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troppo vicina
Leszek Jażdżewski, Voxeurop, Francia
16 agosto 2022
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“Non sentirti al sicuro. Il poeta ricorda. Puoi ucciderne uno, ma un altro è già
nato. Le parole, le azioni, la data sono state registrate”, scriveva il poeta polacco
Czesław Miłosz nel 1950, durante il suo esilio.
Non potevo sopportarlo. Vivere in modo così normale, così piacevole, nel giorno
in cui cominciava la guerra. Il problema delle giornate storiche è che sono come
le altre. Ma alcuni particolari di un giorno altrimenti ordinario sarà ricordata per
anni. Cosa indossava Stalin durante la conferenza di Yalta? Con quali parole
Chamberlain intrattenne la folla festante quando atterrò a Londra, in arrivo da
Monaco? In quale città si trovava l’arciduca Francesco Ferdinando nella tarda
mattinata del 28 giugno 1914? Tra l’altro, era una domenica.
Trovare i fiori gialli non è stato un problema, ma il fioraio non aveva quelli blu,
nemmeno finti. Si vede che non erano di stagione. Non a febbraio. Così mi ha
dato un uccellino blu a mo’ di decorazione. Erano belli da vedere, e fissare quei
primi fiori appoggiati al muro accanto alla targa d’ottone con la parola “ucraino”
scritta sopra mi ha fatto già sentire meglio.
Non è durata molto. Dopo due lunghi giorni e una notte, alle tre del mattino ho
cominciato a scrivere ai miei amici e alle mie amiche ucraini a Kiev. Le prime
conversazioni di quella chat probabilmente risalivano a quando Facebook stava
diventando di moda al di fuori degli Stati Uniti. Ho letto quello che ci scrivevamo
all’epoca, cose ormai lontane, questioni urgenti dimenticate. Quei giovani li
riconoscevo a malapena, come degli antenati con i quali abbiamo una remota
somiglianza. Gli ultimi dodici anni erano scomparsi, sostituiti dalla realtà del
presente.
Non dovresti essere troppo onesto con chi vive sotto assedio. Almeno, io la
pensavo così. È da maleducati. E non giova al morale. Quando deciderete di
andarvene, vi tireremo fuori da lì. Come, esattamente, non ne avevo la più
pallida idea. Cercavo di restare ottimista, a dispetto delle circostanze. Prima o
poi sarebbero rinsaviti. Era il meglio che potessi sperare.
Conoscenti all’estero che non sentivo da anni mi hanno contattato per sapere
come stessimo. Stavamo bene. Ma non del tutto. Il passaporto di mio figlio
sarebbe scaduto in meno di un mese. Spesso i rifugiati arrivavano senza
documenti, ma era una magra consolazione. Aspettare ore in fila per ottenerlo
era umiliante. Non volevo regalare agli aggressori una facile vittoria. Se vuole
spaventarci, signor Putin, dovrà impegnarsi di più.
Nel giro di qualche giorno, i primi profughi stavano già attraversando il confine.
Per la prima volta dall’inizio della guerra sono salito su un treno. Li ho visti
arrivare alla stazione. Una, due borse al massimo. Tutto quello che potevano
portare. Solo donne e bambini. Alcuni di loro aspettavano che qualcuno venisse
a prenderli. I polacchi erano visibilmente stressati, ma accoglienti. Come parlare
a persone che hanno lasciato tutto, compresi i loro cari? Il russo stentato
sembrava adatto all’occasione. La lingua spezzata di un paese spezzato. Stava
nascendo una lingua nuova: quella della solidarietà, del destino parallelo che è
stato imposto a queste persone.
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