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SUPREMA CORTE DI CASSAZIONE

UFFICIO DEL MASSIMARIO E DEL RUOLO


Settore penale

___________

RASSEGNA DELLE PRONUNCE DELLA CORTE COSTITUZIONALE


IN MATERIA PENALE
(Gennaio – Febbraio 2022)

Rel. 19/2022

Sommario

PARTE I. DIRITTO PENALE ............................................................... 3

1) Abuso d’ufficio: non fondata la q.l.c. dell’art. 23, comma 1, d.l. 16 luglio 2020,
n. 76 (cd. decreto semplificazioni) in riferimento all’art. 77 Cost. e inammissibili
quelle riferite agli artt. 3 e 97 Cost. ............................................................. 3

2) Inammissibili le q.l.c. degli artt. 206 e 222 cod. pen. e dell’art. 3-ter d.l. 22
dicembre 2011 n. 211, come convertito con modifiche dalla legge 17 febbraio
2012, n. 9, sulle REMS, in riferimento agli artt. 2, 3, 25, 27, 32 e 110 Cost. ..... 9

3) La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 53, comma


secondo, l. 24 novembre 1981, n. 689 e modifica il valore giornaliero minimo per
la sostituzione delle pene detentive brevi da 250 a 75 euro............................14

4) Obbligo dell’istruzione elementare dei minori e sanzione per la sua


inosservanza (art. 731 cod. pen.): inammissibili le q.l.c. sollevate riguardo
l’omessa previsione per la scuola media inferiore di primo grado e i due primi anni
della scuola secondaria superiore. ...............................................................19

PARTE II. DIRITTO PROCESSUALE PENALE .................................... 20

1) Art. 670 cod. proc. pen: non fondate le q.l.c. sulla preclusione per il giudice
dell’esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito irrevocabile per
violazione della competenza funzionale del tribunale per i minorenni ...............20

2) Illegittimità costituzionale (parziale) degli artt. 34, comma 1, e 623, comma


1, lett. a) cod. proc. pen.: è incompatibile a partecipare al giudizio di rinvio il
giudice dell'esecuzione che abbia pronunciato ordinanza sulla richiesta di
rideterminazione della pena, a seguito della declaratoria di illegittimità
costituzionale di una norma incidente sulla commisurazione del trattamento
sanzionatorio, annullata dalla Corte di cassazione. ........................................26

3) Illegittimità costituzionale (parziale) dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen.: è


incompatibile a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal
PM in conformità ai rilievi mossi dal giudice stesso, il giudice per le indagini
preliminari che l’abbia rigettata per mancata contestazione di una circostanza
aggravante. .............................................................................................29

4) Arresto obbligatorio in flagranza per tentato furto aggravato dalla violenza


sulle cose: la Corte dichiara non fondate le q.l.c. dell’art. 380, comma 2, lett. e),
cod. proc. pen. .........................................................................................32

PARTE III. DIRITTO PENITENZIARIO E DELL’ESECUZIONE ............ 35

1) Illegittima la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza del


detenuto al 41-bis con il proprio difensore. ..................................................35

2) Inammissibili e non fondate le q.l.c. dell’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord. Pen.:
nella concessione del permesso-premio non è irragionevole differenziare il
condannato detenuto per reati ostativi, che non possa collaborare, da quello che
non collabori “per scelta”. ..........................................................................39

3) Illegittimo l’art. 47-quinquies Ord. Pen nella parte in cui non prevede che
possa essere disposta l’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare al
genitore di un minore, qualora lo stato di detenzione provochi a quest’ultimo un
grave pregiudizio. .....................................................................................43

4) Inammissibili le q.l.c. dell’art. 4-bis, comma 1-quater, Ord. Pen nella parte
relativa alla concessione dei benefici al condannato per reati di violenza sessuale,
anche aggravata. ......................................................................................45

PARTE I. DIRITTO PENALE

1) Abuso d’ufficio: non fondata la q.l.c. dell’art. 23, comma 1, d.l. 16


luglio 2020, n. 76 (cd. decreto semplificazioni) in riferimento all’art.
77 Cost. e inammissibili quelle riferite agli artt. 3 e 97 Cost.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 8, depositata il 18 gennaio 2022,


ha dichiarato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 23,

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comma 1, d.l. 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e
l’innovazione digitale, cd “decreto semplificazioni”), convertito, con modificazioni,
dalla legge 11 settembre 2020, n. 120, recante modifiche all’art. 323 cod. pen.,
in tema di abuso d’ufficio, sollevata, in riferimento all’art. 77 Cost., dal Giudice
dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro; ha dichiarato altresì
inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 23, comma 1, d.l. n.
76 del 2020, come convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., dal
Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro.
La norma sottoposta al vaglio della Consulta, sia sotto l’aspetto procedurale
che per il suo contenuto sostanziale, è l’art. 23, comma 1, d.l. n. 76 del 2020 come
cit., che ha modificato, in termini più restrittivi, la disciplina del reato di abuso
d’ufficio, sostituendo, nell’art. 323 cod. pen., la locuzione – riferita alla violazione
integrativa del reato, così da incidere sulla prima delle due condotte tipiche – «di
norme di legge o di regolamento» con quella «di specifiche regole di condotta
espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non
residuino margini di discrezionalità».
Quanto all’aspetto procedurale, due i profili contestati, entrambi ritenuti
violativi dell’art. 77 Cost.
Secondo il giudice rimettente la norma risulta estranea alla materia
disciplinata dalle altre disposizioni del d.l. n. 76 del 2020 e avulsa dalle ragioni che
hanno spinto il Governo ad adottare il citato decreto-legge, legate all’emergenza
epidemiologica da COVID-19, e alla necessità, da un lato, di introdurre misure di
semplificazione amministrativa e di rilancio economico del Paese, per far fronte
alle ricadute economiche conseguenti alla pandemia e, dall’altro, di realizzare
un’accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture. Sotto questo profilo, la
mancanza di un nesso di strumentalità tra la modifica, in termini fortemente
restrittivi, del delitto di abuso d’ufficio e l’esigenza di semplificare le procedure
amministrative in vista del rilancio economico del Paese rendono evidente la
disomogeneità della norma denunciata, per contenuto e finalità, rispetto alla
normativa che l’ha introdotta. In particolare, la riforma in senso restrittivo della
norma sull’abuso d’ufficio appare piuttosto volta a delimitare la responsabilità
penale dei funzionari pubblici in relazione all’attività da loro svolta, e avrebbe
richiesto pertanto un adeguato dibattimento parlamentare, per le delicate scelte
di natura politico-criminale in essa implicate.
Anche a voler diversamente opinare, difetterebbe comunque, sempre sotto
l’aspetto procedurale, il presupposto della straordinaria necessità ed urgenza, ed
in ciò l’ulteriore profilo di contrasto con l’art. 77 Cost, atteso che, rispetto ad
interventi di (parziale) depenalizzazione (quale sostanzialmente sarebbe quello
realizzato), la straordinaria necessità ed urgenza sarebbe ravvisabile solo in casi

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residuali, insussistenti nel caso di specie, «tenuto conto dei fisiologici tempi di
svolgimento di qualsivoglia procedimento penale e della totale assenza di
incidenza di singole vicende penali sul piano della semplificazione amministrativa».
Il contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., secondo il giudice rimettente, si pone,
invece, rispetto al contenuto della norma, e ciò in quanto, con la modifica all’art.
323 cod. pen., l’abuso penalmente rilevante si risolve nell’inosservanza di una
norma legislativa che preveda una attività amministrativa vincolata «nell’an, nel
quid e nel quomodo», ipotesi, questa, estremamente rara, con la conseguenza di
rendere pressoché impossibile la configurabilità del reato. Detto diversamente, la
norma finisce con l’attribuire rilevanza penale ad una casistica assolutamente
marginale, quella in cui l’attività amministrativa è fortemente vincolata, rendendo,
per converso, non (più) punibili condotte, sicuramente più gravi, ossia quelle
realizzate da coloro che, «detenendo il potere di decidere discrezionalmente, si
trovano in una condizione privilegiata per abusarne». Di qui l’evidente violazione
dei principi, costituzionalmente garantiti, di buon andamento, imparzialità e
trasparenza della pubblica amministrazione, cui si aggiunge la violazione dell’art.
3 Cost., in quanto la scelta di privare di rilevanza penale ogni forma di esercizio
della discrezionalità amministrativa si risolve nell’attribuire all’agente pubblico un
potere dispositivo assoluto, sottratto al vaglio giudiziale, equiparabile a quella
riconosciuta ad un privato rispetto alla cosa di cui questi sia proprietario,
parificando così situazioni tra loro assolutamente differenti.
L’Avvocatura dello Stato, in rappresentanza del Presidente del Consiglio dei
ministri, ha chiesto le questioni vengano dichiarate inammissibili, per
inadeguatezza della motivazione sulla rilevanza, o non fondate «non potendosi
ritenere carenti né il requisito dell’omogeneità della norma censurata rispetto alle
altre disposizioni del d.l. n. 76 del 2020, né quello della straordinaria necessità e
urgenza di provvedere alla modifica normativa in esame».
La Consulta, nella decisione in esame, illustrate la questioni di legittimità
sollevate, ricostruisce la genesi dell’art. 23 d.l. n. 76 del 2020 e ne ripercorre «la
travagliata vicenda normativa e giurisprudenziale che si colloca alle sue spalle»
legata alla figura criminosa dell’abuso d’ufficio che, storicamente, assolve ad una
funzione «di chiusura» del sistema dei delitti dei pubblici ufficiali contro la pubblica
amministrazione (resa evidente dalla clausola di sussidiarietà in essa contenuta)
e che rappresenta «il punto saliente di emersione della spigolosa tematica del
sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa: tematica percorsa da una
perenne tensione tra istanze legalitarie, che spingono verso un controllo a tutto
tondo, atto a fungere da freno alla mala gestio della cosa pubblica, e l’esigenza di
evitare un’ingerenza pervasiva del giudice penale sull’operato dei pubblici
amministratori, lesiva della sfera di autonomia ad essi spettante».

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I numerosi interventi normativi che hanno interessato nel tempo l’art. 323
cod. pen. sono quindi analizzati nella loro sequenza temporale, tenendo presente
la ratio delle modifiche succedutesi nel tempo, l’interpretazione giurisprudenziale
che ne è stata data e l’applicazione che, in concreto, la disposizione normativa ha
avuto. Tanto la Corte fa, all’evidente fine di mettere bene a fuoco le ricadute dei
vari interventi, che si sono sostanziate nella «sempre maggiore diffusione del
fenomeno che si è soliti designare come “burocrazia difensiva” (o
“amministrazione difensiva”). I pubblici funzionari si astengono, cioè,
dall’assumere decisioni che pur riterrebbero utili per il perseguimento
dell’interesse pubblico, preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto
appiattite su prassi consolidate e anelastiche), o più spesso restare inerti, per il
timore di esporsi a possibili addebiti penali (cosiddetta “paura della firma”).» Né
ha rilievo la circostanza che, statisticamente, siano pochissime le condanne
definitive pronunciate: «Il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in
un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente
clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un “effetto di
raffreddamento”, che induce il funzionario ad imboccare la via per sé più
rassicurante.», con riflessi negativi sull’azione amministrativa, che perde di
efficacia e si rallenta, specie nei procedimenti più delicati.
In questo contesto – anticipa la Corte in premessa, quelle che saranno le sue
conclusioni - non sembra avulso che l’intervento normativo di cui si discute sia
stato realizzato con un eterogeneo provvedimento di urgenza volto a dare nuovo
slancio all’economia nazionale (duramente provata dalla pandemia e dagli iniziali
provvedimenti di chiusura forzata di tutte le attività economiche, con la sola
eccezione di quelle assolutamente necessarie), tenuto conto che in un apposito
capo si è occupato della responsabilità penale (che, con quella erariale, costituisce
una delle due principali fonti di “timore” per il pubblico amministratore), «oggetto
di modifiche limitative e all’insegna della maggiore tipizzazione», che, come nel
caso dell’abuso d’ufficio, restringono l’area del penalmente rilevante, specie se
rapportate e raffrontate con la “norma vivente” di elaborazione giurisprudenziale.
Fatta questa premessa e confutate le argomentazioni della Avvocatura dello
Stato, la Consulta analizza in via pregiudiziale la questione sollevata in riferimento
all’art. 77 Cost., della cui ammissibilità non si dubita, tenuto conto delle pregresse
pronunce costituzionali assunte su questioni simili, intese a denunciare la carenza
dei presupposti di straordinaria necessità ed urgenza, ai quali è subordinata
l’eccezionale legittimazione del Governo ad adottare atti nomativi, senza una
delega del Parlamento (sentenza n. 330 del 1996; ordinanze n. 90 del 1997 e n.
432 del 1996, tutte in tema di depenalizzazione mediante decreto-legge di reati in
materia di inquinamento delle acque).

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La questione viene ritenuta non fondata, restando il sindacato sulla
straordinaria necessità ed urgenza circoscritto alle ipotesi di “mancanza evidente”
dei presupposti indicati o di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà della loro
valutazione. Venendo peraltro in rilievo un decreto-legge a contenuto plurimo, in
base all’orientamento della Consulta, «quel che rileva è dunque il profilo
teleologico, ossia l’osservanza della ratio dominante l’intervento normativo
d’urgenza (sentenze n. 213 del 2021, n. 170 e n. 16 del 2017, e n. 287 del 2016)»,
con la conseguenza che, anche su tale fronte, il sindacato resta «circoscritto ai
casi in cui la rottura del nesso tra la situazione di necessità ed urgenza che il
Governo mira a fronteggiare e la singola disposizione del decreto-legge risulti
evidente, così da connotare quest’ultima come «totalmente “estranea”» o
addirittura «intrusa», analogamente a quanto avviene con riguardo alle norme
aggiunte dalla legge di conversione (sentenza n. 213 del 2021)».
Alla luce di questi principi, la prima questione, relativa al contrasto con l’art.
77 Cost., viene ritenuta infondata: in primo luogo perché la norma censurata non
risulta eccentrica ed avulsa, per materia e finalità, rispetto al decreto-legge in cui
è inserita; un provvedimento, questo, che interviene in molteplici ambiti, che
vanno dalle semplificazioni di vario ordine per le imprese e per la pubblica
amministrazione, alla diffusione dell’amministrazione digitale, ma anche alla
responsabilità penale degli amministratori pubblici.
La norma, in particolare, non presenta profili di illegittimità proprio in ragione
delle considerazioni espresse in precedenza, nella parte in cui si è fatto riferimento
alla «paura della firma» e alla «burocrazia difensiva», indotte dal timore di una
imputazione per abuso di ufficio, per come interpretato specie in base alla
previgente «“norma vivente” di matrice giurisprudenziale».
Ecco che allora – afferma la Consulta – il collegamento tra la norma in esame
e il d.l. n. 76 del 2020 è individuabile «nell’idea che la ripresa del Paese possa
essere facilitata da una più puntuale delimitazione della responsabilità». La paura
della firma e più in generale la burocrazia difensiva si tradurrebbero «in quanto
fonte di inefficienza e di immobilismo, in un ostacolo al rilancio economico, che
richiede, al contrario, una pubblica amministrazione dinamica ed efficiente» ed in
questa prospettiva, la modifica volta a restringere l’ambito di applicazione
dell’abuso di ufficio, definendone meglio gli ambiti, non appare avulsa, nè estranea
alle finalità del decreto-legge.
Ma anche il secondo aspetto “procedurale” di contrasto con l’art. 77 Cost.
viene ritenuto infondato dalla Consulta.
Che non si versi in una ipotesi di evidente mancanza del presupposto della
straordinaria necessità ed urgenza, lo si ricava dal fatto che l’intervento normativo
«rifletta due convinzioni, per quanto si è visto, entrambe diffuse: a) che il “rischio

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penale” e, in specie, quello legato alla scarsa puntualità e alla potenziale eccessiva
ampiezza dei confini applicativi dell’abuso d’ufficio, rappresenti uno dei motori
della “burocrazia difensiva”; b) che quest’ultima costituisca a propria volta un
freno e un fattore di inefficienza dell’attività della pubblica amministrazione».
Ebbene, quand’anche queste due convinzioni, che rendevano necessario un
intervento normativo, precedessero la pandemia, è indubbio che proprio l’esigenza
di far ripartire il Paese, dopo il blocco imposto per fronteggiare la diffusione del
contagio – abbia impresso alla riforma i connotati della straordinarietà ed urgenza.
E ciò non può considerarsi manifestamente irragionevole o arbitrario.
Quanto alla q.l.c. sollevata in relazione agli articoli 3 e 97 Cost., attinente al
contenuto della norma, la stessa viene ritenuta inammissibile.
Come precisato dalla Corte, il giudice a quo di fatto invoca «una pronuncia
ablativa della modifica operata dalla norma censurata, che avrebbe come effetto
la reviviscenza della precedente norma incriminatrice dell’abuso d’ufficio, dal
perimetro applicativo più vasto. Si tratta, dunque, inequivocabilmente, della
richiesta di una sentenza in malam partem in materia penale», che, per il costante
indirizzo della Corte, è in generale precluso dal principio della riserva di legge
sancito dall’art. 25 Cost..
A tal proposito, e diversamente da quanto sostenuto dal giudice rimettente,
non può ritenersi che la norma penale sottoposta al vaglio di costituzionalità sia –
se rapportata alla norma anteriore - di favore, per averne ristretto l’ambito
applicativo e che di conseguenza sia consentita la sua sindacabilità in malam
partem. Al contrario, la disposizione di cui all’art. 23 d.l. n. 76 del 2020, se
dichiarata incostituzionale, non farebbe riespandere una norma tuttora presente
nell’ordinamento, ma determinerebbe il ripristino di una norma (il pregresso art.
323 cod. pen.) che è espressione di una scelta criminale non più attuale ed è,
questa, una operazione che è preclusa alla Consulta.
Ma l’inammissibilità della questione discende anche da quanto già dichiarato
dalla Corte in una precedente pronuncia (sentenza n. 447 del 1998) su questioni
analoghe, sollevate sempre in riferimento ai medesimi parametri (artt. 3 e 97
Cost.), che avevano ad oggetto l’art. 323 cod. pen., come riformulato – anche
allora in senso restrittivo – dalla legge n. 234 del 1997. In quella occasione la
Consulta ebbe a precisare che le esigenze costituzionali di tutela non si esauriscono
nella tutela penale in sé, che resta l’extrema ratio, potendo essere soddisfatte con
altri precetti e sanzioni.

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2) Inammissibili le q.l.c. degli artt. 206 e 222 cod. pen. e dell’art. 3-ter
d.l. 22 dicembre 2011 n. 211, come convertito con modifiche dalla
legge 17 febbraio 2012, n. 9, sulle REMS, in riferimento agli artt. 2, 3,
25, 27, 32 e 110 Cost.

Con la sentenza n. 22, decisa il 16 dicembre 2021 e depositata il 27 gennaio


2022, la Corte costituzionale ha dichiarato «inammissibili le questioni di legittimità
costituzionale degli artt. 206 e 222 del codice penale e dell’art. 3-ter del decreto-
legge 22 dicembre 2011, n. 211 (Interventi urgenti per il contrasto della tensione
detentiva determinata dal sovraffollamento delle carceri), convertito, con
modificazioni, nella legge 17 febbraio 2012, n. 9, come modificato dall’art. 1,
comma 1, lettera a), del decreto-legge 31 marzo 2014, n. 52 (Disposizioni urgenti
in materia di superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari), convertito, con
modificazioni, nella legge 30 maggio 2014, n. 81, sollevate, in riferimento agli artt.
2, 3, 25, 27, 32 e 110 della Costituzione, dal Giudice per le indagini preliminari del
Tribunale ordinario di Tivoli»
Con ordinanza dell’11 maggio 2020 il GIP del Tribunale di Tivoli censura le
norme indicate ritenendole in contrasto, da un lato, con gli artt. 27 e 110 Cost.
«nella parte in cui, attribuendo l’esecuzione del ricovero provvisorio presso una
Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (REMS) alle Regioni ed agli
organi amministrativi da esse coordinati e vigilati, escludono la competenza del
Ministro della Giustizia in relazione all’esecuzione della detta misura di sicurezza
detentiva provvisoria»; dall’altro, con gli artt. 2, 3, 25, 32 e 110 Cost., «nella parte
in cui consentono l’adozione con atti amministrativi di disposizioni generali in
materia di misure di sicurezza in violazione della riserva di legge in materia».
Il giudice rimettente rappresenta di aver disposto nel giugno 2019
l’applicazione provvisoria della misura di sicurezza del ricovero presso una REMS
nei confronti di una persona - ritenuta dal consulente tecnico del PM affetta da
infermità psichica e socialmente pericolosa – indagata anche per il delitto di
violenza o minaccia a pubblico ufficiale e di aver quindi applicato,
provvisoriamente, nei confronti di questi, la misura della libertà vigilata, da
eseguirsi presso una struttura residenziale psichiatrica per trattamenti
terapeutico-riabilitativi a carattere estensivo (SRTR), individuata dal centro di
salute mentale territorialmente competente; nelle more il PM richiedeva al
competente dipartimento ministeriale (ossia il DAP, Dipartimento
dell’amministrazione penitenziaria del Ministero della giustizia) che venisse
indicata la REMS presso la quale eseguire il ricovero.
E così se, da un lato, il DAP, pur avendo comunicato un elenco di strutture,
rappresentava che la gestione delle stesse è affidata alla Regione e di non poter

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quindi intervenire qualora le REMS si fossero rifiutate di dare esecuzione al
provvedimento della AG; dall’altro, il PM tentava invano di eseguire l’ordinanza,
ricevendo sempre rifiuti dalle locali aziende sanitarie, per indisponibilità dei posti,
il tutto mentre l’indagato sistematicamente si sottraeva alle terapie e agli obblighi
inerenti alla misura di sicurezza della libertà vigilata, disposta in via provvisoria.
Si era arrivati così al mese di aprile 2020 quando su richiesta del PM il GIP
disponeva la revoca della misura di sicurezza della libertà vigilata, a causa delle
plurime e gravi trasgressioni dei relativi obblighi rimettendo gli atti alla Consulta,
e rappresentando la persistente necessità di disporre il ricovero in REMS, di fatto
da un anno ineseguito.
Secondo il giudice rimettente la misura di sicurezza del ricovero in una REMS
è, ai sensi degli artt. 2 e 25 Cost., una forma di tutela da parte dello Stato dei
diritti inviolabili dell’uomo ed è funzionale a proteggere i terzi dalla condotte
violente che persone non imputabili per incapacità di intendere e di volere possono
porre in essere, con una espressa previsione di riserva di legge che discenderebbe
dall’art. 13 Cost., per cui solo l’Autorità giudiziaria può disporre, con atto motivato,
la privazione della libertà personale, nonché dall’art. 32 Cost., in ragione del quale
i trattamenti sanitari obbligatori devono essere previsti da una legge, con il limite
assoluto rappresentato dal rispetto della persona umana.
Dopo aver quindi analizzato le differenze tra il trattamento sanitario
obbligatorio (TSO) previsto ai sensi degli artt. 33 e segg., legge 23 dicembre 1978,
n. 833 (Istituzione del servizio sanitario nazionale) e quella del ricovero in una
REMS e aver sottolineato come quest’ultima costituisca una misura giudiziaria
penale restrittiva della libertà personale, il giudice rimettente censura la normativa
in esame sotto più profili.
Vi sarebbe infatti una violazione delle riserve di legge poste dagli artt. 25,
comma terzo, e 31, comma secondo, Cost. in materia, rispettivamente, di
disciplina delle misure di sicurezza e di trattamenti sanitari obbligatori, che
sarebbero eluse per effetto del rinvio, operato dalle disposizioni censurate, ad atti
normativi secondari, ovvero ad accordi tra Stato e autonomie territoriali, che ne
regolamentano gli aspetti essenziali e che finiscono, di fatto, con il non
differenziarle, in quanto la prima, in concreto, si risolve in un TSO.
Ma la normativa sulle REMS violerebbe anche l’art. 110 Cost., e ciò in quanto
la competenza per gli aspetti organizzativi ad essa relativi, nonché per la sua
esecuzione, dovrebbero spettare non già ai sistemi sanitari regionali, bensì al
Ministero della giustizia ed in particolare al DAP, e ciò anche in armonia con l’art.
117, comma secondo, lett. h) e l) Cost. che, in materia di ordine pubblico e
sicurezza, nonché di giurisdizione, norme processuali, ordinamento civile e penale,
attribuiscono allo Stato la potestà legislativa esclusiva.

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La Corte, ricevuti gli atti, ha pronunciato ordinanza istruttoria per raccogliere
dal Ministero della giustizia, dal Ministero della salute e dal Presidente della
Conferenza delle Regioni e delle Province autonome una serie di informazioni sui
ricoveri nelle REMS e più in generale su come viene declinata in concreto la loro
organizzazione e sulle difficoltà riscontrate; nelle more, altro giudice del Tribunale
di Tivoli ha trasmesso alla cancelleria della Corte la sentenza da lui stesso emessa,
in qualità di giudice monocratico, il 15 aprile 2021 e divenuta definitiva il 1° giugno
2021, con la quale l’imputato è stato assolto dalle imputazioni formulate nei suoi
confronti, essendone stata riconosciuta la totale incapacità di intendere e di volere
all'epoca dei fatti; nella motivazione della sentenza si dà inoltre atto del ricovero
in REMS finalmente disposto nei confronti dell’imputato, che era risultato, a
seguito di perizia medico-psichiatrica, avere maggiore consapevolezza della
propria patologia e disponibilità alle cure, con conseguente applicazione della
misura meno restrittiva della libertà vigilata.
Tanto premesso, e dopo aver dato atto dei risultati emergenti dalla raccolta
di informazioni disposte con ordinanza istruttoria, la Consulta riconduce le
questioni di legittimità costituzionale sollevate solo ed esclusivamente all’art. 3-
ter, d.l. n. 211 del 2011 e successive modificazioni, ossia alla disposizione che
disciplina il processo di definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari
(OPG) e la loro sostituzione con le REMS, escludendo quindi dalle censure gli artt.
206 e 222 cod. pen. – aventi rispettivamente ad oggetto l'applicazione provvisoria
e definitiva, tra l'altro, della misura di sicurezza del ricovero in OPG (da intendersi
oggi riferita al ricovero in una REMS ai sensi del menzionato art. 3-ter, comma 4,
d.l. n. 211 del 2011) – che nulla dispongono in merito alle competenze del
Ministero della giustizia.
Ed è proprio in relazione alla disciplina di cui all’art. 3-ter cit. e quindi alla
istituzione delle REMS - di cui la Corte ricostruisce la genesi e le successive
evoluzioni normative - che si ravvisano, a parere della Consulta, una serie di
“frizioni” con i principi costituzionali evidenziati dal giudice rimettente.
Ricorda la Consulta che la REMS è stata concepita come una struttura
residenziale pensata in funzione di un percorso di riabilitazione sociale rivolto ad
un malato mentale, che vi viene assegnato soltanto quando la sua pericolosità
sociale non sia gestibile con altri strumenti alternativi: con essa si sono superati i
vecchi ospedali psichiatrici giudiziari (OPG), che rispondevano a logiche
completamente diverse (quelle tipicamente custodiali).
La misura di assegnazione ad una REMS ha, per la Corte, una natura «ancipite
di misura di sicurezza a spiccato contenuto terapeutico», trattandosi di uno
strumento di tutela della salute mentale, che, al contempo, è misura di sicurezza

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finalizzata a contenere la pericolosità sociale di un soggetto, che ha commesso un
fatto di reato.
E così, se le norme che dispongono l’esclusiva gestione sanitaria delle REMS,
da effettuarsi nell'ambito dei sistemi sanitari regionali e, in particolare, dei
rispettivi dipartimenti per la salute mentale, trovano il loro fondamento nella
circostanza che la misura in questione sia uno strumento di tutela della salute
mentale, rispetto al quale l’attività di sicurezza e di vigilanza deve rimanere
“esterna”, è pur vero che esistono disposizioni di legge (in particolare l’art. 3-ter,
comma 4, d.l. n. 211 del 2011 e l’art. 1, comma 1-quater, d.l. n. 52 del 2014,
convertito nella legge n. 81 del 2014) che rendono quella assegnazione, a tutti gli
effetti, una nuova misura di sicurezza, ispirata a logiche di fondo diverse dal
ricovero in OPG o all’assegnazione in CCC, ma applicabile in presenza degli stessi
presupposti ed eseguita sotto il controllo del magistrato di sorveglianza.
E’ dunque dalla natura “ancipite” dell’assegnazione in una REMS che discende
la necessità che la stessa si conformi ai principi costituzionali che regolamentano
i trattamenti sanitari obbligatori, e a quelli dettati in materia di misure di sicurezza
e ciò in quanto, nella lettura che ne da la Consulta, la misura dell’assegnazione
alle REMS è rigorosamente sottoposta al principio di riserva di legge.
Ne deriva che, come misura di sicurezza, soltanto la legge – per la riserva di
legge fissata all’art. 25, comma terzo, Cost. - può prevedere “i casi” in cui possa
essere applicata ed “i modi” con cui la misura possa limitare la libertà personale
del soggetto sottoposto; parimenti, sul diverso versante della riserva di legge in
materia di trattamenti sanitari obbligatori, le garanzie dell'art. 32, comma
secondo, Cost., debbono sommarsi a quelle dell'art. 13 Cost., che tutela in via
generale la libertà personale, con conseguente necessità che la legge preveda
anche i “modi”, oltre che i “casi”, in cui un simile trattamento possa essere
eseguito contro la volontà del soggetto interessato.
Tuttavia, l’attuale disciplina della misura della assegnazione alle REMS
presenta evidenti profili di frizione con il principio costituzionale della riserva di
legge, fondandosi, in gran parte, su fonti che sono diverse dalla legge: la sola
disposizione contenuta in un atto avente forza di legge è proprio l’art. 3-ter, d.l.
n. 211 del 2011, ed essa individua “i casi” in cui può trovare applicazione la nuova
misura di sicurezza; per converso, i “modi” di esecuzione della misura sono tutti
regolamentati da fonti normative diverse dalla legge (il riferimento al decreto
ministeriale del 1° ottobre 2012, all'accordo adottato in Conferenza unificata il 26
febbraio 2015 e, a cascata, a tutti gli atti conseguenti adottati a livello delle singole
Regioni e Province autonome), con palese violazione del principio di riserva di
legge.

12
Non è tuttavia questo l’unico contrasto che la Consulta ravvisa nella disciplina
dell’assegnazione in REMS: viene in rilievo anche la violazione dell’art. 110 Cost.
avendo l'art. 3-ter, comma 4, d.l. n. 211 del 2011 e le fonti subordinate, ad esso
collegate, sostanzialmente estromesso il Ministero della giustizia da ogni
competenza in materia di esecuzione della misura di sicurezza in oggetto, tenuto
conto che la competenza del DAP è essenzialmente limitata all’indicazione,
all’autorità giudiziaria, della REMS territorialmente competente, senza che possa
incidere sulla effettiva disponibilità dei posti, che può provenire unicamente dal
responsabile della struttura. Si tratta di una situazione che, se coerente con la
natura di trattamento sanitario riconosciuto all’assegnazione in REMS, non lo è con
la natura di misura di sicurezza, a tacer del fatto che le singole autorità giudiziarie
(magistrati di sorveglianza, giudici penali e pubblici ministeri durante la fase delle
indagini preliminari e del processo) devono da sole interagire direttamente con le
strutture amministrative delle singole REMS e i vari dipartimenti regionali per la
salute mentale, con ciascuno che opera con logiche differenti e sulla base di realtà
organizzative tra loro assai eterogenee, come emerso dall’attività istruttoria svolta
dalla Consulta.
Infine, il grave malfunzionamento strutturale del sistema di assegnazione in
REMS: anche questo aspetto, sottolineato dal GIP, viene ritenuto sussistente dalla
Consulta che rimarca la gravità dell’esistenza di liste d’attesa nell’esecuzione di
provvedimenti giudiziari che per loro natura dovrebbe essere immediatamente
eseguiti, riguardando persone socialmente pericolose, che potrebbero
concretamente commettere nuovi fatti di reato, pericolosi per loro e per la
collettività.
Il sistema che di fatto si è creato porta la Corte ad una serie di riflessioni: «Da
un lato, un diffuso e significativo ritardo nell’esecuzione dei provvedimenti in
esame comporta un difetto di tutela effettiva dei diritti fondamentali delle
potenziali vittime di aggressioni, che il soggetto affetto da patologie psichiche, e
già autore spesso di gravi o gravissimi fatti di reato, potrebbe nuovamente
realizzare, e che l’ordinamento ha il dovere di prevenire. Dall’altro, la mancata
tempestiva esecuzione di questi provvedimenti lede, al contempo, il diritto alla
salute del malato, al quale nell’attesa non vengono praticati i trattamenti –
rientranti a pieno titolo tra i LEA (Ritenuto in fatto, punto 5.9.) – che dovrebbero
essergli invece assicurati, per aiutarlo a superare la propria patologia e a reinserirsi
gradualmente nella società»
Dalla lettura della decisione emerge che la Corte ritiene non solo che
sussistano “le frizioni” della disciplina normativa in esame con i principi
fondamentali della Costituzione, ma che siano anche fondate le censure mosse dal
GIP, in particolare con riferimento al grave malfunzionamento del sistema di

13
assegnazione alle REMS, e ciò nonostante la Consulta non può fare altro che
dichiarare inammissibili le questioni sollevate in riferimento all’art. 3-ter d.l. n.
211 del 2011 (sul punto va ribadito che, con riferimento agli artt. 206 e 222 cod.
pen., già in premessa le q.l.c. sono state dichiarate inammissibili).
Quanto alla censura in relazione all’art. 110 Cost., l’istruttoria compiuta dalla
Corte ha fatto emergere come la problematica della estromissione del Ministero
della giustizia richieda altre forme di intervento e non sia affrontabile con una
pronuncia che restituisca competenza al primo; parimenti una dichiarazione di
illegittimità costituzionale per violazione delle riserve di legge determinerebbe un
effetto ancora più grave, ossia la caducazione del sistema REMS, che va
mantenuto, perché supera i vecchi OPG.
E’ quindi necessaria – dice la Consulta - una complessiva riforma di sistema,
da attuare con urgenza, che assicuri: un'adeguata base legislativa alla nuova
misura di sicurezza; la realizzazione e il buon funzionamento, sull'intero territorio
nazionale, di un numero di REMS sufficiente a far fronte ai reali fabbisogni; forme
di adeguato coinvolgimento del Ministro della giustizia nell'attività di
coordinamento e monitoraggio del funzionamento delle REMS esistenti e degli altri
strumenti di tutela della salute mentale, attivabili nel quadro della diversa misura
di sicurezza della libertà vigilata.
Si tratta di interventi urgenti, rispetto ai quali, la Corte, con un chiaro monito
rivolto al legislatore, «non può peraltro non sottolineare – come in altre analoghe
occasioni (segnatamente, sentenza n. 279 del 2013; nonché recentemente, in
diverso contesto, sentenza n. 32 del 2021) – che non sarebbe tollerabile
l’eccessivo protrarsi dell’inerzia legislativa in ordine ai gravi problemi individuati
dalla presente pronuncia».

3) La Consulta dichiara l’illegittimità costituzionale parziale dell’art. 53,


comma secondo, l. 24 novembre 1981, n. 689 e modifica il valore
giornaliero minimo per la sostituzione delle pene detentive brevi da
250 a 75 euro.

Con la sentenza n. 28, decisa il 12 gennaio 2022 e depositata in data 1


febbraio 2022, la Corte costituzionale «dichiara l’illegittimità costituzionale
parziale dell’art. 53, comma secondo, l. 24 novembre 1981, n. 689 (Modifiche al
sistema penale), nella parte in cui prevede che «[i]l valore giornaliero non può
essere inferiore alla somma indicata dall’art. 135 del codice penale e non può
superare di dieci volte tale ammontare», anziché «[i]l valore giornaliero non può

14
essere inferiore a 75 euro e non può superare di dieci volte la somma indicata
dall’art. 135 del codice penale».
Contestualmente, la Consulta dichiara inammissibili le q.l.c. dell’articolo
indicato sollevate in riferimento agli artt. 3, comma secondo, e 27, comma terzo,
Cost. dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Ravenna con
ordinanza del 5 ottobre 2020, nonché le q.l.c. del menzionato articolo in
riferimento all’art. 117, comma primo, Cost., in relazione all’art. 49, paragrafo 3,
della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE), dal Giudice per
le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Taranto con ordinanza del 14 aprile
2021.
Con due distinte ordinanze – riunite per identità di questioni e decise con
unica sentenza – il GIP del Tribunale ordinario di Ravenna, nonché il GIP del
Tribunale ordinario di Taranto hanno sollevato q.l.c. dell’art. 53, comma secondo,
l. n. 689 del 1981, nella parte in cui non prevede che, nel determinare l’ammontare
della pena pecuniaria in sostituzione della pena detentiva di durata sino a sei mesi,
il giudice individui il valore giornaliero, al quale può essere assoggetto l’imputato,
da moltiplicare per i giorni di pena detentiva, in una somma che non può essere
inferiore a quella indicata dall’art. 135 cod. proc. pen., pari ad euro 250,00,
anziché fare applicazione dei criteri di ragguaglio previsti per il decreto penale di
condanna, all’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen., e dunque della minore
somma di 75,00 euro, ovvero poter fare applicazione dei meccanismi di
adeguamento di cui all’art. 133-bis cod. pen..
Entrambe le ordinanze censurano l’art. 53 cit. per contrasto con gli artt. 3,
comma secondo, e 27, comma terzo, Cost.; la seconda, anche in riferimento
all’art. 117, comma primo, Cost., quest’ultimo in relazione all’art. 49, paragrafo 3,
della Carta di Nizza.
Simili anche le vicende di cui sono investiti i due giudici: il GIP del Tribunale
di Ravenna è chiamato a decidere dell’opposizione a un decreto penale di condanna
proposto da un imputato per il reato di cui all’art. 22, comma 12, d.lgs.25 luglio
1998, n. 286 (Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina
dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero), che ha chiesto, ai
sensi dell’art. 444 cod. proc. pen. l’applicazione della pena di mesi due, giorni venti
di reclusione, che sostituita, arriverebbe all’ammontare di 20.000,00 euro, cui
vanno sommate 2.222,22 euro di multa; il GIP del Tribunale di Taranto deve
decidere su una opposizione a decreto penale di condanna per il reato di violenza
privata, che porterebbe all’applicazione, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., di
una pena, già diminuita per la scelta del rito, pari a tre mesi di reclusione, e tale
pena, se sostituita con i criteri di ragguaglio prescritti dall’art. 53 cit., arriverebbe
a 22.500,00 euro.

15
Tuttavia, dei due giudici rimettenti, solo il GIP del Tribunale di Taranto
sottolinea che le pene pecuniarie sostitutive risultano sproporzionate rispetto alle
condizioni economiche dell’imputato e al disvalore del fatto illecito commesso,
diversamente dal GIP del Tribunale di Ravenna, che nulla illustra sul punto (e ciò
porta la Consulta a dichiarare l’inammissibilità di tutte le q.l.c. sollevato da tale
giudice).
Di qui le censure per contrasto con l’art. 3, comma secondo, Cost. – creando
il coefficiente di ragguaglio una disparità di trattamento tra imputati abbienti e
imputati che non sono in grado di pagare la pena pecuniaria, in contrasto con i
principi di uguaglianza sostanziale e ragionevolezza – e con l’art. 27 Cost.,
venendo in rilievo trattamenti sanzionatori sproporzionati e dunque
intrinsecamente irragionevoli, anche con la finalità rieducativa. Secondo il GIP del
Tribunale di Taranto sarebbe anche violato l’art. 117, comma primo, Cost., in
ragione del conflitto della disposizione con l’art. 49, paragrafo 3, Carta di Nizza,
che vieta l’inflizione di pene sproporzionate rispetto al reato.
Entrambi i giudici rimettenti chiedono un intervento della Corte che allinei il
tasso minino di ragguaglio tra pena detentiva e pena pecuniaria, da applicarsi ai
sensi dell’art. 53, comma secondo, legge n. 689 del 1981, al tasso minimo previsto
dall’art. 459, comma 1-bis, cod. proc. pen per la sostituzione della pena detentiva
nel procedimento per decreto penale di condanna (75,00 euro), e ciò anche in
ragione del monito espresso nella sentenza n. 15 del 2020 della Corte
costituzionale, rimasto inascoltato, non avendo il legislatore provveduto a
modificare la norma censurata.
E’ intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri che, per il
tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, chiede che le q.l.c. siano dichiarate
inammissibili, per difetto di motivazione sulla rilevanza delle questioni e per
l’incompleta ed inesatta identificazione della norma oggetto di censura, con
conseguente contraddittorietà del petitum.
Tanto premesso in punto di fatto, la Consulta, dopo aver dichiarato
inammissibili tutte le q.l.c. poste dal GIP presso il Tribunale ordinario di Ravenna
ed inammissibile la censura formulata in riferimento all’art. 117, comma primo,
Cost., per non avere il rimettente precisato le ragioni in base alle quali la disciplina
di cui all’art. 53 cit. ricada nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione
europea, procede alla ricostruzione normativa dell’istituto della sostituzione della
pena detentiva delineato dall’art. 53, legge n. 689 del 1981, e più in generale
dall’indicata legge, con i vari interventi normativi che si sono susseguiti,
evidenziando che «le pene sostitutive risultano orientate a evitare, per quanto
possibile, gli effetti desocializzanti della carcerazione di breve durata, assicurando
al contempo – in conseguenza del loro contenuto comunque afflittivo – un risultato

16
di intimidazione e ammonimento del reo, che dovrebbe distoglierlo dalla
commissione di nuovi reati in futuro.».
La Corte ritiene quindi fondate le q.l.c. evidenziando come, «ai sensi del
combinato disposto degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. l’ampia discrezionalità
di cui dispone il legislatore nella quantificazione delle pene incontra il proprio limite
nella manifesta sproporzione della singola scelta sanzionatoria, sia in relazione alle
pene previste per altre figure di reato (sentenze n. 88 del 2019, n. 68 del 2012,
n. 409 del 1989, n. 218 del 1974), sia rispetto alla intrinseca gravità delle condotte
abbracciate da una singola figura di reato (sentenze n. 136 e 73 del 2020, n. 284
e 40 del 2019, n. 222 del 2018, n. 236 del 2016, n. 341 del 1994)» ed aggiungendo
che «il limite in parola esclude, più in particolare, che la severità della pena
comminata dal legislatore possa risultare manifestamente sproporzionata rispetto
alla gravità oggettiva e soggettiva del reato: il che accade, in particolare, ove il
legislatore fissi una misura minima della pena troppo elevata, vincolando così il
giudice all’inflizione di pene che potrebbero risultare, nel caso concreto,
chiaramente eccessive rispetto alla sua gravità.».
E’ questo un limite che vale anche per le pene pecuniarie, che, a differenza di
quelle detentive, hanno un impatto non omogeneo per ciascun condannato, in
quanto «una multa del medesimo importo può risultare più o meno afflittiva
secondo le disponibilità reddituali e patrimoniali del singolo condannato», e ciò
comporta la necessità di meccanismi di adeguamento della pena alle diverse
condizioni economiche dei condannati, imposto dal principio di eguaglianza
“sostanziale” sancito dall’art. 3, comma secondo, Cost..
In altri termini, e richiamando sul punto i principi espressi nella sentenza n.
131 del 1979, occorre fare in modo «che il giudice sia posto nella condizione di
tenere debito conto – nella commisurazione della pena pecuniaria – delle
condizioni economiche del reo, oltre che della gravità oggettiva e soggettiva del
reato», come d’altronde affermato dall’art. 133-bis cod. pen. o, in materia di
sanzioni amministrative pecuniarie, dall’art. 11, l. n. 689 del 1981.
Ed è in ragione di questi principi che la Corte afferma che «[u]na quota
giornaliera di 250 euro è, all’evidenza, ben superiore a quella che la gran parte
delle persone che vivono oggi nel nostro Paese sono ragionevolmente in grado di
pagare, in relazione alle proprie disponibilità reddituali e patrimoniali. Moltiplicata
poi per il numero di giorni di pena detentiva da sostituire, una simile quota conduce
a risultati estremamente onerosi per molte di queste persone..»; per altro, come
già sottolineato nella sentenza n. 15 del 2020 una quota giornaliera di conversione
così elevata «ha determinato, nella prassi, una drastica compressione del ricorso
alla sostituzione della pena pecuniaria, che pure era stata concepita dal legislatore
del 1981 – in piena sintonia con la logica dell’art. 27, terzo comma, Cost. – come

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prezioso strumento destinato a evitare a chi sia stato ritenuto responsabile di reati
di modesta gravità di scontare pene detentive troppo brevi perché possa essere
impostato un reale percorso trattamentale, ma già sufficienti a produrre i gravi
effetti di lacerazione del tessuto familiare, sociale e lavorativo, che il solo ingresso
in carcere solitamente produce».
In altri termini, occorre intervenire sulla disposizione censurata che di fatto
ha trasformato la pena pecuniaria sostitutiva in un privilegio per i soli condannai
abbienti e ciò è peraltro in linea con la volontà del legislatore attuale, che, nella
legge 27 settembre 2021, n. 134 (Delega al Governo per l’efficienza del processo
penale nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere
definizione dei procedimenti giudiziari), «delega il Governo a prevedere che il
valore giornaliero, al quale può essere assoggettato il condannato in caso di
sostituzione della pena detentiva, debba essere individuato, nel minimo, in misura
indipendente dalla somma indicata dall’art. 135 del codice penale, così da «evitare
che la sostituzione della pena risulti eccessivamente onerosa in rapporto alle
condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare, consentendo al
giudice di adeguare la sanzione sostitutiva alle condizioni economiche e di vita del
condannato».
Nel contesto appena descritto e a due anni dal monito contenuto nella
sentenza n. 15 del 2020, la Corte pone rimedio alle violazioni riscontrate non con
la semplice ablazione della norma (che di fatto casserebbe la pena pecuniaria
sostitutiva, «pregiudicando così la funzionalità di uno strumento importante, anche
se oggi sottoutilizzato proprio in ragione dell’incongruità della disciplina
censurata…»), bensì con soluzioni normative già esistenti, ossia ricorrendo a quella
prospettata dal giudice rimettente di intervenire non già sul massimo (così da
mantenere una differenza di regime tra l’ordinaria sostituzione della pena
detentiva di cui all’art. 53 cit e quella speciale di cui all’art. 459, comma 1-bis,
cod. proc. pen.), ma sul minimo, sostituendo la soglia di 250 euro con quella di 75
euro per ogni giorno di pena detentiva, come stabilito dall’art. 459, comma 1-bis
cod. proc. pen. in relazione al decreto penale di condanna
Di qui la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione
censurata, ferma restando la «possibilità che nell’esercizio della menzionata
delega di cui alla legge n. 134 del 2021 vengano individuate soluzioni diverse, e
in ipotesi ancor più adeguate, a garantire la piena conformità della disciplina della
sostituzione della pena detentiva con la pena pecuniaria ai principi costituzionali
così come poc’anzi declinati», indicando altresì al legislatore delegato la stringente
opportunità che venga restituita «effettività alla pena pecuniaria, anche attraverso
una revisione degli attuali meccanismi di esecuzione forzata e di conversione in
pene limitative della libertà personale (sentenza n. 279 del 2019); e ciò “nella

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consapevolezza che soltanto una disciplina della pena pecuniaria in grado di
garantirne una commisurazione da parte del giudice proporzionata tanto alla
gravità del reato quanto alle condizioni economiche del reo, e assieme di
assicurarne poi l’effettiva riscossione, può costituire una seria alternativa alla pena
detentiva, così come di fatto accade in molti altri ordinamenti contemporanei”
(sentenza n. 15 del 2020)».

4) Obbligo dell’istruzione elementare dei minori e sanzione per la sua


inosservanza (art. 731 cod. pen.): inammissibili le q.l.c. sollevate
riguardo l’omessa previsione per la scuola media inferiore di primo
grado e i due primi anni della scuola secondaria superiore.

La Corte costituzionale con ordinanza n. 29, depositata in data 1 febbraio


2022, ha dichiarato manifestamente inammissibili le q.l.c. dell’art. 731 cod. pen.,
nella parte in cui punisce l’inosservanza dell’obbligo di impartire o far impartire ai
minori l’istruzione elementare e non anche l’analogo inadempimento riguardo alla
scuola media inferiore ed al primo biennio della scuola secondaria superiore -
sollevate dal Giudice onorario di pace di Taranto, con due ordinanze di analogo
tenore, in riferimento agli artt. 3, 30 e 34, comma secondo, Cost., (quest’ultimo
paramento solo in una delle due ordinanze).
Deduce il giudice rimettente, dopo aver motivato sulla loro rilevanza, dovendo
celebrare un dibattimento nei confronti di persone imputate per quel reato, che la
la previsione sanzionatoria dell’art. 731 cod. pen., così come formulata, comporti
un trattamento ingiustamente differenziato tra soggetti tutti gravati dal dovere di
procurare ai minori i livelli di istruzione resi obbligatori dalla legge e contrasterebbe
quindi con gli artt. 30 e 34 Cost., «nella parte in cui configurano un obbligo
scolastico esteso all’istruzione media inferiore».
In particolare, rileva il giudice rimettente che la disposizione che aveva a suo
tempo esteso l’applicazione anche all’omessa frequentazione della scuola media
(art. 8 legge 31 dicembre 1962, n. 1859, recante «Istituzione e ordinamento della
scuola media statale») è stata abrogata dall’art. 1 d.lgs 13 dicembre 2010, n. 212
(Abrogazione di disposizioni legislative statali, a norma dell’articolo 14, comma
14-quater, della legge 28 novembre 2005, n. 246) e la sanzione penale, riguardo
la scuola media, non è stata più ripristinata, nonostante l’obbligo di formazione
scolastica, prolungato fino all’ottenimento di una qualifica professionale triennale
entro il diciottesimo anno di età. Si è determinato, in altri termini, un «mancato
allineamento tra durata del periodo di istruzione obbligatoria e relativo presidio
sanzionatorio penale».

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L’Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza e difesa del Presidente
del Consiglio dei ministri, intervenendo in entrambi i giudizi, chiede che venga
dichiarata la manifesta inammissibilità delle q.l.c perché prive di indicazioni sui
fatti e sui procedimenti principali.
La Corte ha dichiarato manifestamente inammissibili le q.l.c. rilevando che il
giudice rimettente nulla ha argomentato sulla vicenda abrogativa; che viene
impedito il controllo sulla rilevanza delle questioni, non avendo il giudice descritto
adeguatamente le fattispecie per cui è giudizio; che le ordinanze in esame
finiscono con il sollecitare un intervento additivo in malam partem in materia
penale, finalizzato ad estendere l’ambito di applicazione di una previsione
incriminatrice, rispetto al quale «la giurisprudenza costituzionale, alla luce della
riserva di legge posta nel secondo comma dell’art. 25 Cost.«», ha da tempo
chiarito che non sono consentite, in tale materia, pronunce che estendano il novero
delle condotte punibili (tra le decisioni più recenti, ex multis, sentenze n. 17 del
2021, n. 155 e n. 37 del 2019, nonché la già citata ordinanza n. 219 del 2020)»;
che non si è al cospetto delle specifiche – ed eccezionali - ipotesi che
permetterebbero un controllo di legittimità costituzionale con potenziali effetti in
malam partem.
Si è in particolare affermato che «la denunciata irrilevanza penalistica delle
condotte sommariamente descritte dal rimettente non costituisce deroga a un
regime generalizzato di penalizzazione delle omissioni concernenti gli obblighi di
istruzione».
Di qui, in conclusione, la dichiarazione di manifesta infondatezza delle
questioni di legittimità costituzionale sollevate.

PARTE II. DIRITTO PROCESSUALE PENALE

1) Art. 670 cod. proc. pen: non fondate le q.l.c. sulla preclusione per il
giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito
irrevocabile per violazione della competenza funzionale del tribunale
per i minorenni

Il Tribunale ordinario di Bologna, sezione seconda penale, in funzione di


giudice dell’esecuzione, con ordinanza del 9 febbraio 2021, ha sollevato, in
riferimento agli artt. 3, 10, 13, 25, comma primo, e 117, comma primo, Cost.
(quest’ultimo in relazione all’art. 5, paragrafi 1, lett. a), e 4 CEDU), questioni di
legittimità costituzionale dell’art. 670 cod. proc. pen. «nella parte in cui non

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consente al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito
passata in giudicato derivante dalla violazione della competenza funzionale del
Tribunale per i Minorenni» e la Corte costituzionale, con sentenza n. 2 del 2022,
depositata il 13 gennaio 2022, le ha dichiarate non fondate.
In punto di fatto, il giudice rimettente chiarisce di dover decidere su un
incidente di esecuzione proposto personalmente da un detenuto che si duole
dell’illegittimità di una sentenza irrevocabile, risalente al 1998, con la quale, a
seguito del suo arresto in flagranza e mentre era per questo fatto detenuto in
carcere, gli era stata applicata su richiesta, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen.,
per il delitto di traffico di sostanze stupefacenti, qualificato come fatto di lieve
entità ai sensi dell’art. 73, comma 5, d. P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico
delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope,
prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), la pena
di due anni di reclusione e multa, con il beneficio della sospensione condizionale
della pena, revocatogli nel 2020 con conseguente ordine di esecuzione della pena
medesima, previo cumulo con altra condanna, per complessivi tre anni.
In particolare, quella sentenza, emessa dal Tribunale ordinario, era stata
pronunciata nonostante il detenuto (straniero sprovvisto di documenti di
riconoscimento) avesse rappresentato di essere minorenne, ritenendosi non
credibili le sue dichiarazioni, sconfessate peraltro da una perizia, disposta dalla
Procura per i minorenni, che aveva concluso per uno sviluppo osseo compatibile
con la maggiore età. Contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta era
stato proposto ricorso per cassazione nel quale si deduceva che il ricorrente era
minorenne all’epoca dei fatti, producendosi a tal fine i documenti di riconoscimento
che lo attestavano e che la parte – nelle more tornato in libertà – aveva
recuperato. Quel ricorso era stato dichiarato inammissibile e la sentenza era quindi
passata in giudicato già nel 1999.
Quando poi, dopo molti anni, il beneficio della sospensione gli è stato
revocato, con conseguente ordine di carcerazione, il detenuto ha proposto
incidente di esecuzione chiedendo di “scomputare” la pena di due anni, dovendosi
sostanzialmente ritenere nulla la sentenza perché pronunciata da un tribunale
funzionalmente non competente ed il giudice, d’ufficio, ha rimesso gli atti alla
Consulta.
Illustrata la rilevanza delle questioni, il giudice rimettente rappresenta che,
sulla base del diritto vivente, non è consentito al giudice dell’esecuzione incidere
su una sentenza passata in giudicato, pronunciata dal tribunale ordinario nei
confronti di un imputato minorenne all’epoca della commissione del reato,
trattandosi di una nullità assoluta che deve essere fatta valere con gli ordinari
mezzi di impugnazione, malgrado la competenza funzionale riconosciuta al

21
Tribunale per i minorenni, così come garantita da una normativa apposita - d.P.R.
22 settembre 1988, n. 448 (Approvazione delle disposizioni sul processo penale a
carico di imputati minorenni) -, ma anche dalle norme del codice di rito, da cui
emerge che la stessa sia assolutamente inderogabile.
Non sarebbe peraltro consentito neanche procedere con la revisione, dal
momento che la situazione peculiare non corrisponde alle ipotesi previste dagli
artt. 629 e segg cod. proc. pen. e neanche è permessa una interpretazione
costituzionalmente orientata dell’art. 670 cod. proc. pen., che, secondo il giudice
rimettente, circoscrive in modo preciso i limiti del sindacato del giudice
dell’esecuzione, non potendosi ricondurre la fattispecie della nullità assoluta, qual
è quella del caso di specie, alla ipotesi di «mancanza» del titolo, con
un’assimilazione, non consentita, tra nullità radicale e inesistenza della pronuncia.
Secondo il giudice rimettente è proprio l’attuale formulazione dell’art. 670
cod. proc. pen. che, nel limitare il sindacato del giudice dell’esecuzione alla mera
verifica dell’esistenza del titolo o alla sua definitività, si ritiene essere di dubbia
tenuta costituzionale e varie sono le questioni di legittimità sollevate.
Sarebbe violato l’art. 3 Cost. «in ragione dell’assoggettamento alla medesima
disciplina di situazioni non assimilabili, quali le ipotesi di nullità per violazione di
norme sulla competenza maturate nel giudizio per i maggiorenni e la nullità sulla
violazione della competenza funzionale stabilita per i minorenni dall’art. 3 del
d.P.R. n. 448 del 1988». L’aggiramento della procedura propria del minore – come
è stato nel caso di specie – andrebbe a ledere diritti costituzionalmente e
convenzionalmente riconosciuti all’imputato minorenne, al quale verrebbe
precluso l’accesso ad una serie di riti speciali, ma anche di benefici, che
renderebbero illegale il trattamento sanzionatorio irrogatogli da un giudice, che
non è quello funzionalmente competente.
Altro motivo di censura è la violazione dell’art. 10 Cost. «laddove prevede che
l’ordinamento giuridico italiano si debba conformare alle norme di diritto
internazionale generalmente riconosciute», e numerose sono le fonti internazionali
espressive del principio della tutela del minore, puntualmente indicate dal giudice
rimettente.
Infine, sarebbero violati gli artt. 13 e 117, comma primo, Cost., quest’ultimo
in riferimento all’art. 5 CEDU, «laddove le citate norme affermano il principio di
inviolabilità della libertà personale e individuano criteri di legalità della detenzione
a livello costituzionale e convenzionale». Il giudice rimettente assume infatti, con
riferimento all’art. 13 Cost., che la legalità della detenzione andrebbe valutata
anche sotto il profilo della legalità della condanna, che, nel caso di specie, sarebbe
affetta da una nullità radicale (essendo stata pronunciata da un giudice
funzionalmente incompetente, sulla base, per altro, di un quadro normativo che

22
non contemplava tutte le possibilità di definizioni alternative del procedimento
applicabili agli imputati minorenni). Non diversamente, l’art. 5 CEDU «allorché
stabilisce che la privazione della libertà personale non possa considerarsi conforme
alla Convenzione se non nei modi previsti dalla legge e nei casi ivi testualmente
indicati», e che, all’interno del paragrafo 4, riconosce il diritto del detenuto di fare
ricorso a un tribunale, affinché decida sulla «legalità della sua detenzione e ne
ordini la scarcerazione se la detenzione è illegale».
L’ultima questione di legittimità è stata sollevata con riferimento all’art. 25,
comma primo, Cost., tenuto conto del fatto che l’art. 670 cod. proc. pen.
«consentirebbe l’eseguibilità di una pena fondata su una sentenza emessa in
violazione della competenza funzionale del tribunale per i minorenni, ossia del solo
giudice naturale del minore.».
L’Avvocatura generale dello Stato, in rappresentanza e difesa del Presidente
del Consiglio dei ministri, ha chiesto che le questioni siano dichiarate
manifestamente inammissibili o, comunque, non fondate, e ciò in quanto, in
definitiva «il giudice dell’esecuzione può solo dichiarare ineseguibile la sentenza o
revocarla ai sensi degli artt. 669 e 673 cod. proc. pen., mentre l’annullamento
sarebbe riservato al giudice dell’impugnazione e rimarrebbe così precluso dalla
formazione del giudicato», né, nel caso in esame, si versa in quelle ipotesi di
inesistenza che consentirebbero, con un intervento del giudice dell’esecuzione, di
superare il giudicato.
La Corte costituzionale, dato atto della costituzione in giudizio anche del
difensore del ricorrente nel procedimento a quo, prima di entrare nel merito delle
q.l.c. sollevate, analizza diffusamente la competenza funzionale attribuita al
tribunale per i minorenni, ricostruendo la normativa di riferimento, anche
internazionale e comunitaria, nell’ottica di una preliminare ricognizione «del
significato che assume, dal punto di vista del diritto costituzionale, l’attribuzione a
un tribunale specializzato della competenza per i procedimenti penali concernenti
reati commessi da minorenni», non senza fare cenno alla giurisprudenza
costituzionale in materia, tutta incentrata sul conseguimento della finalità di tutela
del minore, così come riconducibile al dettato dell’art. 31 Cost.
Dalla complessiva analisi delle norme – afferma la Corte - «si evince dunque
il principio secondo cui il minore autore di reato deve essere giudicato da una
giurisdizione specializzata, i cui operatori siano selezionati anche sulla base della
specifica competenza professionale in materia di minori, e che operi secondo
finalità e sulla base di regole differenti da quelle che caratterizzano la giurisdizione
penale ordinaria».
Tanto chiarito, la Consulta affronta quindi il tema di fondo delle questioni
rimessegli, ossia se la natura costituzionalmente vincolata della competenza

23
funzionale del tribunale per i minorenni possa travolgere, in sede di incidente di
esecuzione, il giudicato ormai formatosi su una sentenza pronunciata in una ipotesi
patologica di processo penale, svoltosi nei confronti di un soggetto che all’epoca
dei fatti era minorenne, innanzi al giudice penale ordinario, in conseguenza di un
errore nell’attribuzione dell’età dell’imputato.
La risposta della Consulta è nel senso della infondatezza delle questioni di
legittimità sollevate, nonostante le gravi conseguenze di un errore, quale quello
verificatosi nel caso di specie, che hanno inciso sul giudice naturale (tribunale
ordinario, in luogo del tribunale per i minorenni); sul rito prescelto (il
patteggiamento, non consentito per gli imputati minorenni); sulla valutazione
individualizzata della propria imputabilità (prevista nel rito minorile); sulla
preclusione, di fatto determinatasi, ad accedere ai riti speciali minorili, non previsti
per gli adulti; sulla pena, verosimilmente più severa di quella che sarebbe stata
irrogata dal tribunale per i minorenni.
La Corte prende atto delle interpretazioni del giudice a quo, che ritiene, da un
lato, non esperibile il procedimento di rescissione e, dall’altro, non riconducibile il
vizio dedotto alla “mancanza” del titolo e dunque alla categoria – di origine
giurisprudenziale – della “inesistenza”, non senza sottolineare, quanto al primo
rimedio, che resterebbe impregiudicata comunque una diversa eventuale
valutazione dell’organo competente a decidere, ossia la Corte di appello e, quanto
al secondo, che l’interpretazione restrittiva adottata riflette lo stato attuale delle
giurisprudenza, che tuttavia nel tempo è andata ampliando la categoria della
inesistenza.
Tanto chiarito, le q.l.c. sollevate dal giudice a quo che sollecita, piuttosto, la
la Corte ad intervenire «con una pronuncia additiva sul testo dell’art. 670, comma
1, cod. proc. pen., la quale consenta al giudice dell’esecuzione di dichiarare (non
già la “mancanza” o l’”inesistenza”, bensì) la nullità del titolo esecutivo, sulla base
di un vizio – verificatosi nel processo ormai conclusosi con sentenza definitiva –
esso stesso qualificato dal rimettente in termini di “nullità”» vengono ritenute dalla
Consulta, nei termini così precisati, non fondate.
In riferimento agli artt. 3 e 10 Cost., è proprio il rimedio della dichiarazione
di nullità della sentenza nell’ambito di un incidente di esecuzione ai sensi dell’art.
670 cod. proc. pen. che, secondo la Consulta, non è costituzionalmente imposto
ed è anzi foriero di «gravi squilibri nel sistema della rilevazione delle nullità, così
come designato dal codice di procedura penale […] La pronuncia additiva auspicata
dal rimettente finirebbe, così, per introdurre nel sistema un’ipotesi del tutto
anomala di nullità, resistente alla formazione del giudicato, e derogatoria rispetto
alla regola implicita di chiusura del sistema…[e]… spalancherebbe inevitabilmente
la strada al riconoscimento di sempre nuove ipotesi di nullità “resistenti al

24
giudicato”, con le quali chi sia stato condannato in via definitiva potrebbe rimettere
in discussione accertamenti già compiuti nei successivi gradi di giudizio sulla
sussistenza di vizi procedimentali.»
Anche le censure formulate in riferimento agli artt. 13, e 117, comma primo,
Cost. vengono ritenute dalla Consulta non fondate.
La giurisprudenza di legittimità e soprattutto quella costituzionale hanno
avuto cura di confinare il ridimensionamento operato del tradizionale principio
dell’intangibilità del giudicato penale rispetto a sentenze di condanna che abbiano
irrogato pene illegali all’ipotesi di una «sopravvenienza costituzionalmente
rilevante» - che di fatto non ricorre nel caso di specie -, in difetto della quale non
è consentito al giudice dell’esecuzione un «intervento “a ritroso”»
Non si determina infine neanche una violazione del principio del giudice
naturale, sancito dall’art. 25 Cost.: rileva, sul punto, la Corte che «la
giurisprudenza costituzionale è costante nell’affermare che tale principio è
rispettato “tutte le volte che l’organo giudicante risulti istituito sulla base di criteri
generali prefissati per legge (ordinanza n. 159 del 2000), essendo sufficiente che
la legge determini criteri oggettivi e generali, capaci di costituire un discrimen della
competenza o della giurisdizione di ogni giudice (ordinanza n. 176 del 1998; v.
anche sentenza n. 419 del 1998, n. 217 del 1993 e n. 269 del 1992; ordinanza n.
257 del 1995)” (ordinanza n. 343 del 2001).».
Premesso che la competenza penale del tribunale per i minorenni è fissata in
modo chiaro dall’art. 3 d.P.R. n. 448 del 1998, la Corte rileva come, contro la
possibilità di errori, nella pratica giudiziaria, in ordine all’individuazione del giudice
competente nei singoli casi concreti, l’ordinamento appresti specifici rimedi (le
nullità processuali) e «sarebbe certamente incongruo far derivare dall’esigenza di
precostituzione per legge del giudice di cui all’art. 25 Cost. la necessità di
prevedere un meccanismo che consenta di rimettere in discussione le statuizioni
sulla competenza del giudice, la cui conformità alla legge sia stata verificata e
confermata nei gradi successivi del processo.»
Di qui l’infondatezza anche dell’ultima questione di legittimità costituzionale
sollevata.

25
2) Illegittimità costituzionale (parziale) degli artt. 34, comma 1, e
623, comma 1, lett. a) cod. proc. pen.: è incompatibile a partecipare
al giudizio di rinvio il giudice dell'esecuzione che abbia pronunciato
ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena, a seguito
della declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente
sulla commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata dalla
Corte di cassazione.

Con sentenza n. 7, decisa il 25 novembre 2021 e depositata il 18 gennaio


2022, la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt.
34, comma 1, e 623, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., «nella parte in cui non
prevedono che il giudice dell’esecuzione deve essere diverso da quello che ha
pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena, a seguito di
declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla
commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata con rinvio dalla Corte di
cassazione.».
La decisione è stata sollecitata dal Giudice per le indagini preliminari presso il
Tribunale ordinario di Verona, in funzione di giudice dell’esecuzione, con ordinanza
di rimessione del 20 gennaio 2021, nella quale, sono state sollevate le q.l.c. dei
menzionati articoli, in riferimento agli artt. 3 e 111 (recte: artt. 3, comma primo,
e 111, comma secondo) Cost..
In essa il giudice rimettente chiarisce di dover procedere nei confronti di una
persona (per questi fatti detenuta in carcere) cui era stata applicata, su accordo
delle parti ex art. 444 cod. proc. pen., la pena di anni quattro, mesi dieci di
reclusione ed euro 25.000 di multa, in ordine al reato di cui agli artt. 73, comma
1, e 80 del d.P.R. n. 309 del 1990, giusta sentenza emessa dal medesimo GIP,
divenuta irrevocabile l’11 gennaio 2019 ed oggetto, poi, di incedente di
esecuzione, assegnato al medesimo giudice rimettente, per ottenere la
rideterminazione della pena a seguito della sentenza n. 40 del 2019 con la quale
la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 73,
comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990, nella parte in cui prevede la pena minima
edittale della reclusione nella misura di otto anni anziché di sei anni.
In sede di incidente di esecuzione, il GIP – come detto, la stessa persona fisica
del giudice rimettente – rigettava la richiesta di rideterminazione della pena, sulla
quale le parti non avevano comunque raggiunto un accordo, e l’ordinanza,
impugnata con ricorso per cassazione dal difensore del condannato, veniva
annullata dalla Corte di cassazione, con rinvio al Tribunale di Verona, Ufficio GIP
perché provvedesse alla rideterminazione della pena; il procedimento, a seguito

26
del rinvio, veniva nuovamente assegnato, in applicazione dell’art. 623, comma 1,
lett. a) cod. proc. pen. al medesimo GIP, che rimetteva alla Corte costituzionale le
q.l.c. degli artt. 34 e 623 cod. proc. pen. in riferimento, in primo luogo, all’art. 3
Cost.
Secondo il giudice rimettente la violazione dell’art. 3 e 111 Cost. si avrebbe
sotto il profilo dell’ingiustificata disparità di trattamento tra le fasi della cognizione
e dell’esecuzione, laddove si tratti di decisioni attinenti alla commisurazione della
pena ed a tal fine viene richiamata la sentenza n. 183 del 2013 con cui la Consulta
ha dichiarato l’illegittimità costituzionale degli artt. 34, comma 1, e 623, comma
1, lett. a), cod. proc. pen., nella parte in cui non prevedono che non possa
partecipare al giudizio di rinvio dopo l’annullamento, il giudice che ha pronunciato
o concorso a pronunciare ordinanza di accoglimento o di rigetto della richiesta di
applicazione in sede esecutiva della disciplina del reato continuato e del concorso
formale, ai sensi dell’art. 671 cod. proc. pen.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato, ha chiesto di dichiarare inammissibili o comunque non
fondate le questioni, osservando che gli atti vanno trasmessi al giudice che ha
pronunciato l’ordinanza annullata, il quale, in assenza di una specifica previsione
sul punto, può essere anche la stessa persona fisica che ha emesso il
provvedimento cassato.
Tali essendo le questioni di legittimità sollevate, la Consulta, in via
preliminare, le ritiene rilevanti e quindi ammissibili, richiamando l’orientamento
consolidato della giurisprudenza di legittimità, in base al quale il giudice
dell’esecuzione deve rideterminare la pena nel caso di dichiarazione di illegittimità
costituzionale di norme incidenti sulla stessa, non ancora interamente espiata.
Corretta viene inoltre ritenuta l’interpretazione delle norme censurate offerta
dal giudice rimettente: con norma speciale rispetto all’art. 34, comma 1, cod. proc.
pen., l’art. 623, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., prevede che, in riferimento al
giudizio di rinvio, se è annullata un’ordinanza, gli atti vadano trasmessi al giudice
che l’ha pronunciata, diversamente da quanto previsto all’art. 623, comma 1, lett.
d), cod. proc. pen. che, con riferimento all’annullamento con rinvio (non già di
un’ordinanza, bensì) di una sentenza di un tribunale monocratico o di un giudice
per le indagini preliminari, statuisce, in aggiunta, «tuttavia, il giudice deve essere
diverso da quello che ha pronunciato la sentenza annullata». Quest’ultima
aggiunta – non contemplata nel caso di annullamento con rinvio di un’ordinanza –
rende conforme al dato normativo, e comunque rispondente al “diritto vivente”,
l’interpretazione data dal giudice a quo, nella parte in cui precisa che, nel caso al
suo vaglio, il giudizio di rinvio possa essere celebrato innanzi allo stesso giudice,
persona fisica, che ha pronunciato l’ordinanza annullata.

27
Tanto premesso, rileva la Consulta che la disposizione di cui all’art. 34, comma
1, cod. proc. pen. mira ad assicurare tutela al principio fondamentale
dell’imparzialità del giudice, espressione del “giusto processo”, e mira altresì ad
evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire in qualche
modo condizionata dalla naturale propensione a confermare una decisione già
presa o mantenere un atteggiamento già assunto, nel caso in cui il giudice abbia
già compiuto «una valutazione non formale, di contenuto» sugli stessi atti,
strumentale alla decisione da assumere.
Di qui la regola generale, posta dall’art. 34 cod. proc. pen., di incompatibilità
del giudice che abbia già compiuto atti nel procedimento, che si sostanzia nello
stabilire che il giudice che abbia pronunciato o concorso a pronunciare sentenza in
un grado del procedimento non possa poi partecipare al giudizio di rinvio, dopo
l’annullamento.
Questa regola viene declinata più specificamente dall’art. 623 cod. proc. pen.
che «con riferimento alla pronuncia di annullamento con rinvio a seguito del
giudizio di cassazione, prevede – alle lettere b), c) e d) – i vari casi di annullamento
della sentenza impugnata, indicando il giudice competente per il giudizio di rinvio,
che deve essere o altra sezione, o, comunque, una persona fisica diversa da quella
che si è pronunciata.
Se oggetto di annullamento è un’ordinanza, la regola fissata dall’art. 623 cod.
proc. pen. cambia: in questa ipotesi, a norma dell’art. 623, comma 1, lett. a) cod.
proc. pen. non viene previsto che la persona fisica sia diversa. Tuttavia, se
l’ordinanza in questione definisce un procedimento di esecuzione, che ha
caratteristiche e peculiarità ben distinte dal procedimento di cognizione, non può
non tenersi conto del fatto che «il giudice del rinvio, al pari del giudice
dell’ordinanza annullata, è chiamato a una valutazione che travalica la stretta
esecuzione del giudicato e attinge, in via eccezionale, il livello della cognizione».
In altri termini, in caso di annullamento dell’ordinanza pronunciata sulla
commisurazione della pena, a seguito di istanza di rideterminazione della stessa
proposta dal condannato in ragione della dichiarazione di illegittimità
costituzionale che, riguardando la misura della pena edittale, incide sul giudicato
penale, il giudice dell’esecuzione «è nuovamente investito della decisione circa la
“misura” della responsabilità del condannato», e per rivalutare il trattamento
sanzionatorio, deve ritornare sulla decisione assunta e non può che esercitare
incisivi poteri di merito, dovendo effettuare una nuova valutazione della gravità
del fatto, alla stregua dei parametri di cui agli artt. 132 e 133 cod. pen., per
assicurare la finalità rieducativa della pena ai sensi dell’art. 27 Cost..
«Al pari del giudice della cognizione, dunque, il giudice dell’esecuzione, in
sede di giudizio di rinvio in relazione al caso considerato, esercita un potere

28
discrezionale di commisurazione della pena per adeguare la risposta punitiva al
fatto concreto, che, per effetto della dichiarazione di illegittimità costituzionale
della pena, ha assunto un diverso disvalore»: è un apprezzamento, quello cui è
chiamato, in sede di rinvio, il giudice dell’esecuzione in punto di trattamento
sanzionatorio da rimodulare “verso il basso”, che ha «natura di “giudizio”».
In ragione di quanto esposto, la Corte, in ciò ritenendo fondate le q.l.c.
sollevate, conclude affermando: «la valutazione complessiva del fatto illecito, che
compete al giudice dell’esecuzione nell’attività di commisurazione della pena, resa
necessaria a seguito di una pronuncia di illegittimità costituzionale, presenta,
pertanto, tutte le caratteristiche del “giudizio” per come delineate dalla
giurisprudenza di questa Corte. Sicché, in sede di rinvio dopo l’annullamento da
parte della Corte di cassazione, il giudice dell’esecuzione – per essere «terzo e
imparziale» (art. 111, secondo comma, Cost.) – deve essere persona fisica diversa
dal giudice che, in precedenza, si è già pronunciato con l’impugnata (e annullata)
ordinanza sulla richiesta di nuova determinazione della pena», dovendo così
trovare applicazione, anche in questa ipotesi, la regola generale fissata dall’art.
623, comma 1, lett. d), cod. proc. pen.
Di qui la dichiarazione di illegittimità degli artt. 34, comma 1, e 623, comma
1, lett. a), cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevedono che il giudice
dell’esecuzione deve essere diverso – nel senso di persona fisica diversa – da
quello che ha pronunciato l’ordinanza sulla richiesta di rideterminazione della pena
a seguito di declaratoria di illegittimità costituzionale di una norma incidente sulla
commisurazione del trattamento sanzionatorio, annullata con rinvio dalla Corte di
cassazione».

3) Illegittimità costituzionale (parziale) dell’art. 34, comma 2, cod. proc.


pen.: è incompatibile a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto
penale formulata dal PM in conformità ai rilievi mossi dal giudice
stesso, il giudice per le indagini preliminari che l’abbia rigettata per
mancata contestazione di una circostanza aggravante.

La Corte costituzionale con sentenza n. 16, decisa il 16 dicembre 2021 e


depositata il 21 gennaio 2022, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art.
34, comma 2, cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che il giudice per le
indagini preliminari, che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per
mancata contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a
pronunciare sulla nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico
ministero in conformità ai rilievi del giudice stesso.».

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Le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen.
sono state sollevate dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario
di Macerata, in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost..
In punto di fatto, il giudice rimettente illustra di aver rigettato la richiesta di
decreto penale di condanna avanzata dal P.M. nei confronti di una persona
imputata del reato di guida in stato di ebbrezza, sul rilievo che non risultava
contestata l’aggravante dell’aver provocato un incidente stradale, di cui al comma
2-sexies (recte: 2-bis) dell’art. 186 d. lgs 30 aprile 1992, n. 285 (Nuovo codice
della strada); conformandosi ai rilievi mossi, il PM presentava una nuova richiesta
di decreto penale di condanna, contestando l’aggravante in questione e il GIP,
investito della richiesta solleva eccezione di legittimità costituzionale, rilevando
che l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. non contempli il caso di specie tra quelli
che danno luogo ad incompatibilità del giudice; né la seconda richiesta potrebbe
costituire motivo di ricusazione, di cui non ricorrono i presupposti, o motivo di
astensione, rimesso come tale alla valutazione discrezionale del singolo
magistrato.
Il giudice a quo avanza quindi dubbi di legittimità costituzionale dell’art. 34,
comma 2, cod. proc. pen. in riferimento agli artt. 3 e 24 Cost., per violazione del
principio di parità di trattamento e del diritto di difesa.
L’incompatibilità del giudice chiamato a pronunciarsi sulla seconda richiesta,
da un lato, discenderebbe dall’attività da questi svolta che, nel rilevare la mancata
contestazione di un’aggravante, si è posta «come oggettivamente sostitutiva del
potere-dovere di iniziativa del pubblico ministero»; dall’altro, deriverebbe dal
principio più volte affermato dal giudice delle leggi, secondo cui «l’incompatibilità
è determinata da ogni valutazione di merito circa l’idoneità delle risultanze
probatorie a fondare un giudizio di responsabilità dell’imputato». Sotto questo
profilo, il giudice, non rigettando la richiesta, ha «implicitamente, ma
univocamente» ritenuto non solo sussistente il fatto, ma anche configurabile una
circostanza aggravante.
L’a.g. rimettente richiama quindi le pronunce della Corte che hanno dichiarato
l’illegittimità costituzionale dell’art. 34, comma 2, cod. proc. pen., laddove il
giudice abbia, in uno stadio anteriore del procedimento, espresso una valutazione
di merito e sollecita la Consulta ad una pronuncia di illegittimità costituzionale
anche nel caso di richiesta di decreto penale di condanna rigettata, tenuto conto
che la riformulazione della richiesta aprirebbe un nuovo giudizio, che dovrebbe
essere pertanto demandato a un diverso giudice.
Intervenuta in giudizio in rappresentanza e difesa del Presidente del Consiglio
dei ministri, l’Avvocatura dello Stato ha chiesto che le questioni siano dichiarate
inammissibili, non avendo il giudice a quo illustrato «se si fosse in fase di

30
valutazione astratta o concreta della questione sulla scorta della mera descrizione
del fatto contenuta nel capo di imputazione»; nel merito, poi, le questioni
sarebbero già state decise dalla Consulta che, nelle decisioni n. 66 del 2019 e n.
18 del 2017 le ha ritenute infondate.
Tali essendo le questioni di legittimità costituzionale sollevate, la Consulta
chiarisce in premessa che la mancata contestazione di una circostanza aggravante
– ipotesi che viene in rilievo nel giudizio a quo – non dia luogo a «diversità del
fatto», in quanto essa implica «non già una modifica dell’imputazione originaria,
ma l’aggiunta ad essa di un elemento accessorio, non necessario ai fini della
sussistenza del reato (l’art. 517 cod. proc. pen. qualifica, infatti, tale ipotesi come
contestazione «suppletiva») (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima
penale, sentenza 12 maggio-18 giugno 2015, n. 25882; sezione quarta penale,
sentenza 25 giugno-28 luglio 2008, n. 31446).».
Così chiariti i termini del petitum, e ritenute dunque ammissibili le q.l.c.
sollevate, la Consulta conclude per la loro fondatezza, applicando la costante
giurisprudenza costituzionale secondo cui le norme sulla incompatibilità del
giudice, derivante da atti compiuti nel procedimento, sono poste proprio a tutela
dei valori di terzietà e di imparzialità della giurisdizione, «presidiati dagli artt. 3,
24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost., risultando finalizzate ad
evitare che la decisione sul merito della causa possa essere o apparire condizionata
dalla forza della prevenzione – ossia dalla naturale tendenza a confermare una
decisione già presa o mantenere un atteggiamento già assunto – scaturente da
valutazioni cui il giudice sia stato precedentemente chiamato in ordine alla
medesima res iudicanda (ex plurimis, sentenze n. 183 del 2013, n. 153 del 2012,
n. 177 del 2010 e n. 224 del 2001).».
Richiamate quindi le numerose pronunce che hanno inciso sull’art. 34 cod.
proc. pen., la Consulta si sofferma sulla natura del procedimento per decreto e
sottolinea come spetti al giudice, in base alle risultanze delle indagini preliminari
e dunque esercitando una “funzione di giudizio”, accogliere o rigettare la richiesta
del pubblico ministero, senza potervi apportare modifiche: viene dunque in rilievo
un controllo che attiene non solo ai presupposti del rito, ma anche al merito
dell’ipotesi accusatoria (che, in caso di esito negativo, portano al rigetto della
richiesta o al proscioglimento dell’imputato ai sensi dell’art. 129 cod. proc. pen.).
Non diversamente dalle altre ipotesi in cui si è ritenuta l’incompatibilità
endoprocessuale del giudice – basate su preesistenti valutazioni del giudice sulla
res iudicanda e nello specifico sugli atti, nonché sull’adozione di una decisione che
abbia natura non “formale” ma “di contenuto”, ossia con valutazioni che attengono
al merito dell’accusa – anche nel caso del procedimento per decreto deve ritenersi,
secondo la Consulta, che il rigetto della richiesta di decreto penale per mancata

31
contestazione di una circostanza aggravante comporti una valutazione di merito
sulla res iudicanda.
Per altro, afferma la Corte, quello stesso rigetto, ai sensi dell’art. 459, comma
3, cod. proc. pen. determina la restituzione degli atti al pubblico ministero, il quale
potrà anche optare per una eventuale richiesta di archiviazione, senza che vi osti
il principio di irretrattabilità dell’azione penale; qualora invece riproponga la
richiesta di decreto penale, si apre «una nuova fase di giudizio che, sebbene
omologa alla precedente, resta da essa distinta e nella quale, pertanto, la
valutazione “contenutistica” insita nel provvedimento di rigetto della prima
richiesta esplica la propria efficacia pregiudicante.».
Alla luce di queste considerazioni, ed accogliendo le q.l.c. sollevate, la Corte
conclude dichiarando l’art. 34, comma 2, cod. proc. pen. «costituzionalmente
illegittimo nella parte in cui non prevede che il giudice per le indagini preliminari,
che ha rigettato la richiesta di decreto penale di condanna per mancata
contestazione di una circostanza aggravante, sia incompatibile a pronunciare sulla
nuova richiesta di decreto penale formulata dal pubblico ministero in conformità
ai rilievi del giudice stesso.».

4) Arresto obbligatorio in flagranza per tentato furto aggravato dalla


violenza sulle cose: la Corte dichiara non fondate le q.l.c. dell’art. 380,
comma 2, lett. e), cod. proc. pen.

Con sentenza n. 41, decisa il 26 gennaio 2022 e depositata il 22 febbraio


2022, la Corte costituzionale ha dichiarato non fondate le q.l.c. dell’art. 380,
comma 2, lett. e), cod. proc. pen., nella parte in cui prevede l’arresto obbligatorio
di chi è colto in flagranza del delitto di tentato furto, quando ricorre la circostanza
aggravante prevista dall’art. 625, comma primo, n. 2), prima ipotesi, codice
penale, salvo che ricorra la circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma primo,
n. 4), cod. pen., sollevate per contrasto con gli artt. 13 e 3 Cost. dal Tribunale
ordinario di Firenze con l’ordinanza del 5 marzo 2020.
Quanto alla descrizione del fatto, il giudice rimettente rappresenta che il
prevenuto risulta essere stato in flagranza del delitto di tentato furto di merce
all’interno di un supermercato del valore complessivo di euro 119,60, aggravato
dall’uso della violenza sulle cose e che per tale reato è stata richiesta la convalida
dell’arresto e l’applicazione della misura cautelare dell’obbligo di dimora nella
Provincia di Firenze, rispetto alla quale rileva la sussistenza dei gravi indizi di
colpevolezza per il reato contestato, escludendo la circostanza attenuante del
danno patrimoniale di speciale tenuità ex art. 62, comma primo, n. 4), cod. pen.

32
Il Tribunale ordinario di Firenze ha tuttavia reputato che, per procedere alla
convalida, occorre preliminarmente rimettere gli atti alla Corte costituzionale per
contrasto con gli artt. 13 e 3 Cost. della disposizione normativa, l’art. 380, comma
2, lett. e), cod. proc. pen. nella parte in cui prevede, per questa ipotesi, l’arresto
obbligatorio in flagranza.
L’art. 13 Cost. sarebbe in particolare violato perché, pur in assenza della
circostanza attenuante del danno lieve, il tentato furto con violenza sulle cose non
costituisce una ipotesi di reato di particolare gravità, tale da giustificare l’arresto
obbligatorio, trattandosi di un fatto incapace di generare pericolo per l’incolumità
delle persone e come tale non rientrante in quei casi eccezionali di necessità ed
urgenza che giustificano, ai sensi dell’art. 13, comma terzo, Cost. la limitazione
della libertà personale da parte della autorità di pubblica sicurezza.
Aggiunge inoltre il giudice rimettente, a conferma dell’assenza di un
particolare allarme sociale, che per questa tipologia di reato la pena massima
applicabile sarebbe quattro anni di reclusione, e dunque non sarebbe neanche
consentito disporre la misura cautelare della custodia in carcere, con ciò violandosi
la riserva di giurisdizione prevista dall’art. 13 Cost. che prescrive l’obbligatorietà
della misura dell’arresto laddove sia possibile la sua conversione, ope legis, in
custodia cautelare in carcere.
In ogni caso, anche a voler ritenere la gravità del fatto, sarebbero ipotizzabili
diversi livelli di gravità nelle fattispecie di furto aggravato dalla violenza sulle cose
ed il regime che prevede per tutte le ipotesi, indistintamente, l’arresto obbligatorio
in flagranza viola l’art. 3 Cost, per evidente irragionevolezza.
In ragione di ciò il Tribunale ordinario di Firenze ha disposto la liberazione
dell’arrestato, essendo impossibile osservare i termini per la convalida, stante la
questione di legittimità costituzionale sollevata.
Rispetto a queste censure, la Presidenza del Consiglio dei ministri, per il
tramite dell’Avvocatura dello Stato, chiede che le questioni vengano dichiarate
infondate, per la riserva di legge in materia, in ragione della quale rientra nella
discrezionalità del legislatore stabilire in quali casi le limitazioni della libertà
personale siano permesse, e fra queste ben può rientrarvi il tentato furto con
violenza sulle cose, visto il particolare allarme sociale che suscita questo tipo di
reato.
Tali essendo le q.l.c. sollevate, rileva la Corte che, con riferimento ad entrambi
i parametri, le stesse non sono fondate.
Dopo aver analizzato la portata dei principi costituzionali fissati dall’art. 13
Cost, la Corte richiama una serie di sentenze nelle quali è stata ritenuta la
legittimità costituzionale della misura precautelare provvisoria facoltativa, ossia
l’arresto, laddove essa possa avere “uno sbocco sul terreno processuale” (in

33
questo senso la Corte cost., sent. n. 223 del 2004) o vi sia una “ragionevole
prognosi di una sua trasformazione ope iudicis in una misura cautelare più stabile”
(Corte. Cost., n. 305 del 1996) o, come è stato affermato nella sentenza n. 137
del 2020, sia possibile raccordare funzionalmente la decisione in ordine alla misura
precautelare con quella riguardante la salvaguardia di esigenze di natura
cautelare.
Peraltro il tema in oggetto è stato in parte già valutato dalla Consulta,
laddove, con sentenza n. 54 del 1993, ha dichiarato costituzionalmente illegittima,
per violazione dell’art. 76 Cost. l’originaria formulazione dell’art. 380, comma 2,
lett. e), cod. proc. pen., nella parte in cui prevedeva l’arresto obbligatorio in
flagranza per il delitto di furto, consumato o tentato, quando ricorre la circostanza
aggravante di cui all’art. 625, comma primo, n. 2), prima ipotesi, cod. pen., ma
concorre altresì la circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma primo, n. 4),
dello stesso codice, ritenendo, in quella decisione, che tale fattispecie di furto fosse
estranea al criterio delle “speciali” esigenze di tutela della collettività dettato dal
legislatore delegante nella legge 16 febbraio 1981, n. 81 (Delega legislativa al
Governo della Repubblica per l’emanazione del nuovo codice di procedura penale).
In questo contesto, il giudice rimettente – sostiene la Consulta – ha
valorizzato la circostanza che, per il limite edittale di pena, non sia possibile
applicare la custodia cautelare in carcere e da questo ha desunto la violazione dei
principi di cui all’art. 13 Cost, omettendo tuttavia di evidenziare che, se anche non
possa essere applicata la custodia cautelare in carcere, è però possibile applicare
tutte le altre misure coercitive, compresa quella degli arresti domiciliari (art. 274,
comma 1, lett. c) cod. proc. pen.).
Ebbene, l’esclusione della custodia cautelare in carcere non fa venir meno le
condizioni in base alle quali «la restrizione della libertà personale disposta
dall’autorità di pubblica sicurezza è costituzionalmente compatibile, essendo la
misura precautelare suscettibile di trasformazione in una misura cautelare
coercitiva, ancorché non di tipo carcerario; all’arresto in flagranza, peraltro,
consegue, di norma, il giudizio direttissimo (artt. 449, comma 1, e 558, comma 1,
cod. proc. pen.) e quindi è possibile pervenire con immediatezza all’accertamento
della responsabilità penale dell’imputato».
Quanto, infine, alla violazione dell’art. 3 Cost., rileva la Consulta che rientra
nella discrezionalità del legislatore individuare i casi in cui l’arresto possa essere
effettuato anche in deroga ai limiti edittali previsti in via generale dall’art. 380,
comma 1, cod. proc. pen. e rispetto a questi casi il sindacato della Corte è
ammesso solo in caso di manifesta irragionevolezza o arbitrarietà, ipotesi, questa,
che non ricorre nel caso di specie, tenuto conto che all’arresto può procedersi solo
quando non ricorra la circostanza attenuante del danno di speciale tenuità.

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Alla luce di queste considerazioni, le q.l.c. sono state ritenute infondate.

PARTE III. DIRITTO PENITENZIARIO E DELL’ESECUZIONE

1) Illegittima la sottoposizione a visto di censura della corrispondenza


del detenuto al 41-bis con il proprio difensore.

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 18, decisa il 2 dicembre 2021 e


depositata il 26 gennaio 2022, ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art.
41-bis, comma 2-quater, lett. e), della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme
sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative
della libertà), nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura
la corrispondenza intrattenuta con i difensori».
Le questioni di legittimità costituzionale sono state rimesse dalla Corte di
cassazione, prima sezione penale, con ordinanza del 21 maggio 2021, ed esse
hanno riguardato l’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e), l. n. 354 del 1975 in
riferimento agli artt. 3, 15, 24, 111 e 117, comma primo, Cost., quest’ultimo in
relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU).
Nella illustrazione sulla rilevanza delle questioni, la Corte rimettente
rappresenta di dover decidere un ricorso proposto da un imputato, condannato in
primo grado alla pena di venticinque anni di reclusione perché ritenuto esponente
di vertice di un’associazione di stampo mafioso, e attualmente detenuto in regime
differenziato di cui all’art. 41-bis Ord. Pen..
Il ricorso, in particolare, veniva proposto avverso l’ordinanza del Tribunale di
Locri che rigettava il reclamo del detenuto avente ad oggetto il decreto emesso
dal Presidente del Tribunale ordinario di Locri, con il quale era stato disposto il
trattenimento di un telegramma indirizzato dal detenuto al proprio difensore di
fiducia.
Al di là dei motivi esposti nel ricorso per cassazione, il giudice rimettente
dubita, a monte, della tenuta costituzionale dell’art. 41-bis Ord. Pen. nella parte
in cui non esclude la corrispondenza diretta al difensore dal novero di quella
sottoposta al visto di censura e rimette quindi, d’ufficio, le questioni alla Corte
costituzionale, non senza ricostruire il quadro sistematico nel quale si inserisce la
disposizione censurata.
In particolare, proprio in base a tale ricostruzione, viene evidenziato come
l’art. 41-bis Ord. Pen. - da ritenersi norma speciale rispetto all’art. 18 Ord. Pen.

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che, nel disciplinare in via generale il controllo sulla corrispondenza dei detenuti e
degli internati, espressamente esclude da quest’ambito la corrispondenza
indirizzata ai soggetti indicati dall’art. 103, comma 5, cod. proc. pen., tra cui i
difensori – non escluda dal novero dei soggetti, i difensori, con la conseguenza che
della corrispondenza intercorrente tra il detenuto e il suo difensore non solo si può
prendere visione, ma se ne può anche bloccare l’inoltro.
Così interpretata, la disposizione censurata risulterebbe, secondo la Corte
rimettente, «in contrasto non solo – e non tanto – [con la] libertà [e] segretezza
della corrispondenza, diritti dichiarati inviolabili dall’art. 15 Cost. e che spettano
ad ogni individuo in quanto tale e, quindi, anche ai detenuti, ma anche e
soprattutto [con il] diritto alla difesa e [con] quello ad un equo processo, tutelati
a livello costituzionale e sovranazionale».
La disciplina censurata – salva l’ipotesi, astratta ed eccezionale, in cui il
difensore accetti di assumere il ruolo di illecito canale di comunicazione tra il
detenuto e l’associazione criminale di appartenenza di questi – finisce con il
«trattare in modo analogo situazioni differenti, in patente violazione del principio
di eguaglianza, irragionevolmente comprimendo, altresì, il diritto di difesa» e
sarebbe a sua volta irragionevole se confrontata con i colloqui visivi e telefonici
con i difensori che sono sottratti al controllo auditivo e alla videosorveglianza
(diversamente da quanto accade con i familiari) e questo anche a prescindere dalla
“presunzione di pericolosità del difensore”.
Cosi ricostruite le q.l.c. sottoposte al suo vaglio, la Consulta ricostruisce in
premessa il quadro normativo di riferimento, ed i rapporti tra la norma censurata
e la disciplina generale in materia di limitazioni e controlli alla corrispondenza dei
detenuti e degli internati, dettata dalla legge sull’ordinamento penitenziario, e
modificata nel tempo anche in ragione della ritenuta incompatibilità con l’art. 8
CEDU da parte della Corte di Strasburgo, non essendo stabiliti dall’art. 18 Ord.
Pen. – nella sua originaria formulazione - «né la possibile durata delle misure di
controllo della corrispondenza, né i presupposti, l’ampiezza e le modalità di
esercizio della discrezionalità delle autorità competenti a disporle».
Ebbene, proprio il raffronto tra le due disposizioni (l’art. 18 e l’art. 41-bis Ord.
Pen.), nella loro evoluzione storica, lascia emergere come il legislatore non abbia
«mai espressamente chiarito quale rapporto intercorra tra la previsione della
“sottoposizione a visto di censura della corrispondenza” dei detenuti e internati in
regime di cui all’art. 41-bis ordin. penit. e la disciplina sui “controlli della
corrispondenza” applicabile alla generalità dei detenuti e internati, contenuta oggi
nell’art. 18-ter ordin. penit.».
E ciò, afferma la Consulta, pone due ordini di problemi.

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Il primo, riguarda il soggetto che può disporre il visto di censura sulla
corrispondenza del detenuto al 41-bis, se sia il Ministro della giustizia nel
medesimo provvedimento applicativo del regime penitenziario differenziato o,
come sembra alla luce del diritto vivente, l’autorità giudiziaria, indicata come
competente dall’art. 18-ter, comma 3, Ord. Pen..
Il secondo, riguarda il divieto posto in via generale dall’art. 18-ter, comma 2,
Ord. Pen. di disporre le misure previste dal comma 1 con riferimento alla
corrispondenza epistolare o telegrafica con i soggetti indicati dall’art. 103, comma
5, cod. proc. pen., tra cui segnatamente (ma non solo) i difensori del singolo
detenuto o internato: se esso valga per tutti i detenuti e internati in regime
differenziato ex art. 41-bis Ord. Pen., o se soltanto per gli imputati in custodia
cautelare al 41-bis Ord. Pen. continui a valere il divieto di ogni forma di controllo
della corrispondenza fra costoro ed i rispettivi difensori posto dall’art. 103, comma
6, cod. proc. pen.
Rileva la Corte che tanto la dottrina, quanto il Ministero, ed in particolare la
circolare del DAP del 2017 danno una risposta positiva ad entrambi i quesiti ed è
questa la soluzione che, fatta propria anche dalla Corte di cassazione, riceve oggi,
con la sentenza in commento, il qualificato avallo della Consulta.
La Corte ritiene infatti fondata la questione di legittimità sollevata in
riferimento all’art. 24 Cost..
Significativo, in questo senso, un passaggio della sentenza nel quale la
Consulta afferma di aver da tempo riconosciuto che «la garanzia costituzionale del
diritto di difesa – qualificato come «principio supremo» dell’ordinamento
costituzionale (sentenze n. 238 del 2014, n. 232 del 1989 e n. 18 del 1982) –
comprende il diritto, ad esso strumentale, di conferire con il difensore (sentenza
n. 216 del 1996), “allo scopo di predisporre le difese e decidere le strategie
difensive, ed ancor prima allo scopo di poter conoscere i propri diritti e le possibilità
offerte dall’ordinamento per tutelarli e per evitare o attenuare le conseguenze
pregiudizievoli cui si è esposti” (sentenza n. 212 del 1997); ed ha altresì
evidenziato come tale diritto “assuma una valenza tutta particolare nei confronti
delle persone ristrette in ambito penitenziario, le quali, in quanto fruenti solo di
limitate possibilità di contatti interpersonali diretti con l’esterno, vengono a
trovarsi in una posizione di intrinseca debolezza rispetto all’esercizio delle facoltà
difensive» (sentenza n. 143 del 2013)”» Si tratta di principi che trovano precise
corrispondenze anche nel diritto internazionale dei diritti umani, sia nel contesto
europeo, che in quello americano, e che fanno dire alla Corte che la sottoposizione
a visto di censura della corrispondenza con il proprio difensore costituisca una
vistosa limitazione del diritto di difesa.

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Sotto questo profilo, se anche non può escludersi in assoluto che il difensore
possa fungere da tramite per far mantenere i rapporti tra il detenuto e
l’organizzazione criminale di appartenenza, è indubbio che un argine a questa
situazione non possa essere la censura sulla corrispondenza, dal momento che
nessuna limitazione sussiste, a regime attuale, per il difensore nei colloqui visivi o
telefonici con il proprio assistito, che non vengono neanche videoregistrati.
Afferma sul punto la Consulta: «la misura – che incide sul diritto fondamentale
del detenuto o internato in misura ancora più gravosa rispetto a quella giudicata
costituzionalmente illegittima dalla menzionata sentenza n. 143 del 2013, non
ponendo meri limiti quantitativi ma potendo addirittura impedire che talune
comunicazioni giungano al proprio destinatario – appare certamente eccessiva
rispetto allo scopo perseguito, dal momento che sottopone a controllo preventivo
tutte le comunicazioni del detenuto con il proprio difensore. E ciò in assenza di
qualsiasi elemento concreto che consenta di ipotizzare condotte illecite da parte di
quest’ultimo», condotte che, per altro, costituiscono una «insostenibile
presunzione di collusione», che getta sospetto e discredito sulla professione
forense che svolge un ruolo insostituibile per la tutela dei diritti individuali e dello
stato di diritto in generale.
Al contrario, proprio per assicurare il diritto di difesa al detenuto e quel ruolo
insostituibile di tutela dei diritti del detenuto di cui è titolare il difensore, occorre
che «il detenuto o internato possa di regola comunicare al proprio avvocato, in
maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la
propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a
violazioni di legge o di regolamento che si siano, in ipotesi, ivi consumate»
A regime attuale, si realizzerebbe poi un’ulteriore discriminazione, con
conseguente vulnus al diritto di difesa, per il detenuto non abbiente, che, laddove
venisse trasferito in un luogo in cui non abbia sede il proprio difensore di fiducia,
avrebbe maggiori difficoltà a comunicare visivamente con lui, per evidenti ragioni
economiche, e finirebbe con il ricorrere alla corrispondenza epistolare,
diversamente da un detenuto che abbia maggiori disponibilità economiche e che
continuerebbe a colloquiare liberamente con il proprio difensore, potendosi
sobbarcare delle spese di trasferta di questi.
Alla luce di tutte le considerazioni esposte, la Corte, in accoglimento delle
eccezioni sollevata dalla Corte di cassazione, prima sezione penale, ha quindi
dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2-quater, lett. e)
Ord. Pen, per contrasto con l’art. 24 Cost., nella parte in cui non esclude dalla
sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta dal detenuto con
i propri difensori.

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2) Inammissibili e non fondate le q.l.c. dell’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord.
Pen.: nella concessione del permesso-premio non è irragionevole
differenziare il condannato detenuto per reati ostativi, che non possa
collaborare, da quello che non collabori “per scelta”.

Non è irragionevole concedere il permesso premio al detenuto per reati


ostativi la cui collaborazione sia accertata impossibile o inesigibile, senza che
venga provata l’esclusione del pericolo di ripristino dei collegamenti con la
criminalità organizzata, ma solo sulla base della mancanza, all’attualità, di tali
collegamenti: questo, in estrema sintesi, quanto affermato dalla Corte
costituzionale nella sentenza n. 20 del 2022, decisa il 30 novembre 2021,
depositata il 25 gennaio 2022, con la quale le q.l.c. dell’art. 4-bis, comma 1-bis,
l. 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione
delle misure privative e limitative della libertà), sollevate dal Magistrato di
sorveglianza di Padova, con ordinanza del 12 aprile 2021, in riferimento agli artt.
27, comma terzo, e 3 Cost. sono state dichiarate, rispettivamente, inammissibili e
non fondate.
In particolare, con la menzionata ordinanza, il Magistrato di sorveglianza di
Padova – dovendo decidere su una istanza di concessione di un permesso premio
avanzata da un detenuto per reati ostativi (nello specifico, tra gli altri, per
associazione di tipo mafioso e sequestro di persona a scopo di estorsione, tutti
aggravati dall’art. 7 d.l. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni,
dalla legge 12 luglio 1991, n. 203, all’epoca dei fatti vigente) – rimette alla
Consulta le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord.
Pen. «nella parte in cui prevede che i permessi premio di cui all’art. 30-ter, Ord.
Pen. possano essere concessi ai condannati “che abbiano ottenuto la
collaborazione impossibile e inesigibile, ove accertata l’assenza di collegamenti con
la criminalità organizzata”».
Sul punto, va chiarito che, prima della sentenza n. 253 del 2019 della Corte
costituzionale, a norma dell’art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen., in relazione a reati
particolarmente gravi, i benefici e le misure previsti dal Capo VI della legge n. 354
del 1975 in favore dei detenuti per tali reati, sono subordinati, con la sola
eccezione della liberazione anticipata, alla collaborazione con l’autorità giudiziaria
a norma dell’art. 58-ter, Ord. Pen., presumendosi, altrimenti, la persistenza di una
pericolosità ostativa alla concessione del beneficio o della misura richiesti
(presunzione, questa, che prima della decisione della Consulta era assoluta).
Tuttavia, ai sensi della disposizione normativa censurata (art. 4-bis, comma
1-bis, Ord. Pen.), gli indicati benefici e misure possono essere accordati ai detenuti
per reati ostativi nei casi in cui sia stata accertata la collaborazione impossibile

39
(perché i fatti criminosi sono stati già integralmente accertati) o inesigibile (perché
il patrimonio conoscitivo del condannato, in ragione della sua limitata
partecipazione ai fatti, non gli consenta di collaborare), ma, in queste ipotesi, è
necessaria l’acquisizione di elementi indicativi dell’assenza di un collegamento
attuale con la criminalità organizzata.
Questo assetto normativo, ed in particolare la regola generale fissata all’art.
4-bis, comma 1, Ord. Pen. per i detenuti che scelgano di non collaborare, è stato
inciso dalla sentenza n. 253 del 2019 pronunciata dalla Corte costituzionale, che,
limitatamente alla concessione dei permessi-premio, ha trasformato da assoluta a
relativa la presunzione di pericolosità prevista al comma 1 dell’articolo citato. Con
la menzionata sentenza, l’art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen. è stato infatti dichiarato
costituzionalmente illegittimo nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i
delitti cd. ostativi, possa essere concesso il beneficio del permesso-premio, anche
in assenza di utile collaborazione con la giustizia, allorché siano stati acquisiti
elementi tali da escludere, sia l’attualità di collegamenti con la criminalità
organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti
(è, questo, il cd “regime probatorio rafforzato”).
Dal confronto tra le due disposizioni (art. 4-bis, comma 1, e art. 4-bis, comma
1-bis, Ord. Pen.) il “diritto vivente” elaborato dalla giurisprudenza di legittimità a
seguito della pronuncia della Consulta, ha tratto la conclusione dell’esistenza, in
tema di accesso al permesso-premio, di un doppio regime probatorio gravante sui
detenuti per reati particolarmente gravi, funzionale a superare il meccanismo
ostativo e diversificato in base alle ragioni che fondano la loro non collaborazione
con la giustizia: per coloro che abbiano consapevolmente scelto di non collaborare,
nonostante la collaborazione sia ancora possibile ed esigibile ( “silente per scelta”),
è necessario acquisire ulteriori elementi, oggetto di onere di specifica allegazione
e tali da escludere non solo l’esistenza, all’attualità, di un collegamento con la
criminalità organizzata, ma anche il pericolo di ripristino dei suddetti collegamenti
(cd. “regime probatorio rafforzato”); per coloro che invece non possono
collaborare, perché la collaborazione è accertata essere impossibile o inesigibile
(“silente suo malgrado”), è sufficiente acquisire elementi che escludano l’attualità
dei collegamenti con la criminalità organizzata, senza estendere la verifica al
pericolo di ripristino dei collegamenti e quindi all’aspetto prognostico tipico della
valutazione di pericolosità.
Della legittimità costituzionale di questo differente regime dubita il giudice
rimettente, che censura l’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord. Pen. (ossia la norma che
disciplina i benefici in favore dei detenuti per reati ostativi dei quali sia stata
accertata l’impossibilità o l’inesigibilità della collaborazione), ritenendola in
contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost.

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Il contrasto con l’art. 3 Cost. viene ravvisato dal giudice rimettente
nell’assetto duale appena descritto: si afferma, infatti, che il «”diversificato regime
di valutazione della pericolosità, si traduca in una norma penale irragionevole e
pertanto contrastante con l’art. 3 della Costituzione” risolvendosi “in lettura non
costituzionalmente orientata del disposto introdotto dalla Corte Costituzionale con
sentenza n. 253 del 2019”».
In altri termini, non vi sarebbe nessuna ragione per escludere il “collaboratore
impossibile” - soprattutto quando questi abbia un atteggiamento “non penitente”
e abbia rivestito un ruolo apicale – dal meccanismo probatorio rafforzato, delineato
dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 253 del 2019, in quanto «può capitare
che l’atteggiamento soggettivo delle due diverse figure di non collaboranti sia
identico, perché anche chi si vede accertata la collaborazione impossibile può non
voler collaborare (come nel caso di specie)».
La norma censurata violerebbe anche l’art. 27 Cost, sotto il profilo del
principio di individualizzazione della fase esecutiva della pena: per il giudice a quo
dovrebbe essere consentito al magistrato di sorveglianza una valutazione
dell’effettivo spessore criminale del detenuto, che di fatto gli viene negata, in
ragione della limitazione “irragionevolmente” impostagli, essendo «impossibilitato
ad effettuare una valutazione individualizzata e concreta della pericolosità del
singolo condannato» che, per qualsiasi ragione, non collabori con la giustizia».
In conclusione, secondo il giudice rimettente, solo eliminando il doppio regime
probatorio che si è venuto a creare con il diritto vivente, a seguito della pronuncia
della Corte costituzionale, e solo assicurando il regime probatorio rafforzato per
tutti i non collaboranti, si «potrebbe restituire al magistrato di sorveglianza, nei
confronti di tutti i condannati per reati contemplati dall’art. 4-bis, comma 1, ordin.
penit. che intendano accedere al beneficio del permesso premio, il potere di
effettuare una valutazione individualizzata della personalità, e quindi anche della
pericolosità.», ed è proprio questo aspetto (ossia la valutazione omogenea ed
individualizzata della pericolosità del detenuto non collaborante, qualunque ne sia
la ragione) che escluderebbe, in radice, la richiesta di una pronuncia in malam
partem.
Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura
generale dello Stato ha chiesto che la questione venisse dichiarata inammissibile
o comunque non fondata, sollecitando l’ordinanza di rimessione “un’applicazione
delle norme contestate in malam partem”. Nel giudizio si è inoltre costituita la
parte che ha ribadito come l’intervento sollecitato produrre sicuramente effetti in
malam partem nei suoi confronti.
Ripercorso il ragionamento del giudice a quo, e ricostruita la disciplina in tema
di accesso al beneficio del permesso-premio, anche alla luce del diritto vivente, la

41
Corte dichiara, in via preliminare, inammissibile la q.l.c. sollevata in riferimento
all’art. 27, comma terzo, Cost., rilevando, in linea con quanto affermato
dall’Avvocatura generale dello Stato, che non sarebbe comunque preclusa al
magistrato di sorveglianza, nell’ambito del giudizio sulla meritevolezza del
beneficio, una valutazione individualizzata riguardo anche e proprio la pericolosità
sociale del richiedente.
Nel merito, dichiara non fondata la q.l.c. sollevata con riferimento all’art. 3
Cost, ritenendo che non sia irragionevole presumere «che il condannato che non
collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria
appartenenza, purché ….. si preveda che tale presunzione sia relativa e non già
assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria.»
La richiesta di un regime probatorio unitario non tiene conto della sostanziale
diversità tra le due forme di non collaborazione, in quanto, in un caso, vi è un
detenuto per reati ostativi che potrebbe ancora collaborare ma sceglie di non farlo;
mentre, nell’altro caso, vi è un detenuto che è a tanto impossibilitato e, dunque,
«il punto di partenza dell’esame giudiziale è costituito da una collaborazione
oggettivamente impossibile o inesigibile»: di tanto tiene conto la giurisprudenza
di legittimità, ormai stabilizzata nel differenziare il regime probatorio tra le due
ipotesi.
Vi è dunque una “differenza ontologica” tra le due categorie e la scelta di
serbare il silenzio, nonostante si possa ancora decidere di collaborare, produce un
effetto di favore per l’associazione criminale e anche questo spiega la necessità di
un onere probatorio rafforzato a carico del non collaborante che richieda il
beneficio, trattandosi di una scelta che « costituisce – secondo l’id quod plerumque
accidit – un sintomo di allarme, tale da esigere un regime rafforzato di verifica,
esteso all’acquisizione anche di elementi (la cui allegazione spetta al richiedente)
idonei ad escludere il pericolo del ripristino di collegamenti con la criminalità
organizzata, e in mancanza dei quali la decisione sull’istanza di concessione del
permesso premio si arresta già sulla soglia dell’ammissibilità.»; per converso,
quando la collaborazione non può più essere prestata, l’atteggiamento del
detenuto non ha una particolare incidenza ed «assume un significato del tutto
neutro, ciò che consente di circoscrivere il tema di prova – ai fini del superamento
del regime ostativo – all’esclusione di attualità dei collegamenti.».
Impregiudicata, quindi, per il magistrato di sorveglianza la rilevanza delle
motivazioni e delle convinzioni soggettive che abbiano spinto i detenuti (per scelta
o per impossibilità) a non collaborare, che ben possono essere prese in
considerazione nella fase in cui si valuta la meritevolezza del permesso, la
differenziazione tra le due forme di collaborazione non appare alla Corte
«irragionevole, e tanto è sufficiente per rigettare la questione».

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In conclusione, quindi le q.l.c. dell’art. 4-bis, comma 1-bis, Ord. Pen. sono
inammissibili e non fondate: nella concessione del permesso-premio, non è infatti
irragionevole che il condannato detenuto per reati ostativi, la cui collaborazione
sia accertata essere impossibile o inesigibile, debba dimostrare solo la mancanza
di collegamenti attuali con la criminalità organizzata, a differenza del detenuto non
collaborante per scelta, tenuto a provare che non vi sia il pericolo di ripristino di
tali collegamenti.

3) Illegittimo l’art. 47-quinquies Ord. Pen nella parte in cui non prevede
che possa essere disposta l’applicazione provvisoria della detenzione
domiciliare al genitore di un minore, qualora lo stato di detenzione
provochi a quest’ultimo un grave pregiudizio.

Con sentenza n. 30, decisa l’11 gennaio 2022 e depositata il 9 febbraio 2022,
la Corte costituzionale ha dichiarato «l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-
quinquies, commi 1, 3 e 7, legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento
penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà),
nella parte in cui non prevede che, ove vi sia un grave pregiudizio per il minore
derivante dalla protrazione dello stato di detenzione del genitore, l’istanza di
detenzione domiciliare può essere proposta al magistrato di sorveglianza, che può
disporre l’applicazione provvisoria della misura, nel qual caso si applicano, in
quanto compatibili, le disposizioni di cui all’art. 47, comma 4, della medesima
legge.».
A porre le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies Ord.
Pen. in riferimento agli artt. 3, 27, comma terzo, 30, 31 e 117 Cost., il magistrato
di sorveglianza di Siena con ordinanza del 2 febbraio 2021, nella quale espone alla
Corte di dover provvedere su un’istanza di ammissione alla detenzione domiciliare
speciale in via provvisoria ed urgente avanzata da un detenuto, con pena residua
da espiare di oltre dodici anni, padre di una minore di anni dieci, alle cui cure la
madre non può provvedere per ragioni di salute.
Il giudice rimettente, nell’evidenziare la lacuna del sistema che prevede
applicazioni provvisorie per altre misure alternative alla detenzione, rappresenta
che l’applicazione provvisoria della detenzione domiciliare a tutela del superiore
interesse della minore, non è colmabile in via interpretativa e pone le q.l.c. della
norma indicata in riferimento all’art. 3 Cost, per irragionevolezza; all’art. 27,
comma terzo, Cost. perché l’attesa della decisione collegiale «renderebbe “non
umana” la pena sofferta dal genitore, che sa privo di assistenza il figlio minore di
anni dieci»; agli artt. 30 e 31 Cost., per il grave pregiudizio che deriverebbe al

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minore stesso e al rapporto parentale; alle fonti sovranazionali che affermano la
preminenza dell’interesse del minore, come interposte dall’art. 117, comma primo,
Cost.
Si sono costituiti in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, per il
tramite dell’Avvocatura generale dello Stato, che ha chiesto dichiararsi
inammissibili le questioni, nonché il condannato, che ha sollecitato l’accoglimento
delle questioni, senza che ciò sia impedito dal fatto che nelle more la minore abbia
superato i dieci anni di età e che il tribunale di sorveglianza abbia rigettato
l’istanza, per l’autonomia che caratterizza il giudizio incidentale di legittimità.
Ritenuta la rilevanza delle questioni prospettate, la Consulta delimita l’oggetto
delle censure non a tutto l’articolo nel suo complesso, come fatto dal giudice
rimettente, ma solo ai commi 1, 3 e 7 dell’art. 47-quinquies Ord. Pen. «concernenti
rispettivamente i requisiti di ammissione della madre alla detenzione domiciliare
speciale, le competenze del tribunale e del magistrato di sorveglianza
nell’applicazione e attuazione della misura e infine la concessione della stessa al
padre in funzione sostitutiva della madre impossibilitata»; quindi, dichiara fondata
la questione con riferimento all’art. 31 Cost.
Dopo aver analizzato la natura “sussidiaria” e “complementare” della
detenzione domiciliare speciale, che, a differenza di quella ordinaria nell’interesse
del minore, può trovare applicazione anche nell’ipotesi in cui la pena da scontare
del genitore superi il limite dei quattro anni di reclusione e dopo essersi soffermato
sulla identità finalistica delle due specie di detenzione domiciliare e sull’ambito
applicativo (essendo state estese dalla Consulta a protezione del figlio
ultradecenne gravemente invalido), la Consulta si sofferma sull’interesse del
minore, che può recedere di fronte alle esigenze di difesa sociale solo quando la
sussistenza e la consistenza delle stesse sia verificata in concreto, nonché sulla
circostanza che l’applicazione provvisoria della misura alternativa nei casi in cui vi
sia un grave pregiudizio derivante dalla protrazione dello stato di detenzione –
prevista per la detenzione domiciliare ordinaria – non sia prevista per la detenzione
domiciliare speciale, che con la prima condivide la ratio di tutela del fanciullo.
Ebbene, secondo la Corte, «[l]a mancata previsione di una delibazione
urgente nell’interesse del minore, ai fini dell’anticipazione cautelare della
detenzione domiciliare speciale, impedisce il vaglio di quell’interesse in
comparazione con le esigenze di difesa sociale, ed è suscettibile di determinare
l’ingresso del bambino in istituti per minori nella non breve attesa della decisione
collegiale, esito che viceversa può essere evitato quando lo consenta una prognosi
favorevole riveniente dal buon pregresso carcerario del genitore. L’astrattezza del
diniego normativo, rapportata alla sola entità della pena in espiazione, vulnera il
favor per gli istituti di protezione del figlio in tenera età, assicurato dall’art. 31,

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secondo comma, Cost., “da leggersi anche alla luce delle disposizioni internazionali
e sovranazionali che ne arricchiscono e completano il significato” (sentenza n. 187
del 2019)».
Di qui, la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies,
commi 1, 3 e 7, Ord. Pen. «per violazione dell’art. 31 Cost., nella parte in cui non
prevede che, ove vi sia un grave pregiudizio per il minore derivante dalla
protrazione dello stato di detenzione del genitore, l’istanza di detenzione
domiciliare può essere proposta al magistrato di sorveglianza, che può disporre
l’applicazione provvisoria della misura, nel qual caso si applicano, in quanto
compatibili, le disposizioni di cui all’art. 47, comma 4, della medesima legge».,
ossia le disposizioni sull’applicazione provvisoria dell’affidamento in prova al
servizio sociale.

4) Inammissibili le q.l.c. dell’art. 4-bis, comma 1-quater, Ord. Pen nella


parte relativa alla concessione dei benefici al condannato per reati di
violenza sessuale, anche aggravata.

Con Sentenza n. 33 decisa il 12 gennaio 2022 e depositata il 15 febbraio 2022,


la Corte costituzionale ha dichiarato inammissibili le q.l.c. dell’art. 4-bis, comma
1-quater, legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e
sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), sollevate, in
riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., dal Tribunale di sorveglianza di Messina con
ordinanza del 6 dicembre 2019.
Il giudice rimettente è chiamato a decidere su una istanza di concessione della
misure alternativa alla detenzione presentata da un condannato, tra gli altri, per i
reati di cui agli artt. 609-bis e 609-ter cod. pen., in relazione ai quali opera il
regime preclusivo stabilito dall’art. 4-bis, comma 1-quater, Ord. Pen., in base al
quale il condannato per determinati delitti contro la libertà sessuale, tra cui quelli
previsti dagli artt. 609-bis e 609-ter cod. pen., può fruire dei benefici penitenziari
solo sulla base dei risultati dell’osservazione scientifica della personalità condotta
collegialmente per almeno un anno, osservazione che, per fatti non addebitabili al
condannato, non è stata effettuata, con ciò precludendogli l’accesso ai benefici, a
meno che non intervenga declaratoria di illegittimità costituzionale.
In ragione di ciò, il magistrato di sorveglianza rimette gli atti alla Consulta,
censurando la norma di cui all’art. 4 cit. per violazione dell’art. 3 Cost., tenuto
conto della rigidità del parametro temporale fissato dal legislatore, che, nel
prevedere una soglia unica indifferenziata (un anno) per l’osservazione scientifica,
appare irragionevole, in quanto non ancorata all’effettiva personalità del reo:

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«l’irragionevolezza della norma censurata determinerebbe, quindi, anche una
disparità di trattamento tra i cosiddetti «sex offenders» e gli autori di altri reati,
anche di particolare allarme sociale, per i quali è possibile accedere alle misure
alternative sulla base di un’osservazione scientifica della personalità legata
all’effettivo “profilo” del condannato.».
Sotto questo profilo, il giudice rimettente sottolinea come proprio gli interventi
della Corte costituzionale abbiano riconosciuto al giudice – sia nella materia delle
misure cautelari, che nella fase di esecuzione della pena – spazi di discrezionalità
per giungere a determinazioni personalizzate, censurando a monte quei rigidi
automatismi preclusivi, basati su presunzioni di pericolosità sociale dell’autore di
reati che destano particolare allarme sociale, che impedivano valutazioni flessibili
e individualizzate.
Queste considerazioni rilevano anche in relazione alla censura mossa con
riferimento all’art. 27 Cost., venendo compromessa la funzione rieducativa della
pena dalla rigidità della soglia temporale di osservazione.
A fronte della richiesta di inammissibilità ed irrilevanza delle censure avanzata
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, la Corte rileva, in premessa, la non
incidenza della circostanza che, nelle more del giudizio di legittimità, il condannato
abbia integralmente espiato la pena e passa quindi ad analizzare l’ammissibilità o
meno delle questioni sollevate, concludendo, ex officio, che esse siano
inammissibili per l’insufficiente descrizione della fattispecie concreta oltre che per
difetto di motivazione sulla rilevanza, tenuto conto che il cumulo delle pene inflitte
al condannato riguardava solo in parte un reato ostativo e sarebbe stato
necessario procedere allo scioglimento del cumulo stesso, non potendosi ritenere
la sussistenza dell’impedimento alla fruizione dei benefici penitenziari qualora
l’interessato avesse già espiato la parte relativa al reato ostativo.
In conclusione, tenuto che «[l]e questioni sarebbero… prive di rilievo ove la
frazione di pena ancora da scontare fosse imputabile ai soli reati non ostativi», la
Consulta conclude per l’inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale
sollevate.

Roma, 9 marzo 2022

Il Redattore: Valeria Bove

Il Vice direttore Il Direttore


Gastone Andreazza Maria Acierno

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