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LIBRO 15, METAMORFOSI OVIDIO

Nel frattempo si cerca qualcuno che sostenga il peso di tanta mole e sia capace di
succedere a un re così grande. La fama, annunciatrice del vero, destina al comando l’illustre
Numa. Non gli basta aver conosciuto i riti della gente sabina, immagina cose più grandi con
il suo animo capace e cerca quale sia la natura delle cose. L’amore di questo interesse,
lascia la patria Curi,
fece in modo che entrasse nella città dell’ospite Ercole.
Chiedendo quale fondatore avesse posto delle mura greche sulle coste italiche così uno dei
fondatori tra i vecchi indigeni, non inconsapevole del passato (lett. dei vecchi anni) riferì “si
tramanda che il figlio di Giove, ricco di buoi dell’Iberia avesse raggiunto le coste del capo
Lacinio dall’Oceano con un felice viaggio e, mentre gli armenti erravano per i teneri prati, lui
stesso entrò nella casa e nei tetti non inospitali del grande Crotone e alleviò la lunga fatica
con il riposto e così partendo disse “al tempo dei nipoti, in questo luogo ci sarà una città” e
furono promesse vere. Infatti, fu generato da un certo Alemone d’Argo un certo Miscelo,
carissimo agli dei di quel tempo. Chinandosi su questo, gravato dalla pesantezza del sonno,
il portatore di clava così gli parla. “Vai, cerca le onde del lontano Esare piene di sassi
(sassose), lascia la patria” e lo minaccia di temere molte cose se non avesse ubbidito. Dopo
questo se ne vanno parimenti il sonno e il dio; il figlio di Alemone si alza e torna indietro con
la mente alla recente visione in silenzio e combatte con sè a lungo sulla sentenza. Il dio gli
ordina di andare, le leggi gli vietano di andarsene e la morte è posta con una pena a colui
che vuole cambiare patria. Il candido sole aveva nascosto il capo lucente nell’oceano e la
notte fittissima aveva sollevato il capo stellato ;lo stesso dio sembra avvicinarsi e ammonire
le stesse cose e minacciare cose maggiori è più gravi, se non ubbidisce.
Si spaventò e e si preparava a trasportare in nuove sedi i penati paterni. Nella città si fa un
mormorio e è accusato di disprezzare le leggi; e quando la prima parte del processo è
portata a termine e la colpa è visibile senza un testimone per dimostrare, l’imputato sporco
portando gli occhi e mani agli dei disse “o te, a cui 12 fatiche hanno fatto guadagnare il cielo,
ti prego portami aiuto, infatti tu sei l’autore per me del crimine!” Era usanza antica usare
sassolini bianchi o neri. Con questi per condannare gli imputati, quelli per assolvere la colpa.
Anche questa volta così la trite sentenza fu data e ogni sasso nell’urna severa è messo
nero.
Come però l’urna girata versò fuori i sassolini da conteggiare il core fu mutato da nero in
bianco per tutte e la sentenza fatta bianca dal dio Ercole assolse il figlio di Alemone. Quello
rese grazie all’Anfriotiodine, suo protettore e naviga il mare Ionio con venti favorevoli e
sorpassa Taranto spartana e Sibari e Nereto, città dei salentini e il golfo di Turi e Nemesa e i
campi di Iapigia. E dopo che erano state percorse le terre che guardano il mare giunge alla
foce fatidica del fiume Esare e non lontano da qui una tomba, sotto al quale la terra copriva
le sacre ossa di Crotone; e nel luogo che gli era stato ordinato fondò la città e trasferì il
nome del sepolcro alla città. Una certa tradizione concordava che tali origini fossero del
luogo e della città posta in confini italici. Qui ci fu un uomo originario di Smau, ma che aveva
abbandonato
Samo e i padroni ed era esule per volontà e per odio della tirannide. Questo raggiunse con
la mente gli dei per quanto lontani nelle regioni del cielo e attinse con gli occhi e della mente
a ciò che la natura nega alla vista umana. Dopo che aveva esaminato con l’animo e con
vigile attenzione ogni cosa, e dava parole da imparare nel mezzo della folla silenziosa e
ammiratrice (che stava in silenzio e che ammirava), spiegava l’origine del mondo e la causa
delle cose e cos’è la natura, cos’è un dio, da dove la nave, quale fosse l’origine del fulmine,
se Giove o i venti tuonassero squarciando le nubi, che cosa scuota la terra, per quale legge
le stelle attraversino e qualsiasi cosa che è ignota. Per primo denunciò che gli animali
fossero posti alle mense e anche per primo aprì la bocca sapiente, ma non creduta, con tali
parole: “ evitate o mortali di profanare il corpo con cibi nefasti! Ci sono i cibi raccolti della
terra, ci sono i frutti che tirano giù i rami per il loro peso e ricchi grappoli nelle viti; ci sono
dolci erbe,ci sono quelle che con il fuoco riescono a mitigarsi e essere addolcite. A voi non è
portato via il latte nè il miele che profuma del fiore del timo. La prodiga terra fornisce
ricchezze e cibi miti e offre banchetti senza uccisioni e sangue. Le bestie placano la fame
con carni e tuttavia no tutte; in effetti i cavalli e le pecore e gli armenti vivono di erba, ma
quelli che hanno un temperamento selvaggio e crudele, le tigri dell’Armenia, i leoni iracondi
con i lupi e gli orsi, godono per cibi sanguinolenti. Ahimè, quanto è empio che le viscere
siano ricoperte nelle
viscere, ingrassare il corpo avido con un corpo accumulato e vivere per la morte di un altro
essere vivente, essendo viventi.
Certamente tra tante opere, che la terra, la migliore delle madri, genera, niente ti piace se
non
mangiare con dente crudele tristi ferite e rifare le abitudini dei Ciclopi e non potrai placare,
se
non avrai distrutto un altro, la fame del ventre vorace e di mali costumi? Ma quella antica
età,
alla quale facemmo nome d’oro (che chiamammo dell’oro), fu ricca nei frutti di alberi e delle
erbe che la terra produce e non macchia la bocca col sangue. Allora gli uccelli protetti
muovevano le ali per l’aria e la lepre impavida errava in mezzo ai campi, e la credulità non
aveva appeso il pesce all’amo; tutto era senza insidie e nessuno temeva la frode e vi era
pace
assoluta. Dopodiché uno, chiunque fosse, invidioso per il vitto dei leoni e sommerse
nell’avido ventre i cibi di corpi, fece strada al delitto. Da quella prima strage, il ferro poté
riscaldarsi macchiato di sangue, così sarebbe stato abbastanza e diciamo che non è una
colpa
mandare a morte i corpi che desiderano la nostra morte, ma se poiché si doveva mandarli a
morte, allora non si doveva mangiarli.
Da qui l’empietà andò lontano e prima il maiale è considerato come vittima che meritava di
morire, perché rovinava i semi con il grugno curvo e toglieva la speranza del raccolto; morsa
la vite, la capra da sacrificare è condotta agli altari di Bacco vendicatore. A entrambi recò
danno la loro colpa.
Che cosa avete meritato, o’ pecore, placido bestiame nato per proteggere gli uomini, che
portate nettare nelle mammelle piene, che a noi fornite la vostra lana per vesti morbide e
giovate più con la vita che con la morte? Che cosa meritavano i buoi, animale senza frodi e
inganni, innocuo, ingenuo, nato per sopportare le fatiche?
È ingrato e non degno del dono delle messi colui che sacrifica il suo contadino tolto il peso
del curvo aratro, che percosse con la scura quel collo logorato dalla fatica con cui tante volte
aveva rinnovato il duro campo e aveva dato le messi.
E non è abbastanza che tale empietà sia commessa; ascrivono gli stessi dei all’empietà e
credono che il dio superiore goda della strage del giovane laborioso (il bue).
Vittima priva di macchia, e bellissima nell’aspetto (infatti fa male piacere) insigne di bende e
d’oro, è collocata davanti agli altari e ascolta ignara colui che prega e vede che i frutti, che
ha
coltivato, sono sistemati tra le sue corna in fronte e percossa impregna i coltelli di sangue
forse visti nell’acqua limpida. Subito dopo vedono le fibre che sono uscite dal petto vivente e
indagano le menti del dio in quelle. Poi (la fame di cibi proibiti è tanta agli uomini) e voi
osate cibarvene, o’stirpe mortale! vi prego non fate questo e voltate gli animi ai miei moniti e
quando darete le membra del bue ucciso al palato, sappiate e capite che voi masticate i
vostri
contadini.
E poiché il dio muove la mia bocca, seguirò il dio che muove la bocca e spalancherò la mia
Delfi e il mio stesso cielo e aprirò gli oracoli della sublime mente. Canterò cose grandi, non
indagate dalla mente dei predecessori e che a lungo sono state nascoste; giova andare per
le
alte stelle, giova, lasciata la terra e le sedi inerte, essere portato via su una nube e stare
sopra
le spalle del forte Atlante, e guardiamo dall’alto gli uomini che vanno qua e là e che non
hanno bisogno di uno scopo, trepidanti e che hanno timore della morte, così esortiamoli e
svolgiamo l’ordine del destino:
O genio attonito dal terrore della gelida morte, perché temete lo Stage, perché le tenebre e
vani nomi, perché temete la materia dei poeti e i pericoli del mondo falso? I corpi, se il rogo li
avrà portati via con le fiamme e se li avrà portati via la vecchiaia con la decomposizione, non
pensiate di non poter sopportare alcun male.
Le anime sono prive della morte e sempre, lasciata la prima sede, ricevute in nuove case lì
vivono e abitano. Io stesso (infatti ricordo) al tempo della guerra di Troia ero Euforbo figlio di
Panto, a cui una volta una freccia greve dell’Atride minore si conficcò nel petto; riconobbi lo
scudo, attributo del braccio sinistro, nel tempio di Giunone a Argo, patria di Abante. Tutto è
mutato, niente muore. Lo spirito erra e da là viene qui, ora da qui a lì, e occupa qualsiasi
arto,
dalle bestie passa al corpo umano e il nostro (spirito) negli animali, e non perisce in alcun
tempo. E come la duttile cera è segnata in nuove figure, e non si mantiene come era e non
serba le stesse forme, ma tuttavia lei è la stessa, così ti spiego che l’anima è sempre la
stessa,
ma migra in varie figure. Dunque, affinché la pietà non sia vinta dal desiderio del ventre,
evitate, vi ammonisco, di scacciare le anime consanguinee con una strage empia e evitate
che
il sangue sia nutrito col sangue.
E poiché sono portato nel grande mare e diedi le vele piene ai venti e non c’è niente che
rimanga fermo nel mondo, tutto scorre, e ogni immagine è formata vagando. Anche il tempo
scorre con moto incessante, non diversamente da un fiume. E anche il fiume e l’ora leggera
non possono fermarsi, ma come l’onda è spinta avanti dall’onda e la prima è premuta da
quella che viene e preme quella anteriore, così fugge il tempo allo stesso modo e parimenti
incalza e sono sempre nuovi. Infatti ciò che fu prima è stato lasciato e si fa ciò che non era
stato e ogni istanti è rinnovato. Tu vedi le notti superate muovere verso la luce e la prima
luce
del giorno succedere alle nere notti; e il colore non è lo stesso nel cielo quando ogni cosa
stanca giacciono nella quiete e quando Lucifero splendente esce con il suo bianco cavallo e,
di
nuovo diverso, quando la discendente di Pallante precursore della luce tinge il mondo da
consegnare a Febo.
Lo stesso disco del dio, quando è alzato dalla terra profonda, rosseggia di mattina e
rosseggia
quando è nascosto nel profondo della terra. È candido in alto perché lì la natura dell’aria è
migliore e lontano fugge dal contagio della terra.
La forma della notturna Diana non può essere mai uguale, e quella di oggi se cresce è meno
sempre di quella che segue e maggiore se diminuisce il disco.
Perché? Non vedi che l’anno si snoda in quattro fasi, trascorrendo come un’imitazione del
passare (peragentem) della nostra vita? Infatti all’inizio della primavera è tenero e lattante
simile all’età della puerizia; allora l’erba recente e priva di forze è gonfia e tenera e fa
contenti
i contadini con la speranza. Allora tutto fiorisce e il campo almo gioca con i colori dei fiori, e
nelle fronde non c’è ancora nessuna virtù. Dopo la primavera l’anno più robusto passa
all’estate e diventa un giovane forte, e infatti non c’è un’età più robusta, né più ricca, né che
arde di più. Segue l’autunno, deposto il fervore della giovinezza è maturo e mite, con un
temperamento a metà tra giovane e vecchio, disseminato di bianco sulle tempie.
Poi viene il vecchio inverno con passo tremante, rigiro e privo di capelli che ha bianchi.
Anche i nostri corpi sono modificati sempre senza alcuna requie e non saremo domani ciò
che
fummo e ciò che siamo. Fu il tempo, in cui come semi e speranza di uomini eravamo
nascosti
nel ventre della prima madre. La natura rivolge le mani artefici e non volle che i corpi
racchiusi nelle viscere della madre tesa fossero soffocati e dalla casa lo fece uscire nell’aria
libera.
Il bambino, venuto alla luce, giacque senza forze; poi portò le sue membra a quattro zampe
come il modo degli animali e a poco a poco tremando e sta in piedi con le ginocchia
malferme, aiutati i muscoli con qualche sforzo; quindi fu forte e veloce e trascorre il tempo
della giovinezza e cessati gli anni della mezza età, scorre per il percorso in discesa della
vecchiaia che tramonta.
Questo abbatte e distrugge le forze dell’età precedente e il vecchio Milone piange quando
vede quei muscoli pendere vuoti e flosci che erano stati simili per la mole dei massicci
muscoli di Ercole.
Anche la figlia di Tindaro (Elena) piange, dopo aver visto nello specchio le vecchie rughe, si
chiede perché sia stata rapita due volte.
Il tempo divoratore delle cose, e tu, o vecchiaia invidiosa, distruggete ogni cosa e
consumate
con i denti del tempo ogni cosa corrotta dalla lenta morte.
Anche ciò che noi chiamiamo elementi non rimangono fermi; e spiegherò quale destino
compiano (rivolgete gli animi). Il mondo eterno contiene quattro elementi generatrici. Tra
quelli due sono pesanti, la terra e l’acqua, e per il peso sono portati in basso, e altrettanti
mancano di peso e si dirigono verso l’alto se nessuno li preme, l’aria e il fuoco più puro
dell’aria.
I quali distano in uno spazio, ma tuttavia ogni cosa deriva da questi e in questi ritorna e la
terra risoluta si disfa in liquida acqua, il liquido consumato va nell’aria e l’aria, invece,
sottratto il peso, si innalza verso il fuoco superiore. Poi tornano indietro e la stessa
successione è ripetuta; il fuoco condensato si muta in aria densa, qui in acqua, e la terra,
addensata l’acqua, è coagulata.
E a quelle non rimane il loro aspetto e la natura, rinnovatrice del mondo, ricupera alcune
figure da altre. Qualunque cosa non perisce del tutto, credetemi, nel mondo, ma varia e
rinnova l’aspetto e si dice nascere e iniziare ad essere diversi da ciò che si era prima, e
morire
cessare quello stesso.
Anche se forse quelle sono modificate in questo e questo in quello, tuttavia la somma
rimane.
Crederei che nulla dura uguale a lungo sotto la stessa immagine. Così voi dall’età dell’oro
venite al ferro, così tante volte la fortuna dei luoghi è mutata. Io vidi essere mare ciò che era
stato un tempo la terra solidissima, e vidi le terre fatte dall’acqua; e lontano dal mare
giacevano le conchiglie marine, e la vecchia ancora è stata trovata in cima ai monti, e ciò
che
fu campo, lo scorrere delle acque fece una valle e il monte è condotto via dall’alluvione nel
mare; la terra, paludosa, ora è arida per le sabbie asciutte e quelle che sopportavano la
sete,
sono umide sommerse da paludi.
Qui la natura ha mandato fuori nuove fonti e lì le ha chiuse, e i fiumi escono per i tremori
antichi della terra, o ostruiti si fermano.
Così il Licio è stato inghiottito da una voragine nel terreno, lontano da qui ricompare (esce) e
rinasce in un’altra foce. Così ora il grande Erasino che scorre in profondità è assorbito, ora è
restituito nei campi di Argo e si dice che il Caico, in Misia, si fosse pentito della sorgente e
delle sue rive precedenti, e ora percorre un altro percorso. E l’Amenano, che faceva scorrere
sabbie sicule, ora scorre e qualche volta, sparite le sorgenti, si inaridisce. L’Anigro, prima era
bevuto, ora versa acque che non vorresti toccare, dopo che (se non si deve togliere ogni
fiducia ai poeti) lì i biformi Centauro lavarono le ferite che l’arco di Ercole che porta la clava
aveva fatto.
Ipani, nato dai monti della Scizia, che era stato dolce, ora è guastato dai sali amari?
Antissa e Faro e Tiro fenicia erano stati circondati da flutti, ora nessuno di quelli è un’isola.
I vecchi contadini abitavano Lucade unita alla terra, ora la circondano i flutti marini; si dice
che anche Zancle fosse unita all’Italia e fino a che il mare portò via i confini e respinse la
terra
nel mezzo alle onde. Se cercherai Elice e Buri, città d’Acacia, le troveresti sotto l’acqua e
ancora oggi i marinai sono soliti mostrare le città declinate con le mura sommerse.
C’è vicino Trezene, città di Pitteo, un tumulo, ripido senza alcun albero, un tempo era
un’area
di pianura pianeggiante , ora tumulo. Infatti (cosa terribile da riferirsi), la selvaggia forza dei
venti, rinchiusa dentro le cieche caverne, desiderando sprigionarsi da qualche parte e
avendo
lottato invano per godere del cielo libero, poiché non c’era nessuna spaccatura nella
prigione e
non era accessibile per i soffi, gonfiò la terra tesa, come il soffio della bocca suole gonfiare la
vescia o la pelle strappata dal capro bicorne. Quel rigonfiamento del luogo rimase e ha
l’aspetto di un alto colle e si indurì col tempo.
Benché mi sovvengano molte cose udite o conosciute di persona, ne riferirò poche. E che
dire
dell’acqua non dà e prende figure nuove?
Nel mezzogiorno (medio die) le tue acque sono gelide, o Ammone cornuto, e le scaldi al
tramonto e all’alba; si dice che gli Atamani accendano il legno, accostata l’acqua, quando la
luna si allontana verso il minimo del suo disco. I Ciconi hanno un fiume che se bevuta, ti fa
le
viscere come pietra, che, toccate qualsiasi cosa, le rende di marmo. Il Crati e il Sibari vicino
alle nostre coste fanno capelli simili all’ambra e all’oro. E ciò che è più meraviglioso, ci sono
acque che sono in grado di mutare non solo i corpi, ma anche gli animi.
A chi non è udito Salmacide dall’onda oscena e i laghi dell’Etiopia? Se qualcuno attinge alle
sorgenti, o impazzisce o subisce un sonno singolare per la pesantezza.
Chiunque levò la sete dalla fonte di Clitore, disprezza il vino e astemio gioisce delle onde
pure, o nell’acqua c’è una forza contraria al caldo vino o, ciò che ricordano gli indigeni, il
figlio di Amitaone dopo che con poesie e erbe tolse alla pazzia le figlie di Preto, mandò in
quelle acque la purificazione delle menti e l’odio per il vino rimase nelle acque.
Il fiume del Lincesto scorre dissimile da questo nell’effetto, che chiunque ne beve nella gola
una parte con moderazione, vacilla non diversamente che se ne avesse bevuto vino
schietto.
C’è un luogo nell’Arcadia (gli antichi lo chiamarono Feneo) sospetto per l’acqua ambigua,
che dovrai temere di notte. Bevute nuocciono di notte a colui che beve, di giorno si bevono
senza danno.
Così i laghi e i fiumi prendono quelle e quell’altre forze.
Ci fu un tempo in cui Ortigia navigò nelle onde, ora è ferma. Argo temette le Simplegadi
bagnate dagli urti delle onde infrante, che ora stanno immobili e resistono ai venti. E l’Etna
che brucia con la fornace sulfurea, non sempre sarà di fuoco e anche non sempre era di
fuoco.
Infatti se la terra è un essere vivente e vive e ha respiri che esalano fiamme da molti luoghi,
e
quante volte è mossa cambia le vie degli sfiatatoi. Può chiudere questi, e aprire quelle
cavità.
E se i venti leggeri sono trattenuti in antri profondi e lanciano i sassi con i sassi e materia
che
ha semi di fuoco, e questa genera fuoco per gli urti, placati i venti gli antri saranno lasciati
freddi. Se le forze di bitumine prendono fuoco e i biondi zolfi ardono con fiamme esigue,
naturalmente quando la terra non darà cibi e alimenti ricchi alle fiamme per lungo tempo,
consumate le forze, mancherà il nutrimento alla natura divoratrice, quella non sopporterà la
fame e abbandonata, abbandonerà i fuochi.
C’è la fama che nell’iperborea Pallene ci siano uomini che sono soliti coprire i corpi con
piume leggere purché siano immersi nove volte nella palude di Tritone.
Io in verità non ci credo; ricordano che anche le donne di Scizia ottengono gli stessi effetti
cospargendo le membra con incantesimi.
Se la fiducia è da aggiungere alle cose provate non vedi come qualunque corpo si
decomponga per il fluido calore e per il tempo ed è trasformato in piccoli animali? Uccidi tori
scelti e sacrificati (il fatto è noto per esperienza), da tutte le parti nascono api dedite ai fiori
dalle viscere imputridite, che nel modo dei genitori curano i campi, favoriscono l’operato e
faticano per il futuro. Il cavallo da guerra premuto a terra è origine del calabrone; se al
granchio della spiaggia togliessi le braccia arcuate e mettessi sotto terra il resto, dalla parte
sepolta uscirà uno scorpione e minaccerà con la coda uncinata; e i bruchi agresti che sono
soliti intessere le fronde con bianchi fili (cosa osservata dai contadini) mutano nella figura in
una luttuosa farfalla.
Il fango ha semi che generano verdi rane, e genera mutilate nei piedi, subito dopo dà loro le
zampe adatte a nuotare e affinché quelle stesse siano adatte per lunghi salti, la parte
posteriore
supera in misura le parti anteriori.
Il cucciolo, che l’orsa ha fatto uscire col parto recente, non è (carne) viva a malapena, la
madre, leccati gli arti, lo plasma e lo porta alla forma come lei stessa prese.
Non vedi come i piccoli delle api produttrici di miele che la cera esagonale copre nascono
come corpi senza membra e assumono i tardivi piedi e le ali?
L’uccello sacro a Giunone, che porta sulla coda le stelle, e l’uccello scudiero di Giove e le
colombe della dea citerea e tutte le stirpi di uccelli, se non si sapesse che fosse così, chi
penserebbe che possano nascere dalle parti di un uovo? Ci sono coloro che credono,
quando la
spina è putrefatta nel sepolcro chiuso, che le midolla umane siano mutati in serpenti.
Questi tuttavia traggono le origini da altre specie. C’è un solo uccelli che rinvigorisce e
riesamina da sé, che gli Assiri chiamano Fenice. Non vive né di frutti, né di erbe, ma di
lacrime di incenso e succo di amomo. Quando questa ha compiuto cinque secoli di vita,
subito
costruisce per sé col becco puro e con le unghie un nido sui rami e sulla cima di una palma
tremolante.
Sul quale quando ha sparso sotto la cassia e le spighe di dolce nardo, il cinnamomo
abbattuto
con la bionda mirra, si pone sopra e termina la vita tra i profumi.
Poi raccontano che dal corpo del padre rinasce una piccola fenice che debba vivere
altrettanti
anni. Quando l’età da a questa le forze ed è in grado di portare il peso, leva i rami dell’alta
pianta dal peso del nido e porta pia il nido suo e il sepolcro del padre e lo pone nella città di
Iperione per l’aria leggera davanti alle sacre porte nel tempio di Iperione.
Se tuttavia c’è qualcosa di una novità meravigliosa in questi, meravigliamoci della iena che
alterna le vicende e, che ora da femmina sopporta sulla schiena il maschio e ora è maschio.
Anche questo animale che è nutrito di vento e aria, prende subito il colore di qualsiasi cosa
tocchi. L’India vinta da Bacco, coronato di grappoli, gli diede delle linci; dai quali, come
ricordano, qualunque cosa è emessa dalla vescica è trasformata in pietra e congela al tatto
con
l’aria (toccata l’aria).
Così il corallo, nel tempo in cui tocca l’aria, si indurisce; fu erba molle sotto le onde.
Finirà prima il giorno e in alto Febo immergerà i cavalli ansanti nel profondo mare, prima che
io raggiungerò con le parole (esprimerò) tutto ciò che è mutato in nuove forme. Così
vediamo
che i tempi sono cambiati e che quei popoli prendono forze, questi cadono, così Troia fu
grande negli averi e negli uomini per dieci anni potè dare tanto di sangue, ora umile mostra
solo le vecchie rovine e sepolcri degli attentati invece delle ricchezze.
Famosa fu Sparta, la grande Micene ebbe vigore (ha avuto) e le rocche di Cecrope e di
Anfione. Sparta è terra vile, la grande Micene è caduta. Cosa è la Tebe di Edipo, se non un
nome? Che costa resta di Atene di Pandione se non il nome? Ora è fama che sorge Roma
discendente dai Dardani che vicina alle onde del Tevere appenninico pone sotto grani
fondamenta una mole di regno. Dunque questa muta forma crescendo e un giorno sarà la
capitale del grande mondo. Così raccontarono che profetizzino i vati e le sorti fatidiche e
quanto ricordo, aveva detto Eleno figlio di Priamo a Enea che piangeva e incerto per la
salvezza, quando lo stato troiano vacillava;
“O figlio di una dea, se hai abbastanza noti i presagi della mia mente, con te salvo Troia non
cadrà del tutto. Le fiamme e le armi ti daranno una via; andrai e porterai Pergamo portata
via,
finché a Troia e a te non capiterà un luogo straniero più amico della patria. Vedo anche che
nipoti frigi fondano una città come non è né sarà né è stata vista negli anni precedenti.
Altri nobili faranno questa potente per molti secoli, ma il nato dal sangue di Iulo farà questa
padrona del mondo.
Quando la terra si sarà servita di lui e quando quello salirà al cielo, le sedi celesti si
diletteranno.”
Io memore, ricordo, che Eleno profetizzò questo a Enea portatore di Penati e sono lieto che
le
mura consanguinee crescano e che i Pelasgi abbiano vinto con vantaggio dei Frigi. Tuttavia
affinché non vagassimo con cavalli che hanno dimenticato di tendere alla meta, il cielo e
tutto
quello che sta sotto quello muta forme e la terra e qualunque cosa è in quella.
Anche noi, parte del mondo, poiché siamo non solo corpi ma anche anime volanti, possiamo
andare nei corpi bestiali o essere nascosti in animali domestici.
Lasciamo che i corpi, i quali possono aver avuto anime di padri o fratelli o di persone unite
con un qualsiasi legame a noi, o comunque di uomini, siano al sicuro e rispettati e non
accumuliamo le viscere nelle mense di Tieste.
Come si abitua male, come si prepara quello empio al sangue umano, colui che spacca la
gola
del vitello col ferro e offre gli orecchi insensibili ai muggiti; o colui che può sgozzare un
capretto che manda vagiti simili ai bambini o può cibarsi di un uccello a cui lui stesso ha dato
il cibo! Quanto c’è, che cosa manca in questi per il pieno delitto? Da qui dove è preparato il
passaggio?
Il bue ari e imputi la morte alla vecchiaia, la pecora ci offra le armi contro il terribile Borea, le
caprette sazie ci diano le mammelle da stringere con le mani.
Togliete le reti con le trappole e i tranelli e le arti ingannatrici e non ingannate l’uccello con
rami coperti di vischio e non illudete il cervo con spauracchi di piume, non celate ami
adunchi
dentro cibi fallaci. Uccidete se quella nuoce, uccide solo questi. Le bocche siano libere dal
sangue e mangino solo alimenti miti.
Raccontano che con tali parole e istruito in altre nel petto Numa tornò in patria e che
spontaneamente avesse accettato la domanda di (sott. Prendere) le redini del popolo latino.
Felice per avere come moglie una ninfa e sotto la guida delle Camene, insegnò i riti
sacrificali
e condusse la gente abituata alla guerra feroce alle arti della pace.
Il quale, dopochè vecchio terminò il regno e la vita, la nuora e il popolo e i padri del Lazio
piansero Numa estinto. La moglie lasciata la città nascosta si nascose nelle fitte selve della
valle di Aricia e impedisce con un gemito e lamenti i sacrifici di Diana di Oreste. Ah! Quante
volte le ninfe del bosco e del lago la esortarono affinché non lo facesse e dissero parole
consolatorie. Quante volte l’eroe figlio di Teseo disse a quella che piangeva “fermati, la tua
sorte non è la sola da compiangere. Guarda i casi simili degli altri. Sopporterai mite queste
cose.
Magari gli esempi non miei potessero sollevare/alleviare te dolente ma i miei possono.
Se parlando è giunto alle vostre orecchie un certo Ippolito che andò incontro alla morte per
crudeltà del padre e per inganno della scellerata matrigna, ti meraviglierai e a stento lo
dimostrerò, ma quello sono io.
Un tempo la figlia di Pasifae, tendando me invano di profanare il letto paterno, la sciagurata
volta la colpa accusò me di aver voluto ciò che lei voleva. (Più per la paura dell’accusa o per
l’offesa del rifiuto?), e il padre cacciò me che non lo meritavo dalla città e mentre andavo
maledisse me stesso con una preghiera ostile.
Mi dirigevo verso Trezena, città di Pitteo, su un carro esule e già prendevo le coste del mar
di
Corinto, quando il mare si alzò e un cumulo immane di acqua sembrò crescere e inarcasi
come una montagna e dare muggiti e spezzarsi in cima.
Dalle onde rotte è cacciato fuori un toro cornicerò e eretto fino al petto nell’aria sottile vomita
dalla bocca aperta e dalle narici una parte di mare.
I cuori dei compagni si spaventano, la mente mi rimane imperterrita, intenta all’esilio, quando
i cavalli feroci volgono i colli alle onde e drizzare le orecchie i quadrupedi si irrigidiscono e
sono turbati dalla paura del prodigio e buttano giù il carro dagli alti scogli.
Io invano combatto per tirare i morsi con la mano coperti da bianca bava e a testa alta tendo
le
lenti briglie.
Tuttavia la rabbia dei cavalli non avrebbe superato queste forze, se una ruota, per dove si
volge di continuo intorno all’asse , non fosse spezzata e distrutta per l’accorre del tronco.
Sono fatto cadere dal carro, avresti visto gli arti impigliati dalle briglie, le viscere essere
trascinate fuori vive, i nervi essere tenuti attaccati al tronco, le membra in parte portate via,
in
parte trattenuto restare indietro, le ossa spezzate dare un grande suono e l’anima stanca
esalare
e nessuna parte nel corpo avresti potuto riconoscere, tutto era una ferita. Ora puoi o osi, o
ninfa, paragonare la tua alla mia disgrazia? Vidi anche i regno che sono privi di luce e ho
confortato il corpo straziato nelle onde del Flegetonte, e la vita non sarebbe stata restituita
senza le cura valide della prole di Apollo; dopodiché ho riavuto quella (la vita) con le forti
erbe e le opere di Peone (dio della medicina), mentre Dite era infuriata, allora, per non
aumentare l’invidia per questi doni, la dea del Cinto, mi offrì dense nubi e affinché io fossi al
sicuro e possa essere visto impunemente, aggiunse l’età e lasciò a me il volto da non
riconoscere. A lungo dubitò se consegnarmi a Delo o a Creta; scartati Delo e Creta, mi pose
qui e insieme mi ordinò di deporre il nome, che avrebbe potuto ricordare dei cavalli e disse
“Tu sei stato Ippolito, ora sarai Virbio!” Da allora vivo in questo bosco e come uno degli dei
minori sono nascosto sotto la volontà della padrona e sono associata a quella”.
Tuttavia le disgrazie altrui non hanno la forza di levare il dolore di Egeria e giacendo sulle
base del monte, si scioglie in lacrime fino a che la sorella di Febo, mossa dalla pietà
dell’infelice la fece dal corpo gelida fonte e assottigliò gli arti nelle onde eterne.
La nuova cosa toccò le ninfe, e anche il figlio dell’Amazzone è stupito, come quando un
aratore etrusco guarda la terra fatale in mezzo al campo che spontaneamente è mossa
senza
nessuno che la muovesse, assumere la forma di un uomo e perdere la forma della terra e
schiudere le labbra recenti, manifestando il destino (gli indigeni lo chiamarono Tagete, che
per primo insegnò alla gente Etusca come scoprire il futuro. O come quando Romolo un
giorno vide frondeggiare all’improvviso l’asta attaccata ai colli palatini, che stava su una
radice nuova e non stava sul ferro conficcato e ormai non una freccia, ma un albero di vimini
flessibile dava ombre non attese alle persone meravigliate; o come Cipo, quando vide nelle
onde fluviali due corni (li vide infatti) e credendo che ci fosse una verità falsa nell’immagine,
portate le dita alla fronte più volte, toccò ciò che vedeva e non più condannando i suoi occhi,
si fermò quando veniva vittorioso dal nemico sconfitto, e alzando gli occhi e le braccia al
cielo disse “ qualunque cosa, o dei, sia preannunciata da questo prodigio, se è lieta, sia lieta
per la patria e per il popolo di Quirino, se è funesta, lo sia per me!” E su altari erbosi fatti di
verdi zolle placa con fuochi profumati e da vino dalle coppe e consulta le viscere trepidanti di
pecore sacrificate per (sapere) cosa significassero.
Non appena un aruspice di stirpe etrusca le vide, vide grandi fatiche di cose in quelle e
tuttavia non chiare; quando alzò il suo acuto sguardo dalle fibre degli animali alle corna di
Cipo disse “ salve o re! A te infatti, o Cipo, a te e alle tue corna si sottometteranno questo
luogo e le rocche del Lazio. Tu rompi gli indugi e affrettati a entrare nelle porte aperte; così i
fati ordinano. Sarai accolto nella città come re e sano e salvo otterrai lo scettro perenne.”
Quello portò indietro il piede e distogliendo la faccia torva dalle mura della città disse
“lontano, lontano tutti. O’ dei respingete tali cose! Sarò più giusto che io conduca una vita da
esule che il Campidoglio mi veda come re”. Disse e convoca subito il popolo e l’austero
senato; prima tuttavia copre le corna con alloro di pace e fatto un terrapieno dal forte
esercito
sta sopra e pregati gli dei secondo la tradizione antica dice “qui c’è uno che se non lo
cacciate
dalla città, sarà re. Dirò chi questo sia con un segno, no col nome: porta delle corna in
fronte.
L’augure rivela che se questo entrerà a Roma, vi darà leggi servili. Quello potè irrompere
attraverso le porte aperte, ma noi glielo abbiamo impedito, anche se nessuno mi è più unito
di
quello. Voi o Quiriti tenete lontano l’uomo dalla città o, se sarà degno, legatelo con pesanti
catene e finite la paura con la morte del fatale tiranno.
Come i mormorii che provengono dalle pinete succinte appena l’Euro minaccioso fischia o
come quello che i flutti dell’acqua fanno se qualcuno li ascolta da lontano, così rumoreggia il
popolo; ma tra le parole confuse del volgo fremente, una sovrasta le altre “chi è quello?” E
guardano le fronti e cercano le corna predette. Di nuovo Cipo a questi “colui che domandate
avete” disse e tolta la corona dal capo, benché il popolo lo impedisca, mostrò le tempie
caratterizzate dal doppio corno. Tutti abbassarono gli occhi e diedero un gemito, e
malvolentieri videro quel capo illustre per i meriti (chi poteva crederlo?); e non tollerando che
restasse senza onore ulteriormente posero una corona festiva.
Ma i patrizi, o Cipo, poiché ti è vietato entrare nelle mura, ti diedero tanta di campagna
quanto puoi abbracciare con un aratro premuto in basso da buoi assoggettati dal sorgere del
sole alla fine.
Sulle porte scolpirono corna che ricordano la bellezza meravigliosa (delle tue) per persistere
per molto tempo.
Rivela ora, o musa, dee favorevoli sui poeti (sapete infatti e la lunga vecchiaia non vi
inganna) da dove l’isola bagnata dall’alto Tevere aggiunse il coronide (Esculapio) ai culti
della città di Romolo.
Un tempo una terribile pestilenza aveva infettato l’aria del Lazio e i corpi pallidi erano
squallidi per il morbo esangue. Stanchi di funerali vedono che non possono alcun tentativo
mortale e nessuna arte del medico, chiedono l’aiuto celeste e vanno a Delfi che tiene il
centro
della terra, dove è l’oracolo di Febo, e lo pregano di voler rimediare all’infelice vicenda con
responso salutare e di finire i mali di una città così grande. E il luogo e l’alloro e le faretre
che
lui stesso ha tremarono insieme e dai penetrali il tripode restituì questa voce e scosse i cuori
spaventati: ciò che tu cerchi qui, o’ romano, avresti dovuto cercarlo un luogo più vicino.
Cercalo dunque ora in un luogo più vicino. Occorre per ridurre le morti non di Apollo ma del
figlio di Apollo. Andate con buoni presagi e chiamate mio figlio.”
I senatori prudenti dopodiché appresero gli ordini del dio, cercarono quale città abitasse il
figlio di Febo e mandano messaggeri alle coste di Epidauro con le vele al vento.
Non appena i messaggeri approdarono con una nave ricurva, andarono al consiglio dei padri
greci e pregarono di dare il dio che con la sua presenza avrebbe finito i lutti della gente
ausoni; così diceva l’oracolo.
La sentenza è varia e non concorde, e una parte ritiene che l’aiuto è da non negare, molti
esortano di trattenere e non far uscire la loro ricchezza e di non consegnare il dio. Mentre
dubitano, il crepuscolo ha spinto via la tarda luce e l’ombra aveva portato le tenebre sulla
sfera terrestre, quando il dio soccorritore fu visto apparire in sogno, davanti al tuo letto, o
romano, ma come suole essere nel tempio e tenendo un bastone agreste con la sinistra, con
la
destra lisciare i peli della lunga barba e emettere dal placido petto tali parole “deponete la
paura: verrò e lascerò il mio simulacro.
Guarda questo serpente, che circonda con le spire il bastone, e notalo bene, affinché tu
possa
riconoscere l’immagine. Mi trasformerò in questo, ma sarò più grande e sembrerò di più,
quanto come devono essere mutati i corpi celesti.”
Subito il dio con la voce e con la voce e con il dio va via il sonno, e l’alma luce segue la fuga
del sonno.
Dopo l’Aurora aveva eliminato i fuochi siderei; i capi, incerti su che cosa fare, diretti al
tempio operoso del dio si radunano, e pregano che indichi con segni celesti in quale luogo
voglia abitare. Non avevano ancora finito, quando il dio nel serpente dall’alta cresta dorata
mandò sibilli preannunciati e scosse con il suo avanzare la statua e gli altari e le porte e il
suolo marmoreo e il soffitto d’oro e si fermò fino al mezzo del tempio con il petto fiero e
portò intorno gli occhi brillanti di fuoco.
La folla spaventata è impaurita; il sacerdote, legati i capelli casti con una benda bianca,
riconosce il dio: “ecco il dio, ecco il dio! Chi è presente, onorate con l’anima e con la lingua.
O bellissimo, che la tua apparizione sia più utile e aiuta il popolo fedele nel tuo culto”.
Chiunque è presente venerano il dio apparso e tutti riferiscono le parole del sacerdote e gli
Eneadi mostrano nella mente e con la voce un pio favore. Il dio annuì a questi, e diede un
segno certo muovendo le creste e diede sibilli ripetuti con la lingua vibrata.
Allora svicola dai lucenti scalini e piega all’indietro il volto e guarda i vecchi altari, stando
per andarsene, e saluta i templi abitati consuete dimore.
Poi gigante serpeggia per la terra coperta di fiori gettati e piega le curve e si dirige attraverso
la città e piega le curve e attraverso la città si dirige verso i porti difesi da terrapieni ricurvi.
Qui si ferma e sembra congedare con placito volto la schiera e il corteo della folla che lo ha
seguito e mise il corpo nella nave ausonia. Quella nave sente il peso del dio ed è premuta
dal
peso del dio.
Gli eneadi esultano e sacrificato un toro sulla spiaggia, sciolgono le corde legate delle navi
inghirlandate.
Un vento leggero aveva spinto la nave; il dio sovrasta dall’alto e collocato il collo sulla poppa
ricurva guarda le acque cerulee. Per il mar Ionio, con zefiri moderati, al sesto sorgere della
figlia di Pannante, raggiunge l’Italia ed è portato oltre Licinio, famoso per il tempio della dea,
e le coste di Squillace. Lascia la Iapigia e con i remi fugge a sinistra gli scogli anfrisii, a
destra
i dirupi celerini e costeggia Romezio, Caulone e Naricia e cinge lo stretto angusto del siculo
Peloro e si dirige verso le case di Ippota e le miniere di Temesa e Laucosia e i roseti della
tiepida Pestum. Poi costeggia Capri e il promontorio di Minerva e i colli generosi di viti di
Sorrento e la città di Ercole e Stabia e Partenope nata negli ozi, e da questa il tempio della
sibilla umana. Qui si raggiunge le fonti calde e Literno che produce i lentischi e Volturno che
trascina molta sabbia sotto i gorghi e Sinuessa popolata da bianche serpi e il grave Minturno
e
dove il figlio seppellì e la reggia di Antifate e Tracante assediata dalla palude e la terra di
Circe e Anzio della spiaggia compatta.
Qua i marinai volsero le navi portatrici di vele (infatti il mare era agitato), il dio allarga le
spire e scivolando tra le sinuosità spesse e con grandi volute entra nel tempio del padre che
tocca il biondo lido. Placato il mare, l’Epidauro (Esculapio) lascia gli altari paterni e dopo
aver goduto dell’ospitalità del dio unito a lui, solca la costa sabbiosa con il trascinare delle
squame crepitanti e appoggiato sul timone della nave, pose la testa sull’alta poppa, fino a
che
giunse a Castro e alle sacre sedi di Lavinio e alle porte del Tevere.
Qui il una folla di ogni popolo, di madri o padri, senz’ordine, che viene incontro, si precipita e
coloro che preservano il suo fuoco, o Veste troiana, e salutano il dio con lieto clamore.
Per dove la nave veloce è trascinata per le onde avverse, dagli altari fatti secondo l’ordine
lungo le rive da entrambe le parti gli incensi crepitano e profumano l’aria con i fumi e la
vittima colpita riscalda i coltelli conficcati. E ormai, era entrata nella città Romana, capo del
mondo. Il serpente si alza e muove il collo appoggiato all’alto albero (della nave) e guarda
intorno a sé i luoghi adatti.
Il fiume che scorre intorno è scisso in due parti (ha il nome Isola) e distende i bracci eguali
dalla parte dei due lati con la terra in mezzo.
Qui dalla nave laziale il serpente di Febo si rifugiò e riassunto l’aspetto celeste, pose fine ai
lutti e la salute tornò a Roma

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