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SVILUPPO
SVILUPPO PSICOLOGICO: serie di cambiamenti che si verificano nel comportamento e
nelle capacità dell’individuo col precedere dell’età.
PROCESSI
APPROCCIO COMPORTAMENTISTICO
APPROCCIO ORGANISMICO
DIFFERENZE INDIVIDUALI:
L’ESPERIMENTO
L’OSSERVAZIONE
Le interviste e i questionari possono essere utilizzati sia per interrogare i bambini sulle
proprie idee, sia per interrogare gi adulti sul comportamento e le capacità dei bambini con
cui sono in diretto contatto. I bambini devono possedere una buona capacità di
comprensione e produzione del linguaggio: non è possibile utilizzare queste tecniche con
bambini sotto i 3 anni quando li si intervista e sotto i 7-8 anni quando gli si chiede di
compilare un questionario. Lo psicologo deve tener presente che i bambini e gli adolescenti
possono rifiutare di essere intervistati oppure resistere a comunicare i propri sentimenti e
atteggiamenti. Quando si somministrano interviste e questionari agli adulti, vi è il rischio che
essi esprimono giudizi o valutazioni soggettive.
LO SVILUPPO FISICO E
MOTORIO
LO SVILUPPO PRENATALE
Quando il bambino nasce, ha alle spalle 9 mesi di vita prenatale in cui si sono realizzati
eventi che hanno portato all’organizzazione di un individuo maturo e capace di sopravvivere
nell’ambiente esterno. Oltre a sviluppare il patrimonio genetico trasmessogli dai genitori il feto
è esposto a una serie di fattori ambientali. Attraverso il sangue materno passano sostanze
chimiche, ormonali e virus che possono lasciare tracce sullo sviluppo successivo. Inoltre, se il
sangue materno è carente di alcune sostanze nutritive richieste dall’organismo in crescita, lo
sviluppo armonico di organi e apparati può risultarne alterato. AGENTI TERATOGENI: tutti
quei fattori ambientali che causano un danno nell’embrione e nel feto. Tra i più conosciuti
troviamo la nicotina, l’eroina e una nutrizione inadeguata. Dopo che i processi di ovulazione,
fertilizzazione e impianto dell’uovo hanno avuto luogo, distinguiamo due fasi nello sviluppo
prenatale: lo sviluppo dell’EMBRIONE e lo sviluppo del FETO.
IL PERIODO EMBRIONALE
Il periodo embrionale va dall’inizio della terza alla fine dell’ottava settimana di gestazione.
Nel corso di questo periodo l’embrione diventa un feto, cioè un organismo con caratteristiche
umane riconoscibili. Le cellule si differenziano dando origine alle diverse regioni corporee e
a tessuti specializzati. All’inizio della quarta settimana si sviluppano le cellule del sangue,
inizia la formazione del sistema nervoso e del cuore, che comincia a battere. A partire dalla
quinta settimana sono riconoscibili il cervello e il midollo spinale, gli occhi, le orecchi e il
naso. Iniziano a formarsi i reni e i polmoni.
IL PERIODO FETALE
Il periodo fetale comincia con la nona settimana e si conclude al termine della gestazione. I
diversi sistemi dell’organismo sono formati e cominciano a funzionare fin dal terzo mese. Fin
dal quarto mese la madre può avvertire i movimenti del feto, il quale compie alcuni
movimenti. Dopo i cinque mesi la pelle è completamente sviluppata, compaiono anche i
capelli e le unghie. Nel corso del sesto mese è in grado di aprire e chiudere gli occhi i quali
ben presto distinguono la luce dall’oscurità. Per sfruttare al massimo lo spazio disponibile si
sistema con la testa verso il basso, e in questa posizione la maggior parte dei feti si presenta
al momento del parto. Le ultime settimane di gestazione sono importanti per la maturazione
del comportamento. Il tono muscolare aumenta, i movimenti diventano più rapidi e frequenti,
il ritmo respiratorio si regolarizza.
LA NASCITA E IL NEONATO
Già nelle prime fasi di sviluppo il sistema nervoso è capace di produrre movimenti ritmici
(come la suzione) o fasici. Non soltanto reagisce agli stimoli ma è anche capace di produrre
spontaneamente movimenti autogenerati. Il neonato è un organismo complesso
e dotato di tutte le abilità necessarie per nutrirsi, respirare, proteggersi da situazioni
potenzialmente dannose e stabilire le prime relazioni sociali. Oltre a produrre una serie di
risposte motorie sotto forma di riflessi, il neonato è in grado di estrarre informazioni
dall’ambiente che lo circonda tramite i suoi recettori sensoriali: vista, udito, odorato, gusto e
tatto. La maggior parte di ciò che il neonato è capace di percepire dipende dal suo STATO:
se dorme oppure è sveglio, se è sveglio e all’erta e attivo, se ha fame o se è appena stato
nutrito. Ci sono cinque diversi STATI DI COSCIENZA: sonno profondo, sonno attivo, veglia
tranquilla, veglia attiva, pianto e irrequietezza. Questi stati si ripetono in modo ciclico
durante la giornata, in media ogni due ore circa. Nei primi giorni di vita la maggior parte del
tempo è spesa nel sonno. Per stabilire uno scambio sociale con il neonato, il momento
migliore è quando il bambino si trova in uno stato di veglia tranquilla (di solito dopo essere
stato nutrito).
LO SVILUPPO MOTORIO
Nella prima infanzia (0-2 anni) si verifica un rapido sviluppo delle capacità motorie del
bambino, collegato ai cambiamenti che avvengono nel sistema nervoso e in particolare nella
corteccia cerebrale. Secondo l’approccio HIP, che vede la mente umana simile a un
computer, lo sviluppo delle diverse funzioni, inclusa quella motoria, corrisponde alla
costruzione di un sistema gerarchico di routine, schemi e rappresentazioni che diviene
sempre più complesso in funzione delle continue interazioni con gli stimoli esterni. Lo
sviluppo motorio del bambino è dovuto non tanto all’intervento di un singolo sistema, quanto
all’interazione di diversi sistemi. L’acquisizione di una nuova condotta, ad esempio la
deambulazione, dipende dalla continua cooperazione tra i diversi sottosistemi che
contribuiscono a quella specifica condotta. Le tappe attraverso cui il bambino acquisisce la
posizione eretta, ovvero lo SVILUPPO POSTURALE sono prima il sostenimento della testa e
poi la posizione seduta. Lo sviluppo della deambulazione procede parallelamente a quello
posturale, ma ha inizio più tardi. Fino alla fine del primo semestre di vita il bambino è
incapace di spostarsi in modo autonomo. Il bambino impara a camminare a carponi,
raggiungendo così una coordinazione dei movimenti delle braccia e delle gambe. Non tutti i
bambini utilizzano l’andare a carponi, alcuni raggiungono la deambulazione eretta senza
passare attraverso questa fase. La deambulazione presuppone la capacità di stare in piedi.
Verso i 9-10 mesi, il bambino compie qualche passo, sostenuto sotto le ascelle oppure
appoggiandosi a sostegni. A 1 anno è capace di camminare se lo si tiene per mano e infine,
verso i 13-14 mesi, cammina da solo. Nel corso del primo anno e mezzo di vita si sviluppa
un’altra abilità motoria, la MANIPOLAZIONE, il cui progresso dipende sia dalla maturazione
neuromuscolare sia dall’esercizio. Alla nascita è presente una forma primitiva di prensione, il
riflesso di presa. Intorno al primo mese di vita il riflesso di presa comincia a indebolirsi e
scompare del tutto verso i 2 mesi. Pressappoco alla stessa età il bambino comincia a
sviluppare la prensione vera e propria, la quale si differenzia dal riflesso in quanto è fin
dall’inizio sotto il controllo
volontario: il bambino si tende verso un oggetto che attira la sua attenzione e lo afferra.
All’inizio interviene soltanto l’articolazione della spalla, mentre la mano rimane fissa rispetto
all’avambraccio (5-6 mesi circa). Nella fase successiva l’articolazione del gomito consente lo
spostamento dell’avambraccio e della mano avanti e indietro. Nella terza e ultima fase le tre
articolazioni (spalle, gomito e polso) intervengono consentendo alla mano di arrivare
direttamente all’oggetto. All’inizio l’oggetto viene afferrato dalla parte cubitale della mano
senza utilizzare il pollice. La percezione VISIVA svolge un ruolo fondamentale di guida
all’azione della mano. Dopo che ha imparato non soltanto ad afferrare, ma anche a trattenere
in mano l’oggetto, il bambino deve imparare a lasciarlo andare. All’inizio egli perde
semplicemente l’oggetto perché la mano si apre involontariamente quando la sua attenzione
e le sue energie si volgono altrove. Tuttavia, tra i 6 e gli 8 mesi, il bambino impara a lasciar
andare l’oggetto volontariamente. Nel primo semestre di vita, durante il quale il bambino è
ancora incapace di muoversi in modo autonomo, la prensione e la manipolazione
rappresentano la principale modalità per entrare attivamente in contatto con l’ambiente
circostante. Oltre a consentire una modalità attiva di rapporto con l’ambiente, la prensione
presenta una particolare complessità cognitiva, soprattutto nella misura in cui si coordina ad
altre capacità, quali la vista e la suzione.
LO SVILUPPO SESSUALE
Il cervello cambia in grandezza, peso e aspetto esterno con l’età gestazionale. Nel corso
della gestazione la crescita del sistema nervoso è molto rapida ed è maggiore rispetto a
quella di altri tessuti. Il peso del cervello rappresenta il 21% del peso corporeo al sesto mese
di gravidanza e soltanto il 3% nell’età adulta. Lo sviluppo del sistema nervoso è un processo
continuo. Alla nascita è già presente la maggior parte dei neuroni, anche se le sinapsi sono
ancora imperfette. La mielinizzazione inizia durante la gestazione e continua fino all’età
adulta. La MIELINA è una sostanza che avvolge come una guaina le fibre nervose e svolge la
funzione di aumentare la velocità di trasmissione dell’impulso nervoso. Una malattia come la
sclerosi multipla è dovuta al decadimento della mielina. L’esperienza svolge un ruolo non
secondario nella formazione e organizzazione dell’architettura cerebrale. Vi sarebbero in
particolare dei periodi critici, collocati nelle fasi precoci dello sviluppo postnatale, in cui
esperienze anomale o traumatiche possono produrre effetti profondi nell’organizzazione
cerebrale.
LO SVILUPPO PERCETTIVO
Gli organi di senso forniscono informazioni essenziali sulla realtà che ci circonda e
permettono di percepire i sapori, gli odori, i suoni, gli oggetti e le persone dell’ambiente. Il
modo in cui percepiamo non è una semplice registrazione passiva e frammentaria di stimoli,
ma un’organizzazione dinamica e significativa dei dati della realtà risultato di mediazioni e di
attività svolte dall’organismo. La percezione consente di analizzare, selezionare, coordinare,
in una parola, organizzare in modo coerente e significativo i dati. Quando parliamo di
sensazione ci riferiamo all’effetto soggettivo e immediato provocato dagli stimoli sui diversi
apparati dell’organismo deputati a recepire gli stimoli. Intendiamo un processo attraverso cui
le informazioni sull’ambiente vengono recepite da recettori sensoriali e trasmesse al cervello.
La percezione è un processo attivo e dinamico di elaborazione degli stimoli che procede
attraverso l’analisi, la selezione, il coordinamento e l’elaborazione delle informazioni. I
neonati sono dotati di capacità sensoriali e, fin dalla nascita, sono in grado di rispondere a
stimoli luminosi, acustici e di reagire a sollecitazioni tattili e gustative.
Le sensazioni gustative e olfattive rivestono una certa importanza non solo ai fini della
nutrizione, ma per il ruolo di mediazione nella relazione con l’adulto che si prende cura del
bambino. Fin dalle prime ore, i neonati sono in grado di manifestare configurazioni facciali
ben differenziate ai sapori piacevoli o sgradevoli. Espressioni che denotano soddisfazione e
gradimento si notano in risposta a sapori dolci, e segni di disgusto o di irritazione a sapori
amari e acidi. La sensibilità olfattiva appare ben sviluppata alla nascita: il neonato reagisce
chiaramente a diversi tipi di odore, come l’ammoniaca, l’anice o l’acido acetico. Lo
segnalano le diverse configurazioni facciali di gradimento nei confronti di odori piacevoli e di
rifiuto o disgusto verso quelli spiacevoli. Una particolare responsività è stata rilevata nei
confronti dei segnali olfattivi provenienti dal latte della madre.
PERCEZIONE UDITIVA
I neonati, sebbene abbiano una soglia uditiva che li porta a percepire gli stimoli sonori in
modo attutito rispetto all’adulto, sono reattivi ai suoni dopo la nascita e orientano la
direzione degli e della testa verso un suono ritmico. Nella prima settimana di vita, i piccoli
mostrano una maggiore rispondenza ai suoni simili al linguaggio umano, segno che
l’apparato uditivo alla nascita è predisposto a recepire la voce. Inoltre, il bambino preferisce
la voce materna.
PERCEZIONE VISIVA
Il neonato non può vedere il nostro mondo come lo vede un adulto a causa di alcune
limitazioni che derivano dalla incompleta maturazione del sistema visivo e del sistema
nervoso. Analogamente il coordinamento binoculare, cioè il movimento sincronico di entrambi
gli occhi che consente la perfetta messa a fuoco delle immagini e la proiezione delle
stimolazioni senza fenomeni di sdoppiamento, viene ritenuto carente. I movimenti oculari
consentono l’ispezione visiva dell’ambiente. Il bambino può compiere i movimenti coniugati
che consentono un’ampia esplorazione del campo visivo, in direzione orizzontale più che
verticale. Può compiere movimenti di inseguimento che gli permettono di seguire uno stimolo
che si sposta lentamente dal centro del suo campo visivo verso la periferia. Il riflesso
pupillare rivela che il neonato è sensibile alle diverse intensità degli stimoli visivi. La
coordinazione e la convergenza indispensabili per la messa a fuoco degli stimoli e per la
percezione della profondità, pur assenti alla nascita, cominciano a comparire poche ore dopo.
La labilità attentiva del neonato gli impedisce di prestare una prolungata attenzione agli
oggetti e alle persone che compaiono nello spazio visivo a lui prossimo. 3 mesi si verifica un
miglioramento con lo sviluppo della visione binoculare, che permette di mettere a fuoco gli
oggetti con entrambi gli occhi. In sintesi il neonato sebbene non veda bene come un adulto,
vede bene in relazione alla funzione che la visione nei primi mesi di vita deve svolgere: quella
di permettergli di percepire il movimento, di accorgersi degli oggetti e delle persone che gli
sono vicini.
PERCEZIONE CROMATICA
Il mondo che i neonati percepiscono non è in bianco e nero ma già dotato di sfumature
cromatiche. A 4 mesi la loro percezione cromatica somiglia per molti versi a quella degli
adulti.
L’ATTENZIONE FOCALIZZATA
Dopo pochi giorni dalla nascita, gli oggetti dalle dimensioni piuttosto grandi e preferibilmente
in movimento, provocano risposte oculari di inseguimento che indicano una attenzione
selettiva e un’esplorazione tutt’altro che casuale. I neonati preferiscono gli stimoli curvilinei a
quelli acuminati e concentrano la propria attenzione sui contorni. Sembrano prediligere gli
stimoli più strutturati rispetto a quelli uniformi, e quelli complessi rispetto a quelli più
semplici. Le capacità attentive si coniugano con quelle di fissazione dando luogo ad una
attenzione focalizzata che consente l’elaborazione delle informazioni dell’ambiente. I piccoli
sono attratti dalla novità dello stimolo e dalla sua complessità e, quando si trovano di fronte
a qualcosa che non è familiare o che contiene elementi complessi, impiegano più tempo per
osservarlo ed esplorarlo rispetto ad uno stimolo già noto o semplice.
L’ATTENZIONE OBBLIGATORIA
Con questa espressione ci si riferisce al fatto che nei primi mesi, a volte, i bambini sembrano
così attratti da uno stimolo da non riuscire a distogliere lo sguardo. Possono fissare qualcosa
a lungo con concentrazione, dando l’impressione di essere interessati. In realtà hanno
difficoltà a distogliere lo sguardo. Dopo questo lungo periodo di fissazione, il bambino mostra
segni di stress, irritabilità e spesso reazioni di pianto che pongono fine all’attenzione
obbligatoria. Le ipotesi addotte per spiegare questo fenomeno sottolineano come i piccoli
siano obbligati a fissare qualcosa a causa della imperfetta coordinazione tra sistema
oculomotorio e sistema attenzionale oppure a causa di una completa maturazione neuronale.
Fino a 2 mesi di vita l’attenzione del piccolo viene attratta dai volti perché essi possiedono
una serie di caratteristiche a cui l’apparato percettivo infantile è predisposto. La conoscenza
del volto procede gradualmente e si fonda sull’abilità percettiva di individuarne le
caratteristiche invarianti, vale a dire di percepirne gli aspetti salienti e comuni anche ad altre
forme, e successivamente sull’abilità di discriminare tra diverse configurazioni facciali. Il
riconoscimento del volto si sviluppa rapidamente nel primo mese di vita. L’attrazione per il
volto è causata dalla presenza di caratteristiche quali: la nitidezza
dei contorni, il movimento, la simmetria e la complessità. Il volto rappresenterebbe uno
stimolo attraente poiché contiene molte caratteristiche che suscitano l’interesse del piccolo. I
piccoli di un mese muovono gli occhi soprattutto nella esplorazione delle zone di confine tra il
collo e il mento e tra la fronte e i capelli. In questa fase il bambino non è in grado di elaborare
le molteplici informazioni contenute nel volto e si concentra solo su alcuni elementi di
contorno. Per questa ragione non sa ancora differenziare tra volti diversi né individuare le
specificità delle persone che, dal punto di vista visivo, sono tutte uguali. A 2 mesi la direzione
dell’attenzione cambia e i movimenti oculari si concentrano sulle parti interne del viso, in
particolare sugli occhi e sulla bocca. Gli occhi diventano importanti anche sul piano
dell’interazione sociale. Infatti i piccoli rispondono con un sorriso a rappresentazioni di
sagome che raffigurano due occhi in modo ben visibile, così come mostrano interesse per la
bocca se è ben in evidenza e in movimento. A 2 settimane i neonati sono attratti da volti in
movimento e a 5 settimane, tra due immagini dello stesso volto, le cui pupille si muovono a
diversa velocità, preferiscono quella in cui il movimento è più rapido. A 2 mesi il bambino
diventa capace di discriminare tra diversi stimoli, non si lascia attrarre dalla complessità e
dalla simmetria, ma dalla somiglianza con un volto normale. A questo punto emerge un altro
elemento, vale a dire la REGOLARITA’ dello schema del volto che attrae i piccoli in misura
maggiore rispetto a configurazioni del volto irregolari. Questi risultati sembrano avvalorare
l’ipotesi STRUTTURALE che considera il neonato dotato già alla nascita di un meccanismo
sottocorticale chiamato Conspec, che lo rende selettivamente sensibile alle caratteristiche del
volto e di un meccanismo chiamato Conlearm che diventa attivo verso i 2 mesi e consente al
neonato di acquisire informazioni dettagliate sui singoli volti e discriminarli. Il volto
rappresenta uno stimolo speciale che il neonato riesce a individuare facilmente grazie a una
predisposizione alla organizzazione strutturale della informazione visiva veicolata da questo
insieme. Già a poche ore dalla nascita, i neonati discriminano però tra il volto della madre e
quello di una donna estranea e mostrano di preferire quello della madre. Non bisogna
lasciarsi fuorviare da questa abilità precoce ritenendo che i neonati di pochi giorni siano già
capaci di identificare la madre in base alle specificità dei suoi lineamenti e tanto meno
pensare che ne riconoscano l’identità globale come persona. A partire dai 3 mesi, il volto
dell’estraneo comincia ad essere attentamente e stabilmente osservato.
Contemporaneamente si perfezione anche l’attenzione ai segnali emotivi; i bambini di 3 mesi
diventano abili nel discriminare un volto sorridente da uno imbronciato. A partire da 4 mesi
reagiscono in modo appropriato a una serie di mimiche facciali; ad esempio, dinanzi a un
volto allegro, sorridono di più e provano ad avvicinarsi, mentre di fronte ad un volto accigliato
paiono contrariarsi e cercano di evitarlo. La preferenza per volti attraenti si evidenzia intorno
ai 3 mesi. Grazie alla maturazione cognitiva il bambino costruisce dei prototipi in base ai quali
opera delle differenze. I visi attraenti sono considerati inerenti al modello del volto in
generale, e si avvicinano di più alla rappresentazione che i bambini si costruiscono sulla base
delle esperienze.
PERCEZIONE DELLA PROFONDITA’
La percezione segue la legge della CHIUSURA DELLE FORME che prevale sulla regola
della continuità di direzione. I piccoli di 3 o 4 anni non sembrano dar peso alla continuità
delle linee e descrivono ciò che vedono come casette e quadratini poiché sono vincolati alle
forme che emergono dalla rappresentazione grafica. Solo a 5 o 6 anni seguono le linee
continue e le descrivono come una linea greca attraversata da una retta. Le linee vengono
percepite come margini figurali. Questa percezione che assegna alle linee il significato di
contorno viene abitualmente adottata anche quando osservano figure o oggetti dal contorno
tratteggiato. Quanto più il bambino è piccolo tanto meno riesce a riconoscere una forma se il
contorno è frammentato. I piccoli fino a 2 anni sono orientati a preferire forme allungate. Fra
i 3 i e 4anni prevale la preferenza per il colore e dopo i 4 anni si impone una preferenza per
la forma.
SINCRETISMO INFANTILE
Con il termine SINCRETISMO INFANTILE si intende quel fenomeno per cui la percezione
della struttura di insieme ostacola l’individuazione delle singole parti, e dunque il tutto resiste
alla scomposizione alla quale lo si vorrebbe sottoporre. I bambini piccoli, non riescono
facilmente a svincolarsi percettivamente dalla struttura d’insieme in cui è inserito l’elemento
da trovare. Con l’età si affinano le capacità analitiche e le abilità di cogliere i particolari.
Quando l’insieme corrisponde ad una forma semplice o ad una struttura forte, esso tende ad
imporsi, ma se le singole parti rappresentano oggetti familiari o particolari vistosi vengono
preferite all’insieme non noto. I bambini possono percepire i dettagli se questi sono
significativi o vistosi. Ferma restando la propensione dei bambini a percepire la dimensione
unitaria più che quella analitica, assume importanza la condizione di stimolazione che può
indurre a far prevalere il tutto o le parti. La percezione visiva richiede che vengano
considerati sia i singoli elementi sia la loro appartenenza ad un insieme sovraordinato che li
comprende e li organizza. I bambini di 3-4 anni percepiscono il livello sovraordinato e quello
subordinato come un insieme. Se mostriamo ad un bambino il modello isolato di una figura e
poi gli chiediamo di trovarlo in una immagine più grande in cui il modello è mascherato, ci
accorgiamo che fino a 5-6 anni i bambini hanno grandi difficoltà a risolvere il compito poiché
non sono in grado di contrastare, utilizzando una strategia analitica che implica abilità
cognitive superiori, le forze percettive dell’organizzazione. Si possono distinguere tre grandi
periodi nello sviluppo percettivo: la percezione sincretica (globale, indifferenziata), quella
analitica e quella sintetica (globale, differenziata). Mentre l’adulto percepisce un insieme
strutturato, cioè organizzato nelle sue parti, nel caso del bambino il tutto o i dettagli sono
distinti gli uni dagli altri senza un’integrazione.
LO SVILUPPO COGNITIVO
L’INTELLIGENZA è un caso particolare dell’adattamento biologico: mentre l’organismo si
adatta costruendo materialmente forme nuove, l’intelligenza costruisce nuove strutture
mentali che servono a comprendere e a spiegare l’ambiente. L’individuo è un attivo
costruttore delle proprie conoscenze. Piaget propone una teoria organistica i cui assunti di
base sono:
- Lo sviluppo è comprensibile all’interno della storia evolutiva della specie -
L’organismo è attivo e si modifica attraverso gli scambi con l’ambiente - Lo sviluppo
consiste nella trasformazione di strutture che non sono innate, ma si
costruiscono grazie all’attività dell’individuo Le strutture interne si modificano ogni
volta che devono far fronte a nuovi bisogni. Tali modificazioni sono il risultato dell’interazione
tra due processi: l’assimilazione e l’accomodamento. L’intelligenza è ASSIMILAZIONE in
quanto incorpora nei propri schemi i dati dell’esperienza ma è al tempo stesso
ACCOMODAMENTO poiché gli schemi attuali vengono modificati per adattarli ai nuovi dati.
Se l’assimilazione tende alla conservazione, l’accomodamento tende alla novità. Queste due
funzioni complementari garantiscono un equilibrio tra continuità e cambiamento,
determinano l’adattamento dell’organismo all’ambiente. Lo sviluppo COGNITIVO è un
processo in cui, secondo Piaget, si verificano modificazioni strutturali che contrassegnano
degli STADI DI SVILUPPO. Il passaggio da uno stadio al successivo può essere graduale, e
l’età può variare da un bambino all’altro, ma ogni stadio presenta forme e regole proprie. Le
acquisizioni di uno stadio non si perdono con il passaggio a quello successivo, ma vengono
integrate in strutture più evolute. La sequenza è la medesima in tutti gli individui. Tra la
nascita e l’adolescenza lo sviluppo cognitivo attraversa secondo Piaget 4 stadi principali:
Il disegno di molti compiti piagetiani rende difficile fornire risposte corrette. Presentando delle
situazioni più realistiche e tipiche della vita quotidiana, si ottengono risposte migliori e le
capacità di ragionamento del bambino risultano più avanzate rispetto a quelle valutate da
Piaget. Utilizzando il compito delle tre montagne, Piaget trovava che i bambini di 8 anni per lo
più falliscono. E’ possibile che le loro risposte egocentriche siano dovute al modo in cui il
compito viene presentato. Hughes utilizza un nuovo compito sperimentale “il ragazzo e il
poliziotto” che è più semplice di quello di Piaget, perché la situazione è realistica e ha senso
per il bambino, inoltre stimola la sua immaginazione e lo motiva. Invece il compito delle tre
montagne non tiene alcun conto degli interessi, delle motivazioni e delle esperienze tipiche
del bambino di questa età. La più importante questione teorica sulla quale si è aperto un
intenso dibattito riguarda l’esistenza o meno degli stadi. Lo stadio sottende una struttura
cognitiva coerente. Se avesse ragione Piaget, dovremmo trovare che il bambino dello stadio
operatorio applica la stessa logica a una varietà di problemi, dovremmo cioè verificare una
coerenza di tipo orizzontale. Numerose ricerche documentano che non vi è stabilità e
sistematicità nelle risposte che uno stesso soggetto fornisce a compiti diversi; il bambino può
trovarsi in una certa fase per quanto riguarda un dato compito e in un’altra per un compito
diverso. Tutti riconoscono che lo sviluppo cognitivo procede secondo delle SEQUENZE
UNIVERSALI, e che i bambini acquisiscono i concetti fondamentali con lo stesso ordine.
Piaget aveva ragione nel parlare di sequenze di sviluppo, ma aveva torto a riferirsi agli stadi
come strutture globali e coerenti. Secondo
Piaget, il bambino che pensa è un individuo isolato, che costruisce le sue esperienze e
conoscenze della realtà senza essere influenzato dal contesto sociale e culturale in cui vive.
In questo modo Piaget ignora il ruolo dell’esperienza sociale. Si è visto che i bambini
migliorano nella soluzione dei compiti dopo aver lavorato insieme ai coetanei piuttosto che
individualmente. L’interazione sociale facilita quindi lo sviluppo cognitivo individuale.
VYGOTSKIJ
Vygotskij ritiene che lo sviluppo storico-culturale abbia prodotto l’evoluzione dell’umanità
attraverso i mediatori simbolici (ad esempio la lingua, il calcolo, il disegno), che consentono
agli individui di entrare in relazione tra loro all’interno della stessa cultura e tra culture diverse.
Lo sviluppo ontogenetico consiste nell’appropriarsi dei significati della cultura da parte
dell’individuo, e può essere descritto come un processo di INTERIORIZZAZIONE di attività
che hanno favorito lo sviluppo della vita sociale e la mediazione tra le persone. La principale
di queste attività è il LINGUAGGIO. Vygotiskij è interessato non tanto a ciò che il bambino è
capace di fare attualmente ma piuttosto a quello che sarà capace di fare in seguito a nuove
esperienze sociali e culturali. La ZONA DI SVILUPPO PROSSIMALE (ZSP) definisce la
distanza tra il livello di sviluppo effettivo e quello potenziale. Consente di valutare la differenza
tra ciò che il bambino è in grado di fare da solo e quello che è in grado di fare con l’aiuto e il
supporto di un individuo più competente. Il bambino può risolvere, grazie alla guida di un
esperto, problemi e compiti che non sa ancora risolvere da solo ma che diventeranno parte
delle sue abilità individuali. L’adulto fornisce il supporto necessario affinchè il bambino diventi
capace di produrre abilità che è già in grado di comprendere. Se il bambino dimostra di saper
fare da solo quello che precedentemente era in grado di fare soltanto con la guida dell’adulto,
ciò prova che l’abilità in questione è stata interiorizzata. Gli insegnanti e gli educatori possono
modulare il proprio intervento, differenziando la quantità di supporto necessario in funzione
della velocità di apprendimento degli allievi. Secondo Piaget nelle prime fasi di sviluppo il
pensiero e il linguaggio non sono adatti alla realtà e non sono comunicabili agli altri. Secondo
Vygotskij invece, il bambino è sin dall’inizio un protagonista attivo nelle relazioni sociali e il
primo uso del linguaggio è di tipo sociale e comunicativo. In seguito, il linguaggio comincia ad
assolvere una funzione intrapsichica, che si trasformerà nel LINGUAGGIO INTERIORE o
pensiero verbale. Prima di diventare interiore, il linguaggio attraversa una fase egocentrica: è
un parlare a se stessi. Nel corso dell’attività il bambino commenta verbalmente le proprie
azioni; in seguito questo linguaggio diventa completamente interiorizzato. Il LINGUAGGIO
EGOCENTRICO, al pari del linguaggio interiorizzato, è uno strumento del pensiero. Il
linguaggio da un lato funziona come strumento di comunicazione e di scambio sociale,
dall’altro si interiorizza e diventa uno strumento del pensiero, che anticipa, guida e controlla il
comportamento.
BRUNER
E’ stato influenzato da Vygotskij, ma anche dalla scienza cognitiva, alla quale aderisce
sottolineando l’importanza di studiare i processi piuttosto che i prodotti della conoscenza.
Secondo Bruner, l’organizzazione del comportamento viene ben compresa solo tenendo
conto degli scopi e delle intenzioni che lo governano e delle funzione che assolve. Bruner
propone che, nel processo di acquisire il pensiero maturo, il bambino passi attraverso tre
forme di RAPPRESENTAZIONE. La rappresentazione può essere ESECUTIVA, ICONICA e
SIMBOLICA a seconda che si basi sull’azione, sull’immagine e sul linguaggio. Nella
RAPPRESENTAZIONE ESECUTIVA (primo anno di vita) la realtà viene codificata attraverso
L’AZIONE. Per il bambino che gioca con un oggetto, l’azione che compie diventa la sua
rappresentazione interna dell’oggetto. Questo tipo di rappresentazione continua a funzionare
per tutte quelle attività che impariamo facendo e che non rappresentiamo attraverso il
linguaggio (ad esempio nuotare o andare in bicicletta). La RAPPRESENTAZIONE ICONICA
codifica la realtà attraverso IMMAGINI. Esse possono essere visive, uditive, olfattive o tattili.
L’immagine consente di evocare mentalmente una realtà assente ma non di descriverla
verbalmente. E’ il sistema più utilizzato fino ai 6-7 anni. La RAPPRESENTAZIONE
SIMBOLICA codifica la realtà attraverso il linguaggio e altri sistemi simbolici, come il numero
e la musica. Grazie al linguaggio il bambino dispone di un sistema di codifica più potente
delle forme di rappresentazione precedenti. Il linguaggio consente di ragionare in termini
astratti, mentre l’immagine conserva una stretta somiglianza con la realtà che rappresenta.
La cultura forma la mente degli individui, essa è intrinseca all’individuo e non qualcosa che si
sovrappone alla natura umana. L’influenza della cultura si realizza grazie alle relazioni sociali
che il bambino stabilisce precocemente con chi si prende cura di lui e in cui il ruolo dell’adulto
viene caratterizzato come SCAFFOLDING. L’impalcatura fornita dall’adulto serve a
compensare il dislivello tra le abilità richieste dall’episodio di gioco e le ancora limitate
capacità del bambino, consentendo a quest’ultimo di realizzare completamente l’episodio e
facendolo al tempo stesso progredire verso livelli più avanzati di partecipazione. Le credenze
e i valori della cultura vengono trasmessi attraverso il linguaggio, e in particolare attraverso la
NARRAZIONE. Bruner ritiene che il PENSIERO NARRATIVO rappresenti una particolare
modalità cognitiva di organizzare l’esperienza, un modo per rappresentare gli eventi e
trasformarli in oggetto di analisi e di riflessione. Il pensiero narrativo riguarda la realtà
psichica e si basa su una logica intrinseca alle azioni umane (desideri, emozioni, affetti e
credenze) e alle interazioni tra individui (regole e motivazioni sociali).
LO SVILUPPO DEL
LINGUAGGIO E DELLA
COMUNICAZIONE
Per imparare ad utilizzare il LINGUAGGIO il bambino deve:
1. Analizzare i suoni linguistici che ascolta 2. Padroneggiare i pattern articolatori
necessari a produrre i fonemi 3. Acquisire e ampliare un vocabolario contenente un
enorme numero di voci lessicali 4. Padroneggiare le regole morfologiche e sintattiche per
combinare le parole in frasi
grammaticalmente corrette 5. Imparare a conversare Le proprietà che rendono il
linguaggio unico e diverso da altri sistemi comunicativi sono due: la CREATIVITA’ e
l’ARBITRARIETA’. Chi parla una lingua è in grado di produrre una grande varietà di
messaggi combinando tra loro un numero limitato di unità-base di quella lingua. Nel
linguaggio la relazione tra suoni e significati è arbitraria; il significato non può essere ricavato
dalla forma del suono e pertanto deve essere appreso e trasmesso culturalmente da una
generazione all’altra.
I PRIMI SUONI
I primi suoni che il neonato produce sono di natura vegetativa (sbadigli, ruttini ecc) o
compaiono legati al pianto. Ci sono diversi tipi di pianto, tra cui il pianto di fame, il pianto di
dolore e il pianto di irritazione che compare verso la terza settimana di vita e sta a significare
che il neonato desidera attenzione. Esso si placa soltanto quando qualcuno interviene a
intrattenere il bambino. Tra i 2 e i 6 mesi di età compaiono e si stabilizzano i suoni vocalici. Le
vocalizzazioni del bambino si inseriscono tra i turni verbali del genitore, come se il bambino
rispondesse vocalizzando all’adulto che gli parla. Verso i 6-7 mesi compare la LALLAZIONE
CANONICA: il bambino produce sequenze consonante-vocale con le stesse caratteristiche
delle sillabe (ad esempio “da”, “ma”) spesso ripetute due o più volte. Versoi 10-12 mesi
producono sequenze sillabiche complesse (ad esempio “bada”) che caratterizzano la
LALLAZIONE VARIATA. Sempre a questa età compaiono i primi suoni simili a parole. I
bambini differiscono tra loro non soltanto nei suoni che preferiscono produrre ma anche nella
stabilità di queste preferenze e nell’organizzazione del proprio sistema fonologico. Il bambino
utilizza, nel formare le prime parole, le sequenze fonetiche
già sperimentate nella lallazione. L’inizio ritardato della lallazione può essere predittivo di
disordini del linguaggio.
GESTI COMUNICATIVI
Negli ultimi mesi (9-12) del primo anno di vita il bambino comincia a utilizzare gesti come
indicare, mostrare, offrire, dare e richieste ritualizzate (ad esempio estendere il braccio con la
mano aperta e il palmo in su o in giù) che chiamiamo preformativi o deittici. Essi esprimono
un’intenzione comunicativa e si riferiscono ad un oggetto/evento esterno che si può
individuare osservando il contesto. Questi gesti sono inadeguati a raggiungere l’obiettivo in
modo diretto, ma sono adeguati a comunicare tale obiettivo ad un’altra persona. Di solito
vengono prodotti a distanza. Tre caratteristiche dei GESTI COMUNICATIVI sono:
1. L’intenzione comunicativa 2. Sono convenzionali 3. Si riferiscono a un oggetto o a un
evento esterno L’intenzione comunicativa è segnalata principalmente dall’uso dello sguardo
rivolto all’interlocutore. I gesti deittici vengono utilizzati sia per chiedere l’intervento o l’aiuto
dell’adulto (richiesta) sia per attirarne l’attenzione e condividere con lui l’interesse per un
evento esterno (dichiarazione). L’intenzione dichiarativa sottende capacità socio-cognitive,
come la soggettività e l’attribuzione di stati mentali e per questo motivo costituisce una tappa
importante dello sviluppo comunicativo. Il ritardo di comparsa di tale gesto può essere
considerato un indice di rischio per lo sviluppo comunicativo e linguistico. La mancanza di
gesti dichiarativi può venire valutata come indice diagnostico precoce per la diagnosi di
sindrome di autismo. A partire dagli 11-12 mesi fa la sua comparsa un nuovo tipo di gesti,
che chiamiamo referenziali o rappresentativi. Non soltanto esprimono un’intenzione
comunicativa ma rappresentano anche un referente specifico. Si tratta di gesti adoperati in
una varietà di situazioni per riferirsi a oggetti, eventi o azioni; ad esempio agitare le mani per
significare “uccello”, aprire e chiudere la mano per “ciao”, scuotere la testa per “no”. Questi
gesti nascono spesso all’interno di giochi con l’adulto e vengono appresi per imitazione. Nello
stesso periodo in cui il bambino usa i gesti referenziali compaiono anche le prime parole. I
GESTI REFERENZIALI sono un fenomeno caratteristico del primo sviluppo linguistico, e
consentono al bambino di comunicare utilizzando come veicoli simbolici schemi gestuali ben
esercitati (ad esempio nel gioco di finzione) piuttosto che sequenze vocaliche ancora incerte.
A un anno di età la modalità prevalente è quella gestuale. A 16 mesi il numero di gesti e di
parole prodotte è circa lo stesso. Dopo questa età l’uso di gesti referenziali decresce mentre il
numero di parole continua a crescere. Ciò dipende anche dal fatto che l’ambiente offre al
bambino più modelli vocali che gestuali e apprezza i primi assai più che i secondi.
LE PRIME PAROLE L’età di comparsa delle PRIME PAROLE si colloca tra 11 e 13 mesi di
età. Le prime parole stanno a indicare persone e oggetti familiari, oppure azioni che il
bambino compie abitualmente. Le prime parole relative ad oggetti si riferiscono soprattutto a
oggetti piccoli e manipolabili o che si muovono. Queste parole vengono usate in contesti
specifici, sono cioè legate alle situazioni e agli eventi che servono a significare. E’ utile
differenziare questo uso NON-REFERENZIALE delle parole da un USO REFERENZIALE,
che compare più tardi ed è legato alla capacità del bambino di comprendere il carattere
arbitrario della relazione tra suono e significato. Ad esempio, l’espressione “ciao” all’inizio
accompagna il gesto di abbassare la cornetta del telefono, mentre in seguito il bambino la
utilizza ogni volta che qualcuno se ne va. Questo fenomeno di progressiva de
contestualizzazione lo si ritrova anche nella comprensione del linguaggio. La comprensione
precede e influenza la produzione linguistica, nel senso che il bambino comprende
espressioni che soltanto in un secondo momento sarà capace di produrre spontaneamente.
Nello sviluppo lessicale si distinguono due fasi durante il secondo anno di vita. Nella fase
iniziale (12-16 mesi circa) l’ampiezza del vocabolario si attesta in media sulle 50 parole. La
fase successiva (17-24 mesi) si caratterizza per una maggiore rapidità nell’acquisire nuove
parole dopo le prime 50, e può assumere la forma di una esplosione del vocabolario. Alla fine
del periodo in questione il vocabolario complessivo si attesta mediamente sulle 300 parole,
ma può raggiungere anche 600 parole. Ciascun bambino passa dalla prima alla seconda fase
quando diventa capace di attribuire alle parole uno status propriamente simbolico ed è in
grado di capire che tutte le cose hanno un nome, ma anche c’è un nome per qualsiasi cosa. Il
fenomeno si può verificare in tempi e fasi diverse da un bambino all’altro. Alcuni bambini
continuano ad apprendere nuove parole in modo graduale, altri indicano e nominano tutto ciò
di cui conoscono il nome, e si mostrano interessati a imparare nuovi vocaboli chiedendo
insistemente (cos’è?” o “chi è?” di ogni oggetto o persona che incontrano.
Il bambino incontra delle difficoltà nell’identificare a cosa si riferiscono i nomi nel loro uso
standard. Si tratta di errori di SOVRAESTENSIONE (il bambino chiama “cane” qualsiasi
animale a quattro zampe), SOTTOESTENSIONE (il bambino chiama “bambola”
esclusivamente la sua bambola preferita) e SOVRAPPOSIZIONE (il bambino usa “aprire” per
riferirsi all’azione di accendere la luce). Secondo alcuni studiosi il bambino costruisce il
significato delle parole sulla base delle somiglianze percettive tra gli oggetti o eventi (ad
esempio forma e grandezza), mentre secondo altri studiosi vengono categorizzate all’inizio le
somiglianze funzionali, cioè l’uso degli oggetti e le loro proprietà dinamiche. Una palla sarà
definita nel primo caso in base alla sua forma sferica, nel secondo come qualcosa che
rimbalza e rotola. Nel costruire il significato delle prime parole, i bambini utilizzano entrambe
le modalità di categorizzazione, percettiva e funzionale. La teoria di Barrett ha il
merito di sottolineare come la formazione dei concetti non sia un processo omogeneo, che si
possa spiegare tramite un insieme predefinito di operazioni logiche. Di solito i bambini
cominciano a imparare nomi che si situano ad un livello base di generalità, e soltanto in
seguito imparano nomi più specifici o nomi più generali e astratti. In parte ciò dipende dalle
strategie che gli adulti adottano nel nominare gli oggetti quando si rivolgono ai bambini
piccoli. Tra i 6 e gli 8 anni il bambino diventa sempre più capace di utilizzare, nel definire le
parole, il termine sovraordinato. I bambini di 7-8 anni sanno tener conto
contemporaneamente di diversi aspetti dell’oggetto e le loro definizioni diventano complesse,
contengono cioè più di un’informazione criteriale. LO SVILUPPO DELLA GRAMMATICA
Nell’imparare a parlare ogni bambino segue una propria strada ma condivide le tappe
evolutive degli altri bambini.
LO STILE Lo stile di acquisizione può essere REFERENZIALE o ESPRESSIVO. I bambini
referenziali avevano uno sviluppo lessicale più rapido, mentre i bambini espressivi
acquisivano le prime dieci frasi più rapidamente dell’altro gruppo, erano cioè più precoci
nello sviluppo sintattico. Il bambino ricorre a due approcci per imparare a parlare: un
approccio ANALITICO gli consente di segmentare il linguaggio che ascolta nelle sue unità
minime (le parole), e un approccio OLISTICO gli permette di riprodurre unità linguistiche più
ampie (frasi) senza averle analizzate. Entrambi gli approcci sono presenti
nell’apprendimento del linguaggio, ma i bambini differiscono nel grado in cui ricorrono all’uno
o all’altro. I bambini che adottano uno stile referenziale tendono ad essere primogeniti e di
sesso femminile; è più frequente trovare questo stile di acquisizione in bambini che
appartengono a famiglie di livello socioeconomico alto. I bambini referenziali sono più
interessati agli oggetti e all’importanza di nominarli, mentre i bambini espressivi sono più
interessati alle relazioni sociali e parlano per esprimere i propri sentimenti e bisogni oppure
per influenzare gli altri. Le madri dei bambini con un lessico referenziale tendono a fare
commenti sugli oggetti e a nominarli, mentre le madri dei bambini con un lessico espressivo
preferiscono coinvolgere i figli in giochi e routine, in cui il ruolo degli oggetti è secondario
rispetto al ruolo svolto dall’interazione e dalla conversazione. In Italia la maggior parte dei
bambini acquisisce un lessico bilanciato, che include elementi sia referenziali che espressivi.
PRAGMATICA
IMPARARE A CONVERSARE
Le ricerche più recenti evidenziano come l’apprendimento della lettura sia più facile e veloce
nei bambini che possiedono un’alta CONSAPEVOLEZZA METALINGUISTICA, cioè
sanno meglio quali parole o classi grammaticali si collocano in punti specifici della frase. I
bambini che a 3,4 o 5 anni risolvono meglio compiti del tipo “dimmi una parola che ha la
stessa iniziale di tappo”, successivamente imparano a leggere con maggiore facilità. La
conoscenza che il bambino ha del linguaggio influenza in modo significativo l’apprendimento
della lettura. Quattro sono le fasi principali nel processo di conoscenza della scrittura in età
prescolare:
1. FASE PRESILLABICA 2. FASE SILLABICA 3. FASE SILLABICO-ALFABETICA 4.
FASE ALFABETICA Nella fase presillabica il bambino non differenzia la scrittura dal
disegno. Il bambino si aspetta che la scrittura conservi alcune proprietà dell’oggetto che
rappresenta; così la lunghezza della scrittura sarà proporzionale alla grandezza
dell’oggetto. In seguito il bambino impara che il segno scritto non esprime un oggetto ma
una forma sonora e formula l’ipotesi sillabica, secondo cui la parola scritta presenta delle
parti che corrispondono alle sillabe nel parlato.
CONCLUSIONI
Il bambino impara a parlare con incredibile rapidità, di solito nei primi 3 anni di vita.
Tuttavia, lo sviluppo completo del linguaggio si verifica in un periodo di tempo più lungo.
LO SVILUPPO SOCIALE
L’individuo vive immerso nei rapporti sociali. E’ opinione condivisa che vi sia una stretta
connessione tra il mondo delle interazioni e i processi che guidano lo sviluppo sociale del
bambino. Il termine SVILUPPO SOCIALE ha preso il posto di socializzazione. Lo
spostamento di accento dalla funzione di modellamento dell’adulto ad una funzione di
mediatore o di interlocutore nell’organizzare competenze e capacità, significa concepire
l’individuo dotato di risorse proprie, di predisposizioni che lo collegano al mondo circostante.
Per diventare competente sul piano sociale il bambino deve sviluppare la capacità di
comprendere che le persone sono dotate di stati interni, emozioni, pensieri ecc. che
orientano il comportamento. Non sappiamo se compaia prima la conoscenza di sé o quella
degli altri, ma è certo che la comprensione sociale subisce un’importante svolta nel
momento in cui il bambino sviluppa la distinzione tra sé e gli altri. Dal processo di
oggettivazione del Sé ha origine l’autoconsapevolezza e la conoscenza sociale.
LA COSCIENZA DI SE’
All’inizio della vita il piccolo non possiede ancora la consapevolezza emotiva e cognitiva di sé
e degli altri: concetti che nascono nelle interazioni e nelle relazioni affettive, sono dinamici ed
evolvono nel corso del tempo. Sé esistenziale: componente implicita che organizza
l’esperienza (si sviluppa gradualmente nel primo anno di vita) Sé categorico: componente
esplicita che deriva dall’autoconsapevolezza (si sviluppa intorno ai 2 anni, con
l’autoriconoscimento, e con la capacità di utilizzare alcune semplici categorie esteriori quali il
sesso o l’età per identificare se stesso). La CONSAPEVOLEZZA PRIMARIA si fonda su una
percezione immediata e precoce che deriva dalle informazioni sensoriali. La
CONSAPEVOLEZZA SECONDARIA si basa, invece, sulla capacità di rappresentazione e di
autoriflessione e coincide con il Sé categorico, vale a dire con il concetto che il bambino ha di
se stesso e che può svilupparsi solo dopo il secondo anno di vita, anche grazie
all’acquisizione delle competenze linguistiche. L’autoconsapevolezza e la percezione di sé
come essere dotato di qualità fisiche ed emotive distintive compare in questa fase.
Il passaggio dal Sé esistenziale a quello categorico, che rende coscienti della propria identità
sperata da quella degli altri, è segnalato dall’uso di termini verbali (ad esempio “tu”, “noi”),
con i quali esplicitamente il bimbo si riferisce a se stesso e agli altri come entità distinte. Un
buon segnale della conoscenza di sé consiste nell’abilità di identificare e riconoscere
visivamente la propria immagine. Il bambino deve comprendere che l’immagine riflessa non
rappresenta una persona estranea, ma l’oggettivazione di se
stesso. Per parlare di AUTORICONOSCIMENTO è necessario che il bambino percepisca la
propria immagine fisica e la riconosca come stabile e continua nel tempo e nello spazio.
ESPERIMENTO: Si applica una macchia rossa sul naso di un bambino senza che egli se ne
accorga e si controlla come reagisce alla sua immagine nello specchio. Se tocca il proprio
naso e cerca di cancellare la macchia, vuol dire che è consapevole non solo che il viso nello
specchio è suo, ma anche che la macchia viola lo schema mentalmente rappresentato che si
è costruito del proprio viso. Tra i 9 e i 12 mesi, pur guardando con interesse la propria
immagine, i bambini non si toccano il naso né cercano di cancellare la macchia rossa. Tra i
21 e i 24 mesi, portano la mano al proprio naso nella gran parte dei casi.
In base a quali indizi possiamo dedurre come evolva la comprensione degli altri? Un criterio
è quello della FAMILIARITA’, cioè il riconoscimento dell’estraneo e la sua identificazione
come diverso da sé e dalle persone familiari. Posti di fronte a tre stimoli estranei costituiti da
un bambino, un adulto e un nano, bambini di 7 mesi mostrano interesse e affetto verso il
bambino estraneo, disagio verso l’adulto e risposte non definite verso il nano.
Nell’organizzare le proprie risposte, i piccoli utilizzano la conoscenza che hanno di se stessi
e delle persone familiari e valutano gli altri come “simile a me” o “non simile a me”. La
conoscenza dell’altro richiede non solo la percezione degli aspetti esteriori o dei
comportamenti, ma l’elaborazione di un’IMMAGINE MENTALE più complessa che contenga
diversi elementi: la stabilità spazio-temporale; la comprensione delle proprie e altrui
emozioni; la consapevolezza del punto di vista attraverso cui gli altri vedono le cose. Il
bambino deve percepire la stabilità degli oggetti e delle persone nel tempo e nello spazio. Un
secondo aspetto è quello di riconoscere le EMOZIONI e di comprenderne il significato.
Intorno ai 18 mesi la comparsa delle emozioni sociali costituisce un preciso indicatore della
coscienza di sé. La colpa, la vergogna e l’imbarazzo, sono espressioni emotive complesse
legate alla socializzazione, alle pratiche educative, al contesto culturale e richiedono
capacità cognitive di valutazione di sé, degli altri e delle aspettative sociali. Per sentirsi in
colpa il bambino deve comprendere di aver commesso un’azione disapprovata dall’adulto e
provare disagio e tensione. La vergogna ha una dinamica diversa e coinvolge il Sé nella sua
totalità e non solo il comportamento. Sorge dalla consapevolezza del giudizio negativo
dell’altro e dalla percezione di come un Sé difettoso, imperfetto e mortificato potrebbe
apparire agli altri. Manifestare queste emozioni è indicativo di una consapevole
comprensione degli altri come dotati di stati psicologici interni e diversi dai propri e della
dinamica soggetto-oggetto. Grazie allo sviluppo cognitivo ed emotivo, la rappresentazione
mentale degli altri diventa sempre più ampia fino a contenere anche il punto di vista
attraverso cui gli altri vedono e sentono la realtà.
Le elaborazioni sul Sé e sugli altri non sono statiche, ma soggette a continue rielaborazioni.
Le rappresentazioni mentali sono aspetti dinamici che permettono di dare un senso
personale alle percezioni e alle immagini degli oggetti e delle persone. Dopo la prima infanzia
il bambino tende a sviluppare azioni e a svolgere attività autonome, prende gusto alla
competizione, desidera imparare e dimostrare la propria competenza, teme il giudizio degli
altri ed è impegnato a superare i sensi di colpa e di inferiorità. E’ sensibile alle opinioni degli
adulti che imita e con cui tende ad identificarsi e presta attenzione ai ruoli e al modo in cui le
persone li svolgono. I giochi elaborano una finzione collettiva grazie alla quale i bambini
imparano a comprendere e a padroneggiare i diversi ruoli e ad utilizzarli per esprimere anche
per capire ciò che provano. Verso i 7-8 anni compare il gioco sociale. Se il bambino ha
costruito un’immagine di sé e degli altri caratterizzata da insicurezza e se le circostanze
ambientali restano negative, le idee su se stesso, sulle altre persone e sulle relazioni saranno
dominate da sfiducia, incertezza, impulsività o passività e dalla tendenza ad interpretare in
modo negativo sia i segnali dell’ambiente sia quelli provenienti degli altri. L’esigenza di
essere accettati è fortemente sentita nell’infanzia, ancor più che nelle altre fasi e rende
particolarmente vulnerabili al giudizio degli altri. L’opinione espressa dall’adulto ha una forte
ripercussione sulla immagine che il bambino ha di sé. L’insieme di valutazioni che riguarda il
Sé nelle sue diverse componenti di Sé fisico, capacità sociali e identità, vanno a comporre
l’AUTOSTIMA. Dopo una fase egocentrica che dura fino ai 5 anni, il bambino, tra 6 e 8 anni,
giunge a concepire la soggettività dell’altro ma non mette ancora in relazione i diversi punti di
vista. Dovrà prima imparare a cogliere la diversità dei punti di vista e a riflettere sul proprio
comportamento, nello stadio chiamato autoriflessione tipico dei bambini di 9 anni, e solo più
compiutamente dopo i 12, diventerà capace di differenziare le diverse prospettive sia degli
individui che dei gruppi. Fino ai 6-7 anni, il bambino privilegia l’uso di riferimenti alle
caratteristiche fisiche ed esteriori delle persone ed effettua confronti sulla base di indicatori
comportamentali più che psicologici. Non riesce a comprendere la complessità dell’altro nelle
sue dimensioni sia esteriori sia interiori, e non è in grado di descrivere il mondo interno
proprio o altrui. A partire dai 7 anni si riferirà alle qualità interiori, personali e psicologiche non
immediatamente visibili o identificabili degli altri. Anche nella descrizione di sé si osserva uno
sviluppo analogo e, fin circa a 7 anni, i bambini dedicano maggiore attenzione agli aspetti
esteriori e visibili quali il colore degli occhi e dei capelli, oppure indicano ciò che possiedono,
mentre successivamente iniziano a descrivere le preferenze, le qualità, i tratti del carattere.
Man mano che il bambino cresce si rende conto che le persone sono distinguibili in base ad
alcune categorie a cui egli stesso appartiene e con cui si identifica. Ad esempio quella del
genere sessuale o dell’età. Già a 9-10 mesi i bambini capiscono che le persone si
suddividono in maschi e femmine. Ad un anno, prestano più attenzione ai coetanei dello
stesso sesso. I bambini identificano inizialmente alcune caratteristiche fisiche simili a sé e
alle persone familiari e cominciano così ad organizzare categorie mentali con le quali
orientarsi nella distinzione tra maschi e femmine. Su questa base sono in grado di imparare a
riconoscere anche la propria identità sessuale. Gli studi sulle differenze sessuali sono stati
fortemente influenzati dagli STEREOTIPI SOCIALI che hanno guidato i ricercatori sia nella
scelta di metodologie non sempre adeguate sia nella interpretazione dei risultati. Le
somiglianze sono decisamente più forti delle differenze. Queste ultime si manifestano
soprattutto in 3 aree: la preferenza nella scelta dei giochi, nella scelta dei compagni di gioco
e nello stile relazionale. I maschi si impegnano di più in giochi di movimento e con giocattoli
dalle caratteristiche maschili, quali costruzioni, armi, automobiline, mentre le femmine si
dedicano ad attività con bambole. I bambini prediligono stare assieme ai coetanei dello
stesso sesso e, a partire da 3 anni, tale preferenza si esprime in una separazione che
diviene più marcata negli anni successivi. I bambini tendono a stabilire interazioni basate su
forme di gerarchia e di dominanza e rapporti con i compagni caratterizzati da livelli più elevati
di attività, da modalità comunicative più dirette e in alcuni casi contrassegnate da contatti
corporei che sfociano in episodi di aggressione fisica. Le bambine mostrano maggiore
disponibilità alla collaborazione, sono più sensibili e propense ad attuare comportamenti pro
sociali e ad attivare processi d’inclusione nel gruppo e a non dare molto spazio
all’espressione diretta dell’aggressività. Mentre le bambine tendono ad adottare uno stile
cooperativo che favorisce lo scambio, i bambini sono orientati all’affermazione di sé e del
proprio ruolo: fattori che inibiscono la cooperazione e la buona riuscita delle interazioni
reciproche. Due principali teorie di riferimento, la psicoanalisi e la teoria dell’apprendimento
sociale, ritengono che l’identità sessuale e l’assunzione del ruolo sessuale dipendano
dall’interazione con i modelli trasmessi dal mondo degli adulti, soprattutto dai genitori. La
PSICOANALISI delinea una progressiva tendenza del piccolo ad identificarsi con il genitore
dello stesso sesso e ad interiorizzarne il ruolo sessuale. La TEORIA
DELL’APPRENDIMENTO SOCIALE assegna un ruolo determinante ai meccanismi di
imitazione che derivano non solo dall’osservazione del comportamento degli adulti, ma
anche dalla esposizione ai modelli sociali. Gli adulti rinforzano gli stereotipi sociali legati alle
differenze di genere. Fin dalla nascita i bambini e le bambine vengono trattati in modo
diverso e ad esempio mentre le femmine sono stimolate in misura maggiore sul piano
verbale, i bambini vengono indotti ad esplorare e ad essere attivi all’interno del loro
ambiente. Gli stessi modelli trasmessi dai mass media, e in particolare dalla TV, sono
fortemente stereotipati e concorrono a rafforzare le aspettative di genere. Kohlberg dice che
intorno ai 3 anni il bambino inizia a differenziare le due categorie di appartenenza sociale dei
maschi e delle femmine e a stabilire la propria IDENTITA’ DI GENERE. Le manifestazioni di
preferenze sessualmente orientate che si esprimono verso oggetti, giochi, modificherebbero,
secondo Kohlberg, che il processo non può essere spiegato attraverso i meccanismi di
identificazione con il genitore del proprio sesso invocati dalla psicoanalisi, in quanto, a questa
età, i bambini di entrambi i sessi tendono ad identificarsi con la madre. Verso i 4 anni, il
bambino comprende il concetto di STABILITA’ DI GENERE, ovvero si rende conto che le
differenze sessuali non cambiano col tempo e che appartenere ad un genere sessuale
significa diventare donna oppure uomo. Intorno ai 6-7
anni la differenza di genere è intesa come una caratteristica biologica intrinseca ed
immodificabile pur al variare dei segni esteriori. A questa età il bambino diventa
consapevole che alle differenze fisiche si associano caratteristiche stabili nel
comportamento, nei ruoli e nelle qualità psicologiche.
LO SVILUPPO MORALE
La comprensione delle regole e dei valori, che sostengono le norme sociali e la cultura di
appartenenza, costituiscono importanti criteri guida per l’individuo. L’acquisizione di una
NORMA MORALE è un processo che comprende almeno 3 dimensioni fondamentali. La
norma assume un significato affettivo-emotivo nella misura in cui contiene una forma di
indicazione su come l’individuo si sente o, dovrebbe sentirsi, nei casi in cui la rispetta o la
viola. Si parla di sensazione morale che comprende le emozioni di colpa, di imbarazzo, di
vergogna ecc. che derivano dal trasgredire una norma, oppure quelle di orgoglio,
soddisfazione e autostima che derivano dall’aderire alle regole e ai principi morali. La norma
rappresenta anche una guida per la condotta nel senso che prescrive comportamenti
socialmente desiderabili, nel mentre ne proibisce o ne sanziona altri. Inizialmente, i bambini
acquisiscono le regole attraverso l’osservazione e l’imitazione dei modelli proposti non solo
dalla famiglia, ma anche dalle diverse agenzie sociali e dai mezzi di comunicazione di massa.
Un terzo aspetto della morale concerne la conoscenza delle norme che rende possibile
comprenderne i significati espliciti o impliciti. Questa dimensione è strettamente connessa
allo sviluppo delle competenze intellettive, grazie alle quali è possibile valutare le diverse
implicazioni sottese alle regole.
La relazione verticale con gli adulti è deputata ad offrire cure, protezione e a garantire
l’apprendimento e lo sviluppo della persona. Le relazioni orizzontali sono paritarie, fondate
sulla reciprocità e rappresentano una palestra per l’apprendimento di capacità di
negoziazione, di gestione dei conflitti e di cooperazione. Nel corso dello sviluppo l’importanza
delle relazioni con i coetanei aumenta e, già a 2-3 anni, quando i bambini possono scegliere
se rivolgersi agli adulti o a coetanei, cominciano ad interagire sempre di più con questi ultimi.
L’importanza dell’adulto resta comunque fondamentale, anche se decresce nel tempo tanto
che, nella preadolescenza e nell’adolescenza, i coetanei diventano una forma di vicinanza e
di sostegno affettivo di pari importanza. Il rapporto di amicizia permette al bambino di vedere
se stesso attraverso gli occhi di un altro e di sperimentare la vera intimità, promuovendo
l’autoconsapevolezza e lo sviluppo die processi di socializzazione.
Nel passaggio dai 2 ai 4 anni, c’è uno spostamento da attività parallele a giochi cooperativi
che richiedono una certa competenza interattiva. Mentre nelle attività parallele i bambini,
sebbene vicini fisicamente, svolgono le proprie azioni essenzialmente da soli, in quelle
cooperative interagiscono attraverso scambi complementari per il raggiungimento di uno
scopo comune. Nel periodo prescolare fioriscono le attività di gruppo, favorite sia dalla
capacità di comunicare verbalmente i desideri e le aspettative sia dallo sviluppo di abilità
simboliche, che ampliano le possibilità di realizzare giochi di finzione più articolati. Gli insiemi
di regole di interazione e di significati condivisi informalmente, costituiscono una cultura dei
pari. I gruppi di bambini si suddividono spontaneamente in base alle differenze di genere, con
fenomeni rigidi di inclusione o esclusione. Questa regola prevede qualche eccezione: una
ricerca ha evidenziato come i bambini mostrano di essere consapevoli del significato morale
dell’esclusione dal gruppo di un membro, per questioni legate al genere o alla razza. In
particolare, le bambine si mostrano più sensibili e permettono ad un coetaneo maschio di
giocare con loro più facilmente e senza ostilità. I compagni vengono scelti in funzione della
comunanza d’interessi e non su sollecitazioni casuali. I rapporti con i coetanei appaiono
caratterizzati dal fenomeno della SEGREGAZIONE SESSUALE, soprattutto nelle attività di
gioco, quando intorno ai 6-7 anni comincia a svilupparsi l’interesse per le competizioni di
squadra che implicano preferenze sia nel tipo di attività sia nella scelta dei compagni. I
bambini popolari manifestano precocemente e mantengono stabilmente negli anni,
comportamenti e sequenze di interazioni non verbali rassicuranti e non aggressive,
caratterizzate da sorriso, leggera inclinazione della testa e gesti di sfioramento o toccamento
lieve degli altri o degli oggetti che desiderano ottenere. Appaiono anche capaci di mediare un
conflitto e di intervenire con decisione in difesa dei bambini aggrediti. I bambini rifiutati
manifestano comportamenti di minaccia attraverso movimenti bruschi e disordinati, attività
instabili, scarsa concentrazione, aggressioni fisiche. Gli aspetti temperamentali e di
personalità maggiormente connessi alla dinamica accettazione-rifiuto sono l’aggressività e il
mancato controllo degli impulsi. I bambini
aggressivi hanno competenze sociali ridotte nel rapporto con i coetanei, che generano
rifiuto e sono predittive di problemi di adattamento futuro, quali ad esempio la difficoltà di
apprendimento, abbandono scolastico e comportamenti antisociali. Nella fase della
preadolescenza e dell’adolescenza, le relazioni tra coetanei risentono delle esperienze
pregresse, ma nello stesso tempo assumono uno specifico valore come stimolo al
confronto e come fonte di sostegno e di supporto all’autostima.
LE RELAZIONI AMICALI
IL CONCETTO DI AMICIZIA
I COMPORTAMENTI AGGRESSIVI
Esistono tipologie diverse di comportamento aggressivo, distinguibili sulla base delle modalità
di attacco, dall’intenzione che determina l’azione e della presenza-assenza di attivazione
emotiva. Tra i bambini sono più diffuse aggressioni di tipo diretto, mirate a colpire
direttamente il bersaglio attraverso attacchi fisici o verbali, ma sono anche presenti
aggressioni indirette, volte a danneggiare l’immagine sociale dei coetanei e a produrre
un’esclusione sociale. Le forme indirette sono più diffuse tra le femmine, mentre tra i maschi
è più comune il ricorso a attacchi diretti. Le CONDOTTE AGGRESSIVE OSTILI tendono a
infliggere un danno o un dolore all’altro, mentre le AGGRESSIVITA’ STRUMENTALI servono
a ottenere oggetti o benefici. I bambini molto piccoli ricorrono a forme fisiche di aggressione
in quanto non dispongono ancora delle abilità linguistiche e cognitive che consentono di
ricorrere ad aggressioni verbali e indirette. Crescendo, lo sviluppo linguistico, l’acquisizione
del pensiero simbolico e l’incremento delle abilità socio- cognitive permettono al bambino di
aggiungere al proprio repertorio di comportamenti aggressivi prima gli attacchi verbali e
successivamente le aggressioni indirette. Con l’età si riduce la quantità di azioni aggressive.
Le condotte aggressive si differenziano in relazione alla presenza di componenti di
attivazione fisiologica. Accanto a modalità di AGGRESSIONE REATTIVA, poste in essere
come risposta ad un’interazione percepita come ostile e caratterizzate da livelli più elevati di
attivazione, esistono forme di AGGRESSIVITA’ PROATTIVA, a cui sono ricondotte anche le
aggressioni di tipo strumentale, che rappresentano iniziative personali non attuate in risposta
a condotte altrui. Anche il comportamento prepotente costituisce un’espressione di
aggressività proattiva. Le condotte aggressive reattive possono costituire una risposta ad una
situazione frustrante. La frustrazione produce un incremento dello stato di attivazione della
persona che può essere ridotto attraverso un atto aggressivo. In generale le forme di
aggressività possono essere apprese casualmente, quando un bambino ottiene un beneficio
dalla messa in atto di un’azione aggressiva, venendone rinforzato, o attraverso
L’OSSERVAZIONE e l’IMITAZIONE di modelli aggressivi. La condotta aggressiva è
accompagnata da deficit nelle abilità cognitive necessarie ad individuare strategie di
risoluzione del conflitto alternative alla condotta aggressiva. Degli studiosi hanno proposto
una spiegazione della condotta aggressiva, il modello SOCIAL INFORMATION
PROCESSING, che esamina i processi socio-cognitiva attivi nelle situazioni di interazione e
che sono alla base della risposta comportamentale, individuando sei diversi step di analisi dei
comportamenti degli altri. Secondo tale modello, nel corso di un’interazione in primo luogo
viene prestata attenzione alle azioni dell’altro, che vengono interpretate come intenzionali o
casuali e come motivate da fini aggressivi, neutri o pro sociali. Vengono decisi gli scopi che si
intendono perseguire nell’ambito di quella interazione, quali ricercare una conciliazione o
imporsi, e vengono esaminate le potenziali risposte comportamentali. Nella gamma delle
soluzioni elaborate viene decisa la condotta più appropriata al contesto di interazione, che
viene così realizzata. I processi cognitivi attivi nell’immediatezza degli eventi operano in
queste fasi avvalendosi di un data base personale di conoscenza conservate nella memoria a
lungo termine e relative a ricordi personali, ruoli, schemi e conoscenze sociali. Di fronte a
interazioni ambigue, in cui il comportamento neutro di un coetaneo è potenzialmente
interpretabile come un attacco intenzionale, alcuni bambini manifestano errori e tendenze
disfunzionali nei processi di analisi dell’informazione sociale, errori e tendenze che
determinano le condotte aggressive. La tendenza attributiva a interpretare il comportamento
dell’altro come un attacco sono all’origine di comportamenti aggressivi reattivi, mentre
l’elaborazione e la decisione di risposte violente a seguito di una valutazione positiva della
condotta distruttiva e delle sue conseguenze, spiegano le condotte aggressive proattive. Il
tono generale dell’umore e stati emotivi quali la rabbia interferiscono con i processi di analisi
di elaborazione sociale dell’informazione, facilitando l’interpretazione dei segnali sociali come
ostili. La messa in atto di condotte aggressive è risultata associata a carenze nei processi
empatici di condivisione affettiva degli stati emotivi e a una maggiore ricerca di dominanza e
affermazione di sé nelle relazioni con i coetanei. Il comportamento aggressivo, pertanto, può
essere l’esito di carenze nelle abilità sociali che possono accentuarsi a seguito di una scarsa
relazione con i pari. La condotta aggressiva può favorire il rifiuto da parte dei coetanei,
limitando la possibilità dei bambini aggressivi di esercitare e migliorare le competenze sociali
carenti attraverso il rapporto con altri bambini. I bambini e i ragazzi aggressivi non sempre
sono rifiutati dai pari. Giovani con comportamento di aggressività proattiva ricevono a volte
indici di preferenza sociale elevati o hanno uno status controverso nel gruppo, vengono cioè
indicati dai pari sia tra i compagni ben voluti sia tra quelli non accettati. Tra aggressività e
relazioni con i pari sussistono interazioni complesse che si rinvengono anche in relazione al
fenomeno del bullismo.
IL BULLISMO
LO SVILUPPO EMOTIVO E
LE RELAZIONI AFFETTIVE
L’EMOZIONE è una esperienza complessa, multidimensionale e processuale con una forte
funzione di organizzazione cognitivo-affettiva e che media il rapporto tra l’organismo e
l’ambiente. L’EMOZIONE può essere intesa come un allontanamento dal normale stato di
quiete dell’organismo, cui si accompagna un impulso all’azione e alcune specifiche reazioni
fisiologiche interne, ognuna delle quali designa diverse risposte emotive. L’emozione è una
risposta fisiologica, motivazionale, cognitiva e comunicativa. A LIVELLO FISIOLOGICO, il
sistema nervoso centrale è responsabile di specifiche reazioni corporeee, e il sistema
endocrino attiva il sistema nervoso centrale, regola i livelli di stress e di ansia. Per quanto
riguarda la DIMENSIONE COGNITIVA, essa è capace di mediare il rapporto con l’ambiente,
di valutare e dare significato a quello che accade. L’individuo può decidere se l’evento
emotigeno è qualcosa di nuovo, di piacevole, di doloroso ecc. La valutazione cognitiva
consente sia di attribuire significato alle reazioni che l’organismo mette in atto, sia di
stimolare e guidare l’individuo a far fronte all’evento che ha scatenato l’emozione. Vi è infatti
un LIVELLO MOTIVAZIONALE che orienta all’azione e modifica il comportamento, in
funzione dei desideri e degli scopi. Gli eventi spiacevoli vengono evitati, mentre quelli
piacevoli sono attivamente ricercati. La dimensione motivazionale dà origine a piani capaci di
regolare il comportamento, stabilire le priorità e i sistemi di risposte. Tutti aspetti che
contribuiscono a formare gli interessi, ad organizzare le preferenze e ad orientare gli scopi. A
LIVELLO ESPRESSIVO E COMUNICATIVO, non appare semplice inibire o modificare la
manifestazione delle emozioni, soprattutto quando esse colpiscono l’individuo in modo
improvviso. Ogni emozione fondamentale presenta una sua configurazione comunicativa,
proveniente da movimenti facciali, solo in parte determinata dalle differenze culturali ed
essenzialmente universale. Non sono da sottovalutare altre manifestazioni non verbali, come
ad esempio i movimenti corporei, l’assetto tonico-posturale, il tono della voce ecc. che
arricchiscono il significato delle reazioni individuali. Le emozioni possiedono una
DIMENSIONE SOCIALE: non si presentano casualmente o senza una ragione. Per provare
gioia o tristezza ecc. devono realizzarsi alcune condizioni generate dagli eventi o dalle azioni
delle persone. Le relazioni interpersonali effettivamente sperimentate oppure pensate,
rappresentate e ricordate sono le sorgenti principali delle risposte emozionali. Sottolineare la
dimensione sociale delle emozioni significa riconoscere ad esse un significato fortemente
contestualizzato e specifico che dipende dal contesto e dalle relazioni. Il valore situazionale
delle emozioni dipende dal fatto che esse assumono significati specifici, in rapporto alla
valutazione soggettiva e intersoggettiva che viene attribuita all’evento emotigeno. Lo schema
di Plutchik incomincia
con la percezione di uno stimolo, e finisce con un’interazione tra l’organismo e lo stimolo
che ha dato avvio alla catena di eventi. LA TEORIA DELLA DIFFERENZIAZIONE
EMOTIVA
Diversamente dalla teoria della differenziazione sostiene che il neonato possegga, fin dalla
nascita, un certo numero di emozioni fondamentali e differenziate, basate su programmi innati
e universali. In particolare Izard individua nove emozioni di base: interesse, gioia, tristezza,
disgusto, sorpresa, collera, disprezzo, paura e vergogna, ciascuna delle quali ha un preciso
valore adattivo. La denominazione TEORIA DIFFERENZIALE indica il carattere distintivo
delle espressioni fenomenologiche e motivazionali delle emozioni che si palesano attraverso
configurazioni facciali e vocali specifiche. Le emozioni non nascono da uno stato
indifferenziato iniziale. In questa prospettiva, l’emozione non è semplicemente la risposta ad
uno stimolo, ma rappresenta una forma di organizzazione innata che motiva il
comportamento e gli affetti. Emozioni come lo sconforto, il disgusto e il
trasalimento, che alla nascita hanno un valore adattivo poiché consentono al neonato di
proteggersi dagli stimoli negativi, evolvono successivamente in emozioni più articolate, di
gioia, sorpresa, rabbia e paura, più adatte a rispondere alle richieste dell’ambiente. Alcune
emozioni sono già presenti alla nascita, mentre altre emergono allorchè, nel corso dello
sviluppo, devono assolvere un compito adattivo. Nel primo e nel secondo mese di vita il
neonato manifesta le emozioni negative e positive, quelle di interesse, disgusto e
trasalimento, essenzialmente per comunicare i propri bisogni e, solo indirettamente, per
stabilire un contatto con le figure di allevamento. In una seconda fase, che inizia intorno al
terzo mese di vita, il piccolo comincia a manifestare un’attenzione specifica verso le persone
e gli oggetti. Emergono così emozioni che consentono di elaborare le informazioni derivanti
da eventi inattesi (sorpresa), di reagire agli ostacoli (collera) o di evitarli (paura). Con lo
sviluppo di un ulteriore livello, quello dei processi cognitivo-affettivi, il bambino, a partire da 9
mesi, acquisisce una maggiore consapevolezza di sé come agente e comincia a sviluppare
una certa memoria degli eventi e una coscienza maggiore dell’ambiente che lo circonda.
Grazie a emozioni quali la timidezza, la vergogna e la paura il piccolo può ampliare lo spettro
delle sue conoscenze e acquisire una migliore padronanza sul mondo, attraverso il processo
di differenziazione tra sé e gli altri. A partire dal secondo anno, i bambini imparano a
mostrare ciò che provano in accordo con le regole sociali e diventano capaci di esagerare,
minimizzare, neutralizzare, mascherare o simulare le espressioni emotive. In sostanza, per la
teoria differenziale le emozioni hanno un forte valore COMUNICATIVO, sono DISTINTIVE,
caratterizzate da precisi CORRELATI ESPRESSIVI a base neuronale e concorrono alla
costruzione della CONSAPEVOLEZZA di sé.
L’APPROCCIO FUNZIONALISTA
Pone in evidenza il ruolo delle emozioni nella regolazione dei rapporti fra l’organismo e
l’ambiente. Questa prospettiva, diversamente dalla teoria differenziale di Izard, afferma che
tutte le emozioni fondamentali sono presenti fin dalla nascita e relativamente autonome dalle
conquiste cognitive, a cui il loro sviluppo non è subordinato. Le caratteristiche espressive
delle emozioni sono intrinseche, ma non invarianti e la loro associazione cambia in base alla
interazione tra individuo e ambiente. Le emozioni vengono intese come sistemi di azione che
spingono ad esprimere e a soddisfare bisogni che hanno un significato adattivo. Le diverse
componenti delle emozioni sono espresse da 4 aspetti che le caratterizzano. Esse hanno il
compito di REGOLARE I PROCESSI PSICOLOGICI INTERNI e i COMPORTAMENTI
SOCIALI E INTERPRESONALI, predisponendo l’organismo all’azione, e permettono di
comprendere il significato da attribuire a comportamenti ed azioni sociali. Le emozioni di base
hanno un CARATTERE DISTINTIVO rispetto alle altre forme istintuali in quanto dotate di
specifiche configurazioni mimiche e vocali che ne consentono il riconoscimento, e utilizzano
un PROCESSO COMUNICATIVO NON CODIFICATO CULTURALMENTE, nel senso che
vengono prodotte e possono essere comprese indipendentemente dall’apprendimento.
Queste caratteristiche ne sottolineano la FUNZIONE DI ORGANIZZAZIONE. Campos ha
concettualizzato le emozioni in relazione al ruolo che svolgono e quindi in termini di
FAMIGLIE DI EMOZIONI che assolvono la stessa funzione. Ad esempio, le emozioni di
paura hanno la finalità di mantenere l’integrità fisica e psicologica e svolgono la funzione di
evitare il pericolo, segnalare gli eventi e le cose pericolose, mettere in allarme gli altri per la
presenza di pericolo. Le emozioni di rabbia hanno la finalità di far raggiungere un obiettivo
significativo e svolgono la funzione adattiva di ristabilire le condizioni necessarie a superare
l’ostacolo e a determinare cambiamenti nei comportamenti altrui.
LE EMOZIONI FONDAMENTALI
Si ritiene che esitano alcune emozioni fondamentali concepite come forme di base. Alcuni
autori attribuiscono il carattere di emozioni fondamentali alla gioia, alla tristezza, alla rabbia e
alla paura, altri vi aggiungono il disgusto. Non tutti aderiscono all’idea che esitano singole
emozioni fondamentali. Campos propone di sostituire il concetto di singole emozioni con
quello di famiglie di emozioni. Le espressioni emotive del volto, nelle ricerche condotte su
adulti e bambini, hanno offerto svariate conferme alla tesi dell’universalità delle
manifestazioni emotive. Emozioni quali la tristezza, la felicità, la sorpresa, la paura, la collera
e il disgusto vengono espresse nello stesso modo da membri appartenenti a gruppi e a
società diverse e, quindi, riconosciute e identificate in modo pressoché universale.
Un primo periodo è caratterizzato dalle reazioni emotive presenti alla nascita che sono
regolate da processi biologici fondamentali per la sopravvivenza. Il SISTEMA EDONICO,
grazie alle sensazioni di piacere e di disgusto, ha lo scopo di sollecitare il sistema gustativo,
le reazioni di trasalimento hanno lo scopo di proteggere da stimoli luminosi o acustici troppo
intensi, le risposte di sconforto segnalano disagio alle stimolazioni dolorose e quelle di
interesse l’attenzione per gli stimoli nuovi. Non possono essere considerate ancora forme
intenzionali di comunicazione. Durante il secondo periodo, che inizia verso il secondo mese e
si conclude intorno al primo anno, il bambino inizia a comunicare le proprie intenzioni e ad
attuare le prime forme di controllo emozionale. In questa fase compare il SORRISO
SOCIALE NON SELETTIVO in risposta alla voce umana e successivamente alle persone
familiari il SORRISO SOCIALE SELTTIVO, tendenzialmente rivolto alla madre. Tra le 6 e le
10 settimane si fanno più evidenti le emozioni della sorpresa di fronte a stimoli nuovi e verso i
3-4 mesi diventa chiara l’espressione di tre distinte emozioni di base: quella della tristezza,
della collera e della gioia. Nei mesi successivi (5-7 mesi) il bambino sviluppa l’emozione della
paura e della circospezione in relazione ai progressi nelle capacità di locomozione e al
sorgere di esigenze esplorative. Al termine di questo periodo (8-9 mesi) compare anche la
PAURA DELL’ESTRANEO, che si manifesta nel contatto con persone sconosciute e che
indica la presenza di un legame affettivo di cura e protezione tra il bambino e la persona che
si occupa di lui. Dopo il primo anno, c’è un terzo periodo, nel quale appaiono le EMOZIONI
COMPLESSE, quali la timidezza, la colpa, la vergogna, l’orgoglio e l’invidia, il cui sviluppo
può dirsi completo intorno ai 3 anni. A differenza di quelle fondamentali che vengono
attivate da stimolazioni fisiche dirette, le emozioni complesse hanno origine da forme di
autoriflessione o associazione mentale e richiedono un’autoconsapevolezza che consenta di
valutare il proprio sé e le proprie azioni in relazione alle norme sociali e agli standard
condivisi dalla cultura di appartenenza. Le emozioni complesse sono dipendenti dalla cultura,
dalle aspettative e dalle norme di comportamento socialmente prescritte e, per essere
identificate a manifestate, richiedono una certa competenza sociale.
ESPRESSIONE DELLE EMOZIONI NEL BAMBINO
Circa l’espressione delle emozioni nel neonato, si tratta di capire se le configurazioni mimico-
espressive che appaiono sul suo viso corrispondano alle tipiche configurazioni mimiche delle
emozioni di dolore, di gioia, di disgusto, di sorpresa dell’adulto, oppure se segnalino un
generico stato di piacere e di disagio. Gli unici pattern mimici in grado di comunicare in modo
universale e invariante uno stato emotivo facilmente riconoscibile sarebbero quelli di piacere-
dolore. Le altre espressioni emotive non sono specifiche e distintive da subito, ma lo
diventano grazie alle occasioni prolungate di contatto e di relazione. I piccoli, sin dai primi
giorni, sono in grado di emettere segnali comunicativi sul loro stato emotivo che vengono
interpretati dagli adulti che si prendono cura di loro come risposte emotive specifiche di gioia,
dolore, disgusto, interesse, sorpresa ecc. Non è pienamente condivisa l’idea che,
effettivamente si tratti di emozioni distinte e caratterizzate da configurazioni universalmente
riconosciute.
Durante il primo anno, il bambino impara a riconoscere gli stati emotivi degli altri ed è
capace di reagirvi in modo appropriato. Affinchè possa comprendere il significato delle
emozioni devono trascorrere alcuni anni e attendere che maturino più ampie competenze
cognitive e sociali. Per queste ragioni, appare opportuno distinguere tra
RICONOSCIMENTO delle espressioni altrui e COMPRENSIONE psicologica delle emozioni
proprie e altrui.
La tecnica del PRECIPIZIO VISIVO è stata sperimentata con bambini di 1 anno abitualmente
non disposti ad attraversare la lastra di vetro che crea l’illusione di un precipizio per la paura
del vuoto indotta dalla situazione sperimentale. Alle madri che si trovavano dall’altra parte del
baratro veniva chiesto di mostrare un’espressione preoccupata o serena. Gran parte dei
bambini la cui madre mostrava un’espressione serena attraversava il precipizio, mentre
nessuno di quelli la cui madre aveva un’espressione preoccupata, superava la paura del
vuoto. Questo fenomeno, conosciuto come RIFERIMENTO SOCIALE richiede la capacità di
avvalersi delle emozioni altrui per orientare il proprio comportamento. Prima dei 9-10 mesi,
non è in grado di realizzare questa complessa operazione e reagisce, al contatto con un
oggetto o con una persona, in base al semplice effetto che tali stimoli esercitano su di lui.
Questo meccanismo agisce soprattutto nelle situazioni ambigue o di fronte ad eventi nuovi e
sconosciuti. Il fenomeno del riferimento sociale agisce anche nel contatto con persone
estranee. Se le madri non sono amichevoli con l’estraneo, i bambini di 15 mesi hanno
reazioni più negative. Il riferimento sociale ha un carattere selettivo: solo gli adulti
affettivamente significativi costituiscono per il bambino un riferimento. La capacità di
comprendere le emozioni è mediata dai COMPORTAMENTI EMPATICI. A 14 mesi, i bambini
sono capaci di chiedere e dare conforto, e nel secondo anno di vita di prevedere le reazioni
emotive altrui. Il bambino impara anche a modificare le proprie emozione, adeguandosi alle
circostanze sociali e mostrando di aver appreso le REGOLE DI OSTENTAZIONE delle
emozioni. Si tratta di modi tipicamente appresi, in base ai quali si sceglie di aumentare o
diminuire l’entità dell’emozione oppure di simulare, nascondere o fingere ciò che realmente si
prova. Intorno ai 4 anni, i bambini comprendono bene le regole di ostentazione delle
emozioni e sono in grado di modificare ciò che sentono. Solo verso i 4-5 anni i bambini sono
in grado di mettersi nei panni degli altri e di sviluppare la comprensione di ciò che avviene
nella mente altrui. I bambini sono in grado di formulare ipotesi sullo stato emotivo altrui con
precisione sempre maggiore e, intorno ai 5-6 anni, riescono anche a rappresentarsi e a
spiegare i motivi che potrebbero indurre gli altri a non mostrare le emozioni che
effettivamente provano. Ultimo progresso è la consapevolezza che possono essere provate
diverse emozioni nello stesso tempo, anche di valenza opposta (AMBIVALENZA). Sebbene
le emozioni ambivalenti siano evidenti se si osserva il modo in cui un bambino si comporta,
occorrono diversi anni prima che egli stesso ne sia consapevole. Capire che è possibile
provare, nello tesso momento e nei confronti delle stesse persone o delle stesse situazioni,
emozioni e sentimenti opposti, non si manifesta prima dei 7-8 anni. Bambini dai 3 ai 6 anni
ritengono che non ci si possa sentire tristi e felici allo stesso tempo.
Le emozioni non hanno solo lo scopo di esprimere uno stato d’animo, ma assumono
significato nelle relazioni con l’adulto. Sono segnali indispensabili per regolare la
comunicazione ed il commento delle proprie esperienze interiori, sono MEDIATORI SOCIALI.
Le madri attribuiscono più o meno coscientemente un’intenzionalità emotiva alle
manifestazioni del bambino e questa funzione dell’adulto, definita SCAFFOLDING, consiste
nel rispondere in modo appropriato ai segnali del piccolo, modulando il proprio
comportamento in base al suo livello di sviluppo. Oltre ad offrire supporto emotivo, l’azione
dell’adulto nello scambio emozionale contribuisce ad orientare le espressioni emotive in
accordo con le regole e le aspettative sociali e culturali. Attraverso la SOCIALIZZAZIONE
DELLE EMOZIONI, vale a dire attraverso l’attribuzione di significato ad eventi e stimoli interni
ed esterni che attivano le emozioni, il bambino apprende dagli adulti del suo ambiente quali
siano le condotte emotive appropriate nelle diverse situazioni e accettate dalla sua cultura di
appartenenza. Il bambino apprende che può o deve modificare l’espressione emotiva per
renderla sintonica alle richieste sociali per raggiungere uno scopo, e lo fa scegliendo di volta
in volta il modo più appropriato. Gli scambi emotivi che si stabiliscono tra il bambino e la
persona che si prende cura di lui vengono considerati condizioni determinanti per lo sviluppo
del bambino.
LA TEORIA DELL’ATTACCAMENTO
Ogni forma di comportamento che appare in una persona che riesce a ottenere o a
mantenere la vicinanza a qualche altro individuo differenziato o preferito. Tale
comportamento viene attivato dalla separazione o dalla minaccia di separazione dalla
figura di attaccamento e viene eliminato o mitigato dalla vicinanza che, a seconda della
natura della minaccia, varia per grado e intensità.
Bowlby ritiene che il comportamento e il tipo di relazione affettiva che i genitori stabiliscono
con i figli avranno ripercussioni non solo sul modo in cui si organizza il legame, ma anche
sull’adattamento futuro.
TIPOLOGIE DI ATTACCAMENTO
Gli indicatori significativi per comprendere se il bambino ha sviluppato un legame sono quelli
che si manifestano nelle situazioni di operazione. Il metodo messo a punto per studiare le
differenze individuali si chiama STRANGE SITUATION e ha lo scopo di delimitare una
situazione sperimentale di leggero stress che consenta di cogliere i segnali del bambino, di
età tra 12 e 18 mesi, alla operazione e alla riunione con la madre. Attraverso le osservazioni
e le codifiche del comportamento del bambino durante la STRANGE SITUATION, in
presenza e in assenza della madre e in occasione della riunione con la madre, gli studiosi
hanno distinto 3 fondamentali tipologie di attaccamento che corrispondono a legami affettivi
strutturatisi nel corso del primo anno di vita.
Caratterizza i bambini che durante il primo anno di vita hanno sperimentato un rapporto con
una figura di attaccamento insensibile ai loro segnali e rifiutante sul piano del contatto fisico.
Questi bambini stabiliscono un LEGAME EVITANTE. Il bambino minimizza le reazioni di
disagio sottraendosi al contatto. Non sembrano avere fiducia in un’adeguata risposta materna
e mostrano uno spiccato distacco ed evitamento della vicinanza e del contatto con la madre.
In assenza della madre si mostrano indifferenti, non reagiscono alla operazione e sembrano
concentrati sui giochi e sugli oggetti, esibiscono un eccesso di autonomia e di attenzione al
compito. Quando la madre ritorna, non si avvicinano a lei oppure evitano attivamente il
contatto.
PATTERN B – ATTACCAMENTO SICURO
Caratterizza i bambini che hanno avuto una madre sensibile ai segnali di sconforto e di
disagio e responsiva alle loro richieste. Durante la STRANGE SITUATION sono capaci di
equilibrare il comportamento esplorativo con quello di attaccamento. Il bambino sicuro
mostra equilibrio tra esplorazione ricerca di contatto. Confidando nella responsività della
madre durante le situazioni di pericolo, di stress e di paura, mantengono una sicurezza
interna che consente loro di esplorare il mondo. In presenza della madre, sono in grado di
concentrarsi sui giochi e di esplorare l’ambiente. Quando sperimentano la separazione della
madre mostrano in maniera più o meno evidente segni di disagio e di sconforto, ma
al ritorno della madre il loro desiderio di vicinanza e di contatto fisico riescono ad essere
anche da lei facilmente calmati e consolati, per poi ritornare ad esplorare l’ambiente.
Questi bambini, durante i primi mesi di vita, hanno avuto una madre imprevedibile nelle
risposte: affettuosa per un proprio bisogno e rifiutante su sollecitazione del bambino. I
bambini ansioso-ambivalenti, incerti circa la disponibilità della madre nel fornire aiuto e
protezione, non riescono ad utilizzarla come base sicura da cui partire per esplorare
l’ambiente. Durante la separazione dalla madre, esprimono evidenti segni di stress, disagio
e angoscia che non vengono placati nemmeno con il ritorno della madre. Anzi, al suo
rientro le si avvicinano per farsi consolare, ma poi si allontanano da lei e la rifiutano
manifestando una chiara ambivalenza, composta da comportamenti aggressivi o da
lamentele passive e inconsolabili.
A queste tre tipologie, negli anni più recenti se ne è aggiunta una quarta, chiamata
PATTERN D – ATTACCAMENTO INSICURO DISORGANIZZATO.
La teoria dell’attaccamento salda gli aspetti individuali alle modalità con cui nella realtà si è
venuta sviluppando la relazione grazie alla costituzione di modelli mentali complessi sia delle
figure affettive sia di se stesso. Queste rappresentazioni costituiscono MODELLI OPERATIVI
INTERNI che hanno la funzione di indirizzare l’individuo nella interpretazione delle
informazioni che provengono dal mondo esterno e di guidare il suo comportamento nelle
situazioni nuove. I modelli mentali sono rappresentazioni che derivano dalla memoria
episodica e dalla memoria semantica delle immagini che il soggetto ha costruito dei genitori e
di se stesso. Nella memoria episodica, l’informazione viene immagazzinata secondo
sequenze. Nell’immagazzinamento di tipo semantico, l’informazione ha la forma di enunciato
generalizzati che riguardano il mondo, derivati dalla esperienza personale di un individuo o
da quanto egli ha appreso dagli altri o dalla combinazione delle due cose. Nel pattern di
ATTACCAMENTO SICURO i modelli operativi si costituiscono a partire dalla
rappresentazione della figura di attaccamento come disponibile a rispondere positivamente e
coerentemente alle richieste di aiuto e conforto. La rappresentazione del Sé è impregnata dal
senso di esse degno di amore. In quelli INSICURI, i modelli operativi convogliano una
rappresentazione della figura di attaccamento come non disponibile alle richieste di aiuto e
conforto, rifiutante, distante e ostile e un’immagine di sé sostanzialmente non meritevole di
amore, attenzione e affetto. I bambini non imparano ad esprimere le loro emozioni in modo
appropriato, al momento giusto, nella giusta misura e nel giusto contesto, e percepiscono il
mondo come non amico. Si pensa che i modelli primari costituitisi nell’infanzia abbiano
un’influenza fortissima sia sullo sviluppo successivo dei modelli stessi sia sulla esperienza
attuale della persona.
LO SVILUPPO DELLA MEMORIA
IL SISTEMA FAMILIARE
Il ruolo della famiglia è centrale nello sviluppo del bambino, perché fonte potenziale di
arricchimento, presupposto per la costruzione dell’identità e dell’equilibrio psicologico. Nella
FAMIGLIA si sviluppano le prime relazioni affettive con il caregiver che consentono la
sopravvivenza del piccolo. In base al principio della TOTALITA’, la famiglia non coincide con
la somma delle parti, ma è un gruppo con una storia che trascende le caratteristiche dei
singoli dando luogo ad una organizzazione peculiare. Ogni componente della famiglia offre il
suo contributo al funzionamento generale. I sottosistemi familiari funzionano in modo
coordinato e in relazione con gli altri sottosistemi. La relazione coniugale ad esempio
rappresenta un sottosistema interattivo che agisce sul sottosistema dei figli generando
regole e forme di organizzazione. Il principio di EQUIFINALITA’ secondo il quale le
modificazioni nello stato di un sistema non sono dettate dalle condizioni di partenza, ma
dalla natura del processo e dalle regole organizzative. Il processo di
AUTOREGOLAZIONE è un terzo importante principio generale: esso consiste nella
compresenza di processi di trasformazione e in tendenze omeostatiche che garantiscono un
equilibrio funzionale tra stabilità e cambiamento.
Il concetto di intersoggettività, vale a dire gli aspetti attraverso cui i membri della famiglia
condividono i propri stati interni, sottolineando che la stabilità del contatto emotivo, la
negoziazione e la capacità di affrontare l’incertezza sono condizioni per l’equilibrio tra
coesione familiare e autonomia individuale da cui deriva un adeguato sviluppo del bambino.
L’ALLEANZA FAMILIARE è definita come la capacità di collaborare nelle interazioni
quotidiane che coinvolgono padre, madre e bambino, ad esempio durante l’alimentazione, il
gioco o l’accudimento. Concretamente l’alleanza implica la capacità dei partner di
PARTECIPARE, ORGANIZZARE l’attività in relazione ai rispettivi RUOLI, FOCALIZZARE,
vale a dire mantenere il focus attentivo. Alcune forme di alleanze funzionali e disfunzionali:
quelle COOPERATIVE e in quelle IN TENSIONE sono state definite funzionali, mentre quelle
COLLUSIVE e quelle DISTURBATE sono state giudicate disfunzionali. Le alleanze
cooperative implicano collaborazione, vitalità e armonia, aspetti che prevalgono sulle
difficoltà rendendo il gioco partecipato con momenti di coinvolgimento e di divertimento. Le
alleanze in tensione sono così chiamate poiché richiedono il superamento di ostacoli,
incidenti o imprevisti che alterano la trama del gioco, ma che non impediscono ai partecipanti
di perseguire l’obiettivo e di far prevalere la positività dell’interazione. Le alleanze
disfunzionali sono invece dominate da difficoltà che portano ad esclusioni e a divisioni.
Quella collusiva è caratterizzata da una coalizione tra i genitori ostile ed esplicita oppure
nascosta che finisce per trasferire il conflitto sul bambino. La trama del gioco è frammentata,
segnata da numerose interruzioni che impediscono il coinvolgimento e il divertimento
reciproco che sono sovrastati dalla competizione aperta o velata. Prevale quindi la negatività.
Nelle alleanze disturbate alla collusione si aggiunge l’ambiguità. Le sollecitazioni alla
partecipazione sono intercalate da ritiro e da esclusione. La trama del gioco, caotica e rigida,
è comunque sconnessa e spesso si conclude con una interruzione o con lo stallo. Gli affetti
sono negativi.
Un altro modello che assegna un ruolo importante alla famiglia intesa come contesto di
relazioni significative per la specifica prossimità al bambino è quello PROCESS-
ORIENTED, elaborato per studiare le traiettorie tipiche e atipiche che possono determinare
l’adattamento o il disadattamento. Si tratta di uno schema che vede al centro il
FUNZIONAMENTO DEL BAMBINO, vale a dire i processi e le risposte che, in un certo
tempo, mediano la relazione tra le influenze sociali e ambientali passate e attuali, e gli esisti
connessi all’adattamento o al disadattamento. Le influenze dell’ambiente e della famiglia
vengono interpretate alla luce di un intergioco tra FATTORI DI RISCHIO e FATTORI DI
PROTEZIONE. I primi possono determinare una certa quota di vulnerabilità e, se perdurano
cronicamente e si sommano ad ulteriori eventi negativi, possono essere
predittivi di disadattamento. I secondo consistono in particolari eventi o relazioni, che in
condizioni abituali non esercitano alcuna funzione particolare e sono neutri, ma assumono un
valore protettivo quando intersecano situazioni di rischio e quindi entrano a far parte di un
processo protettivo. Il basso livello di scolarità della madre viene considerato un importante
fattore di rischio per la salute psico-fisica del bambino, poiché impedisce una piena
padronanza delle istruzioni e delle indicazioni fornite dagli specialisti, e per questo può
indurre forme di accadimento carenti o improprie del bambino. Tale fattore, per generare
deficit nelle competenze parentali, ad esempio trascuratezza dei figli, deve connettersi a
fattori di rischio prossimali, ad esempio un conflitto con il coniuge, il temperamento difficile
del bambino o altri elementi che ne amplifichino e ne potenzino l’effetto negativo. Una buona
relazione coniugale o la presenza di una rete di sostegno parentale, possono fungere da
fattori protettivi, nel compensare insufficienze o incompetenze nelle cure. Questo permette di
capire perché nonostante gravi situazioni avverse, alcuni bambini mantengono un buon
adattamento. L’esposizione alla violenza domestica è risultata la variabile più rilevante nel
predire il disadattamento in età adulta, e in particolare i sintomi di ansia, problemi della
condotta e dipendenza dall’alcol. I bambini coinvolti nei conflitti tra i genitori presentano
problemi e forme di disagio di diversa entità che possono sfociare in problemi sia di
internalizzazione (preoccupazione, ansia, tensione, sintomi depressivi) sia di
esternalizzazione (aggressività, ostilità, comportamenti devianti o antisociali). La frequenza,
l’intensità, il contenuto e le modalità adottate per affrontare il conflitto svolgono un ruolo
determinante. L’intensità e la frequenza elicitano emozioni di rabbia, tristezza,
preoccupazione e paura, sensi di colpa e propensione a coinvolgersi e intervenire, difficoltà
comportamentali, scolastiche e nell’adattamento psicologico. Anche il contenuto del conflitto
ha una notevole importanza. Assistere a conflitti che hanno come oggetto il bambino, induce
livelli più elevati di tensione e reazioni più massicce di vergogna e sensi di colpa, rispetto a
quelli che vertono sul denaro, sul lavoro o su problemi di coppia. Quando invece il conflitto è
limitato nel tempo e, soprattutto, ha come esito una riconciliazione, non produce effetti
negativi sui figli. Altro aspetto importante è la percezione che i bambini hanno del conflitto
stesso. Il modo in cui un soggetto valuta un evento contribuisce a definirne l’effetto.
Attraverso L’ELABORAZIONE PRIMARIA, il bambino tenta di ricavare informazioni sul livello
di negatività, minaccia e rilevanza del conflitto. Attraverso l’ELABORAZIONE SECONDARIA
approfondisce e cerca di individuare strategie per far fronte al conflitto. Nel caso in cui l’esito
dell’elaborazione indica a valutare il conflitto come non pericoloso, l’attenzione viene distolta;
se invece è percepito come pericoloso, il processo di elaborazione prosegue con l’obiettivo di
comprendere meglio e decidere come far fronte. In tal caso il bambino tenta di stabilire il
motivo che ha determinato il conflitto, chi è il principale responsabile, quali siano le sue
possibilità di riuscire ad affrontarlo con successo. Riuscire a rintracciare la causa di un
evento rappresenta un meccanismo mentale abituale che tranquillizza e aiuta ad affrontarlo.
Consente di superare una percezione soggettiva di impotenza. Attribuire la causa di un
evento a fattori interni a sé, stabili e duraturi, costituisce l’insieme di condizioni più negative.
In particolare, i bambini in età prescolare che non possiedono gli schemi cognitivi per risalire
a cause distanti nel tempo o complesse, non riuscendo ad immaginare che avvenimento
antecedenti possano avere
causato il disaccordo tra i genitori, concludono erroneamente che il loro comportamento sia
la causa più probabile del conflitto. I bambini emotivamente sicuri hanno fiducia nella
stabilità e nella prevedibilità della relazione coniugale, si aspettano che eventuali conflitti
giungano ad una soluzione e sentono di potere comunque contare sulla disponibilità
psicologica e fisica dei genitori. I bambini emotivamente insicuri, invece, percepiscono i
litigi come particolarmente minacciosi per il proprio benessere psicologico.
L’ADOLESCENZA
Il periodo di transizione tra l’infanzia e la vita adulta prende il nome di ADOLESCENZA e
corrisponde ad un arco di anni variabile da individuo a individuo. L’inizio dell’adolescenza può
essere collocato all’incirca tra i 10 e i 12 anni nelle femmine, e tra gli 11 e i 13 anni nei
maschi, mentre la conclusione viene fatta coincidere, per entrambi, con i 18 anni, allorchè
l’individuo acquisisce la competenza e i requisiti necessari per assumere le responsabilità di
adulto. E’ una fase caratterizzata da grandi cambiamenti che attraversano i diversi aspetti
dell’esistenza. La PUBERTA’ è un fenomeno universale che segnala il passaggio dalla
condizione fisiologica del bambino alla condizione fisiologica dell’adulto; l’adolescenza,
invece, è passaggio dallo status sociale del bambino a quello dell’adulto che varia per durata,
qualità e significato da una civiltà all’altra e, all’interno della stessa civiltà, da un gruppo
sociale all’altro. La PREADOLESCENZA va dagli 11 ai 14 anni, l’ADOLESCENZA dai 15 ai
18. Nella PREADOLESCENZA vengono affrontati problemi nuovi e del tutto diversi da quelli
tipici dell’infanzia; problemi legati alla crescita fisica, all’identità corporea, alla definizione
sessuale che spesso si impongono con evidenza e in modo improvviso prima che un ragazzo
o una ragazza siano in possesso degli strumenti psicologici necessari per poterli affrontare
efficacemente e per elaborarli. Nell’ ADOLESCENZA, la maturazione delle capacità di analisi
e di introspezione, la definizione della propria identità, dei valori e delle scelte, consentono
una progressiva riorganizzazione. Mead ha mostrato come i cosiddetti sconvolgimenti
adolescenziali siano, in primo luogo, un prodotto culturale. A differenza di ciò che si verifica
nella cultura occidentale, i giovani dell’isola di Samos, fin dalla più tenera età hanno un tipo di
educazione alla sessualità, alle relazioni sociali e di gruppo che consentono un passaggio
alla vita adulta non contrassegnato da conflitti e disagi. Con l’espressione “COMPITO DI
SVILUPPO”, indichiamo i diversi problemi che l’adolescente progressivamente incontra. Lo
sviluppo corporeo impone il passaggio da una struttura fisica ancora di tipo infantile ad una
ormai simile a quella dell’adulto; la maturazione sessuale sollecita sia relazioni affettive di
natura diversa da quelle sperimentate nell’ambiente familiare sia la definizione del ruolo
sessuale.
LA PUBERTA’
Secondo il padre della psicoanalisi, l’adolescenza coincide con l’abbandono delle PULSIONI
di tipo pregenitale e dell’investimento libidico sulle ZONE EROGENE parziali (orale, anale,
uretrale), a favore delle pulsioni sessuali di tipo genitale, ed è caratterizzata da cambiamenti
che debbono condurre la vita sessuale alla sua definitiva strutturazione
normale. Se finora la pulsione sessuale era prevalentemente autoerotica, ora trova l’oggetto
sessuale. Il pericolo di perdita del controllo pulsionale o la forte presenza di fantasie sessuali,
tipiche della pubertà, richiedono all’intero sistema di difesa dell’Io di entrare in campo per
controllare le spinte libidiche. Il ricorso massiccio a meccanismi di difesa quali la rimozione,
identificazioni e proiezioni e talvolta sforzi decisi verso la razionalizzazione, diventa quindi
inevitabile per permettere all’individuo di sottrarsi al costante riemergere delle pulsioni.
L’ASCETISMO, come processo difensivo, è caratterizzato dalla rinuncia ad ogni piacere dei
sensi per dedicarsi a più alti ideali religiosi e morali, a prezzo di una negazione diffidenza
verso tutte le spinte istintuali, anche quella vitale ad alimentarsi.
L’INTELLETTUALIZZAZIONE implica uno spostamento degli affetti dagli oggetti di amore e
di odio alle discussioni intellettuali, in modo da poter controllare il conflitto psichico, legandolo
ad un contenuto ideativo. L’articolazione di questi meccanismi di difesa nella complessa
dinamica intrapsichica che caratterizza l’adolescenza concorre a far evolvere il conflitto che
sfocia nella formazione del carattere.
L’IDENTITA’ ADOLESCENZIALE
IL MODELLO DI ERIKSON
Basata sul concetto di CRISI DI IDENTITA’, deriva dalla sua esperienza clinica coniugata con
lo studio di campioni di soggetti affetti da disturbi emotivi. La ricerca dell’identità si manifesta
in forma più evidente nell’adolescenza. La teoria di Erikson propone uno schema evolutivo
caratterizzato da 9 stadi a cui corrispondono altrettante crisi psicosociali che, se superate con
successo, rappresentano un passo avanti verso la maturità psicologica. Per ognuna delle fasi
di sviluppo che l’Io deve affrontare e risolvere sono possibili esisti adattivi o disadattavi, che
dipendono dalle esperienze passate ma anche da quelle che nascono nel presente e che
contengono potenzialità trasformative. Il sentimento cosciente di avere un’identità si basa
sulla percezione della continuità della
propria esistenza nel tempo e nello spazio, e sul simultaneo riconoscimento di tale continuità
da parte degli altri. Il periodo adolescenziale è dominato dalla tensione fra identità e
confusione o dispersione dell’identità, ed è caratterizzato dalla messa in discussione di tutte
le conquiste precedenti. L’individuo abbandona alcuni dei modelli di identificazione certi e
consolidati che hanno caratterizzato la sua fanciullezza e si trova nella condizione di dover
selezionare e scegliere cosa essere e cosa diventare, in base ai suoi valori, alle sue
capacità e alle opportunità che gli vengono offerte. Il pericolo che incombe su questa fase
della vita è la confusione del proprio ruolo, vale a dire il rischio di non riuscire ad integrare in
una sintesi originale e personale le proprie identificazioni, le diverse espressioni di sé e i
ruoli svolti in diverse situazioni. Si ha in questo caso una IDENTITA’ DIFFUSA, una
personalità frammentaria che non si fonda su un solido nucleo aggregante. I comportamenti
delinquenziali e devianti si cristallizzano in una IDENTITA’ NEGATIVA, espressione con cui
si intende la ricerca di un’identità fondata su quelle identificazioni e quei ruolo che, sebbene
socialmente indesiderabili e pericolosi, vengono comunque privilegiati e fatti propri
dall’adolescente. Se il percorso adolescenziale, caratterizzato dalla crisi di identità, si
conclude in senso positivo emerge un’identità caratterizzata da COERENZA E
CONTINUITA’, intese come una sostanziale consistenza e stabilità interna, pur al variare
delle esperienze e degli accadimenti, accettazione dei propri limiti, intesa come
consapevolezza delle proprie caratteristiche fisiche e psicologiche nell’esercizio della libertà
personale, senso di reciprocità, vale a dire coscienza di una sostanziale coerenza tra la
propria immagine personale e quella riflessa dagli altri.
STATI DI IDENTITA’
Il modello di Erikson è stato articolato grazie agli studi di Marcia. Marcia ha sviluppato una
personale metodologia di intervista atta a verificare il complessivo status di identità in
relazione ad importanti aspetti della vita adolescenziale: il lavoro, i valori religiosi, le credenze
politiche e gli atteggiamenti sessuali. Ha così definito quattro principiali STATI DI IDENTITA’
che vengono a configurarsi attraverso il concreto intersecarsi di due dimensioni, l’esperienza
e l’impegno. Nella vita dell’adolescente cominciano ad affacciarsi esperienze nuove che
possono essere affrontate con maggiore o minore impegno. Ogni tipo di impegno si
concretizza in uno stato di identità. Si può così giungere ad una identità realizzata, esisto di
un’esperienza esplorativa positiva, coniugata con un valido impegno; oppure a blocchi di
identità, quando la pressione verso impegni seri è precoce fino al punto da non consentire la
libera sperimentazione. L’esplorazione incerta e l’impegno poco soddisfacente possono
generare uno sorta di diffusione di identità, o confusione, per il fatto che l’individuo non ha
ancora seriamente scelto or filet tutto. Se, infine, viene a determinarsi una situazione di stallo
e un prolungamento della fase esplorativa e valutativa si realizza una condizione di moratoria
dell’identità, caratterizzata dal dubbio tra alternative diverse, all’interno delle quali non si
riesce ad operare una scelta. Emergono tre processi o stili, associabili agli stati di identità di
Marcia, con cui gli individui affrontano sia i normali compiti sia gli ostacoli, le contraddizioni e
le situazioni stressanti. Gli adolescenti che usano uno STILE NORMATIVO, interiorizzano i
valori, le credenze e le prescrizioni sociali,
cercano il sostegno sociale, non tollerano l’ambiguità e difendono la propria struttura
identitaria dalle contraddizioni e dai segnali che potrebbero metterla in discussione. Lo STILE
INFORMATIVO caratterizza adolescenti con modalità proattive, coping orientato al problema,
auto riflessività, introspezione, capacità di esplorazione, prontezza nel cogliere le
informazioni provenienti dall’ambiente e capacità di mettersi criticamente in discussione.
Infine lo STILE DIFFUSO/EVITANTE è dell’adolescente che cerca di rimandare le scelte,
procrastinare le decisioni, evitare i conflitti identitari col rischio che sarà poi l’ambiente a
decidere per lui.