato barocco. A un certo punto della navata
sinistra, invece, c’è una mostra fotografica in ricordo di don Giovanni
Puglisi, sacerdote ucciso dalla mafia il 15 settembre 1993: su di un
pannello campeggia un suo grande ritratto fotografico. Nella chiesa
poco affollata, in cui è disposto un ricco addobbo floreale, si avvicina
a questa mostra con sguardo indifferente una ragazza avvolta in un
appariscente e aderentissimo abito rosso e poco più in là un
bambino tutto vestito a festa, con pantaloncini e giacchetta da
cerimonia. Certamente sono in attesa di un matrimonio: si vedono
qua e là nella chiesa, e poi soprattutto di fuori, davanti al portico
d’ingresso, vari ospiti anch’essi in attesa. Qui dentro, dalla parte di
santa Rosalia, c’è un’altra giovane truccatissima che ostenta un
serpeggiante decolleté blu; fuori, tra l’ombra e il sole del mattino, vari
uomini incravattati in abito scuro.
Ma, portando a termine questo soggiorno palermitano, raggiungo il
luogo dove prima dovette risuonare quel “Mora, mora!” riportato da
Dante: nel quartiere della Kalsa, in quello che era l’antico rione dei
Lattarini (arabo suk-al-Attarin, “mercato della droga”), raggiungo
piazza Croce dei Vespri, dopo aver superato la piazza Sant’Anna,
che prende nome dalla omonima chiesa settecentesca, tutta
addobbata e coperta di luminarie per la festa di Maria Santissima
della Mercede, venerata nell’oratorio che è sulla stessa piazza.
Manifesti annunciano le varie fasi della festa, con al culmine la
processione di domenica 28.
Al centro della piazza Croce dei Vespri, dove, secondo tradizione
(in realtà molto dubbia) furono seppelliti molti francesi uccisi durante
la rivolta dei Vespri, c’è una colonna sormontata da una croce, copia
di quella innalzata qui nel 1737. Su un palazzo che dà sulla piazza
c’è una lapide che ricorda come la tradizione fissi lì la dimora di Jean
de Saint-Rhémy, giustiziere di Val di Mazzara, ucciso dalla folla il 31
marzo 1282: su quella giornata circolano del resto racconti di
violenza terribile ed efferata (neonati fracassati sui muri, Angioini
evirati e i loro genitali messi sotto sale e spediti a Napoli come dono
al loro re ecc.), in cui si sostanzia e si amplifica quel dantesco “Mora,
mora!”.
Sulla piazza Croce dei Vespri dà anche il Palazzo Valguarnera
Gangi, che fu abitato dalla Marianna Ucria costretta a sposare il
principe suo zio, a cui è dedicato il romanzo di Dacia Maraini: e nelle
sale del palazzo venne girata la superba scena del ballo nel
Gattopardo di Luchino Visconti. Il ricordo del Gattopardo riconduce
al Risorgimento: e ora, dopo aver letto su un muro della via ODIO
ETERNO PER STATO E GOVERNO – ACAB, arrivo sulla piazza della
Rivoluzione (quella del 1848), dove poi si apre la via Garibaldi,
all’inizio della quale c’è una lapide che ricorda appunto il ’48: su
questa via prospetta la mole del Palazzo Ajutamicristo, dove fu
alloggiato nel 1535 l’imperatore Carlo V, che passava a Palermo, al
ritorno dalla vittoria di Tunisi contro il Barbarossa (Khayr al-Dīn). Poi
girando verso sinistra si incontra la chiesa della Magione, bellissima
chiesa normanna, tra le meno note e meno visitate.
Da qui vado all’Orto botanico, altra meraviglia palermitana, in uno
dei cui edifici si svolge la seduta finale del convegno della SILFI. Poi,
ancora nel cuore della Kalsa: entrando dalla Porta Reale, si può
raggiungere la chiesa di Santa Maria dello Spasimo, che ha avuto
vari usi nei secoli ed è stata recentemente restaurata lasciando
scoperto il tetto, adibita ad attività culturali. La suggestione del nome
della chiesa e di una deposizione che Raffaello per essa dipinse,
denominata Lo Spasimo di Palermo (ora a Madrid, al Prado), che
sembra accogliere in sé tutto il dolore e la violenza della Palermo
contemporanea, fornirono a Vincenzo Consolo il titolo del suo
romanzo uscito nel settembre del 1998: e ricordo la mia emozione
quando con l’amico scrittore lo presentammo proprio qui, in una
dolce sera dei primi di ottobre, mentre il vento aleggiava sulla navata
scoperta della chiesa sconsacrata. Passammo la notte al vecchio
Grand Hotel Et Des Palmes, in un salone del quale vedemmo
passare quello che allora era un politico (deputato di Forza Italia, di
cui era uno dei fondatori) e celebre bibliofilo, Marcello Dell’Utri,
amico diletto di Silvio Berlusconi.
Ma ecco una delle più belle tra le chiese barocche palermitane,
Santa Teresa, proprio sulla piazza della Kalsa. La piazza è limitata
verso nord dalla Porta dei Greci, che conduce sul Foro Italico, con
l’ampio viale aperto sul mare. Subito, davanti alla porta, dalla parte
del mare, è parcheggiato un grande carro che sostiene una nave
multicolore, che ha sulla poppa un’edicola circondata da una
balaustra, su cui si accede con pochi gradini. Sull’edicola c’è un
basamento che sorregge la statua di santa Rosalia: è il suo carro,
quello che è stato usato per la festa del 14 luglio. Allora mi dico che
non posso lasciare Palermo senza salire al monte Pellegrino,
Piddirinu, senza visitare il santuario della Santuzza.
Ora non ci sono intoppi all’ascesa: la strada si snoda sul pendio
brullo e sassoso, che man mano cede il passo a una meraviglia di
pini e di fichi d’india, mentre sempre più si apre il panorama sulla
Conca d’oro e sul fitto brulicare di Palermo. Dallo spiazzo affollato di
locali e di bancarelle una scala porta su una terrazza da cui appare
la costa, col mare che brilla verso nord: si vede il borgo marino di
Sferracavallo, quello di Tommaso Natale (che ha il nome di un
giurista e filologo del secondo Settecento) e la piccola Isola delle
Femmine. L’ampio edificio del santuario è addossato alla roccia, si
espande accanto alla grotta dove si racconta che si sia ritirata la
nobile fanciulla, in pieno secolo XII, e dove rimase il suo corpo,
miracolosamente ritrovato nel 1624, con taumaturgici effetti sulla
peste che allora infuriava a Palermo.
Si entra in una sorta di atrio dove, addossata alla roccia, c’è una
statua della santa con un teschio in mano, attorniata da ex voto
confusamente disposti, mentre sul muro dirimpetto ci sono teche con
ordinata disposizione di cuori ex voto e alcune epigrafi, tra cui,
affiancate, italiana e tedesca, quelle che ricordano la visita di Goethe
il 6 aprile 1787, che SI FERMAVA A CONTEMPLARE LA SEMPLICITÀ PRIMITIVA
DEL SANTUARIO E LE FORME ELETTE DEL VENERATO SIMULACRO. Da lì si
passa nella grotta, dove un sontuoso simulacro giace sotto un altare
disposto verso sinistra (mentre l’altar maggiore è sovrastato da una
statua della Madonna). La Santuzza è vestita di un manto tutto d’oro,
distesa in estasi, appoggiata sul braccio destro, mentre la mano e il
braccio sinistri reggono un crocifisso e uno scettro. Accanto a questo
suo lato sinistro c’è un angelo in piedi che dal grembo getta su di lei
fiori d’oro; da una parte e dell’altra vari oggetti metallici, libro, fiori,
reliquiari. Intorno all’altare passano fedeli, donne devote che baciano
la lastra di vetro che protegge la santa.
Dalle cavità della roccia affiorano e ammiccano presenze
silenziose, tra cui, in ceramica colorata, un busto della santa, che
compiaciuta sembra guardare verso l’altare e verso il dorato
abbigliamento del proprio stesso corpo. Ma certo ci si sente un po’
lontani da quella “semplicità primitiva” dei tempi di Goethe: non solo
per l’illuminazione e tanti moderni oggetti sparsi qua e là, non solo
per le foto devotamente scattate (anche di chi bacia il vetro della
santa), ma poi per tutto ciò che circola intorno. Molti dei ricordi in
vendita in una stanza adiacente hanno, come dappertutto, l’aspetto
di artificiali gadget: e del resto si è creato recentemente un brand
Santa Rosalia, con apposito logo. Vedo che qui c’è anche un Amaro
della Santuzza. Poi, scendendo sul piazzale e curiosando tra le
bancarelle, si affaccia uno dei soliti repertori di incontrollabili
oggettini: statue e statuette di ogni forma e dimensione di sante e
santi, tra cui domina la Santuzza col teschio in mano, ma le fa quasi
concorrenza il solito san Padre Pio. Ex voto prêt-à-porter e strumenti
vari di protezione dal male, come piccoli zoccoli che sul plantare
portano il ritratto della santa. Cerco statuette che riproducano la
santa sdraiata e dorata, ma non riesco a trovarle, mentre
imperversano vari gadget col volto di Marlon Brando nel film Il
padrino.
Procedendo oltre il santuario si raggiunge un ampio belvedere (a
cui è stato dato il nome del cardinal Pappalardo, arcivescovo di
Palermo fino al 1996). Nell’azzurro, sotto il cielo acceso nonostante
qualche nuvola in movimento, si distende il golfo di Palermo, fino al
limite orientale, con le punte che vengono avanti di capo Mongerbino
e di capo Zafferano, mentre qua, sotto la montagna, si addossa e si
distende, in digradante circolarità, quasi di cavea teatrale, il cimitero
di Palermo: come un segno della teatralità della morte, dello sfondo
di morte che abita questo dispiegato teatro della solarità, barocca
ostentazione di natura e di artificio. Accanto allo spiazzo si erge un
poggio di pochi metri: ci salgo, sul terreno irto di cocci di bottiglie, per
vedere da vicino l’ulteriore nera statua della santa che lo domina,
appoggiata su un piedistallo. Da qui essa guarda Palermo e il suo
golfo: ritta in piedi, non sembra godere dell’aperto azzurro, di questa
posizione tanto diversa dal chiuso spazio della sua grotta del
santuario. L’immobilità della statua è come turbata dallo slabbrarsi
della sua superficie, dall’incredibile stato del suo piedistallo,
imbrattato di scritte e di altro. Del resto anche sotto i parapetti, tra la
vegetazione c’è il solito ripetuto dislocarsi di rifiuti. Forse in queste
condizioni la Santuzza non sembra aver troppa voglia di proteggere
questa Palermo tremenda e fascinosa, oscena e splendente, teatro
della vita e della morte.
Lago di Pergusa

“Deh, bella donna, che a’ raggi d’amore


ti scaldi, s’i’ vo’ credere a’ sembianti
che soglion esser testimon del core,

vegnati in voglia di trarreti avanti”,


diss’io a lei, “verso questa rivera,
tanto ch’io possa intender che tu canti.

Tu mi fai rimembrar dove e qual era


Proserpina nel tempo che perdette
la madre lei, ed ella primavera”.
(Purg., XXVIII 43-51)

L’apparizione di Matelda, che se ne va soletta, al di là del fiume Lete,


“e cantando e scegliendo fior da fiore”, spinge Dante, senza bisogno
che intervenga Virgilio, a chiederle di avvicinarsi e a evocare il mito
di Proserpina: il meraviglioso giardino del Paradiso terrestre gli
ricorda il luogo dove la fanciulla divina fu rapita da Plutone, per
divenire regina dell’Ade, sottratta alla madre Cerere e allo splendore
primaverile in cui era immersa. Tra tutte le narrazioni del mito, la più
corrente e affascinante era quella di Ovidio (Metamorfosi, V 346-
571), che prende avvio dall’identificazione della Trinacria “tra
Pachino e Peloro” fatta propria da Dante. Ovidio colloca la vicenda
presso un lago coronato da un bosco, vicino a Enna: “Haud procul
Hennaeis lacus est a moenibus altae, / nomine Pergus, aquae” (vv.
385-386, “non lontano dai bastioni di Enna c’è un lago d’acque
profonde, di nome Pergo”). Lago dove cantano i cigni, bosco
fittamente ombroso, dove c’è una radura in cui Proserpina sta
raccogliendo viole e gigli, in una perpetua primavera (“perpetuum ver
est”).
Pergus, è il lago di Pergusa, nel cuore profondo della Sicilia, che
raggiungo con l’autostrada che procede tra brulle montagne, su cui
si affacciano grandi borghi e vere e proprie città, come Polizzi
Generosa, la patria, ricca di singolare fervore culturale, del critico e
scrittore Giuseppe Antonio Borgese. Eccomi allora a Pergusa, in un
albergo sulle sponde del lago, dove c’è anche una Sala Proserpina.
Dalla finestra della stanza vedo bene il piccolo lago, quasi circolare
(circa 189 ettari). L’accesso al lago è però ostruito da un anello di
cemento, protetto da reti metalliche, che si snoda tra la sponda
lacustre e la strada che conduce all’albergo e ad altri insediamenti: è
l’autodromo, costruito tra il 1950 e il 1958, nell’epoca della prima più
allegramente condivisa cementificazione del territorio italiano,
nell’offerta di sé al mondo di una Sicilia proiettata verso una illusoria
modernità. Molte corse sono state qui effettuate, con manifestazioni
di ogni tipo, tra cui se ne ricorda anche una con la presenza del
campione Michael Schumacher, per il cinquantennio della Ferrari.
Poi la pista è stata chiusa nel 2004, per essere omologata alle
norme vigenti, ed è stata felicemente riaperta nel 2011. Un intreccio
davvero singolare con quel dove di Proserpina, con le meraviglie
naturali del mitico lago, l’unico lago naturale della Sicilia: intreccio
reso ancor più singolare dal fatto che, tenuto conto soprattutto delle
rare specie faunistiche che abitano lo specchio d’acqua e dei
caratteri del residuo ambiente boschivo, nel 1995 è stata istituita la
Riserva naturale speciale del Lago di Pergusa, entro cui si colloca la
Selva Pergusina.
Insomma autodromo per l’espansione dell’energia dei motori,
accompagnati da tutto l’apparato industriale e pubblicitario, dai suoi
attrezzi meccanici e logistici, dal necessario fitto dispiegarsi di gas,
liquami, scarti di ogni sorta, e zona naturale dal delicato assetto
climatico, che accoglie i lenti ritmi biologici di specie animali rare e
protette, specie insetti e uccelli (tra cui il pollo sultano), anche
migratori di passaggio verso l’Africa. Luogo paradossale quanti altri
mai, come proiettato agli antipodi delle originarie vicende del mito,
dei racconti che l’hanno evocato (non solo Ovidio, ma Claudiano,
Diodoro Siculo, perfino l’inglese Milton): quanto difficile trovare
traccia della suggestione che spinse Dante a farne immagine del
Paradiso terrestre! Ma del resto, dopo lo splendore dei secoli antichi,
quando intorno al lago si disponevano fitti insediamenti umani (come
testimoniano gli scavi archeologici della vicina area di Cozzo
Matrice), tutta la zona era in preda al degrado, malsana e malarica,
fino alla sistemazione idraulica e alla bonifica effettuata negli anni
trenta.
In questo pomeriggio i cancelli dell’autodromo sono aperti: si può
attraversare la pista, che lascia passare tranquillamente qualche
raro ciclista. Ci sono vari box con piccole auto da corsa mentre varie
persone in tuta automobilistica stanno allestendo l’apparato per il
Trofeo nazionale Abarth 500 e altro, che si svolgerà qui domenica
prossima 28 settembre. Attraverso la pista e mi avvicino finalmente
al lago, scendendo sull’approdo intitolato a Luigi Razza, ministro dei
Lavori pubblici ai tempi della bonifica: nell’acqua c’è una folta
presenza di folaghe o gallinelle d’acqua, mentre sulla superficie
appena increspata si riflette la luce del sole prossimo al tramonto.
Un cartello ben piazzato informa sul percorso possibile sulla riva del
lago, con tutte le precauzioni e indicazioni naturalistiche: in strano
contrasto con un cartello che ho visto poco più in là, ai bordi della
pista, che vieta di ABBANDONARE RIFIUTI (OLII ESAUSTI, DOMME, FUSTI
METALLICI, BATTERIE, BIDONI, ECC.). Quasi metto un piede nell’acqua
mentre guardo le folaghe che nuotano sulla superficie del lago e
ogni tanto, abbassando il bianco scudo frontale, vi immergono il
becco; poi con le stesse scarpe che avevano sfiorato l’acqua
percorro il liscio e lucido asfalto della pista, tra le tende e i box, tra il
lento agitarsi dei meccanici. Viene quasi da mettersi a correre a piedi
fino a passare sotto il cavalcavia in cui è segnato il traguardo, dove
certo nessuno potrà correre così quando le gare saranno in atto, tra
il rombo dei motori e il brusio degli spettatori sull’ampia tribuna, che
si affaccia all’esterno dell’anello della pista, guardando anche
l’opposto lago.
Uscendo dalla pista, proprio dirimpetto al cancello dell’autodromo,
c’è l’ingresso del Parco Proserpina, inaugurato il 16 ottobre 2011:
giardino attrezzato con bei viali, quasi anticamera e foyer della
Riserva naturale. Tra le molte specie arboree qui presenti si
affacciano pannelli informativi, allestiti dall’università Kore (sì, qui
vicino c’è un’università privata che reca il nome ctonio di Prosperina
/ Persefone), con tutti i dati ambientali e geografici e anche con tutte
le notizie sul mito e sui testi che ne hanno trattato. Percorrendo il
Parco si giunge, sul limite destro, a sfiorare la tribuna
dell’autodromo, i suoi muri esterni. Come ritrovare qui le tracce del
mito? Riconoscere il luogo dove la madre perdette Proserpina e
Proserpina la primavera? Immaginare a partire da qui e da ora, nel
cuore della Sicilia, il giardino dell’Eden dantesco?
Dove sei con i tuoi nomi Cerere, Demetra, alla ricerca della tua
Proserpina? Dove sei Proserpina e dove la tua perduta primavera?
Non sarà che questo viaggio, come ogni viaggio, sia ricerca di
quanto è andato perduto? Mi viene in mente il modo in cui Ariosto
(Orlando furioso, XII 1-3) fa uso di questo mito, della ricerca da parte
della madre della figlia perduta, come paragone per la ricerca di
Angelica da parte di Orlando; si dice che Cerere, tornata alla
“solinga valle” (così viene chiamato questo luogo), non trovando la
figlia “dove l’avea / lasciata fuor d’ogni segnato calle”, dopo grida e
pianti disperati, allestì un carro tirato da due serpenti e con quello

cercò le selve, i campi, il monte, il piano,


le valli, i fiumi, li stagni, i torrenti,
la terra e ’l mare; e poi che tutto il mondo
cercò di sopra, andò al tartareo fondo.

Ora che la sera scende, lascio questo terrestre Paradiso perduto,


domandandomi se almeno l’autodromo e le gare non potrebbero
essere evocazione di quel cercare e girare della dea. Un ruotare ad
anello alla ricerca del tartareo fondo? Del resto, nei vicini scavi di
Cozzo Matrice è stata trovata una grotta che si è creduto di
identificare proprio con quella da cui secondo gli antichi sarebbe
sbucato Plutone per rapire Proserpina.
Non scendo in nessuna grotta, ma salgo su a Enna, il capoluogo di
provincia più alto d’Italia (991 s.l.m. sulla sommità, col castello dove
era l’antica acropoli), che nel 1927 ha ritrovato il suo nome antico,
mentre dal Medioevo aveva avuto il nome di Castrogiovanni, dalla
corruzione della traduzione che gli Arabi avevano fatto di Castrum
Hennae, Qasr Yānnah (anche Agrigento nel 1927 aveva visto la
restaurazione del suo nome antico, prima trasformato in Girgenti,
nome ancora così vivo in tanti testi di Pirandello). Attraverso il centro
di Enna, ancora affollato e brulicante nella prima sera, disposto
attorno a una strada in salita, dove si affacciano chiese dalle forme
spesso singolari, dove il barocco sembra come adattarsi, restringersi
seguendo la conformazione, lo stretto ciglio del pendio su cui è
disposta la città in salita: come in un’aspirazione a svolgere le
facciate in torri, ma con ampie finestre (così almeno è la suggestione
che mi dà la facciata di San Giuseppe e poi, più avanti, quella del
Duomo).
La mattina del 25 settembre, di buon’ora, lascio questo cuore
centrale della Sicilia: ma prima di allontanarmi da Pergusa, faccio un
giro completo del lago, nella strada esterna all’autodromo, che
percorre la Selva Pergusina, recintata e protetta, ben curata. A un
certo punto, nella pineta non lontano dalla riva del lago, ho la
sorpresa di vedere una locomotiva a vapore, la FS Gr 830 di
costruzione Breda (in servizio fino agli anni trenta), che sta qui,
manufatto industriale stranamente museificato entro una riserva
naturale, quasi silenziosa e discreta risposta del mondo della
ferrovia a quello dell’automobile, che qui attanaglia il lago e i suoi
delicati bioritmi.
Pachino

………………………………
tra Pachino e Peloro…
(Par., VIII 68)

Il percorso che da qui conduce a Pachino e alla punta meridionale


d’Italia mi fa sfiorare molti siti di grande bellezza, che richiedono
comunque una sosta, anche se breve. Ecco Piazza Armerina, il cui
ingresso mi accoglie con una delle banalissime statue di quel san
Pio che mi ostino sempre a designare come Padre Pio. Ma poi,
attraverso tortuosi andirivieni automobilistici tra le fitte viuzze della
vecchia città, posso parcheggiare sulla salita che conduce alla
bellissima piazza del Duomo, con la terrazza aperta sui colli
circostanti e sul pullulare di tetti e di altre chiese giù in basso: tetti e
mattoni che si dispiegano su vari strati collinari. La facciata barocca
sembra disporre con discrezione la sua scenografia, con la semplice
balaustra della breve scala d’accesso al portale leggermente rialzato
e in un perfetto scambio tra i mattoni a vista, che costituiscono
paraste, lesene, strutture di contorno, e la superficie liscia del muro
restante (in tutto questo viene ad assumere un effetto straniante il
residuo dell’originaria struttura gotico-catalana nella parte bassa del
campanile). Di misuratissimo equilibrio, in perfetta rispondenza con
la facciata del Duomo, è quella del Palazzo Trigona, che delimita la
piazza a sud: una statua del barone Marco Trigona, in abito
spagnolesco, rivolge direttamente lo sguardo alla facciata del
Duomo, di cui fu munifico finanziatore, lasciando alla sua morte
(1598) gran parte dei suoi beni per la sua costruzione.
Nel passare a Piazza Armerina non si può evitare una diversione
di circa 6 chilometri che conduce alla Villa romana del Casale, dove,
grazie a un alluvione che ne coprì le rovine, la pavimentazione si è
conservata in modo quasi perfetto, lasciando il più ampio, disteso,
omogeneo ciclo di mosaici di età romana. L’assetto delle rovine, i
percorsi di visita, le strutture che le accompagnano, appaiono qui
perfettamente funzionanti: e anche in una giornata come questa, dal
clima incerto e a tratti piovoso, accolgono un consistente numero di
visitatori. Contemplo le scene mitologiche, quelle di vita quotidiana,
di gioco e di caccia, gli inserti ornamentali: posso anche evocare
qualche lacerto dantesco, con la figura di Orfeo, di cui Dante in
Convivio, II II 45 ricorda che “facea colla cetera mansuete le fiere”,
sottolineandone il senso allegorico (poi Dante lo trova nel Limbo,
Inferno, IV 140, insieme a scrittori, filosofi, scienziati dell’antichità).
Altra suggestione nel formidabile ambulacro della Grande caccia,
con le belve che popolano la rena desertica e soprattutto con la
figura della fenice, da Dante usata come termine di paragone per le
trasformazioni della bolgia dei ladri:

Così per li gran savi si confessa


che la fenice more e poi rinasce,
quando al cinquecentesimo anno appressa;

erba né biado in sua vita non pasce,


ma sol d’incenso lagrime e d’amomo,
e nardo e mirra son l’ultime fasce.
(Inf., XXIV 106-111)

C’è solo una cosa che sembra disturbare il visitatore della villa: un
fischio continuo come di uccelli che quasi assorda, che si insinua
implacabilmente tra le tettoie che proteggono i mosaici e le pedane
per i visitatori. Un custode mi informa che questo fischio, trasmesso
da un amplificatore, è assolutamente necessario: attualmente
appare il solo modo praticabile per tener lontani i piccioni e altri
volatili che si insinuano negli spazi aperti e danneggiano i mosaici,
anche beccando e asportando le loro tessere.
Lasciata la Villa, mi riavvicino alla città, che mi offre da un poggio
laterale una nuova visione del vario arroccarsi e distendersi dei suoi
edifici, in un accumulo fantastico, fino al Duomo lassù, con la cupola
svettante, che tende verso l’alto e domina l’insieme, più del vicino
campanile. Fuori ormai dalla vista della città, sfioro un grande centro
commerciale, disposto in una sorta di esaltazione vetro-metallica.
Procedendo incontro fittissimi campi di fichi d’India e poi giungo a
Caltagirone, che sembra venir incontro al viaggiatore con una sua
riservata nobiltà, espressa dallo sviluppo stesso delle sue strade,
dalla struttura sorta nella ricostruzione dopo il terribile terremoto del
1693. Città della ceramica, che con i suoi colori si intreccia con la
friabile pietra delle chiese e dei palazzi barocchi, quasi
spontaneamente disposta a catturare il sole, a farlo vagare sulle
superfici. Particolare attrazione è quella della lunga scala di Santa
Maria del Monte, che aggiro salendo in alto attraverso le viuzze a
sinistra, ma che poi scendo gradino per gradino, variamente
osservando le colorate mattonelle che li rivestono sulla fronte
verticale: scala che risale al Seicento, ma mattonelle novecentesche,
che tracciano un fantastico gioco di figure, fantasie stilizzate, donne
e cavalieri, castelli e fortilizi, ipotesi d’oriente, tappeti volanti, grifoni e
liocorni, gatti e pavoni, anche qui forse una fenice.
Lasciata Caltagirone, dopo una meravigliosa insalata mangiata in
un piccolo locale all’inizio di uno dei vicoli che si aprono a
mezz’altezza sul fianco della scalinata, tocco Ragusa e non resisto a
una breve visita a Ibla, la sua parte antica, fino a raggiungere la
piazza in discesa del Duomo di San Giorgio, una delle più belle del
mondo, col suo barocco mediterraneo, come sollevato da se stesso,
partecipe e insieme indifferente al confronto con la morte che pure
inevitabilmente lo insidia. La città è come abbarbicata sulle
ondulazioni del colle e le sue case sembrano come integrate nel suo
terreno sassoso e cretoso: forse da esso assorbite, o piuttosto da
esso spuntate come sue favolose escrescenze, mentre intorno
colline e campagne sono solcate da muretti a secco, orientati in
direzioni diverse e contrastanti. Lasciando l’auto nel parcheggio
sotto piazza della Repubblica, nella forra in basso, salgo le scale che
portano alla chiesa del Purgatorio, vicina al limite tra Ibla e la nuova
Ragusa, verso cui rivolge la facciata. Poi seguo una strada tortuosa
fino al Duomo di San Giorgio, che è quasi al centro della vecchia
città; lo prendo dall’alto e scendo sulla piazza da una porta che è sul
fianco del Duomo (destro per chi lo guarda dalla piazza). Qui
l’animazione del pomeriggio primaverile è turbata da un funerale, col
furgone funebre e qualche auto in sosta sul fianco della piazza;
assisto all’uscita della bara e del corteo da una porta laterale
dell’edificio, mentre il brusio delle voci e dei rumori è ritmato dai
rintocchi delle campane a morto.
Lunga è la strada che mi porta verso l’estremo Sud della Sicilia.
Devo tralasciare Modica, un’altra bellissima città impreziosita dal
particolarissimo barocco di questa parte dell’isola. Ma nei suoi pressi
mi sorprende un vertiginoso e interminabile viadotto, che attraversa
la fiumara sottostante: il viadotto Guerrieri, inaugurato nel 1967,
allora il più lungo d’Europa, riaperto solo pochi giorni prima del mio
arrivo dopo una lunga chiusura per lavori di manutenzione.
Percorrendolo si ha l’impressione di fare un lunghissimo salto, di
planare sulla sottostante distesa, tra lo scoscendimento che digrada
verso la fiumara, dove giungono le propaggini della città, palazzi a
più piani, strade con rimesse, orti, giardini, distributori, automobili
parcheggiate e in movimento e chissà quanti altri frammenti della
brulicante vita che si trova a fare i conti con la presenza del viadotto
sopra di sé e con chi sopra passa come volando.
Dopo aver preso alloggio in un hotel ricavato da un’antica fattoria,
in Contrada San Lorenzo, a nord di Pachino, mi aggiro nella sera nei
paraggi della città, nelle sue propaggini marine, che proiettano il sud
della Sicilia e dell’Italia verso l’Africa: Marzamemi con la sua tonnara
di origine araba, ora dismessa, anche se c’è il grande magazzino
Campisi, con vendita soprattutto di prodotti ittici; Portopalo, con il
suo groviglio di casette, il suo approdo roccioso e il suo porto.
Davanti alla spiaggetta sul lungomare di Marzamemi, c’è un
ristorante che reca l’insegna MOVITI FERMU, traduzione semplificata
dell’antico festina lente. Dopo il movimento che oggi ho fatto verso
questo sud estremo, non posso evitare di fermarmi qui, a gustare
una buona pasta allo scoglio. Mi dirigo poi verso il centro di
Portopalo, aggirandomi nell’intrico di sensi unici delle sue strade
dimesse, senza riuscire a raggiungere il lungomare. Rinvio la visita a
domani e quando sono appena uscito dall’abitato vengo fermato da
una pattuglia di carabinieri in posto di blocco (mi è già capitato in
Sardegna): quando vedono i miei documenti e notato che con l’auto
sono venuto da Roma mi chiedono cosa faccio da queste parti, per
quali affari o lavoro. Non posso trattenermi dal citare la mia ragione
dantesca e la “bella Trinacria che caliga / tra Pachino e Peloro”:
restano meravigliati e incuriositi e uno dei due, sentendo parlare di
poesia, ricorda Omero e l’Odissea, mi chiede se Ulisse era
approdato da queste parti. Sotto la suggestione di questa Odissea
del carabiniere (e chissà perché mi viene da pensare al sogno del
carabiniere nel finale del Pasticciaccio di Gadda), mi perdo ancora
nei grovigli di strade e stradine tra Portopalo, Pachino, Marzamemi,
e con difficoltà riesco a raggiungere l’albergo-fattoria in Contrada
San Lorenzo.
Al mattino mi viene a trovare, all’albergo, il professor Pietro
Ferrara, attualmente presidente della sezione di Pachino della
Società Dante Alighieri: chirurgo che è stato senatore del Partito
Socialista Italiano dal 1987 al 1992. È un mio coetaneo, nato circa
un mese dopo di me, che si è trovato a vivere il momento di
massimo splendore e di crollo del Partito Socialista di Bettino Craxi:
e ora mi parla delle sue telefonate a Craxi, del suo metterlo in
guardia rispetto a intricate situazioni, delle sue conversazioni con
Sandro Pertini. Nel suo raccontare, nel modo in cui giudica i
personaggi incontrati e nelle battute che fa sulla situazione presente,
mi sembra di vedere l’immagine cristallizzata del politico siciliano
della mia generazione, del suo modo di considerare la vicinanza con
il potere, in un misto di passione e diffidenza, insieme a un
rammarico per quanto poteva essere e non è stato, per il crollo di
un’ambiziosa politica, che comunque continua a considerare migliore
di quella che è venuta dopo. Ha avuto comunque il particolare
privilegio di essere stato, in quei frangenti, il senatore più
meridionale d’Italia.
Parliamo poi di questa condizione estrema di Pachino, la città più
meridionale d’Italia e dello scrittore che vi è nato e che per questo va
definito il più meridionale d’Italia, Vitaliano Brancati, la cui prosa e il
cui mondo sono tutti segnati da questa estrema solarità, dal vento
che la spazza e la riempie di pieghe, che scava anfratti e altri luoghi
in cui ci si nasconde. Ci domandiamo se c’è un po’ di Pachino nella
Catania che è al centro di quasi tutta l’opera di Brancati, se Brancati
si è mai ricordato del modo in cui Dante nomina questo suo paese
natale. Mi parla poi di possibili progetti della sua sezione della Dante
Alighieri sullo stesso Brancati e della difficoltà di collaborazione con
il Comune e le istituzioni locali. Nella primavera successiva,
comunque, avrò notizia della realizzazione a Pachino, con il
sostegno del Comune, tra il 20 e il 23 maggio, di un vero e proprio
Festival Brancatiano, entro il quale si è inserita la quinta edizione del
locale premio Brancati di giornalismo.
Salutato l’ex senatore davanti a un caffè, mi dirigo finalmente a
Pachino, che Dante nomina anche al v. 59 della già ricordata Ecloga
IV (la sua seconda a Giovanni del Virgilio), e di cui nell’Eneide, III
699, venivano ricordate le rocce e gli scogli sporgenti, “altas cautes
proiectaque saxa” (ma nel travestimento pastorale dell’ecloga
dantesca comunque Pachino, che mostra invidia per Peloro /
Ravenna perché ospita Titiro / Dante, indica probabilmente Verona).
Pachino, oggi nota in Italia e fuori per i suoi famosi pomodorini, è
una cittadina con un centro a struttura geometrica, oltre cui si
espande una disordinata e aggrovigliata periferia. Il centro gravita
intorno alla piazza Vittorio Emanuele, un’ampia piazza quadrata la
cui disposizione mi ricorda quella che è nel Peloponneso al centro di
Megalopoli, la patria dello storico Polibio.
Brancati ricorda che Pachino è continuamente spazzata dal vento
e che questa piazza “per essere il punto più alto del paese, è visibile
da qualsiasi posto e ha l’aspetto liscio, il colore rosso che hanno i
luoghi battuti senza posa dal vento”. Oggi non c’è un gran vento: il
rosso dei mattoni delle basse facciate appare pallido e discreto,
attenuato dal verde degli alberi che delimitano il perimetro del
grande marciapiede centrale, dove sotto il sole sosta uno straniero,
forse pakistano, in tenuta islamica ortodossa, veste bianca, bianco
berretto e regolare barba, in conversazione con due correligionari
laicamente abbigliati. In una vicina piazzetta c’è una colonna isolata
e sul muro accanto una lapide che ricorda la fondazione della città,
risalente al 1760, mentre la piazza è intitolata a Vincenzo
Strarrabba, marchese di Rudinì, per l’appunto fondatore della città,
insieme al fratello Gaetano, che fu primo conte di Pachino.
Naturalmente con Pachino come limite della Sicilia Dante non
intende un insediamento umano, ma una punta geografica, quel
capo meridionale che oggi viene più correntemente chiamato Capo
Passero: la città di Pachino non si trova direttamente sul mare, ma al
centro di questo fertile sperone meridionale di terra siciliana, regno
dei pomodorini, che si protende sul mare piegando leggermente
verso est e che ha nel capo Passero la sua punta più rilevata, che
ulteriormente si protende con un isolotto, l’isola di Capo Passero,
dove ci sono i resti di una tonnara abbandonata. Lascio allora la città
di Brancati e cerco di toccare da vicino i contorni marini dello
sperone di cui occupa il centro. Avvicinandomi al disordinato
caseggiato di Portopalo trovo un belvedere “sui due mari” da cui si
vede a destra la cittadina, con l’isolotto davanti e il mare al di qua e
al di là di esso. Ben visibile, a nord dell’isolotto, è la vicina costa fino
a Marzamemi: oltre Marzamemi si scorge il rilievo che avanza verso
est fino al capo oltre il quale è Siracusa; alle spalle si vede bene
l’abitato di Pachino e la distesa di serre della sua ricca agricoltura. È
una vista ampia, ma turbata dal triste stato in cui è ridotto il
belvedere, del tutto abbandonato, con i parapetti sbreccati e segnati
da squallide scritte, mentre sulla pavimentazione e ai margini del
riarso terreno circostante c’è la solita immondizia.
Da qui comunque si vede bene il Faro di Capo Passero (Faro di
Cozzo Spadaro), che si erge in alto quasi all’ingresso della parte alta
dell’abitato di Portopalo, che poi scende giù verso la riva,
assestandosi davanti all’isolotto. Raggiungo finalmente il Faro, che è
in ottime condizioni e ospita una efficiente stazione meteorologica.
Scendendo tocco la riva e il poco attrezzato lungomare, davanti
all’isolotto: ma poi risalgo in alto, seguendo una strada che si
allontana un po’ dalla riva, costeggiandola a distanza. Dopo tortuosi
giri una più stretta stradina mi conduce da qui a quello che è
veramente il sud geografico della Sicilia e dell’Italia (a parte le isole
Pelagie, Lampedusa e Linosa, che sono molto più a sud), il Capo
delle Correnti, davanti al quale c’è pure un isolotto con tonnara
abbandonata, l’Isola delle Correnti. Qui il vento si sente leggermente
più forte, soffiando da ovest; e, pur nella generica calma il mare
appare più turbato, certo per quell’intreccio di correnti che deve aver
dato il nome al sito. Lasciando la piattaforma asfaltata, scendo sulla
brulla riva terrosa, dove si estendono saltuarie e interrotte praterie di
posidonia oceanica, fino a bagnare per un attimo le mie mani in
questo mare estremo della bella Trinacria. Alla destra dell’isolotto si
vede la costa che volge verso nord ovest e che conduce a breve,
verso il cosiddetto Porto di Ulisse (ecco l’approdo di cui mi parlava
ieri sera il carabiniere!) e verso la località di Pozzallo. Anche qui non
mancano rifiuti portati dal mare, mischiati e confusi con quelli gettati
da terra: del resto c’è tanta immondizia anche sulla stradina che
m’ha portato qui. Percorrendo a ritroso quella strada, mi imbatto in
un piccolo gruppo di pecore che rovistano fra sacchi e scarti di varia
natura; ma lo squallore della scena è come straniato da qualche
superba araucaria che, sullo sfondo, sembra sorvegliare il ventoso
paesaggio marino.
Eccomi ora alla rada ben chiusa, limitata anche da un molo
sormontato da una fila di lampioni, che ospita il porto di Portopalo:
percorro la banchina, osservando le barche attraccate, con pescatori
che provvedono alle necessarie sistemazioni. Vecchi pescherecci di
diverse dimensioni, barconi e barchette, motori e reti in riparazione.
Nomi scritti sul fianco di ogni prua: ENZA MADRE e GIUSEPPE PADRE,
ANDROMEDA, SAN GIORGIO, FRATELLI LITRICO, ORCHIDEA, CRISTIAN, GAETANA
MADRE… Nel leggero vento del mattino un senso di dimessa
normalità, le consuete occorrenze di un porto di pesca. Arriva
qualcuno in auto e sale su una delle barche; più in là due tizi
discutono animatamente, ma senza aggressività. Eppure questo
porto e quello vicino di Pozzallo, tutte queste coste meridionali della
Sicilia, hanno visto negli ultimi anni devastanti turbamenti,
improvvise emergenze per lo sbarco di turbe disperate, raccolte in
mare da navi diverse, salvate e dirottate verso i cosiddetti centri di
accoglienza. La Sicilia e l’Italia, questi luoghi estremi d’Italia,
raccolgono ormai queste onde senza fine di disperazione, di dolore,
di speranza, di morte: i migranti sui gommoni o su lacerate carrette,
che, cercando luoghi dove la vita sia possibile, sono alla mercé dei
criminali che ne organizzano le tratte; esseri umani trattati come
schiavi. Tanti sono finiti in fondo a quel mare, laggiù; e per quelli
raccolti e condotti a questi porti è cominciato un nuovo difficile
cammino tra accoglienza, reclusione, fuga, percorsi diversi sul suolo
italiano e oltre, clandestinità, contrasti e violenze, fame, nuovi
sfruttamenti e nuove schiavitù, solo qualche volta un lavoro regolare
e un difficile inserimento qui da noi. Inferni irredimibili che abitano i
nostri illusori paradisi, spesso ne costituiscono il sotterraneo
fondamento. Ma movimento migratorio che nessun muro, nessuna
cinica chiusura dei porti potrà riuscire a fermare.
Siracusa

Quivi si piangon li spietati danni:


quivi è Alessandro, e Dïonisio fero,
che fé Cicilia aver dolorosi anni.
(Inf., XII, 106-108)

Taccia di Cadmo e d’Aretusa Ovidio,


ché se quello in serpente e quella in fonte
converte poetando, io non lo ’nvidio…
(Inf., XXV 97-99)

Risalendo ormai verso nord, si tocca un altro dei bellissimi centri


disseminati in questo sud del sud, la città di Noto, formidabile
creazione uscita dalla ricostruzione successiva al terremoto del
1693, con il suo asse centrale (corso Vittorio Emanuele) su cui sono
disposte le meravigliose chiese barocche. Non posso evitare di
fermarmi per percorrere lentamente questo asse, facendomi come
irrorare dalla sinuosa e brillante luminosità delle facciate, da quella
singolare eco marina che mi sembra risuonare sulla loro superficie.
Ecco la lunga scalinata che sorregge la chiesa di San Francesco e
quella più corta e spaziosa che sale alla Chiesa madre: al sommo di
questa scala, voltandosi indietro dalla porta della chiesa, si ha
dirimpetto, leggermente in basso, il porticato Palazzo Ducezio, sede
del Municipio, al di là del quale, a sinistra, si vede in lontananza il
mare, dalla parte di Marzamemi, che dovrebbe essere oltre una
punta leggermente prominente. Mi seggo, per mangiare qualcosa, in
un bar sul corso Vittorio Emanuele, ma sono infastidito da una
musica assordante e banale: lo lascio e mi sposto sulla piazza XXIV
Maggio, su un tavolino all’aperto accanto all’edificio del teatro, su cui
è affissa la data 1860, ma che a quella data era in costruzione e fu
inaugurato solo nel 1870. Qui al 1860 viene dato un rilievo
particolare, come mostra una lapide apposta nel 1910 sotto l’egida
della Società Dante Alighieri, che ricorda che Noto, “prima tra le città
siciliane”, si ribellò ai Borboni e fece sventolare il tricolore già il 16
maggio 1860, prima ancora che iniziasse la “marcia trionfale” di
Garibaldi in Sicilia. Durante il piacevole pasto nella trattoria affollata
di turisti, imbevo ancora i miei occhi della luce di questa ampia
piazza, dominata dalla chiesa di San Domenico, con la sua facciata
leggermente convessa, disposta su due ordini scanditi da colonne:
ed è come se ci fosse uno scambio, una studiata inversione, tra
questa facciata e quella concava della vicina chiesa di San Carlo,
che si affaccia poco prima sul corso.
Ma devo procedere lungo il crinale sudorientale della Sicilia, tra
poco frequentati spezzoni di autostrada e superstrade, sfiorando
Avola e poi lasciando sulla destra Siracusa. Siracusa così ricca di
storia, così a lungo contesa tra popoli e poteri diversi, col suo
celebre Teatro greco e con le tante vestigia di tempi diversi, con i
passaggi di culture, di segni, di vive presenze, dagli antichi tiranni a
Teocrito, ad Archimede, alla santa martire Lucia. Santa Lucia,
prediletta da Dante, che si professa suo “fedele” e ne fa sua
essenziale soccorritrice all’inizio della Commedia (vedi anche pp.
623-625). Come gli racconta Virgilio poco dopo la sua apparizione,
la Madonna lo ha raccomandato a Lucia e Lucia, “nimica di ciascun
crudele”, si è recata da Beatrice sollecitandola a intervenire:

Disse: – Beatrice, loda di Dio vera,


ché non soccorri quei che t’amò tanto,
ch’uscì per te de la volgare schiera?

Non odi tu la pieta del suo pianto,


non vedi tu la morte che ’l combatte
su la fiumana ove ’l mar non ha vanto?
(Inf., II 103-108)
Lucia interviene ancora nell’Antipugatorio, trasportando Dante
dormiente davanti alla porta del vero e proprio Purgatorio (glielo
riferisce Virgilio in Purgatorio, IX 50-63). E il suo intervento iniziale
viene ricordato, in uno dei tanti riavvolgimenti tra fine e inizio, alla
fine del Paradiso, per bocca di san Bernardo, che mostra a Dante la
disposizione dei beati nei seggi dell’Empireo, dirimpetto ad Adamo:

e contro al maggior padre di famiglia


siede Lucia, che mosse la tua donna,
quando chinavi, a rovinar, le ciglia.
(Par., XXXII 136-138)

Proprio alla santa, d’altra parte, è legato il passaggio siracusano di


Caravaggio, che qui ha lasciato una delle sue ultime tele, con
l’immagine del seppellimento della santa, che ora si trova nella
chiesa di Santa Lucia alla Badia, in piazza Duomo: nella pittorica
plasticità di questo quadro sembra di sentire il prossimo avvolgersi
della fredda terra sul corpo liberato dallo strazio, mentre i gesti dei
vigorosi seppellitori sembrano voler reiterare la violenza
dell’accecamento subito dalla fragile vergine.
Non ci sono comunque menzioni di Siracusa nella Commedia: a
Siracusa riconduce però il nome dell’antico tiranno morto nel 367
a.C., Dionisio (Dionigi), che si trova accanto ad Alessandro Magno
nel Flegetonte, primo girone del settimo cerchio infernale. Nei pressi
del Teatro greco di Siracusa (dove tuttora si svolgono moderne
rappresentazioni dei classici del dramma antico), nella latomia detta
del Paradiso, c’è una grotta detta appunto di Dionisio, scavata in
modo da dar luogo a una eccezionale amplificazione acustica:
secondo la tradizione, sarebbe stata fatta scavare dal tiranno del V
secolo per tenervi chiusi i prigionieri, da cui poteva ascoltare i
discorsi, nascosto in una cavità posta in alto (e secondo leggenda, a
chiamarla Orecchio di Dionisio sarebbe stato proprio Caravaggio, in
occasione del suo passaggio siracusano).
A Siracusa riconduce poi il mito di Aretusa, la ninfa dell’Elide
fedele a Diana, trasformata dalla dea in fonte, per sottrarla all’amore
del fiume Alfeo, che l’aveva sorpresa mentre in esso si bagnava. Nei
versi del canto XXV dell’Inferno, nell’atto di descrivere una
metamorfosi reciproca, a doppio scambio, tra due peccatori della
bolgia dei ladri, Dante afferma l’eccezionalità della propria
invenzione, rispetto a quelle delle Metamorfosi di Ovidio,
esemplificate dalla trasformazione di Cadmo in serpente (IV 563-
604) e di Aretusa in fonte. Ovidio mette la vicenda di Aretusa in
bocca a lei stessa, proprio nel contesto siciliano che riguarda Cerere
e Proserpina: Cerere viene a sapere dell’approdo di Proserpina
nell’Ade proprio da Aretusa (V 487-508), che sgorga davanti al mare
nell’isola di Ortigia (nucleo originario della città di Siracusa). Poi,
quando ha concluso il patto per cui Proserpina potrà passare sei
mesi nell’Ade e sei mesi presso la madre, Cerere ascolta il racconto
che Aretusa le fa della propria vicenda (V 572-641): sfuggendo al
fiume Alfeo, ella si è trasformata in acqua corrente e, scorrendo
sotto il mare, è giunta in Sicilia, sgorgando a Ortigia. Virgilio, Eneide,
III 691-696, dice anche che, inseguendola sotto il mare, Alfeo
mescolò con lei le proprie acque, in questo abbraccio che sgorga a
Ortigia, dove passa Enea in viaggio verso il Lazio. La fonte, venerata
nel corso dei secoli, è ancora lì, di fronte al mare, sovrastata da un
grande terrazzo ricurvo, che guarda a occidente. La sua acqua
ospita una folta vegetazione di papiri. Un tempo purissima, ora è
salmastra per le infiltrazioni marine.
Ma ora evito di lasciarmi attrarre dalla visita della città, dal tanto
fitto fascino dei suoi luoghi, troppo lontani dall’orizzonte dantesco. Il
richiamo del mito si affaccia peraltro a ogni mossa di questo viaggio
in Sicilia: ci penso mentre, superati i dintorni di Siracusa, mi avvio
sull’autostrada in direzione di Catania. Nel procedere mi giungono a
un certo punto, dalla destra, zaffate di miasmi petroliferi: ecco il golfo
di Augusta, ciminiere, fuochi, vibrare gassoso dell’aria sullo sfondo
del mare, da Priolo Gargallo alla marina di Melilli ad Augusta. C’è
uno dei più grandi poli industriali d’Europa, raffinerie, industrie
chimiche e meccaniche, sull’orizzonte della città fondata da Federico
II: ambiente che ha subito una radicale alterazione, spinta dal sogno
industriale degli anni cinquanta, e ora come ribadita su se stessa,
sulla propria necessità economica e sulla propria malsana tensione
distruttiva. Penso ad accorate parole di Vincenzo Consolo, in quel
doloroso viaggio in Sicilia che è L’olivo e l’olivastro, a proposito di
questo “immenso inferno di ferro e fiamme, vapori e fumi… dentro il
regno sinistro di Lestrigoni potenti, di feroci giganti che calpestano
uomini, leggi, morale”, verso Augusta che “appare nella luce cinerea,
nella tristezza di un’Ilio espugnata e distrutta, nella consunzione
dell’abbandono, nell’avvelenamento di cibo, mare, suolo”. Il mito
ritorna nei suoi volti più minacciosi, con l’azione di quei Lestrigoni
che dalla rocca di Lamo (su queste coste?) distrussero tutta la flotta
di Ulisse, che rimase con una sola nave (Odissea, X 80-132); dal
mito alle trasformazioni che qui hanno subito i luoghi, la loro vita e la
loro vista, aria, acqua, fuoco, terra, metamorfosi assolute e inaudite,
rispetto a cui ben poca cosa sono quelle di Ovidio e di Dante. Taccia
di Cadmo e d’Aretusa Ovidio, ma taccia anche Dante con i suoi
scambi incrociati di ladri/serpenti.
L’Etna

Se Giove stanchi ’l suo fabbro da cui


crucciato prese la folgore aguta
onde l’ultimo dì percosso fui;

o s’elli stanchi li altri a muta a muta


in Mongibello a la focina negra,
chiamando “Buon Vulcano, aiuta, aiuta!”,

sì com’el fece a la pugna di Flegra,


e me saetti con tutta sua forza,
non ne potrebbe aver vendetta allegra.
(Inf., XIV 52-60)

che caliga
………………………………
non per Tifeo ma per nascente solfo
(Par., VIII 67, 70)

Queste fucine industriali di Melilli e di Priolo sono certo ben diverse


dalla focina negra di Vulcano, nascosta nel ventre dell’Etna
(Mongibello il suo nome arabizzante), che nel XIV dell’Inferno viene
evocata da Capaneo, nella sua sfida blasfema alla divinità. Punito
nel primo girone del cerchio dei violenti, questo guerriero tebano,
fulminato da Giove nella battaglia di Flegra, non depone in nessun
modo la sua superbia e la sua altezzosa ostilità al dio nemico,
affermando che non si piegherebbe nemmeno se Giove continuasse
a colpirlo all’infinito, costringendo il suo fabbro Vulcano e i Ciclopi
suoi aiutanti (li altri) a stancarsi nell’apprestare sempre nuove folgori.
Oltre questa identificazione mitica dell’Etna come fucina di Vulcano
(altre attribuzioni la collocavano nell’isola chiamata appunto Vulcano,
nelle Eolie, o nell’isola d’Ischia), nell’evocazione della bella Trinacria
fatta da Carlo Martello d’Angiò nell’VIII del Paradiso, quel suo
coprirsi di fumo (che caliga) sopra il golfo di Catania viene ricondotto
scientificamente all’azione del nascente solfo, rigettando la credenza
degli antichi (riportata proprio nei passi di Ovidio e di Virgilio dedicati
alla Sicilia, ricordati a p. 513), secondo cui l’attività dell’Etna era
dovuta all’ansimare del gigante Tifeo (chiamato anche Tifone),
mostro che gettava fuoco da cento bocche, colpito da Giove e
incatenato sotto la montagna.
Dante ricorda anche un’altra volta questo mostro, chiamandolo
Tifo, tra i giganti confitti nel Cocito (Inferno, XXXI 124). Ma nel nome
di Tifeo o Tifone si può trovare anche un singolare segno
dell’atteggiamento ostile che verso Dante ebbe poi Petrarca: in
margine a un codice del De chorographia (trattato geografico di
Pomponio Mela), in cui si parla di uno speco in Cilicia (regione
dell’Asia Minore) chiamato Tifone, il Petrarca scrisse infatti: “Nota
contra Dantem”, opponendosi cioè alla collocazione del mostro
nell’Etna, e come notò Giuseppe Billanovich si tratta dell’unico luogo
noto in cui Petrarca abbia esplicitamente citato uno specifico testo
dantesco (mentre più in generale del suo ambiguo atteggiamento
verso Dante parlò in una lettera al Boccaccio, Familiares, XXI 15). È
vero d’altra parte che nella tradizione mitica relativa all’Etna viene
chiamato in causa anche un mostro diverso da Tifeo o Tifo / Tifone,
cioè il gigante, Encelado: così Ariosto, “là dove calca la montagna
Etnea / al fulminato Encelado le spalle” (Orlando furioso, XII 1).
Procedendo sull’autostrada verso nord la visione dell’Etna si
impone in modo sempre più maestoso: superata Catania, si
susseguono uscite e svincoli di vario tipo, che portano a destra verso
il mare, a sinistra verso il fitto groviglio di città e borghi etnei, che,
sulle pendici più basse del vulcano, sembrano intrecciati e confusi
tra loro, in una diffusa urbanizzazione, case e ville tra orti e giardini,
quasi senza soluzione di continuità. Non senza difficoltà scelgo una
delle uscite dell’autostrada e, districandomi tra strade e direzioni
eterogenee, raggiungo il centro più alto, luogo di frescura e di
approdi sciistici per i catanesi, Zafferana Etnea, con la terrazza della
piazza principale aperta dalla parte del mare, con i dinoccolati ritmi
turistici, di cui tante tracce restano nelle opere di Vitaliano Brancati,
che molte volte vi soggiornò, e tra l’altro nel 1943, sfollato da
Catania, vi si trovò a contemplare la guerra dall’alto, guardando da
questa terrazza “con sinistra comodità” gli aerei che muovevano a
bombardare Catania, Augusta, le sinuose strade di comunicazione.
Poco a monte di Zafferana, raggiungibile in pochi minuti, c’è una
colata lavica del 1992. L’aggrovigliata nera fiumara si è insinuata nel
bosco: e giunge quasi alla piazzola asfaltata (probabilmente allestita
dopo l’esaurirsi della colata), a fianco di una casa a due piani, dove
non c’è nessuno, ma sembra uscita indenne dallo scorrere del fuoco.
Una nera strada parzialmente lastricata procede nel bosco, tra la
vegetazione solo a tratti schiacciata dalla nera poltiglia; a un certo
punto un breve sentiero immette proprio sul letto della colata,
accanto ai resti di una casa in parte sfondata, con i muri biancastri
bruciacchiati prima di ricevere l’intonaco, con un ambiente tutto
aperto, sorretto solo da un grosso pilastro, e altre parti chiuse e
murate, anche con una finestra protetta da inferriata, ma con vari
segni di bruciatura. Casa abusiva fermata dalla lava, e intorno uno
sporco tappeto di cenere; poco più in là, in una sorta di radura creata
dalla lava, grovigli di fogliame che spuntano dalla lava, che
sembrano essere alimentati da varia immondizia che vi è stata
gettata sopra, bottiglie e teli in plastica, pannelli di gesso, spuntoni di
metallo, involucri cartacei, indefinibili resti come porosi, lenzuola e
stracci, un cuscino. E chissà da dove viene questo tubo nero che
fuoriesce dal terreno: una conduttura bloccata dal vulcano? Si ha
quasi l’impressione che la colata si sia incaricata di fermare qualche
improbabile e arrabattato insediamento, senza però poter cancellare
gli scarti che ne restano, il loro scempio, probabilmente alimentato
da qualcuno che ogni tanto viene a depositare in queste radure
scarti più freschi e recenti.
Certo ben poca cosa sono questi umani scarti di fronte alla forza
imponente del vulcano, di cui da qui non si vede la vetta. Non la
vedo nemmeno dall’albergo dove mi insedio a sera. Leggo in una
moderna edizione americana il dialogo latino di Pietro Bembo, De
Aetna, scritto al suo ritorno a Venezia dopo i due anni passati a
Messina a studiare il greco alla scuola di Costantino Lascaris, ed
edito nel 1496 con sontuosa eleganza dal suo amico Aldo Manuzio,
che da poco aveva iniziato le pubblicazioni. Si tratta di un dialogo del
giovane Pietro col padre Bernardo, in cui è messo in evidenza il
valore del rapporto tra padre e figlio, ma che ha come tema centrale
l’ascensione sull’Etna fatta con l’amico Angelo Gabriele nel luglio
1493. Il percorso degli escursionisti toccò Taormina, di cui viene data
una rapida descrizione, e poi si volse verso Randazzo: l’ascesa
avvenne dunque sul versante nord del vulcano, delle cui pendici il
dialogo esalta la rigogliosa fertilità, l’eterno aspetto primaverile, che
farebbe credere che qui effettivamente avvenisse il ratto di
Proserpina, “ut facile quilibet puellam Proserpinam hinc fuisse
raptam putet”, “che facilmente chiunque potrebbe pensare che qui
fosse stata rapita Proserpina fanciulla”. Non molti particolari ci
vengono dati sulle modalità di ascesa alla parte più alta: ma si
indicano i vari aspetti che essa assume, dai tratti semierbosi da cui
spunta il tufo, a quelli ricoperti di pietra di lava esondata, a quelli
coperti dappertutto di sabbia; sulla cima si distinguono due crateri,
uno visitato direttamente, dalla forma di pozzo circolare, che emette
sassi fumiganti. E si descrive il pericoloso addensarsi di nebbia
sulfurea e di fumo ustionante, agitato dal vento, il vario aprirsi di
focolai mossi anch’essi dal vento, i sassi incandescenti che
balzavano fuori dalle colate di fuoco. Resta indeterminata la
posizione dei luoghi effettivamente raggiunti: la realtà dell’escursione
è certamente amplificata letterariamente, con una particolare
insistenza sulle difficoltà e i pericoli del procedere tra la lava e gli
strepiti del vulcano. Bembo insiste comunque sul fatto che
l’imponente vastità della montagna è concepibile solo avendola vista
direttamente; e nota che dalla sua sommità si abbraccia tutta la
Sicilia, i cui limiti da lì sembrano molto più ridotti di quanto siano in
realtà. Si vedono anche le coste della Calabria, Brutia ora, che si ha
l’impressione di poter raggiungere lanciando un sasso, mentre in
tempo di eccezionale sereno si può giungere a vedere l’area intorno
a Napoli. Il dialogo è animato da una sorta di entusiasmo giovanile,
dal piacere del mostrare al padre e ai lettori la gioia del contatto con
un mondo inconsueto, ma di cui già davano nozione i classici: come
a vantare di aver avuto occasione di toccare de visu ciò che era di
per sé già inscritto in un orizzonte culturale, nelle immagini e nelle
vicende dell’antico. Naturalmente vi viene ricordato il mito di Tifeo (o
Encelado), anche richiamando ciò che dell’Etna dice Esiodo nella
Teogonia, poema che Dante non poteva conoscere: e nel ribollire e
fremere del gigante si riconosce, un po’ come fa Dante, la
trasposizione favolosa di un dato naturale, anche con una
spiegazione “scientifica” che si riallaccia a quella data in un
poemetto attribuito a Virgilio, Aetna, che fa parte della cosiddetta
Appendix Vergiliana.
Dalla misurata retorica del giovane Bembo, da quel suo latino che
sembra disporre gli ignei bagliori del vulcano in nobile scansione
grammaticale e sintattica, passo a un racconto scritto verso la fine
degli anni sessanta da Mario Pomilio, ansioso indagatore delle
contraddizioni della coscienza, degli squilibri della comunicazione,
del piegarsi morale del mondo e del rapporto con esso: scrittore
etichettato come “cattolico”, ma tra i più intensamente problematici
del secondo Novecento (vedi p. 303). Si tratta de Il cane sull’Etna,
titolo straniante e straniato, perché dell’Etna non si parla, ma solo
delle amare riflessioni di uno scrittore che pensa che il mondo sia
“senza rimedio” e che vi stia “accadendo qualcosa a sua insaputa”:
di fronte alle frasi roboanti di uno scrittore suo amico, che attraverso
la narrativa propugna una baldanzosa “guerriglia semiologica”, gli
vengono in mente dei versi di Orazio su Empedocle, che, “smanioso
di diventare immortale come un dio, …si tuffò impavido nelle fauci
dell’Etna” (“Deus immortalis haberi / dum cupit Empedocles,
ardentem frigidus Aetnam / insiluit”, Ars poetica, vv. 464-466). Pensa
a Empedocle, quasi emblema delle tante illusorie pretese intellettuali
contemporanee, all’Etna e alla lava, si mette poi a pensare ai
“paragoni e traslati strani cui di solito si presta il cane”, e, davanti a
un’edicola di giornali, crede di scorgere nella banale evanescenza
dei titoli, il senso vero di quella “guerriglia semiologica” propugnata
dall’amico; sente la bizzarria di tanti titoli accostati, in cui sembra
come vanificarsi il senso della realtà, l’evidenza stessa del mondo.
Ne scorge due accostati in un giornale della sera, che gli appaiono
uno “sbrindellato relitto dell’armonia prestabilita che, dicono, governò
il mondo”:
“Incatenato e lercio come un cane un bambino in un basso a
Palermo” e “Un cane sull’Etna accende l’apocalisse e brucia 4
secondi a Merckx”. Per qualche istante s’attardò futilmente a
domandarsi quale sorta di connessione andava stabilita tra i
due cani (anzi tre, a metterci il suo di prima), e tra le fauci
dell’Etna, che aveva inghiottito Empedocle, e quelle –
presumibili – del cane che aveva danneggiato Merckx.
Da ciò ottiene “la finale conferma di quella periclitazione
dell’universo concettuale che si verifica quando le parole non
esprimono più alcun valore e, propriamente, non hanno più valore”.
Penso a quanto questa periclitazione sia ormai avanzata, quanto più
si sono dilungate le nostre parole e il nostro viaggiare da ogni
dizione di possibile o impossibile verità. Segno di questa
periclitazione è forse anche il fatto che su questo mio breve e
dantesco De Aetna si affaccia non senza nostalgia il ricordo di quel
lontano Giro d’Italia e del più grande e vincente campione ciclistico
di tutti i tempi, il belga Eddy Merckx. Dimenticando Empedocle,
Tifeo, Encelado, posso ritrovare, grazie a rapide ricerche su Internet,
quale Giro e quale tappa fu quella in cui un cane tagliò la strada a
Merckx nell’ascesa dell’Etna: era il Giro del 1967 (vinto alla fine da
Felice Gimondi), e la settima tappa Catania-Etna, disputata il 25
maggio e vinta da Franco Bitossi. Sull’Etna il Giro è tornato poi
recentemente, nel 2011, con una grande vittoria di Alberto Contador.
Con questo viatico di letture serali, ascendo l’Etna la mattina del
giorno successivo, non nei modi del Bembo né in quelli di Merckx o
Contador: l’auto mi porta da Zafferana al Rifugio Sapienza, a circa
1900 metri s.l.m. Nel salire si ha più volte la visione della vetta, che
si erge lassù, nell’azzurro del cielo, nera coi suoi bagliori di fuoco,
senza che vi siano tracce della neve che vi si deposita per gran
parte dell’anno; intorno alla strada, sul nero terreno fitti ciuffi di
ginestra, ora senza fiori, e altra vegetazione quasi rasoterra, come
un manto che copre la lava, saponaria, astragalo, cerastio.
Sull’ampio piazzale del Rifugio, con varia attrezzatura turistica, c’è la
stazione della funivia, che porta più su, a 2500 metri, in mezzo alla
lava. Si fa la fila per entrare nelle cabine: mi trovo in mezzo a turisti
perlopiù stranieri, tedeschi e nordici soprattutto; e poi viaggio
sospeso in un lunghissimo percorso che sovrasta le distese laviche,
in cui sono aperte delle piste su cui passa qualche veicolo
opportunamente attrezzato, e anche solitari ciclisti su poderose
mountain-bike. Dal posto che ho nella cabina posso guardare in
basso, dove sempre più mi si scopre la Sicilia assolata, dove
distinguo con nettezza, laggiù, nella piana di Catania, uno
schieramento di pale eoliche. Si arriva in un edificio-stazione ben
attrezzato, da cui si scende su un piazzale di lava e di cenere dove
si è accolti da piccoli autobus che portano ancora più su, attraverso
una tortuosa pista lavica. Giungiamo dov’è una baracca di legno che
fa da Presidio per il Parco dell’Etna e da dove si diparte una pista
che porta al luogo dove era un edificio sorto sulle tracce di una
vecchia torre, la cosiddetta Torre del filosofo (traccia di Empedocle
qui), a quota 2940 metri, distrutta dalla lava, come dice un cartello
che reca la data 12 ottobre 2008.
La vetta non è lontanissima e da qui ci si potrebbe avvicinare
molto; c’è un fortissimo vento che comunque non riesce a sollevare
la sabbia, mentre impone di tenersi ben saldi per non farsi
rovesciare e cadere. Invitandoci a essere cauti, una guida ci
conduce sull’orlo di vicini crateri, che sono detti a bottoniera, disposti
in sequenza, uno dopo l’altro, come una serie di bottoni, apertisi in
seguito a eruzioni laterali. Ben coperto da una giacca a vento,
cammino sull’orlo di uno di questi crateri, guardando in basso verso
la sua bocca, da cui esce un leggero fumo, tra i riflessi dello zolfo e
del rame. Il vento rende il passo malcerto, ma non come accadde a
Goethe sulla bocca del rosso cratere che visitò il 5 maggio del 1787.
Non ho come lui il cappello che rischia di essere scaraventato nel
cratere; il rischio potrebbe semmai toccare agli occhiali, le cui
stanghe comunque restano salde sulle mie orecchie colpite dal
fischiare del vento. Il versante esterno del ciglio scende verso il
basso in modo particolarmente ripido e lascia intravvedere tanta
parte della Sicilia a sud, zone che in parte ho sfiorato, ma prima le
città etnee e poi forse Vizzini, Lentini, o nomi che mi ronzano nella
mente senza che possa pensare a vere identificazioni degli
agglomerati che vedo laggiù.
Mi domando quale doveva essere lo sguardo di Empedocle
quando saliva quassù, tra crateri e bagliori certo diversi da quelli del
nostro tempo, percorrendo distese laviche con forme e aperture di
assetto ben diverso da quello creato dalle eruzioni succedutesi nella
storia, in quella storia in cui lui, l’antico filosofo, ha assunto un rilievo
mitico, emblema della sete di conoscenza, dell’aspirazione assoluta
a immergersi nel fondo della natura, a un voler essere terra e fuoco,
in una coincidenza tra ardore vitale e cecità della materia. Non Tifeo,
non Encelado, ma Empedocle gettatosi intenzionalmente o forse
caduto incidentalmente in uno di questi crateri, magari non il
supremo, ma in uno di questi banalmente seriali, disposti a
bottoniera. E l’immagine di Empedocle, qui tra questi turisti
internazionali, anch’io in tutta sicurezza e attento a non scivolare,
pronto ormai a ripartire con autobus e funivia, sfuma sempre più, si
allontana dalla sua assolutezza tragica, dal suo offrirsi al fuoco per la
rigenerazione poetica dell’umanità (come nell’incompiuta tragedia di
Hölderlin, La morte di Empedocle); e si rimpicciolisce nella
smaliziata diffidenza dei versi di Orazio che ho ritrovato ieri sera nel
racconto di Pomilio. Lì, quasi alla fine dell’Ars poetica la morte di
Empedocle non viene percepita come un’immersione nell’assoluto,
ma come esito della follia di quei poetastri i cui versi non valgono
nulla e pretendono di imporsi con atti memorabili, magari mettendo
in scena la propria morte: non accorrete alle loro tardive richieste di
aiuto; meglio lasciarli morire, quei poeti lì. “Sit ius liceatque perire
poetis” (“Si lasci ai poeti il diritto di morire”, v. 466).
Golfo di Catania

…sopra ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga…
(Par., VIII 68-69)

Scendo dal nascente solfo: nelle curve a gomito della pista lavica,
nel vertiginoso aggettare della funivia, toccando l’affollamento
crescente, col passare delle ore, della spianata del Rifugio
Sapienza, che è tale per il cognome del suo fondatore e non per
riferimenti al supremo vertice del conoscere. Scendo con l’auto dalla
parte di Nicolosi. Dalla strada si aprono ampie visioni della città di
Catania e del suo golfo, disteso in dolce curvatura sul fronte marino,
oltre il quale si disegna la punta meridionale dello stivale, la Calabria
con le propaggini dell’Aspromonte. È il golfo che ai tempi di Dante si
credeva piegato verso sudest, che riceve briga, viene investito da
Euro, violento vento di sudest, di cui Omero dice che fa sciogliere le
nevi. Ma mentre un forte vento, forse da sudovest, dava briga
intorno ai crateri dell’Etna, ora qui in basso c’è una calma solare,
distesa nel luminoso tremolare della marina. Dopo Nicolosi, come mi
è accaduto nel salire verso Zafferana, attraverso vari centri etnei,
nell’intrico di strade, direzioni, incroci, improvvise e piacevoli
aperture, come quella dell’ampia piazza centrale di Trecastagni,
dove mi sarebbe piaciuto incontrare Sergio Reyes, persona elegante
e civilissima, che, dopo aver studiato all’università di Catania con
Carlo Muscetta, ha lavorato a lungo per le edizioni Einaudi, come
addetto alla promozione nell’università: e ricordo le sue visite
all’ateneo, che si risolvevano in vere e proprie conversazioni
culturali. Lasciata Einaudi, in anni più recenti egli ha ideato per
l’editore napoletano Liguori una collana di piccoli libretti, Per
passione, invitando diversi intellettuali a parlare brevemente della
propria passione culturale, nei suoi fondamenti o in qualche aspetto
particolare: ne ha chiesto uno anche a me, che è venuto fuori con
ambiguo titolo mozartiano, La passion predominante (ma è la
passione per la letteratura). Quando il libretto è stato presentato a
Catania, Reyes mi ha ospitato nella sua bella casa a Trecastagni:
ero in una stanza dalla cui finestra si vedeva la vetta dell’Etna. Mi
dispiace proprio di non avere il tempo di cercarlo, qui a Trecastagni.
Da Trecastagni si scende verso Viagrande e poi si dispiegano
senza interruzione le varie Aci, legate al mito del pastore Aci, su
queste sponde amato dalla ninfa Galatea e per questo ucciso da
Polifemo, di lei innamorato. Nella veste pastorale della già ricordata
Ecloga IV Dante ricorda sinteticamente questo mito siciliano,
soprattutto sulla scorta di Ovidio, Metamorfosi, XIII 750-897, per
bocca del pastore Alfesibeo, che mette in guardia contro il pericolo
rappresentato da Polifemo/Fulcieri dei Calboli (ma tralascio le altre
identificazioni di Polifemo e degli stessi Aci e Galatea su cui si sono
sbizzarriti tanti studiosi, vv. 76-81):

“Quis Poliphemon” ait “non horreat” Alphesibeus


“assuetum rictus humano sanguine tingui,
tempore iam ex illo quando Galathea relicti
Acidis heu miseri discerpere viscera vidit?
Vix illa evasit: an vis valuisset amoris,
Effera dum rabies tanta perferbuit ira?”

(“Chi non avrebbe orrore di Polifemo” disse Alfesibeo “abituato


a tingere di sangue umano le sue fauci deformi, fin da quel
tempo in cui Galatea lo vide sbranare le viscere
dell’abbandonato, ahi misero!, Aci? Ella riuscì a stento a
fuggire: e sarebbe valsa la forza dell’amore quando la rabbia
efferata bruciava di una simile ira?”)

Trasformato in un fiume che non c’è più, Aci mi si presenta in veste


cattolica, come Aci Sant’Antonio: e poi, attraversata l’autostrada,
ecco Aci Catena e Aci San Filippo. Tralasciando di volgere a nord
verso la più grande e nobile Acireale, e a sud verso Valverde, dove è
un altro appassionato allievo di Muscetta, Angelo Scandurra, poeta e
editore delle preziose edizioni del Girasole, sempre in elegantissima
carta a mano (in esse, tra l’altro apparve nel 1992 la prima edizione
dell’autobiografia di Muscetta, L’erranza, poi ristampata nel 2009 da
Sellerio a cura di Silvano Nigro).
Districandomi comunque tra le varie Aci, raggiungo il punto del
golfo che può essere segnato come il suo limite nord, non lontano
dal capo Molini, oltre il quale è Acireale: è Acitrezza, il luogo più
letterario, quel borgo di pescatori amato dal catanese Giovanni
Verga, che vi ha collocato la vicenda de I Malavoglia. Proprio nei
pressi di Acitrezza soggiornava a lungo, soprattutto d’estate, nei suoi
ultimi anni Carlo Muscetta, con l’affettuosa compagna Marcella
Tedeschi; l’irruente critico irpino, marxista eretico, come amava
definirsi, che all’università di Catania aveva creato una grande
scuola di Letteratura italiana e solo tardi era passato alla cattedra
romana, ma rimaneva fortemente legato a questi luoghi. L’ho
conosciuto in quegli anni d’insegnamento romano e poi l’ho
frequentato negli anni successivi, sempre in consonanza con il suo
spirito polemico, con la sua intolleranza per le idées reçues e per
certi falsi altarini della stessa sinistra: pungente e ironico, severo e
cordiale nella sua passione per la letteratura, ma con la conquista,
nel tardo tramonto, di una singolare e per lui quasi inedita dolcezza,
come a soppesare la lucidità intellettuale con l’alleggerirsi del corpo
e con il distanziarsi del mondo, nella lentezza della vecchiaia. E
proprio in un locale sul pendio della collina, con un esuberante
giardino, davanti ad Acitrezza, si festeggiò il 20 agosto del 2002 il
suo novantesimo compleanno, con tripudio festivo di amici, allievi,
giovani e vecchi, sotto la regia della sua Marcella: lui partecipava
silenziosamente, assorto forse in una ricapitolazione della sua lunga
vita, degli anni tormentosi vissuti, delle battaglie e delle illusioni
attraversate, fino alla dissoluzione di quella sinistra in cui tanto a
lungo, spesso anche faziosamente, aveva creduto, ormai con la sola
fiducia residua nella resistente bellezza della letteratura e dell’arte –
talvolta si ripeteva i versi dell’amato Baudelaire, di cui aveva dato
una traduzione nel 1984 –, prima del loro definitivo abbandono
(proprio ad Acitrezza è scomparso, il 22 marzo 2004).
Ora mi fermo sul lungomare di Acitrezza, davanti ai neri faraglioni
basaltici, che spuntano a pochi metri dalla riva: sono gli scogli dei
Ciclopi, che Polifemo accecato avrebbe scagliato nel mare per
colpire la nave del fuggitivo Ulisse/Nessuno. Ne I Malavoglia sono
chiamati fariglioni e fanno da sfondo alle barche attraccate sulla
spiaggia, alle varie vicende della famiglia Toscano detta Malavoglia,
fino all’ultimo addio che a Trezza dà il giovane ’Ntoni, che sa di
essere ormai escluso da quel nido, e, senza più patria, nella notte
contempla a lungo il paese “tutto nero”, cercando di carpire gli ultimi
rumori della vita che vi si svolge e ascoltando la voce del mare:

Soltanto il mare gli brontolava la solita storia lì sotto, in mezzo


ai fariglioni, perché il mare non ha paese nemmen lui, ed è di
tutti quelli che lo stanno ad ascoltare, di qua e di là dove
nasce e muore il sole, anzi ad Aci Trezza ha un modo tutto
suo di brontolare, e si riconosce subito al gorgogliare che fa
tra quegli scogli nei quali si rompe, e par la voce di un amico.

Sento appena questa voce del mare ora che sto seduto proprio
davanti ai faraglioni in un bar-ristorante postmodernamente arredato.
Mi lascio investire dalla luce d’oro che si distende sull’azzurro, nel
brillare meridiano del golfo, di cui da qui si riconosce bene la
curvatura. Sulla destra si vede avanzare verso il mare il promontorio
che limita il golfo a sud, col capo Campolato, con le svettanti infernali
ciminiere dalla parte di Augusta, poi retrocedendo la distesa della
piana di Catania con le spiagge fino a quella chiamata La Playa,
molto frequentata dai catanesi, e ancora il groviglio degli edifici della
città. Più vicino si innalza il castello nero sulla rupe di Aci Castello. A
sinistra invece la visione della distesa marina a nord è bloccata dal
vicino isolotto che reca il semplice nome di Aci e che sembra fare la
guardia alla piccola insenatura su cui si affaccia il nucleo centrale di
Acitrezza, dove sono attraccate varie barche, tra il resto della
spiaggia e una sorta di porticciolo, con piccoli moli, uno dei quali
sembra protendersi verso l’isolotto, dove è impiantata una stazione
per studi di biologia e fisica marina dell’università di Catania. Sono
quasi stordito dal rapido passaggio dai quasi 3000 metri del vento
etneo a questi scogli di un nero che li riconnette a quello di lassù.
Sullo spazio pedonale del belvedere davanti ai faraglioni, dove la
strada curva a sinistra seguendo l’insenatura, c’è una nera scultura
in basalto, attorno a cui si muove un bianchissimo vestito da sposa,
su cui svolazza la trasparenza di un lunghissimo velo. Sposa e
sposo (lui con un abito luccicante, con una sorta di tessuto
rifrangente) si dispongono sui diversi lati della scultura, ai piedi della
quale hanno provvisoriamente depositato il mazzetto di fiori
d’arancio. Tre fotografi e un’amica in abito sfarzoso seguono il loro
movimento e suggeriscono loro diverse pose intorno alla scultura,
come a fingere di spostarla, giocando a nascondersi davanti e dietro,
fino a fare capolino entro una sua fessura. I faraglioni stanno lì
dietro, immobili, con le loro escrescenze che a tratti fanno pensare a
qualche animale fantastico pronto a prendere il volo.
Mi vengono in mente le varie vicende matrimoniali de I Malavoglia,
specie quelle della povera Mena detta Sant’Agata, di cui sono già
stabilite le nozze con Brasi Cipolla, fino alla cerimonia della
promessa col rito per cui la futura suocera (in questo caso defunta e
sostituita da Grazia Piedipapera) va “a spartire i capelli della sposa,
e a levarle la spadina d’argento”: ma le nozze non vengono poi
celebrate, per i nuovi disastri che si abbattono sui Malavoglia, con la
morte di Luca nella battaglia di Lissa e la vendita della casa del
nespolo. “Né visita di morto senza riso, né sposalizio senza pianto”,
dice uno dei tanti proverbi intessuti nel romanzo, dove poi è l’amore
riservato e dignitoso di Mena per compare Alfio e la rinuncia finale di
lei alla sua proposta di nozze, per la convinzione di non essere più
da “maritare”, mentre la continuità della famiglia è garantita dal
matrimonio del fratello Alessi con la Nunziata e dal recupero della
casa del nespolo.
Ora invece diverse spose si danno il cambio per i servizi fotografici
davanti ai faraglioni. Partita la coppia con lo sposo dall’abito
rifrangente, ne arriva un’altra su una bianca limousine, da cui
scendono i due in tripudiante allegria accompagnati dai loro fotografi.
Mentre intorno alla scultura si svolge l’infinito rito fotografico, passa
davanti a loro e viene quasi sfiorato dal velo della sposa un
energumeno abbronzatissimo, quasi totalmente nudo, che esibisce
carni oscenamente flaccide, su cui fa velo solo un ridottissimo
costume-slip. Sempre più intensamente blu è il mare dietro i Ciclopi,
mentre verso sud diventa più accecante la luce su Catania, che
sembra quasi annullarsi in macchie di bianco.
Mi addentro poi nell’insenatura, davanti al porticciolo, tra le piccole
barche tirate a secco tra i sassi della riva; e penetrando di poco
all’interno del borgo, oltre la piazzetta centrale, trovo addirittura la
casa del nespolo! Qui la continuità dei Malavoglia è stata ricreata
nella finzione turistica, casa museo verghiana che riproduce il sito di
una povera casa, con un vecchio portone di legno incorniciato in un
semplice arco in pietra lavica, che immette in un piccolo giardino col
nespolo: e dentro poveri arredi ottocenteschi, come potevano essere
quelli di una famiglia di pescatori. Tra le due sale spicca quella
dedicata al film di Visconti del 1948, La terra trema, ispirato a I
Malavoglia e girato in un’Acitrezza che a quella data era ancora
molto simile a quella del romanzo.
Peloro

………………………………
l’alpestro monte ond’è tronco Peloro…
(Purg., XIV 32)

………………………………
tra Pachino e Peloro…
(Par., VIII 68)

Lasciata Acitrezza procedo rapidamente nell’autostrada verso nord.


Sfioro velocemente Taormina, che intravvedo arroccata sul suo colle.
Mentre la strada si addossa sul fianco dei monti Peloritani, tralascio
a destra Messina, su cui mi affaccio sostando su di una piazzola,
scorgendo vari agglomerati di moderni palazzi, senza che sia
possibile immaginare la struttura dell’antica città distrutta dal
terremoto del 1908, di cui fu agente tremendo anche il mare, col
maremoto, che oggi ormai chiamiamo tsunami. Perfettamente
distinta la forma a rampino che avanza proteggendo il porto affollato
di navi di tutte le misure, con il forte di San Salvatore e una grande
colonna sulla punta del lungo molo. Si vede da qui la costa che si
protende fino alla punta del capo Peloro, col suo grande traliccio, e
tutta la costa calabrese, sia quella più vicina che dà sullo stretto, sia
quella più scoscesa che si estende verso nord, dal traliccio
speculare di Santa Trada a Scilla, Bagnara, la penisola di Capo
Vaticano e oltre.
Ma mi accorgo di essere andato troppo avanti nel percorso
autostradale. Per raggiungere il capo Peloro, devo ormai avanzare
oltre, inoltrarmi dentro la galleria che perfora le propaggini dei Monti
Peloritani e raggiungere l’uscita di Villafranca, ormai davanti al
Tirreno, tornando poi indietro sulla litoranea in direzione nordest. Da
qui però si vedono, abbastanza vicine, la penisoletta di Milazzo e,
quasi legate tra loro, le isole di Vulcano e di Lipari. In questo
percorso all’indietro sulla litoranea mi capita di trovare la strada
bloccata per una corsa ciclistica. Salgo allora su una piccola altura
dov’è l’abitato di Faro Superiore e da lì scendo sulla costa dello
stretto tra Sant’Agata e Ganzirri: circondato da case di ogni sorta si
estende in lunghezza, a fianco del mare, il Pantano Grande, lago
che è in comunicazione col mare, tutto punteggiato dalle varie
postazioni dell’allevamento di frutti di mare. Superato questo lago,
tocco l’abitato di Torre Faro, che si estende fino al capo Peloro,
costeggiando dalla parte del Tirreno il Pantano Piccolo, altro lago
salato usato per allevamenti marini.
Dopo aver lasciato l’auto davanti al grande albergo dove passerò
la notte, percorro le stradine di Torre Faro nel tardo pomeriggio del
sabato, in mezzo a gente che si dinoccola in tranquillo riposo. Per un
certo tratto mi sono trovato vicino a una ragazza con un cane, che
mi è parsa eccezionalmente civile: mi ha urbanamente salutato e mi
ha chiesto se la presenza del cane mi infastidisca; in questo caso, lei
se ne andrebbe per percorso diverso dal mio. Le ho detto che il cane
non mi dava nessuna noia e l’ho ringraziata: ma poi l’ho lasciata
indietro, procedendo più velocemente di lei e del suo cane, nell’ansia
di toccare prima possibile il punto terminale di questo Capo Peloro,
detto anche Capo Faro, per l’importanza che avevano il faro e la
torre, che a questo borgo estremo hanno dato il nome di Torre Faro.
Tanto diverso rispetto a quello dell’estremo Pachino è l’assetto di
questo estremo Peloro, che Dante nomina non solo nella perifrasi
sulla bella Trinacria, ma anche dove nel XIV canto del Purgatorio
nomina l’Appennino, come la catena montuosa da cui è separato (da
cui è tronco) Peloro, cioè i Monti Peloritani (fin dall’antichità si
credeva che la Sicilia si fosse staccata dalla catena appenninica in
seguito a un terremoto). Diversamente dai frastagliati e rocciosi
Capo Passero e dal Capo delle Correnti, qui c’è una costa sabbiosa,
con una urbanizzazione convergente sulla punta del capo e in diretta
vicinanza al mare; ci sono case che danno direttamente sulla riva,
spesso con le barche attraccate davanti, tanto che nel centro del
paese non c’è nemmeno un vero e proprio lungomare, ma solo
qualche terrazza aperta sulla spiaggia.
Nuvole si addensano sullo stretto, di cui qui ho una visione da
nord: il molo calabrese di Villa San Giovanni si trova dirimpetto,
perfettamente a sud, dove si illumina già il faro di Punta Pezzo,
mentre verso est si vede il traliccio di Santa Trada, preceduto dal
grande viadotto dell’autostrada, e poi più avanti le luci di Scilla, di
Bagnara, e ancora di Palmi, mentre il massiccio dell’Aspromonte
resta tutto coperto dalle nuvole.
Arrivo finalmente sotto il traliccio, progettato e impiantato, insieme
al gemello dall’altra parte, a partire dal 1946: alla fine del 1955
entrarono in funzione i cavi d’acciaio che con la formidabile campata
di oltre tre chilometri trasmettevano energia elettrica. Ma, per la loro
scarsa efficienza, i cavi furono tolti nel 1993, sostituiti già da qualche
anno da cavi sottomarini. I tralicci o piloni sono rimasti come metallici
guardiani dell’ambiente, segnacoli del passaggio tra Cariddi e Scilla,
precoce archeologia industriale diventata paesaggio, integrata in
questo traghettante crocevia del mito, dei passaggi rischiosi, dei
venti e delle correnti che agitano lo stretto. La loro persistenza
sembra d’altra parte alludere alla vanità di altri progetti che
riguardano questo luogo, come soprattutto quello del ponte sullo
stretto, da tanti sognato e da tanti altri esecrato, che sfuma nella
propria insensatezza, nell’illusoria megalomania che l’aveva fatto
concepire: anche se non è certo escluso che, prima o poi, qualcuno
non ci riprovi e non riesca a realizzare arditi piloni con cui si crederà
di aver messo per sempre a tacere Scilla e Cariddi. Così il
presidente del consiglio Matteo Renzi verrà a dire, nel novembre
2015, che il ponte certo si farà, trionfale necessario esito della corsa
produttiva in cui egli crederà di aver trascinato l’Italia: ma anche
queste parole andranno in fumo, negli ulteriori turbamenti e frane
della politica e dell’economia nazionale.
Il ferrigno pilone di Torre Faro, piccola Eiffel siciliana, fissata a
livello del mare (mentre quella calabrese, che ha la stessa misura di
circa 230 metri, ha la base più in alto, a 169 metri sul livello del
mare), ha anche un impianto di illuminazione e dovrebbe ospitare
sulla cima qualche ripetitore o antenna telefonica: la sua struttura è
recintata, ma appare in dimessa solitudine. Aggirandone il recinto,
attraverso una sorta di passerella giungo sulla spiaggia, quasi
sull’ultimo approdo, estrema punta della Sicilia protesa verso l’Italia.
È quello che Stefano D’Arrigo, all’inizio di Horcynus Orca, fa
guardare al suo ’Ndria Cambria dalla punta calabrese, dove è
appena giunto, nell’ottobre del 1943:

riconobbe lo sperone corallino che dalla loro marina


s’appruava, quasi al mezzo, come per spartirli, fra Tirreno e
Jonio.

Su questo basso sperone che davvero si protende come una prua,


arrivo a sfiorare l’acqua del mare, ora che la sera si ispessisce, le
luci lontane brillano più forti, nel fantastico addensarsi dei luoghi
appollaiati sulla costa. Alle mie spalle c’è il vecchio torrione e il faro
che proietta in aria le sue luci in velocissimo movimento; sul cielo a
occidente, libero dalle nuvole, brilla una piccola falce di luna. Poco
più in là stanno sistemando e ripulendo un baracchino balneare che
sembra ormai sul punto di essere dismesso, anche se le spiagge
intorno rivelano molte persistenze della stagione che sembra
resistere alla prossima fine.
Passa rapida sull’acqua una piccola barca a motore e poi un
rombante motoscafo; e sembra strano che qualcuno passi
indifferentemente proprio qui, in questo punto, su questo specchio di
mare che connette e separa, che accoglie tante mitiche vicende. Il
segno di una mitologia che proietta l’antico scill’e cariddi verso le
derive del moderno si affaccia vicino al faro, con un moderno edificio
che ospita la sede del parco letterario Horcynus Orca, nel nome del
romanzo di Stefano D’Arrigo, del suo turbinoso passaggio su questo
stretto, nell’universo delle fere, del pescespada e delle femminote.
Procedendo poi appena verso ovest, oltre il torrione, sulla riva aperta
sul Tirreno, si scorge ancora, in lontananza, il fumo che esala dal
cratere di Stromboli.
L’onda là sovra Cariddi

Come fa l’onda là sovra Cariddi,


che si frange con quella in cui s’intoppa,
così convien che qui la gente riddi.
(Inf., VII 22-24)

Sono avari e prodighi quelli che, nel quarto cerchio dell’inferno,


voltano “pesi per forza di poppa” in direzioni opposte e si scontrano
violentemente per tornare poi indietro dopo aver percorso metà del
cerchio: la violenza del loro scontrarsi e rigirarsi (che è come un
ballare la ridda, danza in cui ci si rigirava vorticosamente) viene
paragonata, con formidabile precisione, a quelli che in questo stretto
vengono chiamati garofoli o refoli, cioè allo scontro delle onde, al
loro rompersi e riavvolgersi nell’atto di scontrarsi, nel punto sotto il
quale, secondo Virgilio, Eneide, III 420-423, è immerso il mostro
Cariddi. Nel suo viaggio verso l’Italia Enea, per consiglio di Eleno,
evita accuratamente di attraversare lo stretto, tra Cariddi e l’opposta
Scilla, dove invece si era avventurato Ulisse, come racconta alla fine
del libro XII dell’Odissea: come sia scampato a Cariddi, rimanendo
solo nella nave squassata che lo porta all’isola di Ogigia (ma lì
mancava una diretta identificazione con lo stretto di Messina).
Nel passaggio sullo stretto i naviganti devono prestare particolare
attenzione al gioco delle correnti (ed eventualmente dei venti), ma
oggi questo passaggio non sembra tanto problematico e si svolge
con un gran traffico in tutte le direzioni. Non so proprio dove
collocare Cariddi, quando la mattina del 28 settembre lascio Torre
Faro e rapidamente mi dirigo al porto di Messina per prendere il
traghetto che mi conduce dall’altra parte. Così presto, di domenica,
l’imbarco è agevolissimo: ma sempre emozionante è il breve
passaggio. Uscendo dal porto di Messina, brulicante di navi diverse,
si ha l’impressione che dietro lo sperone del capo Peloro la costa
calabrese, che avanza fino alla penisola di Tropea e Capo Vaticano,
contorni e chiuda le acque, facendo quasi corpo unico con quella
siciliana. Nella calma serena l’azzurro delle acque sembra più
intenso, più carico e vibrante: a vedere il mare così nitido e puro non
si riesce a percepire nessuna eco della tanta storia, della tanta
violenza degli uomini e della natura che vi è sopra passata. Pur tra le
scie delle imbarcazioni e le increspature che rivelano l’incontro tra
correnti, che portano le onde ad avvilupparsi nei famosi garofoli o
refoli – che mi sembra di notare solo quando si sta per arrivare a
Villa San Giovanni –, non c’è comunque nessun segno della furia
estrema di Cariddi, che probabilmente sta acquattato di là, davanti
alla punta di Peloro, dove comunque ieri sera non dava segni di vita.
Catona

e quel corno d’Ausonia che s’imborga


di Bari e di Gaeta e di Catona
(Par., VIII 61-62)

Torno ancora, per l’ultima volta, sulle parole in cui, prima di nominare
la Sicilia, Carlo Martello d’Angiò indica i limiti dell’Italia meridionale, il
suo imborgarsi in fortezze dislocate come diversi punti cardinali. Ora
si tratta del punto meridionale, individuato in questa costa della
Calabria che fronteggia la Sicilia, certamente Catona e non Crotona,
come leggono pochi manoscritti e alcuni commentatori antichi. È fin
troppo evidente che l’antica e celebre città di Crotone è in una
posizione che non permette certo di segnarla come punto limite di
quel corno d’Ausonia: mentre a Catona, qui tra Villa San Giovanni e
Reggio, si può certo attribuire questa qualifica, tanto più che ai tempi
di Dante era una piazzaforte importante per la difesa del regno ed
era stata devastata durante la guerra del Vespro, evocata del resto
proprio da Carlo Martello d’Angiò.
Uscendo dal traghetto a Villa San Giovanni arrivo in breve tempo a
Catona, di cui intravvedo la piccola stazione ferroviaria con il cartello
REGGIO C. CATONA: oggi infatti Catona, già comune autonomo, non è
altro che un quartiere della vicina Reggio, con spiaggia molto
frequentata. Ma ora, a mezza mattina di questa domenica di fine
settembre, non c’è quasi nessuno nella passeggiata lungo la
spiaggia e tanto meno sulla stretta striscia di sabbia. Girando sul
luminoso litorale e per le strade piuttosto dimesse del borgo-
quartiere non si trovano tracce di quella lontana storia, di quando
proprio da qui si traghettava verso la Sicilia. Messina, distesa tra il
mare e la massa dei Peloritani, è proprio qui davanti e sembra
particolarmente vicina, anche se non è in atto quel fenomeno ottico
chiamato fata morgana, che in particolari circostanze di clima e di
luce dalla costa calabrese fa apparire più grande e più vicina la
costa sicula. Più giù la vetta dell’Etna sembra come districarsi dalla
massa dei Peloritani.
Catona reca anche dolorose tracce del terremoto che la distrusse,
come Reggio e tutta questa porzione di costa, nel 1908. In una
piazzetta ora silenziosa due lapidi ricordano l’impegno dei
soccorritori. L’edificio dove è l’ufficio della Circoscrizione VIII del
Comune di Reggio sorse proprio allora, come ricovero per i senza
tetto, costruito dai soccorritori inglesi.
In un giardinetto vicino alla spiaggia c’è un monumento a san
Francesco da Paola, santo postdantesco, morto nel 1507 e
canonizzato nel 1519: con un’asta il santo barbuto sembra
sorreggere una vela ricurva che gli tocca i piedi; accanto a lui un
confratello inginocchiato. In realtà si tratta di una rappresentazione,
frequente nell’iconografia di questo santo calabrese fondatore dei
frati minimi e protettore della gente di mare, del suo più celebre
miracolo, che, secondo tradizione, avrebbe avuto il punto di avvio
proprio da qui, da questo antico luogo di passaggio per la Sicilia. In
un giorno sereno o forse in una notte tempestosa dell’anno 1464 il
santo voleva passare al di là, ma non aveva soldi per pagare il
traghetto, o forse fu rifiutato per qualche altra ragione dal
traghettatore; allora prese il mantello, ci montò sopra e se ne servì
come imbarcazione, giungendo felicemente sull’altra riva. Ecco la
ragione della sua postura nel monumento.
Comunque a Catona non può mancare un suo santuario (ne ha
tanti, del resto, e non solo in Calabria), che si trova in una chiesa
gestita dai frati minimi, costruita dopo il terremoto, sulla strada
statale: chiesa semplice e senza particolare interesse, dove noto un
quadruccio con la scena del traghettamento, sullo sfondo del mare
(c’è anche una piccola vela su cui si affaccia un nocchiero sbalordito
per quello che vede), e una lapide che ricorda la festa fatta qui per il
quattrocentocinquantesimo anniversario della morte del santo, il 2
aprile 1957, con provvisoria traslazione qui delle sue ossa (la cui
sede è nel santuario della nativa Paola), A QUESTA SPONDA / CHE VIDE AL
SOFFIO DEL PRODIGIO / UN MANTELLO FARSI NAVE E VELA / PER TRAGHETTARE
SUL MARE / MENO VASTO E LUMINOSO DEL SUO CUORE / LA BEATA POVERTÀ.
Viene da chiedersi quali sfuggenti e virtuali epigrafi, tra twitter e
facebook, siano state postate (come oggi si dice) sul mare infinito
della rete, per un recente miracoloso passaggio dello stretto, quello
del comico Beppe Grillo (non da Catona, ma da Cannitello fino a
Torre Faro), effettuato a nuoto il 9 ottobre 2012 a sostegno del
movimento politico da lui creato: miracolo documentato e omologato
in ogni bracciata, non esposto a dubbi di laici miscredenti, come
accade invece per quello del santo (e miracoloso sarà poi nel 2018
l’esito elettorale del suo movimento politico).
Ma ora, trovandomi così vicino a Reggio Calabria, non posso
evitare di raggiungerne il centro, che ora si affaccia sul mare nella
bella spianata che ha inglobato e nascosto i binari della ferrovia, che
fino a pochi anni fa costituivano un invalicabile schermo tra la riva e
il viale alberato. E non posso evitare una visita ai famosi bronzi di
Riace, rinvenuti nel fondo dello Ionio nel 1972, ospitati qui
nell’ambizioso edificio piacentiniano del Museo Archeologico
Nazionale, sulla piazza Giuseppe De Nava (col monumento a questo
uomo politico liberale, che fece in tempo a traghettare verso il
fascismo la tradizione del liberalismo conservatore: il monumento
reca la data ANNO XIV E.F., era fascista).
Nel salone d’ingresso del museo c’è una singolare mostra vivente,
di monaci tibetani in tour, Tashi delek Tibet. Il mandala della pace
universale: sotto l’auspicio di benignità e di pace raccolto
nell’intraducibile espressione Tashi delek, quattro monaci seduti su
un tappeto a gambe incrociate, stanno creando con la sabbia questo
mandala, intorno a cui nel corso della giornata si disporranno altri
monaci, anche con strumenti musicali; questo evento di pace abiterà
il museo fino al prossimo 12 ottobre. Poi procedendo attraverso la
libreria del museo, noto i curiosi e inconsueti libri della casa editrice
Fermento, in una collana che offre “riscritture interpretative in prosa
e per tutti” della Divina Commedia (un volume per ognuna delle
cantiche), del Decameron e dell’Orlando furioso (ma i due volumi da
Boccaccio non recano la dizione per tutti…). Ecco come comincia la
Commedia:
Il fatto più straordinario della mia vita accadde nell’aprile
dell’anno 1300, la settimana di Pasqua. Tra poco più di due
mesi, avrei compiuto trentacinque anni. Avrei dovuto essere,
quindi, nel pieno del mio vigore, fisico e intellettuale. E invece
stavo male, anzi malissimo…

Ed ecco il culmine del peccato di Francesca:

Ma un istante solo fu quello che annullò ogni nostra


resistenza: quando leggemmo come il grande Lancillotto
aveva baciato la sua amata Ginevra, Paolo, tutto tremante,
baciò le mie labbra. Quel libro fu il tramite tra noi due, fu quel
libro che ci fece scoprire il nostro amore. E quel giorno non
leggemmo oltre.

Lascio queste pagine ai cultori della traduzione dei classici in italiano


moderno, come i miei amici Amedeo Quondam e Marco Santagata
(ma che dire della parafrasi dell’Inferno fatta da quest’ultimo come
strumento di appoggio per la lettura di Inferno di Dan Brown?) e mi
addentro nelle poche sale visitabili del museo. Noto qualche gruppo
scultoreo, un bell’arazzo fiammingo del secolo XVII con il mito di
Meleagro, che viene dal Museo Diocesano di Gerace, qui perché
recentemente restaurato. Vedo giovani che studiano e disegnano
alcuni gruppi scultorei. Ed ecco finalmente l’accesso ai bronzi, che
viene filtrato attraverso il passaggio a una sala intermedia chiusa,
dove si resta in attesa tra 15/20 persone. Ogni tre minuti c’è il
cambio: si apre la porta che immette nella sala dei bronzi, da cui per
un’altra devono uscire i precedenti visitatori. Ma vedo che l’ordine
non viene davvero rispettato: molti del precedente gruppo sono
rimasti dentro; e non viene rispettato nemmeno il divieto di usare il
flash, tanto che non posso trattenermi di farlo notare con un gesto a
uno che nemmeno mi risponde e di nuovo ne fa uso. Non capisco
del resto a che serva fotografarseli così, quando le loro foto possono
trovarsi dappertutto, anche liberamente scaricandole da Internet: ma
è evidente che assolutamente inedita e realizzabile solo qui dentro è
la possibilità di farsi un selfie accanto alle perfette armonie corporee
delle due statue.
Mentre in un primo momento era parso di non vedere visitatori
stranieri, ora scopro che tra i rimasti dentro, forse, con speciale
permesso, ci sono studentesse e studenti americani, accompagnati
da un professore abbastanza giovane, che mi riconosce e viene a
salutarmi, ricordando un nostro incontro in una università americana.
Dice il suo nome, che sfugge alle mie orecchie: e non riesco proprio
a capire chi sia e dove l’abbia incontrato, ma, per non parere
scortese, fingo di aver capito e gli faccio tanti auguri per il suo
soggiorno italiano e per la ricerca, che mi dice, è impegnato a
svolgere. E finalmente posso guardare con più attenzione i due
eccezionali guerrieri, che per forza del caso sono riemersi alla luce,
diventando quasi icone mediatiche, suscitando polemiche sulla loro
collocazione, richieste varie di esibirli di qua e di là. Sono contento
che siano qui e che qui restino, riposino senza andarsene mai,
protetti anche dai loro basamenti antisismici. Certo sono diventati
immagine di se stessi: ma osservando il modo in cui occupano lo
spazio, girando intorno al volume dei loro corpi, sembra di percepire
in atto la tensione di uno scatto fisico, quasi in una espansione
ideale della loro perfetta muscolarità. L’osservatore che si sposta
intorno a loro vede dislocarsi diversi profili, diverse combinazioni
della loro tratteggiata forma corporea, vede diversamente atteggiarsi
le loro braccia sinistre, tutte e due piegate per reggere lo scudo
scomparso; vede variamente distinguersi la misura dei loro volti, le
barbe di diversa foggia, la capigliatura del primo che giunge
delicatamente a coprire il collo e quella appena accennata dell’altro,
il diverso piegarsi delle loro labbra, non si sa se in segno di attesa o
di leggero sorriso. Il bronzo accoglie una dispiegata fisicità,
trasmette attraverso i secoli l’illusione di una serena esposizione del
corpo e dei corpi, il sogno di una loro liberazione dall’inevitabile
consunzione, dalla corrosione biologica, dai purulenti residui del
vivere e del morire. Possiamo riconoscere qui tutta la suggestione di
una pagana e mediterranea civiltà del corpo, tesa a mettere al
proprio centro la sua pur così effimera forza e bellezza, a sentirla
come il valore supremo: certo agli antipodi del cristianesimo
medievale e dantesco, con cui però forse condivide
sotterraneamente l’aspirazione all’assoluto, un voler comunque dare,
certo seguendo strade opposte e nemiche, consistenza a ciò che si
perde, cercare un incommensurabile di più. A me almeno la
perfezione di questi bronzi sembra come trasporre la civiltà del corpo
in cui sono inscritti in qualcosa che eccede l’esperienza stessa della
loro meravigliosa fattura, in una sorta di impossibile e definitiva
persistenza.
Lascio Reggio Calabria, ma con l’intento di indugiare ancora in
questo limite del corno d’Ausonia: salgo verso l’Aspromonte, sulla
tortuosa strada che porta a Gambarie, suo centro turistico. Nel salire
si aprono nuovi emozionanti squarci dello stretto: la bella Trinacria si
dispone in un’immagine sempre più fantastica di se stessa, col
luminoso specchio di mare laggiù in basso, con tutte le case
disposte sulla riva, non solo Messina, ma anche, in una successione
mai interrotta, la costa dei Peloritani, dietro cui si distingue l’Etna. A
un certo punto il corpo centrale del grande vulcano appare come
fasciato da un bianco fronte nuvoloso, da cui si districa la vetta
azzurra, libera nel suo protendersi verso il più acceso azzurro del
cielo.
Sosto brevemente a Gambarie, sognando escursioni verso i luoghi
più interni, più elevati e solitari dell’Aspromonte, verso il mondo di
Corrado Alvaro, la cui San Luca, ahimè celebre per violenza mafiosa
e faide familiari, si trova dalla parte opposta, ai piedi del versante est
del massiccio. Una grande fontana con vasca quadrata e con un
gettito che ricade su una specie di sfoglia – fogli di varie dimensioni,
disposti a castello l’uno sull’altro – domina la piazza/parcheggio
centrale, animata per la presenza domenicale di escursionisti e di
proprietari di seconde case, qui particolarmente numerose.
Da Gambarie, lasciando a destra il luogo in cui fu ferito Garibaldi il
29 agosto 1862, ridiscendo in direzione di Scilla, attraversando un
bosco in cui mi imbatto in un tranquillo gregge di capre e poi una
discesa su un lungo rettifilo in leggero pendio, tra varia vegetazione
e soprattutto campi aperti; questo percorso lineare, ben diverso da
quello tortuoso dell’ascesa, solca i cosiddetti Piani d’Aspromonte.
Cominciano poi le curve e, dopo Melia, si scende su Scilla, su una
fitta serie di tornanti a gomito: discesa bellissima, in cui ci si
vorrebbe fermare a ogni passo, per osservare, su angolature sempre
diverse, la città di Scilla, la costa tirrenica protesa a nord fino a Capo
Vaticano, il capo Peloro con il suo traliccio, i Peloritani e sul mare (la
vista è oggi molto chiara) le isole Eolie e più a nord la fumosa
Stromboli.
Non potevo non passare a Scilla, dopo aver toccato dall’altra parte
l’avversa Cariddi. Dante non la nomina, ma si può dire che la
menzione di Cariddi in Inferno VII la evochi indirettamente. Del resto
il nesso tra Scilla e Cariddi, in atto già in Omero, è ben sottolineato
da Virgilio nel passo dell’Eneide che Dante teneva presente per la
menzione di Cariddi. Anche Ovidio nomina più volte il pericoloso
passaggio di Scilla e Cariddi e tra la fine del libro XIII e l’inizio del
XIV delle Metamorfosi narra il mito di Scilla, collegato a quello della
ninfa Nereide Galatea: da questa Scilla riceve il racconto della fine di
Aci, poi si nasconde in una caletta, dove viene pescata dal semidio
Glauco, che si innamora di lei e le svela del proprio trasformarsi in
divinità marina per aver mangiato un’erba miracolosa. Racconto,
questo, ben presente a Dante, che ne fa una similitudine per
connotare il proprio trasumanar per lo sguardo rivolto a Beatrice
all’entrare nel paradiso:

Nel suo aspetto tal dentro mi fei,


qual si fé Glauco nel gustar de l’erba
che ’l fé consorto in mar de li altri dèi.
(Par., I 67-69)

Ma Scilla respinge l’amore di Glauco, che chiede l’intervento di


Circe, la quale però gli offre il proprio stesso amore, venendo
respinta; allora, infuriata, Circe si vendica di Scilla e avvelena la
caletta dove ella si bagna, in modo che dal suo corpo-vulva
fuoriescano i cani mostruosi che in un primo momento ella crede
corpi estranei; ma quando cerca parti del proprio corpo, vi trova quei
“Cerbereos rictus”, “grugni da Cerbero” (XIV 63), costretta a sentirli
gravare su di sé. Sono questi a divorare i compagni di Ulisse; ma in
un secondo momento Scilla viene trasformata nel pericoloso scoglio
“qui nunc quoque saxeus extat”, “che è ancora lì nella sua durezza
di sasso” (73), evitato dai marinai. La vicenda mitica si è prolungata
nella tarda versione teatrale del Glauco di Ercole Luigi Morselli
(1919), a cui è dedicato da tempo un monumento in un belvedere
sulla strada statale. Ma recentissimo (inaugurato nel 2013) è il
monumento alla stessa Scilla, posto sul belvedere al centro della
cittadina, nella piazza San Rocco, prospiciente al comune: vi si
dimena il corpo flessuoso della ninfa-sirena, insidiato da una sorta di
cane marino, che si districa dalla parte bassa del corpo, innestata
nel basamento di bronzo. È opera dello scultore Francesco Triglia,
frutto di una munifica donazione, come dice la scritta alla base del
monumento: GIOVANNIA CAPUA E LA SUA FAMIGLIA A SCILLA.
Oltre il viluppo del gruppo bronzeo, la città di Scilla sembra da qui
protendersi nel sole: sulla destra, oltre la moderna chiesa
dell’Immacolata, la rupe scoscesa con il suo arroccato castello, sotto
la quale c’è, dall’altra parte, il piccolo porto; in basso la spiaggia
dove sono ancora disposte le file di ombrelloni con sdraie; a sinistra
la costa scoscesa e ancora lo stretto, con la vicina e avversa
Cariddi, la punta di Peloro con il traliccio e Torre Faro, e poi Vulcano,
Lipari, Stromboli. Scendo in basso, alla Marina Grande, sul viale
lungo la spiaggia, dove sono trattorie e ristoranti, alcuni con nomi
mitologici, come Antica Scilla e Calipso: nomi che in molti luoghi
segnano la scarsa e indifferente sopravvivenza di una mitologia
ormai dimenticata e che solo a questo sembra ormai servire. Mangio
un bel piatto di spaghetti allo scoglio all’Antica Scilla su un tavolo
all’ombra, con la spiaggia e il castello in vista: c’è una coppia di
tedeschi e una di francesi. Passa dopo un po’ un thailandese che
vende rose rosse; nessuno le compra, ma lui si intrattiene a
conversare con il trattore con cordiale familiarità.
Cosenza

Se ’l pastor di Cosenza, che a la caccia


di me fu messo per Clemente allora,
avesse in Dio ben letta questa faccia…
(Purg., III 124-126)

Ed eccomi a Cosenza, superata l’autostrada in cui si alternano tratti


di nuovissimo assetto, oggi quasi deserti, e tratti malagevoli, pieni di
difficoltà e di intoppi. Ma, prima di giungere nel cuore della città
vecchia, mi accoglie l’attivissimo Nuccio Ordine, già mio allievo
quando insegnavo alla vicina Università della Calabria, nei pressi del
paesino di Arcavacata, oggi professore di Letteratura italiana nella
stessa università. Quando mi trovai lì, tra la seconda metà degli anni
settanta e i primissimi anni ottanta, l’università era di recente
impianto, ancora in costruzione, con tante difficoltà pratiche, animata
da una giovanile avventurosità, con occasioni di invenzione, di
progettazione, di confronto culturale, con vivaci relazioni umane tra
colleghi, liberi da troppo stretti codici accademici. Furono anni pieni
di entusiasmo, una sorta di prolungamento dello spirito del
Sessantotto, insidiati peraltro da certe persistenze di spicciolo
anarchismo, di fittizia spregiudicatezza, di presuntuose e disgreganti
illusioni rivoluzionarie. Tutto appariva allora nuovo, casuale e
provvisorio nella sua novità. Oggi l’università è cresciuta, anche nelle
sue strutture materiali, con numerosi edifici, aule, dipartimenti,
servizi che aggettano sul ponte attrezzato Pietro Bucci (col nome di
un docente che qui fu a lungo rettore), lungo circa due chilometri,
percorso da una fitta popolazione studentesca. Nuccio ne costituisce
una delle presenze più vive, proiettato com’è su una rete di rapporti
internazionali, con i suoi studi su Giordano Bruno e su vari aspetti
della cultura letteraria e filosofica del Rinascimento, e con attività
editoriale in Francia e in Italia, la cui gemma è costituita dalla
originale collana edita da Bompiani sui “Classici della letteratura
europea”, con traduzione italiana e testo originale a fronte (dal Don
Chisciotte a cura di Francisco Rico al tutto Shakespeare a cura di
Franco Marenco).
Per me tornare da questi paraggi, come ho fatto tante volte,
significa ritrovare un po’ l’ingenuità, l’entusiasmo, le speranze anche
culturali degli anni settanta, i frammenti di giovinezza, la presenza di
amici che troppo presto ci hanno lasciato, di altri da cui la vita mi ha
portato lontano, e anche l’incanto di incontri femminili, di qualche
breve e fuggevole amore, di uno soprattutto che mi lascia un’eco di
passione, sfiorata e non risolta, come ingiustamente inexpletum.
Ora mi accoglie Nuccio, con la sua compagna Rosalia, che
gestisce una libreria all’interno della struttura universitaria: Nuccio
sempre esuberante e atletico, nonostante gli anni trascorsi e
l’intensa attività, Nuccio a cui l’orizzonte internazionale non
impedisce di mantenere una viva fedeltà a questi luoghi, al suo
habitat calabrese, fino alla sua patria marina, Diamante, sulla costa
tirrenica. Ecco la sua nuova casa, spaziosa e accogliente, dove i libri
che si affacciano dappertutto non sembrano pesare sull’ariosità
dell’ambiente, col giardino aperto verso la collina su cui è il centro di
Rende (la sede del comune a cui appartiene Arcavacata). Questo
comune è dislocato in tante frazioni e zone residenziali, molte delle
quali si confondono con la periferia di Cosenza: qui siamo in una
zona più esterna, poco prima dell’elevarsi del terreno verso la catena
costiera che separa la valle del Crati dal mare, e siamo in una strada
a cui è stato attribuito il nome di un personaggio ben poco noto e
che comunque non ha nulla a che fare con questi luoghi. Si tratta
cioè di via Alberto della Piagentina, che forse l’addetto alla
toponomastica del comune di Rende avrà pescato nelle pagine
iniziali di qualche enciclopedia, ma che mi riconduce comunque
all’ambito dantesco: era un fiorentino, nato verso la fine del
Duecento, notaio, finito poi in carcere a Venezia, dove morì nel 1332
e dove scrisse un volgarizzamento del De consolatione philosophiae
di Boezio, che è anche un importante documento della precoce
diffusione della Commedia e del Convivio di Dante (lì direttamente
citato).
Ma, a parte la casuale combinazione dantesca data dal nome di
questa strada di Rende, si tratta ora di raggiungere il centro antico di
Cosenza e di avvicinarci al luogo di residenza di quel pastor di
Cosenza che, istigato dal papa Clemente IV, fece disseppellire
Manfredi da co’ del ponte presso a Benevento e lo fece gettare nel
Verde (vedi pp. 174-180, 191-193): identificato con il fazioso
Bartolomeo Pignatelli, che in realtà lasciò l’arcivescovato di
Cosenza, passando a quello di Messina, pochi mesi dopo la
battaglia di Benevento (il 30 settembre 1266) e che comunque non
dovette sostare a lungo in questa sede calabrese (tanto che
qualcuno, in modo per la verità scarsamente credibile, pensa che a
operare lo scempio sia stato il suo successore Tommaso d’Agni).
Attraversando i quartieri periferici dell’asse Rende-Cosenza e poi i
quartieri “moderni” della città ritrovo ovviamente vari luoghi che mi
sono stati per alcuni anni familiari: bar, ristoranti, alberghi,
l’andirivieni sul corso Mazzini, una strada laterale dove si affacciava
il locale molto semplice del Circolo Mondo Nuovo, animato dal
tappezziere Totonno Lombardi, fucina di una sinistra radicale e
minoritaria, avversa alle perverse illusioni che circolavano in quegli
anni. Non c’è più la vecchia stazione delle Ferrovie dello Stato,
sostituita da una nuova grande ambiziosa stazione in periferia, che
ora è in un indegno stato di abbandono. Qui sul luogo del vecchio
edificio è la grande piazza Giacomo Mancini (il più autorevole,
potente e discusso politico cosentino del secondo Novecento, uno
dei capi del Psi, che negli ultimi anni, dopo il crollo del partito, pur
colpito da vicende giudiziarie, non ha abbandonato la politica ed è
stato anche sindaco della città, in un suo breve momento di
rinascita). Su questa piazza dà un’altra stazione, quella delle
Ferrovie della Calabria (FC), resto delle vecchie Ferrovie Calabro
Lucane, di cui sopravvive la disastrata e disertata linea Cosenza-
Catanzaro.
Oltre la piazza Mancini si procede verso la confluenza tra il Crati e
il suo affluente Busento, dove forse in co’ del ponte o nel letto del
fiume sarebbe stato sepolto il visigoto Alarico, reduce dal sacco di
Roma del 410 d.C.: leggende e dicerie varie, ricerche improbabili e
illusorie, ruotano attorno all’impossibile localizzazione di questa
tomba, nella quale o accanto alla quale sarebbe nascosto parte del
tesoro accumulato dal re proprio nel sacco di Roma. C’è anche una
poesia del tedesco August von Platen, morto a Siracusa nel 1835,
Das Grab im Busento, la cui versione italiana del Carducci, La tomba
nel Busento, veniva un tempo letta e memorizzata nelle scuole (e
successe anche a me di impararla, forse nel 1955: “Cupi a notte
canti suonano / da Cosenza su ’l Busento…”).
Da qui si sale alla città vecchia, arroccata (salvo un quartiere al di
là del Crati) sulla costa montuosa che aggetta sulla confluenza dei
due fiumi. Dalla piazza Tommaso Campanella, su cui è la facciata
della composita chiesa, tra Quattrocento e Barocco, di San
Domenico, si attraversa il ponte sul Crati e, salendo sul corso
Telesio, si raggiunge la piazza del Duomo, con facciata romanica,
con grande rosone centrale e due piccoli rosoni laterali, con tre
portali con arco leggermente a ogiva, inquadrati da grossi pilastri
aggettanti all’esterno. C’è un effetto di scrostato silenzio tutto
intorno, tra le case della vecchia città, su cui si aprono fitte serie di
ampie finestre, delimitate da piccole logge. È come se ci sia
qualcosa di attutito e di quieto nella quasi generale consunzione
degli intonaci delle facciate, che sembrano avere in sé alcunché di
umidamente vegetale. Alle spalle del Duomo, al di là della pungente
scansione in cui si stagliano gli scuri mattoni del corpo esterno di
absidi e cappelle, c’è la piazza Aulo Giano Parrasio con il palazzo
quattrocentesco dell’Arcivescovato. Poco prima della piazza c’è il
Palazzo Ruggi d’Aragona, di proprietà della famiglia Bilotti, che sta
provvedendo alla sua sistemazione, per farne un luogo di cultura e di
incontro, per dare nuova vitalità a questo troppo trascurato centro
storico. Avrò in seguito notizia dell’inaugurazione del restaurato
palazzo e del progetto di farne sede per le lauree della Facoltà di
Architettura dell’Università della Calabria, nel marzo 2017. Ma più
tardi, nel luglio dello stesso anno, un incendio sviluppatosi in un
appartamento abusivamente occupato in un palazzo attiguo,
causerà la morte di tre persone, e la distruzione di una non
trascurabile biblioteca.
Ora, alle spalle dell’Arcivescovato, in luoghi in cui si sarà
affacciato, quando erano comunque ben diversi, il torvo violatore
delle ossa di Manfredi, c’è il Renzelli, il caffè storico di Cosenza, che
risale ai primi anni dell’Ottocento e che era il maggior luogo di
incontro della città, quando qui era il suo vero centro, poi spostatosi
in basso, nella zona “moderna”; città che, fino a un certo punto del
Novecento, si caratterizzò per una forte tradizione laica e “civile”,
sostenuta da una vivace borghesia progressista, e in un contesto
che non era ancora toccato dalle mafie calabresi (come purtroppo è
rovinosamente accaduto da qualche decennio). Mi resta nella
memoria la battuta di quel collega che considerava emblema della
vecchia vita cosentina “un parfait di caffè al Renzelli”.
Procediamo su corso Telesio: qui la presenza del cosentino
filosofo della natura, l’autore del De rerum natura iuxta propria
principia, è comunque molteplice: c’è il caffè Telesio davanti alla
strada che piega a destra e sale leggermente all’interno, su uno
stretto spiazzo su cui prospetta l’edificio imponente del Liceo Telesio,
con il suo aspetto di tempio classico, quattro grandi colonne nel
prospetto. E si giunge sulla grande piazza XV Marzo, con un
monumento marmoreo ai caduti di quel giorno del 1844 in cui
Cosenza vide un’insurrezione patriottica, repressa nel sangue, che
convinse i fratelli veneti Attilio ed Emilio Bandiera, affiliati alla
Giovine Italia, della possibilità di suscitare un nuovo moto in
Calabria: partiti da Corfù, attraversarono la Sila, dove furono
attaccati dalle truppe borboniche, presso San Giovanni in Fiore. I
superstiti dello scontro, tra cui i due fratelli, fatti prigionieri, furono
fucilati non lontano da qui, nel vallone di Rovito, al di là del Crati,
oltre un viadotto ferroviario.
Ma questa piazza ci riporta più indietro, oltre i tempi del
Risorgimento: è ancora Telesio, con un grande monumento bronzeo,
e ancora l’edificio che ospita istituzioni che mantengono il ricordo
dell’antica e fiera tradizione culturale di Cosenza, la Biblioteca civica,
sempre più in difficoltà per i sempre più impietosi tagli alla cultura, e
l’Accademia cosentina, fondata all’inizio del Cinquecento
dall’umanista Aulo Giano Parrasio, centro dell’attività di Telesio (e a
un certo punto detta anche Telesiana) e poi con varie importanti
presenze nel corso dei secoli. In questo locale mi è capitato di
toccare nel vivo quelle che forse sono state le ultime incarnazioni
della tradizione culturale della borghesia cosentina: ricordo la
passione e l’impegno, pur nel quadro di una difficile vita familiare, di
quello che, quando frequentavo questi luoghi, era il direttore della
Biblioteca, il dottore Giacinto Pisani, civilissimo, discreto,
competente; e ricordo la fervida partecipazione di pubblico alle
conferenze dell’Accademia, organizzate dal presidente, l’avvocato
Luigi Gullo, politico del Psi, figlio di Fausto, coraggioso e combattivo
esponente del Pci, che aveva condotto memorabili battaglie per il
riscatto dei contadini calabresi.
Su questa piazza prospetta l’edificio del Teatro comunale, intitolato
al musicista calabrese Alfonso Rendano (1853-1931): la facciata si
impone con una evidente citazione di quella della Scala. Varia vita
teatrale e culturale qui; non solo spettacoli (ci furono stagioni col
meglio del teatro, nazionale ed estero, quando assessore alla cultura
era il germanista e poeta Giorgio Manacorda, “comunista
crepuscolare”), ma incontri, discussioni, manifestazioni politiche… I
ricordi mi porterebbero lontano se non scorgessi vari cartelloni e
curiose installazioni all’ingresso della Villa Comunale, che dà
anch’essa su questa piazza, ma sul fronte opposto a quello su cui
sbocca corso Telesio: qui c’è un festival della birra, con réclame
delle marche più varie, italiane e straniere, che dal passato lontano e
vicino mi riporta alla nostra pubblicitaria quotidianità.
Nordest
San Giovanni in Fiore

…il calavrese abate Giovacchino,


di spirito profetico dotato.
(Par., XII 140-141)

La mattina del 29 settembre, dopo la notte passata nell’accogliente


stanza per gli ospiti, in una specie di dépendance della casa di
Nuccio, tra scaffali di libri di varia letteratura (quelli per i suoi studi
rinascimentali affollano invece le pareti e i tavoli del suo studio),
salgo sulla Sila, sulla superstrada che si diparte da Cosenza e sterza
verso nord, sovrastando sempre più l’ampia piana del Crati, dove si
espande l’abitato di Cosenza e di Rende e si riconosce bene
l’insediamento dell’università, intorno al suo ponte Bucci. Si
costeggia l’orlo occidentale della Sila, salendo tra curve e brevi
gallerie che a un certo punto piegano verso est; dopo quelle scavate
sotto il valico di Fago del Soldato si scende sulla località di
Camigliatello, centro di vacanze e sport invernali, seguendo poi un
altipiano che conduce all’ingresso di San Giovanni in Fiore. Oltre il
tortuoso centro di questa città, scendendo su una lunga strada
sempre in curva, costeggiata da caseggiati e palazzetti piuttosto
deprimenti, si raggiunge in basso l’abbazia Florense, nel luogo dove
si ritirò l’abate Gioacchino, nativo di Celico, sul finire del XII secolo,
dopo il soggiorno in vari monasteri, fondando così l’ordine Florense.
Nel Paradiso dantesco la luce di Gioacchino appare alla sinistra di
san Bonaventura, nel secondo cerchio degli spiriti sapienti, quelli
riconducibili al modello mistico e “spirituale”, scacciando i dubbi sugli
aspetti ereticali dei suoi scritti e insistendo sul suo spirito profetico,
ben evidente nell’insieme delle sue opere e nella fama da esse
diffusa. All’orizzonte gioachimita si può in parte riconnettere la
tensione di Dante verso una prossima affermazione della giustizia, la
sua attesa di una rigenerazione dell’umanità contemporanea, di un
prossimo compimento dei tempi, di un muoversi del mondo verso il
giudizio finale.
Del resto uno spirito profetico anima tutta la Commedia, anche se
più come radicale speranza di rinnovamento, di conversione
universale dal male al bene, generale proiezione verso l’avvento
futuro, appassionato muoversi verso di esso. In questa chiave
agiscono i richiami indeterminati a qualcuno che scaccerà il male dal
mondo e imporrà la giustizia, come il Veltro annunciato quasi
all’inizio del poema. Spinta verso la proiezione nel futuro sono anche
tutte le profezie post eventum, quelle allusioni che le anime
dell’aldilà fanno a eventi successivi ai giorni in cui avviene il viaggio
oltremondano, ma già accaduti quando l’autore sta scrivendo. Dante
dà voce così alla propria attesa e speranza profetica, al proprio
vigoroso lottare per un rinnovamento del mondo; sostanzia tutta la
propria poesia di questa speranza, ma non può certo pretendere che
le proprie profezie post eventum siano prese come vere profezie,
non può essere convinto di essere personalmente profeta, come
invece molti critici sostengono: non può identificare direttamente
invenzione poetica e profezia. Sa benissimo che il suo viaggio
oltremondano non si è effettivamente verificato, che quella non è
una visione, ma un sogno poetico, invenzione di un mondo scaturita
dall’esperienza personale, dalla cultura letteraria e filosofica, dalla
fede religiosa, dalle speranze politiche e dall’aspirazione all’assoluto,
all’identificazione di sé con il cosmo. Così le sue profezie non
possono non restare indeterminate: proprio all’opposto di quelle che
si disegnano nelle opere di Gioacchino da Fiore, che culminano nel
disegno del prossimo avvento dell’età dello Spirito Santo e che,
peraltro, nel corso del XIII secolo, avevano alimentato, e
continuavano a farlo ancora nel XIV, le correnti religiose e mistiche
più radicali, specie all’interno del francescanesimo, con prospettive
che sfioravano l’eresia, fino all’esito di veri e propri movimenti
ereticali. Nel nome di Gioacchino da Fiore, che pure aveva inteso le
sue opere come sostegno all’autorità della Chiesa, si definisce e si
prolunga nei secoli la tensione del Cristianesimo verso un
accrescimento di rivelazione: di fronte all’insufficienza della storia,
alla persistenza e al moltiplicarsi del male, all’arretrarsi della Grazia,
l’appassionata ricerca di un compimento della storia, di un avvento di
verità e di giustizia (ne ha raccolto il senso, nel Novecento, il
possente romanzo di Mario Pomilio, Il quinto evangelio).
Rispetto alla interpretazione di Gioacchino in chiave ereticale,
Dante intende comunque reinserire il suo pensiero profetico nel
quadro dell’ortodossia, che concepisce proprio fecondata dalle
diverse posizioni religiose; la sua collocazione nella seconda corona
dei sapienti “mistici” è del resto perfettamente corrispondente a
quella che nella prima corona occupa il ben diverso, acutamente
razionalista e averroista, Sigieri di Brabante, pur condannato dalla
Chiesa. D’altra parte per la Commedia una suggestione gioachimita
sembra operare anche nella cura figurale: e non solo per il richiamo
all’interpretazione figurale della Bibbia (che Gioacchino aveva
proiettato in una vera e propria corrispondenza tra vicende della
storia ebraica e vicende della storia cristiana), ma per la cura per le
immagini figurate, la proiezione delle vicende storiche in disegni e
diagrammi, in intrecci tra figure geometriche, immagini simboliche,
scrittura. E certamente si pensa al Liber figurarum di Gioacchino per
il rilievo che la forma del cerchio assume nella Commedia e per
certe figurazioni come quella della croce su cui si muovono i beati
nel cielo di Marte e quella delle lettere che si trasformano per dar
corpo all’aquila parlante nel cielo di Giove.
Quanto all’uso simbolico del fiore (e al fiore della “candida rosa”
dell’Empireo), non si può trascurare che il nome stesso di San
Giovanni in Fiore deriva dalla scelta di Gioacchino di chiamare Fiore
questo luogo da lui scelto nel 1190 come eremo e come sede del
suo nuovo ordine, che annuncia l’avvento dell’età dello Spirito Santo.
Considerando che, secondo l’etimologia data da san Girolamo, il
nome ebraico Nazaret indicava fiore, ciò comporta un richiamo alla
maternità di Maria: l’abate calabrese intende significare, come
spiega Gian Luca Potestà, che, come il Messia era “venuto dal ‘fiore’
della prima Nazaret, così l’ordo dello Spirito verrà dal ‘Fiore’ della
nuova Nazaret silana”. E penso non sia solo una vaga suggestione
quella che mi spinge a collegare questo riferimento, del fiore e
dell’abbazia Florense alla maternità di Maria, alla terza terzina della
preghiera alla Vergine messa in bocca a san Bernardo, che
sottolinea come il fiore (Cristo e rosa allo stesso tempo) sia
germinato dal ventre di Maria:

Nel ventre tuo si raccese l’amore,


per lo cui caldo ne l’etterna pace
così è germinato questo fiore.
(Par., XXXIII 7-9)

Insomma sono qui, vicino a questo Fiore: ho raggiunto la fiancata


destra della chiesa, che ha in alto una grande e semplice rosa a sei
corolle, con altre tre più piccole a quattro corolle; accanto c’è il
semplice campanile e parte dell’edificio dell’abbazia. Lo spazio
antistante è in parte attrezzato, sorta di parco pubblico aperto, dove
c’è anche la cavea a gradinate di un piccolo teatro all’aperto. Da qui
raggiungo la piccola piazza su cui dà la facciata della chiesa, col suo
portale duecentesco, entro cui è innalzata un’armatura, con un paio
di operai che stanno risistemando la parete interna. Dalla nuda
navata della chiesa, su cui risuonano le voci pur discrete degli
operai, passo nella cripta, dove trovo sopra una nicchia i versi
danteschi scolpiti su una pietra. In una cappella laterale c’è una teca
di vetro e metallo che espone l’immagine metallica, rivestita di
bianco saio, del corpo dell’abate (sembra che qui, anche più che in
altre situazioni, sia stato impossibile identificare i suoi veri resti,
nonostante lo zelo degli stessi ricercatori che si sono occupati di
quelli di Federico II a Palermo). Ma questi resti non sono esposti a
una venerazione ufficiale: nonostante proposte e tentativi vari in
proposito, Gioacchino non è stato mai canonizzato, anche in
considerazione dell’uso delle sue teorie da gruppi ereticali. Nel
tempo egli è stato dichiarato beato dai Florensi e da altri, ma la cosa
ha suscitato dure reazioni da parte delle gerarchie ecclesiastiche.
Solo ora è in corso un’istruttoria per la sua beatificazione, che
comunque non ha ancora superato tutti i necessari passaggi.
La cripta e le cappelle sono immerse in un buio su cui filtra da
piccole finestre qualche pungente raggio di sole: un Cristo morto in
legno è adagiato su una panca, una Madonna coronata e rivestita di
un pesante mantello, col piccolo bimbo in braccio, sta chiusa in una
grande teca dentro una nicchia. Uscendo fuori dalla cripta si accede
a un locale dov’è allestita una mostra didattica sul Liber figurarum: si
dovrebbero pagare due euro, ma non c’è nessuno a ricevere il
dovuto. Ci sono molte riproduzioni dei bellissimi disegni dei
manoscritti, con adeguate spiegazioni. E non mancano quelli che
fanno pensare a Dante: Albero, Aquila, cerchi trinitari… C’è anche
un pannello sui rapporti di Dante con Gioacchino, con tutti gli
accostamenti e i richiami possibili ai versi danteschi. Nello stesso
edificio dell’abbazia sono ospitati un Museo demologico, che oggi è
chiuso, e il Centro internazionale di studi gioachimiti, attivo dal 1982,
che, come vedo da manifesti esposti, ha appena celebrato il suo
ottavo Congresso, pochi giorni fa, dal 18 al 20 settembre.
Accanto all’abbazia c’è una Rsa, “residenza assistita”, Villa
Florensia, che sembra ben attrezzata e ospitale: davanti all’ingresso
stanno seduti alcuni vecchi, molto vogliosi di scambiare qualche
parola. Mi chiedono subito da dove vengo e se mi è piaciuta la visita
dell’abbazia. Mi torna in mente il ricordo di una visita che feci qui nel
mio primo viaggio in Calabria, nel 1966: per vedere la chiesa
dell’abbazia bisognava allora attraversare una grande sala di quello
che all’epoca si presentava semplicemente come un ospizio per
vecchi, sala cupa e gelida, nonostante l’estate, in cui erano seduti, in
triste e torva malinconia, decine di vecchi mal vestiti, che davvero
sembravano abbandonati a se stessi, fermi lì solo in attesa della
prossima morte, indifferenti a ogni avvento del regno dello Spirito,
solo irreggimentati da alcune suore per la ripetizione di lunghissimi
Rosari. Ricordo balenante, forse deformato dalla distanza, ma che
mi fa pensare che, nonostante tutto, qualcosa è cambiato in meglio
nel corso di questi anni, anche qui, in questo remoto fondo della
Calabria: anche se resta assurdo che una Rsa come questa, a
gestione privata, sia collocata in quelli che erano i locali dell’abbazia,
di proprietà del Comune (sono peraltro in atto varie iniziative per
liberare l’abbazia da questa presenza, con vari strascichi polemici,
ma per ora senza risultati).
Sulla piazzetta antistante all’abbazia mi colpisce una lapide che
ricorda un episodio che mi era completamente ignoto: una strage del
2 agosto 1925, in cui carabinieri e milizia fascista spararono sulla
folla che protestava contro il dazio sul grano. Furono uccise quattro
contadine, Filomena Marra di anni 27 (che era incinta al quinto
mese), Barbara Veltri di anni 25, Antonia Silletta di anni 69,
Marianna Mascara di anni 73, e il fabbro Saverio Basile di anni 33.
Ancora nomi di persone senza storia, sconosciute e dimenticate, che
è giusto registrare, per quel che valga, in questo viaggio dantesco.
Dalla piazzetta prendo delle scalette che mi portano leggermente
più in alto, sulla piazza Abate Gioacchino, dove è la parrocchiale di
Santa Maria delle Grazie, con tre ben calibrati portali. Sta
attraversando la piazza un uomo con una giacca grigia che spinge
un carrello in cui sono ammassati vestimenti di vario genere e
colore, tenuti fermi da un paio di cinghie: sono abiti e tessuti, in
genere di seconda mano, che egli vende così, in questa povera,
dimessa e itinerante bottega. Con indifferenza lo guardano tre
uomini seduti davanti all’antistante bar Bruzio, mentre una donna in
ciabatte gli si avvicina per chiedergli se ha qualcosa per lei. Che
c’entra con tutto questo il cartello a fianco del bar, che reclamizza un
locale Centro Estetico, che fa sapienti trattamenti ayurvedici? Torno
indietro ripercorrendo l’altipiano, notando la particolarità dei vari
toponimi, tra cui mi colpisce, poco prima di Camigliatello, Croce di
Magara, che mi fa pensare a qualche magàra, presunta strega,
favolosamente operante nella zona o lì aggredita, uccisa, bruciata.
Nello scendere verso Cosenza mi aspetta una breve sosta a
mezza costa, in uno dei numerosi, arroccati e tra loro vicinissimi
paesi presilani, Celico, luogo di nascita di Gioacchino, che, prima del
suo insediamento a Fiore, ebbe dimora in altri cenobi calabresi,
come quelli cistercensi di Santa Maria di Corazzo e della Sambucina
(quest’ultimo da queste parti, sulla costa presiliana). Di un certo
interesse è, a Celico, la chiesa di San Michele, con un singolare
soffitto ligneo dipinto con varie decorazioni, che inquadrano una
scena dominata dal corazzato san Michele, nell’atto di fare “la
vendetta del superbo strupo” (Inferno, VII 11-12): alle sue spalle, in
vigile osservazione, le tre persone della Trinità e a destra vari
angioletti svolazzanti e oranti, in posa di partecipi tifosi, mentre in
basso è l’aggrovigliata calca dei diavoli che precipitano nel fuoco
infernale, chiusa però dall’immagine di un piccolo pavone che poggia
su un piedistallo su cui è la firma del pittore, Cristoforo Santanna,
1787. Qui, in tutta la precedente settimana, si è svolta la festa di San
Michele, che si conclude proprio oggi, che in effetti è il giorno di san
Michele, 29 settembre.
Poco dopo Celico la superstrada passa sopra il vallone di Rovito: il
viadotto ha il nome dei Fratelli Bandiera, che laggiù furono fucilati.
L’Alpe che serra Lamagna e il castello di Tirolo

Suso in Italia bella giace un laco,


a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.
(Inf., XX 61-63)

La lunga perifrasi del XX canto dell’Inferno, con cui si fa risalire


l’origine di Mantova a Manto, dannata tra gli indovini della quarta
bolgia, si focalizza inizialmente sul lago di Garda (Benaco) e sulla
sua posizione geografica, a sud di quel tratto dell’arco alpino che
delimita la Germania e che aveva uno dei suoi centri maggiori, al
limite tra l’Italia e la Germania, nel castello di Tirolo (Tirale in ladino),
nei pressi di Merano. Prima di percorrere la Marca Trevigiana e il
nordest italiano, per approdare allo Schloss Tirol, il castello di Tirolo,
tocco qualche tratto dell’“Alpe che serra Lamagna”, tra il Trentino e
l’Alto Adige o Südtirol, la regione a sud dello spartiacque alpino e del
valico del Brennero, che dalla penisola italiana immette nel nord
germanico: dove al confine geografico e politico (fissato
nell’annessione all’Italia alla fine della Prima guerra mondiale) non
corrisponde quello etnico e linguistico, dato il carattere germanico
delle popolazioni tirolesi.
Un affascinante snodo centrale di questa “Alpe che serra
Lamagna”, crocevia di passaggi tra diversi punti di questo limite
d’Italia, è certamente il gruppo Sella, massiccio dolomitico affacciato
su valli collegate da strade che intorno a esso fanno un anello,
valicando passi addossati sui suoi fianchi e prolungamenti. Qui si
incontrano e divergono, anche dal punto di vista amministrativo, i
territori dell’Alto Adige, del Trentino e del Veneto (con la provincia di
Belluno). In una breve vacanza del settembre 2014 risalgo la val
Gardena, fino a giungere ai piedi del gruppo Sella, a un bivio che
verso destra conduce al passo Sella e verso sinistra al passo
Gardena. Dal passo Sella (2240 m.) si apre una formidabile vista,
sulla valle sottostante e su vari gruppi montuosi (si impongono, più
vicini, lo stesso gruppo Sella e il Sassolungo); oltre il passo si
scende precipitosamente fino a incontrare un altro bivio che a
sinistra risale verso il successivo passo Pordoi (2239 m.) e a destra
scende nella val di Fassa, dove si incontra Canazei (nel Trentino).
Sul passo Pordoi, da cui una funivia conduce alla vetta del Sass
Pordoi, che apre un immenso sguardo sul sistema dolomitico, si
celebra la memoria del ciclismo eroico e del corridore più esemplare,
il campionissimo Fausto Coppi: c’è un piccolo monumento, un
bassorilievo con la sua immagine, mentre valica il passo tra la folla
osannante.
Scendendo dal passo si giunge ad Arabba (Belluno), al punto più
alto della val Cordevole: ma senza scendere ulteriormente la valle, si
può continuare il giro intorno al gruppo Sella risalendo verso nord sul
passo di Campolongo, da cui si riscende verso la val Badia,
incontrando il centro di Corvara. Anche qui, se non si prosegue nel
percorso della val Badia (in cui scorre il fiume Gadera, fino a
convergere nella Rienza, nell’ampia distesa della val Pusteria), si
può concludere il giro salendo sul passo Gardena: e scendendo da
questo si ritrova la val Gardena, se non si preferisce salire di nuovo
al passo Sella. Quattro passi, insomma e quattro valli segnate da
corsi d’acqua che variamente scendono dal gruppo Sella e si
dipartono verso diversi punti cardinali.
L’automobile si muove agevolmente e prudentemente nel continuo
salire e scendere sulle strade ben asfaltate, nel vario incanto delle
viste superbe e severe dei gruppi montuosi, tra il carezzevole
incurvarsi dei manti prativi e il puntuto elevarsi degli abeti, nell’effetto
dei cangianti colori che assume la roccia, tra il persistere di piccoli
ammassi nevosi. Tanto diversa e difficile era la penetrazione in
questi luoghi nei tempi lontani, quando la natura non era così
dominata e controllata dalle tecniche umane: quello che ora è
vacanza, affollata occasione turistica e sportiva, offerta indefinita di
attrezzature, allora era mistero inaccessibile, spazio di
sopravvivenza e di resistenza per pochi rustici abitatori. D’estate
questo uso turistico appare comunque meno costipato di quanto non
accada nella stagione sciistica, quando la sublime evidenza del
paesaggio invernale subisce l’assalto degli apparati e delle
attrezzature sportive, degli esiti tecnici e mediatici dell’apposita
industria.
Un ben diverso e sinistro uso tecnico di questa montagna è stato
fatto durante la Prima guerra mondiale, quella Grande guerra di cui
percorrendo questi luoghi si incontrano molteplici tracce. Il fronte si
trovava qui presso, a breve distanza dal gruppo Sella, subito a sud,
sul Col di Lana e sul compatto massiccio della Marmolada, e verso
est, intorno a Cortina d’Ampezzo (che prima della guerra
apparteneva all’impero austriaco). A Canazei trovo una piccola
mostra sulle gallerie scavate tra i ghiacci della Marmolada, sulla vita
condotta al loro interno, sugli scontri che vi ebbero luogo. E provo
una scossa soltanto a vedere le foto che ritraggono quella vita nel
ghiaccio, il vario esercizio delle abilità tecniche necessarie a
sostenerla, gli attrezzi e le macchine messe in opera, il consumo a
tale scopo di tante perdute energie umane. Nel mio tranquillo
procedere di visitatore estivo, nei miei sguardi sommari a queste
foto, penetra fuggevolmente il brivido di quel gelido tempo, il peso di
quelle esistenze ghiacciate, a tratti tremendamente bruciate dalle
improvvise accensioni dei colpi e dall’impatto col nemico.
Da Canazei ci si avvicina al fronte nord della Marmolada, su una
strada che sale verso il passo Fedaia (2057 m.), disposto su di un
piano in cui è un invaso artificiale, il lago di Fedaia, formato dalle
acque del torrente Avisio, che da qui scende verso Canazei e poi
costituisce il fondo della val di Fassa, fino a gettarsi nell’Adige, poco
a nord di Trento. Accanto al lago di Fedaia c’è un Museo della
Grande guerra, con moltissimi reperti provenienti soprattutto dal
ghiacciaio della Marmolada, grazie alla ricerca e al lavoro del
fondatore del museo, Andrea De Bernardin. E da Fedaia si
contempla la distesa delle nevi e dei ghiacci sull’ampia costa della
Marmolada: su di essa, accesa dal bruciante sole estivo e oscurata
a tratti da nuvole leggere, vedo procedere escursionisti che, piccoli e
lentissimi per la lontananza, sembrano quasi escrescenze della
montagna, forme generate dal suo stesso corpo.
Se si avanza oltre Fedaia, si costeggia il fronte est della
Marmolada, fino a Malga Ciapela, e poi, sul corso di un altro
torrente, il Pettorina, si raggiunge la val Cordevole, risalendola poi in
parte, fino a toccare il Col di Lana e a salire sul passo Falzarego
(2105 m.), da cui si può scendere a est su Cortina e la valle
d’Ampezzo. Ma dal Falzarego si può anche salire verso nordovest
sul vicinissimo passo di Valparola, del Falzarego più alto meno di
cento metri. Accanto al passo di Valparola si trova un altro molto
ricco museo della Grande guerra, installato nel Forte Tre Sassi,
costruito dagli austriaci a fine Ottocento, sulla linea del confine con
l’Italia, come avamposto in difesa dell’accesso alla val Badia. E dal
passo di Valparola si può in effetti scendere verso la val Badia,
percorrendo un suo ramo laterale, in cui è adagiato il paese di San
Cassiano, al cui centro è la chiesa dedicata all’omonimo santo,
considerato protettore degli insegnanti, maestri e professori. Come
racconta lo scrittore cristiano Prudenzio nel suo Peristephanon, IX,
questo santo era un maestro di grammatica (magister litterarum),
martirizzato a Imola all’inizio del IV secolo (vedi p. 395). Odiato dagli
allievi per la sua severità, fu dal pretore condannato a essere ucciso
da loro stessi: e i ragazzi rabbiosamente lo colpirono con le tavolette
di scrittura e lo punsero a lungo con i loro calami, compiaciuti di
vendicarsi delle fatiche didattiche a cui egli li aveva sottoposti. Qui,
all’altare della semplice chiesetta, c’è un quadro del pittore tedesco
tardosettecentesco Carlo Henrici (Johann Joseph Karl Heinrich),
dove si vede il santo dalla barba bianca, seminudo e legato,
circondato da vezzosetti bambini e bambine che lo pungono con i
loro calami o gli tirano addosso le tavolette di cera. Mi sorprende, in
ogni modo, trovare qua, nel cuore dell’“Alpe che serra Lamagna”,
questa immagine che allude, così da lontano, a un fenomeno che
forse è in atto nella nostra società, la distruzione dei maestri e la
lotta contro la scuola.
Con una diversione che mi allontana dal gruppo Sella, dopo
essere sceso dal Falzarego su Cortina – il cui centro appare troppo
esplicitamente segnato dalla sua destinazione a vacanza di alto
bordo –, raggiungo uno dei gruppi dolomitici più celebri, le Tre Cime
di Lavaredo, anch’esse sul fronte della Grande guerra. Oltre il passo
Tre Croci e il lago di Misurina, sul cui sfondo si stagliano le Tre Cime
– ma da un angolo visuale che ne fa scorgere soltanto due – si trova
la strada privata, a pedaggio, che audacemente, con avvolgimenti
vertiginosi, conduce al rifugio Auronzo, addossato a una delle Cime,
a 2320 metri s.l.m. Da qui si diparte un agevolissimo sentiero che
costeggia la base delle Cime e si apre su Auronzo e le valli del
Cadore, in una prospettiva dei monti attestati a sud e a est, fino a
raggiungere il rifugio Lavaredo, nei pressi della base del vicino
monte Paterno. Qui si svolsero varie azioni belliche tra gli alpini
attestati su questo versante e gli austriaci attestati oltre il monte
Paterno: impresa eccezionale dal punto di vista tecnico e alpinistico
fu l’installazione da parte italiana nell’estate del 1915 di un grande
faro sulla maggiore delle tre cime, in modo da illuminare la zona in
cui avvenivano attacchi notturni.
A metà strada tra il rifugio Auronzo e il rifugio Lavaredo si trova la
cappella della Madonna della Croda, detta degli Alpini, che la
innalzarono nel 1916. Dei cippi ricordano vari caduti, tra cui il soldato
Giovanni Canessa, del 2° Genio (LA BALDA GIOVINEZZA QUI SI SPENSE /
ALLA PATRIA OFFERTA / IL 14 AGOSTO 1915). Più oltre è un monumento ai
caduti eretto nel 1917 dall’8° reggimento bersaglieri. Vari cavalli, con
solidi campanacci al collo, si muovono liberi tra turisti ed
escursionisti che percorrono il sentiero.
Ma l’obiettivo di queste rapide escursioni tra Alto Adige, Trentino,
Veneto, è Tiralli, il castello di Tirolo, possedimento dei Venosta, che
da esso avevano nel XII secolo assunto il titolo di conti di Tirolo: ai
tempi di Dante era appunto sede dei conti di Tirolo, il cui dominio
aveva come capoluogo Merano e teneva a controllare tutto l’ampio
versante che collegava Italia e Alemagna, in uno spazio dalla valle
dell’Inn a nord (oltre lo spartiacque alpino), fino al Garda a sud, tra
variabili rapporti e conflitti con il vescovo principe di Trento (di cui i
conti erano originariamente vassalli). Nel XIII secolo essi toccarono il
punto più alto del loro successo, anche quando, con l’estinzione del
ramo maschile, il titolo passò allo sposo di Adelaide del Tirolo,
Mainardo di Gorizia, mentre nel XIV secolo il loro ruolo fu
ridimensionato dai vescovi principi, tanto che la sede della contea fu
trasferita sull’altro versante, a Innsbruck. Quando poi si estinse
anche il nuovo ramo della famiglia, il titolo di conti di Tirolo passò agli
Asburgo.
Raggiungo questo Schloss Tirol il 16 settembre, in un radioso
mattino, dopo brevi soste a Bolzano e a Merano. Bolzano mi si è
presentata con il suo consueto aspetto “doppio”, nordica e tirolese
nell’assetto del suo centro storico, ma nello stesso tempo con
qualcosa di mediterraneo e meridionale, sia nella disposizione dei
nuovi quartieri che nell’animazione delle sue strade, raccolte intorno
al gotico Duomo e alla piazza Walther, con il monumento a Walther
von der Vogelweide, uno dei maggiori tra i tedeschi minnesänger,
nato in Tirolo, anche se è dubbia la collocazione precisa (secondo
alcuni in questo Tirolo meridionale o Alto Adige), vissuto a cavallo tra
il XII e il XIII secolo. Lontana da Dante la sua poesia e certamente a
lui ignota, anche se Dante avrebbe probabilmente apprezzato la sua
devozione alla causa imperiale, che gli guadagnò la protezione
dell’imperatore Federico II: questi gli assegnò un feudo in Franconia,
presso Würzburg, dove morì intorno al 1230. Ma, a dispetto del
legame del poeta col Tirolo e del carattere germanico della storia e
della cultura dell’Alto Adige, nel periodo fascista la piazza fu
intestata al re Vittorio Emanuele III e fu rimossa la statua, eretta a
fine Ottocento, nel dopoguerra tornata a campeggiare al centro della
piazza.
A Merano si arriva risalendo la valle dell’Adige, il cui nome
tedesco, Etsch, viene fatto nella prima strofa della versione originale
di quello che è tuttora l’inno nazionale tedesco, ben noto come
Deutschland über alles, poesia popolare scritta nel 1841 da Heinrich
Hoffmann von Fallersleben, col titolo Das Lied der Deutschen. In
quella prima strofa, messa in piena evidenza dai nazisti e sottaciuta
nella versione attuale dell’inno (che invece punta su un’altra strofa
della canzone, la terza), i limiti del mondo germanico vengono fissati
da occidente a oriente “Von der Maas bis an die Memel” (dalla Mosa
al Memel, al confine tra Russia e Lituania) e da sud a nord “von der
Etsch bis an den Belt” (dall’Adige al Belt, al confine della
Danimarca).
Presso Merano si getta alla sinistra dell’Adige un fiume che viene
da nord, il Passirio, e percorre la valle a cui dà nome (la val
Passiria), attraversando poi il centro della città. già sede dei conti di
Tirolo, in cui poi si trovarono variamente a soggiornare gli Asburgo,
in un piccolo castello principesco, costruito nel secondo
Quattrocento, ora con la facciata in gran parte coperta da rampicanti
e con una torre dall’aguzzo tetto, che quasi sembra voler pungere il
cielo.
Lasciata Merano salgo verso il vicino borgo di Tirolo, sul versante
ovest della val Passiria: il borgo, perfettamente levigato nella sua
funzione turistica, è disposto lungo una strada in salita, su un
costone che, sul versante opposto a quello che dà sulla val Passiria,
si affaccia sulla più ampia val Venosta, irrigata dal corso più alto
dell’Adige. Un belvedere si apre sull’armonica distesa delle vigne e
dei frutteti, che sembra come ricamare il pendio che scende verso la
val Venosta. Su un costolone di roccia, su un fronte del quale si
distende ancora un vigneto tutto esposto al sole, è piantato il
castello, col suo corpo tozzo e squadrato, su cui si incurva
un’abside, affiancata da uno stretto campanile; più indietro due torri
di diversa altezza, a pianta quadrata, con i tetti piramidali. Ai piedi
del costolone di roccia, là dove termina il pendio del vigneto, ci sono
delle mura merlate e un più piccolo corpo di castello, quasi
totalmente fasciato da rampicanti: si tratta di un castello la cui prima
forma risale al XIII secolo, il Brunnenburg, cioè Castel Fontana, che
ebbe varie vicissitudini e che nel Novecento ha anche ospitato gli
ultimi anni della vita di Ezra Pound (la cui figlia aveva sposato l’allora
proprietario), e oggi contiene un Museo dell’agricoltura e un Ezra
Pound Center for Literature.
Dal belvedere del borgo si procede verso lo Schloss Tirol,
attraverso un bel percorso pedonale che costeggia un fitto meleto.
La visita del castello offre molti ambienti e punti di vista interessanti,
percorsi vari da cui più volte ci si affaccia sulla val Venosta. Dal
grande cortile interno si accede ai vari edifici del complesso, su cui è
disposto un Museo storico-culturale della provincia di Bolzano,
Südtiroler Landesmuseum für Kultur und Landesgeschichte. Ci sono
due cappelle una sull’altra, dalla parte che all’esterno si protende
nell’abside: sia nella cappella inferiore che in quella superiore si
trovano affreschi risalenti al XIII e al XIV secolo. Nel mastio è
disposta su più piani una fitta documentazione sulla travagliata storia
dell’Alto Adige nel XX secolo, tra migrazioni, scontri etnici, conquiste
sociali, fino allo sviluppo degli ultimi decenni. In questo percorso
novecentesco ci si imbatte in una lapide che riporta solo un verso e
mezzo dal XX dell’Inferno (“a piè de l’Alpe che serra Lamagna /
sovra Tiralli”), creata dal Touring Club Italiano per il centenario
dantesco del 1921, poco dopo l’annessione di questi territori al
Regno d’Italia: doveva essere esposta sulle mura del castello o da
qualche parte nel borgo di Tirolo, ma ora è qui, come documento del
peso che nella storia locale ha avuto il conflitto tra germanicità e
italianità.
Ma torniamo ancora alla Prima guerra mondiale, che costituisce il
punto nodale delle vicende di questi luoghi (e di questa
documentazione novecentesca), già tante volte manifestatasi in
questa breve escursione “a piè de l’Alpe che serra Lamagna”. In un
altro locale del castello, destinato alle mostre temporanee, ne trovo
proprio una che chiama in causa quella guerra e la partecipazione a
essa di uno dei grandi del Novecento, Robert Musil, ufficiale della
riserva dell’esercito austriaco che, allo scoppio della guerra, si
presentò subito volontario, arruolandosi nella guarnigione di Linz.
Impressionanti immagini del rilievo che quella guerra ebbe per la
letteratura, anche dalla parte di quelli che furono i nostri nemici: “Der
gesang des Todes”. Robert Musil und der erste Weltkrieg (“Il canto
della morte”. Robert Musil e la grande guerra) è il titolo della mostra,
illustrata in un catalogo bilingue. Musil si era gettato con entusiasmo
nel conflitto, come tra l’altro mostra un suo articolo sulla Neue
Rundschau del settembre 1914, che afferma tutto il valore di
un’adesione unitaria e fraterna (“Wir haben nicht gewußt, wie schön
und brüderlich der Krieg ist”, “Non sapevamo quanto bella e fraterna
potesse essere la guerra”). Il suo impegno bellico era sostenuto
dalla convinta adesione all’orizzonte imperiale, ai fondamenti dello
stato multietnico asburgico: e la mostra permette di seguire la sua
attività sul fronte italiano, già prima dell’entrata in guerra dell’Italia,
dall’Ortles alla Valsugana all’Isonzo al Col di Lana e di nuovo in
Friuli.
Dal giugno 1916 e l’aprile 1917 fu caporedattore responsabile di
un giornale destinato alle truppe del fronte italiano, Tiroler Soldaten-
Zeitung, rivolto a rafforzare lo spirito combattivo dei soldati: per esso
redasse una quarantina di articoli, mentre nei mesi finali della guerra
si trovò a Vienna per lavorare alla redazione di un nuovo giornale
patriottico, Heimat. Fogli di giornali, fotografie, testi di Musil e di altri,
qualche cimelio: nelle pose, negli sguardi, nei gesti bloccati e nello
stesso teso rigore delle scritture, si percepisce una sicurezza di sé
che si corrode man mano quasi senza dare segno del proprio
lacerarsi. E si segue il precipitare della coscienza dello scrittore dalla
partecipazione entusiastica al confronto quotidiano con la morte,
all’ostinata difesa del modello austro-ungarico, alla disillusione, fino
a un amaro senso di crollo, di riconsiderazione critica, di
sovvertimento e diversione dell’esperienza: il processo da cui
sorgerà quel dislocato, inconcludibile e postumo capolavoro che è
L’uomo senza qualità, Der Mann ohne Eigenschaften: postumo
all’impero della Kakania (da Kaiserlich-königlich, imperial-regio,
qualificativo di tutte le istituzioni dell’impero austro-ungarico). Nel
romanzo non parlerà della guerra, la cui immagine si affaccia invece
qui in qualche breve racconto, in qualche frammento, come quello
che dà titolo alla mostra, Der gesang des Todes, immagine della
cieca estraneità tra il soggetto umano e la macchina bellica, dentro
la quale si è “staccati da intelligenza, professione, arte, desiderio
sessuale e simili come un ossicino dalla carne”.
Venezia: l’Arsenale

Quale ne l’arzanà de’ Viniziani


bolle l’inverno la tenace pece
a rimpalmare i legni lor non sani,

ché navicar non ponno – in quella vece


chi fa suo legno novo e chi ristoppa
le coste a quel che più vïaggi fece;

chi ribatte da proda e chi da poppa;


altri fa remi e altri volge sarte;
chi terzeruolo e artimon rintoppa –:

tal, non per foco ma per divin’arte,


bollia là giuso una pegola spessa,
che ’nviscava la ripa d’ogne parte.
(Inf., XXI 7-18)

Venezia è stata la meta dell’ultimo viaggio di Dante, nell’agosto del


1321, per l’ambasceria per conto di Guido Novello da Polenta di cui
parla il Boccaccio: nel viaggio di ritorno l’aria malsana intorno al
delta del Po causò la malattia che lo portò in breve alla morte. Non si
può sapere quante altre volte e in quali circostanze si sia recato
nella città lagunare: ma è possibile che l’abbia toccata almeno nei
primi anni dell’esilio, nel periodo delle sue fitte frequentazioni della
Marca Trevigiana, quando fu a Verona presso Bartolomeo della
Scala e forse a Treviso presso Gherardo da Camino. Il De vulgari
eloquentia, che risale a quel periodo, individua la specificità
linguistica della “Marchia Trivisiana cum Venetiis” (I X 5-6), sul lato
sinistro d’Italia; e in I XIV 6, fa anche un esempio di lingua veneziana,
per mostrarne la lontananza dal volgare onorato cercato in quel
libello (“Per le plaghe di Dio tu no verras”, “Per le piaghe di Dio tu
non verrai”).
Queste menzioni non possono comunque di per sé essere
considerate prove di una diretta frequentazione di Venezia. Prova
più calzante sembra data invece dalla formidabile similitudine di cui
Dante si serve per la rappresentazione della bolgia dei barattieri: la
pece che bolle sul fondo della bolgia è paragonata a quella che
d’inverno bolle nell’Arsenale di Venezia, nella vorticosa e pullulante
attività delle maestranze impegnate a riparare le navi danneggiate o
a costruirne di nuove. Ben tre terzine sono dedicate al fervore di
questo vario lavoro, all’animazione del cantiere in cui si
distribuiscono e si intrecciano compiti e azioni diverse, sugli scafi
delle navi, sui remi, sulle vele e sulle corde: terzine in cui viene come
a vibrare l’evidenza del lavoro, la sua affaccendata fisicità, rumori e
gesti, azione umana nella manipolazione delle cose.
Arrivo a Venezia in treno nel primo pomeriggio dell’8 ottobre.
Quando il treno percorre il ponte sulla laguna si ripete la sensazione,
che ho provato la prima volta, di tendere verso un altro universo, una
vita dell’oltre, sospesi tra gli orrori chimici di Marghera attestati a
sinistra e i quieti isolotti lagunari a destra. A un certo punto si
comincia a vedere Murano; da lì si stende man mano la città, con i
campanili che sembrano avanzare verso le acque lagunari, quasi
offrendosi allo schermo del finestrino del treno che avanza. Subito a
sinistra si scorge il fitto addensato metallico del parcheggio di
piazzale Roma, oltre il quale si staglia il corpo gigantesco di una
nave crociera, tutta punteggiata dall’ordinata successione dei vani
delle cabine.
Scendendo poi dal treno, si rinnova quell’effetto di discesa, di un
inconsueto calare, che dà l’uscita dalla stazione di Santa Lucia, sulle
scale che portano sul canale, dove sono attestati i vari gabbiotti delle
fermate dei vaporetti. All’Arsenale mi conduce il vaporetto diretto che
raggiunge il bacino di San Marco attraverso il canale della Giudecca.
Il percorso fa sfiorare vari eterogenei margini del teatrale splendore
della città, come suoi residui che sfumano e si dissolvono. Dopo la
stazione di piazzale Roma e le auto che ancora si intravvedono nel
parcheggio, si profilano strati diversi di questi margini: dietro un
barcone su cui è caricato un grosso serbatoio metallico, il fronte
massiccio della pedana d’attracco; e dietro ancora, più in alto,
l’ultima striscia del parcheggio, con le auto allineate col muso rivolto
verso il canale; ancora dietro e ancora più in alto, la mole lucidissima
e schiacciante della nave di crociera, con molti crocieristi distesi
sulle sdraio del ponte con piscina e altri affacciati al balconcino della
loro cabina; ulteriormente più in là si intreccia il groviglio di fili e
metalli dello scalo ferroviario, con un treno bianco e azzurro che
lentamente si muove. In sfumata e brumosa distanza, brumosa
nonostante il chiaro pomeriggio d’ottobre, ancora Marghera e i suoi
svettanti ferrami, che appaiono quasi distesi a occupare l’orizzonte,
specie quando il battello svolta verso l’isolotto di Sacca Fisola. Poi
ecco quartieri tranquilli, silenziosi nella loro vita che sembra svolgersi
a parte dal mondo: quelli che si affacciano a destra e a sinistra sul
canale della Giudecca. Sulla destra le isole della Giudecca mostrano
per prima cosa la mole cupa e minacciosa dell’ex Mulino Stucky,
strano sogno del nord impiantato ai margini della Serenissima.
Seguono poi case e casette, silenziosi ridotti, piccoli ritrovi, fino
all’aprirsi della vista grande e fino al salto tra San Giorgio e San
Marco, di fronte al fitto brulicare della folla che si muove sulle rive.
Approdato finalmente alla riva degli Schiavoni, passato un ponticello
che conduce sulla riva Ca’ di Dio, tocco il rio dell’Arsenale, con un
altro ponte, davanti al quale c’è un hotel dove ho alloggiato tanti anni
fa, in una stanza che aveva la finestra aperta sulla riva, visioni di
Canaletto in brumose mattine di settembre. L’albergo sembra oggi
molto più levigato, lucidato, globalizzato rispetto a quello che era
allora, sul volgere degli anni sessanta: la hall che si intravvede
sembra suggerire l’apparenza di un tempo già tanto diverso da
quello di allora, segno forse di una progressiva trasformazione di
Venezia in apparenza, identità evanescente, virtualizzata
escrescenza digitale.
Ma non è ancora del tutto così: e non lo è qui, dove c’è qualcuno
seduto in ozio sulle panche di pietra affacciate sulla riva e un uomo
anziano in camicia azzurra regge una grossa lenza in attesa che
abbocchi qualche pesce. Poche persone procedono tranquillamente
nelle due direzioni lungo le Fondamenta dell’Arsenale, sullo sfondo
delle due torri che delimitano l’imbocco del bacino. Superato lo
spiazzo su cui si affacciano il Circolo ufficiali della Marina e il Museo
storico navale, eccomi davanti alla torre di destra e poi sul ponte di
legno che attraversa il rio proprio tra le due torri, davanti all’imbocco.
Questo è il ponte del Paradiso, così chiamato in omaggio a Dante: la
repubblica di Venezia infatti, a ricordo di Dante, assegnò alle vicine
case dei tre Patroni dell’Arsenale i nomi delle tre cantiche
dantesche: e qui davanti si trovava la Casa del Paradiso. Si vede,
parallelo a questo, un ponte simile che sta dentro, oltre le torri;
all’interno le acque della darsena sembrano stagnare in una
tranquilla placidità, circondate da varie costruzioni in mattoni, davanti
a cui aggetta un singolare porticato ad archi ogivali, entro i quali si
insinua il verde di grossi ben curati cespugli. Si scorge anche il muro
merlato, aperto da un passaggio acquatico, che separa la darsena
(che è quella dell’Arsenale vecchio) da un successivo canale rivolto
verso nord (è il canale delle Galeazze).
Oltre la torre di sinistra si apre l’ingresso da terra, col grande
portale quattrocentesco sormontato dal leone di San Marco, sotto cui
c’è una scritta che ricorda la vittoria di Lepanto (1571). Il portale è
preceduto da una cancellata ornata da un insieme di statue
barocche, allegoriche e mitiche, tra cui spicca un marino Nettuno:
ma tutte insieme sembrano disposte in simpatica conversazione,
come se avessero perduto ogni pretesa di porsi a modello di
qualcosa; non così i due grossi leoni, prede di guerra venute dalla
Grecia, che sono ai lati della cancellata. Tra questa ricca
ornamentazione, che comunque non c’era ai tempi di Dante (come
non c’erano le due torri), è comunque fissato il ricordo del poeta.
Sulle mura in mattoni dell’edificio, tra la torre e l’ingresso, c’è un
busto bronzeo di Dante, dello scultore-senatore Giulio Monteverde
(1837-1917), sotto il quale è una lapide che recita: QUESTA IMMAGINE DI
DANTE / SOTTRATTA ALLE OFFESE NEMICHE / QUI ANCORA ATTESTI / OLTRE
L’AVVERSO DESTINO / L’INDOMITA FEDE DELLA GENTE ISTRIANA / NEL PROPRIO
DIRITTO / COME UN DÌ A POLA PRESSO DEL CARNARO / CH’ITALIA CHIUDE E SUOI
TERMINI BAGNA. Questo busto ha in effetti seguito la travagliata storia
dell’Istria italiana, regione che la lapide evoca con la citazione da
Inferno, IX 113-114 (vedi p. 639): eretto nel 1904 sotto la loggia del
Palazzo del Municipio di Pola, durante la prima guerra mondiale fu
distrutto dagli austriaci e ricostruito, sul calco in gesso, alla fine della
guerra con l’assegnazione dell’Istria all’Italia; ma con l’occupazione
jugoslava alla fine della seconda guerra mondiale, esso fu portato
via dai profughi e installato qui, come appunto recita questa lapide, a
cui fa riscontro un’altra, che, dall’altra parte dell’ingresso, riporta i
versi dell’Inferno dedicati all’Arsenale.
Per restare un po’ in questo luogo dantesco, seggo in un caffè, sul
campo de l’Arsenal, dal lato della Corte del Cafetier: da qui posso
guardare con calma le bianche statue che circondano l’ingresso e lo
scuro e dilavato busto che viene da Pola (verrò poi a sapere che
secondo alcuni non è opera del Monteverde, ma di un altro scultore
ufficiale, autore anche di monumenti più celebri, come quelli romani
di Giordano Bruno e di Giuseppe Mazzini, Enrico Ferrari, 1845-
1929). Nella quiete un po’ sonnolenta del pomeriggio non posso
certo sentire l’eco di quell’animazione industriosa registrata da Dante
in quei versi così risonanti e quasi colorati; nessuna traccia di
quell’inverno infernale riscaldato dal bollire della tenace pece.
Dall’ingresso di terra dell’Arsenale escono a un certo punto un
ufficiale nell’elegante divisa della marina e qualche impiegato in
borghese; poi sulla soglia si affaccia per pochi istanti il carabiniere di
guardia. Una coppia di turisti si fa avanti verso la porta aperta, per
poter visitare l’interno: ma il carabiniere spiega loro che non è
possibile. Zona militare, là dentro: ma qui il tempo pare fermo,
sembra cancellarsi ogni frenesia e ogni proposito di attività e anche i
pochi turisti che passano sembrano come sospesi in una dinoccolata
passività: e ce ne sono alcuni seduti ai tavoli di questo stesso bar,
come se ci fossero stati da sempre. Noto due donne intente a
disegnare l’ingresso da mare dell’Arsenale: con cavalletti e seggiolini
pieghevoli stanno sui bordi del canale, da questa parte, e una di loro
tiene seggiolino e cavalletto addirittura sull’orlo, sembra quasi
sospesa pericolosamente, pronta a cadere in acqua con tutto il suo
armamentario pittorico.
Vado via percorrendo le Fondamenta di Fronte all’Arsenale, che
un piccolo rio separa dal corpo dell’Arsenale: subito c’è un
brevissimo ponte che immette sulla porta dell’edificio, chiuso da un
cancelletto: è il ponte del Purgatorio. Siamo ancora di fronte alle
abitazioni dei Patroni dell’Arsenale: e a brevissima distanza segue
un analogo ponte chiuso, quello dell’Inferno. C’è una differenza, tra
questi due ponti, forse casuale, ma a cui, volendo, si può anche
attribuire qualche significato: il ponte del Purgatorio è fiancheggiato
da un bel parapetto a balaustra totalmente marmoreo, mentre quello
dell’Inferno ha dei pilastri raccordati da una nera inferriata.
Da queste parti si procede per un po’ fuori dal flusso di turisti, in un
intreccio labirintico il cui filo non si perde mai del tutto: si ha la
sensazione di un perdersi che si risolve sempre in un ritrovarsi, in un
gioco di andirivieni tra pietre e acqua, in un innocuo accavallarsi di
giravolte, tra calle, ponte, rio, fondamenta, campo, rio terà… Eccomi
ora a Campo San Martin, con la sua chiesa; ecco che sbuco sul
Campo Bandiera e Moro o de la Bragora, dove c’è la chiesa di San
Giovanni in Bragora, la cui facciata quattrocentesca sembra
proiettarsi in un addomesticato oriente: una lapide dice che qui fu
battezzato (4-3-1678) Antonio Vivaldi. Mi risuona mentalmente,
mentre entro nella chiesa, l’adagio del suo Autunno, in questo
luminoso pomeriggio di ottobre, e mi avvicino alla pala dell’altare
maggiore, con lo splendido Battesimo di Gesù di Cima da
Conegliano, dove un Giovanni Battista macilento e quasi
incespicante sospende la sua ciotola battesimale sul capo di un
Cristo luminoso e ben piantato sull’acqua di uno stilizzato Giordano:
alla sua destra angeli tripudianti; sullo sfondo un paesaggio
fantastico limitato da nitide vette lontane. In mezzo al campo c’è un
pennone portabandiera, eretto a ricordo dei fratelli Bandiera e del
loro compagno Domenico Moro, uccisi dai Borboni in Calabria nel
1844 (vedi pp. 591 e 598): nella denominazione di questo campo il
loro nome si associa al toponimo antico, di significato incerto, forse
deformazione del greco agorà…
Nel procedere si accresce man mano la presenza di turisti e di
negozi a loro dedicati. Passo davanti alla casa del commediografo
ottocentesco Giacinto Gallina; sfioro la chiesa di San Giorgio dei
Greci, davanti al rio dei Greci, e attraverso il ponte anch’esso dei
Greci. Accanto al Palazzo Priuli, occupato da un elegante hotel,
ecco poi il Ponte del Diavolo! Uno squarcio della vita quotidiana dei
residenti è dato dalla Scuola elementare Armando Diaz, sul Campo
San Provolo: è l’ora di uscita dei bambini, attesi dai solerti genitori.
Accanto a uno dei tanti negozi di maschere (quante maschere in
vendita a Venezia!) sul ponte dei Carmini una bella signora in velluto
nero con veletta sul volto e maschera sugli occhi si fa fotografare da
un’altra donna, mentre nel rio sottostante passano due gondole con
fitti drappelli di turisti. Ed eccomi sul Campo San Zaccaria, ormai
definitivamente in zona turistica: a destra della chiesa un piccolo
giardino con grande varietà di piante; all’interno, sulle pareti delle
navate, un’esplosiva ostensione di pittura veneziana, che culmina in
una delle più celebri pale di Giovanni Bellini, la Vergine in trono e
santi, in cui mi ha sempre colpito il santo barbone (san Girolamo) col
manto rosso a capo coperto intento a leggere da un gran libro. Le
figure appaiono qui sospese nell’evidenza del colore, come nella
suggestione dell’attimo in cui è risuonata la nota della lira dell’angelo
musicante accovacciato in basso: qui il colore sembra aver catturato
il ritmo del tempo, l’attimo pigmentato da cui è spiccato un suono
perduto.
Il conio di Vinegia

…e quel di Rascia
che male ha visto il conio di Vinegia.
(Par., XIX 140-141)

Dante nomina il conio di Vinegia, cioè la moneta veneziana,


nell’invettiva proferita dalla voce collettiva dell’aquila degli spiriti
giusti nel cielo di Giove. In essa si annuncia come al momento del
giudizio finale la giustizia divina svelerà i vizi e le colpe di vari
principi contemporanei: e tra questi viene chiamato in causa quel di
Rascia, re di una regione corrispondente più o meno a quella che è
stata la Jugoslavia, cioè Stefano Urosio II, che aveva alterato la lega
di una sua moneta imitando quella di una moneta veneziana (il
matapan d’argento), per farle assumere indebitamente lo stesso
valore. E se oggi non esiste più nessuna moneta veneziana, il
brulicante movimento turistico fa comunque pensare al conio virtuale
che scorre a Venezia, al denaro che converge nella città: euro,
dollari o altro, è il mondo che viene qui a consumare qualche
brandello della sua ricchezza, facendo della sempre più fragile
Venezia uno dei luoghi del mondo più consumati; trasformata in
simulacro di se stessa, finzione di sé come le finte Venezie installate
nei luoghi più diversi e più uguali del mondo.
Eccomi nel punto più affollato e consumato della città: a piazza
San Marco, museo a cielo aperto, squillante nel sole del pomeriggio,
tra la folla festosa, allo stesso tempo entusiasta e indifferente,
munita di cellulari, tablet, ipod e ipad, prolungamenti per selfie,
camere potenti e meno potenti. Questa consueta invasività
fotografica mi fa pensare per contrasto alle vecchie foto in bianco e
nero dei modesti visitatori d’altri tempi, come mia madre e mio padre
in viaggio di nozze in tempo di guerra, coi loro pesanti cappotti e le
mani tese a nutrire i piccioni, in una sosta veneziana che non
contemplava confortevoli soggiorni, ma risultava da una corsa da
mattina a sera, in treno da Trento, dove li ospitava un parente,
offrendo così la sola base della loro povera luna di miele.
Qui ora sulla piazza si espande una musichetta dall’orchestrina di
cinque strumenti che è sulla pedana davanti al Caffè Lavena. Nel
passarci davanti noto l’impegno della violinista bionda e magra: la
mossa leggera del suo braccio sull’arco sembra di per sé acquisire
sonorità, proiettando oltre lo scorrere del tempo lo stesso atto
sospeso dell’angelo alla lira che poco prima ho contemplato nella
pala di san Zaccaria. Oltre la grande piazza, ecco la chiesa di San
Gallo e il Teatro San Gallo, dove si dà, in inglese, uno spettacolo
turistico sulla storia di Venezia. Ma San Gallo mi fa pensare a una
poesia di Idioma di Andrea Zanzotto (del resto il 10 ottobre mi
attende un convegno a ricordo di Andrea proprio a Pieve di Soligo),
San Gal sora la sòn, riferita alla credenza popolare per cui “San
Gallo protegge il sonno” e a una chiesetta sopra Pieve di Soligo,
dove venivano portati i bambini troppo irrequieti e si pregava il santo
perché li calmasse.
Oltre questo teatrino per turisti, il percorso che sto compiendo mi
fa sfiorare il principe dei teatri musicali, la Fenice, nato alla fine del
Settecento, poco prima del crollo della repubblica, e poi la sede del
Teatro stabile di Venezia, che ha il nome di Goldoni e che vide
proprio Goldoni in piena attività: allora era chiamato Teatro San Luca
(dal nome della vicina chiesa), proprietà di Antonio Vendramin e lo
scrittore vi lavorò dal 1753 fino alla sua partenza per la Francia
(1762). Come continuando un percorso teatrale dal Teatro Goldoni
ex San Luca giungo al Campo San Bartolomio, al centro del quale
c’è proprio il monumento a Goldoni, statua bronzea che risale al
1883 e lo fissa in atto di avanzare su gambe leggermente divaricate,
appoggiato a un leggero bastone da passeggio, con un sorriso non
si sa se ironico o bonario. Potrebbe sorridere notando che sto a
parlare di lui durante un viaggio dantesco, che evoco i teatri della
Venezia del suo secolo prendendo pretesto proprio da colui che, pur
avendo scritto una Commedia, divina quanto si voglia, non si è mai
curato di teatro, non poteva avere cognizioni teatrali e non usa mai
la parola teatro o parole affini. Noi d’altra parte ci arrischiamo spesso
ad attribuire indebitamente caratteri “teatrali” al suo sguardo, a
chiamare “spettacoli” le sue esorbitanti visioni cosmiche: e possiamo
anche arrivare a riconoscere una struttura di tipo teatrale (anfiteatro,
più che teatro) nella candida rosa dell’Empireo, nelle gradinate su
cui sono distribuiti i beati… Ma certo da lui il teatro era lontano,
incommensurabilmente lontano, nonostante l’affacciarsi nel poema
dei nomi di Plauto, Terenzio, Euripide e di personaggi del teatro
antico. Qui intanto, Goldoni mi sorride, esposto là sopra, in mezzo
alla folla che passa sotto di lui: solo qualcuno che distrattamente
alza gli occhi verso il suo sorriso sembra domandarsi per quale mai
gloria sia stato collocato là questo gentiluomo settecentesco, a
intralciare il brulicante movimento del Campo.
Venezia: Rialto e Santa Lucia

In quella parte de la terra prava


italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta e di Piava,
(Par., IX 25-27)

Il Campo San Bartolomio si trova nel cuore della zona di Rialto e


immette direttamente, attraverso la salizzada che fiancheggia il
Fontego dei Tedeschi, sul grande ponte e sul mercato di Rialto. Nel
menzionare Rialto Dante non intende indicare questo luogo
specifico, né tanto meno il ponte per noi celebre, che prima di Dante
era stato ponte di barche e poi dal 1264 era un ponte stabile in
legno, distrutto da congiurati nel 1310. In effetti per bocca di Cunizza
da Romano Rialto indica metonimicamente Venezia, come uno dei
limiti della Marca Trevigiana, quella parte della corrotta (prava) Italia
che si estende tra Venezia e i monti del Trentino e del Cadore, dove
sono le sorgenti (fontane) dei fiumi Brenta e Piave. Consueta era
comunque l’identificazione di Rialto con Venezia, dato che sull’isola
di Rialto (Rivoalto) si era insediato il nucleo originario della città
lagunare.
Eccomi allora ai piedi del ponte in pietra eretto nel Cinquecento:
qui sono immerso nella folla che sciama da tutte le parti, sulle rive
del Canal Grande e sulla gradinata che attraversa il ponte, tra le
botteghe disposte sulle due fiancate, fino al suo vertice, con i grandi
archi che si affacciano sui due lati del canale: qui tutti si affollano sui
parapetti, con la visione del canale e delle sue rive, con le varie
facciate degli edifici che si incurvano seguendo il percorso
dell’acqua, su cui brulicano vaporetti, gondole, lance, motoscafi di
ogni sorta. Visione incommensurabile a ogni altra visione, Venezia si
dispone e si specchia curvandosi e avvolgendosi intorno a questo
canale, nella meraviglia e nell’assolutezza della sua unicità, che
sembra affidarsi al proprio inevitabile logoramento, in un impossibile
proiettarsi del tempo, dell’ora che sfugge nel frenetico andare e
venire dei motori sull’acqua: questi sembrano insistentemente
interrogare la variata muraglia di facciate e gli stessi tempi lontani e
perduti che su di essa sono iscritti.
Ma ogni pensiero che riconduce all’unicità di Venezia, al fragile
splendore della sua persistenza, viene come a perdersi nel costipato
agitarsi della folla turistica, nell’esposizione moltiplicata dei piccoli
articoli, dei gadget eterogenei, esposti nelle bancarelle, nelle
botteghe, nella serialità delle offerte, del vendere e del comprare, in
una gamma che va dalla gondola di plastica alla maschera di
cartapesta al gioiello di lusso. Venezia sembra come perdersi nel
vastissimo mercato di Rialto e nel ripetitivo mercato che si dispiega
tra calli e campi. E allora si può credere che nel percorrere le zone
più affollate e più visitate di Venezia, Venezia stessa sia assente: o
che sia davvero presente solo in quei luoghi dove resta più
silenziosa e appartata, dove tutto sembra fermarsi, come mi è
sembrato poco fa nel Campo de l’Arsenal e nella zona circostante.
C’è poi un’altra Venezia, quella che resta “a parte”, nell’orizzonte
dei super ricchi, degli alberghi di lusso, di chi non percorre le calli né
prende vaporetti, ma si muove sui più eleganti motoscafi, che
attraccano sugli ingressi a mare: Venezia per i protagonisti dello
spettacolo e dei milieu sofisticati, come quella che recentemente si è
mostrata col matrimonio di George Clooney, celebrato da Walter
Veltroni, in emblematica performance da fine della sinistra.
Tra questi contrastanti pensieri, come frastornato dal paradosso
dello stare in questo luogo, il cui senso sfugge a tutti gli sconosciuti
individui che costituiscono la folla che lo percorre, di cui anch’io sono
parte e a cui credo invano di sottrarmi, lascio Rialto, volgendo dal
Campo San Bartolomio verso San Giovanni Grisostomo: chiesa,
questa, che dava nome a un altro teatro, tra i più frequentati nel
Settecento, destinato soprattutto all’opera in musica, di proprietà dei
Grimani, teatro che c’è ancora e si chiama Teatro Malibran, in
omaggio alla grande cantante ottocentesca Maria Malibran. Qui
siamo nella zona dove erano le case dei Polo, la famiglia del grande
viaggiatore, contemporaneo di Dante: a fianco della chiesa c’è una
Calle che conduce alla Corte del Milion (una lapide indica la casa di
Marco, che comunque doveva essere proprio nel sito occupato dal
teatro).
Il percorso che mi porta verso la stazione ferroviaria mi invita a un
succedersi di brevi visite a chiese di diverso interesse. Intanto in San
Giovanni Grisostomo ecco due bellissime pale: su un altare quella di
Giovanni Bellini, con Cristoforo e Agostino in piedi e, in alto, seduto
a terra su una sorta di rupe, davanti a un singolare albero atteggiato
a leggio, ancora Girolamo, ancora con un bel barbone, ma in posa e
in abito molto diversi da quelli di san Zaccaria. Sull’altar maggiore
una pala di Sebastiano del Piombo, con alcuni santi intorno a
Giovanni Grisostomo, impegnato a scrivere su un imponente codice:
qui mi colpiscono le figure femminili in primo piano sulla destra,
Caterina, Agnese e Maddalena, con aria di ben consapevoli e
affaccendate dame della Venezia del primo Cinquecento. In questa
chiesa, peraltro, si è inserito piuttosto recentemente una sorta di
santuario della Madonna delle Grazie: c’è un’erma scultorea di Maria
presso una porta laterale che dà sulla calle. Dalla porta aperta si
intravvede molto bene la vetrina di un negozio che, sotto il segno del
marchio Carpisa, espone borse e borsette femminili di ogni sorta.
La successiva chiesa dei Ss. Apostoli, a una sola ampia navata,
mostra anch’essa molti quadri sugli altari laterali; a una sola navata
anche la chiesa di San Felice, dove, su un altare laterale, noto un
san Demetrio del Tintoretto armato di tutto punto (con un
committente della famiglia Ghissi in preghiera). In una città dove si
cammina molto e dove il visitatore attento può avere momenti di
stanchezza, il succedersi delle chiese è anche occasione di brevi
riposi: i banchi per i fedeli offrono sosta tranquilla, di lettura
dell’eventuale guida, di riepilogo del percorso e di suo orientamento,
di scrittura di appunti.
Chiusa è la successiva chiesa di Santa Fosca: ma qui, in mezzo al
campo c’è il monumento bronzeo di Paolo Sarpi, il frate servita che
difese l’autonomia della repubblica in un lungo scontro
giurisdizionale con il papa e che scrisse l’Istoria del Concilio
Tridentino, il cui rigore storico si proiettò in dura critica alla chiesa
della Controriforma. Da una parte di questo campo c’è
un’installazione metallica, nell’ambito della Biennale di Architettura:
vi si aprono varie finestrine con immagini della rivista Arhitectura
negli anni ottanta, sotto il comunismo di Ceausescu, e di lavori di
rumeni emigrati in Africa e in Medio Oriente (su questo campo, del
resto, nel Palazzo Correr, c’è la sede dell’Istituto romeno di cultura e
ricerca umanistica). Ma ecco poi il campo e la chiesa a pianta
circolare della Maddalena, poi il campo con la chiesa sconsacrata di
San Leonardo, e infine, attraversato Cannaregio, l’ampio Campo
San Geremia, con il secentesco Palazzo Labia, dove ora è la sede
veneziana della RAI (nell’interno ci sono formidabili affreschi di
Giambattista Tiepolo) e con la chiesa di San Geremia.
Chiesa di antica origine è San Geremia, che varie vicissitudini
hanno portato alle attuali forme sette-ottocentesche, ma che ha
subito una più inconsueta trasformazione per così dire “ferroviaria”,
avendo incorporato in sé i resti della chiesa di Santa Lucia, distrutta
già dal 1861 per far posto alla Stazione che di Santa Lucia ha preso
il nome. Così in San Geremia è stata inserita la cappella di Santa
Lucia, dove, in apposita teca sotto l’altare, è addirittura il corpo della
santa, col volto coperto da una maschera d’argento. Data la
notorietà e il rilievo di Lucia, san Geremia è finito praticamente in
secondo piano, mentre la chiesa viene anche chiamata San
Geremia e Lucia. La santa suscita ancora devozione, esibisce
ancora oggi quel ruolo di soccorritrice, che Dante, suo devoto, le
assegna all’inizio del poema, con il suo intervento presso Beatrice,
sollecitato dalla Madonna, per salvare il pellegrino dall’aggressione
delle fiere sul pendio del colle; poi, mentre Dante dorme nella
valletta dei principi dell’Antipurgatorio, Lucia interviene per
trasportarlo alla porta del Purgatorio; infine è san Bernardo a
mostrare a Dante Lucia seduta nella candida rosa dei beati,
dirimpetto ad Adamo (si vedano pp. 555-556).
In Lucia, che ha la luce nel suo nome, è la grazia illuminante o la
lux sapientiae o comunque una emanazione della luce divina che
viene in soccorso del pellegrino smarrito. Dante doveva del resto
avere per lei una particolare devozione (non a caso, rivolgendosi a
lei, Maria lo chiama il tuo fedele). Si è detto che questa devozione di
Dante sia dovuta alla sua guarigione da una malattia agli occhi di cui
egli parla in Convivio, III IX 15: malattia insorta “per affaticare lo viso
molto a studio di leggere”, che però lì viene detta guarita “per lunga
riposanza in luoghi oscuri e freddi, e con affreddare lo corpo
dell’occhio coll’acqua chiara”, comunque senza richiami alla
devozione per la santa. Vergine siracusana, martire sotto l’impero di
Diocleziano (forse nel 304), Lucia è in effetti protettrice degli occhi e
della vista e di tutto ciò che ha a fare con la luce e con la visione: la
luce che emana dal suo nome ha fatto sorgere varie leggende sui
suoi occhi, occhi che ella si strappa per invocare la guarigione degli
occhi della madre, occhi bellissimi strappati nel supplizio e
miracolosamente rigenerati, occhi che lei stessa si strappa per
donarli a un pretendente, che ella comunque respinge e che, di
fronte al suo rifiuto, l’uccide con un pugnale. La devozione e le
richieste di miracolo si rivolgono a questi suoi occhi moltiplicati,
presenti in più modi nelle sue immagini.
Il suo corpo sarebbe finito qui a Venezia in seguito a un groviglio di
traslazioni: sepolto dopo il martirio nella natia Siracusa, nel luogo
dove è la chiesa a lei dedicata, sarebbe stato poi trafugato a
Costantinopoli, forse durante la spedizione in Sicilia del bizantino
Maniace nell’XI secolo; da lì i veneziani lo prelevarono certamente
durante la loro occupazione di Costantinopoli all’inizio del XIII
secolo, portandolo nella chiesa poi distrutta per far posto alla
stazione. In tempi recenti hanno avuto luogo varie trattative per il
ritorno del corpo della santa a Siracusa: Venezia ha un po’ resistito,
ma non si sa come andrà a finire, mentre intanto, in spirito di devota
condivisione, anche il corpo della santa, come tante opere d’arte che
passano da una mostra all’altra, si è messo a viaggiare, come ha
fatto nel 2004, probabile centenario del martirio, quando è stata per
sette giorni a Siracusa, e come farà di nuovo quest’anno (chissà se
in treno, partendo proprio dalla Stazione di Santa Lucia).
Qui intanto, intorno all’altare, tanti segni di devozione: ecco coppie
di piccoli ceri dentro piattini ovali (una scritta dice chiaramente che
rappresentano Gli occhi di Santa Lucia); ecco il quadro
cinquecentesco di Palma il Giovane, dove la santa sembra come
offrire a chi guarda i propri occhi in un piattino circolare. Occhi,
questi, che in Italia danno nome all’opercolo di un mollusco, l’astrea
rugosa, usato come piccolo gioiellino portafortuna (chiamato altrove
occhio di Shiva, occhio di Naxos ecc.); e danno nome anche a un
tipo di taralli dolci molto diffusi in Puglia. In Sicilia e in altre regioni
Lucia è (era, prima di essere scalzata da Babbo Natale) la santa che
il 13 dicembre, giorno della sua festa, porta i doni ai bambini: e a
Palermo, forse a ricordo di un evento miracoloso a lei attribuito, si fa
un dolce a base di ricotta e crema di latte, chiamato cuccìa.
Dallo scranno del Paradiso la soccorritrice di Dante si moltiplica
nei piccoli gadget, oggetti e devozioni che la evocano: e sempre
echeggia nelle mie orecchie il detto appreso da bambino, Santa
Lucia, il giorno più corto che ci sia, smentito peraltro dal fatto che
invece il giorno più corto per l’emisfero nord è quello del solstizio
d’inverno, 21 dicembre. Nel detto ha continuato a persistere un
tempo ormai lontanissimo, quello del calendario giuliano, che era
indietro rispetto al computo della durata dell’anno, per cui il solstizio
d’inverno cadeva proprio il 13 dicembre, mentre il calendario
gregoriano ha recuperato la regolare cadenza annua, fissando
appunto il solstizio al 21 dicembre.
Con una delle piccole riproduzioni del quadro di Palma il Giovane
lascio la silenziosa chiesa di San Geremia e precipito nel brusio
della Lista di Spagna, calle che con le sue botteghe viene subito
incontro al turista appena sceso dal treno. Nel pallore del crepuscolo
cominciano ad accendersi insegne e lampioni, quando salgo i gradini
che portano alla Stazione di Santa Lucia.
Treviso

e dove Sile e Cagnan s’accompagna,


tal signoreggia e va con la testa alta,
che già per lui carpir si fa la ragna.
(Par., IX 49-51)

La mattina del 9 ottobre sono a Treviso, la città che in questo passo


del Paradiso viene indicata con i nomi dei due fiumi che la
attraversano e in essa confluiscono, il Sile e il Cagnano. A parlare è
Cunizza da Romano, che nel cielo di Venere fa un quadro della
decadenza della Marca Trevigiana, governata da una “turba” che
non si cura di lasciare buona fama di sé, ma su cui presto si
abbatteranno vari rovesci, indicati con le consuete profezie post
eventum: tra questi è ricordato l’assassinio di Rizzardo da Camino,
signore e vicario imperiale di Treviso, avvenuto nel 1312 per mano di
un sicario (mentre egli se ne sta tutto superbamente compreso nel
suo potere, c’è già chi sta preparando la ragna, la ragnatela, rete in
cui sarà preso). Cagnano e Sile sono ricordati anche in Convivio, IV
XIV 12, sempre per indicare Treviso, lì come patria del nobile
Gherardo da Camino (il padre del suddetto Rizzardo).
In effetti una delle caratteristiche di Treviso è data proprio dal suo
rapporto con l’acqua, con i serpeggianti canali che si svolgono dai
due fiumi. Penetro nella città attraverso un ponte sul Sile e lascio
l’auto in un parcheggio sulla piazza della Vittoria. Subito incontro la
grande mole della chiesa domenicana di San Nicolò, che in parte era
già in piedi ai tempi di Dante e i cui lavori avevano avuto un nuovo
impulso nel primo decennio del Trecento per iniziativa del papa
succeduto a Bonifacio VIII nel 1303, il trevigiano Nicola di Bocassio
(Benedetto XI), che era stato già qui nell’annesso convento e poi
aveva avuto la carica di generale dell’ordine domenicano: ma tenne
il papato per soli otto mesi, morendo a Perugia il 7 luglio 1304.
Imponente questa chiesa, ricca di opere d’arte, tra cui mi
sorprendono gli affreschi che ornano le colonne in laterizi che
scandiscono le navate: e soprattutto un San Girolamo nello studio
del trecentesco Tommaso da Modena, con tanti libri aperti e in ben
atteggiato assetto cardinalizio (compreso di cappello rosso a larga
falda). Lasciata San Nicolò, mi imbatto nel canale che gira intorno
alla città, circondando con le acque deviate da Cagnano e Sile la
fortificazione messa su dai veneziani all’inizio del Cinquecento: è la
zona della porta Calvi, tra amene palazzine immerse nel verde.
Affacciandomi al parapetto del ponte sul canale, vedo sbucare sotto
di esso un vogatore su una piccola canoa che placidamente avanza
sull’acqua ombrosa, su cui sporge la fitta vegetazione e in cui
nuotano tranquille alcune anatre, per nulla inquietate dalla canoa.
Poi trovo un altro canale, su cui si affacciano vari palazzetti, poco
prima della piazza del Duomo. Questo aggetta sulla piazza con la
sua massiccia facciata neoclassica; all’interno, in una cappella sulla
destra, c’è una bellissima Annunciazione di Tiziano, entro un
riquadro marmoreo. Sembra agitato e scomposto l’angelo
annunciante sulla destra, che quasi non osa avanzare sul
geometrico pavimento, sopra il quale, a sinistra, è inginocchiata
l’elegante Madonna, dispiegando le volute della veste di un rosso
carnoso, che in più direzioni si riavvolge sull’impiantito, e del
mantello metallico ed elettrico; una strana figura femminile, forse una
vecchia ancella, è inginocchiata in fondo, accanto al muro da cui
sembra spiare la scena. Nella stessa cappella bellissimi affreschi del
Pordenone, tra cui un’Epifania con formidabili figure di Magi, dove si
impone il rosso carico dell’ampio mantello che copre il dorso del re
barbuto inginocchiato e occupa tutta la parte centrale del dipinto; e
ancora Augusto e la Sibilla, che evoca la leggenda, molto diffusa nel
Medioevo, su una profezia che la Sibilla Tiburtina avrebbe fatto ad
Augusto sulla prossima incarnazione del vero Dio, a cui l’imperatore
avrebbe innalzato un’ara sul Campidoglio, nel luogo dove poi sorse
la chiesa dell’Aracoeli.
Lasciato il Duomo, il percorso nel centro di Treviso fa toccare resti
dell’assetto medievale, con la piazza dei Signori, dove si impone il
duecentesco Palazzo dei Trecento, che pure ha subito vari danni e
ricostruzioni, specie dopo i bombardamenti dell’ultima guerra. Un
sottoportico conduce su una piazza dove si affacciano due chiese,
Santa Lucia e San Vito, stranamente affiancate, unite anche da una
porta interna che permette il passaggio dall’una all’altra. Da qui ci si
riaffaccia di nuovo sul sistema fluviale, nel suo punto più suggestivo,
il canale dei Buranelli o Cagnàn de Mezo, che si insinua tra eleganti
edifici e squarci di giardino, si allarga e si restringe, si inabissa sotto
qualche casa e poi ricompare. Su di esso si affaccia la casa che fu
abitata da Giovanni Comisso, scrittore tanto strettamente radicato in
questi luoghi.
Mi aggiro tra vicoli e ponti che variamente si intrecciano al canale,
lo attraversano, lo sfiorano, lo abbandonano, lo ritrovano. Da una
piazza un altro ponte mi porta sul Cagnano vero e proprio, il cui
nome ufficiale, prima del suo ingresso in città, è ora Botteniga: ma
qui è sempre Cagnàn, termine che del resto equivale a canale. Su di
esso c’è anche un’isoletta, adibita a pescheria. Nell’andirivieni tra
ponti e canali si passa rapidamente da spazi molto animati a spazi
silenziosi e quasi assorti, come la stradina lastricata che costeggia
un breve tratto del fiume e che ora è percorsa in bicicletta da una
signora vestita da un leggero soprabito bianco e con un foulard
azzurro che le circonda il collo: pedala con grande lentezza, quasi
come se fosse fuori del tempo. Solo ora mi accorgo che sul fiume
galleggiano varie sculture in ferro battuto, di vari colori, indeterminati
uccelli acquatici che simulano emergenze del nulla sull’acqua. Sfioro
la casa dei Carraresi, ritornando verso il canale dei Buranelli; ma poi
attraverso di nuovo il Cagnano maggiore su un altro ponte, che si
affaccia su acque un po’ gorgoglianti, che sembrano districarsi dal
basso di una casetta che le sovrasta.
Treviso e i da Camino

“…Ma qual Gherardo è quel che tu per saggio


di’ ch’è rimaso de la gente spenta,
in rimprovèro del secol selvaggio?”.

“O tuo parlar m’inganna, o el mi tenta”,


rispuose a me; “ché, parlandomi tosco,
par che del buon Gherardo nulla senta.

Per altro sopranome io no ’l conosco,


s’io no ’l togliessi da sua figlia Gaia…”
(Purg., XVI 133-140)

Il ponte mi porta alla chiesa di San Francesco, duecentesca ma


sottoposta a molteplici rifacimenti: fu adibita a magazzino militare dai
soldati napoleonici e ricostruita e riconsacrata negli anni venti del
secolo scorso. Le sue vicende hanno fatto sì che poche tracce
restino delle tombe di famiglia che i da Camino vi avevano installato:
qui c’era Rizzardo e soprattutto c’era il di lui padre, quel buon
Gherardo che, dopo essere stato menzionato nel Convivio, nel XVI
del Purgatorio viene ricordato da Marco Lombardo come uno dei “tre
vecchi” nei quali, nel “paese ch’Adice e Po riga” (da cui sono spariti
“valore e cortesia”), il passato rimprovera il presente, ricordando
l’antica virtù. Lì nel girone degli iracondi Dante chiede a Marco chi
sia quel Gherardo. Marco risponde manifestando meraviglia per il
fatto che un toscano come Dante non sappia niente di lui; non dice
però il suo nome di famiglia, ma evoca, come suo segno di
riconoscimento, un altro sopranome (oltre a quello già fatto di buon
Gherardo), ricavato dal nome della figlia Gaia (quindi gaio, cultore di
una vita nobile e serena, per cui la Marca Trevigiana fu anche
chiamata “Marca gioiosa”). Questi versi hanno portato i
commentatori a suggerire le ragioni per cui un toscano avrebbe
dovuto conoscere tanto bene Gherardo (essenzialmente il suo
legame col capo dei guelfi neri Corso Donati, che egli appoggiò
quando nel 1305 altri neri insorsero contro di lui, o il fatto che lo
stesso Donati sarebbe stato capitano a Treviso prima del 1300), e
quali fossero le qualità della figlia Gaia (celebre forse per la sua
onestà o forse al contrario per la sua scostumatezza).
Ma altre tombe attirano la mia attenzione nella chiesa di San
Francesco, disposta su due navate: due sepolcri non di signori, ma
di persone “minori” in vario modo legate alla letteratura, due figli, con
diversa fama e diverso destino. Ecco in bella vista, sul fianco sinistro
della navata grande, il sepolcro di Pietro Alighieri, figlio e
commentatore di Dante, morto a Treviso, dove era giunto nel 1362
come podestà, il 21 aprile 1364: la statua del defunto giace sotto un
baldacchino, che già si trovava nella chiesa di Santa Margherita e
che qui è stato ricomposto nel 1930. Una più umile lapide, nei pressi
dell’ingresso, su una parete della navata minore, dice invece la
presenza delle ossa, prima confuse e disperse, ritrovate nel 1882 e
qui tumulate nel 1932, di Francesca, la figlia di Francesco Petrarca,
quella che assistette il poeta nei suoi ultimi anni. Chissà se poi, con
tutte le vicende di dispersioni e traslazioni, questi resti in San
Francesco siano veramente quelli di Pietro e di Francesca: ma certo
colpisce la contemporanea evocazione in questa chiesa di questi
due figli e dei loro diversi destini, dei loro rapporti tanto lontani con i
due padri tanto ingombranti, la cura anche culturale che Pietro,
presenza autorevole nel Veneto scaligero, ha avuto del capolavoro
paterno, e la dimessa cura quotidiana, delle cose e degli oggetti del
padre, che Francesca avrà prestato ad Arquà, per approdare poi qui
chissà come, all’inizio della dominazione dei Carraresi (1384-1388),
e morirvi di parto nel 1384.
Allora, ripensando anche al passo del Purgatorio e all’evocazione
della figlia Gaia di Gherardo (lei dovrebbe essere sepolta a San
Nicola), questo passaggio a Treviso mi si presenta quasi sotto il
segno dell’essere figlio: la città di Sile e Cagnano mi si configura
quasi come città di figli. E figura in parte paterna, che reca sulle
spalle l’incognito bambino, è in fondo qui in San Francesco quella di
san Cristoforo, in un imponente affresco duecentesco, in parte
rovinato, che campeggia sulla parete della navata grande. Un segno
più recente che lega la Treviso dei da Camino alla Toscana è
nell’altar maggiore, dove sono custoditi dei sassi della Verna, donati
dal comune di Firenze nel 1928, al tempo della ricostruzione della
chiesa (e lo sottolineano, vergati sullo stesso altare, i versi di
Paradiso, XI 106-108, a proposito di san Francesco alla Verna).
Qui sono nell’Oltrecagnàn, che continuo a percorrere, fino a Santa
Caterina dei Servi di Maria, chiesa e convento sul sito del distrutto
Palazzo dei da Camino. Poi finalmente raggiungo il ponte Dante, che
solca proprio il punto in cui il Cagnano si getta nel Sile: al centro
della spalletta nord, dalla parte da cui viene il Cagnano, si erge una
sorta di cippo, monumento dantesco impiantato per il centenario del
1865 (il Veneto era ancora sotto il dominio austriaco), dove è
scolpita una stella a sei punte con al centro un tondo col profilo di
Dante, e sotto la scritta “dove Sile e Cagnan s’accompagna”. Non è
molto bello il cippo, ma l’ambiente acquatico intorno ha qualcosa di
avvolgente: il Sile, che viene da ovest, qui si apre in una sorta di
slargo, procede subito verso un altro ponte e immette parte delle sue
acque in un altro canale. Dall’acqua affiora qua e là la pietra del
fondo coperta da muscosa vegetazione; dei cigni nuotano placidi e
uno si avvicina al ponte Dante e sembra quasi volerci entrare sotto,
risalendo la corrente del Cagnano, ma cambia poi direzione. Risalgo
verso ovest il lungofiume (qui si chiama Riviera Garibaldi)
incontrando molto presto la confluenza del Buranelli, che sbuca
ammiccando da sotto una casa giallognola e poi sotto un giro di
ringhiere. Poco più a monte c’è un ponte pedonale, mentre questa
riva nord del Sile è fiancheggiata da un giardino, oltre il quale c’è un
altro ponte pedonale, che si affaccia su una cascatella del fiume.
Ma ormai lascio le varie suggestioni acquatiche di Treviso, mentre
nel raggiungere l’auto noto vari manifesti che annunciano nei
prossimi giorni un festival letterario, il Carta Carbone, dedicato ad
Autobiografia & dintorni: solita compagnia di giro, Scarpa, Ammaniti,
Magrelli, Ballestra…
Il richiamo ai da Camino e all’eventuale ospitalità che essi diedero
a Dante, mi conduce comunque verso la località da cui dovrebbero
aver preso il nome e in cui avevano un feudo: c’era un castello di
Camino, che si trovava presso Oderzo, aldilà del Piave. La strada
statale attraversa il Piave subito dopo Fagarè della Battaglia, dove si
svolse una violenta battaglia nel novembre 1917, con l’esito di
respingere gli austriaci che qui avevano passato il fiume, tentando di
impiantare una testa di ponte: ora lungo la strada c’è un Sacrario
militare, su cui campeggia il motto NON PASSA LO STRANIERO. Oltre il
fiume, ecco dopo breve tratto Oderzo, l’antica Opitergium, che mi
appare come una tranquilla civilissima cittadina, con strade porticate
che conducono su di un’ampia piazza, sulla cui parte più stretta si
affaccia il Duomo, mentre dal lato opposto sono esposte delle
colonne romane, tra i tanti resti archeologici presenti in diversi luoghi
della città. La Pinacoteca conserva le duecentonovantasette tavole
(a matita, china e guazzo colorato) di un Album dantesco elaborato
tra il 1936 e il 1944 dall’artista di Oderzo Alberto Martini (1876-
1954), per un’edizione che allora non fu pubblicata e che è poi
approdata a una più recente edizione nel 2008: originalissima e
affascinante lettura per immagini della Commedia, in un intreccio “tra
vissuti umani e rigoroso sistema etico dantesco”, teso a dar voce alla
“forza drammatica del messaggio morale, profetico e civile
dell’Alighieri” (Lucia Battaglia Ricci).
Praticamente periferia di Oderzo, accanto alla strada per
Conegliano, è la località di Camino, ben tenuto e semplicissimo
villaggio moderno, in cui non c’è traccia dell’antico castello: una
chiesetta, un campetto di calcio, ma anche qui lapidi su caduti in
guerra (due diverse, ventitré nomi nella Prima guerra mondiale,
diciotto nella Seconda). Solo qualche strada evoca nomi del remoto
passato feudale: contornata da un muretto sormontato da
un’inferriata, che protegge un rigoglioso giardino oltre il quale si
intravvede l’amena casetta, è indicata la VIA GAIA DA CAMINO. Torno
così alla figlia che col suo nome qualifica il buon Gherardo e che
certo ebbe un destino diverso dalla Francesca di Petrarca. Il suo
nome la metteva in rapporto, chissà se per scelta del padre, con la
gaiezza della poesia cortese (gai è aggettivo molto frequentato dai
trovatori, certo in termini molto diversi dall’uso che oggi si fa del suo
derivato gay); e forse proprio dall’aggettivo sono scaturite la notizia,
priva in realtà di fondamento, secondo cui ella sarebbe stata
poetessa (la prima vera poetessa volgare), e la voce sulla sua
disponibilità amorosa, che, secondo Benvenuto da Imola, “mulier
quidem vere gaia et vana… tota amorosa”, chiedeva al fratello
Rizzardo di procurarle “iuvenes procos amorosos”, promettendogli in
cambio “puellas formosas”. Quale sarà la variante dell’eventuale
gaiezza di queste linde villette del Veneto profondo? Cercare nei
luoghi, in luoghi come questo, l’eco di ciò che il loro nome ha detto o
ha sognato nel corso consunto del tempo?
Verso il Friuli: il Tagliamento

E ciò non pensa la turba presente


che Tagliamento e Adice richiude,
(Par., IX 43-44)

Gli annunci di Cunizza da Romano sui diversi disastri che


incombono sui potentati del Veneto (senza che la turba presente se
ne prenda cura) sono introdotti da un’indicazione dei limiti geografici
della regione, fissati a est dal Tagliamento e a ovest (oltre che a sud)
dall’Adige. Muovendo ora verso il Tagliamento, mi trovo a sfiorare il
Friuli, toccando luoghi che subito suscitano una serie di associazioni
letterarie. Ecco Motta di Livenza, accanto al fiume che le dà nome:
proprio qui morì Italo Svevo, per complicazioni cardiache in seguito
all’incidente capitatogli mentre guidava la sua automobile tornando
da Milano con la moglie e il nipotino. Poi si cominciano a toccare i
luoghi di Ippolito Nievo, gli ambienti variamente percorsi dal giovane
Carlino delle Confessioni di un italiano. Ecco Portogruaro, dove
Carlino viene ricevuto da un Napoleone impegnato a farsi la barba.
Attraversando la piatta pianura, segnata da lunghi filari di alberi da
frutta e da irregolari agglomerati di capannoni industriali, raggiungo il
Tagliamento che, a questa altezza, fa da confine ufficiale tra Veneto
e Friuli (mentre più a monte il suo percorso è tutto friulano): di qua
c’è San Michele al Tagliamento e di là Latisana. Sotto il ponte sulla
SR14 il fiume scorre su di un letto di regolarità quasi geometrica:
dalla parte di Latisana si staglia un solido argine in pietra, recente
difesa da disastrose alluvioni, come sono state quelle del 1965 e del
1966. Tra questo argine e il fiume c’è un’ampia carreggiata
sabbiosa, su cui sono in azione camion e vari attrezzi, certo per una
nuova sistemazione del suo assetto.
Il centro di Latisana è al di qua dell’argine: la strada centrale della
città procede parallela al fiume, che l’argine impedisce di vedere, e a
un certo punto si allarga in una piazza oblunga, su cui si affacciano
edifici non privi di echi veneziani. Varia è del resto la forma delle
piazze d’Italia, disegnate in un eterogeneo definirsi di lati e di angoli,
in regolari delimitazioni o in ingannevoli disposizioni, armoniche
misure o prospettive illusorie, composizioni di edifici in lotta tra loro o
adattamenti a geologiche asperità. Da qui comunque posso salire
sull’argine, su cui c’è un buon percorso per pedoni e biciclette: posso
guardare le acque che scorrono molto lentamente, la riva opposta
con il suo argine più irregolare, la carreggiata qua sotto dove una
rumorosa scavatrice armeggia sulla sabbia. Il percorso sull’argine si
amplia mano mano che si risale il corso del fiume: e approda a un
parco verde che appare molto ben curato.
Dante nomina il Friuli, appaiato all’Istria, soltanto nel grande
quadro geografico del De vulgari eloquentia, con l’originario nome
latino della città di Cividale, Forum Iulii, da cui si è sviluppata la
forma volgare Friuli: e ne fissa la collocazione in quella che egli
indica come la parte sinistra dell’Italia: “Forum Iulii vero et Ystria non
nisi leve Ytalie esse possunt” (I X 5). Poco più avanti, accennando
alla differenza del loro linguaggio da quello degli istriani, indica i
friulani con il termine di Aquilegienses, riferito alla città di Aquileia,
sede del patriarca del Friuli. E poi, nel capitolo successivo,
impegnato a estirpare dalla selva quei cespugli intricati, perplexos
frutices, che non possono contribuire alla formazione di un volgare
illustre, dopo i milanesi e i bergamaschi elimina friulani e istriani, con
un piccolo esempio della durezza linguistica, in realtà ascrivibile più
propriamente al solo friulano: “Post hos Aquilegienses et Ystrianos
cribremus, qui Ces fas-tu? crudeliter accentuando eructuant”, “Dopo
costoro passeremo al setaccio Friulani e Istriani, che con durissimo
accento eruttano Ces fas-tu, Che fai?” (I XI 6). Nonostante questa
citazione poco lusinghiera, si è diffusa già nel Cinquecento una
leggenda, piuttosto inverisimile, ma raccolta anche in tempi recenti,
su un soggiorno friulano di Dante, che vi sarebbe giunto, lasciando
la Verona di Cangrande, nel 1319, ospite addirittura per un anno, a
Udine e a Tolmino (oggi in Slovenia), del patriarca di Aquileia
Pagano della Torre.
Percorrendo per breve tratto il Friuli, volgo verso nord, sul versante
sinistro del Tagliamento, tra strade che si addentrano nella
campagna, che qui appare silenziosa e dimessa. Sono i luoghi del
Nievo “campagnolo”: ecco il borgo del Varmo, che ha dato nome a
una sua delicata novella di amori campestri e in tempi più vicini è
stato frequentato da Sergio Maldini, che vi ha ambientato La casa a
Nord-Est e La stazione di Varmo. Silenziosissimo il borgo, raccolto
intorno alla chiesetta di San Lorenzo: successiva al tempo delle
novelle di Nievo, reca stranamente la data della spedizione dei Mille,
1860, a cui lo scrittore prese parte. Passo poi in una frazione di
Varmo dal sorprendente nome di Belgrado (Belgrât) e poco dopo
attraverso il fiume omonimo, legato al sistema delle acque del
Tagliamento, che risuona in inafferrabile freschezza nella novella di
Nievo (un’insegna ne dà il nome in friulano, Vil di Var). Poi, in una
sorta di ripetizione, un altro luogo col nome dei da Camino (Camino
al Tagliamento), e il bivio Coseat, che mi porta sulla ex statale 13, la
Pontebbana, e ancora al Tagliamento, qui indicato anche col nome
friulano Tiliment. Mi riporta verso ovest un ponte lunghissimo, gettato
sopra un immenso greto dai sassi luccicanti: è il ponte della Delizia,
sulla trafficatissima strada che dopo un po’ conduce a Casarsa della
Delizia.
Ecco così che, dopo il ricordo di Nievo e della sua tempra
risorgimentale, si affaccia quello di Pasolini, della sua lacerata utopia
campestre, della sua giovinezza immersa nella campagna qui
intorno, cantata nell’esaltata luminosità delle sue poesie friulane, da
Poesie a Casarsa a La meglio gioventù, e rivista nella tarda
disperata disillusione de La nuova gioventù. Di Pier Paolo si celebra
qui un amorevole culto, nel Centro studi Pier Paolo Pasolini, mentre
nel cimitero c’è la sua tomba e accanto quella della madre Susanna.
Eppure, pur tra questi segni, nel muovermi un po’ nel centro della
cittadina, tra i suoi ben disposti edifici postmoderni, botteghe, bar,
supermercati, parcheggi, mi sembra di non riuscire a ritrovare
nessuna traccia del lontano tempo di quella poesia. Penso che, se
c’è ancora qualcosa, si può forse ritrovare nella campagna, nel suo
fondo più appartato, nella sua assenza. Qui c’è anche un Teatro
Pasolini, poi, poco oltre la piazza centrale, c’è la casa materna di
Pier Paolo, dove ora ha sede il Centro studi, e ancora la chiesa di
Santa Croce e della Beata Vergine del Rosario, poi, più in là, la
chiesa di Santa Croce e San Rocco. Un lungo scampanare sovrasta
i rumori confusi della sera che si avvicina: forse è il suono del
Vespro, che fa sorgere il ricordo di una delle Poesie a Casarsa, il
Ciant da li ciampanis:

A bat Rosari, pai pras al si scunís:

jo i soj muàrt al ciant da li ciampanis.


(Suona Rosario, e si sfiata per i prati: io sono morto al canto
della campane)

Ma forse, adesso e nella Casarsa di oggi che mi trovo


fuggevolmente a percorrere, nel canto delle campane risuonano più
nettamente le parole disperate della riscrittura del 1974, la Seconda
forma de “La meglio gioventù”:

Tornànt sensa cuàrp là che li ciampanis


a ciantavin peràulis di dovèir, sordis come tons

I no plans parsè che chel mond a no’l torna pí,


ma i plans parsè che il so tornà al è finit.
(Tornando senza corpo là dove le campane cantavano parole
di dovere sorde come tuoni// Non piango perché quel mondo
non torna più, ma piango perché il suo tornare è finito.)

Nello sfumare di questo suono, che sembra continuare a colpirmi


anche quando ormai la campana tace, riprendo il mio percorso, sul
sempre più intricato traffico della Pontebbana, che a sera si accende
di intoppi, semafori, attraversamenti, rallentamenti, ostacoli metallici
e luminosi, cartelloni, distributori, insegne e non identificato brulicare.
Sfioro senza attraversarla Pordenone, mi perdo tra le giravolte e gli
incroci intorno a Conegliano e raggiungo infine Pieve di Soligo, e la
locanda di Lino Toffolin, un po’ fuori dal paese, nei pressi della
località di Solighetto, dove si svolgerà parte del convegno su Andrea
Zanzotto, la natura, l’idioma. È un ritrovo che fu molto amato dal
poeta: sorto come semplice osteria e locanda per viaggiatori, ora è
un locale di grande richiamo, di notevole livello gastronomico, che
attira feste e ricevimenti pubblici e privati, sull’onda delle recenti
trasformazioni di questi luoghi, che proprio Zanzotto ha
inquietamente vissuto e scrutato, immerso nel loro respiro fisico e
biologico.
Intorno al Piave

In quella parte de la terra prava


italica che siede tra Rïalto
e le fontane di Brenta e di Piava,
(Par., IX 25-27)

Ho già ricordato, a proposito di Rialto (vedi p. 620), questo inizio del


discorso di Cunizza da Romano, con l’evocazione delle fontane di
Brenta e di Piava: al Piave, che già avevo attraversato presso
Fagarè della Battaglia, mi sono ora riavvicinato, toccando il suo
affluente Soligo, nella cittadina che ha dato i natali ad Andrea
Zanzotto. Sul Soligo, proprio nel centro della città, mi affaccio la
mattina del 10 ottobre, in attesa di partecipare al convegno in
memoria del poeta, la cui prima seduta si svolge nell’Auditorium
della Biblioteca Comunale di Pieve di Soligo: non ci sono solo
studiosi stricto sensu, ma persone variamente legate a Zanzotto, dal
giornalista Marzio Breda (che ha curato la sconsolata intervista del
2009, In questo progresso scorsoio) alla poetessa Patrizia Valduga.
Uno dei più attivi, nella preparazione del convegno, è stato un
giovane ricercatore dell’università di Bologna Francesco Carbognin:
nella sua appassionata relazione si affaccia presto il nome di Dante,
a proposito di una poesia de La beltà, dantesca nel titolo Oltranza/
oltraggio, a cui lo stesso Zanzotto ha apposto una nota che rinvia a
Paradiso, XXXIII 57, “e cede la memoria a tanto oltraggio”.
Segni danteschi ce ne sono naturalmente moltissimi in Zanzotto: e
se la sua figura umana e poetica non può essere qualificata come
“dantesca”, Dante entra comunque tra le pieghe più varie della sua
poesia e agisce soprattutto nell’impegno a sondare i limiti del
linguaggio, a scavarlo per estrarne il punto di frizione con la realtà, e
nella ricerca di illuminazioni impensate, di eccessi che naturalmente
nella condizione contemporanea non possono approdare a nulla di
assoluto, ma svolgersi solo in quanto ironizzati, quasi deviati da se
stessi. E poi c’è il Dante infernale, c’è la insistente constatazione,
sempre più forte nelle ultime raccolte poetiche, del disgregarsi
dell’ambiente e del paesaggio, di una lacerazione che investe
l’orizzonte fisico, che distorce ciò che è sottoposto alla vista. E ora,
nel sostare in questi luoghi, si ha come la sensazione di ritrovare lo
sguardo di Andrea, di collocarsi nella sua visione dentro e dietro il
paesaggio, nel suo vedere e ascoltare la vita profonda del mondo
nel suo trasformarsi: posare lo sguardo sulle colline, avvertire il
respiro dei boschi assediati dalle lottizzazioni, delle selve ancora
solitarie e delle distese dei vigneti destinati al Prosecco, delle strade
trafficate e degli agglomerati sorti in momenti diversi, vecchie
casette, antiche ville padronali, disinvolte villette postmoderne.
Nello spostarsi del convegno tra diverse sedi si percorrono vari
luoghi zanzottiani. Ci inoltriamo tra i Palù del Quartier del Piave,
pochi chilometri a sudovest di Pieve di Soligo, presso Moriago della
Battaglia (teatro di terribili scontri sulla linea del Piave, che scorre
immediatamente a sud, sulla riva opposta al Montello). Si tratta di un
singolare territorio in origine paludoso e scandito in una serie di
risse, appezzamenti allungati di prato tra loro separati da quinte di
arbusti di vario tipo (tra cui un particolare tipo di quercia) e da piccoli
canali: frutto del lavoro di bonifica dei benedettini dell’abbazia di
Santa Bona di Vidor, che hanno posseduto la zona fino al
Settecento. Percorrendo il margine che separa una rissa dall’altra si
viene come penetrati da una sorta di freschezza originaria, si entra
nel rigoglioso regno dell’umido, sembra quasi di partecipare alla
crescita dell’erba che continuamente risorge in questo sistema
prativo. Nel silenzio solcato dal lento oscillare delle querce mosse da
un leggero vento, insieme a un piccolo gruppo di convegnisti scendo
su uno dei prati e, come a celebrare questa sopravvivenza del
paesaggio, ascoltiamo dall’attore Pierluigi Tomasi, in una dimessa e
intensa sonorità, una lettura di testi della sezione Verso i Palù, nella
raccolta di Zanzotto Sovrimpressioni. Così comincia il primo, scritto
sotto una minaccia “di estinzione” dei Palù per il progettato tracciato
dell’autostrada A28:

“Sono luoghi freddi, vergini, che


allontanano
la mano dell’uomo” – dice un uomo
triste: eppure egli è assorto, assunto in essi.
Intrecci d’acque e desideri
d’arborescenze pure,
dòmino di misteri
cadenti consecutivamente in se stessi
attirati nel folto del finire
senza fine, senza fine avventure.

Assorti, assunti ci sentiamo mentre le scarpe affondano nell’umido


erboso e gli occhi si rivolgono all’azzurro striato da confuse nuvole,
oltre il limite delle querce che delimitano la rissa. “Specchi del Lete/
qui riposanti in se stessi” siamo noi o quelle querce, quel balenare
dell’“acqua nel verde persino frigida”? I versi di Andrea su questo
luogo di antica sapienza agraria mi riconducono al Paradiso terrestre
dantesco e alla “beata riva” del Lete, a cui il pellegrino si appressa
per bere l’acqua dell’oblio, sostenuto da Matelda (Purgatorio, XXXI
97-102).
Qui intorno non c’è però nessuna riva beata. Lasciati i Palù si
sfiora presso Moriago una chiesa diroccata, rimasta così come
segno delle terribili battaglie del Piave: il fiume è vicino e sul suo
ampio letto si apre l’isola dei Morti, che fu coperta dai corpi dei
caduti, in gran parte “ragazzi del ’99” da poco arruolati, nell’avanzata
italiana del 27 ottobre 1918, preludio alla vittoria di Vittorio Veneto. Si
tocca Falzè di Piave e si passa il fiume sul ponte della Priula, prima
del quale c’è un Tempio votivo della fraternità europea, per i caduti di
tutte le guerre. Il ponte sorpassa un letto fluviale molto esteso, dove
il percorso delle acque si snoda tra ampie chiazze ghiaiose e grossi
cespugli.
Al di là del ponte si eleva la mole del Montello, il colle dove erano
attestati gli italiani a difesa della linea del Piave e su cui si scatenò
l’offensiva austriaca del 15 giugno 1918, respinta dall’VIII Corpo
d’armata con terribili perdite. Qui tra i boschi del colle, dove sorgono
amene ville e villette, oltre Nervesa della Battaglia, si eleva il grande
Ossario militare: sono i luoghi del Galateo in bosco di Zanzotto, in
cui si riannoda il passato più lontano – testimoniato dai ruderi
dell’abbazia di Sant’Eustachio presso Nervesa, dove si dice che
Giovanni Della Casa avrebbe scritto il Galateo – a quello più vicino
dello scempio bellico e al presente dell’immemore consumo del
paesaggio.
Il grande sacrario si leva su tre piani rilevati. Una scala porta
all’ingresso: sui primi due piani si dispongono in ampi corridoi gli
ossari, con vari pannelli marmorei su cui si fissano scritte di
patriottica e sinistra retorica (così per i caduti non identificati:
CAMERATI NELLA TRINCEA / FRATELLI NEL SACRIFICIO / IGNOTI NELLA MORTE
RADIOSA); c’è anche, e suona tanto più sinistro di fronte a questi resti,
il proclama di Vittorio Emanuele III per l’entrata in guerra del 24
maggio 1915, col suo avvio, “L’ora solenne delle rivendicazioni
nazionali è suonata!”. Ai pannelli più ampi con varie epigrafi, tra cui
si distinguono quelle dedicate a caduti insigniti di medaglie,
succedono i più fitti quadrati delle singole tombe, in lunghissimo
ordine alfabetico. Vado a cercare cognomi che mi sono noti, quelli
della famiglia di mia madre, tra cui so che qualcuno morì da queste
parti, venuto da un remoto paese del Lazio, Coralli e Valentini.
Nell’ossessione dell’ordine alfabetico, quanto mai incongrua nella
morte, ecco il soldato Coralli Luigi, e in un altro corridoio i soldati
Valentini Angelo, Valentini Ruffildo, Valentini Stefano, cognome più
diffuso, questo, e molto più improbabile l’identificazione, che mi porta
comunque a segnare qui questi nomi tra i tantissimi che si
succedono in ritmo incalzante: pochissimi, come sempre pochi sono
i nomi che mi capita di ricordare tra quelli di tante vittime ormai
dimenticate, che a caso trascelgo tra le lapidi che si ergono in tutti i
luoghi d’Italia.
Un intreccio di scale porta al piano più elevato del sacrario, che si
apre su una terrazza da cui si osserva il Piave col suo vastissimo
greto; rumori lontani, suoni meccanici e animali che echeggiano da
laggiù sembrano come ripetere, rinviare quassù le grida dei morti di
quelle lontane battaglie. Sono sulla terrazza sud, da dove si
scorgono nettamente, in mezzo al bosco sulla destra, le rovine
dell’abbazia di Nervesa. Monsignor Della Casa e i caduti del
Montello e del Piave. Pierluigi Tomasi legge ancora, affacciato alla
terrazza, i versi di Galateo in bosco:

Rivolgersi agli ossari. Non occorre biglietto.


Rivolgersi ai cippi. Con il più disperato rispetto.
………………………………
E si va per ossari. Essi attendono
gremiti di mortalità lievi ormai, quasi gemme di primavera,
gremiti di bravura e di paura. A ruota libera, e si va.

Torniamo indietro sul ponte di Vidor, che è a monte del percorso del
fiume (sacro alla patria, dice il cartello che lo segnala), attraversiamo
Sernaglia della Battaglia e tocchiamo di nuovo Pieve di Soligo, per
raggiungere altri luoghi zanzottiani, quelli dell’originario paesaggio,
delle colline sempre più modificate dagli insorgenti vigneti del
Prosecco. Ecco Refrontolo, dove è il Molinetto della Codra, su cui lo
scorso 2 agosto si è abbattuta una bomba d’acqua, mentre era in
atto una festa paesana: acqua e fango del torrente Lierza hanno
sommerso un capannone trascinando via le persone che erano in
festa, quattro morti e otto feriti.
Ora tutto è quieto sulle colline, solcate dalle striature delle vigne
che si aprono tra i boschi e segmentano il terreno, a incrementare il
successo mondiale del Prosecco. Ma sono in atto discussioni
sull’esito rovinoso di questo arretramento dei boschi, sul turbamento
dell’equilibrio idrico che ne consegue: che può essere anche una
delle cause della sciagura recente.
Da Refrontolo si passa a Rolle, dove si mangia a una grande
tavolata in una animatissima rustica osteria. Rolle è la località
trasfigurata in poesia col nome di Dolle, come ne L’acqua di Dolle in
Dietro il paesaggio: e la gioia di quell’acqua lontana (“Ora viene a
consolarmi/ con una lunga visita/ l’acqua di Dolle”) sembra quasi
stridere con la rabbia della recentissima acqua di Refrontolo. Da qui,
attraversando il Soligo, si passa a Cison di Valmareno (o Valmarino),
il cui centro è attestato lungo un torrente, il Rujo, che scende
saltellando, incassato tra spallette per precipitare dentro il Soligo. In
alto, sul paese, c’è Castelbrando, un castello, variamente restaurato,
ma che esisteva già tra il XIII e il XIV secolo, quando era possesso
dei Caminesi di Sopra (ramo della famiglia diverso da quello dei
signori di Treviso), e che più tardi fu tenuto dai Brandolini, condottieri
di ventura della Repubblica di Venezia. Nel bel Teatro comunale “La
Loggia”, si svolge il fitto pomeriggio congressuale: ai piedi del
boccascena ci sono tra i fiori anche quelli dei topinambur, che si
affacciano come impreviste escrescenze del trasformarsi della
natura nella breve raccolta del 1996, Meteo. Questa seduta è
inaugurata da Andrea Cortellessa, che insiste proprio sul carattere
dantesco della poesia di Zanzotto e in particolare della “trilogia”, da
Zanzotto stesso indicata come “pseudotrilogia”, costituita da Il
Galateo in bosco, Fosfeni e Idioma. Inferno, Purgatorio e Paradiso?,
ci si domanda ascoltando il relatore, che, in un vertiginoso raccourci,
chiama in causa anche la trilogia di Samuel Beckett, Molloy, Malone
meurt, L’innommable.
Romano d’Ezzelino

………………………………
si leva un colle, e non surge molt’alto,
là onde scese già una facella
che fece a la contrada un grande assalto.

D’una radice nacqui e io ed ella:


Cunizza fui chiamata, e qui refulgo
perché mi vinse il lume d’esta stella;
(Par., IX 28-33)

La mattina della domenica 12 lascio i luoghi zanzottiani e i colli del


Prosecco per dirigermi verso il colle di modesta altezza considerato
origine della famiglia da Romano, da cui scese la feroce facella di
Ezzelino III, il celebre tiranno da Dante sistemato già nel girone dei
violenti contro il prossimo, figurato con “quella fronte c’ha ’l pel così
nero” (Inferno, XII 109). Nata dalla stessa radice, la sorella Cunizza
è invece in Paradiso, tra gli spiriti amanti, dominata dalla luce della
stella Venere, in paradossale e salvifica conseguenza della sua
turbolenta vita amorosa, consumata nel mondo delle corti feudali del
nordest: sembra che tra l’altro ebbe a che fare anche con il trovatore
Sordello, ma alla fine approdò al pentimento, ritirandosi in vecchiaia
a Firenze.
Do un ultimo sguardo alle colline, mentre, a vendemmia ormai
avvenuta, nei filari delle vigne si distinguono nettamente i pali, già
quasi spogli dai racemi. Sfioro una delle capitali del Prosecco,
Valdobbiadene, e passo ancora il Piave sul ponte di Vidor, mentre la
strada è percorsa da molti ciclisti domenicali. A sud, al di là del greto
del fiume e di un fronte di pioppi che lo delimitano, si vede il groppo
del Montello, da questa parte isolato sullo sfondo della pianura. A un
certo punto si affaccia, sulla destra della strada, la cancellata oltre la
quale si delinea la perfetta misura della palladiana Villa Barbaro di
Maser, con la facciata rivolta a sud. Non posso non fermarmi ad
ammirare la consonanza delle due ali porticate, che sembrano
scandire una possibile razionalità dello spazio e del tempo, ai lati del
frontone centrale, mentre alcuni cavalli pascolano placidamente sul
prato circostante. Sulla parte opposta della strada, ma con
orientamento verso ovest, è un tempietto, anch’esso del Palladio,
piccolo pantheon con la cupola affiancata da due piccoli campanili.
Più avanti la strada sfiora una zona piena di più fitti echi
rinascimentali, classici, neoclassici, ultraclassici: Asolo, con quel che
resta della residenza della regina di Cipro Caterina Cornaro, qui
approdata dopo il lascito dell’isola a Venezia (1489) e ospite
accogliente degli amorosi dialoganti degli Asolani di Pietro Bembo
(1505); e poi i vari soggiorni di scrittori e artisti anglosassoni, di
Eleonora Duse e di Gian Francesco Malipiero; i colli asolani, fino a
Possagno, patria di Antonio Canova, con il suo tempio mausoleo…
Ma, superato il bivio per Asolo e tralasciati rinascimenti,
classicismi e loro riprese internazionali ed estetizzanti, ecco San
Zenone degli Ezzelini, presso cui sorge il cosiddetto colle degli
Ezzelini, il Castellaro di Sopracastello di San Zenone, dove era un
castello della famiglia e dove si consumò la loro caduta: vi si era
rifugiato il fratello di Ezzelino e di Cunizza, Alberico, uomo d’arme e
trovatore, già signore di Treviso, dopo la morte del fratello nella
battaglia di Cassano d’Adda. Ma nell’agosto del 1260 il castello fu
preso dalla coalizione guelfa e distrutto, dopo che Alberico fu
massacrato con l’intera famiglia. Nelle curve della tranquilla salita al
colle resta cancellata ogni traccia di quella violenza. Su una piazzola
affollata da auto di fedeli diretti alla messa domenicale prospetta la
rossa chiesetta ottocentesca del santuario della Madonna della
Salute. Siamo a modestissima altezza (solo 214 m.), ma da quassù
si scorgono bene i colli Asolani e, a nord, la mole massiccia del
monte Grappa. A mezza costa del colle, tra i cipressi, c’è una torre,
anch’essa ottocentesca, che si eleva come ultima traccia del perduto
potere della distrutta famiglia.
Non è questo comunque il colle a cui si riferisce Cunizza: esso si
trova più oltre, al margine nordest di Bassano, sopra le case di
Romano d’Ezzelino, che raggiungo svoltando presso Crespano del
Grappa, dove, sul muro di un torracchione, noto la scritta
SUD=ZAVORRA. Come in contrasto con la deprimente scritta, nonché
con la truce memoria del celebre tiranno, Romano di Ezzelino si
presenta in un cartiglio come CITTÀ DELLA SPERANZA. Salgo finalmente
sul colle, detto della Bastia, che, come il precedente, non surge
molt’alto (circa m. 240): dove non c’è più né il castello di Ezzelino né
la pieve duecentesca, ma un vero e proprio monumento dantesco,
tra viali di cipressi, che conducono a una torre circolare ottocentesca
(chiamata sia Torre Ezzelino che Torre Dante), sotto la quale un
muraglione reca l’epigrafe con le prime parole di Cunizza, Paradiso,
IX 25-30, fissata qui per iniziativa del COMITATO BASSANESE DELLA /
DANTE ALIGHIERI XXI APRILE 1914, quasi alla vigilia del tremendo conflitto.
Poco più in basso rispetto alla cima del colle c’è un piccolo cimitero:
e girando intorno al colle la vista si apre sulla pianura, dove si
distingue bene a sud Bassano e, verso est, il Montello; più vicino, a
nord, il monte Grappa. Lo sguardo ricollega così in immediata
sequenza i due emblemi della guerra che tanto ha lacerato questi
luoghi.
Subito a ovest di Romano d’Ezzelino e del suo colle, scorre il
Brenta, a Pove del Grappa: il fiume è qui canalizzato entro la
cementificazione di una zona industriale, mentre subito a monte si
intravvede il fronte dei dirupi tra cui è incassata la valle da cui esso
fluisce.
Feltre

Piangerà Feltro ancora la difalta


de l’empio suo pastor, che sarà sconcia
sì, che per simil non s’entrò in malta.
(Par., IX 52-54)

Nel panorama veneto tracciato da Cunizza alla città di Feltre viene


annunciata una imprecisata sciagura, come punizione per la difalta,
la colpa sconcia del suo vescovo, il trevigiano Alessandro Novello,
che nel 1312 tradì quattro fuorusciti ferraresi, che si erano rifugiati
presso di lui, consegnandoli al vicario angioino Pino della Tosa, che
li fece decapitare (vedi p. 450, 452): una colpa inaudita (tanto più
perché opera di un uomo di chiesa), tale che mai nessuno è andato
in prigione (in malta) per una colpa simile. Resta dubbia, invece,
l’ipotesi che a Feltre si riferisca la profezia sul Veltro all’inizio del
poema: “e sua nazion sarà tra feltro e feltro” (Inferno, I 105), che
fisserebbe la nascita del futuro salvatore d’Italia tra i limiti della Valle
Padana, tra Feltre e il Montefeltro
Potrei ora dirigermi abbastanza rapidamente verso Feltre
passando per la Pedemontana e la canoviana Possagno: ma,
inseguendo ancora le tracce della Prima guerra mondiale, non posso
trattenermi dal salire sul Grappa, altro nodo di difesa e di scontri
furiosi nell’ultima fase della guerra. L’ascesa sull’originaria strada di
guerra, la strada Cadorna, si snoda tra i boschi, fino al momento in
cui si scopre la zona prativa e rocciosa, intorno alla cima del monte,
tutta ravvolta e incapsulata dall’immenso Sacrario e dagli edifici che
sono alla sua base. Un grande corpo circolare a più livelli custodisce
le urne, che si dispongono in ordinata successione come fornetti
semicircolari chiusi da lastre di bronzo su cui è inciso il nome dei
caduti: si distingue, al sommo della scala centrale, l’urna più grande,
coperta da lastra quadrata, del maresciallo e senatore Gaetano
Giardino, comandante dell’Armata del Grappa, in realtà non caduto
durante le azioni da lui condotte, ma onorificamente sepolto qui dopo
la sua morte nel 1935. Al di là di questo corpo circolare un ampio
viale in pietra conduce alla vetta del monte, oltre la quale si trova
anche il sacrario austriaco; e c’è anche un cippo che ricorda il
sacrificio dei soldati boemi e moravi.
Qui molti scontri e assestamenti si ebbero dopo la ritirata di
Caporetto; terribile fu poi la battaglia negli ultimi giorni della guerra.
E, solo a leggere le lapidi, ci si rende subito conto che, nel gran
numero dei caduti, ben pochi poterono essere identificati. Leggo che
ci sono i resti di “12615 caduti italiani, di cui 10.352 ignoti”, e di
“10.235 austriaci, di cui 10.000 ignoti”. Ai morti della Grande guerra
fa come da eco il ricordo dei caduti della guerra partigiana, che
operarono nella zona: un cippo oblungo, impiantato
dall’Associazione veneta volontari della libertà, elenca i dati
seguenti; IMPICCATI 171/ FUCILATI 603/ PRIGIONIERI 3212/ DEPORTATI 804/ CASE
BRUCIATE 285. Accanto a questo cippo si apre la Galleria Vittorio
Emanuele III, dedicata al re, quando visitò questo luogo, dal Gruppo
Lavoratori Gavotti. Il colonnello Nicola Gavotti era stato il progettista
di questa grande galleria che si addentra nel cuore della montagna,
con una serie di bracci, e di sbocchi diversi: eccezionale
fortificazione sotterranea per la difesa del Grappa. Sistemata e resa
meglio percorribile per i visitatori, vi si può ora procedere per circa
800 metri, a partire dal posto di medicazione vicino all’ingresso. Vi si
trova anche una varia documentazione sulla vita sotterranea dei
soldati, che varie foto mostrano in posa sotto i duri cappotti
dell’epoca. Mi addentro completamente da solo: e non posso non
pensare all’Inferno e alla natural burella, alla fatica e all’ingegno che
sono stati tanto pazientemente impiegati per dar volto a questo
inferno artificiale, che inferno vero doveva essere nel suo originario
assetto, di cui nel percorso attuale resta solo una levigata, spuntata
eco turistica. Mentre torno indietro, del resto, vedo avanzare tre
curiosi che ridacchiano parlottando tra loro.
Di fuori si scorge, guardando giù, il vario configurarsi di rilievi,
protuberanze, piccole cime del massiccio, con il districarsi delle
diverse strade che ne discendono, tra svolazzi irregolari di nuvole, e
poi colli e valli, con le Alpi che si profilano poco oltre. Procedo in
lenta discesa, sfiorando vette meno rilevate e affacciandomi sulla
valle del Cismon, affluente del Brenta, fino a raggiungere Feltre, che
si presenta con un volto di severa e misurata nobiltà, faticosamente
recuperata dopo la perdita del suo volto medievale, cancellato dalle
truppe imperiali nella guerra della Lega di Cambrai (1509 e 1510).
Nella parte piana della città si affaccia la cattedrale di San Pietro
apostolo: chiesa cinquecentesca, di semplice misura, che certo non
ha nulla a che fare con quella officiata dall’empio pastor riprovato da
Cunizza: sul piazzale antistante si apre un’area archeologica con
resti di costruzioni romane. Ma il cuore di Feltre è la cittadella,
protetta da un muraglione che aggetta sul versante della piana dove
è la Cattedrale: essa è attestata su un percorso longitudinale, con la
centrale via Mezzaterra, che sale a partire dalla Porta Imperiale, fino
alla centrale piazza Maggiore, da cui poi si scende verso l’opposta
Porta Oria.
Nel primo pomeriggio domenicale nella via c’è grande animazione,
tra le bancarelle di una Fiera dell’oggetto ritrovato, che qui ha luogo
ogni seconda domenica del mese da aprile a dicembre: tra oggetti
più o meno desueti, che vanno da semplici resti di uso quotidiano ad
aggeggi di indecifrabile stranezza, il nobile assetto della città, con la
sua singolare venezianità scoscesa, con le facciate ornate delle
case su via Mezzaterra, con le scale, balaustre, logge, porticati su
cui si dispiega la piazza Maggiore, sembra come agitarsi,
sommuovere la propria stessa disposizione. Dal suo monumento
l’umanista Vittorino da Feltre guarda perplesso una bancarella che
espone dei grossi timoni navali in solidissimo legno.
Dall’umanista si diparte una non trascurabile linea letteraria
feltrina, che giunge fino al critico Silvio Guarnieri (1910-1992), uno
dei più attivi mediatori della letteratura “militante” degli anni trenta e
del successivo dopoguerra: gentiluomo e comunista, che,
incontrandolo nei suoi ultimi anni, mi ha lasciato un’impressione di
appartata nobiltà, che tanto somiglia all’aspetto della sua città.
Mentre sono ormai fuori della cittadella, un sottopasso, dove si
affacciano delle botteghe dismesse, presenta osceni scarabocchi e
scritte scombiccherate e confuse, tra cui, a grandi caratteri, FELTRE FA
SCHIFO – W NAPOLI: quanto può essere fragile ed evanescente la
suggestione della esitante nobiltà feltrina!
Fiume Brenta

e le fontane di Brenta e di Piava


(Par., IX 27)

Lascio Feltre prendendo il veloce raccordo che in breve mi riconduce


alla valle del Brenta (inevitabile incertezza sul genere grammaticale
del fiume: il Brenta o la Brenta, anche se Dante, in Inferno, XV 7, su
cui tornerò più tardi, ci suggerisce il femminile), nei pressi di
Primolano, più a monte rispetto al punto dove l’ho lasciata per salire
sul Grappa, nel tratto stretto tra dirupi montuosi: per la sua strettezza
la valle in cui il fiume scende da qui fino a Pove e a Bassano, con il
Grappa sulla sinistra, viene del resto denominata canale di Brenta.
Alla strada incassata in fondo alla valle si accompagna parallela,
apparendo e scomparendo ogni tanto, l’antica ferrovia della
Valsugana.
L’alta valle del fiume, detta appunto Valsugana, ormai in Trentino,
nel risalire va man mano ampliandosi, in amene distese di prati e di
coltivi, mentre i fronti montuosi sembrano progressivamente
arretrare. Pur trovandoci a monte, più in alto rispetto al percorso del
canale, nel disporsi ampio e quieto che ora assume la valle si ha
come l’impressione di essere scesi, di trovarsi in pianura dopo aver
superato qualche valico. L’ambiente si distende sempre più, là dove
si adagiano i due laghi di Levico e di Caldonazzo, che costituiscono
le vere fontane di Brenta, gli immissari da cui prende avvio il corso
del fiume.
Lasciando sulla destra della ex statale 47 Levico e il suo lago e
svoltando a sinistra si toccano le calde sponde del lago di
Caldonazzo: ne raggiungo una riva, nella località di Calceranica, sul
fronte sudovest dello specchio d’acqua, dopo un tortuoso labirintico
aggiramento tra casette e villette di vacanza, che si incastrano
disordinatamente rendendo difficile il contatto con il lido. Una striscia
di spiaggia ghiaiosa fronteggia un verdissimo prato, di fronte a un
breve molo di legno che si avanza sull’acqua. Non ci sono barche
vicine, ma in lontananza, sull’azzurro del lago che si fa largo tra
rilievi boscosi, si vede solo un paio di bianche vele. Due anatre
nuotano vicino alla riva, mentre sulla ghiaia sono attestati due
passeggini, su uno dei quali si piega una mamma in camicia bianca
e jeans, per dare qualcosa al bimbo seduto e avvinghiato. Oltre le
case di Calceranica, la strada che costeggia il lago a ovest è per
gran tratto affiancata dal binario unico della ferrovia.
Trento

Loco è nel mezzo là dove ’l trentino


pastore e quel di Brescia e ’l veronese
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.
(Inf., XX 67-69)

Il vescovo di Trento viene ricordato nella lunga perifrasi sul lago di


Garda e su Mantova nel XX dell’Inferno, con l’ipotetica indicazione
(su cui capiterà di ritornare) di un punto al centro del lago che
farebbe da confine tra la giurisdizione trentina e quella dei limitrofi
vescovati di Brescia e di Verona. Trento è peraltro nominata nel De
vulgari eloquentia, I XV 7, insieme a Torino e ad Alessandria, come
città vicine ai confini d’Italia (“civitates metis Ytalie… propinquas”),
che non possono avere parlate pure (“puras nequeunt habere
loquelas”) e sono inevitabilmente lontane dal ricercato volgare
illustre.
Su Trento si scende vertiginosamente dalla Valsugana,
immediatamente verificando il dislivello tra l’assetto della valle che
accoglie la fontana di Brenta e la ben diversa adiacente valle
dell’Adige. Il montarozzo della Marzola, a ovest del lago di
Caldonazzo, separa la Valsugana dalla più bassa valle dell’Adige,
proprio sul punto in cui si adagia Trento, mentre dalla parte opposta
si stagliano le forti cime del Bondone e della Paganella. Prendo una
strada che dal lido di Calceranica, sale su Bosentino e costeggia il
fianco della Marzola, scendendo poi precipitosamente su Trento.
Sfioro il centro della città proprio davanti al Castello del
Buonconsiglio, la residenza dei principi-vescovi di Trento, divenuta
tale proprio nel XIII secolo, di cui Dante doveva certo avere notizia: è
vero comunque che la complessa architettura del castello, gli arredi
e le opere d’arte sono tutti di epoca successiva. Echi fascinosi lascia
la visita della Torre Aquila, con gli affreschi del ciclo dei mesi,
danzante tripudio di gotico cortese, che risale all’inizio del XV secolo:
ora è troppo tardi per tornarci, mentre risento il sinistro turbamento a
cui nella mia infanzia era legata la menzione di questo castello.
Venivo spesso a Trento, a far visita alla famiglia di un fratello di mio
padre, lo zio Tito, finanziere in servizio a Trento: e capitava di
passare davanti al castello, di visitare il suo cortile, mentre mio zio
ricordava il martirio di Damiano Chiesa, Fabio Filzi, Cesare Battisti,
condannati a morte dagli austriaci nel 1916, fucilato il primo,
impiccati gli altri. Soprattutto mi colpivano i racconti dell’impiccagione
di Cesare Battisti, anche perché si andava poi, dall’altra parte
dell’Adige, a visitare il mausoleo circolare a lui dedicato. Allora non
conoscevo la terribile foto di quella esecuzione, fatta circolare dagli
austriaci in forma di cartolina postale, con un gruppo di borghesi e di
militari in posa accanto al cadavere dell’impiccato, addossato in
posizione verticale a una tavola sorretta dal boia gioviale e
rubicondo, come vestito a festa: tutti si accalcano per fotografarsi,
trionfalmente sorridenti. E naturalmente non conoscevo quel libro
impossibile che è Gli ultimi giorni dell’umanità di Karl Kraus, che
denuncia la normalità e l’orrore di questa foto, oscena immagine
della “condivisione” dell’opinione, inserendola nella prima edizione
del libro (Letzen Tagen der Menschheit, 1922). Ora, giungendo a
Trento, non può non ritornare ancor un’eco dolorosa di quella grande
guerra, di questi morti singolari, tra i tanti moltiplicati e anonimi le cui
ombre si stanno insistentemente affacciando in questa parte del mio
viaggio: su tutto l’angoscia ulteriore data dal ricordo di quella foto e
dell’interpretazione “profetica” data da Kraus.
I vescovi di Trento officiavano comunque nel grande Duomo, che
si impone al centro della città con la sua severa mole romanico-
gotica, in cui sembra che l’ascensionalità gotica sia come rattenuta,
incatenata a un’ostinata volontà terrestre, in una commistione di echi
mediterranei che vengono a scandirsi in un orizzonte alpino e
nordico. La costruzione nelle forme attuali cominciò all’inizio del XIII
secolo ed ebbe vari e lunghi svolgimenti, anche negli anni di Dante.
Nell’interno l’assetto originario si è poi arricchito man mano di
ornamentazioni, turgori, diversioni umanistiche, manieristiche,
barocche: qui, del resto, ebbe luogo uno degli eventi che hanno dato
a Trento un rilievo storico di lunga durata, il Concilio celebrato tra il
1545 e il 1563, stretta determinante per la Chiesa cattolica, sua
ferrigna risposta alla Riforma protestante.
La rapida sosta trentina di questo viaggio non può non trovare
centro in una visita alla piazza della stazione, piazza Dante appunto,
con al centro il monumento a Dante, progettato da Cesare Zocchi,
innalzato con evidente spirito patriottico e irredentistico nella Trento
sotto il dominio austriaco e inaugurato l’11 settembre 1896. La statua
bronzea di Dante domina l’alto piedistallo, con il braccio destro
rivolto verso le Alpi, mentre sotto di lui, sui tre livelli in pietra del
monumento, si dispongono statue e rilievi con scene riferite alle tre
cantiche. L’immagine che colpisce di più e si impone per le sue
dimensioni è, in basso, nella stessa posizione prospettica della
statua del poeta in alto, quella di Minosse, seduto nella sua
posizione di giudice infernale, con la coda che irregolarmente lo
avvinghia, in posa problematicamente pensierosa, accigliato e col
mento appoggiato al braccio destro ripiegato sui ginocchi, mentre il
braccio sinistro è disteso orizzontalmente, con la mano che tocca
l’aggetto del livello superiore del monumento.
In occasione dell’inaugurazione, Giosuè Carducci scrisse la breve
cantica in terzine Per il monumento di Dante a Trento, pubblicata
nell’opuscolo Il Trentino e Dante Alighieri, e poi raccolta in Rime e
ritmi (1899); una poesia un po’ stanca, in cui la missione di Dante
viene proiettata in chiave nazionalistica, grazie a una voce divina
che gli consegna in balìa l’Italia per la creazione futura di un novo
paradiso, con questa ipotiposi finale:

Così di tempi e genti in vario assalto


Dante si spazia da ben cinquecento
Anni de l’Alpi su ’l tremendo spalto.

Ed or s’è fermo, e par ch’aspetti, a Trento.


Così nel gesto di Dante si fissava l’attesa della liberazione della città
dal dominio austriaco: e questa significazione fu ribadita anche in
occasione delle celebrazioni del cinquantenario dell’unità d’Italia,
quando l’immagine di questo monumento fu inserita come emblema
dantesco nelle sequenze introduttive del film dantesco L’Inferno,
della Milano Films, vero colossal dell’epoca, diretto da Francesco
Bertolini, Giuseppe De Liguoro e Adolfo Padovan.
Ora il piazzale intorno al monumento è in gran parte transennato:
varie persone, specie extracomunitari, sostano stancamente tra i
pochi spazi praticabili, vigilati da poliziotti e carabinieri, che
sembrano disposti a protezione del Palazzo della Regione, che dà
sulla piazza e sul quale è disposto uno striscione che segnala il
grande Festival dell’Economia, che ogni anno si svolge a Trento e a
Rovereto e che quest’anno ha avuto luogo dal 30 maggio al 2
giugno. Il tema di quest’anno era Classi dirigenti, crescita e bene
comune. Ma un diverso minaccioso punto di vista viene esibito da
uno slabbrato striscione appeso lungo il reticolato che blocca
l’accesso alle aiuole del dantesco piazzale: IL MONDO VEDRÀ LE VOSTRE
PISTE SPORCHE DI SANGUE.
Ruina di Marco

Qual è quella ruina che nel fianco


di qua da Trento l’Adice percosse,
o per tremoto o per sostegno manco

che da cima del monte, onde si mosse,


al piano è sì la roccia discoscesa,
ch’alcuna via darebbe a chi sù fosse:

cotal di quel burrato era la scesa…


(Inf., XII 4-10)

Lascio Trento sull’autostrada che fiancheggia l’Adige sulla sponda


destra, seguendo la direzione del suo corso. Il fiume a tratti appare e
scompare, ma è quasi sempre ben visibile sulla sinistra. Superata
Rovereto, l’autostrada lo attraversa e passa a percorrere la sponda
sinistra, all’altezza di Marco: qui la lascio e raggiungo l’ex strada
statale 12 (quella detta dell’Abetone e del Brennero), notando subito
che la montagna a est (il monte Zugna), su questa sponda sinistra
del fiume, presenta uno scoscendimento roccioso che a tratti appare
quasi liscio, inclinato di circa 45 gradi, mentre intorno c’è una folta
vegetazione e più in basso si accumulano massi variamente
disposti. Siamo nella zona dei Lavini di Marco, dove è la ruina che a
Dante serve da termine di paragone per la scesa della frana sulla
roccia che conduce dal quinto al sesto cerchio infernale e sulla cui
cima è installato il Minotauro, la cui ira bestiale è messa subito a
tacere dalle parole di Virgilio. Lì nell’inferno la ruina è stata causata
dal terremoto che ha avuto luogo al momento della discesa di Cristo
nel Limbo, per farne uscire gli spiriti dei giusti del Vecchio
testamento (e che ha causato altri danni nell’assetto dell’inferno, con
cui i pellegrini vengono a imbattersi più tardi). Qui ci sono gli effetti,
ben visibili ai tempi di Dante, di lontani terremoti o eventi franosi (“o
per tremoto o per sostegno manco”): le rocce franate hanno
scoperto lo strato geologico risalente al Giurassico, la superficie di
roccia liscia, rimasta integra, modellata dai ghiacciai, su cui i
moderni paleontologi hanno scoperto delle orme, appartenenti
addirittura a dinosauri.
Entro nel parco che qui è stato attrezzato dal Museo civico di
Rovereto, tutelato come “biotopo”. In basso, sulla pianura, nella zona
tra la strada statale e l’Adige, sono disposti molti gruppi di massi
franosi, affastellati tra vari esiti di rimboschimento, in cui domina il
pino nero, e con interstizi di spazi coltivati a vitigni. Seguo un
tortuoso percorso in questa zona piatta, giungendo molto vicino al
fiume, da cui mi separa un argine molto rilevato. Ma per trovare un
più esplicito scoscendimento franoso bisogna comunque procedere
di poche centinaia di metri sulla strada ex statale verso sud: qui a
sinistra e in parte anche a destra della strada si vede bene un fitto e
confuso ammasso di rocce crollate in tempi lontani, in mezzo alle
quali spuntano cespugli di ogni sorta. Un cartello esplicitamente
segnala la Ruina dantesca, sfiorata velocemente da macchine e
moto che sfrecciano sull’asfalto. Dante può anche averla vista da
vicino, all’epoca dei suoi soggiorni veronesi presso gli Scaligeri: una
tradizione locale lo vuole anche ospite di un castello che si trovava
leggermente più a nord, su un colle sopra Rovereto, il castello di
Lizzana dei Castelbarco, da cui tra l’altro la ruina del monte Zugna si
osserva in tutta la sua estensione. Del castello non rimane quasi
niente, solo un muraccio diroccato: ma la località viene designata, a
ricordo dell’ipotetico soggiorno di Dante, proprio come Castel Dante.
Su quel colle durante la Prima guerra mondiale fu installato un
cimitero di guerra austriaco, sostituito negli anni trenta da un ossario
circolare, detto appunto Ossario di Castel Dante, con le spoglie dei
due martiri Damiano Chiesa e Fabio Filzi e di ventimila caduti degli
opposti eserciti.
Ormai scende la sera e sfumano i contorni del colle di Castel
Dante e delle più alte montagne: la costa del monte Zugna e la ruina
sembrano ramificarsi e dilatarsi nell’attenuarsi della luce e nel
progressivo imporsi del buio. Il sordo rombare delle auto che,
perlopiù con i fari abbaglianti, passano sulla strada, sembra coprire
l’eco lontana del muggito del Minotauro o dei versi inimmaginabili dei
dinosauri, dei loro fantasmi che da sempre continuano a solcare la
roccia posando le zampe sulle orme immobili e definitive.
Verona

Poi si rivolse, e parve di coloro


che corrono a Verona il drappo verde
per la campagna; e parve di costoro

quelli che vince, non colui che perde.


(Inf., XV 121-124)

Con l’auto corro nel buio verso Verona: la strada statale, non tanto
trafficata, presenta comunque molteplici intoppi, che diventano più
numerosi quanto più mi avvicino alla città. Penso alla singolare
similitudine con cui il nome di Verona si affaccia nell’Inferno: la
menzione di una corsa a piedi detta del drappo verde, che avveniva
la prima domenica di Quaresima, e il paragone della “cara e buona
imagine paterna” del maestro Brunetto Latini con il vincitore di una
gara a cui certamente non partecipavano persone autorevoli e
degne come lui era stato in vita. Similitudine degradante, insomma,
come tanti lettori hanno notato, che riconduce la figura di Brunetto
all’orizzonte infernale, allo squallido ansimare della corsa sul
sabbione infuocato; come degradato nel canto I 11, dell’Orlando
furioso appare Rinaldo che insegue a piedi Angelica, a sua volta
paragonato a un corridore di un palio ferrarese (“e più leggier correa
per la foresta, / ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo”).
Difficoltoso mi si rivela, nella sera di domenica, l’accesso al centro
di Verona: depistato dai sensi unici e dai divieti di transito, dalle
indicazioni stradali, dal succedersi e confondersi delle diverse porte.
Mi avviluppo in vari andirivieni, prima di riuscire a raggiungere un
centralissimo albergo, incassato in un vicoletto vicino a piazza Bra.
Lasciata l’auto in un piccolo garage, mi muovo ormai a tarda ora alla
ricerca di una trattoria: suoni e canti arrivano dall’Arena, che è in
pieno spettacolo. Non si tratta di un’opera lirica, ma di una moderna
opera pop, uno di quei tardi prolungamenti della nostra eredità
cristiana, ultima espansione mediatica dell’originaria matrice
evangelica, rombante plastificazione della parola divina: è Jesus
Christ Superstar, musical di lungo corso (risalente addirittura al
1970), a risuonare, dai propaganti amplificatori dell’Arena, fuori dalle
arcate aperte qui sulla piazza. Alla musica pop fa riscontro, su un
lato della piazza, una grande ruota in marmo delle cave bresciane,
aperta da un lato, ma lavorata con effetto ruotante (“sì come rota
ch’igualmente è mossa”), dell’artista Franco Ghirardi: la scultura ha
come titolo (lo spiega un grande cartello che la fiancheggia) ENERGIA
PULITA ed è collocata qui per la fiera Marmomacc & the City, dedicata
proprio a opere e prodotti in pietra naturale, che ha luogo in questi
giorni, fino al 26 ottobre.
Gli Scaligeri

Lo primo tuo refugio e ’l primo ostello


sarà la cortesia del gran Lombardo
che ’n su la scala porta il santo uccello;

ch’in te avrà sì benigno riguardo,


che del fare e del chieder, tra voi due,
fia primo quel che tra li altri è più tardo.

Con lui vedrai colui che ’mpresso fue,


nascendo, sì da questa stella forte,
che notabili fier l’opere sue.
(Par., XVII 70-78)

Nel De vulgari eloquentia i veronesi vengono nominati en passant in


I IX 4, tra gli esempi di discrepanza linguistica anche tra chi abita
relativamente vicino, vicinius habitantes, a proposito della differenza
della loro loquela da quella dei milanesi, e poi in I XIX 4, e in I XIV 5
come parlanti un tipo di volgare ispido e rozzo, che accomuna
bresciani, veronesi e vicentini, di cui si riporta come esempio un
vocabolo, la cui lezione è però incerta (da magara a mara fino alla
più recente proposta di maia!, col senso di “mangia!”); poi Verona
viene nominata in I XV 2, a proposito della sua vicinanza linguistica a
Mantova.
Nell’invettiva sulla serva Italia del VI canto del Purgatorio viene
citata la famiglia veronese dei Montecchi, appaiata a una nemica
famiglia cremonese, i Cappelletti: si tratta di un abbinamento che è
alla base della leggenda di Giulietta e Romeo, inserita, a partire dalla
novella del vicentino Luigi da Porto, approdata poi alla tragedia di
Shakespeare, nel quadro di un immaginario conflitto veronese tra
Montecchi e Capuleti. Con la risultanza che oggi una delle mete più
ricercate dai turisti che vengono a Verona è una casa medievale a
cui è stato attribuito il titolo di casa di Giulietta, ma che in realtà fu
abitata dai Capello e non ha nulla a che fare con la sfortunata
fanciulla dei Capuleti.
Verona ha in realtà un ben noto e molto più determinante rilievo
dantesco, per i soggiorni che vi fece il poeta, nel suo rapporto con gli
Scaligeri, a cui si riferisce la profezia di Cacciaguida nel cielo di
Marte: che evoca il refugio e ostello dei primi anni dell’esilio presso il
gran Lombardo (quasi sicuramente Bartolomeo della Scala), e poi
Cangrande, ancora bambino di nove anni al tempo dell’immaginario
viaggio oltremondano, ma segnato alla nascita dall’influenza del
pianeta Marte, la stella forte da cui parla lo stesso Cacciaguida.
Proprio a Cangrande il Paradiso viene peraltro dedicato nella
discussa Epistola XIII, a lui per l’appunto indirizzata.
Nell’intestazione egli vi viene indicato come magnifico e vittorioso
vicario dell’imperatore nelle città di Verona e Vicenza; poi
nell’esordio (I 3) l’autore loda la sua magnificenza, e ricorda che a
Verona ha potuto verificare come essa sia superiore alla sua pur
eccezionale fama, diventando suo devotissimo amico (poi
giustificherà l’audacia con cui lui, uomo di basso stato, osa
professarsi amico di un personaggio tanto a lui superiore):

Quo factum ut ex auditu solo cum quadam animi subiectione


benivolus prius exstiterim, sed ex visu postmodum
devotissimus et amicus.
(Perciò è accaduto che se prima ero ben disposto per quanto
avevo udito, con una certa soggezione dell’animo, poi per
quello che avevo visto sono diventato devotissimo e amico)

Nella prima mattina del 13 ottobre mi muovo quindi sulle orme degli
Scaligeri e del Dante veronese, mentre piazza Bra è già abbastanza
animata. Verona fa subito, per la sua struttura e per il modo stesso in
cui ci si muove nelle sue strade, un effetto di città di ampio respiro,
tutt’altro che provinciale. Una delle case che danno sulla piazza reca
l’immancabile lapide sul soggiorno di Garibaldi, che di qui, l’8 marzo
1867, salutò il popolo gridando ROMA O MORTE; ancora sulla piazza,
ma sull’angolo con via Mazzini, c’è la casa in cui qualche mese
prima, il 6 ottobre 1866, Carlotta Aschieri, venticinquenne incinta, fu
trucidata dagli austriaci poco prima dell’ingresso delle truppe italiane
nella città.
Addentrandomi in via Mazzini, mentre molti negozi cominciano ad
aprire le loro porte, risalgo indietro da questi echi risorgimentali,
verso i tempi danteschi, che cominciano a balenare sulla pur
composita piazza delle Erbe, a cui sembra introdurmi la statua
bronzea del poeta dialettale Berto Barbarani (1872-1945). La piazza
è ingombrata da un fitto e animato mercato, in mezzo al quale vigila
la fontana di Madonna Verona, fatta installare da Cansignorio, uno
degli ultimi Scaligeri. Passo sotto l’arco della Costa e raggiungo
finalmente la piazza dei Signori, quella più dantesca e più scaligera,
anche se gli edifici sono per lo più risultanza di interventi del XIV
secolo o successivi. Al centro, comunque, c’è un ben più tardo
monumento a Dante, col poeta tutto ammantellato che guarda verso
l’arco che congiunge il Palazzo del Comune (o della Ragione) e il
Palazzo del Capitanio e da cui si diparte proprio la via Dante
Alighieri: come se la statua di Ugo Zannoni, installata per il
centenario del 1865, in chiave risorgimentale quando ancora il
Veneto era sotto il dominio austriaco, volesse partire verso la strada
al poeta stesso intitolata.
Il Palazzo del Comune era già in piedi alla fine del Duecento, con
la facciata a righe alterne orizzontali di tufo e di cotto, su cui si sono
però sovrapposte varie trasformazioni successive: e in piedi era la
torre dei Lamberti, in esso inglobata e anch’essa più volte
modificata, mentre il Palazzo del Capitanio risale ai tempi di
Cansignorio (1363 circa). Ai tempi di Cangrande era in costruzione
anche il Palazzo della Prefettura (detto anche di Cangrande), che si
colloca alla sinistra di chi guarda il Palazzo del Comune. Ma l’edificio
più bello della piazza è certamente quello che prospetta alle spalle
della statua di Dante, opposto al Palazzo del Capitanio: si tratta della
Loggia del Consiglio, emersa su preesistenti costruzioni scaligere, in
perfetta e quasi danzante figura di primo Rinascimento veneziano,
con otto arcate che sembrano librarsi sulle leggere colonne e sulla
misurata balaustra in basso, affidandosi alle decorazioni e alle
finestre del piano superiore e alle cinque eleganti statue che ne
scandiscono e vigilano il fastigio. Sempre su questo lato, un arco
che delimita il fianco della Loggia del Consiglio la collega a un altro
edificio quattrocentesco, la casa della Pietà, su cui è disposto
l’antico Caffè Dante: ci sono all’esterno i tavoli e le sedie, ma oggi il
bar risulta chiuso, non offre a chi passa il suo consueto ristoro
dantesco.
Lascio la piazza dei Signori, passando sotto un altro arco, il Vòlto
della Tortura, che unisce il Palazzo della Prefettura al Palazzo del
Capitanio, e trovo subito sulla destra il cimitero delle Arche scaligere,
i sontuosi sepolcri dei signori della Scala, che svettano, come
sospesi sopra il piano di base, protetto da lavoratissime inferriate. I
sarcofagi stanno sopra i piani rialzati, circondati da un moltiplicarsi di
edicole, pinnacoli, statue e bassorilievi, e sopra di essi si elevano
coperture che svettano ancora più in alto: i più sontuosi recano, su
piedistalli che si proiettano verso il cielo, al di sopra delle varie tettoie
marmoree, le statue equestri dei defunti, che, oltre la morte,
sembrano protendersi all’impossibile conquista del cielo. Identifico
così l’arca di Mastino II (morto nel 1351) e di Cansignorio, senza
dimenticare che costui, poco prima della sua morte (1375), ordinò
l’uccisione del fratello Paolo Alboino, prigioniero da dieci anni nel
castello di Peschiera, per spianare la strada alla successione dei figli
(ma fu breve e difficile la loro signoria, in un giro di contrasti dinastici
e di guerre in cui furono variamente implicati il milanese Gian
Galeazzo Visconti, i Carraresi di Padova e la repubblica di Venezia,
e che portarono in breve Verona sotto la signoria veneziana).
Ma l’arca del dantesco Cangrande è fuori dal recinto del cimitero:
si trova sopra la porta della prospiciente chiesa di Santa Maria
Antica; non è un’arca en plein air, ma è ben saldamente appoggiata
al portale della chiesa, con il sarcofago sostenuto da cani con lo
stemma scaligero e ornato da statuette e da bassorilievi con le
imprese del condottiero, che da giù non è proprio possibile
identificare (sembra che ci sia anche l’incontro con l’imperatore
Enrico VII per la nomina di Alboino e Cangrande a vicari imperiali di
Verona). Sopra il sarcofago il signore è adagiato sul suo letto
funebre; il tutto è sovrastato da un arco e da un massiccio tetto a
cuspide che vien come a sganciarsi dal muro della chiesa e reca in
cima la statua equestre, con il cavaliere che tiene la spada rizzata e
una sorta di sciarpa che al vento svolazza alle sue spalle (si tratta
comunque di una copia: l’originale è al museo del castello). Qui
Cangrande approdò nel 1329, dopo essere morto improvvisamente
assediando Treviso e avendo dato comunque varie faville della sua
virtute, secondo la profezia di Cacciaguida, che, nel dire ancora di lui
(oltre i versi sopra citati), dopo aver precisato che nel 1300 egli
aveva solo nove anni (ma non si può sfuggire al rilievo che, anche
per questa circostanza, viene ad assumere il numero nove!), allude
alle prove da lui date come signore di Verona già prima del 1312,
l’anno del falso comportamento del papa Clemente V verso
l’imperatore Enrico/ Arrigo, e invita Dante a tenere nella mente, altre
cose / incredibili, invitandolo comunque a non trascriverle nel
poema:

Non se ne son le genti ancora accorte


per la novella età, ché pur nove anni
son queste rote intorno di lui torte;

ma pria che ’l Guasco l’alto Arrigo inganni,


parran faville de la sua virtute
in non curar d’argento né d’affanni.

Le sue magnificenze conosciute


saranno ancora, sì che ’ suoi nemici
non ne potran tener le lingue mute.

A lui t’aspetta e a’ suoi benefici;


per lui fia trasmutata molta gente,
cambiando condizion ricchi e mendici;

e portera’ne scritto ne la mente


di lui, e nol dirai”; e disse cose
incredibili a quei che fier presente.
(Par., XVII 79-93)
Insomma Dante, quando scrive questi versi del Paradiso, si aspetta
grandi cose da Cangrande, anche se non può né sa dire di cosa si
tratti: e per questo fa sì che Cacciaguida gli dica di non rivelarle, per
portarle scritte solo ne la mente. Non sappiamo però se a un certo
punto sia subentrata qualche delusione rispetto a queste attese o
addirittura un vero e proprio contrasto, che abbia portato a una
distanza del poeta nei confronti dello stesso signore. Non
conosciamo le ragioni che abbiano portato Dante a lasciare Verona
e quella così favorevole ospitalità; e non sappiamo se quel suo
passare a Ravenna lo abbia portato a disapprovare la politica
espansionistica dello Scaligero.
Procedendo oltre le arche percorro il corso Sant’Anastasia, dove a
un certo punto, all’angolo con la via Trota, si incontra un palazzo che
sul muro d’angolo ingloba il resto di un archetto medievale: sembra
che qui fosse una prima casa degli Alighieri, dove si era stabilito il
primogenito di Dante, Pietro, tornato a Verona nel 1332, come
giudice e delegato generale del podestà. Sbuco poi subito nella
piazza su cui si affaccia la chiesa domenicana e scaligera di
Sant’Anastasia, la cui costruzione iniziò nel 1290 e di cui Dante avrà
certamente visto i lavori in corso. Molto bello il portale gotico, che
annuncia un possibile tripudio di linee e di colori per la facciata,
rimasta invece semplice e incompiuta. Ma davvero imponente è
l’interno, ricco di monumenti e di opere d’arte, con una sontuosa
decorazione delle volte. Mi colpisce, sulla parete sinistra il
monumento funebre a Cortesia Serego, condottiero e uomo di
fiducia dei figli di Cansignorio, Bartolomeo e Antonio della Scala,
sconfitto dai padovani nel 1386, anno della sua morte (ma il
monumento è della prima metà del Quattrocento e il sepolcro è
vuoto).
La cosa più affascinante e ammirata della chiesa è però un
affresco di Pisanello, staccato dalla collocazione originaria e
sistemato all’esterno dell’arco che introduce a una cappella aperta
sul transetto sinistro: è il famoso san Giorgio che parte per liberare la
donzella dal drago, accanto alla principessa di Trebisonda, fantastica
immagine insieme cortese e terrifica, in un tempo allucinato e
sospeso, tra l’elegante posa della principessa, lo sguardo sgranato
del partente san Giorgio, i lussuosi finimenti dei cavalli, le arche e le
torri brulicanti in fitta lontananza, i sinistri patiboli con due impiccati,
e tanto altro, fino alla piccola vela pronta a prendere il vento su un
vorticoso mare. Affresco dipinto tra il 1436 e il 1438, in cui non tutto
riesce a decifrarsi a occhio nudo, ma che qui è anche riprodotto ad
alta risoluzione su di uno schermo che sta in basso, ai piedi
dell’originale, e che offre colori di esso molto più luminosi e squillanti,
con singolari e rivelatrici zoomate. Più facile, più produttivo, più
gratificante, affidarsi alla virtualità potenziatrice della copia: quasi
tutti i visitatori, del resto, indugiano più a guardare la copia che
l’originale. Nel vederli così vicini e accoppiati, l’originale e la copia
digitale, sorge ancora una volta la domanda sull’uso che ormai
siamo abituati a fare dell’arte del passato, sulla nostra abitudine a
trasferirla nei nostri illimitati sistemi di immagini, a moltiplicarne e
ampliarne l’aura in una nuova aura tecnologica, in cui tutto sembra
svelarsi, precisarsi, espandersi, ribaltarsi sul nostro vorace presente.
Visione curiosa, su una parete della navata destra, è quella di un
quadro di Liberale da Verona, con un soggetto che non mi era mai
capitato di vedere, una Assunzione della Maddalena: tutta vestita dei
lunghissimi capelli, si libra verso l’alto con i piedi appoggiati su due
testoline di angioletti che sbucano da una nuvola; ai suoi lati, da una
parte e dall’altra, santa Caterina d’Alessandria (accanto a lei una
ruota della sua tortura) e una santa locale, la vedova Toscana (morta
a Verona nel 1343). Singolari anche due acquasantiere sostenute da
cariatidi, addossate a pilastri presso l’ingresso, specialmente quella
tardoquattrocentesca attribuita a Gabriele Caliari, padre di Paolo
Veronese: estrema è la torsione del gobbo che la sostiene, che
veramente “fa del non ver vera rancura / nascere ’n chi la vede”
(Purgatorio, X 133-134), anche per la dolorosa espressione del volto
stravolto.
La diritta via Duomo mi porta poi sul fianco del Duomo e sulla
piazza antistante alla facciata, alla cui destra si trova l’edificio un po’
smorto (ricostruito dopo la distruzione di quello settecentesco nel
bombardamento del 4 gennaio 1945) che ospita la Biblioteca
Capitolare, formidabile serbatoio di manoscritti, fonte di tante
importanti scoperte in età umanistica: qui Petrarca nel 1345 scoprì le
lettere “familiari” di Cicerone, così determinanti per lo sviluppo delle
sue raccolte epistolari e per tutta l’epistolografia umanistica. Certo vi
può essere entrato anche Dante, durante i suoi soggiorni veronesi: e
ci si può chiedere quali manoscritti si sia trovato a consultare, in che
modo abbia speso qui il suo tempo, mentre nella sua mente
covavano versi ed episodi della Commedia (anche se non ci sono né
testimonianze né indizi in proposito). Qui fu ritrovato nel 1924, in
margine a un foglio di un antico codice pergamenaceo (un
orazionale mozarabico), il famoso indovinello veronese, risalente
probabilmente alla fine del secolo VIII, in cui si riconosce o una
primissima forma di volgare italiano o una forma di latino volgare:

Se pareba boves alba pratalia araba


et albo versorio teneba et negro semen seminaba.
Sembra un’immagine della scrittura, che ara, seminando nero
inchiostro, bianchi prati cartacei (anche se non è mancato chi ha
proposto interpretazione in chiave sessuale…). È bello pensare che
proprio in questi paraggi un annoiato copista veronese abbia inserito
questo giochetto su un codice proveniente da altrove, su una trafila
che dovrebbe essere Spagna-Cagliari-Pisa-Verona.
La facciata del Duomo, qui sulla piazza, presenta molti elementi
romanici. Ma diversa era la chiesa ai tempi dell’indovinello, mentre
molte delle parti attuali c’erano già ai tempi di Dante, anche se poi ci
sono stati molti ampliamenti e modificazioni successive: c’era certo il
severo protiro a due piani, installato già nel XII secolo, quando si
cominciò a ricostruire la chiesa dopo il terremoto del 1117. Tra le
opere d’arte dell’interno mi colpiscono gli affreschi cinquecenteschi
dell’abside e una Assunzione di Tiziano in una cappella laterale; in
essa sorprendono un po’ gli atteggiamenti degli apostoli, addossati
al sepolcro da cui la Vergine si è levata: qualcuno sembra guardare
dentro la tomba vuota, altri gesticolano variamente, guardando in
alto verso l’Assunta, con espressioni che possono sembrare
addirittura di disappunto.
Girando sul fianco esterno della chiesa raggiungo l’abside, col suo
misuratissimo assetto romanico. Tutta la zona circostante fa un
effetto di intreccio e incastro, tra edifici che sembrano sgorgare l’uno
dall’altro, in cui l’originario assetto medievale si prolunga e si
complica, in un passaggio continuo da un ambiente all’altro.
Sembrano risalire più direttamente ai tempi danteschi gli ambienti
collegati della chiesa di Sant’Elena e del Battistero di San Giovanni
in Fonte. In questo c’è un bellissimo fonte battesimale, che Dante
avrà certamente contemplato: esso risale all’inizio del XIII secolo,
con rilievi con storie di Maria e Gesù, dall’Annunciazione al
Battesimo di Cristo; c’è una strage degli Innocenti meno affollata del
solito, solo due madri (una quasi nascosta), cinque bambini, tre
scherani, uno dei quali impugna la spada con la sinistra afferrando
un bambino per un piede, per strapparlo alla madre che lo tiene
stretto.
Ecco poi, a fianco del Duomo, la chiesa di Sant’Elena (la cui
denominazione originaria è però San Giorgio e Zeno), la cui facciata
è costituita da un piccolo portico a quattro archi: nel suo impianto
rimangono moltissime tracce dell’antica struttura, della basilica
paleocristiana, dei muri carolingi e della ricostruzione del XII secolo.
Ma quello che ora mi interessa è la lapide alla destra dell’ingresso,
che afferma che qui il 20 gennaio 1320 Dante sostenne la disputatio
affidata alla Quaestio de aqua et terra, il cui testo si chiude proprio
facendo riferimento alla discussione avvenuta sotto la signoria di
Cangrande (“dominante invicto domino, domino Cane Grandi de
Scala”) in questa chiesa, alla presenza del clero veronese (“in
sacello Helene gloriose, coram universo clero veronensi”), nella data
suddetta. Non dimentichiamo però che qualcuno dubita
dell’autenticità del testo e delle indicazioni collegate e che il tutto si
intreccia con le varie ipotesi sulla permanenza di Dante a Verona: ci
si può domandare infatti se tale disputatio sia avvenuta prima della
definitiva partenza da Verona o se invece in quel torno di tempo
Dante si trovasse già a Ravenna, tornando appositamente a Verona
per questo evento, quasi una trasferta da conferenziere.
Nel sistema di edifici intrecciati il Vescovado mostra la sua facciata
rinascimentale sormontata da una merlatura che sembra affacciarsi
da un lontano fantastico paese; e nel cortile si distingue un portico
ad arcate con colonne romaniche con i capitelli costituiti da strane
figure animali che sostengono gli archi a mo’ di cariatidi: resti
probabilmente dei tempi in cui qui risiedeva il pastore veronese a cui
Dante allude in Inferno, XX 68, nella lunga perifrasi sul lago di Garda
(vedi p. 682).
Questo intreccio di edifici è disposto su una grande ansa
dell’Adige che tra queste stradine interne non riesco a scorgere, ma
che poi scopro improvvisamente approdando alla porta che si apre
nella torre che sovrasta l’imbocco del Ponte della Pietra, addirittura
di origine romana, ma assestato in tanti interventi successivi (anche
in epoca scaligera). Ecco finalmente il fiume, ecco oltre il ponte la
sua riva sinistra, con i vari edifici che vi sono disposti e con il fronte
di dolci colline, su cui ora si stanno muovendo delle nuvole scure.
Attraverso il Ponte della Pietra e compio un breve passaggio
sull’altra riva, da cui si vede il retro del Vescovado e qualche traccia
del vario intreccio di edifici, sotto lo svettare del campanile del
Duomo: supero l’ansa procedendo in senso opposto al corso del
fiume e passando accanto alla chiesa di San Giorgio in Braida; poi al
primo ponte (è il ponte Garibaldi), ritorno sulla riva destra e percorro
l’alberato Lungadige, mentre comincia a piovere, prima leggermente,
poi in modo abbastanza fitto.
Comunque si distingue molto bene, in fondo, collocato proprio
sulla curva dell’altra ansa dell’Adige, il merlato Ponte Scaligero,
costruito sul luogo del più antico ponte romano: la pioggia fa
sembrare più cupa e severa la sua struttura in cotto. Il ponte si
diparte dal castello, detto Castelvecchio, che fa la guardia all’ansa
del fiume: è anch’esso scaligero, edificato ai tempi di Cangrande II
(dopo la metà del XIV secolo), come rocca insediata tra l’ansa del
fiume e le mura della città: in una sua parte è ospitato il Civico
museo d’arte (che custodisce tra l’altro la statua equestre di
Cangrande della Scala già in cima all’arca funebre sopra santa
Maria Antica). Da un’apertura sotto una torre del castello si diparte
un camminamento che poi conduce direttamente al ponte, a cui si
accede attraverso la Porta del Morbio. Tra archi e ponti, prima di
accedere al castello c’è anche un arco romano, ricostruito qui nel
1932 dopo essere stato smantellato all’inizio dell’Ottocento, sul
percorso dell’antica via Postumia: fu innalzato in onore di una
famiglia privata, i Gavi, nel I secolo d.C., e reca la firma
dell’architetto Lucio Vitruvio Cerdone, da molti indebitamente
identificato col celebre autore del De architectura, Marco Vitruvio
Pollione.
Il castello è una sorta di crocevia veronese, che col Ponte
Scaligero si rivolge verso nord, mentre dalla parte opposta, piegando
verso sudest con la via Roma, accanto a quello che era il perimetro
delle antiche mura comunali, conduce rapidamente a piazza Bra,
davanti all’Arena; se invece, restando al di qua del fiume, dopo aver
sfiorato la piccola chiesa romanica di San Zeno in Oratorio, si piega
a nordovest e si prosegue in parte sul lungofiume (che qui ha il
nome antico di Regaste San Zeno), si raggiunge San Zeno
Maggiore.
Verona: San Zeno

“…Io fui abate in San Zeno a Verona


sotto lo ’mperio del buon Barbarossa,
di cui dolente ancor Milan ragiona.

E tale ha già l’un piè dentro la fossa,


che tosto piangerà quel monastero,
e tristo fia d’avere avuta possa;

perché suo figlio, mal del corpo intero,


e de la mente peggio, e che mal nacque,
ha posto in loco di suo pastor vero”.
(Purg., XVIII 118-126)

L’ampia piazza antistante alla chiesa di San Zeno Maggiore è


immersa nella quiete: appare come un grande spazio vuoto, mentre
vi si muovono solo due visitatori solitari che l’attraversano, mentre la
pioggia viene lentamente a cessare. Sono davanti alla splendida
facciata romanica, impiantata nel XII secolo, con quel protiro che
sembra come invitare a entrare, non senza sostare tra le sculture in
pietra del portale e i bronzi della porta. Era la chiesa di una delle più
prestigiose abbazie, strettamente legata al Sacro romano impero, in
cui gli imperatori solevano risiedere nelle loro discese in Italia.
Proprio al legame tra l’abbazia e l’imperatore si riferisce l’anima che
Dante colloca nel girone degli accidiosi e che dovrebbe identificarsi
con l’abate Gherardo II, che resse l’abbazia tra il 1160 e il 1187: e
certo la scelta del peccato sarà stata un po’ pretestuosa, come
rilevano i commentatori, dato che non si hanno documenti su
comportamenti accidiosi di questo abate, che peraltro dovette avere
un ruolo politico e religioso di primo piano. Non mi è chiaro, peraltro,
se sia lui stesso o più probabilmente il predecessore Gherardo I
quello che nel bassorilievo collocato sopra una bifora della facciata
offre a Cristo e alla Vergine il modello della chiesa.
In ogni modo, nelle parole che Dante mette in bocca a questo
abate sono in evidenza prima il richiamo alla distruzione di Milano da
parte del Barbarossa (1162), poi, e in modo più determinato, la
recisa condanna del comportamento del signore Alberto della Scala
(che nel 1300 aveva già un piede nella fossa: sarebbe infatti morto
nel 1301), che nell’aldilà avrebbe dovuto render conto del suo potere
sul monastero: infatti Alberto nel 1294 aveva imposto come abate
(pastor) un suo figlio bastardo (che mal nacque), deforme nel corpo
e mentalmente inetto, Giuseppe, che sarebbe poi morto nel 1313.
Una stoccata antiscaligera, insomma, nelle parole dell’abate di san
Zeno che denuncia così l’usurpazione delle funzioni religiose da
parte del potere civile: stoccata che sorprende chi considera il punto
di vista filoscaligero del Paradiso e dell’Epistola a Cangrande.
Questo canto XVIII del Purgatorio sarà stato scritto comunque
dopo la prima visita di Dante a Verona presso il gran Lombardo
Bartolomeo e prima dell’ospitalità ricevuta da Cangrande. Tutti erano
figli del qui riprovato Alberto: Bartolomeo, come Alboino, che a
Bartolomeo succedette nel 1304, e lo stesso Cangrande, associato
al potere da Alboino e poi rimasto unico signore alla sua morte
(1311). Ci si domanda come mai, al tempo del suo soggiorno presso
Cangrande, Dante non abbia corretto questo passo del Purgatorio: è
una delle tante prove della sua indipendenza di giudizio, indifferente
alla suggestione dei rapporti personali? O può essere che lo stesso
Cangrande (come sembra risultare da certi documenti) abbia
riconosciuto i danni fatti alla gestione dell’abbazia da parte del
fratellastro? O c’è qualche altro inestricabile dato testuale, relativo
alla separata diffusione del Purgatorio e del Paradiso? Non è
comunque questo l’unico caso di incongruenza e modificazione dei
giudizi su personaggi e famiglie contemporanee nelle diverse
cantiche del poema.
La mia visita dell’interno della grande chiesa si svolge sotto la
pressione di questi interrogativi, mentre cerco di distinguere tra
opere che dovevano essere già qui ai tempi di Dante e tante opere
successive. C’è un grande crocifisso di Coppo di Marcovaldo, che
risale al 1271, mentre proprio al 1300 circa risale il grande affresco
con san Cristoforo, chiamato popolarmente re Pipino (in effetti nel IX
secolo Pipino, figlio di Carlo Magno, fu tra i fondatori dell’abbazia).
Molti sono gli affreschi trecenteschi e molte le opere rinascimentali,
tra cui si impone sull’altar maggiore il formidabile polittico di
Mantegna, in cui tra i vari santi mi sorprende un san Giovanni che
sta scrivendo il Vangelo, ma che ha aspetto, abbigliamento e posa
che sembrano somigliare a quelli dell’altro san Giovanni, il
predecessore Battista.
L’emblema figurativo della chiesa e di Verona è però il trecentesco
marmo policromo di San Zen che ride, in cui il volto moro del santo,
che nel IV secolo fu l’ottavo vescovo di Verona e che veniva dalla
Mauritania, sembra davvero atteggiato a un sorriso: mentre
nell’altare della cripta c’è a vista il suo corpo, rivestito d’oro e
d’argento.
Tra fine del Duecento e inizio del Trecento è stato probabilmente
costruito il chiostro, che è una delle poche parti rimaste dell’antica
abbazia: vi accedo dalla navata sinistra della chiesa e, mentre
ammiro la perfetta scansione degli archetti, acuti su due lati e a tutto
sesto sugli altri due, sostenuti da finissime colonnine, sono
ricondotto ancora a quei versi del XVIII del Purgatorio: c’è infatti la
tomba piuttosto lussuosa di quel mal nato Giuseppe, sormontata da
una lunetta con pregevole affresco di scuola giottesca. Quando
l’indegno abate morì (1313) e fu impiantata la tomba era nella sua
pienezza la signoria di Cangrande: e mi sembra proprio impossibile
che Dante non l’abbia vista. Come potevano tornare alla sua mente
in quei giorni scaligeri quei versi messi in bocca a un abate accidioso
in cui veniva condannato non solo l’indegno Giuseppe, ma il padre di
lui e dello stesso Cangrande? Ma che avrebbe detto Dante se poi
avesse saputo che nel 1321 un figlio naturale di Giuseppe,
Bartolomeo, sarebbe stato fatto, per volere di Cangrande, anche lui
abate di san Zeno? Più tardi, nel 1336, sotto la signoria di Mastino II,
costui sarebbe stato nominato anche vescovo di Verona: e due anni
dopo sarebbe stato ucciso dallo stesso Mastino, per contrasti insorti
con lui.
Mentre sembra che la pioggia si sia fermata, lascio Verona per una
piccola diversione nella vicina Valpolicella: sono diretto a
Gargagnago, dove, come Marzio Breda mi ha suggerito al convegno
di Pieve di Soligo, vado a incontrare un discendente di Dante, colui
che, pur nella lunga distanza dei secoli, avrebbe il diritto di
chiamarlo, come fa lui con Cacciaguida, “cara mia primizia” o “cara
piota mia” (Paradiso, XVI 22; XVII 13), il conte Pieralvise Serego
Alighieri, che vive appunto a Gargagnago, al centro dell’azienda
agricola di famiglia, che produce vini pregiati. È un luogo dove
proprio Pietro, primogenito del poeta, acquisì due fondi, durante il
suo lungo soggiorno veronese.
Attraverso la periferia a nord ovest di Verona, raggiungo
rapidamente le dolci colline del Valpolicella, fitte di vigneti: lascio la
strada del Brennero e mi muovo tra le strade interne in cui si
affacciano cantine e insegne vinicole. Oltre Negrar, un bivio mi porta
a Gargagnago, sulla piazza Dante Alighieri, su cui si affaccia una
chiesa neoclassica, tempio con un frontone a quattro colonne; dato
che sono in anticipo rispetto all’appuntamento col conte Pieralvise,
prendo una strada che sale sul colle dove si trova il borgo di San
Giorgio, circondato da distese di vigne, proprio mentre si scatena un
acquazzone fittissimo: nonostante la pioggia e gli scuri nuvoloni, da
una parte della piazza centrale si apre un ampio panorama sulla
pianura, mentre sull’altra parte si trova l’abside di una Pieve
romanica con un grande campanile. Qui ci sono stati insediamenti
antichissimi, addirittura preistorici e preromani: e sembra che tutta la
traccia del remoto passato si addensi nelle mura medievali di questa
Pieve, sistemata dopo varie modificazioni nel XIII secolo. Una porta
d’ingresso si apre sull’abside e immette in un semplicissimo e
raccolto interno, mentre all’esterno c’è un chiostro, aperto da un lato.
Raggiungo poi, tra la pioggia, la Villa Serego Alighieri, di impianto
settecentesco, raccolta intorno a una ampia corte, la cui misura, nel
caotico imperversare della pioggia, pare ancora più perfetta, e mi fa
pensare, chissà perché, a una “ben posta corte”, a cui mi sembra
accenni Ariosto in una Satira, proprio a proposito di una villa tra
vigneti: dovrò poi ricredermi, controllando il testo e trovando che non
si tratta di corte, ma di torre: “le vigne e i solchi del fecondo Iaco, / la
valle e il colle e la ben posta tórre” (Satira, IV 125-126).
Deformazioni della memoria: ma nella mia mente questa bella Villa
Serego Alighieri resta sotto uno strano segno ariostesco, anche se
messer Ludovico si riferiva a tutt’altro ambiente, quello del
Mauriziano dei suoi cugini Malaguzzi, nei pressi di Reggio Emilia.
Mi accoglie il conte Pieralvise, con una signorile gentilezza, piena
di discrezione e di misura: è un alto agile signore dal bianco baffo,
che conversa con civile equilibrio e con grande attenzione per
l’interlocutore. Mi fa accomodare in una sala che si affaccia sulla
corte: lo informo del mio viaggio e gli chiedo notizie sulla sua
discendenza dantesca. C’è un libro, che mi offre, pubblicato nel
2003 dalla Fondazione Masi (l’azienda dei Serego Alighieri è
collegata all’Agricola Masi, una delle più celebri della Valpolicella), di
Pierpaolo Brugnoli, I Serego Alighieri a Gargagnago di Valpolicella.
Vi si seguono, con documenti e immagini, vicende e passaggi che su
questo territorio hanno condotto da Pietro di Dante al mio elegante
interlocutore: a partire dall’atto con cui il 23 aprile 1353 il primogenito
di Dante acquistò le prime due possessioni in Valpolicella,
documentato da una copia fatta nel 1560 per conto del canonico
Francesco Alighieri, erudito studioso di antiquaria. I discendenti di
Pietro (morto a Treviso, dove già ho visitato il suo sepolcro)
ampliarono i possedimenti agricoli, godendo a Verona di agiatezza e
prestigio, come mostra la cappella cinquecentesca con le loro tombe
nella chiesa di San Fermo Maggiore. Ma quel canonico Francesco si
trovò a essere l’ultimo rampollo maschio della famiglia, dato che suo
fratello Pietro aveva avuto solo una figlia, Ginevra, sposata a
Marcantonio Serego: sembra che, nonostante il suo stato clericale,
si diede da fare per generare qualche maschio da una sua
domestica, che però partorì solo tre femmine (quasi una non riuscita
maternità surrogata). Allora il canonico lasciò tutti i beni familiari al
figlio della nipote Ginevra, Pieralvise Serego, a patto che per sé e i
discendenti aggiungesse al proprio cognome quello degli Alighieri. I
Serego venivano originariamente dal territorio di Vicenza e si erano
installati in Verona con Cortesia I, condottiero al servizio degli
Scaligeri, che lo avevano arricchito con notevoli donazioni: ho già
visto in Sant’Anastasia il suo monumento funebre, fatto costruire dal
figlio. La famiglia era diventata una delle più facoltose del veronese:
e nel Cinquecento i suoi diversi membri fecero costruire nel territorio
diverse ville, tra cui spicca quella di Santa Sofia di Pedemonte,
progettata dal Palladio; e numerosi erano anche i loro beni in
Valpolicella. Il ramo dei Serego Alighieri svolse una notevole attività
nei secoli successivi, con ampliamento dei possedimenti in
Valpolicella e con stretti legami con Venezia: al Settecento risale la
costruzione della villa in cui ci troviamo, accompagnata da un felice
sviluppo dell’azienda agricola, mentre nell’Ottocento la famiglia si
trasferì a Venezia, di cui un membro che aveva proprio il nome di
Dante (1843-1895) fu sindaco tra il 1879 e il 1888. Ora il conte
Pieralvise si occupa con passione dell’azienda agricola, ma non può
sapere quale sarà il suo destino, dato che le due figlie sembra
abbiano altri interessi e altri obiettivi di vita.
Così qui nel Veneto la discendenza di Dante ha attraversato i
secoli in cui il nome del poeta ha continuato a risuonare nel mondo:
e oggi che risuona dappertutto, che circola nelle più corrive
combinazioni dei media, dai videogiochi agli stucchevoli noir, questo
legittimo detentore del suo cognome lo lascia imprimere con
misurata eleganza sulle bottiglie dei vini e degli altri prodotti agricoli
di cui qui cura la produzione, tra cui il formidabile Amarone Vaio
Armaron. Gli chiedo un po’ ingenuamente quale sensazione si può
provare a sentire risuonare in sé quel nome, anche se penso poi che
in fondo per ciascuno di noi il proprio nome risuona come
un’automatica, quasi naturale e neutra normalità: ma è vero che lo
sguardo altrui impone di saperlo portare, quel nome. C’è insomma
una responsabilità, di cui il conte Pieralvise dà immediata prova con
la sua civilissima discrezione e con la sua ferma resistenza di fronte
a chi vorrebbe fare un uso pedestremente spettacolare del nome di
Dante e della sua discendenza, nell’attuale regno della volgarità
mediatica. Così ha dovuto respingere certe bislacche proposte
televisive, come quella di una partecipazione, appunto in quanto
discendente di Dante, al programma Avanti un altro!, di cui in effetti
non sapeva nulla: ma si è documentato prima di rispondere, e ha
constatato che non era proprio il caso di contribuire a far precipitare
là dentro il nome di Dante. Gli capitano poi delle cose abbastanza
paradossali, ma di fronte a cui non si può certo sottrarre, come la
richiesta giunta nel 2012 da San Pietroburgo di fornire
l’autorizzazione a dare il proprio nome al Comitato locale della
Società Dante Alighieri: questo perché la burocrazia russa prevede
che un’organizzazione no-profit, per fregiarsi di un nome prestigioso,
abbia bisogno del permesso del casato di origine. Se degli Alighieri
non si fossero trovati, il Comitato russo avrebbe dovuto addirittura
cambiare nome, magari assicurandosi preliminarmente
dell’esistenza di disponibili discendenti!
Un certo rammarico, nel trovarsi così a essere discendenti di
Dante, viene dal non avere nessuna diretta testimonianza che viene
dalla sua mano: e allora resta il desiderio e la speranza
dell’apparizione prima o poi, da qualche parte, di un autografo
dantesco, magari di un manoscritto della Commedia o di parte di
essa. Ci lasciamo accennando a questa remota speranza: e il conte
mi congeda donandomi, insieme al libro di cui ho già detto, una
bottiglia dell’annata 2007 dello splendido Vaio Armaron, che reca il
nome del vigneto da cui sembra derivi la stessa parola Amarone
(deformazione di Armaron). È una bottiglia che mi prometto di
stappare solo alla conclusione di questo viaggio e del libro che ne
ripercorre le tappe. Mentre, salutato il gentilissimo conte, metto in
moto l’auto sotto la pioggia che continua insistente a cadere, mi
giunge sul cellulare un messaggio che annuncia l’uscita di un libro di
autore italiano in cui Dante stesso è protagonista come detective, La
sindone del diavolo, di Giulio Leoni: a sostegno del valore del libro
c’è un giudizio, postumo ormai, di Giorgio Faletti: “Questo è il Dante
che avrei voluto studiare”. Davvero tout se tient.
Vicenza

ma tosto fia che Padova al palude


cangerà l’acqua che Vincenza bagna,
per essere al dover le genti crude;
(Par., IX 46-48)

…e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,

colui potei che dal servo de’ servi


fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
dove lasciò li mal protesi nervi.
(Inf., XV 110-114)

Sotto la pioggia lascio la Valpolicella e, prendendo l’autostrada, mi


dirigo verso Vicenza, che nella Commedia viene nominata attraverso
il fiume che la bagna, il Bacchiglione (mentre nel passo già ricordato
di De vulgari eloquentia, I XIV 5, i vicentini sono accomunati a
bresciani e veronesi per il loro rozzo parlare).
A l’acqua che Vincenza bagna si riferisce una delle profezie
venete di Cunizza, che allude a una battaglia del 1314, in cui
Cangrande della Scala, a sostegno dei ghibellini di Vicenza,
sconfisse duramente i guelfi padovani, in una zona paludosa formata
dal fiume nei pressi della città: con l’esito della battaglia il sangue dei
padovani uccisi cangerà l’acqua del fiume, tingendola di rosso (come
Dante aveva detto a proposito del fiume Arbia per la battaglia di
Montaperti), punizione determinata dalla loro resistenza al dover di
sottomettersi al vicario imperiale (quale era appunto Cangrande). Il
nome del Bacchiglione era invece stato fatto esplicitamente nel XV
dell’Inferno, ma per designare metonimicamente Vicenza, a
proposito di un compagno di pena indicato da Brunetto Latini con un
certo disprezzo (tal tigna), il vescovo Andrea de’ Mozzi, che il papa
Bonifacio VIII (detto forse ironicamente servo de’ servi) trasferì da
Firenze nel 1285 a Vicenza, dove morì l’anno dopo (la sua morte
viene indicata con un sarcastico richiamo al suo vizio di sodomia).
Dopo un periglioso percorso in mezzo al fitto traffico del pur breve
tratto dell’autostrada, tra il succedersi di rovesci fittissimi di pioggia,
amplificati, fino a rendere quasi inutili i tergicristalli, dai vorticosi
sbuffi dei camion, e dai loro pericolosi cambi di corsia, raggiungo la
città da nord, mentre la pioggia sembra per un po’ placarsi. Davanti
alla Porta Santa Croce, protetta da una severa torre, residuo delle
mura scaligere, posso affacciarmi subito sulla sponda destra del
Bacchiglione e sul ponte che qui lo attraversa. Le sponde del fiume
sono contornate da brevi scarpate erbose, su cui si eleva qua e là
della vegetazione, tra cui dei piangenti salici sull’altra sponda, quasi
a ridosso del ponte. Entrato dalla porta e lasciata l’auto, devo
ripararmi dalla pioggia di nuovo improvvisamente scrosciante sotto i
graziosi portici che fiancheggiano una strada laterale: poi, quando la
pioggia si attenua, prendo il corso Antonio Fogazzaro, già decumano
minore, direttrice longitudinale che scende verso il centro. Ecco la
chiesa francescana di San Lorenzo, costruita alla fine del XIII secolo,
di cui mi colpisce soprattutto il misurato equilibrio dell’interno a tre
navate, mentre sulla piazza c’è la statua del poeta Giacomo Zanella.
Poi ancora, continuando a scendere verso sud, ecco il Duomo, di cui
per prima cosa si scorge l’abside con la cupola del Palladio: entro
dalla parte dell’abside, dal portale laterale attribuito anch’esso al
Palladio, e, dopo aver sfiorato il presbiterio rialzato, percorro l’ampia
navata unica, uscendo poi davanti alla facciata quattrocentesca,
davvero inconsueta pur nei suoi caratteri veneziani, con i cinque
ampi arconi del livello inferiore e il vario scandirsi in ascesa dei livelli
superiori, fino al fastigio che ha qualcosa di fantastico, che sembra
offrire degli scrigni al cielo. Il vicino Palazzo vescovile non ha
naturalmente nulla della forma che doveva avere quello in cui
approdò Andrea de’ Mozzi lasciandovi presto li mal protesi nervi.
Tra Otto e Novecento Duomo e Vescovado hanno comunque
costituito il centro profondo della Vicenza cattolica, che forse è un
po’ evaporata negli anni più recenti, ma che resiste nell’assetto di
questo suo centro, nell’umido silenzio in cui appare fasciato in
questa piovosa sera d’ottobre. Il nome di Fogazzaro e quello di
Zanella suscitano tutta una serie di associazioni sulla salda
consistenza del cattolicesimo vicentino, radicato nel severo orizzonte
del patriziato cittadino, che nel Cinquecento aveva avuto un
personaggio di spicco in Giangiorgio Trissino – tra l’altro scopritore
ed editore nel 1529 del De vulgari eloquentia –, e che poi promosse
il rinnovamento architettonico della città con i solenni edifici del
grande Andrea Palladio. Non è un caso, d’altra parte, che al centro
della città cardo e decumano si incontrino con i nomi del corso
Fogazzaro e del corso Palladio: la componente classicistica e
patrizia e quella cattolica vengono così a convergere, nei loro legami
e nelle loro differenze.
Dalla componente cattolica è scaturita una letteratura piena di
inquietudine, che con Fogazzaro si è aperta alla modernità tra
tremori, esitazioni, esaltazioni, e che poi si è piegata a un’impietosa
e capziosa analisi di un mondo fatto di ipocrisia, di malafede, di
tensioni deviate, con la prima opera di Guido Piovene, le Lettere di
una novizia. La traccia di questo terreno cattolico, sotto la patina
manieristica che vi distende l’architettura palladiana, ha continuato
ad alimentare lo stesso Piovene allontanatosi da ogni prospettiva
cattolica e altri scrittori laici, che hanno dato nuove originali
incarnazioni al carattere vicentino, come Goffredo Parise e Fernando
Bandini. Nel secondo Novecento, d’altra parte, il cattolicesimo
vicentino ha avuto un forte rilievo politico, combinando modi di
unzione devota, profumi di sacrestia, con la più disinvolta e a tratti
intrigante gestione del potere: Vicenza è stata una delle basi più
resistenti della grande Democrazia Cristiana, dal cui cuore era salito
ai vertici del governo Mariano Rumor, cinque volte Presidente del
Consiglio.
Ripensando a questa storia lontana e vicina della Vicenza cattolica
e palladiana, passo sul corso Palladio davanti al Palazzo Piovene
(dove Guido nacque nel 1907) e poi davanti al Palazzo Trissino-
Baston, tardo frutto di un originario progetto dell’altro grande
architetto vicentino, Vincenzo Scamozzi, ora sede del Municipio. In
omaggio allo scopritore del De vulgari eloquentia bisognerebbe del
resto almeno sfiorare anche gli altri palazzi Trissino della città (se ne
contano altri sei!), di epoche e forme architettoniche diverse, nonché
sostare davanti alla lapide che al numero 15 di corso Fogazzaro
indica il luogo della casa natale del conte Giangiorgio.
Vicenza è un continuo addensarsi di facciate architettoniche;
camminare per le sue strade è un insistente apparire e sparire di
Palladio, Scamozzi e altri meno celebri architetti. Fuori della portata
di questo mio viaggio è l’affascinante itinerario palladiano, che
dovrebbe condurmi tra l’altro nell’emozionante interno del Teatro
Olimpico e, appena fuori della città, alla avvolgente circolarità della
Villa Almerico-Capra, detta la Rotonda. Ora, nella sera che scende,
posso solo raggiungere il centro assoluto della città, la basilica
Palladiana, con le formidabili logge che danno sulla piazza dei
Signori e con i passaggi che portano sul versante opposto alla
piazza delle Erbe e alle laterali piazza delle Biade e piazzetta
Palladio, con tutto il sistema degli edifici collegati, tra cui, ancora
palladiana, la Loggia del Capitaniato. Nella sera piovosa di ottobre
sotto i porticati non passa quasi nessuno, molte botteghe sono già
chiuse; l’illuminazione che si irradia dalle volte interne nei due piani
del loggiato, come riflettendosi sul pavimento bagnato della piazza,
fa uno strano effetto di irrealtà, come se tutta questa solida bellezza
conducesse a una insistente evocazione del nulla.
Lago di Garda. Garda e Peschiera

Suso in Italia bella giace un laco,


a piè de l’Alpe che serra Lamagna
sovra Tiralli, c’ha nome Benaco.

Per mille fonti, credo, e più si bagna


tra Garda e Val Camonica e Pennino
de l’acqua che nel detto laco stagna.

Loco è nel mezzo là dove ’l trentino


pastore e quel di Brescia e ’l veronese
segnar poria, s’e’ fesse quel cammino.

Siede Peschiera, bello e forte arnese


da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
ove la riva ’ntorno più discese.

Ivi convien che tutto quanto caschi


ciò che ’n grembo a Benaco star non può,
e fassi fiume giù per verdi paschi.

Tosto che l’acqua a correr mette co,


non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.
(Inf., XX,61-78)
Nella più lunga perifrasi geografica della Commedia, messa in bocca
a Virgilio (che si sviluppa ancora ben oltre i 18 versi qui riportati), il
lago di Garda (col classico nome Benaco) si pone come una sorta di
centro acquatico, di punto di convogliamento e di irradiazione: dopo
aver indicato il suo collocarsi a sud delle Alpi che sopra Tiralli, Tirolo,
delimitano la Germania (vedi pp. 601, 607) e le mille fonti da cui
prende alimento (in uno spazio segnato tra Garda e Val Camonica e
Pennino: ma qui sorgono vari dubbi e anche la possibilità di una
lezione diversa, Apennino invece di e Pennino), si immagina un
luogo al centro dello specchio d’acqua in cui convergerebbero i
confini di tre diocesi, quelle di Trento, di Brescia e di Verona (luogo
ideale, che qualcuno ha identificato con l’isola dei Frati, che si trova
davanti a Salò, non proprio nel mezzo del lago). Da lì il disegno
geografico si dirama verso sud, puntando sulla fortezza di
Peschiera, alla cui altezza l’acqua che non resta nel lago entra
nell’emissario, che ha il nome di Mincio, e arrivando fino al punto in
cui confluisce nel Po (mentre i versi successivi descrivono le paludi
che si aprono nel suo corso, dove venne fondata Mantova). Ampio e
panoramico percorso, con una moltiplicazione di nomi e di
riferimenti, che non posso certo seguire nello stesso ordine, costretto
a procedere secondo la relativa continuità del territorio da me
attraversato: oltre a toccare il successivo riferimento a Mantova, mi
capiterà così di tornare più volte su questi versi, sulle singole
designazioni che vi vengono fatte (e l’ho fatto già per l’Alpe che serra
Lamagna e Tiralli, p. 601, e a proposito del trentino / pastore, p. 653,
e del veronese, p. 669).
Mi dirigo intanto, presto al mattino del 14 ottobre, verso la sponda
del lago, dalla parte veneta e veronese, dove è la località di Garda,
borgo di guardia nell’alto Medioevo, il cui nome deriva forse
dall’antico tedesco Warte (appunto guardia, fortezza), divenuto poi
eponimo di tutto il lago. Ma non vado per via diretta: tenendo conto
di un suggerimento del conte Pieralvise, compio una diversione tra i
colli della Lessinia, ai piedi dei monti Lessini, al limite nord della
Valpolicella, per visitare il Ponte di Veja, che, secondo una delle
tante credenze e immaginarie attribuzioni di luoghi danteschi,
avrebbe ispirato l’invenzione dei rocciosi ponti che sovrastano le
Malebolge. Dante avrebbe insomma fatto una gita fin qui, a una
trentina di chilometri da Verona, quando si trovava nella città, ma
comunque non ai tempi di Cangrande, ma a quelli del suo primo
soggiorno presso il gran Lombardo, quando ancora non aveva
cominciato l’Inferno.
Superati i vigneti, le ville e i cipressi della Valpolicella, in un
alternarsi di soffici strati nebbiosi e di aperture del sole mattutino, la
strada si fa più tortuosa e si aprono bellissimi squarci collinari, tra
piccoli paesi adagiati sui dolci pendii, mentre sullo sfondo si
avvicinano le cime dei monti Lessini. La strada sale tra boschetti,
entro cui si aprono ancora appezzamenti con vigneti; si scorgono a
un certo punto delle cave di marmo. Poi una breve e ripida discesa
tra le fronde porta a uno spiazzo con parcheggio, davanti al Ponte di
Veja. Si tratta di un vero e proprio arco naturale, che come un ponte
collega due versanti rocciosi tra i quali si apre un’ampia cavità.
Questo assetto è legato ai fenomeni carsici che hanno luogo nella
zona, piena di grotte e cavità, tra molteplici segni di insediamenti
umani, risalenti anche a epoca anteriore all’ultima glaciazione. Varie
aperture si scorgono sul dosso del monte antistante. Si sente il
risuonare dell’acqua di un torrente che fuoriesce da una cavita della
roccia e passa anche su un fianco della vasta apertura sotto il ponte,
tra manto erboso, cespugli, vari massi lì caduti. In origine doveva
esserci una grotta molto ampia, di cui l’erosione delle acque a un
certo punto ha fatto crollare il soffitto, lasciando però in piedi la parte
che costituisce il ponte. Evidenti tracce del crollo sono i massi che si
trovano nel fondo.
C’è un percorso con una scala che conduce verso il basso, sotto
l’arco e accanto al torrente: ma a un certo punto il passaggio è
interrotto, davanti a un avviso di pericolo, in vista di necessarie
verifiche della stabilità. Si può però salire sul piano superiore del
ponte, che è quasi liscio e ovviamente senza parapetti: lo percorro
più volte come se fossi su un ponte di Malebolge e mi domando a
quale bolgia rassomigliare la cavità laggiù, percorsa dal rivolo del
torrente. Pensando ai ponti crollati della sesta bolgia e all’inganno
dei diavoli che suscita il disappunto di Virgilio e l’ironia del frate
gaudente bolognese Catalano dei Malavolti (Inferno, XXIII 142-144:
vedi pp. 461-462), mi rendo conto finalmente che non c’è proprio
nessuno nella fresca mattina e che quasi nulla si muove intorno: solo
un indeterminato balenare del passaggio tra le fronde di un animale
grigio, che non riesco a identificare. Il luogo è davvero strano,
sorprendente: ma non credo che, per immaginare l’inferno, Dante
abbia avuto bisogno di prendere spunto da qui. Né credo che con
questo luogo abbia a fare quel ponte naturale, molto più frondoso e
irrealistico, che si vede a Mantova su una parete della Camera degli
sposi di Mantegna, sullo sfondo delle immagini degli addetti al
seguito del cardinale Francesco Gonzaga (ma qui i cartelli turistici
riproducono l’affresco di Mantegna, sostenendo che il pittore sia
stato ispirato dal ricordo di questo ponte di Veja).
Lasciato questo preistorico annunzio delle Malebolge, salgo verso
i borghi di Sant’Anna d’Alfaedo (sulla cui piazza prospetta una
decorosa chiesa di origini secentesche) e di Fosse, paesi ormai
montani. Da Fosse (945 metri di altitudine) la strada scende
precipitosamente verso la Valle Lagarina (il nome che qui ha la valle
dell’Adige), che comincia presto a vedersi in basso, appena
lattescente, a tratti totalmente coperta da una nebbia lanuginosa, a
tratti con spiragli di vegetazione, di assetti stradali, dello stesso
corso del fiume, che fanno capolino tra le aperture della nebbia,
mentre sopra di essa si staglia la massiccia mole del monte Baldo.
Sono segnalati dieci tornanti della discesa, numerati uno dopo l’altro;
al quarto mi trovo proprio a entrare nella nebbia, che non mi
impedisce di vedere la strada, ma avvolge quasi tutto il resto nel suo
bianco.
Quando sono finalmente sul piatto fondo della valle, della nebbia
restano pochi svolazzi: attraverso Peri e passo il ponte sull’Adige,
che qui gorgoglia su un brevissimo scoscendimento, come una sorta
di scala sotto i pilastri del ponte. Prendo la strada provinciale 11, che
fiancheggia l’autostrada, su cui ferve già il traffico di camion di ogni
sorta, mentre sui lunghi rettilinei di questa provinciale, che mi lascia
osservare il paesaggio, non passa quasi nessuno: allontanandosi
dalle coste del monte Baldo, che prima sfiorava, questa strada si
apre anche a destra sulla più distesa pianura. Poi tra varie svolte e
andirivieni di stradine, apparire e scomparire di piccoli borghi, arrivo
finalmente a Garda, ormai sulla riva del lago.
Sotto il sole che ora sembra splendere tranquillo, dalla parte di
Verona, mettendo ormai in fuga le nuvole residue, che si
ammassano a nord, il paesino si presenta con un assetto del tutto
vacanziero, con grandi e piccini, italiani e stranieri che girano
lentamente per le belle stradine, sotto i passaggi ad arco che le
collegano: seggono nei bar, fanno spese nei negozietti e nei
supermercatini. A metà ottobre come in alta stagione. Attraverso il
torrente Gusa, che si getta nel lago: il suo ultimo tratto appare
incassato sotto muraglie, con un parapetto stracolmo di vasi di
ciclamini multicolori. Dall’interno del borgo antico si sente una
musica: è un pezzo sinfonico che sta giungendo alla stretta finale e
si chiude proprio mentre raggiungo uno spiazzo, vicino alla riva del
lago, dove è disposta una folta banda di ragazzi, anche bambini,
quasi tutti biondi, in divisa da intensi colori, rosse giacche, blu
pantaloni e gonnelle, oltre a fregi e decorazioni; le ragazze hanno
bianchi stivali con un lungo avvolgersi di lacci sulla fronte. Uno di
loro regge uno stendardo su cui c’è l’immagine di un castello nordico
e la scritta DANEHOFGARDEN NYBORG: si tratta in effetti di una scuola di
musica di quella città danese (sull’isola di Fionia, davanti a un ponte
che immette nell’isola più grande dove è Copenhagen), che ha
portato qui i suoi allievi.
Al di là di questo spiazzo si apre subito il lungolago alberato, in cui
sono ordinatamente disposte accoglienti panchine: non c’è un
parapetto, ma il limite dell’acqua è segnato da una bassa scarpata
sostenuta da massi obliquamente disposti. Verso nordovest si vede
la punta di San Vigilio, ultima propaggine del monte Baldo, che
avanza sul lago, creando così una specie di piccolo golfo di cui
proprio Garda costituisce il centro.
La strada che da Garda volge a sud costeggia il lago a una certa
distanza, con un percorso interno, che tocca Bardolino (ben nota per
il suo vino rosso) e Lazise. Subito dopo Lazise, sulla destra, un arco
un po’ faraonico fa da ingresso a Movieland, un parco di divertimenti
che si presenta come il primo a tema cinematografico. Ma poi,
scendendo ancora, sempre sulla destra, si trova il parco più celebre,
che ospita i temi più vari, le finzioni più strabilianti, simulacri e copie
di luoghi celebri, e tutto quello che si vuole, Gardaland, inaugurato
già nel 1975, oggi proprietà dell’azienda inglese Merlin
Entertainments Group Ltd. E non mi meraviglierei se tra temi e
soggetti, qui o altrove, nel nome di Merlino o di altri maghi
postmoderni, non debbano spuntare prima o poi o non siano già
spuntati parchi o zone di parco a tema dantesco.
Ma ecco finalmente che, superati parchi, borghi, villette,
magazzini, alberghi, distributori, spunta la vista del Mincio, proprio
nel suo punto iniziale, dove riceve le acque del lago. Sono ora ove la
riva ’ntorno più discese, al punto più basso della riva (o si può
intendere “al limite meridionale del lago”? o “dove la riva è più
bassa”?), là dove appunto

Siede Peschiera, bello e forte arnese


da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi…

Subito si scorge l’imponente sistema della fortezza, con i massicci


muraglioni di laterizi variamente circondati dall’acqua che dal lago
scorre a formare il Mincio e defluisce su quattro diversi canali, che
formano tre isolotti, sul secondo dei quali si apre una porta in pietra,
la porta Venezia: l’assetto ha subito interventi e ampliamenti
molteplici, fino a quelli degli austriaci, che avevano fatto di Peschiera
uno dei vertici del quadrilatero difensivo insieme a Verona, Legnago
e Mantova e che vi fecero gli ultimi interventi ancora nel 1865, solo
un anno prima del loro abbandono del Veneto. L’insieme non reca
certo più nessuna traccia della forma che il bello e forte arnese
aveva ai tempi di Dante, in cui la rocca costruita da Ezzelino da
Romano era stata rafforzata e ampliata dagli Scaligeri, a partire da
Leonardino, detto Mastino I, lo zio dell’ospite di Dante Bartolomeo.
Un effetto di darsena chiusa fa il canale tra la seconda e la terza
isola, delimitato da due ponti, di cui quello verso sud si distingue per
i suoi cinque archetti, bassi sull’acqua che ne ricolma quasi
totalmente l’apertura. Vi sono attraccate barchette d’ogni tipo,
mentre sulla sponda destra s’avanza uno zatterone che fa da base
ai tavoli di un bar. Il terzo isolotto conduce al nucleo più antico
dell’abitato, le cui strette stradine appaiono piuttosto animate: la via
Dante mette capo a quella che era la piazza d’armi, ora adibita
soprattutto a parcheggio. Esco dalla Porta Brescia, a sud, e
attraverso il quarto canale; poi, seguendo dalla sponda opposta la
fortificazione del terzo isolotto, risalgo verso il fronte del lago, sulla
strada che costeggia un porticciolo delimitato da due moli. Sullo
spiazzo davanti al porticciolo un signore di mezza età si diverte a far
volare un piccolo drone che turba i colombi assestati sulla tettoria
dell’edificio alle spalle.
Lascio Peschiera dopo aver sostato davanti a un recinto che
protegge i resti di un abitato romano, della originaria città di Arilica
(sembra che il successivo nome Peschiera sia dovuto alla
eccezionale pescosità di questo punto in cui l’acqua del Garda
fluisce nel Mincio). Compio un breve tratto di autostrada: per
telefono mi sono accordato con Francesco Permunian, che vive qua
vicino, a Desenzano del Garda, per incontrarlo all’uscita di Sirmione.
Mi conduce a pranzo nei pressi di questa uscita autostradale,
all’Osteria della Torre, a fianco della Torre di San Martino, eretta nel
luogo della battaglia del 24 giugno 1859, decisiva della seconda
guerra d’indipendenza, in cui i piemontesi, comandati da Vittorio
Emanuele II, alleati dei francesi, impegnati contemporaneamente
alcuni chilometri più a sud, a Solferino, sconfissero gli austriaci. È
strana la collocazione risorgimentale di questo incontro, con questo
scrittore così atipico, radicato nella sua origine veneta e in stretti
rapporti con il Veneto (anche se amministrativamente qui siamo già
in Lombardia, provincia di Brescia): il primo a parlarmi di lui fu
proprio Andrea Zanzotto, che mi raccomandò di leggere un suo libro
uscito nel 2001 (allora Permunian era direttore della Biblioteca
comunale di Desenzano), Camminando nell’aria della sera. Ho poi
sempre seguito la sua scrittura, che da una parte ha un fortissimo
fondo “popolare”, radicato nell’aspro Polesine (lì, a Cavarzere, è
nato, poco prima della disastrosa alluvione del novembre 1951),
dall’altra è animata da una incontenibile bizzarria, da una carica
paradossale che mescola i più eterogenei dati culturali con una
spinta a vedere il rovescio delle cose, a svelare ciò che si nasconde
nella più apparente normalità, a scoprirne il prorompere e lo
scatenarsi. Scrittore incontrollabile e incorreggibile, ossessionato
dalla follia del quotidiano, dal serpeggiare di deviazioni,
esagerazioni, bramosità, mistificazioni, nelle pieghe della vita di
provincia: lontanissimo dalle trasgressioni plastificate imposte oggi
dalla cultura dei media e dalla vacuità della società letteraria. Intriso
di letteratura, fedele ad alcuni amati maestri, tra cui spicca Giorgio
Manganelli, Permunian è il contrario della figura oggi corrente del
narratore: affabulatore scatenato, non è un paziente e compiaciuto
centellinatore di “storie”, ma vuol essere piuttosto scardinatore
dell’illusione romanzesca, immerso in uno sterminato bric à brac di
situazioni di vita e di letteratura che si incastrano, si combinano, si
confondono, si distruggono l’una l’altra, sotto il segno di una
rabbiosa passione per il mondo e per la sua futilità, di un beffardo
risentimento verso i modelli intellettuali correnti, verso i pedestri idoli
del mercato mediatico. Dopo aver lasciato, ormai pensionato, la
biblioteca di Desenzano, si sta immergendo sempre più nella
scrittura e nei suoi paradossi, come installato su un imprendibile
confine, qui al limite tra Lombardia e Veneto. Magro e slanciato
folletto, mi investe con un fluire di slegati racconti (non sono
“storie”!), svelandomi vicende a me poco note di persone conosciute,
di personaggi locali o nazionali, retroscena di ambienti letterari o
accademici.
È un fluire di paradossi, che risalgono fino al Risorgimento che qui
ci guarda dall’alto della torre: e dato che sopra la porta della torre, al
primo piano, campeggia a belle lettere la dedica A VITTORIO EMANUELE
II, non gli può sfuggire qualche riferimento a episodi amorosi meno
noti del suddetto padre della patria. E mi parla a lungo del suo culto
per Maria Callas e del legame che la grande cantante ha avuto con
la vicina Sirmione, verso cui ci rechiamo dopo il pranzo. Paene
insularum, Sirmio, insularumque ocelle, come Catullo veronese la
chiama nel carme che le dedica, nella gioia del ritorno a casa dopo
aver viaggiato lontano; e lo riecheggia Carducci nella sua ode
barbara Sirmione: “fiore de le penisole”. Penisoletta tanto stretta, che
si protende in avanti dal fronte del lago e che sul punto estremo
viene interrotta da un canale al di là del quale si allarga in una sorta
di isola, dove è appunto la piccola città.
Lasciamo le auto nel parcheggio esterno alla città, e vi entriamo
dal suo solo ingresso a terra, il ponte che immette nella porta che si
apre sul fianco del turrito e merlato castello, anche questo scaligero,
inizialmente piantato dal già ricordato Mastino I, circondato tutto
intorno dalle acque, a guardia del borgo e del lago: con la singolare
particolarità della darsena interna, che offriva riparo alle imbarcazioni
scaligere, che certo avevano il loro da fare nei rapporti con le
giurisdizioni vicine, controllando magari quel punto centrale del lago,
il loco nel mezzo di cui parla Dante. Tradizione vuole del resto che
anche qui Dante abbia soggiornato; l’ha raccolta Carducci nell’ode
già detta, dove immagina che il poeta si affacci dal castello e
guardando il lago proferisca il primo verso della sua perifrasi
lacustre:

Un grande severo s’affaccia


a la torre scaligera.

– Suso in Italia bella – sorridendo ei mormora, e guarda


l’acqua la terra e l’aere.

Tralasciamo Carducci e ci avviamo, attraverso le stradine del borgo


e poi, tra i giardini, le ville e gli alberghi, nel più aperto spazio della
strada panoramica, verso la punta più avanzata dell’isola. Passiamo
accanto alla Villa Le Colombare, che suscita lunghi racconti, con
particolari anche scabrosi che mi erano ignoti, su Maria Callas e sul
marito e pigmalione Giovan Battista Meneghini: su intrecci, passioni
e tradimenti, culminati nella fuga della divina con l’armatore greco
Onassis (fuga che ha preso le mosse proprio da qui), contese e
contestazioni ereditarie, per il lascito della villa e di altri beni della
stessa cantante alla governante Emma Roverselli, cupa
disperazione degli ultimi anni di Maria a Parigi, morte del Meneghini
all’ospedale di Desenzano, vane impugnazioni del suo testamento
da parte di parenti suoi e della stessa Callas. È un quadro fosco da
cui sprizzano tratti paradossali, lampi di follia che sembrano aver
toccato tutti i protagonisti del melodramma (salvo la governante,
l’ultima a scomparire, nel 2005), mentre sfioriamo la chiesetta
medievale di San Pietro in Mavino, il cui campanile si affaccia tra gli
ulivi. Si apre variamente la visione del lago, fino alla punta, dove si
visita l’ampia area archeologica delle cosiddette Grotte di Catullo, in
realtà insediamento di una grande villa della prima età imperiale,
impiantata su precedenti costruzioni. Non si sa se la Villa di Catullo
fosse proprio qui: ma certo era qui intorno, protesa sul lago,
avanzata su di esso come una nave. Ci aggiriamo tra le rovine,
molto ben curate, con indicazioni che aiutano a comprendere la
struttura dell’antica costruzione: e da qui lo sguardo spazia sul lago,
sul suo più ampio bacino meridionale, delimitato dalle punte di
piccoli promontori, a sinistra quello che nasconde l’insenatura di
Salò, a destra la punta di San Vigilio. Incontriamo scolaresche in
visita alle rovine. Permunian riconosce anche una professoressa di
liceo di Desenzano: è una formidabile latinista, mi dice, la più adatta
a guidare i suoi allievi tra queste tracce romane e a suscitare anche
nei nostri distratti nativi digitali la passione per la poesia di Catullo.
Ma è ora ormai di salutare questi luoghi catulliani: torniamo indietro
raccogliendo il suggerimento di comico abbandono che vien dagli
ultimi versi di quel carme catulliano a Sirmione dedicato (cachinno,
cachinni è del resto parola molto amata da Permunian):

gaudete, vosque, o Lydiae lacus undae,


ridete quidquid est domi cachinnorum.
(e voi, onde del lago etrusco, ridete con tutte le risate di casa
vostra)

E peccato che quel grande severo non abbia conosciuto Catullo!


Mantova

Tosto che l’acqua a correr mette co,


non più Benaco, ma Mencio si chiama
fino a Governol, dove cade in Po.

Non molto ha corso, ch’el trova una lama,


ne la qual si distende e la ’mpaluda;
e suol di state talor esser grama.

Quindi passando la vergine cruda


vide terra, nel mezzo del pantano,
sanza coltura e d’abitanti nuda.
………………………………

Li uomini poi che ’ntorno erano sparti


s’accolsero a quel loco, ch’era forte
per lo pantan ch’avea da tutte parti.

Fer la città sovra quell’ossa morte;


e per colei che ’l loco prima elesse,
Mantüa l’appellar sanz’altra sorte.

Già fuor le genti sue dentro più spesse,


prima che la mattia da Casalodi
da Pinamonte inganno ricevesse.
(Inf., XX 76-96)
La descrizione del Benaco e del fluire delle sue acque nel Mincio ha
come destinazione il racconto dell’origine di Mantova, motivato dalla
presenza, tra gli indovini della quarta bolgia, di Manto, la figlia di
Tiresia, che appare con le mammelle ricoperte “con le trecce sciolte,
/ e ha di là ogne pilosa pelle” (vv. 53-54). La mantovanità di Virgilio è
esibita altre volte nella Commedia: già nel canto iniziale, Inferno, I
68-69, egli si presenta con indicazione della sua patria (“e li parenti
miei furon lombardi, / mantoani per patrïa ambedui”), mentre nel
canto II, 58 Beatrice si rivolge a lui chiamandolo “anima cortese
mantoana”. L’incontro con l’anima di Sordello nell’Antipurgatorio
mette poi in piena evidenza la comune patria dei due poeti tanto
lontani nel tempo, dando luogo all’abbraccio da cui scaturisce la
famosa invettiva Ahi serva Italia:

Pur Virgilio si trasse a lei, pregando


che ne mostrasse la miglior salita;
e quella non rispuose al suo dimando,

ma di nostro paese e de la vita


ci ’nchiese; e ’l dolce duca incominciava
“Mantüa…”, e l’ombra, tutta in sé romita,

surse ver’lui del loco ove pria stava,


dicendo: “O Mantoano, io son Sordello
de la tua terra!”; e l’un l’altro abbracciava.
(Purg., VI 67-75)

Nel canto XX dell’Inferno Virgilio approfitta dell’incontro con l’ombra


dell’indovina Manto, per la lunga digressione sull’origine della sua
città: e nel cominciare, quasi a giustificarsi, chiede a Dante di far
attenzione (“onde un poco mi piace che m’ascolte”, v. 57), mentre
alla fine rivendica la verità della propria versione, che contraddice sia
quella corrente che indicava direttamente Manto come fondatrice,
sia quella allegata nell’Eneide, X 198-200, secondo cui a fondarla
sarebbe stato il figlio di Manto, Ocno, dando alla città il nome della
madre (“qui muros matrisque dedit tibi, Mantua, nomen”). Secondo
questa versione dantesca, Mantova sarebbe stata edificata sul
sepolcro di Manto, che si era installata in mezzo alle paludi formate
dal Mincio, da uomini sparsi nelle zone circostanti e lì raccoltisi. Alla
fine della digressione geografica ed eziologica si inserisce uno
scatto polemico contro le lotte civili e le prevaricazioni
contemporanee: Virgilio nota che Mantova ha avuto un fiorente
sviluppo e numerosa popolazione, fino ai recenti colpi di mano di
Pinamonte de’ Bonacolsi, che prima si è servito dei conti di Casalodi,
che nella loro stoltezza (mattia) lo hanno aiutato a cacciare altre
importanti famiglie, e poi a loro volta sono stati da lui cacciati. Una
situazione di lacerazione questa, a cui si opporrà proprio l’immagine
di fraternità dato dall’abbraccio tra i due mantovani nel VI del
Purgatorio, che scatena del resto l’invettiva sulla faziosità che lacera
le città italiane. Sordello, peraltro, in un contesto non totalmente
perspicuo, era stato citato nel De vulgari eloquentia, I XV 2, per il suo
abbandono del volgare mantovano, sia nel poetare che nel parlare,
dovuto alla rozzezza di una lingua, di cui lì si indicava la vicinanza a
quella di Cremona, di Brescia e di Verona.
Eccomi dunque diretto a Mantova: Francesco Permunian si
premura di aiutarmi a prendere la strada migliore, nell’intrico di
incroci e di svincoli che si accavallano fuori da Sirmione. Seguo la
sua auto per un tratto abbastanza lungo, tanto che mi pare che
finisca per arrivare a Mantova anche lui: ma poi a un certo punto
svolta a destra facendomi cenno di procedere avanti. Passo a Goito,
il cui nome ricorda ancora Sordello (qui nato) e due battaglie della
primavera 1848 (prima guerra d’indipendenza), vinte dai piemontesi
contro gli austriaci: alla fine del paese ritrovo il Mincio, sulla cui riva
destra c’è un giardino, molto ben curato, che accoglie un
monumento ai Granatieri di Sardegna, che nella “radiosa giornata”
del 30 maggio qui si batterono al comando del futuro re Vittorio
Emanuele. Il Mincio si muove accanto, lesto e gorgogliante: sulla
sponda opposta vi si accede tra freschissime piante e una corta
scalinata, preceduta da esili colonnine, sembra immettere
direttamente nell’acqua. Attraversando il ponte, presso cui è
installata una graziosa locanda, Al Ponte, mi avvicino ormai a
Mantova: lungo la strada che la raggiunge da nord attraversando la
lama in cui si distende il Mincio c’è un grande traffico. Ci vuole molto
tempo perché possa entrare nel centro e lasciare l’auto quasi al suo
margine, sulla bella piazza d’Arco.
Dopo che ho preso posto in una stanza appollaiata sopra i portici
di piazza delle Erbe, la sera mantovana non può fare a meno del
piatto mantovano per eccellenze, i tortelli di zucca, dolcissima
memoria di sapori rinascimentali, in cui la dolcezza della zucca è
insieme potenziata e contrastata dalla mandorla, trito amaretto nel
ripieno e finissime scaglie nel burroso condimento. Li gusto in un
locale che è proprio sotto le volte del Palazzo della Ragione, la cui
costruzione risale a metà Duecento: vicino a me c’è una lapide che
ricorda la visita del papa Giovanni Paolo II, che il 22 giugno 1991
veniva a commemorare un santo mantovano, rampollo della famiglia
ducale, Luigi Gonzaga, nel quarto centenario della morte, santo della
più severa pietà controriformistica.
Dolcemente sembra disporsi il centro della città nella luce
dell’umida sera: qui accanto, oltre la quattrocentesca torre
dell’orologio, la medievale rotonda di San Lorenzo, il cui primo
impianto è dovuto a Matilde di Canossa e che ha avuto una storia
travagliata e a un certo punto è stata inglobata nel ghetto. Dalla
piazza delle Erbe passo poi alla piazza Sordello, su cui si dispone la
facciata gotica del Palazzo ducale, vero e proprio sistema di edifici e
di palazzi sistemato dai Gonzaga, in tempi ormai postdanteschi, sul
luogo dove erano le residenze dei Bonacolsi, che ai tempi di Dante
erano i signori della città (Guido fu fatto vicario imperiale da Enrico
VII) e che dai Gonzaga furono scalzati nel 1328. Sul fronte della
lunga piazza opposto alla facciata della reggia gonzaghesca, sotto
palazzi di origine medievale, si muovono poche persone, intorno a
un paio di locali aperti; e nel procedere più oltre, sul puntuto
acciottolato mantovano, davanti alla facciata settecentesca del
Duomo, sembra di entrare in uno spazio di solitudine e silenzio.
Oltre il Duomo, oltre le cuspidi della sua fiancata e il massiccio
campanile romanico, si trova una singolare casetta di origine
quattrocentesca preceduta da un cortiletto chiuso da un cancello di
ferro. Sopra il cancello è appeso un grande cartello che la indica
come Casa di Rigoletto: e in mezzo al cortile si vede bene, pur nella
scarsa luce notturna, una statua del buffone verdiano. Naturalmente
è uno dei casi più curiosi di attribuzione a un luogo fisico di
un’identità fittizia, suscitata da una celebre opera di invenzione.
Come non è mai esistita la Giulietta di Shakespeare, di cui si visita a
Verona la casa, tanto meno è esistito Rigoletto; ma mentre Giulietta,
in Shakespeare e nelle sue fonti, nasce comunque come veronese,
la mantovanità di Rigoletto è frutto solo di una costrizione della
censura. Nella trasposizione per musica della tragedia di Victor
Hugo Le Roi s’amuse, Verdi e il suo librettista Francesco Maria
Piave, per non urtare l’imperante legittimismo, dovettero cambiare
l’ambientazione, che l’originale poneva alla corte del re di Francia
Francesco I, e trasporre la vicenda in un’indifferente corte di
Mantova: ecco allora il tenore Duca di Mantova al posto del re di
Francia e il baritono Rigoletto al posto del francese Triboulet (senza
dimenticare che ci furono versioni dell’opera in cui si chiamava
Viscardello).
Non so chi ha inventato questa casa di Rigoletto: ma, al di là del
suo intento di solleticare un turismo un po’ facilone, l’inventore ha
messo in atto una sorta di materializzazione del melodramma, come
a voler catturare nella consistenza spaziale di un dato architettonico
la temporalità sfuggente dell’onda musicale, il suo effimero e
ripetibile dispiegarsi sulla scena. Il libertino Duca di Mantova salta
agilmente dentro questo cortiletto. Dallo scuro metallo della statua o
da qualche altra parte, nell’allucinata e deserta oscurità del Palazzo
ducale, il buffone interdetto erompe nel grido Cortigiani, vil razza
dannata… E tra le molte sue trionfanti risposte il Duca non può non
avvalersi di quella più banalmente nota, La donna è mobile… Qui si
dovrebbe trovare anche un posto per i personaggi di un romanzo del
mio amico Franco Cordelli, intitolato appunto Il Duca di Mantova:
ossessiva in quel romanzo la presenza di un certo Silvio, che
manifestamente allude a un Silvio seduttore e libertino, che ha avuto
un rilevante ruolo politico nella recentissima Italia e che di case,
palazzi, ville, ne ha costruite e possedute infinite. Rigoletto sembra
volersi scagliare, ormai un po’ fuori tempo, anche contro di lui e la
sua corte: Cortigiani, vil razza dannata…
A stento mi svincolo da questa allucinazione e, aggirandomi tra le
strette viuzze alle spalle della fittizia casa del buffone e del Duomo,
giungo all’amplissima piazza Virgiliana, che ha l’estensione di un
vero e proprio parco, solcato da viali sabbiosi, tra piante di alto fusto:
si affaccia sulla lama lacustre che circonda la città, al margine del
lago di Mezzo, su un sito che in origine era un porto, poi interrato, e
fatto sistemare in onore di Virgilio nel 1801 dal generale francese
Miollis. Nel silenzio cigolano i passi sui viali sabbiosi: ci sono solo un
paio di persone che portano a spasso i loro cani. Quasi alla testa
della piazza, dalla parte del lago, c’è il molto più tardo monumento al
poeta, inaugurato nel 1927. L’illuminazione del parco mette in piena
evidenza il bianco marmo della base del monumento e i due gruppi
marmorei che sono apposti al suo fianco; un po’ più in ombra è
l’epigrafe con i famosi versi di Eneide, VI 851-853, “Tu regere
imperio populos, Romane, memento…”, certo ben appropriati allora
all’aspirazione imperiale fascista. Meno visibile, nell’oscurità, è la
statua bronzea in alto, con la mano destra levata in atteggiata posa
declamatoria.
Mi inoltro poi verso la piazza Matilde di Canossa, su cui dà la
singolare chiesetta della Madonna del Terremoto (elevata a metà
Settecento a ricordo della protezione avuta nel terremoto del 1693),
dietro la quale si intravvede la cupola settecentesca (di Filippo
Juvarra), illuminata, della basilica di Sant’Andrea, capolavoro di
Leon Battista Alberti. Passo davanti alla basilica e costeggio ancora
la Rotonda di San Lorenzo, entrando in quella che era la zona del
ghetto. Raggiungo la Sinagoga, la sola rimasta delle sei che erano a
Mantova, dove gli ebrei ebbero una notevole presenza, con attività di
rilievo in vari campi, sotto la protezione dei Gonzaga. Risalgo poi
sulla via Pomponazzi (col nome del filosofo mantovano del
Cinquecento, docente a Padova e poi a Bologna, audace negatore
dell’immortalità dell’anima). Sulla via Accademia si affaccia il Teatro
Scientifico, costruito tra il 1767 e il 1769 da Antonio Galli Bibiena,
uno dei gioielli dell’architettura teatrale italiana, in cui nel 1770 ebbe
a suonare il quattordicenne Mozart. Tra tanti segni ed echi di storia e
cultura, questo percorso mi conduce finalmente a piazza Dante,
dove, tra aiuole limitate da ben squadrate siepi, si leva un
monumento bronzeo al poeta (di Pasquale Miglioretti), col volto che
mi sembra un po’ più scavato del solito (per più anni macro),
impiantato, come reca la scritta sulla base in pietra, nel 1871.
Ma non posso lasciare Mantova, la mattina del 15 ottobre, senza
affacciarmi più direttamente sul pantano che il luogo della città avea
da tutte parti. Ai margini del lago è la gotica chiesa di San
Francesco, vicinissima alla piazza d’Arco; accanto a essa è la sede
della Fondazione Università di Mantova, nata nel 2001 per
promuovere un sistema universitario locale, impiantato fin dal 1992.
Questo sistema si articola in vari corsi di laurea, promossi da Facoltà
di altre Università lombarde, in quel gioco di dislocazioni di sedi e
corsi universitari che è modalità molto in uso nell’università italiana e
che mi lascia molto perplesso. È vero peraltro che Mantova ha
tradizione e specificità culturali che di per sé giustificherebbero un
loro istituzionalizzarsi in sede universitaria: e tra le tradizioni
relativamente recenti non è da trascurare quella degli “einaudiani”
mantovani, gruppo di intellettuali collaboratori a vario titolo della casa
editrice Einaudi. Nella mia giovinezza mi è capitato di incontrare,
anche se brevemente, Daniele Ponchiroli e Emilio Faccioli, che
erano anche studiosi notevoli del Cinquecento (per Einaudi Faccioli
pubblicò una bella edizione del Baldus del mantovano Folengo):
nella loro persona era inscritta la civiltà, la discrezione, l’estraneità a
ogni esibizionismo. E mi è capitato di conoscere altri mantovani più
giovani, troppo presto scomparsi, come il musicologo Claudio
Gallico, studioso del cremonese Claudio Monteverdi, e lo storico
Giuseppe Papagno, che era stato vicedirettore dell’Enciclopedia
Einaudi e di cui ricordo le espressioni di disappunto, come attutite da
un riservata cordialità, verso certi esiti della vita universitaria. Negli
ultimi anni Mantova ha poi una presenza costante nelle cronache
culturali grazie al Festivaletteratura, che ha luogo in settembre, nato
per spontanea iniziativa locale e assurto a prototipo dei tanti Festival
che lasciano insieme esaltare ed evaporare la letteratura del nostro
paese (del resto ne trovo ogni tanto brandelli in questo mio viaggio).
Dal lago Superiore, su cui si affaccia il fronte nordovest della città,
proviene un canale che tocca la piazza di San Francesco e qui viene
solcato da un ponte; svoltando poi a fianco della stazione, raggiungo
la strada fiancheggiata dalla ferrovia, che costeggia il lago
Superiore, parzialmente velato dalla nebbia. C’è un grande traffico di
auto che scendono da nord: ma posso lasciare la carrozzabile, per
un passaggio sotto la ferrovia, che mi porta direttamente sulla riva,
tenuta molto bene, con lindi vialetti percorsi ora dai soliti conduttori di
cani, che calpestano l’umido fogliame autunnale, mentre volatili si
muovono sullo specchio d’acqua, oltre il quale si disegna la folta
vegetazione delle opposte rive. Ecco una pedana per attracco,
accanto a cui è disposto un battello immobile, senza nessuno a
bordo. Qui sono al limite della lingua di terra che divide il lago
Superiore da quello di Mezzo, percorsa dalla strada su cui ieri sono
arrivato: passo di nuovo sotto la ferrovia e poi sotto la strada,
raggiungendo la riva del lago di Mezzo. Tra il Superiore e quello di
Mezzo è in costruzione una centrale idroelettrica, detta Vasarina,
che, destinata a essere completata per il febbraio 2015, sfrutterà il
salto idraulico tra i due laghi.
Il sole rompe ormai la nebbia e fa capolino tra alcune placide
nuvole: si scorge bene al limite del lago la fettuccia che lo delimita
dal successivo, quello Inferiore, che fronteggia la città a est. Il
castello di San Giorgio, sulla punta estrema del sistema del Palazzo
ducale, sembra come aggettare in avanti, sul punto limite tra il lago
di Mezzo e l’Inferiore. Dietro le sue torri squadrate, dai contorni
taglienti, erette alla fine del Trecento, si scorge il campanile dal
fastigio più dolcemente ricurvo della basilica di Santa Barbara,
interna al complesso della reggia gonzaghesca. Lentamente
raggiungo il castello e, lasciata la passeggiata dei laghi, mi aggiro
intorno ai fossati, penetrando poi nella piazza Castello, nel cuore
interno della reggia, non dimenticando che, tra le sale del castello
(dove è anche la mantegnesca Camera degli sposi), c’è anche una
Sala di Manto, dove è effigiata proprio l’edificazione di Mantova, la
cui immagine si trova anche in un’altra sala del palazzo, detta della
Mostra; ma siamo in pieno Cinquecento, ormai molto lontani dalla
Manto dantesca.
Pietole

E quell’ombra gentil per cui si noma


Pietola più che villa mantoana…
(Purg., XVIII 82-83)

Lascio Mantova da sud, entrando nella zona del comune di Virgilio, e


piego subito verso est, raggiungendo rapidamente Pietole, nome
medievale del luogo di nascita di Virgilio, che Dante fa in una
perifrasi per indicare la sua guida dopo averne ascoltato, all’ingresso
del girone degli accidiosi, la lezione sull’amore e sul libero arbitrio.
Dopo un ufficio postale, sulla destra c’è un piccolo giardino, molto
ben tenuto, con al centro una colonna che ha in cima una statua di
Virgilio coronato d’alloro. L’alloro è anche alla base della colonna,
dove è fissata una targa metallica con i versi danteschi: il
monumento reca la data 21 settembre 1884, mentre il successivo 30
novembre fu inaugurato con un fiammante discorso dall’instancabile
Carducci. Alcuni attribuiscono la statua bronzea allo scultore
Agamennone Paganini, altri al già incontrato Miglioretti, autore del
Dante visto ieri sera a Mantova (ma questo era già morto nel 1881,
per cui mi sembra più credibile il Paganini). Mentre sulla carrozzabile
passano camion rumorosi mi domando come doveva essere la
campagna qui intorno quando, di fronte all’addobbo del monumento,
Carducci recitava il suo discorso, in cui, sulla scorta della vicenda di
Virgilio, implicitamente giustificava il proprio passaggio dal
repubblicanesimo giacobino all’adesione alla monarchia.
Al dubbio sull’autore della statua si connette quello sulla
identificazione del luogo: la Pietole in cui mi trovo è una Pietole
nuova, mentre quella medievale, distrutta in età napoleonica, si
trovava un po’ più in là, verso il fiume; e non è poi detto che,
dovunque sia, Pietole si trovi proprio sul sito del villaggio di Andes,
quello dove appunto Virgilio nacque, secondo la testimonianza di
Donato. Comunque, poco oltre il monumento, dei cartelli segnaletici
indicano Andes, il Mincio e percorsi ciclistici verso Mantova
attraverso il Mincio di Virgilio, immettendo in una strada che svolta a
sinistra, nel Parco del Mincio.
Prendo questa strada e a soli 500 metri dal monumento trovo una
zona di poche case che un cartello identifica appunto come Andes.
Procedo ancora di poco e giungo finalmente al Mincio, superando
sulla destra un limite indicato come ZONA ADDESTRAMENTO CANI TIPO B
(verrò poi a sapere che il tipo non riguarda l’eventuale mole o ferocia
dei cani, ma modalità e tempi dell’addestramento di cani da caccia).
Tra i pioppi e altra fitta e confusa vegetazione si affaccia il fiume che
procede abbastanza velocemente verso est, districandosi da un
leggero residuo nebbioso: una breve strada sterrata conduce a una
piccola darsena, incavata entro una punta di terra che avanza come
una penisoletta sul fiume. Ci sono barche nella darsena e fuori di
essa un attracco, con una pedana che conduce a un battello che
permette di visitare la Vallazza, area umida protetta entro il Parco del
Mincio. Ma ora non ci sono battelli: c’è solo un uomo che
silenziosamente armeggia intorno a una barca. Sul fiume si muove
velocemente una canoa, seguendo la corrente, ma obliquamente
volteggiando. Silenzio e rumore dell’acqua che scorre, intenso verde
sulla riva opposta del fronte della vegetazione, che sembra
emergere direttamente dall’acqua.
Tornando indietro osservo l’ampia e ordinata distesa dei coltivi: ma
prima di tornare sul sito del monumento raggiungo, leggermente più
a est, l’ampia Corte virgiliana, affacciata su un’ordinata distesa di fitti
campi di mais: si tratta di un insediamento agrario di origine
gonzaghesca, nel cui interno forse dovevano essere anche affreschi
cinquecenteschi di tema virgiliano. Qui, nei luoghi di nascita di
Virgilio, si dispongono moderne Georgiche, tra attrezzi e macchinari
agricoli che in questo momento tacciono, come riposando nella luce
del mattino.
Governolo: il Mincio e il Po

…ma Mencio si chiama


fino a Governol, dove cade in Po.
(Inf., XX 77-78)

Procedo su strade interne, che seguono a poca distanza la riva


destra del Mincio, fino a raggiungere un ponte che lo attraversa e a
raggiungere Govèrnolo, poco prima che confluisca nel Po. Il piccolo
centro si segnala come luogo probabile dell’incontro, un po’ reale un
po’ immaginario, tra il barbaro Attila e il papa Leone Magno, che
fermò l’avanzata dell’invasore con l’empito della sua autorità
spirituale. Una strada percorre l’argine sinistro del Mincio, poco oltre
l’abitato di Govèrnolo, arrivando a sfiorare proprio il punto in cui il
fiume mantovano cade nel re dei fiumi d’Italia. Lascio qui l’auto in
precaria sosta e scendo sulla scarpata dell’argine, scivolando nel
fango e poi muovendomi in totale solitudine tra melma e rovi,
osservando lo scorrere lento del Mincio, al di là del sipario di pioppi
che orlano la riva. Poco più in là c’è un piccolo imbarcadero, che
sembra quasi abbandonato. Sporgendomi tra i pioppi scorgo, verso
sinistra, l’allargarsi del bacino acquatico e l’immettersi in esso di una
corrente più rapida e impetuosa, che trascina con sé quella più lenta
che scorre qui davanti: ecco, si tratta del corso del Po, che qui riceve
le acque su cui da ieri mi sono affacciato e che chiude il percorso
geografico tracciato nella lunga digressione del XX dell’Inferno. Il
sole un po’ velato lascia riflessi cangianti sulle acque; sul loro
margine, sulla cui riva si stende l’ombra della vegetazione, si
deposita un brillio sparso e mobile. Il corso del grande fiume
trasporta in velocità oggetti e detriti indefiniti, oltre a untume
schiumoso che sembra muoversi più lentamente delle acque che lo
sostengono. Una barca a motore dalla prua puntuta avanza
controcorrente con tre persone a bordo. C’è come l’effetto di uno
slargo luminescente che si impone alla vista nell’atto di disfarsi: un
disporsi del paesaggio come trascinamento, come un andare e
perdersi in imprecisabili lontananze.
Devo tornare indietro infangandomi ancora, ma facendo ora
attenzione a non scivolare di nuovo sulla fangosa scarpata.
Riprendo l’auto sporcando un po’ l’abitacolo e torno sulla strada ex
statale 482, che segue ormai a una certa distanza la riva sinistra del
Po. Si alternano zone agricole e agglomerati industriali, capannoni,
ciminiere; nella località di Bastia si estende il grande apparato di
un’importante industria per la lavorazione del legno. Ecco infine
Ostiglia, proprio su un’ansa del Po, città di antica origine, che
avrebbe dato i natali allo storico latino Cornelio Nepote: sulla piazza
Cornelio, c’è il suo monumento, qui con statua marmorea del solito
Miglioretti, peraltro nativo anche lui di Ostiglia; sullo sfondo svettano
verso il cielo grandi ciminiere. Da Ostiglia prendo il ponte stradale
sul Po, dalle forti armature metalliche, da cui si scorge a sinistra il
parallelo ponte ferroviario, della linea Bologna-Verona.
Sull’altra riva è Revere, dove è il ben impiantato Palazzo
quattrocentesco dei Gonzaga. Da Revere torno indietro verso ovest,
ora tra le campagne a sud della riva destra del Po: Pieve di Coriano,
poi Santa Lucia, sul fiume Secchia, che passo sull’ultimo ponte che
lo attraversa prima del suo gettarsi nel Po (questa sua confluenza da
sud è molto vicina, quasi a fronte di quella che ho toccato più da
vicino del Mincio da nord). Pochi chilometri ancora mi portano a San
Benedetto Po, su cui si apre l’ampio piazzale dell’abbazia di
Polirone, che risale all’XI secolo, ma che si presenta
nell’equilibratissimo assetto che nel Cinquecento le fu dato da Giulio
Romano. Tra Quattro e Cinquecento, sotto la protezione dei
Gonzaga, fu uno dei maggiori centri della cultura benedettina: e per
un certo periodo vide tra i monaci anche il mantovano Teofilo
Folengo, autore col nome di Merlin Cocai dello stralunato Opus
macaronicum, in cui molteplici echi virgiliani si intrecciano al più
cupo fondo di questa campagna mantovana, teatro delle giovanili
avventure di Baldus e dei suoi picareschi sodali. Una balaustra
sormontata da statue separa lo spazio antistante la chiesa
dall’amplissima piazza, mentre sulla facciata sono disposte le
armature di restauro per i danni del terremoto del maggio 2012.
Nel dirigermi verso sud mi trovo a sfiorare, ormai in Emilia, altri
centri danneggiati dal terremoto del 2012.
Reggio Emilia e oltre

e Guido da Castel, che mei si noma,


francescamente, il semplice Lombardo.
(Purg., XVI 125-126)

Raggiungo Reggio Emilia, che è come il cuore dell’Emilia e non solo


perché ne reca direttamente il nome dentro di sé: città che è stata il
più esemplare tra i tanti modelli emiliani di amministrazione
comunista dai tempi del grande PCI fino agli anni settanta e oltre. I
reggiani sono menzionati nel De vulgari eloquentia, I XV 4, insieme a
rerraresi e modenesi, per la mancanza tra essi di poeti, dovuta alla
loro consuetudine con l’asprezza propria del loro volgare lombardo
(“proprie garrulitati assuefacti”), che Dante fa risalire alla lontana
mistione con gli stranieri Longobardi. Nella Commedia invece non
c’è nessuna menzione di Reggio, ma nel discorso di Marco
Lombardo (già citato a proposito di Gherardo da Camino vedi p.
629), tra i tre vecchi in cui “rampogna / l’antica età la nova”, viene
menzionato Guido da Castello, gentiluomo reggiano che forse si
trovò a essere insieme a Dante ospite di Cangrande della Scala. Il
valore di questo Guido viene peraltro sottolineato dall’appellativo con
cui viene chiamato “alla francese”, semplice Lombardo, cioè simple,
schietto e sincero, come in genere secondo i francesi non erano gli
italiani, generalmente designati come Lombardi. Dante lo citava
anche nel Convivio, IV XVI 6, come personaggio di specchiata
nobiltà, ben superiore a quella del più noto Alboino della Scala,
signore di Verona dal 1304 (che poi nel 1308 avrebbe associato al
potere il più giovane fratello Cangrande: ma vedi p. 672): ed è
evidente che al tempo della stesura del Convivio il signore scaligero
non doveva riscuotere la simpatia di Dante.
Poco si sa comunque di Guido da Castello e della sua stessa
collocazione tra guelfi e ghibellini: e certo non posso pensare di
trovare sue tracce a Reggio Emilia, dove pure, dopo aver
attraversato l’ampio piazzale su cui si affacciano, quasi a specchio,
due bei teatri, il neoclassico Romolo Valli (già Comunale) e il
composito Ariosto, ho la sorpresa di percorrere, oltre la Via Emilia
(nel tratto oggi pedonale detto Via Emilia Santo Stefano) la
centralissima via Guido da Castello, in una zona dove
originariamente doveva essere un castello.
Mi dirigo a Palazzo Magnani, sul Corso Garibaldi, dove è stata
allestita una mostra sull’Orlando furioso, dedicata ai modi in cui
L’arte contemporanea legge l’Ariosto. Conferenza e discussione,
soprattutto con professoresse delle superiori, sul nesso ariostesco
tra bellezza e contraddizione, tra ragione e follia, e poi visita alla
mostra in cui si affacciano grovigli di immagini, di diversioni,
espansioni, combinazioni giocose che l’Ariosto ha suscitato in artisti
moderni, ex moderni, ultramoderni, postmoderni: incisioni, disegni,
fotografie, montaggi, fumetti, collage, tecniche composite ecc., tra
cui mi accompagna il curatore Sandro Parmiggiani e l’amico
italianista Gino Ruozzi, sempre pieno di operoso entusiasmo. Tra le
tante piacevoli sorprese c’è perfino un gioco a percorso e pedine, un
“gioco dell’oca” tramato di vicende e personaggi del Furioso, con cui
Guido Crepax, il disegnatore di Valentina, giocava con gli amici, tra
cui Emilio Tadini e Claudio Abbado. Non sfuggo a un po’ di
malinconia pensando che, tra tanta passione e curiosità di artisti (e
di quanti scrittori non solo italiani nel Novecento), oggi quelle
luminose avventure siano generalmente trascurate e le vicende e i
personaggi del grande poema siano perlopiù ignoti alle giovani
generazioni. Del resto non mi pare che ci sia gran movimento di
visitatori per questa bella mostra, che ha luogo a Reggio anche
perché a Reggio il ferrarese Ludovico è nato, quando il padre
Niccolò vi comandava la guarnigione estense, e reggiana era la
madre Daria, della famiglia dei Malaguzzi, che abitavano la Villa del
Mauriziano, sul percorso della Via Emilia, verso sudest, un po’ fuori
città.
Nel lasciare Reggio, la mattina del 16 ottobre, non posso evitare di
dare un altro piccolo saluto all’Ariosto, affacciandomi sul parco del
Mauriziano, dove è la casa in cui forse è nato e che certo ha
frequentato, anche se l’ambiente ha mutato più volte il suo volto nel
corso dei secoli. Tornano i versi della Satira IV, che già mi sono
venuti in mente di fronte alla Villa Serego Alighieri di Gargagnago:
qui non ci sono più le vigne, mentre non troppo lontani si delineano i
colli, e il basso edificio non lascia svettare nessuna ben posta torre.
Poco più in là, però, scorre ancora il piccolo torrente con
l’impegnativo nome Rodano, su cui così insiste Ludovico (vv.118-
123), rivolgendosi al cugino Sigismondo:

Il tuo Mauricïan sempre vagheggio,


la bella stanza, il Rodano vicino,
da le Naiade amato ombroso seggio,

il lucido vivaio onde il giardino


si cinge intorno, il fresco rio che corre,
rigando l’erbe, ove poi fa il molino…

Saluto il Rodano nella fresca aria del mattino e, sulla strada per
Novellara, raggiungo una zona a nord di Reggio a cui le mappe
assegnano il nome di Castello, che fa balenare ancora il ricordo del
nobile Guido: si tratta di Castello di Pratofontana, piccola località che
si adagia nella campagna con silenziosi condomini e villette, tra
vicini capannoni industriali. Negli spazi ben misurati si muove una
piccola vita italiana: due uomini stanno armeggiando su un tetto,
certo per una riparazione; una badante dall’aspetto indiano spinge
un giovane disabile su una carrozzella; una donna di mezza età
spinge con disinvoltura una carrozzina su cui si agita un bimbetto; un
vecchio procede in bicicletta con lentissima pedalata che dà
un’impressione di mobile immobilità. Tra le casette si affaccia anche
un piccolo parco che ha il nome di Joan Mirò, pittore che evoca
qualcosa di fantastico, ma non certo castelli, né tanto meno castelli
arroccati su inaccessibili vette come quello dove il mago Atlante
teneva prigioniero Ruggiero. Niente castelli a Castello: eppure
proprio da questi paraggi doveva venire quel Guido, semplice
Lombardo.
Procedendo verso nord vengo a toccare una serie di centri padani
molto vicini l’un l’altro, con caratteri di borgo agricolo che tende a
raccogliersi intorno a qualche edificio nobiliare o a qualche chiesa,
tra serpeggianti lasciti storici e culturali, tracce di antichi domini e di
più vicine lotte politiche e sindacali. Ecco Novellara, con la sua rocca
gonzaghesca e il suo presentarsi come patria di Lelio Orsi, pittore
manierista dalle soluzioni talvolta estreme, con figure disposte in
cupe e sontuose distorsioni. Ma ecco poi Guastalla, ormai nei pressi
del corso del Po, dal 1532 possedimento di un ramo laterale dei
Gonzaga, con articolato impianto di città ducale (fu elevata a ducato
nel 1621, e restò tale fino al 1748).
Se da qui risalgo la strada verso Mantova trovo subito Luzzara,
patria di Cesare Zavattini: ed è vero che in questi paraggi si respira
uno spirito padano, fatto di terra e di acqua, di un’umida corposità, di
un senso acuto della materiale concretezza del vivere. Dalla parte
opposta, vicinissima a Guastalla, è Gualtieri, che invece fin dal 1476
fece parte del ducato estense e poi per un certo tratto fu feudo dei
Bentivoglio: al suo centro è la piazza Bentivoglio, con tre lati porticati
che ne contornano l’ampia distesa che si offre a feste e a eventi
popolari. Qui ha passato gran parte della sua vita ed è morto Antonio
Ligabue, che veniva dalla Svizzera ed è arrivato a Gualtieri per un
intricato intreccio familiare, diventando pittore tra dolore e follia,
come intridendo la sua anima di una padana sofferta bizzarria: ma il
suo nome viene oggi oscurato da quello del cantante Luciano
Ligabue, detto tout court Ligabue, che del resto viene anche lui da
queste parti, da una città che è un po’ più a sud, più vicino a Reggio
Emilia, Correggio che per alcuni secoli fu tenuta da una famiglia che
ne recava il nome ed è stata patria del grande pittore
cinquecentesco, Antonio Allegri (detto il Correggio, appunto), e
anche di uno scrittore molto celebrato di fine Novecento, Pier Vittorio
Tondelli.
Oltre Gualtieri mi avvicino alle sponde del Po, che tocco a Boretto,
dove mi viene incontro una curiosa chiesa ottocentesca, che sembra
quasi fuori posto, in questo orizzonte fluviale, dominato da un ben
attrezzato porto di navigazione interna, che in tempi lontani vedeva
una fitta serie di scambi addirittura con Venezia. Se da Boretto si
procede verso ovest, si raggiunge subito Brescello, dove furono
ambientati i film su Don Camillo, emblema degli scontri politici degli
anni cinquanta in questa bassa padana, tratti dai racconti di
Giovannino Guareschi, giornalista e scrittore dal corposo spirito
padano, tra umorismo e risentimento, nato anche lui accanto al Po,
risalendone un po’ la corrente, a Fontanelle di Roccabianca, nel
Parmense. E in fondo c’è una sorta di filo padano che può collegare i
pur diversi, ma geograficamente vicini, Zavattini, Ligabue,
Guareschi: del resto nella loro giovinezza Zavattini e Guareschi
furono in stretto contatto, nei primi anni della rivista umoristica
Bertoldo, inaugurata nel 1936.
Da Boretto comunque non mi dirigo verso Brescello, ma punto
verso nord attraversando il Po, su un ponte che mi porta in
Lombardia: tocco Viadana, da dove non è possibile evitare una
piccola deviazione verso uno dei più celebri luoghi gonzagheschi,
Sabbioneta, che fu tenuta da un ramo laterale dei Gonzaga ed ebbe
il suo splendore nel Cinquecento sotto il principato di Vespasiano. Mi
appaiono le mura: piuttosto basse, si ergono su un prato oltre il
quale scorre l’acqua di un piccolo fossato; sopra lunghi tratti della
muraglia germogliano cespugli e piante; aggetta un bastione dalla
parete corrosa e un po’ frantumata. Un’ampia apertura delle mura
conduce sulla grande piazza d’Armi, dove stanno allestendo un
parco giochi: è già in piedi la struttura dell’autoscontro, che con i suoi
colori sembra sfidare la severa ed elegante Galleria degli antichi,
che, con la successione dei suoi finestroni, limita il lato opposto della
piazza.
Rapidamente percorro il sistema di strade ben squadrato di questa
cittadina rinascimentale e manieristica, dove tutto è articolato come
spazio e misura ideale, disegno e sogno di equilibrio nobiliare,
geometria che ambisce a espungere la casualità e l’asprezza del
vivere, annidata e difesa nell’umido cuore della campagna:
scommessa di una persistenza di sé giocata da un piccolo principe,
dopo di lui precipitata nel silenzio, in una turbata solitudine, ai nostri
tempi leggermente ravvivata dai flussi turistici e dagli eventi popolari.
Il centro del perfetto impianto, la Piazza ducale, dove si affaccia il
Palazzo con il suo loggiato, sembra come il cuore vuoto del sogno di
Vespasiano, che è sepolto poco più in là, nel mausoleo della chiesa
dell’Incoronata. Ma il vero cuore, il più noto emblema di Sabbioneta
è il Teatro all’antica, progettato da Vincenzo Scamozzi, perfetto
modello splendidamente conservato della sala teatrale all’italiana. La
loggia ricurva di questa sala, disposta a colonnato alle spalle della
gradinata e coronata da statue sembra dare l’illusione di una
scansione architettonica del tempo: dentro un mondo assoluto, ma
solcato da deviazioni, dall’eccesso del proprio rigore, della propria
classicistica intenzionalità.
Pensando alla distanza tra il modello di Sabbioneta e del suo
teatro e l’universo dantesco, mi dirigo verso nord, su di un territorio
in cui si alternano più volte la provincia di Mantova e quella di
Cremona, tanto che viene in mente quel verso di Virgilio, che
lamenta la confisca per l’assegnazione ai veterani di Ottaviano di
territori dell’agro mantovano per integrare quelli non sufficienti
dell’agro cremonese: “Mantua vae miserae nimium vicina
Cremonae” (Bucoliche, IX, 28). Ecco Bozzolo, nel mantovano, poi
nel cremonese Piàdena, patria dell’umanista Bartolomeo Sacchi,
detto appunto il Plàtina, dal nome latino della sua città. Attraversato
il fiume Oglio, ecco Canneto sull’Oglio, ancora nel mantovano;
presso Canneto, su un muro la scritta PADANIA NAZIONE.
Passo poi nel bresciano, dove a Isorello sulla parete di una casa
leggo una scritta non so se corretta o deformata o ambigua USA LA
TESTA (NON) VOTA(RE) LA LEGA. Poi, oltre Ghedi, la solita giravolta delle
indicazioni stradali mi immette per un breve tratto su un raccordo
della nuova autostrada Brebemi (cioè Brescia Bergamo Milano) e poi
finalmente mi fa raggiungere il centro di Brescia.
Brescia

…dove ’l trentino
pastore e quel di Brescia e ’l veronese…
(Inf., XX 67-68)

Eccomi a Brescia, seguendo ancora il lungo disegno geografico del


XX dell’Inferno, dove Brescia si affaccia anche al v. 71, a proposito
della funzione del forte di Peschiera, “da fronteggiar Bresciani e
Bergamaschi”. Al suo volgare, simile a quello delle città vicine,
accennavano i passi, anch’essi già ricordati, del De vulgari
eloquentia, I XIV 5 e XV 2 (si vedano pp. 661, 678, 693). Più diretto
richiamo a una circostanza contemporanea è quello dell’Epistola VII
VI 22, all’imperatore Enrico VII, datata 17 aprile 1311, in cui Dante
cerca di dissuadere il destinatario dall’indugiare sulle riottose città
lombarde: voler piegare Cremona susciterebbe l’improvvisa rabbia
(“rabies inopina”) di Brescia o di Pavia, e poi di Vercelli o di
Bergamo. Ma, contrariamente al parere di Dante, l’imperatore prese
subito Cremona, radendone al suolo le mura, e nel maggio iniziò un
duro assedio di Brescia, che si dilungò per quattro mesi, ritardando
la sua azione, con una perdita di credito che suscitò l’opposizione di
gran parte dei potentati italiani che fino allora erano rimasti in attesa
dell’evolvere della situazione. All’azione partecipò anche quel
Moroello Malaspina, marchese di Giovagallo, con cui Dante aveva
buoni rapporti e che fu poi nominato vicario imperiale di Brescia.
Questo assedio vide momenti di particolare crudeltà, che non
giocarono a favore dell’abito di pacificatore con cui l’imperatore si
era affacciato in Italia: particolarmente truce fu il supplizio del capo
guelfo bresciano Teobaldo Brusati, caduto prigioniero durante una
sortita, che fu cucito dentro una pelle di giovenca, legato alla coda di
un asino e trascinato lungo le mura, per essere poi decapitato e
squartato da quattro tori. Ma altri assedi e violenze ricorda la storia
di Brescia, come l’assedio fallito dell’altro imperatore Federico II nel
1238, e quello breve da parte dei francesi di Gastone di Foix, con
l’esito tremendo della messa a sacco della città, con efferata strage
di civili (19 febbraio 1512).
Superato l’assetto imperialfascista di piazza della Vittoria, con i
suoi edifici squadrati e il suo freddo porticato, vengo subito al cuore
medievale della città, sull’ampia piazza Paolo VI, già del Duomo, sul
cui lato est prospettano, come scandendo i loro tempi diversi, la
cosiddetta Rotonda, cioè il più antico Duomo (sorto nell’XI secolo
sopra i resti della basilica paleocristiana di Santa Maria Maggiore);
poi l’imponente Duomo nuovo, sul sito di un’altra basilica
paleocristiana, dal carattere severamente composito, raggiunto
nell’arco di tre secoli, in una sorta di integrazione classico-barocca; e
ancora il Broletto, la cui base originaria, in piedi proprio alla fine del
Duecento, ha subito vari ampliamenti successivi e su cui svetta la
Torre del popolo. La piazza è dorata da un dolce sole meridiano: c’è
animazione quasi soltanto sotto gli ombrelloni che proteggono i tavoli
dei locali che si affacciano sul lato ovest, affollati soprattutto da
gruppi di belle ragazze ciarliere. Il tempo sembra scorrere in una
placida indifferenza, davanti alle vecchie mura della Rotonda, su cui
scorgo una lapide che ricorda il feroce sacco del 1512 e la strage
che i francesi perpetrarono proprio tra i civili rifugiatisi nel Duomo: e
richiama la memoria di UN POVERO FANCIULLO scampato al massacro,
che FERITO ALLE LABBRA / EBBE INDI NOME DALLA IMPEDITA FAVELLA / QUEL
NOME È TARTAGLIA GLORIOSO NELLA SCIENZA DEI NUMERI. Non si tratta
insomma di Tartaglia, maschera della commedia dell’arte (figura di
dottore balbuziente, di area napoletana, di origine probabilmente
secentesca), ma di quello che al momento del sacco era un ragazzo
di umile famiglia, Niccolò Fontana che poi, nonostante la
menomazione, divenne uno dei maggiori matematici del
Cinquecento, chiamato proprio col soprannome che indicava la sua
balbuzie.
Queste vicende portano ben oltre i tempi di Dante, di cui invece si
trova più diretta traccia all’interno della Rotonda, col sarcofago del
“pastore di Brescia”, il vescovo Berardo Maggi, che fu un vero e
proprio signore della città sullo scorcio finale del XIII secolo, fino alla
sua morte, avvenuta nel 1308, pochi anni prima dell’assedio di
Enrico VII: nel 1298 il Maggi aveva completato la costruzione del
Broletto ed era riuscito a far ratificare una pace in città tra le fazioni
guelfa e ghibellina, istoriata proprio in uno degli spioventi del
coperchio di questo sarcofago. Se questa grande piazza mantiene
qualche traccia di quegli anni, il volto di Brescia ha assunto la sua
più netta caratterizzazione per la presenza veneziana, impostasi dal
1428, quando la città, insieme a Bergamo, fu sottratta ai Visconti. Di
carattere veneziano è in fondo lo stesso Duomo nuovo, e, al di là di
esso, oltre la sua abside, la settecentesca Biblioteca Queriniana e il
composito Palazzo vescovile. E se una rapida puntata verso est
conduce ai consistenti resti romani (risalenti all’impero di
Vespasiano) del Tempio Capitolino e del teatro, dal versante opposto
della piazza Paolo VI si raggiunge l’adiacente piazza della Loggia,
splendido cuore della Brescia veneziana, con tutti i suoi edifici
quattro-cinquecenteschi, la tripartita Loggia su un versante e i portici
con la Torre dell’orologio sul versante opposto, in una scandita
scenografia, quasi messa in scena di venezianità lontano dal mare.
Ma la serena teatralità di questo meriggio d’ottobre è per me turbata
dal ricordo di un evento non lontano negli anni, che ha dato a questa
piazza una triste notorietà, assolutamente indipendente dal suo
aspetto reale e dalla sua storia: questa bresciana piazza della
Loggia viene tuttora evocata per la strage che ebbe luogo il 28
maggio 1974, con lo scoppio di una bomba nascosta in un cestino di
rifiuti durante una manifestazione sindacale antifascista, con otto
morti e un centinaio di feriti.
Così sotto il segno del terrorismo degli anni settanta Brescia è
stata costretta a confrontarsi ancora con quella violenza che tante
volte l’ha aggredita e lacerata nel corso del tempo: ma la città è
anche un emblema di vigore e coraggio, abituata a resistere ad
assedi e soprusi e fregiata dall’appellativo di “leonessa d’Italia”, che
le fu attribuito per l’eroismo delle dieci giornate (23 marzo-1° aprile
1849) in cui insorse e resistette contro gli austriaci, dopo la sconfitta
dei piemontesi a Novara. Le immagini letterarie del suo eroismo
risalgono fino al più lontano Medioevo (VIII secolo), per una vicenda
a cui è dedicata la tragedia giacobina di Francesco Saverio Salfi,
Virginia bresciana (1799), e trovano una dilatazione che raccorda il
Risorgimento all’antichità romana in un’Ode barbara di Carducci,
Alla Vittoria. Tra le rovine del tempio di Vespasiano in Brescia.
Questa poesia si rivolge alla statua bronzea della Vittoria alata
(copia romana di un originale greco), qui al Museo di Santa Giulia, e
si conclude attribuendo queste parole alla statua stessa:

Lieta del fato Brescia raccolsemi,


Brescia la forte, Brescia la ferrea,
Brescia leonessa d’Italia
beverata nel sangue nemico.

Proprio su una diramazione a un lato di piazza della Loggia c’è il


monumento alle dieci giornate, inaugurato nel 1864, detto della Bella
Italia, per la statua dell’Italia con uno stendardo, sopra un
basamento con bassorilievi sulle vicende dell’insurrezione.
Poco accanto la piazza Tito Speri ricorda il maggiore animatore di
quella insurrezione, poi cospiratore, arrestato dagli austriaci e
condotto al patibolo a Belfiore presso Mantova il 3 marzo 1853. Da
questa piazza si può salire al Castello, sul colle Cidneo: l’attuale
impianto è quattro-cinquecentesco, ma il luogo ha avuto un ruolo
importante in tutta la precedente storia bresciana, e naturalmente
nelle vicende dei vari assedi. Ora, il colle e le fortificazioni intorno ai
bastioni del castello offrono belle passeggiate e punti di
osservazione dell’intera città.
Val Camonica

…tra Garda e Val Camonica e Pennino…


(Inf., XX 65)

Lasciata Brescia, mi dirigo verso la Val Camonica, nominata nella


perifrasi del XX dell’Inferno come origine delle acque che scendono
da nord verso il lago di Garda: anche se a rigore non sono le acque
della Val Camonica a convergere verso il lago di Garda, ma quelle
delle valli Giudicarie e di valli del Trentino. In questo caso il richiamo
dantesco vale comunque più come una generale indicazione di
territori a monte del lago che come vera e propria puntualizzazione
geografica. Più controversa è del resto la determinazione di
Pennino, dato che non è facile identificare a cosa con questo
termine Dante propriamente si riferisca (e ciò anche se si legge
Apennino). Nel Medioevo i termini per indicare Alpi e Appennini
venivano indifferentemente usati, scambiati, estesi; e analoga
estensione subiva l’identificazione del tratto alpino designato come
Alpi Pennine (dal nome del Mons Poeninus, il Gran San Bernardo),
la zona tra la Val d’Aosta, il Piemonte settentrionale e il Vallese, che
nel De vulgari eloquentia, I VIII 6, viene indicata come uno dei limiti
meridionali dei parlanti in lingua d’oil (“Apenini devexione
clauduntur”, “sono chiusi dal declivio delle Alpi Pennine”). Nel
contesto di questa perifrasi del XX dell’Inferno per Pennino o
Apennino si dovrebbe quindi intendere l’insieme dei rilievi a nord del
lago di Garda e della Val Camonica, le Alpi Retiche e i gruppi
prealpini al loro sud.
Tutta la Val Camonica è percorsa dal fiume Oglio, su cui
convergono numerosi affluenti: dalla sorgente di Ponte di Legno fino
al punto in cui le sue acque vengono a formare il lago d’Iseo. Da
Brescia mi dirigo quindi verso Iseo, attraversando le colline del
Franciacorta, fitte di vigne da cui zampillano spumanti molto diffusi e
di buon livello. Al di là di vigne e cantine, di insegne con nomi di
marche ben note che esaltano il metodo classico di vinificazione
dello spumante, raggiungo la sponda del lago, di cui percorro verso
nord tutto il lato est, da Iseo a Sulzano a Marone a Pisogne.
Osservo, oltre le acque placidamente increspate, la sponda opposta,
con borghi adagiati sotto i rilievi che scendono sul lago, su cui sono
aperte piccole valli in dolce declivio. A un certo punto al centro del
letto del lago sorge un corpo montuoso, un’isola ben piantata, il
Monteisola, davanti a cui c’è come una piccola appendice, l’isoletta
di San Paolo. A Sulzano ci si trova proprio dirimpetto all’isola, di
fronte al borgo di Peschiera Maraglio.
Proprio il percorso lacustre tra Sulzano e Peschiera Maraglio,
affidato normalmente a comodi battelli, nell’estate del 2016 sarà
praticabile a piedi: grandi folle potranno passeggiare su
un’installazione collocata con grande rumore mediatico da un
celebre artista che si fa chiamare col nome che nella Commedia può
rimare solo con se stesso. Con potere divino questo artista chiamerà
un devoto pubblico a camminare sulle acque, su The Floating Piers,
pontili galleggianti e fluttuanti disposti sul lago, appunto da Sulzano a
Peschiera Maraglio, e con diramazione da Sensole (altra località di
Monteisola) fino all’isoletta di San Paolo. Meraviglia, attrazione,
manifestazione di potenza di questo Christo residuo, nel tempo di
espansione e dissoluzione dell’arte, della sua pretesa di invadere e
alterare lo spazio fisico, di far entrare masse umane in quello spazio
alterato.
Ma ora, ora che ne percorro le sponde, il lago sembra fermo in una
quiete sospesa, interrotta solo dalle auto che percorrono le strade,
anche se il traffico si svolge perlopiù non sulla litoranea, ma su una
variante interna di rapido scorrimento. Raggiungo questa variante
dopo Pisogne: lasciato il lago mi addentro finalmente nella Val
Camonica, risalendo il corso dell’Oglio: da Boario Terme a Breno
(dove appaiono le mura merlate di un vecchio castello) il fronte delle
montagne che chiudono la valle appare sempre più imponente. Poi
l’Oglio si mostra sempre più incassato tra le propaggini delle Alpi
Orobie a ovest e del gruppo dell’Adamello a est. Qui si possono
cercare le tracce dell’antico popolo dei Camuni (che dà il nome alla
valle): nella zona della località di Capo di Ponte si trova quanto resta
del monastero cluniacense di San Salvatore (attestato già alla fine
dell’XI secolo) e il Parco nazionale delle incisioni rupestri, la traccia
più impressionate della presenza dei Camuni, in epoche
preistoriche, fino al mesolitico (oltre 6000 a.C.).
Lo sguardo verso l’alto, all’aggettare delle montagne sulla valle,
sembra far vibrare qualche eco di quel mondo così silenzioso,
incomprensibilmente lontano, mentre la strada che percorro è tutta
carica di segni e scarti, motori e luci del nostro frenetico e
velocissimo presente. Procedo comunque verso il punto centrale
della valle, Edolo, dove si dirama a sinistra una strada che risale la
valle di Còrteno e, attraverso il passo dell’Aprica, raggiunge la
Valtellina, mentre verso destra si percorre la parte più alta della Val
Camonica, fino a Ponte di Legno e al passo del Tonale. Edolo si
presenta in un’intersezione tra la strada statale, il fiume Oglio e la
disposizione del nucleo storico della città, che in parte sta in basso,
sul versante destro dell’Oglio e in parte su una leggera costa, sul
versante sinistro del fiume. Questo corre precipitosamente sotto vari
ponti, tra cui un bel ponte di legno coperto da tettoia.
Le stradine ben tenute del vecchio borgo conducono in basso alla
chiesetta cinquecentesca di San Giovanni Battista: semplice la
facciata, con un piccolo pronao, mentre all’interno c’è un singolare
ciclo di affreschi, attribuiti a Paolo da Caylina il giovane, risalenti
forse agli anni quaranta del Cinquecento: mi colpiscono le posture
delle varie figure e in particolare la scena della nascita del Battista e
quella della visitazione. Risalendo oltre il ponte di legno verso il
versante est, raggiungo la ampia parrocchiale di Santa Maria
Nascente, di forme composite, ma di effetto prevalentemente
settecentesco; dietro la chiesa c’è il cimitero, accanto al quale trovo
un cippo che ricorda cinque partigiani delle Fiamme verdi
(formazione cattolica molto attiva in questa zona), con il motto VERSO
IL CIELO PER LA LIBERTÀ, fucilati l’11 aprile 1945, Canti Gregorio,
Ghiroldi Vitale, Negri Vittorio, Scilini Giovanni, Venturini Giovanni. La
campana della chiesa suona le ore 18, e sembra come distendersi
verso la visione del solco che la val di Còrteno apre tra i monti a
ovest. Un manifesto su una bacheca presenta una serie di
manifestazioni leopardiane che hanno luogo qui nel mese di ottobre,
sotto l’insegna de L’infinito, …sempre caro mi fu… Edolo!,
culminante nella proiezione del film di Mario Martone Il giovane
favoloso, dal Festival di Venezia 2014.
Riscendendo la Val Camonica nella sera che incombe non posso
evitare di fare una breve escursione sulla destra, suscitata
dall’indicazione che segnala una località dal nome identico a quello
del lago, Garda, che ancora una volta fa direttamente risuonare il
verso dantesco “tra Garda e Val Camonica e Pennino”. Mi arrampico
su una strada strettissima fino a un borgo appollaiato più in alto,
sulle tozze propaggini dell’Adamello, folte di castagni, proiettate qui
sulla valle: e raggiungo, il piccolo borgo, remoto e silenzioso, a 1050
metri sul livello del mare (Edolo era a 700). Da un poggio ho un
colpo d’occhio su una parte della media Val Camonica, su cui
incombe il massiccio boscoso dell’altro versante, costituito dal Piz
Tri, alla cui base sono abbarbicati altri piccoli borghi. Ma si fa sera e,
dopo una perigliosa discesa da Garda, riprendo la strada statale
verso sud, rapidamente lasciandomi alle spalle la Val Camonica.
Sulla sponda del lago d’Iseo, mi fermo a Lovere, per passare la
notte. È un luogo di vacanza lacustre, disposto longitudinalmente sul
fronte del lago: le tracce del borgo medievale e quelle della
dominazione veneta, sotto cui si svolgevano vivaci attività industriali
(in primo luogo la lavorazione di panni) si integrano nel più
consistente assetto ottocentesco. Molto piacevole è l’alternarsi e
scambiarsi tra le zone interne, con gli aggiramenti dei vicoli, e il vario
sbucare sul lungolago, che ha nel suo punto centrale un’ampia
piazza su cui prospetta il Palazzo Tadini, sede della Galleria
dell’Accademia Tadini, fondata nel 1828 dal nobile cremasco Luigi
Tadini. Un po’ all’interno, al limite tra il borgo medievale e
l’ampliamento rinascimentale, si dispone la basilica di Santa Maria in
Valvendra, impiantata nel tardo Quattrocento, di composta e regolata
semplicità, che sembra come venire incontro a chi passa col suo
avancorpo porticato.
I vari strati della città e l’equilibrata misura a cui, pur nel loro
contrasto, sembrano comunque dar luogo, mi danno la sensazione
di qualcosa di precario, di un troppo provvisorio raggiungimento, che
riguarda non solo questo, ma tantissimi luoghi simili dell’Italia: come
ad avvertire che lo stato delle nostre città e cittadine storiche,
stratificate nel tempo, sia arrivato negli ultimi decenni a un punto di
equilibrio con una modernità che non è giunta a cancellare del tutto
le tracce di quel “prima”, che però forse verranno comunque a
perdersi nell’incombente ultramodernità, nella tecnologizzazione e
virtualizzazione dell’esistere. Sono in ballo, in questo momento,
conservazione, tutela, fruizione, trasformazione,
commercializzazione, consumo, in una miscela contraddittoria che
agisce sullo spazio, sull’uso dell’habitat e sui conflitti a cui dà luogo:
sempre più difficile conciliare tutela e consumo dello spazio,
memoria e installazione del presente.
Lascio Lovere il mattino del 17 ottobre, percorrendo ora la costa
occidentale del lago. Tra Lovere e la vicina Castro il paesaggio
lacustre è come contraddetto da insediamenti industriali, la cui
origine del resto risale molto indietro: erano fonderie, fabbriche
d’armi della repubblica di Venezia (come nella Val Camonica e nella
vicina Valtrompia), che poi nell’Ottocento hanno dato luogo a più
ampi impianti siderurgici. Proprio al limite tra Lovere e Castro
sorgono gli stabilimenti della Lucchini RS, legata a vari gruppi
internazionali, azienda leader nella produzione di materiale rotabile
per le ferrovie (ruote, assi ecc.: RS è acronimo per Rolling Stock,
appunto materiale rotabile). Superata Castro, col suo porticciolo che
ha alle spalle gli impianti siderurgici, ci si allontana immediatamente
dall’orizzonte industriale: questa costa occidentale è più scoscesa e
tortuosa di quella orientale e ora le rocce scendono quasi a picco
sull’acqua, con insenature strettamente incassate, gli orridi, qui
chiamati bögn. La strada segue il tracciato della costa, superandone
qualche tratto con brevi gallerie, in fondo alle quali brilla l’azzurro del
lago, accarezzato dal primo sole mattutino. Gli incanti visivi della
riva, che nella parte finale piega verso ovest, cessano quando
giungo a Sarnico, sul punto dove le acque del lago si immettono
nell’Oglio.
La strada segue poi il percorso del fiume, fino all’autostrada, che
mi accoglie col suo movimento illimitato, con la sua corrente che
sembra trascinare chi vi si immette verso una comune destinazione,
frantumata però nelle mete diverse, nei contrastanti obiettivi, lavoro,
passione, necessità, speranza, indifferenza, verso amici, nemici,
verso ragioni e verso follie. Mentre si tentano sorpassi, mentre si
scruta con attenzione chi precede, chi rallenta, chi piomba troppo
velocemente da dietro, mentre si azionano frecce per cambio di
corsia e ci si indigna per chi lo effettua senza segnalare, sembra
quasi di essere trasportati dallo stesso manto autostradale, dalla sua
rullante scorrevolezza, dal vario succedersi dei cartelli che
annunciano distanze, mete, uscite, stazioni di servizio. Correre a 130
km. orari e oltre, come se sia qualcun altro a correre e a trasportarci.
È un’impressione che ora sembra confermata dalla presenza di ben
due camion che trasportano camion: dopo che li ho sorpassati, mi
trovo poi a sorpassare vari camion che trasportano barconi. La
macchina nella macchina, il teatro nel teatro, il folle insensato teatro
che si dispiega su questi nastri insonni disposti sul suolo d’Italia, che
ci portano verso un dove in cui mai possiamo fermarci e consistere.
Este

…ma li profondi fóri


ond’uscì ’l sangue in sul quale io sedea,
fatti mi fuoro in grembo a li Antenori,

là dov’io più sicuro esser credea:


quel da Esti il fé far, che m’avea in ira
assai più là che dritto non volea.
(Purg., V 73-78)

Ora l’autostrada mi riporta verso il Veneto: la lascio a Verona sud,


per percorrere parte della superstrada da Verona a Rovigo, da cui a
un certo punto, all’altezza di Legnago, devio verso est per
raggiungere Este, il luogo di origine degli Estensi, ricordato
nell’Antipurgatorio da Jacopo del Cassero, che, dopo aver
accennato a Fano, sua patria (vedi anche pp. 315-316), dice a Dante
che la sua morte (con le ferite da cui uscì il suo sangue) ha avuto
luogo in grembo a li Antenori, nel padovano (il troiano Antenore,
mitico fondatore di Padova, dà anche il nome a una delle zone del
Cocito, quella dei traditori della patria, perché, ancora secondo una
tradizione mitica, avrebbe favorito l’ingresso dei greci a Troia). Per
recarsi a Milano, di cui era stato nominato podestà, Jacopo aveva
raggiunto per mare il padovano, proprio per evitare di attraversare i
territori controllati dal nemico Azzo VIII d’Este; ma anche lì, dove
credeva di essere più sicuro, era stato raggiunto dai sicari
dell’Estense, da Dante ricordato indirettamente in Inferno, XII 111-
112 (vedi p. 451).
L’uscita di Verona sud si rivela come qualcosa di angoscioso,
senza remissione: sono incolonnato tra una selva di camion, di
autosnodati, autoarticolati, furgoni e furgoncini, suv e utilitarie, senza
fine. Si procede con esasperante lentezza: è come se, dopo essere
stati trasportati dalla fettuccia dell’autostrada, si fosse condannati a
rimanere prigionieri tra gli incroci, le deviazioni, i semafori, le
direzioni impossibili. Ma intuisco che posso provare a lasciare la
corrente, a non obbedire alle segnalazioni che indicano la mia
direzione: svicolo intuitivamente, svoltando su strade dove non
svolta quasi nessuno e dove comunque si procede; poi mi aggiro
ancora più volte su strade marginali e laterali finché, infine, trovo
proprio la superstrada per Rovigo, libera e quasi senza traffico.
Rapidamente giungo all’altezza di Legnago e svolto sulla strada ex
statale 10, Padana inferiore, in direzione di Monselice. Non mi fermo
a Montagnana, ma non posso evitare di ammirarne la splendida
cerchia di mura, così perfettamente conservate, la cui fattura in cotto
e trachite sembra come ulteriormente colorarsi al sole che le
lambisce, con lo strato basso più chiaro e quello alto rossiccio, il
tutto adagiato su un verdissimo prato che scende in leggero pendio:
furono fatte costruire dal signore di Padova Francesco il vecchio da
Carrara, tra il 1360 e il 1362, quando per qualche tempo a Padova si
trovò a soggiornare Francesco Petrarca.
Sullo sfondo della piana cominciano presto a scorgersi i rilievi dei
colli Euganei, alla cui base ecco finalmente Este, Ateste,
antichissimo insediamento dei Veneti, già nell’età del ferro: la
famiglia che ne prese il nome era qui nell’XI secolo e da qui sviluppò
la sua potenza, parallelamente alle istituzioni comunali. Nel corso del
XIII secolo gli Este trasferirono la loro sede a Ferrara, di cui si
impadronì definitivamente Azzo VII Novello nel 1240, mentre Este
subì il dominio di Ezzelino da Romano, alla cui sconfitta (1259)
proprio Azzo VII contribuì in modo determinante. La città ebbe poi
alterne vicende nelle lotte tra le varie signorie che si contendevano
la Marca Trevigiana: e gli Estensi mantennero con essa vari e
contrastati rapporti, per la presenza dei loro beni e del loro castello.
Lo stesso Azzo VIII morì proprio a Este (31 gennaio 1308),
essendosi mosso da Ferrara per curarsi nelle zone termali del
padovano. Este fu poi occupata anche da Cangrande della Scala,
che ne distrusse il castello, ricostruito nelle forme attuali dai
Carraresi, sotto il cui dominio la città rimase fino alla sottomissione di
Padova a Venezia (1405).
La forma attuale è più vicina a quella veneziana, sull’asse di una
bella strada porticata che conduce alla centrale piazza Maggiore, su
cui si affaccia un semplice palazzetto gotico, su arcate ogivali, che
risale agli anni del dominio scaligero. Percorrendo la strada porticata
(dove trovo ancora un annuncio di una manifestazione letteraria,
Maratona di lettura 2014, terza edizione, 3-19 ottobre, ma solo nei
fine settimana) giungo alla chiesa di San Martino, che risale al XIII
secolo, con una tozza, semplice facciata su cui si aprono stretti
finestroni verticali. Torno poi indietro per raggiungere il Castello
Carrarese, sul sito delle originarie fortificazioni costruite da Alberto
Azzo II nell’XI secolo. L’ampio recinto del castello è stato in parte
trasformato in una costruzione cinquecentesca entro cui è ora
collocato il Museo nazionale atestino; ma sopravvive gran parte della
cinta merlata, con torrioni e torrioncini. All’interno della cinta c’è un
ameno e sognante giardino, che con il rigoglio delle piante e la
geometria dei viali sembra attutire ogni memoria delle lontane
vicende di signori e tiranni; anche la torre quadrata che si staglia sul
rilievo della rocca sembra aver acquisito quasi una sostanza
vegetale.
Ora che sono in territorio carrarese, al limite dei colli Euganei, non
posso certo trascurare di fare una pur breve visita al geloso
successore di Dante, il figlio di ser Petracco che nacque nel torno di
tempo in cui il padre era proprio insieme a Dante nel gruppo degli
esuli Bianchi, ancora impegnati a tentare azioni per rientrare a
Firenze. Lasciata Este, salgo allora sui dolci declivi dei colli, tra vigne
e boschetti, tra bellissime prospettive in qualche tratto squarciate da
cave che hanno cancellato intere sezioni dei rilievi.
Ma, toccando Arquà, tutto appare davvero perfetto: lasciata l’auto
in un parcheggio quasi deserto, risalgo su un percorso lastricato, che
mi porta sotto un archetto, dopo il quale una breve rampa di scale mi
fa affacciare accanto a uno spiazzo antistante il sagrato della chiesa
di Santa Maria, sul quale è disposto, occultando quasi la facciata
della chiesa, il sepolcro del Petrarca, grande arca in marmo rosso di
Verona. Per sei anni i resti del poeta furono accolti all’interno della
chiesa, poi passarono in questa arca, fatta costruire dal genero
Francescuolo da Brossano, marito della Francesca di cui ho trovato
la tomba a Treviso. L’arca è diventata così una sorta di severo
emblema di Arquà, sottoposta a quei misteri, distorsioni,
trafugamenti che toccano spesso ai sepolcri dei grandi. Si sa che nel
1630 un frate domenicano, Tommaso Martinelli di Portogruaro, vi
aprì un foro di cui ancora si vede il segno, sottraendo il braccio
destro del cadavere, sembra su commissione dei fiorentini. Poi in età
di avanzate competenze scientifiche sono venute esumazioni e
analisi dai vari esiti: e pare che addirittura vi sia stato identificato un
teschio femminile, facendo sorgere dubbi e misteri sull’identità del
cadavere, su dissezioni e sostituzioni subiti nel corso del tempo.
Queste vicende sembrano come turbare la consistenza stessa
dell’epitaffio, dettato probabilmente dallo stesso Petrarca, che è
inscritto sul fronte dell’arca, che inizia col verso FRIGIDA FRANCISCI
LAPIS HIC TEGIT OSSA PETRARCE (“questa pietra copre le fredde ossa di
Francesco Petrarca”).
Qui siamo comunque nella parte bassa del piccolo borgo: una
strada che sale ne attraversa il centro, tra antiche case dove sono
aperti locali e negozi, che offrono prodotti dei colli e qualche cimelio
più o meno petrarchesco. Superata la piazzetta San Marco salgo
ancora: pochissimi i passanti, tra cui due turisti americani che
procedono in senso contrario. E raggiungo la casa del poeta, da lui
stesso fatta impiantare sul terreno donatogli da Francesco da
Carrara: vi passò gli ultimi anni, anche con la figlia Francesca,
concependovi gli ultimi scritti e dando anche l’ultima sistemazione al
Canzoniere. Ma non si trattò di un soggiorno stabile e continuato,
dato che Francesco continuò ad avere anche varie incombenze
pubbliche e per gran tratto ebbe a soggiornare a Padova, nella casa
canonicale.
Ecco il portale che introduce nel giardino con le folte siepi di
bosso, ecco il fronte della casa con la loggetta, successiva ai tempi
del poeta: tutto è in perfetto ordine, nell’assetto delle varie stanze,
con affreschi cinquecenteschi di materia petrarchesca. C’è un segno
di cura, ben lontano da quanto lamentato da Jacopo Ortis nella sua
lettera datata 20 novembre sulla gita ad Arquà (“La sacra casa di
quel sommo italiano sta crollando per la irreligione di chi possiede un
tanto tesoro”). Ma, come capita per lo più quando si visitano le case
degli scrittori, si prova anche un effetto di irrealtà, di congelamento e
distanziamento della vita che vi ha avuto luogo. D’altra parte, se
molte cose della casa si saranno trasformate nel corso del tempo e
se molte identificazioni danno adito a dubbio (sublime la gatta
imbalsamata, che sarebbe proprio la gatta di Francesco!), si impone
comunque la suggestione dello studio, con la sedia e la libreria che
si dice siano quelle del poeta. Non si può non evocare la scena della
sua morte, nella notte tra il 18 e il 19 luglio 1374, col capo su di un
libro, secondo una tradizione che anche gli studiosi più accorti
sembrano considerare credibile (anche se il libro non sarà stato
proprio il celebre Virgilio Ambrosiano, variamente postillato dal
poeta, allegato da varie biografie). È vero che nel caso di Dante non
è possibile trovare nessun luogo simile, nessun ambiente in cui si
possa sicuramente riconoscere la sua presenza, nessuna stanza
che abbia mantenuto, pur con tutti i rovesci e le trasformazioni del
tempo, una visibile traccia del suo passaggio.
Riscendendo verso la parte bassa del borgo, ormai quasi vicino
alla chiesa, trovo un ristorante De Laura: vi si può mangiare un
eccellente coniglio del Brenta, con piselli dei colli, olive e pinoli.
Oriago e Mira

Ma s’io fosse fuggito inver’ la Mira,


quando fu’ sovragiunto ad Orïaco,
ancor sarei di là dove si spira.

Corsi al palude, e le cannucce e ’l braco


m’impigliar sì ch’i’ caddi; e lì vid’io
de le mie vene farsi in terra laco.
(Purg., V 79-84)

Scendo dai colli, attraverso Monselice, e prendo l’autostrada, fino


all’uscita di Mira Oriago, che deve portarmi nei luoghi della fine di
Jacopo del Cassero, che, dopo essere sbarcato sulla riva del Brenta,
si trovò inseguito dai sicari di Azzo VIII, a cui cercò di sfuggire
nascondendosi nella circostante palude, dove, impigliato tra le canne
e il fango, fu raggiunto e mortalmente ferito, mentre forse avrebbe
potuto salvarsi se invece avesse preso la strada verso il centro di
Mira, un po’ a ovest rispetto alla località di Oriago.
Uscendo dall’autostrada ci si perde nel solito groviglio di strade,
nella pianura in cui non si vedono paludi, ma coltivi, filari di pioppi,
insediamenti industriali. Le indicazioni stradali mi conducono in un
primo momento verso Mirano; ma poi torno indietro e tra giri tortuosi
riesco a trovare Oriago, località disposta sul Naviglio del Brenta
subito a ovest di Marghera, dei cui stabilimenti sembra fin qui
avvertirsi la minacciosa presenza. Sul canale e sulle strade che ne
costeggiano le due rive si affacciano casette basse, perlopiù a due
soli piani. Sulla riva sinistra (versante nord del Naviglio) subito tocco
il Palazzo cinquecentesco Querini Moro, piuttosto malridotto, su cui
è fissata la lapide con quei sei versi sulla fine di Jacopo in questi
paraggi: è datata ottobre 1893 e la sormonta un piccolo medaglione
bronzeo con l’effigie di Dante. Subito accanto è la chiesa quattro-
cinquecentesca di Santa Maria Maddalena e poi un ponte di legno
girevole. Tutto ora è fermo e tranquillo sotto il sole: pochissime auto
percorrono le due strade. C’è come un agitarsi calmo, che sembra la
cifra dello scorrere del tempo su questa riva, tanto lontana dalla
cupa suggestione di quei versi danteschi – in cui sembrano come
lottare tra loro le tre parole della rima Oriaco, braco, laco – ma
lontana anche dall’amena misura delle residenze costruite secoli
dopo dai veneziani, insieme palazzi e ville, come lo slabbrato
Palazzo Querini Moro e quelli che trovo, poco più in là, sulla riva
destra, Mocenigo e Gradenigo.
Procedo verso ovest sulla strada della riva sinistra (è il percorso
della vecchia statale 11), che mi conduce appunto inver’ la Mira. Le
rive cambiano spesso assetto, tra zone molto verdi, scarpate erbose,
edifici e ville eleganti che si affacciano sulla strada. Mira è in effetti
una città dislocata lungo il Naviglio; e numerose sono le ville che vi si
affacciano o che sono disposte poco più in là: resti di quell’Arcadia in
Brenta in cui si è a lungo cullato il patriziato veneziano. Ecco la zona
di Mira Porte, che si adagia su di un isolotto formato dal Naviglio, la
cui conformazione costringe la strada della riva sinistra a distendersi
in un largo anello. Ecco poi il vecchio stabilimento della Mira Lanza,
che fu tra i leader dell’industria dei detersivi nel XX secolo, oggi
inglobata in una multinazionale che ne ha cancellato il marchio
originario (ma esso resta qui impresso in una svettante torretta).
Subito dopo il ponte che conduce allo stabilimento, ecco la
cinquecentesca Villa Contarini dei Leoni, dove fu accolto il re Enrico
III di Francia, e poi Villa Levi-Moreno, Alessandri, Mocenigo-Boldù,
Corner, Bon, Molin, Fini, Grimani… Senza fine, in un percorso di
visite e di porti tra barche, battelli, burchielli. Procedo lungo il
Naviglio fino a Dolo, senza arrivare alla settecentesca Villa Pisani,
ora Nazionale, che meriterebbe una ben tranquilla visita, sull’onda
delle sontuose suggestioni che ne ha ricavato Il Fuoco di
D’Annunzio. Tralasciati questi tardi splendori, mi avvio su strade
laterali che solcano e misurano la pianura, risalendo a nord e
incrociando l’autostrada e la ferrovia Padova-Venezia: Arino,
Pianiga, Caltana, Villanova di Camposampiero.
Sant’Andrea di Codiverno

Presemi allor la mia scorta per mano,


e menommi al cespuglio che piangea
per le rotture sanguinenti in vano.

“O Iacomo”, dicea, “da Santo Andrea,


che t’è giovato di me fare schermo?
che colpa ho io de la tua vita rea?”.
(Inf., XIII 130-135)

Ecco il borgo di Sant’Andrea di Codiverno, nel comune di


Campodàrsego, disposto all’incrocio tra strade e un canale del
sistema del Brenta, che con le sue ramificazioni si insinua tra le
case, tra ponti e ponticelli e una piccola rapida un po’ gorgogliante. È
la patria o comunque il luogo delle proprietà familiari dello
scialacquatore Jacopo da Sant’Andrea, che nella selva dei suicidi,
inseguito dalle cagne furiose, si nasconde invano tra le fronde di una
delle piante della selva, prima di essere sbranato; a lui si rivolge,
rimproverandolo, il suicida fiorentino prigioniero della pianta
danneggiata da quel suo tentativo di nascondersi. Benvenuto da
Imola ricorda alcune inverosimili imprese dello scialacquatore:
avrebbe dato fuoco a tutte le casupole della sua proprietà “satis apta
incendio, quia ex paleis, stipulis et canulis, qualia sunt communiter
domicilia rusticorum in territorio paduanorum” (“abbastanza atte a
prendere fuoco, perché fatte di paglie, stoppie e canne, come di
solito sono le abitazioni contadine nel territorio padovano”), per fare
omaggio a nuovi arrivati in campagna; durante una gita sul Brenta si
sarebbe divertito a buttare in acqua monete ecc.
La stramberia di queste presunte imprese di Jacopo sembra
totalmente lontana dalla quieta misura di questo luogo, dove la
strada si allarga su di un ampio spiazzo in cui si leva la chiesa di
Sant’Andrea, di semplice ed equilibrata architettura settecentesca,
ma dal corpo piuttosto ampio, affiancata da uno svettante, isolato
campanile. Sul fronte opposto un tranquillo, spazioso e
modernissimo edificio scolastico; varie auto parcheggiate, qualche
negozio e la scorrevole attività di un normale pomeriggio italiano.
Alcune lapidi suggeriscono frammenti della piccola storia che qui è
passata. Ma c’è anche, su un fianco della chiesa, la lapide con i
versi di Dante (collocata nel 1995). Sorprende però una lapide fitta di
tanti nomi di caduti della grande guerra (sembra impossibile che un
posto così ne abbia avuti così tanti), mentre un diverso segno di
dolore familiare è dato da quella che ricorda la morte di un bambino
di sette anni della famiglia Estense Selvatico (30 ottobre 1845).
Padova

Quali i Fiamminghi tra Guizzante e Bruggia,


temendo ’l fiotto che ’nver’ lor s’avventa,
fanno lo schermo perché ’l mar si fuggia;

e qual i Padoan lungo la Brenta,


per difender lor ville e lor castelli,
anzi che Carentana il caldo senta:

a tale imagine eran fatti quelli,


tutto che né sì alti né sì grossi,
qual che si fosse, lo maestro félli.
(Inf., XV 4-12)

ma tosto fia che Padova al palude


cangerà l’acqua che Vincenza bagna,
per essere al dover le genti crude;
(Par., IX 46-48)

Ora è tempo di approdare direttamente “in grembo a li Antenori”,


secondo la designazione di Padova fatta da Jacopo del Cassero
(vedi p. 719). Certo a Dante sarà capitato di visitare Padova nelle
diverse fasi dei suoi soggiorni nel Veneto: e alla lingua parlata a
Padova egli accenna due volte nel De vulgari eloquentia, in termini
generali in I IX 4, e più specificamente in I XIV 4-5, trattando del
volgare di area veneta “vocabulis accentibusque yrsutum et
yspidum” (“duro e ispido nei vocaboli e nella pronuncia”), condiviso
con bresciani, veronesi, vicentini, trevigiani, tra i quali in particolare i
padovani si trovano a essere “turpiter sincopantes omnia in -tus
participia et denominativa in -tas, ut mercò et bonté” (“usano la
sincope in modo sconveniente in tutti i participi in -tus e nei nomi in
tas, come mercò e bonté”).
Nella Commedia, comunque, Padova è nominata nel XV
dell’Inferno, nella similitudine riferita ai “duri margini” di pietra che
costeggiano il sabbione infernale del sesto cerchio, paragonati agli
argini opposti al mare nei paesi fiamminghi e a quelli costruiti lungo il
Brenta, per trattenere la furia delle acque prima che si ingrossino
con lo sciogliersi delle nevi al nord (prima che arrivi la calura in
Carentana, Carinzia, nella cui denominazione rientrava allora anche
la regione di Trento). Ancora di ambito idrico, riferito non al Brenta,
ma al Bacchiglione, è il richiamo che a Padova viene fatto nella
profezia di Cunizza da Romano, di cui ho già detto a proposito di
Vicenza (vedi p. 678). Padova del resto era caratterizzata proprio
dalla essenziale presenza dei corsi d’acqua: anche se molti sono
stati interrati, ancora nel secolo scorso, ben evidente è tuttora la loro
presenza, nell’intreccio dei numerosi canali derivanti da Brenta e
Bacchiglione. Varie contese con Vicenza avevano avuto luogo,
soprattutto nel XII e nel XIII secolo, per le acque del Bacchiglione,
spesso deviate dai vicentini per impedirne l’uso ai padovani: e uno
degli ultimi episodi fu proprio quello a cui allude la profezia di
Cunizza nel IX del Paradiso.
D’altra parte nel corso del tempo, le acque del Bacchiglione, anche
grazie a tutta una serie di canalizzazioni, sono venute a intersecarsi
con quelle del Brenta: ne avevano occupato il letto originario,
facendo spostare il suo corso a nord della città. Nella configurazione
attuale, il Bacchiglione tocca Padova da sud ovest e poi ne
costeggia il centro storico da ovest risalendo a nord e piegando
quindi verso est fino a scendere verso l’Adriatico dalla periferia est
della città. Da quella parte a un certo punto dal suo corso fuoriesce
un canale, il Piòvego, che tocca Noventa Padovana e all’altezza di
Stra confluisce nel Brenta, vicino al punto in cui se ne diparte il
Naviglio. Quanto al corso principale del Brenta, scendendo da nord
(l’ho già incontrato presso Bassano del Grappa e ho risalito il suo
corso nella Valsugana), dopo aver percorso tortuosamente la
pianura, sfiora da nordest la periferia padovana, prima di piegare più
recisamente verso sud, all’altezza di Stra, per raggiungere l’Adriatico
poco dopo aver ricevuto in sé le acque dell’ultimo tratto del
Bacchiglione, subito a sud di Chioggia, a brevissima distanza dalla
foce dell’Adige, che sbocca poco più a sud. Percorrendo Padova, del
resto, si può avere l’impressione di muoversi tra canali che si
affacciano a sorpresa tra le strade e il loro fitto traffico; ci si trova
quasi senza accorgersene su ponti e ponticelli; si scoprono umidi
squarci misteriosamente emersi dagli agglomerati edifici: sistema più
complicato, ma che la struttura della città e la vita che vi si svolge
sembra quasi far dimenticare, rispetto a quello più semplice eppure
più evidente di Treviso.
Ora comunque tocco Padova dalla periferia nord, attraversando il
Brenta all’altezza di Vigodarzere, nell’affollatissimo traffico
pomeridiano: il fiume scorre tra arbusti folti, tra loro disordinatamente
intrecciati, mentre tante foglie cadute galleggiano sulla superficie
dell’acqua; sul manto erboso degli argini si aggroviglia sterpaglia e
qualche casuale rifiuto, tra cui distinguo bene, a mezza scarpata,
uno di quei contenitori in plastica di olio per motori, adagiato in
posizione eretta, come se fosse su uno scaffale del supermercato.
Da qui mi dirigo verso il centro della città, traversando il quartiere
dell’Arcella, così detto per la presenza del santuario nella cui cella fu
tumulato il corpo di sant’Antonio subito dopo la morte (13 giugno
1231), prima di essere trasferito nella grande basilica del Santo.
Passeggio a sera tra le due Piazze delle Erbe e delle Frutta,
intorno al Palazzo della Ragione, che assunse la forma attuale
proprio tra il 1306 e il 1309, e, oltre il Caffè Pedrocchi, tocco il
Palazzo del Bo, sede originaria e tuttora in funzione dell’Università (il
cui aspetto risale in parte alla costruzione cinquecentesca dello
Scamozzi). Certo non è facile trovare tracce dirette della lunga
tradizione della cultura padovana, che molto viva era ai tempi di
Dante, con l’attività di personaggi di grande rilievo, come Lovato de’
Lovati e soprattutto Albertino Mussato, quasi coetaneo di Dante (era
nato nel 1261 e morì nel 1329). A questi si suole attribuire l’etichetta
di preumanisti, e studiosi recenti hanno insistito sul loro contributo
fondamentale alla prospettiva umanistica, anche rispetto allo stesso
Petrarca. Così il rilievo della cultura di Padova nel Duecento e
all’alba del nuovo secolo ha portato i curatori del recente Atlante
della letteratura italiana, Sergio Luzzatto e Gabriele Pedullà, col
proposito di suggerire inedite periodizzazioni, a segnare gli anni
1222-1309 sotto l’etichetta di Età di Padova, che certo non rende
ragione dei più essenziali orientamenti della cultura volgare e finisce
in ogni modo per mettere fuori causa proprio Dante, che, del resto,
tra Verona e Ravenna, non ebbe particolari simpatie per i guelfi
padovani.
È vero però che il Mussato, nonostante il suo guelfismo, si trovò a
recare omaggio all’imperatore Enrico VII: e in questo ambito può
aver avuto qualche tangenza con Dante, anche se in seguito ebbe a
sostenere recisamente la causa padovana contro Cangrande della
Scala. La sua opera più celebre, la tragedia Ecerinis, esibisce,
proprio in funzione antiscaligera, gli orrori del tiranno ghibellino
Ezzelino da Romano (che aveva sottomesso Padova tra il 1237 e il
1256). Dante si colloca ovviamente sul versante opposto; e lo
sapeva bene Giovanni del Virgilio, che nell’ecloga in cui lo invita a
darsi alla poesia latina, gli propone tra i possibili argomenti proprio le
gesta di Cangrande della Scala contro i padovani: “dic Frigios damas
laceratos dente molosso” (v. 28, “canta come i daini frigi siano stati
lacerati dal dente del molosso”: frigi i padovani, cioè troiani, in
quanto discendenti da Antenore). E si può anche pensare che il
ruolo che Dante attribuisce nel Paradiso a Cunizza, sorella di
Ezzelino, non sia privo di spunti polemici proprio nei confronti
dell’Ecerinis.
Gli Scrovegni

E un che d’una scrofa azzurra e grossa


segnato avea lo suo sacchetto bianco,
mi disse: “Che fai tu in questa fossa?

Or te ne va; e perché se’ vivo anco,


sappi che ’l mio vicin Vitalïano
sederà qui dal mio sinistro fianco.

Con questi Fiorentin son padoano…”


(Inf., XVII 64-70)

Un padovano eccellente Dante trova tra gli usurai, seduti sul


sabbione del terzo girone del settimo cerchio, vicino all’orlo del
burrone che precipita sulle Malebolge, con una borsa appesa al collo
in cui è segnato lo stemma di famiglia: si tratta di Rinaldo o
Reginaldo degli Scrovegni, riconoscibile per la scrofa azzurra in
campo bianco. Questi aveva acquisito grandi ricchezze con la sua
attività di prestatore, che lo avvicina a tanti fiorentini puniti nello
stesso luogo: morto a ridosso del 1300, nota che Dante è vivo e lo
congeda con stizza, indicando il futuro arrivo nella stessa pena di un
altro padovano, Vitaliano del Dente, che sarebbe morto nel 1311 e
che era comunque un esponente di primo piano del guelfismo
padovano (Albertino Mussato sposò una sua sorella).
Il nome di Reginaldo, comunque, mi conduce alla più affascinante
opera d’arte della città di Padova, che è insieme la più vicina
all’orizzonte dantesco: la cappella che fu fatta innalzare da Enrico
degli Scrovegni, figlio di Reginaldo, tra il 1303 e il 1305, con il
grande ciclo di affreschi di Giotto, proprio in suffragio dell’anima del
padre, in ammenda per quel peccato di usura che caratterizzava la
sua famiglia. Si tratta della cappella di Santa Maria Annunciata o
della Madonna dell’Arena, eretta nella zona dell’Arena, oltre il
giardino fiancheggiato dal corso del Bacchiglione, accanto alla
chiesa e al convento degli Eremitani. Mi dirigo verso la cappella dal
piazzale della Stazione, attraversando sul Corso Garibaldi il ponte
sul Bacchiglione, che qui sotto appare quasi immobile, carezzato
dalle sponde erbose, oltre le quali si ergono le mura che circondano
il giardino dell’Arena: a brevissima distanza dall’acqua, un tavolinetto
bianco, adagiato con la sua seggiolina sul prato e sovrastato da un
piccolo vaso di fiori sembra promettere ameni indugi fluviali.
Ho provveduto a suo tempo alla necessaria prenotazione per la
visita della cappella: per raggiungerla, secondo l’orario previsto, si
passa dall’ingresso dei Musei civici, insediati nell’ex convento degli
Eremitani: la visita è contingentata e a tempo limitato, secondo i vari
turni. Si accede, col gruppo a cui si è stati assegnati, attraverso una
sorta di avancorpo, il CTA, Corpo tecnologico attrezzato, dove si
sosta per quindici minuti per la stabilizzazione del microclima,
assistendo a una proiezione informativa. Solo dopo questo
passaggio si entra nella cappella, di fronte agli affreschi che hanno
assunto un rinnovato splendore dopo il restauro concluso nel 2002.
Ci si immerge improvvisamente nell’accensione dei colori e delle
forme, nella incomparabile volumetria giottesca che prende corpo
sulla superficie muraria e la sostanzia di colore. Sotto l’azzurro
intenso del soffitto a volta si dispiegano le vicende del Nuovo
Testamento dal punto di vista di Maria, in una corposa, tragica
evidenza, che a tratti sembra contenere la possibilità di un ulteriore
significato, di una persistenza determinata dalla sicurezza del
disegno e del colore.
La storia si può seguire nella sua ordinata successione, secondo
la disposizione dei riquadri sulle pareti laterali. Il tema
dell’Annunciazione è messo in evidenza nell’arco che separa la
navata dal presbiterio: mi colpisce qui il severo volto di Maria, con le
braccia conserte e il librettino sulla mano destra, mentre riceve
l’annuncio dall’angelo, inquadrata tra due fantastici balconi/edicole,
simmetrici a quelli in cui è inquadrato l’angelo annunciante.
Scorrendo da un riquadro all’altro, l’occhio oscilla continuamente tra
l’aspirazione a catturare l’effetto globale della scena e il richiamo di
tanti pungenti dettagli: le lacrime sui volti delle madri degli Innocenti
massacrati, i gesti disperati degli angeli in volo sul cielo della
crocifissione, le finte finestre che si affacciano su ambienti a volta.
Alle grandi scene fanno da contrappeso i riquadri più piccoli, con
molteplici scene particolari; e in basso, sullo zoccolo delle pareti, le
sette figure delle Virtù e le sette dei Vizi, fissate, specialmente le
seconde, in una sorta di proiezione del dato simbolico in postura
morale, in modello antropologico. Moltissime le occasioni di
confronto e parallelo con situazioni dantesche, con il conseguente
richiamo alle ipotesi di un passaggio di Dante a Padova, proprio
mentre Giotto si trovava a lavorare qua dentro, o comunque di una
sua visita a lavori già conclusi.
Il richiamo dantesco può farsi naturalmente più forte per l’ampio
affresco del Giudizio universale, sulla parete interna della facciata:
colpisce la disposizione dei beati intorno al Cristo giudicante e la
varia rappresentazione degli orrori infernali, con Lucifero che non
solo stritola un dannato con la bocca, ma con varie sue membra
opera su altri diverse pratiche di tortura. In una zona di questa ampia
scena del Giudizio è inserita, proprio al limite del precipizio dei
dannati verso l’Inferno, la figura dello Scrovegni che, con
l’assistenza di tre angeli, presenta a un frate il modello della
cappella, proprio accanto a una croce che sembra far da confine tra
il mondo della salvezza e quello della dannazione. La disposizione di
questa immagine viene insomma a porsi come una sorta di garanzia
per la salvezza di Reginaldo, atto propiziatorio contro il rischio di
dannazione comportato da quel suo peccato.
Avrà Dante visto la cappella? sarà stato informato sulla sua
funzione votiva? Ma è certo che il suo impegno giudicante non ne ha
voluto proprio tenere conto: nonostante Giotto e la splendida
cappella, Reginaldo è finito nel sabbione infernale, con tutta la sua
borsa stemmata, accompagnato dal reciso disprezzo del poeta. A
proposito dei fiorentini che sono vicini a lui, il padovano ricorda come
essi sono in attesa dell’arrivo di un altro loro concittadino, il “cavalier
sovrano” Gianni Buiamonti de’ Becchi (che morirà nel 1310), e poi si
fissa in questa posa animalesca, disegnata da Dante con
compiaciuto stravolgimento:

Qui distorse la bocca e di fuor trasse


la lingua, come bue che ’l naso lecchi.
(Inf., XVII 74-75)

Questo accanimento contro lo Scrovegni non è di per sé sufficiente


per negare una frequentazione di Giotto da parte di Dante in
occasione della sistemazione della cappella: ma è vero che,
comunque, non esiste nessun dato che possa dare corpo alla realtà
di questa frequentazione, a parte la notizia che ne dà Benvenuto da
Imola, che ha piuttosto un sapore di aneddoto novellistico. Su dati
assolutamente aleatori si appoggia anche l’individuazione, fatta da
Alessandro Parronchi nel 1963, di un ritratto di Dante nel gruppo
degli oranti nell’angolo basso destro dell’affresco del Giudizio, al di
sopra delle figure dei risorgenti: in una delle ultime file di questo
gruppo si troverebbero, uno accanto all’altro, il volto di Dante, quello
di Giotto e quello di Giovanni Pisano (autore del gruppo scultoreo
della Madonna con due angeli che è sull’altare della cappella). Certo
è un bel volto, ben determinato ed energico, con qualche ruga, con
una sua recisa sicurezza, diverso da quello arcigno e sdegnoso dei
ritratti tradizionali: rispetto a esso il presunto autoritratto di Giotto
presenta tratti di una certa rincagnata bruttezza (corrispondente
proprio ai tradizionali racconti sull’aspetto fisico del grande pittore).
Ma che sia proprio un ritratto di Dante, e che sia il più antico e
originario, ripreso al vivo nei primi anni dell’esilio proprio a Padova
dal più grande pittore contemporaneo? Sarebbe “troppo bello per
essere vero”, come notò, a proposito dell’identificazione di
Parronchi, uno dei grandi maestri dell’università padovana,
Gianfranco Folena, il più generoso e il più ricco di autentica
humanitas, nel suo appassionato cercare nelle forme linguistiche il
pieno e vitale esplicarsi dell’essere nel mondo.
Frastornato dallo splendore della cappella, faccio una rapida visita
all’adiacente museo, dove mi colpisce una singolare Spedizione
degli Argonauti, compartita nel contrasto tra la figura della nave,
dove sono ben assestati gli eroi, che sembra quasi volare sull’acqua,
e il fantastico paesaggio roccioso al di fuori. E ancora una piccola
Madonna delle tenerezze di Mantegna (affreschi di Mantegna
dell’adiacente chiesa degli eremitani andarono distrutti nel
bombardamento dell’11 marzo 1944, da cui miracolosamente
scampò la cappella degli Scrovegni). Qualche suggestione dantesca
si affaccia poi negli angeli del Guariento, tavole composte per la
cappella della reggia carrarese, poi accatastate alla fine del
Settecento, che seguono, come Dante, lo schema delle gerarchie
angeliche di Dionigi l’Areopagita. Tutt’altro universo, graziosamente
mondano, quello che viene incontro dal quadro di Pietro Longhi, La
lezione di geografia: piccolo e ironico auspicio per la geografia di
questo mio viaggio.
Non posso comunque lasciare Padova senza affacciarmi sul suo
più imponente monumento duecentesco, sulla grande basilica
santuario del Santo che qui è il Santo per eccellenza e che è sempre
stato uno di quelli di maggior presa popolare, al di là dei confini
geografici, il santo portoghese qui approdato e defunto, francescano
taumaturgo nella cui immagine si sono decantati e neutralizzati i
tratti così radicalmente alternativi, così intensamente evangelici di
Francesco: sant’Antonio, sant’Antonio da Padova, il santo della città
guelfa di cui Dante non fa mai parola, quasi respingendone
l’immagine insieme a quella della sua città, mentre invece gli capita
di nominare il ben più antico sant’Antonio abate ed eremita,
protettore degli animali domestici, spesso raffigurato con un porco
accanto, come nel sarcastico contesto della polemica di Beatrice
contro i guadagni che i predicatori si procacciano con le loro
stoltezze:

Di questo ingrassa il porco sant’Antonio,


e altri assai che sono ancor più porci,
pagando di moneta sanza conio.
(Par., XXIX 124-126)

Passo davanti alla chiesa degli Eremitani, dove una piccola folla
festosa sta tripudiando intorno a una sposa che si appresta a uscire
da una bianchissima Mercedes. Dirigendomi verso la basilica del
Santo, penso che in ogni modo, nel caso di una sua visita a Padova,
Dante non può non averla vista. Sosto un po’ sulla piazza Antenore,
davanti all’edicola cuspidata con la tomba del mitico fondatore di
Padova, impiantata nel 1283, per racchiudere le spoglie di un antico
guerriero trovate qui presso qualche anno prima: a identificare quelle
spoglie come appartenenti al troiano Antenore fu una delle autorità
culturali del tempo, quel giudice Lovato de’ Lovati che si suole
annoverare tra i cosiddetti “preumanisti”. Il Lovati, a cui spettano
anche i versi latini inscritti sul lato dell’arca, faceva così del racconto
mitico un vero e proprio emblema della città, riconducendola ai
fondamenti “classici”: accuratamente escludendo quel risvolto di
tradimento su cui invece Dante avrebbe così recisamente insistito,
dando il nome di Antenora al settore infernale riservato ai traditori
della patria.
L’edicola era originariamente disposta in questi paraggi, su un
ponte che non c’è più, accanto alla chiesa di San Lorenzo, entro cui
fu poi installato il sepolcro di Lovato, anch’esso con apposita
iscrizione. Demolita la chiesa, anche il sepolcro del giudice si trova
qui, con le sue dimensioni più modeste, accanto al suo riconosciuto
Antenore. Su questa piazza si affaccia anche un’altra falsa
identificazione, segnata in una lapide apposta sulla facciata del
Palazzo neogotico Romanin Jacur: vi si fa riferimento a un soggiorno
di Dante del 1306, che fu ipotizzato sulla base di un documento
relativo a un Dantino di Firenze che allora si trovava da queste parti
(contrada di San Lorenzo), ma che, nonostante quanto scritto nella
lapide (FAZIONI E VENDETTE / QUI TRASSERO / DANTE / 1306 / DAI CARRARA DA
GIOTTO / EBBE MEN DURO ESILIO) non può essere in nessun modo il
poeta.
La via del Santo mi conduce alla grande basilica, che sempre
sorprende con il suo singolare gotico veneto, con il sentore d’oriente
dato dal fantastico intreccio di cupole e pinnacoli: iniziata l’anno
successivo alla morte del Santo e portata a termine nel 1310, anche
se poi sottoposta a ricostruzioni e interventi di vario tipo. Alla
trionfante apertura della facciata e di tutto il corpo esterno fa
riscontro il sontuosissimo interno, dove si sovrappongono stili e
forme diverse. Sul transetto destro la cappella detta di San Felice o
di San Giacomo reca i bellissimi affreschi di Altichiero (risalenti agli
anni settanta del Trecento), dominati dalla tumultuosa scenografia
della Crocifissione: qui nel vicino riquadro del Consiglio della corona
si affaccia anche un ritratto di Petrarca.
Il sepolcro del Santo è nel transetto sinistro, in una cappella che si
apre su una sorta di portico, dal rigoglioso assetto cinquecentesco: i
grandi rilievi scultorei delle pareti presentano le storie della sua vita e
dei suoi miracoli. L’arca in pietra verde è disposta sul retro
dell’altare, che si erge su di una scalinata: qui più fittamente sostano
i pellegrini, sorvegliati da un francescano; ce ne sono alcuni che
appoggiano le mani e la testa sul dorso dell’arca. Ma per assicurarsi
protezioni e intercessioni da parte del Santo basta affidarsi a due
urne di plastica, collocate rispettivamente a destra e a sinistra
dell’altare; su di esse è scritto FOTO E SUPPLICHE A S. ANTONIO.
Lascio la basilica, uscendo dietro un folto gruppo di pellegrini che,
dopo aver alimentato le loro devozioni, erompono festosamente sullo
spazio urbano. Sembra guardarli con sdegno il condottiero Erasmo
da Narni, detto il Gattamelata, fermo lassù sul monumento equestre
di Donatello, che vigila sul sagrato della chiesa. Andando via, sfioro
ancora per un po’ le acque padovane, costeggiando la riviera del
Businello, oltre la quale si affaccia l’abside della chiesa di San
Daniele. Un ponte porta oltre, verso la chiesa: accanto a essa si
trova un altro ponte, misteriosamente chiamato Ponte della morte,
con varie leggende che cercano di giustificarne il nome (tra l’altro, si
dice che di notte vi si affaccino le ombre di tre malfattori, che erano
soliti depredare i passanti e che furono tutti e tre giustiziati proprio
qui accanto). A un certo punto, accanto all’edifico della Questura, il
canale svolta verso sinistra, insinuandosi sotto una casa,
fronteggiata da una fitta siepe, mentre il percorso stradale procede
sulla Riviera Tito Livio, dove prima procedeva il canale, ormai
interrato. Svoltando leggermente a sinistra, si rivede il canale, che
scorre verso ovest, tra palazzetti di diversa fattura, non fiancheggiati
da passaggi percorribili. Da questo stesso punto si diparte la via
Roma, porticata sulla sinistra, che conduce al Palazzo del Bo e alle
centrali piazze delle Erbe e della Frutta.
Pola e il Carnaro

Sì come ad Arli, ove Rodano stagna,


sì com’a Pola, presso del Carnaro
ch’Italia chiude e’ suoi termini bagna,

fanno i sepulcri tutt’il loco varo,


così facevan quivi d’ogne parte,
salvo che ’l modo v’era più amaro;

ché tra li avelli fiamme erano sparte,


per le quali eran sì del tutto accesi,
che ferro più non chiede verun’arte.
(Inf., IX 112-120)

Alla fine del canto IX dell’Inferno Dante menziona il limite orientale


d’Italia entro una similitudine bipartita riferita ai sepolcri infuocati in
cui sono puniti gli eretici: la disposizione di queste arche somiglia a
quella dei sepolcri che rendono il terreno frastagliato (lo fanno varo,
vario, diseguale) in Provenza ad Arles e a Pola in Istria. Ma mentre
ad Arles è tuttora ben visibile la necropoli romana degli Alyscamps
(raffigurata anche da Vincent Van Gogh in un dipinto del 1888), non
c’è più traccia di quella di Pola, scomparsa nel XV secolo per il
saccheggio delle pietre, per farne materiale da costruzione. La
collocazione geografica della città istriana, in parallelo col
precedente riferimento all’impaludarsi del Rodano presso Arles,
viene peraltro fissata (nei vv. 113-114, che ho già trovato in una
lapide accanto all’ingresso dell’Arsenale di Venezia: vedi p. 613)
nella vicinanza con il golfo del Carnaro o Quarnaro o Quarnero,
considerato da Dante limite dell’Italia, seno marino che ne bagna i
termini. Si tratta del braccio di mare tra la costa orientale della
penisola istriana e la Dalmazia: entro di esso emergono varie isole e
sul suo punto più interno, a nord, si affaccia la città di Fiume.
Ricordando che nel De vulgari eloquentia l’Istria e l’istriano
vengono appaiati al Friuli e al friulano (vedi p. 635), mi dirigo verso
questi termini d’Italia in tempo di vacanze marine. Tra il 20 e il 23
giugno 2015 mi fermo a Trieste, lei che ora Italia chiude, sul golfo
che bagna i suoi termini orientali, alle soglie dell’Istria: a partire da
qui toccherò Pola e arriverò ad affacciarmi sul golfo del Carnaro, nel
territorio che ora è parte della repubblica di Croazia (Hrvatska) e che
è stato nei secoli luogo di interferenze, di intrecci etnici e culturali, di
scambi, passaggi, conflitti e violenze, con esiti novecenteschi molto
più laceranti di quelli che hanno riguardato gli opposti confini
occidentali dell’Italia, che la geografia dantesca segna tra i passaggi
delle Alpi piemontesi e Turbia (Purgatorio, III 49: vedi p. 967), come
limite della costa ligure.
Trieste è il crocevia di questi intrecci, che ha assunto grande
vitalità a partire dal Settecento, quando si è imposta come lo sbocco
principale dell’impero asburgico e di tutta l’Europa centrale
sull’Adriatico, con un porto intorno a cui fervevano imprese e scambi
di ogni genere: città con popolazione a prevalenza italiana, ma con
forti presenze in primo luogo di slavi, soprattutto sloveni, e poi di
austriaci, di tedeschi, di altri popoli dell’impero, imprenditori,
funzionari, operai, e con una notevole componente ebraica. Alla
periferia d’Italia, ma tutt’altro che periferica nella sua economia, nella
sua cultura, nel suo stile di vita, aperta all’Europa e al mondo, Trieste
ha sentito fino in fondo nel suo tessuto civile il peso della violenta
storia del Novecento: dalla battaglia dell’irredentismo e dal
passaggio all’Italia, alla varia repressione che il fascismo ha operato
sulla componente slava della sua popolazione, agli orrori della
Seconda guerra mondiale, alla situazione in cui si è trovata in
seguito, provvisoriamente costituita in zona A del Territorio libero di
Trieste, sotto l’occupazione angloamericana e tra le mire del regime
jugoslavo, che controllava la zona B e che aveva già annesso il resto
dell’Istria e di quella che era stata la Venezia Giulia (e solo nel 1954
la zona A è ritornata all’Italia). In questi passaggi la città ha
alimentato una grande letteratura, segnata proprio dal suo essere
all’intreccio e al confine, in un’identità locale spontaneamente aperta
verso un orizzonte internazionale: con due eccezionali “classici”
moderni, Svevo e Saba, scrittori atipici nella cui opera vive tutto lo
spirito della città, nella molteplicità delle sue anime, nella sostanza
dell’aria, nell’incanto e nella normalità dei luoghi, nelle passioni, nei
desideri, nei malesseri che vi prendono corpo. Italo Svevo e
Umberto Saba, i cui nomi stessi sono costruiti su deviazioni dai reali
nomi anagrafici (Ettore Schmitz e Umberto Poli), con caratteri,
anime, scritture tra loro del tutto incomparabili, sembrano esporre,
come solo da Trieste si poteva fare, la lingua e la tradizione italiana
al più inquieto orizzonte europeo (in cui agisce anche la traccia del
viennese Sigmund Freud). E a Trieste si è collocato, col suo lungo
soggiorno nella città e con l’amicizia per Svevo, il funambolico e
depistante irlandese James Joyce, che qui tra l’altro compose gran
parte dell’Ulysses. E tante altre voci originali ha visto affacciarsi il
Novecento, fino al nuovo orizzonte dato dalla collocazione della città
al confine d’Italia, separata dal vicino entroterra della Venezia Giulia:
dallo sloveno Boris Pahor a quel vigile custode della coscienza
mitteleuropea che è Claudio Magris, perplesso indagatore dell’etica
di questi luoghi, dell’umanità che li ha coltivati e della violenza che li
ha lacerati (ora, in questo passaggio a Trieste, sono accompagnato
proprio dal libro appena uscito di Magris, Non luogo a procedere,
che tocca le terribili vicende dell’occupazione nazista e della shoah a
Trieste).
Sul colle di San Giusto, centro del nucleo antico della città, sono le
tracce più varie della sua storia, dalle rovine degli edifici romani alla
cattedrale, alla rocca col castello impiantato inizialmente dai
veneziani e poi variamente ristrutturato e ampliato dagli austriaci. La
severa facciata della cattedrale di San Giusto, in mattoni di colore
diverso su cui si affaccia il luminoso rosone, sembra quasi
sbilanciata dal tozzo campanile che la sopravanza alla sua destra: e
proprio all’inizio del Trecento ebbero inizio i lavori che la portarono a
prendere la forma attuale, con la fusione di due chiese precedenti. Il
Bollettino della Vittoria del 1918, che ho trovato su tante piazze
d’Italia, qui è fissato sulla facciata del campanile della cattedrale;
altre numerose lapidi si trovano nel giardino antistante, tra la
cattedrale, la basilica romana, il castello, in ricordo di eventi e vittime
degli eventi del Novecento.
Una lapide collocata solo nel 2011 riconduce a questa lacerata
condizione di confine: vi sono elencati i caduti di un attentato ben
poco conosciuto fuori di qui, la strage avvenuta il 18 agosto 1946 a
Pola, sulla spiaggia di Vergarolla: dopo la data e il nome della
località, la scritta A POLA NEL VILE ATTENTATO CONTRO GLI ITALIANI CADDERO
/ ASSIEME AD ALTRI RIMASTI IGNOTI precede un elenco di 64 nomi, con gli
anni delle vittime, molti bambini (di tre anni i tre più piccoli): ma i
morti dovettero essere circa 80. Pola in quel frangente era sotto
l’amministrazione angloamericana, in una sorta di enclave nell’Istria
già occupata dai comunisti jugoslavi, che ne reclamavano
l’annessione, nonostante il fatto che nel suo spazio urbano gli italiani
fossero quasi il 90 per cento della popolazione. Sulla spiaggia era in
atto una manifestazione sportiva organizzata dagli italiani, quando
scoppiò una serie di mine che in precedenza erano state
disinnescate e che probabilmente erano state di nuovo innescate da
ignoti. Non si ebbero rivendicazioni, né indagini adeguate, ma è
molto probabile che l’attentato avesse la funzione di rendere
impossibile la permanenza degli italiani a Pola, proprio mentre era in
atto la conferenza di pace di Parigi che decideva l’assetto della
zona, stabilito poco dopo nel trattato firmato il 10 febbraio 1947, che
finì per assegnare Pola alla Jugoslavia insieme a tutta l’Istria: intanto
era già cominciato l’esodo della stragrande maggioranza degli
italiani (partirono 28.000 su 31.000), che lasciarono le loro case e i
loro beni, dirigendosi in diversi luoghi d’Italia, mentre in città
affluivano dall’interno dell’Istria i nuovi abitanti slavi, sotto l’insegna
del comunismo titino.
Dal colle di San Giusto mi affaccio sul mare, sul golfo percorso da
molte vele, mentre sul versante opposto si disegna la costa del
Friuli, verso Monfalcone e la foce dell’Isonzo. Scendo poi sulla bella
via della Cattedrale e attraverso Città vecchia, dove era anche il
ghetto ebraico, che mi ricorda la poesia di Saba, in Trieste e una
donna: “Spesso, per ritornare alla mia casa / prendo un’oscura via di
città vecchia”.
Tante le tracce della grande letteratura moderna tra le ariose
piazze e i caffè che offrono interminabili accoglienti distese di tavoli,
fino al lungomare che sembra aderire con familiare indifferenza alla
riva. Mi muovo dalla via Battisti, su cui prospetta il Caffè San Marco,
quello degli scrittori, al Canal Grande, porto canale che con grande
effetto scenografico si addentra nel cuore della città, attraversato da
ponticelli su uno dei quali passeggia una statua bronzea di James
Joyce. Da qui raggiungo la vicina via San Nicolò, dove, oltre il
portone numero 30 è una delle tante case abitate da Joyce e subito
accanto c’è ancora la piccola libreria antiquaria che fu di Umberto
Saba, mentre vicinissima, al numero 32, era la Berlitz School, dove
Joyce insegnò in diversi periodi e dove conobbe Svevo. In fondo alla
via San Nicolò, all’incrocio con via Dante Alighieri, ecco la statua di
Saba con la pipa in bocca, che, col sostegno di un bastone, si dirige
verso la sua libreria. Poi la grande piazza Unità d’Italia proietta verso
una sorta di cordialità mediterranea, non senza una un po’
corrucciata ritrosia adriatica, la sua ambiziosa monumentalità dei
tempi asburgici (quando si chiamava piazza Grande): qui c’è il
proliferante Caffè degli specchi (anch’esso con frequentazioni
letterarie: Joyce e Svevo non mancavano). Riattraversando parti
della Città vecchia, accanto alla Biblioteca Civica, in via Madonna
del Mare, si aprono gli appaiati Musei Svevo e Joyce, e più in là,
sulla piazza Attilio Hortis, vigila la bronzea statua di Svevo con un
libro nella destra e un cappello nella sinistra.
È molto vicino, sulla via Armando Diaz, il Civico Museo Pasquale
Revoltella, lascito di un grande imprenditore di origine veneziana,
fondatore a Trieste dell’Istituto Superiore di Commercio, in cui Svevo
studiò e poi si trovò anche a insegnare al tempo di Senilità. Qui si
trovano numerosi ritratti del pittore Umberto Veruda, grande amico di
Svevo, e molte sue opere che erano di proprietà dello stesso Svevo.
In una sala dedicata all’atelier dello scultore Ruggero Rovan (1877-
1965) si trovano busti di personaggi vari, tra cui quelli di Italo Svevo
e di Scipio Slataper.
Poco oltre il Museo Revoltella, dalla piazza Venezia si diparte la
via del Lazzaretto vecchio, che percorro ricordando un’altra poesia di
Saba (Tre vie, in Trieste e una donna), i cui primi versi sono qui
segnati su una lapide:
C’è a Trieste una via dove mi specchio
nei lunghi giorni di chiusa tristezza:
si chiama Via del Lazzaretto Vecchio.
Tra case come ospizi antiche uguali,
ha una nota, una sola, d’allegrezza:
il mare in fondo alle sue laterali.

Come finale raccordo di questa sommaria passeggiata letteraria


triestina, nel procedere su via del Lazzaretto vecchio, dopo due
traverse col “mare in fondo”, si incrocia la via Belpoggio, che a
destra si dirige verso il mare, per affacciarsi sul bacino sud del Porto
vecchio: è il luogo di un racconto pubblicato da Svevo nel 1890,
L’assassinio di via Belpoggio.
Lascio Trieste toccando alla sua periferia sud la Risiera di San
Sabba (che fu usata dai nazisti come luogo di sterminio) e scendo
verso il confine con quella che era la zona B del Territorio libero,
delimitata a sud dal corso del fiume Quieto (Mirna in croato). Fin
dalla liberazione questa zona era stata occupata dalla Jugoslavia,
ma passò più direttamente sotto la sua amministrazione col
Memorandum di Londra del 1954, svuotandosi allora, come già il
resto dell’Istria, dalla stragrande maggioranza dei residenti italiani.
Poi il trattato di Osimo del 1975 ha portato a un riconoscimento
bilaterale della situazione, anche con una garanzia almeno formale
dei diritti delle restanti comunità italiane, ormai integrate nello stato
jugoslavo. Poi più tardi, quando la Jugoslavia si è dissolta,
risparmiando comunque in Istria gli orrori che si sono avuti in altre
regioni, quella che era la zona B è stata divisa tra la Slovenia a nord,
intorno alla città di Capodistria, e la Croazia a sud, fascia di terra di
cui Umago, sulla costa, è il centro maggiore.
Nel puntare a sud non seguo subito la via più breve, quella
dell’autostrada, ma la strada costiera, che si affaccia da sud sul golfo
di Trieste con la penisola di Muggia: oggi Muggia è l’ultima cittadina
italiana, attestata sulla riva del mare con un quieto aspetto
veneziano, in cui si distingue il Duomo originariamente di impianto
duecentesco (consacrato nel 1263), ma con bellissima facciata
cuspidata in pietra bianca di metà Quattrocento.
Oltre Muggia la strada prosegue brevemente lungo la costa in
vista del golfo, poi raggiunge il confine con la Slovenia, toccando
Capodistria (Koper), città già romana e bizantina, sottomessa a
Venezia una prima volta nel 1278 e poi dal 1348 alla caduta della
Serenissima: vivace centro culturale nel Rinascimento, patria di molti
personaggi di rilievo nella storia italiana, dall’umanista Pier Paolo
Vergerio (1370-1444) al suo omonimo (1498-1565), che fu vescovo
della città e tra i protagonisti delle vicende religiose, costretto a
fuggire dall’Italia per i suoi rapporti con la Riforma protestante,
all’economista Gian Rinaldo Carli (1720-1795), collaboratore de Il
Caffè dei fratelli Verri, al patriota Nazario Sauro, impiccato dagli
austriaci a Pola nel 1916.
Parcheggio nei pressi di una banchina aperta del porto, dove è
attraccata una gigantesca nave da crociera, da cui stanno
sciamando plotoni di turisti: da qui un ascensore sale al Belvedere
della città, affacciato sul porto, con un bel giardino dove campeggia
un busto di Pier Paolo Vergerio il Vecchio (l’umanista). Da qui si
raggiunge rapidamente, tra vari negozietti turistici, il centro con la
bella piazza veneziana, di assetto soprattutto quattrocentesco: la
facciata del Duomo in cui le ogive goticheggianti della zona inferiore
sembrano come vincolate all’ordine orizzontale della zona superiore,
la semplice Loggia e il turrito Palazzo Pretorio, con merlatura
aggiunta nel Seicento. Omaggio persistente al padre della defunta
Jugoslavia comunista, la veneziana piazza del Duomo ha il nome di
piazza Tito (Titov Trg).
Scendendo direttamente verso sud da Capodistria si attraversa
l’entroterra di quella che è stata la zona B, passando dopo una
quindicina di chilometri nella parte croata: qui, dopo un leggero
rilievo, la strada E751 assume la forma di autostrada a quattro
corsie. Presto si sfiora Buje, centro agricolo presso cui si trova
Materada, il borgo natale di Fulvio Tomizza (1935-1999), a cui è
intitolato il suo primo romanzo, da lui pubblicato a venticinque anni,
nel 1960, su vicende legate agli effetti del Memorandum di Londra
del 1954, che diede luogo alla partenza di gran parte degli italiani
(tra cui la stessa famiglia dell’autore), che in questi territori erano
rimasti pur nel quadro della zona B controllata dai comunisti
jugoslavi.
Si attraversa più avanti il fiume Quieto (Mirna), che appunto
costituiva il limite sud della zona B, e si procede spesso tra pareti di
pietra istriana, nel verde di una campagna che si distende
leggermente ondulata, tra bassi rilievi, folti boschi di roveri, in cui
momenti di dolcezza sembrano alternarsi a qualcosa di aspro, di
ingrato. Si lasciano a destra le strade che conducono a centri di
antica origine, che dal secondo Duecento erano già sotto il dominio
della Serenissima, come Parenzo e Rovigno, e si giunge finalmente
a Pola, punto d’arrivo della romana via Flavia, affacciata al limite sud
del fronte ovest dell’Istria, su una profonda e frastagliatissima baia, a
cui succede tutta una serie di anfratti e di penisolette fino alla punta
meridionale della penisola istriana, quando la costa risale a nord col
fronte marino a est, ormai già sul golfo del Carnaro. Secondo la
leggenda, qui nel loro viaggio approdarono gli Argonauti e fondarono
la città.
Baie e strisce di terra si protendono e sembrano quasi intrecciarsi:
avanza immediatamente a sud della città la penisoletta di Verudela,
su cui è disposto un sistema di alberghi che ne ha completamente
modificato il volto, tra artificiosi edifici con snodi di vialetti, piazzole,
parcheggi, tra aiuole, fontane, lampioni, con accessi al mare disposti
su piattaforme in pietra. Sul lato est questa penisoletta si apre su di
un vero e proprio fiordo, con un porticciolo affollato di barche
turistiche. Procedendo più a sud, tra altri fiordi e qualche piccolo
isolotto, si percorre la lunga e stretta penisola di Premantura, che
man mano sembra liberarsi dall’ingorgo con altre coste e avanza sul
mare fino alla punta Kamenjak (che in italiano era detta Capo
Promontore). Una strada che parte dal borgo di Premantura immette
nel parco naturale di Kamenjak, dove si possono raggiungere gli
strati rocciosi più vicini alla punta, affacciandosi sul Carnaro e
riconoscendo in lontananza il lungo corpo boscoso dell’isola di
Cherso.
Tra zone molto animate, con una certa effervescenza turistica, e
altre che sembrano immerse in un antico silenzio, Pola presenta il
suo tessuto stratificato, dominato da imponenti testimonianze
romane, a cui si sovrappongono più discrete tracce medievali e
veneziane. Nel XIII secolo la città era infeudata ai patriarchi di
Aquileja, controllata con vari poteri dalla famiglia Sergi, che verso la
fine del secolo, come signori del castello cittadino ebbero la
denominazione de castro Polae, poi Castropola, e, proprio in anni
danteschi, impiantarono un vero e proprio potere signorile, che
presto si indebolì, con il loro crollo e la dedizione della città a
Venezia, che già controllava le coste circostanti.
Seguendo il percorso delle mura romane, a fianco dell’ampio
slargo alberato che ha tuttora il nome italiano di Giardini, si può
salire verso il colle centrale della città, tra palazzetti in cattivo stato,
tra cui ce n’è uno dalla facciata di classica misura, ma tutta scrostata
e cadente, con le finestre sfasciate: una lapide in croato e in italiano
informa che nel novembre 1943 vi si riunì il primo comitato cittadino
jugoslavo dei giovani comunisti di Pola. Subito accanto è il teatro
romano, che ha un aspetto un po’ desolato, come di luogo
dimenticato: di rimpetto alla cavea, nella zona del proscenio e della
scena, c’è la traccia di scavi ancora in corso. Poco più avanti c’è il
Museo archeologico istriano, dove dovrebbero essere anche alcuni
reperti della necropoli scomparsa evocata da Dante, ma che ora è
chiuso per ristrutturazione. Le corrose gradinate del teatro sono
comunque praticabili: salendo in alto si tocca un terrapieno,
attraverso il quale si raggiunge il fossato della fortezza veneziana,
sorta sul posto di un primo castello (quello dei Castropola) costruito
nel XIII secolo. Girando intorno al fossato, trovo l’ingresso della
fortezza, dalla quale si apre da tutte le parti la vista della città: si
scorge bene la parte superiore dell’Arena romana, mentre dalla
parte del mare appaiono le diverse zone del porto, con il bacino che
da qui sembra del tutto chiuso, occupato da varie navi da carico, da
un paio di traghetti attraccati, e da diversi cantieri fitti di alberature e
di gru. Al suo interno la fortezza, vigilata da una gelida torretta
poligonale a dodici lati piena di finestre e finestrine, ha subito un
riassetto molto recente, con mura e camminamenti di un bianco
accecante. C’è uno spazio per esposizioni, dov’è allestita una
mostra sulla Prima guerra mondiale e sulle prime vittime istriane:
molto folta è la documentazione sull’affondamento, a sei miglia
nautiche da Rovigno, del piroscafo passeggeri Baron Gautsch, del
Lloyd austriaco, diretto da Lussino a Trieste, pieno di passeggeri e di
soldati, che incappò in una mina posta dalla stessa marina austriaca
il 13 agosto 1914, pochi giorni dopo l’inizio delle ostilità tra l’Impero
austro-ungarico e la Serbia e molto tempo prima dell’ingresso in
guerra dell’Italia. Ci fu un numero imprecisato di morti (forse poco
meno di 200) e circa 160 sopravvissuti.
Dall’ingresso della fortezza scendo sulla via Castropola
(Castropola Ulica), che, in gran parte incassata tra muri di cinta, gira
intorno alla sommità del colle. Su di essa si affaccia l’abside della
chiesa romanica di San Francesco, del XIV secolo, la cui facciata,
con un bel portale aggettante sormontato da un rosone, si apre su
un piccolo spiazzo a cui si accede scendendo a destra su una
stradina lastricata e poi risalendo pochi gradini. Continuando a
scendere per la stradina lastricata raggiungo la piazza della
Repubblica o Foro di Augusto, la più bella della città, che combina,
su uno stesso lato, il tempio di Roma e di Augusto, con uno slanciato
pronao a quattro colonne, e l’impronta veneziana del porticato
Palazzo Comunale. Poco oltre c’è il Duomo, frutto di vari interventi
molto lontani da un’originaria basilica del V secolo, ora con facciata
tardorinascimentale: sul fianco destro del Duomo uno spazio erboso
contornato da cipressi accoglie un cippo su cui è inscritto il nome di
VERGAROLLA, con la semplice data della strage del 18 agosto 1946 e
una foto che ricorda il dottor Geppino Micheletti, che allora si prodigò
nella cura dei feriti, nonostante tra i morti ci fossero i suoi figli; ma
non c’è nessuna indicazione sulla circostanza della strage, il cui solo
nome non dice nulla a chi passa indifferente e tanto meno ai turisti in
visita alla città.
Queste sono le zone più affollate di negozietti turistici e di locali di
ristorazione grandi e piccoli: che si susseguono soprattutto nella
stretta via dei Sergi (Ulica Sergijevaca), che, tornando indietro dal
Foro di Augusto, giunge fino all’Arco dei Sergi (Slavoluk
Sergijevaca), detto anche Porta Aurea (Zlatna vrata), eretta intorno
al 15 a.C per iniziativa di una dama romana, Salvia Postumia, in
onore della famiglia dei Sergi, a cui apparteneva il marito Lucio
Sergio Lepido, che aveva combattuto alla battaglia di Azio (31 a.C.),
e da cui più tardi i Castropola si considerarono discendenti: è un
bell’arco trionfale romano, con una decorazione nella facciata
interna, ammirato e studiato da artisti del Rinascimento, come
documenta tra l’altro uno schizzo accompagnato da misure che si
trova al Museo Wicar di Lille, attribuito a Michelangelo, anche se si
possono avere dubbi su un suo soggiorno a Pola (che molte guide
danno per certo, come quello, ancora più improbabile, di Dante).
Prima di raggiungere l’Arco, una delle stradine laterali che si
dipartono dalla via dei Sergi porta sull’alberata piazza Dante, su cui
si affaccia la chiesetta trecentesca di Santa Maria della Misericordia.
Poco oltre, davanti al fianco della strada che fronteggia il porto, ci
sono i resti di quella che era una grande basilica bizantina, del VI
secolo, fatta costruire da san Massimiano, un polano che allora era
arcivescovo di Ravenna: un recinto circoscrive quello che era il
perimetro della basilica, mentre è integro il corpo della cappella di
Santa Maria del Canneto o Santa Maria Formosa, che si affacciava
sul transetto della basilica e ha molti tratti di somiglianza con il
mausoleo di Galla Placidia a Ravenna.
A un’edicola della piazza Dante acquisto il giornale italiano di Pola,
La voce del popolo mentre una vicina lapide sulla via dei Sergi, in
italiano e in croato, apposta nel 1968, celebra un altro periodico
italiano, Il nostro giornale, BALUARDO DELLA FRATELLANZA / E BANDIERA DI
LOTTA DI TUTTO IL PROPLETARIATO POLESE / DURANTE L’OCCUPAZIONE
STRANIERA: era un giornale partigiano clandestino sotto l’occupazione
nazista, organo del Movimento Popolare per la Liberazione
dell’Istria, che, dopo la caduta del nazismo, continuò a uscire sotto
l’occupazione alleata come espressione dell’Unione antifascista
italo-slava, che perorava l’annessione di Pola e della Venezia Giulia
alla Jugoslavia comunista, in dura polemica con la maggioranza
della popolazione italiana della città. Sotto il segno ingannevole della
fratellanza, la lapide su questo giornale mi riporta ai drammi della
guerra e del dopoguerra, ai tremendi conflitti politici ed etnici che qui
hanno avuto luogo e che hanno costretto tanta parte della città e
della sua storia all’esilio, mentre su di essa, sull’Istria e su tanta
parte dell’Europa si proiettava il sogno, la determinazione violenta,
l’illusione del comunismo. Dopo quell’esodo di massa e le difficoltà
che hanno avuto gli italiani che qui erano rimasti, il sogno del
comunismo, pur mettendo in atto qualche iniziativa di socializzazione
e redistribuzione economica, si è consumato e dissolto nella
costituzione di un regime, con una dittatura e una burocrazia che
quasi per un cinquantennio hanno tenuto sotto controllo la composita
e variegata realtà della Jugoslavia: e l’illuminato dittatore, il croato
Josip Broz, detto Tito, riuscì anche a sottrarre il suo paese a una
adesione subalterna al blocco sovietico, con una versione meno
dura del socialismo e con un rapporto privilegiato con i paesi “non
allineati”.
Qui vicino, a poca distanza da Pola, nella maggiore isola
dell’arcipelago di Brioni, Tito aveva impiantato la sua villa di
soggiorno e rappresentanza internazionale, ricetto non solo di
politici, ma anche di varia mondanità degli stessi paesi capitalisti. Ma
poi alla morte di Tito è arrivato a dissolversi l’intero tessuto della
Jugoslavia, si è spezzata ogni fratellanza popolare, sono scoppiate e
giunte alla massima violenza le fratture e i risentimenti anche più
arcaici tra i popoli della Jugoslavia, facendo precipitare di nuovo
sull’Europa l’orrore dell’odio etnico e del genocidio.
L’Istria e i pochi italiani ancora residenti sono rimasti fuori dalla
furia razzista e nazionalista che ha imperversato tra Croazia, Serbia,
Bosnia Erzegovina, Kossovo: ma, pensando al crollo della
Jugoslavia, ai nuovi stati che ne sono sorti, alla sotterranea ostilità
che serpeggia anche tra Slovenia e Croazia (che pure non hanno
avuto tra loro scontri sanguinosi), alla conseguente cancellazione
delle tracce del comunismo, della bandiera della fratellanza
proletaria, nell’attuale approdo di questa terra verso la
normalizzazione capitalistica e turistica, viene da pensare ad alcune
parole che Tomizza attribuisce al protagonista della sua Materada.
Questi le rivolge al segretario del partito della vicina Buje (ed erano
anni in cui molti credevano e continuarono ancora a lungo a credere
nel cammino liberatore del comunismo, cap. VIII):

Da quando mi ricordo, qui da noi sono venuti dapprima gli


austriaci, poi gli italiani, dopo i tedeschi; infine siete venuti
voialtri. Tutti se ne sono andati, ed erano più forti di voi. Io
stesso ho visto cadere prima l’aquila, poi il fascio e la croce
uncinata. Perché un giorno non dovrebbe cadere anche la
falce e il martello?

E ora che la falce e martello è caduta e il mondo ha dovuto capire


che il comunismo non è stato un’utopia, ma un regime, la minoranza
italiana dell’Istria si trova in condizioni molto migliori, con un più
concreto riconoscimento di quei diritti che il regime titino era restio a
favorire, nonostante fossero contemplati dagli accordi internazionali,
recentemente perfezionati e ampliati. Il bilinguismo croato / italiano è
previsto dallo Statuto della regione istriana e vige ufficialmente in
molti comuni, tra cui in primo luogo quello di Pola, mentre all’Unione
Italiana, nata nel 1991, tocca un seggio sia nel parlamento croato
che in quello sloveno. Molto attivi sono i Circoli (o Comunità) degli
italiani in molti centri della regione, fondati già nel periodo titino,
anche se allora costretti a operare in condizioni difficili e senza
riconoscimenti ufficiali. Il Circolo di Pola si trova in un modernissimo
edificio, costruito intorno al 2000 nel sito della precedente sede: vi si
accede attraverso quello che dovrebbe essere il manufatto più antico
della città, la romana Porta d’Ercole, risalente al tempo della
fondazione della colonia romana (tra il 42 e il 41 a.C.). Il circolo ha
locali molto accoglienti, con un bel bar, e svolge attività di vario tipo,
organizzando incontri, conferenze, spettacoli, eventi musicali, anche
in collegamento con la Società Dante Alighieri e con la Società
Artistico Culturale Lino Mariani, molto attiva in campo musicale, con
un coro e un’orchestra. Lino Mariani era un operaio morto sotto il
fuoco degli occupanti angloamericani durante una manifestazione
del 3 gennaio 1947 contro lo smantellamento del mulino Sansa, i cui
proprietari erano pronti a emigrare in Italia: il suo nome è stato
attribuito nel 1950 a quella Società, che si voleva operaia, sotto un
segno di Unità e fratellanza, e mirava a una piena integrazione della
comunità italiana nell’orizzonte jugoslavo. A destra della Porta
d’Ercole, c’è un suo busto, figura di giovane aitante e sicuro, ben
vestito, in giacca e cravatta (poco oltre c’è un’altra porta romana, la
Porta Gemina, a due fornici, del II secolo d.C., da cui si accede
all’ingresso del Museo archeologico).
Nella tarda mattinata entro nei locali del Circolo: è aperto il bar,
dove una cameriera sta sistemando i tavoli e mi fa un ottimo caffè,
italianissimo. Le chiedo forse inavvedutamente come ci si sente oggi
in quanto italiani di Pola, e lei mi risponde con sicurezza che si sta
benissimo, informandomi poi sulla varia attività del Circolo e sulla
vicenda della costruzione della moderna sede. La più importante
presenza della cultura italiana è qui, comunque, quella degli studi
universitari: è un’attività iniziata nel 1977, che vede impegnati vari
docenti di lingua e letteratura italiana, che attualmente agiscono nel
Dipartimento di studi interdisciplinari italiani e culturali dell’Università
“Juraj Dobrila” di Pola, formando insegnanti e ricercatori, con
particolare attenzione alla letteratura istriana e triestina, ma con
interessi verso l’intero ambito della linguistica e degli studi letterari
italiani, in un orizzonte di apertura e di scambio con l’Italia e con le
diverse componenti linguistiche e culturali della ex Jugoslavia. Lo
stesso nome di Dante non può non aleggiare nel mio incontro con
questi docenti intelligenti e appassionati, integralmente bilingui, che
svolgono studi, iniziative e progetti in più direzioni: Elis Deghenghi
Olujić, Eliana Moscarda Mirković, Sandro Cergna e altri, il cui lavoro
meriterebbe maggiore attenzione e sostegno da parte delle
istituzioni italiane.
Non posso lasciare Pola, senza visitare il suo più grandioso
monumento romano, l’Arena, la cui mole si leva davanti a bei giardini
a ridosso del porto: anfiteatro eretto nel I secolo, tra gli anni di
Claudio e quelli di Vespasiano, in bianca pietra polana, in pianta
ellittica e con il muro che appare stranamente elegante e slanciato.
La forma e la disposizione delle arcate, in tre ordini nella parte
anteriore e in due in quella posteriore, che si appoggia al pendio
della collina, danno un particolare effetto di elevazione; è una delle
più belle, tra le tante arene lasciate dai romani nelle città del
Mediterraneo. Visito l’interno, girando tra le gradinate ben tenute e
attrezzate: nella cavea e sulle gradinate della parte anteriore, ci sono
varie macchine con operai che stanno sistemando un palco, tra
piante ornamentali, apparati elettrici, impianti di proiezione e di
amplificazione. Si monta l’attrezzatura per i tanti spettacoli che si
svolgeranno nel corso dell’estate e di cui è esposto un nutrito
programma, che conta eventi musicali di rilievo: il 12 settembre
David Gilmour, il chitarrista dei Pink Floyd. Ma per il pubblico più
rozzo e di bocca buona ci saranno anche spettacoli di gladiatori…
Oltre Pola risalgo la costa orientale dell’Istria, per affacciarmi più
direttamente sul golfo del Carnaro: per un certo tratto la strada
procede all’interno, senza la vista del mare, ma dopo poco più di 40
chilometri raggiunge la bella cittadina di Albona (Labin in croato),
che dall’alto si affaccia sul mare e sull’isola di Cherso: già municipio
romano, presenta un assetto soprattutto medievale e veneziano.
Sotto un rosone, il leone di San Marco vigila ancora sulla facciata del
Duomo di Santa Maria. Ma tra tutto mi commuove un piccolo busto
femminile, accompagnato da informazioni sul personaggio,
Giuseppina Martinuzzi, la “maestra di Albona”, qui nata nel 1844
sotto il dominio austriaco, impegnata nell’istruzione popolare e
attivissima a Trieste con importanti progetti pedagogici, fervente
patriota italiana avvicinatasi negli anni novanta al socialismo,
protagonista di grandi battaglie per l’emancipazione femminile, fino
all’adesione nel 1921 al Partito comunista d’Italia e alla
partecipazione quello stesso anno allo sciopero con autogestione dei
minatori di Albona; nella sua città morì nel 1925. Scrisse anche
poesie, tra cui in giovinezza, per le celebrazioni del centenario del
1865, perfino un sonetto su Dante.
Dopo Albona la strada scende a una relativa distanza dal mare,
che torna in vista presso Plomin e continua a seguire da vicino la
costa, con in fronte l’isola di Cherso, passando tra ville, giardini,
piccoli borghi, mentre lo sguardo si apre sulla parte più interna del
golfo e in fondo comincia a riconoscersi la città di Fiume. Mi fermo
qualche giorno, in vacanza marina, ad Abbazia (Opatija), attestata
poco prima che la costa pieghi verso nordest, nel punto più interno
del golfo, a pochi chilometri da Fiume: è un luogo ricco di ville,
giardini, siti ameni, in cui si celebrarono i fasti dell’aristocrazia e della
grande borghesia del tardo Ottocento e del primo Novecento, tra
colonnati neoclassici, torrette neogotiche, decorazioni liberty.
Soggiorno in un grande albergo che fronteggia il mare, lascito del
grande sviluppo che questa località ebbe come privilegiata residenza
marina nell’Ottocento asburgico: è il Kvarner, nome che in croato (e
anche in tedesco) corrisponde proprio a Carnaro / Quarnaro /
Quarnero, e fu il primo grande albergo di Abbazia e della zona,
impiantato in soli dieci mesi nel 1884 dalla viennese Società delle
Ferrovie meridionali, progettato originariamente come sanatorio per
malati di petto.
Appena restaurato, questo albergo appare come una lunga
citazione dei propri antichi splendori: nelle sue logge e colonnati
neoclassici e nella sua grande sala dei cristalli sopravvive una sorta
di mimesi tarda del lusso perduto, che già ha visto ospiti esclusivi
nell’evanescente trionfo della belle époque, dal vecchio imperatore
Francesco Giuseppe alla sublime danzatrice Isadora Duncan, e ora
sembra volgersi a una più economica fruizione per il contemporaneo
esclusivismo di massa, che si adagia tranquillamente sulle ampie
piattaforme aperte sul Carnaro/Kvarner, in vista di Cherso, di Veglia
e della vicina sponda di Fiume. Ancora poco prima del crollo della
Jugoslavia, nel 1987, questo albergo è stato usato come set
cinematografico per le sequenze marine di una storia dell’altra
sponda dell’Adriatico, Gli occhiali d’oro di Giuliano Montaldo, tratto
dal romanzo di Giorgio Bassani: così la vacanza romagnola dei
borghesi ferraresi verso la fine degli anni trenta è stata trasposta qui,
in questo ambiente alberghiero che sa ancora di tempi trascorsi.
Abbazia, d’altra parte, nei brevi anni in cui fu italiana, non mancò
di sollecitare curiosità e sogni di particolari diletti vacanzieri. Così il
siciliano Vitaliano Brancati nel Don Giovanni in Sicilia parla
dell’entusiasmo di un giovane catanese in vacanza per le tante belle
donne presenti ad Abbazia (cap. III):

“Che Viareggio!” scriveva intanto Scannapieco da Abbazia.


“Nel mondo non c’è che Abbazia! Abbazia! Voglio essere
sepolto qui, nel lungomare, così mi passeranno sopra le più
belle donne del mondo!”

Tornato a Catania, Scannapieco riempì tutto un inverno di


sospiri per Abbazia: ne parlava con amici, conoscenti e
sconosciuti; si calcava il cappello, con un pugno di finta rabbia
e follia, quando esclamava: “Non c’è che l’acqua del
Quarnaro!”.

Spinti da questo entusiasmo, vari giovani catanesi presi da furori


dongiovanneschi, tra cui il Giovanni protagonista, si recheranno in
vacanza ad Abbazia, ma senza concludere gran che: e Giovanni ci
tornerà poi con la moglie Ninetta, ma mettendola in guardia dal
ballare con siciliani…
Ora i ricordi di questa Abbazia italiana sono quasi completamente
cancellati: e mi trovo qui proprio la sera del 25 giugno, giorno della
festa nazionale croata, celebrazione dell’indipendenza del 1991 e
della fine della Jugoslavia. Si diffonde e si confonde dappertutto
lungo il mare il suono di diversi eventi musicali: davanti al Kvarner
c’è un complesso che si esibisce in un repertorio genericamente
rock, ma davanti a un altro albergo, poco più in là, echeggiano
musiche tradizionali, canti nazionali croati. Sembra fare da
spartisuono tra le diverse musiche un piccolo scoglio che avanza sul
mare, dove è collocata una statuetta, quella della ragazza col
gabbiano, considerata simbolo di Abbazia e insistentemente
fotografata dai turisti. Questa immagine di slanciata ragazza
curiosamente discende da una precedente Madonna, collocata qui
nel 1891 a ricordo del naufragio del conte austriaco Arthur
Kesselstadt. Poi, danneggiata e rimossa, la Madonna fu rimpiazzata
nel 1956 da questa fanciullina, forse variante della sirenetta di
Copenaghen, ma con fattezze di giovane croata: all’immagine
religiosa il socialismo jugoslavo ha sostituito così quella di una
giovinezza protesa verso le gioie future del turismo balneare di
massa.
La visita al Carnaro ha il suo approdo finale nella città di Fiume
(Rijeka), municipio romano sul territorio degli antichi liburni,
appartenuta nel Medioevo al vescovo di Pola e poi al regno
d’Ungheria: passata nel 1471 agli Asburgo, ha trovato nell’impero
collocazioni amministrative diverse, ma con prevalente
appartenenza al regno d’Ungheria. Importante nodo portuale e
commerciale, ha visto una forte presenza della componente italiana,
che nel 1910 costituiva circa la metà della popolazione, mentre
quella croata ne costituiva circa un quarto (anche se il territorio
circostante era a stragrande maggioranza croato). Così, alla fine
della Prima guerra mondiale, di fronte all’incertezza delle trattative di
pace e al pericolo che la città fosse assegnata all’appena sorto
regno di Jugoslavia, si ebbe l’impresa di Fiume: l’occupazione della
città nel settembre del 1919 da parte dei Legionari guidati da
Gabriele d’Annunzio e la formazione della Reggenza italiana del
Carnaro, di cui sono rimasti non solo i roboanti proclami del Vate, ma
anche il ricordo di una legislazione che, pur nel forte orizzonte
nazionalistico, era piena di elementi libertari e addirittura anarcoidi. Il
governo italiano, che con il trattato di Rapallo aveva accettato
l’istituzione di uno Stato libero di Fiume, come corpus separatum tra
l’Italia e la Jugoslavia, non poteva tollerare la situazione creata da
D’Annunzio, e nel Natale del 1920 (il Natale di sangue) attaccò la
città allontanando i Legionari, per permettere l’applicazione del
trattato, che però diede luogo a varie difficoltà e conflitti, che
portarono infine al nuovo trattato di Roma (27 gennaio 1924), con
l’annessione di Fiume al regno d’Italia. Ormai impiantatosi il
fascismo al potere, si dispiegò qui, come in tutta l’Istria, una politica
di totale italianizzazione e di repressione della popolazione slava,
che causò violenze di ogni sorta e risentimenti, esplosi poi
ferocemente nella Seconda guerra mondiale e alla sua conclusione:
l’annessione alla Jugoslavia fu qui anche più dura e violenta che nel
resto della regione, con l’esodo di quasi tutta la popolazione italiana
(e oggi gli italofoni sono ridotti a meno del due per cento).
Questo esodo ha toccato l’infanzia dell’inafferrabile, estroso poeta
Valentino Zeichen, qui nato nel 1938 e poi approdato a Roma:
inafferrabile come poeta, inafferrabile come uomo e come amico. Nel
ritmo dei suoi giorni e nel tono della sua voce egli sembra quasi
sfuggire a se stesso e alla vita che ama, alle tante cose di cui
soppesa il valore, alle amicizie e agli amori, alle passioni e agli
entusiasmi a cui non si nega; sempre ostinato a non voler essere
politicamente corretto, a non voler confondersi con nessuna
affermazione di sentimenti e valori che le buone coscienze oggi
impongono come doverosi. Forse una traccia del suo essere
fiumano è la sua ammirazione per D’Annunzio: ma forse lo è anche
la sua disposizione poetica a registrare la finale futilità della nostra
cultura, delle ideologie e delle filosofie, del movimento del mondo,
delle parole che lo interpretano e che lo catalogano, del nostro
stesso esserci e delle lacerazioni che tutti abbiamo alle spalle, ma
che su di lui hanno pesato più direttamente, nella sua condizione di
esilio. Visitando Fiume gli invio un messaggio affettuoso, ma mi
resterà poi il rammarico di non averlo più rivisto, prima che si
ammalasse e prima della sua morte (Roma, 5 luglio 2016).
Percorro la città moderna, nel cui centro sembra imporsi un
assetto ottocentesco e primonovecentesco. Il cuore di Fiume è
costituito dal lungo Corso (Korzo) pedonale, con negozi delle più
varie sigle internazionali; nelle vetrine delle librerie si notano anche
vari libri in italiano, tra cui sembrano dominare quelli dell’estetologo
Stefano Zecchi, in quanto autore di un recente romanzo intitolato
Rose bianche a Fiume. Dalla Torre civica, che si affaccia non
lontano dal lato est del Corso, si penetra nella città vecchia, dove, in
un vicolo, appoggiata a due edifici moderni, è la romana Porta
vecchia (Stara vrata), il monumento più antico della città. Non
mancano chiese interessanti, come soprattutto la grande chiesa
barocca di San Vito, a pianta centrale. Molto curiosa la
novecentesca chiesa neogotica dei Cappuccini, dedicata alla
Madonna di Lourdes: dalla grande piazza Zabica, sul fronte del mare
(che in tempi comunisti era intitolata al nostro Togliatti!), vi si accede
attraverso una scenografica scalinata.
Nelle titolazioni delle strade non mancano nomi italiani: vedo per
esempio la via Manzoni e più in là una via Fiorello La Guardia, forse
sotto il segno dell’origine triestina ed ebraica da parte materna del
celebre sindaco di New York; e vicino al Palazzo del Municipio c’è
anche un Caffè Dante. Inevitabile ricordo del breve potere
dannunziano è il grande palazzo di fine Ottocento che fu residenza
dei governatori ungheresi e in cui si installò il governo della
Reggenza italiana del Carnaro. Qui il Comandante dovette lavorare
alla Carta del Carnaro, rielaborando un “canevaccio” appositamente
preparato dal sindacalista rivoluzionario Alceste De Ambris.
D’Annunzio la lesse al Teatro La Fenice il 30 agosto 1920, mentre
molti altri suoi discorsi e proclami, a partire dal 23 settembre 1919,
apparvero sul nuovo giornale fiumano La Vedetta d’Italia; e una
raccolta degli scritti e discorsi fiumani apparve poi a stampa più tardi,
nel 1931, col titolo L’urna inesausta.
La prima pagina del testo della Carta del Carnaro, pubblicato col
titolo Disegno di un nuovo ordinamento dello stato libero di Fiume,
non si peritava di chiamare in causa Dante:

Fiume è l’estrema custode italica delle Giulie e l’estrema rocca


della cultura latina, è l’ultima portatrice del segno dantesco.
Per lei, di secolo in secolo, di vicenda in vicenda, di lotta in
lotta, di passione in passione, si serbò italiano il Carnaro di
Dante. Da lei s’irraggiarono e s’irraggiano gli spiriti
dell’italianità per le coste e per le isole, da Volosca a Laurana,
da Moschiena ad Albona, da Veglia a Lussino, da Cherso ad
Arbe.
Entrando direttamente nel 1924 a far parte dell’Italia, Fiume vedeva
fissarsi il proprio confine nel fiume che scorre al margine orientale
del centro, l’Eneo: la parte al di là, pur avendo fatto parte
dell’effimero Stato libero, con il quartiere di Susak e il colle di
Tersatto (Trsat), veniva già allora assegnata alla Jugoslavia. Al colle
di Tersatto si può salire anche con una lunga scalinata, che conduce
al Santuario della Beata Vergine, edificato nel XV secolo, ma giunto
poi all’attuale aspetto ottocentesco. Esso è sorto su un luogo che era
stato toccato, proprio nei tempi danteschi, da un confuso evento che
si era presto amplificato in leggenda: qui infatti nel 1291, quando
sotto i colpi dei Mamelucchi del Sultano d’Egitto cadeva San
Giovanni d’Acri, l’ultimo baluardo cristiano in Terrasanta, sarebbe
giunta da Nazareth, portata in volo dagli angeli, la casa di Maria. In
parte smontato, l’edificio sarebbe rimasto qui per circa tre anni,
mentre il signore di Tersatto, Nikola Frankopan (in italiano
Frangipane) ne faceva verificare l’autenticità; poi nel 1294, proprio
quando Celestino V stava per lasciare il papato a Bonifacio VIII,
sarebbe passato, sempre per via aerea, sull’opposta sponda
adriatica, a Loreto, nel cui santuario tuttora si trova. Resta strano e
sorprendente che da quello che deve essere stato un trasporto di
pietre dall’Oriente (che per il primo viaggio è stato forse opera, entro
un complesso processo politico-devozionale, del despota dell’Epiro
Niceforo Angeli o De Angelis) sia sorta la leggenda di un volo
nell’atmosfera terrestre: in fondo in anni che di poco precedettero il
vertiginoso volo di Dante nei cieli.
I Frankopan, signori di Tersatto, appartenevano al ramo croato-
dalmata di una famiglia che vantava discendenza dall’antica Roma e
fu tra le più potenti della Roma medievale. Ai Frangipane romani
Boccaccio fa addirittura risalire l’origine di Dante, asserendo che
“uno nobilissimo giovane per ischiatta de’ Frangiapani e nominato da
tutti Eliseo” sarebbe venuto da Roma ai tempi di Carlo Magno, tra
coloro che popolarono Firenze precedentemente distrutta; e da lui
sarebbe direttamente disceso Cacciaguida.
Proprio dai Frankopan fu edificato nel XIII secolo il castello di
Tersatto (Gradina Trsat), che è certamente il monumento più
interessante e meglio conservato della zona di Fiume, anche grazie
al restauro che ne fece, pur con l’inserzione di corpi incongrui e di
una sorta di tempio neoclassico, il feldmaresciallo austriaco Laval
Nugent. Da quassù si apre un’ampia vista, sulla sottostante città di
Fiume, su Abbazia, sulla costa istriana, sulle isole di Cherso e di
Veglia.
Procedendo invece sulla costa oltre Fiume e Susak, si tocca una
gigantesca raffineria che si impone sul paesaggio marino, dopo la
quale si scende nel cuore di una stretta rada, dov’è il villaggio di
Buccari (Bakar), teatro nella Prima guerra mondiale di un’azione a
cui partecipò Gabriele D’Annunzio, che poi seppe darle un’adeguata
risonanza propagandistica. Si tratta della cosiddetta beffa di Buccari,
operata da tre siluranti italiani, MAS (Motoscafi Armati Svan, sigla
della casa costruttrice, che D’Annunzio trasformò nel motto MEMENTO
AUDERE SEMPER). Nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918 i tre MAS
penetrarono nella stretta baia lanciando dei siluri contro le navi
austriache lì alla fonda: azione senza immediato esito militare, dato
che i siluri rimasero, senza esplodere, impigliati nelle reti protettive
sistemate nella baia, ma di forte impatto dimostrativo. Gabriele ne
pubblicò subito il resoconto sul Corriere della sera del 18 e 19
febbraio, raccogliendolo poi con vari altri scritti in un volumetto
apparso nello stesso 1918, anche con un testo poetico, La canzone
del Quarnaro. Anche qui non si trattenne dal chiamare in causa
Dante, riadattando all’azione dei MAS il secondo emistichio di
Inferno, IX 115:

Da Lussin alla Merlera,


da Calluda ad Abazia,
per il largo e per il lungo
siam signori in signoria.
Padre Dante, e con la scia
facciam “tutto il loco varo”.

Ora Buccari è un semplice e dimesso borgo marino, forse umiliato


nelle sue aspirazioni turistiche dalla vicina raffineria: mentre seggo a
un piccolo bar sulla riva, osservo la mole di una petroliera che sosta
all’ingresso della rada.
Il Quarnaro inviterebbe comunque a esplorare le isole che lo
popolano e a cui ne succedono su questo lato dell’Adriatico altre,
moltissime, di tutte le dimensioni, navigate e dominate nei secoli
dalla Serenissima, sul fronte della Dalmazia e poi più a Sud, fino alle
isole greche dello Jonio, da Corfù a Itaca, Cefalonia e Zante. Proprio
sotto il segno di Itaca e di Ulisse Umberto Saba ha fissato il ricordo
del suo giovanile errare tra queste isole, in una tra le poesie più
celebri di Mediterranee:

Nella mia giovinezza ho navigato


lungo le coste dalmate. Isolotti
a fior d’onda emergevano, ove raro
un uccello sostava intento a prede,
coperti d’alghe, scivolosi, al sole
belli come smeraldi. Quando l’alta
marea e la notte li annullava, vele
sottovento sbandavano più al largo,
per fuggirne l’insidia. Oggi il mio regno
è quella terra di nessuno. Il porto
accende ad altri i suoi lumi; me al largo
sospinge ancora il non domato spirito,
e della vita il doloroso amore.

L’isola di Veglia, col suo impronunciabile nome croato Krk, si


raggiunge attraverso un poderoso ponte che, oltre il porto di
Kraljevica (Porto Re), all’ingresso della rada di Buccari, compie un
salto sullo stretto che separa l’isola dalla terraferma. Feudo dei
Frangipane tra il XII e il XV secolo, Veglia passò a Venezia nel 1480.
Il primo borgo che incontro, nella parte nord dell’isola, è quello di
Castelmuschio (Omišalj), come sospeso su una rupe affacciata
sopra una baia, con un castello dei Frangipane e una bella loggia
veneta. C’è una parrocchiale originaria del XIII secolo, ma con varie
integrazioni e modificazioni successive: alla porta d’ingresso,
collocata sul transetto destro, una suora velata di nero sta
meticolosamente raccogliendo con una scopa sparse foglie secche,
trovando ostacolo in un tappetino di plastica che non riesce a
rimuovere. Devo attendere che finisca per poter entrare a vedere un
polittico scolpito da un artista del XV secolo, Jacobello del Fiore: e
intanto osservo la curiosa mise della suora, il grembiule con la scritta
SCHWEPPES, indossato sopra l’abito monacale.
Tutta l’isola è comunque molto affollata di turisti e bagnanti, fino al
suo centro maggiore ed eponimo, Veglia, di fondazione romana, col
nome di Curicta (donde il croato Krk), con il castello dei Frangipane
e una cattedrale di origine romanica.
A breve distanza da questa cittadina, all’attracco di Valbiska, un
traghetto conduce alla allungata isola di Cherso (Cres), che, seguita
a sud da varie isole a partire da Lussino (con le località di
Lussinpiccolo e Lussingrande), è al centro dell’ampio specchio del
Quarnaro. Su insediamenti già presenti nel Paleolitico, vi si sono
installati i liburni, seguiti dai romani, dai bizantini, dai croati, finché
nel 1409 passò alla repubblica di Venezia. Dall’approdo di Merag,
sul lato orientale dell’isola, raggiungo la città di Cherso (la Crepsa
dei romani), che, con un ben definito aspetto veneziano, si trova nel
cuore di una profonda baia, con un porto interno che quasi entra in
mezzo alle case e dà su una piazzetta, al centro di un quartiere che
ha il nome di Rialto: c’è una loggia veneta, del XVI secolo, che
funziona da mercato, una bella porta sovrastata da una torretta con
orologio, strette calli, anche a gradini, che percorrono il centro
storico, eleganti e semplici chiesette con assetti prevalentemente
quattrocenteschi.
Mi riaffaccio sul versante istriano risalendo verso l’estremo nord di
Cherso, in una strada bellissima e quasi solitaria, che sale e scende
per 26 chilometri tra boscaglie di querce, carpini e pini, tra qualche
rado villaggio, qualche pecora che improvvisa attraversa, e
soprattutto con ampie visuali marine, Veglia a destra, la costa
istriana a sinistra. Per lunghi tratti sembra che la sola traccia di
artificio umano sia la strada che si percorre. Si arriva così molto
vicino all’estremo nord della lunga isola, dove è l’attracco di
Porozina, in cui non si può far altro che incolonnarsi dietro auto già
in coda, prendere il biglietto e salire sul traghetto-navetta che con un
breve percorso porta a Brestova, sulla costa istriana. Da qui risalgo
verso nord, fino ad Abbazia, concluso così il giro da straniero sul
Carnaro, ch’Italia chiude e suoi termini bagna.
Sul versante tirrenico
Viterbo

Un mese e poco più prova’io come


pesa il gran manto a chi dal fango il guarda,
che piuma sembran tutte l’altre some.
(Purg., XIX 103-105)

È la calma mattina già primaverile dell’11 marzo 2015, quando


giungo a Viterbo, la città papale, più volte sede e soggiorno di papi
negli anni di Dante, che ho solo sfiorato nel viaggio della primavera
precedente: a essa incidentalmente accenna il De vulgari eloquentia,
I XIII 3, insieme a Perugia, Orvieto, Civita Castellana, per l’affinità dei
locali volgari con quelli di Roma e di Spoleto. Parcheggio presso la
stazione ferroviaria di Porta Fiorentina, a nord della città, accanto
alla Biblioteca provinciale Anselmo Anselmi, che per l’abilità e
l’intelligenza del commissario straordinario Paolo Pelliccia svolge
un’attività culturale con iniziative che mettono davvero in circolo i
libri, che promuovono non genericamente la lettura, al di fuori di ogni
effetto spettacolare, in uno spazio sempre animato, dove quei libri
sembrano vivere davvero nel loro diretto rapporto con la vita e con il
senso del mondo.
Oltre la biblioteca, raggiungo le mura della città: costeggio il bel
giardino che si trova fuori della Porta Fiorentina e, attraverso di essa,
entro sull’ampia piazza della Rocca, dominata dalla singolare
facciata di quella che un tempo era la Rocca, fatta costruire dal
cardinale Albornoz a partire dal 1354, per affermare il controllo su
territori che tendevano a sottrarsi al potere dei papi, allora installati in
Avignone. Tra varie vicende politiche, militari, architettoniche (che
nel Cinquecento videro un intervento decisivo di Donato Bramante),
l’edificio, che oggi ospita un museo etrusco, ha assunto un aspetto
singolarmente composito, con una levigatissima facciata a
parallelepipedo, su cui si affaccia una loggia colonnata sormontata
da una tettoia.
Ma l’obiettivo dantesco mi conduce in una piazza laterale,
antistante la chiesa di San Francesco, sorta su un terreno donato nel
1236 ai francescani dal papa Gregorio IX: chiesa gotica, che, come
attesta qui una lapide, fu in gran parte distrutta dal bombardamento
del 17 gennaio 1944, a cui seguì una celere ricostruzione,
completata nell’aprile 1953. Nel transetto destro si trova il sepolcro
del papa Adriano V, Ottobono Fieschi, che Dante incontra nella
quinta cornice del Purgatorio, disteso a terra con il volto in giù come
pena della sua brama di avidità e ricchezza: personaggio che era
stato nominato cardinale nel 1251 dal papa Innocenzo IV, suo zio, e
che aveva svolto un’intensa attività politica, nella difficile fase degli
scontri tra Svevi e Angioini, eletto papa l’11 luglio 1276: ma, come
egli dice a Dante, portò il manto papale per poco più di un mese.
Malato, si recò infatti a Viterbo, per sottrarsi ai miasmi dell’estate
romana, ma qui morì il successivo 18 agosto, prima ancora che
avesse luogo la cerimonia di incoronazione.
Nelle parole che rivolge a Dante, Adriano V nota quanto pesa il
manto papale a chi vuole conservarlo puro dal fango, dall’infamia del
peccato (e al confronto ogni altro peso può sembrare piuma); e poi
ricollega la sua conversione, il suo allontanamento dall’avarizia,
proprio al momento in cui fu eletto roman pastore, ruolo che l’ha
portato a provare da vicino l’insoddisfazione per la vita bugiarda. Il
suo sepolcro, attribuito ad Arnolfo di Cambio, danneggiato dalla
guerra, è stato ricostruito nel 1949: sotto l’arca cuspidata entro cui
campeggia lo stemma dei Fieschi è distesa l’immagine marmorea
del defunto, su una base costituita da sei pannelli cosmateschi, nei
cui mosaici si disegnano eleganti varianti geometriche.
Un altro sepolcro papale, anch’esso cuspidato, è disposto, in
posizione quasi simmetrica, nel transetto sinistro: si tratta di
Clemente IV, papa francese (Guy Foulquois de Saint-Gilles), morto a
Viterbo nel 1268, durissimo sostenitore di Carlo d’Angiò nelle azioni
contro Manfredi e contro Corradino di Svevia. Questa sua tomba,
anch’essa ricostruita nel 1949, in origine collocata nella chiesa di
Santa Maria in Gradi, è opera di Pietro di Oderisio. Ben poco resta
invece, poco più in là, della tomba del cardinale Vicedomino
Vicedomini, morto il 6 settembre 1276, anche lui a Viterbo, durante il
conclave che subito seguì la morte di Adriano V: curiosa la
leggenda, che in origine era fissata anche in un’epigrafe sul distrutto
sepolcro, secondo cui egli sarebbe morto improvvisamente poco
dopo essere stato eletto pontefice da quello stesso conclave, col
nome di Gregorio XI, trovandosi così a essere papa di un solo
giorno, eccezionale e paradossale primato.
Viterbo: Chiesa del Gesù (San Silvestro)

Mostrocci un’ombra dall’un canto sola,


dicendo: “Colui fesse in grembo a Dio
lo cor che ’n su Tamigi ancor sì cola.”
(Inf., XII 118-120)

Scendo da piazza della Rocca e risalgo verso il centro sul corso


Italia, fino a incontrare la piazza del Gesù, su cui si staglia la
medievale torre del Borgognone, così chiamata perché alla sua base
era fissata, oggi confusamente visibile, l’impronta del piede di un
certo Angelo Borgognone, usata a Viterbo come unità di misura. Sul
fondo della piazza è la facciata, sormontata da un campanile a vela,
della piccola chiesa romanica di San Silvestro, detta del Gesù da
quando si trovò a essere gestita dai gesuiti (ma dal 1987 ne è
responsabile la viterbese Confraternita dei Cavalieri e Dame
dell’Ordine Equestre del Santo Sepolcro). Alla destra della porta
d’ingresso è disposta la lapide che ricorda, anche con i versi
dell’Inferno, il truce evento del 13 marzo 1271, quando uno degli
uomini di fiducia di Carlo d’Angiò, suo vicario in Toscana,
l’anglofrancese Guido di Montfort, spalleggiato dal fratello Simone e
da altri seguaci, assassinò, durante la messa, il cugino Enrico di
Cornovaglia, figlio di Riccardo (che era stato nominato re di
Germania) e nipote del re Enrico III d’Inghilterra: ciò per vendicare la
morte del padre Simone che il re inglese aveva fatto trucidare, dopo
averlo sconfitto nella battaglia di Evesham (4 agosto 1265).
L’assassinio ebbe luogo in un momento particolare, mentre a
Viterbo si stava svolgendo un difficile e lunghissimo conclave (da cui
qualche mese più tardi, anche in seguito a pressioni di san
Bonaventura e dell’esasperato popolo viterbese, uscì eletto il
piacentino Tedaldo Visconti, Gregorio X). Enrico vi era appena
giunto, reduce da Tunisi, dove aveva partecipato alla cosiddetta
ottava crociata, insieme a Carlo d’Angiò, che trasportava le spoglie
del re Luigi IX di Francia, morto di peste all’assedio di Tunisi; con
loro era il nuovo re di Francia Filippo III. Cronisti e commentatori
raccontano che, mentre Enrico assisteva alla messa, Guido e i
seguaci entrarono nella chiesa e, urlando “Proditor Enrice de
Alemannia, non evades”, si scagliarono su di lui. Colpito, Enrico
cercò riparo presso l’altare, ma i Montfort gli furono addosso e, dopo
avergli amputato con un colpo di spada le dita con cui aveva
afferrato la tovaglia dell’altare, lo uccisero senza pietà, e con lui un
chierico che tentava di proteggerlo. Usciti in un primo momento sul
sagrato, gli assalitori, per ricordare lo strazio che era stato fatto del
corpo di Simone di Montfort dopo la battaglia di Evesham,
rientrarono e trascinarono fuori il cadavere di Enrico, facendolo a
pezzi (come dice Benvenuto da Imola, Guido “cepit dictum Henricum
per capillos, et turpiter traxit usque extra ecclesiam”, “prese Enrico
per i capelli e lo trascinò oltraggiosamente fin fuori della chiesa”).
Gli assassini fuggirono poi verso la Maremma, scortati e protetti
dal signore di Pitigliano e Sovana Ildebrandino Aldobrandeschi, di
cui Guido aveva sposato la figlia Margherita. Mentre il fratello
Simone morì di lì a poco, varie furono poi le vicende di Guido, che,
su pressione del nuovo re d’Inghilterra Edoardo I, fu scomunicato dal
papa Gregorio X, ma riuscì a recuperare il sostegno di Carlo d’Angiò
e del successivo papa Martino IV. Poi, mentre muoveva verso la
Sicilia con una flotta nel tentativo degli Angioini di recuperare l’isola,
fu fatto prigioniero dagli Aragonesi nel 1287, rimanendo in un
carcere siciliano, fino alla morte (1291).
Dante colloca Guido, per la sua truce impresa, nel Flegetonte, tra i
violenti contro il prossimo. È il centauro Nesso a mostrarglielo, quasi
separandolo da tutte le altre ombre, e a ricordare il misfatto compiuto
in chiesa (in grembo a Dio), designando la vittima attraverso un
richiamo al fatto che il suo cuore (mentre il corpo, trasportato in
Inghilterra, era sepolto nell’abbazia di Hailes nel Gloucestershire)
era oggetto di venerazione a Londra (sì cola, “cola sangue”, richiede
vendetta, ma si può anche leggere si cola, intendendo “si onora”).
Secondo il Villani sarebbe stato posizionato in una teca “in su una
colonna in capo del ponte di Londra sopra il fiume di Tamigi”, mentre
molti commentatori sostengono che esso, in un vaso d’oro, era stato
posto in mano alla statua del principe nell’abbazia di Westminster,
con l’iscrizione “Cor gladio scissum do cui consanguineus sum”
(“consegno il cuore strappato da una spada al mio consanguineo”,
cioè al re Edoardo I in attesa di vendetta).
La porta d’ingresso della piccola semplice chiesa a una sola
navata è ora chiusa: e sul gradino che immette a essa sono seduti
due vecchi, in tranquillo godimento del sole primaverile, di un placido
tempo che appare tanto lontano (ma forse è un’illusione) da quello in
cui su questi luoghi si proiettavano gli scontri implacabili dei signori
d’Europa.
Viterbo: Palazzo dei Papi

…Pietro Ispano,
lo qual giù luce in dodici libelli;
(Par., XII 134-135)

Il cuore della Viterbo papale del XIII secolo, su cui certo Dante si
sarà affacciato nel suo viaggio per Roma, è naturalmente il Palazzo
dei papi, con l’ampia scala che sale verso l’ingresso e la splendida
loggia che si apre sulla piazza della cattedrale. Da qui i papi
neoeletti benedicevano il popolo e da qui comunicavano i loro atti di
maggior rilievo. Certamente vi si affacciò il papa eletto in quel
conclave del 1276, poco tempo dopo la morte di quel cardinale
Vicedomino Vicedomini da cui è nata la leggenda del papa di un sol
giorno, il mancato Gregorio XI: fu Giovanni XXI, il solo papa
portoghese della storia, che regnò per pochi mesi nella sede di
Viterbo, morendo il 20 maggio 1277, in seguito al crollo di una
stanza di questo palazzo papale da lui stesso fatta costruire. Egli era
Pedro Julião, detto Petrus Ispanus, il Pietro Ispano, medico e
teologo, che aveva insegnato medicina nello studio di Siena, e che a
Dante appare nel cielo del Sole, entro la corona dei beati guidata da
san Bonaventura, che di lui dice che in terra è celebre per dodici
libelli, cioè per i dodici libri del suo molto diffuso manuale di logica,
Summulae logicales, a Dante ben noto, tanto che ne fa esplicito uso
nella Monarchia.
Accanto al palazzo che lo portò alla gloria e poi causò la sua
morte, si trova il suo sepolcro, nella cattedrale di San Lorenzo, sulla
parete d’ingresso, a sinistra, sistemato e fissato qui dopo varie
vicissitudini: con il contributo del governo portoghese la statua
giacente del pontefice, sormontata da un’edicoletta in bassorilievo, è
stata collocata su un nuovo, levigatissimo, basamento marmoreo, su
cui sono incise le parole che di lui Dante fa dire a san Bonaventura.
Tarquinia (Corneto)

Non han sì aspri sterpi né sì folti


quelle fiere selvagge che ’n odio hanno
tra Cecina e Corneto i luoghi cólti.
(Inf., XIII 7-9)

L’immagine della selva dei suicidi balza in tutta evidenza all’inizio del
XIII dell’Inferno, fissandosi nella similitudine con la selvaggia
vegetazione della Maremma infestata dai cinghiali, che rifuggono dai
luoghi coltivati. I limiti del territorio maremmano vengono segnati da
Cecina a nord e da Corneto a sud. Il nome di Corneto (la città
dell’alto Lazio che fino dal 1872 ha recuperato il nome etrusco di
Tarquinia) sembra quasi riecheggiare dalla fine del canto precedente
(XII 135-138), dove viene nominato un Rinier da Corneto immerso
nel Flegetonte, che comunque dovrebbe risalire, secondo
l’identificazione fatta da Umberto Carpi (già ricordata a p. 446), a
una meno nota località, tra i monti dell’Appennino, nella cosiddetta
Massa Trabaria, sede della famiglia dei Faggiolati (e dovrebbe
trattarsi del padre del più noto Uguccione della Faggiuola).
Seguo ora la strada che porta da Viterbo a Tarquinia, sfiorando a
un certo punto il piccolo parco del Bullicame, già visitato in
precedente occasione (vedi pp. 274-276). Approssimandosi a
Tarquinia, tra vari saliscendi si attraversa una distesa di prati e coltivi
e si toccano a più riprese resti ben conservati dell’acquedotto del
XVIII secolo: è la zona di Monterozzi, dove, oltre le rovine della città
antica (sull’altopiano della Civita), si estende l’ampia necropoli
etrusca, ricca di tombe affrescate, tratte alla luce in tempi diversi,
fino al Novecento. Una visita adeguata farebbe affacciare su un
oltretomba arredato, destinato a un’auspicata serena sopravvivenza
dei defunti e del loro rilievo sociale, al di là di colpe e di meriti, di
punizioni e di esaltazioni, in un tempo non tempo che non prevedeva
nessun giudizio o esito finale e che solo chi è venuto secoli dopo,
con ben diverse concezioni della vita e della morte, ha come violato
e tradito, strappando a quei defunti, per presunzione storica o
estetica, per la sovranità del proprio essere dopo, quello spazio di
protetta virtuale persistenza.
Evito di avvicinarmi a questo mondo sospeso: approdo al grande
parcheggio della Barriera di San Giusto e raggiungo il
quattrocentesco Palazzo Vitelleschi, dove è il Museo nazionale
etrusco, che raccoglie principalmente materiale estratto dalle tombe
della necropoli, molti di quei segni di illusoria e prolungata
sopravvivenza nell’aldilà in esse nascosti. Il pezzo più famoso è
costituito dalla coppia di cavalli alati pronti a spiccare il volo, che
proviene dal frontone del tempio dell’Ara della Regina, nella città
antica: altorilievo che ha anche lasciato un’ambigua eco in un
romanzo del 1953 di Marguerite Duras, Les petits chevaux de
Tarquinia, dove essi vengono designati verso la fine di una vacanza
in un imprecisato luogo di mare, come emblema di un altrove, di una
meta possibile che non viene raggiunta.
In uno spiazzo sulla destra del Palazzo Vitelleschi, su un
piedistallo marmoreo, c’è un bronzeo nudo femminile
flessuosamente riavvolto a spirale su se stesso: una scritta lo
designa come Memoria dell’estate di Emilio Greco, dono del maestro
(13 ottobre 1990) alla città di Tarquinia in memoria del poeta
novecentesco nato a Tarquinia nel 1887, Vincenzo Cardarelli. Si
tratta in effetti della memoria di una poesia un tempo notissima e
appresa a memoria nelle scuole, ma oggi a pochissimi nota, Estiva:
e la statua sembra farne riecheggiare i versi iniziali, “Distesa estate, /
stagione dei densi climi / dei grandi mattini / dell’albe senza rumore”,
quasi in bilico, in un moto di transizione tra l’esuberanza delle estati
dannunziane (Stabat nuda aestas) e la prossima espansione delle
vacanze di massa (Sapore di sale).
Lasciato il museo, percorro il corso Vittorio Emanuele che sale,
come tagliando la città in due settori, tra piccoli negozi che già
esibiscono addobbi con auguri pasquali. Giungo sulla piazza
Matteotti, dove sono disposte le bancarelle di un piccolo mercato,
che a quest’ora appare ben poco frequentato. Sono di fronte alla
facciata del Palazzo Comunale, in cui sulla base romanica si
sovrappone una scala settecentesca di classica misura; sulla
facciata sono molte lapidi, in cui è in evidenza anche il vecchio nome
di Corneto. Ci sono le lapidi in ricordo di partigiani uccisi il 14 ottobre
1943 e di quelli caduti in combattimento contro i nazisti in ritirata il 9
giugno 1944. Ecco il busto di Domenico Emanuelli, medico romano
che, residente a Tarquinia come primario del locale ospedale,
partecipò alla Resistenza e fu il sindaco della Liberazione, poi
deputato del PCI nella prima legislatura, morto per malattia nel 1950.
Oltre la piazza Matteotti l’alberata via Dante Alighieri, fiancheggiata
da un tratto di mura, raggiunge un belvedere aperto verso la vista
delle rovine della Tarquinia antica. Il percorso della Tarquinia
medievale si snoda però soprattutto alle spalle del Palazzo
Vitelleschi e del Palazzo Comunale, in tortuosi andirivieni tra edifici
in cui è ben evidente la traccia romanica, sotto le numerose torri ben
conservate, fino alla splendida chiesa di Santa Maria di Castello,
costruita nel XII secolo, che si affaccia ai limiti di un bastione
aggettante verso ovest, dalla parte del mare.
Lasciando la Barriera di San Giusto mi incuriosisce l’intitolazione
della strada su cui discendo: è la via Cavalier Volpini, recentemente
dedicata al cavalier Giuseppe Volpini (1883-1971), detto “Peppe il
postino”, primo portalettere di Tarquinia. È come un omaggio a ciò
che sono stati i postini nel Novecento, alla continuità della loro
presenza e dei loro percorsi, alla loro spesso intensa adesione alla
vita concreta dei luoghi di loro competenza: cosa completamente
svanita nella attuale organizzazione delle Poste, nella sempre più
diffusa frammentazione dei servizi, nel loro essere trascinati e
deformati dall’onda della privatizzazione.
Percorro poi l’Aurelia, muovendo verso la Toscana, a una certa
distanza dal mare. Sulla destra si scopre la centrale elettrica di
Montalto di Castro, ciò che resta di una progettata centrale
termonucleare, riconvertita dopo che un referendum del 1987 bloccò
in Italia lo sviluppo dell’energia nucleare, ora sul punto di essere
dismessa: immagine esemplare della confusione della politica
energetica italiana, delle opposte istanze e degli opposti modelli di
sviluppo che su di essa si sono confrontati, della insuperabile
contraddizione tra i bisogni del consumo di energia e la vivibilità
dell’ambiente (che qui, sul fronte marino, ha anche una buona dose
di risvolti turistici).
Poco dopo l’ingresso nel territorio toscano, che ha luogo tra due
località che si fronteggiano, Pescia Romana e Pescia Fiorentina, si
avvicina il massiccio dell’Argentario e appare alla vista qualche tratto
del Tirreno. A ridosso dell’Argentario si sfiorano gli stagni di
Orbetello.
Talamone

E cheggioti, per quel che tu più brami,


se mai calchi la terra di Toscana,
che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami.

Tu li vedrai tra quella gente vana


che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza, ch’a trovar la Diana;

ma più vi perderanno li ammiragli.


(Purg., XIII 148-154)

Superata Albinia e il fiume Albegna, si costeggia una pineta e, oltre il


torrente Osa, la vista si affaccia su un piccolo golfo, limitato dal
breve promontorio avanzato sul mare su cui è insediato Talamone,
mentre al largo si scorge la sagoma dell’isola del Giglio. Accenna a
Talamone nel XIII del Purgatorio la senese Sapia, che chiede a
Dante di dare giusta notizia di lei ai suoi congiunti, senesi, e come
tali tradizionalmente tacciati di vanità: per segno recente di questa
vanità indica la loro ambizione di trovare al loro comune uno sbocco
marino, con un vero e proprio porto, individuato in Talamone, che in
effetti fu acquistato da Siena nel 1303, ma che non diede l’esito
sperato, anche per l’impossibilità di controllare il territorio
circostante. Questa vana speranza di dotarsi di un porto viene a sua
volta paragonata a quella che negli stessi anni spingeva i senesi a
cercare la Diana, un presunto fiume sotterraneo sotto la città: e con
pungente ironia Sapia nota che a rimetterci, per il mancato successo
di Talamone, saranno coloro che già aspiravano a farsi comandanti,
ammiragli, della sognata flotta senese.
Lasciata l’Aurelia costeggio la curva della spiaggia che conduce al
piccolo porto che è ai piedi della rocca, con le sue quattro torri, mai
totalmente completata dai senesi. Addossata alle mura della rocca,
davanti al porticciolo, c’è una lapide posta il 13 aprile 1966, che
riporta i versi danteschi preceduti dalle parole in cui lo Statuto del
Comune di Siena del 1304 affermava l’utilità di disporre del porto di
Talamone e la speranza di raggiungere presto l’obiettivo. Ma dopo i
secoli del dominio senese, con la caduta della repubblica di Siena,
nel 1557, Talamone venne a far parte dello Stato dei Presidi,
strumento di controllo dell’alto Tirreno da parte spagnola; si è poi è
affacciata nelle vicende del Risorgimento, dato che vi si fermarono i
due piroscafi che trasportavano i Mille, tra il 7 e il 9 maggio 1860, per
rifornirsi di armi, prima di far rotta verso la Sicilia. Gravi sono stati poi
i danni per i bombardamenti dell’ultima guerra.
Salgo sul colle della rocca, entro il quale sono disposte moderne
abitazioni. Sulla piazza Garibaldi c’è un semplice monumento con un
busto dell’eroe. Al margine del colle, accanto a una delle torri, c’è un
ampio spazio erboso, che si affaccia sul mare: nell’azzurro calmo e
silenzioso l’occhio segue il dolce curvarsi della rada di Talamone fino
al punto in cui aggetta in avanti il massiccio dell’Argentario.
Sovana

Io fui latino e nato d’un gran Tosco:


Guiglielmo Aldobrandesco fu mio padre;
non so se ’l nome suo già mai fu vosco.
(Purg., XI 58-60)

Torno indietro verso Albinia e dà li prendo la strada che si addentra


in questa zona meridionale della Maremma, che nel XIII secolo fu
variamente controllata, tra sanguinosi conflitti, dagli Aldobrandeschi,
nei due diversi rami dei conti di Pitigliano e Sovana e di quelli di
Santa Fiora (ufficialmente divisi solo nel 1274). Nella cornice dei
superbi Dante incontra Omberto Aldobrandeschi, figlio di Guglielmo,
fondatore del ramo di Pitigliano e Sovana. Pur nel clima della
penitenza purgatoriale, nelle parole con cui Omberto ricorda la sua
famiglia traspare tutta la boria di questo universo feudale,
dell’altezzosa e rissosa nobiltà arroccata nei castelli della Maremma,
tra contrastati rapporti con le vicine Siena e Orvieto, in alterno e
variabile schieramento con le fazioni guelfa e ghibellina. Guelfo fu
comunque in linea di massima il ramo di Sovana, che, morto
Omberto nel 1259, fu guidato dal fratello Ildebrandino il Rosso, che
ho sopra ricordato per aver dato in sposa la figlia Margherita a Guido
di Montfort e averlo appoggiato nella truce vicenda dell’uccisione di
Enrico di Cornovaglia. A Margherita si riconduce tutta una serie di
eventi matrimoniali: già prima della morte del prigioniero Guido si
sarebbe unita segretamente a Nello de’ Pannocchieschi, signore
della Pietra, e poi sarebbe stata moglie di un Orsini, poi di un
Caetani, poi di un parente Aldobrandeschi del ramo di Santa Fiora,
per approdare infine al matrimonio ufficiale con il Pannocchieschi,
mentre la contea di Pitigliano e Sovana già dal 1293 passava in
eredità agli Orsini, in seguito al matrimonio di Anastasia, figlia di
Margherita e di Guido di Montfort, con Romano di Gentile Orsini.
Tutto ciò in un groviglio di rapporti con il comune di Orvieto e di
contrasti con vari pretendenti, in cui venne a inserirsi a cavallo tra i
due secoli, anche il papa Bonifacio VIII.
La strada si inoltra in un paesaggio molto lontano dall’immagine
dantesca della selvaggia Maremma: un rettifilo, a breve distanza dal
fiume Albegna, ne risale il corso, toccando il borgo della Marsiliana,
che si adagia su di un colle intorno alla torre di quello che era un
castello degli Aldobrandeschi, passato a Siena nel XIV secolo. Poi si
sale un po’ tra coltivi e poggi molto ben curati. Tra Manciano e
Pitigliano devo procedere senza possibilità di sorpasso dietro un
furgoncino su cui, in maiuscole, c’è la scritta JUNGHEINRICH SERVICE
CARRELLI ELEVATORI. Dopo aver costeggiato la semplice e un po’
dimessa facciata del santuario della Madonna delle Grazie, la strada
scende sul versante sud di Pitigliano, che si accampa sulla sua
scarpata tufacea, con la perfetta disposizione di case che sembrano
emergere dal tufo e confondersi con esso, in un agglomerato
omogeneo investito dalla piena luce del sole del primo pomeriggio.
Furono gli Orsini a privilegiare Pitigliano rispetto a Sovana, puntando
sulla fortezza e sul palazzo, definitivamente sistemati nel
Cinquecento da Antonio da Sangallo.
Molto breve è la distanza dalla vicina Sovana, circondata da
un’area archeologica con molte testimonianze etrusche. Sede
vescovile, sotto gli Orsini Sovana vide man mano perdere il suo
rilievo, per passare poi nel XV secolo sotto il dominio di Siena e
infine nel granducato di Toscana, mentre nel XVII secolo la sede
vescovile fu trasferita a Pitigliano. Forse proprio la sua lenta
decadenza ha fatto sì che il piccolo centro della città, che emerge
nella campagna con un effetto di solitudine e di silenzio, appaia
come un segreto resto di Medioevo approdato nel nostro tempo, ne
lasci brillare la luce lontana, ma svuotandone l’arroganza feudale
entro la luce e il colore di questa primavera maremmana. Come
“città del tufo” si presenta Sovana, disposta sulla sua Strada di
mezzo, perfettamente lastricata, a spina di pesce, sul percorso che
conduce dalle rovine della Rocca Aldobrandesca al Duomo, fatto
costruire dal papa Gregorio VII, che mantiene il suo carattere
romanico, pur tra varie modificazioni subite fino al XIV secolo.
Dove sono gli irregolari resti della rocca, tra pertugi e anfratti
accarezzati dall’erba, era il castello degli Aldobrandeschi e
certamente vi soggiornarono Guglielmo, Omberto, Ildebrandino,
Margherita: e certo vi fu accolto anche l’assassino Guido di Montfort.
Procedendo sulla Strada di mezzo, si trova una piazzetta con il quasi
fiabesco Palazzetto dell’Archivio, con piccole finestre e un orologio
sulla stretta facciata, sormontata da un campaniletto a vela. Dalla
piazzetta si diparte una strada che procede quasi parallela alla
prima, convergendo di nuovo con essa davanti al Duomo di San
Pietro, che volge la facciata verso la campagna e apre il proprio
ingresso sulla fiancata sinistra, sorretta da grandi contrafforti piegati
obliquamente su di essa. Sullo spiazzo davanti a questa fiancata
sembra di essere già immersi nel silenzio, accanto a un uliveto
prospiciente la facciata del Duomo, che sembra espandersi nel vasto
paesaggio, solo in parte limitato dal grosso corpo del monte Amiata.
Perfetta la corrispondenza tra questo silenzio aperto (che sembra
cancellare i rumori e i movimenti che pure sono in atto nelle strade e
nei paesi vicini, sotto l’Amiata) e il silenzio delle nude pareti
dell’interno della chiesa, ritmato dal colonnato a strisce: non lo turba
una cauta visitatrice, che impugna una macchina fotografica.
Tornando indietro noto una casa che viene indicata come quella in
cui sarebbe nato (ma non ci sono prove di nessun genere)
Ildebrando di Soana, cioè il papa Gregorio VII, grande protagonista
della lotta delle investiture, contro l’imperatore Enrico IV.
Tornato all’auto, parcheggiata accanto alla Rocca, scendo su una
strada incassata nel tufo, che a un certo punto percorre una breve
galleria, quasi sotto la punta occidentale di Sovana (cioè dalla parte
del Duomo). Tra vari saliscendi tocco i borghi di Montebuono e
Selvena, avvicinandomi alle falde dell’Amiata, tra fitte boscaglie e
improvvise radure.
Santa Fiora

Vien, crudel, vieni, e vedi la pressura


d’i tuoi gentili, e cura lor magagne;
e vedrai Santafior com’è oscura!
(Purg., VI 109-111)

Percorro la SP13, che risale il corso del fiume Fiora: costeggiandolo


raggiungo Santa Fiora, ma dantescamente Santafiora, la sede del
ramo degli Aldobrandeschi discendente da Bonifazio, fratello di
Guglielmo. A differenza di quello di Sovana, questo ramo era
perlopiù schierato con i ghibellini: e il suo maggiore esponente fu
Ildebrandino, figlio di Bonifazio e cugino del già ricordato
Ildebrandino di Sovana. Questo Ildebrandino di Santafiora fu a
Montaperti, forse nel ruolo di comandante dell’esercito, e
probabilmente fu anche a Tagliacozzo con Corradino; dovrebbe
essere morto nel 1283, quando gli succedette il fratello Guido, che
poi nel 1298 sposò proprio la già ricordata Margherita di Sovana,
figlia del cugino Ildebrandino, dopo che erano state annullate le sue
nozze con Roffredo Caetani, nipote di Bonifacio VIII. Il matrimonio
tra Guido e Margherita veniva a riunificare così provvisoriamente i
due rami di Sovana e Santa Fiora, anche se ormai gli Orsini, con il
matrimonio tra Gentile e la figlia di Margherita, Anastasia, avevano
già messo le mani sulla contea di Sovana. Nel contempo Bonifacio
VIII, dopo aver fatto annullare le nozze di Margherita con il nipote, si
era alleato con Siena e Orvieto in guerra contro gli Aldobrandeschi.
La guerra era in atto proprio nel 1300: e alla sua confusa
situazione sembra alludere Dante nell’invettiva sulla situazione
dell’Italia del VI canto del Purgatorio, in cui si rivolge all’imperatore
Alberto, notando le lacerazioni in atto in diversi centri italiani. Del
testo si hanno peraltro due lezioni diverse: mentre quella sopra
riportata, “e vedrai Santafior com’è oscura”, designa genericamente
la decadenza della contea, la lezione “e vedrai Santafior com’è
sicura” sembra invece sottolineare per ironica antitesi come essa
fosse minacciata dall’aggressione dei potentati vicini, proprio per
assenza della protezione imperiale. Non va trascurato, d’altra parte,
il fatto che in quella situazione difficile o pericolosa di Santa Fiora ci
fosse lo zampino di Bonifacio VIII. Proprio quella guerra era stata
occasione di un diretto scontro di Dante con le richieste del papa: nei
giorni del suo priorato in Firenze egli aveva dato parere negativo,
nelle sedute del Consiglio dei cento del 19 giugno 1301, alla
richiesta che il cardinale Matteo d’Acquasparta aveva rivolto perché i
cento cavalieri già inviati da Firenze a rinforzo delle armi papali
contro gli Aldobrandeschi rimanessero più a lungo per le esigenze
della guerra (“Dante Alagherii consuluit quod de servitio faciendo d.
pape nichil fiat”). La guerra si concluse comunque a sostanziale
vantaggio degli Aldobrandeschi nel maggio 1302, quando Dante era
già stato condannato a morte: poco dopo moriva il marito di
Margherita e il papa la costringeva a sposare Nello de’
Pannocchieschi, che per un breve periodo avrebbe cercato di
impadronirsi della contea, che poi sarebbe tornata agli
Aldobrandeschi, ma sotto il diretto controllo di Siena. Dopo
l’estinzione della famiglia all’inizio del XV secolo, essa sarebbe
passata poi agli Sforza e agli Sforza Cesarini.
Eccomi dunque a Santa Fiora, nella piazza Garibaldi, situata nel
cuore centrale di quello che era il castello, di cui si affacciano vari
resti, in primo luogo due torri di modesta altezza. Ma è l’insieme
della piazza a dare l’impressione di essere “dentro”, in un effetto di
vera e propria persistenza del cortile del castello, pur nella
contaminazione tra i diversi stili degli edifici e nella presenza di bar e
botteghe moderne: sembra quasi che tutto resti inglobato in quella
lontana origine, anche la lapide che ricorda i caduti del
bombardamento del 12 giugno 1944. Muovendomi tra le scure pietre
del vecchio borgo intorno al castello, mi sposto verso la piazza
Arcipretura, in quello che doveva essere uno dei margini del castello,
dove è la pieve di Santa Flora e Lucilla, con semplice facciata
romanica. Da un belvedere si vede in basso la Peschiera, alimentata
dalle acque del Fiora, di cui non è lontana la sorgente, che alimenta
una rete di acquedotti. In lontananza si scorge, al di là di un bosco,
quella che dovrebbe essere una torre piezometrica, per l’acquedotto;
poi un fumo bianco di cui non si scorge la fonte.
Campagnatico

ogn’uomo ebbi in despetto, tanto avante,


ch’io ne mori’, come i Sanesi sanno,
e sallo in Campagnatico ogne fante.
(Purg., XI, 64-66)

Costeggio ancora le pendici dell’Amiata, tra Santa Fiora e Arcidosso,


dove è una ben piantata rocca Aldobrandesca. Ma Arcidosso evoca
la memoria di un tardo visionario e profeta, il Cristo dell’Amiata,
Davide Lazzaretti, qui nato nel 1834 e colpito a morte dai carabinieri
il 18 agosto 1878, mentre scendeva dal vicino monte Labbro in
processione con i suoi seguaci: in un impossibile ritorno di
illuminazioni profetiche e di un avvento di giustizia e di verità, qui
dove vivono le tracce dei tempi danteschi.
Da Arcidosso scendo allontanandomi dall’Amiata e riguadagnando
la bassa Maremma, nella valle dell’Orcia, fino alla sua confluenza
con l’Ombrone. Da qui scendo più a sud, raggiungendo
Campagnatico, che mi riconduce all’Aldobrandeschi trovato da
Dante tra i superbi, Omberto. Nelle parole che rivolge a Dante, egli
collega la propria stessa morte al peso del suo despetto feudale: da
guelfo era in continuo e violento contrasto con Siena, nel tempo in
cui la città era in mano ai ghibellini, e perse la vita proprio nello
scontro con Siena, in un episodio su cui si hanno ipotesi diverse, che
ebbe luogo nel 1259 a Campagnatico, qui sulla valle dell’Ombrone,
dove era un castello della sua famiglia. Si parla di un’aggressione
che egli avrebbe subito nel suo stesso palazzo da parte di sicari
prezzolati dai senesi oppure di una morte in uno scontro con le
truppe senesi (a questo farebbe pensare il verso 66, “e sallo in
Campagnatico ogne fante”).
Entro in Campagnatico quando ormai è scesa la sera e
rapidamente osservo le facciate, ben illuminate, di chiese che erano
già in piedi nel XIII secolo: il paese appare quasi deserto, ma
dall’interno delle case viene un piacevole odore di legna che brucia.
Si sale leggermente per raggiungere il centro, dove è la piazza
Dante, il cui assetto medievale è come ricompreso e ingentilito dalla
sistemazione ottocentesca voluta dal granduca Leopoldo II: una
targa metallica sotto il nome della piazza riporta la dizione LUOGO
DOVE MORÌ IN BATTAGLIA OMBERTO / ALDOBRANDESCHI NELL’ANNO 1259 e poi
tre terzine dell’XI del Purgatorio. Poco più avanti sono i resti della
rocca Aldobrandesca, con una possente torre: intorno alla parte alta
del paese persistono molti tratti della cinta muraria, al cui interno
sono spesso installate delle abitazioni.
La notte mi porta via da Campagnatico, per farmi raggiungere
Massa Marittima: percorso relativamente breve, ma turbato
improvvisamente dall’accensione della spia dell’olio motore, mentre
percorro la ex statale 223 in direzione di Grosseto. Solo domattina
potrò risolvere il problema.
La Maremma e il castello della Pietra

Maremma non cred’io che tante n’abbia,


quante bisce elli avea su per la groppa
infin ove comincia nostra labbia.
(Inf., XXV 19-21)

Qual dolor fora, se de li spedali


di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre,
e di Maremma e di Sardigna i mali

fossero in una fossa tutti ’nsembre


(Inf., XXIX 46-49)

ricorditi di me, che son la Pia.


Siena mi fé, disfecemi Maremma
(Purg., V 133-134)

Dopo essere stata chiamata in causa, pur senza farne il nome, nel
XIII dell’Inferno, come lo spazio tra Cecina e Corneto infestato dai
cinghiali, la Maremma viene esplicitamente menzionata a proposito
di altre due situazioni infernali: una prima volta per le bisce che vi si
annidano, certo in misura minore rispetto a quelle che nella settima
bolgia infestano la figura del ladro Caco, che appare in forma di
centauro, con bisce sulla groppa, fino al limite tra la parte animale e
quella umana (là dove comincia l’aspetto umano: e lì, sulle spalle,
dietro l’occipite, ha anche un drago); e una seconda volta per le
febbri micidiali suscitate dal suo clima malarico (con una similitudine
ipotetica Dante dice che l’ambiente dell’ultima bolgia e il fetore che
ne emana è simile a quello che si avrebbe se si mettessero insieme
gli ospedali di tre regioni malsane, come la Valdichiana, la Maremma
e la Sardegna). Ma una terza, più celebre menzione della Maremma
è nelle parole con cui nell’Antipurgatorio la senese Pia evoca la
propria morte, nella regione malsana che ha consumato la sua vita
(disfecemi Maremma), come ben sa il marito che l’ha condotta a tale
sorte.
Nelle delicate e dolenti parole che rivolge a Dante, Pia non fa il
nome del proprio casato, né quello del marito, ma gli antichi
commentatori e la tradizione successiva l’hanno identificata in
termini che ci riconducono a un luogo vicino a Massa Marittima, il
castello della Pietra, di cui era signore Nello de’ Pannocchieschi, che
ho già ricordato come uno degli sposi di Margherita Aldobrandeschi
e che riconduce all’aggrovigliata storia della Maremma ai tempi di
Dante. Secondo questa identificazione Pia apparteneva alla nobile
famiglia senese dei Tolomei (che nel XIV secolo avrebbero avuto
anche il possesso di Campagnatico) e fu prima moglie del suddetto
Nello: questi per sbarazzarsene l’avrebbe confinata nel castello della
Pietra, o per amore della suddetta Margherita o forse per inconsulta
gelosia o per qualche altra vendetta. Si sa però che il rapporto di
Nello con Margherita fu in realtà piuttosto contrastato e ambiguo:
come si è già visto (vedi pp. 778, 781-782) dovette iniziare già
mentre Guido di Montfort, primo marito di Margherita, era prigioniero
in Sicilia, ma poi fu ostacolato dal matrimonio di lei con un Orsini; in
seguito, Bonifacio VIII, dopo aver fatto sposare Margherita con il
nipote Roffredo, annullò le nozze, accusando Margherita di bigamia
per un presunto matrimonio segreto contratto proprio con Nello. Ciò
non impedì a Margherita di sposare lo zio Guido di Santa Fiora, alla
cui morte arrivò finalmente a sposare Nello, ma non per felice esito
di un grande amore, quanto piuttosto per imposizione del papa (bolla
del 3 marzo 1303, in cui la privava dei diritti feudali). Tanto più che
subito alla morte del papa Margherita da lui si separò, per passare
gli ultimi anni tra Roma e Orvieto, mentre Nello occupava parte dei
territori della contea di Sovana, passata agli Orsini attraverso la figlia
di Margherita.
In queste intricate vicende Nello agì come uno dei rocciosi
signorotti che si contendevano questi territori, giostrando variamente
tra Siena, Orvieto, gli Aldobrandeschi, il papato: notabile guelfo,
ebbe rapporti con i guelfi fiorentini e nel 1265 suscitò una rivolta di
Massa Marittima (che era libero Comune dal 1225) contro Siena,
allora ghibellina; più tardi fu capitano della lega guelfa, mentre nel
1297 fu assunto da Firenze nella guerra contro Pistoia (e in
quell’occasione Dante avrà certo avuto notizia diretta di lui). I dati
storici relativi a Nello non chiamano in causa nessun personaggio
identificabile con la Pia dantesca, di cui è dubbia anche
l’appartenenza alla schiatta dei Tolomei. Non ci sono
documentazioni storiche su nessuna Pia de’ Tolomei, mentre è
attestata a Siena una Pia dei Malavolti, andata sposa tra il 1282 e il
1283 a un Tollo da Prata, ucciso a tradimento nel 1285. Chi ha
identificato con quest’ultima la Pia di Dante ha fatto congetture varie
su un suo presunto affidamento, in quanto vedova, al solito Nello o
su un successivo matrimonio con lui. C’è insomma un groviglio di
ipotesi e di identificazioni, spesso cervellotiche, che alla fine lasciano
comunque Pia avvolta nel mistero, nel rilievo delle poche parole con
cui si rivolge a Dante alla fine del canto V. Dopo che il pellegrino ha
ascoltato i più dettagliati racconti delle violenze subite da Jacopo del
Cassero e da Buonconte da Montefeltro, la voce di Pia gli viene
incontro con dimessa reticenza sulla violenza subita e sulla propria
stessa identità, chiedendo di essere ricordata, ma solo quando,
tornato sulla terra, egli si sarà riposato del suo viaggio (e ne parla
come se fosse un viaggio come gli altri). Tante leggende, ipotesi,
sogni, sviluppi poetici e musicali sono sorti da queste sue brevi,
delicatissime e reticenti parole.
Di fronte alla Maremma, ai suoi crucciati castelli, alle violenze che
la percorrevano, Massa Marittima si disponeva nel XIII come un
centro di formidabile e tenace operosità, che allora raggiungeva il
suo massimo sviluppo (mentre nel 1335 sarebbe passata sotto il
dominio di Siena): Massa Metallorum, centro della attività minerarie
della zona, per cui all’inizio del secolo aveva varato un vero e proprio
codice minerario, la Lex metallorum. Lo spazio urbano aveva avuto
un notevole ampliamento a partire dal 1228, con la formazione di
una Città Nuova, a nord est della originaria Città Vecchia, mentre al
margine di questa sorgeva la splendida cattedrale di San Cerbone,
in perfetto stile pisano, disposta obliquamente rispetto all’assetto
della piazza (oggi piazza Garibaldi), in rapporto sghembo con
l’antistante Palazzo Comunale, con un depistante effetto di
dissimmetria. Arrivo davanti alla cattedrale mentre sale
improvvisamente un vento freddo, ma, nonostante ciò, non riesco a
trattenermi dal sedere un po’ sulla scalinata, breve ma relativamente
ripida, su cui essa si erge. Nel silenzio intercalato dalle folate del
vento, considero i diversi angoli dati dalle strade che convergono
sulla piazza e la loro incidenza con la facciata della cattedrale e con
la disposizione, anch’essa irregolare, della scalinata (che ha una
serie di gradini interrotti a vari livelli seguendo l’inclinazione del suolo
della piazza).
Nella notte mi accoglie, in una residenza storica, una
spaziosissima stanza piena di oggetti singolari, attrezzi agricoli,
utensili di cucina, finimenti per cavalcature. Poi nella successiva
mattina del 12 marzo, mentre risolvo il problema dell’olio motore,
osservo da un poggio la distesa della pianura dalla parte del mare,
fino a Follonica, e verso nord il fitto bosco che copre una fetta
dell’entroterra maremmano, alle spalle della fascia marina, fino a
Suvereto, Sassetta, Monteverdi Marittimo.
Vado poi alla ricerca del castello della Pietra, nel territorio di
Gavorrano: presa la strada per Perolla, supero il paese e al primo
incrocio giro a destra e poi a sinistra, su una strada sterrata che
conduce, come dice il segnale, alla Fattoria di Pietra. Avanzo per più
di un chilometro, tra campi coltivati oltre i quali sulla destra si
elevano vari poggi boscosi, quando giungo alla fattoria, dove
attualmente non appare nessuno. Ci sono attrezzi sparsi e auto
parcheggiate, ma certo tutti stanno al lavoro da qualche parte, nei
campi. Mi aggiro variamente sui diversi viottoli sassosi che si
dipartono dalla fattoria; salgo verso un poggio, vado avanti e torno
indietro, tra infruttuose giravolte. Poi noto finalmente un’auto
malridotta (forse una vecchia Ypsilon), con la carrozzeria ammaccata
e arrugginita, che procede verso la mia, in senso opposto. Mi
accosto sulla destra (qui il viottolo è molto largo) per farla passare,
notando già da lontano che al volante c’è un ragazzotto con un
vistoso orecchino. Gli faccio cenno di fermarsi e, quando è a fianco
della mia auto, gli chiedo dov’è il castello della Pietra: mi indica uno
di quei poggi, un montarozzo alla cui base c’è un contorno di
svettanti cipressi, fronteggiati da un fitto gruppo di ulivi, mentre più in
alto si nota un groviglio di cespugli e di escrescenze sassose.
Procedo verso di esso su una strada più delle altre sassosa, fino a
un casale davanti a cui c’è un’auto parcheggiata. Qui devo lasciare
la mia e procedere a piedi, salendo su un viale che a un certo punto
sembra distendersi, limitato sulla sinistra da un campo recintato e
sulla destra da varia vegetazione. Giunto in alto, si aprono due
strade, che proseguono in direzioni diverse nella boscaglia: ecco
una casupola di cemento con una porta di ferro chiusa da un
lucchetto, ecco blocchi di mattoni corrosi, mentre tra i cespugli si
muovono invisibili animali e appare all’improvviso una gazzella che
attraversa la strada e sparisce. Si leva un vento che sommuove i
cespugli e fa stormire i cipressi là in basso. Varie deviazioni e ritorni
mi portano finalmente, tra i rovi, alle tozze muraglie che restano del
castello, su cui è fissata l’inevitabile lapide dantesca. Nient’altro
rimane di tante vicende, propositi, rabbie, violenze consumatesi qui:
senza pensare che quasi certamente nessuna Pia si consumò tra
queste mura. Tornando indietro, volgendo lo sguardo alla distesa dei
campi assolati, sembra comunque di aver toccato una vita remota, di
venire ora da un insondabile altrove.
Muovendo poi verso Siena, passo a Ribolla, già villaggio minerario
della società Montecatini: in una miniera di lignite ebbe qui luogo nel
1954 un’esplosione di grisù che fece 43 vittime, dovute anche alle
cattive condizioni della miniera e all’inadempienza delle norme di
sicurezza. A questo evento è dedicato un appassionato libro di
Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, I minatori della Maremma
(1956), che è anche una storia delle miniere maremmane, della vita
e delle lotte dei minatori.
Dopo Ribolla, appare Montemassi, adagiato su un colle dominato
dai resti di un altro castello aldobrandesco, su cui si elevano, su lati
opposti, i due corpi grossi e tozzi della rocca e della torre. Il castello,
dopo occupazioni da parte senese nel corso del XIII secolo, fu per
un certo periodo in mano ai Pannocchieschi, in diretto rapporto con
Siena; ma, ribellatosi a Siena con il sostegno di Castruccio
Castracani, fu preso nel 1328, con un assedio reso celebre dal
grande affresco nel Palazzo pubblico di Siena, attribuito a Simone
Martini, con l’immagine del condottiero Guidoriccio da Fogliano che
procede a cavallo verso il castello, in un sontuoso e fiorito
abbigliamento, sullo sfondo di un brullo paesaggio in cui è disposto
l’accampamento dell’assedio e su cui, opposte al castello assediato,
svettano un battifolle, turrito castelletto di assedio (ma da molti oggi
sono messi in dubbio sia l’attribuzione sia il soggetto…).
Oltre Montemassi raggiungo poi Roccastrada, altro castello
aldobrandesco disposto su un grosso costone di roccia, che offre
alla vista i suoi nudi sassi. Qui il sito del castello è occupato dalle
case del quartiere denominato Cassero, tra tortuose stradine da cui
ci si affaccia sulla campagna circostante, con un’ampia vista ora
battuta da una fredda tramontana.
Scendendo tra boschi sulla SP 73 bis incontro, poco prima del
chilometro 37, un monumento costituito da una bianca colonna
circondata da un gruppo di più piccole colonne mozze, sopra un
basamento su cui sono incisi vari nomi: è dedicato AI MARTIRI DEL /
MONTECUOIO / 15-3-1944. Siamo qui infatti sotto il monte Quoio, dove
quel giorno dieci giovani furono fucilati per rappresaglia da una
brigata fascista.
Oltre il monte Quoio, superato Monticiano, una breve deviazione
mi conduce all’abbazia diroccata di San Galgano, costruita poco
dopo la morte del santo a cui dà il nome, tra la fine del XII e l’inizio
del XIII secolo: essa raggiunse presto un’eccezionale prosperità, in
stretto rapporto con il Comune di Siena. Un breve e largo viale
costeggiato da cipressi porta verso la facciata che, sopra la più
bassa fascia marmorea, si eleva in laterizi con due finestre vuote da
cui traspaiono le pareti interne, in pieno sole. Ma per raggiungere
l’ingresso, da un corpo laterale, si deve costeggiare all’esterno la
fiancata destra, seguendo la successione dei finestroni vuoti. Forte è
l’emozione della sosta all’interno, tra le navate con il pavimento di
ghiaia, tra i grandi pilastri e le volte acute, sotto l’effetto dell’azzurro
sovrastante oltre l’assente soffitto e di quello che si affaccia tra i
vuoti delle finestre, come feritoie ogivali. I crolli e le assenze, i vuoti
lasciati dall’architettura diroccata e spogliata, restituiscono una
memoria dell’origine perduta, di ciò che era, i segni del passato e del
precipitare della storia, molto più di quanto non faccia
l’incorporazione dei monumenti nel presente, la loro ricostruzione e
adattamento alle esigenze del nostro consumo, della comoda
verifica turistica. Qui tutto è silenzio, assenza, persistenza svuotata,
lascito di ciò che è finito.
Da una delle finestre si scorge la chiesetta che è sul colle che si
erge presso la fiancata sinistra della grande chiesa, l’eremo di
Montesiepi, fatto erigere dal nobile Galgano Guidotti nel 1180 e
consacrato dopo la sua morte, nel 1185. Lasciato lo spazio della
chiesa diroccata, salgo a piedi sul vicino colle, alla chiesetta eremo,
perfettamente circolare, che è nel pieno delle sue funzioni religiose e
molto ben custodita. Al centro c’è il masso, dove san Galgano
avrebbe confitto la sua spada, dopo aver avuto la visione degli
Apostoli e aver deciso di abbandonare l’abito di cavaliere per
assumere quello di eremita: nell’elsa della spada, a forma di croce,
avrebbe qui adorato la croce di Cristo, tra suggestioni ricavate dalla
letteratura cavalleresca e dalla leggenda arturiana della spada nella
roccia (quella leggenda che è giunta per progressivi slittamenti a un
libro del 1938 di Terence Hanbury White, da cui fu poi tratto nel 1963
un film d’animazione tardodisneyano). Ora la roccia e la spada sono
protette da una calotta, per evitare che qualcuno, come accaduto in
passato, provi a estrarre la spada, spezzandola e staccandone
l’elsa.
Disceso in basso, al momento di riprendere l’auto, mi volgo
indietro, notando che nel disporsi del paesaggio, tra i dolci prati e
l’ordinato assetto dei cipressi in diversi viali, sembra darsi una
rispondenza tra il corpo della diroccata abbazia e il colle dell’eremo,
quasi un colloquio che persiste tra la chiesetta ben conservata e ciò
che resta della gloriosa e crollata abbazia.
Ripreso il percorso verso Siena, dopo le curve di una breve salita
e di una successiva discesa, la strada viene affiancata per un tratto
abbastanza lungo, alla sua destra, dal corso del torrente Rosia. A un
certo punto sopra il torrente si scorge, subito alla destra della strada,
un esile ponte senza spallette, un arco in perfetto semicerchio, con
un malridotto acciottolato da cui spuntano ciuffi d’erba, mentre sulla
sponda opposta resiste un pezzo di muro, che fa argine al torrente.
Questo scorre con modesto gorgogliare della poca acqua, tra ciottoli,
ghiaia e grossi massi che si affacciano qua e là. Si tratta del ponte
della Pia: quello che, secondo la leggenda, nelle notti di luna piena,
viene attraversato dal fantasma inconsolabile della Pia de’ Tolomei.
“Dolente Pia, innocente è prigioniera”, canta la senese Gianna
Nannini nella sua opera rock (e nel relativo album), un po’
femminista, Pia come la canto io, con parole della scrittrice lucchese
Pia Pera, anche lei Pia, poi prematuramente scomparsa nel 2016.
Montaperti e fiume Arbia

Ond’io a lui: “Lo strazio e ’l grande scempio,


che fece l’Arbia colorata in rosso,
tal orazion fa far nel nostro tempio.”
(Inf., X 85-87)

Piangendo mi sgridò: “Perché mi peste?


se tu non vieni a crescer la vendetta
di Montaperti, perché mi moleste?”
(Inf., XXXII 79-81)

Prima di entrare in Siena, aggiro la città da sud, nel groviglio di


svincoli e tangenziali che la circondano, e, sfiorando il borgo di
Montaperti, raggiungo il sito della famosa battaglia del 4 settembre
1260. Accanto al modesto fiume Arbia, che si attraversa su un
piccolo ponte, si innalza un poggio (detto di Monteapertaccio), in
cima al quale, circondato da cipressi, c’è un cippo commemorativo di
forma piramidale, su cui sono iscritti i versi del XXXII dell’Inferno con
cui Bocca degli Abati, immerso nel Cocito tra i traditori della patria,
rampogna Dante che “passeggiando tra le teste” dei dannati l’ha
casualmente percosso. Il fatto che il dannato abbia alluso a una
possibile vendetta contro il suo comportamento a Montaperti spinge
poi Dante a chiedergli chi sia, dicendogli che così potrà rinfrescare la
sua fama. Ma, dato che il dannato si rifiuta di fare il proprio nome,
Dante compie uno di quegli atti aggressivi a cui si concede più volte
nel fondo dell’Inferno: gli strappa rabbiosamente i capelli, mentre
quello reagisce con grida bestiali e il suo nome viene
improvvisamente rivelato da un vicino di pena, che gli chiede cosa
gli sta succedendo (“Che hai tu, Bocca?”).
Di famiglia ghibellina, Bocca degli Abati faceva comunque parte
dell’esercito fiorentino che a Montaperti si scontrava con i senesi e
con i ghibellini fuorusciti: durante la battaglia passò al nemico e
sembra che addirittura colpì il portabandiera della cavalleria
fiorentina. Questo incontro nel fondo dell’Inferno si oppone
comunque al ben diverso richiamo a quella battaglia fatto nel X della
cantica, nel più celebre dialogo con il ghibellino Farinata degli Uberti,
a proposito del crudele esito della battaglia di Montaperti, accanto al
fiume Arbia, le cui acque furono fatte rosse dal sangue dei caduti, e
delle conseguenze della stessa, con i duri provvedimenti presi dai
ghibellini vincitori sugli sconfitti.
Salgo in cima al poggio, ai piedi del quale sono vari edifici, tra cui
un ristorante con un bell’aspetto, attualmente chiuso. Sedendo su un
sasso ai piedi della piramide, guardo lo stretto letto entro cui scorre
l’Arbia, incassato tra arbusti e sterpi, e la campagna assolata del
mezzogiorno: si vedono delle auto che solcano stretti rettifili, e una
che procede, sollevando polvere, proprio su quello che conduce qua
sotto attraversando l’Arbia. Là in fondo, a nord-ovest, si vede Siena,
con il levarsi di torri e campanili, abbastanza chiaramente, pur nella
leggera foschia. Oltre i più vicini cipressi, sulle pendici del poggio ci
sono piccoli mandorli in fiore e varie piante di olivastro. Sul fronte est
c’è una scala che conduce a un cunicolo sbarrato, mentre tutto il
pendio sud-est è protetto da graticci che ne ingabbiano il terreno
franoso. Mentre il vento fa stormire i cipressi, si può avere l’illusione
di sentire le grida strozzate della battaglia, il rumore dei colpi
implacabili. Chissà quale era allora l’assetto di questo luogo e quale
era al tempo di Ugo Foscolo e della visita fatta dal suo Jacopo Ortis,
che così ne parla nella lettera da Firenze datata 25 settembre, piena
di indignazione per il sangue fraterno qui versato:

Albeggiava appena un crepuscolo di giorno, e in quel mesto


silenzio, e in quella oscurità fredda, con l’anima investita da
tutte le antiche e fiere sventure che sbranano la nostra patria –
o mio Lorenzo! io mi sono sentito abbrividire, e rizzare i
capelli; io gridava dall’alto con voce minacciosa e spaventata.
E mi parea che salissero e scendessero dalle vie dirupate
della montagna le ombre di tutti que’ Toscani che si erano
uccisi; con le spade e le vesti insanguinate; guatarsi biechi, e
fremere tempestosamente, e azzuffarsi e lacerarsi le antiche
ferite.

Da questo luogo Jacopo fugge urlando, pieno di orride fantasie, tra


spettri che continuano a perseguitarlo di notte. Io scendo lentamente
fino al ristorante e, vedendo un addetto che ne ha aperta una porta,
chiedo se è comunque possibile mangiare qualcosa, ricevendo un
reciso diniego. Recupero lentamente l’automobile, ma prima mi
fermo sul ponticello che sovrasta l’Arbia: contemplo, con una vaga
sensazione di stordimento, lo scorrere lento dell’acqua, che in
qualche tratto cattura il riflesso del sole meridiano, mentre mi ostino
a pensarla colorata in rosso, a voler sentire i colpi delle spade guelfe
e ghibelline.
Siena

Siena mi fé, disfecemi Maremma…


(Purg., V 134)

Dentro le sue mura Siena è una della città che meglio si difende dal
pericoloso accerchiamento automobilistico, grazie a tutta una serie
di parcheggi molto ben attrezzati, che offrono il maggior punto di
avvicinamento al centro, senza gravare su di esso. Gelosa di se
stessa, tra le grandi città storiche, è quella che ha saputo meglio
contemperare la sua struttura urbana alla invadenza del turismo:
attraverso il sistema delle contrade, ha fatto sì che il centro storico
conservasse la sua identità e la sua abitabilità, le sue presenze
tradizionali, senza farsi schiacciare dalle esigenze del consumo
turistico, dall’invasione di sciatta paccottiglia che spesso porta con
sé. Forse per le strade di Siena si continua ad avvertire, più che in
qualsiasi altro luogo, una continuità con quell’essere a parte che ha
caratterizzato la città medievale nei confronti degli altri comuni
toscani. Del resto il senese, anche linguisticamente, ha tuttora una
sua particolarità nell’ambito toscano, come era, del resto, ben
evidente per Dante, che lo indica (insieme all’aretino) come una
differenziazione interna del volgare di Toscana nel De vulgari
eloquentia, I X 7; e poi in I XIII 1-2 nomina il senese Mino Mocato
(Bartolomeo Mocati) tra i toscani autori di “dicta […] non curialia sed
municipalia”, e, tra gli esempi di volgari municipali toscani, cita una
frase senese: “Onche renegata avess’io Siena, ch’ee chesto?” (“Se
non avessi mai rinnegato Siena! Che è questo?”).
Entrando in Siena da sud, da Porta Tufi, approdo al parcheggio Il
Campo, da cui vengo a districarmi a piedi con uno sghembo
percorso che mi fa attraversare gli Orti dei Tolomei, che
immediatamente mi riconducono alla Pia, pur nell’improbabilità della
sua effettiva appartenenza a quella famiglia. È un piccolo parco che
sembra come aprire uno squarcio campestre dentro la città e da cui
la vista spazia verso il settore sud-est, sul rilievo dominato dalla
basilica di Santa Maria dei Servi.
Risalendo fuori dagli Orti vengo a sbucare sul Prato di
Sant’Agostino, dove alla facciata della chiesa duecentesca si
affianca un portico colonnato di tipo neoclassico sovrastato dalla
scritta COLLEGIO TOLOMEI. È vero però che il Collegio Tolomei fu
fondato molto più tardi, solo nel Seicento, per una volontà
testamentaria (1628) del nobile Celso Tolomei, e che ebbe prima
sedi diverse, per approdare qui solo all’inizio dell’Ottocento, gestito
dagli scolopi, e per diventare poi Convitto nazionale, mentre oggi è
semplicemente sede di scuole pubbliche, l’Istituto Superiore di Studi
Musicali Rinaldo Franci e il Liceo Enea Silvio Piccolomini.
Per avvicinarmi ai luoghi dei Tolomei devo in effetti raggiungere il
cuore della città, dopo aver lasciato il bagaglio in una bella residenza
storica, nel cinquecentesco Palazzo del Magnifico (detto così
dall’epiteto di Pandolfo Petrucci, signore di Siena tra il 1487 e il
1512), affacciata sulla scalinata che dal Duomo scende verso il
sottostante Battistero. Dal Battistero raggiungo la via di Città,
continuando per la via dei Banchi di Sopra, che si apre sulla piazza
Tolomei, su cui si affaccia il duecentesco Palazzo Tolomei, con
portale ogivale e due piani superiori, su ciascuno dei quali sono
aperte in perfetta simmetria le bifore di sei finestre. Il palazzo è come
vegliato e osservato dalla lupa di stagno che sta in cima a un’antica
colonna appostata davanti a esso. E su un fianco del palazzo, che
oggi è sede della Cassa di risparmio di Firenze, non manca
l’epigrafe con due versi della Pia dantesca, ricondotta a questo suo
supposto luogo di origine. Poco più avanti, sul prosieguo della via
dei Banchi di Sopra è fermo un anziano mendicante inginocchiato
con le mani giunte in indeterminata preghiera, come se ne vedono
sempre più spesso.
Tornando indietro sulla via dei Banchi di Sopra si trova
l’accogliente pasticceria Nannini: è proprio il locale dell’azienda
dolciaria della famiglia della Gianna che con la sua voce ha evocato
il fantasma della Pia: “Dolente Pia, innocente è prigioniera…”.
Gente vana a Siena

“Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena”,


rispuose l’un, “mi fé mettere al foco;
………………………………

Ed io dissi al poeta: “Or fu già mai


gente sì vana come la sanese?
Certo non la francesca sì d’assai!”.
………………………………

“Ma perché sappi chi sì ti seconda


contra i Sanesi, aguzza ver’ me l’occhio,
sì che la faccia mia ben ti risponda:

sì vedrai ch’io son l’ombra di Capocchio,


che falsai li metalli con alchimia;
e te dée ricordar, se ben t’adocchio,

com’io fui di natura buona scimia.”


(Inf., XXIX 109-110, 121-123, 133-139)

Siena e i senesi vengono chiamati in causa diffusamente nella parte


finale del XIX dell’Inferno, da due scabbiosi o lebbrosi, lì condannati
come alchimisti, entrambi morti sul rogo a Siena, Griffolino d’Arezzo
e il fiorentino Capocchio: il primo si presenta a Dante ricordando di
essere stato messo al rogo in seguito alla denuncia di un Albero da
Siena. Con lui si era vantato di saper volare e aveva promesso di
insegnargliene l’arte, ma, non riuscendo nell’intento, quello l’aveva
denunciato come alchimista al vescovo inquisitore di Siena.
Il richiamo a questa vicenda spinge Dante a rivolgersi a Virgilio,
ribadendo quella che era allora una malevola caratterizzazione dei
senesi (molto diffusa in Toscana), come gente vana, piena di
superficiale frivolezza, a un grado maggiore di quello che veniva
attribuito ai francesi. Questo commento di Dante suscita l’intervento
dell’altro dannato, anche lui condannato come alchimista e falsario di
metalli (si conosce la data del suo supplizio, 5 agosto 1293), che
enumera tutta una serie di esempi di vanità senese, facendo i nomi
di uno Stricca, grande spendaccione (“che seppe far le temperate
spese”, 126), di un Niccolò Bonsignori, che introdusse a Siena l’uso
del profumo di chiodi di garofano, della brigata godereccia nella cui
dolce vita un Caccia d’Asciano consumò tutti i suoi averi
(“disperse… / la vigna e la gran fonda”, vv. 130-131) e un Abbagliato
(soprannome di Bartolomeo dei Folcacchieri) tutto il “suo senno” (v.
132). Solo dopo questa enumerazione, Capocchio, quasi
compiaciuto del suo convergere con l’opinione dello stesso Dante
sulla vanità dei senesi, arriva a indicare il proprio nome, accennando
poi anche a una diretta conoscenza che Dante può aver avuto di lui
e della sua abilità di mistificatore.
In questo fondo infernale, la Siena dei tempi di Dante si disegna
così nell’allucinato balletto di una vita di dispendiosi piaceri,
dell’edonismo di allegre brigate, che trova riscontro nell’espressività
degli stessi nomi dei suoi protagonisti (Stricca, Caccia, Abbagliato) e
ha come corrispettivo la condizione stravolta del dannato che li
enumera, il suo stesso qualificarsi come scimia, deforme imitatore
della natura.
È vero peraltro che l’accusa di vanità si appoggia al punto di vista
fiorentino che qui, paradossalmente, mette d’accordo Dante e il
dannato, entro quell’ottica municipale, sguardo malevolo verso città
e paesi vicini, da cui nemmeno il grande poeta risulta del tutto
indenne. Nella lunga vicenda storica dei rapporti tra Siena e Firenze
questa accusa di vanità troverà diverse manifestazioni, ma sarà
smentita dalla vitalità della città e dal rilievo della sua vita civile e
culturale. E anche dopo la sua caduta sotto il dominio fiorentino,
entro il Granducato di Toscana, Siena conserverà gelosamente una
propria identità, quella coscienza di sé che ancora si riconosce
nell’equilibrata gestione del suo assetto urbano. Si può avere però
anche la sensazione che qualcosa possa corrodere questo
equilibrio, ne minacci la continuità e la persistenza. La vicenda della
cattiva gestione e della crisi di quello che era uno dei gioielli
dell’economia senese, il Monte dei Paschi di Siena, con le non
temperate spese e il rischio di disperdere la vigna e la gran fonda,
potrebbe in fondo essere presa da qualche malevolo contemporaneo
come uno dei segni di sotterranea persistenza di quella vanità così
malevolmente denunciata da Dante.
Siena: la Diana

“Io fui sanese,” rispuose, “e con questi


altri rimendo qui la vita ria,
lagrimando a colui che sé ne presti.

………………………………
E cheggioti, per quel che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami.

Tu li vedrai tra quella gente vana


che spera in Talamone, e perderagli
più di speranza ch’a trovar la Diana;

ma più vi perderanno li ammiragli.”


(Purg, XIII 106-108, 148-154)

Ai senesi tocca ancora la qualifica di gente vana per bocca della


senese Sapia, nella cornice purgatoriale degli invidiosi. Quando
viene a sapere che Dante è vivo, la donna gli chiede di darle buona
fama presso i suoi parenti senesi, qualificati appunto, in quanto
senesi, come gente vana: e come segno della loro vanità accenna al
già ricordato (vedi p. 776) tentativo di fare di Talamone una propria
base navale, appaiato alla altrettanto fallimentare ricerca della
Diana, un fiume sotterraneo sotto la città. Varie ricerche e scavi
furono in effetti fatti nel XIII secolo alla ricerca delle acque di questo
fiume, che si diceva passasse sotto la città dalla Porta dell’Ovile a
nord alla Porta San Marco a sud.
Muovendosi verso la zona di Porta San Marco si raggiunge l’ampio
slargo del Pian de’ Mantellini, dove era il convento dei Carmelitani
Scalzi (che a Siena venivano appunto chiamati frati Mantellini, per il
corto mantello che portavano sul saio): lo slargo è fronteggiato dal
fianco della loro chiesa, quella di San Niccolò del Carmine, la cui
facciata è parzialmente ostruita dal vecchio ingresso dei locali del
convento, in cui ora sono insediati vari uffici dell’università. Alla
portineria mi dicono che la chiesa, dove si trova un San Michele che
scaccia gli angeli ribelli di quel singolare e tutto senese pittore che è
Domenico Beccafumi (una prima versione, più sulfurea e turbolenta,
se ne trova alla Pinacoteca nazionale), è quasi sempre chiusa e che
nell’anno in corso è stata aperta solo nel mese di maggio. Ma ora mi
interessa raggiungere la strada che dal Pian de’ Mantellini scende
verso la Porta di San Marco, a cui è stato dato il nome di via della
Diana, certo in omaggio alla citazione dantesca (infatti sotto la targa
c’è l’indicazione GIÀ VIA DEL FONDACO DI SAN MARCO). Qui siamo
comunque lontani dai flussi turistici, in un silenzio che certo non è
interrotto dal fremere delle acque, che gli illusi scavatori credevano
di sentire là sotto: la lapide dantesca con i versi finali del XIII del
Purgatorio, molto rovinata e poco leggibile, si scorge su un muro
sulla destra.
Siamo nel territorio della contrada della Chiocciola. Quando in
basso la via della Diana confluisce nella via San Marco, che
direttamente conduce alla porta, c’è un pozzo (che forse dava adito
all’acqua per cui si immaginò l’esistenza del fiume sotterraneo).
Esso è davanti alla facciata teatrale tardo barocca, dalla dolce
curvatura che ingloba un gioco di concave rientranze scandite da
esili colonne, dell’ex oratorio della Madonna del Rosario, ora
trasformato in Casa del cavallo (vi viene ricoverato il cavallo della
contrada nei giorni del palio).
Risalendo poi sulla via San Marco e svoltando tra vicoli diversi, mi
riavvolgo in questa città tutt’altro che frivola e vana, bizzosa e
pungente nell’ininterrotto succedersi di saliscendi, scale, archi, scorci
ombrosi, aperture improvvise su avvallamenti e risalite tra un colle e
l’altro, con squarci di campanili svettanti, presenza incombente di
laterizi e di tetti che sembrano coprire una vita interna piena di
costanza e determinazione: vita che certo non ha più la durezza di
quella ostinatamente disperata dei romanzi di Federigo Tozzi, di cui
comunque, nel chiuso addensarsi dei fabbricati cittadini, nel loro
fronteggiarsi nell’incastro delle strade, sembra ancora di sentire una
pur labile traccia.
La vetrina di una libreria antiquaria, nella vicina via dei Pellegrini,
mi mostra una raccolta rilegata dei fascicoli de “La Diana. Rassegna
d’arte e vita senese”, fondata nel 1926: uno dei suoi fondatori,
Alessandro Lisini (che era stato sindaco di Siena dal 1900 al 1905) è
autore, insieme a Giulio Bianchi Bandinelli, di un libro su La Pia
dantesca, apparso nel 1939 (ma già un suo saggio in proposito era
apparso proprio su “La Diana” nel 1928). Poi dalla piazza San
Giovanni (su cui si affaccia il Battistero) risalgo, per raggiungere la
residenza nel Palazzo del Magnifico, la ripida scala che immette al
fianco del Duomo. Sullo sfondo della scala è l’arcata del portale
laterale del Duomo nuovo (parte di un ampliamento del Duomo,
intrapreso nel XIV secolo e mai realizzato).
Siena: piazza del Campo

Colui che del cammin sì poco piglia


dinanzi a me, Toscana sonò tutta;
ed ora a pena in Siena sen pispiglia,

ond’era sire quando fu distrutta


la rabbia fiorentina, che superba
fu a quel tempo, sì com’ora è putta.

………………………………
“Quando vivea più glorïoso”, disse,
“liberamente nel Campo di Siena,
ogni vergogna diposta, s’affisse;

e lì, per trar l’amico suo di pena,


ch’e’ sostenea ne la prigion di Carlo,
si condusse a tremar per ogne vena.”
(Purg., XI 109-114, 133-138)

I dislivelli e il vario riavvolgersi delle strade di Siena convergono


intorno alla grande piazza del Campo, che tra tutte le piazze d’Italia
è caratterizzata dalla sua forma scoscesa, dal suo scivoloso
dislivello, contornato dall’irregolare anello che in occasione del Palio
assume la funzione di pericolosissima pista, che può diventare letale
per i cavalli, specie per gli angoli acuti delle due svolte in basso, che
delimitano il lato prospiciente il grande e turrito Palazzo Pubblico. Il
suolo della piazza in discesa converge tutto verso il Palazzo e
sembra suggerire continue diversioni, slittamenti verso il basso e
risalite verso l’alto, sguardi molteplici ed eterogenei alla cortina dei
palazzi che si affacciano intorno all’anello-pista, alle aperture verso
l’esterno, alla Fonte Gaia in alto. Il Palazzo Pubblico era in
costruzione proprio tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo: in quel
torno di tempo la piazza veniva ad assumere l’assetto attuale,
questa formidabile scenografia di teatro sghembo, che infine scatta
verso il cielo con l’ardita elevazione della torre del Mangia, costruita
solo tra il 1325 e il 1344.
Insomma, quando Dante si trovò a passare a Siena, il Campo
mostrava già la sua forma, anche se il Palazzo e altri edifici erano
ancora in costruzione o comunque non avevano ancora l’aspetto
attuale. Ancora diversa era la situazione al tempo di Provenzano
Salvani, il capo dei ghibellini senesi di cui è questione nell’XI del
Purgatorio. È Oderisi da Gubbio, verso la fine del canto, a indicare a
Dante questo personaggio, suo compagno di pena tra i superbi,
facendone esempio della vanità della fama umana e della collegata
superbia: celeberrimo ai suoi tempi e ormai a stento ricordato nella
sua Siena.
Oderisi ricorda che il Salvani fu la maggiore autorità di Siena
quando fu distrutta la furia spavalda dei fiorentini: era lui a
comandare l’esercito ghibellino senese nella battaglia di Montaperti.
Dopo aver poi sottolineato la sua ambizione, che fino alla fine lo fece
“presuntüoso / a recar tutta Siena alle sue mani” (vv. 122-123),
Oderisi risponde infine al dubbio di Dante, che vuole sapere come
mai il Salvani, pur avendo peccato in superbia fino alla fine della vita,
non debba passare il lungo tempo di attesa nell’Antipurgatorio, come
invece tocca ad altre anime dei pentiti in punto di morte, ma sia già
tra i penitenti del girone. Quel tempo di attesa gli è stato risparmiato
da un atto di umiltà compiuto proprio mentre era ancora al colmo
della sua potenza: si mise umilmente a mendicare in mezzo al
Campo di Siena per raccogliere il denaro necessario per il riscatto di
un suo amico (probabilmente Bartolomeo Saracini), preso prigioniero
da Carlo d’Angiò alla battaglia di Tagliacozzo. Quelli comunque
erano gli ultimi giorni del potere ghibellino a Siena: dopo le battaglie
di Benevento e di Tagliacozzo, Firenze aveva scacciato i ghibellini e
aveva ripreso la guida della fazione guelfa: di lì a poco (16-17 giugno
1269) ebbe luogo la battaglia di Colle Val d’Elsa, in cui truppe
francesi e fiorentine sconfissero i senesi. Provenzano Salvani vi
trovò la morte: racconta il Villani (Cronica, VIII 31), che “fu preso, e
tagliatogli il capo, e per tutto il campo portato fitto in su una lancia”. Il
governo di Siena passò in mano guelfa, in stretto rapporto con
Firenze.
Siedo tra i folti tavolini di uno dei locali che sono disposti sulla
parte alta del Campo. Ai tavoli più vicini ci sono turisti che con
cannucce succhiano da grossi bicchieri di coloratissimo aperitivo e
studentesse ancora fasciate dai piumoni invernali che animatamente
discutono tra bottiglie di Coca-Cola o di birra, guardando
continuamente gli schermi dei loro telefonini appoggiati sulla
tovaglia. Vari ragazzini corrono su e giù sul lastrico del Campo;
molte persone sono sedute a terra su di esso, mentre un fitto
gruppo, forse di turisti, sosta a capannello davanti alla cappella
addossata al piede della torre del Mangia. Probabilmente è solo
un’impressione illusoria: ma sembra che rumori e voci siano come
attutiti da una sorta di effetto acustico creato dalla stessa
conformazione della piazza. Mi domando in quale punto Provenzano
Salvani aveva messo, come racconta il commentatore Iacomo della
Lana, il suo “banco con uno tappeto”, dove sedeva “e domandava ai
Senesi vergognosamente ch’elli lo dovessino aiutare in questa sua
bisogna di alcuna moneta, non sforzando persona, ma umilemente
domandando aiuto”, per raccogliere i diecimila fiorini della taglia
richiesta da Carlo d’Angiò.
Monteriggioni

però che, come su la cerchia tonda


Montereggion di torri si corona,
così la proda che ’l pozzo circonda

torreggiavan di mezza la persona


li orribili giganti, cui minaccia
Giove del cielo ancora quando tuona.
(Inf., XXXI 40-45)

La mattina del 13 marzo muovendo da Siena sulla Via Cassia verso


nord vedo presto apparire le torri che si levano sul colle di
Monteriggioni, sul margine della cinta muraria: sono quelle a cui
Dante paragona i giganti immersi nel ghiaccio, che fanno come
corona intorno al margine del pozzo infernale del Cocito.
Una breve ascesa conduce al parcheggio collocato sotto la Porta
di sud-est: verso le 10.30 ci sono già varie auto e turisti che
parcheggiano ed entrano a piedi entro questo borgo perfetto, che ha
mantenuto la sua forma originaria di avamposto senese verso il
confine del territorio fiorentino, anche se è probabile che ai tempi di
Dante le torri o alcune di esse dovessero essere più alte di quelle
attuali. Nell’ampio spiazzo interno, tra i bassi edifici medievali in cui
sono insediate botteghe per turisti, ci si sente come protetti dalla
turrita cortina circostante: nella luce del mattino, tra un semplice
pozzetto e la facciata della parrocchiale, il lastricato è percorso da
un piccolo gruppo di fanciulle nordiche, che stanno delicatamente
gustando dei coni gelati. L’inferno della similitudine si è qui tramutato
in un piccolo indifferente paradiso. Le stesse torri-giganti appaiono
come umanizzate: lontane dalla loro destinazione militare, ancor più
lontane dalla connotazione infernale messa in campo da Dante.
Qualche visitatore è salito sugli spalti delle mura, seguendo il
percorso della visita, e si avvicina a una delle torri: Nembrot, Fialte,
Briareo, Anteo non possono fare paura. Breve è il percorso fino alla
Porta di nord-ovest, oltre la quale di apre un’ampia visione
campestre, verso tutta la Val d’Elsa. Sulle mura esterne, accanto al
vano di questa porta, è l’immancabile lapide con i versi danteschi.
Colle Val d’Elsa

Eran li cittadin miei presso a Colle


in campo giunti co’ loro avversari,
e io pregava Iddio di quel ch’e’ volle.

Rotti fuor quivi e vòlti nelli amari


passi di fuga; e veggendo la caccia,
letizia presi a tutte altre dispari,

tanto ch’io volsi in su l’ardita faccia,


gridando a Dio: “Omai più non ti temo!”
come fé ’l merlo per poca bonaccia.
(Purg., XIII 115-123)

Dopo Monteriggioni, la Cassia fiancheggia un corso d’acqua, che si


tiene sulla destra tra Castellina Scalo e Staggia Senese e oltre: poi,
prima dell’ingresso nel borgo di Bellavista, lo attraversa un ponte,
sotto cui passa anche la ferrovia a un solo binario. Ho l’impressione
che si tratti del fiume Elsa: scendo allora sotto il ponte, percorrendo il
prato che sovrasta lo stretto letto su cui l’acqua scorre abbastanza
lentamente, in parallelo con il binario che, dopo aver superato il
ponte stradale, ormai sulla sinistra della strada, svolta verso destra
con un’ampia curva. Consultando le carte, mi accorgo però di
essermi ingannato: non si tratta infatti dell’Elsa, ma di un suo
affluente, il torrente Staggia, che confluisce nell’Elsa poco più avanti,
oltre Bellavista, nei pressi di Poggibonsi.
Comunque, prima di raggiungere Poggibonsi, retrocedo verso
Colle Val d’Elsa, presso cui ebbe luogo quella battaglia del 1269 in
cui furono sconfitti i ghibellini senesi e in cui trovò la morte
Provenzano Salvani. Vi accenna, nella cornice degli invidiosi, Sapia
di Siena, ricordando la gioia provata nel contemplare la sconfitta dei
suoi concittadini, la loro fuga inseguiti dai vincitori (caccia),
l’incongruo senso di potenza che in quell’occasione ella aveva
creduto di sentire in sé (e si paragona al merlo di una favoletta allora
molto diffusa, infradiciatosi per aver fatto erroneamente affidamento
su una provvisoria schiarita).
Questa Sapia è stata identificata in una zia paterna dello stesso
Provenzano, moglie di Ghinibaldo Saracini, che proprio nel 1269, già
vedova, cedette al comune di Siena il castello dove aveva abitato
con il marito. La reale motivazione di quella sua gioia per la sconfitta
dei concittadini (e del suo stesso parente) si può probabilmente far
risalire al suo essere di parte guelfa, come il coniuge: così anche il
suo vizio di invidia riconduce al micidiale rilievo delle lotte di fazione
nella Toscana del XIII secolo, tante volte evocate dalla
rappresentazione dantesca.
Già allora c’era una Colle Bassa e una Colle Alta: io comincio a
dirigermi verso la Colle Alta, salendo lungo la strada della Val di
Cecina, che di qui conduce a Volterra: sul pendio tra la strada e la
Colle Alta, che è sulla sinistra, ci sono vari parcheggi, da cui poi si
può agevolmente raggiungere la città alta. Questa è divisa in due
parti ben separate, il Borgo a ovest e il Castello a est: sbuco proprio
nel punto limite tra queste due parti, messe in comunicazione da un
ponte (dove prima era un ponte levatoio), che immette nella Porta
occidentale del Castello, la quale si apre dentro un palazzo
rinascimentale, il Palazzo Campana, che poi si sviluppa sulla destra
della via che percorre longitudinalmente il Castello (via del Castello).
Quasi all’inizio del percorso della strada si apre uno spazio sulla
sinistra, sul versante nord della città alta, affacciato sul colle
dirimpetto e su parte della piana a est: questo è il Bastione di Sapia,
da cui, secondo la tradizione, la donna invidiosa avrebbe
contemplato la sconfitta dei senesi ghibellini. Negli edifici che si
affacciano da questa parte ci sono due insegne, Osteria Sapia e
L’angolo di Sapia, mentre un cartello riporta dati sulla battaglia e
sulla trionfante visione che ne ebbe la donna senese, apponendovi
una conclusione molto fantasiosa, secondo cui ella sarebbe stata poi
uccisa da un sicario senese nella vicina via delle Volte.
Vari palazzi signorili si affacciano sulla via del Castello, che a un
certo punto si allarga nella piazza del Duomo, con il trecentesco
Palazzo Pretorio e il più tardo Duomo, mentre più avanti è la chiesa
di Santa Maria in Canonica, che risale al XII secolo. Giunto al limite
est di Colle Alta, trovo poi una casa torre duecentesca, che viene
indicata come la casa natale di Arnolfo di Cambio, il grande scultore
nato appunto a Colle verso la metà del XIII secolo. Non distante c’è
un ascensore per la Città Bassa, che scende entro un pozzo
cilindrico, dal cui piede si diparte un camminamento sotterraneo da
cui si sbuca all’aperto, in un convergere di strade e di bei palazzetti
denominato Quattro Canti. Da qui si arriva alla piazza centrale,
dedicata ad Arnolfo di Cambio: in essa e nelle vie circostanti è ora
installato il mercato, con la solita animazione tra le bancarelle dei
tanti mercati della provincia italiana.
La Colle Bassa è in gran parte moderna, con poche tracce della
città medievale, tra cui la chiesa duecentesca di Sant’Agostino, con
la facciata incompiuta. Segno di una modernità già superata è
l’edificio della stazione, sulla piazza Arnolfo di Cambio: la stazione
era il punto d’arrivo del breve ramo Poggibonsi-Colle Val d’Elsa, che
diramava dalla linea ancora in uso Empoli-Siena; ma quel ramo ora
non c’è più e nell’atrio della stazione si trova una bella farmacia. Sul
tracciato del percorso ferroviario si snoda ora una pista ciclabile da
Colle a Poggibonsi, che si apre un po’ più in là, all’incrocio tra via
Antonio Gramsci e via Romano Bilenchi: quest’ultima è dedicata allo
scrittore nato a Colle nel 1909, nei cui paesaggi toscani segnati da
un inquieto senso di attesa, da qualcosa di segretamente sospeso,
c’è qualche traccia della vita di Colle, più direttamente rappresentata
nelle sue prime prove, nel periodo turbolento del suo giovanile e
presto abbandonato fascismo “di sinistra” (come nei racconti de Il
capofabbrica, 1935). La via Bilenchi passa qui proprio davanti a
quella che era la facciata interna della stazione, sul tracciato dei
binari di partenza e d’arrivo del treno: il marciapiede della strada
corrisponde ora al marciapiede della stazione.
Fiume Elsa

E se stati non fossero acqua d’Elsa


li pensier vani intorno a la tua mente…
(Purg., XXXIII 67-68)

Dalla zona dell’ex stazione la via di Spugna conduce verso il sito


dell’abbazia di San Salvatore a Spugna, di cui resta ben poco, a
parte la chiesetta di Santa Maria Assunta. Lì accanto c’è finalmente
il ponte sull’Elsa, fiume dalle acque dure, che, come notavano già
Ovidio e Plinio, lasciano incrostazioni sul corpo di chi vi si immerge.
A questa proprietà allude Beatrice, che nell’ultimo canto del
Purgatorio, riferendosi all’albero simbolico apparso nel Paradiso
terrestre, nota che Dante avrebbe potuto riconoscerlo come albero
della giustizia divina, se i suoi pensieri non fossero stati acqua
d’Elsa, cioè non avessero incrostato e indurito la sua mente, come fa
il fiume per coloro che vi si immergono.
Oltrepassato il ponte, scendo sulla riva del fiume: qui siamo nel
Parco Fluviale Alta Val d’Elsa, che risale la valle verso le sue
sorgenti, tra cui quelle molto copiose chiamate Caldane. Sono ora
sulla riva destra del fiume. Sotto il ponte ci sono orti recintati e molto
ben curati: piccoli appezzamenti seminati, su cui veglia anche uno
spaventapasseri. Un sentiero conduce, oltre gli orti, direttamente
sulla riva e mi permette di risalire un po’ il corso del fiume, in senso
opposto alla sua corrente. Mi avvicino all’acqua che, forse per la
suggestione del passo dantesco, mi pare particolarmente densa,
quasi terrosa. A tratti un intreccio di arbusti quasi spogli si frappone
tra il sentiero e l’acqua. Più discosti appaiono pioppi e ontani, mentre
sfioro cespugli già verdi e confusamente fioriti, margherite e violette
sui prati. Arrivo fino ai resti del diroccato Ponte di Spugna,
originariamente in legno, distrutto da un’alluvione del 1318 e poi
ricostruito in muratura, fino al definitivo crollo all’inizio dell’Ottocento:
ne resta un muro della spalla, tutto corroso, su cui sono addossati,
entro uno scalcinato recinto, dei bassi capanni con tetto di latta.
Torno indietro riattraversando la Colle Bassa e risalendo con
l’ascensore alla Colle Alta, ma per raggiungere la Porta occidentale
non percorro la via del Castello, bensì un vicolo che fiancheggia le
case addossate alle mura sud del Castello. Trovo così la via delle
Volte, che per gran parte passa sotto i palazzi, sotto buie volte vuote
e silenziose, su cui dà solo la porta di qualche abitazione. Luogo
classico per agguati notturni e, volendo, anche diurni: silenzio
assoluto, aria quasi spettrale che potrebbe dar credito a chi ha
raccontato che proprio qui si sia consumata la vendetta ghibellina
contro l’invidiosa Sapia. Ma alla fine del percorso alla Colle del
Novecento mi riconduce il nome che è sulla targa a fianco di una
porta d’ingresso un po’ impolverata: Bilenchi.
Lasciata Colle risalgo la valle dell’Elsa quasi fino alla confluenza
del fiume nell’Arno: superata Poggibonsi, che ai tempi di Dante era
già in territorio fiorentino, e lasciata per ora da parte Certaldo (vedi
pp. 1079-1084), tra ponti sull’Elsa e varianti della strada già 429,
attraverso Castelfiorentino e tocco Ponte a Elsa, che mi ricorda una
pubblicità molto diffusa quando ero bambino, con la figura di una
graziosa vecchietta in bianca cuffia pronta a sorseggiare da una
tazza fumante, “La vecchina di Ponte a Elsa”, esaltata allora anche
in spot radiofonici. Si trattava di un surrogato di caffè, presente a
lungo sulle più modeste tavole italiane, poi sparito e ormai
dimenticato. Tante volte succede che prodotti e formule pubblicitarie
che li sostengono entrino a fondo nella vita quotidiana anche di chi a
essi resta totalmente indifferente, si impongano quasi come
ingannevole sostanza di cultura e vita quotidiana, e poi in breve si
dissolvano, svaniscano da ogni memoria, come le tante vite
individuali su cui si sono trovati ad agire.
Oltre le case di Ponte a Elsa, passo il ponte sull’Arno a
Marcignana, vicino alla confluenza dell’Elsa: al di là del maggior
fiume, oltre la sua riva sinistra, si leva il colle di San Miniato, già
sede di vicari imperiali e probabile luogo di nascita della contessa
Matilde. Vi furono ospitati vari imperatori discesi in Italia dal Nord,
per cui ebbe la denominazione, ora non più usata, di San Miniato al
Tedesco: così la nomina ancora Carducci, che vi insegnò retorica
nell’anno scolastico 1856-57 e ricordò più tardi questo soggiorno
nello scritto del 1883 Le Risorse di San Miniato al Tedesco e la
prima edizione delle mie Rime. Guardando dall’auto la cittadina
distesa longitudinalmente sul colle, ricordo la visita che ne ho fatto
qualche anno fa in compagnia di Edoardo Sanguineti, attentissimo a
seguire le indicazioni della guida del Touring, alle forme
dell’architettura, alle opere d’arte: con la disposizione, che lo
caratterizzava, a non lasciarsi sfuggire nessun aspetto del mondo,
nessuna traccia di storicità e di fare umano, come corretta e
ironizzata da una sorta di riserva, quasi da una continua
interrogazione, da un ostinato spirito critico. Naturalmente capitò di
parlare anche di Dante: con scherzosi corto circuiti tra lo spazio di
San Miniato al Tedesco e quello della chiesa fiorentina di San
Miniato, sul monte alle Croci, ricordata in Purgatorio, XII 101 (vedi p.
139-144).
La strada mi porta poi ad attraversare Fucecchio, da qualche
antico commentatore incongruamente identificato nel Campo Picen
di Inferno, XXIV 148, che cercherò in altra circostanza (vedi
pp. 1159-1162): le contraddittorie indicazioni stradali mi costringono
qui a vari andirivieni, prima di poter prendere la giusta direzione per
Altopascio (dove il 23 settembre 1325 Castruccio Castracani
sconfisse i guelfi fiorentini) e Lucca.
Lucca

“Questi”, e mostrò col dito, “è Bonagiunta,


Bonagiunta da Lucca…”
……………………………………………

Ma come fa chi guarda e poi s’apprezza


più d’un che d’altro, fei a quel da Lucca,
che più parea di me voler contezza.

El mormorava; e non so che “Gentucca”


sentiv’io là, ov’el sentia la piaga
de la giustizia che sì li pilucca.

“O anima”, diss’ io, “che par sì vaga


di parlar meco, fa’ sì ch’io t’intenda,
e te e me col tuo parlare appaga.”

“Femmina è nata, e non porta ancor benda”,


cominciò el, “che ti farà piacere
la mia città, come ch’om la riprenda…”
(Purg., XXIV 19-20, 34-45)

Non ci sono espliciti documenti, ma è certo che Dante abbia


direttamente frequentato Lucca e che vi abbia soggiornato, almeno
tra il 1308 e il 1309 (ma è dubbio se il Giovanni Alighieri firmatario a
Lucca di un atto mercantile il 21 ottobre 1308 sia figlio di Dante o di
un altro Alighieri: c’è comunque anche chi ipotizza un trasferimento a
Lucca della moglie stessa di Dante). Non ne sono prova i riferimenti
fatti nell’Inferno a personaggi lucchesi (di cui si parlerà più avanti) né
la citazione nel De vulgari eloquentia, I XIII 2, di una frase lucchese
tra gli esempi di volgare municipale toscano: Fo voto a Dio ke in
grassarra eie lo comuno de Lucca (“Giuro a Dio che il comune di
Lucca è in grande ricchezza”): è invece determinante l’esplicita
menzione, per bocca del poeta Bonagiunta da Lucca nella cornice
dei golosi, del nome non altrimenti noto di una donna, che avrebbe
reso piacevole Lucca a Dante, Gentucca, che all’altezza del 1300
ancora non portava benda, cioè era ancora fanciulla, non copriva i
capelli con una benda o un velo, secondo l’uso delle donne adulte.
Nell’incontro con un poeta della precedente generazione come
Bonagiunta, Dante dà peraltro uno sguardo retrospettivo a quella
lirica amorosa che era stata al centro della Vita nuova. Il rimatore
lucchese riconosce in Dante l’iniziatore delle nove rime, inaugurate
dalla canzone Donne ch’avete intelletto d’amore, e, di fronte alla
rivendicazione che il fiorentino fa del proprio impegno di diretta
obbedienza a ciò che Amore ditta dentro, riconosce la distanza dei
precedenti poeti dal nuovo stile, designandolo con la formula poi
divenuta corrente di dolce stil novo. La misteriosa Gentucca appare
però del tutto estranea a questa discussione sulla poesia d’amore
(che riguarda piuttosto quelle rime che erano state dedicate alla lode
di Beatrice): difficile pensare che si voglia accennare a un altro
amore (se amoroso sia stato il rapporto con questa donna lucchese)
proprio a questo punto della Commedia, quando ormai è vicina
l’apparizione di Beatrice. Si può pensare piuttosto non a un amore,
ma a una presenza particolarmente ospitale, che abbia fatto
ricredere Dante rispetto all’immagine negativa già suggerita di Lucca
e dei lucchesi nei passi dell’Inferno che tra poco vedremo.
Eccomi comunque a Lucca, dove nel pomeriggio del 13 marzo
partecipo a un incontro su Voci e immagini della follia. Arte, cinema,
musica, poesia, che ho organizzato per la Fondazione Mario Tobino,
che svolge molte attività culturali nel nome del medico scrittore che
fu a lungo primario nell’ospedale psichiatrico di Fregonaia, nei
dintorni di Lucca, dove ora è la sede della Fondazione (e dove è
stata conservata la stanza in cui Tobino alloggiava, con un piccolo
letto e un semplice mobilio). Tobino non era lucchese, ma
viareggino, e il suo carattere sanguigno e appassionato non
coincideva con quello di questa città, che è come una costola
separata della Toscana: città tradizionalmente conservatrice, dove
sempre hanno contato i rapporti tra autorevoli famiglie e le istituzioni
a esse collegate, in una sorta di continuità con le modalità di
governo della repubblica aristocratica, che ha resistito a lungo nei
secoli, sostenuta da un fiorente artigianato e da una vivace classe
mercantile, mantenendo la sua indipendenza fino all’età
napoleonica, quando fu costituita in principato assegnato a Elisa,
sorella del Bonaparte.
Tra le vicende della storia e le trasformazioni che pure ha subito
(fino alla creazione della grande piazza Napoleone), Lucca ha
comunque saputo mantenere una sua gelosa identità, protetta dalla
bellissima cerchia di mura, lentamente messa in piedi tra
Cinquecento e Seicento, e tuttora conservata quasi intatta, sul cui
sommo si svolge una amenissima passeggiata che ne fa tutto il giro.
Ai tempi di Dante Lucca era ancora pienamente implicata
nell’orizzonte politico e culturale toscano, nel vario scontrarsi e
alternarsi delle lotte tra le fazioni: in un contesto umano che Dante
duramente condanna, anche se sembra che l’accoglienza avuta da
Genticca abbia potuto attenuare quell’opinione negativa sulla città.
Preso possesso della mia stanza nell’Hotel Universo, mi affaccio
subito alla finestra che dà sulla piazza del Giglio: proprio da queste
finestre si affacciava Paola Olivetti, chiamata da Mario Tobino,
quando la sua auto arrivava davanti all’albergo, dove i due amanti
venivano a incontrarsi. Mentre lui lasciava il suo spartano alloggio al
manicomio di Fregonaia, lei giungeva dalla Villa di Fiesole o da altri
suoi luoghi di soggiorno. Donna affascinante la cui vita e i cui amori
si sono intrecciati con grandi personaggi della storia e della cultura
del Novecento, Paola Olivetti viene in genere così indicata con il
cognome del marito, il grande Adriano, guida e signore di
quell’Olivetti che da tanti punti di vista era una delle industrie di
punta dell’Italia del dopoguerra e che, se saggia fosse stata la
gestione dei successori, avrebbe potuto assumere un ruolo di guida
mondiale nello sviluppo dell’informatica. Ma Paola era nata Levi,
sorella di Natalia (che prese il cognome del marito Ginzburg), e
aveva avuto una relazione con un altro Levi, Carlo pittore e scrittore.
Ma si fa tardi: e corro all’incontro che si svolge nella sala ricavata
entro la cappella Guinigi, nel complesso di San Francesco, oltre la
chiesa già duecentesca e poi rifatta nel Trecento. Potente famiglia
lucchese già ai tempi di Dante, i Guinigi hanno lasciato più tardi
numerose tracce architettoniche, come, accanto a San Francesco, la
Villa di Paolo Guinigi, che fu signore di Lucca dal 1400 al 1431. La
cappella ha ora un aspetto di modernissima sala, attrezzata da
funzionale auditorium. Il tema dell’incontro è di per sé lontano da
evocazioni dantesche. Ma anche qui, a sorpresa, viene ad
affacciarsi Dante: Alberto Crespi, vivace e coltissimo critico
cinematografico, mostra a un certo punto una sequenza del
felliniano Amarcord, in cui alle spalle della tabaccaia appare un
cartello pubblicitario con la figura di Dante. Il medico scrittore Tobino
a sua volta era un grande cultore di Dante, in cui riconosceva
l’emblema di un’Italia animata da spregiudicata e sanguigna energia,
da passione di vita e di giustizia: e gli ha dedicato nel 1974 una
libera e non accademica biografia, Biondo era e bello.
Gli Antelminelli

Quei mi sgridò: “Perché se’ tu sì gordo


di riguardar più me che li altri brutti?”.
E io a lui: “Perché, se ben ricordo,

già t’ho veduto coi capelli asciutti,


e sei Alessio Interminei da Lucca:
però t’adocchio più che li altri tutti.”
(Inf., XVIII 118-123)

Interminelli o Antelminelli era una delle maggiori famiglie lucchesi, da


uno dei cui rami doveva emergere di lì a qualche anno il condottiero
Castruccio Castracani. Dante doveva ben conoscere questo Alessio,
su cui ferma il suo sguardo trovandolo nella seconda bolgia, tra i
lusingatori immersi nello sterco. La famiglia di costui era di parte
bianca, esiliata da Lucca nel 1300 quando i Neri vi avevano preso il
potere, come di lì a poco a Firenze; e Dante, che doveva averlo
incontrato per qualche suo viaggio a Firenze, non ne dà certo
un’immagine positiva, nonostante fosse della sua stessa parte, e gli
fa direttamente confessare la sua consuetudine di adulatore. Di lui si
sa solo che negli anni novanta era ancora vivo e che quindi nel 1300
doveva essere morto da poco: quale che sia stato l’esito delle sue
lusinghe, egli resta per sempre segnato dalla lordura in cui Dante
l’ha precipitato e dal compiaciuto sguardo con cui viene a fissarlo.
Tanto per non dimenticare questo personaggio, nel fresco mattino
del 14 marzo mi dirigo verso la piazza Antelminelli, su cui si affaccia
il fianco sinistro del Duomo di San Martino. Trovo subito accanto
all’albergo, disposto fino al vicino Duomo e oltre, un fitto mercato
antiquario, che seguo fino alla facciata della cattedrale, e
all’adiacente piazza Antelminelli. La piazza costeggia la fiancata
sinistra del Duomo, ritmata dal succedersi dei suoi contrafforti:
all’altezza del transetto si apre una porta e più avanti si scorge
l’abside, con le sue arcate cieche sovrastate da colonnette. Evitando
le lusinghe del mercato, noto solo alcuni oggetti che mi sembrano
più strani, come lampade di particolare foggia, fari che sembrano
resti di apparati di segnalazione, giganteschi macinini meccanici,
vecchi tavoli che si raddoppiano ribaltandosi.
Lucca: Santa Zita in San Frediano

Del nostro ponte disse: “O Malebranche,


ecco un delli anzïan di Santa Zita!
Mettetel sotto, ch’i’ torno per anche

a quella terra, che n’è ben fornita:


ogn’uom v’è barattier, fuor che Bonturo;
del no, per li denar, vi si fa ita.”
(Inf., XXI 37-42)

Lascio la piazza Antelminelli e raggiungo la via Fillungo, vero e


proprio corso della città, fitto di negozi e boutique, percorso
pedonale animatissimo, e mi dirigo verso San Frediano, dove è
sepolta la fantesca Zita, morta nel 1278, subito venerata dai lucchesi
ma canonizzata molto più tardi (solo nel 1690). Dante la fa chiamare
Santa Zita dal diavolo della quinta bolgia, che si rivolge ai colleghi
della compagnia dei Malebranche, recando l’anima di un lucchese
appena morto, un anziano, cioè membro di una magistratura del
comune, di cui non viene fatto il nome (Guido da Pisa fa quello di un
Martino Bottaio), mentre si appresta a gettarlo giù nella pece in cui
sono puniti i barattieri, coloro che hanno compiuto ruberie
nell’esercizio di cariche pubbliche. La specificazione di Santa Zita
indica l’appartenenza lucchese, con una sfumatura ironica, che si
espande nelle seguenti parole del diavolo, che dice che Lucca è
piena di barattieri, gente che per denaro è pronta a scambiare il no e
il sì (ita): e sarcasticamente finge di escludere dal loro numero un
personaggio, Bonturo (Bonaventura) Dati, guelfo nero in stretto
rapporto con i Neri fiorentini. Dante ha così occasione di rovesciare
su un esponente molto attivo dei Neri lucchesi (che detennero il
potere dal 1300 al 1314, quando la città fu conquistata dal ghibellino
Uguccione della Faggiuola) l’accusa di baratteria con cui egli stesso
era stato ingiustamente condannato.
San Frediano si apre su una piazza sulla sinistra del Fillungo, sul
fronte opposto a quello da cui si accede all’anello della piazza
Anfiteatro (singolarissima piazza, aperta sullo spazio della cavea
dell’anfiteatro romano, circondata da una cortina di bassi edifici che
seguono il tracciato di quello che ne era il muro di cinta). La facciata
di San Frediano si presenta in una semplice struttura tripartita in
bianco marmo; ma il corpo centrale, che solo esisteva nel XIII
secolo, svetta in alto, con una loggetta sopravanzata da un
architrave che reca un coloratissimo mosaico con l’immagine
dell’Ascensione, anch’esso di origine duecentesca, anche se poi
molto restaurato nell’Ottocento. L’interno a tre navate offre un effetto
di ancor più semplice austerità. Ma molte opere d’arte sono nelle
cappelle: notevoli due che si aprono sulla navata sinistra, la cappella
Trenta (con un polittico scultoreo di Jacopo della Quercia) e quella di
Sant’Agostino (con affreschi del primo Cinquecento, di Amico
Aspertini, tra cui Trasporto a Lucca del Volto Santo e San Frediano
che devia il corso del Serchio).
Ma sono qui soprattutto per la cappella Fatinelli, dove è il corpo di
Santa Zita, che era a servizio proprio presso la famiglia Fatinelli. Nel
1300 il sepolcro aveva però un assetto diverso; l’attuale cappella, in
cui il corpo della santa è esposto in una teca di vetro, fu costruita
solo all’inizio del Quattrocento e poi restaurata nel Seicento. Santa
controversa, comunque, come mostra il fatto che, nonostante la
venerazione popolare che la investì già in vita e subito dopo la sua
morte, passarono quattro secoli prima che fosse canonizzata. Amata
dai lucchesi per la sua carità, per la sua cura dei poveri, è una
singolare santa casalinga, domestica docilmente obbediente ai suoi
ricchi padroni, della cui dispensa di serviva comunque per donare
cibo ai poveri. Le leggende parlano di miracoli a sostegno di quei
generosi furti: una volta, mentre si apprestava a uscire con il
grembiule gonfio di pane per i suoi poveri, alla domanda del padrone
che le chiedeva cosa portasse con sé, rispose che si trattava di fiori
e fronde; e il grembiule subito si aprì e lasciò cadere fiori e fronde.
Altro miracolo: i padroni custodivano casse piene di legumi, che ella
lentamente svuotava; ma seppe un giorno che il padrone aveva
venduto quelle derrate integre a prezzo conveniente, ad acquirenti
che sarebbero venuti a prelevarle la mattina successiva. Tutta la
notte Zita pregò, chiedendo l’aiuto divino: e al mattino tutte le casse
si trovarono stracolme, con più legumi di quelli che c’erano in
origine. Con miracoli del genere e con la sua precoce consacrazione
a emblema lucchese, aspettò tanto tempo prima di essere
canonizzata; e, dopo la canonizzazione, ha dovuto attendere ancora
a lungo prima di essere proclamata patrona delle domestiche, oltre
che di Lucca, delle casalinghe e dei fornai.
Si dice che il corpo della futura santa, dopo la sua tumulazione, sia
rimasto a lungo intatto nel sepolcro: ma oggi il cadavere
mummificato sotto la teca (che qualche decennio fa è stato
sottoposto ad analisi completa dai soliti indagatori necrofili) presenta
un tremendo volto rinsecchito e grigiastro, circondato da una corona
di fiori, sotto cui è un velo trasparente e merlettato, che scende poi
sulla veste. Nella cappella un cartiglio informa che qui venne a
ispirarsi per la sua vita religiosa la giovane Gemma Galgani, che poi
prese le stimmate: è un’altra santa lucchese, moderna questa e dalla
breve vita (1878-1903), canonizzata nel 1940. Confondendomi tra
queste sante lucchesi, cerco su Internet notizie su questa piccola
santa moderna, che trovo sopravanzata da un fiume di link che
rinviano a una attempata signora che ha il suo stesso nome e che è
una delle presenze essenziali di un talk show di grande successo,
Uomini e donne, intorno a cui ruota un serpeggiante e inesauribile
gossip, moltiplicazione di stimmate virtuali.
Intanto, mentre indugio ancora accanto alla cappella Fatinelli, mi si
avvicina una vecchia signora che si appoggia su di un bastone; si
rivolge a me dicendo e ripetendo più volte che siamo a San Frediano
e che qui c’è l’affresco del Volto santo. La ringrazio e, quasi
obbedendole, torno a dare un ultimo sguardo al dipinto di Amico
Aspertini.
All’esterno della chiesa carpisco una conversazione tra due donne
anziane: la più loquace si lamenta di un nipote, che il giorno
precedente è stato a lungo alla finestra ad aspettare il
mezzogiorno… Costeggio la fiancata sinistra della chiesa,
giungendo sotto la torre del campanile e rasentando l’esterno
dell’abside, in cui rossi mattoni si alternano al bianco del marmo.
Subito mi trovo sulle mura, sul baluardo di San Frediano: si distende
ai miei piedi il freschissimo tappeto erboso esterno alle mura.
Scendo verso destra, all’esterno del baluardo e rientro poi nel Borgo
di San Frediano, dalla Porta di Santa Maria.
Lucca: dal Volto Santo al Serchio

Quel s’attuffò, e tornò su convolto;


ma i demon che del ponte avean coperchio,
gridar: “Qui non ha luogo il Santo Volto!

qui si nuota altrimenti che nel Serchio!


Però, se tu non vuo’ d’i nostri graffi,
non far sopra la pegola soverchio”.
(Inf., XXI 46-51)

Il dannato appena giunto nella bolgia, una volta tuffato nella pece,
risale a galla imbrattato (convolto), ma i diavoli gli ricordano
sarcasticamente che non si trova a Lucca e che non si tratta di
nuotare nel fiume che la lambisce, imponendogli di non uscir fuori
dalla pece, se non vuole essere sgraffignato dai loro diabolici uncini.
Come poco prima Santa Zita, ora il Volto Santo e il fiume Serchio
sono evocati come emblemi di Lucca, fissati in San Frediano negli
affreschi di Amico Aspertini.
Nel Duomo di San Martino è l’edicola che appunto custodisce il
Volto Santo: lo raggiungo ora attraverso l’Anfiteatro, addentrandomi
tra le medievali Case Guinigi e passando sotto l’alta torre di uno dei
palazzi della famiglia. Di nuovo attraverso la piazza Antelminelli,
arrivo davanti al Duomo, alla sua facciata, asimmetrica per le ridotte
dimensioni della parte destra, che è addossata al campanile e a un
edificio gotico duecentesco: il portico a pianterreno è disposto in tre
arcate, di cui quella destra è molto più stretta delle altre due. Questa
asimmetria, a cui si aggiunge la mancanza di un frontone a chiudere
la parte superiore della facciata, sopra i tre ordini di colonnine, dà
una particolare originalità al romanico di tipo pisano, ne costituisce
una sorta di versione sghemba, armonicamente e si direbbe
ironicamente deviata.
Indugio a contemplare i bassorilievi sui portali e sulla parete di
fondo del portico, tra cui quelli dedicati ai mesi, che, secondo la
consueta iconografia, fissano il lavoro umano in gesti assoluti e
perentori, ma qui con quello che mi sembra un particolare effetto di
persistenza, di ritmica disposizione del corso del tempo. Appena
entrato nella chiesa scorgo subito, sulla navata sinistra, il tempietto
che risale al tardo Quattrocento, dove è custodito il Volto Santo,
grande crocifisso ligneo dallo strano aspetto, forse orientale, con un
volto dai tratti somatici inconsueti, che da tutte le parti sembra
guardare chi osserva, rivestito di un camice sacerdotale molto
diffuso tra i monaci medievali, il colobium.
Misteriosa è l’origine di quest’opera, riconducibile a un periodo tra
l’XI e il XIII secolo, forse al posto di un altro crocifisso rovinato o
perduto. Ma la devozione verso di essa si è appoggiata su di una
leggenda raccolta dal diacono Leobino, alla fine dell’XI secolo: essa
chiama in causa Nicodemo, il seguace non manifesto di Cristo di cui
è menzione nel Vangelo di Giovanni e a cui è anche attribuito un
Vangelo apocrifo. Dopo l’Ascensione questi avrebbe avuto l’incarico
di scolpire un’immagine che riproducesse quella reale di Gesù: dopo
averne modellato il busto, esitava a mettere mano al volto, ma un
mattino lo trovò già scolpito per opera divina. Per evitare
persecuzioni il crocifisso fu poi nascosto in una grotta (Nicodemo era
del resto abituato a nascondersi, tanto che il suo nome è diventato
emblema di fede coltivata in segreto, di accorta dissimulazione
religiosa). Poi continuò a essere venerato nella grotta, fin quando il
vescovo Gualfredo lo pose con altre reliquie su una nave senza vele
e senza equipaggio che percorse i mari per volontà divina, fino ad
approdare nel porto di Luni, dove andò ad accoglierlo uno stuolo di
fedeli lucchesi, guidati dal vescovo Giovanni, che ne aveva avuto
l’annuncio da un angelo. Era l’anno 742, e così la statua, dopo una
disputa tra lucchesi e lunesi, fu trasportata a Lucca, con il corteo
rappresentato nell’affresco di Amico Aspertini in San Frediano. Fu
custodita proprio in San Frediano, ma da lì sparì, per essere poi
ritrovata in un orto vicino a San Martino, il che fu interpretato come
segno divino che dovesse qui essere custodita.
Eccomi allora davanti al tempietto ottagonale con la cupola
decorata a lisca di pesce, sorretta da otto colonne dorate: ma lo
spazio tra le colonne è chiuso da una fitta grata, anch’essa dorata,
che protegge tutto l’interno. Fissando l’occhio tra le strette aperture
della grata riesco a vedere questo Volto di Cristo, di un nero che da
qui appare quasi metallico e che sembra dovuto ai ceri accesi che in
passato affumicavano il legno. Al nero del legno fa contrasto la
corona d’oro, di più tarda fattura, che chissà quando è stata posta su
questo malinconico volto, che sembra quasi guardarmi e darmi
l’illusione della verità della leggenda, volermi convincere che è stato
davvero modellato per mano divina, laggiù in Palestina, come tanto
a lungo ha creduto la devozione popolare lucchese. Su questa
illusione sento però risuonare ancora il sarcasmo con cui il diavolo
dantesco menziona questa immagine sacra, laggiù tra la tenace
pece. Illusione e sarcasmo sono però corretti dal senso più profondo
che a questa icona attribuisce Guido Ceronetti in Un viaggio in Italia:

Volto Santo di Lucca: il Lignum Crucis è lo stesso albero del


peccato originale, che è simultaneamente Albero della Vita e
Albero della Scienza boni e mali (mondo materiale e mondo
morale e mentale, unità del mondo) a cui è attaccato il Volto
Santo per redimerlo dall’oscura colpa di essere.

Mi volgo poi a osservare altre immagini tra le tante presenti nel


Duomo. Agli altari di questa navata sinistra ci sono dipinti con varie
storie di Maria; nel transetto sinistro c’è la cappella della Libertà, a
ricordo della liberazione di Lucca dal periodo di dominio pisano
(1369), sul cui altare è un Cristo liberatore del Giambologna, che
sovrasta un bassorilievo con la veduta della città, che si estende
turrita oltre le mura, e ben disposti appezzamenti di terreno coltivato.
Ma l’opera più affascinante e più celebre, poesia scultorea che ha
suscitato diverse voci poetiche, si trova nella sacrestia: è il sepolcro
di Ilaria del Carretto, la seconda moglie di Paolo Guinigi, morta a
venticinque anni nel 1405. Il signore di Lucca commissionò il
sepolcro a Jacopo della Quercia e lo fece collocare al centro della
navata del Duomo, da cui fu rimosso quando egli perdette il potere:
ha avuto varie traversie, ma ora è qui, ben custodito e visitabile con
adeguato biglietto. Resto a lungo davanti alla giovane dama coricata
nella sua elegante veste di marmo venato, con piccole macchie
puntiformi. Il collo è stretto e nascosto dall’alto collare in cui culmina
la veste, le cui punte toccano il mento; il piccolo naso sembra quasi
ammaccato, mentre un grande cerchio avvolge la nuca e il capo; ne
fuoriescono capelli, che appaiono accuratamente intrecciati,
coprendo del tutto le orecchie. Dalle ampie maniche della veste
fuoriescono le mani sovrapposte e incrociate sul ventre: a un dito
manca la punta. In basso la veste copre i piedi puntati verso l’alto e
tocca parte del dorso del cane accucciato, la cui coda è arrotolata a
spirale. Agli occhi chiusi di lei, nella sua pace mortale, corrispondono
quelli quasi sgranati del cane, che guarda perplesso, verso l’alto,
altrove. Immagine di solitudine, di impossibile persistenza della
bellezza nella morte, come in un sussulto di fragilità del marmo. “Sei
qui rimasta sola”, come le si rivolge Salvatore Quasimodo nella lirica
Davanti al simulacro d’Ilaria del Carretto, in Ed è subito sera.
Emblema dell’Italia, dell’“aurora” e della “sera italiana, la sua grama /
/ nascita, la sua morte incolore”, secondo Pasolini, in L’Appennino (in
Le ceneri di Gramsci):

Jacopo con Ilaria scolpì l’Italia


perduta nella morte, quando
la sua età fu più pura e necessaria.

La sosta a Lucca non può comunque trascurare quei siti medievali


che erano già in piedi ai tempi di Dante, come, in primo luogo, la
piazza San Michele, allora centro del potere civile con il palazzo
pubblico non più esistente e con la bianca chiesa: impiantata già alla
fine dell’XI secolo, ma con la bella facciata in costruzione proprio a
cavallo tra il XIII e il XIV, quando Dante ebbe qui a soggiornare. Il
suo perfetto stile pisano evita le studiate asimmetrie del Duomo,
anche se un effetto di deviazione, di sfondamento spaziale, viene
dato dalla gigantesca statua di san Michele che uccide il drago,
piazzata in cima alla cuspide.
Seguendo però la sarcastica battuta del diavolo dantesco, devo
raggiungere il fiume, che non sfiora direttamente le mura di Lucca,
ma la lambisce più a nord, ai margini della periferia: uscendo dalla
già attraversata Porta Santa Maria prendo la strada per Camaiore,
che conduce al Foro Boario, area aperta, già di un antico mercato,
dove ora sotto capannoni metallici hanno luogo vari mercati
periodici, come un Mercato delle carabattole. Al di là del Foro Boario
c’è un’area attrezzata che dà direttamente sulla sponda del Serchio,
mentre verso sinistra il fiume è costeggiato dalla terrazza Guglielmo
Petroni, in memoria della scrittore lucchese, autore di una delle
opere più intense dei primi anni del dopoguerra, Il mondo è una
prigione: gentiluomo di grande misura e cordialità umana, che ho
incontrato talvolta nella mia giovinezza, e di cui più recentemente ho
frequentato la vedova, la sua Puci, di cui ricordo la passione
democratica, il legame vivo con la tradizione “civile” del migliore
Novecento.
Mi avvicino alle sponde del fiume, che non mancherò di incontrare
quando ne risalirò il corso: qui scorre verso sinistra serpeggiando
lento tra fondi di ghiaia e piccoli isolotti su cui spuntano fitti cespugli;
più ampio e profondo appare il suo letto verso destra, a monte, dalla
parte del ponte attraversato dalla via di Camaiore.
Caprona

e i diavoli si fecer tutti avanti,


sì ch’io temetti ch’ei tenesser patto:

così vid’ ïo già temer li fanti


ch’uscivan patteggiati di Caprona,
veggendo sé tra nemici cotanti.
(Inf., XXI 92-96)

Sempre nella bolgia dei barattieri, Virgilio fa nascondere Dante “tra li


scheggion del ponte quatto quatto” e va a parlamento con i diavoli,
smontando la loro aggressività e costringendoli ad accettare il
passaggio dei due viandanti. Ma quando i diavoli vedono Dante
venire allo scoperto, si fanno avanti verso di lui, al punto che egli
teme che non stiano al patto. Come termine di paragone per questa
situazione, il poeta allega un ricordo personale, il timore dei fanti
pisani quando, avendo patteggiato la resa, uscirono dal castello di
Caprona da loro difeso e si videro circondati dagli assedianti
vittoriosi. Questa similitudine costituisce l’unica testimonianza che
attesta la partecipazione di Dante, due mesi dopo quella battaglia di
Campaldino che pure lo aveva visto in campo, a questa impresa che
ebbe luogo il 6 agosto 1289, condotta dai fiorentini, insieme ai
cavalieri di Nino Visconti (il giudice Nin gentil incontrato
nell’Antipurgatorio), contro i ghibellini di Pisa: impresa che
comunque, pur verificandosi quasi alle porte della città nemica, non
ebbe rilevanti sviluppi militari.
Nel pomeriggio del 14 mi dirigo da Lucca verso Pisa, sfiorando
San Giuliano Terme e il borgo di Asciano Pisano e raggiungendo la
strada ex statale 67, ora SP2, strada provinciale Vicarese, che
subito tocca Caprona, dove non c’è più traccia del castello
espugnato da Dante, che doveva essere addossato allo sperone
roccioso che svetta sulle case e le botteghe del borgo disposto sulla
pianura. Lo sperone sembra come divincolarsi da ciò che resta di
un’antica fornace, tra le recinzioni che delimitano una cava forse
abbandonata che è alle sue spalle e che sembra in parte
responsabile della sua corrosione, quasi del periclitante frantumarsi
della sua struttura. La memoria del castello è affidata a questo
sperone e alla piccola torre molto malandata che ha sulla cima: è la
torre degli Upezzinghi, che è solo una rovinata copia ottocentesca di
una precedente torretta che doveva servire come punto di
avvistamento per il defunto castello. Pericoloso e comunque
impossibile arrampicarsi fin lassù: posso solo accontentarmi di
guardare dal basso questa fantastica e fatiscente proiezione di
lontane evanescenti scaramucce. Nel borgo c’è comunque un non
trascurabile resto del tempo in cui c’era il castello: è la chiesetta
romanica della pieve di Santa Giulia, con archetti pensili sotto il
timpano del tetto a capanna, la cui prima origine dovrebbe risalire
all’XI secolo.
Monte Pisano

Questi pareva a me maestro e donno,


cacciando il lupo e’ lupicini al monte,
per che i Pisan veder Lucca non ponno.
(Inf., XXXIII 28-30)

Dietro lo sperone di Caprona si innalza l’insieme dei colli che


costituiscono il monte Pisano, quello che impedisce ai pisani di
vedere Lucca: il conte Ugolino lo indica come il luogo dove, nel mal
sonno che gli annunciava il proprio terribile destino, il nemico
Ruggieri (Questi) guidava la caccia al lupo e ai lupicini. Ora sono sul
versante pisano, e per raggiungerlo ho attraversato proprio la
galleria che permette di superare più rapidamente questo ostacolo
tra Pisa e Lucca. Qui da Caprona posso salire direttamente verso la
vetta più alta, monte Serra (917 m.). Ma prima una breve deviazione
mi porta alla Certosa di Pisa, di impianto settecentesco sul sito di un
monastero fondato nel 1366: dopo aver percorso il lungo muro di
cinta, mi affaccio sul vestibolo, limitato dalla cancellata che immette
sull’ampio piazzale interno, che ha al centro la chiesa. Questa ha
alla base una scalinata a doppia rampa simmetrica ed è affiancata
dai due edifici conventuali in reciproca corrispondenza. Dopo aver
osservato dalla cancellata la perfetta disposizione degli edifici sul
piazzale, riprendo il percorso in auto, che mi porta subito a Calci,
davanti alla pieve dei Santi Giovanni ed Ermolao, che risale alla fine
dell’XI secolo, mentre nel 1111 vi approdarono reliquie (tra cui un
braccio) di Ermolao, martire di Nicomedia, in Bitinia, ai tempi delle
persecuzioni di Diocleziano, donate alla repubblica di Pisa
dall’imperatore bizantino Alessio. Questo santo, così lontano e così
poco noto fuori di Calci, è protettore degli uliveti e viene qui
festeggiato con una fiera che ha luogo ogni anno nella prima
settimana di agosto. Lo stile pisano della chiesa riceve particolare
suggestione dall’effetto di colore dato dai conci rossicci della parte
inferiore, in alternanza con i mattoncini bianchi e grigi della parte
superiore; a ciò si aggiunge l’asimmetria data dalla diversa
grandezza delle parti laterali e l’incompiutezza del grande campanile
sulla sinistra, con due finestrine aperte sull’azzurro del cielo.
Dopo Calci la strada comincia a salire. Su un muro laterale mi
appare la scritta SEI DOLCE TANTO QUANTO SEI DURA. Accanto alle case
di Tre Colli la strada si restringe, costeggiando un acquoso torrente
infossato che scende precipitosamente. Poi comincia ad aprirsi
un’ampia vista sulla piana pisana, un po’ velata dalla foschia in
lontananza. Quando sono vicino alla cima scorgo molto bene laggiù
le volute che fa l’Arno prima di attraversare Pisa e più avanti la foce
d’Arno, con la pineta di San Rossore, e il mare. In alto la strada si
dirama tra varie piccole vette: quella che porta più in alto, al vero e
proprio monte Serra, è a un certo punto sbarrata da un cancello, con
l’avviso PROPRIETÀ PRIVATA; c’è appeso al tronco di un pino un cartello
che precisa PROPRIETÀ REGENT S.R.L. Si tratta in effetti di un’azienda di
comunicazione elettronica, che gestisce il folto groviglio di antenne
radiotelevisive che svettano oltre il cancello: è l’inevitabile
colonizzazione di molte vette dell’Italia e del mondo, a cui ci
costringono le universali necessità di comunicazione. Da qui in fondo
il monte “per che i Pisan veder Lucca non ponno” viene a offrire
occasioni di visione e di ascolto su un ampio territorio, ben al di là
dei limiti delle due città. Non lontano dalle antenne c’è lo spiazzo
dell’eliporto, con vista sul mare.
Scendendo verso un crocevia incontro una lapide in ricordo dei
partigiani sovietici. Prendo poi una strada che risale su una vetta
minore, in cima alla quale, aperto sulla piana pisana e sul mare, c’è
un sacrario in cemento, che culmina in un faro, con accanto gli
stemmi metallici della 46a Aerobrigata e dell’Accademia navale di
Livorno. È in ricordo dei caduti del Vega 10, un C-130
dell’Aeronautica militare che il 3 marzo 1977 si schiantò qui sul
monte Serra, poco dopo il decollo dall’aeroporto di Pisa; trasportava
gli allievi della prima classe dell’Accademia navale di Livorno, in
attività di ambientamento al volo. Furono 44 i morti: 38 allievi,
l’ufficiale accompagnatore e l’equipaggio. Intorno al sacrario ci sono
ora alcune famiglie, con molti bambini, che si aggirano sul suo
basamento e si affacciano sulla scarpata rivolta verso Pisa e il mare.
Scendo da un versante opposto a quello della salita, notando
piccole discese d’acque sulla costa del monte, e tocco il borgo di
Buti, tante volte trovatosi in mezzo alle contese tra Pisa e Lucca. È
attraversato da un torrente, il Rio Magno, che scende verso l’Arno
percorrendo uno stretto solco fronteggiato sulla sua destra dalle
case e sulla sinistra da un’alta spalletta in muratura. Ma a un certo
punto il torrente è coperto dal pavimento di un’ampia piazza, che
forse precedentemente esso doveva dividere in due parti: è una
sorta di piazza ponte, oltre la quale il torrente sbuca di nuovo, libero
nel suo stesso letto fiancheggiato dalle case. Da questa piazza si
diparte la via Francesco di Bartolo, su cui, a breve distanza, c’è la
semplice facciata giallognola di una casa: sopra il portone d’ingresso
e sotto una finestra che trovo spalancata, c’è una lapide che la
indica come casa natale di Francesco di Bartolo, nato nel 1324, TRE
ANNI DOPO LA MORTE / DI / DANTE ALIGHIERI (sic), IL PRIMO CHE IN ITALIANO /
COMMENTASSE LA DIVINA COMMEDIA, quello insomma che si suole più
generalmente indicare come Francesco da Buti e che ha redatto uno
dei più affidabili e dei più citati commenti danteschi. Oltre la casa del
commentatore c’è la facciata barocca della chiesa più importante del
paese, la pieve di San Giovanni, con un interno ricostruito in forme
fiorentine quattrocentesche. Passeggiando tra i vicoli, noto che molte
case hanno le porte aperte, schermate da quei tendaggi di bacchette
o di fili in stoffa o in plastica, che fanno pensare a un’Italia di metà
Novecento.
Nelle Alpi Apuane (Pietrapana e Tambernicchi)

Non fece al corso suo sì grosso velo


di verno la Danoia in Osterlicchi,
né Tanaï là sotto ’l freddo cielo,

com’era quivi; che se Tambernicchi


vi fosse sù caduto, o Pietrapana,
non avria pur da l’orlo fatto cricchi.
(Inf., XXXII 25-30)

La mattina del 15 marzo lascio Lucca dirigendomi verso la


Garfagnana, la valle del Serchio che scorre a est delle Alpi Apuane.
Col nome di Pietrapana (che dovrebbe derivare da Petra Apuana)
Dante nomina una delle sue vette maggiori e più ampiamente visibili,
che poi è stata più frequentemente denominata Pania della Croce o
semplicemente la Pania (qui d’altra parte il termine pania indica
genericamente una vetta rocciosa). La evoca entro una di quelle
similitudini ipotetiche dell’impossibilità che si affacciano talvolta nella
Commedia, per indicare situazioni estreme. Qui si tratta della
durezza del ghiaccio del Cocito: lo paragona in prima battuta a
quello di due celebri fiumi del nord, il Danubio (Danoia in Osterlicchi,
cioè in Austria) e il Don (Tanaï, localizzato sotto il gelido cielo della
Russia); poi dice che esso non avrebbe dato nessuno scricchiolio,
neppure sull’orlo, nemmeno se vi fossero cadute sopra rocciose
montagne, come Tambernicchi e Pietrapana. Ma se quasi ovvia è
l’identificazione di Pietrapana, resta controversa quella di
Tambernicchi (nome proprio di forte rilievo espressivo, anche per la
rima aspra e difficile con Osterlicchi e con l’onomatopeico cricchi):
c’è chi parla di un monte della Schiavonia, l’attuale Slovenia, mentre
il Buti lo colloca addirittura in Armenia; il Bassermann lo identifica
con un monte della Carniola, regione della stessa Slovenia, lo
Javornik, ai cui piedi c’è un lago. Ma l’ipotesi oggi considerata più
convincente lo riavvicina a Pietrapana, identificandolo con il monte
Tambura, un altro monte delle Apuane, sul loro limite nord.
Risalgo così il corso del Serchio per avvicinarmi più possibile a
Pietrapana e a Tambernicchi. Per gran tratto la valle è percorsa da
due strade parallele, una alla destra e una alla sinistra del fiume:
questo nella parte iniziale, quasi completamente pianeggiante, offre
un letto molto ampio, mentre sui rilievi intorno (e a sinistra ci sono
già le propaggini delle Apuane) si affacciano borghi dominati dai loro
campanili.
Mi fermo a guardare il Serchio a Ponte a Moriano, seguendo il suo
scorrere veloce sotto le quattro arcate del ponte. Più a monte, dove il
fiume è scavalcato obliquamente dal ponte della ferrovia Lucca-
Aulla, c’è una sorta di isolotto, mentre molto ampio appare il greto
sassoso. Poi, poco dopo Borgo a Mozzano, si trova un ponte
medievale, percorribile solo pedonalmente, il Ponte della
Maddalena, che dovrebbe risalire ai tempi della contessa Matilde e
che fu fatto restaurare da Castruccio Castracani: ma la sua più
corrente denominazione è quella di Ponte del Diavolo, con un carico
di varie leggende diaboliche. Una di queste parla di un capomastro
che avrebbe avuto da san Giuliano l’ospitaliere l’incarico di costruire
questo ponte e che si trovò in difficoltà, non riuscendo a tenerne in
piedi le campate: mentre pensieroso sedeva sulla sponda del fiume,
gli apparve il diavolo, che garantì con i propri mezzi la realizzazione
dell’opera, a patto di portare con sé l’anima del primo che vi fosse
passato. Stipulato il patto, il ponte sorse in una sola notte per opera
diabolica. Inquieto e pentito, il capomastro lasciò chiuso l’accesso
del ponte e andò subito a confessarsi. Un saggio sacerdote gli
consigliò di aprire il ponte per far passare subito un maiale, beffando
così il diavolo che, costretto a prendersi l’anima del maiale, si gettò
dal ponte e, pur sapendo ben nuotare nel Serchio, preferì tornare
per sempre in inferno scavandosi un percorso sotto il letto del fiume.
Quando ormai sono all’altezza del bivio per Barga, a cui si sale
sulla destra, prendo una strada verso sinistra, che mi fa toccare
Gallicano, borgo attestato su un torrente che scende verso il
Serchio, il Turrite di Gallicano, e dominato dalla severa torre della
pieve di San Jacopo. Risalendo questa valle noto sulla destra
l’eremo di Calòmini, bianco assembramento di vari corpi di
costruzione incredibilmente addossato a una parete rocciosa che è
come una quinta teatrale, che allo stesso tempo lo protegge e lo
minaccia. In fondo alla strada che sale si scorge sempre meglio la
vetta della Pania della Croce, Pietrapana (1858 m.), le cui rocce
sono striate da macchie di neve: il monte è stato una sorta di
segnacolo delle Apuane, il loro emblema più visibile e più noto, tante
volte evocato da Pascoli e da D’Annunzio, guardandola da opposti
versanti, “dall’opposta balza”, Giovanni dal nido campestre di
Castelvecchio, Gabriele dalla fastosa esaltata vacanza della Versilia
di Alcyone.
Mi fermo su un piazzale aperto accanto all’ingresso della Grotta
del Vento, profonda grotta naturale sotto il ventre della Pania, ricca
di stalattiti, che ha avuto il suo nome dalla singolare circolazione
d’aria prodotta dalla differenza di temperatura tra interno ed esterno.
Si tratta di un’attrazione turistica: e c’è già gente che all’esterno
attende il prossimo turno della visita guidata. Ma sul piazzale c’è
tutto un movimento automobilistico: è in atto una prova auto della
Suzuki, con piccole macchine con motore speciale. Verso una strada
in salita che si diparte dal piazzale (e su cui è interdetto l’accesso) si
dirige a tutta velocità una piccola auto rossa, sgommando ed
emettendo uno scarico fumoso e puzzolente. È pronta, con il motore
acceso, anche un’auto bianca più piccola. Dopo un po’ la rossa torna
e gira come in carosello attorno al piazzale; poi si ferma e il
guidatore, dotato di casco, scambia vari pareri con un sollecito
meccanico.
Non potendo prendere la strada sequestrata dalle prove Suzuki,
che mi avvicinerebbe di più alla vetta della Pania, scelgo di salire
dalla parte opposta, su una strada molto stretta e a tratti sterrata,
dove è molto difficoltoso l’incontro con auto che procedono in senso
contrario. Durante la salita scorgo in basso le auto della prova e ne
sento rombare i motori, con una sorta di effetto d’eco. Raggiungo un
borgo che ora appare assolutamente deserto, ma che comunque è
in parte abitato: si tratta di San Pellegrinetto, che dovrebbe risalire al
XV secolo, adagiato nei pressi della cima di un poggio, da cui si apre
la vista da una parte sulla sottostante valle del Turrite di Gallicano e
dall’altra sulla Pania. Il nome di questo borgo lo qualifica come una
sorta di dislocata minima escrescenza del paese di San Pellegrino in
Alpe, che si trova oltre il Serchio, sul versante appenninico, sulla
strada che conduce da Castelnuovo di Garfagnana a Modena:
paese sorto intorno al santuario di San Pellegrino, leggendario
eremita medievale. Mentre nel santuario sono custodite le ossa del
santo, qui c’è la semplice chiesa di San Pellegrino, che risale al XVIII
secolo: affiancata da uno strano porticato in rozzi mattoni, il cui
interno si affaccia sul paesaggio della valle, inquadrato dalle
curvature dei portici. Davanti alla chiesa è parcheggiata un’utilitaria e
tutto intorno ci sono tracce di lavoro agricolo: nel totale silenzio (ma
a tratti giunge anche qui l’eco delle prove di motore in atto laggiù) ci
si sente in un luogo davvero remoto, dove si può sognare di
rimanere confinati per sempre.
Difficoltosamente torno indietro sulla stretta strada di San
Pellegrinetto e poi scendo fino a raggiungere di nuovo la valle del
Serchio. Dalla strada che costeggia la riva sinistra del fiume (a
destra, per il punto di vista di me che risalgo la valle) raggiungo i
paraggi di Castelvecchio di Barga, dove, sul piccolo colle di
Caprona, accanto a un minuscolo borgo, è la casa di Giovanni
Pascoli, il nido da lui ricomposto con la sorella Maria a partire dal
1895. Il colle e il borgo erano in realtà chiamati Ai Caproni, e fu lo
stesso poeta a volerlo trasformato in Caprona, con casuale
omonimia con la Caprona pisana e dantesca su cui mi sono
affacciato ieri. Prima di giungere al vialetto che conduce alla casa
del poeta, all’ingresso della strada che immette nella tenuta del
Ciocco (dove è un ampio e celebrato complesso alberghiero e
vacanziero), c’è quanto resta dell’Osteria Zi’ Meo, brutto edificio in
cemento che deprime nel suo stato di totale abbandono, aperto su
una veranda con i vetri sfondati, davanti a un parcheggio ora deserto
(ma ho poi saputo che il ristorante è stato restaurato e riaperto nel
novembre 2016). Zi’ Meo e Ciocco sono tutti e due nomi tratti da
poesie pascoliane, come tanti altri qui: Zi’ Meo era un personaggio
reale, Bartolomeo Caproni, abitante nel piccolo borgo, che Pascoli
consultava per le forme del dialetto locale e a cui ha intitolato uno
dei Nuovi Poemetti, mentre Il ciocco è un’ampia poesia dei Canti di
Castelvecchio.
A quest’ora della domenica non c’è proprio nessuno: e nessuno si
incontra sul vialetto che conduce alla casa e che mi fa pensare a
una strofa di una delle più belle liriche dei Canti di Castelvecchio,
Nebbia, che accenna alla bianca strada dove il poeta si troverà a
passare un’ultima volta:

Nascondi le cose lontane


che vogliono ch’ami e che vada!
Ch’io veda là solo quel bianco
di strada,
che un giorno ho da fare tra stanco
don don di campane…

Ma oggi non c’è nebbia: e molto bene si scorge la Pania, a cui


Pascoli fa tante volte riferimento nelle liriche e nei poemetti
ambientati in questo suo rifugio campestre. Oggi casa Pascoli è
chiusa e, ricordando altre visite fatte all’interno, ai tavoli di lavoro del
poeta, alle famose stanze da letto con le testate dei letti comunicanti
attraverso la parete che le separa, mi aggiro all’esterno. Mi fermo
davanti alla lapide apposta sulla facciata della cappella dove sono
sepolti il poeta e la sorella Maria; essa reca dei versi che non avevo
mai notato, tratti dall’ode Il sepolcro, che oggi possono valere come
una lezione ecologica:

Lasciate quell’edera! Ha i capi


fioriti. Fiorisce fedele,
d’ottobre. E vi vengono l’api
per l’ultimo miele.

Passo davanti all’ingresso della piccola scuola che qui fu aperta da


Maria Pascoli. Passeggio sul retro dell’edificio, intorno al ben curato
giardino, su un viottolo che conduce alla chiesetta di San Niccolò,
con il suo vecchio campanile. Lo sguardo si apre verso Barga,
dominata dal campanile del Duomo romanico e placidamente
distesa su un colle longitudinale: cittadina che è stata a lungo, dal
1341, la punta avanzata in questa valle del dominio fiorentino, tanto
che il suo dialetto differisce notevolmente da quello specificamente
garfagnino, la cui area si apre poco più avanti, subito dopo
Castelvecchio. Mi risuonano nella mente le parole de L’ora di Barga,
con l’immagine del poeta, che in un suo cantuccio tra i campi
circostanti, all’ascolto del suono delle ore dal vicino paese, sente che
è tardi, che è tempo di muoversi e lasciare quel passivo incanto
campestre:

Tu vuoi che pensi dunque al ritorno,


voce che cadi blanda dal cielo!
Ma bello è questo poco di giorno
che mi traluce come da un velo!
Lo so ch’è l’ora, lo so ch’è tardi;
ma un poco ancora lascia che guardi.

Sono costretto a guardare l’ora, che non è l’ora serale del poeta, che
in lui, grande cultore di Dante, trattiene forse un’eco dell’“ora che
volge il disio”: la mia ora volge pericolosamente verso il pomeriggio,
senza che mi sia dato ancora pensiero di mangiare qualcosa. Torno
allora indietro attraverso le poche case del borgo di Caprona, dove
noto comunque che due cortissime stradine recano insegne con i
nomi di Giosuè Carducci e di Mario Luzi. Recupero l’auto e vado a
cercare qualche luogo per mangiare: raggiungo il nucleo centrale
della frazione di Castelvecchio, attraverso un ponte sul Serchio, mi
allontano dal fiume e poi lo trovo di nuovo fino a raggiungere
Castelnuovo di Garfagnana, che fu sede del governo della
Garfagnana sotto il dominio estense e che vide come commissario
ducale dal 1522 al 1525 Ludovico Ariosto.
Mentre il cielo si oscura, dopo essermi affacciato sul ponte sul
Serchio all’ingresso del centro storico, percorro la strada che
costeggia la rocca estense, da cui l’Ariosto si trovò a governare il
difficile territorio, e giungo su uno slargo che appare come punto
nodale del paese. Su un lato c’è un Don Chisciotte in ferro battuto
dello scultore Angelo Mugnaini, su un Ronzinante che sembra un po’
più depresso del solito: ma qui è come un postumo omaggio del
commissario ducale Ariosto a quel Miguel de Cervantes che, pur
dispregiando i romanzi cavallereschi, tenne in gran conto l’Orlando
furioso. Mentre si fa ancora più tardi riesco comunque a trovare
posto, sulla via Farini, subito fuori dal centro storico, in un simpatico
ristorante affollato di famiglie locali che sono alle ultime delizie del
pranzo. Nonostante l’affollamento e l’ora tarda, vengo servito
piuttosto celermente, immerso nel clima festoso e a questo punto un
po’ stanco della domenica della provincia italiana: e mi capita di
afferrare frammenti di discorsi sui sapori e sui piatti, su storie di
parenti, amici, persone note del paese, prossimi matrimoni,
ristrutturazioni di case, capi di vestiario, profumi e oggetti da poco
comprati o ancora desiderati, destino di quel negozio che sta per
chiudere, mentre i bambini danno insistenti segni di impazienza e
uno più piccolo frigna inutilmente sul suo seggiolone. Alle pareti ci
sono varie foto d’epoca e tre persone discutono animatamente su
una foto del paese sotto le macerie della guerra: nel tentativo di
identificare il luogo, uno dei tre si alza da tavola e guarda la foto da
vicino, ma senza risultato.
Ma ora devo avvicinarmi al monte Tambura, sia o no identificabile
con Tambernicchi: procedo per alcuni chilometri oltre Castelnuovo e
prendo a destra la strada per Vagli, che risale, tra boschi di castagni,
un altro affluente di destra del Serchio, il torrente Edron. Giungo
presto alla diga impiantata nel dopoguerra che forma a monte il lago
di Vagli, che ha sommerso il vecchio paese di Fabbriche di
Careggine, che riappare come un fangoso fantasma nelle occasioni
in cui il lago viene svuotato (l’ultima volta nel 1994). Dalla strada mi
fermo a osservare come l’acqua si insinui tra le coste dei monti, in
un punto in cui la vista viene parzialmente velata da grovigli di rami
spogli inverditi dalle aggressive volute dell’edera.
Verso la punta finale del lago si affaccia il borgo di Vagli di Sotto,
da cui si sale a Vagli di Sopra, di cui nell’estate del 1523 si occupò
Ariosto commissario in Garfagnana, intervenendo a difesa di certi
“poverhomini di Vagli” a cui erano state sequestrate delle bestie dal
capitano di Pietrasanta in una zona prossima al confine (Pietrasanta
e la Versilia erano allora sotto il dominio fiorentino). Oltre Vagli la
strada si inerpica sotto il Tambura, che ora è coperto dalla nebbia.
Raggiungo il rifugio di Campocatino, a circa 1000 metri, che ora è in
silenziosa solitudine, in mezzo alla neve. La sola presenza è quella
di una statua di cacciatore seduto su di una panca marmorea con
accanto un cane. Seggo su una vicina panca di legno cercando di
penetrare con la vista oltre la cortina di nebbia che mi nasconde i
corpi montuosi di cui si scorge solo la base più vicina, coperta di
neve. Da quella parte è il Tambura, Tambernicchi (1889 m.), a nord
del quale si leva la vetta più alta delle Apuane, il monte Pisanino
(1945 m.).
Le cave di marmo e Carrara

Aronta è quei che al ventre li s’atterga,


che ne’ monti di Luni, dove ronca
lo Carrarese che di sotto alberga,

ebbe tra’ bianchi marmi la spelonca


per sua dimora; onde a guardar le stelle
e ’l mar non li era la veduta tronca.
(Inf., XX 46-51)

Il tempo non mi permette di procedere oltre Campocatino verso il


passo della Focolaccia, che è proprio sotto il Tambura e oltre il
quale, già sul versante opposto a quello garfagnino, c’è un piccolo
rifugio a cui è stato dato il nome di Aronte, a ricordo dei versi di
Dante sull’indovino che nella quarta bolgia procede dietro Tiresia (è
a tergo del suo ventre, perché gli indovini hanno il volto rovesciato
rispetto al resto del corpo): si tratta di un aruspice etrusco di cui
Dante aveva notizia dalla Pharsalia di Lucano, I 584-638, dove in
realtà la dimora del personaggio veniva indicata dentro le mura di
Lucca (“Arruns incoluit deserta moenia Lucae”, 586, “Aronte abitò le
mura deserte di Lucca”, che gli abitanti avevano lasciato per paura
dell’esercito cesariano). Ma si pensa che Dante abbia letto un testo
con la lezione Lunae invece di Lucae e, per un altro malinteso o per
qualche altra tradizione, abbia comunque collocato Aronte in una
grotta tra il marmo delle Alpi Apuane (monti di Luni per la vicinanza
dell’antica città), che proiettano la sua figura in una selvaggia
solitudine aperta alla visione del mare e delle stelle (che per lui non
è tronca, impedita, mentre la sua empietà di indovino comporta
proprio un accecamento della conoscenza).
Per avvicinarmi in qualche modo ai bianchi marmi e per scendere
poi su Carrara (che sta subito sotto le Apuane: Dante fissa
l’immagine dei carraresi intenti a roncare, a lavorare la terra,
ripulendola delle erbe nocive), torno rapidamente indietro sul corso
dell’Edron, fino a portarmi di nuovo vicino a Castelnuovo, da cui si
diparte la strada che risale un altro affluente di destra del Serchio, il
torrente Turrite Secca. Anche qui si incontra presto una centrale
elettrica dell’ENEL e più avanti un’altra diga, con un lago molto più
piccolo di quello di Vagli, il lago di Isola Santa: e mi dicono che,
girando tutta la Garfagnana, di dighe e laghetti artificiali se ne
trovano ben quattordici.
Sulla sponda del lago è quanto resta del piccolo borgo di Isola
Santa, che l’Ariosto nomina in una lettera del 5 ottobre 1522 per
l’assassinio di un certo Togno, intendendo accertare la posizione del
presunto autore del delitto. Il borgo è in parte sparito, sommerso dal
lago (la diga risale al 1948-49): gli edifici superstiti, già abbandonati,
sono stati da poco restaurati a scopo alberghiero. Poco dopo questo
rapido passaggio, il nome di Isola Santa mi è tornato alla memoria
quando un’insegnante qui nata, Maura Vagli, che è stata deputata
del PCI dal 1973 al 1983 e che come me è nata nel 1943, mi ha
inviato il file di un suo libretto dedicato alla vita di questo luogo prima
del suo stravolgimento: un libretto appassionato, che si presenta
come scritto da una bambina, È questa una mattina che non c’è
scuola. Com’era grande il mio paese quando non c’era il lago, Maria
Pacini Fazi editore, Lucca 2015 (e ne ho fatto la prefazione).
Oltre Isola Santa la salita si impenna e a un certo punto un bivio
sulla sinistra conduce a Stazzema e a Forte dei Marmi. Io continuo a
salire in direzione di Massa, lasciando il corso del Turrite Secca, di
cui è vicina la sorgente, sotto la vetta del monte Altissimo, mentre
già si aprono squarci sulle cave di marmo. La strada procede tra la
neve e il marmo e passa sotto una galleria che sbuca sul passo del
Vestito (1151 metri m.), affacciato sul versante marino. Qui c’è subito
l’ingresso, chiuso, di una cava di marmo: e grandi blocchi già
perfettamente squadrati sono impilati sul fianco della strada che vi
immette. Al biancheggiare del marmo e a quello della neve, che qui
è molto meno fitta che nell’altro versante, fa da specchio il
paesaggio sottostante, con i costoloni montani che digradano,
intrecciati tra loro, fino alla pianura e al mare, su cui il sole calante si
fa spazio tra le nuvole che si diradano. Mentre nel salire sul versante
garfagnino la strada era spesso incassata entro il solco del torrente,
tra le muraglie dei monti, nella discesa di qua la vista è quasi sempre
ampia e aperta: brilla l’azzurro del mare, in una sua miracolosa
ampiezza, dalla Marina di Massa fino al golfo di La Spezia; ed è ben
visibile la punta avanzata del promontorio di Portovenere. A un certo
punto appare al limite della strada, in località Campareccia, una
grande statua in marmo del papa Giovanni XXIII su un piedistallo
con un’epigrafe molto rovinata. Tocco poi il borgo di Antona, il cui
nome fa venire in mente le avventure di Buovo d’Antona,
protagonista di romanzi cavallereschi e cantari in ottava rima, che
comunque non ha nulla a che fare con questo luogo, dato che il suo
nome Antona non è che traduzione del nome immaginario dato dalle
fonti anglo-normanne e francesi, Boeve de Haumtone o Beuve
d’Hanstone.
Ai piedi delle Apuane, con le cave alle spalle, ecco Carrara, che
raggiungo dopo aver sfiorato la vicina Massa: le due città, legate e
quasi confuse come titolari della provincia di Massa e Carrara, sono
state a lungo città di frontiera, variamente contese tra Lucca,
Firenze, Genova, i Malaspina: solo dal 1442 sono entrate
definitivamente nel dominio dei Malaspina, poi dal 1533 dei Cybo-
Malaspina, fino a una breve confluenza, dopo l’intervallo
napoleonico, nel ducato estense di Modena. Nell’ultima luce della
sera domenicale, sotto qualche scroscio di pioggia, trovo Carrara
immersa nel silenzio. Nella città vecchia, che si raccoglie sull’angolo
in cui nel torrente Carrione confluisce il Gragnana, sembra che tutto
sia chiuso; non si trova nemmeno un bar aperto e di carraresi se ne
vedono pochissimi. Sosto sull’ampia piazza Alberica, così detta dal
signore cinquecentesco che la fece aprire, Alberico I Cybo-
Malaspina: deserto è l’elegante porticato che si apre sotto la rossa
facciata del bel palazzo secentesco delle Logge. Incongruo appare,
rispetto all’assetto della piazza, il grosso monumento ottocentesco a
Maria Beatrice d’Este, moglie dell’arciduca austriaco Ferdinando,
ultima duchessa di Massa e principessa di Carrara, prima del
passaggio della città sotto il ducato di Modena, con suo figlio
Francesco IV (1829).
Il Duomo, in perfetto stile pisano, con un singolare rosone inscritto
in un quadrato che appare come sospeso su un loggiato a
colonnine, mi riporta ai tempi danteschi: iniziato nell’XI secolo,
raggiunse l’aspetto attuale solo nel XIV. La piazza del Duomo si
dispone in uno spazio abbastanza stretto antistante alla facciata,
mentre più ampio è lo spazio davanti alla fiancata destra: vi è
disposta la fontana del Gigante, così denominata per la
cinquecentesca statua del dio Nettuno opera di Baccio Bandinelli.
Ma mi colpisce, proprio sulla fiancata marmorea del Duomo, una
lapide che riconduce allo spirito anarchico e ribelle dei carraresi,
sviluppatosi tra gli operai delle cave nel corso dell’Ottocento. Proprio
qui, sul fianco del tempio cattolico, così dice la lapide: A GIORDANO
BRUNO / POSTO AL ROGO DAL PAPATO / IL 17 FEBBRAIO 1600 / FILOSOFO DEL
LIBERO PENSIERO / DEGLI INFINITI MONDI / POPOLATI DA INFINITE INTELLIGENZE /
DELL’ARMONICO NEL TUTTO POSSIBILE; è firmata da GLI ANARCHICI e datata
17 febbraio 2000.
Ancor più diretta testimonianza della continuità, oggi comunque
meno vigorosa che nel secolo scorso, della tradizione anarchica
carrarese, la trovo poi oltre la piazza Alberica, sulla via Ulivi, dove è
il Circolo culturale anarchico Gogliardo Fiaschi, che ha il nome del
carrarese che l’ha fondato, morto nel 2000: era nato nel 1930 e già
giovanissimo era stato molto attivo nella Resistenza; nel dopoguerra
fu in stretto contatto con gli anarchici catalani che si erano stabiliti a
Carrara e nel 1957 raggiunse con loro clandestinamente la Spagna,
progettando un attentato al generalissimo Francisco Franco. Forse
per una delazione, venne arrestato e passò diciassette anni in
carcere, tra la Spagna e l’Italia. Liberato nel 1974, svolse un’intensa
attività politica a Carrara, fondando tra l’altro questo Circolo che reca
il suo nome.
Davanti all’ingresso del Circolo, un cartello con i colori della
bandiera rossa e nera, scritto in caratteri maiuscoli rossi e neri,
spiega il significato della bandiera (“rossa per la fiumana di sangue
versato, nera per il lutto di milioni di morti, questo è il colore della
bandiera degli anarchici, che mai è stata ammainata, che raggruppa
tutti gli uomini che amano l’umanità”) e afferma i principi
dell’anarchia, per un mondo “senza stato, soldati, denaro, padroni,
senza poliziotti e galere e senza sfruttatori”.
Lerici

Noi divenimmo intanto a piè del monte;


quivi trovammo la roccia sì erta,
che ’ndarno vi sarien le gambe pronte.

Tra Lerice e Turbìa la più diserta,


la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
(Purg., III 46-51)

Sono arrivato a Lerici nella sera, sotto una pioggia battente, che poi
si è calmata, lasciandomi il tempo di girare per la città, affacciata sul
golfo di La Spezia, che nel XIII secolo fu sotto il dominio genovese,
salvo la breve parentesi della conquista pisana (1241-1254). Dante
la cita come limite orientale della Liguria, opposto a quello
occidentale (Turbia, ora La Turbie, in territorio francese), nello
scorcio che dà dello scosceso paesaggio ligure, delle sue ruine,
dirupi e strapiombi che scendono verso il mare: notando che anche
la più diserta (più inaccessibile) e più rotta (più frastagliata) di quelle
ruine sembra una comodissima scala rispetto a quelle che lui e
Virgilio si trovano davanti ai piedi della rocciosa montagna del
Purgatorio.
Oltre l’ampia piazza Garibaldi e il viale antistante al porticciolo ci si
insinua nelle strette strade interne e si può salire fino ai piedi
dell’imponente castello, che ebbe particolari cure dai pisani e poi vari
ampliamenti, fino a trovare l’aspetto attuale nel XVI secolo. Davanti
al porto sono aperti numerosi bar e ristoranti, tra cui c’è Golfo dei
Poeti, che segue la denominazione attribuita al golfo di La Spezia
dal commediografo Sem Benelli nel 1910, poi divenuta corrente
formula di turismo letterario: che si richiama a tanti poeti e artisti che
hanno amato questo golfo, primo fra tutti Percy Bysshe Shelley, con
la tragica aura del suo naufragio.
La mattina del 16 marzo dalla finestra dell’albergo, affacciata sul
mare, sotto un cielo striato di non minacciose nubi azzurrognole, mi
affaccio sul settore meridionale del golfo, mentre la vista del suo
interno, con la città di La Spezia, è impedita dal piccolo promontorio
sotto cui, a nord-ovest di Lerici, è disposta la frazione di San
Terenzo, quella che fu abitata da Shelley con la sua composita
famiglia. Qui il poeta ricevette la goletta Don Juan, che si era fatta
appositamente costruire e da qui partì per il viaggio verso Livorno,
dove ebbe un ultimo incontro con Byron; qui stava tornando l’8 luglio
1822, quando il Don Juan incappò in una tempesta, naufragando al
largo di Viareggio, sulla cui spiaggia fu ritrovato il suo cadavere,
dieci giorni dopo.
Al margine dell’abitato di San Terenzo, addossato al piccolo
promontorio, c’è un castello, costruito da genovesi nel XV secolo,
che dal basso sembra fare da pendant a quello di Lerici, in alto sul
promontorio a sud-est. Sul versante opposto del golfo si protende
verso sud il promontorio di Portovenere, oltre il quale, separata da
un brevissimo stretto, è l’isola Palmaria, che sembra come
prolungarsi in quella molto più piccola del Tino: come verdi innocue
sentinelle del golfo.
Lascio Lerici salendo in alto, sul colle sopra la città: poco prima del
bivio per La Serra trovo su un muraglione la lapide con i versi
danteschi, sotto la quale sono disposti cassettoni per il deposito
dell’immondizia. Tocco le case di Barcola e raggiungo La Serra,
frazione sospesa sopra Lerici, da cui di più si scopre il settore
interno del golfo, facendo intravvedere, sul versante occidentale,
parte della periferia di La Spezia. A La Serra ha soggiornato per un
certo tempo, in una casa acquistata al momento della pensione,
Giovanni Giudici, poeta e amico che ha fatto i conti in profondità con
Dante, dialogando intensamente con la sua poesia, sotto il segno di
un cristianesimo creaturale, che si è manifestato con particolare
intensità nei suoi ultimi anni. Questa l’epigrafe apposta al suo libro
del 1993, Quanto spera di campare Giovanni:

…forse non pur per lor, ma per le mamme,


per li padri e per li altri che fuor cari,
anzi che fosser sempiterne fiamme.
(Par., XIV 64-66)
Proprio in quel libro così dantescamente segnato Giovanni parla di
questa casa de La Serra, dove la stessa scelta di acquistarla appare
come l’invenzione di un “inizio” al momento di “finire”. Nella lirica
Casa estrema, datata 12 aprile-3 maggio 1992, egli dice di aspettarsi
da questa casa “un lieve ricominciare”, quasi straniero agli abitanti
del paese, lontano dalle frequentazioni consuete, in posizione
sospesa:

Mai ebbi un abitare


Così librato senza un prima e un poi
Tra il verde in su del vento e il chiaro mare
Abbandonati tutti i vivi morti –
O già futuro mite trafficare
Forme di questa casa
Vuoto di questi corpi

In un pomeriggio d’estate sullo scorcio degli anni novanta, sono


venuto a trovare Giovanni, in questa casa che ora non saprei
ritrovare: ricordo solo che era una piccola casa librata in alto, con
una terrazza che sembrava davvero sospesa sul golfo, “tra il verde
in su del vento e il chiaro mare”, e dava l’impressione che potesse
proprio essere portata via, trascinata fino al mare da qualche
improvvisa folata di vento. Ero in gita da un vicino luogo marino con
tre generazioni di donne, mia figlia Giuditta, mia moglie Laura e la
madre di lei Giovanna: e ci accolse la moglie del poeta, Marina, con
il suo ligure parlare, mentre lui stava rientrando da un giro in paese e
da chiacchiere scambiate nel vicino bar. Guardando il mare da lassù
ebbi la diretta percezione di come, su questo versante orientale del
golfo, il poeta si fosse collocato a specchio, quasi in faccia al suo
paese natio, Le Grazie, che si trova sul versante opposto, dove pure
aveva una casa di famiglia e dove poi in effetti sarebbe tornato a
vivere gli ultimi anni, nella sempre più declinante vecchiaia,
cancellando l’impossibile, provvisorio inizio affidato alla aerea casa
della Serra di Lerici, senza più quel vagheggiato “futuro mite
trafficare”.
Ora, affacciato a un parapetto sulla strada de La Serra, inquadro
bene, dall’altra parte del golfo, il borgo de Le Grazie, interrogandomi
su questo scambio tra Le Grazie e La Serra e chiedendomi fino a
che punto la poesia per lo più “cittadina” di Giudici risenta dell’aria di
questi luoghi e come egli sia anche Un poeta del golfo, titolo di un
libro antologico curato nel 1994 per i suoi settant’anni da Carlo Di
Alesio, che venni a presentare a Lerici insieme a Grazia Cherchi, la
critica piacentina già spigolosa e pungente, che in quei giorni
rimaneva perlopiù inspiegabilmente chiusa nella sua stanza
d’albergo: non lo sapevamo, non l’aveva detto a nessuno, ma era
già molto malata e sarebbe morta di lì a poco, nell’agosto 1995.
Nel pensiero di quegli anni e delle persone che non ci sono più –
nativo de La Serra è stato anche un ottimo poeta che scriveva nel
dialetto locale e che Giudici ha molto apprezzato, Paolo Bertolani,
morto anche prima di Giudici, nel 2007 –, lascio La Serra
addentrandomi sul colle che separa Lerici dal corso del fiume Magra,
in un tratto di strada immerso tra folta vegetazione, sfiorando altri
luoghi segnati dalla frequentazione di scrittori del Novecento: in
basso è Tellaro, dove a lungo ha soggiornato Mario Soldati, poi
Montemarcello, dove veniva d’estate Franco Fortini.
Dopo Montemarcello si scoprono le Alpi Apuane e a sud le
spiagge e le città della Versilia. Si comincia a scendere verso Bocca
di Magra, passando accanto all’eremo di Santa Croce al Corvo,
dove, secondo una lettera trascritta da Boccaccio, molto discussa
dai dantisti, inviata da un frate Ilaro a Uguccione della Faggiuola,
Dante sarebbe passato tra la fine del 1314 e l’inizio del 1315, diretto
“ad partes ultramontanas”, oltre i monti (ma quali?). La lettera è
probabilmente apocrifa e offre dati che non paiono affidabili: su di
essa Boccaccio ha tratto la notizia, riportata nella sua biografia di
Dante, secondo cui l’Inferno sarebbe stato dedicato proprio a
Uguccione della Faggiuola, il Purgatorio a Moroello Malaspina, il
Paradiso a Federico III re di Sicilia.
Fiume Magra

Di quella valle fu’ io litorano.


tra Ebro e Macra, che per cammin corto
parte lo Genovese dal Toscano.
(Par., IX 88-90)

Il fiume Magra è così nominato nel cielo di Venere dal trovatore


Folchetto di Marsiglia, come limite occidentale del vasto seno del
Mediterraneo che da esso conduce, oltre i due golfi di Genova e di
Marsiglia, allo spagnolo Ebro, che si getta in mare a sud di
Tarragona. Oltre questa generica indicazione della patria provenzale
di Folchetto, il testo fissa più puntualmente la posizione del Magra,
specificando che esso con il suo breve percorso (per cammin corto)
divide la Liguria dalla Toscana. Questa divisione geografica non
corrisponde perfettamente all’attuale divisione politico-
amministrativa, dato che tutte e due le sponde del basso corso del
fiume appartengono ora alla Liguria, mentre quelle del corso medio e
alto appartengono alla Toscana: ma l’insieme della sua valle
costituisce comunque la regione storica della Lunigiana.
La strada scende a precipizio su Bocca di Magra, borgo e
porticciolo attestato sul versante destro della foce: questa si
protende verso il mare con un taglio quasi geometrico delle sue
sponde, che appaiono molto basse e dall’alto sembrano quasi allo
stesso livello dell’acqua. Il mare spinge le onde leggere ma veloci
dentro l’alveo del fiume, al punto che in questo tratto esso sembra
scorrere controcorrente, muoversi a marcia indietro.
Scendo tra le case di Bocca di Magra e mi fermo davanti al
porticciolo, che è proprio sull’ultima punta di terra, con la solita folla
di yacht, motoscafi, barchette, mentre sul fronte opposto della riva
del fiume s’avanza una punta di spiaggia protetta da una esile
massicciata sassosa. Sulla riva del mare, invece, la spiaggia aperta
si piega poi verso un piccolo golfo dal taglio quasi perfettamente
circolare, oltre il quale si stagliano gru, attrezzi, alberatura del porto
di Carrara. I fitti agglomerati urbani disposti sulla piana, Carrara e
Massa, sono come sorvegliati dalla mole delle Alpi Apuane, le cui
vette sono ora coperte da nuvole.
Bocca di Magra ha un posto non trascurabile nella letteratura del
Novecento, essendo stato luogo di vacanza privilegiato di Vittorio
Sereni, che a esso ha dedicato quel vero e proprio poema che è Un
posto di vacanza, pubblicato in un libretto del 1973 e poi raccolto in
Stella variabile, 1981. Guardando l’altra riva ricordo come questo
poema insista più volte sugli echi, le voci, le presenze che si danno,
tra fiume e mare, da una riva all’altra. A un certo punto il poeta è
come attratto da indeterminate presenze sull’altra riva, richiami di
inafferrabile vita, che si cancellano nella negazione di ogni possibile
passaggio. Non c’è nessun richiamo, nessun traghettatore; e del
resto, se questo ci fosse, farebbe evocare il Caronte dantesco e
l’infernale Acheronte:

Non passerà il richiamo già increspato d’inverno


a un introvabile
traghettatore.
Così lontane immotivate immobili
di là da questo acheronte
non provano nulla non chiamano me
né altri quelle luci.
Luni

Se tu riguardi Luni e Orbisaglia


come sono ite, e come se ne vanno
di retro ad esse Chiusi e Sinigaglia
(Par., XVI 73-75)

Già tre volte mi sono imbattuto in questi versi in cui Cacciaguida


mostra l’inevitabile decadere e andare in rovina delle città: ma,
mentre negli altri tre casi, si trattava di città che, pur in modi e per
ragioni diverse, hanno recuperato o prolungato la loro vita, nel caso
di Luni la decadenza e l’abbandono sono stati definitivi. Città etrusca
e poi colonia romana, l’antica Luna, con il suo Portus Lunae, aveva
avuto varie traversie e distruzioni nell’alto Medioevo, ma aveva
mantenuto un certo rilievo come porto e punto di contatto per la
Lunigiana fino all’XI secolo, quando, in seguito all’insabbiamento del
porto e al diffondersi della malaria, gran parte della popolazione
dovette trasferirsi nella vicina Sarzana. Potenti, tra rapporti e conflitti
con i feudatari della Lunigiana, erano stati i vescovi di Luni, che nel
1204 trasferirono la sede a Sarzana, pur mantenendo il titolo
consueto. Fin dal Rinascimento la città abbandonata è stata oggetto
di scavi e di ricerche: e sul sito archeologico negli anni sessanta è
stato costruito un Museo nazionale, nel territorio del comune di
Ortonovo.
Superato il Magra sul primo ponte poco oltre la foce, all’altezza del
paese di Ameglia, mi districo nell’intreccio stradale della pianura,
raggiungendo il parcheggio del sito archeologico, accanto al quale è
un ristorante dal nome prevedibile ma comunque bizzarro di
Lunatica. L’ingresso al sito e al museo è comunque chiuso, per il
turno di riposo del lunedì. Ma dall’esterno si può dare uno sguardo
sommario agli scavi, alla zona in cui sono i resti del Capitolium,
quelli del tempio di Diana, quelli della basilica paleocristiana: molti
ruderi sono coperti da tettoie e ben pochi frammenti in muratura
spuntano dal terreno, tra il verde dei prati, le tettoie e un fronte di
bassi pini, dalla parte opposta a quella da cui guardo. Nella visita dei
siti archeologici, del resto, è quasi sempre difficile riuscire a leggere
la disposizione originaria o presunta tale degli edifici tratti alla luce,
riconosciuti nelle loro residue basi murarie. Quando non ci sono
edifici rimasti parzialmente in piedi, il normale visitatore, che si
muove tra le rovine accuratamente disposte dagli archeologi, molto
raramente riesce a misurarne la congruenza con quanto è disegnato
nelle mappe delle guide turistiche. È come se quel mondo
sommerso dal tempo e portato alla luce dai moderni metodi
scientifici non riuscisse a farsi percepire come un mondo reale,
come lo spazio di vite vissute nel tempo, ma venisse a configurarsi
come un mondo artificiale, una indecifrabile costruzione postuma,
riservata alle misurazioni e ai rilievi degli esperti, estranea e
indifferente alla vita del mondo, all’osservatore non specialista che vi
posa lo sguardo.
Ora, costeggiando il recinto del sito da una strada a sud-est, è
visibile e davvero ben riconoscibile, anche al profano, l’anfiteatro
romano, di cui resta l’intera base delle gradinate, con un sistema di
mura disposte su due perfetti anelli ellittici. Da qui, alzando lo
sguardo verso l’entroterra, si vedono vari paesi appollaiati su piccoli
colli sulle propaggini delle Apuane: Ortonovo, Castelnuovo di Magra,
forse Fosdinovo.
Val di Magra

Tragge Marte vapor di Val di Magra


ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra

sovra Campo Picen fia combattuto;


ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogni Bianco ne sarà feruto.
(Inf., XXIV 145-150)

…“se novella vera


di Val di Magra o di parte vicina
sai, dillo a me, che già grande là era.

Fui chiamato Currado Malaspina;


non son l’antico, ma di lui discesi;
a’ miei portai l’amor che qui raffina.”
(Purg., VIII 115-120)

Risalire la Val di Magra equivale a un insistente interrogare il mondo


feudale arroccato sui tanti castelli dei Malaspina e dei loro diversi
rami, seguendo peripezie, personaggi, intrecci, conflitti di cui Dante
ebbe conoscenze e tangenze, anche soggiornandovi nei primi anni
dell’esilio, Ciò è indicato in uno dei pochi documenti ufficiali di questi
anni, l’atto notarile del 6 ottobre 1306, che egli firmò come
procuratore di tre Malaspina del ramo dello Spino secco (altro ramo
della famiglia era quello detto dello Spino fiorito), Corradino,
Franceschino e Moroello, come soluzione di una lunga controversia
con il vescovo di Luni. Ma Moroello Malaspina, marchese di
Giovagallo, aveva sconfitto i Bianchi pistoiesi già nel 1302,
assediando poi la città tra il 1305 e il 1306 e richiamando al potere i
Neri (tra i quali era il poeta Cino da Pistoia). Nel XXIV dell’Inferno è il
ladro pistoiese Vanni Fucci a ricordare l’azione del marchese, con
una profezia post eventum che scaglia minacciosamente contro il
Bianco Dante: l’impeto militare del Malaspina vi viene connotato da
una potente metafora atmosferica, che ne fa un vapore (che, se
secco e igneo, secondo le teorie medievali, poteva produrre il
fulmine), che, avvolto di torbidi nuvoli, lo stesso dio della guerra,
Marte, condurrà dalla Val di Magra sul campo di battaglia (per
Campo Piceno vedi pp. 1159-1162) e improvvisamente eromperà
dalla violenta tempesta, colpendo duramente i Bianchi.
Questa azione del Malaspina non contraddice la successiva
ospitalità che egli avrebbe accordato a Dante, che molto presto si
era allontanato dai fuorusciti Bianchi e che fin dal 1304 aveva “fatto
parte per se stesso”, intrattenendo rapporti con signori di
schieramenti diversi, in un contesto in cui i confini tra questi non
erano mai definitivi e nettamente definiti: e peraltro proprio nel 1306
sorsero dissidi tra il Malaspina e la Firenze dei Neri, mentre più tardi
egli fu favorevole all’azione di Enrico VII, conducendo per lui
l’assedio di Brescia (giugno-settembre 1311), assumendo poi la
carica di suo vicario nella città e sostenendo l’imperatore fino alla
sua morte.
Più diretta di quella di Moroello è la presenza nella Commedia del
suo cugino Corrado, che Dante incontra nella valletta purgatoriale
dei principi negligenti. Entrambi erano nipoti del Corrado antico,
capostipite dello Spino secco, vissuto nella prima metà del XIII
secolo: Moroello figlio di Manfredi, Corrado figlio illegittimo di
Federico, a cui era toccato il feudo di Villafranca. Le parole di questo
Corrado, morto poco dopo il 1294, il cui eccessivo amore per la sua
stirpe raffina, si purifica, in Purgatorio, spingono Dante a esaltare la
liberalità e il valore militare della famiglia (il “pregio della borsa e
della spada”, 129); e Corrado gli risponde che non passeranno sette
anni che egli vedrà confermata questa sua buona opinione sui
Malaspina (siamo così ricondotti a quel 1306 che vede documentata
la presenza di Dante presso i signori di Lunigiana). Va aggiunto che
il rapporto di Corrado con il pisano giudice di Gallura Nino Visconti,
suo compagno di penitenza nella valletta dei principi, rinvia
probabilmente ai suoi interessi in Sardegna e al progetto del fratello
Opizzino che, dopo la morte del Visconti (1298), cercò invano di
dare in sposo il figlio Corradino alla figlia del Visconti, Giovanna.
Tra Corrado, Moroello, Franceschino, Corradino e tutti gli altri
passo questo lunedì 16 marzo cercando di districarmi tra l’intricata
famiglia dei Malaspina, costeggiando e visitando alcuni dei loro
numerosi castelli della Lunigiana, alla sinistra e alla destra del
Magra.
Comincio da Castelnuovo Magra, borgo e castello più vicino,
ancora entro lo spazio della regione Liguria, mentre gli altri sono ora
tutti in Toscana. Dalle rovine di Luni raggiungo l’Aurelia e la
attraverso tra le case di Molicciara, frazione collocata ai piedi di
Castelnuovo, patria dello scrittore in cui così forte è il richiamo di
questo lembo d’Italia, Maurizio Maggiani, vissuto a lungo a La
Spezia. Nel 2015 è uscito il suo libro autobiografico Il Romanzo della
Nazione, in cui la vita familiare e personale tra questa bassa
Lunigiana attraversata dall’Aurelia e la città di La Spezia appare
come un emblema di quell’ipotesi di Italia che per molti sembrava
delinearsi all’uscita della guerra e della Resistenza, un’Italia segnata
da senso del concreto, del lavoro, dell’evidenza viva del fare, alla
ricerca di una propria nuova consistenza come Nazione, moderna
ma nutrita del suo antico spirito popolare. Il narratore dice di aspirare
a scrivere, anche attraverso le vicende della sua famiglia e della
storia del dopoguerra, il Romanzo reale di questa Italia che nel
lavoro trovava speranza, che su di esso costruiva i suoi sogni: ma sa
che questo Romanzo non si è realizzato e che a un certo punto si è
come perduto, anche se egli continua insistentemente a cercarlo.
Anche Dante si affaccia nell’ultima pagina di questo libro, con
l’evocazione di uno strambo professore che ha con sé un bollettino
venuto dalla Cina, che informa che Mao Tse-tung, partendo per la
Lunga Marcia, aveva nello zaino tre libri italiani, tra cui la Divina
Commedia, “Il poema di un esiliato scritto qua e là per le terre dove
poteva fermarsi quel tanto da mettersi lì a scrivere un po’”.
Nella mattina dell’ottobre 1306, Dante saliva l’erta di Castelnuovo
per ratificare l’atto di pace che poneva fine allo scontro tra i
Malaspina e il vescovo di Luni e che segnò in sostanza la fine del
potere di quel vero e proprio principato ecclesiastico. Castelnuovo
era sotto la giurisdizione del vescovo Antonio Nuvolone da Camilla,
al cui successore, Gherardino Malaspina di Filattiera, guelfo nero
messo al bando dall’imperatore Enrico VII, Dante allude nell’Epistola
XI VII 15, presentandolo sarcasticamente come il solo indenne dalla
cupidigia dei cardinali italiani (parla dei vizi che riguardano tutti
“praeter Lunensem pontificem”). Poi, dopo essere passata in
possesso di Castruccio Castracani, Castelnuovo fu sotto il controllo
dei Malaspina della vicina Fosdinovo.
Salendo verso la cittadina e osservando il vario muoversi delle
nuvole nel cielo, noto un fitto addensarsi di nebbia proprio dalla parte
del fiume, che sembra evocare il minaccioso vapor di Val di Magra
della profezia di Vanni Fucci. Ma ora questo vapor resta lì fermo e
non sembra produrre particolari minacce, anche perché il cielo a
nord viene ulteriormente a schiarirsi. Sulla piazzetta davanti alla
parrocchiale di Santa Maria Maddalena, la cui facciata poggia su di
una balaustra, si fanno notare due gatti, uno nero e un altro bianco e
grigio con macchia sul musetto; mentre mi fermo a guardarli arriva
una vecchia signora che mi dice subito che quello grigio non vuole
stare a casa sua e ha scelto un’altra casa vicina, in cui si affaccia
una gattaiola da cui quello certe volte esce all’improvviso; sbuca a
sorpresa mentre lei passa per la strada e salta tra le sue gambe,
rischiando di farla cadere, ma poi cerca di leccarle i piedi.
Ascoltate le considerazioni della signora sulla bizzarria del gatto,
prendo la via Dante che, in leggera salita, dalla chiesa conduce al
castello-palazzo vescovile, fatto costruire dopo il 1273 dal vescovo
Enrico da Fucecchio, che fu continuamente in guerra con i
Malaspina. Ora quel che resta del castello è in ristrutturazione,
soprattutto due torri collegate da un muraglione, una quadrangolare
e l’altra cilindrica. Lo spazio antistante è in parte limitato da
transennamenti. Su uno dei muri del castello c’è un piccolo
medaglione con un ritratto di Dante e una sottostante scritta che
ricorda il suo passaggio qui, quel 6 ottobre, come procuratore dei
Malaspina. Da questa parte il colle su cui è disposta la città è
circondato da uliveti; e si apre un’ampia vista sulla Val di Magra, sui
vari agglomerati di edifici e borghi da una parte e dall’altra del fiume,
sulla più vicina Sarzana e su Bocca di Magra.
Entro in un piccolo bar accanto al castello, che su una parete ha
gli scaffali di una libreria con parecchi volumi, con molta presenza di
romanzi italiani del Novecento: il giovane barista mi dice che i libri
sono lì per chi vuole leggerli e che si possono anche portare a casa,
con l’impegno di restituirli, anche se poi capita che qualcuno non li
restituisca. C’è anche qualche libro di Mario Soldati, mentre di fuori,
sul muro della vecchia sede del municipio, c’è un pannello in
ceramica con alcune parole dello stesso Soldati a proposito di una
visita a Castelnuovo.
Muovendo da Castelnuovo alla vicina Fosdinovo si passa dalla
Liguria alla Toscana, dopo aver sfiorato una pizzeria-focacceria che
si impone nel verde campestre con un incredibile addobbo di ruote,
campane, motorette, cerchi metallici. Si sale sul colle su cui è
disposto longitudinalmente il borgo di Fosdinovo e, dopo aver
percorso la strada che ne fiancheggia il dorso aperto verso la Val di
Magra, si giunge all’imponente castello, il cui forte corpo
quadrangolare è guardato da quattro torri rotonde. Il suo primo
impianto dovrebbe risalire al XII secolo, ma la sua forma attuale si è
definita soprattutto nel XIV, dopo che il marchese Spinetta
Malaspina, del ramo dello Spino fiorito, che aveva già giurisdizione
su Fosdinovo, ne ebbe pieno possesso: egli era stato tra i sostenitori
dell’imperatore Enrico VII e dopo la morte di lui, in contrasto con
Castruccio Castracani, era stato a Verona, al servizio di Cangrande
della Scala (ed è probabile che così Dante abbia avuto modo di
incontrarlo). Oggi il castello è ancora di proprietà dei Malaspina, ma
è diventato una sorta di centro polivalente, con un museo, una
residenza per artisti (ospitati d’estate, creano opere che rimangono
nel castello) e varie attività culturali gestite dall’Associazione
culturale Lo Spino Bianco e dal centro culturale
CastelloinMovimento. Nel museo c’è anche una cosiddetta stanza di
Dante, dove il poeta avrebbe dormito, nel 1306 o giù di lì, anche se
non c’è nessuna prova in proposito. Se questa è solo una leggenda,
tante altre ne ruotano intorno al castello, storie di fantasmi e di incubi
notturni, echi di efferate crudeltà perpetrate entro le sue mura: come
la storia della fanciulla dei Malaspina innamoratasi di uno stalliere e
inviata in convento, e poi, al suo rifiuto della monacazione, riportata
nel castello e murata viva con un cane e con un cinghiale (e ora il
suo fantasma in bianca camicia percorre le sale del maniero nella
notte…).
Gran parte delle attività si svolgono qui tra primavera ed estate.
Ora non c’è proprio nessuno e le stanze interne non sono visitabili:
mi perdo gli affreschi tardo-ottocenteschi di Gaetano Bianchi del
Salone delle Feste, dedicati ai rapporti di Dante con i Malaspina (c’è
anche la scena della firma a Castelnuovo), e la presunta stanza di
Dante. Ma vengo a sapere di una proprietà attribuita al busto del
poeta che vi è stato collocato, il quale nella notte si animerebbe,
mimando i movimenti inquieti del poeta nelle sue notti insonni e
magari imbattendosi nella fanciulla disperata che vaga in bianca
camicia. Posso comunque penetrare nei cortili interni, tra scale,
camminamenti, loggiati e anche un bel porticato rinascimentale. Si
apre un ampio squarcio sulla valle, fino a Bocca di Magra, che si
vede ancora più nitidamente, dato che quel vapor di poco fa si è
senza danni dissolto.
Dal fronte opposto a quello da cui sono entrato una porta ogivale
immette nella stretta strada centrale del borgo, fino alla chiesa
tardocinquecentesca di San Remigio: vicino c’è anche un ostello che
accoglie gli eventuali pellegrini della Via Francigena, sul cui percorso
Fosdinovo è disposta. Tre monache si muovono nei pressi
dell’ingresso dell’ostello. Da una terrazza aperta a nord-ovest si
intravvede uno scorcio del golfo di La Spezia, dall’entroterra di Lerici
alla punta di Portovenere quasi baciata dalla propaggine della
Palmaria.
Il percorso lunigianese procede verso Aulla, mentre alcune
segnalazioni indirizzano verso la via del Volto Santo, percorso così
instaurato di recente, che dal cuore della Lunigiana porta a Lucca
attraverso la Garfagnana e che è alternativo a quello litoraneo che il
Volto Santo avrebbe compiuto nell’originario trasporto dal porto di
Luni alla città del Serchio (vedi pp. 824-826). Ecco Aulla, luogo di
intersezione tra la Lunigiana, la Garfagnana e il valico appenninico
del Cerreto (attraverso il quale si raggiunge Reggio Emilia), accanto
alla confluenza del torrente Aulella nel Magra. Sull’assetto moderno
di Aulla domina una cupa fortezza rettangolare, detta la Brunella,
che dovrebbe risalire al primo Cinquecento. Ma la cosa più
sorprendente si trova sull’ampia piazza antistante al palazzo
comunale Sandro Pertini: è una bianca statua di marmo, un po’
sporca, certo per effetto dei fumi degli scarichi, con una figura a
grandezza naturale. Si tratta di un signore con gli occhiali, che mi
pare di riconoscere: ha una strana tenuta sahariana e reca un
giornale sotto il braccio destro. Ma sì, lo dice anche la scritta sul
piedistallo, è Bettino Craxi, il leader socialista scalzato dalle
inchieste dette di Tangentopoli e morto in esilio in Tunisia, a
Hammamet (per questo è in sahariana), nel 2000. Sta qui, davanti
ad alcune aiuole, al limite tra la parte della piazza che, sulla sinistra
del municipio ha il nome di Antonio Gramsci e sulla destra ha quella
dello stesso effigiato. Accanto c’è anche un marmoreo monumento
ALLE VITTIME DI TANGENTOPOLI. Verrò a sapere che tutto è opera
dell’allora sindaco Lucio Barani, del Nuovo Partito Socialista,
collegato alla destra berlusconiana, abituato a iniziative bizzarre di
vario tipo (tra cui la proposta di Aulla come sede dei giochi olimpici):
la statua è stata prodotta dagli Studi d’Arte Cave di Michelangelo di
Carrara di Franco Barattini. Sembra però che il sindaco attuale non
sia più tanto d’accordo e abbia tentato invano di venderla.
Le vicende degli anni ottanta e novanta, il ruolo politico che allora
si assunsero i giudici, i crolli e le illusioni, i punti di vista e gli esiti
opposti che ne scaturirono, si riaffacciano attorno a questa curiosa
statua, in cui la consistenza del marmo sembra come volatilizzarsi
nella futilità e nell’ostinazione delle interpretazioni di quanto
avvenuto, nell’inestricabile e sempre ridiscusso dirimersi del giusto e
del torto, del bene e del male; e tanto più mi sembra di sentire la
vanità di tutto quello che è stato detto e continua a dirsi su quegli
eventi, il suono vuoto delle parole che continuano ad alimentare i
luoghi comuni mediatici.
Qui accanto al palazzo comunale c’è la stazione ferroviaria di
Aulla, a cui è dedicata una poesia di Giovanni Giudici (Dalla stazione
di Aulla è la prima della sezione dello stesso titolo del libro del 1996
Empie stelle): in attesa di un treno in ritardo in questa stazione,
ormai molto poco frequentata, il poeta, osservando dei passeri che
“salticchiano / Dall’una all’altra rotaia”, è portato a considerare il
ritmo del mondo, lo sfuggire e il consistere della vita. Qui passa
qualche convoglio che dalla zona tirrenica risale verso Parma
attraverso la galleria del Borgallo; e vi fanno capo i più rari trenini
che raggiungono Lucca attraverso la Garfagnana.
Seguendo il percorso del treno e dell’autostrada risalgo la
Lunigiana fino a Pontremoli, l’ultimo centro prima dell’ascesa
sull’Appennino: è dominato dal castello del Piagnaro, che seguì le
varie vicissitudini della città, comune indipendente nel XIII secolo,
snodo essenziale della Via Francigena e luogo di sosta per chi
discendeva dal Nord e dalla Val Padana verso il Tirreno. Vi passò
più volte Federico II: secondo gli Annales Placentini Gibellini vi
sarebbe passato nel 1249 recando con sé Pier delle Vigne,
imprigionato come traditore a Cremona e poco dopo accecato a San
Miniato. Ma secondo una chiosa del codice laurenziano plut. 90,
sup.114, sarebbe stato accecato proprio a Pontremoli, sulla
piazzetta di San Gemignano, dove ora è una recente lapide, IN
QUESTA PIAZZA NEL MARZO1249 / L’IMPERATORE FEDERICO II FACEVA /
ACCECARE PIER DELLE VIGNE / GRAN CONSIGLIERE IMPERIALE E POETA, /
ACCUSANDOLO DI TRADIMENTO. Dopo aver citato il codice laurenziano, la
lapide aggiunge che DANTE GLI RENDE GIUSTIZIA / NEL CANTO XIII
DELL’INFERNO. Così Pontremoli sottoscrive il giuramento del dannato
chiuso dentro il terribile arbusto e la sua richiesta di riscattare la sua
memoria dalla taccia di tradimento:

“…Per le nove radici d’esto legno


vi giuro che già mai non ruppi fede
al mio signor, che fu d’onor sì degno.

E se di voi alcun nel mondo riede,


conforti la memoria mia, che giace
ancor del colpo che ’nvidia le diede!”
(Inf., XIII 73-78)

Ma certo non possiamo sapere cosa sia effettivamente avvenuto


negli atti di colui che tenne “ambo le chiavi / del cor di Federigo” (58-
59). Sicuri possiamo essere solo dell’orrore della violenza da
Federico esercitata: da simili situazioni, dalla loro oscura sostanza
materiale, dal loro fondo di disperata e implacabile fisicità, si
traggono talvolta compiaciute leggende, come quella costruita a
Pontremoli, secondo cui il castello del Piagnaro sarebbe abitato dal
fantasma disperato di una promessa sposa di Pier delle Vigne,
senza fine alla ricerca del suo sposo accecato. E sembra che
qualcuno abbia pensato di invitare a Pontremoli Roberto Benigni per
una recitazione dantesca che potrebbe avere l’effetto di acchiappare
il fantasma e di metterlo in pace per sempre.
Ma non posso sostare a seguire qui le tracce dello sventurato
consigliere di Federico: mi limito a contemplare lo scorrere del
Magra da un parapetto sulla sua sponda sinistra e poi a riscendere
verso sud, ma sulla strada che costeggia la sponda destra del fiume,
che, dopo pochi chilometri, mi conduce alla breve diversione che
approda a Mulazzo, là dove era installato Franceschino Malaspina e
dove è davvero probabile che Dante abbia trovato ospitalità, almeno
in quell’autunno del 1306.
Lasciando l’auto su uno spiazzo al limite est del paese entro per
una via lastricata sotto una piccola porta, attraversando il borgo
storico, molto ben conservato, fino alla piazza Dante, dove è la
chiesa di San Martino e piccoli busti di Dante e di Carducci,
appoggiati ad apposite lapidi. Procedendo oltre, su un poggio
scoperto verso la campagna a nord-ovest e verso l’Appennino, c’è
una terrazza sovrastata da una nera e tozza torre esagonale,
denominata torre di Dante. Sul muro intermedio tra la terrazza e la
torre una serie di lapidi annerite, non tutte leggibili, indicano il
passaggio di alcuni visitatori, Vincenzo Monti, Giosuè Carducci,
Alfred Bassermann, risalendo indietro fino a Sennuccio del Bene. Al
limite estremo della terrazza c’è una solitaria statua di Dante, di
bianca pietra molto annerita, con un libro aperto tra le braccia
conserte, appoggiata su un piedistallo in cui sono incisi i versi iniziali
dell’VIII del Purgatorio.
Salgo sotto al torracchione, sul prato circostante e davanti a una
torricina conica che è a esso appoggiata. Entro poi nel palazzetto
che è accanto alla torre, che ospita il Centro di Studi Malaspiniani
Alessandro Malaspina, dedicato a un singolare viaggiatore ed
esploratore, nato qui nel 1754 e morto a Pontremoli nel 1810, dopo
numerosi viaggi e ricerche in tutto il mondo, con navi ed equipaggi
spagnoli e traversie anche politiche che, per le sue simpatie per la
Francia napoleonica, lo portarono in prigione in Ispagna. Insieme a
documenti del Malaspina e a materiale geografico e naturalistico, il
palazzo ospita anche il Centro Lunigianese di Studi Danteschi, che
ha anche una sua biblioteca. Tra le sale del palazzo mi accoglie una
gentile signora di Mulazzo, Erica Tacci, impegnata nell’attività
culturale e nella difesa del territorio dai rischi del suo indiscriminato
consumo: ora sta fotografando i documenti del Centro. È una delle
tante autentiche presenze dell’Italia che resiste, che da luoghi
appartati, come questo lontani dai grandi circuiti del flusso turistico,
opera per la propria persistenza e memoria, la fa palpitare più viva e
più silenziosa.
Lasciata Mulazzo, mi riavvicino al Magra passando per Gavedo,
piccolissimo borgo, dove sfioro un Palazzo Brignole Sale, circondato
da una massiccia fortificazione: era di una famiglia genovese che
aveva acquistato il feudo e il titolo di marchesi alla fine del
Cinquecento dal granduca di Toscana, dopo varie vicissitudini e
passaggi tra poteri diversi. Passato sulla riva sinistra del Magra,
tocco rapidamente il bel borgo murato di Filetto e poi più oltre quello
di Malgrate, con un castello dalla facciata sassosa dietro cui svetta
una torretta cilindrica: furono luoghi dei Malaspina della vicina
Filattiera, del ramo dello Spino fiorito. Ma lungo sarebbe districare
tutti i passaggi tra i vari feudi, nei loro rapporti e contrasti con gli stati
che si contendevano questi territori tra il XIV e il XVI secolo,
soprattutto il ducato di Milano e la repubblica di Firenze. La targa di
una via accanto al castello mostra il nome di Bonaventura Pistofilo,
umanista qui nato, che fu segretario del duca di Ferrara Alfonso I ai
tempi dell’Ariosto, che bene lo conosceva.
Più dantesca è la pertinenza della vicina Villafranca, attestata sulla
riva sinistra del Magra, dove sono i resti del castello di Malnido, uno
dei più antichi insediamenti dei Malaspina, forse così chiamato
perché chi passava di qui sul percorso della Via Francigena
incappava in poco gradite vessazioni e taglieggiamenti. Siamo
comunque nella sede del feudo occupato da uno dei tre membri
dello Spino secco a favore di cui Dante ebbe la procura, Corradino,
e prima dallo zio Corrado incontrato nella valletta dei principi, che,
come già accennato, dà a Dante l’occasione di lodare la casata dei
Malaspina, che, di fronte al mondo corrotto, “sola va dritta, e ’l mal
cammin dispregia” (Purgatorio, VIII 132).
Il Corrado dantesco ci riconduce anche a una bella novella di
Boccaccio, Decameron, II VI, dove viene qualificato come
“ghibellino”, anche se non ci sono attestazioni più dirette in
proposito. Tornando con la famiglia dalla Terra Santa, il Malaspina
raccoglie sull’isola di Ponza madama Beritola, moglie del ghibellino
Arrighetto Capece, prigioniero di Carlo d’Angiò, e la porta in salvo
nelle proprie “castella” della Lunigiana. Lì dopo molti anni approda,
non riconosciuto e sotto falsa identità, Giuffredi, figlio di Beritola, che
insieme al fratello era stato sottratto alla madre dai pirati, e si pone
come “famigliare” al servizio di Corrado. Di lui si innamora una figlia
di Corrado, Spina, ma i due amanti vengono scoperti e gettati in
prigione: tutto però si risolve felicemente quando, alla notizia della
sollevazione della Sicilia contro gli Angioini e della liberazione di
Arrighetto Capece, Giuffredi rivela la propria identità, viene liberato e
sposa felicemente la Spina, ritrovando anche la madre e il fratello.
Prendendo spunto da personaggi e da fatti reali, sovrapponendovi
dati romanzeschi, la novella di Boccaccio viene come a dilatarli
verso spazi e orizzonti immaginosi, entro un ritmo e un colore molto
più intensi di quelli delle loro vite reali.
I resti del castello di Villafranca, in cui non è certo possibile
riconoscere qualche traccia delle castella del Corrado di Boccaccio,
si trovano al limite meridionale del borgo: c’è la piazza San Niccolò,
con i resti di una chiesa distrutta nei bombardamenti del 1944 e
demolita nel 1968, poche mura diroccate accanto al campanile
sopravvissuto. Alle spalle del campanile c’è la ferrovia e al di là di
essa le poche rovine del castello, coperte da folta vegetazione. Tra
la chiesa e la strada la presenza di Dante è fissata in un monumento
con bianca statua, a pieno corpo, del poeta, disposta sotto il telaio di
una porta, da cui sembra in procinto di scendere alcuni gradini: ha
un libro chiuso nella mano sinistra appoggiata al fianco, mentre su
uno sgabello di pietra alla sua destra è posato un più grosso libro
aperto. La porta è circondata da un pavimento in mattoni scuri
costituito da nove cerchi concentrici, che rappresentano i nove cieli,
a cui si aggiunge, a un livello leggermente più basso, il decimo,
indicante l’Empireo. Su ognuno dei cieli c’è una sezione in pietra
bianca, allineata con i gradini da cui sembra scendere Dante, a
formare una sorta di tappeto, con incisi la cifra astrologica e il nome
del cielo e con una terzina significativa. Intorno alla sezione del
cerchio più ampio, dalla parte della ferrovia, c’è una specie di
paravento che scende su tre gradini, pronti ad accogliere chi voglia
sedersi sopra e contemplare il movimento dei cieli. Ma dall’altra
parte della strada i diritti della terra sembrano tristemente affermarsi
in uno scalcinato riquadro transennato dove giace una varia casuale
immondizia.
Tra i tanti castelli della Lunigiana, resta ancora da raggiungere
quello più appartato e quasi dimenticato, abitato da Moroello
Malaspina, marchese di Giovagallo, che tra tutti i membri della sua
famiglia è quello con cui Dante ebbe più diretto rapporto, come
testimonia anche il fatto che a lui inviò l’Epistola IV, in cui parla di
una donna apparsagli “ceu fulgur”, “come folgore” non appena ha
messo piede “iuxta Sarni fluenta”, “presso le correnti dell’Arno”, cioè
in Casentino: lettera scritta certamente dopo il 1306, ma in ogni
modo misteriosa e tale da suscitare molteplici dubbi, anche per il
rapporto possibile con l’ultima canzone d’amore, la cosiddetta
montanina (vedi pp. 106-107, 421).
Ulteriori più radicali dubbi suscita quello che dice Boccaccio,
secondo cui i primi sette canti dell’Inferno, ritrovati tra documenti
lasciati da Dante a Firenze, sarebbero stati spediti a Moroello, il
quale, dopo averli letti, avrebbe convinto il poeta a riprendere la
scrittura del poema, che aveva ormai abbandonata (a ciò si
aggiunge l’altra notizia del Boccaccio, già ricordata, secondo cui a
Moroello sarebbe stato dedicato il Purgatorio). Ma non c’è nessun
dubbio sull’omaggio reso alla moglie di Moroello, Alagia dei Fieschi,
per bocca dello zio Ottobono, il papa Adriano V (di cui ho visto il
sepolcro nella chiesa di San Francesco a Viterbo: vedi p. 766),
penitente nella cornice degli avari, che la loda come indenne dalla
malvagità della sua casata:

“…Nepote ho io di là c’ha nome Alagia,


buona da sé, pur che la nostra casa
non faccia lei per essempro malvagia;
e questa sola di là m’è rimasa”.
(Purg., XIX 142-145)

Molto meno evidenti di quelle degli altri castelli sono però le tracce di
quello abitato dalla signora, che lo lasciò alla morte del marito
(1315), trasferendosi a Genova. La frazione di Giovagallo si trova nel
comune di Tresana, alcuni chilometri oltre il centro comunale, un po’
all’interno tra i colli sul versante destro del Magra.
Da Villafranca scendo verso sud ancora sul versante sinistro del
Magra, fino a toccare Terrarossa, dove è una tozza fortezza
quadrangolare, anche questa originariamente malaspiniana, che
nella forma attuale risale al XVI secolo e che per un certo tempo è
stata anche sotto il controllo dei Medici. Da Terrarossa prendo a
destra, attraversando il fiume e addentrandomi poi attraverso
Tresana in una sorta di stretta valletta che ha ai piedi un torrente
tributario del Magra. Si scorgono sui pendii le casette di piccolissimi
borghi; la strada scende leggermente giungendo alle poche case di
Giovagallo, immerse nel silenzio, con un effetto di abbandono che si
raccoglie attorno alle rovine della chiesa di San Michele, con facciata
sassosa su cui si apre il portale, parzialmente murato. La strada che
costeggia la chiesa è aperta sul suo fianco destro, che è
scoperchiato, senza nessun resto di parete; poco più avanti c’è un
periclitante campanile. Ma qui non c’è traccia di castello; devo
prendere una strada che, poco prima della facciata della chiesa, si
dirige verso sinistra: in breve tempo giungo all’incrocio con un largo
sentiero in terra battuta davanti al quale c’è un bel pannello
informativo della Comunità montana della Lunigiana sul Castello di
Giovagallo, con la descrizione della breve e agevole strada da fare.
Lascio l’auto e salgo a piedi sul sentiero in terra battuta, che
nell’avanzare è sempre più invaso da fitte fronde, da rami e tronchi
caduti, mentre il suo fondo diventa sempre più irregolare e sassoso,
fino a un’interruzione creata dal groviglio di piante di ogni genere nel
sottobosco di un abbandonato castagneto. Devo scavalcare tronchi
e fronde, incespicando sul terreno scivoloso, superando dislivelli e
piccole scarpate, nel totale silenzio e con una certa ansia per
l’avvicinarsi della sera, che, nell’oscurità del groviglio boscoso,
sembra quasi pronta a incombere. Mi arrampico a zig zag,
scostando i rami caduti, scavalcando un gigantesco tronco caduto di
traverso, tutto coperto di muschio, scivolando per mancanza di
presa; mi fermo a un certo punto scegliendo un rozzo ramo con la
testa leggermente ricurva, che uso poi come bastone e che
denomino subito bastone di Dante.
Finalmente giungo ai piedi delle rovine del castello, toccando muri
e sassi scrostati e muschiosi, disposti su livelli diversi, sopra i quali si
leva un resto di torre o di parete, eretta come una quinta di teatro: è
il solo frutto di questo dubbioso procedere in omaggio alla buona
Alagia, all’ospitalità che da lei e da Moroello Dante avrà qui ricevuto,
a quel mondo cortese su cui qui ha vinto la disordinata natura.
Temendo il prossimo scendere della sera, faccio il cammino a
ritroso, frenato nella discesa dal provvidenziale bastone, che porto
via con me: pensando che in fondo l’abbandono del luogo mi ha dato
una sensazione della distanza dei tempi danteschi forse più “vera” di
quella suscitata da ambienti ben curati e adeguatamente offerti alla
curiosità turistica. Recupero il largo e agevole sentiero, mentre si
schiarisce intanto, oltre lo spazio della Val di Magra, la vista delle
Apuane, sotto la luce del sole prossimo al tramonto: si riconosce
bene una vetta bianca e puntuta, non so se l’Altissimo o la Pania.
Chiavari, Lavagna, Sestri Levante e Sarzana

Intra Sïestri e Chiaveri s’adima


una fiumana bella, e del suo nome
lo titol del mio sangue fa sua cima.
(Purg., XIX 100-102)

Nel presentarsi a Dante, Adriano V, Ottobono dei Fieschi, conti di


Lavagna, dopo aver usato il latino per indicare la sua dignità papale
(“scias quod ego fui successor Petri”, v. 99), designa i luoghi
d’origine della sua famiglia, che prende nome da una fiumana bella
che scende verso il mare (s’adima, cioè va verso il basso) tra Sestri
Levante e Chiavari, due tra i centri più importanti della Riviera ligure
di Levante. Questa fiumana bella è il torrente che scende a mare al
limite tra Chiavari e Lavagna e che oggi in quell’ultima parte del suo
corso, che ha una consistenza di fiume, risultante dalla vicina
confluenza dei torrenti Lavagna, Sturla e Graveglia, prende il nome
di Entella.
Nella mattina del 17 marzo mi dirigo verso Chiavari, attraverso
l’autostrada che tortuosamente percorre l’entroterra ligure, tra
gallerie e apparizioni di borghi sospesi tra i rilievi boscosi,
intrecciandosi con il vecchio tracciato dell’Aurelia che valica il passo
del Bracco. Nel XIII secolo Chiavari era comune protetto dalla
Repubblica di Genova, che ne aveva fatto sede del vicariato della
Riviera orientale, ma fino al XIV secolo subì attacchi dai Malaspina e
dai Fieschi, con periodi di dominio da parte di questi ultimi. Genova
riuscì a riprendere un più sicuro controllo del comune, istituendovi un
capitanato e costruendo un sistema murario, abbattuto già nel XVIII
secolo.
Non si vedono comunque tracce dell’assetto medievale, salvo i
resti del castello sul colle alle spalle della città. Questa si dispone
soprattutto sulla piana davanti al mare, a fianco della foce
dell’Entella. Mi attesto sul lungomare, di fronte al porto, e percorro le
strade interne, seguendo la disposizione geometrica del sistema
viario. Sarà per la stagione ancora non pienamente primaverile, ma
nell’animazione mattutina, la città non ha l’aspetto di un privilegiato
luogo di vacanza marina (dove sembra che molto numerose siano le
seconde case). Ancora molti sono i negozi “classici”, nelle piacevoli
strade porticate: dalla piazza dell’ottocentesca cattedrale, in forma di
tempio classico, raggiungo la piazza Mazzini, dove intorno al
monumento eponimo fervono le bancarelle di un affollato mercato e
su cui prospetta un Palazzo di giustizia falsogotico; percorro parte
della porticata via Martiri della Liberazione, sul tracciato dell’antico
“Carrugio dritto”, che nel XIV secolo era la via più importante della
città, fino alla piazza Matteotti, già piazza delle Carrozze, su cui
prospetta il secentesco Palazzo Rocca. Poi prendo il lungo corso
Dante, porticato su di un solo fronte e con edifici che più si avanza
più diventano anonimamente moderni, che mi porta finalmente
all’Entella.
Qui c’è un ponte moderno, il Ponte della Libertà: mi affaccio sulle
sue spallette metalliche guardando da una parte verso il mare, la cui
vista è ostacolata dal ponte della strada litoranea e da quello della
ferrovia, e dall’altra verso il monte, dove si impone la linea
azzurrognola del viadotto dell’autostrada. Sul versante opposto del
ponte c’è il cartello stradale LAVAGNA, mentre su quello da cui
provengo c’è quello speculare CHIAVARI. Non c’è infatti soluzione di
continuità tra Chiavari e Lavagna, separate soltanto dal corso
dell’Entella, che del resto ha tenuto a lungo il solo nome di Lavagna.
Torno in dietro sul versante di Chiavari e scendo sulla riva della
fiumana bella, molto ben attrezzata, sia qui che dalla parte opposta:
il fiume scorre abbastanza dolcemente, mentre molte anatre nuotano
su di esso, in placido movimento.
Con l’auto, poi raggiungo il ponte sull’Entella che si trova a monte
rispetto a quello della Libertà: è il Ponte della Maddalena, già Ponte
dei Mari, sull’antico percorso della Via Aurelia, che ha subito
numerosi interventi nel corso del tempo, ma il cui impianto risale
all’iniziativa del conte di Lavagna Ugone Fieschi, che l’ha fatto
costruire tra il 1210 e il 1212, sul tracciato di un precedente ponte in
legno: in origine poggiava su ben tredici arcate, ma nella forma
attuale ne ha soltanto sei. Qui dalla parte di Chiavari non manca la
lapide con i versi di Dante, mentre da quella di Lavagna c’è un
ampio pannello con molti particolari sulla storia del ponte, che
immette davanti alla chiesa-santuario di Nostra Signora del Ponte, di
origine quattrocentesca, ma alterata da molti interventi successivi.
Nella lunetta un po’ malandata del portale sinistro c’è un bassorilievo
cinquecentesco con san Francesco che riceve le stimmate: accanto
al santo c’è la figura di un uomo senza cappuccio con un libro aperto
tra le mani, che secondo una tradizione chissà come creata, sarebbe
Dante, di passaggio a Lavagna in occasione del suo presunto
viaggio in Francia. Il sito è comunque assediato dalle difficoltà del
traffico, dato che la chiesa sta sul preciso punto di confluenza tra lo
sbocco del Ponte della Maddalena e una trafficata strada che da
Lavagna porta verso l’interno e all’ingresso dell’autostrada.
Anche io prendo questa strada verso l’interno, per raggiungere il
luogo che più di tutti conserva l’immagine della presenza dei Fieschi,
la cosiddetta basilica dei Fieschi. Ci arrivo salendo leggermente in
alto dopo aver attraversato l’agglomerato urbano di San Salvatore
dei Fieschi. Lasciata l’auto su una strada in salita, entro nello spazio
quasi chiuso in cui sorge la basilica, su una sorta di poggio che
sembra separarlo da tutto il mondo circostante, raccolto intorno alla
piazza Innocenzo IV, che ha il nome del primo papa Fieschi,
Sinibaldo dei conti di Lavagna, figlio dell’Ugone costruttore del ponte
e zio del dantesco Adriano V. A lui, ma in termini fortemente negativi,
accenna Dante nell’Epistola XI VII 16, nello stesso contesto in cui
ironizza sul vescovo di Luni, deprecando l’indifferenza dei cardinali
per i grandi Padri della chiesa e il loro concentrarsi sui testi di diritto
canonico: “nescio quod ‘Speculum’, Innocentium et Ostiensem
declamant” (“declamano non so quale Speculum, Innocenzo e
l’Ostiense”: si riferisce allo Speculum di un Guglielmo Durante, al
commento di Innocenzo IV ai cinque libri delle Decretali di Gregorio
IX, a opere del cardinale Ostiense, Enrico di Susa).
Fu Innocenzo IV a far intraprendere nel 1245 (l’anno stesso in cui
scomunicò l’imperatore Federico II) la costruzione di questa basilica,
ultimata poi proprio dal nipote Ottobono nel 1252. Bellissimo è il
corpo della facciata romanico-gotica in ardesia, con la parte
superiore a fasce alternate di marmo e di ardesia, mentre l’intera
struttura è dominata da una grande torre cuspidata con due piani di
finestre, che sembra come raccogliere ed elevare con la sua forza
tutto il corpo dell’edificio. Nella lunetta sul portale è un affresco
quattrocentesco col Cristo in croce: oltre alle figure della Madonna e
di san Giovanni, sono inginocchiati, da una parte Innocenzo IV,
dall’altra il nipote Ottobono, in abito cardinalizio.
Di grande suggestione è l’insieme della piazza, con il Palazzo
comitale dei Fieschi, forse risalente alla fine del XIII secolo, e
l’Oratorio. Ai lati del Palazzo ci sono tracce di una antica via romana:
si vedono viottoli protetti da muretti, che scendono giù nella piana tra
orti e ogni sorta di case appollaiate sul pendio. Nel silenzio, turbato
dal sottofondo dei rumori del traffico e delle attività che si svolgono
giù in basso, si sente forte il tubare dei piccioni.
Un cartello avvisa che qui passa la via dell’Ardesia del monte San
Giacomo, che procede per un sentiero che porta sul monte vicino,
passando tra cave di ardesia. L’ardesia, la pietra scura di origine
sedimentaria di cui è ricca questa zona, viene del resto denominata
anche pietra di Lavagna o semplicemente lavagna, nome che
appunto viene da quello della città: e da quello di questa pietra viene
il nome con cui in Italia si designano i neri pannelli su cui si continua
a scrivere con il gesso nelle scuole e in altre situazioni
(accompagnati da cancellini che si impregnano di gesso). È vero
però che sempre più le vecchie nere lavagne sono ora sostituite da
pannelli bianchi su cui si scrive con pennarelli cancellabili o dai
tecnologici schermi luminosi, a cui però continuiamo a dare il nome
di lavagne, anche se non hanno più nessun rapporto con l’ardesia e
con Lavagna (ci sono anche le messianiche LIM, lavagne interattive
multimediali).
Scendo ora verso il centro di Lavagna: percorro l’asse centrale
della via Roma, che mi conduce sulla bella scena teatrale della
piazza in leggera pendenza, sul cui fondo è la basilica secentesca di
Santo Stefano. Perpendicolare alla via Roma si diparte verso destra
la porticata via Dante. Mentre prendo un caffè nel Caffè del Conte,
proprio sull’angolo tra la via Dante e la piazza della basilica, ascolto
un uomo e una donna che parlano animatamente della bontà delle
cantine Cardeto e dei vini Matilè. Chiedo informazioni su questi vini,
ingenuamente pensando che si tratti di vini locali, ma mi dicono che
si tratta di vini di Orvieto, conosciuti grazie a personali frequentazioni
umbre.
Oltre Lavagna, la strada litoranea, dopo aver sfiorato il fitto porto
della città, mi porta, cinque chilometri più giù, a Sestri Levante,
l’antica Segesta Tigullorum, anch’essa nel Medioevo con varie
vicende contesa tra Genova e i Fieschi: dalla fine dell’Ottocento è
stata notevole centro industriale, a cui è ormai subentrato un
presente perlopiù turistico (sono però ancora attivi, nella vicina Riva
Trigoso, i cantieri navali Finmeccanica). Arrivando da Lavagna si
tocca la bella baia detta delle Favole, davanti a cui si distende
l’armoniosa curva della spiaggia, che tocca la striscia di terra, vero e
proprio istmo, che immette sul colle dell’Isola, avanzato verso ovest
sul mare (in tempi non remotissimi era proprio un’isola, separata
dalla terraferma). Dalla spiaggia ho un’ampia visione del golfo del
Tigullio, di cui questa baia costituisce il limite sud-est: oltre le case di
Lavagna e di Chiavari, si scorge Santa Margherita e il promontorio di
Portofino, limite nord-ovest del golfo, e al di là un ampio tratto della
successiva costa ligure. La parte più antica della città – che qui, sulla
riva del mare, mi dà quell’impressione di luogo di vacanza che
invece non mi hanno dato Chiavari e Lavagna – è concentrata
soprattutto sull’istmo. L’Isola è circondata da attrezzature marine, ma
è in gran parte coperta da fitta vegetazione: su di essa si leva,
affacciata sull’opposta e più stretta baia detta del Silenzio, la piccola
chiesa romanica in pietra grezza di San Nicolò dell’Isola, risalente al
XII secolo e, dopo varie trasformazioni, restaurata in forma vicina
all’originaria nel XX secolo.
Partendo da Sestri torno indietro sull’autostrada, rammaricandomi
del fatto che il rapido percorso mi fa trascurare le Cinque Terre, quel
succedersi di borghi sulla costa scoscesa e dilavata, quell’orizzonte
“scabro ed essenziale” che è al centro della prima poesia di Eugenio
Montale, tra gli Ossi di seppia del suo soggiorno marino di
Monterosso (ma ho avuto l’impressione, tornandoci in altre
occasioni, che la loro bellezza sia oggi schiacciata dall’eccessivo
flusso turistico). L’ultima tappa di questo percorso sul lato orientale
della Liguria mi conduce a Sarzana, il centro più popoloso della
Lunigiana, non lontano dalla foce del Magra, vicino al punto in cui
l’Aurelia valica il fiume e dove in essa confluiva la vecchia strada
della Lunigiana.
Qui, dove fin dal 1204 era stata trasferita la sede vescovile di Luni,
sulla piazza della Calcandola, di buon mattino il 6 ottobre 1306,
Dante ricevette la nomina a procuratore dei tre Malaspina da parte
del notaio Giovanni di Parente di Stupio e, dopo aver ascoltato la
messa, cavalcò con lui fino alla vicina Castelnuovo. Chissà se, in
quel suo passaggio a Sarzana, avrà pensato al “primo amico” Guido
Cavalcanti, che egli stesso, nei mesi del suo priorato, aveva
contribuito a mandare in esilio, con vari esponenti della fazione dei
Cerchi, proprio a Sarzana (mentre i Donati e i loro partigiani
venivano inviati a Città della Pieve). E chissà se aveva già in mente
o aveva già scritto l’episodio dell’incontro nel cerchio degli eretici con
il padre di Guido, Cavalcante, con la sua accorata richiesta
sull’assenza del figlio nel viaggio oltremondano e la recisa risposta
che si risolveva in un’affermazione di distanza da quello che era
stato il suo “primo amico”:

Dintorno mi guardò, come talento


avesse di veder s’altri era meco;
e poi che ’l sospecciar fu tutto spento,

piangendo disse: “Se per questo cieco


carcere vai per altezza d’ingegno,
mio figlio ov’è? e perché non è teco?”.

E io a lui: “Da me stesso non vegno:


colui ch’attende là per qui mi mena,
forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.
(Inf., X 55-63)

La collocazione del viaggio nell’oltretomba nella settimana santa del


1300 fissava un tempo di poco precedente a quello del priorato di
Dante e della condanna dell’amico all’esilio: ma metteva comunque
in gioco la lacerazione del rapporto tra i due, tanto più forte in quanto
al momento della scrittura Guido era già morto, forse proprio a
Sarzana, per effetto del clima allora terribilmente malarico.
Continuo a domandarmi se nell’autunno del 1306 Dante avesse
già scritto il X dell’Inferno o se magari proprio allora, ascoltando la
messa insieme al notaio, fosse balenata nella sua mente, sulla
spinta di un non manifesto senso di colpa, l’idea dell’incontro con
Cavalcante, del suo sgomento, che doveva valere anche come una
sorta di rimprovero per l’assenza di Guido. Penso queste cose
proprio sostando davanti al Palazzo municipale, parzialmente
cinquecentesco, sul lato sud della sorprendente piazza trapezoidale
della Calcandola, ora ribattezzata piazza Giacomo Matteotti (il
vecchio nome Calcandola era quello di un torrente che scorreva
vicino). Alla destra del portale del palazzo c’è una lapide che reca la
data del 6 ottobre 1906, sei secoli dopo quel passaggio di Dante,
con un testo che dà tutti i dati sulla circostanza (e il nome dello
stesso notaio) e si conclude con la recisa affermazione ORMA DI DANTE
NON SI CANCELLA.
Sul lato sinistro dello stesso portale altre due lapidi ricordano la
lotta di Sarzana contro il fascismo; quella più in alto si riferisce a un
evento precedente alla presa di potere del fascismo, la vittoriosa
resistenza della città a una spedizione punitiva tentata dalle bande
fasciste nel luglio 1921: UNICO ESEMPIO / D’UNIONE DI FEDE DI POPOLANA
FIEREZZA /IMPERVERSANTE LA FURIA FASCISTA / IL 21 LUGLIO 1921 / LA CITTÀ DI
SARZANA / RESPINSE E PROSTRÒ LA FURIA OMICIDA / VITUPERATO IL SUO NOME /
NEI GIORNI OSCURI DELLA TIRANNIDE / RIFULSE NEL SEGRETO AMORE / DEI
LIBERI ITALIANI / / NEL XXIV ANNIVERSARIO / IL POPOLO RISORTO.
Su un altro
lato della ariosa piazza c’è un palazzo che deve aver avuto molte
modificazioni nel tempo, il Palazzo Lucri, già Parentucelli-Calandrini,
dove secondo tradizione sarebbe nato nel 1397 Tommaso
Parentucelli, papa dal 1447 al 1455 con il nome di Niccolò V: grande
papa umanista, che mise fine allo scisma d’occidente, indisse il
Giubileo del 1450 e rifondò la Biblioteca Vaticana.
Dal lato sud della piazza prendo, a sinistra del Palazzo municipale,
la via Mazzini, che mi conduce alla pieve romanica di Sant’Andrea,
risalente al XII secolo, stretta e slanciata, con il bel campanile che
sembra quasi divincolarsi dal lato sinistro della facciata, in cui la sua
base è incorporata. Pur tra le modificazioni che questa pieve ha
subito nel corso della storia (il campanile dovrebbe essere stato
elevato nel corso del XIV secolo), mi viene da pensare che proprio
qui Dante abbia ascoltato quella messa mattutina prima di salire a
Castelnuovo: e non mi disturba il sorprendente aspetto pagano del
portale impiantato nel Cinquecento, ai cui lati sono disposte due
cariatidi in marmo di Carrara, che sembrano custodire la chiesa
esibendo i loro seni, pur rivestiti da coppe floreali. Avanzando per la
via Mazzini appare poi la cattedrale di Santa Maria Assunta, la cui
costruzione, sul sito di una precedente pieve, iniziò dopo il
trasferimento da Luni della sede episcopale, ma la cui facciata
raggiunse il suo assetto solo a fine Quattrocento. Oltre la cattedrale,
mi fermo in un ristorante dall’augurale nome di Osteria dei Sani: il
simpatico ambiente sembra conservare qualcosa della “fierezza
popolare” di cui ho letto nella lapide sul palazzo municipale. La
cucina è tutta ligure: e non si può evitare di gustare un piatto tipico
della Lunigiana, testaroli al pesto.
Uscendo poi dalla via Mazzini sulla settecentesca Porta Romana,
trovo a destra il torrione Testaforte, uno dei torrioni superstiti della
fortezza Firmafede, costruita dai pisani nel secolo XIII: Sarzana del
resto, proprio per la sua posizione di limite tra Toscana e Liguria,
oltre che di accesso da sud alla Lunigiana, si trovò tra XIII e XIV
secolo sballottata tra vari stati confinanti, con vari passaggi tra Pisa,
Genova, Lucca, Firenze, Milano. La fortezza Firmafede fu
smantellata sotto il dominio fiorentino: e nel 1488 Lorenzo il
Magnifico fece costruire l’imponente cittadella, circondata da un
fossato ora erboso. È alla sinistra della Porta Romana e ha una
struttura articolata e complessa, secondo il principio delle fortezze
rinascimentali, tanto diversa dalla forma dei castelli medievali che si
elevano nella Val di Magra (al suo progetto, opera del fiorentino
Francesco di Giovanni detto il Francione, ha del resto collaborato il
principe degli architetti militari rinascimentali, Giuliano da Sangallo).
Ma Sarzana, nonostante la sua cittadella medicea, fu presto sottratta
ai fiorentini, tenuta dai genovesi, finché, tra varie vicissitudini, passò
definitivamente alla Repubblica di Genova nel 1562.
Cecina

…tra Cecina e Corneto…


(Inf., XIII 9)

Scendo ora verso sud, dalla parte della costa tirrenica, imboccando
l’autostrada che mi porta a superare la Versilia e la stessa Pisa, che
visiterò in altra occasione. Il tratto autostradale termina a sud poco
prima del luogo che, in un passo dell’Inferno già toccato, viene
indicato come il limite nord della Maremma infestata dai cinghiali:
Cecina, opposta al limite sud dato da Corneto / Tarquinia (vedi p.
772).
Cecina è oggi una città moderna, che, poco arretrata rispetto alla
riva del mare, si trova subito sulla riva sinistra del fiume omonimo, su
un territorio di antichi insediamenti etruschi, abitati anche in epoca
romana. Ai tempi di Dante la zona era certamente disabitata: e
sicuramente con il nome Cecina egli non si riferisce a una città, ma
al fiume che sorge dalle colline metallifere, a sud di Volterra, e
percorre poi da est a ovest la piana che dalla base del colle su cui è
Volterra giunge fino al mare.
Eludendo le varie indicazioni dei cartelli stradali, uscendo
dall’autostrada non mi dirigo verso il centro della città, ma verso il
suo limite nord, seguendo il vecchio tracciato dell’Aurelia all’altezza
del borgo di San Pietro in Palazzi: da qui arrivo in breve tempo ad
attraversare il fiume che, sotto il cielo che si sta oscurando, sembra
scorrere torbido verso la vicina foce. Dal ponte stradale si scorge, un
poco più a valle, quello parallelo della ferrovia, su cui sta passando
un treno dai bianchi vagoni, diretto verso nord. Sulla riva sinistra del
fiume, dalla parte del mare, poco oltre la ferrovia, c’è un piccolo
parco archeologico (detto di San Vincenzino), sorto attorno ai resti di
una villa romana risalente al I secolo a.C. e variamente abitata fino
al V secolo d.C. Per tradizione questa viene indicata come la Villa di
Decio Albino Cecina, della famiglia volterrana dei Caecina,
praefectus urbis nel 414 d.C., ricordata da Rutilio Namaziano nel De
reditu suo. L’autore di questo singolare poemetto tardoantico
racconta che, navigando, probabilmente nel 415, lungo la costa
tirrenica da Roma verso la sua patria, la Gallia Narbonese, approda
sul lido della regione di Volterra, dove sono le secche di Vada (il cui
stesso nome indica le secche), ricordate anche da Cicerone e da
Plinio: lì la sua piccola flotta viene fermata da un improvviso vento di
maestrale e da una pioggia, da cui egli prende riparo nella vicina
villa dell’amico Albino.
Vada è oggi un borgo che dà direttamente sul mare, al di là della
riva destra del fiume, qualche chilometro a nord di Cecina; ma i dati
forniti da Rutilio, che visita anche delle saline (una “salsa palus / qua
mare terrenis declive canalibus intrat / multifidosque lacus parvula
fossa rigat”, “salsa palude in cui il mare entra scorrendo per canali di
terra e una piccola fossa irriga specchi d’acqua divisi in bacini”, vv.
476-478) non offrono nessun elemento per identificare la villa con
questa ritrovata al di qua di questo fiume. Quelle saline non esistono
più, anche se non lontane, nell’interno, ci sono le Saline di Volterra
(costituite da sorgenti d’acqua salata): ed è comunque probabile che
la villa di Albino Cecina fosse più a nord, nel sito attuale di
Rosignano Solvay. Quanto al fiume Cecina, molti secoli più tardi,
verisimilmente in una zona più a monte, il 12 aprile 1500 vi annegò
l’esule greco Michele Marullo, uomo d’arme ed eccellente poeta in
lingua latina, che veniva da Volterra, dove era stato ospite dell’amico
umanista Raffaele Maffei, e se ne allontanava a cavallo, diretto forse
a Piombino, in mezzo a una tempesta, che rese fatale il suo tentativo
di traversare il Cecina a guado con la cavalcatura. Il suo corpo fu
sepolto nella pieve di San Giovanni Battista nella vicina Pomarance,
nella zona dei soffioni boraciferi, a sud di Volterra.
Attraverso il centro di Cecina, raccolto intorno al percorso
dell’Aurelia, che qui ha nome corso Giacomo Matteotti ed è in parte
pedonalizzato. Nei pressi della centrale piazza Guerrazzi, accanto a
un bel negozio di tessuti – di cui mi incuriosisce l’insegna, con il
nome della proprietaria o fondatrice che si specchia in se stesso,
cognome che si replica e prolunga nel primo nome, Lenzi Lenzina –
su una parete all’imbocco di un vicolo laterale, c’è un pannello in
scuro bassorilievo dello scultore cecinese Ado Santini con Dante e
Virgilio nella selva dei suicidi (si vede anche una delle nere cagne
che inseguono gli scialacquatori, ma non riesco a scorgere le brutte
arpie): sotto di esso una targa in plexiglas riporta i versi di Inferno,
XIII 7-9.
Uscendo da Cecina, dopo un breve tratto campestre, si incontra
sull’Aurelia una frazione del comune di Bibbona, che ha lo strano
incongruo nome La California, forse dato più di un secolo fa da
qualcuno di queste parti che in California aveva fatto fortuna. Nelle
complicazioni e nei raddoppiamenti della viabilità, ci si trova ora per
un certo tratto a dover scegliere tra la vecchia Aurelia e la variante a
quattro corsie, singolare autostrada / non autostrada che
accompagna chi da questa zona della Toscana scende verso il
Lazio. Resto però sulla vecchia Aurelia per affacciarmi davanti alla
strada dei cipressi di Bolgheri, resa celebre dal Carducci di Davanti
San Guido. Scorgo in un primo momento un più modesto filare di
cipressi che in realtà sembra costituire solo un annuncio di quelli di
Bolgheri, che poi si profilano nel loro sontuoso succedersi, come in
un silenzioso inseguirsi. Mi fermo su un anello sulla destra della
strada, proprio sul punto in cui verso sinistra si diparte la strada dei
cipressi; al centro della piazzola è un obelisco circondato da cipressi,
innalzato a memoria del Carducci nel 1908, a un anno dalla sua
morte. Su un cippo sono incisi i primi due versi:

I cipressi che a Bolgheri alti e schietti


van da San Guido in duplice filar

È vero che qualche cipresso è malandato e che non molto tempo fa


si è parlato addirittura di pericolo per tutti quelli della strada: ma mi si
presentano tuttora alti e schietti, nel loro placido impegno di
compagni di chi risale verso il borgo dove è sepolta la nonna del
poeta, borgo che ormai ha assunto quel carattere di misurata
eleganza che è tipico di tanti centri toscani che attraggono turismo
internazionale.
Più indietro, rispetto alla prospettiva del viale, è il piccolo oratorio
ottagonale che dà nome alla poesia: arretro sul prato che separa la
rotonda del cippo dalla chiesetta, intorno a cui passeggio un po’,
notando come alle spalle non ci sia più soltanto la ferrovia su cui
Giosuè passava sulla vaporiera, ma si sia intramessa più a ridosso
la pseudoautostrada, su cui scorrono velocissime auto e camion, a
velocità molto superiore alla massima indicata dai segnali e certo
senza che ci possano essere pause per guardare il viale e
conversare con i cipressi. Il San Guido dell’oratorio mi riconduce
comunque all’universo dantesco: innalzato nel 1703 per
commissione della famiglia della Gherardesca, è dedicato a un santo
della loro stirpe, nato a Pisa verso nella seconda parte dell’XI secolo
e morto nel 1140 dopo aver vissuto a lungo in solitudine da queste
parti, presso Donoratico, costruendo un oratorio dedicato a Santa
Maria della Gloria. Dalla stessa famiglia doveva nascere, un secolo
più tardi, il dantesco Ugolino, conte di Donoratico: qualche
chilometro più avanti, in cima a un colle sulla sinistra, si notano i resti
della torre del castello, distrutto nel XV secolo.
Pisa

Ahi Pisa, vituperio de le genti


del bel paese là dove ’l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti,

muovasi la Capraia e la Gorgona,


e faccian siepe ad Arno in su la foce,
sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
(Inf., XXXIII 79-84)

…e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.
(Purg., VI 17-18)

Discesa poi per più pelaghi cupi,


trova le volpi sì piene di froda,
che non temono ingegno che le occùpi.
(Purg., XIV 52-54)

Tra tutte le città toscane variamente vituperate nella Commedia, Pisa


è quella che riceve la maledizione più terribile, che scaturisce dalla
diretta parola del poeta nel più cupo fondo dell’Inferno, all’ascolto del
racconto del conte Ugolino sullo scempio subito insieme a figli e
nipoti. Per estremo contrasto, nell’avvio dell’invettiva, alla marca del
vituperio per la città fa da contrappeso il riferimento all’Italia tutta
come bel paese del sì. L’auspicio di annegamento generale di tutti gli
abitanti è la sola risposta possibile, da parte di Dante, che non
rivolge mai la parola al dannato, a quella vicenda tutta inscritta nello
spazio della città di Pisa, nell’implacabile ferocia delle lotte di fazione
e di potere.
Il nome di Pisa viene poi fatto nel VI del Purgatorio, per indicare un
personaggio che si trova nella “turba spessa” dei morti per violenza,
Gano degli Scornigiani, che fu ucciso nel 1287 da Nino della
Gherardesca, il Brigata, nipote del conte Ugolino, nel quadro delle
lotte tra Ugolino e Nino Visconti: ricordando che di fronte al suo
assassinio il padre Marzucco apparve forte, rifiutando con spirito
cristiano di cercare a tutti costi vendetta (nobile pisano, che aveva
avuto importanti incarichi politici, Marzucco nei suoi ultimi anni entrò
tra i frati minori e alle soglie del 1300 soggiornò presso il convento di
Santa Croce a Firenze, dove Dante può averlo conosciuto).
L’immagine negativa di Pisa si ripropone poi nel quadro che della
valle dell’Arno viene fatto da Guido del Duca nel XIV del Purgatorio:
il nobile romagnolo dice che, dopo aver toccato i porci del Casentino,
i botoli di Arezzo, i lupi fiorentini, e dopo esser scesa tra strette gole
(pelaghi cupi), la valle trova i pisani, che sono volpi, intente alla
frode, che non hanno timore di nessun congegno (ingegno) che
cerchi di catturarle (le occùpi).
Con più neutrale prospettiva, i pisani erano invece nominati nel De
vulgari eloquentia, I IX 4, per l’appartenenza del loro linguaggio alla
parte destra d’Italia (cioè quella occidentale), mentre in I XIII 1-2
veniva ricordato per il suo volgare distante da quello curiale cercato
da Dante, il poeta pisano Gallo o Galletto (forse il giudice Gallo di
Ser Agnolo) e, nella rassegna degli idiomi toscani, si presentava una
frase pisana: Bene andonno li fatti de Fiorensa per Pisa (“I fatti di
Firenze sono andati bene per Pisa”).
Vengo a Pisa il 3 settembre 2015, a mattina avanzata,
cominciando ad aggirarmi sui Lungarni, tra varie giravolte, alla
ricerca di un parcheggio nel centro storico. Questi Lungarni danno
un colore e un’aria particolarissima alla città: hanno qualcosa di
indefinibilmente originale, che li rende diversissimi da quelli fiorentini
e in fondo da ogni altro lungofiume di città. Il loro assetto è
relativamente tardo, risulta da una vera e propria rifondazione tardo-
ottocentesca: completamente diversi erano prima e tanto più in
epoca dantesca. I muri di sponda erano più bassi, con scalinate che
scendevano dai palazzi fino agli approdi per le barche (ma questa
struttura si era assestata soprattutto a partire dal Cinquecento, dopo
la grave crisi e disintegrazione del tessuto medievale culminata nella
sottomissione a Firenze). Nel XIII secolo erano in piedi almeno tre
dei ponti che ora attraversano il fiume, che sono stati comunque tutti
più volte ricostruiti, senza lasciar più tracce dell’antica forma: il più
antico era il Pontevecchio, ora detto Ponte di Mezzo, che mette in
comunicazione i nuclei centrali della città, quello sulla riva sinistra, a
sud, e quello più ampio e più ricco di edifici storici sulla riva destra, a
nord.
Lascio l’auto sulla piazza Mazzini, che si apre sul Lungarno
Mediceo, a est della città, in una zona che si trovava al di fuori del
tessuto murario altomedievale: da qui mi addentro tra le strade
interne, nei pressi del Palazzo di Giustizia, oltre il quale costeggio la
chiesa di Sant’Andrea Forisportam, che conserva in parte della
facciata l’originaria forma romanica del XII secolo. In un bar della
vicina via Palestro, ascolto i discorsi di tre giovani reduci dall’esame
di procuratore legale, un ragazzo e due ragazze, una delle quali ha
un’appariscente maglietta a righe orizzontali bianche e nere:
discutono senza interrompersi mai sui loro temi d’esame, in
particolare sulla concussione e sulla bancarotta fraudolenta,
cercando conferme e descrizioni di casi sui loro smartphone.
Sono abbastanza vicino alla chiesa di San Francesco, risalente al
XIII secolo, ma la cui forma attuale è stata sistemata tra Cinquecento
e Seicento: la seconda cappella del transetto sinistro è quella dei
conti della Gherardesca, in cui era in origine collocato il sepolcro
della famiglia, smembrato in età napoleonica e poi parzialmente
ricomposto nel Camposanto (vedi p. 888). Ma qui sono state
composte nel 1902, sotto una lastra a terra, delle ossa che
precedentemente si trovavano nel chiostro di questa stessa chiesa,
attribuite al conte Ugolino e ai figli e nipoti morti con lui. Molti dubbi si
avevano su questa attribuzione, che sembra siano stato risolti da
una ricerca condotta nel 2001 dal professor Francesco Mallegni,
allora direttore del laboratorio di paleoantropologia umana
dell’Università di Pisa, che ha riesumato i resti di cinque individui di
diversa età, identificandoli proprio con quelli di Ugolino e dei suoi
familiari (e smentendo la diffusa leggenda secondo cui al culmine
della tragedia egli avrebbe cercato di divorare i suoi stessi figli). Ora
una lapide sulla parete ricorda la testimonianza del commentatore
Francesco da Buti, che certo conosceva bene questi luoghi, secondo
cui il sepolcro di Ugolino si trovava “al luogo dei frati minori a San
Francesco… allato alli scaloni a montare in chiesa alla porta del
chiostro”. Proprio in quel punto del chiostro è apposta un’altra lapide
che ricorda quella precedente collocazione.
La sosta nella cappella è comunque dominata da un singolare
risultato visivo della ricerca del 2001: accanto alla lastra tombale una
teca su di un bianco piedistallo custodisce una testa del conte,
ricostruita tenendo conto dei dati ricavati dall’analisi del teschio,
sembra con i metodi usati dall’americana FBI. È la testa di un
vecchio dall’ampia fronte, quasi calvo, con uno sguardo sdegnoso,
accentuato dagli zigomi un po’ cascanti e dalla bocca arcuata in una
smorfia non si sa se di amarezza o di disprezzo. Non suscita certo
simpatia né commiserazione: insistendo nella mia diffidenza verso
questa sorta di identificazioni, non posso non pensare alla ben
diversa e animalesca postura in cui Dante lo fissa nel ghiaccio del
Cocito. Saprò poi, non senza sorpresa, che, pochi giorni dopo la mia
visita, il 17 settembre, crollerà una parte del soffitto delle cappelle
interne della chiesa, tra cui proprio quella così abitata dal conte
Ugolino (il restauro sarà lento e lungo: troverò la chiesa chiusa,
ancora nell’autunno del 2019).
Lasciata San Francesco, procedo fino alla centrale e affollata via
Borgo stretto, su cui c’è un flusso di passanti che vengono dal Ponte
di Mezzo: qui prospetta la chiesa di San Michele in Borgo, romanico-
gotica, la cui origine risale all’inizio del millennio, ma che fu
sistemata nella forma attuale, con le tipiche loggette pisane nella
parte superiore, tra la fine del XIII e l’inizio del XIV secolo. Su un
muro di una angusta stradina a fianco della via Borgo stretto, un
grosso cartello cartaceo reca la scritta PISCIATE A CASA VOSTRA.
Un breve tratto verso sinistra porta alla spaziosa e scenografica
piazza dei Cavalieri, vertice accademico pisano, nazionale e
internazionale, con la Scuola Normale Superiore, fondata da
Napoleone Bonaparte nel 1810, che ha sede nello splendido
Palazzo dei Cavalieri o della Carovana, iniziato nel 1562 sul progetto
di Giorgio Vasari, responsabile dell’assetto di tutta la piazza, già
piazza degli Anziani o delle Sette Vie. Per volontà di Cosimo I de’
Medici la piazza era destinata ad accogliere le sedi del nuovo ordine
religioso e militare dei cavalieri di Santo Stefano, da lui fondato nel
1561, con il compito di difendere le coste marine dalle incursioni
turche. La facciata del Palazzo dei Cavalieri, costruito con una
completa ristrutturazione di quello che era stato, tra Duecento e
Trecento, il Palazzo degli Anziani, dispone la sua linea leggermente
spezzata con un moderato effetto di asimmetria corretto dalla
perfetta simmetria delle due rampe della scalinata esterna e come
fantasticamente dilatato dalla fitta decorazione a graffito, in cui
sontuosi elementi vegetali si insinuano tra segni zodiacali e figure
allegoriche. La severa statua del granduca Cosimo I sorveglia il
palazzo e tutta la piazza, i cui edifici, su di un perimetro
artificiosamente irregolare, vengono come a offrire una successione
di diverse scene accuratamente collegate.
Alla sinistra del Palazzo dei Cavalieri, oltre un cancello aperto su
vari più recenti edifici universitari, si eleva il Palazzo dell’Orologio,
già detto del Buonomo o dello Spedale: la sua facciata è ad angolo,
con due corpi divergenti unificati da un più corto corpo centrale, che
ha alla base un arco che immette in una strada che
precedentemente separava due torri, corrispondenti a quelli che ora
sono i due corpi divergenti. La torre di sinistra era la casa-torre del
Palazzo di Giustizia (con la prigione del comune) e quella di destra
era la torre dei Gualandi detta della Muda, forse perché vi si
tenevano chiusi gli uccelli nel periodo della muda, il cambio delle
penne (e veniva poi usata come prigione): era la torre in cui fu
imprigionato e lasciato morire di fame con i suoi il conte Ugolino, che
la chiama come quella che per lui “ha ’l titol de la fame” (Inferno,
XXXIII 23) e che come tale fu poi da tutti chiamata.
Proprio per questa sua collocazione sul sito dell’“orribile torre” il
palazzo, che nel suo perfetto assetto stilistico sembra come voler
cancellare l’orrore di quella angosciosa memoria, viene anche detto
della Gherardesca. Non può mancare la lapide che, nell’ala destra,
nello spazio tra la base delle due finestre del primo piano, ricorda la
torre distrutta: QUI SORGEVA LA TORRE DEI GUALANDI / LA TRAGICA MORTE /
DEL CONTE UGOLINO DELA GHERARDESCA / LE DIÈ IL TITOLO DELLA FAME / E
SUSCITÒ NEL DIVINO ALIGHIERI / LO SDEGNO ED IL CANTO / ONDE IL RICORDO
DEL MISERANDO CASO / SI ETERNA. Mentre guardo la lapide, faccio caso
a ben quattro carrozzelle a cavalli che si muovono sulla piazza: una
si avvicina alla facciata di questo palazzo, mentre il cocchiere sta
indicando la lapide con il manico del suo frustino a due turiste intente
a fotografare o il palazzo o forse a farsi dei selfie con l’ampio spazio
della piazza sullo sfondo.
L’arco che passa sotto il corpo centrale del Palazzo dell’Orologio
immette nella via Dalmazia, dove, sul muro di fianco del palazzo
stesso, in basso, firmata da un simbolo anarchico, campeggia una
scritta, deprimente residuo di vecchie formule minacciose:
NORMALISTA SPECIALISTA SEI IL PRIMO DELLA LISTA. Ma la via Dalmazia
immette nella via della Faggiola, sul cui fronte sinistro si incontra un
palazzetto dove, sotto una finestra che trovo spalancata, una lapide
ricorda il soggiorno di Giacomo Leopardi: PERCHÉ SIA PERENNE
MEMORIA / CHE QUI / NELL’INVERNO DAL MDCCCXXVII AL XXVIII / DIMORÒ
GIACOMO LEOPARDI / E QUI / TORNANDO AI DOLCI RICORDI DELLA GIOVINEZZA / IL
CANTO A SILVIA COMPOSE / LA SCOLARESCA UNIVERSITARIA / A TANTO NOME ED
A TANTA SVENTURA / REVERENTE / QUESTA LAPIDE PONEVA / IL VI GIUGNO DEL
MDCCCLXXX. Un furgone è parcheggiato proprio sotto la lapide, in fila
con le auto disposte lungo il lato sinistro della stretta strada a senso
unico; e mi chiedo se c’è un rapporto tra la suggestione della stretta
visuale di questa strada, certo allora senza parcheggio di veicoli
metallici, e l’evocazione, nella celebre poesia, del tanto diverso
ampio paesaggio contemplato dai “veroni del paterno ostello” tra il
risuonare del canto della fanciulla “all’opre femminili intenta”.
Sempre qui Giacomo deve aver scritto la lettera alla sorella Paolina
del 2 maggio 1828, dove appunto accenna alla scrittura di A Silvia:

Io ho finito oramai la Crestomazia poetica; e dopo due anni,


ho fatto dei versi quest’Aprile; ma versi veramente all’antica, e
con quel mio cuore d’una volta.

Devo accostarmi più strettamente possibile al muro sulla destra,


perché sta passando nel varco stretto tra il muro stesso e le auto
parcheggiate una carrozzella su cui una cocchiera grassottella che
sfida il persistente caldo estivo con un vero e proprio decolleté porta
a spasso due turiste giapponesi, attentissime a scrutare i muri della
strada. La strada che svolta subito a sinistra ha proprio il nome di via
Giacomo Leopardi: e attraverso di essa raggiungo la via Santa
Maria, che nel procedere appare sempre più affollata di locali di
ristorazione e di turisti. Subito oltre una cortina di tetti appare l’ultimo
piano della torre pendente, con poche persone che ne percorrono la
terrazza accanto all’alloggiamento delle campane. Poco più avanti si
apre totalmente la vista del Campo dei miracoli, col verdissimo prato
su cui le bianche moli della torre, del Duomo, del Battistero, scandite
dalle innumerevoli moltiplicate loggette, sembrano poggiare leggere,
mentre intorno brulica la variegata folla internazionale, negli
squillanti colori delle vesti estive e delle epidermidi abbronzate, con
l’ingombro degli oggetti che ciascuno porta con sé, tra cui sembrano
dominare incontrastati gli smartphone universalmente fotografanti,
quasi segno comunitario pur nella omologata diversità delle marche.
Il prato è recintato da paletti metallici collegati da leggere catene;
vari cartelli mettono in guardia, VIETATO CALPESTARE IL PRATO / DO NOT
WALK ON THE GRASS, prospettando adeguate multe per i trasgressori,
ma esso si lascia calpestare da tutta la possibile gamma di
calzature, tra gli estremi di eterei infradito e di rocciosi anfibi, e in
alcune zone offre la sua soffice erba a fanciulle sdraiate al sole e a
gruppetti accovacciati in circolo. Tra la torre e l’edificio della
Primaziale, che la fronteggia sul lato nord, con la facciata in
restauro, coperta da teli a strisce verticali, molti si fanno fotografare
con mani e braccia in posizioni che fanno sì che l’immagine catturata
dia l’illusione che reggano la torre pendente. Sul prato è esposta una
grande scultura, che è parte di una mostra su Arnaldo Pomodoro.
Continuità e innovazione, che presenta molte opere all’interno del
palazzo dell’Opera della Primaziale e del Museo delle Sinopie: si
tratta di una struttura circolare, in bronzo e ferro, un Giroscopio che
entro un sistema di cerchi intrecciati custodisce corpi metallici
scanalati e dentati, predisposta a ruotare da un meccanismo che
però è fermo per motivi di sicurezza. Questa variazione immaginosa
dello strumento che ruotando mantiene un orientamento costante,
qui, come a specchio della vicina torre pendente, è collocata in
omaggio a Galileo, che, secondo una leggenda in realtà priva di
fondamento, sarebbe salito in cima a essa per uno dei suoi
esperimenti sulla caduta dei gravi.
Senza sostare troppo a lungo sull’affollata meraviglia del Campo
dei miracoli visito l’interno del Duomo per sostare davanti alla tomba
di Enrico VII, costruita nel 1315, a due anni dalla morte
dell’imperatore, da Tino di Camaino: tomba che, come tutte quelle
dei grandi personaggi, è stata sottoposta alle esumazioni e
sperimentazioni necrofile in voga nella nostra cultura
dell’indiscrezione e della violazione. Al 2014 risale la recente
apertura, con il trasporto del sarcofago in adeguato laboratorio e
l’esumazione con studio e recupero di corona, scettro e globo, oltre
che di un drappo serico, tutto poi da esporre al Museo dell’Opera del
Duomo. Cercando su Internet mi è poi capitato di trovare folti
documenti su questa esumazione: foto e filmati, tra cui una bella foto
di gruppo con una folta équipe in posa accanto a un tavolo su cui è il
piccolo sarcofago, sorrisi di brave persone contente del loro lavoro,
con un effetto non saprei se sinistro, grottesco, carnevalesco… E
che dire del ritrovamento e dell’esposizione della corona, se si pensa
a quella che Beatrice mostra a Dante, posata sul seggio riservato al
suo imperatore nella rosa dei beati?

E ’n quel gran seggio a che tu li occhi tieni


per la corona che già v’è sù posta,
prima che tu a queste nozze ceni,

sederà l’alma, che fia giù agosta,


de l’alto Arrigo, ch’a drizzare Italia
verrà in prima ch’ella sia disposta.
(Par., XXX 133-138)

Gli ultimi due versi sono incisi su di una lapide che è stata apposta ai
piedi della tomba nel 1921, quando fu qui ricomposta, dopo che era
stata variamente smembrata e modificata e dirottata parzialmente
nel vicino Camposanto.
Eccomi allora al Camposanto, sul lato settentrionale della piazza:
l’ingresso, sulla porta di fronte al Battistero, mi immette
nell’imponente corridoio quadrangolare, che circonda, con bianche
arcate chiuse da quadrifore, uno spazio interno aperto, formando un
chiostro di eccezionali dimensioni. Qui l’arcivescovo Ubaldo
Lanfranchi avrebbe fatto trasportare la terra del Golgota, sottratta dai
pisani durante la crociata del 1203. Iniziati a partire dal 1277, i lavori
dell’edificio sono stati portati avanti soprattutto nel secolo
successivo, anche con tutta una grande serie di affreschi sulle pareti
del corridoio: ma gravissimi sono stati i danni del bombardamento
americano del 27 luglio 1944, poco prima della liberazione della
città. Ne è seguita la perdita di molte opere d’arte, solo in parte
compensata da un lungo restauro che ancora non ha portato a una
definitiva risistemazione. Ma sorprendente e affascinante è
comunque il percorso per questo corridoio, dove approdano ben
pochi dei turisti che là fuori affollano la piazza e l’interno del Duomo.
C’è una grande quantità di sarcofagi romani, spesso con sculture
di eccezionale qualità, che riconducono lontano nel tempo, a quei
miti del mondo pagano che Dante traspone nell’universo cristiano.
Eccone uno con figure di centauri che sembrano navigare su dei
flutti, certo ben diversi dalla sanguinosa onda del Flegetonte; anzi
sono accompagnati da vezzose fanciulle, forse Nereidi, sulle cui
spalle ruotano drappi gonfiati dal vento (questo è un sarcofago del II
secolo d.C.). Ecco più avanti un sarcofago con il mito di Fedra e
Ippolito, della fine dello stesso II secolo, che fu reimpiegato nel 1076
come sepolcro di Beatrice, madre di Matilde di Canossa, e di cui
tenne conto Nicola Pisano per il bellissimo pergamo che è nel vicino
Battistero (datato 1260). Guardando le folte figure che
rappresentano i vari episodi della vicenda mitica, non posso non
pensare alla similitudine di Cacciaguida:

Qual si partio Ipolito d’Atene


per la spietata e perfida noverca,
tal di Fiorenza partir ti convene.
(Par., XVII 46-48)

Tra i vari sepolcri addossati in alto, sulle pareti interne del corridoio,
c’è quello del brillantissimo Francesco Algarotti, lo scrittore,
viaggiatore, divulgatore, illuminista e classicista, attento alle più
diverse forme della contemporaneità, delle arti, delle scienze, che fu
accolto dalla zarina Caterina e fu ciambellano di Federico di Prussia:
veneziano poligrafo e poliglotta, autore de Il newtonianismo per le
dame e dei Viaggi di Russia (sul lungo viaggio del 1738-39), a Pisa
morto nel 1764. Sul sarcofago non è sdraiata la sua statua, ma
quella di una vezzosa ed elegante dama o dea che legge da un
grande cartiglio; di lui c’è solo il volto di profilo su un medaglione che
sta più in alto. Sopra ancora, sulla cornice che inquadra il sepolcro,
una cetra, una maschera, un compasso, il tutto sovrastato da
un’epigrafe-dedica dello stesso re di Prussia: ALGAROTTO OVIDII
AEMULO / NEWTONI DISCIPULO / FRIDERICUS MAGNUS.
Poco oltre c’è il sepolcro dei conti della Gherardesca, già nella
chiesa di San Francesco, poi smembrato e qui ricostituito solo in
parte. Esso dovrebbe comunque riguardare un ramo della famiglia
che fu in opposizione a quello del conte Ugolino e che, mentre questi
era passato tra i Guelfi, rimase sempre schierato nella fazione
ghibellina. Non mancano poi monumenti commemorativi del tutto
“postumi”, come una statua ottocentesca con le immaginarie fattezze
del grande matematico pisano Leonardo Fibonacci, autore tra la fine
del XII e l’inizio del XIII secolo, del Liber Abaci: fu il primo a
introdurre in Europa la numerazione arabica.
Ma quello che più colpisce in questo Camposanto è la grande
ricchezza e varietà di affreschi, perlopiù accuratamente restaurati,
anche se i danni del tempo e della guerra hanno lasciato squarci,
lacerazioni, cancellazioni insanabili. Sono soprattutto affreschi
trecenteschi, come tante storie di santi, tra cui si distinguono le
Storie di Giobbe di Taddeo Gaddi (circa 1342), con fitto e brulicante
disporsi di personaggi e di azioni in tante storie di santi. Molti sono
quelli che si avvicinano alla tematica dantesca: ed è probabile che in
qualche caso siano stati suscitati dalla precoce suggestione della
Commedia. Davvero sorprendente è la Cosmografia teologica,
disposta sul muro all’estremità occidentale del braccio settentrionale,
opera di Piero di Puccio verso la fine del Trecento: il grande riquadro
è occupato quasi completamente da una ruota costituita da cerchi
concentrici di vario colore che rappresentano le sfere celesti e i
pianeti, secondo la cosmologia tolemaica; la ruota è abbracciata da
Cristo, di cui si vede la testa in alto, ai margini le mani che reggono
la ruota, in basso l’orlo della tonaca. Negli angoli in basso, fuori dal
contorno della ruota, si affacciano le immagini di sant’Agostino e di
san Tommaso, mentre i riquadri vicini presentano le prime storie del
Genesi, Adamo ed Eva, Caino e Abele.
Ma l’affresco più dantesco è certamente quello del Trionfo della
morte, che sarà ricollocato nella sede originaria, cioè nel braccio
meridionale, nel 2018, ma nel corso della mia visita si trova, dopo il
restauro, nella sala detta degli affreschi: l’opera risale all’incirca al
1336 e ormai quasi generalmente viene attribuita a Bonamico
Buffalmacco, il pittore che nel Decameron ordisce, insieme al collega
Bruno, le beffe ai danni dello sciocco Calandrino. La figura della
morte, con la sua falce, domina minacciosa il centro dell’ampio
rettangolo (ma è nella zona più rovinata dell’intera composizione):
alla sua destra in alto nel cielo volteggiano angeli, mentre in basso
alcuni di loro lottano con i diavoli per impadronirsi di alcuni cadaveri,
soprattutto di ecclesiastici; sotto la minaccia della falce si dispone,
poco più a destra, in un lussureggiante giardino, una brigata di
eleganti figure, soprattutto donne, in ameno e piacevole
intrattenimento. A sinistra si muovono invece personaggi a cavallo
che si imbattono in tre bare scoperchiate; dietro di essi, sopra uno
sperone di roccia, ci sono eremiti in varie posture. Qui ho come
l’impressione che, nonostante tutto, i volti estremi e inquietanti
dell’orrore non vengano a scalfire la misura cortese della cavalcata e
della conversazione nel giardino, esaltata nelle fogge e nei colori
delle vesti, nelle pose dei personaggi che sembrano ostinatamente
insistere a negare la morte. Non sono esposti comunque, perché
ancora in restauro, gli affreschi del Giudizio universale e dell’Inferno,
probabilmente dello stesso pittore, di inquietante espressività, specie
nel trattamento dei volti dei dannati: affreschi che offrirebbero
(specialmente il secondo) riscontri danteschi ancora più calzanti (il
Giudizio sarà ricollocato nel 2017).
Lascio il Campo dei miracoli percorrendo fino al Lungarno
Pacinotti la via Santa Maria, che man mano si svuota dei locali
turistici e della folla implicata. Dopo un certo tratto cominciano ad
affacciarsi sulla via, ormai sempre più quieta, quasi silenziosa, varie
sedi dell’università. Qui appare sempre più evidente come sulla Pisa
dei pisani si sovrappongano e tra loro si ignorino la Pisa dei turisti e
quella dell’università, che si dividono parti diverse della città: così via
Santa Maria sembra quasi divisa in due zone distinte. Sulla facciata
del palazzo dove è ospitata la Biblioteca del centro linguistico
interdipartimentale una lapide ricorda il soggiorno di Vittorio Alfieri tra
il novembre del 1784 e il settembre 1785: qui scrisse il Panegirico di
Plinio a Traiano, il primo libro Del Principe e delle lettere e “corresse
dieci tragedie”. Poco più avanti c’è la Domus galilaeana, poi la casa
natale del fisico Antonio Pacinotti e, quasi al termine della via, la
chiesa romanica di San Nicola, con un bellissimo campanile
duecentesco.
Raggiunto il Lungarno, l’opposta riva mostra la chiesetta gotica di
Santa Maria della Spina, affacciata proprio sul fiume, ma ricomposta
qui nel 1871, dopo essere stata smontata dalla collocazione un po’
più a ovest e più vicina all’acqua: ora è in restauro (che sarà
concluso nel 2016) e le sue piccole guglie svettano dall’armatura che
copre la facciata. Il suo nome designa una spina, custodita dal 1333,
che sarebbe stata estratta dalla corona del martirio di Cristo, ma che
ora si trova in un’altra chiesetta, vicino al Campo dei miracoli.
Sul Lungarno Pacinotti si affaccia tutta una serie di nobili palazzi,
variamente edificati in epoche diverse, ma disposti come a comporre
un’armonica quinta: tra gli altri il palazzo detto Reale, fatto costruire
dal granduca Francesco I verso la fine del Cinquecento, e, arretrato
un po’ verso l’interno, il Palazzo della Sapienza, sede dell’università,
di fondazione quattrocentesca, ma più volte trasformato fino al
Novecento. Poi, superata la piazza Garibaldi, dove approda il Ponte
di Mezzo e da cui si diparte il già attraversato Borgo di Mezzo, sul
successivo Lungarno Mediceo si affacciano altri nobili palazzi, tra cui
il cinquecentesco Palazzo Toscanelli (già Lanfranchi), sede
dell’Archivio di Stato, dove Byron soggiornò tra il 1821 e il 1822,
lavorando al suo Don Juan, e il secentesco Palazzo Roncioni, dove
nel 1795 Alfieri fu invitato a recitare il Saul e dove nel 1816
soggiornò Madame de Staël: qui era nata l’Isabella Roncioni che
Ugo Foscolo incontrò a Firenze nel 1801, avendone una delusione
amorosa che lascia traccia nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.
Bocca d’Arno

e faccian siepe ad Arno in su la foce,


sì ch’elli annieghi in te ogne persona!
(Inf., XXXIII 83-84)

Su piazza Mazzini ritrovo l’automobile: esco dalla città cercando di


tenermi più vicino possibile alla riva sinistra dell’Arno, procedendo
verso la sua foce, quella che nella maledizione dantesca dovrebbe
essere chiusa dalle isole Capraia e Gorgona per far esondare il
fiume e annegare tutti i pisani. La strada per Marina di Pisa non
sempre si tiene immediatamente a fianco del fiume: ma tra
magazzini, garage, depositi e officine di riparazione di barche,
giunge comunque in breve alla Bocca d’Arno, sontuosamente
cantata da D’Annunzio in Alcyone, in liriche come La tenzone e,
appunto, Bocca d’Arno.
Naturalmente non c’è nulla che possa un po’ reduplicare
quell’effetto trionfale, quella intenzione di splendore estetico
attribuito dall’“imaginifico” al paesaggio: né aiuta in tal senso l’ora
crepuscolare, che sembrare immergere il fiume in una sonnolenta
attesa, come rallentando il suo ingresso nel mare. Il tempo sembra
bloccato nei movimenti delle persone che sostano sulla riva, su una
piattaforma di cemento su cui sono disposti gabbiotti, garitte,
macchine e attrezzi di pesca e più oltre una sorta di bunker militare
riadattato a magazzino. Dalla piattaforma si diparte una piccola
pedana / pontile in legno, piantata su palafitte, che avanza per pochi
metri; al limite estremo della pedana una sedia di plastica, una borsa
frigorifero e l’asta di una lenza fissata tra le commessure del legno e
gettata sul fiume: un uomo a torso nudo e una donna in piedi
aspettano forse che qualche pesce abbocchi. Una grassa signora
con un giallo cappello di paglia a larghe tese è seduta su un masso
al limite dell’acqua reggendo una lunga lenza. Più in là c’è un tipo in
canottiera che guarda il fiume; accanto a lui una donna quasi
totalmente coperta da un asciugamano; un altro uomo più anziano
discute animatamente con il cellulare. Un po’ arretrato rispetto alla
piattaforma di cemento c’è un bar: tra questo e la strada, sotto un
platano accanto a due auto parcheggiate, c’è un gruppo di anziani,
mezza dozzina e più, seduti in circolo su sedie di plastica, che
sembrano in conversazione, tra battute che dai loro volti appaiono
scherzose o giocosamente esagerate.
Dalla parte del fiume, proprio dove si confonde con il mare, c’è una
striscia di massi emergente, su cui sono appoggiate due palafitte,
con dei casotti e griglie di fili che sostengono reti sospese; più oltre
si vedono altri simili trabiccoli con le loro reti:

Sono le reti pensili. Talune


pendon come bilance dalle antenne
cui sostengono i ponti alti e protesi
ove l’uom veglia a volgere la fune…

Così le cantava D’Annunzio in Bocca d’Arno, assomigliandole a


“grandi calici” sorgenti dalle acque, nel trionfo dell’ora solare. Ma ora
il sole che cala sul mare è coperto da un fronte di nuvole leggere,
che lascia strani riflessi sulle acque, sui trabiccoli e sulle reti, sullo
sparso ammasso delle cose e delle persone attestate sulla riva.
Sull’altra riva è attraccata una piccola barca bianca; poco oltre si
leva, protetto da reti metalliche, un hangar su cui svetta una torretta
cilindrica che pare d’acciaio. Oltre la riva e poi lungo la spiaggia
marina che volge verso nord si disegna il verde fitto della pineta di
San Rossore, e poi il profilo del monte Pisano, a cui segue quello
delle Alpi Apuane e poi di parte della costa ligure che piega verso
nord-ovest e da qui appare più bassa. Nello specchio tra una riva e
l’altra, nello scambio tra il paesaggio e il modesto affaccendarsi delle
persone che si muovono qui intorno si attutisce il ricordo della
dannunziana Tenzone, si cancella il turgore panico di quei versi, il
sovraccarico ardore della musa alcionia:

O Marina di Pisa, quando folgora


il solleone!
Le lodolette cantan su le pratora
di San Rossore
e le cicale cantano su i platani
d’Arno a tenzone.

Ecco poi, subito, il porto di Marina di Pisa, pieno di barche


ormeggiate in ben ordinate file. Oltre il porto, una strada costeggia la
riva del mare, su uno specchio d’acqua limitato da un fronte di
massi: di qui, nell’azzurra lontananza, scorgo finalmente la Gorgona.
Poi sulla litoranea che scende verso Livorno si succedono
stabilimenti balneari, fino al momento in cui essa lascia la riva,
costeggiando a destra l’oasi pisana del World Wildlife Fund e a
sinistra ville e villette, toccando poi Tirrenia e Calambrone, dove si
affaccia una successione di vasti edifici, soprattutto di epoca
fascista. Questi edifici, ora contornati da più recenti e modesti
agglomerati, si levavano quasi isolati nella pineta del Tombolo, che
oggi in parte resiste nella zona più interna, assegnata al Parco
Regionale Migliarino-San Rossore-Massaciuccoli: si trattava perlopiù
di colonie marine, colonie elioterapiche, come venivano allora
chiamate, ormai dismesse o destinate a nuove istituzioni o a evoluti
impianti turistici. Sorte per iniziativa fascista, collegate a ministeri o
enti statali o assistenziali, sono state in funzione anche nel
dopoguerra e dismesse definitivamente solo negli anni settanta.
Anche a me, figlio di ferroviere, è capitato di soggiornarvi quasi per
un mese, nel 1953: ma certo non sono in grado di riconoscere il
luogo, né di ritrovare l’edificio della colonia delle Ferrovie dello Stato.
Mi vedo davanti solo l’immagine della folta pineta di allora,
dell’ordine quasi militare con cui noi bambini eravamo irreggimentati,
sotto il controllo di arcigne sorveglianti o maestre, con alzabandiera
mattutina, posteggio in spiaggia all’ombra sotto un graticciato, tempo
misurato per l’esposizione al sole e soprattutto per il bagno
(nell’acqua si entrava e si doveva uscire al suono di fischietti gestiti
dalla maestra o dal bagnino), nessun corso di nuoto o altro,
limitatissimi giochi di squadra, passeggiate pomeridiane in file
rigorosamente ordinate, lunghe attese inquadrati come plotoni di
soldati, camerate notturne con minacce di punizioni per chi provasse
a muoversi dal letto…
Per me, anche a ricordarlo, fu uno degli squarci più spiacevoli
dell’infanzia, occasione di depressione più che di elioterapia, quanto
diverso dalle festose gite al mare in treno con i genitori dalla città alle
spiagge vicine, Ostia, Anzio, Ladispoli. Eppure non manca un po’ di
nostalgia nell’attraversare rapidamente questa strada, questo luogo
di un mese di piccola vita, soltanto con la sensazione che non sia più
verde e fitto di pini come era allora.
Oltre Calambrone e le ex colonie, si incontra il ramo finale del
canale dei Navicelli, che, giungendo da Pisa e convogliando qui vari
canali che dall’Arno conducono verso il mare, immette nella città di
Livorno, nel suo grande porto, che tra fine Cinquecento e primo
Seicento, decaduto ormai quello di Pisa, i Medici vollero come porto
principale del loro granducato: trasformarono così in città il piccolo
borgo che qui era insediato, di cui ai tempi di Dante si erano
impossessati i genovesi dopo aver sconfitto nel 1284 Pisa alla
Meloria (poi nel 1421 i genovesi l’avevano venduto alla repubblica di
Firenze).
Capraia e Gorgona

muovasi la Capraia e la Gorgona…


(Inf., XXXIII 82)

Dal porto di Livorno, nel primo mattino del 4 settembre, in un clima


ancora incerto, con brevi squarci di pioggia leggera e rapide
schiarite, prendo una motonave per la Capraia. La nave si allontana
dal porto procedendo nel mare tranquillo, mentre ben presto si
diradano le poche nuvole: bene in vista già dal porto è la Gorgona,
mentre una certa foschia non rende ancora possibile la visione della
Capraia, che comincerà ad apparire solo più tardi. Intanto si scorge
appena sulla destra, piccola escrescenza sulla distesa marina, la
torre della Meloria, costruita già dai pisani per segnalare una zona di
secche, che fu teatro della loro celebre sconfitta del 1284: fu
abbattuta dai genovesi e poi ricostruita due volte dai Medici, fino alla
persistente forma settecentesca.
Dal ponte guardo insistentemente la Gorgona, che si avvicina,
anche se la nave non punta su di essa, ma sulla Capraia che appare
più a sud e verso cui è rivolta la prua. La Gorgona, più verde e più
selvaggia, non è direttamente visitabile: sono ben poche le corse
che la toccano e per approdarvi è necessario un permesso speciale,
per visite di gruppo, dato che lì c’è tuttora un penitenziario, l’unica
colonia penale agricola ancora attiva in Europa, istituita nel 1869
(ma l’isola era abitata già nell’antichità).
Dopo più di tre ore di navigazione si tocca infine il corpo montuoso
della Capraia: mentre ci avviciniamo si vede bene, oltre di esso, alla
sua sinistra, la lunga striscia di terra del Nord della Corsica, qui
molto più vicina della terraferma italiana. Il porto è dentro una baia
ben protetta sul versante orientale dell’isola: vi si affaccia un poggio
non molto alto, su cui è adagiato il piccolo borgo. Rimarrò qui
qualche giorno in breve vacanza, in un piccolo appartamento con
una finestra che si affaccia sul porto. Sulla piattaforma portuale si
affiancano case, negozi, locali diversi; davanti a essa sono attraccati
alcuni yacht con bandiere di diversi paesi, mentre sul fronte opposto
della baia si vede un piccolo stabilimento balneare, ai piedi del
poggio del borgo. Nell’isola non sono ammesse auto private, salvo
quelle dei residenti e quelle destinate ai servizi: un piccolo autobus
conduce dal porto al borgo, dove si può comunque salire a piedi con
una breve passeggiata. Il paese è dominato dalla fortezza di San
Giorgio, costruita dai genovesi, che hanno tenuto a lungo il possesso
dell’isola, dopo la vittoria della Meloria: le massicce mura della
fortezza inglobano ora un grosso edificio giallognolo, su cui svetta
quella che da lontano sembra una torre cilindrica monoblocco, ma è
in realtà una lunga cisterna.
Fino al 1986 anche la Capraia è stata colonia penale agricola:
molti residenti se ne erano andati dopo che il Regno d’Italia aveva
impiantato la colonia (1873), ma poi la chiusura del penitenziario ha
costretto la popolazione rimasta a convertire la propria attività in
funzione del turismo, che qui è un turismo d’élite, richiamato
dall’appartata bellezza dell’orizzonte marino, lontano dai rumori della
massa come dall’artificio e dalle esibizioni del lusso. Ora il comune
ha il nome ufficiale di Capraia Isola, che così si distingue da quello di
Capraia e Limite, che è sulla riva destra dell’Arno, a valle di Firenze.
Nel silenzioso e civilissimo borgo ci sono piccoli e semplici locali:
dolcemente ci si muove tra le stradine in salita. Sulla piazza centrale
prospetta la semplice chiesa settecentesca di San Nicola, con una
piccola statua del santo in una nicchia sopra la porta centrale. Una
casa della strada che sale sotto la fortezza reca una lapide che
ricorda il soggiorno in una settimana del 1856 del patriota e scrittore
livornese Francesco Domenico Guerrazzi, profugo dalla Corsica.
Se si procede oltre la fortezza si trova un’ampia spianata, su cui è
stato costruito un eliporto; poi, salendo ancora leggermente, si trova
un belvedere molto ben sistemato che si affaccia sul mare, sulla
costa che qui scende scoscesa tra pinastri e cespugli, ma che sia a
destra sia a sinistra è fatta di roccia a strapiombo. A sinistra si vede
il fronte della fortezza direttamente aperto sul mare, su un ripido
costone di roccia, quasi verticale fino all’acqua, mentre la torre
cisterna viene a districarsi da un tozzo torrione, che è come una
rocca inscritta dentro la fortezza. La costa sulla destra si svolge tra
picchi avanzati sul mare, colate di rocce biancastre e di viluppi
tufacei. All’orizzonte si scorgono, velati d’azzurro, i rilievi dell’isola
d’Elba e qualche tratto della costa toscana, tra Livorno e Piombino.
Scendendo invece dal paese verso la baia che si affaccia sul porto
si incontra la Torre del Porto, a due piani, con un ballatoio merlato,
costruita dai genovesi nel 1541: molto ben restaurata, ospita al suo
interno l’atelier di un artista che vive nell’isola, ma che si è fatto
conoscere anche fuori, Paolo Vasuino, che espone colorati collage,
proiezioni luminose estratte da diverse posture materiche, opere in
stili diversi, ma come avvolte da un alone marino. Dice che ha avuto
gratuitamente dal comune l’uso della torre: così la tiene viva mentre
la sua pittura, data la sua notorietà internazionale, fa opera di
promozione turistica per il comune. Nei pressi della torre c’è il
municipio, alloggiato in quella che un tempo era la casa del direttore
del carcere. Poco più in là, scendendo in direzione del faro che è
disposto all’ingresso della baia del porto, si trovano i resti malandati
del convento francescano di Sant’Antonio, messo in piedi nel
Seicento, poi divenuto sede della direzione, degli uffici, della
falegnameria del penitenziario. Ora tutte le mura del già convento
appaiono in totale abbandono, mentre la chiesa è fasciata dalle
armature del restauro in corso (che è stato poi concluso nel 2016).
Una sera andiamo, in seguito a necessaria prenotazione, in un
piccolo affollatissimo ristorante, sotto l’insegna Il Carabottino-
Ittiturismo, animato da una frizzante cordialità: nei pochi tavoli ci
sono alcune famiglie e solo un’altra coppia. Il menu è senza scelta,
precostituito e tutto meravigliosamente di pesce: piatto forte è un
formidabile scorfano (pesce molto presente nelle acque della zona),
che si offre nella sua rossa accidentata corazza e nel suo aspetto
sgraziato, a cui corrisponde una polpa deliziosamente soffice. Forse
per smentire l’accezione negativa e offensiva che nel linguaggio
“basso” viene dato al suo nome (specie se applicato a esseri umani),
qui non lo chiamano scorfano, ma cappone, termine forse un po’
meno offensivo.
In questa isola, ben diversamente da quelle invase da folle di
turisti (data la similarità del nome, non si può non pensare a Capri),
si ha davvero la sensazione di un’insularità radicale: si riesce ancora
a sentire di essere, almeno in parte, “altrove”, fuori dall’incessante
turbinoso movimento che agita il nostro essere nel mondo. Qui
sembra che, nonostante i pochi veicoli, nonostante il periodico
approdare della motonave e di qualche yacht, nonostante la
circolazione di barche e barchette, nonostante tutte le connessioni
con il mondo, il solo vero movimento venga a essere quello del
corpo: certo senza pensare alla maledizione dantesca e a quel
terribile auspicio di movimento dell’isola con la sua vicina verso la
foce dell’Arno.
Al movimento del corpo mi affido per percorrere l’interno dell’isola,
provando a raggiungere uno stagnone che si trova a sud-ovest, su
un fronte del monte Castello, la vetta centrale e più alta di Capraia,
che raggiunge 447 metri m. In una mattina chiarissima, di pieno sole
sotto il fresco soffio di un leggero maestrale, comincio a salire dalle
adiacenze del porto, accanto a una chiesetta di colore giallognolo,
per una strada inizialmente asfaltata, che conduce agli abbandonati
stabilimenti della colonia penale e ora a un agriturismo installato su
un pianoro. Nel salire si aprono continue visioni di luce, aperture
panoramiche sempre più vaste: sul versante est si seguono dall’alto
le rientranze della costa e tutto l’assetto del borgo, tra l’eliporto, la
fortezza, la Torre del Porto. Oltre la distesa marina, che il maestrale
fa un po’ biancheggiare, si staglia sempre più in evidenza l’isola
d’Elba, mentre solo in parte appare la fascia della terraferma.
Girando poi verso il lato nord, appaiono a un certo punto la Gorgona
e qualche traccia delle dentate Alpi Apuane.
Nel salire si trovano molto presto i primi edifici dell’articolatissima
struttura della colonia penale, disposti a vari livelli: il caseificio,
l’ovile, perfino una piccola cappella, balaustre, palizzate, scalette,
garitte, terrazze, finestre vuote o con frammenti di imposte
squarciate, a un certo punto il dorso di una rozza statua tutta
corrosa, esposta in pieno sole. Accanto all’agriturismo tre mucche
pezzate sono placidamente al pascolo. La strada, ora massicciata,
accanto a quella che doveva essere un’ampia stalla, si biforca in
direzioni diverse. Si incontrano spesso residui di attrezzi
abbandonati, oggetti metallici arrugginiti, tubi aggrovigliati, anche
una vasca scrostata. Il vento che diventa più forte fa sì che non si
avverta troppo la presa cocente del sole, da cui mi protegge un
cappello che a un certo punto vola via, finendo in un groviglio di rovi:
e riesco a ritrovarlo solo grazie all’aiuto di un gruppo di escursionisti
che stanno scendendo in basso.
Le coste del monte accolgono poggi più dolci e pianori che un
tempo dovevano essere coltivati; ma tra gli spazi brulli, tra
emergenze di roccia che traccia fantastici groppi, il verde appare più
acceso, brilla intenso sotto il sole, ospita dentro di sé colori diversi,
luminescenze, piegature, nodi, contrasti di foglie, di steli, di fronde, di
rami: mirto, lentisco erica; solo più in basso dei pini si levano ritti o
contorti. Non mancano strati di terreno coltivato, segni di recenti
ritorni agricoli dopo l’abbandono, filari di giovanissimi ulivi di recente
impianto. In fondo a un avvallamento luccica l’acqua di un invaso
metallico, incavato entro la roccia.
Nel salire dalla parte del monte Castello lascio la strada
massicciata per un sentiero su cui incontro una coppia di giovani che
mi dicono di aver invano cercato di raggiungere lo stagnone, avendo
trovato il sentiero interrotto. Ma procedo comunque tra boscaglia e
radure rocciose, fino a raggiungere una valletta aperta sul versante
ovest, con un ampio prato al cui limite c’è uno strapiombo che
scende sul mare: la vista si apre sulla Corsica, sul suo distendersi
lungo il mare, qui molto più vicina di quanto non sia dall’altra parte la
costa italiana. Nel salire poi sul ripido sentiero che porta verso la
cima del monte Castello trovo a mezza costa un fitto groviglio di
sterpi che del tutto lo cancellano: è l’intoppo di cui mi avevano
parlato i giovani incontrati poco prima, che mi costringe a tornare
indietro. Provo comunque un percorso in parte diverso, che mi fa
affacciare su dei terrazzamenti, frutto fra i tanti del lavoro dei
prigionieri di altri tempi, che qualcuno sta cominciando a coltivare di
nuovo, a portare fuori dallo stato di abbandono.
Così è rimasta sospesa la mia lunga camminata sul dorso della
Capraia, a cui fa da contrappeso, il giorno successivo, un giro
dell’isola in barca, con un ristretto gruppo guidato da un isolano che
gestisce una piccola agenzia marina. Il percorso parte dal porto
circumnavigando l’isola in senso orario, con un mare più tranquillo di
quello del giorno precedente: si ascoltano i racconti e le descrizioni
della guida, mentre l’attenzione si concentra sul brillio delle onde e
sulla variabile configurazione delle rocce, tra anfratti, grotte, colate,
picchi, guglie, strati e scivoli franosi, accecanti colori della scarna
vegetazione abbarbicata sui pendii. Un monotono e scabro
splendore, la ripetizione infinita di un paesaggio che presenta
conformazioni sempre diverse, ma che la mente non riesce a
catturare, con l’impossibilità di seguire quel variato atteggiarsi, quello
splendente ricombinarsi dell’uguale, dove non c’è uno scoglio,
un’insenatura, una cavità, uno spunzone che sia uguale a un altro,
senza che si possa riuscire a esprimerne la differenza. La guida
conosce la storia di frane che hanno modificato l’assetto, di azioni
della furia marina: e dà nomi alle baie, alle guglie, alle grotte. Dopo
aver scorto, in piedi tra la roccia, un escursionista chissà come
giunto lassù, tocchiamo la punta meridionale, accanto alla Cala
rossa, detta così per una distesa di erica che scende fino a mare: in
cima alla roccia appare uno scuro torrione, detto di Zenòbito, perché
da quelle parti era un antico cenobio. E del resto alla presenza di
monaci alla Capraia (come anche alla Gorgona) accenna Rutilio
Namaziano nel già ricordato poemetto De reditu (vedi p. 876),
osservando le isole mentre naviga lungo la costa tirrenica e
polemizzando, probabilmente da un punto di vista pagano, contro la
vita monastica: la Capraia “squalet lucifugis insula plena viris”, “isola
in squallore piena di uomini che fuggono la luce” (v. 440); mentre la
Gorgona non vuole nemmeno guardarla, perché gli ricorda la
recente sventura di un giovane di illustre famiglia che “impulsus furiis
homines terrasque reliquit / et turpem latebram credulus exul agit”,
“spinto dalle furie ha lasciato uomini e terre e, credulo esule, pratica
un turpe nascondiglio” (vv. 521-522), pretendendo di nutrirsi delle
cose del cielo.
Quando, sul versante occidentale dell’isola, si apre la visione della
Corsica, la barca ha modo di passare sotto un arco naturale e di
entrare in una grotta che incanta con i suoi riflessi verdi e azzurri: nei
suoi paraggi non si può sfuggire a un rapido tuffo per un breve
bagno. Quasi ormai al ritorno, sul versante nord-est sfioriamo dei
grossi cerchi galleggianti sull’acqua, che proteggono allevamenti
ittici. E si rientra con il compiacimento di aver visto la Capraia da
vicino, non più come quel miraggio che si affaccia in lontananza nei
versi di D’Annunzio e di Montale. In Meriggio, in Alcyone, la Capraia
sfuma nell’aria, insieme alla Gorgona:

lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona,

In Casa sul mare, negli Ossi di seppia, essa sembra cancellarsi


migrando nell’aria insieme alla vicina Corsica:

Nulla disvela se non pigri fumi


la marina che tramano di conche.
i soffi leni: ed è raro che appaia
nella bonaccia muta
tra l’isole dell’aria migrabonde
la Corsica dorsuta o la Capraia.
Nordovest
Partendo da Torino

Per percorrere il versante nordoccidentale dell’Italia, tra Piemonte,


Lombardia e Liguria, prendo avvio da Torino, dove partecipo a uno
dei convegni occasionati dal centenario dantesco del 2015. Il
convegno è dedicato a un tema molto particolare, quello sulla
presenza di Dante nella tradizione musicale: con un titolo
volutamente allusivo AnDante, esso è inserito entro il festival
musicale che si svolge ogni anno in settembre, fra Torino e Milano,
con sigla che collega le due città, MITO (e tra Torino e Milano sono
ripartite le sedute del convegno). Il 10 settembre intervengo alla
prima giornata torinese, per intraprendere poi il percorso dantesco,
che, in poco più di una settimana, approderà proprio a Milano. Parlo
delle Eroine dantesche, partendo dal rilevare, cosa che poco viene
notata, che le presenze femminili assumono quasi un rilievo
inaugurale in ciascuna delle cantiche. Le parole di Francesca da
Rimini sono le prime che un dannato rivolge a Dante, e
parallelamente Piccarda Donati è la prima, tra tutti i beati, a
manifestarsi nel Paradiso, nel cielo della Luna. E se Pia dei Tolomei
non è certo la prima a parlare con Dante nell’Antipurgatorio –
preceduta da Manfredi, da Jacopo del Cassero, da Buonconte da
Montefeltro – i suoi pochi versi, che concludono il canto V del
Purgatorio, si fissano come un augurio e suggello liminare, con il loro
delicato invito a ricordarsi di lei, ma solo quando il poeta sarà alla
fine del viaggio, “tornato al mondo/ e riposato de la lunga via”.
Nella storia del teatro e del melodramma, e perfino
nell’immaginario popolare, Francesca e Pia hanno una grande
presenza, mentre più ridotta ma non del tutto assente è quella di
Piccarda (a cui è dedicata anche una sorprendente opera
contemporanea in un atto, libretto e musica di Mauro Perissinotto,
data in prima assoluta al Conservatorio Benedetto Marcello di
Venezia l’8 giugno 2012). Una metafora musicale accompagna la
Piccarda dantesca, che si dilegua col dileguarsi del suo canto, in una
suggestiva identificazione tra dissolvenza acustica e dissolvenza
visiva:

Così parlommi, e poi cominciò ‘Ave,


Maria’ cantando, e cantando vanio
come per acqua cupa cosa grave.
(Par., III 121-123)

Nel poema Francesca e Pia non intonano canti: ma nel corso del
tempo le loro così diverse figure femminili hanno suscitato varie
versioni operistiche, le cui risultanze maggiori si trovano nella Pia de’
Tolomei di Cammarano / Donizetti e nella Francesca da Rimini di
D’Annunzio / Zandonai. Ma tante sono le presenze e le intonazioni
musicali che vengono toccate nel convegno: su cui aleggia la
suggestione delle voci e delle musiche intonate nella Commedia.
Ecco la voce di Casella che, su richiesta di Dante, intona Amor che
ne la mente mi ragiona, catturando con la dolcezza del canto anche
le anime appena giunte sul lido del Purgatorio, rimproverate poi dal
severo Catone per questa che appare come una negligenza di fronte
all’urgenza della purificazione (Purgatorio, II 106-123). Ecco i tripudi
musicali che insistentemente risuonano nel Paradiso, in un continuo
inafferrabile crescendo di intensità, che eccede la capacità percettiva
del pellegrino, come nel canto degli spiriti militanti che percorrono la
croce luminosa del cielo di Marte (e la similitudine si riferisce qui a
una reale esperienza musicale):

E come giga e arpa, in tempra tesa


di molte corde, fa dolce tintinno
a tal da cui la nota non è intesa,

così da’ lumi che lì m’apparinno


s’accogliea per la croce una melode
che mi rapiva, sanza intender l’inno.
(Par., XIV 118-123)

Quanto a Torino, non viene mai menzionata nella Commedia, anche


se più volte è nominato il grande fiume che la lambisce e la percorre.
Un cenno a Torino è solo nel De vulgari eloquentia, I XV, 7, insieme a
Trento e alla più prossima Alessandria, come città vicine ai confini
d’Italia (“civitates metis Ytalie… propinquas”), che restano lontane
dal volgare illustre per effetto della commistione con volgari diversi
(“propter aliorum commixtionem”); il che, per le città piemontesi,
dovrebbe intendersi come riferimento alla stretta interferenza con
forme francoprovenzali. Questa interferenza è durata a lungo, con
tante tracce nei dialetti piemontesi: e nella sua lunga storia di
capitale del ducato di Savoia e del regno di Sardegna, Torino ha
sempre mantenuto una proiezione sull’orizzonte alpino e appunto
sulla Savoia, la regione integralmente francoprovenzale da cui ha
avuto origine e nome la dinastia che ha realizzato l’unità d’Italia e
che, proprio nel suo volersi integralmente italiana, ha rinunciato
proprio ai suoi territori di oltralpe, Nizza e Savoia, ceduti alla Francia
di Napoleone III come compenso per la vittoriosa alleanza nella
seconda guerra d’indipendenza. Ed è vero che qualche tocco
“francese” resta sempre nella struttura e nel carattere urbano di
Torino, a cui del resto uno dei suoi grandi poeti moderni, Guido
Gozzano, riconosce, in una poesia intitolata proprio al nome della
città, la persistenza “d’un tal garbo parigino”.
Più di una volta nelle tappe di questo viaggio ho toccato il Po,
scortato dai versi di Dante; e nei prossimi giorni cercherò di risalire
fino alle sue sorgenti, seguendo il cenno di Paradiso, VI, 51. Ma ora,
nel mattino, prima di recarmi al convegno, percorro la via Po, sotto
quei portici la cui perfetta misura è come abitata da qualcosa di un
po’ vecchiotto, come un impalpabile residuo di altri tempi: dalla
piazza Castello, tagliando come una spada obliqua la squadrata
disposizione ortogonale delle strade del centro della città, questa
strada tardobarocca, di un barocco equilibrato e razionale, conduce
al fiume, sboccando sulla grande distesa della ottocentesca piazza
Vittorio Veneto (inaugurata nel 1825 come piazza Vittorio Emanuele
I). L’apertura della piazza è come scandita e compartita dalla
successione dei portici, che continuano quelli di via Po, e dalle
sezioni diverse in cui è diviso il suo suolo: gli spazi percorribili dalle
auto; quelli riservati a diversi bar, che dispongono i loro tavoli con
sedie e ombrelloni (questi, nella ancor umida mattina settembrina,
sono tutti chiusi); gli spazi di ordinatissimi parcheggi, delimitati da
ringhiere. Da un lato della piazza si vede svettare, dietro gli abbaini
degli edifici porticati, la guglia della Mole Antonelliana. Oltre il fiume,
varcato dal Ponte Vittorio Emanuele I, si innalza la collina, come
introdotta e limitata dalla mole rotonda della chiesa neoclassica della
Gran Madre di Dio, innalzata a ricordo del ritorno di Vittorio
Emanuele I dopo la caduta di Napoleone (20 maggio 1814) e
inaugurata da suo figlio Carlo Alberto nel 1831.
Percorsa la piazza, sosto sul ponte, sulle cui spallette, all’altezza
dei grossi pilastri che sorreggono le arcate, sventolano le bandiere
che celebrano TORINO 2015, capitale europea dello sport. A dar
sostanza a questo titolo, c’è ogni tanto qualcuno che corre in
abbigliamento adeguato, impegnato nel salutare jogging, pur tra il
traffico regolare ma intenso: e si fa notare una bellissima ragazza
bruna in tuta nera, con al braccio l’opportuno bracciale tecnologico,
misuratore di pressione, battiti, passi compiuti, velocità di
percorrenza ecc. Il fiume scorre qui verso nordovest: dal parapetto
che si affaccia a valle si vede una sorta di breve scarpata artificiale,
di cui l’acqua sfiora appena la superficie; dal parapetto che si
affaccia a monte si vede bene, sulla destra (ma si tratta della riva
sinistra del fiume), all’altezza di un altro ponte, la folta vegetazione
del Parco del Valentino. Alzando lo sguardo dall’altra parte, verso la
sponda destra del fiume, si scorge a destra il monte dei Cappuccini,
su cui svetta il ben squadrato tiburio della chiesa di Santa Maria al
Monte. Rivolgendo l’occhio verso sinistra, al di là del corpo della
Gran Madre, oltre il colle alle sue spalle, si disegna il rilievo di un
ulteriore colle, oltre cui emerge, velata da un incerto strato nebbioso,
la cupola della basilica di Superga, con i due esili campanili che la
affiancano. Basilica questa che, nella seconda metà del Novecento è
stata ben nota agli italiani, non per la sua qualità di capolavoro di
Filippo Juvarra – innalzato per voto del duca Vittorio Amedeo II in
seguito alla vittoria sui francesi nel 1706, nella guerra di successione
spagnola – ma per il disastro del 4 maggio 1949, quando un aereo
che trasportava la squadra del grande Torino, di ritorno da una
partita vinta in Portogallo, andò a cozzare sulla collina, lì accanto. Il
grande Torino, dai cui giocatori era quasi completamente formata la
nazionale italiana di calcio, fu così cancellato, segnato
irreparabilmente dalla sciagura: la memoria ne rimase a lungo incisa
in quella coscienza diffusa che negli eventi dello sport e intorno allo
sport proietta ragioni, conflitti, drammi dell’essere nel mondo.
L’orizzonte sportivo ha del resto un grande rilievo per la Torino del
Novecento, anche per il rapporto tra la FIAT e la squadra di calcio
plurivincitrice, la Juventus: con tanti scrittori appassionati di calcio,
che hanno toccato più volte il calcio nelle loro opere, da Mario
Soldati a Giovanni Arpino (nato a Pola, quest’ultimo, ma poi torinese
d’adozione e d’elezione). Qui davanti allo scorrere lento del Po,
pensando a certe pagine de La bella estate di Cesare Pavese, si
affacciano comunque tante altre suggestioni letterarie: al di là del
grande rilievo che Torino ha avuto nell’Ottocento risorgimentale, si
impone soprattutto il ricordo della letteratura e cultura del
Novecento, di cui la città è stata uno dei centri più vitali, sulla via di
una ragione problematica, tra progettazione politica, rigore dello
stile, intrecci internazionali. Eccezionale fervore, tra l’università, i
partiti politici, la casa editrice Einaudi, il vivacissimo ambiente
ebraico; Torino comunista e Torino liberale, Torino azionista, Gramsci
e Gobetti, Luigi Einaudi e Giulio Einaudi, Carlo Levi e Primo Levi…
Tanti sono i nomi e le situazioni che fanno di Torino un emblema
centrale della modernità letteraria italiana. Qui comunque sono
passati anche tanti importanti studiosi di Dante, dal maestro le cui
lezioni affascinavano Gramsci, Umberto Cosmo, all’autore del
commento di maggiore successo nel secolo scorso, Natalino
Sapegno, senza contare tanti altri storici e critici che hanno avuto
modo di occuparsi di Dante, da Carlo Dionisotti a Angelo Jacomuzzi,
a Edoardo Sanguineti a Marziano Guglielminetti a Giorgio Bàrberi
Squarotti.
Dopo il convegno del 10 settembre, mi appresto comunque, la
mattina dell’11, a lasciare la città che nella poesia sopra ricordata
Guido Gozzano dice “favorevole ai piaceri”. Nell’agenzia di noleggio
dove ritiro un’auto già prenotata, trovo un addetto che, quando vede
il mio nome, mi chiede se sono l’autore del manuale su cui ha
studiato letteratura italiana all’Università di Torino. Mi parla dei suoi
studi e della sua passione di lettore: laureato in lettere, in questi
tempi grami non ha trovato lavoro migliore che questo nell’agenzia di
noleggio. Risolve la mia pratica con grande gentilezza e
sollecitudine: e lo ringrazio quasi con un senso di colpa, per questa
sfasatura che ha dovuto subire, per questa divaricazione oggi
sempre più frequente tra gli studi umanistici e il mercato del lavoro,
per il perdersi, spesso nel nulla, dei nostri curricula accademici.
Devo raccogliere i bagagli lasciati in albergo per piazzarli nell’auto
appena noleggiata: ma posso parcheggiare solo molto lontano, dato
che l’albergo si trova in zona interdetta alle auto non autorizzate.
Trascinando i bagagli dall’albergo all’auto trovo qualche intoppo nel
districarmi tra i viali del giardino che è al centro della vasta piazza
Solferino, salutando il bronzeo monumento a Ferdinando di Savoia
duca di Genova: questi, fiero con il suo cappello e con il pizzetto
lungo e acuto, impugna con la destra la spada sguainata, nell’atto di
scendere dal cavallo ferito, che ha le zampe anteriori piegate e il
collo e il muso levati a sinistra in un sofferente nitrito. È una scena
della battaglia di Novara, quella del 23 marzo 1849, che segnò la
sconfitta di Carlo Alberto (Ferdinando era uno dei suoi figli) e la
sfortunata fine della prima guerra d’indipendenza: e non è un caso
se questa scena di eroica resistenza nella sconfitta del ’49 si trovi su
una piazza che ha il nome della vittoria dei francesi alleati ai
piemontesi contro gli austriaci (24 giugno 1859), uno degli esiti
determinanti della seconda guerra d’indipendenza.
Tanti sono comunque i cavalli e i cavalieri che campeggiano sulle
piazze di Torino: la città è disseminata di principi e generali
savoiardi, disposti in varie pose equestri di lotta o di trionfo, su
cavalli avanzanti o su cavalli stramazzanti. Nella Torino di oggi, che,
ormai tanto lontana dal passato militare e savoiardo, ma anche dal
modello industriale che vi ha dominato in gran parte del Novecento,
sembra puntare di più sul turismo, sui servizi, sulla cultura, questi
cavalieri con i loro cavalli costituiscono delle presenze fantastiche:
sembrano usciti da romanzi eroicomici, piazzati lì a sfidare nemici
inesistenti, con le spade vanamente sguainate contro l’evanescente
impero della virtualità.
Da Alessandria al Monferrato

Quel che più basso tra costor s’atterra,


guardando in suso, è Guiglielmo marchese,
per cui e Alessandria e la sua guerra

fa pianger Monferrato e Canavese.


(Purg., VII 133-136)

Dopo un rapido percorso in autostrada giungo ad Alessandria


attraversando il fiume Tanaro, che poi a nordest della città raccoglie
le acque del Bormida. Fondata nella seconda metà del XII secolo
dalla Lega Lombarda in lotta contro Federico Barbarossa e contro il
marchesato degli Aleramici (dinastia feudale discendente da un
Aleramo che ebbe il titolo marchionale verso la fine del X secolo),
chiamata Alessandria in onore del papa Alessandro III, verso la fine
del XIII secolo la città si trovò in mezzo alla guerra che Savoia e
Visconti mossero contro il marchese Guglielmo VII di Monferrato,
che da poco si era di essa impadronito. Nel 1290 una improvvisa
ribellione della città colse il marchese di sorpresa, mentre vi si era
recato per raccogliere rinforzi: fu fatto prigioniero e rinchiuso in una
gabbia di ferro, fino alla morte avvenuta nel 1292.
Il passo del Purgatorio in cui Sordello indica a Dante la presenza
di Guigliemo marchese, nel balzo che sovrasta la valletta dei principi
negligenti, sottolinea che egli si trova più in basso rispetto a sovrani
di più alto rango precedentemente elencati: e allude ai lutti causati
nei vicini territori del Monferrato e del Canavese dalla guerra
condotta per vendetta contro Alessandria da suo figlio Giovanni, che
era ancora in piena attività nel 1300, ma che sarebbe morto senza
eredi in giovane età nel 1305. Dante lo aveva nominato nel De
vulgari eloquentia, I XII 5, tra gli indegni principi italiani, che fanno
risuonare strumenti di guerra e ignorano il valore della cultura.
La città (per cui era molto corrente la forma Alessandra,
testimoniata anche da manoscritti della Commedia, e il cui territorio
veniva considerato parte dell’ampia regione della Lombardia) aveva
del resto un essenziale rilievo strategico nelle contese tra i diversi
potentati feudali che si contendevano la parte occidentale della Val
Padana; e Dante aveva fatto a essa riferimento (De vulgari
eloquentia, I XV 7), come già ho notato (vedi pp. 653 e 907), insieme
a Trento e a Torino, per indicare zone ai confini d’Italia lontane dal
volgare illustre.
Mi fermo sulla piazza centrale della città, la piazza della Libertà,
che in origine costituiva la Platea maior, in cui era collocata la
cattedrale romanica di San Pietro, abbattuta per volere di Napoleone
nel 1803, proprio per fare di questo luogo una vera e propria piazza
d’armi. Dalla guerra del XIII secolo all’unità d’Italia Alessandria ha
subito tutto una serie di passaggi di potere: entrata nel XIV sotto il
dominio dei Visconti, ha seguito nel Cinquecento il passaggio del
ducato di Milano sotto il dominio spagnolo, mentre con il trattato di
Utrecht (1713) è passata ai Savoia, assumendo la sua definitiva
collocazione piemontese. Gli interventi datisi nel corso di queste
trasformazioni e ancora fino all’inizio del Novecento hanno
totalmente cancellato il suo volto medievale. Su questa Platea maior
è impiantato ora un grande parcheggio, che si avvolge intorno a un
bianco pilastro, in cima al quale una sorta di vassoio sorregge la
nera statua, con la destra alzata in muto concionare, di Urbano
Rattazzi (1808-1873), l’avvocato alessandrino che è stato politico di
lungo corso negli anni del Risorgimento e due volte primo ministro
nei nuovi governi unitari, tra duri scontri con le iniziative garibaldine.
Su uno dei lati della piazza prospetta il neoclassico Palazzo del
Municipio e su un altro lato il severo barocco piemontese del
Palazzo Ghilini, sede della prefettura. Scantonando appena dalla
grande piazza si trova subito la più piccola piazza Giovanni XXIII,
oblunga e raccolta, totalmente libera dalle auto, su cui si affaccia la
nuova cattedrale neoclassica, costruita in sostituzione di quella
demolita, al ritorno dei Savoia, subito dopo il crollo dell’impero
napoleonico. Di fronte alla cattedrale c’è il bel Palazzo settecentesco
Cuttica di Cassine, che è sede del conservatorio Vivaldi: e ora in
effetti si sente uscirne un indeterminato effluvio musicale. La
cattedrale ospita qualche frammentario resto di quella medievale:
ma quei tempi e la stessa origine di Alessandria sono evocati dalle
statue che ornano le ventiquattro nicchie alla base ottagonale della
cupola. Si tratta dei santi patroni delle città della Lega Lombarda,
che donarono queste statue nel 1876, per il settimo centenario della
vittoriosa battaglia di Legnano contro il Barbarossa.
Un diretto reperto romanico si trova però all’esterno, sul muro a
destra della cattedrale: è un altorilievo con delle figure molto corrose
sotto cui sono murati dei distici latini. Come spiega un cartello, si
tratta di un miracolo di San Francesco, compiuto in occasione del
suo passaggio in Alessandria nel 1210: ammansì una feroce lupa, al
punto che questa si lasciò cavalcare dai bambini che aveva rapito
per divorarli.
Non lontano da questo muro si erge, sul pavimento della piazza,
un blocco di pietra scura, su un fronte del quale è la figura di un
uomo accanto a una mucca, mentre sul fronte opposto c’è questa
scritta in lettere maiuscole: A GAGLIAUDO AULARI CHE CI HA INSEGNATO /
COME SI POSSA RISOLVERE UN CONFLITTO / SENZA UCCIDERE ALCUN ESSERE
UMANO / SE IL MONDO LO HA DIMENTICATO RICORDIAMOLO / NOI; segue la
firma di Umberto Eco. Lì per lì ho pensato che si trattasse di un
omaggio a qualche personaggio del Risorgimento o della
Resistenza, sottoscritto da Eco, il più illustre e celebre alessandrino
contemporaneo. Ma poi ho scoperto che si tratta di un personaggio
leggendario, un pastore che durante l’assedio del Barbarossa, nella
città stremata dalla fame, fece nutrire abbondantemente una mucca,
facendosi poi catturare con lei dagli assedianti. Questi uccisero la
mucca, rimanendo sorpresi per la quantità di cibo trovato nel suo
stomaco. Avvertito di ciò, l’imperatore interrogò il pastore, che gli
disse che in Alessandria c’erano ancora tantissimi viveri, che
avrebbero permesso una lunga resistenza all’assedio: tenendo conto
di questo il Barbarossa allora decise di toglierlo. Una leggenda
popolare, insomma, che Eco in realtà ha toccato nel suo romanzo
Baudolino (2000), dedicato proprio al Medioevo alessandrino: il poco
noto San Baudolino è in effetti il protettore della città, taumaturgo
vissuto in questi paraggi al tempo del re longobardo Liutprando (712-
744), secondo quanto riferisce Paolo Diacono nella Historia
Langobardorum. I fondatori di Alessandria portarono qui le reliquie
del santo: e sopra l’altare di una cappella della cattedrale c’è anche
un suo sarcofago, mentre in tempi molto recenti è stata anche
costruita, fuori del centro della città, una nuova chiesa a San
Baudolino dedicata. Strano effetto fa qui sul muro vicino una delle
solite scritte inconsulte, che suona ALEXANDRA TI AMO < 3 (sopra, in
altro colore, TUA MADRE); una ragazza o la città?
Il più affascinante lascito medievale persistente in Alessandria si
trova comunque a pochi passi dalla cattedrale, nelle vicine Sale
d’Arte, del sistema dei Musei Civici, in via Machiavelli. È un ciclo di
affreschi arturiani con scene tratte dal romanzo di Lancillotto:
quindici pezzi staccati dalla Torre sita all’interno di Cascina Torre nel
vicino borgo di Frugarolo. Furono commissionati da Andreino Trotti,
capitano delle milizie del borgo fortificato di Frugarolo, in memoria
della vittoria ottenuta nel 1391 a fianco di Gian Galeazzo Visconti
contro il francese conte d’Armagnac. Su una delle scene c’è anche,
in basso a destra, sullo sfondo di alberi stilizzati, il bacio di
Lancillotto e Ginevra:

Quando leggemmo il disïato riso


esser basciato da cotanto amante…
(Inf., V 133-134)

Lascio comunque Alessandria tra queste memorie arturiane,


toccando la scenografia ottocentesca dell’amplissima piazza
Garibaldi, porticata su tre lati; poi, attraversato di nuovo il Tanaro, mi
dirigo verso nord. Sono nel Monferrato basso, nel territorio tra il
Tanaro e il Po, prima della confluenza del primo nel fiume maggiore:
nel XIII secolo la denominazione di Monferrato si limitava a questo
territorio e solo successivamente essa è stata estesa ai territori a
sud del Tanaro, fino all’Appennino ligure (quello che oggi si designa
come Monferrato alto, che ha il suo centro maggiore nella città di
Acqui).
Qui si distendeva il marchesato di Monferrato, tenuto da uno dei
rami degli Aleramo; un altro ramo teneva in Piemonte il marchesato
di Saluzzo. Quella che attraverso è la zona che si trovò a piangere
per la guerra di Alessandria ricordata da Dante. Dopo la morte del
marchese Giovanni l’eredità del marchesato passò a Teodoro
Paleologo, figlio dell’imperatore bizantino Andronico II e di Violante
Aleramo, sorella di Giovanni, dando così origine alla nuova dinastia
monferrina dei Paleologi, estinta nel 1533, quando il Monferrato
passò ai Gonzaga di Mantova. Il legame degli Aleramo di Monferrato
con l’Oriente era sorto al tempo della cosiddetta quarta Crociata,
quando i feudatari occidentali conquistarono Costantinopoli (1204),
dando vita all’Impero latino d’Oriente: uno dei capi della Crociata era
Bonifacio I di Monferrato, che ebbe per breve tempo il regno di
Tessalonica (morì nel 1207 combattendo contro i bulgari), ma la cui
liberalità fu cantata da vari trovatori: e Dante lo cita nel Convivio, IV
XI 14, come “il buono marchese di Monferrato”, tra i principi di grande
liberalità di cui è viva la memoria.
Come cancellando il ricordo di quegli intricati passaggi feudali, il
paesaggio si distende ora in dolcissime colline, su alcune delle quali
sono assestati piccoli borghi, tra ordinatissimi vigneti, frutteti, orti
rigogliosi, piccoli boschi di acacie, lunghi filari di pioppi. Faccio una
piccola sosta a San Salvatore Monferrato, dominato da una torre
quadrata fatta costruire nel 1410 dal marchese Teodoro II Paleologo:
è una città in cui ferve una varia attività culturale, con una Biennale
Piemonte e Letteratura, fondata nel 1976 e varie iniziative collaterali,
tra cui ce n’è anche una dantesca, Dante sulle colline, che si svolge
attraverso lezioni-spettacolo sui testi del poeta. La disposizione
letteraria di San Salvatore mi viene incontro anche in un giardino /
boschetto a fianco della strada che costeggia il centro del paese:
esso è percorso da vialetti che sovrastano il pendio della collina, su
cui si levano vari cartelli che lo designano come PASSEGGIATA
LETTERARIA SIMONE DE BEAUVOIR e presentano tutta una serie di
citazioni sul valore dei libri, della lettura, della poesia, tratte da varie
scrittrici: letteratura tutta al femminile.
Casale Monferrato

ma non fia da Casal né d’Acquasparta,


là onde vegnon tali a la scrittura,
ch’uno la fugge e altro la coarta.
(Par., XII 124-126)

Le colline digradano verso la pianura man mano che ci sia avvicina


al Po, che bagna Casale Monferrato, la città che i Paleologi nel 1434
fecero capitale del Marchesato, e passò poi ai Gonzaga e dal 1713
ai Savoia. Nella quiete del meriggio lascio l’auto nella silenziosa
piazza San Francesco d’Assisi, che fa subito pensare al francescano
Ubertino da Casale, qui nato intorno al 1259, uno dei più impegnati
tra gli “spirituali”: nel Paradiso egli viene nominato da San
Bonaventura, che rivendica la fedeltà alla regola di San Francesco,
in opposizione a chi, come colui di Casale, la coarta, la forza in
chiave rigoristica, e chi, come il cardinale Matteo d’Acquasparta (si
veda p. 220), la tradisce alleggerendola. Nel 1305, molto prima che
Dante scrivesse questi versi, Ubertino aveva compiuto la sua opera
più importante, che forse Dante avrà conosciuto, l’Arbor vitae
crucifixae Jesu. La sua intransigenza diede luogo a vari conflitti con
il suo ordine e con la curia ecclesiastica, ma solo nel 1325 fu
accusato di eresia e dovette rifugiarsi presso l’imperatore Ludovico il
Bavaro (non si ha notizia della sua morte, avvenuta dopo il 1329).
Lasciata la piazza, mi dirigo verso l’ampio e massiccio Castello dei
Paleologi, circondato da un fossato e con le mura in parte coperte da
folta vegetazione. Nella antistante piazza Castello è in
smobilitazione un mercato: molte mercanzie sono già state
sistemate sui furgoni, c’è solo un banco di stoffe attorno a cui stanno
ancora armeggiando delle donne che cercano qualcosa. Più in là, a
ridosso del parapetto che si affaccia sul fossato, sono disposti i
coloratissimi padiglioni di giostre per grandi e piccini, divertimenti e
tiri a segno, stand per popcorn e zucchero filato, ma ora non c’è
quasi niente in azione. Oltre questo provvisorio parco di divertimenti,
ecco ancora una volta il Po, sulle cui sponde si può scendere
attraverso un giardino molto ben sistemato: c’è un sentiero su cui un
jogger disinvoltamente procede, c’è un viale in parte lastricato, c’è
una scala in cemento che scende a un piccolo imbarcadero, con una
passerella in doghe di legno e una piccola lancia attraccata. Qui
davanti sul corso del fiume si apre un ghiaioso isolotto. Sull’acqua
che scorre tra il verde e l’azzurro galleggiano dappertutto bianche
bolle schiumose, che segnano e deformano l’apparente silenziosa
amenità del luogo.
Davanti al castello, sul suo fronte nord, affacciata verso un
giardino, una statua con una figura femminile che impugna uno
scudo: è il monumento alla difesa di Casale del marzo 1849 contro
gli austriaci vincitori della battaglia di Novara.
Avanzando verso il centro della città, sfioro il luminoso edificio
tardosettecentesco del Teatro municipale e prendo la via Saffi, che
conduce alla centrale piazza Mazzini. Prima di arrivarci si apre una
piazzetta su cui si affacciano: un suggestivo palazzo in laterizi,
impiantato su quattro possenti colonne, il Palazzo Ricci, la chiesa
barocca di Santo Stefano, e la svettante Torre civica, di origine
medievale, ma ricostruita nell’assetto attuale nel primo Cinquecento.
Al centro della piazzetta c’è anche il monumento a un importante
casalese, l’architetto e archeologo Luigi Canina (1795-1856), che
operò con interventi di grande rilievo soprattutto a Roma. Un gruppo
di anziani turisti tedeschi affollano il bel bar ristorante Savoia: dove il
barista mi fa notare che Casale viene visitata frequentemente da
molti tedeschi in vacanza tra le Langhe e il Monferrato.
La piazza Mazzini è dominata dal monumento equestre a Carlo
Alberto, qui fissato, quando ancora regnava, in abbigliamento di
patrizio romano. In fondo a una strada che dà sulla piazza si scorge
già la facciata del Duomo, dedicato a sant’Evasio e risalente all’inizio
del XII secolo. Le forme del romanico lombardo si manifestano qui
con un effetto di colore dato dalla compartita alternanza tra la pietra
bianca e il rosso dei mattoni, che più s’impone e si oscura nei due
campanili-torricini laterali. Di grande e complessa varietà è la
struttura dell’interno, che molto ha risentito dei restauri ottocenteschi,
che comunque salvarono l’edificio, anche per l’impegno di Luigi
Canina, contro il proposito di Alessandro Antonelli (quello della Mole
torinese) di distruggerlo per un progetto totalmente nuovo: ora
comunque, specie nell’ampio e singolarissimo nartece, si può
pensare alle tante volte in cui l’avrà attraversato nei suoi primi anni
in patria il futuro mistico Ubertino.
Non mi pare si trovino, oltre il Duomo, altre dirette tracce di quei
tempi: in poco spazio il centro di Casale presenta comunque un fitto
intrecciarsi e riavvolgersi di stradine su cui sono disposti nobili
edifici, chiese e palazzi, che tutti riconducono a tempi successivi,
quelli dei Paleologi, dei Gonzaga e dei Savoia, in vario trascorrere
dal tardogotico al rinascimento al barocco al neoclassico, dalla
chiesa di San Domenico al Palazzo Sannazzaro ai due palazzi
Gozzani, quasi affrontati su due versanti della stessa strada.
Passo anche accanto alle modeste mura della Sinagoga, di cui
invece è di grande interesse l’interno, che custodisce un Museo di
arte e storia antica ebraica, ma che ora non è possibile visitare:
Casale ha avuto una importante comunità ebraica, ma solo a partire
dalla fine del Quattrocento, con l’arrivo di ebrei espulsi dalla Spagna.
Dopo aver vissuto con notevole libertà di movimento sotto i Paleologi
e sotto i Gonzaga, al passaggio sotto il Savoia gli ebrei di Casale
furono relegati nel ghetto, sistemato nel 1724, nella zona in cui
appunto si trova la sinagoga, a ridosso della piazza San Francesco.
Vercelli

…se mai torni a veder lo dolce piano


che da Vercelli a Marcabò dichina.
(Inf., XXVIII 74-75)

Ho già incontrato questo passo (vedi p. 378), con cui, nella bolgia
degli scismatici e seminatori di discordia, Pier da Medicina indica
sommariamente i limiti della Valle Padana: limite orientale Marcabò,
limite opposto Vercelli, che era uno dei centri più importanti della
parte occidentale della valle, in preda a violente lotte di fazione (poi
nel XIV secolo passò sotto il controllo dei Visconti, che nel 1427 la
cedettero ad Amedeo VIII di Savoia). Dante ricorda Vercelli anche in
un passo dell’Epistola VII VI 22, (già evocato a p. 709), in cui invita
l’imperatore a non indugiare a voler sottomettere Cremona, azione
che potrebbe suscitare la “rabies inopina” di altre città lombarde,
Brescia o Pavia, e poi anche Vercelli o Bergamo.
Da Casale raggiungo Vercelli costeggiando gialle distese di risaie.
Parcheggio agevolmente ai margini dell’ampio giardino (Parco John
Fitzgerald Kennedy) che prolunga la piazza Sant’Eusebio, di fronte
alla Cattedrale, dedicata al nome del santo vescovo che fondò la
diocesi nel IV secolo. La chiesa con un annesso cimitero costituiva il
limite nord della città medievale e nella grande piazza si svolgeva il
mercato settimanale. L’aspetto attuale della piazza e della
cattedrale, che presenta una levigatissima facciata neoclassica –
che venne a dare l’ultimo tocco a un edificio costruito e modificato in
varie fasi – è quanto di più lontano ci possa essere dal ricordo dei
tempi di Dante. Nel giardino al centro della piazza c’è un obelisco
sormontato da una stella metallica: su uno dei suoi lati un
medaglione con un volto di profilo sovrasta la dedica A CARLO ALBERTO
/ LARGITORE / DELLO STATUTO / PROMOTORE / SOLDATO E MARTIRE / DELL’UNITÀ
/ ED INDIPENDENZA / D’ITALIA; figure marmoree ne circondano la base.
Più in là, a fianco del Parco Kennedy, che si sviluppa sul corso De
Gasperi, sempre al limite del centro storico, si presenta la grande
basilica di Sant’Andrea, in una sua monumentale misura cistercense
contaminata con forme della tradizione romanica lombarda ed
emiliana: chiesa abbaziale costruita in breve tempo nei primi decenni
del XIII secolo per iniziativa del cardinale vercellese Guala Bicchieri.
Il corpo dell’abbazia sporge dal transetto sinistro della chiesa: questa
sembra svilupparsi in più direzioni, in un viluppo di edicole, di fastigi,
di scansioni ritmiche, di contrafforti e incastri murari. Sull’ampio
intrico si impone un alto e slanciato tiburio ottagonale, da cui svetta
una più stretta cuspide a due piani sempre ottagonale, che si svolge
in un tetto sormontato da colonnine. È come un bizzarro
elaboratissimo campanile centrale, che dialoga col campanile vero e
proprio, quadrato e più tozzo, che si trova sul fianco, all’altezza del
transetto destro, e sembra raccogliere la spinta dei due più esili
campanili-torricini che fiancheggiano la facciata. Si tratta di un
intreccio ben compartito, misurato dall’alternarsi e scambiarsi tra gli
ampi comparti di laterizio rossiccio e mattoni e quelli in bianca
muratura, con vario gioco di archetti di tipo pisano. Un diverso effetto
di distribuzione tra colori e materiali è dato dalla facciata, su cui
domina una pietra grigia, ma in cui si aprono i bianchi vuoti degli
archetti pensili e su cui svettano gli stretti campanili-torricini, che nei
tre piani superiori riproducono l’alternanza tra rosso e bianco del
resto della struttura. Mi lascio come incantare e indugio un po’ a
lungo su questo edificio poco visitato e troppo poco celebre. Sulla
lunetta che sormonta il portale centrale un rilievo di scuola
antelamica, risalente all’incirca al 1220, presenta il martirio di
sant’Andrea, fissato nell’atto in cui viene legato alla croce e prima
che questa venga rovesciata.
Il districarsi di corpi architettonici dell’esterno sembra d’altra parte
come raccogliersi e comprimersi nell’interno, con tre navate divise
da grandi pilastri in pietra grigia, che vengono a riavvolgersi e
abbracciarsi nelle volte ogivali. Originale appare anche la
disposizione interna del tiburio, che viene come a svolgere la sua
forma ottagonale dalla convergenza dei quattro archi delle volte della
navata, del presbiterio e dei due transetti. Sulle trombe dei quattro
angoli sono scolpiti i simboli degli evangelisti, sormontati da
fantastici ventagli dipinti, che danno una strana e illusoria
sensazione d’Oriente.
Sul fianco sinistro della chiesa, nell’ambiente dell’abbazia, ha ora
sede una parte del Dipartimento di studi umanistici dell’Università del
Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”, fondata nel 1998 (col nome
del grande chimico piemontese, che insegnò nel collegio di Vercelli).
Qui c’è un chiostro di grande semplicità, le cui arcate sono sorrette
da fasci di quattro colonnine: sul cielo del chiostro incombe ancora la
visione del corpo esterno della basilica, con ulteriori effetti dati dal
legame inestricabile, dal reciproco sorreggersi, incastrarsi e
svincolarsi delle forme architettoniche. Dal chiostro si accede alla
Sala capitolare, dove nel 1310 fu firmata una pace tra le fazioni
guelfa e ghibellina alla presenza dell’imperatore Enrico VII (e chissà
se era presente anche Dante!).
Davanti alla chiesa ci sono poi i vari corpi dell’ex Ospedale
Maggiore, la cui prima origine, come ospedale di Sant’Andrea, risale
agli stessi anni della basilica: ne conserva traccia un bel porticato
ogivale disposto sulla via Galileo Ferraris. All’ospedale apparteneva
anche l’ottocentesco Palazzo Tartara, anch’esso in uso al
Dipartimento universitario di cui si è detto, che fino a qualche anno
fa era denominato Facoltà di Lettere e Filosofia, come indica ancora
la targa apposta all’ingresso.
Da questo spazio al margine della vecchia città mi addentro nel
suo cuore, attraverso la via Galileo Ferraris, che mi conduce alla
centrale piazza Cavour, porticata in vari stili e con vari colori, in cui si
attestano alcuni bar, anche con tavoli disposti su pedane che
fuoriescono dai portici e invadono parte dello specchio della piazza,
tra loro in pacifica concorrenza. Nella tranquilla accidia del
pomeriggio mi sembra di riconoscere qui un segno della resistenza
delle piazze d’Italia, piazze non metafisiche, ma cariche di oggetti, di
marchi e di cose, pedane e ombrelloni, un gazebo, la bottega del
giornalaio, negozi di dolci e prodotti gastronomici, borse, scarpe,
stoffe e novità per uomo e per signora, con le loro insegne, qualcuna
dal gelido design postmoderno e plastificato, qualcun’altra di
ottocentesca cromatura, un po’ scrostata: Chiarodiluna, Il Girasole
pregiata dolceria, Armonie del gusto. Mi seggo a un tavolo disposto
su una nera pedana, accanto a un gruppo di giovani, uno dei quali
indossa una piccola casacca rosso scura, con l’insegna calcistica
della A.S. Roma. Mentre le bevande sono accompagnate da taglieri
con stuzzichini dall’aspetto barocco, Cavour sta lì, bianco nella
statua al centro della piazza, su un piedistallo su cui sono
appoggiate due allegoriche signore. Ha il braccio destro piegato e
sporto leggermente in avanti, con la mano aperta, che sembra
proporre qualcosa a questa piazza d’Italia; il braccio sinistro scende
lungo il fianco, con la mano che regge un cartiglio; dietro di lui,
sfiorati dall’orlo del soprabito, palandrana, spolverino, quattro grossi
libroni impilati sul piedistallo. Al di là dei palazzetti porticati, svetta tra
i tetti e oltre il biancore di un curioso terrazzino la scura Torre
dell’Angelo, risultato di un’elevazione ottocentesca con finestre e
merlatura su una più vecchia base tardogotica.
Faccio un giro per le strade del centro, toccando nobili palazzi su
cui sempre informano le apposite targhe. Singolare tra tutto è
l’aspetto della sinagoga, in uno stile moresco che si dispiega su un
tessuto a fasce di pietra bicolore, con merlature, cupole, cupolette,
edicole, portico, grande rosa centrale: costruita nel secondo
Ottocento, nel momento di massima fioritura della comunità ebraica
vercellese, la cui origine rimonta al XV secolo. Una lapide su un lato
aggettante della facciata elenca i nomi di trenta vittime della shoah.
Il mio percorso prosegue toccando l’ampio castello quadrangolare
costruito dai Visconti e poi variamente modificato dai Savoia, che ora
è sede del Palazzo di giustizia. Poi, dopo aver toccato le belle
facciate di due palazzi Avogadro, Avogadro di Quinto e Avogadro
della Motta (una lapide sulla facciata del secondo commemora
soggiorni di Napoleone Bonaparte nel 1800 e nel 1805), raggiungo
di nuovo la cattedrale dal lato del transetto destro e del possente
squadrato campanile, che risale alla seconda metà del XII secolo,
unica parte superstite della costruzione medievale. Entro ora
all’interno della chiesa, in cui con severa armonia si sovrappongono
stili diversi, con una dominante classico barocca. Qui c’è la cappella
del beato Amedeo IX di Savoia, morto a Vercelli nel 1472, tumulato
qui nel 1714, sotto il marmoreo scudo della famiglia. Appeso sotto la
cupola, allarga le braccia tra i riflessi della luce pomeridiana un
grande crocifisso in lamina d’argento in parte dorata, che dovrebbe
essere il segno più antico tra quelli incontrati qui a Vercelli. Risale
all’età ottoniana, al tempo dell’episcopato di Leone (999-1026):
oggetto di culto, considerato miracoloso, nel 1983 subì un atto
vandalico, in seguito al quale è stato sottoposto ad accurato
restauro.
Da Novara al monte Rubello

“Or di’ a fra Dolcin dunque che s’armi,


tu che forse vedra’ il sole in breve,
s’ello non vuol qui tosto seguitarmi,

sì di vivanda, che stretta di neve


non rechi la vittoria al Noarese,
ch’altrimenti acquistar non saria leve”.
(Inf., XXVIII 55-60)

Poco prima che Pier da Medicina nominasse Vercelli, un altro dei


dannati della bolgia dei seminatori di discordia, Maometto, aveva
fatto riferimento, a mo’ di profezia e di inutile messa in guardia, al
vittorioso assalto che il Noaerese, cioè il vescovo di Novara, avrebbe
fatto al gruppo dei fedeli di fra Dolcino, rifugiatisi sui monti delle
vicine Prealpi. Maometto (la cui presenza nell’inferno costituisce una
delle ragioni per cui oggi capita che in ambito islamico venga spesso
censurato ogni riferimento a Dante) invita il pellegrino ad avvertire
fra Dolcino di munirsi adeguatamente di viveri, in modo che il freddo
e la fame non diano al vescovo una vittoria, che altrimenti sarebbe
difficile ottenere.
Fra Dolcino, originario probabilmente del novarese, era a capo
della setta pauperistica degli Apostolici (il cui fondatore Gerardo
Segarelli era stato arso vivo a Parma nel 1300), che predicava una
definitiva rigenerazione della Chiesa, con l’avvento di un papa
angelico: nonostante persecuzioni e condanne, aveva raccolto un
folto gruppo di seguaci, rifugiandosi con essi nella Valsesia e sui
rilievi a ovest del fiume, e installandosi infine sul monte Rubello,
nella diocesi di Vercelli. Fu appunto il vescovo di Vercelli Rainerio
Avogadro a rivolgersi al papa Clemente V, che con tre bolle del
settembre 1306 indisse una vera e propria crociata, guidata da
vercellesi e novaresi e di cui fu a capo lo stesso vescovo di Vercelli,
che nel marzo 1307 diede l’assalto finale ai dolciniani.
Può darsi che l’accenno di Dante alla vittoria del Noarese sia
dovuto a un difetto di informazione o a un errore di memoria: ma si
può anche pensare che Noarese vada inteso come più generica
allusione alla comune partecipazione di novaresi e vercellesi a
quella crociata contro Dolcino. Comunque è proprio la vicenda di fra
Dolcino a condurmi a Novara, percorrendo i pochi chilometri che la
separano da Vercelli sulla ex statale 11.
La città si annuncia con la singolare cupola, ben visibile per la sua
altezza e per il suo slancio, opera dell’Antonelli (ancora quello della
Mole di Torino), che sembra aver voluto allungare la tradizionale
sfericità della cupola con una verticalizzazione scandita su vari strati
circolari: quattro piani (due in foggia di neoclassici colonnati) che
fanno da base alla curvatura oblunga del tetto, proiettata verso il
cielo dal lunghissimo pinnacolo, anch’esso scandito in più piani, con
in cima la statua del Salvatore e non del primo vescovo ed
evangelizzatore della città dal 397, il San Gaudenzio a cui la
sottostante chiesa è dedicata.
Prendo posto in un albergo in cui mi viene assegnata la stanza
123, che mi offre una gratuita combinazione aritmetica, dato che
nell’albergo di Torino, lo ricordo bene, avevo la stanza 124. E mi
aggiro subito nel centro della città, dove c’è grande animazione, dato
che vi si svolge un Novara Danza Festival, dedicato alle scuole di
danza: è l’ottava edizione, che quest’anno è easy, con ridotte
presenze rispetto agli anni passati (si tratta comunque di trenta
scuole da tutto il nord d’Italia, con circa 600 ballerini). Gran frastuono
intorno al palco su cui si annunciano gli eventi serali, sulla piazza
della Repubblica, che costeggia il fianco sinistro del Duomo di Santa
Maria: questo si dispiega con un solenne porticato, parte del quale
immette sull’ampio quadriportico antistante la facciata. L’ambiziosa
disposizione neoclassica è dovuta anch’essa all’Antonelli, vero
signore dei due maggiori edifici sacri di Novara: i lavori iniziarono nel
1857, con la distruzione dell’antica collegiata romanica, sorta sul sito
di una prima cattedrale costruita forse già da san Gaudenzio; e la
determinazione classicistica è affermata con forza dal pronao a
colonne scanalate che precede la facciata. Oltre il timpano del
pronao, la parte alta della facciata presenta un finestrone che fa
venire in mente certe facciate di stazioni ferroviarie.
Sfuggito alla demolizione antonelliana è comunque, di qua dal
quadriportico del Duomo, l’edificio del Battistero, sul cui corpo in
mattoni si eleva un tiburio ottagonale, in gran parte risalente all’XI
secolo: nel suo interno ci sono degli affreschi datati a partire dal
1019, dovuti a un autore nordico, forse germanico, con scene
dell’Apocalisse, a cui si aggiunge un Giudizio universale risalente
all’incirca al 1450, interessante opera di un pittore forse novarese,
Giovanni de Campo.
Altra sopravvivenza dei tempi danteschi è il Broletto, a cui si passa
direttamente dai portici sulla piazza del Duomo, sul lato opposto del
fianco sinistro della chiesa: si raggiunge un cortile quadrato su cui
sono disposti gli edifici dell’antico comune. Al primo Duecento risale
il palazzo in cotto sul lato nord, quello dell’Arengo, già luogo di
amministrazione della giustizia, che si apre in basso con un atrio
porticato dalle volte possenti. Sul lato sud è il Palazzo del Podestà,
con un portico quattrocentesco a bassi archi, mentre in quello est è il
settecentesco portico a due piani con loggia che fa da facciata al
due-trecentesco Palazzo dei Paratici, che era sede della
corporazione degli artigiani (così detti perché soliti sfilare in parata).
Ma sopra il Palazzo dei Paratici esisteva un tempo una torre che
faceva da prigione: essa viene evocata da uno dei maggiori romanzi
di Sebastiano Vassalli, lo scrittore, che per gran parte della sua vita
ha vissuto a Novara e nel novarese, La chimera (1990), il cui
penultimo capitolo s’intitola appunto I Paratici. Qui, racconta Vassalli,
in tempi ormai tanto lontani da quelli danteschi, ma terribili nella loro
durezza, tra l’agosto e il settembre del 1610, fu tenuta prigioniera, in
attesa di essere bruciata sul rogo, davanti alla chiesa del villaggio
natio, sul fianco del fiume Sesia, la protagonista del suo romanzo,
Antonia, la “strega di Zardino”. Antonia aspetta tra sogni
evanescenti, insieme a una sola compagna di prigionia, tra gli insetti
e la sporcizia, nel piano superiore della torre, destinato alle donne, in
una buia stanzaccia appena rischiarata da strette feritoie. A Novara
Antonia era stata processata e condannata nel palazzetto
dell’Inquisizione in piazza San Quirico e poi consegnata al braccio
secolare.
Mi aggiro per le strade oltre il Broletto, pensando al percorso
compiuto da Antonia per passare dalle carceri dell’Inquisizione a
quelle dei Paratici. Non esiste più la piazza San Quirico, né il
Palazzo dell’Inquisizione col vicino convento dei Domenicani; sul suo
luogo c’è la piazza Antonio Gramsci, già piazza del Rosario, su cui si
affaccia la chiesa manieristica di San Pietro al Rosario, fatta
costruire proprio dal vescovo che ha un ruolo non trascurabile nella
vicenda de La chimera, Carlo Bascapè. Passo davanti alla facciata
colonnata di questa chiesa, innalzata su quella che era la piazza
San Quirico e sulla precedente chiesa a San Quirico dedicata.
Tornando indietro e svoltando verso nord raggiungo le mura scure
dell’abside di San Gaudenzio, sfiorando le loro composite
decorazioni e tenendo la testa rivolta verso l’alto, verso l’ardita
cupola dell’Antonelli, che da quaggiù sembra più assurda e
impossibile e che nella sera ormai scesa si accende di una luce che
sembra emanare dal suo stesso corpo. Giro più volte intorno alla
basilica, ormai chiusa, la cui costruzione iniziò nel 1577 per opera di
Pellegrino Tibaldi, a cui si deve la manieristica facciata. La primitiva
chiesa a san Gaudenzio dedicata era stata demolita per la
costruzione delle mura, quando questa città costituiva un avamposto
dei domini spagnoli in Lombardia (alla Spagna era passata nel
Cinquecento, dopo che, con la fine del libero comune dilaniato dalle
lotte tra guelfi e ghibellini, era entrata, già dal 1332, nel dominio
milanese dei Visconti e poi degli Sforza).
Mentre penso a questi passaggi tra poteri diversi dei territori al
limite tra Piemonte e Lombardia, mi imbatto in palazzi e palazzetti
che attestano la successiva presenza dei Savoia, che di Novara si
impadronirono grazie alla guerra di successione polacca, nel 1734,
dopo che per un breve periodo, come parte del ducato di Milano, era
passata dagli spagnoli agli austriaci. Tra i segni savoiardi si fa
notare, sulla via Negroni, il barocco Palazzo Bellini: ai lati del suo
portone campeggiano due lunghe lapidi che ricordano, la prima, che
qui Carlo Alberto, sconfitto proprio nei pressi di Novara nella
battaglia del 23 marzo 1849, abdicò a favore di suo figlio Vittorio
Emanuele II; la seconda, che vi dimorò Napoleone III quando nel
giugno 1859 MOSSE CONTRO GLI AUSTRIACI A MAGENTA / E COLLE VITTORIE
DEGLI ESERCITI / DI FRANCIA E DI PIEMONTE / DIÈ PRINCIPIO / ALLA ITALIANA
INDIPENDENZA / CHE FU DEL SUO IMPERO / LA IMPRESA PIÙ GLORIOSA.
Al di qua del Ticino, ma spesso sotto il dominio di chi veniva di là,
Novara è stata in fondo una città limite, entro una storia di cui questo
palazzo mostra due esiti opposti, una cocente sconfitta e una
successiva vittoriosa ripartenza. Altra battaglia importante si era qui
avuta già nel 1513, quando i francesi furono sconfitti dai mercenari
svizzeri al soldo della Lega santa e degli spagnoli, e furono costretti
ad abbandonare il ducato di Milano, da cui il re Luigi XII aveva
scacciato Ludovico il Moro, e sul cui trono era provvisoriamente suo
figlio Massimiliano Sforza.
Portici del primo Cinquecento sono quelli della piazza delle Erbe
(ora piazza Cesare Battisti), che già in pieno Medioevo costituiva il
più attivo centro commerciale della città: stasera è piena di gente
che affolla i ristoranti disposti davanti e sotto i portici, dove a stento
riesco a trovare un posto per mangiare. Poi più tardi continuo a
girare per le strade senza precisa destinazione, tra il frastuono delle
presentazioni, delle musiche e delle danze che si svolgono sul palco
accanto al Duomo e un vario movimento di gente nelle zone
limitrofe: da più scorci, tra una strada e l’altra, si affaccia, come una
fantastica stranezza, la visione della mole illuminata della cupola di
San Gaudenzio. Ecco ancora i Savoia: con un monumento in piedi a
Carlo Emanuele III, quello che riuscì ad annettere Novara al regno di
Sardegna, qui ringraziato per aver liberato Novara da vicine malsane
paludi; e con un monumento equestre a Vittorio Emanuele II, sulla
piazza Martiri della libertà, che da una parte ha un assetto
neoclassico savoiardo, ma su uno dei lati è limitata da un grande
castello in laterizi, in cui si legano corpi diversi, circondati da un
fossato (la sua prima forma risale al XIII secolo, ma fu poi ampliato
dai Visconti, dagli Sforza e dagli spagnoli, che qui tenevano il loro
presidio).
La mattina del 12 settembre mi allontano da Novara diretto verso i
luoghi di fra Dolcino. Nell’uscire dalla città mi insegue ancora per un
po’ la visione della cupola antonelliana: ma all’effetto della sua
verticalità succede molto presto quello dell’orizzontale distesa delle
risaie, mentre sullo sfondo si disegna la cerchia delle Alpi, il cui
dentato contorno sfuma in indeterminata foschia. Lungo la strada
che va verso il fiume Sesia gli appezzamenti delle risaie appaiono
come squadrati, separati dai canaletti in cui si raccoglie l’acqua, in
un fitto pullulare giallognolo, oltre cui si disegnano in lontananza folti
agglomerati di piante; da una parte lo spazio è limitato da un lungo e
regolarissimo filare di pioppi. Mi fermo sul bordo della strada in un
punto dove, oltre un primo giallo appezzamento, si vede una cascina
che sembra abbandonata, con il tetto sfondato: più lontano un
complesso di edifici agricoli che appaiono invece in piena attività. La
vista è solcata da pali e fili della linea elettrica, che sembrano come
trapungere l’aria. Auto velocissime solcano l’asfalto e fanno
addirittura sobbalzare la mia auto parcheggiata al limite della risaia.
Riprendo il percorso, che più o meno è quello che tocca all’Antonia
de La Chimera sulla carrozza che la porta al supplizio, dal carcere
dei Paratici a Zardino, il paese lungo il Sesia dove era nata e che ora
non esiste più. Faccio una breve sosta a Biandrate, come in
silenzioso indiretto omaggio a Sebastiano Vassalli, che ha vissuto
per molti anni, nell’ultima parte della sua vita, in una cascina nella
vicina frazione di Marangana. È un piccolo borgo, molto ben curato,
dove comunque sono rimaste ben poche tracce dei conti che da
esso presero nome e che controllarono ampi territori del Piemonte
tra l’XI e il XIV secolo: tra essi un Guido III detto il Grande, che ebbe
un ruolo di primo piano, come alleato del Barbarossa, nella lotta
dell’imperatore contro Milano e i comuni lombardi (conseguenza di
questa lotta fu la distruzione del castello di Biandrate nel 1168). Solo
come simulacro di quel passato si eleva qui una ben più tarda torre
civica. E non c’è più nulla dell’originario assetto romanico nella
parrocchiale di San Colombano, ricostruita nel XVIII secolo,
all’interno di quella che era una più vasta costruzione conventuale:
essa incorpora parti della chiesa più antica, soprattutto un atrio con
volta a crociera, dove sono dei sorprendenti affreschi con figure degli
evangelisti e soprattutto con un Giudizio universale datato 1444,
probabilmente di quello stesso Giovanni de Campo autore dello
stesso soggetto nel Battistero di Novara. Qui, alla sinistra di Dio
padre, è l’inferno, piuttosto rovinato, anche se si vedono bene le
fauci spalancate e dentate di Lucifero che emettono fiamme e più
sotto i corpi dei dannati che precipitano in basso a testa in giù.
Oltre Biandrate attraverso il Sesia, forse proprio là dove era
Zardino: sono di nuovo nel vercellese e risalgo verso nord il corso
del fiume. Tocco Arborio, da cui prese nome una famiglia feudale a
partire dall’XII secolo e che ha dato nome al bel riso dai chicchi
grandi e perlati, che qui è stato selezionato; e poi Gattinara, borgo
franco creato dal comune di Vercelli nel 1242, che pure ha dato
nome a una nobile famiglia e oggi è soprattutto centro di produzione
di un ottimo vino rosso granato di alta qualità, che ha come vitigno di
base il nebbiolo. A questo punto, nel risalire a monte, cominciano a
definirsi più nettamente i contorni della Valsesia, tra i rilievi prealpini
che la contornano, fin quando, subito dopo Serravalle, svolto verso
sinistra, risalendo la valle di un affluente del Sesia, il Sessera.
La strada segue il fondo di questa Valsessera, che a un certo
punto lascio svoltando ancora a sinistra e salendo leggermente
verso le diverse frazioni che costituiscono il comune di Trivero: è
proprio la zona in cui si attestò fra Dolcino con i suoi seguaci, prima
di salire nell’ultimo rifugio del monte Rubello. Non è facile distinguere
i limiti delle diverse frazioni di Trivero: mi fermo comunque in quella
che individuo come la frazione centrale, che si chiama Lora e in cui
si trova lo stabilimento del Lanificio Ermenegildo Zegna e figli.
Direttamente sulla strada dà il suo prospetto, su cui sventola una
selva di azzurri stendardi della ditta, mentre se si svolta a destra, su
una strada che sale verso l’alto, si trova il cancello della Casa
Zegna, villa signorile di semplice architettura, e più in alto si scorge
la facciata di un’altra villa con un piccolo antiportico sormontato da
una balconata. Il lanificio, fondato nel 1910 (ma la facciata reca la
data 1919, che deve essere quella della definitiva costruzione), è
stato uno dei punti di forza dell’industria tessile italiana, modello
supremo di moda “classica” maschile: e ha avuto nel tempo una
grande espansione, con altri stabilimenti, anche fuori d’Italia. Trivero
rappresenta comunque il suo cuore, luogo di nascita e d’elezione del
fondatore: questi negli anni trenta del secolo scorso realizzò vari
progetti a vantaggio del territorio, tra cui la creazione della strada
panoramica, detta appunto Panoramica Zegna, che, salendo alle
spalle di Lora, attraversa un vasto ambiente boschivo difeso e
protetto, attrezzato con attenta cura ambientale e paesaggistica, che
costituisce l’Oasi Zegna.
È proprio la Panoramica Zegna a condurmi ai luoghi di fra Dolcino.
Raggiungo un ampio spiazzo, che si affaccia verso nord, la
Bocchetta di Stavello, a circa 1200 metri di altitudine e, lasciata
l’auto, sfioro un edificio che un cartello indica come Rifugio scout e
poco più in là un casolare un po’ malandato davanti a cui sono
posati i corpi di tre vasche da bagno. Prendo poi un sentiero che
sale sulla costa del monte Rubello e che si affaccia a più riprese
verso sudest, con ampi squarci sulla Valsessera: a tratti si vede,
subito sotto il pendio boscoso, lo stabilimento Zegna di Trivero,
mentre più in là, è distesa sulla valle una località che sembra sia
stata saccheggiata nel 1306 dai seguaci di fra Dolcino, Còggiola, al
cui limite sono i locali di un’altra fabbrica, che, probabilmente
strozzata dalla crisi, come altri stabilimenti tessili del Biellese,
dovrebbe aver cessato l’attività.
Salgo su questo sentiero sassoso, ma abbastanza ampio, sotto un
pallido sole ostacolato da una leggera nebulosità. A un certo punto
mi sembra di vedere una vipera che attraversa guizzando il sentiero:
vista che mi spinge nervosamente ad accelerare il cammino. Arrivo
così alla vetta livellata come un piccolo pianoro, un poggio a metri
1408, su cui si trova uno strano santuario, quasi una chiesa
combinata con una villetta di montagna, con una facciata a tre
settori: quello centrale è più elevato, alzandosi oltre i tetti spioventi
dei due settori laterali, che danno accesso a un porticato che
circonda tutto l’edificio. La costruzione si è sviluppata a più strati,
con la chiesa e l’alloggio per pellegrini inglobati dentro il portico, ed è
stata inserita proprio da Zegna nel quadro della sistemazione
dell’Oasi: essa si trova sul sito di una cappella che fu impiantata
subito dopo la cattura di fra Dolcino, forse con le stesse rovine delle
fortificazioni che erano state erette dai dolciniani. Era l’ultimo rifugio
dei seguaci della setta, che forse si erano asserragliati quassù
anche per una suggestione biblica, affidandosi al significato
dell’ascesa a Sion dei profeti come luogo di salvezza – fra Dolcino lo
evoca infatti in una sua lettera – o anche al consiglio dato da Cristo,
secondo Matteo, 24,16, di fuggire sui monti all’avvicinarsi della
consummatio saeculi.
Qui avevano resistito strenuamente, come Dante stesso riconosce
per bocca di Maometto, e avevano infine ceduto proprio per le
difficoltà date dalla stretta di neve, dopo un terribile inverno. Quel
Giovedì santo, 13 marzo 1307, Dolcino fu catturato vivo insieme alla
sua seguace e compagna Margherita da Trento e condotto a Biella
per essere processato dal vescovo di Vercelli.
I dolciniani dovevano essere asserragliati su questa vetta e su
quella gemella, di poco più alta (1412 metri), che si trova più in là:
insieme costituiscono il monte Rubello, anche se questa col
santuario viene anche denominata monte San Bernardo, col nome
del santo qui venerato, che non è il Bernardo di Chiaravalle che
conduce Dante alla visione di Dio, ma un Bernardo arcidiacono
d’Aosta nell’XI secolo, detto di Mentone per una presunta origine
nobiliare: esso si impegnò nella costruzione di ospizi e ricoveri nelle
Alpi occidentali e ha dato nome ai passi del Gran San Bernardo e
del Piccolo San Bernardo; approdato infine a Novara, vi morì forse
nel 1086 e fu sepolto nella cattedrale. Le sue prerogative ne hanno
fatto il protettore degli alpinisti.
Qui un cartello informa che la primitiva cappella (o inizialmente
solo un cippo votivo) fu dedicata a San Bernardo “in adempienza del
voto espresso dai triveresi che per un anno, dal 1306 al 1307,
avevano subito le razzie degli eretici”. Una statuetta di San
Bernardo, che regge il suo cane alla catena, vigila su un piedistallo
sopra la facciata del santuario. Sullo spiazzo erboso antistante,
circondato da una ringhiera che guarda verso l’altra vetta, c’è una
coppia con due bambini: seduti sul prato mangiano dei panini
guardando la distesa alpina che si affaccia tra le nuvole a nord. Di
fronte a questo tranquillo quadretto familiare non è certo facile
immaginare come poteva apparire in quel frangente il terribile
assetto di questa vetta e di quella vicina, come doveva essere
brulicante e infuocato, risuonante di grida laceranti, l’avvallamento
tra le due cime.
All’interno dell’edificio non si vede nessuno, anche se ci sono
segni di lavori in corso, come una scala metallica appoggiata al muro
accanto all’ingresso. Una porta aperta immette in una scala che
porta verso quelli che dovrebbero essere gli alloggi per i pellegrini.
Sulla parete della scala è appeso un curioso dipinto con San
Bernardo in veste da prete contemporaneo, che alla catena regge
non il cane ma un diavolo atterrato, ridotto all’impotenza: l’immagine
si ricollega alla tradizione agiografica, secondo cui il santo avrebbe
scacciato dal monte Giove (poi chiamato appunto Gran San
Bernardo) il demonio che lo infestava. Ed è chiaro che a questo suo
scacciare il demonio dai monti è dovuta la dedica di questo santuario
sul monte su cui si rifugiarono e su cui furono presi gli eretici.
Salgo al piano superiore, mi muovo tra ambienti sommariamente
arredati, quasi mi pare di sentire risuonare i miei passi in un vuoto in
cui mi fingo di sentire i clamori e gli orrori di quei tempi crudeli, di
quelle implacabili lotte nel segno di Cristo. Una volta tornato sullo
spiazzo, saluto i bambini che sono ora alle prese con delle fette di
torta e rapidamente discendo verso la Bocchetta di Stavello, dove ho
lasciato l’auto.
Procedendo oltre sulla Strada Zegna, mi fermo poco dopo davanti
a una grande lastra in cemento addossata a una parete di sassi in
memoria dei partigiani caduti nella lotta contro il nazifascismo, in
queste montagne dove “si costituirono le prime formazioni partigiane
del biellese”: qui fu molto forte la presenza delle brigate, con
numerose azioni, che nella primavera del 1944 portarono anche a un
breve periodo di liberazione della Valsessera e di parte della
Valsesia. E come non pensare ancora agli Apostoli di fra Dolcino
attestati tra questi monti? Se i loro nomi sono cancellati e
dimenticati, qui su questo lastrone restano i nomi dei caduti
partigiani, con l’indicazione della loro età: tutti giovanissimi, quasi
tutti tra i diciotto e i vent’anni, il più vecchio, Lodini Pietro, di anni 37.
A sinistra della grande lastra c’è una piccola targa con una foto
stinta, che ricorda il “garibaldino” Tortello Luigi, detto Lupo, IL
COMBATTENTE MAGNIFICO / CHE QUI CADDE CON L’ARME / IN PUGNO CONTRO / I
NAZI-FASCISTI BATTENDOSI / COME SOLO GLI EROI / SANNO FARE, il 20
febbraio 1944.
Raggiungo poi la Bocchetta di Margosio, che si affaccia a nord
sopra l’alta Valsessera: da quella parte sotto un’umida coltre
nebbiosa si disegna un indeterminato groviglio di vette, tra Prealpi e
Alpi Pennine, che è possibile guardare sedendo su delle panche
poste accanto a un chiosco o capanno in legno, su cui si apre il
banco di un agriturismo, piccolo posto di ristoro, dotato anche di
pesanti tavoli di legno, alcuni disposti a cielo aperto, altri riparati da
una tettoia. Da qui, quando il cielo è chiarissimo, soprattutto
d’inverno e d’estate solo in prima mattina, si dovrebbe vedere il
monte Rosa, il cui nome non designa il colore, ma viene dal termine
di un patois franco-provenziale, roise o royse, che significa
ghiacciaio. Lo sguardo puntato a nord, dove i corpi montuosi quasi si
confondono con le nubi che vi si sovrappongono, non lascia ora
profilare nessuna traccia di quella che per altezza è la seconda vetta
d’Italia e d’Europa.
Sul pendio che scende sotto le panche dell’agriturismo staziona un
piccolo gregge di capre: e ce n’è una arrampicata su uno spunzone
di roccia. Il banco del capanno offre formaggio di capra, torta di
cioccolata, marmellata di prugne, composte di peperone, di cipolla e
d’altro, lavanda al timo, sapone al latte di capra. Una simpatica e
gentile signora mi serve un bel tagliere di formaggi, che gusto su una
panca sotto la tettoia, mentre giunge un gruppo di motociclisti, che si
fermano a guardare il panorama. Ce ne sono tanti in giro sulla
Panoramica Zegna, oggi che è sabato mattina, mi fa notare la
signora che mi consegna la fetta di torta di cioccolata.
Solo al momento di andar via mi accorgo che, accanto ai cartelli
che indicano le varie specialità in vendita con i loro prezzi, è appeso
un foglio bianco di una DE DË STUDI DOSSIAN CENTRO STUDI DOLCINIANI
(denominazione bilingue), che domani, domenica 13 settembre,
organizza proprio qui la Festa di fra Dolcino, con culto valdese
tenuto dal pastore di Biella e salita al cippo di fra Dolcino che si trova
in uno dei rilievi del monte Rubello. Il cippo, con croce catara, fu
impiantato nel 1974, al posto di un precedente obelisco distrutto dal
regime fascista.
Nel Novecento fra Dolcino ha suscitato fervori, memorie, nostalgie
rivoluzionarie, che erano in primo piano nella festa popolare che si
celebrò per l’inaugurazione del cippo, a cui parteciparono Dario Fo e
Franca Rame. Del resto era stato proprio Fo, nella sua più celebre
pièce, Mistero buffo, a rivendicare, non senza forzature storiche e
letterarie, il carattere rivoluzionario dell’azione dell’eretico. Il Centro
studi dolciniani nacque in occasione dell’inaugurazione del cippo: e
da allora celebra la festa nella seconda domenica di settembre.
L’avviso qui appeso indica che ci sarà anche una discussione sulle
lotte No Tav e nel pomeriggio una festa da bal, che in caso di pioggia
si svolgerà al coperto.
Mentre le nuvole si infittiscono, mi accorgo che la minaccia di
pioggia mi sconsiglia di andare subito a cercare questo cippo della
cui esistenza ho saputo solo ora: e mi dispiace di aver visitato il
santuario, monumento antidolciniano, trascurando l’opposto
monumento dolciniano. Un po’ contrariato proseguo per la
Panoramica Zegna, salendo fino a Bielmonte, mentre in alto si
infittisce il blocco nuvoloso: ma da un belvedere che si affaccia a sud
si scorge, ancora sotto il sole, tutta la piana, dalla sottostante Biella
al Canavese, alle propaggini sudoccidentali della Val Padana, fino al
filo diritto dell’orizzonte, nell’indistinto riflesso creato dal contrasto tra
il cielo oscuro quassù e la luce del sole laggiù.
Dopo Bielmonte la strada scende raggiungendo la valle del
torrente Cervo, che costeggio giungendo fino a Biella, tra fabbriche
dismesse attestate lungo il torrente. Percorro la via Italia, strada
pedonale nel centro della città, che mi conduce fino alla cattedrale di
Santo Stefano, che è in gran parte circondata da transenne per
lavori in corso, ma la cui facciata sembra librarsi in un’incongrua
mistione gotico-neoclassica, in un falso gotico e in levigato pallore
neoclassico: la traccia medievale rimane però nell’isolato campanile,
che prende slancio su monofore, bifore, archetti pensili, e soprattutto
nel Battistero romanico di ruvidi laterizi, con un tozzo tiburio
ottagonale che si appoggia su quattro contrafforti, scanditi da ben
rilevati archetti pensili e coperti da piccoli tetti di ciottoli.
Allontanatasi la minaccia di pioggia, la via Italia è abbastanza
animata, tra negozi aperti allo shopping e negozi chiusi, tra banchetti
informativi, come quello dell’Oasi Zegna (con invito a consultare
www.oasizegna.com) e quello di alcune palestre che raccomanda il
sollevamento pesi, attraverso la diretta esibizione di due atleti, uomo
e donna in nera maglietta: in mezzo alla strada questi sollevano di
tanto in tanto i bilancieri che ai due estremi della lucida barra
d’acciaio caricano neri dischi di ghisa. I pesanti attrezzi mi fanno
pensare con angoscia alle pesanti catene in cui fra Dolcino e
Margherita e il loro seguace Longino furono condotti a Biella: ma,
mentre Dolcino fu bruciato a Vercelli, il martirio di Margherita ebbe
luogo proprio a Biella, a una colonna su un isolotto del torrente
Cervo.
L’isolotto si trova a nord della città, solcato da un ponte che
attraversa il torrente, detto Ponte della Maddalena. Mi avvio verso
questo ponte, uscendo dal centro e percorrendo la leggera discesa
della via Serralunga, costeggiando i locali dell’ex lanificio Trombetta,
dove oggi ha sede la Fondazione Pistoletto. Raggiungo e supero
una anziana signora in ciabatte con un golfino rosso, che procede
appoggiandosi a un bastone di metallo. Sull’isolotto il ponte si allarga
verso monte su una piazzola lastricata, dove due cubi di cemento
fanno da sedili: al di là di una ringhiera, su cui si apre un cancelletto,
l’isolotto avanza con un manto erboso, da cui spunta a un certo
punto un piccolo rilievo sassoso, su cui è disposta una targa
rettangolare. Mentre sono fermo davanti alla ringhiera, la stessa
anziana in ciabatte mi raggiunge e mi apre il cancelletto, invitandomi
ad avvicinarmi al sasso che, mi dice, ricorda qualcuno che lì è morto,
anche se lei non sa di chi si tratti: e aggiunge che qui sull’isolotto
c’era una bella vegetazione, forse una pineta, e tutto è stato portato
via dall’alluvione (in effetti una rovinosa piena del torrente Cervo ha
fatto grandi danni tra il 4 e il 6 giugno 2002).
Mi avvicino al sasso e alla targa, volgendo gli occhi a monte, dove
tra le due rive del Cervo, che scende con leggera corrente, è
sospesa una corda, agganciata al corpo di due lanifici dismessi che
si fronteggiano da un capo all’altro del torrente: alla corda sono
appesi, leggermente oscillanti, dei pupazzi azzurri; sembrano
pinguini, che hanno intorno al collo delle cravatte nere, disposti di
profilo, col becco rivolto verso la riva destra, uno dietro l’altro. Ma
eccomi davanti alla targa, su cui sono queste parole: “a MARGHERITA
DA TRENTO e / LONGINO CATTANEO da BERGAMO / TESTIMONI della LIBERTÀ /
di RELIGIONE e di PENSIERO / 1° GIUGNO MCCCVII - MMVII”. La data del 1°
giugno 1307 viene in realtà indicata di solito come quella del
supplizio di Dolcino a Vercelli: ma qui le viene attribuito il supplizio di
Biella, di Margherita e del capofila dei seguaci, Longino.
Difficile e impossibile ogni tentativo di ritrovare un’immagine
autentica di Margherita, che la tradizione malevola, propagata dalla
Historia fratris Dulcini e raccolta da Benvenuto da Imola, ha mitizzato
come donna di eccezionale bellezza (“pulchritudo immensa”, dice
Benvenuto), compagna e “amasia” di Dolcino, tra perverse pratiche
erotiche e stregonesche: in realtà doveva essere tutta presa dal suo
anelito religioso, dalla sua impossibile attesa della redenzione.
Dolcino dovette assistere al suo supplizio, su cui circolarono diversi
racconti: che accanto al rogo fosse Dolcino a confortarla o che,
prima di essere bruciata, fosse sottoposta a orrende mutilazioni. Il
supplizio di Dolcino a Vercelli si svolse in una progressiva
lacerazione del suo corpo, a cui vennero man mano strappate delle
parti, gli occhi, il naso, i genitali, le mani, le braccia, fino a uno
spezzettamento delle membra, poi bruciate e dissolte: supplizio che
terribilmente sembra convergere con la pena degli scismatici e
seminatori di discordia della nona bolgia infernale.
Ivrea e il Canavese

…fa pianger Monferrato e Canavese.


(Purg., VII 136)

Da Biella, dopo aver superato i piccoli rilievi della Serra, scendo nel
Canavese, il territorio del Piemonte compreso tra la bassa valle della
Dora Baltea e la sua confluenza nel Po: Dante lo ricorda, insieme al
Monferrato (vedi p. 911), per le devastazioni che subì nella guerra
condotta da Giovanni di Monferrato contro Alessandria. Ecco subito
la capitale del Canavese, Ivrea, colonia romana col nome di
Eporedia: a fianco della Dora si distende il suo centro storico, che
reca ben poche tracce del suo assetto romano e medievale.
Percorrendo la rettilinea via Palestro, che con la successiva via
Arduino sembra seguire la linea del decumano, raggiungo la centrale
piazza dove è il settecentesco Palazzo del Municipio. La piazza ha
praticamente tre nomi: viene chiamata tradizionalmente piazza di
Città, ma aveva avuto a lungo la denominazione ufficiale di piazza
Vittorio Emanuele, che poi è stata sostituita con quella di piazza
Ferruccio Nazionale, col nome di un giovane partigiano preso
durante una sua coraggiosa azione, massacrato e impiccato il 29
luglio 1944 qui sulla piazza dai feroci militi della Decima Mas, col
seguente cartello appeso al collo: AVEVA TENTATO / CON LE ARMI / DI
COLPIRE LA / DECIMA.
Tornando un po’ indietro, da una traversa della via Palestro
raggiungo una piazza su cui si affaccia un bel teatro ottocentesco,
inaugurato nel 1834 come Teatro civico e poi a partire dal 1922
intitolato a Giuseppe Giacosa, il drammaturgo nato in un paese a
pochissimi chilometri da qui, Colleretto Parella, oggi Colleretto
Giacosa: la voce maggiore del nostro teatro “borghese” di fine
Ottocento, autore di vari drammi tra cui il grande successo di Come
le foglie (1900), ma oggi ricordato e ascoltato di più, come librettista,
in coppia con Luigi Illica, per i capolavori di Giacomo Puccini,
Bohème, Tosca, Madama Butterfly. Nella sua opera non mancano
segni del suo legame col Canavese, tra cui un libro scritto nel 1878,
arioso percorso storico e turistico, Castelli valdostani e canavesani.
Questo libro, naturalmente, dà particolare rilievo al castello di Ivrea,
che si trova nella parte più alta della città, a cui posso salire
lasciando la piazza del teatro e costeggiando dal basso la mole del
Palazzo Vescovile. Sulla piazza Castello mi muovo tra l’abside del
Duomo, affiancata da due bianchi campanili, il porticato del Palazzo
Vescovile e la mole del Castello: l’abside e i campanili conservano
l’originario carattere romanico (ma la prima chiesa risale più indietro,
al IV secolo), mentre la facciata, che dà sulla piazza opposta, risale
all’Ottocento, in atteggiata forma palladiana. Il grande castello
quadrangolare domina la città e il territorio circostante con le quattro
alte torri cilindriche che si levano ai suoi angoli: il loro rosso laterizio
fa sì che sia tradizionale e corrente la loro denominazione come
rosse torri, esibita e diffusa dalla retorica turistica e nazionalistica di
Piemonte, ode saffica scritta da Carducci nel 1890 e raccolta in
Rime e ritmi (alla scuola media la imparai a memoria):

Ivrea la bella che le rosse torri


specchia sognando a la cerulea Dora
nel largo seno, fósca intorno è l’ombra
di re Arduino.

Arduino, feudatario che verso la fine del X secolo ebbe la marca di


Ivrea, fu in lotta con l’Impero, oltre che con vescovi e potentati tra
Piemonte e Lombardia, e subito dopo la morte dell’imperatore
Ottone III fu eletto in Pavia re d’Italia (15 febbraio 1002),
respingendo in un primo momento l’opposizione del nuovo
imperatore Enrico II e dei suoi alleati italiani; ma, sconfitto e
detronizzato in seguito a una nuova discesa in Italia dell’imperatore
(1013), si ritirò nel monastero di Fruttuaria, nell’estremo sud del
Canavese (di cui egli stesso aveva posato la prima pietra nel 1003),
dove morì il 14 ottobre 1014. La corona di re d’Italia da lui tenuta ha
proiettato per un certo tratto la sua immagine in una chiave
nazionalistica, pur nel quadro della violenza feudale in cui fu
pienamente implicato: e se ne sente qualcosa nel modo in cui
Carducci colloca la fósca presenza della sua ombra intorno a queste
rosse torri. Devo sfuggire però all’illusione di vederlo aggirarsi sullo
sfondo di questo castello, come a quella di riconoscere qui qualche
segno dell’Ivrea degli anni danteschi: in effetti il castello fu voluto più
tardi, da Amedeo VI di Savoia (detto il Conte Verde), e costruito nella
seconda metà del XIV secolo; poi ha avuto varie vicissitudini,
arrivando a svolgere funzione di carcere, fino al 1970. E certo
qualcuno, nel passaggio da Arduino, re d’Italia anche se contestato,
ai Savoia, avrà voluto vedere una sorta di prefigurazione del loro più
tardo destino di re d’Italia…
Scendo dalla piazza Castello attraverso un irregolare intreccio di
stradine, anche con una scalinata, toccando una costruzione che
poggia su un tozzo porticato, la Credenza, costruita anch’essa nel
XIV secolo, come sede del Consiglio del Comune. Sbuco poi sul
corso Garibaldi e percorrendolo brevemente mi affaccio finalmente
sulla Dora, incassata tra spunzoni rocciosi. Ecco il Ponte Vecchio o
Canavese, di origine romana, ma più volte ricostruito, che immette
nei quartieri Oltredora: in basso sull’altra riva, a fianco del ponte e
alle spalle dell’abside di una chiesetta (San Grato in Borghetto), si
apre anche una piccola spiaggia. L’acqua calma che scorre quasi
insensibilmente appare davvero cerulea: ma ora più che l’ombra
fósca del guerriero Arduino, l’aggettivo evoca la dimessa figurina
borghese della Signorina Felicita, su cui indugia il sognante disegno
di Guido Gozzano:

Signorina Felicita, a quest’ora


scende la sera nel giardino antico
della tua casa. Nel mio cuore amico
scende il ricordo. E ti rivedo ancora,
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora
e quel dolce paese che non dico.
Oltre il Ponte Vecchio c’è quello Nuovo, davanti al quale, addossata
a una parete rocciosa sovrastata da un muraglione su cui si affaccia
una specie di belvedere, c’è la singolare fontana Camillo Olivetti,
realizzata nel 1957 da Emilio Greco, a ricordo del fondatore della
celebre fabbrica di Ivrea: l’acqua scaturisce da una fessura della
roccia scendendo in una vera e propria cascata, davanti alla quale si
innalza una lunga stele metallica fatta di un groviglio di leve, tasti,
parti di macchina da scrivere; a lato un medaglione reca il ritratto del
barbuto ingegnere. Sopra questa parete rocciosa sorgeva il più
antico castello di San Maurizio, detto Castellazzo, che era stato sede
dei marchesi di Ivrea e dei conti di Biandrate e che fu ricostruito nel
XIII secolo proprio dal dantesco Guglielmo VII di Monferrato, prima
di essere definitivamente distrutto nel 1310.
Poco oltre il Ponte Nuovo c’è, in basso, il ponte in ferro della
ferrovia: dalla stazione, situata al di là del fiume, i binari attraversano
questo ponte per imbucarsi e sparire qui, nella galleria che si apre
sotto la spalletta del lungofiume, scavata sotto il corpo della città. Sul
lungofiume sovrastante il ponte della ferrovia un cartello ricorda
l’azione compiuta da un gruppo partigiano della Brigata Fratelli
Rosselli, VII Divisione “Giustizia e Libertà” il 24 dicembre 1944:
erano vicine le sentinelle tedesche e della Decima MAS fascista, ma
nel buio notturno i partigiani riuscirono a minare e a far saltare il
ponte, interrompendo il passaggio del materiale bellico prodotto nello
stabilimento Cogne di Aosta; evitando così il probabile
bombardamento della città (con cui gli alleati avrebbero mirato a
colpire la linea ferroviaria).
Oltre il ponte ferroviario la Dora si distende in un più ampio bacino
(è questo il largo seno di Carducci?), su cui è disposta una chiusa
che devia parte delle acque della Dora in un Naviglio che risale
addirittura al XV secolo e che, irrigando le risaie del Vercellese,
giunge fino al Sesia, oltre Vercelli: di esso ebbe a occuparsi anche
Leonardo da Vinci, per un ulteriore collegamento che non fu
realizzato. Dalla riva del Lungodora, su cui a un certo punto sono
disposti ben curati giardini, si osserva tutta l’articolata disposizione
della chiusa: il bacino, su cui emergono piccoli isolotti, è diviso
nettamente tra una zona in cui l’acqua scorre molto placidamente e
sembra quasi immota, convogliandosi poi nel Naviglio, e la parte a
destra, verso l’altra riva, in cui il corso della Dora continua in rapide
turbinose, su cui sono tracciate, attraverso un sistema di filamenti
sospesi, segnati in alto da numeretti, corsie per canoe e simili
imbarcazioni (è una sorta di stadio per gare di rafting e affini).
Percorrendo il Lungodora si giunge al punto in cui il Naviglio si
stacca dall’ampio bacino: qui è la torre di Santo Stefano, un isolato
campanile romanico a sei piani scanditi da archetti pensili, ciò che
resta di un monastero fondato verso la metà dell’XI secolo,
dipendente dall’abbazia di Fruttuaria.
Mentre ormai scende la sera, risalgo verso il centro attraverso il
giardino del Lungodora. Sulla facciata di un edificio che ospita uffici
giudiziari, proprio sotto una finestrella quadrata protetta da inferriate,
c’è una scritta: NON SI DISPIACCIA LA GENTE X BENE / SE MI ADATTO A PORTAR
LE CATENE, firmata con la A dell’anarchia. Su un altro muro più avanti:
CHI LAVORA È PERDUTO. Dalle vetrine dei bar del centro di Ivrea
occhieggiano succulenti i tradizionali biscotti al burro a ciambella
intrecciata, detti torcetti.
La mattina di domenica 13 settembre sotto una pioggia fitta e
continua parto da Ivrea attraversando il Ponte Nuovo e toccando
subito la zona degli stabilimenti Olivetti, che si annunciano all’inizio
della via Guglielmo Jervis con compatti edifici a grandi vetrate.
Chiuso nell’auto sotto la pioggia in questo vuoto domenicale mi pare
di essere nella posizione più congrua per riflettere sulla passata
gloria della Olivetti, sull’affidabilità delle diverse generazioni di
macchine da scrivere, soprattutto sull’intraprendenza e
sull’intelligenza programmatica di Adriano Olivetti, troppo presto
scomparso nel 1960, sul suo legame con la migliore cultura torinese,
anche per via familiare (aveva sposato Paola, l’inquieta sorella di
Natalia Ginzburg: vedi p. 816). Sotto l’impulso di Adriano Olivetti,
nella fabbrica di Ivrea ebbe vita il sogno di una moderna cultura
industriale, di uno sviluppo integrato armoniosamente nel territorio e
orientato verso una grande apertura democratica: pieno di sensibilità
sociale, attento alla condizione dei dipendenti e rivolto a sostenere i
più alti livelli culturali, in moderna continuità con la tradizione italiana.
Da tanti anni ormai si guarda con nostalgia all’attenzione di Olivetti
per gli intellettuali, allo spazio che a essi attribuì nella sua azienda: vi
assunse a diverso titolo tanti scrittori e studiosi allora giovani, che
hanno costituito una vera e propria generazione olivettiana, da
Giovanni Giudici a Franco Fortini a Geno Pampaloni a Ottiero Ottieri
a Ludovico Zorzi. Tra tutti quello che più direttamente si è
confrontato con il modello industriale olivettiano e poi con la sua crisi
è stato l’urbinate Paolo Volponi, entrato in Olivetti nel 1956 e
rimastoci a vario titolo fino al 1971: e proprio alla vita di fabbrica di
Ivrea è dedicato il suo romanzo del 1962, Memoriale, dove nella
voce dell’operaio Albino Saluggia esplode il conflitto tra l’eredità
lacerata di un mondo contadino e la misura razionale del nuovo
universo industriale. Volponi ha vissuto in proprio le vicende
successive alla morte di Olivetti e la crisi di quel modello di
razionalità, giungendo a darne un’impietosa e dolorosa immagine nel
suo ultimo romanzo, Le mosche del capitale, 1989. Chissà come si
muoveva Volponi tra questi edifici, che ora ospitano anche attività
esterne all’orizzonte industriale, come un Corso di laurea in Scienze
della Comunicazione dell’Università di Torino. L’Olivetti, che pure era
stata tra le prime industrie del mondo a progettare modelli di
calcolatori e a proiettarsi verso l’informatica, ha perso del tutto quel
rilievo che ebbe negli anni del boom economico. Forse anche per
errori di programmazione e di gestione è rimasta ai margini dello
sviluppo delle nuove tecnologie digitali: e dopo una crisi rovinosa si è
ritagliata uno spazio nella telefonia, convergendo in Telecom Italia. A
chi come me ha tanto usato fino a un certo punto della propria
esistenza le metalliche macchine da scrivere Olivetti, fa un po’
malinconia scrivere oggi su computer che vengono dall’America o
dall’Asia e con software scaturiti dai pensatoi della Silicon Valley.
Mi riavvolgo in questi malinconici pensieri allontanandomi dalla
zona Olivetti e da Ivrea, percorrendo verso sud tutto il Canavese,
mentre la pioggia lascia ogni tanto delle pause, a cui succedono
nuovi rovesci a raffica. Seguo la strada ex statale 26, tra tratti
pianeggianti e dolci rilievi collinari; sfioro Candia, col suo piccolo
lago, evocata più volte in Memoriale come dimora dell’operaio Albino
Saluggia; poi svolto a destra, volteggiando tra strade minori e piccoli
paesi, tra vigneti e folti campi di granturco, su cui per brevi momenti
si affaccia il sole, fino a raggiungere il centro di Agliè.
Sosto sulla grande piazza davanti al castello barocco, di cui qui
prospetta la parte posteriore, con grandi finestroni dalle bianche
imposte che sembrano dare un senso di luce alla scura muratura in
laterizi. Ora la pioggia cade più lentamente, ma suscita particolare
agitazione sulle tante persone che comunque, tra auto parcheggiate,
ombrelli, giubbetti impermeabili si muovono sulla piazza. Da qui
dovrebbe in effetti partire una manifestazione sportiva, una corsa
podistica nel quadro delle Tre Terre Canavesane (sigla turistica che
mette insieme i tre comuni di Agliè, San Giorgio Canavese e
Castellamonte, sorta quest’anno in occasione dell’Expo di Milano e
rivolta soprattutto alla promozione enogastronomica). La corsa
partirà nonostante la pioggia, ma l’iscrizione e la punzonatura
avvengono sotto un atrio-finestra ai fianchi del castello, dove si
affollano i podisti in maglietta e pantaloncini e i loro amici e parenti.
I bassi portici che si dipartono dalla piazza del Castello permettono
di fare un breve giro nel centro di Algiè: ma la città mi fa pensare
soprattutto al suo legame con Guido Gozzano, che passava lunghi
soggiorni qui nella sua villa di famiglia, il Meleto, che si trova
abbastanza fuori, su una piana coltivata fronteggiata a nord da una
collina boscosa. Con qualche difficoltà raggiungo la villa, mentre la
pioggia riprende a imperversare fortissima. Quasi isolato nella
campagna, il Meleto è chiuso da un muro di cinta coperto di edera:
dalla strada non si vede la facciata in stile liberty che dà sul giardino;
sul retro è ben visibile un fienile, aperto su un campo su cui restano
le tracce di un recente raccolto di granturco. Senza attendere l’ora di
apertura per la visita, mi limito a sostare brevemente rimanendo
dentro l’auto, tra il risuonare della pioggia sulla lamiera, ricordando
una precedente visita, con la visione del salotto (ricostruito) di Nonna
Speranza con le “buone cose di pessimo gusto”, e della collezione di
farfalle di Guido. Tutto intorno il Canavese di Gozzano mi appare
velato da questa pioggia battente, come a confermare quel senso di
lontananza che si dispiega ironicamente struggente nella sua
poesia. E torna ancora Signorina Felicita, con la scena della soffitta
di Villa Amarena, dove lo sguardo sul paesaggio si apre
“dall’abbaino secentista, ovale, / a telaietti fitti, ove la trama / del
vetro deformava il panorama / come un antico smalto innaturale”:

Non vero (e bello) come in uno smalto


a zone quadre, apparve il Canavese:
Ivrea turrita, i colli di Montalto,
la Serra dritta, gli alberi, le chiese;
e il mio sogno di pace si protese
da quel rifugio luminoso ed alto.
Il passaggio di Annibale

Esso atterrò l’orgoglio de li Aràbi


che di retro ad Anibale passaro
l’alpestre rocce, Po, di che tu labi.
(Par., VI 49-51)

Continua la pioggia battente quando riprendo a scendere verso sud,


sfiorando San Benigno Canavese e il sito in cui si trovava l’abbazia
di Fruttuaria (ora ci sono solo un torrione e una chiesa
settecentesca). Molto disagevole è il passaggio nel traffico della
tangenziale di Torino, da cui mi dirigo poi verso il fronte alpino,
attraverso l’autostrada del Fréjus. Poco dopo aver lasciato la
tangenziale, il cielo comincia ad aprirsi verso occidente e a tratti
appaiono bianche vette a non grandissima distanza, schermate da
un pastoso strato nuvoloso, come bambagia addensata tra il cielo e
il corpo montuoso.
La storia dell’aquila romana, fatta da Giustiniano nel VI canto del
Paradiso, nel ricordo delle vittorie romane sui Cartaginesi (chiamati
Aràbi, col nome dei popoli che ormai al tempo di Dante occupavano
il fronte meridionale del Mediterraneo), fa riferimento al passaggio
delle Alpi da parte di Annibale e precisa che da quella parte delle
alpestre rocce scende il Po (evocato alla seconda persona, con la
voce latineggiante labi, “scorri in basso, scendi”). Ma dove passò
Annibale per superare le Alpi e scendere in Italia all’assalto di Roma
nel 218 a.C.? L’esercito cartaginese era partito dalla Spagna,
secondo Polibio (Storie, III XXXV-I), con un esercito di circa 90000
fanti e 12000 cavalieri, oltre a molti elefanti; aveva risalito la valle del
Rodano, passandolo a guado, per deviare poi alla confluenza con
l’Isère e percorrere una parte della valle della Durance, fino a risalire
verso uno dei passi delle Alpi occidentali. Dal racconto di Polibio, III
XLIX-LVI, e da quello di Livio (Ab Urbe Condita, XXI XXXI-XXXVIII, che
segue in parte quello di Polibio) non si riesce a identificare con
precisione il passo valicato, fra molteplici difficoltà, da quella
formidabile spedizione: resta aperta una serie di possibilità, che
tocca tutto l’arco che va dal Piccolo San Bernardo al Monginevro e
ancora più a sud.
Come discesa militare il passaggio delle Alpi occidentali è stato
praticato più volte nel corso dei secoli e ha lasciato echi e
suggestioni molteplici nella storiografia e nelle arti: eroica sfida ai
confini naturali d’Italia, rottura minacciosa o avanzata liberatrice. Tra
i passaggi che hanno agito più intensamente nell’immaginario, basta
ricordare quello che portò Carlo Magno nel 774 alla guerra contro i
Longobardi, premessa della creazione del Sacro Romano Impero: è
stato Alessandro Manzoni, nell’Adelchi, a offrirne una percezione
poetica e religiosa, con la vicenda, ripresa dal racconto fatto nel
Liber pontificalis di Agnello Ravennate, del diacono Martino, che
mostra a Carlo Magno una via alpina sconosciuta, in modo da
superare le Chiuse costruite dai Longobardi nella Val di Susa,
percorsa dalla Dora Riparia (il fiume che si getta nel Po a Torino,
poco più a sud dell’altra Dora).
Nella lunga storia di questi passaggi, non mancano vicende dei
secoli più vicini a Dante, come il passaggio sul Moncenisio, snodo
determinante della Via Francigena, dell’imperatore Enrico IV, quando
si recò a Canossa per fare atto di sottomissione al papa Gregorio
VII, o quello inverso del Barbarossa, in ritirata dopo la sconfitta di
Legnano. E ce n’è uno che riguarda direttamente Dante, quello del
suo imperatore, Enrico VII, che discese in Italia da Ginevra,
risalendo le valli della Savoia e valicando il Moncenisio nell’ottobre
1310. Al passaggio alpino Dante stesso allude nell’Epistola VII I 5:
“Cumque tu, Cesaris et Augusti successor, Apennini iuga transiliens
veneranda signa Tarpeia retulisti” (“E quando tu, successore di
Cesare e di Augusto, valicando i gioghi delle Alpi, hai riportato le
venerande insegne tarpee”). E dato che in questo passo dantesco
ritorna la parola Apenninus per designare le Alpi (come abbiamo
visto in altra occasione: vedi p. 713), sarà il caso di ricordare che
l’espressione corrente nel Medioevo di Apenninae Alpes per
designare le Alpi veniva fatta risalire, da etimologisti come Isidoro di
Siviglia e Uguccione da Pisa, proprio al passaggio di Annibale,
poenus, cioè punico, cartaginese. Così Uguccione nelle sue
Derivationes: “Apenninus dictus est quasi alpes acute, pennum enim
acutum antiqui vocabant, vel Apenninus quasi alpes peni, idest
Anibalis” (“Apenninus è detto in quanto alpi aguzze, infatti gli antichi
dicevano pennum per acutum, o Apenninus in quanto montagne del
punico, cioè Annibale”).
Dopo un sempre più ampio aprirsi del cielo verso occidente,
smette di piovere quando sull’autostrada tocco la zona dove erano
probabilmente attestate le Chiuse longobarde. C’è una stretta tra
due monti (Pirchiriano e Caprasio), detta appunto Le Chiuse,
attraverso cui si entra nella Val di Susa; e sulla aguzza vetta del
Pirchiriano è arroccata l’Abbazia della Chiusa, detta anche Sacra di
San Michele, risalente probabilmente al X secolo, che appare, ben
visibile alla sinistra dell’autostrada, come un fantastico castello a più
strati architettonici, entro cui si integrano parti originarie, interventi di
epoche diverse, diroccate rovine, mentre solo poco più avanti si
affaccia il piccolo paese di Chiusa di San Michele.
Salendo leggermente l’autostrada mi porta in breve a Susa, la
capitale preromana di un regno montano dei Cozi, che controllava il
passaggio tra l’Italia e la Gallia e con cui Giulio Cesare si accordò
nel suo passaggio alla conquista della Gallia, sottomettendolo ma
lasciandolo autonomo, fin quando, sotto Nerone, non fu direttamente
annesso all’impero. A Susa approdava e da Susa partiva chi
valicava le Alpi tra la Francia e l’Italia: e nel 906 la città fu addirittura
occupata dai Saraceni, che poi ne furono scacciati da Arduino
Glabrione (cioè privo di barba), signore di Torino; sua nipote, la
contessa Adelaide, passò Susa, con la marca di Torino, in dote ai
conti Savoia, sposando Oddone, figlio di Umberto Biancamano (così
si ebbe la prima unificazione tra il territorio originario, oltralpe, dei
Savoia, e quello piemontese). L’accordo della stessa Adelaide
permise all’imperatore Enrico IV, che doveva evitare gli altri passi
alpini guardati dai suoi nemici, di scendere in Italia attraverso il
Moncenisio su Susa; e fu lei ad accompagnarlo fino a Canossa,
partecipando alle trattative per il suo perdono da parte del papa.
La città (la romana Segusium) è disposta lungo la Dora, ma il suo
nucleo più antico è sulla riva destra, che si raggiunge attraversando
un piccolo ponte, sulla cui riva sinistra è la chiesetta della Madonna
del Ponte, che esisteva già, anche se in aspetto completamente
diverso dall’attuale classica nitidezza, quando a Susa si fermò
Enrico VII nella sua discesa del 1310. Passato il ponte, raggiungo
rapidamente, nella luce intensa del sole del tardo mattino, che ha
rapidamente cancellato le tracce della recente pioggia, la piazza San
Giusto, sul fianco della cattedrale, accanto a cui si innalza il
campanile romanico, che culmina in una grande cuspide aggiunta a
fine Quattrocento e attorniata da quattro cuspidi minori. La piazza è
limitata dalla Porta Savoia, resto dell’originaria cinta muraria:
varcandola se ne ammira la facciata esterna, con due torri che
fiancheggiano il fornice e quattro ordini di finestre che lo sovrastano.
Fuori della porta c’è il verde Parco d’Augusto, sul sito del Foro
Romano, e, in fondo a un breve viale, l’Arco di Augusto, solenne
nella sua semplicità, edificato nel 9-8 a.C. dal re Cozio I in onore
dell’imperatore: ma non è facile riconoscere, nel fregio in alto,
l’immagine dell’alleanza tra Augusto e Cozio. Una lapide recente,
posta nel bimillenario dell’arco (19 luglio 1992) collega “la storica
alleanza / qui stipulata” tra Cozio e Augusto all’intesa tra le diverse
popolazioni delle Alpi occidentali e al “cammino verso l’unità
europea”. Oltre l’arco c’è una doppia porta in materiale di recupero
che doveva essere aperta nelle mura. Subito alla destra dell’arco si
trova infine il castello, costruito alla fine del X secolo sulle rovine del
Palazzo di re Cozio e designato generalmente come castello della
contessa Adelaide.
L’allusione dantesca al passaggio di Annibale mi porta comunque
a lasciare subito questa città che evoca soste, scambi, interferenze,
per toccare almeno Moncenisio e Monginevro, più tradizionalmente
frequentati e facilmente raggiungibili in automobile, su strade che
ricevettero le cure di Napoleone Bonaparte, abituato del resto a
frequenti passaggi delle Alpi. È vero comunque che per la sua prima
campagna d’Italia, quella del 1796, egli transitò per via di costa,
attraverso la Liguria, mentre per quella del 1800 egli passò da nord,
attraverso il Gran San Bernardo, per giungere poi fulmineamente
alla grande vittoria di Marengo, dalla quale comunque tornò indietro
passando per il Moncenisio (2083 m.), di cui curò allora l’assetto
viario, disponendo la costruzione della carreggiabile su un percorso
che grosso modo corrisponde a quello attuale; sul Moncenisio passò
poi quando era già imperatore, nell’aprile del 1805, in viaggio con la
moglie Joséphine, per andare a prendere a Milano la corona d’Italia.
E, all’inizio del maggio 1859, vi passò, sotto il comando del generale
Joseph Vinoy, la 2a divisione del IV Corpo d’Armata dell’esercito
francese a sostegno del Piemonte di Cavour per la guerra contro
l’Austria.
Per il passaggio di Annibale, oltre al Moncenisio e al Monginevro,
ricerche e ipotesi hanno chiamato in causa anche altri colli vicini e
meno praticabili: subito a ovest del Moncenisio due colli che
sarebbero stati percorsi in successione, il Piccolo Moncenisio (2182
m.) e il colle Clapier (2491 m.), a cui ora si sale dal piccolo Lac de
Savine; invece a est del Moncenisio, il colle dell’Autaret, che sbuca
nella Val di Viù e che potrebbe anche essere considerato la variante
suggerita a Carlo Magno per scendere dalle Alpi evitando la Val di
Susa e prendendo alle spalle le Chiuse longobarde. Per Annibale si
è parlato recentemente di un altro colle impervio, che tuttora non è
nemmeno varcato da carrozzabile, il col de la Traversette, che si
trova più a sud, nei pressi del Monviso. E c’è stato chi, inseguendo
la storia e la leggenda, le suggestive associazioni suscitate dalla
figura del condottiero cartaginese, ha compiuto dei viaggi alla ricerca
delle sue orme: come il giornalista de “la Repubblica” Paolo Rumiz,
che ha narrato il suo viaggio in un libro del 2008, Annibale. Un
viaggio. Nel ripercorrere le strade e i luoghi delle imprese di
Annibale, Rumiz ha provato due volte questo passaggio alpino,
attraverso il colle Clapier e poi su un altro colle, ancora più a sud del
Monviso, quello della Maddalena (in francese Col de Larche):
inseguendo nello spazio montano, negli intoppi e nelle difficoltà del
salire e dello scendere, i fantasmi dell’immenso brulicante esercito
che con ostinata sicurezza venne a violare la solitudine e il silenzio
di queste alpestre rocce.
Uscendo da Susa e salendo sui primi tornanti della strada del
Moncenisio, penso che sarebbe bello avere possibilità, tempo,
energie per toccare i passi più difficili, irraggiungibili per via
automobilistica: e mi fermo ogni tanto a guardare dall’alto il fondo
della valle. Ecco lì la città di Susa, in cui bene si distingue il
campanile della cattedrale con la sua guglia; ecco il tracciato
dell’autostrada e il corso della Dora. Salendo ancora la strada si
affaccia sulla val Cenischia, torrente che nasce presso il Moncenisio
e si getta nella Dora Riparia subito a est del centro di Susa: in fondo
si vede ora il paese di Venaus, che è stato protagonista nella lotta
che tuttora lacera queste valli, suscitata dal progetto della linea di
alta velocità, la TAV Torino-Lione, che i promotori considerano parte
di un Corridoio mediterraneo che dovrebbe condurre da Lione
all’Ucraina, di essenziale rilievo per lo sviluppo della rete di scambi
europea. Qui siamo nel centro nevralgico della battaglia che le
popolazioni della Val di Susa, preoccupate per l’alterazione
dell’ambiente e per i molteplici pericoli collegati, conducono dagli
anni novanta del secolo scorso, sotto l’egida del movimento NO TAV,
che ha compiuto azioni e interventi per bloccare la costruzione della
linea. In seguito alle lotte NO TAV e alla determinata resistenza dei
comuni del territorio, l’originario progetto ha subito varie
trasformazioni e modificazioni di percorso: ma resta comunque
centrale lo scavo di un grande tunnel che da Susa dovrebbe
raggiungere Saint Jean de Maurienne, passando sotto il Moncenisio,
quasi estremo esito ultramoderno dei tanti modi con cui il valico è
stato varcato nel corso del tempo.
Nel progetto originario il tunnel doveva partire proprio qua sotto,
dall’area del comune di Venaus: erano state recapitate le lettere di
esproprio e si cominciava ad allestire il cantiere; ma gli abitanti di
Venaus ne hanno abbattuto i recinti e occupato l’area, con
conseguente sgombero da parte della polizia e duri scontri, che
comunque ebbero un esito positivo per i residenti, con un ritiro della
polizia (la chiamano la liberazione di Venaus, 8 dicembre 2005). Ma
alla fine l’ingresso del tunnel non sarà più qui sotto, ma poco oltre
verso ovest, nel vicino comune di Chiomonte, mentre resta
comunque in piedi il progetto della costruzione di una grande
stazione internazionale a Susa.
La lotta si è allora spostata più in là, con tutta una serie di
manifestazioni, scontri, in una conflittualità che vede schieramenti
inconciliabili: da una parte le istituzioni che rivendicano il rilievo
economico, imprenditoriale, culturale dell’impresa, dall’altra le
popolazioni locali, con il sostegno del Movimento Cinque Stelle (man
mano sfumato e contraddetto dopo il suo approdo al governo) e di
qualche gruppo di quegli agitatori più o meno anarchici le cui azioni
danno spesso buon gioco a chi vuole deviare l’attenzione dalle
ragioni della protesta. Resta il fatto che qui si rivela in modo estremo
il conflitto tra l’ostinata progettualità della cultura industriale, che mira
a trasporti sempre più veloci ed efficienti, e l’ambiente naturale e
umano, con le esistenze delle persone che si trovano a vivere nei
luoghi che i progetti inevitabilmente finiscono per alterare e
violentare. Si tratta di una contraddizione che riguarda tutte le forme
dello sviluppo industriale in ogni parte del mondo, dove gli interventi
delle grandi imprese modificano senza ritorno i tradizionali spazi
umani e naturali, con esiti spesso distruttivi per le forme di vita che vi
si svolgono. In questo paesaggio montano, tra gli antichi equilibri su
cui in esso si è costituita la presenza umana, ciò si percepisce in
modo forse più immediato che altrove: ed è perfettamente
comprensibile l’ansia che qui produce la grande opera che potrà
magari rendere più agevole il passaggio di ricchezze tra centri
diversi d’Europa, ma finirà certamente per togliere molto ai residenti.
È vero del resto che tante opere sono intervenute nel corso del
tempo a modificare l’ambiente: la stessa strada su cui sto
procedendo risale alla volontà di Napoleone, che, come ho già
ricordato, rese il passaggio del Moncenisio molto più agevole che in
precedenza; in parte su questa strada e in parte in sede propria (e
se ne trovano tracce, con apposite indicazioni) passò anche per
pochi anni, tra il 1868 e il 1871, una ferrovia con speciali locomotive
ad aderenza artificiale (sistema Fell), singolare ferrovia di montagna
dismessa in seguito al completamento della galleria del Fréjus, che
era allora in costruzione. Ma è vero anche che negli interventi del
passato ogni dato tecnico veniva comunque a fare più direttamente i
conti con l’ambiente, non poteva evitare di adeguarsi alle sue
condizioni, non disponeva di quella potenza energetica e di quella
forza di modificazione delle grandi opere dei nostri giorni.
Un breve altopiano che precede il colle del Moncenisio si trova ora
fuori dei confini d’Italia: dopo la Seconda guerra mondiale, nel
trattato di Parigi del 1947, esso è stato ceduto alla Francia,
ricollegandolo alla Savoia: il confine è fissato al limite della salita che
si apre sull’altopiano, su cui si affaccia il piccolo borgo ora
abbandonato della Grande Croce, Grand Croix. Al centro
dell’altopiano si adagia un lago artificiale con diga e con un sistema
di tunnel interni che convogliano ed emettono acque sia sul versante
francese che su quello italiano: verso l’Italia le acque confluiscono
nel torrente Cenischia, alimentando la centrale elettrica di Venaus. In
fondo al lago è rimasto sommerso l’Ospizio, fondato intorno all’815
dal successore di Carlo Magno, Ludovico il Pio.
Tocco rapidamente il valico e torno subito indietro in territorio
italiano, lasciando però la strada napoleonica per raggiungere, sulla
sinistra, il piccolo paese che ha proprio il nome di Moncenisio, il cui
territorio era molto più esteso prima del trattato del 1947 (si
chiamava allora Ferrera Cenisio, nome dovuto ad antiche miniere di
ferro da lungo tempo dismesse): ora è il secondo comune d’Italia per
piccolezza, con meno di 40 residenti. Prima della creazione della
strada napoleonica era un punto di passaggio obbligato per il valico
e disponeva di quattro alberghi: i viaggiatori che andavano verso la
Savoia lasciavano le carrozze in basso a Novalesa, salendo poi su
di una ripida mulattiera fin qui, da dove potevano essere condotti al
valico o a dorso di mulo o su portantine di fasci di rami, chiamate
ramasses, portate dai vigorosi montanari.
Prima del paese c’è un piccolo lago naturale, circondato dal bosco,
su cui si affaccia uno chalet sopravanzato da un semplice
portichetto. Poi, sfiorate le case di Moncenisio, la strada, in alcuni
punti molto stretta, comincia a scendere precipitosamente, aprendosi
su tutta la val Cenischia. Il fronte della roccia sul versante opposto a
quello su cui scendo è solcato da getti d’acqua che precipitano in
basso, alimentando il Cenischia: un gettito molto fitto, quasi una
pertica acquatica, perfettamente verticale, scende all’interno di una
fessura del monte; più in là la roccia sembra disporsi a strati come
separati e sovrapposti, quasi incastrati l’uno nell’altro.
Al termine della ripida discesa, sfioro il paese di Novalesa:
toccando la frazione di San Pietro, mi dirigo verso l’abbazia,
costruita dai Franchi nell’VIII secolo (l’atto di fondazione è del 726),
come luogo di controllo del fronte alpino, vero e proprio avamposto
tra la regione francese e l’Italia. Varie furono le sue vicende nei
secoli dell’alto Medioevo: e proprio qui dovette essersi attestato
inizialmente l’esercito di Carlo Magno ostacolato dalle Chiuse tenute
dai Longobardi: e mi domando se il successivo passaggio vittorioso
(quello che nell’Adelchi viene rivelato dal diacono Martino) non abbia
comportato una risalita da qui al Moncenisio per prendere poi la
strada di un altro colle (l’Autaret?) in modo da scendere alle spalle
dei Longobardi. Nel 906 l’abbazia fu saccheggiata da un’incursione
dei saraceni, mentre i monaci si erano rifugiati a Torino; e solo
all’inizio dell’XI secolo iniziò la sua ricostruzione. Di poco successivo
è il Chronicon Novaliciense, opera di un monaco che fa la storia
dell’abbazia intrecciando realtà e leggenda.
Poco prima dell’abbazia si trova un parcheggio che appare in stato
di abbandono: le automobili procedono oltre il parcheggio,
giungendo al limite del modesto piazzale prospiciente l’abbazia, il cui
fronte si presenta senza particolari segni architettonici. La chiesa,
costruita nel XVIII secolo sul sito di una precedente chiesa romanica,
ha una facciata molto semplice e un interno moderatamente
barocco. Accanto al corpo centrale dell’abbazia ci sono edifici
recenti, anche con un piccolo ristorante, ora molto affollato. Maggior
interesse ha la visita delle cappelle che sono sparse al di fuori, sopra
tutte quella di sant’Eldrado, che fu abate nella prima metà del IX
secolo: ci sono affreschi dell’XI secolo, tra cui singolari sono le
immagini del santo che lavora in un campo ai piedi di un albero
presso il castello natio di Ambilis (probabilmente Ambel, ora nel
dipartimento francese dell’Isère), poi di lui che parte con le insegne
di pellegrino e di lui che riceve l’abito di monaco al suo arrivo a
Novalesa.
Dopo la visita all’abbazia di Novalesa attraverso Venaus e,
lasciando la val Cenischia, torno sulla Val di Susa, risalendo la Dora
Riparia. Ecco subito Chiomonte, nel cui territorio sono in atto i lavori
per la costruzione del grande tunnel di Km. 57,5 della TAV, condotti
dalla società italofrancese TELT (Tunnel Euralpin Lyon Turin). Il
cantiere è stato aperto nel 2011, occupando un’area di sette ettari
nei boschi: si tratta della località La Maddalena, dove sono tracce di
insediamenti neolitici (e c’è anche un’Area archeologica della
Maddalena), nella valle della Clarea, torrente che scende dal
massiccio dell’Ambin e si getta nella Dora: la valle era anche una via
di passaggio tra Francia e Italia, attraverso il già ricordato colle
Clapier, usato nell’antichità prima che una frana lo rendesse
impraticabile. I lavori stanno ora procedendo con lo scavo di un
tunnel detto geognostico, cioè rivolto a raccogliere i dati, geologici,
idrogeologici, geomeccanici, per verificare le condizioni della roccia
su cui operare per lo scavo del tunnel vero e proprio.
L’opposizione al cantiere continua a svolgersi con varie
manifestazioni: e ce n’è stata appena una, nella notte dell’11
settembre, con battiture delle reti di protezione e fuochi d’artificio,
per opera di incappucciati, che poi si sono fatti a bella posta
catturare dalla polizia, la quale, constatando che si trattava di
ultrasessantenni, ha deciso di rilasciarli. Ma in ogni modo non
sembra che le manifestazioni riescano a ostacolare davvero i lavori
(questa fase geognostica si sarebbe in effetti conclusa nel febbraio
2017, dopo aver raggiunto una profondità di 7020 metri): infatti, nel
2019 non è ancora chiaro quale sarà il destino del progetto e quali le
decisioni della nuova maggioranza di governo.
Proseguo sull’autostrada fino a Oulx, dove essa, come la ferrovia,
procede verso Bardonecchia e il vecchio tunnel del Fréjus: la lascio,
per risalire ancora il corso della Dora Riparia, che ha le sorgenti
presso il Monginevro (mentre un fiume per così dire speculare, la
Durance, scende sul versante francese). Da Cesana la strada sale
più direttamente verso il passo. Era più o meno il percorso della
romana via Domizia, fatta costruire da Gneo Domizio Enobarbo,
console nel 122 a.C.: a partire da Susa (Segusium) saliva sul
Monginevro scendendo nella valle della Durance fino al Rodano per
attraversare la Provenza e raggiungere la Spagna. L’ascesa del
Monginevro era la più agevole di tutto il settore occidentale delle Alpi
e, come tale, privilegiata dai romani. L’identificazione del Monginevro
come passaggio di Annibale potrebbe essere motivata proprio dal
diretto riferimento che Livio, XXI XXXII 6 fa a quella della Durance,
come valle percorsa per il raggiungimento delle Alpi: “Hannibal ab
Druentia campestri maxime itinere ad Alpes… pervenit” (“Annibale
dalla Durance per strade pelopiù piane pervenne alle Alpi”). Ma poi
se si tiene conto che sia Polibio, III LV, che Livio XXI XXXVI, insistono
sulla difficoltà del passaggio, e in particolare della discesa, è proprio
la relativa agevolezza del Monginevro a rendere piuttosto dubbia
l’ipotesi.
Dopo alcune gallerie che hanno la funzione di proteggere la strada
dalle valanghe, quasi a ridosso del passo, subito prima del confine
con la Francia, tocco l’elegante località sciistica di Claviere. Poi
procedo oltre il confine, toccando il passo (1860 m.), che si distende
in una dolce piana, su cui è disposto il paese di Montgenèvre,
accanto al quale c’è un piccolissimo lago. Anche questo è un centro
sciistico, con vari impianti che portano verso le piste dei rilievi
circostanti, su cui si scorgono, tra i boschi, verdi prati dolcemente
digradanti. Una curiosa scultura a fili di metallo glorifica sciatori e
gendarmi sciatori. Attraverso le stradine interne, sfioro una semplice
chiesetta, sotto il campanile cuspidato di foggia romanica. Ma la
maggiore curiosità storica di questo sito è l’obelisco piazzato proprio
al centro della strada, all’ingresso del paese, in onore di Napoleone
Bonaparte, che, passato anche di qui, nel 1807 fece sistemare la
strada rendendo più agevole il passaggio tra la Francia e l’Italia.
Molto semplice è l’obelisco: esso si regge su una base cubica, sulle
cui quattro facciate ci sono delle epigrafi a rilievo, quattro epigrafi in
quattro lingue diverse, francese, latino, italiano, spagnolo, che
esprimono la gratitudine dei notabili e del popolo all’imperatore PER
AVERE APERTA UNA VIA / ATTRAVERSO DELLE MONTAGNE DI QUESTA PROVINCIA /
E AVER RESO IL PASSAGGIO DALLA FRANCIA IN ITALIA / PIÙ COMODO E PIÙ
SICURO (questa in parte l’epigrafe italiana). Poco più in là un apposito
cartello ricorda che qui passava la via Domizia e che la strada
funzionava e funziona anche come passaggio del cammino di
Santiago e di Roma, da una parte 2010 km. verso Santiago de
Compostela, dall’altra 914 km. verso Roma.
Dopo la breve sosta in questo borgo francese, scendo tornando
indietro fino a Cesana, da dove la strada di nuovo sale verso il colle
del Sestriere, che fa da spartiacque tra la Val di Susa e la
successiva valle del Chisone, torrente che anch’esso scende verso il
bacino del Po, ma confluendo prima nel Pellice, che a sua volta
scende dal roccioso monte Granero, subito a nord del Monviso. Nel
salire lentamente verso Sestriere si scorge sempre più in basso,
sulla destra, la valle del torrente Ripa, che serpeggia sul suo greto,
che si restringe all’altezza delle case di Sauze di Cesana. Salendo
verso la cima del colle cominciano a disporsi gli edifici della località
sciistica, sviluppatasi negli anni trenta del Novecento e diventata
centro di grande importanza anche per lo sport agonistico, con piste
in cui si svolgono gare internazionali. Insieme alle località vicine, fino
a Cesana e a Claviere, Sestriere, che è stato il sito centrale delle
Olimpiadi invernali del 2006, costituisce un comprensorio sciistico
che ha assunto il nome astronomico di Via Lattea. Svettano al
sommo due grandi torri cilindriche, una torre rossa, più in alto,
impiantata nel 1932 e una bianca, più grande e disposta poco più in
basso, che risale all’anno successivo: torri per due grandi alberghi,
fatte costruire dalla famiglia Agnelli col trionfante proposito di fare di
Sestriere una capitale dello sci. Questa funzione di capitale sportiva,
centro della Via Lattea, ha suscitato nel tempo un singolare impegno
edilizio: ecco allora due torrette più recenti, tra loro appaiate, di un
bianco su cui si interpone lo scuro degli infissi e della tettoia
punteggiata di camini. Accanto a queste torrette, mi fermo a
osservare il groviglio, variamente disposto sul fianco montano, di
palazzi, palazzetti, residence e alberghi, a cui la geometrica teoria
delle finestre dà un aspetto di griglie, di bucherellato metallo: e certo
non capisco come tutto ciò possa essere considerato congruo con il
paesaggio montano. Qui non sembra si arresti la spinta edilizia a
trasformare la montagna in una postmontagna turistica, sportiva,
tecnologica: ci sono del resto nuovi edifici in costruzione, chissà se
già pronti per la stagione invernale, che tra qualche mese sarà a
pieno ritmo.
Superate le torri originarie, sono ormai in cima al colle (2035 m.),
che riceve il suo nome dal suo collocarsi ad petram sistrariam,
all’antico passaggio che era a sessanta miglia da Torino. Inizia la
tranquilla discesa nella Valle del Chisone, tra centri sciistici e tracce
di antichi borghi montani; la strada alterna piccole rampe a più
distesi tratti pianeggianti, mentre la valle si allarga man mano, fino
ad aprirsi totalmente sulla soglia della Val Padana. Eccomi a
Pinerolo, uno dei centri più attivi di questa zona pedemontana.
Scarse sono le tracce del suo assetto medievale, dei tempi in cui fu
variamente contesa tra il vescovo di Torino e l’abbazia benedettina di
San Verano. Nel XIII secolo la città era già tenuta da un ramo dei
Savoia, mentre successivamente, entrata a far parte del ducato, si
trovò a subire a più riprese la dominazione francese, finché nel 1696
fu definitivamente riconquistata da parte dei Savoia, che favorirono il
suo sviluppo nel Settecento.
Nel segno dei Savoia, Pinerolo è stata la città della cavalleria,
sede di una celebre Scuola di Cavalleria militare: ancora oggi è sede
del reggimento Nizza Cavalleria (che comunque opera ormai con
mezzi blindati). All’Arma della Cavalleria è dedicato un apposito
Museo storico, mentre è in progettazione l’allestimento di una Scuola
Nazionale Federale di Equitazione. C’è ancora un ampio parco, dove
era la piazza d’Armi, su cui volteggiavano i cavalli, e dove si sono
svolti vari concorsi ippici. Nel pomeriggio domenicale la città appare
affollatissima, assediata da auto che cercano parcheggio: a stento
riesco a trovare posto su un vasto intasato piazzale, per poi fare un
breve giro nel centro, sulle cui strade (e sotto i portici) sono banchi e
bancarelle, che lasciano uno stretto passaggio alla folla che procede
curiosando tra gli articoli più diversi. È in effetti in corso la 39a
edizione della Rassegna dell’Artigianato del Pinerolese, che espone
prodotti di imprese e botteghe locali: artigianato piccolo e grande,
generi di ogni sorta, paccottiglia e cose di buon gusto, gadget e
utensili, gioiellini e soprammobili, stoviglie e alimentari, spezie e
vegetali ecc. I banchi coperti sono addossati anche intorno alla
cattedrale di San Donato, la cui prima notizia risale al 1044 (quando
la città non era ancora sede vescovile), ma che ora si presenta in
una forma neogotica fissata soprattutto nell’Ottocento: nell’interno
coloratissimi affreschi brillano sulle larghe colonne che delimitano la
navata centrale.
Sulla piazza San Donato si affaccia un bel palazzetto che una
lapide indica come abitato da Silvio Pellico bambino: il futuro
scrittore de Le mie prigioni era nato a Saluzzo nel 1789 e fu qui,
dove il padre aveva un negozio di drogherie, dal 1792 al 1806. Egli
mi riconduce un po’ a Dante, ricordandomi la sua tragedia del 1815,
Francesca da Rimini, in cui la vicenda dei due amanti si dispone su
di un doppio registro patriottico e sentimentale, e una tarda cantica,
pubblicata nel 1837, La morte di Dante, dove la figura del poeta,
smussando il suo spirito polemico, viene ricondotta a un
cattolicesimo conservatore, addirittura ossequioso verso la Chiesa.
Da Pinerolo scendo verso sud, sul margine tra la pianura e le
propaggini del fronte alpino; passo per Barge, centro di origine
romana, in cui la stretta torre di un vecchio castello, probabilmente
del XII secolo, svetta su un duro fronte roccioso. Il nome di Barge mi
suona familiare, perché è legato a Ludovico Geymonat, il fondatore
della filosofia della scienza in Italia, la cui famiglia valdese era di
Barge originaria: militante antifascista e comunista, Geymonat fu uno
degli animatori della lotta partigiana proprio qui nella zona di Barge.
Di lui conoscevo già ai tempi del liceo il manuale di Storia della
filosofia: ma poi di lui e del rapporto con Barge ho spesso sentito
parlare dal figlio Mario, mio quasi coetaneo che è stato un
importante filologo classico, autore di una capitale edizione critica
dell’Eneide (1973 e 2008): l’ho avuto come collega per alcuni anni
all’Università della Calabria. Sul solco del comunismo del padre,
Mario è stato un immaginoso, avventuroso, a tratti
irresponsabilmente giocoso esponente del vario estremismo che ha
costeggiato il Sessantotto italiano, partecipando nel 1966 alla
fondazione del Partito comunista d’Italia (marxista-leninista), di
ispirazione maoista, che, tra contrasti interni e scissioni, rivendicò
sempre una stretta continuità col maoismo e con il regime comunista
albanese di Enver Hoxha.
Avendo conosciuto Mario (scomparso nel 2012) quando il
comunismo albanese era ancora in piedi, mi è sembrato sempre
inconcepibile il rapporto tra il suo impegno di studioso, anche attento
alla vita accademica, e questa sua attività politica: e di fronte alla
sua cordiale umanità, di fronte a certi rapporti personali e familiari a
cui mi trovavo a partecipare, mi sembrava che tutto fosse vissuto
come un gioco incredibile e illusorio, qualcosa che gioco in fondo
non era, ma che la nostra generazione ha avuto in sorte di vivere
anche come tale. E a un gioco somigliavano le escursioni di Mario in
paesi della Calabria, per fare comizi del suo partito: montava su il
microfono nelle piazzette, davanti all’unico compagno locale del
partito; e sembra che una volta abbia portato con sé, in amichevole
e non politica compagnia e senza nessuna intenzione di farne un
adepto del partito, un illustre studioso italiano operante in America,
che allora si trovava presso l’Università della Calabria.
Da Barge si raggiunge in pochi chilometri Paesana, toccando
finalmente il Po, che qui scende con agile e saltellante piglio
torrentizio: a vederlo incassato tra folti cespugli, a seguire il modo in
cui le sue acque aggirano levigatissimi massi, in un letto che
continuamente si allarga e si restringe, sembra incredibile che nella
piana sottostante diventi sempre più maestoso e potente,
raccogliendo e convogliando tante acque dalle Alpi e dall’Appennino.
Ora risalgo questa sua prima valle, che sale verso il Monviso,
sfiorando il borgo di Ghisola, dove è una vecchia casa chiamata di
Re Desiderio, per una leggenda che la considera ultimo asilo del re
longobardo, dopo la sconfitta subita da Carlo Magno.
In alto, in fondo alla valle, non si scorge altro che un compatto
fronte nuvoloso: a un certo punto si attraversa un breve tratto
pianeggiante che ha il nome di Pian Beatrice. Piove fittamente
quando lascio il fondovalle per prendere una strada che sale a
destra, su un fianco montuoso in cui ogni tanto si aprono pendii più
dolci e brevi pianori. Devo raggiungere Ostana, dove alloggerò in un
agriturismo montano: ma mi accorgo che Ostana è un comune
disseminato in più frazioni che si abbarbicano sul fronte montuoso e
che il mio alloggio si trova abbastanza più in alto rispetto al centro
comunale. La strada serpeggia con tratti variabili, tra villette,
casolari, rimesse, piccole stalle, si apre su prati e si incassa tra fusti
frondosi: continua a piovere mentre ormai è scesa la sera e ho quasi
l’impressione che i Durandin, la frazione in cui si trova il mio
agriturismo, si sia perduta sul fianco della montagna. A un certo
punto sulla stretta strada mi viene anche incontro una mucca
solitaria che lì per lì sembra volermi bloccare, convincermi a tornare
indietro.
Ma ecco finalmente lassù, affacciata su una terrazza in cui sono
piantati degli ombrelloni chiusi, come sentinelle e fantasmi sotto la
pioggia, una grande baita con la facciata in pietra, che mostra la sua
insegna in lingua occitana A nostro mizoun (A casa nostra). Qui
siamo a 1630 metri di altezza: e mentre la pioggia continua a
battere, l’atrio d’ingresso mi dà la sensazione di essere finalmente
avvolto nel cuore di questo universo montano, remoto e isolato, ma
misteriosamente protetto. Sono il solo ospite della piccola struttura
alberghiera a conduzione familiare: e la semplice cena mi viene
servita nel silenzio da un gentilissimo adolescente. In questo luogo
la disposizione e la presenza degli oggetti, le vivande, le persone, le
cose, recano il segno di una concretezza di vita, di una disposizione
umana che non si è ancora piegata alla virtualizzazione
dell’esperienza. È ancora un’antica Italia che resiste? Nessun
rumore, solo qualche lontano indefinibile verso di animale, viene a
turbare la notte, ritmata solo a brevi tratti dal battere della pioggia sul
tetto.
Al mattino l’apertura delle imposte mi offre l’improvviso svelamento
del Monviso: piccoli ciuffi di nuvole stazionano ora sul cielo azzurro e
il massiccio montuoso è qui davanti a me, sotto la luce del sole
mattutino, che dà alla roccia tonalità di verde su cui si distende il
bianco del ghiaccio e si insinuano riflessi di rosso. Non si vede la
punta della vetta, ostinatamente abbracciata da una nuvola che a
tratti sembra volersi allontanare, man mano si distende, assume
aspetti diversi: si sposta in avanti, ma poi finisce per sembrare quasi
incollata alla montagna. Sui prati che sono alla base del corpo
roccioso la luce del sole si alterna continuamente con il disegno
ombroso proiettato da altre piccole nuvole che passano e se ne
vanno senza lasciare traccia. Nella freschezza del mattino mi
sembra di toccare qualcosa di primigenio: qui la natura si offre come
spettacolo dell’inizio, nella cui evidenza visiva sembra volersi svelare
il segreto di un senso, annunciarsi una rivelazione che non c’è.
Il Monviso e la sorgente del Po

…dal Monte Viso ’nver’ levante…


(Inf., XVI 95)

Lascio i Durandin per avvicinarmi alla sorgente del Po e al Monviso,


che Dante nomina in una intricata perifrasi (già integralmente
riportata: vedi p. 411, con richiamo anche a un’interpretazione che
nega il riferimento al Monviso, e poi p. 1110) con cui indica il fiume
Montone, che considera, tra i fiumi che sorgono dall’Appennino, il
primo verso est a non gettarsi nel Po.
Scendendo dai Durandin nella stradina tortuosa e nella luce del
mattino posso scorgere ora le balconate di legno aperte sulle case
addossate alla montagna, baite e capanne, recinti, muretti di pietra.
A un certo punto la strada supera un ponticello sotto cui passa un
corso d’acqua che scende turbinosamente, quasi a precipizio sulla
costa del monte, certamente per confluire più sotto nel bacino del
Po. Sosto brevemente nella località centrale di Ostana, La Villo,
dove è il piccolo municipio e una semplice chiesetta, tutto sotto un
segno di pungente freschezza e lindura. Sulla facciata del municipio
una lapide ricorda l’equipaggio di un bombardiere del 31° Squadron
South African Air Force caduto sulle montagne circostanti in
missione di rifornimento alla Resistenza partigiana: otto giovani
militari britannici e sudafricani.
Raggiunta la strada di fondovalle del Po, la risalgo raggiungendo
Crissolo, località turistica i cui edifici sono affiancati sulla strada e
sulle due sponde: un bel ponticello col parapetto in legno solca il
fiume che qui scende con un letto quasi a scalini, abbastanza più
largo di quello che ho toccato ieri più in basso. Oltre Crissolo la
strada si restringe: stretta e tortuosa, con pochissimi punti che
rendono possibile la circolazione sui due sensi di marcia, conduce
verso la base del Monviso, la cui mole mi viene incontro man mano
che procedo. Attraverso l’ampio Pian della Regina, dove è un
piazzale con un ben attrezzato rifugio: il fiume vi serpeggia, dopo
essere sceso saltellando su vere e proprie cascatelle. Un
monumento composto con massi rocciosi, a cui sono appoggiati una
piccozza e un casco militare, è dedicato A tutti coloro / che dalle
trincee / più non fecero ritorno. Sull’asfalto della stretta strada sono
invece tracciate deprimenti scritte per così dire politiche: SALVINI SEI
UNO DI NOI; INDIPENDENZA / LIBERTÀ / DISOBBEDIENZA.
La strada comunque sale leggermente sulla costa del monte, alla
sinistra del corso del fiume, sul versante opposto al massiccio
cuspidato, che a tratti sembra liberarsi dal suo pennacchio di nuvole.
Fortunatamente non incontro nessuna auto che procede in senso
contrario e giungo finalmente al Pian del Re, che sembra sia stato
chiamato così perché avrebbe dato accampamento all’esercito di
Francesco I di Francia durante una delle sue discese dalla Savoia
nelle cinquecentesche guerre d’Italia: doveva essere passato dal col
de la Traversette, che si trova a nordovest e che, come ho sopra
ricordato, oggi è uno degli indiziati anche per il passaggio di
Annibale.
Un grosso casale fa da bar e rifugio, accanto ad altri edifici dai tetti
spioventi; un po’ isolata, su uno sperone avanzato, c’è una chiesetta;
delle automobili, più o meno una decina, sostano su un parcheggio.
Il piano, all’altezza di 2020 metri, a nord della vetta del Monviso (che
raggiunge l’altezza di 3841 metri), è come un grande vaso, residuo
di un antico lago alpino, su parte del quale si è formata una torbiera,
grazie alla decomposizione di materiale alluvionale, dando vita a una
rara e particolarissima flora, e a un singolare anfibio, la salamandra
nera di Lanza. Sui prati che si allargano sul declivio del monte a
nordest si scorge un certo numero di mucche al pascolo. Diversi
ruscelli scendono da varie sorgenti lungo i crinali che circondano il
piano: ma percorrendo un sentiero che si diparte dal parcheggio e
scende leggermente verso il cuore cavo del piano, si giunge a una
sorgente che erompe con buona portata da un’oscura fessura tra
due massi; su un sasso grigiastro appoggiato lì accanto è scritto in
maiuscole bianche: QUI NASCE IL PO. Una sorgente tra le tante, da cui
si forma subito un ruscello che si fa strada sopra un fondo sassoso,
tra il verde della vegetazione montana: certo solo poco più avanti
possiamo considerarlo già fiume Po, quando viene alimentato da
altri ruscelli che scendono dai rilievi.
Sorgente convenzionale, come quella di tutti i grandi fiumi, che si
formano da un vario confluire di acque: se ne sceglie una per la
imprescindibile disposizione umana a identificare, fissare,
controllare, distinguere e trasformare in linguaggio le forme e le forze
della natura. Non a caso le prime identificazioni sono state quelle del
mito: mito che ai nostri tempi si ripete in forme bislacche, parodia e
farsa, come quella che qui è stata più volte inscenata dal movimento
politico che ha immaginato un’entità etnica chiamata Padania, che
ha usato celebrare a questa sorgente il rito propiziatorio dell’acqua
del Po. Penso al caos che ci sarà stato qui, sul Pian del Re, in quelle
occasioni celebrative. Mi chiedo come sia stato possibile che la
montagna, con i suoi silenzi, sia stata trasformata in teatro di effetti
politico-mediatici, quando vedo avvicinarsi un uomo con baffi e folti
capelli neri, in tuta grigia, accompagnato da due cani: con delle
asticelle e dei fili sta limitando una zona del prato riservata al
pascolo delle mucche, in modo che non passino oltre. È un
allevatore di mucche d’alta quota, che mi parla della difficoltà del suo
lavoro, per cui oggi è sempre più difficile trovare collaboratori e
dipendenti adeguati, disposti ad accettare la vita della montagna, a
muoversi nel suo cuore con la dovuta cautela e passione. Difficile è
d’altra parte l’orizzonte economico, specialmente per i problemi dati
dalla distribuzione, che decurta in maniera radicale e ingiusta il
profitto dei produttori. L’allevatore, inoltre, si sente come assediato
da chi viene nella montagna per consumarla, turisti incoscienti e
senza rispetto che danneggiano l’ambiente e lo stesso pascolo: e
certi rifiuti disinvoltamente abbandonati, come le lattine delle
bevande, vengono anche mangiati dalle mucche, con grave danno
per la loro salute e il loro latte. “Occorre proteggere il territorio”, mi
dice l’allevatore, “salvaguardarlo dall’invasione di massa. Io sono
contro quelli che dicono che la montagna è di tutti: la montagna non
può essere di tutti, non può essere oggetto di consumo; va invece
preservata nel suo difficile e sempre più fragile equilibrio”.
Dopo la breve conversazione questo signore cortese e intelligente
mi augura una buona passeggiata e, poco discosto dalla sorgente,
continua tranquillo a fissare i paletti per le sue mucche. Da qui
possono prendersi vari sentieri, in più direzioni, tra cui quello verso
un rifugio che è il punto di partenza per la scalata della parete sud
della vetta del Monviso e per altre vette minori, il rifugio Quintino
Sella, aperto nel 1905 all’altezza di m. 2640, dedicato allo statista
biellese, leader della Destra storica, che il 12 agosto 1863 partecipò
alla prima ascensione italiana al Monviso, fondando poi il Club alpino
italiano.
Non ho né tempo né attrezzatura per raggiungere quel rifugio e mi
accontento di percorrere il primo tratto del sentiero che dalla
sorgente del Po porta in quella direzione. Raggiungo così un pianoro
a m. 2133, su cui si apre il Lago Fiorenza. Scavalco con un piccolo
salto l’emissario che dal lago scende giù sul Pian del Re, anche lui a
formare il Po, e giro intorno al lago, oltre il quale si affaccia la vetta
lontana, quasi del tutto coperta dalla solita nuvola, ma a tratti ben
visibile nella sua punta acuminata. La superficie del lago è uno
specchio perfetto, in cui si riflettono il verde del prato e i cangianti
colori della roccia circostante, le nuvole e gli squarci di azzurro del
cielo. Mi seggo un po’ sull’erba, sfioro l’acqua gelida, quando
l’occhio mi cade su un contenitore di plastica monoporzione di
cioccolata, forse di Nutella, lasciato lì sull’erba: anche qui! non aveva
torto l’allevatore…
Torno indietro con il rammarico di non essere andato oltre: incontro
una coppia che sale sullo stesso sentiero da cui sto scendendo,
gente attrezzata che sicuramente arriverà fino al rifugio Quintino
Sella. Sul declivio opposto le mucche restano quiete al loro pascolo,
mentre l’allevatore con i due cani, sta salendo lassù, diretto verso di
loro. Non vedo invece nessuno verso la sella che si apre a nordovest
e che dovrebbe condurre al col de la Traversette, che una recente
indagine, suscitata dal ritrovamento, a circa un metro di profondità,
di imponenti residui di sterco di cavallo che la datazione al
radiocarbonio ha fatto risalire all’epoca della seconda guerra punica,
identifica col passaggio di Annibale. Allora posso evocare il racconto
di Polibio, III LV: di fronte all’impossibilità di procedere in mezzo alla
neve, il cartaginese fissò l’accampamento sul dosso del monte e
mandò i suoi soldati Numidi a turno a spalare la neve per tre interi
giorni, liberando così il passaggio. Dei tre giorni di lavoro parla
anche Livio, ma all’intervento sulla neve aggiunge quello sulla
roccia, impraticabile per gli elefanti e le bestie da soma, e in
proposito parla di una tecnica che appare piuttosto incredibile: per
spezzare la roccia i cartaginesi avrebbero abbattuto molti alberi e
bruciata una immensa catasta sopra la pietra cosparsa d’aceto. Per
effetto del fuoco e dell’aceto la pietra avrebbe più facilmente ceduto
sotto i picconi (“Ita torridam incendio rupem ferro pandunt”, “Così
aprono col ferro la rocca bruciata dall’incendio”, XXI XXXVII 3),
rendendo il passaggio praticabile anche dagli elefanti.
Domandandomi in che modo molti secoli più tardi possa essere
invece disceso Francesco I, lascio il Pian del Re ripercorrendo la
stretta strada asfaltata: ora mi capita di incontrare un’auto che
procede in senso opposto e mi costringe a una lunga retromarcia,
fino a un punto in cui la strada brevemente si allarga, in modo che
l’altro riesca a passare. Poi sono di nuovo al Pian della Regina e
finalmente trovo la strada più ampia, attraversando Crissolo,
discendendo verso Paesana, continuando poi a seguire questa alta
valle del Po, ma quasi mai toccando le rive del fiume, fin quasi alle
porte di Saluzzo.
Qui ai tempi di Dante era ben insediato il potere dei marchesi,
della famiglia del Vasto: e dal 1244 al 1296 titolare ne fu un
Tommaso I e poi, fino al 1330, un Manfredi IV. Ma personaggio
immaginario è il marchese di Saluzzo più noto della letteratura, il
Gualtieri dell’ultima novella del Decameron, eccessivo e assurdo
torturatore della moglie Griselda, che, scacciata e umiliata, con i suoi
incredibili sacrifici riesce nonostante tutto a farsi accettare da lui e
perdonarlo: emblema comunque della donna devota, illimitatamente
subalterna al potere maritale, e come tale piaciuta molto a Petrarca,
che tradusse la novella in latino.
Dai dintorni di Saluzzo mi dirigo verso Cuneo, dove approdo nella
vastissima piazza Galimberti, il cui perfetto rettangolo porticato fa da
limite tra la città storica, che si sviluppa a nordest lungo l’asse della
via Roma e la città nuova, sull’asse di corso Nizza, a sudovest. Sulla
piazza, che impressiona per la sua vastità, si affaccia un balcone
dell’abitazione che fu di Tancredi Galimberti, detto Duccio, l’avvocato
antifascista che da qui il 26 luglio 1943 tenne un discorso che
lucidamente prefigurava già allora, subito dopo la caduta di
Mussolini, la dura necessità della Resistenza. Rispondendo al
messaggio del nuovo primo ministro Badoglio, che indicava la
continuazione della guerra “a fianco dell’alleato germanico”,
Galimberti immaginava già quelli che sarebbero stati i tremendi
sviluppi futuri, affermando: “sì, la guerra continua, ma fino alla
cacciata dell’ultimo tedesco, fino alla scomparsa delle ultime vestigia
del regime fascista”. Queste parole sono ora riportate su una lapide,
mentre sulla ringhiera del balcone si affaccia un calco fotografico
dell’oratore, attorniato da sagome che rappresentano coloro che lo
attorniavano sul balcone quel giorno, che qui vide annunciare e
iniziare quella lotta partigiana che fu particolarmente vigorosa nel
Cuneese e nelle vicine Langhe e che vide Galimberti in azione come
comandante delle Brigate Giustizia e Libertà, fin quando, catturato in
seguito a una delazione, fu torturato e ucciso dalle Brigate Nere di
Cuneo, che fecero ritrovare il suo corpo il 3 dicembre 1944.
Medaglia d’oro al valore militare, come medaglia d’oro è la stessa
città di Cuneo, per il formidabile rilievo che qui ebbe la Resistenza. E
giustamente questa grande piazza, già Vittorio Emanuele, ora ha il
nome di Duccio Galimberti.
Oltre la piazza, la via Roma solca centralmente la parte storica,
che si insinua in un angolo acuto formato dalla confluenza del
torrente Gesso nella Stura di Demonte, che procede fino a gettarsi
nel Tanaro, al limite delle Langhe. Proprio da questo incunearsi ha
ricevuto il suo nome Cuneo la città, postasi come libero comune nel
1198, e sviluppatasi nel XIII secolo in un quadro di rapporti
conflittuali con i marchesi di Saluzzo e con quelli del Monferrato.
Datasi nel 1259 a Carlo d’Angiò, conte della vicina Provenza, passò
dal 1281 al 1305 ai marchesi di Saluzzo per tornare poi agli Angioini,
che nel 1306 vi fissarono addirittura la zecca del pur lontano regno di
Napoli. Persa dagli Angioini nel 1347, subì altri vari passaggi, finché
nel 1382 passò ai Savoia: e ben sette assedi si trovò a subire nel
corso della sua storia savoiarda.
Una traccia della struttura medievale è nella disposizione delle
case e dei vicoli intorno alla via Roma, che procede verso la punta
del cuneo, in una successione di portici spesso dalle volte molto
basse, tra belle facciate di palazzi e palazzetti soprattutto sei-
settecenteschi. Quasi all’inizio della via Roma è disposta la facciata
neoclassica della cattedrale, mentre nella sua zona centrale c’è il
Palazzo del Municipio e quello detto della Torre, dal cui corpo si leva
la Torre civica, esito delle trasformazioni subite nel tempo da una
torre campanaria già in piedi nel XIII secolo. Dopo essere giunto
sull’angolo estremo del cuneo, sulla piazza Torino, in cui si apre la
vista sulla confluenza tra Gesso e Stura, torno indietro tra stradine
interne che mi conducono prima al complesso dell’ex chiesa e
convento di San Francesco, che tra gli edifici di Cuneo è quello che
più offre tracce dei secoli medievali: sviluppatosi in forma gotica
soprattutto tra il XIV e il XV secolo, colpisce soprattutto per la nuda
semplicità delle coppie di finestre a ogiva sulla fiancata destra (forse
risalenti al primitivo assetto del XIII secolo). Di tutt’altro carattere,
poco più oltre, è la bella facciata barocca della chiesa di Santa
Chiara, marmoreo colorato tabernacolo.
La Turbie

Tra Lerice e Turbìa la più diserta,


la più rotta ruina è una scala,
verso di quella, agevole e aperta.
(Purg., III 49-51)

Lascio Cuneo per scendere verso sud, diretto verso Turbìa, località
che Dante indica come limite occidentale (opposto a quello orientale,
costituito da Lerici), della Liguria, notando che ruine e dirupi del suo
scosceso paesaggio sembrano comode scale rispetto alla costa che
egli si trova davanti nell’ascesa alla montagna del Purgatorio. Il
nome Turbìa deriva dal trofeo, tropaeum, innalzato nel 6 a.C. in
onore di Augusto per la pacificazione delle Alpi occidentali, sulla via
Iulia Augusta, che attraverso la Liguria conduceva in Provenza: ma
ora è La Turbie, in territorio francese, nel Dipartimento delle Alpes
Maritimes, che corrisponde grosso modo a quella che era la contea
di Nizza, passata nel 1388 sotto il dominio dei Savoia e ceduta alla
Francia nel 1860, per l’aiuto dato alla guerra contro l’Austria.
Nel rettifilo tra Cuneo e Borgo San Dalmazzo si apre un’ampia
vista sul fronte meridionale della cerchia alpina; poi la strada
comincia a salire solcando la valle del Vermenagna, raggiungendo
Limone Piemonte e poi la base del Colle di Tenda, che fa da confine
tra Italia e Francia. Non si valica il colle, ma sotto di esso si
attraversa una galleria di tre chilometri e mezzo, in cui si procede a
senso unico alternato, mentre è in costruzione un secondo tunnel
(ma nel 2017 si avrà notizia di una sospensione dei lavori per la
scoperta da parte della procura di Cuneo di malversazione, frode e
danni per la sicurezza). Raggiungo la galleria proprio mentre è
aperto il flusso del mio senso di marcia; e all’uscita vedo una lunga
fila di auto che attendono il turno in direzione dell’Italia. La strada
scende poi rapidamente sul comune di Tenda, abbarbicato su un
costone di monte e dominato da una torretta su cui sventola la
bandiera francese: Tenda, ora Tende, e la vicina Briga Marittima (La
Brigue) non furono annesse alla Francia nel 1860, sembra perché si
trattava di luoghi molto amati da Vittorio Emanuele II, ma lo furono
nel 1947 (insieme all’altopiano del Moncenisio), per il trattato di
Parigi successivo alla Seconda guerra mondiale.
La strada segue il corso del fiume Roya, che nasce proprio dal
Colle di Tenda e scende verso il mare, a tratti incassato tra strette
rocce a strapiombo, con vere e proprie gole: tra queste gole si
pratica uno strano sport di recente invenzione, l’hydrospeed, in cui si
è chiusi adeguatamente bardati in un galleggiante individuale, una
sorta di slitta fluviale che scorre sulle acque spesso rapidamente
turbinose. Dopo Breil (già Breglio) la discesa diventa abbastanza
dolce, ma serpeggiante secondo il corso del Roya, e riporta
improvvisamente in territorio italiano, a ridosso di Ventimiglia, in vista
del mare. Poco sopra Ventimiglia, prendo l’autostrada che mi
riconduce di nuovo in Francia, arretrata in alto sopra la costa, in
posizione più elevata rispetto alle strade parallele abbarbicate sulla
roccia che percorrono la Côte d’Azur da Mentone a Nizza, le tre
Corniches, la Grande, la Moyenne e la Inférieure.
Ed ecco finalmente La Turbie, tutta arroccata sulla Grande
Corniche. Bellissimo è il Rondo, belvedere con giardino, che si apre
su uno sperone avanzato verso il mare, accanto all’area in cui si leva
il tropaeum, il trofeo delle Alpi in onore di Augusto. Siamo sopra la
breve e stretta fascia costiera che costituisce il principato di Monaco,
a cui La Turbie è appartenuta solo per un brevissimo periodo, dal
1705 al 1713. Come indica l’iscrizione su una lastra, questo Rondo è
dedicato al principe Ranieri III di Monaco, cittadino onorario di La
Turbie ed è stato inaugurato il 29 settembre 2007 dal principe
Alberto II e dal sindaco di La Turbie Nicolas Bassani. Nel giardino
un’altra lapide rinvia all’origine del luogo e dello stesso nome di
Monaco, con due brevi citazioni latine, la prima di una frase dello
storico del IV secolo Ammiano Marcellino, XV, 9-10 (“Hercules…
Monoeci similiter arcem et portum ad perennem memoriam
consecravit”, “Ercole consacrò a perenne memoria la rocca e il porto
di Monaco”): il nome Monaco deriva in effetti da un tempio di
Hercules Monoecus, attributo dal greco mónoikos, solitario. La
seconda citazione è quella di due versi dell’Eneide, VI 830-831:
“aggeribus socer Alpinis atque arce Monoeci / descendens, gener
adversis instructus Eois!”, “il suocero scendendo da baluardi alpini e
dall’arce di Monaco, il genero sostenuto dai contrapposti Eoi”. Si
tratta di parole che Virgilio mette in bocca ad Anchise, che,
consultato da Enea nell’oltretomba, prefigura il futuro di Roma e
evoca tra l’altro la guerra civile tra Cesare e Pompeo (suocero e
genero, dato che Pompeo aveva sposato la figlia di Cesare Giulia),
rappresentando Cesare nell’atto di muovere dalla Gallia e Pompeo
in quello di raccogliere le milizie nelle province orientali (Eois indica
gli abitanti dell’oriente, dal greco Éos, aurora).
La posizione del Rondo è tale che lo sguardo può abbracciare in
un solo quadro l’intero territorio dello stato-città, di questo principato
di Monaco il cui spazio è quasi soltanto costituito da costruzioni, se
si eccettua il verde giardino alberato che fronteggia il palazzo
principesco e la fortezza che vi è inglobata, sul sito di una rocca che
esisteva già nel XIII secolo, sotto il controllo delle diverse fazioni
genovesi. Di essa si impadronì il guelfo Francesco Grimaldi nel
1297, data considerata iniziale del potere dei suoi discendenti, che
ebbero il titolo di principi nel 1612. Qua sotto, il corpo cementizio del
principato si distende intorno al porto brulicante di yacht certamente
lussuosi; a sinistra, oltre una rada di cui non si scorge la zona più
interna, avanza verso il mare il promontorio di Cap Martin, oltre il
quale si scorge la costa italiana, tra Ventimiglia, Bordighera e oltre. A
destra invece, oltre la rocca di Monaco, la vista della costa marina è
ostacolata dal vicino fronte avanzato della montagna, su cui domina
il Trofeo delle Alpi. Questo si raggiunge attraversando il centro
storico di Turbia, attraverso una porta ogivale, e salendo una
stradina a comodi gradini, proprio sull’antico percorso della via Iulia
Augusta.
Il Trofeo, in parte ricostruito dopo essere stato a lungo smembrato
per ricavarne materiale da costruzione, si leva su una base
quadrata, su cui sono i resti di una grande scritta con i nomi delle 46
tribù alpine sconfitte e sottomesse dai comandanti romani (tra cui
furono Druso e Tiberio). Sopra questa base, c’è il resto di una torre
circolare circondata dalle poche colonne superstiti tra le 24
originarie, mentre non c’è traccia della statua bronzea di Augusto
con due barbari sottomessi ai suoi piedi che era sostenuta dalla
torre: il tutto era superbo segno di potere, di misura dello spazio,
innalzato verso il cielo e affacciato sul mare, su quello che era il
limite tra l’Italia e la provincia della Gallia Narbonese. Da quassù si
vede bene anche la costa sulla destra, verso sudovest, con la Baie
des Fourmis, su cui si affaccia Beaulieu-sur-Mer, e la penisola di
Cap Ferrat, che si protende verso sud, con le due punte di Saint
Hospice e di Cap Ferrat, e nasconde la visione di Nizza.
Quando ormai si avvicina la sera, scendo verso il mare
avvolgendomi nel groviglio delle Corniches. Faccio una prima sosta
a Cap d’Ail, il primo centro sulla costa a ridosso di Monaco, su un
capo subito a sudovest del principato, sulla Corniche inferiore: è una
sosta personale, come a ritrovare un luogo in cui ho passato alcuni
giorni a vent’anni, con tre amici già compagni di scuola, Alfonso
Berardinelli e i due fratelli Leonardis, uno dei quali, Remigio,
scomparso ormai da alcuni anni, è stato a lungo noto nel centro di
Roma, per il suo sostare per intere giornate in posti molto frequentati
– in primo luogo piazza Barberini, davanti alla fontana berniniana del
Tritone – con pose giullaresche e con allocuzioni paradossali ai
passanti, che cercava di provocare per farli riflettere sulle
contraddizioni del mondo.
Cap d’Ail: eravamo in un centro di soggiorno internazionale per
studenti ed era la prima volta che varcavamo i confini d’Italia. Erano
vacanze tra giovani alla scoperta del mondo, tra gli sfuggenti e
indefiniti desideri della generazione europea che era la prima a
essere uscita dal recente disastro, nel cui cuore era nata: vacanze
povere e semplici, pur nella vicinanza a Montecarlo, luogo delle
vacanze dei ricchi e dei dilapidatori, la cui celebrità era stata
amplificata dal nome della principessa consorte di Ranieri III, la
bellissima attrice americana Grace Kelly. Cap d’Ail: ma ora è difficile
riconoscerlo, con la moltiplicazione di edifici e di ville, con il fitto
succedersi dei negozi sulla strada centrale. Percorro le stradine che
vanno verso una spiaggia di cui ricordo il nome, la Plage Mala, che
si apre su una baia oltre una delle punte a ovest del Cap d’Ail vero e
proprio, il Cap Mala: tra i muretti e le reti che proteggono le ville
disposte l’una accanto all’altra si affaccia ogni tanto la vista del
mare, con la vicina punta di Cap Estel, oltre cui si affacciano
Beaulieu e la penisola di Cap Ferrat.
Il tramonto è ormai avanzato quando con l’auto entro dentro il
principato, in un groviglio di strade, di tunnel, di sensi unici, di
parcheggi sotterranei, che mi impegnano a lungo prima di farmi
trovare un parcheggio che mi porti non lontano da quello che
propriamente dovrebbe essere il centro di Montecarlo. Lasciata
finalmente l’auto e emerso dal fondo del parcheggio, percorro piazze
e boulevard, approdando a un ristorante all’aperto davanti al porto,
dalla parte opposta al corpo della rocca, che è in piena illuminazione
serale; in un’ossessione di palazzi incredibilmente appollaiati su
quella che forse un tempo era una rotta ruina e che ora offre sistemi
stradali agevoli ma complicati, come tutto appare agevole
nell’artificiale sistema di questo principato-città, riservato al riservato
godimento della ricchezza, su cui a tratti si affaccia un turismo
subalterno che guarda e consuma, che si bea dell’artificio. Passano
automobili di grosso calibro, con uomini in giacca e cravatta e donne
in abito da sera; scorre un’umanità addetta al consumo patinato,
convinta del proprio possedere il mondo. E si ha la sensazione di
essere entro un perfetto organismo da cui è stata espunta la natura,
che pur si affaccia nelle piante dei ben curati giardini e nel leggero
sciabordio del mare prigioniero del porto. Del resto le strade di
questa città sono abituate perfino a trasformarsi in una pista
automobilistica, dove una volta l’anno corrono i bolidi più veloci e
potenti del mondo, nel Gran premio di Monaco di Formula Uno, che
quest’anno si è disputato il 24 maggio. Sembra strano e paradossale
che questo puro artificio si disponga su un singolare fronte naturale,
su uno dei più bei siti del Mediterraneo…
Finita la cena, continuo la passeggiata sul colle opposto a quello
della Rocca, dall’altra parte del porto; e non posso non toccare la
Place du Casino, davanti al luogo più celebre di Montecarlo. Nella
piazza, intorno alla sontuosa aiuola su cui svettano delle palme,
sono parcheggiate lussuose auto, mentre in giro ci sono pochi turisti
che scattano foto della facciata, pochi salgono e scendono dalla
breve fatidica scala, vigilata da altezzosi portieri. Luogo letterario,
gloria e dannazione di giocatori di tutto il mondo, di personaggi
inventati e di personaggi reali, tra cui due singolari italiani, Mattia
Pascal e Tommaso Landolfi. E chissà se ancora, come ai tempi di
Dante e per più umili giochi, c’è ancora qualcuno appostato per
corteggiare i vincitori:

Quando si parte il gioco de la zara,


colui che perde si riman dolente,
repetendo le volte, e tristo impara;

con l’altro se ne va tutta la gente.


Qual va dinanzi e qual di dietro il prende,
e qual dal lato li si reca a mente;

el non s’arresta, e questo e quello intende:


a cui porge la man, più non fa pressa,
e così da la calca si difende.
(Purg., VI 1-9)

Risalendo verso il parcheggio m’imbatto, oltre un piccolo parco nei


pressi del Casino, in due bianchi corpi curvilinei di prestigiosa
architettura, che ospitano delle boutique. Attraverso la Place Léo
Ferrè, dove è anche il busto del cantante e poeta nato proprio qui
nel 1916, figlio del direttore del personale del Casino: è opera di uno
scultore anch’esso monegasco, Blaise Devissi. Al numero 22 del
Boulevard Princesse Charlotte trovo la sede del Comitato di Monaco
della Società Dante Alighieri.
Risalendo in auto verso La Turbie, penso al paradosso dell’origine
del nome: Monaco da mónoikos, solitario, e niente di meno solitario
di questo luogo costipato e affollato, artificializzazione suprema del
paesaggio marino. Paradossale il percorso di questa giornata, che
dal silenzio pur turbato della montagna, ai piedi del Monviso, mi ha
portato qui sulla sponda del Mediterraneo più lontana dal silenzio
della natura, pure trionfalmente esaltata nella sua marina solarità.
Rientrato nell’albergo, da una nicchia che si affaccia sulla scala che
mi conduce alla mia stanza mi sorride una statuetta-pupazzo di
Napoleone nella ben nota posa con la mano sinistra ficcata nel
panciotto e appoggiata sullo stomaco. Mi guarda, come se volesse
suggerirmi di tener conto, al di là di questo punto limite della Liguria
e dell’Italia, divenuto francese solo nel 1860, anche dei luoghi di
Francia nominati da Dante: se non la Parigi universitaria della Rue
du Fouarre “Vico de li Strami” (Paradiso, X 137), almeno la
Provenza, qui più vicina, con il corso del Rodano e i suoi affluenti
(“ogne valle onde Rodano è pieno” di Paradiso, VI 60, e “Quella
sinistra riva che si lava / di Rodano poi ch’è misto con Sorga”,
Paradiso, VIII 58-59), con i sepolcri che coprono il terreno “ad Arli,
ove Rodano stagna” (Inferno, IX 112: ma vedi p. 739).
Noli

Vassi in Sanleo e discendesi in Noli…


(Purg., IV 25)

Il 15 settembre, di buon mattino, torno verso il confine italiano: dalla


Grande Corniche do un ultimo sguardo a distanza al Trofeo delle
Alpi, che si leva sul colle, oltre la sella su cui sono attestate le case
di La Turbie, superando l’altezza del vicino campanile della chiesa di
San Michele. Per risalire la Riviera ligure di ponente, prendo
l’autostrada, che supera con frequenti gallerie la costa accidentata e
scoscesa, perlopiù allontanandosi da essa e lasciandola
intravvedere solo a tratti, con la brulicante distesa di cittadine e
borghi schierati davanti alle spiagge attrezzate. Il primo tratto, da
Ventimiglia a Sanremo a Imperia, esposto a sud, vede all’interno un
succedersi di serre appollaiate a vari gradi negli spazi offerti dai
pendii rocciosi: il paesaggio aspro, entro cui comunque prospera una
vegetazione mediterranea ricca di aromi e di colori, è stato
fortemente alterato dall’edilizia turistica e dal fitto groviglio delle
serre. Ma nonostante tutto, specie nei rilievi che più si allontanano
dalla costa, esso conserva qualcosa degli antichi severi profumi,
profusi e spazzati dal vento del mare, quel mondo che ha trovato
voce in alcuni scrittori del secondo Novecento: il primo Calvino,
Francesco Biamonti, Nico Orengo. Soprattutto nelle opere di
Biamonti (1928-2001), nato e vissuto in un paese arroccato sulla
valle del torrente Vallecrosia, a ridosso di Bordighera, San Biagio
della Cima, l’orizzonte marino e marinaro, aperto allo spazio del
Mediterraneo, viene a sovrapporsi, a convergere, a specchiarsi nei
percorsi interni sulla costa scoscesa, tra la flora, la fauna, la
materialità del lavoro agricolo, sullo sfondo di passaggi di transfughi,
banditi, perseguitati condotti oltre frontiera dai passeurs (vicende che
ai nostri giorni si ripetono con i tentativi degli immigrati dall’Africa e
dal Medio Oriente, respinti dal confine francese). Piena d’aria e di
vento la scrittura di Biamonti: vi si sente il palpito fisico del procedere
su queste scale del paesaggio ligure, come quello della navigazione
aperta sul mare.
Nel suo percorso che si allontana dalla costa, l’autostrada
attraversa i letti di diverse fiumane, come quello del torrente
Argentina, a fianco dell’abitato di Taggia – paese che ha dato nome
a un tipo di oliva che da qui si è diffusa – e quello del torrente
Impero, alle spalle di Oneglia, il centro che, con la vicina Porto
Maurizio, costituisce il comune di Imperia. Da qui o poco prima la
costa, precedentemente esposta a sud, comincia a piegare verso
nord, alle spalle di numerosi centri, quasi tutti di antica origine e con
una storia variamente collegata a quella della repubblica di Genova
e delle sue più importanti famiglie.
Dopo l’immagine generale del paesaggio ligure usata come
termine di paragone per sottolineare la difficoltà del pendio della
montagna in Purgatorio, III 49-51 (vedi p. 967), nel canto IV, nel
ribadire con nuovi esempi quella difficoltà, Dante menziona uno dei
più antichi tra questi centri che si succedono sulla costa, Noli, luogo
che si raggiunge non salendo (a differenza di San Leo e degli altri
insieme elencati vedi pp. 194, 341-342, 1131-1138), ma scendendo.
Alla difficoltà dello scendere Benvenuto da Imola fa risalire
addirittura il nome della città, a cui per via di terra si arrivava soltanto
scendendo dai rilievi che ha alle spalle: “Noli est quaedam terra
antiqua in riperia Ianuae supra mare, subiecta monti altissimo
scabroso, ad quam est difficillimus descensus, ita ut Noli videatur
recte dicere descendenti: noli ad me accedere” (“Noli è una città
antica sul mare sulla riviera di Genova, sotto un altissimo monte
roccioso, a cui è molto difficile scendere, tanto che Noli sembra
proprio dire a chi scende: non arrivare fino a me”). Bizzarra
etimologia, ovviamente, mentre è probabile che il nome abbia
un’origine simile a quello di Napoli: Noli, contrazione di Neapolis,
“nuova città” (che fu impiantata in epoca bizantina).
Per raggiungere Noli dall’autostrada si deve uscire alla stazione di
Spotorno, scendere verso il mare su Spotorno, che si trova sulla
costa, soffocata da una fitta edilizia, immediatamente a nord di Noli,
e percorrere il breve tratto della litoranea, la Via Aurelia, che del
resto segue quasi tutti gli avvolgimenti della costa della Liguria. A
Spotorno faccio una breve sosta, raggiungendo il lungomare dove,
davanti agli stabilimenti balneari ancora aperti, anche se quasi
deserti (e tutti chiusi sono gli ombrelloni disposti in geometriche file),
è in atto un tranquillo mercatino. Oltre la spiaggia, verso nordest, si
affaccia il capo Maiolo, che ha davanti l’isolotto di Bergeggi, ancora
nel XIII secolo sede di un monastero, dove erano custodite reliquie
di sant’Eugenio, vescovo di Cartagine qui approdato in seguito
all’invasione dei Vandali: nel 1252 esse furono traslate a Noli. Ma la
sosta a Spotorno evoca soprattutto il poeta del Novecento che qui
aveva casa, che qui passò molti periodi di vacanza e venne a un
certo punto a soggiornare stabilmente, Camillo Sbarbaro: poeta alla
ricerca di parole come liberate da ogni aura artificiale, rarefatte dal
lavorio atmosferico, dalla dilavante azione dei venti e della pioggia,
in cui si lambisce una realtà che si frammenta in trucioli o gocce o in
quei singolari organismi simbiotici, minime effervescenze che sono i
licheni (di cui egli è stato attento cercatore, classificatore e
collezionista, attraverso gli scoscesi paesaggi di questo entroterra).
Certo la sua Spotorno era molto meno costipata e molto meno
balneare di quella che brevemente ora attraverso: gli offriva i riflessi
di un sospeso truciolo del mondo; scaglie di luce marina sottratte
all’incombente consistenza del cosmo, umidi tremori del cielo,
scavato abbarbicarsi della vegetazione tra le “bianche ferite” delle
montagne, tra gli scivolosi pendii:

Spotorno, terra avara. Vi imbianca l’olivo, il sorbo vi si carica di


mazzetti duri. Ti siedi e taci sulla spiaggia sterposa di contro a
un pallido mare.

Ora un manifesto annuncia una delle tante manifestazioni culturali


settembrine, che avrà luogo in questo fine settimana, un festival del
giornalismo, accompagnato da un premio internazionale, sotto una
sigla curiosamente spiritosa, Spotorno subito.
Ma subito a sud di Spotorno, è vicinissima Noli, prima della breve
protuberanza del capo omonimo. Mi fermo sul fronte del corso Italia
(nome del tratto cittadino dell’Aurelia), davanti al mare: qui si aprono
varie porte che immettono in un sistema di portici, ampio spazio un
tempo usato come ricovero di barche e di attrezzi marinari. Sulle
pareti di questi portici sono apposte varie lapidi, tra cui quella
dedicata a DANTE ALIGHIERI / RAMINGO PER LE TERRE D’ITALIA / DISCESE IN
NOLI (con il testo di Purgatorio, IV 25). Un’altra lapide ricorda
GIORDANO BRUNO / PRIMA DI INSEGNARE ALL’EUROPA / LE LEGGI DELL’ORDINE
UNIVERSALE / FU MAESTRO IN NOLI / DI GRAMMATICA E COSMOGRAFIA (con una
citazione dagli atti del processo subito da Bruno a Venezia, che si
riferisce a questo suo soggiorno, “a insegnar la grammatica a’ putti
et leggendo la sfera a certi gentilhuomini”). Dai portici si sbuca,
verso l’interno, su una piazza su cui prospetta la facciata del Palazzo
Comunale, edificato tra Trecento e Quattrocento, con un piano terra
in pietra e due piani superiori in laterizi in cui si succedono due
grandi finestre a trifora e due più piccole a bifora; accanto è la Torre
Comunale duecentesca, merlata e con orologio. Dopo aver subito il
controllo di diversi feudatari vicini, Noli ottenne una sua autonomia
nel 1193 e nel 1202 strinse alleanza con Genova, mantenendosi nei
secoli come libera repubblica marinara: tale era ai tempi di Dante e
tale si mantenne fino alla caduta della repubblica genovese (1797).
Molto animata è la stretta strada centrale della città medievale, la
via Colombo, che l’attraversa tutta con andamento tortuoso. Da una
piazza più aperta scorgo sulla destra un colle folto di ulivi, il colle
Ursino, su cui sale una cinta muraria che raggiunge in alto le rovine
del castello, che risale al XII secolo, con una grande torre circolare.
Raggiungo poi il Borgo di San Giovanni, limitato da una porta
sormontata da una torre, che chiude la città a monte. Girando per
questo centro storico passo sotto un’altra torre dalla singolare forma
trapezoidale, la Torre del Canto; visito rapidamente la cattedrale di
San Pietro, di forma barocca, che custodisce le reliquie di
sant’Eugenio, che vengono esposte nella processione a mare, fino
all’isolotto di Bergeggi, il giorno della sua festa, 13 luglio. Una strada
copre il percorso di quello che era il torrente di Sant’Antonio,
asfaltato negli anni della grande espansione edilizia. Fanno uno
strano effetto i ponti che lo sovrastano, specialmente quello di
origine medievale, a schiena d’asino, l’ultimo prima dello sbocco a
mare: sull’asfalto del fondo stagna dell’acqua rimastavi dopo qualche
recente piovasco. È forse un’immagine degli stravolgimenti del suolo
d’Italia, delle violenze che esso ha subito, che spesso danno luogo a
improvvisi disastri, di cui poi rapidamente si cancella la memoria. Qui
a Noli negli ultimi anni fervono discussioni e polemiche su questo
torrente asfaltato, sui pericoli che può portare con sé, come è
avvenuto in tanti altri luoghi, anche in Liguria, per eccessive
precipitazioni e piene rovinose.
Oltre la fiumara asfaltata, al limite sud della città vecchia, c’è il suo
edificio più antico e sorprendente, la chiesa, già cattedrale, di San
Paragorio, santo su cui si hanno scarsissime notizie,
tradizionalmente indicato come un militare romano nativo di Noli nel
IV secolo e martirizzato in Corsica. La chiesa, in stile romanico
lombardo, in mattoni di pietra scanditi da lesene e archetti pensili,
risale probabilmente all’XI secolo, sul sito di una precedente chiesa
tardoantica. Accanto ci sono scavi archeologici, che hanno tratto alla
luce vari resti di un edificio battesimale e di costruzioni legate alla
chiesa originaria.
Risalendo poi a nord, lungo il corso attestato sul fronte marino,
raggiungo un arco su cui si apre una strada che sale verso l’alto, sul
fianco del colle Ursino; c’è poi un altro arco fiancheggiato da una
torre, detta torre del Papone, che risale proprio alla fine del XIII
secolo. Da qui si diparte la cortina muraria che giunge fino al
castello. Per salire prendo un sentiero sassoso a rampa che si
avvolge intorno al colle, affacciandosi sul mare intorno alla Piazzetta
del Vescovato, davanti a una chiesetta e a un palazzo
settecenteschi: si vede bene la spiaggia della città, dove sono in
piedi tutte le attrezzature balneari – anche se, nella giornata
parzialmente nuvolosa, non si scorgono bagnanti – e poi la breve
curva della costa a sud, fino al capo di Noli. Ben più ampia, ma
mano che salgo, è la vista a nord e nordest: verso Spotorno e il capo
Maiolo, fronteggiato dall’isola di Bergeggi, e poi, sul piegare della
costa a nordest, un fitto succedersi di case che sembrano segnare il
confine tra l’azzurro del mare e quello dei monti che sfumano alle
spalle, fino a perdersi nella foschia più lontana: si riconosce Savona
e poi forse Varazze.
A un certo punto trovo interrotto il sentiero che dovrebbe condurmi
al castello; ma, prendendo quello che conduce al cimitero, trovo una
strada asfaltata che giunge proprio ai piedi della massiccia torre
circolare, su cui sventola la bandiera italiana. Tutto chiuso per
restauro: castello e torre non sono visitabili. Qui comunque posso
affacciarmi dall’alto sulla città di Noli: distinguo bene la sua pianta,
articolata nel sistema di tetti della città vecchia, tra cui svettano le
torri medievali e il campanile della cattedrale, mentre, addossati sia
al pendio della montagna alle spalle che sulla costa subito a sud,
mostrano il loro fronte palazzetti di frettolosa architettura. La
carrozzabile che sfiora il castello verso destra sale più su verso
l’interno, mentre verso sinistra scende direttamente sulla città.
“Discendesi in Noli”: sono sul punto della più agevole e moderna
discesa su Noli e mi affido a questo tardo simulacro dell’emistichio
dantesco, scendendo lentamente tra i vari tornanti della strada
asfaltata. Un tornante mi porta a sfiorare un tratto delle mura che
salgono lungo il fianco del Monte Ursino: poi procedo tra case e
casette moderne, mentre man mano si riduce la vista sulla città
vecchia e alle spalle sento ancora sovrastare la torre del castello.
Alla fine, attraverso la torre del Papone, raggiungo di nuovo il centro,
passando tra alcune facciate che conservano tratti medievali: così
delle bifore aperte su un muro di laterizi, che poggia su una base in
bugnato rustico, il tutto incastrato entro una più ampia parete di
cemento.
Genova

Ahi Genovesi, uomini diversi


d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?
(Inf., XXXIII 151-153)

Tornato a Spotorno risalgo verso l’autostrada che mi conduce a


Genova: Dante non la nomina direttamente, ma nel fondo
dell’inferno inveisce contro i suoi abitanti, dopo che, immersa nel
ghiaccio della Tolomea tra i traditori degli ospiti, gli è stata presentata
l’anima di un genovese che nel 1300 non era ancor morto, ma che,
dato il carattere del suo peccato, è precipitato lì subito dopo averlo
commesso. Si tratta di Branca Doria, variamente implicato nelle
vicende della Sardegna, di cui già è capitato di parlare (vedi p. 502).
Secondo una tradizione non molto credibile, l’invettiva così dura di
Dante, contro tutti i genovesi, estranei (diversi) ad ogni retto costume
e pieni di ogni magagna, sarebbe motivata da un’aggressione che
egli avrebbe subito, proprio a Genova, dai seguaci dello stesso
Branca Doria (o, al contrario, l’aggressione sarebbe stata
determinata dal risentimento dello stesso Branca verso il trattamento
riservatogli nell’Inferno). Recentemente la questione è stata anche
ricondotta alla rivalità di Branca Doria con i Malaspina, a cui invece
Dante era legato (e tra l’altro nel 1307 il Doria aveva occupato a
Lerici il castello dei Malaspina).
È probabile comunque che Dante si sia trovato a Genova
nell’inverno 1311-1312, quando vi soggiornò l’imperatore Enrico VII
(e dove, il 14 dicembre, morì l’imperatrice Margherita di Brabante).
L’aggettivo genovese, per indicare l’intera Liguria, si affaccia peraltro
nel Paradiso, IX, 90, a proposito del confine con la Toscana, segnato
dal fiume Magra, che “parte lo Genovese dal Toscano” (vedi p. 849).
L’ambito genovese era in questione nel De vulgari eloquentia: per
indicare il limite della zona della lingua d’oc (i cui parlanti tengono la
parte occidentale dell’Europa meridionale, a partire dai confini dei
genovesi, “meridionalis Europe tenent partem occidentalem, a
Ianuensium finibus incipientes”, I VIII 6); seguiva poi l’identificazione
della Marca genovese (Ianuensis Marca), come regione del lato
destro dell’Italia, e della lingua lì parlata (I X 5-6); e la principale
ragion dei difetti di quel volgare veniva fatta risalire all’eccessiva
presenza della z (I XIII 6):

quod si per oblivionem Ianuenses ammicterent z licteram, vel


mutire totaliter eos vel novam reparare oporteret loquelam. Est
enim z maxima pars eorum locutionis; que quidem lictera non
sine multa rigiditate profertur.
(che se i genovesi per amnesia perdessero la lettera z,
bisognerebbe che ammutissero completamente o che
ricostruissero una nuova parlata. La z è infatti massima parte
del loro eloquio; e questa lettera non si pronuncia che con
grande durezza)

Arrivare in auto a Genova dà sempre una sensazione di


spaesamento, nel necessario districarsi tra i suoi diversi quartieri e
appendici, tra viadotti, sopraelevate, uscite, svincoli, giravolte.
Venendo dalla Riviera di Ponente, passo attraverso l’ininterrotta
successione di costruzioni da Pegli a Sestri Ponente a
Sampierdarena, con una prima vista su stabilimenti vari e sul porto,
su cui svetta il celebre faro della Lanterna. Nonostante l’insistente
ricordo di un verso di Viaggi e miraggi di Francesco De Gregori, “E
andiamo a Genova coi suoi svincoli micidiali”, trovo un po’ meno
“micidiali” gli svincoli che mi conducono sulla sopraelevata che con
un mezzo anello sovrasta tutto il fronte del porto, colpisce e violenta
la successione degli edifici lì attestati, sembra voler imporre il proprio
marchio automobilistico allo stesso nucleo più antico del celebre
porto, al “paese di ferrame e alberature”, che in un Mottetto di
Montale, turbato dallo “spiro / salino che staripa / dai moli e fa
l’oscura primavera / di Sottoripa”, conduce a una apodittica
rivelazione: “E l’inferno è certo” (più tardi, il 14 agosto del 2018, il
passaggio tra Riviera di Ponente e Genova si rivelerà fatale per chi
si troverà a percorrerlo sul viadotto sopra il torrente Polcevera, che
diventerà celebre in tutta Italia per il suo improvviso crollo, con più di
quaranta morti e tanti sfollati del quartiere sottostante).
Dopo aver transitato su tutto l’anello della sopraelevata sopra
Sottoripa, tra il consueto, interminabile scorrere di ferrame
automobilistico, ora placido ora rabbioso, ne scendo appena
possibile e parcheggio fortunosamente sul corso che costeggia il più
esterno Bacino delle Grazie. Risalgo verso la piazza Cavour, che
fronteggia la zona del Molo vecchio, mentre dall’altra parte sono i
resti delle mura, dette delle Grazie, alla base della collina di Castello,
insediamento già preromano e poi primo nucleo fortificato della città
medievale. Salendo e svoltando sugli stretti vicoli pieni di piccole
sorprese, i genovesi carruggi, raggiungo la chiesa romanica di Santa
Maria di Castello, costruita nella prima metà del XII secolo sul sito di
una chiesa precedente (risalente forse al VII secolo, considerata in
assoluto la prima chiesa innalzata a Genova). Da qui scendo in parte
attraverso una scalinata, e passo sulla piazza dov’era il più antico
mercato, dedicata a san Giorgio, il primo patrono della città, come la
chiesa che vi si affaccia, già presente nel X secolo, ma variamente
ricostruita e ora con facciata neoclassica.
La breve via San Giorgio mi riconduce sul fronte del porto, tra i
portici ottocenteschi che si aprono sulla via Turati, al termine della
quale si apre a destra la pedonale via San Lorenzo, ora molto
affollata, che conduce alla cattedrale di San Lorenzo e alla piazza
Matteotti, su cui prospettano il Palazzo Ducale e la chiesa dei Santi
Ambrogio e Andrea. Se veramente fu a Genova, Dante dovette certo
vedere le due chiese che più conservano tracce dell’aspetto che
avevano nel primo Trecento, Santa Maria di Castello e San Lorenzo:
questa, già esistente nel X secolo, era stata compiuta in gran parte
nel corso del XIII secolo, nella sua sorprendente commistione tra la
forma gotica, con la sua spinta ascensionale, e la disposizione dei
materiali a fasce orizzontali alternate, chiare e scure, che le danno
un carattere del tutto originale (anche se comunque non sono
mancati nel corso del tempo completamenti e ampliamenti di vario
genere).
Sulla via San Lorenzo sono disposti striscioni che annunciano il
prossimo evento dell’Oktoberfest a Genova, celebrato da alcuni anni
in piazza della Vittoria, vicino alla stazione ferroviaria di Genova
Brignole, la prima Oktoberfest “ufficiale” italiana, con conseguente
invasione della celebre birra bavarese HB (Hochbräuhaus). Gli
impianti di un evento più localmente caratterizzato si trovano invece
qui, sul grande spiazzo antistante al vecchio porto, tra lo sbocco
della via San Lorenzo, la mole avanzata del Palazzo San Giorgio e
oltre, fin sotto la sopraelevata (a cui per il traffico locale fa come da
contrappeso un sottopasso) e sulla più ampia distesa della piazza
Caricamento, il cui nome ricorda la stazione della ferrovia dove si
caricavano e scaricavano le merci: si tratta di una Festa dell’Unità,
che si è chiusa il 14 settembre, ma i cui tendoni, gabbiotti, padiglioni
sono ancora in piedi, in parziale smobilitazione. Malinconici residui di
una porta metallica imbandierata e di edicole per ristorazione sono
disposti ancora qua e là, tra merci contraffatte disposte a terra da
venditori africani. Il gabbiotto di un ristorante indiano sembra quasi
sostenere la base del monumento a Raffaele Rubattino (1810-1881),
che nel 1838 fondò la prima Compagnia di navigazione genovese, il
cui primo piroscafo ebbe il nome di Dante. Dall’alto del suo
piedistallo il bronzeo armatore raggiunge quasi l’altezza della
sopraelevata, su cui sembra proprio gettare il suo occhio crucciato,
interrogando le macchine che passano e che da quaggiù non si
vedono.
La parte più antica del Palazzo San Giorgio risale al 1260, quando
fu per soli due anni Palazzo del Comune, poi carcere, poi Palazzo
del mare e Dogana, dal 1407 sede della Casa delle Compere e dei
Banchi di San Giorgio, da cui si sviluppò il Banco di San Giorgio,
potente pilastro finanziario della Repubblica di Genova, durato fino
alla sua caduta nel 1797. A fianco del corpo avanzato del palazzo,
costruito nel Cinquecento, con una facciata poi dotata di affreschi, è
disposto l’edificio più antico, a cui una ristrutturazione ottocentesca
ha fatto assumere un troppo evidente carattere di falso Medioevo.
Qui comunque, quando vi era alloggiato il carcere, fu prigioniero,
dopo la battaglia di Curzola, lontana isola della Dalmazia, vinta dai
genovesi contro Venezia (1298), Marco Polo e vi dettò a un altro
prigioniero, il pisano Rustichello, quel testo che poi sarebbe stato
chiamato Il Milione, ma la cui redazione originaria era nella lingua
francese in cui soleva scrivere Rustichello, col titolo Le divisament
dou monde: e non va dimenticato che la voce di Marco ripercorreva
le vicende dei suoi viaggi proprio in un torno di tempo molto vicino
alla data che Dante avrebbe attribuito al suo viaggio oltremondano, il
suo Divisament de l’autre monde.
Da piazza Caricamento mi aggiro tra i portici di Sottoripa, sui cui è
aperta una fitta ed eterogenea varietà di negozi, bar e osterie, che
perlopiù sembrano ostinatamente persistere in un loro assetto
popolare, in una mai rinnegata modalità artigianale. Su un muro
interno ai portici noto una scritta tracciata furiosamente a pennello
nero: C’È CHI DI CEMENTO / SI ARRICCHISCE E CHI / CI PERISCE! / LE VALLI
GENOVESI / GRIDANO VENDETTA. Mi dirigo poi verso le strade interne:
ecco la piazza Banchi, con la grande Loggia cinquecentesca della
Mercanzia e la chiesa anch’essa cinquecentesca di San Pietro in
Banchi: è un sito in cui anche nel XIII secolo era il centro
commerciale ed economico della città e che anche oggi è
affollatissimo, con grande movimento di gente in tutte le direzioni, tra
negozi e negozietti, in un affastellarsi di oggetti e di scarti, come se
ci fosse qualcosa di decomposto, ma che proprio nel proprio
slabbrarsi attira una folla variegata. La galleria di tipi umani, mille
volti e mille gesti, trova uno specchio in una mostra che è allestita
proprio qui, nella Loggia della Mercanzia, Thousand people: sono gli
scatti che il fotografo Emanuele Timothy Costa ha preso per le vie e i
vicoli del centro storico di Genova, su questi affollati passaggi,
variabile apparire e scomparire di umanità dalle molteplici fogge e
facce, abbigliamenti, trucchi, carnagione e capelli, sguardi e
diversioni, pallori e rossori, sicurezze, incertezze, pretese, voci e
silenzi, riconoscersi e perdersi, pensieri determinati, aggrovigliati,
lineari, evanescenti, in cui si riflette di ciascuno lingua, coscienza,
origine, etnia, percezione di sé e del mondo. Sono le immagini della
stessa folla che attraversa la piazza, che sbuca dallo stretto Vico
delle Compere, che si infittisce nella via San Luca, in un intrecciarsi
e urtarsi tra chi viene e chi va: folla che si fa percepire come
miscuglio eterogeneo, casuale sfiorarsi di chi mai altrimenti si
sfiorerebbe, dal professionista incravattato al pensionato appoggiato
al bastone, al baffuto che procede guardando lo schermo del
cellulare, alla quarantenne scarmigliata che avanza fumando, al
sudamericano con la borsa di pezza a tracolla e in testa un berretto
con la visiera rovesciata…
La via San Luca da qui si diparte salendo verso nord, tra
l’affacciarsi di vari vicoli, fino alla chiesa di San Siro, che, nel nome
del santo che fu vescovo di Genova nel IV secolo, fu a lungo
cattedrale, almeno fino all’XI secolo, e ora si presenta con tarda
facciata neoclassica. Ma una traccia dantesca devo andare a
cercarla più su, verso il fronte dei nobili palazzi disposti sotto la
collina di Castelletto, sulla strada sistemata nel Cinquecento come
Strada Maggiore e ora denominata via Garibaldi. Qui, sotto il
versante del colle, ecco il Palazzo Bianco, sistemato nel Settecento
in forme rinascimentali per la famiglia Brignole Sale e così chiamato
per distinguerlo dal Palazzo Rosso che è quasi dirimpetto (tutti e due
ospitano notevoli gallerie pittoriche). A fianco del Palazzo Bianco c’è
il cinquecentesco Palazzo Doria Tursi, originariamente della famiglia
Grimaldi, che ora è sede del Municipio. Qui tra i due palazzi c’erano
nel XIII secolo la chiesa e il convento di San Francesco di
Castelletto, variamente modificati nel corso del tempo e giunti a
totale distruzione in età napoleonica: poche rovine della chiesa si
possono vedere nel giardino alle spalle di Palazzo Bianco e nella
galleria che unisce Palazzo Bianco al Palazzo Doria Tursi.
Proprio nella chiesa che non c’è più fu seppellita la consorte di
Enrico VII, Margherita di Brabante: e se effettivamente si trovava a
Genova in quell’inverno tra il 1311 e il 1312, Dante dovette
certamente assistere alle esequie della nobildonna a cui aveva
indirizzato nella precedente primavera dal castello di Poppi tre
Epistole (VIII, IX e X) a nome di Gherardesca, moglie del suo ospite
Guido di Battifolle (e figlia del conte Ugolino), in cui garantiva piena
sottomissione di sé e del marito all’autorità imperiale. Il sepolcro di
Margherita fu opera di Giovanni Pisano: e ne restano frammenti, che
sono esposti nel Museo di Sant’Agostino, che si trova sulla collina di
Castello, non lontano da Santa Maria di Castello: c’è buona parte
della statua dell’imperatrice, col suo bel volto fasciato dalle bende
funebri, sollevata verso il cielo da due angeli di cui manca la testa.
Se oltre la via Garibaldi si raggiunge la piazza del Portello, si trova
l’ascensore che sale alla spianata di Castelletto, dove era una
fortezza le cui prime tracce risalgono al X secolo, ma che fu distrutta
nell’Ottocento. A questo ascensore Giorgio Caproni ha affidato una
delle sue immaginose sovrapposizioni tra il sogno e la più umile
realtà quotidiana, nella poesia L’ascensore, tra gli ultimi
componimenti de Il passaggio d’Enea:

Quando andrò in paradiso


non voglio che una campana
lunga sappia di tegola
all’alba – d’acqua piovana.

Quando mi sarò deciso


d’andarci, in paradiso
ci andrò con l’ascensore
di Castelletto, nelle ore
notturne, rubando un poco
di tempo al mio riposo.

Il passaggio d’Enea, che dà titolo alla poesia eponima della raccolta


più intensamente genovese di Caproni, si trova del resto non lontano
da qui, nella piazza Bandiera, che posso raggiungere tornando
indietro su via Garibaldi, riaffacciandomi ancora sui palazzi che
nascondono i resti di San Francesco di Castelletto, e poi
leggermente salendo e svoltando sul fianco della chiesa della Ss.
Annunziata del Vastato. Strozzata tra auto e motorini parcheggiati a
selva, ecco la fontana su cui è piazzato il gruppo scultoreo del
settecentesco Francesco Baratta, con Enea in fuga col vecchio
padre sulle spalle (in una posa esageratamente stravolta) e il figlio
Ascanio trascinato per mano:

…Enea che in spalla


un passato che crolla tenta invano
di porre in salvo, e al rullo d’un tamburo
ch’è uno schianto di mura, per la mano
ha ancora così gracile un futuro
da non reggersi ritto.

Una volta mi capitò di venire a vedere questa fontana di piazza


Bandiera, insieme all’amico e collega genovese Stefano Verdino,
sotto un improvviso violentissimo acquazzone: e ora mi dispiace di
aver fatto una sosta così veloce senza aver avuto il tempo di
incontrare tanti amici genovesi, la cui cordialità cancella del tutto
l’immagine di quei genovesi “diversi / d’ogni costume” dell’invettiva
dantesca. Tra gli amici di qui ci sono, insieme a Verdino, altri allievi
di uno dei più amati maestri dell’università, Franco Croce Bermondi,
che in ogni suo gesto e in ogni sua parola faceva vibrare l’amore per
la poesia e quello per Genova. E ricordo una volta in cui Croce,
grande studioso della letteratura del Seicento, mi accompagnò in
giro per la città dando voce al respiro delle sue pietre e dei suoi
luoghi, della vita su di essi raccoltasi nel corso del tempo, quasi
facendola rinascere nella sua evidenza.
Nell’apprestarmi a partire cerco di evocare mentalmente qualche
tratto della formidabile lunga Litania che chiude e suggella Il
passaggio d’Enea: una litania piena d’aria e d’acqua, animata da
una spinta ascensionale che si affida alle cose, alla stessa
irriducibile presenza del paesaggio urbano, di una natura fatta città.
Catturo il ricordo delle prime battute:

Genova mia città intera.


Geranio. Polveriera.
Genova di ferro e aria,
mia lavagna, arenaria.

Genova città pulita.


Brezza e luce in salita.
Genova verticale,
vertigine, aria, scale.

Ma sento anche quanto diversa da quella tanto amata e poi lasciata


da Giorgio Caproni sia oggi questa sempre affascinante città in
salita, in cui sembrano come sovrapporsi e configgere durezza
nordica e fracasso meridionale: come dai tempi di quella poesia
(scritta probabilmente tra il 1952 e il 1954) tutto si sia trasformato,
sotto l’azione di una metaforica polveriera, a Genova e in Italia. Ci
penso tanto più quando riprendo l’auto e esco dalla città passando
accanto alla stazione di Brignole e puntando verso nord risalendo il
corso del torrente Bisagno, che scorre qui prima di interrarsi
all’altezza della ferrovia fino alla foce. Osservo i palazzi
pericolosamente attestati sul fianco della collina, a cui talvolta si
adattano disponendosi a scala, ma altre volte si elevano come torri
pretenziose, fino a quindici piani. Molti danni ha fatto da queste parti
il torrente quando è esondato nella notte del 9 ottobre dell’anno
scorso, causando anche una vittima. Ma danni d’ogni sorta sono
periodicamente creati dai corsi d’acqua soffocati, alterati, interrati di
cui è piena la costa su cui si arrampica Genova: e mi torna in mente,
con la sua desolata verità, la scritta che ho visto tracciata sul muro
sotto i portici di Sottoripa.
Risalgo il corso del torrente sfiorando lo stadio comunale Galileo
Ferraris, ai piedi del quartiere di Marassi, proprio in un altro punto in
cui il torrente è interrato, e poi lo lascio prendendo un tunnel che mi
porta a sfiorare il quartiere di Staglieno, fino all’ingresso
dell’autostrada. Attraverso un ulteriore svincolo devio poi verso nord,
sull’autostrada A7 (Milano-Genova), che mi fa superare l’Appennino,
sotto il passo dei Giovi, e mi porta sulla valle dello Scrivia, che
dall’Appennino scende verso il Po. Si entra in territorio piemontese
lasciando man mano i rilievi montuosi: dopo le ultime colline, si apre
l’ampio spazio della Val Padana. Accanto allo Scrivia si sfiorano Novi
Ligure e Tortona, entrando subito dopo in territorio lombardo.
Verso Pavia

Se fossi domandato “Altri chi v’era?”,


tu hai dallato quel di Beccheria
di cui segò Fiorenza la gorgiera.
(Inf., XXXII 118-120)

Ormai vicino a Pavia, attraverso ancora una volta un ponte sul Po:
sono nei pressi di un centro, Sannazzaro de’ Burgundi o Burgondi, il
cui nome evoca una famiglia pavese ricordata nel Convivio, IV 29 3.
Trattando della nobiltà, lì Dante nota che famiglie nobili potrebbero
respingere la sua idea che la nobiltà sia qualità dell’anima
individuale e non della “progenie”: e come esempio di queste
famiglie, ne nomina una del nord e una del sud d’Italia, “quelli da
santo Nazzaro di Pavia, e quelli delli Piscicelli da Napoli”. Questi
Sannazzaro o Sannazaro erano quasi sicuramente di origine
burgunda, come dice il nome di questo paese vicino al corso del Po:
furono dalla parte di Enrico VII, da cui ebbero un privilegio nel 1311,
ma poi passarono dalla parte guelfa e furono posti al bando il 14
luglio 1313 e poi esiliati quando nel 1315 Pavia entrò in ambito
visconteo. Nel corso del XIV secolo due membri della famiglia
passarono a Napoli al seguito di Carlo III di Durazzo: e loro
discendente fu il poeta napoletano Jacopo Sannazaro. Nell’appaiare
i Sannazaro ai nobili napoletani Dante ci sembra così quasi
prefigurare, involontaria profezia, quella futura proiezione napoletana
della famiglia.
Insediata sul fiume Ticino (e Ticinum era il suo nome romano),
Pavia aveva avuto un ruolo centrale nell’alto Medioevo, come
capitale del Regno italico e della corte longobarda e dopo il
saccheggio subito da una incursione degli Avari (924) aveva visto
svilupparsi un Comune tra i più prosperi della Lombardia, anche se
con un rilievo politico relativamente ridotto. Ai tempi di Dante il
Comune era conteso tra la fazione guelfa dei Langosco e quella
ghibellina dei Beccaria o Beccheria. Capo dei guelfi e per lungo
tratto signore della città fu Filippone dei Langosco che, dopo essersi
sottomesso a Enrico VII, passò dalla parte della lega guelfa. Al ruolo
di Pavia in quel frangente (Enrico VII vi si trovò nell’aprile e
nell’ottobre del 1311) accenna Dante scrivendo all’imperatore il 17
aprile 1311, nel passo già ricordato sull’inutilità di insistere a piegare
Cremona e sulla rabies inopina che Pavia condivide con Brescia
(Epistola, VII VI 22). Quanto a Filippone, passato definitivamente nel
campo antimperiale, nell’estate del 1312 tentò di assalire Piacenza,
tenuta da Galeazzo Visconti, ma fu sconfitto e imprigionato in
Milano, mentre nell’ottobre del 1315 Pavia entrava sotto il diretto
controllo dei Visconti, con il sostegno dei Beccaria.
Proprio uno dei ghibellini Beccaria si trova tra i traditori
dell’Antenora, Tesauro Beccaria, abate vallombrosano e nel 1258
legato papale nella Firenze guelfa, dove fu accusato di congiurare
con i ghibellini di Farinata degli Uberti e giustiziato senza processo,
“a grido di popolo” (come dice Giovanni Villani nella Nuova Cronica);
nel fondo dell’inferno egli è accanto a Bocca degli Abati che, dopo
essere stato smascherato dal vicino di pena Buoso da Dovera, lo
indica tra gli altri suoi vicini, ricordandone la violenta fine con
impietoso sarcasmo (“di cui segò Fiorenza la gorgiera”).
Più in generale i pavesi sono ricordati nel De vulgari eloquentia, I
IX 7, non per la specificità della loro lingua, ma entro
un’esemplificazione del variare delle lingue nel corso del tempo:
“Quapropter audacter testamur quod, si vetustissimi Papienses nunc
resurgerent, sermone vario vel diverso cum modernis Papiensibus
loquerentur” (“Perciò senza timore possiamo sostenere che, se gli
antichissimi Pavesi ora rinascessero, parlerebbero una lingua
differente o del tutto diversa da quella dei moderni Pavesi”).
Il ponte sul Ticino con cui raggiungo il centro della città è il Ponte
della Libertà, quasi parallelo al Ponte coperto, che fin dal Trecento
costituiva il passaggio sul fiume e che ha subito varie modificazioni
nel tempo, fino alla distruzione del bombardamento del settembre
1944 e alla successiva ricostruzione in forma meno fedele
all’originale. Una sorpresa mi attende comunque nell’arrivo a Pavia:
ho una prenotazione alberghiera sbagliata, con la data del 15, ma
del prossimo mese, e l’albergo che credevo prenotato è
assolutamente completo. La ragazza della reception mi aiuta con
grande gentilezza a cercare un’altra collocazione, facendo varie
telefonate: ma in città è tutto pieno per vari eventi in atto e alla fine si
trova una stanza un po’ fuori, subito a nord, sulla via Vigentina, a
San Genesio, località al centro di quello che era il parco visconteo,
impiantato nel XIV secolo, che ora è sede di un comune che ne ha
incorporato un altro, il che gli attribuisce lo strano nome di San
Genesio e Uniti.
Eccomi allora in un grande albergo di passaggio, dai tratti
caratteristici di certi luoghi della provincia italiana, dove passa di
tutto, affari, lavoro, raduni di sportivi, incontri sessuali clandestini o
venali. C’è un gruppo di rappresentati di commercio asserragliati
davanti alla TV a seguire la partita di Champions League
Manchester City-Juventus, vinta dalla Juve per 2-1. Subito accanto
all’albergo una gigantesca pizzeria offre rapido e popolare servizio a
famiglie e a rumorose compagnie. Ma il nome del luogo evoca, certo
solo per me, il santo martire patrono degli attori, san Genesio o
Ginesio, festeggiato il 25 agosto, e la sua leggenda, secondo cui
sarebbe stato un attore romano miracolosamente convertitosi
quando, di fronte all’imperatore Diocleziano, si trovava a recitare in
una parodia del rito cristiano del battesimo. Fingeva di essere
moribondo e di ricevere in punto di morte l’acqua del battesimo, ma
l’acqua del falso rito fece in lui l’effetto miracoloso di convertirlo
istantaneamente; quindi, davanti all’imperatore, uscì dalla finzione e
affermò calorosamente la sua fede cristiana, il che lo portò a subire il
martirio. Nel teatro barocco la sua vicenda è stata sviluppata e
interpretata sull’asse della labilità dei confini tra realtà e finzione.
Ricavando spunti dal racconto agiografico del Flos sanctorum del
padre Pedro de Ribadeneyra, libera traduzione spagnola della
Legenda aurea di Jacopo da Varazze, Lope de Vega compose nel
1608 la commedia Lo fingido verdadero: dove Ginès / Genesio si
trova a recitare davanti all’imperatore la parte di un cristiano
condotto al martirio, quando si è già convertito al cristianesimo, e la
recitazione finta diventa a un certo punto vera, dato che egli
confessa esplicitamente la propria conversione e sulla scena stessa
viene immediatamente martirizzato. Altri san Genesio teatrali hanno
poi seguito il viluppo barocco di quello di Lope (tra cui anche uno
italiano dello sconosciuto Michele Stanchi, il cui testo è stato
stampato a Roma nel 1687): e l’eco del nome e del mito teatrale è
giunta fino al titolo che Jean-Paul Sartre ha dato al suo pletorico libro
del 1952 sul “blasfemo” Jean Genet, Saint Genet, comédien et
martyr.
Dopo la notte passata a San Genesio mi rendo conto che questa
mia imprevista sosta alle porte di Pavia mi ha portato molto vicino
alla celebre Certosa, monumento estraneo ai tempi danteschi, che
mi impone comunque una sia pur rapida visita. La mattina del 16
settembre, prima di rivolgermi di nuovo verso la città, mi dirigo così
verso la Certosa, assoluta meraviglia viscontea, pensando anche a
un libro di Carlo Emilio Gadda, Verso la Certosa, raccolta di scritti di
viaggio apparsa nel 1961, il cui titolo però non si riferisce alla
Certosa di Pavia, ma a un’altra Certosa, anch’essa viscontea, quella
di Garegnano, alla periferia di Milano, fatta costruire verso la metà
del XIV secolo dall’arcivescovo Giovanni Visconti, che vi fece
ospitare anche Petrarca (Gadda ne parla solo alla fine dello scritto
conclusivo del libro, Il Petrarca a Milano). Un equivoco intreccio tra
Certose scaturisce del resto dalla suggestione del grande romanzo
di Stendhal, La Certosa di Parma, che si riferisce a una Certosa che
non esiste, inventata, forse proprio per attrazione e fascinazione di
questa Certosa di Pavia, per collocarci verso la fine il protagonista
Fabrizio Del Dongo.
Nel mattino leggermente piovoso tocco il lungo muro di cinta che
circonda il complesso, ai margini del parco visconteo, immerso in un
umido silenzio. Attraverso l’ingresso che immette sul piazzale
rettangolare, proprio mentre la pioggia si arresta e comincia ad
aprirsi il cielo: ecco, in fondo, la facciata della chiesa, con quella sua
architettura multipla, che sorprende e depista, che è impossibile
definire secondo convenzionali schemi stilistici. C’è un senso di
interferenza, amplificato sia dalle strutture architettoniche che dal
modo in cui esse sono disegnate, illuminate, esaltate, corrose dai
vuoti che vi si aprono e dal gioco di bassorilievi e altorilievi, dal vario
e studiato disporsi di figure, di segni e perfino di scritture. La
struttura e la decorazione della facciata si sono prolungate dal tardo
Quattrocento al Cinquecento avanzato, in età non più viscontea, ma
sotto gli Sforza e poi nel passaggio delle guerre d’Italia, fino
all’assestamento del dominio spagnolo sul Ducato di Milano: ma
l’effetto globale sembra come riavvolgere in sé tutto il lungo tempo di
costruzione dell’intero impianto, dal primo impegno di Gian Galeazzo
Visconti (1394) – che qui, a nord del parco visconteo, intendeva
farne l’eccezionale sede del proprio sepolcro – a tutte le fasi
successive, che hanno visto assestarsi l’insieme degli edifici, molto
prima dell’impegnativa e ambiziosa facciata della chiesa. È un
paradossale effetto di temporalità che si espande nella stessa
determinata spazialità della forma architettonica; e a questo
contribuisce anche, senza minimamente intaccare l’equilibrio
formale, ma anzi come sostenendolo e potenziandolo, la finale
incompiutezza, con la mancanza del fastigio superiore.
Una gemma preziosa, questa facciata, in cui tracce di gotico fiorito
e flamboyant (entro cui archetti e finestre sembrano far persistere
ricordi del romanico lombardo) si assestano in una misura
umanistica, nell’equilibrio di una razionalità definibile come
“rinascimentale”, che si replica, si esalta, si scava dentro, nella
artificiosa esasperazione del manierismo. Giunto vicino al portale
della chiesa mi attardo a contemplare la fitta decorazione, a
discernere la molteplicità delle figure, che, in una disposizione
scultorea prevalentemente classicistica, tra bassorilievi, altorilievi,
statuette, medaglioni, presentano immagini sacre e profane, fanno
affacciare episodi biblici, santi, profeti, angeli, eroi e personaggi
antichi. Poi brevemente percorro la complessa trama dell’interno, tra
la proliferante ricchezza di opere d’arte: mi colpisce, come per una
lontana suggestione dantesca (da Paradiso, XXXI 103-108: vedi p.
90), una statua cinquecentesca della Veronica, che ostenta il velo in
cui è impresso il volto di Cristo. Ecco nel transetto destro il
monumento funebre di Gian Galeazzo Visconti, che, morendo nel
1402, non riuscì a vedere la Certosa da lui voluta, e fu collocato qui
solo nel 1474, mentre il suo sontuoso sepolcro, voluto nel 1492 dal
duca sforzesco Ludovico il Moro, fu compiuto solo a Cinquecento
inoltrato. Intanto Ludovico, in seguito alla sua pericolosa politica che
aveva dato avvio alle guerre d’Italia, era finito prigioniero in Francia:
qui non c’è la sua tomba, ma solo la parte compiuta di un
monumento che egli aveva commissionato a Cristoforo Solari per la
chiesa milanese di Santa Maria delle Grazie, con due corpi distesi, il
suo e quello della moglie Beatrice d’Este. Molto bello, in fondo
commovente il volto di Beatrice, figlia di Ercole I e sorella di Alfonso I
d’Este, morta tanto presto, nel 1497, prima della sventura dello
sposo, del Ducato e dell’Italia. Mi vengono in mente i versi che
l’Ariosto appone alla immaginaria statua che Rinaldo trova nella
fontana delle donne caste:

– Beatrice bea, vivendo, il suo consorte,


e lo lascia infelice alla sua morte;

anzi tutta l’Italia, che con lei


fia triunfante, e senza lei, captiva.
(Orlando furioso, XLII 91-92)
Pavia: San Pietro in Ciel d’Oro

per vedere ogne ben dentro vi gode


l’anima santa che ’l mondo fallace
fa manifesto a chi di lei ben ode:

lo corpo ond’ella fu cacciata giace


giuso in Cieldauro; ed essa da martiro
e da essilio venne a questa pace.
(Par., X 124-129)

Senza attardarmi ulteriormente nella imprevista diversione viscontea


e sforzesca della Certosa, riprendo la strada per Pavia,
raggiungendo subito il fronte nord di quella che un tempo era la cinta
muraria (distrutta nel XIX secolo), dominato dal Castello, fondato dai
Visconti nel 1360, dove, prima di approdare alla Certosa, fu tumulato
Gian Galeazzo. Poco discosto dal Castello, in una piazzetta
appartata e silenziosa, in quello che in origine era un ambiente
suburbano, si trova la chiesa ricordata da Dante: è san Tommaso a
menzionarla, nel cielo del Sole, presentando la corona dei beati di
cui egli stesso fa parte, che risplendono dentro luci fiammeggianti.
L’ottava luce è quella in cui risplende, nella gioia di un vedere rivolto
verso il bene supremo di Dio, l’anima del senatore romano Severino
Boezio, che con i suoi scritti mostra a chi sa ascoltarlo la vanità dei
beni mondani (’l mondo fallace). Il suo corpo, da cui l’anima fu
cacciata con la violenza (condannato a morte dal re goto Teodorico
nel 526), è sepolto nella chiesa di San Pietro in Ciel d’Oro: dal
supplizio (martiro) e dall’esilio, in cui per il cristiano consiste la vita
terrena, egli è venuto alla pace del cielo.
Fondata in età longobarda, la chiesa deve il suo nome a un
originario soffitto decorato a foglia d’oro, di cui non è rimasta traccia:
è stata ricostruita nel severo stile del romanico lombardo, come la
basilica di San Michele, che è dalla parte opposta della città, nella
prima metà del XII secolo. Ma travagliata è stata la sua storia, con
crolli, distruzioni, abbandoni datisi nel corso del tempo, tanto che
gran parte del suo corpo è stato ricostruito solo a fine Ottocento: ha
resistito comunque, nella forma romanica originaria, la facciata
tripartita in laterizi, che prospetta sull’acciottolato della piazza
silenziosa, su cui si apre anche un piccolo giardino; grande solidità
mostra anche il possente tiburio, ben visibile dal chiostro moderno
sul fianco destro della chiesa, che dà accesso al convento degli
Agostiniani. A sinistra della chiesa avanza invece un bell’edificio
settecentesco che ospita il Comando provinciale dei Carabinieri.
Non manca sulla facciata la lapide con la terzina dantesca: ma il
cuore della basilica è costituito non dalla tomba di Boezio, ma da
quella di sant’Agostino, le cui ossa furono qui traslate nel 724 per
iniziativa del re longobardo Liutprando. Il grande padre della chiesa
e vescovo di Ippona era morto nella sua città assediata dai Vandali
nel 430: secondo la tradizione il vescovo Fulgenzio di Ruspe, esiliato
da Ippona, le aveva trasportate a Cagliari, dove il re Liutprando andò
a prenderle per sottrarle ai Saraceni, da cui si dice le abbia riscattate
a caro prezzo. Le ossa di Boezio rimasero invece sempre a Pavia,
dove il senatore romano, venerato ora come santo, subì il carcere e
il supplizio (la città era allora capitale del Regno italico). Nelle
traversie subite dalla chiesa le tombe hanno variamente mutato il
loro assetto: sono state anche dimenticate e disperse, fino alla
ricostruzione della chiesa a fine Ottocento.
È singolare il fatto che qui si trovino i resti di due degli autori che
Dante ha più intensamente letto e a cui ci sono richiami, diretti e
indiretti, nelle sue opere, anche se, specialmente per Agostino, gli
studiosi appaiono tutt’altro che concordi. Lascia del resto adito a
dubbi il fatto che la presenza di Agostino nel Paradiso si manifesti
solo alla fine, nell’Empireo, per la sua collocazione nella candida
rosa dei beati, negli scanni che, sotto quello di Giovanni Battista,
dividono i beati del Nuovo Testamento da quelli dell’Antico (XXXII
34-35: “e sotto lui così cerner sortiro / Francesco, Benedetto e
Augustino”), mentre egli viene incidentalmente nominato in Paradiso,
X 119-120, per designare indirettamente una delle luci della stessa
corona del cielo del Sole in cui è Boezio, cioè “quello avvocato de’
tempi cristiani / del cui latino Augustin si provide” (“quel difensore dei
tempi cristiani della cui opera latina Agostino trasse frutto”), che per
la maggior parte dei commentatori designerebbe lo storico Paolo
Orosio, ma che può riferirsi anche ad altri numerosi personaggi, tra
cui Mario Vittorino, autore nel IV secolo di vari trattati teologici. Il
nome di Agostino si affaccia più volte nel Convivio e nella
Monarchia, oltre che nelle Epistole XI 7 e XIII 28, ma varia e
discussa è la possibilità di individuare riferimenti ed echi testuali in
tutte le opere dantesche: mentre un filone della critica, specie negli
Stati Uniti d’America, ha insistito, oltre che sui dati teologici, sulla
prospettiva agostiniana del disegno e del processo di scrittura
dantesco, seguendo la traccia del libro più celebre e affascinante del
vescovo di Ippona, le Confessiones (determinante in questa chiave il
libro di John Freccero del 1986, Dante. The Poetics of Conversion).
Meno controverso il ruolo giocato da Boezio, oltre che per le
numerosissime citazioni ancora del Convivio e per quelle della
Monarchia e dell’Epistola XIII 33: tra i testi base della cultura di
Dante è certo il De consolatione Philosophiae, scritto da Boezio in
carcere, opera che agisce in modo notevole sull’orizzonte morale e
allegorico del Convivio e della Commedia, anche per specifici dati
teologici, come la dottrina del libero arbitrio (ma anche l’alternanza
tra prosa e versi della Vita nuova trova il suo principale modello
proprio nel De consolatione). Uno dei primi espliciti richiami a Boezio
nella Commedia può essere identificato nella nobile massima con
cui Francesca da Rimini risponde alla richiesta di Dante:

Nessun maggior dolore


che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria: e ciò sa ’l tuo dottore.
(Inf., V 121-123)
Si sente qui la traccia di De consolatione Philosophiae, II IV 2 “in
omni adversitate fortunae, infelicissimum est genus infortuni fuisse
felicem” (“in ogni avversità di fortuna, il più infelice genere di
disgrazia è essere stato felice”): ’l tuo dottore può però riferirsi sia a
Boezio, autore della massima, sia a Virgilio, condannato all’infelicità
del Limbo, che Dante aveva già chiamato ’l mio dottore nello stesso
canto, v. 70.
Eccomi comunque davanti all’arca di Agostino, sopra l’altar
maggiore, sotto il ciel d’oro dell’abisde con un Cristo in maestà, frutto
di un affresco del 1900, opera del bergamasco Ponziano Loverini,
che vorrebbe dare un’immagine dell’originario Ciel d’Oro che dà
nome alla basilica. Quella del santo è una sontuosa arca tripartita,
opera del secondo Trecento, di maestri lombardi della scuola del
pisano Giovanni di Balduccio: essa culmina in tre cuspidi, su cui si
appoggiano varie statuette, oltre a scene in altorilievo (tra cui c’è
anche quella della traslazione del corpo del santo dalla Sardegna a
Pavia). Al centro c’è la cella, sorretta da pilastri, ora illuminata
dall’elettricità, in cui giace la figura del santo contornata da angeli
che sollevano i lembi di un vasto lenzuolo. Osservando questo
movimento sorge in me un’indebita comparazione tra il santo
giacente e il personaggio dormiente che, nell’invenzione del
Boccaccio (Decameron, X IX), un negromante saraceno fa traslocare
istantaneamente da Alessandria d’Egitto a questa stessa chiesa. Si
tratta di un gentiluomo pavese, messer Torello da Stra che, ai tempi
della terza crociata (quindi prima che esistesse questa arca), ritorna
così magicamente nella sua città, per la gentilezza del Saladino, che
in Alessandria ha ricambiato la cortesia ricevuta in occasione di un
suo passaggio in incognito a Pavia. Torello viene spedito, “in tempo
reale”, come oggi si direbbe, su un letto prezioso, ornato dai doni del
Saladino, proprio in questa chiesa, dato che è nipote dell’abate che
la regge; il primo a scoprirlo è il sagrestano, che fugge terrorizzato
(X, IX 88):

Era già nella chiesa di San Piero in Ciel d’oro di Pavia, sì


come dimandato avea, stato posato messer Torello con tutti i
sopradetti gioielli e ornamenti, e ancor si dormiva, quando
sonato già il matutino il sagrestano nella chiesa entrò con un
lume in mano, e occorsegli subitamente di vedere il ricco letto.
Non solamente si maravigliò ma avuta grandissima paura
indietro fuggendo si tornò. Il quale l’abate e’ monaci veggendo
fuggire si maravigliarono e domandaron della cagione.

Strano, comunque, il fatto che Boccaccio abbia collocato proprio in


questo spazio l’approdo della sua invenzione: forse egli nella chiesa,
anche per la fascinazione di quel “Ciel d’oro” e per la menzione che
ne aveva fatto Dante, riconosceva il più esemplare ed emblematico
luogo della città di Pavia (anche se la novella non fa alcun cenno dei
sepolcri di Agostino e di Boezio). Solo più tardi, nel dicembre 1365,
Boccaccio avrebbe ricevuto una lettera del suo amico Francesco
Petrarca, che allora risiedeva a Pavia, con una descrizione della
città, in cui, rammaricandosi di non aver ricevuto una sua visita, gli
faceva notare che, nel corso del soggiorno, avrebbe potuto visitare i
sepolcri di Agostino e di Boezio e magari desiderare di trovare lì il
proprio ultimo riposo (Seniles, V I 4):

Vidisses ubi sepulcrum Augustini, ubi exilii senilis ydoneam


sedem viteque exitum Severinus invenit urnisque nunc
geminis sub eodem tecto iacent cum Liutprando rege qui
ipsum Augustini corpus e Sardinia in hanc urbem transtulit.
Devotum piumque consortium clarorum hominum! Putes
Augustini vestigia Severinum sequi, ut viventem ingenio et
libris – iis presertim quos post illum de Trinitate composuit –
sic defunctum membris ac tumulo. Optes his tam sanctis et
tam doctis viris proximus iacuisse,
(Avresti pure veduto dove è il sepolcro di Agostino, e dove
Severino Boezio trovò prima sede appropriata all’esilio da
vecchio e poi la morte: e ora giacciono in due urne gemelle
sotto uno stesso tetto con re Luitprando, che il corpo di
Agostino dalla Sardegna fece trasportare in questa città.
Devoto e pio consorzio di uomini grandi! Diresti che Boezio
abbia seguito le orme di Agostino, come in vita con l’ingegno e
con i libri – specialmente con quelli De Trinitate che scrisse
dopo di lui – così con le membra e col sepolcro nella morte. E
avresti desiderato di trovare il tuo ultimo riposo accanto a
uomini tanto santi e dotti)

Petrarca nota il rilievo di questa vicinanza tra Agostino e Boezio,


proprio in un momento in cui doveva essere in costruzione l’arca del
primo (commissionata nel 1362): e chissà come era allora collocata
la tomba di Boezio, che ora non si trova nella chiesa vera e propria,
ma nella cripta sottostante, subito dietro l’altare, in una piccola urna
di fattura novecentesca, che imita forme bizantine: qui nel 1923 sono
stati collocati dei frammenti ossei, ben visibili oltre una finestra
schermata da vetro. Mentre mi faccio la solita domanda sulla reale
identificazione di queste ossa, mi commuove, nella solitudine e nel
silenzio della cripta, una giovane ragazza che sosta compunta
proprio davanti a esse, e a Boezio sembra rivolgere la propria
preghiera. Risalendo dalla cripta, trovo anche, alla base di un pilone
al suo ingresso, la lastra che copre le ossa di Liutprando, che in più
onorevole sepolcro dovevano essere ai tempi di Petrarca,
trasportate qui nel XII secolo da una precedente collocazione
pavese. Da una parte, a terra, un parallelepipedo di pietra scura reca
l’immagine in graffito di Agostino in abito vescovile.
Molto vicino a San Pietro in Ciel d’Oro è il Castello Visconteo, in
parte circondato da un verde giardino: insieme castello e palazzo,
non solo presidio militare, ma nobile residenza pavese dei signori di
Milano, di cui nella sopra ricordata lettera a Boccaccio Petrarca
esalta la magnificenza, “structure mirabilis atque impense”
(“ammirevole per la struttura e per il costo”), da considerare
“augustissimum” (“il più sontuoso”) tra tutte le opere dei moderni
(Seniles, V, I 9). Attraverso il giardino contemplando i due possenti
torrioni, su cui si aprono, come su tutta la facciata, delle eleganti
bifore che inseriscono entro la cupezza del laterizio una sorta di
ingentilimento, e così proiettano la minacciosa affermazione di
potere, sempre in agguato nelle rocche e nei castelli cittadini, verso
una sorta di esuberanza cortese. Questo effetto si prolunga
nell’arioso cortile interno, circondato su tre lati in basso da un portico
a colonne e in alto da un loggiato che si affaccia su un gioco di
monofore, bifore, quadrifore. Il quarto lato, quello a nord, che si
affacciava sul vasto Parco Visconteo e che conteneva eleganti
saloni, fu in realtà distrutto nella battaglia di Pavia (1525), quella in
cui gli imperiali di Carlo V sconfissero i francesi di Francesco I,
facendo prigioniero lo stesso re. In mezzo al cortile sono ora in piedi
i gazebo allestiti per un Festival dedicato ai Saperi.
Il castello ospita i Musei Civici e varie mostre: è in corso una
mostra su Dario Fo, con una serie di dipinti dell’attore premio Nobel
per la letteratura, tra cui mi incuriosisce particolarmente il ritratto di
Ettore Petrolini, come fissato in una colorata esitazione di fronte alla
beffa dell’essere al mondo. Ma più lunga sosta dedico a un’altra
mostra, dedicata proprio alla battaglia di Pavia: mostra storico-
didattica con un’animazione multimediale, costruita sulle immagini
degli arazzi del Museo di Capodimonte a Napoli (solo di uno è
presente l’originale), eseguiti a Bruxelles tra il 1528 e il 1531 su
cartoni di Bernard van Orley, che si trovano al Louvre. Seguo così,
tra le fitte figurazioni degli arazzi, filtrate dalla loro proiezione un po’
preziosa e cavalleresca e dall’ulteriore coloritura immaginaria data
dalla multimedialità, le diverse fasi di quell’evento consumatosi qui
accanto, esito centrale delle guerre e della “servitù” d’Italia nel
Cinquecento, con la quasi definitiva affermazione dell’egemonia
spagnola, oltre che con il passaggio del ducato di Milano sotto il
diretto controllo spagnolo.
Di fuori, tra la vegetazione della piazza Castello, un monumento a
Garibaldi, ritto in piedi in cima a un picco roccioso, con le mani
appoggiate alla spada inguainata, mi riconduce alle più recenti
guerre in cui l’Italia ha provato a ritrovare se stessa, dopo i lunghi
secoli delle dominazioni straniere.
Lascio Pavia senza immergermi nel suo vivace mondo
universitario, nei suoi collegi che continuano la loro tradizione, come
i due più antichi e prestigiosi, sorti dall’impegno pedagogico della
Controriforma, il Borromeo, nato nel 1561 per volere di san Carlo, e
il Ghislieri, fondato nel 1567 dal papa Pio V (Antonio Michele
Ghislieri). Tanti i ricordi di professori e allievi, da Carlo Goldoni, che
fu studente nella prima giovinezza al Ghislieri e ne fu espulso nel
1725 per una satira sulle ragazze della città, a Ugo Foscolo, che fu
per brevissimo tempo professore di eloquenza e lesse il 22 gennaio
1809 la famosa prolusione Dell’origine e dell’ufficio della letteratura:
per arrivare alla più recente agguerrita scuola filologica pavese, ai
suoi protagonisti del dopoguerra, che ho avuto modo di conoscere e
frequentare, soprattutto Maria Corti e Cesare Segre.
Cremona

ma non tacer, se tu di qua entro eschi,


di quel ch’ebbe or così la lingua pronta.

El piange qui l’argento de’ Franceschi:


“Io vidi”, potrai dir, “quel da Duera
là dove i peccatori stanno freschi”.
(Inf., XXXII 113-117)

Da Pavia punto verso est su un asse stradale che segue


longitudinalmente a una certa distanza il corso del Po, che serpeggia
in una serie di meandri, sfiorando prima Piacenza sulla riva destra e
poi, dopo aver ricevuto le acque dell’Adda, Cremona, sulla riva
sinistra. Tocco inizialmente lo stabilimento del Riso Curti, e alcune
risaie, meno fitte di quelle del vercellese e del novarese. Nella piatta
campagna si affacciano di tanto in tanto capannoni e stabilimenti, nel
succedersi di centri sia agricoli che industriali: Belgioioso,
Corteolona, Casalpusterlengo, Codogno, Pizzighettone. Ed eccomi a
Cremona, non menzionata nella Commedia, ma chiamata in causa
per la presenza, tra i traditori dell’Antenora, di Buoso da Duera (o
Dovara o Doara), esponente di spicco di una ricca famiglia
ghibellina, il cui nome deriva da un borgo agricolo tuttora esistente,
Dovera (in cremonese Duera). A partire dagli anni quaranta fino agli
anni ottanta del XIII secolo, Buoso ebbe a tratti la signoria di
Cremona (da cui però fu bandito nel 1267) e di vari centri padani,
giostrando tra le diverse parti e i diversi potentati dell’Italia
settentrionale e incamerando notevoli beni per la sua famiglia. È la
sua lingua pronta che, nell’Antenora, svela a Dante la presenza del
recalcitrante Bocca degli Abati, il quale per ritorsione fa il suo nome
nei versi sopra riportati, motivandone la presenza nel gelo del Cocito
(“là dove i peccatori stanno freschi”) con un tradimento che avrebbe
perpetrato ai danni di Manfredi di Svevia. Questi gli procurò denari
per reclutare un esercito allo scopo di fermare sul fiume Oglio la
discesa di Carlo d’Angiò verso il regno meridionale, ma Buoso non
ne fece nulla. Non si sa però se egli intascò semplicemente i denari
o, come suggerisce Dante, tradì per ulteriori compensi da parte dei
francesi angioini.
Una famiglia cremonese viene poi ricordata nell’invettiva del VI del
Purgatorio, in cui si elencano diverse famiglie implicate nelle lotte di
fazione della lacerata Italia: nel v. 106, “Vieni a veder Montecchi e
Cappelletti”, ai ghibellini veronesi Montecchi sono giustapposti i
cremonesi Cappelletti o Capelletti, guelfi che nella città si
opponevano ai ghibellini Barbarasi, detti anche Troncaciuffi. E si può
pensare che, per sfuggire alla comicità di una zuffa tra nomi riferiti a
opposto trattamento di pelosi filamenti, che sarebbe stata incongrua
nel contesto dell’invettiva, Dante metta i guelfi cremonesi a fronte dei
ghibellini veronesi: accostamento che ha poi dato luogo
all’invenzione di un conflitto tra le due famiglie veronesi, i Montecchi
e gli inesistenti Cappelletti (poi Capuleti), che è alla base della
leggenda di Romeo e Giulietta (vedi pp. 661-662).
Diretta citazione di Cremona si trova comunque nel De vulgari
eloquentia: in I XV 2, insieme a Brescia e a Verona per la vicinanza
linguistica a Mantova; e in I XIX 1, a mo’ di mero esempio della
possibilità di far risalire uno specifico volgare locale al quadro di un
volgare regionale e da questo a quello di parte o dell’intera Italia:
“Nam sicut quoddam vulgare est invenire quod proprium est
Cremone, sic quoddam est invenire quod proprium est Lombardie; et
sicut est invenire aliquod quod sit proprium Lombardie, sic est
invenire aliquod quod sit totius sinistre Ytalie proprium; et sicut
omnia hec est invenire, sic et illud quod totius Ytalie est” (“Infatti
come è possibile trovare un volgare che è proprio di Cremona, così
è possibile trovarne uno che sia proprio della Lombardia, e così
trovarne uno che sia proprio di tutta la parte sinistra d’Italia: e come
è possibile trovare tutti questi, così anche quello di tutta l’Italia”). Già
è capitato di accennare più volte (pp. 709, 919, 990) alla menzione
di Cremona nell’Epistola VII VI 22, in cui si cerca di convincere
l’imperatore a non indugiare a volerla sottomettere, per muoversi
invece verso Firenze:

Quid, preses unice mundi, peregisse preconicis cum cervicem


Cremone deflexeris contumacis?
(Cosa penserai di aver ottenuto, o unico custode del mondo,
quando avrai piegato la testa della contumace Cremona?)

Cremona si era infatti ribellata, proprio su sollecitazione di Firenze,


nel febbraio 1311: mentre stava stringendola d’assedio, Enrico VII fu
raggiunto da cento notabili pronti a sottomettersi e a chiedere grazia,
ma li fece arrestare e aggredì la città distruggendo porte, torri,
fortificazioni.
Arrivato nella zona nord di Cremona, non lontano dalla stazione
ferroviaria, lascio l’auto quasi a fronte della chiesa di San Luca, la
cui semplice forma romanico-gotica ha un aspetto molto particolare
per il piccolo protiro che la precede sulla sinistra, torretta poligonale
con due piani scanditi da bifore. Da qui ha inizio il corso Garibaldi,
che mi porta verso il Duomo, passando attraverso la zona detta di
Cittanova, che nel XIII secolo era abitata da ceti di origine popolare,
contrapposta alle residenze degli aristocratici, attestati soprattutto
nella zona intorno al palazzo del Comune. Incontro subito il
quattrocentesco Palazzo Raimondi, che ospita il Dipartimento di
Musicologia e Beni culturali dell’Università di Pavia: Dipartimento,
già Facoltà, impiantato qui a Cremona per il rilievo che la musica ha
sempre avuto in città. Patria di Claudio Monteverdi, essa ha visto
svilupparsi un formidabile artigianato musicale, il cui vertice è
costituito dai violini di Antonio Stradivari (1644-1737) e dei suoi
successori (e qui c’è anche una Scuola internazionale di Liuteria).
Su una piazza poco più avanti prospetta il Palazzo di Cittanova,
con portici ogivali sotto la solida struttura in laterizio: fondato nel
1256, come centro politico delle classi emergenti, passò poi a usi
diversi subendo varie modifiche. Qui il corso Garibaldi devia
parzialmente a sinistra, fino a raggiungere il corso Campi, in parte
pedonale, che prosegue nella via Giuseppe Verdi, che a sua volta
prosegue a un certo punto nella via Claudio Monteverdi,
riconfermando anche nella toponomastica il rilievo musicale di
Cremona. Dalla via Monteverdi svolto a sinistra sulla via dei
Gonfalonieri, che sbuca sulla centrale piazza del Comune, cuore
della Cremona medievale, proprio tra il Palazzo del Comune
(costruito nella prima metà del Duecento) e la Loggia dei Militi
(costruita alla fine del secolo, nel 1292); davanti c’è la facciata del
Duomo, affiancato da una parte dall’alto Torrazzo, insieme
campanile e torre civica, e dall’altra dal Battistero. Prendo un pasto
in un ristorante che è al limite della via dei Gonfalonieri, su un tavolo
all’aperto che mi lascia vedere la parte destra della facciata del
Duomo, con il gioco marmoreo del portichetto in basso, delle
loggette in alto, del protiro con i tre archi della loggia che lo sovrasta
e le statue che li occupano.
Poi mi aggiro sulla piazza del Comune mutando continuamente
punto di vista per contemplare l’accurata varietà delle forme
architettoniche, in un assetto che in gran parte fu messo in piedi nel
corso del XIII secolo, anche se alcune costruzioni erano iniziate già
nel secolo precedente e vari sono stati gli interventi successivi,
specie per la sistemazione del Duomo, che continuò fino al XVI
secolo. La suggestione della facciata del Duomo è resa più forte
dall’effetto di asimmetria dato dal portichetto che verso sinistra si
prolunga, oltre la base della facciata marmorea, coprendo la base
del possente Torrazzo in laterizi: quasi a spostare il sostegno della
chiesa verso sinistra, a vincolarla più strettamente allo svettante
campanile, come corroso in alto dal sovrapporsi di terrazze,
dall’infinita ripetizione di archetti e finestre, fino al fastigio che punta
sicuro al cielo. E chissà se il torrone, che, insieme alla più preziosa
mostarda, costituisce una delle storiche specialità alimentari di
Cremona, abbia a fare qualcosa con il rilievo simbolico che per la
città assume questo Torrazzo.
Tra le varie sculture che ornano la facciata, si impone il fregio che
sovrasta l’arco acuto del protiro, in cui la consueta serie dei mesi
non si presenta in quadretti separati, ma in un continuato succedersi
delle tradizionali immagini del lavoro, come a scandire il ritmo del
tempo sotto il segno dell’energia, del radicamento nella terra, di un
faticoso plasmare le cose: le figure modellate nel marmo sembrano
come far trasparire in sé l’intelligenza e la fatica del fare umano
entro la natura. In origine dovevano esser quadretti composti verso il
terzo ventennio del Duecento, disposti entro il portale, ma il loro
allineamento nel fregio del protiro, avvenuto verso il 1283, è venuto
come a rafforzarne il vigore, a proiettare l’immobilità della pietra
verso la temporalità del lavoro, la sua ciclica ripetitività.
Dopo esser passato nello stretto spazio tra il corpo del Duomo e
quello dell’alto Battistero ottagonale faccio il giro dei fianchi e del
retro della chiesa, che in ogni punto si espongono nelle loro
molteplici scansioni architettoniche, accuratissime nelle facciate del
transetto, dal braccio destro (a sud) a quello sinistro (a nord),
innalzato nel 1288. Davanti alle tre absidi semicircolari si apre il
Largo Boccaccino, col nome del pittore (1460 c.- 1525) di cui varie
opere sono all’interno del Duomo. Sul Largo sbocca la via Giovanni
Maria Platina, col nome dell’intarsiatore (1455 c.- 1500) a cui si
devono gli stalli che sono nel presbiterio del Duomo. All’angolo tra la
via Platina e la via XI febbraio un palazzetto reca questa lapide: DA
QUESTA CASA / DOVE TERMINÒ LA SUA INFANZIA / DAL 1933 AL 1935 / PIER PAOLO
PASOLINI / DISPIEGÒ LA SUA AVVENTURA ARTISTICA.
Noto, davanti al fianco sinistro del Duomo, l’insegna di una
Bottega di Liuteria, che, entro teche di vetro, espone dei violini che
mi sembrano già contenere in sé la musica che ne potrà sprigionare.
Cremona sembra invitare a interrogare tutto il vasto orizzonte della
liuteria, che non riguarda soltanto i violini (la cui sperimentazione
ebbe inizio nel XVI secolo) e i vari e più antichi strumenti ad arco,
ma tutta la gamma degli strumenti a corda, già in uso presso gli
antichi. Quanto a Dante, una sola volta fa menzione di un liuto, ma in
un contesto tutt’altro che musicale, nella similitudine con cui descrive
uno dei dannati dell’ultima bolgia, maestro Adamo, col corpo
deformato dall’idropisia; sembra un liuto, con la pancia rigonfia simile
alla cassa armonica e il collo simile al manico, escludendo le gambe
(come se avesse l’inguine, l’anguinaia, separato dalla biforcazione
delle gambe):

Io vidi un, fatto a guisa di lëuto,


pur ch’elli avesse avuta l’anguinaia
tronca da l’altro che l’uomo ha forcuto.
(Inf., XXX 49-51)

Se non sappiamo quale fosse la natura specifica dello strumento a


corda, il leuto a cui si riferisce Dante (anche liuto in alcuni
manoscritti), è comunque evidente che la similitudine chiama in
causa una cassa armonica piuttosto rigonfia, ben diversa da quella
dei violini. E del resto sempre per la pancia di maestro Adamo viene
poco dopo chiamato in causa un altro ben diverso strumento, il
tamburo. Un vicino di pena, il greco Sinone, forse sdegnato per il
modo in cui quello l’ha nominato, “col pugno li percosse l’epa croia. /
Quella sonò come fosse un tamburo” (vv. 102-103).
Sulla piazza, davanti alla Loggia dei Militi, si muove un vivace
nano in maglietta azzurra che coscienziosamente spazza
l’impiantito. Una mezza dozzina di avventori sono seduti ai tavoli del
bar antistante al Palazzo del Comune, mentre altri si trovano in un
bar più piccolo, affiancato al portichetto più recente che è accanto
alla Loggia dei Militi. Sotto il portico della Loggia è esposto un
gruppo scultoreo, con due statue di Ercole che sorreggono lo
stemma di Cremona: una lapide ricorda che si tratta di un gruppo
inserito nel XVIII secolo sul fastigio di una porta poi distrutta, la
vicina Porta Margherita, e portato qui nel 1962, a ricordo della
leggenda “cara agli umanisti”, secondo cui Ercole fu il fondatore di
Cremona. Lo stemma è partito in due campi: quello a destra è a
fasce orizzontali, mentre in quello a sinistra c’è un braccio levato che
impugna una palla, che si suole riferire a un leggendario atto di forza
di un cavaliere cremonese nei confronti di una richiesta
dell’imperatore Enrico IV, che pretendeva il tributo di una palla d’oro
(a cui risale anche il motto, che non è nella scultura, FORTITUDO MEA IN
BRACHIO). Ma anche in questa versione statuaria lo stemma era
sormontato da una corona gemmata, che non c’è più: mi dicono
infatti che qualche mese fa è caduta in pezzi grazie a due giovani
che si erano arrampicati sullo stemma per fare un selfie. Selfie meno
dannosi non mancano tuttora qua intorno: e proprio adesso scorgo
una donna di mezza età che se lo sta facendo con il Torrazzo sullo
sfondo. Altri turisti fanno foto muovendosi davanti alla facciata del
Duomo, che apre adesso il portale per la visita.
L’interno è ricco di opere d’arte, veri e propri cicli pittorici risalenti
in gran parte al primo Cinquecento (tra cui Storie della vita di Maria
del Boccaccino, squillanti nei loro classici colori, in un intreccio di
influssi tra le maggiori aree dell’Italia del tempo). Ma la parete che mi
colpisce di più è la controfacciata, con la Crocifissione e la
Deposizione del Pordenone (Giovanni Antonio de’ Sacchis): forse è
più perfetta la resa della seconda, ma più sorprendente è l’affannato
e furioso groviglio della prima, dominata da uno strano cavaliere
corazzato e barbuto al centro, in primo piano, che quasi in posa
esibisce impugnandola con la destra una gigantesca spada, mentre
col braccio sinistro rivolto indietro indica il punto in cui è Cristo, il cui
corpo è già come determinato e congelato nella fissità della croce,
mentre le membra dei due ladroni sono come slogate e dislocate,
quasi escono fuori da se stesse, nell’impossibile fuga dalla violenza
subita. Intorno c’è un groviglio di figure umane ed equine, che in
parte sembra precipitare addosso alla Madonna a terra svenuta.
L’insieme dei dettagli dà un effetto di scomposizione, moltiplicazione
lacerata dell’ossessivo affollarsi umano, entro uno spazio di cui si
riconoscono solo la roccia squarciata, lo sparso fogliame in primo
piano nella parte inferiore, le fortificazioni cittadine sullo sfondo e in
alto la tempestosa agitazione del cielo. È una scatenata espressività,
in una esasperata, a tratti sommaria, prospettiva manieristica,
davvero precoce (siamo intorno al 1520-21), con tracce
classicistiche proiettate verso una sofferta tensione spirituale e
corporale che sembra venire dall’estremo nord d’Europa.
All’effetto di questo scatto cupamente espressivo (che qui si nota
anche in opere forse meno intense, come una Strage degli innocenti
del cremonese Altobello Melone, risalente al 1517) si oppone la
quiete che regna all’esterno della chiesa, dove cresce il numero
delle persone che si muovono qua e là e che seggono sui tavoli dei
bar. Vicino alla Loggia dei Militi il nano ha appoggiato la scopa al
muro e conversa gesticolando con un uomo magro di alta statura
che indossa un giubbetto bianco. Passano un paio di ciclisti e
numerosi ne incontro nel tornare verso l’auto.
L’ampia piazza Roma è in gran parte coperta da un giardino, dove
molte panchine sono occupate; una giovane mamma spinge la
carrozzina del pupo dormiente sul viale ghiaioso. Vigila al limite tra il
giardino e l’asfalto che lo circonda un busto bronzeo di Monteverdi,
con un foglio di musica in mano, recentissima opera dello scultore
Mario Coppetti, installata qui nel 2013. Poco distante un cartellone
elenca le manifestazioni che si sono svolte per il 300° anniversario
del Cremonese 1715, cioè uno Stradivari costruito in quell’anno, che
più di mezzo secolo fa è tornato da Verona, custodito nel Museo del
violino. Antonio Stradivari, del resto abitava proprio da queste parti:
qui, sullo spazio di piazza Roma, si trovava la chiesa di San
Domenico, demolita nel 1869 perché pericolante, dove era la sua
tomba. Sempre nel giardino, più in là c’è il monumento in pietra, con
la figura a corpo intero, di un altro musicista, nato nei pressi di
Cremona, a Paderno Fasolaro, Amilcare Ponchielli, di cui è rimasta
in repertorio La Gioconda (1876), ma la cui prima opera, composta e
rappresentata proprio a Cremona nel 1856, si avvalse di un libretto
tratto addirittura da I promessi sposi.
Tra i rumori della strada tante memorie musicali finiscono per
darmi la suggestione che un impercettibile suono di violino venga
emesso dalle tante biciclette che mi vengono incontro, mentre per
riprendere l’auto procedo verso la chiesa di San Luca. Forse è
l’attrito dell’aria coi raggi delle ruote di biciclette delicate, di biciclette
pesanti, biciclette di città su cui pedalano donne agili e disinvolte,
vestite di tutto punto o in dimessi blue-jeans, vecchiette trasandate,
un vecchio che sembra addirittura decrepito, un papà con il bimbo
sul seggiolino; note diverse tra i ritmi diversi delle pedalate, nella
luce del primo pomeriggio.
Con l’auto mi dirigo verso Bergamo sulla ex statale 415,
ascoltando in un CD i Capricci per violino solo di Niccolò Paganini.
All’altezza di Crema, città in cui devo rinunciare a fermarmi, per
quanto anch’essa abbia una sua ricca storia medievale e un ruolo
nelle lotte del XIII secolo, decido di fare una breve diversione verso
ovest attraversando il fiume Serio (che poco più a sud si getta
nell’Adda) per sfiorare almeno Dovera, il borgo agricolo da cui il
dantesco Buoso prendeva il nome, anche se non c’è nessuna traccia
di lui e dei suoi tempi. Giro comunque per pochi minuti tra le strade
su cui si affacciano linde casette, semplici e modeste villette, una
chiesetta parrocchiale con la bianca facciata novecentesca.
Bergamo

…da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi


(Inf., XX 71)

I Bergamaschi sono nominati, insieme ai Bresciani, nel grande


panorama geografico del XX dell’Inferno, a proposito della fortezza
di Peschiera, ben capace di fronteggiare i loro eventuali assalti (vedi
pp. 682, 686-687). Nel De vulgari eloquentia, I XI 5, essi erano
appaiati ai milanesi, per il loro volgare, che Dante considera
improponibile per la formazione di una lingua illustre, dandone come
esempio (che per lui vale sia per il milanese che per il bergamasco,
che in realtà hanno differenze notevoli di cui egli non doveva essere
informato) un verso scritto a scherno da un tale imprecisato: “Enter
l’ora del vesper, ciò fu del mes d’ochiover” (“Verso l’ora del vespro,
ciò fu nel mese di ottobre”). Poi Bergamo è citata nel passo già più
volte ricordato dell’Epistola VII VI 22, tra le città lombarde pronte a
ribellarsi a Enrico VII: era libero comune, lacerato, come tutti, dalle
lotte di fazione guidate da potenti famiglie (le maggiori erano quelle
dei Colleoni e dei Suardi), ma nel 1332 passò sotto il dominio dei
Visconti di Milano, che lo tennero, salvo breve interruzione, fino al
1428, quando, in seguito alla battaglia di Maclodio, entrò a far parte
della Repubblica di Venezia, di cui condivise la storia fino alla
caduta.
Avvicinandomi a Bergamo, ormai nel pomeriggio avanzato, resto a
lungo prigioniero in un gorgo metallico che lentamente si muove tra
zone industriali e commerciali, in un succedersi di incroci resi
sempre più avventurosi e perigliosi dalle rotonde che dovrebbero
regolarli e che vedono moltiplicarsi incertezze e abusi tra
autovetture, furgoni di ogni stazza, camion agili e camion con
pesanti rimorchi, le cui insegne offrono una larghissima
campionatura di prodotti e di imprese industriali. Anche questo è uno
dei volti dell’Italia che va verso la sera, dei percorsi di passaggio e di
ritorno, del costipato comune protendersi verso qualche approdo tra
il lucore delle lamiere e il palpito lento dei motori.
Superata la mobile selva meccanica, abbastanza più agile è
l’attraversamento dell’asse centrale della città bassa di Bergamo,
che già nel XII secolo cominciò a svilupparsi, ma che non ha
mantenuto visibili tracce degli assetti medievali. Salgo subito verso
la città alta e riesco a parcheggiare lungo il Viale delle Mura: il Viale
passa sopra i solidi muraglioni che si levano sulla collina che scende
verso la piana e che qui offrono un parapetto da cui si scorge il vario
estendersi della città bassa e ampio tratto della pianura. Dall’altra
parte del viale si leva un ulteriore muraglione, su cui si affaccia una
torre: c’è un passaggio aperto, il Vico delle Mura di Santa Grata che
sale su e subito mi porta verso il cuore della città vecchia. Tra questo
Vico e la via Arena a destra si trova il monastero delle Benedettine di
Santa Grata; proseguo per la stretta e silenziosa via Arena, prima
incassata tra le mura del convento di Santa Grata e un rozzo
muraglione a sinistra, poi aperta da una parte sulla chiesa del
convento, dall’altra su un palazzo che ospita il Museo dedicato al
grande musicista nato a Bergamo nel 1797, Gaetano Donizetti. Poi
la strada si allarga un po’, tra vari palazzetti, tra cui una casa
medievale, fino a sbucare davanti a uno degli ingressi della basilica
di Santa Maria Maggiore, chiesa singolare per la sua asimmetria, per
il modo in cui i suoi contorni si collegano ad altri edifici e si
dispongono nel viluppo delle strade; i suoi vari ingressi escludono la
facciata, che non si vede, anzi, per essere più precisi, non c’è,
perché addossata al vicino Palazzo Vescovile. Essenziale punto di
riferimento non solo per la vita religiosa, ma anche per quella civile
di Bergamo, questa chiesa ha avuto lunghe fasi di costruzione nel
corso del tempo: sorta sul sito di una precedente chiesa già
esistente nell’VIII secolo, ha avuto il suo primo impianto nel XII, con
pochi sviluppi nel XIII secolo, e con interventi essenziali nel XIV, e
poi altre varie sistemazioni fino all’inizio del Cinquecento, con un
gioco di incastri e sfioramenti con edifici vicini.
L’ingresso davanti a cui sono sbucato provenendo dalla via Arena
è quello del transetto destro, a sud, e reca un protiro di Giovanni da
Campione, del 1360, le cui colonne più avanzate poggiano su due
bianchi leoni ruggenti. Subito, su un’abside di questo transetto, è
appoggiato il quattrocentesco campanile, che costeggio percorrendo
lo stretto spazio tra l’abside mediana, che ha ampie finestre e un
loggiato in alto, e il vicino edificio settecentesco dell’Ateneo di
Scienze, Lettere e Arti, che dentro di sé ingloba il Fontanone
visconteo, risalente al 1342. Poco oltre si vede la cupola del Duomo:
attraversando una scala raggiungo lo stretto spazio che separa
Santa Maria Maggiore dal Duomo e sbuco sulla piazza Duomo, dove
a destra c’è la facciata barocca del Duomo, ma a sinistra è aperto il
transetto sinistro di Santa Maria Maggiore, con altro protiro di
Giovanni da Campione, le cui colonne poggiano su leoni rossi,
mentre sopra l’arco si affacciano un’edicola e un tabernacolo con
statue di santi. Accanto al protiro, alla destra di chi guarda, si leva
l’edificio più celebre di Bergamo, la Cappella Colleoni, con la sua
facciata di marmi policromi, dalla fantastica proliferante decorazione
(in cui c’è qualcosa che mi fa pensare a quella della Certosa di
Pavia): appoggiata a Santa Maria Maggiore, di cui ha inglobato la
sagrestia, è in singolare dialogo con il vicino portale. Fu
commissionata a Giovanni Antonio Amadeo da Bartolomeo Colleoni,
il condottiero bergamasco (morto nel 1475) che aveva
vittoriosamente guidato gli eserciti della Serenissima. Più volte
replicato, nella decorazione, è il singolare stemma dei Colleoni, con i
tre testicoli, adottato dalla famiglia nel XII secolo. Colleoni / coglioni:
ma portato con orgoglio e tutt’altro che offensivo, anche se la più
tarda pruderie fece sì che membri della famiglia trasformassero i tre
coglioni in… tre cuori rovesciati. La cappella accoglie la tomba del
condottiero e della figlia Medea, mentre la chiesa di Santa Maria
Maggiore accoglie tombe di altri personaggi illustri, tra cui, più tardo
nel tempo, il grande Donizetti, insieme al suo maestro, Simone Mayr,
che in realtà era un tedesco molto italianizzato, Johann Simon Mayr
(1763-1845), che dal 1802 fu maestro di cappella proprio in Santa
Maria Maggiore e a Bergamo istituì una scuola di musica, in cui
ebbe come allievo Donizetti dal 1806 al 1815.
Su questa piazza Duomo, a destra della Cappella Colleoni, si
affaccia anche il giardino del Vescovato, dentro il quale è il Battistero
ottagonale, edificio che, costruito anch’esso da Giovanni da
Campione e collocato allora all’interno di Santa Maria Maggiore,
oltre a subire nel tempo varie modificazioni, è stato più volte
spostato di sana pianta, fino ad approdare qua fuori a fine Ottocento.
Oltre di esso, si erge tra antiche case la torre del Comune, detta
Campanone, che c’era già nel XII secolo come torre dei Suardi (ma
che poi è stata più volte modificata). E c’era, ai tempi di Dante,
anche il Palazzo della Ragione, testimoniato nello stesso secolo XII,
anch’esso mutato poi d’aspetto e posizione, dato che era orientato in
senso diverso e verso la metà del Quattrocento è stato fatto ruotare
di novanta gradi, quando furono demolite varie case per formare, al
di là di esso, la rettangolare piazza Vecchia (mentre altre
trasformazioni ebbe nel primo Cinquecento). Il pianterreno di questo
Palazzo della Ragione consiste in una loggia a volta, percorribile per
raggiungere la piazza Vecchia, sul cui lato ovest c’è il Palazzo del
Podestà, di origine trecentesca, mentre sul lato nord c’è il Palazzo
Nuovo, progettato nel primo Seicento da Vincenzo Scamozzi, ma
portato a termine solo nel Novecento, quando vi ha avuto sede la
Biblioteca Civica, fondata nel 1764, che più tardi ha assunto il nome
di Angelo Mai, il gesuita e bibliotecario bergamasco (1782-1854), a
cui nel 1820 Leopardi indirizzò la sua canzone Ad Angelo Mai,
quand’ebbe trovato i libri di Cicerone della repubblica (era prefetto
della Biblioteca Vaticana e in un codice aveva trovato i primi due libri
e vari frammenti di altri libri del De republica: fu nominato cardinale
nel 1838, quando Leopardi era già morto).
Ora l’impiantito del Palazzo della Ragione è pieno di
parallelepipedi di paglia pressata, su alcuni dei quali sono disposti
dei cuscini, in preparazione di una sorta di bar che vi è allestito
dentro; intorno e poi su tutta la piazza ci sono delle pedane e molte
grandi fioriere, con una fitta selva di ogni sorta di piante, oltre a
cilindriche balle di fieno. Alcuni curiosi si muovono tra le aiuole, nel
poco spazio rimasto praticabile della piazza, verso la facciata est,
dove il Caffè del Tasso espone i suoi tavoli all’aperto protetti da
bianchi ombrelloni. Dal fianco del Palazzo della Ragione è Torquato
Tasso, coronato d’alloro nella statua di Gian Battista Vismara (1681),
a guardare perplesso la scena vegetale, che in realtà è stata
impiantata nel quadro de I Maestri del Paesaggio. International
Meeting of the Landscape and Garden, che ha luogo tra il 5 e il 20
settembre. Si tratta di un’installazione dell’artista britannico Andy
Sturgeon, Arte e Paesaggio, che intende mostrare “l’evoluzione del
paesaggio che viene convertito in produzione agricola”, come spiega
un coscienzioso cartello bilingue, ricco di particolari che mostrano
come la disposizione dei vegetali sia orientata a indicare le diverse
fasi di questi passaggi, culminanti nelle balle di fieno, che
creerebbero “un forte elemento scultoreo”, rammentando “il ciclo
annuale della produzione alimentare nel paesaggio arato”. Al
meeting e all’installazione si associano manifestazioni e iniziative
particolari, come quella indicata da un altro cartello che, sotto
l’immagine ingrandita di tre golosi dolcetti alle more, suggerisce
Green food e gli Chef del paesaggio, che, nella presente edizione de
I Maestri del Paesaggio, “propone la mora come ingrediente
principale per celebrare il territorio”.
Dopo il mio giro nel cuore dell’installazione, non posso non
sedermi, nell’ora sospesa del tramonto, a un tavolo del Caffè del
Tasso, che vanta la sua origine, come locanda, al 1476, e che
avrebbe assunto il nome attuale quando fu installata lì vicino la
statua del poeta. Per quanto Torquato non ci sia nato e poco ci abbia
soggiornato, Bergamo è la culla della famiglia dei Tasso, che vi era
approdata nel XIII secolo e che poi a Bergamo e a Venezia installò
una compagnia di corrispondenza e di recapiti postali, che si
sviluppò in varie forme anche fuori d’Italia, specialmente a partire dal
Cinquecento, quando un ramo dei Tasso passò al servizio
dell’impero asburgico, germanizzandosi in Thurn und Taxis. Anche il
ramo rimasto a Bergamo esercitava l’attività postale e possedeva un
palazzo costruito a fine Quattrocento, che si trova nella città bassa; a
quel ramo apparteneva Bernardo, il padre di Torquato. Il poeta della
Gerusalemme a Bergamo soggiornò ragazzo nel 1556 e poi vi tornò
trent’anni dopo, nel tempo delle sue inquiete peregrinazioni, e in
quell’occasione scrisse un sonetto, Terra che ’l Serio bagna e ’l
Brembo inonda, dove afferma la gioia di rivedere la città da cui il suo
“famoso padre, / che fra l’arme cantò rime leggiadre”, era venuto fino
alla riva del Tirreno (a Sorrento, dove egli era nato).
Mentre sto al tavolo del Caffè Tasso davanti a un bicchiere di
spritz, vedo sbucare tra l’installata vegetazione una doppia coppia
matrimoniale, con vari invitati, che si dirigono verso la loggia del
Palazzo della Ragione, probabile meta di aperitivo tra sedili di paglia.
Le due spose, in bianchissimi decolleté, che culminano in ampie
svolazzanti vaporose sopragonne di tulle, sollevate e trascinate dalle
loro stesse mani, sembrano fuoriuscire dall’intrico vegetale, quasi
rischiando che quelle sopragonne restino impigliate in quella vicenda
dell’evoluzione paesaggistica. Ma arrivano senza danni all’interno
della loggia, scortate da amiche che portano coloratissimi mazzi di
fiori. Gli sposi nel loro abito scuro sono un po’ più in là, quasi
indifferenti ai pericoli incontrati dai candidi abiti delle spose.
Me ne vado mentre ai primi invitati se ne aggiungono altri, che
guardano svagati la piazza. Ripercorro a ritroso il tragitto tra la
Cappella Colleoni e il corpo di Santa Maria Maggiore, ma lascio poi
la via Arena, deviando per la via San Salvatore, dove alla sinistra del
portone del numero 11 una lapide sovrastata da un volto femminile
che si affaccia da un piccolo medaglione ricorda che qui è nata la
contessa Paolina Grismondi Secco Suardo, in Arcadia Lesbia
Cidonia (1746-1801), elegante poetessa e brillante gentildonna. La
lapide, del 1901, dice che DA ILLUSTRI ITALIANI E STRANIERI / EBBE LODE DI
GRAZIOSO GENIO NELLE LETTERE e ricorda che ispirò a Lorenzo
Mascheroni IL CARME DELL’INVITO: scienziato e poeta, anche lui
bergamasco, il Mascheroni (1750-1800) pubblicò nel 1792 l’epistola
in versi sciolti L’invito di Dafni Orobiano a Lesbia Cidonia, in cui
invitava la dama a visitare i gabinetti di scienze naturali
dell’Università di Pavia. L’epistola è una delle ultime prove di una
poesia settecentesca in cui vibra con entusiasmo l’intento di nobile
divulgazione scientifica. Peccato comunque che la piccola notorietà
di questa poetessa sia rimasta affidata soltanto all’invito dello
scienziato: chissà se hanno cominciato a occuparsene i feminist
studies.
Ritrovato il Vico delle Mura di Santa Grata quando ormai è scesa
la sera, ritorno sul Viale delle Mura e con l’auto punto verso Milano,
ultima tappa di questa parte del mio viaggio.
Milano nell’Expo 2015

Non le farà sì bella sepultura


la vipera ch’e’ Melanesi accampa,
com’avria fatto il gallo di Gallura
(Purg., VIII 79-81)

Ho già toccato questa terzina nel viaggio in Sardegna (vedi p. 499):


sono le parole con cui il giudice Nino Visconti lamenta il fatto che la
vedova Beatrice, figlia di Obizzo d’Este, signore di Ferrara, non sia
rimasta fedele alla sua memoria, ma abbia sposato un Galeazzo
Visconti, figlio di Matteo, signore di Milano (cosa in realtà avvenuta
qualche tempo dopo la data dell’immaginario viaggio dantesco).
Questo confronto tra le due diverse schiatte con lo stesso nome di
Visconti si dispone entro l’immagine della futura sepoltura della
donna, che secondo Nino avrebbe avuto maggiore onore
dall’insegna del gallo di Gallura, piuttosto che dalla vipera, il biscione
dei Visconti di Milano (che fa accampare i milanesi, è il vessillo del
loro campo di battaglia): frode e violenza della vipera da una parte,
solerzia e operosità mattutina del gallo dall’altra. Quasi a smentire
Dante, sembra che poi sulla tomba di Beatrice, morta a Milano nel
1334, siano stati scolpiti sia il gallo che la vipera: la tomba però non
si trova più, dato che la chiesa di San Francesco Grande, in cui fu
collocata, è stata demolita nel 1806.
Tra i consueti conflitti di fazione i ghibellini Visconti avevano
assunto la signoria di Milano nella seconda metà del XIII secolo: nel
1287 Matteo era stato nominato capitano del popolo, ma ne fu poi
scacciato nel 1302, quando prevalse la fazione nemica dei Torriani.
Vi tornò comunque con l’entrata in Milano di Enrico VII, che lo
nominò vicario imperiale, e riuscì ad assestare il suo potere anche
dopo la morte dell’imperatore, grazie anche all’aiuto di Cangrande
della Scala (nel 1322 a Matteo successe nella signoria il figlio
Galeazzo). Le pretese nobiliari dei Visconti di Milano erano state
evocate già nel Convivio, IV XX 5, dove essi erano citati, insieme agli
Uberti di Firenze, come esempio di quanti pretenderebbero di
identificare nobiltà e stirpe familiare:

Sì che non dica quelli delli Uberti di Fiorenza, né quelli delli


Visconti da Melano: “Perch’io sono di cotale schiatta, io sono
nobile”; ché ’l divino seme non cade in ischiatta, cioè in istirpe,
ma cade nelle singulari persone.

I milanesi sono anche chiamati in causa due volte nel De vulgari


eloquentia: in I IX 4 tra gli esempi di quanto possano essere varie le
parlate, anche tra abitanti relativamente vicini (vicinius habitantes
come Mediolanenses et Veronenses); e in I XI 5, passo già ricordato
a proposito di Bergamo (vedi p. 1010), accompagnato dalla
citazione, che intende mostrare la rozzezza del milanese e del
bergamasco.
Al di là dei Visconti, la vipera, nobilitata in biscione, ha continuato
ad accampare Melanesi, come emblema tradizionale della città e di
imprese radicate nella città: è tuttora ben presente nello stemma
dell’Alfa Romeo, ma ha assunto una celebrità nuova quando è stato
assunto come logo della Milano 2 e della Fininvest create da Silvio
Berlusconi, con tutta una serie di varianti e stilizzazioni adottate dalle
diverse aziende del gruppo (Mediaset e reti televisive in primo
luogo). Così nel tempo delle trionfanti fortune politiche di Berlusconi,
il termine biscione, perduto il suo risvolto vipereo, è spesso usato
come corrente metafora per indicare quel sistema di comunicazione
e di potere così radicato in Milano. Ora quel potere sembra sbiadito
e poco si parla di biscioni: ma la città sembra proiettata verso più
nuove e vitali fortune, accampata sotto il vessillo dell’esposizione
internazionale, inscritta nell’alveo di quei grandi eventi che hanno
tradizionalmente fatto da vetrina della modernità: aperta il 1° maggio
di quest’anno sarà chiusa il 31 ottobre, e alla fine registrerà più di
venti milioni di visitatori, più di centocinquanta partecipanti e circa
cinquemila eventi.
Il mio viaggio si incontra così con l’ambizione planetaria di questa
Expo 2015, del suo tema Nutrire il pianeta, energia per la vita, che
chiama in causa il destino del mondo, ma sembra scaturito dal rilievo
sempre più forte che cibo, cucina, ristorazione stanno assumendo
nella vita quotidiana del nostro paese e nella sua economia. Decido
quindi di dedicare la giornata del 17 settembre a un viaggio nel
viaggio, visitando l’ampio spazio al margine nordovest di Milano,
nella zona di Rho fiera: parco delle meraviglie in cui, con molteplici e
spesso fantasiose soluzioni architettoniche, per lo più destinate a
svanire alla fine dell’evento, si sono levati i padiglioni di quasi tutti i
paesi del mondo. Non farò una visita privilegiata, non invocherò
l’assistenza di nessun Virgilio, ma sarò solo uno dei venti milioni di
visitatori, con quello sguardo rapido e fuggevole del pubblico che
passa e va, in cui oggi si risolve perlopiù la partecipazione a grandi
eventi come questo.
Raggiungo il luogo espositivo con la ferrovia di superficie, dalla
Stazione centrale di Milano, singolare nodo e snodo d’Italia, incrocio
di destini contrastanti e reciprocamente indifferenti, tra attese
dinoccolate, frenetiche o pazienti, tra movimenti rapidi e frettolosi,
volti e abiti, gesti e posture, ansie e sicurezze che vengono e vanno.
Trovato il treno, brevissimo è il tragitto: dalla stazione di Rho si
scende poi nel corridoio sotterraneo da cui si accede anche alla
stazione della metropolitana; e si risale poi nello spazio aperto, dove
si distende la brulicante città espositiva, col suo folto profilarsi di
edifici disposti secondo il modello romano su di un lungo decumano,
che si incrocia centralmente con un più breve cardo. Subito
all’ingresso la mappa che mi presenta la forma generale del sito mi
invoglierebbe a percorrerlo in ordinata successione, distinguendo
cerchi, bolge, cornici, gironi, man mano descrivendo edifici, oggetti,
alimenti… Forse ci vorrebbe una penna come quella del milanese
ingegnere, il grande e turbato Carlo Emilio Gadda, con la sua furiosa
e calzante forza descrittiva, che percepisce le cose nella loro
evidenza e nella loro inafferrabilità, nella loro articolazione tecnica e
nel loro imprendibile pullulare. Troppe cose qui, che tracciano
un’immagine del mondo convocata per il suo riflettersi spettacolare,
per l’offrirsi di tutto al consumo: cose da vedere e da comprare,
oggetti e specchi di ogni sorta, inflazione di prodotti, cibarie e design,
strumenti e macchine in qualche modo legati al cibo, condizioni ed
esiti estetici, comunicativi, tecnologici, pubblicitari dell’alimentazione,
emblemi e gadget, segnali antropologici dei diversi paesi del mondo.
Nourritures terrestres, che fanno affacciare anche molti importanti
propositi di cura per l’accesso al cibo, per la qualità
dell’alimentazione, per la sostenibilità dello sviluppo, per la difesa
della biodiversità. Ecco che, oltre lo schieramento di giganteschi
pupazzi dotati di attributi culinari, il Padiglione Zero si presenta sotto
un’insegna latina, DIVINUS HALITUS TERRAE: al suo interno sono
presentate quindi esperienze di sviluppo alimentare sostenibile, Best
Sustainable Development Practices on Food Security, tante buone
pratiche e tanti suggerimenti per realizzazione di buone intenzioni.
Ma si può avere l’impressione che l’intero apparato venga poi a
smentire molte di quelle buone pratiche e di quelle buone intenzioni:
con le scenografie architettoniche, le evoluzioni del design e delle
installazioni, i dispositivi comunicativi con cui i diversi padiglioni
celebrano l’impegno alimentare dei diversi paesi del pianeta, con
oggetti e modelli culturali collegati. Il cibo e la vita da cui scaturisce e
a cui dà alimento sembrano qui aver perduto ogni rapporto con
l’orizzonte biologico che li costituisce e che pure viene rivendicato e
propugnato: qui tutto è destinato a una indefinita e plurale
circolazione di merce, a una moltiplicata offerta di possibilità di
consumo, che finisce per negare proprio quella specificità e
biodiversità insistentemente rivendicata. E visto che si tratta proprio
di cibo non posso evitare di evocare la metafora che è alla base del
Convivio dantesco: in fondo anche questa Expo è un Convivio,
esposizione di sapienza, di quella sapienza residua che il mercato
globalizzato offre alle masse consumatrici, che restano comunque
sempre separate e subalterne rispetto agli organismi (finanziari,
tecnologici, manageriali) costituiti da “quelli pochi che seggiono a
quella mensa dove lo pane delli angeli si manuca”. Rispetto a quella
gran parte dell’umanità che non sa nulla dell’Expo e che sconta i
limiti dell’indigenza, dell’insicurezza e dell’insostenibilità (“quelli che
colle pecore hanno comune cibo”?), noi che invece apparteniamo
all’umanità che può coltivare benessere, desideri, diritti, in uno
spazio democratico che ci permette di visitare l’Expo, raccogliamo a
nostro modo qualche briciola di questo molteplice e globale pane
degli angeli, anche se nella cultura contemporanea non troviamo
nessun interprete che, come fa Dante di fronte alla vivanda delle sue
canzoni, ci aiuti a interpretare davvero il senso di tutto quello che
vediamo e consumiamo (ma bisogna anche dire che, tra i molti
eventi che hanno avuto luogo in varie giornate dell’Expo, non sono
mancate riflessioni problematiche su questa alimentare sapienza).
Certo può essere indebita e fuori luogo questa estensione della
metafora dantesca del Convivio all’immenso banchetto dell’Expo
2015: ma essa mi si ripropone più volte mentre attraverso il
decumano e cerco di visitare qualcuno dei padiglioni, preferendo
quelli meno affollati e in cui si riesce a entrare senza code troppo
lunghe. Rispetto alle grandi installazioni dei paesi più potenti e
ambiziosi, che spesso richiedono tempi di attesa davvero eccessivi,
preferisco i padiglioni dei paesi più piccoli (alcuni dei quali sono
raggruppati insieme in padiglioni tematici, detti cluster), che insieme
al loro cibo esibiscono campioni del loro artigianato, di quello non
ancora trasformato in cliché esotico e in paccottiglia turistica:
Vietnam, Laos, Sierra Leone, Guinea, Ghana, Nepal…
Nel quadro di questo viaggio non posso comunque trascurare la
fitta serie di padiglioni e attendamenti che riguardano il nostro paese,
che non a caso ha messo l’alimentazione al centro di questa Expo e
sempre più investe sul comparto alimentare, affermando la sua
presenza nel mondo attraverso il cibo e la cucina, che negli ultimi
decenni hanno visto mutare in profondità la loro natura, il loro rilievo
economico e mediatico, fino alla magnificazione dei grandi cuochi e
dei più raffinati prodotti di un made in Italy tutto gastronomico. Non
può mancare il marchio Eataly, l’azienda di commercializzazione dei
prodotti alimentari italiani che ha aperto il suo primo magazzino nel
2007 e che ha già punti vendita in molti paesi del mondo; emblema
del cibo italiano nell’universo globalizzato, come dice il suo stesso
nome. Eataly presenta qui venti ristoranti regionali, dove ci si
accalca per mangiare scegliendo i manicaretti preferiti. Su di un
piano rialzato sono esposti documenti della biodiversità italiana,
sotto l’etichetta generale della BIODIVERSITÀ UMANA: è una mostra di
venti foto di camere da letto di diverse regioni italiane, iniziativa della
Scuola Holden di Torino e idea di Alessandro Baricco, realizzata da
Alice Rohrwacher e Simona Pampallona. Le foto sono
accompagnate da dati sulla durata dei matrimoni in Italia e da
pannelli che intendono mostrare la diversità delle forme di vita anche
da un punto di vista linguistico, presentando l’ultimo verso
dell’Infinito leopardiano in venti diverse versioni regionali. Viene
spiegato che E il naufragar m’è dolce in questo mare “diventa così
una specie di mantra, o una filastrocca portafortuna, da ripetersi in
questo lungo viaggio”; ma è come se tutto l’orizzonte familiare e tutto
il variegato spazio italiano finiscano per farsi percepire sotto il segno
del naufragio. Percorro le sale e seguo un po’ la filastrocca di questo
tardo De vulgari eloquentia: E per mi ’l naufraghé a l’è duss ’n cust
mar; I el naufragà par mi l’è dulz in cal mar chì; E naufragar me par
dolze in sto mar; E comm’è doce naufragà ’mmiez’a stu’mare ecc.,
fino alla un po’ forzata versione toscana E ’l naufragar l’è così dolce
in codesto mare.
Ma, a parte questa zona gestita da Eataly, la presenza dell’Italia
paese ospitante che espone la sua varietà e la sua eccellenza, si
espande in un grande padiglione speciale e in tutta una serie di
postazioni regionali e tematiche che si affacciano sul cardo.
Un’attesa di più di un’ora sarebbe necessaria per visitare l’interno
del grande Palazzo Italia: mi limito perciò a girare tra le varie
postazioni particolari, che non lesinano informazioni interessanti su
diverse realtà; e non posso non essere attratto dal padiglione del
vino, che offre un percorso storico e al piano superiore un luogo di
degustazione, chiamato Biblioteca del vino, dove, con adeguato
pagamento, si ricevono bicchieri che permettono di attingere a
rubinetti sgorganti da preziose bottiglie disposte in eleganti teche,
accompagnate da tutte le necessarie indicazioni su territori, vitigni,
gradazioni, fermentazioni ecc.
Nei pressi del Palazzo Italia c’è un punto d’arrivo, snodo simbolico
che ambisce a riassumere tutto il senso dell’Expo e a rimanere come
suo emblema (che resterà qui o sarà trasferito chissà dove dopo la
chiusura): scultura, monumento, installazione, a cui è stato dato il
nome di Albero della vita, che si trova al limite nord del cardo, in uno
spazio detto Lake Arena (c’è infatti anche un bel laghetto). È alto 37
metri e dal suo fusto elegantemente slanciato si allargano le sue
fronde, in un intreccio geometrico modellato sulle losanghe del
pavimento michelangiolesco della piazza del Campidoglio a Roma:
costruito da un consorzio di aziende bresciane, su ideazione di
Marco Balich, con l’intento di farne simbolo della Natura primigenia,
dell’origine da cui è scaturito il tutto e di slancio verso il trionfante
futuro dell’innovazione e della tecnologia. Una sofisticata tecnologia
lo anima, specialmente di sera, con spettacoli interattivi fatti di
musica, di segni culturali, di smaglianti giochi d’acqua e di luce. È un
albero magico, che mi è facile rapportare, proprio qui, nel luogo della
proliferante espansione del cibo e della gola, a qualche albero
dantesco: non tanto quello del XXXII del Purgatorio, “l’albero
robusto” dai molteplici significati a cui viene legato il carro della
processione simbolica del Paradiso terrestre, quanto i due alberi che
appaiono nella cornice dei golosi penitenti. Nel primo Dante
s’imbatte, procedendo con Virgilio e Stazio, appena entrato in quella
sesta cornice:

un alber che trovammo in mezza strada,


con pomi a odorar soavi e buoni…
(Purg., XXII 131-132)

In questo albero purgatoriale, che ha forma di cono rovesciato, non è


possibile arrampicarsi: ed è anch’esso a suo modo interattivo, dato
che produce un particolare gioco d’acqua, per un liquor chiaro che,
scaturito dalla roccia della cornice, si spande “per le foglie suso” (v.
138), mentre “una voce per entro le fronde” (v. 140) grida esempi di
temperanza.
Certo, se ci si rapporta all’universo dantesco, viene a rovesciarsi di
segno tutto questo scintillante paradiso espositivo, tutto il profluvio
alimentare in cui siamo immersi, con il suo esito di eccesso,
dilapidazione, spreco, che inevitabilmente contraddice la dichiarata
cura per le buone pratiche alimentari. Pur escludendo per carità di
patria il cerchio dei golosi infernali, con quella rivoltante “piova /
etterna, maladetta, fredda e greve” (Inferno, VI 7-8), non riesco a
sottrarmi all’ansia che dietro me stesso e dietro ogni ben pasciuto
visitatore che procede tra i padiglioni, informandosi, curiosando,
ammirando, comprando, mangiando, bevendo, venga ad affacciarsi
l’ombra delle emaciate anime dei penitenti per il vizio della gola:

Ne li occhi era ciascuna oscura e cava,


palida ne la faccia, e tanto scema
che da l’ossa la pelle s’informava.
(Purg., XXIII 22-24)

E mi prende l’angosciosa sensazione che basti molto poco perché


gli entusiastici commenti al tecnologico Albero della vita si rovescino
nelle posture e nelle grida delle anime che sostano sotto i “rami
gravidi e vivaci” dell’altro albero che Dante incontra prima di lasciare
la sesta cornice e da cui poi ascolta gli esempi di gola punita:

Vidi gente sott’esso alzar le mani


e gridar non so che verso le fronde,
quasi bramosi fantolini e vani

che pregano, e ’l pregato non risponde,


ma, per fare esser ben la voglia acuta,
tien alto lor disio e nol nasconde.
(Purg., XXIV 106-11)

Non siamo tutti golosi frustrati e fantolini, spinti da un disio che non
trova soddisfazione, nemmeno di fronte a tanta dispiegata
abbondanza, che non riesce a scalfire la disperata penuria del
mondo?
Milano: dal Castello Sforzesco al Gabinetto
dantesco
del Poldi Pezzoli

…sotto lo ’mperio del buon Barbarossa,


di cui dolente ancor Milan ragiona.
(Purg., XVIII 119-120)

Per indicare il tempo della sua vita sulla terra l’abate di San Zeno,
che si trova tra gli accidiosi nella quarta cornice del Purgatorio,
chiama in causa l’imperatore Federico Barbarossa, ricordando la
distruzione da lui ordinata della ribelle Milano, avvenuta nel 1162, e
notando come l’evento pesasse ancora sulla memoria della città, la
costringesse ancora a parlarne con dolore. Il carattere emblematico
di quell’evento fa sì, d’altra parte, che Dante lo evochi anche
nell’epistola ai fiorentini del 31 marzo 1311. Qui egli fa balenare lo
spettro della distruzione subita da Milano e da Spoleto, punite dal
Barbarossa, per essersi a lui opposte: “recensete fulmina Federici
prioris, et Mediolanum consulite pariter et Spoletum” (“ricordate i
fulmini del primo Federico e riflettete parimenti su Milano e Spoleto”);
e aggiunge che il ricordo della perversione e distruzione delle due
città potrà raffreddare le viscere “nimium dilatata” (“troppo gonfie”) e
contrarre i cuori troppo ardenti dei fiorentini nella loro opposizione al
presente imperatore Enrico VII (Epistola, VI V 20). La successiva
epistola indirizzata all’imperatore il 17 aprile, lo mette in guardia dal
rimanere a Milano e dal credere di poter uccidere l’idra pestifera dei
suoi oppositori solo amputandone le teste (cioè le città ribelli della
Lombardia): “Tu Mediolani tam vernando quam hiemando moraris et
hydram pestiferam per capitum amputationem reris extinguere?” (“Tu
te ne stai a Milano sia nell’inverno che nella primavera e pensi di
uccidere l’idra pestifera amputandone le teste?”). Continuando la
metafora dell’idra, gli ricorda che Ercole si liberò dall’idra di Lerna, a
cui nascevano sempre nuove teste, colpendola direttamente nel
principio vitale, che per i suoi oppositori è rappresentato da Firenze,
che è “vipera versa in viscera genitricis” (“la vipera rivolta contro le
viscere della madre”, Epistola, VII VI-VII 20-24). A Milano Enrico VII
soggiornò in effetti dal 23 dicembre 1310 al 19 aprile 1311: e
ricevette la corona ferrea in Sant’Ambrogio il 6 gennaio 1311. Nella
stessa epistola, II 9-10, Dante ricorda il proprio incontro con lui, che
dovrebbe essere avvenuto proprio a Milano (e forse in occasione
nell’incoronazione): dice di aver toccato i suoi piedi e proferito
l’omaggio dovuto, mentre dentro di sé ripeteva la formula di
Giovanni, 1 29, “Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi”
(“Ecco l’Agnello di Dio, ecco chi toglie i peccati del mondo”).
Tutt’altro che dolente o gravato da minacce appare ora il volto di
Milano: il successo dell’Expo e la folla dei suoi visitatori costituiscono
uno dei segni appariscenti della sua vitalità in questo secondo
decennio del XXI secolo. La città mostra un fervore economico e
culturale, che sembra offrire la migliore via d’uscita dalla crisi di inizio
secolo: e sempre più nei prossimi anni finirà per riproporsi come
capitale economica e “morale”, centro del capitalismo, della finanza
e della moda italiana, in opposizione alle difficoltà in cui verrà
sempre più a dibattersi Roma, la capitale prigioniera di una
congiuntura che la farà sembrare in stato d’assedio. Una Milano
splendente, la cui effervescenza si tocca dal vivo attraversando le
strade del centro, da cui sembrano cancellate le tante ferite della
storia recente.
A fianco dell’Expo e spesso all’interno degli eventi che ne
scaturiscono non manca qualche segno dantesco, motivato dal fatto
che in questo 2015 si celebra il settecentocinquantenario della
nascita del poeta. Nella mattina del 18 settembre mi dirigo a
raccogliere alcuni di questi segni in quello che fu uno dei centri del
potere milanese, il Castello Sforzesco, il cui impianto di base e il cui
nome sono legati all’iniziativa di Francesco Sforza, dopo la sua
ascesa al potere ducale nel 1450, motivata dal suo matrimonio con
Bianca Maria, figlia dell’ultimo duca dei Visconti, Filippo Maria. Nel
passaggio dai Visconti agli Sforza – questi ultimi tra conflitti, rovesci,
esili, ritorni di vario tipo, rimasero al potere fino al 1535, quando il
ducato di Milano passò direttamente sotto la dominazione spagnola
– resistette la vipera / biscione dello stemma, che Francesco Sforza
volle mantenere per affermare la propria continuità col potere
visconteo. Ai Visconti, d’altra parte, e in particolare a Galeazzo II a
partire dal 1358, è dovuta la prima costruzione di un fortilizio su
questo sito, che ebbe vari ampliamenti e sistemazioni nella prima
metà del Quattrocento e, danneggiato durante un breve tentativo
repubblicano alla morte di Filippo Maria (1447), ebbe una
ricostruzione per volontà del nuovo duca Francesco Sforza, a cui
seguirono varie aggiunte e modificazioni nel corso del tempo.
Arrivo sbucando dalla stazione Cadorna Ferrovie Nord della
metropolitana, a fianco del Foro Bonaparte, che si avvolge con un
arco intorno alla curvatura della piazza Castello, che a sua volta si
avvolge sui fianchi del castello e dei suoi fossati. Subito raggiungo lo
spazio antistante all’ingresso del castello, sotto la grande torre che in
realtà è uno dei manufatti più tardi, costruita all’inizio del Novecento
su modelli rinascimentali dall’architetto Luca Beltrami e dedicata alla
memoria del re Umberto I. Alla sua base c’è il portone, sopravanzato
da un bassorilievo con Umberto I a cavallo, che immette nella piazza
d’Armi, da cui si accede poi in due altri cortili. Sotto la prima
aggettante merlatura della torre una statua di sant’Ambrogio è
contornata da sei diverse varianti della vipera / biscione: sei grandi
stemmi colorati, tre a destra e tre a sinistra della statua, danno
diverse fogge e combinazioni delle vipere viscontee e sforzesche, a
cui si associa l’aquila imperiale. Altre vipere, del resto, si affacciano
nei cortili e su vari muri dell’imponente costruzione.
Sul fronte della piazza d’Armi opposto a quello dell’ingresso si
levano le costruzioni della cittadella su cui, intorno ai due ulteriori
cortili, quello della Rocchetta a sinistra e quello della Corte ducale a
destra, è disposto un insieme di raccolte museali. L’edificio della
Rocchetta è intorno all’angolo rivolto a ovest del quadrato del
Castello: sullo spigolo di quell’angolo dalla parte esterna al castello
(il suddetto ovest) è disposta la torre detta Castellana, mentre
sull’angolo affacciato sulla piazza d’Armi (angolo sud-est) è la torre
detta di Bona di Savoia, nel nome della duchessa, vedova di
Galeazzo Sforza, che la fece costruire nel 1476, quando, dopo
l’assassinio del marito, era reggente del ducato per conto del figlio
Gian Galeazzo, insidiata dal cognato Ludovico il Moro, che riuscì
comunque a scalzarla e a impadronirsi del potere nel 1480 (trono da
cui poi, come dice Machiavelli, Ludovico “fu cagione della ruina
d’Italia”).
Nella Rocchetta si trova la biblioteca Trivulziana, formatasi nel
1935 grazie all’acquisto da parte del Comune di Milano della raccolta
privata della famiglia Trivulzio, ricca di manoscritti danteschi, frutto in
primo luogo dell’opera del collezionista e bibliofilo Gian Giacomo
(1774-1831). Ora la biblioteca ha organizzato, in occasione dell’Expo
2015, nella sala del Tesoro, al pianterreno della torre Castellana, una
mostra su Il collezionismo di Dante in casa Trivulzio, con manoscritti
e stampe. Di essa c’è anche una versione digitale on line (http: /
/graficheincomune.comune.milano.it /GraficheInComune /bacheca
/danteincasatrivulzio): ma è emozione particolare vedere qui esposti
alcuni celebri manoscritti, tra cui uno dei più antichi in assoluto, il
Trivulziano 1080, acquistato da Gian Giacomo nel 1819,
determinante per la costituzione del testo della Commedia, copiato a
Firenze nel 1337 in scrittura cancelleresca su due colonne dal notaio
Francesco di Barberino (l’autore dei Documenti d’amore, opera
enciclopedica in cui è il primo esplicito riferimento al poema
dantesco) e miniato da anonimo maestro. Qui esso è aperto al retro
della carta 69, con il finale del Purgatorio, e al fronte della carta 70,
in cui l’incipit del Paradiso è incorniciato da piccoli poligoni con
figure, uno con l’immagine di Cristo, mentre un più ampio riquadro
sul lato destro reca l’immagine dell’incoronazione della Vergine, in
gloria tra gli angeli; in basso, invece, c’è una figurina che
rappresenta il poeta, che emerge tra due picchi montuosi, che
simboleggiano i due gioghi di Parnaso menzionati nell’invocazione al
buono Appollo, nei versi trascritti accanto. Una figura di cui si vede
solo la parte superiore del corpo vola dall’alto ponendo sul capo del
poeta la corona d’alloro, alludendo all’auspicio che egli stesso
formula lì all’inizio della terza cantica:

O divina virtù, se mi ti presti


tanto che l’ombra del beato regno
segnata nel mio capo io manifesti,

vedra’mi al piè del tuo diletto legno


venire, e coronarmi de le foglie
che la materia e tu mi farai degno.
(Par., I 22-27)

A questo Trivulziano 1080 si accompagnano altri codici trecenteschi,


aperti sull’incipit di cantiche diverse. Oltre il 1077 e il 1078, del
secondo quarto del secolo, mi incuriosisce il 1076, della fine del
secolo, aperto ai fogli 12r-13v: la scrittura (detta textualis
semplificata) è disposta su una sola colonna, al centro della pagina,
con molto spazio libero ai due margini, mentre il lato inferiore è
illustrato, nel foglio di sinistra con Dante e Virgilio che guardano
sette slanciate figurine, quattro femminili e tre maschili, in cui si
riconoscono le ombre “ch’amor di nostra vita dipartille”, le “donne
antiche e’ cavalieri”, i cui nomi vengono fatti nella prima parte del
canto V dell’Inferno; nel foglio di destra ecco poi Dante e Virgilio di
fronte a Francesca e Paolo, non nudi né trascinati dalla bufera
infernale, lei con la destra sporta in avanti nel rispondere a Dante, lui
col braccio destro appoggiato a lei e con un oggetto un po’ confuso
nella mano sinistra, che è certamente il libro della fatale lettura.
Ma tanti altri pezzi di grande interesse presenta la mostra. Ecco il
Trivulziano 2263, che reca la data 25 aprile 1405, con il commento di
Iacomo della Lana, aperto ai ff. 30v-31r, sul canto X dell’Inferno (al
margine inferiore del foglio di destra un riquadro con le arche degli
eretici, tra cui è in evidenza quella di Farinata che in mezzo al fuoco
si rivolge a Dante che sembra interloquire con cupa perplessità).
Ecco il 1085, datato 15 marzo 1435, con glosse di Benvenuto da
Imola. Ecco il 1088, uno dei manoscritti di base per il testo del De
vulgari eloquentia, posseduto e postillato da Giangiorgio Trissino, lo
scopritore ed editore cinquecentesco del trattato dantesco. E poi ci
sono tutt’e tre le prime edizioni a stampa della Commedia, tutt’e tre
del 1472: la prima assoluta di Foligno (11 aprile), dovuta all’incontro
tra il tedesco Johann Neumeister e l’umbro Evangelista Angelini;
quella del tipografo veronese Federico de’ Conti, non si sa se a
Venezia o a Jesi (18 luglio); poi quella mantovana curata
dall’umanista Colombino Veronese per i tipografi tedeschi Georg di
Augusta e Paul Butzbach. Pur nelle loro differenze queste prime
stampe sembrano proiettare improvvisamente Dante più vicino a noi,
con la cristallina sorprendente chiarezza dei loro caratteri.
Ora sono il solo visitatore presente in questa sala del Tesoro:
credo addirittura di sentire l’eco dei miei passi, mentre mi chino per
guardare da vicino i libri esposti nelle teche. E mi prende una strana
commozione per la solitaria e silenziosa presenza delle parole di
Dante, ripetute, moltiplicate, trascritte in tanti modi diversi, persistenti
nel corso del tempo, e per le piccole figure che le accompagnano.
Non mi commuove invece un’altra mostra dantesca, presentata
con la più brillante etichetta di installazione. Si trova dalla parte
opposta, nella Sala dei Pilastri, nel piano interrato della Corte
ducale. È una mostra quadruplice, entro il progetto Dante 750,
legato un po’ al corrente presupposto dell’attualizzazione di Dante,
della sua assunzione come icona per le nostre proiezioni mediatiche
e tecnologiche: Dante e il cinema, installazione multimediale; La
Divina Commedia, mostra di Alberto Schiavi; Dante il volto, di Nadia
Scardeoni; Cibo e convivio nell’età di Dante. Ci sono naturalmente
cose interessanti, in primo luogo una carrellata sulla fitta serie di film
di ispirazione dantesca, e le tavole dell’artista Alberto Schiavi, con
figure che emergono e guizzano tra macchie di colore (sono tavole
che accompagnano la traduzione della Commedia in milanese
moderno dell’avvocato Ambrogio Maria Antonini, la cui prima
edizione è apparsa nel 2004). Tanti buoni dati informativi passano
sui video che scorrono dolcemente senza spettatori. Ovviamente
rinvia all’Expo dedicata alla nutrizione la mostra sul cibo dantesco,
che pure deve fare i conti col fatto che, oltre al pane degli angeli del
Convivio e al generale uso in senso spirituale della metafora cibaria,
sono abbastanza pochi i riferimenti danteschi all’alimentazione. A
questa fa da pendant nella vicina Sala Viscontea una mostra più fitta
e curiosa (specie per molte formidabili stampe) su Il mito del paese
di Cuccagna, immagini a stampa della raccolta Bertarelli: qui
un’immagine di Epinal, con un buffo Gargantua che mangia interi
buoi sulla sua gigantesca tavola su cui armeggiano fitte file di
minuscoli (rispetto a lui) camerieri; e anche una splendida tavola a
bulino colorato a pennello dei Remondini di Bassano del XVIII secolo
con la fantastica DISCRITIONE DEL PAESE DI CHUCAGNA / DOVE CHI MANCO
LAVORA PIÙ GUADAGNA.
Tornando alla Sala dei Pilastri, mi allontana da ogni paese di
Cuccagna il volto di Dante ricostruito digitalmente: di prospetto,
emaciato, pallidino e sciupatello, occhi sbarrati, naso geometrico e
metallico, bocca orizzontale da giovane incerto sul da farsi. Non
funziona però quella che dovrebbe essere la maggiore sorpresa
della mostra / installazione, un gioco non solo multimediale, ma
interattivo; la possibilità di rivolgere delle domande a Dante e di
ascoltare le sue risposte grazie a un sofisticato software, di cui ora,
forse per mia disattenzione, non trovo traccia, anche se leggo che in
altre circostanze la metallica voce del poeta ha risposto a domande
su alcune situazioni del suo viaggio oltremondano (cominciando
ovviamente dall’incontro con Francesca). Forse le cose si
animeranno di più a partire da domani: è infatti annunciato l’inizio di
una Maratona dantesca, curata da Giuliana Nuvoli e Silvia Morgana,
che avrà luogo qui, nel Cortile della Rocchetta, con letture della
Commedia ed eventi collegati.
Mi appresto comunque a lasciare il Castello Sforzesco: uscito sulla
piazza d’Armi, non posso evitare di entrare in un locale che si trova
sulla destra, dal lato della Cortina di Santo Spirito, rivolto verso la
Stazione Cadorna: era lo spazio dell’Ospedale spagnolo, al servizio
della guarnigione insediata nel castello. Qui molto recentemente è
stata allestita una sala dedicata alla Pietà Rondanini di Michelangelo
Buonarroti, trasferita da un’altra sala dei musei del castello. Seguo il
cartello che mi invita a visitare questa opera “ultima” del grande
artista, capolavoro di passione e lacerazione, definitivo e assoluto
nella sua incompiuta compiutezza. Resta il dubbio in effetti se sia
opera non finita, o se l’artista l’abbia comunque concepita e lasciata
così. Entrando nella sala, al cui centro è la scultura, se ne scorge il
retro, con i due corpi uniti nella pietra quasi grezza. Tanto diversa è
dalla pur tarda Pietà detta Bandini, che si trova al Museo dell’Opera
del Duomo di Firenze: mentre quella gravita verso il basso e si
raccoglie in alto nel volto incappucciato di Nicodemo, che ha le
fattezze dello scultore, questa è tutta in elevazione, con la scavata
magrezza dei soli corpi di Cristo e della Madonna, le cui parti
superiori sembrano insieme districarsi dalle gambe piegate del
cadavere. Alla destra di questo si tende, su un corpo di pietra in
parte separata dal blocco maggiore, un avambraccio che è il solo
segno di un’altra presenza. Maria, che è dietro il Cristo e in
posizione leggermente più elevata, ha la mano sinistra appoggiata
sulla spalla sinistra del figlio, che la tocca col mento. Il volto di lui ha
il lato sinistro quasi totalmente scavato, mentre l’occhio destro
sembra guardare in basso, come piegandosi, pur nella morte, verso
un pensiero dell’oltre. Attonito il volto di lei, sotto quello che è
insieme velo, cappuccio, capigliatura a calotta, con la punta del naso
quasi avanzata e la bocca pronunciata solo verso sinistra, in una
insuperabile smorfia di dolore (e quasi mi pare di ritrovare in lei i
tratti di una lontana compagna di università, vagheggiata allora con
turbata emozione, della cui morte ho avuto notizia qualche giorno
fa). Tutto graffiato nella pietra è il corpo di Maria nel suo emergere
da quello del Cristo, che anch’esso è così graffiato, salvo le due
gambe piegate in avanti, che paiono stranamente levigate. Si ha
l’impressione che con questo capolavoro l’artista abbia voluto dar
voce all’unicità della passione e del dolore, alla pietà e
all’insufficienza dell’umano, nella sua sfida alla pietra in cui
l’aspirazione all’oltre coincide con il senso della prigione,
l’espressione della fuga con l’impossibilità della fuga: ricerca di
un’espressione unica, risolutiva, impossibile; realismo creaturale
tanto più intenso in quanto manifesta il limite di ogni pretesa
mimetica, di ogni troppo diretta riproduzione del reale. Giusto
riconoscimento di questa unicità è stata la soluzione di esporre
l’opera in una sala tutta a essa dedicata, dove è sola di fronte a
coloro che passano e la guardano; l’accompagna soltanto la testa
bronzea dell’artista, questa sì di impressivo e mimetico realismo,
fattura del suo amico Daniele da Volterra. Suo amico certo, ma che
poco dopo la sua morte ebbe il compito non lusinghiero di coprire i
genitali delle figure del Giudizio universale della Cappella Sistina,
avendo così in dote il poco lusinghiero nomignolo di Braghettone.
Lascio l’area del Castello, dal cui ingresso la vista si proietta su un
asse diritto fino a piazza Cordusio, da cui poi diverge leggermente a
sinistra la via dei Mercanti, che conduce in piazza Duomo. Subito, ai
margini della breve via Beltrami, che taglia su questo asse il Foro
Bonaparte, sono disposti due corpi a capanna, tra vetro e bianchi fili
metallici, con la sigla ExpoinCittà, che informa su vari eventi di
contorno dell’Expo: sarà anche in seguito punto di riferimento per
coordinare iniziative culturali, commerciali e turistiche di vario
genere, con l’ambizione di fare di Milano una città-expo, crogiuolo di
eventi molteplici. Dal monumento a cavallo al centro di Largo Cairoli
Garibaldi guarda sicuro verso il cuore di Milano, come sul punto di
procedere sulla via Dante, che costituisce appunto l’asse che
conduce a piazza Cordusio. Pedonale e animata da negozi e locali
d’ogni sorta, via Dante non sembra aver ancora raggiunto la
consueta effervescenza delle ore centrali della giornata. A lato degli
ingressi di una banca un mendicante o barbone, che ora non c’è, ha
lasciato le sue masserizie e un piccolo banchetto su cui sono posati
dei portafortuna che probabilmente prova a vendere; su una
cassetta di legno ha scritto INTERNET / CABERNET.
A sinistra, sull’intersezione con via Rovello, si affacciano i due
portoni di ingresso del Piccolo Teatro, sul più grande dei quali è
anche disposta la bandiera dell’Expo. Qui ha vita quella che nel
dopoguerra, specie ai tempi del direttore Paolo Grassi e del regista
Giorgio Strehler, che lo fondarono nel 1947, è stata una delle più
gloriose istituzioni teatrali italiane. Pochi forse sanno quello di cui
informa una lapide apposta tra due finestre a pianterreno dell’edificio
a un solo piano, e cioè che QUI TRA L’8 SETTEMBRE 1943 E IL 25 APRILE 1945
/ hanno subito torture e trovato la morte / centinaia di combattenti della libertà / prigionieri
Era questa la sede, infatti, della Squadra d’Azione, poi
dei fascisti.
Legione Autonoma Mobile Ettore Muti, in cui agivano i più crudeli
scherani della repubblica di Salò: la sistemazione proprio qui del
Piccolo Teatro è stato uno dei più vivi e precoci segni culturali della
rinascita di Milano e dell’Italia dopo il disastro della guerra e gli orrori
del nazifascismo.
Al centro di piazza Cordusio è Giuseppe Parini a guardare verso il
Duomo, ben ritto in piedi e con un mantello appoggiato sulla spalla e
sul braccio sinistro. Poi la via dei Mercanti fa toccare quello che
resta del centro comunale della città, pallido evanescente ricordo: le
trasformazioni avviate nel secondo Ottocento hanno cambiato
radicalmente l’assetto e gli edifici, tra quelle che erano la piazza dei
Mercanti e la piazza del Broletto nuovo, che entrambe resistono in
parte. Non c’è forse nessun’altra delle antiche città italiane che abbia
così totalmente cancellato le tracce del suo assetto medievale (ma
forse è stato questo spirito distruttivo a sostenere la proiezione di
Milano verso la modernità, il suo rilievo di capitale industriale e
“morale”?). Resta col suo nome, ma in forma che è stata rifatta a più
riprese tra Settecento e Ottocento, il Palazzo della Ragione,
terminato nel 1233 dal podestà Oldrado da Tresseno, il cui portico
terreno ha un effetto di citazione medievale (ma autentico resiste, su
una facciata del palazzo, l’altorilievo di scuola antelamica con il buon
Oldrado a cavallo).
Nell’animazione qui ormai già vivacissima del mezzogiorno e tra le
esibizioni di lusso, di efficienza, di trionfante consumo, ogni traccia
medievale è cancellata dalla grande piazza Duomo, centro di tanti
essenziali eventi d’Italia. Lunga è stata la storia della monumentale
chiesa, la cui costruzione iniziò nel 1386, svolgendosi inizialmente
con diretti interventi del duca Gian Galeazzo Visconti: il sito era
occupato dalla basilica di Santa Maria Maggiore, che al tempo di
Dante fungeva da cattedrale in coppia con la vicina basilica di Santa
Tecla, anch’essa più tardi inglobata nel grande edificio del Duomo.
Più che la celebre e tarda facciata gotica, di un artificio gotico la cui
costruzione si è svolta in vari secoli prolungandosi fino a fine
Ottocento, mi affascinano le fiancate esterne, specialmente abside e
transetti, con il loro proliferare di statue, specie quattrocentesche e
cinquecentesche, ma spesso come addensanti in sé il vago ricordo,
la suggestione di una statuaria più antica.
Non senza sorpresa proprio oltre piazza Duomo, sul retro del
Palazzo Reale, l’ingresso della chiesa di San Gottardo in Corte
riconduce direttamente alla statuaria dei tempi di Dante, con una
mostra su Nicola e Giovanni Pisano. Le origini della scultura
moderna, curata da Vittorio Sgarbi, sempre nel quadro dell’Expo.
Giovanni era di alcuni anni più anziano di Dante (1248 circa- 1315
circa) e si può anche pensare che i due si siano incontrati mentre
Giovanni lavorava allo splendido pulpito del Duomo di Pisa. Qui
sono esposte nove sculture dei due artisti, padre e figlio, provenienti
dalla cornice superiore del Battistero di Pisa e custodite nel Museo
dell’opera del Duomo pisano: le statue sono state collocate
nell’interno neoclassico della chiesa, il cui esterno mantiene invece
molte tracce (specialmente il campanile) della sua prima forma
medievale, dovuta all’iniziativa di Azzone Visconti, che la fece
costruire nel quarto decennio del Trecento come chiesa palatina,
legata al palazzo del potere, che era quello del Broletto vecchio,
sede nel XIII secolo delle istituzioni comunali e poi del potere dei
Visconti. Il Palazzo del Broletto vecchio fu poi ricostruito dallo stesso
Azzone, contemporaneamente alla chiesa, ed è giunto, dopo varie
trasformazioni, tra il 1772 e il 1778, all’attuale forma neoclassica del
Palazzo Reale, per opera di Giuseppe Piermarini.
La mostra sugli scultori pisani ha anche un risvolto tecnologico,
una proiezione verso il tempo della riproduzione globale: per opera
dell’impresa Robot City-Italian Art Factory c’è, all’esterno
dell’ingresso della chiesa, una copia in marmo di Carrara a
grandezza naturale della Madonna col bambino di Giovanni Pisano,
realizzata con complesse tecnologie robotiche e digitali. Si dà una
perfezione mimetica che porta molto al di là delle riflessioni di Walter
Benjamin sulle opere d’arte nell’epoca della loro riproducibilità
tecnica: sembra trasformare la perdita dell’aura (che negli scorsi
decenni ha dato luogo a infinite elucubrazioni accademiche) in
affermazione di una nuova aura tecnologica, in una paradossale e
mortale moltiplicazione della vita. Il solo scarto rispetto all’originale,
nell’identità della materia e della presenza reale nello spazio, è dato
dall’impossibilità di riprodurre la patina del tempo, la traccia di quella
lenta vita, di quell’impalpabile consunzione che l’opera ha ricevuto
dal proprio lungo stare nel suo luogo, dalla cura e dall’incuria, dagli
sguardi che gli hanno rivolto i tanti che gli sono passati davanti e
sono spariti per sempre.
Un’altra mostra, anch’essa nel quadro dell’Expo, nel vicino
Palazzo Reale riconduce ai tempi danteschi: Giotto, l’Italia, dedicata
al pittore supremo che forse Dante ha incontrato e alla cui
supremazia pittorica si riferisce nella famosa terzina messa in bocca
a Oderisi da Gubbio nella cornice dei superbi:

Credette Cimabue ne la pittura


tener lo campo, e ora ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
(Purg., XI 94-96)
Sono esposte tredici opere provenienti da diverse città d’Italia, in cui
si riconosce il percorso compiuto dal pittore nel corso del tempo, di
luogo in luogo: e proprio a Milano egli approdò negli ultimi anni,
lavorando nel 1335, qui dove ora è il Palazzo Reale, agli affreschi
nel Palazzo del Broletto vecchio, per Azzone Visconti. Ma quegli
affreschi milanesi sono andati perduti e la mostra è una sorta di
risarcimento per quella perdita, omaggio all’italianità di Giotto, con
tredici opere, per lo più poco note al pubblico o scarsamente visibili,
che ora sono esposte con un’illuminazione che le isola nel loro
prezioso rilievo in sale che intorno a esse sono immerse nel buio.
Dominano alcuni formidabili polittici a due facciate, come quello
fiorentino di Santa Reparata (poi cattedrale di Santa Maria del
Fiore), del 1310, dove tra l’altro mi colpisce, tra i piccoli riquadri sul
retro, l’Annunciazione con una Madonna inquieta e turbata, o quello
dei Musei Vaticani, in origine destinato all’altare maggiore di San
Pietro, il trittico Stefaneschi, del 1320 circa, nel cui retro, nell’anta
centrale, si vede il cardinale Jacopo Caetani degli Stefaneschi offrire
a san Pietro il trittico stesso, prova precoce di mise en abyme
pittorica.
È probabile che qui, dove si trovava il Broletto vecchio, prima delle
nuove costruzioni di Azzone, sia passato Dante nella sua visita
all’imperatore a Milano: ma più distanti sono i siti in cui è rimasta più
diretta traccia dell’assetto medievale: se quasi intatta sembra
rimasta la basilica di Sant’Ambrogio, dove Enrico VII ricevette la
corona d’Italia, varie trasformazioni hanno subito le due grandi
chiese già risalenti a epoca paleocristiana, che si trovano più a sud,
verso Porta Ticinese, collegate dal Parco delle basiliche, San
Lorenzo Maggiore e Sant’Eustorgio.
Ma la conclusione di questo viaggio mi conduce, sulla
centralissima via Manzoni, a uno dei più affascinanti tra i musei nati
da collezioni private, il Poldi Pezzoli, frutto delle raccolte del nobile
Gian Giacomo Poldi Pezzoli (1822-1879): qui c’è il Gabinetto
dantesco impiantato dal già ricordato Gian Giacomo Trivulzio (vedi p.
1027). Il Poldi Pezzoli, che lo ereditò sposando Rosa Trivulzio, figlia
di Gian Giacomo, lo fece decorare tra il 1853 e il 1856 con un attento
programma iconografico da tre artisti milanesi, Giuseppe Bertini,
Luigi Scrosati, Giuseppe Speluzzi. Esso ha subito gravi danni nei
bombardamenti della Seconda guerra mondiale, che hanno distrutto
altri ambienti dello studio, ma, dopo un primo restauro, ha ritrovato
una forma splendida nel nuovo restauro concluso nel 2002.
Tutta una serie di motivi figurativi e ornamentali si intrecciano
fittamente nelle vetrate e nelle pareti dipinte, nei bronzi, nei rilievi e
negli arredi, con avvolgimenti, nodi, racemi, filettature, cartigli, spire,
stemmi che richiamano da una parte motivi medievali – fino a
esplicite citazioni del candelabro Trivulzio, opera di oreficeria
risalente all’inizio del XIII, che era stato del condottiero Gian
Giacomo Trivulzio e che la famiglia donò nel 1562 al Duomo di
Milano – dall’altra convergono con stilemi romantici e già
preraffaelliti, quasi proiettati avant la lettre verso un’eleganza liberty.
Il Poldi Pezzoli manifestava il suo patriottismo di alto rango
(sostenne la rivolta del 1848 ed ebbe vari problemi nei rapporti con
gli austriaci), esaltando Dante come grande nume nazionale e
inserendone l’immagine in un quadro simbolico, in cui momenti e
situazioni della sua vita e alcuni celebri episodi della Commedia
costituivano una trama esemplare, un prezioso scrigno di vita e di
passione.
Nel piccolo spazio dello studiolo sembra di sostare dentro una
piegatura dell’anima che ha fissato in disegni, ricami, colori, il ricordo
impreziosito del mondo dantesco. Nella oblunga vetrata centrale,
compartita in tre riquadri, a un Dante assorto, con un rosso mantello,
seduto con le gambe accavallate su una sorta di trono, ben poco
arcigno ma già pensosamente preraffaellita, sono affiancate, in piedi,
da una parte Matelda, dall’altra Beatrice, che ha alle spalle una
finestra da cui si vede il campanile di Giotto. In alto, sopra i tre
riquadri, altri comparti di diverso contorno dominati dalla figura della
Madonna regina del Paradiso e angeli oranti, presentano san
Domenico e san Francesco, ma anche Paolo e Francesca con
Dante svenuto e le fiere che ostacolano l’ascesa al colle e Caron
dimonio con la sua barca tra nastri con didascalie e frammenti di
testo. Al centro della parete opposta alla grande vetrata centrale, tra
i ricami e i ghirigori filiformi delle decorazioni metalliche, Paolo e
Francesca sono fissati in attesa della fine davanti a Gianciotto che li
sorprende ed è pronto a sguainare la spada. E poi di qua e di là,
sulle vetrate e sulle pareti, riquadri e spazi di parete affrescata con
Dante in momenti della sua vita: eccolo, a esempio, tra i frati di un
convento, a uno dei quali sta consegnando qualcosa. Si tratta certo
del frate Ilaro a cui, secondo Boccaccio, avrebbe lasciato una prima
forma parziale in latino del suo poema, soggetto già praticato più
distesamente da Giuseppe Bertini in un quadro del 1845 che si trova
a Brera.
Dopo aver indugiato su tanti minuti particolari e sulle intersezioni e
deviazioni tra figure, simboli, ornamenti, suggerite da questo piccolo
spazio dantesco, mi avvio ormai a lasciare Milano: muovendo con la
metropolitana verso la Stazione centrale, uno di quegli schermi
sospesi sopra le banchine, che riportano strisce con sintetiche
notizie, mi informa della morte appena avvenuta, all’età di 95 anni,
del poeta e scrittore milanese Nelo Risi, fratello del regista Dino,
come precisa la striscia, mettendo in rilievo quella che viene ritenuta
la ragione della sua notorietà. Poeta notevole in realtà e anche lui
regista di film poco noti, tra cui un particolarissimo film manzoniano,
La colonna infame (1972). Il ricordo di questo film, mentre lascio
Milano, mi riconduce al milanese don Lisander, che ho evitato di
sfiorare in questo viaggio: e penso alla tesa e vibrante Storia della
colonna infame, il libello che accompagna I Promessi Sposi, con la
vicenda di Guglielmo Piazza e Gian Giacomo Mora, innocenti
accusati come untori della peste, processati con tremende torture e
giustiziati con un lungo orribile supplizio (tanagliati, tagliata la mano
destra, spezzate le ossa, intrecciati vivi e scannati dopo sei ore). La
casa e bottega di barbiere del Mora, vicino alla basilica di San
Lorenzo Maggiore, fu distrutta e al suo posto, dove oggi è la via Gian
Giacomo Mora, fu messa quella colonna infame, poi demolita: è il
quartiere della Vetra, sulla cui piazza si tenevano i supplizi dei
popolani. Nel suo film Risi è riuscito a ricreare con grande verità e
senza compiacimenti spettacolari quella vicenda, come è anche nel
suo stile di poeta, nella lombarda moralità che lo anima. All’inizio del
2017 uscirà un libro intimo, dolce e severo, La rondine sul
termosifone, dedicato da Edith Bruck, sua moglie, al rapporto con lui,
al suo doloroso spegnersi in questi ultimi anni.
Intorno a Firenze e Appennino tosco-emiliano
Valdichiana

Qual dolor fora, se de li spedali


di Valdichiana tra ’l luglio e ’l settembre
e di Maremma e di Sardigna i mali

fossero in una fossa tutti ’nsembre…


(Inf., XXIX 46-49)

e avrà quasi l’ombra de la vera


costellazione e de la doppia danza
che circulava il punto dov’io era:

poi ch’è tanto di là da nostra usanza,


quanto di là dal mover de la Chiana
si move il ciel che tutti li altri avanza.
(Par., XIII 19-24)

Il 9 settembre 2016, ormai più di due anni dopo l’inizio di questa


peregrinazione dantesca, parto per un’ultima tappa, verso luoghi
della Toscana che non ho ancora raggiunto, più qualche rapida
diversione sull’Appennino e oltre. Puntando verso nord, dopo aver
sfiorato Orvieto e Chiusi, mi affaccio sulla Valdichiana, da Dante
ricordata, insieme alla Maremma e alla Sardegna, come luogo
quanto mai malsano, per gli effetti della malaria: i dolori e il tremendo
lezzo estivo degli ospizi che accoglievano i malati (tenuti dai frati
della congregazione ospitaliera di San Giacomo d’Altopascio) fanno
da paragone per le marcite membre dei dannati della decima bolgia.
Quella che in epoca etrusca era stata la fertile valle del Clanis, che
scorreva verso sud e confluiva nel Tevere, in seguito a una
deviazione del suo corso verso l’Arno effettuata in epoca romana,
era impaludata e divenuta terribilmente malsana; solo più tardi, in
epoca medicea, iniziarono i tentativi di bonifica, che ebbero esito
risolutivo nel Settecento per iniziativa dei granduchi lorenesi.
L’impaludamento comportava una quasi totale immobilità delle
acque: e per questo nel XIII del Paradiso Dante prende la Chiana
come figura di lentissimo movimento, in una sorta di corollario di una
lunga e artificiosa similitudine di quasi venti versi, con cui cerca di
dare un’idea della costellazione e doppia danza costituita dalle due
corone di sapienti del cielo del Sole e dal loro reciproco e veloce
ruotare intorno a lui. Dopo aver sviluppato quella similitudine, egli
afferma che essa può dare solo l’ombra della visione paradisiaca,
che va tanto oltre da ciò che si usa vedere nel mondo quanto lo
scorrere della Chiana è lontano dal moto del più veloce dei cieli, cioè
il Primo Mobile (qualche commentatore intende però chiana come
nome comune, nel senso di “acqua morta”).
Le bonifiche hanno raccolto le acque in vari canali, che ora
solcano una fertile piana, in cui si sono inseriti vari insediamenti
industriali: percorsa dall’autostrada e dalla ferrovia direttissima
Roma-Firenze, è fiancheggiata da rilievi su cui sono attestati vari
centri già fiorenti nel Medioevo e ben attivi al tempo di Dante – che
comunque non ne fa menzione – primi fra tutti Montepulciano sul
versante ovest e Cortona (già importante centro etrusco) sul
versante est.
Lascio l’autostrada all’uscita che ha proprio il nome di Valdichiana,
a fianco del borgo di Bettolle, da cui si può prendere il raccordo che
conduce a ovest a Siena e a est a Perugia. Non lontano dall’uscita
punto brevemente a nord e, dopo aver traversato il torrente Esse,
che è come un filo nascosto entro una scarpata erbosa, raggiungo
quella che può essere considerata la località centrale della valle,
Foiano, che ha la Chiana nel suo stesso nome, Foiano della Chiana.
Contesa nel Medioevo tra Siena e Arezzo, ha il centro ben munito da
mura risalenti al XIV secolo. Alla base delle mura, in un punto in cui
dalla loro parte superiore si affacciano finestre di normali abitazioni,
è ora esposta una vasta galleria fotografica: sono foto che
annunciano Foiano Fotografia 2016, rassegna fotografica
internazionale che avrà luogo in novembre, promossa da una locale
associazione fotografica, Furio del Furia. Sono foto che riguardano
Foiano, scattate da diverse associazioni e da privati, che ritraggono
frammenti di vita quotidiana, feste e occasioni locali, ma anche
soggetti più eterogenei. Curiose sono quelle del Club Amici della
Zucca, che ogni anno organizza una festa della zucca: vi si vedono
diverse installazioni a base di zucche, tra cui anche una carta
geografica d’Italia composta di pezzi di zucca…
Uno stretto passaggio entro le mura mi porta sulla piazza della
Collegiata, a fianco della Collegiata di San Martino e Leonardo, dalla
facciata in cotto, con un interno settecentesco in cui è custodita una
pala robbiana con una Madonna della Cintola, risalente al 1502. Nel
silenzio della piazza si muove soltanto una famiglia di turisti nordici,
che salgono su una scalinata contigua a quella del sagrato della
Collegiata, ma più elevata, che conduce a un arco aperto sotto una
piccola torre, attraverso cui si sale più in alto, dov’è il Palazzo
Comunale, di origine trecentesca, con in fronte un porticato Palazzo
Granducale, residenza medicea per le battute di caccia. Un’ulteriore
scalinata porta alla chiesa quattrocentesca dei Santi Michele
Arcangelo e Domenico, su una piazza intitolata al frate
savonaroliano Benedetto da Foiano, ricordato su apposita lapide: fu
tra gli animatori della repubblica fiorentina antimedicea del 1527, alla
cui caduta fu imprigionato dal papa mediceo Clemente VII a Roma in
Castel Sant’Angelo e lasciato morire di fame e di sete (settembre
1531). Subito fuori delle mura vedo una casa dove, secondo una
lapide accompagnata dal busto dell’eroe, avrebbe soggiornato
Garibaldi in fuga da Roma il 21 luglio 1849: passano davanti due
donne con velo islamico, che conducono insieme un passeggino con
un bimbo, mentre un altro poco più grande procede a piedi di mala
voglia.
Lasciato il centro di Foiano, nella strada che conduce verso
Lucignano appare un bel portico a cinque arcate di equilibratissimo
stile quattrocentesco, reso più singolare dal muro esterno in
mattoncini di cotto; è la chiesa dell’ex convento di San Francesco,
ora piccolo ospedale, che appare ben funzionante e che per fortuna
non lascia alcun ricordo degli spedali danteschi. Non procedo però
sulla strada per Lucignano e prendo quella per Cortona, che mi fa
attraversare vari canali: il primo che incontro lo registro come
Fossetta del Teschio (ma ora non trovo da nessuna parte conferma
di questo nome), poi c’è l’Allacciante di sinistra e infine il Canale
Maestro della Chiana, collettore centrale, frutto delle diverse fasi
della grande bonifica, che convoglia acque dal lago Trasimeno e dal
lago di Chiusi, attraversando il lago di Montepulciano e percorrendo
longitudinalmente la valle, fino a gettarsi in Arno poco a nord di
Arezzo. Osservo il lento scorrere verso nord dell’acqua del Canale,
fermandomi all’imbocco del ponte sulla provinciale 28. Oltre un fitto
campo di girasoli si scorgono bene i rilievi circostanti, con Cortona
da una parte e più lontano, dalla parte opposta, Montepulciano.
Passeggio un po’ sull’argine sinistro, su cui corre il Sentiero della
Bonifica, ben tenuto e perfettamente ciclabile, che dovrebbe
accompagnare il Canale in tutto il suo corso.
Poco oltre vengo a toccare un luogo forse non abbastanza noto,
l’abbazia di Santa Maria a Farneta, fondata intorno al X secolo, che
ebbe grande importanza nel Medioevo e ancora ai tempi di Dante:
aveva il controllo della parte meridionale della Valdichiana, ma poi
lentamente decadde, fino all’abbandono completo. Su di un poggio
leggermente elevato, ne è rimasta solo la chiesa, restaurata, come
avverte una lapide, DAL PARROCO E DAL POPOLO / COADIUVATI DALLA
SOPRINTENDENZA AI MONUMENTI, sorprendentemente in pieno periodo
bellico, tra il 1940 e il 1944. Molte parti della chiesa sono
evidentemente frutto di restauro; sembra meglio conservata la cripta,
con tre navate absidate e quattro potenti colonne di foggia orientale,
riporto da edifici antichi, davanti all’abside centrale: e davvero
suggestivo è l’effetto che, con i loro tre blocchi curvilinei in laterizi, le
tre absidi superiori fanno all’esterno. Una singolare scritta in
tedesco, inserita da un lato entro una specie di finestra tonda cieca,
raccomanda la bellezza delle absidi: SPEKTAKULÄRE / ABSIDEN INTER /
DER KIRCHE IM / OSTEN. E in effetti ci sono alcuni turisti tedeschi sullo
spiazzo antistante alla chiesa. Mentre mi guardo intorno, tra il
piccolo edificio accanto alla chiesa e vari resti di mura dell’abbazia,
giunge un folto gruppo di ciclisti che scendono dalle bicilette, mentre
altri stanno pedalando sulla salitella che porta al colle: solo due
ragazze vi avanzano a piedi, portando a mano le bici. Mi viene da
pensare che il mezzo più adatto per questa tappa del viaggio
dantesco sarebbe stata proprio la bicicletta.
Da Farneta procedo in vista di Cortona, collocata a mezza costa
su un poggio addossato al monte che da questo lato sovrasta la
Valdichiana: è l’Alta di Sant’Egidio, come disposta a strati, al di sopra
di fittissime terrazze di ulivi, che sembrano come sottoscrivere,
sottolineare longitudinalmente nel loro intenso verde l’agglomerato
della città, in cui domina la pietra serena. Più alta, oltre lo spazio
urbano, la mole del Santuario di Santa Margherita da Cortona e,
oltre, quella della Fortezza medicea, detta del Girifalco (la chiesa del
Santuario è ottocentesca, ma il sito è quello dove nel 1297 morì la
santa, approdata qui dall’Umbria dopo una turbolenta vita familiare e
divenuta terziaria francescana, tra accese visioni mistiche e opere di
carità).
Senza salire a Cortona, dopo aver superato un altro dei corsi
d’acqua della Chiana, il torrente Esse di Cortona, attraverso la
frazione di Camucia, che è ai suoi piedi, intorno alla stazione
Cortona-Camucia della vecchia linea Roma-Firenze (accanto alla
quale ci sono resti di una necropoli etrusca), e percorro verso nord la
strada che sfiora il margine orientale della Valdichiana, trovando ben
presto il colle su cui è addossato Castiglion fiorentino, anch’esso di
origine etrusca, circondato dalle mura innalzate nel Duecento,
quando era sotto il dominio di Arezzo e si chiamava Castiglion
aretino. Dopo la battaglia di Campaldino e fino al 1303 fu in mano ai
fiorentini: tornata ad Arezzo, fu sotto il potere del vescovo Guido
Tarlati, poi contesa tra Firenze e Perugia, finché nel 1384 passò a
Firenze, ricevendo la sua denominazione attuale. Lasciata l’auto in
un’area di parcheggio sulla via Trento, ai piedi del centro storico,
salgo per le ripide strade, dove ora, nel primissimo pomeriggio, si
incontra solo qualche raro passante.
La cittadina mi presenta subito un aspetto e un colore mediceo,
che trova la sua maggiore espressione nella piazza centrale, col
Palazzo comunale e con la Loggia del Vasari, disposta in ritmica
scansione di archi in pietra serena. Sono nove archi aperti sulla
piazza, tra cui i tre centrali danno adito dalla parte opposta a tre
finestre di simile struttura e ampiezza che si affacciano sui colli a sud
est, ma non in vista di Cortona. Da questa piazza si sale in cima,
sulla spianata del Cassero, dove sono state trovate tracce dell’antico
insediamento etrusco: al suo limite è il Palazzo Pretorio, che ospita il
Museo archeologico. Un cancello aperto mi introduce sull’ampio
spazio della spianata, circondato dal basso muro della fortificazione,
aperta a ovest e parzialmente a nord sul paesaggio circostante,
mentre a ridosso dell’ingresso c’è la semplice chiesetta romanica di
Sant’Angelo in Cassero. Sul lato nord è l’alta torre del Cassero,
ricostruita sotto la dominazione perugina verso il 1350; e accanto a
essa ci sono resti diroccati di una più ampia fortificazione, che non
impediscono la vista dei colli a nord, tra cui quello più vicino
presenta una corona di ulivi, che circondano la cima su cui svettano
dei cipressi, che coprono sparse costruzioni. Sul lato ovest il muro di
cinta, che sovrasta la parte bassa della città, fa da parapetto,
affacciandosi sulla Valdichiana, che si distende fino all’opposto limite
collinare e ai vari centri sui colli. In basso, mentre non riesco a
scorgere i canali, riconosco qualche più ampio invaso d’acqua,
capannoni industriali, silos cilindrici, viali alberati procedenti in lunga
fila, tra la regolare disposizione degli appezzamenti agricoli, su
alcuni dei quali risalta il marrone chiaro della terra arata di fresco.
Molto vicina è la ferrovia (sempre la vecchia Roma-Firenze) con la
stazioncina di Castiglion fiorentino.
Di nuovo in vettura, prendo la strada per Monte San Savino, che
mi fa attraversare vari torrentelli e poi ancora il Canale maestro e,
poco prima di Monte San Savino, il torrente Leprone e il torrente
Esse: sfioro comunque questa città e, dopo essere passato tra fitti
olivi, una deviazione attraverso un fresco bosco mi conduce a
Gargonza, piccolo perfetto borgo dalla struttura circolare, sulla cui
unica porta una lapide molto consunta riporta il passo della Vita di
Dante di Leonardo Bruni, secondo cui il poeta, non essendo rientrato
a Firenze dopo la prima condanna, nella primavera del 1302,
avrebbe partecipato nel castello di Gargonza, prima di passare ad
Arezzo, al primo incontro tra Guelfi bianchi e Ghibellini sbanditi da
Firenze, sotto la protezione degli Ubertini, signori del castello. Il
borgo è raccolto attorno a una torre merlata e a una chiesetta
romanica, con una piazzetta su cui è posto un pozzo esagonale in
laterizi; un parapetto si affaccia sulla Valdichiana, che qui si distende
vista da nordovest. La perfetta aria medievale del borgo è frutto di
rifacimenti e sistemazioni che gli danno un’aria forse un po’
atteggiata: e in effetti è luogo di turismo di alto livello, di ambiziosi
meeting e convegni, con servizi, un ristorante, un albergo-residence,
che stanno però fuori dal borgo, sulla strada che a esso conduce.
Circolano americani e giapponesi, e nei pressi del ristorante si
aggira, con modi che chissà perché mi sembrano furtivi, un giovane
atletico avvolto in un bianco asciugamano.
Asciano

e tra’ne la brigata in che disperse


Caccia d’Ascian la vigna e la gran fonda,
e l’Abbagliato suo senno proferse.
(Inf., XXIX 130-132)

Da Gargonza prendo una strada che sfiora il castello del Calcione,


adibito ad albergo, e la piccola diga detta del Calcione, che forma un
laghetto oblungo. Sono ora nel territorio della provincia di Siena, nel
comune di Rapolano terme, dove sulla sinistra si affaccia un altro
borgo-castello perfettamente disposto e restaurato, quello di
Modanella. Dopo aver atteso a un passaggio a livello un’automotrice
a un solo vagone sul binario unico della linea Siena-Sinalunga,
giungo ad Asciano, da cui prende nome un personaggio che viene
ricordato da Capocchio, uno dei lebbrosi dell’ultima bolgia, tra i
senesi noti per la loro vanità. Ne ho già parlato in occasione della
visita a Siena (vedi p. 798): e ora ricordo soltanto che questo Caccia
d’Ascian, che avrebbe consumato nei piaceri della sua brigata le
proprie ricchezze, una vigna e un grande fondo agricolo (ma
secondo il Buti gran fonda vorrebbe indicare semplicemente
ricchezza in denaro), è stato identificato per un Caccianemico di
Trovato degli Scialenghi, i cui antenati erano signori di Asciano, che
fin dal IX secolo era stata appunto loro feudo e solo nel 1285 era
passata sotto il dominio di Siena.
La città mi si presenta pavesata di bandiere multicolori dei diversi
rioni, esposte per il Palio dei ciuchi, che avrà luogo la domenica
seguente, 11 settembre. Lascio l’auto al margine del centro storico,
presso una stazione dei Carabinieri di stile fascista, a forma
circolare, con una torre che fa quasi gara in altezza al campanile
della chiesa romanica di Sant’Agata. A questa, fondata nell’XI
secolo, si accede un po’ più in là, su una ripida scalinata su cui si
apre la facciata scandita da tre arcate cieche. Dentro c’è un curioso
affresco della scuola del Sodoma, dove, a destra della Madonna in
trono, c’è un buffo diavoletto con ali di pipistrello caduto a terra ai
piedi di San Michele, mentre poco più a lato è inginocchiata in
preghiera la figurina del committente in scala ridottissima.
La chiesa di Sant’Agata fa da limite all’asse centrale del centro
storico, il corso Matteotti, pedonalizzato e ora abbastanza animato:
davanti a un bar sostano una trentina di pensionati, quasi tutti seduti,
qualcuno in piedi appoggiato a un bastone, capelli bianchissimi o
lucide teste rasate, un paio con una borsa a tracolla, uno con un
berretto a visiera all’americana. Intorno a uno dei tavoli quattro di
essi giocano accanitamente a tresette, tra i commenti e le battute di
quelli che in piedi osservano il gioco. Procedendo sul corso, si
incontra una più piccola chiesa romanica, San Bernardino, già
commenda dei cavalieri Gerosolimitani, e poi la merlata torre civica
con orologio, detta Torre della Mencia, anch’essa di origine
medievale, ma più volte ristrutturata, e il Palazzo Corboli, che ospita
il Museo d’Arte sacra e il Museo archeologico, che raccoglie anche
vari reperti etruschi. Molto ben conservate e piacevolmente
percorribili sono le stradine laterali, che seguono i margini del
disegno ovale della città storica, mantenendo l’antico assetto: e si
tocca tra l’altro la piazza del Grano, in cui c’è una bella fontana
quattrocentesca.
Tornando indietro da Asciano osservo con più attenzione il
paesaggio delle Crete senesi, con i suoi colori accesi e intensi, quasi
attenuati, resi come malinconici dalla fresca aratura. Mi fermo poi
brevemente a Lucignano, ormai in territorio aretino, anche se la città,
prima contesa tra Arezzo e Perugia, finì per passare nel XIV secolo
al dominio senese. Affacciata a leggera altezza ancora sulla
Valdichiana, Lucignano ha mantenuto in modo perfetto la sua
struttura medievale, con forma ovoidale e strade-borghi ad anelli
concentrici, uno dentro l’altro, con una singolare stratificazione
datasi nel tempo, tra edifici a laterizi e a pietre diverse, anche con
esiti sorprendenti. Nel semplice e composito contesto della piazzetta
in cui è collocata, davvero affascinante è la chiesa di San
Francesco, costruita verso la fine del XIII secolo, con facciata a liste
orizzontali bianche e grigie, e all’interno un Trionfo della morte
attribuito a Bartolo di Fredi (verso la fine del XIV secolo). Singolare è
poi l’effetto di non finito della facciata della Collegiata di San Michele
arcangelo, iniziata a fine Cinquecento, ormai sotto il granducato
mediceo: vi si espande il segno di una classicità impossibile, dove la
precisa scansione dei pilastri della parte inferiore è come proiettata
indietro dal grezzo incompiuto della parte superiore e amplificata dal
gioco curvilineo, manieristico-barocco, della scalinata, disegnata,
come l’altare maggiore, da Andrea Pozzo.
Pieve al Toppo

Ed ecco due da la sinistra costa,


nudi e graffiati, fuggendo sì forte,
che de la selva rompieno ogne rosta.

Quel dinanzi: “Or accorri, accorri, morte!”.


E l’altro, cui pareva tardar troppo,
gridava: “Lano, sì non furo accorte

le gambe tue a le giostre dal Toppo!”.


(Inf., XIII, 115-121)

Dopo un ultimo sguardo, da Lucignano, alla distesa della


Valdichiana, scendo di nuovo nel suo cuore, sfiorando Marciano
della Chiana e prendendo la strada provinciale dell’Esse, che
salendo verso nord costeggia da est l’Esse di Foiano; giunto nei
pressi di Monte San Savino, prendo la ex statale 73, Senese Aretina,
in direzione di Arezzo, che dopo poco più di dieci chilometri mi porta
al nodo stradale della Pieve al Toppo. Qui ebbero luogo le giostre
menzionate ironicamente dallo scialacquatore Giacomo da
Sant’Andrea che corre inseguito dalle cagne infernali insieme a
Lano, che dovrebbe essere Arcolano di Ricolfo Maconi, ricco senese
della stessa brigata di Caccia d’Asciano. Non di giostre si trattò, ma
di un’imboscata (26 giugno 1288) tesa dagli aretini ai guelfi senesi,
che erano in ritirata dopo aver tentato invano, insieme ai fiorentini, di
assediare Arezzo, passata ai ghibellini, e che intendevano
impadronirsi del castello di Lucignano. In quella circostanza,
secondo il racconto dei commentatori, Lano evitò di salvarsi con la
fuga e si gettò tra i nemici, per sfuggire alla povertà in cui era
recentemente caduto (dice ad esempio Iacomo della Lana: “ed
essendo lo detto Lano nell’oste de’ Senesi, pensando ch’elli avea
strutto lo suo ed era in gran miseria, elesse di voler morire inanzi che
vivere; disperatamente si mise entro li nemici, e lì fue morto”).
Questo era uno dei pochi punti in cui si poteva superare
agevolmente la palude della Chiana, in un territorio che gli aretini
conoscevano assai meglio dei senesi. Pieve al Toppo è ora frazione
di Civitella in Val di Chiana, comune che il 29 giugno 1944 subì una
terribile strage nazista, e che in anni più vicini ha ospitato fino alla
morte la scrittrice scozzese Muriel Spark. Intorno al convergere di
varie strade (tra cui un ramo dell’antica Via Cassia) è qui sorta una
zona industriale, accompagnata da edifici per attività commerciali:
supermercato con vasto parcheggio e tanto altro. Tra le strade che
convergono c’è un grande spiazzo libero, in parte asfaltato, in parte
lastricato, al centro del quale c’è una sorta di pensilina metallica a
tetto ricurvo, dentro cui è piazzato un bassorilievo, coperto da una
vetrata, che custodisce quella che vuol essere una rappresentazione
della battaglia del 1288, con varie indeterminate figurine che si
azzuffano massacrandosi a vicenda: un cartello, con citazione dalla
Cronica di Giovanni Villani, VII 120, indica che si tratta di opera di
don Fortunato Bardelli, realizzata nel 700° anniversario della
battaglia.
Quanto alla pieve, non ne trovo segni: e penso che forse poteva
trovarsi a fianco dello spiazzo, dove, ai margini di un piccolo prato è
ora una scalcinata e scrostata cappellina, oltre la quale ci sono
alcune casette. Calpestando il prato si raggiunge la porta aperta
della semplice cappellina, nel cui vano disadorno c’è un piccolo
altare con vari fiori intorno; a destra c’è tuttora un piccolo sdrucito
presepio. Sul prato vicino alla cappella sono posati dei malandati
scarponi, che mi fanno pensare che qualcuno dorma da queste parti,
se non dentro la cappella, ai margini del prato o sotto l’abete che è
poco più in là.
Arezzo

corridor vidi per la terra vostra,


o Aretini e vidi gir gualdane,
fedir torneamenti e correr giostra…
(Inf., XXII 4-6)

Botoli trova poi, venendo giuso,


ringhiosi più che non chiede lor possa,
e, a lor disdegnosa, torce il muso.
(Purg., XIV 46-48)

In fondo la Pieve al Toppo si presenta quasi come una periferia di


Arezzo, di cui in una decina di chilometri raggiungo il centro, quando
già è scesa la sera del venerdì. La città, sempre piacevole e
accogliente, mi ricorda lontane frequentazioni in tempi di cultura
appassionata e spensierata, con alcuni colleghi dell’università, sede
staccata di quella di Siena, tra cui uno dei più acuti studiosi della
letteratura di viaggio, l’anglista Attilio Brilli, che insieme al semiologo
Piero Ricci organizzava incontri letterari e didattici nel Casentino o
qui, nei locali dell’Accademia Petrarca.
L’allocuzione agli Aretini all’inizio del canto XXII dell’Inferno si dà in
un contesto di comicità “bassa”, quasi a commento della strana
cennamella con cui Malacoda aveva salutato la brigata dei suoi
Malebranche alla fine del canto precedente. Dante ricorda la sua
frequentazione della terra aretina, certamente in occasione della
battaglia di Campaldino, in cui gli capitò di vedere incursori
(corridor), schiere a cavallo (gualdane), combattimenti di tornei e
gare tra cavalieri (correr giostra: ma qui potrebbe esserci un
riferimento alle giostre che per dileggio i fiorentini svolsero davanti
alle mura di Arezzo, in occasione di un tentativo di assedio, a cui poi
rinunciarono). Questa allocuzione, nel suo carattere beffardo, è
molto diversa da quelle, cariche di maledizioni, rivolte nell’Inferno ad
altre città fiorentine. Ma il giudizio sugli Aretini si carica di una
ulteriore sprezzante negatività nella digressione sugli abitanti
dell’Arno indirizzata da Guido del Duca a Ranieri dei Calboli nella
cornice purgatoriale degli invidiosi. Lì essi sono qualificati come
botoli, cagnetti ringhiosi che si vogliono aggressivi al di là dei loro
stessi mezzi: Dante dice che, quando quella fossa che è l’Arno si
avvicina a essi, torce il muso, cioè, scendendo da nord, evita di
attraversare la città e prima di raggiungerla volge il suo corso verso
nordovest. Sprezzante connotazione animalesca, insomma, che
rispetto alle immagini negative date in quel contesto delle altre città
sull’Arno, si carica di un di più di astio: ciò si può collegare anche al
tradizionale atteggiamento dei fiorentini verso Arezzo, che Dante, già
combattente a Campaldino, poteva comunque ancora condividere al
tempo della scrittura del Purgatorio, nonostante avesse frequentato
la città nei primi anni dell’esilio, accolto dai ghibellini insieme ai suoi
compagni Bianchi (che proprio ad Arezzo diedero vita alla
Universitas Alborum).
Si sa che tra i Bianchi esuli era allora anche il notaio ser Petracco,
a cui il 20 luglio 1304 nasceva il figlio Francesco, il che permette di
fantasticare che non solo Dante ne abbia avuto notizia, ma che gli
possa essere anche capitato di vederlo con fuggevole indifferenza.
Anche se in realtà sembra molto improbabile che in quei giorni
Dante fosse ancora ad Arezzo, qualcuno potrebbe scorgere nella
convergenza aretina tra lui e il padre di Petrarca la segreta originaria
subliminare ragione di uno dei più grandi ed esemplari casi di
angoscia dell’influenza, l’atteggiamento di riserva infastidita che
Francesco avrebbe poi mostrato nei confronti del predecessore…
Senza nessuna angoscia sembrano invece le dure riserve di
Dante nei confronti del predecessore Guittone, l’autorevole poeta
aretino, di cui nel De vulgari eloquentia, I XIII 1, si dice che non si è
mai accostato a un volgare curiale (“nunquam se ad curiale vulgare
direxit”), mentre in II VI 8 si biasimano coloro che, fautori
dell’ignoranza, ignorantie sectatores, insistono a lodare Guittone e
altri che non hanno mai perso l’abitudine di essere plebei nei
vocaboli e nei costrutti (“numquam in vocabulis atque constructione
plebescere desuetos”). Questo atteggiamento verso Guittone sarà
del resto ribadito nel Purgatorio, attribuendo a Bonagiunta da Lucca
un riconoscimento dell’inferiorità di lui e dei suoi seguaci rispetto al
dolce stil novo (XXIV 55-60), e facendo sottoscrivere da Guido
Guinizelli la definitiva sconfitta dei suoi lodatori:

Così fer molti antichi di Guittone,


di grido in grido pur lui dando pregio,
fin che l’ha vinto il ver con più persone.
(Purg., XXVI 124-126)

A parte Guittone, ancora nel De vulgari gli Aretini sono menzionati


nel rilievo sulla differenza tra volgari della stessa regione (I X 7), e tra
gli esempi di rozzezza dei vari volgari toscani: “Aretini: Vuo’ tu venire
ovelle?” (“Vuoi venire da qualche parte”, I XIII 2, con l’avverbio
formato dalla giunzione tra l’avverbio di luogo e la voce verbale
velles, ancora in uso in molti dialetti centro-meridionali, formazione
simile al toscano covelle, da quod velles, qualche piccola cosa, un
nulla).
Nella sera del venerdì vedo Arezzo animarsi sempre più, non solo
per la presenza dei turisti, ma per le occasioni canoniche del week
end. Giro curiosando per il centro illuminato e affollato. Brulica di
rumorosissimi locali la piazza di San Francesco, quasi totalmente
occupata da tavolate, ombrelloni, piatti e bicchieri, nell’eterogeneo
flusso della movida, tra andare venire stare in piedi o seduti ciarlanti
o silenti, col bicchiere in mano, di ragazzi in camicia, di ragazze in
pantaloncini o in abiti lunghi e leggeri, sciatte o curatissime, anche
una in un lamé che la stringe e sembra rendere difficili i suoi
movimenti. Certo c’è uno strano contrasto tra questa artificiale e in
fondo povera effervescenza e la facciata quasi completamente
grezza della chiesa di San Francesco, fondata alla fine del Duecento
e poi variamente risistemata nei due secoli successivi. Povera in
apparenza la chiesa, dentro cui dorme nel silenzio uno dei
capolavori più assoluti dell’arte italiana, il ciclo della Leggenda della
vera croce affrescato da Piero della Francesca per commissione
della famiglia Bacci alla metà del Quattrocento. Sembra vigilare su
questo contrasto, tra il rumore del presente e il silenzio del passato,
la statua ottocentesca di Vittorio Fossombroni, ingegnere,
matematico, economista, politico aretino (1754-1844), che sta un po’
di lato accanto alla facciata della chiesa, chiuso in un pesante
mantello e accompagnato da un leone.
Dalla piazza San Francesco si giunge sul corso Italia, che conduce
verso l’alta spianata su cui sono disposti il Duomo, il bel giardino del
Passeggio del Prato e la Fortezza medicea. Salendo sul corso si
vede subito svettare il campanile della pieve di Santa Maria, l’edificio
più affascinante della città, la cui lunga costruzione si svolse dal
1140 ai primi del Trecento, ma di cui nei primi decenni del Duecento
doveva già essere in piedi la formidabile facciata, con i suoi tre piani
di loggette colonnate, ogni piano di diversa foggia, dimensione,
struttura. Sembra come un emblema dell’affacciarsi, come
un’insistente interrogazione dell’essere finestra, dell’essere loggia e
colonna. Lo svettare fuori misura del campanile oltre il corpo della
facciata, da cui sembra come svolgersi e districarsi, offre da ogni
lato ben altri cinque piani di coppie di bifore, cieche quelle che danno
dalla parte della strada.
Girando a destra, dopo la facciata della pieve, si sbuca
sull’imponente piazza Grande, in pendio, che già nel XIII secolo
costituiva il centro civile della città e sul cui lato più in alto fu inserito
nel Cinquecento il Palazzo delle Logge, con un grande porticato
progettato da Giorgio Vasari, l’artista aretino al servizio dei Medici,
rimasto sempre legato alla sua città. Sotto i portici ci sono botteghe e
alcuni locali ora aperti. Sulla zona inferiore del lato destro della
piazza si affaccia l’abside ricurva della pieve, con le sue due logge,
di cui quella superiore, che sembra cieca, ospita al suo interno
un’illuminazione che nella notte sembra rafforzare l’effetto ritmico di
quel silenzioso succedersi di colonnine. Sull’ampio suolo della
piazza si muovono, correndo irregolarmente in discesa e in salita,
con improvvise frenate e urla gioiose, vari bambini, le cui mosse e le
cui voci risuonano e rimbombano nello spazio aperto.
Il mio giro serale per il centro di Arezzo prosegue toccando, sulla
via dei Pileati, che prosegue l’ascesa di corso Italia, la cosiddetta
Casa del Petrarca, dove il poeta sarebbe nato, anche se l’impianto
attuale è effetto di molte stratificazioni e di una ricostruzione seguita
ai bombardamenti bellici; ora è sede dell’Accademia Petrarca di
Lettere, Arti e Scienze e della sua biblioteca. In omaggio a Petrarca,
peraltro, Arezzo gli ha anche intitolato il suo più importante teatro,
Petrarca appunto, in un edificio ottocentesco che si trova nei pressi
di piazza San Francesco, nella parte alta della via Guido Monaco:
strada, questa che ha il nome del benedettino più frequentemente
ricordato come Guido d’Arezzo, ideatore, nella prima metà dell’XI
secolo, del sistema di notazione che, con i successivi sviluppi, è
stato alla base della successiva tradizione musicale; autore del
Micrologus, scritto proprio quando insegnava nella scuola della
cattedrale aretina.
Alla Casa del Petrarca succede la facciata del Palazzo Pretorio, su
cui sono disposti molti stemmi in pietra: ma un curioso oggetto
letterario si presenta qui, svoltando a sinistra sul vicolo dell’Orto,
poco prima di raggiungere la spianata. Si tratta del pozzo di Tofano,
un semplice pozzo a corpo ottagonale, la cui imboccatura è oggi ben
chiusa, con un coperchio e una lastra metallica che dice trattarsi del
pozzo che fu strumento della accorta Ghita per scalzare la gelosia
del marito Tofano. È la vicenda della novella VII, IV del Decameron,
ambientata in Arezzo, basata su uno stratagemma della donna,
chiusa dal marito fuori di casa dopo essere stata a convegno con un
amante (aveva lasciato il marito a dormire convita della sua
ubriachezza: ma Tofano era in sospetto e, fingendo di dormire,
aveva chiuso a chiave la porta di casa, con l’intento di svergognare
poi la moglie di fronte ai parenti). Nel buio della notte la donna
rimasta fuori grida che intende suicidarsi e, non vista, getta una
pesante pietra nel pozzo davanti alla casa; credendo effettivamente
al suicidio, il marito esce di casa per avvicinarsi al pozzo, ma la
moglie ne approfitta per rientrare in casa chiudendosi dentro. Poi alla
finestra, comincia a imprecare contro l’ubriachezza del marito,
mostrando poi ai parenti la falsità delle accuse che egli pretende di
rivolgerle: dalla posizione di forza data dall’essere dentro crea uno
scambio tra illusione e realtà, cambia i connotati di ciò che è
accaduto, rovescia la risultanza dei fatti, finendo per costringere il
marito a rinunciare a ogni gelosia.
È vero che il pozzo immaginario di Boccaccio non può
corrispondere a un pozzo reale, e tanto meno al pozzo che sta qui
davanti, in una strada da cui l’illuminazione notturna, per quanto
discreta, esclude ormai ogni possibilità di quel buio totale che
dominava nelle notti del passato e di cui accortamente seppe servirsi
Ghita. Ma in ogni modo la vicinanza della (presunta) casa del
Petrarca e del (presunto) pozzo di Tofano dà luogo a un incontro tra i
due scrittori, tanto diversi e tanto amici al loro tempo, in
un’immaginaria convergenza delle loro orbite, tra l’altro costringendo
Petrarca a prendere in considerazione l’anima comica dell’amico,
verso cui non sembra si sia mai mostrato molto attento.
Ma eccomi, sulla spianata, davanti alla grande mole della
cattedrale: il suo poderoso assetto risulta da un lungo processo di
costruzione, iniziato proprio in quei tempi danteschi, nell’ultimo
ventennio del Duecento. È piazzata sopra una scalinata che la
avvolge da due lati: all’angolo tra i due lati c’è la statua di
Ferdinando I de’ Medici di Pietro Francavilla, impiantata nel 1595,
con una scritta che afferma la gratitudine del popolo aretino per
quanto dal granduca fatto a favore della città. Su un angolo opposto
alla piazza del Duomo, aperto sulla piazza della Libertà, è il Palazzo
dei Priori, già trecentesco, ma variamente modificato e ora sede del
Municipio. Conosco bene il ritratto di un aretino atipico e singolare,
che si trova nella Sala del Consiglio: attribuito a Sebastiano del
Piombo, ritrae il personaggio che si trovò a mettere la città d’origine
nel proprio stesso cognome, Pietro Aretino, l’Aretino per eccellenza,
che lì si presenta non come “flagello de’ principi”, ma con a lato due
maschere teatrali, comica e tragica, e la scritta IN UTRUMQUE PARATUS,
“pronto all’uno e all’altro”, che viene voglia di intendere come riferita
non solo ai due diversi generi teatrali, ma alla virtù e al vizio, al bene
e al male, alla lode e al vituperio. Lui, in fondo, era disposto a
passare da ogni termine al suo contrario, seguendo il richiamo delle
circostanze e della fortuna.
Aretini nell’oltretomba

“Io fui d’Arezzo, e Albero da Siena”,


rispuose l’un, “mi fé mettere al foco;
ma quel per ch’io mori’ qui non mi mena.
(Inf., XXIX 109-11)

E l’Aretin che rimase, tremando


mi disse: “Quel folletto è Gianni Schicchi,
e va rabbioso altrui così conciando”
(Inf., XXX 31-33)

Quiv’era l’Aretin che da le braccia


fiere di Ghin di Tacco ebbe la morte,
e l’altro ch’annegò correndo in caccia.
(Purg., VI 13-15)

Il nome dell’Aretino per eccellenza mi conduce a evocare i tre aretini


che Dante incontra nell’oltretomba, uno nell’Inferno e due nel
Purgatorio. Più ampio è lo spazio assegnato al dannato, nel
grottesco orizzonte dei falsari dell’ultima bolgia, in cui i riferimenti ad
Arezzo si intrecciano a quelli più fitti a Siena: è Griffolino, consumato
dalla lebbra e impegnato a grattarsi la squamosa pelle, appoggiato
spalla a spalla a un compagno di pena, che si presenterà come il
senese Capocchio. In questo turpe intreccio tra Arezzo e Siena,
Griffolino, punito per aver usato l’arte dell’alchìmia, ricorda di essere
stato arso sul rogo non per quel peccato, ma per denuncia di un
senese Albero, a cui aveva fatto credere di saper volare, senza poi
riuscire a insegnarglielo: la morte di questo Griffolino dovette
avvenire tra il 1259 e il 1271, per denuncia fatta da Albero Bernardini
Prosperini al vescovo inquisitore di Siena, di cui secondo gli antichi
commentatori era figlio segreto. L’assurdo capriccio del volo
conduce poi Dante a notare la vanità dei senesi, esemplata a
rincalzo dall’intervento di Capocchio, di cui si è detto sopra (vedi pp.
798, 1047), a proposito di Caccia d’Asciano. Griffolino riprenderà poi
la parola nel canto successivo, dopo che Capocchio è stato
ferocemente azzannato sul collo da un dannato rabbioso
sopraggiunto correndo; e dirà a Dante che l’azzannatore è il
fiorentino Gianni Schicchi, falsario di persona, che si mascherò nelle
sembianze del moribondo Buoso Donati, per dettare un testamento
a istanza del nipote di lui, approfittandone anche per assegnare dei
beni a se stesso (la vicenda ha avuto un esito musicale
novecentesco, con l’atto unico Gianni Schicchi di Giacomo Puccini,
su libretto di Gioacchino Forzano, inserito nel Trittico, 1918).
I due aretini del Purgatorio si affacciano brevemente entro la turba
spessa, la fitta schiera dei morti per violenza, che fanno ressa
intorno a Dante chiedendo di essere ricordati perché qualcuno
preghi per loro. Si tratta del giurista Benincasa da Laterina, vittima
del celebre senese Ghino di Tacco, della stirpe dei Cacciaconti,
bandito dalla sua città e arroccatosi nel castello di Radicofani, da
dove taglieggiava le zone circostanti, morto probabilmente nel 1303.
Su Ghino di Tacco fiorirono molti racconti, aneddoti e leggende; a cui
si ricollega Boccaccio, che, facendolo protagonista di una sua
novella (Decameron, X II), lo dice famoso “per la sua fierezza e per
le sue ruberie”. Quanto a Benincasa, fu magistrato in Siena, dove
fece condannare a morte uno o due parenti di Ghino di Tacco; più
tardi passò come giudice a Roma, già sotto papa Bonifacio VIII, e lì,
come raccontano in vario modo gli antichi commentatori, fu
raggiunto e ucciso da Ghino. Così ad esempio il Buti:

impero che, essendo ito lo detto messer Benincasa per


giudice del tribuno di Roma al tempo di papa Bonifacio, lo
detto Ghino andò là et in su la sala, dove stava lo detto
messere Benincasa ad audienza, al banco de la ragione
l’uccise e levolli la testa e vennesene sensa niuno
impedimento…

L’altro aretino viene identificato con Guccio dei Tarlati di Pietramala,


della più potente famiglia ghibellina di Arezzo: di lui i commentatori
dicono che morì annegato nell’Arno mentre inseguiva un nemico
guelfo o mentre fuggiva inseguito dai guelfi dopo la battaglia di
Campaldino. Tra la fine del Duecento e l’inizio del Trecento, i Tarlati
furono alleati degli Ubertini (il cui capo Guglielmo, vescovo di Arezzo
dal 1248, morì nella battaglia di Campaldino), partecipando
attivamente alle lotte di fazione della loro città: ne assunsero il
potere con Guido, nominato vescovo di Arezzo nel 1312 e poi
signore della città dal 1321 alla morte (1327); nella cattedrale si
trova il suo superbo cenotafio, scolpito da Agostino di Giovanni e
Agnolo di Ventura. Il loro luogo di origine, il castello e borgo di
Pietramala, distrutto dai fiorentini nel 1385, si trovava a poca
distanza da Arezzo, nella zona dell’Alpe di Poti, in direzione di
Anghiari, e ne rimangono solo poche pietre. Su di esso Dante
ironizza nel De vulgari eloquentia, I VI 2, come esempio casuale
della presunzione di quei nativi che considerano il proprio luogo il più
delizioso della terra e dotato di un idioma che è quello stesso già
parlato da Adamo:

In hoc, sicut etiam in multis aliis, Petramala civitas amplissima


est, et patria maiori parti filiorum Adam.
(Per questo aspetto, come anche per molti altri, Pietramala è
una città grandissima e la patria della maggior parte dei figli
d’Adamo)

Mentre scendo verso la piazza della Badia sento chiamarmi da un


signore con moderato accento meridionale che passa alla guida di
un’auto e si ferma affacciandosi al finestrino. Non mi pare di
conoscerlo, ma mi dice subito con grande gentilezza di aver fatto
con me un esame universitario nel 1995: studiava Lettere, amava e
ama la letteratura, ma qui si occupa di tutt’altro; senza scendere in
particolari, mi dice che lavora “nella disabilità”. Deve procedere per
far passare un’auto che segue, ma nel lasciarmi si dice contento di
avermi incontrato, mentre io gli faccio auguri per il suo lavoro. Poi
sulla piazza della Badia noto un cartello, simile ad altri che avevo
solo intravvisto in altri luoghi della città: indica un Itinerario guidato,
verso una serie di luoghi che non sono del tutto immaginari come il
pozzo di Tofano, ma, per l’arte da cui sono stati toccati, possono
considerarsi nello stesso tempo immaginari e reali. Si tratta dei
luoghi del film di Roberto Benigni La vita è bella (1997), in cui Arezzo
ha fatto da set per molte sequenze della prima parte: un film che mi
sembra tanto vicino nel tempo, ma la cui data si approssima a quella
dell’esame dello studente or ora incontrato.
Tornando su via Cavour verso piazza San Francesco vedo
riaccendersi la movida che era quasi evaporata sulla zona della
spianata e del Duomo. Molto affollati sono i portici del Liceo, ancora
Petrarca, già Convitto nazionale: con i soliti gesti e i soliti atti, le
solite fogge, le risa, i bicchieri, gli ammiccamenti, gli scatti, la
gioventù italiana sembra festosamente nutrirsi del suo nulla, mentre
intorno circolano vari extracomunitari alla ricerca di qualche
monetina.
Ma non posso lasciare Arezzo senza fare una visita all’opera
d’arte più assoluta che custodisce, il ciclo pittorico di Piero nel coro
di San Francesco. Così al mattino successivo raggiungo la chiesa,
all’ora precisa dell’inizio delle visite. Tralasciando le tante opere
interessanti che sono presenti nella basilica, mi dirigo subito alla
cappella Bacci, che ha subito un recente breve restauro di pulizia,
dopo quello più determinante e impegnativo effettuato tra il 1985 e il
2000, di cui è stata sponsor ufficiale la Banca popolare dell’Etruria e
del Lazio. Erano forse tempi ben diversi, ma chi avrebbe immaginato
quello che è accaduto recentemente e che ancora domina le
cronache, cioè il fallimento della Banca, con il grave danno che ne
hanno ricevuto i risparmiatori “popolari”, di cui spesso è stata carpita
la buona fede?
Le immagini di Piero mi sottraggono comunque a tanti cattivi
pensieri sui disastri della finanza e sui mille rivoli in cui si distende la
sua azione, che giunge fino a toccare l’esistenza dei più modesti
pensionati, nel tempo stesso in cui impera ai vertici del mondo
globalizzato. Seguo nei diversi riquadri l’ordine della vicenda,
disposta secondo le linee del racconto della Legenda aurea di
Jacopo da Varazze: ma, al di là dell’orizzonte narrativo, è l’intensità
della composizione a imporsi; è la fermezza dei volumi e del colore a
portare la consistenza visiva quasi al di là di se stessa, come ad
affermare una durata dell’umano e delle sue forme oltre l’effimero
sussistere. L’origine del legno divino risale indietro, sulla parete
destra, fino alla morte e alla sepoltura di Adamo, nella lunetta in alto,
a cui succede, nel riquadro sottostante, la grande scena sulla regina
di Saba, divisa in due parti, separate da una grande colonna, con la
sequenza all’aperto dell’adorazione del legno a sinistra e quella in
sala interna della visita a Salomone a destra. C’è un ritmo
inafferrabile e solido nello stesso tempo, creato dai mantelli che
scivolano a terra, in due direzioni opposte, delle dame del seguito
della regina, che a sinistra sembrano come suscitare movimento
nella stessa posa della regina inginocchiata in preghiera. Formidabili
rispondenze e contrasti di volumi e di colori mi sembra di scorgere
tra la sequenza esterna, con le sommarie colline e i due grandi
alberi, e quella interna, con le classiche e geometriche pareti e con
l’assorta condiscendenza del re Salomone. Centrale e perentoria
figura del potere e della sapienza (rispetto a esso, del resto, “a veder
tanto non surse il secondo”, Paradiso, X 114), questi è come
sostenuto dalla sontuosa baldanza dei suoi dignitari, tra cui si
impone quello di spalle, con la volumetria dei drappeggi e del
copricapo. Al ritmo cortese delle figure regali e del loro seguito
sembrano come sottrarsi, ma nel contempo sottolineandolo e
amplificandolo, le figure dei cavalli e dei due palafrenieri, che si
specchiano tra loro, e soprattutto quella dell’impassibile schiavetta
che sembra abitare un vuoto, affermare senza rendersene conto la
propria estraneità alla scena. Ritmo bellico è invece quello della
scena della battaglia di Ponte Milvio, con il letto del fiume che scorre
leggero al centro, oltre la piccola bianca croce brandita da
Costantino, mentre a destra si accalca la confusione degli sconfitti in
fuga, con quel cavallo che non si capisce se si stia districando dal
guado del fiume, o cerchi di sfuggire alla terra che lo inghiotte.
Giocano a contrasto dei grandi riquadri delle pareti laterali quelli
più piccoli della parete di fondo: in una fissazione assoluta del tempo
si impone la scena del sogno di Costantino, dove il sonno/sogno
dell’imperatore sembra come ancorarsi al palo che, al centro,
sorregge il padiglione, mentre ne scandiscono la durata i volumi
della figura del cameriere seduto a fianco del letto con la guancia
appoggiata alla mano sinistra e delle due guardie simmetricamente
disposte agli estremi del quadro. Dall’altra parte della parete di
fondo, in simmetrica rispondenza alla scena del sogno, c’è quella
dell’Annunciazione, con Maria e l’angelo separati dalla colonna al
centro e Dio che infonde il suo spirito dall’alto: lei è in piedi,
atteggiata e perplessa, mentre l’angelo, pur se alato, è senza i
consueti segni del volo e, a guardare i suoi piedi ben saldi sul
terreno, sembra arrivato camminando. Non mi stanco di contemplare
gli altri riquadri: la singolare archeologia della croce, con il suo
ritrovamento e riconoscimento per iniziativa di sant’Elena, la madre
di Costantino, con la turrita Gerusalemme nelle sembianze di Arezzo
sullo sfondo a sinistra, mentre a destra, tra le strade della stessa
città, si impone un tempio di eleganza quattrocentesca che fa
pensare a Leon Battista Alberti; e la battaglia tra l’imperatore
bizantino Eraclio e il persiano Cosroe, che si era impadronito della
croce. Una zuffa più aggrovigliata e gridata di quella dell’altra
battaglia, in cui all’implacabile caos della mischia (singole figure di
combattenti sono messe in evidenza con grande accuratezza,
fissate nei loro gesti e nei loro volti) fa da riscontro lo spazio ridotto
sulla sinistra, con Cosroe disceso dal trono, accanto a cui aveva
posto la croce rubata, e inginocchiato a terra in attesa del supplizio.
Non riesco a staccarmi dalla contemplazione delle varie scene: è
come se il pennello di Piero venga a estrarre colore dai volumi del
mondo, attribuendogli una ferma brillantezza, che nella sua spaziale
consistenza sfugga a ogni ostentazione di sé, a ogni eccesso, come
a cercare un’impossibile e impassibile neutralità: nella
determinazione di una classicità non classicistica, che impone una
sostanza e una certezza volumetrica allo sfuggente e provvisorio
precipitare del mondo (e per questo interessò Cézanne). La
percezione dell’evidenza pittorica e l’osservazione dei particolari è
ora agevolata dall’illuminazione elettrica: ma è vero che questa
facilità del vedere viene comunque a destoricizzare la visione, ne fa
qualcosa di diverso rispetto al modo in cui l’artista l’aveva concepita
e prevista. Oggi noi siamo osservatori che vedono le opere d’arte in
un modo del tutto diverso da quello per cui sono state create, aiutati
per giunta dalle riproduzioni perfette, dagli ingrandimenti, dalla
messa a fuoco dei dettagli. Certo ogni vista è sempre nuova; certo le
opere stesse si trasformano inevitabilmente nel corso del tempo (e
basta pensare al loro fisico deperirsi, a cui in parte si ripara con le
modernissime e sempre più sofisticate tecniche di restauro). Forse
non c’è altro da fare: ma sarebbe però bene non trascurare questa
contraddizione in cui per forza di cose è preso il nostro sguardo di
visitatori, di ammiratori, di interpreti, di turisti.
Però, quanto ai turisti, qui anche più che altrove, mi ha molto
infastidito il loro continuo fotografare: sempre più la disponibilità degli
smartphone trasforma ogni visita a opere d’arte in un’interminabile
sequela di scatti, in inutili incameramenti di immagini, che perlopiù
sarebbe facile ritrovare, di ben diversa qualità, sui più diversi siti e
archivi web. Non infastidisce invece e riconduce un po’ a qualcosa di
originario e lontano, un canto di fedeli che si svolge nella parte della
chiesa riservata al culto, che transenne e paraventi separano da
questa concessa alla visita: uno dei limiti è segnato da un grande
crocifisso dipinto, sospeso sopra l’altar maggiore, tavola del 1270
circa, risalente all’ambito del cosiddetto Maestro di san Francesco,
operante in Umbria.
Figline Valdarno

Ma la cittadinanza, ch’è or mista


di Campi, di Certaldo e di Fegghine,
pura vediesi ne l’ultimo artista.
(Par., XVI 49-51)

Da Arezzo prendo la strada del Valdarno (la ex statale, ora regionale


69) e comincio un giro che toccherà molti dei borghi menzionati da
Cacciaguida nel XVI del Paradiso come luoghi d’origine di quei tanti
villani e nobilucci venuti a contaminare l’originaria purezza di quella
Firenze di cui nel canto precedente (vv. 97-99) aveva detto che
“dentro da la cerchia antica, /…, / si stava in pace, sobria e pudica”.
La terzina sopra trascritta è quella in cui si affacciano i primi nomi di
questa serie negativa di centri del contado fiorentino, che toccherò
man mano, seguendo i percorsi stradali: procedendo sulla parte più
fitta e popolata del Valdarno – quella che, dopo il piegarsi verso sud
del Casentino risale ora a nordovest, aggirando da questo lato il
Pratomagno – mi appresto a incontrare per prima Figline Valdarno,
più correntemente chiamata Fegghine nel Duecento: città che nel
corso del secolo si ribellò varie volte a Firenze, da cui subì vari
attacchi, ponendosi come centro di resistenza della fazione
ghibellina (a meno che questa Fegghine dantesca non si debba
identificare con un’altra più piccola Figline, che è alla periferia di
Prato).
Poco dopo l’uscita da Arezzo la strada mi porta ancora ad
attraversare il Canale maestro della Chiana, qui stretto e incassato
molto in basso rispetto alla piana in cui scorre; poi, dopo Indicatore,
sulla sinistra si sfiora l’Arezzo War Cemetery, che accoglie i resti di
più di mille caduti della Seconda guerra mondiale, soprattutto inglesi
e del Commonwealth britannico (tra cui anche molti indiani). La
strada procede, a una certa distanza, alla sinistra dell’Arno, che si
intravvede là dove si allarga nell’ampio invaso di La Penna, entro il
Parco naturale regionale Ponte a Buriano e Penna; continua, in
lontananza, la visione del Pratomagno. Poco dopo Levane si
attraversa, vicino ormai a gettarsi nell’Arno, il torrente Ambra, il cui
nome mi ricorda il titolo di un poemetto di Lorenzo il Magnifico. Ma il
poemetto, con la vicenda della ninfa Ambra inseguita dal fiume
Ombrone, in realtà non è riferito a questi luoghi, ma alla zona di
Poggio a Caiano, presso l’Arno a valle di Firenze: quell’Ombrone
non è il fiume che ho incontrato in Maremma, ma un fiume omonimo,
più modesto affluente di destra dell’Arno, e la ninfa Ambra, tramutata
in pietra per fuggire alla presa del fiume, è immagine della Villa di
Poggio a Caiano, che Lorenzo stava facendo costruire su progetto di
Giuliano da Sangallo.
Dopo questa mancata agnizione laurenziana, superata
Montevarchi (patria del letterato cinquecentesco Benedetto Varchi),
attraverso finalmente l’Arno sul ponte Leonardo, inaugurato appena
l’anno scorso, originale frutto di ingegneria spagnola (dello studio
Carlos Fernandez Casado di Madrid), bianco e slanciato nelle sue
eleganti campate, con le ricurve arcate che sembrano condurlo non
a specchiarsi nel fiume, come accadeva ai pesanti ponti del passato,
ma a proiettarsi verso l’alto. Il ponte passa sopra l’Arno e sopra
l’autostrada, immettendo nella nuova variante della regionale 69, che
ora procede con l’autostrada alla sua sinistra e con una serie di
capannoni a destra, tra cui si affaccia anche lo stabilimento di uno
dei più celebri marchi della moda italiana, Prada. La zona industriale
è particolarmente fitta presso Terranova, al cui nome fu apposto nel
1862 Bracciolini, cognome dell’umanista Poggio, che qui nacque.
Appressandomi a un incrocio, sono costretto a rallentare in vista di
due auto in sosta dove non potrebbero e di persone in piedi che
conversano: mi prende una certa irritazione per quello che mi
sembra un segno di inciviltà automobilistica, ma quando sono più
vicino noto che più avanti, in mezzo all’incrocio, c’è una moto
spiattellata a terra, senza più il guidatore, che ormai sarà
all’ospedale, scena questa molto frequente, ahimè, nelle strade del
nostro paese.
A un certo punto su questa variante della 69 si fiancheggia non
solo l’autostrada, ma anche la linea dell’alta velocità ferroviaria: e
quando passano due Frecciarossa in direzioni opposte, come
intersecandosi tra loro e col fitto traffico che senza vuoti procede
sulle due corsie dell’autostrada, sembra proprio di essere laterali
partecipi e spettatori dell’illimitato regno della velocità. Questa
sensazione viene delusa dall’improvvisa interruzione della variante,
per il prossimo tratto ancora in costruzione: allora un ponte
riconduce sull’altra riva del fiume, che tocca San Giovanni Valdarno,
che può essere considerata la capitale industriale della valle, città
fondata da Firenze nel 1299, dove nel 1401 nacque Masaccio. Qui
l’Arno scorre ampio e disteso, fiancheggiato alla sua sinistra da un
parco fresco e arioso, poi la strada se ne allontana un po’,
raggiungendo finalmente Figline, sistemata nella pianura a metà
Duecento dopo la distruzione del castello, intorno a cui
originariamente si raccoglieva, e munita nel secondo Trecento di
mura di cui è rimasto solo qualche tratto. Qui nel 1433 nacque
Marsilio Ficino, filosofo prediletto dai Medici: così il percorso fatto in
questa zona del Valdarno, attraverso i luoghi natali di Varchi,
Bracciolini, Masaccio, Ficino, sembra disegnare una sorta di rete
umanistica, quasi il cuore segreto della Firenze medicea.
Lasciata l’auto tra le strade che tagliano la città quasi
ortogonalmente, raggiungo la piazza San Francesco, con chiesa e
convento francescano, su un ampio porticato trecentesco. Nei locali
del convento opera l’Istituto paritario Marsilio Ficino, gestito dai Frati
minori e diretto dalla Comunità di San Leolino, costituita da sacerdoti
e da laici, che si raccoglie nella pieve di San Leolino, a Panzano in
Chianti: è una scuola cattolica molto attiva, con Liceo classico e
scientifico, impegnata in una generosa difesa della cultura
umanistica, contro la pretesa di piegare la scuola a una subalternità
alle esigenze del mercato (è un ambito, questo, in cui negli ultimi
anni i cattolici sembrano impegnarsi più attivamente dei laici). Il
nome di Marsilio Ficino evoca naturalmente un umanesimo cristiano
e platonico, non privo di venature ermetiche ed eterodosse. Al Ficino
è qui dedicata la piazza centrale della città, bella piazza di mercato
porticata, con edifici prevalentemente ottocenteschi, su cui si
affaccia la collegiata di Santa Maria, impiantata a metà Duecento,
ma poi variamente modificata.
Un altro nativo di Figline viene ricordato da una lapide su una casa
nei pressi di piazza San Francesco: è il poeta e scienziato
settecentesco Lamberto Pignotti (1739-1812), di cui oggi è ben
difficile trovare delle tracce, anche per la perfetta omonimia di un
attivissimo poeta d’avanguardia, il più conseguente tra i poeti visivi
italiani, nato a Firenze nel 1926.
Gaville

…l’altr’era quel che tu, Gaville, piagni.


(Inf., XXV 151)

A pochi chilometri da Figline, per una strada interna che costeggia il


torrente Cesto, raggiungo un borgo che non rientra tra quelli
vituperati da Cacciaguida, ma è invece chiamato in causa per
indicare uno dei dannati fiorentini della bolgia dei ladri, che ha subito
la metamorfosi reciproca con il concittadino Buoso Donati,
scambiando la propria sembianza di serpentello con quella umana
dell’altro. Come indicano i commentatori, dovrebbe trattarsi di un
Guercio o Francesco de’ Cavalcanti, ucciso a Gaville, località che
sarebbe stata costretta a piangerlo, in quanto avrebbe poi dovuto
subire la vendetta della potente famiglia dei Cavalcanti. Nulla si sa
comunque sulle circostanze del suo assassinio e sulla successiva
vendetta: e si può raccogliere invece l’interpretazione del
Bambaglioli, che dice trattarsi di personaggio molto amato a Gaville
e per questo pianto alla sua morte.
Appartate nel silenzio mi appaiono le poche case di Gaville, dove
era un castello appartenente ai ghibellini Ubertini, che passò in
mano ai fiorentini dopo Campaldino. Solitaria campeggia, su un
ampio spiazzo assolato nei pressi di un uliveto, la romanica
semplicissima pieve di San Romolo, impiantata tra il XII e il XIII
secolo. Accanto alla chiesa, nell’edificio a essa collegato della
canonica, che ha l’aria di un casale di campagna, c’è un piccolo
Museo della civiltà contadina, aperto solo di domenica in pochi mesi
dell’anno.
In tanti modi diversi si possono immaginare le circostanze
dell’assassinio del ladro nel silenzio di questa campagna: ma la
fantasia truce viene dissolta dalla comica apparizione, accanto a un
casolare poco oltre Gaville, di un bianco lenzuolo, steso tra due
tronchi di leccio, su cui con bomboletta nera è stato scritto, a grandi
lettere maiuscole IL MATRIMONIO È L’UNICA / GUERRA IN CUI DEVI / ANDARE A
LETTO CON / IL NEMICO!!!!.
Nel procedere mi addentro poi tra boschetti, prati, piccoli
appezzamenti arati di fresco, uliveti, toccando Ponte agli Stolli,
piccola località presso un ponte sul torrente Cesto, il cui nome deriva
da una deformazione (che evoca gli stolli, i pali intorno a cui si
disponevano i pagliai) da Ponte agli Strulli, riferito a un Ubaldino
degli Strulli che sarebbe stato qui esiliato dopo Montaperti.
In Val di Greve: Greve in Chianti

…sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone,


e forse in Valdigrieve i Buondelmonti.
(Par., XVI, 65-66)

Tra le famiglie considerate responsabili delle lotte che hanno


lacerato Firenze, un posto di primo piano occupano i Cerchi, capi
della Parte bianca, e i Buondelmonti, da cui la stessa divisione tra le
parti aveva avuto origine, per la mancata fede di Buondelmonte de’
Buondelmonti. L’episodio viene ricordato poco più avanti dallo stesso
Cacciaguida, in versi (136-147) su cui mi sono intrattenuto già a
proposito di Ponte Vecchio (vedi p. 137) e a cui capiterà di
accennare ancora più avanti in questo viaggio.
Mentre al piover d’Acone dei Cerchi mi avvicinerò più tardi, ora
sono vicino alla Val di Greve, che dal Ponte agli Stolli raggiungo
superando un piccolo passo. Sono nell’alta Valle, dove il fiume
scorre stretto sul fianco di Greve in Chianti, costeggiato dalla via
Chiantigiana: è il cuore della regione celeberrima per il suo vino, per
il paesaggio collinare risultante da una lunga e intensa attività
umana, tra boschetti, avvallamenti, poggi tra ville, badie, viali di
cipressi e soprattutto formidabili replicate geometrie di vigneti. Greve
ha inserito nel suo nome l’indicazione in Chianti solo nel 1977,
quando è entrata tra i centri di produzione del consorzio del Gallo
nero, emblema che ha un’origine duecentesca: indicava infatti la
Liga et societas de Chianti, distretto amministrativo del dominio
fiorentino, che riguardava soprattutto i centri di Radda, Gaiole e
Castellina e fronteggiava a sud i territori della rivale Siena. Non era
questo il luogo d’origine dei Buondelmonti, che venivano da
Montebuoni, nella parte più bassa della valle, più prossima a
Firenze. Greve si sviluppò più tardi, come mercatale e punto di
passaggio e d’incontro tra diversi centri della zona.
Prima di raggiungerne il centro, mi fermo a guardare la Greve
verso la direzione del suo scorrimento, su un ponte con parapetti di
legno. Il fiume ha un letto molto stretto, su cui l’acqua sembra
sostare quasi immobile, tra sassi sparpagliati: da una parte una
leggera riva erbosa, dall’altra le mura in mattoni di un ben piazzato
edificio; un pallone giallo da calcio sta fermo in mezzo ai sassi.
Passano sul ponte olandesi, inglesi, tedeschi, tra i tanti turisti che
amano questi luoghi, spesso con segni di distinzione, quasi di
eleganza.
Oltre il fiume c’è da una parte il consueto mercato del sabato, ma
sulla ampia piazza triangolare porticata è in atto l’Expo 46 del
Chianti classico, che ricorda 1716-2016 / I 300 anni del primo
territorio del vino, evocando l’editto con cui nel 1716 il granduca
Cosimo III definì il confine della zona di produzione del Chianti,
mentre il consorzio del Gallo nero fu creato nel 1924, anche se
recentemente una incredibile vicenda legale (una causa intentata dai
Fratelli Gallo, produttori italoamericani) fa sì, che, pur mantenendo il
marchio del Gallo, esso sia oggi confluito in un più ampio Consorzio
del Chianti classico.
La piazza Giovanni da Verrazzano (col nome del navigatore nato
intorno al 1485 nel vicino castello di Verrazzano) è gremita di banchi
di degustazione e di vendita, con l’indicazione di tutte le
caratteristiche dei vini prodotti: e fitto è il pubblico di visitatori, di
curiosi, di competenti, di acquirenti, di indifferenti. Molti naturalmente
sono gli stranieri, alcuni dei quali (quelli che se lo possono
permettere) vengono a far scorta di vini preziosi, con le loro
denominazioni storiche o recentissime, fantasiose o banali, vecchi
nomi di fondi contadini a cui il design delle bottiglie fa assumere una
sorta di aplomb tecnologico. La Croce, Campocorto, Corte di Valle,
Castello di Uzzano, Verrazzano, Podere Campriano, Quercia al
Poggio… Nei nomi e nella storia dei vari fondi e delle varie imprese
si può riconoscere la formidabile trasformazione tecnica e la
proiezione verso un brand internazionale che questa parte del
mondo agricolo toscano ha avuto nella seconda metà del
Novecento.
Tra la Val di Pesa e la Val d’Elsa (Aguglione)

…sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!
(Par., XVI 55-57)

Nel rimpianto dell’originaria purezza di Firenze Cacciaguida dice che


sarebbe stato meglio se coloro che vi sono venuti dal contado
fossero rimasti in luoghi ai margini della città, in modo che non si
dovesse sentire il puzzo di villani di posti come Aguglione e Signa,
pronti in ogni occasione a barattare, cioè a trarre illeciti profitti dalle
cariche pubbliche. In Val di Pesa era il castello o più probabilmente il
casale di Aguglione, da cui veniva il giurista Baldo d’Aguglione,
persecutore dei ghibellini, che curò la riforma degli Ordinamenti di
giustizia del 1295 (2 settembre 1311), con un’amnistia verso i
fuorusciti, da cui venivano esclusi i ghibellini e vari guelfi bianchi, tra
cui Dante. L’allusione al suo barattare dovrebbe riguardare una sua
violazione degli atti notarili del comune di Firenze, avvenuta nel
1299, per cui fu condannato con una multa e un anno di confino: ma
fu presto riabilitato, anche in seguito al suo abile passaggio dalla
Parte bianca alla Parte nera.
Oltre alcuni rilievi collinari. il torrente Pesa in una sua parte scorre
quasi parallelo al Greve. Per dirigermi verso la Val di Pesa tocco,
ancora sul corso del Greve, la località di Passo dei Pecorai, così
detta perché era un essenziale punto di passaggio per la
transumanza pastorizia: ora nei paraggi c’è un grande apparato di
fabbrica, quasi nascosto e incassato in fondo a una collina, come a
nascondere la sua contraddizione col circostante paesaggio.
Scollinando verso ovest, mi affaccio infine sulla Val di Pesa,
passando accanto alla pieve di Santo Stefano a Campoli, nota fin dal
903, con un portico secentesco che chiude la facciata romanica, su
un poggio aperto sulla distesa illimitata delle colline. Attraverso poi il
torrente Pesa e passo sotto il raccordo autostradale Siena-Firenze,
risalendo su Tavarnelle in Val di Pesa, borgo soprattutto moderno
che si trova sul percorso della Via Cassia. Ai margini di Tavarnelle,
una breve strada a sinistra della Cassia conduce alla pieve di San
Pietro in Bossolo, di semplice forma romanica all’interno e con la
facciata chiusa da un più tardo portico a tre arcate: essa è preceduta
da una bella spianata, limitata da un parapetto in pietra, che si apre
sui colli circostanti, su vicine distese di olivi e su varie vigne, i cui
solchi regolarissimi sembrano tracciare sulla terra una scrittura piena
di intenzioni e progetti di benessere. L’Aguglione dell’equivoco Baldo
faceva parte del piviere di San Pietro in Bossolo: non ce ne sono
comunque tracce, anche se pare che la sua chiesa (San Niccolò) sia
stata aggregata nel Settecento a quella di San Bartolomeo a
Palazzuolo, che si può raggiungere prendendo la Strada Palazzuolo
al margine nord ovest di Tavarnelle.
Non è nemmeno facile, d’altra parte, individuare un limite tra la Val
di Pesa e la Val d’Elsa: un breve tratto della Cassia verso sud, su
una leggera ondulazione collinare, porta a Barberino Val d’Elsa,
affacciata, ma a una certa distanza, sulla valle del fiume già toccato
nel precedente viaggio in Toscana (vedi pp. 811-812). Il nucleo
antico di Barberino, che si sviluppò nel XIII secolo per iniziativa dei
fiorentini, dopo la distruzione del vicino Semifonte, si presenta in
forma perfetta di borgo castello medievale, con case torri e palazzetti
ben tenuti e qualche integrazione successiva, come la chiesa
neogotica di San Bartolomeo. Molto piacevole è l’attraversamento
del borgo, come la sosta nel piccolo ristorante aperto sulla piazzetta
affacciata a est verso la Val di Pesa. Da non confondere con un altro
Barberino toscano, Barberino del Mugello, Barberino Val d’Elsa è
luogo d’origine della famiglia Barberini, poi portata a una grande
posizione di potere nella Roma del Seicento dal papato di Urbano
VIII (1623-1644), Maffeo Barberini, anche poeta e studioso sulla cui
intelligenza aveva creduto di poter contare Galileo Galilei per
sfuggire alla condanna della chiesa. Ma qui è nato anche il giurista e
poeta Francesco da Barberino, molto vicino a Dante e primo a
menzionare la Commedia (a Milano ho visto la sua trascrizione del
poema, il Trivulziano 1080: vedi p. 1027); e qui è nato anche il
cantastorie Andrea da Barberino, autore nel primo Quattrocento di
romanzi in prosa di grandissima diffusione, come i Reali di Francia e
il Guerrin Meschino.
Semifonte

Se la gente ch’al mondo più traligna


non fosse stata a Cesare noverca,
ma come madre a suo figlio benigna,

tal fatto è fiorentino e cambia e merca,


che si sarebbe vòlto a Simifonti,
là dove andava l’avolo a la cerca;
(Par., XVI 58-63)

Da Barberino la strada per Certaldo porta alle case di Petrognano,


attorno a una grande villa campestre cinquecentesca: le case
dovevano originariamente essere legate al castello e alla città di
Semifonte, il cui limite doveva essere proprio qui, dove c’è una tozza
torre. Feudo degli Alberti, Semifonte fu fondata come caposaldo
imperiale dal conte Alberto IV, intorno al 1180 e distrutta già nel 1202
dai fiorentini, ostili a una simile presenza ai margini del loro territorio.
Cacciaguida nomina Semifonte in un contesto abbastanza
complesso: afferma che se la Chiesa non si fosse opposta all’impero
(non si fosse comportata come noverca, matrigna, verso
l’imperatore), molti che sono divenuti fiorentini, dandosi all’arte del
cambio e alla mercatura, vivrebbero ancora in posti come Semifonte,
dove i loro antenati svolgevano umili mestieri. Controverso è
comunque il senso dell’espressione andava alla cerca: può essere
riferito alla costrizione a muoversi degli ambulanti o delle guardie dei
castelli o addirittura dei mendicanti. Ma perché proprio Semifonte?
Non potrebbe essere un generico riferimento al vivere in luogo
desolato o a una misera ricerca di resti, oggetti, masserizie, sul sito
della città distrutta? e il richiamo alla responsabilità della chiesa non
potrebbe collegarsi al fatto che la distruzione della città e castello,
sottoposti alla giurisdizione imperiale, fu conseguenza di un accordo
tra la Curia romana e le città toscane guidate da Firenze (trattato di
San Genesio, 1197)? Questo accordo negava riconoscimento a chi
governasse per conto dell’imperatore senza il consenso della
Chiesa: e certo Firenze se ne avvalse come giustificazione
dell’assalto a Semifonte.
Semifonte non c’è più e le sue tracce si trovano in qualche sparsa
rovina nella campagna: la sua piazza centrale doveva trovarsi dove
ora è il bivio per San Donnino, poco dopo Petrognano. A un lato
della strada, come introdotta e vigilata da alcuni cipressi, c’è qui una
singolare cappella, innalzata nel 1597 su progetto di Santi di Tito,
voluta da un canonico dei Capponi e a lungo proprietà della sua
famiglia: proprio in ricordo di quella distrutta città di cui si trovavano
ancora molte tracce nella campagna. Dedicata a san Michele
Arcangelo, la cappella ha la struttura di una grande cupola, che in
realtà riproduce direttamente, a scala 1:8, la cupola del Brunelleschi
di Santa Maria del Fiore.
Davanti all’ingresso della cappella trovo degli anziani su delle
sedie, altri stanno nell’interno: sono volontari della zona che in alcuni
giorni, specie in fine settimana, tengono aperta la cappella e
accolgono gli eventuali visitatori. Molti di loro sono simpaticamente
loquaci, con la vivacità della parlata toscana popolare: abitano nella
vicina Barberino e mi parlano a lungo della storia del luogo, delle
attestazioni del lontano insediamento etrusco nel sito, della difficoltà
di trovare i resti di Semifonte, che resistono sparsi tra gli ulivi, ma
che perlopiù sono stati distrutti al momento dell’impianto delle vigne.
Mi parlano anche del sistema idraulico che era stato allestito al
servizio della distrutta città, con strutture in pietra recentemente
ritrovate nel vicino torrente Agliena, che avevano la funzione di
imbrigliarne le acque: un sistema che poi sarebbe stato studiato e
descritto, con disegni, da Leonardo da Vinci. Tra accenni a leggende
sorte a proposito dell’assedio di Semifonte e di spiriti vaganti ancora
nel territorio, i cittadini di Barberino non possono trascurare, una
volta venuti a sapere che vengo da Roma, di chiamare in causa la
ben nota famiglia con le api nello stemma. E mi ricordano che in
realtà non si trattava di api, ma di tafani: i Barberini avevano
possedimenti in un luogo vicino che si chiama Tafano e il loro nome
era Tafani, che a un certo punto sostituirono col nome della città di
Barberino, mutando nello stemma i tafani in api (e del resto a
Firenze, in Borgo de’ Greci, c’è il Palazzo Tafani da Barberino).
Parlando dei Barberini, d’altra parte, non si può trascurare Maffeo,
che, sostengono, era nato proprio a Tafano, e non si può scordare
Galileo, che Maffeo divenuto papa Urbano VIII non riuscì a sottrarre
alla crudele ottusità della condanna. Così, sotto questa cupola che
riproduce in forma ridotta il cupolone fiorentino, sul sito di una città
che ha avuto una vita brevissima – e non ne conosco nessuna che
sia stata distrutta a così breve distanza dalla sua fondazione – nella
quiete del primo pomeriggio, mentre fuori risuona il monotono canto
delle cicale, l’ampio orizzonte di un intricato passato storico si
traspone in una placida conversazione, che sembra come alleggerire
il peso di dolore e di violenza, l’implacabile conflittualità degli eventi
e delle pretese, trasformarlo in occasione culturale e civile, forma
dimessa di un semplice vivere, in un tranquillo pomeriggio di una
declinante estate italiana.
Certaldo

………………………………
di Campi, di Certaldo e di Fegghine…
(Par., XVI 50)

Il torrente Agliena, che scorre nei pressi di Semifonte, confluisce


nell’Elsa sotto Certaldo, che Cacciaguida nomina tra i luoghi di
provenienza delle genti responsabili della contaminazione della
popolazione fiorentina. Centro già di fondazione etrusca e romana,
poi feudo degli Alberti, Certaldo ricevette nuovo impulso dal 1202,
quando vi emigrò parte della popolazione della distrutta Semifonte; e
passò definitivamente sotto il dominio fiorentino nel 1293. A Certaldo
aveva origine e manteneva possedimenti la famiglia di Giovanni
Boccaccio, che quasi certamente vi nacque: vi soggiornò spesso nei
suoi ultimi anni, fino a morirvi. Ebbe sempre grande affetto per la
cittadina, anche se nella celebre novella di frate Cipolla (Decameron,
VI X) diede una pungente immagine comica dell’ingenuità dei
paesani, “buona pastura” per le fandonie e gli sproloqui del frate
esibitore di curiose reliquie. Certaldesi non ingenui sono comunque i
due giovani che, col proposito di beffare frate Cipolla, mettono dei
carboni nella cassetta in cui egli custodisce la “penna dell’agnolo
Gabriello” che intende mostrare al popolo. Ma poi il frate, di fronte
all’uditorio, non si lascia sorprendere da quella sostituzione e con
una carnevalesca orazione arriva a dire che i carboni sono quelli
della graticola di san Lorenzo; e Boccaccio si diverte a sottolineare
l’ammirazione della “stolta moltitudine”, che fa offerte maggiori del
solito e si lascia religiosamente segnare da quei carboni:
Per la qual cosa frate Cipolla, recatisi questi carboni in mano,
sopra li lor camiscion bianchi e sopra i farsetti e sopra li veli
delle donne
cominciò a fare le maggior croci che vi capevano, affermando
che tanto quanto essi scemavano a far quelle croci, poi
ricrescevano nella cassetta, sì come egli molte volte aveva
provato. (VI X 54)

Un breve percorso mi porta dalla cappella di Semifonte a Certaldo,


la cui parte moderna si è sviluppata in pianura, con geometrica
disposizione delle strade: ma il borgo antico si trova in cima a un
colle, a cui si può salire agevolmente anche attraverso una
funicolare. Esso è raccolto intorno a una strada che sale diritta dalla
parte più bassa a quella più alta, dove è il Palazzo Pretorio, già
dimora dei conti Alberti, e la chiesa ora sconsacrata di San
Tommaso e Prospero, risalente al XIII secolo. Le strade laterali e
quelle che percorrono i margini del colle presentano un omogeneo
aspetto medievale, con edifici che hanno perlopiù le forme assunte
sotto il dominio fiorentino, tra il XIV e il XV secolo. A percorrere il
borgo in tutte le direzioni sembra davvero di essere racchiusi in un
altro tempo, mentre si affaccia da più parti la vista delle colline vicine
e lontane e sul versante sudovest si intravvedono appena delle torri
che da un colle lontano sembrano quasi pungere il cielo: è San
Gimignano, quasi irreale nella sua distante persistenza.
In questo tardo pomeriggio del 10 settembre a Certaldo ha luogo
la cerimonia finale del premio Boccaccio, giunto alla
trentacinquesima edizione, su iniziativa dell’Associazione letteraria
Giovanni Boccaccio, presieduta da Simona Dei, mentre la giuria è
presieduta da Sergio Zavoli. Mi capita così di assistere a una finale
di Premio letterario, un tipo di evento che ha moltissime varianti,
specialmente tra l’estate e l’autunno, nei più diversi centri italiani: la
cerimonia si svolge all’aperto in un cortile del Palazzo Pretorio,
quando il sole comincia ad avviarsi verso il tramonto. Qui è stato
sistemato un palco, davanti al quale ci sono ordinatissime file di
sedie, che si riempiono man mano, in un vario pubblico di autorità,
docenti, operatori culturali ed editoriali, persone variamente legate al
premio. C’è anche qualcuno che conosco, anche se non si vedono
ancora i membri della giuria: nell’attesa converso con la vivace
scrittrice napoletana Antonella Cilento, che ha curato un Laboratorio
di scrittura collegato al premio.
In omaggio a Boccaccio, la cerimonia viene aperta dall’attrice
Maria Rosaria Omaggio, che legge Decameron, VII II, la novella di
Peronella e del doglio, la botte, con l’esito erotico dell’amante
Giannello, che si accosta a Peronella appoggiata alla botte che il
marito sta raschiando, “in quella guisa che negli ampi campi gli
sfrenati cavalli e d’amor caldi le cavalle di Partia assaliscono” (par.
34). La premiazione, condotta da Federica De Sanctis, è tutta al
femminile. Il premio per il giornalismo va a Lilli Gruber, col suo
recente libro Prigionieri dell’Islam: la motivazione, letta dalla
Omaggio, è dello stesso presidente Zavoli, che non può essere
presente, e mostra subito il tono pacato e sicuro, razionale e insieme
partecipe, che conosco bene nello Zavoli grande giornalista, che ha
sempre rifiutato il giornalismo “gridato” ed è stato anche politico di
grande misura e intelligenza, oltre che recentemente autore di
poesie di non esteriore respiro riflessivo e morale (ancora nel 2017
riceverò un suo nuovo libro, La strategia dell’ombra). La Gruber
risponde alle domande della conduttrice e di qualcuno del pubblico
con un piglio sicuro, con la sua capacità di dare chiarezza anche alle
questioni più intricate e problematiche: il suo argomentare è
alimentato da una spontanea disposizione a essere dentro lo spazio
pubblico, a respirare l’aria pesante del presente senza farsene
prevaricare, mantenendo la fermezza dello sguardo e della parola.
Il premio per la letteratura internazionale va a una scrittrice di cui
sento parlare per la prima volta; è una francese, nata nel 1967, e si
chiama Maylis de Kerangal: Feltrinelli ha pubblicato la traduzione di
alcuni suoi libri, come il recentissimo Lampedusa, che si muove tra Il
Gattopardo (romanzo e film) e le drammatiche notizie sugli sbarchi di
migranti a Lampedusa e sui loro naufragi. La scrittrice parla ora della
sua ambizione a descrivere la realtà al di là dell’orizzonte politico e
al di là di un’immediata necessità di giudizio: nel proposito di
formuler la question, senza voler prendere il posto degli opinionisti
che pretendono di avere una risposta su tutto.
Infine il premio per la letteratura italiana viene assegnato a Dacia
Maraini per il suo ultimo romanzo, La bambina e il sognatore, la cui
motivazione viene letta dalla scrittrice milanese Marta Morazzoni,
membro della giuria. Dacia risponde alle domande con la sua
consueta gentilezza, con quel suo sguardo che sembra fuggire
lontano, ma che invece si rivolge con pazienza alle cose, al respiro
del quotidiano: è sempre giovanile, nonostante la sua età, e difende
la funzione dei premi contro i loro detrattori, parla del rilievo
essenziale della scuola per la cura della parola e della ragione; e
accenna al pericolo che dalla scuola sia sempre più emarginata la
cultura letteraria e umanistica.
Dopo la cerimonia visito il piccolo museo del Palazzo Pretorio,
dove c’è anche una documentazione su Semifonte, con molti
particolari sulla vicenda storica e sulle invenzioni che ne sono sorte.
Al mattino dell’11 settembre visito la Casa del Boccaccio, sede
dell’Ente Nazionale Giovanni Boccaccio, accompagnato da Nunzia
Morosini, infaticabile segretaria della Casa: siamo forse sul sito dove
era la casa dello scrittore, dove egli morì il 21 dicembre 1375. Non
c’è comunque nessun resto della casa originaria: solo per
premeditata suggestione si può sentire risuonare la voce avvolgente
della prosa decameroniana. Questo edificio, riconosciuto e
ristrutturato nel primo Ottocento come Casa del Boccaccio, è il
risultato di una nuova ricostruzione successiva a un bombardamento
del 15 gennaio 1944, che lo aveva quasi completamente distrutto.
Più che per labili resti e cimeli dei tempi del Boccaccio, il luogo
interessa per varie più tarde testimonianze della fortuna di Boccaccio
e per il ricco materiale informativo e didattico che raccoglie: è
soprattutto centro di studio, con biblioteca, in cui si organizzano
iniziative, che hanno dato origine a molte importanti pubblicazioni.
Sfoglio alcune delle pubblicazioni più recenti: atti di convegni e
seminari, tenutisi qui e altrove; il catalogo di una mostra organizzata
alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze tra il 2013 e il 2014,
Boccaccio autore e copista; qualche fascicolo della rivista annuale
Studi sul Boccaccio, fondata da Vittore Branca nel 1963. Curiosando
tra libri e studi diversi, in cui spesso si affacciano richiami al culto
dantesco di Boccaccio, alla sua varia attività di copista, interprete,
biografo di Dante, salgo fino alla torre, dove la vista può spaziare
dalla distesa dei vicini tetti di Certaldo Alta all’amplissimo slargo
delle colline così accuratamente trapunte dalle cure agricole, ai vari
borghi che sfumano in lontananza.
Non posso lasciare Certaldo senza visitare la chiesa dei Santi
Jacopo e Filippo, in cui Boccaccio fu probabilmente tumulato e in cui
si è creduto di ritrovare tracce della sua tomba, in uno spazio, quasi
al centro della navata, dove è stata posta una pietra tombale, in uno
stile medievaleggiante, commissionata nel 1949 allo scultore Mario
Moschi (1896-1971), in seguito a un’ipotesi di riconoscimento
formulata da un gruppo di studiosi, poi in seguito messa in dubbio. In
realtà dei resti di Boccaccio si sono perse le tracce, come già
lamentava lord Byron nel suo Childe Harold Pilgrimage, IV 58:

even his tomb


Uptorn, must bear the hyaena bigot’s wrong,
No more amidst the meaner dead find room,
Nor claim a passing sigh, because it told for whom!
(anche la sua tomba rovesciata dalla iena del bigottismo, non
trova posto nemmeno tra i morti più oscuri, nemmeno un
sospiro di un passeggero lo invoca perché detto per lui!)

Byron allude in effetti alla dispersione delle ossa del Boccaccio in


seguito a una legge di Leopoldo II del 1783, che proibiva le sepolture
in chiesa (anticipando quella napoleonica che diede poi spunto ai
Sepolcri di Foscolo). Rispetto a questa tarda pietra tombale, sembra
avvicinarci di più alla sepoltura di Boccaccio il busto che si trova
sulla parete a sinistra della chiesa, opera di Giovan Francesco
Rustici (1475-1554), che una lapide che l’accompagna fa risalire
all’iniziativa di un Lattanzio Tedaldi, che “pro florentino populo hic
praeturam gerebat” e alla data del 1503.
Cosa sorprendente è la vicinanza tra queste tracce di Boccaccio e
l’altare che si trova sulla parete destra, sotto cui è sepolta in abito
agostiniano, con i resti del volto mummificato e orribilmente fissato
nel rictus mortale, la beata Giulia da Certaldo, nata da una famiglia
di nobili decaduti, Della Rena, intorno al 1320 (ma un opuscolo qui
disponibile la colloca nello stesso anno di nascita di Boccaccio,
1313). Dopo essere stata a servizio a Firenze, presso la famiglia
Tinolfi, spaventata dai pericoli della città, si fece terziaria agostiniana
e tornò a Certaldo, facendosi murare in una celletta attigua alla
sagrestia di questa chiesa (che si può visitare), vivendovi in
preghiera per trent’anni e comunicando con l’esterno solo con una
finestrella, da cui riceveva il cibo. La leggenda dice che i fanciulli che
le offrivano il pane venivano ricompensati sempre con dei fiori,
miracolosamente freschi in qualsiasi stagione: e che i certaldesi
furono informati della sua morte dalle campane del castello, che
cominciarono a suonare senza che nessuno le muovesse, il 9
gennaio 1367, trovandola poi inginocchiata accanto a un vaso di
freschissimi fiori.
Non so se qualcuno abbia mai pensato alla vicinanza tra
Boccaccio e questa beata, che ancora viene festeggiata con una
processione che impegna i certaldesi la prima domenica di
settembre: ma certo Giovanni dovette essere a conoscenza di
questa penitente insediata nella sua città. Quei certaldesi che si
fanno così facilmente beffare da frate Cipolla sono in fondo gli stessi
da cui la beata riceveva pane a prezzo di fiori: la vicinanza tra la
tomba autentica di Giulia da Certaldo e quella perduta di Giovanni
da Certaldo ha il sapore di un contrasto assoluto, in un singolare
convergere tra due mondi lontanissimi, tra l’affermazione gioconda
della vita naturale e sociale e la sua più macerata negazione, tra la
libera e varia insorgenza del comico e la sottrazione dell’esperienza
in funzione dell’aldilà. Ma è probabile che, nell’ansia religiosa dei
suoi ultimi anni, proprio in Certaldo Giovanni, che nella sua vita e
nella sua scrittura aveva toccato le facce più diverse del mondo e
della cultura, abbia avuto modo di pensare alla piccola, misera vita di
questa fanciulla imprigionatasi vicino alla sua casa, che aveva
rifiutato di conoscere il mondo, era sfuggita ai suoi incommensurabili
spazi, accontentandosi dei suoi miracoli di nulla, di quelli che
avrebbero facilmente attirato l’ironia dei novellatori del suo
Decameron.
Verso il Galluzzo

Oh quanto fora meglio esser vicine


quelle genti ch’io dico, e al Galluzzo
e a Trespiano aver vostro confine,

che averle dentro…


(Par., XVI 52-55)

Cacciaguida indica come confini ideali di una Firenze non


contaminata dai villani che l’hanno portata allo sfacelo i borghi di
Galluzzo a sud e di Trespiano a nord. Da Certaldo muovo così verso
il Galluzzo, su una strada che segue il corso del torrente Agliena e
attraversa le colline tra la Val d’Elsa e la Val di Pesa, ancora nel
cuore del Chianti. Tocco la pieve di San Lazzaro a Lucardo, che
esisteva già nel X secolo – tre absidi costituiscono quanto ora resta
della originaria struttura romanica – e il bel borgo di Lucardo. Da
Lucardo devio per Montespertoli, in cui un vecchio castello fu
ristrutturato, creando la Villa Sonnino, che sembra fare da guardia al
borgo e fu dimora di uno dei più importanti statisti dell’Italia liberale,
Sidney Sonnino (1847-1922), due volte primo ministro e ministro
degli esteri durante la Grande Guerra: ora residenza della famiglia
De Renzis Sonnino, importanti produttori di Chianti.
Intorno a Montespertoli aleggia il ricordo dei due grandi politici e
scrittori del primo Cinquecento, amici stretti e al contempo avversi,
Machiavelli e Guicciardini. Salendo su un vicino colle, attraverso una
rapida strada, si sale al castello di Poppiano, dove è ancora la
dimora dei Guicciardini, anch’essi produttori di grandi vini e ospiti di
importanti personaggi. Salendo mi imbatto con il posto di ristoro di
una corsa ciclistica amatoriale, la 9a Cicloturistica dei Fischi e della
Campanelle, che ha nel colle di Poppiano la sua salita più difficile:
nei pressi del castello Guicciardini, chiuso nel silenzio domenicale,
c’è una rumorosa e allegra brigata di ragazzini in mountain bike, che
si riposano della dura scalata.
Vorrei acquistare del vino guicciardiniano, ma la bottega che si
trova ai margini del castello è stata appena chiusa e riaprirà alle
14,30. Al vino di Guicciardini proverò allora a sostituire quello di
Machiavelli: scendendo da Poppiano e risalendo su colli più dolci,
dopo varie giravolte si attraversa finalmente la Pesa e si raggiunge
San Casciano in Val di Pesa, sulla Cassia, presso cui si trovavano i
possedimenti di Machiavelli. Non è tanto facile districarsi dagli
svincoli stradali all’uscita di San Casciano: lasciata la Cassia,
occorre prendere la via Scopeti, su cui, poco prima di toccare le
case di Spedaletto, si apre sulla destra una stradina che porta alla
semplice chiesetta campestre di Santa Maria di Casavecchia, che fu
sotto il patronato della famiglia di un amico di Machiavelli, Filippo
Casavecchia (a lui Machiavelli dice di aver mostrato Il Principe,
quando era ancora in elaborazione). Procedendo oltre sulla via
Scopeti si trova finalmente Sant’Andrea in Percussina e a un certo
punto gli edifici dell’Albergaccio (Casa di Machiavelli, precisa la targa
stradale). Nulla corrisponde all’assetto che questi luoghi avevano ai
tempi di Machiavelli e non è certo possibile immaginare com’era
allora il suo podere, quel suo ritiro o esilio da Firenze dopo la
buriana del ritorno dei Medici, della perdita del posto di secondo
cancelliere della repubblica e delle accuse che lo avevano tenuto per
qualche giorno in carcere. C’è un ampio parcheggio sulla sinistra
della strada, da cui si accede a una serie di locali che ospitano
anche un piccolo museo, installato in ambienti presentati come
stanze della casa del segretario.
Dall’altra parte della strada c’è un buon ristorante, di cucina
toscana, che naturalmente ha il nome di Machiavelli e dove non
posso certo mancare di pranzare, assaggiando anche un vino
denominato proprio Il Principe. Mentre mangio vedo arrivare persone
che, come altre volte, mi sembra di conoscere, senza riuscire a
capire se è solo una falsa impressione (ma questa è una cosa che
mi capita spesso quando viaggio da solo): a un certo punto siede
una famiglia di cui il padre, dal volto sicuro e ben tirato, con neri
capelli che sembrano una sola cosa col tessuto del cranio, dovrebbe
essere un politico o un accademico di rilievo che devo aver già
incontrato, ma non so proprio dove; poi poco oltre è seduta una
coppia in cui si impone l’eleganza della donna, una signora di mezza
età che pure mi ricorda qualcuno… Intanto sul viale ghiaioso che a
fianco del ristorante immette sulla strada asfaltata passano cinque
cavalieri accortamente in sella su mansueti cavalli.
Dopo il pasto percorro per un po’ quel viale, che poi diventa più
accidentato e, aprendosi sulla campagna, conduce a un bed and
breakfast che si chiama La fonte di Machiavelli. Tornando indietro
raggiungo la chiesetta di Sant’Andrea in Percussina, davanti a cui si
trovano residui della celebrazione di un matrimonio (sembra del
resto che qui nel maggio 1478 un cortigiano dei Medici, il poeta e
musicista Francesco Diletto da Sant’Andrea, musicalmente detto il
Percussore, abbia sposato una Elena Abbaldi Pacini, alla presenza,
addirittura, di Lorenzo il Magnifico).
Tornando verso il parcheggio, costeggio gli edifici che derivano da
una più recente fattoria, dove certo non ci sono più le stanze in cui,
secondo il racconto della lettera a Francesco Vettori del 10 dicembre
1513, la sera l’ex segretario della repubblica si ritirava per entrare
“nelle antique corti degli antiqui uomini”, per pascersi “di quel cibo
che solum” era suo e per scrivere Il Principe. Ed è anche difficile
riconoscere la campagna, col bosco dove egli si recava la mattina e
l’uccellare dove si metteva a leggere qualche libro (tra cui in primis
proprio Dante), né si può confondere il ristorante con l’osteria dove
notava “varii gusti e diverse fantasie d’uomini” e poi con lavoratori
del luogo giocava “a cricca, a triche-tach” tra “parole iniuriose” e
grida che, dice, si sentivano fino da San Casciano. Cultore di Dante,
Niccolò ha lasciato peraltro tanti segni e tracce dantesche nelle sue
opere, nel vigore scattante del suo linguaggio. Del resto gli capita di
menzionare Dante (da Paradiso, V 41-42: “ché non fa scïenza /
sanza lo ritenere, avere inteso”) anche per motivare, in quella lettera
del 10 dicembre, la decisione di scrivere Il Principe, facendo tesoro
di quanto appreso dalla lettura degli storici antichi:
E perché Dante dice che non fa scienza sanza lo ritenere lo
avere inteso, io ho notato quello di che per la loro
conversazione ho fatto capitale, e composto uno opuscolo De
principatibus, dove io mi profondo quanto io posso nelle
cogitazioni di questo subbietto, disputando che cosa è
principato, di quante spezie sono, come e’ si acquistono,
come e’ si mantegono, perché e’ si perdono.

Un segno dantesco, insomma, anche all’origine di quell’opera tanto


a lungo considerata empia e diabolica.
L’Albergaccio si trova al limite tra la Val di Pesa e la Val di Greve.
Proseguendo per la via Scopeti si giunge ben presto ad attraversare
la Greve, entrando poi sulla Cassia, che lascio poco dopo, per salire,
su una strada ripidissima, sul colle di Montebuoni, la sede originaria
dei Buondelmonti (si ricordi il già registrato Paradiso, XVI 66: vedi p.
1071), il cui castello, documentato nell’XI secolo, fu distrutto dai
fiorentini nel 1135: sul colle, tra ville ben munite e un ampio
ristorante panoramico, non ne restano tracce. Il segno più vicino al
tempo dell’antico possesso di quella famiglia è la chiesa di San
Pietro, già esistente nel XII secolo (testimoniata con il curioso
appellativo di “Sanctus Petrus de muliere mala”) e poi più volte
modificata, che ora si presenta con la sua ampia, tozza facciata
semplicemente intonacata.
Da Montebuoni scendo su Tavarnuzze, borgo attraversato dalla
Cassia, alla cui sinistra scorre la Greve. Accanto a una vecchia Casa
cantoniera abbandonata un ponte si diparte a sinistra, sopra il fiume
incassato tra un muraglione e una scarpata erbosa: al di là del fiume
un moderno bianchissimo capannone ospita palestre, wellness e
fitness, facendo da contraltare alla morente cantoniera. Poco oltre il
ponte il corso della Greve quasi si arresta, in un punto in cui il suo
letto, tra pietre e pietruzze, è solcato da una sorta di costolone in
muratura, che fa come da scala.
Subito dopo Tavarnuzze la Cassia si incontra con l’intricato
svincolo autostradale di Firenze Certosa: e, dopo essere passata
sotto i piloni dell’autostrada (come, nel suo percorso, fa anche la
Greve), si affaccia sulla grande Certosa, che prende in genere il
nome dalla vicina località del Galluzzo e si presenta come un grande
fortilizio, su un colle alla sinistra della Cassia, fiancheggiato a ovest
dalla Greve e a nord dall’Ema che proprio in quel punto, sotto la
Certosa, confluisce nella Greve. Quest’ultima continua poi a
procedere verso nord, toccando, prima di raggiungere l’Arno, ancora
nel territorio del comune di Galluzzo, una trattoria perfettamente
attiva, Bibe al Ponte dell’Asse, a cui Eugenio Montale dedicò nel
1937 un epigramma, raccolto poi ne Le occasioni (dove la cameriera
appare come una reginetta di Saba, che versa nei bicchieri il
corposo Chianti di Rufina):

Bibe, ospite lieve, la bruna tua reginetta di Saba


mesce sorrisi e Rufina di quattordici gradi.

Si vede in basso rilucere la terra fra gli àceri radi


e un bimbo curva la canna sul gomito della Greve.

La Certosa (detta anche di Firenze o della Val d’Ema) non c’era ai


tempi di Dante: i lavori iniziarono nel 1341 per volontà dal gran
siniscalco del re di Napoli Niccolò Acciaiuoli (1310-1365), con cui
ebbe stretti rapporti il Boccaccio nel suo giovanile soggiorno
napoletano, e che fu poi in contatto, oltre che con lui, con il Petrarca
e altri uomini di cultura, come Zanobi da Strada. Non posso evitare
di visitare la Certosa, seguendo i turni in cui la visita è regolata,
sempre per gruppi guidati.
È un insieme possente, che risulta da una lunga serie di lavori e di
ampliamenti, che sono andati molto al di là del progetto
dell’Acciaiuoli. Subito, all’inizio della visita, nella piccola pinacoteca,
si trovano cinque scene della Passione, affreschi staccati dalle
lunette del Chiostro Grande, dipinti da Pontormo tra il 1523 e il 1525,
quando il pittore si era qui ritirato per sfuggire alla peste che
imperversava a Firenze. Sono scene proiettate verso un orizzonte
nordico, scaturite anche da una suggestione delle stampe della
Passione di Albrecht Dürer; ma ne sorge un effetto di lacerazione e
di malinconia estrema, amplificato d’altra parte dal parziale
danneggiamento che gli affreschi hanno subito nella loro
collocazione originaria. Colpisce in particolare l’affollarsi dei
personaggi, il loro intricarsi nella composizione, in una sorta di
fissità, in uno “stare” assoluto e immedicabile: così nelle figure delle
donne disposte in circolo nella scena della Deposizione; così in
quelle dei soldati di guardia abbagliati e inerti in quella della
Resurrezione, col Cristo al centro che viene come a liberarsi dal loro
groviglio (la pinacoteca ospita anche le tavole con le copie tardo
cinquecentesche di questi affreschi, che danno qualche lume su
particolari e su colori perduti, ma non possono avere la suggestione
dei dilavati originali).
Nella visita si toccano poi gli spazi separati dei conversi e degli
eremiti (le cui celle danno sul Chiostro Grande) e ci si informa sulla
rigorosa organizzazione della vita dei Certosini, perfettamente e
geometricamente scandita. Ma oggi non sono più i Certosini a
gestire la Certosa: nel 1958 essi sono stati sostituiti dai monaci
Cistercensi della Congregazione di Casamari. La divisione degli
spazi tra monaci e conversi è ben evidente nella struttura della
chiesa, dedicata a san Lorenzo, già costruita nel Trecento, ma ora
con un assetto soprattutto cinque-secentesco: qui, nella cappella di
Tobia, c’è la cripta sepolcrale della famiglia Acciaiuoli, dove è anche
il monumento funebre del fondatore Niccolò, forse della bottega di
Andrea Orcagna.
Scendendo dalla Certosa, torno sulla Cassia, che ora assume la
denominazione di via Senese e attraversa l’Ema sul Ponte della
Certosa, entrando nella località di Galluzzo, in cui non restano tracce
del piccolo borgo duecentesco, che era limitato alla zona intorno
all’attuale piazza centrale, che ha il nome di Niccolò Acciaiuoli, e
dove trovo ancora in piedi le bancarelle di un mercatino domenicale.
Più oltre c’è il quattrocentesco Palazzo del Podestà, che deriva dalla
ristrutturazione di una precedente casa dei Canigiani (la famiglia di
Eletta, la madre presto perduta del Petrarca).
Fiume Ema

o Buondelmonte, quanto mal fuggisti


le nozze süe per li altrui conforti!

Molti sarebber lieti, che son tristi,


se Dio t’avesse conceduto ad Ema
la prima volta ch’a città venisti.
(Par., XVI 140-144)

Nelle accorate parole sul disastro creato dal rifiuto che all’ultimo
momento i Buondelmonti fecero delle nozze con la casa degli Amidei
per i consigli dei Donati, Cacciaguida giunge ad affermare che molte
famiglie fiorentine non avrebbero avuto i lutti che ne sono seguiti se
il Buondelmonte, la prima volta che venne a Firenze dal suo castello
di Montebuoni, fosse annegato nell’Ema. Chi veniva verso Firenze
da Montebuoni e dalla Val di Greve passava l’Ema proprio qui,
all’ingresso del borgo del Galluzzo, all’altezza dell’attuale Ponte della
Certosa.
Da questo ponte mi affaccio ora sull’Ema. Qui sulla sua sponda
destra, a ridosso dell’abitato di Galluzzo, c’è un bel parco attrezzato,
che è molto piacevole percorrere, il Parco dell’Albereta-Pioppeta del
Galluzzo. Dal Galluzzo risalgo poi alla sua destra il corso dell’Ema,
verso est. Per un po’ la strada si allontana dalla riva del fiume,
toccando subito la vicina località di San Felice a Ema, dove è la
chiesa omonima, menzionata già nell’XI secolo, la cui facciata
conserva ancora l’originario aspetto romanico. Accanto alla chiesa
c’è un cimitero comunale, in cui è la tomba di Eugenio Montale,
accanto alla moglie Drusilla Tanzi, detta Mosca. C’è una lapide con il
testo di Valmorbia, discorrevano il tuo fondo, una delle poesie di
Ossi di seppia. Ma penso a due poesie tarde, che evocano
direttamente questo cimitero e la tomba della moglie del poeta
(morta molto prima di lui, nel 1963). Nel disumano (in Quaderno di
quattro anni, 1975) inizia con un’immagine di questo cimitero:

Non è piacevole
saperti sotto terra anche se il luogo
può somigliare a un’Isola dei Morti
con un sospetto di Rinascimento.
Non è piacevole a pensarsi ma
il peggio è nel vedere. Qualche cipresso,
tombe di second’ordine con fiori finti,
fuori un po’ di parcheggio per improbabili
automezzi. Ma so che questi morti
abitavano qui a due passi, tu
sei stata un’eccezione…

In Altri versi (1980) c’è questa più breve poesia, sull’impossibile


comunicazione con la defunta:

Non ho più notizie


da San Felice.

Hai sempre amato i viaggi


e alla prima occasione
sei saltata fuori
del tuo cubicolo.

Ma ora come riconoscersi


nell’Etere?

Dopo San Felice trovo una strada che, protetta da un parapetto in


muratura, costeggia direttamente il fiume, sulla sua riva destra, sotto
il colle di Monteripaldi: il percorso sembra chiudersi in un orizzonte
interno, come in una delle affollate e variegate pieghe della vicina,
da qui invisibile, Firenze. Poi, mentre percorro la via delle Cinque
Vie, il fiume si allontana di nuovo, per riapparire presso gli svincoli
della stazione Firenze Sud dell’autostrada: poi un ponte mi porta a
percorrere la riva sinistra, raggiungendo la località di Ponte a Ema.
Mi fermo su un altro ponte, che fu distrutto dai tedeschi durante
l’ultima guerra, protetto in parte da una ringhiera metallica, che mi
riporta sulla riva destra, sulla via di Campigliano: qui il fiume scorre
stretto stretto, incassato in un letto in muratura con i fianchi
leggermente inclinati, con l’aspetto di un canale artificiale. Poco
oltre, la via di Campigliano sbuca sulla via Chiantigiana, dove è la
casa natale del ciclista Gino Bartali (1914-2000) e il vicino Museo del
ciclismo Gino Bartali. Figura ormai quasi mitica, il grande Gino, oltre
che per le sue imprese di campione, per le rischiose prove di
generosità durante la guerra, a protezione di ebrei e di perseguitati.
Immagine di un’Italia che non c’è più e di un ciclismo ancora “eroico”
e artigianale, con un senso dell’avventura ormai cancellato
dall’imperante performatività tecnologica:

E vai che io sto qui e aspetto Bartali


scalpitando sui miei sandali
da quella curva spunterà
quel naso triste da italiano allegro
(Paolo Conte, Bartali, 1979)
Signa

………………………………
del villan d’Aguglion, di quel da Signa…
(Par., XVI 56)

Lasciato Ponte a Ema, torno indietro percorrendo l’autostrada fino


all’uscita di Firenze Scandicci, presso il grande borgo moderno a sud
ovest di Firenze, attraversato dal corso più basso della Greve, poco
prima che si getti in Arno. Mi dirigo così verso l’Arno, ma un po’ più a
ovest, raggiungendo Lastra a Signa, fortificata dai fiorentini tra il XIV
e il XV secolo con un sistema murario ancora in gran parte in piedi,
baluardo rivolto in particolare contro gli attacchi pisani. All’ingresso
della via Livornese, sul percorso dell’ex statale 67, tosco romagnola,
c’è una delle tante case cantoniere dismesse, inglobata in un altro
edificio, il che sembra renderla pateticamente archeologica. Sulla via
Livornese, sfioro il centro storico, che si apre sul cosiddetto Portone
di Baccio, sopravanzato da un resto di torre, da cui si entra nella via
Dante Alighieri. Oltre questo centro di Lastra a Signa, piego a destra
sul ponte sull’Arno, il Ponte a Signa, che nel Medioevo era il solo
ponte sull’Arno che si trovava sul suo procedere da Firenze a Pisa:
distrutto, anch’esso l’ultima volta dai tedeschi in ritirata, e ricostruito
più volte.
Il ponte mi porta nella vicina città di Signa, che, come Lastra,
aveva un importante ruolo strategico a protezione di Firenze e che
nel 1325 fu assediata e conquistata da Castruccio Castracani, dopo
la vittoria di Altopascio. Nel discorso di Cacciaguida l’allusione al
villan venuto da Signa per barattare concerne un giurista (non a
caso accoppiato con l’altro giurista Baldo d’Aguglione): si tratta di
Fazio dei Morubaldini, quattro volte priore, che, come Baldo, passò
dalla parte bianca a quella nera e contribuì all’esilio di Dante.
Costeggio il margine est dell’abitato di Signa, affacciato sul fiume
Bisenzio, affluente di destra dell’Arno, in cui confluisce proprio nei
pressi del ponte. Qui il Bisenzio scorre tra argini molto verdi, tra folta
vegetazione, senza nessuna traccia di greto sassoso. Lasciata la
riva, salgo alle spalle del modesto colle in cui è disposta la parte alta
e più antica della città, già molto attiva nel XIII secolo, dov’è la
chiesa di Santa Maria di Castello, che esisteva già nel X secolo, ma
che ora ha un assetto molto più tardo. Scendendo poi tra strette
stradine, raggiungo la piazza Cavour, dove è la chiesa romanica di
San Giovanni Battista, la cui facciata è caratterizzata da un piccolo
terrazzo che poggia su tre archi pensili e sopra il quale si apre un
semplice rosone: qui è custodito il corpo mummificato della Beata
Giovanna da Signa, la patrona della città, contadina nata intorno al
1266 e morta nel 1307, dopo essersi data alla vita eremitica, non
senza una buona dose di miracoli.
Ma il centro della città è ora davanti al moderno Palazzo del
Municipio, sulla piazza della Repubblica, con un giardino dove sono
esposte alcune sculture di Alimondo Ciampi (1876-1939), nativo del
comune di Signa, nella vicina località di San Mauro.
Campi Bisenzio

Ma la cittadinanza, ch’è or mista


di Campi…
(Par., XVI 49-50)

Campi Bisenzio è il primo a essere elencato da Cacciaguida tra i


borghi responsabili del miscuglio di popoli che ha corrotto la
cittadinanza di Firenze. Risalendo verso nordest, senza toccare
direttamente il corso del fiume, che si svolge più tortuosamente, e
attraversando la pianura fitta di capannoni, magazzini, insediamenti
industriali e commerciali, arrivo in breve a Campi: la cittadina
moderna si estende molto oltre i limiti del nucleo originario, raccolto
intorno a un ponte sul Bisenzio. Provenendo dalla via Tosca Fiesoli
(che ha il nome di una giovane di Campi uccisa il 7 agosto 1944 da
un soldato tedesco che tentava di violentarla), giungo sulla via
Roma, dove, poco prima del ponte, si trova la Rocca degli Strozzi,
sul sito della rocca di una famiglia feudale guelfa, distrutta dai
ghibellini dopo Montaperti, ricostruita dai fiorentini nel XIV secolo e
acquistata poi a fine del Cinquecento dagli Strozzi, che ne fecero
residenza e fattoria per i loro possedimenti agricoli della zona. Le
varie trasformazioni, anche più tarde, fanno sì che il suo corpo e il
severo torrione in laterizi appaiano come fasciati da più bassi corpi di
fabbrica intonacati.
Una musica rombante proviene dall’altra parte del fiume: lo
attraverso sul ponte che si affaccia sul retro di vecchie case che
aggettano sulla riva sinistra, limitata dalla loro parte da un breve
argine rinforzato da mattoni, mentre sulla riva destra si distende un
prato fino alla base della rocca Strozzi. Subito dopo il ponte la strada
si apre su una piazza affollata dove alcune bande musicali si
esibiscono in un vario repertorio, con contorno di sorridenti
majorette: si tratta di festeggiamenti, di cui è esposto un nutrito
programma, per i 200 anni di una locale associazione musicale, che
ha il nome di un Michelangelo Mauro, su cui non sono riuscito a
trovare testimonianze. C’è una certa confusione tra chi assiste alle
esecuzioni e chi sciama verso la via Santo Stefano, che è il corso
della città, e la vicinissima piazza Matteotti, dove sono la pieve di
Santo Stefano e il bel Palazzo del Podestà, la cui prima forma risale
al XIII secolo, ma che ora si presenta con una facciata di stile
mediceo cinquecentesco (ed è stato intitolato a Spartaco Conti,
comandante partigiano e sindaco comunista di Campi dal 1946 al
1956). Tra i vari stemmi che ornano la facciata ce n’è uno che
ricorda Francesco Ferrucci, che fu qui podestà nel 1523. Per le
strade intorno vari cartelli oblunghi ricordano un recentissimo evento,
Campi città del Giro, cioè il passaggio dell’ultimo Giro d’Italia, per la
decima tappa, Campi Bisenzio-Sestola, 17 maggio 2016, 216 Km. –
Alta montagna. Mentre torno indietro, sul muro marrone che delimita
un giardino, una scritta a caratteri blu, molto mossi, invita a
considerare TESI / ANTITESI / SINTESI, con una riga che raccorda la tesi
alla sintesi.
Trespiano

………………………………
e a Trespiano aver vostro confine…
(Par., XVI 54)

L’ideale confine nord auspicato da Cacciaguida per una Firenze


incontaminata è a Trespiano, sulla via Bolognese. Anche se ci sono
discordanze sulla precisa collocazione del borgo medievale e sulla
sua distanza dalla Porta San Gallo di Firenze, oggi Trespiano è noto
soprattutto per il suo cimitero, che è il più grande della città di
Firenze. Per raggiungerlo da Campi devo passare dentro Firenze,
toccando anche i margini del suo centro storico: ma il percorso è
facilitato dallo scarso traffico del tardo pomeriggio domenicale, che
mi porta a raggiungere rapidamente la via Bolognese e a salire tra
ville e giardini, fino a toccare La Lastra, dove si accamparono i
fuorusciti Bianchi con i loro alleati ghibellini, pisani, aretini,
romagnoli, bolognesi tentando un attacco a Firenze il 20 luglio 1304,
lo stesso giorno in cui in Arezzo nasceva Petrarca. L’assalto mancò
di un adeguato coordinamento e gli attaccanti, che pur riuscirono a
giungere fino alla piazza San Giovanni, furono respinti con gravi
perdite. Dante non era comunque insieme a loro, dato che si era già
staccato dalla “compagnia malvagia e scempia”.
All’altezza della Lastra, comunque, inizia un tratto in cui la vecchia
via Bolognese si separa dalla nuova variante, prima di ricongiungersi
a essa proprio a Trespiano. La vecchia via sale in ripida ascesa,
affacciandosi dal lato sinistro verso sudovest su Firenze, di cui ben
s’intravvedono, oltre le più vicine colline punteggiate di oliveti e di
folti giardini, il cupolone del Brunelleschi e varie torri e campanili.
Eccomi poi a Trespiano, sulla sommità pianeggiante della collina (il
cui nome dovrebbe derivare da Trans planum, al di là del piano), in
cui è sistemato il grande cimitero, il cui cancello chiuso è come
vigilato da una grande gelida croce metallica: dal cupo parcheggio
antistante all’ingresso si scorge la sottostante valle del Mugnone,
oltre la quale si eleva il colle boscoso su cui è adagiata Fiesole.
Da Trespiano torno indietro, sulla nuova via Bolognese, che si
aggira sul lato est della collina, limitato da un parapetto in muratura,
sopra la valle del Mugnone. Nella discesa, ormai sul far della sera, si
apre una vista bellissima, sia su Fiesole, che sul centro di Firenze,
fino al cupolone. Poco prima di una curva c’è un ragazzo dall’aria
straniera, forse americano, che sta accucciato sul parapetto che si
affaccia sul precipizio e sembra guardare giù verso il Mugnone. Poi
dopo La Lastra lascio la via Bolognese, girando a sinistra, su una
strada che brevemente scende a precipizio sul Mugnone,
superandolo sul Ponte alla Badia. Passo accanto alla Badia
fiesolana, nel sito dove era l’originaria cattedrale di Fiesole,
appartenuta a diversi ordini religiosi e ai tempi di Dante tenuta dai
Benedettini cassinesi; più tardi essa ha avuto le cure della famiglia
medicea, che amava molto questi luoghi. L’impianto
quattrocentesco, voluto da Cosimo il Vecchio, non ha toccato la
facciata, rimasta incompiuta, ma con una parte a grezza muratura
che incorpora la facciata romanica del XII secolo, nella splendida
commistione geometrica di marmo bianco e di marmo verde, come
in San Miniato al Monte. Da qui si raggiunge rapidamente il centro di
Fiesole.
Fiesole e le bestie fiesolane

“…Ma quello ingrato popolo maligno


che discese di Fiesole ab antico,
e tiene ancor del monte e del macigno,

ti si farà, per tuo ben far, nimico;


ed è ragion, ché tra li lazzi sorbi
si disconvien fruttare al dolce fico.

……………………………………

Faccian le bestie fiesolane strame


di lor medesme, e non tocchin la pianta,
s’alcuna surge ancora in lor letame,

in cui riviva la sementa santa


di que’ Roman che vi rimaser quando
fu fatto il nido di malizia tanta”.
(Inf., XV 61-66,73-78)

Nella profezia di Brunetto Latini l’ostilità per Dante dei fiorentini,


ingrato popolo maligno, viene collegata alla rozzezza della loro
origine dal colle di Fiesole, secondo una leggenda che aveva varie
versioni, ma che comunque riconduceva l’origine di Firenze alla
volontà di Cesare, che avrebbe distrutto l’etrusca Fiesole, dopo aver
sconfitto Catilina, che vi si era arroccato, e avrebbe fondato Firenze,
popolandola con cittadini romani, ma accogliendovi anche molti
transfughi da Fiesole. Per questo i fiorentini vengono detti bestie
fiesolane e si auspica che essi si pascano di se stessi (facciano
strame, foraggio di sé), senza toccare chi tra i fiorentini, pur in
mezzo alla loro vita animalesca, in lor letame, mantenga in sé il
seme di quei romani che vi si installarono quando la città fu fondata.
Questa negatività dell’origine fiesolana viene ribadita nella durissima
Epistola rivolta ai fiorentini per dissuaderli dalla loro opposizione a
Enrico VII, dove nella perorazione finale balena la minaccia di una
nuova distruzione della città (dopo quella attribuita ad Attila di cui è
cenno in Inferno, XIII 148-149): “O miserrima Fesulanorum propago,
et iterum iam punita barbaries” (“O miserrimi discendenti dei
Fiesolani, barbarie una seconda volta punita”, Epistola VI VI 24).
Con le sue ville e i suoi poggi, con lo sguardo che proietta su
Firenze, con quel contemperarsi di dolcezza e di severità, nello
stesso tempo piccola città e locus amoenus, Fiesole sembra
modellata dal suo passato per offrirsi a soggiorni colti, alla dolce
lentezza di meditazioni culturali e artistiche, in cui il cuore della
Toscana si offre al mondo più colto e civile: soggiorno di artisti che
cercano un impossibile Rinascimento, sede per istituzioni di alta
cultura, di studio e di ricerca, come le sedi italiane della Harvard
University, nella Villa I Tatti (che custodisce la collezione d’arte del
grande critico e amante dell’Italia Bernard Berenson) o l’Istituto
Universitario Europeo, nell’ex convento della Badia.
Nella sera di settembre una dolce quiete domina la grande piazza
Mino da Fiesole, chiusa in alto dal Palazzo Pretorio, già
duecentesco, ma più volte rifatto, con il lato destro della facciata
aperto su un piccolo porticato sormontato da una loggia, che sembra
proiettare una classica misura quattrocentesca verso un effetto
manieristico.
Non c’è molta folla nei numerosi locali aperti sulla piazza: seggo
per il pasto serale a un piccolo ristorante sul fronte opposto a quello
aperto sulla piana sottostante. Quando sono già avanti nel pasto,
prende posto nel tavolo accanto al mio una coppia, in cui l’uomo
grasso e sudato comincia a bere con grande gusto del vino bianco,
accanto alla compagna biondastra ben piantata che anch’essa beve,
ma più moderatamente. Il signore ha una gran voglia di parlare: è
scozzese, mentre la moglie è bulgara: loda Firenze, l’Europa e
l’unità europea e si dice molto contrariato per il recente referendum
Brexit (dello scorso 24 giugno), in cui del resto la sua Scozia ha
votato in grandissima maggioranza per restare in Europa. Ha un
figlio che studia ingegneria aeronautica, ma lui stesso si interessa
molto di meccanica e di matematica, anche se non capisco bene
quale sia il suo lavoro. Quando me ne vado li saluto con una sorta di
brindisi in onore della matematica.
Passeggio poi sulla piazza, davanti a Garibaldi e Vittorio
Emanuele II che si salutano a Teano nel monumento di Oreste
Calzolari, impiantato davanti al Palazzo Pretorio nel 1906; sopra il
portone del palazzetto dell’Hotel Aurora, dal lato della piazza rivolto
verso la piana, una lapide reca un testo di Isidoro Del Lungo, che
celebra e parafrasa con un tono tutto dannunziano i riferimenti
danteschi a Fiesole, in occasione del centenario del 1921. Poco più
in là, su un lato dell’edicola accanto alla fermata degli autobus vedo
attaccato un cartello scritto a mano: IL MALE ITALIANO / È IL VATICANO /
(NON IL PAPA) / I POLITCI TUTTI / E I SINDACATI / GIORGIO.
Sul lato della piazza opposto al Palazzo Pretorio si apre un angolo
a sé, su cui si fronteggia la facciata secentesca del Palazzo
Vescovile e quella dall’aspetto romanico (dovuto a una ricostruzione
ottocentesca) della cattedrale di San Romolo: ma la chiesa fu
fondata già nell’XI secolo, subendo poi vari ampliamenti
duecenteschi e trecenteschi e tanti altri interventi successivi; i
monumenti e le opere d’arte nell’interno sono in grande prevalenza
rinascimentali.
Prendo poi la strada che porta alla basilica già paleocristiana, ora
con facciata neoclassica, di Sant’Alessandro, e sale al poggio dov’è
il convento e la chiesa di San Francesco, con facciata
quattrocentesca: qui erano l’acropoli antica e poi la rocca medievale,
distrutta dai fiorentini nel 1125. C’è un ampio piazzale, con un
belvedere affacciato su Firenze che, al di là delle ville e delle fattorie
della costa digradante, brulica nelle sue luci notturne. Afferro i
profumi e le suggestioni de La sera fiesolana, tanto lontani
comunque dal sontuoso e sensuoso artificio della poesia di Alcyone,
uno dei più sottili tour de force dell’“imaginifico” Gabriele, che da
queste parti soggiornava con Eleonora Duse:
Fresche le mie parole ne la sera
ti sien come il fruscio che fan le foglie
del gelso ne la man di chi le coglie
silenzioso…
Fiesole antica

L’una vegghiava a studio de la culla,


e, consolando, usava l’idïoma
che prima i padri e le madri trastulla;

l’altra, traendo a la rocca la chioma,


favoleggiava con la sua famiglia
d’i Troiani, di Fiesole e di Roma.
(Par., XV 121-126)

Già era ’l Caponsacco nel mercato


disceso giù da Fiesole, e già era
buon cittadino Giuda e Infangato.
(Par., XVI 121-123)

Di carattere diverso, rispetto alla riprovazione delle “bestie


fiesolane”, è l’evocazione di Fiesole nel ricordo che Cacciaguida fa
della Firenze del buon tempo antico, in cui si è svolta la sua vita,
nella prima metà del XII secolo (tenendo conto della notizia che egli
dà nella propria morte nella crociata dell’imperatore Corrado III, 1147
o 1148). Esaltando i costumi delle donne del suo tempo,
contrapposte alla corruzione delle fiorentine contemporanee, l’avo di
Dante parla della loro cura dei bambini in culla (anche con l’uso
ludico della lingua speciale rivolta ai neonati) e del loro uso di
raccontare insieme alle altre donne della casa, lavorando alla filatura
(tirando furori dalla rocca la chioma di lana, cioè il pennecchio,
estraendone il filo), le leggende sull’origine di Firenze. Queste
leggende risalivano fino alla fondazione di Fiesole per opera di
Atlante, uno dei cui figli sarebbe passato in Asia Minore per fondare
Troia: e seguivano poi le più note vicende dell’origine di Roma dai
transfughi da Troia e quelle che ho già ricordato sulla fondazione di
Firenze da parte di Cesare, creando così un favoloso nesso
originario tra Fiesole, Troia e Roma, come antenate di Firenze.
Fiesole in realtà era città etrusca, alleata della Roma repubblicana:
poi direttamente sottomessa a Roma col nome di Faesulae, fu il
centro più importante della zona fino all’età longobardica. Sotto il
dominio dei locali vescovi, perse di importanza man mano che
cresceva la potenza di Firenze, che, dopo vari conflitti, la sottopose
ad assedio e la distrusse quasi completamente nel 1125. Proprio in
seguito a questa distruzione, molte famiglie fiesolane passarono a
Firenze: ma probabilmente i Caponsacchi, di origine fiesolana, di cui
Cacciaguida dice che avevano dimora nella zona del Mercato
Vecchio (vedi p. 133), si erano già precedentemente stabiliti in città.
Sempre meno importante Fiesole fu nel XIII secolo (tra il 1227 e il
1228 lo stesso vescovo di Fiesole era stato costretto a trasferirsi a
Firenze) e ai tempi di Dante: poi, per la sua posizione strategica, di
fronte alla minaccia di Castruccio Castracani, nel 1325 i fiorentini ne
ricostruirono le mura.
Nella mattina del 12 settembre la conversazione con la proprietaria
del bed and breakfast in cui ho passato la notte mi apre uno
squarcio sulla crisi in atto: aveva lì accanto un negozio di mobili, che
ha dovuto chiudere per la scarsità delle vendite, riconvertendo così
la sua attività nel solo settore che oggi sembra in crescita. Il più
piccolo dei suoi quattro figli, del resto, si è appena iscritto a un
Istituto alberghiero, mentre un altro studia al Liceo classico e il più
grande, iscritto a un corso di laurea universitario in Scienze della
comunicazione, si trova a Madrid, in Erasmus. L’ansia è comunque
forte per tutti e quattro, in un momento in cui sta sfuggendo il
rapporto, un tempo naturale, tra gli studi e le successive possibilità di
lavoro.
Qui, subito alle spalle del Duomo, sono le tracce della Fiesole più
antica, degli etruschi e dei romani, dove a lungo è rimasta sepolta la
storia da cui venivano estratte le leggende d’i Troiani, di Fiesole e di
Roma. Primo visitatore della giornata, mi muovo tra le pietre in cui
sono stati individuati i siti di un tempio etrusco, di un tempio romano,
delle terme romane. Lo spazio più ampio e immediatamente
riconoscibile è quello del teatro, scavato nel leggero scoscendimento
del colle. Al di là della sommità delle gradinate e delle edicole
dell’ingresso, svetta la torre campanaria del Duomo, impiantata nel
1213 e poi rifatta con merlatura tra Sette e Ottocento: sembra
vigilare, come un esile ma sicuro segnacolo, sull’insieme delle
rovine. Dalla parte opposta, verso nord, si scorgono, oltre la valle del
Mugnone, le propaggini dell’Appennino tosco-emiliano; in basso
l’area è limitata dai resti del lato nord delle mura etrusche, accanto a
cui scorre una strada, appunto la via delle Mura etrusche. Davanti
alla gradinata che immette sul tempio etrusco due gattoni, uno del
tutto nero e l’altro grigio pezzato, sono in furiosa lotta, certo di tipo
erotico tra scodinzolii, zampate, miagolii tempestosi e ringhi
prolungati, seguiti da brevi pause che poi danno più forza agli
assalti, del tutto indifferenti alla mia presenza, come ai numi ignoti
che qui hanno lasciato le loro tracce.
Lascio Fiesole per la più moderna strada che scende su Firenze,
la via Fra Giovanni da Fiesole detto l’Angelico (a Fiesole nacque
intorno al 1400 il grande pittore, che a vent’anni entrò nel locale
convento di San Domenico): ma dove la strada si snoda in una
grande curva a gomito la lascio per prendere la bellissima via
Benedetto da Maiano, che si muove tra stretti muretti, ameni giardini,
ville di ogni stazza, con il monte Cèceri a sinistra e a destra
improvvisi squarci sul centro di Firenze, cupole e campanili.
Attraverso il borgo di Maiano, già abitato da scalpellini e scultori che
usufruivano delle vicine cave di macigno (cioè di pietra serena) del
monte Cèceri. Grandi scultori quattrocenteschi furono i fratelli
Benedetto e Giuliano da Maiano; ma il borgo richiama anche la
memoria di un contemporaneo di Dante, Dante da Maiano, rimatore
di una maniera definibile ancora come “guittoniana”, di cui sono
rimaste una cinquantina di liriche, ma che interessa soprattutto per i
sei sonetti in tenzone con l’Alighieri ancora giovane, tra cui Di ciò
che stato sé dimandatore, in risposta a quello che poi divenne il
primo sonetto della Vita nuova, A ciascun’alma presa e gentil core
(“A questo sonetto fue risposto da molti e di diverse sentenze”,
precisa Vita nuova, III 14, citando però solo il sonetto di Cavalcanti,
Vedesti, al mio parere, onne valore, senza menzionare gli altri).
Il percorso sulla via Benedetto da Maiano mi porta al limite
orientale dell’abitato di Firenze, sulla via Gabriele D’Annunzio: poco
dopo averla presa mi trovo davanti all’ingresso di un luogo “mitico”
per gli appassionati di calcio, il Centro tecnico federale di
Coverciano, sede del settore tecnico della Federazione Italiana
Gioco Calcio, impiantato nel 1959 per iniziativa del marchese Luigi
Ridolfi e di Daniele Berretti, a cui è intitolato. È la sede della
nazionale italiana di calcio, il centro di base per la formazione delle
sue squadre e per i loro allenamenti, che ha accolto i grandi
campioni italiani dell’ultimo cinquantennio, tra cui le squadre vincitrici
dei Campionati del mondo del 1982 e del 2006. Vicino al Centro,
poco più oltre, sulla via Aldo Palazzeschi, c’è anche un Museo del
calcio.
Proseguendo sulla via Gabriele D’Annunzio attraverso il ponte sul
torrente Mensola, breve torrente che dai colli fiesolani scende verso
l’Arno, che evoca la leggenda su cui Boccaccio ha costruito il Ninfale
fiesolano, poema sulla mitica origine di Fiesole e di Firenze. Nel
racconto di Boccaccio Mensola è una ninfa di Diana che,
trasgredendo il divieto della dea, ama il pastore Africo, ma poi lo
fugge, per paura della dea: Africo allora si uccide e il suo sangue dà
origine al torrente che porta il suo nome (sorge ai piedi di Fiesole e
scorre poco più a ovest, perlopiù interrato, fino a gettarsi anch’esso
nell’Arno); Mensola partorisce un figlio, ma viene subito punita da
Diana che la trasforma in questo torrente, mentre il bimbo che
fonderà Fiesole, viene affidato ai genitori di Africo.
Proprio D’Annunzio, certo pensando a questo ponte, accenna alla
“Mensola che ride / sotto il ponte selvaggia”, in una lunga poesia di
Alcyone, Il fanciullo, a cui segue quella più nota Lungo l’Affrico nella
sera di giugno dopo la pioggia. Gabriele proiettò su di un orizzonte
letterario e mondano il suo soggiorno nella vicina Settignano, altro
paese di tagliapietre, dove tra Quattrocento e Cinquecento sono nati
importanti scultori, come Desiderio, i fratelli Bernardo e Antonio
Rossellino, Bartolomeo Ammannati. Qui, svoltando sulla stretta via
della Capponcina, si trovano, quasi a fronte l’una dell’altra, la Villa
Porziuncola, dove Eleonora Duse risiedeva dal 1897, e la
Capponcina, acquistata da D’Annunzio nel 1898, per stare vicino
all’attrice, che in quell’anno ruppe il suo precedente rapporto con
Arrigo Boito. Nel nome della Villa della Duse si espande un’aura
francescana, paradossalmente coniugata in teatrale e mondana
eleganza: un’aura di cui lo stesso poeta si appropriava
combinandola con la sua erotica e retorica esuberanza, fino al punto
di intitolare francescanamente Laudi il ciclo poetico di quegli anni. La
Capponcina si chiamava così per essere stata possedimento della
famiglia Capponi; ma Gabriele, che la tenne fino al 1910, ne fece un
lussuoso tempio del suo sovraccarico estetismo. Aveva il vezzo di
firmare tanti suoi scritti di quegli anni con l’indicazione del luogo
come Settignano di Desiderio, trasformando il nome dello scultore
quattrocentesco in un emblema storico del desiderio inesauribile,
dell’erotismo entro cui mirava a inscrivere la sua vita e la sua
letteratura.
Salgo sulla via della Capponcina fino al centro di Settignano, dov’è
la chiesa di Santa Maria, che esisteva già nel XII secolo, ma ora ha
una semplice facciata intonacata di origine cinquecentesca. Poi,
dopo una breve ma tortuosissima salita, scendo verso Compiobbi,
borgo moderno sulla riva destra dell’Arno, che percorro sulla via
Aretina, fino a Pontassieve, dove la Sieve si getta sul versante
destro dell’Arno. Superato il ponte sulla Sieve, prendo la strada che
inizia a risalire il corso di questo fiume.
Acone

………………………………
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone…
(Par., XVI 65)

Dopo aver percorso pochi chilometri, alla sinistra della Sieve si trova
Rùfina, centro di produzione vinicola, ma anche con una fabbrica di
matite e colori, che è stata in passato la più presente sui banchi delle
scuole italiane, la FILA (acronimo per Fabbrica Italiana Lapis e
Affini). Qui svolto a sinistra, passando sulla riva destra della Sieve e,
sfiorando il borgo di Montebonello, salgo per una strada stretta e
tortuosa sulle falde del monte Giovi, per raggiungere il centro di
Acone, dal cui piviere (circoscrizione di più parrocchie), venne la
famiglia dei Cerchi, che Cacciaguida enumera tra coloro che
sarebbero ancora nella primitiva sede se la chiesa non avesse
osteggiato l’azione dell’impero.
Della presenza di questa famiglia di origine contadina a Firenze si
ha notizia certa all’inizio del XIII secolo: la grande ricchezza che
seppero raggiungere procurò loro l’investitura cavalleresca e in
seguito, nei loro sempre più intricati violenti conflitti con la famiglia
dei Donati, finirono per essere tra gli esponenti più attivi della parte
bianca. Già nell’Inferno, facendo riferimento per bocca di Ciacco alla
fase finale di quel conflitto, Dante, per indicare i Bianchi, usa
l’espressione di parte selvaggia, che si riferisce proprio all’origine
rustica, contadina dei Cerchi, e fissa un momento scatenante del
conflitto nello scontro del 1° maggio del 1300, quando in
un’aggressione i Donati tagliarono il naso a Ricoverino dei Cerchi, il
che causò la reazione dei Bianchi, con la condanna di vari esponenti
Donati (“Dopo lunga tenzone / verranno al sangue, e la parte
selvaggia / caccerà l’altra con molta offensione”, Inferno, VI 64-66).
Il piovier d’Acone, possedimento dei conti Guidi, divenuto nel XIV
secolo proprietà dei Medici, è distribuito in varie piccole località tra la
Sieve e il monte Giovi: ma io salgo verso il suo centro maggiore e
più elevato, Acone Sant’Eustachio, tra curve e tornanti, da cui più
volte si affaccia la vista sulla Sieve, su Rùfina e sui fitti insediamenti
industriali della successiva località di Scopeti. Si entra nel paese con
un piccolo viale di tigli e poi sulla destra si sale con pochi passi su di
uno spiazzo su cui si affaccia la semplice chiesa di Sant’Eustachio.
Su una delle sue porte una targa murata reca il nome del duca
Cosimo de’ Medici e la data del 1552, a ricordo di un intervento di
ricostruzione. Una lapide all’ingresso del paese e un accurato
cartello informativo ricordano eventi più recenti, che danno a questo
paese contadino un rilievo storico e un legittimo orgoglio: si tratta di
quello che viene definito addirittura come Stato libero di Acone, cioè
della spontanea partecipazione di tutto il paese alla lotta partigiana,
non solo con un gran numero di combattenti, ma anche con una vera
e propria organizzazione logistica a sostegno delle bande partigiane
attestate sul vicino monte Giovi e dei militari alleati fuggiti dai campi
di prigionia: quasi impianto di una piccola ed efficiente
amministrazione indipendente nella Toscana occupata dai tedeschi.
Procedendo sull’unica strada che attraversa il paese e poi diventa
sempre più stretta, scendo tortuosamente tra oliveti, alberi da frutta,
piccoli boschetti, vigneti, fino alla piana immediatamente a sud,
toccando il letto del torrente Argomenna e raggiungendo le case di
Acone Santa Maria e la omonima chiesetta campestre. Ritrovo poi
Montebonello e, attraversata la Sieve, salgo verso nord, toccando
Dicomano, borgo già esistente nel XIII secolo, sotto un castello dei
conti Guidi; su di un poggio si presenta la pieve di Santa Maria,
ancora nella forma romanica, pur in seguito a vari restauri. Questo
paese mi ricorda un poemetto parodico di Luigi Pulci, la Beca di
Dicomano, che rifà il verso alla Nencia da Barberino di Lorenzo il
Magnifico: entrambi riferiti al mondo contadino del Mugello, regione
di cui Dicomano costituisce il limite orientale (essa corrisponde
all’alta valle della Sieve, che, poco oltre Dicomano, piega verso
ovest e si fa più larga e distesa, fino al limite occidentale, costituito
proprio da Barberino).
Cascata dell’Acquacheta

Come quel fiume c’ha proprio cammino


prima dal Monte Viso ‘nver’ levante,
da la sinistra costa d’Apennino,

che si chiama Acquacheta suso, avante


che si divalli giù nel basso letto,
e a Forlì di quel nome è vacante,

rimbomba là sovra San Benedetto


de l’Alpe per cadere ad una scesa
ove dovria per mille esser recetto;
(Inf., XVI 94-102)

Ora non risalgo il Mugello e il corso della Sieve, ma piego verso


nordest, sul percorso dell’ex statale 67, per raggiungere un luogo
che, nelle mie tappe del 2014 tra Romagna e Casentino, non ero
riuscito a vedere (vedi p. 412). Si tratta della cascata
dell’Acquacheta, termine di paragone per la cascata del fiume
infernale nel XVI dell’Inferno, la cui visita richiede un percorso a
piedi, a partire da San Benedetto in Alpe.
Eccomi allora di nuovo a San Godenzo e poi sul passo del
Muraglione, poco prima del quale mi tenta una strada sterrata diretta
proprio all’Acquacheta e che sembra percorribile in auto. Il cielo
limpido del primissimo pomeriggio di questo 12 settembre mi invita
però a superare il passo del Muraglione e a raggiungere il
parcheggio di San Benedetto dove, sul fianco del corso del Montone,
prende avvio il sentiero dell’Acquacheta, che fa parte del Parco
nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte Falterona e Campigna.
Finalmente indosso scarpe adatte al cammino e entro nel sentiero,
che due anni prima avevo assaggiato solo nel suo tratto iniziale.
Procedo in un percorso perlopiù pianeggiante, che solo a tratti si
inerpica in qualche breve scarpata, si amplia e si restringe, sotto una
vegetazione che è frutto di un grande rimboschimento di una ventina
d’anni fa: dominano i faggi, ma intorno c’è una grande varietà di
piante, con cerri, biancospini, aceri campestri, ornielli, carpini neri,
noccioli e altro. Il torrente inizialmente scorre placido con qualche
avvolgimento su un fondo in prevalenza sassoso, spesso coperto
dalle fronde del bosco: nel tratto iniziale lo si costeggia sulla riva
sinistra, poi il sentiero, a tratti protetto da una stecconata, se ne
allontana, ma ritorna anche su di esso, attraversa torrentelli laterali
su ponticelli in assi di legno, si allarga in qualche radura erbosa, tra
varie segnalazioni per escursionisti, panchine per la sosta, anche
piccole capanne in mattoni, come una che è chiusa da una ben
munita porta di legno e che un cartello designa come Ca’ del Rospo,
a 570 metri s.l.m. Dopo essersi dilungati dal torrente, lo si ritrova in
punti in cui scorre scendendo su brevi ripidi pendii, piccoli salti a
gradino sulla roccia, dove un cartello avvisa sulla presenza della
trota di torrente (salmo trutta trutta) e del merlo acquaiuolo (cinclus
cinclus).
Tra qualche breve salita e qualche breve discesa, tra momenti in
cui le piante chiudono il percorso nell’ombra e altri in cui si affaccia il
sole tra ampi squarci di cielo, si incontrano negli spazi più aperti
massicci tavoli e panche in legno, ma una volta anche in arenaria
grigia. Appoggiato su un tavolo in pietra trovo un cartiglio tenuto
fermo da un grosso sasso, lasciato là deliberatamente da qualcuno,
dove a grossi caratteri di color verde, in una scrittura che sembra
riecheggiare le forme di quella umanistica petrarchesca, trovo le
seguenti parole: “lascia che mi fermi a benedir questi boschi per il
modo in cui il sole si intreccia con l’ombra in ogni ramo e foglia
dell’albero per questi sentieri che mi portano al loro interno, per
questi sentieri che mi guidano fuori.”
Avevo pensato lì per lì all’effusione, certo studiata
preliminarmente, dato quel tipo scrittura, di qualche viandante un po’
strambo: ma poi, nel rivedere queste note, con un rapido controllo su
Internet il motore di ricerca, oltre a offrirmi un’immagine di una delle
più dinamiche ed esposte figure politiche di oggi, la già
sottosegretaria Maria Elena Boschi, mi ha riproposto pari pari questi
versi, come opera dell’a me sconosciuto Michael S. Glaser,
Benedizione per i boschi: si tratta di un mio coetaneo, nato a
Chicago nel 1943, che per quasi tutta la vita ha insegnato inglese
all’Università del Maryland, di cui è anche poeta laureato e
professore emerito, autore di vari libri di poesia, che, a quanto ho
capito, dovrebbero essere molto cari a un certo tipo di naturisti. Ho
anche trovato l’originale della poesia, A Blessing for the Woods,
rispetto al quale quella traduzione appare comunque piuttosto libera.
Tralasciando queste benedizioni, in poco meno di un’ora e mezza
sono giunto in un punto in cui il sentiero segue una costa rocciosa,
sulla riva sinistra del torrente, davanti a un salto di roccia a strati
orizzontali, di circa 70 metri, in cui scende pochissima acqua, che
sembra appena sufficiente a tener bagnata la roccia: è proprio
questa la cascata dell’Acquacheta, vista dal basso, che ora non
rimbomba affatto, per la scarsità d’acqua in questo periodo.
Procedendo sul sentiero risalgo ancora il corso dell’acqua, che qui
non è più quella dell’Acquacheta, ma del torrente Lavane, che
confluisce nell’acqua della cascata. A breve distanza si trova un
piccolo invaso in cui l’acqua del Lavane si raccoglie scendendo da
una cascata dal salto di circa metà della precedente, ma con più
ampia portata e con più intenso fragore nello strisciare sulla roccia.
Un ragazzo e una ragazza (i primi che incontro) sono seduti sui
sassi a fianco del piccolo invaso, godendo la frescura e il sonoro
fruscio della cascatella.
Attraverso il torrente, che si può comunque attraversare senza
bagnarsi nel punto in cui esce dall’invaso, facendo attenzione a
puntare le scarpe sui sassi più emergenti: un sentiero risale
ripidamente per un dislivello di un centinaio di metri, raggiungendo
un piano in cui si apre un ampio spazio erboso. Siamo nella zona
detta Romiti, a 734 metri di altitudine, ormai nel comune di San
Godenzo, quindi in Toscana, anche se il punto di partenza, San
Benedetto nell’Alpe, era in Romagna. Qui sono varie rovine, appena
visibili, che possono far pensare a insediamenti eremitici sul luogo in
cui i Guidi pensarono di costruire un castello che fosse recetto a un
migliaio di persone (e resta il dubbio sull’interpretazione del passo,
secondo quando già notato nel corso del precedente viaggio: vedi
pp. 412-413). Molto oltre occorrerebbe salire per raggiungere il
piccolo eremo dei Toschi o di Santa Maria, attestato già nell’XI
secolo, ora affiancato da un vecchio fienile adibito a rifugio. Ma qui,
su questo piano dei Romiti, scorre più vicino alla sorgente il torrente
dell’Acquacheta, che con varie volute attraversa il bosco a fianco
dell’ampia prateria, dove sembra che prima del 1000 doveva essere
un lago, poi traboccato nella cascata e interrato. Seguendo da
questa parte il corso del torrente, che si muove anche con piccoli
salti su gradini intermedi, si giunge proprio sul fronte superiore della
cascata, dove si segue dall’alto il suo salto e la scarsa caduta
d’acqua, senza provare il brivido di Dante che dal fondo del baratro
vede salire il mostro Gerione, “sozza imagine di froda”.
Nel veloce ritorno non posso trattenermi dal sostare ancora un po’
davanti alla cascata del Lavane, sedendo accanto al laghetto che
essa forma, e poi dal contemplare ancora dal basso la cascata
dell’Acquacheta, fantasticando sui momenti di piena del torrente e
sul rimbombo della sua caduta durante le tempeste, quando troppo
rischioso sarebbe passeggiare tra questi boschi. Qui intorno
dovevano comunque muovere i viandanti al tempo di Dante: su
sentieri e mulattiere simili a questo egli si trovò a passare, quando
dal Casentino si diresse verso la Forlì di Scarpetta degli Ordelaffi.
Dal Lamone alla Badia di Susinana

Le città di Lamone e di Santerno


conduce il lïoncel dal nido bianco,
che muta parte da la state al verno.
(Inf., XXVII 49-51)

Qui, al margine tra Toscana e Romagna, da San Benedetto prendo


di nuovo la strada che costeggia dall’alto la valle dell’Acquacheta,
tenendola alla sua sinistra, che l’altra volta ho percorso solo in parte:
su questa strada montana, che valica il Passo dell’Eremo, così detto
per la vicinanza dell’eremo di Gamogna, fondato da san Pier
Damiani verso la metà dell’XI secolo, punto direttamente su Marradi,
sull’alto corso del fiume Lamone, quello che più giù bagna Faenza.
Siamo su un territorio geograficamente romagnolo, al di qua dello
spartiacque appenninico, ma inserito nella regione toscana, anche
perché Marradi, già appartenuta ai conti Guidi di Modigliana, dal XIV
secolo passò stabilmente sotto il dominio fiorentino.
La zona è peraltro legata al lïoncel dal nido bianco, pronto a
cambiare schieramento secondo le convenienze, cioè a Maghinardo
Pagani di Susinana (chiamato anche demonio in Purgatorio, XIV
118), che Dante, rivolto a Guido da Montefeltro, indica come signore
di Faenza e di Imola, le città di Lamone e di Santerno. Qui, sulla
strada per Faenza, poco oltre Marradi, nella frazione di
Sant’Adriano, era il maggiore castello-palazzo di Maghinardo, che vi
morì il 27 agosto 1302. La sola traccia ben visibile che ne rimane è
una tozza torre, nella zona di Casa Cappello: qualche decennio fa
era ancora collegata a una casa colonica, anch’essa resto
dell’edificio del castello. È ormai buio quando torno indietro dalla
rapida visita a Sant’Adriano; subito difficile si presenta la ricerca di
un alloggio a Marradi, dato che trovo chiuso un albergo di cui avevo
scorto l’insegna e ne trovo altri del tutto occupati. Mi prende una
certa ansia, col timore di dovermi allontanare parecchio per trovare
da dormire: ma vengo soccorso da una trattoria, dove posso gustare
dei porcini deliziosi, cucinati in diverse combinazioni, allietati dalle
telefonate del gestore, che, con grande efficienza, riesce a trovarmi
una stanza subito fuori del centro, in un bed and breakfast sulla riva
del Lamone.
Dopo la tranquilla notte nel silenzio dell’appartamento, in cui sono
il solo ospite, mi affaccio sul piccolo parco che fiancheggia la riva
sinistra del fiume, che scorre dolcemente tra fitta vegetazione. Nella
cucina/soggiorno del bed and breakfast c’è una copia del giornale di
ieri che presenta un’intervista alla Miss Italia appena incoronata, che
si presenta come persona che ama la cultura e che non vuole
rinunciare agli studi; vuole laurearsi per poter fare la trend
forecaster… È la prima volta che mi imbatto in questo termine
anglosassone, che indica un mestiere sicuramente profetico: fare
previsioni e anticipazioni nell’universo della moda, aprire le porte del
futuro proiettando la cosiddetta creatività sempre più avanti,
accelerando il procedere infinito del consumo, far sì che le tendenze
si anticipino e si dissolvano in questo anticiparsi, rincorrendosi fino
alla fine della corsa. Dialogo della Moda e della Morte, in un gioco
profetico verso un futuro che cancella ogni futuro, in un tempo e in
un’economia che si danno solo in un perpetuo cancellarsi: percorso
alla rovescia rispetto al raggiro dantesco (che oggi ci sembra
davvero patetico ed elementare) delle profezie post eventum. Trend
forecaster: nel quadro delle nuove professioni che trionfano sul
magico scorrimento del web, sulle sempre nuove apps che lo
vitalizzano (così solo da poco si sente parlare, e lo si sentirà sempre
più spesso, di un altro vantaggioso mestiere, quello di influencer,
colei o colui che esibisce sul web la sua esistenza, con gli oggetti, le
forme, le pose che l’accompagnano, per offrire modelli al vasto e
subalterno pubblico dei followers, per un gioco senza fine di
imitazione dell’imitazione: altro che desiderio mimetico!).
A Marradi, la patria di Dino Campana, nel fresco mattino del 13
settembre, si respira un’aria ancora lontana da queste evaporazioni
del vuoto contemporaneo, da questi scadimenti dell’insensata cura
dei mortali: un equilibrio sicuro e nel contempo pieno di modestia,
sembra armonizzare le strade lastricate, dare un colore omogeneo ai
bei palazzetti del centro. Ci si sente entro il cuore nobile di un’Italia
appenninica, ancora rivolta verso una modernità che non ha
rinunciato alla sostanza della sua vita montana, sotto il segno del
castagno e del fungo: e c’è anche un Centro di studio e
documentazione sul castagno, con una Esposizione permanente sul
castagno.
Ma sulle orme del demonio Maghinardo lascio Marradi per
dirigermi a Susinana, il luogo d’origine della sua famiglia, che aveva
qui uno dei suoi castelli, poi distrutto. Prendo una strada tortuosa
che in una decina di chilometri mi porta dalla valle del Lamone a
quella del Senio, torrente che scende verso la Romagna e, dopo
aver toccato Castel Bolognese, si getta nel Reno nei pressi di
Alfonsine. Protetto in parte da muraglioni è il tratto del torrente che
attraversa il borgo di Palazzuolo sul Senio, infeudato agli Ubaldini, al
limite del territorio su cui nel XIII secolo si estendeva anche il potere
dei Pagani, originari della vicina Susinana, che proprio con
Maghinardo si impossessarono anche di Palazzuolo: tornati gli
Ubaldini, lo cedettero nel 1362 ai fiorentini, che edificarono il Palazzo
dei Capitani; poi fece sempre parte del dominio fiorentino, fungendo,
come Marradi, da mercato per prodotti provenienti dalla Romagna.
Ci passò il papa Giulio II, che puntava su Bologna attraversando il
territorio fiorentino e vi sostò il 19 ottobre 1506, dopo aver dormito la
notte a Marradi, come racconta Machiavelli – che seguiva il papa
come legato della magistratura dei Dieci di libertà e pace – in un
dispaccio inviato da Palazzuolo quel giorno stesso.
Un colle ai margini della città custodisce le rovine del Castellaccio
feudale. Sulla piazza IV Novembre si affaccia il Palazzo dei capitani,
con un basso portico. Davanti a un piccolo giardino che dà sulla
piazza c’è un monumento, con un telamone stretto tra due blocchi di
pietra, su cui sono issate due bandiere, italiana e britannica. Opera e
dono dello scultore bolognese Luigi Mattei, il monumento ricorda la
divisione britannica che prima liberò Palazzuolo, il 24 settembre
1944.
A pochi chilometri da Palazzuolo, seguendo il corso del Senio
lungo la sua riva sinistra, una deviazione a destra porta verso la
Badia di Susinana, sul sito originario dei Pagani. Attraversato un
ponte sul Senio, le cui acque sono quasi completamente coperte da
folta vegetazione, si trova un mulino fortificato e poi massicci
capannoni, accanto a un grande spazio recintato, in cui si muovono
diversi animali, tra di essi perfino un cerbiatto; sono le strutture di un
agriturismo, con un campo di calcetto e un Ranch La Badia.
Proseguendo su una strada che costeggia la riva destra del Senio,
risalendone il corso, si arriva a una serie di edifici dentro cui è
inserita la chiesa della Badia, monastero vallombrosano fin dal 1090,
distrutta da un terremoto nella seconda metà del Trecento e poi
variamente ricostruita, fino a integrarsi entro quello che ora pare un
gruppo di abitazioni private. Non c’è più nessun convento e la
chiesa, quasi coperta da due grossi tigli, si riconosce per un
campanile a vela che svetta sulle case: a essa si accede da un
piccolo porticato. Ora è chiusa e, come indica un avviso, sembra che
si apra a sera, per la recita del Rosario. Una lapide, inserita sul muro
esterno nel 2004, riporta la traduzione di un passo del prologo della
Regola di San Benedetto, che invita all’obbedienza. Altra lapide,
apposta in età fascista, riporta i versi di Dante su Maghinardo,
preceduti da queste parole: QUESTA BADIA DONDE ERA SORTO / AVEVA
SCELTO COME ESTREMO ASILO / MAGHINARDO DE’ PAGANI (†1302) / SIGNORE DI
TERRE E CITTÀ DI ROMAGNA. Ma certo di quel suo sepolcro non
dovrebbe esserci alcuna traccia.
Gli Ubaldini nel Mugello

Vidi per fame a vòto usar li denti


Ubaldin da la Pila e Bonifazio
che pasturò col rocco molte genti.
(Purg., XXIV 28-30)

Lascio il demonio Maghinardo e, dopo essere tornato a Palazzuolo,


attraverso i territori dei suoi vicini Ubaldini, ghibellini di più antico
lignaggio e più potenti dei Pagani, tanto che Maghinardo, pur
ghibellino, preferì perlopiù appoggiarsi ai guelfi fiorentini per
contrastare il loro potere (gli storici giustificano il suo vario mutare
partito, al di là della condanna che ne fa Dante, proprio con la sua
necessità di procurarsi uno spazio autonomo in una zona su cui
premevano altri signori ghibellini). Gli Ubaldini erano saldamente
impiantati nel Mugello, in cui vari possedimenti aveva il ramo della
Pila, a cui appartiene il penitente Ubaldino della Pila, che sconta la
pena del digiuno nella cornice dei golosi ed è ricordato accanto
all’arcivescovo Bonifacio dei Fieschi. Questo Ubaldino, morto entro il
1285, aveva partecipato alla battaglia di Montaperti ed era stato tra
coloro che avevano proposto di distruggere Firenze: era fratello del
cardinale Ottaviano, condannato tra gli eretici (Inferno, X 92) e padre
dell’arcivescovo Ruggieri, il nemico che fa da “fiero pasto” alla rabbia
del conte Ugolino.
Da Palazzuolo la strada risale il tratto più a monte del Senio,
toccando il santuario settecentesco della Madonna della Neve a
Quadalto, che ha un bel portichetto a tre archi, e superando, in un
paesaggio di grande varietà, il Passo della Sambuca, a 1080 metri.
Dopo il passo si raggiunge la strada che viene da Marradi, dove si
incontra molto presto una fontana di freschissima acqua
appenninica, la Fonte dell’Alpe: vicino c’è un edificio a due piani tutto
chiuso e transennato, dove è ancora l’insegna di un hotel pensione
dismesso. Si segue la discesa lungo un torrente che scende verso la
Sieve, mentre la vista si apre sulla piana del Mugello. Dopo l’abitato
di Ronta, un bivio a destra porta sul colle di Pulicciano, dominato
dalla chiesetta di Santa Maria, di cui si ha notizia dal 1220. Questa, il
cui semplice assetto attuale risulta da successive ricostruzioni, si
affaccia su un prato erboso aperto sulla valle della Sieve, da cui si
diparte un sentiero che scende dolcemente verso le prime case del
borgo, dove nel 1766 nacque il poeta neoclassico e democratico
Filippo Pananti, autore del piacevole poemetto Il poeta di teatro,
pubblicato a Londra nel 1808.
Su questo colle era un castello degli Ubaldini: e nelle sue
vicinanze si ebbe lo scontro del marzo 1303 in cui i Bianchi e i loro
alleati, guidati dal forlivese Scarpetta degli Ordelaffi – presso cui è
probabile che Dante si sia recato precedentemente, come
consigliere della Università dei Bianchi – furono sconfitti dai
Fiorentini, guidati da Fulcieri da Calboli, che compì poi atti
crudelmente repressivi verso i prigionieri. Qui l’evento è ricordato da
una lapide a sinistra della porta della chiesa, apposta per il
centenario del 1921: QUESTA ROCCA AVVEZZA PER PIÙ SECOLI AD AS /SEDI E
BATTAGLIE, OGGI NEL SECENTARIO DELLA MORTTE / DI DANTE FRA I RESTI DELLE
SUA MURA ACCOGLIE / IL RICORDO DELL’ASSALTO E DELLA FUGA DI / SCARPETTA
DEGLI ORDELAFFI COI FUORIUSCITI / FIORENTINI E DELLE ASPRE VENDETTE DI
FULCIERI / DA CALBOLI NEL MARZO DEL 1303 LIETA / DELLO SCAMPO DI DANTE ED
ORA PER GLI AUGURII / DI PACE GRATA AGLI ABITANTI DEL SUO PULICCIANO / E DI
RONTA – 1321-1921. A destra della porta della chiesa fa da pendant
un’altra lapide, apposta poco prima, nel 1920, con i nomi di ben
diciassette caduti di Pulicciano nella Grande Guerra e di due nella
guerra libica.
Mentre mi avvio verso il centro più grande e popolato del Mugello,
Borgo San Lorenzo, mi raggiunge per telefono la notizia della morte
di un vecchio scrittore e giornalista napoletano (nato nel 1927),
Ermanno Rea: e ripenso alla sua vibrante tensione umana, alla
appassionata coscienza critica con cui ha vissuto e interrogato le
vicende del comunismo del dopoguerra, in quella miscela di caratteri
aristocratici e popolari che esso ha assunto nell’ambiente
napoletano: vicende a cui ha dato voce con ferma scrittura, lontana
da ogni corrività e da ogni piegatura narcisistica, in molti suoi libri,
ma soprattutto in Mistero napoletano (1995).
Addolorato, mi trovo un po’ confuso nell’attraversare Borgo San
Lorenzo, dove sfioro appena la pieve di San Lorenzo, che risale al
XIII secolo ed è stata ricostruita abbastanza fedelmente all’originale
romanico dopo un terremoto del 1919. Borgo San Lorenzo,
originariamente feudo degli Ubaldini, era stato a lungo sotto il
controllo dei vescovi di Firenze, quando, alla fine del XIII secolo era
passato direttamente al Comune fiorentino (è vero però che, quando
si pensa ai confini tra stati e poteri del tempo, occorre sempre tener
presente che essi si disponevano a macchia di leopardo, con
interferenze tra poteri comunali, religiosi e feudali, intricate
sovrapposizioni di forme di controllo e di amministrazione). Qui
intorno si può salire, a pochi chilometri da Borgo San Lorenzo, sui
colli a sud del corso della Sieve, per trovare la pieve di San Cresci in
Valcava, che nel XIII secolo era sotto la giurisdizione dei vescovi di
Firenze, sul presunto luogo di un martirio, che sarebbe avvenuto nel
250. Molti leggendari miracoli sono stati attribuiti a questo santo, di
cui nella pieve si conserva il cranio: ma il curioso nome di San
Cresci in Valcava lo ha esposto a un malizioso doppio senso erotico,
su cui ha giocato il Boccaccio nella novella di Alatiel, la principessa
saracena passata fra tanti amanti e “restituita al padre per pulcella”.
Dando una versione parodica delle sue peripezie, Alatiel parla del
suo soggiorno in “un monastero di donne”, dove con loro avrebbe
devotamente “servito a san Cresci in Valcava, a cui le femine di quel
paese voglion molto bene” (Decameron, II VII 109).
Procedendo verso le tracce degli Ubaldini, tocco la zona intorno al
monte Senario, uno dei colli che separano l’alta valle della Sieve
dalla valle dell’Arno. C’era un castello degli Ubaldini tra il borgo di
Polcanto (che è sulla strada che da Borgo San Lorenzo va verso
Firenze) e, al suo fianco ovest, il monte Senario e il borgo di
Bivigliano, dove era anche la badia di Faltona. Secondo una
leggenda della famiglia Ubaldini, il castello avrebbe ricevuto una
visita dell’imperatore Federico Barbarossa, a cui sarebbe stata
donata la testa di un grande cervo, afferrato con la forza delle mani
dal capo della famiglia durante una partita di caccia nei boschi di
Polcanto. Nessuna traccia del castello tra le poche case di Polcanto:
le lascio salendo sulla modesta Vetta le Croci e prendo una strada a
destra che, aggirandosi tra boschi, attraverso una formidabile
abetaia, mi conduce in alto, in cima al monte Senario (817 m.), dov’è
un santuario e convento sorto verso la metà del XIII secolo per
iniziativa di sette nobili fiorentini, che così fondarono l’ordine dei
Servi di Maria. Il nome del monte deriva da una corruzione della più
umile denominazione di monte Asinario: e come Monte Asinaio lo
chiama il Boccaccio nella novella supplementare inserita
nell’Introduzione alla IV Giornata, con la vicenda di quel Filippo
Balducci che fugge dal mondo, portando con sé il figlio, senza dargli
nessuna cognizione del mondo e tanto meno dell’esistenza delle
donne:

Per che, data ogni sua cosa per Dio, senza indugio se n’andò
sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta se mise col
suo figliuolo, col quale di limosine in digiuni e in orazioni
vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, là dove
egli fosse, d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna
vedere, acciò che esse da così fatto servigio nol traessero, ma
sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de’ santi gli
ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli. E in
questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo
uscire né alcuna altra cosa che sé dimostrandogli.
(Decameron, IV, Introduzione, 15)

Quando all’età di diciotto anni il ragazzo viene condotto in città, vede


una brigata di belle donne e chiede di cosa di tratti. Il padre gli dice
di non guardarle, perché sono mala cosa, aggiungendo che si
chiamano papere: ma resta sconfitto nel suo proposito di negare la
forza della natura, quando il figlio gli chiede di fargliene avere una.
Il convento sorse su un sito in cui già si trovavano piccole celle
eremitiche, come quella che viene attribuita a Filippo Balducci: ed è
probabile che, collocandola proprio sul monte Asinaio, Boccaccio si
trovasse implicitamente a ironizzare sulla vicenda dei sette fondatori
e sui rigori sessuofobici dei Servi di Maria.
Raggiungo il piazzale antistante il santuario mentre il cielo si
oscura e si sentono tuoni minacciosi. Una terrazza panoramica si
affaccia sui colli e sulle valli circostanti, in parte coperti da un grande
movimento di nuvole. Ma non ne sembrano preoccupati un uomo e
una donna che stanno tranquillamente leggendo accanto a un
parapetto, lei su una sdraia con una coperta sulle gambe, lui disteso
pericolosamente sopra il muretto con le gambe accavallate.
L’ingresso del convento (che ha subito varie modificazioni rispetto
all’impianto originario) si presenta ora in fondo a una scalinata di
ridotta pendenza, con una strana facciata sormontata da un orologio
e da un fastigio ricurvo che culmina in un campanile a vela. A fianco
dell’ingresso, la facciata della chiesa ha un classico portichetto
quattrocentesco: al suo interno c’è una cappella che risale al nucleo
più antico. Vi sarebbe apparsa la Madonna, per invitare i sette
fondatori a creare il convento e il nuovo ordine; e più tardi vi celebrò
la sua prima Messa Filippo Benizi, il santo nato nel 1233, lo stesso
giorno della visione dei sette, che fu poi superiore generale
dell’ordine.
Comincia a piovere quando mi dirigo verso la vicina Bivigliano, che
attraverso tra ordinati vialetti su cui si affacciano villette e case di
vacanza. Ma la pioggia improvvisamente cessa, scendo allora dal
centro del paese e mi dirigo verso la chiesa di San Romolo, che si
affaccia su un pendio a mezza costa, dedicata al santo protettore di
Fiesole, documentata nel XII secolo, con una facciata in parte
coperta da un semplice portichetto, sormontato da una tettoia, con
un rustico aspetto romanico. Da qui la vista si apre verso la valle del
Mugnone e la collina di Fiesole. Poi, oltre Bivigliano, mi trovo sulla
via Bolognese, più di dieci chilometri a nord di Trespiano (vedi p.
1098), accanto all’abitato di Vaglia.
Procedendo ora verso nord, la via Bolognese raggiunge l’alto
corso della Sieve, a monte di Borgo San Lorenzo, e trova sulla
sinistra, subito dopo una curva, la Villa medicea di Cafaggiolo.
Circondata da vecchie case agricole, la villa è in restauro, e il suo
corpo centrale, con la sua grande torre merlata, è coperto da teloni e
ponteggi. Una grande sequoia, che la leggenda vuole portata qui da
Amerigo Vespucci da quell’America a cui diede il nome, campeggia
nell’ampio spazio antistante l’edificio; alla sua sinistra è ben visibile il
lungo edificio delle scuderie, con le mura elegantemente decorate.
Già proprietà dei Medici nel XIV secolo, in uno dei siti originari della
famiglia, la villa fu sistemata intorno al 1454, nelle forme ancora in
gran parte persistenti, da Michelozzo, per volere di Cosimo il
Vecchio, e fu molto frequentata da Lorenzo il Magnifico. Dopo suoi
vari usi e ristrutturazioni, è ora passata in proprietà di un magnate
argentino di origine austriaca, Alfredo Lowenstein, che sembra
voglia farne il centro di un gigantesco resort di lusso, per la cui
quiete dovrebbe essere spostata più lontano la strada che ora le
scorre davanti.
Dopo Cafaggiolo si trova il lago artificiale di Bilancino, limitato da
una diga con sbarramento sulla Sieve verso sudest; è nato in tempi
molto recenti, con progetti e lavori realizzati in seguito all’alluvione di
Firenze del 1966, che hanno portato all’inaugurazione della diga nel
1999. Il bacino del lago si dispone longitudinalmente da est a ovest,
a sud di Barberino del Mugello, ricevendo l’acqua di vari torrenti,
regolando poi il flusso dell’acqua che sbocca nella Sieve e di lì
nell’Arno, e facendo anche da serbatoio idrico per la città di Firenze.
Mangona e l’alta valle del Bisenzio

Se vuoi saper chi son cotesti due,


la valle onde Bisenzo si dichina
del padre loro Alberto e di lor fue.

D’un corpo usciro; e tutta la Caina


potrai cercare, e non troverai ombra
degna più d’esser fitta in gelatina:
(Inf., XXXII 55-60)

Costeggio il lago e punto a nord attraversando rapidamente


Barberino del Mugello, il cui mondo contadino è messo in scena
nella Nencia da Barberino, poemetto di Lorenzo il Magnifico, che
potrebbe averlo scritto proprio durante uno dei suoi soggiorni nella
vicina Cafaggiolo. Risalgo lungo il corso di uno dei torrenti che si
gettano nel lago artificiale, per superare poi i rilievi che separano il
Mugello dalla Valle del Bisenzio, ricordata nel fondo dell’Inferno,
come dimora di due traditori confitti e strettamente addossati nel
ghiaccio della Caina, che Dante ha visto cozzare l’uno contro l’altro
“come due becchi”, la cui identità viene rivelata da un altro dannato,
che si presenterà come Camicione dei Pazzi di Valdarno.
Si tratta di due fratelli della famiglia dei conti di Vernio e di
Mangona, Napoleone e Alessandro, figli di Alberto degli Alberti: una
violenta inimicizia li divise, dopo che Napoleone aveva ricevuto solo
un decimo dell’eredità paterna, a vantaggio di Alessandro e dell’altro
fratello Guglielmo. Così, mentre Alessandro era schierato con la
fazione guelfa, Napoleone fu ghibellino, compiendo vari atti ai danni
del fratello. La pace sottoscritta in occasione dell’intervento
pacificatore in Firenze del cardinale Latino Orsini (1280) non fermò
la contesa, che portò a un reciproco assassinio. Secondo Benvenuto
si uccisero l’un l’altro; secondo documenti Napoleone fu ucciso da
Alessandro, mentre Alessandro fu ucciso da Orso, figlio di
Napoleone; lo stesso Orso, che appare tra i morti per violenza in
Purgatorio, VI 19, fu poi ucciso da Alberto, figlio di Alessandro
(eventi avvenuti prima del novembre 1286, quando ci fu un definitivo
atto di pacificazione tra i due rami della famiglia).
La strada che da Barberino sale sulla propaggine appenninica che
fa da spartiacque tra la valle della Sieve e quella del Bisenzio passa
a un certo punto sotto il tracciato dell’autostrada: il paesaggio
montuoso è solcato dalla direttrice centrale del traffico tra nord e
sud, con le gallerie vecchie e nuove della ferrovia Firenze-Bologna,
con ponti, viadotti, gallerie del tracciato di base dell’autostrada del
Sole e della nuova Variante di Valico, che si dirama a partire
dall’uscita di Barberino del Mugello e che poi variamente si interseca
con l’altro percorso, fino a riconvergere sul versante emiliano presso
Rioveggio. Salendo tra boschi, anche con vista sull’autostrada,
giungo a Mangona, borgo silenziosissimo. C’è un lungo caseggiato
attestato su un vialetto su cui immette un cancello semiaperto, poi la
piazza centrale, che appare deserta. Dalla strada per Montepiano si
diparte una stradina che il cartello indica come diretta verso un
Castello della corte: un percorso sassoso mi conduce su un colle
che sovrasta le case del paese, ma la strada si arresta davanti a un
viale di cipressi chiuso da un cancello; una cassetta postale senza
nome fa comunque capire che si tratta di una proprietà privata.
Tornato indietro sosto davanti a un bar ristorante-pizzeria, che
appare chiuso, ma che esibisce una denominazione laurenziana, La
Nencia (Mangona del resto fa parte del comune di Barberino). Da
qui si diparte la stretta via delle Sode, che tra boschetti e frutteti
approda finalmente tra curve continue sulla valle del Bisenzio, nel
centro di Vernio.
Insediati nel territorio di Vernio fin dal XII secolo gli Alberti, originari
di Prato, si indebolirono nel corso del XIII secolo, anche in seguito ai
violenti contrasti di cui si è detto: e nel 1332 vendettero il feudo di
Vernio alla famiglia dei Bardi, potenti banchieri, che vi istituirono una
contea che, pur subendo vari attacchi, rimase autonoma (anche
amministrativamente) fino all’età napoleonica. Nella zona del borgo
di San Quirico, a nord del centro cittadino, c’è il sito del Castello, che
ha subito varie modifiche nel corso del tempo, e in cui c’è qualche
traccia dell’antica rocca degli Alberti. Una più consistente, ma
completamente diroccata traccia del potere degli Alberti si trova poi
più a sud, ben visibile su un colle oltre la riva sinistra del Bisenzio, a
sinistra della strada diretta verso Prato, che ne fiancheggia la riva
destra, accanto a uno stabilimento di tintoria industriale e ai binari
della vecchia direttissima Firenze-Bologna: è la Rocca di Cerbaia,
che appare come una dentata e frantumata rovina, che il locale
comune di Cantagallo cercherà di restaurare, per renderla
adeguatamente visitabile.
Una leggenda vuole che Dante, passando di qua per recarsi a
Bologna, abbia invano chiesto ospitalità agli Alberti e sia stato poi
accolto nella casa di un povero pastore, sulla riva del fiume. È
invece un dato storico quello che collega gli ultimi anni di vita di
Cunizza da Romano (vedi p. 645) alla rocca di Cerbaia: ella era
infatti figlia di una Adelaide degli Alberti, zia dei truci fratelli, che
aveva sposato Ezzelino II da Romano. In un documento redatto
proprio a Cerbaia, Cunizza fece testamento a favore dei nipoti
Alberti, alla data del 10 giugno 1279, in un momento in cui i tremendi
fratelli erano in via di un’illusoria pacificazione: ma è comunque
leggendaria la credenza che qui Cunizza abbia passato i suoi ultimi
anni. In ogni modo, nello sviluppo dei successivi conflitti e nello
smembramento dei feudi del Bisenzio, anche Cerbaia finì per essere
venduta, direttamente al comune di Firenze.
Parma

…vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.
(Inf., XX 118-120)

Dopo aver sfiorato la Rocca di Cerbaia, torno indietro verso nord,


per risalire la dorsale appenninica oltre Vernio, fino a passare sul
versante emiliano e da Castiglione dei Pepoli raggiungere
l’autostrada all’ingresso di Roncobilaccio. Mi allontano così dal vario
aggirarmi intorno a Firenze, immettendomi nel traffico dell’autostrada
fino a raggiungere Parma, città che Dante non nomina nella
Commedia, anche se menziona, tra gli indovini condannati nella
seconda bolgia, un parmigiano a cui aveva già fatto cenno nel
Convivio, IV XVI 6, come esempio di non coincidenza tra nobiltà e
celebrità, notando che se nobile si intendesse “essere da molti
nominato e conosciuto… Asdente, lo calzolaio di Parma, sarebbe più
nobile che alcuno suo cittadino”.
Questo Asdente ci è noto soprattutto per i molti riferimenti alla sua
presenza nella vita di Parma che si trovano nel più vivace e colorito
scritto cronistico duecentesco, la Chronica del francescano
Salimbene de Adam (1221-1288), che lo conobbe e lo apprezzò (e
dà notizia della sua presenza in Parma ancora nel 1284). Il suo vero
nome era Benvenuto, mentre Asdente (o Asdenti, cioè senza denti)
era un ironico nomignolo, riferito, come dice Salimbene, alla sua
dentatura fortissima e disordinata, che gli dava qualche difficoltà di
pronuncia: artigiano e uomo del popolo, ma capace di leggere e
interpretare i testi profetici, da cui cercava di trarre previsioni, senza
pretendere di essere personalmente indovino e profeta. Non solo
non ebbe nessuna condanna da parte della chiesa, ma fu in buoni
rapporti con i cittadini di Parma e con lo stesso vescovo Obizzo
Sanvitale: la condanna di Dante viene perlopiù fatta risalire a una
diffidenza comunque di tipo aristocratico verso la credulità
“popolare”.
Un riferimento a Parma Dante lo aveva fatto nel De vulgari
eloquentia, I XV 4, nel quadro della garrulitas, stridore, e acerbitas,
rozzezza e durezza, dei volgari settentrionali, troppo lontani da
quello aulico: diceva che i parmensi ne sono anche più lontani dei
vicini ferraresi, reggiani, modenesi, come mostrerebbe il fatto che
“monto pro ‘multo’ dicunt” (“dicono monto per ‘molto’”). Più tardi egli
manifestò la sua antipatia verso i trascorsi antimperiali di Parma,
ricordandoli nell’epistola ai Fiorentini: invitando i suoi concittadini a
non prendere audacia dalla fortuna che ebbero i parmensi, quando
nel febbraio 1248, assediati da Federico II, spinti dalla fame,
irruppero a sorpresa nell’accampamento dell’imperatore, che allora
era assente e saccheggiarono Vittoria – borgo là già impiantato per
sostituire la città ribelle che Federico intendeva distruggere – anche
se più tardi, aggiunge Dante, dovettero provare dolore per altre
sconfitte (Epistola VI V 19).
Lo sviluppo storico di Parma si è intensamente prolungato nel
tempo, al di là dei conflitti tra fazioni e famiglie cittadine dei tempi di
Dante e della successiva sottomissione alla Milano dei Visconti e
degli Sforza: la città ha assunto un nuovo ruolo geopolitico e un
nuovo rilievo culturale con la creazione, per iniziativa del papa Paolo
III e del figlio Pier Luigi, del ducato dei Farnese, passato poi ai
Borbone e tenuto, dopo la parentesi napoleonica, proprio dalla
sposa austriaca del Bonaparte, Maria Luigia. Una lunga storia, forme
artistiche e culturali aperte in più direzioni, dall’orizzonte manieristico
cinquecentesco all’illuminismo e al classicismo settecenteschi, fino
alle suggestioni musicali verdiane e ai fermenti di un vitalissimo
Novecento: il tutto come alimentato dal respiro umano e produttivo
della campagna circostante, che, combinandosi con i caratteri dello
spazio urbano, sembra come creare un ambiente di avvolgente
fisicità, un indefinibile ma perfettamente riconoscibile ethos
parmigiano. Parma reale e immaginaria nello stesso tempo, dove
l’energia della Parma inventata da Stendhal (La Certosa di Parma,
intorno a una Certosa che non esiste) si stempera e si attutisce in
una sensualità appagata o comunque fiduciosamente proiettata
verso il suo appagamento (penso in proposito al poema del
parmense Attilio Bertolucci, La camera da letto, 1984 e 1988).
Da questo orizzonte Dante è in effetti piuttosto lontano, come
troppo scarsi furono i suoi rapporti con Parma, ben diversamente da
quanto accadrà qualche decennio più tardi a Petrarca, che fu ospite
di Azzo da Correggio negli anni in cui tenne la signoria della città nel
1341-42 e nel 1344-45 e poi vi tornò a più riprese tra il 1348 e il
1350, quando essa era passata definitivamente sotto la signoria dei
Visconti: e varie sono le cose che Petrarca scrisse a Parma e nel
feudo dei Correggio, tra il castello di Guardasone e i boschi e prati di
Selvapiana, nella valle dell’Enza, presso Canossa. Parma non ha
comunque trascurato Dante nel fervore dantesco dell’Ottocento
romantico: nella Biblioteca Palatina c’è una Sala dantesca con
affreschi dipinti tra il 1841 e il 1858 da Francesco Scaramuzza
(1803-1886), nato a Sissa, nei pressi di Parma, con soggetti ispirati,
in una forma classicistica con venature romantiche, soprattutto ai
primi canti dell’Inferno. Lo Scaramuzza, che pure si è curato di
Petrarca (dipingendo nel 1841 un Tempietto petrarchesco costruito a
Selvapiana per volontà della duchessa Maria Luigia in memoria del
soggiorno di Petrarca), è anche autore di una grande serie
incompiuta di disegni dell’intera Commedia.
Un rapido percorso per le strade di Parma, nella sera del 13
settembre e nella mattina del 14, mi fa affacciare sulle tante anime
della parmigianità, dall’incompiuto (e forse più affascinante proprio
perché incompiuto) manierismo del grande Palazzo della Pilotta (che
accoglie dentro di sé la sala di uno dei più formidabili teatri storici, il
Teatro Farnese), al neoclassico Teatro Regio, tempio della musica
operistica, alla sontuosa chiesa cinquecentesca della Madonna della
Steccata, alla piazza Garibaldi con la neoclassica facciata con
torretta del Palazzo del Governatore, alla storica Trattoria dei
Corrieri, sempre più ampia e affollatissima, trasformata in un
intreccio di sale che si susseguono l’una l’altra…
Mi riconduce più vicino all’orizzonte dantesco quella che è una
delle piazze più perfette del mondo, di quelle che meglio lasciano
trasparire la suggestione di un altro mondo e di un’altra storia,
rispetto a quella che stiamo vivendo: la piazza del Duomo, dove il
solo corpo estraneo sembra il cinquecentesco Palazzo del
Seminario al fianco destro del Duomo. Sosto a lungo nella sera nello
spazio tra il Duomo, il Battistero, il Palazzo Vescovile (con facciata
rifatta nel Novecento in forma medievaleggiante, ma ben integrata
nel contesto) e quello del Seminario, sedendo sulle panche di pietra,
avvicinandomi alle facciate, cercando di fissare gli occhi, nella
scarsa luce, sulle decorazioni e i rilievi, cambiando spesso punto di
osservazione, trovando ogni volta prospettive e scorci diversi. Ecco
la facciata del Duomo, già terminata verso la fine del XII secolo, con
i tre ordini di arcatelle, il superiore obliquo, parallelo agli spioventi del
tetto a capanna, col protiro inserito prima della fine del XIII secolo. E
l’alto campanile, la cui sommità sembra perdersi nel buio, quasi
svanire nell’alto della notte, come a segnare un raccordo con
qualcosa che manca.
L’impressione più eccezionale è quella data dal Battistero, la cui
costruzione iniziò nel 1196 e che fu lentamente compiuto nel corso
del XIII secolo, fino al primo decennio del Trecento: con il suo corpo
ottagonale e i cinque regolarissimi piani di loggette (nei primi quattro
piani architravate aperte e nel quinto cieche), che scandiscono gli
otto lati in un ritmo che sembra propagarsi nello spazio circostante.
Ecco nei portali i rilievi dell’Antelami, con storie bibliche, figure sacre,
immagini simboliche, emblemi della vita cristiana, fino alla finale
Resurrezione dei morti, nel fregio dell’architrave del portale
occidentale (che è quello meglio illuminato), dove i risorti si muovono
fuori dai sepolcri in due file ordinate e convergenti verso due angeli
che con lunghe trombe ricurve chiamano al Giudizio.
Certo l’illusione di un altro tempo sembra amplificata, ma nello
stesso tempo vanificata, dalla pur discreta e soffusa illuminazione.
Ed è piacevole seguire il pulsare della vita di oggi che scorre intorno,
con la serenità che talvolta soffonde la sera dei giorni feriali: ragazze
sedute sulle panche del Battistero, del Palazzo Vescovile, sui gradini
del sagrato del Duomo; un nero in bicicletta che attraversa la piazza
velocissimo e sorridente; echi intersecati di voci giovanili che
vengono dalle strade circostanti; un altro nero, forse etiope, che
furiosamente va e viene, entra nella piazza, la percorre
diagonalmente, esce fuori e dopo un po’ vi rientra.
La Pietra di Bismantova

Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,


montasi su in Bismantova e ’n Cacume
con esso i piè; ma qui convien ch’om voli;
(Purg., IV 25-27)

La mia sosta a Parma si collega a una rapida puntata ferroviaria a


Milano, alla Biblioteca Braidense per la prima riunione del Comitato
scientifico-esecutivo del Centro studi Lalla Romano, che ha luogo in
una sala della biblioteca interamente dedicata alla scrittrice, con
gran parte dei suoi libri, tutte le edizioni delle sue opere, alcuni dei
quadri da lei dipinti, manoscritti e varia documentazione: tutto
raccolto e curato da Antonio Ria, l’allora giovane compagno dei suoi
ultimi anni. Scrittrice dell’essenziale, rivolta a interrogare la propria
esistenza e il mondo circostante nel loro sfuggente ma reale
consistere, entro un linguaggio “rastremato” e in piena luce, che
proprio nella sua classica razionalità viene a sfiorare il punto
inafferrabile in cui il senso del vivere viene come a rivelarsi e nel
contempo a nascondersi: tanto lontana è ormai Lalla, scomparsa a
novantacinque anni nel 2001, ma nella stanza della Braidense rivive
l’intensità della sua parola, il suo sguardo al mondo così pieno di
determinazione, sospeso tra dolcezza e durezza. Per me è stato
molto bello conoscerla e incontrarla più volte in quei suoi ultimi anni.
Da Milano partenza immediata nel primo pomeriggio, recupero
dell’auto a Parma e percorso fino a tarda sera per l’autostrada della
Cisa, sfiorando la già visitata Lunigiana dantesca (vedi pp. 851-866).
Dopo Aulla supero lo spartiacque tra Magra e Serchio, percorrendo
poi la tortuosa strada dell’alta valle del Serchio, dal centro di Piazza
al Serchio fino a Castelnuovo di Garfagnana, già toccata in una
precedente tappa di questo viaggio dantesco (vedi p. 839), dove nel
mattino del 15 settembre partecipo a un piccolo convegno
ariostesco, nel quinto centenario della prima edizione, 1516,
dell’Orlando furioso, ma con un’attenzione focalizzata sull’attività
svolta da Ariosto, più tardi, tra il 1523 e il 1525, come governatore
della Garfagnana, territorio allora di frontiera, exclave estense
affacciata sui territori lucchesi e fiorentini, in un ambiente di
poverissima economia, che aveva tra i suoi beni centrali la raccolta
dalle castagne. Per l’occasione visito la formidabile fortezza di
Mont’Alfonso, arroccata su un costolone delle Alpi Apuane, subito a
ovest di Castelnuovo, impiantata dagli Estensi verso la fine del
Cinquecento, poco prima che perdessero il ducato di Ferrara:
rilevata e restaurata dalla Provincia di Lucca, quando ne era
presidente Aldo Tagliasacchi, che ora è sindaco di Castelnuovo e ci
accompagna nella visita. Nella ricorrenza ariostesca c’è ora una
mostra di disegni dell’artista lucchese Antonio Possenti – scomparso
proprio due mesi prima, a luglio, all’età di ottantatré anni – Altrove e
altri luoghi. Occasioni e suggestioni dall’“Orlando furioso”: un
eccezionale talento grafico proietta qui le suggestioni del poema e
dell’autore verso un brulicante mondo di sogno, verso una
espansione onirica, come catturata e alleggerita dalla nitidezza dei
contorni, dal disegno che avvolge un gioco di squillanti colori e di
fantastiche deformazioni delle figure.
Dopo questa diversione mi aspetta il prossimo luogo dantesco, un
luogo poco noto e come defilato nel cuore dell’Appennino tosco-
emiliano: è la Pietra di Bismantova, che Dante è stato il primo a
menzionare per iscritto, tra i termini con cui intendeva connotare la
difficoltà dell’ascesa sulla costa del Purgatorio, San Leo, Noli,
Bismantova e poi, forse il monte Cacume in Ciociaria, a meno che
non si debba leggere, come abbiamo già visto (p. 194), in
Bismantova in cacume, cioè “in Bismantova, sulla vetta”. Questa
Pietra si trova accanto al paese di Castelnovo ne’ Monti, in provincia
di Reggio Emilia, tra i rilievi che separano il bacino dell’Enza dal
bacino del Secchia.
Mi trovo così nella singolare combinazione di muovere da un
Castelnuovo a un Castelnovo: e lascio quello della Garfagnana
risalendo di nuovo il corso del Serchio, che oltre Piazza al Serchio
vedo scorrere in fondo dalla strada che sale fino al passo di
Pradarena (1572 m.), tra il monte Cavalbianco e il monte Sillano,
sullo spartiacque tra il bacino del Serchio e quello del Secchia. I
monti circostanti sono poco più alti del passo, che si affaccia sulla
valle toscana e su quella emiliana; qui posso fermarmi sul prato
accanto alla strada, in una totale solitudine, interrotta solo dal
passaggio di un’auto che scende verso la Garfagnana. La vista si
perde in lontananza, tra ininterrotte distese di vette e di valli; ben
riconoscibili, a ovest, le vette delle Alpi Apuane.
Nello scendere dal passo, si svela a un certo punto la visione della
Pietra, grosso blocco isolato e corrucciato, che da lontano sembra
emergere, quasi completamente scuro, oltre il dolce crinale di un
monte su cui sono disposte longitudinalmente le case di un villaggio
che non riesco a identificare. Per un po’ la Pietra appare e
scompare, poi scompare definitivamente quando, scendendo,
attraverso il borgo di Ligonchio, affacciato su di un lago artificiale,
con una piccola diga e una centrale elettrica. Tra varie giravolte
raggiungo Busana, piccolo centro sotto il monte Ventasso e sopra
l’alto corso del Secchia, sulla ex statale 63, che conduce da Reggio
Emilia ad Aulla: qui passerò la notte, in un bed and breakfast
sistemato in un vecchio agglomerato contadino, la Corte della
Maddalena, in una stanza a più vani intrecciati, tra soppalchi
praticabili, scale, scalette. Su un tavolo in una sala comune, che
precede quella per le colazioni, si trova una collezione di libri e di
guide su questa zona appenninica, sui luoghi e la loro storia, sulla
vita che in essi si è svolta e sul modo in cui si cerca di tenerli vivi. Si
ricostruiscono i percorsi dell’antica viabilità (già i romani avevano
aperto una strada al passo di Predarena); leggende e mitologie
contadine, come quelle che all’incombente monte Ventasso – che in
cima ha una sorte di rupe, quasi una minore sorella della Pietra –
hanno attribuito la qualifica di monte delle Fate; memorie del secolo
scorso, come le immagini nel libro fotografico, pubblicato dalla
Biblioteca Panizzi di Reggio Emilia, del nonno della proprietaria,
Amasio Fiorini, “orologiaio fotografo”. Tra le tracce di un mondo
lontano, che qui intorno non sembrano del tutto perdute, emerge la
Corte di Nasseta, un borgo che non c’è più, che si trovava presso la
confluenza di un torrente nel Secchia, in un tratto ormai prossimo
alla sorgente del fiume, nel comune di Collagna, a monte di Busana,
feudo della contessa Matilde. Oggi il nome di questo borgo perduto è
assunto dalla “Corte transumante di Nasseta”, un gruppo di allevatori
che hanno inventato anche un singolare Teatro barbarico, che mette
in scena uomini e cavalli, ripercorrendo antiche forme di vita e di
rapporto con la natura.
Nella luce crepuscolare di una sera in cui a nordest è già apparsa
la luna piena, non posso evitare di dare un primo sguardo alla Pietra:
muovo sulla strada per Castelnovo (che è a una quindicina di
chilometri da qui) e a un certo punto, oltre il valico di Sparavalle, che,
sotto il monte Ventasso, separa il bacino del Secchia da quello
dell’Enza, compare il tozzo blocco della Pietra, che emerge con
imperiosa sicurezza sui verdi rilievi che degradano alla sua base,
mentre brulicano intorno le luci della sera, anche quelle di
Castelnovo, alla sua sinistra. Sotto la luna e tra i riflessi dell’azzurro
Bismantova si disegna in un’indefinibile gamma di colori che
sembrano tendere al violetto, pur in un contrasto tra il massiccio
corpo di pietra e le parti coperte da vegetazione.
Dopo averla contemplata a lungo, ancora a distanza, su uno
spiazzo, torno indietro fermandomi all’Osteria Il fortino (ma
sull’edificio c’è anche un altro nome, La Sparavalle), che prende il
nome dalle rovine di un fortino che si trova poco più su, fatto
costruire nel primo Ottocento dal duca di Modena Francesco IV. Mi
accoglie un simpatico signore, un po’ ingobbito ma di buona taglia,
con occhiali e un naso a punta, che mi fa sedere vicino a un tavolo
dove quattro uomini di mezza età bevono allegri, discutendo ad alta
voce. Non c’è un menu scritto, ma colui che mi ha accolto mi chiede
subito, dandomi del tu, se voglio un primo o un secondo e poi me li
elenca, aggiungendo più volte “quello che vuoi”, con una certa aria
complice. Nel frattempo, entra un grosso gruppo familiare, con
mature signore un po’ in corpo, figli, figlie o nuore, bambini, anche
uno molto piccolo che viene issato su un seggiolone. Nei loro
movimenti e nel modo in cui parlano con l’oste c’è qualcosa di
paesano, si sente come il continuarsi di modi di vita d’altri tempi,
anche se una delle signore giovani armeggia su di un tablet,
alzandosi ogni tanto dal suo posto, dove evidentemente non riesce
ad avere la connessione, per raggiungere un angolo più in là, dove
la trova.
Mentre mangio il canonico gnocco fritto con un pastoso formaggio
montano e poi delle pappardelle ai porcini, davvero profumatissimi,
l’oste (di cui sento ora il nome, Alberto) scambia a più riprese battute
con il quartetto al tavolo vicino al mio, bevendo di gusto del vino. Più
tardi, quando mi appresto a chiedere il conto, uno dei quattro mi
invita al loro tavolo: mi domanda cosa faccio da queste parti,
considerandomi un giornalista. Sono tutti pensionati; parlando del
lavoro che hanno lasciato, due di loro scherzano sul loro rapporto
con l’elettricità; uno, più magro, ha fatto l’operaio per un ditta di
impianti e interventi per conto dell’Enel, l’altro, per lo stesso Enel, ha
fatto il letturista, girava cioè per le case per la lettura dei contatori
elettrici, mestiere che oggi non esiste più; e racconta curiosi
aneddoti su come veniva accolto nelle case della zona, anche
alludendo, tra le beffarde risate degli altri, a inopinati contatti con
signore sole in casa. Il discorso scivola poi sulla politica: e tutti
mostrano una certa ostilità verso le amministrazioni di sinistra che si
sono susseguite a Castelnovo. Mentre insieme beviamo il Fragolino
della Pietra, liquore di fragole di bosco, due di loro dicono di pensare
che sotto il fascismo le cose non andassero poi tanto male: e lo
dicono pur essendo nipoti di due giovani uccisi dai nazisti… Poi,
quando dico che spero che il tempo mi permetta domattina di salire
in cima alla Pietra, un altro comincia a lamentarsi per il mancato uso
turistico della stessa, dove, dice, servirebbe una funivia,
un’illuminazione fantasmagorica, un parco dei divertimenti tipo
Gardaland…
All’uscita non riesco a nascondere ad Alberto la mia sorpresa per il
prezzo incredibilmente modico; e mi dice salutandomi: “Per me
basta che stai bene; vogliamo che da noi tu ti senta in famiglia.
Siamo emiliani e questo ci piace: stare bene, che qui si stia bene”.
Mi stringe la mano calorosamente e mi lascia, con uno strano
desiderio di tornare in questo posto, chissà quando, chissà se mai
potrà accadere. Nella zona, peraltro, come mi dice poi la proprietaria
della Corte della Maddalena, è ben nota la cordialità di Alberto,
personaggio del tutto singolare.
La mattina del 16 settembre, dopo aver incontrato, nella sala della
colazione, due coniugi inglesi di mezza età, che prediligono queste
zone per il loro scarso affollamento e per le rigeneranti escursioni
montane, di cui studiano meticolosamente gli itinerari, mi avvio
finalmente verso la Pietra, pur con qualche esitazione per il cielo
nuvoloso, anche se non privo di squarci di sereno. Nel tratto di
strada già percorso la sera precedente mi appare il suo corpo
massiccio nella luce del mattino, turbata dal lento movimento dalle
nuvole che oscurano il sole. Sempre con la Pietra in vista, raggiungo
Castelnovo e, dopo un giro tra le strade del centro, una breve salita
mi porta sul piazzale con parcheggio che è ai piedi della Pietra,
intitolato proprio a Dante. Al centro del piazzale è un grosso masso
di arenaria, certamente tra quelli che nel corso del tempo sono
caduti dal grande blocco roccioso, che da vicino appare come un
insieme scandito da pieghe e fratture verticali che sembrano aprirsi
tra grossi cilindri di calcareniti, appoggiati su declivi argillosi. Una
scalinata sale leggermente più in alto, toccando una strada diretta
all’Eremo, dov’è una chiesetta originariamente legata a un
monastero benedettino: ma la strada è sbarrata, con un divieto di
accesso, per lavori in corso lungo le pareti di roccia, con pericolo di
caduta massi. Un cartello ben in vista ricorda la frequenza dei crolli
di roccia, dovuti all’allargarsi delle fratture in essa ben visibili, per
l’effetto combinato della vegetazione e del ghiaccio; due frane
recenti, nel 2012 e nel 2015, hanno investito la zona dell’eremo, e i
lavori hanno lo scopo di liberarla e di rafforzare la protezione, anche
se i processi franosi vanno considerati inevitabili, determinati proprio
dalla struttura del poderoso masso (e per evitare rischi vi sono
apposti strumenti di monitoraggio).
La verticalità della Pietra ne fa luogo di arrampicate e di
esercitazioni alpinistiche, su vari tracciati fino al settimo grado: c’è
anche una via ferrata, detta la Ferrata degli Alpini. Dalla parte
dell’eremo dovrebbe esserci anche un normale sentiero che, data la
situazione, è ora impraticabile. Dalla parte opposta al punto di
sbarramento della strada c’è però un bar-ristorante, il Rifugio della
Pietra, da cui si diparte un sentiero che sale nel bosco lungo il fianco
sudovest della roccia: è un sentiero che non presenta le difficoltà
dell’ascesa purgatoriale per cui viene chiamato in causa da Dante,
che forse, se è salito quassù, ne avrà trovato uno più impervio (ma è
chiaro che la sua menzione è determinata soprattutto dall’effetto
d’insieme).
Il comodo sentiero è in buone condizioni, ben curato (vi trovo solo
una di quelle eterne bottigliette di plastica e un pacchetto di qualche
snack): solo per un breve tratto, per superare un piccolo salto,
occorre reggersi a una corda, opportunamente disposta su un lato.
Questo salto conduce a una radura su cui è fissata una grande
tavola geografica e informativa in pietra, che però è illeggibile,
imbrattata dalle bombolette di scriteriati graffitari e dai loro
banalissimi segni. Il piacere dell’ascesa fa comunque dimenticare
l’insorgente disappunto: dalla radura un’ultima brevissima salita
conduce sull’ampio prato che occupa il dorso della Pietra. L’intero
percorso dal bar-ristorante a quassù è durato solo una mezz’ora,
con un solo incontro, due giovani che scendevano, probabilmente
tedeschi.
Sono all’altezza di 1074 metri, sul piatto dorso di questa
gigantesca tavola che domina le valli del Secchia e dell’Enza,
piazzata in vista delle vette maggiori dell’Appennino tosco-emiliano.
Percorro il prato in lungo e in largo, seguendo i suoi leggeri
avvallamenti, gli strati rocciosi emergenti tra erbe e cespugli. Trovo
un piccolo tavolo di pietra di sistemazione piuttosto recente, che
però mi fa pensare a un antico altare, evocando le tante tracce di
insediamenti addirittura preistorici che qui sono state reperite. C’è
stato anche un fortilizio romano, castello poi bizantino e longobardo,
una rocca probabilmente franata, sul sito appartenuto ai feudi della
contessa Matilde: e chissà cosa c’era ancora ai tempi di Dante.
Nell’ampio spazio aperto lo sguardo va alla catena appenninica e
alla sua distesa, a partire dal vicino monte Ventasso, giù verso la
Toscana e la Lunigiana; a ovest sono adagiate le case di
Castelnovo, ma poi, da tutte le parti, si scorgono vari borghi emiliani
che non è certo facile individuare e distinguere, che si innalzano
sopra le valli, a est del Secchia, a ovest dell’Enza. Su vari punti ai
margini del piano, a est, a sudest, a sud, mi affaccio sul ripido
precipizio, scorgendo la base dov’è l’eremo e dove c’è traccia di
lavori in corso, e, più in là il piazzale Dante, dov’è la mia auto. Molto
nero è il cielo a ovest e a nord ovest, mentre sembra tendere ad
aprirsi a est e a sudest. Sento rumori lontanissimi, forse di tuoni, e
rumori più vicini, che vengono forse dalle macchine dei lavori in
corso alla base della roccia.
Ma, nonostante i saltuari rumori, c’è un effetto di silenzio aperto,
perpetuamente in ascolto di qualcosa che lo minaccia: e nonostante
il timore di una prossima pioggia, questo silenzio vorrebbe
trattenermi. Vorrei dire come Pietro sul monte Tabor, il luogo della
Trasfigurazione di Gesù, in Matteo, 17 4, “Domine, bonum est nos
hic esse” (e voleva piantare tre tende, una per Gesù, una per Mosè,
una per Elia). Ma, lontana dall’orizzonte biblico e dantesco,
Bismantova si trasfigura nel rock dei Modena City Ramblers, nella
loro canzone I prati di Bismantova, nell’album del 2006 Dopo il lungo
inverno:

Lo sguardo si perde
fino all’orizzonte
un falco risale
la cima del monte
………………………………

Nessuno ho incontrato nel mio girovagare in cima alla Pietra. Ma


solo quando comincio a scendere, incontro un vecchio di Castelnovo
ben munito di giacca a vento e ombrello (ma anche io
prudentemente ho con me un ombrello), che mi saluta e mi parla
delle sue passeggiate mattutine quassù e del rischio di pioggia. Ha
un’aria di paesana saggezza e vorrebbe trattenermi per
chiacchierare un po’, tanto che, quando gli dico che per me è ora di
andare, verso Modena, esclama quasi accorato, “Mi lascia solo!…”.
Modena

Di quel che fé col bàiulo seguente,


Bruto con Cassio ne l’inferno latra,
e Modena e Perugia fu dolente.
(Par., VI 73-75)

Modena è nominata solo di sfuggita nella Commedia, entro la storia


dell’aquila imperiale pronunciata da Giustiniano: in riferimento alle
guerre civili successive alla morte di Cesare e alle imprese di
Ottaviano, indicato come il bàiulo seguente, cioè il portatore
dell’aquila successivo a Cesare. Il caso di Modena viene appaiato a
quello ben diverso di Perugia (vedi p. 244), per suggestione di un
passo di Lucano, Pharsalia, I 41 (“Perusina fames Mutinaeque
labores”, “la fame di Perugia e i travagli di Modena”). Era stato
Antonio ad assediare la città nel 43 a.C.; e nei suoi pressi ebbe
luogo una battaglia, che portò alla fine Antonio a rinunciare
all’assedio; poco dopo si ebbe l’accordo tra Antonio e Ottaviano che
diede vita al secondo triumvirato. Per i caratteri del suo volgare,
nell’ambito lombardo, Modena era stata precedentemente ricordata
nel De vulgari eloquentia, I XV 2-4, a proposito della capacità del
volgare bolognese di temperare dentro di sé elementi dell’imolese,
del ferrarese e del modenese, e dagli ultimi due “aliqualem
garrulitatem que proprie Lombardorum est” (“una certa chioccia
asprezza che è propria dei Lombardi”): carattere risalente al
mescolamento con gli invasori Longobardi e che fa sì che, come i
Ferraresi e i Reggiani, i Modenesi non hanno nessun vero poeta,
lontani dal volgare aulico per la loro garrulitas e acerbitas.
Scendo da Castelnovo sulla strada per Reggio Emilia, che poi
lascio per una strada minore che segue il corso del torrente
Tresinaro, tra colli dai rilievi sempre più dolci, toccando Viano, che si
presenta come Città del tartufo. Comincia a piovere a dirotto quando
giungo a Scandiano, grosso centro agricolo e industriale sorto
attorno a un castello, che ebbe una prima espansione nel XIII secolo
e che, preso dagli Estensi, nel 1423 fu dato in feudo ai Boiardo,
avendo poi come signore Matteo Maria, l’autore dell’Orlando
innamorato, che visse e scrisse nella Rocca, pur avendo stretti
rapporti con Ferrara e con la corte estense, a cui si rivolge talvolta
negli esordi dei canti del poema, sotto il segno di una sognante
nostalgia per le avventure belliche e amorose del mondo cortese. Mi
fermo, sotto la pioggia, di fronte alla facciata più scenografica della
Rocca, quella sud, che si allunga sul viale della Rocca, preceduta
dal grande torrione. Essa è effetto di una sistemazione avvenuta su
un progetto di Giovan Battista Aleotti quando, dopo l’estinzione dei
Boiardo (1560), la Rocca passò ai da Thiene: ha un suggestivo
assetto manieristico, di un manierismo non marcato, che sembra
voler inglobare dentro di sé il lascito dell’universo medievale e
cortese, quasi alleggerito, proprio nell’onda nostalgica del Boiardo.
Così, nonostante non fosse questo l’aspetto della Rocca quando il
poeta l’abitò, nel guardare la lunga facciata immagino Matteo Maria
che pronuncia le parole dirette al suo uditorio cortese:

Signori e cavallier che ve adunati


Per oldir cose diletose e nove,
Stati atenti e quïeti, et ascoltati
La bella historia che il mio canto move:
Et odereti i gesti smisurati,
L’alta fatica e le mirabil prove
Che fece il franco Orlando per amore
Nel tempo de il re Carlo Imperatore.

Da Scandiano procedo verso Sassuolo, centro industriale, leader


nella produzione delle piastrelle di ceramica: e già prima di arrivarci,
all’altezza di Casalgrande Padano, al fianco della strada si vedono
grandi depositi di materiali e file di coloratissimi container. Così è fino
a Sassuolo, che tocco dopo aver attraversato il Secchia: già
residenza di villeggiatura degli Estensi di Modena, che nel Seicento
vi impiantarono il Palazzo ducale con uno splendido parco, la città
ha visto aggiungersi alla fama della ceramica quella del calcio,
grazie alla squadra, sostenuta del resto dai produttori di adesivi e
sigillanti per l’edilizia, giunta addirittura in Serie A, da cui si è invece
da tempo allontanato il vecchio glorioso Modena. Quest’anno il
Sassuolo calcio partecipa addirittura all’Europa League e ieri sera ha
battuto sonoramente (3-0) l’Atletico Bilbao, al Mapei Stadium di
Reggio Emilia, usato come stadio per le partite di casa, data la
mancanza di un impianto adeguato a Sassuolo.
La pioggia momentaneamente si arresta quando giungo a
Modena, parcheggiando accanto alla Galleria Estense. Dappertutto
manifesti e locandine informano della celebrazione del Festival di
filosofia, che tocca anche le vicine Carpi e Sassuolo e inizia proprio
oggi, con tutte le canoniche lezioni/conferenze (tra cui quelle che da
un po’ di tempo si usa denominare Lezioni magistrali) e una serie di
eventi collegati, tra cui anche mostre, installazioni, musica,
spettacoli. È stato uno dei primi festival culturali di successo, sorti
per spontanea immaginazione di intellettuali cittadini, tra i tanti che
ora proliferano in tutta Italia: e ogni anno assume un tema di
riferimento, che quest’anno è Agonismo. Mi fermo un po’ a
considerare il programma, con i nomi noti dei filosofi, alcuni dei quali
sono onnipresenti officianti in tutti i festival possibili, con titoli che qui
evocano termini riconducibili all’agonismo. Esercizi sportivi, Bel
gioco, Invidia, Rivincita, Lotta per la vita, Competere, Polemos, Lotta
spirituale, Concorrenza, Elogio del fallimento ecc.: come un
dizionario mentale le cui caselle, nel sovrapporsi, nell’intrecciarsi, nel
loro reciproco competere nella ricerca di pubblico, sembrano
condurre a un’evaporazione dello stesso agonismo. Non è vero del
resto che, nella nostra costipata società agonistica, anche le attività
culturali si svolgono in una indeterminata perpetua lotta per la
presenza, “per parer di esserci”?
Dopo la considerazione del filosofico programma, ben munito di
ombrello prendo la Via Emilia, dirigendomi verso il centro e la piazza
Grande. Città dall’aspetto in gran parte estense (dove si stanziarono
i duchi quando nel 1593 perdettero Ferrara), Modena ha nel suo
cuore uno dei più grandi capolavori dell’architettura medievale, la
meravigliosa Cattedrale, opera dell’architetto Lanfranco, con il
contributo fondamentale dello scultore Wiligelmo e di maestri
campionesi che si sono succeduti nella lunga fabbrica. Le
fondamenta furono gettate nel maggio 1099 e l’edificio era quasi
completamente compiuto alla fine del XII secolo, salvo aggiunte e
integrazioni successive.
Percorrendo la Via Emilia, mentre ricomincia a piovere, giungo
sulla piazza della Torre, dove, davanti alla Ghirlandina, la torre
campanaria (così chiamata per la ghirlanda che orna la cuspide),
che è accanto all’abside della cattedrale e viene considerata il
simbolo di Modena, si trova il monumento ad Alessandro Tassoni. È
il modenese autore de La secchia rapita (la cui edizione definitiva
apparve nel 1624), poema eroicomico che prende spunto da una
vicenda del primo Trecento, la guerra tra la ghibellina Modena e la
guelfa Bologna culminata nella battaglia di Zappolino (1325), in
seguito alla quale i modenesi sottrassero per beffa una secchia da
un pozzo alle porte di Bologna (dove ne ho trovato traccia: vedi p.
475), portandola in trofeo in città, tuttora custodita nel Palazzo
Comunale.
Ma, piuttosto che al poema di Tassoni, una volta molto letto dalle
persone colte e oggi completamente ignorato, questo luogo fa
pensare a un tragico evento ricordato in una lapide, apposta sul lato
del Palazzo Comunale che dà sulla piazza: il suicidio di Angelo
Fortunato Formìggini, l’editore modenese (che curò tra l’altro una
originale e raffinata collana di “Classici del ridere”), ebreo che il 29
novembre 1938 si gettò dalla torre, per protesta contro le leggi
razziali fasciste. Cadde sullo stretto spazio tra la torre e il
monumento a Tassoni, che, con pungente spirito, in una lettera
precedente, aveva suggerito di chiamare poi al tvajol ed Furmajin, “il
tovagliolo del Formaggino”. A questa disperata protesta di una
vittima a cui era preclusa ogni possibilità di opposizione (e
Formìggini era stato anche tra coloro che avevano inizialmente
creduto nel fascismo) hanno risposto coloro che poi avrebbero
combattuto l’invasione nazista: e qui, ai piedi della Ghirlandina, tre
grandi teche, in un sacrario sorto spontaneamente alla fine della
guerra, recano le foto dei tantissimi partigiani uccisi nella provincia di
Modena.
Tra la Ghirlandina e i portici del Palazzo Comunale passo sulla
piazza Grande, su cui, con al centro la Torre dell’Orologio, si estende
il corpo del Palazzo stesso, che, a partire da un palazzo di città
esistente già alla fine dell’XI secolo, si è sviluppato e modificato in
varie fasi: il suo prospetto sulla piazza sembra suggerire una sorta di
sintesi tra una base rinascimentale e proiezioni verso il barocco, il
classicismo settecentesco e oltre. Il più antico segno persistente è
una statua femminile appoggiata a un angolo del Palazzo, che risale
alla prima metà del XII secolo: è la cosiddetta Bonissima, termine
non riferito alla bontà della donna, ma alla bona estima, cioè
all’ufficio che definiva le misure e controllava le bilance (e infatti la
statua doveva originariamente reggere una bilancia).
Ora piove un po’ più forte sulla piazza Grande, che in tutto lo
spazio tra il Palazzo Comunale e l’abside della Cattedrale è
occupata da un palco con vari apparati di amplificazione, proiezione,
illuminazione e fitte file di sedie di plastica. È il palco per le lezioni
magistrali del Festival di filosofia, che dovrebbero iniziare proprio
qui, ma che la giornata piovosa costringe a traslocare: un avviso a
grandi caratteri sullo schermo comunica infatti che “La lezione di
Andrea Riccardi delle ore 15 si terrà in piazza XX Settembre” (si
tratta in effetti di una piazza che è poco più in là, in parte coperta da
un grande tendone che può riparare da questa pioggia). Questa
lezione inaugurale, del nuovo Presidente della Società Dante
Alighieri, si presenta quasi in contraddizione con il tema dominante
dell’agonismo: il suo titolo è Costruire la pace.
Al di là dell’apparato per il Festival, la piazza si estende sul fianco
destro della Cattedrale: su di esso si aprono due portali, la Porta
Regia e la Porta dei Principi, mentre sulla sua parte alta si
susseguono arcate che racchiudono una galleria a loggette e
catturano dentro di sé a tre a tre delle arcate minori, mentre alla
base della galleria è disposta una successione di archetti pensili.
Non so se la pioggia renda più suggestivo o più faticoso lo sguardo
agli intrecci geometrici, alla scansione del tempo e dello spazio, a
questa misura insieme divina e umana, spirituale e materiale, delle
coordinate del cosmo, che si riassume nell’effetto della facciata
principale, dove per opera dei maestri campionesi è stata inserita
alla fine del XII secolo la circolata melodia del rosone.
Qui nel Portale maggiore si impongono i bassorilievi di Wiligelmo,
che sembrano proiettare tutta la misura temporale e spaziale verso
qualcosa di terragno, di vincolato alla terra e alla sofferenza
dell’essere prigionieri della terra. Nei quattro rilievi di Storie della
Genesi l’origine umana, emanata dal divino, si fissa nella durezza e
nella violenza della condizione terrestre: e tra tutte le scene mi
hanno sempre colpito, nella loro fulminea perentorietà, quelle della
cacciata dal Paradiso terrestre, nell’umile scarnificazione dei nudi
corpi di Adamo e di Eva, emblema di un’irredimibile vergogna della
fisicità, e nella durezza del lavoro dei due, coperti ora da lunghe
vesti e piegati sui loro rudi attrezzi. Impiego di energia e sofferenza
fisica sono legati all’uso di strumenti, di utensili che intervengono
nella condizione umana e nel rapporto tra i soggetti: così la
tremenda scena dell’assassinio di Abele, col bastone impugnato da
Caino fa balenare la fisicità della violenza in modo ben più radicale e
assoluto di quanto credano di fare le tante miserabili esibizioni di
violenza dei media contemporanei; implacabile la vendetta divina
nella scena dell’uccisione di Caino, dove un immobile arco scaglia la
freccia che infilza il collo del fratricida.
Scorro tra le tante affascinanti opere d’arte che stanno all’interno
della chiesa, notando in particolare quelle risalenti ai secoli originari,
che erano già in piedi ai tempi di Dante, come le scene della
Passione di Anselmo da Campione e della sua scuola, eseguite
all’incirca tra il 1160 e il 1180. Tutte più tarde sembrano le immagini
di san Geminiano, il vescovo e patrono di Modena vissuto nel IV
secolo, il cui corpo, che si trova ora nella cripta, fu traslato qui nel
1106, quando la chiesa era ancora in costruzione, alla presenza
della contessa Matilde e del papa Pasquale II. Poi all’esterno, non
posso trascurare la Porta della Pescheria (così detta perché davanti
si teneva il mercato del pesce), nei cui stipiti c’è uno dei tradizionali
cicli dei mesi, con singole figure intente ai diversi lavori, opera forse
di un allievo di Wiligelmo, detto anche Maestro di Artù, per i rilievi
dell’archivolto, che presentano episodi dei romanzi arturiani, con la
loro prima testimonianza iconografica, secondo alcuni addirittura
precedente ai primi manoscritti francesi giunti fino a noi.
Prato

Ma se presso al mattin del ver si sogna,


tu sentirai, di qua da picciol tempo,
di quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.
(Inf., XXVI 7-9)

Dopo un pasto consumato in un piccolo locale non lontano dal


Duomo, tra un vario gruppo di giovani che hanno l’aria singolare di
turisti filosofici (e, nonostante la pioggia, se ne vedono abbastanza in
giro per Modena, ma più spesso di età abbastanza avanzata),
raggiungo l’auto e con essa l’autostrada per un veloce percorso che
deve riportarmi in Toscana. Superato il trafficatissimo tratto che gira
intorno a Bologna, salgo di nuovo sulla dorsale appenninica e, dopo
aver esitato tra il vecchio percorso e la Variante di valico, mentre la
pioggia si ferma finalmente del tutto, lascio l’autostrada a
Roncobilaccio. Senza salire a Castiglione dei Pepoli, percorro la
stretta strada che costeggia la foresta del monte Tavianella, nei
pressi del santuario di Boccadirio (sorto sul luogo di un’apparizione
cinquecentesca). Sono quasi sul confine tra Emilia e Toscana, in un
punto dove lo spartiacque appenninico è molto difficile da districare,
per la grande vicinanza delle acque che scendono da una parte con
quelle che scendono dall’altra. Raggiungo comunque la strada già
percorsa qualche giorno fa, che scende sulla valle del Bisenzio,
ritrovando il fiume a Vernio e seguendo di nuovo il corso del fiume,
che la strada accompagna quasi ininterrottamente, ancora tra conti
Alberti e conti di Mangona, sfiorando di nuovo la rocca di Cerbaia e,
attraverso Vaiano, giungendo a Prato all’altezza della stazione di
Porta al Serraglio.
A parte la menzione che se ne fa nel dubbio Fiore, XXVI 12, Prato
è nominata da Dante solo di sfuggita, nell’invettiva contro Firenze
all’inizio del XXVI dell’Inferno: facendo balenare un prossimo
abbattersi di disgrazie su Firenze, si dice che si tratta di qualcosa
che corrisponde al desiderio di Prato e di tante altre città che odiano
Firenze.
Prato si era formata nell’Alto Medioevo sul luogo del più antico
Borgo al Cornio, dove era già probabilmente un villaggio romano,
intorno a un castello dei conti Alberti e a un “pratum episcopi” luogo
di mercato del vescovo di Pistoia: alla fine dell’XI secolo è già
attestata l’autonoma identità del borgo, chiamato appunto Prato, che
si sviluppò rapidamente nei secoli successivi, acquisendo statuto
comunale. L’imperatore Federico II ne curò la funzione strategica,
creando una fortezza sul luogo del castello degli Alberti. Saldamente
in mano ai guelfi dal 1267, la città fu in stretti rapporti con Firenze, su
cui si appoggiò anche per resistere all’ostilità della vicina Pistoia.
Dopo la sconfitta dei Bianchi pistoiesi del 1306, finì per essere
esposta alle mire di Firenze, con cui comunque rimase alleata nella
guerra contro Castruccio Castracani, dopo la quale si affidò nel 1326
alla protezione del re di Napoli Roberto d’Angiò: ma la successiva
regina Giovanna la vendette per 17.500 fiorini d’oro a Firenze, sotto
il cui dominio definitivamente passò.
Importante intervento nelle lotte di fazione fiorentine fu quello del
cardinale Niccolò Albertini dei conti di Prato, inviato dal papa
Benedetto XI a far da paciere tra Bianchi e Neri. Entrato in Firenze il
2 marzo 1304, fu all’inizio accolto favorevolmente, nel suo tentativo
di trattare per il ritorno in città dei Bianchi e dei Ghibellini: ma i
contrasti interni tra i Neri sfociarono in una opposizione alla sua
azione e a minacce per la sua stessa vita, tanto che il 2 giugno
dovette abbandonare la città, scagliando contro di essa l’interdetto.
A lui, nei giorni del suo tentativo di pacificazione, è indirizzata
l’Epistola I, scritta da Dante a nome del capitano, del Consiglio e
dell’Università di Parte Bianca, in cui afferma la piena disposizione a
sottomettersi alle sue decisioni. Lo stesso Niccolò, d’altra parte, è tra
i cardinali italiani riuniti in conclave per l’elezione del successore di
Clemente V (1314), a cui Dante indirizza l’Epistola XI, con
l’esortazione a eleggere un papa italiano e riportare la sede papale a
Roma. Secondo vari commentatori, il richiamo a Prato nel XXVI
dell’Inferno si riferirebbe proprio agli effetti della scomunica scagliata
contro Firenze dal cardinale Niccolò e a varie disgrazie successive,
come il crollo del ponte alla Carraia in cui era stata allestita una
rappresentazione dell’inferno per il Calendimaggio del 1305, da cui
sarebbe scaturito anche un incendio che avrebbe causato la
distruzione di un gran numero di edifici ecc. Ma dovrebbe trattarsi
piuttosto di un richiamo indeterminato, come indeterminata è la
profezia; quella di Dante sembra soltanto un’allusione a un generico
risentimento di Prato e di ogni città toscana verso la città maggiore.
Suggestivo è comunque il commento di Benvenuto sul crollo del
ponte durante la rappresentazione dell’inferno: “ita quod ludus fictus
conversus est in rem veram. Nam multi, qui spectabant infernum
simulatum, iverunt ad infernum verum, et sciverunt nova de alio
mundo” (“così che la finzione si rovesciò in realtà. Infatti, molti che
guardavano l’inferno simulato, andarono all’inferno vero ed ebbero
notizie dell’altro mondo”).
Città che già nel Medioevo era centro importante per la
lavorazione della lana, Prato ha visto nel dopoguerra un grande
sviluppo dell’industria tessile, a cui negli ultimi decenni ha dato un
grande apporto l’immigrazione cinese, tra varie contraddizioni,
complicatesi nella crisi recente, da cui incomincia lentamente a
uscire: un vivace squarcio sulle vicende, le conquiste e i fallimenti
dell’industria tessile pratese, viene dato dal libro del 2010 di Edoardo
Nesi, Storia della mia gente. La rabbia e l’amore della mia vita da
industriale di provincia.
Nel pomeriggio finalmente assolato, dove però molte strade sono
ancora bagnate, non è facile trovare un parcheggio nel centro di
Prato. Mi trovo a percorrere i viali delle mura lungo il Bisenzio; entro
dalla Porta del Mercatale, affacciata a nordest sul ponte sul fiume,
seguo poi il bel viale che costeggia le mura a sud, rientro dentro e mi
perdo in un intreccio di sensi unici, fin quando non trovo un posto di
fortuna nella piazza San Marco, intorno all’aiuola che è al centro, in
cui è piantata una bianca scultura di Henry Moore, una Forma
squadrata con taglio, curvi volumi che circondano un buco centrale e
sono interrotti da un taglio alla base. Sta qui dal 1974 e i pratesi la
chiamano semplicemente il Buco, trasformandola in metafora di altri
buchi: come che sia, l’opera ha dato lo scorso anno spunto all’artista
Clet per alcune installazioni sulle mura cittadine. In “dialogo” con
questo Buco, sono stati installati grossi occhiali neri, che poi hanno
suscitato cartelli e installazioni non professionali, spontanee, casuali,
beffarde (anche con una richiesta di visita oculistica per la scultura,
ormai anziana, di Moore): destino inevitabile dell’arte
contemporanea, nel segno di quella che Mario Perniola ha definito
L’arte espansa. In Prato d’altra parte c’è una grande attenzione alle
forme artistiche del presente, con l’attività del Centro per l’Arte
contemporanea Luigi Pecci, aperto nel 1988 per iniziativa
dell’industriale Enrico Pecci, e situato nella periferia sud, nei presi
dell’uscita di Prato Est dell’autostrada Firenze-Mare, ora con un
nuovo edificio progettato dall’architetto sino-olandese Maurice Nio, il
cui carattere si fa in parte identificare dalla denominazione che gli è
stata data, Sensing the Waves.
Una grande vivacità mi sembra in ogni modo animare la città, di
cui raggiungo il cuore passando attraverso il Castello
dell’Imperatore, fatto costruire da Federico II, con una massiccia
forma quadrata, complicata dall’avanzamento dei torrioni, in brillante
pietra di alberese bianco: castello che per tanti tratti sembra lasciare
qui, nel cuore della Toscana, una sorta di traccia o eco della Puglia
sveva. A un lato del Castello c’è la piazza Santa Maria delle Carceri,
su cui prospetta l’omonima chiesa a pianta centrale, progettata a fine
Quattrocento da Giuliano da Sangallo, con geometrica policromia del
rivestimento marmoreo rimasto incompiuto e completato più tardi su
una sola facciata. Poco più in là sbuca la via Dante, dietro l’abside
della chiesa di San Francesco, costruita proprio tra fine Duecento e
inizi Trecento: su un’altra piazza dà la sua facciata a fasce di marmo
bianche e verdi, ma con irregolari e diffuse emergenze di ocra nella
parte alta.
Dalla piazza Santa Maria delle Carceri, oltre un angolo su cui è
disposta un’alta torre in mattoni grezzi, la via Cairoli mi conduce alla
piazza del Comune, centro della città comunale, su cui prospettano il
Palazzo del Comune e il Palazzo Pretorio, entrambi di origine
duecentesca, ma solo il secondo relativamente più vicino alla forma
originale. In mezzo alla piazza è la statua tardo ottocentesca di
Francesco di Marco Datini (1335-1419), mercante di Prato che fece
fortuna nella Avignone papale, considerato l’inventore della prima
forma dell’assegno bancario, qui ricordato come fondatore per
testamento del Ceppo dei Poveri, istituto di assistenza ospedaliera.
Un pannello coloratissimo avverte che anche qui c’è un festival
settembrino, che ha luogo il 17 e il 18, addirittura un Festival delle
Virtù, che vanno però intese non come le virtù teologali o cardinali,
trattandosi invece delle “Discipline Bionaturali e Medicine Integrate
per l’eccellenza umana”.
Arrivo poi, attraverso il breve percorso di quello che è considerato
il Corso di Prato, sul fianco destro del Duomo di Santo Stefano, sorto
sul sito di una precedente pieve: davanti al campanile di fondazione
duecentesca, tutto bianco nei piani inferiori, a fasce alterne bianche
e verdi in quelli superiori. Accanto al campanile si distende il fianco
destro del Duomo, con armoniose arcate, due delle quali sono
aperte su piccoli portali; costruzione iniziata all’inizio del Duecento e
proseguita in varie fasi, fino alla sistemazione della facciata all’inizio
del Quattrocento. Cosa singolarissima è il pergamo installato sullo
spigolo tra il fianco destro e la facciata, opera di Michelozzo e
Donatello, destinato all’esposizione della reliquia del Sacro Cingolo,
che si trova in una cappella all’interno. La facciata, piuttosto stretta,
con un solo portale, brilla nella parte alta sotto il sole, mentre è ora in
ombra quella in basso, con tutto il portale: così sembra come
accentuarsi la policromia delle fasce di pietra, bianca e verde, ma
anche qui con molte pezze che in modo irregolare tendono all’ocra.
All’interno della chiesa, scandito dalle arcate che separano le
strette navate, subito a sinistra, trovo la cappella del Sacro Cingolo,
dove c’è, dietro una cancellata, la venerata reliquia, il solo oggetto
che l’incredulo san Tommaso avrebbe trovato nel sepolcro vuoto
della Madonna, segno e prova della sua Assunzione in cielo. È una
cintura di lana di capra che, prima di partire per le Indie, il santo
avrebbe affidato a un sacerdote e che poi, tra vari passaggi, sarebbe
stata trovata a Gerusalemme dal mercante pratese Michele
Dragomari, che la portò in città nel 1141, donandola alla pieve di
Santo Stefano. Il bello è che poi la stessa reliquia si troverebbe in
vari altri luoghi d’Europa e perfino in Siria… Nella cappella c’è
comunque un bel ciclo pittorico di Agnolo Gaddi, di fine Trecento,
con diverse storie della Vergine e del ritrovamento e trasporto della
cintola, e una elegantissima Madonna col bambino di Giovanni
Pisano, risalente al 1317 circa.
Un altro ciclo, con storie di san Giovanni Battista e di santo
Stefano, si trova nel coro della chiesa, opera di Filippo Lippi e di fra’
Diamante: incanta il formidabile banchetto di Erode, con Salomè che
consegna a Erodiade la testa del Battista, dove il soggetto sacro
sembra come fragilmente resistere, in una rallentata inquietudine,
tanto lontana dalle estenuazioni che ne avrebbero tratto artisti,
scrittori, musicisti della più tarda modernità europea. La scena mi fa
pensare al sarcasmo con cui Dante si rivolge al papa Giovanni XXII
e ai suoi ingiusti provvedimenti, facendo balenare su di lui una
prossima punizione da parte di san Pietro e di san Paolo; e gli
attribuisce come sfrontata risposta un’affermazione di fedeltà al solo
fiorino, la moneta su cui era impressa l’immagine del Battista,
designato con un irriverente richiamo alla sua penitenza nel deserto
e al suo martirio determinato dalla danza (i salti) di Salomè:

Ben puoi tu dire: “I’ ho fermo ’l disiro


sì a colui che volle viver solo
e che per salti fu tratto al martiro,

ch’io non conosco il pescator né Polo”.


(Par., XVIII 133-136)

Su un lato della piazza del Duomo sosta pensosa, sul suo


monumento, la statua di Giuseppe Mazzoni (1808-1880), il pratese
che nel 1849 fu triumviro del Governo provvisorio toscano e poi dopo
l’unità deputato e senatore del regno. Ma l’intera piazza è occupata
dalle bancarelle di una fiera mercato di prodotti alimentari
internazionali, con golosità varie che vengono mangiate in loco o
acquistate da parecchi curiosi e turisti che si aggirano intorno,
comunque più attenti ai prodotti che alla facciata del Duomo.
Girando per la fiera-mercato, tra gaufres belgi e guacamole
messicano, e per le strade vicine al Duomo, raggiungo la chiesa di
San Domenico, iniziata a partire dal 1281 su progetto degli architetti
di Santa Maria Novella, che ha infatti sul fianco sinistro archetti simili
a quelli della chiesa fiorentina, mentre la facciata è compiuta solo a
metà, nella parte bassa, con i consueti marmi policromi, qui disposti
secondo un taglio di regolari rettangoli. L’insieme della chiesa fu
comunque compiuto nel Trecento proprio grazie al lascito del
cardinale Niccolò da Prato, che era appunto domenicano, alla sua
morte avvenuta ad Avignone poco prima di quella di Dante, il 1°
aprile 1321; poi l’interno ha avuto una nuova sistemazione
secentesca.
Pistoia

Vita bestial mi piacque e non umana,


sì come a mul ch’i’ fui; son Vanni Fucci
bestia, e Pistoia mi fu degna tana”.
(Inf., XXIV 124-126)

Ahi Pistoia, Pistoia, ché non stanzi


d’incenerarti sì che più non duri,
poi che ’n mal fare il seme tuo avanzi?

Per tutt’i cerchi de lo ’nferno scuri


non vidi spirto in Dio tanto superbo,
non quel che cadde a Tebe giù da’ muri.
(Inf., XXV 10-15)

Da Prato a Pistoia, quando ormai è scesa la sera, lungo la


superstrada quasi parallela all’autostrada Firenze-Mare, ci si trova
dentro una continua conurbazione, in un fitto susseguirsi di incroci
che conducono ai centri circostanti, tra insegne senza fine di
insediamenti commerciali e industriali.
A Pistoia è rivolta una delle maledizioni dantesche contro le città
toscane, scatenata dall’incontro nella bolgia dei ladri con Vanni
Fucci, il pistoiese che vanta la sua vita bestial, ricondotta al suo
essere bastardo (mul), e sembra addirittura compiacersi dell’epiteto
di bestia, adeguato peraltro al carattere bestiale attribuito alla città,
per lui degna tana. Si tratta di un figlio di Fuccio dei Lazzàri, nobile
famiglia pistoiese, noto per i suoi comportamenti violenti, di cui diede
prova tra le lotte di fazione imperversanti in città verso la fine del
Duecento. Oltre a varie aggressioni ai danni dei Bianchi, è probabile
che avesse delle motivazioni politiche anche il furto che lo ha
condotto nella bolgia dei ladri, ai danni de “la sagrestia d’i belli
arredi”, che “falsamente già fu apposto altrui” (XXIV 138-139), di cui
un altro fu accusato. Questo furto fu consumato nel 1293 o nel 1295
nella sagrestia di cui era responsabile l’Opera di San Jacopo,
affidata a partigiani dei Bianchi: ed è probabile che Vanni Fucci fosse
in complicità con il notaio Vanni della Monna, che fu poi giustiziato.
Dante doveva conoscerlo di persona: lo indica così a Virgilio (“ch’io ’l
vidi uomo di sangue e di crucci”, XXIV 129), e lo fa schiumare di
rabbia per essere stato riconosciuto (“Più mi duol che tu m’hai colto /
nella miseria dove tu mi vedi, / che quando fui dell’altra vita tolto”, vv.
133-135).
L’invettiva contro Pistoia e l’auspicio di una sua riduzione in cenere
per il mal fare con cui supera il suo seme (i suoi fondatori, che si
riteneva fossero stati i seguaci dello sconfitto Catilina) erompe dopo
che all’inizio del canto XXV il ladro era arrivato addirittura a sfidare
Dio con un gesto osceno. Egli viene bollato come emblema del mal
fare pistoiese: tanto superbo come il pellegrino non ne ha visti altri
nell’inferno, come non gli è apparso nemmeno Capaneo (quello che
fu fulminato da Giove mentre scalava le mura di Tebe, punito nel
terzo girone del cerchio dei violenti). Questa particolare durezza che
investe la figura del pistoiese ha dato luogo a una curiosa e tarda
leggenda, secondo cui Dante si sarebbe qui vendicato di un affronto
subito a Modena o a Verona, dove incontrando Vanni Fucci ne
avrebbe ricevuto un mostaccione, cioè un ceffone.
Quanto alla leggenda della fondazione di Pistoia da parte dei
seguaci di Catilina, è legata al fatto che proprio nel territorio di
Pistoia, secondo Sallustio, De coniuratione Catilinae, avvenne nel 62
a.C. la battaglia della definitiva sconfitta del ribelle. Sorta come
colonia romana su un precedente insediamento, la città fu distrutta
dai Goti e tenuta poi dai Longobardi, che ne fecero sede di un
gastaldato, e in seguito dai Franchi, fin quando nel XII secolo si
svilupparono le istituzioni comunali: fu ghibellina fino al 1267,
quando Firenze le impose un governo guelfo, mantenendo poi con
essa stretti rapporti. Vi si sviluppò poi la frattura tra guelfi Bianchi e
Neri, con vicende toccate anche nella profezia di Vanni Fucci, su cui
ritornerò tra poco, culminate con una diretta sottomissione a Firenze,
brevemente interrotta dalla signoria di Castruccio Castracani e
definitivamente affermatasi nel 1329.
Piove di nuovo quando riesco a penetrare da sud entro la cinta
muraria che limitava la città nel XIV secolo, raggiungendo un albergo
nei pressi della piazza Garibaldi, sorvegliata dal monumento
dell’eroe a cavallo. Sul lato sud della piazza prospetta la chiesa di
San Domenico, costruita, con l’annesso convento, verso la fine del
Duecento, con varie sistemazioni attuate nel corso del secolo
successivo, come il portale a ogiva. Sul fronte opposto della strada,
a fianco della piazza, c’è poi la chiesa sconsacrata di Sant’Antonio
dei Frati del Tau, costruita a metà Trecento per un ordine religioso
che fu poi soppresso nel 1787, i Canonici Regolari di Sant’Antonio
Abate, detti del Tau perché sul loro mantello era la lettera greca tau
(τ), in smalto azzurro. Ora i locali della chiesa e dell’annesso
convento ospitano la Fondazione Marino Marini, con varie opere
dello scultore pistoiese (1901-1980).
Sotto la pioggia mi inoltro verso la piazza del Duomo, toccando il
bellissimo fianco settentrionale della chiesa di San Giovanni
Fuorcivitas, sistemato nel corso del XIII secolo, che si estende in
una originalissima variante della forma pisano-lucchese, con le fasce
di marmo bianco e verde che ritmano tre diversi ordini di arcate,
molto alte quelle del primo ordine, punteggiate sotto la volta dell’arco
da decorazioni a rombi, progressivamente più corte quelle degli
ordini superiori, poggianti su colonnine che scandiscono gallerie
cieche. La bellezza di questa prolungata geometria marmorea
sembra come sostenuta e amplificata dal suo rimanere limitata alla
fiancata che prospetta sulla via Cavour, mentre il resto della chiesa è
praticamente incastrato nell’isolato di cui costituisce il fronte
settentrionale.
Da San Giovanni Fuorcivitas, attraverso la via del Cacio,
raggiungo la piazza della Sala, dove ai tempi dei Longobardi c’era la
Sala regis, residenza del gastaldo che governava la città: piazza del
mercato già nell’XI secolo e ancora funzionante come tale, ha al
centro un pozzo quattrocentesco (opera di Cecchino di Giorgio),
sotto un architrave sorretto da due colonne. Il pozzo risalta nel suo
lucido marmo tra lo scuro delle lastre bagnate del pavimento; poca
gente si muove tra la pioggia che cade più lentamente, ma molto
animata è invece la stretta via del Lastrone, che da qui si diparte:
essa è invasa dagli ombrelloni che riparano dalla pioggia i tavolini di
piccoli ristoranti, affollati da turisti e da gente del luogo. Mi fermo a
mangiare qui tra silenziosi turisti nordici: ma poi la scena si anima
per l’arrivo di quattro ex giovani pistoiesi dei due sessi, amici ma non
accoppiati, che, dopo aver variamente abbracciato l’oste,
cominciano a discutere sulla qualità di giubbetti e giacche a vento,
chiedendo anche il mio giudizio su quello molto casual che porta uno
di loro. Poi si parla del fatto che uno di loro non riesce a smettere di
fumare e di quanto sia messa male la squadra di calcio, la Pistoiese,
che quest’anno almeno è ripartita dalla Lega Pro Girone A (la serie
C, per intenderci), affidata all’ex calciatore livornese Cristiano
Lucarelli. Tutti e quattro gustano bei bicchieri di Chianti Montalbano,
vino dei colli pistoiesi: e nel nome del vino fraternizziamo, malgrado i
giubbetti e le giacche a vento.
Poi la pioggia cessa e raggiungo subito la piazza del Duomo, dove
il Palazzo del Comune (già degli Anziani, le cui prime arcate furono
costruite nel 1294, sotto il podestà fiorentino Giano della Bella, ben
nota conoscenza di Dante), e il Palazzo dei Vescovi (già in piedi
all’inizio del XII secolo), sembrano premere il Duomo, stringere la
sua mole verso uno spazio laterale, decentrato, facendo sì che la
sua facciata non si imponga come asse centrale della piazza. Ma
forse l’originale carattere di Pistoia sta proprio nel suo essere
decentrata, nel suo storico essere pressata tra le vicine Firenze e
Lucca, fino alla sottomissione alla dominante Firenze. Il Duomo, che
in origine doveva essere stato dedicato a san Martino, passò in età
longobarda a san Zeno e ha raggiunto la sua forma attuale nel corso
del XIII secolo: ma la bella facciata di stile pisano, con un portico in
cui le arcate si succedono con studiate variazioni, sovrastato da tre
ordini di logge tutti di diversa estensione, dovrebbe essere l’esito di
un rimaneggiamento quattrocentesco. Nello spazio decentrato su cui
si affaccia la cattedrale, dirimpetto a essa, è disposto poi il Battistero
di San Giovanni Battista in Corte (edificato verso la metà del XIV
secolo), che però, a differenza della cattedrale, non è pressato da
nessun altro edificio: sulla breve scalinata che gli fa da pedana
troneggia isolato nel suo corpo ottagonale bianco e verde, in cui i
modelli dei Battisteri fiorentino e pisano si proiettano in più ardita e
pungente elevazione
Il giro serale del centro di Pistoia richiede un prolungamento e
un’integrazione nella mattina del 17 settembre: ritorno a San
Domenico e a Sant’Antonio del Tau e da lì procedo verso la chiesa di
San Francesco, che raggiungo dalla parte dell’abside e della
fiancata sinistra, che con la loro mole imponente sembrano
eccessive rispetto alla più semplice e stretta facciata: la sua
costruzione iniziò, sul sito di un precedente edificio, nel 1289 e
proseguì molto lentamente, addirittura fino al primo Settecento,
quando fu ultimato il rivestimento della facciata, ancora secondo il
modello medievale delle fasce bianche e verdi. Accanto alla fiancata
sinistra della chiesa è installato un semplice monumento, Memoria
storica, fatto di blocchi di pietra e di una serie di targhe metalliche
fissate a terra con i titoli di testa dei giornali del 10 maggio 1978, il
giorno successivo all’assassinio di Aldo Moro. Sui blocchi ci sono i
nomi degli uomini della scorta del presidente della DC uccisi il giorno
del suo rapimento il 16 marzo; su un blocco più elevato c’è una frase
dello stesso Moro: BISOGNA / VIVERE IL TEMPO / CHE CI È STATO DATO / CON
TUTTE / LE SUE DIFFICOLTÀ.
Non lontano da San Francesco, su uno spazio più ristretto, è
un’altra chiesa, Sant’Andrea, un tempo suburbana, con la facciata
dell’XI secolo, che la decorazione a strisce bianche e verdi copre
solo in parte, con un gioco di archi che si rispondono l’un l’altro;
sopra il portale maggiore c’è un doppio arco, quasi un arco sull’arco,
e varie sculture, tra cui si impone il fregio dell’architrave, in cui in
continuità sono effigiati i tre Magi a cavallo che vanno da Erode e poi
mentre in piedi offrono i doni al bambino, che è in braccio a Maria,
mentre dietro di lei Giuseppe è appoggiato al suo bastone. Passo
sulla via Abbi Pazienza e poi tocco la chiesetta romanica in marmo
quasi totalmente bianco di San Michele in Cioncio, databile tra il XII
e il XIII secolo (il nome sarebbe variante locale di Ciompo e
collegherebbe la chiesa ai lavoratori della lana), e la piazza dello
Spirito Santo, dove davanti alla chiesa secentesca dalla grezza
facciata è in atto un mercato di prodotti di vario genere che si
estende sulla vicina piazza del Duomo.
Oltre lo spigolo nord della piazza del Duomo si apre la via Tomba
di Catilina, su cui subito aggetta una torre medievale, probabilmente
di guardia, che viene denominata Torre di Catilina, nel sito dove,
secondo la leggenda, sarebbe stato sepolto il congiurato sconfitto e
ucciso nel 62 a.C. In fondo alla via ancora un’altra piccola chiesetta
romanica, San Salvatore, mentre, svoltando a sinistra, si giunge
all’edificio dello Spedale del Ceppo, fondato nel 1277 e arricchito nel
Cinquecento da un portico che ricorda quello del fiorentino Ospedale
degli Innocenti, ma che è ornato da un coloratissimo fregio in
ceramica robbiana, con le figure delle sette opere di misericordia e di
cinque virtù.
Prima di lasciare Pistoia non posso non sfiorare qualcosa che
richiama Vanni Fucci e i belli arredi della sagrestia di San Jacopo da
lui trafugati. In realtà san Jacopo è venerato proprio nella cattedrale,
intestata a san Zeno, ma in una specie di diarchia con san Jacopo: e
infatti sul suo tetto, agli spigoli inferiori degli spioventi, sono disposte
le due statue marmoree di san Zeno e di san Jacopo (che non
c’erano ancora nel XIII secolo). In occasione della festa del santo, il
25 luglio, la sua statua viene rivestita di un manto rosso, secondo
una tradizione che fa riferimento a un curioso atto del santo, che per
sostenere le sue iniziative caritatevoli si sarebbe vestito in piena
estate d’un pesante mantello.
San Jacopo non è altri che il san Giacomo maggiore, “il barone /
per cui là giù si vicita Galizia” (Paradiso, XXV 17-18), l’apostolo che
nel cielo delle stelle fisse esamina Dante sulla speranza e il cui culto
si era proiettato appunto in Galizia, nell’estremo occidente d’Europa,
sul suo sepolcro a Santiago (san Jacopo) de Compostela. Il suo
ruolo di patrono di Pistoia, proclamato fin dal 1144, è forse dovuto al
fatto che la città, trovandosi su uno dei percorsi della Via
Francigena, vedeva spesso il passaggio di pellegrini appunto diretti
a Santiago. All’interno del Duomo esisteva una cappella di san
Jacopo, demolita nel Settecento, con un prezioso altare in lamina
d’argento che ora si trova nella Cappella del Crocifisso, che si apre
nella navata destra: è opera in gran parte dell’orafo Andrea di
Jacopo d’Ognabene, che vi lavorò tra fine Duecento e inizio
Trecento, anche se l’insieme venne consacrato solo nel 1399 e, con
l’intervento di altri numerosi orafi, fu completato solo nel 1456. Qui è
conservata una reliquia del santo estratta dalla sua tomba a
Compostela. Quanto al famoso furto, sembra che toccò anche parte
degli arredi di questo altare allora in costruzione: si trattò
probabilmente di un tentativo di danneggiarlo, come atto di
provocazione da parte dei magnati pistoiesi a cui Vanni Fucci era
legato: ma il riferimento ai belli arredi fa pensare piuttosto al tesoro
del Santo, che non era custodito nella cappella, ma nella sacrestia, e
che si trova tuttora nel Museo Capitolare, allestito nell’adiacente
Palazzo dei Vescovi. Lì, a pianterreno c’è una Sacrestia nuova, e
accanto, finalmente, la Sacrestia di San Jacopo, dove in effetti erano
conservati i belli arredi: ora, tra vari altri oggetti, c’è un prezioso
reliquiario del primo Quattrocento, della bottega di Lorenzo Ghiberti.
Serravalle Pistoiese (Campo Piceno)

“…Ma perché di tal vista tu non godi,


se mai sarai di fuor da’ luoghi bui,

apri li orecchi al mio annunzio, e odi.


Pistoia in pria d’i Neri si dimagra;
poi Fiorenza rinova gente e modi.

Tragge Marte vapor di Val di Magra


ch’è di torbidi nuvoli involuto;
e con tempesta impetüosa e agra

sovra Campo Picen fia combattuto;


ond’ei repente spezzerà la nebbia,
sì ch’ogne Bianco ne sarà feruto.

E detto l’ho perché doler ti debbia!”.


(Inf., XXIV 140-151)

La profezia di Vanni Fucci tocca eventi pistoiesi dei primi anni del
XIV secolo, al punto culminante delle lotte di fazione che risentivano
della invadente pressione della vicina Firenze, polarizzate attorno
alla famiglia dei Cancellieri, che si divise tra una parte Bianca e una
parte Nera. Un primo esito di queste lotte fu la cacciata dei Neri
(Pistoia si dimagra, si dimagrisce, si svuota dei Neri), avvenuta nel
maggio del 1301. La stabilità del regime bianco di Pistoia venne però
minacciata dall’opposto evento avvenuto a Firenze nel novembre
dello stesso anno, con il trionfo dei Neri: poco dopo fiorentini e
lucchesi alleati mossero contro Pistoia sotto la guida di Moroello
Malaspina, marchese di Giovagallo in Lunigiana, la cui azione viene
presentata attraverso la metafora del fulmine (vapor) che muove
dalla Val di Magra tra torbidi nuvoli (si veda pp. 853-854) e in una
località indicata come Campo Piceno colpisce i Bianchi pistoiesi e gli
esuli fiorentini loro alleati. Con la sua rabbia aggressiva Vanni Fucci
annuncia tutto ciò per dar dolore al bianco Dante.
Dopo quella sconfitta, avvenuta nel settembre 1302, i Bianchi
pistoiesi cercarono comunque di rafforzare il loro potere nella città,
anche con più duri provvedimenti contro i Neri: e in quella
circostanza fu costretto all’esilio Cino da Pistoia, della famiglia dei
Sigibuldi, poeta e giurista, amico di Dante, che rimase fuori della
città dal 1303 al 1306. Ma nel 1305 Lucchesi e Neri fiorentini, ancora
sotto la guida del Malaspina, strinsero d’assedio Pistoia, che capitolò
per fame il 10 aprile 1306: così negli anni successivi la città dovette
subire in vari modi il controllo di Firenze e di Lucca, anche con una
fase di dominio ghibellino determinato dalle azioni di Uguccione della
Faggiuola e di Castruccio Castracani, e intorno a 1329 finì per
entrare quasi definitivamente sotto il dominio di Firenze.
Non è mai nominato nella Commedia Cino da Pistoia, con cui
Dante ebbe comunque un vivo rapporto d’amicizia, nonostante il suo
opposto schieramento tra i Neri: del resto l’amicizia era nata prima
che sorgesse la scissione tra Bianchi e Neri, al tempo della lirica
giovanile, intorno al 1290. Cino da parte sua riconosce in Dante (di
cui era di circa un lustro più giovane) il più valido alfiere di una nuova
poesia e gli dedica una canzone di conforto in morte di Beatrice,
Avegna ched el m’aggia più per tempo. Ci sono poi vari sonetti di
corrispondenza tra i due poeti, due coppie negli anni in cui Dante era
ancora in Firenze e tre negli anni dell’esilio: tra questi c’è il sonetto Io
sono stato con Amore insieme, che in risposta Dante esule invia a
Cino esule, accompagnandolo con l’Epistola III, tra il 1303 e il 1306,
e quello che Dante scrive a nome del marchese Moroello Malaspina,
Degna fa voi trovare ogni tesoro, in risposta a un sonetto che Cino
gli aveva indirizzato (dei rapporti tra Dante e Moroello si è detto a
proposito della Lunigiana, vedi pp. 853-865). Più o meno in quegli
stessi anni Dante dà particolare rilievo alla poesia di Cino, Cynus
Pistoriensis nel De vulgari eloquentia: lo cita più volte, appaiandolo a
se stesso, tra coloro che “dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt”
(“hanno poetato in volgare in modo più dolce e profondo”; I X 2).
Poi anche Cino, pur provenendo dalla schiera dei Neri, si trovò a
dar credito all’impresa pacificatrice di Enrico VII: ed è possibile che
in quella circostanza ci sia stato qualche nuovo rapporto con Dante.
Dopo la morte dell’imperatore si perde comunque ogni traccia di
contatti tra i due poeti: nel 1314 Cino conseguì la laurea dottorale a
Bologna e si diede più direttamente agli studi, all’attività giuridica e
all’insegnamento (a Napoli, dove insegnò tra il 1330 e il 1331 fu tra i
suoi uditori Giovanni Boccaccio), schierandosi sempre più
nettamente nel campo del guelfismo. Quasi sicuramente inautentici
sono dei sonetti circolanti a suo nome con dura critica al libello di
Dante, mentre sinceramente appassionata appare la sua canzone
per la morte dell’antico amico, Su per la costa, Amor, de l’alto monte.
Ora, lasciata Pistoia, la profezia del ladro mi indirizzerebbe verso
la località di Campo Piceno, toponimo inesistente nel Pistoiese, che
sembra derivare in realtà da un fraintendimento del passo del De
coniuratione Catilinae, LVII 2, in cui si dice che Quinto Metello Celere,
che conduceva tre legioni “in agro Piceno”, cioè nel sud delle
Marche, muove l’accampamento verso i monti, mentre Catilina, dopo
aver condotto i suoi “in agrum pistoriensem”, muove verso le truppe
romane attestate in una pianura “inter sinistros montis et ab dextra
rupe aspera” (LIX 2), “tra monti a sinistra e un’aspra rupe a destra”.
Prova di questo fraintendimento è nella Cronica, I, 32, di Giovanni
Villani, che colloca la sconfitta di Catilina “ov’è oggi la città di Pistoia
nel luogo detto Campo a Piceno, ciò fu di sotto ov’è oggi il castello di
Piteccio”.
Ma, al di là di questa singolare attribuzione della località dell’ultima
battaglia di Catilina, il vittorioso attacco di Moroello Malaspina ai
Bianchi pistoiesi toccò in realtà la fortezza di Serravalle, che si
innalza su modesti rilievi che fanno da spartiacque tra la valle
dell’Ombrone, torrente che scorre a ovest di Pistoia e poi si getta in
Arno presso la Villa medicea di Poggio a Caiano, e quella del
Nievole, che tocca Montecatini e poi confluisce in altri corsi d’acqua
che giungono all’Arno. La battaglia del settembre 1302 sotto la
fortezza di Serravalle fu l’esito di un tentativo dei pistoiesi di forzare
l’assedio che Moroello aveva posto a quel castello, postazione
essenziale al limite tra il territorio di Lucca e quello di Pistoia:
costretto ad arrendersi, il castello passò in mano ai lucchesi.
Salendo da Pistoia appare ben evidente come Serravalle
corrisponda perfettamente al proprio nome, per la sua collocazione
nel punto in cui le due valli si chiudono e si separano, da una parte
la piana pistoiese, dall’altra la Valdinievole con Fucecchio e
Montecatini. La collina spartiacque si distende da una parte e
dall’altra tra ulivi, vigne, boschetti, ville dolcemente adagiate; sotto si
snoda con larghe curve l’autostrada, che supera l’ostacolo collinare
unendo le due valli con una galleria che passa proprio sotto il borgo.
Salgo sulla modesta cima (182 m.), trovando sulla via Roma,
all’imbocco del paese, una lapide malconcia in cui è incisa questa
semplice ottava, con la data 10 maggio 1899 e il nome dell’autore,
Domenico Bonacchi:

Tu che sovente a passeggiar verrai


qui lungo i resti delle antiche mura,
l’animo affranto ritemprar potrai
e la pace del cuor trovar sicura.
Qui l’elixir di lunga vita avrai
nell’aria fresca ventilata e pura
e volgendoti poi per altro calle
con piacer parlerai di Serravalle.

Raccolgo i civili auspici dell’umile poesia, respirando l’aria del


mattino che sembra come rarefarsi tra il digradare delle colline verso
la piana assolata dove è Pistoia e poi Prato e Firenze, mentre oltre si
levano le montagne dell’Appennino coperte da nuvole scure. Entro
dal versante est, dove era una rocca di cui è rimasta soprattutto una
torre, detta torre del Barbarossa, che tradizioni locali farebbero
risalire ad età longobarda. Poco oltre la torre c’è la pieve di Santo
Stefano, fondata nel XIII secolo, la cui forma romanica ha subito
varie modificazioni, con un modesto loggiato esterno e un interno
barocco, e più avanti la chiesa anch’essa duecentesca di San
Michele arcangelo, a sua volta fiancheggiata da un più ampio
loggiato settecentesco, sotto il quale è una pizzeria.
Chissà se Moroello, una volta entrato in Serravalle, avrà dato uno
sguardo a queste chiese, che allora erano già in piedi, anche se con
un assetto molto diverso da quello attuale. Ma il punto più
interessante di Serravalle si trova al suo limite ovest, nell’ampio
spazio della Rocca nuova, costruita dai lucchesi dopo la conquista e
munita successivamente durante le effimere signorie su Lucca dei
ghibellini Uguccione della Faggiuola e Castruccio Castracani: data la
celebrità del secondo, viene qui detta Rocca di Castruccio. Una forte
torre ottagonale domina le sue rovine, che si affacciano sulla
Valdinievole, aprendosi sopra Monsummano, Montecatini,
Fucecchio, sul sito in cui il 29 agosto 1315 Uguccione inflisse una
durissima sconfitta ai guelfi fiorentini; e più in là, c’è Altopascio, dove
essi furono dieci anni dopo sconfitti da Castruccio.
Scendendo da Serravalle e tornando verso Pistoia, il gioco delle
identificazioni di Campo Piceno mi spinge a fare una breve
escursione a Piteccio, che come abbiamo visto, il Villani tende a
considerare il luogo della battaglia di Catilina. Si tratta di un borgo
sulla valle dell’Ombrone, a una decina di chilometri a nord di Pistoia,
su una strada che risaliva l’Appennino verso Bologna, feudo di una
importante famiglia pistoiese, quella dei Vergellesi o Vergiolesi, a cui
apparteneva Selvaggia, la donna cantata da Cino, e anche uno dei
personaggi della novella pistoiese del Decameron, III V, “messer
Francesco, uomo molto ricco e savio e avveduto per altro ma
avarissimo senza modo”.
Piteccio rientra comunque in queste vicende di inizio Trecento,
perché fu luogo di asilo dei Bianchi di Pistoia, dopo la loro cacciata
del 1306. L’Ombrone scende qui con scarsa portata in uno stretto
letto ogni tanto sistemato con gradini in muratura, a fianco del paese
tranquillo dove non si vede traccia di castelli o di edifici medievali:
esso è sovrastato da un altissimo ponte in muratura a più archi su
cui passano i binari della ferrovia detta Porretana, che sale
tortuosamente verso l’Appennino, passando dalla valle dell’Ombrone
a quella del Reno e toccando Porretta Terme, e fu il primo
collegamento ferroviario tra Firenze e Bologna, inaugurata da
Vittorio Emanuele II nel 1864. Proprio sotto il ponte è un parco che
ricorda i 38 abitanti di Piteccio morti per il bombardamento
angloamericano del 28 aprile 1944, mirante a distruggere il ponte,
che fu poi fatto saltare il 24 luglio dai tedeschi in ritirata.
Montemurlo

…sariesi Montemurlo ancor de’ Conti;


(Par., XVI 64)

Tra i luoghi indicati da Cacciaguida come sedi di famiglie il cui


inurbamento avrebbe corrotto l’antica purezza di Firenze c’è anche
Montemurlo, colle e castello al limite nord della piana tra Pistoia a
Prato. Era stato a lungo feudo e castello dei conti Guidi, entrati a far
parte della cittadinanza fiorentina con il matrimonio tra Guido Guerra
III e Gualdrada dei Ravignani (la “buona Gualdrada” ricordata in
Inferno, XVI 38 a proposito del nipote Guido Guerra VI). La difficoltà
di controllare il castello, situato a est del torrente Agna, oltre il quale
si estendeva il territorio di Pistoia, che all’inizio del XIII secolo ne
aveva impiantato uno nel vicino colle di Montale, convinse i Guidi a
disfarsene a favore di Firenze: il che riuscì definitivamente nel 1273
con una vera e propria vendita, da parte del conte Guido Salvatico,
erede di Guido Guerra VI.
Riscendendo sul corso dell’Ombrone fino a Pistoia, dalla periferia
nord della città, prendo una strada che conduce a Prato sfiorando le
ultime propaggini dell’Appennino: sulla piana si incontra un
monumento votivo, sul sito in cui era un Cimitero militare brasiliano,
con i corpi del quasi 500 caduti della seconda guerra mondiale, che
nel 1960 sono stati trasportati in patria. Si estendono poi, quasi
senza soluzione di continuità, i centri moderni di Montale e di
Montemurlo, separati dal corso del torrente Agna. Il castello di
Montemurlo si trova sul colle a nord del centro della cittadina: da
lontano il suo corpo merlato spunta tra il verde che in gran parte lo
nasconde.
Salgo sul colle con una strada che apre sempre più ampiamente la
vista sui molti fabbricati industriali intorno alla città moderna e poi su
tutto l’ampio arco della piana fino a Firenze. Una porta conduce
dentro le mura del castello, che fin dal Cinquecento è stato
riutilizzato come fattoria e residenza signorile. Dalla porta si giunge a
una piazzetta su cui prospetta la semplice pieve romanica di San
Giovanni Decollato, sulla cui facciata si apre un piccolo portico con
tettoia. Ci sono vari edifici per usi diversi, una taverna con belvedere,
ma la parte più interna del castello, con la rocca merlata, è recintata
e scarsamente visibile, per la fitta vegetazione che la avvolge.
All’interno c’è anche un frantoio biologico. Accanto a una fontana
addossata alla base di una balaustra, una lapide collocata nel 2000
dalla Consulta delle associazioni montemurlesi riporta tutti i versi di
Paradiso, XVI 59-67.
Firenze vista dall’Uccellatoio

Non era vinto ancora Montemalo


dal vostro Uccellatoio, che, com’ è vinto
nel montar sù, così sarà nel calo.
(Par., XV 109-11)

Questa porzione del viaggio e l’insieme del viaggio dantesco si


concluderà con uno sguardo a Firenze da nord, seguendo ancora
Cacciaguida, che condanna la mania di grandezza della città
annunciando nel contempo la sua prossima decadenza, in parallelo
con la vicenda dell’antica Roma. Roma e Firenze appaiate nella loro
illusoria grandezza e nella loro rovina, con una doppia sineddoche
che rinvia all’immagine di sé che le due città davano a chi arrivando
le contemplava dall’alto: Roma da monte Mario (vedi pp. 75-79),
Firenze da una località detta Uccellatoio, sulla via Bolognese, nel
punto in cui essa appariva per la prima volta a chi veniva da nord.
Per tornare verso la via Bolognese, già toccata due volte nei giorni
precedenti, sfioro da nord la periferia di Prato e poi, all’altezza di
Calenzano, prendo una strada diretta a Barberino del Mugello, che
risale il corso di un torrente tributario del Bisenzio e fiancheggia
l’autostrada Firenze-Bologna. Superato Barberino e il lago di
Bilancino, raggiungo la Bolognese, prendendo la direzione Firenze,
che mi porta di nuovo davanti alla Villa medicea di Cafaggiolo e di lì
a Vaglia e poi a Pratolino, dove, come ogni domenica e pochi altri
giorni nel periodo estivo, è aperto l’accesso al parco della Villa
medicea, detta anche Villa Demidoff, dal nome del proprietario
russo, il conte Paolo Demidoff (nipote del Nicola che ha il
monumento a Firenze sul Lungarno Serristori: vedi p. 140), a cui fu
venduta dai Savoia nel 1872. Sul lato della strada opposto
all’ingresso c’è un grande parcheggio, molto affollato: ma accoglie
soprattutto visitatori del Parco Avventura Il Gigante, con 16 percorsi
e arrampicate tra le chiome delle querce: un gruppo di giovani è
diretto verso il suo ingresso, dalla parte opposta a quello della villa.
Fu il granduca Francesco I de’ Medici a volere dal 1568 la villa e il
parco, che, con il progetto di Bernardo Buontalenti, costituirono uno
dei più celebrati capolavori manieristici, arricchito più tardi da un
teatro barocco: tra labirinti, intrecci acquatici, emblemi di una natura
regolata dall’artificio, in cui la razionalità del giardino all’italiana
veniva come rappresa, esibita e frantumata entro pieghe sottili e
inquietanti, invenzioni capricciose e sorprendenti. La struttura della
villa e del parco, anche con giochi di figure semoventi e meraviglie
meccaniche, doveva dar luogo a una sorta di teatralizzazione e
mineralizzazione dell’ambiente naturale e vegetale, una specie di
sfida alla persistenza della natura da parte di una forma di vita e di
potere inevitabilmente effimera, destinata a svanire (e chissà se così
la vissero nella loro frequentazione di questo buen retiro, il
malinconico granduca e la sua amante, poi sposa, Bianca Cappello).
Con la fine della stirpe dei Medici la villa e il parco andarono in
abbandono, finché la villa non fu demolita e il parco riadattato dal
boemo Joseph Frietsch sul modello del giardino romantico, affidato
alla sognante libertà della natura. Ora si possono seguire i percorsi
irregolari dei viali del giardino, adattati all’ondulazione del terreno,
che dall’ingresso sulla via Bolognese (che qui comunque ha il nome
ufficiale di Fiorentina) digrada in parte verso est, dalla parte di
Fiesole e della vicina valle del Mugnone.
Quasi all’inizio del percorso nel parco si presenta una installazione
elettrica realizzata dall’ENEL: un grande geodete chiamato
Diamante, con 38 pannelli fotovoltaici, che catturano idrogeno grazie
all’energia solare, producendo elettricità che serve a illuminare i
punti più interessanti del parco. Scendendo e svoltando più avanti,
passo davanti a un grande edificio in cui c’è traccia di lavori in corso,
poi raggiungo la fontana dell’Appennino, con la gigantesca statua
creata dal Giambologna, che si affaccia su una vasca ricca di ninfee,
sopra un ammasso roccioso entro cui si aprono cave grotticelle: il
gigante è come intento a meditare sulla propria essenza montana e
acquatica, a sentire il peso dei brandelli di natura artificializzata,
fronde, simulacri d’acqua e di ghiaccio che scivolano dalla sua testa
sulla lunga barba, sulle spalle, sulle braccia, sulle ginocchia piegate
in avanti. Ma ora non sono in atto i giochi d’acqua, che certamente
creano intorno alla statua nuove magiche suggestioni.
La visita al parco mediceo Demidoff ha brevemente ritardato, nel
primo pomeriggio di domenica 17 settembre 2016, la conclusione di
questo viaggio lungo e frantumato. Ma ora ritorno leggermente
indietro tra le case di Pratolino, per raggiungere la via
dell’Uccellatoio. In effetti il luogo evocato da Cacciaguida non si
trova sull’attuale percorso della via Bolognese, ma un po’ più a
ovest, allo sbocco di questa via dell’Uccellatoio, che dopo aver
toccato ville e villette e il parco della Galena, insidiato da nuove
costruzioni, giunge sul luogo detto dell’Apparita, dove appare
Firenze, lungo la strada che conduce a destra verso monte Morello.
Si rivela tutta la distesa della città storica, anche se ora in una certa
oscurità, causata dalle grigie nuvole che sembrano ferme sopra di
essa. A sinistra si vede anche Fiesole e, più vicini, i cipressi del
cimitero di Trespiano e tutta la periferia occidentale della città. Molto
bene si riconoscono la cupola del Brunelleschi e il campanile di
Giotto.
Certo la visuale consueta per Dante e prospettata da Cacciaguida
era molto diversa da quella che mi sta davanti: non c’era la cupola e
la costruzione del campanile non era nemmeno cominciata, e i più
noti emblemi della potenza e del prestigio di Firenze erano ancora
da venire. Nonostante il cattivo auspicio del suo avo, Dante avrà
immaginato e sognato di tornare ad affacciarsi dall’Uccellatoio per
tornare nel cuore della sua città:

Se mai continga che ’l poema sacro


al quale ha posto mano e cielo e terra,
sì che m’ha fatto per molti anni macro,

vinca la crudeltà che fuor mi serra


del bello ovile ov’io dormi’ agnello,
nimico ai lupi che li danno guerra;
con altra voce omai, con altro vello
ritornerò poeta, e in sul fonte
del mio battesmo prenderò ’l cappello
(Par., XXV 1-9)
………………………………
Ringraziamenti

Questo libro è l’approdo di un lungo cammino, in cui l’autore,


viandante nel presente e nel passato, è stato accompagnato
dall’attenzione e dal sostegno della Società Dante Alighieri e di tante
persone senza le quali il libro non sarebbe giunto in porto. Come
detto nell’Introduzione, da tempo pensavo a questo viaggio: ma la
sua realizzazione è maturata nel seno stesso dell’attività della Dante
Alighieri, all’interno di manifestazioni da essa organizzate. Un
ringraziamento particolare va alla sensibilità culturale del consigliere
Paolo Peluffo e del segretario generale Alessandro Masi, che mi
hanno sollecitato a realizzare l’idea e l’hanno sostenuta in tutti i suoi
passaggi, dal viaggio, iniziato nell’aprile 2014, alle fasi della scrittura,
all’esito editoriale; ringrazio poi il presidente Andrea Riccardi, che ha
assunto la presidenza quando il viaggio era già in stato avanzato,
ma lo ha sostenuto con favore, e la dott.ssa Emanuela Gregori, che
ne ha seguito l’agenda, curando gli aspetti logistici.
La scrittura è stata naturalmente agevolata dalla flessibilità del mio
computer e da Internet, ma è debitrice a molteplici strumenti
bibliografici, che non è possibile citare e per i quali, salvo qualche
eccezione peregrina, non ho fatto nessun rimando, per evitare di
appesantire il discorso. La mia gratitudine va anche a tutto ciò che
qui è taciuto: una gamma di voci che si potrebbero disporre tra le
risorse offerte dal web (con gli estremi dell’autorevole Enciclopedia
dantesca e della a volte ingannevole Wikipedia) e la selva di libri che
intasa il mio studio e la mia scrivania.
Ma certo il libro non avrebbe assunto il volto che ora presenta se
non ci fosse stata l’attenzione e la curiosità di Elisabetta Sgarbi, che,
reggendo con la sua intelligenza il timone di questa nave, ne ha fatto
in poco tempo una vivacissima fucina di cultura e di creatività. La
ringrazio per aver voluto che la “piccioletta barca” con cui ho
compiuto il mio viaggio sia stata issata sulla sua già possente nave:
su cui ha trovato un consulente di grande intelligenza e cultura come
Salvatore Vitellino, che ringrazio per l’acribia con cui ha seguito la
revisione e la preparazione editoriale del testo.
E poi, da questa nave, quasi a mo’ di scusa, un ringraziamento
affettuoso a chi era più vicino ai luoghi della scrittura, agli intoppi e
alle diversioni del suo vario procedere, Giuditta, Michele e Laura, nel
suo stile partecipe.

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