Sei sulla pagina 1di 4

L’imbarazzo e l’impotenza per una guerra

troppo vicina
Leszek Jażdżewski, Voxeurop, Francia

16 agosto 2022
FacebookTwitterEmailPrint

La guerra è cominciata giovedì 24 febbraio. In Polonia davanti alle pasticcerie si


vedevano lunghe file di persone. Era l’ultimo giovedì prima della Quaresima,
quando si mangiano ciambelle e ali d’angelo, un dolce tradizionale polacco: c’è
un motivo se si chiama giovedì grasso. Mentre camminavo per le strade cercavo
dei segni. Fissavo i volti dei passanti e mi chiedevo: “Lo sanno? Gli interessa
qualcosa?”. Era difficile capirlo. La maggior parte di loro sembravano persone
comuni: stanche, distratte, annoiate. Alcune di quelle in coda controllavano lo
smartphone. Quindi almeno i mangiatori di ciambelle sapevano cosa stava
succedendo.

“Non sentirti al sicuro. Il poeta ricorda. Puoi ucciderne uno, ma un altro è già
nato. Le parole, le azioni, la data sono state registrate”, scriveva il poeta polacco
Czesław Miłosz nel 1950, durante il suo esilio.

Non potevo sopportarlo. Vivere in modo così normale, così piacevole, nel giorno
in cui cominciava la guerra. Il problema delle giornate storiche è che sono come
le altre. Ma alcuni particolari di un giorno altrimenti ordinario sarà ricordata per
anni. Cosa indossava Stalin durante la conferenza di Yalta? Con quali parole
Chamberlain intrattenne la folla festante quando atterrò a Londra, in arrivo da
Monaco? In quale città si trovava l’arciduca Francesco Ferdinando nella tarda
mattinata del 28 giugno 1914? Tra l’altro, era una domenica.

Per non dimenticare


In quella giornata storica camminavo per le strade della mia città e mi sentivo
orribile. Václav Havel, drammaturgo, dissidente politico e primo presidente della
Repubblica Ceca, scrisse un saggio sul “potere dei senza potere”. Io non lo
capivo. Ero malato di impotenza. Stavo incollato al mio iPhone e mi odiavo per
questo. All’improvviso, la rivelazione. Fiori. Posso comprare dei fiori. E deporli
davanti al consolato ucraino. Per coincidenza era a un isolato di distanza. La
fortuna aiuta gli audaci. Avevo di nuovo un obiettivo. “Forse potrei prendere dei
fiori gialli e blu, sarebbe ancora più bello”, ho pensato.
Il consolato ucraino si trova sulla strada principale, al centro della città. Con mia
sorpresa non ho visto manifestanti né richiedenti asilo né bandiere. C’erano due
giornalisti con una telecamera, ma se ne sono andati subito, non avendo nulla da
filmare o da raccontare. Quando sono tornato con i fiori, davanti al consolato
non c’era anima viva. È stato un sollievo. Mi sentivo in parte imbarazzato e in
parte determinato a fare qualcosa.

Trovare i fiori gialli non è stato un problema, ma il fioraio non aveva quelli blu,
nemmeno finti. Si vede che non erano di stagione. Non a febbraio. Così mi ha
dato un uccellino blu a mo’ di decorazione. Erano belli da vedere, e fissare quei
primi fiori appoggiati al muro accanto alla targa d’ottone con la parola “ucraino”
scritta sopra mi ha fatto già sentire meglio.

Non è durata molto. Dopo due lunghi giorni e una notte, alle tre del mattino ho
cominciato a scrivere ai miei amici e alle mie amiche ucraini a Kiev. Le prime
conversazioni di quella chat probabilmente risalivano a quando Facebook stava
diventando di moda al di fuori degli Stati Uniti. Ho letto quello che ci scrivevamo
all’epoca, cose ormai lontane, questioni urgenti dimenticate. Quei giovani li
riconoscevo a malapena, come degli antenati con i quali abbiamo una remota
somiglianza. Gli ultimi dodici anni erano scomparsi, sostituiti dalla realtà del
presente.

Travolti dalle notizie


Su internet vedevo frecce rosse che circondavano la capitale ucraina e volevo
solo che i miei amici fuggissero, prima che fosse troppo tardi e che i russi si
accanissero su di loro come ad Aleppo, durante la guerra civile siriana. Quella
città somigliava a Varsavia nel 1944, bruciata e rasa al suolo.
“Come ve la cavate e quando lascerete la città?”: era tutto quello che volevo
sapere. Le ragazze – donne ormai adulte con figli, che sono rimaste ragazze nella
mia chat – sono state irremovibili. “Non vado da nessuna parte. Combatteremo e
vinceremo. La città resisterà”. “Le avranno riempite di propaganda”, ho pensato
tra me e me. Conoscevo fin troppo bene il modo in cui il governo polacco aveva
fatto il lavaggio del cervello ai suoi cittadini prima del 1939. La guerra finirà in
due settimane, si vantavano. E così fu.

Non dovresti essere troppo onesto con chi vive sotto assedio. Almeno, io la
pensavo così. È da maleducati. E non giova al morale. Quando deciderete di
andarvene, vi tireremo fuori da lì. Come, esattamente, non ne avevo la più
pallida idea. Cercavo di restare ottimista, a dispetto delle circostanze. Prima o
poi sarebbero rinsaviti. Era il meglio che potessi sperare.

Con il russo studiato alle superiori mi sono forzato a guardare i programmi


propagandistici del Cremlino e ho provato a leggere le notizie ucraine. Su Twitter
ho seguito tutti gli account con gli hashtag “intel”, “war” o “strategy”
(informazioni, guerra, strategia), e mi sentivo quasi un professionista che ha
scovato la maggior parte delle notizie prima degli aggiornamenti in diretta del
Guardian o del Financial Times.

Come parlare a persone che


hanno lasciato tutto, compresi i
loro cari? Il russo stentato
sembrava adatto. La lingua
spezzata di un paese spezzato
Dalle cinque del mattino si sono formate lunghe code davanti agli uffici per il
rilascio dei passaporti. Code di polacchi, non di ucraini. A quattro mesi
dall’estate, giovani e meno giovani hanno improvvisamente deciso che avevano
bisogno di un passaporto. “Nostra zia insiste perché lo rinnoviamo”, diceva
qualcuno. “Così se succede qualcosa possiamo andare negli Stati Uniti”.

“Conosco un ponte sull’Oder, verso la Germania. È un ponte ferroviario, quindi


si può attraversare il fiume senza problemi”. Questo l’ho sentito per caso in un
caffè. “Fino a poco tempo fa ad Alicante, in Spagna, c’erano centinaia di
appartamenti in vendita. Li compravano i polacchi dell’alta borghesia. Ora sono
tutti spariti”, mi ha spiegato un amico. “Mio zio ha comprato una casa in Spagna,
per sicurezza”, mi ha detto di recente un altro amico. “In questo modo, se qui
dovesse succedere qualcosa non dovrà pagare un affitto”.

Conoscenti all’estero che non sentivo da anni mi hanno contattato per sapere
come stessimo. Stavamo bene. Ma non del tutto. Il passaporto di mio figlio
sarebbe scaduto in meno di un mese. Spesso i rifugiati arrivavano senza
documenti, ma era una magra consolazione. Aspettare ore in fila per ottenerlo
era umiliante. Non volevo regalare agli aggressori una facile vittoria. Se vuole
spaventarci, signor Putin, dovrà impegnarsi di più.

Nel giro di qualche giorno, i primi profughi stavano già attraversando il confine.
Per la prima volta dall’inizio della guerra sono salito su un treno. Li ho visti
arrivare alla stazione. Una, due borse al massimo. Tutto quello che potevano
portare. Solo donne e bambini. Alcuni di loro aspettavano che qualcuno venisse
a prenderli. I polacchi erano visibilmente stressati, ma accoglienti. Come parlare
a persone che hanno lasciato tutto, compresi i loro cari? Il russo stentato
sembrava adatto all’occasione. La lingua spezzata di un paese spezzato. Stava
nascendo una lingua nuova: quella della solidarietà, del destino parallelo che è
stato imposto a queste persone.
L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LA PUBBLICITÀ

Come sempre, i binari vengono cambiati all’ultimo minuto. Un folto gruppo


composto da quattro donne e diversi bambini sta cercando di trovare un treno
per Zgorzelec, nella parte più occidentale della Polonia, al confine con la
Germania. Devono cambiare binario. Gli porto le borse, così perdo il mio treno.
Non ho contanti, il loro treno parte tra due minuti, mi precipito al negozio della
stazione per comprar loro del cibo o qualcosa da bere. Troppo tardi.

Le donne si abbracciano, non riescono a trattenere le lacrime. Provano ansia e


sollievo allo stesso tempo. “Da dove venite di preciso?”, chiedo. “Da una piccola
città vicino a Kiev, ora è sempre sotto tiro. Si chiama Buča”. Buča, ricorderò
questo nome.

(Traduzione di Davide Musso)

Potrebbero piacerti anche