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Anche gli avvocati sono stati bambini, immagino...

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Harper Lee

IL BUIO OLTRE LA SIEPE


(To Kill a Mockingbird)

Scan da edizione cartacea Feltrinelli, reperito, convertito e ottimizzato da Vale76

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Feltrinelli

titolo dell'opera originale: To Kill a Mockingbird

(J.B. Lippincott Company, Philadelphia & New York, 1960) copyright ©1960 by Harper
Lee

traduzione dall'inglese di Amalia D'Agostino Schanzer

copyright by © Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

prima edizione italiana: giugno 1962

sesta edizione: aprile 1963

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al signor Lee e ad Alice

in segno di affetto profondo

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Parte Prima

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capitolo primo
Jem, mio fratello, aveva quasi tredici anni all'epoca in cui si ruppe malamente
il gomito sinistro. Quando guarì e gli passarono i timori di dover smettere di
giocare a palla ovale, Jem non ci pensò quasi più. Il braccio sinistro gli era
rimasto un po' più corto del destro; in piedi o camminando, il dorso della
sinistra faceva un angolo retto con il corpo, e il pollice stava parallelo alla
coscia, ma a Jem non importava un bel nulla: gli bastava poter continuare a
giocare, poter passare o prendere il pallone al volo.
Poi, quando di anni ne furon trascorsi tanti da poterli ormai ricordare e
raccontare, ogni tanto si discuteva di come erano andate le cose, quella volta.
Secondo me tutto cominciò a causa degli Ewell, ma Jem, che ha quattro
anni più di me, diceva che bisognava risalir molto più indietro, e
precisamente all'estate in cui capitò da noi Dill e per primo ci diede l'idea di
far uscire di casa Boo Radley.
Ma allora, ribattevo io, se si voleva proprio risalire alle origini, perché
non dire che la colpa era di Andrew Jackson? Se il generale Jackson non
avesse incalzato gli indiani creek lungo il ruscello, Simon Finch non avrebbe
risalito l'Alabama con la sua piroga, e dove saremmo noi, a quest'ora?
Eravamo troppo grandi, oramai, per risolvere la controversia a botte;
consultammo nostro padre Atticus, e lui disse che avevamo ragione tutti e
due.
Siccome eravamo nel sud, per alcuni di noi in famiglia era fonte di
vergogna il fatto di non contare antenati che, dall'una o dall'altra parte,
avessero combattuto ad Hastings. Non avevamo che Simon Finch, un
farmacista cacciatore di pellicce venuto dalla Cornovaglia, nel quale la
religiosità era superata soltanto dalla taccagneria. In Inghilterra, a Simon non
era piaciuta la persecuzione svolta nei confronti di quelli che si dicevano
metodisti dai confratelli più corrivi, e poiché anche lui si sentiva metodista,
s'era deciso ad attraversare l'Atlantico, era sbarcato prima a Filadelfia, poi in
Giamaica e quindi a Mobile, e infine aveva risalito il fiume Saint Stephens.
Memore dei rimproveri di John Wesley a chi spreca parole per comprare
e vendere, Simon aveva fatto fortuna esercitando la medicina, ma anche in
questa attività si sentiva infelice perché temeva sempre di cadere nella
tentazione di far qualcosa che non avesse per fine la gloria di Dio, come il
mettersi addosso ori e abiti sontuosi. Così Simon, dimenticate le parole del
suo maestro contro le proprietà terrene, acquistò tre schiavi e con il loro aiuto

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fondò una fattoria sulle rive dell'Alabama, una quarantina di miglia a nord di
Saint Stephens. Ritornò a Saint Stephens una volta sola, per procurarsi una
moglie, e con lei originò una discendenza composta in prevalenza di figlie.
Simon visse fino a tardissima età e morì ricco.
Da allora, gli uomini della famiglia abitarono per tradizione nella casa
fondata da Simon, l'"Approdo dei Finch," e coltivarono il cotone. La
proprietà era autosufficiente; l'Approdo, pur essendo un possedimento
modesto in confronto agli imperi agricoli che lo circondavano, produceva
tutto il necessario alla vita, salvo il ghiaccio, la farina di frumento e gli
articoli di vestiario, che si facevano venire, via fiume, da Mobile.
Se fosse stato vivo, Simon avrebbe assistito furioso, ma impotente, ai
disordini tra nord e sud, che lasciarono i suoi discendenti spogli di tutto
fuorché della terra; pure, la tradizione che li legava a quei campi non subì
interruzioni fino alla fine dell'Ottocento, quando mio padre, Atticus Finch,
andò a Montgomery a studiar legge e il suo fratello minore, John, a Boston a
studiare medicina. La sorella Alexandra fu la sola, dei Finch, che rimase
all'Approdo; e sposò un uomo taciturno che trascorreva la maggior parte del
suo tempo in un'amaca presso il fiume a chiedersi se le trote avevano
abboccato agli ami.
Quando mio padre fu abilitato, ritornò a Maycomb e si dedicò alla
professione. Situata a una ventina di miglia ad est dell'Approdo dei Finch,
Maycomb era il capoluogo della contea. Lo "studio" di Atticus, in tribunale,
consisteva più che altro in una gruccia per appendere il cappello, una
sputacchiera, una scacchiera e un intonso Codice dell'Alabama. I suoi primi
clienti furono gli ultimi due cui toccò di morire impiccati nel carcere della
contea. Atticus aveva cercato in ogni modo di convincerli ad accettare la
longanimità del governo: potevano dichiararsi colpevoli di omicidio
preterintenzionale e avrebbero avuto salva la vita; ma erano due Haverford, e
nella contea di Maycomb era come dire due imbecilli. I due Haverford
avevano accoppato il miglior fabbro di Maycomb per via di un malinteso,
sorto, sostenevano, perché lui s'era tenuto una giumenta non sua, ed erano
stati tanto imprudenti da farlo in presenza di tre testimoni; dopodiché
avevano preteso di impostare la propria difesa sul fatto che "quel bastardo
era andato a cercar grane"; e questo, secondo loro, doveva bastare a
giustificarli. S'inzuccarono a dichiararsi innocenti, e Atticus non poté far altro
che assistere alla dipartita dei suoi clienti; e di qui probabilmente ebbe origine
la profonda antipatia di mio padre per la professione di penalista.

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Nei primi cinque anni che passò a Maycomb, Atticus più che al diritto si
dedicò alla finanza, e i guadagni li investì nell'istruzione del fratello minore.
John Hale Finch aveva dieci anni meno di mio padre e aveva deciso di
studiar medicina perché a quel tempo coltivare il cotone non rendeva nulla;
ma è anche vero che, avviato zio Jack alla sua professione, ad Atticus era
rimasta pur sempre una rendita soddisfacente. Maycomb gli piaceva; era nato
e cresciuto in quella contea, conosceva la gente, la gente conosceva lui, e,
grazie alla solerzia di Simon Finch, Atticus si trovava imparentato per sangue
o per matrimonio con quasi tutte le famiglie della città.
Maycomb era una vecchia città, e quando la conobbi io era una città
vecchia e stanca. Nei giorni di pioggia le strade si trasformavano in una
fanghiglia rossa, sui marciapiedi cresceva l'erba, e il palazzo del Tribunale
sprofondava a poco a poco nella piazza. A quei tempi faceva anche in un
certo senso più caldo che adesso, e, come si suol dire, un cane nero soffriva
parecchio in una giornata d'estate. Le mule ossute attaccate ai carri di Hoover
scacciavano le mosche con la coda all'ombra afosa delle querce della piazza,
e i colletti inamidati degli uomini erano già flosci alle nove di mattina. Le
signore facevano il bagno prima di mezzogiorno e lo rifacevano dopo il
sonnellino delle tre pomeridiane, e al calar della sera parevano morbidi
pasticcini da tè canditi di sudore e di talco profumato.
La gente si muoveva lentamente. Passeggiavano pian piano per la piazza,
entravano e uscivano pigramente dai negozi trascinando i piedi, e facevano
tutto con molta calma. La giornata era, sì, di ventiquattr'ore, ma pareva più
lunga. La fretta era ignorata perché non c'era dove andare, nulla da
comperare (a parte il fatto che mancava anche il denaro per comperarlo), e
nulla da vedere fuori dei confini della contea di Maycomb. Eppure era
un'epoca di confuso ottimismo per una parte della popolazione: qualcuno
aveva detto, di recente, alla gente di Maycomb, che non doveva temer nulla,
tranne il timore.
Atticus, Jem ed io vivevamo nella strada principale del quartiere
residenziale, e con noi c'era anche Calpurnia, la cuoca. Jem ed io eravamo
abbastanza soddisfatti di nostro padre: giocava con noi, leggeva per noi ad
alta voce e ci trattava con cortese distacco.
Calpurnia era una personalità completamente diversa. Angolosa, ossuta,
era miope, strabica, e aveva le mani larghe come la traversa del letto e dure il
doppio. Non faceva che cacciarmi dalla cucina chiedendomi perché non mi
comportassi bene come Jem (eppure lo sapeva che Jem era più grande di
me!), o mi chiamava in casa proprio quando meno ero disposta a tornarci. Le

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nostre battaglie erano epiche e monotone: vinceva sempre Calpurnia,
soprattutto perché Atticus puntualmente prendeva le sue parti. Stava con noi
da quando era nato Jem, e a quel che ricordavo la sua presenza tirannica
m'aveva sempre ossessionata.
Nostra madre era morta quando avevo due anni, perciò non sentii mai la
sua mancanza. Era una Graham, di Montgomery. Atticus l'aveva conosciuta
quando era stato eletto per la prima volta all'Assemblea legislativa dello Stato.
Era già uomo maturo e lei aveva quindici anni meno di lui. Jem fu il frutto
del primo anno di matrimonio: quattro anni più tardi nacqui io, e due anni
dopo nostra madre morì di infarto. Dicevano che non era la prima della sua
famiglia. Io non ne sentii la mancanza, ma Jem sì. La ricordava benissimo e a
volte, nel bel mezzo di un gioco, traeva un lungo sospiro e se ne andava a
giocare da solo dietro la rimessa. Quando Jem faceva così, mi guardavo bene
dallo stuzzicarlo.
Quando avevo quasi sei anni e Jem quasi dieci, d'estate il nostro raggio di
azione (sempre a portata della voce di Calpurnia), era limitato a nord dalla
casa della signora Lafayette Dubose, che stava due porte più su di noi, e a
sud dalla casa dei Radley, tre porte più giù. Non avevamo mai la tentazione di
sconfinare: la casa dei Radley era abitata da un'entità sconosciuta; bastava
descrivercela per farci rigare diritti per vari giorni. La signora Dubose, poi,
era l'inferno scatenato.
Fu quella l'estate in cui capitò da noi Dill.
Una mattina presto, mentre stavamo per metter mano al gioco in cortile,
Jem ed io udimmo un rumore nel giardino vicino, nell'orto dove miss Rachel
Haverford coltivava i cavoli. Ci avvicinammo alla rete divisoria per vedere se
non ci fosse, per caso, un cucciolo - la rat-terrier della signorina Rachel
aspettava la figliata - invece scoprimmo uno, seduto, che ci guardava. così,
seduto, non era molto più alto dei cavoli. Lo fissammo finché non parlò.
"Ciao," disse.
"Ciao," rispose Jem affabilmente.
"Sono Charles Baker Harris," disse. "So leggere."
"Bè?" dissi io.
"Così, pensavo che vi avrebbe fatto piacere saperlo: se avete qualcosa da
leggere in casa, ci sono io."
"Quanti anni hai?" chiese Jem. "Quattro e mezzo?"
"Quasi sette."
"Allora non c'è niente di strano," disse Jem, e indicandomi col pollice
aggiunse: "Quella là legge da quando è nata e ancora non ha cominciato ad

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andare a scuola. Tu sembri proprio piccolo per quasi sette anni."
"Sono piccolo, ma sono grande," rispose.
Jem si scansò i capelli dagli occhi per vederci meglio. "Perché non vieni
qua, Charles Baker Harris?" chiese. "Dio, che nome!"
"Non è peggio del tuo! Zia Rachel dice che ti chiami Jeremy Atticus
Finch!"
Jem gli diede un'occhiataccia. "Ma io sono grande abbastanza per il mio
nome," disse. "Il tuo, invece, è più lungo di te. Scommetto che è mezzo metro
più lungo."
"Ma tutti mi chiamano Dill," disse Dill, cercando di sgusciare sotto la rete.
"Faresti meglio a scavalcarla," dissi. "Da dove vieni?"
Dill era di Meridian, nel Mississippi; era venuto a passar l'estate con la zia,
miss Rachel, e da allora in poi avrebbe trascorso tutte le estati a Maycomb. La
sua famiglia era della contea; la madre, che lavorava a Meridian per un
fotografo, aveva presentato la fotografia di Dill a un concorso di bellezza
infantile, aveva vinto cinque dollari e il denaro lo aveva dato a Dill che se ne
era servito per andare venti volte al cinematografo.
"Non abbiamo cinema, qui, salvo i film su Gesù, che danno qualche volta
nella sala del tribunale," disse Jem. "Hai visto qualche bel film?"
Dill aveva visto Dracula; a questa rivelazione Jem lo guardò con una
punta di rispetto. "Raccontacelo," disse.
Dill era una curiosità. Portava calzoncini di lino blu che si abbottonavano
alla camicia, aveva i capelli bianchi come la neve, appiccicati alla testa come
la peluria di un anatroccolo; aveva un anno più di me, ma io lo avanzavo
d'un pezzo, in statura. Mentre ci raccontava la trama, i suoi occhi azzurri ora
si illuminavano e ora si incupivano; aveva una risata improvvisa e felice e il
vezzo di tirarsi una ciocca di capelli che sporgeva ribaldamente sulla fronte.
Quando Dill ebbe polverizzato Dracula, Jem disse che il film doveva
essere meglio del libro. Io chiesi a Dill dove fosse suo padre. "Non ci hai
detto niente, di lui."
"Non ce l'ho."
"È morto?"
"No..."
"Allora se non è morto, ce lo devi avere, no?"
Dill arrossì, e Jem mi disse di star zitta, segno sicuro che aveva già
valutato Dill e l'aveva giudicato accettabile. Da quel giorno, l'estate trascorse
nel solito tran-tran piacevole: la impiegammo a migliorare la nostra casa
pensile, sospesa tra le saponarie gemelle del cortile, ad affaccendarci in mille

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inezie, e a ripassare tutto il nostro repertorio drammatico, tratto dalle opere di
Oliver Optic, Victor Appleton e Edgar Rice Burroughs. Era proprio una
fortuna avere Dill con noi: egli rappresentava tutti i personaggi che fino
allora erano stati imposti a me: la scimmia di Tarzan, il signor Crabbtree in
The Rover Boys, il signor Damon in Tom Swift. E così venimmo a conoscere
Dill sotto l'aspetto di un mago Merlino in formato tascabile, con una testa che
brulicava di progetti eccentrici, di strane aspirazioni e di fantasie bizzarre.
Verso la fine di agosto, il nostro repertorio era ormai divenuto sciapo per
le troppe ripetizioni, e fu allora che Dill ci diede l'idea di far uscire di casa
Boo Radley.
La casa di Radley affascinava Dill. Nonostante tutti i nostri ammonimenti
e le nostre spiegazioni, lo attraeva come la luna attrae l'acqua; non andava,
però, oltre il palo della luce, all'angolo. Là, a distanza ancora prudente dal
cancello dei Radley, egli si fermava, e circondando con il braccio il grosso
palo, guardava e fantasticava.
La casa dei Radley si protendeva, formando una brusca curva, poco oltre
la nostra casa. Camminando verso sud, ci si trovava di fronte il porticato, poi
il marciapiede girava, fiancheggiando la proprietà.
La casa, bassa, era stata bianca un tempo, con un largo portico centrale e
le persiane verdi, ma da molto tempo si era scurita sino a diventare del colore
del terreno grigio ardesia che la circondava. Le tegole di legno, consumate
dalla pioggia, slittavano fin sulla grondaia del porticato; le querce tenevano
lontano il sole. I resti di una stecconata, che si rizzava qua e là e
disordinatamente come la camminata di un ubriaco, proteggevano il
"giardino," un appezzamento incolto, dove crescevano in abbondanza sorgo
ed erbacce varie.
Dentro la casa viveva un fantasma maligno. La gente diceva che c'era, ma
io e Jem non lo avevamo mai visto. Dicevano che veniva fuori di notte,
quando la luna tramontava, e spiava la gente dalle finestre. Quando le azalee
di un giardino appassivano come per una improvvisa gelata, era perché il
fantasma vi aveva alitato sopra.
Tutti i piccoli misfatti impuniti commessi a Maycomb erano opera sua.
Una volta la città fu terrorizzata da una serie di avvenimenti notturni che
colpirono per il loro carattere maligno: s'erano trovati mutilati polli e animali
da cortile, e anche quando si seppe ch'era stato Addie il Matto, il quale poi si
annegò nello stagno dei Barker, tutti continuavano a guardare storto la casa
dei Radley, incapaci di abbandonare il primitivo sospetto. Un negro non
passava mai davanti alla casa dei Radley di notte: traversava, fischiando, la

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strada, e correva sull'altro marciapiede. Il parco della scuola di Maycomb
confinava con il lato posteriore della proprietà dei Radley, e gli alti alberi di
noce americano agitavano i rami sul cortile della scuola, ma le noci cadute
restavano a terra e i bambini non le toccavano nemmeno: le noci dei Rad-ley
facevan morire. Se una palla da baseball cadeva sul terreno dei Rad-ley, era
una palla perduta e non se ne parlava più.
Quella casa andò in disgrazia molti anni prima che Jem ed io nascessimo.
I Radley, che pure in città sarebbero stati accolti volentieri da tutti, se ne
stavano per conto loro, e questo era un atteggiamento che Maycomb non
poteva perdonare. Non andavano in chiesa, (passatempo principale degli
abitanti di Maycomb), e compivano i loro doveri religiosi a casa; quasi non ci
si ricordava che la signora Radley avesse mai traversato la strada per andare a
bere un caffè, a metà mattina, da qualche vicino; non era mai stata iscritta a
nessun circolo missionario. Il signor Radley andava a piedi in città, tutte le
mattine alle undici e mezzo, e alle dodici era già di ritorno, qualche volta con
un pacco avvolto in carta marrone; secondo i vicini, nel pacco c'era tutta la
spesa dei Radley.
Non ho mai saputo di che vivesse il vecchio Radley (Jem diceva che
"comperava cotone," modo educato per dire che non faceva nulla), so solo
che viveva a Maycomb con la moglie e i due figli maschi da tempo
immemorabile.
La domenica, porte e finestre di casa Radley restavano chiuse, altra
abitudine, questa, contraria alla mentalità di Maycomb. Gli altri, le porte le
chiudevano soltanto per una malattia o quando faceva molto freddo, e la
domenica era proprio la giornata in cui avvenivano le visite ufficiali: le
signore mettevano il busto, gli uomini la giacca e i bambini le scarpe. Ma ai
vicini dei Radley non sarebbe nemmeno venuto in mente di salire quei
gradini, una domenica pomeriggio, gridando: "Oè, di casa!..." La casa dei
Radley non aveva, come tutte le altre, le porte di legno con i telai di rete
metallica; una volta chiesi ad Atticus se le avessero mai avute, ed egli mi
rispose che le avevano anni prima, avanti che io nascessi.
Stando alla leggenda che si era diffusa nel vicinato, quando il più giovane
dei ragazzi Radley fu sui quindici anni, fece conoscenza con alcuni dei
Cunningham di Old Sarum, una enorme e disordinata tribù che viveva nella
parte nord della città, e con loro formò una specie di gang: novità assoluta
per Maycomb. In fondo non facevano nulla di grave, ma ne combinarono
sempre abbastanza per venir criticati in città e pubblicamente ammoniti da tre
pulpiti: erano sempre a ciondolare intorno al negozio del barbiere, la

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domenica prendevano l'autobus e andavano al cinema a Abbotsville, o a
ballare al casino della pesca, alla "Goccia di Rugiada," in riva del fiume, e
fecero persino conoscenza con il whisky di contrabbando. Nessuno, a
Maycomb, se la sentì di andare a dire al signor Radley che il suo ragazzo
frequentava un ambiente poco consigliabile.
Una notte che si sentivano particolarmente euforici, i ragazzi fecero il giro
della piazza, a marcia indietro, su una vecchia automobile che avevano
noleggiato chissà da chi, opposero resistenza al vecchio usciere di Maycomb,
il signor Conner, che voleva trarli in arresto, e lo chiusero a chiave nella
rimessa del tribunale. I maggiorenti della città decisero che era venuta l'ora di
prendere qualche provvedimento; il signor Conner dichiarò di aver
riconosciuto benissimo i componenti della gang, uno per uno. Era
fermamente deciso a non fargliela passare liscia, e così i ragazzi comparvero
davanti al giudice a rispondere dell'accusa di condotta disordinata, disturbo
della pubblica quiete, oltraggio e violenza all'autorità e linguaggio sacrilego in
presenza di donne. Il giudice chiese al signor Conner perché avesse aggiunto
quest'ultima accusa, e Conner rispose che avevano bestemmiato così forte
che di sicuro tutte le signore di Maycomb li avevano uditi. Il giudice decise di
spedire i ragazzi alla scuola statale industriale, dove di solito si mandavano i
giovani unicamente per assicurar loro vitto e condizioni di vita decenti. Non
era una prigione e la cosa non era infamante, ma il signor Rad-ley la giudicò
tale e disse al giudice che se avesse lasciato libero Arthur, ci avrebbe pensato
lui a impedirgli di combinare altri guai. Il giudice sapeva che la parola di
Radley equivaleva a un impegno preciso e aderì volentieri alla sua richiesta.
Gli altri ragazzi andarono alla scuola industriale e vi ricevettero la
migliore istruzione secondaria che si potesse avere in tutto lo stato: uno di
essi arrivò persino all'istituto di ingegneria di Auburn. Le porte della casa dei
Radley invece si chiusero anche nei giorni feriali e per quindici anni nessuno
vide più il figlio del signor Radley.
Ma venne un giorno, Jem se ne ricordava appena, che furono in parecchi
a vedere e udire Boo Radley. Jem non lo vide, però. Si lamentava che Atticus
non parlasse quasi mai dei Radley; se lui gliene chiedeva, Atticus rispondeva
soltanto che s'occupasse dei fatti propri e lasciasse che i Radley si
occupassero dei loro, com'era loro diritto, e scuoteva la testa mormorando:
"Mm, mm, mm..." così Jem ricavava la maggior parte delle notizie sui Radley
dalla signorina Stephanie Crawford, una vicina brontolona, che diceva di
esser sempre al corrente di tutto. Secondo miss Stephanie, un giorno Boo se
ne stava seduto nel soggiorno, ritagliando dalla Maycomb Tribune dei

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trafiletti da incollare nel suo album: suo padre entrò nella stanza, e Boo,
quando sentì che gli passava vicino, cacciò le forbici nella gamba del
genitore, le tirò fuori, le asciugò sui pantaloni e si rimise a tagliar giornali.
La signora Radley corse in strada urlando che Arthur li voleva uccidere
tutti, ma quando arrivò lo sceriffo, trovò Boo ancora seduto nel soggiorno,
che ritagliava la Tribune. A quell'epoca aveva trentatré anni.
Miss Stephanie riferì che quando suggerirono al vecchio Radley che a
Boo avrebbe fatto bene un po' di tempo a Tuscolana, lui rispose che non si
sognava nemmeno di mandare Boo al manicomio: Boo non era pazzo, era
soltanto esaltato, e neanche sempre. Lo rinchiudessero pure, se volevano,
disse il signor Radley, ma non lo accusassero, perché un criminale non era.
Lo sceriffo non ebbe il coraggio di metterlo in galera insieme ai negri, e così
Boo venne rinchiuso nel seminterrato del tribunale.
Il ritorno definitivo di Boo dal tribunale a casa rimase sempre un fatto
nebuloso, nella memoria di Jem. Miss Stephanie Crawford raccontò che
alcuni membri del consiglio comunale avevano detto a Radley che Boo, se
non lo avessero riportato a casa, sarebbe morto per l'aria umida e malsana del
seminterrato. Oltre tutto, Boo non poteva vivere indefinitamente a spese della
contea.
Nessuno sapeva quali forme di intimidazione impiegasse il signor Radley
per tener Boo lontano dagli occhi del prossimo, ma Jem immaginava che la
maggior parte del tempo il signor Radley lo tenesse incatenato al letto.
Secondo Atticus invece usava certamente altri sistemi: c'erano tanti modi per
trasformare una persona in fantasma.
Io ricordavo di aver visto la signora Radley di tanto in tanto, quando
apriva la porta d'ingresso e, giunta all'orlo del portico, versava l'acqua sulle
sue canne; ma tutti i giorni Jem ed io vedevamo il signor Radley andare in
città e tornare. Era un uomo magro e d'aspetto coriaceo, con occhi incolori,
così sbiaditi che non vi si rifletteva nemmeno la luce. Aveva gli zigomi aguzzi
e la bocca larga, con il labbro superiore sottile e quello inferiore pieno. Miss
Stephanie Crawford diceva che era tanto dritto, che per lui la parola del
Signore era l'unica legge, e noi le credevamo, perché il signor Radley se ne
stava diritto come una canna di fucile.
Non ci rivolgeva mai la parola. Quando ci passava vicino, noi
abbassavamo gli occhi dicendo: "Buon giorno, signore," e lui, per tutta
risposta, tossiva. Il figlio maggiore del signor Radley viveva a Pensacola;
veniva a casa per Natale ed era una delle poche persone che vedessimo mai

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passar la porta di quella casa. La gente diceva che dal giorno in cui il signor
Radley aveva portato Arthur a casa, la casa era morta.
Ma venne un giorno in cui Atticus ci disse che ci avrebbe pestati ben bene
se facevamo rumore in cortile, e quando uscì di casa incaricò Calpurnia di
fare altrettanto se ci avesse udito fare il minimo rumore: il signor Radley era
moribondo.
Se la prese abbastanza comoda. Per parecchi giorni la strada rimase
bloccata, alle due estremità, con cavalletti di legno, sul marciapiede fu sparsa
della paglia e il traffico deviato sulla strada di dietro. Il dottor Reynolds
parcheggiava la macchina davanti a casa nostra e andava dai Radley a piedi.
Jem ed io ci aggirammo per il cortile a passi felpati non so per quanti giorni.
Finalmente i cavalletti vennero portati via, e dal nostro portico assistemmo
all'ultimo viaggio che fece il signor Radley, passando davanti alla nostra casa.
"Ecco che se ne va l'uomo più meschino cui Dio abbia mai concesso di
vivere," mormorò Calpurnia, e sputò in cortile con aria cupa. La guardammo
stupiti, perché era molto raro che Calpurnia commentasse la condotta dei
bianchi.
Il vicinato credeva che una volta andato sotto terra il signor Radley, Boo
sarebbe uscito di casa; invece restarono più che sorpresi quando videro il
fratello maggiore di Boo tornare da Pensacola e prendere il posto del signor
Radley. L'unica differenza tra lui e suo padre stava nell'età. Jem disse che
anche il signor Nathan Radley "comperava cotone." Tuttavia il signor Nathan
ci rivolgeva qualche volta la parola, quando gli dicevamo buon giorno, e a
volte lo vedevamo tornare dalla città con un giornale in mano. Più parlavamo
a Dill dei Radley, più egli ne voleva sapere, più a lungo se ne stava
abbracciato al palo della luce all'angolo, e più fantasticava.
"Io vorrei sapere che cosa fa là dentro," mormorava. "Se soltanto
mettesse fuori la testa..."
Jem disse: "Ma sì che esce, quando è buio pesto. Miss Stephanie
Crawford ha detto d'essersi svegliata nel cuore della notte, una volta, e di
averlo visto che la guardava fisso alla finestra... la sua testa pareva un
teschio. Non lo hai sentito mai, quando ti svegli di notte, Dill? Cammina
così..." Jem strisciò i piedi sulla ghiaia.
"Perché credi che miss Rachel chiuda la casa ermeticamente, di notte?
Io ho visto le sue impronte nel nostro cortile parecchie mattine, e una
notte l'ho udito che grattava alla porta di dietro, ma quando è arrivato Atticus,
non c'era più."
"Mi chiedo a chi somiglierà," disse Dill.

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Jem fece una descrizione abbastanza sensata di Boo: a giudicare dalle sue
orme doveva esser alto circa un metro e novantacinque; mangiava scoiattoli
crudi e tutti i gatti che riusciva ad acchiappare, ed era per questo che aveva le
mani macchiate di sangue.
Aveva una cicatrice lunga e irregolare che gli traversava tutta la faccia; i
denti che gli eran rimasti erano gialli e rotti, gli occhi li aveva molto sporgenti
e sbavava continuamente.
"Cerchiamo di farlo venir fuori," disse Dill. "Mi piacerebbe vedere
com'è."
Jem gli rispose che se voleva farsi uccidere, non doveva far altro che
andare a picchiare a quella porta.
La nostra prima incursione si effettuò soltanto perché Dill scommise Il
Fantasma Grigio contro due Tom Swift che Jem non sarebbe riuscito a
spingersi oltre il cancello dei Radley. In tutta la sua vita Jem non aveva mai
lasciato cadere una scommessa.
Ci rifletté tre giorni. Forse amava l'onore, più della propria testa, perché
Dill ebbe facilmente ragione della sua resistenza. Il primo giorno, Dill gli
disse: "Hai paura, eh?" "Non è paura, è soltanto rispetto," ribatté Jem. Il
giorno dopo Dill tornò alla carica: "Hai tanta paura che non metteresti
neanche la punta del piede nel loro cortile!" Jem disse che non era vero:
passava davanti ai Radley tutti i giorni, andando a scuola!
"Ma di corsa..." aggiunsi io.
Dill la spuntò tre giorni dopo, quando disse che la gente di Meridian non
era paurosa come quella di Maycomb: non aveva mai veduto gente timida
come a Maycomb!
Questo bastò a far marciare Jem fino all'angolo; si fermò e si appoggiò al
lampione, studiando il cancello che pendeva tutto sghimbescio dal cardine
vacillante.
"Spero che ti sia entrato in testa che ci ucciderà tutti, uno per uno, Dill
Harris," disse Jem quando lo raggiungemmo. "Quando ti farà schizzare gli
occhi dalla testa, non te la prendere con me: sei stato tu a cominciare,
ricordatelo!"
"Hai ancora paura," mormorò Dill, paziente.
Jem voleva che Dill si convincesse una volta per tutte che non aveva
paura di nulla: "È soltanto che non riesco a immaginare un modo di farlo
venir fuori senza che ci acchiappi!" E poi lui aveva una sorellina a cui
pensare!

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Capii che era un po' spaventato. Jem aveva da pensare alla sorellina
anche il giorno in cui lo avevo sfidato a saltar giù dal tetto della casa. "Se
m'ammazzo, cosa sarà di te?" mi aveva chiesto.
Poi era saltato, era atterrato incolume, e quel suo senso di responsabilità
non lo aveva più preoccupato... fino a quel giorno, che doveva affrontare la
casa dei Radley.
"Allora che fai, non accetti la sfida?" chiese Dill. "Perché, se è così..."
"Dill, a queste cose bisogna pensarci bene," disse Jem. "Fammi pensare
un momento... sarebbe come voler far uscire una tartaruga dal suo guscio..."
"E come si fa?" chiese Dill.
"Le si accende un fiammifero sotto."
Dissi che se Jem dava fuoco alla casa dei Radley sarei andata subito a
dirlo ad Atticus.
Dill osservò che era una crudeltà accendere un fiammifero sotto una
tartaruga.
"Ma no, serve soltanto a farla uscir dal guscio, mica prende fuoco come
legno!" borbottò Jem.
"Come lo sai, che il fiammifero acceso non le fa male?"
"Le tartarughe non sentono niente, stupido," disse Jem.
"Perché, sei mai stato una tartaruga, tu?"
"O santo cielo, Dill, fammi pensare: se riuscissimo a fargli credere che..."
Jem stette a pensare così a lungo che Dill fece una piccola concessione:
"Senti, basta che tu ci vada e che tocchi la casa: non dirò che non hai
coraggio di accettare la sfida, e ti pagherò anche Il Fantasma Grigio."
Jem si illuminò. "Se tocco la casa e basta?"
Dill fece segno di sì.
"Sei sicuro, di'? Non voglio mica che ti metti a strillare che vuoi qualche
altra cosa appena mi vedi tornare indietro!"
"No, no, stabilito," fece Dill. "Probabilmente lui uscirà e si metterà a
inseguirti, come ti vede in cortile, e allora io e Scout gli saltiamo addosso e lo
teniamo fermo, spiegandogli che non vogliamo fargli niente di male."
Ci staccammo dall'angolo, traversammo la stradina che sbucava davanti
alla casa dei Radley e ci fermammo al cancello.
"Avanti, va'," disse Dill. "Scout ed io siamo subito dietro a te."
"Vado," disse Jem, "ma non mi mettere fretta."
Camminò fino all'angolo della proprietà, poi tornò indietro, studiando il
campo di battaglia, accigliato, grattandosi la testa, come riflettendo al modo
migliore per effettuare l'incursione.

18
A quel punto cominciai a prenderlo in giro.
Jem spalancò il cancello e si diresse in fretta verso il lato della casa; batté
il muro con il palmo della mano e corse indietro, sorpassandoci, senza
aspettar di vedere se l'incursione fosse riuscita. Dill ed io gli fummo subito
alle calcagna. Quando ci trovammo in salvo sotto il nostro porticato,
ansimanti e affannati, ci voltammo a guardare.
La vecchia casa era sempre la stessa, cadente e tetra, ma mentre
guardavamo giù per la strada ci parve di vedere una persiana che si
muoveva. Flic. Un movimento piccolissimo, quasi invisibile, e la casa tornò
immobile.

19
capitolo secondo
All'inizio di settembre Dill ci lasciò per tornarsene a Meridian.
Lo accompagnammo all'autobus delle cinque, e mi sentii molto infelice
senza di lui, finché non mi venne in mente che una settimana dopo avrei
cominciato a andare a scuola. Mai, in vita mia, ho atteso così ardentemente
qualcosa: di solito, l'inverno, passavo molte e molte ore arrampicata sulla
casa dell'albero a guardare il cortile della scuola, spiando sciami di bambini
con un cannocchiale che mi aveva dato Jem, imparando i loro giuochi,
seguendo con gli occhi la giacchetta rossa di Jem tra ondeggianti girotondi di
bambini che giocavano a mosca cieca, condividendo segretamente le loro
sfortune e le loro piccole vittorie. Non vedevo l'ora di unirmi a loro.
Jem accondiscese ad accompagnarmi a scuola, il primo giorno; è un
compito, questo, che generalmente si riserbano i genitori, ma Atticus disse
che Jem sarebbe stato contentissimo di mostrarmi la mia aula.
Ho idea che in questa transazione una certa quantità di denaro cambiò
padrone perché, quella mattina, mentre trottavamo verso la scuola, nel girar
l'angolo dopo la casa dei Radley udii un tintinnio insolito nelle tasche di Jem.
Giunti al cortile della scuola, Jem mi spiegò dettagliatamente che durante le
ore di scuola non dovevo seccarlo, non dovevo pretendere che recitasse con
me un capitolo di Tarzan e gli Uomini Formica, non dovevo metterlo in
imbarazzo con allusioni alla sua vita privata né corrergli dietro al gabinetto o
a merenda.
Dovevo starmene con i miei compagni, in prima, e lui se ne sarebbe stato
in quinta. In poche parole, dovevo lasciarlo in pace.
"Ma allora, non possiamo più giocare assieme?"
"Faremo come facciamo sempre a casa," disse, "ma vedrai, a scuola è
diverso..."
Era diverso, sì. Non era ancora finita la prima mattina di scuola, che già
miss Caroline Fisher, la maestra, mi rimorchiava alla cattedra e, dopo avermi
picchiato sul palmo della mano con una riga, mi metteva in piedi, nell'angolo,
fino a mezzogiorno.
Miss Caroline aveva appena ventun anni, i capelli di un bel castano
chiaro, le guance rosee e lo smalto delle unghie di un rosso acceso.
Portava scarpette con i tacchi alti e un abito a strisce bianche rosse:
pareva una caramella di menta peperita e ne aveva anche il profumo. Stava a
pensione da miss Maudie Atkinson, che abitava di fronte a noi, una casa più

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in giù; miss Maudie le aveva dato la stanza davanti, al piano di sopra, e
quando ci aveva presentati a lei, Jem era rimasto con la testa nelle nuvole per
parecchi giorni.
Miss Caroline scrisse in stampatello il proprio nome sulla lavagna e disse:
"Questo, vedete, significa che io sono miss Caroline Fisher.
Sono dell'Alabama del Nord, contea di Winston." Per tutta la classe si udì
un brusio preoccupato: temevamo che miss Caroline fosse stramba come
quelli del suo paese. (Quando l'Alabama si separò dall'Unione, l'11 gennaio
1861, la contea di Winston si separò dall'Alabama e nella contea di Maycomb
lo sapevano anche i bambini.) Per gli abitanti dell'Alabama del Sud,
l'Alabama del Nord era un paese che si poteva definire così: alcool,
acciaierie, filande, repubblicani, professori, altra gente venuta dal nulla.
Miss Caroline iniziò il primo giorno di scuola leggendoci una storia di
gatti. I gatti facevano conversazione tra loro, portavano abitini civettuoli e
vivevano in una casa calda, accanto alla stufa della cucina. Quando miss
Caroline arrivò al punto in cui la signora Gatta telefonava al negozio per
ordinare dei topi al cioccolato, l'intera classe si dimenava sui banchi,
impaziente, come un cestino di vermi. Evidentemente miss Caroline non
capiva che quei bambinetti, mezzo stracciati, vestiti di cotonina rossa e di tela
iuta, che per lo più avevano trinciato cotone e dato da mangiare ai maiali fin
dal giorno in cui erano stati capaci di camminare, erano refrattari alla
fantasia. Giunta alla fine della lettura, miss Caroline disse: "Carina, questa
storia, vero?"
Poi andò alla lavagna, scrisse l'alfabeto in enormi lettere stampatelle e si
girò verso la classe, chiedendo: "C'è nessuno che sa che cosa siano?"
Lo sapevano tutti: la maggior parte della classe era ripetente.
Forse scelse me perché sapeva il mio nome; mentre leggevo l'alfabeto le
apparve tra le sopracciglia una linea sottile, e dopo di avermi fatta leggere ad
alta voce quasi tutte le Prime Letture e le quotazioni dei titoli sul Bollettino di
Mobile, scoprì finalmente che non ero un'analfabeta e mi guardò con vero
disgusto. Mi disse che pregassi mio padre di non insegnarmi più nulla,
perché il suo metodo avrebbe potuto compromettere i miei progressi nella
lettura.
"Devo pregare mio padre di non insegnarmi più nulla?" ripetei, sorpresa.
"Ma non mi ha insegnato niente, miss Caroline. Atticus non ha tempo di
insegnarmi," soggiunsi vedendo che miss Caroline sorrideva scuotendo la
testa, "è talmente stanco, la sera, che sta seduto nel soggiorno a leggere per
conto suo!"

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"Se non ti ha insegnato niente, chi è che ti ha insegnato a leggere?" chiese,
bonaria, miss Caroline. "Qualcuno deve pure avertelo insegnato: non sarai
mica nata leggendo il Bollettino di Mobile!"
"Jem dice di sì. Ha letto un libro dov'era scritto che io ero un frinquelo
marino invece di un cardellino. Jem dice che il mio nome vero è Jean Louise
Bullfinch, che sono stata sostituita in culla e che in realtà sono una..."
Evidentemente miss Caroline pensò che mentissi. "Non ci lasciamo
trasportare dall'immaginazione, carina," disse. "Oggi pregherai tuo padre di
non insegnarti più niente. È meglio che tu incominci daccapo, a mente fresca.
Gli dirai che da ora in avanti ci penserò io e che cercherò di rimediare al
danno che ha fatto..."
"Al danno che ha fatto?..."
"Tuo padre non sa come si insegna ai bambini. E adesso, siedi."
Mormorai una scusa e mi ritirai a meditare sui miei delitti. Non mi ero
mai messa di proposito ad imparare a leggere, ma mi ero in un certo senso
pasciuta del fango dei giornali quotidiani. Nelle lunghe ore passate in
chiesa... è stato forse allora che ho imparato a leggere? Nel mio ricordo non
esisteva un'epoca in cui non fossi capace di leggere gli inni. Ora che ero
costretta a pensarci, mi pareva che la lettura fosse una cosa venutami
naturalmente, come l'abbottonarmi la tuta da ginnastica senza guardare, o fare
doppio il nodo delle scarpe, districando due lacci aggrovigliati. Non
ricordavo più il momento in cui le righe che il dito di Atticus indicava,
muovendosi sulla pagina, si erano separate in tante parole, mi ricordavo di
aver fissato quelle righe ogni sera della mia vita, ascoltando le notizie di
cronaca, il pastone parlamentare, i diari di Lorenzo Dow, tutto quel che
leggeva Atticus, la sera, quando mi arrampicavo sulle sue ginocchia. Fino al
giorno in cui mi minacciarono di non lasciarmi più leggere, non seppi di
amare la lettura: si ama, forse, il proprio respiro?
Sapevo che avevo fatto un po' inquietare miss Caroline, e quindi me ne
stetti tranquilla cercando di non farmi più notare, guardando fuori dalla
finestra, fino all'ora in cui ci diedero il permesso di andare al gabinetto. In
cortile, Jem mi isolò dalla covata di quelli della prima e mi chiese come me la
cavassi. Gli raccontai tutto.
"Se non dovessi per forza restar qui, me ne andrei subito, Jem.
Quell'accidente di signorina dice che Atticus mi ha insegnato a leggere e
che la devo smettere perché..."
"Non te la prendere, Scout," mi consolò Jem. "La nostra maestra dice che
miss Caroline sta sperimentando un nuovo metodo di insegnamento. Lo ha

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imparato all'Università e tra poco lo metteranno in tutte le classi. Con questo
sistema, non si deve più studiare sui libri: è come se per imparare qualcosa
sulle mucche, ti facessero mungere una mucca, capito?"
"Sì, Jem, ma io non voglio studiare le mucche, io..."
"Ma sì, invece! Bisogna pure intendersi di mucche: qui da noi sono molto
importanti!"
Non potei trattenermi dal chiedere a Jem se era ammattito.
"Ma no, sto cercando il nuovo metodo d'insegnamento elementare,
zuccona! È il Sistema Decimale di Dewey."
Non avevo mai messo in dubbio le affermazioni di Jem e non vidi perché
cominciare a farlo ora. Il Sistema Decimale di Dewey, applicato da miss
Caroline, consisteva, in parte, nell'agitarci davanti agli occhi cartellini che
portavano scritti in stampatello articoli, pronomi e nomi di cose e di animali.
Non avevamo l'impressione che la maestra si aspettasse dei commenti da noi,
e tutta la classe ricevette quelle rivelazioni impressionistiche in silenzio. Mi
annoiavo e cominciai a scrivere una lettera a Dill. Miss Caroline mi colse sul
fatto e mi disse di pregare mio padre di non insegnarmi più né a leggere né a
scrivere. "E poi," aggiunse, "in prima non si scrive in corsivo, ma in
stampatello. Soltanto in terza imparerete a scrivere in corsivo."
La colpa era di Calpurnia. Forse lo aveva fatto perché altrimenti nei
giorni di pioggia l'avrei fatta diventar matta: comunque aveva trovato questo
sistema per tenermi occupata: scarabocchiava l'alfabeto con mano decisa in
cima a un foglio di blocco e poi ci scriveva sotto un versetto della Bibbia. Se
riproducevo bene i suoi geroglifici mi compensava con una fetta di pane,
burro e zucchero. I metodi di Calpurnia non prevedevano né indulgenza né
sentimentalismi: era raro che l'accontentassi ed era raro che lei mi
ricompensasse.
"Tutti quelli che vanno a mangiare a casa alzino la mano," disse miss
Caroline, interrompendo il mio nuovo mugugno contro Calpurnia.
I bimbi che abitavano in città alzarono la mano ed ella ci osservò uno per
uno.
"Quelli che hanno il cestino lo mettano sul banco."
D'incanto apparvero i barattoli di melassa e sul soffitto danzarono i
riflessi metallici. Miss Caroline andò su e giù ficcando naso e dito nei panieri
della colazione, annuendo col capo se il contenuto la soddisfaceva,
aggrottando la fronte in caso contrario. Si fermò al banco di Walter
Cunningham. "E il tuo?" chiese.

23
Alla scolaresca bastava guardare in faccia a Walter Cunningham per
capire che aveva i vermi, e i suoi piedi nudi ci dicevano come li avesse presi.
I vermi nematodi si prendono girando scalzi per le aie e intorno ai porcili. Se
Walter avesse posseduto un paio di scarpe le avrebbe certamente messe il
primo giorno di scuola e poi le avrebbe riposte fino a inverno. Però aveva la
camicia pulita e calzoni rammendati con cura.
"Hai dimenticato il cestino, stamane?" chiese miss Caroline.
Walter guardava diritto davanti a sé. Vidi un muscolo guizzare nella sua
mascella magra.
"L'hai dimenticato?" chiese miss Caroline. La mascella di Walter si
contrasse di nuovo.
"Sissignora," borbottò infine.
Miss Caroline andò alla cattedra e aprì la borsetta "Eccoti un quarto di
dollaro," disse a Walter. "Oggi puoi andare a mangiare in centro. I soldi me li
restituirai domani."
Walter scosse la testa. "Nossignora, grazie," disse piano, strascicando le
parole.
La voce di miss Caroline tradì l'impazienza. "Su, Walter, prendilo."
Walter scosse la testa di nuovo.
Quando Walter scosse la testa per la terza volta, qualcuno bisbigliò:
"Diglielo tu, Scout!"
Mi voltai e vidi la maggior parte dei ragazzini che abitavano in città e
l'intera delegazione di quelli che venivan con l'autobus che mi fissavano.
Miss Caroline ed io avevamo già conferito due volte, quella mattina, e tutti
mi guardavano nell'ingenua convinzione che la dimestichezza generi la
comprensione.
Mi alzai, per il bene di Walter. "Miss Caroline..."
"Che cosa c'è, Jean Louise?"
"Miss Caroline, lui è un Cunningham."
E sedetti di nuovo.
"E con questo, Jean Louise?"
Mi pareva di essere stata abbastanza chiara. Per noi la cosa era lampante:
anche se Walter Cunningham se ne stava seduto lì dicendo una sfilza di
bugie, sapevamo che non aveva affatto dimenticato a casa la colazione: non
ce l'aveva per niente. Non l'aveva oggi, né l'avrebbe avuta domani o il giorno
dopo. Probabilmente non aveva visto un mezzo dollaro nell'intera sua vita.
Provai di nuovo: "Walter è un Cunningham, miss Caroline!"
"Non ti capisco, Jean Louise!"

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"Non fa niente, signora, vedrà che finirà per conoscere tutta la gente della
contea, un po' alla volta. I Cunningham non accettano mai una cosa se non la
possono pagare, non accettano neanche i pacchi dono a Natale e i buoni
alimentari. Non prendono mai niente da nessuno, vanno avanti con quello
che hanno. Non hanno molto, ma vanno avanti con quello..."
Questa conoscenza approfondita della tribù dei Cunningham o almeno di
uno dei suoi rami, me l'ero fatta l'inverno prima. Il padre di Walter era cliente
di Atticus. Una sera, in salotto, ebbero una malinconica conversazione su una
questione di fidecommesso e prima di andarsene il signor Cunningham disse:
"Signor Finch, non so se e quando sarò in grado di pagarla."
"Questa deve essere l'ultima delle tue preoccupazioni, Walter," aveva
risposto Atticus.
Domandai a Jem cosa fosse il fidecommesso e lui mi spiegò che era un
po' come se uno si ritrovava con la coda presa in una porta. così, chiesi ad
Atticus se il signor Cunningham ci avrebbe mai pagati.
"Non in denaro," disse Atticus, "ma prima della fine dell'anno son sicuro
che mi avrà pagato. Vedrete."
Vedemmo. Una mattina, Jem ed io trovammo, in cortile, un carico di
legna da ardere; più tardi, fuori della porta di servizio fece apparizione un
sacco di noci americane; a Natale arrivò una cesta di agrifoglio; in primavera
trovammo in cucina un sacco pieno di cavoli rapa, e a quel punto Atticus
disse che ormai il signor Cunningham l'aveva strapagato.
"Perché ti paga così?" chiesi.
"Perché è soltanto così che mi può pagare. Non ha denaro."
"Noi siamo poveri, Atticus?"
Atticus fece segno di sì. "Eh sì, siamo poveri."
Jem arricciò il naso. "Siamo poveri come i Cunningham?"
"Non proprio. I Cunningham sono gente di campagna, e il crac li ha
colpiti più di tutti gli altri."
Atticus ci spiegò che i professionisti erano poveri perché erano poveri gli
agricoltori. La contea di Maycomb era prevalentemente agricola, e quindi
dottori, dentisti e avvocati stentavano a guadagnare. Il fidecommesso non era
che uno dei crucci del signor Cunningham. I campi non vincolati dal
fidecommesso erano ipotecati fino al'ultima zolla e il poco denaro liquido che
gli riusciva di guadagnare andava tutto a pagare gli interessi. Se si fosse
preoccupato di capire da che parte tirava il vento, il signor Cunningham
avrebbe potuto iscriversi nelle liste dei disoccupati e farsi dare un sussidio o
un lavoro, ma la terra, se l'avesse abbandonata, sarebbe andata in malora, ed

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egli preferiva crepar di fame, ma conservare la terra e votare come gli pareva.
Il signor Cunningham, diceva Atticus, veniva da una razza di testardi.
I Cunningham non avevano denaro per pagare l'avvocato, e
semplicemente ci pagavano con quel che avevano. "Sapete," disse Atticus,
"che anche il dottor Reynolds lavora a questo modo? A certi suoi clienti, per
l'assistenza a un parto chiede uno staio di patate.
E adesso, signorina Scout, dico a lei, se mi concede la sua attenzione, le
spiegherò cos'è il fidecommesso. Qualche volta le spiegazioni di Jem si
avvicinano molto alla verità."
Se avessi potuto chiarire quelle cose a miss Caroline, avrei risparmiato a
me un castigo e a lei una mortificazione, ma non ero assolutamente in grado
di dare agli altri spiegazioni come quelle che dava Atticus a me, e quindi
dissi: "Lei lo ha fatto vergognare davanti a tutti, miss Caroline. A casa, Walter
non ha un ventino da restituirle, e lei della legna da ardere non saprebbe che
farsene."
Miss Caroline rimase impietrita, poi mi afferrò per il colletto
trascinandomi fino alla cattedra. "Jean Louise, ne ho avuto proprio
abbastanza di te, questa mattina," disse. "Ti sei messa sulla strada sbagliata fin
dal principio, carina. Apri la mano."
Credevo che ci avrebbe sputato sopra perché a Maycomb quando si
tendeva la mano a palma in su lo si faceva in attesa di quel rito: era un
metodo antico e rispettato di sigillare i contratti verbali.
Mi chiedevo stupita quale contratto avessimo concluso e mi girai verso la
classe quasi per avere una risposta, ma la classe mi ricambiò l'occhiata,
perplessa. Miss Caroline prese il righello, mi assegnò una dozzina di colpetti
e poi mi disse di andare a mettermi nell'angolo. Quando finalmente la
scolaresca si rese conto che miss Caroline mi aveva battuta, scoppiò un
uragano di risate.
Miss Caroline minacciò l'intera classe di farle subire il mio stesso
trattamento, e la scolaresca esplose di nuovo e ritornò calma soltanto quando
si annunciò di lontano l'arrivo di miss Blount. Miss Blount, una
maycombiana tuttora non iniziata ai misteri del Sistema Decimale, apparve
sulla porta e dichiarò, con le mani sui fianchi: "Se sento volare una mosca in
quest'aula, vi darò fuoco con tutti voi dentro. Miss Caroline, la sesta non può
concentrarsi sulle piramidi, con tutto questo fracasso!..."
La mia permanenza nell'angolo fu di breve durata. Salvata dal
campanello, miss Caroline guardò la classe uscire in fila per la colazione. Io,
che ero l'ultima a uscire, la vidi crollare sulla sedia e nascondersi la testa tra le

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braccia. Se con me si fosse comportata un po' più gentilmente, mi avrebbe
fatto pena. Non era mica brutta.

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capitolo terzo
Riuscii ad acchiappare Walter Cunningham in cortile; gli saltai addosso e gli
stavo strofinando ben bene il naso per terra, quando arrivò Jem e mi disse di
smetterla. "Tu che sei più grande!" esclamò.
"Ma se ha quasi la tua età!" ribattei. "Mi ha fatto mettere sulla strada
sbagliata fin dal principio!"
"Su, lascialo perdere, Scout... ma perché sulla strada sbagliata?"
"Non aveva la colazione," dissi, e spiegai come fossi stata coinvolta nei
problemi alimentari di Walter.
Walter si era tirato su e se ne stava quieto, ad ascoltare quel che
dicevamo. Aveva i pugni mezzi chiusi, come se si aspettasse che Jem ed io,
uniti, gli saltassimo addosso. Pestai forte i piedi, rivolta a lui, per farlo
scappar via, ma Jem mi fermò con una mano. Esaminò Walter con aria seria.
"Tuo papà è il signor Walter Cunningham di Old Sarum?" chiese, e Walter
fece segno di sì col capo.
Walter pareva allevato a dieta ittica: i suoi occhi, azzurri come quelli di
Dill Harris, erano lacrimosi e orlati di rosso. In viso non aveva alcun colore
salvo che sulla punta del naso, umida e rosea. Si tormentava le bretelle,
tirando nervosamente i ganci di metallo.
D'un tratto Jem gli sorrise. "Vieni a mangiare da noi, Walter," disse. "Ci
farai piacere."
Il volto di Walter si illuminò, poi si fece di nuovo scuro.
Jem disse: "Nostro papà è amico del tuo. Scout, sai, è matta: ma non ti
darà più addosso."
"Io non ci giurerei," dissi. Quel modo di Jem di farsi garante per me mi
irritava, ma intanto i preziosi minuti della pausa meridiana passavano veloci.
"Va bene, Walter, non ti salterò più addosso. Non ti piacciono i fagioli?
Sapessi che cuoca è Calpurnia!"
Walter non si muoveva da dove si trovava e si mordeva il labbro
superiore. Jem ed io rinunciammo a convincerlo, ed eravamo quasi arrivati
alla casa di Radley quando Walter gridò: "Oè, vengo!"
Quando ci raggiunse, Jem si mise a discorrere con lui del più e del meno.
"C'è un fantasma, che vive qui," disse allegramente, indicando la casa dei
Radley. "Ne hai mai sentito parlare, Walter?"
"Certo!" disse Walter. "Per poco non sono morto, il primo anno di scuola,
per aver mangiato quelle noci là: la gente dice che lui le avvelena e poi le

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butta dall'altra parte della siepe, nella corte della scuola."
Ma Jem, ora che Walter e io gli camminavamo accanto, pareva non aver
paura di Boo; e disse spavaldo: "Una volta io sono arrivato fino alla casa dei
Radley!"
Guardando le nuvole in cielo, io replicai: "Uno che una volta è arrivato
alla casa dei Radley non dovrebbe più correre quando ci passa davanti!"
"E chi è che corre, saputella?"
"Tu, quando sei solo!"
Quando fummo davanti a casa, Walter aveva ormai dimenticato di essere
un Cunningham. Jem corse in cucina e chiese a Calpurnia di aggiungere un
posto a tavola perché avevamo un ospite. Atticus salutò Walter e cominciò a
parlargli di raccolti: conversazione che né Jem né io eravamo in grado di
seguire.
"Son sempre in prima, signor Finch, perché tutte le primavere mi tocca
restare a casa ad aiutare papà a trinciar cotone, ma a casa adesso ce n'è un
altro, che è venuto buono da lavorare in campagna."
"Vi è costato uno staio di patate?" chiesi, ma Atticus mi guardò e scosse la
testa.
Walter ammucchiava il cibo sul suo piatto, e intanto parlava con Atticus
da uomo a uomo, con sorpresa di Jem e mia. Atticus stava sviscerando un
problema agricolo, quando Walter lo interruppe per chiedere se in casa c'era
melassa. Atticus chiamò Calpurnia, che ritornò con la caraffa dello sciroppo
e rimase ad aspettare che Walter si servisse. Lui versò generosamente lo
sciroppo sulla verdura e sulla carne; probabilmente se lo sarebbe versato
anche nel bicchiere di latte se io non gli avessi chiesto che cosa diavolo stesse
facendo.
Il piattino d'argento tintinnò quando Walter vi riappoggiò la caraffa ed
egli si nascose in fretta le mani in grembo e chinò il capo.
Atticus mi guardò di nuovo: disapprovava. "Ma ha affogato tutto il suo
mangiare nello sciroppo!" protestai. "Lo ha versato anche su..."
Fu allora che Calpurnia disse che c'era bisogno di me in cucina.
Era furiosa, e quando era furiosa la sua grammatica diventava
capricciosa, mentre quando era calma il modo di esprimersi di Calpurnia non
era meno corretto di quello degli altri maycombiani.
Atticus diceva che Calpurnia era molto più istruita di quanto
generalmente non fosse la gente di colore.
Mi guardava dall'alto al basso, piegando la testa di lato, e le piccole linee
intorno ai suoi occhi si eran fatte più marcate. "C'è gente che non sa stare a

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tavola come noi," mi sibilò furiosa, "ma nessuno ti dà il permesso di
scocciarli, quando siedono alla tua tavola. Quel ragazzo è tuo ospite e fa
conto che lui vuole mangiare anche la tovaglia, tu l'hai da lasciar fare,
capito?"
"Non è mio ospite, Cal, è soltanto un Cunningham..."
"Chiudi quella bocca! Non importa chi è o non è, uno che ha messo i
piedi dentro casa tua è sempre tuo ospite, e sta' attenta che io non ti pizzichi
un'altra volta a fargli delle osservazioni come se fossi il Padreterno! I tuoi
possono essere meglio dei Cunningham, ma non conta niente quando gli fai
fare di queste figure: se non sei capace di stare a tavola come si deve, allora
vieni qui a sederti e a mangiare in cucina!"
Calpurnia mi spedì in sala da pranzo con uno scapaccione che mi pizzicò
la pelle per un pezzo. Ricuperai il piatto e finii di mangiare in cucina,
contenta, nonostante tutto, che mi fosse stata risparmiata l'umiliazione di
dover guardare gli altri in faccia.
Dissi a Calpurnia che se l'aspettasse: uno di questi giorni, quando lei non
stava attenta, sarei andata a annegarmi nello stagno dei Barker e allora si
sarebbe pentita. E poi, aggiunsi, già una volta quel giorno avevo passato un
guaio per causa sua: era lei che mi aveva insegnato a scrivere, e tutto era
successo per colpa sua. Ma lei mi rispose soltanto di smetterla di far rumore.
Jem e Walter ritornarono a scuola senza di me. Volevo raccontare ad
Atticus le iniquità di Calpurnia, e anche se poi dovevo passar da sola davanti
alla casa dei Radley correndo come una lepre, ne valeva la pena. "Calpurnia
vuol più bene a Jem che a me" dichiarai, e proposi ad Atticus di non perder
tempo e di farle far fagotto su due piedi.
"Ti è mai venuto in mente che Jem la fa inquietare molto, ma meno di
te?" la voce di Atticus era dura. "Non ho intenzione di mandarla via, né
adesso, né mai. Senza Cal non potremmo andare avanti un giorno solo. Ci
hai mai pensato? Rifletti, invece, a tutto quello che Cal fa per te, e dalle retta,
hai capito?"
Tornai a scuola; rimuginavo il mio odio per Calpurnia, quando un urlo
improvviso mandò in frantumi le elucubrazioni che mi dettava il rancore.
Alzai gli occhi e vidi miss Caroline ferma in mezzo alla stanza con una vera
espressione di orrore. A quanto pareva si era rimessa abbastanza bene e
insisteva in quel mestiere.
"È vivo!" urlò.
I maschi della scolaresca si precipitarono come un sol uomo in aiuto di
miss Caroline. Gesù Gesù, pensai, ha paura di un topo! Il piccolo Chuck

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Little, la cui bontà verso tutti gli esseri viventi era famosa, s'affrettò a
chiederle: "Dove è andato, miss Caroline? Ci mostri dove è andato, presto!
D'C'," aggiunse, rivolto a un ragazzetto dietro a lui, "D'C', se chiudi la porta lo
pigliamo!
Presto, signora, mi dica: dov'è che è andato?"
La signorina accennò con un dito tremante... non al pavimento né a un
banco, ma a un goffo individuo che mi era sconosciuto. Il volto del piccolo
Chuck si contrasse e disse dolcemente: "Lui, signora?
Sissignora, è vivo: l'ha spaventata, forse?"
Miss Caroline disse, disperata: "Gli passavo vicino e strisciando è uscito
dai suoi capelli... proprio dai suoi capelli!"
Il piccolo Chuck fece un largo sorriso. "Ma non c'è da aver paura di un
pidocchio, signora, non ne ha mai visti? Non abbia paura, vada, vada in
cattedra e ci insegni qualcos'altro!"
Anche il piccolo Chuck Little era uno di quel settore della popolazione
che non sapeva la mattina dove avrebbe mangiato la sera, ma era un
gentiluomo nato. Sostenne con la mano il gomito di miss Caroline e la
condusse alla cattedra. "Non si agiti, signora," disse, "non c'è proprio niente
da temere, per un pidocchio. Le vado a prendere un po' d'acqua fresca."
L'ospite del pidocchio non dimostrò nessun interesse al trambusto che
aveva provocato. Si frugò in testa vicino alla tempia, individuò l'inquilino e
lo afferrò tra pollice e indice.
Miss Caroline osservò quell'armeggio come ipnotizzata dall'orrore.
Il piccolo Chuck portò un po' d'acqua in un bicchiere di carta, e la
signorina bevve. Infine recuperò la voce. "Come ti chiami, figliolo?"
Il ragazzo batté le palpebre. "Chi, me?" Miss Caroline assentì.
"Burris Ewell."
Miss Caroline esaminò il registro. "Ho un Ewell, qui, ma senza nome...
Vuoi compilarmelo, per favore?"
"Non son capace. A casa mi chiamano Burris."
"Va bene, Burris," disse miss Caroline. "Penso che sia meglio che ti diamo
il permesso di andare a casa un po' prima, oggi. Vorrei che tu andassi a casa e
ti lavassi la testa."
Prese un grosso volume dalla cattedra, lo sfogliò e vi lesse qualcosa.
"Ecco una buona ricetta casalinga per... Burris, va' a casa e lavati la testa con
la lisciva. Dopo, frizionati la cute con del petrolio."
"Per cosa, signò?"

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"Per liberarti dal... dai... pidocchi. Vedi, Burris, potresti attaccarli agli altri
bambini e questo non ti farebbe piacere vero?"
Il ragazzo si alzò. Era l'essere umano più sporco che abbia mai visto.
Aveva il collo grigio scuro, il dorso delle mani rugginoso di sudiciume, e le
unghie nere fino alla carne. Guardò miss Caroline e strizzò gli occhi: pareva
che la guardasse attraverso l'unico spiraglio pulito tra tutto il sudiciume che
gli copriva la faccia.
Nessuno lo aveva ancora notato, probabilmente perché miss Caroline e io
avevamo dato spettacolo alla scolaresca per quasi tutta la mattinata.
"Burris, senti" disse miss Caroline, "fa' anche un bagno, per favore, prima
di venire a scuola, domani."
Il ragazzo sghignazzò villanamente. "Non creda che me ne vado a casa
perché lo dice lei, signò, stavo per andarmene da solo: ormai il mio periodo
l'ho fatto, quest'anno."
Un'espressione perplessa apparve sul viso di miss Caroline. "Come
sarebbe a dire?"
Il ragazzo, invece di rispondere, emise un pernacchietto sprezzante.
Rispose per lui uno degli scolari anziani. "È un Ewell," disse, e io mi
chiesi se quella spiegazione avrebbe avuto lo stesso successo della mia di
qualche ora prima. Ma miss Caroline questa volta pareva disposta ad
ascoltare. "Ce n'è un sacco di Ewell, a scuola. Vengono il primo giorno, tutti
gli anni, e poi chi li vede più. L'ispettrice ce li fa venire minacciandoli di
chiamare lo sceriffo; ma di farceli rimanere, a scuola, non tenta nemmeno
più. Dice che quando gli ha scritto i nomi sul registro e li ha spediti a scuola
con le brutte il primo giorno, lei con la legge sta a posto. E poi, per tutto il
resto dell'anno, li segnano assenti."
"Ma... e i loro genitori?" chiese miss Caroline, che era proprio
preoccupata.
"Niente madre," fu la risposta, "e il padre è un grande attaccabrighe."
A Burris Ewell pareva che quel racconto lo lusingasse. "Son tre anni,
ormai, che vengo in prima il primo giorno di scuola," spiegò, in vena di
espansioni. "Se quest'anno son bravo, credo che mi promuoveranno in
seconda!"
La signorina disse: "Siedi, per favore, Burris," e nell'istante in cui lo disse
capii che aveva fatto un grave errore.
L'accondiscendenza del ragazzo si trasformò in un'ira violenta. "Ci provi a
farmi sedere, signò!"

32
Chuck Little si alzò in piedi. "Lo lasci andare, signora," disse. "È un poco
di buono, uno da non fidarsene. È capace di mettersi a fare chissà che, e c'è
dei piccoli qui!"
Era un vero scricciolo d'uomo, il piccolo Chuck, ma quando Burris Ewell
si volse verso di lui, la mano gli corse rapida in tasca. "Sta' attento, Burris,"
disse, "non ci metto niente ad ammazzarti. Su, va' a casa!"
Pareva che Burris avesse paura di quel bambino, alto la metà di lui, e
miss Caroline approfittò della sua indecisione. "Burris, va' a casa. Se non vai
via, chiamo il direttore," disse. "E comunque dovrò fare rapporto..."
Il ragazzo sbuffò con disprezzo e, goffo e lento, s'avviò alla porta.
Appena fuori tiro, al sicuro, si voltò e urlò. "Fa' il rapporto e va'
all'inferno! Ancora non è nata quella baldracca sporca d'una maestra che mi
fa far qualcosa a me! E non credere che mi hai fatto andar via tu, signò,
ricorda questo, non mi hai fatto andar via un accidente!"
Aspettò finché fu sicuro che lei piangesse e poi, strascinando i piedi, uscì
di scuola.
Ci precipitammo tutti intorno alla cattedra, cercando in vari modi di
consolarla. Miss Caroline, che vigliacco! Che canaglia. Lei non è mica
obbligata a insegnare a gente come quella! A Maycomb non siamo mica così,
miss Caroline, non creda! Su, non si agiti, signorina.
Miss Caroline, perché non ci legge una storia? Quella dei gatti era proprio
bellina, questa mattina...
Miss Caroline sorrise, si soffiò il naso, disse: "Grazie, carissimi," ci
mandò a posto, aprì un libro, e finì di confondere le idee alla scolaresca con
un lungo racconto su un rospo che viveva in un palazzo.
Quel giorno, passando davanti a casa Radley per la quarta volta, e due
delle volte al galoppo, ero così depressa che mi sentii veramente in carattere
con quella tetra casa. Se tutto l'anno scolastico era drammatico come il primo
giorno, la cosa poteva anche esser divertente, pensai. Ma la prospettiva di
dover stare nove mesi senza leggere e scrivere mi metteva voglia di scappare.
Verso la fine del pomeriggio, avevo un piano di fuga bell'e fatto, e
quando Jem mi sfidò a correre incontro ad Atticus che tornava a casa dal
lavoro, ci misi meno impegno del solito. Era una vecchia abitudine nostra,
correre incontro ad Atticus nell'attimo in cui lo vedevamo da lontano svoltare
all'angolo dell'ufficio postale. Si sarebbe detto che Atticus avesse dimenticato
che a colazione ero in disgrazia; mi fece una quantità di domande sulla
scuola, ma io risposi a monosillabi e lui non insistette.

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Forse Calpurnia intuì che avevo avuto una giornataccia, perché mi
permise di stare a guardarla mentre preparava la cena. "Chiudi gli occhi, apri
la bocca, e vedrai quel che ti tocca," disse.
Non li faceva spesso i crostini, diceva sempre che non aveva tempo, ma
con noi due a scuola, quel giorno era stato di tutto riposo per lei. Sapeva che
adoravo i crostini.
"Ho sentito la tua mancanza, stamane," disse. "La casa era così vuota,
verso le due, che ho dovuto accendere la radio."
"Ma se Jem ed io non stiamo mai in casa, tranne quando piove."
"Lo so," rispose, "ma almeno uno dei due è sempre a portata di voce e
non so quante ore al giorno passo a chiamarvi. Bè," concluse, alzandosi dalla
sedia di cucina, "è proprio ora che vada a fare un bel tegame di crostini!
Scappa, finché non è pronta la cena."
Calpurnia si chinò, mi baciò ed io corsi via, chiedendomi stupita che cosa
le succedeva. Voleva far pace con me, ecco cosa. Era sempre stata severa e
stizzosa con me, e soltanto adesso aveva capito lo sbaglio che aveva fatto:
finalmente se ne pentiva, ma era troppo testarda per chiedermi scusa. Quella
giornata piena di guai m'aveva proprio sfinita.
Dopo cena, Atticus si mise in poltrona, con il giornale, e mi chiamò:
"Scout! Pronta per leggere?" Ma il Signore mi aveva mandato più di quanto
potessi sopportare, quel giorno, e scappai nel portico.
Atticus mi seguì.
"Cosa c'è che non va, Scout?"
Gli dissi che non mi sentivo molto bene e che avevo pensato di non andar
più a scuola, se lui non aveva niente in contrario.
Atticus si sedette nell'altalena e incrociò le gambe. Le sue dita corsero al
taschino dell'orologio, perché soltanto così era capace di riflettere, diceva.
Attese, in un pietoso silenzio, e io cercai gli argomenti per rafforzare la mia
posizione. "Tu non sei mai andato a scuola, eppure fai tutto benissimo, e così
starò a casa anch'io. Mi puoi insegnar tu, come il nonno ha insegnato a te e
allo zio Jack."
"No, io non posso insegnarti," disse Atticus. "Devo guadagnarmi da
vivere. E poi, mi metterebbero in prigione se non ti mandassi a scuola: una
bella purga, ecco quello che ci vuole per te, stasera: e domani, a scuola!"
"Ma sto benissimo!"
"Me l'ero immaginato. E allora che cosa ti prende?"
Poco per volta, gli raccontai tutte le disavventure di quella giornata. "...e
lei ha detto che tu mi hai insegnato tutto sbagliato e così non dobbiamo

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leggere più, mai più. Ti prego, non mi ci mandare, ti prego, ti prego!..."
Atticus si alzò e camminò su e giù per il porticato. Quando ebbe fatta una
ispezione completa del pergolato di glicini, ritornò pian piano verso di me.
"Prima di tutto," disse, "voglio insegnarti un semplice trucco, Scout, e se
lo imparerai andrai molto più d'accordo con tutti: se vuoi capire una persona,
devi cercar di considerare le cose dal suo punto di vista..."
"Come hai detto?..."
"Se vuoi capire una persona, devi provare a metterti nei suoi panni e a
riflettere un poco."
Atticus mi spiegò che quel giorno molte cose avevo imparato e molte ne
aveva imparate anche miss Caroline. Aveva imparato che non si deve offrire
niente a un Cunningham, per esempio: se Walter ed io ci fossimo subito
messi nei panni suoi, avremmo capito che, pur nel suo errore, miss Caroline
era in buona fede: non potevamo pretendere che in quel giorno solo
imparasse gli usi e i costumi di Maycomb o rispondesse di cose che
assolutamente non poteva sapere.
"E io, che ne sapevo che non dovevo leggere?" dissi. "Eppure lei me ne
faceva quasi una colpa! Senti, Atticus, che bisogno c'è che io vada a scuola?"
Improvvisamente mi era venuta un'idea e dovevo dirla subito, per non
scoppiare. "Ti ricordi Burris Ewell? Lui va a scuola soltanto il primo giorno.
L'ispettrice dice che sta a posto, con la legge, quando gli ha scritto il nome sul
registro..."
"Non si può far così, Scout," disse Atticus. "Qualche volta è necessario
adattare un po' la legge... ma in casi specialissimi; nel caso tuo, la legge non
c'è da toccarla e tu te ne vai a scuola."
"Ma perché, se lui no?"
"Allora, ascolta."
Atticus mi spiegò che gli Ewell erano il disonore di Maycomb da tre
generazioni. Mai, a memoria d'uomo, un Ewell aveva fatto una giornata di
onesto lavoro. Un Natale o l'altro, passate le feste, quando si doveva andare a
buttar via l'albero, mi avrebbe preso con sé e condotta a vedere dove e come
vivevano. Erano esseri umani, ma vivevano come animali. "Potrebbero
andare a scuola quando vogliono, purché mostrassero almeno un
piccolissimo desiderio di istruirsi," disse Atticus. "Il sistema di farli andare a
scuola per forza ci sarebbe anche, ma è sciocco obbligare gente come gli
Ewell a frequentare un ambiente tanto diverso dal loro."
"Se io non andassi a scuola, domani, dovresti portarci per forza anche
me."

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"Bè, basta così," disse Atticus, asciutto. "Tu, signorina Finch, sei una
persona come tutte le altre: devi obbedire alla legge."
Aggiunse che gli Ewell erano membri di una società chiusa, composta
soltanto di Ewell: in simili circostanze, la gente normale agiva saggiamente se
chiudeva gli occhi su certe attività o mancanze degli Ewell e concedeva loro
privilegi cui non avrebbero avuto diritto: ecco perché, ad esempio, gli Ewell
non andavano a scuola e il signor Bob Ewell, padre di Burris, cacciava e
posava trappole fuori stagione.
"Atticus, ma questo è molto brutto!" dissi.
Nella contea di Maycomb, cacciare fuori stagione era, per la legge,
un'infrazione, ma agli occhi della gente un delitto capitale.
"Certo, è contro la legge," disse mio padre, "ed è una cosa molto brutta,
ma quando un uomo spende in whisky il suo sussidio di disoccupazione, non
c'è da stupirsi se i suoi figli piangono per la fame. Non conosco un solo
proprietario di terre, qui nei dintorni, che protesti perché quei ragazzi
mangiano la selvaggina uccisa dal padre, anche se la cosa va a suo discapito."
"Ma il signor Ewell non lo dovrebbe fare!..."
"Certo, che non lo dovrebbe fare, ma non cambierà mai i suoi sistemi. E
tu vorresti farglielo pagare ai suoi bambini?"
"Nossignore," mormorai, e feci un ultimo tentativo per non abbandonare
le mie posizioni. "Ma se continuo ad andare a scuola, non possiamo più
leggere..."
"E questo ti preoccupa molto, vero?"
"Sì."
Atticus mi guardò e gli vidi sul volto un'espressione che ben conoscevo:
significava che stava per dire qualche cosa di speciale.
"Sai che cos'è un compromesso?" chiese.
"È come accomodare la legge?"
"No, è un accordo che si raggiunge attraverso concessioni reciproche. La
cosa funziona così: se tu sei capace di capire da te che andare a scuola è una
cosa necessaria, continueremo a leggere tutte le sere, come sempre. Affare
fatto?"
"Sì."
"Allora lo considereremo ratificato senza bisogno delle solite formalità,"
disse Atticus; io stavo già lì pronta a sputare.
Mentre aprivo la porta di casa, Atticus disse: "A proposito, Scout, meglio
non dir niente a scuola del nostro accordo."
"Perché no?"

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"Temo che la nostra attività non sarebbe approvata dalle autorità
competenti," rispose.
Jem ed io eravamo abituati al gergo legale di nostro padre, ed eravamo
autorizzati a interromperlo perché ce lo traducesse, quando era al di là della
nostra comprensione.
"Eh?..."
"Io non sono mai andato a scuola," disse, "ma ho la sensazione che se tu
dicessi a miss Caroline che leggiamo tutte le sere, se la prenderebbe con me,
e io davvero non vorrei andarci di mezzo."
Quella sera, Atticus ci fece morir dal ridere leggendo gravemente colonne
su colonne di stampa che parlavano di un uomo che, per ragioni
incomprensibili, sedeva sull'asta di una bandiera, e Jem ne prese ispirazione
per passare il sabato seguente nella casa sull'albero. Vi rimase dalla prima
colazione al tramonto, e vi avrebbe trascorso anche la notte, se Atticus non
gli avesse tagliato i rifornimenti. Io avevo passato la maggior parte della
giornata arrampicandomi lassù e lasciandomi scivolare giù; Jem mi aveva
incaricata di commissioni varie: gli avevo procurato nutrimento materiale e
intellettuale, e acqua, e adesso stavo portandogli su le coperte per la notte,
quando Atticus disse che se non mi occupavo più di lui, Jem avrebbe finito
per scendere. E, difatti, aveva ragione.

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capitolo quarto
I rimanenti giorni di scuola non furono più felici per me. Si trattava, in
verità, di un programma estesissimo che a poco a poco si tramutò in un
corso, durante il quale tonnellate di cartoncini e pastelli furono impiegati
dallo stato dell'Alabama nel tentativo, lodevole ma vano, di insegnarmi la
dinamica di gruppo. Alla fine del mio primo anno scolastico il sistema che
Jem aveva chiamato Sistema Decimale di Dewey veniva applicato in tutta la
scuola, e io non avevo modo di metterlo a confronto con altre tecniche di
insegnamento.
Potevo soltanto guardarmi attorno: Atticus e mio zio, che avevano
studiato a casa, sapevano tutto, o almeno quel che non sapeva l'uno sapeva
l'altro. E poi non potevo fare a meno di rilevare che da anni mio padre faceva
parte dell'Assemblea legislativa - e ogni volta era stato eletto all'unanimità -
anche se non aveva subito la tecnica che i miei insegnanti giudicavano
essenziale alla formazione di un "buon cittadino." Jem, educato invece con
un sistema misto, sembrava funzionare molto efficacemente, sia da solo sia in
gruppo, ma lui non valeva come esempio, perché non c'era sistema educativo
escogitato dall'uomo capace di tenerlo lontano dai libri. Quanto a me, non
sapevo soltanto ciò che assorbivo da Time e da tutta la carta stampata su cui
riuscivo a metter le mani in casa, ma nel mio procedere faticoso e svogliato
attraverso quella pena che era il sistema scolastico della nostra contea, era
naturale che me ne venisse l'impressione di venir defraudata di qualcosa di
molto importante. Cosa, esattamente, non sapevo; ma non potevo
convincermi che dopotutto lo stato avesse in animo di destinarmi a dodici
anni di insopportabile noia.
Con il progredire dell'anno scolastico, poiché uscivo di scuola mezz'ora
prima di Jem, che vi restava fino alle tre, quando passavo davanti alla casa
dei Radley correvo più svelta che potevo, e mi fermavo soltanto dopo aver
raggiunto la salvezza, cioè il porticato di casa. Un pomeriggio, mentre
passavo come una freccia, qualcosa colpì il mio sguardo, e in maniera tale
che tirai un gran respiro; diedi una lunga occhiata in giro e tornai indietro.
Sul confine della proprietà dei Radley c'erano due querce della Virginia,
le cui radici arrivavano fino alla stradina laterale, coprendola di bozze. La mia
attenzione era stata attirata da qualcosa su uno degli alberi.
In una cavità del tronco, proprio all'altezza dei miei occhi, era ficcato un
foglio di stagnola che pareva mi ammiccasse, scintillando al sole del

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pomeriggio. Alzandomi in punta di piedi, dopo essermi guardata di furia
un'altra volta intorno, ficcai la mano nel cavo e ne ritirai due chewing-gum
scartocciate.
Il mio primo impulso fu di mettermi immediatamente in bocca la gomma,
ma ricordai in tempo in che paraggi mi trovavo. Corsi a casa, e sulla veranda
esaminai il bottino. La gomma pareva fresca; l'annusai e l'odore era buono.
La leccai e aspettai un pochino. Visto che non morivo, me la ficcai tutta in
bocca: Wrigley, alla doppia menta.
Quando Jem tornò a casa, mi chiese dove avessi preso tutta quella
chewing-gum. Gli dissi che l'avevo trovata.
"Non devi mangiare le cose che trovi per terra Scout."
"Non era per terra, era su un albero."
Jem emise un grugnito.
"Proprio così," dissi. "Era in un buco su quell'albero laggiù, il primo
venendo dalla scuola."
"Sputala immediatamente!"
La sputai: tanto, il sapore se n'era quasi andato. "L'ho masticata tutto il
pomeriggio e ancora non son né morta né malata!"
Jem pestò il piede per terra. "Non lo sai che non devi nemmeno toccare
quegli alberi? Lo sai che puoi morire!"
"Ma tu hai toccato la casa, quella volta!"
"Era un'altra cosa! Va' a fare un gargarismo subito, hai capito?"
"No, non ci vado. Fa andar via il sapore buono."
"Se non lo fai, vado subito da Calpurnia a dirle tutto!"
Pur di evitare storie con Calpurnia, feci come lui diceva. Non so come, il
mio primo anno di scuola aveva portato un grande mutamento nei miei
rapporti con Calpurnia: la tirannia, l'ingiustizia e l'invadenza di lei nei miei
affari erano scomparse per lasciar posto a sommessi brontolii di generica
disapprovazione. Quanto a me, a volte facevo l'impossibile per non
provocarla.
L'estate si avvicinava, e Jem e io l'aspettavamo con impazienza.
Per noi era la stagione migliore, potevamo dormire nelle brandine sotto il
portico di dietro, schermato dalle reti metalliche, o far finta di dormire nella
casa sull'albero. L'estate significava tante cose buone da mangiare; significava
mille colori in un paesaggio bruciato dal sole; ma, soprattutto, l'estate
significava Dill.
L'ultimo giorno di scuola fummo liberi più presto del solito, e Jem ed io
ce ne tornammo a casa insieme. "Chissà se l'amico Dill arriverà domani?"

39
dissi.
"Probabilmente arriverà dopodomani," rispose Jem. "Nel Mississippi li
mollano un giorno dopo."
Quando arrivammo alle querce dei Radley, col dito teso indicai a Jem, per
la centesima volta, nella speranza che si decidesse a crederci, il cavo dove
avevo trovato la gomma da masticare, e così facendo scorsi un luccichio di
stagnola.
"Lo vedo, Scout! Lo vedo!"
Jem si guardò attorno, alzò il braccio, e con cautela prese dal cavo un
pacchettino luccicante e se lo mise in tasca. Corremmo a casa, e, giunti sul
portico, esaminammo la scatoletta; era ricoperta dalla stagnola che avvolge la
gomma da masticare, ed era simile agli astucci in cui si mettono le fedi
nuziali, di velluto rosso, con un minuscolo bottoncino. Jem premette lo
scatto: dentro vi erano due monetine da un penny, lucidate con cura, una
sull'altra. Jem le osservò.
"Teste di indiani," disse. "Millenovecentosei. Scout, una è del
millenovecento. Sono proprio antiche."
"Millenovecento," gli feci eco. "Ma senti..."
"Zitta un momento, sto pensando."
"Jem, credi che quel nascondiglio appartenga a qualcuno?"
"No, di qua molta gente non passa, tranne noi... a meno che si tratta di un
grande..."
"I grandi non hanno nascondigli. Credi che possiamo tenercele, Jem?"
"Non so proprio, Scout. A chi vuoi che le restituiamo? Son sicurissimo
che di qua non passa nessuno: Cecil per andare a casa passa dalla strada di
dietro e fa tutto il giro."
Cecil Jacob, che abitava all'altro capo della nostra strada, accanto
all'ufficio postale, ogni giorno per andare a scuola faceva un chilometro e
mezzo di strada pur di non passare davanti a casa Radley e alla vecchia
signora Lafayette Dubose. La signora Dubose viveva due case prima di noi, e
i vicini erano unanimi nel giudicarla la vecchia più perfida che fosse mai
vissuta da quelle parti. Jem non passava mai davanti a casa sua se non in
compagnia di Atticus.
"Che facciamo, Jem?"
L'oggetto rinvenuto è di chi lo trova, a meno che il proprietario non si
faccia vivo. Cogliere qualche camelia, rubare un po' di latte caldo alla mucca
di Maudie Atkinson in una giornata d'estate, mangiare senza scrupoli l'uva

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moscata di qualche vicino, eran tutte cose ammesse dal nostro codice; i soldi
però erano un'altra cosa.
"Sta' a sentire," disse Jem. "Li terremo noi fino alla riapertura della
scuola, quando interrogheremo tutti per scoprire a chi appartengono. Forse
sono di qualche ragazzo che piglia l'autobus e che magari oggi aveva fretta di
andarsene a scuola e li ha dimenticati. A qualcuno appartengono, questo è
certo. Guarda come li ha tenuti lucidi. Sono dei risparmi."
"Già, ma chi vuoi che nasconda della gomma da masticare? Sai che non
dura."
"Non lo so, Scout. Ma qualcuno terrà molto a queste monete."
"Perché, Jem?"
"Bè son teste di indiani... forse sono indiane autentiche. Hanno una magia
forte che porta buono. Non come trovarsi davanti a un inaspettato pollo
fritto, ma cose come vita lunga o una salute buona o essere promossi agli
esami... insomma cose che per qualcuno importano moltissimo. Le terrò nella
mia cassetta."
Prima di salire in camera sua, Jem guardò a lungo la casa dei Radley.
Soprappensiero, pareva.
Due giorni dopo, Dill arrivò glorioso e trionfante: aveva viaggiato in
treno, solo, da Meridian alla Stazione di Maycomb (stazione era un nome
ridondante per Maycomb, che era nella contea di Abbott), dove miss Rachel
era andata a salutarlo con l'unico taxi di Maycomb; aveva cenato in vagone
ristorante e aveva visto due fratelli siamesi scender dal treno a Bay St' Louis:
e insisteva con questa storia, incurante delle nostre minacce. Non portava più
gli odiosi calzoncini blu abbottonati alla camicia, ma veri pantaloni, con la
cintura; s'era un po' ingrossato, ma in altezza non era cresciuto, e disse di aver
incontrato suo padre, che era più alto del nostro, aveva una barba nera (a
punta) ed era presidente della L' & M' Railroad.
"Ho aiutato un po' l'ingegnere," dichiarò, sbadigliando.
"Sì, in sogno, Dill," disse Jem. "Basta, ora: che cosa recitiamo, oggi?"
"Tom, Sam e Dick," rispose Dill. "Andiamo in giardino." Lui voleva
recitare The Rover Boys perché c'erano tre parti importanti; evidentemente
era stufo di farci da spalla.
"A me m'hanno stufata," feci io. Ero stanca di far la parte di Tom Rover,
che all'improvviso, mentre si trovava al cinema, perde la memoria e non
compare più in scena fino alla fine, quando lo ritrovano in Alaska.
"Inventane una tu, Jem," dissi.
"Sono stufo di inventarle, io..."

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Era il nostro primo giorno di vacanza e già ci annoiavamo. Mi chiedevo
che cosa avremmo fatto tutta l'estate.
Ci eravamo trascinati fino al giardino, allorché Dill si fermò a guardare la
facciata desolata della casa dei Radley. "Odore di morte," dichiarò. "Davvero
lo sento," spiegò quando gli dissi di piantarla.
"Vuoi forse dire che se qualcuno sta per morire tu te ne accorgi
dall'odore?"
"Al fiuto, posso dire se qualcuno morirà. Me lo insegnò una vecchia." Si
chinò verso di me, annusandomi. "Jean-Louise-Finch, tu morirai tra tre
giorni."
"Se non la smetti, Dill, ti strozzo. Dico sul serio, sai..."
"E zitti!" brontolò Jem. "Vi comportate come se credeste ai Vapori
Bollenti..."
"E tu ti comporti come se non ci credessi," ribattei.
"Che cosa è un Vapore Bollente?" chiese Dill.
"Non hai mai camminato da solo, la sera, in una strada deserta?" gli
chiese Jem. "Bè, non hai mai sentito vicino a te un gran caldo?
Un Vapore Bollente è uno che riesce ad andare in paradiso, ma si rotola
per strade deserte, e se tu lo attraversi, quando muori sarai anche tu così e
andrai in giro di notte a succhiare il respiro della gente..."
"E come si può evitare di attraversarli?"
"Non si può evitarlo," disse Jem. "A volte si stendono per tutta la
larghezza della strada, ma se devi passare, dici: "Angelo splendente, vita della
morte, non succhiarmi il respiro, risparmia la mia sorte!"
E così impedisci loro di avvolgerti..."
"Non credere una parola di quel che dice, Dill!" esclamai.
"Calpurnia dice che sono chiacchiere da negri."
Jem mi diede un'occhiataccia e disse: "Bè, non dobbiamo recitare?"
"Perché non ci rotoliamo nel pneumatico?" proposi.
Jem sospirò. "Sai che son troppo grande!"
"Puoi spingere Dill e me!"
Corsi in cortile, tirai fuori una vecchia gomma d'auto e la feci rotolare
fino in giardino. "Prima io!" dissi.
Dill disse che toccava a lui perché era appena arrivato.
Jem fece da arbitro e stabilì che avrei cominciato io ma che Dill avrebbe
ricevuto una spinta in più, e così entrai nella gomma.
Non avevo capito che Jem era offeso perché lo avevo contraddetto a
proposito dei Vapori Bollenti e che aspettava pazientemente l'occasione di

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vendicarsi. Lo fece ora, dando con tutta la forza una spinta alla gomma giù
per il marciapiede. Terra, cielo e case si fusero in una folle ridda: gli orecchi
mi pulsavano, il fiato mi mancava. Non potevo tirar fuori le mani per
fermarmi, perché le avevo immobilizzate tra il petto e le ginocchia. L'unica
mia speranza era che Jem, correndo più forte della gomma e di me, mi
fermasse prima che andassi a finire in una buca del marciapiede. Lo udii
dietro di me, infatti, che mi inseguiva correndo e gridando.
La gomma rimbalzò sulla ghiaia, volò attraverso la strada, andò a cozzare
contro una siepe e mi proiettò come un turacciolo sul selciato. Stordita e
sconvolta, giacqui sull'asfalto, scuotendo la testa e turandomi gli orecchi per
ridurli al silenzio. Udii però la voce di Jem: "Scout, su, vieni via di lì!"
Alzai la testa e vidi davanti a me gli scalini di casa Radley.
Rimasi agghiacciata.
"Su, Scout, non startene sdraiata lì!" urlava Jem. "Alzati! Perché non ti
alzi?"
Mi alzai e, ancora tremante, mi feci forza.
"Prendi la gomma!" strillava Jem. "Portala qui! Sei diventata scema?"
Appena fui in grado di muovermi, corsi da loro, per quanto me lo
consentisse il tremore alle gambe.
"Perché non l'hai portata?" strepitò Jem.
"Perché non vai tu a prenderla?" urlai.
Jem tacque.
"Vacci, su, è appena oltre il cancello. Ma come!... Una volta hai persino
toccato la casa, ricordi?"
Jem mi guardò furioso ma, non potendo rifiutarsi, fece di corsa il
marciapiede. Giunto al cancello si fermò e prese ad avanzare sulla punta dei
piedi, poi si slanciò e recuperò la gomma.
"Visto?" Mi guardò con una smorfia, trionfante. "Una cosa da niente!
Parola d'onore, Scout, a volte ti comporti proprio come una bambina. È un
avvilimento!"
Non sapeva tutto, ma decisi di non parlare.
Calpurnia apparve sulla porta e gridò: "È l'ora della limonata!
Venite subito via da quel sole tremendo se non volete morire arrostiti!" La
limonata a metà mattino era uno dei riti estivi.
Calpurnia mise una caraffa con tre bicchieri sul portico e ritornò alle sue
faccende. Il fatto di non essere nelle buone grazie di Jem mi preoccupava
molto; la limonata lo avrebbe fatto ritornare di buon umore. Jem buttò giù un

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secondo bicchiere e si batté il petto. "Io lo so che cosa recitiamo adesso,"
annunciò. "Una cosa nuova, completamente diversa!"
"Che cosa?" chiese Dill.
"Boo Radley."
A volte gli si leggeva nel pensiero a Jem: ora questa l'aveva pensata per
farmi capire che non aveva nessunissima paura dei Radley e per dar risalto
alla mia vigliaccheria.
"Boo Radley? E come?" chiese Dill.
"Scout," disse Jem, "può fare la signora Radley..."
"Forse non ci sto, non credo che..."
"Ma che ti prende?" fece Dill. "Hai ancora paura?"
"Lui può venir fuori la notte, mentre dormiamo..." dissi.
Jem fece un fischio. "Ma Scout, come fa a sapere quel che facciamo
noi!... E poi credo che non ci sia più. È morto tanti anni fa e lo hanno
cacciato nella cappa del camino."
Dill disse: "Possiamo recitare tu e io, Jem. Scout starà a guardare, se ha
paura."
Ero più che sicura che Boo Radley era ancora in quella casa, ma non
potevo provarlo, e così pensai che era meglio tenere la bocca chiusa se non
volevo essere accusata di credere ai Vapori Bollenti, ai quali durante il giorno
ero immune.
Jem distribuì le parti: io ero la signora Radley e dovevo soltanto venir
fuori a spazzar la veranda. Dill era il vecchio Radley: doveva camminare su e
giù per il marciapiede e tossire quando Jem gli parlava. Jem, naturalmente,
era Boo: si mise sotto gli scalini della porta d'ingresso, e di tanto in tanto
urlava e ululava.
Con l'avanzare dell'estate, progredì anche il nostro gioco. Lo rifinimmo,
lo perfezionammo e aggiungemmo dialoghi e intreccio, fino a dar forma a un
piccolo dramma nelle cui parti ci alternavamo ogni giorno.
Dill era tagliato per fare il cattivo e si immedesimava immediatamente
nella parte assegnata: era capace persino di sembrare alto se la perfidia della
parte lo richiedeva; anche quando recitava male riusciva a dare i brividi. Io
recitavo riluttante le varie parti di dama previste dal copione: non mi
divertivo come quando recitavamo Tarzan, e partecipavo al gioco con una
certa preoccupazione, nonostante le assicurazioni di Jem che Boo Radley era
morto e nulla poteva succedere.
Jem era un eroe nato.

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Un piccolo dramma triste, il nostro, fatto di echi e di brani di pettegolezzi
e leggende di quartiere: la signora Radley era una donna bellissima finché
non sposava il signor Radley e perdeva tutto il proprio denaro. Perdeva
anche quasi tutti i denti e i capelli e l'indice della mano destra (un'idea di Dill.
Glielo staccava Boo una sera che non trovava né gatti né scoiattoli da
mangiare); seduta nella stanza di soggiorno, la signora Radley piangeva quasi
sempre, mentre Boo non faceva che tagliuzzare i mobili della casa.
Giocavamo anche al tribunale: io, una volta tanto, ero il giudice; Dill
portava via Jem e lo cacciava sotto gli scalini, spingendolo con la scopa se
cercava di uscire. Poi Jem ricompariva, a secondo dei casi, nelle vesti dello
sceriffo o in quelli di vari cittadini, o di miss Stephanie Crawford che sui
Radley ne sapeva di più di tutti quanti, a Maycomb.
Al momento di recitare la scena madre di Boo, Jem sgattaiolava in casa e
non appena Calpurnia voltava le spalle, rubava le forbici dal cassetto della
macchina per cucire. Poi sedeva sull'altalena a ritagliare i giornali. Dill
arrivava tossendo e Jem fingeva di ficcargli le forbici nella coscia. Da dove
stavo io, la scena sembrava proprio vera.
Quando passava il signor Nathan Radley, per la sua solita passeggiata in
città, restavamo fermi e zitti finché non scompariva, chiedendoci cosa
avrebbe fatto se solo avesse avuto dei sospetti. Il gioco si interrompeva anche
quando compariva qualche vicino, e una volta vidi miss Maudie Atkinson
che ci fissava dall'altra parte della strada, con le cesoie da siepi ferme a
mezz'aria.
Un giorno eravamo così assorti nella rappresentazione del capitolo
venticinquesimo del secondo volume de La Famiglia di un uomo, che non
vedemmo Atticus: fermo sul marciapiede, ci guardava, battendosi un giornale
arrotolato su un ginocchio. Dalla posizione del sole, doveva essere
mezzogiorno.
"Che gioco state facendo?"
"Nessuno," disse Jem.
Dalla risposta evasiva di Jem capii che il nostro gioco era segreto, e
quindi stetti zitta.
"E allora a che ti servono quelle forbici? Perché strappi quel giornale? Se
è di oggi, ti faccio nero!"
"A niente."
"Come a niente?"
"A niente."

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"Dammi quelle forbici," disse Atticus. "Non è roba con cui possiate
giocare. Per caso, non c'entrano i Radley in tutto questo?"
"Nossignore," disse Jem, arrossendo.
"Lo spero," disse Atticus, asciutto, ed entrò in casa.
"Jem..."
"Zitta! È andato nel soggiorno, può sentirci..."
Quando fummo al sicuro in cortile, Dill chiese a Jem se potevamo
recitare ancora.
"Non lo so. Atticus non ci ha proibito di recitare..."
"Jem," dissi, "secondo me Atticus ha capito!"
"No, altrimenti l'avrebbe detto."
Non ne ero poi tanto sicura, ma Jem mi disse che ora mi stavo
comportando da bambina, che le bambine lavorano sempre di fantasia, e
perciò si fanno odiare, e che se mi mettevo su quel piano, potevo andarmene
a cercare altri compagni di gioco.
"E va bene, continua pure, allora," dissi. "Vedrai!"
L'intervento di Atticus fu una delle ragioni per cui mi ritirai dal gioco.
L'altra, che risaliva al giorno in cui ero rotolata nel giardino dei Radley, era
che, nonostante il capogiro, i conati di nausea e le urla di Jem, avevo udito
un suono così lieve che non lo avrei mai potuto udire dal marciapiede: dentro
quella casa qualcuno rideva.

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Capitolo quinto
Come avevo previsto, le mie rampogne sortirono su Jem l'effetto desiderato
e, con mio sollievo, abbandonammo per un po' quel giuoco.
Jem però continuava a sostenere che Atticus ce l'aveva proibito e perciò
non potevamo continuare a recitare, ma che se Atticus ce l'aveva proibito, lui,
Jem, aveva già trovato il modo per aggirare l'ostacolo: bastava cambiare i
nomi dei personaggi e nessuno avrebbe potuto accusarci di nulla.
Dill approvava calorosamente quel piano di azione. Cominciava a
diventare noioso, con quella sua mania di seguire Jem in tutto e per tutto. Al
principio dell'estate mi aveva chiesto di sposarlo, poi se n'era rapidamente
dimenticato. Mi aveva prenotata, marcata come una sua proprietà, aveva
detto che ero l'unica ragazza che avrebbe mai amato, per poi trascurarmi
completamente. Feci due tentativi, ma servirono solo ad avvicinarlo di più a
Jem. Passavano intere giornate insieme nella casa sull'albero, complottando e
facendo piani, e mi chiamavano soltanto quando avevano bisogno di un
terzo. Per un po' mi tenni alla larga dei loro folli progetti e, a costo di sentirmi
dare della "femminuccia," quasi tutte le ultime sere di quell'estate le passai
seduta in compagnia di Maudie Atkinson sul suo portico.
Jem ed io avevamo sempre libero accesso nel cortile di miss Maudie, a
condizione di non avvicinarci alle sue azalee, ma i nostri rapporti con lei non
erano mai stati definiti chiaramente. Finché Jem e Dill non mi esclusero dai
loro progetti, per noi lei non era stata che una delle tante signore del vicinato,
più o meno benevola nei nostri confronti.
Secondo taciti patti tra noi e miss Maudie, potevamo giocare sul suo
prato, cogliere la sua uva, senza saltare sul pergolato, ed esplorare il vasto
terreno che stava dietro la casa: condizioni così generose che ci guardavamo
dal rivolgerle la parola e dall'infrangere il delicato equilibrio dei nostri
rapporti; ma il contegno che Jem e Dill tennero con me finì per avvicinarmi
definitivamente a miss Maudie.
Miss Maudie odiava la casa, per lei tutto il tempo non passato fuori era
sprecato. Era vedova, una donna incostante che curava le aiuole in tuta da
uomo e cappellaccio di paglia, ma che dopo il bagno delle cinque appariva
sulla veranda e da lì troneggiava sulla strada.
Amava tutto ciò che cresceva sulla terra del buon Dio, persino le erbacce.
Con una sola eccezione; se trovava anche una sola fogliolina di babbagigi nel
suo cortile si scatenava una seconda battaglia della Marna: ci si precipitava

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sopra armata di uno spruzzatore e, dal basso in alto, lo sottoponeva a una
doccia di una sostanza venefica che lei diceva così potente da ucciderci tutti
se non ci levavamo di torno.
"Perché non la strappa via?" le chiesi, dopo aver assistito a un attacco
prolungato contro uno stelo alto sì e no sei centimetri.
"Strapparla via, ragazza? Strapparla?" Sollevò il tenero germoglio e passò
il pollice lungo lo stelo sottile. Apparvero dei granellini microscopici. "Non
sai che un gambo solo di quest'erba può rovinare un'intera zona? Guarda:
quando viene l'autunno, questo stelo si secca e il vento ne sparge i semi su
tutta la contea di Maycomb!" E, dalla faccia che faceva, pareva che parlasse
di una vera e propria pestilenza biblica.
Per essere della contea di Maycomb parlava in maniera vivace. Ci
conosceva tutti per nome, e quando sorrideva mostrava due gancetti d'oro ai
canini superiori. Quando li guardavo, sperando di averne anch'io qualcuno
un giorno, lei diceva: "Guarda," e con uno scatto della lingua faceva uscir
fuori il ponte, gesto amichevole che rinsaldava la nostra amicizia.
La benevolenza di miss Maudie si estendeva anche a Jem e a Dill, e
quando interrompevano i loro giochi, tutti e tre godevamo i frutti di un
talento che fino allora miss Maudie ci aveva tenuto nascosto.
Faceva le torte migliori di tutta la contea. Dopo che fu entrata nella nostra
confidenza, ogni volta che infornava una torta grossa ne infornava anche tre
piccine e gridava dall'altra parte della strada: "Jem Finch, Scout Finch,
Charles Baker Harris, venite qui!" La nostra sollecitudine era sempre
ricompensata.
D'estate il tramonto è una lunga parentesi di serenità. Molto spesso miss
Maudie ed io sedevamo in silenzio sul suo portico, osservando il cielo che da
giallo si tingeva di rosa via via che il sole calava, e seguendo il volo delle
rondini che passavano radenti le case e scomparivano dietro il tetto della
scuola.
"Miss Maudie," dissi una sera, "secondo lei Boo Radley è ancora vivo?"
"Si chiama Arthur, ed è vivo," rispose lei. Si dondolava dolcemente nella
grande sedia di quercia. "Senti il profumo della mia mimosa?
Pare il respiro degli angeli, stasera."
"Sì, lo sento. Come lo sa?"
"Che cosa, bambina?"
"Che B... che il signor Arthur è ancora vivo?"
"Che domanda inopportuna: è vero che anche l'argomento è inopportuno.
So che è vivo, Jean Louise, perché ancora non l'ho visto portar fuori."

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"Forse è morto e l'han cacciato nel camino."
"Chi ti ha messo in testa un'idea simile?"
"Jem dice che dev'essere andata così."
"Sssst... Ogni giorno che passa quello somiglia di più a Jack Finch!"
Miss Maudie conosceva zio Jack Finch, il fratello di Atticus, da quando
eran bambini. Quasi coetanei, eran cresciuti assieme all'Approdo dei Finch.
Lei era figlia del dottor Franck Buford, un proprietario della zona, per il
quale la medicina era soltanto una professione, mentre la vera passione era la
terra, cosicché era rimasto povero. Invece la passione di zio Jack per le
colture s'era limitata alle cassette di fiori che aveva sulla finestra a Nashville,
e così era potuto diventare ricco. Vedevamo zio Jack tutti gli anni a Natale, e
ogni anno dall'altra parte della strada urlava a miss Maudie se voleva
sposarlo. Miss Maudie gridava di rimando: "Urla un po' più forte, Jack Finch,
così ti sentiranno all'ufficio postale: io non ti ho sentito!" A Jem e a me
quello pareva un modo assai strano di chieder la mano di una signora, ma zio
Jack era un po' strano.
Diceva che da quarant'anni ormai cercava di far arrabbiare miss Maudie
senza riuscirvi, che lui era l'ultimo uomo al mondo che quella avrebbe
pensato di sposare, ma il primo che le veniva in mente di prendere in giro e
che la miglior difesa con lei era l'offesa, tutte cose di cui ci rendevamo conto
benissimo.
"Arthur Radley non si muove di casa, questo è tutto," disse miss Maudie.
"Tu non rimarresti in casa se non avessi voglia di uscire?"
"Certo, ma a me verrebbe voglia di uscire. Perché a lui no?"
Miss Maudie strizzò gli occhi. "Conosci bene quanto me questa storia."
"Però, non ho mai saputo perché non esce, nessuno me lo ha mai detto."
Miss Maudie si assicurò che il ponte fosse a posto. "Sai che il vecchio
Radley era un lavapiedi battista..."
"Ma lo è anche lei, vero, miss Maudie?"
"La mia scorza non è così dura, bambina: sono battista e basta."
"Non credete tutti alla lavanda dei piedi?"
"Sì che ci crediamo: a casa, in un catino!..."
"Eppure con voi noi la comunione non la facciamo..."
Pensando evidentemente che era più facile definire la primitiva dottrina
battista che la comunione chiusa, [1] miss Maudie disse: "I lavapiedi credono
che tutto quello che costituisce un piacere sia peccato. Lo sai che un sabato
alcuni di loro uscirono dai boschi e passando davanti casa mia mi dissero che
io e i miei fiori saremmo andati all'inferno?"

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"Anche i fiori?"
"Proprio così. I miei fiori bruceranno all'inferno con me. A sentir loro, io
passo troppo tempo all'aria del Signore e mai abbastanza in casa per legger la
Bibbia!"
La mia fiducia nel Vangelo qual è predicato dal pulpito si affievolì alla
visione di miss Maudie che arrostiva per l'eternità nei diversi inferni
protestanti. È vero che aveva una lingua tagliente e che non andava in giro
per il vicinato facendo opere buone come miss Stephanie Crawford, ma
mentre bastava avere un granello di buon senso per non fidarsi di miss
Stephanie, Jem e io avevamo molta fiducia in miss Maudie. Non aveva mai
fatto la spia, non aveva mai giocato al gatto e topo con noi e non si occupava
mai delle nostre faccende private. Ci era amica. Come una creatura così
ragionevole potesse essere destinata a tormenti eterni, mi era dunque
incomprensibile.
"Non è giusto, miss Maudie. Lei è la donna migliore che io conosca."
Miss Maudie sorrise. "Grazie, ragazza. Ma vedi, i lavapiedi credono che le
donne siano per definizione il peccato personificato. Prendono la Bibbia alla
lettera, capisci?"
"Per questo il signor Arthur se ne sta chiuso in casa, per star lontano dalle
donne?"
"Non ne ho idea."
"Mi sembra assurdo. Secondo me, se il signor Arthur morisse dalla voglia
di andare in paradiso, almeno s'affaccerebbe sul portico.
Atticus dice che Dio ama gli uomini come noi amiamo noi stessi."
Miss Maudie smise di dondolarsi e la voce le si fece più dura. "Sei troppo
giovane per capirlo," disse, "ma a volte fa più male la Bibbia in mano a un
uomo qualunque, che una bottiglia di whisky in mano a... a tuo padre, per
esempio."
Rimasi scandalizzata. "Atticus non beve whisky," dissi. "Non ha mai
bevuto una goccia di liquore in vita sua. No, aspetti: una volta disse di averne
bevuto, ma che non gli era piaciuto."
Miss Maudie rise. "Non parlavo di tuo padre," disse. "Volevo solo dire
che seppure Atticus bevesse fino a ubriacarsi, anche allora non diventerebbe
cattivo come lo sono molti uomini nei loro momenti migliori. Ci sono degli
uomini... che si preoccupano tanto dell'altro mondo da non imparare mai a
vivere in questo. Guarda quella casa e vedrai i risultati."
"Lei crede che sia vero tutto quello che dicono di B... del signor Arthur?"
"Che dicono?"

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Glielo raccontai.
"Tutto questo sa di gente di colore e anche un po' di Stephanie
Crawford," disse miss Maudie, con viso arcigno. "Stephanie Crawford mi ha
persino detto, una notte, che si era svegliata nel cuor della notte e lo aveva
visto che la guardava dalla finestra. Le chiesi: e tu come hai reagito? Ti sei
fatta in là, nel letto, per lasciargli posto? Questo l'ha messa a tacere, per un
po'."
Ne ero certa. Bastava la voce di miss Maudie a mettere a tacere chiunque.
"No, bambina," ella disse. "Quella è una casa triste. Ricordo quando
Arthur Radley era ragazzo. Era sempre gentile con me, qualsiasi cosa dica la
gente; gentile quanto gli riusciva d'essere."
"Lei lo giudica matto?"
Miss Maudie scosse la testa. "Se non lo era lo sarà diventato, ormai. Quel
che accade alla gente nessuno lo sa mai bene. Che cosa accada in una casa,
dietro la porta chiusa, quali segreti..."
"Atticus non ci tratta in casa, me e Jem, diversamente che all'aperto,"
dissi, sentendo il dovere di difendere il mio genitore.
"Santo cielo, bambina, dicevo per dire... non pensavo nemmeno a tuo
padre. Ma ora che ci penso, ti dirò questo: Atticus Finch a casa sua si
comporta come nella pubblica strada. Che ne dici di portarti a casa un bel
pezzo di torta?"
L'idea mi piacque molto.
Il mattino dopo, quando mi alzai, trovai Jem e Dill in cortile, ingolfati in
una conversazione. Come al solito, quando mi avvicinai mi dissero di
andarmene.
"No, non me ne vado. Questo cortile è mio come tuo, Jem Finch. Ho
diritto quanto te di giocarci."
Dill e Jem tennero un breve conciliabolo. "Bada che se resti farai quello
che diciamo noi," avvertì Dill.
"Ma guarda!" dissi. "Sei diventato il Padreterno, da un momento
all'altro?"
"Se non prometti di fare quello che ti diciamo, non ti diremo niente,"
seguitò Dill.
"Parli come se stanotte tu fossi cresciuto di dieci centimetri! Va bene, di
che si tratta?"
"Vogliamo mandare un biglietto a Boo Radley," disse con calma Jem.
"E come?..." Cercavo già di combattere il terrore che sorgeva
automaticamente dentro di me. Miss Maudie faceva presto a parlare, era

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vecchia e se ne stava tranquilla e comoda sulla sua veranda. Per noi la cosa
era molto diversa.
Ma Jem intendeva soltanto fissare il biglietto in punta a una canna da
pesca e di cacciarlo così tra le persiane. Se veniva qualcuno, Dill avrebbe
agitato il campanello.
Dill alzò la mano destra: stringeva il campanello d'argento da tavola della
mamma.
"Io girerò l'angolo della casa," disse Jem. "Ieri abbiamo studiato la
situazione dalla strada: c'è una persiana che non chiude bene.
Penso di riuscire almeno a metterlo sul davanzale della finestra."
"Ma Jem..."
"Ora sei con noi e non puoi ritirarti, impicciona."
"Va bene, va bene, ma non voglio guardare. Jem c'era qualcuno..."
"Invece guarderai: devi sorvegliare il retro della casa mentre Dill
sorveglierà la strada, e se vien qualcuno suonerà il campanello. È chiaro?"
"Va bene. Che cosa gli avete scritto?"
Dill disse: "Gli abbiamo scritto molto gentilmente di venir fuori almeno
una volta e di dirci che cosa fa lì dentro. Abbiamo scritto che non gli faremo
nessun male e che gli compreremo un gelato."
"Siete diventati matti: ci ucciderà!"
"L'idea è mia," disse Dill. "Ho pensato che se viene fuori e sta un po' con
noi, forse si sentirà meglio."
"Come sai che non si sente bene?"
"Tu come ti sentiresti se fossi stata chiusa in casa per cento anni con
niente altro da mangiare che gatti crudi? Scommetto che ha una barba lunga
così..."
"Come quella del tuo papà?"
"Non ha barba, lui..." Dill s'interruppe, come se cercasse di ricordare.
"Ah, ah, ci sei cascato!" esclamai. "Ancora non eri sceso dal treno e già
dicevi che tuo padre ha la barba nera..."
"Se non ti dispiace, se l'è rasa l'estate scorsa. E ho una lettera come
prova... ci mise dentro anche due dollari!"
"Va' avanti, va' avanti, scommetto che ti ha mandato anche un'uniforme
della polizia a cavallo, che, per disgrazia, qui non è mai arrivata! Continua,
continua a raccontar balle, figliolo!"
Dill raccontava le più grosse balle che io avessi mai udito. A sentirlo,
aveva volato su un aeroplano postale diciassette volte, era stato nella Nuova

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Scozia, aveva visto un elefante, e suo nonno era il brigadier generale Joe
Wheeler e gli aveva lasciato la spada.
"Ora zitti," disse Jem. Corse dietro casa e tornò con una canna di bambù,
gialla. "Sarà abbastanza lunga per arrivarci dal marciapiede?"
"Quando uno è stato tanto coraggioso da andare a toccare la casa dei
Radley, non dovrebbe usare una canna da pesca," dissi. "Perché non butti
addirittura giù la porta?"
"Ma questa volta è diverso," dichiarò Jem. "Quante volte te lo devo dire?"
Dill tirò fuori di tasca un pezzetto di carta e lo passò a Jem. Poi ci
incamminammo cauti verso la vecchia casa. Dill rimase accanto al palo della
luce all'angolo, e Jem ed io avanzammo pian piano lungo il marciapiede
parallelo al fianco della casa. Andai oltre Jem e mi fermai dove potevo
vedere la curva.
"Via libera," dissi. "Nessuno in vista."
Jem guardò Dill, che dal marciapiedi gli fece un cenno con la testa.
Jem attaccò il biglietto all'estremità della canna e la tese, attraverso il
cortile, verso la finestra scelta, ma la canna era troppo corta di parecchi
centimetri e Jem si sporse più che poteva.
Per un pezzo stetti ad osservarlo mentre armeggiava, poi abbandonai il
mio posto e mi avvicinai.
"Non riesco a staccarlo dalla canna," bisbigliò, "se si stacca, non riesco
poi a deporlo sul davanzale. Va' a sorvegliare la strada, Scout."
Ritornai a sorvegliare l'angolo e la strada deserta. Ogni tanto guardavo
Jem che cercava pazientemente di sistemare il biglietto sul davanzale. Ogni
volta svolazzava per terra e Jem lo infilzava di nuovo: anche se Boo Radley
finirà per ricever quel biglietto, pensavo, non riuscirà mai a leggerlo. Stavo
guardando la strada quando suonò il campanello.
Stringendomi nelle spalle, mi voltai per affrontare Boo Radley e le sue
zanne insanguinate; invece vidi Dill che suonava il campanello con tutte le
sue forze in faccia ad Atticus.
Jem aveva una faccia tale che non ebbi il coraggio di dirgli che l'avevo
previsto. Venne avanti lentamente con la canna che strisciava sul
marciapiede.
"Smettila con quel campanello," fece Atticus.
Dill fermò il batacchio; nel silenzio che seguì desiderai che ricominciasse
a suonare. Atticus si spinse indietro il cappello sulla fronte e si mise le mani
sui fianchi. "Jem," disse, "che cosa stavi facendo?"
"Niente."

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"Niente storie. Parla."
"Stavo... stavamo provando a dare una cosa al signor Radley."
"Che cosa volevate dargli?"
"Solo una lettera!"
"Fammela vedere."
Jem gli porse un pezzetto di carta sporco. Atticus lo prese e cercò di
leggerlo. "Perché volete che il signor Radley venga fuori?"
Dill disse: "Pensavamo che forse gli fa piacere star con noi..." ma
ammutolì appena Atticus lo guardò.
"Ragazzo," disse questi rivolto a Jem, "ti dico una cosa, una volta per
tutte: smettila di tormentare quell'uomo. E questo vale anche per voialtri
due."
Atticus ci spiegò che quel che faceva il signor Radley era affar suo; se
voleva venir fuori, lo avrebbe già fatto. Se voleva restare in casa aveva il
diritto di restarci senza esser disturbato dalle premure di ragazzini petulanti,
parola meno che efficace per definire tipi come noi. Che avremmo detto se la
notte qualcuno avesse fatto irruzione in camera nostra senza bussare? Ci
comportavamo proprio nello stesso modo, nei riguardi del signor Radley.
Quello che egli faceva, poteva sembrarci strano, ma evidentemente a lui non
sembrava così. Avevamo mai pensato che la maniera più civile per
comunicare con qualcuno era quello di passare dalla porta principale, invece
che da una finestra secondaria? Insomma dovevamo star lontani da quella
casa finché non eravamo invitati ad entrarvi, dovevamo smettere quello
stupido gioco che ci aveva visto fare e piantarla di prendere in giro tutti in
quella e in tutte le altre strade della città.
"Ma non ci divertivamo alle sue spalle, non volevamo prenderlo in giro!"
disse Jem. "Stavamo giusto..."
"Era questo dunque che stavate facendo, vero?"
"Prenderlo in giro?"
"No," disse Atticus, "ma a recitare la storia della sua vita a edificazione di
tutto il vicinato!"
Jem parve un po' risentito.
"Non ho detto che facevamo questo, non l'ho detto."
Atticus sorrise, ironico. "Lo hai appena ammesso," disse.
"Piantatela immediatamente con queste sciocchezze, tutti e tre!"
Jem lo guardava con la bocca spalancata.
"Vuoi fare l'avvocato, da grande, non è vero?" La bocca di nostro padre
era serrata in modo sospetto, come se si controllasse a stento.

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Jem capì che non era il caso di mettersi a cavillare e tacque.
Quando Atticus entrò in casa per ricuperare un fascicolo che aveva
dimenticato di portare in ufficio quel mattino, Jem si rese finalmente conto di
esser stato imbrogliato con il più vecchio trucco da avvocato che si conosca.
A rispettosa distanza dalla porta di casa, aspettò che Atticus uscisse e si
incamminasse verso la città, e quando non fu più a portata di voce, Jem gli
gridò dietro: "Volevo far l'avvocato, ma ora non ne son più tanto sicuro!"

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Capitolo sesto
"Va bene, andate pure," disse nostro padre, quando Jem gli chiese se
potevamo andare a sederci accanto alla vasca dei pesci di miss Rachel con
Dill, visto che era l'ultima sera che passava a Maycomb.
"Salutatelo per me e ditegli arrivederci all'estate prossima."
Saltammo al di là del muretto che separava il cortile di miss Rachel dal
nostro viale. Jem fece il verso della quaglia e nel buio Dill rispose.
"Non si muove una foglia," disse Jem. "Guardate laggiù."
Indicò il cielo a est. Una luna gigantesca sorgeva dietro i noci di miss
Maudie. "A guardarla si sente ancora più caldo," disse.
"C'è la croce, stanotte?" chiese Dill, senza guardare.
Si stava fabbricando una sigaretta con della carta di giornale e della
canapa.
"No, solo la signora. Non accendere quell'affare, Dill, appesterai tutta la
città!"
A Maycomb c'era una donna nella luna: sedeva alla toletta pettinandosi.
"Sentiremo la tua mancanza, ragazzo," dissi. "Ma adesso, non credete che
faremo bene a tener d'occhio il signor Avery?"
Il signor Avery stava a pensione di fronte alla casa della signora
Lafayette-Dubose. Tutte le domeniche posava una banconota sul piatto delle
elemosine prendendosi tutti gli spiccioli in cambio, e tutte le sere sedeva sulla
veranda fino alle nove e starnutiva. Una sera fummo così fortunati da
assistere ad una sua esibizione, che doveva essere la prima e l'ultima perché
per quanto lo spiassimo non la ripeté mai più. Jem ed io scendevamo una
sera gli scalini della casa di miss Rachel quando Dill ci fermò: "Accidenti,"
disse, "guardate un po' là!" E indicò la casa al di là della strada. Dapprima
vedemmo soltanto una veranda coperta di rampicanti, ma a una più attenta
osservazione scoprimmo un getto d'acqua che dalle foglie cadeva schizzando
nel cerchio giallo della luce del lampione; a quanto ci parve, dalla fonte dello
zampillo a terra potevano esserci tre metri.
Jem disse che il signor Avery aveva calcolato male le distanze, e Dill
aggiunse che doveva bere almeno quattro litri d'acqua al giorno, e la
discussione che seguì per determinare le relative distanze e le rispettive
prodezze ancora una volta mi diede l'impressione d'esser tagliata fuori, visto
che in materia non me ne intendevo.

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Dill si stirò, sbadigliò e disse con indifferenza un po' troppo marcata:
"Che ne direste di far due passi?"
Capii che c'era qualcosa sotto: a Maycomb nessuno andava a far due
passi, così per il gusto di farli. "Dove, Dill?" Dill fece segno con la testa in
direzione sud.
Jem disse: "Va bene," e quando protestai ribatté con calma: "Non sei
obbligata a venire, angioletto."
"E voi non siete obbligati ad andare: ricordatevi..."
Jem non era il tipo da badare alle sconfitte già subite: a quanto pareva,
l'unica lezione che aveva appreso da Atticus era l'arte di polemizzare. "Non
vogliamo far niente di speciale, Scout," disse, "arriviamo fino al lampione e
torniamo indietro."
Ci incamminammo senza parlare sul marciapiede: dai vari porticati ci
giungevano gli scricchiolii delle sedie dei vicini e le chiacchiere sommesse
che fanno i grandi, la sera. Ogni tanto, sentivamo la risata di miss Stephanie
Crawford.
"E allora?" disse Dill.
"Okay," rispose Jem. "Perché non vai a casa intanto, Scout?"
"Ma che cosa volete fare?"
Dill e Jem volevano semplicemente sbirciare dalla finestra con la persiana
difettosa per dare un'occhiata a Boo Radley. Se non volevo accompagnarli
potevo andarmene dritto a casa e tener chiuso quel forno di bocca che avevo,
tutto lì.
"Ma perché diavolo avete aspettato fino a stasera?"
Perché di sera non li avrebbe visti nessuno, perché Atticus a quest'ora era
tanto immerso nella lettura che non avrebbe udito nemmeno le trombe del
Giudizio Universale, perché se Boo Radley li uccideva avrebbero perso la
scuola invece di perder le vacanze, e perché era più facile guardare dentro
una casa buia di sera che di giorno, chiaro?
"Jem, ti prego!..."
"Scout, te lo dico per l'ultima volta, chiudi il becco o vattene a casa. Ogni
giorno che passa assomigli sempre più a una ragazzina, parola d'onore!"
A questo punto non avevo più scelta: dovevo unirmi a loro. Pensammo
che fosse meglio passare sotto l'alta rete metallica sul retro della proprietà dei
Radley, perché da quella parte era meno probabile che qualcuno ci vedesse.
La rete cingeva un giardino abbastanza grande e una piccola rimessa di legno.
Jem sollevò il fondo della rete e fece segno a Dill di passare. Poi passai io
e tenni sollevata la rete per Jem, che dovette strisciare ventre a terra. "State

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zitti," bisbigliò. "E badate a dove mettete i piedi o farete un fracasso del
diavolo."
Con questa preoccupazione in mente, facevo sì e no un passo al minuto.
Mi mossi più in fretta quando vidi Jem, più avanti nella luce della luna, che ci
faceva segno di sbrigarci. Giungemmo al cancello che divideva il giardino dal
cortile dei Radley. Jem lo toccò e il cancello cigolò.
"Sputaci sopra!" sussurrò Dill.
"Adesso sì che siamo in trappola, Jem," bisbigliai. "Vedrai che di qui non
usciremo facilmente!"
"Ssst! Sputaci sopra anche tu, Scout."
Sputammo fino ad avere la gola secca e Jem aprì lentamente il cancello,
sollevandolo un poco e lasciandolo appoggiato alla rete metallica.
Entrammo nel cortile.
La parte posteriore della casa dei Radley era ancora meno invitante della
facciata: per tutta la larghezza della casa correva una decrepita veranda di
legno sulla quale si aprivano due porte e, tra le porte, due finestre buie. A
una estremità, il tetto della veranda invece di esser sostenuto da una colonna
poggiava su un rozzo palo squadrato. In un angolo della veranda c'era una
vecchia stufa, e sopra di essa uno specchio da attaccapanni rimandava con un
sinistro riflesso la luce della luna.
"Accidenti," disse Jem piano, sollevando un piede.
"Che succede?!..."
"Polli!" disse in un bisbiglio.
Che dovessimo tener gli occhi bene aperti, ne avemmo la conferma
quando udimmo Dill, che ci precedeva, imprecare con un bisbiglio.
Strisciammo fino alla casa e sotto la finestra con la persiana rotta.
Il davanzale era di parecchi centimetri più alto della testa di Jem.
"Datemi una mano," mormorò Dill. "Però, aspetta!" Jem si afferrò con la
destra il polso sinistro e afferrò con la sinistra il mio polso destro. Io feci lo
stesso e Dill si inerpicò sul seggiolino formato dalle nostre braccia incrociate.
Lo alzammo, e si attaccò al davanzale.
"Sbrigati!" bisbigliò Jem, "non ce la facciamo a tenerti!"
Dill mi pizzicò la spalla e lo calammo giù.
"Che hai visto?"
"Niente: ci son delle tende. Però si vede una luce piccola piccola."
"Andiamocene," bisbigliò Jem. "Facciamo il giro da dietro, come prima.
Ssst!..." ammonì, sentendo che stavo per protestare.
"Proviamo alla finestra di dietro!"

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"Dill, no!" dissi.
Dill si fermò, lasciando andare avanti Jem. Quando questi mise il piede
sul primo scalino della veranda, lo sentimmo scricchiolare.
Rimase immobile, poi provò di nuovo, spostando il peso del corpo
adagio adagio. Lo scalino non scricchiolò. Jem ne saltò due, mise il piede
sulla veranda, si sollevò e per un istante rimase in bilico. Si riprese e,
lasciatosi andare in ginocchio, strisciò fino alla finestra, alzò la testa e guardò
dentro.
A quel punto vidi l'ombra. Era l'ombra di un uomo con un cappello.
Dapprima lo presi per un albero, ma non c'era vento, e i tronchi degli
alberi non camminano. La veranda era illuminata dalla luna e l'ombra,
spezzata come un bastone, si mosse attraverso la veranda in direzione di Jem.
Dill la vide dopo di me e si coprì la faccia con le mani.
Quando l'ombra superò Jem, questi la vide. Si mise le braccia sulla testa e
si irrigidì.
L'ombra si fermò a qualche palmo da Jem. Il braccio si scostò dal fianco,
poi ricadde giù e rimase fermo. Quindi l'ombra si volse, tornò indietro
passando di nuovo su Jem, percorse la veranda e girò il fianco della casa,
tornando donde era venuta.
Jem fece un balzo giù dalla veranda e venne al galoppo verso di noi.
Spalancò il cancello, fece balzare Dill e me dall'altra parte e ci sospinse da
dietro tra due file di fruscianti cavoli. A metà strada, sempre tra i cavoli,
inciampai; nello stesso istante uno sparo ruppe la quiete dell'abitato.
Dill e Jem si tuffarono tra i cavoli accanto a me. Jem ansimava: "La siepe
della scuola!... Presto, Scout!"
Tenne alzato il fondo della rete; Dill e io sgattaiolammo sotto, ed eravamo
ormai a metà strada dal riparo della quercia solitaria che si ergeva nel campo
da gioco della scuola, quando ci accorgemmo che Jem non era con noi.
Tornammo indietro di corsa e lo trovammo che si dibatteva sotto la rete,
tirando via i pantaloni per liberarsi. Corse poi fino alla quercia in mutandine.
Una volta al riparo riprendemmo fiato; Jem però era sulle spine.
"Bisogna tornare a casa, subito. Si saranno accorti della nostra assenza."
Attraversammo di corsa il cortile della scuola, strisciammo sotto la rete e,
giunti nel Pascolo del Daino dietro casa nostra, ci arrampicammo sulla nostra
siepe. Finché non fummo al sicuro sugli scalini dell'ingresso posteriore, Jem
non ci permise di riposarci.
Ripreso fiato, andammo tutti e tre in giardino con l'aria più naturale
possibile e guardammo in strada: un gruppetto di vicini si assiepava al

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cancello dei Radley.
"È meglio che ci facciamo vedere," disse Jem.
Nathan Radley stava al di là del cancello, con un fucile da caccia di
traverso sul braccio. Fuori, accanto a miss Maudie e a miss Stephanie
Crawford, c'era Atticus. Un po' più in là, miss Rachel e il signor Avery.
Nessuno ci vide arrivare. Ci intrufolammo vicino a miss Maudie, che si
guardò attorno per vedere se c'eravamo tutti. "Dove eravate? Non avete
sentito?!"
"Che cosa è successo?" chiese Jem.
"Il signor Radley ha sparato a un negro, nel suo campo di cavoli!"
"Oh!... Lo ha preso?"
"No," disse miss Stephanie, "ha sparato in aria. Lo ha spaventato da
morire, però: dice che è diventato bianco dallo spavento, e che se vedremo in
giro un negro bianco, è lui. Dice che l'altra canna del fucile rimane carica e
pronta, e che la prossima volta che udrà un rumore nel suo campo non
sparerà in aria, chiunque sia: un cane, un negro, o... Jem Finch!..."
"Come dice, signora?" fece Jem.
"Dove sono i tuoi calzoni, figliolo?" chiese Atticus.
"I miei calzoni?"
"I tuoi calzoni."
Era tutto inutile: Jem era lì, in mutande, davanti a Dio e a tutti.
Sospirai, rassegnata all'inevitabile.
"Signor Finch..."
Alla luce del fanale, vidi che Dill ne aveva pensata una delle sue: aveva
gli occhi spalancati, e la grassa faccia da cherubino gli si era fatta ancora più
tonda.
"Che c'è, Dill?" chiese Atticus.
"Glieli ho vinti..." disse Dill, con aria vaga.
"Glieli hai vinti? E come?"
Dill si tastò la nuca, poi si passò la mano sulla fronte.
"Giocavamo a strip-poker, vicino alla vasca dei pesci," disse.
Jem ed io ricominciammo a respirare. I vicini parvero soddisfatti della
spiegazione, perché tutti s'irrigidirono. Ma che cosa era lo strip-poker?
Ci mancò il tempo di scoprirlo, perché miss Rachel strillò, come la sirena
dei pompieri: "Gesù, Dill Harris! Adesso vi siete anche messi a giocare
d'azzardo vicino alla mia vasca di pesci? Te lo do io lo strip-poker!"
Dill correva il pericolo di esser fatto a pezzi sull'istante, ma Atticus lo
salvò. "Un momento, miss Rachel," disse. "Non mi risulta che lo abbiano mai

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fatto prima d'ora. Giocavate tutti e tre? A carte?" Jem, a occhi chiusi, colse
ora al balzo la palla di Dill; "Non giocavamo con le carte," disse; "giocavamo
con i fiammiferi!"
Provai sincera ammirazione per mio fratello: i fiammiferi erano
pericolosi, ma le carte eran fatali.
"Jem, Scout," disse Atticus, "non voglio più sentir parlare di poker: di
nessun tipo. Va' da Dill e riprenditi i calzoni, Jem.
Sistemate la faccenda tra di voi."
"Non preoccuparti, Dill," disse Jem, mentre trottavamo sul marciapiede.
"Vedrai che miss Rachel non ti farà niente, la calmerà lui. Hai avuto una bella
idea, ragazzo. Ascolta... Senti?..."
Ci fermammo e udimmo la voce di Atticus: "...non è molto grave, miss
Rachel: sono cose da ragazzi..."
Dill si tranquillizzò, ma Jem ed io no: rimaneva il problema, la mattina
dopo, di far saltar fuori dei pantaloni per Jem.
"Potrei dartene un paio dei miei," disse Dill quando giungemmo davanti
alla casa di miss Rachel. Jem disse che nei calzoni di Dill non ci entrava, ma
grazie comunque. Ci salutammo, e Dill entrò in casa. Evidentemente si
ricordò di esser fidanzato con me, perché tornò fuori di corsa e mi baciò in
fretta davanti a Jem. "Scrivetemi, eh?" ci strillò da lontano.
Anche se i pantaloni di Jem fossero stati al sicuro addosso a lui, lo stesso
non avremmo dormito molto quella notte. Dalla mia brandina sotto il portico
di dietro, i rumori notturni mi giungevano ingranditi; ogni calpestio sulla
ghiaia era Boo Radley in cerca di vendetta, ogni negro che passava ridendo
per la strada era Boo Radley libero e minaccioso che ci correva dietro; gli
insetti che sbattevano sulla rete della veranda eran le dita del pazzo Boo che
la laceravano, gli alberi di saponaria del cortile erano minacciosi, incombenti,
vivi. Ero tra veglia e sonno quando udii Jem mormorare.
"Dormi, Bambina dai Tre occhi?"
"Sei impazzito?"
"Ssst... Atticus ha spento la luce."
Nella luce della luna che tramontava, vidi Jem metter giù le gambe dalla
brandina.
"Me li vado a prendere!" disse.
Mi alzai a sedere. "No che non ci vai: non ti lascio andare!"
Jem cercava di infilarsi la camicia. "Devo andarci."
"Se ci provi sveglio Atticus!"
"Se ci provi ti uccido!"

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Lo tirai accanto a me sulla brandina. Cercai di farlo ragionare.
"Jem, se domattina il signor Nathan li trova e sa che li hai persi tu, li
mostrerà ad Atticus: sarà un guaio, lo so, ma non sarà la morte. Torna a
letto."
"Lo so benissimo," disse Jem. "Per questo voglio andare a prenderli."
Cominciai a star male dalla paura! tornare laggiù da solo...
Ricordavo quel che aveva detto miss Stephanie: il signor Nathan
aspettava con l'altra canna spianata, e al primo rumore, negro o cane che
fosse... Jem lo sapeva meglio di me.
Ero disperata: "Senti, Jem, non vale la pena di rischiare tanto! Le botte
fan male, ma passano. Ti farai ammazzare, Jem, Ti prego..."
Sbuffò, paziente. "Ora ti spiego, Scout," borbottò. "A quel che mi
ricordo, Atticus non mi ha mai picchiato, e le cose devono restar così."
Era vero, a pensarci bene: Atticus ci minacciava ogni due giorni, ma non
ci faceva niente. "Certo, perché non ti sei mai fatto prendere!..."
"Forse, ma voglio che le cose restino immutate. Non dovevamo farlo,
Scout!"
Fu allora, credo, che cominciammo ad allontanarci l'uno dall'altra.
A volte non lo capivo, ma la mia meraviglia durava poco. Questa volta
però era troppo grande. "Per favore, Jem," supplicai, "non puoi pensarci
ancora per un minuto... Andar solo laggiù!..."
"Sta' zitta!"
"Non è probabile che Atticus non ti parli più, Jem, o cose del genere... Lo
sveglio, Jem, ti giuro che lo sveglio!..."
Jem afferrò il colletto del mio pigiama e lo strinse forte.
"Allora, vengo con te," ansimai.
"No, non vieni: faresti solo chiasso!"
Era inutile. Tolsi il chiavistello alla porta di dietro e la tenni aperta mentre
Jem scendeva in punta di piedi i gradini. Dovevano essere le due. La luna
stava per tramontare e le ombre lentamente si dileguavano, confondendosi.
La camicia di Jem gli penzolava sulle gambe, dandogli l'aria di un piccolo
fantasma che si allontanasse danzando, in fuga davanti all'alba. Soffiava una
brezza leggera e raffreddava il sudore che mi scendeva lungo i fianchi.
Jem s'avviò per dietro, attraversò il Pascolo del Daino e il cortile della
scuola, dirigendosi verso la rete, mi parve; questa era almeno la direzione da
lui presa. Ci avrebbe messo del tempo, quindi non era il caso ancora di
preoccuparsi. Aspettai l'ora che lo fosse, in attesa di udire lo sparo del signor
Radley; mi parve anche di udir scricchiolare la siepe, ma era una illusione.

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Poi udii tossire Atticus. Trattenni il respiro. Qualche volta, quando
facevamo una spedizione notturna al bagno, lo trovavamo che leggeva
ancora. Diceva che spesso si svegliava durante la notte, veniva a darci
un'occhiata e poi si metteva a leggere finché si riaddormentava. Aspettai che
la luce si accendesse e mi sforzai gli occhi per vederne il bagliore nell'atrio.
Ma la luce rimase spenta ed io ripresi fiato.
Non c'eran più nottambuli in giro, ma le bacche delle saponarie mature
tamburellavano sul tetto al minimo soffio del vento, e il buio era reso più
desolato dall'abbaiare di cani lontani.
Ed ecco che Jem ritornò! La camicia bianca svolazzò sopra la siepe, man
mano ingrandendosi. salì i gradini di dietro, chiuse la porta e sedette sulla
brandina. Senza dir parola, mi mostrò i pantaloni che teneva in mano; poi si
sdraiò e per un pezzo udii la sua brandina gemere. Poco dopo si quietò, e
non lo udii più muoversi.

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capitolo settimo
Jem rimase taciturno e di umore bizzarro per un'intera settimana.
Come una volta Atticus mi aveva consigliato, cercai di mettermi nei suoi
panni e di riflettere: se fossi andata io alla casa dei Radley, sola, alle due del
mattino, il giorno dopo mi avrebbero fatto il funerale. così lasciai in pace
Jem, cercando di non annoiarlo.
Cominciò la scuola. La seconda classe fu disastrosa quanto la prima, anzi
peggiore: continuavano a mostrarci i cartoncini dell'alfabeto senza insegnarci
né a leggere né a scrivere. I progressi che faceva miss Caroline nella stanza
accanto si potevano valutare dalla frequenza delle risate della scolaresca;
tuttavia la solita banda di ripetenti la aiutava a mantenere l'ordine. L'unica
cosa buona della seconda era che uscivo alla stessa ora di Jem: di solito ce ne
tornavamo a casa assieme alle tre del pomeriggio.
Un giorno, mentre tornavamo a casa attraverso il campo di gioco della
scuola, Jem dichiarò: "C'è una cosa che non ti ho mai detta."
Era la prima frase intera che egli pronunciasse dopo vari giorni, e lo
incoraggiai: "A che proposito?"
"A proposito di quella notte."
"Non mi hai mai detto niente di quella notte," replicai.
Jem fece un gesto, come per scacciare le mie parole, quasi fossero
moscerini. Tacque per un po', poi disse: "Quando tornai a riprendermi i
calzoni... Si erano impigliati quando dovetti togliermeli, e non ci riuscivo.
Quando tornai..." Trasse un profondo respiro: "Quando tornai, li trovai
piegati sulla rete... come se stessero aspettandomi."
"Piegati."
"E un'altra cosa..." La voce di Jem era priva di espressione. "Te li
mostrerò, quando arriviamo a casa: erano aggiustati. Non come li avrebbe
potuti rammendare una donna, ma come se li avessi cuciti io.
Tutti storti. Pareva che..."
"...che qualcuno sapesse che saresti tornato a prenderli."
Jem rabbrividì. "Che qualcuno mi avesse letto nel pensiero... che
qualcuno fosse in grado di sapere quel che avrei fatto. È possibile sapere
quel che voglio fare, senza conoscermi, Scout?"
Era una preghiera, non una domanda. Lo rassicurai. "Nessuno può sapere
quello che fai se non vive nella tua stessa casa. A volte nemmeno io posso
saperlo."

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Passavamo davanti al nostro albero. Nella cavità c'era un gomitolo di
spago grigio.
"Non toccarlo, Jem," dissi. "Questo deve essere il nascondiglio di
qualcuno."
"Non credo, Scout."
"Ma sì. Qualcuno come Walter Cunningham, che vien sempre qui durante
la ricreazione a nascondere le sue cose. Poi passiamo noi e gliele portiamo
via. Senti, lasciamolo lì e aspettiamo un paio di giorni. Se c'è ancora, lo
prendiamo, va bene?"
"Okay, forse hai ragione," disse Jem. "Dev'essere il nascondiglio di un
bambino piccolo... ci mette le sue cose perché i grandi non gliele piglino. Se
ben ricordi, troviamo le cose nel tronco soltanto quando è aperta la scuola."
"Sì," disse, "ma d'estate non veniamo mai da queste parti."
Andammo a casa. Il mattino dopo il gomitolo era dove lo avevamo
lasciato. Il terzo giorno, lo stesso. Jem se lo mise in tasca, e da allora in poi
considerammo nostra proprietà tutto quello che trovavamo nel tronco
dell'albero.
La seconda classe era noiosa, ma Jem mi assicurava che man mano che
sarei diventata più grande la scuola sarebbe migliorata, che anche lui aveva
cominciato così, e che soltanto in sesta si cominciava a imparare qualcosa di
importante. A quanto pareva la sesta gli era piaciuta sin dall'inizio;
attraversava, per così dire, un breve periodo egizio che mi lasciava perplessa:
camminava rigido come un automa, con un braccio teso davanti e un altro
dietro, un piede esattamente dietro l'altro. Secondo lui gli egiziani
camminavano a quel modo; io ribattevo che in tal caso non capivo come mai
fossero riusciti a combinar qualcosa, ma Jem replicava che avevano
combinato molto più degli americani, che avevano inventato la carta igienica
e l'imbalsamazione perfetta; a che punto ci troveremmo oggi se gli egiziani
non avessero inventato queste cose? Atticus mi consigliò di sopprimere
soltanto gli aggettivi dal racconto di Jem: i fatti erano veri.
Non esistono stagioni ben definite, nell'Alabama del Sud. L'estate si perde
nell'autunno, che a volte è seguito non dall'inverno, ma da una breve
primavera che di nuovo si stempera nell'estate.
Quell'autunno fu molto lungo, ma non molto fresco per i nostri abiti
leggeri. Un mite pomeriggio di ottobre Jem ed io ci aggiravamo intorno al
solito tronco, quando fummo attratti dal nascondiglio.
Questa volta c'era dentro qualcosa di bianco.

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Jem lasciò a me la soddisfazione di scoprire che cosa fosse: tirai fuori
dalla cavità due figurine scolpite nel sapone. Una rappresentava un ragazzo,
l'altra una bambina con un vestitino appena abbozzato.
Senza riflettere che i porta sfortuna non esistono, cacciai un urlo e gettai
le figurine per terra.
Jem le raccolse. "Ma che ti piglia?" gridò, ripulendo le figure dalla
polvere rossa. "Sono ben fatte," disse, "non ne ho mai viste di così ben fatte."
Me le porse. Erano due bambini in miniatura, quasi perfetti. Il maschietto
aveva calzoncini corti e un ciuffo di capelli lisci sugli occhi. Guardai Jem e
vidi che aveva una ciocca di capelli castani e diritti che gli pendeva da una
parte: non me ne ero mai accorta.
Jem guardò l'altra figurina e poi me. La figurina aveva la frangetta, e io
pure.
"Questi siamo noi," disse.
"Ma chi li ha fatti, secondo te?"
"Chi conosciamo, da queste parti, che intaglia il legno?" chiese.
"Il signor Avery."
"È vero, il signor Avery fa proprio questi lavori: scolpisce."
In media, il signor Avery intagliava un pezzo di legna da ardere alla
settimana: lo affilava fino a ridurlo come uno stuzzicadente e poi lo
masticava.
"C'è anche l'innamorato della vecchia Stephanie Crawford," dissi.
"Sì, scolpisce anche lui, ma vive fuori, in campagna. Quando mai ci vede,
noi due?"
"Forse quando sta seduto sulla veranda guarda noi invece che miss
Stephanie. Se io fossi lui, farei così!"
Jem mi fissò così a lungo che gli chiesi che cosa avesse, ma per tutta
risposta disse: "Niente, Scout," e quando andammo a casa mise le figurine
nella sua cassetta.
Quasi due settimane dopo trovammo nel tronco un pacchetto intero di
gomma da masticare, e ce lo godemmo tutto dato che Jem aveva dimenticato
che tutto quello che si trovava in zona Radley era avvelenato.
La settimana dopo nel cavo del tronco c'era una medaglia annerita.
Jem la mostrò ad Atticus che ci spiegò che era una medaglia premio per
ortografia: prima che noi nascessimo, le scuole della contea di Maycomb
organizzavano gare di ortografia, premiando i vincitori con medaglie.
Secondo Atticus l'aveva certo perduta qualcuno; avevamo chiesto in giro?
Stavo per dire dove l'avevamo trovata quando Jem mi diede un calcio; poi

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chiese ad Atticus se ricordava qualcuno che l'avesse vinta, e Atticus rispose
di no.
Quattro giorni dopo facemmo il nostro bottino migliore: un orologio da
tasca che non funzionava, legato insieme con un temperino di alluminio a
una catena.
"Secondo te è d'oro bianco, Jem?"
"Non so. Lo mostrerò ad Atticus."
Atticus disse che probabilmente temperino, orologio e tutto valevano, da
nuovi, un dieci dollari. "Avete fatto un cambio a scuola?" chiese.
"No, no." Jem tirò fuori l'orologio del nonno, che Atticus gli lasciava
portare una volta la settimana, purché stesse attento. I giorni che aveva
l'orologio, Jem si muoveva con grande precauzione.
"Se non ti dispiace, Atticus, preferirei portare questo qui. Forse potrò
farlo aggiustare."
Quando il nuovo orologio sostituì quello del nonno, e averlo con sé
divenne ormai una responsabilità quotidiana, Jem non sentì più il bisogno di
guardar l'ora ogni cinque minuti.
Fece le cose per benino. Ne rimasero soltanto una molla e due pezzettini
piccolissimi, ma l'orologio non camminava. "Oh," sospirò, "non funzionerà
mai! Scout?"
"Sì?"
"Credi che dovremmo scrivere una lettera a quel tale che ci lascia queste
cose nell'albero?"
"Sarebbe gentile ringraziarlo, Jem... che cosa ti piglia adesso?"
Jem scuoteva la testa, tenendosi le mani sugli orecchi. "Non capisco, non
capisco. Scout, non so perché..." Guardò verso la stanza di soggiorno. "Quasi
quasi lo dico ad Atticus... Che ne dici? No, meglio di no."
"Glielo dico io, se vuoi."
"No, no, non dir niente. Scout?"
"Sì?"
Per tutta la sera era stato sempre lì lì per dirmi qualcosa. Il volto gli si
illuminava e si chinava verso di me; poi cambiava idea.
Anche questa volta la cambiò. "Niente," disse.
"Tieni, scriviamo una lettera!" Gli misi un blocchetto di carta e una matita
sotto il naso.
"Okay. Caro signore..."
"Come sai che è un uomo? Scommetto che è miss Maudie... è da tempo
che lo penso."

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"Ma miss Maudie non mastica gomma..." Jem sorrise. "Sai, dice delle
cose buffe. Un giorno gliene offrii un pezzo e lei ringraziò, ma disse che la
gomma le si attacca al palato e le toglie la parola. Non è buffo?"
"Sì, a volte dice delle cose buffe. Però l'orologio con la catena non poteva
esser suo."
"Caro signore..." disse Jem. "Ci è piaciuto il... No: ci è piaciuto molto
tutto quello che lei ci ha messo nell'albero. Cordiali saluti.
Jeremy Atticus Finch."
"Non capirà chi sei se firmi così, Jem."
Jem cancellò il suo nome e scrisse: "Jem Finch." Io firmai più sotto: "Jean
Louise Finch (Scout)," e Jem mise il biglietto in una busta.
Il mattino dopo, andando a scuola, egli corse avanti e si fermò all'albero.
Ero di fronte a lui, e quando alzò la testa vidi che impallidiva.
"Scout!"
Gli corsi accanto.
Qualcuno aveva riempito il nostro buco con del cemento.
"Non piangere, adesso, Scout. Non piangere, non te la prendere!"
continuò a bisbigliarmi Jem per tutta la strada fino alla scuola.
Quando tornammo a casa a colazione, Jem mangiò in fretta e corse sulla
veranda, fermandosi sugli scalini. Lo seguii. "Non è passato ancora," disse.
Il giorno dopo si mise di nuovo di guardia. Questa volta la sua attesa fu
ricompensata.
"Salve, signor Nathan," disse.
"Giorno, Jem. Giorno Scout," rispose passando il signor Radley.
"Signor Radley!" disse Jem.
Il signor Radley si voltò.
"Scusi, signor Radley, ha messo lei il cemento nel buco di quell'albero
laggiù?"
"Sì," rispose, "l'ho riempito io."
"E perché, signore?"
"È un albero che sta morendo. Quando gli alberi sono malati, si
riempiono i tronchi cavi con il cemento. Dovresti saperlo, Jem."
Jem non disse più niente fino a sera. Quando passammo davanti al nostro
albero tastò il cemento con aria pensierosa e rimase profondamente assorto.
Mi parve di cattivo umore e me ne stetti in disparte.
Come al solito, anche quella sera andammo incontro ad Atticus che
tornava a casa dal lavoro. Quando fummo davanti casa, Jem disse: "Atticus,
guarda per piacere quell'albero laggiù."

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"Quale albero, figliolo?"
"Quello sull'angolo dei Radley, venendo dalla scuola."
"Ebbene?"
"Ti pare un albero, che stia morendo?"
"Ma no, figliolo, non mi pare. Guarda le foglie: son tutte verdi e intere.
Non si vedono chiazze..."
"Non è nemmeno malato?"
"Quell'albero è sano come te, Jem. Perché?"
"Il signor Nathan Radley ha detto che sta morendo."
"Bè, può darsi. Certo il signor Radley li conosce meglio di noi i suoi
alberi."
Atticus ci lasciò sul portico. Jem si appoggiò a un pilastro, strofinandovi
contro le spalle.
"Hai il solletico, Jem?" gli chiesi, con tutta la gentilezza possibile. Non
rispose. "Vieni dentro, Jem," dissi.
"Tra poco."
Rimase là fino a notte, io lo aspettai. Quando entrammo in casa, capii che
aveva pianto perché aveva il viso sporco in certi punti. Mi parve però strano
che non lo avessi sentito piangere.

69
capitolo ottavo
Per ragioni incomprensibili persino ai più esperti profeti della contea di
Maycomb, quell'anno l'autunno si trasformò veramente in inverno. Avemmo
due settimane di freddo come non se ne avevano, a detta di Atticus, dal 1885.
Il signor Avery disse che sulla Pietra di Rosetta era scritto che quando i
ragazzi disubbidiscono ai genitori, fumano sigarette e litigano, le stagioni
cambiano. Su Jem e su di me cadde dunque la colpa di quei cambiamenti
naturali, e quindi del dispiacere dei nostri vicini e del nostro disagio.
Quell'inverno morì la vecchia Radley, ma la sua morte fece poco scalpore
- i vicini non la vedevano quasi mai, solo quando usciva a innaffiare le sue
canne. Jem ed io concludemmo che alla fine Boo l'aveva fatta fuori, ma
quando Atticus ritornò da casa Radley disse, con nostro disappunto, che era
morta di morte naturale.
"Chiediglielo," bisbigliò Jem.
"Chiediglielo tu che sei più grande!"
"Proprio per questo glielo devi chiedere tu."
"Atticus," dissi "hai visto il signor Arthur?"
Atticus mi guardò con severità di sopra al giornale. "No."
Jem mi impedì di fare altre domande. Disse che Atticus aveva ancora dei
sospetti sui nostri rapporti con i Radley e che non era il caso di insistere.
Secondo lui Atticus non era convinto che la nostra impresa notturna
dell'estate prima si fosse limitata allo strip-poker. Non aveva dati precisi su
cui basare questa sua idea, era solo un sospetto.
Il mattino dopo quando mi svegliai, guardai fuori la finestra e per poco
non morivo di paura. I miei strilli fecero accorrere dal bagno Atticus, con il
volto rasato a metà.
"È la fine del mondo, Atticus! Per carità, facciamo qualcosa!"
Lo trascinai alla finestra.
"Non è la fine del mondo," disse. "Nevica!"
Jem gli chiese se la neve sarebbe durata. Neanche lui l'aveva mai vista,
ma sapeva di che si trattava. Atticus rispose che non ne sapeva più di lui.
"Credo però che se continua così poco densa, diventerà pioggia."
Squillò il telefono, e Atticus si alzò da tavola per rispondere.
"Era Eula May," disse tornando. "Ha detto testualmente: "Poiché nella
contea di Maycomb non nevicava dal 1885, oggi non vi sarà scuola.""

70
Eula May era la capoturno dei telefoni di Maycomb, e a lei venivano
affidati tutti gli annunci ufficiali: inviti ai matrimoni, allarme di incendi e,
quando il dottor Raynolds era via, istruzioni di pronto soccorso.
Quando infine Atticus ci richiamò all'ordine, pregandoci di guardare nei
piatti e non fuori la finestra, Jem gli chiese: "Come si fa un pupazzo di neve?"
"Non ne ho la minima idea," rispose Atticus. "Non vorrei deludervi, ma
dubito che non vi sia nemmeno abbastanza neve per una palla."
Entrò Calpurnia e disse che secondo lei la neve sarebbe durata.
Corremmo in cortile, e lo trovammo coperto da un sottile strato di
nevischio.
"Non dovremmo camminarci sopra," disse Jem. "Vedi, a ogni passo la
rovini."
Mi voltai a guardare le soffici impronte. Jem disse che se aspettavamo che
ne cadesse un altro poco, avremmo potuto ammucchiare la neve tutta assieme
e farne un pupazzo. Misi fuori la lingua e vi cadde sopra un grosso fiocco di
neve. Bruciava.
"Jem, è bollente!"
"Ma no, è così fredda che brucia! Non mangiarla, Scout, la sprechi!
Lasciala cadere!"
"Ma voglio camminarci sopra!"
"Sai che facciamo? Andiamo a camminare su quella di miss Maudie."
Jem saltellò attraverso il giardino e lo seguii mettendo i piedi nelle sue
impronte. Sul marciapiede di fronte alla casa di miss Maudie, ci avvicinò il
signor Avery. Aveva la faccia rosea e un gran pancione sotto la cintura.
"Visto che avete fatto?" chiese. "Nella contea di Maycomb non nevicava
dall'epoca di Appomattox! Sono i ragazzi cattivi come voi a far cambiare le
stagioni!"
Mi chiesi se Avery sapeva con quanta ansia lo avevamo spiato l'estate
scorsa, sperando che ripetesse la sua esibizione, e mi dissi che se la neve era
il castigo per le nostre malefatte, il peccato aveva dunque i suoi lati buoni.
Non mi chiesi dove il signor Avery si procurasse le sue statistiche
meteorologiche: certo gli venivan direttamente dalla Pietra di Rosetta.
"Jem Finch, senti, Jem Finch!"
"Miss Maudie ti chiama, Jem."
"State in mezzo al cortile: c'è un'aiuola sotto la neve vicino al portico,
attenti a non camminarci sopra!"
"Sissignora!" gridò Jem. "È splendido, vero, miss Maudie?"
"Macché splendido! Se stanotte gela, mi moriranno tutte le azalee!"

71
Il cappellaccio da sole di miss Maudie scintillava di cristalli di neve. Era
china su dei piccoli cespugli e li copriva con dei sacchetti di juta. Jem le
chiese perché.
"Per tenerli caldi," rispose.
"Come fanno a star caldi, i fiori? Non hanno mica una circolazione!"
"Non so rispondere a questa domanda, Jem Finch. So soltanto che se
stanotte gela queste piante anche geleranno, perciò le si copre. È chiaro?"
"Sissignora! Miss Maudie?..."
"Di', giovanotto!"
"Scout ed io possiamo prendere in prestito un po' della sua neve?"
"Dei del cielo, ma pigliatevela tutta! Ci dev'essere un vecchio paniere per
le pesche dietro la casa, usate quello..." Miss Maudie ci guardò stringendo gli
occhi. "Jem Finch, cosa vuoi fare con la mia neve?"
"Vedrà!..." rispose Jem, e trasferimmo quanta più neve possibile dal
cortile di miss Maudie al nostro, bagnandoci tutti.
"E ora che facciamo, Jem?" chiesi.
"Vedrai!" disse. "Ora prendi il paniere, e tutta la neve che riesci a
raccogliere in cortile portala in giardino. E cammina sempre sulle tue
impronte," mi ammonì.
"Facciamo un bambino di neve, Jem?"
"No, un uomo grande di neve. Però dobbiamo lavorar sodo!"
Jem corse in cortile, prese la zappa e cominciò a scavare in fretta dietro la
catasta della legna, mettendo da parte tutte le scorie che trovava. Entrò in
casa, ne uscì con la cesta per il bucato, la riempì di terra e la portò in
giardino.
Quando avemmo a disposizione cinque cesti pieni di terra e due pieni di
neve, Jem disse che eravamo pronti e potevamo cominciare.
"Ma non credi che verrà fuori un grande pasticcio?" chiesi.
"Ti sembra adesso," rispose, "ma vedrai, dopo!..."
Radunò una bracciata di terra e, battendola con le mani, ne fece un
monticello sul quale aggiunse altra terra ancora finché non ebbe costruito una
specie di tronco umano.
"Jem, non ho mai sentito parlare di un pupazzo negro," dissi.
"Adesso è nero, ma dopo vedrai!" borbottò.
Si procurò in cortile delle verghe di pesco, le intrecciò e le piegò a forma
di braccia e di gambe, poi le ricoprì di terra.
"Pare miss Stephanie Crawford con le mani sui fianchi," dissi.
"Grassa nel tronco e con quei braccini!"

72
"Li farò più grossi." Rovesciò dell'acqua sull'uomo di fango, aggiungendo
altra terra. Rifletté un istante, poi gli modellò una grossa pancia. Mi guardò
con occhi che brillavano: "Il signor Avery ha un po' la sagoma dell'uomo di
neve, non ti pare?"
Raccolse con le mani un po' di neve e cominciò ad appiccicarla sulla
figura. A me lasciò coprire soltanto la schiena, per sé tenne il davanti. A poco
a poco il signor Avery diventò bianco.
Usando i pezzi di legno per gli occhi, il naso, la bocca e i bottoni, Jem
riuscì a dargli un'aria somigliante al signor Avery. Un bastone di legna da
ardere completò il quadro; infine Jem indietreggiò per ammirare la propria
creazione.
"È bellissimo, Jem," dissi. "Non gli manca che la parola!"
"Non è vero?" disse, con modestia.
Non resistemmo ad aspettare il ritorno di Atticus per il pranzo; andammo
noi da lui e gli dicemmo che avevamo pronta una sorpresa per lui. Parve
assai sorpreso quando vide il cortile quasi tutto trasferito in giardino, disse
però che avevamo fatto un gran bel lavoro. "Mi chiedevo come te la saresti
cavata," disse a Jem. "D'ora in poi non mi preoccuperò più del tuo avvenire,
figliolo. Le idee non ti mancheranno!"
Le orecchie di Jem divennero rosse a questo complimento, ma quando
vide Atticus indietreggiare lo sguardo gli s'abbuiò. Atticus squadrò il pupazzo
per qualche istante. Sorrise, poi rise. "Figliolo, non so se diventerai
ingegnere, avvocato o ritrattista. È certo però che questo pupazzo è quasi
diffamatorio, messo qui in giardino. Bisognerà mascherarlo un po'." Suggerì
a Jem di snellire un po' il pupazzo, di cambiare il bastone con una scopa e di
mettergli un grembiule. Jem spiegò che facendo così il pupazzo si sarebbe
tutto infangato e non sarebbe stato più un uomo di neve.
"Fa' quel che ti pare, ma fa' qualcosa," disse Atticus. "Non puoi metterti a
fare la caricatura dei vicini, ora!"
"Non è una caricatura," disse Jem: "gli assomiglia."
"Il signor Avery potrebbe pensarla diversamente."
"Un momento!" gridò Jem. Traversò di corsa la strada, scomparve nel
cortile di miss Maudie e ne tornò trionfante. Schiacciò il cappello da sole di
miss Maudie sulla testa del fantoccio e gli ficcò le forbici da siepi nel cavo
del braccio. Atticus disse che ora andava bene.
Miss Maudie aprì la porta di casa e uscì dalla veranda. Da lì ci guardò e,
d'un tratto, sorrise. "Jem Finch!" chiamò, "diavolo d'un ragazzo, restituiscimi
il cappello!"

73
Jem guardò Atticus, che scosse la testa. "Dice per scherzo," spiegò. "È
piena di ammirazione per il tuo... capolavoro."
Traversò la strada e si immerse con miss Maudie in una animata
conversazione. Ne afferrai una sola frase: "...hanno costruito un vero
ermafrodito! Non li educherai mai come si deve, Atticus."
Nel pomeriggio smise di nevicare, la temperatura scese e quando fu sera
le più nere predizioni del signor Avery si realizzarono.
Calpurnia accese tutti i caminetti di casa, ma avevamo freddo lo stesso.
Quando Atticus rincasò, disse che ormai il freddo sarebbe durato un bel
pezzo, e chiese a Calpurnia di restare a dormire da noi. Essa diede un'occhiata
ai soffitti alti e alle grandi finestre e disse che forse casa sua era più calda.
Atticus la accompagnò in automobile.
Prima che mi addormentassi, Atticus aggiunse del carbone al fuoco in
camera mia. Disse che il termometro segnava sedici gradi, che era la notte più
fredda che ricordava e che il nostro uomo di neve doveva essersi gelato
completamente.
Qualche minuto dopo, o così mi parve, venni svegliata da qualcuno che
mi scuoteva, e sentii che il paltò di Atticus era stato disteso sul mio letto. "È
già mattina?" chiesi.
"Alzati, bimba."
Atticus mi porgeva l'accappatoio e la giacca. "Mettiti prima il vestito,"
disse.
Jem stava accanto ad Atticus, mezzo addormentato e spettinato. Si teneva
il paltò chiuso al collo con una mano e aveva l'altra in tasca. Sembrava
eccezionalmente ingrassato.
"Presto, tesoro," disse Atticus. "Eccoti qui calze e scarpe."
Me le infilai, intontita. "È mattina?"
"No, è l'una passata. Fa' presto."
Finalmente capii che qualcosa non andava. "Che succede?"
Ma ormai non occorreva che me lo dicesse. Come gli uccelli san dove
andare quando piove, così io sapevo quando nella nostra strada qualcosa non
andava. Un fruscìo lieve e continuo, un suono attutito di passi, mi
riempirono di disperato terrore.
"Che accade?"
"La casa di miss Maudie, tesoro," disse Atticus affettuosamente.
Quando fummo sulla porta di ingresso, vedemmo il fuoco scaturire
violento dalle finestre della sala da pranzo di miss Maudie. Come a conferma

74
di quanto vedevamo, la sirena degli incendi cominciò a suonare, dapprima
cupa, poi in un acuto di soprano e così continuò, lacerante.
"La casa è andata, no?" disse Jem, con il pianto nella voce.
"Temo di sì," disse Atticus. "Adesso ascoltatemi, tutti e due.
Scendete e andate davanti alla casa dei Radley. State lontani dalla
confusione, capito? Vedete in che direzione soffia il vento?"
"Oh!" disse Jem. "Atticus, credi che dovremo cominciare a portar fuori i
nostri mobili?"
"Non ancora, figliolo. Fa' come ti dico. Corri, adesso, e abbi cura di
Scout, capito? Non perderla mai di vista!"
Spingendoci, Atticus ci diresse verso il cancello dei Radley.
Rimanemmo a guardare la strada che si andava riempiendo di uomini e di
automobili mentre il fuoco divorava silenziosamente la casa di miss Maudie.
"Perché non si sbrigano, perché non si sbrigano..." mormorava Jem.
Capimmo subito il perché. Il vecchio autocarro dei pompieri, con il
motore bloccato dal freddo, stava giungendo dal centro della città spinto da
un gruppo di uomini. Quando attaccarono la manichetta dell'acqua a un
idrante, essa scoppiò e l'acqua schizzò in alto, piovendo poi sul selciato.
"Dio mio, Jem..."
Jem mi circondò con un braccio. "Calma, Scout," disse. "Non c'è ancora
da preoccuparsi: te lo dirò io quando sarà il momento."
Gli uomini di Maycomb, negli abbigliamenti più strani, trasportavano i
mobili di miss Maudie in un cortile dall'altra parte della strada. Vidi Atticus
che portava la pesante poltrona a dondolo di quercia e pensai che aveva
avuto proprio una buona idea a mettere in salvo le cose cui ella teneva di più.
Ogni tanto sentivamo delle grida. Poi a una finestra del piano di sopra
apparve la faccia del signor Avery. Buttò un materasso in strada e poi i mobili
della camera da letto finché gli uomini gridarono: "Vieni giù, Dick! Le scale
stanno per crollare! Venga fuori, signor Avery!"
Il signor Avery scavalcò la finestra.
"Scout, s'è impigliato!" gemette Jem. "Oh Dio mio..."
Il signor Avery non riusciva a uscire dalla finestra. Nascosi la testa sotto il
braccio di Jem e non guardai più fino a che egli gridò: "Si è liberato, Scout, è
salvo!"
Guardai in su e vidi il signor Avery traversare la veranda del primo piano.
Fece passare le gambe sopra la ringhiera e stava già scivolando giù lungo un
pilastro quando sdrucciolò precipitando con un grido sui cespugli di miss
Maudie.

75
D'un tratto mi accorsi che gli uomini si allontanavano dalla casa di miss
Maudie e venivano verso di noi. Avevano smesso di portar fuori i mobili. Il
fuoco, invaso il secondo piano, avanzava verso il tetto: gli stigli delle finestre
erano neri contro il rosso vivo di tutto il resto.
"Jem, sembra una zucca di quelle che..."
"Scout, guarda!" Dalla nostra casa e da quella di miss Rachel cominciava
a levarsi, vorticando, del fumo come la nebbia dai banchi di un fiume. Gli
uomini diressero le pompe verso le case minacciate.
Dietro di noi, nella curva, stridette il carro dei pompieri di Abbotsville, e
si fermò davanti casa nostra.
"Il libro!..." dissi.
"Che cosa?" chiese Jem.
"Quel libro di Tom Swift non è mio, è di Dill..."
"Non ti preoccupare, Scout, non è ancora il momento di preoccuparsi,"
disse Jem. Mi fece segno con la mano: "Guarda laggiù."
In un gruppo di vicini, Atticus se ne stava con le mani nelle tasche del
cappotto. Pareva assistesse ad una partita di calcio. Miss Maudie era accanto a
lui.
"Vedi, ancora non si preoccupa!" disse Jem.
"Perché non è salito sul tetto?"
"È troppo vecchio, si romperebbe il collo..."
"Credi che dovremmo dirgli di portar fuori la nostra roba?"
"Dobbiamo soprattutto non scocciarlo: lo sa lui quando è ora di far
qualcosa," rispose Jem.
Le pompe di Abbotsville cominciavano a dirigere il loro getto verso casa
nostra: un uomo, dal tetto, indicava i punti che ne avevan più bisogno. Vidi il
nostro Ermafrodito diventar prima nero e poi crollare, con il cappello da sole
di miss Maudie in cima; non vidi le cesoie da siepe. Nel calore proveniente
dalle case di miss Rachel, miss Maudie e nostra, gli uomini s'erano ormai tolti
cappotti e vestaglie. Lavoravano in giacca del pigiama o camicia da notte
ficcata dentro i pantaloni; io invece, ferma dov'ero, mi sentivo gelare a poco
a poco. Jem cercava di riscaldarmi, ma il suo braccio non era sufficiente. Mi
liberai dalla sua stretta e incrociai le mani portandole alle spalle. Saltellando
un po', riuscii a sentire di nuovo i piedi.
Giunse un altro carro-pompa e si fermò di fronte alla casa di miss
Stephanie Crawford. Non c'erano più idranti disponibili, e gli uomini
attaccarono la casa con gli estintori a mano.

76
Le fiamme erano contenute dal tetto di lamiera di miss Maudie, ma d'un
tratto, ruggendo, la casa rovinò; lingue di fuoco divamparono da tutte le
parti, e subito dai tetti delle case adiacenti gli uomini, agitando delle coperte,
cercarono di soffocare le scintille e i pezzi di legno in fiamme.
Era ormai l'alba quando gli uomini cominciarono a sgombrare, dapprima
uno per volta, poi a gruppi. Spinsero di nuovo fino in città l'autocarro dei
pompieri, poi partì quello di Abbotsville; il terzo rimase. Il giorno dopo
sapemmo che era venuto da Clark's Ferry, a sessanta miglia di distanza.
Jem ed io traversammo la strada senza farci notare. Miss Maudie fissava
la voragine nera e fumante al centro del suo cortile e Atticus scosse la testa
per farci capire che essa non voleva parlare.
Ci condusse a casa, poggiandosi alle nostre spalle per attraversare la
strada ghiacciata. Disse che miss Maudie per il momento sarebbe andata ad
abitare da miss Stephanie.
"Chi vuole del cioccolato caldo?" chiese. Ebbi un fremito quando accesi il
fuoco nella stufa in cucina.
Mentre bevevamo il caffè, notai che Atticus mi guardava, prima con
curiosità, poi con aria severa. "Mi pareva di aver detto a Jem e a te di restare
dove eravate."
"Ma non ci siamo mossi."
"E allora, di chi è quella coperta?"
"Quella coperta?..."
"Esatto, quella coperta. Non è nostra."
Abbassai lo sguardo e vidi che mi stringevo una coperta di lana marrone
attorno alle spalle, come una squaw.
"Atticus, non lo so proprio. Io..."
Mi volsi verso Jem, appellandomi a lui, ma era ancora più sbalordito di
me. Disse che non sapeva dove l'avessi presa, avevamo fatto esattamente
quello che Atticus ci aveva detto: eravamo rimasti presso il cancello dei
Radley, lontani da tutti, senza muoverci di un centimetro... poi s'interruppe:
"Il signor Nathan, c'era anche lui..." balbettò. "L'ho visto, l'ho visto, stava
trascinando quel materasso... Atticus, giuro che..."
"Va bene, va bene, figliolo." Atticus sorrise. "A quanto pare, tutta
Maycomb era fuori casa stanotte, chi per un motivo chi per un altro. Jem,
credo che ci sia della carta da imballo in dispensa. Va' a prenderla e faremo
un..."
"Atticus, no!..."

77
Jem doveva aver perso la testa. Cominciò a spiattellare tutti i nostri
segreti, a uno a uno, senza curarsi di me e neppure di sé, non tralasciando
nulla: il cavo dell'albero, la storia dei calzoni e tutto il resto.
"Il signor Nathan ha messo il cemento in quell'albero, Atticus, e lo ha
fatto per non farci trovare più niente. Forse sarà pazzo come dicono, ma
giuro davanti a Dio che non ci ha mai fatto del male, non ci ha nemmeno
toccato. Avrebbe potuto tagliarci la gola da parte a parte quella notte, e invece
ha cercato di rammendarmi i calzoni...
Non ci ha mai fatto niente, Atticus..."
Atticus disse: "Basta, figliolo!" così affettuosamente, che mi sentii molto
rincuorata. Naturalmente non aveva capito una parola di quel che diceva
Jem, perché tutto quello che aggiunse fu: "Hai ragione. È meglio che questo
rimanga tra noi; teniamoci anche la coperta. Un giorno, forse, Scout potrà
ringraziarlo per averla riparata dal freddo."
"Ringraziare chi?" chiesi.
"Boo Radley. Eri così occupata a guardare l'incendio che non ti sei
nemmeno accorta che ti ha messo la coperta sulle spalle!"
Mi sentii lo stomaco in subbuglio, e per poco non vomitai quando Jem,
stringendo la coperta, mi si avvicinò silenzioso alle spalle. "È sgattaiolato
fuori dalla casa... ha fatto il giro, sgusciando... e s'è avvicinato."
Atticus l'interruppe, reciso: "Non vorrei che questo ti ispirasse altre
prodezze, Jeremy."
Jem s'accigliò. "Non ho intenzione di fargli niente." Ma nel suo sguardo
notai eccitazione. "Pensa, Scout," disse, "se ti fossi voltata in quel momento
l'avresti visto!"
Calpurnia ci svegliò a mezzogiorno. Atticus aveva detto che non saremmo
andati a scuola quella mattina, avevamo dormito così poco la notte che non
avremmo imparato niente. Calpurnia ci disse di pulire in giardino.
Il cappello di miss Maudie era coperto da un sottile strato di ghiaccio,
come una mosca caduta nell'ambra, e dovemmo scavare sotto la fanghiglia
per trovare le cesoie. Scoprimmo miss Maudie nel suo cortile che guardava le
azalee gelate dal freddo e bruciacchiate dal fuoco.
"Le abbiamo riportato le sue cesoie, miss Maudie," disse Jem. "Ci
dispiace moltissimo..."
Miss Maudie alzò la testa e l'ombra del vecchio sorriso le passò sul volto.
"Ho sempre desiderato una casa più piccola, Jem Finch, e un cortile più
grande. Pensate quanto spazio avrò per le mie azalee, ora."

78
"Non è triste, miss Maudie?" chiesi, sorpresa. Atticus aveva detto che la
sua casa era tutto quel che possedeva.
"Triste, bambina? Ma se odiavo quella vecchia stalla. Avevo già pensato
di darle fuoco un centinaio di volte, se non mi avrebbero messa dentro."
"Ma..."
"Non ti preoccupare per me, Jean Louise Finch. Non hai idea di quante
cose si possono sistemare. Vedrai, mi costruirò una casetta e prenderò un
paio di pensionanti. Caspita, avrò il più bel giardino di tutta l'Alabama.
Quello dei Bellingrath sembrerà squallido al confronto."
Jem ed io ci guardammo. "Come è successo, miss Maudie?" chiese Jem.
"Non lo so, Jem. Forse il camino in cucina. Ieri sera avevo lasciato il
fuoco acceso per le piante in vaso. Ho sentito che la notte scorsa sei stata in
buona compagnia, Jean Louise..."
"Come lo sa?"
"Me lo ha detto stamane Atticus, nell'andare in città. A dirti la verità, mi ci
sarei voluta trovare anch'io, e avrei avuto il buon senso di guardarmi
intorno."
Miss Maudie mi sconcertava. Aveva perso quasi tutto quanto possedeva,
il suo amato giardino era distrutto, e si interessava ancora con vivacità e
cortesia agli affari miei e di Jem.
Dovette accorgersi della mia perplessità. "La sola cosa che mi
preoccupava questa notte," disse, "era il pericolo e la confusione provocati
dall'incendio. Poteva andare a fuoco l'intero quartiere. Il signor Avery dovrà
starsene a letto per una settimana: è completamente a pezzi. È troppo vecchio
per queste cose, e glielo ho detto. Appena le mie mani saran tornate pulite e
Stephanie Crawford volterà la schiena un momento, gli farò una torta
speciale. Sono trent'anni che Stephanie mi sta dietro per avere quella ricetta, e
se crede che gliela darò soltanto perché ora abito a casa sua, si sbaglia!"
Riflettei che anche se miss Maudie si fosse arresa e le avesse dato la
ricetta, miss Stephanie non ne avrebbe fatto niente: una volta miss Maudie
me l'aveva mostrata, e tra le tante cose la ricetta prevedeva una grossa tazza di
zucchero.
Era una giornata serena, e l'aria così fredda e limpida che udimmo
l'orologio della torre del tribunale stridere e cigolare prima di battere l'ora. Il
naso di miss Maudie aveva un colore che non avevo mai visto, e gliene chiesi
la ragione.
"Sto qui fuori dalle sei," disse. "Avrò il naso completamente gelato." Alzò
le mani: un groviglio di linee sottili le traversava le palme, scure per la

79
sporcizia e il sangue rappreso.
"Si è rovinata tutte le mani!" disse Jem. "Perché non si prende un uomo
di colore per il giardino?" Non c'era alcun tono di abnegazione nella sua voce
allorché aggiunse: "Oppure potremmo aiutarla Scout e io."
Miss Maudie disse: "Grazie, giovanotto, ma avrai il tuo da fare, laggiù," e
indicò il nostro cortile.
"Vuol dire il Morfodito?" chiesi. "Quello lo possiamo rimettere in piedi in
un battibaleno!"
Miss Maudie mi guardò, muovendo silenziosamente le labbra. D'un tratto,
portò le mani alla testa e scoppiò a ridere. Quando ce ne andammo rideva
ancora.
Jem disse che non capiva che avesse. Miss Maudie era fatta così.

80
capitolo nono
"Ritira quello che hai detto: subito!"
Questa ingiunzione da me fatta a Cecil Jacobs, rappresentò l'inizio di
tempi difficili per Jem e per me. Avevo i pugni serrati ed ero pronta a
saltargli addosso. Atticus aveva minacciato di punirmi se mi avesse colta
ancora a far a botte; ormai ero troppo grande per queste ragazzate, e più
presto imparavo a controllarmi, meglio sarebbe stato per tutti. Io però l'avevo
dimenticato.
Cecil Jacobs me lo fece dimenticare. Il giorno prima, nel cortile della
scuola, aveva dichiarato che il padre di Scout Finch difendeva i negri. Io
negai; poi lo dissi a Jem.
"Che voleva dire?" chiesi.
"Niente," rispose Jem. "Chiedilo ad Atticus, te lo dirà lui."
"Tu difendi i neri, Atticus?" chiesi la sera stessa.
"Certo," rispose. "Ma non dire "neri," Scout, è villano."
"A scuola dicon tutti così."
"Da ora in poi lo diranno tutti meno uno."
"Allora, se non vuoi che impari a parlar così, perché mi mandi a scuola?"
Mio padre mi guardò, bonario, con un'occhiata divertita. Nonostante il
nostro primo accordo, la mia campagna antiscuola era continuata, in una
forma o nell'altra, sin dalle mie prime esperienze: l'inizio di settembre aveva
portato con sé stordimenti, giramenti di testa e vaghi disturbi gastrici. M'ero
spinta fino al punto di pagare un ventino per il privilegio di strofinare la mia
testa contro quella del figlio della cuoca di miss Rachel, che era afflitto da
una tremenda tigna. Ma non mi si era attaccata.
Ora però non era la scuola che mi preoccupava. "Tutti gli avvocati
difendono i ne... i negri, Atticus?"
"Certo, Scout."
"Allora perché Cecil ha detto che tu difendi i negri come se ti accusasse di
fare il contrabbando di liquori?"
Atticus sospirò. "Ho assunto la difesa di un negro, tutto qui... si chiama
Tom Robinson e vive nel piccolo quartiere dalle parti dello scaricatoio.
Appartiene alla chiesa di Calpurnia, e Cal conosce bene la sua famiglia. Dice
che son gente perbene. Vedi, Scout, forse non sei abbastanza grande per
capire certe cose, ma in città si è parlato molto di questa faccenda, nel senso
che non dovrei prendermi la briga di difendere quell'uomo. È un caso molto

81
particolare, e il processo non si farà prima della sessione estiva. John Taylor
è stato tanto gentile da accordarci un rinvio..."
"Se non dovresti difenderlo, perché lo difendi?"
"Per vari motivi," disse Atticus. "Il principale è che se non lo facessi non
potrei più andar in giro a testa alta, non potrei rappresentare la contea
nell'Assemblea legislativa e non potrei nemmeno dire a te o a Jem: fa' questo
e non far quello."
"Vuoi dire che se non difendi quell'uomo, Jem ed io potremmo non darti
più retta?"
"Più o meno."
"Perché?"
"Perché non potrei più pretenderlo da voi. Vedi Scout, a un avvocato
succede almeno una volta nella sua carriera, proprio per la natura del suo
lavoro, che un caso abbia una ripercussione diretta sulla sua vita.
Evidentemente è venuta la mia volta. Può darsi che a scuola tu senta parlare
male di questa faccenda, ma se vuoi aiutarmi devi fare una cosa sola: tenere
la testa alta e le mani a posto. Non badare a quello che ti dicono, non
diventare il loro bersaglio. Cerca di batterti col cervello e non con i pugni,
una volta tanto... È una buona testa, la tua, anche se è dura a imparare!"
"Atticus, vinceremo la causa?"
"No, tesoro."
"Ma allora, perché..."
"Non è una buona ragione non cercare di vincere sol perché si è battuti in
partenza," disse Atticus.
"Sembri il cugino Ike," dissi. Il cugino Ike era l'unico superstite
dell'esercito confederato della contea di Maycomb. Aveva una barba alla
generale Hood della quale andava esageratamente fiero. Almeno una volta
all'anno Atticus, Jem e io andavamo a fargli visita, e mi toccava allora
baciarlo. Era orribile. Jem e io ascoltavamo rispettosamente Atticus e il
cugino Ike e le loro rievocazioni della guerra di secessione. "Credimi,
Atticus," diceva il cugino Ike, "siamo stati sconfitti per via dell'Accordo del
Missouri. Ma se dovessi tornare indietro, rifarei tutto tale e quale; e questa
volta ti assicuro che saremmo noi a dargliele... Pensa che nel 1864, quando
Stonewall Jackson arrivò da queste parti... cioè, scusatemi, ragazzi, Old Blue
Light era già in paradiso allora, Dio conceda pace alla sua santa anima..."
"Vieni qui, Scout," disse Atticus. Mi arrampicai sulle sue ginocchia, gli
appoggiai la testa sul petto, ed egli mi tenne fra le braccia, dondolandomi
dolcemente. "Questa volta è diverso," disse.

82
"Questa volta non combattiamo contro gli yankee, ma contro amici.
Ricordati quanto ti dico: anche se le cose peggiorano, son sempre nostri
amici, e questa è sempre la nostra patria."
Con queste parole in mente, la mattina dopo affrontai Cecil Jacobs nel
cortile della scuola: "Ti rimangi quello che hai detto, ragazzo?"
"Mi ci devi costringere," strillò lui. "I miei dicono che quel che fa tuo
papà è una vergogna, e che quel nero dovrebbe penzolare dal serbatoio
dell'acqua già da un pezzo!"
Stavo per lanciarmi su di lui, poi mi ricordai quel che aveva detto Atticus
e abbassai i pugni e mi allontanai. "Scout è una vigliacca!" mi gridò dietro.
Era la prima volta che rinunciavo a combattere.
Ma se avessi fatto a botte con Cecil, avrei tradito Atticus. così di rado ci
chiedeva di far qualcosa per lui, che per amor suo potevo anche sentirmi
dare della vigliacca. Mi sentii molto nobilitata dal mio comportamento, e
nobile continuai a sentirmi per tre settimane.
Poi venne Natale e successe il disastro.
Jem ed io aspettavamo il Natale divisi da sentimenti contrastanti.
Uno dei lati positivi era rappresentato dall'albero e zio Jack. Ogni vigilia
di Natale andavamo sempre a prendere lo zio alla stazione di Maycomb ed
egli passava una settimana con noi.
Il rovescio della medaglia rivelava invece i lineamenti duri e inflessibili
della zia Alexandra e di Francis.
Forse dovrei nominare assieme a loro anche lo zio Jimmy, marito della zia
Alexandra, ma siccome non mi aveva mai rivolto la parola in vita sua se non
per dirmi, una volta: "Vieni giù dalla siepe," non vedevo alcuna ragione di
prenderlo in considerazione. Né la vedeva la zia Alexandra. Molti anni prima,
in un momento di effusione, zia Alexandra e lo zio Jimmy avevan prodotto
un figlio di nome Henry che, andatosene di casa appena gli era stato
umanamente possibile, si era sposato, producendo a sua volta Francis. A
Natale, Henry e la moglie depositavano sempre Francis dai nonni e andavano
a divertirsi per conto loro.
Non c'eran lamenti che potessero indurre Atticus a farci passare il giorno
di Natale a casa. A mia memoria, ogni Natale andavamo all'Approdo dei
Finch. La zia era una buona cuoca e questo era l'unico compenso per una
giornata di festa passata con Francis Hancock. Francis aveva un anno più di
me e lo evitavo per principio: gli piaceva tutto quel che dava fastidio a me e
disprezzava la mie ingegnose trovate.

83
Zia Alexandra era sorella di Atticus. Ma da quando Jem mi aveva parlato
dei bambini sostituiti nella culla e dei fratellastri, m'ero messa in mente che
essa era stata sostituita nella culla e che i nonni, senza saperlo, si erano trovati
in casa una Crawford invece di una Finch. Se avessi mai accettato quel
mistico simbolismo sulle montagne che pare ossessionare avvocati e giudici,
paragonerei zia Alexandra al monte Everest: finché fui giovane lei rimase
fredda e immobile.
Quando zio Jack saltò giù dal treno, la vigilia di Natale, dovemmo
aspettare che il facchino gli porgesse due lunghi pacchi. A Jem e a me era
sempre parso buffo che zio Jack desse un rapido bacio ad Atticus sulla
guancia: erano gli unici uomini che vedessimo mai baciarsi. Zio Jack
stringeva la mano a Jem e mi prendeva in braccio sollevandomi in aria, ma
non molto in alto perché era più basso di Atticus di tutta la testa: era il
piccolo della famiglia, più giovane anche di zia Alexandra. Somigliava
moltissimo a questa, però lui faceva un uso migliore della propria faccia: non
diffidavamo mai del suo naso e del suo mento aguzzi.
Era uno dei pochi uomini di scienza che non mi abbiano mai terrorizzata,
forse perché non si comportava mai come un medico.
Quando Jem ed io avevamo bisogno di qualche sua piccola prestazione,
per esempio toglierci una spina da un piede, ci diceva esattamente che cosa
avrebbe fatto e quanto male ci avrebbe fatto, e ci spiegava l'uso di tutti gli
strumenti che adoperava. Una volta, un Natale, mi nascondevo in tutti gli
angoli perché avevo in un piede una brutta scheggia e non permettevo a
nessuno di avvicinarsi. Quando lo zio Jack riuscì ad acchiapparmi, mi fece
ridere raccontandomi di un predicatore che detestava talmente di andare in
chiesa che ogni giorno si metteva davanti al cancello di casa sua in veste da
camera, fumando un narghilé e improvvisando sermoni di cinque minuti
ciascuno per i passanti che desiderassero un conforto spirituale. Lo interruppi
per chiedergli quando mi avrebbe tolto la scheggia ed egli me la mostrò,
sporca di sangue su una pinzetta, e mi disse che l'aveva estratta mentre
ridevo, e che questo si chiamava relatività.
"Che cosa c'è in quei pacchi?" gli chiesi, indicando i lunghi involucri
sottili che gli aveva dato il facchino.
"Non sono affari tuoi," rispose.
Jem disse: "Come sta Rose Aylmer?"
Era la gatta di zio Jack, una bellissima gatta gialla. Lo zio diceva che era
l'unica femmina che potesse sopportare in casa. Mise la mano nella tasca del
cappotto e ne trasse alcune fotografie: le ammirammo molto.

84
"È diventata grassa," dissi.
"Lo credo bene! Mangia tutte le dita e gli orecchi che porto a casa
dall'ospedale!"
"Buh, questa è una maledetta balla!" dissi.
"Come ha detto, signorina?" fece zio Jack.
Atticus disse: "Non badarle, ti prego, Jack: lo fa per farti impressione. Cal
dice che è tutta la settimana che usa questo linguaggio."
Zio Jack alzò le sopracciglia senza dir nulla. A parte l'attrazione naturale
che esercitavano su di me quelle parole, le usavo con la vaga speranza che
Atticus, scoprendo che le avevo imparate a scuola, non mi ci mandasse più.
Ma a cena, quella sera, quando gli chiesi di passarmi il maledetto
prosciutto, zio Jack mi puntò contro un dito. "Ne riparliamo più tardi,
signorina," disse.
Quando finimmo di cenare, zio Jack andò nel soggiorno e si sedette,
dandosi dei colpetti sulla gamba per invitarmi a sedergli sulle ginocchia. Mi
piaceva il suo odore: sapeva vagamente di alcool, con in più qualcosa di
gradevolmente dolce. Mi scostò la frangetta e mi guardò: "Assomigli più ad
Atticus che a tua madre," disse. "E sei troppo grande ormai per portare i
calzoni."
"Secondo me vanno benissimo," dissi.
"Ti piacciono le parole come "maledetto" e "inferno," vero?"
Dissi di sì.
"A me invece no," dichiarò zio Jack; "a meno che non abbiano una solida
giustificazione. Starò qui una settimana e non voglio più sentire una sola di
quelle parole, finché son qui. Ti troverai nei pasticci, se continui a
pronunciare parole simili. Tu vuoi diventare una signora, vero?"
Dissi che non ci tenevo molto.
"Ma sì che ci tieni! Andiamo a fare l'albero."
Decorammo l'albero fino all'ora di andare a letto, e quella notte sognai dei
due pacchi per Jem e me. Il mattino dopo ci buttammo sopra: erano da parte
di Atticus, che aveva scritto a zio Jack di comperarci ciò che gli avevamo
chiesto.
"Non sparate in casa," disse Atticus vedendo Jem che mirava a un quadro
sulla parete.
"Dovrai insegnar loro a sparare!" suggerì zio Jack.
"Te ne occuperai tu," ribatté Atticus; "io mi son soltanto arreso
all'inevitabile!"

85
Ci volle, per Atticus, il tono di voce da tribunale per tirarci via dall'albero.
Ci vietò di portare le carabine all'Approdo (io già pensavo di sparare
Francis), e disse che al primo passo sbagliato ce le avrebbe tolte per sempre.
L'Approdo dei Finch consisteva in trecentosessantasei scalini, giù per una
roccia a picco, che terminavano in un molo. più giù, oltre il promontorio,
c'erano ancora i resti di una vecchia banchina per il cotone, dove un tempo i
negri di Finch caricavano balle e derrate e scaricavano blocchi di ghiaccio,
farina e zucchero, attrezzi agricoli e abiti femminili. Dal fiume partiva una
strada a due carreggiate che si perdeva tra alberi fitti. Al termine di questa
strada c'era una casa bianca a due piani con verande che giravano tutto
attorno al pianterreno e al primo piano. Il nostro antenato Simon Finch
l'aveva costruita in vecchiaia per accontentare la moglie bisbetica, ma le
verande eran l'unico particolare che la casa avesse in comune con le altre di
quell'epoca. L'interno, poi, dava un'idea del candore di Simon e dell'assoluta
fiducia che riponeva nella sua prole.
Al piano superiore vi erano infatti sei stanze da letto, quattro per le otto
figlie femmine, una per Benvenuto Finch, l'unico maschio, e una per i parenti
in visita; e fin qui nulla di strano, ma bisogna aggiungere che alla camera da
letto delle figlie si accedeva da una scala, e a quella di Benvenuto e degli
ospiti da un'altra scala. La Scala delle Ragazze partiva dalla camera da letto
dei genitori, a pianterreno: così Simon era sempre informato del traffico
notturno delle figlie.
La cucina era separata dal resto della casa, con la quale comunicava per
mezzo di un passaggio in legno; nel cortile, su un palo, vi era una campana
arrugginita, che serviva a chiamare gli schiavi dai campi o come segnale di
allarme; e sul tetto c'era una specie di cammino di ronda, ma nessuna ronda
ci passava mai. Di là Simon sorvegliava il suo sorvegliante, teneva d'occhio
le barche sul fiume e spiava i proprietari vicini. Sulla casa correva poi la
solita leggenda a proposito degli yankee; una Finch, di recente fidanzata, per
salvare il proprio corredo dalle razzie che avvenivano nella zona, lo indossò
dal primo all'ultimo capo e rimase incastrata nella porta che dava sulla Scala
delle Ragazze. Per fortuna qualcuno ebbe l'idea di inzupparla d'acqua da cima
a piedi, di modo che, a furia di spintoni, riuscirono a farla passare attraverso
la porta.
Quando arrivammo all'Approdo, zia Alexandra baciò zio Jack, Francis
baciò zio Jack, Jimmy strinse in silenzio la mano a zio Jack, e Jem ed io
offrimmo a Francis i regali che gli avevamo portato ed egli ci offrì i suoi.

86
Jem, sentendosi troppo grande per noi, gravitò subito intorno agli adulti,
lasciandomi sola col cugino Francis, che aveva otto anni e i capelli lisci.
"Che hai avuto per Natale?" gli chiesi.
"Quello che avevo chiesto," rispose. Aveva chiesto un paio di pantaloni
lunghi fino al ginocchio, una cartella di cuoio rosso, cinque camicie e una
cravatta a fiocco sciolta.
"Bei regali!" mentii. "Jem ed io abbiamo avuto una carabina ad aria
compressa. Jem ha avuto un'attrezzatura chimica..."
"Giocattolo, vuoi dire."
"No, una vera. Mi preparerà dell'inchiostro invisibile per scrivere a Dill."
"A che scopo?" chiese Francis.
"Come, non immagini la faccia che farà ricevendo una lettera dove non
c'è scritto niente? Lo manderà in bestia."
Parlare con Francis mi dava la sensazione di sprofondare lentamente in
fondo all'oceano: era il ragazzino più noioso che avessi mai conosciuto.
Siccome viveva a Mobile, non poteva accusarmi alle autorità scolastiche, in
compenso però diceva tutto quel che sapeva di me alla zia Alexandra, che a
sua volta si sfogava con Atticus che, secondo l'umore, o dimenticava tutto o
mi dava una strapazzata. Ma la sola volta che sentii Atticus risponder secco a
qualcuno fu quando disse alla zia: "Alexandra, faccio quel che posso con
loro," riguardo, credo, al mio andare in giro in calzoni.
Zia Alexandra era una fanatica riguardo al mio abbigliamento. Come
potevo sperare di diventare una vera signora se portavo i calzoni?
Quando risposi che con un vestito addosso non riuscivo a far niente,
ribatté che non era previsto che facessi alcunché che richiedesse i calzoni.
Secondo lei avrei dovuto giocare con pentoline e tazzine da bambole, portare
la collana che mi aveva regalata alla mia nascita e ogni anno aggiungerci una
perla nuova, e inoltre avrei dovuto essere il raggio di sole della esistenza
solitaria di mio padre. Io risposi che si può essere un raggio di sole anche in
calzoni, ma rispose che bisognava comportarsi come un raggio di sole, e che
io ero buona di indole, ma che peggioravo ogni anno. Mi offese insomma nei
sentimenti e mi tolse per sempre l'appetito; quando però mi rivolsi ad Atticus,
lui mi assicurò che i raggi di sole in famiglia non mancavano: facessi pure a
mio modo, per lui andavo bene com'ero.
Al pranzo di Natale mi avevano messa in un tavolino a parte; Jem e
Francis sedevano invece con i grandi alla tavola da pranzo. Zia Alexandra
aveva insistito a tenermi isolata fino a molto dopo che Jem e Francis erano
stati promossi alla tavola dei grandi. Spesso mi chiedevo che cosa temeva:

87
che mi alzassi e lanciassi qualcosa contro qualcuno? A volte pensavo di
chiederle di ammettermi almeno una volta a tavola coi grandi per dimostrarle
il mio grado di buona educazione, dopotutto a casa ogni giorno mangiavo a
tavola senza combinare guai; ma quando pregai Atticus di usare la sua
influenza, mi rispose che non ne aveva alcuna: eravamo ospiti, e sedevamo
dove lei ci diceva di sedere. Disse anche che zia Alexandra non capiva molto
le bambine, non avendone mai avute.
La sua cucina però rimediò a tutto: tre piatti di carne, verdura estiva della
sua ben fornita dispensa, pesche in conserva, due tipi di torta e rosolio,
rappresentavano per lei un pranzo natalizio modesto. Dopo, intontiti, i grandi
passavano in salotto.
Jem sedette sul pavimento, io andai in cortile.
"Mettiti il cappotto," disse Atticus, come in sogno.
Francis sedette accanto a me sui gradini. "Questo è stato il pranzo
migliore che io ricordi," dissi.
"La nonna è un'ottima cuoca," asserì Francis. "Ha detto che mi insegnerà
a cucinare."
"Ma i ragazzi non cucinano!" All'idea di Jem in grembiule da cucina, risi.
"La nonna dice che tutti gli uomini dovrebbero imparare a cucinare, e che
dovrebbero aver riguardo per le mogli e servirle quando non si sentono
bene," disse mio cugino.
"Non voglio che Dill mi serva," dissi. "Preferisco servirlo io."
"Dill?"
"Sì. Non dir niente a nessuno, ma ci sposeremo quando saremo grandi:
mi ha chiesto la mano l'estate scorsa."
Francis emise un fischio.
"Che c'è di male?" chiesi. "Che hai da ridire su Dill?"
"È quel nanerottolo di cui parlava la nonna? Quello che sta da miss
Rachel l'estate?"
"Proprio lui."
"So tutto di lui," disse Francis.
"Bè, che sai?"
"La nonna dice che non ha casa..."
"Sì che ce l'ha, abita a Meridian."
"...Che se lo passano da un parente all'altro e che miss Rachel lo deve
mantenere tutte le estati."
"Francis, non è vero!"
Francis fece un sorrisetto. "Sei molto tonta a volte, Jean Louise.

88
Ma immagino che non puoi capire."
"Che vuoi dire?"
"Se zio Atticus ti lascia andare in giro con i cani randagi, sono affari suoi,
come dice la nonna, non è colpa tua. E non è colpa tua neanche se zio Atticus
è un negrofilo. Sappi però che questo umilia tutta la famiglia."
"Francis, che diavolo vuoi dire?"
"Quello che ho detto. La nonna dice che lo zio sbagliava già prima,
lasciandovi liberi come selvaggi, ma che adesso che si è messo a fare il
negrofilo non avremo più il coraggio di farci vedere in giro per Maycomb.
Sai che cosa fa lo zio? Rovina la famiglia, ecco!"
Si alzò e scappò nel passaggio che conduceva alla vecchia cucina.
Al sicuro, da lontano, gridò: "È un negrofilo, ecco cos'è!"
"Non è vero!" ruggii. "Non so di che parli, ma farai bene a smetterla
immediatamente!"
Balzai giù dagli scalini e mi precipitai nel passaggio. Fu facile
acchiapparlo. "Ritira subito quello che hai detto!"
Con uno strattone, si liberò, precipitandosi nella vecchia cucina.
"Negrofilo," strillò.
Quando si sta all'agguato, attendendo la preda, il sistema migliore è quello
di non aver fretta e di non parlare: la preda si incuriosisce e salta fuori. Infatti
poco dopo Francis apparve sulla porta della cucina. "Sei ancora arrabbiata,
Jean Louise?" chiese, per tastare il terreno.
"Figurati," dissi.
Venne fuori sul passaggio.
"Ritiri quel che hai detto, Francis?" Ma ero stata troppo precipitosa. In un
attimo Francis si asserragliò di nuovo in cucina, e io mi ritirai sugli scalini.
Potevo aspettare pazientemente. Ero seduta lì da circa cinque minuti quando
udii zia Alexandra: "Dov'è Francis?"
"È di là in cucina."
"Sa benissimo che non deve andare a giocare là dentro."
Francis apparve sulla porta e gridò: "Nonna, è lei che mi tien chiuso e
non mi fa uscire!"
"Che significa questa storia, Jean Louise?"
Guardai zia Alexandra. "Non ce l'ho chiuso io, zia. Non sono io che non
lo faccio uscire."
"Sì, invece," urlò Francis: "Non mi lascia uscire!"
"Ma si può sapere che avete?"
"Jean Louise è arrabbiata con me, nonna!" gridò Francis.

89
"Francis, vieni fuori subito! Jean Louise, se ti sento pronunciare un'altra
parola vado a dirlo a tuo padre. Per caso, non hai detto "all'inferno," qualche
minuto fa?"
"No."
"Mi pareva... Guarda che non ti senta dire ancora queste parole."
Zia Alexandra origliava sempre. Appena fu scomparsa, Francis venne
fuori a testa alta, ghignando. "Non fare la sciocca con me," disse.
Saltò in cortile e si tenne a prudente distanza, prendendo a calci le zolle
erbose e girandosi ogni tanto a guardarmi con una smorfia.
Jem comparve sulla veranda, ci diede un'occhiata e se ne andò.
Francis si arrampicò sulla mimosa, ridiscese, si mise le mani in tasca e
passeggiò su e giù per il cortile. "Ah!" fece. Gli chiesi chi credesse di essere:
lo zio Jack? Disse che se non sbagliava mi avevano detto di starmene seduta
dov'ero e di lasciarlo in pace.
"Non ti sto dando fastidio," dissi.
Francis mi guardò attentamente, concluse che ormai ero stata domata e si
mise a canticchiare sottovoce: "Negrofilo..."
Questa volta gli diedi un pugno sulla bocca, così forte che mi feci male
alle nocche. Con la sinistra ormai inutilizzabile, mi buttai avanti con la destra,
ma un attimo dopo lo zio Jack mi inchiodava le braccia ai fianchi dicendo:
"Ferma!"
Zia Alexandra venne in soccorso di Francis, asciugandogli le lacrime con
il fazzoletto, carezzandogli i capelli, dandogli colpetti sulle guance. Alle urla
di Francis, Atticus, Jem e zio Jimmy accorsero sulla veranda.
"Chi è che ha cominciato?" chiese zio Jack.
Francis ed io ci indicammo a vicenda. "Nonna," piagnucolò lui, "mi ha
chiamato sgualdrina e mi è saltata addosso!"
"È vero, Scout?" chiese zio Jack.
"Può darsi."
Quando lo zio Jack s'abbassò a guardarmi, aveva la stessa faccia di zia
Alexandra. "Ti avevo detto che andavi in cerca di guai dicendo parole come
queste? Te l'avevo detto, no?"
"Sì, ma..."
"Ecco: adesso li hai trovati, i guai. Sta' ferma lì."
Stavo riflettendo se fosse il caso di restare o scappare, e rimasi indecisa
un momento di troppo: mi volsi per scappare, ma zio Jack fu più lesto di me:
mi trovai improvvisamente nell'erba, faccia a faccia con una formichina che
arrancava con una crosticina di pane.

90
"Non ti rivolgerò mai più la parola. Ti odio e ti disprezzo, e m'auguro che
tu muoia domani!" Parole che non fecero che incoraggiare zio Jack nel suo
atteggiamento. Corsi da Atticus in cerca di conforto, ma lui dissi che l'avevo
voluta io e che era ora di tornarcene a casa. Mi rincantucciai nel sedile
posteriore dell'auto senza salutar nessuno, e una volta a casa corsi in camera
mia sbattendo la porta. Jem cercò di dirmi qualcosa di carino, ma non gliene
diedi il tempo.
Esaminai i danni e vidi che avevo solo sette od otto segni rossi, quindi mi
misi a riflettere sulla relatività quando bussarono alla porta. Era zio Jack.
"Va' via!"
Zio Jack disse che se parlavo così me le avrebbe date di nuovo, così stetti
zitta. Quando entrò nella stanza mi ritirai in un angolo voltandogli la schiena.
"Scout," disse, "mi odii ancora?"
"Sbrigati, per favore."
"Non credevo che ce l'avessi con me," disse. "Mi deludi; l'hai voluta tu, e
lo sai."
"Non è vero."
"Tesoro, non puoi chiamar la gente..."
"Non sei giusto," dissi, "non sei giusto."
Zio Jack alzò le sopracciglia. "Non sono giusto? E perché?"
"Sei molto caro, zio Jack, e credo di volerti bene anche dopo quel che mi
hai fatto, ma di bambini non te ne intendi."
Zio Jack si mise le mani sui fianchi e mi guardò. "E perché non m'intendo
di bambini, signorina Jean Louise? Una condotta come la tua non c'era
bisogno di capirla: era selvaggia, turbolenta e offensiva..."
"Posso dire una parola? Non voglio offenderti, ma solo spiegarti una
cosa."
Zio Jack sedette sul letto, aggrottando le sopracciglia, e mi sbirciò. "Va'
avanti," disse.
Tirai fuori il fiato fino in fondo. "Prima di tutto non ti sei fermato un
attimo per darmi il tempo di farti sentire la mia campana: ti sei avventato
addosso a me. Quando Jem e io litighiamo, Atticus non ascolta soltanto Jem
ma anche me; in secondo luogo mi avevi detto di non dir quelle parole se
non quando c'era una grave provocazione, e Francis mi ha provocato
talmente che meritava di essere picchiato come un baccalà."
Zio Jack si grattò la testa. "Sentiamo allora la tua campana, Scout."
"Francis ha parlato male di Atticus, e non potevo fargliela passare liscia!"
"Che ha detto di Atticus?"

91
"Che è un negrofilo. Non ho capito bene cosa volesse dire, ma l'ha detto
in un modo... Ti dirò subito una cosa, zio Jack, che Dio mi... voglio dire,
giuro davanti a Dio che non potevo permettergli di parlar male di Atticus!"
"Dunque ha detto questo di Atticus?"
"Sì, ha detto questo e un sacco di altre cose: ha detto che Atticus sarà la
rovina della famiglia e che a Jem e a me ci ha fatto diventare dei selvaggi."
Dalla faccia che fece zio Jack temei d'essermi di nuovo cacciata nei guai,
ma quando disse: "Bè, ne riparleremo," capii che nei guai ci si era cacciato
Francis. "Quasi quasi ci vado stasera stessa!..."
"Per favore, zio, lascia perdere: ti prego..."
"Non ho intenzione di lasciar perdere," disse. "Alexandra deve saperlo.
Dire simili... lascia che metta le mani su quel ragazzo..."
"Zio Jack, promettimi una cosa, ti prego. Promettimi che non dirai niente
ad Atticus. Mi... mi ha chiesto una volta di non arrabbiarmi se sentivo dir
qualcosa contro di lui, e preferisco che creda che litigavamo per altro, non
per questo. Ti prego, promettimi..."
"Ma non voglio che Francis la passi liscia, dopo un fatto del genere."
"Ma non l'ha passata liscia!... Puoi fasciarmi la mano? Sanguina ancora."
"Certo che te la fascerò, piccina. Non c'è mano al mondo che fascerei più
volentieri: vieni qua."
Zio Jack si inchinò con aria cavalleresca e mi condusse in bagno.
Mentre mi lavava e mi fasciava le nocche, mi raccontò la storia di un
vecchio signore buffo e miope che aveva un gatto chiamato Hodge e che
quando andava in città contava tutte le fessure del marciapiede.
"Ecco qua," disse. "Avrai una cicatrice poco femminile sul dito dove si
porta la fede."
"Grazie. Zio Jack?"
"Sì?"
"Che cos'è una sgualdrina?"
Zio Jack si tuffò in un'altra lunga storia su un vecchio primo ministro che
ai Comuni soffiava piume per aria, cercando di non farle cadere a terra,
mentre i suoi colleghi se ne dicevano di cotte e di crude. Forse con questo
credeva di rispondere alla mia domanda, ma quel discorso non significava
proprio niente. Più tardi, quando già avrei dovuto essere a letto, scesi a bere
un sorso d'acqua e, attraversando l'atrio, udii Atticus e zio Jack che parlavano
nella stanza di soggiorno.
"Non mi sposerò mai, Atticus!"
"Perché?"

92
"Perché potrei avere dei bambini!"
Atticus disse: "Hai molto da imparare, Jack."
"Lo so. Tua figlia mi ha dato la prima lezione oggi pomeriggio. Mi ha
detto che non capivo i bambini e mi ha spiegato perché. Aveva perfettamente
ragione, Atticus: mi ha spiegato come avrei dovuto trattarla... Sapessi quanto
mi dispiace di esserle piombato addosso in quel modo!"
Atticus sorrise. "Se l'è meritato, non aver tanto rimorso!"
Aspettai, sulle spine, che zio Jack spiegasse la mia versione, ma non lo
fece. Mormorò soltanto: "Ha un frasario crudo che non lascia proprio nulla
all'immaginazione: però ignora il significato di metà delle parole che dice. Mi
ha chiesto che cos'è una sgualdrina!"
"Glielo hai detto?"
"No, le ho parlato di Lord Melbourne."
"Jack, per amor del cielo, quando un bambino ti chiede qualcosa
rispondigli a tono. Non andare per vie traverse. I bambini son bambini, ma si
accorgono prima degli adulti se si dà loro una risposta evasiva, e l'ambiguità
confonde loro le idee ancora di più.
No, il tuo sistema era giusto, oggi pomeriggio, ma il motivo era sbagliato.
Le parolacce rappresentano una fase che tutti i bambini attraversano, una fase
che finisce da sé non appena si accorgono che anche dicendole non si
rendono interessanti. Ma l'impulsività è un'altra cosa: Scout deve imparare a
non perdere la testa, e deve impararlo presto, con quel che l'aspetta nei
prossimi mesi. Si sta facendo, però, piano piano. Jem diventa grande, e lei
adesso segue molto il suo esempio. Ha bisogno soltanto di essere aiutata, di
quando in quando."
"Tu poi, Atticus, non l'hai mai toccata nemmeno con un dito!"
"Lo ammetto: fino ad oggi sono riuscito a andare avanti usando soltanto
le minacce. Jack, la bambina mi dà retta, nei limiti delle sue possibilità.
Potrebbe far di più, ma se non altro ci prova."
"Questa non è una risposta," osservò zio Jack.
"No, la risposta è questa: che lei sa che io so che almeno tenta.
La differenza è tutta qui. Quello che mi preoccupa è che Scout e Jem
presto dovranno mandar giù cose poco simpatiche. Jem non mi preoccupa,
perché so che non perderà la testa, ma Scout... quando è in ballo il suo
orgoglio non ci pensa due volte: salta addosso a chiunque!"
Attesi che zio Jack rompesse la sua promessa, ma non lo fece nemmeno
questa volta.

93
"Atticus, quali minacce ci sono? Non abbiamo avuto molte occasioni per
parlarne."
"Peggio non potrebbe andare, Jack. L'unica cosa che abbiamo è la parola
di un uomo di colore contro gli Ewell. Le prove si riducono a un sei-stato-tu
e non-son-stato-io. Non c'è da sperare che la giuria accetti la parola di Tom
Robinson contro quella degli Ewell: tu hai presente chi sono gli Ewell?"
Zio Jack disse di sì, che li ricordava bene e li descrisse ad Atticus. "Sei
indietro di una generazione," commentò questi, "ma quelli di oggi son tali e
quali."
"Allora che conti di fare?"
"Di dare, comunque, un bel po' di fastidio alla giuria: penso che in
appello avremo una ragionevole probabilità di vincere, ma al punto in cui
siamo non posso ancora avere un'opinione precisa, Jack. Sai, speravo che in
tutta la vita non mi capitasse mai un caso del genere, ma John Taylor mi
puntò il dito in faccia dicendo: "Questo è per te.""
"Se è possibile, si allontani da me questo calice, eh?"
"Già. Ma se mi regolassi altrimenti, come potrei guardare in faccia i miei
figli? Sai benissimo quel che succederà, Jack, e io spero e prego Dio di
riuscire a far superare questo periodo a Jem e a Scout senza troppi rancori e,
soprattutto, senza che prendano la malattia di Maycomb. Perché poi i
cosiddetti benpensanti diventino pazzi furiosi quando succede qualcosa in cui
è implicato un negro, è una cosa che ho rinunciato a capire... Spero soltanto
che Jem e Scout vengano da me quando vogliono saper qualche cosa invece
di ascoltare quello che dice la gente in città. Spero che abbiano abbastanza
fiducia in me... Jean Louise?"
Mi si rizzarono i capelli in testa. Feci capolino sulla porta: "sì?..."
"Va' a letto."
Corsi in camera mia e mi misi a letto. Zio Jack era stato veramente
grande: non mi aveva tradita. Ma non capii come facesse Atticus a sapere che
li stavo ascoltando: passarono molti anni prima che mi rendessi conto che
quella sera egli aveva voluto che udissi ogni parola che diceva.

94
capitolo decimo
Atticus era debole: aveva quasi cinquant'anni. Quando Jem e io gli
chiedemmo perché fosse così vecchio, rispose che aveva cominciato tardi, e
ci parve che questo si riflettesse sulle sue capacità e sulla sua virilità. Era
molto più anziano dei genitori dei nostri coetanei, e quando i compagni di
scuola dicevano: "Mio padre fa questo, mio padre fa quello," Jem e io non
potevamo raccontare nulla del nostro.
Jem adorava il pallone e Atticus non era mai tanto stanco da non poter
giocare con lui, ma quando Jem voleva placcarlo, Atticus diceva: "Sono
troppo vecchio per queste cose, figliolo."
Nostro padre non faceva niente. Lavorava in ufficio, non in una
drogheria. Non guidava l'autocarro della nettezza urbana, non era sceriffo,
non lavorava la terra né faceva il meccanico: non faceva nulla per cui si
potesse ammirarlo, per un verso o per l'altro.
Oltre a questo, portava gli occhiali. Era quasi cieco dall'occhio sinistro e
diceva che gli occhi sinistri erano la maledizione secolare dei Finch. Quando
voleva vedere bene una cosa, voltava la testa e guardava con l'occhio destro.
Non faceva niente di quello che facevano i padri dei nostri compagni: non
andava a caccia, non giocava a poker, non pescava, non beveva né fumava.
Stava seduto nel soggiorno e leggeva.
Almeno, visto che era dotato di così scarsi attributi, fosse rimasto
discretamente nell'ombra come avremmo desiderato: quell'anno tutta la
scuola chiacchierava della sua difesa di Tom Robinson, e non certo in modo
lusinghiero. Dopo la mia lite con Cecil Jacobs che aveva segnato l'inizio della
mia politica di codardia, si era sparsa la voce che Scout Finch non faceva più
a botte, che il suo papà non glielo permetteva. Questo non era del tutto
esatto: non combattevo più in pubblico, per Atticus, ma la famiglia era
terreno privato: a partire dai terzi cugini in su avrei combattuto con le unghie
e coi denti: Francis Hancock ne sapeva qualcosa.
Quando ci regalò i fucili ad aria compressa, Atticus non ci insegnò a
sparare. Fu zio Jack a insegnarci i primi rudimenti, dicendo che ad Atticus le
armi non interessavano. Un giorno Atticus disse a Jem: "Preferirei che
sparaste ai barattoli in cortile, ma so già che andrete dietro agli uccelli.
Sparate finché volete alle ghiandaie, se vi riesce di prenderle, ma ricordatevi
che è peccato uccidere un passero."

95
Era la prima volta che udivo Atticus dire che era peccato fare una data
cosa, così andai a informarmi da miss Maudie.
"Tuo padre ha ragione," disse. "I passeri non fanno niente di speciale, ma
fa piacere sentirli cinguettare. Non mangiano le sementi dei giardini, non
fanno il nido nelle madie, non fanno proprio niente, solo cinguettano. Per
questo è peccato uccidere un passero."
"Miss Maudie, questo quartiere è molto vecchio, vero?"
"È qui da prima della città."
"No, voglio dire che la gente della nostra strada è tutta vecchia.
Jem ed io siamo i soli ragazzi, qui attorno. La signora Dubose dev'essere
vicina ai cent'anni e miss Rachel è vecchia, lei è vecchia e Atticus pure."
"Non mi pare che a cinquant'anni si possa esser considerati molto
vecchi," ribatté miss Maudie brusca. "Non vado in giro in sedia a rotelle, non
vedi? Tuo padre nemmeno. Ma devo dire che la Provvidenza è stata molto
buona a far bruciare quel vecchio mausoleo della mia casa: ero troppo
vecchia per tenerla su. Forse hai ragione, Jean Louise, questo quartiere è
vecchiotto. Non ti sei mai trovata in mezzo alla gioventù, vero?"
"Sì, a scuola."
"Voglio dire gente giovane, non ragazzi. Sei fortunata, sai: per te e Jem è
un vantaggio avere un padre dell'età del vostro. Se avesse trent'anni, la vita vi
parrebbe molto diversa."
"Lo credo bene. Atticus non può far più niente..."
"Se tu sapessi quanta vitalità c'è in lui," disse miss Maudie, "ne saresti
molto sorpresa."
"Ma che cosa sa fare?"
"Per esempio sa stendere un testamento in modo inoppugnabile, così che
a nessuno possa venire in mente di contestarne la validità!"
"Ma via, miss Maudie..."
"Lo sai che è il miglior giocatore di dama di tutta la città? giù all'Approdo,
quando eravamo ragazzi, Atticus Finch batteva tutti, da una parte e dall'altra
del fiume."
"Oh Signore, miss Maudie, ma se Jem ed io vinciamo tutte le partite!..."
"Non hai ancora capito che vincete perché lui vi lascia vincere?
Sai che sa anche suonare lo scacciapensieri?"
Scoprire questo modesto talento di Atticus mi fece vergognare ancora di
più di lui.
"E poi..." disse miss Maudie.
"E poi che cosa, miss Maudie?"

96
"E poi niente," rispose. "Niente. Adesso che ti ho detto tutto potresti
anche essere orgogliosa di lui: non tutti sanno suonare lo scacciapensieri. Ora
fatti in là, vedi che i falegnami devono passare. È meglio che tu vada a casa,
io devo occuparmi delle mie azalee e non posso badare a te. Ti potrebbe
cadere una tavola in testa."
Andai in cortile e trovai Jem che sparava a un barattolo, il che mi parve
sciocco con tutte le ghiandaie che c'erano attorno. Ritornai in giardino, e per
due ore mi diedi da fare per costruire su un lato del portico una fortificazione
complicata con un pneumatico, una cassetta da frutta, il cesto del bucato,
alcune sedie della veranda e una piccola bandiera che Jem aveva trovata in
una scatola di popcorn che mi aveva regalata.
Quando Atticus venne a casa per cena, mi trovò acquattata col fucile
spianato, che miravo alle case dirimpetto. "A che cosa stai tirando?"
"Al di dietro di miss Maudie."
Atticus si voltò e vide il mio generoso bersaglio piegato sui cespugli. Si
spinse il cappello indietro sulla fronte e attraversò la strada. "Maudie!"
chiamò, "ti devo avvertire che corri un grave pericolo."
Miss Maudie si raddrizzò e guardò verso di me. Disse: "Atticus, sei un
diavolo scatenato."
Quando Atticus tornò mi disse di levare il campo. "Non farti più cogliere
da me a puntare quel fucile addosso a qualcuno," disse.
Avrei voluto che mio padre fosse davvero un diavolo scatenato.
Interrogai anche Calpurnia in proposito. "Il signor Finch? Sa fare una
quantità di cose!"
"Quali per esempio?..." chiesi.
Calpurnia si grattò la testa. "Bè, non saprei," rispose.
La cosa fu ancora più chiara quando Jem chiese ad Atticus se avrebbe
giocato a pallone nella squadra dei Metodisti, e Atticus rispose che non
voleva rompersi l'osso del collo, che era troppo vecchio per quel genere di
cose. I Metodisti, per togliere l'ipoteca che gravava sulla loro chiesa, avevano
sfidato i Battisti a una partita amichevole di pallone; tutti i padri della città, a
quanto pareva, vi prendevano parte, eccetto Atticus. Jem dichiarò che non
avrebbe assistito alla partita; poi, incapace di resistere al richiamo del pallone,
finì col mettersi, tutto incupito, al bordo del campo con Atticus e me a
guardare il padre di Cecil Jacobs che segnava mete per i Battisti.
Un sabato, Jem ed io decidemmo di andare in esplorazione con i nostri
fucili, in cerca di un coniglio o di uno scoiattolo. Eravamo già a circa

97
cinquecento metri dalla casa dei Radley, quando mi accorsi che Jem sbirciava
qualcosa che si muoveva sulla strada.
Teneva la testa di lato, e guardava con la coda dell'occhio.
"Che guardi?"
"Quel vecchio cane, laggiù," disse.
"È il vecchio Tim Johnson, non è vero?"
"Già."
Tim Johnson apparteneva al signor Harry Johnson, che guidava l'autobus
di Mobile e viveva appena fuori di città, nella parte sud.
Tim era un cane da penna rosso cupo, beniamino di Maycomb.
"Che sta facendo?"
"Non lo so, Scout, ma è meglio che andiamo a casa!"
"Ma Jem, siamo in febbraio!"
"Non importa: voglio mostrarlo a Cal."
Corremmo a casa e ci precipitammo in cucina.
"Cal," disse Jem, "puoi venire un momento fuori, sul marciapiede?"
"Perché, Jem? Non posso venir fuori ogni volta che mi vuoi."
"Quel vecchio cane ha qualcosa di strano."
Calpurnia sospirò. "Adesso non ho tempo di fasciare le zampe dei cani.
C'è della garza nel bagno, prendila e fallo da te."
Jem scosse la testa. "È malato, Cal, ha qualcosa che non va."
"Ma che cosa fa? Cerca di acchiapparsi la coda?"
"No, fa così."
Jem boccheggiò come un pesciolino, fece la gobba e si contorse tutto. "Fa
così, ma si vede che non lo fa apposta."
"Che è questa, una favola, Jem Finch?" disse Calpurnia con voce severa.
"No, Cal, ti giuro di no!"
"Corre?"
"No, si trascina così piano che quasi non si muove. Sta venendo da
questa parte."
Calpurnia si sciacquò le mani e seguì Jem in cortile. "Non vedo cani,"
disse.
Ci seguì oltre la casa dei Radley e guardò nella direzione che Jem
indicava. Da lontano, Tim Johnson pareva un puntino nero, ma si era un po'
avvicinato. Camminava in modo strano, come se avesse le zampe di destra
più corte di quelle di sinistra; mi ricordava una automobile sprofondata nella
sabbia.
"Adesso è anche tutto storto," disse Jem.

98
Calpurnia guardò fisso il cane, poi ci afferrò per le spalle facendoci
correre dentro casa. Chiuse la porta dietro a noi, afferrò il telefono e gridò:
"Mi dia l'ufficio del signor Finch!"
"Signor Finch!" urlò nel microfono. "Sono Cal. Senta, c'è un cane
arrabbiato sulla strada. Parola d'onore! Sta venendo verso di qua...
sissignore, è... sissignore... signor Finch, dev'essere proprio il vecchio Tim
Johnson, sissignore, sissignore... sì..."
Riattaccò il ricevitore e quando le chiedemmo che cosa avesse detto
Atticus, scosse la testa. Si assicurò che fosse tornata la comunicazione e
disse: "Miss Eula May... senta, signora, ho appena parlato con il signor Finch,
no, non mi metta più in comunicazione con lui; senta, miss Eula May, può
chiamare miss Rachel e miss Stephanie Crawford e tutti quelli che hanno il
telefono, in questa strada, e dire che sta arrivando un cane arrabbiato? La
prego, signora!..."
Ascoltò per qualche istante. "Ma sì, lo so che siamo in febbraio, miss Eula
May, ma un cane idrofobo lo riconosco! Per favore, signora, si sbrighi!..."
Poi Calpurnia chiese a Jem: "I Radley hanno il telefono?"
Jem guardò nell'elenco e disse di no. "Tanto, non verranno fuori lo
stesso, Calpurnia."
"Non importa, glielo voglio dire lo stesso!"
Corse sulla veranda, con Jem e me alle calcagna. "Restate in casa!"
sbraitò.
Il messaggio di Calpurnia era giunto a tutto il vicinato. Tutte le porte che
si vedevano da casa nostra erano ermeticamente chiuse. Tim Johnson non si
vedeva più. Stemmo a guardare Calpurnia che correva verso la casa dei
Radley tenendosi la sottana e il grembiule sopra le ginocchia. salì di corsa i
gradini e si mise a battere forte la porta. Non ottenne risposta e gridò: "Signor
Nathan, signor Arthur, c'è un cane arrabbiato in strada! Un cane arrabbiato!"
"Dovrebbe fare il giro: è dietro che si entra," dissi.
Jem scosse la testa. "Non importa, in un momento simile!"
Calpurnia picchiò sulla porta: invano. Nessuno raccolse il suo
avvertimento; a quanto pare, non l'avevano nemmeno udito.
Mentre Calpurnia andava di volata verso il portico di dietro dei Rad-ley,
una Ford nera girò rapida sul vialetto e ne uscirono Atticus e il signor Heck
Tate.
Il signor Tate era lo sceriffo della contea di Maycomb. Era alto come
Atticus, ma più magro, e aveva il naso lungo. Portava stivali con scintillanti
occhielli metallici, pantaloni alla cavallerizza e una giacca da taglialegna. Sul

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cinturone aveva una fila di cartucce e portava in mano una pesante carabina.
Quando i due uomini giunsero alla veranda, Jem aprì la porta.
"Resta dentro, figliolo," disse Atticus. "Dov'è, Calpurnia?"
"Dovrebbe esser qui, ormai," disse Calpurnia, indicando la strada.
"Non corre, vero?" chiese Tate.
"Nossignore: è in convulsioni, signor Heck."
"Dice che dovremmo andargli incontro, Heck?" chiese Atticus.
"È meglio che aspettiamo, signor Finch. Di solito vanno in linea retta, ma
non si può esser mai sicuri. Potrebbe prendere la curva... speriamo che lo
faccia, altrimenti entrerà diritto nel cortile dei Radley. Aspettiamo un minuto."
"Non credo che entrerà nel cortile dei Radley," disse Atticus: "c'è la siepe.
Probabilmente seguirà la strada..."
Credevo che i cani arrabbiati avessero la schiuma alla bocca, che
galoppassero, saltassero e attaccassero la gente alla gola, e credevo che lo
facessero soltanto nel mese di agosto. Se Tim Johnson si fosse comportato
così, mi sarei spaventata molto di meno.
Nulla è più desolante di una strada deserta, in attesa. Gli alberi immobili, i
passeri silenziosi, scomparsi i falegnami che lavoravano alla casa di miss
Maudie. Udii il signor Tate tirar su col naso e poi soffiarselo, e lo vidi
spostare il fucile nel cavo del braccio. Vidi il volto di miss Stephanie
Crawford incorniciato nel vetro della porta e miss Maudie che appariva,
mettendosi accanto a lei. Atticus posò il piede sulla traversa di una sedia e si
strofinò lentamente la mano contro la coscia.
"Eccolo," disse piano.
Tim Johnson apparve: camminava come intontito sull'orlo interno della
curva, parallelamente alla casa dei Radley.
"Guardalo," bisbigliò Jem. "Il signor Heck diceva che camminano in linea
retta. Non riesce nemmeno a stare sulla strada."
"A me sembra che stia solo male," dissi.
"Se da un momento all'altro gli si para davanti qualcosa, vedrai come gli
salta addosso!"
Il signor Tate si mise la mano alla fronte, chinandosi in avanti.
"Ce l'ha sì, la rabbia, signor Finch!"
Tim Johnson veniva avanti quasi strisciando, ma non giocava con l'erba
né l'annusava: pareva che avesse un solo proposito, che fosse sospinto da
una forza invisibile che lo faceva avanzare, palmo a palmo, verso di noi.
Rabbrividiva come un cavallo che scacci le mosche, e la mascella gli si apriva
e chiudeva, ma sbandato com'era, seguitava ad avanzare piano verso di noi.

100
"Sta cercando un posto dove morire," disse Jem.
Il signor Tate si voltò. "Ci vorrà molto prima che muoia, Jem: non è
nemmeno in agonia."
Tim Johnson giunse all'incrocio della strada laterale che stava di fronte
alla casa dei Radley, e quanto gli era rimasto della sua povera mente lo fece
fermare, come per considerare quale strada prendere. Fece alcuni passi
esitanti e si fermò davanti al cancello dei Radley; poi cercò di girarsi, ma con
difficoltà.
Atticus disse: "È a tiro, Heck. Sarebbe meglio che gli tirasse ora, prima
che prenda l'altra strada. Dio sa chi ci può essere, dietro l'angolo. Andate tutti
dentro, Cal."
Calpurnia aprì la controporta di rete e se la chiuse dietro, poi la sganciò di
nuovo, tenendo il gancio fermo con il dito. Cercò di bloccare Jem e me con il
suo corpo, ma noi guardavamo di sotto le sue braccia.
"Gli spari lei, signor Finch." Tate porse il fucile ad Atticus: Jem ed io a
momenti svenivamo.
"Non perda tempo, Heck," disse Atticus, "spari!"
"Signor Finch, questo è un lavoro da fare in un colpo solo!"
Atticus scosse la testa con veemenza. "Non se ne stia lì impalato, Heck! Il
cane non aspetterà tutto il giorno che lei si decida!"
"Per amor del cielo, signor Finch, guardi dov'è arrivato! Se sbaglio il
colpo, la pallottola entra diritta in casa Radley! Non so tirare bene, lei lo sa!"
"Son trent'anni che non prendo un fucile in mano..."
Tate cacciò il fucile in mano a Atticus. "Bè lo prenda adesso," disse: "mi
sentirò molto meglio!..."
Come in una nebbia, Jem e io guardammo nostro padre prendere il fucile
e uscire fino in mezzo alla strada. Camminava rapido, ma a me parevano i
movimenti incantati di un nuotatore subacqueo: il tempo passava lentissimo,
come in un incubo.
Quando Atticus sollevò gli occhiali Calpurnia mormorò: "Oh, Buon
Gesù, aiutalo!" e si mise una mano sulla guancia.
Atticus si calcò gli occhiali sul naso; gli scivolarono e caddero per terra.
Nel silenzio udii il rumore che facevano le lenti, infrangendosi. Atticus si
strofinò gli occhi e il mento: lo vedemmo battere forte le palpebre.
Davanti al cancello dei Radley, Tim Johnson, con le facoltà mentali che
gli eran rimaste, aveva preso una decisione. Era riuscito finalmente a voltarsi
per continuare la sua rotta sulla nostra strada. Fece due passi avanti, poi si
fermò e alzò la testa. Lo vedemmo irrigidirsi.

101
Con due mosse così veloci da parer subitanee, la mano di Atticus tirò il
grosso grilletto mentre si portava il fucile alla spalla.
Si udì una detonazione. Tim Johnson balzò in aria e ricadde a terra con
un tonfo, ammucchiandosi sul marciapiede come uno straccio bianco e
marrone. Non fece nemmeno a tempo a capire che cosa l'avesse colpito.
Il signor Tate saltò giù dal porticato e corse fin davanti la casa dei Radley.
Si fermò accanto al cane, si accoccolò a terra, poi si volse battendosi il dito
sulla tempia, sopra l'occhio sinistro. "Un pochino troppo a destra, signor
Finch," disse.
"Sempre avuto quel difetto," rispose Atticus. "Potendo scegliere, avrei
però preferito un fucile da caccia."
Si chinò e raccolse gli occhiali, schiacciò le lenti rotte sotto le scarpe fino
a ridurle in polvere e si avvicinò al signor Tate, fermandosi a guardare Tim
Johnson.
Le porte si aprirono una alla volta e il quartiere tornò lentamente a vivere.
Miss Maudie scese gli scalini con miss Stephanie Crawford.
Jem era rimasto paralizzato. Lo pizzicai per farlo muovere, ma quando
Atticus ci vide arrivare gridò: "State fermi dove siete!"
Atticus e il signor Tate rientrarono in giardino; Tate sorrideva.
"Manderò Zeebo a prenderlo," disse. "Lei non ha dimenticato come si
spara, signor Finch. Dicono che è un'abilità che non si perde mai!"
Atticus taceva.
"Atticus?" disse Jem.
"Sì?"
"Niente."
"Bel colpo, Finch Doppietta."
Atticus si girò e si trovò davanti miss Maudie. Si guardarono senza dir
nulla: poi Atticus salì sulla macchina dello sceriffo. "Vieni qui," disse a Jem.
"Bada di non andare vicino a quel cane, capito?
Non vi avvicinate: è altrettanto pericoloso da morto che da vivo."
"Sì," disse Jem. "Atticus..."
"Di', figliolo?"
"Niente."
"Ma che ti succede, ragazzo, non sei capace di parlare?" disse il signor
Tate, sorridendo a Jem. "Non sapevi che il tuo papà..."
"Zitto, Heck," disse Atticus. "Torniamo in città."
Dopo che se ne furono andati, Jem e io ci mettemmo a sedere sugli scalini
di miss Stephanie, aspettando che arrivasse Zeebo con l'autocarro della

102
nettezza urbana.
Jem se ne stava tutto stordito e confuso e miss Stephanie disse: "Uh, uh,
uh, chi avrebbe mai creduto che potesse esserci un cane idrofobo nel mese di
febbraio? Ma forse non era idrofobo, forse era soltanto impazzito. Non vorrei
veder la faccia di Harry Johnson quando torna a casa dopo la corsa di Mobile
e viene a sapere che Atticus Finch ha ucciso il suo cane. Scommetto che
aveva soltanto le pulci..."
Miss Maudie disse che miss Stephanie avrebbe parlato diversamente se
Tim Johnson fosse stato ancora lì, vivo, in mezzo alla strada: del resto la
verità si sarebbe saputa presto perché avrebbero certamente mandato la testa
del cane a Montgomery per le analisi.
Jem cominciò a spiccicare qualche parola.
"Hai visto, Scout? Hai visto Atticus come se ne stava tranquillo in mezzo
alla strada? E poi, d'un tratto, si è messo in posizione e ha imbracciato il
fucile come se non avesse fatto altro in vita sua!... È stato così rapido, che
pareva... E io che devo mirare dieci minuti per riuscire a prendere
qualcosa..."
Miss Maudie sorrise, beffarda. "E allora signorina Jean Louise," disse,
"credi ancora che tuo padre non sappia far nulla? Ti vergogni ancora di lui?"
"No," risposi umilmente.
"Avevo dimenticato di dirti, l'altro giorno, che oltre a saper suonare lo
scacciapensieri, ai suoi tempi Atticus Finch era il miglior tiratore di tutta la
contea."
"Il miglior tiratore..." fece eco Jem.
"Proprio così, Jem Finch. Forse anche tu cambierai musica, adesso.
Figurati... Non sapevate che lo avevano soprannominato Doppietta
quando era ragazzo? Dovete sapere che giù all'Approdo, quando era ragazzo,
se pigliava quattordici colombi su quindici colpi si lamentava di sprecare le
munizioni!..."
"Ma non ci ha mai detto niente..." mugolò Jem.
"Mai detto niente, eh?"
"No."
"Chissà perché non va mai a caccia," dissi.
"Forse te lo posso spiegare io," rispose miss Maudie. "Se c'è una cosa che
tuo padre possiede, è la grandezza d'animo. Una mira eccellente è un dono di
Dio, un talento... oh, intendiamoci, bisogna esercitarsi per arrivare alla
perfezione. Ma sparare non è come suonare il piano o cose del genere. Può
darsi che egli abbia messo giù il fucile e non abbia più voluto sparare quando

103
ha capito che Dio gli aveva dato un vantaggio eccessivo, direi quasi ingiusto
sulla maggior parte degli esseri viventi. Credo che avesse deciso di non
sparare più, a meno di esservi costretto, e oggi vi è stato costretto."
"Dovrebbe esserne fiero!" osservai.
"La gente sana di mente non va mai fiera delle proprie capacità," ribatté
miss Maudie.
Arrivò Zeebo con l'autocarro e, presa una forca dall'interno, sollevò con
cautela Tim Johnson. Buttò il corpo del cane nell'autocarro e poi versò
qualcosa da una damigiana, sul posto dove Tim era caduto e tutto intorno.
"Girate alla larga, per un po' di tempo," ci gridò.
Mentre andavamo a casa, dissi a Jem che adesso sì che avevamo qualcosa
di cui parlare a scuola, lunedì. Jem si volse in fretta verso di me.
"Non parlarne affatto, Scout," disse.
"Che cosa? Certo che ne parlerò. Non tutti i papà sono i migliori tiratori
della contea di Maycomb!"
Jem disse: "Se avesse voluto che lo sapessimo, ce lo avrebbe detto.
Se ne fosse stato fiero ce lo avrebbe raccontato!"
"Forse gli è passato di mente," dissi.
"No, Scout, questo forse non puoi capirlo. Atticus è vecchio, è vero, ma
anche se non fosse capace di far niente, non me ne importerebbe: non mi
importerebbe niente anche se non sapesse fare un fico secco!"
Raccolse un sasso e, tutto allegro, lo scagliò sull'autorimessa; correndogli
dietro mi gridò: "Atticus è un gentiluomo, tale e quale me!"

104
capitolo undicesimo
Quando eravamo piccoli, Jem ed io limitavamo le nostre scorribande alla
parte sud del quartiere, ma quando andai in seconda e il vizio di stuzzicare
Boo Radley divenne passé, il centro di Maycomb prese ad attirarci spesso,
sulla strada oltre la proprietà della signora Lafayette Dubose. Era impossibile
andare in città senza passare davanti a casa sua, a meno di voler fare un buon
chilometro di strada in più. Gli scontri occasionali avuti con lei in precedenza
mi avevano tolto ogni desiderio di rivederla, ma un giorno Jem disse che
prima o poi dovevo pur diventar grande.
La signora Dubose viveva sola, con una ragazza negra a tutto servizio,
due porte più su della nostra venendo dalla città, in una casa con gradini di
accesso molto alti. Era molto vecchia e passava la maggior parte della
giornata a letto, e qualche ora in una poltrona a rotelle. Si diceva che tenesse
una vecchia pistola dei Confederati nascosta tra i molti scialli e coperte.
Jem ed io la odiavamo. Se era sul portico quando passavamo, ci strigliava
da capo a piedi con il suo sguardo iroso, sottoponendoci ad un interrogatorio
spietato sulla nostra condotta, che si concludeva inevitabilmente con le più
malinconiche predizioni sul nostro futuro: era convinta che eravamo delle
nullità e tali saremmo rimasti. Da un pezzo avevamo rinunciato a camminare
sull'altro marciapiede: serviva soltanto a farla gridare più forte e a informare
dei fatti nostri tutto il vicinato.
Non riuscivamo mai a rabbonirla. Se io dicevo, il più allegramente
possibile: "Salve, signora Dubose!" tutto quel che mi rispondeva era: "Non si
dice "salve" a me, brutta bambina! Si dice: "Buon giorno, signora Dubose!""
Era veramente perfida. Una volta udì Jem parlare di nostro padre
chiamandolo "Atticus," e la sua reazione fu isterica. Ci disse che eravamo i
ragazzi più insolenti, volgari e privi di rispetto che fossero mai passati per la
sua strada, e che era proprio un peccato che nostro padre non si fosse
risposato dopo la morte di nostra madre. Aggiunse che donna più dolce di
nostra madre non era mai esistita, e che spezzava il cuore vedere come
Atticus Finch lasciava venir su selvaggi i suoi figli. Io non ricordavo mia
madre, ma Jem sì (qualche volta mi parlava di lei), e divenne livido quando
la signora Dubose ci lanciò queste parole.
Sopravvissuto all'avventura di Boo Radley, all'incontro di un cane
idrofobo e ad altri terrori, Jem si era convinto che fosse una vigliaccheria
aspettare Atticus che tornava dal lavoro, seduti sugli scalini di miss Rachel, la

105
sera, e aveva stabilito che dovevamo corrergli incontro fino all'ufficio
postale, all'angolo. Quasi tutte le sere, Atticus, arrivando, trovava Jem furioso
per le cose sgradevoli che ci aveva detto la signora Dubose.
"Non te la prendere, figliolo," diceva, "è una vecchia signora malata.
Pensa solo a tener la testa alta e a essere un gentiluomo.
Qualsiasi cosa ti dica hai il dovere di non infuriarti."
Jem rispondeva che non doveva esser più tanto malata, se sbraitava in
quel modo. Quando tutti e tre passavamo davanti alla casa della signora
Dubose, Atticus si toglieva il cappello con un largo gesto galante e diceva:
"Buona sera, signora Dubose! Sembra proprio un quadro, questa sera!"
Non specificava, però, quale quadro. Le dava notizie del tribunale, e
diceva che sperava con tutto il cuore che il giorno dopo lei avrebbe avuto
una buona notizia. Si rimetteva il cappello, mi prendeva sulle spalle proprio
davanti alla signora Dubose, e ce ne andavamo a casa nella luce del tramonto.
In occasioni come queste pensavo che mio padre, che odiava le armi e non
era mai stato in guerra, era l'uomo più coraggioso del mondo.
Venne il dodicesimo compleanno di Jem. Il giorno dopo, dato che il
denaro in tasca gli bruciava, pensammo di andare in città di primo
pomeriggio a far spese. Jem sperava che il denaro che aveva sarebbe bastato
a comperare un motorino a vapore per sé e una mazza per me.
Era parecchio tempo che pensavo a una mazza. Ne avevo visto una da
Elmore, tutta adorna di frange e lustrini: costava diciassette centesimi. A
quell'epoca, l'ambizione mia più ardente era di fare il mazziere e di precedere
la banda della Scuola Superiore di Maycomb roteando la mazza. Avevo
esercitato un poco il mio talento e sapevo già lanciare in aria un bastone e
riacchiapparlo a volo, motivo per cui Calpurnia mi impediva di entrare in
casa ogni volta che mi vedeva con un bastone in mano. Pensavo che il giorno
che avessi posseduto una vera mazza sarei riuscita a non farla cadere e mi
sembrava molto generoso da parte di Jem comperarmela.
Quando passammo davanti alla sua casa, la signora Dubose era già al suo
posto, sul portico.
"Dove andate voi due, a quest'ora?" gridò. "Marinate la scuola, immagino.
Ora telefono al direttore e lo avverto." Appoggiò le mani sulle ruote della
poltrona, eseguendo un perfetto dietrofront.
"Oggi è sabato, signora Dubose!" disse Jem.
"Che sia sabato, non cambia niente," disse insensatamente. "Mi chiedo se
vostro padre sa dove siete..."

106
"Signora Dubose, andiamo in città da soli da quando eravamo alti così..."
Jem portò la mano a un'altezza di trenta centimetri da terra.
"Non raccontatemi bugie!" sbraitò. "Jeremy Finch. Maudie Atkinson mi
ha detto che stamattina le hai rovinato la pergola e che lo dirà a tuo padre. Ti
dispiacerà di esserti alzato dal letto stamane! Non mi chiamerò più Dubose se
entro pochi giorni non finirai al riformatorio!"
Jem, che non si avvicinava alla pergola di miss Maudie dall'estate prima e
sapeva benissimo che miss Maudie non avrebbe mai fatto la spia, respinse
l'accusa.
"Non mi contraddire!" strillò lei. "E tu..." proseguì, puntandomi contro un
dito artritico, "che fai con quei calzoni? Dovresti essere vestita con veste e
sottoveste, signorina! Quando sarai grande finirai col fare la cameriera, se
non ti insegnano le belle maniere: sarà divertente una Finch che serve all'O'K'
Cafè!... Ah!"
Ero atterrita: l'Okay Cafè era uno squallido locale che si affacciava sul
lato nord della piazza. Afferrai la mano di Jem, ma egli si liberò dalla mia
stretta.
"Via, Scout," bisbigliò, "non le badare: tieni alta la testa e sii un
gentiluomo!..."
Ma la signora Dubose ci aveva in pugno: "E quel giorno avremo una
Finch che serve a tavola e un Finch in tribunale che difende i negri!"
Jem si irrigidì. Lo strale della signora Dubose aveva colpito il segno e lei
lo capì.
"Sì, proprio! Vorrei sapere come andremo a finire se un Finch insorge
contro tutto quello che gli hanno insegnato! Te lo dirò io!"
Si mise la mano alla bocca e quando la ritirò, attaccato alla mano c'era un
lungo filo argenteo di saliva. "Vostro padre non vale più dei negri e della
gentaglia bianca per cui lavora!"
Jem era scarlatto. Lo tirai per la camicia e ci allontanammo, inseguiti da
una filippica sulla degenerazione morale della nostra famiglia, la cui prova
più lampante era il fatto che metà dei Finch erano già al manicomio. Se
nostra madre fosse stata ancora viva, non ci saremmo ridotti in quello stato...
Ignoravo che cosa avesse ferito di più Jem, quanto a me ero offesa
dall'opinione di quella vecchia sullo stato mentale della mia famiglia. Mi ero
quasi abituata a sentire offendere Atticus. Ma questa era la prima volta che lo
sentivo offendere da un adulto; eccetto le sue allusioni ad Atticus, quello
della signora Dubose era poi il solito attacco. Nell'aria c'era un sentore

107
d'estate: all'ombra faceva fresco, ma il sole era caldo, e questo significava che
stavano per tornare i bei tempi: sarebbe finita la scuola e arrivato Dill.
Jem comprò il motorino e andammo da Elmore per la mia mazza; ma non
si mostrò entusiasta per il suo acquisto: lo ficcò in tasca e mi si incamminò
davanti in silenzio. Strada facendo a me sfuggì la mazza e per poco non colpii
il signor Link Deas, che disse: "Sta' attenta, Scout!" Quando giungemmo alla
casa della signora Dubose la mazza era già sudicia per esser finita in terra
molte volte.
La signora Dubose non era sul portico.
Negli anni seguenti mi chiesi più volte che cosa fu che spinse Jem a far
quel che fece, a venir meno alla consegna di "essere un gentiluomo" e ai
propositi di rettitudine che s'era appena imposti.
La storia di Atticus che difendeva i negri, Jem forse l'aveva sentita quanto
me, e ritenevo scontato che mantenesse la calma - lui era tranquillo per
natura e lento a infiammarsi. Sul momento, però, pensai che l'unica
giustificazione a ciò che fece era che fosse momentaneamente impazzito.
L'avrei fatto anch'io, naturalmente, se non avessi ritenuto che il divieto di
Atticus riguardava anche le liti con le signore vecchie e orribili. Eravamo
appena giunti al cancello di lei, che Jem mi strappò la mazza e corse,
agitandola selvaggiamente, su per gli scalini e nel giardino della signora
Dubose, dimenticando tutto quel che Atticus ci aveva detto, dimenticando
che quella teneva sempre una pistola sotto lo scialle e che se lei mancava la
mira, non l'avrebbe mancata la domestica Jessica.
Si calmò soltanto dopo che ebbe abbattuto i germogli di tutte le piante di
camelia che la signora Dubose possedeva, dopo che il terreno fu cosparso di
verdi boccioli e di foglie. Allora piegò la mia mazza sul ginocchio, la ruppe in
due e la gettò per terra.
Io strillavo, e Jem mi prese per i capelli e disse che non gli importava
nulla di quel che aveva fatto, che l'avrebbe fatto ancora se gliene fosse
capitata l'occasione, e che se non la smettevo di strillare mi avrebbe strappato
tutti i capelli che avevo in testa.
Non smisi, ed egli mi diede un calcio. Persi l'equilibrio e caddi a faccia
terra. Jem mi tirò su bruscamente, apparentemente pentito di quel che aveva
fatto. Non c'era nulla da dire.
Preferimmo non andare incontro ad Atticus, quella sera. Ci rifugiammo
in cucina finché Calpurnia non ci cacciò fuori. Chissà per quale magia nera,
pareva saper tutto. Come fonte di conforto Calpurnia dava poca

108
soddisfazione, ma diede a Jem un biscotto caldo col burro, ed egli lo divise
in due dandone un pezzo a me. Pareva di mangiar cotone.
Andammo nella stanza di soggiorno. Presi una rivista sportiva, trovai una
fotografia di Dixie Howell e la mostrai a Jem dicendo: "Sembri proprio tu!"
Era la cosa più carina che sapessi dirgli, ma non servì a nulla. Sedeva vicino
alla finestra, raggomitolato su una sedia a dondolo, cupo in faccia,
aspettando. La luce del giorno dileguava rapidamente.
Due secoli dopo, udimmo Atticus che puliva le scarpe sullo stuoino.
La controporta sbatté, vi fu una pausa (Atticus era fermo accanto
all'attaccapanni, nell'atrio), e poi lo sentimmo chiamare: "Jem!" La sua voce
pareva il vento d'inverno.
Atticus accese la luce centrale del soggiorno e ci trovò là, gelati, immobili.
In mano aveva il mio bastone con la nappina gialla, sporca, che strisciava per
terra. Sporse l'altra mano: conteneva dei grossi boccioli di camelia.
"Jem," disse, "sei stato tu?"
"Sì."
"Perché lo hai fatto?"
Jem disse piano: "Ha detto che tu difendi i negri e la gentaglia."
"Per questo l'hai fatto?"
Le labbra di Jem si mossero, ma il suo sì quasi non si udì.
"Figliolo, non dubito che ti abbia dato fastidio che i tuoi coetanei
dicessero che difendo i negri, ma fare una cosa simile a una vecchia signora
malata è imperdonabile. Ti consiglio adesso di andare a parlare con la signora
Dubose. E dopo torna subito a casa."
Jem non si mosse.
"Va', ti ho detto."
Seguii Jem fuori del soggiorno. "Tu torna qui," mi disse Atticus.
Tornai indietro.
Atticus prese Il Giornale di Mobile e sedette nella poltrona a dondolo che
Jem aveva lasciata libera. Non riuscivo assolutamente a capire come potesse
starsene seduto freddo e tranquillo a leggere il giornale, sapendo che c'erano
molte probabilità che il suo unico figlio maschio venisse assassinato con una
vecchia pistola dell'esercito confederato. Certo, molte volte Jem correva il
rischio d'essere ucciso da me, tanto mi faceva infuriare, ma a pensarci bene
non avevo che lui. Di questo Atticus non pareva che si rendesse conto, non
se ne curava. Lo odiai per questo, ma quando si è nei guai ci si stanca
facilmente; presto trovai rifugio nel suo grembo, circondata dalle sue braccia.
"Mi sembri un po' grandicella, per essere cullata," disse.

109
"A te non importa quello che può succedergli," esclamai. "Lo mandi
laggiù perché gli sparino addosso, quando non ha fatto altro che difender te!"
Atticus mi spinse la testa sotto il suo mento. "È presto ancora, per
preoccuparsi," disse; "ma non avrei mai creduto che proprio Jem avrebbe
perso la testa: avevo sempre pensato che i guai mi sarebbero venuti da te."
Dissi che non capivo perché dovessimo star sempre attenti a non perdere
la testa: di tutti i miei compagni di scuola, nessuno doveva stare attento a non
perder la testa.
"Scout," disse Atticus, "quando verrà l'estate dovrai stare attenta a non
perder la testa per cose molto peggiori. Lo so, è un'ingiustizia che tu e Jem
dobbiate andarci di mezzo, ma a volte ci tocca prendere le cose come
vengono, ed è proprio quando si è nei guai che bisogna... Comunque, posso
dirti soltanto questo: quando tu e Jem sarete grandi forse ripenserete a queste
cose con simpatia e comprensione, e capirete che non ho tradito la mia
famiglia, ma che, se vi ho esposto a difficoltà, è stato perché non potevo fare
diversamente. Questo di Tom Robinson è un caso che tocca direttamente il
vivo della coscienza di un uomo. Scout, io non potrei andare in chiesa a
pregar Dio se non avessi tentato di aiutare quell'uomo."
"Atticus, forse tu ti sbagli..."
"Come sarebbe a dire?"
"Tutta la gente pensa di aver ragione e che tu abbia torto..."
"Hanno il diritto di pensarlo e hanno il diritto di far rispettare la loro
opinione," disse Atticus, "ma prima di vivere con gli altri, bisogna che viva
con me stesso: la coscienza è l'unica cosa che non debba conformarsi al
volere della maggioranza."
Quando Jem ritornò, stavo ancora seduta sulle ginocchia di Atticus.
"Dunque, figliolo?" egli chiese. Mi fece scendere e, senza farmene
accorgere, studiai attentamente Jem. Sembrava incolume, ma aveva
un'espressione strana sul volto. Forse la signora Dubose gli aveva dato del
calomelano.
"Ho pulito tutto il giardino e ho detto che mi dispiaceva per quel che
avevo fatto - ma non è vero - e che andrò tutti i sabati a curare le camelie per
farle crescere di nuovo."
"Non serve a niente dire che ti dispiace, se non è vero," osservò Atticus.
"Jem, è una donna vecchia e malata: non puoi ritenerla responsabile di quel
che dice e fa. Certo, preferirei che lo avesse detto a me anziché a uno di voi,
ma non possiamo pretendere che le cose vadano sempre come vogliamo
noi."

110
Jem contemplava ipnotizzato una rosa del tappeto. "Atticus," disse, "vuole
che le faccia la lettura ad alta voce!"
"La lettura?"
"Sì. Vuole che vada da lei tutti i pomeriggi dopo la scuola, anche il
sabato, e che le faccia la lettura ad alta voce per due ore.
Atticus, lo devo fare davvero?"
"Certamente."
"Ma vuole che lo faccia per un mese!..."
"Lo farai per un mese."
Jem puntò delicatamente il piede al centro della rosa e la schiacciò. Alla
fine disse: "Atticus, per strada è un conto, ma dentro casa... è tutto scuro e
pieno di cose che strisciano. Ci sono ombre e cose strane sul soffitto..."
Atticus sorrise, severo. "Questo dovrebbe stimolare la tua fantasia! Farai
finta di essere in casa dei Radley..."
Il lunedì seguente, di pomeriggio, Jem e io salimmo i ripidi scalini della
signora Dubose ed entrammo timorosi nel corridoio attraverso la porta
aperta. Jem, armato di Ivanhoe e della sua superiore cultura, bussò alla
seconda porta a sinistra.
"Signora Dubose?" chiamò.
Jessica aperse la porta di legno e abbassò il saliscendi della controporta.
"Sei tu, Jem Finch?" disse. "Ah, c'è anche tua sorella. Non so..."
"Falli entrare, Jessie," disse la signora Dubose. Jessie ci fece entrare e
scomparve in cucina.
Quando passammo la soglia ci accolse un odore opprimente, l'odore che
avevo sentito molte volte nelle vecchie case disfatte dalla pioggia, dove
esistono ancora i lumi ad acetilene, dove l'acqua si attinge con i secchi e le
lenzuola non sono candeggiate. Un odore che mi metteva sempre in uno stato
di timore e incertezza.
In un angolo della stanza vi era un letto di ottone e nel letto c'era la
signora Dubose. Mi chiesi se fosse stata la violenza di Jem a costringervela, e
per un attimo mi fece pena. Giaceva sotto una montagna di piumini e aveva
un'aria quasi cordiale.
Accanto al letto c'era un lavabo con il piano di marmo e sopra un
bicchiere con dentro un cucchiaino, una pompetta da orecchi rossa, una
scatola di ovatta e una sveglia di metallo appoggiata su tre gambette.
"Così hai portato con te quella bambina disordinata?" fu il suo saluto.
Jem disse calmo: "Mia sorella non è disordinata e io non ho paura di lei,"
ma vedevo che gli tremavano le ginocchia.

111
Mi aspettavo che lei uscisse in chissà quali invettive, invece disse
soltanto: "Comincia pure a leggere, Jeremy."
Jem sedette in una sedia con il sedile di vimini e aperse Ivanhoe.
Presi un'altra sedia e sedetti accanto a lui.
"Vieni più vicino," disse la signora Dubose. "Vieni accanto al letto."
Portammo più avanti le sedie. Non ero mai stata così vicino a lei e non
desideravo altro che di allontanare di nuovo la seggiola.
Era orribile. Aveva il volto del colore di una federa sporca e gli angoli
della bocca le brillavano di saliva, che si riversava lenta come un ghiacciaio
nelle rughe profonde che le convergevano sul mento. Le lentiggini della
vecchiaia le picchiettavano le guance, e gli occhi pallidi avevano nere pupille
a spillo. Aveva le mani nodose, con le pelli che crescevano sulla lunetta delle
unghie. La dentiera non calzava e il labbro superiore le sporgeva in fuori; di
tanto in tanto portava il labbro inferiore fino alla dentiera tirando su il mento,
e quel movimento faceva riversare più rapidamente la saliva.
La guardavo meno che potevo. Jem aprì Ivanhoe e cominciò a leggere.
Cercai di seguirlo, ma leggeva troppo in fretta. Quando incontrava una
parola che non conosceva la saltava, ma ogni volta la signora Dubose se ne
accorgeva e lo costringeva a compitarla. Jem lesse per una ventina di minuti,
durante i quali io guardai il caminetto fuligginoso, fuori dalla finestra,
dappertutto pur di non guardare lei. Mentre Jem seguitava a leggere mi
accorsi che le correzioni della signora Dubose si facevano sempre più rade e
che Jem aveva persino lasciato una frase sospesa a mezz'aria senza che lei se
ne accorgesse. Non ascoltava più.
Guardai verso il letto.
Doveva esserle accaduto qualcosa. Stava supina, con l'imbottita tirata fino
al mento. Si vedevano soltanto la testa e le spalle. Ogni tanto spalancava la
bocca e le vedevo la lingua che si muoveva lievemente. Rivoli di saliva le
affluivano alla bocca; li aspirava, poi apriva di nuovo le labbra. Quella bocca
pareva dotata di vita propria: si muoveva indipendentemente dal resto,
aprendosi e chiudendosi come la valva di un mollusco al flusso e al riflusso
dell'onde. Ogni tanto, faceva "Pt," come una sostanza vischiosa giunta a
ebollizione.
Tirai Jem per la manica.
Mi guardò, poi guardò il letto. La testa della vecchia oscillava
regolarmente verso di noi e Jem disse: "Signora Dubose, si sente male?"
Non sentì.

112
La sveglia squillò, e facemmo un salto. Un minuto dopo, con i nervi
ancora tesi, Jem e io eravamo in strada diretti a casa. Non eravamo scappati,
ci aveva mandati via Jessie: prima che la sveglia smettesse di suonare, era
entrata in camera, cacciandoci via.
"Via," disse, "andate a casa."
Sulla porta Jem aveva esitato.
"È ora che prenda la medicina," aveva detto Jessie, e mentre la porta si
chiudeva alle nostre spalle la vidi avvicinarsi rapidamente al letto della
signora Dubose.
Erano appena le tre e tre quarti quando giungemmo a casa, e giocammo
un po' con la palla in cortile finché non fu ora di andare incontro ad Atticus.
Egli aveva due matite gialle per me e una rivista di pallone per Jem;
immagino che fossero un tacito compenso per la nostra prima seduta con la
signora Dubose. Jem gli raccontò com'era andata.
"Vi ha spaventati?" chiese Atticus.
"No," disse Jem, "ma è ripugnante. Ha degli attacchi o qualcosa del
genere e non fa che sputare."
"Non è colpa sua: quando la gente è malata spesso non è bella a vedersi."
"A me mi ha spaventata," dichiarai.
Atticus mi guardò di sopra agli occhiali. "Non sei mica obbligata ad
accompagnare Jem..." disse.
Il pomeriggio seguente dalla Dubose tutto si svolse come il giorno prima,
e così anche il giorno dopo, finché a poco a poco divenne monotono;
all'inizio le cose procedevano normalmente, e cioè per un po' la signora
Dubose tormentava Jem coi suoi argomenti preferiti: le camelie e le
incredibili propensioni di nostro padre, amico dei negri; poi pian piano si
quietava e alla fine era come se non ci fosse più; la sveglia suonava, Jessie ci
cacciava via e il resto della giornata era nostro.
"Atticus," dissi una sera; "che cosa è esattamente un negrofilo?"
"Qualcuno vi ha chiamati così?" chiese, grave.
"No, ma la signora Dubose ha detto che tu lo sei. Ogni pomeriggio si
infuria, e ti chiama così. Anche Francis mi ha chiamata così il giorno di
Natale. Fu la prima volta che sentii questa parola."
"Per questo gli saltasti addosso?" chiese Atticus.
"Sì."
"Allora perché mi chiedi cosa significa?"
Cercai di spiegare a Atticus che non era stato tanto quel che aveva detto
Francis a farmi infuriare, quanto il modo in cui l'aveva detto.

113
"L'ha detto come se volesse dire "brutta mocciosa," o qualcosa di simile!"
"Scout," disse Atticus, "negrofilo è una di quelle espressioni che non
significano niente, come "brutta mocciosa" del resto. È difficile da spiegare:
la gente ignorante, i bianchi poveri usano questo termine quando credono
che una persona consideri i negri più di quanto non consideri loro. È entrato
pian piano nell'uso corrente per il bisogno di una parola volgare, brutta, da
appiccicare a gente come noi come un'etichetta, per offenderla."
"Allora non sei veramente un negrofilo?"
"Certo che lo sono. Faccio del mio meglio per essere amico di tutti, e ti
assicuro che è difficile a volte. Bimba mia, non è mai una vergogna sentirsi
buttare addosso una parolaccia. Dimostra soltanto quanto sia meschina la
persona che te la dice: a te non può fare alcun male. Perciò non datela vinta
alla signora Dubose, che del resto ha già abbastanza guai per conto suo!"
Un mese più tardi, di pomeriggio, Jem stava arrancando nella lettura di un
romanzo di Sir Walter Scott, come lo chiamava lui, e la signora Dubose lo
correggeva quasi ad ogni parola, quando sentimmo bussare alla porta.
"Avanti," gridò lei.
Entrò Atticus. Si avvicinò al letto, prendendo la mano della signora
Dubose. "Tornavo dall'ufficio," disse, "e non vedendo i ragazzi ho pensato
che fossero ancora qui."
La signora Dubose gli sorrise. Non riuscivo assolutamente a capire come
mai lei si adattasse a parlargli, se lo odiava tanto. "Sai che ora è, Atticus?"
disse. "Esattamente le cinque e quattordici minuti.
Ho fatto mettere la sveglia alle cinque e mezzo: voglio che tu lo sappia."
Improvvisamente mi colpì il pensiero che ogni giorno eravamo stati dalla
signora Dubose qualche minuto più del giorno prima, che ogni giorno la
sveglia suonava qualche minuto più tardi e che quando cominciava a suonare
lei era caduta già da un pezzo in stato di incoscienza. Quel giorno aveva
tormentato Jem per quasi due ore senza mostrare alcun sintomo dei suoi
famosi attacchi. Mi sentii presa in trappola, senza via di uscita. La sveglia era
il segnale della nostra liberazione: se un giorno non avesse suonato, che cosa
avremmo fatto?
"Ho la sensazione che i giorni di lettura di Jem siano contati..." disse
Atticus.
"Ancora una settimana, credo," ella disse, "tanto per essere proprio
sicuri..."
Jem saltò in piedi. "Ma..."

114
Atticus alzò una mano e Jem tacque. Ma sulla via del ritorno Jem disse
che secondo i patti egli doveva fare la lettura alla signora Dubose per un
mese, che il mese era finito e che tutto questo non era giusto.
"Soltanto un'altra settimana, figliolo," disse Atticus.
"No," disse Jem.
"Sì," disse Atticus.
La settimana seguente eravamo ancora dalla signora Dubose. La sveglia
ormai non suonava più, e la signora Dubose ci metteva in libertà con un "Va
bene, basta così," tanto tardi che Atticus era già a casa che leggeva il giornale,
quando ritornavamo. Sebbene gli attacchi non le venissero più, era in tutto e
per tutto quella di sempre: quando sir Walter Scott si perdeva in prolisse
descrizioni di fossati e di castelli, la signora Dubose si annoiava e se la
pigliava con noi:
"Jeremy Finch, te lo avevo detto che ti saresti pentito di aver strappato le
mie camelie: sei pentito ora, eh?"
Jem diceva di sì, che era pentito.
"Credevi di poter far morire la mia Neve-di-Montagna, eh? E invece,
Jessie dice che sta germogliando di nuovo. La prossima volta cercherai di far
meglio, eh? La tirerai fuori con tutte le radici, vero?"
Jem diceva di sì, avrebbe certamente fatto così.
"Non bofonchiare, ragazzo! Tieni su la testa e di' sissignora. Non credo
che tu te la senta di alzare la testa, però, con quel padre che hai!..."
Jem alzava il mento e guardava la signora Dubose con una faccia priva di
ogni risentimento. Di settimana in settimana, era riuscito a foggiarsi una
espressione di interesse cortese e spassionato, e con quell'espressione la
guardava anche quando la vecchia sfuriava.
Finalmente venne l'ultimo giorno. "Basta così," disse la signora Dubose,
poi aggiunse: "Abbiamo finito. Buongiorno a voi."
Era finita! Tornammo a casa di corsa, in un'orgia di gioia saltando e
ululando.
Quella primavera fu bellissima: i giorni erano più lunghi e ci
permettevano di giocare fino a tardi. Jem era tutto preso dai suoi campioni e
dalle squadre universitarie di pallone. Ogni sera Atticus ci leggeva le pagine
sportive dei giornali; anche quell'anno l'Alabama avrebbe conquistato la
Coppa della Rosa, stando alle notizie sugli avversari, i cui nomi riuscivamo a
pronunciare a stento. Una sera Atticus ci stava leggendo un articolo di Windy
Seaton quando squillò il telefono.

115
Andò a rispondere, poi staccò il cappello dall'attaccapanni. "Vado un
momento dalla signora Dubose," disse. "Non starò via molto."
Ma rimase fuori fin molto dopo l'ora di andare a letto. Quando ritornò
aveva una scatola di dolci. Sedette nella stanza di soggiorno e mise la scatola
per terra, vicino alla sedia.
"Che voleva?" chiese Jem.
Non vedevamo la signora Dubose da un mese. Non era più sul portico,
quando passavamo.
"È morta, figliolo," disse Atticus. "È morta pochi minuti fa."
"Oh..." disse Jem, imbarazzato, "bene..."
"Bene davvero," replicò Atticus. "Ora non soffre più. Era malata da
tempo. Sai che cosa erano i suoi attacchi, figliolo?"
Jem scosse la testa.
"La signora Dubose era una morfinomane," disse Atticus. "Prendeva la
morfina da anni per calmare i dolori. Fu il dottore a dargliela per primo.
Avrebbe potuto continuare a prenderla per il resto dei suoi giorni, evitandosi
un'agonia così lunga; ma con il carattere che aveva..."
"Non capisco," disse Jem.
Atticus disse: "Poco prima della tua scappata, mi aveva chiamato perché
voleva far testamento. Il dottor Reynolds le aveva detto che le rimanevano
pochi mesi di vita. I suoi affari erano in perfetto ordine, ma quel giorno lei
mi disse: "C'è ancora una cosa che non è a posto.""
"Che cosa?" chiese Jem, perplesso.
"Mi disse che voleva lasciare questo mondo senza essere obbligata a nulla
e a nessuno. Sai, Jem, quando uno è malato come era lei, è giusto che prenda
qualsiasi cosa per alleviare il male. Per lei invece non lo era. Disse che voleva
togliersi quel vizio, prima di morire, e lo fece."
Jem disse: "Allora erano questi i suoi attacchi?"
"Proprio così. Quando tu leggevi dubito che sentisse una sola parola.
Tutte le sue facoltà erano concentrate su quella sveglia. Se tu non fossi
caduto nelle sue grinfie, ti avrei mandato lo stesso da lei. Poteva essere una
distrazione per lei. Ma c'era anche un'altra ragione..."
"È morta libera da quell'abitudine?"
"Quando è morta era libera come l'aria," disse Atticus. "Fu in sé fino alla
fine, quasi. In sé..." sorrise, "e bisbetica. Mi criticava aspramente come
sempre e diceva che probabilmente avrei passato il resto della mia vita a
pagare cauzioni per farti uscire di prigione.
Ha voluto che Jessie preparasse questa scatola per te."

116
Atticus si chinò, raccolse la scatola di cioccolatini e la porse a Jem.
Jem l'aprì. Nell'interno, circondata da tamponi di ovatta umida, c'era una
camelia: bianca, cerea, perfetta. Era una "Neve-di-Montagna."
Jem strabuzzò gli occhi. "Che demonio era quella vecchia! Che
demonio!" urlò, gettando il fiore per terra. "Ma perché non mi lascia in
pace?"
Atticus si alzò, chinandosi su di lui. Jem gli nascose il volto sul petto.
"Buono, buono," disse Atticus. "Credo che con questo ella volesse farti
capire che aveva dimenticato tutto, Jem, che tutto era tornato a posto. Sai, era
una grande signora."
"Una signora?" Jem alzò la testa; aveva il volto scarlatto. "Dopo tutte le
cose che ha detto di te!"
"Sì, era una signora. Aveva le sue idee, sulle cose, idee molto diverse
dalle mie, forse. Figliolo, ti ho detto che anche se tu non avessi perso la testa,
quel giorno, ti avrei mandato ugualmente da lei. Volevo che tu imparassi una
cosa da lei: volevo che tu vedessi che cosa è il vero coraggio, tu che credi che
sia rappresentato da un uomo col fucile in mano. Aver coraggio significa
sapere di essere sconfitti prima ancora di cominciare, e cominciare
egualmente e arrivare fino in fondo, qualsiasi cosa succeda. È raro vincere,
in questi casi, ma qualche volta si vince. La signora Dubose ha vinto. È
morta come voleva morire, senza esser schiava né degli uomini né delle cose.
Era la persona più coraggiosa che io abbia conosciuto."
Jem raccolse la scatola di dolci e la gettò nel fuoco. Raccolse la camelia
da terra, e quando andai a letto vidi che ne sfiorava con le dita i larghi petali.
Atticus leggeva il giornale.

117
Parte Seconda

118
capitolo dodicesimo
Jem aveva dodici anni; era diventato irritabile, di umore incostante, e non era
facile andar d'accordo con lui. Aveva un appetito spaventevole, e dalla
mattina alla sera mi diceva di non seccarlo, tanto che finii per rivolgermi ad
Atticus: "Che abbia il verme solitario?" Atticus disse di no: Jem stava
crescendo, dovevo aver pazienza con lui, e disturbarlo il meno possibile.
Questo cambiamento si era verificato nel giro di poche settimane.
La signora Dubose non si era ancora raffreddata nella sua tomba, e Jem
m'era sembrato contento che gli tenessi compagnia quando andava a farle la
lettura. Pareva che da un giorno all'altro il mondo fosse cambiato per lui e
che tentasse di imporre anche a me i suoi nuovi valori; spesso pretendeva
addirittura di insegnarmi quel che dovevo fare. Un giorno, dopo un alterco,
Jem sbraitò: "È ora che tu cominci a comportarti come una signorina."
Scoppiai in lacrime e corsi da Calpurnia.
"Non ti affliggere troppo per il signorino Jem..." mi disse.
"Il signorino Jem?..."
"Eh sì, ormai è il signorino Jem."
"Ma non è mica tanto grande," dissi. "Sai di che ha bisogno? Di una
buona sculacciata, ma io non sono grande abbastanza."
"Bambina," disse Calpurnia, "non posso farci niente se il signorino Jem
sta diventando grande. D'ora in poi vorrà starsene per conto suo e fare quel
che fanno tutti i ragazzi: perciò quando ti senti sola vieni in cucina da me.
Troveremo una quantità di cose da fare assieme, vedrai!"
L'inizio di quella estate era promettente: Jem facesse pure quel che
voleva, Calpurnia poteva bastarmi fino all'arrivo di Dill. Lei sembrava
contenta di vedermi, quando comparivo in cucina, e guardandola lavorare
cominciai a rendermi conto che anche esser donna richiede una certa abilità.
Ma venne l'estate e Dill non arrivava. Un giorno ricevetti una sua lettera
con dentro una istantanea. La lettera diceva che egli aveva un nuovo padre,
di cui mi mandava la fotografia, e che quell'estate doveva rimanere a
Meridian perché avevano deciso di costruire una barca. Suo padre era
avvocato come Atticus, soltanto molto più giovane; aveva un viso simpatico,
e fui contenta che Dill fosse riuscito a procurarsi un nuovo papà: io però ero
annientata. Dill concludeva che mi avrebbe amata sempre, e di non
preoccuparmi perché sarebbe venuto a prendermi per sposarmi appena
avesse avuto abbastanza denaro; intanto gli scrivessi.

119
Il fatto di avere un fidanzato fisso non mi compensava però della sua
assenza: non ci avevo mai pensato, ma l'estate significava per me Dill accanto
alla vasca dei pesci che fumava sigarette di canapa, significava gli occhi di
Dill che brillavano mentre almanaccava complicati progetti per far evadere
Boo Radley; l'estate significava Dill che mi baciava, rapido, quando Jem non
ci guardava, significava le nostalgie che ciascuno di noi provava e che l'altro
intuiva: con lui la vita era normale; senza di lui, insopportabile. Mi sentii
infelicissima per due giorni.
Come se questo non bastasse, l'Assemblea legislativa fu convocata in
seduta urgente e Atticus ci lasciò per quindici giorni. Il governatore era
ansioso di dare una ripulita alla barca dello stato; a Birmingham c'erano
scioperi bianchi; nelle città le file per il pane si facevano più lunghe e in
campagna la gente diventava più povera. Ma questi eventi erano troppo
lontani dal mondo di Jem e mio.
Una mattina avemmo la sorpresa di vedere nel Montgomery Advertiser
un disegno in cui era rappresentato Atticus, a piedi nudi e in calzoncini corti,
incatenato a uno scrittoio, che scriveva diligentemente su una lavagna,
mentre alcune ragazze dall'aspetto frivolo gli gridavano "Uuuuuh..." Sotto
c'era la didascalia: "Il Finch di Maycomb."
"Questo è un complimento," mi spiegò Jem; "significa che Atticus passa il
tempo a far cose che, se non ci pensasse lui, non farebbe nessuno."
"Quali cose?"
Tra le nuove caratteristiche di Jem c'era un'aria indisponente di saggezza
che assumeva a volte.
"Oh, Scout... cose come la riforma fiscale delle contee e simili.
Per molti uomini queste son cose aride, faticose."
"Come lo sai, tu?"
"Oh, insomma, mi lasci in pace? Sto leggendo il giornale!"
Lo lasciai in pace e me ne andai in cucina.
Calpurnia, sbucciando i piselli, disse d'un tratto: "Che farò domenica
prossima con voi in chiesa?"
"Perché? Atticus ci ha lasciato il denaro per l'elemosina."
Calpurnia socchiuse gli occhi, soprappensiero; sapevo benissimo quel che
le passava per la mente. "Cal," dissi, "ci comporteremo benissimo: sono anni
che non facciamo più niente, in chiesa!"
Evidentemente Calpurnia si ricordava di una domenica piovosa in cui
c'era capitato di trovarci senza padre e senza maestra. Abbandonata a se
stessa, la scolaresca della scuola domenicale aveva legato Eunice Ann

120
Simpson a una sedia e l'aveva chiusa nel locale della caldaia del termosifone.
Poi, dimenticando Eunice Ann, salimmo le scale in fretta per andare in
chiesa: stavamo ascoltando tranquillamente il sermone quando una serie di
colpi violentissimi venne dai tubi del termosifone. Quel rimbombo non si
calmò finché qualcuno non andò in cantina a investigare e non portò su
Eunice Ann che ripeteva di non voler più recitare la parte di Shadrach; [2] e
Jem Finch aveva detto che non si sarebbe bruciata se avesse avuto
abbastanza fede. Ma laggiù faceva molto caldo.
"E poi, Cal, non è la prima volta che Atticus parte," protestai.
"Già, ma di solito si assicura che la vostra maestra sia in città.
Non l'ho sentito dir nulla questa volta: se ne sarà dimenticato." Si grattò la
testa e improvvisamente sorrise. "Vi piacerebbe, a te e al signorino Jem, di
venire in chiesa con me domani?"
"Dici davvero?!"
"Eh?..." disse Calpurnia con un risolino.
Le pulizie energiche a cui Calpurnia mi sottometteva di solito non erano
nulla paragonate alla strigliata che subii quel sabato sera.
Volle che mi insaponassi da capo a piedi due volte, sciacquandomi ogni
volta con acqua pulita; mi ficcò la testa nel lavandino e la lavò con sapone
Octagon e sapone da bucato. Da anni ormai Jem si lavava da solo, ma quella
sera Calpurnia violò la sua intimità, provocando un'esplosione: "Possibile
che uno non riesca a fare il bagno, in questa casa, senza che tutta la famiglia
venga a guardarlo?"
La mattina dopo Calpurnia cominciò prima del solito a "dare un'occhiata
ai vestiti." Quando si fermava da noi la notte, Calpurnia dormiva in una
brandina in cucina, quel mattino il suo letto era tutto coperto dei nostri vestiti
domenicali. Nel mio aveva messo tanto di quell'amido che quando mi sedevo
si gonfiava come un pallone. Mi costrinse a mettere una sottoveste e mi
allacciò alla vita una fascia rosa, e lucidò le mie scarpette di vernice finché
non riuscì a specchiarvisi.
"Pare che andiamo a una mascherata," disse Jem. "Perché fai tutto questo,
Cal?"
"Non voglio che dicano che non sto dietro ai miei ragazzi," borbottò.
"Signorino Jem, non puoi assolutamente mettere quella cravatta, con questo
vestito: è verde!"
"E con questo?"
"Il vestito è blu: non vedi che non ci sta bene?"
"Uuuuh," muggii, "Jem è daltonico!"

121
Jem divenne rosso per la rabbia, ma Calpurnia disse: "Bè, adesso basta.
Voglio che entriate sorridenti in Primo Acquisto."
La Chiesa Africana Metodista Episcopale Primo Acquisto sorgeva nel
quartiere negro oltre la periferia della città, presso i vecchi binari della
segheria. Era la sola chiesa di Maycomb con campanile e campana: una
vecchia costruzione scolorita in legno; l'avevano battezzata Primo Acquisto
perché era stata pagata con i primi guadagni degli schiavi liberati. La
domenica i negri vi andavano ad assistere al servizio religioso e i giorni
feriali i bianchi ci giocavano a carte.
Il terreno intorno alla chiesa era argilloso, duro, e così anche il
camposanto. Se qualcuno moriva durante una siccità, la sua salma veniva
coperta con pezzi di ghiaccio, in attesa che la pioggia ammorbidisse la terra.
Alcune tombe avevano lapidi in rovina; altre più nuove erano recintate con
vetri colorati e vecchie bottiglie di Coca-Cola. Le tombe di coloro che non
riposavano in pace erano indicate da aste di parafulmini, quelle dei bambini
da mozziconi di candele. Era un allegro cimitero.
Appena arrivammo ci accolse il caldo e acre odore dei negri puliti:
lozione Cuore Innamorato mista ad assafetida, tabacco, colonia, menta e talco
al lillà.
Vedendo Jem e me assieme a Calpurnia, gli uomini si scostarono
togliendosi il cappello, e le donne incrociarono le braccia alla vita con gesto
abituale di rispettosa attenzione. Ci fecero largo, lasciando libero un
passaggio fino alla porta della chiesa. Calpurnia avanzò tra Jem e me,
rispondendo ai saluti dei suoi vicini, tutti vestiti chiassosamente.
"Che ti succede, Cal!" disse una voce dietro di noi.
Le mani di Calpurnia si posarono sulle nostre spalle e ci fermammo,
guardandoci intorno. Dietro di noi c'era una negra altissima; ferma sul
passaggio alle nostre spalle si reggeva su una gamba sola, teneva il gomito
sinistro sulla curva dell'anca e con la palma rivolta in su indicava noi. Aveva
la testa a palla e strani occhi a mandorla, il naso diritto e la bocca arcuata.
Doveva esser alta almeno due metri.
Sentii la mano di Calpurnia che mi stringeva la spalla. "Che cosa vuoi,
Lula?" chiese in un tono che non le conoscevo: lento, sprezzante.
"Voglio sapere perché porti dei ragazzi bianchi in una chiesa negra."
"Sono miei ospiti," disse Calpurnia. La sua voce mi parve di nuovo
strana: parlava come gli altri negri.
"Già, e tu sei ospite in casa dei Finch tutta la settimana!"

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Un mormorio corse tra la folla. "Sta' tranquilla," mi bisbigliò Calpurnia,
ma tanta era la sua indignazione che le rose del suo cappello tremarono.
Quando Lula si fece largo verso di noi, Calpurnia disse: "Fermati
immediatamente, negra!"
Lula si fermò, ma disse: "Nessuno ti ha permesso di portare ragazzi
bianchi qui: loro hanno la loro chiesa, noi abbiamo la nostra. È la nostra
chiesa questa, sì o no?"
Jem disse: "Andiamo a casa, Cal: non ci vogliono qui."
Ero d'accordo con lui: non ci volevano con loro. più che vedere, sentivo
che avanzavano verso di noi. Pareva che volessero stringerci in mezzo; ma
quando guardai Calpurnia scorsi un'espressione maliziosa nei suoi occhi, e
quando guardai dall'altra parte, Lula non c'era più. Al suo posto c'era una
folla compatta di gente di colore.
Uno si fece avanti. Era Zeebo, quello della nettezza urbana.
"Signorino Jem," disse, "siamo contentissimi di avervi qui. Non badi a
Lula, ha voglia di litigare perché il reverendo Sykes ha minacciato di
esorcizzarla. Non fa che seminare zizzania: è piena di boria e di idee
grandiose. Siamo molto contenti di avervi qui con noi." Dopodiché
Calpurnia ci condusse alla porta della chiesa dove fummo accolti dal
reverendo Sykes, che ci accompagnò al primo banco.
Primo Acquisto non era dipinta e aveva il soffitto ancora da finire. Lungo
le pareti pendevano da bracci di ottone dei lumi a petrolio, spenti, e semplici
panche di abete fungevano da banchi.
Dietro il rozzo pulpito di quercia, una scolorita bandiera di seta rosa
proclamava che Dio è Amore: era l'unica decorazione della chiesa, all'infuori
di una copia a stampa de La Luce del Mondo di Hunt. Non vi era traccia di
pianoforte, di organo, di libri di salmi, insomma dell'attrezzatura d'una chiesa
come la vedevamo ogni domenica. Dentro c'era abbastanza buio e un fresco
umido che l'assembramento avrebbe a poco a poco disperso. Ad ogni posto
vi era un comune ventaglio di cartone con una vistosa immagine dell'Orto di
Getsemani, offerto dalla chincaglieria Tyndal (Chiedeteci pure quel che vi
occorre: abbiamo tutto!).
Calpurnia ci fece prender posto a un'estremità del banco, mettendosi tra
noi due. Frugò nella borsa, ne trasse il fazzoletto e sciolse il duro mucchietto
di spiccioli che conteneva. Diede un ventino a me e uno a Jem. "Lo abbiamo
già," sussurrò Jem "Conservatelo il vostro," rispose Calpurnia, "siete miei
ospiti." La faccia di Jem tradì per un attimo l'indecisione se fosse o no giusto

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risparmiare il proprio ventino. Ma la sua innata cortesia alla fine vinse e
rimise il ventino in tasca. Io feci lo stesso, senza scrupoli però.
"Cal," bisbigliai, "dove sono i libri dei salmi?"
"Non ne abbiamo," rispose.
"Ma come..."
"Sssst..." disse. Il reverendo Sykes, in piedi accanto al pulpito, stava
fissando la congregazione. Era un uomo basso, tarchiato, con il vestito e la
cravatta neri, la camicia bianca, e una catena d'oro che scintillava alla luce
che entrava dai vetri smerigliati.
"Fratelli e sorelle," cominciò, "siamo particolarmente felici di avere nostri
ospiti questa mattina il signor e la signorina Finch.
Conoscete tutti il loro genitore. Prima di cominciare, leggerò alcuni
annunci."
Il reverendo Sykes sfogliò delle carte, ne scelse una e la lesse tenendola
con il braccio teso. "La Società Missionaria si riunirà in casa della sorella
Annette Reeves martedì prossimo. Portate il vostro lavoro di cucito."
Scelse un altro foglio. "Siete tutti al corrente delle difficoltà in cui si trova
il fratello Tom Robinson. È un membro fedele di Primo Acquisto fin da
quando era ragazzo. Le offerte che si raccoglieranno oggi e le prossime
domeniche saranno devolute ad Helen, sua moglie, per aiutarla a mandare
avanti la famiglia."
Diedi un leggero pugno a Jem. "È il Tom che Atticus dif..."
"Sssst..."
Mi volsi a Calpurnia, ma anche lei mi zittì, prima ancora che aprissi
bocca. Capii che era meglio tacere e fissai la mia attenzione sul reverendo
Sykes, che pareva stesse aspettando me per continuare.
"Il direttore del coro darà ora inizio al primo salmo," disse.
Zeebo si alzò dal suo banco e percorse la navata centrale, fermandosi
davanti a noi, di fronte a tutta la congregazione. Aveva in mano un vecchio,
logoro libro di salmi. Lo aprì e disse: "Canteremo il salmo
duecentosettantatré."
Questo era troppo, per me. "Come faremo a cantare senza il libro?"
Calpurnia sorrise. "Zitta, bimba," bisbigliò. "Vedrai subito."
Zeebo si schiarì la gola e lesse con voce che pareva il rombo di artiglierie
lontane:
"Vi è un paese, oltre il fiume..."
Miracolosamente acute, cento voci cantarono le parole di Zeebo.

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L'ultima sillaba, trattenuta in un rauco ronzio, fu poi seguita dalle parole
di Zeebo:
"Che chiamiamo la dolce eternità..."
La musica di nuovo ci avvinse; l'ultima nota fu tenuta in sospeso e Zeebo
le venne incontro con il terzo verso: "E raggiungeremo quella riva solo per
decreto della fede..."
La congregazione esitò un momento, ma Zeebo ripeté il verso
accuratamente e il coro lo cantò. A questo punto Zeebo chiuse il libro, il che
significava che gli altri dovevano ormai procedere senza il suo aiuto.
Alle ultime note di Giubilo, Zeebo disse: "In quella lontana dolce eternità,
al di là del fiume lucente."
Verso per verso, le voci cantavano in armonia, finché il salmo non finì in
un mormorio melanconico.
Guardai Jem, che seguiva Zeebo con la coda dell'occhio. Neanch'io ci
avrei creduto, eppure lo avevamo udito tutti e due.
Il reverendo Sykes invocò poi la benedizione del Signore sui malati e sui
sofferenti. Questo accade anche nelle funzioni dei bianchi, ma il reverendo
Sykes invocava la clemenza della Divinità su casi specifici: il suo sermone
era una denuncia diretta del peccato, una austera conferma del motto che si
leggeva sulla parete alle sue spalle. Mise in guardia il suo gregge contro i mali
rappresentati dalle bande inebrianti, dal gioco e dalle donne che non
appartenevano alla comunità; disse che i contrabbandieri d'alcool erano
responsabili di molti disordini, ma che le donne eran peggio. Anche a Primo
Acquisto, come spesso mi accadeva nella mia chiesa, fui invitata a riflettere
sull'Impurità della Donna, dottrina che evidentemente preoccupava tutti gli
ecclesiastici, senza distinzione.
Jem ed io avevamo udito lo stesso sermone una domenica dopo l'altra,
con una sola eccezione. Dal suo pulpito però il reverendo Sykes si esprimeva
con maggior libertà sui traviamenti del suo gregge: da cinque domeniche Jim
Hardy non andava in chiesa, e non era malato; Constance Jackson avrebbe
fatto bene a stare attenta a quel che faceva: correva il grave rischio di litigare
con i vicini, visto che per ripicco aveva eretto l'unica siepe che fosse mai
esistita nei Quarters.
Concluso il sermone, il reverendo Sykes si mise accanto a un tavolino di
fronte al pulpito e invitò tutti a fare la loro offerta mattutina, procedimento
sconosciuto a me e a Jem. Uno per uno, tutti vennero avanti e lasciarono
cadere i loro ventini in una caffettiera nera, smaltata. Jem ed io facemmo lo

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stesso e ricevemmo un dolce "Grazie, grazie" mentre le nostre monetine
tintinnavano.
Con nostra grande sorpresa, il reverendo Sykes vuotò la caffettiera sulla
tavola, contò il denaro, poi si raddrizzò e disse: "Non basta: ci occorrono
dieci dollari."
La congregazione si agitò. "Sapete tutti a che cosa servono: Helen non
può lasciare i bambini per andare a lavorare, finché Tom è in prigione. Se
ognuno darà un altro ventino, ce la faremo..." Fece un segno con la mano e
gridò a qualcuno che stava in fondo alla chiesa: "Alec, chiudi la porta.
Nessuno uscirà da qui finché non avremo raccolto dieci dollari."
Calpurnia frugò nella borsetta e tirò fuori un consunto borsellino di
cuoio. "No, Cal," sussurrò Jem quando gli porse uno scintillante quarto di
dollaro, "possiamo mettere il nostro: dammi i tuoi, Scout."
La chiesa cominciava a saper di chiuso: forse il reverendo Sykes voleva
proprio far sudar fuori quel denaro al suo gregge. I ventagli frusciavano, le
scarpe pesticciavano, i fumatori agonizzavano.
Sussultai quando il reverendo Sykes disse, severo: "Carlow Richardson,
te non ti ho ancora visto."
Un uomo magro in pantaloni color kaki s'avvicinò al tavolino e depositò
una moneta. La congregazione uscì in un mormorio di approvazione.
Allora il reverendo Sykes disse: "Voglio che tutti quelli che non hanno
bambini facciano un sacrificio e diano un altro ventino a testa, e così avremo
il denaro che ci occorre."
Lentamente, faticosamente, i dieci dollari vennero raggranellati.
La porta fu aperta e il soffio di aria calda che entrò ci rianimò.
Zeebo diede l'avvio al salmo "Sulle tempestose rive del Giordano," e il
servizio finì.
Sarei voluta restare in chiesa a curiosare, ma Calpurnia mi spinse verso
l'uscita. Alla porta, quando si fermò a parlare con Zeebo e la sua famiglia,
Jem ed io parlammo con il reverendo Sykes. Io scoppiavo dalla curiosità, ma
pensai che fosse meglio interrogare Calpurnia.
"Siamo stati veramente felici di vedervi qui," disse il reverendo Sykes.
"L'amico migliore di questa chiesa è il vostro papà."
La mia curiosità esplose: "Perché ha fatto colletta per la moglie di Tom
Robinson?"
"Non ha sentito perché?" disse il reverendo Sykes. "Helen ha tre bambini
piccoli e non può andare a lavorare."

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"Perché non li porta con sé i bambini, reverendo?" chiesi. I negri che
avevano bambini piccoli li portavano sempre nei campi, depositandoli nella
prima ombra che trovavano, e si mettevano al lavoro. I più piccini, che non
sapevano ancora star seduti, venivano legati all'uso indiano sulla schiena
delle madri e sistemati dentro i sacchi di cotone che avanzavano.
Il reverendo Sykes esitò. "A dire il vero, signorina Jean Louise, Helen
stenta molto a trovar lavoro, in questo periodo... Quando si farà il raccolto
credo che il signor Link Deas la assumerà."
"Ma perché non trova lavoro, reverendo?"
Prima che avesse il tempo di rispondere, sentii la mano di Calpurnia che
mi premeva la spalla e dissi: "Grazie mille per averci fatto assistere al
servizio," Jem mi fece eco e ci dirigemmo verso casa.
"Cal, so che Tom Robinson è in prigione e che ha fatto qualcosa di
tremendo, ma perché la gente non vuol dar lavoro a Helen?" chiesi.
Calpurnia, nel suo vestito di voile blu mare e cappello a vaso di fiori
camminava tra Jem e me. "Per via di quello di cui è accusato Tom," rispose.
"La gente non vuole... avere a che fare con la sua famiglia."
"Ma che cosa ha fatto esattamente, Cal?"
Calpurnia sospirò. "Il signor Bob Ewell lo ha accusato di aver violentato
sua figlia, e lo ha fatto arrestare e mettere in prigione."
"Il signor Ewell?" La memoria mi si svegliò. "Sono quegli Ewell che
vengono il primo giorno di scuola e poi se ne vanno a casa? Atticus diceva
che sono gentaglia: non ho mai sentito Atticus parlare male di nessuno come
degli Ewell. Ha detto..."
"Sì, son proprio quelli."
"Bè, se la gente di Maycomb sa che razza di gentaglia sono gli Ewell,
dovrebbero esser contenti di assumere Helen... e che cosa vuol dire
violentare, Cal?"
"È una cosa che devi chiedere al signor Finch," rispose lei. "Te lo saprà
spiegare meglio di me. Avete fame? Il reverendo non la finiva più, oggi: di
solito non è così noioso."
"È proprio come il nostro predicatore," disse Jem. "Ma perché cantate i
salmi in quella maniera?"
"Riga per riga?" ella chiese.
"Si dice così?"
"Sì, lo chiamano riga per riga. Li hanno sempre cantati così da quando mi
ricordo."

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Jem disse che avrebbe fatto bene a metter da parte per un anno i soldi
delle collette e acquistar poi libri di salmi.
Calpurnia rise. "Non servirebbe a nulla," disse. "Non sanno leggere!"
"Non sanno leggere?" chiesi. "Tutta quella gente?"
"Già," annuì Calpurnia. "A Primo Acquisto soltanto quattro persone
sanno leggere... me compresa."
"Dove sei andata a scuola, Cal?" chiese Jem.
"In nessun posto. Fammi pensare, chi mi ha insegnato a leggere e a
scrivere? È stata la zia di miss Maudie Atkinson, la vecchia miss Buford."
"Ma sei tanto vecchia?..."
"Sono anche più vecchia del signor Finch," sorrise Calpurnia. "Non so di
quanto, però. Una volta abbiamo provato a calcolare assieme quanti anni
avevo... Io mi ricordo cose di qualche anno più indietro di lui, quindi non
devo essere molto più vecchia, se tieni presente che gli uomini hanno meno
memoria delle donne."
"Che giorno è il tuo compleanno, Cal?"
"Il giorno di Natale, così è più facile ricordarsene," rispose.
"Non ho un vero giorno di compleanno."
"Ma Cal," protestò Jem, "non sembri vecchia come Atticus!"
"La gente di colore non dimostra tanto presto l'età," disse.
"Forse perché non sanno leggere. Cal, hai insegnato tu a Zeebo?"
"Sì, signorino Jem. Quando era ragazzo non c'era la scuola qui, e così gli
ho insegnato io."
Zeebo era il figlio maggiore di Calpurnia. Se ci avessi pensato prima,
avrei capito subito che Calpurnia era in età matura, perché Zeebo aveva figli
già abbastanza grandini, ma non mi era mai venuto in mente.
"Gli hai insegnato col sillabario, come a noi?" chiesi.
"No: gli facevo imparare una pagina della Bibbia tutti i giorni, e poi avevo
un libro sul quale miss Buford aveva insegnato a me... non indovinerete mai
chi me lo ha dato," disse.
Non indovinavamo, infatti.
"Me lo ha dato nonno Finch," disse Calpurnia.
"Ma tu stavi all'Approdo?" domandò Jem. "Non ce lo avevi mai detto!"
"Certo che stavo all'Approdo, signor Jem. Sono cresciuta là, tra la casa
dei Buford e l'Approdo. Ho passato tutta la vita a lavorare per i Finch o per i
Buford, e sono venuta a Maycomb soltanto quando il vostro papà e la vostra
mamma si sposarono."
"Che libro era, Cal?" chiesi.

128
"I Commentari di Blackstone."
Jem rimase come fulminato. "E tu hai insegnato a leggere a Zeebo su
quella roba?"
"Ma sì, signorino," Calpurnia si mise timidamente le dita in bocca.
"Erano gli unici libri che avessi. Vostro nonno mi disse che il signor
Blackstone scriveva in ottimo inglese."
"Ecco perché non parli come gli altri," disse Jem.
"Gli altri chi?"
"Gli altri di colore. Ma Cal, sul sagrato però ti sei messa a parlare come
loro!"
Non mi era mai venuto in mente che Cal potesse avere per così dire una
doppia vita. L'idea che avesse un'esistenza distinta dalla nostra era nuova per
me, per non dire del fatto che sapesse esprimersi in due lingue.
"Cal," chiesi, "perché con la tua gente ti esprimi come i negri, quando sai
che è sbagliato?"
"Bè, anzitutto sono nera..."
"Questo non significa che tu debba parlare così, visto che sai parlare
meglio," ribatté Jem.
Calpurnia sollevò un poco il cappello, si grattò la testa e poi se lo rincalzò
ben bene sopra gli orecchi. "È difficile rispondervi," disse. "Poniamo che voi
due a casa parlaste come parlano i negri: sarebbe una cosa fuori posto, non è
vero? Se io in chiesa o con i miei vicini parlassi come i bianchi, che cosa
penserebbero? Che mi do più arie di Mosè..."
"Ma tu sei più brava, Cal," dissi.
"Non è necessario sfoggiare bravura, non è signorile; e poi alla gente non
piace vedersi attorno persone che ne sanno più di loro: li irrita. Non riuscirai
mai a cambiare la gente soltanto parlando bene, bisogna che sian loro a
desiderare di imparare; se non lo desiderano, non puoi far niente: non ti resta
che tener la bocca chiusa o parlare come loro."
"Cal, posso venire a trovarti qualche volta?"
Chinò la testa verso di me. "A trovarmi, tesoro? Mi vedi tutti i giorni!"
"Non a casa tua," dissi. "Qualche sera... mi potrebbe accompagnare
Atticus."
"Quando vuoi!" disse lei. "Saremo felici di averti da noi!"
Eravamo giunti davanti alla casa dei Radley.
"Guarda sul porticato!..." disse Jem.
Volsi gli occhi verso la casa, aspettandomi di vedere il fantomatico Radley
dondolarsi sull'altalena; ma l'altalena era vuota.

129
"No, il nostro portico!..." disse Jem.
Guardai in fondo alla strada. Assorta nei suoi pensieri, impettita,
inflessibile, zia Alexandra sedeva su una sedia a dondolo, come se vi fosse
stata seduta ogni giorno della sua vita.

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capitolo tredicesimo
"Portami la valigia in camera da letto, Calpurnia," fu la prima cosa che disse
zia Alexandra. E: "Jean Louise, smetti di grattarti la testa," fu la seconda.
Calpurnia prese la pesante valigia della zia e aprì la porta. "La porterò io,"
disse Jem, sollevandola. Due minuti dopo udii la valigia cadere a terra in
camera da letto con un tonfo che parve non spegnersi mai.
"Sei venuta a farci visita, zia?" chiesi. Le visite di zia Alexandra erano
rare, cosicché quando si metteva in viaggio lo faceva con grande pompa e
formalità. Possedeva una massiccia Buick di un bel verde vivace e un autista
negro, così lindi ambedue da sembrar malati; questa volta però non c'era
traccia di loro.
"Non vi ha detto niente vostro padre?" ella chiese.
Jem ed io scuotemmo la testa.
"Probabilmente se n'è dimenticato. Non è ritornato ancora vero?"
"No: di solito ritorna prima di sera," disse Jem.
"Bene. Vostro padre ed io abbiamo deciso che era opportuno che venissi
a star con voi per un po' di tempo."
A Maycomb, l'espressione "per un po' di tempo," poteva significare da tre
giorni a trent'anni. Jem ed io ci guardammo.
"Jem sta diventando grande e tu pure," proseguì, rivolta a me.
"Riteniamo che hai bisogno di una guida femminile. Presto, Jean Louise,
comincerai ad interessarti ai vestiti e ai ragazzi..."
A un discorso simile avrei potuto rispondere in svariate maniere: che
anche Cal era una donna; che ci sarebbero voluti molti anni prima che mi
interessassi ai ragazzi; e che ai vestiti non mi sarei interessata mai. Ma tacqui.
"E zio Jimmy?" chiese Jem. "Verrà anche lui?"
"Oh no, lui rimane all'Approdo per mandare avanti la casa."
Nello stesso attimo in cui dissi: "Non sentirai la sua mancanza?" mi resi
conto che era una mancanza di tatto. Che lo zio Jimmy fosse presente o
assente non portava alcuna differenza, perché non diceva mai nulla. Zia
Alexandra ignorò la mia domanda.
Non mi venne altro in mente da dirle, né d'altronde avevo mai saputo che
cosa dirle in vita mia: rimasi seduta, pensando alle penose conversazioni che
avevamo avute in passato: Come stai, Jean Louise? Bene, grazie, zia, e tu?
Molto bene, grazie. Bè, che hai fatto in tutto questo tempo? Niente. Non fai

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niente? No... Ma avrai pure degli amici? Sì, certo. E allora che fate tutti
insieme? Niente...
Era chiaro che la zia mi considerava tarda di mente: una volta la udii dire
ad Atticus che ero indolente.
Dietro la sua venuta c'era quindi un retroscena, ma non volli farglielo
rivelare: era domenica, nel giorno del Signore la zia Alexandra era
particolarmente irritabile. Forse dipendeva dal busto che metteva nei giorni di
festa. La zia non era grassa, ma ben solida, e prediligeva i busti che le
sollevavano il seno ad altezze vertiginose, le stringevano fortemente la vita,
facevano prorompere le sue parti posteriori e suggerivano l'idea che lei fosse
stata, un tempo, una clessidra. Da ogni parte la si guardasse, era formidabile.
Il resto del pomeriggio trascorse in quello stato di lieve abbattimento che
scende su una casa all'arrivo dei parenti; ma il rumore di una automobile che
girava nel vialetto lo disperse di colpo. Era Atticus che ritornava da
Montgomery. Dimenticando la propria dignità, Jem gli corse incontro insieme
a me, gli afferrò la valigia e la borsa; io gli saltai in braccio, sentii il suo
leggero bacio asciutto e dissi: "Mi hai portato un libro? Sai che la zia è qui?"
Atticus rispose affermativamente ad entrambe le domande. "Ti fa piacere
che sia venuta a stare con noi?"
Dissi che mi faceva molto piacere. Era una menzogna, ma bisogna
mentire in certe circostanze e tutte le volte che non c'è alternativa.
"Abbiamo pensato che ormai voi ragazzi avete bisogno... insomma,
questa è la situazione, Scout," disse Atticus. "Venendo qui, la zia fa un favore
non soltanto a me ma anche a voialtri. Non posso star tutto il giorno con voi,
e questa sarà un'estate molto... molto calda."
"Va bene," dissi, senza aver capito una parola di quanto aveva detto.
Avevo la sensazione, comunque, che la comparsa di zia Alexandra sulla scena
non fosse tanto opera di Atticus quanto di lei.
Aveva le sue idee su Ciò Che Era Bene per la Famiglia, e immagino che il
suo venire a stare con noi rientrasse nel caso.
Maycomb le diede il benvenuto. Miss Maudie Atkinson cucinò per lei una
torta così piena di liquore che quasi mi fece ubriacare. Miss Stephanie
Crawford e zia Alexandra si scambiarono lunghissime visite, durante le quali
praticamente miss Stephanie non faceva altro che scuoter la testa dicendo:
"Eh, eh, eh." Miss Rachel, che abitava accanto a noi invitava sempre la zia a
prendere il caffè il pomeriggio, e persino il signor Nathan Radley fece lo
sforzo di venire nel nostro giardino a dirle che era lieto di vederla.

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Una volta che zia Alexandra si fu sistemata in casa nostra, e la vita ebbe
ripreso il suo corso normale, fu come se lei fosse vissuta sempre con noi. I
rinfreschi che dava per la società missionaria consolidarono la sua
reputazione di padrona di casa (non permise però mai a Calpurnia di
preparare lei i dolci offerti); si iscrisse al club degli amanuensi di Maycomb, e
ne divenne la segretaria; in tutte le manifestazioni mondane della contea cui
partecipava rappresentava immancabilmente il tipo tramontato, coi suoi modi
raffinati, signorili; pronta a difendere qualunque morale, dell'obiettività s'era
fatta una divisa, delle chiacchiere una malattia inguaribile.
Quando zia Alexandra andava a scuola, la parola dubbio non esisteva in
nessun testo e lei ne ignorava il significato. Non si annoiava mai, e alla
minima occasione esercitava le sue prerogative regali: organizzava,
consigliava, metteva in guardia e ammoniva.
Non perdeva mai l'occasione di rilevare le deficienze degli altri gruppi
familiari per la più grande gloria del nostro, abitudine che più che irritare
divertiva Jem: "La zia dovrebbe stare attenta a come parla: gratta i
maycombiani e ne vengon fuori tutti nostri parenti..."
Nel sentenziare a proposito del suicidio del giovane Sam Merryweather,
zia Alexandra sostenne che esso era stato causato da una vena di follia
esistente in quella famiglia. Bastava che in un coro notasse una ragazzina di
sedici anni che sorrideva che subito diceva: "Lo vedi? Tutte le Renfield sono
leggere!" A sentir lei, tutti a Maycomb avevano una "vena": una vena di
alcoolismo, una vena di gioco, una vena di avarizia, una vena umoristica.
Una volta, quando ci fece notare che la tendenza di miss Stephanie
Crawford a occuparsi dei fatti altrui era ereditaria, Atticus disse: "A pensarci
bene, la nostra generazione è praticamente la prima nella famiglia Finch in
cui non ci si sia sposati tra cugini: diresti allora che i Finch hanno una vena
di incesto?"
Zia Alexandra disse di no, per questo avevamo mani e piedi piccoli.
Non capii mai le sue preoccupazioni circa l'ereditarietà. Non so come,
avevo sempre creduto che la "gente perbene" fosse la gente capace dell'uso
migliore del proprio buon senso; lei invece era dell'opinione, espressa in
modo indiretto, che più a lungo una famiglia era attaccata a un pezzo di terra,
più perbene era.
"Allora gli Ewell sono gente perbene," disse Jem. La tribù di Burris Ewell
e fratelli viveva sullo stesso pezzo di terra, dietro lo scaricatoio di Maycomb,
coi fondi dell'organizzazione di assistenza della contea, da ormai tre
generazioni.

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La tesi di zia Alexandra non era però del tutto infondata. Maycomb era
una cittadina antica, situata a cento miglia a est dell'Approdo dei Finch, un
po' troppo nell'interno per una città così vecchia. Si sarebbe sviluppata più
vicino al fiume se un certo Sinkfield, unico taverniere del territorio, che
assisté alla sua nascita, non fosse stato dotato di una eccezionale prontezza di
spirito. Questo Sinkfield, che non era certo un patriota, riforniva sia gli
indiani sia i coloni, senza preoccuparsi di sapere, finché gli affari
prosperarono, se la sua taverna apparteneva al territorio dell'Alabama o a
quello della nazione Creek. Gli affari andarono benone fino a quando il
governatore William Wyatt Bibb, nell'intento di assicurare la tranquillità
interna della contea appena nata, non vi spedì una squadra di ispettori perché
ne definissero il centro esatto, onde stabilirvi la sede del governo. Gli
ispettori, ospiti di Sinkfield, gli rivelarono che egli si trovava entro i confini
territoriali della contea di Maycomb e gli mostrarono la zona dove sarebbe
stata stabilita la sede del governo della contea. Se Sinkfield per proteggere le
sue proprietà non avesse avuto un colpo di genio, Maycomb sarebbe sorta
nel bel mezzo della palude di Winston, un luogo completamente privo di
interesse. Invece Maycomb crebbe e si diramò dal cuore della contea, la
Taverna di Sinkfield, perché una sera il taverniere ridusse i suoi ospiti in uno
stato di assoluta ubriachezza, fece loro tirar fuori mappe e carte e, tagliando
qua un pochino e là aggiungendo un tantino, li portò a sistemare il centro
della contea secondo i suoi comodi. Il giorno dopo li rispedì via, armati delle
carte e di cinque litri di buon liquore nelle bisacce: due per ciascuno e un
quinto per il governatore.
Poiché la ragione prima dell'esistenza di Maycomb era il fatto di essere la
sede del governo, la città non conobbe mai la sporcizia che distingueva molte
altre città dell'Alabama delle sue stesse proporzioni. Sin dall'inizio si
costruirono solidi edifici, un tribunale dignitoso, strade larghe. Il numero di
professionisti era assai alto a Maycomb, e la gente vi ricorreva per farsi
togliere i denti, aggiustare i carri, auscultare il cuore, per depositare denaro,
salvare l'anima e far visitare i muli. In ultima analisi, però, la lungimiranza di
Sinkfield resta discutibile, perché egli fece nascere la nuova città troppo
lontano dall'unica via possibile di trasporto esistente allora, quella fluviale,
cosicché un abitante del nord della contea doveva viaggiare due giorni per
recarsi a far spese a Maycomb. Di conseguenza, per tutto un secolo la città
rimase immutata, come un'isola nel mare del mosaico dei campi di cotone e
delle foreste.

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Sebbene la guerra civile avesse lasciato del tutto fuori la città di
Maycomb, lo statuto della Ricostruzione e la rovina economica forzarono la
città a dilatarsi, ma entro i propri confini: gente nuova non v'affluì che di
rado e le famiglie si imparentavano tra loro, tanto che tra tutti gli abitanti si
poteva riscontrare una vaga somiglianza. Talvolta qualcuno ritornava da
Montgomery o da Mobile con una sposa forestiera, ma il nuovo sangue
portava solamente una piccola increspatura nel quieto torrente delle
rassomiglianze familiari. Durante la mia infanzia le cose rimasero più o meno
inalterate.
A Maycomb esisteva un vero e proprio sistema di caste, ma secondo me
la cosa funzionava così: i cittadini anziani, quelli della stessa generazione che
avevano vissuto a Maycomb porta a porta per tutta la vita, si conoscevano
perfettamente tra loro: sapevano a priori quali sarebbero stati gli
atteggiamenti e persino i gesti degli altri, essendosi ripetuti per generazioni e
raffinati col tempo. Da questo i vari detti "I Crawford non badano mai ai fatti
propri," "Su tre Merryweather uno è sempre strambo," "La verità non
s'apparenta con Delafield," "Ecco come camminano i Buford," offrivano una
semplice guida al viver quotidiano. E ancora: "Non accettare mai un assegno
da un Delafield senza far prima una visita alla banca," "Maudie Atkinson ha
le spalle cascanti perché è una Buford," "Non ti stupire se Grace
Merryweather assaggia il gin di Lydia È Pinkham: sua madre faceva lo
stesso."
Zia Alexandra s'adattò dunque al mondo di Maycomb come un guanto
alla mano, ma non a quello di Jem e mio. Spesso mi domandavo se era
davvero sorella di Atticus e di zio Jack, e mi tornavano alla mente storie
ormai quasi dimenticate di bimbi scambiati nelle culle e di radici di
mandragora, che Jem raccontava tanti e tanti anni prima. Ma erano semplici
riflessioni che durarono solo il primo mese del suo soggiorno, perché ci
parlava poco a Jem e a me e la vedevamo soltanto all'ora dei pasti e la sera
prima di andare a letto. Era estate e stavamo sempre fuori. Però qualche
pomeriggio quando correvo a casa a bere un bicchier d'acqua, trovavo il
soggiorno invaso da signore di Maycomb che sorseggiavano il tè,
bisbigliavano e si sventagliavano. E mi sentivo chiamare: "Jean Louise, vieni
a salutare le signore!..."
Quando poi mi facevo sulla soglia, zia Alexandra aveva tutta l'aria
d'essersi pentita di avermi chiamata: di solito ero tutta sporca di fango e
coperta di sabbia.

135
"Vieni a salutare la cugina Lily," disse la zia un pomeriggio che mi
intrappolò nel vestibolo.
"A salutare chi?" chiesi.
"La cugina Lily Brooke," disse zia Alexandra.
"È nostra cugina? Non lo sapevo."
Zia Alexandra si sforzò di sorridere: un'espressione di convenevole scusa
verso la cugina Lily e di fiero rimprovero per me. Quando Lily Brooke se ne
andò, sapevo quel che mi aspettava.
Era una cosa molto triste che nostro padre avesse trascurato di parlarci
della famiglia Finch e di instillare un po' di orgoglio familiare nei suoi figli.
Convocò anche Jem, che venne a sedermisi accanto sul sofà con aria
sospetta. Zia Alexandra uscì dalla stanza e ritornò con un libro rilegato, color
porpora, col titolo in oro: Meditazioni di Joshua St' Clair.
"Questo l'ha scritto vostro cugino," disse la zia. "Era un grand'uomo."
Jem esaminò il volumetto. "È quel cugino Joshua che è stato in
manicomio tanto tempo?"
Zia Alexandra disse: "Come lo sai?"
"Atticus mi ha raccontato che gli diede di volta il cervello quando era
all'Università... e cercò di sparare al rettore. Il cugino Joshua disse al rettore
che era un ispettore delle fognature, e tentò di sparargli con una vecchia
pistola a pietra focaia, ma gli scoppiò in mano. Atticus mi spiegò che alla
famiglia costò cinquecento dollari tirarlo fuori da quel guaio."
Zia Alexandra rimase di stucco. "Basta," disse. "Ne riparleremo."
Poco prima di andare a letto, stavo in camera di Jem cercando di
convincerlo a prestarmi un libro, quando Atticus bussò ed entrò.
Sedette sul letto di Jem, ci guardò con aria seria, poi sorrise.
"Ehm..." disse. Da un po' di tempo, prima di dirci qualcosa si schiariva
rumorosamente la gola, tanto che temevo che stesse diventando vecchio
davvero, anche se appariva sempre lo stesso. "Non so proprio come dirvelo,"
incominciò.
"Bè, dillo come ti viene," disse Jem. "Abbiamo fatto qualche cosa?"
Nostro padre stava proprio sulle spine. "No, vorrei soltanto spiegarvi
che... tua zia Alexandra mi ha chiesto... figliolo, tu sai che sei un Finch,
vero?"
"Così mi hanno detto." Jem lo guardò con la coda dell'occhio, poi
involontariamente alzò la voce: "Atticus, che cosa è successo?"
Atticus incrociò le ginocchia e piegò le braccia. "Vorrei spiegarti qualche
cosa sulla vita..." riprese a dire.

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Il disgusto di Jem si accentuò. "Conosco già tutte quelle storie," dichiarò.
D'un tratto Atticus divenne serio. Con voce da avvocato, senz'ombra di
inflessione, disse: "Vostra zia desidera che io faccia capire a te e a Jean Louise
che non siete i primi venuti, che siete il prodotto di varie generazioni di gente
colta e bene educata..." Atticus fece una pausa, e seguì con lo sguardo me che
cercavo di individuare una pulce sulla gamba.
"Colta e bene educata..." riprese, quando ebbi trovato la pulce e mi fui
grattata, "e che quindi dovreste cercar di fare onore al nome che portate." Poi
continuò, nonostante la nostra reazione: "La zia mi prega di dirvi che dovete
comportarvi come ragazzi per bene, quali in realtà siete. Vuole parlarvi della
nostra famiglia e del posto che essa occupa nella contea di Maycomb da anni,
affinché possiate farvi un'idea di chi siete, e possiate comportarvi di
conseguenza," concluse di galoppo.
Sbalorditi, Jem ed io ci guardammo, poi guardammo Atticus: pareva che
il colletto gli desse fastidio. Non aprimmo bocca.
Presi un pettine dalla toletta di Jem e ne feci scorrere i denti sull'orlo del
tavolino.
"Smetti di far quel rumore," disse Atticus.
Il suo tono severo mi colpì. Il pettine era arrivato a metà strada: lo sbattei
sul tavolino. Senza alcun motivo sentii che mi veniva da piangere, e non
riuscivo a dominarmi. Quello non era mio padre. Mio padre non aveva mai
avuto simili preoccupazioni, mio padre non parlava mai così. Era zia
Alexandra che lo aveva montato. Attraverso le lacrime vidi che Jem era
desolato quanto me: se ne stava lì immobile, a capo chino, e non diceva
nemmeno una parola.
Non sapevo dove andare, ma mi volsi per andarmene e mi trovai davanti
la giacca di Atticus. Vi affondai la testa e ascoltai i piccoli rumori che
venivano di sotto la sottile stoffa blu: l'orologio che ticchettava, il leggero
scricchiolio della camicia inamidata, il suono leggero del suo respiro.
"Il tuo stomaco brontola," dissi.
"Lo so," rispose.
"Dovresti prendere del bicarbonato."
"Lo prenderò."
"Atticus, ma questa storia del comportarci bene cambierà tutto qui da noi?
Voglio dire, tu sarai..."
Mi sentii la sua mano dietro il capo. "Non ti preoccupare," disse, "ancora
non è il momento di preoccuparsi."

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Nell'udire quelle parole capii che era di nuovo con noi. Il sangue riprese a
scorrermi nelle gambe e alzai la testa. "Davvero vuoi che facciamo tutte
quelle cose? Non posso ricordare tutto quello che i Finch devono o non
devono fare..."
"Non voglio che te lo ricordi: dimenticalo."
Andò alla porta e uscì, chiudendola dietro. Stava per sbatterla, ma si
ravvide in tempo e la accostò dolcemente. Jem ed io fissammo ancora la
porta, quando questa si riaprì e Atticus si affacciò a guardarci. Aveva le
sopracciglia alzate e gli occhiali gli erano scivolati sul naso. "Somiglio ogni
giorno di più al cugino Joshua, vero? Credete che finirò per costare anch'io
alla famiglia cinquecento dollari?"
Adesso so a che cosa mirava, ma, poveretto, lui era soltanto un uomo; per
questo genere di cose ci vuole una donna.

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capitolo quattordicesimo
Se non sentivamo più parlare dei Finch da zia Alexandra, ne sentivamo
parlare abbastanza dalla gente in città. Il sabato, raggranellati i nostri soldini,
Jem mi permetteva di accompagnarlo a far spese in città (in pubblico, era
diventato decisamente allergico alla mia presenza), e mentre camminavamo in
fretta sui marciapiedi, scivolando tra la folla sudata, spesso udivamo dire:
"Ecco i suoi figli," o "Quelli sono i ragazzi di Finch"; quando però ci
voltavamo per vedere in faccia i nostri accusatori, non scorgevamo altri che
una coppia di contadini che esaminavano gli apparecchi sanitari nella vetrina
del negozio di Mayco o due tozze campagnole con il cappello di paglia,
sedute su un carro agricolo.
"Potrebbero violentare l'intero paese, per quel che gliene importa a quelli
che governano la contea": questa oscura osservazione da parte di un ometto
ossuto che incontrammo mi ricordò che avevo una domanda da fare ad
Atticus.
"Che significa violentare?" gli chiesi la sera stessa.
Atticus alzò la testa, da dietro al giornale. Era seduto nella poltrona
davanti alla finestra. Da quando eravamo diventati un po' più grandi, Jem ed
io gli concedevamo generosamente una mezz'oretta di pace, dopo cena.
Sospirò, abbassò il giornale e disse che violentare significa conoscere
carnalmente una donna per forza e senza il suo consenso.
"Se è tutto qui perché Calpurnia mi ha zittita quando gliel'ho chiesto?"
Atticus parve riflettere. "Quando è stato?"
"L'ho chiesto a Calpurnia un giorno che uscivamo di chiesa, e lei mi ha
risposto di chiederlo a te, poi me ne sono dimenticata, e ora te lo chiedo."
Atticus abbassò il giornale. "Ripeti, per favore."
Gli raccontai per filo e per segno la nostra spedizione in chiesa con
Calpurnia. Atticus sembrò divertirsi, ma zia Alexandra, che sedeva in un
angolo e cuciva in silenzio, mise giù il lavoro e ci guardò fisso.
"Tornavate dalla chiesa di Calpurnia, quella domenica?" domandò.
Jem disse: "Sì, ci siamo andati con lei."
Mi venne in mente un'altra cosa. "Sì, e Calpurnia ha detto che potevo
andarla a trovare a casa sua, qualche pomeriggio. Atticus, ci vorrei andare
domenica prossima: posso? Cal ha detto che viene lei a prendermi, se tu sei
via con l'automobile."
"No, che non puoi!"

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A dirlo fu zia Alexandra. Mi voltai, colpita, poi mi volsi di nuovo verso
Atticus, in tempo per cogliere un suo rapido sguardo alla zia, ma era troppo
tardi. Dissi: "Non l'ho chiesto a te!"
Nonostante la sua mole, Atticus sapeva alzarsi da una sedia con una
rapidità incredibile: in un attimo fu in piedi. "Chiedi scusa a tua zia," disse.
"Non lo avevo chiesto a lei, lo avevo chiesto a te!"
Atticus voltò la testa e mi inchiodò al muro con il suo occhio buono. La
sua voce era gelida. "Prima di tutto, chiedi scusa alla zia."
"Scusami, zia," mormorai.
"Adesso ascoltami bene," disse: "chiariamo un fatto: tu fai quello che ti
dice di fare Calpurnia, quello che ti dico di fare io e, finché tua zia sta in
questa casa, quello che ti dice di fare lei: capito?"
Avevo capito. Riflettei un po' e conclusi che non mi restava che ritirarmi;
ma per salvare almeno un briciolo della mia dignità, dovevo fingere di
andare in bagno, e così feci, fermandomici abbastanza da far creder loro che
avevo avuto realmente bisogno di andarci. Uscita dal bagno, mi trattenni
qualche secondo nell'atrio, e di lì mi giunsero brani di una vivace
conversazione che si svolgeva nel soggiorno. Attraverso la porta socchiusa
vedevo Jem seduto sul sofà che, nascosto dietro una rivista di pallone,
muoveva la testa rapidamente di qua e di là come se nelle pagine del giornale
si svolgesse una partita di tennis.
"...E ora devi far qualcosa," diceva la zia. "Hai lasciato che le cose
andassero troppo avanti, Atticus, troppo avanti!"
"Non vedo nulla di male a lasciarla andare: a casa sua, Cal le baderà tale e
quale come qui: ecco tutto!"
Di chi parlavano? Di me, evidentemente. Mi sentii avvilita: mi pareva che
le pareti inamidate di un penitenziario in mussola rosa stessero per chiudersi
su di me, e per la seconda volta in vita mia pensai di fuggire:
immediatamente.
"Atticus, capisco avere il cuore tenero; specie per te che sei indulgente per
natura. Ma hai una figlia e ci devi pensare. Una figlia che sta crescendo."
"È proprio a questo che sto pensando."
"E non cercare di sviare il discorso. Devi affrontare questo problema, una
volta o l'altra, e tanto vale farlo stasera. Non abbiamo bisogno di lei, adesso."
La voce di Atticus era calma. "Alexandra, Calpurnia non lascerà questa
casa che quando lo vorrà lei. Forse tu vedi le cose in modo diverso, ma io so
che non avrei potuto assolutamente andare avanti senza di lei, in tutti questi
anni. È un lembo fedele della nostra famiglia e bisogna che tu accetti le cose

140
come stanno. Inoltre, mia cara, non voglio che tu ti ammazzi a lavorare per
noi: non c'è proprio ragione che tu lo faccia. Abbiamo bisogno di Cal ora
come lo abbiamo sempre avuto."
"Ma, Atticus..."
"Inoltre non credo che i ragazzi abbiano sofferto del fatto che li ha tirati
su lei; semmai, con loro è stata in un certo senso più severa di una madre:
non gliel'ha mai data vinta in niente, non li ha mai accontentati e viziati, come
fanno la maggior parte delle bambinaie di colore. Ha cercato di allevarli
secondo le sue idee, e le idee di Cal son molto sane... E un'altra cosa, i ragazzi
le vogliono bene."
Tornai a respirare. Non era di me, ma di Calpurnia che parlavano.
Rincuorata, entrai nel soggiorno. Atticus si era ritirato dietro il giornale e
zia Alexandra tormentava il suo ricamo. Pic, pic, pic, l'ago punzecchiava la
stoffa tesa sul telaio. Poi la zia si fermò e girò la vite per tenderla
maggiormente. Pic, pic, pic: era furiosa.
Jem si alzò e avanzò sul tappeto a passi felpati, facendomi segno di
seguirlo. Mi condusse in camera sua e chiuse la porta: era serio in viso.
"Hanno litigato, Scout."
Jem ed io bisticciavamo molto in quei giorni, ma non avevo mai sentito
né visto qualcuno litigare con Atticus. Non era una prospettiva divertente.
"Scout, cerca di non scontrarti con la zia, mi senti?"
Le parole di Atticus mi bruciavano ancora, per questo non mi accorsi del
tono di preghiera che c'era nelle parole di Jem. Le penne mi si arruffarono di
nuovo. "Vuoi insegnarmi quel che devo fare?"
"No, ma lui ha tante cose per la testa adesso, senza che ci mettiamo anche
noi a dargli delle preoccupazioni..."
"Quali cose?" A me non sembrava che Atticus avesse qualcosa di speciale
per la testa.
"Il caso di Tom Robinson lo preoccupa terribilmente."
Risposi che Atticus non aveva preoccupazioni. E poi, del caso di Tom
Robinson non si parlava in casa che una volta ogni tanto, e anche allora di
sfuggita.
"Dici così perché non riesci a pensare alla stessa cosa più di pochi minuti
di fila," disse Jem. "I grandi non sono così: noi..."
La sua aria di superiorità in quei giorni era davvero insopportabile,
esasperante. Non faceva che leggere e starsene per conto suo. Mi passava
ancora tutti i libri che leggeva, ma una volta lo faceva pensando che mi
sarebbero piaciuti; ora lo faceva per educarmi e istruirmi.

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"Ma chi credi di essere, Jem? Un grand'uomo?"
"Ascoltami bene, Scout: tu prova a far arrabbiare la zia e io ti... ti prendo
a sculaccioni, com'è vero Iddio!"
Non ci voleva altro per farmi partire. "Maledetto Morfodita, ti uccido!"
Era seduto sul letto e mi fu facile acchiappargli il ciuffo di capelli che aveva
sulla fronte, dandogli contemporaneamente un pugno sulla bocca. Lui mi
diede uno schiaffo e io provai a sferrargli un sinistro, ma una gomitata nello
stomaco mi mandò a terra. Rimasi quasi senza fiato, ma non me ne
importava, perché se si era messo a far la lotta con me, significava che mi
considerava ancora una sua pari.
"Non fai più il padreterno, adesso, eh?" strillai, saltandogli addosso di
nuovo. Ma Jem era ancora seduto sul letto e non riuscivo a trovare un
appoggio solido: mi buttai su di lui con tutte le forze, menando colpi
all'impazzata, tirandogli i capelli, pizzicandolo... quel che era cominciato
come scambio di pugni degenerò in una rissa.
Lottavamo ancora selvaggiamente quando Atticus ci separò.
"Basta così," disse. "Tutti e due a letto: immediatamente!"
"Aaaaah!..." dissi a Jem: era una bella soddisfazione vederlo andare a
letto all'ora in cui ci andavo io.
"Chi ha cominciato?" chiese Atticus, con aria rassegnata.
"Jem. Pretende di dettar legge tutto il giorno. Non devo mica obbedire
anche a lui, per caso?"
Atticus sorrise. "Rimaniamo intesi così: obbedirai a Jem quando riuscirà a
farsi obbedire. Va bene?"
Zia Alexandra era presente, ma taceva, e mentre attraversava l'atrio con
Atticus la udimmo esclamare: "...giusto a proposito di quello che stavo
dicendo!..." frase che a Jem e me ci fece tornare solidali.
Avevamo le camere da letto comunicanti: mentre chiudevo la porta di
comunicazione Jem disse: "Notte, Scout."
"Notte," borbottai, camminando a tentoni nella stanza per andare ad
accendere la luce. Nel passare accanto al letto misi un piede su qualcosa di
caldo, molle e liscio. Non sembrava di gomma ed ebbi l'impressione che
fosse qualcosa di vivo. La udii anche muovere.
Accesi la luce e guardai per terra, accanto al letto. La cosa che avevo
sentito non c'era più. Bussai alla porta di Jem.
"Che cosa c'è?"
"Come sono i serpenti, a camminarci sopra?"
"Piuttosto ruvidi. Freddi. Polverosi. Perché?"

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"Credo che ce ne sia uno sotto il mio letto. Puoi venire a vedere?"
"Vuoi far la spiritosa, per caso?" chiese Jem aprendo la porta.
Aveva i pantaloni del pigiama. Notai, non senza soddisfazione, che sulla
bocca gli si vedeva ancora il segno delle mie nocche. Quando capì che
facevo sul serio, disse: "Se credi che sia disposto a mettermi con la faccia a
terra per vedere se c'è un serpente, ti sbagli! Ferma un momento."
Andò in cucina e prese la scopa. "È meglio che tu salga sul letto," disse.
"Credi che sia proprio un serpente?" chiesi. Questa era una grande
occasione. Le nostre case non avevano cantine; erano costruite su blocchi di
pietra a qualche decina di centimetri sopra il terreno e a volte capitava,
sebbene piuttosto di rado, che entrasse in casa qualche rettile. Il pretesto a cui
ricorreva sempre miss Rachel per bersi un bel bicchierino di whisky tutte le
mattine era che non era ancora riuscita a superare lo spavento che aveva
provato nel trovare un serpente arrotolato nell'armadio, sulla biancheria da
stirare, una mattina che l'aveva aperto per appendervi il suo négligé.
Jem diede un colpo di scopa esplorativo sotto il letto. Guardai per terra
per vedere se uscisse fuori un serpente, ma non uscì nulla e Jem spinse la
scopa più a fondo sotto il letto.
"I serpenti grugniscono?"
"Non è un serpente," disse Jem. "È una persona!"
D'un tratto una specie di fagotto scuro e sporco schizzò fuori di sotto il
letto. Jem alzò la scopa, e mancò la testa di Dill per un paio di centimetri al
massimo.
"Signore onnipotente!" disse Jem, in preda a un'ammirazione
reverenziale.
Guardammo Dill tirarsi fuori di sotto il letto un po' alla volta.
Si alzò, si stirò, girò i piedi finché ripresero il loro angolo naturale
rispetto alle gambe e si strofinò il dietro del collo.
Quando la sua circolazione fu ristabilita, disse: "Salve!"
Jem chiamò ancora a testimonio il Signore. Io avevo perso la favella.
"Sono quasi moribondo," disse Dill. "Avete niente da mangiare?"
Come in sogno, andai in cucina e ne tornai con del latte e mezzo tegame
di torta di granturco avanzata. Dill divorò tutto, masticando con i denti
davanti, come faceva lui.
Finalmente ritrovai la voce. "Come sei arrivato fin qui?"
Per una strada molto complicata. Ristorato dal cibo, Dill ci fece questo
racconto: essendo stato incatenato e lasciato morire nello scantinato (a
Meridian c'erano gli scantinati) dal suo nuovo padre che non lo poteva

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soffrire, e mantenuto segretamente in vita a base di piselli crudi da un
contadino di passaggio che udiva le sue grida di aiuto (il buon uomo gliene
aveva infilato uno staio intero, baccello per baccello, attraverso la presa
d'aria), Dill si era dibattuto fino a liberarsi e a strappare le catene dal muro.
Sempre ammanettato, era uscito da Meridian, vagando per due miglia, e
imbattendosi in un piccolo circo, dal quale era stato immediatamente assunto
con il compito di lavare il cammello. Aveva viaggiato con il circo per tutto il
Mississippi, finché il suo infallibile senso dell'orientamento gli aveva detto
che si trovava nella contea di Abbot, nell'Alabama, e che proprio di fronte a
lui, al di là del fiume, c'era Maycomb. Il resto della strada lo aveva fatto a
piedi.
"Come sei arrivato fin qui?" chiese Jem.
Aveva preso tredici dollari dalla borsetta di sua madre, ed era salito sul
treno delle nove, scendendo alla Stazione di Maycomb. Per dieci delle
quattordici miglia che lo separavano da Maycomb aveva camminato fuori
della strada maestra, tra i cespugli, per tema che le autorità lo cercassero, e il
resto della strada lo aveva fatto aggrappato al rimorchio di un autocarro di
cotone. Era sotto il letto da circa due ore; ci aveva udito cenare in sala da
pranzo, e il tintinnio delle forchette sui piatti lo aveva fatto quasi uscir di
senno. Aveva temuto che Jem ed io non saremmo mai andati a letto. più tardi
aveva lottato contro la tentazione di venir fuori e aiutarmi a picchiar Jem,
dato che Jem era diventato molto alto, ma sapeva che il signor Finch sarebbe
venuto ben presto a interrompere il nostro incontro di pugilato, e così aveva
pensato bene di restare dove si trovava. Era sfinito, incredibilmente sporco...
e finalmente a casa.
"Non credo sappiano che sei qui," osservò Jem. "Lo avremmo saputo se
ti cercavano..."
"Forse staranno ancora rovistando tutti i cinematografi di Meridian,"
sorrise Dill.
"Però dovresti far sapere a tua madre dove sei," disse Jem.
"Dovresti farle sapere che sei qui."
Dill sbatté le palpebre guardando Jem, e Jem abbassò lo sguardo.
Poi si alzò, e infranse quel che restava del codice della nostra fanciullezza:
uscì dalla stanza e traversò l'atrio. "Atticus," disse, con una voce che pareva
venisse da lontano, "puoi venir qui un minuto, per favore?"
Il viso di Dill, rigato di sudore sotto la sporcizia, si fece bianco. Io mi
sentii addirittura male. Atticus comparve sulla soglia.

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Venne fino al centro della stanza e stette con le mani in tasca, guardando
Dill.
Finalmente trovai la voce per dire: "Non aver paura, Dill: quel che pensa,
lo dice subito."
Dill mi guardò. "Voglio dire che non ti devi preoccupare," soggiunsi. "Sai
bene che non ti farà niente: non avrai mica paura di Atticus?"
"Non ho paura..." mormorò Dill. "Più che altro avrà fame, immagino!" La
voce di Atticus aveva il suo normale, piacevole tono deciso. "Scout, non
abbiamo niente di meglio in casa di un avanzo di torta di granturco fredda.
Tu pensa a rimpinzare bene questo individuo e quando ritorno vedremo quel
che si potrà fare."
"Signor Finch, non lo dica alla zia Rachel, non mi rimandi a casa, la
prego! Scapperò di nuovo..."
"Buono, figliolo!..." disse Atticus. "Per il momento nessuno pensa a
mandarti altrove che a letto. Adesso vado a dire a miss Rachel che sei qui e a
chiederle se puoi passare la notte da noi: ti farebbe piacere, non è vero? E per
carità va' a toglierti di dosso tutta quella terra, rimettila dove l'hai presa, in
questa contea bastano le erosioni del suolo che già ci sono."
Dill seguì con gli occhi mio padre che usciva dalla stanza.
"Ha voluto fare dello spirito," dissi. "Voleva dire che ti ci vorrebbe un bel
bagno. Lo vedi? Te lo avevo detto che non ti avrebbe fatto niente."
Jem se ne stava in un angolo della stanza, con quella sua faccia da
traditore. "Dovevo dirglielo, Dill," fece. "Non puoi scappar trecento miglia
lontano da casa senza che tua madre lo sappia."
Uscimmo dalla stanza senza rivolgergli la parola.
Dill mangiò, rimpinzandosi. Non mangiava dalla notte precedente, perché
aveva speso tutto il denaro che aveva per il biglietto: saltato sul treno come
aveva fatto altre volte, si era messo a chiacchierare come nulla fosse con il
controllore che lo conosceva, ma non aveva avuto il coraggio di chiedergli in
prestito i soldi per comprarsi da mangiare come da noi i ragazzi che
viaggiano soli usano fare col controllore, cui i padri li rimborsano all'arrivo.
Spolverati tutti gli avanzi della nostra casa, Dill stava già per afferrare un
barattolo di maiale con fagioli, quando il "Gesummio!" di miss Rachel
risuonò nell'atrio. Dill tremò come un coniglietto.
Affrontò con coraggio i suoi: "Aspetta che siamo a casa"; e "I tuoi son
fuori di sé per la paura"; rimase calmo al: "È il sangue degli Harris che viene
fuori"; sorrise al: "Bè, per una notte puoi rimanere," e ricambiò l'abbraccio
che gli fu alla fine accordato.

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Atticus sollevò gli occhiali e si strofinò gli occhi.
"Vostro padre è stanco," disse zia Alexandra. Erano le prime parole che
pronunciava dopo non so quante ore. Stava lì, immagino, ammutolita per lo
stupore. "Adesso andate a letto, ragazzi."
Lasciammo i grandi in sala da pranzo; Atticus si asciugava ancora il viso
con il fazzoletto. "Prima la violenza carnale, poi le risse e infine i ragazzi
fuggiti di casa!" lo udimmo dire, ridendo. "Chissà che altro accadrà nelle
prossime ore?"
Dato che pareva che le cose si fossero messe bene, Dill ed io decidemmo
di essere cortesi con Jem. Del resto, Dill avrebbe dormito con lui, quindi
tanto valeva rivolgergli la parola e infine mi accorsi che non riuscivo a tener
gli occhi aperti. Dill e Jem non si muovevano, né, quando spensi la lampada
accanto al letto, si vedevan strisce di luce di sotto la porta di Jem.
Dovetti dormire a lungo, poiché quando mi svegliai a una mano che mi
scuoteva, la stanza era in penombra e la luna stava per tramontare.
"Fatti in là, Scout."
"Jem lo ha detto ad Atticus credendo di far bene," borbottai, tutta
insonnolita, "non essere arrabbiato con lui."
Dill entrò nel letto accanto a me. "Non sono arrabbiato," disse, "volevo
soltanto dormire con te. Sei sveglia?"
Oramai lo ero, ma mi sentivo sonnacchiosa. "Perché sei scappato?"
Nessuna risposta. "Ti ho chiesto perché sei scappato. Il tuo padrigno era
davvero tremendo come dicevi prima?"
"No-o."
"Non avete costruito quella barca, come mi avevi scritto?"
"Lui l'aveva detto, ma poi non l'abbiamo mai costruita."
Mi alzai sul gomito, guardando la forma scura di Dill nella penombra.
"Non era una buona ragione per scappar via. Tanto, si sa che promettono
sempre, ma poi fanno soltanto la metà delle cose che dicono."
"Ma non è per questo: lui... loro non si occupavano di me."
Tra le ragioni che uno può avere per scappar di casa, questa mi pareva la
più assurda. "Come mai?"
"Stavan sempre fuori, e anche quando erano a casa, se ne stavano in
camera loro."
"E che cosa facevano?"
"Niente, stavan seduti e leggevano, ma non mi volevano con loro."
Appoggiai il cuscino alla testiera del letto e mi misi a sedere.

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"Vuoi saperne una? Io stavo pensando a scappar via stanotte, perché li ho
sempre tra i piedi. È molto meglio non averli tanto dattorno, Dill..."
Dill emise un sospiro paziente.
"...E buona notte, Atticus è via tutto il giorno e a volte fino a notte con la
sua legislatura e non so che altro: è molto meglio non averli sempre intorno,
credi, Dill: non si può far niente quando ci son loro!"
"Ma no, non è questo."
Mentre Dill mi spiegava come stessero le cose, mi sorpresi a pensare che
cosa sarebbe stata la mia vita se Jem fosse stato diverso, diverso anche da
com'era adesso; che cosa avrei fatto se Atticus non avesse sentito la necessità
della mia presenza, del mio aiuto e consiglio. Pensare che non poteva andare
avanti un giorno solo senza di me! Persino Calpurnia non poteva fare a meno
di me.
Avevano tutti bisogno di me.
"Dill, non ti sai spiegare bene: i tuoi non posson fare a meno di te. Non
sarà che son cattivi, con te? Ti dirò io che cosa devi fare..."
La voce di Dill riprese, calma e piano nel buio: "Il fatto è, quel che voglio
dire è... che se la passano molto meglio senza di me, non hanno nessun
bisogno di me. Non sono cattivi: mi comprano tutto quello che voglio, ma
poi è sempre la stessa storia: "Ora che hai avuto quel che volevi, va' a
giocare! Hai una stanza piena di giocattoli. Ti ho comprato quel libro: va' a
leggere!"" Dill, cercava di fare la voce profonda. ""Ma che ragazzo sei? I
ragazzi vanno a giocare a baseball con i compagni, non gironzolano sempre
per casa dando fastidio ai grandi!""
Poi riprese la sua voce. "No, non sono cattivi. Mi baciano e mi
abbracciano quando vado a letto, e mi dicono buona notte e buongiorno e
arrivederci, e mi dicono che mi vogliono bene... Scout, pigliamoci un
bambino!"
"Dove?"
Dill aveva sentito parlare di un uomo che aveva una barca a remi e
andava in un'isola piena di nebbia dove stavano tutti i bambini: se ne poteva
ordinare uno.
"È una bugia, questa. La zia dice che Dio li fa scendere dal camino:
almeno così mi pare che abbia detto." Per una volta, la zia non aveva parlato
chiaro come al solito.
"Non è vero neanche questo. Ognuno ha i bambini dall'altra persona.
Però c'è anche quest'uomo che dico io: ha tutti quei bambini che
aspettano di svegliarsi, e lui gli soffia dentro la vita..."

147
Dill era partito di nuovo per il suo mondo fantastico. Splendide cose gli
passavano per quella testa piena di sogni. Era tanto svelto che nel tempo che
io impiegavo a leggere un libro, lui ne leggeva due, ma preferiva la magia
delle proprie fantasie. Sapeva fare le addizioni e le sottrazioni più veloce del
lampo, ma preferiva il suo mondo crepuscolare, un mondo dove i bambini
dormivano, aspettando di esser colti come gigli al mattino. Pian piano,
parlando, si addormentò e fece addormentare anche me, ma nella quiete della
sua isola nebbiosa sorse l'immagine sbiadita di una casa grigia con le sue tristi
porte scure...
"Dill..."
"Mmmm..."
"Come mai Boo Radley non è mai scappato di casa?"
Dill ebbe un lungo sospiro e si voltò dall'altra parte.
"Forse... non sa dove scappare," disse.

148
capitolo quindicesimo
Dopo varie telefonate, molti interventi a favore del colpevole e una lunga
lettera di perdono dalla madre, fu stabilito che Dill poteva rimanere a
Maycomb. Stemmo insieme tranquilli una settimana, poi basta. Un incubo ci
sovrastava.
Cominciò una sera, dopo cena. Dill era con noi; zia Alexandra stava nella
sua poltrona nell'angolo, Atticus nella sua, Jem e io sdraiati per terra a
leggere. Era stata una settimana calma: io avevo obbedito alla zia; Jem, ormai
troppo grande per giocare nella casa sull'albero, aveva aiutato Dill e me a
costruire una nuova scala di corda per salirvi, e Dill aveva studiato un piano
infallibile per far uscire Boo Radley senza mettere in pericolo noialtri.
(Bisognava fargli trovare una fila di caramelle di limone che partisse dalla
porta di dietro e arrivasse fino al giardino: le avrebbe seguite come una
formica.) Bussarono alla porta, Jem andò ad aprire e disse che c'era il signor
Heck Tate.
"Digli di entrare," rispose Atticus.
"Gliel'ho detto. Ci sono degli uomini in giardino, vogliono che tu vada
fuori."
A Maycomb gli uomini rimanevan fuori, in giardino, soltanto per due
motivi: morte o politica. Mi chiesi chi fosse morto. Jem e io andammo alla
porta, ma Atticus ci disse: "Tornate in casa."
Jem spense la luce del soggiorno e schiacciò il naso sulla parete metallica
della controfinestra. Zia Alexandra protestò. "Un momento solo, zia, fammi
vedere chi sono," rispose lui.
Dill ed io andammo a un'altra finestra. Un gruppo di uomini circondava
Atticus e pareva che parlassero tutti assieme.
"...Trasferirlo al carcere della contea domattina," diceva il signor Tate.
"Non vado in cerca di guai, io, ma non posso garantire che non ve ne
saranno."
"Non faccia sciocchezze, Heck," ribatté Atticus. "Siamo a Maycomb."
"...Dicevo che non mi sentivo tranquillo!"
"Heck, abbiamo ottenuto un rinvio proprio per stare tranquilli.
Oggi è sabato," disse Atticus. "Il processo probabilmente avrà luogo
lunedì. Lo potete tenere una notte, no? Non credo che a Maycomb mi
vogliano far difficoltà per un cliente, con questi chiari di luna."

149
Vi fu un mormorio di ilarità che si spense appena il signor Link Deas
disse: "Nessuno di qui ha cattive intenzioni, ma mi preoccupano quei tipi di
Old Sarum. Non potresti procurarti un... com'è che si chiama, Heck?"
"Rinvio ad altra sede," rispose il signor Tate. "Ma a che servirebbe,
ormai?"
Atticus disse qualcosa che non udimmo. Mi volsi a Jem, che mi fece
segno di tacere.
"...E poi," disse Atticus, "non avrete mica paura di quella gente?"
"...Sai come diventano quando han bevuto."
"Di solito la domenica non bevono: stanno in chiesa quasi tutto il
giorno," disse Atticus.
"Ma questa è un'occasione speciale," osservò qualcuno.
Gli uomini mormoravano e parlavano confusamente; la zia disse che se
Jem non riaccendeva la luce avremmo fatto una brutta figura, ma Jem non la
udì.
"...E non capisco perché abbia cominciato tu," disse Link Deas.
"Hai tutto da perdere in questa faccenda, Atticus: voglio dire tutto!"
"Credi davvero?"
Quella era sempre una domanda pericolosa da parte di Atticus.
"Credi davvero di far bene a muovere quella pedina, Scout?" Pam, pam,
pam, e tutte le mie pedine venivano spazzate via dalla scacchiera.
"Credi davvero, figliolo? Allora leggi questo!" E Jem passava il resto
della serata alle prese con i discorsi di Henry W' Grady.
"Link, quel ragazzo può andare alla sedia elettrica: ma non ci andrà se
vien detta la verità," la voce di Atticus era calma e uguale. "E tu sai qual è la
verità."
Nel gruppo ci fu un mormorio che risultò anche più minaccioso quando
Atticus indietreggiò fino al primo scalino mentre gli uomini lo stringevano da
vicino.
D'un tratto Jem gridò: "Atticus, suona il telefono!"
Gli uomini sussultarono, allargandosi; era gente che vedevamo ogni
giorno: mercanti, contadini venuti in città; c'era anche il dottor Reynolds e il
signor Avery.
"E tu rispondi, figliolo!..." gridò Atticus.
Una risata fece sciogliere il gruppo. Quando Atticus accese la luce
centrale nel soggiorno, trovò Jem alla finestra, molto pallido, con il segno
della rete metallica impresso sul naso.
"Perché ve ne state seduti tutti quanti al buio?"

150
Jem lo guardò, mentre tornava alla sua poltrona e riprendeva il giornale
della sera. A volte pensavo che Atticus rimuginasse tranquillamente tutte le
crisi della vita dietro al Mobile Register, al Birmingham News e al
Montgomery Advertiser.
"Ce l'avevano con te, vero?" Jem si avvicinò ad Atticus. "Ti volevano
portar via?"
Atticus abbassò il giornale e guardò Jem. "Ma a che letture ti sei dato, in
questi giorni?" chiese. Poi disse dolcemente: "No, figliolo: erano amici."
"Non era... una banda?" chiese Jem, guardandolo con la coda degli occhi.
Atticus cercò di nascondere un sorriso, ma non vi riuscì. "No, a
Maycomb non abbiamo bande e stupidaggini del genere; non credo che ve ne
siano mai state."
"Una volta il Ku Klux ce l'aveva con certi cattolici..."
"Non mi risulta nemmeno che vi fossero dei cattolici a Maycomb,"
soggiunse Atticus, "forse confondi qualche altra cosa. Anni fa, verso il 1920,
c'era un Klan, ma più che una banda era una organizzazione politica, che non
riuscì mai a spaventare nessuno. Una notte si presentarono tutti mascherati
davanti a Sam Levy, che però uscì sul portico a gridare che era proprio il
colmo: fin le lenzuola che avevano addosso gliele aveva vendute lui! Si
vergognarono talmente, che se ne andarono."
La famiglia Levy possedeva tutti i requisiti della Gente Perbene: non solo
facevan tutto secondo il buon senso, ma vivevano sullo stesso pezzo di terra
da cinque generazioni.
"Il Ku Klux è finito," disse Atticus, "e non ritornerà più."
Accompagnai Dill a casa e ritornai in tempo per sorprendere Atticus che
diceva alla zia: "...son pronto anch'io a difendere le donne del Sud, in
qualsiasi momento, ma se quel che mi chiedono è di difendere una tradizione
ipocrita a spese di una vita umana..." Questo discorso mi fece sospettare che
avessero litigato di nuovo.
Andai in cerca di Jem sul letto in camera sua, immerso in profondi
pensieri. "Han ricominciato?..." chiesi.
"Più o meno. La zia non lo lascia in pace a proposito di Tom Robinson.
Ha detto che Atticus disonora la famiglia... o quasi.
Scout, ho paura!"
"Di che?"
"Ho paura per Atticus: potrebbero fargli del male."
Detto questo si trincerò dietro il suo solito atteggiamento; a tutte le mie
domande rispose di andarmene e di lasciarlo in pace.

151
Il giorno dopo era domenica. Nell'intervallo tra la scuola domenicale e il
servizio religioso, mentre i fedeli allungavano le gambe e si stiravano, vidi
Atticus sul sagrato con un altro gruppo di uomini. C'era anche Heck Tate, e
mi chiesi se per caso avesse avuto una crisi spirituale, perché finora in chiesa
non s'era visto mai.
C'era persino il signor Underwood, il quale non viveva per altro che per
la Maycomb Tribune, della quale era l'unico proprietario, editore e tipografo.
Passava i suoi giorni alla linotype, rinfrescandosi di quando in quando con
una capace brocca di vino di ciliege che aveva sempre accanto. Era raro che
andasse in cerca di notizie da pubblicare perché la gente gliele portava
spontaneamente. Diceva che aveva fatto da solo tutte le edizioni della
Maycomb Tribune, scrivendole sulla linotype, ed era possibilissimo. Certo
doveva essere accaduto qualcosa se il signor Underwood metteva il naso
fuori dalla sua tipografia.
Incontrai Atticus sulla porta ed egli mi disse che avevano trasferito Tom
Robinson alle carceri di Maycomb. Disse anche, più a se stesso che a me, che
se ce lo avessero messo subito non sarebbe successo niente. Lo guardai
mentre si sedeva sulla terza fila di banchi e lo udii tuonare "più vicino a Te, o
mio Dio," con parecchie note di ritardo sul coro. Non sedeva mai accanto alla
zia, a Jem o a me: in chiesa gli piaceva star solo.
La presenza di zia Alexandra rendeva ancora più irritabile la falsa pace
domenicale. Atticus fuggiva nello studio subito dopo pranzo, e se per caso
andavamo a cercarlo lo trovavamo seduto a leggere nella sedia girevole. Zia
Alexandra, disponendosi a un sonnellino di due ore, ci minacciava gravi
punizioni se avessimo fatto chiasso in cortile, disturbando i vicini che
riposavano. Ormai grande, Jem aveva preso l'abitudine di ritirarsi in camera
sua con un fascio di riviste sportive, e Dill e io passavamo le nostre
domeniche vagando per il Pascolo del Daino.
Di domenica era proibito sparare, e giocavamo con il pallone di Jem su e
giù per il Pascolo del Daino; ma non era molto divertente. Dill mi chiese se
mi sembrasse il caso di farci vivi con Boo Radley, ma gli dissi che era meglio
non infastidirlo e passai il resto del pomeriggio a metter Dill al corrente degli
avvenimenti dell'inverno prima, che gli fecero una grande impressione.
Venuta l'ora di cena ci separammo, e dopo cena Jem ed io ci
disponevamo a passare una serata uguale a tutte le altre, quando Atticus senza
volerlo attrasse la nostra attenzione, entrando nel soggiorno con un lungo
cordone elettrico a cui era attaccata una lampadina.

152
"Vado per un po' fuori," disse. "Sarete tutti a letto quando ritornerò,
quindi vi do ora la buonanotte."
Si mise il cappello e uscì dalla porta di dietro.
"Prende la macchina," disse Jem.
Nostro padre aveva alcune caratteristiche: non mangiava mai il dolce e la
frutta, e gli piaceva molto camminare. Da quando ricordavo, c'era sempre
una Chevrolet in perfetto ordine nell'autorimessa: Atticus ne faceva di miglia
in automobile, nei suoi spostamenti per affari, ma quando stava a Maycomb
andava in ufficio a piedi e ne ritornava due volte al giorno, coprendo circa
due miglia di strada. Diceva che quello era il solo esercizio fisico che gli
restava. A Maycomb, però; se uno andava a passeggio senza una meta
precisa, lo si giudicava subito un tipo dalle idee poco chiare.
Poco dopo diedi la buonanotte alla zia e a Jem, ed ero a letto assorta nella
lettura di un libro quando udii Jem andare su e giù per la sua camera da letto.
Ciò era tanto inconsueto, che picchiai alla sua porta: "Perché non vai a letto?"
"Vado un momento in città." Si stava cambiando calzoni.
"Perché? Sono quasi le dieci, Jem!"
Lo sapeva, ma usciva lo stesso.
"Allora vengo con te. Se tu dici "no che non ci vieni," vengo lo stesso:
capito?"
Jem si rese conto che avrebbe dovuto fare a botte per costringermi a casa;
pensò anche, probabilmente, che una lite avrebbe fatto infuriare la zia, e si
rassegnò con poca buona grazia alla mia compagnia.
Mi vestii in fretta. Aspettammo finché la luce della zia fu spenta e
scendemmo pian piano la scala. Non c'era luna.
"Certo Dill vorrebbe venire anche lui?" bisbigliai.
"Eh già," fece Jem con aria cupa.
Saltammo il muretto del viale, tagliammo attraverso il cortile di miss
Rachel e arrivammo alla finestra di Dill. Jem imitò il verso della pernice e il
volto di Dill apparve al di là della rete metallica, scomparve, e cinque minuti
dopo egli sganciava la rete e strisciava fuori. Da veterano qual era, non parlò
finché non fummo sul marciapiede. "Che succede?"
"Jem non trova requie." Questa, secondo Calpurnia, non la trovava
nessun ragazzo della sua età.
"Ho come una sensazione..." disse Jem.
Passammo davanti alla casa della signora Dubose, vuota con le persiane
chiuse: le camelie crescevano tra erbacce e sorgo. C'erano altre otto case,
prima di arrivare all'angolo dell'ufficio postale.

153
Il lato sud della piazza era deserto. Agli angoli spiccavano i cespugli
giganti di araucaria e nel mezzo scintillava, sotto i fanali, la ringhiera di
metallo alla quale si attaccavano i cavalli.
Nei gabinetti pubblici brillava una luce; di solito, quel lato del tribunale
era buio. La piazza del tribunale era fiancheggiata da negozi, in fondo ai quali
brillavano delle luci fioche.
Quando Atticus aveva cominciato ad esercitare la professione aveva lo
studio nel palazzo del tribunale, ma dopo parecchi anni si era trasferito in
locati più tranquilli, nel fabbricato della Banca di Maycomb. Appena girato
l'angolo della piazza, vedemmo l'automobile parcheggiata davanti alla banca.
"È in ufficio," disse Jem.
Invece non c'era. Al suo ufficio si giungeva percorrendo un lungo
corridoio, se all'interno la luce fosse stata accesa, fin dall'atrio avremmo
dovuto leggere Atticus Finch, procuratore, in piccole e modeste lettere sul
vetro della porta. Invece tutto era buio.
Jem dette un'occhiata alla porta ed era chiusa a chiave. "Andiamo più
avanti, forse sta dal signor Underwood."
Il signor Underwood non si limitava a mandare avanti la redazione della
Maycomb Tribune, ma ci viveva anche. O meglio, ci viveva sopra; e per
procurarsi le notizie relative al tribunale e alla prigione non doveva far altro
che guardar giù dalla sua finestra al piano di sopra. La sede del giornale dava
sull'angolo nordovest della piazza e per giungervi dovemmo passare davanti
alla prigione.
Le carceri di Maycomb eran situate nell'edificio più rispettabile e più
brutto di tutta la contea. Atticus diceva che avrebbe potuto disegnarlo il
cugino Joshua St' Clair. Era una specie di incubo. Tra i negozi dalle facciate
quadrate e le case dai tetti aguzzi, il carcere, in stile gotico in miniatura, era
antiquato e fuori posto.
L'edificio aveva la lunghezza di una cella e l'altezza di due, ma in
compenso era munito di minuscole mura merlate e di barbacani aerei, e la
facciata di mattoni rossi e le grosse sbarre di ferro applicate alle finestre da
chiesa lo rendevano ancora più fantasioso. Non si ergeva su un colle
solitario, ma era incuneato tra l'emporio Tyndal e l'ufficio della Maycomb
Tribune. Offriva inoltre il lato alle uniche polemiche di Maycomb: i suoi
detrattori sostenevano che pareva un gabinetto di decenza dell'epoca
vittoriana, i suoi sostenitori che dava alla città un aspetto solido e rispettabile,
e nessun forestiero avrebbe mai sospettato che era pieno di negri.

154
Proseguendo, scorgemmo in lontananza una luce isolata. "Strano," disse
Jem, "la prigione di solito non ha luci all'esterno."
"Pare che sia sopra la porta," disse Dill.
Un lungo filo elettrico usciva tra le sbarre di una finestra al secondo piano
e scendeva lungo il muro dell'edificio. Alla luce d'una lampadina nuda su una
delle sedie del suo ufficio, stava seduto Atticus con la schiena appoggiata alla
porta di ingresso; leggeva, incurante degli insetti notturni che gli danzavano
sopra la testa.
Feci per correre verso di lui, ma Jem mi fermò. "Non andare," disse;
"forse non gli farebbe piacere. Visto che sta bene, torniamocene a casa.
Volevo soltanto vedere dove fosse."
Stavamo attraversando la piazza quando, provenienti dall'autostrada di
Meridian, comparvero quattro auto impolverate. Avanzavano lentamente in
fila, fecero il giro della piazza passando davanti alla banca e si fermarono di
fronte alla prigione.
Non scese nessuno. Vedemmo Atticus che alzava lo sguardo dal giornale,
lo chiudeva, piegandolo accuratamente, se lo lasciava cadere sulle ginocchia,
e spingeva il cappello indietro sulla fronte.
Si sarebbe detto che li aspettasse.
"Venite," sussurrò Jem. Traversammo in fretta la piazza e la strada e ci
mettemmo al riparo della porta dell'emporio. Jem diede una occhiata lungo il
marciapiede. "Possiamo avvicinarci un poco," disse.
Corremmo fino alla porta dell'emporio Tyndal, che, abbastanza vicina alla
prigione, costituiva un buon riparo essendo un po' incassata nel muro.
A uno e due alla volta, alcuni uomini scesero dalle macchine. Le ombre
diventavano corpi via via che la luce rivelava le loro forme solide che
muovevano verso la porta della prigione. Atticus rimase dove si trovava. Gli
uomini lo nascondevano alla nostra vista.
"È qui, signor Finch?" domandò uno.
"Sì, è qui," udimmo rispondere Atticus, "e dorme: non lo svegliate."
Obbedienti, gli uomini si misero a parlare quasi a bisbigli: una scena
dannatamente comica, a ripensarci, in una situazione tanto scabrosa.
"Lei sa quel che vogliamo," disse un altro. "Si tolga dalla porta, signor
Finch."
"Puoi far dietro front e tornartene a casa, Walter," disse Atticus
affabilmente. "Heck Tate non è lontano."
"Crede?" intervenne un altro ancora. "Invece Heck e i suoi son così
lontani nei boschi, che non verranno fuori prima di giorno."

155
"Ah sì? E come mai?"
"Li abbiamo attirati via con una scusa," fu la laconica risposta.
"Non lo aveva previsto, eh, signor Finch?"
"L'avevo previsto, ma non volevo crederci. Bene, allora..." la voce di mio
padre era sempre la stessa, "la cosa è diversa, vero?"
"Eh già!" disse un'altra voce bassa che apparteneva a una delle ombre.
"Credete davvero?"
Era la seconda volta che udivo Atticus far quella domanda in due giorni,
e questo voleva dire che tra poco certamente qualcuno ci avrebbe lasciato le
penne. Lo spettacolo si annunciava troppo bello per perderlo. Con un balzo
sfuggii a Jem e corsi verso Atticus più rapida che potei.
Con un grido, Jem cercò di acchiapparmi, ma ormai avevo un vantaggio
su lui e Dill. Mi intrufolai tra i corpi scuri che emanavano un odore acre e ne
sbucai nel circolo di luce.
"Ehi, Atticus!"
Credevo di fargli una bella sorpresa, ma la faccia che fece spense
immediatamente la mia gioia. Un lampo di vera paura gli traversò gli occhi e
si spense, per riapparire subito dopo, quando Jem e Dill comparvero
anch'essi nel cerchio di luce.
Attorno a me, c'era odore di pessimo whisky e di stalla, e guardandomi in
giro mi accorsi che gli uomini erano forestieri. Non erano gli stessi della notte
prima. Provai un senso di imbarazzo cocente all'idea di esser saltata
trionfalmente in mezzo a un cerchio di persone che non avevo mai visto.
Atticus si alzò dalla sedia; si muoveva lentamente, come un vecchio.
Ripiegò il giornale con molta attenzione, stirando le pieghe con dita che
indugiavano e tremavano un poco.
"Va' a casa, Jem," disse. "Porta Scout e Dill a casa."
Eravamo abituati a obbedire con prontezza, anche se non volentieri, ai
suoi ordini, ma Jem pareva che non pensasse affatto di muoversi.
"Va' a casa, ho detto."
Jem scosse la testa. Atticus si mise i pugni sui fianchi e Jem fece lo stesso.
Li guardavo, uno di fronte all'altro, in atteggiamento di sfida, e ben poca era
la rassomiglianza tra loro: i morbidi capelli castani e gli occhi marrone di
Jem, il suo volto ovale e gli orecchi bene attaccati alla testa erano di nostra
madre e contrastavano stranamente con i capelli neri brizzolati di grigio e i
lineamenti marcati di Atticus: eppure si somigliavano. L'atteggiamento di
sfida li rendeva simili.
"Figliolo, ti ho detto di andare a casa."

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Jem scosse la testa.
"Lo mando a casa io!" esclamò un uomo corpulento, afferrando
rudemente Jem per il colletto e sollevandolo quasi da terra.
"Non lo toccare!" gridai, sferrandogli un calcio. Ero a piedi nudi, e rimasi
sorpresa nel veder l'uomo tirarsi indietro con una smorfia di dolore. Volevo
dargli un calcio in uno stinco, ma avevo mirato troppo in alto.
"Basta così, Scout." Atticus mi mise una mano sulla spalla. "Non si danno
calci alle persone. No!..." disse mentre cominciavo a giustificarmi.
"Si provino a far qualcosa a Jem!" dissi.
"Avanti, signor Finch, li mandi via!" grugnì qualcuno. "Le diamo quindici
secondi per mandarli a casa."
Nel centro di quella strana assemblea, Atticus cercava intanto di farsi
obbedire da Jem. "Non me ne vado," fu la risposta di Jem alle minacce, alle
preghiere e infine al: "Ti prego, Jem, portali a casa," di Atticus.
Ero un po' stanca di quella scena, ma se riflettevo a quel che rischiava
Jem con quell'atteggiamento, a quel che gli sarebbe toccato quando Atticus
fosse arrivato a casa, capivo che doveva avere buone ragioni a fare così. Mi
guardai in giro. Era una notte d'estate, ma quasi tutti quegli uomini portavano
tute e camicie di cotone colorato abbottonate fino al collo. Pensai che
dovevano essere dei freddolosi, perché non portavano le maniche arrotolate,
ma lunghe e abbottonate ai polsi. Alcuni avevano il cappello ben piantato
sugli orecchi.
Avevano un aspetto torvo e l'aria assonnata di chi non è avvezzo alle ore
tarde. Cercai ancora di scorgere in mezzo a loro un volto familiare, e al
centro del semicerchio finalmente ne trovai uno.
"Salve, signor Cunningham."
A quanto parve l'uomo non sentì.
"Salve, signor Cunningham. Come vanno gli affari?"
Le vicende legali del signor Cunningham mi erano ben note: Atticus una
volta ce l'aveva descritte dettagliatamente. L'omone batté le palpebre e si
infilò i pollici nelle bretelle della tuta. Pareva a disagio; si schiarì la gola e
guardò da un'altra parte. Il mio cordiale approccio era fallito miseramente.
Il signor Cunningham era a capo scoperto, e la metà superiore della sua
fronte era bianca a confronto del volto bruciato dal sole: dal che arguii che di
solito portava il cappello.
"Non si ricorda di me, signor Cunningham? Sono Jean Louise Finch.
Lei ci portò delle noci, una volta, ricorda?" Cominciavo a sentirmi
imbarazzata, come quando per strada s'incontra un conoscente che finge di

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non riconoscerci.
"Vado a scuola con Walter," ripresi. "È suo figlio, non è vero?
Non è vero, signore?"
Il signor Cunningham si decise a fare un vago cenno del capo.
Dunque, mi riconosceva.
"È in classe con me," dissi, "e va molto bene. È un bravo ragazzo,"
aggiunsi, "un ragazzo proprio simpatico. Una volta lo abbiamo portato a
colazione da noi. Forse le ha parlato di me: l'ho picchiato anche una volta,
ma lui è stato molto in gamba. Lo saluti da parte mia, eh?"
Atticus diceva che con la gente bisogna sempre parlare di ciò che
interessa loro e non di ciò che interessa noi; a quanto pareva però al signor
Cunningham non interessava nemmeno suo figlio, e allora tirai in ballo di
nuovo i suoi affari, in un ultimo tentativo di farlo stare a suo agio.
"Gli affari sono un guaio," incominciai, ma fu allora che
improvvisamente mi accorsi che la mia non era una conversazione con il
signor Cunningham, ma una conferenza. Tutti gli uomini mi guardavano,
taluni a bocca aperta. Atticus aveva smesso di incitare Jem ad andarsene;
stavano tutti e tre vicini: lui, Jem e Dill, così attenti da parere ipnotizzati.
Persino la bocca di Atticus era semiaperta: e pensare che una volta egli lo
aveva definito un brutto vezzo. Quando i nostri sguardi s'incrociarono, la
chiuse.
"Eh, Atticus?... Dicevo al signor Cunningham che gli affari sono sì un
guaio, ma tu gli hai detto di non preoccuparsi perché a volte ci vuol molto
tempo... e avreste superato il momento brutto tutti assieme..." La mia
eloquenza si andava esaurendo lentamente mentre mi chiedevo quale idiozia
avevo commessa: gli affari erano argomenti adatti per un salotto.
Cominciai a sentirmi il sudore scorrere sulla fronte, tutto potevo
sopportare, ma non un gruppo di persone che mi fissava. Erano tutti così
immobili...
"Ma che cosa succede?" chiesi.
Atticus non disse nulla. Diedi un'occhiata in giro, alzai la testa per guardar
bene in viso il signor Cunningham, ma aveva anche lui un volto impassibile.
D'un tratto fece una cosa che non mi aspettavo: si abbassò e mi prese per le
spalle.
"Gli dirò che lei lo manda a salutare, signorina Finch," disse.
Poi si raddrizzò e agitò una larga zampa. "Andiamocene," disse.
"Su, andiamo, ragazzi..."

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Come erano venuti, a uno e a due, gli uomini, trascinando i piedi,
risalirono sulle automobili sconquassate. Gli sportelli sbatterono, i motori
rombarono e un attimo dopo eran tutti scomparsi.
Mi volsi verso Atticus, ma era tornato alla porta della prigione, e stava
con la faccia appoggiata al muro. Mi avvicinai e lo tirai per la manica.
"Possiamo andare a casa, adesso?" Egli fece segno di sì, tirò fuori il
fazzoletto, se lo passò sul viso e si soffiò il naso con violenza.
"Signor Finch?..."
Una voce morbida, un po' rauca, giunse dall'alto, nell'oscurità.
"Sono andati via?"
Atticus fece due passi indietro, guardando in su. "Sono andati via," disse.
"Cerca di dormire, Tom: non ti disturberanno più."
Da un'altra direzione, una terza voce tagliò chiara la notte. "Non lo
disturberanno più, no! Comunque t'ho coperto con il mio fucile tutto il
tempo, Atticus."
Dalla finestra sopra l'ufficio della Maycomb Tribune sporgevano una
doppietta e il signor Underwood.
L'ora di andare a letto era passata da un pezzo, e mi sentivo proprio
stanca; ma Atticus e il signor Underwood pareva che avessero l'intenzione di
conversare tutta la notte, uno sporgendosi dalla finestra e l'altro guardando in
su. Finalmente Atticus tornò verso di noi, spense la luce sopra la porta della
prigione e prese la sedia.
"Posso portargliela io, signor Finch?" chiese Dill. Non aveva aperto bocca
per tutta la serata.
"Ah, grazie, figliolo."
Nell'avviarci allo studio, Dill ed io ci incamminammo dietro Atticus e
Jem. Con la sedia in braccio, Dill era costretto ad andar più piano, e Atticus e
Jem erano un bel tratto avanti a noi: ero convinta che Atticus lo stesse
sgridando per bene perché non era voluto andare a casa, ma mi sbagliavo.
Nel passare sotto un lampione, Atticus stese la mano e la passò sui capelli di
Jem, unico gesto affettuoso che a volte usava con noi.

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capitolo sedicesimo
Jem mi sentì e affacciò la testa dalla porta tra le due camere.
Mentre si avvicinava al mio letto si accese la luce di Atticus.
Rimanemmo immobili finché non si spense: lo udimmo rivoltarsi nel
letto e aspettammo che si mettesse tranquillo di nuovo.
Jem mi portò in camera sua e mi mise a letto accanto a lui. "Cerca di
dormire," disse. "Forse dopodomani sarà tutto finito."
Eravamo entrati in casa pian piano, per non svegliare la zia.
Atticus aveva spento il motore in fondo al viale e accostato la macchina
alla rimessa; eravamo passati dalla porta di dietro ed eravamo saliti nelle
nostre camere senza una parola. Io ero molto stanca e stavo per assopirmi
quando il ricordo di Atticus che ripiegava lentamente il giornale e spingeva
indietro il cappello si trasformò nell'immagine di Atticus in mezzo a una
strada deserta e in attesa, che si spingeva gli occhiali sulla fronte. Il
significato preciso degli avvenimenti di quella notte mi colpì all'improvviso,
e cominciai a piangere. Jem fu affettuoso, e per una volta tanto non mi
ricordò che a nove anni quelle cose non si fanno.
La mattina dopo l'appetito di noi tutti non era robusto come al solito; Jem,
però divorò ben tre uova. Atticus lo guardava con sincera ammirazione; zia
Alexandra, sorseggiando il caffè, mandava scariche di disapprovazione. I
ragazzi che fuggono di casa la notte sono la disgrazia di una famiglia. Atticus
disse che era molto contento che le sue "disgrazie" fossero venute a cercarlo,
ma la zia obiettò: "Ma se il signor Underwood era sempre lì, pronto a
intervenire!..."
"Sapete che è curioso quel Braxton," disse Atticus. "Disprezza i negri, e
non ne vuole tra i piedi."
Secondo l'opinione pubblica, il signor Underwood era un ometto violento
e sboccato; suo padre lo aveva battezzato in un infelice accesso di umorismo
Braxton Bragg, nome che lui aveva fatto del suo meglio per sfatare. Secondo
Atticus l'abitudine di dare ai bambini i nomi dei generali dei confederati da
grandi ne faceva invariabilmente degli ubriaconi.
Calpurnia stava versando dell'altro caffè a zia Alexandra e, cogliendo un
mio sguardo, che mi ero illusa fosse abbastanza supplice, scosse la testa. "Sei
ancora troppo piccola," disse, "te lo dirò io quando sarai cresciuta
abbastanza." Dissi che mi avrebbe fatto bene allo stomaco. "Allora
d'accordo," disse, prendendo una tazza di latte dalla credenza; vi versò un

160
cucchiaino di caffè e riempì di latte la tazza fino all'orlo. La ringraziai
mostrando la lingua alla tazza e, alzando lo sguardo, mi trovai davanti il
cipiglio della zia. Ma non faceva gli occhiacci a me, li faceva ad Atticus.
Attese che Calpurnia ritornasse in cucina, poi disse: "Non parlare così
davanti a loro!..."
"Non parlare così davanti a chi?"
"Davanti a Calpurnia. Hai detto che Braxton Underwood disprezza i negri,
proprio davanti a lei."
"Ma Cal lo sa certamente: lo sanno tutti, a Maycomb."
Cominciai a notare un lieve cambiamento in mio padre in quei giorni,
specie quando parlava con zia Alexandra. Come se volesse sottolineare le
cose, senza trascendere in atti d'ira. Però vi era una certa durezza nella sua
voce quando osservò: "Tutto quello che si può dire a tavola si può dirlo
anche davanti a Calpurnia. Sa benissimo ciò che la sua presenza rappresenta
per noi."
"Non la ritengo una buona abitudine, Atticus: è un incoraggiamento.
Sai come chiacchierano tra loro. Tutto quel che succede in questa città
non finisce il giorno che è già arrivato ai Quarters."
Mio padre mise giù il coltello. "Non conosco leggi che vietino loro di
chiacchierare e forse, se non dessimo loro tante occasioni di parlare di noi,
starebbero tranquilli. Perché non bevi il tuo caffè, Scout?"
Giocavo con il cucchiaino dentro la tazza. "Credevo che il signor
Cunningham fosse nostro amico: tanto tempo fa mi hai detto che lo era!"
"E lo è ancora!"
"Però stanotte voleva... farti del male."
Atticus posò la forchetta accanto al coltello e spostò il piatto.
"Il signor Cunningham è un brav'uomo," disse, "ma come tutti noi, ha le
sue debolezze."
Jem disse: "Non chiamarla debolezza. Quando è arrivato alla prigione
stanotte, ti avrebbe persino ucciso."
"Avrebbe potuto farmi qualcosa," concesse Atticus, "ma, figliolo, quando
sarai più grande capirai un po' meglio la gente. Una folla è fatta di individui,
quali che siano. Stanotte Cunningham faceva parte di una folla, ma era pur
sempre un uomo. Come tutte le folle di tutte le piccole città del Sud, anche
quella di Maycomb è fatta di uomini che conosciamo... anche se ciò non li
scusa, ti pare?"
"Direi di no!" disse Jem.

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"E infatti c'è voluta nientemeno che una bambina di otto anni per farli
rientrare in sé!..." proseguì Atticus. "Ciò dimostra che anche una banda di
bruti può essere fermata, semplicemente perché son pur sempre degli esseri
umani. Chissà... forse avremmo bisogno di una polizia composta di
bambini... Voi ragazzi stanotte siete riusciti a far sì che Walter Cunningham si
mettesse nei miei panni per un attimo, ed è bastato."
Forse Jem da grande avrebbe capito un po' meglio gli uomini, ma io no.
"Il primo giorno che Walter ritorna a scuola sarà anche l'ultimo," dichiarai.
"Guardati dal toccarlo!" disse Atticus, impassibile. "Voglio che voi due
non conserviate mai alcun rancore, qualsiasi cosa accada."
"Lo vedi," esclamò la zia Alexandra, "a che cosa portano queste storie?
Non dire che non ti avevo avvertito!..."
Atticus rispose che non l'aveva mai detto, spinse la sedia e si alzò.
"Chiedo scusa, m'aspetta una giornataccia. Jem, desidero che tu e Scout non
veniate in città oggi, vi prego."
Appena uscì, Dill arrivò di corsa nell'atrio ed entrò in sala da pranzo.
"Tutta la città ne parla, stamattina," annunciò; "tutti raccontano che da soli
abbiamo tenuto a bada cento persone!"
Zia Alexandra lo zittì con un'occhiata. "Non erano cento," disse, "e non
avete tenuto a bada nessuno. Non era altro che un branco di Cunningham,
ubriachi e turbolenti!"
"Via, zia, sai bene che questo è lo stile di Dill!" esclamò Jem, facendoci
segno di seguirlo.
"Oggi restate tutti in giardino," disse lei, vedendo che ci avviavamo verso
il portico davanti.
Pareva sabato. Gente che veniva dall'estremo sud della contea passava
davanti casa come una fiumana lenta, ma continua.
Anche il signor Dolphus Raymond passò, caracollando sul suo
purosangue. "Vedete come sta in sella?" mormorò Jem. "Come si fa a essere
ubriachi alle otto di mattina?"
Un carro carico di donne passò rumoroso. Portavano cappelli da sole di
cotone e abiti con le maniche lunghe. Guidava il carro un uomo barbuto con
un cappello di lana. "Quelli sono mennoniti," disse Jem.
"Pensa che non usano nemmeno i bottoni." I mennoniti vivevano nei
boschi, svolgevano il loro commercio da una riva all'altra del fiume e
venivano raramente a Maycomb. Dill parve interessato. "Han tutti gli occhi
azzurri," continuò Jem, "e gli uomini non possono radersi dopo sposati. Alle
loro mogli piace farsi pungere dalla barba."

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Il signor X Billups cavalcava una mula e ci salutò con la mano. "È un tipo
buffo," disse Jem. "X è il suo vero nome, non l'iniziale. Una volta stava in
tribunale e gli chiesero come si chiamasse. X Billups, disse lui. Il cancelliere
lo pregò di compitarlo ed egli disse: X.
Glielo chiesero un'altra volta ed egli ripeté: X. Insomma, continuarono a
insistere finché lui non scrisse X su un foglio di carta e lo alzò perché lo
vedessero tutti. Gli chiesero dove avesse pescato quel nome ed egli rispose
che i suoi lo avevano iscritto così all'anagrafe, quando era nato!"
Mentre l'intera contea ci sfilava davanti, Jem raccontava a Dill la storia e
le particolarità dei personaggi più in vista: il signor Tensaw Jones, che
rappresentava l'intera lista proibizionista; miss Emily Davis, che in privato
annusava tabacco; Byron Waller, che suonava il violino, e Jack Slade, che
aveva messo i denti per la terza volta.
A un certo punto vedemmo un grosso carro carico di gente dall'aria
severa. Stavano indicandosi il giardino di miss Maudie Atkinson, fiammante
di fiori estivi, quando miss Maudie uscì sul porticato.
Aveva un'aria strana: era troppo lontana per distinguere chiaramente i
suoi lineamenti, ma capivamo sempre di che umore fosse da come si
metteva. Ora stava con le mani nei fianchi, le spalle un po' cascanti, la testa
piegata da un lato e gli occhiali che scintillavano al sole. Avremmo giurato
che stava sorridendo acida.
Il conducente del carro mise al passo le mule e una donna dalla voce
acuta gridò: "Colui che arriva nella vanità parte nell'oscurità!"
Miss Maudie rispose: "Gente allegra Dio l'aiuta."
Mentre il conducente aizzava le mule, immaginai che certo quella gente
era convinta che il Diavolo citava la Sacra Scrittura per i suoi fini malvagi.
Perché ce l'avessero col giardino di miss Maudie era un mistero, resomi
ancora più oscuro perché, per chi passava tutto il giorno all'aperto, la
conoscenza della Scrittura di miss Maudie era davvero formidabile.
"Va in tribunale, stamattina?" le chiese Jem. Eravamo giunti davanti a casa
sua.
"No," rispose. "Non ho niente da fare in tribunale, stamattina."
"Non va a vedere il processo?" domandò Dill.
"No, non ci vado: è una follia andare a vedere un povero diavolo che
forse condanneranno a morte. Guarda quanta gente: pare un baccanale!"
"I processi si devono fare in pubblico, miss Maudie," affermai.
"Altrimenti non sarebbe giusto."

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"Lo so benissimo," rispose lei. "Ma il fatto che il processo sia pubblico
non mi obbliga ad andarci, ti pare?"
In quella giunse miss Stephanie Crawford, che aveva indosso cappello e
guanti. "Um, um, um," disse, "guarda quanta gente! Si direbbe che debba
parlare William Jennings Bryan!"
"E tu dove vai, Stephanie?" chiese miss Maudie.
"All'emporio."
Miss Maudie disse che non aveva mai visto in vita sua miss Stephanie
andare all'emporio con il cappello in testa.
"Bè, sai," disse miss Stephanie, "ho pensato di dare anche un'occhiata in
tribunale per vedere che cosa combina Atticus."
"Sta' attenta che non ti citi come testimonio!"
Chiedemmo a miss Maudie perché avesse detto così: rispose che miss
Stephanie, a quanto pareva, la sapeva tanto lunga sul caso Robinson che
tanto valeva chiamarla a testimoniare.
Resistemmo a casa fino a mezzogiorno, quando Atticus venne a mangiare
e disse che avevan passato la mattinata a comporre la giuria. Dopo colazione,
passammo a prender Dill e con lui ce ne andammo in città.
Pareva una festa. Nella rimessa pubblica non c'era più posto per un solo
cavallo, e mule e carri erano fermi sotto ogni albero disponibile. La piazza del
tribunale era letteralmente gremita di comitive sedute per terra sui giornali,
che mangiavano biscotti annaffiandoli con sciroppo e latte caldo. Alcuni
addentavano del pollo freddo e cotolette di maiale fritto, i più raffinati ci
bevevan su Coca-Cola presa in drogheria in bicchieri di cartone a forma di
bulbo. Dei mocciosi si rincorrevano tra la folla e dei poppanti succhiavano al
petto della mamma.
In un angolo appartato della piazza, i negri sedevano tranquilli al sole,
mangiando sardine e biscotti salati e bevendo la gustosa Nehi-Cola. Seduto
accanto a loro c'era Dolphus Raymond.
"Jem," disse Dill, "beve in un sacchetto di carta!"
Dill aveva ragione: il signor Raymond aveva in bocca due cannucce gialle
che andavano a finire in un sacchetto di carta marrone.
"Non ho mai visto una cosa simile," mormorò Dill. "Com'è che il
sacchetto tiene?"
Jem rise. "Dentro c'è una bottiglia di Coca-Cola piena di whisky.
Fa così per non scandalizzare le signore. Vedrai, berrà tutto il pomeriggio,
e a un certo punto andrà a riempire la bottiglia da qualche parte."
"Perché sta con la gente di colore?"

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"Lo fa sempre. Gli piacciono più di noi, forse. Vive da solo, lontano,
vicino al confine. Ha una donna di colore e bambini misti: te li mostrerò se li
vedo."
"Non sembra un povero diavolo," disse Dill.
"Ma non lo è. Possiede quasi tutta una riva del fiume, e la sua famiglia è
antichissima."
"Ma allora perché vive in quel modo?"
"È fatto così," rispose Jem. "Dicono che dopo il matrimonio non sia mai
più stato lo stesso. Stava per sposare una delle ragazze Spender, credo.
Doveva essere un grande matrimonio, e invece non se ne fece niente. Dopo
la prova della cerimonia, la sposa salì al piano di sopra e si fece saltare le
cervella con un fucile da caccia: tirò il grilletto con le dita dei piedi."
"Ma perché? Si è mai saputo?"
"No," disse Jem, "la verità la sa soltanto il signor Dolphus.
Dicono che la sposa avesse saputo della donna di colore, che lui
intendeva tenersi anche dopo sposato. Da allora è sempre stato ubriaco, o
quasi. Però, sai, con i suoi bambini è molto buono."
"Jem," chiesi, "cos'è un bambino misto?"
"Mezzo bianco e mezzo negro. Ne hai visti anche tu, Scout. Sai quel
ragazzino con i capelli rossi e ricci che porta i pacchi del droghiere? Sono
sempre tristi."
"Come mai?"
"Perché non sono né carne né pesce. La gente di colore non li vuole
perché sono mezzo bianchi; i bianchi non li vogliono perché son quasi negri,
e così loro stanno in mezzo e non sanno con chi andare. Ma adesso dicono
che Dolphus ne abbia mandati due al nord. Al nord non fanno caso a queste
cose. Eccone uno laggiù!"
Un bambino aggrappato alla mano di una negra veniva verso di noi. A me
pareva tutto negro: color cioccolato scuro, con narici molto marcate e
bellissimi denti. Ogni tanto saltellava tutto allegro, e la donna negra lo tirava
per la mano per fermarlo.
Jem aspettò che ci superassero. "Quello è uno dei piccoli," disse.
"Ma come lo riconosci?" chiese Dill. "A me pareva nero."
"Qualche volta non si distinguono, a meno di sapere chi sono. Ma questo
è mezzo Raymond, sicuro."
"Ma come fai a saperlo?" chiesi.
"Te l'ho detto, Scout: bisogna conoscerli."
"E allora come sai che non siamo negri anche noi?"

165
"Zio Jack dice che infatti non lo sappiamo. Dice che fino a quel che ne sa
lui i Finch non sono negri, ma che potremmo esser venuti dritto dall'Etiopia
all'epoca del Vecchio Testamento."
"Se risaliamo all'epoca del Vecchio Testamento, è passato troppo tempo
perché la cosa importi."
"Anch'io pensavo così," disse Jem, "ma da queste parti se uno ha anche
solo una goccia di sangue nero, è come se fosse tutto nero.
Ehi, guardate..."
A un segnale misterioso tutta la piazza s'era alzata in piedi, tra uno
svolazzare di pezzi di giornale, sacchetti di cellofane e cartacce. I bambini
corsero dalle madri e i neonati furono presi in braccio, mentre uomini dai
cappelli macchiati di sudore riunivano le famiglie, spingendole come un
gregge dentro le porte del tribunale.
Nell'angolo della piazza, i negri e Dolphus Raymond si erano alzati e si
spolveravano i calzoni. Tra loro vi erano poche donne e bambini e anche per
questo l'atmosfera del loro gruppo non era festosa.
Aspettarono pazientemente che fossero entrate tutte le famiglie bianche.
"Entriamo," disse Dill.
"No, è meglio aspettare che entrino tutti: forse Atticus non sarà contento
di vederci," disse Jem.
Il tribunale della contea di Maycomb ricordava vagamente il cimitero di
Arlington, per i pilastri di cemento che sostenevano il tetto a sud, troppo
pesanti per il carico modesto che dovevan sostenere. Del vecchio tribunale
non eran rimasti, dopo l'incendio del 1856, che i pilastri, e intorno a questi, o
meglio nonostante questi, era stato costruito un altro tribunale. Tranne il
porticato, il tribunale era di stile vittoriano della prima metà dell'Ottocento e,
visto dal nord, non offendeva la vista. Dall'altra parte, invece, le colonne
neoclassiche facevano a pugni con una grande torre campanaria del
diciannovesimo secolo, che ospitava un vecchio orologio arrugginito e
inattendibile, la cui presenza testimoniava che il paese era deciso a conservare
ogni frammento materiale del suo passato.
Per giungere all'aula al secondo piano, si passava davanti a parecchie
piccole celle, anguste e buie, che altro non erano che gli uffici provinciali: il
procuratore delle imposte, il segretario provinciale, il Pubblico Ministero, il
cancelliere distrettuale e l'avvocato erariale; vivevano in tane fredde e buie
che odoravano di vecchi registri, cemento umido e urina. Le luci erano
accese anche di giorno e vi era sempre un velo di polvere sul tavolato del
pavimento.

166
Gli occupanti quegli uffici parevano condizionati dall'ambiente, ometti
grigi, che non dovevano aver mai visto il sole.
Sapevamo che l'aula sarebbe stata affollata, ma non prevedevamo di
trovare una tale ressa sin nel corridoio del primo piano. Rimasi separata da
Jem e da Dill, ma mi feci strada verso la tromba delle scale, sapendo che
presto Jem sarebbe venuto a cercarmi. Mi trovai tra i membri del cosiddetto
Circolo dei Fannulloni e cercai di farmi notare il meno possibile. Era un
gruppo di vecchi dalle camicie bianche e dai calzoni color kaki con le
bretelle, che non avevan mai fatto niente in vita loro, e ora passavan gli
ultimi giorni sulle panchine sotto le querce della piazza. Eran critici
attentissimi di tutto ciò che avesse attinenza con le aule giudiziarie, e Atticus
diceva che di legge ne sapevano quanto il presidente del tribunale, tanti anni
avevano passato senza perdersi un solo processo. Di solito erano gli unici
spettatori in aula, e quel giorno sembravano offesi per quell'invasione che
aveva sconvolto le loro abitudini. Parlavano in tono d'importanza, e
l'argomento era mio padre.
"...Forse crede di fare il furbo," disse uno.
"Oh, non direi," replicò un altro, "Atticus Finch è un lettore accanito, un
uomo colto."
"Studia, sì, non sa far altro!..." il circolo ridacchiò.
"Voglio dire una cosa, Billy," soggiunse un terzo, "sai che il tribunale lo
ha nominato d'ufficio a difendere questo negro?"
"Sì, ma lui ci teneva a difenderlo: è questo che non mi va."
Queste notizie gettavano una nuova luce sulla situazione. Volente o
nolente, Atticus era stato costretto. Mi parve strano che non ce lo avesse
detto: quella notizia ci sarebbe stata utilissima per difender lui e noi dagli
attacchi della gente. Difendeva Tom Robinson perché costretto: se lo
avessimo saputo si sarebbero evitate molte liti.
Forse questo spiegava l'atteggiamento della città. La corte non aveva
nominato Atticus per difendere il negro, ma Atticus teneva a difenderlo: ecco
quello che non piaceva alla gente. Quante complicazioni.
I negri, dopo aver aspettato che i bianchi salissero al primo piano,
cominciarono ad entrare nell'atrio. "Un momento!" disse uno dei Fannulloni,
alzando il bastone da passeggio. "Aspettate ancora un momento, a salire."
Cominciarono a salire raggruppati le scale, scontrandosi con Dill e Jem
che scendevano a cercarmi e che si strinsero al muro per passare; Jem gridò:
"Scout, sbrigati, non c'è più nemmeno una sedia, dovremo stare in piedi!..."

167
"Attenta," aggiunse, un po' irritato, mentre i negri si precipitavano sulle
scale. I vecchi dei Circolo, arrivando prima di noi, avrebbero occupato anche
lo spazio in piedi. Era una bella sfortuna, ma la colpa era mia, dichiarò Jem.
Rimanemmo appoggiati al muro.
"Cos'è, non riuscite a entrare?"
Il reverendo Sykes ci guardava dall'alto della scala, con il cappello nero
in mano.
"Salve, reverendo," disse Jem. "È stata Scout a combinarci questo
guaio!..."
"Bè, ora vedrò che posso fare."
Il reverendo Sykes si fece largo tra la folla fino al pianerottolo.
Poco dopo era di ritorno. "Da basso non c'è nemmeno un posto a sedere.
Vi va di venire sulla balconata con me?"
"Accidenti, certo!" esclamò Jem. Tutti felici, corremmo avanti
precedendo il reverendo fino all'aula, poi salimmo una scaletta interna e lo
aspettammo alla porta che dava alla balconata. Il reverendo arrivò
affannando e ci guidò con garbo tra i negri. Quattro di essi si alzarono
cedendoci i loro posti in prima fila.
La balconata destinata ai negri correva lungo tre pareti dell'aula, come un
ballatoio, e di lì si vedeva bene.
I giurati sedevano a sinistra, sotto i finestroni. Magri, cotti dal sole,
parevan tutti contadini, ma era naturale: la gente di città di rado faceva parte
delle giurie, ne era esclusa d'ufficio. Qualche paio di giurati ricordavano
vagamente i Cunningham vestiti a festa.
In quel momento tutti sedevano diritti e attenti.
Il Pubblico Ministero, Atticus, Tom Robinson e un altro, ci davano le
spalle. Sul tavolo del Pubblico Ministero vi erano un libro marrone e delle
pillole gialle, quello di Atticus era sgombro.
Al di qua della ringhiera che divideva gli spettatori dalla corte, su sedie
imbottite, sedevano i testimoni, volgendoci la schiena.
Il giudice Taylor, sul suo seggio, somigliava a un vecchio pescecane
sonnacchioso; di fronte a lui, un po' più in basso, il suo pesce pilota scriveva
rapidamente. Somigliava a tutti i giudici che avevo visto: simpatico, con i
capelli bianchi, il volto un po' acceso. Adempiva il suo ufficio con allarmante
indifferenza, al punto di metter talvolta i piedi sul tavolo e di pulirsi le unghie
con il temperino. Durante le lunghe udienze, specie dopo pranzo, dava
l'impressione di sonnecchiare, ma questo dubbio venne fugato una volta per

168
tutte il giorno in cui un avvocato fece cadere di proposito una pila di libri, nel
disperato tentativo di scuoter il giudice.
Senza aprir gli occhi, il giudice Taylor mormorò: "Signor Whitley, lo
faccia un'altra volta e le costerà un centinaio di dollari."
Era un giurista preparato, e benché sembrasse prendersela comoda, in
realtà teneva nel suo pugno di ferro le redini di tutti i processi. Soltanto una
volta il giudice Taylor rimase in panna in piena corte, e furono i Cunningham
a ridurlo così. Old Sarum, la loro zona, era popolata da due famiglie, in
origine separate e indipendenti, ma che portavano sfortunatamente lo stesso
cognome. I Cunningham cominciarono a sposare i Coningham, finché i due
cognomi praticamente non si distinsero più e compitarli divenne un fatto
puramente accademico. Un giorno un Cunningham litigò con un Coningham
circa il possesso di un terreno e ricorse in tribunale. Durante il dibattito, Jem
Cunningham testimoniò che sugli atti e sui documenti sua madre scriveva il
proprio nome "Cunningham," ma che in realtà era una Coningham, che non
conosceva l'ortografia, leggeva di rado, e qualche volta la sera, sedendo sotto
il portico, si metteva a fissare il vuoto. Dopo aver ascoltato per nove ore le
stranezze degli abitanti di Old Sarum, il giudice Taylor si rifiutò di emettere
sentenza, e richiesto su quale base si ritenesse in diritto a far ciò, rispose: "Le
parti hanno già preso accordi extragiudiziari," e dichiarò di sperare, in nome
di Dio, che le parti fossero soddisfatte per aver avuto ciascuna la possibilità
di dire la sua in pubblico. Le parti furono soddisfatte, perché infatti, fin
dall'inizio, era questo che volevano.
Il giudice Taylor aveva un'abitudine curiosa. Permetteva che si fumasse in
aula, ma lui se ne asteneva; talvolta, con un poco di fortuna, s'aveva il
privilegio di vederlo ficcarsi in bocca un lungo sigaro stagionato e masticarlo
lentamente. Un po' alla volta, il sigaro scompariva, per riapparire qualche ora
dopo sotto forma di poltiglia, mentre la sua essenza andava a mescolarsi ai
succhi gastrici del giudice. Una volta chiesi ad Atticus come facesse la
signora Taylor a baciare il marito, ma Atticus mi rispose che non si baciavano
molto.
Il banco dei testimoni si trovava alla destra del giudice, e quando ci
sedemmo Heck Tate vi aveva già preso posto.

169
capitolo diciassettesimo
"Jem," domandai, "sono gli Ewell quelli laggiù?"
"Zitta," disse Jem, "il signor Tate sta testimoniando."
Tate era in abito d'occasione. Portava un completo che lo faceva sembrare
un uomo come tutti gli altri: gli alti stivali, la giacca da barcaiolo e la
cartuccera erano scomparsi. Da quel momento non mi terrorizzò più. Sedeva
proteso in avanti sullo scanno dei testimoni, le mani congiunte tra le
ginocchia, ascoltando attentamente quel che diceva il Pubblico Ministero.
Questi era il signor Gilmer, di Abbotsville. Non lo conoscevamo bene
perché lo vedevamo solo quando in tribunale c'era udienza e anche allora
raramente, perché Jem ed io non bazzicavamo il tribunale. Calvo, dalla faccia
glabra, poteva avere indifferentemente quaranta o sessanta anni. Benché
fosse di spalle, sapevamo che aveva un occhio leggermente strabico e che
sapeva approfittarne: pareva sempre che ti fissasse e invece guardava da
tutt'altra parte. Era temutissimo dalle giurie e dai testimoni: i giurati,
credendosi osservati attentamente seguivano con diligenza le sue parole e
altrettanto facevano i testimoni, impauriti tutti dai suoi sguardi.
"...Con parole sue, signor Tate," stava dicendo il signor Gilmer.
"Bè," fece Tate, toccandosi gli occhiali e fissandosi le ginocchia, "mi
vennero a prendere..."
"Vuol dirlo alla giuria, signor Tate? Grazie. Chi venne a prenderla?"
"Mi venne a prendere Bob... il signor Bob Ewell, quello là," disse Tate.
"Era sera e..."
"Quando?"
"La sera del ventuno novembre," rispose Tate. "Stavo per uscire dal mio
ufficio per andare a casa, quando B... il signor Ewell entrò tutto eccitato e mi
disse di andar subito a casa sua, perché un negro aveva violentato sua figlia."
"E lei vi andò?"
"Certo. Saltai in macchina e corsi immediatamente dagli Ewell."
"E che cosa vide, quando arrivò?"
"La trovai distesa a terra, in mezzo alla stanza, la prima stanza a destra
entrando. Era abbastanza mal ridotta ma la aiutai ad alzarsi in piedi e lei si
lavò la faccia in un secchio che stava nell'angolo e disse che ormai stava
bene. Le chiesi chi fosse stato a ridurla così, e lei disse che era stato Tom
Robinson..."

170
Il giudice Taylor, che stava scrutandosi le unghie, alzò gli occhi come se
si aspettasse un'obiezione, ma Atticus tacque.
"...Le chiesi se fosse stato lui a ridurla così e lei disse di sì.
Le chiesi se avesse abusato di lei, e disse di sì. Allora andai a casa di
Robinson e lo portai dagli Ewell. Lei lo identificò per l'uomo che l'aveva
violentata e io lo portai dentro. Ecco tutto."
"Grazie," disse il signor Gilmer.
Il giudice Taylor chiese: "Nessuna domanda, Atticus?"
"Sì," rispose mio padre. Era seduto al suo tavolo, con la sedia un po'
spostata di lato; aveva le gambe incrociate e un braccio appoggiato alla
spalliera della seggiola.
"Chiamò un dottore, sceriffo? Lei, o qualcun altro?..." chiese Atticus.
"Nossignore," disse Tate.
"Nessuno chiamò un dottore?"
"Nossignore," ripeté Tate.
"Perché?" chiese Atticus, con una nota aspra nella voce.
"Bè, glielo dirò perché non lo chiamai, signor Finch: non era necessario.
La ragazza era tutta pesta, era evidente che le era successo qualcosa."
"Ma non chiamò un dottore? E mentre lei si trovava lì, nessuno mandò a
chiamare un dottore o andò a prenderlo o portò la ragazza dal dottore?"
"Nossignore..."
Il giudice Taylor interruppe. "Ha risposto alla domanda tre volte, Atticus.
Non chiamò un dottore."
Atticus disse: "Volevo soltanto esserne sicuro, giudice." Il giudice sorrise.
Vidi la mano di Jem stringere la balaustra e lo udii trattenere il respiro.
Guardando nell'aula, non vidi nulla che giustificasse quel contegno e mi
chiesi se per caso non posava. Dill seguiva tranquillo il dibattito e così pure il
reverendo Sykes, accanto a lui. "Che cosa succede?" bisbigliai, ma come
risposta ottenni un laconico "Ssst!"
"Sceriffo," stava dicendo Atticus, "lei afferma che la ragazza era tutta
pesta: vuole spiegarmelo?"
"Bè..."
"Descriva le sue ferite, Heck."
"Bè, aveva dei segni sulla testa e le stavano venendo fuori dei lividi sulle
braccia: la cosa era successa una trentina di minuti prima..."
"Come lo sa?"
Tate sorrise. "Domando scusa, sono stati loro a dirmi così. In ogni modo
la ragazza era tutta contusa quando arrivai io, e un occhio le stava diventando

171
nero..."
"Quale occhio?"
Il signor Tate batté le palpebre e si passò una mano tra i capelli.
"Vediamo..." disse piano, poi guardò Atticus come se la domanda gli
sembrasse puerile.
"Non lo ricorda?" chiese Atticus.
Tate alzò un dito come se indicasse una persona invisibile a pochi
centimetri da sé e disse: "Il sinistro."
"Un momento, sceriffo," disse Atticus, "il suo occhio sinistro stando di
fronte a lei o l'occhio sinistro visto dalla sua posizione?"
Tate disse: "Già... allora vuol dire che era... il destro. Era l'occhio sinistro,
signor Finch, ora ricordo: era tutta pesta da questa parte del viso..."
Tate batté le palpebre di nuovo, come se avesse improvvisamente capito
qualcosa. Poi volse la testa e guardò Tom Robinson. Come per istinto, Tom
alzò la testa.
Anche ad Atticus qualcosa d'un tratto si era chiarito. Si alzò in piedi.
"Sceriffo, ripeta per favore quel che ha detto."
"Ho detto che era l'occhio destro della ragazza..."
"No..." Atticus andò al tavolo del cancelliere, chinandosi sulla mano che
scriveva furiosamente. La mano si fermò, scorse all'indietro il blocco
stenografico e il cancelliere lesse: ""Signor Finch, ora ricordo: era tutta pesta
da questa parte del viso.""
Atticus guardò Tate. "Allora, quale parte era, Heck?"
"La parte destra, signor Finch, ma aveva anche altre contusioni: vuole che
gliele descriva?"
Mi parve che Atticus esitasse: "Sì, quali altre contusioni aveva?"
Mentre Tate rispondeva, Atticus si voltò a guardare Tom Robinson come
per dire: questo non lo avevamo previsto.
"...Aveva dei lividi sulle braccia e mi mostrò anche il collo: c'erano segni
di dita molto netti sulla gola."
"Tutto intorno alla gola? Anche dietro al collo?"
"Direi che erano tutto intorno, signor Finch."
"Direbbe?..."
"Sissignore: aveva una gola piccola, chiunque avrebbe potuto chiuderla
tra..."
"Risponda alla domanda con un sì o un no, sceriffo," disse Atticus
asciutto, e Tate tacque.

172
Atticus sedette facendo segno al pubblico ministero, questi scosse la testa
e guardò il giudice, che fece segno al signor Tate il quale si alzò, rigido, e
scese dal banco dei testimoni.
Nell'aula, sotto di noi, vi fu una certa agitazione: teste che si voltavano,
uno scalpiccio di piedi che cambiavano posizione, bimbi che venivano alzati
sulle spalle e ragazzi che scappavano fuori dall'aula. Dietro di noi, i negri
bisbigliavano tra loro; Dill chiese al reverendo Sykes che cosa succedesse e il
reverendo rispose che non lo sapeva. Fin qui il processo era stato noioso:
nessuno aveva gridato, non vi erano state discussioni tempestose tra
avvocati, non c'era dramma: il pubblico pareva deluso. Atticus procedeva
con garbo nei suoi interrogatori, come in una causa civile. Con la sua
straordinaria capacità di calmare le acque turbolente, era riuscito a rendere
arido come un sermone un caso di violenza carnale. Dalla mia mente si era
ormai completamente dileguato il terrore che fino a poche ore prima
collegavo a un odore di stalla e di pessimo whisky, di uomini torvi e
assonnati, al suono di una voce roca che sussurrava nel buio: "Sono andati
via, signor Finch?" L'incubo era svanito con la luce del giorno: tutto si
sarebbe risolto nel migliore dei modi.
Tutti erano calmi come il giudice Taylor, eccetto Jem. Torceva le labbra
quasi in un ghigno e aveva lo sguardo trasognato. Quando poi parlò di
"evidenza corroborante" mi convinsi che posava.
"...Robert È Lee Ewell!"
Al rimbombo della voce del cancelliere un ometto che pareva un gallo si
alzò e trotterellò fino al banco dei testimoni, il collo tutto rosso a sentirsi
chiamare. Quando fece il giro per andare a prestar giuramento, vedemmo che
anche la faccia era scarlatta, e che in fondo la somiglianza col generale Lee si
limitava al nome. Un ciuffo di capelli lisci come se fossero stati lavati di
fresco gli stava dritto sulla fronte; aveva il naso sottile, aguzzo e lucido, ed
era quasi senza mento, perché quei poco che aveva era tutt'uno con la gola
grinzuta.
"...E che Dio mi sia testimone," gracchiò.
In tutte le città grandi quanto Maycomb esistono famiglie come gli Ewell.
Non c'è progresso o regresso economico capace di modificare la loro
condizione, perché la gente come gli Ewell vive sulle spalle della contea sia
nella prosperità che nella depressione. Non esistono ispettori capaci di
obbligare la loro numerosa figliolanza a frequentar la scuola, né ufficiali
sanitari capaci di liberarli dalle deficienze congenite, dai vermi e dai mali
legati all'ambiente squallido in cui vivono.

173
Gli Ewell di Maycomb vivevano dietro lo scaricatoio, in una vecchia
capanna di negri. Le pareti di tavole della capanna erano state rafforzate con
fogli di lamiera ondulata e il tetto munito di false tegole, ottenute appiattendo
a martellate dei vecchi barattoli, e ormai soltanto la sua sagoma ricordava il
primitivo disegno: era quadrata, con quattro stanzette che davano in un
ripostiglio centrale che conteneva le munizioni per la caccia di frodo, e
poggiava malamente su blocchi di pietra irregolari. Le finestre erano buchi
aperti nei muri, che d'estate venivan ricoperti di strisce di garza unta per tener
fuori gli insetti che banchettavano sui rifiuti di Maycomb.
Gli insetti però dovevano passarsela male, perché tutti i giorni gli Ewell
spigolavano accuratamente il mucchio dei rifiuti, e i frutti della loro industria
(quelli che non andavano a finire in pentola,) utilizzati nei modi più svariati,
trasformavano il terreno attorno alla capanna nel campo da gioco di un
bambino scemo: c'era una specie di steccato fatto di rami, manici di scopa e
di altri attrezzi, sormontati da teste di martello arrugginite, rastrelli con i denti
rotti, pezzi di zappe, accette e sarchielli, fissati con filo spinato. Il cortile
sporco delimitato da quella barricata conteneva i resti di una Ford modello T
(senza ruote,) un'antiquata poltrona da dentista, una vecchia ghiacciaia e vari
altri oggetti, come scarpe sfondate, apparecchi radio sfasciati, cornici di
quadri e barattoli di tutti i generi, tra i quali sparuti polli color arancione
andavan beccando pieni di speranza.
Ma quello che più di tutto meravigliava Maycomb era un angolo del
cortile dove si vedevano, ben disposti in fila contro lo steccato, sei recipienti
scheggiati di terraglia smaltata contenenti gerani di un bel rosso brillante, che
venivano annaffiati e curati con tanta premura quanta ne avrebbe potuto
avere miss Maudie Atkinson, ammesso che si degnasse di coltivare gerani nel
suo giardino. La gente diceva che erano di Mayella Ewell.
Nessuno sapeva con certezza quanti bambini vi fossero. Chi diceva sei,
chi diceva nove; passando di là si vedevano sempre una quantità di faccine
sporche alle finestre, ma di solito nessuno aveva occasione di passar di là se
non a Natale, quando le chiese distribuivano i pacchi dono ai poveri e il
sindaco di Maycomb chiedeva alla cittadinanza di dare una mano
all'incaricato della nettezza urbana portando allo scarico le immondizie, gli
alberi di Natale disfatti e tutte le cartacce e i rifiuti che si accumulano nelle
case durante le feste.
Il Natale prima Atticus, andando allo scaricatoio per aderire alla richiesta
del sindaco, ci aveva portati con sé. Dalla strada asfaltata partiva una stradina
che conduceva allo scaricatoio e proseguiva fino a un piccolo abitato di

174
negri, circa cinquecento metri dopo gli Ewell. Per ritornare sulla strada
maestra bisognava far marcia indietro, o arrivare fino in fondo alla strada per
girare l'automobile nei cortili dei negri, e così facevano quasi tutti. Nel gelido
crepuscolo di dicembre le capanne dei negri avevano l'aria pulita e calda, con
il fumo azzurro pallido che usciva dai comignoli e i vani delle porte che
mandavano bagliori d'ambra per i fuochi all'interno. Intorno si sentivano
odori deliziosi: pollo, lardo che friggeva fino a diventar croccante e fragile
come l'aria invernale.
Jem ed io riconoscevamo l'arrosto di scoiattolo, ma soltanto uno esperto
come Atticus poteva identificare l'odore dell'opossum e del coniglio
selvatico, aromi che svanivano appena passavamo davanti agli Ewell.
L'unica superiorità che l'ometto sul banco dei testimoni poteva vantare sui
propri vicini di casa consisteva nel fatto che, a strofinarlo con la lisciva e
acqua molto calda, si sarebbe scoperto che la sua pelle era bianca.
"Il signor Robert Ewell?" chiese il signor Gilmer.
"Sono io, capo," disse il testimone.
A quell'uscita il signor Gilmer si irrigidì, e mi dispiacque per lui. Forse
sarà meglio spiegare subito una cosa. Ho sentito dire che i figli degli avvocati
nel vedere i loro padri sostenere violentissime discussioni in tribunale, si
fanno l'idea sbagliata che il pubblico ministero sia nemico personale dei loro
padri e ne soffrono moltissimo; poi, alla prima pausa, vedono il proprio
padre a braccetto con il proprio aguzzino, come spesso capita, e non sanno
più che cosa pensare. Questo a Jem e a me non accadeva. Il fatto di veder
nostro padre vincere o perdere non ci provocava traumi psichici. Mi dispiace
di non poter fare rivelazioni drammatiche in proposito, ma sarebbero
inventate di sana pianta. Anche noi eravamo in grado di distinguere quando il
dibattito degenerava, da professionale in personale e acrimonioso, ma questo
accadeva ad altri avvocati, non a nostro padre. Non intesi mai Atticus alzare
la voce in vita mia, salvo quando un testimone era sordo. Il signor Gilmer
faceva il suo mestiere, come Atticus faceva il proprio. Nel caso in questione,
il signor Ewell era un teste citato dal signor Gilmer e non aveva proprio
ragione di fare lo spaccone con lui.
"Lei è il padre di Mayella Ewell?" fu la seconda domanda.
"Bè, se poi non lo sono, non posso farci niente, ormai: sua madre è
morta!" fu la risposta.
Il giudice Taylor si scosse. Volgendosi lentamente nella sua poltrona
girevole, guardò con aria benigna il testimone. "Lei è il padre di Mayella
Ewell?" chiese con un tono che fece arrestar di colpo la risata del pubblico.

175
"Sì, signore," rispose Ewell in tono sottomesso.
Il giudice continuò, bonariamente. "È la prima volta che viene in
tribunale? Non mi pare di averla mai vista, qui." Al cenno di testa
affermativo del teste continuò: "Allora chiariamo subito una cosa. Finché io
sto seduto a questo posto, non intendo che vengano usate espressioni oscene
di qualsiasi genere e da parte di chiunque. Capito?"
Il signor Ewell fece segno di sì, ma dubito che avesse capito.
Il giudice Taylor sospirò: "Va bene, signor Gilmer?"
"Grazie, signore. Signor Ewell, vuol dirci con parole sue quel che
accadde la sera del ventuno novembre scorso?"
Jem sorrise e si ricacciò indietro i capelli sulla fronte. "Con parole sue..."
era il marchio di fabbrica del signor Gilmer. Spesso ci domandavamo: delle
parole di chi il signor Gilmer teme che il testimone faccia uso?
"Bè, la notte del ventuno novembre ritornando dal bosco con un carico di
sterpi per il fuoco, ero appena arrivato alla staccionata che sento dentro casa
Mayella che strilla come un maiale sgozzato..."
Il giudice Taylor guardò attentamente il teste, ma non dovette ravvisare
cattive intenzioni in quella similitudine, perché riprese la sua aria
addormentata.
"Che ora era, signor Ewell?"
"Poco prima del tramonto. Dunque, come dicevo, Mayella strillava che
svegliava i morti..." un'altra occhiata dal seggio del giudice fece tacere del
tutto il signor Ewell.
"E allora? Strillava..."
Ewell guardò confuso il giudice. "Bè, Mayella faceva l'ira di Dio e io
butto per terra la legna e corro di gran carriera verso casa, ma vado a
incappare nella stecconata. Quando riesco a liberarmi corro fino alla finestra
e vedo..." Il volto di Ewell si fece scarlatto. Si alzò in piedi e puntò il dito
contro Tom Robinson. "...vedo quel negro nero laggiù come una bestia in
fregola sulla mia Mayella!"
Di solito le udienze del giudice Taylor si svolgevano in un'atmosfera così
serena che egli aveva ben poche occasioni di usare il martelletto, questa volta
però martellò sul banco per buoni cinque minuti. Atticus si era alzato in piedi
e, avvicinatosi allo scranno, disse qualcosa al giudice, mentre Heck Tate,
come primo funzionario della contea, in piedi nel passaggio centrale, cercava
di calmare a gesti le reazioni dell'aula affollatissima. Dietro a noi si udiva il
tumulto, rabbioso, ma contenuto, dei negri. Il reverendo Sykes, chinandosi

176
verso me e Dill, toccò il gomito di Jem. "Signor Jem," disse, "sarà meglio che
accompagni la signorina Jean Louise a casa.
Signor Jem, mi sente?"
Jem voltò la testa. "Scout, va' a casa. Dill, tu e Scout andate casa!"
"Mi ci devi mandare con la forza," dissi, ricordando le parole di Atticus.
Jem mi guardò arrabbiatissimo, poi disse al reverendo Sykes. "Non
importa, reverendo, tanto non capisce niente..."
Rimasi mortalmente offesa. "Certo che capisco: capisco tutto quello che
capisci tu!"
"Zitta! Non capisce niente, reverendo, non ha nemmeno nove anni!"
Gli occhi neri del reverendo Sykes ebbero un'espressione ansiosa.
"Lo sa il signor Finch che siete tutti qui? Non è uno spettacolo adatto per
la signorina Jean Louise, e nemmeno per voi ragazzi!"
Jem scosse la testa. "Non ci può vedere da laggiù; non si preoccupi,
reverendo!"
Sapevo che Jem l'avrebbe spuntata, nulla avrebbe potuto convincerlo ad
andarsene, adesso. Dill e io potevamo star tranquilli almeno per il momento,
ma prima o poi, guardando dalla nostra parte, Atticus ci avrebbe visti.
Mentre il giudice Taylor continuava a picchiare il martello sul banco,
Ewell se ne stava seduto fresco e disinvolto nel seggio dei testimoni,
contemplando soddisfatto la propria opera. Con una sola frase, aveva
trasformato una massa di turisti spensierati in una folla risentita, tesa,
mormorante, che tuttavia, lentamente ipnotizzata dal picchiare del martello
che man mano decresceva di intensità, si andava calmando, finché il solo
rumore che si udisse nell'aula fu un lieve ticchettio, come se il giudice
battesse il banco con una matita.
Ripreso il controllo dell'aula, il giudice Taylor si appoggiò alla spalliera
della poltrona. Pareva improvvisamente stanco: la sua età si vedeva ora, e
pensai a quel che aveva detto Atticus: il giudice e la signora Taylor non si
baciavano molto; doveva aver quasi settant'anni.
"Mi è stato richiesto," disse il giudice, "di far sgombrare l'aula dal
pubblico o almeno dalle donne e dai bambini, richiesta che per il momento
respingo. La gente vede e ode quello che vuol vedere e sentire, e ciascuno ha
il diritto di portar con sé i propri ragazzi, se crede; posso però precisarvi una
cosa, che a partire da questo istante vedrete e ascolterete in silenzio, altrimenti
lascerete l'aula: e prima di lasciarla vi sentirete invitati tutti quanti a comparire
dinanzi a me con l'accusa di offesa alla dignità della legge. Signor Ewell, lei

177
mantenga la sua testimonianza entro i limiti di un contegno civile e dell'uso
della lingua inglese, se possibile. Proceda, signor Gilmer."
Ewell mi faceva pensare a un sordomuto. Ero sicura che non aveva udito
nemmeno le parole del giudice; si vedeva la sua bocca muoversi, come se
cercasse di ripeterle, ma il loro senso dovette afferrarlo perché cambiò
espressione in volto: all'aria disinvolta seguì una serietà caparbia, dalla quale
però il giudice non si lasciò ingannare. Finché Ewell rimase sul banco dei
testimoni, gli tenne gli occhi addosso, come sfidandolo a fare un altro passo
falso.
Il signor Gilmer e Atticus si scambiarono un'occhiata. Atticus si era
rimesso a sedere, con la guancia appoggiata al pugno, e non lo vedevamo in
volto; il signor Gilmer pareva scoraggiato. Una domanda del giudice gli fece
ritrovare la calma: "Signor Ewell, vide l'imputato aver rapporti sessuali con
sua figlia?"
"Sì, lo vidi."
Il pubblico restò calmo, ma l'imputato si lasciò sfuggire due o tre parole.
Atticus gli sussurrò qualcosa e Tom Robinson tacque.
"Stava fuori, davanti alla finestra?" chiese il signor Gilmer.
"Sissignore."
"Quanto è alta la finestra da terra?"
"Circa un metro."
"E da fuori si poteva veder bene dentro la stanza?"
"Sissignore."
"Che cosa si vedeva?"
"Era tutto per aria, come se ci fosse stata una lotta."
"E che cosa fece quando vide l'imputato?"
"Feci di corsa il giro della casa per entrare, ma egli uscì correndo dalla
porta davanti un attimo prima. Vidi benissimo chi era... ma ero troppo
disperato per Mayella, per corrergli dietro. Corsi in casa e lei stava stesa sul
pavimento e urlava..."
"E allora che cosa fece?"
"Corsi a cercare Tate più presto che potevo. Sapevo benissimo chi era
stato, sapevo che viveva laggiù in quella tana di negri e che passava davanti
casa mia tutti i giorni. Giudice, son quindici anni che ho chiesto a questa
contea di ripulire quella tana laggiù, perché sono pericolosi a viverci vicino,
senza dire che mi deprezzano la proprietà..."
"Grazie, basta così, signor Ewell," disse Gilmer in fretta.

178
Il testimone scese rapido dal seggio, scontrandosi con Atticus che si era
alzato per interrogarlo. Il giudice Taylor permise alla corte di ridere.
"Un attimo solo, signore," disse Atticus, gioviale. "Potrei farle un paio di
domande?"
Ewell tornò indietro verso la sedia dei testimoni, vi si sistemò e guardò
Atticus con sdegnosa diffidenza, espressione che assumono generalmente
tutti i testimoni della contea di Maycomb nel trovarsi di fronte all'avvocato di
parte avversa.
"Signor Ewell," cominciò Atticus, "pare che tutti abbiano corso molto,
quella sera. Vediamo un poco: lei dice d'esser corso verso casa, poi alla
finestra, poi dentro; è corso accanto a Mayella, è corso a cercare Tate. In tutto
questo suo correr su e giù, per caso non è corso anche dal dottore?"
"Non ce n'era bisogno del dottore: avevo visto io quel che era successo."
"Ma c'è una cosa che non capisco," disse Atticus. "Non era preoccupato
per Mayella?"
"Sì che ero preoccupato," disse Ewell. "Avevo ben visto chi era stato!"
"No, io parlo delle condizioni fisiche di sua figlia. Non le venne in mente
che il genere di torto che le era stato fatto richiedeva un'immediata assistenza
medica?"
"Eh?"
"Non pensò che bisognava farla visitare da un dottore, immediatamente?"
Il teste disse che non ci aveva nemmeno pensato, che non aveva mai
chiamato un dottore per nessuno dei suoi in tutta la sua vita e che se lo
avesse fatto gli sarebbe costato cinque dollari. "Posso andare?" concluse.
"Non ancora," disse Atticus con aria distratta. "Signor Ewell, ha udito la
testimonianza dello sceriffo, vero?"
"Come sarebbe?"
"Era in quest'aula quando il signor Heck Tate rendeva la sua
testimonianza, non è vero? Ha udito tutto quel che ha detto, vero?"
Ewell rifletté ben bene la domanda: evidentemente concluse che non
presentava tranelli.
"Sì," disse.
"È d'accordo su quanto lui ha detto circa le contusioni di Mayella?"
"Come sarebbe?"
Atticus cercò con lo sguardo il signor Gilmer e sorrise. Pareva che Ewell
fosse ben deciso a non dire alla difesa nemmeno che tempo facesse, per non
compromettersi. "Il signor Tate ha dichiarato che sua figlia aveva un occhio
nero, il destro, che era tutta contusa sulla..."

179
"Ah sì," disse il teste. "Riconosco tutto quanto ha detto Tate."
"Davvero?" disse Atticus, con dolcezza. "Vorrei soltanto assicurarmene."
Si avvicinò allo stenografo, gli disse qualcosa, e lo stenografo ci intrattenne
per alcuni minuti con la lettura della testimonianza del signor Tate. Lo faceva
con il tono con cui si leggono le quotazioni di borsa: "Quale occhio il sinistro
ah sì allora vuol dire che era il destro era l'occhio destro signor Finch ora
ricordo era tutta pesta." Voltò la pagina. "Da questa parte del viso sceriffo
ripeta per favore quel che ha detto ho detto che era l'occhio destro della
ragazza..."
"Grazie Bert," disse Atticus. "Ha sentito, signor Ewell, ha niente da
aggiungere?"
"Riconosco quello che dice Tate. Aveva l'occhio nero ed era tutta pesta."
Pareva che l'ometto avesse dimenticato l'umiliazione inflittagli poco prima
con il rabbuffo del giudice; era evidente che ormai non considerava più
Atticus come un avversario pericoloso. Il sangue gli salì al viso e il petto gli
si gonfiò, tendendo la camicia: era ritornato il galletto rosso di poco prima.
Alla domanda che gli fece subito dopo Atticus, pareva che stesse per
scoppiare dalla rabbia.
"Ewell, sa leggere e scrivere?"
Il signor Gilmer interruppe. "Mi oppongo," disse. "Non vedo che
attinenza ha col caso la cultura del teste. Domanda non pertinente e
irrilevante."
Il giudice Taylor stava per parlare, ma Atticus disse: "Giudice, se lei mi
autorizza a fare questa domanda, e un'altra ancora, lor signori si renderanno
subito conto del perché le faccio."
"D'accordo, rendiamocene conto," disse il giudice, "ma rendiamocene
conto davvero, Atticus. Obiezione respinta."
Il signor Gilmer pareva curioso quanto noi di capire quale relazione
avesse con il caso l'istruzione del signor Ewell.
"Allora ripeterò la domanda," disse Atticus. "Sa leggere e scrivere?"
"Certo che so scrivere."
"Vuole scrivere il suo nome e mostrarcelo?"
"Certo che lo scrivo. Come crede che le firmo, le ricevute degli assegni
assistenziali?"
Ewell stava diventando simpatico ai suoi concittadini. I bisbigli e le
risatine, di sotto, commentavano forse la sua faccia tosta.
Stavo diventando nervosa. Pareva che Atticus sapesse quel che faceva,
ma a me dava l'idea di uno che va a pesca di rane senza fanale. Mai, in un

180
controinterrogatorio, l'avvocato deve fare una domanda di cui non gli sia
nota la risposta: era una norma che avevo assorbito insieme al latte,
nell'infanzia. Contravvenire a questa regola ferrea significa esporsi al pericolo
di provocare una risposta non voluta, una risposta che può far crollare
l'intero castello della difesa.
Infilata una mano nella tasca interna della giacca, Atticus ne estrasse una
busta, poi portò la mano al panciotto staccando la stilografica dal taschino. Si
muoveva con molta calma e si era voltato in maniera che la giuria potesse
seguire perfettamente tutti i suoi movimenti. Svitò il cappuccio della penna e
lo pose dolcemente sul tavolo. Scosse un poco la penna, poi la porse al teste
insieme con la busta. "Vuole scrivere il suo nome e farcelo vedere? Faccia
con calma, così la giuria può vederla scrivere!"
Ewell scrisse sul retro della busta e guardò in su compiaciuto: vide il
giudice Taylor che lo fissava come se invece di lui scorgesse sul banco dei
testimoni una gardenia in pieno rigoglio; vide il signor Gilmer che si era
alzato a metà dalla sedia. Anche la giuria guardava con attenzione, e un
giurato si sporse, per guardar meglio, con le mani sulla ringhiera.
"Che cosa c'è di tanto interessante da vedere?" chiese.
"Lei è mancino, signor Ewell," disse il giudice Taylor.
Ewell si volse rabbiosamente verso il giudice e disse che non capiva che
cosa importava questo, lui era un timorato di Dio e Atticus Finch se ne
approfittava. Gli avvocati che usano trucchi come Atticus Finch
approfittavano sempre di lui, con i loro imbrogli.
Aveva raccontato quel che era successo, lo avrebbe ripetuto mille volte; e
lo ripeté. A partire da quel momento, tutte le domande che Atticus gli fece
non gli fecero modificare minimamente la sua storia: aveva guardato dalla
finestra, aveva messo in fuga il negro ed era corso in cerca dello sceriffo.
Finalmente Atticus lo lasciò andare.
Il signor Gilmer gli fece un'altra domanda. "Lei scrive con la sinistra: è
ambidestro, signor Ewell?"
"Neanche per sogno: per me usare una mano o l'altra è tale e quale.
Proprio tale e quale," ripeté, con un'occhiata di fuoco al tavolo del
difensore.
Jem pareva in preda a un attacco di silenzioso entusiasmo: si era messo a
battere pian piano il pugno sulla ringhiera della balconata, bisbigliando: "Lo
abbiamo in mano, ormai!"
Io non la pensavo così: secondo me, Atticus cercava di dimostrare che
poteva esser stato Bob Ewell a picchiare Mayella: fin lì ci arrivavo. Che la

181
ragazza avesse l'occhio destro nero e la maggior parte delle contusioni sulla
parte destra del volto, poteva essere una prova che chi l'aveva picchiata era
mancino. Sherlock Holmes e Jem Finch sarebbero stati d'accordo. Ma anche
Tom Robinson poteva essere mancino. Come aveva fatto Heck Tate,
immaginai di avere una persona dinanzi a me, feci una rapida pantomima
mentale e conclusi che Tom poteva aver tenuto ferma la ragazza con la destra
mentre la pestava con la sinistra. Lo guardai dall'alto della balconata. Ci
voltava la schiena, ma vedevo le sue larghe spalle e il collo taurino. Poteva
benissimo esser stato lui. Forse Jem correva troppo con la fantasia.

182
capitolo diciottesimo
Intanto qualcuno chiamava ad alta voce: "Mayella Violet Ewell!"
Una ragazza si diresse al banco dei testimoni. Quando alzò la mano e
giurò che avrebbe dichiarato la verità, tutta la verità e niente altro che la
verità e che Dio le era testimone, sembrò una fragile creatura, ma quando
sedette di fronte a noi al banco dei testimoni, ridivenne quella che era, e cioè
una ragazzona massiccia, avvezza ai lavori pesanti.
A Maycomb era facile distinguere chi si lavava regolarmente da chi si
lavava una volta l'anno; Ewell pareva scottato con l'acqua calda come se,
immerso nell'acqua e sapone improvvisamente, avesse perso gli strati
protettivi di sporcizia e la sua pelle fosse ridiventata sensibile agli elementi. A
guardar Mayella si aveva l'impressione che cercasse di tenersi pulita; mi
ricordai così della fila di gerani rossi nel suo cortile.
Il signor Gilmer chiese a Mayella di dire alla giuria con parole sue che
cosa fosse accaduto la sera del ventuno novembre scorso: con parole sue, per
favore.
Mayella rimase in silenzio.
"Dove si trovava quella sera sull'imbrunire?" esordì il signor Gilmer
pazientemente.
"Sotto il portico."
"Quale portico?"
"Ce n'è uno solo: davanti alla casa."
"Che cosa faceva sotto il portico?"
"Niente."
Il giudice Taylor disse: "Ci racconti soltanto quel che accadde: questo lo
può fare, no?"
Mayella lo guardò in faccia e scoppiò in lacrime. Si coprì la bocca con le
mani e singhiozzò. Il giudice Taylor la lasciò piangere un poco, poi disse:
"Adesso basta. Non deve aver paura di nessuno, purché dica la verità. Tutto
questo le riesce nuovo e strano, lo so, ma non ha nulla da vergognarsi e nulla
da temere. Di che cosa ha paura?"
Mayella disse qualcosa di dietro le mani. "Che cosa ha detto?" chiese il
giudice.
"Lui," la ragazza singhiozzò, indicando Atticus.
"Il signor Finch?"

183
La ragazza assentì vigorosamente, poi disse: "Non voglio che faccia anche
a me quel che ha fatto a mio padre, che ha cercato di farlo passare per
mancino..."
Il giudice Taylor si grattò tra i folti capelli bianchi. Non si era mai trovato
in una situazione del genere, era chiaro. "Quanti anni ha?" chiese.
"Diciannove e mezzo," disse Mayella.
Il giudice si schiarì la gola e cominciò a parlare in un tono che credeva
rassicurante. "Il signor Finch non pensa affatto a farle paura," grugnì, "e
anche se ci pensasse, sono qua io per farlo smettere. Questa è una delle
ragioni per cui son seduto su questo seggio. Lei è una ragazza grande, quindi
stia seduta diritta e ci dica la... ci dica quel che è accaduto. Questo lo può
fare, non è vero?"
Sussurrai a Jem: "Secondo te, ha cervello?"
Jem si torceva per veder bene il banco dei testimoni. "Non lo so ancora,"
rispose. "È già riuscita a commuovere il giudice, ma forse lo faceva... Bè,
non lo so."
Raddolcita, Mayella lanciò ad Atticus un ultimo sguardo terrorizzato e
disse al signor Gilmer: "Allora, signore, stavo sul portico e... e lui si avvicinò
e, sa, in cortile c'era un vecchio mobile che papà aveva portato per farne
legna da ardere. Papà mi disse di spaccarlo mentre lui era nel bosco, ma io
non mi sentivo abbastanza forte. Allora siccome passava lui..."
"Chi "lui"?"
Mayella indicò Tom Robinson. "Devo chiederle di esser più precisa,"
disse il signor Gilmer. "Il cancelliere non è capace di mettere per iscritto i
gesti."
"Quello laggiù," disse lei, "Robinson."
"Allora che cosa accadde?"
"Dissi: vieni qua, negro, e spaccami questo mobile, ti darò un ventino.
Per lui era una fatica da niente. così entrò in cortile e io entrai in casa per
prendere il ventino. Appena mi voltai, in un baleno lo avevo addosso. Mi era
corso dietro. Mi acchiappa per il collo, bestemmiando e dicendo porcherie...
lottavo e urlavo, ma mi teneva per il collo. Mi picchiò, ripetutamente..."
Il signor Gilmer attese che Mayella si riprendesse; passandosi il fazzoletto
tra le mani calde la ragazza l'aveva ridotto a una specie di corda bagnata di
sudore; quando lo spiegò per asciugarsi il viso era tutto stazzonato. Attese che
il signor Gilmer le facesse un'altra domanda, ma quando vide che egli non le
chiedeva più nulla, disse: "Mi sbatté per terra e mi strinse alla gola e
approfittò di me."

184
"E lei gridò?" chiese Gilmer. "Gridò, fece resistenza?"
"Io? sì, urlavo con quanto fiato avevo in gola: scalciavo e urlavo più forte
che potevo."
"Poi che cosa accadde?"
"Non ricordo bene, ma la prima cosa di cui mi accorsi fu che papà era
entrato nella stanza e stava sopra di me guardandomi e strepitando per sapere
chi era stato. Poi ebbi una specie di svenimento, e dopo un pezzo mi accorsi
che il signor Tate mi aveva rialzato e mi portava vicino al secchio dell'acqua."
A quanto pareva, nel fare il suo racconto Mayella aveva ripreso animo,
tuttavia non aveva l'impudenza di suo padre: dava l'impressione di una
persona circospetta, e mi ricordava un gatto con gli occhi fissi e la coda che
si muove nervosamente.
"Dice di aver fatto resistenza e di essersi difesa con tutte le forze. Si difese
con le unghie e coi denti?" chiese il signor Gilmer.
"Io sì che mi difesi con le unghie e coi denti!" Mayella usava l'intercalare
del padre.
"È sicura che abusò veramente di lei?"
Il volto di Mayella si contrasse: temevo che si sarebbe messa di nuovo a
piangere. Invece disse: "Fece quel che aveva in mente di fare."
Il signor Gilmer fece notare che faceva molto caldo, asciugandosi il volto
con le mani. "Questo è tutto, per il momento," disse affabilmente, "ma
rimanga pure seduta. Credo che il cattivo signor Finch abbia qualcosa da
chiederle."
"Il pubblico ministero non può predisporre sfavorevolmente il testimone
contro l'avvocato difensore," mormorò severo il giudice Taylor, "almeno non
ancora."
Atticus si alzò sorridendo, ma invece di avvicinarsi alla teste si sbottonò
la giacca infilandosi i pollici nel panciotto, e attraversò lentamente la stanza
andando verso i finestroni. Guardò fuori ma senza molto interesse, poi si
volse e ritornò verso la teste. La mia esperienza mi diceva che in quel
momento stava cercando di prendere una decisione.
"Signorina Mayella," disse sorridendo, "cercherò di non spaventarla,
almeno per il momento. Facciamo conoscenza invece.
Quanti anni ha?"
"Ho detto che ne avevo diciannove, l'ho detto a quel giudice là," e con un
gesto del capo Mayella indicò risentita il seggio del giudice.
"Bene, bene. Deve aver pazienza con me, signorina Mayella, non son più
tanto giovane e la mia memoria non è più buona come una volta. Può darsi

185
che le chieda cose che ha già detto, ma lei mi risponderà lo stesso, vero?
Bene."
Nulla, nell'espressione di Mayella, lasciava credere che Atticus l'avesse
convinta a collaborare amichevolmente con lui. Lo guardava invece furiosa.
"Non risponderò nemmeno una parola se prima non la pianta di
canzonarmi," disse.
"Come dice?" fece Atticus, stupito.
Il giudice Taylor disse: "Il signor Finch non la prende in giro: che cosa le
succede?"
Mayella guardò Atticus tra le palpebre abbassate, poi rispose al giudice:
"...se prima non la pianta di dirmi bene bene e signorina Mayella. Non sono
mica obbligata a sopportare il suo spirito."
Atticus ritornò verso i finestroni, lasciando al giudice quella gatta da
pelare. Taylor non era proprio il tipo da ispirare compassione, ma sentii una
ondata di simpatia per lui, mentre cercava di far ragionare quella ragazza.
"Vede, questo è il modo di fare del signor Finch," disse. "Sono tanti e tanti
anni che lavoriamo in questo tribunale e il signor Finch è sempre gentilissimo
con tutti. Non la sta prendendo in giro, al contrario, la tratta molto
gentilmente. È il suo modo di fare."
Il giudice si appoggiò allo schienale. "Atticus, cerchiamo di andare avanti,
e nel verbale venga riportato che la teste non è stata trattata con impertinenza,
nonostante la sua opinione in contrario."
Probabilmente nessuno l'aveva mai chiamata "signorina Mayella" in vita
sua, pensai, altrimenti non si sarebbe offesa per una cortesia più che naturale.
Quale poteva essere la vita di quella ragazza? Lo venni subito a sapere.
"Lei dice di aver diciannove anni," riprese Atticus, ritornando dal
finestrone alla teste, "quante sorelle e fratelli ha?"
"Sette," fu la risposta, e mi domandai se fossero tutti come il campione
che avevo visto il primo giorno di scuola.
"Lei è la più anziana? La più grande?"
"Sì."
"Quanto tempo fa è morta sua madre?"
"Non lo so, molto tempo fa."
"È mai andata a scuola?"
"So leggere e scrivere come papà."
"Quanto tempo ha frequentato la scuola?"
"Due, tre anni, non so."

186
Lentamente, ma sicuramente, cominciai a veder chiaro nelle domande di
Atticus: servendosi di domande che il signor Gilmer non poteva considerare
non pertinenti e quindi opporsi, Atticus stava costruendo con calma davanti
agli occhi della giuria un quadro della vita domestica degli Ewell. E la giuria
venne a sapere che il sussidio di disoccupazione non bastava neanche
lontanamente a dar da mangiare alla famiglia, e che i ragazzi sospettavano che
il papà se lo bevesse, perché a volte andava nella palude per giorni interi e
tornava a casa che stava male. Le scarpe: Bè, era raro che facesse tanto
freddo da averne bisogno, ma eventualmente se ne potevano fare di
bellissime con delle strisce di vecchi pneumatici. L'acqua la si attingeva col
secchio a una fonte che scorreva a una estremità dello scaricatoio - e loro
badavano a sgombrare tutt'intorno - e quanto al lavarsi, ognuno pensava per
sé: chi voleva lavarsi si tirava su l'acqua. I bambini più piccoli erano
eternamente raffreddati e soffrivano di eczema. C'era una donna che veniva
qualche volta e chiedeva a Mayella perché non andasse più a scuola e lei
scriveva la risposta su un pezzo di carta: con due membri della famiglia che
sapevano leggere e scrivere non c'era bisogno che imparassero anche gli altri,
il padre aveva bisogno di loro a casa.
"Signorina Mayella," disse Atticus involontariamente, "una ragazza di
diciannove anni avrà degli amici. Chi sono i suoi amici?"
La ragazza aggrottò la fronte come se non lo capisse. "Amici?"
"Sì, non conosce nessuno della sua età, o un po' più grande, o un po' più
giovane? Ragazzi, ragazze? Amici, amici normali?..."
L'ostilità di Mayella che per un po' si era limitata a una astiosa neutralità,
divampò di nuovo. "Ricomincia a canzonarmi, signor Finch?"
Atticus accettò la domanda della ragazza come una risposta, e non insisté.
"Vuole bene a suo padre, signorina Mayella?"
"Vuole bene? Che significa?"
"Voglio dire: è buono con voi, è un tipo con cui è facile andar
d'accordo?"
"È tollerabile, tranne quando..."
"Tranne quando?..."
Mayella guardò il padre che stava seduto con la sedia appoggiata alla
ringhiera.
"Tranne niente," disse Mayella. "Ho detto che è tollerabile."
Ewell si appoggiò di nuovo alla ringhiera.
"Tranne quando beve?" chiese Atticus, con tanto candore che Mayella
fece segno di sì.

187
"Gliene suona mai?"
"Come sarebbe?"
"Voglio dire: se si arrabbia la picchia mai?"
Mayella si guardò in giro, poi guardò il cancelliere e infine il giudice.
"Risponda alla domanda, signorina Mayella," disse il giudice Taylor.
"Papà non mi ha mai toccato un capello in tutta la mia vita," dichiarò,
decisa; "non mi ha mai toccata."
Gli occhiali di Atticus erano scivolati sul naso ed egli se li aggiustò. "Bè,
abbiamo fatto una bella chiacchierata, signorina Mayella, ora sarà bene
ritornare al nostro caso. Diceva che chiese a Tom Robinson di venire a
spaccare... a spaccare che cosa?"
"Un mobile, un vecchio comò pieno di cassetti da una parte."
"Conosceva bene Tom Robinson?"
"Che significa?"
"Voglio dire se sapeva chi era e dove viveva."
Mayella fece segno di sì. "Io sì che sapevo chi era, passava davanti casa
tutti i giorni."
"E quel giorno fu la prima volta che lei gli disse di entrare?"
Mayella trasalì leggermente a quella domanda. Atticus riprese il suo lento
pellegrinaggio ai finestroni: faceva una domanda e poi guardava fuori,
aspettando la risposta. Non vide l'involontaria mossa di Mayella, ma credo
che sapesse benissimo che aveva sussultato. Si volse e alzò le sopracciglia.
"Quel giorno..." ricominciò.
"Sì, era la prima volta."
"Non gli aveva mai chiesto di entrare in cortile prima di quel giorno?"
La ragazza si era ripresa e fu pronta a rispondere. "No, certamente no."
"Un no solo basta," disse Atticus con serenità. "Gli aveva già chiesto di
fare qualche lavoretto per voi?"
"Può darsi," concesse Mayella. "Ma di negri, in giro, ce ne eran tanti."
"Non ricorda qualche altra occasione?"
"No."
"Va bene. Ora torniamo a quel che accadde quella sera. Lei ha detto che
Tom Robinson era alle sue spalle nella stanza quando lei si voltò: esatto?"
"Sì."
"Ha detto che la prese per il collo imprecando e dicendo porcherie:
esatto?"
"Esatto."
Improvvisamente la memoria di Atticus era diventata molto precisa.

188
"Ha detto, "mi acchiappò, mi strinse alla gola e approfittò di me": esatto?"
"Sì, così ho detto."
"Ricorda che la picchiò in faccia?"
La ragazza esitò.
"Eppure sembra molto sicura che la prese alla gola. Nel frattempo lei si
stava difendendo, ricorda? Tirava calci e urlava con tutto il fiato che aveva in
gola. Ricorda che lui l'abbia picchiata in faccia?"
Mayella taceva. Pareva cercasse di chiarire qualcosa tra sé. Pensai per un
momento che, come il signor Tate e me, si figurasse di aver davanti un'altra
persona. Diede un'occhiata al signor Gilmer.
"È una domanda facile, signorina Mayella, proviamo di nuovo.
Ricorda che lui l'abbia picchiata in faccia?" La voce di Atticus non era
rassicurante come prima; parlava con la sua voce secca, distaccata,
professionale. "Ricorda che lui l'abbia picchiata in faccia?"
"No, non mi ricordo se mi picchiò. Voglio dire, sì, mi ricordo che mi
picchiò."
"Qual è la risposta? La seconda?..."
"Eh? sì, mi colpì, non mi ricordo, proprio non mi ricordo...successe così
in fretta..."
Il giudice Taylor guardò severamente Mayella. "Non pianga, ragazza..."
cominciò, ma Atticus disse: "La lasci piangere se lo desidera, giudice.
Abbiamo tutto il tempo."
Mayella tirò su col naso rabbiosamente e guardò Atticus.
"Risponderò a tutte le sue domande. Crede che mi ha fatto venire fin qui
per prendermi in giro? Risponderò a tutte le sue domande!"
"Così va bene," disse Atticus. "Ne son rimaste poche. Signorina Mayella,
non vorrei esser noioso, ma lei ha dichiarato che l'imputato la colpì, l'afferrò
per il collo, la strinse alla gola e abusò di lei. Voglio che sia sicura che l'uomo
che è qui è proprio quello, e non un altro: vuole identificare l'uomo che le
fece violenza?"
"Sì, è quello là."
Atticus si volse all'imputato. "Tom, alzati, che la signorina Mayella possa
guardarti bene. È questo l'uomo, signorina Mayella?"
Le spalle possenti di Tom Robinson si tesero sotto la camicia sottile. Si
alzò in piedi, rimanendo appoggiato con la mano destra alla spalliera della
sedia. Pareva stranamente sbilanciato, ma non perché non si tenesse diritto. Il
suo braccio sinistro era più corto del destro di una ventina di centimetri e gli
pendeva inerte sul fianco. Alla estremità del braccio si vedeva una mano

189
piccola e vizza, e anche da lontano capii che quel braccio non doveva
servirgli a nulla.
"Scout," sussurrò Jem, "guarda, Scout! Reverendo, è storpio!"
"Il reverendo Sykes si sporse davanti a me e bisbigliò a Jem: "Il braccio
gli rimase preso dentro la sgranatrice di cotone del signor Dolphus Raymond,
quando era ragazzo... gli uscì tanto sangue che stava per morire... gli si
strapparono tutti i muscoli dalle ossa..."
Atticus disse: "È questo l'uomo che la violentò?"
"Certo che è lui."
La seguente domanda di Atticus consisté in una sola parola: "Come?"
Mayella era infuriata. "Non so come ha fatto, ma l'ha fatto... ho già detto
che è successo tanto in fretta che io..."
"Su, consideriamo le cose con calma," cominciò Atticus, ma il signor
Gilmer s'oppose: questa volta Atticus cercava di intimidire la teste.
Il giudice rise francamente. "Via, siediti, Horace: che cosa ha fatto,
Atticus? Caso mai, è la teste che cerca di intimidire lui!"
Il giudice Taylor fu l'unico a ridere in tutta l'aula. Persino i neonati stavan
tranquilli, e per un attimo mi chiesi se fossero stati soffocati al petto dalle
loro madri.
"Dunque, signorina Mayella," riprese Atticus, "lei ha dichiarato che
l'imputato la strinse alla gola e la picchiò: non ha detto che le strisciò dietro e
le diede una botta in testa facendole perdere i sensi, ma che lei si voltò e lui
era lì, alle sue spalle..." Atticus era ritornato dietro al suo tavolo e
sottolineava le parole battendo le nocche sul piano. "...forse desidera
modificare la sua dichiarazione?"
"Vuole che racconti quello che non è successo?"
"Niente affatto, voglio che racconti quello che è successo! Ci dica ancora
una volta, per favore, quello che accadde."
"Gliel'ho detto quel che accadde."
"Lei ha dichiarato che si voltò e che lui era lì, alle sue spalle.
Fu allora che la strinse alla gola?"
"Sì."
"Poi lasciò andare la gola e la colpì sul viso?"
"L'ho già detto, sì."
"Le diede un colpo sull'occhio sinistro con il pugno destro?"
"Abbassai la testa e il colpo mi sfiorò, ecco che cosa successe. Io mi
scansai con la testa e lui mi sfiorò." Finalmente Mayella ci vedeva chiaro.

190
"Ecco che improvvisamente lei diventa molto precisa su questo. Fino a
poco fa non ricordava bene, vero?"
"Ho detto anche che mi aveva picchiata."
"Va bene. La prese alla gola, la colpì, poi la violentò: esatto?"
"Proprio così."
"Lei è una ragazza forte: che cosa fece nel frattempo? Stette lì a
prenderle?"
"Le ho detto che urlavo e tiravo calci e lottavo..."
Atticus si tolse gli occhiali, si volse a guardare la teste con l'occhio buono
e le rovesciò addosso una pioggia di domande. Il giudice disse: "Una
domanda alla volta, Atticus: dà alla teste una possibilità di rispondere!"
"Va bene. Perché non scappò via?"
"Cercai di scappare..."
"Cercò... E che cosa glielo impedì?"
"Io... lui mi buttò a terra. Ecco quel che fece, mi buttò a terra e mi saltò
addosso."
"E intanto lei strillava?"
"Certo che strillavo."
"Allora perché gli altri ragazzi non udirono? Dov'erano? Allo
scaricatoio?"
Nessuna risposta.
"Dov'erano? Com'è che le sue urla non li fecero accorrere? Il deposito è
più vicino dei boschi, non è vero?"
Nessuna risposta.
"O forse lei non urlò finché non vide suo padre alla finestra? Non pensò
nemmeno a strillare fino a quel momento, vero?"
Nessuna risposta.
"Non può darsi che prese a urlare solo quando vide suo padre, e non
contro Tom Robinson? È stato così?"
Nessuna risposta.
"Chi è che la picchiò? Tom Robinson o suo padre?"
Nessuna risposta.
"Che cosa vide suo padre dalla finestra? Una scena di violenza, o una di
resa? Perché non dici la verità, bambina, non è stato Bob Ewell a picchiarti?"
Quando smise di interrogare Mayella Atticus aveva una faccia strana,
come se gli facesse male lo stomaco, mentre il volto di Mayella era un misto
di terrore e di furia. Atticus sedette con aria stanca, pulendosi gli occhiali con
il fazzoletto.

191
D'un tratto Mayella ritrovò la parola. "Ho qualcosa da dire," dichiarò.
Atticus alzò la testa. "Vuol dirci quel che è accaduto?" Ma lei non udì
l'accento di compassione che vi era in quell'invito.
"Ho qualcosa da dire e poi non dirò più niente. Quel negro laggiù abusò
di me, e se voi bei signorini non volete fargli niente, allora siete tutti dei
vigliacchi fetenti, vigliacchi fetenti tutti quanti.
Le sue arie da signorino non servono proprio a niente, le sue maniere
signorina qua signorina là non attaccano con me, signor Finch!"
A questo punto Mayella scoppiò in lacrime autentiche. Le spalle le
sussultavano per i singhiozzi rabbiosi. Mantenne la parola: non rispose più ad
alcuna domanda, anche quando il signor Gilmer cercò di farla riprendere.
Credo che se non fosse stata così povera e ignorante, il giudice Taylor
l'avrebbe messa dentro per vituperio all'intera corte. Atticus doveva averla
colpita duramente in un punto debole: come, non mi riusciva chiaro, ma
sapevo che comunque egli non vi aveva trovato alcun gusto. Sedeva con la
testa bassa: e non vidi mai un'occhiata di odio così intenso come quella che
Mayella gli lanciò lasciando il banco dei testimoni e passando accanto al suo
tavolo.
Quando il signor Gilmer disse al giudice che il pubblico ministero non
desiderava ascoltare altri testimoni e si dichiarava soddisfatto, il giudice
rispose: "Beato lui!... Interromperemo per dieci minuti."
Atticus e il signor Gilmer si incontrarono davanti al seggio del giudice e
parlarono a bassa voce; poi lasciarono l'aula passando da una porta che stava
dietro al banco dei testimoni: era il segno che attendevamo tutti per
sgranchirci le gambe. Mi accorsi che ero stata seduta sull'orlo del lungo
banco per non so quanto tempo, e avevo le gambe intorpidite. Jem si alzò e
sbadigliò, Dill fece lo stesso, e il reverendo Sykes si asciugò il viso col
cappello. La temperatura non era certo inferiore a trentasei gradi, disse.
Braxton Underwood, che era stato seduto tranquillo in un posto riservato
alla stampa, assorbendo il dibattito dalla prima all'ultima parola con quella
spugna che era il suo cervello, alzò gli occhi dalla espressione amara e per la
prima volta scorse con lo sguardo la balconata della gente di colore. I nostri
occhi si incontrarono ed egli fece un rumore sprezzante e guardò in fretta da
un'altra parte.
"Jem," dissi, "il signor Underwood ci ha visti!"
"Oh, non importa: non lo dirà ad Atticus, lo pubblicherà soltanto nella
rubrica mondana della Tribune."

192
Jem si volse a Dill spiegandogli, immagino, i punti più interessanti del
dibattito, e io mi chiesi quali potessero essere.
Non vi erano state lunghe discussioni tra Atticus e il signor Gilmer;
pareva che Gilmer sostenesse l'accusa quasi a malincuore; i testimoni erano
stati menati per il naso come asini ed egli aveva fatto pochissime obiezioni.
Ma Atticus ci aveva detto una volta che nei processi presieduti dal giudice
Taylor, gli avvocati che costruivano troppo rigorosamente ed esclusivamente
la loro arringa sulle prove, finivano sempre per vedersi ammonire
severamente dal giudice. Atticus aveva volgarizzato questo discorso a mio
uso e consumo, facendomi capire che anche se il giudice Taylor pareva
addormentato e dava addirittura l'impressione di prendere dormendo le sue
decisioni, le sue sentenze non venivano quasi mai rovesciate in appello e
questa era la prova migliore che era un buon giudice.
Dopo qualche minuto, il giudice Taylor rientrò e si arrampicò sulla sedia
girevole. Prese un sigaro dalla tasca del panciotto e lo esaminò con aria
pensosa. Diedi una gomitata a Dill. Ispezionato attentamente il sigaro, il
giudice gli diede un morso rabbioso.
"Qualche volta veniamo qua proprio per lui," spiegai. "Ora se lo
masticherà per tutto il resto del pomeriggio. Sta' a vedere!"
Ignorando di essere sottoposto a quell'esame dall'alto della balconata, il
giudice si liberò del mozzicone tagliato portandolo espertamente alle labbra e
- pluff! - lo sputò dritto nella sputacchiera, con tale precisione che ne
udimmo il tonfo. "Scommetto che a scuola doveva essere un fenomeno,"
mormorò Dill.
Di solito l'interruzione dava il via a un esodo generale, ma oggi la gente
non si muoveva. Persino i Fannulloni rimanevano in piedi lungo le pareti: e
dire che stavano in piedi da quando era cominciata l'udienza, perché i
giovani, per nulla imbarazzati dai loro sguardi feroci, non avevan ceduto
nemmeno un posto. Pensai che Heck Tate doveva aver riservato alla corte la
toletta del tribunale.
Atticus e il signor Gilmer rientrarono in aula e il giudice Taylor guardò
l'orologio. "Son quasi le quattro," disse. Cosa strana, l'orologio della torre
aveva battuto le ore almeno due volte, e io non lo avevo udito, né avevo
avvertito le sue vibrazioni.
"Vogliamo cercare di concludere, questo pomeriggio?" chiese il giudice
Taylor. "Che ne dici, Atticus?"
"Penso che possiamo farcela," rispose Atticus.
"Quanti testimoni hai?"

193
"Uno."
"Bè, chiamalo."

194
capitolo diciannovesiimo
Thomas Robinson sollevò con la destra il braccio sinistro guidandolo sulla
Bibbia, e con la mano sinistra, simile a una mano di gomma, cercò il contatto
con la rilegatura nera. Quando alzò la destra per giurare, la sinistra inerte
scivolò giù dalla Bibbia battendo sul tavolo del cancelliere. Tom cercò di
nuovo di posarla sulla Bibbia quando il giudice Taylor grugnì: "Va bene così,
Tom."
Robinson prestò il giuramento e andò al banco dei testimoni. Atticus gli
fece dichiarare rapidamente che aveva venticinque anni, che era sposato con
tre bambini e che aveva già avuto a che fare con la giustizia: gli avevan dato
trenta giorni, una volta, per cattiva condotta.
"Dovette essere ben cattiva," fece Atticus. "Di che si trattò?"
"Feci a pugni con uno che cercava di accoltellarmi."
"E vi era riuscito?"
"Sissignore, un poco, ma non tanto da farmi male. Vede, io..." Tom
mosse la spalla sinistra.
"Già," disse Atticus. "Vi condannarono tutti e due?"
"Sissignore, ma io dovetti andar dentro perché non potevo pagare la
multa. L'altro la pagò la sua."
Dill si sporse verso di me chiedendo a Jem che intenzioni avesse Atticus,
e Jem rispose che voleva dimostrare alla giuria che Tom non nascondeva
nulla del proprio passato.
"Conoscevi Mayella Violet Ewell?" chiese Atticus.
"Sissignore, andando e tornando dai campi passavo davanti a casa sua
tutti i giorni."
"Quali campi?"
"Raccolgo cotone per il signor Link Deas."
"Raccoglievi cotone in novembre?"
"Nossignore, ma l'autunno e l'inverno faccio il giardiniere. Si può dire
che lavoro per lui tutto l'anno: ha una quantità di alberi di noce e altre
piante."
"Dici che dovevi passare davanti alla casa degli Ewell andando e
tornando dal lavoro. Non ci sono altre strade?"
"Nossignore, che io sappia non ce ne sono altre."
"La signorina non ti parlava mai, Tom?"

195
"Ma sì, signore, mi toccavo il cappello quando passavo, e un giorno lei
mi disse di venir dentro la staccionata per spaccare un mobile."
"Quando fu che ti chiese di spaccare il... il mobile?"
"Signor Finch, fu la primavera scorsa, un bel pezzo fa. Me ne ricordo
perché era la stagione che si trincia il cotone e avevo la zappa con me. Dissi
che avevo soltanto la zappa, ma lei disse che aveva un'accetta in casa. Mi
diede l'accetta e io feci a pezzi il mobile. Lei disse: "Vuoi un ventino, eh?" e
io dissi: "Nossignora, ve l'ho fatto gratis." Poi me ne andai a casa. Questo è
stato la primavera scorsa, signor Finch, più di un anno fa."
"Sei mai ritornato sul posto?"
"Sissignore."
"Quando?"
"Bè, una quantità di volte."
Istintivamente, il giudice Taylor allungò la mano per prendere il martello,
ma poi la lasciò ricadere. Il mormorio nell'aula si spense senza il suo
intervento.
"In quali circostanze?"
"Come, signore?"
"Perché entrasti nel cortile una quantità di volte?"
La fronte di Tom Robinson si spianò. "Mi chiamava dentro, signore.
Ogni volta che passavo di là aveva qualche lavoretto per me: preparare la
legna per accendere il fuoco, attinger acqua... A quei fiori rossi gli dava
acqua tutti i giorni!"
"Ti pagava per i tuoi servizi?"
"Nossignore, solo la prima volta mi offrì un ventino. Quei lavoretti glieli
facevo volentieri: il signor Ewell non l'aiutava mai e i bambini neanche, e
sapevo che ventini da buttar via non ne aveva!"
"Dov'erano i bambini?"
"Erano sempre in giro, lì intorno. Qualcuno mi guardava lavorare, altri
stavano seduti sulla finestra."
"Miss Mayella ti parlava?"
"Sissignore, mi parlava."
Mentre Tom Robinson rendeva la sua testimonianza, pensavo che Mayella
Ewell doveva esser stata la creatura più solitaria del mondo.
Era anche più sola di Boo Radley che non usciva di casa da venticinque
anni. Quando Atticus le aveva chiesto se avesse amici, prima non aveva
capito, poi aveva creduto che la prendesse in giro.

196
Mayella era triste, pensavo, come quei bambini che Jem chiamava misti:
né i bianchi né i negri non volevano aver nulla a che fare con lei. Non poteva
vivere come Dolphus Raymond, che preferiva la compagnia dei negri, perché
non era proprietaria di un vasto territorio sul fiume e non veniva da un'ottima
famiglia. Degli Ewell nessuno diceva: "Sono fatti così..." Maycomb dava loro
pacchi dono a Natale, aiuti in denaro e, quando capitava, qualche
scapaccione ai bambini. Probabilmente Tom Robinson era l'unica persona
che fosse mai stata gentile con Mayella, eppure questa aveva detto che aveva
abusato di lei e alzandosi lo aveva guardato come se le facesse schifo.
"Sei mai andato dagli Ewell spontaneamente," disse Atticu interrompendo
le mie meditazioni, "cioè, hai mai messo piede da loro senza che te lo
chiedesse espressamente qualcuno?"
"Nossignore, non l'ho fatto mai, signor Finch. Io non faccio queste cose."
Atticus diceva che per stabilire se un testimone mente o dice la verità
bisogna ascoltarlo, più che guardarlo, e quel giorno volli farne la prova: Tom
aveva negato tre volte in un fiato solo di esser stato dagli Ewell senza esservi
stato chiamato, ma con calma, senza intenzioni lamentose nella voce, e io gli
credetti, anche se aveva detto "no" troppe volte. Pareva un negro rispettabile,
e un negro rispettabile non entra mai in casa o nel cortile di nessuno, senza
esservi invitato.
"Tom, che cosa accadde la sera del ventun novembre scorso?"
Nell'aula sotto a noi gli spettatori trattennero in massa il respiro,
sporgendosi innanzi per udire meglio. Dietro a noi, i negri fecero lo stesso.
Tom era un negro dalla pelle come velluto nero: non velluto lucido, ma
morbido, opaco. Il bianco degli occhi gli illuminava il viso, e quando parlava
i denti lampeggiavano. Non fosse per quel braccio, sarebbe stato un bel
campione d'uomo.
"Signor Finch," disse, "tornavo a casa come al solito quella sera, e
quando passai davanti agli Ewell la signorina Mayella stava sul portico, come
ha detto anche lei. Sembrava tutto molto tranquillo, intorno, non so perché.
Ci stavo pensando, nel passare davanti a casa, quando lei mi dice di entrare
per aiutarla un momento. Entro in cortile e mi guardo intorno cercando la
legna da spaccare, ma non ne vedo e lei mi dice: "No, ho qualcosa da farti
fare dentro in casa: la porta vecchia è uscita dai cardini e cascherà da un
momento all'altro." Dico: "Avete un cacciavite, signorina Mayella?" Dice che
doveva avercelo. Allora salgo gli scalini e lei mi fa segno di entrare e io entro
nella prima stanza e do un'occhiata alla porta.
Dico: "Signorina Mayella, mi sembra che questa porta non ha niente."

197
Provo a tirarla avanti e indietro e i cardini stavano a postissimo.
Allora lei chiude la porta di colpo. Signor Finch, io mi chiedevo come
mai ci fosse tanta tranquillità in casa, e mi viene in mente che non c'era
neanche un bambino in giro. Dico: "Signorina Mayella, dove sono i
bambini?""
La pelle di velluto nero di Tom cominciava a scintillare, ed egli si passò la
mano sul volto.
"Dico: "dove sono i bambini?"" continuò, "e lei dice, (stava ridendo, mi
parve) dice che erano andati tutti in città a comperarsi il gelato. Dice: "Mi ci è
voluto un anno per metter da parte tutti quei soldini, ma ci sono riuscita.
Sono tutti in città.""
Tom sudava, ma non doveva dipendere dall'umidità dell'atmosfera.
"Che cosa hai detto allora, Tom?" chiese Atticus.
"Dissi: "Signorina Mayella, è stata brava a fargli una sorpresa così." E lei:
"Ti pare?" Ma non credo avesse capito quel che pensavo io: volevo dire che
era stata molto brava a metter da parte i soldi per tanto tempo e molto buona
per aver pensato a comperare il gelato ai bambini."
"Capisco, Tom, vai avanti," disse Atticus.
"Bè, allora dissi che dovevo andare dato che non le serviva nulla, e lei mi
fa: "Sì che mi servi," e quando le chiesi che cosa, dice che le serve che io
monti in piedi su quella sedia e tiri giù quella scatola da sopra all'armadio."
"Non si trattava mica dello stesso mobile che avevi spaccato?" domandò
Atticus.
Il teste sorrise. "Nossignore, un altro: alto quasi quanto la stanza. così
faccio quel che mi dice e stavo alzando il braccio quando, all'improvviso, la
sento che mi prende per le gambe, mi prende per le gambe signor Finch. Mi
spaventai talmente che saltai giù rovesciando la sedia: e fu l'unica cosa,
l'unico mobile fuori posto in tutta la stanza, signor Finch, quando uscii, lo
giuro davanti a Dio."
"Che cosa accadde dopo aver rovesciata la sedia?"
Tom Robinson si era arenato. Diede un'occhiata ad Atticus, poi alla
giuria, poi al signor Underwood che sedeva dall'altro lato dell'aula.
"Tom, sei sotto giuramento e devi dire tutta la verità. Vuoi dirla?"
Tom si passò nervosamente la mano sulla bocca.
"Che cosa accadde, dopo?"
"Rispondi alla domanda," disse il giudice Taylor. Un terzo del suo sigaro
era sparito.

198
"Signor Finch, scesi da quella sedia e mi voltai, e lei mi saltò addosso,
come..."
"Ti saltò addosso? Con violenza?"
"Nossignore, mi... si strinse. Mi strinse attorno alla vita."
Questa volta il martello del giudice venne giù come un bang e proprio in
quell'istante nell'aula si accesero le luci. Non era 196 ancora buio, ma il sole
pomeridiano se n'era andato dalle finestre.
Il giudice ristabilì rapidamente l'ordine.
"E dopo che cosa fece?"
Il teste inghiottì con fatica. "Si alzò in punta di piedi e mi baciò sulla
faccia. Disse che non aveva mai baciato un adulto prima di allora e che tanto
valeva che baciasse un negro. Disse che quello che le faceva il padre non
contava. E disse: "Baciami anche tu, negro." Io dico: "Signorina Mayella, mi
lasci uscire di qui," e cerco di correr fuori, ma lei si mette con la schiena
contro la porta e io avrei dovuto spingerla da parte per uscire. Non volevo
farle male, signor Finch, e le dico "mi lasci passare," ma proprio mentre
dicevo questo il signor Ewell si mette a strepitare dalla finestra."
"Che cosa disse?"
Tom Robinson inghiottì di nuovo e i suoi occhi si allargarono. "Una cosa
che non si può dire, una cosa che non si può ripetere davanti a questa gente e
a questi bambini..."
"Che cosa disse, Tom? Devi dire alla giuria che cosa disse."
Tom Robinson chiuse gli occhi, tenendoli stretti.
"Disse: "Maledetta puttana, ti ucciderò!""
"Dopo che cosa accadde?"
"Signor Finch, correvo così in fretta che non so che cosa accadde."
"Tom, hai violentato Mayella Ewell?"
"No, signore."
"Le hai fatto del male in qualche modo?"
"No, signore."
"Hai resistito al suo adescamento?"
"Signor Finch, ho cercato: ho cercato di resistere senza trattarla male. Non
volevo essere villano, non volevo spingerla da una parte o cose del genere."
Lì per lì pensai che Tom Robinson era proprio un ragazzo educato; a
modo suo, lo era quanto Atticus; finché mio padre non me lo spiegò, non
potevo certo capire in quale impiccio si fosse trovato Tom Robinson: mai
avrebbe osato colpire una donna bianca, per nessuna ragione: sapeva troppo
bene che non sarebbe vissuto a lungo se avesse fatto una cosa simile. Perciò

199
appena poté scappò via, cosa che fu naturalmente interpretata come una
confessione di colpevolezza.
"Tom, ritorniamo ancora una volta al signor Ewell," disse Atticus.
"Ti disse qualcosa?"
"Non disse nulla, signore. Forse avrà anche detto qualcosa, ma io me
n'ero già andato via..."
"Va bene va bene," lo interruppe Atticus bruscamente. "Ma che cosa
udisti? Con chi parlava?"
"Signor Finch, parlava con la signorina Mayella e la guardava."
"E a questo punto scappasti via?"
"Esatto, signore."
"Perché scappasti via?"
"Avevo paura, signore."
"Perché avevi paura?"
"Signor Finch, se fosse stato negro avrebbe avuto paura anche lei!..."
Atticus sedette. Il signor Gilmer si diresse al banco dei testimoni, ma
prima che vi giungesse, il signor Link Deas che stava tra il pubblico dell'aula,
si alzò e dichiarò: "Voglio che tutti quanti voi sappiate una cosa subito,
adesso: questo ragazzo ha lavorato per me otto anni e non mi ha dato mai il
minimo fastidio: mai il minimo fastidio!..."
"Taccia immediatamente, signore!..." Il giudice Taylor era ben sveglio,
ora, e ruggiva. Era anche rosso in volto e non si sa per qual miracolo il sigaro
che aveva in bocca non gli impediva affatto di parlare. "Link Deas," vociferò,
"se ha qualche cosa da dire può farlo sotto giuramento e al momento
opportuno, intanto lascerà questa aula, capito? Fuori da quest'aula, signore,
ha sentito. Non ho voglia di ricominciare tutto da capo, mi venga un
accidente!"
Il giudice Taylor guardò Atticus mandando fuoco dagli occhi, quasi lo
sfidasse a parlare; ma Atticus aveva abbassato la testa e rideva.
Mi venne in mente che una volta aveva detto che talora le osservazioni ex
cathedra del giudice Taylor erano un po' eccessive, ma che ben pochi
avvocati protestavano. Guardai Jem, ed egli scosse la testa: "Se fosse stato
uno dei giurati, credo che la cosa sarebbe diversa," disse. "Il signor Link,
invece, ha interrotto il procedimento, o come si dice..."
Il giudice disse allo stenografo di cancellare tutto quello che aveva scritto
dopo "Signor Finch, se fosse stato negro avrebbe avuto paura anche lei," e
invitò la giuria a non tener conto dell'interruzione. Guardò con aria

200
sospettosa il passaggio centrale, in attesa, immagino, che il signor Link
uscisse dall'aula. Poi disse: "Vada avanti, signor Gilmer."
"Una volta lei ebbe trenta giorni per cattiva condotta, Robinson?" chiese il
signor Gilmer.
"Sissignore."
"E com'era ridotto il negro quando lei smise di picchiarlo?"
"Fu lui a darmele, signor Gilmer!"
"Sì, ma condannarono lei, non è vero?"
Atticus alzò la testa: "Fu condannato per cattiva condotta come risulta
dalla fedina penale, signor giudice." Pareva stanco.
"In ogni caso il teste risponda," disse il giudice, in tono altrettanto stanco.
"Sissignore, mi diedero trenta giorni."
Sapevo dove voleva andare a parare il pubblico ministero: in buona fede,
avrebbe fatto osservare alla giuria che un uomo condannato per cattiva
condotta era capacissimo di violentare una ragazza: per questo Gilmer
insisteva sul vecchio episodio.
"Robinson, lei è in grado di spaccare mobili e legna per il fuoco con una
mano sola, vero?"
"Sissignore, me la cavo abbastanza bene."
"Lei è abbastanza forte da strangolare quasi una donna e buttarla quasi
per terra?"
"Non l'ho mai fatto, signore."
"Ma è abbastanza forte da farlo?"
"Credo di sì, signore."
"Le aveva messo gli occhi addosso da parecchio tempo, eh, giovanotto?"
"No, signore, non l'avevo mai guardata."
"Allora era davvero molto gentile a fare tutti quei lavori per lei: spaccare
la legna, tirar su l'acqua, eh, giovanotto?"
"Volevo soltanto darle una mano, signore."
"Questo è molto generoso da parte sua; non aveva da fare in casa, dopo
una giornata di lavoro?"
"Sissignore."
"Perché non lavorava a casa sua invece che a casa della signorina Ewell?"
"Facevo l'una cosa e l'altra, signore."
"Doveva dunque essere pieno di lavoro. Perché?"
"Perché che cosa, signore?"
"Perché lei si dava tanto da fare con quella ragazza?"

201
Tom Robinson esitò, cercando una risposta. "Pareva che non avesse
nessuno per aiutarla, come ho detto prima..."
"Col signor Ewell e con sette fratelli nessuno l'aiutava?"
"Non ho mai visto nessuno che le desse una mano in casa..."
"Allora spaccava la legna e lavorava per lei per pietà, giovanotto?"
"Volevo darle una mano, come ho detto."
Il signor Gilmer sorrise con aria austera alla giuria. "Lei è proprio un
bravo ragazzo, a quanto pare: fece tutto questo senza guadagnarci nemmeno
un soldo!"
"Sissignore, mi faceva pena: aveva molta buona volontà più di tutti gli
altri!"
"Le faceva pena? La ragazza faceva pena a lei?..." Il signor Gilmer si
controllava a stento.
Il teste capì di aver fatto uno sbaglio e si mosse a disagio sulla sedia, ma il
danno era già fatto. Nell'aula la risposta di Tom Robinson non piacque a
nessuno, e Gilmer fece una lunga pausa perché la cattiva impressione avesse
il tempo di radicarsi.
"Dunque, quel giorno, il ventun novembre scorso, rincasava come al
solito, e lei le chiese di entrare e di spaccare un mobile?"
"Nossignore."
"Nega che passò davanti alla casa?"
"Nossignore: lei disse che aveva un lavoro per me dentro casa."
"La signorina Ewell dice che le chiese di spaccare un mobile: non è così?"
"Nossignore, non è così."
"Allora lei afferma che la signorina Ewell mente, giovanotto?"
Atticus era già in piedi, ma Tom Robinson non aveva bisogno del suo
intervento. "Non dico che menta, signor Gilmer, dico che confonde le cose
nella sua testa."
Alle seguenti dieci domande, via via che Gilmer ricapitolava la versione
di Mayella, la risposta costante del teste fu che la ragazza confondeva le cose
nella sua testa.
"Non è vero che il signor Ewell la cacciò via, giovanotto?"
"Nossignore, non è così."
"Che cosa significa non è così?"
"Voglio dire che non mi trattenni abbastanza da dargli il tempo di
cacciarmi via."
"Lei è molto candido su questo punto; allora perché corse via tanto in
fretta?"

202
"Ho detto che avevo paura, signore."
"Se la sua coscienza era pulita, perché aveva paura?"
"Come ho detto prima, era pericoloso per un negro trovarsi in una
situazione... come quella."
"Ma non era in una situazione pericolosa: lei ha dichiarato di aver resistito
a miss Ewell. Aveva dunque tanta paura che la ragazza le facesse male da
correr via grande e grosso com'è?"
"Nossignore, avevo paura di trovarmi in tribunale come mi trovo adesso,
signore."
"Aveva paura d'essere arrestato, paura di dover affrontare la
responsabilità di ciò che fece?"
"Nossignore, avevo paura di dover affrontare la responsabilità di quel che
non avevo fatto."
"Vuol fare l'insolente con me, giovanotto?"
"Nossignore, non voglio fare l'insolente."
Non udii altro dell'interrogatorio del pubblico ministero perché Jem mi
disse di portar fuori Dill. Non so perché, Dill s'era messo a piangere e non
riusciva a frenarsi: dapprima piangeva in silenzio, poi parecchia gente della
balconata lo udì singhiozzare. Jem disse che se non lo accompagnavo fuori
mi ci avrebbe mandato con la forza e il reverendo Sykes disse che era meglio
obbedire, e così andai.
Quella mattina mi era parso che Dill stesse benissimo e che non avesse
proprio nulla, ma forse non si era ancora rimesso dalla fuga da casa.
"Non ti senti bene?" chiesi quando arrivammo in fondo alle scale.
Per le scale, Dill cercò di farsi forza. Sull'ultimo scalino stava seduto,
tutto solo, Link Deas. "È successo qualcosa, Scout?" mi chiese, mentre gli
passavo accanto. "Nossignore," risposi voltando la testa a guardarlo, "è Dill
che si sente male."
"Vieni sotto gli alberi," dissi. "Dev'esser stato il caldo a farti male!..."
Scegliemmo la quercia più folta e ci sedemmo all'ombra.
"Era lui che non potevo sopportare," disse Dill.
"Chi: Tom?"
"No, quel vecchio Gilmer che lo tormentava così e gli diceva quelle
cose..."
"Dill, è il suo mestiere. Se non esistessero gli avvocati dell'accusa, non
esisterebbero nemmeno quelli della difesa, credo."
Dill sospirò, paziente. "Lo so, lo so, Scout: era il modo che aveva di
parlare che mi ha fatto star male: proprio male!"

203
"Ma doveva far così, Dill: era arrabbiato perché..."
"Ma non faceva così, con gli altri!..."
"Dill, ma gli altri erano testimoni suoi!..."
"Bè, il signor Finch non ha fatto mica così con Mayella e il vecchio Ewell
quando li ha interrogati. Quel modo che aveva di dirgli giovanotto, e di
schernirlo, e di guardare la giuria ogni volta che Tom rispondeva..."
"Bè, Dill, dopotutto non è che un negro!"
"Non me ne importa un fico secco. Non è giusto, ti dico che non è giusto
trattarli a quel modo. Nessuno ha il diritto di parlare a una persona in quella
maniera... è una cosa che mi fa star veramente male!"
"È il modo di parlare del signor Gilmer, Dill: tratta tutti i testimoni così.
Anzi, dovresti vedere quando ce l'ha sul serio con un testimone, che cosa
succede. Oggi invece mi pareva che non ce l'avesse affatto con Tom: non ce
la metteva tutta. Del resto, fanno tutti così, gli avvocati. O quasi tutti."
"Il signor Finch non fa così."
"Non puoi basarti su di lui, Dill, lui è..." Mi lambiccai per cercare di
ricordare un'espressione efficace di miss Maudie Atkinson.
Mi venne in mente: "Lui in tribunale è tale e quale com'è fuori per la
strada."
"Non è questo che volevo dire," dichiarò Dill.
"Lo so che cosa volevi dire, ragazzo," disse una voce dietro di noi.
Lì per lì ci parve venisse dal tronco della quercia, invece apparteneva al
signor Dolphus Raymond. Ci sbirciò di dietro al tronco. "Volevi dire che non
sei delicato, però queste cose ti fanno star male, vero?"

204
capitolo ventesimo
"Vieni qui, figliolo, ho qualcosa che ti metterà a posto lo stomaco."
Poiché Dolphus Raymond era un uomo cattivo, accettai riluttante il suo
invito e seguii Dill. Non sapevo se Atticus sarebbe stato contento vedendoci
fare amicizia, ma sapevo benissimo che zia Alexandra ne sarebbe stata invece
decisamente scontenta.
"To'," disse, offrendo a Dill il sacchetto di carta con dentro le cannucce,
"mandane giù una bella sorsata, ti calmerà."
Dill succhiò, sorrise e tracannò un gran sorso.
"Eh, eh," disse il signor Raymond, che evidentemente si divertiva a
corrompere un bambino.
"Dill, sta' attento!" lo ammonii.
Dill lasciò andare le cannucce e sorrise. "Scout, è Coca-Cola!"
Il signor Raymond, che stava sdraiato sull'erba, si alzò a sedere,
appoggiando la schiena al tronco della quercia. "Voi due ragazzini non farete
la spia adesso, eh? Mi rovinereste la reputazione!"
"Ma come, in quel sacchetto c'è soltanto Coca-Cola? Pura e semplice
Coca-Cola?"
"Proprio così," assentì il signor Raymond. Mi piaceva il suo odore:
sapeva di cuoio, di cavalli e di semi di cotone. Portava stivali da cavallerizzo
inglesi, come non ne avevo mai visti.
"Ne bevo quasi sempre," dichiarò.
"Allora lei fa finta, quando pare mezzo...? Mi scusi, signore..."
Mi ripresi. "Non volevo esser poco..."
Raymond fece una risatina: non era offeso, tuttavia cercai di fargli una
domanda discreta: "Ma perché fa così?"
"Così come?... Ah, vuoi dire perché faccio finta di bere? Bè, è molto
semplice," rispose, "a molta gente non piace... il modo in cui vivo. Potrei
anche mandarli al diavolo dicendo: me ne infischio se a voi non piace il mio
modo di vivere; ma mi limito a infischiarmene senza mandarli al diavolo:
capito?"
Dill ed io dicemmo: "Nossignore."
"In altre parole, cerco di dar loro una buona ragione per criticarmi.
Vedete, la gente si sente meglio se può attaccarsi a qualche valida scusa.
Quando vengo in città, cosa che accade di rado, se mi vedono barcollare e
bere da questo sacchetto, possono dire che Dolphus Raymond è ubriaco, e

205
per questo si comporta come... Che se vive come vive è perché non può
proprio farne a meno!"
"Ma non è onesto, signor Raymond, fingere d'esser peggio di quel che si
è..."
"Non è onesto, ma per la gente va bene. Sia detto tra noi, io non sono un
vero bevitore, ma gli altri non potrebbero mai capire che vivo come vivo sol
perché così mi piace."
Avevo la sensazione che non dovevo starmene là ad ascoltare quel
peccatore, padre di mulatti, che se ne infischiava della gente, ma lo trovavo
affascinante. Prima di conoscer lui, non avevo mai visto un uomo che
ingannasse gli altri a proprio danno. Ma perché ci aveva confidato il suo più
geloso segreto? Glielo chiesi.
"Perché voi siete bambini e non potete capirlo," rispose, "e perché ho
sentito parlare questo qui..." Con la testa accennò a Dill. "Gli istinti di questo
ragazzo non sono stati ancora traviati dalla vita.
Aspetta che diventi un po' più grande e vedrai che non si sentirà più male
e che non piangerà più. Forse avrà l'impressione che le cose, così come
stanno, non siano proprio giuste, ma non lo vedrai mai più piangere tra
qualche anno."
"Per che cosa non piangerò più, signor Raymond?" La virilità di Dill
cominciava già ad affermarsi.
"Non piangerai accorgendoti che gli uomini riducono la vita dei propri
simili a un inferno, specie quella dei negri, senza nemmeno riflettere un
istante che sono uomini come noi!"
"Atticus dice che imbrogliare un uomo di colore è dieci volte peggio che
imbrogliare un bianco," mormorai. "Dice che è la peggior cosa che si possa
fare."
Il signor Raymond disse: "Non credo che sia... signorina Jean Louise, tu
forse non sai ancora che tuo padre non è un uomo qualunque: ci vorranno
alcuni anni perché questa verità ti entri bene in testa: ancora non conosci il
mondo. Non conosci bene nemmeno questa città, ma se vuoi conoscerla, non
devi far altro che ritornare in tribunale. Vedrai, imparerai molto."
Queste parole mi ricordarono che avremmo perduto quasi tutto
l'interrogatorio del signor Gilmer. Guardai il sole che calava in fretta dietro i
tetti dei negozi, a occidente della piazza. Presa tra due fuochi, il signor
Raymond e la Quinta Corte Distrettuale, non sapevo su quale saltare.
"Andiamo, Dill," dissi. "Ti senti bene, ora?"

206
"Sì. Son contento di averla conosciuta, signor Raymond, e grazie per la
bibita: mi ha proprio rimesso a posto!"
Corremmo rapidi in tribunale e facemmo, sempre di corsa, i due piani di
scale. Giunti alla balconata, ci dirigemmo ai nostri posti, passando lungo la
ringhiera: il reverendo Sykes ce li aveva tenuti liberi.
L'aula era silenziosa e di nuovo mi chiesi dove fossero i bambini piccoli.
Il sigaro del giudice Taylor era ormai ridotto a una macchia marrone al centro
della bocca; il signor Gilmer scriveva su uno dei blocchi gialli che aveva sul
tavolo, cercando di far più in fretta dello stenografo, la cui mano era un
lampo. "Accidenti!" dissi, "abbiamo perduto il controinterrogatorio!"
Atticus era già a metà della sua arringa alla giuria. Evidentemente aveva
tirato fuori alcuni appunti dalla cartella appoggiata alla sedia, perché erano
sul tavolo e Tom Robinson ci giocherellava.
"...In mancanza di prove concrete, quest'uomo si è visto accusare e
giudicare per un delitto che comporta la pena capitale!"
Diedi una gomitata a Jem. "Quanto tempo è che ha cominciato?"
"Ha appena finito di ricapitolare le testimonianze," bisbigliò Jem.
"Vinceremo, Scout. È impossibile che non vinciamo!... Saran cinque
minuti che parla: ha spiegato tutto in modo così chiaro e semplice...come
avrei potuto spiegarlo io a te: anche tu avresti capito!"
"E il signor Gilmer..."
"Ssst... Niente di nuovo, tutto come al solito: zitta, adesso!"
Guardammo di nuovo giù. Atticus parlava con facilità con il distacco che
usava quando dettava le lettere. Camminava lentamente su e giù davanti alla
giuria, che pareva attenta: i giurati avevan tutti la testa alzata e seguivano
l'argomentazione di Atticus, mi parve, con evidente approvazione; forse
proprio perché Atticus non declamava.
Atticus si fermò qualche istante e, cosa strana, staccò l'orologio con la
catena dal taschino posandolo sul tavolo. Disse: "Con il permesso della
Corte..."
Il giudice Taylor assentì e Atticus fece una cosa che non gli avevo mai
visto fare e che non gli vidi fare mai più; né in pubblico né in privato: si
sbottonò il panciotto, si slacciò la cravatta e si tolse la giacca. Era sempre
impeccabile e vestito di tutto punto fino al momento di andare a letto e per
Jem e per me vederlo così fu come vedercelo davanti nudo. Scambiammo
un'occhiata inorridita.
Atticus mise le mani in tasca e mentre si voltava di nuovo verso la giuria
vidi scintillare il bottone d'oro del suo colletto e il cappuccio della penna e

207
della matita.
"Signori," disse. Jem ed io ci guardammo di nuovo: Atticus avrebbe
potuto dire: "Scout..." Il suo tono aveva perso ogni distacco, ed egli parlava
ai giurati come se fossero gente incontrata per strada, all'angolo dell'ufficio
postale.
"Signori," disse, "sarò breve. Approfitterò del tempo che ci rimane per
ricordarvi che questo non è un caso difficile, uno di quei casi che richiedono
un preciso esame di fatti complicati: è un caso, invece, che richiede che,
prima di emettere il verdetto, vi sentiate sicuri della colpevolezza
dell'imputato oltre ogni ragionevole dubbio. Questo caso non sarebbe mai
dovuto venire in giudizio: è semplice come il bianco e il nero.
"L'accusa non ha prodotto la più piccola testimonianza medica che il
delitto di cui Tom Robinson è accusato sia avvenuto. Si è appoggiata, invece,
sulla deposizione di due testi l'essenza della quale non soltanto è stata messa
seriamente in dubbio nel corso del controinterrogatorio, ma è stata addirittura
negata dall'imputato. L'imputato non è colpevole, ma c'è una persona, in
quest'aula, che lo è.
"Io ho il cuore pieno di pena per la principale teste dell'accusa, ma non
arrivo al punto di permetterle di mettere in gioco la vita di un uomo, come
essa sta facendo, nel tentativo di liberarsi del testimone della sua vera colpa.
"Dico colpa, signori, perché fu il senso di colpa a motivare il suo
contegno. Essa non aveva commesso alcun delitto, aveva soltanto infranto un
codice rigido della nostra società, un codice così severo che chiunque lo
infranga viene cacciato via come un cane, come un essere indegno di vivere
con noi. È stata vittima di una povertà e di una ignoranza veramente crudeli,
ma non posso compatirla. Perché?
Perché è una bianca. Conosceva molto bene l'enormità del suo errore, ma
siccome il suo desiderio era più forte del codice che stava infrangendo lo
infranse fino in fondo. Per conseguenza, la sua è una reazione che tutti
abbiamo conosciuta, un giorno o l'altro, è la reazione che hanno tutti i
bambini quando cercano di nascondere la prova della propria colpevolezza.
Lei però non era una bambina, e la cosa da nascondere non era un semplice
oggetto portato in casa di nascosto: perciò ha dovuto colpire la propria
vittima, buttarla in mare, allontanarla dalla propria presenza e dal proprio
mondo. Doveva distruggere la prova del proprio errore!
"Qual era la prova di questo errore? Tom Robinson: un essere umano.
E lei buttò in mare Robinson. Tom Robinson rappresentava per lei un
assillo quotidiano, il ricordo insopportabile di quanto aveva fatto.

208
Che cosa aveva fatto? Aveva adescato un negro.
"Lei, una ragazza bianca, aveva adescato un negro. Aveva fatto una cosa
che nella nostra società è addirittura innominabile: aveva baciato un negro.
Non un vecchio Zio Tom, ma un negro forte, giovane. Prima di quell'istante,
ignorava persino l'esistenza di un codice, ma una volta infrantolo, quel
codice le si è rovesciato addosso, schiacciandola.
"Suo padre la vide, e l'imputato ha testimoniato circa quel che disse il
padre. Quello che fece, il padre, non lo sappiamo, ma vi è una prova
circostanziale che indica che Mayella Ewell venne picchiata selvaggiamente
da una persona certamente mancina. Noi conosciamo, in parte, ciò che fece il
signor Ewell: fece quanto qualsiasi bianco rispettabile, deciso e timorato di
Dio, avrebbe fatto in una simile circostanza: firmò, sotto giuramento, una
denuncia (la firmò, quasi certamente, con la sinistra); ed ecco che ora Tom
Robinson siede qui dinanzi a voi, dopo aver prestato giuramento con l'unica
mano sana che abbia: la destra.
"E così, un negro tranquillo, rispettabile, umile, che ebbe la temerarietà
senza confini di provar pena per una donna bianca, ha dovuto porre la
propria parola contro quella di due bianchi. Non occorre che vi ricordi la
loro comparsa e il loro contegno sul banco dei testimoni: l'avete visto con i
vostri occhi. I testi dell'accusa, a eccezione dello sceriffo di Maycomb, si
sono presentati a voi, signori, in questa Corte, con la cinica sicurezza che la
loro testimonianza non sarebbe stata nemmeno messa in dubbio; fiduciosi
che voi, signori, avreste avallato la loro malvagia presunzione che tutti i negri
mentiscono, che tutti i negri sono esseri fondamentalmente immorali, che
nessun negro si può impunemente lasciare accanto alle nostre donne:
presunzione inevitabile, in menti del calibro di quelle dei testimoni
dell'accusa.
"E questo, signori, lo sappiamo, è una menzogna nera come la pelle di
Tom Robinson, una menzogna sulla quale non c'è nemmeno bisogno che io
insista. Voi conoscete la verità, e la verità è questa: alcuni negri mentiscono,
alcuni negri sono immorali, alcuni negri non possono esser lasciati accanto
alle donne, nere o bianche che siano. Ma questa è una verità che si può
applicare a tutta la razza umana e non a una particolare razza di uomini. Non
esiste una persona, in quest'aula, che non abbia mai detto una bugia, che non
abbia mai fatto una cosa immorale, e non esiste un uomo al mondo che non
abbia mai guardato una donna con desiderio!"
Atticus fece una pausa e tirò fuori il fazzoletto. Poi si tolse gli occhiali e li
pulì. Altra novità assoluta, Atticus sudava: non lo avevamo mai visto sudare,

209
era uno di quegli uomini che non si accalorano mai, e ora il suo volto
abbronzato era imperlato di sudore.
"Una cosa ancora, signori, prima di finire. Un giorno Thomas Jefferson
disse che tutti gli uomini furono creati uguali, frase che gli yankee e le
femminucce politicanti di Washington amano rinfacciarci di continuo. Certa
gente, in quest'anno di grazia 1935, ha la tendenza a citare la frase separata
dal contesto perché sia valida in tutte le circostanze; e tra le tante assurde
applicazioni di essa me ne viene in mente una: da un po' di tempo, quei
signori che son responsabili della pubblica educazione hanno avuto l'idea di
mettersi a promuovere ragazzi stupidi e pigri e ragazzi volonterosi,
sostenendo, con aria grave, che poiché tutti gli uomini furono creati uguali, i
fanciulli lasciati indietro soffrirebbero di un terribile complesso di inferiorità.
Noi sappiamo che non tutti gli uomini furono creati uguali, nel senso che
molta gente vorrebbe farci credere: sappiamo che vi sono persone più
intelligenti di altre, più capaci di altre per natura, uomini che riescono a
guadagnare più denaro, donne che fanno dolci migliori, individui dotati di
qualità negate invece alla maggioranza degli uomini.
"Ma c'è una cosa, nel nostro paese, di fronte alla quale tutti gli uomini
furono davvero creati uguali: una istituzione umana che fa di un povero
l'eguale di Rockefeller, di uno stupido l'eguale di Einstein, e di un ignorante
l'eguale di un rettore di università. Questa istituzione, signori, è il tribunale, la
Corte Suprema degli Stati Uniti come la più umile sede di giudice distrettuale
o l'onorevole corte a cui voi prestate oggi la vostra opera. I nostri tribunali
hanno i loro difetti, come ogni istituzione umana, ma nel nostro paese, i
tribunali sono grandi strumenti di livellamento sociale. Nei nostri tribunali si
attua il principio secondo cui tutti gli uomini furono creati uguali.
"Non sono tanto idealista da credere fermamente nell'integrità dei nostri
tribunali e nel sistema delle giurie popolari: questo, per me, non è un ideale, è
una realtà vera e operante. Un tribunale è sano in quanto è sana la giuria, e
una giuria è sana in quanto son sani i membri che la compongono. Ho fiducia
che voi, signori, riesaminerete senza passioni le testimonianze che avete
udite, che giungerete a una unanime decisione e che restituirete l'imputato alla
sua famiglia. In nome di Dio, fate il vostro dovere."
La voce di Atticus era scesa di tono, e quando volse le spalle alla giuria
disse qualcosa che non afferrai. Lo disse più a se stesso che alla corte. Tirai
Jem per il braccio. "Che cosa ha detto?"
"In nome di Dio, credetegli, mi pare che abbia detto."
Improvvisamente Dill si sporse davanti a me, facendo segno a Jem.

210
"Guarda!"
Seguimmo il suo dito col cuore in sospeso. Calpurnia veniva avanti lungo
il corridoio centrale, puntando dritto su Atticus.

211
capitolo ventunesimo
Si fermò timidamente alla ringhiera, cercando di attirare l'attenzione del
giudice. Aveva un grembiule fresco di bucato e una busta in mano.
Il giudice Taylor la vide e disse: "Lei è Calpurnia, vero?"
"Sissignore," disse lei. "Potrei dare questo biglietto al signor Finch,
signore, scusi? Non ha nulla a che fare col... col processo."
Il giudice Taylor fece segno di sì e Atticus prese la busta che Calpurnia gli
porgeva. L'aprì, lesse il biglietto che conteneva e disse: "Giudice, io... questo
biglietto è di mia sorella. Dice che i miei figli mancano da casa da
mezzogiorno... io... lei potrebbe..."
"So io dove sono, Atticus," disse il signor Underwood. "lassù nella
balconata della gente di colore... son là esattamente dall'una e diciotto
minuti."
Nostro padre si girò e guardò in su. "Jem, venite giù," chiamò. Poi disse
al giudice qualche cosa che non udimmo. Scavalcammo il reverendo Sykes e
ci avviammo alla scala.
Atticus e Calpurnia ci aspettavano dabbasso. Calpurnia pareva infuriata,
Atticus invece semplicemente esausto.
Jem saltava per l'eccitazione. "Abbiamo vinto, no?"
"Non lo so," disse Atticus, laconico. "Siete stati qui tutto il pomeriggio?
Andate a casa con Calpurnia, cenate... e restate a casa."
"Oh Atticus, lasciaci tornare," supplicò Jem. "Per favore, facci sentire il
verdetto, ti prego!..."
"Ma come si fa a sapere quanto resterà dentro la giuria? potrebbe restar
dentro anche un minuto solo..." Intuimmo che Atticus stava per cedere. "Bè,
visto che avete sentito tutto, tanto vale che sentiate il resto. Sapete che cosa
dovete fare? Tornate dopo cena... ma mangiate piano, non perderete nulla di
importante. Se la giuria è ancora dentro aspetteremo insieme, ma credo che
sarà tutto finito prima del vostro ritorno."
"Credi che lo assolveranno così presto?" chiese Jem.
Atticus aprì la bocca per rispondere, ma poi la chiuse e ci lasciò.
Pregavo il Signore che il reverendo Sykes ci tenesse i posti, ma smisi di
pregare quando ricordai che mentre la giuria usciva, la gente si alzava e se ne
andava a gruppi. Stasera avrebbero invaso la drogheria, l'Okay Café e
l'albergo, a meno che non avessero con sé anche la cena.

212
Calpurnia ci fece marciare diritto a casa: "...spellarvi vivi bisognerebbe!
Che bella idea avete avuto: dei bambini che vanno a sentire cose simili! E tu
signorino Jem, non sapevi alla tua età che non avresti dovuto portare tua
sorella a un processo? Miss Alexandra avrà un colpo sicuro quando verrà a
saperlo. Non son cose da bambini, queste..." Per strada le luci erano accese e
passando sotto i lampioni vedevamo il profilo indignato di Calpurnia.
"Signorino Jem, credevo che ormai avessi messo la testa a posto. Invece hai
di queste belle idee!... È tua sorella, sai? Dovresti vergognarti! Possibile che
non abbia nemmeno un briciolo di buon senso?"
Ero molto allegra. Erano accadute tante cose, e tanto in fretta, che mi ci
sarebbero voluti anni per ripassarle tutte nella memoria e capirle bene, e ora
ecco che Calpurnia ne diceva di cotte e di crude al suo preziosissimo Jem, e
per la strada, per giunta! Quali altre meraviglie ci riservava la serata?
Jem rideva tra sé. "Non vuoi che ti racconti com'è andata, Calpurnia?"
"Chiudi la bocca, signorino! Dovresti startene a testa bassa per la
vergogna, e vai in giro ridendo in quel modo..." Calpurnia risuscitò una serie
di vecchie minacce che ormai non avevano più il potere di indurre Jem al
rimorso, e quando fummo a casa salì in fretta gli scalini con il suo classico:
"Se il signor Finch non te le suona, lo farò io: entra subito in casa,
signorino!"
Jem entrò sorridendo, e con un cenno Calpurnia consentì a far restare
Dill a cena con noi. "Chiama subito miss Rachel e dille che sei qui," ingiunse.
"È corsa su e giù in cerca di te: sta' attento che non ti rispedisca a Meridian
domattina!"
Zia Alexandra ci venne incontro e poco mancò che svenisse quando
Calpurnia le disse dove ci aveva trovati. Credo che rimase assai male a
sentire che Atticus ci aveva concesso di ritornare in tribunale, perché per tutta
la cena non aprì bocca. Non fece altro che rimestare nel piatto fissandolo
truce, mentre Calpurnia serviva Jem, Dill e me con aria indignata. Versava il
latte e ci serviva insalata di patate e prosciutto borbottando: "Vergogna," in
toni diversi. "E mangiate lentamente!" fu il suo ordine finale.
Il reverendo Sykes ci aveva tenuti i posti. Ci accorgemmo con sorpresa
che eravamo stati via quasi un'ora, e con altrettanta sorpresa che il tribunale
era tale e quale come l'avevamo lasciato, salvo che per piccoli cambiamenti: il
banco dei giurati era vuoto, l'imputato non c'era e il giudice Taylor era uscito
anche lui.
Ricomparve mentre ci sedevamo.
"Non s'è mosso quasi nessuno," disse Jem.

213
"Qualcuno è sceso quando è uscita la giuria," disse il reverendo Sykes.
"Gli uomini han portato da mangiare alle donne, e le donne han dato da
mangiare ai piccoli."
"Quanto tempo è che è via la giuria?" domandò Jem.
"Circa trenta minuti. Il signor Finch e il signor Gilmer hanno parlato
ancora, e il giudice Taylor ha incaricato la giuria di deliberare."
"Che tono aveva?" chiese Jem.
"Come dire? Oh, si è portato bene. Niente da dire, è stato molto giusto.
Ha detto pressappoco: se credete questo e questo, dovrete rendere questo
verdetto, ma se credete questo e quest'altro, dovrete render quest'altro
verdetto. Ho l'impressione che pendesse un po' dalla nostra parte..." Il
reverendo Sykes si grattò la testa.
Jem sorrise. "Non dovrebbe pendere da nessuna parte, reverendo, ma
non si preoccupi: abbiamo vinto," disse con aria di chi se ne intende. "Non
vedo come una giuria potrebbe condannarlo, dopo quello che abbiamo
sentito!"
"Non ne sia tanto sicuro, signor Jem. Non ho mai visto una giuria
emettere un verdetto favorevole con un uomo di colore a danno di un
bianco..." Ma Jem trovò da ridire anche su questo, e oltre a un prolisso
riassunto delle prove, dovemmo sorbirci anche le sue idee sugli articoli di
legge riguardanti la violenza carnale: non si poteva definire violenza, se la
ragazza era consenziente; doveva avere diciotto anni almeno, nell'Alabama, e
Mayella ne aveva diciannove. Per non esser consenziente, bisognava che
provasse di aver dato calci, di aver urlato e di esser stata aggredita,
sopraffatta, e possibilmente colpita in testa in modo di perdere i sensi. Se
aveva meno di diciotto anni, allora tutto questo non era necessario.
"Signor Jem," disse timidamente il reverendo Sykes, "non son cose per
signorine, queste..."
"Ma se non sa nemmeno di che cosa stiamo parlando!" disse Jem.
"Scout, son cose da grandi per te, vero?"
"Non son affatto cose da grandi, capisco ogni parola che dite!..."
Forse riuscii ad essere convincente, perché Jem smise di discutere
sull'argomento.
"Che ora è, reverendo?" chiese.
"Quasi le otto."
Guardai di sotto e vidi Atticus che camminava su e giù con le mani in
tasca: fece il giro delle finestre, poi passeggiò lungo la ringhiera fino al banco
della giuria. Vi guardò dentro, poi esaminò il giudice Taylor sul suo trono,

214
indi ritornò al punto da cui era partito. Colsi il suo sguardo e lo salutai con la
mano. Mi rispose con un cenno della testa e riprese il suo giro senza fermarsi.
Il signor Gilmer stava accanto a una finestra e parlava con il signor
Underwood. Bert, lo stenografo, fumava una sigaretta dopo l'altra, con i piedi
appoggiati al tavolo.
Atticus, il signor Gilmer, il giudice Taylor, che dormiva profondamente, e
Bert, erano le sole persone il cui contegno appariva normale. Non avevo mai
visto un tribunale affollato restare così tranquillo. Ogni tanto un neonato
piangeva e si agitava e un bambino scappava fuori, ma i grandi stavan seduti
come in chiesa. Nella balconata, i negri intorno a noi sedevano o stavano in
piedi con biblica pazienza.
Il vecchio orologio del tribunale sferragliò come al solito e poi scandì le
ore: otto rintocchi assordanti che si ripercossero fin nelle ossa di tutti noi.
Quando suonò undici tocchi, io non ero più in me: stanca di combattere il
sonno, mi ero concessa un sonnellino sulla spalla del reverendo Sykes. Al
rintocco delle ore, mi svegliai di soprassalto e feci un sincero sforzo per
rimaner sveglia, guardando di sotto e concentrandomi sulle teste che vedevo:
ve ne erano sedici calve, quattordici che si potevan definire rosse e quaranta
che andavano dal castano al nero. Ricordai anche quanto mi aveva detto una
volta Jem, quando si interessava ai fenomeni psichici, e cioè che se molte
persone riunite insieme, come gli spettatori di uno stadio, si fossero
concentrate su un unico pensiero, per esempio dar fuoco a un albero nel
bosco, l'albero si sarebbe acceso spontaneamente.
Fantasticavo quindi di chiedere a tutti quelli di sotto di concentrarsi sul
pensiero di far liberare Tom Robinson, ma conclusi che se loro erano stanchi
quanto me, l'esperimento non sarebbe riuscito.
Dill dormiva sodo, con la testa sulla spalla di Jem, e Jem stava quieto.
"Manca ancora molto?" chiesi.
"Sì, molto, Scout," rispose, tutto allegro.
"Bè, da come avevi spiegato tu, dovevano bastare cinque minuti!"
Jem alzò le sopracciglia. "Ci sono cose che non capisci," disse, e io ero
troppo sfinita per discutere.
Tuttavia dovevo essere ancora abbastanza sveglia, perché altrimenti non
avrei provato la sensazione che provavo. Mi ricordai di un giorno
dell'inverno precedente, e rabbrividii, nonostante il caldo. Il disagio crebbe
finché l'atmosfera del tribunale non si trasformò in quella di un freddo
mattino di febbraio, quando i merli tacevano, i falegnami avevano smesso di
martellare nella casa nuova di miss Maudie e tutte le porte del vicinato erano

215
chiuse come quella dei Radley. Una strada deserta e abbandonata, e un'aula
piena di gente; la notte di una estate torrida e un mattino di febbraio. Heck
Tate che, entrato nell'aula, parlava con Atticus, avrebbe potuto benissimo
portare gli stivaloni e la giacca da boscaiolo. Atticus aveva interrotto il suo
tranquillo andirivieni e, con un piede appoggiato al listello più basso di una
sedia, ascoltava Tate passandosi lentamente una mano sulla coscia. Aspettavo
di sentir dire da un momento all'altro: "Spari lei, signor Finch, spari lei!..."
Tate disse invece: "La giuria rientra!" con voce autoritaria, e le teste sotto
di noi si alzarono di scatto. Tate uscì e ritornò subito dopo con Tom
Robinson. Guidò Tom al suo posto accanto ad Atticus e vi si trattenne anche
lui. Il giudice Taylor si era scosso, facendosi d'un tratto energico e attento;
fissava, irrigidito, il banco vuoto della giuria.
Dopo fu come se tutto accadesse in un sogno: come in un sogno, vidi la
giuria rientrare muovendosi lentamente come fanno i nuotatori subacquei, e
udii la voce del giudice lontanissima, una vocina sottile. Vidi qualcosa che
solo la figlia di un avvocato poteva vedere, come se vedessi Atticus
camminare in strada, imbracciare il fucile e tirare il grilletto, ma sapendo
però, mentre vedevo tutto questo, che il fucile era scarico.
Una giuria non guarda mai un imputato che ha giudicato, e quando entrò
la giuria nessuno guardò Tom Robinson. Il presidente porse un pezzo di carta
al signor Tate che lo porse al cancelliere che lo porse al giudice...
Chiusi gli occhi. Il giudice Taylor contava i voti della giuria: "Colpevole...
colpevole... colpevole... colpevole..." Con la coda dell'occhio guardai Jem:
aveva le mani bianche tanto forte stringeva la ringhiera, e le spalle gli
sussultavano come se ciascun "colpevole" fosse una pugnalata vibratagli
nella schiena.
Il giudice stava parlando. Aveva in mano il martello ma non lo usava.
Confusamente vidi Atticus che raccoglieva le carte dal tavolo e le cacciava
nella cartella. La chiuse con uno scatto, andò dal cancelliere e disse qualcosa,
fece un cenno al signor Gilmer, poi andò da Tom e gli bisbigliò qualcosa.
Mise la mano sulla spalla di Tom, mentre gli parlava. Tolse la giacca dallo
schienale della sedia, se la buttò sulle spalle e lasciò l'aula, ma non dalla solita
uscita.
Forse voleva andare a casa per la strada più corta, perché percorse
rapidamente il passaggio centrale, dirigendosi verso l'uscita a sud.
Dall'alto, vidi la sua testa avviarsi verso la porta: ma non guardò in su.
Qualcuno mi tirò per la manica, ma io non distolsi gli occhi dalla gente di
sotto e dalla figura di Atticus che avanzava, solo, lungo il passaggio al centro.

216
"Signorina Jean Louise?"
Mi guardai attorno. Erano tutti in piedi. Tutto intorno a noi e nella
balconata della parete opposta, i negri si alzavano in piedi.
La voce del reverendo Sykes suonò lontana come quella del giudice
Taylor:
"Si alzi, miss Jean Louise: sta passando suo padre."

217
capitolo ventiduesimo
Fu poi la volta di Jem di piangere. Il suo volto era rigato di lacrime rabbiose
mentre ci facevamo strada tra la folla vivace. "Non è giusto, non è giusto..."
mormorò per tutto il tragitto, fino all'angolo della piazza dove trovammo
Atticus ad attenderci. Era fermo sotto il fanale, e a guardarlo si sarebbe detto
che nulla fosse accaduto; aveva il panciotto abbottonato, il colletto e la
cravatta perfettamente a posto, la catena dell'orologio che scintillava,
insomma l'uomo impassibile di sempre.
"Non è giusto, Atticus," disse Jem.
"No, figliolo, non è giusto."
Andammo a casa.
Zia Alexandra ci aspettava alzata. Era in veste da camera e avrei giurato
che sotto aveva ancora il busto. "Mi dispiace, fratello mio," mormorò. Non
l'avevo mai udita chiamare Atticus "fratello" e diedi un'occhiata furtiva a Jem,
ma egli non ascoltava. Guardava Atticus e poi per terra: chissà se riteneva
Atticus responsabile della condanna di Tom Robinson?
"Ma cos'ha Jem, non si sente bene?" chiese la zia.
"Tra poco starà meglio." rispose Atticus. "È stato un colpo molto forte,
per lui." Sospirò. "Vado a letto. Se non mi sveglio, domattina, non mi
chiamate."
"Mi pare che non fosse proprio il caso di lasciarli..."
"Questo è il loro paese, Alexandra," disse Atticus; "siamo noi che lo
abbiamo fatto così ed ora ci devono vivere: tanto vale che imparino subito ad
affrontarlo così com'è."
"Ma non c'era alcun bisogno che andassero in tribunale a mescolarsi a
quel fango..."
"Anche il tribunale fa parte della contea di Maycomb, sai: né più né meno
dei tè della Società Missionaria!"
"Atticus," disse la zia Alexandra con una espressione preoccupata negli
occhi, "non avrei mai creduto che uno come te avrebbe ritratto da questo
episodio tanta amarezza e rancore..."
"Non provo rancore, sono soltanto stanco. Vado a letto."
"Atticus..." disse Jem in tono desolato.
Egli si volse, sulla porta. "Che cosa c'è, figliolo?"
"Ma come hanno fatto, come hanno potuto..."

218
"Non lo so, ma lo hanno fatto. Lo hanno fatto altre volte, lo hanno fatto
stanotte e lo rifaranno nel futuro: come vedi, soltanto i ragazzi ne soffrono...
Buona notte."
Le cose hanno sempre un aspetto un po' migliore, al mattino.
Atticus si alzò prestissimo come al solito e stava già seduto nel soggiorno
quando noi entrammo, un po' malfermi sulle gambe. Il volto riposato di Jem
esprimeva ancora la domanda che le sue labbra assonnate faticavano a
formulare.
"Non è ora di preoccuparsi," lo rassicurò Atticus, mentre ci avviammo in
sala da pranzo. "Non è finita ancora, sai! Ricorreremo in appello, sta' sicuro.
Dio del cielo, Cal," disse, fissando il vassoio della colazione, "che cosa è tutta
questa roba?"
Calpurnia disse: "Il papà di Tom Robinson le ha mandato questo pollo
stamattina presto, e io l'ho cucinato."
"Digli che sono orgoglioso di accettarlo: scommetto che nemmeno alla
Casa Bianca mangiano pollo a colazione! E questi... che cosa sono?"
"Panini dolci," disse Calpurnia. "Li ha mandati Estella, dall'albergo."
Atticus la guardò, stupito, e lei disse: "Venga a dare un'occhiata in cucina,
signor Finch."
La seguimmo. Il tavolo in cucina era carico di una tale quantità di cibo da
sfamare un reggimento: grossi pezzi di maiale salato, pomodori, fagioli e
persino uva moscata. Atticus sorrise vedendo un barattolo di zampette di
maiale in marinata. "Chissà se la zia ce le lascerà portare a tavola?..."
Calpurnia disse: "Era tutto sugli scalini di dietro quando sono arrivata,
stamattina. Sa, sono tutti... molto riconoscenti per quel che lei ha fatto, signor
Finch. Lei non si offende, vero?"
Ad Atticus si riempirono gli occhi di lacrime e per qualche istante non
parlò. "Digli che son loro molto grato," disse. "Digli che non devono farlo
più. I tempi son troppo duri..." uscì dalla cucina, entrando in sala da pranzo;
scusatosi con zia Alexandra, si mise il cappello in testa e andò in città.
In quella, udimmo il passo di Dill nell'atrio e Calpurnia lasciò sul tavolo,
per lui, la colazione intatta di Atticus. Tra l'uno e l'altro dei suoi morsetti da
coniglio, Dill ci raccontò la reazione di miss Rachel agli eventi della sera
prima: il pensiero di miss Rachel era, in parole povere, questo: che se un
uomo come Atticus Finch si voleva romper la testa contro un muro, era affar
suo.
"Le avrei anche spiegato qualcosa," continuò Dill, rosicchiando una
coscia di pollo, "ma non aveva un'aria molto rassicurante, questa mattina. Ha

219
detto che è stata su metà della notte ad arrovellarsi per capire dove potevamo
essere, e che non ha denunciato la mia scomparsa allo sceriffo soltanto
perché era al processo anche lui!..."
"Dill, la devi smettere di andare in giro così, senza avvertire tua zia," disse
Jem. "Serve solo a farla arrabbiare!"
Dill sospirò, paziente. "Glielo avevo detto fino a farmi venir la voce
rauca, dove andavo: ma si vede che a furia di veder serpenti nell'armadio non
ci sente più. Scommetto che ne beve una pinta a colazione tutte le mattine;
due bicchieri pieni li beve di sicuro, l'ho vista con i miei occhi!"
"Non parlare così, Dill," fece zia Alexandra. "Non s'addice questo tono
cinico a un ragazzo!"
"Non sono cinico, zia Alexandra. Dire la verità non significa esser cinici."
"È il modo in cui la dici che è cinico."
Quando guardò la zia gli occhi di Jem ebbero un lampo, ma si rivolse a
Dill e disse: "Andiamo. Puoi portarti dietro quella coscia, se vuoi!"
Quando uscimmo sul porticato vedemmo miss Stephanie Crawford
occupatissima a raccontar le notizie della notte a miss Maudie e al signor
Avery. Ci guardarono tutti e tre e continuarono a chiacchierare. Jem grugnì,
lugubre, e io m'inferocii.
"Detesto che i grandi ci guardino così," disse Dill. "Si ha sempre
l'impressione di aver fatto non so che cosa."
Miss Maudie gridò a Jem di andare da lei.
Jem emise un gemito, lasciandosi scivolare dall'altalena.
"Veniamo con te," disse Dill.
Il naso di miss Stephanie palpitava per la curiosità. Voleva sapere chi ci
aveva permesso di andare in tribunale: lei non ci aveva visti, ma tutta la città
raccontava che eravamo sulla balconata della gente di colore. Ci aveva
mandati lassù Atticus per una specie di...? Non sapeva tremendamente di
chiuso, lassù, con tutti quei...? Scout aveva capito tutte le...? C'eravamo
molto arrabbiati a vedere sconfitto il nostro papà?
"Zitta, Stephanie!" Il tono di miss Maudie era glaciale. "Non ho mica tutta
la mattina da perdere a far chiacchiere sul portico. Jem Finch, ti ho chiamato
per vedere se tu e i tuoi amici avete voglia di una fetta di torta. Mi sono alzata
alle cinque per farla, quindi è meglio che diciate subito di sì. Scusaci,
Stephanie. Buongiorno, signor Avery."
Sul tavolo di cucina di miss Maudie vi era una torta grande e due piccine.
Avrebbero dovuto essercene tre, di piccole, veramente: miss Maudie non era
il tipo da aver dimenticato Dill; le nostre facce dovevano essere eloquenti, nel

220
loro stupore, ma capimmo tutto quando miss Maudie tagliò una fetta dalla
torta grande, porgendola a Jem.
Miss Maudie sedeva tranquilla su una sedia della cucina, guardandoci
mangiare: certamente ci aveva invitati per farci capire che, per quanto la
riguardava, tra noi nulla era cambiato.
D'un tratto disse: "Non te la prendere, Jem: le cose non sono mai brutte
come sembrano."
Quando miss Maudie era in casa e aveva l'intenzione di fare un
discorsetto piuttosto lungo, allargava a ventaglio le dita sulle ginocchia e si
metteva a posto la dentiera. Anche quel mattino fece così, e noi aspettammo
che parlasse.
"Desidero solamente dirvi che a questo mondo esistono delle persone che
son nate per fare i lavori poco divertenti, ma necessari, che gli altri
generalmente non vogliono fare: una di queste persone è vostro padre."
"Ah," disse Jem, "eh già..."
"Non credere di farmi impressione con i tuoi eh già, signorino," ribatté
miss Maudie, riconoscendo uno degli intercalari di Jem. "Non sei abbastanza
grande da giudicare quel che dico."
Jem fissava la sua fetta di torta mangiata a metà. "Mi sembra che siamo
tutti tante larve nel bozzolo," disse, "degli esseri addormentati comodamente
al caldo. Credevo che la gente di Maycomb fosse la miglior gente del mondo:
almeno così mi sembrava..."
"Siamo la gente più tranquilla che ci sia," affermò miss Maudie.
"L'occasione di dimostrare che siamo cristiani ci capita molto di rado, ma
per fortuna, quando ci capita, abbiamo uomini come Atticus, capaci di
battersi per noi."
Jem sorrise con tristezza. "Vorrei che il resto della contea la pensasse
come lei..."
"Non hai idea di quanti siano quelli che la pensano come noi!"
"Chi, per esempio?" La voce di Jem salì di tono. "Chi in questa città ha
mosso un dito per aiutare Tom Robinson, mi dica, chi?"
"I suoi amici di colore, tanto per cominciare, e poi la gente come noi,
come il giudice Taylor, come Heck Tate. Smettila di mangiare e comincia a
pensare un pochino, Jem. Non ti è mai venuto in mente che non è un caso
che il giudice Taylor abbia nominato proprio Atticus a difendere quel
ragazzo? Non credi che il giudice Taylor avesse le sue buone ragioni per
nominare proprio lui?"

221
Effettivamente la cosa dava da pensare. Di solito sceglievano come
avvocato d'ufficio Maxwell Green, l'ultima recluta del foro di Maycomb, un
giovane avvocato che aveva bisogno di fare pratica. A rigor di logica, la
difesa di Tom Robinson sarebbe dovuta toccare a Maxwell Green.
"Tu pensaci," diceva miss Maudie. "Non è stato un caso, sai. Stavo seduta
sotto il portico, ieri sera, ad aspettare. Aspettai e aspettai, sperando sempre di
vedervi comparire alla curva, e intanto pensavo: Atticus Finch non vincerà,
non può vincere, ma da queste parti non c'è un altro avvocato che sarebbe
stato capace di far trattenere la giuria così a lungo in camera di consiglio, in
un caso come questo. E mi dissi: comunque vadano le cose, è un passo
avanti: un passettino piccolo piccolo, ma sempre un passo avanti."
"È facile dirlo, ma non c'è barba di giurati e di avvocati cristiani che
bastino a controbilanciare queste giurie di selvaggi," borbottò Jem. "Appena
sarò grande..."
"Questa è una cosa che farai bene a non discutere con tuo padre!..." disse
miss Maudie.
Scendemmo gli scalini nuovi di miss Maudie e uscendo al sole trovammo
miss Stephanie e il signor Avery sempre occupati a discutere. Si erano
spostati sul marciapiede e stavano proprio davanti alla casa di miss
Stephanie. Miss Rachel veniva loro incontro in fretta.
"Credo che farò il pagliaccio da grande," annunciò Dill.
Jem e io ci fermammo.
"Sissignore, il pagliaccio," ripeté. "Se la gente è fatta così, l'unico rimedio
è di ridere alle loro spalle, e così entrerò in un circo e passerò la vita a ridere
alle loro spalle."
"Hai le idee molto confuse," disse Jem. "I pagliacci son tristi: è il pubblico
che ride di loro!"
"Bè, io sarò un pagliaccio diverso dagli altri. Mi metterò in mezzo alla
pista e riderò della gente. Guardate un po'," disse, facendo segno col dito.
"Non li vedreste benissimo tutti e tre a fare i pagliacci a cavallo di un manico
di scopa? Del resto, la zia Rachel ci si mette già adesso a cavallo delle scope!"
Miss Stephanie e miss Rachel ci facevan grandi segni con le braccia,
quasi a giustificare l'osservazione di Dill.
"Oh santo cielo," sbuffò Jem; "sarebbe molto grave se facessimo finta di
non vederli?"
Evidentemente era successo qualcosa di nuovo. Il signor Avery, preso da
un accesso di starnuti, era paonazzo e quasi quasi ci spazzò via dal
marciapiede. Miss Stephanie tremava per l'eccitazione e miss Rachel prese

222
Dill per le spalle. "Va' in cortile e non ti muovere!" gli disse. "Siamo in
pericolo."
"Che cosa succede?" chiesi.
"Non avete sentito? Tutta la città ne parla!..."
In quel momento zia Alexandra apparve sulla porta e ci chiamò dentro,
ma era troppo tardi: Miss Stephanie non avrebbe mai rinunciato al piacere di
darci la notizia che quella mattina Bob Ewell aveva fermato Atticus all'angolo
dell'ufficio postale, gli aveva sputato in faccia e aveva detto che gliela
avrebbe fatta pagare, anche a costo di aspettare tutta la vita.

223
capitolo ventitreesimo
"Preferirei che Bob Ewell non masticasse tabacco," fu l'unico commento di
Atticus sull'accaduto.
A sentir miss Stephanie, le cose erano andate così: Atticus usciva
dall'ufficio postale, quando Ewell gli si era avvicinato imprecando e gli aveva
sputato addosso minacciandolo di ucciderlo. Miss Stephanie (che dopo aver
raccontato l'episodio due volte si era convinta di esser stata presente al fatto e
di aver visto tutto) disse che Atticus non aveva battuto ciglio: aveva tirato
fuori il fazzoletto e s'era pulito la faccia lasciandosi affibbiare titoli che lei
non avrebbe ripetuto per tutto l'oro del mondo.Ewell era un veterano di non
si sa quale oscura guerra, ed era stato probabilmente per questa ragione, oltre
che per la pacifica reazione di Atticus, che s'era creduto in diritto di
chiedergli: "È troppo fiero di battersi con me, bastardo negrofilo?" Allora
Atticus, diceva miss Stephanie, aveva risposto. "No, son troppo vecchio!..."
E mettendo le mani in tasca, se ne era andato per i fatti suoi. Miss Stephanie
diceva che bisognava riconoscere che a volte Atticus sapeva essere brusco.
Jem e io non giudicammo l'episodio divertente.
"Dopotutto, però," dissi, "una volta era il più forte tiratore della contea.
Avrebbe potuto..."
"Sai bene che non porta mai armi addosso, Scout: oltretutto, non ne
possiede nemmeno," disse Jem. "Sai che non era armato neanche quella notte
fuori della prigione. Dice che uscire con il fucile equivale a chiedere a
qualcuno di spararti addosso."
"Ma qui il caso è diverso," osservai. "Potremmo pregarlo di prenderne
uno in prestito."
Così facemmo, ma Atticus rispose: "Sciocchezze!"
Dill era del parere che se avessimo cercato di intenerire Atticus, forse
qualcosa avremmo ottenuto: in fondo, se Ewell lo avesse ucciso, saremmo
morti di fame in primo luogo, e in secondo luogo della nostra educazione si
sarebbe occupata esclusivamente zia Alexandra; sapevamo che la prima cosa
che avrebbe fatto in questo caso, appena rientrata dal funerale di Atticus,
sarebbe stato di licenziare Calpurnia. Jem disse che se piangevo e davo in
smanie da bambina, la cosa avrebbe funzionato. Invece non funzionò affatto.
Quando però Atticus si accorse che ci trascinavamo in giro, che avevamo
perso l'appetito e non ci interessavamo più alle nostre solite occupazioni, capì
quanto fossimo spaventati. Una sera offrì a Jem una nuova rivista di sport e,

224
vedendo che Jem, dopo averla scorsa distrattamente, la buttava da parte,
disse: "Che cosa ti preoccupa, figliolo?"
Jem venne subito al sodo: "Bob Ewell."
"Ma che è successo?"
"Niente è successo. Abbiamo paura per te, e pensiamo che dovresti fare
qualcosa."
Atticus ebbe un sorriso un po' forzato. "Che cosa, farlo ammonire dal
giudice?"
"Quando un uomo come quello dice che te la farà pagare, evidentemente
fa sul serio."
"Faceva sul serio nel momento in cui lo diceva," replicò Atticus, "ma
ora... Cerca di metterti nei panni di Bob Ewell per un momento, Jem. A quel
processo ho distrutto l'ultimo brandello della sua reputazione, posto che ne
avesse ancora. Doveva pur farmela pagare, in qualche modo: non è gente che
possa rinunciare a questo tipo di vendetta. Quindi, se sputandomi in faccia si
è sfogato e Mayella si è risparmiata un altro fracco di botte, meglio così.
Doveva rifarsela con qualcuno, ed è sempre meglio che sia toccata a me che a
quella masnada di ragazzini: capisci?"
Jem fece segno di sì.
Zia Alexandra entrò nella stanza mentre Atticus diceva: "Non abbiamo
niente da temere da Bob Ewell: quella mattina si è tolto una bella
soddisfazione con me..."
"Io non ne sarei tanto sicura, Atticus," ella disse. "Quella gente è capace
di qualunque cosa quando ce l'ha con qualcuno. Sai come son fatti."
"Che cosa diavolo potrebbe mai farmi Bob Ewell, Alexandra?"
"Lavorerà sott'acqua," disse la zia. "Puoi contarci."
"Nessuno riuscirà mai a lavorar sott'acqua a Maycomb!" rispose Atticus.
Dopo di allora la paura ci passò. L'estate stava passando rapidamente e
cercammo di godercela il più possibile. Atticus ci tranquillizzò, assicurandoci
che a Tom Robinson non potevano far nulla prima dell'appello e che aveva
buone probabilità di venire assolto o almeno di subire un terzo processo. Ora
Tom stava nella colonia penale agricola di Enfield, nella contea di Chester, a
un centinaio di chilometri da Maycomb. Chiesi ad Atticus se la moglie di
Tom e i bambini avessero il permesso di fargli visita, ma Atticus disse di no.
"Se in appello perde," gli chiesi una sera, "che cosa gli succederà?"
"Andrà alla sedia elettrica," rispose Atticus, "a meno che il governatore
non gli commuti la sentenza. Non è ora di preoccuparsi, Scout: abbiamo
buone probabilità di vincere."

225
Jem stava buttato sul sofà e leggeva La meccanica popolare. Alzò lo
sguardo. "Sulla sedia elettrica!..." esclamò. "Ma non è giusto: non è colpevole
di omicidio: non ha ucciso nessuno!"
"Sai che nell'Alabama la violenza carnale è punita con la pena di morte..."
disse Atticus.
"Sissignore, ma la giuria non era obbligata a condannarlo a morte!
Se volevano, potevano dargli vent'anni."
"Dargli vent'anni?" disse Atticus. "Tom Robinson è un uomo di colore,
Jem. Non esiste una giuria, almeno in questa parte del mondo, che in un caso
simile direbbe: "Ti riteniamo colpevole, ma non molto." Qui si trattava o di
avere un'assoluzione piena o di non sperar niente."
Jem scuoteva la testa. "È tutto sbagliato, ma non riesco a capire dove sia
lo sbaglio. Forse la violenza non dovrebbe essere un delitto punibile con la
pena di morte..." Atticus lasciò cadere il giornale.
Personalmente non aveva nulla da ridire circa la legge sulla violenza
carnale, osservò, assolutamente nulla: ma giudicava molto grave il fatto che
un pubblico ministero chiedesse e una giuria emettesse una sentenza di morte
su prove esclusivamente indiziarie. Mi diede un'occhiata, vide che ascoltavo,
e cercò di essere più chiaro.
"Voglio dire che prima che un uomo sia condannato a morte per
omicidio, diciamo, bisognerebbe che vi fossero uno o due testimoni oculari,
qualcuno che potesse dire: "Sì, ero presente e l'ho visto premere il grilletto.""
"Ma una quantità di gente è stata fatta fuori... giustiziata in base a prove
indiziarie," disse Jem.
"Lo so, e probabilmente molti se lo meritavano, ma in assenza di un
testimone oculare deve sempre rimanere il beneficio del dubbio, anche se
talvolta non è che una ombra di dubbio. La legge dice "dubbio ragionevole,"
ma io ritengo che un imputato abbia diritto a un dubbio vago. C'è sempre la
possibilità, anche se del tutto improbabile, che sia innocente."
"E allora, tutto dipende come sempre dalla giuria. Bisognerebbe abolire le
giurie," dichiarò Jem, adamantino.
Atticus fece di tutto per non sorridere, ma non vi riuscì. "Sei un po'
drastico, figliolo. Forse un sistema migliore c'è: modificare la legge.
Modificarla nel senso che soltanto i giudici abbiano la facoltà di stabilire la
condanna, in casi di delitti che prevedano la pena di morte."
"Allora dovresti andare a Montgomery e far cambiare la legge."
"Non hai idea di quanto sia difficile. Io non vivrò certo abbastanza da
veder modificata la legge: tu forse sì, ma sarai vecchio, quel giorno."

226
Nemmeno questa soluzione soddisfaceva Jem. "Nossignore, dovrebbero
abolire le giurie. Prima di tutto lo hanno giudicato colpevole quando non lo
era!"
"Se tu avessi fatto parte di quella giuria, figliolo, con altri undici ragazzi
come te, a quest'ora Tom sarebbe libero," disse Atticus. "Fino a questo
momento nella tua vita non c'è stato nulla che abbia interferito con il tuo
raziocinio. I dodici uomini della giuria di Tom sono uomini che ragionano
normalmente nella vita, ma hai visto con i tuoi occhi che al processo si è
frapposto tra loro e la ragione una specie di schermo, e lo stesso hai visto
quella notte davanti alla prigione; quando se ne andarono quella notte non se
ne andarono da uomini ragionevoli ma soltanto perché c'eravamo noi. C'è
qualcosa nel nostro mondo che fa perder la testa alla gente - non riescono a
esser giusti neanche quando lo vogliono. E i nostri tribunali, quando contro
la parola di un bianco c'è soltanto quella di un nero, è sempre il bianco che
vince. Sarà brutto, ma la vita è fatta così."
"Ma non è giusto lo stesso," disse Jem, cocciuto. Si batté piano il pugno
sul ginocchio. "Non si può condannare un uomo su prove simili: non si
può!..."
"Tu, non potresti: ma loro potevano farlo e l'hanno fatto. più grande
diventerai, più ne vedrai di questi episodi. Se c'è un posto al mondo dove
l'uomo dovrebbe esser sicuro di trovare giustizia è il tribunale, di qualunque
colore dell'arcobaleno sia la pelle di quell'uomo, ma la gente è capace di
portarsi dietro i propri rancori persino sul banco di una giuria. Quando sarai
grande vedrai tutti i giorni uomini bianchi che ingannano i negri; ma voglio
dirti una cosa, e non dimenticarla mai: se un bianco fa una cosa simile a un
negro, chiunque egli sia, per quanto sia ricco o appartenga alla migliore
famiglia, quel bianco è un disgraziato."
Atticus parlava con tanta calma che l'ultima parola giunse alle nostre
orecchie con la fragorosità di uno sparo. Lo guardai: aveva un'espressione
intensa sul volto. "Non c'è nulla di più disgustoso di un bianco di infima
condizione sociale che approfitta dell'ignoranza di un negro. Non fatevi
illusioni in proposito: il conto è aperto e un giorno o l'altro lo dovremo
pagare. Spero che questo non accadrà finché siete bambini."
Jem si grattava la testa. D'un tratto spalancò gli occhi.
"Atticus," disse, "perché la gente come noi e come miss Maudie non fa
parte delle giurie? Non si vede mai nessuno di Maycomb nelle giurie,
vengono tutti dai boschi!"

227
Atticus appoggiò la schiena alla spalliera della poltrona a dondolo. Pareva
contento di Jem. "Mi domandavo quando te ne saresti accorto," disse. "Le
ragioni sono molte: tanto per cominciare, miss Maudie non può far parte di
una giuria perché è una donna."
"Perché, nell'Alabama le donne non possono far parte delle giurie?"
domandai, indignata.
"Proprio così. Credo che sia per proteggere le nostre fragili signore da
casi sordidi come quello di Tom. E poi," Atticus sorrise, "dubito che
riusciremmo mai ad arrivare alla fine di un processo: le signore non
farebbero che interrompere e far domande."
Jem ed io ridemmo. Come sarebbe stata solenne, miss Maudie, in una
giuria! Pensai alla vecchia signora Dubose nella sua sedia a rotelle.
"Smettila di battere quel martello, John Taylor," avrebbe gridato, "voglio
chiedere una cosa a quest'uomo!" Forse i nostri antenati erano più saggi di
noi.
"Quanto a noi," stava dicendo Atticus, "è la parte del conto che dovremo
pagare. Generalmente ogni paese ha le giurie che si merita.
Anzitutto, i nostri bravi cittadini di Maycomb non si interessano a questi
problemi, in secondo luogo hanno paura; in terzo luogo..."
"Paura di che?" chiese Jem.
"Bè... che cosa succederebbe, ad esempio, se il signor Link Deas dovesse
stabilire l'indennità che miss Rachel (sempre per esempio) fosse tenuta a
pagare a... a miss Maudie per averla investita con l'automobile? Link ha un
negozio e non vorrebbe certo perdere come cliente né l'una né l'altra, non vi
pare? E allora che fa Link? Dice al giudice di non poter far parte della giuria
perché non ha nessuno che gli badi al negozio mentre è in tribunale. E il
giudice Taylor lo scusa... anche se qualche volta ci si arrabbia molto."
"Ma perché deve pensare che miss Rachel o miss Maudie non andrebbero
più a servirsi al suo negozio?" chiesi.
Jem disse: "Miss Rachel non ci andrebbe più, miss Maudie sì. Ma i voti
della giuria sono segreti, Atticus!"
Nostro padre sorrise. "Devi farne di strada ragazzo mio! Il voto di una
giuria dovrebbe esser segreto, ma quando un uomo fa parte di una giuria è
costretto a decidersi, a prender posizione pro o contro una determinata cosa,
e agli uomini non piace dover prendere posizione. E infatti a volte non è
piacevole!..."
"Certo, la giuria di Tom si è decisa in fretta," borbottò Jem.

228
Le dita di Atticus corsero al taschino dell'orologio. "Non è vero," disse,
più a se stesso che a noialtri, "ed è proprio l'unico elemento che si possa
interpretare come un vago indizio di miglioramento. Ci son volute parecchie
ore a quella giuria per emettere il verdetto: un verdetto inevitabile, forse, ma
bisogna tener presente che di solito lo emettono in pochi minuti. Questa
volta..." si interruppe e ci guardò. "Forse vi farà piacere sapere che in mezzo
alla giuria c'era un individuo che non voleva saperne di mollare: si era
battuto addirittura per un'assoluzione a formula piena."
"E chi era?" chiese Jem stupefatto.
Gli occhi di Atticus ammiccarono. "Non sono in grado di dirvelo, posso
informarvi soltanto che era uno dei vostri amici di Old Sarum..."
"Uno dei Cunningham?" squittì Jem. "Uno dei... ma mi pare che non ce
ne fosse nessuno, nella giuria... stai scherzando?" Guardò Atticus con la coda
dell'occhio, come per scoprire che cosa volesse dire.
"Un loro parente. lì per lì non l'ho riconosciuto. Forse mi sarei ricordato
chi era, se mi fossi sforzato."
"Santo cielo," disse Jem, stupefatto: "Quella notte lo volevano uccidere e
il giorno dopo cercano di assolverlo del tutto: non capirò mai quella gente,
mai!"
Atticus disse che infatti era gente che bisognava conoscer bene per
poterla capire. I Cunningham non avevano mai portato via nulla a nessuno,
né avevano mai approfittato di chicchessia, dal giorno in cui erano emigrati
nel Nuovo Mondo; e un'altra loro caratteristica era che, se una persona
sapeva farsi rispettare da loro, le diventavano devoti. Aggiunse che aveva
avuto l'impressione, la notte della prigione, che i Cunningham se ne erano
andati perché noi Finch avevamo ispirato loro un grande rispetto. E infine,
concluse Atticus, una cosa era certa: che per far cambiare idea a un
Cunningham ci voleva l'ira di Dio: l'ira di Dio più l'opera di persuasione di
un altro Cunningham. "Se ne avessimo avuti due, di quelli, avremmo avuto
una giuria patta."
Jem disse lentamente: "E tu hai lasciato che entrasse a far parte della
giuria un uomo che la sera prima voleva ucciderlo? Perché hai corso questo
rischio, Atticus? Perché?"
"Se esamini bene la cosa, vedrai che il rischio era poco. Che differenza ci
può essere tra due uomini ugualmente decisi a farne condannare un terzo?
Un'ombra di differenza, invece, ci può essere tra un uomo che vuol farne
condannare un altro e uno che non sia perfettamente a posto con la testa: non
ti pare? Infatti, l'unico punto interrogativo di tutta la lista era lui."

229
"Com'è parente quell'uomo al signor Walter Cunningham?" chiesi.
Atticus si alzò, si stirò e sbadigliò. Non era l'ora di andare a letto
nemmeno per noi, ma capimmo che aveva voglia di leggere il suo giornale in
pace. Lo prese, lo piegò e me lo batté leggermente sulla testa. "Dunque
vediamo..." disse con voce profonda, come tra sé e sé: "Sì, ci sono: son
doppi primi cugini."
"Com'è possibile?..."
"Due sorelle hanno sposato due fratelli. Questo è tutto quel che ti posso
dire: tu cerca di arrivarci da te."
Mi torturai a lungo, e finii per stabilire che se io avessi sposato Jem, e Dill
avesse avuto una sorella e l'avesse sposata, i nostri figli sarebbero stati doppi
primi cugini. "Accidenti, Jem," dissi quando Atticus se ne fu andato, "che
gente strana, quella! Hai sentito, zia?"
Zia Alexandra lavorava all'uncinetto e non ci guardava, ma ascoltava.
Sedeva nella sua poltrona con il cestino da lavoro accanto e il lavoro che le
copriva le ginocchia. Perché poi le signore facciano lavori in lana nelle serate
bollenti d'estate non l'ho mai capito.
"Ho sentito," disse.
Ricordai la lontana, disastrosa occasione in cui mi ero precipitata a
prender le difese del ragazzo Cunningham: adesso ero contenta di averlo
fatto. "Appena comincia la scuola, inviterò Walter a colazione a casa," dissi
dimenticando che poco prima avevo deciso di pestarlo bene bene la prima
volta che l'avessi incontrato. "Qualche volta potrebbe anche restare da noi
dopo la scuola, e poi Atticus potrebbe accompagnarlo in macchina a Old
Sarum. Forse potrebbe anche restare a dormire."
"Ne riparleremo," disse zia Alexandra; fatta da lei, una simile
dichiarazione non era una promessa, ma una minaccia. Sorpresa, mi volsi
verso di lei. "Perché no, zia? Sono brava gente!"
Mi guardò disopra agli occhiali da lavoro. "Jean Louise, sono
perfettamente convinta che sia brava gente, ma non sono gente del nostro
genere."
"La zia vuol dire che sono dei tangheri, Scout," spiegò Jem.
"Che cosa vuol dire "tangheri"?"
"Ma sì, degli zotici... gente a cui piace fare un mucchio di chiasso e di
confusione!"
"Bè, questo piace anche a me..."
"Non dire sciocchezze, Jean Louise," replicò zia Alexandra. "Il punto è
questo: strofina Walter Cunningham finché diventa lucido, mettigli le scarpe

230
e vestilo a nuovo, ma non sarà mai come Jem. A parte questo, hanno una
vena di... una tendenza al bere, in quella famiglia, grande da qui a lì. Le
donne di casa Finch non si interessano a quel genere di individui."
"Ma zia," disse Jem, "Scout non ha nemmeno nove anni!..."
"Tanto vale che lo impari subito."
Zia Alexandra aveva parlato. Ricordavo benissimo l'ultima occasione in
cui aveva puntato i piedi. Non avevo mai capito perché lo avesse fatto: era
stato quando mi ero messa in testa di andare a trovare Calpurnia a casa sua:
per curiosità, perché mi interessava, desideravo esser sua "ospite," vedere
come viveva, chi erano i suoi amici. Tanto valeva chiedere di veder l'altra
faccia della luna.
Questa volta la tattica era diversa, ma lo scopo di zia Alexandra era lo
stesso. Forse per questo era venuta a viver con noi, per aiutarci a scegliere i
nostri amici; ma io intendevo di impedirglielo il più a lungo possibile. "Se
sono della brava gente, perché non posso esser gentile con Walter?"
"Non ho detto che tu non devi esser gentile con lui, devi essere gentile e
cortese con lui come con tutti, cara. Ma non sei tenuta a invitarlo a casa tua."
"E se fosse nostro parente, zia?"
"Si dà il caso che non sia nostro parente, ma se anche lo fosse la mia
risposta sarebbe certo la stessa."
"Zia," intervenne Jem, "Atticus dice che uno può scegliere i propri amici,
ma non la propria famiglia, e che i parenti son sempre parenti, si vogliano
riconoscerli o no: quindi è ridicolo non volerli riconoscere!"
"Di nuovo tuo padre," ribatté zia Alexandra. "Ripeto che Jean Louise non
inviterà a casa Walter Cunningham. Anche se fosse il suo doppio primo
cugino di primo grado lo stesso non verrebbe ricevuto in questa casa, se non
per parlare con Atticus di affari: e basta."
Zia Alexandra aveva parlato, ma questa volta volevo costringerla a
spiegare le sue ragioni. "Ma io voglio giocare con Walter, zia: perché non
posso farlo?"
Lei si tolse gli occhiali e mi fissò. "Te lo dirò io, perché," dichiarò;
"perché è uno straccione: ecco perché non puoi giocare con lui! Non tollero
che gli ronzi attorno imparando le sue abitudini e Dio sa che cosa. Costituisci
già un problema per tuo padre così come sei, e non abbiamo proprio bisogno
di altre complicazioni!"
Non so che cosa avrei fatto se Jem non mi avesse fermata in tempo.
Mi prese per le spalle, passandomi un braccio attorno alla vita, e mi
condusse singhiozzante e furente nella sua camera da letto. Atticus ci udì e

231
affacciò la testa alla porta. "Non è niente," disse Jem, burbero, "non è proprio
niente," e Atticus si ritirò.
"To', Scout," disse Jem ficcando la mano in tasca e tirandone fuori un bel
pezzo di cioccolata ripiena. Mi ci volle un pochino per lavorarla a dovere e
per farne un impasto morbido e confortante da tenere dentro la mascella.
Nel frattempo Jem metteva in ordine i suoi oggetti da toletta.
Aveva due ciuffi di capelli in disordine, uno davanti e uno di dietro:
chissà se i capelli di Jem sarebbero mai stati a posto come quelli dei grandi?
Forse se li avesse rasati completamente ricrescendo sarebbero venuti su più
in ordine. Mi pareva che le sue sopracciglia fossero più folte e notai che era
più snello: stava diventando grande.
Jem alzò la testa, e forse gli venne il dubbio che stessi per ricominciare a
piangere, perché disse: "Ti voglio mostrare una cosa, se non lo dici a
nessuno." Gli chiesi che cosa fosse. Si sbottonò la camicia, sorridendo
timidamente.
"Che c'è?"
"Non lo vedi?"
"Io no."
"Sono peli."
"Dove?"
"Qui, non vedi?"
Era stato buono a consolarmi, e allora dissi: "Perbacco!" Ma non vedevo
nulla. "È proprio pelo, Jem," soggiunsi.
"Ce l'ho anche sotto le braccia," disse. "L'anno prossimo mi iscrivo alla
squadra di palla ovale. Scout, non te la prendere se la zia ti fa arrabbiare!"
Pareva ieri che mi diceva di non far arrabbiare la zia...
"Lo sai che non è abituata alle ragazze," proseguì Jem, "o per lo meno alle
ragazze come te. Vorrebbe far di te una signora. Non potresti imparare a
cucire o qualcosa di simile?"
"Maledizione, no! Io non le vado a genio, questa è la verità, e non me ne
importa niente. E mi sono infuriata, Jem, quando ha dato dello straccione a
Walter Cunningham, non quando ha detto che io rappresento un problema
per Atticus. Questa è una cosa che ho chiarita tanto tempo fa, con Atticus: gli
ho chiesto se ero un problema per lui, e mi rispose che non ero un grande
problema, o almeno che ero un problema che riusciva sempre a risolvere in
qualche modo, e di non preoccuparmi affatto di dargli noia o cose del
genere.

232
No, è stato per Walter che non ci ho visto più: quel ragazzo non è uno
straccione, Jem, non è come gli Ewell!"
Jem si tolse scalciando le scarpe e buttò le gambe sul letto. Si appoggiò al
cuscino e accese il lume accanto al letto. "Sai, Scout, mi sono fatta un'idea
chiara di tutte queste cose, oramai: ci ho pensato molto, ultimamente, e me ne
sono fatto un'opinione personale.
A questo mondo ci sono quattro tipi di persone: quello normale, co me
noi e i vicini, i Cunningham dei boschi, i tipi come gli Ewell dello
scaricatoio, e poi i negri."
"E i cinesi e i Cajun nella contea di Baldwin?"
"Ma io dico qui da noi, nella contea di Maycomb. Da noi succede questo:
la gente come noi non può soffrire i Cunningham, i Cunningham non
possono soffrire gli Ewell, e gli Ewell odiano e disprezzano i negri!"
Dissi che se le cose stavano così, non si spiegava come mai la giuria di
Tom, composta di gente come i Cunningham, non avesse assolto Tom per far
dispetto agli Ewell.
Jem ebbe un gesto come a dire che la mia osservazione era puerile.
"Del resto," disse, "ho visto con i miei occhi Atticus battere il tempo
quando trasmettono musica campagnola, e gli piace anche il sugo che rimane
in fondo alle pentole."
"Allora noi siamo come i Cunningham," dissi, "e non capisco perché la
zia..."
"No, lasciami finire: sì, siamo come i Cunningham, ma siamo anche
diversi. Una volta Atticus ha detto che la zia ha l'ossessione delle tradizioni,
perché nella nostra famiglia abbiamo una quantità di tradizioni, ma quattrini
zero."
"Ma, Jem, non so... una volta Atticus mi ha detto che questa storia delle
famiglie antiche è una sciocchezza perché tutte le famiglie sono antiche:
anche quelle della gente di colore e degli inglesi."
"Avere delle tradizioni non significa essere una famiglia antica," osservò
Jem. "Credo che significhi che da molte generazioni la famiglia sa leggere e
scrivere. Scout, ho pensato a queste cose proprio a fondo, e questa è l'unica
differenza che ho trovato: si vede che in tempi lontani, quando i Finch erano
in Egitto, uno di loro avrà imparato un paio di geroglifici e poi li avrà
insegnati a suo figlio." Jem rise. "Pensa alla zia, che è fiera perché il suo bis-
bisnonno sapeva leggere e scrivere! Le donne a volte vanno fiere di cose
molto strane."

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"Bè, io son contenta che sapeva leggere e scrivere, se no chi lo avrebbe
insegnato ad Atticus? E se Atticus non sapeva leggere, io e te ci troveremmo
in un bel guaio. Non credo che siano queste le tradizioni, Jem."
"E allora come spieghi che i Cunningham sono diversi da noi? Il padre di
Walter sa a malapena fare la sua firma, l'ho visto io. La differenza sta proprio
in questo: che noi sappiamo leggere e scrivere da più tempo di loro."
"No, tutti devono imparare, nessuno nasce sapendo già le cose.
Walter è intelligentissimo, soltanto rimane indietro perché a volte deve
andare nei campi ad aiutare suo padre; ma è in gamba lo stesso.
No, Jem, io credo che la gente sia di un tipo solo: gente, e basta!"
Jem si girò e prese a pugni il cuscino per gonfiarlo a dovere.
Nell'appoggiarvisi, era accigliato e, temendo che stesse covando uno dei
suoi scoramenti, divenni prudente. Corrugò la fronte fino a riunire le
sopracciglia, strinse le labbra e non parlò per un pezzo.
"È quel che pensavo anch'io quando avevo la tua età," disse infine. "Ma
se gli uomini fossero di un tipo solo come ti spieghi che non vanno mai
d'accordo tra loro? Se son tutti uguali, perché passano la vita a disprezzarsi a
vicenda? Comincio a capire una cosa, Scout: sai perché Boo Radley è rimasto
chiuso in casa tutto questo tempo?
Perché non vuole uscire."

234
capitolo ventiquattresimo
Calpurnia portava il grembiule più impeccabile e inamidato che possedeva, e
aveva in mano un vassoio con la charlotte alla panna.
Camminando all'indietro giunse alla porta a vento e la spinse dolcemente.
Ammirai la facilità e la grazia con cui maneggiava pesanti vassoi colmi di
tazze e piattini: evidentemente queste qualità doveva riconoscergliele anche
zia Alexandra, se quel giorno aveva permesso a Calpurnia di servire lei il tè.
Agosto era agli sgoccioli, e l'indomani Dill sarebbe partito per Meridian.
Quel giorno era andato con Jem allo stagno dei Barker perché Jem aveva
scoperto, stupefatto e adirato, che nessuno si era mai preoccupato di
insegnare a Dill a nuotare, da lui invece considerato necessario come il
camminare. Avevano già passato due pomeriggi interi allo stagno (dicevano
che facevano il bagno nudi e che quindi non potevo andare con loro) e io
dividevo le mie ore solitarie tra Calpurnia e miss Maudie.
Quel giorno zia Alexandra e il suo circolo missionario imperversavano in
casa nostra con la scusa della buona causa. Dalla cucina udivo la signora
Grace Merryweather che in salotto conferiva sulla squallida esistenza dei
selvaggi mrunas, o qualcosa del genere.
Per conto mio non sapevo se andare in salotto o tenermene lontana.
Zia Alexandra mi aveva detto di andare a prendere il tè con le signore,
aggiungendo però che non era necessario rimanessi con loro durante le
discussioni: mi sarei annoiata e basta. Portavo il vestito rosa della domenica,
le scarpe e la sottoveste, e riflettei che se ci rovesciavo sopra qualcosa
Calpurnia avrebbe dovuto lavarmelo per l'indomani; e visto che aveva avuto
una giornata molto movimentata, decisi di non andarci.
"Posso aiutarti, Cal?" chiesi, desiderando di rendermi utile.
Calpurnia si fermò sulla soglia. "Mettiti tranquilla come un topolino in
quell'angolo," disse, "e potrai aiutarmi a riempire i vassoi quando torno in
cucina."
Il ronzio delle voci femminili si fece più forte quando aprì la porta.
"Alexandra, non ho mai visto una charlotte simile... magnifica...
Io non riesco ad ottenere una crosta così... mai... Carine quelle crostatine
di more: che buona idea! Calpurnia?... Chi l'avrebbe creduto... Lo sanno tutti,
che la moglie del pastore... nooo... sì, invece, e l'altro che ancora non
cammina..."
D'un tratto si quietarono e capii che eran state servite tutte.

235
Calpurnia ritornò e mise il pesante bricco d'argento della mamma su un
vassoio. "Questo bricco è una rarità," mormorò, "non ne fanno più così,
oramai..."
"Posso portarlo io dentro?"
"Se stai bene attenta a non farlo cadere. Poggialo in fondo alla tavola,
accanto a miss Alexandra. Vicino alle tazze, così le è comodo per versare il
caffè..."
Cercai di spingere la porta con il di dietro come aveva fatto Calpurnia, ma
la porta non si mosse. Sorridendo, Calpurnia la tenne aperta perché passassi.
"Attenta, eh, è pesante. Non guardare il bricco e vedrai che non verserai
niente."
Il mio viaggio ebbe esito felice: zia Alexandra sorrise, radiosa.
"Rimani con noi, Jean Louise," disse. L'invito faceva sicuramente parte
della campagna che aveva iniziata per far di me una signora.
A Maycomb era consuetudine che le varie signore iscritte al circolo
missionario invitassero a un rinfresco le colleghe, battiste o presbiteriane che
fossero, e questo spiegava la presenza di miss Rachel (che era sobria come
un giudice), di miss Maudie e di miss Stephanie Crawford. Mi sentivo
piuttosto nervosa e sedetti accanto a miss Maudie. Chissà perché le signore si
mettevano il cappello per andare in una casa che stava al marciapiede di
fronte! Quelle riunioni mondane mi riempivano sempre di un vago timore e
di un fortissimo desiderio di trovarmi altrove, che, secondo zia Alexandra,
erano la prova di quanto fossi "traviata."
Le signore apparivano disinvolte nelle loro delicate tinte pastello; quasi
tutte erano molto incipriate, ma non portavano rossetto, l'unico rossetto in
quella stanza era il Tangee Natural.
Avevan le unghie laccate con Cutex Naturale, le più giovani invece con
Cutex Rosa. Avevano profumi dolcissimi. Mi misi a sedere tranquilla e, per
tener ferme le mani, mi aggrappai ai braccioli della poltrona, aspettando che
qualcuno mi rivolgesse la parola.
Le capsule d'oro di miss Maudie brillarono. "Come sei elegante, Jean
Louise" disse. "Dove hai messo i calzoncini, oggi?"
"Li ho sotto il vestito."
Non avevo intenzione di far dello spirito, ma le signore risero. Il sangue
mi affluì alle guance quando mi resi conto dell'equivoco, ma miss Maudie mi
guardò con severità. Non rideva mai, se non quando facevo veramente dello
spirito.

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Nel silenzio improvviso che seguì, miss Stephanie Crawford esclamò, dal
fondo della stanza: "Che cosa vuoi fare quando sarai grande, Jean Louise?
L'avvocato?"
"Non so, non ci ho ancora pensato..." risposi, grata a miss Stephanie per
aver cambiato discorso. Mi precipitai a scegliere la mia vocazione:
Infermiera? Aviatrice? "Sa..."
"Ma come, credevo che volessi fare l'avvocato: non frequenti già il
tribunale?"
Le signore risero di nuovo. "Che tipo, quella Stephanie!" disse qualcuno,
e miss Stephanie si sentì incoraggiata a insistere. "Non farai l'avvocato, da
grande?"
La mano di miss Maudie sfiorò la mia e io risposi, abbastanza
gentilmente: "No, voglio fare la signora."
Miss Stephanie mi guardò con sospetto, poi parve convinta che non
avevo voluto essere impertinente e si limitò a dire: "Bè, non faticherai molto
se cominci a vestirti da donna più spesso."
La mano di miss Maudie strinse la mia e io non risposi nulla. Il calore di
quella mano mi bastava.
Alla mia sinistra c'era la signora Grazia Merryweather e giudicai cortese
rivolgerle la parola. Suo marito, fervido metodista, per costrizione, non
sembrava alludere a sé quando cantava: "Grazia Letificante, dolce è la voce
che salvò me sventurato..." A Maycomb, però, tutti pensavano che la signora
Merryweather avesse riportato il 232 marito sulla retta via, facendo di lui un
cittadino più o meno modello. Infatti lei, Grazia Merryweather, era senza
dubbio la signora più devota di Maycomb. Cercai un argomento che potesse
interessarla. "Di che cosa avete discusso questo pomeriggio?" chiesi.
"Oh, figliola," rispose, "quei poveri mrunas..." Ormai era partita, non ci
sarebbe stato bisogno di molte altre domande.
Grazia Merryweather usava la voce come fosse un organo, ogni parola
nel suo suono completo. "Povertà... oscurantismo... immoralità...nessuno
può farsene un'idea: soltanto J' Grimes Everett conosce queste cose. Sai,
quando la chiesa mi pagò il viaggio fino al campeggio, J' Grimes Everett mi
disse..."
"Era in un campeggio, signora? Credevo..."
"Era in vacanza. J' Grimes Everett mi disse: "Signora Merryweather, lei
non ha idea, non ha idea contro che cosa combattiamo laggiù!" così mi
disse."
"Sì, signora."

237
"Io gli dissi: "Signor Everett, le signore della Chiesa Metodista Episcopale
di Maycomb, Alabama, sono tutte al suo fianco!" Questo gli dissi e, sai,
mentre pronunciavo queste parole dicevo a me stessa: quando vado a casa,
voglio fare una conferenza sui mrunas e portare a Maycomb il messaggio di
J' Grimes Everett. E così ho fatto!"
"Bene, signora."
La signora Merryweather scosse la testa fra un arruffio di riccioli. "Jean
Louise," disse, "sei una bambina fortunata. Vivi in una casa cristiana, con
gente cristiana, in una città cristiana. Laggiù, nella terra di J' Grimes Everett,
non c'è che peccato e squallore!..."
"Sì, signora."
"Peccato e squallore... come dici, Gertrude?" Cambiò di colpo registro
rivolgendosi alla signora che le sedeva vicino. "Ah, ho capito. Io dico
sempre: perdonare e dimenticare, perdonare e dimenticare. La chiesa
dovrebbe aiutarla a condurre una vita cristiana insieme a quei poveri
bambini, d'ora in poi. Qualcuno dei nostri uomini dovrebbe andar laggiù e
dire al pastore di incoraggiarla sulla buona strada!"
"Mi scusi, signora," interruppi, "sta parlando di Mayella Ewell?"
"May... no, bimba mia: parlo della moglie di quel negro, la moglie di
Tom, Tom..."
"Robinson, signora."
La signora Merryweather si rivolse di nuovo alla sua vicina. "C'è una cosa
che io credo fermamente, Gertrude," continuò, "ma ci sono delle persone che
non la pensano come me. Se gli facciamo capir che li perdoniamo e che
abbiamo dimenticato tutto, tutto si sgonfierà."
"Scusi, signora," interruppi ancora, "che cosa si sgonfierà?..."
Si voltò di nuovo verso di me. La signora Merryweather era una di quelle
donne senza figli che parlando ai bambini credono sia necessario assumere
un tono di voce diverso dal solito. "Nulla, nulla, Jean Louise," disse in un
maestoso largo. "Le cuoche e i negri dei campi sono scontenti, ma si stanno
calmando oramai; il giorno dopo il processo non facevano che brontolare."
Grazia Merryweather si volse di nuovo a guardare la signora Farrow:
"Gertrude, ti dico che non c'è niente di più esasperante di un negro che fa il
muso. La bocca gli va giù, qui, agli angoli... Basta che tu ne abbia uno così in
cucina, e la giornata è rovinata. Sai che ho detto alla mia Sophia, Gertrude?
Le ho detto: "Sophia, tu oggi non ti comporti da cristiana. Gesù Cristo non è
mai andato in giro borbottando e lamentandosi," e, sai, le ha fatto bene, ha
alzato gli occhi da quell'eterno pavimento e ha detto. "No, miz Merryweather,

238
Gesù non è mai andato in giro brontolando." Ti dico, Gertrude, non ci si
deve mai lasciar sfuggire l'occasione di lavorare per il Signore."
Mi venne in mente il vecchio organo della cappella, all'Approdo dei
Finch. Da piccola, quando mi ero portata bene, Atticus mi lasciava menare il
mantice mentre egli suonava un motivo con un dito solo.
L'ultima nota rimaneva come sospesa finché c'era aria a sostenerla.
Pensai che la signora Merryweather avesse esaurito l'aria e ne stava
facendo rapidamente una nuova riserva approfittando del fatto che la signora
Farrow si disponeva a parlare.
La signora Farrow era una donna ben fatta; aveva occhi pallidi e piedi
piccoli. Si era appena fatta la permanente e i suoi capelli erano una massa di
riccioletti grigi. A Maycomb in fatto di devozione veniva subito dopo la
signora Merryweather e aveva la curiosa abitudine di esordire ogni discorso
con un sibilo.
"Sss, Grazia," disse, "lo facevo appunto osservare al fratello Hutson l'altro
giorno. "Fratello Hutson," gli dissi, "a quanto pare combattiamo una battaglia
perduta in partenza. Ssss, a loro non importa niente. Possiamo cercare di
educarli fino allo stremo delle forze, possiamo cercare di far di loro dei
cristiani fino a cascare a terra esausti, ma non c'è una sola signora che sia al
sicuro nel suo letto in queste notti! "Ssss," gli dissi, "le cose stanno
esattamente così!""
La signora Merryweather assentì con l'aria di chi la sa lunga. La sua voce
spiccò il volo al disopra del tintinnio delle tazzine e dei bassi suoni bovini
delle signore che ruminavano i pasticcini.
"Gertrude," dichiarò, "ti dico io che in questa città c'è della gente in buona
fede, ma fuorviata. In buona fede, ma fuorviata. C'è gente che crede di esser
nel giusto a fare quel che fa. Non faccio nomi, ma ci son delle persone in
questa città che recentemente han creduto di far bene, invece son riusciti
soltanto a eccitare i negri. Questo sono riusciti a fare. Forse al momento è
parsa loro la cosa giusta da fare, non lo so, non me ne intendo, ma tutta
questa gente imbronciata...scontenta... Io vi dico che se la mia Sophia avesse
continuato a tenere il broncio, sia pure un giorno solo, l'avrei mandata via.
Non le è mai entrato in quella testa lanosa che la tengo soltanto perché con la
crisi che c'è ha bisogno del suo dollaro e un quarto tutte le settimane."
"I suoi piatti non ti vanno per traverso?"
Fu miss Maudie a chiederlo. Due linee sottili le erano apparse agli angoli
della bocca. Fino a quel momento era rimasta seduta in silenzio accanto a me,
con la tazza del caffè in equilibrio sul ginocchio. Avevo perso il filo del

239
discorso ormai da un pezzo, da quando avevano smesso di parlare della
moglie di Tom Robinson, e seguivo beatamente i miei pensieri ricordando
l'Approdo dei Finch e il fiume. A zia Alexandra stava andando tutto storto,
come riunione missionaria quella era agghiacciante, come riunione mondana
un fallimento.
"Maudie, credo proprio di non capire ciò che vuoi dire," disse la signora
Merryweather.
"Sono sicura che invece capisci," ribatté miss Maudie, secca.
Non aggiunse altro. Quando era arrabbiata era di una laconicità glaciale.
Qualche cosa l'aveva disturbata nell'intimo, e i suoi occhi grigi erano freddi
come la voce. Grazia Merryweather arrossì, mi sbirciò un attimo e guardò
altrove. Quanto alla Farrow non riuscivo a vederla.
Zia Alexandra si alzò e con solerzia prese a servire altri pasticcini,
impegnando abilmente la signora Merryweather e la signora Gates in una
vivace conversazione. Quando le ebbe bene avviate, coinvolgendo anche la
signora Perkins, le abbandonò a se stesse e si fece da parte. Diede a miss
Maudie uno sguardo eloquente di gratitudine e io considerai quanto era
strano il mondo delle donne: miss Maudie e zia Alexandra non eran mai state
particolarmente amiche, eppure ora la zia ringraziava tacitamente miss
Maudie, chissà per che cosa. Fui però contenta di scoprire che zia Alexandra
era anche capace d'esser grata per un aiuto ricevuto. Non c'erano dubbi,
presto sarei entrata in quel mondo di signore profumate che si dondolavano
dolcemente facendosi aria col ventaglio e bevendo acqua fresca.
Ma preferivo il mondo di mio padre. La gente come Heck Tate non ti
prendeva in trappola con domande innocenti per poi divertirsi alle tue spalle;
nemmeno Jem criticava quando non sentiva dire sciocchezze. Le signore
passavano invece il tempo a disapprovare gli uomini e vivevano nell'orrore
di loro. A me gli uomini piacevano: avevano qualcosa di simpatico,
nonostante imprecassero e bevessero e giocassero e masticassero tabacco;
anche se non erano molto gradevoli, c'era qualcosa in loro che mi piaceva
istintivamente. Non erano...
"Ipocriti, signora Perkins, ipocriti nati," diceva la signora Merryweather.
"Almeno di questo peccato siamo innocenti, dalle nostre parti. Li han liberati,
ma si guardano bene dal farli sedere a tavola con loro. Almeno noi non
siamo così ipocriti da dirgli: voi valete quanto noi, ma statevene lontani.
Diciamo invece: voi vivete la vostra vita, noi la nostra. Penso che quella
donna, quella signora Roosevelt, doveva aver perso la testa quando a

240
Birmingham volle sedersi tra i negri: se fossi stata il sindaco di Birmingham
avrei..."
Nessuno di noi era sindaco di Birmingham, ma avrei voluto essere
governatore dell'Alabama per un giorno solo: avrei liberato Tom Robinson
tanto in fretta che la Società Missionaria non avrebbe avuto nemmeno il
tempo di tirare il fiato. Un paio di giorni prima, ero entrata in cucina mentre
Calpurnia spiegava alla cuoca di miss Rachel che Tom era in uno stato da far
pietà. Strano a dirsi Calpurnia continuò a parlare anche dopo che mi ebbe
vista... Diceva che Atticus non aveva potuto far nulla per rendergli più
sopportabile la reclusione e che l'ultima cosa che Tom gli aveva detto prima
che lo portassero alla colonia penale era stata: "Addio, signor Finch, ormai lei
non può più far nulla, per me, quindi non ci provi nemmeno..."
Atticus aveva detto a Calpurnia che Tom aveva abbandonato ogni
speranza il giorno che lo avevano portato in prigione. Lui aveva cercato di
spiegargli come stavano le cose, gli aveva detto che lui avrebbe fatto di tutto
per farlo liberare, ma Tom doveva far di tutto per non disperare. La cuoca di
miss Rachel chiese a Calpurnia perché Atticus non avesse detto: "Sì, sarai
libero," e basta, senza aggiunger altro: le pareva che se avesse detto così,
sarebbe stato un grande conforto per Tom. Ma Calpurnia ribatté: "Dici così
perché non sei pratica di legge. La prima cosa che si impara stando in una
famiglia di gente di legge è che a nulla si può rispondere in modo preciso e
sicuro. Il signor Finch non può dire: le cose andranno così e così, se non è
sicuro che andranno proprio così e così."
La porta d'ingresso sbatté e udii i passi di Atticus nell'atrio.
Automaticamente mi domandai che ora fosse: non tornava mai così
presto, e i giorni in cui c'erano le riunioni della Società Missionaria rimaneva
in città fino a sera inoltrata.
Si fermò sulla soglia. Aveva il cappello in mano ed era pallido.
"Vogliate scusarmi, signore," disse. "Continuate la vostra riunione, non
voglio assolutamente disturbarvi. Alexandra, puoi venire un momento in
cucina? Avrei bisogno di Calpurnia."
Non attraversò la sala da pranzo, ma percorse il corridoio di dietro,
entrando in cucina dall'altro ingresso. Zia Alexandra e io lo raggiungemmo.
La porta della sala da pranzo si aprì di nuovo e miss Maudie venne da noi.
Calpurnia si era mezzo alzata dalla sua sedia.
"Cal," disse Atticus, "devi venire subito con me da Helen Robinson."
"Che cosa è successo?" chiese zia Alexandra, allarmata dalla faccia di mio
padre.

241
"Tom è morto."
Zia Alexandra si portò le mani alla bocca.
"Gli hanno sparato addosso," disse Atticus. "Stava scappando. È accaduto
durante l'ora del passeggio. Dicono che si sia buttato ciecamente, come un
pazzo, sulla rete metallica e abbia cominciato ad arrampicarsi. Proprio sotto i
loro occhi."
"Ma non hanno cercato di fermarlo? Non gli hanno gridato?" La voce di
zia Alexandra tremava.
"Oh sì, le guardie gli han gridato di fermarsi. Prima hanno sparato alcuni
colpi in aria, poi gli han tirato addosso. Lo han colpito proprio mentre
scavalcava la rete metallica. Dicono che se avesse avuto tutt'e due le braccia
buone ce l'avrebbe fatta, tanto era veloce. Diciassette pallottole, gli hanno
sparato: non ne occorrevano davvero tante. Cal, vorrei che tu venissi con me
e mi aiutassi a dare la notizia ad Helen."
"Sissignore," mormorò Calpurnia, cercando di slacciarsi il grembiule con
le mani che le tremavano. Miss Maudie andò vicino a lei e le slacciò il
grembiule.
"Questa è la goccia che fa traboccare il vaso, Atticus," disse zia
Alexandra.
"Dipende dai punti di vista," rispose lui. "Che cosa è un negro, in mezzo a
duecento negri? Per loro non era Tom: era soltanto un prigioniero che
scappava."
Atticus si appoggiò alla ghiacciaia, spinse in su gli occhiali e si strofinò gli
occhi. "Avevamo ancora delle ottime probabilità," disse.
"Gli avevo spiegato come vedevo la cosa, ma onestamente non potevo
dirgli di più, e temo che Tom fosse stanco delle buone probabilità dei bianchi
e abbia preferito giocare la propria. Pronta, Cal?"
"Sì, signor Finch."
"Allora andiamo."
Zia Alexandra sedette sulla sedia di Calpurnia, nascondendosi il volto tra
le mani. Rimase immobile, tanto che mi chiesi se non stesse per svenire. Miss
Maudie affannava come se avesse fatto le scale, e dalla sala da pranzo
giungeva l'allegro chiacchierio delle signore.
Credevo che zia Alexandra stesse piangendo, ma quando si scostò le mani
dal viso vidi che mi sbagliavo. Pareva stanca, e disse con voce spenta:
"Non posso dire di approvare tutto ciò che egli fa, Maudie, ma è mio
fratello e vorrei proprio sapere quando finirà tutto questo." La sua voce si
alzò di tono. "Ormai è allo stremo, anche se non lo dimostra. L'ho visto dopo

242
il processo... Ma cosa altro vogliono da lui, Maudie, che cosa altro
vogliono?"
"Chi, Alexandra?" chiese miss Maudie.
"La gente di qui: tutti quelli che son prontissimi a far fare a lui quello che
han paura di far loro, forse per tema di rimetterci qualcosa. Sono
dispostissimi a lasciare che si rovini la salute per fare quel che loro non
hanno il coraggio di fare e sono..."
"Parla piano, ti sentiranno," disse miss Maudie. "La cosa la devi vedere
così, Alexandra: che la gente di Maycomb lo sappia o no, noi facciamo quel
che possiamo per lui, dimostrandogli una immensa stima, la massima stima
che si possa avere per un uomo, perché sappiamo che quel che fa lui è
giusto: la cosa è semplicissima."
"Chi, noi?"
"Quei pochi che in questa città sostengono che l'onestà non è solo
riservata ai bianchi; quei pochi che sostengono l'eguaglianza dei processi
giudiziari; quei pochi che sanno essere umili dinanzi a un negro e pensare:
sarei potuto nascere negro anch'io, non fosse stato per la bontà del Signore."
Nella voce di miss Maudie faceva capolino il vecchio tono pungente. "Quei
pochi che han tradizioni alle spalle e non il nulla. Di quelli parlo."
Se avessi seguito attentamente, ecco un argomento per poter ribattere alla
definizione delle tradizioni familiari data da Jem, ma tremavo da capo a piedi
senza riuscire a fermarmi. Avevo visto la prigione agricola di Enfield, e
Atticus mi aveva indicato il cortile della passeggiata. Era grande pressappoco
quanto un campo di calcio.
"Smettila di tremare," comandò miss Maudie, e io smisi. "Vieni,
Alexandra, le abbiamo lasciate sole troppo a lungo."
Zia Alexandra si alzò, assestandosi le varie stecche di balena che le
serravano i fianchi. Si tolse il fazzoletto dalla cintura e se lo passò sul naso.
Si aggiustò i capelli e chiese: "Si vede?"
"Assolutamente niente," disse miss Maudie. "Ti sei rimessa, Jean Louise?"
"Sì, signora."
"Allora torniamo dalle signore," disse con aria arcigna.
Il suono delle voci crebbe quando miss Maudie aprì la porta della sala da
pranzo. Zia Alexandra mi precedeva e vidi che, nell'entrare, alzava la testa.
"Oh, signora Perkins," disse, "ha finito il caffè. Aspetti che gliene verso
dell'altro!"
"Calpurnia è andata a fare una commissione e tornerà tra qualche minuto,
Grazia," disse miss Maudie. "Posso offrirti io un'altra crostatina di more? Hai

243
saputo dell'ultima trovata di mio cugino, quello che va a pesca?..." così zia
Alexandra e miss Maudie fecero il giro delle signore sorridenti riempiendo
tazzine da caffè, distribuendo pasticcini, con l'aria di preoccuparsi soltanto
del piccolo disastro domestico rappresentato dalla momentanea assenza di
Calpurnia.
Il grazioso ronzio ricominciò: "Sì, signora Perkins, quel J' Grimes Everett
è un martire, un santo... han dovuto sposarsi, e sono fuggiti... all'istituto di
bellezza ogni sabato pomeriggio... appena il sole va giù. Lui va a letto con... i
polli, un cesto pieno di polli malati, Fred dice che così è cominciata. Fred
dice..."
Zia Alexandra mi diede un'occhiata dall'altro capo della stanza, mi sorrise,
e guardando un vassoio di biscottini posato sulla tavola, mi fece un segno.
Con molta attenzione presi in mano il vassoio e, come se mi fossi sdoppiata,
mi guardai avanzare disinvolta verso la signora Merryweather. Con i miei
modi migliori le chiesi se gradisse qualche biscottino: se la zia sapeva essere
una vera signora in un momento simile, potevo esserlo anch'io.

244
capitolo venticinquesimo
"Scout, non far così: mettilo fuori, sui gradini!"
"Jem, sei diventato matto?"
"T'ho detto: mettilo fuori sui gradini!"
Sospirando raccolsi l'insetto nel cavo della mano, lo misi sull'ultimo
gradino e tornai alla mia branda. Settembre era arrivato, ma non aveva
portato alcuna frescura e dormivamo sempre sul portico di dietro, quello con
la rete metallica. C'erano ancora le lucciole; tutti gli altri insetti notturni
striscianti e volanti, che sbattono entro la rete tutta l'estate, non erano ancora
scomparsi, come sempre quando viene l'autunno.
Non so come, un centopiedi era riuscito a penetrare sul portico: forse
strisciando sugli scalini e passando sotto la porta. Lo vidi nel posare a terra il
libro vicino alla mia branda. Sono insetti lunghi un paio di centimetri e a
toccarli si acciambellano formando una pallottolina grigia.
Sdraiata sullo stomaco, tesi una mano e lo stuzzicai. Si arrotolò: poi,
pensando che il pericolo fosse passato si srotolò lentamente.
Viaggiò per qualche centimetro sulle sue cento gambe, lo toccai di nuovo
e di nuovo si arrotolò. Avevo sonno e decisi di farla finita: stavo per
schiacciarlo quando intervenne Jem.
Jem era aggrottato. Evidentemente le sue stranezze non erano ancora
finite: non so che cosa avrei dato perché Jem finalmente uscisse da quello
strano periodo; non era mai stato crudele con gli animali, ma non sapevo che
la sua bontà s'estendeva anche agli insetti.
"Perché non dovevo schiacciarlo?" chiesi.
"Perché son bestioline che non fanno male a nessuno," rispose Jem nel
buio. Aveva spento la lampadina per leggere.
"Immagino che tra poco arriverai a non ammazzare nemmeno le mosche
e le zanzare," dissi. "Quando cambierai idea, me lo farai sapere.
Però mettiti in mente che non intendo starmene qui come una scema a
farmi pungere!"
"Ma piantala!" rispose lui, già mezzo addormentato.
Era Jem che andava assomigliando sempre più a una ragazza, non io,
pensai, e mi misi comoda sulla schiena, aspettando che venisse il sonno e
pensando a Dill. Era partito il primo del mese con grandi assicurazioni che
sarebbe tornato nell'istante preciso in cui finiva la scuola, perché aveva la
sensazione che finalmente ai suoi fosse entrato in testa che gli piaceva passar

245
l'estate a Maycomb. Miss Rachel ci lasciò salire con loro nel taxi che li
portava alla stazione di Maycomb e Dill ci salutò dal finestrino finché non lo
vedemmo più. Chiudendo gli occhi lo vedevo ancora: sentivo molto la sua
mancanza. Gli ultimi due giorni Jem gli aveva insegnato a nuotare.
Gli aveva insegnato a nuotare. Ero sveglia del tutto, ora, e ricordavo quel
che mi aveva raccontato Dill.
Per arrivare allo stagno dei Barker si prende una stradina che parte dalla
strada asfaltata per Meridian, circa un miglio dopo Maycomb. Se si ha la
pazienza di aspettare qualche minuto sulla provinciale, è facile trovare un
passaggio fino al bivio su un carro di cotone o una motocicletta. Dal bivio al
fiume la passeggiata è poi breve, ma al ritorno, all'imbrunire, quando il
traffico si fa più rado, può capitare di fare tutta la strada a piedi, e i nuotatori
perciò ci tengono a non far troppo tardi.
Dill e Jem, quella sera, erano appena sbucati fuori dalla stradina, quando
avevan visto Atticus che giungeva in auto verso di loro.
Pareva che non li avesse visti ed essi gli avevan fatto segno.
Finalmente Atticus aveva rallentato e quando lo raggiunsero aveva detto:
"È meglio che aspettiate qualcuno che va nell'altro senso; io non torno a casa
per il momento." Sul sedile di dietro c'era Calpurnia.
Jem aveva protestato e implorato e Atticus aveva detto: "Va bene, venite
con noi se volete, ma rimarrete in automobile."
Per strada, diretto a casa di Tom Robinson, Atticus aveva raccontato loro
l'accaduto.
Lasciata la strada maestra, erano passati lentamente lungo lo scaricatoio,
oltre gli Ewell, fino al sentiero che portava alle capanne dei negri. Dill aveva
scorto un gruppo di bimbi negri che giocavano con le palline nel giardinetto
di Tom. Atticus aveva fermato la macchina, era sceso e Calpurnia lo aveva
seguito attraverso il cancello.
Dill lo aveva sentito chiedere a uno dei bambini: "Dov'è la mamma,
Sam?" e aveva sentito Sam rispondere: "È giù dalla sorella Stevens, signor
Finch. Vuole che corra a chiamargliela?"
Stando a Dill Atticus era rimasto incerto, poi aveva detto di sì, e Sam era
corso via. "Continuate a giocare, ragazzi," aveva detto Atticus ai bambini.
Sulla porta della capanna era apparsa una bambina che s'era fermata a
guardare Atticus. Dill mi raccontò che in testa aveva una quantità di treccine
rigide, che finivan ciascuna in un fiocchetto. Con un sorriso che le andava da
un orecchio all'altro, s'era diretta verso nostro padre, ma era troppo piccola
per scendere gli scalini. Dill aggiunse che Atticus le era andato incontro, s'era

246
levato il cappello e le aveva offerto un dito. La piccina l'aveva afferrato ed
egli l'aveva aiutata a scendere gli scalini, consegnandola poi a Calpurnia.
Sam trotterellava dietro sua madre quando arrivarono. Dill disse che
Helen aveva detto: "Sera, signor Finch, si vuole accomodare?" Ma non aveva
detto altro e Atticus neppure.
"Helen," disse Dill, "cascò giù a terra come un sacco, Scout. Cascò come
se un gigante con un grande piede l'avesse schiacciata per terra." Il grosso
piede di Dill pestò il terreno. "Come quando uno schiaccia una formica!"
Dill aggiunse che Calpurnia e Atticus avevano sollevato Helen e l'avevano
aiutata a entrare nella capanna, se non quasi portata.
Erano rimasti dentro un bel pezzo e infine Atticus era venuto fuori solo.
Nel passare davanti allo scaricatoio, qualcuno degli Ewell s'era messo a
schiamazzare, ma Dill non aveva capito che cosa dicessero.
La notizia della morte di Tom interessò tutta Maycomb per un paio di
giorni: il tempo sufficiente perché si diffondesse nella intera contea. "Hai
saputo di... No? Bè, dicono che corresse come il vento..." Per i cittadini di
Maycomb, la morte di Tom era tipica. Era tipico di un negro scappare senza
voltarsi indietro; tipico della mentalità negra non far progetti, non pensare al
futuro: il negro vede la possibilità di scappare? Perde la testa e via,
all'impazzata.
Atticus Finch forse sarebbe riuscito a tirarlo fuori, ma un negro è forse
capace di aspettare? No! Si sa come son fatti: vengono, vanno con la stessa
incoscienza. Vedi questo caso: pare che il giovane Robinson fosse sposato
legalmente, fosse una persona pulita, a posto, che andava in chiesa eccetera
eccetera, ma vien sempre il momento che si scopre come è sottile la vernice
della loro civiltà: il sangue nero vien sempre a galla.
Qualche altro particolare, per mettere l'ascoltatore in grado di riferire
l'episodio a sua volta, poi non se ne parlava più. E non se ne parlò più fino al
martedì seguente, quando uscì la Maycomb Tribune: una breve necrologo
nelle Notizie per la Gente di Colore, ma anche un editoriale.
Il signor B'B' Underwood fu molto amaro, né si preoccupò naturalmente
che potessero essere ritirati abbonamenti e annunci pubblicitari. (Maycomb
però non se la prese: il signor Underwood poteva sbraitare quanto voleva, di
annunci e di abbonamenti non ne avrebbe persi. Se sul suo giornale voleva
fare il matto, era affar suo.) Underwood non parlò di parzialità della giustizia
ma scrisse cose che anche i bambini avrebbero capito. Disse che gli sembrava
un delitto uccidere uno storpio in piedi, seduto o in fuga. Paragonò la morte
di Tom allo scempio insensato di passeri da parte dei cacciatori e dei

247
bambini, e a Maycomb credettero che avesse voluto scrivere un articolo
abbastanza poetico da esser ripreso sul Montgomery Advertiser.
Possibile? mi domandavo leggendo l'articolo. Scempio insensato? Ma se a
Tom, fino al giorno della sua morte, eran state date tutte le garanzie della
legge? Era stato processato in pubblico e giudicato da dodici uomini integri;
mio padre s'era battuto per lui sino alla fine! Poi le parole del signor
Underwood mi divennero chiare: Atticus si era servito di tutti i mezzi a
disposizione degli uomini liberi per salvare Tom Robinson, ma nei tribunali
segreti dei cuori degli uomini non aveva alcuna probabilità di vincere: Tom
era morto nell'attimo stesso in cui Mayella Ewell aveva aperto la bocca e
urlato.
Il nome Ewell mi diede un senso di nausea. Maycomb non aveva perso
tempo a diffondere l'opinione di Bob Ewell sulla morte di Tom,
incanalandola debitamente in quella centrale di pettegolezzi che era miss
Stephanie Crawford. Miss Stephanie riferì a zia Alexandra, in presenza di
Jem (ma per carità, è abbastanza grande da sentir queste cose!), che Ewell
aveva detto che il primo birillo era andato giù, restava ora il secondo. Jem mi
aveva detto di non aver paura, Bob Ewell era soltanto un pallone gonfiato: mi
aveva anche avvertito che se avessi ripetuto una sola parola ad Atticus o gli
avessi fatto capire che sapevo, non mi avrebbe rivolto più la parola.

248
capitolo ventiseiesimo
Ricominciò la scuola, e con essa i nostri andirivieni giornalieri davanti alla
casa dei Radley. Jem ora frequentava il ginnasio, e la sua scuola era proprio
dopo la mia. Io frequentavo la terza, e i nostri orari erano così diversi che
facevamo insieme solo il tragitto da casa a scuola, dopodiché lo rivedevo
solo all'ora dei pasti.
Frequentava il campo di palla ovale, ma era ancora troppo giovane e
mingherlino per fare altro che portare alla squadra i secchi dell'acqua. Lo
faceva con entusiasmo, e quasi sempre non tornava a casa prima di buio.
La casa dei Radley non mi terrorizzava più, ma non per questo mi
appariva meno tetra, meno fredda sotto le grandi querce, né più invitante di
prima. Nelle belle giornate si vedeva il signor Nathan Radley che andava in
città e ne tornava a piedi; sapevamo che Boo c'era ancora per il semplice
motivo che nessuno lo aveva visto portar via. A volte, passando vicino alla
vecchia casa, provavo una fitta di rimorso all'idea di aver contribuito a
infastidire Arthur Radley: dico infastidire perché nessun prigioniero normale
può desiderare che dei bambini lo spiino attraverso le persiane, gli mandino i
propri saluti in cima a una canna da pesca e vaghino la notte in mezzo ai suoi
cavoli.
Eppure ricordavo le due monetine con le teste di indiani, la gomma da
masticare, le figurine di sapone, la medaglia annerita, l'orologio rotto con la
catena... Jem doveva aver messo da qualche parte tutti quei tesori. Un
pomeriggio mi fermai a guardare il nostro albero: il tronco era gonfio attorno
alla toppa di cemento che era diventata gialla.
Un paio di volte poco era mancato che non lo vedessimo, un risultato
simile sarebbe parso soddisfacente a molti, ma continuavo a cercarlo con gli
occhi ogni volta che passavo. Forse, chissà, un giorno saremmo riusciti a
vederlo. Già immaginavo la scena: egli sarebbe stato seduto sull'altalena e io
mi sarei avvicinata. "Come sta, signor Arthur," avrei detto, come se lo avessi
salutato così tutti i giorni della mia vita. "Sera, Jean Louise," avrebbe
risposto, come se mi avesse sempre risposto così, "bel tempo, eh?" "Sì,
signore, proprio bello," avrei detto io.
Pura fantasia. Non lo avremmo visto mai. Probabilmente usciva nelle
notti senza luna e spiava miss Stephanie Crawford attraverso le persiane. Al
suo posto avrei scelto qualcun altro da spiare, ma era affar suo. A noi non ci
avrebbe guardati mai.

249
"Non hai mica intenzione di ricominciare con quella storia?" mi chiese
Atticus una sera in cui espressi il desiderio di vedere una buona volta Boo
Radley prima di morire. "In tal caso, ti dico subito di smetterla. Son troppo
vecchio per darti la caccia attraverso la proprietà dei Radley; e poi è
pericoloso: potrebbero spararti addosso. Sai che il signor Nathan spara a tutte
le ombre che vede, anche a quelle di bambini. Foste fortunati a non lasciarci
la pelle, quella volta."
Mi ammutolii. Ma ero anche sorpresa; era la prima volta che Atticus
mostrava di sapere più di quanto mai credevamo. Ed erano passati anni. No,
era stato l'estate prima; due estati prima, quando... la memoria mi tradiva.
Dovevo ricordarmi di chiederlo a Jem.
Quante cose eran successe da allora. Boo Radley era l'ultima delle nostre
preoccupazioni ormai. Secondo Atticus non sarebbe accaduto più nulla,
perché le cose pian piano si sistemano, e passato un certo tempo la gente
avrebbe dimenticato di essersi mai occupata di Tom Robinson.
Forse aveva ragione, ma gli avvenimenti dell'estate incombevano su di
noi come una nuvola di fumo in una stanza chiusa. A Maycomb i grandi non
ne parlavano mai con Jem e con me; a quanto pareva, però, ne parlavano con
i loro figli, incoraggiandoli probabilmente a essere gentili con noi che, a
sentir loro, non avevamo nessuna colpa di avere un padre come Atticus. A
questo i nostri compagni di scuola non ci sarebbero infatti mai arrivati da
soli: lasciati al loro istinto, avrebbero attaccato briga con noi due, risolvendo
una volta per sempre la questione con quattro pugni. così come stavano le
cose, invece, eravamo tutti costretti a darci arie da ometti e signorine.
In un certo senso, pareva d'esser tornati ai tempi della signora Dubose,
ma senza i suoi strilli. Una cosa però mi risultò strana e incomprensibile:
nonostante i suoi difetti come padre, anche quell'anno Atticus venne eletto
all'Assemblea legislativa, e come al solito senza rivali. Giunsi alla conclusione
che la gente era molto bislacca e finii per allontanarmi da tutti, non pensando
agli altri se non quando v'ero costretta. E questo mi capitò un giorno, a
scuola.
Una volta la settimana avevamo un'ora dedicata ai fatti d'attualità. Ogni
ragazzo doveva ritagliare un articolo di giornale, impararne il contenuto e
riferirlo alla classe. Questo sistema, sostenevano, riusciva a prevenire una
quantità di mali: dover stare in piedi davanti ai compagni portava il ragazzo
ad assumere una posizione corretta e gli dava un atteggiamento; tenere un
breve discorso gli sviluppava il senso del valore delle parole; dover imparare

250
un argomento di attualità gli esercitava la memoria; sentirsi in mostra gli
faceva ancor più desiderare di rientrare nel Gruppo.
L'idea era buona, ma naturalmente a Maycomb non funzionò come
avrebbe dovuto. Anzitutto eran pochi i ragazzi delle campagne che avessero
giornali a portata di mano, e quindi il peso ricadeva tutto sui ragazzi di città,
persuadendo una volta di più i primi che l'attenzione dei maestri si
concentrava sui loro compagni cittadini.
I pochi ragazzi di campagna che partecipavano all'iniziativa prendevano
di solito i loro spunti da un giornaletto che agli occhi di miss Gates, la nostra
insegnante, era una pubblicazione semplicemente immonda. Perché mai si
accigliasse quando un ragazzo citava quel giornale non lo capii mai; ma più o
meno le succedeva sempre a proposito di argomenti frivoli e vaghi, come
colazione a base di biscotti mielati, negri frenetici che cantavano Sweetly sing
the Donkey, tutte cose per cui lo stato pagava degli insegnanti perché ce ne
distogliessero.
Anche così, non eran molti i ragazzi che sapessero che cosa sia un
argomento d'attualità. Il piccolo Chuck Little, che avrebbe potuto avere
cent'anni per l'esperienza che aveva delle mucche e dei loro costumi, era
giunto a metà di una relazione quando miss Gates lo fermò: "Charles, questo
non è un argomento di attualità: è la pubblicità di un prodotto!"
Cecil Jacobs, invece, sapeva il fatto suo. Quando venne il suo turno, si
piazzò di fronte alla classe e cominciò: "Il vecchio Hitler..."
"Adolfo Hitler, Cecil," disse miss Gates: "non si comincia mai un discorso
dicendo il vecchio tale."
"Sì, signora," rispose; "Il vecchio Adolfo Hitler prosegue gli..."
"Perseguita, Cecil..."
"No, miss Gates, qui dice... Bè, il vecchio Adolfo Hitler ha dato addosso
agli Ebrei, li ha messi in prigione, gli ha portato via tutto e non li ha lasciati
uscire dal paese, e poi ha lavato tutti i deboli di mente..."
"Lavato i deboli di mente?..."
"Sissignora, penso che fosse perché non capivano di doversi lavare, forse
un debole di mente non sa tenersi pulito. In ogni modo, Hitler cominciò a
metter dentro anche quelli che erano mezzo ebrei e a registrarli per il caso che
volessero dargli dei fastidi, io credo che questa sia una cosa bruttissima e
questo è il mio argomento di attualità."
"Molto bene, Cecil," disse miss Gates. Sbuffando per la fatica, Cecil tornò
al suo banco.
In fondo all'aula si alzò una mano. "Com'è che glielo lasciano fare?"

251
"Che cosa?" chiese miss Gates pazientemente.
"Dico perché Hitler può rinchiudere un sacco di gente in quella maniera:
il governo non dovrebbe proibirglielo?" chiese il proprietario della mano.
"Il governo è Hitler," rispose miss Gates e, cogliendo l'opportunità di
render dinamica l'educazione, andò alla lavagna e scrisse in grandi lettere la
parola Democrazia. "Democrazia," disse.
"Qualcuno sa darmi una definizione di questa parola?"
"Noialtri," disse qualcuno.
Alzai la mano, ricordando un vecchio slogan elettorale di cui mi aveva
parlato una volta Atticus.
"Che cosa pensi voglia dire, Jean Louise?"
"Diritti uguali per tutti, privilegi speciali per nessuno."
"Molto bene, Jean Louise, molto bene," miss Gates sorrise. Davanti a
Democrazia scrisse in stampatello noi siamo una. "Adesso ditelo tutti insieme,
noi siamo una Democrazia."
Lo dicemmo. Poi miss Gates continuò: "Questa è la differenza tra
l'America e la Germania. Noi siamo una democrazia e la Germania è una
dittatura: dittatu-ra," scandì. "Qui da noi non si perseguita nessuno. La
persecuzione viene quando la gente ha dei pregiudizi.
Pregiudizi," enunciò con cura. "Non c'è gente al mondo migliore degli
ebrei, e perché Hitler non la pensa così è un mistero, per me!"
Al centro della classe, un'anima curiosa domandò: "Secondo lei, miss
Gates, perché non amano gli ebrei?"
"Non lo so, Henry: gli ebrei danno il loro contributo a tutte le società in
cui vivono, e soprattutto sono un popolo profondamente religioso. Forse,
siccome Hitler cerca di toglier di mezzo la religione, è per questo che non gli
piacciono."
Cecil interloquì. "Non ci giurerei," disse, "ma credo che prestino denaro o
roba del genere; ma non è una buona ragione per perseguitarli. Sono bianchi,
vero?"
Miss Gates disse: "Quando sarai alle Superiori, Cecil, imparerai che gli
ebrei sono stati perseguitati fin dall'inizio della storia: sono stati persino
cacciati dal loro paese. È una delle vicende più terribili della storia. Basta: è
ora di fare l'aritmetica, bambini."
Siccome l'aritmetica non mi era mai piaciuta, passai l'ora guardando fuori
dalla finestra. Le poche volte che vedevo Atticus incupirsi era quando alla
radio davano le ultime notizie su Hitler.

252
Chiudeva la radio di colpo con un versaccio. Una volta gli chiesi perché
ce l'avesse con Hitler, e mi rispose: "Perché è un pazzo."
Questo non bastava, riflettevo mentre la classe procedeva con le sue
addizioni. Un pazzo solo, di fronte a milioni di tedeschi... Mi pare che
avrebbero loro dovuto chiudere Hitler in prigione invece di lasciarsi
rinchiudere. Certo c'era dell'altro che non andava: avrei chiesto a mio padre.
Glielo chiesi, infatti, ed egli disse che non poteva rispondere alla mia
domanda perché non lo sapeva.
"Ma è bene odiare Hitler?"
"No," rispose lui, "non è bene odiare nessuno."
"Atticus," dissi, "c'è una cosa che non capisco. Miss Gates ha detto che è
orribile il modo in cui Hitler si comporta. È persino arrossita quando l'ha
detto."
"Lo credo bene!"
"Ma..."
"Sì?"
"Niente." Me ne andai, non sentendomi sicura di saper spiegare ad Atticus
quel che avevo in mente e che era soltanto una vaga impressione. Forse Jem
avrebbe saputo darmi una spiegazione, Jem capiva le cose di scuola meglio di
Atticus.
Jem era esausto, dopo una giornata passata a portar secchi d'acqua.
C'erano almeno dodici bucce di banana sul pavimento accanto al letto,
intorno a una bottiglia di latte vuota. "Perché ti rimpinzi così?" chiesi.
"L'allenatore dice che se tra due anni sarò cresciuto di dodici chili, potrò
giocare," disse. "E questo è il sistema più rapido."
"Sì, se non vomiti tutto quanto," dissi. "Jem, voglio chiederti una cosa."
"Sentiamo." Mise giù il libro e stirò le gambe.
"Miss Gates è una ragazza perbene, non è vero?"
"Certo," disse Jem. "Mi piaceva, quando l'avevo per maestra."
"Odia terribilmente Hitler..."
"E che c'è di male?"
"Oggi non ha fatto che dire che era una cosa orribile trattar così gli ebrei.
Non è giusto perseguitare la gente, vero, Jem?"
"Santo cielo, no, Scout: che cosa è che ti preoccupa?"
"Bè, uscendo dal tribunale, quella sera, miss Gates stava... scendendo gli
scalini proprio davanti a noi, tu non devi averla vista, parlava con miss
Stephanie Crawford. La sentii dire: è ora che qualcuno dia loro una lezione,
hanno alzato troppo la cresta e un po' alla volta si mettono in testa di poterci

253
anche sposare. Jem, come si fa a odiare Hitler in quel modo e poi, a casa
propria, comportarsi così con gente che..."
Jem s'infuriò. Saltò giù dal letto, mi prese per il colletto del vestito e mi
scrollò. "Non voglio più sentir parlare di quel processo, mai, mai più: hai
capito? Non dirmi più neanche una parola su quel processo, hai capito? E
adesso va' via!"
Ero troppo sorpresa per piangere. Uscii pian piano dalla camera di Jem,
chiudendo la porta con cautela, per timore che il minimo rumore lo facesse
uscire di nuovo dai gangheri. Mi sentii improvvisamente stanca: avevo
bisogno di Atticus. Era in salotto e andai da lui e cercai di saltargli sulle
ginocchia.
Atticus sorrise: "Sei diventata così grande che ti posso tenere in braccio
soltanto in parte." Mi tenne stretta. "Scout," disse piano, "non ti avvilire, per
Jem. Sta passando brutte giornate. Vi ho sentiti parlare, disopra."
Atticus aggiunse che Jem faceva di tutto per dimenticare qualcosa, ma in
realtà riusciva solo a non pensarci per poco tempo. Dopo, sarebbe stato
capace di rimuginar tutto e di chiarirsi alcuni concetti e, una volta chiarito,
Jem sarebbe tornato quello di prima.

254
capitolo ventisettesimo
Eravamo giunti a metà ottobre e, come Atticus aveva previsto, le acque si
erano relativamente calmate. Negli ultimi tempi a Maycomb erano accadute
soltanto due cose fuor dell'ordinario, anzi tre: tre fatti che riguardavano noi
Finch, non direttamente ma indirettamente.
Il primo fu che Bob Ewell trovò e perse un lavoro nel giro di pochi
giorni, e probabilmente il suo fu un caso unico negli annali della storia,
perché egli fu la sola persona a cui mai accadesse di esser licenziato
dall'organizzazione del lavoro per scarso rendimento.
Immagino che fu soltanto la sua breve ondata di celebrità a portar con sé
quella ancor più breve ondata di solerzia; ma il suo lavoro durò soltanto
quanto la sua notorietà e Bob Ewell venne dimenticato con la stessa rapidità
con cui era stato dimenticato Tom Robinson. Da allora ricominciò a farsi
vedere settimanalmente all'ufficio di assistenza per riscuotere il sussidio,
sempre accogliendolo con malagrazia e borbottando che quei bastardi che
credevano di comandare in città non consentivano a un onest'uomo di
sbarcare il lunario.
Ruth Jones, l'impiegata all'ente di assistenza, raccontò che Ewell accusava
apertamente Atticus di avergli portato via il lavoro, e che lei ne era rimasta
sconvolta da andare a trovar Atticus in ufficio per riferirglielo. Atticus disse a
miss Ruth di non preoccuparsi, perché, se Bob Ewell voleva discutere
personalmente con lui il fatto del lavoro "portato via," sapeva benissimo
dove trovarlo.
Il secondo fatto accadde al giudice Taylor. Il giudice non era persona da
andare in chiesa la domenica sera: la signora Taylor sì.
La domenica sera il giudice si godeva dunque beatamente quell'oretta di
solitudine nella sua grande casa, e quando veniva l'ora del servizio religioso,
se ne stava già rintanato nel suo studio a leggere gli scritti di Bob Taylor (che
non era suo parente, anche se gli sarebbe piaciuto vantare una simile
parentela). Una domenica sera, mentre il giudice si beava delle succose
metafore e del florido fraseggiare del suo omonimo, la sua attenzione venne
brutalmente strappata dalla pagina dal rumore irritante che può far qualcuno
che gratti la porta. "Zitta," egli disse ad Ann Taylor, la grassa cagna di razza
incerta. Poi si accorse di parlare a una stanza vuota; lo scricchiolio veniva da
dietro la casa. Il giudice si diresse pesantemente verso il portico posteriore
per aprir la porta ad Ann, e trovò la controporta di rete metallica spalancata.

255
Fece appena a tempo a scorgere un'ombra che si dileguava all'angolo della
casa, e questo fu tutto ciò che egli vide del suo visitatore. La signora Taylor,
al ritorno dalla chiesa, trovò il marito nella poltrona, assorto negli scritti di
Bob Taylor, con il fucile da caccia sulle ginocchia.
Il terzo fatto accadde a Helen Robinson, la vedova di Tom. Se la gente
aveva dimenticato Bob Ewell con la stessa rapidità con cui aveva dimenticato
Tom Robinson, ormai non pensava nemmeno più a quest'ultimo: era uscito
dalle loro menti come ne era uscito Boo Radley. Ma chi non aveva
dimenticato Tom era stato il signor Link Deas, suo ultimo datore di lavoro:
Link aveva trovato del lavoro per Helen: non aveva bisogno di lei, ma era
rimasto molto impressionato e addolorato dalla sciagura che aveva concluso
quell'episodio. Non ho mai capito chi si occupasse dei bambini di Helen
mentre lei era a lavorare, ma Calpurnia disse che in ogni modo il lavoro era
duro, perché doveva fare quasi un miglio di strada in più per evitare gli Ewell
che, a sentir Helen, le avean gridato dietro parole oscene la prima volta che
era passata davanti casa loro.
Finalmente Link Deas si accorse che al mattino Helen arrivava al lavoro
per tutt'altra strada che la sua, e riuscì a cavargli fuori la ragione. "Lasci
perdere, signor Link, la prego," supplicava Helen.
"Mi pigli un accidente se lascio perdere," disse il signor Link. Le ordinò
di passare a prenderlo in negozio quello stesso pomeriggio, prima di andar
via, e Helen vi andò. Il signor Link chiuse il negozio, si cacciò bene il
cappello sulla testa e accompagnò Helen a casa. Fece la strada corta, quella
che passava davanti agli Ewell e, al ritorno, si fermò davanti a quell'incubo di
staccionata.
"Ewell!" gridò. "A voi, dico, Ewell!..."
Le finestre, di solito affollate di bambini, eran vuote.
"So benissimo che siete tutti sdraiati a terra dal primo all'ultimo. Ora
ascoltatemi bene, Bob Ewell: se sento un'altra volta che la mia Helen non è
potuta passare per questa strada venendo al lavoro, ti faccio schiaffare in
prigione su due piedi!" Il signor Link sputò nella polvere e se ne andò a casa.
Il mattino seguente, Helen andò al lavoro per la strada corta.
Nessuno la insultò, ma pochi metri dopo la casa degli Ewell, guardandosi
indietro, vide Bob Ewell che la seguiva. Si voltò e riprese a camminare, ed
Ewell mantenne la stessa distanza, sempre dietro a lei, finché non giunse a
casa di Link Deas. Per tutta la strada, disse Helen, sentiva quella voce dietro
di lei che canticchiava sottovoce parole oscene. Fuori di sé per la paura,
telefonò al signor Link al negozio, che non era lontano dalla casa.

256
Venendo fuori dal negozio, Link vide Bob Ewell appoggiato alla siepe.
Ewell gli disse: "Non mi guardi come se fossi immondezza, Link Deas,
non son mica saltato addosso alla sua..."
"Per prima cosa, Ewell, togli quella tua carcassa fetente dalla mia
proprietà: t'appoggi al mio steccato, e non intendo comprare della vernice
nuova per ridipingerla. In secondo luogo, sta' lontano dalla mia cuoca o ti
denuncerò per aggressione!"
"Non l'ho nemmeno toccata, Link Deas: non ho certo intenzione di
mettermi con una negra!"
"Non c'è bisogno che la tocchi, basta che la spaventi; e se denunciarti per
aggressione non basta a mandarti al fresco per un po' di tempo, ti denuncerò
per violazione della Legge sulla Protezione delle Donne. E adesso, fuori dai
piedi! Se credi che non faccio sul serio, prova a molestare quella ragazza
un'altra volta!"
Evidentemente Ewell pensò che faceva sul serio, perché da quel giorno
Helen non ebbe altri fastidi.
"Non mi piace tutto questo, Atticus, proprio non mi piace," disse zia
Alexandra, ricapitolando questi avvenimenti. "Il contegno di quell'uomo
mostra che il suo rancore contro tutti quelli che hanno avuto a che fare con il
processo non è mutato minimamente. So che quando quella gentaglia ha
giurato vendetta a qualcuno, non ha pace finché non ha messo in atto le sue
minacce. Ma quello che non capisco, è perché ce l'abbia tanto con tutti. Il
processo ha dato ragione a lui, sì o no?"
"Io sì che lo capisco," ribatté Atticus. "Può darsi che faccia così perché sa
che son molto pochi, a Maycomb, quelli che han creduto alle favole che
hanno raccontato in tribunale lui e Mayella. Credeva che sarebbe stato l'eroe
del giorno, e invece tutto quel che si è sentito dire dopo tante fatiche è stato:
"va bene, condanniamo questo negro, ma tornatene nelle tue immondezze!"
Ormai si è sfogato con tutti e dovrebbe essere soddisfatto. Lascia passare un
altro po' di tempo e vedrai che si metterà l'anima in pace."
"Ma perché ha cercato di introdursi di notte in casa di John Taylor?
Evidentemente non sapeva che John era in casa, altrimenti non ci avrebbe
nemmeno provato. La domenica sera le uniche luci che si vedono in casa
Taylor sono sul portico davanti e, dietro, nella tana di John."
"Non sappiamo se sia stato Bob Ewell a tagliare quel telaio o chi altro,"
disse Atticus, "ma possiamo immaginarlo. Io ho dimostrato che era un
bugiardo, ma John lo ha fatto passare per scemo. Tutto il tempo che Ewell
rimase sul banco dei testimoni non ebbi mai il coraggio di guardare John, se

257
volevo star serio. John lo fissava come se fosse stato un pollo a tre gambe o
un uovo quadrato. Non mi vengano più a dire che i giudici non cercano di
influenzare le giurie..." concluse Atticus, ridendo.
Alla fine di ottobre le nostre vite erano ritornate monotone: scuola, gioco,
studio. Jem aveva dimenticato, mi sembra, la cosa a cui non voleva pensar
più e, grazie al cielo, i nostri compagni di scuola ci lasciarono dimenticare le
eccentricità di nostro padre. Una volta Cecil Jacobs mi chiese se Atticus fosse
un radicale. Quando glielo chiesi, Atticus si divertì talmente che ne rimasi
persino un po' seccata, ma egli disse che non rideva di me. Mi consigliò di
rispondere a Cecil che era radicale presso a poco come Cotton Tom Heflin.
Zia Alexandra faceva progressi. Evidentemente miss Maudie aveva messo
a tacere l'intera società missionaria quel giorno, perché la zia faceva la
pioggia e il bel tempo in seno alla società, spadroneggiandovi di nuovo come
il gallo nel pollaio. I pasticcini che offriva ai rinfreschi erano sempre più
deliziosi, e venni a sapere dalla signora Merryweather molte altre cose sulla
vita sociale dei poveri mrunas: per esempio essi avevano un senso della
famiglia così poco sviluppato che l'intera tribù era una sola grande famiglia:
un bimbo aveva tanti padri quanti erano gli uomini della tribù e tante madri
quante eran le donne. J' Grimes Everett faceva sforzi eroici per cambiare
questo stato di cose e aveva un bisogno disperato delle nostre preghiere...
Maycomb era tornata quella di sempre, e precisamente la stessa città
dell'anno prima e del precedente: c'eran solo due piccoli cambiamenti.
Anzitutto la gente aveva tolto dalle vetrine dei negozi e dai finestrini delle
automobili gli striscioni che dicevano: Arn, facciamo la nostra parte. Chiesi
ad Atticus perché li avessero tolti, ed egli rispose che l'Atto di Ricostruzione
Nazionale era morto. Gli chiesi chi l'avesse ucciso, e mi rispose che eran stati
dei vecchi signori.
Il secondo cambiamento che si verificò a Maycomb nei confronti
dell'anno precedente non ebbe invece significato nazionale. Fino a quel
momento la festa della vigilia d'Ognissanti non era mai stata organizzata. I
ragazzi facevan tutti gli scherzi che passavan loro per la testa, aiutandosi tra
loro se la burla era complessa e richiedeva più braccia, come la volta che
issarono un carrozzino in cima alla rimessa dei cavalli. Ma i genitori eran del
parere che l'anno scorso le cose si erano spinte troppo oltre, distruggendo la
pace domestica di miss Tutti e di miss Frutti.
Le signorine Tutti e Frutti Barber erano sorelle zitelle che vivevano
assieme nella sola casa di Maycomb che vantasse una cantina.

258
Si diceva che fossero repubblicane emigrate a Maycomb da Claton,
nell'Alabama, nel 1911. Avevano usanze e abitudini diverse dalle nostre e
nessuno, a Maycomb, aveva mai capito perché avessero bisogno di una
cantina, ma esse la vollero e la fecero scavare, e passarono il resto della loro
vita a cacciar via dalla loro cantina generazioni di bambini.
Le signorine Tutti e Frutti (i loro veri nomi erano Sarah e Frances) a parte
le loro caratteristiche abitudini yankees, erano entrambe sorde. Miss Tutti non
lo voleva riconoscere, e viveva in un mondo di silenzio, ma miss Frutti, che
non voleva perder nulla di ciò che offre la vita, usava un cornetto acustico
così enorme che Jem affermava che era un altoparlante preso dal cane della
Voce del Padrone.
Con questo antefatto e la vigilia di Ognissanti in vista, alcuni ragazzi
discoli avevano atteso che le signorine Barber si fossero ben bene
addormentate, si erano introdotti a passi felpati nella loro stanza di soggiorno,
(solamente i Radley si chiudevano in casa, la notte), ne erano usciti di
soppiatto portandone via fino all'ultima suppellettile e avevano nascosto il
tutto in cantina. Io nego di aver preso parte a quella spedizione.
"Li ho sentiti!..." fu il grido che svegliò il vicinato delle signorine Barber
all'alba, la mattina dopo. "Li ho sentiti che accostavano un autocarro fino alla
porta. Li ho sentiti camminare pesantemente su e giù, che parevan cavalli:
saranno a New Orleans, a quest'ora!..."
Miss Tutti era sicura che a rubare la loro mobilia fossero stati quei
commessi viaggiatori che vendevan pellicce, passati per la città due giorni
prima. "Scuri di pelle, erano," disse. "Siriani!..."
Fu chiamato il signor Heck Tate. Egli esaminò la zona e disse che credeva
che la cosa fosse opera di ladri locali. Miss Frutti disse che avrebbe
riconosciuto tra mille una voce di Maycomb e che non eran di Maycomb le
voci che aveva udite in quel salotto, la sera prima: erano voci che arrotavano
la r per tutta la casa, ecco che voci erano! Miss Tutti insisté a dire che l'unico
sistema per ritrovare la loro mobilia era di usare i cani poliziotti, e Heck Tate
fu costretto a far dieci miglia di strada per radunare tutti i segugi del canile
della contea e metterli sulle tracce dei malfattori.
Il signor Tate li fece partire dagli scalini davanti alla casa delle Barber, ma
i cani fecero di corsa il giro della casa, mettendosi ad abbaiare disperatamente
alla porta della cantina.
Quando il signor Tate li ebbe visti ripetere il giro tre volte, indovinò la
verità. A mezzogiorno non si vedeva più un bambino a piedi nudi in tutta

259
Maycomb, e nessun bambino si tolse più le scarpe finché i segugi non
vennero restituiti ai loro padroni.
Ammaestrate dall'esperienza, le signore di Maycomb stabilirono che
quell'anno le cose sarebbero andate diversamente. Decisero di aprire la sala
delle conferenze della scuola superiore e di organizzare uno spettacolo
teatrale per i grandi e giochi vari per i bambini, nonché un premio di un
ventino per il bambino che avesse ideato il miglior costume di Ognissanti.
Jem ed io, quando ne fummo informati, gememmo. Non perché avessimo
mai fatto birbonate del genere di quella dell'anno scorso, ma per una
questione di principio. Jem si considerava troppo grande per partecipare ai
giochi di Ognissanti e disse che si sarebbe tenuto ben lontano dalla scuola, in
una simile occasione. Io riflettei: Bè, mi ci accompagnerà Atticus...
In ogni modo venni presto informata che avevano bisogno di me sulla
scena. La signora Merryweather aveva composto un originale spettacolo
intitolato: Contea di Maycomb - Ad Astra per Aspera, e io dovevo
rappresentare... un prosciutto. Ella aveva pensato che sarebbe stato assai
grazioso presentare una sfilata di bambini in costume che rappresentassero i
prodotti agricoli della contea. Cecil Jacobs si sarebbe vestito da mucca,
Agnes Boon sarebbe stata un plausibilissimo Fagiolino, un altro bambino una
Arachide, e via via fino ad esaurire l'immaginazione della signora
Merryweather e i bambini disponibili.
Il nostro solo dovere, lo capii dopo un paio di prove, consisteva
nell'entrare in palcoscenico dalle quinte di sinistra sia che la signora
Merryweather, che dello spettacolo non sarebbe stata solamente l'autore, ma
anche il presentatore, ci presentava. Il mio turno sarebbe venuto al grido di
Maiale. Poi l'assemblea avrebbe cantato, come grande finale, "Contea di
Maycomb, Contea di Maycomb, ti saremo sempre fedeli!" e la signora
Merryweather sarebbe arrivata sul palcoscenico con la bandiera.
Il mio costume non costituì un grande problema. La signora Grenshaw,
sarta di Maycomb, aveva anche lei una vivace immaginazione.
Preso del fil di ferro, di quello delle gabbie dei polli, lo piegò dandogli la
forma approssimativa di un prosciutto affumicato; ricoprì l'intelaiatura così
ottenuta con della grossa tela marrone e la dipinse variamente per avvicinarsi
quanto più possibile all'originale. Piegando la testa da una parte, e con l'aiuto
di qualcuno, io penetravo in quel bizzarro involucro che mi arrivava fino alle
ginocchia; piena di accorgimenti, la signora Grenshaw aveva lasciato aperti in
alto due spiragli per gli occhi. Il congegno riuscì molto bene, e Jem disse che
parevo esattamente un prosciutto con le gambe. Naturalmente, vi erano

260
alcuni lati negativi: dentro quell'arnese faceva molto caldo e mi ci sentivo
molto stretta; se il naso mi prudeva non potevo grattarmelo, non potevo
uscirne da sola.
Quando giunse la vigilia di Ognissanti, ero fermamente convinta che
l'intera famiglia sarebbe venuta ad ammirarmi sul palcoscenico, ma rimasi
delusa: Atticus disse, con quanto più tatto poté, che proprio non si sentiva in
grado di assistere a uno spettacolo: era stanco morto perché il lavoro lo aveva
trattenuto a Montgomery per una settimana ed era tornato a Maycomb sul
tardo pomeriggio. Disse che probabilmente, se glielo avessi chiesto, Jem
avrebbe acconsentito a scortarmi a teatro.
La zia Alexandra disse che doveva andare a letto presto perché aveva
decorato il palcoscenico tutto il pomeriggio ed era sfinita: si arrestò di colpo,
con un brivido, nel bel mezzo della frase. Chiuse la bocca, la riaprì per dir
qualcosa, ma non le vennero le parole.
"Che cosa succede, zia?" chiesi.
"Niente, niente," rispose, "qualcuno è passato sulla mia tomba."
Respinse il pensiero che le aveva dato quella fitta di apprensione e mi
propose di concedere alla famiglia una visione in anteprima nella stanza di
soggiorno. Jem mi calzò il costume e, dalla porta del soggiorno, gridò:
"Maiale!" esattamente come avrebbe fatto la signora Merryweather ed io feci
il mio ingresso. Atticus e la zia Alexandra si divertirono un mondo.
Ripetei la mia parte per Calpurnia, in cucina, ed ella disse che ero
meravigliosa. Avrei voluto attraversar la strada e andare da miss Maudie a
mostrarle il mio costume, ma Jem disse che probabilmente sarebbe venuta
alla recita.
Oramai non importava più se i grandi venivano o no. Jem acconsentì ad
accompagnarmi a teatro, e ebbe inizio il viaggio più lungo che mai facessimo
insieme.

261
capitolo ventottesimo
Faceva insolitamente caldo per essere l'ultimo giorno di ottobre, e non
sentivamo nemmeno bisogno di una giacca. Il vento si faceva sempre più
forte e Jem disse che poteva piovere prima che tornassimo a casa. Era una
notte senza luna.
Il lampione all'angolo gettava ombre nette sulla casa dei Radley.
Udii Jem che rideva piano. "Scommetto che nessuno darà fastidio ai
Radley, stanotte," disse. Portava sul braccio il mio costume da prosciutto,
tenendolo un po' goffamente perché non si sapeva da che parte afferrarlo: era
cavalleresco, da parte sua, essersi preso questa briga.
"Però è un posto pauroso, vero?" dissi. "So benissimo che Boo non vuol
far del male a nessuno, ma son contenta che tu sia con me."
"Sai che Atticus non ti avrebbe mai lasciato andare fino alla scuola, la
sera, da sola," osservò Jem.
"Non capisco perché," replicai. "È così vicino: basta girar l'angolo della
stradina e traversare il campo!"
"Per una ragazzina sola, la notte, quel campo di gioco è molto grande, da
attraversare!" rispose. "Non hai paura degli spiriti?"
Ridemmo. Fantasmi, Vapori Bollenti, incantesimi, segni segreti, era tutta
roba svanita con gli anni come la nebbia al sole. "Com'era quella vecchia
storia?" disse Jem. "Angelo splendente, vita nella morte, non succhiarmi il
respiro, risparmia la mia sorte!..."
"Smettila, adesso," pregai. Eravamo di fronte alla casa dei Radley.
Jem disse: "Boo non dev'essere a casa. Ascolta."
In alto, sopra a noi nel buio, un merlo solitario, felicemente ignaro di
trovarsi sulla quercia dei Radley, ci rovesciava addosso il suo repertorio di
imitazioni, scendendo improvviso dal penetrante chii chii dell'uccello girasole
all'irascibile qua-ac della ghiandaia azzurra e al triste lamento del chiú.
Girammo l'angolo e subito inciampai in una radice che passava nel mezzo
della stradina. Jem cercò di aiutarmi ma riuscì soltanto a far cascare il mio
costume nella polvere. Io però non caddi e riprendemmo subito la strada.
Poco dopo abbandonammo la strada ed entrammo nel campo da gioco della
scuola: era buio pesto.
"Come lo sai, dove siamo, Jem?" domandai.
"So che siamo sotto alla quercia grande perché fa più fresco.
Attenta, eh, di non cader di nuovo!"

262
Avevamo rallentato il passo e camminavamo pian piano, a tentoni,
cercando di non andare a urtare contro l'albero. Era una quercia solitaria e
antica: due bambini allacciati non sarebbero riusciti a circondarne il tronco
con le braccia. Era lontana dagli insegnanti, dalle loro spie e dai vicini curiosi
e vicina alla proprietà dei Radley, ma i Radley non erano curiosi. Una piccola
zona di terra, sotto i grandi rami, dura per esser stata molto calpestata,
ricordava innumeri zuffe e partite clandestine ai dadi.
Da lontano vedemmo risplendere le luci della sala grande, nella scuola
superiore, ma più che illuminare i nostri passi, ci abbagliavano. "Non
guardare avanti, Scout," disse Jem. "Guarda per terra, se non vuoi cadere."
"Avresti dovuto portar la pila elettrica, Jem,"
"Non sapevo che fosse così buio. Il cielo è molto coperto, ecco perché
non ci si vede. Però non pioverà ancora, almeno per un poco."
Qualcuno ci saltò addosso.
"Signore onnipotente!..." urlò Jem.
Un cerchio di luce ci splendette in faccia e Cecil Jacobs, tenendo in mano
la lampadina, ci ballò davanti, tutto giulivo. "Ah, ah, vi ho pizzicati!" strillò.
"Me lo ero immaginato che sareste venuti da questa strada!"
"Ma che cosa fai da queste parti, tutto solo, bimbo? Non hai paura di Boo
Radley?"
Cecil era arrivato comodamente in automobile con i suoi genitori e, non
vedendoci, si era avventurato così lontano perché era matematicamente
sicuro di incontrarci. Però credeva che ci sarebbe stato il signor Finch, con
noi.
"Eh, diamine, ma se son due passi, dopo l'angolo!" disse Jem. "Come si
fa ad aver paura di fare due passi?" Tuttavia fummo costretti ad ammettere
che Cecil era stato molto bravo: ci aveva spaventati realmente e poteva
raccontarlo a tutta la scuola: era nel suo diritto!
"Ma dimmi un po'," feci, "non sei una mucca, stanotte? Dov'è il tuo
costume?"
"È di sopra, dietro il palcoscenico," disse. "La signora Merryweather dice
che è presto per vestirsi, ancora. Puoi mettere il tuo costume accanto al mio,
Scout, dietro al palcoscenico, così possiamo andarcene a fare un giro, con gli
altri."
Jem disse che era un'ottima idea: certo per lui era una fortuna che io
avessi trovato Cecil perché così Jem avrebbe potuto stare con i ragazzi della
sua età.

263
Nella sala grande c'era tutta la città, salvo Atticus, le signore che si erano
sfinite a decorare l'ambiente, i soliti paria sociali e i pochi invalidi che non
mettevano mai il piede fuori casa. Pareva ci fosse addirittura l'intera contea:
l'atrio brulicava di campagnoli vestiti a festa. Il grande fabbricato della scuola
aveva, a pian terreno, un largo corridoio e la gente si assiepava attorno alle
baracchette improvvisante lungo le due pareti.
"Oh Jem, ho dimenticato i soldi!" sospirai, vedendo le baracche.
"Se n'è ricordato Atticus," disse Jem. "Eccoti trenta centesimi; con questi
potrai far visita a sei baracche. Ci vediamo dopo."
"Va bene," dissi, pienamente soddisfatta dei miei trenta centesimi e della
compagnia di Cecil. Traversai con lui la sala e attraverso una porta laterale
giungemmo dietro le quinte. Mi liberai del mio costume di prosciutto e me ne
andai in fretta perché la signora Merryweather, appoggiata ad un leggio di
fronte alla prima fila di 258 sedie, era tutta intenta ad effettuare l'ultima,
frenetica messa a punto del copione.
"Quanti soldi hai?" chiesi a Cecil. Aveva trenta centesimi anche lui:
eravamo pari. Dilapidammo i nostri primi ventini nella Casa degli Orrori, che
non ci spaventò per nulla; entrati nell'aula buia della settima, il demone di
turno, prendendoci per mano, ci condusse a toccare vari oggetti che secondo
lui eran parti di un corpo umano.
"Ecco gli occhi," ci diceva facendoci toccare, in un piattino, due chicchi
d'uva pelati, "ecco il cuore," mettendoci in mano del fegato crudo. "E questi
sono i visceri," concluse, infilandoci la mano in un piatto di grossi spaghetti
freddi.
Cecil ed io facemmo una capatina in parecchie baracche. Comperammo
un sacchetto per ciascuno di zucchero d'orzo fatto dalla signora Taylor, e poi
io avrei voluto giocare al gioco delle mele galleggianti, ma Cecil vi si oppose,
sostenendo che non era igienico.
Sua madre diceva che avrebbe potuto prendersi qualche infezione, con
tutte quelle teste di bambini affacciate sopra lo stesso recipiente.
"Ma non c'è nessuna malattia, adesso in città, da poter prendere!"
protestai; Cecil insisté: sua madre aveva detto che era antiigienico addentare
una cosa dopo che l'avevano addentata gli altri. Giorni dopo chiesi alla zia
Alexandra che cosa ne pensasse, e mi rispose che le persone che avevano
queste idee erano di solito nuovi ricchi!...
Stavamo nella baracchina dove vendevano le caramelle, quando
arrivarono i galoppini della signora Merryweather a dirci di andare subito sul
palcoscenico perché era ora di prepararsi. La sala grande si andava

264
riempiendo di pubblico; la banda della Scuola Superiore della contea di
Maycomb si era riunita davanti, sotto il palcoscenico; le luci della ribalta
erano accese e il sipario di velluto rosso si increspava e ondeggiava per le
corse precipitose che si svolgevano sulla scena negli ultimi istanti prima che
iniziasse lo spettacolo.
Dietro le quinte, Cecil ed io trovammo lo stretto passaggio rigurgitante di
gente: adulti con in testa cappelli a tre punte fatti in casa o berretti militari
dell'esercito confederato o della guerra ispano-americana o elmetti della
guerra mondiale. Accanto all'unico finestrino si affollavano bambini nei
costumi rappresentanti le più svariate iniziative agricole.
"Mi hanno schiacciato il costume!" gridai costernata. La signora
Merryweather mi giunse vicino al galoppo e ridiede la sua forma alla gabbia
di fil di ferro, aiutandomi a penetrarvi.
"Come ti senti lì dentro, Scout?" chiese Cecil. "Hai una voce così
lontana... come se tu fossi al di là di una collina!"
"Anche tu sembri molto lontano," dissi.
La banda attaccò l'inno nazionale e udimmo il pubblico alzarsi. Poi risonò
il tamburo da basso e la signora Merryweather, dal suo posto direttivo
accanto alla banda annunciò: "Contea di Maycomb: Ad Astra per Aspera!" Il
tamburo rullò di nuovo. "Il che significa," disse la signora Merryweather,
traducendo ad uso della parte rustica dell'uditorio, "dal fango alle stelle." E
aggiunse, cosa del tutto superflua, almeno a mio modo di vedere:
"spettacolo."
"Certo non l'avrebbero capito che è uno spettacolo, senza questa
spiegazione!..." bisbigliò Cecil, che venne immediatamente zittito.
"Lo sa tutta la città," sussurrai.
"Ma ci sono anche quelli della campagna," disse Cecil.
"Zitti là dietro," ordinò una voce d'uomo, e tacemmo.
Il tamburo sottolineava ogni frase pronunciata dalla signora
Merryweather che prese le mosse, salmodiando in tono lugubre, dalla storia
della contea di Maycomb. Ricordò che la contea era più vecchia dello stato di
cui faceva parte, che apparteneva ai territori dell'Alabama e del Mississippi,
che il primo uomo bianco che avesse posto piede nelle foreste vergini era
stato il bis-bisnonno in quinto grado del Giudice conciliatore e che di lui non
si era mai più sentito parlare; poi fu la volta dell'intrepido colonnello
Maycomb, dal quale la contea aveva preso il nome.
Andrew Jackson aveva nominato il colonnello Maycomb a un'alta carica
direttiva, e la sicurezza del tutto infondata che il colonnello aveva in se

265
stesso, nonché lo scarso senso del comando di cui era dotato, portarono al
disastro tutti coloro che militarono nella sua cavalleria durante le guerre
contro gli indiani creek. Era intenzione del colonnello Maycomb di render
sicura la regione onde potervi instaurare al più presto la democrazia, ma la
sua prima campagna fu anche l'ultima. Gli ordini ricevuti attraverso una
staffetta indiana fedele erano di muovere verso sud. Dopo di aver esaminato
con gran cura un albero, per capire dalla posizione del lichene da che parte
stesse il sud, e dopo di aver messo bruscamente a tacere i suoi subordinati
che si azzardavano a informarlo che si sbagliava, il colonnello Maycomb
diede l'inizio a un lungo viaggio verso l'interno con lo scopo preciso di
mettere in rotta il nemico, e si perse con le sue truppe nella foresta primeva in
modo tale che alla fine l'unità dovette venir tratta a salvamento da coloni che
viaggiavano verso l'interno.
La signora Merryweather descrisse per buoni trenta minuti le prodezze del
colonnello Maycomb. Io avevo scoperto, nel frattempo, che piegando le
ginocchia potevo farle entrare sotto il mio costume stando così più o meno
seduta. Me ne stavo, quindi, seduta ascoltando il ronzio monotono della voce
della signora Merryweather punteggiata dal rullare del tamburo, e presto mi
addormentai.
Mi dissero, più tardi, che la signora Merryweather aveva messo il meglio
di se stessa nel grande finale e che aveva invocato la mia apparizione
gridando "Maialeee," con una fiducia che le derivava dall'aver visto alberi di
pino, fagiolini e gli altri esponenti del regno vegetale entrare in scena appena
chiamati. Non vedendomi comparire, attese ancora alcuni secondi, poi gridò
di nuovo: "Maialeee?" in tono interrogativo. Quando vide che nessun
prosciutto si materializzava sul palcoscenico sotto l'effetto della sua voce,
gridò a pieni polmoni "Maialeee!!!"
Dovetti udirla nel sonno o mi svegliò la banda che suonava Dixie, ma il
fatto è che per fare il mio ingresso scelsi proprio il momento in cui la signora
Merryweather saliva trionfalmente sul palcoscenico con la bandiera. Mi
correggo: non scelsi proprio nulla. Credevo di far bene a raggiungere il
grosso del corteo, e così feci.
Più tardi mi dissero che il giudice Taylor dovette uscire dalla sala e che
rimase a percuotersi le ginocchia in un convulso di risa così a lungo che la
signora Taylor fu costretta a portargli un bicchier d'acqua con una delle sue
pillole.
A giudicare dai calorosissimi applausi, la signora Merryweather aveva
riscosso un grandissimo successo, ma ella mi acchiappò, appena poté, dietro

266
le quinte e mi disse che le avevo rovinato lo spettacolo. Mi fece sentire
veramente umiliata, ma Jem, che venne a riprendermi, si dimostrò molto
comprensivo: disse che dal posto dov'era seduto non aveva potuto vedere
bene il mio costume. Come facesse a sapere, senza vedermi, che sotto il
costume mi sentivo molto infelice per la brutta figura che avevo fatta, non lo
capisco proprio, ma mi disse che tutto era andato benissimo, che ero soltanto
arrivata in scena un po' tardi: ecco tutto. Jem stava diventando bravo quasi
quanto Atticus a tranquillizzare la gente, quando le cose andavan male. Dico
quasi, perché nemmeno Jem riuscì a rincuorarmi tanto da convincermi a
scendere in sala in mezzo alla folla; e acconsentì ad aspettare con me dietro le
quinte finché il pubblico non avesse sfollato la sala.
"Vuoi toglierti il costume, Scout?" mi chiese.
"No, me lo tengo," risposi: mi pareva che sotto il costume potevo
nasconder meglio la mia mortificazione.
"Volete un passaggio in macchina?" chiese qualcuno.
"Nossignore, grazie," udii dire Jem. "Son due passi!..."
"Attenti ai fantasmi!" disse la voce. "Anzi, dite ai fantasmi di stare attenti
a Scout!"
"Ormai non c'è quasi più nessuno," mi disse Jem. "Andiamo."
Traversammo la sala, percorremmo il corridoio e scendemmo le scale.
Era ancora buio pesto, fuori. Le poche automobili rimaste eran
parcheggiate dall'altro lato dell'edificio e quindi i loro fari ci davan ben poco
aiuto. "Se qualche macchina andasse nella nostra direzione, ci vedremmo
meglio," disse Jem. "Scout, è meglio che io mi attacchi all'osso del tuo
prosciutto: potresti perder l'equilibrio."
"Ci vedo benissimo," risposi.
"Sì, ma potresti perder l'equilibrio." Sentii una leggera pressione sulla
testa: Jem doveva aver afferrato l'estremità del prosciutto.
"Mi hai preso?"
"Uh uh!"
Cominciammo ad attraversare il campo da gioco della scuola, sforzando
gli occhi per vedere dove mettevamo i piedi. "Jem," dissi, "ho dimenticato le
scarpe: son rimaste dietro le quinte!"
"Bè, torniamo a prenderle." Ma mentre facevamo dietrofront, le luci della
sala si spensero. "Puoi tornare a prenderle domani," disse Jem.
"Domani è domenica!" protestai, mentre Jem riprendeva la via di casa.
"Puoi pregare il portiere di lasciarti entrare. Scout..."
"Hm?"

267
"Niente."
Era un pezzo che Jem non faceva più così: chissà a che cosa stava
pensando. Me lo avrebbe detto quando ne avrebbe avuto voglia, forse una
volta arrivati a casa. Sentii le sue dita stringere l'alto del mio costume, ma
troppo forte, e scossi la testa: "No, Jem non stringere così..."
"Taci un momento, Scout," disse, pizzicandomi il costume.
Facemmo qualche passo in silenzio. "Il momento è passato," dissi.
"A che cosa pensi?" Mi girai per guardarlo, ma nell'oscurità scorgevo a
malapena la sua sagoma.
"M'è parso di udire qualche cosa," disse. "Fermanti un momento."
Ci fermammo.
"Senti nulla?" chiese.
"No."
Fatti cinque o sei passi, mi fermò di nuovo.
"Jem, mi vuoi far paura? Son troppo grande, ormai!..."
"Fa' piano," disse, e capii che non scherzava.
La notte era silenziosa. Lo udivo respirare accanto a me. Ogni tanto
soffiava una improvvisa brezza che mi colpiva le gambe nude, ma era tutto
ciò che rimaneva di una notte che si era annunciata ventosa. C'era la calma
che precede un temporale. Ascoltammo.
"Ho sentito abbaiare un vecchio cane," dissi.
"Non è questo," rispose Jem. "È un rumore che sento quando
camminiamo, quando ci fermiamo non lo sento più."
"È il mio costume che fa rumore. Che cosa stai fantasticando?"
Lo dissi per convincer più me stessa che lui, perché ecco che appena
ricominciammo a camminare udii il rumore: non era il rumore del mio
costume.
"Dev'esser Cecil," disse a un tratto Jem. "Ma non crederà mica di farcela
anche questa volta! Non facciamogli vedere che camminiamo in fretta!"
Rallentammo mettendoci a camminare lentamente. Chiesi a Jem come
facesse, Cecil, a seguirci in quel buio: mi pareva che sarebbe dovuto venir
subito a sbatterci addosso.
"Io ti vedo, per esempio, Scout," disse Jem.
"Come fai? Io no che non ti vedo."
"Sono le strisce del tuo costume, che si vedono. La signora Grenshaw
deve averle dipinte con quella roba che luccica perché risaltassero sotto i
riflettori. Ti vedo abbastanza bene e Cecil ti vedrà anche lui e così riuscirà a
rimaner sempre alla stessa distanza."

268
Volevo mostrare a Cecil che sapevamo di averlo dietro a noi e che
eravamo preparati a difenderci. "Cecil Jacobs è un grosso pulcino
bagnato!..." gridai girandomi all'improvviso.
Ci fermammo. Nessuna risposta, salvo l'eco ato ato che ci tornava
rimbalzando sul muro della scuola.
"Adesso ci provo io," disse Jem. "Oè!..."
"Oè, oè, oè," rispose il muro della scuola.
Cecil non era tipo da tirarla tanto in lungo; una volta che gli veniva in
mente uno scherzo lo ripeteva ogni due minuti. Avrebbe già dovuto saltarci
addosso: Jem mi fece segno di fermarmi di nuovo.
Disse piano: "Scout, non puoi toglierti questo affare?"
"Credo di sì, ma non ho quasi niente, sotto."
"Ho il tuo vestito."
"Ma come faccio a infilarlo, al buio?"
"Va bene, non importa," rispose.
"Jem, hai paura?"
"No: ormai dovremmo essere quasi sotto l'albero, e pochi metri più avanti
saremo sulla strada grande e vedremo il lampione." Jem parlava con voce
lenta, monotona, atona: chissà per quanto tempo ancora mi voleva far
credere alla favola di Cecil.
"Che ne dici, Jem, cantiamo?"
"No: sta' zitta, Scout, adesso, ma proprio zitta."
Non avevamo affrettato il passo. Jem sapeva quanto me che era più
difficile camminare in fretta senza inciampare su una pietra, prendere una
storta o altri inconvenienti, e io ero a piedi nudi.
Forse era il vento che frusciava tra i rami degli alberi. Ma non c'era vento,
e non c'erano alberi, salvo la grande quercia.
Il nostro compagno di viaggio strisciava e trascinava i piedi, come se
portasse scarpe pesanti. Chiunque egli fosse, i suoi pantaloni erano di tela
grossa; quello che avevo creduto il fruscio degli alberi era il morbido
sfregamento del cotone contro il cotone, che faceva sct, sct, ad ogni passo.
Sentii la sabbia diventar fresca sotto i nostri piedi e capii che eravamo
vicini alla grande quercia. Jem mi premette la testa. Ci fermammo ad
ascoltare.
Il pié veloce alle nostre calcagna non si era fermato assieme a noi, questa
volta. I suoi pantaloni frusciavano rapidi e regolari e a un certo punto si
fermarono. Poi ripresero: adesso correva: correva verso di noi, e non erano i
passi di un bambino.

269
"Scappa, Scout, scappa, scappa!" gridò Jem con voce stridula.
Feci un passo da gigante e barcollai: le mie braccia erano inutilizzabili, al
buio, non riuscivo a tenermi in equilibrio.
"Jem, Jem, aiutami, Jem!"
Qualcosa schiacciò il fil di ferro che mi circondava. Una punta metallica
lo strappò e caddi a terra, rotolando più lontano che potessi, dibattendomi
per sfuggire alla mia prigione di fil di ferro.
Da vicino, ma non so da dove, mi giungeva il rumore di una zuffa
febbrile e furiosa, rumor di calci, rumor di scarpe e di corpi che sfregavano
sulla terra e sulle radici. Qualcuno mi rotolò contro e sentii che era Jem. Fu
di nuovo in piedi, svelto come il lampo, tirandomi su con lui, ma sebbene
ora la mia testa e le mie spalle fossero libere, ero così impigliata nei resti della
mia gabbia che non andammo lontano.
Non eravamo ancora giunti sulla strada che sentii la mano di Jem
staccarsi dalla mia, lo sentii vacillare e cadere all'indietro. Altro rumore di
zuffa, poi un rumore sordo, uno scricchiolio: Jem urlò.
Corsi in direzione dell'urlo e affondai in un flaccido stomaco maschile. Il
suo proprietario fece "Ufff!" e cercò di prendermi per le braccia, ma erano
immobilizzate dentro la gabbia. Il suo stomaco era molle, ma le braccia eran
dure come l'acciaio. Cominciò a stringere lentamente, fino a mozzarmi il
fiato. Non potevo muovermi.
D'un tratto avvertii uno scossone, ed egli venne scaraventato a terra, quasi
trascinandomi con sé nella sua caduta. Pensai: Jem si è rialzato!...
La nostra mente lavora molto lentamente, in certe circostanze.
Stordita, rimasi dove mi trovavo, senza proferir parola. I rumori della
zuffa si andavano spegnendo; qualcuno ansimava, poi la notte fu silenziosa
di nuovo.
Silenziosa, eccetto per il respiro pesante di un uomo, un uomo che
respirava affannosamente e barcollava. Mi pareva che si dirigesse alla
quercia, appoggiandosi al tronco. Tossiva violentemente: una tosse a
singhiozzo, che doveva scuotergli fin le ossa.
"Jem?"
Non vi fu altra risposta che il pesante ansimare dell'uomo.
"Jem?"
Jem non rispose.
L'uomo cominciò a muoversi in giro, come cercando qualcosa. Lo udii
gemere e trascinare qualcosa di pesante per terra. Stavo lentamente
rendendomi conto che ora eravamo in quattro, sotto quell'albero.

270
"Atticus?..."
L'uomo camminava pesantemente e irregolarmente verso la strada.
Andai dove pensavo che egli fosse passato, tastando freneticamente per
terra, cercando anche con i piedi. Finalmente arrivai a toccare qualcosa.
"Jem?"
Con le dita dei piedi toccai dei calzoni, la fibbia di una cintura, dei
bottoni, qualcosa che non riuscii a identificare, un colletto e una faccia. Una
barba corta e ispida su quel volto mi disse che non era il viso di Jem. Sentii
odore di whisky ordinario.
Mi avviai nella direzione dove ritenevo si trovasse la strada. Non ne ero
sicura, perché ero stata girata e voltata tante volte! Ma trovai la strada, e
finalmente vidi il lampione, sotto il quale stava passando un uomo. Si
fermava ogni tanto, come chi porta un grosso peso. In quell'istante girava
l'angolo. Portava Jem, e un braccio di Jem gli ciondolava davanti tutto storto.
Quando fui all'angolo della strada, l'uomo già traversava il nostro
giardino. Per un attimo la luce dell'ingresso incorniciò la figura di Atticus:
egli fece i gradini di corsa e, insieme, lui e l'uomo portarono dentro Jem.
Giunsi alla porta mentre attraversavano l'atrio. La zia Alexandra mi
correva incontro. "Chiama il dottor Reynolds!" giunse brusca la voce di
Atticus dalla camera di Jem. "Dov'è Scout?"
"È qui!" gridò la zia, trascinandomi con lei verso il telefono. Mi tastò
ansiosamente. "Sto bene, zia," dissi, "è meglio che tu telefoni subito."
Ella staccò il ricevitore dal gancio e disse: "Eula May, passami il dottor
Reynolds, presto!"
"Agnes, tuo padre è a casa? Oh Dio mio, dov'è? Ti prego, digli di venire
da noi appena ritorna! Ti prego: è urgente!"
Non occorreva che la zia Alexandra dicesse il proprio nome: a Maycomb
la gente si riconosce dalla voce.
Atticus venne fuori dalla camera di Jem. Nell'attimo in cui la zia
Alexandra interruppe la conversazione, Atticus le prese il ricevitore di mano,
premette su e giù il tasto per riavere la comunicazione e disse: "Eula May,
passami lo sceriffo, per favore."
"Heck? Atticus Finch. Qualcuno ha aggredito i miei figli. Jem è ferito. Tra
qui e il fabbricato della scuola. Non posso lasciare il ragazzo: ci faccia una
corsa lei per me, per favore, e veda se fosse ancora in giro. Non credo che lo
troverà più, oramai, ma se per caso lo trova vorrei dargli un'occhiata. Devo
andare, adesso, grazie, Heck."
"Atticus, Jem è morto?"

271
"No, Scout: occupatene tu, Alexandra," gridò, allontanandosi.
Le dita della zia Alexandra tremavano disfacendo la malconcia intelaiatura
di fil di ferro che ancora mi imprigionava. "Come ti senti, tesoro?" mi chiese
più volte, mentre lavorava in fretta per liberarmi.
Fu un sollievo uscirne. Le braccia mi cominciavano a formicolare ed
erano coperte da segni rossi esagonali. Le strofinai, e sentii la circolazione
che riprendeva.
"Zia, Jem è morto?"
"No... no, tesoro, è privo di sensi. Non possiamo sapere se sia ferito
gravemente finché non verrà il dottor Reynolds. Ma che cosa vi è successo,
Jean Louise?"
"Non lo so."
La zia non insistette, e mi portò qualcosa da mettere addosso.
Peccato che non mi venne in mente di farle notare subito che, nella sua
distrazione, mi porgeva i miei calzoni: non le avrei permesso di
dimenticarsene mai più! "Mettiti questi, tesoro," disse, porgendomi
l'indumento che più disprezzava al mondo.
Tornò di corsa in camera di Jem, poi tornò da me nell'atrio, mi fece una
carezza in fretta e tornò in camera di Jem.
Una macchina si fermò davanti casa. Conoscevo il passo del dottor
Reynolds quanto quello di mio padre. Aveva fatto venir al mondo Jem e me,
ci aveva fatto uscir sani e salvi da tutti i malanni dell'infanzia possibili e
immaginabili, compresa la volta che Jem cadde dalla casa sull'albero, e ciò
nonostante eravamo sempre rimasti ottimi amici. Il dottore diceva che se
fossimo andati soggetti ai foruncoli i nostri rapporti sarebbero stati diversi,
ma noi non gli credevamo.
Appena entrato disse: "Signore Iddio!" Mi si avvicinò, aggiunse: "Sei
ancora in piedi!..." e cambiò direzione. Conosceva la casa a memoria e
sapeva anche che se io ero in condizioni critiche, lo era anche Jem.
Dopo dieci minuti che mi parvero altrettante eternità, il dottor Reynolds
ritornò. "Jem è morto?" gli chiesi.
"Nemmeno per sogno," rispose, inginocchiandomisi accanto. "Ha un
bozzo sulla testa come questo tuo qui e un braccio rotto. Scout, guarda da
questa parte, no, non girar la testa, gira gli occhi.
Adesso guarda là. Ha una brutta frattura, per quanto ne posso dire ora:
deve avere il gomito spezzato, come se qualcuno avesse cercato di storcergli
il braccio fino a strapparglielo... adesso guardami in faccia."
"Allora non è morto?"

272
"No!" Il dottor Reynolds si alzò. "Non possiamo fargli molto, stanotte,"
disse. "L'unica cosa da fare è cercare che stia meno peggio possibile.
Dovremo radiografargli il braccio: ho idea che gli rimarrà storto per un bel
po'. Però non ti preoccupare, tornerà come nuovo. I ragazzi della sua età
sono fatti di gomma!"
Mentre parlava, il dottor Reynolds mi guardava attentamente, palpando
con mano leggera il bernoccolo che mi stava uscendo sulla fronte. "Non
dichiariamo bancarotta, allora, eh?"
Lo scherzo del dottore mi fece sorridere. "Non crede che sia morto,
allora?..."
Il dottore si mise il cappello. "Sai, posso anche sbagliarmi, ma mi sembra
che sia proprio molto vivo. Per lo meno, ne mostra tutti i sintomi. Vagli a
dare un'occhiata, e quando torno ci consulteremo, e decideremo se è vivo.
D'accordo?"
Il passo del dottor Reynolds era giovanile e energico. Quello di Heck Tate
non era così. Appoggiava i pesanti stivali sul pavimento del portico come se
volesse punirlo di qualche malefatta e aprì la porta con la solita goffaggine;
tuttavia, vedendomi, ebbe la stessa esclamazione del dottor Reynolds. "Ti
senti bene, Scout?" aggiunse.
"Sissignore, ora vado a vedere Jem. C'è anche Atticus, e gli altri."
"Vengo con te," disse il signor Tate.
La zia Alexandra aveva schermato la lampadina al capezzale di Jem con
un asciugamano e la stanza era in penombra. Jem giaceva sulla schiena.
Aveva un brutto segno attraverso una guancia, e il braccio sinistro scostato
dal corpo, con il gomito leggermente piegato, ma alla rovescia. Aveva la
fronte aggrottata.
"Jem?..."
"Non ti può sentire, Scout," disse Atticus. "Ha perso conoscenza di
nuovo. Era tornato in sé, ma il dottor Reynolds lo ha fatto addormentare di
nuovo."
"Sissignore." Mi tirai indietro. La stanza di Jem era larga e quadrata. La
zia Alexandra sedeva in una poltrona a dondolo accanto al caminetto. L'uomo
che aveva portato Jem a casa stava in piedi in un angolo, appoggiando la
schiena al muro. Doveva essere un contadino che non conoscevo.
Probabilmente era stato allo spettacolo e si trovava nei paraggi quando era
accaduto... quel che era accaduto.
Doveva aver udito le nostre urla ed era accorso.
Atticus stava in piedi accanto al letto di Jem.

273
Heck Tate si era fermato sulla soglia, con il cappello in mano e una
lampadina elettrica che gli gonfiava la tasca dei pantaloni. Era vestito da
lavoro.
"Entri, Heck," disse Atticus. "Ha trovato niente? Non riesco a concepire
che esista una persona tanto canaglia da esser capace di una cosa simile, ma
spero che lei lo abbia trovato."
Tate tirò su col naso. Diede una rapida occhiata all'uomo nell'angolo, gli
fece un cenno; poi si guardò in giro, guardò Jem, la zia Alexandra, e poi
Atticus.
"Sieda, signor Finch," disse affabilmente.
Atticus disse: "Sediamoci tutti. Prenda quella sedia, Heck; ne vado a
prendere un'altra in soggiorno."
Il signor Tate sedette allo scrittoio di Jem. Attese finché Atticus non fu di
ritorno e non si fu seduto. Chissà perché Atticus non aveva portato una sedia
per l'uomo nell'angolo? Poi riflettei che Atticus conosceva meglio di me le
abitudini della gente di campagna. Alcuni dei suoi clienti attaccavano i loro
cavalli dalle lunghe orecchie agli alberi di saponaria, in cortile, e Atticus dava
loro consulenze legali seduto sugli scalini. Probabilmente quell'uomo si
sentiva più a suo agio, così.
"Signor Finch," disse Heck Tate, "le dirò che cosa ho trovato. Ho trovato
il vestitino di una bambina: è fuori, nella mia macchina. È
tuo, il vestito, Scout?"
"Sissignore, se è rosa con ricami a punto smock," risposi. Tate aveva
l'aria di star seduto sulla sedia dei testimoni. Gli piaceva dir le cose a modo
suo, senza sentirsi inceppato dalle domande della difesa o dell'accusa, e
qualche volta gli ci voleva un poco di tempo.
"Ho trovato dei pezzi di tela di uno strano color marrone..."
"È il mio costume, signor Tate."
Tate si fece scorrere le mani lungo le cosce; si strofinò il braccio destro e
investigò il caminetto di Jem, poi parve lo interessasse il focolare; con le dita
si carezzava il lungo naso.
"Che cosa c'è, Heck?" chiese Atticus.
Tate si strofinò il collo. "Bob Ewell sta per terra sotto la grande quercia
con un coltello da cucina piantato sotto le costole. È morto, signor Finch."

274
capitolo ventinovesimo
La zia Alexandra si alzò, aggrappandosi al caminetto per non cadere. Anche
Tate si alzò, ma la zia rifiutò il suo aiuto. Per la prima volta in vita sua, la
cortesia innata di Atticus venne meno: rimase seduto dove si trovava.
Strano, ma non riuscivo a pensare altro che a Bob Ewell che aveva detto
che l'avrebbe fatta pagare ad Atticus anche a costo di dover aspettare tutta la
vita. Bob Ewell c'era quasi riuscito, ed era stata l'ultima azione della sua vita.
"È sicuro?" chiese Atticus con voce incolore.
"È morto sì," disse il signor Tate. "Proprio bell'e morto. Non farà più
male a questi bambini."
"Non volevo dir questo." Pareva che Atticus parlasse nel sonno.
Oggi mostrava la sua età, unico segno questo di un tumulto interiore: la
linea energica della mascella cedeva un pochino, gli si vedevano rughe
rivelatrici sotto gli orecchi, e più dei capelli, che egli aveva di un nero
lucente, si cominciavano a notare le chiazze grigie sulle tempie.
"Non sarebbe meglio che andassimo nel soggiorno?" disse infine zia
Alexandra.
"Se non vi dispiace," disse Tate, "preferirei restar qui, se a Jem non può
dar fastidio. Vorrei dare un'occhiata alle sue ferite mentre Scout... ci racconta
quel che è accaduto."
"Non ha niente in contrario se vado di là?" chiese la zia. "Siamo un po'
troppi, qui dentro. Se hai bisogno di me, Atticus, sono in camera mia." La zia
Alexandra andò verso la porta ma si fermò e si volse. "Atticus, mi pare quasi
che me la sentivo, stasera; io... è colpa mia," cominciò a dire. "Avrei
dovuto..."
Tate alzò la mano. "Vada pure, miss Alexandra, so benissimo che colpo
sia stato per lei. E non si agiti, via!... Se tutti seguissimo sempre i nostri
presentimenti, faremmo come i gatti che si acchiappano la coda. Miss Scout,
vedi ora se puoi dirci che cosa è successo, mentre ce lo hai ancora fresco in
mente. Credi di farcela?
Lo vedeste chi vi inseguiva?"
Andai da Atticus, sentii le sue braccia che mi circondavano e gli nascosi
la testa sulle ginocchia. "Venimmo via per tornare a casa.
Dissi a Jem: "Ho dimenticato le scarpe." Appena cominciammo a tornare
indietro, le luci della scuola si spensero. Jem disse che potevo riprenderle
domattina."

275
"Scout, tira su la testa, che possa sentirti anche il signor Tate," disse
Atticus. Mi arrampicai sulle sue ginocchia.
"Poi Jem disse: "zitta un minuto." Credevo che pensasse a qualche cosa...
vuol sempre che si stia zitti mentre lui pensa, poi disse che udiva un rumore.
Credevamo che fosse Cecil che volesse metterci paura."
"Cecil?"
"Cecil Jacobs. Stanotte ci aveva fatto prendere uno spavento e credevamo
che fosse ancora lui. Aveva addosso un lenzuolo. Davano un quarto di
dollaro per il miglior costume, non so chi lo vinse..."
"Dove eravate quando vi venne in mente che poteva essere Cecil?"
"Molto vicino alla scuola. Strillai qualcosa a Cecil..."
"Che cosa hai strillato?"
"Cecil Jacobs è un grosso pulcino bagnato," mi pare. Non udimmo nulla,
poi Jem gridò: "Oè, oè," tanto forte da svegliare i morti..."
"Un minuto, Scout," disse il signor Tate. "Signor Finch, lei li udì?"
Atticus disse di no. Aveva la radio accesa e anche la zia Alexandra aveva
la radio accesa, in camera sua. Se ne ricordava perché la zia lo aveva pregato
di abbassare un po' la radio perché lei potesse sentire la propria. Atticus
sorrise. "Tengo sempre la radio un po' alta..."
"Chissà se i vicini hanno udito qualcosa..." disse il signor Tate.
"Non credo, Heck. Quasi tutti ascoltano la radio o vanno a letto con i
polli. Forse Maudie Atkinson era alzata, ma ne dubito."
"Va' avanti, Scout," disse il signor Tate.
"Bè, dopo che Jem ebbe strillato oè, andammo avanti. Signor Tate, io ero
chiusa dentro il mio costume ma lo sentivo anch'io, il rumore.
I passi, voglio dire. Camminavano quando camminavamo e si fermavano
quando ci fermavamo. Jem disse che mi vedeva perché la signora Grenshaw
aveva messo del colore luccicante sul mio costume: ero un prosciutto."
"Come sarebbe?" chiese Tate, colpito.
Atticus descrisse a Tate il mio ruolo e le caratteristiche del mio costume.
"Doveva vederla quando è entrata in casa," disse: "il costume era
completamente schiacciato."
Il signor Tate si strofinò il mento. Infatti, mi chiedevo che cosa fossero
quegli strani segni che egli aveva addosso: sulle maniche c'erano tanti
buchetti, e sulle braccia come delle punture, in corrispondenza dei buchi. "Mi
faccia vedere quel costume, per favore, signor Finch."
Atticus andò a prendere i resti del mio costume; il signor Tate lo rimise in
forma per avere un'idea della sua sagoma primitiva. "Questo probabilmente

276
le ha salvato la vita," disse: "Guardi!"
Fece segno con il suo lungo indice. Un netto segno scintillante risaltava
sul fil di ferro opaco. "Bob Ewell non scherzava, eh!" borbottò.
"Doveva essere impazzito..." disse Atticus.
"Non vorrei contraddirla, signor Finch, ma non era pazzo; era un
delinquente. Un farabutto ignobile, pieno di alcool al punto di avere il
coraggio di uccidere dei bambini. Non avrebbe mai affrontato lei faccia a
faccia."
Atticus scosse la testa. "Non riesco nemmeno a concepire come un uomo
possa..."
"Signor Finch, è semplice: ci son degli uomini a cui bisogna sparare
prima di dirgli buona sera, e anche allora non valgono la palla che serve ad
ammazzarli: Ewell era uno di quelli."
Atticus disse: "Credevo che si fosse sfogato ben bene il giorno che
minacciò me. E comunque, credevo che se la sarebbe presa soltanto con
me!..."
"Era tanto coraggioso da tormentare una povera donna di colore e da
romper l'anima al giudice Taylor quando credeva che non ci fosse nessuno in
casa, e lei credeva che l'avrebbe affrontata direttamente, alla luce del
giorno?..." Tate sospirò. "Meglio che andiamo avanti.
Allora, Scout, lo sentivate camminare dietro a voi..."
"Sissignore. Quando arrivammo sotto l'albero..."
"Come facevi a sapere che eravate sotto l'albero, se non ci vedevate a un
palmo dal naso?"
"Ero a piedi nudi e Jem dice che la terra è sempre più fresca, sotto un
albero."
"Quello lì bisogna nominarlo vicesceriffo!... Va' avanti."
"Allora, tutto a un tratto mi sono sentita afferrare e schiacciare il costume
e allora mi pare di essermi buttata a terra per difendermi...
Ho sentito un parapiglia sotto l'albero, che pareva... di esser non so dove,
pareva che si sbattessero l'un l'altro sul tronco. Jem mi trovò e cominciò a
trascinarmi verso la strada. Qualcuno, Bob Ewell lo buttò giù, credo. Si
azzuffarono ancora e poi udii quello strano rumore... Jem fece un urlo..." Mi
fermai. Soltanto in quell'istante avevo capito che quel rumore era il braccio di
Jem che si spezzava.
"Comunque, Jem urlò e poi non lo sentii più, e subito dopo Bob Ewell
cercò di strozzarmi, credo... poi qualcuno scaraventò per terra Bob Ewell. Si
vede che Jem si era rimesso in piedi. Questo è tutto quel che so..."

277
"E poi?" Il signor Tate mi guardava fisso.
"Qualcuno barcollava e ansimava e tossiva che pareva stesse per morire.
Prima credevo fosse Jem ma non sembrava lui e così lo andai a cercare per
terra. Credevo che Atticus fosse venuto a aiutarci e che lo avessero
sgozzato... che rantolasse..."
"E chi era, quello che tossiva?..."
"Eccolo là, signor Tate, può dirle lui come si chiama..."
Nel dir così, indicai con il dito l'uomo nell'angolo, ma abbassai subito il
braccio per tema che Atticus mi sgridasse: Non si deve mostrare la gente a
dito: è una cosa ineducata.
Egli stava ancora appoggiato al muro, come l'avevo visto nell'entrare nella
stanza, con le braccia piegate sul petto. Mentre lo indicavo col dito, abbassò
le braccia premendo le palme delle mani contro il muro. Erano mani bianche,
bianche da far impressione, mani che non avevano mai visto il sole, così
bianche che risaltavano sulla parete color crema, nella luce fioca della camera
di Jem.
Distolsi lo sguardo dalle sue mani portandolo ai calzoni kaki incrostati di
sabbia, poi i miei occhi risalirono lungo il suo corpo esile fino alla camicia di
cotone, strappata. Il volto lo aveva bianco come le mani, salvo che per
un'ombra sul mento un po' sporgente. Aveva le guance tanto magre da essere
incavate, la bocca larga e dei solchi delicati alle tempie, e i suoi occhi grigi
così scialbi che pensai fosse cieco. Aveva i capelli radi e privi di vita, come
una peluria al sommo della testa.
Quando lo indicai col dito, le palme delle sue mani scivolarono lungo il
muro, lasciandovi strisce di sudore, ed egli infilò i pollici nella cintura. Uno
strano spasimo lo scosse, come se avesse udito un'unghia strisciare
sull'ardesia, ma mentre lo guardavo la tensione gli scompariva lentamente dal
volto. Le sue labbra si aprirono in un timido sorriso e, per le lacrime che mi
riempirono d'un tratto gli occhi, il volto del nostro vicino tremò e si offuscò.
"Ciao, Boo," dissi.

278
capitolo trentesimo
"È il signor Arthur, tesoro," mi corresse dolcemente Atticus.
"Jean Louise, questo è il signor Arthur Radley. Credo che egli ti conosca
già."
Possibile che Atticus sapesse presentarmi con tanta grazia a Boo Radley in
un momento simile?... Bè, del resto Atticus era fatto così.
Boo mi vide correre istintivamente al letto dove dormiva Jem e lo stesso
sorriso schivo invase il suo volto. Per l'imbarazzo, sentivo un gran caldo, e
cercai di nasconderlo rincalzando le coperte a Jem.
"Aha... non toccarlo!" disse Atticus.
Il signor Tate stava seduto, guardando attentamente Boo attraverso gli
occhiali orlati di tartaruga. Stava per parlare, quando nell'atrio udimmo i
passi del dottor Reynolds.
"Tutti fuori," disse, entrando nella camera. "Sera, Arthur, non mi ero
accorto di te la prima volta."
La voce del dottor Reynolds era briosa come il suo passo: pareva abituato
a proferir simili parole, e questo mi stupì ancor più del fatto di trovarmi nella
stessa stanza con Boo Radley. Non avevo pensato che anche Boo doveva
pure ammalarsi, qualche volta; d'altra parte non ne ero sicura.
Il dottor Reynolds aveva in mano un grosso fagotto, incartato in un
giornale; lo posò sullo scrittoio di Jem e si tolse la giacca. "Ti sei convinta che
è vivo, ora? Sai come facevo a esserne così sicuro?
Perché quando ho cercato di visitarlo, mi ha dato un calcio. Ho dovuto
proprio spedirlo nel paese dei sogni, prima di toccarlo.
Eccoti servita, e ora scappa!" concluse.
"Hm..." disse Atticus, con un'occhiata a Boo. "Heck, andiamo sul portico.
Ci son sedie finché ne vogliamo e fa ancora abbastanza caldo!"
Chissà perché Atticus ci invitava ad andare sul portico invece che nella
stanza di soggiorno? Dopo qualche istante lo capii: le lampadine del
soggiorno erano molto forti.
Uscimmo in fila: prima di tutti il signor Tate; Atticus aspettava alla porta
per fargli strada, poi cambiò idea e seguì Tate.
È strano come la gente conservi le abitudini quotidiane nelle circostanze
più singolari. Io non facevo eccezione alla regola: "Si accomodi, signor
Arthur," mi udii dire, "lei non conosce bene la casa. La accompagnerò al
portico."

279
Egli mi guardò e fece segno di sì con la testa.
Gli feci attraversare l'atrio e passammo oltre la stanza di soggiorno.
"Non vuol sedersi, signor Arthur? Questa poltrona a dondolo è
comodissima!"
Ricordavo la mia fantasticheria: si sarebbe seduto sul portico... che bel
tempo, eh, signor Arthur? sì, proprio bello...
Proprio bello... Mi sentivo un po' irreale e lo condussi alla poltrona più
lontana da Atticus e da Heck Tate, che era in piena ombra. Boo si sarebbe
sentito più a suo agio, al buio.
Atticus sedeva nel dondolo e Heck Tate in una sedia accanto a lui.
Dalle finestre del soggiorno usciva una luce forte che illuminava in pieno.
Mi sedetti accanto a Boo.
"Vede, Heck," diceva Atticus, "credo che la prima cosa da fare sia...
Signore, sto proprio perdendo la memoria..." Atticus si spinse gli occhiali
sulla fronte premendosi le dita sugli occhiali. "Jem non ha ancora tredici
anni... no, li ha già compiuti... non ricordo.
Comunque la cosa verrà davanti alla corte distrettuale e..."
"Che cosa verrà davanti alla corte distrettuale, signor Finch?..."
Tate disincrociò le gambe, sporgendo il busto in avanti.
"Era legittima difesa, senza ombra di dubbio, ma dovrò andare in ufficio
e cercare tutti gli eventuali precedenti..."
"Signor Finch, lei crede che Jem abbia ucciso Bob Ewell? Crede davvero
una cosa simile?!"
"Ha sentito quel che ha detto Scout, Heck: non vi sono dubbi. Ha detto
che Jem si rialzò e le strappò l'uomo di dosso: probabilmente al buio riuscì a
impadronirsi del coltello di Ewell... lo sapremo domani, da Jem stesso."
"Signor Finch, aspetti, aspetti," disse Tate. "Jem non ha ucciso Bob
Ewell."
Atticus tacque per qualche istante. Guardò il signor Tate come per
significare che apprezzava molto le sue intenzioni, e scosse la testa.
"Heck, questo è molto gentile da parte sua e so che le viene dal fondo del
cuore, ma lasci perdere, non è il caso di cercare simili scappatoie."
Il signor Tate si alzò, andò al margine del portico e sputò tra i cespugli;
poi ficcò le mani nei taschini che aveva sulle anche e guardò in faccia
Atticus. "Quali scappatoie?" chiese.
"Mi scusi se ho parlato un po' bruscamente, Heck," disse semplicemente
Atticus, "ma non intendo che si metta la cosa a tacere.
Io vedo la vita in modo diverso."

280
"Nessuno vuol mettere la cosa a tacere, signor Finch."
La voce del signor Tate era calma, aveva gli stivali piantati così
solidamente sul tavolato del portico che sembrava avessero le radici.
Tra mio padre e lo sceriffo si stava svolgendo una strana disputa, la
natura della quale mi sfuggiva.
Fu la volta di Atticus di alzarsi e andare fino all'orlo del portico. Disse
"H'rm," e sputò con un colpo secco nel giardino. Mise le mani in tasca e
guardò Tate in faccia, a sua volta.
"Heck, lei non lo ha detto, ma io so a che cosa pensa, e la ringrazio. Jean
Louise," si voltò verso di me, "hai detto che Jem ti ha strappato di dosso il
signor Ewell?"
"Sissignore, così credevo. Io..."
"Quindi vede, Heck? La ringrazio proprio dal fondo del cuore, ma non
voglio che mio figlio affronti la vita partendo da una situazione equivoca. Il
miglior sistema per chiarire l'atmosfera è lasciare che tutto venga spiegato e
discusso apertamente. La popolazione della contea venga pure in tribunale
portando i suoi panini ripieni. Non voglio che egli cresca con la gente che gli
mormora attorno, non voglio che qualcuno possa dire: "Jem Finch? sì, suo
padre ha pagato una fortuna per tirarlo fuori da quel guaio..." più presto
riusciamo a farla finita con questa storia, meglio sarà."
"Signor Finch," disse il signor Tate con flemma, "Bob Ewell si è ucciso
cascando sul proprio coltello."
Atticus andò fino in fondo al portico e si mise a fissare il glicine.
Ciascuno a modo suo, pensai, erano uno più cocciuto dell'altro. Chi avrebbe
ceduto per primo? La testardaggine di Atticus era quieta e quasi mai
manifesta, ma in certo senso egli era ostinato quanto i Cunningham. Quella
del signor Tate era la testardaggine un poco ottusa di chi non ha una grande
istruzione, ma era pari a quella di mio padre.
"Heck," disse Atticus, con la schiena voltata, "mettere a tacere questa
faccenda significherebbe sconfessare, agli occhi di Jem, i principi in base ai
quali ho cercato di tirarlo su. Qualche volta penso che come genitore sono un
completo fallimento, ma d'altra parte questi ragazzi non hanno che me. Prima
di guardare chiunque altro, Jem è a me che guarda, e ho sempre cercato di
vivere in modo di poter ricambiare francamente il suo sguardo. Se io mi
rendessi complice di una cosa simile, non potrei più guardarlo in faccia, e
quel giorno lo perderei. Non voglio perder lui e Scout, perché sono tutto quel
che io ho."

281
"Signor Finch," disse Tate, sempre solidamente piantato sul pavimento,
"Bob Ewell si è ucciso cadendo sul proprio coltello: posso provarlo."
Atticus si voltò rapidamente, con le mani sprofondate nelle tasche.
"Heck, non può cercare di vedere le cose con i miei occhi? Anche lei ha
dei bambini, ma io son più vecchio di lei. Quando i miei saranno grandi, io
sarò un vecchio, seppure sarò ancora in circolazione, ma adesso come adesso
sono... Se non si possono fidare di me, non si fideranno più di nessuno. Jem
e Scout sanno che cosa è successo: se vengono a sapere che in città dico che
è accaduta una cosa diversa, li perderò, Heck: non posso vivere in città in un
modo e a casa mia in un altro!..."
Tate si dondolava sui tacchi e disse pazientemente: "Ewell ha buttato Jem
per terra, è inciampato in una radice sotto l'albero e...guardi, glielo posso far
vedere."
Tate si mise una mano in tasca e ne tirò fuori un lungo coltello a
serramanico. In quel mentre, il dottor Reynolds si fece sulla porta.
"Quel figlio di... il defunto è sotto quell'albero, dottore," disse Tate,
"appena entrati nel campo da gioco della scuola. Ha una lampadina elettrica?
Tenga, prenda la mia."
"Posso girar la macchina e dirigere i fari su quel punto," disse il dottore,
ma prese ugualmente la lampadina che gli porgeva Tate.
"Quello che ha in mano è il coltello con cui è stato ucciso, Tate?"
"Nossignore, ce lo ha ancora piantato nel corpo. Dal manico mi parve un
coltello da cucina. Da un momento all'altro Ken sarà qui con il carro funebre.
Notte."
Tate fece scattare il coltello. "È andata così," disse. Con il coltello in
mano, fece finta di inciampare: nel buttarsi in avanti per ritrovare l'equilibrio
abbassò il braccio sinistro. "Visto?" Il coltello gli si è andato a infilare proprio
in questo punto molle tra le costole. È stato lo stesso peso del suo corpo a far
penetrare il coltello."
Il signor Tate chiuse il coltello e se lo infilò di nuovo in tasca.
"Scout ha otto anni," disse. "Era troppo spaventata per capire come
andavano esattamente le cose."
"Spaventata?" disse Atticus, arcigno. "Se la conoscesse..."
"Non dico mica che abbia inventato qualcosa, dico che era troppo
spaventata per sapere esattamente che cosa accadeva. Era buio fitto, laggiù:
era nero come l'inchiostro. Per dire di avere un testimone attendibile ci
vorrebbe una persona molto abituata all'oscurità!"
"No, non mi va, tutto questo," disse piano Atticus.

282
"Al diavolo, non è per Jem che mi preoccupo!..."
Lo stivale del signor Tate batté sul pavimento con tanta forza che in
camera di miss Maudie la luce si spense e in camera di miss Stephanie si
accese. Atticus e il signor Tate guardarono dall'altro lato della strada, poi si
guardarono e aspettarono.
Heck Tate parlò di nuovo, con una voce che si udiva appena. "Signor
Finch, mi dispiace immensamente di contraddirla in un momento simile: lei
ha passati dei momenti, stanotte, che un uomo non dovrebbe passare mai.
Come non si sia sentito male anche lei dallo spavento, non lo so, ma so che
una volta tanto lei non è stato capace nemmeno di vedere che due più due fa
quattro, e bisogna che la faccenda la sistemiamo stanotte, perché domani sarà
troppo tardi. Bob Ewell è là con un coltello da cucina in corpo."
Il signor Tate aggiunse che Atticus non poteva sostenere che un ragazzo
della corporatura di Jem, con un braccio a pezzi, poteva avere ancora tanto
fiato in corpo da immobilizzare e uccidere un adulto, in un buio pesto.
"Heck," disse Atticus improvvisamente, "quel coltello a serramanico che
lei stava agitando per aria, dove l'ha preso?"
"L'ho sequestrato a un ubriaco," rispose freddamente Tate.
Cercavo di ricordare. Bob Ewell mi stava addosso... poi era andato giù...
Jem doveva essersi rialzato: almeno credevo...
"Heck?"
"Le ho detto che l'ho sequestrato a un ubriaco in città, stanotte.
Ewell probabilmente aveva trovato il coltello da cucina nello scarico delle
immondezze. Lo aveva affilato ben bene e aveva aspettato il momento
propizio... Non doveva far altro che aspettare il momento propizio."
Atticus andò al dondolo e sedette, con le mani che gli penzolavano tra le
ginocchia, gli occhi fissi a terra. Si era mosso con la stessa lentezza di quella
sera, davanti alla prigione, quando mi pareva che ci avrebbe messo mesi a
piegare il giornale e a buttarlo sulla sedia.
Il signor Tate si mise ad andar su e giù, pesantemente per il portico. "Non
è lei che deve prendere una decisione, signor Finch, ma io: decisione e
responsabilità sono interamente mie. Per una volta, se lei non la vede come la
vedo io, non ci può far nulla, e se ci si vuol provare la sbugiarderò. Suo
figlio non ha mai accoltellato Bob Ewell," disse lentamente, "non se lo è
neanche sognato, e ora lei lo sa. L'unica cosa che logicamente Jem cercava di
fare era di riuscire a tornare a casa sano e salvo con la sorellina."
Il signor Tate smise di andar su e giù e si fermò di fronte ad Atticus,
voltando la schiena a noi. "Non sarò un uomo molto buono, signor Finch,

283
ma sono lo sceriffo della contea di Maycomb, ho vissuto in questa città tutta
la vita e ho quasi quarantatré anni. So tutto quel che è accaduto da queste
parti sin da prima ancora che io nascessi. C'è un ragazzo negro morto senza
ragione, e l'uomo che è responsabile della sua morte è morto anche lui.
Lasciamo che i morti seppelliscano i morti, signor Finch. Lasciamo che i
morti seppelliscano i morti."
Heck Tate andò al dondolo e prese su il cappello che era posato accanto
ad Atticus; si spinse indietro i capelli e si mise il cappello.
"Non ho mai sentito dire che un cittadino violi la legge facendo tutto quel
che può per impedire che venga commesso un delitto; questo soltanto ha
fatto, lui, ma forse lei dirà che è mio dovere raccontar tutto all'intera città, per
non mettere la cosa a tacere. Sa che cosa succederebbe, allora? Che tutte le
signore di Maycomb, compresa mia moglie, andrebbero a battere alla sua
porta, portandogli dolci e torte fatte con le loro mani. Io la penso così, signor
Finch: che prender l'uomo che ha fatto a lei e a questa città un grande favore
e trascinarlo, timido com'è, sotto i riflettori è commettere un peccato grave. È
un peccato grave e non intendo assumerne la responsabilità.
Se si trattasse di qualsiasi altro uomo, sarebbe diverso: ma quest'uomo
qui, no, signor Finch, no!..."
Tate cercava di scavare un buco nel pavimento con la punta dello stivale.
Si tirò il naso, poi si massaggiò il braccio sinistro. "Non sarò un grand'uomo,
signor Finch, ma sono ancora lo sceriffo della contea di Maycomb, e le dico
che Bob Ewell è cascato sul suo coltello. Buona sera a lei, signore."
Heck Tate scese pesantemente dal portico e attraversò a grandi passi il
giardino. La portiera della sua automobile sbatté ed egli partì.
Atticus sedette per un pezzo guardando il pavimento. Finalmente alzò la
testa. "Scout," disse, "il signor Ewell è caduto e si è infilato sul suo coltello: è
possibile che tu arrivi a capirlo?"
Atticus aveva l'aria di uno che ha molto bisogno che lo si tiri su di
morale. Corsi da lui, lo strinsi e lo abbracciai con tutte le mie forze.
"Sissignore, capisco benissimo," lo rassicurai. "Il signor Tate aveva ragione."
Atticus si liberò dalle mie braccia e mi guardò. "Che cosa vuoi dire?"
"Bè, sarebbe come uccidere un passero."
Atticus appoggiò il viso sui miei capelli e lo mosse su e giù.
Quando si alzò e attraversò il portico, rientrando nell'ombra, aveva
ritrovato il suo incedere giovanile. Prima di entrare in casa, si fermò davanti
a Boo Radley. "Grazie per i miei figli, Arthur," disse.

284
capitolo trentunesimo
Quando Boo Radley si alzò strisciando i piedi in terra, la luce delle finestre
del soggiorno gli brillò sulla fronte. Ogni movimento che faceva era incerto,
come se egli non fosse sicuro che le sue mani e i suoi piedi potevano stabilire
un contatto solido con le cose che toccava. tossì, della sua terribile tosse a
rantolo, e rimase così scosso che dovette sedersi di nuovo. La sua mano
cercò il taschino sul fianco e tirò fuori un fazzoletto; tossì di nuovo e poi si
asciugò la fronte.
Ero così abituata alla sua assenza che mi parve incredibile che tutto quel
tempo fosse stato seduto accanto a me, presente. Non aveva emesso suono.
Di nuovo egli si alzò in piedi. Si volse a me e fece un segno con la testa,
indicando la porta d'ingresso.
"Le farebbe piacere salutare Jem, non è vero, signor Arthur? Venga!"
Lo condussi attraverso l'atrio. La zia Alexandra sedeva accanto al letto di
Jem. "Vieni dentro, Arthur," disse. "Dorme ancora. Il dottore gli ha dato un
sedativo potente. Jean Louise, tuo padre è nel soggiorno?"
"Sissignora, credo di sì."
"Devo andargli a dire una cosa. Il dottor Reynolds mi ha lasciato del..."
Le parole si persero lontano.
Boo si era andato a mettere in un angolo della camera, e stava con il
mento alzato, strizzando gli occhi per vedere Jem da lontano. Lo presi per
mano, e la sua mano era incredibilmente calda, nonostante la sua bianchezza.
Feci un po' di forza ed egli si lasciò condurre al letto di Jem.
Il dottor Reynolds aveva costruito una specie di baldacchino sopra il
braccio di Jem, perché la coperta non gli desse fastidio, immagino, e Boo si
spinse avanti, guardando sopra quella impalcatura.
Aveva sul volto una espressione di timida curiosità, come se non avesse
mai visto un ragazzo. Aveva la bocca semiaperta e guardò Jem da capo a
piedi. La sua mano si alzò, ma poi la lasciò ricadere lungo il fianco.
"Lo può accarezzare, signor Arthur, tanto dorme. Se fosse sveglio, non
vorrebbe perché... perché è grande..." Sentii la mia voce dargli tutte queste
spiegazioni. "Faccia pure."
La mano di Boo rimase sospesa sopra la testa di Jem.
"Faccia pure, signore, dorme profondamente."
La mano di Boo scese leggera sui capelli di Jem.

285
Cominciavo a imparare il suo linguaggio muto. La sua mano si strinse alla
mia ed egli mi fece capire che voleva andare.
Lo condussi al portico davanti, dove i suoi passi inquieti si fermarono. Mi
teneva ancora per mano e non dava segno di lasciarmi andare.
"Mi vuoi accompagnare a casa?"
Lo bisbigliò quasi, con la voce di un bambino che ha paura del buio.
Misi il piede sul primo scalino e mi fermai. Gli avrei fatto traversare la
nostra casa, ma non avrei mai potuto accompagnarlo fino a casa sua.
"Signor Arthur, pieghi il suo braccio, qui, così: ecco, così, signore."
Infilai la mano nel cavo del suo braccio.
Egli dovette curvarsi un pochino, per poter camminare con me, ma se
miss Stephanie Crawford fosse stata a guardare dalla finestra del piano di
sopra, avrebbe visto Arthur Radley che mi scortava sul marciapiede come
avrebbe fatto qualsiasi gentiluomo.
Giungemmo al lampione, all'angolo: quante volte Dill ed io eravamo stati
fermi là, abbracciando il grosso palo, osservando, aspettando, sperando?
Quante volte Jem ed io avevamo fatto quel percorso? Entrai nel giardino dei
Radley per la seconda volta in vita mia. Boo ed io salimmo gli scalini che
conducevano al portico. Le sue dita trovarono la maniglia della porta; egli
lasciò andare dolcemente la mia mano, aprì la porta, entrò, e la richiuse. Non
lo vidi mai più.
I vicini portan dei cibi quando qualcuno muore, fiori quando siamo
malati e piccoli doni nelle occasioni intermedie. Boo era nostro vicino. Ci
aveva regalato due bambole di sapone, un orologio rotto con la catena, un
paio di monetine portafortuna, e le nostre vite. Ma i vicini ricambiano i doni.
Noi, invece, non avevamo mai rimesso nel tronco dell'albero quel che vi
avevamo preso: non gli avevamo regalato niente, e questo mi rendeva triste.
Mi volsi per andare a casa. I lampioni ammiccavano lungo la strada fino
ad arrivare in città. Non avevo mai visto il nostro vicinato da quell'angolo.
Ecco la casa di miss Maudie, la casa di miss Stephanie, ecco la nostra -
vedevo il dondolo del portico - la casa di miss Rachel oltre la nostra, ben
visibile. Vedevo persino la casa della signora Dubose.
Mi guardai dietro. A sinistra della porta marrone c'era un'alta finestra con
le persiane chiuse. Camminai fino alla finestra, mi fermai di fronte ad essa e
mi girai. Di giorno, pensai, si può vedere fino all'angolo dell'ufficio postale.
Di giorno... Nella mia mente la notte Svanì. Era giorno, e tutti i vicini
erano indaffarati. Miss Stephanie Crawford attraversava la strada per
raccontare le ultime notizie a miss Rachel. Miss Maudie si chinava sulle sue

286
azalee. Era estate, e due bambini correvano sul marciapiedi incontro ad un
uomo che si avvicinava in distanza. L'uomo agitava la mano e i bambini
facevano a chi arrivasse prima da lui.
Era ancora estate e i bambini si avvicinavano di più, alla casa. Un ragazzo
camminava a fatica sul marciapiede, trascinandosi dietro una canna da pesca.
Un uomo stava ad aspettare con le mani sui fianchi.
Estate, e i bambini di quell'uomo giocavano in giardino con il loro amico,
recitando uno strano piccolo dramma, di loro invenzione. Era autunno e i
bambini di quell'uomo facevano la lotta sul marciapiede di fronte alla casa
della signora Dubose. Il ragazzo aiutava la sorellina a rimettersi in piedi e
andavano a casa. Autunno, e i bambini di quell'uomo trottavano avanti e
indietro girando l'angolo con le pene e i trionfi della giornata dipinti sul
volto, e si fermavano davanti a un albero di quercia incantati, incuriositi,
apprensivi.
Inverno, e i bambini di quell'uomo rabbrividivano accanto al cancello del
giardino, profilati contro una casa che ardeva. Inverno, e un uomo usciva per
la strada lasciava cader gli occhiali e uccideva un cane.
Estate, e guardava i suoi bambini che avevano male al cuore, per lui. Di
nuovo autunno, e i bambini di Boo avevan bisogno di lui.
Atticus aveva ragione. Una volta aveva detto che non si conosce
realmente un uomo se non ci si mette nei suoi panni e non ci si va a spasso.
Bastava persino star fermi qualche attimo sul portico dei Radley.
I lampioni mi apparivano indistinti nella pioggia sottile che si era messa a
cadere. Nell'andare a casa, mi sentivo molto vecchia, poi mi guardai la punta
del naso e vidi delle perline confuse, ma guardare con gli occhi storti mi
faceva girare la testa e smisi.
Nell'andare a casa pensai a quel che avrei avuto da raccontare a Jem
l'indomani: sarebbe stato così furioso di aver perso quegli avvenimenti che
non mi avrebbe parlato per giorni interi! Nell'andare a casa, pensai che Jem
ed io saremmo cresciuti, ma che non ci erano rimaste molte cose da imparare,
salvo forse l'algebra.
Corsi su per gli scalini e entrai in casa. Zia Alexandra era andata a letto e
la camera di Atticus era buia. Volevo vedere se per caso Jem non aveva
ripreso i sensi. Atticus era in camera di Jem, seduto accanto al letto. Leggeva
un libro.
"Jem non si è svegliato mai?"
"Dorme pacificamente: vedrai che non si sveglierà fino a domattina."
"Davvero? E tu starai alzato tutta la notte?"

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"Un'oretta ancora. Va' a letto, Scout: hai avuto una giornata molto lunga."
"Vorrei stare un pochino con te."
"Come vuoi," disse Atticus. Doveva esser mezzanotte passata e la sua
amabile acquiescenza mi stupì. Però egli era più furbo di me: nell'istante in
cui mi sedetti cominciò a venirmi sonno.
"Che cosa leggi?" gli chiesi.
Atticus voltò il volume. "È un libro di Jem: "Il Fantasma Grigio."
Mi sentii sveglia di colpo. "Com'è che l'hai preso?"
"Tesoro, non lo so, ne ho preso uno a caso. Uno dei pochi che non avessi
letto," aggiunse, apposta.
"Leggine un po' ad alta voce, Atticus, ti prego: è terrificante."
"No," disse. "Hai avuto abbastanza terrori, per il momento. Questo è
troppo..."
"Atticus, ma io non avevo paura!..."
Egli alzò le sopracciglia, e protestai: "Mi è cominciata a venire soltanto
quando ho cominciato a raccontare la storia al signor Tate.
Jem non aveva paura. Glielo chiesi e disse di no. E poi solo le cose dei
libri fanno veramente paura."
Atticus aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse. Tolse il pollice
dal mezzo del libro e lo riaprì alla prima pagina. Mi avvicinai a lui,
appoggiando la testa alle sue ginocchia.
"Hem..." disse. "Il Fantasma Grigio, di Seckatary Hawkins. Capitolo
primo..."
Volevo costringermi a rimaner sveglia, ma la pioggia cadeva così
dolcemente e la camera era così calda e la sua voce era così profonda e le sue
ginocchia così comode che mi addormentai.
Qualche secondo dopo, o così mi parve, sentii la sua scarpa che mi dava
dei gentili colpetti sulle costole. Mi alzò in piedi e mi portò quasi, fino in
camera mia. "Ho sentito tutto," borbottai, "...non dormivo affatto: accadde su
una nave e c'è Fred dall'Uncino e il Mozzo di Stoner..."
Egli mi slacciò la tuta, appoggiandomi a lui, e mi tolse i calzoni.
Poi mi tenne con una mano cercando il pigiama con l'altra.
"Già, e tutti credevano che fosse il Mozzo di Stoner che buttava all'aria il
loro circolo versando l'inchiostro da tutte le parti e..."
Mi guidò fino al letto, mi ci mise a sedere e, sollevandomi le gambe, mi
infilò sotto le coperte.
"E gli davano la caccia e non riuscivano mai ad acchiapparlo perché non
sapevano che aspetto avesse e, Atticus, quando finalmente lo videro, si

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accorsero che non aveva fatto niente... Atticus, era proprio simpatico..."
Sentivo le sue mani tirar su la coperta fino al mento, rimboccandomela
tutto attorno.
"Quasi tutti son simpatici, Scout, quando finalmente si riescono a capire."
Spense la luce e tornò in camera di Jem: tutta la notte sarebbe rimasto con
lui, e sarebbe stato ancora lì al risveglio di Jem, al mattino.

Fine

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Finito di stampare il 5 aprile 1963

da “La Tipografia Varese”

290
Retro della sovraccoperta nella sesta edizione
Aprile 1963

Fascetta editoriale presente nella sesta edizione

291
dell’Aprile 1963

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Note

Capitolo 5

[1] La closed communion (comunione chiusa) è la pratica di alcune chiese


protestanti di non ammettere alla mensa eucaristica altro che gli affiliati alla
setta, nella quale è anche praticata la lavanda dei piedi. [N'd'T']

Capitolo 12

[2] È uno dei tre compagni con cui Daniele entrò nella fornace ardente per
ordine di Nabucodonosor. [N'd'T']

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