Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
Giulio Ferroni
L’Italia di Dante
Introduzione
Napoli: tomba di Virgilio
ROMA
Dante e Roma
San Giovanni in Laterano
Verso il Vaticano
Cortile della Pigna e Musei Vaticani
Ponte Sant’angelo e monte Giordano
Campidoglio
Tempio di Giano
Monte Aventino
Monte Mario
Foce del Tevere
Basilica di San Pietro: la Veronica
Grotte Vaticane
FIRENZE
Denuncia, passione, desiderio
La città dell’Arno
Battistero: il bel San Giovanni
L’ultimo sesto e Porta San Piero
Verso la Porta Peruzza
Nel sito del Gardingo: tra piazza San Firenze e piazza della
Signoria
Borgo Santi Apostoli
Santa Maria del Fiore, già Santa Reparata
Piazza della Repubblica (Mercato Vecchio)
Ponte Vecchio
Ponte alle Grazie, Monte alle Croci e San Miniato al Monte
La Badia
Dentro da la cerchia antica e altri luoghi danteschi
Lasciare Firenze
SUD DEL LAZIO E SANNIO
Monte Circeo
Gaeta e il Garigliano
Benevento
Montecassino
Aquino
Ceprano
Monte Caccume
Castel Gandolfo
Anagni
Palestrina
UMBRIA E NORD DEL LAZIO
Monte Soratte
Acquasparta
Assisi
Monte Subasio, fiume Topino, Nocera Umbra, Gualdo Tadino,
fiume Chiascio
Perugia: Porta Sole
Gubbio
Monte Ingino (Sant’ubaldo)
Chiusi
Orvieto
Bagnoregio
Bolsena
Bullicame
PUGLIA
Brindisi
Bari
Canne della Battaglia
DA TAGLIACOZZO ALLA ROMAGNA E AL CASENTINO
Tagliacozzo
Fiume Tronto
Fiume Castellano
Da Urbisaglia a Senigallia
Fano
Fiorenzuola di Focara e Cattolica
Urbino
Monte Catria
Santa Croce di Fonte Avellana
Carpegna
San Leo
Verucchio
Rimini
Rubicone
Cesena
Bertinoro
Cervia
Ravenna
Pineta di Classe
Santa Maria in Porto Fuori
Sant’Alberto (Marcabò?)
Dal Reno al Po
Giustiniano a Ravenna
Prada
Bagnacavallo e Barbiano (Cunio)
Medicina
Imola
Faenza e oltre (Modigliana e Dovadola)
Castrocaro
Forlì
Fiume Montone e San Benedetto in Alpe
Presso le sorgenti dell’Arno: sotto il Falterona
Tra il Pratomagno e il gran giogo
L’alta valle dell’Arno: Poppi
L’Arno a Ponte a Poppi
Campaldino
Romena
Il Torrente Archiano, presso Bibbiena
La Verna
Confluenza dell’Archiano nell’Arno
Eremo di Camaldoli
Monte Fumaiolo e sorgente del Tevere
Ferrara
Bologna: la Garisenda
Bologna universitaria
Bolognesità culturale
Bologna: tra Sàvena e Reno
SARDEGNA
L’isola d’i Sardi
La Barbagia
La Gallura
Bocche di Bonifacio
Il gallo di Gallura
Il Logudoro
SICILIA E CALABRIA
La bella Trinacria
A Palermo
Palermo: la cattedrale
Lago di Pergusa
Pachino
Siracusa
L’Etna
Golfo di Catania
Peloro
L’onda là sovra Cariddi
Catona
Cosenza
NORDEST
San Giovanni in Fiore
L’Alpe che serra Lamagna e il castello di Tirolo
Venezia: l’Arsenale
Il conio di Vinegia
Venezia: Rialto e Santa Lucia
Treviso
Treviso e i da Camino
Verso il Friuli: il Tagliamento
Intorno al Piave
Romano d’Ezzelino
Feltre
Fiume Brenta
Trento
Ruina di Marco
Verona
Gli Scaligeri
Verona: San Zeno
Vicenza
Lago di Garda. Garda e Peschiera
Mantova
Pietole
Governolo: il Mincio e il Po
Reggio Emilia e oltre
Brescia
Val Camonica
Este
Oriago e Mira
Sant’Andrea di Codiverno
Padova
Gli Scrovegni
Pola e il Carnaro
SUL VERSANTE TIRRENICO
Viterbo
Viterbo: Chiesa del Gesù (San Silvestro)
Viterbo: Palazzo dei Papi
Tarquinia (Corneto)
Talamone
Sovana
Santa Fiora
Campagnatico
La Maremma e il castello della Pietra
Montaperti e fiume Arbia
Siena
Gente vana a Siena
Siena: la Diana
Siena: piazza del Campo
Monteriggioni
Colle Val d’Elsa
Fiume Elsa
Lucca
Gli Antelminelli
Lucca: Santa Zita in San Frediano
Lucca: dal Volto Santo al Serchio
Caprona
Monte Pisano
Nelle Alpi Apuane (Pietrapana e Tambernicchi)
Le cave di marmo e Carrara
Lerici
Fiume Magra
Luni
Val di Magra
Chiavari, Lavagna, Sestri Levante e Sarzana
Cecina
Pisa
Bocca d’Arno
Capraia e Gorgona
NORDOVEST
Partendo da Torino
Da Alessandria al Monferrato
Casale Monferrato
Vercelli
Da Novara al monte Rubello
Ivrea e il Canavese
Il passaggio di Annibale
Il Monviso e la sorgente del Po
La Turbie
Noli
Genova
Verso Pavia
Pavia: San Pietro in Ciel d’Oro
Cremona
Bergamo
Milano nell’Expo 2015
Milano: dal Castello Sforzesco al Gabinetto dantesco del Poldi
Pezzoli
INTORNO A FIRENZE E APPENNINO TOSCO-EMILIANO
Valdichiana
Asciano
Pieve al Toppo
Arezzo
Aretini nell’oltretomba
Figline Valdarno
Gaville
In Val di Greve: Greve in Chianti
Tra la Val di Pesa e la Val d’Elsa (Aguglione)
Semifonte
Certaldo
Verso il Galluzzo
Fiume Ema
Signa
Campi Bisenzio
Trespiano
Fiesole e le bestie fiesolane
Fiesole antica
Acone
Cascata dell’Acquacheta
Dal Lamone alla Badia di Susinana
Gli Ubaldini nel Mugello
Mangona e l’alta valle del Bisenzio
Parma
La Pietra di Bismantova
Modena
Prato
Pistoia
Serravalle Pistoiese (Campo Piceno)
Montemurlo
Firenze vista dall’Uccellatoio
Ringraziamenti
Introduzione
Fuori, tra i viali e le aiuole del prato antistante al sagrato, sulla fronte
della grande piazza di Porta San Giovanni, dove si suole mettere il
palco per le grandi manifestazioni, sono appostati vari venditori
vaganti, tra foulard (con immagini varie di Roma e della Roma),
occhiali da sole, fodere di telefonini e finti telefonini, braccialetti (che
un indiano fa roteare intorno a un’asta su cui li tiene infilati), cappelli
multicolori… Mi allontano dalla chiesa procedendo verso la porta,
guardando, al di là dell’intreccio di corsie e semafori dove passano le
auto, il monumento a San Francesco innalzato nel 1926 per il
settimo centenario della sua morte. Volgendomi indietro, le grandi
statue che coronano la balaustra superiore della basilica, con al
centro un Cristo possentemente benedicente, fanno quel singolare
effetto che si può provare spesso a Roma, quando le si scorgono da
lontano, queste stesse o quelle che coronano le altre grandi
basiliche, dalle terrazze dei palazzi privati (dove ancora si usa
“stendere i panni” ad asciugare), come librate in una misteriosa
evanescenza: santi di epoche diverse, avvolti nelle loro tuniche
svolazzanti, mitriati o a capo scoperto, con barba o senza, che
gesticolano lassù, quasi salutando romani e forestieri, come da una
proiezione petrosa del Paradiso, ben piantati sul quel fastigio
ecclesiastico, eppure con un singolare effetto di precarietà, come se
dovessero prima o poi precipitare fuori dall’Empireo, pur non avendo
nessuna intenzione di precipitare. Mi pare di vedere in loro uno dei
tanti emblemi di Roma, della sua precaria ma resistente persistenza,
durissima e leggera nello stesso tempo.
Mi avvio poi verso la stazione della metropolitana, passando sul
marciapiede sotto il fornice della porta. Lì, prima dell’arco, con le
spalle rivolte alla piazza, guardando verso il piazzale esterno alle
mura, è piantato un mendicante. L’ho visto tante altre volte e ogni
volta la vista è lacerante: sta accucciato a terra (forse non è in grado
di muoversi) e gli manca completamente il braccio sinistro; certo per
impietosire i passanti, ha sempre, anche d’inverno, la spalla sinistra
scoperta, che mostra la ferita dell’amputazione, mentre nella mano
destra tiene un bicchiere di carta per raccogliere le pietose monete.
Quasi nessuno si ferma a notarlo, né tanto meno a dargli qualcosa.
Passano romani e turisti, ragazze prorompenti e ragazze
mingherline, impiegati e studenti, gente che va e viene da negozi,
magazzini, bancarelle che sono oltre la porta (subito a destra c’è
anche il mercato popolare di via Sannio). Ma ben pochi notano
questo uomo, che dovrebbe avere poco più di quarant’anni, che
passa gran parte della sua povera vita fissato e rannicchiato là con
la sua menomazione, al servizio di qualcuno che lo piazza al mattino
e poi lo riporta chissà quando in qualche tugurio premiandolo con un
po’ di cibo o forse piazzandolo ancora davanti a un televisore. Lui
qui in basso non vede i santi lassù: cosa gli importa di quel saluto e
di quel Paradiso, della grande bellezza e della disperazione di
Roma?
Scendo nella stazione di San Giovanni e mi dirigo verso quella di
Ottaviano.
Verso il Vaticano
Ecco il castello, con i prati dei suoi fossati e qualche piccolo spazio
di verde, che fa pensare a quelli che erano i Prati di Castello, che
sono stati completamente cancellati dal quartiere
primonovecentesco denominato appunto Prati. L’afflusso turistico di
questi giorni porta intorno al castello quei figuranti, uomini/statua e
donne/statua che ormai costituiscono una specialità internazionale,
variante organizzata e mascherata del mendicare: statua della
Libertà, Leonardo da Vinci redivivo, papa Wojtyla, una bianca e
drappeggiata immagine di qualche virtù (forse è la Carità di Giotto a
Padova, a cui nel primo libro della Recherche Swann assomiglia la
povera fille de cuisine di Combray?), un indiano in levitazione
sorretto da un nascosto congegno metallico, qui anche un grigio
pistolero, cow boy disteso a terra, con due abnormi pistolone. C’è
movimento di turisti: visitatori che entrano nel castello, gente che
semplicemente passeggia o mangia il gelato; c’è anche più in là,
quasi addossato al bastione destro (detto di san Giovanni) uno di
quei chioschi mobili “Bibite-Gelati-Ice Cream-Cold Drinks”.
Nelle tante stratificazioni che l’hanno costituito, come castello
questo è davvero un unicum mondiale, per la sua storia, la sua
forma, la sua destinazione. Il fatto che la struttura di castello sia
sorta sulla base del sepolcro dell’imperatore Adriano ha dato luogo
alla sua singolarità architettonica, al curioso effetto che fa a chi lo
guarda dai più diversi punti di osservazione: si ha come
l’impressione che il corpo circolare che si eleva sulla cinta quadrata
sia in realtà di forma ovale; e questo ovale che sembra affacciarsi
sul Tevere sembra davvero un pezzo fuori tempo, caduto dentro
l’assetto della Roma antica, rinascimentale, barocca. Come castello,
potrebbe avere qualcosa di medievale, ma la misura del suo
paramento superiore, con i suoi scanditi beccadelli, reca piuttosto un
effetto di bellicismo rinascimentale: rocca non rocca, tramite tra il
centro della città e il Vaticano, carcere e fortezza, poi anche
asserragliata residenza papale, teatro di scontro e contesa tra
turbolente fazioni baronali e poteri ecclesiastici, memoria di eventi
catastrofici, come il sacco di Roma del 1527. È anche luogo
letterario, prima di tutto per il corrusco racconto di Benvenuto Cellini,
attestato alla sua difesa in quel 1527 (con il vantato esito di aver
fatto fuori col proprio archibugio addirittura il conestabile di Borbone),
ma più tardi, per la malevola ostilità del papa Paolo III, lì prigioniero,
non senza un avventuroso tentativo di fuga; e luogo letterario-
musicale con la vicenda della Tosca, prigione di Mario Cavaradossi
(L’ora è fuggita) e precipizio per il suicidio di Floria Tosca.
Ma nel Giubileo del 1300 e nei versi di Dante il castello non è altro
che un segnacolo per il procedere dei pellegrini da e verso San
Pietro: procedere nel doppio senso, da e verso la città, identificata
con la sua zona più vicina, che è il monte, cioè monte Giordano, sul
ponte su cui ancora si accede davanti all’ingresso del castello.
Struttura tutta particolare doveva avere il camminamento che dalla
basilica di San Pietro conduceva al castello e al ponte, ora detto
Ponte Sant’Angelo (e i papi più tardi avrebbero avuto un loro
percorso protetto e fortificato). Certo è impossibile ricollocarsi
davvero dentro quel procedere, dato che l’assetto del ponte è mutato
radicalmente: nella superba scenografia barocca gli angeli con i
simboli della passione che ne coronano il parapetto (su bozzetti di
Gian Lorenzo Bernini) sembrano ora come accompagnare chi lo
attraversa, mentre la creazione dei muraglioni del Tevere alla fine
dell’Ottocento ha portato all’allargamento del letto del fiume e
all’allungamento del ponte stesso, con modificazione delle sue
rampe di accesso. Colpisce comunque ancora oggi quella cura per
la gestione del traffico dei pellegrini testimoniata dai versi di Dante:
testimonianza della tecnica del doppio senso di marcia. L’essercito
molto doveva essere proprio straripante, almeno in occasione delle
grandi celebrazioni: e fu proprio la ressa dei pellegrini a far crollare
le spallette del ponte il 19 dicembre del 1450, durante il Giubileo,
causando poco meno di duecento vittime.
È perlomeno strano che il modo concepito dai Roman per la sacra
occasione del 1300 (e ci dovevano essere degli addetti a regolare
questo traffico, vigili urbani del tempo) serva a Dante proprio per
connotare un’occasione infernale, quel circolare in senso inverso dei
dannati della prima bolgia, controllati e sferzati da vigili diavoli,
ruffiani da una parte e seduttori dall’altra: il poeta, che con Virgilio
procede verso sinistra sul margine della bolgia, ha addirittura modo
di precisare che la schiera a lui più vicina (che percorre il lato
esterno della bolgia) muove verso di lui e che quelli della schiera
interna muovono nella direzione opposta. Ciò significa che, come nel
nostro uso moderno (non seguito dagli inglesi), le schiere dei dannati
tengono la destra: e viene da pensare che anche le schiere dei
pellegrini sul ponte procedessero tenendo la destra, quelli che
andavano verso il castello dalla parte a monte del fiume, quelli che
andavano verso il monte, dalla parte a valle. Mi metto allora a
percorrere il ponte tenendomi a destra, ma mi capita prima di dare
uno sguardo dalla parte della spalletta sinistra: e giù in fondo, sulla
sponda del fiume, vedo tre ragazze in pantaloncini che prendono il
sole sulla piccola striscia di sabbia sotto il ponte (il resto delle
sponde è coperto dai marciapiedi in pietra). Hanno addirittura
appoggiato le loro borse lì accanto e due di loro si avvicinano al
fiume e bagnano i piedini nell’acqua non molto allettante (non
mancano lì intorno sterpaglie, carte galleggianti, altri indefiniti rifiuti).
Straniere o italiane, certo ingenuamente indifferenti, con una svagata
leggerezza che esclude ogni cura, ogni riserva igienica verso il fiume
biondo e malsano: dove certo Dante non avrà visto bagnarsi
pellegrine a gambe nude.
Passare il ponte per andare verso il monte significa approdare al
rione detto appunto Ponte, procedere per una via sistemata da
Paolo III, ma un tempo malfamata, via di Panico (il protagonista d’Er
fattaccio di Cesare Pascarella dice del fratello Giggi che “se cambiò,
se fece amico / de li più peggio bulli de’ Rione, / lassò er lavoro,
bazzicò Panico”), dove ora c’è qualche antiquario, tra vari luoghi di
ristorazione. Poi in leggera, leggerissima salita, si raggiunge il rilievo
del monte Giordano (altura appena pronunciata, sorta probabilmente
dall’accumulo di detriti fluviali), dove al tempo di Dante erano
saldamente insediati gli Orsini; e forse il suo nome vien dal cardinale
Giordano, fratello di quel papa Niccolò III che nella bolgia dei
simoniaci scambia Dante per Bonifacio VIII e così dice di sé:
Orsatti qui sul mons Ursinorum, fortezza degli Orsini, poi con
vicende e costruzioni varie, ora palazzo Taverna, il cui ingresso, che
immette su un ampio cortile con una fontana secentesca, si trova
alla sommità della quasi impercettibile salita. Tra i vari passaggi,
questo luogo è stato dimora del cardinale ferrarese Ippolito II d’Este,
quello della Villa d’Este di Tivoli, che qui ha ospitato i due Tasso
padre e figlio, Bernardo e Torquato (ed è curioso il fatto che i due più
grandi poeti del Cinquecento, Ariosto e Tasso, abbiano avuto a che
fare con due diversi Ippoliti d’Este: certo il secondo più munifico e
signorile del primo, che poco si compiacque della dedica
dell’Orlando furioso). Ma non si trascurino più recenti frequentazioni:
un cartello della serie Mirabilia che si trova poco oltre l’ingresso del
palazzo ci dice che negli anni novanta palazzo Taverna è stato set
per parte del film di Jane Campion Ritratto di signora (1996), con
Nicole Kidman come signora; e si tralascia il fatto che il film sia tratto
da uno dei maggiori romanzi di Henry James.
Nello scendere dal monte il nome di James mi allontana da Dante
e a pochi metri di distanza mi conduce sulla piazza dell’Orologio,
dove hanno sede sia il più accademico Istituto storico italiano per il
Medioevo che la più “militante” e contemporanea Casa delle
letterature, creata nel 2000 in uno dei pochi momenti magici
dell’amministrazione comunale romana, per iniziativa di un
assessore pieno di passione, di misura, di apertura culturale, a cui
sono stato amico e con cui per alcuni anni mi è toccato di fare
insieme tante cose, cercando di mettere in circolo la letteratura più
autentica: Gianni Borgna, uno di quegli ex comunisti dalla grande
dignità e intelligenza, estraneo ai giochetti politici di bassa lega,
scomparso precocemente nel febbraio 2014. Ben appropriata a
questo mio viaggio è una sosta in questa Casa delle letterature,
diretta da Maria Ida Gaeta, nei suoi spazi tra la sala incontri, la
biblioteca, il giardino, l’atrio con piccole mostre, gli uffici. Qui è
davvero piacevole sedere su una panca per riflettere un po’ e
cominciare a sistemare gli appunti di questa giornata. Il giardino di
aranci, che è in un cortile del grande palazzo dei Filippini (nel cui
blocco è inserita la Casa delle letterature), offre dolce ombra e
squarci di sole, tra ragazzi che conversano e prendono pausa dallo
studio in biblioteca: mentre scrivo tra l’ombra della parete e quella di
un arancio, su una panca vicina due studentesse con le belle spalle
al sole stanno leggendo un po’ distrattamente.
Nell’atrio c’è una mostra fotografica che mi riconduce all’orizzonte
papale oggi percorso: la Casa delle letterature partecipa alle
canonizzazioni dei prossimi giorni esponendo una serie di foto sulla
scomparsa (2 aprile 2005) e sui funerali (8 aprile) di Giovanni Paolo
II, celebrati con gran concorso di folla in piazza San Pietro, eventi
che, si dice, hanno fatto confluire a Roma circa tre milioni di persone
da tutto il mondo. Giovanni Paolo II, il grande uomo, mostra
fotografica di Fazio Gardini: belle le foto, 45 scatti, molto espressivi,
che fanno percepire in tutta evidenza il rilievo visivo dell’evento. Un
pannello esplicativo inscrive direttamente questa dimensione visiva
in un orizzonte di spettacolo massmediatico: singolare
compiacimento traspare dalla notazione secondo cui “questo evento
mediale è stato divulgato dai mass media” (con lapsus legato forse
alla mia ottica dantesca, avevo inizialmente letto medievale invece
che mediale). Ma più esemplare è la clausola dell’esaltante
esplicazione: “Un applauso lungo e commosso, è stato il vero a Dio
del popolo al suo pastore”. Applauso che non si sente nelle foto, ma
che in tale frangente ha confermato la sempre più diffusa abitudine
ad applaudire anche nelle circostanze più tragiche, più definitive, che
più evocano il sacro o ne fanno balenare la traccia o l’assenza:
applausi ormai generalizzati nei funerali, non solo degli attori e dei
santi, ma anche delle vittime più disgraziate. E ancora qui
un’immagine dell’evoluzione mediatica e spettacolare del
cattolicesimo.
Campidoglio
“Questi è Caco,
che, sotto ’l sasso di monte Aventino,
di sangue fece spesse volte laco…”
(Inf., XXV 25-27)
La visita all’interno della basilica di San Pietro, che non sono riuscito
a fare nel Venerdì Santo, penso di compierla finalmente il 14 agosto,
nel cuore profondo dell’estate, verso la sua fine. Questo non tanto
per riavvolgermi ancora nella numerologia del 4, manipolando il 14-
4-2014 con l’inserimento dell’8 (14-8-2014), cosa che, toccando una
posizione diversa, avevo già fatto quel Venerdì Santo (18-4-2014),
con un esito della somma globale delle singole cifre che è uguale sia
per quel precedente Venerdì Santo che per questo giorno
preferragostano: 1+4+8+2+1+4 = 20, con un bell’effetto di totalità.
Ma, al di sopra e al di là di tutto questo, c’è una più banale ragione
personale: il 14 agosto non è altro che quello del mio compleanno,
anniversario che mi rincorre in questo cuore cadente dell’estate, tra
le festive dilatazioni della sua maturità, tra i tripudi vacanzieri
minacciati dall’incombere degli imminenti rientri (“Bientôt nous
tomberons dans les froides tenèbres!”), anche se poi negli ultimi anni
i tempi delle vacanze e dei rientri hanno assunto per tutti forme e
caratteri diversi.
Ma insomma oggi penso di recuperare questo punto cruciale del
viaggio romano, accompagnandolo con due luoghi ai margini di
Roma, che quasi la inquadrano da due punti e su due livelli diversi,
Monte Mario e la foce del Tevere. Comincio dal monte, l’altura più
alta della città, su cui al tempo di Dante viaggiatori e pellegrini che
giungevano da Nord sulla via Trionfale (qui in funzione di
Francigena) scoprivano la città, il vicino serpeggiare del Tevere e in
lontananza le sue chiese e i resti del suo perduto splendore. È
Cacciaguida a tirare in ballo Monte Mario, Montemalo come allora si
chiamava, ma nel quadro della sua polemica contro il lusso e la
corruzione della Firenze contemporanea, opposti all’austera
semplicità della “Fiorenza dentro da la cerchia antica”. Ai tempi
austeri di Cacciaguida, Firenze, che si scorge venendo da nord sul
monte Uccellatoio, era ben lungi dal voler superare lo splendore di
Roma (doppia sineddoche: Montemalo indica Roma, l’Uccellatoio
Firenze), come pretende al tempo di Dante. La Roma che Firenze
crede di superare è quella antica, poi rovinosamente crollata: ma
nella sua ascesa, nel montar sù, Firenze è rimasta comunque
inferiore alla grandezza di Roma, mentre la vincerà presto proprio
nella decadenza, nel calo. La grandiosità della Firenze
contemporanea contiene già in sé l’annuncio della sua caduta, come
la grandiosità della Roma antica ha avuto come esito l’attuale
decadenza. Anche in questo nesso si ripropongono rapporto e
paragone, similarità e opposizione che legano per Dante Roma e
Firenze.
In un giorno come questo è molto piacevole procedere in auto per
le strade di Roma, libere dalla solita congestione, anche se non si ha
più quell’effetto di vuoto totale che a Ferragosto si aveva ancora
qualche anno fa: e questo non per un moderno evolversi delle
abitudini e per una più intelligente distribuzione delle vacanze, ma
per uno dei tanti risvolti della crisi che ci avvolge, a cui quest’anno si
aggiunge anche un clima sotto tono, un’estate continuamente
turbata, che non ha mai mostrato i morsi della canicola. Siamo
comunque molto lontani dal consueto affollamento: si procede senza
intoppi, si scorge ogni tanto qualche spazio vuoto nei parcheggi che
fiancheggiano le strade e ci si sente un po’ vicini al più bell’episodio
del film del 1993 di Nanni Moretti, Caro diario, con la passeggiata
per Roma in vespa la mattina di Ferragosto. È bello salire su Monte
Mario prendendolo direttamente di petto, da piazzale Clodio (siamo
tra l’attuale sede del Tribunale e la vecchia sede della RAI di via
Teulada). Giunti su via Trionfale, si svolta subito passando sotto un
arco per salire verso la vetta del monte, attraversando una parte del
parco in cui resiste varia vegetazione, con percorsi in più direzioni,
anche se intorno sono abbarbicati o diffusi edifici di ogni sorta.
Diversi gli ambienti sulla vetta: l’Osservatorio astronomico e
meteorologico, sul luogo della quattrocentesca Villa Mellini (nella
villa, allora proprietà dei Falconieri, fu ospitato il pittore amico di
Goethe, Philipp Hackert, che da lì dipinse una delle sue vedute di
Roma; e ne parla anche Henry James in Ore italiane). Adiacente,
una zona militare con l’ottocentesca torre del Meridiano (qui era
stato fissato nell’Ottocento il Meridiano di Roma, come Meridiano
zero d’Italia, oggi ormai desueto); e poi un traliccio che accoglie una
inestricabile selva di antenne paraboliche (e non è certo il solo
traliccio: luogo di antenne per eccellenza Monte Mario). Da una
piazzola si giunge al Belvedere accanto al Ristorante Caffè Lo
Zodiaco, approdo frequente, specie per coppie in uscita serale, con
l’ampio panorama romano agevolmente esposto davanti.
Per coloro che sono già amanti (o, se si vuole innamorati), è qui in
uso la pedestre e ormai universale pratica dei lucchetti, promessa di
vincolo eterno, che il bar offre anche in vendita. Ma nel parapetto
metallico sul Belvedere non ce n’è un gran numero, diversamente da
quanto ho visto in una precedente foto del sito: evidentemente la
bruttura viene periodicamente rimossa, senza per questo inibire la
pratica metallicamente dolciastra, del resto assai conveniente per
negozi di ferramenta e qui per lo stesso bar. Non sembrano invece
rimossi i rifiuti, non molto fitti ma subito evidenti, che ornano lo
spazio erboso subito sotto il parapetto: residui di amanti appoggiati,
bicchieri cartacei per caffè con asticciole/cucchiaino, fazzoletti di
carta, una bottiglietta di plastica, qualche scontrino e anche una
penna biro. Montemalo, per questo: Mons Malus per ben altre
ragioni – si dice per l’esposizione del corpo di Giovanni Crescenzi,
fatto giustiziare da Ottone III, nel più cupo Medioevo romano, alla
fine del primo millennio: ma chissà se il nome non venga da prima –,
anche se c’era chi per contrasto lo chiamò o lo volle chiamare Mons
Gaudii. Ci sono del resto versioni diverse anche nella trasformazione
da malo a mario: semplice deformazione eufemistica o riferimento a
uno dei più autorevoli esponenti dei Mellini, il Mario che tenne la villa
alla fine del Quattrocento?
Nell’infanzia quel nome Monte Mario mi suonava come qualcosa di
stranamente familiare, anche se mi capitava di guardarlo solo da
lontano (quasi sempre dall’opposto ben più basso belvedere del
Pincio), senza mai che mi capitasse di raggiungerlo: come se fosse
legato a qualcuna di quelle tante persone che si chiamano Mario, se
avesse a che fare con qualche strambo signor Mario che conoscevo
(singolare tra gli altri era un negoziante pugliese che, dal banco del
suo piccolo e sempre buio negozio di ferramenta, indugiava in
crucciate lamentele politiche, in recriminanti divagazioni
nostalgicamente fasciste: in quegli anni nella piccola borghesia
romana si usava chiamare semplicemente nostalgici i persistenti
fascisti). Ma ora improvvisamente mi sovviene il cognome di quel
“sor Mario”, che addirittura era Lucchetta: incredibile impensata
intermittenza con il parapetto lucchettato di questo belvedere.
Ma qui sono per abbracciare la vista di Roma, come i pellegrini dei
tempi di Dante: la sua grande bellezza, che nelle alterne vicende dei
secoli, è certo risalita dal calo in cui pareva allora precipitare. Non ha
solo ridato lustro alle sue rovine antiche, ma ha moltiplicato in sé
chiese ed edifici pubblici e privati, di tutti i secoli e gli stili successivi,
fino alle evidenze novecentesche e contemporanee da qui molto
vicine, che l’occhio individua nitidamente, in questa mattina di pallida
estate, che è iniziata con una breve pioggia e che da qui lascia ora
immerso il centro della città in una vaga bruma da cui si distinguono
chiaramente solo gli edifici più imponenti. Qua sotto, in perfetta
evidenza, lo snodarsi del Tevere, da ponte Milvio (incunabolo della
moda dei lucchetti, scaturita da un romanzo sentimentale
postmoderno) ai vari ponti che collegano i quartieri di Roma Nord,
tra i quali il recentissimo ponte pedonale del famoso onnipresente
Calatrava, però tuttora chiuso al passaggio per sue supposte
imperfezioni; quasi addossati al monte gli edifici sportivi di epoca
fascista del Foro Italico e, oltre di essi, uno spicchio della facciata del
Palazzo della Farnesina, sede del ministero degli affari esteri,
mentre del tutto nascosto dalla vegetazione del parco resta il vicino
Stadio Olimpico; dall’altra parte del Tevere, le grandi tettoie del
vitalissimo e sempre affollato Auditorium di Renzo Piano. Poi Roma
si allarga nel verde delle ville: le grandi macchie di Villa Ada e di Villa
Borghese, e poi campanili, cupole, terrazze, riflessi del sole sorto a
Nord Est tra la foschia che man mano si apre, mentre in questa
distanza (un particolare effetto che si ha sempre negli sguardi a
distanza) anche le cadute di stile, gli scempi urbanistici, il degrado, il
rumore, la tensione, l’eccesso delle cose e delle vite sembra come
evaporare, aprirsi e comporsi sul proprio spazio, miracolosamente
conciliando compressione e distensione, occlusione e dilatazione.
Da questo belvedere non si arriva a vedere il cupolone di San Pietro,
che sulla destra è coperto dall’edificio dell’Osservatorio, ma basterà
poi riscendere un po’ nel viale che mi ha portato qui e sostare su
certi viottoli del parco per scoprire perfettamente, come se fossero
quasi davanti, la cupola e le mura Vaticane, con edifici e ambienti
sottostanti. Abbraccio Roma così, anche con i colli più in là,
ritrovando questo abbraccio anche nei versi di Marziale, che sono
iscritti in una stele proprio davanti al belvedere dello Zodiaco,
accanto al parapetto dei lucchetti:
Io me ne starò là,
qual è colui che suo dannaggio sogna
sulle rive del mare
in cui ricomincia la vita.
Solo, o quasi, sul vecchio litorale
tra ruderi di antiche civiltà,
Ravenna
Ostia, o Bombay – è uguale –
………………………………
………………………………
comincerò piano piano a decompormi
nella luce straziante di quel mare,
poeta e cittadino dimenticato.
“Se io mi trascoloro,
non ti maravigliar, ché, dicend’io,
vedrai trascolorar tutti costoro.
All’inizio del canto XXVII del Paradiso, nel cielo delle stelle fisse,
dopo che nei canti precedenti Dante è stato sottoposto ai tre esami
sulle virtù teologali, “tutto ’l paradiso” prorompe in un tripudio festivo
di voci e di luci a gloria della Trinità; poi, quando la luce di san Pietro
si fa più intensa (“incominciò a farsi più vivace”, 12), un silenzio
voluto dalla “provedenza” introduce l’invettiva con cui il santo si
scaglia contro il papa presente, che usurpa il luogo del suo martirio e
della sua tomba, il suo cimitero (come abbiamo visto, p. 45, già
ricordato nel canto IX da Folchetto di Marsiglia), trasformandolo in
una cloaca, con il compiacimento del demonio, il perverso confitto
nell’inferno dopo la sua caduta dal paradiso.
Lasciando lo spazio della chiesa mi dirigo verso il punto più interno
di questo luogo di Pietro, le Grotte Vaticane, il cuore sotterraneo
dove è il suo cimitero. In questo periodo giubilare si entra all’esterno
della chiesa, nello stretto cortile che è sul suo fianco destro: devo
sostare a lungo in coda in attesa dell’ora di apertura, scendendo poi
sotto il piano di calpestio della chiesa attuale, che fu elevata di circa
tre metri rispetto alla precedente basilica costantiniana, del cui muro
perimetrale nello scendere si sfiorano i resti. Subito nel corridoio,
poco dopo l’ingresso, quasi a evocare per contrasto la condanna
dantesca, si presentano, uno di fronte all’altra, i sepolcri di Niccolò III
e di Bonifacio VIII. Niccolò III, cioè Giovanni Gaetano Orsini (1215
circa-1280, papa dal 1277), sta in un sarcofago paleocristiano
insieme a un membro della sua famiglia, di cui una scritta indica i
titoli, Rinaldo Orsini (cardinale dal 1350 al 1374), trasferito qui da
Avignone. Anche se non è un nipote diretto di Niccolò III, con la sua
presenza qui il cardinale Rinaldo sembra indicare la continuità della
famiglia e l’impegno nepotistico del papa condannato da Dante tra i
simoniaci (ho già ricordato la sua cupidigia “per avanzar li orsatti”,
con i versi di Inferno, XIX 69-72).
Davanti a lui il nemico di Dante, Bonifacio VIII (Benedetto
Caetani), giace scolpito da Arnolfo di Cambio, con un volto crucciato
calzato dalla mitra papale, su un sarcofago che ha alla base un
fregio cosmatesco. Sul pavimento antistante è una lapide sotto cui è
sepolto un suo nipote, anche lui Benedetto Caetani, Benedictus
Caetanus Ss. Cosmae et Dam. Diac. Card. Bonifacii VIII Nepos,
cardinale dalla più breve vita, nominato dallo zio nel 1295, quasi a
ridosso della sua ascesa al papato, e morto poco dopo, nel 1296,
con gran dolore dello stesso Bonifacio.
Quasi nessuno dei visitatori e dei pellegrini appena entrati in
queste Grotte fa caso alle tombe così affrontate di questi due papi,
ciascuno accompagnato per giunta da un esponente della rispettiva
famiglia. E certo nessuno pensa alla paradossalità di questo
accostamento, in cui sembra echeggiare la battuta, a cui già mi è
capitato di accennare, che Niccolò III, confitto a testa in giù nel foro
infuocato della bolgia, quasi che parlasse attraverso le piante dei
piedi, rivolge a Dante, scambiandolo proprio per Bonifacio VIII:
Così nel grande poema viene evocata per la prima volta la città, la
patria di Dante, amata e vissuta, dolorosamente abbandonata,
riprovata e maledetta per le colpe dei suoi cittadini, guardata da
lontano nel lungo esilio, minacciata e desiderata senza remissione,
sino alla fine. A questa apostrofe di Ciacco, che giace sotto la
pioggia infernale che punisce i golosi, il pellegrino replica chiedendo
con inquietudine quale sarà il prossimo esito della discordia che
investe la città:
Tutta immersa entro la civiltà fiorentina era stata del resto, fino
all’esilio, l’esistenza di Dante: la sua poesia, l’impegno intellettuale,
le amicizie e le occasioni festive, gli incontri con i più vari
personaggi, la diretta partecipazione alle istituzioni cittadine. L’opera
che l’autore stesso avrebbe poi definito “fervida e passionata”, la
Vita nuova, è come animata dal vibrare dell’aria di Firenze, inscrive
la vicenda d’amore, l’apparire e lo sparire della salvifica Beatrice,
entro lo spazio della cittade, il cui nome non è mai fatto
esplicitamente: sospiri e angosce nel partire dalla città, usanze
festive e funebri, ritorno alla città dopo il cammino lungo “uno rivo
chiaro molto”, desolazione della città per la morte di Beatrice, fino
all’allocuzione ai pellegrini (Deh peregrini che pensosi andate) che
passano “per lo suo mezzo la città dolente”, che “ha perduto la sua
Beatrice” (XL).
E ancora alle soglie della Commedia, l’esule guarda a Firenze
nella sua ultima canzone d’amore, quella che lui stesso chiama
montanina: uno strano amore, per una donna “sbandeggiata” dalla
corte d’Amore, lo tormenta tra le montagne del Casentino, nella valle
dell’Arno, quella valle dove sempre Amore lo ha signoreggiato, ma
dove ora non c’è nessuno a cui poter comunicare il proprio “male”,
nessuna brigata di “donne” e di “genti accorte” come quelle di
Firenze. Il poeta lascia allora partire la sua canzone, pensando che
essa potrà forse vedere la sua città, che lo serra, lo tiene lontano da
sé, “vota d’amore e nuda di pietate”; e chiede ai propri versi di dire a
Firenze che egli non è più in grado di farle guerra, perché ora è
prigioniero di questa catena d’amore che così strettamente lo serra,
gli toglie ogni possibile libertate di tornare, nemmeno se i suoi
concittadini lo richiamassero in patria, rinunciando alla loro
crudeltate verso di lui:
Dal diverso rilievo che Firenze ha avuto nelle diverse fasi della vita di
Dante, dall’immagine conflittuale che egli ne ha trasmesso, si
dispiegano le altre immagini che essa ha dato di sé nella storia
successiva, tutto quello che ha costruito nei secoli, ciò che essa
significa per l’Italia passata e presente, per la sua lingua, la sua
poesia, le sue arti, il suo artigianato, la sua ricchezza e la sua
decadenza, splendori e sfaceli. Emblema determinante dell’essere
italiano: dalla resistenza e l’espansione nei difficili frangenti del
Trecento (in cui si affermava il magistero umanistico di Petrarca,
fiorentino fuori di Firenze, e di Boccaccio), ai grandi esiti culturali e
artistici del Quattrocento e della signoria medicea, ai conflitti di primo
Cinquecento, con la strenua difesa della propria minacciata identità
municipale, al fissarsi di un regime principesco accompagnato da
fitta operosità letteraria, artistica, scientifica, musicale, alle aperture
moderne della dinastia dei Lorena nel Settecento, alle vicende del
Risorgimento (fino ai brevi anni in cui Firenze ebbe il ruolo di capitale
d’Italia), alla sua grande vitalità culturale del primo Novecento, alla
sua assolutizzazione a emblema turistico e richiamo internazionale
nel secondo Novecento, alle fragili ambizioni della Firenze
“renziana”.
E, dopo i grandi trecentisti, Brunelleschi e Masaccio, Lorenzo e
Poliziano, Ficino e Botticelli, Leonardo e Michelangelo, Machiavelli e
Guicciardini, Cellini e Galileo, fiorentini o toscani cresciuti a Firenze,
in alcuni casi approdati altrove, ma perlopiù rimasti fortemente legati
alla città. Tante immagini di Firenze, diverse nel diverso risalire a
questi e ad altri nomi, ai segni umani, alle configurazioni morali che
essi designano. Così in Francia florentin è stato spesso usato per
qualificare personaggi dotati di astuta e “machiavellica” abilità
politica: eredità addirittura cinquecentesca, tra le manovre politiche
della regina Caterina de’ Medici e dei suoi cortigiani e la
demonizzazione degli scritti di Machiavelli; giunta a toccare nel tardo
Novecento il presidente François Mitterrand, da molti
soprannominato proprio le florentin.
Qui comunque, nel centro di questa città, a ogni passo ci si
imbatte in una traccia storica, sempre più imbrigliata dentro gli
ingranaggi turistici: apparati per la visita di monumenti e musei,
luoghi di accoglienza turistica, luoghi di refezione, boutiques di super
lusso e negozi, negozietti, bancarelle per tutti gli usi e le borse; salvo
che in sempre più rare pause stagionali, folle internazionali che
percorrono il lastricato, che sostano, guardano, fotografano,
mangiano, con un ritmo infinito, abbracciato alla resistente bellezza
dei luoghi, nelle strade strette, nelle piazze ampie e distese, nei
trionfanti slarghi del paesaggio che si apre sui Lungarni.
Figlia di Roma, la Firenze dantesca: ma molto più di Roma la città
sembra qui risolversi nella fruizione turistica, sembra costretta a
esibire il turismo come la prima ragione della sua esistenza e
persistenza, della sua resistente e ammaccata prosperità. Come se
nel suo centro fossero concentrate tutte le ragioni passate di quella
che qualcuno chiama l’eccellenza italiana, nella sua cultura e nella
sua arte (soprattutto l’arte del Rinascimento): la consistenza di un
passato riconosciuto ormai solo in quanto esposto al consumo, con
le necessarie e sempre più auspicabili ricadute economiche.
Passato inteso ormai come “bene” produttivo, “volano” di sviluppo e
crescita, più che di esperienza umana ed estetica.
Arrivo comunque a Firenze l’8 maggio 2014, in treno come tante
volte: quante volte ci sono stato, dopo quella prima volta che,
adolescente, restai qui solo una breve giornata, in parte mangiata
dal viaggio, che allora da Roma durava tre ore e mezzo! Quella volta
percorsi senza soste tutti i luoghi possibili, in preda all’emozione,
specie per chiese e palazzi di cui avevo letto nei libri di scuola. Oggi
mi dirigo subito al secondo piano di Palazzo Strozzi, all’Istituto di
studi sul Rinascimento, per partecipare a un convegno su Progetti,
forme ed istituzioni della politica in Toscana: da Dante a Guicciardini.
Devo parlare di Machiavelli e del suo uso di categorie come
ambizione, riputazione, onore e gloria: e potrei anche risalire all’uso
che di questi termini viene fatto da Dante, nella sua poesia e nel suo
pensiero politico. Del resto, da buon fiorentino, Niccolò aveva un
vero e proprio culto della poesia di Dante, che lascia molteplici
risonanze del suo linguaggio.
Sto pensando, prima che la seduta abbia inizio, al rapporto tra
Machiavelli e Dante, quando mi vengono incontro due persone, che
dal lontano passato politico-letterario mi fanno precipitare in una
delle pieghe più brucianti, deprimenti, irrisolte del recente passato
italiano: uno è anche relatore a questo convegno, Enrico Fenzi,
autorevole studioso di Dante e di Petrarca, già professore
universitario, ma noto anche come reduce dai cosiddetti “anni di
piombo”, già condannato come membro della colonna genovese
delle Brigate Rosse. Non so se sia stato protagonista in prima
persona di specifici fatti di sangue: ma è certo che, nei confronti del
passato terroristico egli si è collocato nella categoria dei “dissociati”,
ben diversa da quella dei “pentiti”. Mi lascia sempre perplesso
questa terminologia, sia per il suo uso giuridico che per la proiezione
distorta che essa dà di un passato comunque irrevocabile, per il
modo in cui, attraverso di essa, i soggetti vengono a operare uno
stacco da quel passato, come a smentire, sospendere, cancellare,
rovesciare la propria responsabilità: “né pentere e volere insieme
puossi / per la contradizion che nol consente” (Inferno, XXVII 119-
120: da questi versi danteschi potrebbe forse sorgere qualche
spunto per una considerazione critica di queste formule, della loro
contraddittorietà, della loro pretesa di fissare a posteriori il senso di
azioni passate).
Proprio nel ricordo di questo passato, di tutta l’inutile violenza, di
tutto l’assurdo dolore che ci si è dato, la presenza di Fenzi mi dà
sempre un certo disagio, nonostante le perorazioni di coloro che
sostengono che ormai quell’epoca è finita e che i conti vanno chiusi
definitivamente. Ma insieme a lui c’è ora un altro ex brigatista, che
nell’ambito terroristico ha avuto ruoli più determinanti e che è anche
cognato di Fenzi: riconosco bene Giovanni Senzani, che ho
incontrato parecchi anni fa, nel carcere romano di Rebibbia, quando
lì mi sono recato presiedendo la commissione universitaria d’esame
di Letteratura italiana. Da detenuto in carcere di massima sicurezza
Senzani si era iscritto alla Facoltà di Lettere di Roma e, secondo le
complesse procedure carcerarie, era stato trasferito
temporaneamente a Rebibbia dalla sua casa di detenzione proprio
per sostenere quell’esame. Eravamo in tre a interrogarlo, dopo aver
superato controlli e strati diversi di sbarramenti. Parlando a lungo di
Leopardi, egli rivelò una ampia conoscenza delle sue opere, su di un
fondo culturale sostenuto in tutta evidenza dalla tradizione marxista,
dal linguaggio politico che tra gli anni sessanta e settanta aveva
alimentato le diverse anime della sinistra, con quelle formule e quelle
sue sicurezze che egli sapeva dominare in modo problematico, con
una sua intelligenza: e con particolare attenzione ai risvolti sociali e
politici del pensiero leopardiano, che esponeva con paziente
costanza nell’argomentare, nel ribadire, nel precisare. Lì, pur nella
costrizione dell’orizzonte carcerario, attraverso Leopardi egli
sembrava prolungare la convinzione di sé, della propria ipotesi di
mondo, di quella prospettiva “rivoluzionaria” che pure aveva visto
sfuggirgli: certo non la esibiva esplicitamente di fronte alla
commissione d’esame, ma era evidente che essa sorreggeva le sue
parole, che non l’avrebbe mai riconosciuta come erronea e che, se ci
fossero state le condizioni, per essa avrebbe fatto di nuovo
qualunque cosa. Si prolungava in lui all’estremo, in quella
separazione dal mondo, l’illusione che aveva dominato a lungo il
Novecento: ma da essa sembrava espunto ogni tratto utopico, ogni
residuo di speranza e di passione, mentre vi si sentiva persistere
ostinazione, determinazione, assolutizzazione del proprio punto di
vista, entro un’indifferenza alle vite, a ogni occasionalità
dell’esperienza, al breve respiro del vivere (in questo quanto poco
leopardiano, pur in un adeguato trattare di Leopardi, a cui non si
poté negare un voto massimo, un meritato 30). Ce ne andammo,
uscendo nell’assolato mattino su quella allucinata periferia romana,
con una sorta di inquieto malessere, un turbamento che non riusciva
a dissolversi: la luce di fuori, dopo il tempo passato nell’interno del
carcere, appariva distorta, accecante, irreali i rumori del traffico sulla
Via Tiburtina, il disordinato disporsi di officine, distributori,
supermercati, bancarelle ai margini del carcere.
Ora eccolo qua, che mi viene incontro col cognato dantista e
petrarchista, che mi saluta e ricorda sorridendo l’esame su Leopardi:
mi stringe la mano e nota con compiacimento che parlerò di
Machiavelli, autore che ci dice tante cose su quello che accade nel
mondo. Ricordiamo che della commissione facevano parte anche
Novella Bellucci e Nicola Longo e ci salutiamo, come lasciando
evaporare questo passato, di cui io ho sfiorato solo dall’esterno
quell’esito carcerario, ma che lui ha creduto rovinosamente di
sommuovere e che ora si trascina con sé, nella sua sconfitta
ostinazione, nel suo rimanere a parte di fronte a un mondo che
aveva presunto di cambiare, credendo che a tutto fosse autorizzato
da questa sua presunzione. Ora se ne va e, nonostante il
compiacimento manifestato per il mio tema machiavellico, non
ascolterà la mia relazione.
Battistero: il bel San Giovanni
In questa zona di Firenze, nella forma delle strade, nella vita che vi
si svolge, negli stessi caratteri dei bar, delle trattorie, dei negozietti,
sembra restare qualche traccia del tempo precedente l’espansione
turistica, qualche residuo barlume “popolare”. I turisti arrivano anche
qui, ma in minor numero, quasi sembrano assorbiti nel consueto
ritmo quotidiano. Così, oltre il mercatino della Loggia del Pesce, la
via Pietrapiana conduce alla chiesa di Sant’Ambrogio, che quasi
nessuno visita, ma in cui si trova la cosiddetta Cappella del miracolo:
vi è esposto un calice miracoloso (nel 1230 sarebbe stato trovato
pieno di sangue), davanti a un tabernacolo quattrocentesco con
rilievi marmorei di Mino da Fiesole (per giunta sepolto là sotto). Un
affresco sulla parete accanto, opera di Cosimo Rosselli, mostra una
scena di esposizione del calice sulla piazza antistante, con vari
gruppi di personaggi della Firenze laurenziana: c’è lo stesso pittore,
con un berretto nero, e in un altro gruppo Pico della Mirandola.
Lasciata la chiesa si arriva al tardottocentesco Mercato di
Sant’Ambrogio; e poi da lì si può girare con vari andirivieni per le
strade che conducono verso Santa Croce, da via de’ Macci a via
dell’Agnolo, a via dei Pandolfini, a via Ghibellina, a via dell’Isola delle
Stinche. Gli incroci tra le strade recano spesso nomi che avevano in
passato una ben definita funzione di identificazione urbanistica: sono
i canti, tanto spesso evocati come luoghi di incontro, di eventi, di
sorprese, dall’antica letteratura fiorentina. Qui il Canto alle Stinche,
segnato da uno stinto tabernacolo, evoca l’antico carcere così
chiamato, costruito proprio all’inizio del Trecento, tanto spesso
ricordato nella letteratura del Rinascimento (anche come carcere per
i debitori): al suo posto c’è ora il Teatro Verdi. Oltre via dell’Isola delle
Stinche, interrotta dalla piazza San Simone, ci sono stradine che
sfiorano edifici con facciate ricurve, che sembrano avvolgersi e
rincorrersi nel gioco dei loro nomi/percorsi, anche se la zona appare
ormai turisticamente lucidata: via della Burella, via dell’Acqua, via
dell’Anguillara, via Filippina, via Borgognona.
La ricurva via dei Bentaccordi, attraversato borgo dei Greci (che
collega direttamente Palazzo Vecchio a Santa Croce) porta sulla
irregolare piazza dei Peruzzi. Qui c’è il prospetto in curva del
Palazzo Peruzzi, costruito a fine Duecento mentre Dante qui intorno
si aggirava: per quei Peruzzi, allora grandi banchieri, che
probabilmente discendevano da quei de la Pera di cui parla
Cacciaguida, che abitavano da queste parti o forse un po’ più in là,
quasi a ridosso di quello che poi fu Palazzo Vecchio. Un arco che
dalla piazza dei Peruzzi dà su via de’ Benci mi fa pensare alla porta
di cui parla Cacciaguida, la Porta Peruzza, che per l’appunto doveva
essere più in là. Siamo comunque in quello che era il sestiere di San
Pier Scheraggio, che continuo a percorrere seguendo i vari tracciati
dei vicoli, in un continuo alternarsi tra sistemazioni turistiche ed echi
del passato “popolare”. Su via de’ Benci l’incrocio con via dei Neri ha
il nome di Canto agli Alberti, poi c’è la via dei Vagellai e, girando a
destra e riattraversata via dei Neri, la piazza San Remigio e
l’improvvisa immersione, come un ritorno in un passato non
lontanissimo, nella Firenze di Vasco Pratolini. Ecco via del Corno,
quella dove Pratolini ha vissuto per qualche anno e dove si svolgono
le sue Cronache di poveri amanti, con gli amori delle quattro
ragazze, dette Angeli Custodi, sotto gli occhi di una vecchia Signora
affacciata alla finestra, in mezzo all’animazione e ai rumori delle
botteghe sulla strada. Cornacchiai erano chiamati gli abitanti e i
lavoranti della strada, solida e fragile umanità di una Firenze che non
c’è più: non ne restano tracce in questa via del Corno in totale
silenzio, nessuna bottega aperta, nessun turista che passa, nessuno
che cerchi la lapide che ricorda il romanzo di Pratolini.
Basta poi andare poco più in là e immergersi nella ressa turistica,
così incredibilmente vicina, di piazza della Signoria e della Galleria
degli Uffizi. Via del Corno sbuca su via dei Leoni (tante volte evocata
nel romanzo), su cui aggetta il fronte posteriore di Palazzo Vecchio.
Girando a sinistra, si trova sull’altro lato del Palazzo la via della
Ninna. Sulla facciata opposta al Palazzo, nel corpo integrato nella
Galleria degli Uffizi, si trovano i resti della chiesa di San Pier
Scheraggio: tre colonne con capitelli sotto due arcate. Una lapide
designa questi “avanzi e vestigia” e ricorda che tra le mura della
chiesa NEI CONSIGLI DEL POPOLO SONÒ LA VOCE DI DANTE. Se qui era la
chiesa (il cui nome Scheraggio sembra riferito a un fosso che
passava accanto per confluire nel vicino Arno), la porta “che si
nomava da quei de la Pera” doveva essere dalla parte opposta,
presso l’angolo sudest di Palazzo Vecchio, sull’attuale piazza San
Firenze. E qui, mentre seggo sull’ampia scala di ingresso al
complesso di San Firenze, ora adibito soprattutto a Tribunale
Ordinario della città, scorgo l’immancabile lapide dantesca sul
palazzo d’angolo tra il borgo dei Greci e via dei Leoni, con in versi di
Cacciaguida qui messi in esergo. Certo se qui era la porta, “cosa
incredibile e vera”, le dimensioni di questa Firenze dell’XI secolo
erano davvero ridottissime.
Nel sito del Gardingo: tra piazza San Firenze e
piazza della Signoria
Forese Donati, che Dante incontra nel girone purgatoriale dei golosi,
esprime gratitudine per l’amata vedovella, che tanto ha pregato per
lui, e oppone alla sua pietà la diffusa corruzione delle donne
fiorentine: con una profezia certo “minore”, rispetto alle tante sparse
nel poema, allude alla dura reprimenda che sarebbe stata fatta nel
1310 dal vescovo di Firenze Antonio d’Orso Biliotti a proposito
dell’abbigliamento femminile (Constitutio de consuetudine), con il
divieto alle donne di scoprire le parti del corpo: ingiunzione, con vera
e propria scomunica, comminata dal pergamo, dal pulpito. È il primo
pomeriggio del 9 maggio, quando mi dirigo verso l’interno del
Duomo, da cui fu lanciato questo interdetto; e per strade e piazze il
flusso turistico mostra quanto siamo distanti da quegli interdetti e
dalla misogina pruderie di Forese, di Dante, del vescovo di allora.
Variegata esibizione di nudità, che peraltro, pur senza trascurare le
poppe e il petto, privilegia piuttosto gli arti inferiori, qualche volta
scopre l’ombelico: segno di libertà, di gioia del corpo e di se stesse,
da parte di queste ragazze svettanti su tacchi alti o scivolanti su
pianelle e infradito. Il paradosso è che ora, oltre all’emancipazione
da ogni ingiunzione dal pulpito, così scoperte e munite di biglietto
possono perfino entrare nel Duomo, indifferenti e innocenti visitatrici
venute da ogni parte del pianeta. Ora varie ragazze in pantaloncini
che si affollano all’ingresso si trovano casualmente accanto a un
paio di castigatissime islamiche dalle lunghe gonne, col velo che
nasconde anche il collo e i capelli, per giunta vigilate dai soddisfatti
mariti.
Nell’ombroso interno del Duomo si espande la musica dell’organo,
che sembra quasi insistere su di una nota costante, mentre i
visitatori si muovono disordinatamente, salvo quelli aggruppati
intorno a una guida, e convergono soprattutto verso la cupola e
l’affresco vasariano del Giudizio universale. Ben pochi si soffermano
a guardare i due formidabili affreschi con le immagini di condottieri
superbamente in arcione su possenti cavalli rampanti, Giovanni
Acuto di Paolo Uccello e Niccolò da Tolentino di Andrea del
Castagno. Non c’è nella chiesa un pergamo dei tempi di Dante, ma
c’è una delle più celebri e riprodotte immagini dantesche, quella di
Domenico di Michelino, esposta per le celebrazioni del secondo
centenario della nascita (1465), alla cui base sono vergati versi in
lode del poeta. Di prospetto al centro del dipinto, ma spostata
leggermente a sinistra, è la sua figura: con la mano sinistra mostra
un libro aperto, in cui si legge l’incipit della Commedia. A sinistra
verso il basso schiere di dannati procedono nell’inferno; indietro si
staglia la montagna del Purgatorio, con le sue cornici, mentre in alto
si incurvano gli archi dei cieli. A destra del poeta, una sommaria
immagine di Firenze, in cui si riconosce bene la cupola del
Brunelleschi, che ovviamente al tempo di Dante non c’era.
Nulla del Duomo attuale riconduce alla forma del tempo di Dante:
qualche traccia se ne può cercare negli scavi dell’antica cattedrale di
Santa Reparata, che proprio alla fine del XIII secolo si decise di
abbattere e sostituire con la nuova più ampia Santa Maria del Fiore.
L’8 settembre del 1296 fu posta la prima pietra della nuova
costruzione e si può anche pensare che Dante fosse presente. La
vecchia Santa Reparata continuava comunque ancora a funzionare:
e per più di un secolo i fiorentini continuarono a usare la sua
denominazione anche per il nuovo assetto. Dallo stesso interno del
Duomo si scende ora negli scavi di Santa Reparata: qui,
muovendosi tra le pedane che proteggono i vari strati dell’antica
pavimentazione, si può avere addirittura l’illusione di osservare
qualche frammento di pavimento calcato dal poeta. Qualche altro
lacerto dei tempi danteschi si può poi trovare nel vicino Museo
dell’Opera del Duomo: e tra questi proprio una statua di
BonifacioVIII, attribuita ad Arnolfo di Cambio, risalente ai primi anni
del pontificato e certo vista da Dante, quando ancora non era
maturata la sua implacabile inimicizia per quel “principe d’i novi
Farisei” (Inferno, XXVII 85).
Intanto, risalendo dagli scavi di Santa Reparata, sulla parete
all’inizio della navata destra del Duomo, osservo un tondo marmoreo
con l’immagine di Giotto. È opera tardo quattrocentesca di
Benedetto da Maiano con un epitaffio del Poliziano che comincia:
“Ille ego sum, per quem pictura extincta revixit” (“Sono quello grazie
al quale la pittura morta rivisse”). E allora non si può non pensare
alle parole di Oderisi da Gubbio in Purgatorio, XI 94-96:
Fuori, isolato alla destra del Duomo, si slancia verso l’alto, nella sua
prodigiosa elevazione, come controbilanciata da un effetto di solidità,
di radicamento in una terrena e scultorea consistenza, il campanile
di Giotto, di cui Dante nulla ha saputo, dato che la progettazione e
l’inizio della costruzione da parte dell’artista ebbe luogo solo nei suoi
ultimi anni, prima della morte (1337) e che il tutto fu concluso solo
nel 1359, certo sotto gli occhi di Giovanni Boccaccio.
Piazza della Repubblica (Mercato Vecchio)
Esco dalla porta della Badia, che dà proprio su via Dante Alighieri: e
lì trovo subito una lapide con questi versi, in cui Cacciaguida ricorda
l’austera vita di Firenze entro la cerchia antica.
Il mio percorso mi conduce oggi verso i luoghi originari di Dante e
della sua famiglia, verso la sua presenza e verso la sua stessa
immagine. Qui ci si può sentire quasi alla ricerca del suo volto: e
infatti basta tornare su via del Proconsolo, sul versante opposto a
quello su cui dà la Badia, all’angolo con la via dei Pandolfini, per
trovare il Ristorante delle Murate, dentro il restaurato Palazzo
dell’Arte dei Giudici e dei Notai. Il ristorante (che più tardi assumerà
la più trendy denominazione di Fishing Lab alle Murate) è disposto
sotto l’ampia volta affrescata della sala maggiore dell’Arte, entro cui
è stato ricavato anche un ambiente rialzato, con una passerella che
fiancheggia la lunetta su cui sono i resti di un affresco dove erano
raffigurati quattro poeti, Dante, Petrarca, Boccaccio e Zanobi da
Strada.
Dai frammenti dell’affresco emergono due volti, sulla destra quello
che dovrebbe essere di Dante e sulla sinistra quello di Boccaccio.
L’ipotesi corrente (grazie allo studio di Monica Donato) è che qui si
possa riconoscere il “vero volto di Dante”: fissato in un profilo
allungato, non con il tradizionale naso arcuato, ma con una foggia
che sembra rispondere al ritratto fatto da Boccaccio nel Trattatello in
laude di Dante. Così nel locale (il cui proprietario ha il merito di aver
finanziato il restauro e di ammettere alla visione dell’affresco anche
chi non intende mangiare) si può prendere un pasto, semplice ma di
buona fattura, sotto gli occhi di Dante, in un ambiente forse un po’
freddo, in un allestimento dominato da legno e vetro. E mi capiterà di
farlo più tardi, in una successiva sosta a Firenze, nel giugno 2015:
solo io e più in là una giapponese che armeggia sul suo iPad e parla
al telefono in perfetto italiano (certo una manager operante in Italia),
accanto all’apertura della cucina a vista, dove è in azione un cuoco
forse coreano con cappello da chef stranamente multicolore.
Ma qui vicino c’è un altro ritratto di Dante, in una cappella che si
trova all’interno del Museo Nazionale del Bargello. La costruzione
del palazzo, allora del Capitano del Popolo, iniziò poco prima della
nascita di Dante e variamente proseguì durante la sua vita e oltre;
solo nel 1574, da sede di varie istituzioni cittadine, divenne sede del
Bargello (la polizia dell’epoca) ed ebbe anche funzione di prigione.
Ora il museo accoglie grandi capolavori della scultura fiorentina, tra
cui spiccano quelli di Donatello e di Michelangelo.
Intorno a un pezzo famoso, San Giovannino già della famiglia
Martelli, tradizionalmente attribuito a Donatello, ma ora assegnato al
suo allievo Desiderio da Settignano, vedo dei giovani intenti a
studiarlo, uno su di una scaletta che più lo avvicina alla statua, con
strumenti sofisticatissimi, computer e attrezzi elettronici di vario
genere puntati variamente sul marmo. È certo uno studio con
particolare autorizzazione, che darà importanti risultati, forse anche
attributivi, su questo piccolo gioiello: qui esso attira davanti alla
statua molti visitatori, che sembrano mostrare insistente curiosità
non tanto verso di essa, ma verso quella strumentazione e verso la
perizia di chi ne fa uso. Mi domando ancora, come altre volte, se non
c’è qualcosa di incongruo, rispetto a opere come queste e al mondo
da cui sono scaturite, nella nostra sempre più attrezzata messa a
punto di mezzi di indagine, conoscenza, misurazione,
segmentazione tecnologica: intanto questo giovane Giovanni
Battista, imbambolato e imberbe, sembra assistere impotente a
queste analisi che vengono fatte sul suo corpo esile e slanciato (un
po’ come capita a noi quando sottoponiamo a screening i nostri corpi
reali, nella speranza di salvaguardarli, di farli resistere più a lungo).
Sono comunque qui per Dante, per la sua immagine nella
Cappella di Santa Maria Maddalena (che è stata la cappella del
Podestà), nell’affresco di scuola giottesca fatto intorno al 1340. Qui,
sulla parete di fondo, ci sono i resti di un Paradiso fitto di beati in
gloria: in basso ecclesiastici e devoti in preghiera e tra di essi in
buona evidenza, di profilo, in ieratica posa, il ritratto di Dante,
scoperto il 20 luglio 1820 dopo varie ricerche indette dal governo
granducale dei Lorena, sulla scorta di notizie del Villani, del Ghiberti,
del Vasari (che lo attribuisce direttamente a Giotto), e poi tratto alla
luce con un restauro che fu molto discusso. Questo ritratto è stato un
po’ ritoccato, ma è comunque precedente a quello che ho appena
visto al Ristorante delle Murate, né da quello troppo dissimile. È un
Dante che se ne sta tranquillo a mani giunte, ben compreso nel suo
ruolo di partecipe della celeste beatitudine: il suo manto rosso
intenso sembra distinguerlo dall’insieme (ma questo forse è frutto del
restauro), anche se non gli tocca quella posizione di protagonista
che ha nel suo Paradiso. Come quello visto pocanzi, è un Dante ben
diverso da quello crucciato e sdegnoso della successiva tradizione
(ricordo quello già incontrato nelle stanze di Raffaello in Vaticano,
vedi p. 52). Con qualche difficoltà riesco a individuare delle carte che
la figura tiene sotto il braccio sinistro: certamente la Commedia.
Pittorico Paradiso su cui si specchia l’Inferno, nell’affresco molto
rovinato che si trova sulla parete opposta della cappella.
Lasciato così Dante, lì, nella cappella del Palazzo che ai tempi del
Bargello di cose infernali deve averne viste davvero molte, mi aggiro
in quella che più o meno è la zona delle case Alighieri e dei loro
vicini, tra andirivieni e giravolte segnate da non poche lapidi con i
versi della Commedia, evocanti edifici e abitatori. Riprendendo la via
Dante Alighieri si arriva fino alla piazza di San Martino e alla Torre
della Castagna, dove dal 1282 si riunivano i Priori, che usavano le
castagne per le loro votazioni (e non dimentichiamo che Dante
ricoprì la carica tra il 15 giugno e il 15 agosto 1300). Qui si affaccia
anche ciò che resta della facciata duecentesca della Badia, mentre
procedendo poco più avanti per la via Dante Alighieri si trova la
cosiddetta Casa di Dante, curiosa e fittizia invenzione messa su nel
1910 (falso turistico che quasi mi fa pensare alla casa di Giulietta a
Verona o a quella di Rigoletto a Mantova): dentro c’è un piccolo
museo non privo di interesse, con varie curiosità, utili tavole
didattiche e qualche arrischiata identificazione. Un pugnale datato
alla fine del XIII secolo viene presentato in una teca come PUGNALE DI
DANTE, trovato nella piana di Campaldino (dove Dante combatté l’11
giugno 1289). Tra le altre curiosità una Tavola con PIANTE E PIETRE
NELLA COMMEDIA (abbastanza poche per la verità: ulivo, alloro, rosa le
piante, cristallo, topazio, elitropia le pietre…: e lascio al lettore il
ritrovamento delle specifiche citazioni, lì coscienziosamente
indicate).
Poi uscendo da questa finta Casa di Dante e svoltando sulla
sinistra si è invitati a visitare quella che un cartello indica come la
chiesa di Dante. È la chiesetta di Santa Margherita dei Cerchi, su cui
si accumulano ipotesi senza fondamento e invenzioni varie: vi si
sarebbe celebrato il matrimonio di Dante con Gemma Donati, Dante
vi avrebbe incontrato Beatrice, la quale vi sarebbe addirittura stata
sepolta (e si sono inventati anche il luogo della tomba, con lapide
annessa). La chiesetta, semplicissima a una sola navata, ospita
varie figurazioni otto-novecentesche dedicate a Dante, tra cui un
incontro preraffaellita con Beatrice e, in pose da vecchio
fotoromanzo, al limite del trash, una scena indicata con grande
iscrizione, interna al dipinto, come DANTE E BEATRICE RICEVONO LA
BENEDIZIONE DAL PRIORE TASSI.
Ma qui intorno l’universo dantesco risuona soprattutto nei nomi
delle strade e in edifici con facciate più o meno medievali. Il Corso,
già toccato l’altro ieri, è una delle strade centrali dell’antica Firenze:
qui si trova la facciata non medievale, ma rinascimentale, di un
palazzo già Portinari, poi Salviati e infine da Cepparello, che evoca
la presenza di Beatrice, con un’epigrafe che reca la terzina che la
descrive al suo apparire a Dante nel Paradiso terrestre, con i colori
del suo abbigliamento (bianco, verde e rosso: e c’è chi vi ha visto
una prefigurazione del tricolore italiano):
Sul Corso, si trova anche la Torre dei Donati (e una lapide evoca
Corso, il nemico di Dante, e la sua morte, con i versi in bocca al
fratello Forese in Purgatorio, XXIV 70-84). Si può poi girare per la via
dei Cerchi (proprio gli acerrimi rivali dei Donati), toccando una
piccola piazza chiusa, detta piazza dei Cerchi; la via dei Cerchi fa
poi angolo con via dei Cimatori, segnalata come “già Via dei Cerchi”.
Qui c’è anche un’osteria-taverna Divina Commedia, con in mostra un
bel busto di Dante, che si apre su un altro spiazzo anch’esso
denominato piazza dei Cerchi: e certo non posso evitare di
mangiarvi una buona tagliata all’aceto balsamico con un semplice
bicchiere di Chianti. Dopo varie giravolte tra Cerchi e Donati, prendo
la via dei Magazzini (già Braccio di San Giorgio), che mi riporta alla
Firenze popolare del primo Novecento: anche questa strada evoca
la vita e la scrittura di Vasco Pratolini, che vi ha abitato prima e più a
lungo che sulla già incontrata via del Corno, rappresentandola a tinte
semplici e intense nel suo primo romanzo, appunto intitolato Via dei
Magazzini. Nulla, ovviamente (salvo la lapide che ricorda Pratolini,
assolutamente indifferente a chi passa) di quella Firenze popolare e
povera nella strada tutta turistica di oggi, sempre più affollata di
trattorie e ristoranti, specie nel tratto che si avvicina a piazza della
Signoria, dove essa conduce.
Attraverso la grande piazza e riprendo via dei Calzaioli, la più
battuta in assoluto di tutte le strade di Firenze, in un affastellarsi di
presunte eleganze e di deprimenti sciatterie: il palazzo che incrocia
la via di Porta Rossa (già via dei Cavalcanti) è quello dei Cavalcanti,
dove è la lapide che ricorda Guido con i versi di Inferno, X 58-63.
Poi, procedendo su via dei Calzaioli, si tocca la chiesa di
Orsammichele, nell’incrocio in cui da una parte, al canto de’ Fiascai,
sbuca via della Condotta (“già Via del Garbo”), dall’altra l’attuale via
di Porta Rossa: prendendola e costeggiando Orsammichele si trova
a destra, un po’ sghemba, in leggera salita, la via dell’Arte della
Lana, dove era lo Sdrucciolo de’ Cavalcanti, che mi fa pensare, più
che allo sdrucciolare, all’agilità di Guido, alla sua vantata leggerezza,
non solo nella misura leggera e piana della sua poesia, ma in quel
salto tra le arche disposte tra Santa Reparata e il Battistero, narrato
nella novella del Boccaccio, Decameron, VI IX. Nel Palazzo dell’Arte
della Lana ha sede la Società dantesca, istituzione fiorentina ricca di
storia, che nel secolo scorso ha ricevuto notevole impulso da
Francesco Mazzoni e poi è stata teatro di un singolare conflitto
accademico, ormai risolto: vi si sono sempre tenute letture e
conferenze e varie altre iniziative dantesche, come quelle indicate da
un manifesto affisso accanto alla porta. Qualche anno fa vi ho fatto
una lettura del XXX del Purgatorio, invitato da Guglielmo Gorni, che
allora era presidente della Società, studioso raffinato e spigoloso,
pungente e paradossale, che la malattia ha troppo presto portato via
nel 2010.
La Società dantesca è istituzione tutta fiorentina, cosa diversa
dalla Società Dante Alighieri, per conto della quale io sto compiendo
questo viaggio: la Società Dante Alighieri è comunque articolata in
Comitati locali, tra cui proprio quello di Firenze è stato recentemente
rilanciato, con una nuova sede, che si trova da un’altra parte della
città, nell’antico Oratorio di San Pierino, in via Gino Capponi, nei
pressi della piazza della Ss. Annunziata e a fianco di una strada il
cui nome è carico di suggestioni, via Laura, che ha dato il titolo
anche a un libro di memorie di Marino Moretti, del 1931. Oggi
l’Oratorio è chiuso, ma ricordo il singolare ciclo di affreschi
cinquecenteschi del chiostro, con ossessive e replicate immagini di
martiri.
La basilica e la piazza dell’Annunziata (il cui impiantito
pedonalizzato è ora occupato dalle tende di un mercatino di piccolo
artigianato) offrono un ambiente affascinante, con una formidabile
concentrazione di opere d’arte (Brunelleschi, della Robbia, Andrea
del Sarto, Pontormo, Rosso, Giambologna, Pietro Tacca ecc.), che
comunque non chiamano direttamente in causa questo mio viaggio.
Non posso però trascurare l’albergo insediato entro una parte
dell’antico edificio che è sulla destra di chi volta le spalle alla
basilica, il Loggiato dei Serviti, costruito su disegno di Antonio da
Sangallo il Vecchio e di Baccio d’Agnolo, a specchio dell’antistante
brunelleschiano Ospedale degli Innocenti (la cui facciata è ora
coperta con figure in facsimile, per i lavori di costruzione del nuovo
museo). L’albergo era molto amato da uno dei maggiori anglisti
italiani, Agostino Lombardo, che quando veniva a Firenze chiedeva
sempre di essere ospitato qui: una magnifica residenza d’epoca,
piena di corridoi, passaggi, stanze disposte a più livelli, arredate con
grande discrezione. Anglista e americanista, Agostino, grande
“barone” accademico, ma di rigorosa onestà, mai disposto a falsare
la verità per esigenze accademiche; uomo di sinistra all’antica,
contrario a ogni capzioso uso politico della cultura; pieno di passione
per la grande letteratura, chiuso in una sua immedicabile malinconia,
sempre più lacerante negli ultimi anni, specie dopo il suicidio della
moglie Luciana Frezza, poetessa e traduttrice di grande valore.
Ricordo i molti incontri con lui, la frequentazione quotidiana a
Cambridge, Massachusetts, in quel semestre autunnale del 1985 in
cui doveva essere con noi Italo Calvino, morto improvvisamente nel
settembre, mentre si apprestava a partire per l’America; ricordo la
sua attenzione per territori culturali diversi e lontani da quelli da lui
più praticati. Studioso di Shakespeare e traduttore di tante sue
opere, non ricordo se con lui è capitato di parlare di Dante e
Shakespeare, di confronti, paragoni, definizioni canoniche, di
eventuali presenze, tracce, riferimenti a Dante rinvenibili tra le
pieghe delle opere shakespeariane. Pensando che certo non sarà
ipotizzabile una conoscenza di Dante da parte di Shakespeare,
credo che sarebbe interessante percorrere gli scarsi riferimenti a
Firenze disseminati nelle sue opere, soprattutto in All’s Well That
Ends Well, dove tra i personaggi c’è anche un duca di Firenze (è
strano, comunque che, tra i tanti luoghi italiani veri e fittizi, chiamati
in causa nel teatro del Bardo, Firenze sia uno dei meno praticati).
Ma ora devo trascurare il Loggiato dei Serviti e la bellissima
piazza, come tanti altri luoghi importanti di Firenze: la piazza di San
Marco, con il convento affrescato dal pittore domenicano detto Beato
Angelico, la vicina Galleria dell’Accademia (con la formidabile
presenza di capolavori di Michelangelo), la via Cavour con la
Biblioteca Marucelliana, e poi Palazzo Medici Riccardi con la
Biblioteca Riccardiana, poi piazza San Lorenzo con la grande
basilica dalla facciata incompiuta (ma so che qualcuno vorrebbe
dargliene una moderna) e la Biblioteca Laurenziana Medicea. Ora
dalla via dell’Arte della Lana scantono verso la piazza della
Repubblica e Palazzo Strozzi, raggiungo la via dei Cerretani, dove,
poco prima della chiesa di Santa Maria Maggiore, scorgo un’epigrafe
con le parole che Dante rivolge a Brunetto Latini:
Nella chiesa di Santa Maria Maggiore era infatti sepolto l’autore del
Tresor: nella cappella Carnesecchi, a sinistra dell’altare maggiore è
ciò che resta della sua tomba, una colonna che in alto reca il suo
nome e il suo stemma, mentre una lapide posta più in alto informa
del ritrovamento e della collocazione lì nel 1751.
È ancora una bella combinazione questa, che mi fa concludere la
mia breve escursione fiorentina nel nome del maestro di Dante, di
questo patrizio fiorentino, che la lapide settecentesca indica come
“eloquentiae et poeseos restaurator” e “Dantis Aligherii et Guidonis
Cavalcanti magister incomparabilis”.
Lasciare Firenze
“Quando
………………………………
e quel corno d’Ausonia che s’imborga
di Bari e di Gaeta e di Catona,
da ove Tronto e Verde in mare sgorga.
(Par., VIII 61-63)
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le
possette parte Sancti Bendicti
…e io Thomas d’Aquino.
(Par., X 99)
………………………………
onde Perugia sente freddo e caldo
da Porta Sole;
(Par., XI 46-47)
…e quella faccia
di là da lui più che l’altre trapunta
…e da Brandizio è tolto.
(Purg., III 27)
…e là da Tagliacozzo,
dove sanz’arme vinse il vecchio Alardo;
(Inf., XXVIII 17-18)
Ma questa strada tortuosa, che sfiora piccoli borghi, tra vari boschi di
castagni, emergenze di rocce, distese di prati, in cui si addensano
fitte ginestre, con la vecchia, ormai abbandonata casa cantoniera nei
pressi del valico, evoca un passaggio e una fuga novecentesca,
quella del 9 settembre 1943. La mia auto che lentamente procede
segue in effetti il percorso del corteo automobilistico che quel giorno
si arrampicò quassù, dirigendosi verso Pescara, con il re Vittorio
Emanuele III e il maresciallo Badoglio, che avevano abbandonato
Roma in mano ai tedeschi: fuga vergognosa, emblema di insipienza,
di vergogna nazionale e di vergogna della monarchia tanto a lungo
connivente col fascismo. Il ricordo di questa fuga, avvenuta quando
io non avevo ancora compiuto il primo mese di vita, mi riconduce
d’altra parte a un cognome per me diventato familiare, quello del
primo aiutante di campo di Vittorio Emanuele, il generale Paolo
Puntoni, che accompagnava allora il re su questa strada. Negli anni
del liceo, insieme al mio amico e compagno di banco Alfonso
Berardinelli, ho avuto un formidabile professore di italiano e latino,
Alberto Puntoni, che era figlio del generale (ma allora non lo
sapevamo), eppure aveva fama di comunista (una volta mi capitò di
incontrarlo a un comizio antifascista a piazza Tuscolo), anche se non
parlava mai direttamente di politica: si immergeva con passione e
misura nei grandi autori e nei grandi testi, ci spiegava Dante, i
classici italiani e latini, con rigore esegetico e in una salda
prospettiva storica, esigeva chiarezza e precisione nello studio, in
rapporti di dignitosa riservatezza.
Credo di aver imparato davvero tanto da lui, anche se allora forse
non lo avrei ammesso: era un grande professore, di una scuola di
cui si sono perdute le tracce. E penso in fondo di dovere a lui tutto
quello che poi nella mia vita ho fatto nella letteratura e per la
letteratura. Mi dispiace di non averlo visto praticamente mai, dopo i
tempi della scuola: solo un affettuoso ma fuggevolissimo incontro, un
breve colloquio tra la calca di un autobus romano; e poi il progetto
sempre rinviato di andare a trovarlo nei suoi ultimi anni… È strano
che mi capiti di pensare ora a lui, tra gli avvolgimenti della vecchia
via Valeria, sulle tracce di quel passaggio di suo padre, mentre cerco
i luoghi di Dante, di altre fughe e di altri disastri: la fuga contraria di
Corradino, che, dopo la sconfitta, fuggì verso Roma, con esito molto
più fatale, per lui quasi un ragazzo, di quello del vecchio Vittorio
Emanuele III, dato che, tradito da Giovanni Frangipane, fu
consegnato a Carlo d’Angiò, che lo fece decapitare a Napoli, sulla
piazza del Mercato, il successivo 29 ottobre (la sua tomba è ora
nella vicina chiesa di Santa Maria del Carmine).
Così Dante denuncia la crudeltà di Carlo d’Angiò, nella terzina già
ricordata (vedi p. 189) in cui adombra anche la sua responsabilità
per la morte di san Tommaso d’Aquino:
Ai tempi della traslazione delle spoglie del beato (che sono anche
quelli della Satira ariostesca, che è del 1517) qui dominavano gli
Orsini, che più tardi costruirono il Palazzo Ducale, che si trova un
poco più su e che passò poi ai Colonna e ai Barberini; vicino c’è
anche un grazioso teatrino ottocentesco, il Teatro Talia, e ancora il
monastero delle Benedettine.
Tutto sembra sommerso in un silenzio modulato dalla luce del
sole, che qui lambisce le varie facciate con misurata dolcezza:
discendo su una gradinata e poi su una stretta strada entro un
silenzio ritmato soltanto da qualche voce di donna che viene
dall’ombrosa profondità delle case. È l’accento degli interni urbani
della più interna provincia italiana, la cava risonanza di una
quotidianità civile, appartata, ancora non sfiorata dal turismo
standardizzato e plastificato: civilissima Tagliacozzo!
Mi appresso al campo della battaglia percorrendo i Piani Palentini
e raggiungendo la vicina Scurcola Marsicana, addossata su un colle
su cui svetta il castello Orsini, sorto proprio nel tempo della battaglia:
accanto alle sue possenti muraglie c’è la chiesa, di origine
cinquecentesca, a cui si accede con doppia scalinata, di Santa Maria
della Vittoria, che venne a sostituire il santuario e l’abbazia
cistercense voluti da Carlo d’Angiò e costruiti sulla piana per
celebrare la vittoria nella battaglia. Qui c’è anche una scultura lignea
di scuola gotica francese, la Madonna detta appunto della Vittoria,
che sembra provenga proprio dalle rovine dell’abbazia-santuario. A
Scurcola c’è anche un Centro studi culturali CarloI d’Angiò, che
organizza un premio D’Angiò, con vari riconoscimenti (nel 2015
quello più importante sarà assegnato addirittura al papa). Tutto ciò
mi sconcerta, anche perché, in sintonia con Dante, la mia simpatia
non può non andare a Corradino…
Devo comunque cercare le rovine dell’abbazia cistercense voluta
da Carlo e consacrata dieci anni dopo la battaglia, il 12 maggio
1278. Scendendo da Scurcola, procedo nella pianura e sulla sinistra,
dopo aver attraversato un ponte sul fiume Imele e prima di un nuovo
ponte sul fiume Salto, di cui l’Imele è affluente, scorgo queste rovine:
solo blocchi sassosi in parte recintati, puntellati da travi di legno,
accanto a una casa colonica che sembra abitata, anche se ora non
c’è nessuno; intorno a uno spiazzo, alcuni capanni con attrezzi,
immondizie, stracci, sacchi abbandonati forse di concime o di
cemento, vari giochi per bambini sulla soglia di un’altra casetta. Sullo
sfondo il castello che domina Scurcola e “la valle delle immagini
insopprimibili”, la valle del Salto che si apre tra imponenti montagne,
su cui spicca il massiccio monte Velino, e il vicino centro di Magliano
de’ Marsi.
Siamo in quell’intreccio fluviale che ebbe un rilievo non
trascurabile nella battaglia: oltre l’Imele e il Salto, poco più in là c’è
un altro affluente del Salto, il Rafia. Qui in mezzo ci si può sentire nel
vortice della battaglia, mentre sfrecciano auto sul rettifilo accanto.
Ma un più definito colpo d’occhio su questi Piani Palentini mi si apre
da un belvedere ai margini del centro di Magliano de’ Marsi, paese
che profuma di tigli e in cui, su di una luminosa piazzetta, si presenta
alla vista la bellissima facciata della chiesetta romanica di Santa
Lucia (dove sulle zampe di un leone si affaccia la scritta palindroma
SATOR AREPO TENER OPERA ROTAS). Sotto c’è l’autostrada e verso
nordovest si apre la valle del Salto, da dove sembra che inizialmente
si sia mosso Corradino, scendendo poi su questa piana e
appostandosi sulla riva destra del Salto, proprio qui sotto Magliano
de’ Marsi. Ma è vero che nessuna immaginazione, nessuna carta e
nessuna topografia, con la radicale trasformazione avvenuta nel
paesaggio (nella piana, lungo la Tiburtina Valeria, ci sono vari
insediamenti industriali), può darmi il vero effetto della battaglia, può
far affiorare i fantasmi di quella tremenda giornata.
Ed è vero anche che lo stesso assetto dei centri urbani ha subito
particolari trasformazioni, ricostruzioni e riadattamenti, dopo il
terremoto del 1915, che ha danneggiato rovinosamente la Marsica e
la piana del Fucino. Così il vicino centro di Massa d’Albe, anch’esso
toccato dalla battaglia, è frutto di una totale ricostruzione dopo il
terremoto; attraverso le strade geometricamente squadrate tra
villette e piccoli condomini e, passando oltre, sfioro i resti della
vecchia Albe, che aveva già subito una distruzione da parte di Carlo
d’Angiò, per essersi schierata dalla parte di Corradino, e che è stata
definitivamente distrutta e abbandonata per il terremoto del 1915 (tra
le rovine, resta in piedi il castello degli Orsini). La nuova Albe si trova
più in là: è stata ricostruita accanto agli scavi archeologici di Alba
Fucens, città prima degli equi e poi colonia romana, disposta su un
colle a tre cime ai piedi del monte Velino.
Antica e popolosa città montana, a 1000 metri di altezza, Alba
Fucens ebbe un ruolo non trascurabile nelle guerre civili del I secolo
a.C. Sorprendente è il percorso degli scavi, che permette di
abbracciare il tracciato della città, con l’intreccio geometrico delle
strade (con il tratto urbano della via Valeria), che delimitavano gli
edifici nella valletta alla base delle cime. A poche centinaia di metri
più oltre si distingue il colle con le già ricordate rovine della vecchia
Albe e il castello Orsini. Sotto il sole del meriggio sono il solo a
visitare questi scavi, in un assoluto silenzio solcato solo dall’attutito
rumore del traffico su strade prossime o lontane: e salgo su una
delle tre cime, ai piedi della quale sono addossati i resti
dell’anfiteatro romano. Sulla vetta c’è la chiesa benedettina di San
Pietro, costruita sui resti del tempio di Apollo nel XII secolo, con vari
interventi successivi. Nell’interno si impone la geometria luminosa e
squillante della decorazione cosmatesca, che sembra invitare a una
serenità senza tempo, a un dialogo con l’immobile silenzio della
pietra. Percorro la fiancata esterna della chiesa, fino all’abside che si
affaccia su un leggero strapiombo; qui si apre, verso sud, la visione
della piana del Fucino e, ancora, di quello che fu il campo della
battaglia di Tagliacozzo. Proprio nei pressi di questo colle di San
Pietro si era appostata, secondo il disegno del “vecchio Alardo”, una
schiera scelta dell’esercito di Carlo che irruppe improvvisamente e
risolse l’esito della battaglia, quando gli imperiali credevano già di
avere in pugno la vittoria.
Dopo aver percorso il sentiero lastricato che scende da San Pietro,
lascio nel silenzio Alba Fucens e raggiungo Avezzano, centro della
piana del Fucino e della Marsica: cerco un bar per mangiare
qualcosa nel centro della città, quasi totalmente ricostruita in forma
moderna dopo il terremoto del 1915 e dopo i bombardamenti del
maggio 1944. Mi fermo in un caffè sul corso della Libertà, davanti a
un piccolo largo, dove, accanto a una cabina telefonica, c’è un busto
installato di recente: è quello dello scrittore Mario Pomilio, nato a
Orsogna, non lontano da Avezzano, e vissuto soprattutto a Napoli:
scrittore che troppo genericamente viene etichettato come
“cattolico”, ma che è una delle voci più intense di un cristianesimo
inquieto e problematico. Il suo grande romanzo Il quinto evangelio,
del 1975, è davvero un’opera totale, disposta su molteplici piani,
interrogazione radicale sulla necessità e sull’incompiutezza della
parola divina, sulla sua proiezione nella storia e nelle sue rovine,
sulla ricerca infinita e dolorosa di un’impossibile conciliazione.
Questo fortuito incontro con la sua effigie, con questo “largo” a lui
dedicato, mi fa avvertire, più di quanto non mi sia capitato prima di
fare, il senso dell’ostinato confronto della sua opera con una “verità”
sempre cercata e sempre sfuggente: in fondo in dialogo con le
certezze della fede dantesca e in un illimitato allontanarsi da essa,
nell’aspirazione a una compiutezza che fa i conti con l’inevitabile
imporsi della differenza e dell’irresoluzione.
Forse in questo lembo d’Italia una così lacerante e lacerata
tensione può essere ricondotta anche alla suggestione di una figura
contraddittoria come l’eremita Pietro del Morrone, il papa Celestino
V, chissà se veramente identificabile con “colui / che fece per viltade
il gran rifiuto” di Inferno, III 59-60: ben presente la sua traccia nel
quinto evangelio e nell’opera di un altro abruzzese della Marsica,
Ignazio Silone, autore tra l’altro di un dramma proprio sulla vicenda
di Celestino, L’avventura di un povero cristiano. Silone era di
Pescina, a pochi chilometri da qui, al limite del versante nordest del
bacino del Fucino: e si può dire che, sulle orme di Celestino V,
l’orizzonte del “rifiuto” e dell’“uscita” da intricate situazioni abbia
segnato variamente la sua vita e la sua opera. Diverse generazioni
quelle di Silone (1900) e di Pomilio (1921), mentre ad altra
generazione, alla stessa mia, appartiene Renzo Paris (1944), nato
anche lui qua vicino, a Celano, centro che guarda da nord il bacino
del Fucino: scrittore anche lui di “uscite”, ma di scatti focosi, tra
rabbie e passioni, in fuga da questi “paesi mondo” ma non senza
richiami per il loro fondo segreto, per le radici contadine, che egli fa
esplodere sull’orizzonte urbano, sulla Roma intellettuale,
sessantottina, moraviana e pasoliniana, in mistioni tra realtà “povere”
e dilatate surrealtà.
Subito mi dirigo a Celano, senza la scorta di Renzo, ma sulle
tracce del francescano Tommaso, nato qui tanti secoli prima, di cui
ho appena visto il sepolcro a Tagliacozzo. Vittima anche Celano di
varie traversie, da una distruzione da parte di Federico II fino al
terremoto del 1915, ora ci accoglie con un ampio piazzale, aperto
sulla sottostante conca del Fucino. Quasi all’ingresso della città
storica c’è la chiesetta di San Francesco, sulla cui facciata ci sono
due lapidi dedicate a Tommaso. Una, più vecchia e di ridotte
dimensioni, afferma recisamente una cosa manifestamente falsa: IN
QUESTA CHIESA / SONO CONSERVATE LE SACRE SPOGLIE / DI FRA TOMMASO DA
CELANO (ma per fortuna all’interno non ci sono tracce di questa
presunzione: c’è solo un cartello che avvisa correttamente che la
tomba del beato è altrove, “nel convento di San Francesco”, senza
però precisare che si tratta di quello di Tagliacozzo). L’altra lapide,
più recente, ricorda Tommaso come fondatore della chiesa insieme a
san Francesco, come suo compagno e biografo, AUTORE DEL DIES
IRAE. A DANTE ISPIRATORE / DEL DIVINO POEMA / A MICHELANGELO DEL GIUDIZIO
UNIVERSALE: responsabilità un po’ esagerate, queste ultime, ma
comunque suscitate dall’empito escatologico del Dies irae.
Un rapido giro per Celano mi conduce ai piedi del castello, che è
stato adeguatamente ricostruito: è il più ampio e complesso
dell’Abruzzo e al suo interno sono ospitati interessanti musei di
archeologia e di arte locale; ha una sua minacciosa imponenza,
come attutita dalla bella passeggiata alberata che è stata allestita ai
suoi piedi. Dies irae, dies illa, lascio Celano pensando al turbamento
che da bambino mi suscitò l’ascolto di questo inno, con l’assolutezza
davvero “finale” del suo implacabile ritmo. Più tardi fu eccezionale
l’emozione suscitata dal film del 1943 di Carl Theodor Dreyer Dies
irae, uno dei grandi classici del cinema, oggi quasi dimenticato.
Raggiungo l’autostrada e attraverso l’Abruzzo, superando il
costone dei monti della Marsica ed entrando sul versante opposto,
nella valle del Gizio e poi del Pescara. Si scorgono pale eoliche e si
intravvede a destra Sulmona, patria di Ovidio, poeta tanto essenziale
per Dante, il “terzo” della “bella scola” dei poeti incontrati nel Limbo,
che lo accoglie come “sesto tra cotanto senno”. Una nuova versione
delle Metamorfosi ovidiane viene presentata proprio oggi a Roma, in
Campidoglio: è stata appena pubblicata da Vittorio Sermonti,
appassionato ed elegante esecutore della grande poesia, che
proprio su Dante ha tanto lavorato, come lettore e interprete, capace
di spiegarne i passaggi più ardui rendendoli vivi nel presente, cruciali
pur nella loro inarrivabile distanza (purtroppo Sermonti ci lascerà nel
novembre del 2016).
Fiume Tronto
“Forse
tu non pensavi ch’io löico fossi!”
Sono i ragazzi del Collegio Raffaello usciti sul colle dei Cappuccini in
“una mattina / che non c’è scuola”. Il Collegio Raffaello – dove
Pascoli studiò dal 1862 al 1871 – si trova nella piazza centrale della
città ed è ora una delle sedi dell’università, mentre addossati al colle
dei Cappuccini, senza che da qui siano visibili, ci sono gli edifici a
schiera del Collegio universitario detto appunto il Colle, dove tante
volte sono stato ospitato, in qualcuno degli incontri che vi hanno
avuto luogo, specie nell’epoca d’oro del Centro internazionale di
Semiotica e Linguistica, di cui era appassionato animatore Pino
Paioni, da poco scomparso. C’era l’illusione di una disposizione
scientifica verso tutto l’orizzonte culturale, si intrecciavano
variamente le più diverse scienze umane, non senza qualche
sussulto “rivoluzionario” e postsessantottesco, in una espansione di
modelli strutturali, di grafici e coordinate, in costruzioni teoriche che
talvolta si risolvevano in decostruzioni: Eco e Derrida, Segre e
Fabbri, Genette e Deleuze. Così anche la letteratura veniva presa in
carica dal “loico” demonio della teoria, mentre dal cuore centrale
dell’università aleggiava il nume di Carlo Bo, suo rettore a vita, il cui
solo nome evocava la persistenza di un altro Novecento, di una
letteratura e di una critica ancora immuni da quella allora scanzonata
e avventurosa furia teorica. Oggi, del resto, l’avventura si è dissolta,
si è come ribaltata su se stessa: la semiotica e tutto ciò che la
circondava hanno perso ogni mordente, ogni pretesa di spiegare il
groviglio della cultura e del mondo.
Comunque a Urbino si sale e si scende: c’è un ascensore che dal
Mercatale porta su, sopra le aggettanti sostruzioni, sul corso
Garibaldi, sui giardini sotto la facciata del Palazzo Ducale; e c’è la
ripida strada che sale dalla Porta Valbona, accanto alla quale una
lapide riporta un passo del Journal de voyage di Montaigne, che
nota che la città è “sur le haut d’une montaigne de moïene hautur,
mais se couchant de toutes parts selon les pantes du lieu, de façon
qu’elle n’a rien d’esgal, et partout il y a à monter et à descendre” (“al
sommo d’un colle di media altezza, ma scendendo da ogni parte
secondo i suoi pendii: di modo che non v’è un sol luogo piano, e
dappertutto bisogna salire e scendere”: era il 1581). Ora salgo per
questa ripida via Mazzini: e nel salire passo lentamente dalla
silenziosa sera del Mercatale a un brusio sempre crescente, che è
quello della centrale piazza della Repubblica, con i tavoli dei bar
affollati, con studenti riuniti in vari gruppi, anche sotto i portici del
Collegio Raffaello. Sulla strada che sale verso il Duomo e il Palazzo
si affacciano piccoli locali. Ma mi sorprende un vicolo stretto che si
apre sulla destra, sotto una volta scura: bene in evidenza è la targa
che ne reca il nome, via Volta della Morte, che conduce al
cinquecentesco Oratorio della Morte: ne è stato suggestionato
Aurelio Picca, scrittore che sempre più cerca eccessi atipici, durezze
coltivate entro tenere passioni, pubblicando nel 2006 un romanzo
intitolato proprio Via Volta della Morte. E non so se il vicolo che si
apre dalla parte opposta, proprio dirimpetto, denominato via Balcone
della Vita, che dopo breve percorso si affaccia sui colli a nord, abbia
la funzione di bilanciare questa cupa denominazione.
Tra i tanti richiami culturali e letterari che suscita Urbino, si impone
però alla mia mente il ricordo di Paolo Volponi, lo scrittore che ha
dato voce al cuore stesso della città, al suo palpitare quotidiano,
all’intreccio tra il suo fondo popolare, spigolosamente anarchico, e il
suo aprirsi verso una civile bellezza, verso una misura di ragione: tra
la rocciosa asperità di quel salire e scendere e il sogno
rinascimentale di una convergenza tra potere e cultura, cultura
dell’operare, del fare, del creare mondi abitabili, Raffaello,
Castiglione… Voce di un’Italia operosa e severa, ma anche
turbinosamente inquieta, dalla cui humus è sembrata scaturire a un
certo punto del dopoguerra la via di un moderno vitalissimo sviluppo.
Erano ipotesi anche politiche sorte, più che da svolgimenti ideologici,
proprio dall’orizzonte di città come queste, dalle forme del vivere da
esse alimentate. Tutto ciò si è in fondo perduto già nel volgere degli
anni settanta e poi nel vario succedersi di assestamenti e lacerazioni
economiche, finanziarie, antropologiche, tecnologiche, geopolitiche.
Volponi ha vissuto questo sogno e questo precipitare, con una sua
intensa, corporale generosità: la disillusione che si espande nel suo
ultimo romanzo, Le mosche del capitale (1989), nella sua persona
sembrava essersi risolta in una cordiale e dimessa tenerezza, nella
dolcezza di un malinconico sorriso. Questo almeno mi è sembrato di
sentire quando a Urbino venne ad ascoltare una mia conferenza: era
già malato, ma mi venne incontro con affettuosa solidarietà, con quel
suo sguardo che sembrava associare curiosità e riservatezza. In
ogni ritorno a Urbino mi viene incontro quello sguardo, quel breve
ma intenso lampo della sua umanità: cordiale, con quell’esito –ale
che Volponi ha usato come una sorta di segno di sé, nei titoli di gran
parte delle sue opere, Memoriale, La macchina mondiale, Corporale,
Il sipario ducale, Le mosche del capitale, Nel silenzio campale.
Aggiro il sipario ducale e mi fermo a mangiare in una piccola
osteria, che dispone i suoi tavoli sulla via Garibaldi, poco al di là
della parte sormontata dallo svettante palazzo. Il ristoratore mi
guarda con una strana curiosità e mi chiede se io non sia un celebre
nutrizionista che è molto presente in tv; devo precisare che quello
non sono e rassegnarmi a subire questa imprevista somiglianza.
Pasto ottimo e semplice, condito dalla conversazione ormai
intavolata col ristoratore, che, indicandomi una vecchia signora che
su un tavolo vicino mangia davvero di buon gusto, mi dice che ha
ben 98 anni. A lei comunque fa da contrappeso, in altri tavoli più in
là, la squillante giovinezza di studenti e studentesse che conversano
animatamente.
Lasciata l’osteria, dalla piazza centrale mi arrampico sulla ripida
via Raffaello, su cui si affaccia la casa del grande pittore: qui a un
certo punto abitava un vecchio professore di cui non riesco a
ricordare il nome, che incontrai, malandato ed esitante, davanti
all’uscio di casa, in una mia passeggiata di tanti anni fa. Nella
penombra serale la via mi conduce nel punto più alto della città, fuori
delle mura: c’è un giardino che al centro ha il monumento
tardoottocentesco a Raffaello. Nel viale che circonda il giardino ci
sono i busti in marmo di illustri personaggi, urbinati o in qualche
modo legati a Urbino: Girolamo Genga, Polidoro Virgilio, Bramante,
Pascoli, Giusto di Gand, Torquato Tasso, Francesco di Giorgio,
ancora Raffaello. Di bronzo, più recente, il busto di Volponi, accanto
a quello di Piero della Francesca. Nel fresco giardino la luce dei
lampioni lascia zone d’ombra tra il rigoglio delle piante e la solenne
immobilità degli imbustati personaggi: uno strano effetto di mistero
emana qui dal passaggio delle poche persone, dall’eco delle loro
voci leggere, dalle pause di chi sosta e dal rapido svanire di chi si
allontana. C’è una sorta di sospensione e attesa del tempo: passano
senza guardare quei busti, velocemente sulle nude agilissime
gambe come aerei trampoli, due graziose ragazze, mentre un uomo
dalla folta criniera bianca, sceso da un furgoncino parcheggiato ai
margini del giardino, mangia qualcosa, forse della pizza, su una
panchina, accanto a Giovanni Pascoli, che, assorto nella sua
malinconia, vagheggia i perduti aquiloni.
Monte Catria
“Quivi
al servigio di Dio mi fe’ sì fermo,
Guido Novello da Polenta, l’ultimo ospite del Dante esule, era nipote
di Guido detto il Vecchio, il vero fondatore della potenza della
famiglia, che nel 1275 aveva espulso da Ravenna i Ghibellini e
aveva dato in sposa la figlia Francesca al guelfo Malatesta di Rimini.
Francesca ravennate insomma – sorella di Ostasio, padre di Guido
Novello e quindi sua zia – che presentandosi a Dante indica
Ravenna come sua città (terra) natale, senza farne direttamente il
nome, ma con quella perifrasi che è come un ampio colpo d’occhio
sul territorio del delta del Po, sulla fascia marina dove il grande fiume
si versa, come raccogliendo e portando a un compimento di pace
tutto il vario fluire dei suoi affluenti (i seguaci sui) e delle acque che
raccoglie. La critica naturalmente ha notato che questa immagine
della pace delle acque è come un corrispettivo della pace che per la
dannata è impossibile, ma che ella ha poco prima augurato,
impossibilmente appunto, a Dante (“se fosse amico il re de
l’universo, / noi pregheremmo lui de la tua pace, / poi c’hai pietà del
nostro mal perverso”, 91-93). Ravenna non è propriamente, né lo
era ai tempi di Dante, sul delta del Po, ma entro una rete di acque
che sono variamente a esso collegate e che rientrano attualmente
nel Parco del Delta del Po: e si trovava in origine entro un sistema
lagunare dove giungeva a mare l’estremo ramo meridionale del Po,
la Padusa.
Quando Dante si trovò a scrivere il V canto dell’Inferno, facendo di
Francesca da Polenta la prima dei dannati a rivolgergli la parola, non
poteva prevedere che avrebbe concluso la sua vita proprio a
Ravenna; di Ravenna poi, per bocca di Guido del Duca, nel XIV
Purgatorio, egli elenca due casate del buon tempo antico (Traversari
e Anastagi). E al suo soggiorno ravennate si riferisce l’Ecloga IV,
indicando, sotto l’abito pastorale di Titiro, come già ricordato a
proposito del Rubicone, il proprio collocarsi alla destra del Po e a
sinistra del Rubicone, e menzionando Ravenna sotto lo schermo
bucolico del siciliano Peloro (46 e 73), mentre il corrispondente
Giovanni del Virgilio si era rivolto a lui presentandolo all’ombra del
lido Adriatico (litoris Adriaci…umbra), tra pini eretti al cielo e pascoli
profumati, bagnati dal fiume Montone, “quaque nec arentes Aries
fluvialis arenas / esse sinit, molli dum postulat equora villo” (“dove il
fluviale Ariete non lascia inaridire le arene, mentre col suo molle
vello va alla ricerca del mare”).
Il fiume Montone scorre in effetti a sud della città, dove procede
poi verso il mare confluendo insieme a un altro fiume, il Ronco, nel
canale detto dei Fiumi Uniti. L’idrografia è variamente mutata nel
corso dei secoli ed è cambiato anche il rapporto della città con il
mare: la terra ha guadagnato terreno, ha acquisito nuova struttura
l’intreccio di corsi d’acqua con i loro approdi al mare, mentre il porto
si è un po’ spostato verso est. Il paesaggio circostante si è infittito di
manufatti umani, di insediamenti e scarti industriali. Avvicinandosi
alla città l’affollatissima statale Adriatica passa tra luoghi artificiali di
ogni genere: superata Milano Marittima, attraversato il fiume Savio e
poi il torrente Bevano, si trova sulla sinistra il parco di divertimenti
più grande d’Italia, Mirabilandia, che moltiplica le sue meraviglie
metalliche e plastificate, le frenesie dello stupore energetico,
utilizzando adeguatamente anche bacini e percorsi acquatici.
Attraversato poi il Fosso Ghiaia, lascio la ex statale 16 e prendo la
strada Romea, che, ormai ai margini della città, attraversa un ponte
sui Fiumi Uniti, poco a est del loro punto di formazione con la
confluenza del Ronco nel Montone. L’ingresso verso il cuore della
città, nella sera della domenica, dà un ben diverso effetto di calma
rallentata, rispetto all’affollata costipazione della strada prima
percorsa. Le zone pedonali sono piene di un’animazione estenuata,
sorvegliata dalle persistenze della lunghissima storia che la città
accoglie senza esibizione, quasi in modo raccolto e meditato.
Prendo alloggio in un piccolo bed and breakfast in pieno centro e
mi dirigo subito verso la zona dantesca. Sulla piazza del Popolo
l’ultimo sole ancora illumina da nordovest la facciata settecentesca
del Palazzo della Prefettura, già sede del legato pontificio, mentre
quasi vuoti sono i tavoli di un bar, già nella zona in ombra, davanti ai
portici del Palazzo comunale, tra due colonne veneziane,
campeggianti come lascito del breve dominio della Serenissima, tra
secondo Quattrocento e 1509. La vicina piazza Garibaldi è dominata
da una statua dell’eroe eretta nel 1892; una lapide recente, eretta
nel 2011, ricorda le 946 vittime civili che la città ebbe nella fase più
terribile dell’ultima guerra, tra il 1943 e il 1945.
Già dalla piazza Garibaldi, in fondo alla via Dante Alighieri, si vede
la semplice e bianca mole della tomba del poeta, con il suo piccolo
timpano e la cupoletta toccata ancora dal sole calante. Percorrendo
la via, si affacciano sulla sinistra i due chiostri francescani, restaurati
dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Ravenna, entro cui sono
ospitati il Museo dantesco e il Centro dantesco dei Frati conventuali,
già proprietari dei chiostri, connessi alla vicina chiesa di San
Francesco. All’ingresso del primo dei chiostri è affissa su un
cavalletto la locandina della Maratona infernale. In viaggio con
Dante, l’insieme di filmati realizzati per conto della Società Dante
Alighieri da Lamberto Lambertini, in cui la lettura di ogni canto
dell’Inferno si svolge su immagini di luoghi e ambienti diversi d’Italia:
viaggio in cui si toccano soprattutto luoghi del lavoro e
dell’esperienza artigianale italiana, di per sé non direttamente
correlati con un riferimento dantesco. È un viaggio in Italia diverso
da quello che io sto svolgendo: un viaggio in cui le parole di Dante si
dispongono sulla trama visiva di un animato “fare” italiano, di
situazioni scelte per la loro particolare evidenza, per le loro luci e le
loro ombre, per i processi di continuità e di trasformazione che vi
appaiono in atto. Questa galleria dell’Italia di oggi sostenuta dai versi
di Dante è stata proiettata per intero qui proprio nei giorni scorsi, tra
il 3 e il 5 luglio: e mi dispiace che con essa non si sia potuto
incontrare il mio viaggio. Lambertini da parte sua ha già in fase di
avanzata realizzazione i filmati delle letture dei canti del Purgatorio,
che toccano i più diversi luoghi montani d’Italia e usciranno presto
sotto il titolo Montagna infinita. Più problematica certamente sarà la
scelta dei diversi set per le letture del Paradiso, che poi si svolgerà
in un confronto col “diverso” e sarà completata nel 2016, col titolo
Senza principio senza fine.
A quest’ora è chiusa la porta della cappella, che immette davanti
alla tomba, che ha avuto una travagliata storia e che è stata onorata
col tempietto attuale, opera di Camillo Morigia, solo alla fine del
Settecento: storia di nascondimenti e di trafugamenti, dato che dal
sarcofago posto originariamente nel giardino del convento
francescano, i frati stessi asportarono i resti del poeta fin dal
Cinquecento, per impedire che fossero traslati a Firenze, come nel
1519 aveva richiesto il papa mediceo Leone X; poi, nel periodo
napoleonico, al tempo della soppressione dei conventi, furono
nascosti in una porta murata della vicina edicola-oratorio (dove sono
ora due antichi sarcofagi) e ritrovati casualmente solo nel 1865. Un
più recente nascondimento è avvenuto durante l’occupazione
nazista, come si può vedere in un cespuglio nel giardinetto che è alla
destra della cappella, dove è inciso, su una piccola lapide: SOTTO
QUESTO TUMULO / LE OSSA DI DANTE / EBBERO SICURO RIPOSO / DAL 23 MARZO
1944 / AL 19 DICEMBRE 1945.
Ma poi saranno state veramente quelle di Dante? Nella varia
necrofilia scientifica, dotata di strumenti sempre più sofisticati, illusa
dalle verifiche dei DNA e potenziata sempre più dall’informatica,
sempre più a vuoto quanto più potente, sono state fatte molteplici
esumazioni, ricerche, ricostruzioni: e il tutto si è variamento colorato
di “giallo”, con complicazioni come quella costituita da certe “ceneri”
che si trovano in una busta nella Biblioteca Nazionale Centrale di
Firenze e su cui si fece un po’ rumore quando furono ritrovate nel
1999 (sembra che siano state trafugate dalle spoglie ravennati
quando si fece la ricognizione del sepolcro nel 1865, dallo scultore
autore del monumento a Dante in piazza Santa Croce: ma chissà di
che polvere si tratta…“O insensata cura de’ mortali…”). Quanto è
lontana l’insulsa curiosità mediatica che si avvolge attorno alle
spoglie del poeta (e che trova svolgimenti ridicoli, come le
ricostruzioni, grazie a programmi di computer, del suo volto, della
sua statura e struttura corporea), dall’appassionato sguardo che a
questa tomba rivolse Jacopo Ortis, nel vorticoso viaggio in Italia che
precedette il suo suicidio:
Dalla cappella dantesca (per cui vedi anche p. 386) la strada piega
ad angolo retto sulla via Guido da Polenta, che a sua volta sbocca
sulla via Corrado Ricci, col nome dello studioso ravennate cultore di
storia dell’arte e di erudizione dantesca (suo proprio uno studio su Il
sepolcro e le ossa di Dante, apparso nel 1889), poi fascistissimo e
senatore del regno. A questo punto della via Corrado Ricci si trova il
palazzo fascista della Fondazione Casa Oriani, dedicata al
tumultuoso scrittore di Faenza che i fascisti considerarono loro
precursore e di cui Mussolini curò (almeno nominalmente) l’Opera
omnia. Sul sito di questo palazzo era una più antica casa, dove,
come attesta una lapide, nel 1819 soggiornò George Gordon Byron,
“amico dei patrioti ravennati”.
Foscolo, Byron, Oriani: ma alla mia mente sorge il nome di un
poeta non particolarmente legato a Ravenna, che però intensamente
evoca Ravenna in una delle sue poesie più celebri, Eugenio
Montale. Decido allora di andare a cercare le orme di Dora Markus
nei luoghi circostanti, proprio in quello nel cui nome si apre la poesia
(vv. 1-4):
Nelle parole di Guido del Duca, i limiti della Romagna, come luogo
non solo privato del suo sangue più nobile, ma anche pieno di
venenosi sterpi che impediscono ogni umana cura, sono tracciati tra
il Po a nord, l’Appennino a sud, la marina a est e il Reno a ovest.
Ma, come si è visto, il Reno ora non si getta nel Po, ma, piegando a
est, costituisce il limite nord della provincia di Ravenna, al confine
con quella di Ferrara. D’altra parte, possiamo anche convenire che
la forza di macchine agricole simili a quelle della New Holland
abbiano fatto davvero venir meno quei venenosi sterpi.
Tornato sulla Romea, passo il ponte sul Reno e, tra un traffico che
sempre più s’infittisce, sfioro Comacchio e Porto Garibaldi (già
Magnavacca, ora così chiamato perché l’eroe vi approdò nella sua
fuga, ancora viva Anita, prima di inoltrarsi verso le Valli di
Comacchio). E giungo, attraversato il Po di Volano, ai limiti del
Bosco della Mesola, all’abbazia di Pomposa. Dante non la nomina,
ma è tradizione che ci si fosse fermato in qualche suo viaggio e
certamente, nell’ultimo, di ritorno dall’ambasciata a Venezia per
conto dei Polenta, che lo portò alla morte per la malaria contratta qui
nei malsani territori attraversati.
La zona intorno all’abbazia è variamente attrezzata turisticamente,
anche se ora non ci sono molti visitatori. Il campanile in cotto si
staglia come un’insegna solare nel cielo azzurro: è come un vessillo
fissato nella pianura, mentre il corpo della chiesa e i vari edifici
abbaziali sembrano distendersi, come a creare una conformazione
misteriosa sul terreno un tempo circondato dalle acque. Nell’interno
della chiesa, basilica di Santa Maria, credo di seguire le tracce della
presenza non solo di Dante, ma ancora di Pier Damiani, che qui
soggiornò per due anni, dal 1040 al 1042. Tra gli affreschi
trecenteschi della navata mediana mi colpiscono le scene
apocalittiche, figure di angeli minacciosi, e in particolare tra un arco
e l’altro sopra una colonna, un san Michele che schiaccia sotto i
piedi un diavolo un po’ spaventato, colpito peraltro anche dalle lance
di altri angeli intorno schierati.
Ma devo raggiungere il corso maggiore del Po. Procedo nella luce
accecante e nel traffico, sulla lucida striscia della Romea. Poco dopo
Mesola, superato il Po di Goro, svolto a destra, dalla parte di Porto
Tolle e delle bocche del Po. A un certo punto la strada sembra
tingersi totalmente di giallo: un camion ha disseminato su di essa
una gran parte del suo carico di farina di mais, polenta. Ora ci sono
uomini che con una bandierina invitano le auto a rallentare, mentre
altri cominciano a pulire la strada. Lentamente procedo su questo
imprevisto tappeto di polenta. Passato poi il ponte su un altro ramo
del grande fiume, il Po della Donzella, giungo a Ca’ Tiepolo, centro
del disseminato comune di Porto Tolle, sull’isola della Donzella. Ca’
Tiepolo, come tanti altri toponimi della zona, mi ricorda che siamo in
zona veneziana, già nel dominio dell’antica Serenissima. Qui sulla
piazza centrale, davanti alla torretta del municipio, c’è il monumento
al rivoluzionario romano Ciceruacchio, Angelo Brunetti, che gli
austriaci fucilarono da queste parti con il figlio tredicenne e vari
compagni il 10 agosto 1849, mentre, in fuga da Roma, come
Garibaldi, cercava di raggiungere Venezia.
Qui sfioro finalmente in un punto avanzato questo corso maggiore
del Po, detto Po di Venezia, che più avanti si ramifica nel Po delle
Tolle a destra e nel Po della Pila a sinistra. Salgo sull’argine che è
immediatamente alle spalle del municipio, e sotto il sole meridiano
guardo scorrere verso est il fiume leggermente increspato. Passa
controcorrente un bianco battello. Pali sono infissi nell’acqua qua
sotto, intorno a un piccolo attracco. L’acqua che passa è miscela di
acque molteplici, confluita dalle infinite sorgenti, dai tanti fiumi che si
raccolgono nel Po, da corsi d’acqua casuali, da scoli, tra scorie,
detriti, insetti, corpi vivi e morti: campione indecifrabile, composito,
minimo e potente, di tutto ciò che si raccoglie nel dolce piano.
Il Polesine, tutto il territorio qui intorno, nelle sue terre e nelle sue
acque diramanti è come un collettore della brulicante vita del nord
d’Italia, suo approdo che si intrica nel folto dei rami del fiume, dei
canali e delle lagune, verso il mare, per aver pace co’ seguaci sui.
Questo andare dell’acqua nel sole è quello di una totalità che
sfugge, di una liquida disseminazione che cerca un’impossibile pace
nel gorgoglìo incessante, irremissibile, di quell’entità inconcepibile
che chiamiamo natura, che identifichiamo con un nome che non può
corrispondere alla sua cieca entità, alla sua estraneità a ogni nome.
Occorrerebbe attraversare tutto questo territorio, immettersi nel
cuore di luoghi e di siti, specie quelli più riposti, incontrarsi da vicino
con le presenze e i lavori umani, per capire come questo mondo in
fondo laterale, ai margini, esito estremo del più grande fiume d’Italia,
convogli in sé quasi il senso segreto della natura d’Italia, il suo
essersi svolta, arricchita e alterata nel tempo, la sua storia e il suo
presente: un oltre senza oltre, qualcosa che tende più in là.
Qualcosa se ne afferra in qualcuna delle prose di Verso la foce di
Gianni Celati (1989) e nel film di Ermanno Olmi Lungo il fiume
(1992), e ancora nella trilogia filmica di Elisabetta Sgarbi, Uomini del
Delta, che sarà completata nel 2015.
Ma ora, mentre questo centro di Porto Tolle è quasi deserto, vado
a mangiare qualcosa in un piccolo bar, dove ci sono quattro persone
con cui si parla molto di calcio e dove ci sono cimeli, informazioni,
striscioni degli ultra della locale squadra, Delta, che milita in serie
C2.
Giustiniano a Ravenna
“…Tebaldello,
ch’aprì Faenza quando si dormia.”
(Inf., XXXII 122-123)
Dante e Pier Damiani sono certo più vicini a noi di questi deliri che
restano iscritti sulla pietra, che continuano a cantare sulla
dinoccolata indifferenza di questa piazza animata dalla luce
fermissima del pomeriggio estivo, dal leggero soffio di vento che fa
appena vibrare i tendaggi dei porticati, tra i tavoli dei bar su cui
siedono ancora pochi clienti.
Lascio questa doppia piazza e, prendendo per la via di Santa
Maria dell’Angelo, mi addentro fino alla chiesa di Santa Maria
Vecchia, nome corrente di quella Santa Maria Foris Portam nel cui
monastero Pier Damiani morì. In fondo a una piazzetta stretta e
chiusa, la chiesa ha forma tardocinquecentesca, ma si distingue alla
sua destra il campanile, che risale al IX secolo ed è ancora quello
che vide il santo, con un corpo ottagonale, sulla cui parte inferiore si
affacciano alcune bifore, e in alto due piani aperti da trifore su tutti i
lati. Qui, sotto la cella campanaria, è il luogo dove il santo fu sepolto,
prima di essere traslato nella cattedrale.
Mentre torno indietro, sul corso Mazzini, sotto la Loggia dei Fantini
(detta anche Portico della Carità: dove era un antico ospedale),
accanto a un bar, trovo una lapide su un antifascista qui ucciso,
Clemente Ghirlandi: e mi sorprende la data della morte, 25 luglio
1943 (una vendetta fascista proprio il giorno della caduta del
fascismo?). Poi muovo verso il limite sudest del centro storico, dove
trovo finalmente il fiume Lamone, la cui posizione rispetto alla città è
quasi simile a quella del Santerno rispetto a Imola. Anche qui l’acqua
sembra scorrere molto lentamente, ma il corso del fiume è più
strettamente incassato tra folta vegetazione e le sue sponde non
sembrano facilmente praticabili.
In auto risalgo proprio parte del corso del fiume, sulla strada ex
302, che conduce verso Marradi e l’Appennino, ma la lascio a
Brisighella; svoltando verso sinistra attraverso il Lamone. Salendo e
scendendo attorno a un ampio colle in cui sono disposte bellissime
vigne, raggiungo Modigliana. Feudo dei conti Guidi, di un ramo
saldamente ghibellino della famiglia, che comunque aveva molti
rapporti con Firenze e che in occasione della discesa di Enrico VII fu
naturalmente dalla parte dell’imperatore: uno di loro, Gualtieri, era
titolare del Palazzo di San Godenzo, dove nel giugno 1302 fu
ospitato il convegno dei fuorusciti Bianchi e Ghibellini a cui partecipò
Dante, per garantire la casata degli Ubaldini dai danni che potevano
derivarle dalla guerra contro Firenze. È molto probabile che, nei suoi
passaggi tra Casentino e Romagna, Dante abbia soggiornato a
Modigliana.
La piccola città si presenta subito al visitatore come patria del
pittore Silvestro Lega (1826-1895) e del prete patriota don Giovanni
Verità (1807-1885). Sorprendente è l’ingresso nella città vecchia,
con una Tribuna, torrione delle mura dal solido corpo convesso su
cui svettano due campaniletti e un’edicola, a cui si accede da un
ponticello, sul fiume Tramazzo. Dentro c’è una vera città-castello,
molto ben conservata. Percorro le stradine ben lastricate, sosto sulla
piazza Pretoria, dove è il palazzo già dei conti Guidi, con un nucleo
duecentesco e poi variamente trasformato come Palazzo del
Pretorio (qui è la Pinacoteca Comunale, naturalmente intitolata a
Silvestro Lega). Poi salendo in curva tra ben tenuti palazzetti si esce
fuori dell’abitato e si sale alla Roccaccia, resti sconnessi dell’antica
rocca, con un corpo di sassi e mattoni che si erge verso l’alto, sullo
sfondo delle colline. Non c’è proprio nessuno, tra i sassi muti, tra
cespugli e fronde appena agitate dal vento, nei luoghi percorsi un
tempo dal ghibellino Gualtieri.
Lasciata Modigliana salgo di nuovo su un colle che fa da
spartiacque tra la valle del Tramazzo e quella del Montone, toccando
il passo di Trebbio, dove c’è un cippo marmoreo con una scritta che
ricorda come qui don Giovanni Verità trasse in salvo Garibaldi
durante la sua fuga da Roma nel 1849. Poco più avanti si trova, in
cima al colle, un monumento al ciclista, con questi versi di Olindo
Guerrini:
…e mal fa Castrocaro,
(Purg., XIV 116)
Senza fare incontri procedo oltre, proprio sotto il Falterona, fin dove
la strada si interrompe per una frana, accanto a una fonte di acqua
freschissima.
Tocco di nuovo San Godenzo, notando che qui i passaggi di
Mussolini non dovettero essere né casuali né episodici, sulla strada
per la sua Romagna. Ora percorrerò per un tratto la strada che il
duce si preoccupò di innestare qui presso, sotto il passo del
Muraglione: la nuova strada nazionale di Predappio, numerata 9ter,
per raggiungere direttamente il suo luogo natio. Questa si avvolge
tra curve eterogenee, che mi portano al Valico Tre Faggi (metri 908,
perfettamente allineato sul vicino Muraglione), di nuovo in area
romagnola, da dove ancora molto bene si vede il Falterona. Ma non
raggiungo la mussoliniana Predappio: lascio la 9ter svoltando a
destra verso Fiumicello, che fa parte di un comune dal nome
ambiguamente suggestivo, Premilcuore. Dopo Fiumicello una stretta
strada sale nella più assoluta solitudine, tra ampi squarci sui monti e
improvvisi restringimenti della visuale, toccando il passo della
Braccina (960 m.), sulle falde del monte Guffone.
Figure infernali improvvisamente giungono sul passo: cinque o sei
centauri dalle moto lucidamente metalliche, bardati di nero, che si
fermano un attimo e a capofitto si gettano sulle curve della ripida
discesa. Con l’occhio colpito dalle infinite sfumature del verde
boschivo, scendo poi sul paesino di Corniolo, alle cui porte è un
parco intitolato al papa Pasquale II, Rainerio Raineri, nato nel vicino
castello di Bleda, pontefice dal 1099 al 1118. Sono nel comune di
Santa Sofia, nel fondovalle del fiume Bidente, che si incunea con
altri rami in altre prossime valli: e da qui risalgo su una strada più
ampia, che sale sulle propaggini del Falterona, fino a Campigna, tra
boschi caratterizzati dalla presenza dell’abete bianco.
Località di caccia granducale e ora luogo di vacanza è Campigna,
nel cuore del Parco nazionale delle Foreste Casentinesi, Monte
Falterona e Campigna, disteso tra Romagna e Toscana, luoghi dei
tanti passaggi medievali, dei signori feudali e dei percorsi dell’esule
Dante. Cerco il viale dei tigli di cui parla Dino Campana nel diario dei
Canti orfici:
Scendo dal passo della Calla sul Casentino, su questo primo tratto
della valle dell’Arno: curve e tornanti mi portano sulla piana, a Stia e
poi scendo sulla ex statale verso sud, mentre sempre più ampio si
profila, sulla destra, il corpo del Pratomagno. Poi, alla località di
Ponte a Poppi, lascio la statale e, attraversato l’Arno, salgo sul
poggio in cima al quale è il nucleo storico di Poppi, che i cartelli
annunciano come CITTÀ DEL GUSTO DEI GUIDI (si tratta in realtà di un
festival del vino, che qui ha luogo ogni anno a fine agosto).
Svetta su tutto il castello con la sua slanciata torre. Singolare e di
perfetto equilibrio è il borgo, di impianto secentesco e mediceo, che
giace ai piedi del castello, con al centro la chiesa a pianta centrale,
porticata su tre lati, di Santa Maria del Morbo. Su una strada più in là
c’è la casa di Tommaso Crudeli, l’elegante poeta settecentesco, uno
dei primi affiliati italiani della Massoneria, che per questo subì la
prigione e la condanna dall’Inquisizione, fino a essere confinato qui,
nella sua casa, dove morì nel 1745: varie targhe lo ricordano.
Oltre la chiesa di Santa Maria, sulla sinistra, in leggera salita, una
porta immette sul viale che conduce al castello, davanti al quale si
apre un’amplissima piazza, in gran parte aperta sulla valle e, oltre di
essa, alcuni edifici, tra cui quello del vecchio albergo ristorante
Casentino, dove trovo subito un’ottima stanza, di quasi rustica
semplicità. Grande gentilezza dappertutto, in perfetta opposizione
all’immagine così crudamente negativa che Guido del Duca dà degli
abitator di questi paraggi, ritenendo giusto che il nome stesso della
valle e del suo fiume pèra, venga cancellato, considerandone gli
abitanti bestie, appartenenti a diverse specie animali, simili ai
compagni di Ulisse mutati dalla maga Circe. Quelli che vivono su
questa parte alta della valle (cioè nel Casentino), su questo primo
tratto del povero calle del fiume, vengono designati come brutti porci,
degni più di galle, ghiande, che di cibo di uso umano. E anche nel
De vulgari eloquentia Dante non dà un’immagine lusinghiera dei
casentinesi; li cita come esempio di parlanti loquele montanare e
rustiche, “montaninas omnes, et rusticanas loquelas” (I XI 6).
Umano più che umano è comunque il cibo che qui si gusta, sia nel
ristorante davanti al castello che nel più raffinato L’antica cantina, in
una strada del borgo storico: dalle più tradizionali tagliatelle al ragù
alle tagliatelle ai ceci con pancetta croccante, dalle più semplici carni
alla griglia ai crostini con fegatelli, ai bocconcini di coniglio con lardo
e grappa ecc., per non parlare dei vini.
Il castello, costruito da Simone da Battifolle nel XIII secolo, è uno
di quelli meglio conservati di tutta la Toscana: ed è di particolare
suggestione il cortile interno, con la solida scala quattrocentesca e i
vari stemmi disposti sulle pareti. Qui Dante fu ospite di Guido da
Battifolle: oggi c’è qualche dubbio che da qui fosse inviata l’Epistola
IV (che comunque allude a una situazione “iuxta Sarni fluenta” “in
riva alla corrente dell’Arno”) al marchese Moroello Malaspina, tra
1307 e il 1308, con la canzone detta “montanina”. Ma certamente
era qui quando nella primavera del 1311 inviò altre epistole, in
occasione della discesa dell’imperatore Enrico VII, la VI ai fiorentini
(con la data 31 marzo), la VII all’imperatore (17 aprile), la VIII, IX e X
a Margherita di Brabante, moglie dell’imperatore, a nome di
Gherardesca, figlia del conte Ugolino e moglie di Guido da Battifolle.
Queste ultime tre sono varianti di una lettera di ringraziamento a un
messaggio ricevuto dalla dama; ed è probabile che sia stata spedita
solo l’ultima, che reca la data 18 maggio e l’indicazione precisa di
Poppi:
Questo scambio di battute tra Guido del Duca e Ranieri de’ Calboli
sorge a commento del modo in cui Dante si era presentato come
nato accanto all’Arno, senza nominarlo, ma chiamandolo, come già
si è visto, “un fiumicel che nasce in Falterona”; e dà avvio alla
digressione di Guido sopra evocata sui popoli animaleschi che
abitano sul corso del fiume.
Nel fresco mattino del 10 luglio scendo dal castello di Poppi verso
la piana, per un incontro ravvicinato con il fiume, che scorre qui
sotto: proprio alla fine della discesa, una svolta della strada immette
sul ponte sull’Arno, che conduce alle case di Ponte a Poppi. Lascio
l’auto e mi affaccio sul parapetto col fronte rivolto verso sud, al cui
centro è un’edicola chiusa da un cancelletto di ferro, che custodisce
un’immagine mariana. Il fiume scorre tra folta vegetazione, ma
l’acqua lascia scoperto, specie alla destra, gran parte del greto
sassoso. Vengo sfiorato dalle poche auto che passano: ho saputo
però che ci sono progetti per la realizzazione di una passerella
pedonale, che renda più agevole il passaggio a piedi su questo
ponte (e in effetti i lavori sono poi cominciati all’inizio del 2016).
Campaldino
Passo attraverso altre cappelle. Poi esco sopra la scala che sul
fianco del monte conduce al Precipizio: precipizio per eccellenza, da
cui il demonio avrebbe fatto precipitare il santo, accolto invece in un
abbraccio dal sasso stesso suo salvatore. Qui, in queste che
dovevano essere le parti del soggiorno di preghiera e di penitenza
del santo, si avverte come il santuario sia davvero sospeso sul
sassoso precipizio, arroccato quasi miracolosamente, con le sue
muraglie che si levano sulla roccia, ma senza dare quella
sensazione di forza e di potere che sogliono dare i castelli. Si
manifestano comunque ancora tanti segni di potere spirituale, anche
di un potere caduto quasi in oblio come quello delle indulgenze: sul
luogo del precipizio c’è un cartello che garantisce duecento giorni
d’indulgenza a chi dice un Pater e un’Ave. Una volta si trattava
davvero di uno sconto di pena purgatoriale: ma la teologia cattolica
non tratta più queste questioni e sulle indulgenze ormai c’è una sorta
di velo, un silenzio imbarazzato o una loro coniugazione in chiavi
solo simboliche o metaforiche. Un ambito che evapora solo
parzialmente è poi quello delle reliquie, che anzi, in certi contesti, sta
avendo perfino una sorta di rilancio. Qui c’è proprio una cappella
delle reliquie, con varie teche, in una delle quali vengono presentati
addirittura pezzi del legno della Santa Croce… Forse più credibile e
comunque davvero impressionante è invece l’abito che san
Francesco avrebbe portato in quel 1224, al momento di ricevere le
stimmate: è disteso su una teca piatta, molto grande, sul pavimento
al centro della cappella, davanti all’altare.
Improvvisamente il cielo comincia a oscurarsi, anche se il sole che
cala appena verso occidente illumina ancora gran parte del
Casentino. Non è ancora il tramonto visto da Dino Campana nella
prosa La Verna:
Strie minacciose di ferro si gravano sui monti prospicienti
lontane. Il sogno è al termine e l’anima improvvisamente sola
cerca un appoggio una fede nella triste ora. Lontano si vedono
lentamente sommergersi le vedette mistiche e guerriere dei
castelli del Casentino.
Il mattino dell’11 luglio prendo una strada che dal Ponte a Poppi sale
verso Camaldoli, aprendo bellissimi squarci della piana di
Campaldino e di tutto il Casentino, investito dal sole che si è
affacciato dalla Giogana. Dante nomina l’Eremo solo per indicare
l’Archiano, che sovra l’Ermo nasce, ma altrove non trascura di
ricordare, tra gli spiriti contemplanti, il suo fondatore Romualdo
(Paradiso, XXII 49).
A un certo punto la strada immette nella fitta foresta e conduce al
monastero, costruito sul castello di Fontebuona, donato a san
Romualdo dal conte Maldolo d’Arezzo (da lui, secondo tradizione,
deriverebbe il nome Camaldoli, Ca’ Maldoli). Siamo all’altezza di 816
metri e c’è un senso di mattutina freschezza, che dal bosco si
trasmette all’architettura degli edifici conventuali. Qui soggiornò il
casentinese Landino e qui ambientò le sue Disputationes
Camaldulenses.
Attraverso un cortile porticato accedo alla chiesa dalla semplice
facciata, ma dal sontuoso arredo barocco interno, con varie pitture
commissionate dai monaci, tra cui tavole del giovane Giorgio Vasari,
che qui lavorò a lungo con una fitta serie di opere, tra il 1537 e il
1540. Mi colpisce la tavola con la coppia dei santi Romualdo e Pier
Damiani, di profilo con lunghissime barbe, e, soprattutto, la
ultramanieristica Deposizione sopra l’altar maggiore. Al manierismo
di Vasari sembra fare da provvisorio contrappunto, nella vicina
cappella dello Spirito Santo, una mostra di contemporanee sculture
di Luca Cavalca, dal titolo Nella materia l’invisibile, in cui la
corrosione della materia, l’impasto poroso e pungente della creta,
tende come a interrogare ciò che sfugge alla conoscenza, andando
al di là della stessa superficie del pur esibito visibile: c’è una
figuratività sempre eterogenea, come rappresa e contestata,
abissalmente lontana dalla ostinata torsione figurativa del Vasari. Ma
resto comunque perplesso sulle possibilità e sul senso dell’arte
sacra del nostro tempo.
In uno spiazzo ai limiti del monastero c’è l’Antica Farmacia, nel cui
interno l’antico assetto sembra come levigato, adattato ai più asettici
modelli commerciali e turistici: al banco non ci sono monaci, ma laici
in camice bianco, tra cui una elegante ragazza che mi mostra i
diversi prodotti. Elisir, profumi e saponi naturali, miele e confetture:
ma non ci sono quasi più prodotti del lavoro dei monaci; si tratta in
genere di articoli prodotti da imprese della zona e appositamente
confezionati per il convento. Accanto alla Farmacia un parapetto fa
affacciare sulla frescura di un gorgogliante fiumicello, che rapido
scende: ancora l’Archiano, naturalmente.
Mentre salgo verso l’Eremo, tra gli alti e slanciati fusti di faggi e di
abeti bianchi, un capriolo attraversa improvvisamente la strada
inoltrandosi nel bosco in alto. Poi lascio l’auto davanti all’ingresso
dell’Eremo, aspettando il turno per la visita. Si è creato un piccolo
gruppo di visitatori, scortato da un monaco abbastanza loquace, che
ci indirizza verso quella che sarebbe stata la cella di San Romualdo,
tutta fasciata di rivestimento ligneo. Non si visita la zona riservata
agli eremiti, che è aperta oltre un cancello, con le piccole celle
disposte ai due lati di un vialetto lastricato, in fondo al quale si
scorge parte dell’abside e il piccolo campanile di una chiesetta.
Oggi, dice il monaco che fa da guida, ci sono otto eremiti, mentre
trenta, in tutto il complesso di Camaldoli, sono i cenobiti.
Si visita la chiesa del Salvatore, più volte ricostruita fino all’attuale
assetto barocco, realizzato, dopo un incendio del 1693, per volontà
di un priore che, come ci dice il monaco che ci guida, in quanto
napoletano, scelse di dare alla chiesa le forme esuberanti del
barocco napoletano. Nell’abside c’è comunque la presenza
manieristica del Bronzino, con una sua Crocifissione.
Prima di lasciare l’eremo visito la libreria: tra i libri di devozione, di
storia, illustrazione artistica e turistica, trovo l’edizione di una
traduzione italiana de La Scala di Giovanni Climaco (monaco del
Sinai del VI o VII secolo), a cura di Luigi d’Ayala Valva, per le
edizioni Qiqajon della Comunità di Bose: un libro di ascesi, sui trenta
gradini per raggiungere Gesù, che circolò anche in traduzione latina
come Scala Paradisi e che forse può lasciarci qualche suggestione
in rapporto all’ascesa paradisiaca di Dante (e soprattutto alla scala
della contemplazione di Paradiso, XXII). Non so se venga mai
evocata dai dantisti, alcuni dei quali invece sogliono dare un rilievo
non sempre affidabile al Liber Scalae, la versione latina del Libro
della Scala di Maometto.
Lascio l’Eremo, salendo ancora nel bosco, verso il passo dei
Fangacci, su una strada che a un certo punto non è più asfaltata.
Nello scendere poi dal passo la strada è accompagnata da un
torrente la cui poca acqua fluisce precipitosamente, ogni tanto
raccoglie altri piccoli rivi che scendono dai fianchi e salta su
cascatelle, create da stratificazioni orizzontali della roccia, come fogli
disposti l’uno sull’altro. È anche questo un ramo dell’Archiano,
diverso da quello che ho visto a Camaldoli: viene chiamato Archiano
d’Isola e mi accompagna a valle, dove è il paese di Badia Prataglia,
da cui risalgo immediatamente verso un altro passo, quello del
Mandrioli, che immette di nuovo in Romagna, nell’alta valle del
Savio, un ramo del quale nasce proprio qua sotto e che ho già
incontrato a Cesena e a Cervia.
Monte Fumaiolo e sorgente del Tevere
Si tratta di una ben nota citazione e variazione dei due versi del
discorso di Guido del Duca sulla condizione della Romagna in
Purgatorio, XIV 109-110:
Marchesi erano Niccolò III e il figlio Borso, che nel 1452 ebbe il titolo
di duca: ma le statue che sono qui non sono originali, sono
ricostruzioni novecentesche, dato che i Marchesi che vedeva Ariosto
furono distrutti dai francesi nel 1796.
Qui comunque il solo edificio rimasto di quelli che occupavano il
sito nel XIII secolo è la Cattedrale di San Giorgio e della Vergine,
con la sua facciata a tre cuspidi, sistemata proprio nel corso di quel
secolo, dopo il primo impianto a una sola capanna installato nel
secolo precedente. La fitta serie di finestre e di logge, complicata
dalla loggia e dal corpo avanzato del portale centrale, fa un effetto di
accurato e moltiplicato brulichio, in un affollarsi e prolungarsi di
aperture e di affacci. Di grande effetto sono le sculture firmate di
Niccolò, allievo di Wiligelmo e responsabile del primo disegno della
facciata. Ma Niccolò mi ricorda uno di quegli abili falsi che a lungo
sono stati considerati autentici, l’iscrizione che ancora quando io
andavo a scuola veniva considerata uno dei primi documenti del
volgare italiano, ma che è appunto un falso di un erudito ferrarese, il
settecentesco Girolamo Baruffaldi (1675-1753), posta sopra l’arco
dell’altar maggiore con la data di fondazione del tempio e i nomi del
finanziatore Guglielmo degli Adelardi e dello scultore Niccolò:
Li mille cento trenta cenqe nato
fo questo templo a San Gogio donato
da Glelmo ciptadin per so amore
e mea fo l’opra. Nicolao scolptore
Sono a Bologna sul far della sera e avvisto le due torri procedendo
da via Rizzoli verso lo spazio di piazza di Porta Ravegnana, dove
esse si levano solitarie: da qui è ben visibile la più alta torre degli
Asinelli, mentre la più bassa Garisenda si scopre solo più tardi,
quando si raggiunge la piazza, con l’area pedonale intorno alle torri.
Fino al 1286 le torri, certo innalzate nel secolo precedente, si
appoggiavano ad altri edifici: ma in quell’anno il Comune decise di
liberarle, aprendo lo spazio della piazza, che divenne così uno dei
punti centrali della città, in asse con lo spazio vicino e molto più
ampio della piazza Maggiore, definitasi con i suoi più importanti
edifici nel corso del XIII secolo. Alla Garisenda Dante fa riferimento
già nel sonetto giovanile Non mi poriano già mai fare ammenda
(Rime, LI), trascritto nel 1287 dal notaio bolognese Enrichetto delle
Querce in un Memoriale: vi si parla di occhi che hanno mirato la
Garisenda, ma non hanno visto qualcos’altro; non è però chiaro cosa
sia quello che non hanno visto, se lo spazio circostante (magari
l’altra torre) o qualche presenza femminile. Al senso di
indeterminatezza dato dal sonetto fa riscontro l’opposta evidenza
figurativa della similitudine infernale, in cui l’effetto che la torre
pendente fa su chi, trovandosi dalla parte dove è inclinata, vede una
nuvola passarci sopra, serve da termine di paragone per lo
sgomento creato dal piegarsi del gigante Anteo, confitto nel ghiaccio
del Cocito, per portare Dante e a Virgilio dall’ultima bolgia al cerchio
dei traditori.
Il sonetto mostra bene come Dante avesse familiarità con questo
luogo: quasi certamente scritto a Bologna in quello stesso 1287,
quando la vista della torre era già resa possibile dalla demolizione
delle case a essa addossate (anche se poi altri edifici furono
addossati alla sua base, definitivamente demoliti a fine Ottocento). Il
soggiorno bolognese fu in ogni modo occasione di un contatto con il
mondo universitario (pur senza compiere un regolare corso di studi)
e soprattutto con la prestigiosa scuola di retorica, mentre doveva
essere vivo il ricordo di Guido Guinizelli, riferimento essenziale per la
nuova poesia stilnovistica. Poi è possibile che Dante abbia
soggiornato a Bologna nei primi anni dell’esilio, quando la città
sembrava aver parzialmente superato il tradizionale conflitto tra i
guelfi Geremei e i ghibellini Lambertazzi e il Comune, orientato verso
posizioni di Guelfismo moderato, aveva riammesso in città questi
ultimi, che erano stati esiliati nel 1280. Ma certamente non vi avrà
messo più piede dopo il 1306, quando i Lambertazzi furono cacciati
di nuovo e la città passò su posizioni di Guelfismo intransigente: e
quando poi il maestro bolognese Giovanni del Virgilio lo invitò a
recarsi a Bologna, declinò la proposta entro l’allegoria pastorale
dell’Ecloga IV (in cui la città viene indicata come “litus Ethneo
pumice tectum”, “lido coperto di pomice dell’Etna”, v. 54),
sostenendo di temere la presenza di Polifemo (probabile riferimento
al fatto che podestà di Bologna era allora Fulcieri de’ Calboli, quello
stesso che come podestà di Firenze era stato uno dei maggiori
responsabili della condanna di Dante del 1303).
La Garisenda che guardava Dante era comunque più alta di quella
sotto cui ora mi colloco: nel corso del XIV secolo essa fu
notevolmente abbassata per i pericoli causati dal cedimento del
terreno. Sono sotto ’l chinato, che si piega verso la adiacente chiesa
secentesca di San Bartolomeo, sul lato dove inizia la via San Vitale:
sul muro della torre è l’immancabile lapide con i versi dell’Inferno.
Guardo in alto, verso il cielo che si stacca dal sommo della torre e
comincia a impallidirsi verso il crepuscolo, ma su cui comunque non
c’è traccia di nuvole in movimento. Girando sulla piazza e intorno a
tutte e due le torri si hanno diverse visuali del loro sovrapporsi e
intersecarsi, del gioco di tangenze creato dalla loro vicinanza, dalla
loro diversa altezza, in uno scambio di posizioni tra quella più alta e
quasi verticale (ma una piccola pendenza ce l’ha anch’essa) e
questa più bassa e perigliosamente pendente. Qui intorno è pieno di
panche e di blocchi di pietra: seduto su una panca, dalla parte del
palazzo d’angolo tra via Zamboni e via de’ Giudei mi fisso su una
visuale in cui la pendente sembra quasi confondersi con quella più
grande. Intorno, tra le panche e i blocchi di pietra, davanti e dentro i
locali della grande libreria Feltrinelli, c’è quell’animarsi sospeso e
quasi incerto che mi pare di ritrovare in tante sere italiane:
soprattutto giovani, studenti, signore di passaggio, turisti, qualcuno
che ciondola senza meta, venditori di oggettini (braccialetti,
orecchini, collanine, su teli stesi a terra o su banchetti pieghevoli),
biciclette parcheggiate, ragazze in abiti dark, una con una cresta
azzurra; e si sente molto parlare inglese. Davanti alle torri la statua
secentesca di San Petronio, patrono di Bologna, assiste al
dinoccolato movimento e sembra approvarlo con la sua mano
benedicente.
Bologna universitaria
Nella sesta bolgia, quella degli ipocriti, che procedono chiusi entro
cappe di piombo, Dante incontra due bolognesi, Catalano dei
Malavolti e Loderingo degli Andalò, che si presentano come
appartenenti a un singolare ordine religioso, i frati della Milizia della
Vergine, approvato da papa Urbano IV nel 1261: esso aveva una
funzione di controllo e sostegno della religiosità pubblica, e ne
potevano far parte sia chierici che laici, che molto presto ne fecero
uno strumento di solidarietà reciproca, lo utilizzarono come una sorta
di lobby, attirandosi la denominazione di Frati Gaudenti. I due
bolognesi furono tra i fondatori dell’ordine: e Catalano aveva
comandato parte della fanteria bolognese nella battaglia della
Fossalta (26 maggio 1249), in cui fu catturato il re Enzo, figlio
naturale dell’imperatore Federico II. Essi ebbero poi dal papa
Clemente IV il mandato di restaurare il potere guelfo a Firenze nel
1266, dopo la sconfitta di Manfredi a Benevento. Secondo Dante,
questo avrebbe dovuto essere un compito di pacificazione, che
invece si risolse con la cacciata dei Ghibellini, la confisca dei loro
beni e la distruzione delle loro case: ed è lo stesso Catalano a
indicare, come prova della parzialità e della colpa sua e del suo
collega, quanto nel 1300 ancora si vedeva a Firenze nei pressi della
torre del Gardingo, cioè le rovine delle case distrutte degli Uberti
(vedi p. 123).
Nello sviluppo del canto XXIII dell’Inferno Catalano arriva a colpire
con pungente ironia il disappunto di Virgilio, che aveva creduto a ciò
che gli aveva detto il diavolo Malacoda, sulla possibilità di
attraversare il ponte della sesta bolgia, che è invece crollato: gli fa
notare che non è certo necessario andare a studiare a Bologna per
rendersi conto di cosa banalissima e universalmente nota, come la
falsità del demonio!
Più antica università d’Europa, per la cui fondazione è stata
indicata la data convenzionale del 1088, Bologna ha mantenuto nei
secoli la sua grande fama di centro universitario, in primo luogo per il
diritto e la medicina: e particolarmente vivace era la vita universitaria
nel XIII secolo, quando non c’era una vera e propria sede centrale,
ma studi sparsi in diversi luoghi della città, con fortissima presenza
di studenti provenienti da diversi centri italiani ed europei. Con le
varie modificazioni che si sono date nel corso dei secoli, la presenza
dell’università e della popolazione studentesca si è insediata, in
modo più evidente che in molte altre sedi accademiche, nel cuore
della città, proprio a partire dalla piazza delle due torri: intorno alla
porticata via Zamboni (ma i portici sono una determinante costante
del centro storico bolognese), che da qui si diparte verso nordest,
hanno sede vari dipartimenti, biblioteche, laboratori, istituzioni
collegate. È una strada in cui brulica e si disperde nei vari edifici
tutta una popolazione universitaria, studenti agguerritissimi e
studenti perdigiorno, scienziati e burocrati accademici,
amministratori e contestatori.
Percorro il porticato un po’ su una sponda un po’ sull’altra, tra i
tanti edifici storici, di origini ed epoche diverse, ma tutti sorti tra il XVI
e il XVIII secolo, nel tempo in cui la dotta Bologna continuava a
svilupparsi e a produrre una sua originale cultura scientifica,
giuridica, erudita, all’ombra del dominio della Chiesa. Molto presto
sulla via Zamboni si apre la piazza Rossini, con la chiesa di San
Giacomo Maggiore, iniziata dagli Eremitani Agostiniani nel 1267 e
provvisoriamente conclusa nel 1315: e se le trasformazioni
successive hanno modificato radicalmente quasi tutto il suo
impianto, la facciata, con la sua spinta ascensionale come rattenuta
e ancorata a terra dalle nicchie sepolcrali e dal portale, resta molto
vicina all’aspetto che stava assumendo quando Dante si trovò in
questi paraggi. Sulla fiancata sinistra della chiesa, sulla via Zamboni,
come a proseguire e a variare la successione delle nicchie
sepolcrali, si sviluppa un portico quattrocentesco che conduce fino
alla successiva piazza Verdi, su cui, proprio alla fine del portico,
prospettano i resti delle mura del XIII secolo (qui al limite della
seconda cerchia). Dall’altra parte della piazza s’affaccia il
settecentesco Teatro Comunale, costruito sulla base di un progetto
di Antonio Galli Bibiena. La piazza brulica di studenti e studentesse
che sostano in piedi o su panche disposte qua e là, alcuni con un
bicchiere in mano, davanti a un bar molto affollato: conversazioni e
risate che riecheggiano nella sera, sotto il segno di un’allegra
indifferenza allo stesso spazio frequentato. Intorno, sulla stessa
piazza Verdi e a vari livelli di via Zamboni, striscioni con scritte,
graffiti e disegni, veri e propri murales, qualcuno anche ben fatto.
All’aspetto quietamente edonistico di quelli che ora sostano sulla
piazza fanno riscontro i segni antagonistici, gli scatti polemici delle
scritte, perlopiù legate alle iniziative del Cua, Comitato universitario
autonomo, che in questi giorni ha fatto molto parlare di sé per aver
interrotto una lezione del politologo Angelo Panebianco, loro
bersaglio già altre volte e ora attaccato per un articolo sul Corriere
della sera in cui si domandava se l’Italia sarebbe preparata per un
eventuale intervento militare in Libia. Il 22 febbraio scorso questi
contestatori sono entrati nell’aula dove Panebianco teneva la lezione
del corso su Teorie della pace e della guerra, con uno striscione con
la scritta “Fuori i baroni dall’università”, facendo risuonare una
registrazione con rumori di bombe e scoppi di guerra.
Tra le scritte minacciose e i sommari murales antagonistici e
antirazzistici (uno è sostenuto dalla grossa scritta BOLOGNA METICCIA)
giungo sui portici che fronteggiano Palazzo Poggi, grande dimora
cardinalizia cinquecentesca, che divenne sede dell’università in
occasione della sua ristrutturazione napoleonica (1803) e che ora
ospita il Rettorato e il Sistema museale universitario. Sul muro
accanto all’ingresso, spicca la scritta tracciata in rosso SABOTIAMO I
SAPERI DI GUERRA. Nel portico dirimpetto a Palazzo Poggi, c’è un
murale ben diverso dagli altri, tracciato con grande forza figurativa
entro una accurata struttura. Non è uno di quelli sorti di recente, ma
risale addirittura al 1988: è il Mural latino, commissionato all’artista
Luis Gutierrez dallo stesso Ateneo per la ricorrenza dei suoi 900
anni: è stato appena restaurato, con squillanti colori in un affollarsi di
figure che rappresentano la travagliata storia dell’America latina.
Poi, verso la fine, via Zamboni si apre sulla triangolare piazza
Vittorio Puntoni, che ha il nome del grecista (1859-1926) che come
rettore dell’università di Bologna (carica che tenne in due riprese) si
adoperò per l’assegnazione del premio Nobel per la letteratura a
Giosuè Carducci e che nei suoi ultimi anni fu senatore del regno. Via
Zamboni termina sull’ampio spazio della piazza di Porta San Donato.
Poco avanti è la porta, massiccia e isolata, che sotto un torracchione
si estende in un corpo in muratura, attraverso cui si passa dal
prospetto verso l’interno a quello verso l’esterno della città: uno dei
residui della cerchia muraria (la terza cerchia) che fu impiantata tra il
XIII e il XIV secolo, in seguito alla grande espansione della città
rispetto ai limiti delle cerchie più antiche, e che fu demolita all’inizio
del Novecento.
Bolognesità culturale
Nella prima bolgia Dante riconosce tra i ruffiani un bolognese che gli
doveva essere ben noto, Venedico Caccianemico, notabile guelfo
nato intorno a 1228, che egli credeva già morto nel 1300, ma di cui
si sa che morì nel 1303. Costui fu in stretto rapporto con gli Estensi:
ma non si hanno altre notizie sull’azione che egli stesso confessa a
Dante, cioè di aver spinto la sorella Ghisolabella a concedersi al
marchese Obizzo II. D’altra parte, il dannato, quasi a estendere la
taccia di ruffianesimo all’intera città di Bologna, viene a dire che sulla
terra non ci sono tante persone che parlino bolognese come ce ne
sono lì nella bolgia: e indica come prova e giustificazione di ciò
l’avaro seno degli stessi bolognesi, cioè il loro animo avido di
denaro.
L’insieme dei bolognesi vengono qui indicati come le tante lingue,
tutti i parlanti che sono ammaestrati a dire sipa, forma della particella
affermativa del loro dialetto (che Dante suole identificare attraverso
la particella affermativa, come fa a proposito delle lingue di sì, d’oc,
d’oïl), tra Sàvena e Reno, i corsi d’acqua che scorrono
immediatamente a est e a ovest di Bologna. Nel De vulgari
eloquentia, I XV 2-6 il bolognese veniva indicato come dotato di
pronuncia abbastanza dolce rispetto ai dialetti circostanti, dolcezza
derivata dalla mescolanza con la lentezza e la mollezza (lenitatem
atque mollitiem) dell’imolese e con il chioccio stridore (garrulitatem)
del ferrarese e del modenese: sarebbe proprio questa commistione
di opposti a temperarsi in una lodevole soavità (ad laudabilem
suavitatem); rispetto a questi rilievi si precisava però che il volgare
bolognese non poteva essere preso come modello assoluto, come
mostra il fatto che gli illustri poeti bolognesi (Guido Guinizelli, Guido
Ghisilieri, Fabruzzo e Onesto, i primi tre citati anche in II XII 6), per
avvicinarsi a un volgare aulico e illustre, si sono spesso allontanati
dalla lingua che si parla nel centro di Bologna.
Venedico ha fatto riferimento alla sua città, indicando il suo
collocarsi tra Sàvena e Reno, con espressione che certo era
corrente, tanto che la usa anche Giovanni del Virgilio all’inizio
dell’ecloga in cui invita Dante a Bologna (“Forte sub inriguos colles,
ubi Sarpine Rheno / obvia fit”, “sotto gli irrigui colli dove la Sàvena va
incontro al Reno”, Ecloga, III 1-2, termini ripresi poi nella risposta di
Dante, Ecloga IV 41). Nella mattinata del 5 marzo decido allora di
attraversare Bologna, sul percorso dell’antica Via Emilia, con una
camminata da un fiume all’altro. Si tratta in fondo solo di una decina
di chilometri, completamente in pianura. Dall’albergo nel centro,
vicino alle due torri, ripercorrendo ancora via Zamboni, raggiungo
allora, fuori della Porta San Donato, il viale disposto sul tracciato
della cerchia muraria abbattuta, dove passa un autobus, il 19, diretto
a San Lazzaro di Sàvena, il borgo che si trova subito oltre Bologna,
sul versante est della Sàvena.
Eccomi dopo poco più di mezz’ora sul ponte del fiume che
procede verso nord su un letto piuttosto modesto: prima del ponte
esso scorre tra un fitto groviglio di cespugli completamente privi di
fogliame e poi si allarga sotto il ponte, sboccando da esso su una
sorta di cascatella artificiale, per restringersi ulteriormente, con
aspetto più di torrente che di fiume, dirigendosi verso un altro fiume,
l’Idice, a sua volta tributario del Reno. In realtà tutta questa parte del
suo corso è frutto di una deviazione creata nel XVIII secolo, per
proteggere Bologna dalle inondazioni, dato che prima esso scorreva
direttamente a fianco della città, nella zona di Porta San Vitale e di
Porta San Donato. Qui, accanto alla riva sinistra, quella dalla parte di
Bologna, c’è un parco attrezzato oltre il quale si scorgono bene a
sud le propaggini dell’Appennino. Sempre su questa riva, dal lato
opposto della strada, cioè a nord, si scorgono le bianche croci del
Cimitero militare polacco, il cui ingresso è subito sulla strada: esso
accoglie i caduti del 2° Corpo d’armata polacco, soprattutto coloro
che hanno combattuto nell’Appennino tosco-emiliano nell’ultima fase
della guerra, prima della liberazione di Bologna (in cui quello polacco
fu il primo reparto alleato a entrare, il 21 aprile 1945). Un piccolo
sacello all’interno del cimitero ricorda le varie fasi del contributo
polacco alla liberazione d’Italia, collegando questo agli altri cimiteri
militari polacchi (Montecassino, Loreto, Casamassima). Varie targhe
si riferiscono a situazioni ed eventi diversi: ce n’è una che riporta le
parole del papa Giovanni Paolo II, qui in visita il 18 aprile 1982; su
altri orizzonti si affaccia una lapide bilingue che dice in italiano: AI
MILITARI POLACCHI SCOMPARSI / NELLE PRIGIONI SOVIETICHE, / NEI GULAG E IN
ESILIO / IN UNA TERRA DISUMANA / QUESTA MEMORIA È DEDICATA / DAI
COMPAGNI D’ARME.
Mentre commosso mi muovo tra le croci, leggendo quei nomi così
lontani, noto che presso l’ingresso del cimitero, entro una sorta di
piccolo vano, è seduta una donna di grossa corporatura, vestita di
nero, con accanto una valigia distesa a terra e una coperta
appoggiata su un sedile di pietra. Quando mi appresto a uscire, mi
viene incontro e comincia a parlarmi in un italiano molto confuso: mi
dice che vive qui dentro perché ha perduto il lavoro e l’alloggio.
Sembra slava, forse ucraina, ma non sopporta i giardinieri che
hanno cura del parco e vorrebbero che se ne andasse: forse sono
polacchi o addirittura russi, del resto non sopporta in genere né russi
né polacchi. Ha lavorato per 25 anni per una società di pulizia e ha
avuto solo 2000 euro di liquidazione: vorrebbe sapere da me come
fare per avere una maggiore liquidazione. Quando le chiedo se si è
rivolta al sindacato dice che è in causa con il datore di lavoro; mi
parla di una sua amica di cui non capisco il nome. Mi dice che non si
sta male a vivere tra le croci, che qua dentro può anche cucinare,
ma ripete che viene infastidita dai giardinieri russi… Mi saluta senza
chiedermi nulla, quasi nascondendosi tra la bianca pietra del vano in
cui è alloggiata, quasi custode di questo lembo di un est europeo
che non coincide con il suo, ignara della guerra passata e forse
perfino delle ragioni per cui lì ci sono tutti quei morti di un paese che
lei considera addirittura avverso, a cui guarda con ostilità.
Vicinissimo, quasi accanto, su questo stesso lato della Via Emilia,
c’è un altro più piccolo cimitero militare, meno appariscente dalla
strada: è il cimitero dei caduti del Commonwealth britannico, soldati
di vari continenti al comando degli inglesi, dove una scritta sulla
soglia avvisa: IL SUOLO DI QUESTO CIMITERO È / STATO DONATO DAL POPOLO
ITA / LIANO PER L’ETERNO RIPOSO DEI / MARINAI SOLDATI E AVIATORI ALLA / CUI
MEMORIA È QUI RESO ONORE.
Dopo queste soste comincia davvero la mia camminata, nella
ripetitiva varietà del percorso suburbano, nella mattinata del sabato,
in cui le attività, soprattutto commerciali, sembrano decollare più
lentamente degli altri giorni e poi diventare man mano più
effervescenti, quasi frenetiche. Prima c’è il percorso suburbano, sulla
Via Emilia di levante. Poco dopo i due cimiteri una strada tra il verde,
come dice uno striscione sopra un cancello aperto, conduce a un
Museo memoriale della libertà; poco oltre, un cartello indica la
direzione per andare a MODELBO MODELLISMO 05 06 MARZO, un altro
invece indica la direzione per una MOSTRA SCAMBIO DI MILITARIA 9-10
APRILE. Segue la lunga serie dei negozi, molti chiusi per il sabato, ma
molti già in gran movimento: le insegne, le vetrine, la molteplicità
degli esercizi e dei loro addobbi, nomi, cognomi, sigle, cartelloni
pubblicitari, edicole e garitte, incroci e semafori, una curiosa edicola
a capanna aperta su cinque arcate con le vetrine di un grande
fioraio, centri del mobile e centri della telefonia mobile, il cavalcavia
della ferrovia, aiuole alberate. Il cielo che fino a poco fa mostrava
grossi nuvoloni comincia in parte ad aprirsi. Poco dopo il cavalcavia
ferroviario la Via Emilia assume caratteri sempre meno periferici,
prendendo il nome di via Mazzini. Ben visibile, in fondo alla strada,
quasi a interromperne la continuità, appare la torre degli Asinelli. A
un certo punto su via Mazzini si aprono dei portici pieni di negozi di
alimentari. Ora percorro questi portici, sul lato sinistro della strada. A
un certo punto scorgo un uomo dal volto che mi è noto, che avanza
in direzione contraria guardando verso terra, a guardia delle buste
della spesa che regge con le due mani; mi passa accanto senza
vedermi e io stesso non riesco a guardarlo bene in volto, ma capisco
poi che si trattava proprio del professor Panebianco, chiamato in
causa dal percorso di ieri sera. Mi dispiace di averlo
inavvertitamente sfiorato senza scambiarci parola.
La via Mazzini conduce sulla piazza su cui dà la Porta Maggiore,
isolata al suo centro, con i due semplici archi ogivali che immettono
sulla Strada Maggiore, quasi completamente porticata da tutti e due i
lati: la porta costituiva una sorta di ingresso ufficiale in Bologna, dal
lato sudest della Via Emilia, che all’interno assumeva appunto il
nome Strata Maior, contornata di importanti palazzi residenziali.
Questa strada viene anche menzionata nel De vulgari eloquentia, I IX
4, nel quadro di una notazione sul fatto che differenze linguistiche ci
possono essere addirittura tra coloro che abitano in una stessa città,
“sub eadem civilitate morantes, ut Bononienses Burgi Sancti Felicis
et Bononienses Strate Maioris”: c’è insomma una discrepanza
linguistica tra i bolognesi di Borgo di San Felice e quelli di Strada
Maggiore, cioè tra quelli che abitano a ovest e quelli che abitano a
est del centro, sui versanti opposti del percorso che sto facendo e
che mi porterà poi proprio al Borgo di San Felice.
Nei paraggi di Porta Maggiore sarebbe da visitare la casa dove il
Carducci ha vissuto nei suoi ultimi anni, a partire dal 1890: si trova a
pochi passi più a sud, tra il viale Carducci e la via Dante. Ma
procedo sotto i portici di Strada Maggiore, toccando il neoclassico
Palazzo Hortolani, dov’è la sede della Scuola già Facoltà di Scienze
politiche, proprio con l’aula delle lezioni di Panebianco. Poi sulla
sinistra il portico della strada coincide con un lato del quadriportico
aperto davanti alla chiesa di Santa Maria dei Servi, dell’ordine di
origine fiorentina che si stabilì a Bologna già nell’anno della nascita
di Dante, anche se poi la chiesa fu costruita a metà Trecento, con
vari interventi successivi, tra cui la costruzione del quadriportico
dalle graziose colonnine, svoltasi in varie fasi in secoli diversi.
Poi sono di nuovo tra gli Asinelli e la Garisenda: e oltre la via
Rizzoli tocco finalmente il cuore centrale, civile e religioso di
Bologna, con gli edifici disposti intorno alla piazza Maggiore, aperta
all’inizio del Duecento. Dalla parte di via Rizzoli si accede alla piazza
Maggiore attraverso due piazze intermedie, separate da due palazzi,
il Palazzo del Podestà e il Palazzo di re Enzo, tra loro affiancati,
collegati dalle arcate del Voltone del Podestà. Il primo palazzo è
sorto alla fine del Quattrocento, quando Bologna era sotto la signoria
dei Bentivoglio, sul sito del più antico Palatium Comunis Bonomiae,
di cui rimane la torre dell’Arengo, sorta originariamente in legno nel
1212, poi in muratura dopo la metà del XIII secolo e modificata
ancora nel 1453, con la collocazione di una grande campana,
designata a Bologna come il Campanone. Il Palazzo detto di re
Enzo, costruito prima della metà del XIII secolo, per altre funzioni di
governo, viene chiamato così perché vi fu tenuto prigioniero dalla
battaglia della Fossalta (1249) alla morte (1272) il figlio naturale di
Federico II, re di Sardegna senza regno: le mura merlate e con
diversi ordini di finestre danno un’aria di gotica prigione dorata, ma
forse si tratta solo di un’illusione suscitata dall’immagine “cortese”
dello sfortunato re (a cui sono attribuiti anche non spregevoli
componimenti poetici).
Delle due piazze comunicanti, tra loro separate dal corpo dei due
palazzi, quella a est ha il nome di piazza di Re Enzo, mentre quella a
ovest è la piazza del Nettuno, creata quando nel secondo
Cinquecento vi fu sistemata la fontana manieristica del Nettuno,
opera del Giambologna. Su questa piazza, sul fronte opposto a
quello su cui dà il Palazzo di Enzo, è il Palazzo comunale, che si
estende anche su tutto il fronte ovest della piazza Maggiore, e che è
detto anche Palazzo d’Accursio, perché nella sua prima forma sorse
dopo il 1287, sul sito delle case della famiglia del giurista Accursio,
acquistate dal comune, forse proprio dal Francesco d’Accursio che
corre sul sabbione infuocato del terzo girone del settimo cerchio
infernale.
L’insieme di questi edifici, sulla piazza Maggiore, sembra come
sorvegliato e regolato dalla mole della cattedrale di San Petronio,
con la sua facciata incompiuta che prospetta sul suo lato
meridionale. Essa è sorta sul sito di precedenti edifici medievali, con
lavori prolungatisi nel corso dei secoli, a partire dalla posa della
prima pietra, che avvenne il 7 giugno 1390. Accanto alla chiesa, oltre
il suo fianco destro, prospetta infine il Palazzo dei Notai, costruito a
fine Trecento sul sito di edifici appartenenti alla corporazione dei
Notai già nella seconda metà del XIII secolo: notai che hanno svolto
ruoli importanti nella vita civile di Bologna e che hanno anche dei
singolari meriti danteschi, per il loro uso di trascrivere nei loro
Memoriali testi poetici a margine dei contratti, per impedire
manipolazioni e giunte successive. Già ho ricordato il notaio che ha
trascritto il sonetto dantesco sulla Garisenda: e proprio dalla
trascrizione di un notaio operante a Bologna, Pier degli Useppi da
San Gimignano, si ha la prima attestazione ufficialmente datata della
diffusione dell’Inferno (trascrive nel 1317 la terzina III, 94-96), mentre
al 1324 risale uno dei primissimi commenti alla cantica, opera del
notaio bolognese Graziolo de’ Bambaglioli.
Intorno a piazza Maggiore e agli edifici storici del centro di Bologna
c’è un vivace movimento, che dà l’impressione che essi siano vissuti
ancora come parte della quotidianità cittadina, percorribili e
praticabili senza la distanza incantata dei turisti, ma come pezzi della
propria vita, attraversabili e penetrabili come occasioni quotidiane,
forse perché non hanno quell’imponenza scenografica e
spettacolare di altri monumenti più celebri e preziosi o anche perché
sopravvive ancora una sensuale aderenza bolognese all’ambiente,
che quasi sa estrarre dalle pietre dei luoghi una sostanza corporea,
sa ricavarne un palpito d’esistenza (“O singular dolcezza del sangue
bolognese!”), che si comunica anche a chi bolognese non è, agli
studenti qui convenuti, agli stessi turisti che pure non mancano, ma
certo non hanno quell’invadenza che grava su altre troppo costipate
città.
Comunque, dopo una breve diversione su piazza Maggiore
proseguo il percorso su via Ugo Bassi, che ha il nome del barnabita
emiliano che nel 1849 combatté in difesa delle repubbliche di
Venezia e di Roma e che fuggendo da Roma con Garibaldi, fu
catturato dagli austriaci a Comacchio e fucilato a Bologna: dal suo
monumento guarda chi passa e con la destra tesa sembra additare
qualcosa, quasi invitare a un impegno che non siamo più capaci di
identificare.
Al termine di via Ugo Bassi si apre l’ampia piazza Malpighi, al
limite di quella che era la seconda cerchia delle mura bolognesi: su
di essa sono disposti i sepolcri cuspidati dei glossatori, risalenti al
XIII secolo, tra cui c’è anche quello di Accursio. Alle loro spalle si
affaccia la composita abside della chiesa di San Francesco, costruita
a metà Duecento: ed è singolare l’aspetto della facciata, che dà sulla
opposta piazza San Francesco, scandita in tre settori che si elevano
in altezza, con al centro due lunghe e strette finestre che paiono
quasi appoggiate a una finestra oblò. Ma supero rapidamente questa
breve diversione e, seguendo la mia direzione, imbocco la via San
Felice, lunga e stretta, ma completamente porticata, con un
susseguirsi di negozi, molti dei quali hanno ancora una certa aria
popolare. Eccomi insomma nel Borgo di San Felice distinto del De
vulgari eloquentia: qui a un certo punto si incrocia la via Riva di
Reno, dove nel XIII secolo e poi fino al XVIII passava un canale
ricavato dal Reno, che alimentava vari mulini. Più oltre, la via San
Felice si allarga, giungendo alla Porta San Felice, isolata col suo
torracchione in mezzo a una grande piazza.
Fuori della porta inizio il percorso sulla via Aurelio Saffi, attorniata
perlopiù da palazzoni moderni, talvolta porticati: qui la strada è molto
meno animata di quella che mi portava da San Lazzaro verso la
Porta Maggiore; meno frequenti sono i negozi e i bar. Ma non mi
sono di molto dilungato da Porta San Felice, quando all’interno di
uno dei portici sul lato destro trovo questa lapide: NELL’ANNO MCCCXV / I
MODENESI / DAL POZZO ORA COPERTO NELLA STRADA / RAPIRONO LA SECCHIA /
CHE ALESSANDRO TASSONI / CELEBRÒ CON IMMORTALE POEMA, inserita nel
650° annuale, evidentemente del rapimento della secchia, cioè nel
1975.
Più avanti si riducono i palazzi e un lato della strada si allarga; poi
quando la denominazione di via Aurelio Saffi viene sostituita da
quella di Via Emilia Ponente, le costruzioni sono più rade; si incontra
l’ampio spazio dell’Ospedale Maggiore e gli edifici si alternano a
zone di verde, a parcheggi, a centri commerciali. A destra si trova lo
spazio verde dei Prati di Caprara, un tempo pista di corse ippiche e
poi campo d’aviazione. Poi si è nel quartiere di Santa Viola, tra
vecchie villette e nuovi palazzi e centri commerciali: su una bassa
casetta, accanto alla porta un po’ malridotta, una lapide avvisa che
fu dimora dal 1975 al 1984 dell’“artista Andrea Pazienza”, il
disegnatore e fumettista marchigiano (1956-1988) che, con grande
verve, disposizione ludica e maestria grafica, nella sua breve vita ha
incarnato originalmente lo spirito della Bologna alternativa degli anni
settanta.
Ma si avvicina ormai il Reno; ecco il ponte ornato di figurazioni
mitologiche, sirene un po’ malandate che vengono incontro a chi vi
accede, piazzate sui due lati, e si ritrovano all’uscita. Sono quattro
statue dello scultore bolognese Carlo Monari (1831-1918), collocate
qui nel 1880, quando fu ultimato il nuovo Pontelungo, poggiante su
quindici arcate di rossi mattoni: si affacciano verso l’esterno del
ponte esibendo i ventri prominenti, mentre i viluppi delle code si
avvolgono verso l’interno. Non tentatrici sirene, ma il diavolo in
persona appare nel prologo del romanzo di Riccardo Bacchelli, Il
diavolo a Pontelungo (1927): si fa incontro all’arciprete di Borgo
Panigale alla vigilia di san Giovanni in un anno imprecisato di primo
Ottocento, minacciando di rovinare il raccolto, pericolo sventato dalle
campane fatte poi suonare dall’arciprete. Poi nel corso del romanzo
è l’anarchico Michail Bakunin che passa sul ponte in una vigilia di
san Giovanni del 1874, ascoltando il suono delle campane, che ogni
anno si ripete in quel giorno per mettere in fuga la grandine; egli si
dirige a Bologna con un proposito rivoluzionario, destinato anch’esso
ad andare in fumo, come le minacce del diavolo (II, III):
Eo so Galusé,
logu delissiosu de incantu,
fiem’inoghe su pe
o pasizzeri, cust’est logu santu:
deo confid’ in te,
zelt’has accurrer a mi dare vantu,
cun bellas cumpagnias,
a t’infriscare de sa abbas mias.
(Io sono Galusè, / luogo delizioso d’incanto, / ferma qui il tuo
piede / o passante, questo è un luogo santo: / io confido in te,
/ certo accorrerai a darmi vanto, / con belle compagnie, / a
rinfrescarti delle mie acque).
Qui la piana oltre il Coghinas, risanata con una bonifica già negli
anni cinquanta, ha proprio il nome di Valledoria: siamo in un contesto
genovese, sotto il segno della grande famiglia a cui apparteneva il
genero e uccisore dello Zanche; e del resto già l’altro ieri abbiamo
incontrato, lungo il Coghinas, i resti di Casteldoria. È il territorio
dell’Anglona, questo che attraversiamo, fino a Sassari: si succedono
insediamenti turistici, fino al centro più interessante e più
chiaramente “genovese”, che è Castelsardo. Presto appare la città,
arrampicata su un costolone trachitico che avanza sul mare, in cima
al quale è il castello; di qua e di là dall’aggettante promontorio, che
sembra quasi un tozzo isolotto, si disegnano le dolci ondulazioni di
belle spiagge sabbiose. Borgo e castello furono quasi certamente
fondati dai Doria all’inizio del XII secolo, col nome di Castegenovese:
nel 1282 il sito, insieme a Casteldoria, fu oggetto di una transazione
di cui fu protagonista il Corrado Malaspina che Dante incontra nella
valletta dei principi del Purgatorio (lo acquistò dai Doria e poi glielo
rivendette); nel XV secolo gli Aragonesi cambiarono il suo nome in
Castellaragonese; e diventò finalmente Castelsardo nel 1767, sotto i
Savoia.
Mi arrampico oltre i bastioni della cittadella costruiti dagli spagnoli,
su cui a un certo punto una lapide bianca reca i nomi dei tanti caduti
in guerra della città (al solito tremendamente più numerosi quelli del
1915-18). L’interno della cittadella è tutto compartito da vicoletti in
salita, sistemati con vari ritrovi, bar, ristoranti, negozietti; in alto i resti
del castello, dove forse si trovò a sostare per i suoi traffici Michele
Zanche e dove forse si intrattenne con il genero traditore. Ma al cupo
orizzonte infernale in cui sono precipitati questi personaggi, che è
come assorbito dalle mura sassose del castello, dai suoi bui
camminamenti, si oppone la luce azzurra che si espande nella vista
marina, nell’ondulazione delle insenature e delle spiagge vicine là in
basso, nell’apertura verso sud del golfo di Torres, nell’avanzare
lontano della costa dell’Asinara.
Percorriamo ancora la costa che piega verso sudovest e poi risale
leggermente verso Porto Torres, dove sono varie rovine dell’antica
Turris e soprattutto la splendida chiesa romanica di San Gavino. Ma
siamo diretti a Sassari, dove incontreremo uno scrittore, un vecchio
scrittore di cui amo la voce autentica e appartata, la passione per la
verità e l’attenzione alla ingannevole contraddittorietà
dell’esperienza. Ci fermiamo prima nel centro della città, riuscendo
faticosamente a parcheggiare in una piazza che è risultata da uno
sventramento incompiuto del periodo fascista, la piazza Monsignor
Mazzotti, che però tutti chiamano piazza delle Demolizioni: che dà
una impressione di provvisorietà prolungata, insediata nel cuore
della città, a cui impone il segno dell’incompiuto, come se qualcuno
l’abbia sottratta a una cura totale di sé; come se qualcosa fosse
scoppiato quasi al centro di un centro storico che per il resto mostra
molto chiaramente i suoi antichi contorni, le tracce della sua struttura
medievale. Molto vicino a questa piazza delle Demolizioni è il
Duomo, con la ricca decorazione della sua facciata barocca, molto
spagnoleggiante e non senza somiglianze con il lontano barocco
leccese, in cui dalla pietra sembrano scaturire effetti pittorici, quasi
un evanescente sogno di colore. A differenza della facciata, le
fiancate del Duomo hanno un’aria di svettante severità, mentre poi,
procedendo tra vicoli di varia foggia fino al corso Vittorio Emanuele,
in leggera salita, si trovano lacerti di nobile architettura, facciate, con
portali e finestre di taglio aragonese, di fattura rinascimentale. Dal
corso raggiungiamo la piazza Castello, dove il castello non c’è più,
demolito totalmente dopo l’unità d’Italia: sul suo sito c’è ora la
Caserma Lamarmora, sede della celebre Brigata Sassari e del suo
Museo Storico, fanteria ora meccanizzata, che ha compiuto varie
azioni di rilievo nelle guerre del Novecento e tuttora costituisce uno
dei maggiori corpi operativi dell’esercito italiano.
Lasciato il centro storico, raggiungiamo, davanti alla sua casa, che
è in una palazzina in una tranquilla zona residenziale, Salvatore
Mannuzzu, che è stato magistrato fino al 1976, poi deputato in
alcune legislature, ma che per me è soprattutto lo scrittore che si è
fatto conoscere nel 1988 con Procedura e che ha poi pubblicato
molti libri in cui nell’orizzonte di una Sardegna borghese e
intellettuale si svolge una intensa interrogazione di destini, inchieste
su segreti che sfuggono ai loro stessi depositari, esperienze che si
perdono e si cancellano. Ci viene incontro con una sua cordialità
venata di malinconia: e ci conduce a pranzo con lui, da Gianni e
Amedeo, ristorante davvero eccellente e che sorprende di trovare in
una strada immersa in un anonimo grigiore. Ci regala subito un suo
libretto di qualche anno fa, Cenere e ghiaccio. Undici prove di
resistenza, che non conoscevo (ho invece recensito l’anno prima il
suo romanzo estremo, pieno di accorata tensione, Snuff o l’arte di
morire): e non posso non notare che il ghiaccio del titolo mi riporta
ancora all’assassino di Michele Zanche, quel Branca Doria, la cui
anima è immersa nel ghiaccio del Cocito mentre il suo corpo sta
ancora sulla terra, “e mangia e bee e dorme e veste panni” (Inferno,
XXXIII 141).
Allora parliamo di Dante e della Commedia. Mannuzzu mi dice di
averla letta due volte integralmente, una prima volta nella vecchia
BUR, nei volumetti di quell’edizione che avevano il privilegio di
essere rilegati in verde bordato d’oro, e poi in una più recente
edizione, quella rinnovata del classico commento di Natalino
Sapegno. Comunque il titolo Cenere e ghiaccio non ha nulla a che
fare con Dante: è scaturito da un raccordo tra Gramsci (le sue
ceneri) e il ghiaccio artico, suscitato dal riferimento che lo stesso
Gramsci fa in una lettera dal carcere del 18 aprile 1927
all’esploratore norvegese Nansen, che mosse verso il Polo Nord
facendosi trascinare lentamente dai ghiacci. Di lui Gramsci fa un
emblema di resistenza, della durezza, costanza, lentezza necessaria
del resistere. Sotto il segno del resistere Mannuzzu proietta lo
sguardo verso il presente, di fronte alla crisi che attanaglia più
gravemente la Sardegna (e ci dà un quadro della difficile situazione
economica), di fronte al confuso scadere della politica nazionale e
internazionale, allo sfaldarsi della sinistra, allo stesso destino della
letteratura, oggi piegata verso le più esteriori brame dell’attualità e
sempre più incapace di interrogare le contraddizioni dell’esistere.
Dinanzi a tutto ciò l’ostinato resistere tende spesso a piegare
verso la disperazione. Anche con essa occorre fare i conti, nella vita
quotidiana del vecchio, che ora si trova a convivere con la malattia
della moglie Nannetta, mentre una figlia medico, che aveva avuto
notevoli successi professionali in America, si è sentita un certo punto
oppressa da quel mondo di scatenata competitività ed è tornata,
abbandonando tante promettenti prospettive (nel 2016 avremo a
breve distanza notizie della morte della moglie e della figlia). Dal
modo stesso in cui Mannuzzu parla della sua vita attuale, dai suoi
sguardi e dai suoi giudizi sul presente, traspare in piena luce la
riservatezza, la civiltà, il senso dell’esistere, che animano la sua
letteratura, su cui agisce sottilmente la sua coscienza giuridica, la
sua disposizione a sentire l’esperienza come un processo, come
proiezione verso un giudizio (e aleggiano i nomi dell’amato Kafka e
quello del grande giudice scrittore di Nuoro, Salvatore Satta, l’autore
de Il giorno del giudizio). Anche la politica, del resto, la sente come
ricerca della giustizia: cosa che oggi sembra sconfitta, distorta,
impossibile. È convinto che il rapporto più autentico con la letteratura
non possa essere che quello di un amore non corrisposto, di un
desiderio che non può essere appagato, di un “tendere verso”,
insomma (non è quello che fa insistentemente Dante, in tutto il suo
percorso, sempre rivolto a tendere verso l’impossibile dicibilità della
bellezza di Beatrice?). La delusione per la letteratura
contemporanea è data anche dalla generale mancanza di questa
tensione, dalla presunzione di molti che tutto si risolva nel corrivo
adattamento ai target dell’attualità: facendo parte dell’ampia giuria
del Premio Strega (i cosiddetti Amici della domenica), lui ogni volta
legge coscienziosamente i dodici finalisti. Ma ci domandiamo: chi ha
vinto quest’anno? Preferisce letture di classici, che ultimamente sta
facendo con una certa comodità sul supporto informatico, proprio lui
tanto legato alla cultura “cartacea”. Su Kindle in questi mesi ha letto
o riletto I promessi sposi, Guerra e pace, ben due romanzi di
Dostoevskij…
Parliamo di questo e di tante altre cose davanti a un tavolo su cui
un cameriere gentile ci porta deliziosi piatti di pesce: e c’è un
vermentino con un suo particolarissimo aroma, ben diverso dai
troppi vermentini che circolano nel continente, è il Tuvaoes di
Giovanni Cherchi, produttore di grande perizia, che tra l’altro ha
quasi riscoperto e rilanciato un antico vitigno, il Canularis, che dà un
formidabile vino rosso. Così trascorre il pasto, la conversazione con
questo giudice scrittore, nel cui stile civile, nella cui scrittura di
rigorosa e pungente riservatezza mi pare di riconoscere un carattere
profondamente radicato in quest’isola e in questa stessa città, anche
con le sue delusioni, i suoi rimpianti, la sua interrogazione delle
possibilità che non si sono attuate; e mi resterà un crudo rimpianto,
alla notizia della sua morte in un ospedale di Sassari (10 settembre
2019), per non averlo più incontrato negli anni intercorsi e per non
aver potuto realizzare la promessa che gli avevo fatto di andare a
trovarlo per donargli questo resoconto dantesco, una volta stampato.
Ma, accomiatatici da Mannuzzu, in quell’estate del 2014 ci siamo
diretti verso il centro del più limitato Logudoro attuale: avevo
prenotato un bed and breakfast a Mores, borgo agricolo senza edifici
rilevanti, che appare immerso in un accidioso silenzio estivo, ma il
cui territorio è ricco di tracce prestoriche: e da qui comunque si
possono raggiungere varie tracce del passato medievale, del tempo
del Giudicato. Al bed and breakfast Il giardino degli aranci si giunge
svoltando tra silenziose stradine, tra le quali non ci si aspetterebbe
un luogo così accogliente e simpatico, tenuto da due giovani che
hanno convinto le loro famiglie a sostenere la piccola impresa, che è
anche una scelta di vitalità, di amore per il territorio, nell’intento di
accogliere un turismo colto e civile, in fondo ben lontano dalla
chiassosità delle vacanze marine.
Da qui partiamo per un ampio giro pomeridiano, che ci porta, tra le
alture del Meilogu (denominazione questa che deriva da medius
locus e indicava l’area centrale del Giudicato di Torres / Logudoro),
alla chiesa romanica di San Pietro di Sorres, che si eleva isolata su
un colle (accompagnata da un più recente convento addossato al
suo fianco). Risale alla fine del XII secolo e la sua struttura pisana,
con cinque grandi arcate in basso, sette più piccole nel secondo
ordine, tre pensili nel frontone in alto, presenta un gioco di variazioni
tra losanghe e tondi, nell’intreccio tra il calcare chiaro e la trachite
nera, arricchito dall’effetto pittorico di contorni in cui la pietra sembra
lavorata a bulino. Mentre leggere nubi in movimento fanno cadere
sull’ampio piazzale un po’ di pioggia, la piana giù sotto (dove è
Mores) appare invece in pieno sole: non ci sono visitatori, ma
nell’interno della chiesa, tutto compartito in fasce bicolori, c’è una
monaca in preghiera.
Scendiamo da San Pietro di Sorres e attraversiamo Thiesi, intorno
a cui ci sono vari stabilimenti di produzione e vendita di formaggi e
prodotti locali: non ci si può trattenere dal visitarne uno, ammirando
la varietà di formaggi, freschi e stagionati, di pecora, di capra, di
mucca, pepati, aromatizzati, semicotti, giglio, peperino, fiore sardo,
canestrino, montanaro… Con buona scorta di formaggi, che
lasceremo al fresco a Mores fino alla partenza, giungiamo poi al
vicino nuraghe Santu Antine, imponente sulla piana, oltre la quale si
leva un rilievo di modesta altezza violentato da una fitta selva di pale
eoliche. Ci sono sparse rovine e corpi sassosi intorno al nuraghe,
costituito da un grande bastione centrale su cui sono addossate tre
torri minori: è detto anche Sa domo de su Re, reggia, che
curiosamente la tradizione popolare attribuisce all’imperatore
Costantino, considerato protettore della Sardegna e addirittura santo
(Santu Antine non è altro che san Costantino). Che dire di questa
santificazione se invece Dante nel XIX dell’Inferno lo rimprovera per
aver fatto la famosa presunta donazione al papa Silvestro (e ne
nega la validità in Monarchia, III X), oltre a mostrare implicitamente
riserva, all’inizio di Paradiso, VI, sul suo trasferimento della sede
dell’impero a Bisanzio? E se poi Petrarca addirittura lo relega
all’inferno nel sonetto Fontana di dolore, albergo d’ira (Canzoniere,
138)?
Risalendo poi un po’ verso nord, in questo cuore del Logudoro, si
tocca Árdara, che si affaccia su di un modesto costolone sulla piana
e tra l’XI e il XIII secolo fu capitale e reggia del Giudicato (chiamato
Su Rennu, il regno). Si affacciano i ruderi del castello e, direttamente
sfiorata dalla carrozzabile, la basilica detta appunto di Santa Maria
del Regno, elevata tra la fine dell’XI e l’inizio del XII secolo, il cui stile
pisano si impone sullo sfondo dell’accesa pianura con pietra di nero
basalto e con un campanile basso e tozzo. Qui si celebrarono i riti
che collegavano il Giudicato alla politica del continente, come il
matrimonio nel 1238 della giudicessa Adelasia di Torres (che proprio
ad Árdara era nata, nel 1207) con il bel figlio naturale dell’imperatore
Federico II, Enzo di Svevia, che assunse il titolo di re di Sardegna,
ma poco rimase nell’isola, chiamato dal padre a varia attività
nell’Italia settentrionale, fin quando nel 1249 fu fatto prigioniero dai
bolognesi nella battaglia di Fossalta (e a lungo rimase prigioniero a
Bologna: vedi p. 473). Intanto il papa aveva annullato il matrimonio
tra Adelasia e lo scomunicato svevo: e il bello è che alcuni
commentatori parlano fantasiosamente di un suo nuovo matrimonio
(che sicuramente non ci fu) proprio col nostro Michele Zanche.
Immagino comunque il barattiere dantesco percorrere queste
strade, indipendentemente da Adelasia (che finì i suoi giorni in un
altro castello), trafficare variamente con nobili e clero locali,
attraversare queste campagne su cui ora ci muoviamo per
raggiungere, ad alcuni chilometri da Árdara, poco prima del
tramonto, un’altra chiesa logudorese, Sant’Antioco di Bisarcio. Si
prende una strada tra i campi, mentre intorno si sparpaglia un
gruppo di mucche tranquillamente al pascolo; si sentono vari suoni
di campanacci; poi un gregge di pecore attraversa la strada. La
chiesa è lì su un piccolo poggio, circondata dai resti di una cinta
muraria: risale al XII secolo e, a differenza delle altre chiese
romaniche che abbiamo visto in Sardegna, ha una facciata costituita
da un avancorpo che immette nel nartece, con qualcosa di
sorprendentemente asimmetrico, effetto, questo, accresciuto
dall’aspetto del campanile mozzo (sembra per effetto di un fulmine).
Nella solitudine della sera risuona soltanto la vicinanza degli
animali e qualche eco di motori che passano sulla strada di maggior
scorrimento: qui c’è anche un’edicola, alloggiamento turistico per
informazioni e biglietteria, ma a quest’ora è tutto chiuso, non c’è più
nessuno. Il sole è appena tramontato a nordovest, tra i bassi rilievi
del Meilogu, e aleggiano intorno gli indeterminati profumi della
campagna; sembra di essere in un mondo fuori dal mondo,
sensazione che forse non avevano i signori del Giudicato, quando a
cavallo percorrevano queste terre, quando forse si trovò a passare di
qui Michele Zanche, senza sapere ancora che sarebbe prima o poi
caduto in una rete tesagli dal genero genovese.
Quando ormai è buio, siamo a Mores e dovremmo cenare, non
certo col formaggio comprato a Thiesi; c’è qualche bar, ma sembra
difficile trovare qualcosa da mangiare. Scopriamo però, in una
stradina nel centro del paese, il ristorante-pizzeria Le Arcate: cucina
semplice e gustosissima, dalla fregola sarda con ragù di maiale, alle
seadas con un miele dagli aromi sottili, ma il bello è la simpatia dei
gestori, fratello e sorella, lei che ci serve e lui, Mario Mulas, che
dall’altro capo della sala nei pressi di un forno a legna prepara le
pizze palleggiando abilmente la pasta. Tra le girandole di pasta
scherza allegramente con noi e con vari compaesani che vengono a
ordinare pizze da portare a casa; ci racconta un po’ della sua vita,
dal tempo passato da emigrante in Canada alla decisione di tornare
e rimanere per sempre qui, in questo silenzioso cuore dell’isola.
Sicilia e Calabria
La bella Trinacria
Vedo avvicinarsi l’isola del foco sulla nave che mi porta a Palermo la
mattina del 21 settembre 2014: è domenica e, appena sbarcato, la
città pare quasi addormentata, non ancora accesa nel suo solare e
caotico brulichio. Un bar vicino al porto con primi clienti domenicali;
in qualche strada più all’interno una piccola edicola che non pare
molto fornita, mentre il gestore sta ancora estraendo i giornali dal
pacco. Raggiungo l’albergo vicino alla piazza Marina, lo sbocco nord
del Cassaro (l’antica strada ora chiamata Corso Vittorio Emanuele
che taglia la città storica da sud a nord), prima della Porta Felice,
davanti al mare. Dato che la stanza non è ancora pronta, scendo
subito sulla piazza, dove, come ogni domenica, c’è il mercatino
dell’antiquariato, variamente disposto sui marciapiedi intorno al
giardino e sullo stesso lastricato della piazza. Proliferante mercato,
perlopiù di cose curiose, residui di scarso valore, oggetti desueti di
ogni sorta, cose vecchie e rovinate del secolo scorso, ma anche di
fattura piuttosto recente.
Molte bancarelle sono già assestate in buon ordine, altre si stanno
formando, ma molti sono i venditori che dispongono la loro merce
semplicemente a terra, sul lastricato. Come in tutti i mercatini di
questo tipo, ma qui con qualcosa di più esuberante, con un
espandersi delle cose che appare insieme eccessivo e dimesso, si
incontrano gli oggetti più vari, tanti manufatti che a un certo punto
della loro vita hanno perduto la loro funzione e il loro uso, ma che
attendono di essere rimessi in funzione da qualche compratore,
quasi mai nel loro impiego originario, ma il più delle volte come
oggetti da collezione, da esposizione o ornamento casalingo.
Attraversare il mercato è come stare dentro una enumerazione
caotica, in una dilapidata costipazione barocca; la spinta a
distinguere e identificare gli oggetti che possono interessare (o che
eventualmente si cercano) ha come corrispettivo il disgregarsi
dell’attenzione, il suo serpeggiare verso i bordi estremi
dell’incontrollabilità del mondo, dell’indeterminatezza della quantità:
caos di oggetti consunti e svuotati di sé, che pure è tanto piccola
cosa nei confronti del più vasto caos di questa città, di questa isola,
di tutta la nostra “aiuola che ci fa tanto feroci”.
Telefoni vecchi, neri, bianchi, grigi, con filo ma anche cordless, e
inoltre custodie per cellulari e simulacri dei primi telefonini, pentole in
alluminio di ogni dimensione e destinazione, ma anche in rame e
smaltate, scrigni metallici e d’osso, microteiere, mattarelli in legno e
un leone di legno, accanto a un altro di pietra, stantuffi per
insetticida, libri, libroni e libretti, ritratti di sconosciuti con cornici
dorate, quadri con sommarie vedute di Palermo, icone bizantine e
statuette di sant’Antonio da Padova e di santa Rosalia, pupazzi
d’ogni genere vecchi e nuovi, da presepio, da soprammobile, da
teatro dei burattini, collane e idoli africani, biancheria intima maschile
e femminile, anelli per ogni dito, d’argento, d’acciaio, d’ottone, di
peltro, occhiali con tutte le possibili montature. Ecco un gioco di
dama in porcellana, bambole, calzini e soldatini di piombo e di
coccio, grandi statuette di soldati borbonici, pannelli dipinti per i pupi
siciliani, Orlando, Angelica e Rodomonte, orsetti e cagnolini di
peluche, semi e spezie in vari assortimenti, radio di marche defunte,
forni a microonde e fornelli a gas, figure di madonne e di briganti,
santini con santa Rita, con l’Addolorata, con l’Immacolata
Concezione.
Ascolto un’animata discussione tra due venditori sulla partita della
sera prima, Milan-Juventus 0-1, mentre il mio occhio scorre su una
delle tante bancarelle di libri, che espone molte vecchie
pubblicazioni locali. Sorpreso e divertito scopro un libretto di poco
più di cento pagine, privo di copertina, il cui titolo mi spinge subito
all’acquisto (solo 5 euro): La delinquenza nelle Facoltà di Lettere /
Denuncia corredata di leggi e documenti / di / Giuseppe Pantaleone /
Palermo / Tipografia “La Sicilia” / Via Alloro N. 147 / 1910. Un titolo
che viene subito la voglia di trasferire al presente, che può dar luogo
a una serie di associazioni, allusioni, combinazioni scherzose ma
non troppo, e che poi leggerò scoprendo che si tratta delle angherie
subite dall’autore, sballottato tra diverse università e ostacolato a
ogni livello istituzionale nel suo diritto a laurearsi, per aver
pubblicato, studente ancora, nel 1904, una nota critica
sull’interpretazione che il professore di letteratura italiana di
Palermo, Giovanni Alfredo Cesareo, aveva dato dell’Estetica di
Croce (nota che aveva avuto l’approvazione dello stesso Croce). Un
caso davvero curioso, di quelli che farebbero la gioia di certi desueti
cultori di curiosità erudite, e che qualcuno potrebbe ricostruire,
anche andando a cercare i documenti successivi (quale esito ebbe
la denuncia, formalmente presentata dal Pantaleone?), ma che,
anche solo a sfogliare il libretto, fa erompere tutto un campionario di
piccineria accademica, di formalismi burocratici, di piccole ipocrisie
professorali, cose che in modi diversi continuano a prosperare nel
pletorico mare della nostra università sempre più burocratizzata,
anche nel nuovo orizzonte di burocratizzazione informatica e
postmoderna. Qui c’è, anche da parte del denunciante, un di più di
ostinazione, una particolare cura delle forme legali, il cui tono mi
sembra davvero molto siciliano e molto legato a quel 1910 da noi
così lontano. Ma fa un po’ impressione leggere nella premessa Al
lettore che l’autore intende “far conoscere al pubblico a che sorta di
persone è affidata in Italia l’educazione e l’avvenire dei giovani e
quanto marcio vi sia nel ministero e nel Consiglio Superiore della
Pubblica Istruzione” (si legga e si adatti come si vuole, ora che
possiamo credere che queste cose non accadano più…).
Ma il libretto mi ha per un po’ distratto da questo universo
dispiegato, enumerato ed enumerabile, di cui il mio occhio riesce a
sfiorare solo una piccola parte: ecco ora altre icone quasi nuove,
cuscinetti a sfera, seghe e ruote dentate, treni di latta e grosse chiavi
di ferro, telecomandi di molteplici fogge, Barbie e Asterix, scatole
targate Gucci e Vuitton, la serie dei fascicoli dei Maestri del colore,
vecchi dischi a 78 giri, ma anche a 33, Giacomo Rondinella e
Giorgio Consolini, vecchi orari ferroviari (Pozzo editore), lampadine e
lampadari di cristallo in flessuosi svolgimenti, gatti semoventi, foto di
bellezze d’altri tempi, con appeal sessuale affidato al sorriso o alla
piega delle labbra, una macchina da scrivere Underwood e una
Olivetti lettera 22, bilance a due piatti, ferri da stiro manuali, padre
Pio tra forchette di peltro, carta della Sicilia e pianta di Milano, libretti
di devozione (tra cui L’anima riparatrice), Garibaldi e Cavour, qui
esposti Gli originali occhiali da vista contro la Cina e le sue sostanze
tossiche. Foto del Quartetto Cetra e Marilyn in moltissime pose,
carretti siciliani grandi e piccoli, dal micro soprammobile al carretto
praticabile, ventaglioni e cassapanche. Una donna espone bambole
e i loro vestiti, mentre ne sta vestendo una con un abitino di bianca
organza, Renoir e Veronese tra conchiglie, biciclette, pialle da
falegname, automobiline da collezione, vasche e acquasantiere,
busto di Petrarca ed elmetti militari, un efebico san Sebastiano e
cappelli da cowboy, Budda e orchidee di carta. Ma è come se non
avessi visto né registrato quasi niente, di questo catalogo del mondo
sfasciato, sottratto alla spazzatura, delle cose sopravvissute a coloro
che le hanno costruite, usate, toccate.
Non è piacevole pensare che in questi mercatini, tra la loro
pullulante vitalità, tra l’impegno degli espositori che cercano il loro
giusto o meno giusto guadagno, aleggia la morte, la morte delle
cose qui momentaneamente salvate e la morte di quelli che le hanno
viste nuove.
Nella mattina di settembre in cui il sole espande sempre più il suo
calore, lascio la piazza che pure, tra i tanti oggetti morti, è così piena
di vita, di voci, di contrattazioni, di alterchi scherzosi, e vado alla
ricerca di un luogo nel cui nome è inscritta la morte, dalla violenza
assassina, tra quelli che più cupamente sono stati segnati dalla
guerra di mafia. Ripeto il verso del Paradiso, “mosse Palermo a
gridar: ‘Mora, mora!’”, quando cerco via Mariano D’Amelio, dove
abitava la madre del giudice Paolo Borsellino, che lì davanti un
potente ordigno fece saltare in aria con la sua scorta il 19 luglio
1992. Dopo aver svoltato tra varie strade soprattutto con nomi di
militari (ma D’Amelio era un giudice e senatore, primo presidente del
Corte di Cassazione durante il fascismo), tra palazzi eterogenei e
residui di insediamenti industriali, trovo questa strada, abbastanza
ampia ma breve e senza via d’uscita, tra palazzoni a dieci piani,
proprio sotto il monte Pellegrino. Sulla sinistra, davanti al cortile
d’ingresso di un palazzo, certo nel luogo dove è esplosa la bomba,
c’è un grande olivastro che sporge da un piedistallo in pietra, su cui
è appoggiata una lapide in pietra scura con una piccola foto e incisi
a grandi caratteri i nomi dei morti (Paolo, Agostino, Claudio,
Emanuela, Vincenzo, Walter: c’era anche una donna nella scorta di
Borsellino, la prima poliziotta morta per terrorismo).
Oltre alla lapide c’è una varia e confusa serie di segni di omaggio,
quasi laiche offerte votive, soprattutto drappi, vessilli, bandiere o
quasi brandelli di stoffa che pendono dai rami dell’olivastro;
affastellati tra il tronco e la base vari cartigli con scritte appassionate,
cordicelle e oggetti indeterminati, anche una coroncina di rosario dai
bianchi granelli, un cartello azzurro con la scritta “nave della
legalità”. Si vede sul vicino muro che cinge uno spazio vuoto sulla
strada perpendicolare, quella da cui si entra in via D’Amelio, la
grande scritta, 19/7/1993 PAOLO VIVE. Tornando alla mia auto
parcheggiata all’imbocco della strada, penso alla vita quotidiana del
giudice, in una tranquilla domenica come questa (era domenica quel
19 luglio).
Ho in mente di salire sul monte Pellegrino: nella piazza da cui
inizia la salita, che si chiama piazza Antonio Sellerio, c’è una grande
animazione, gente che procede a piedi, verso il sentiero del
santuario di Santa Rosalia, che parte da qui, o aspetta l’autobus per
salire. Dato che oggi è il giorno finale della grande festa di settembre
della santa, in cui si fa l’acchianata (la salita a piedi), la strada è
chiusa alle auto private: a un bivio che si trova poco oltre questa
piazza, ci sono dei vigili che bloccano la direzione verso il monte.
Rinuncio all’eventuale acchianata e, costretto a procedere dalla
parte del mare, decido allora di dirigermi verso la località balneare di
Mondello. Percorrendo la strada alla base del monte Pellegrino si
passa davanti al cimitero, molto visitato in questo giorno festivo, e
poi si attraversa la località dell’Addaura, piena di tracce del nucleo
preistorico di Palermo, con grotte che si aprono alla base rocciosa
del monte e che contengono incisioni rupestri, con figure umane e
animali.
Ma l’Addaura (nome in vario modo interpretato, anche se circola il
significato di alloro), oltre a queste grotte che fanno arretrare in un
passato indicibilmente lontano, evoca ancora la più vicina e cupa
cronaca della Palermo di fine Novecento, cioè un fallito attentato al
giudice Giovanni Falcone: di fronte alla villa da lui affittata, qui sulla
riva del mare, la mattina del 21 giugno 1989 fu trovata una grande
quantità di esplosivo non esploso, su cui poi si ebbe una fitta serie di
ipotesi, di rivelazioni, di depistaggi. Si trattava comunque di un
attentato mafioso fallito, tra i tanti segni che prepararono quello
riuscito tre anni dopo (la strage di Capaci del 23 maggio 1992, che
uccise Falcone con la moglie e con la scorta, pochi mesi prima che
la stessa sorte toccasse in via d’Amelio all’amico e collega
Borsellino). Turbato dalla coincidenza che in questa mia mattina
palermitana mi fa evocare a breve distanza i due giudici uccisi, mi
domando come sia stato possibile che, così poco tempo dopo
l’assassinio del primo, sia potuto avvenire quello del secondo, come
sia stata possibile, tra indagini, scorte, apprensioni, cautele, questa
terribile ripetizione: mentre mi affaccio qui su un belvedere verso il
mare, in uno slargo della strada, pullulante di immondizie di vario
genere e origine.
Ma Mondello è ben tenuta, raggiante nel sole festivo, affollata di
gitanti domenicali, un po’ costipata dal traffico, ma accogliente nei
suoi bar e ristoranti. Ma ormai mi perseguita l’ombra di quel
dantesco “Mora, mora!” e, mentre cerco un posto dove mangiare, mi
balena il ricordo di un buonissimo ristorante di pesce che ho avuto
modo di frequentare più di una volta una trentina d’anni fa, tenuto da
un gestore con una bella barba grigia e con un intenso enigmatico
sorriso siciliano, che veniva chiamato “il greco”. Ora non trovo
traccia di quel ristorante, ma ricordo di averne una volta chiesto
notizia e di aver saputo che il gestore era stato ucciso.
Nel pomeriggio, preso finalmente possesso della stanza,
attraverso il quartiere della Vucciria, tra facciate dalle mura corrose,
porte sprangate o dalla precaria chiusura, finestre murate, sfondate,
spalancate, ma anche piccoli locali con esposti economicissimi
menu: qui più tardi ci sarà vario movimento e brusio, soprattutto di
giovani, quella che da un po’ di tempo è invalso uso di chiamare
spagnolescamente movida. Nella sconsacrata e restaurata chiesa
cinquecentesca di Sant’Eulalia dei Catalani, c’è la sede dell’Istituto
Cervantes, cuore spagnolo e spagnolesco della Vucciria. Sull’ordine
superiore della facciata quattro ghirlande con busti di re spagnoli,
mentre in un’edicola su una parete della vicina piazzetta del Garraffo
la statua quattrocentesca del Genio di Palermo (Palermo lu Grandi),
sistemata lì, come dice una lapide che lo sovrasta, sotto il regno del
re Filippo IV (III di Sicilia). Il Genio, barbuto e coronato, abbracciato
a un grosso serpente che si nutre dal suo petto, sembra quasi
ridotto, nella statua un po’ slabbrata, a una figuretta bonaria e
benevola.
Dopo aver notato un’altra lapide, che riconduce al settecentesco
Carlo III di Borbone, raggiungo la piazza centrale del mercato
eponimo della Vucciria, in questo pomeriggio quasi vuota: c’è, su
uno dei lati della piazza, una bassa costruzione di un solo piano,
corpo avanzato dell’edificio alle spalle. Su di essa c’è una terrazza,
che mi ricorda una formidabile pasta con le sarde mangiata nel mio
primo viaggio a Palermo (era il 1971). L’oste era di grossa
corporatura e parlava con un suo tono pieno di passione, quasi
accorato, come se ogni parola lo esponesse a un’espansione di sé,
accompagnata dal gesticolare delle sue mani bianche e grassocce;
e gli piaceva cantare, con voce un po’ sguaiata ma abbastanza
intonata, davanti ai clienti, tanto che ci cantò qualche vecchia
canzone napoletana, forse O surdato ’nnammurato!. Ma ora la
trattoria non c’è più e la terrazza è deserta: dal basso vi si scorgono
mucchi affastellati di legname sfasciato. Qualche anno fa, tornando
alla ricerca di quella pasta alle sarde, avevo saputo che anche
questo oste canoro era stato ucciso.
Ma il tardo pomeriggio domenicale sembra escludere ogni
reminiscenza delle tante violenze che hanno turbato questa città:
superata la grossa statua metallica di san Cristoforo accanto al
grande palazzo fascista delle Poste e Telegrafi, già più animato
appare il quartiere dell’Olivella, tra la superbarocca chiesa di
Sant’Ignazio e la facciata del Museo archeologico, un tempo
Nazionale (come indica ancora la scritta incisa sull’architrave), ma
ormai da tempo Regionale. E poi la via Ruggiero Settimo, pedonale
nel giorno festivo, con i negozi, soprattutto di abbigliamento, aperti
per lo shopping. Dove ora c’è uno dei tanti prêt-à-porter con sigle
internazionali (o forse un Disney Store dagli abbaglianti colori) c’era
fino a poco tempo fa la grande libreria Flaccovio, la più bella di
Palermo, sfrattata come tante vecchie librerie dei centri storici delle
nostre città (dove semmai resistono o si propagano quelle atteggiate
come supermercati, libri e non solo…).
Nel fitto muoversi pedonale di questa strada viene voglia di
interrogare i diversi volti, il diverso procedere, la multiforme sostanza
di tutti coloro che passano, famiglie con seguito di bimbi recalcitranti
e pensionati solitari, benestanti abbigliati con classica cura e giovani
sciamannati, tacchi a spillo e corazzate scarpe sportive; una bella
ragazza bruna, accompagnata da un nero cagnone, vende gioielletti
disposti su un piccolo banchetto, mentre poco più in là c’è una di
quelle mendicanti inginocchiate con la schiena piegata, il volto fino a
terra e le mani giunte, che ormai si trovano in tutte le città e
sembrano allestite come delle maschere tutte uguali, prodotte in
serie da una criminale impresa sfruttatrice. La via Ruggiero Settimo
sbocca sulla piazza Politeama, dove c’è il monumento allo stesso
Ruggiero Settimo: il patriota, che fu capo del governo provvisorio
istituito dalla rivoluzione del 1848, volge le spalle al trionfale edificio
del Teatro Politeama e, chiuso in un pesante cappotto, sembra
guardare corrucciato la brulicante folla che gli passa davanti, specie
quelli che siedono sulle panche di pietra della piazza. Qui sostano, in
questa porzione del loro riposo domenicale, molti lavoratori stranieri,
uomini e donne: noto dei filippini che stanno discutendo
animatamente e, più in là, un gruppo di sorridenti indiane vestite di
sgargianti e multicolori sari, con veli rossi di varie sfumature, che
guardano una piccola bimba che ha appena imparato a camminare e
zampetta felice seguita dal padre. Ma intanto passa e si ferma un
gruppo di adepti a qualche setta religiosa: ostentano cartelli con
varie scritte bibliche e intonano monotoni canti.
Nel suo brulichio la sera che scende mi porta altri segni di religiosa
pietà: davanti al Teatro Massimo due ragazzi muovono una singolare
edicola, su cui, tra corone di fiori, poggia la statuetta di una madonna
Addolorata, e chiedono offerte per un’apposita confraternita: lascio
qualche moneta e ne ottengo un santino con inscritta la doverosa
preghiera. Procedendo poi nella via Maqueda, che taglia
perpendicolarmente la strada del Cassaro, che mi riporterà
all’albergo, prima di arrivare all’incrocio dei Quattro Canti (con le loro
facciate di scenografico arredo barocco) entro nella chiesa di Santa
Ninfa dei Crociferi, richiamato dalla musica che altoparlanti interni
fanno riecheggiare fin sulla strada. Qui, al centro del transetto
sinistro, c’è l’altare di san Camillo De Lellis (1550-1614), fondatore
dell’ordine dei Crociferi, patrono degli ospedali, dei malati e del
personale sanitario: sotto l’altare c’è un’ampia teca con le reliquie del
santo (che è sepolto a Roma), la sua maschera mortuaria, due panni
bianchi, il suo bastone, dei calzettoni da lui usati, e, come dice un
cartiglio, una particella del suo cuore (il cui resto si trova nel suo
paese natale, a Bucchianico in Abruzzo).
A Palermo, dal 22 al 24 settembre si svolge il convegno della
SILFI (Società Internazionale di Linguistica e Filologia Italiana),
organizzato dal Centro di studi filologici e linguistici siciliani,
presieduto dall’attivissimo dialettologo Giovanni Ruffino, nell’aula
magna del Palazzo Steri, dove ora c’è il rettorato dell’università: è
l’antico Palazzo dei Chiaramonte, la cui costruzione fu iniziata
proprio quando Dante cominciava a scrivere l’Inferno, e che poi, con
la sconfitta dei Chiaramonte, passò ai viceré di Sicilia e dal 1601 al
tribunale del Sant’Uffizio (con le carceri dell’Inquisizione, sulle cui
mura si vedono ancora scritte e disegni dei prigionieri). Quest’aula
magna è coperta da un bellissimo soffitto ligneo dipinto con storie
bibliche e cavalleresche, figure relativamente piccole che è difficile
identificare a occhio nudo lì dal basso, ma che nell’insieme danno la
fantastica suggestione di un mondo fiabesco, disseminato in
avventurose luminescenze, tra scontri sovrumani e avventurosi
intrighi di “donne antiche” e “cavalieri”. Quasi controcanto a questo
fantastico soffitto, all’ingresso della sala, esposta su di un grande
cavalletto, c’è una celebre tavola di Renato Guttuso, coi suoi densi e
fulminanti colori, con l’accumulo assoluto di cose, di carni, di volumi
corporei, senza spiragli d’aria, senza nessuna possibilità di distanza:
è proprio la Vucciria, nel suo brulicante e assoluto affastellato
affollamento degli anni settanta.
Durante il convegno, pensando ad “affanni”, “agi”, “amore” e
“cortesia” dei Chiaramonte, presto scalzati (e sanguinosamente) da
questo palazzo, volgo più volte lo sguardo, torcendo il collo, verso il
soffitto, in un tentativo di decifrare le figurine lassù, che incalza
anche mentre tengo la mia relazione (Scelte linguistiche e
percezione del mondo nella modernità italiana, dove non possono
non avere campo scrittori siciliani: prelevo campioni da otto scrittori,
e quattro sono siciliani, Pirandello, Brancati, Sciascia, Consolo).
Relazioni e comunicazioni di bravi linguisti mi riconducono
comunque a riflettere, come tante volte mi è capitato, sui caratteri
del loro tecnicismo, su quanto di illusorio e di evanescente c’è nella
loro stessa precisione, nel loro inscrivere dati di lingua e di
comunicazione in parametri classificatori, nella loro fiducia in schemi
che si vogliono scientifici.
La sera del 22 sono a Bagheria, a cena a Villa Palagonia, la più
celebre delle molte ville nobiliari presenti nella zona, che raggiungo
in auto con grande difficoltà districandomi nella tortuosa topografia
delle strade, tra sensi unici che impongono andirivieni tra viuzze
scalcinate, piazzole, incroci, intoppi, talvolta semafori. Vengo dal mio
vecchio amico Natale Tedesco (che purtroppo ci lascerà il 13 ottobre
2016), fino a pochi anni fa docente di letteratura italiana all’università
di Palermo, immerso nella letteratura siciliana, di cui frequenta tutte
le pieghe e che sostiene con un suo esuberante entusiasmo, con
una passione che sempre più si anima, che si protende nel
manifestarsi. Natale ha vissuto a lungo in una parte più ampia della
villa, che ora ha lasciato: si è trasferito poco oltre Bagheria, a Santa
Flavia, ma ha mantenuto un appartamento in perfetta funzione nella
parte bassa della villa, dove stasera ceniamo. Natale non discende
dal bizzarro principe di Palagonia, che ricevette la visita di Goethe,
poco disposto ad apprezzare quella bizzarria, a cui guardò con
sprezzante sussiego. La villa è giunta a lui per via dei D’Alessandro,
nonno e nonna materna, con una serie di passaggi che oggi mi
ricorda. Mentre aspettiamo le pietanze, che giungono dalla vicina
cucina di Don Ciccio (formidabile trattoria, la cui autentica cucina
siciliana si avvale della totale esclusione di ogni tipo di frittura),
passeggiamo nei viali del giardino, lungo il muro di cinta sul quale
sono appollaiate le statue allestite dal principe settecentesco, che
appunto non piacquero a Goethe: mostri, figure fantastiche, dalle
improbabili pose, sommariamente scolpite, che nella sera, sotto il
riverbero vario delle luci della villa o delle strade vicine, si delineano
nell’ombra, quasi fantasmi che ne stanno dubitosamente
emergendo. Col diverso disporsi dell’illuminazione più o meno vicina
e dell’orientamento del muro, qualcuna di queste figure proietta la
sua ombra sui muri o sulla ghiaia del viale che percorriamo, dove si
muovono mutando anche le nostre ombre che procedono. La calda
sera di settembre sembra così espandersi in una stralunata
configurazione dello spazio e del tempo, crea un circuito tra quelle
statue bislacche e noi che attraversiamo il viale, ci lega insieme e
quasi ci confonde. Siamo nel mondo del bizzarro principe di
Palagonia, ma ne estraiamo effetti per lui impossibili e impensati,
con questi giochi di luci e di ombre determinati dall’illuminazione
elettrica, dai riverberi vari che su questo viale e lungo il muro su cui
si appoggiano i mostri lasciano le luci delle finestre della villa e dei
lampioni che sono al di là dello stesso muro.
Nel presente, nella sua agevole disponibilità alimentare, ci fa
tornare la cena, con i pezzi forti della cucina di don Ciccio, pasta con
le sarde, caponata di melanzane, involtini di pesce spada, tipica
cucina bagherese, ma chi sa quanto lontana da quella del principe
che qui viveva. Insieme a Natale e alla moglie Mimì (Domenica
Perrone, che insegna letteratura italiana contemporanea
all’università ed è presidente del Comitato di Palermo della Società
Dante Alighieri) è a cena con noi un autentico bagherese, il linguista
Franco Lo Piparo, che mi parla dei suoi recenti studi su Gramsci, dei
suoi vari rilievi sulla struttura dei Quaderni, sul quaderno che ritiene
perduto e distrutto, sui contrasti di Gramsci con la dirigenza del Pci,
sulla possibile suggestione del suo pensiero linguistico su quello di
Wittgenstein. Nell’immagine di Gramsci che ne scaturisce, nella
distanza dal modello che ne disegnarono i comunisti del dopoguerra,
sento come uno specchio della stessa distanza della Bagheria di
oggi da quella che nel Novecento ha alimentato tanta infuocata
passione comunista, come in due più celebri bagheresi, il poeta
Ignazio Buttitta e il pittore Renato Guttuso.
Il 23 settembre il convegno della SILFI mi porta a pensare alle
attuali difficoltà della poesia, alla sua pericolosa evanescenza, in cui
si riconosce il più generale stato della lingua italiana: Enrico Testa,
linguista ma anche poeta, mostra, con dovizia di dati tecnici, come in
Italia oggi la lingua della poesia segua il destino dell’uniformarsi e
del parallelo contaminarsi di un italiano medio, proiettandosi come
“lingua della lingua”. Una lingua che si ribalta su se stessa, che non
sembra poter attingere a un’essenzialità espressiva, ma disporsi
piuttosto entro una sorta di neutralizzazione dell’esperienza.
Al cinquecentesco Pietro Bembo è dedicato l’intervento di tre
giovani studiosi (Fabio Massimo Bertolo, Marco Cursi e Carlo
Pulsoni), sul ritrovamento, in una collezione privata, di un’esemplare
della prima edizione delle Prose della volga lingua (1525), con
postille autografe dell’autore: tra le varie notazioni, si ricorda che tra
gli autografi bembiani ce n’è uno che riguarda direttamente Dante; si
tratta del manoscritto Vaticano latino 3197, che contiene (oltre alle
poesie volgari del Petrarca) il testo della Commedia preparato da
Bembo per l’edizione di Aldo Manuzio del 1502.
Ancora vicino a Dante mi riconduce la presentazione di un’opera
davvero capitale, giunta a conclusione dopo un lungo lavoro: è il
Vocabolario Storico-Etimologico del Siciliano di Alberto Vàrvaro, due
formidabili volumi, che allegano 600 lemmi (ma ognuno di essi
contiene moltissime parole), che variamente riconducono fino al
siciliano delle origini, quello considerato da Dante nel De vulgari
eloquentia. Il primo lemma, abbintári (riposare) esibisce subito
citazioni dai duecenteschi Guido delle Colonne (ben noto a Dante) e
Rinaldo d’Aquino: “Amor mi sbatte e smena, che no abento”; “io non
posso abentare / la notte né la dia”, e poi il successivo lemma
abbéntu (quiete, riposo) allegano subito Giacomo da Lentini e Cielo
d’Alcamo. Tante spigolature dantesche potrebbero farsi percorrendo
questo Vocabolario: il suo rigore, la sua precisione e ricchezza di
riferimenti sono il frutto di un vario sapere dispiegatosi nel corso dei
secoli, di tante voci che hanno lasciato traccia nelle più varie
scritture, che la sapienza dello studioso (ovviamente con l’ausilio di
tante altre sistemazioni precedenti) ha saputo reperire, interpretare,
organizzare. Grandi opere come questa sono come l’esito finale, la
sistemazione istituzionale, di quel proliferante sapere, delle vite
molteplici da cui esso è scaturito: le risultanze dei nostri studi, con
strumenti di lavoro come questo, sembrano come fissare da dopo
quella realtà pullulante su cui si trovano a operare. In tutto ciò c’è
come uno squarcio esistenziale, che crea un circolo tra le vite
perdute del passato di cui si raccolgono le tracce e la vita presente
di chi le raccoglie, esposta comunque alla precarietà, alla finitudine.
Ora l’autore, che doveva partecipare alla presentazione, è assente:
vive a Napoli e il suo stato di salute gli impedisce di venire a
Palermo. Pochi mesi più tardi arriverà la notizia della sua morte.
La tarda mattinata mi porta a una rapida visita, non lontano dallo
Steri, a Palazzo Abatellis, sede della Galleria regionale della Sicilia,
dove è l’affresco quattrocentesco del Trionfo della morte,
proveniente dal Palazzo Sclàfani. Lo scheletro che avanza su di uno
scheletro di cavallo regge un arco di cui non si vedono bene le
frecce, che è pronto a scagliare contro un gruppo di giovani
gaudenti. Sulla destra si espande una vita di immemore
piacevolezza, intorno a una strana fontana circondata da amene
verzure, mentre nel bosco scuro che si disegna dietro il cavaliere un
famiglio conduce dei cani al guinzaglio. Accanto alla fontana c’è un
suonatore d’arpa, mentre più giù c’è uno che suona un liuto, poi un
gruppo di eleganti dame tra loro intrecciate, ma più in basso un
gentiluomo sfarzosamente vestito è colpito alla gola da una freccia,
mentre un altro gli sorregge la mano e poco a sinistra anche una
dama è caduta, colpita sempre al collo, anch’essa con una vicina
che la sorregge e sembra comunque mantenere un atteggiato
contegno. Poi ancora a sinistra un mucchio di prelati, tra cui c’è
anche un barbuto con un turbante saraceno: tutti disposti sotto lo
scheletrico cavallo e definitivamente trapassati da frecce, mentre
affiancati alla sinistra del mortale cavaliere restano vivi degli umili e
storpi in atto di preghiera, tra cui c’è lo stesso pittore. Mentre
contemplo il quadro, una ragazza dello staff mi invita a visitare una
piccola mostra in una stanza lì accanto, che sta per essere chiusa:
documenta l’inaugurazione di questa stessa Galleria, che ha avuto
luogo il 23 giugno 1954; vi sono esposte molte foto della cerimonia,
galleria di tanti personaggi dell’epoca, politici, giornalisti, notabili.
L’effetto della vicina visione del grande affresco si riverbera sui
vestiti, le posture, la misura corporea, il senso di padronanza dello
spazio che le loro foto sembrano registrare: chissà se ce ne sia in
vita ancora qualcuno, nella Palermo di oggi.
Ma non sono qui solo per quel Trionfo della morte: tra queste mura
si dispiega nel tempo l’immobile esistenza di due donne piene di
fascino segreto. Ecco la prima, in una vicina sala, fissata in un
marmo prezioso: è il busto di Eleonora d’Aragona di Francesco
Laurana, che una signora più o meno quarantenne sta
contemplando con estatico sorriso, seduta sulla panca di pietra che
è disposta nel vano della finestra. L’affilato profilo della contessa di
Caltabellotta, morta già da molto tempo (1405), quando l’artista la
scolpì (1468), si modifica man mano che le giro intorno, seguendo i
vari effetti del dolce posarsi della luce sul mento, al centro della
fronte, sull’attacco del naso. La perfezione del suo capo, coperto
dallo stretto caschetto, una sorta di leggero velo zigrinato che
nasconde i capelli, è come definita da una sua leggera diversione
verso sinistra: e quando la guardo dalla sua sinistra (dalla mia
destra, mentre mi pongo dalla parte della finestra) la luce che viene
da fuori si posa sullo zigomo e lascia qualche riflesso sul collo, dove
il marmo mostra particolari venature.
L’altra è una donna che fa erompere luce direttamente dal piccolo
quadro che la fa apparire, in una dimessa, quasi timida ma sicura
bellezza: è la Annunziata di Antonello da Messina, col libro dalle
pagine aperte sul leggio e le mani che sembrano come muoversi in
avanti, sospese dal gioco delle ombre. Non capisco se l’esitante
sospensione del suo sguardo, con la lieve sporgenza dello zigomo
destro, si pieghi leggermente verso il basso, mentre la bocca di
dolce impossibile fanciulla siciliana sta per dire qualcosa. La mano
destra sembra dire “fermati!”, mentre la sinistra regge e tiene chiuso
l’azzurro variamente picchiettato e corroso del velo. La guardo un
po’ da lontano, seduto su una panca di legno, e poi in piedi molto da
vicino: ma sempre sul mio sguardo agisce un effetto di lontananza. È
una presenza che sta per allontanarsi, è la purezza inafferrabile
della bellezza, che l’artista ci ha lasciato qui mentre si è dileguata
ogni consistenza della bellezza da lui vista, toccata, ritratta, mentre
egli stesso è sparito dal mondo. E mi sembra che ci sia qualcosa
che collega queste due donne tra loro contemporanee, tanto diverse,
la nobile signora di pietra e la madonna popolana colorata d’azzurro
e di luce: lo sguardo che si posa su di esse ne afferra la consistenza
nel suo stesso perdersi, viene a toccare nel darsi presente e fisico
della scultura e della pittura lo svanire degli attimi di vita che esse
hanno fissato, con i loro mezzi tanto diversi. Così vive qui una
bellezza da sempre perduta.
Uscendo dalla Galleria, sfioro la chiesa della Gancia e poco oltre
vedo una grande stele di marmo, che ingloba una finestra inferriata e
più in basso la traccia di una sghemba apertura ora richiusa: è la
Buca della salvezza, attraverso cui, come dice l’epigrafe, il 9 aprile
1860 fuggirono due patrioti, Gaspare Bivona e Filippo Patti, scampati
all’eccidio perpetrato dai soldati borbonici qualche giorno prima,
nascondendosi tra i cadaveri.
Ma il pomeriggio mi porta, con tutti i convegnisti, a Monreale,
uscendo da Palermo per l’interminabile corso Calatafimi, attraverso
una periferia che sembra voler estendere la città fin verso la base
del colle che porta su a Monreale, il cui Duomo appare davvero
come qualcosa di irreale, tempio cristiano dalle forme saracene e
normanne, che si affaccia sulla Conca d’oro, in cui brulica Palermo
con il suo entroterra, fitto di case, di costruzioni finite e non finite,
che tolgono spazio alla sontuosa vegetazione, tanto che ormai
verrebbe da chiamarla Conca di cemento. Ma l’oro, e quanto oro, è
rimasto all’interno della cattedrale, nelle mura adorne di quei mosaici
splendenti (circa 3400 metri quadrati): entriamo mentre il suono del
potente organo (inserito nel 1968) invade l’ampio spazio e quasi
sembra toccare la superficie dei mosaici, mentre lo sguardo severo
del Cristo Pantocrator ci guarda dall’abside. Quando la musica tace
un dotto sacerdote descrive l’immenso ciclo, le storie del Genesi, dei
Vangeli, dell’Apocalissi; parla delle immagini come litteratura
laicorum, esalta la bellezza come manifestazione del divino, insiste
sul valore dell’orientamento della basilica a Oriente, sui significati del
vario riflettersi del sole su punti particolari del mosaico. Cristo come
Oriente: e l’oro dei mosaici come luce, lux nome primo di Dio. Luce
ricorre 67 volte nella Commedia “O luce etterna che sola in te sidi, /
sola t’intendi, e da te intelletta / e intendente te ami e arridi!”
(Paradiso, XXXIII 124-126).
In un altro universo ci trasporta la serata, con una cena in un
ampio ristorante oltre Monreale, preceduta dall’esibizione di un
gruppo di musica popolare siciliana, guidato da Mario Incudine,
musicista di Enna, pieno di eccezionale vitalità, tra i più attivi
esponenti della cosiddetta world music italiana; capace sia di
raccogliere canti dell’antica musica popolare che di contaminarne i
modelli con personali soluzioni contemporanee. Ecco un canto
luciota (cioè di Santa Lucia del Mela, nel messinese), Spunta lu soli,
di cui mi restano impressi questi versi:
………………………………
tra Pachino e Peloro…
(Par., VIII 68)
C’è solo una cosa che sembra disturbare il visitatore della villa: un
fischio continuo come di uccelli che quasi assorda, che si insinua
implacabilmente tra le tettoie che proteggono i mosaici e le pedane
per i visitatori. Un custode mi informa che questo fischio, trasmesso
da un amplificatore, è assolutamente necessario: attualmente
appare il solo modo praticabile per tener lontani i piccioni e altri
volatili che si insinuano negli spazi aperti e danneggiano i mosaici,
anche beccando e asportando le loro tessere.
Lasciata la Villa, mi riavvicino alla città, che mi offre da un poggio
laterale una nuova visione del vario arroccarsi e distendersi dei suoi
edifici, in un accumulo fantastico, fino al Duomo lassù, con la cupola
svettante, che tende verso l’alto e domina l’insieme, più del vicino
campanile. Fuori ormai dalla vista della città, sfioro un grande centro
commerciale, disposto in una sorta di esaltazione vetro-metallica.
Procedendo incontro fittissimi campi di fichi d’India e poi giungo a
Caltagirone, che sembra venir incontro al viaggiatore con una sua
riservata nobiltà, espressa dallo sviluppo stesso delle sue strade,
dalla struttura sorta nella ricostruzione dopo il terribile terremoto del
1693. Città della ceramica, che con i suoi colori si intreccia con la
friabile pietra delle chiese e dei palazzi barocchi, quasi
spontaneamente disposta a catturare il sole, a farlo vagare sulle
superfici. Particolare attrazione è quella della lunga scala di Santa
Maria del Monte, che aggiro salendo in alto attraverso le viuzze a
sinistra, ma che poi scendo gradino per gradino, variamente
osservando le colorate mattonelle che li rivestono sulla fronte
verticale: scala che risale al Seicento, ma mattonelle novecentesche,
che tracciano un fantastico gioco di figure, fantasie stilizzate, donne
e cavalieri, castelli e fortilizi, ipotesi d’oriente, tappeti volanti, grifoni e
liocorni, gatti e pavoni, anche qui forse una fenice.
Lasciata Caltagirone, dopo una meravigliosa insalata mangiata in
un piccolo locale all’inizio di uno dei vicoli che si aprono a
mezz’altezza sul fianco della scalinata, tocco Ragusa e non resisto a
una breve visita a Ibla, la sua parte antica, fino a raggiungere la
piazza in discesa del Duomo di San Giorgio, una delle più belle del
mondo, col suo barocco mediterraneo, come sollevato da se stesso,
partecipe e insieme indifferente al confronto con la morte che pure
inevitabilmente lo insidia. La città è come abbarbicata sulle
ondulazioni del colle e le sue case sembrano come integrate nel suo
terreno sassoso e cretoso: forse da esso assorbite, o piuttosto da
esso spuntate come sue favolose escrescenze, mentre intorno
colline e campagne sono solcate da muretti a secco, orientati in
direzioni diverse e contrastanti. Lasciando l’auto nel parcheggio
sotto piazza della Repubblica, nella forra in basso, salgo le scale che
portano alla chiesa del Purgatorio, vicina al limite tra Ibla e la nuova
Ragusa, verso cui rivolge la facciata. Poi seguo una strada tortuosa
fino al Duomo di San Giorgio, che è quasi al centro della vecchia
città; lo prendo dall’alto e scendo sulla piazza da una porta che è sul
fianco del Duomo (destro per chi lo guarda dalla piazza). Qui
l’animazione del pomeriggio primaverile è turbata da un funerale, col
furgone funebre e qualche auto in sosta sul fianco della piazza;
assisto all’uscita della bara e del corteo da una porta laterale
dell’edificio, mentre il brusio delle voci e dei rumori è ritmato dai
rintocchi delle campane a morto.
Lunga è la strada che mi porta verso l’estremo Sud della Sicilia.
Devo tralasciare Modica, un’altra bellissima città impreziosita dal
particolarissimo barocco di questa parte dell’isola. Ma nei suoi pressi
mi sorprende un vertiginoso e interminabile viadotto, che attraversa
la fiumara sottostante: il viadotto Guerrieri, inaugurato nel 1967,
allora il più lungo d’Europa, riaperto solo pochi giorni prima del mio
arrivo dopo una lunga chiusura per lavori di manutenzione.
Percorrendolo si ha l’impressione di fare un lunghissimo salto, di
planare sulla sottostante distesa, tra lo scoscendimento che digrada
verso la fiumara, dove giungono le propaggini della città, palazzi a
più piani, strade con rimesse, orti, giardini, distributori, automobili
parcheggiate e in movimento e chissà quanti altri frammenti della
brulicante vita che si trova a fare i conti con la presenza del viadotto
sopra di sé e con chi sopra passa come volando.
Dopo aver preso alloggio in un hotel ricavato da un’antica fattoria,
in Contrada San Lorenzo, a nord di Pachino, mi aggiro nella sera nei
paraggi della città, nelle sue propaggini marine, che proiettano il sud
della Sicilia e dell’Italia verso l’Africa: Marzamemi con la sua tonnara
di origine araba, ora dismessa, anche se c’è il grande magazzino
Campisi, con vendita soprattutto di prodotti ittici; Portopalo, con il
suo groviglio di casette, il suo approdo roccioso e il suo porto.
Davanti alla spiaggetta sul lungomare di Marzamemi, c’è un
ristorante che reca l’insegna MOVITI FERMU, traduzione semplificata
dell’antico festina lente. Dopo il movimento che oggi ho fatto verso
questo sud estremo, non posso evitare di fermarmi qui, a gustare
una buona pasta allo scoglio. Mi dirigo poi verso il centro di
Portopalo, aggirandomi nell’intrico di sensi unici delle sue strade
dimesse, senza riuscire a raggiungere il lungomare. Rinvio la visita a
domani e quando sono appena uscito dall’abitato vengo fermato da
una pattuglia di carabinieri in posto di blocco (mi è già capitato in
Sardegna): quando vedono i miei documenti e notato che con l’auto
sono venuto da Roma mi chiedono cosa faccio da queste parti, per
quali affari o lavoro. Non posso trattenermi dal citare la mia ragione
dantesca e la “bella Trinacria che caliga / tra Pachino e Peloro”:
restano meravigliati e incuriositi e uno dei due, sentendo parlare di
poesia, ricorda Omero e l’Odissea, mi chiede se Ulisse era
approdato da queste parti. Sotto la suggestione di questa Odissea
del carabiniere (e chissà perché mi viene da pensare al sogno del
carabiniere nel finale del Pasticciaccio di Gadda), mi perdo ancora
nei grovigli di strade e stradine tra Portopalo, Pachino, Marzamemi,
e con difficoltà riesco a raggiungere l’albergo-fattoria in Contrada
San Lorenzo.
Al mattino mi viene a trovare, all’albergo, il professor Pietro
Ferrara, attualmente presidente della sezione di Pachino della
Società Dante Alighieri: chirurgo che è stato senatore del Partito
Socialista Italiano dal 1987 al 1992. È un mio coetaneo, nato circa
un mese dopo di me, che si è trovato a vivere il momento di
massimo splendore e di crollo del Partito Socialista di Bettino Craxi:
e ora mi parla delle sue telefonate a Craxi, del suo metterlo in
guardia rispetto a intricate situazioni, delle sue conversazioni con
Sandro Pertini. Nel suo raccontare, nel modo in cui giudica i
personaggi incontrati e nelle battute che fa sulla situazione presente,
mi sembra di vedere l’immagine cristallizzata del politico siciliano
della mia generazione, del suo modo di considerare la vicinanza con
il potere, in un misto di passione e diffidenza, insieme a un
rammarico per quanto poteva essere e non è stato, per il crollo di
un’ambiziosa politica, che comunque continua a considerare migliore
di quella che è venuta dopo. Ha avuto comunque il particolare
privilegio di essere stato, in quei frangenti, il senatore più
meridionale d’Italia.
Parliamo poi di questa condizione estrema di Pachino, la città più
meridionale d’Italia e dello scrittore che vi è nato e che per questo va
definito il più meridionale d’Italia, Vitaliano Brancati, la cui prosa e il
cui mondo sono tutti segnati da questa estrema solarità, dal vento
che la spazza e la riempie di pieghe, che scava anfratti e altri luoghi
in cui ci si nasconde. Ci domandiamo se c’è un po’ di Pachino nella
Catania che è al centro di quasi tutta l’opera di Brancati, se Brancati
si è mai ricordato del modo in cui Dante nomina questo suo paese
natale. Mi parla poi di possibili progetti della sua sezione della Dante
Alighieri sullo stesso Brancati e della difficoltà di collaborazione con
il Comune e le istituzioni locali. Nella primavera successiva,
comunque, avrò notizia della realizzazione a Pachino, con il
sostegno del Comune, tra il 20 e il 23 maggio, di un vero e proprio
Festival Brancatiano, entro il quale si è inserita la quinta edizione del
locale premio Brancati di giornalismo.
Salutato l’ex senatore davanti a un caffè, mi dirigo finalmente a
Pachino, che Dante nomina anche al v. 59 della già ricordata Ecloga
IV (la sua seconda a Giovanni del Virgilio), e di cui nell’Eneide, III
699, venivano ricordate le rocce e gli scogli sporgenti, “altas cautes
proiectaque saxa” (ma nel travestimento pastorale dell’ecloga
dantesca comunque Pachino, che mostra invidia per Peloro /
Ravenna perché ospita Titiro / Dante, indica probabilmente Verona).
Pachino, oggi nota in Italia e fuori per i suoi famosi pomodorini, è
una cittadina con un centro a struttura geometrica, oltre cui si
espande una disordinata e aggrovigliata periferia. Il centro gravita
intorno alla piazza Vittorio Emanuele, un’ampia piazza quadrata la
cui disposizione mi ricorda quella che è nel Peloponneso al centro di
Megalopoli, la patria dello storico Polibio.
Brancati ricorda che Pachino è continuamente spazzata dal vento
e che questa piazza “per essere il punto più alto del paese, è visibile
da qualsiasi posto e ha l’aspetto liscio, il colore rosso che hanno i
luoghi battuti senza posa dal vento”. Oggi non c’è un gran vento: il
rosso dei mattoni delle basse facciate appare pallido e discreto,
attenuato dal verde degli alberi che delimitano il perimetro del
grande marciapiede centrale, dove sotto il sole sosta uno straniero,
forse pakistano, in tenuta islamica ortodossa, veste bianca, bianco
berretto e regolare barba, in conversazione con due correligionari
laicamente abbigliati. In una vicina piazzetta c’è una colonna isolata
e sul muro accanto una lapide che ricorda la fondazione della città,
risalente al 1760, mentre la piazza è intitolata a Vincenzo
Strarrabba, marchese di Rudinì, per l’appunto fondatore della città,
insieme al fratello Gaetano, che fu primo conte di Pachino.
Naturalmente con Pachino come limite della Sicilia Dante non
intende un insediamento umano, ma una punta geografica, quel
capo meridionale che oggi viene più correntemente chiamato Capo
Passero: la città di Pachino non si trova direttamente sul mare, ma al
centro di questo fertile sperone meridionale di terra siciliana, regno
dei pomodorini, che si protende sul mare piegando leggermente
verso est e che ha nel capo Passero la sua punta più rilevata, che
ulteriormente si protende con un isolotto, l’isola di Capo Passero,
dove ci sono i resti di una tonnara abbandonata. Lascio allora la città
di Brancati e cerco di toccare da vicino i contorni marini dello
sperone di cui occupa il centro. Avvicinandomi al disordinato
caseggiato di Portopalo trovo un belvedere “sui due mari” da cui si
vede a destra la cittadina, con l’isolotto davanti e il mare al di qua e
al di là di esso. Ben visibile, a nord dell’isolotto, è la vicina costa fino
a Marzamemi: oltre Marzamemi si scorge il rilievo che avanza verso
est fino al capo oltre il quale è Siracusa; alle spalle si vede bene
l’abitato di Pachino e la distesa di serre della sua ricca agricoltura. È
una vista ampia, ma turbata dal triste stato in cui è ridotto il
belvedere, del tutto abbandonato, con i parapetti sbreccati e segnati
da squallide scritte, mentre sulla pavimentazione e ai margini del
riarso terreno circostante c’è la solita immondizia.
Da qui comunque si vede bene il Faro di Capo Passero (Faro di
Cozzo Spadaro), che si erge in alto quasi all’ingresso della parte alta
dell’abitato di Portopalo, che poi scende giù verso la riva,
assestandosi davanti all’isolotto. Raggiungo finalmente il Faro, che è
in ottime condizioni e ospita una efficiente stazione meteorologica.
Scendendo tocco la riva e il poco attrezzato lungomare, davanti
all’isolotto: ma poi risalgo in alto, seguendo una strada che si
allontana un po’ dalla riva, costeggiandola a distanza. Dopo tortuosi
giri una più stretta stradina mi conduce da qui a quello che è
veramente il sud geografico della Sicilia e dell’Italia (a parte le isole
Pelagie, Lampedusa e Linosa, che sono molto più a sud), il Capo
delle Correnti, davanti al quale c’è pure un isolotto con tonnara
abbandonata, l’Isola delle Correnti. Qui il vento si sente leggermente
più forte, soffiando da ovest; e, pur nella generica calma il mare
appare più turbato, certo per quell’intreccio di correnti che deve aver
dato il nome al sito. Lasciando la piattaforma asfaltata, scendo sulla
brulla riva terrosa, dove si estendono saltuarie e interrotte praterie di
posidonia oceanica, fino a bagnare per un attimo le mie mani in
questo mare estremo della bella Trinacria. Alla destra dell’isolotto si
vede la costa che volge verso nord ovest e che conduce a breve,
verso il cosiddetto Porto di Ulisse (ecco l’approdo di cui mi parlava
ieri sera il carabiniere!) e verso la località di Pozzallo. Anche qui non
mancano rifiuti portati dal mare, mischiati e confusi con quelli gettati
da terra: del resto c’è tanta immondizia anche sulla stradina che
m’ha portato qui. Percorrendo a ritroso quella strada, mi imbatto in
un piccolo gruppo di pecore che rovistano fra sacchi e scarti di varia
natura; ma lo squallore della scena è come straniato da qualche
superba araucaria che, sullo sfondo, sembra sorvegliare il ventoso
paesaggio marino.
Eccomi ora alla rada ben chiusa, limitata anche da un molo
sormontato da una fila di lampioni, che ospita il porto di Portopalo:
percorro la banchina, osservando le barche attraccate, con pescatori
che provvedono alle necessarie sistemazioni. Vecchi pescherecci di
diverse dimensioni, barconi e barchette, motori e reti in riparazione.
Nomi scritti sul fianco di ogni prua: ENZA MADRE e GIUSEPPE PADRE,
ANDROMEDA, SAN GIORGIO, FRATELLI LITRICO, ORCHIDEA, CRISTIAN, GAETANA
MADRE… Nel leggero vento del mattino un senso di dimessa
normalità, le consuete occorrenze di un porto di pesca. Arriva
qualcuno in auto e sale su una delle barche; più in là due tizi
discutono animatamente, ma senza aggressività. Eppure questo
porto e quello vicino di Pozzallo, tutte queste coste meridionali della
Sicilia, hanno visto negli ultimi anni devastanti turbamenti,
improvvise emergenze per lo sbarco di turbe disperate, raccolte in
mare da navi diverse, salvate e dirottate verso i cosiddetti centri di
accoglienza. La Sicilia e l’Italia, questi luoghi estremi d’Italia,
raccolgono ormai queste onde senza fine di disperazione, di dolore,
di speranza, di morte: i migranti sui gommoni o su lacerate carrette,
che, cercando luoghi dove la vita sia possibile, sono alla mercé dei
criminali che ne organizzano le tratte; esseri umani trattati come
schiavi. Tanti sono finiti in fondo a quel mare, laggiù; e per quelli
raccolti e condotti a questi porti è cominciato un nuovo difficile
cammino tra accoglienza, reclusione, fuga, percorsi diversi sul suolo
italiano e oltre, clandestinità, contrasti e violenze, fame, nuovi
sfruttamenti e nuove schiavitù, solo qualche volta un lavoro regolare
e un difficile inserimento qui da noi. Inferni irredimibili che abitano i
nostri illusori paradisi, spesso ne costituiscono il sotterraneo
fondamento. Ma movimento migratorio che nessun muro, nessuna
cinica chiusura dei porti potrà riuscire a fermare.
Siracusa
che caliga
………………………………
non per Tifeo ma per nascente solfo
(Par., VIII 67, 70)
…sopra ’l golfo
che riceve da Euro maggior briga…
(Par., VIII 68-69)
Scendo dal nascente solfo: nelle curve a gomito della pista lavica,
nel vertiginoso aggettare della funivia, toccando l’affollamento
crescente, col passare delle ore, della spianata del Rifugio
Sapienza, che è tale per il cognome del suo fondatore e non per
riferimenti al supremo vertice del conoscere. Scendo con l’auto dalla
parte di Nicolosi. Dalla strada si aprono ampie visioni della città di
Catania e del suo golfo, disteso in dolce curvatura sul fronte marino,
oltre il quale si disegna la punta meridionale dello stivale, la Calabria
con le propaggini dell’Aspromonte. È il golfo che ai tempi di Dante si
credeva piegato verso sudest, che riceve briga, viene investito da
Euro, violento vento di sudest, di cui Omero dice che fa sciogliere le
nevi. Ma mentre un forte vento, forse da sudovest, dava briga
intorno ai crateri dell’Etna, ora qui in basso c’è una calma solare,
distesa nel luminoso tremolare della marina. Dopo Nicolosi, come mi
è accaduto nel salire verso Zafferana, attraverso vari centri etnei,
nell’intrico di strade, direzioni, incroci, improvvise e piacevoli
aperture, come quella dell’ampia piazza centrale di Trecastagni,
dove mi sarebbe piaciuto incontrare Sergio Reyes, persona elegante
e civilissima, che, dopo aver studiato all’università di Catania con
Carlo Muscetta, ha lavorato a lungo per le edizioni Einaudi, come
addetto alla promozione nell’università: e ricordo le sue visite
all’ateneo, che si risolvevano in vere e proprie conversazioni
culturali. Lasciata Einaudi, in anni più recenti egli ha ideato per
l’editore napoletano Liguori una collana di piccoli libretti, Per
passione, invitando diversi intellettuali a parlare brevemente della
propria passione culturale, nei suoi fondamenti o in qualche aspetto
particolare: ne ha chiesto uno anche a me, che è venuto fuori con
ambiguo titolo mozartiano, La passion predominante (ma è la
passione per la letteratura). Quando il libretto è stato presentato a
Catania, Reyes mi ha ospitato nella sua bella casa a Trecastagni:
ero in una stanza dalla cui finestra si vedeva la vetta dell’Etna. Mi
dispiace proprio di non avere il tempo di cercarlo, qui a Trecastagni.
Da Trecastagni si scende verso Viagrande e poi si dispiegano
senza interruzione le varie Aci, legate al mito del pastore Aci, su
queste sponde amato dalla ninfa Galatea e per questo ucciso da
Polifemo, di lei innamorato. Nella veste pastorale della già ricordata
Ecloga IV Dante ricorda sinteticamente questo mito siciliano,
soprattutto sulla scorta di Ovidio, Metamorfosi, XIII 750-897, per
bocca del pastore Alfesibeo, che mette in guardia contro il pericolo
rappresentato da Polifemo/Fulcieri dei Calboli (ma tralascio le altre
identificazioni di Polifemo e degli stessi Aci e Galatea su cui si sono
sbizzarriti tanti studiosi, vv. 76-81):
Sento appena questa voce del mare ora che sto seduto proprio
davanti ai faraglioni in un bar-ristorante postmodernamente arredato.
Mi lascio investire dalla luce d’oro che si distende sull’azzurro, nel
brillare meridiano del golfo, di cui da qui si riconosce bene la
curvatura. Sulla destra si vede avanzare verso il mare il promontorio
che limita il golfo a sud, col capo Campolato, con le svettanti infernali
ciminiere dalla parte di Augusta, poi retrocedendo la distesa della
piana di Catania con le spiagge fino a quella chiamata La Playa,
molto frequentata dai catanesi, e ancora il groviglio degli edifici della
città. Più vicino si innalza il castello nero sulla rupe di Aci Castello. A
sinistra invece la visione della distesa marina a nord è bloccata dal
vicino isolotto che reca il semplice nome di Aci e che sembra fare la
guardia alla piccola insenatura su cui si affaccia il nucleo centrale di
Acitrezza, dove sono attraccate varie barche, tra il resto della
spiaggia e una sorta di porticciolo, con piccoli moli, uno dei quali
sembra protendersi verso l’isolotto, dove è impiantata una stazione
per studi di biologia e fisica marina dell’università di Catania. Sono
quasi stordito dal rapido passaggio dai quasi 3000 metri del vento
etneo a questi scogli di un nero che li riconnette a quello di lassù.
Sullo spazio pedonale del belvedere davanti ai faraglioni, dove la
strada curva a sinistra seguendo l’insenatura, c’è una nera scultura
in basalto, attorno a cui si muove un bianchissimo vestito da sposa,
su cui svolazza la trasparenza di un lunghissimo velo. Sposa e
sposo (lui con un abito luccicante, con una sorta di tessuto
rifrangente) si dispongono sui diversi lati della scultura, ai piedi della
quale hanno provvisoriamente depositato il mazzetto di fiori
d’arancio. Tre fotografi e un’amica in abito sfarzoso seguono il loro
movimento e suggeriscono loro diverse pose intorno alla scultura,
come a fingere di spostarla, giocando a nascondersi davanti e dietro,
fino a fare capolino entro una sua fessura. I faraglioni stanno lì
dietro, immobili, con le loro escrescenze che a tratti fanno pensare a
qualche animale fantastico pronto a prendere il volo.
Mi vengono in mente le varie vicende matrimoniali de I Malavoglia,
specie quelle della povera Mena detta Sant’Agata, di cui sono già
stabilite le nozze con Brasi Cipolla, fino alla cerimonia della
promessa col rito per cui la futura suocera (in questo caso defunta e
sostituita da Grazia Piedipapera) va “a spartire i capelli della sposa,
e a levarle la spadina d’argento”: ma le nozze non vengono poi
celebrate, per i nuovi disastri che si abbattono sui Malavoglia, con la
morte di Luca nella battaglia di Lissa e la vendita della casa del
nespolo. “Né visita di morto senza riso, né sposalizio senza pianto”,
dice uno dei tanti proverbi intessuti nel romanzo, dove poi è l’amore
riservato e dignitoso di Mena per compare Alfio e la rinuncia finale di
lei alla sua proposta di nozze, per la convinzione di non essere più
da “maritare”, mentre la continuità della famiglia è garantita dal
matrimonio del fratello Alessi con la Nunziata e dal recupero della
casa del nespolo.
Ora invece diverse spose si danno il cambio per i servizi fotografici
davanti ai faraglioni. Partita la coppia con lo sposo dall’abito
rifrangente, ne arriva un’altra su una bianca limousine, da cui
scendono i due in tripudiante allegria accompagnati dai loro fotografi.
Mentre intorno alla scultura si svolge l’infinito rito fotografico, passa
davanti a loro e viene quasi sfiorato dal velo della sposa un
energumeno abbronzatissimo, quasi totalmente nudo, che esibisce
carni oscenamente flaccide, su cui fa velo solo un ridottissimo
costume-slip. Sempre più intensamente blu è il mare dietro i Ciclopi,
mentre verso sud diventa più accecante la luce su Catania, che
sembra quasi annullarsi in macchie di bianco.
Mi addentro poi nell’insenatura, davanti al porticciolo, tra le piccole
barche tirate a secco tra i sassi della riva; e penetrando di poco
all’interno del borgo, oltre la piazzetta centrale, trovo addirittura la
casa del nespolo! Qui la continuità dei Malavoglia è stata ricreata
nella finzione turistica, casa museo verghiana che riproduce il sito di
una povera casa, con un vecchio portone di legno incorniciato in un
semplice arco in pietra lavica, che immette in un piccolo giardino col
nespolo: e dentro poveri arredi ottocenteschi, come potevano essere
quelli di una famiglia di pescatori. Tra le due sale spicca quella
dedicata al film di Visconti del 1948, La terra trema, ispirato a I
Malavoglia e girato in un’Acitrezza che a quella data era ancora
molto simile a quella del romanzo.
Peloro
………………………………
l’alpestro monte ond’è tronco Peloro…
(Purg., XIV 32)
………………………………
tra Pachino e Peloro…
(Par., VIII 68)
Torno ancora, per l’ultima volta, sulle parole in cui, prima di nominare
la Sicilia, Carlo Martello d’Angiò indica i limiti dell’Italia meridionale, il
suo imborgarsi in fortezze dislocate come diversi punti cardinali. Ora
si tratta del punto meridionale, individuato in questa costa della
Calabria che fronteggia la Sicilia, certamente Catona e non Crotona,
come leggono pochi manoscritti e alcuni commentatori antichi. È fin
troppo evidente che l’antica e celebre città di Crotone è in una
posizione che non permette certo di segnarla come punto limite di
quel corno d’Ausonia: mentre a Catona, qui tra Villa San Giovanni e
Reggio, si può certo attribuire questa qualifica, tanto più che ai tempi
di Dante era una piazzaforte importante per la difesa del regno ed
era stata devastata durante la guerra del Vespro, evocata del resto
proprio da Carlo Martello d’Angiò.
Uscendo dal traghetto a Villa San Giovanni arrivo in breve tempo a
Catona, di cui intravvedo la piccola stazione ferroviaria con il cartello
REGGIO C. CATONA: oggi infatti Catona, già comune autonomo, non è
altro che un quartiere della vicina Reggio, con spiaggia molto
frequentata. Ma ora, a mezza mattina di questa domenica di fine
settembre, non c’è quasi nessuno nella passeggiata lungo la
spiaggia e tanto meno sulla stretta striscia di sabbia. Girando sul
luminoso litorale e per le strade piuttosto dimesse del borgo-
quartiere non si trovano tracce di quella lontana storia, di quando
proprio da qui si traghettava verso la Sicilia. Messina, distesa tra il
mare e la massa dei Peloritani, è proprio qui davanti e sembra
particolarmente vicina, anche se non è in atto quel fenomeno ottico
chiamato fata morgana, che in particolari circostanze di clima e di
luce dalla costa calabrese fa apparire più grande e più vicina la
costa sicula. Più giù la vetta dell’Etna sembra come districarsi dalla
massa dei Peloritani.
Catona reca anche dolorose tracce del terremoto che la distrusse,
come Reggio e tutta questa porzione di costa, nel 1908. In una
piazzetta ora silenziosa due lapidi ricordano l’impegno dei
soccorritori. L’edificio dove è l’ufficio della Circoscrizione VIII del
Comune di Reggio sorse proprio allora, come ricovero per i senza
tetto, costruito dai soccorritori inglesi.
In un giardinetto vicino alla spiaggia c’è un monumento a san
Francesco da Paola, santo postdantesco, morto nel 1507 e
canonizzato nel 1519: con un’asta il santo barbuto sembra
sorreggere una vela ricurva che gli tocca i piedi; accanto a lui un
confratello inginocchiato. In realtà si tratta di una rappresentazione,
frequente nell’iconografia di questo santo calabrese fondatore dei
frati minimi e protettore della gente di mare, del suo più celebre
miracolo, che, secondo tradizione, avrebbe avuto il punto di avvio
proprio da qui, da questo antico luogo di passaggio per la Sicilia. In
un giorno sereno o forse in una notte tempestosa dell’anno 1464 il
santo voleva passare al di là, ma non aveva soldi per pagare il
traghetto, o forse fu rifiutato per qualche altra ragione dal
traghettatore; allora prese il mantello, ci montò sopra e se ne servì
come imbarcazione, giungendo felicemente sull’altra riva. Ecco la
ragione della sua postura nel monumento.
Comunque a Catona non può mancare un suo santuario (ne ha
tanti, del resto, e non solo in Calabria), che si trova in una chiesa
gestita dai frati minimi, costruita dopo il terremoto, sulla strada
statale: chiesa semplice e senza particolare interesse, dove noto un
quadruccio con la scena del traghettamento, sullo sfondo del mare
(c’è anche una piccola vela su cui si affaccia un nocchiero sbalordito
per quello che vede), e una lapide che ricorda la festa fatta qui per il
quattrocentocinquantesimo anniversario della morte del santo, il 2
aprile 1957, con provvisoria traslazione qui delle sue ossa (la cui
sede è nel santuario della nativa Paola), A QUESTA SPONDA / CHE VIDE AL
SOFFIO DEL PRODIGIO / UN MANTELLO FARSI NAVE E VELA / PER TRAGHETTARE
SUL MARE / MENO VASTO E LUMINOSO DEL SUO CUORE / LA BEATA POVERTÀ.
Viene da chiedersi quali sfuggenti e virtuali epigrafi, tra twitter e
facebook, siano state postate (come oggi si dice) sul mare infinito
della rete, per un recente miracoloso passaggio dello stretto, quello
del comico Beppe Grillo (non da Catona, ma da Cannitello fino a
Torre Faro), effettuato a nuoto il 9 ottobre 2012 a sostegno del
movimento politico da lui creato: miracolo documentato e omologato
in ogni bracciata, non esposto a dubbi di laici miscredenti, come
accade invece per quello del santo (e miracoloso sarà poi nel 2018
l’esito elettorale del suo movimento politico).
Ma ora, trovandomi così vicino a Reggio Calabria, non posso
evitare di raggiungerne il centro, che ora si affaccia sul mare nella
bella spianata che ha inglobato e nascosto i binari della ferrovia, che
fino a pochi anni fa costituivano un invalicabile schermo tra la riva e
il viale alberato. E non posso evitare una visita ai famosi bronzi di
Riace, rinvenuti nel fondo dello Ionio nel 1972, ospitati qui
nell’ambizioso edificio piacentiniano del Museo Archeologico
Nazionale, sulla piazza Giuseppe De Nava (col monumento a questo
uomo politico liberale, che fece in tempo a traghettare verso il
fascismo la tradizione del liberalismo conservatore: il monumento
reca la data ANNO XIV E.F., era fascista).
Nel salone d’ingresso del museo c’è una singolare mostra vivente,
di monaci tibetani in tour, Tashi delek Tibet. Il mandala della pace
universale: sotto l’auspicio di benignità e di pace raccolto
nell’intraducibile espressione Tashi delek, quattro monaci seduti su
un tappeto a gambe incrociate, stanno creando con la sabbia questo
mandala, intorno a cui nel corso della giornata si disporranno altri
monaci, anche con strumenti musicali; questo evento di pace abiterà
il museo fino al prossimo 12 ottobre. Poi procedendo attraverso la
libreria del museo, noto i curiosi e inconsueti libri della casa editrice
Fermento, in una collana che offre “riscritture interpretative in prosa
e per tutti” della Divina Commedia (un volume per ognuna delle
cantiche), del Decameron e dell’Orlando furioso (ma i due volumi da
Boccaccio non recano la dizione per tutti…). Ecco come comincia la
Commedia:
Il fatto più straordinario della mia vita accadde nell’aprile
dell’anno 1300, la settimana di Pasqua. Tra poco più di due
mesi, avrei compiuto trentacinque anni. Avrei dovuto essere,
quindi, nel pieno del mio vigore, fisico e intellettuale. E invece
stavo male, anzi malissimo…
…e quel di Rascia
che male ha visto il conio di Vinegia.
(Par., XIX 140-141)
Torniamo indietro sul ponte di Vidor, che è a monte del percorso del
fiume (sacro alla patria, dice il cartello che lo segnala), attraversiamo
Sernaglia della Battaglia e tocchiamo di nuovo Pieve di Soligo, per
raggiungere altri luoghi zanzottiani, quelli dell’originario paesaggio,
delle colline sempre più modificate dagli insorgenti vigneti del
Prosecco. Ecco Refrontolo, dove è il Molinetto della Codra, su cui lo
scorso 2 agosto si è abbattuta una bomba d’acqua, mentre era in
atto una festa paesana: acqua e fango del torrente Lierza hanno
sommerso un capannone trascinando via le persone che erano in
festa, quattro morti e otto feriti.
Ora tutto è quieto sulle colline, solcate dalle striature delle vigne
che si aprono tra i boschi e segmentano il terreno, a incrementare il
successo mondiale del Prosecco. Ma sono in atto discussioni
sull’esito rovinoso di questo arretramento dei boschi, sul turbamento
dell’equilibrio idrico che ne consegue: che può essere anche una
delle cause della sciagura recente.
Da Refrontolo si passa a Rolle, dove si mangia a una grande
tavolata in una animatissima rustica osteria. Rolle è la località
trasfigurata in poesia col nome di Dolle, come ne L’acqua di Dolle in
Dietro il paesaggio: e la gioia di quell’acqua lontana (“Ora viene a
consolarmi/ con una lunga visita/ l’acqua di Dolle”) sembra quasi
stridere con la rabbia della recentissima acqua di Refrontolo. Da qui,
attraversando il Soligo, si passa a Cison di Valmareno (o Valmarino),
il cui centro è attestato lungo un torrente, il Rujo, che scende
saltellando, incassato tra spallette per precipitare dentro il Soligo. In
alto, sul paese, c’è Castelbrando, un castello, variamente restaurato,
ma che esisteva già tra il XIII e il XIV secolo, quando era possesso
dei Caminesi di Sopra (ramo della famiglia diverso da quello dei
signori di Treviso), e che più tardi fu tenuto dai Brandolini, condottieri
di ventura della Repubblica di Venezia. Nel bel Teatro comunale “La
Loggia”, si svolge il fitto pomeriggio congressuale: ai piedi del
boccascena ci sono tra i fiori anche quelli dei topinambur, che si
affacciano come impreviste escrescenze del trasformarsi della
natura nella breve raccolta del 1996, Meteo. Questa seduta è
inaugurata da Andrea Cortellessa, che insiste proprio sul carattere
dantesco della poesia di Zanzotto e in particolare della “trilogia”, da
Zanzotto stesso indicata come “pseudotrilogia”, costituita da Il
Galateo in bosco, Fosfeni e Idioma. Inferno, Purgatorio e Paradiso?,
ci si domanda ascoltando il relatore, che, in un vertiginoso raccourci,
chiama in causa anche la trilogia di Samuel Beckett, Molloy, Malone
meurt, L’innommable.
Romano d’Ezzelino
………………………………
si leva un colle, e non surge molt’alto,
là onde scese già una facella
che fece a la contrada un grande assalto.
Con l’auto corro nel buio verso Verona: la strada statale, non tanto
trafficata, presenta comunque molteplici intoppi, che diventano più
numerosi quanto più mi avvicino alla città. Penso alla singolare
similitudine con cui il nome di Verona si affaccia nell’Inferno: la
menzione di una corsa a piedi detta del drappo verde, che avveniva
la prima domenica di Quaresima, e il paragone della “cara e buona
imagine paterna” del maestro Brunetto Latini con il vincitore di una
gara a cui certamente non partecipavano persone autorevoli e
degne come lui era stato in vita. Similitudine degradante, insomma,
come tanti lettori hanno notato, che riconduce la figura di Brunetto
all’orizzonte infernale, allo squallido ansimare della corsa sul
sabbione infuocato; come degradato nel canto I 11, dell’Orlando
furioso appare Rinaldo che insegue a piedi Angelica, a sua volta
paragonato a un corridore di un palio ferrarese (“e più leggier correa
per la foresta, / ch’al pallio rosso il villan mezzo ignudo”).
Difficoltoso mi si rivela, nella sera di domenica, l’accesso al centro
di Verona: depistato dai sensi unici e dai divieti di transito, dalle
indicazioni stradali, dal succedersi e confondersi delle diverse porte.
Mi avviluppo in vari andirivieni, prima di riuscire a raggiungere un
centralissimo albergo, incassato in un vicoletto vicino a piazza Bra.
Lasciata l’auto in un piccolo garage, mi muovo ormai a tarda ora alla
ricerca di una trattoria: suoni e canti arrivano dall’Arena, che è in
pieno spettacolo. Non si tratta di un’opera lirica, ma di una moderna
opera pop, uno di quei tardi prolungamenti della nostra eredità
cristiana, ultima espansione mediatica dell’originaria matrice
evangelica, rombante plastificazione della parola divina: è Jesus
Christ Superstar, musical di lungo corso (risalente addirittura al
1970), a risuonare, dai propaganti amplificatori dell’Arena, fuori dalle
arcate aperte qui sulla piazza. Alla musica pop fa riscontro, su un
lato della piazza, una grande ruota in marmo delle cave bresciane,
aperta da un lato, ma lavorata con effetto ruotante (“sì come rota
ch’igualmente è mossa”), dell’artista Franco Ghirardi: la scultura ha
come titolo (lo spiega un grande cartello che la fiancheggia) ENERGIA
PULITA ed è collocata qui per la fiera Marmomacc & the City, dedicata
proprio a opere e prodotti in pietra naturale, che ha luogo in questi
giorni, fino al 26 ottobre.
Gli Scaligeri
Nella prima mattina del 13 ottobre mi muovo quindi sulle orme degli
Scaligeri e del Dante veronese, mentre piazza Bra è già abbastanza
animata. Verona fa subito, per la sua struttura e per il modo stesso in
cui ci si muove nelle sue strade, un effetto di città di ampio respiro,
tutt’altro che provinciale. Una delle case che danno sulla piazza reca
l’immancabile lapide sul soggiorno di Garibaldi, che di qui, l’8 marzo
1867, salutò il popolo gridando ROMA O MORTE; ancora sulla piazza,
ma sull’angolo con via Mazzini, c’è la casa in cui qualche mese
prima, il 6 ottobre 1866, Carlotta Aschieri, venticinquenne incinta, fu
trucidata dagli austriaci poco prima dell’ingresso delle truppe italiane
nella città.
Addentrandomi in via Mazzini, mentre molti negozi cominciano ad
aprire le loro porte, risalgo indietro da questi echi risorgimentali,
verso i tempi danteschi, che cominciano a balenare sulla pur
composita piazza delle Erbe, a cui sembra introdurmi la statua
bronzea del poeta dialettale Berto Barbarani (1872-1945). La piazza
è ingombrata da un fitto e animato mercato, in mezzo al quale vigila
la fontana di Madonna Verona, fatta installare da Cansignorio, uno
degli ultimi Scaligeri. Passo sotto l’arco della Costa e raggiungo
finalmente la piazza dei Signori, quella più dantesca e più scaligera,
anche se gli edifici sono per lo più risultanza di interventi del XIV
secolo o successivi. Al centro, comunque, c’è un ben più tardo
monumento a Dante, col poeta tutto ammantellato che guarda verso
l’arco che congiunge il Palazzo del Comune (o della Ragione) e il
Palazzo del Capitanio e da cui si diparte proprio la via Dante
Alighieri: come se la statua di Ugo Zannoni, installata per il
centenario del 1865, in chiave risorgimentale quando ancora il
Veneto era sotto il dominio austriaco, volesse partire verso la strada
al poeta stesso intitolata.
Il Palazzo del Comune era già in piedi alla fine del Duecento, con
la facciata a righe alterne orizzontali di tufo e di cotto, su cui si sono
però sovrapposte varie trasformazioni successive: e in piedi era la
torre dei Lamberti, in esso inglobata e anch’essa più volte
modificata, mentre il Palazzo del Capitanio risale ai tempi di
Cansignorio (1363 circa). Ai tempi di Cangrande era in costruzione
anche il Palazzo della Prefettura (detto anche di Cangrande), che si
colloca alla sinistra di chi guarda il Palazzo del Comune. Ma l’edificio
più bello della piazza è certamente quello che prospetta alle spalle
della statua di Dante, opposto al Palazzo del Capitanio: si tratta della
Loggia del Consiglio, emersa su preesistenti costruzioni scaligere, in
perfetta e quasi danzante figura di primo Rinascimento veneziano,
con otto arcate che sembrano librarsi sulle leggere colonne e sulla
misurata balaustra in basso, affidandosi alle decorazioni e alle
finestre del piano superiore e alle cinque eleganti statue che ne
scandiscono e vigilano il fastigio. Sempre su questo lato, un arco
che delimita il fianco della Loggia del Consiglio la collega a un altro
edificio quattrocentesco, la casa della Pietà, su cui è disposto
l’antico Caffè Dante: ci sono all’esterno i tavoli e le sedie, ma oggi il
bar risulta chiuso, non offre a chi passa il suo consueto ristoro
dantesco.
Lascio la piazza dei Signori, passando sotto un altro arco, il Vòlto
della Tortura, che unisce il Palazzo della Prefettura al Palazzo del
Capitanio, e trovo subito sulla destra il cimitero delle Arche scaligere,
i sontuosi sepolcri dei signori della Scala, che svettano, come
sospesi sopra il piano di base, protetto da lavoratissime inferriate. I
sarcofagi stanno sopra i piani rialzati, circondati da un moltiplicarsi di
edicole, pinnacoli, statue e bassorilievi, e sopra di essi si elevano
coperture che svettano ancora più in alto: i più sontuosi recano, su
piedistalli che si proiettano verso il cielo, al di sopra delle varie tettoie
marmoree, le statue equestri dei defunti, che, oltre la morte,
sembrano protendersi all’impossibile conquista del cielo. Identifico
così l’arca di Mastino II (morto nel 1351) e di Cansignorio, senza
dimenticare che costui, poco prima della sua morte (1375), ordinò
l’uccisione del fratello Paolo Alboino, prigioniero da dieci anni nel
castello di Peschiera, per spianare la strada alla successione dei figli
(ma fu breve e difficile la loro signoria, in un giro di contrasti dinastici
e di guerre in cui furono variamente implicati il milanese Gian
Galeazzo Visconti, i Carraresi di Padova e la repubblica di Venezia,
e che portarono in breve Verona sotto la signoria veneziana).
Ma l’arca del dantesco Cangrande è fuori dal recinto del cimitero:
si trova sopra la porta della prospiciente chiesa di Santa Maria
Antica; non è un’arca en plein air, ma è ben saldamente appoggiata
al portale della chiesa, con il sarcofago sostenuto da cani con lo
stemma scaligero e ornato da statuette e da bassorilievi con le
imprese del condottiero, che da giù non è proprio possibile
identificare (sembra che ci sia anche l’incontro con l’imperatore
Enrico VII per la nomina di Alboino e Cangrande a vicari imperiali di
Verona). Sopra il sarcofago il signore è adagiato sul suo letto
funebre; il tutto è sovrastato da un arco e da un massiccio tetto a
cuspide che vien come a sganciarsi dal muro della chiesa e reca in
cima la statua equestre, con il cavaliere che tiene la spada rizzata e
una sorta di sciarpa che al vento svolazza alle sue spalle (si tratta
comunque di una copia: l’originale è al museo del castello). Qui
Cangrande approdò nel 1329, dopo essere morto improvvisamente
assediando Treviso e avendo dato comunque varie faville della sua
virtute, secondo la profezia di Cacciaguida, che, nel dire ancora di lui
(oltre i versi sopra citati), dopo aver precisato che nel 1300 egli
aveva solo nove anni (ma non si può sfuggire al rilievo che, anche
per questa circostanza, viene ad assumere il numero nove!), allude
alle prove da lui date come signore di Verona già prima del 1312,
l’anno del falso comportamento del papa Clemente V verso
l’imperatore Enrico/ Arrigo, e invita Dante a tenere nella mente, altre
cose / incredibili, invitandolo comunque a non trascriverle nel
poema:
…e vedervi,
s’avessi avuto di tal tigna brama,
Saluto il Rodano nella fresca aria del mattino e, sulla strada per
Novellara, raggiungo una zona a nord di Reggio a cui le mappe
assegnano il nome di Castello, che fa balenare ancora il ricordo del
nobile Guido: si tratta di Castello di Pratofontana, piccola località che
si adagia nella campagna con silenziosi condomini e villette, tra
vicini capannoni industriali. Negli spazi ben misurati si muove una
piccola vita italiana: due uomini stanno armeggiando su un tetto,
certo per una riparazione; una badante dall’aspetto indiano spinge
un giovane disabile su una carrozzella; una donna di mezza età
spinge con disinvoltura una carrozzina su cui si agita un bimbetto; un
vecchio procede in bicicletta con lentissima pedalata che dà
un’impressione di mobile immobilità. Tra le casette si affaccia anche
un piccolo parco che ha il nome di Joan Mirò, pittore che evoca
qualcosa di fantastico, ma non certo castelli, né tanto meno castelli
arroccati su inaccessibili vette come quello dove il mago Atlante
teneva prigioniero Ruggiero. Niente castelli a Castello: eppure
proprio da questi paraggi doveva venire quel Guido, semplice
Lombardo.
Procedendo verso nord vengo a toccare una serie di centri padani
molto vicini l’un l’altro, con caratteri di borgo agricolo che tende a
raccogliersi intorno a qualche edificio nobiliare o a qualche chiesa,
tra serpeggianti lasciti storici e culturali, tracce di antichi domini e di
più vicine lotte politiche e sindacali. Ecco Novellara, con la sua rocca
gonzaghesca e il suo presentarsi come patria di Lelio Orsi, pittore
manierista dalle soluzioni talvolta estreme, con figure disposte in
cupe e sontuose distorsioni. Ma ecco poi Guastalla, ormai nei pressi
del corso del Po, dal 1532 possedimento di un ramo laterale dei
Gonzaga, con articolato impianto di città ducale (fu elevata a ducato
nel 1621, e restò tale fino al 1748).
Se da qui risalgo la strada verso Mantova trovo subito Luzzara,
patria di Cesare Zavattini: ed è vero che in questi paraggi si respira
uno spirito padano, fatto di terra e di acqua, di un’umida corposità, di
un senso acuto della materiale concretezza del vivere. Dalla parte
opposta, vicinissima a Guastalla, è Gualtieri, che invece fin dal 1476
fece parte del ducato estense e poi per un certo tratto fu feudo dei
Bentivoglio: al suo centro è la piazza Bentivoglio, con tre lati porticati
che ne contornano l’ampia distesa che si offre a feste e a eventi
popolari. Qui ha passato gran parte della sua vita ed è morto Antonio
Ligabue, che veniva dalla Svizzera ed è arrivato a Gualtieri per un
intricato intreccio familiare, diventando pittore tra dolore e follia,
come intridendo la sua anima di una padana sofferta bizzarria: ma il
suo nome viene oggi oscurato da quello del cantante Luciano
Ligabue, detto tout court Ligabue, che del resto viene anche lui da
queste parti, da una città che è un po’ più a sud, più vicino a Reggio
Emilia, Correggio che per alcuni secoli fu tenuta da una famiglia che
ne recava il nome ed è stata patria del grande pittore
cinquecentesco, Antonio Allegri (detto il Correggio, appunto), e
anche di uno scrittore molto celebrato di fine Novecento, Pier Vittorio
Tondelli.
Oltre Gualtieri mi avvicino alle sponde del Po, che tocco a Boretto,
dove mi viene incontro una curiosa chiesa ottocentesca, che sembra
quasi fuori posto, in questo orizzonte fluviale, dominato da un ben
attrezzato porto di navigazione interna, che in tempi lontani vedeva
una fitta serie di scambi addirittura con Venezia. Se da Boretto si
procede verso ovest, si raggiunge subito Brescello, dove furono
ambientati i film su Don Camillo, emblema degli scontri politici degli
anni cinquanta in questa bassa padana, tratti dai racconti di
Giovannino Guareschi, giornalista e scrittore dal corposo spirito
padano, tra umorismo e risentimento, nato anche lui accanto al Po,
risalendone un po’ la corrente, a Fontanelle di Roccabianca, nel
Parmense. E in fondo c’è una sorta di filo padano che può collegare i
pur diversi, ma geograficamente vicini, Zavattini, Ligabue,
Guareschi: del resto nella loro giovinezza Zavattini e Guareschi
furono in stretto contatto, nei primi anni della rivista umoristica
Bertoldo, inaugurata nel 1936.
Da Boretto comunque non mi dirigo verso Brescello, ma punto
verso nord attraversando il Po, su un ponte che mi porta in
Lombardia: tocco Viadana, da dove non è possibile evitare una
piccola deviazione verso uno dei più celebri luoghi gonzagheschi,
Sabbioneta, che fu tenuta da un ramo laterale dei Gonzaga ed ebbe
il suo splendore nel Cinquecento sotto il principato di Vespasiano. Mi
appaiono le mura: piuttosto basse, si ergono su un prato oltre il
quale scorre l’acqua di un piccolo fossato; sopra lunghi tratti della
muraglia germogliano cespugli e piante; aggetta un bastione dalla
parete corrosa e un po’ frantumata. Un’ampia apertura delle mura
conduce sulla grande piazza d’Armi, dove stanno allestendo un
parco giochi: è già in piedi la struttura dell’autoscontro, che con i suoi
colori sembra sfidare la severa ed elegante Galleria degli antichi,
che, con la successione dei suoi finestroni, limita il lato opposto della
piazza.
Rapidamente percorro il sistema di strade ben squadrato di questa
cittadina rinascimentale e manieristica, dove tutto è articolato come
spazio e misura ideale, disegno e sogno di equilibrio nobiliare,
geometria che ambisce a espungere la casualità e l’asprezza del
vivere, annidata e difesa nell’umido cuore della campagna:
scommessa di una persistenza di sé giocata da un piccolo principe,
dopo di lui precipitata nel silenzio, in una turbata solitudine, ai nostri
tempi leggermente ravvivata dai flussi turistici e dagli eventi popolari.
Il centro del perfetto impianto, la Piazza ducale, dove si affaccia il
Palazzo con il suo loggiato, sembra come il cuore vuoto del sogno di
Vespasiano, che è sepolto poco più in là, nel mausoleo della chiesa
dell’Incoronata. Ma il vero cuore, il più noto emblema di Sabbioneta
è il Teatro all’antica, progettato da Vincenzo Scamozzi, perfetto
modello splendidamente conservato della sala teatrale all’italiana. La
loggia ricurva di questa sala, disposta a colonnato alle spalle della
gradinata e coronata da statue sembra dare l’illusione di una
scansione architettonica del tempo: dentro un mondo assoluto, ma
solcato da deviazioni, dall’eccesso del proprio rigore, della propria
classicistica intenzionalità.
Pensando alla distanza tra il modello di Sabbioneta e del suo
teatro e l’universo dantesco, mi dirigo verso nord, su di un territorio
in cui si alternano più volte la provincia di Mantova e quella di
Cremona, tanto che viene in mente quel verso di Virgilio, che
lamenta la confisca per l’assegnazione ai veterani di Ottaviano di
territori dell’agro mantovano per integrare quelli non sufficienti
dell’agro cremonese: “Mantua vae miserae nimium vicina
Cremonae” (Bucoliche, IX, 28). Ecco Bozzolo, nel mantovano, poi
nel cremonese Piàdena, patria dell’umanista Bartolomeo Sacchi,
detto appunto il Plàtina, dal nome latino della sua città. Attraversato
il fiume Oglio, ecco Canneto sull’Oglio, ancora nel mantovano;
presso Canneto, su un muro la scritta PADANIA NAZIONE.
Passo poi nel bresciano, dove a Isorello sulla parete di una casa
leggo una scritta non so se corretta o deformata o ambigua USA LA
TESTA (NON) VOTA(RE) LA LEGA. Poi, oltre Ghedi, la solita giravolta delle
indicazioni stradali mi immette per un breve tratto su un raccordo
della nuova autostrada Brebemi (cioè Brescia Bergamo Milano) e poi
finalmente mi fa raggiungere il centro di Brescia.
Brescia
…dove ’l trentino
pastore e quel di Brescia e ’l veronese…
(Inf., XX 67-68)
Passo davanti alla chiesa degli Eremitani, dove una piccola folla
festosa sta tripudiando intorno a una sposa che si appresta a uscire
da una bianchissima Mercedes. Dirigendomi verso la basilica del
Santo, penso che in ogni modo, nel caso di una sua visita a Padova,
Dante non può non averla vista. Sosto un po’ sulla piazza Antenore,
davanti all’edicola cuspidata con la tomba del mitico fondatore di
Padova, impiantata nel 1283, per racchiudere le spoglie di un antico
guerriero trovate qui presso qualche anno prima: a identificare quelle
spoglie come appartenenti al troiano Antenore fu una delle autorità
culturali del tempo, quel giudice Lovato de’ Lovati che si suole
annoverare tra i cosiddetti “preumanisti”. Il Lovati, a cui spettano
anche i versi latini inscritti sul lato dell’arca, faceva così del racconto
mitico un vero e proprio emblema della città, riconducendola ai
fondamenti “classici”: accuratamente escludendo quel risvolto di
tradimento su cui invece Dante avrebbe così recisamente insistito,
dando il nome di Antenora al settore infernale riservato ai traditori
della patria.
L’edicola era originariamente disposta in questi paraggi, su un
ponte che non c’è più, accanto alla chiesa di San Lorenzo, entro cui
fu poi installato il sepolcro di Lovato, anch’esso con apposita
iscrizione. Demolita la chiesa, anche il sepolcro del giudice si trova
qui, con le sue dimensioni più modeste, accanto al suo riconosciuto
Antenore. Su questa piazza si affaccia anche un’altra falsa
identificazione, segnata in una lapide apposta sulla facciata del
Palazzo neogotico Romanin Jacur: vi si fa riferimento a un soggiorno
di Dante del 1306, che fu ipotizzato sulla base di un documento
relativo a un Dantino di Firenze che allora si trovava da queste parti
(contrada di San Lorenzo), ma che, nonostante quanto scritto nella
lapide (FAZIONI E VENDETTE / QUI TRASSERO / DANTE / 1306 / DAI CARRARA DA
GIOTTO / EBBE MEN DURO ESILIO) non può essere in nessun modo il
poeta.
La via del Santo mi conduce alla grande basilica, che sempre
sorprende con il suo singolare gotico veneto, con il sentore d’oriente
dato dal fantastico intreccio di cupole e pinnacoli: iniziata l’anno
successivo alla morte del Santo e portata a termine nel 1310, anche
se poi sottoposta a ricostruzioni e interventi di vario tipo. Alla
trionfante apertura della facciata e di tutto il corpo esterno fa
riscontro il sontuosissimo interno, dove si sovrappongono stili e
forme diverse. Sul transetto destro la cappella detta di San Felice o
di San Giacomo reca i bellissimi affreschi di Altichiero (risalenti agli
anni settanta del Trecento), dominati dalla tumultuosa scenografia
della Crocifissione: qui nel vicino riquadro del Consiglio della corona
si affaccia anche un ritratto di Petrarca.
Il sepolcro del Santo è nel transetto sinistro, in una cappella che si
apre su una sorta di portico, dal rigoglioso assetto cinquecentesco: i
grandi rilievi scultorei delle pareti presentano le storie della sua vita e
dei suoi miracoli. L’arca in pietra verde è disposta sul retro
dell’altare, che si erge su di una scalinata: qui più fittamente sostano
i pellegrini, sorvegliati da un francescano; ce ne sono alcuni che
appoggiano le mani e la testa sul dorso dell’arca. Ma per assicurarsi
protezioni e intercessioni da parte del Santo basta affidarsi a due
urne di plastica, collocate rispettivamente a destra e a sinistra
dell’altare; su di esse è scritto FOTO E SUPPLICHE A S. ANTONIO.
Lascio la basilica, uscendo dietro un folto gruppo di pellegrini che,
dopo aver alimentato le loro devozioni, erompono festosamente sullo
spazio urbano. Sembra guardarli con sdegno il condottiero Erasmo
da Narni, detto il Gattamelata, fermo lassù sul monumento equestre
di Donatello, che vigila sul sagrato della chiesa. Andando via, sfioro
ancora per un po’ le acque padovane, costeggiando la riviera del
Businello, oltre la quale si affaccia l’abside della chiesa di San
Daniele. Un ponte porta oltre, verso la chiesa: accanto a essa si
trova un altro ponte, misteriosamente chiamato Ponte della morte,
con varie leggende che cercano di giustificarne il nome (tra l’altro, si
dice che di notte vi si affaccino le ombre di tre malfattori, che erano
soliti depredare i passanti e che furono tutti e tre giustiziati proprio
qui accanto). A un certo punto, accanto all’edifico della Questura, il
canale svolta verso sinistra, insinuandosi sotto una casa,
fronteggiata da una fitta siepe, mentre il percorso stradale procede
sulla Riviera Tito Livio, dove prima procedeva il canale, ormai
interrato. Svoltando leggermente a sinistra, si rivede il canale, che
scorre verso ovest, tra palazzetti di diversa fattura, non fiancheggiati
da passaggi percorribili. Da questo stesso punto si diparte la via
Roma, porticata sulla sinistra, che conduce al Palazzo del Bo e alle
centrali piazze delle Erbe e della Frutta.
Pola e il Carnaro
…Pietro Ispano,
lo qual giù luce in dodici libelli;
(Par., XII 134-135)
Il cuore della Viterbo papale del XIII secolo, su cui certo Dante si
sarà affacciato nel suo viaggio per Roma, è naturalmente il Palazzo
dei papi, con l’ampia scala che sale verso l’ingresso e la splendida
loggia che si apre sulla piazza della cattedrale. Da qui i papi
neoeletti benedicevano il popolo e da qui comunicavano i loro atti di
maggior rilievo. Certamente vi si affacciò il papa eletto in quel
conclave del 1276, poco tempo dopo la morte di quel cardinale
Vicedomino Vicedomini da cui è nata la leggenda del papa di un sol
giorno, il mancato Gregorio XI: fu Giovanni XXI, il solo papa
portoghese della storia, che regnò per pochi mesi nella sede di
Viterbo, morendo il 20 maggio 1277, in seguito al crollo di una
stanza di questo palazzo papale da lui stesso fatta costruire. Egli era
Pedro Julião, detto Petrus Ispanus, il Pietro Ispano, medico e
teologo, che aveva insegnato medicina nello studio di Siena, e che a
Dante appare nel cielo del Sole, entro la corona dei beati guidata da
san Bonaventura, che di lui dice che in terra è celebre per dodici
libelli, cioè per i dodici libri del suo molto diffuso manuale di logica,
Summulae logicales, a Dante ben noto, tanto che ne fa esplicito uso
nella Monarchia.
Accanto al palazzo che lo portò alla gloria e poi causò la sua
morte, si trova il suo sepolcro, nella cattedrale di San Lorenzo, sulla
parete d’ingresso, a sinistra, sistemato e fissato qui dopo varie
vicissitudini: con il contributo del governo portoghese la statua
giacente del pontefice, sormontata da un’edicoletta in bassorilievo, è
stata collocata su un nuovo, levigatissimo, basamento marmoreo, su
cui sono incise le parole che di lui Dante fa dire a san Bonaventura.
Tarquinia (Corneto)
L’immagine della selva dei suicidi balza in tutta evidenza all’inizio del
XIII dell’Inferno, fissandosi nella similitudine con la selvaggia
vegetazione della Maremma infestata dai cinghiali, che rifuggono dai
luoghi coltivati. I limiti del territorio maremmano vengono segnati da
Cecina a nord e da Corneto a sud. Il nome di Corneto (la città
dell’alto Lazio che fino dal 1872 ha recuperato il nome etrusco di
Tarquinia) sembra quasi riecheggiare dalla fine del canto precedente
(XII 135-138), dove viene nominato un Rinier da Corneto immerso
nel Flegetonte, che comunque dovrebbe risalire, secondo
l’identificazione fatta da Umberto Carpi (già ricordata a p. 446), a
una meno nota località, tra i monti dell’Appennino, nella cosiddetta
Massa Trabaria, sede della famiglia dei Faggiolati (e dovrebbe
trattarsi del padre del più noto Uguccione della Faggiuola).
Seguo ora la strada che porta da Viterbo a Tarquinia, sfiorando a
un certo punto il piccolo parco del Bullicame, già visitato in
precedente occasione (vedi pp. 274-276). Approssimandosi a
Tarquinia, tra vari saliscendi si attraversa una distesa di prati e coltivi
e si toccano a più riprese resti ben conservati dell’acquedotto del
XVIII secolo: è la zona di Monterozzi, dove, oltre le rovine della città
antica (sull’altopiano della Civita), si estende l’ampia necropoli
etrusca, ricca di tombe affrescate, tratte alla luce in tempi diversi,
fino al Novecento. Una visita adeguata farebbe affacciare su un
oltretomba arredato, destinato a un’auspicata serena sopravvivenza
dei defunti e del loro rilievo sociale, al di là di colpe e di meriti, di
punizioni e di esaltazioni, in un tempo non tempo che non prevedeva
nessun giudizio o esito finale e che solo chi è venuto secoli dopo,
con ben diverse concezioni della vita e della morte, ha come violato
e tradito, strappando a quei defunti, per presunzione storica o
estetica, per la sovranità del proprio essere dopo, quello spazio di
protetta virtuale persistenza.
Evito di avvicinarmi a questo mondo sospeso: approdo al grande
parcheggio della Barriera di San Giusto e raggiungo il
quattrocentesco Palazzo Vitelleschi, dove è il Museo nazionale
etrusco, che raccoglie principalmente materiale estratto dalle tombe
della necropoli, molti di quei segni di illusoria e prolungata
sopravvivenza nell’aldilà in esse nascosti. Il pezzo più famoso è
costituito dalla coppia di cavalli alati pronti a spiccare il volo, che
proviene dal frontone del tempio dell’Ara della Regina, nella città
antica: altorilievo che ha anche lasciato un’ambigua eco in un
romanzo del 1953 di Marguerite Duras, Les petits chevaux de
Tarquinia, dove essi vengono designati verso la fine di una vacanza
in un imprecisato luogo di mare, come emblema di un altrove, di una
meta possibile che non viene raggiunta.
In uno spiazzo sulla destra del Palazzo Vitelleschi, su un
piedistallo marmoreo, c’è un bronzeo nudo femminile
flessuosamente riavvolto a spirale su se stesso: una scritta lo
designa come Memoria dell’estate di Emilio Greco, dono del maestro
(13 ottobre 1990) alla città di Tarquinia in memoria del poeta
novecentesco nato a Tarquinia nel 1887, Vincenzo Cardarelli. Si
tratta in effetti della memoria di una poesia un tempo notissima e
appresa a memoria nelle scuole, ma oggi a pochissimi nota, Estiva:
e la statua sembra farne riecheggiare i versi iniziali, “Distesa estate, /
stagione dei densi climi / dei grandi mattini / dell’albe senza rumore”,
quasi in bilico, in un moto di transizione tra l’esuberanza delle estati
dannunziane (Stabat nuda aestas) e la prossima espansione delle
vacanze di massa (Sapore di sale).
Lasciato il museo, percorro il corso Vittorio Emanuele che sale,
come tagliando la città in due settori, tra piccoli negozi che già
esibiscono addobbi con auguri pasquali. Giungo sulla piazza
Matteotti, dove sono disposte le bancarelle di un piccolo mercato,
che a quest’ora appare ben poco frequentato. Sono di fronte alla
facciata del Palazzo Comunale, in cui sulla base romanica si
sovrappone una scala settecentesca di classica misura; sulla
facciata sono molte lapidi, in cui è in evidenza anche il vecchio nome
di Corneto. Ci sono le lapidi in ricordo di partigiani uccisi il 14 ottobre
1943 e di quelli caduti in combattimento contro i nazisti in ritirata il 9
giugno 1944. Ecco il busto di Domenico Emanuelli, medico romano
che, residente a Tarquinia come primario del locale ospedale,
partecipò alla Resistenza e fu il sindaco della Liberazione, poi
deputato del PCI nella prima legislatura, morto per malattia nel 1950.
Oltre la piazza Matteotti l’alberata via Dante Alighieri, fiancheggiata
da un tratto di mura, raggiunge un belvedere aperto verso la vista
delle rovine della Tarquinia antica. Il percorso della Tarquinia
medievale si snoda però soprattutto alle spalle del Palazzo
Vitelleschi e del Palazzo Comunale, in tortuosi andirivieni tra edifici
in cui è ben evidente la traccia romanica, sotto le numerose torri ben
conservate, fino alla splendida chiesa di Santa Maria di Castello,
costruita nel XII secolo, che si affaccia ai limiti di un bastione
aggettante verso ovest, dalla parte del mare.
Lasciando la Barriera di San Giusto mi incuriosisce l’intitolazione
della strada su cui discendo: è la via Cavalier Volpini, recentemente
dedicata al cavalier Giuseppe Volpini (1883-1971), detto “Peppe il
postino”, primo portalettere di Tarquinia. È come un omaggio a ciò
che sono stati i postini nel Novecento, alla continuità della loro
presenza e dei loro percorsi, alla loro spesso intensa adesione alla
vita concreta dei luoghi di loro competenza: cosa completamente
svanita nella attuale organizzazione delle Poste, nella sempre più
diffusa frammentazione dei servizi, nel loro essere trascinati e
deformati dall’onda della privatizzazione.
Percorro poi l’Aurelia, muovendo verso la Toscana, a una certa
distanza dal mare. Sulla destra si scopre la centrale elettrica di
Montalto di Castro, ciò che resta di una progettata centrale
termonucleare, riconvertita dopo che un referendum del 1987 bloccò
in Italia lo sviluppo dell’energia nucleare, ora sul punto di essere
dismessa: immagine esemplare della confusione della politica
energetica italiana, delle opposte istanze e degli opposti modelli di
sviluppo che su di essa si sono confrontati, della insuperabile
contraddizione tra i bisogni del consumo di energia e la vivibilità
dell’ambiente (che qui, sul fronte marino, ha anche una buona dose
di risvolti turistici).
Poco dopo l’ingresso nel territorio toscano, che ha luogo tra due
località che si fronteggiano, Pescia Romana e Pescia Fiorentina, si
avvicina il massiccio dell’Argentario e appare alla vista qualche tratto
del Tirreno. A ridosso dell’Argentario si sfiorano gli stagni di
Orbetello.
Talamone
Dopo essere stata chiamata in causa, pur senza farne il nome, nel
XIII dell’Inferno, come lo spazio tra Cecina e Corneto infestato dai
cinghiali, la Maremma viene esplicitamente menzionata a proposito
di altre due situazioni infernali: una prima volta per le bisce che vi si
annidano, certo in misura minore rispetto a quelle che nella settima
bolgia infestano la figura del ladro Caco, che appare in forma di
centauro, con bisce sulla groppa, fino al limite tra la parte animale e
quella umana (là dove comincia l’aspetto umano: e lì, sulle spalle,
dietro l’occipite, ha anche un drago); e una seconda volta per le
febbri micidiali suscitate dal suo clima malarico (con una similitudine
ipotetica Dante dice che l’ambiente dell’ultima bolgia e il fetore che
ne emana è simile a quello che si avrebbe se si mettessero insieme
gli ospedali di tre regioni malsane, come la Valdichiana, la Maremma
e la Sardegna). Ma una terza, più celebre menzione della Maremma
è nelle parole con cui nell’Antipurgatorio la senese Pia evoca la
propria morte, nella regione malsana che ha consumato la sua vita
(disfecemi Maremma), come ben sa il marito che l’ha condotta a tale
sorte.
Nelle delicate e dolenti parole che rivolge a Dante, Pia non fa il
nome del proprio casato, né quello del marito, ma gli antichi
commentatori e la tradizione successiva l’hanno identificata in
termini che ci riconducono a un luogo vicino a Massa Marittima, il
castello della Pietra, di cui era signore Nello de’ Pannocchieschi, che
ho già ricordato come uno degli sposi di Margherita Aldobrandeschi
e che riconduce all’aggrovigliata storia della Maremma ai tempi di
Dante. Secondo questa identificazione Pia apparteneva alla nobile
famiglia senese dei Tolomei (che nel XIV secolo avrebbero avuto
anche il possesso di Campagnatico) e fu prima moglie del suddetto
Nello: questi per sbarazzarsene l’avrebbe confinata nel castello della
Pietra, o per amore della suddetta Margherita o forse per inconsulta
gelosia o per qualche altra vendetta. Si sa però che il rapporto di
Nello con Margherita fu in realtà piuttosto contrastato e ambiguo:
come si è già visto (vedi pp. 778, 781-782) dovette iniziare già
mentre Guido di Montfort, primo marito di Margherita, era prigioniero
in Sicilia, ma poi fu ostacolato dal matrimonio di lei con un Orsini; in
seguito, Bonifacio VIII, dopo aver fatto sposare Margherita con il
nipote Roffredo, annullò le nozze, accusando Margherita di bigamia
per un presunto matrimonio segreto contratto proprio con Nello. Ciò
non impedì a Margherita di sposare lo zio Guido di Santa Fiora, alla
cui morte arrivò finalmente a sposare Nello, ma non per felice esito
di un grande amore, quanto piuttosto per imposizione del papa (bolla
del 3 marzo 1303, in cui la privava dei diritti feudali). Tanto più che
subito alla morte del papa Margherita da lui si separò, per passare
gli ultimi anni tra Roma e Orvieto, mentre Nello occupava parte dei
territori della contea di Sovana, passata agli Orsini attraverso la figlia
di Margherita.
In queste intricate vicende Nello agì come uno dei rocciosi
signorotti che si contendevano questi territori, giostrando variamente
tra Siena, Orvieto, gli Aldobrandeschi, il papato: notabile guelfo,
ebbe rapporti con i guelfi fiorentini e nel 1265 suscitò una rivolta di
Massa Marittima (che era libero Comune dal 1225) contro Siena,
allora ghibellina; più tardi fu capitano della lega guelfa, mentre nel
1297 fu assunto da Firenze nella guerra contro Pistoia (e in
quell’occasione Dante avrà certo avuto notizia diretta di lui). I dati
storici relativi a Nello non chiamano in causa nessun personaggio
identificabile con la Pia dantesca, di cui è dubbia anche
l’appartenenza alla schiatta dei Tolomei. Non ci sono
documentazioni storiche su nessuna Pia de’ Tolomei, mentre è
attestata a Siena una Pia dei Malavolti, andata sposa tra il 1282 e il
1283 a un Tollo da Prata, ucciso a tradimento nel 1285. Chi ha
identificato con quest’ultima la Pia di Dante ha fatto congetture varie
su un suo presunto affidamento, in quanto vedova, al solito Nello o
su un successivo matrimonio con lui. C’è insomma un groviglio di
ipotesi e di identificazioni, spesso cervellotiche, che alla fine lasciano
comunque Pia avvolta nel mistero, nel rilievo delle poche parole con
cui si rivolge a Dante alla fine del canto V. Dopo che il pellegrino ha
ascoltato i più dettagliati racconti delle violenze subite da Jacopo del
Cassero e da Buonconte da Montefeltro, la voce di Pia gli viene
incontro con dimessa reticenza sulla violenza subita e sulla propria
stessa identità, chiedendo di essere ricordata, ma solo quando,
tornato sulla terra, egli si sarà riposato del suo viaggio (e ne parla
come se fosse un viaggio come gli altri). Tante leggende, ipotesi,
sogni, sviluppi poetici e musicali sono sorti da queste sue brevi,
delicatissime e reticenti parole.
Di fronte alla Maremma, ai suoi crucciati castelli, alle violenze che
la percorrevano, Massa Marittima si disponeva nel XIII come un
centro di formidabile e tenace operosità, che allora raggiungeva il
suo massimo sviluppo (mentre nel 1335 sarebbe passata sotto il
dominio di Siena): Massa Metallorum, centro della attività minerarie
della zona, per cui all’inizio del secolo aveva varato un vero e proprio
codice minerario, la Lex metallorum. Lo spazio urbano aveva avuto
un notevole ampliamento a partire dal 1228, con la formazione di
una Città Nuova, a nord est della originaria Città Vecchia, mentre al
margine di questa sorgeva la splendida cattedrale di San Cerbone,
in perfetto stile pisano, disposta obliquamente rispetto all’assetto
della piazza (oggi piazza Garibaldi), in rapporto sghembo con
l’antistante Palazzo Comunale, con un depistante effetto di
dissimmetria. Arrivo davanti alla cattedrale mentre sale
improvvisamente un vento freddo, ma, nonostante ciò, non riesco a
trattenermi dal sedere un po’ sulla scalinata, breve ma relativamente
ripida, su cui essa si erge. Nel silenzio intercalato dalle folate del
vento, considero i diversi angoli dati dalle strade che convergono
sulla piazza e la loro incidenza con la facciata della cattedrale e con
la disposizione, anch’essa irregolare, della scalinata (che ha una
serie di gradini interrotti a vari livelli seguendo l’inclinazione del suolo
della piazza).
Nella notte mi accoglie, in una residenza storica, una
spaziosissima stanza piena di oggetti singolari, attrezzi agricoli,
utensili di cucina, finimenti per cavalcature. Poi nella successiva
mattina del 12 marzo, mentre risolvo il problema dell’olio motore,
osservo da un poggio la distesa della pianura dalla parte del mare,
fino a Follonica, e verso nord il fitto bosco che copre una fetta
dell’entroterra maremmano, alle spalle della fascia marina, fino a
Suvereto, Sassetta, Monteverdi Marittimo.
Vado poi alla ricerca del castello della Pietra, nel territorio di
Gavorrano: presa la strada per Perolla, supero il paese e al primo
incrocio giro a destra e poi a sinistra, su una strada sterrata che
conduce, come dice il segnale, alla Fattoria di Pietra. Avanzo per più
di un chilometro, tra campi coltivati oltre i quali sulla destra si
elevano vari poggi boscosi, quando giungo alla fattoria, dove
attualmente non appare nessuno. Ci sono attrezzi sparsi e auto
parcheggiate, ma certo tutti stanno al lavoro da qualche parte, nei
campi. Mi aggiro variamente sui diversi viottoli sassosi che si
dipartono dalla fattoria; salgo verso un poggio, vado avanti e torno
indietro, tra infruttuose giravolte. Poi noto finalmente un’auto
malridotta (forse una vecchia Ypsilon), con la carrozzeria ammaccata
e arrugginita, che procede verso la mia, in senso opposto. Mi
accosto sulla destra (qui il viottolo è molto largo) per farla passare,
notando già da lontano che al volante c’è un ragazzotto con un
vistoso orecchino. Gli faccio cenno di fermarsi e, quando è a fianco
della mia auto, gli chiedo dov’è il castello della Pietra: mi indica uno
di quei poggi, un montarozzo alla cui base c’è un contorno di
svettanti cipressi, fronteggiati da un fitto gruppo di ulivi, mentre più in
alto si nota un groviglio di cespugli e di escrescenze sassose.
Procedo verso di esso su una strada più delle altre sassosa, fino a
un casale davanti a cui c’è un’auto parcheggiata. Qui devo lasciare
la mia e procedere a piedi, salendo su un viale che a un certo punto
sembra distendersi, limitato sulla sinistra da un campo recintato e
sulla destra da varia vegetazione. Giunto in alto, si aprono due
strade, che proseguono in direzioni diverse nella boscaglia: ecco
una casupola di cemento con una porta di ferro chiusa da un
lucchetto, ecco blocchi di mattoni corrosi, mentre tra i cespugli si
muovono invisibili animali e appare all’improvviso una gazzella che
attraversa la strada e sparisce. Si leva un vento che sommuove i
cespugli e fa stormire i cipressi là in basso. Varie deviazioni e ritorni
mi portano finalmente, tra i rovi, alle tozze muraglie che restano del
castello, su cui è fissata l’inevitabile lapide dantesca. Nient’altro
rimane di tante vicende, propositi, rabbie, violenze consumatesi qui:
senza pensare che quasi certamente nessuna Pia si consumò tra
queste mura. Tornando indietro, volgendo lo sguardo alla distesa dei
campi assolati, sembra comunque di aver toccato una vita remota, di
venire ora da un insondabile altrove.
Muovendo poi verso Siena, passo a Ribolla, già villaggio minerario
della società Montecatini: in una miniera di lignite ebbe qui luogo nel
1954 un’esplosione di grisù che fece 43 vittime, dovute anche alle
cattive condizioni della miniera e all’inadempienza delle norme di
sicurezza. A questo evento è dedicato un appassionato libro di
Luciano Bianciardi e Carlo Cassola, I minatori della Maremma
(1956), che è anche una storia delle miniere maremmane, della vita
e delle lotte dei minatori.
Dopo Ribolla, appare Montemassi, adagiato su un colle dominato
dai resti di un altro castello aldobrandesco, su cui si elevano, su lati
opposti, i due corpi grossi e tozzi della rocca e della torre. Il castello,
dopo occupazioni da parte senese nel corso del XIII secolo, fu per
un certo periodo in mano ai Pannocchieschi, in diretto rapporto con
Siena; ma, ribellatosi a Siena con il sostegno di Castruccio
Castracani, fu preso nel 1328, con un assedio reso celebre dal
grande affresco nel Palazzo pubblico di Siena, attribuito a Simone
Martini, con l’immagine del condottiero Guidoriccio da Fogliano che
procede a cavallo verso il castello, in un sontuoso e fiorito
abbigliamento, sullo sfondo di un brullo paesaggio in cui è disposto
l’accampamento dell’assedio e su cui, opposte al castello assediato,
svettano un battifolle, turrito castelletto di assedio (ma da molti oggi
sono messi in dubbio sia l’attribuzione sia il soggetto…).
Oltre Montemassi raggiungo poi Roccastrada, altro castello
aldobrandesco disposto su un grosso costone di roccia, che offre
alla vista i suoi nudi sassi. Qui il sito del castello è occupato dalle
case del quartiere denominato Cassero, tra tortuose stradine da cui
ci si affaccia sulla campagna circostante, con un’ampia vista ora
battuta da una fredda tramontana.
Scendendo tra boschi sulla SP 73 bis incontro, poco prima del
chilometro 37, un monumento costituito da una bianca colonna
circondata da un gruppo di più piccole colonne mozze, sopra un
basamento su cui sono incisi vari nomi: è dedicato AI MARTIRI DEL /
MONTECUOIO / 15-3-1944. Siamo qui infatti sotto il monte Quoio, dove
quel giorno dieci giovani furono fucilati per rappresaglia da una
brigata fascista.
Oltre il monte Quoio, superato Monticiano, una breve deviazione
mi conduce all’abbazia diroccata di San Galgano, costruita poco
dopo la morte del santo a cui dà il nome, tra la fine del XII e l’inizio
del XIII secolo: essa raggiunse presto un’eccezionale prosperità, in
stretto rapporto con il Comune di Siena. Un breve e largo viale
costeggiato da cipressi porta verso la facciata che, sopra la più
bassa fascia marmorea, si eleva in laterizi con due finestre vuote da
cui traspaiono le pareti interne, in pieno sole. Ma per raggiungere
l’ingresso, da un corpo laterale, si deve costeggiare all’esterno la
fiancata destra, seguendo la successione dei finestroni vuoti. Forte è
l’emozione della sosta all’interno, tra le navate con il pavimento di
ghiaia, tra i grandi pilastri e le volte acute, sotto l’effetto dell’azzurro
sovrastante oltre l’assente soffitto e di quello che si affaccia tra i
vuoti delle finestre, come feritoie ogivali. I crolli e le assenze, i vuoti
lasciati dall’architettura diroccata e spogliata, restituiscono una
memoria dell’origine perduta, di ciò che era, i segni del passato e del
precipitare della storia, molto più di quanto non faccia
l’incorporazione dei monumenti nel presente, la loro ricostruzione e
adattamento alle esigenze del nostro consumo, della comoda
verifica turistica. Qui tutto è silenzio, assenza, persistenza svuotata,
lascito di ciò che è finito.
Da una delle finestre si scorge la chiesetta che è sul colle che si
erge presso la fiancata sinistra della grande chiesa, l’eremo di
Montesiepi, fatto erigere dal nobile Galgano Guidotti nel 1180 e
consacrato dopo la sua morte, nel 1185. Lasciato lo spazio della
chiesa diroccata, salgo a piedi sul vicino colle, alla chiesetta eremo,
perfettamente circolare, che è nel pieno delle sue funzioni religiose e
molto ben custodita. Al centro c’è il masso, dove san Galgano
avrebbe confitto la sua spada, dopo aver avuto la visione degli
Apostoli e aver deciso di abbandonare l’abito di cavaliere per
assumere quello di eremita: nell’elsa della spada, a forma di croce,
avrebbe qui adorato la croce di Cristo, tra suggestioni ricavate dalla
letteratura cavalleresca e dalla leggenda arturiana della spada nella
roccia (quella leggenda che è giunta per progressivi slittamenti a un
libro del 1938 di Terence Hanbury White, da cui fu poi tratto nel 1963
un film d’animazione tardodisneyano). Ora la roccia e la spada sono
protette da una calotta, per evitare che qualcuno, come accaduto in
passato, provi a estrarre la spada, spezzandola e staccandone
l’elsa.
Disceso in basso, al momento di riprendere l’auto, mi volgo
indietro, notando che nel disporsi del paesaggio, tra i dolci prati e
l’ordinato assetto dei cipressi in diversi viali, sembra darsi una
rispondenza tra il corpo della diroccata abbazia e il colle dell’eremo,
quasi un colloquio che persiste tra la chiesetta ben conservata e ciò
che resta della gloriosa e crollata abbazia.
Ripreso il percorso verso Siena, dopo le curve di una breve salita
e di una successiva discesa, la strada viene affiancata per un tratto
abbastanza lungo, alla sua destra, dal corso del torrente Rosia. A un
certo punto sopra il torrente si scorge, subito alla destra della strada,
un esile ponte senza spallette, un arco in perfetto semicerchio, con
un malridotto acciottolato da cui spuntano ciuffi d’erba, mentre sulla
sponda opposta resiste un pezzo di muro, che fa argine al torrente.
Questo scorre con modesto gorgogliare della poca acqua, tra ciottoli,
ghiaia e grossi massi che si affacciano qua e là. Si tratta del ponte
della Pia: quello che, secondo la leggenda, nelle notti di luna piena,
viene attraversato dal fantasma inconsolabile della Pia de’ Tolomei.
“Dolente Pia, innocente è prigioniera”, canta la senese Gianna
Nannini nella sua opera rock (e nel relativo album), un po’
femminista, Pia come la canto io, con parole della scrittrice lucchese
Pia Pera, anche lei Pia, poi prematuramente scomparsa nel 2016.
Montaperti e fiume Arbia
Dentro le sue mura Siena è una della città che meglio si difende dal
pericoloso accerchiamento automobilistico, grazie a tutta una serie
di parcheggi molto ben attrezzati, che offrono il maggior punto di
avvicinamento al centro, senza gravare su di esso. Gelosa di se
stessa, tra le grandi città storiche, è quella che ha saputo meglio
contemperare la sua struttura urbana alla invadenza del turismo:
attraverso il sistema delle contrade, ha fatto sì che il centro storico
conservasse la sua identità e la sua abitabilità, le sue presenze
tradizionali, senza farsi schiacciare dalle esigenze del consumo
turistico, dall’invasione di sciatta paccottiglia che spesso porta con
sé. Forse per le strade di Siena si continua ad avvertire, più che in
qualsiasi altro luogo, una continuità con quell’essere a parte che ha
caratterizzato la città medievale nei confronti degli altri comuni
toscani. Del resto il senese, anche linguisticamente, ha tuttora una
sua particolarità nell’ambito toscano, come era, del resto, ben
evidente per Dante, che lo indica (insieme all’aretino) come una
differenziazione interna del volgare di Toscana nel De vulgari
eloquentia, I X 7; e poi in I XIII 1-2 nomina il senese Mino Mocato
(Bartolomeo Mocati) tra i toscani autori di “dicta […] non curialia sed
municipalia”, e, tra gli esempi di volgari municipali toscani, cita una
frase senese: “Onche renegata avess’io Siena, ch’ee chesto?” (“Se
non avessi mai rinnegato Siena! Che è questo?”).
Entrando in Siena da sud, da Porta Tufi, approdo al parcheggio Il
Campo, da cui vengo a districarmi a piedi con uno sghembo
percorso che mi fa attraversare gli Orti dei Tolomei, che
immediatamente mi riconducono alla Pia, pur nell’improbabilità della
sua effettiva appartenenza a quella famiglia. È un piccolo parco che
sembra come aprire uno squarcio campestre dentro la città e da cui
la vista spazia verso il settore sud-est, sul rilievo dominato dalla
basilica di Santa Maria dei Servi.
Risalendo fuori dagli Orti vengo a sbucare sul Prato di
Sant’Agostino, dove alla facciata della chiesa duecentesca si
affianca un portico colonnato di tipo neoclassico sovrastato dalla
scritta COLLEGIO TOLOMEI. È vero però che il Collegio Tolomei fu
fondato molto più tardi, solo nel Seicento, per una volontà
testamentaria (1628) del nobile Celso Tolomei, e che ebbe prima
sedi diverse, per approdare qui solo all’inizio dell’Ottocento, gestito
dagli scolopi, e per diventare poi Convitto nazionale, mentre oggi è
semplicemente sede di scuole pubbliche, l’Istituto Superiore di Studi
Musicali Rinaldo Franci e il Liceo Enea Silvio Piccolomini.
Per avvicinarmi ai luoghi dei Tolomei devo in effetti raggiungere il
cuore della città, dopo aver lasciato il bagaglio in una bella residenza
storica, nel cinquecentesco Palazzo del Magnifico (detto così
dall’epiteto di Pandolfo Petrucci, signore di Siena tra il 1487 e il
1512), affacciata sulla scalinata che dal Duomo scende verso il
sottostante Battistero. Dal Battistero raggiungo la via di Città,
continuando per la via dei Banchi di Sopra, che si apre sulla piazza
Tolomei, su cui si affaccia il duecentesco Palazzo Tolomei, con
portale ogivale e due piani superiori, su ciascuno dei quali sono
aperte in perfetta simmetria le bifore di sei finestre. Il palazzo è come
vegliato e osservato dalla lupa di stagno che sta in cima a un’antica
colonna appostata davanti a esso. E su un fianco del palazzo, che
oggi è sede della Cassa di risparmio di Firenze, non manca
l’epigrafe con due versi della Pia dantesca, ricondotta a questo suo
supposto luogo di origine. Poco più avanti, sul prosieguo della via
dei Banchi di Sopra è fermo un anziano mendicante inginocchiato
con le mani giunte in indeterminata preghiera, come se ne vedono
sempre più spesso.
Tornando indietro sulla via dei Banchi di Sopra si trova
l’accogliente pasticceria Nannini: è proprio il locale dell’azienda
dolciaria della famiglia della Gianna che con la sua voce ha evocato
il fantasma della Pia: “Dolente Pia, innocente è prigioniera…”.
Gente vana a Siena
………………………………
E cheggioti, per quel che tu più brami,
se mai calchi la terra di Toscana,
che a’ miei propinqui tu ben mi rinfami.
………………………………
“Quando vivea più glorïoso”, disse,
“liberamente nel Campo di Siena,
ogni vergogna diposta, s’affisse;
Il dannato appena giunto nella bolgia, una volta tuffato nella pece,
risale a galla imbrattato (convolto), ma i diavoli gli ricordano
sarcasticamente che non si trova a Lucca e che non si tratta di
nuotare nel fiume che la lambisce, imponendogli di non uscir fuori
dalla pece, se non vuole essere sgraffignato dai loro diabolici uncini.
Come poco prima Santa Zita, ora il Volto Santo e il fiume Serchio
sono evocati come emblemi di Lucca, fissati in San Frediano negli
affreschi di Amico Aspertini.
Nel Duomo di San Martino è l’edicola che appunto custodisce il
Volto Santo: lo raggiungo ora attraverso l’Anfiteatro, addentrandomi
tra le medievali Case Guinigi e passando sotto l’alta torre di uno dei
palazzi della famiglia. Di nuovo attraverso la piazza Antelminelli,
arrivo davanti al Duomo, alla sua facciata, asimmetrica per le ridotte
dimensioni della parte destra, che è addossata al campanile e a un
edificio gotico duecentesco: il portico a pianterreno è disposto in tre
arcate, di cui quella destra è molto più stretta delle altre due. Questa
asimmetria, a cui si aggiunge la mancanza di un frontone a chiudere
la parte superiore della facciata, sopra i tre ordini di colonnine, dà
una particolare originalità al romanico di tipo pisano, ne costituisce
una sorta di versione sghemba, armonicamente e si direbbe
ironicamente deviata.
Indugio a contemplare i bassorilievi sui portali e sulla parete di
fondo del portico, tra cui quelli dedicati ai mesi, che, secondo la
consueta iconografia, fissano il lavoro umano in gesti assoluti e
perentori, ma qui con quello che mi sembra un particolare effetto di
persistenza, di ritmica disposizione del corso del tempo. Appena
entrato nella chiesa scorgo subito, sulla navata sinistra, il tempietto
che risale al tardo Quattrocento, dove è custodito il Volto Santo,
grande crocifisso ligneo dallo strano aspetto, forse orientale, con un
volto dai tratti somatici inconsueti, che da tutte le parti sembra
guardare chi osserva, rivestito di un camice sacerdotale molto
diffuso tra i monaci medievali, il colobium.
Misteriosa è l’origine di quest’opera, riconducibile a un periodo tra
l’XI e il XIII secolo, forse al posto di un altro crocifisso rovinato o
perduto. Ma la devozione verso di essa si è appoggiata su di una
leggenda raccolta dal diacono Leobino, alla fine dell’XI secolo: essa
chiama in causa Nicodemo, il seguace non manifesto di Cristo di cui
è menzione nel Vangelo di Giovanni e a cui è anche attribuito un
Vangelo apocrifo. Dopo l’Ascensione questi avrebbe avuto l’incarico
di scolpire un’immagine che riproducesse quella reale di Gesù: dopo
averne modellato il busto, esitava a mettere mano al volto, ma un
mattino lo trovò già scolpito per opera divina. Per evitare
persecuzioni il crocifisso fu poi nascosto in una grotta (Nicodemo era
del resto abituato a nascondersi, tanto che il suo nome è diventato
emblema di fede coltivata in segreto, di accorta dissimulazione
religiosa). Poi continuò a essere venerato nella grotta, fin quando il
vescovo Gualfredo lo pose con altre reliquie su una nave senza vele
e senza equipaggio che percorse i mari per volontà divina, fino ad
approdare nel porto di Luni, dove andò ad accoglierlo uno stuolo di
fedeli lucchesi, guidati dal vescovo Giovanni, che ne aveva avuto
l’annuncio da un angelo. Era l’anno 742, e così la statua, dopo una
disputa tra lucchesi e lunesi, fu trasportata a Lucca, con il corteo
rappresentato nell’affresco di Amico Aspertini in San Frediano. Fu
custodita proprio in San Frediano, ma da lì sparì, per essere poi
ritrovata in un orto vicino a San Martino, il che fu interpretato come
segno divino che dovesse qui essere custodita.
Eccomi allora davanti al tempietto ottagonale con la cupola
decorata a lisca di pesce, sorretta da otto colonne dorate: ma lo
spazio tra le colonne è chiuso da una fitta grata, anch’essa dorata,
che protegge tutto l’interno. Fissando l’occhio tra le strette aperture
della grata riesco a vedere questo Volto di Cristo, di un nero che da
qui appare quasi metallico e che sembra dovuto ai ceri accesi che in
passato affumicavano il legno. Al nero del legno fa contrasto la
corona d’oro, di più tarda fattura, che chissà quando è stata posta su
questo malinconico volto, che sembra quasi guardarmi e darmi
l’illusione della verità della leggenda, volermi convincere che è stato
davvero modellato per mano divina, laggiù in Palestina, come tanto
a lungo ha creduto la devozione popolare lucchese. Su questa
illusione sento però risuonare ancora il sarcasmo con cui il diavolo
dantesco menziona questa immagine sacra, laggiù tra la tenace
pece. Illusione e sarcasmo sono però corretti dal senso più profondo
che a questa icona attribuisce Guido Ceronetti in Un viaggio in Italia:
Sono costretto a guardare l’ora, che non è l’ora serale del poeta, che
in lui, grande cultore di Dante, trattiene forse un’eco dell’“ora che
volge il disio”: la mia ora volge pericolosamente verso il pomeriggio,
senza che mi sia dato ancora pensiero di mangiare qualcosa. Torno
allora indietro attraverso le poche case del borgo di Caprona, dove
noto comunque che due cortissime stradine recano insegne con i
nomi di Giosuè Carducci e di Mario Luzi. Recupero l’auto e vado a
cercare qualche luogo per mangiare: raggiungo il nucleo centrale
della frazione di Castelvecchio, attraverso un ponte sul Serchio, mi
allontano dal fiume e poi lo trovo di nuovo fino a raggiungere
Castelnuovo di Garfagnana, che fu sede del governo della
Garfagnana sotto il dominio estense e che vide come commissario
ducale dal 1522 al 1525 Ludovico Ariosto.
Mentre il cielo si oscura, dopo essermi affacciato sul ponte sul
Serchio all’ingresso del centro storico, percorro la strada che
costeggia la rocca estense, da cui l’Ariosto si trovò a governare il
difficile territorio, e giungo su uno slargo che appare come punto
nodale del paese. Su un lato c’è un Don Chisciotte in ferro battuto
dello scultore Angelo Mugnaini, su un Ronzinante che sembra un po’
più depresso del solito: ma qui è come un postumo omaggio del
commissario ducale Ariosto a quel Miguel de Cervantes che, pur
dispregiando i romanzi cavallereschi, tenne in gran conto l’Orlando
furioso. Mentre si fa ancora più tardi riesco comunque a trovare
posto, sulla via Farini, subito fuori dal centro storico, in un simpatico
ristorante affollato di famiglie locali che sono alle ultime delizie del
pranzo. Nonostante l’affollamento e l’ora tarda, vengo servito
piuttosto celermente, immerso nel clima festoso e a questo punto un
po’ stanco della domenica della provincia italiana: e mi capita di
afferrare frammenti di discorsi sui sapori e sui piatti, su storie di
parenti, amici, persone note del paese, prossimi matrimoni,
ristrutturazioni di case, capi di vestiario, profumi e oggetti da poco
comprati o ancora desiderati, destino di quel negozio che sta per
chiudere, mentre i bambini danno insistenti segni di impazienza e
uno più piccolo frigna inutilmente sul suo seggiolone. Alle pareti ci
sono varie foto d’epoca e tre persone discutono animatamente su
una foto del paese sotto le macerie della guerra: nel tentativo di
identificare il luogo, uno dei tre si alza da tavola e guarda la foto da
vicino, ma senza risultato.
Ma ora devo avvicinarmi al monte Tambura, sia o no identificabile
con Tambernicchi: procedo per alcuni chilometri oltre Castelnuovo e
prendo a destra la strada per Vagli, che risale, tra boschi di castagni,
un altro affluente di destra del Serchio, il torrente Edron. Giungo
presto alla diga impiantata nel dopoguerra che forma a monte il lago
di Vagli, che ha sommerso il vecchio paese di Fabbriche di
Careggine, che riappare come un fangoso fantasma nelle occasioni
in cui il lago viene svuotato (l’ultima volta nel 1994). Dalla strada mi
fermo a osservare come l’acqua si insinui tra le coste dei monti, in
un punto in cui la vista viene parzialmente velata da grovigli di rami
spogli inverditi dalle aggressive volute dell’edera.
Verso la punta finale del lago si affaccia il borgo di Vagli di Sotto,
da cui si sale a Vagli di Sopra, di cui nell’estate del 1523 si occupò
Ariosto commissario in Garfagnana, intervenendo a difesa di certi
“poverhomini di Vagli” a cui erano state sequestrate delle bestie dal
capitano di Pietrasanta in una zona prossima al confine (Pietrasanta
e la Versilia erano allora sotto il dominio fiorentino). Oltre Vagli la
strada si inerpica sotto il Tambura, che ora è coperto dalla nebbia.
Raggiungo il rifugio di Campocatino, a circa 1000 metri, che ora è in
silenziosa solitudine, in mezzo alla neve. La sola presenza è quella
di una statua di cacciatore seduto su di una panca marmorea con
accanto un cane. Seggo su una vicina panca di legno cercando di
penetrare con la vista oltre la cortina di nebbia che mi nasconde i
corpi montuosi di cui si scorge solo la base più vicina, coperta di
neve. Da quella parte è il Tambura, Tambernicchi (1889 m.), a nord
del quale si leva la vetta più alta delle Apuane, il monte Pisanino
(1945 m.).
Le cave di marmo e Carrara
Sono arrivato a Lerici nella sera, sotto una pioggia battente, che poi
si è calmata, lasciandomi il tempo di girare per la città, affacciata sul
golfo di La Spezia, che nel XIII secolo fu sotto il dominio genovese,
salvo la breve parentesi della conquista pisana (1241-1254). Dante
la cita come limite orientale della Liguria, opposto a quello
occidentale (Turbia, ora La Turbie, in territorio francese), nello
scorcio che dà dello scosceso paesaggio ligure, delle sue ruine,
dirupi e strapiombi che scendono verso il mare: notando che anche
la più diserta (più inaccessibile) e più rotta (più frastagliata) di quelle
ruine sembra una comodissima scala rispetto a quelle che lui e
Virgilio si trovano davanti ai piedi della rocciosa montagna del
Purgatorio.
Oltre l’ampia piazza Garibaldi e il viale antistante al porticciolo ci si
insinua nelle strette strade interne e si può salire fino ai piedi
dell’imponente castello, che ebbe particolari cure dai pisani e poi vari
ampliamenti, fino a trovare l’aspetto attuale nel XVI secolo. Davanti
al porto sono aperti numerosi bar e ristoranti, tra cui c’è Golfo dei
Poeti, che segue la denominazione attribuita al golfo di La Spezia
dal commediografo Sem Benelli nel 1910, poi divenuta corrente
formula di turismo letterario: che si richiama a tanti poeti e artisti che
hanno amato questo golfo, primo fra tutti Percy Bysshe Shelley, con
la tragica aura del suo naufragio.
La mattina del 16 marzo dalla finestra dell’albergo, affacciata sul
mare, sotto un cielo striato di non minacciose nubi azzurrognole, mi
affaccio sul settore meridionale del golfo, mentre la vista del suo
interno, con la città di La Spezia, è impedita dal piccolo promontorio
sotto cui, a nord-ovest di Lerici, è disposta la frazione di San
Terenzo, quella che fu abitata da Shelley con la sua composita
famiglia. Qui il poeta ricevette la goletta Don Juan, che si era fatta
appositamente costruire e da qui partì per il viaggio verso Livorno,
dove ebbe un ultimo incontro con Byron; qui stava tornando l’8 luglio
1822, quando il Don Juan incappò in una tempesta, naufragando al
largo di Viareggio, sulla cui spiaggia fu ritrovato il suo cadavere,
dieci giorni dopo.
Al margine dell’abitato di San Terenzo, addossato al piccolo
promontorio, c’è un castello, costruito da genovesi nel XV secolo,
che dal basso sembra fare da pendant a quello di Lerici, in alto sul
promontorio a sud-est. Sul versante opposto del golfo si protende
verso sud il promontorio di Portovenere, oltre il quale, separata da
un brevissimo stretto, è l’isola Palmaria, che sembra come
prolungarsi in quella molto più piccola del Tino: come verdi innocue
sentinelle del golfo.
Lascio Lerici salendo in alto, sul colle sopra la città: poco prima del
bivio per La Serra trovo su un muraglione la lapide con i versi
danteschi, sotto la quale sono disposti cassettoni per il deposito
dell’immondizia. Tocco le case di Barcola e raggiungo La Serra,
frazione sospesa sopra Lerici, da cui di più si scopre il settore
interno del golfo, facendo intravvedere, sul versante occidentale,
parte della periferia di La Spezia. A La Serra ha soggiornato per un
certo tempo, in una casa acquistata al momento della pensione,
Giovanni Giudici, poeta e amico che ha fatto i conti in profondità con
Dante, dialogando intensamente con la sua poesia, sotto il segno di
un cristianesimo creaturale, che si è manifestato con particolare
intensità nei suoi ultimi anni. Questa l’epigrafe apposta al suo libro
del 1993, Quanto spera di campare Giovanni:
Molto meno evidenti di quelle degli altri castelli sono però le tracce di
quello abitato dalla signora, che lo lasciò alla morte del marito
(1315), trasferendosi a Genova. La frazione di Giovagallo si trova nel
comune di Tresana, alcuni chilometri oltre il centro comunale, un po’
all’interno tra i colli sul versante destro del Magra.
Da Villafranca scendo verso sud ancora sul versante sinistro del
Magra, fino a toccare Terrarossa, dove è una tozza fortezza
quadrangolare, anche questa originariamente malaspiniana, che
nella forma attuale risale al XVI secolo e che per un certo tempo è
stata anche sotto il controllo dei Medici. Da Terrarossa prendo a
destra, attraversando il fiume e addentrandomi poi attraverso
Tresana in una sorta di stretta valletta che ha ai piedi un torrente
tributario del Magra. Si scorgono sui pendii le casette di piccolissimi
borghi; la strada scende leggermente giungendo alle poche case di
Giovagallo, immerse nel silenzio, con un effetto di abbandono che si
raccoglie attorno alle rovine della chiesa di San Michele, con facciata
sassosa su cui si apre il portale, parzialmente murato. La strada che
costeggia la chiesa è aperta sul suo fianco destro, che è
scoperchiato, senza nessun resto di parete; poco più avanti c’è un
periclitante campanile. Ma qui non c’è traccia di castello; devo
prendere una strada che, poco prima della facciata della chiesa, si
dirige verso sinistra: in breve tempo giungo all’incrocio con un largo
sentiero in terra battuta davanti al quale c’è un bel pannello
informativo della Comunità montana della Lunigiana sul Castello di
Giovagallo, con la descrizione della breve e agevole strada da fare.
Lascio l’auto e salgo a piedi sul sentiero in terra battuta, che
nell’avanzare è sempre più invaso da fitte fronde, da rami e tronchi
caduti, mentre il suo fondo diventa sempre più irregolare e sassoso,
fino a un’interruzione creata dal groviglio di piante di ogni genere nel
sottobosco di un abbandonato castagneto. Devo scavalcare tronchi
e fronde, incespicando sul terreno scivoloso, superando dislivelli e
piccole scarpate, nel totale silenzio e con una certa ansia per
l’avvicinarsi della sera, che, nell’oscurità del groviglio boscoso,
sembra quasi pronta a incombere. Mi arrampico a zig zag,
scostando i rami caduti, scavalcando un gigantesco tronco caduto di
traverso, tutto coperto di muschio, scivolando per mancanza di
presa; mi fermo a un certo punto scegliendo un rozzo ramo con la
testa leggermente ricurva, che uso poi come bastone e che
denomino subito bastone di Dante.
Finalmente giungo ai piedi delle rovine del castello, toccando muri
e sassi scrostati e muschiosi, disposti su livelli diversi, sopra i quali si
leva un resto di torre o di parete, eretta come una quinta di teatro: è
il solo frutto di questo dubbioso procedere in omaggio alla buona
Alagia, all’ospitalità che da lei e da Moroello Dante avrà qui ricevuto,
a quel mondo cortese su cui qui ha vinto la disordinata natura.
Temendo il prossimo scendere della sera, faccio il cammino a
ritroso, frenato nella discesa dal provvidenziale bastone, che porto
via con me: pensando che in fondo l’abbandono del luogo mi ha dato
una sensazione della distanza dei tempi danteschi forse più “vera” di
quella suscitata da ambienti ben curati e adeguatamente offerti alla
curiosità turistica. Recupero il largo e agevole sentiero, mentre si
schiarisce intanto, oltre lo spazio della Val di Magra, la vista delle
Apuane, sotto la luce del sole prossimo al tramonto: si riconosce
bene una vetta bianca e puntuta, non so se l’Altissimo o la Pania.
Chiavari, Lavagna, Sestri Levante e Sarzana
Scendo ora verso sud, dalla parte della costa tirrenica, imboccando
l’autostrada che mi porta a superare la Versilia e la stessa Pisa, che
visiterò in altra occasione. Il tratto autostradale termina a sud poco
prima del luogo che, in un passo dell’Inferno già toccato, viene
indicato come il limite nord della Maremma infestata dai cinghiali:
Cecina, opposta al limite sud dato da Corneto / Tarquinia (vedi p.
772).
Cecina è oggi una città moderna, che, poco arretrata rispetto alla
riva del mare, si trova subito sulla riva sinistra del fiume omonimo, su
un territorio di antichi insediamenti etruschi, abitati anche in epoca
romana. Ai tempi di Dante la zona era certamente disabitata: e
sicuramente con il nome Cecina egli non si riferisce a una città, ma
al fiume che sorge dalle colline metallifere, a sud di Volterra, e
percorre poi da est a ovest la piana che dalla base del colle su cui è
Volterra giunge fino al mare.
Eludendo le varie indicazioni dei cartelli stradali, uscendo
dall’autostrada non mi dirigo verso il centro della città, ma verso il
suo limite nord, seguendo il vecchio tracciato dell’Aurelia all’altezza
del borgo di San Pietro in Palazzi: da qui arrivo in breve tempo ad
attraversare il fiume che, sotto il cielo che si sta oscurando, sembra
scorrere torbido verso la vicina foce. Dal ponte stradale si scorge, un
poco più a valle, quello parallelo della ferrovia, su cui sta passando
un treno dai bianchi vagoni, diretto verso nord. Sulla riva sinistra del
fiume, dalla parte del mare, poco oltre la ferrovia, c’è un piccolo
parco archeologico (detto di San Vincenzino), sorto attorno ai resti di
una villa romana risalente al I secolo a.C. e variamente abitata fino
al V secolo d.C. Per tradizione questa viene indicata come la Villa di
Decio Albino Cecina, della famiglia volterrana dei Caecina,
praefectus urbis nel 414 d.C., ricordata da Rutilio Namaziano nel De
reditu suo. L’autore di questo singolare poemetto tardoantico
racconta che, navigando, probabilmente nel 415, lungo la costa
tirrenica da Roma verso la sua patria, la Gallia Narbonese, approda
sul lido della regione di Volterra, dove sono le secche di Vada (il cui
stesso nome indica le secche), ricordate anche da Cicerone e da
Plinio: lì la sua piccola flotta viene fermata da un improvviso vento di
maestrale e da una pioggia, da cui egli prende riparo nella vicina
villa dell’amico Albino.
Vada è oggi un borgo che dà direttamente sul mare, al di là della
riva destra del fiume, qualche chilometro a nord di Cecina; ma i dati
forniti da Rutilio, che visita anche delle saline (una “salsa palus / qua
mare terrenis declive canalibus intrat / multifidosque lacus parvula
fossa rigat”, “salsa palude in cui il mare entra scorrendo per canali di
terra e una piccola fossa irriga specchi d’acqua divisi in bacini”, vv.
476-478) non offrono nessun elemento per identificare la villa con
questa ritrovata al di qua di questo fiume. Quelle saline non esistono
più, anche se non lontane, nell’interno, ci sono le Saline di Volterra
(costituite da sorgenti d’acqua salata): ed è comunque probabile che
la villa di Albino Cecina fosse più a nord, nel sito attuale di
Rosignano Solvay. Quanto al fiume Cecina, molti secoli più tardi,
verisimilmente in una zona più a monte, il 12 aprile 1500 vi annegò
l’esule greco Michele Marullo, uomo d’arme ed eccellente poeta in
lingua latina, che veniva da Volterra, dove era stato ospite dell’amico
umanista Raffaele Maffei, e se ne allontanava a cavallo, diretto forse
a Piombino, in mezzo a una tempesta, che rese fatale il suo tentativo
di traversare il Cecina a guado con la cavalcatura. Il suo corpo fu
sepolto nella pieve di San Giovanni Battista nella vicina Pomarance,
nella zona dei soffioni boraciferi, a sud di Volterra.
Attraverso il centro di Cecina, raccolto intorno al percorso
dell’Aurelia, che qui ha nome corso Giacomo Matteotti ed è in parte
pedonalizzato. Nei pressi della centrale piazza Guerrazzi, accanto a
un bel negozio di tessuti – di cui mi incuriosisce l’insegna, con il
nome della proprietaria o fondatrice che si specchia in se stesso,
cognome che si replica e prolunga nel primo nome, Lenzi Lenzina –
su una parete all’imbocco di un vicolo laterale, c’è un pannello in
scuro bassorilievo dello scultore cecinese Ado Santini con Dante e
Virgilio nella selva dei suicidi (si vede anche una delle nere cagne
che inseguono gli scialacquatori, ma non riesco a scorgere le brutte
arpie): sotto di esso una targa in plexiglas riporta i versi di Inferno,
XIII 7-9.
Uscendo da Cecina, dopo un breve tratto campestre, si incontra
sull’Aurelia una frazione del comune di Bibbona, che ha lo strano
incongruo nome La California, forse dato più di un secolo fa da
qualcuno di queste parti che in California aveva fatto fortuna. Nelle
complicazioni e nei raddoppiamenti della viabilità, ci si trova ora per
un certo tratto a dover scegliere tra la vecchia Aurelia e la variante a
quattro corsie, singolare autostrada / non autostrada che
accompagna chi da questa zona della Toscana scende verso il
Lazio. Resto però sulla vecchia Aurelia per affacciarmi davanti alla
strada dei cipressi di Bolgheri, resa celebre dal Carducci di Davanti
San Guido. Scorgo in un primo momento un più modesto filare di
cipressi che in realtà sembra costituire solo un annuncio di quelli di
Bolgheri, che poi si profilano nel loro sontuoso succedersi, come in
un silenzioso inseguirsi. Mi fermo su un anello sulla destra della
strada, proprio sul punto in cui verso sinistra si diparte la strada dei
cipressi; al centro della piazzola è un obelisco circondato da cipressi,
innalzato a memoria del Carducci nel 1908, a un anno dalla sua
morte. Su un cippo sono incisi i primi due versi:
…e quel da Pisa
che fé parer lo buon Marzucco forte.
(Purg., VI 17-18)
Gli ultimi due versi sono incisi su di una lapide che è stata apposta ai
piedi della tomba nel 1921, quando fu qui ricomposta, dopo che era
stata variamente smembrata e modificata e dirottata parzialmente
nel vicino Camposanto.
Eccomi allora al Camposanto, sul lato settentrionale della piazza:
l’ingresso, sulla porta di fronte al Battistero, mi immette
nell’imponente corridoio quadrangolare, che circonda, con bianche
arcate chiuse da quadrifore, uno spazio interno aperto, formando un
chiostro di eccezionali dimensioni. Qui l’arcivescovo Ubaldo
Lanfranchi avrebbe fatto trasportare la terra del Golgota, sottratta dai
pisani durante la crociata del 1203. Iniziati a partire dal 1277, i lavori
dell’edificio sono stati portati avanti soprattutto nel secolo
successivo, anche con tutta una grande serie di affreschi sulle pareti
del corridoio: ma gravissimi sono stati i danni del bombardamento
americano del 27 luglio 1944, poco prima della liberazione della
città. Ne è seguita la perdita di molte opere d’arte, solo in parte
compensata da un lungo restauro che ancora non ha portato a una
definitiva risistemazione. Ma sorprendente e affascinante è
comunque il percorso per questo corridoio, dove approdano ben
pochi dei turisti che là fuori affollano la piazza e l’interno del Duomo.
C’è una grande quantità di sarcofagi romani, spesso con sculture
di eccezionale qualità, che riconducono lontano nel tempo, a quei
miti del mondo pagano che Dante traspone nell’universo cristiano.
Eccone uno con figure di centauri che sembrano navigare su dei
flutti, certo ben diversi dalla sanguinosa onda del Flegetonte; anzi
sono accompagnati da vezzose fanciulle, forse Nereidi, sulle cui
spalle ruotano drappi gonfiati dal vento (questo è un sarcofago del II
secolo d.C.). Ecco più avanti un sarcofago con il mito di Fedra e
Ippolito, della fine dello stesso II secolo, che fu reimpiegato nel 1076
come sepolcro di Beatrice, madre di Matilde di Canossa, e di cui
tenne conto Nicola Pisano per il bellissimo pergamo che è nel vicino
Battistero (datato 1260). Guardando le folte figure che
rappresentano i vari episodi della vicenda mitica, non posso non
pensare alla similitudine di Cacciaguida:
Tra i vari sepolcri addossati in alto, sulle pareti interne del corridoio,
c’è quello del brillantissimo Francesco Algarotti, lo scrittore,
viaggiatore, divulgatore, illuminista e classicista, attento alle più
diverse forme della contemporaneità, delle arti, delle scienze, che fu
accolto dalla zarina Caterina e fu ciambellano di Federico di Prussia:
veneziano poligrafo e poliglotta, autore de Il newtonianismo per le
dame e dei Viaggi di Russia (sul lungo viaggio del 1738-39), a Pisa
morto nel 1764. Sul sarcofago non è sdraiata la sua statua, ma
quella di una vezzosa ed elegante dama o dea che legge da un
grande cartiglio; di lui c’è solo il volto di profilo su un medaglione che
sta più in alto. Sopra ancora, sulla cornice che inquadra il sepolcro,
una cetra, una maschera, un compasso, il tutto sovrastato da
un’epigrafe-dedica dello stesso re di Prussia: ALGAROTTO OVIDII
AEMULO / NEWTONI DISCIPULO / FRIDERICUS MAGNUS.
Poco oltre c’è il sepolcro dei conti della Gherardesca, già nella
chiesa di San Francesco, poi smembrato e qui ricostituito solo in
parte. Esso dovrebbe comunque riguardare un ramo della famiglia
che fu in opposizione a quello del conte Ugolino e che, mentre questi
era passato tra i Guelfi, rimase sempre schierato nella fazione
ghibellina. Non mancano poi monumenti commemorativi del tutto
“postumi”, come una statua ottocentesca con le immaginarie fattezze
del grande matematico pisano Leonardo Fibonacci, autore tra la fine
del XII e l’inizio del XIII secolo, del Liber Abaci: fu il primo a
introdurre in Europa la numerazione arabica.
Ma quello che più colpisce in questo Camposanto è la grande
ricchezza e varietà di affreschi, perlopiù accuratamente restaurati,
anche se i danni del tempo e della guerra hanno lasciato squarci,
lacerazioni, cancellazioni insanabili. Sono soprattutto affreschi
trecenteschi, come tante storie di santi, tra cui si distinguono le
Storie di Giobbe di Taddeo Gaddi (circa 1342), con fitto e brulicante
disporsi di personaggi e di azioni in tante storie di santi. Molti sono
quelli che si avvicinano alla tematica dantesca: ed è probabile che in
qualche caso siano stati suscitati dalla precoce suggestione della
Commedia. Davvero sorprendente è la Cosmografia teologica,
disposta sul muro all’estremità occidentale del braccio settentrionale,
opera di Piero di Puccio verso la fine del Trecento: il grande riquadro
è occupato quasi completamente da una ruota costituita da cerchi
concentrici di vario colore che rappresentano le sfere celesti e i
pianeti, secondo la cosmologia tolemaica; la ruota è abbracciata da
Cristo, di cui si vede la testa in alto, ai margini le mani che reggono
la ruota, in basso l’orlo della tonaca. Negli angoli in basso, fuori dal
contorno della ruota, si affacciano le immagini di sant’Agostino e di
san Tommaso, mentre i riquadri vicini presentano le prime storie del
Genesi, Adamo ed Eva, Caino e Abele.
Ma l’affresco più dantesco è certamente quello del Trionfo della
morte, che sarà ricollocato nella sede originaria, cioè nel braccio
meridionale, nel 2018, ma nel corso della mia visita si trova, dopo il
restauro, nella sala detta degli affreschi: l’opera risale all’incirca al
1336 e ormai quasi generalmente viene attribuita a Bonamico
Buffalmacco, il pittore che nel Decameron ordisce, insieme al collega
Bruno, le beffe ai danni dello sciocco Calandrino. La figura della
morte, con la sua falce, domina minacciosa il centro dell’ampio
rettangolo (ma è nella zona più rovinata dell’intera composizione):
alla sua destra in alto nel cielo volteggiano angeli, mentre in basso
alcuni di loro lottano con i diavoli per impadronirsi di alcuni cadaveri,
soprattutto di ecclesiastici; sotto la minaccia della falce si dispone,
poco più a destra, in un lussureggiante giardino, una brigata di
eleganti figure, soprattutto donne, in ameno e piacevole
intrattenimento. A sinistra si muovono invece personaggi a cavallo
che si imbattono in tre bare scoperchiate; dietro di essi, sopra uno
sperone di roccia, ci sono eremiti in varie posture. Qui ho come
l’impressione che, nonostante tutto, i volti estremi e inquietanti
dell’orrore non vengano a scalfire la misura cortese della cavalcata e
della conversazione nel giardino, esaltata nelle fogge e nei colori
delle vesti, nelle pose dei personaggi che sembrano ostinatamente
insistere a negare la morte. Non sono esposti comunque, perché
ancora in restauro, gli affreschi del Giudizio universale e dell’Inferno,
probabilmente dello stesso pittore, di inquietante espressività, specie
nel trattamento dei volti dei dannati: affreschi che offrirebbero
(specialmente il secondo) riscontri danteschi ancora più calzanti (il
Giudizio sarà ricollocato nel 2017).
Lascio il Campo dei miracoli percorrendo fino al Lungarno
Pacinotti la via Santa Maria, che man mano si svuota dei locali
turistici e della folla implicata. Dopo un certo tratto cominciano ad
affacciarsi sulla via, ormai sempre più quieta, quasi silenziosa, varie
sedi dell’università. Qui appare sempre più evidente come sulla Pisa
dei pisani si sovrappongano e tra loro si ignorino la Pisa dei turisti e
quella dell’università, che si dividono parti diverse della città: così via
Santa Maria sembra quasi divisa in due zone distinte. Sulla facciata
del palazzo dove è ospitata la Biblioteca del centro linguistico
interdipartimentale una lapide ricorda il soggiorno di Vittorio Alfieri tra
il novembre del 1784 e il settembre 1785: qui scrisse il Panegirico di
Plinio a Traiano, il primo libro Del Principe e delle lettere e “corresse
dieci tragedie”. Poco più avanti c’è la Domus galilaeana, poi la casa
natale del fisico Antonio Pacinotti e, quasi al termine della via, la
chiesa romanica di San Nicola, con un bellissimo campanile
duecentesco.
Raggiunto il Lungarno, l’opposta riva mostra la chiesetta gotica di
Santa Maria della Spina, affacciata proprio sul fiume, ma ricomposta
qui nel 1871, dopo essere stata smontata dalla collocazione un po’
più a ovest e più vicina all’acqua: ora è in restauro (che sarà
concluso nel 2016) e le sue piccole guglie svettano dall’armatura che
copre la facciata. Il suo nome designa una spina, custodita dal 1333,
che sarebbe stata estratta dalla corona del martirio di Cristo, ma che
ora si trova in un’altra chiesetta, vicino al Campo dei miracoli.
Sul Lungarno Pacinotti si affaccia tutta una serie di nobili palazzi,
variamente edificati in epoche diverse, ma disposti come a comporre
un’armonica quinta: tra gli altri il palazzo detto Reale, fatto costruire
dal granduca Francesco I verso la fine del Cinquecento, e, arretrato
un po’ verso l’interno, il Palazzo della Sapienza, sede dell’università,
di fondazione quattrocentesca, ma più volte trasformato fino al
Novecento. Poi, superata la piazza Garibaldi, dove approda il Ponte
di Mezzo e da cui si diparte il già attraversato Borgo di Mezzo, sul
successivo Lungarno Mediceo si affacciano altri nobili palazzi, tra cui
il cinquecentesco Palazzo Toscanelli (già Lanfranchi), sede
dell’Archivio di Stato, dove Byron soggiornò tra il 1821 e il 1822,
lavorando al suo Don Juan, e il secentesco Palazzo Roncioni, dove
nel 1795 Alfieri fu invitato a recitare il Saul e dove nel 1816
soggiornò Madame de Staël: qui era nata l’Isabella Roncioni che
Ugo Foscolo incontrò a Firenze nel 1801, avendone una delusione
amorosa che lascia traccia nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis.
Bocca d’Arno
lontane,
forme d’aria nell’aria,
l’isole del tuo sdegno,
o padre Dante,
la Capraia e la Gorgona,
Nel poema Francesca e Pia non intonano canti: ma nel corso del
tempo le loro così diverse figure femminili hanno suscitato varie
versioni operistiche, le cui risultanze maggiori si trovano nella Pia de’
Tolomei di Cammarano / Donizetti e nella Francesca da Rimini di
D’Annunzio / Zandonai. Ma tante sono le presenze e le intonazioni
musicali che vengono toccate nel convegno: su cui aleggia la
suggestione delle voci e delle musiche intonate nella Commedia.
Ecco la voce di Casella che, su richiesta di Dante, intona Amor che
ne la mente mi ragiona, catturando con la dolcezza del canto anche
le anime appena giunte sul lido del Purgatorio, rimproverate poi dal
severo Catone per questa che appare come una negligenza di fronte
all’urgenza della purificazione (Purgatorio, II 106-123). Ecco i tripudi
musicali che insistentemente risuonano nel Paradiso, in un continuo
inafferrabile crescendo di intensità, che eccede la capacità percettiva
del pellegrino, come nel canto degli spiriti militanti che percorrono la
croce luminosa del cielo di Marte (e la similitudine si riferisce qui a
una reale esperienza musicale):
Ho già incontrato questo passo (vedi p. 378), con cui, nella bolgia
degli scismatici e seminatori di discordia, Pier da Medicina indica
sommariamente i limiti della Valle Padana: limite orientale Marcabò,
limite opposto Vercelli, che era uno dei centri più importanti della
parte occidentale della valle, in preda a violente lotte di fazione (poi
nel XIV secolo passò sotto il controllo dei Visconti, che nel 1427 la
cedettero ad Amedeo VIII di Savoia). Dante ricorda Vercelli anche in
un passo dell’Epistola VII VI 22, (già evocato a p. 709), in cui invita
l’imperatore a non indugiare a voler sottomettere Cremona, azione
che potrebbe suscitare la “rabies inopina” di altre città lombarde,
Brescia o Pavia, e poi anche Vercelli o Bergamo.
Da Casale raggiungo Vercelli costeggiando gialle distese di risaie.
Parcheggio agevolmente ai margini dell’ampio giardino (Parco John
Fitzgerald Kennedy) che prolunga la piazza Sant’Eusebio, di fronte
alla Cattedrale, dedicata al nome del santo vescovo che fondò la
diocesi nel IV secolo. La chiesa con un annesso cimitero costituiva il
limite nord della città medievale e nella grande piazza si svolgeva il
mercato settimanale. L’aspetto attuale della piazza e della
cattedrale, che presenta una levigatissima facciata neoclassica –
che venne a dare l’ultimo tocco a un edificio costruito e modificato in
varie fasi – è quanto di più lontano ci possa essere dal ricordo dei
tempi di Dante. Nel giardino al centro della piazza c’è un obelisco
sormontato da una stella metallica: su uno dei suoi lati un
medaglione con un volto di profilo sovrasta la dedica A CARLO ALBERTO
/ LARGITORE / DELLO STATUTO / PROMOTORE / SOLDATO E MARTIRE / DELL’UNITÀ
/ ED INDIPENDENZA / D’ITALIA; figure marmoree ne circondano la base.
Più in là, a fianco del Parco Kennedy, che si sviluppa sul corso De
Gasperi, sempre al limite del centro storico, si presenta la grande
basilica di Sant’Andrea, in una sua monumentale misura cistercense
contaminata con forme della tradizione romanica lombarda ed
emiliana: chiesa abbaziale costruita in breve tempo nei primi decenni
del XIII secolo per iniziativa del cardinale vercellese Guala Bicchieri.
Il corpo dell’abbazia sporge dal transetto sinistro della chiesa: questa
sembra svilupparsi in più direzioni, in un viluppo di edicole, di fastigi,
di scansioni ritmiche, di contrafforti e incastri murari. Sull’ampio
intrico si impone un alto e slanciato tiburio ottagonale, da cui svetta
una più stretta cuspide a due piani sempre ottagonale, che si svolge
in un tetto sormontato da colonnine. È come un bizzarro
elaboratissimo campanile centrale, che dialoga col campanile vero e
proprio, quadrato e più tozzo, che si trova sul fianco, all’altezza del
transetto destro, e sembra raccogliere la spinta dei due più esili
campanili-torricini che fiancheggiano la facciata. Si tratta di un
intreccio ben compartito, misurato dall’alternarsi e scambiarsi tra gli
ampi comparti di laterizio rossiccio e mattoni e quelli in bianca
muratura, con vario gioco di archetti di tipo pisano. Un diverso effetto
di distribuzione tra colori e materiali è dato dalla facciata, su cui
domina una pietra grigia, ma in cui si aprono i bianchi vuoti degli
archetti pensili e su cui svettano gli stretti campanili-torricini, che nei
tre piani superiori riproducono l’alternanza tra rosso e bianco del
resto della struttura. Mi lascio come incantare e indugio un po’ a
lungo su questo edificio poco visitato e troppo poco celebre. Sulla
lunetta che sormonta il portale centrale un rilievo di scuola
antelamica, risalente all’incirca al 1220, presenta il martirio di
sant’Andrea, fissato nell’atto in cui viene legato alla croce e prima
che questa venga rovesciata.
Il districarsi di corpi architettonici dell’esterno sembra d’altra parte
come raccogliersi e comprimersi nell’interno, con tre navate divise
da grandi pilastri in pietra grigia, che vengono a riavvolgersi e
abbracciarsi nelle volte ogivali. Originale appare anche la
disposizione interna del tiburio, che viene come a svolgere la sua
forma ottagonale dalla convergenza dei quattro archi delle volte della
navata, del presbiterio e dei due transetti. Sulle trombe dei quattro
angoli sono scolpiti i simboli degli evangelisti, sormontati da
fantastici ventagli dipinti, che danno una strana e illusoria
sensazione d’Oriente.
Sul fianco sinistro della chiesa, nell’ambiente dell’abbazia, ha ora
sede una parte del Dipartimento di studi umanistici dell’Università del
Piemonte orientale “Amedeo Avogadro”, fondata nel 1998 (col nome
del grande chimico piemontese, che insegnò nel collegio di Vercelli).
Qui c’è un chiostro di grande semplicità, le cui arcate sono sorrette
da fasci di quattro colonnine: sul cielo del chiostro incombe ancora la
visione del corpo esterno della basilica, con ulteriori effetti dati dal
legame inestricabile, dal reciproco sorreggersi, incastrarsi e
svincolarsi delle forme architettoniche. Dal chiostro si accede alla
Sala capitolare, dove nel 1310 fu firmata una pace tra le fazioni
guelfa e ghibellina alla presenza dell’imperatore Enrico VII (e chissà
se era presente anche Dante!).
Davanti alla chiesa ci sono poi i vari corpi dell’ex Ospedale
Maggiore, la cui prima origine, come ospedale di Sant’Andrea, risale
agli stessi anni della basilica: ne conserva traccia un bel porticato
ogivale disposto sulla via Galileo Ferraris. All’ospedale apparteneva
anche l’ottocentesco Palazzo Tartara, anch’esso in uso al
Dipartimento universitario di cui si è detto, che fino a qualche anno
fa era denominato Facoltà di Lettere e Filosofia, come indica ancora
la targa apposta all’ingresso.
Da questo spazio al margine della vecchia città mi addentro nel
suo cuore, attraverso la via Galileo Ferraris, che mi conduce alla
centrale piazza Cavour, porticata in vari stili e con vari colori, in cui si
attestano alcuni bar, anche con tavoli disposti su pedane che
fuoriescono dai portici e invadono parte dello specchio della piazza,
tra loro in pacifica concorrenza. Nella tranquilla accidia del
pomeriggio mi sembra di riconoscere qui un segno della resistenza
delle piazze d’Italia, piazze non metafisiche, ma cariche di oggetti, di
marchi e di cose, pedane e ombrelloni, un gazebo, la bottega del
giornalaio, negozi di dolci e prodotti gastronomici, borse, scarpe,
stoffe e novità per uomo e per signora, con le loro insegne, qualcuna
dal gelido design postmoderno e plastificato, qualcun’altra di
ottocentesca cromatura, un po’ scrostata: Chiarodiluna, Il Girasole
pregiata dolceria, Armonie del gusto. Mi seggo a un tavolo disposto
su una nera pedana, accanto a un gruppo di giovani, uno dei quali
indossa una piccola casacca rosso scura, con l’insegna calcistica
della A.S. Roma. Mentre le bevande sono accompagnate da taglieri
con stuzzichini dall’aspetto barocco, Cavour sta lì, bianco nella
statua al centro della piazza, su un piedistallo su cui sono
appoggiate due allegoriche signore. Ha il braccio destro piegato e
sporto leggermente in avanti, con la mano aperta, che sembra
proporre qualcosa a questa piazza d’Italia; il braccio sinistro scende
lungo il fianco, con la mano che regge un cartiglio; dietro di lui,
sfiorati dall’orlo del soprabito, palandrana, spolverino, quattro grossi
libroni impilati sul piedistallo. Al di là dei palazzetti porticati, svetta tra
i tetti e oltre il biancore di un curioso terrazzino la scura Torre
dell’Angelo, risultato di un’elevazione ottocentesca con finestre e
merlatura su una più vecchia base tardogotica.
Faccio un giro per le strade del centro, toccando nobili palazzi su
cui sempre informano le apposite targhe. Singolare tra tutto è
l’aspetto della sinagoga, in uno stile moresco che si dispiega su un
tessuto a fasce di pietra bicolore, con merlature, cupole, cupolette,
edicole, portico, grande rosa centrale: costruita nel secondo
Ottocento, nel momento di massima fioritura della comunità ebraica
vercellese, la cui origine rimonta al XV secolo. Una lapide su un lato
aggettante della facciata elenca i nomi di trenta vittime della shoah.
Il mio percorso prosegue toccando l’ampio castello quadrangolare
costruito dai Visconti e poi variamente modificato dai Savoia, che ora
è sede del Palazzo di giustizia. Poi, dopo aver toccato le belle
facciate di due palazzi Avogadro, Avogadro di Quinto e Avogadro
della Motta (una lapide sulla facciata del secondo commemora
soggiorni di Napoleone Bonaparte nel 1800 e nel 1805), raggiungo
di nuovo la cattedrale dal lato del transetto destro e del possente
squadrato campanile, che risale alla seconda metà del XII secolo,
unica parte superstite della costruzione medievale. Entro ora
all’interno della chiesa, in cui con severa armonia si sovrappongono
stili diversi, con una dominante classico barocca. Qui c’è la cappella
del beato Amedeo IX di Savoia, morto a Vercelli nel 1472, tumulato
qui nel 1714, sotto il marmoreo scudo della famiglia. Appeso sotto la
cupola, allarga le braccia tra i riflessi della luce pomeridiana un
grande crocifisso in lamina d’argento in parte dorata, che dovrebbe
essere il segno più antico tra quelli incontrati qui a Vercelli. Risale
all’età ottoniana, al tempo dell’episcopato di Leone (999-1026):
oggetto di culto, considerato miracoloso, nel 1983 subì un atto
vandalico, in seguito al quale è stato sottoposto ad accurato
restauro.
Da Novara al monte Rubello
Da Biella, dopo aver superato i piccoli rilievi della Serra, scendo nel
Canavese, il territorio del Piemonte compreso tra la bassa valle della
Dora Baltea e la sua confluenza nel Po: Dante lo ricorda, insieme al
Monferrato (vedi p. 911), per le devastazioni che subì nella guerra
condotta da Giovanni di Monferrato contro Alessandria. Ecco subito
la capitale del Canavese, Ivrea, colonia romana col nome di
Eporedia: a fianco della Dora si distende il suo centro storico, che
reca ben poche tracce del suo assetto romano e medievale.
Percorrendo la rettilinea via Palestro, che con la successiva via
Arduino sembra seguire la linea del decumano, raggiungo la centrale
piazza dove è il settecentesco Palazzo del Municipio. La piazza ha
praticamente tre nomi: viene chiamata tradizionalmente piazza di
Città, ma aveva avuto a lungo la denominazione ufficiale di piazza
Vittorio Emanuele, che poi è stata sostituita con quella di piazza
Ferruccio Nazionale, col nome di un giovane partigiano preso
durante una sua coraggiosa azione, massacrato e impiccato il 29
luglio 1944 qui sulla piazza dai feroci militi della Decima Mas, col
seguente cartello appeso al collo: AVEVA TENTATO / CON LE ARMI / DI
COLPIRE LA / DECIMA.
Tornando un po’ indietro, da una traversa della via Palestro
raggiungo una piazza su cui si affaccia un bel teatro ottocentesco,
inaugurato nel 1834 come Teatro civico e poi a partire dal 1922
intitolato a Giuseppe Giacosa, il drammaturgo nato in un paese a
pochissimi chilometri da qui, Colleretto Parella, oggi Colleretto
Giacosa: la voce maggiore del nostro teatro “borghese” di fine
Ottocento, autore di vari drammi tra cui il grande successo di Come
le foglie (1900), ma oggi ricordato e ascoltato di più, come librettista,
in coppia con Luigi Illica, per i capolavori di Giacomo Puccini,
Bohème, Tosca, Madama Butterfly. Nella sua opera non mancano
segni del suo legame col Canavese, tra cui un libro scritto nel 1878,
arioso percorso storico e turistico, Castelli valdostani e canavesani.
Questo libro, naturalmente, dà particolare rilievo al castello di Ivrea,
che si trova nella parte più alta della città, a cui posso salire
lasciando la piazza del teatro e costeggiando dal basso la mole del
Palazzo Vescovile. Sulla piazza Castello mi muovo tra l’abside del
Duomo, affiancata da due bianchi campanili, il porticato del Palazzo
Vescovile e la mole del Castello: l’abside e i campanili conservano
l’originario carattere romanico (ma la prima chiesa risale più indietro,
al IV secolo), mentre la facciata, che dà sulla piazza opposta, risale
all’Ottocento, in atteggiata forma palladiana. Il grande castello
quadrangolare domina la città e il territorio circostante con le quattro
alte torri cilindriche che si levano ai suoi angoli: il loro rosso laterizio
fa sì che sia tradizionale e corrente la loro denominazione come
rosse torri, esibita e diffusa dalla retorica turistica e nazionalistica di
Piemonte, ode saffica scritta da Carducci nel 1890 e raccolta in
Rime e ritmi (alla scuola media la imparai a memoria):
Lascio Cuneo per scendere verso sud, diretto verso Turbìa, località
che Dante indica come limite occidentale (opposto a quello orientale,
costituito da Lerici), della Liguria, notando che ruine e dirupi del suo
scosceso paesaggio sembrano comode scale rispetto alla costa che
egli si trova davanti nell’ascesa alla montagna del Purgatorio. Il
nome Turbìa deriva dal trofeo, tropaeum, innalzato nel 6 a.C. in
onore di Augusto per la pacificazione delle Alpi occidentali, sulla via
Iulia Augusta, che attraverso la Liguria conduceva in Provenza: ma
ora è La Turbie, in territorio francese, nel Dipartimento delle Alpes
Maritimes, che corrisponde grosso modo a quella che era la contea
di Nizza, passata nel 1388 sotto il dominio dei Savoia e ceduta alla
Francia nel 1860, per l’aiuto dato alla guerra contro l’Austria.
Nel rettifilo tra Cuneo e Borgo San Dalmazzo si apre un’ampia
vista sul fronte meridionale della cerchia alpina; poi la strada
comincia a salire solcando la valle del Vermenagna, raggiungendo
Limone Piemonte e poi la base del Colle di Tenda, che fa da confine
tra Italia e Francia. Non si valica il colle, ma sotto di esso si
attraversa una galleria di tre chilometri e mezzo, in cui si procede a
senso unico alternato, mentre è in costruzione un secondo tunnel
(ma nel 2017 si avrà notizia di una sospensione dei lavori per la
scoperta da parte della procura di Cuneo di malversazione, frode e
danni per la sicurezza). Raggiungo la galleria proprio mentre è
aperto il flusso del mio senso di marcia; e all’uscita vedo una lunga
fila di auto che attendono il turno in direzione dell’Italia. La strada
scende poi rapidamente sul comune di Tenda, abbarbicato su un
costone di monte e dominato da una torretta su cui sventola la
bandiera francese: Tenda, ora Tende, e la vicina Briga Marittima (La
Brigue) non furono annesse alla Francia nel 1860, sembra perché si
trattava di luoghi molto amati da Vittorio Emanuele II, ma lo furono
nel 1947 (insieme all’altopiano del Moncenisio), per il trattato di
Parigi successivo alla Seconda guerra mondiale.
La strada segue il corso del fiume Roya, che nasce proprio dal
Colle di Tenda e scende verso il mare, a tratti incassato tra strette
rocce a strapiombo, con vere e proprie gole: tra queste gole si
pratica uno strano sport di recente invenzione, l’hydrospeed, in cui si
è chiusi adeguatamente bardati in un galleggiante individuale, una
sorta di slitta fluviale che scorre sulle acque spesso rapidamente
turbinose. Dopo Breil (già Breglio) la discesa diventa abbastanza
dolce, ma serpeggiante secondo il corso del Roya, e riporta
improvvisamente in territorio italiano, a ridosso di Ventimiglia, in vista
del mare. Poco sopra Ventimiglia, prendo l’autostrada che mi
riconduce di nuovo in Francia, arretrata in alto sopra la costa, in
posizione più elevata rispetto alle strade parallele abbarbicate sulla
roccia che percorrono la Côte d’Azur da Mentone a Nizza, le tre
Corniches, la Grande, la Moyenne e la Inférieure.
Ed ecco finalmente La Turbie, tutta arroccata sulla Grande
Corniche. Bellissimo è il Rondo, belvedere con giardino, che si apre
su uno sperone avanzato verso il mare, accanto all’area in cui si leva
il tropaeum, il trofeo delle Alpi in onore di Augusto. Siamo sopra la
breve e stretta fascia costiera che costituisce il principato di Monaco,
a cui La Turbie è appartenuta solo per un brevissimo periodo, dal
1705 al 1713. Come indica l’iscrizione su una lastra, questo Rondo è
dedicato al principe Ranieri III di Monaco, cittadino onorario di La
Turbie ed è stato inaugurato il 29 settembre 2007 dal principe
Alberto II e dal sindaco di La Turbie Nicolas Bassani. Nel giardino
un’altra lapide rinvia all’origine del luogo e dello stesso nome di
Monaco, con due brevi citazioni latine, la prima di una frase dello
storico del IV secolo Ammiano Marcellino, XV, 9-10 (“Hercules…
Monoeci similiter arcem et portum ad perennem memoriam
consecravit”, “Ercole consacrò a perenne memoria la rocca e il porto
di Monaco”): il nome Monaco deriva in effetti da un tempio di
Hercules Monoecus, attributo dal greco mónoikos, solitario. La
seconda citazione è quella di due versi dell’Eneide, VI 830-831:
“aggeribus socer Alpinis atque arce Monoeci / descendens, gener
adversis instructus Eois!”, “il suocero scendendo da baluardi alpini e
dall’arce di Monaco, il genero sostenuto dai contrapposti Eoi”. Si
tratta di parole che Virgilio mette in bocca ad Anchise, che,
consultato da Enea nell’oltretomba, prefigura il futuro di Roma e
evoca tra l’altro la guerra civile tra Cesare e Pompeo (suocero e
genero, dato che Pompeo aveva sposato la figlia di Cesare Giulia),
rappresentando Cesare nell’atto di muovere dalla Gallia e Pompeo
in quello di raccogliere le milizie nelle province orientali (Eois indica
gli abitanti dell’oriente, dal greco Éos, aurora).
La posizione del Rondo è tale che lo sguardo può abbracciare in
un solo quadro l’intero territorio dello stato-città, di questo principato
di Monaco il cui spazio è quasi soltanto costituito da costruzioni, se
si eccettua il verde giardino alberato che fronteggia il palazzo
principesco e la fortezza che vi è inglobata, sul sito di una rocca che
esisteva già nel XIII secolo, sotto il controllo delle diverse fazioni
genovesi. Di essa si impadronì il guelfo Francesco Grimaldi nel
1297, data considerata iniziale del potere dei suoi discendenti, che
ebbero il titolo di principi nel 1612. Qua sotto, il corpo cementizio del
principato si distende intorno al porto brulicante di yacht certamente
lussuosi; a sinistra, oltre una rada di cui non si scorge la zona più
interna, avanza verso il mare il promontorio di Cap Martin, oltre il
quale si scorge la costa italiana, tra Ventimiglia, Bordighera e oltre. A
destra invece, oltre la rocca di Monaco, la vista della costa marina è
ostacolata dal vicino fronte avanzato della montagna, su cui domina
il Trofeo delle Alpi. Questo si raggiunge attraversando il centro
storico di Turbia, attraverso una porta ogivale, e salendo una
stradina a comodi gradini, proprio sull’antico percorso della via Iulia
Augusta.
Il Trofeo, in parte ricostruito dopo essere stato a lungo smembrato
per ricavarne materiale da costruzione, si leva su una base
quadrata, su cui sono i resti di una grande scritta con i nomi delle 46
tribù alpine sconfitte e sottomesse dai comandanti romani (tra cui
furono Druso e Tiberio). Sopra questa base, c’è il resto di una torre
circolare circondata dalle poche colonne superstiti tra le 24
originarie, mentre non c’è traccia della statua bronzea di Augusto
con due barbari sottomessi ai suoi piedi che era sostenuta dalla
torre: il tutto era superbo segno di potere, di misura dello spazio,
innalzato verso il cielo e affacciato sul mare, su quello che era il
limite tra l’Italia e la provincia della Gallia Narbonese. Da quassù si
vede bene anche la costa sulla destra, verso sudovest, con la Baie
des Fourmis, su cui si affaccia Beaulieu-sur-Mer, e la penisola di
Cap Ferrat, che si protende verso sud, con le due punte di Saint
Hospice e di Cap Ferrat, e nasconde la visione di Nizza.
Quando ormai si avvicina la sera, scendo verso il mare
avvolgendomi nel groviglio delle Corniches. Faccio una prima sosta
a Cap d’Ail, il primo centro sulla costa a ridosso di Monaco, su un
capo subito a sudovest del principato, sulla Corniche inferiore: è una
sosta personale, come a ritrovare un luogo in cui ho passato alcuni
giorni a vent’anni, con tre amici già compagni di scuola, Alfonso
Berardinelli e i due fratelli Leonardis, uno dei quali, Remigio,
scomparso ormai da alcuni anni, è stato a lungo noto nel centro di
Roma, per il suo sostare per intere giornate in posti molto frequentati
– in primo luogo piazza Barberini, davanti alla fontana berniniana del
Tritone – con pose giullaresche e con allocuzioni paradossali ai
passanti, che cercava di provocare per farli riflettere sulle
contraddizioni del mondo.
Cap d’Ail: eravamo in un centro di soggiorno internazionale per
studenti ed era la prima volta che varcavamo i confini d’Italia. Erano
vacanze tra giovani alla scoperta del mondo, tra gli sfuggenti e
indefiniti desideri della generazione europea che era la prima a
essere uscita dal recente disastro, nel cui cuore era nata: vacanze
povere e semplici, pur nella vicinanza a Montecarlo, luogo delle
vacanze dei ricchi e dei dilapidatori, la cui celebrità era stata
amplificata dal nome della principessa consorte di Ranieri III, la
bellissima attrice americana Grace Kelly. Cap d’Ail: ma ora è difficile
riconoscerlo, con la moltiplicazione di edifici e di ville, con il fitto
succedersi dei negozi sulla strada centrale. Percorro le stradine che
vanno verso una spiaggia di cui ricordo il nome, la Plage Mala, che
si apre su una baia oltre una delle punte a ovest del Cap d’Ail vero e
proprio, il Cap Mala: tra i muretti e le reti che proteggono le ville
disposte l’una accanto all’altra si affaccia ogni tanto la vista del
mare, con la vicina punta di Cap Estel, oltre cui si affacciano
Beaulieu e la penisola di Cap Ferrat.
Il tramonto è ormai avanzato quando con l’auto entro dentro il
principato, in un groviglio di strade, di tunnel, di sensi unici, di
parcheggi sotterranei, che mi impegnano a lungo prima di farmi
trovare un parcheggio che mi porti non lontano da quello che
propriamente dovrebbe essere il centro di Montecarlo. Lasciata
finalmente l’auto e emerso dal fondo del parcheggio, percorro piazze
e boulevard, approdando a un ristorante all’aperto davanti al porto,
dalla parte opposta al corpo della rocca, che è in piena illuminazione
serale; in un’ossessione di palazzi incredibilmente appollaiati su
quella che forse un tempo era una rotta ruina e che ora offre sistemi
stradali agevoli ma complicati, come tutto appare agevole
nell’artificiale sistema di questo principato-città, riservato al riservato
godimento della ricchezza, su cui a tratti si affaccia un turismo
subalterno che guarda e consuma, che si bea dell’artificio. Passano
automobili di grosso calibro, con uomini in giacca e cravatta e donne
in abito da sera; scorre un’umanità addetta al consumo patinato,
convinta del proprio possedere il mondo. E si ha la sensazione di
essere entro un perfetto organismo da cui è stata espunta la natura,
che pur si affaccia nelle piante dei ben curati giardini e nel leggero
sciabordio del mare prigioniero del porto. Del resto le strade di
questa città sono abituate perfino a trasformarsi in una pista
automobilistica, dove una volta l’anno corrono i bolidi più veloci e
potenti del mondo, nel Gran premio di Monaco di Formula Uno, che
quest’anno si è disputato il 24 maggio. Sembra strano e paradossale
che questo puro artificio si disponga su un singolare fronte naturale,
su uno dei più bei siti del Mediterraneo…
Finita la cena, continuo la passeggiata sul colle opposto a quello
della Rocca, dall’altra parte del porto; e non posso non toccare la
Place du Casino, davanti al luogo più celebre di Montecarlo. Nella
piazza, intorno alla sontuosa aiuola su cui svettano delle palme,
sono parcheggiate lussuose auto, mentre in giro ci sono pochi turisti
che scattano foto della facciata, pochi salgono e scendono dalla
breve fatidica scala, vigilata da altezzosi portieri. Luogo letterario,
gloria e dannazione di giocatori di tutto il mondo, di personaggi
inventati e di personaggi reali, tra cui due singolari italiani, Mattia
Pascal e Tommaso Landolfi. E chissà se ancora, come ai tempi di
Dante e per più umili giochi, c’è ancora qualcuno appostato per
corteggiare i vincitori:
Ormai vicino a Pavia, attraverso ancora una volta un ponte sul Po:
sono nei pressi di un centro, Sannazzaro de’ Burgundi o Burgondi, il
cui nome evoca una famiglia pavese ricordata nel Convivio, IV 29 3.
Trattando della nobiltà, lì Dante nota che famiglie nobili potrebbero
respingere la sua idea che la nobiltà sia qualità dell’anima
individuale e non della “progenie”: e come esempio di queste
famiglie, ne nomina una del nord e una del sud d’Italia, “quelli da
santo Nazzaro di Pavia, e quelli delli Piscicelli da Napoli”. Questi
Sannazzaro o Sannazaro erano quasi sicuramente di origine
burgunda, come dice il nome di questo paese vicino al corso del Po:
furono dalla parte di Enrico VII, da cui ebbero un privilegio nel 1311,
ma poi passarono dalla parte guelfa e furono posti al bando il 14
luglio 1313 e poi esiliati quando nel 1315 Pavia entrò in ambito
visconteo. Nel corso del XIV secolo due membri della famiglia
passarono a Napoli al seguito di Carlo III di Durazzo: e loro
discendente fu il poeta napoletano Jacopo Sannazaro. Nell’appaiare
i Sannazaro ai nobili napoletani Dante ci sembra così quasi
prefigurare, involontaria profezia, quella futura proiezione napoletana
della famiglia.
Insediata sul fiume Ticino (e Ticinum era il suo nome romano),
Pavia aveva avuto un ruolo centrale nell’alto Medioevo, come
capitale del Regno italico e della corte longobarda e dopo il
saccheggio subito da una incursione degli Avari (924) aveva visto
svilupparsi un Comune tra i più prosperi della Lombardia, anche se
con un rilievo politico relativamente ridotto. Ai tempi di Dante il
Comune era conteso tra la fazione guelfa dei Langosco e quella
ghibellina dei Beccaria o Beccheria. Capo dei guelfi e per lungo
tratto signore della città fu Filippone dei Langosco che, dopo essersi
sottomesso a Enrico VII, passò dalla parte della lega guelfa. Al ruolo
di Pavia in quel frangente (Enrico VII vi si trovò nell’aprile e
nell’ottobre del 1311) accenna Dante scrivendo all’imperatore il 17
aprile 1311, nel passo già ricordato sull’inutilità di insistere a piegare
Cremona e sulla rabies inopina che Pavia condivide con Brescia
(Epistola, VII VI 22). Quanto a Filippone, passato definitivamente nel
campo antimperiale, nell’estate del 1312 tentò di assalire Piacenza,
tenuta da Galeazzo Visconti, ma fu sconfitto e imprigionato in
Milano, mentre nell’ottobre del 1315 Pavia entrava sotto il diretto
controllo dei Visconti, con il sostegno dei Beccaria.
Proprio uno dei ghibellini Beccaria si trova tra i traditori
dell’Antenora, Tesauro Beccaria, abate vallombrosano e nel 1258
legato papale nella Firenze guelfa, dove fu accusato di congiurare
con i ghibellini di Farinata degli Uberti e giustiziato senza processo,
“a grido di popolo” (come dice Giovanni Villani nella Nuova Cronica);
nel fondo dell’inferno egli è accanto a Bocca degli Abati che, dopo
essere stato smascherato dal vicino di pena Buoso da Dovera, lo
indica tra gli altri suoi vicini, ricordandone la violenta fine con
impietoso sarcasmo (“di cui segò Fiorenza la gorgiera”).
Più in generale i pavesi sono ricordati nel De vulgari eloquentia, I
IX 7, non per la specificità della loro lingua, ma entro
un’esemplificazione del variare delle lingue nel corso del tempo:
“Quapropter audacter testamur quod, si vetustissimi Papienses nunc
resurgerent, sermone vario vel diverso cum modernis Papiensibus
loquerentur” (“Perciò senza timore possiamo sostenere che, se gli
antichissimi Pavesi ora rinascessero, parlerebbero una lingua
differente o del tutto diversa da quella dei moderni Pavesi”).
Il ponte sul Ticino con cui raggiungo il centro della città è il Ponte
della Libertà, quasi parallelo al Ponte coperto, che fin dal Trecento
costituiva il passaggio sul fiume e che ha subito varie modificazioni
nel tempo, fino alla distruzione del bombardamento del settembre
1944 e alla successiva ricostruzione in forma meno fedele
all’originale. Una sorpresa mi attende comunque nell’arrivo a Pavia:
ho una prenotazione alberghiera sbagliata, con la data del 15, ma
del prossimo mese, e l’albergo che credevo prenotato è
assolutamente completo. La ragazza della reception mi aiuta con
grande gentilezza a cercare un’altra collocazione, facendo varie
telefonate: ma in città è tutto pieno per vari eventi in atto e alla fine si
trova una stanza un po’ fuori, subito a nord, sulla via Vigentina, a
San Genesio, località al centro di quello che era il parco visconteo,
impiantato nel XIV secolo, che ora è sede di un comune che ne ha
incorporato un altro, il che gli attribuisce lo strano nome di San
Genesio e Uniti.
Eccomi allora in un grande albergo di passaggio, dai tratti
caratteristici di certi luoghi della provincia italiana, dove passa di
tutto, affari, lavoro, raduni di sportivi, incontri sessuali clandestini o
venali. C’è un gruppo di rappresentati di commercio asserragliati
davanti alla TV a seguire la partita di Champions League
Manchester City-Juventus, vinta dalla Juve per 2-1. Subito accanto
all’albergo una gigantesca pizzeria offre rapido e popolare servizio a
famiglie e a rumorose compagnie. Ma il nome del luogo evoca, certo
solo per me, il santo martire patrono degli attori, san Genesio o
Ginesio, festeggiato il 25 agosto, e la sua leggenda, secondo cui
sarebbe stato un attore romano miracolosamente convertitosi
quando, di fronte all’imperatore Diocleziano, si trovava a recitare in
una parodia del rito cristiano del battesimo. Fingeva di essere
moribondo e di ricevere in punto di morte l’acqua del battesimo, ma
l’acqua del falso rito fece in lui l’effetto miracoloso di convertirlo
istantaneamente; quindi, davanti all’imperatore, uscì dalla finzione e
affermò calorosamente la sua fede cristiana, il che lo portò a subire il
martirio. Nel teatro barocco la sua vicenda è stata sviluppata e
interpretata sull’asse della labilità dei confini tra realtà e finzione.
Ricavando spunti dal racconto agiografico del Flos sanctorum del
padre Pedro de Ribadeneyra, libera traduzione spagnola della
Legenda aurea di Jacopo da Varazze, Lope de Vega compose nel
1608 la commedia Lo fingido verdadero: dove Ginès / Genesio si
trova a recitare davanti all’imperatore la parte di un cristiano
condotto al martirio, quando si è già convertito al cristianesimo, e la
recitazione finta diventa a un certo punto vera, dato che egli
confessa esplicitamente la propria conversione e sulla scena stessa
viene immediatamente martirizzato. Altri san Genesio teatrali hanno
poi seguito il viluppo barocco di quello di Lope (tra cui anche uno
italiano dello sconosciuto Michele Stanchi, il cui testo è stato
stampato a Roma nel 1687): e l’eco del nome e del mito teatrale è
giunta fino al titolo che Jean-Paul Sartre ha dato al suo pletorico libro
del 1952 sul “blasfemo” Jean Genet, Saint Genet, comédien et
martyr.
Dopo la notte passata a San Genesio mi rendo conto che questa
mia imprevista sosta alle porte di Pavia mi ha portato molto vicino
alla celebre Certosa, monumento estraneo ai tempi danteschi, che
mi impone comunque una sia pur rapida visita. La mattina del 16
settembre, prima di rivolgermi di nuovo verso la città, mi dirigo così
verso la Certosa, assoluta meraviglia viscontea, pensando anche a
un libro di Carlo Emilio Gadda, Verso la Certosa, raccolta di scritti di
viaggio apparsa nel 1961, il cui titolo però non si riferisce alla
Certosa di Pavia, ma a un’altra Certosa, anch’essa viscontea, quella
di Garegnano, alla periferia di Milano, fatta costruire verso la metà
del XIV secolo dall’arcivescovo Giovanni Visconti, che vi fece
ospitare anche Petrarca (Gadda ne parla solo alla fine dello scritto
conclusivo del libro, Il Petrarca a Milano). Un equivoco intreccio tra
Certose scaturisce del resto dalla suggestione del grande romanzo
di Stendhal, La Certosa di Parma, che si riferisce a una Certosa che
non esiste, inventata, forse proprio per attrazione e fascinazione di
questa Certosa di Pavia, per collocarci verso la fine il protagonista
Fabrizio Del Dongo.
Nel mattino leggermente piovoso tocco il lungo muro di cinta che
circonda il complesso, ai margini del parco visconteo, immerso in un
umido silenzio. Attraverso l’ingresso che immette sul piazzale
rettangolare, proprio mentre la pioggia si arresta e comincia ad
aprirsi il cielo: ecco, in fondo, la facciata della chiesa, con quella sua
architettura multipla, che sorprende e depista, che è impossibile
definire secondo convenzionali schemi stilistici. C’è un senso di
interferenza, amplificato sia dalle strutture architettoniche che dal
modo in cui esse sono disegnate, illuminate, esaltate, corrose dai
vuoti che vi si aprono e dal gioco di bassorilievi e altorilievi, dal vario
e studiato disporsi di figure, di segni e perfino di scritture. La
struttura e la decorazione della facciata si sono prolungate dal tardo
Quattrocento al Cinquecento avanzato, in età non più viscontea, ma
sotto gli Sforza e poi nel passaggio delle guerre d’Italia, fino
all’assestamento del dominio spagnolo sul Ducato di Milano: ma
l’effetto globale sembra come riavvolgere in sé tutto il lungo tempo di
costruzione dell’intero impianto, dal primo impegno di Gian Galeazzo
Visconti (1394) – che qui, a nord del parco visconteo, intendeva
farne l’eccezionale sede del proprio sepolcro – a tutte le fasi
successive, che hanno visto assestarsi l’insieme degli edifici, molto
prima dell’impegnativa e ambiziosa facciata della chiesa. È un
paradossale effetto di temporalità che si espande nella stessa
determinata spazialità della forma architettonica; e a questo
contribuisce anche, senza minimamente intaccare l’equilibrio
formale, ma anzi come sostenendolo e potenziandolo, la finale
incompiutezza, con la mancanza del fastigio superiore.
Una gemma preziosa, questa facciata, in cui tracce di gotico fiorito
e flamboyant (entro cui archetti e finestre sembrano far persistere
ricordi del romanico lombardo) si assestano in una misura
umanistica, nell’equilibrio di una razionalità definibile come
“rinascimentale”, che si replica, si esalta, si scava dentro, nella
artificiosa esasperazione del manierismo. Giunto vicino al portale
della chiesa mi attardo a contemplare la fitta decorazione, a
discernere la molteplicità delle figure, che, in una disposizione
scultorea prevalentemente classicistica, tra bassorilievi, altorilievi,
statuette, medaglioni, presentano immagini sacre e profane, fanno
affacciare episodi biblici, santi, profeti, angeli, eroi e personaggi
antichi. Poi brevemente percorro la complessa trama dell’interno, tra
la proliferante ricchezza di opere d’arte: mi colpisce, come per una
lontana suggestione dantesca (da Paradiso, XXXI 103-108: vedi p.
90), una statua cinquecentesca della Veronica, che ostenta il velo in
cui è impresso il volto di Cristo. Ecco nel transetto destro il
monumento funebre di Gian Galeazzo Visconti, che, morendo nel
1402, non riuscì a vedere la Certosa da lui voluta, e fu collocato qui
solo nel 1474, mentre il suo sontuoso sepolcro, voluto nel 1492 dal
duca sforzesco Ludovico il Moro, fu compiuto solo a Cinquecento
inoltrato. Intanto Ludovico, in seguito alla sua pericolosa politica che
aveva dato avvio alle guerre d’Italia, era finito prigioniero in Francia:
qui non c’è la sua tomba, ma solo la parte compiuta di un
monumento che egli aveva commissionato a Cristoforo Solari per la
chiesa milanese di Santa Maria delle Grazie, con due corpi distesi, il
suo e quello della moglie Beatrice d’Este. Molto bello, in fondo
commovente il volto di Beatrice, figlia di Ercole I e sorella di Alfonso I
d’Este, morta tanto presto, nel 1497, prima della sventura dello
sposo, del Ducato e dell’Italia. Mi vengono in mente i versi che
l’Ariosto appone alla immaginaria statua che Rinaldo trova nella
fontana delle donne caste:
Non siamo tutti golosi frustrati e fantolini, spinti da un disio che non
trova soddisfazione, nemmeno di fronte a tanta dispiegata
abbondanza, che non riesce a scalfire la disperata penuria del
mondo?
Milano: dal Castello Sforzesco al Gabinetto
dantesco
del Poldi Pezzoli
Per indicare il tempo della sua vita sulla terra l’abate di San Zeno,
che si trova tra gli accidiosi nella quarta cornice del Purgatorio,
chiama in causa l’imperatore Federico Barbarossa, ricordando la
distruzione da lui ordinata della ribelle Milano, avvenuta nel 1162, e
notando come l’evento pesasse ancora sulla memoria della città, la
costringesse ancora a parlarne con dolore. Il carattere emblematico
di quell’evento fa sì, d’altra parte, che Dante lo evochi anche
nell’epistola ai fiorentini del 31 marzo 1311. Qui egli fa balenare lo
spettro della distruzione subita da Milano e da Spoleto, punite dal
Barbarossa, per essersi a lui opposte: “recensete fulmina Federici
prioris, et Mediolanum consulite pariter et Spoletum” (“ricordate i
fulmini del primo Federico e riflettete parimenti su Milano e Spoleto”);
e aggiunge che il ricordo della perversione e distruzione delle due
città potrà raffreddare le viscere “nimium dilatata” (“troppo gonfie”) e
contrarre i cuori troppo ardenti dei fiorentini nella loro opposizione al
presente imperatore Enrico VII (Epistola, VI V 20). La successiva
epistola indirizzata all’imperatore il 17 aprile, lo mette in guardia dal
rimanere a Milano e dal credere di poter uccidere l’idra pestifera dei
suoi oppositori solo amputandone le teste (cioè le città ribelli della
Lombardia): “Tu Mediolani tam vernando quam hiemando moraris et
hydram pestiferam per capitum amputationem reris extinguere?” (“Tu
te ne stai a Milano sia nell’inverno che nella primavera e pensi di
uccidere l’idra pestifera amputandone le teste?”). Continuando la
metafora dell’idra, gli ricorda che Ercole si liberò dall’idra di Lerna, a
cui nascevano sempre nuove teste, colpendola direttamente nel
principio vitale, che per i suoi oppositori è rappresentato da Firenze,
che è “vipera versa in viscera genitricis” (“la vipera rivolta contro le
viscere della madre”, Epistola, VII VI-VII 20-24). A Milano Enrico VII
soggiornò in effetti dal 23 dicembre 1310 al 19 aprile 1311: e
ricevette la corona ferrea in Sant’Ambrogio il 6 gennaio 1311. Nella
stessa epistola, II 9-10, Dante ricorda il proprio incontro con lui, che
dovrebbe essere avvenuto proprio a Milano (e forse in occasione
nell’incoronazione): dice di aver toccato i suoi piedi e proferito
l’omaggio dovuto, mentre dentro di sé ripeteva la formula di
Giovanni, 1 29, “Ecce Agnus Dei, ecce qui tollit peccata mundi”
(“Ecco l’Agnello di Dio, ecco chi toglie i peccati del mondo”).
Tutt’altro che dolente o gravato da minacce appare ora il volto di
Milano: il successo dell’Expo e la folla dei suoi visitatori costituiscono
uno dei segni appariscenti della sua vitalità in questo secondo
decennio del XXI secolo. La città mostra un fervore economico e
culturale, che sembra offrire la migliore via d’uscita dalla crisi di inizio
secolo: e sempre più nei prossimi anni finirà per riproporsi come
capitale economica e “morale”, centro del capitalismo, della finanza
e della moda italiana, in opposizione alle difficoltà in cui verrà
sempre più a dibattersi Roma, la capitale prigioniera di una
congiuntura che la farà sembrare in stato d’assedio. Una Milano
splendente, la cui effervescenza si tocca dal vivo attraversando le
strade del centro, da cui sembrano cancellate le tante ferite della
storia recente.
A fianco dell’Expo e spesso all’interno degli eventi che ne
scaturiscono non manca qualche segno dantesco, motivato dal fatto
che in questo 2015 si celebra il settecentocinquantenario della
nascita del poeta. Nella mattina del 18 settembre mi dirigo a
raccogliere alcuni di questi segni in quello che fu uno dei centri del
potere milanese, il Castello Sforzesco, il cui impianto di base e il cui
nome sono legati all’iniziativa di Francesco Sforza, dopo la sua
ascesa al potere ducale nel 1450, motivata dal suo matrimonio con
Bianca Maria, figlia dell’ultimo duca dei Visconti, Filippo Maria. Nel
passaggio dai Visconti agli Sforza – questi ultimi tra conflitti, rovesci,
esili, ritorni di vario tipo, rimasero al potere fino al 1535, quando il
ducato di Milano passò direttamente sotto la dominazione spagnola
– resistette la vipera / biscione dello stemma, che Francesco Sforza
volle mantenere per affermare la propria continuità col potere
visconteo. Ai Visconti, d’altra parte, e in particolare a Galeazzo II a
partire dal 1358, è dovuta la prima costruzione di un fortilizio su
questo sito, che ebbe vari ampliamenti e sistemazioni nella prima
metà del Quattrocento e, danneggiato durante un breve tentativo
repubblicano alla morte di Filippo Maria (1447), ebbe una
ricostruzione per volontà del nuovo duca Francesco Sforza, a cui
seguirono varie aggiunte e modificazioni nel corso del tempo.
Arrivo sbucando dalla stazione Cadorna Ferrovie Nord della
metropolitana, a fianco del Foro Bonaparte, che si avvolge con un
arco intorno alla curvatura della piazza Castello, che a sua volta si
avvolge sui fianchi del castello e dei suoi fossati. Subito raggiungo lo
spazio antistante all’ingresso del castello, sotto la grande torre che in
realtà è uno dei manufatti più tardi, costruita all’inizio del Novecento
su modelli rinascimentali dall’architetto Luca Beltrami e dedicata alla
memoria del re Umberto I. Alla sua base c’è il portone, sopravanzato
da un bassorilievo con Umberto I a cavallo, che immette nella piazza
d’Armi, da cui si accede poi in due altri cortili. Sotto la prima
aggettante merlatura della torre una statua di sant’Ambrogio è
contornata da sei diverse varianti della vipera / biscione: sei grandi
stemmi colorati, tre a destra e tre a sinistra della statua, danno
diverse fogge e combinazioni delle vipere viscontee e sforzesche, a
cui si associa l’aquila imperiale. Altre vipere, del resto, si affacciano
nei cortili e su vari muri dell’imponente costruzione.
Sul fronte della piazza d’Armi opposto a quello dell’ingresso si
levano le costruzioni della cittadella su cui, intorno ai due ulteriori
cortili, quello della Rocchetta a sinistra e quello della Corte ducale a
destra, è disposto un insieme di raccolte museali. L’edificio della
Rocchetta è intorno all’angolo rivolto a ovest del quadrato del
Castello: sullo spigolo di quell’angolo dalla parte esterna al castello
(il suddetto ovest) è disposta la torre detta Castellana, mentre
sull’angolo affacciato sulla piazza d’Armi (angolo sud-est) è la torre
detta di Bona di Savoia, nel nome della duchessa, vedova di
Galeazzo Sforza, che la fece costruire nel 1476, quando, dopo
l’assassinio del marito, era reggente del ducato per conto del figlio
Gian Galeazzo, insidiata dal cognato Ludovico il Moro, che riuscì
comunque a scalzarla e a impadronirsi del potere nel 1480 (trono da
cui poi, come dice Machiavelli, Ludovico “fu cagione della ruina
d’Italia”).
Nella Rocchetta si trova la biblioteca Trivulziana, formatasi nel
1935 grazie all’acquisto da parte del Comune di Milano della raccolta
privata della famiglia Trivulzio, ricca di manoscritti danteschi, frutto in
primo luogo dell’opera del collezionista e bibliofilo Gian Giacomo
(1774-1831). Ora la biblioteca ha organizzato, in occasione dell’Expo
2015, nella sala del Tesoro, al pianterreno della torre Castellana, una
mostra su Il collezionismo di Dante in casa Trivulzio, con manoscritti
e stampe. Di essa c’è anche una versione digitale on line (http: /
/graficheincomune.comune.milano.it /GraficheInComune /bacheca
/danteincasatrivulzio): ma è emozione particolare vedere qui esposti
alcuni celebri manoscritti, tra cui uno dei più antichi in assoluto, il
Trivulziano 1080, acquistato da Gian Giacomo nel 1819,
determinante per la costituzione del testo della Commedia, copiato a
Firenze nel 1337 in scrittura cancelleresca su due colonne dal notaio
Francesco di Barberino (l’autore dei Documenti d’amore, opera
enciclopedica in cui è il primo esplicito riferimento al poema
dantesco) e miniato da anonimo maestro. Qui esso è aperto al retro
della carta 69, con il finale del Purgatorio, e al fronte della carta 70,
in cui l’incipit del Paradiso è incorniciato da piccoli poligoni con
figure, uno con l’immagine di Cristo, mentre un più ampio riquadro
sul lato destro reca l’immagine dell’incoronazione della Vergine, in
gloria tra gli angeli; in basso, invece, c’è una figurina che
rappresenta il poeta, che emerge tra due picchi montuosi, che
simboleggiano i due gioghi di Parnaso menzionati nell’invocazione al
buono Appollo, nei versi trascritti accanto. Una figura di cui si vede
solo la parte superiore del corpo vola dall’alto ponendo sul capo del
poeta la corona d’alloro, alludendo all’auspicio che egli stesso
formula lì all’inizio della terza cantica:
…sostener lo puzzo
del villan d’Aguglion, di quel da Signa,
che già per barattare ha l’occhio aguzzo!
(Par., XVI 55-57)
………………………………
di Campi, di Certaldo e di Fegghine…
(Par., XVI 50)
Nelle accorate parole sul disastro creato dal rifiuto che all’ultimo
momento i Buondelmonti fecero delle nozze con la casa degli Amidei
per i consigli dei Donati, Cacciaguida giunge ad affermare che molte
famiglie fiorentine non avrebbero avuto i lutti che ne sono seguiti se
il Buondelmonte, la prima volta che venne a Firenze dal suo castello
di Montebuoni, fosse annegato nell’Ema. Chi veniva verso Firenze
da Montebuoni e dalla Val di Greve passava l’Ema proprio qui,
all’ingresso del borgo del Galluzzo, all’altezza dell’attuale Ponte della
Certosa.
Da questo ponte mi affaccio ora sull’Ema. Qui sulla sua sponda
destra, a ridosso dell’abitato di Galluzzo, c’è un bel parco attrezzato,
che è molto piacevole percorrere, il Parco dell’Albereta-Pioppeta del
Galluzzo. Dal Galluzzo risalgo poi alla sua destra il corso dell’Ema,
verso est. Per un po’ la strada si allontana dalla riva del fiume,
toccando subito la vicina località di San Felice a Ema, dove è la
chiesa omonima, menzionata già nell’XI secolo, la cui facciata
conserva ancora l’originario aspetto romanico. Accanto alla chiesa
c’è un cimitero comunale, in cui è la tomba di Eugenio Montale,
accanto alla moglie Drusilla Tanzi, detta Mosca. C’è una lapide con il
testo di Valmorbia, discorrevano il tuo fondo, una delle poesie di
Ossi di seppia. Ma penso a due poesie tarde, che evocano
direttamente questo cimitero e la tomba della moglie del poeta
(morta molto prima di lui, nel 1963). Nel disumano (in Quaderno di
quattro anni, 1975) inizia con un’immagine di questo cimitero:
Non è piacevole
saperti sotto terra anche se il luogo
può somigliare a un’Isola dei Morti
con un sospetto di Rinascimento.
Non è piacevole a pensarsi ma
il peggio è nel vedere. Qualche cipresso,
tombe di second’ordine con fiori finti,
fuori un po’ di parcheggio per improbabili
automezzi. Ma so che questi morti
abitavano qui a due passi, tu
sei stata un’eccezione…
………………………………
del villan d’Aguglion, di quel da Signa…
(Par., XVI 56)
………………………………
e a Trespiano aver vostro confine…
(Par., XVI 54)
……………………………………
………………………………
sarieno i Cerchi nel piovier d’Acone…
(Par., XVI 65)
Dopo aver percorso pochi chilometri, alla sinistra della Sieve si trova
Rùfina, centro di produzione vinicola, ma anche con una fabbrica di
matite e colori, che è stata in passato la più presente sui banchi delle
scuole italiane, la FILA (acronimo per Fabbrica Italiana Lapis e
Affini). Qui svolto a sinistra, passando sulla riva destra della Sieve e,
sfiorando il borgo di Montebonello, salgo per una strada stretta e
tortuosa sulle falde del monte Giovi, per raggiungere il centro di
Acone, dal cui piviere (circoscrizione di più parrocchie), venne la
famiglia dei Cerchi, che Cacciaguida enumera tra coloro che
sarebbero ancora nella primitiva sede se la chiesa non avesse
osteggiato l’azione dell’impero.
Della presenza di questa famiglia di origine contadina a Firenze si
ha notizia certa all’inizio del XIII secolo: la grande ricchezza che
seppero raggiungere procurò loro l’investitura cavalleresca e in
seguito, nei loro sempre più intricati violenti conflitti con la famiglia
dei Donati, finirono per essere tra gli esponenti più attivi della parte
bianca. Già nell’Inferno, facendo riferimento per bocca di Ciacco alla
fase finale di quel conflitto, Dante, per indicare i Bianchi, usa
l’espressione di parte selvaggia, che si riferisce proprio all’origine
rustica, contadina dei Cerchi, e fissa un momento scatenante del
conflitto nello scontro del 1° maggio del 1300, quando in
un’aggressione i Donati tagliarono il naso a Ricoverino dei Cerchi, il
che causò la reazione dei Bianchi, con la condanna di vari esponenti
Donati (“Dopo lunga tenzone / verranno al sangue, e la parte
selvaggia / caccerà l’altra con molta offensione”, Inferno, VI 64-66).
Il piovier d’Acone, possedimento dei conti Guidi, divenuto nel XIV
secolo proprietà dei Medici, è distribuito in varie piccole località tra la
Sieve e il monte Giovi: ma io salgo verso il suo centro maggiore e
più elevato, Acone Sant’Eustachio, tra curve e tornanti, da cui più
volte si affaccia la vista sulla Sieve, su Rùfina e sui fitti insediamenti
industriali della successiva località di Scopeti. Si entra nel paese con
un piccolo viale di tigli e poi sulla destra si sale con pochi passi su di
uno spiazzo su cui si affaccia la semplice chiesa di Sant’Eustachio.
Su una delle sue porte una targa murata reca il nome del duca
Cosimo de’ Medici e la data del 1552, a ricordo di un intervento di
ricostruzione. Una lapide all’ingresso del paese e un accurato
cartello informativo ricordano eventi più recenti, che danno a questo
paese contadino un rilievo storico e un legittimo orgoglio: si tratta di
quello che viene definito addirittura come Stato libero di Acone, cioè
della spontanea partecipazione di tutto il paese alla lotta partigiana,
non solo con un gran numero di combattenti, ma anche con una vera
e propria organizzazione logistica a sostegno delle bande partigiane
attestate sul vicino monte Giovi e dei militari alleati fuggiti dai campi
di prigionia: quasi impianto di una piccola ed efficiente
amministrazione indipendente nella Toscana occupata dai tedeschi.
Procedendo sull’unica strada che attraversa il paese e poi diventa
sempre più stretta, scendo tortuosamente tra oliveti, alberi da frutta,
piccoli boschetti, vigneti, fino alla piana immediatamente a sud,
toccando il letto del torrente Argomenna e raggiungendo le case di
Acone Santa Maria e la omonima chiesetta campestre. Ritrovo poi
Montebonello e, attraversata la Sieve, salgo verso nord, toccando
Dicomano, borgo già esistente nel XIII secolo, sotto un castello dei
conti Guidi; su di un poggio si presenta la pieve di Santa Maria,
ancora nella forma romanica, pur in seguito a vari restauri. Questo
paese mi ricorda un poemetto parodico di Luigi Pulci, la Beca di
Dicomano, che rifà il verso alla Nencia da Barberino di Lorenzo il
Magnifico: entrambi riferiti al mondo contadino del Mugello, regione
di cui Dicomano costituisce il limite orientale (essa corrisponde
all’alta valle della Sieve, che, poco oltre Dicomano, piega verso
ovest e si fa più larga e distesa, fino al limite occidentale, costituito
proprio da Barberino).
Cascata dell’Acquacheta
Per che, data ogni sua cosa per Dio, senza indugio se n’andò
sopra Monte Asinaio, e quivi in una piccola celletta se mise col
suo figliuolo, col quale di limosine in digiuni e in orazioni
vivendo, sommamente si guardava di non ragionare, là dove
egli fosse, d’alcuna temporal cosa né di lasciarnegli alcuna
vedere, acciò che esse da così fatto servigio nol traessero, ma
sempre della gloria di vita eterna e di Dio e de’ santi gli
ragionava, nulla altro che sante orazioni insegnandogli. E in
questa vita molti anni il tenne, mai della cella non lasciandolo
uscire né alcuna altra cosa che sé dimostrandogli.
(Decameron, IV, Introduzione, 15)
…vedi Asdente,
ch’avere inteso al cuoio e a lo spago
ora vorrebbe, ma tardi si pente.
(Inf., XX 118-120)
Lo sguardo si perde
fino all’orizzonte
un falco risale
la cima del monte
………………………………
La profezia di Vanni Fucci tocca eventi pistoiesi dei primi anni del
XIV secolo, al punto culminante delle lotte di fazione che risentivano
della invadente pressione della vicina Firenze, polarizzate attorno
alla famiglia dei Cancellieri, che si divise tra una parte Bianca e una
parte Nera. Un primo esito di queste lotte fu la cacciata dei Neri
(Pistoia si dimagra, si dimagrisce, si svuota dei Neri), avvenuta nel
maggio del 1301. La stabilità del regime bianco di Pistoia venne però
minacciata dall’opposto evento avvenuto a Firenze nel novembre
dello stesso anno, con il trionfo dei Neri: poco dopo fiorentini e
lucchesi alleati mossero contro Pistoia sotto la guida di Moroello
Malaspina, marchese di Giovagallo in Lunigiana, la cui azione viene
presentata attraverso la metafora del fulmine (vapor) che muove
dalla Val di Magra tra torbidi nuvoli (si veda pp. 853-854) e in una
località indicata come Campo Piceno colpisce i Bianchi pistoiesi e gli
esuli fiorentini loro alleati. Con la sua rabbia aggressiva Vanni Fucci
annuncia tutto ciò per dar dolore al bianco Dante.
Dopo quella sconfitta, avvenuta nel settembre 1302, i Bianchi
pistoiesi cercarono comunque di rafforzare il loro potere nella città,
anche con più duri provvedimenti contro i Neri: e in quella
circostanza fu costretto all’esilio Cino da Pistoia, della famiglia dei
Sigibuldi, poeta e giurista, amico di Dante, che rimase fuori della
città dal 1303 al 1306. Ma nel 1305 Lucchesi e Neri fiorentini, ancora
sotto la guida del Malaspina, strinsero d’assedio Pistoia, che capitolò
per fame il 10 aprile 1306: così negli anni successivi la città dovette
subire in vari modi il controllo di Firenze e di Lucca, anche con una
fase di dominio ghibellino determinato dalle azioni di Uguccione della
Faggiuola e di Castruccio Castracani, e intorno a 1329 finì per
entrare quasi definitivamente sotto il dominio di Firenze.
Non è mai nominato nella Commedia Cino da Pistoia, con cui
Dante ebbe comunque un vivo rapporto d’amicizia, nonostante il suo
opposto schieramento tra i Neri: del resto l’amicizia era nata prima
che sorgesse la scissione tra Bianchi e Neri, al tempo della lirica
giovanile, intorno al 1290. Cino da parte sua riconosce in Dante (di
cui era di circa un lustro più giovane) il più valido alfiere di una nuova
poesia e gli dedica una canzone di conforto in morte di Beatrice,
Avegna ched el m’aggia più per tempo. Ci sono poi vari sonetti di
corrispondenza tra i due poeti, due coppie negli anni in cui Dante era
ancora in Firenze e tre negli anni dell’esilio: tra questi c’è il sonetto Io
sono stato con Amore insieme, che in risposta Dante esule invia a
Cino esule, accompagnandolo con l’Epistola III, tra il 1303 e il 1306,
e quello che Dante scrive a nome del marchese Moroello Malaspina,
Degna fa voi trovare ogni tesoro, in risposta a un sonetto che Cino
gli aveva indirizzato (dei rapporti tra Dante e Moroello si è detto a
proposito della Lunigiana, vedi pp. 853-865). Più o meno in quegli
stessi anni Dante dà particolare rilievo alla poesia di Cino, Cynus
Pistoriensis nel De vulgari eloquentia: lo cita più volte, appaiandolo a
se stesso, tra coloro che “dulcius subtiliusque poetati vulgariter sunt”
(“hanno poetato in volgare in modo più dolce e profondo”; I X 2).
Poi anche Cino, pur provenendo dalla schiera dei Neri, si trovò a
dar credito all’impresa pacificatrice di Enrico VII: ed è possibile che
in quella circostanza ci sia stato qualche nuovo rapporto con Dante.
Dopo la morte dell’imperatore si perde comunque ogni traccia di
contatti tra i due poeti: nel 1314 Cino conseguì la laurea dottorale a
Bologna e si diede più direttamente agli studi, all’attività giuridica e
all’insegnamento (a Napoli, dove insegnò tra il 1330 e il 1331 fu tra i
suoi uditori Giovanni Boccaccio), schierandosi sempre più
nettamente nel campo del guelfismo. Quasi sicuramente inautentici
sono dei sonetti circolanti a suo nome con dura critica al libello di
Dante, mentre sinceramente appassionata appare la sua canzone
per la morte dell’antico amico, Su per la costa, Amor, de l’alto monte.
Ora, lasciata Pistoia, la profezia del ladro mi indirizzerebbe verso
la località di Campo Piceno, toponimo inesistente nel Pistoiese, che
sembra derivare in realtà da un fraintendimento del passo del De
coniuratione Catilinae, LVII 2, in cui si dice che Quinto Metello Celere,
che conduceva tre legioni “in agro Piceno”, cioè nel sud delle
Marche, muove l’accampamento verso i monti, mentre Catilina, dopo
aver condotto i suoi “in agrum pistoriensem”, muove verso le truppe
romane attestate in una pianura “inter sinistros montis et ab dextra
rupe aspera” (LIX 2), “tra monti a sinistra e un’aspra rupe a destra”.
Prova di questo fraintendimento è nella Cronica, I, 32, di Giovanni
Villani, che colloca la sconfitta di Catilina “ov’è oggi la città di Pistoia
nel luogo detto Campo a Piceno, ciò fu di sotto ov’è oggi il castello di
Piteccio”.
Ma, al di là di questa singolare attribuzione della località dell’ultima
battaglia di Catilina, il vittorioso attacco di Moroello Malaspina ai
Bianchi pistoiesi toccò in realtà la fortezza di Serravalle, che si
innalza su modesti rilievi che fanno da spartiacque tra la valle
dell’Ombrone, torrente che scorre a ovest di Pistoia e poi si getta in
Arno presso la Villa medicea di Poggio a Caiano, e quella del
Nievole, che tocca Montecatini e poi confluisce in altri corsi d’acqua
che giungono all’Arno. La battaglia del settembre 1302 sotto la
fortezza di Serravalle fu l’esito di un tentativo dei pistoiesi di forzare
l’assedio che Moroello aveva posto a quel castello, postazione
essenziale al limite tra il territorio di Lucca e quello di Pistoia:
costretto ad arrendersi, il castello passò in mano ai lucchesi.
Salendo da Pistoia appare ben evidente come Serravalle
corrisponda perfettamente al proprio nome, per la sua collocazione
nel punto in cui le due valli si chiudono e si separano, da una parte
la piana pistoiese, dall’altra la Valdinievole con Fucecchio e
Montecatini. La collina spartiacque si distende da una parte e
dall’altra tra ulivi, vigne, boschetti, ville dolcemente adagiate; sotto si
snoda con larghe curve l’autostrada, che supera l’ostacolo collinare
unendo le due valli con una galleria che passa proprio sotto il borgo.
Salgo sulla modesta cima (182 m.), trovando sulla via Roma,
all’imbocco del paese, una lapide malconcia in cui è incisa questa
semplice ottava, con la data 10 maggio 1899 e il nome dell’autore,
Domenico Bonacchi: