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Antropologia e riproduzione - Claudia Mattalucci

CAPITOLO 1: SEGRETI E SILENZI


In questo saggio miro a rileggere certi aspetti della sindrome AIDS, nei vissuti di alcune pazienti
ghanesi e immigrate in Italia e le loro strategie di accomodazione socioculturale dell'infezione e
del desiderio riproduttivo, cosi come i modi di sottrarsi allo stigma sociale che la malattia porta
con sé. Le conoscenze mediche sul virus che consentono di pensare all'HIV come patologia
cronica, hanno segnato un decorso di malattia oltre a favorire la possibilità d riproduzione,
interrompendo la trasmissione del virus HIV tra genitori e figli.

HIV/AIDS come oggetto antropologico

Dalla sua comparsa nei primi anni 80/90, l'HIV/AIDS è divenuto un campo di studio denso per
l'antropologia culturale, indagando le politiche, le rappresentazioni sociali e i poteri economici
legati allo statuto della conoscenza.
L'introduzione delle terapie antiretrovirali a metà degli anni 90 e il miglioramento dell'efficacia
dai farmaci hanno inciso profondamente sul decorso della malattia: l'HIV/ AIDS da malattia fatale
è divenuto una malattia governabile e/o cronica.
La cronicità e la normalizzazione, dal punto di vista medico, della malattia devono comunque
fare i conti con la redistribuzione delle risorse tra aree geografico-economiche, con l'accesso alle
cure e, dunque, con le politiche sanitarie nazionali e globali, cosi come con le rappresentazioni
sociali della malattia.
Sebbene dunque, L'HIV sia un articolato campo d'analisi antropologica, ci sono anche delle
continuità epistemologiche evidenti: l'analisi delle disparità sociali e le diseguaglianze
nell'accesso alle terapie; il tema della prevenzione, moralità, religione e la tensione etnografica
che coglie come le persone con infezione convivono con la malattia e le sue incertezze.
Evidenziare il carattere di normalità, potrebbe essere una strategia di alcuni attori sociali per
contrastare lo stigma. L'idea di normalità implica per i pazienti non soltanto la sopravvivenza
biologica ma una vita sociale piena in cui poter immaginare la sessualità, l'espressione di sé e la
riproduzione. La normalizzazione ha contribuito a spostare l’analisi dai gruppi a rischio ai
comportamenti che investono la sfera della sessualità, delle relazioni di genere e della
riproduzione.
I dati qui presentati in seguito mirano a svelare le pressioni sociali cui queste donne HIV positive
rispondono, permettendosi di tracciare le modalità con cui i saperi medici, i silenzi e le idee sulla
riproduzione s'intersecano. I frammenti etnografici sono tratti dall’osservazione partecipante
svolta negli ambulatori durante visite e colloqui.
Gloria: 22 anni. arriva in Italia a 16 per raggiungere la famiglia.
Gloria scopre al contempo gravidanza e malattia e il suo caso, ci permette di capire come
responsabilità, scelta e possibilità costituiscono un tratto peculiare delle pratiche discorsive che
le pazienti rielaborano. Nel suo caso, posticipare il processo riproduttivo in atto viene rideclinato
colloquio dopo colloquio, ripristinando tempi di cura per sé, immaginando la riproduzione come
rinviabile per imparare a gestire la malattia. Questo processo è improntato nei termini di un’etica
somatica, cioè che riorganizza i valori per la gestione della vita stessa. Il silenzio sulla malattia, le
sembra indispensabile. L’anonimato sembra rinsaldare la relazione medico-paziente che fa perno
sulla fiducia e diviene spazio per pensare una vita con una malattia cronica e elaborare i
molteplici bisogni.
Destin: Donna 24 anni. Cresciuta in Italia da quando ne ha 3
Ha contratto l'infezione in utero dalla madre. Non manca mai di un controllo medico ed è
sempre puntuale, ma la gestazione la mette sotto tensione facendo emergere atteggiamenti e
reazioni emotive. In ospedale è guardinga, toglie tutti i farmaci e li nasconde in borsa, ripete le
cose da fare durante la gestazione e chiede delle analisi cui sottoporre il nascituro. La paziente
diventa ossessiva, preoccupata e difficile. Non vuole che questo accada al figlio in grembo e
diffida dei ginecologi, si fida solo degli infettivologi. Vuole dimostrare a tutti i costi di essere una
madre attenta e responsabile, riuscendo a interrompere la trasmissione infettiva.

Abena: 32 anni. vive in Italia ds 8. Madre di 4 figli


Non sa con esattezza come abbia contratto il virus, ipotizza dal suo primo marito.
Nessuno è al corrente della sua malattia, ne in Italia ne in Ghana, solo il suo compagno anch'egli
HIV positivo. La loro attenzione è tutta spostata sui figli affinché loro siano al riparo dal contagio.
Abena: "Io ho questa malattia ma posso viverci, i miei figli possono crescere sani. Per questa
ragione ho scelto che nessuno deve sapere, è già difficile per loro, sono neri, figli di immigrati,
ma almeno sono sani".
Abena introduce nella sua narrazione, il silenzio come condizione imprescindibile per evitare ai
suoi figli di subire discriminazioni ulteriori.

Silenzi, segreti e agency


L'AIDS è divenuto l'opportunità per molte organizzazioni religiose, chiese, moschee di avere
accesso allo spazio pubblico.
Abena, introduce con chiarezza come la malattia, comunamente associata a comportamenti
ritenuti immorali, attraverso la testimonianza possa consentire la redenzione e l'accesso alla
salvezza. Questo tipo di salvezza però implica una confessione pubblica e l'ammissione di una
colpa che Abena non sente in alcun modo.
La malattia, nel suo caso, nel contesto specifico della chiesa e delle reti sociali, non deve
emergere. Nella cura dei suoi figli, è aiutata da una rete di persone conosciute in chiesa. Il timore
dell'esclusione da reti sociali della chiesa e l'atteggiamento del pastore, che invitando alla
confessione, rinnova la rappresentazione dell'AIDS come effetto di comportamenti d'infedeltà,
costituiscono, per Abena, ragioni per esercitare la sua agency: mantenere il silenzio e cosi
sottrarsi alle dicerie, ai pettegolezzi e all'ostracismo.
L'anonimato, garantito per legge, e i dispositivi medico-legali proposti sono stati reinterpretati
nella relazione tra paziente e medico nei termini di un aiuto e ancora una volta della
condivisione di un segreto.
GUSMAN ha evidenziato come la richiesta nelle chiese pentecostali del cosiddetto certificato HIV
prima del matrimonio renda del tutto evidente lo scarto tra pratiche sociali effettive dei giovani e
messaggi della chiesa sul tema della sessualità. Il tentativo di controllo sui corpi sani o infetti
degli adepti, pone una serie di domande di ricerca sulla stigmatizzazione e sui modi con cui i
membri della chiesa agiscono.

CAPITOLO 2: LA FECONDAZIONE CON DONAZIONE DI GAMETE DOPO LA LEGG 40


La frattura dei confini: la fecondazione eterologa
Attraverso l'analisi del materiale etnografico raccolto tra il 2008 e il 2012, si è cercato di mettere
in luce le forme assunte dell'agency riproduttiva delle coppie sterili che hanno deciso di avvalersi
della tecnica denominata "fecondazione con donazione di gamete".
Dall'entrata in vigore della legge 40/2004 che vietava l'accesso a questa particolare forma di
PMA, le prassi e le tecniche procreative sono state fortemente orientate e le strategie di
ricomposizione delle fratture della riproduzione naturale rinegoziate. Il veto imposto dal
legislatore, ha portato innanzitutto all'incremento della ricerca di cure al di fuori dei confini
nazionali: questo fenomeno ha ridisegnato le traiettorie della mobilità sanitaria non solo delle
coppie che si recavano presso i centri esteri ritenuti più adeguati, ma anche dei professionisti che
li effettuavano. Questo fenomeno ha scatenato una sorta di corsa al "mercato della
riproduzione" esponendo molte coppie ai rischi sanitari. Solo chi è stato in grado di sostenere
ingenti spese economiche ha potuto usufruire delle tecniche di PMA altrimenti negate dal
legislatore italiano.

La frattura della moralità: tra normativa e agency


Il fenomeno delle CBRC, si inquadrerebbe all'interno di una prospettiva dicotomica in cui gli spazi
materiali e simbolici coinciderebbero con quelli morali e legali: interno/esterno, giusto/sbagliato,
permesso/non permesso.
L'antropologia si è occupata di descrivere le diverse forme assunte dalle "routine sociali
normative" che sono alla base dei fondamenti morali della vita.
La legge 40/2004 ha sicuramente delineato una specifica moralità della riproduzione "artificiale"
( per esempio solo alcuni cittadini possono accedervi) e ha notevolmente contribuito ad
alimentare il fenomeno dell'"esilio procreativo".
ESEMPIO: Giulia e Roberto, una giovane coppia che ha affrontato un viaggio all'estero per
usufruire della diagnosi genetica di preimpianto e che, dopo un primo fallimento, sta
cominciando a pensare alla donazione di gameti, sentono una forte pressione sociale. La rabbia,
le emozioni, le paure e le difficoltà attraversate sono il prezzo da pagare per coloro che deviano
dalla "normalità" riproduttiva e, di conseguenza, da un comportamento considerato moralmente
lecito.
In particolar modo, dopo la legge 40, la fecondazione con donazione di gamete in Italia "non si fa
e non si dice" come racconta Sabrina:
" C'è il tabu totale. Per questo le persone che lo fanno poi non dicono niente, perché queste
persone per lo stato non esistono".
La nostra interlocutrice di ricerca usa una parola molto cara all'antropologia: tabù. Il senso di
abbandono da parte delle istituzioni statali, è un filo rosso che unisce gran parte delle narrazioni
delle coppie protagoniste dello studio.

La frattura della riproduzione: la scoperta della sterilità


La scoperta della sterilità è il punto da cui prendono avvio le forme di agency riproduttiva volte a
ricomporre le fratture materiali/simboliche del superamento dei confini spaziali/morali: è la
frattura della riproduzione, a seguito della quale si sceglie di intraprendere un percorso
complesso, articolato e dal forte carico emotivo.
Intervistata spiega che il tempo che scorre mentre ci si dedica ad altri aspetti della propria vita: il
lavoro, la laurea, la persona giusta, s'inscrive sulle possibilità riproduttive. Il tempo che si
"spreca" cercando un concepimento naturale che non arriva.
Per un coppia che vive il problema della sterilità, attribuire un senso a questa condizione è un
processo lungo e doloroso, durante il quale devono essere ridisegnati i piani, le aspettative e le
speranze per il futuro.
Solitamente, il primo passo che le coppie compiono è quello di recarsi presso un centro
specializzato che può richiedere uno spostamento sul territorio regionale/nazionale, in base alle
necessità terapeutiche.
Nel processo di attribuzione di senso all'esperienza di infertilità vissuta, una coppia non può
quindi prescindere dal contesto biomedico all'interno del quale tale condizione è prodotto: le
pratiche, le scelte e le azioni che ne derivano devono confrontarsi con i nuovi tipi di possibilità
che le tecniche di PMA pongono in essere.
L'infertilità, come condizione che non permette la realizzazione di un evento sperato, la nascita
di un figlio, apre aspettative diverse, si cercano delle "alternative".
ESEMPIO caso Giusy e marito affetto da azoospermia --> Viaggiano per non pensarci, cercando
alternative.
L'unica via possibile per soddisfare il desiderio genitoriale è la donazione dei gameti, densa di
significati culturalmente costruiti e socialmente condivisi, tanto a livello simbolico quanto a
livello materiale.
L'intimità di questa scelta va preservata: in primo luogo perché è comunque un'esperienza
dolorosa e per la paura di non essere compresi da chi non ha vissuto le medesime situazioni.
Esiste ancora una forma di stigma sociale per le donne e gli uomini che vivono in condizione di
sterilità.
In un paese "parecchio tradizionalista" e in un periodo in cui la donazione era vietata dalla legge
italiana, la scelta di avvalersene recandosi fuori dai confini morali, simbolici e legali si alimenta
tramite un processo decisionale, ma rimane comunque una "realtà velata".

CAPITOLO 3: GENERARE OLTRE I CORPI


Campo e metodologia
Il mio contributo presenta i risultati parziali di una ricerca che ha avuto come oggetto di interesse
la genitorialità di persone omosessuali residenti in Italia.
Ho svolto ricerca cercando di comprendere il processo di costruzione di una famiglia gay e il
significato di relazionalità, giocato da tutte le figure coinvolte: genitori d'intenzione, donatori e
surrogate.
Esplorare le trasformazioni prodotte dalle nuove tecnologie riproduttive mi permette di mostrare
la natura socialmente costruita di alcune nozioni che fino a qualche decennio fa erano state date
per scontate. Donne che sentono di non divenire madri attraverso la donazione o la surrogacy e
uomini che scelgono di diventare padri utilizzando il proprio seme sfidando i concetti di
genitorialità tradizionalmente intesi.
La procreazione medicalmente assistita ha provocato lo smembramento simbolico di alcune
categorie, andando nei fatti a colpire ciò che era stato per lungo tempo concettualizzato come
l'elemento fondante la parentela: il rapporto sessuale.
Fare figli con il supporto delle nuove tecnologie riproduttive significa comprendere la
produzione tanto materiale quanto simbolica raffigurata dai soggetti che concepiscono in
assenza della riproduzione sessuale e grazie al contributo di più di due individui.
Nonostante il modello parentale euro-americano sia stato posto sotto critica e decostruito, l'idea
di un elemento naturale alla base dei legami di parentela rimane oggi prevalente. Vi è infatti la
tendenza a parlare delle relazioni genetiche come delle uniche “vere” relazioni.

Coppie sterili, corpi fertili


Per la maggior parte della storia dell'umanità, la sterilità è stata considerata principalmente
come un problema sociale e non come un problema medico che richiedesse assistenza. E'
durante il corso dei secoli 18 e 19, che essa è stata definita come l'incapacità di concepire a
causa di circostanze “naturali” e l'inabilità a procreare figli è stata etichettata come patologia
biologica.
Se un tempo la PMA era utilizzata maggiormente come pratica di sostegno all'infertilità
individuale, negli ultimi decenni si è configurata anche come supporto alla sterilità di coppie
omosessuali. La medicina riproduttiva non lavora più esclusivamente su corpi infertili, ma
innerva il proprio potere su corpi potenzialmente fertili, contribuendo allo sviluppo di famiglie
gay.
In Italia, solo una specifica categorie di persone ha accesso alla PMA, poiché la legge 40/2004 è
caratterizzata da una lunga lista di restrizioni. Con la modifica di questa legge, nel 2014, è stata
introdotta la possibilità di ricorrere alla fecondazione eterologa e non solo a quella omologa.
Complesso, però, è il discorso riguardo i concetti di omosessualità, poiché la norma mira a una
normalizzazione della genitorialità, non contemplando forme eccedenti l'ideologia dominante.
Le restrizioni legislative producono un fenomeno che è spesso etichettato come “turismo
riproduttivo”.
Il divieto di accesso alle tecniche la disponibilità a investire una certa quota di capitale
economico per potervi accedere, creano una stratificazione della riproduzione; difatti, il suo
accesso è riservato ad una specifica classe sociale.

Soluzioni procreative alla sterilità di coppia


La surrogacy è considerata dall'OMS, come una tecnica di supporto medico alla procreazione.
Esistono due tipi di surrogacy: tradizionale e gestionale.
La seconda ha sostituito progressivamente la GPA di tipo tradizionale e la sua pratica prevede
che a essere coinvolte nel processo riproduttivo, siano due donne: colei che dona i propri ovuli
(donatrice) e colei che dopo il proprio utero( surrogate).
E' un'operazione che richiede tempo, dal momento che sono tutte le parti a decidere. Bisogna
inoltre, tenere conto dei luoghi nei quali tali pratiche prendono corpo. Le cliniche della fertilità,
per esempio, sono organizzazioni che si rivelano capaci di condizionare e dirigere le pratiche più
intime degli individui senza lasciare traccia della loro azione.
Si organizzano colloquio conoscitivi con aspiranti donatrici e surrogates quando i genitori hanno
la possibilità di spostarsi, altrimenti, l'incontro viene fatto virtualmente, attraverso mezzi di
comunicazione come skype, email.
Nonostante sia un procedimento altamente controllato, pianificato e medicalizzato, non si può
mai essere pienamente certi di raggiungere il traguardo, l'obiettivo voluto. Un'ambivalenza che
accompagna tutte le fasi del percorso e che si fa più incerta durante la fecondazione e
“l'attecchimento”.
I fallimenti riproduttivi e i cambiamenti di percorso sono fasi che accadono spesso. Questa
incertezza che accompagna le fasi del concepimento si inserisce in un orizzonte riflessivo che
s'intreccia ai discorsi di generatività delle famiglie di padri incontrate.

Scelte di famiglia, scelte tra famiglie: collaborazioni riproduttive


Le donatrici non acquisiscono la stessa valenza assunta dalle surrogates. Le donatrici non vivono
tutte le esperienze e tutti i passaggi attraversati e percorsi durante i mesi di gravidanza. Anche in
una famiglia composta da padri gay la genetica gioca un peso, infatti le fasi di abbinamento tra
donatori e aspiranti padri non sono neutrali, ma seguono logiche precise: preferiscono qualcuno
che abbia le stesse origini etniche, che possieda compatibilità sanguinea, estetica e genetica e
soprattutto che sia sano.
NORDQVIST districa cosi il significato delle origini genetiche dei donatori dal valore differente
assunto dai genitori d'intenzione. La proclamazione è qualcosa che può essere separato dalla
sostanza genetica dei donatori. Seguendo questo ragionamento, i padri d'intenzione
risulterebbero gli ideatori e i creatori del processo del concepimento.
Le origini genetiche diventano così insignificanti rispetto ai mittenti che sono attivamente
coinvolti in tutte le fasi della produzione di un figlio. I padri hanno progettato e fatto si che il loro
desiderio di genitorialità si concretizzasse; sono coloro che hanno valicato i confini nazionali per
trovare soluzioni procreative. In questo senso, le origini vengono riassorbite nella storia
riproduttiva assumendo un valore secondario rispetto all'intero processo.
Non si tratta solo di prendere in considerazione il periodo di gestazione, ma di tenere conto di
tutto quel groviglio di emozioni che accompagnano e caratterizzano queste esperienze
oltreoceano. Contrariamente a quanto accade con le donatrici, figure marginali della
riproduzione, le surrogates sono rappresentate come persone chiave della surrogazione di
gravidanza perché sono donne che portano 9 mesi in pancia il bimbo e per gli scambi di intimità
che si creano

Generare una storia trasparente


Generare un figlio significa inserirlo all'interno di una storia trasparente e in una rete di affetti
significativa.
La trasparenza della condotta delle pratiche riproduttive gioca un ruolo importante all'interno
delle dinamiche relazionali delle famiglie omogenitoriali con cui ho svolto ricerca.
Le pratiche di trasparenza prendono corpo durante gli abbinamenti tra i genitori d'intenzione e i
reproductive others. I padri d'intenzione, ricercano persone che siano disposte a mantenere i
contatti.
Essere trasparenti significa produrre una storia nella quale inserire il percorso di nascita e di
origine dei bambini venuti al mondo attraverso la surrogacy. Una storia raccontabile che tratteggi
le sfaccettature che hanno reso possibili le nascite di nuove vite. Essere trasparenti significa
creare un'immagine reale, di astratte figure di donatrici e surrogates, anche mediante la
composizione di album fotografici o video.
Una trasparenza che si fa presenza con le immagini.
Un racconto trasparente che permetta ai bambini di avere esperienza diretta sia con le immagini
sia con le donne reali che hanno costruito il loro percorso di nascita.

CAPITOLO 4: SALUTE DEL BAMBINO


La natura sociale della disabilità: una disgressione necessaria
La disabilità costituisce una categoria profondamente relazionale, socialmente e culturalmente
costruita a partire dalle idee dominanti di normalità, la cui esistenza dà conto dei modi in cui le
società operano la produzione, riproduzione e trasformazione di ampie forme di diseguaglianza.
La condizione esistenziale di menomazione non alloggia soltanto nel corpo, ma è creata dalle
condizioni materiali e sociali che disabilitano la piena partecipazione di coloro che sono
considerati a-tipici.
Una disabilità può o non può essere socialmente menomante, a seconda dei criteri culturali o
situazionali che la istituiscono e dell'azione concomitante della discriminazione sociale.
Margaret MEAD descrive la funzione sociale della danza per i bimbi samoani:
“ La grande importanza che si dà al ballo non va a danno dei ragazzi che hanno dei difetti fisici.
Ogni difetto è messo a profitto nella forma della danza. La più precoce ballerina di Tau era quasi
cieca”.
In realtà, nell'immaginario collettivo convivono ancor oggi molte delle percezioni del passato,
sebbene la medicalizzazione dell'handicap abbia certamente contribuito a superare pratiche
sociali, carità religiosa e paura, attraverso l'uso opacizzante del linguaggio e della terminologia
medica professionale.
In Italia, l'idioma politico dei diritti del disabile si è condensato nella legge 104/92 avente come
titolo “l'assistenza, l'integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate”, ancora oggi una
normativa precoce e innovativa tra i quadri giuridici di molti paesi occidentali.
La legge individua la persona con un handicap in colui che presenta una minoranza fisica,
psichica o sensoriale, stabilizzata o progressiva, che è causa di difficoltà di apprendimento, di
relazione o di integrazione lavorativa e tale da determinare un processo di svantaggio sociale o di
emarginazione. L'accertamento di questa condizione avviene attraverso una valutazione
effettuata da un'apposita commissione medica.
Le idee alla base della legge 104, sono anche il frutto di una particolare enfasi sul processo di
scolarizzazione degli alunni disabili. Tuttavia i docenti sono tenuti a riconoscere trattamenti
diversificati per categorie diverse di studenti.
Con questa direttiva il Ministero dell'Istruzione ha battezzato la nascita dei cosiddetti alunni BES,
ovvero con Bisogni educativi speciali, ai quali è riservata, obbligatoriamente, la redazione da
parte degli insegnanti di un piano didattico personalizzato (PDP).
Un'ultima considerazione riguarda il piano linguistico. Da un passato di espressioni quali “idiota”,
“imbecille”, “deficiente”, al sostantivo “handicappato” fino all'uso di “diversamente abile” e
infine “diversabile”. Nonostante ciò, il termine integrazione rimane vacuo.

Tecnologie biomediche per i figli difettuali

Cosi come molti genitori di bambini disabili, anche i neo-genitori adottivi che si trovano ad
apparentare figli atipici sono intensamente catturati nello sforzo processuale di rivisitare il
concetto di “normalità”. Una tensione resa urgente che dà corpo a una vigorosa battaglia per la
negoziazione delle pratiche di categorizzazione biomedica e di cura.
In Italia, le Unità Operative di Neuropsichiatria dell'Infanzia e dell'adolescenza (UONPIA)
rappresentano le strutture specialistiche per l'accertamento della disabilità e la certificazione dei
minori d'età secondo i dettami della legge 104.
Le UONPIA si costituiscono come unità zonali di erogazione di servizi integrati territoriali,
residenziali, che svolgono attività diagnostica, terapeutica e riabilitativa nell'ambito di patologie
neurologiche, neuropsicologiche e psichiatriche.
Le testimonianza dei professionisti che operano nelle due UONPIA, portano in primo piano alcuni
aspetti interessa della mappa pre-comprensiva che sottende le rappresentazioni delle famiglie
adottive e handicappate.
In gran parte dei casi, l'intervento del servizio viene richiesto direttamente dai genitori, i quali
mettono subito le mani avanti e comunicano che il figlio è stato adottato.
Le ragioni per cui i genitori si rivolgono al servizio sono svariate: Non si fidano delle informazioni
che hanno ricevuto dagli enti, o per disturbi adattivi nella nuova relazione familiare, o dalla
scuola che rileva soprattutto disturbi di apprendimento.
Sara : “ Le famiglie arrivano soprattutto per i disturbi del comportamento, perché i bambini non
stanno alle regole, non le seguono, sono oppositivi. Si tratta di disturbi della condotta che
vengono diagnosticati come disturbo oppositivo provocatorio. Sono bambini già segnati secondo
me, non solo dall'essere stati in istituto, ma proprio come genetica” --> Es. Bambini del brasile
che vengono adottati quando hanno pochi mesi, da grandi si comportano come un brasiliano che
arriva in Italia da poco.
Il fallimento adottivo può manifestarsi in momenti diversi lungo il ciclo vitale della nuova
esperienza familiare e può assumere diverse forme, dove la più estrema è la “restituzione”.
Lo smarrimento scaturito dall'inattesa scoperta di un figlio malato, spesso respingente, esprime
sia nelle pratiche sia negli affetti l'angoscia per l'incapacità di creare legami di famiglia secondo le
attese sociali ed emozionali conformi al modello prevalente della famiglia biologica. Di fronte a
questo pericolo, i neo-genitori cercano di salvare quel che possono della loro famiglia
immaginata e, alla ricerca di una qualunque speranza, affidano la loro sofferenza e il loro
disorientamento alle strutture psicosociali e sanitarie.
Se la speranza dei genitori adottivi e handicappati è quella di aggiustare la menomazione del
figlio attraverso le biotecnologie della diagnosi e della cura, lo scenario appare tutt'altro che
favorevole. La loro preventiva identificazione consente di immetterli, precocemente in un
protocollo terapeutico integrato, spesso prolungato fino a modificarne, se necessario, l'ambiente
di vita, per esempio ricollocandoli in strutture protette, allo scopo di ridurne per quanto
possibile, la rischiosità.

Tolleranza alla differenza e paradosso della speranza


La speranza, implica fondamentalmente la pratica di creare, o di cercare di creare, vite degne di
essere vissute anche in mezzo alla sofferenza, anche senza prospettive di lieto fine.
La speranza è un fatto esistenziale che parla il tempo del futuro: essa prende forma attraverso
una pratica narrativa, offrendo opportunità di immaginazione.
Un futuro che non è mai del tutto chiaro e mai ciecamente ottimista, ma è uno spazio di
cambiamento e di potenzialità. Praticare la speranza significa andare in battaglia, ma non tutti i
genitori e/o i figli adottivi disabili possono dirsi pronti per la battaglia.
Nelle situazioni in cui la dismissione parentale si realizza, essa costituisce un'esperienza
personale e sociale complessa e dolorosa che sintetizza il fallimento di un lungo faticoso
tentativo di creazione di potenzialità future, dove sofferenza e incertezza hanno prevalso su
speranza e possibilità e che chiude le aspirazioni riproduttive della coppia adottiva.

CAPITOLO 5: FRAMMENTAZIONI DELLA GENITORIALITA'


Una frattura fisica e sociale
Allontanamenti rom dalle loro famiglie.
Ciò che accade è che il minore rom non viene riconosciuto come parte di un modello educativo
con caratteristiche soggettive specifiche e definite. Viene piuttosto identificato come minore
mancante di cure e attenzioni perché rom. Viene come appiattita la sua identità: i genitori rom
sarebbero quelli che non vogliono lavorare, poco curanti delle necessità dei figli. E i minori rom
sarebbero quei bambini che vengono descritti come quelli scalzi, sporchi etc.
La FRATTURA cui facciamo riferimento in questo contributo ha una doppia valenza: parliamo di
una frattura fisica che comporta una separazione definitiva del minore dalla sua famiglia, e di
una frattura sociale che la famiglia riferisce di provare.
Per quanto riguarda quella fisica potremmo dire che vi è una forte capacità da parte della
famiglia di mantenere comunque viva e presente una relazione con il bambino, la seconda,
invece, viene subita passivamente e spoglia gli adulti del loro ruolo genitoriale.
L'analisi dei casi riferiti ai minori rom mostra l'eccezionalità con la quale viene intesa questa
categoria di persone dagli operatori che lavorano nel sociale.
Esempio: Per anni, un magistrato in particolare si occupava dei fascicoli riferiti ai rom, definiti sul
fascicolo come “nomadi”.

Dalla tutela al genocidio


Dei dati della ricerca condotta, emerge che un minore rom, rispetto ad un suo coetaneo non
rom, ha 60 probabilità in più di essere segnalato alla procura della repubblica presso il tribunale
per i minorenni e circa 50 probabilità in più per che per lui venga aperta una procedura di
adottabilità.
L'interpretazione di questi dati comporta una complessa indagine sulle tematiche inerenti alla
relazione tra servizi sociali e utenza straniera, sulla rappresentazione della famiglia e dei minori
rom da parte degli operatori sociali, sulla stessa formazione degli operatori sociali riguardo alla
multiculturalità.

L'attesa del bambino allontanato


Nelle storie mi venivano raccontate, il minore che era stato allontanato, tornava ad essere
presente tra noi. Tra il bambino e il genitore era cosi sempre visibile un “filo rosso”, un legame.
E alla fine di ogni storia raccontata, congedando l'assente, mi veniva chiesto come fare per
potere rivedere il bambino.
Chi erano i bambini protagonisti di queste storie?
Non erano i bambini domiciliati con le loro famiglie in terreni privati, non erano sinti, non serbi,
erano rom xoraxané (bosniaci). Questo fino al 2000, quando aumentò il numero di rom romeni.
I rom xoraxané erano più numerosi e la loro relazione con i servizi sociali e le istituzioni sociali in
genere era meno conflittuale rispetto alla relazione con i rom serbi.
Si sono, nel tempo, venute a creare alcune prassi eccezionali, a misura di bambini “zingari” o
“nomadi”. Talvolta si creavano anche dei veri e propri malintesi come il “tabu del moncone”
ovvero, i nomadi avevano il tabù del cordone ombelicale: fino al momento in cui questo non
cadeva, i genitori non volevano portare a casa il bambino.
Nei fascicoli non è assolutamente chiaro il motivo per cui i genitori lasciavano i bambini in
ospedale. Certamente si intuisce che c'è dell'altro, legato a questioni familiari che manca nei
fascicoli. Risulta essere impossibile capire perché quel minore in particolare venisse
abbandonato in ospedale e anche come mai il personale sanitario tollerasse così tanti mesi di
ospedalizzazione prima di avviare la segnalazione in Tribunale.
L'assenza di questi bambini allontanati e dichiarati adottabili mi veniva raccontata dai genitori,
dai familiari, al campo, in casa. Da quel racconto, ciò che restava, sempre, era la sua attesa.
Il bambino allontanato resta nella sua famiglia.
Quello del sangue è un legame che sembrava valere per tutti, famiglie di origine e famiglie
adottive. Il sangue che il bambino ha è quello dei genitori, per questo, molto spesso, accade che i
bambini vengano restituiti.
Per approfondire quale sia la partecipazione familiare al procedimento civile che porta alla
dichiarazione di adottabilità, cercheremo di concentrare l'attenzione sui possibili malintesi che
sorgono tra famiglia e istituzione nel corso della stessa procedura.
L'adesione alle richieste degli operatori sociali o l'adempimento delle disposizioni del TM spesso
non viene riconosciuta nelle sue funzionalità. Ciò che la famiglia fa è quindi rispondere il minimo
indispensabile alle disposizioni del TM.
Nella famiglia rom, i bambini che sono stati in affidamento presso gagé, vengono rimproverati di
assumere quei comportamenti identificabili nel modello educativo gagé che per il genitore rom è
estraneo. In realtà, come abbiamo già visto, ciò che le famiglie rom sentono come capace di
interrompere il legame è il cambio del cognome.
Luogo neutro --> Per scelta degli operatori sociali, nel luogo neutro i genitori non possono
parlare romané (mai), non possono portare cibo e non possono condurre con sé gli altri figli.
Tutto diventa molto controllato in quella che dovrebbe essere un'occasione di incontro libera.
PAZE': “Il luogo neutro diventa quella dolce occasione che porta all'allontanamento definitivo del
bambino della sua famiglia.
Frammentare
Molto spesso gli operatori sociali non consentono le famiglie di cui scrivono le relazioni sociali,
non ne conoscono, per esempio, la nazionalità, la composizione familiare, la residenza, la storia
familiare. Non effettuano visite domiciliari per paura, per timore.
Credo che la frattura sia oggi visibile nel conflitto che nasce e si riproduce quotidianamente tra
comunità rom, sinti e gagé, e il pregiudizio sociale porti a una violenza istituzionale che conduce
intenzionalmente ad una frammentazione della riproduzione.

CAPITOLO 6: SALVARE LE RIFUGIATE


In queste pagine, ho cercato di far emergere alcuni dei modi con cui pratiche e politiche
intervengono nelle sfere più intime delle donne richiedenti asilo, ovvero ne loro dar cura ai figli e
nei loro ruoli materni. Ho mostrato come nella relazione innescata fra stato e rifugiate, le
maschere umanitarie celino violenze istituzionali, razionalizzazione delle politiche, interventi
percepiti come violazioni e sopraffazioni delle donne stesse che spesso vivono un senso di
deprivazione dei ruoli e una perdita di potere sulla genitorialità.
Programmi umanitari e pratiche d'assistenza espongono le donne a nuove violazioni dopo le
ferite subite nella traiettoria migratoria, costringendole spesso a esibire i ruoli di cura,
sottoponendoli poi a giudizio e valutazione. Sembra che vi sia quasi un'approvazione dei ruoli di
maternità e cura, e costantemente le rifugiate devono mostrarsi capaci e responsabili: se così
non accade, sgridate e correzioni sono elargite affinché siano assunti una giusta postura di
responsabilità e un adeguamento a norme culturali considerate migliori.
“La condizione di straniero, non dovrebbe privare la persona dei suoi diritti fondamentali”.
Eppure, è proprio quella condizione di instabilità giuridica, di non appartenenza, di fragilità
economica e sociale che rende le donne richiedenti asilo nei campi perfetti per un'azione di
esercizio di potere sul corpo e sulla vita.
Le questioni della razza, della differenza culturale e del genere, si sommano poi con potenza:
rispetto alle rifugiate, vi è ancora un nodo da sciogliere che è la “coniugazione infernale di
razzismo e sessismo”. Questo incide pesantemente sulle loro vite, ammettendole in quanto
donne da salvare e emancipare, da educare, ma non come soggetti storici appartenenti a una
comunità sociale e politica. Se lo spazio di un possibile riconoscimento si gioca esclusivamente
nella dimensione umanitaria, con le profonde ambiguità, violazioni, è da comprendere quale
postura siano chiamate a tenere le donne affinché la loro presenza sul territorio non sia ritenuta
illegale. Non è detto che chi vive in una sfera di non riconoscimento non abbia uno sguardo sul
futuro o un senso del sé, o non percepisca un senso d'ingiustizia, rabbia o desiderio di vivere
altrimenti.
Con il termine “refugee women” , l'immagine nota è quella della donna/rifugiata, una donna
sofferente con il bambino. E' portata sulla scena della rappresentazione migratoria anche la
buona politica del salvataggio della vita, e di un contesto, quello europeo, che porta le figure
umane indifese in sicurezza da un altrove. Questa rappresentazione della “rifugiata in generale”,
diventa figura universale, capace di rientrare in un immaginario riconoscibile. Desta l'occhio
empatico, di chi guarda.
Il punto è : QUALE IMMAGINE DELLE DONNE RIFUGIATE SIAMO DISPOSTI AD ACCETTARE, E COSA
DELLA SOFFERENZA?
Studiose di fotografia sociale, hanno a lungo lavorato sulle immagini del dolore di cui sono intrise
le figure delle donne-madri e sulle caratteristiche che l'immagine deve avere per entrare nella
figura dell'accettabile, scatenando la giusta reazione morale nella sfera pubblica.
Sottolineano che in quel loro essere vittime e ritratti della sofferenza, sono moralmente
accettate perché non rappresentano alcun pericolo.
Le riflessioni del femminismo nero e postcoloniale già di per sé forniscono al campo delle
migrazioni chiavi di lettura raffinate sulle interconnessioni fra genere, razza, cultura, classe e
variabili di differenza e su come queste istanze siano potenti tecnologie disciplinari e di potere.
Il passo in avanti che la critica femminista offre alle politiche di governo della vita è a mio avviso
centrale per comprendere la capacità del potere di declinarsi a seconda del soggetto che ha di
fronte, facendo proprie tecnologie specifiche per rinforzare la vulnerabilità di quei soggetti.

CAPITOLO 7 :FAMIGLIE IN TRANSITO


Nuove forme di famiglia in una dimensione transazionale
La flessione del tasso di nuzialità, l'aumento dell'età di uomini e donne al primo matrimonio, la
crescita del numero di celibi e nubili, l'alto numero di adulti che vivono da soli e la maggiore
permanenza dei giovani nelle famiglie di origine, possono essere annoverati tra i mutamenti
principali dello scenario parentale attuale occidentale.
Queste tendenze sono la testimonianza di una progressiva destrutturazione della parentela come
sistema istituzionale e culturale.
La struttura parentale e i valori che veicolava in passato si sono modificati, anche in relazione ai
mutamenti economici e culturali.
SOLINAS individua 3 caratteristiche fondamentali per identificare questi mutamenti:
1. Compressione dell'area di matrimonialità
2. La verticalizzazione della struttura parentale dovuta alla scarsa fecondità delle coppie
3. L'aumento delle quote di eredità per ogni generazione (La ricchezza non viene spartita ma
sommata).
Le mutazioni a questo riguardo sono tali da far assumere alla filiazione valori nuovi. Da
patrimonio di discendenza, il figlio è divenuto “bene di consumo”, parte del processo
d'individualizzazione e valorizzazione del sé. La centralità del matrimonio in quanto principale
creatore di legami parentali è stata infatti sostituita dalla filiazione.
Le pratiche riproduttive, di cura e di educazione dei figli influenzano i percorsi di mobilità e la
circolazione di beni e risorse. Le famiglie, discutono della dimensione del transnazionalismo. Le
scelte di genitorialità a distanza sollevano diversi nodi irrisolti che interrogano i legami e le scelte
familiari.
La letteratura sulle migrazioni femminili internazionali ha posto molta attenzione sulla
teorizzazione di macro categorie interpretative per comprendere i meccanismi di mobilità delle
donne e la rinegoziazione del loro ruolo all'interno delle dinamiche familiari.
Le migrazioni delle donne hanno conseguenze non trascurabili nei tessuti sociali e familiari delle
aree di provenienza.
HOCHSHILD ha teorizzato la nozione di “care drain”, ovvero di trasferimento della cura. Descrive
il processo di spoliazione delle risorse affettive ed emotive dei paesi di emigrazione da parte di
quelli di immigrazione, dove vengono dirottate attraverso la crescente domanda di lavora di
cura.
PARRENAS (parregnas) attraverso una ricerca, sottolinea gli effetti dolorosi dei movimenti
migratori delle donne sui figli private delle cure materne e affidati ad altre figure. Altri
ricercatori, come AMBROSINI e BOCCAGNI, attraverso delle ricerche hanno sottolineato come
l'assenza della mamma, che svolge un ruolo da caregiver, sia più significativa rispetto a quella del
papà.
L'aumentata sfera delle possibilità e di azione delle donne dei paesi europei è stata ottenuta non
grazie alla rinegoziazione degli equilibri di genere con gli uomini, ma demandando il lavoro di
cura ad altre donne di altri paesi più poveri.
E' infatti difficile affermare l'immediata correlazione tra comportamenti devianti di un bambino o
adolescente e l'assenza della madre, senza considerare altri fattori che possono concorrere allo
sviluppo di un disagio psicologico. La genitorialità a distanza, seppure faticosa, non è uno spazio
vuoto, ma si riempie di telefonate, regali e viaggi.
La riorganizzazione dei legami familiari e della sfera riproduttiva su scala globale può essere in
grado di produrre anche un rafforzamento dei circuiti di scambio e di affettività all'interno della
famiglia e non necessariamente sfociare nella privazione e nell'abbandono.
La ricerca sulle coppie e sulle famiglie italo-romene è stata condotta considerando più livelli
anche geografici.
Si è scelto di esaminare coppie in cui la partner femminili erano arrivate in Italia tramite un
percorso migratorio autonomo, proprio per considerare l'incidenza che la migrazione ha sulle
traiettorie di vita e di coppia.
Sono state prese in esame storie di 3 coppie.
CELINA E DAVIDE
Hanno un figlio di 2 anni, lei rumena. Grazie alla relativa stabilità guadagnata, ha potuto
richiamare accanto a sé la famiglia che si è trasferita vicino a loro. La nascita di un figlio assume
un ruolo centrale nella costituzione dell'identità della coppia rispetto al contesto sociale.
La filiazione permette la continuità parentale ma consente anche di ricomprendere, nella figura
dei nonni, la presenza della famiglia della sposa, la cui partecipazione alla vita della coppia
sembra essere stata fino a quel momento abbastanza offuscata.
Ciò nonostante “il matrimonio di una coppia mista è sempre un evento dalla valenza sociale
particolare”. Difatti, la coppia ha effettuato 2 matrimoni distinti, uno cattolico in Italia e uno
ortodosso, in Romania.
Un evento raddoppiato e motivato dall'urgenza di non escludere parti dei legami parentali.
ANA E ANDREA
Ana è divorziata, ha due figli che abitano con il padre in Romania.
La scelta di richiamare a sé i figli sembra avvenire soprattutto sotto insistenza di Andrea.
Appare l'idea, condivisa da entrambi, che la maternità a distanza sia lacunosa per l'educazione
dei figli e non consenta un'adeguata assunzione del ruolo di madre.
L'arrivo in Italia dei figli produce conseguenze importanti nella relazione sia di coppia sia tra il
marito e i figli di Ana.
La costruzione di un legame di relazionalità rivela nelle famiglie ricomposte la natura sociale del
legame parentale e il suo bisogno di nutrimento grazie alla graduale costruzione di dinamiche di
affettività e cura. Sebbene non si abbiano notizie circa lo svolgimento dei rapporti tra il padre
naturale e i figli, i commenti di Ana lasciano intuire che non siano facili e continuativi.
L'habitus della vita familiare non sperimentato nella precedente relazione, rende maggiormente
aderente il gruppo domestico attuale a un'idea di famiglia, rispetto al legame passato.
RODICA E PIERO
Entrambi hanno alle spalle due relazioni matrimoniali che si sono concluse con il divorzio e da cui
sono nati dei figli. La figlia di Piero, decide di andare ad abitare con il papà e la nuova compagnia.
Rodica si adopera nel riportare ordine nella vita familiare, cercando strategie che pongano i
genitori naturali nei loro ruoli e creando occasioni in cui la nuova organizzazione domestica
possa dipanare eventuali conflitti.
Le visite reciproche svolgono un ruolo chiave nelle relazioni familiari a distanza. Vedersi,
interagire faccia a faccia permette di dare una certa continuità al rapporto, rivelando tensioni ma
anche ricongiungimenti che rendono impossibile il pensarsi insieme, rinforzando l'unità dei
campi sociali transazionali.

CAPITOLO 8: ASSENZE PRESENTI NELLA PARENTELA


In questo saggio ho cercato di presentare alcuni cambiamenti e persistenze nei modi in cui le
perdite in gravidanza sono vissute e inscritte nella memoria familiare. Le storie di famiglia
registrano le fratture della riproduzione, il dolore di cui sono foriere, i nomi attribuiti a bambini
nati morti o morti subito dopo la nascita, la consapevolezza acquisita della fragilità della vita e
della contingenza delle relazioni parentali. L'ossimoro “assenze presenti” che ho indicato nel
titolo riassume il contrasto tra la mancanza di una quotidianità vissuta fuori dal grembo, dei gesti
di cura e di ricordi che si accumulano nel tempo dando consistenza alle relazioni e la memoria di
un'identità ridotta al suo grado minimo, dato dalla gestazione, dalla nascita, dall'esistenza di un
nome, di una tomba.
I modi di affrontare la perdita sono plasmati dalle istituzioni e dalle figure preposte ad
accompagnare la gravidanza e la nascita: la famiglia, le strutture sanitarie e i professionisti
dell'aiuto e le reti di sostegno al lutto in gravidanza.
Negli anni successivi alla seconda guerra mondiale le morti perinatali facevano parte della
normalità della riproduzione.
La maggior parte dei parti avveniva in casa, con l'ausilio di una levatrice, di un'ostetrica o di un
medico e vedeva la partecipazione delle donne più anziane della famiglia.
Nel giro di un ventennio si ebbero, con un ritmo ineguale sul territorio italiano, un abbassamento
verticale dei parti a domicilio e la normalizzazione del parto in ospedale. Insieme al generale
miglioramento delle condizioni di vita, questo cambiamento portò a una riduzione della
mortalità perinatale e infantile.
Cambiarono la scena e le figure del parto, un fenomeno che ebbe conseguenze importanti sui
rapporti di potere e sulle esperienze incorporante dalla riproduzione. Le perdite, in quanto
eventi “fuori luogo” fatalità ascrivibili alla natura, scivolarono ai margini della riproduzione
normale. L'occultamento del corpo dalla vista delle madri, che non avevano immagini e non
conoscevo il sesso del bambino fino al momento del parto, ma che avevano costruito con lui un
legame intimo, s'impose come strategia diretta a preservarle dalla sofferenza.
La corrispondenza tra questa pratica e il silenzio nelle famiglie d'origine è rivelatrice da un lato di
un mutato atteggiamento di fronte alla morte, dall'altro del perdurare di aspettative culturali
sulle donne come mogli e madri.
Le pressioni di suoceri, genitori e, in alcuni casi, degli stessi mariti a dimenticare l'accaduto e
avere subito altri figli erano un modo per far sì che le donne adempissero a un ruolo sociale che
la società italiana continuava a proiettare su di loro.
L'emergenza di un sapere specialistico sul lutto in gravidanza, di nuove forme di
accompagnamento ai genitori di ritualità ha forgiato nuove attese di riconoscimento.
Oggi, la precoce attestazione della gravidanza e l'individualizzazione del nascituro sostenuta dalle
tecnologie di visualizzazione fanno sì che anche gli aborti precoci possano essere vissuti come
lutti; un cambiamento su cui hanno inciso anche la posticipazione dei progetti parentali, la
riduzione del numero dei figli e il diverso investimento emotivo sulle gravidanze.
Come in passato, permane una differenza tra queste perdite e quelle successive: sono
soprattutto queste ultime, dove la relazione con il figlio atteso si è consolidata attraverso le
interazioni tattili, le visualizzazioni ripetute, l'immaginazione del futuro e la preparazione
dell'ambiente per accogliere il bambino, azioni che molto più che in passato coinvolgono le
coppie, a richiedere forme pubbliche di ricomposizione della frattura.
Tra strutture ospedaliere e associazioni e/o professionisti del sostegno al lutto in gravidanza, in
alcuni casi si creano alleanze, in altri permangono chiusure.
La produzione della relazionalità parentale si avvale di parole, oggetti, luoghi e immagini che
fanno memoria. Oggi, quest'azione è sostenuta da un nuovo sapere che alimenta la costruzione
di un'identità familiare, eccedente a quella anagrafica, di cui i genitori rivendicano la dignità,
consegnandone la memoria altri figli.

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